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Enrico Folin

UNO SGUARDO ACCORTO SU MALLARMÉ


IL PLI SELON PLI DI PIERRE BOULEZ

Boulez si confronta per la prima volta con un soggetto letterario nel 1948; si tratta della
composizione Le soleil des eaux1, per voce solista, coro e orchestra sui testi Complainte du
lézard amoureux e La Sourge di René Char2.
Due anni dopo, sulle suggestioni offertegli da Fureur et mystèr, ancora di René Char, che
comprende i titoli Conduite, Gravité, Le visage nuptial, Evadné e Post-scriptum, compone Le
visage nuptial, per due voci, coro e orchestra.
Sono anni in cui l'irrequieto allievo di Messiaen e Leibowitz si sta allontanando dal
serialismo di matrice espressionista di Webern, per avviarsi verso l'estensione del
principio seriale entro i confini di uno strutturalismo integrale, applicato, quindi, a tutti i
parametri del linguaggio musicale. Assieme a Stockhausen è l'autore più determinato tra i
darmstadtiani nel piegare il materiale compositivo alla volontà di una totale
predeterminazione.
Ne sono esempio due lavori dei primi anni Cinquanta, Poliphonie X per diciotto strumenti
del 1951 e, soprattutto, il primo libro di Structures I per due pianoforti dell'anno
successivo.
Queste composizioni segnano un netto distacco dai lavori precedenti: sono lavori in cui
ogni traccia di soggettività è cancellata e ogni arbitrario intervento compositivo
intenzionalmente espulso. «Qualsiasi compositore è inutile al di fuori delle ricerche
seriali» afferma nel celebre saggio Schoenberg è morto3 del 1952, il suo limite è l'aver
circoscritto l'applicazione del principio dodecafonico al solo parametro delle altezze,
abbandonando il resto agli insegnamenti della tradizione.
Nello stesso saggio indica il modello da imitare in «un certo Webern» anche «se non se ne
è sentito parlare ancora molto».
Se Messiaen, soprattutto, e Leibowitz, almeno prima di litigarci furiosamente4, sono i
musicisti con i quali studia e dai quali apprende l'inevitabilità del nuovo, se Webern è il
modello riconosciuto da cui ricominciare, è Debussy il capostipite della genealogia, da
Boulez stesso per la prima volta indicata, che porta attraverso l'evoluzione della sua
poetica e delle sue intuizioni al contenuto semantico della modernità.

1 Coerente con un processo di rivisitazione dell'opera scritta, così frequente in Boulez da potersi
considerare un tratto della sua poetica, l’opera conoscerà altre tre versioni nel 1950, 1958 e 1965.
2 René Char (1907-1988), poeta surrealista francese.
3 Cfr. Pierre Boulez, Schoenberg è morto, in Note di apprendistato, Torino, Einaudi, 1968, pp. 233-239.
4 «Ho sempre sospettato che il titolo del noto saggio di Boulez Schoenberg è morto significasse in
realtà “Uccidete Leibowitz”», cfr. Charles Rosen, Piano Notes. Il pianista e il suo mondo, Torino, EDT,
2008, p. 182.
1
«Lavoro a cose che saranno comprese solo dai nipoti del XX secolo» scriveva in una lettera
a René Landormy5 nel luglio del 19126.
Gisele Brelet, Vladimir Jankélevitch, Stefan Jarocinsky, fino ai nostri Mario Bortolotto ed
Enrico Fubini, approfondiscono e chiariscono questa intuizione, ma i nessi saldissimi che
legano Boulez a Debussy trascendono finanche da ciò che convince nei loro scritti: è la
tendenza ad isolare ogni singolo suono, il rifiuto di ogni procedura narrativa,
l'immobilizzazione del tempo musicale a parlarci, al semplice ascolto, di un legame mai
reciso.
La fase del totalitarismo seriale, o per dirla con Andrea Lanza del «sublime feticismo del
numero 12»7, si è già conclusa, quando decide di confrontarsi ancora una volta con la
scrittura di Char.
In Le Marteau sans maitre per soprano e strumenti del 1954, sull'omonima trilogia
surrealista pubblicata nel 19348, Boulez ammorbidisce ogni severità formalistica e ritrova il
gusto per la ricerca timbrica e la tessitura sonoriale. La parola, fattasi puro suono,
s'immerge senza scosse in questa accogliente materia fonica, ne diviene parte.
Scrive Fubini:

Il fascino della parola, della poesia, del testo, questa radicale alterità rispetto al suono della
musica, è irresistibile per il musicista di tutti i tempi, qualsiasi uso ne faccia […] il mito di
una sintesi, di una unione o fusione originaria non ha mai cessato di affascinare poeti e
soprattutto musicisti, e non ha mai cessato, pur nella sua utopica valenza, di esercitare il suo
potere nel corso dei secoli9.

Non v’è dubbio che nel “musicare” testi di un poeta surrealista, anti-narrativi per
definizione, ricchi di nonsense e lontani da intenti descrittivi, non si possa ricorrere a
modelli tradizionali in cui la musica si fa carico del testo in funzione illustrativa o
addirittura programmatica.
Verso quale luogo egli spinge, dunque, musica e parola perché si possa rinnovare il senso
di quest’incontro? Il luogo è quello in cui ciascuna specificità rinuncia a quanto dell'una
possa negare all'altra il significato autentico della propria originalità. Ed è per questo il
luogo della sintesi, profonda, della spoliazione di ogni sovrastruttura semantica capace di
condurre parola e suono ad un’unificazione che entrambe contenga ed esalti. Non vi è
primato dell'una sull'altra, perché la musica è nella parola e la parola è nella musica ed
entrambe vivono di vicendevoli anime.
Dal surrealismo al simbolismo, dalla costrizione del nonsense al sense senza costrizione, da
René Char a Stéphane Mallarmé, è la parola che perde la consuetudine dei suoi significati
e diviene vergine invenzione pronta ad immergersi in nuove malleabili sembianze.

5 Paul Charles René Landormy (1869-1943), critico musicale francese.


6 Cfr. Enrico Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, Pisa, ETS, 2007, p. 30.
7 Cfr. Andrea Lanza, Il secondo Novecento, Torino, EDT, 1991, p. 107.
8 Comprende i testi di L'artisanat furieux, Bel édifice e Bourreaner de solitude.
9 Cfr. Enrico Fubini, Il pensiero musicale, op. cit., p. 71.
2
IL PLI SELON PLI
Portrait de Mallarmé

Il titolo è ricavato da un verso di Rememoration d'amis belges, scritto da Stephane Mallarmé


tre anni dopo aver tenuto, il 18 febbraio 1890, una conferenza a Bruges, per onorare la
memoria di Villers de l’Isle-Adam10.
«Piega dopo piega», è la città che si svela agli occhi di chi vi giunge rivelando pian piano i
profili petrosi dei suoi palazzi: «A des heures et sans que tel souffle l'émeuve/ Toute la
vétusté presque couleur encens/Comme furtive d'elle et visible je sens/Que se dévêt pli
selon pli la pierre veuve».
Così nasce quest'opera, un sipario che s’alza lento.

GENESI
1957 Improvisation I e II tour Mallarmè, per soprano ed ensemble di percussioni
1959 Improvisation III, per soprano, piccola orchestra e percussioni; inizio di Tombeau per
soprano e grande orchestra
1960 Don per soprano e pianoforte e completamento di Tombeau per soprano e grande
orchestra
1962 Trascrizione per soprano e orchestra di Don
1984 Revisione della Improvisation III
1989 Nuova orchestrazione di Don

STRUTTURA
Don da Don du poème
Improvisation I sur Mallarmé da Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui
Improvisation II sur Mallarmé da Une dentelle s’abolit
Improvisation III sur Mallarmé da A la nue accablante tu
Tombeau da Tombeau de M. à Verlaine

È il 1957 quando Boulez, ventisettenne, da poco terminata la III Sonata per pianoforte,
compone Pour moi, la prima Improvisation sur Mallarmé per soprano e orchestra di
percussioni; la seconda, per uguale organico, è scritta su commissione della NDR di
Amburgo11.
I due brani sono autonomi, il testo è quello di due sonetti scritti nel 1885 e nel 1887 per «La
Revue indépendante», rispettivamente La vierge, la vivace, et le bel aujourd'hui e Unè dentelle
s’abolit.
In una conversazione con Wolfang Fink nel maggio 1999 all'IRCAM di Parigi12, il musicista
parla di Pli selon Pli, della complessa genesi, degli aspetti così vincolanti che fanno

10 Auguste de Villiers de L’Isle-Adam (1838-1889), scrittore, poeta e commediografo francese.


11 North German Radio di Amburgo.
12Cfr. Pierre Boulez in conversation with Wolfgang Fink about Pli selon Pli in http://www.deutsche
grammophon.com, 23 marzo 2011.
3
derivare la costruzione del pezzo dal rigore formale della poesia mallarmeriana, delle idee
tematiche e delle intuizioni che sostengono l'architettura del componimento.
Non vi è cenno, conseguenza delle domande poste dall'intervistatore, ai contenuti del testo
e della relazione tanto stretta, intimamente correlata, tra significati, suoni, colori e anime
delle rispettive e reciproche suggestioni.
Il primo sonetto, quello dell'Improvisation I, è una poesia sull'impotenza e la frustrazione
creativa, del poema senza poema, della creazione senza creazione.
«Ce lac dur oublié que hant sous le givre/Le trasparent glacier del vols qui n'ont pas fui!».
E l'immagine di costrizione supera la descrizione letterale del cigno imprigionato nel lago
ghiacciato, la si scopre e la si vive nell'evocazione di un'atmosfera raggelante e raggelata
che permea ogni verso e parola, nel brivido freddo di una «purezza negatrice di vita»13.
Nella Improvisation II si esprime ancora una promessa mancata di fecondità, «Telle que
verse quelque fenètre/selon nul ventre que le sien/filial on aurait pu naître», dietro il
merletto, che vela la finestra, non si rivela l'alcova attesa, «Qu’absence éternelle de lit».
L'idea di nascita e morte, di germinazione bloccata, di promessa disillusa, è pervasiva. Le
tinte oscure e fredde di parole e immagini, trovano l'accordo più evidente nella tessitura
timbrica utilizzata da Boulez per le due improvvisazioni.
Cimbali, crotali, arpa, celesta, vibrafono e campane sono strumenti che allontanano
sensazioni di sensualità e calore, che non permettono ammiccamenti dialogici e
concessioni emotive. Testo e musica, autismi affratellati.
La sovrapponibilità dei significati espressi dai due poemi -progettualità irretita e fecondità
negata- non trovano altrettanta coincidenza nella scelta progettuale di Boulez per i due
sonetti. Per entrambi rimane, poi, la questione, certo non nuova, insita nell’asimmetria di
questa forma poetica, che accosta versi in quartine e terzine.
Nell’Improvisation I la soluzione è trovata nella duplice simmetria dell’alternanza voce-
strumenti, uguale per le quartine come per le terzine, e nella rispondenza della
declamazione vocale che affida alle quattro strofe una dizione così ripartita: sillabica-
melismatica/melismatica-sillabica.
Chiarito in modo lineare l'equilibrio formale, è restituita anche al rapporto parola-musica,
senza ulteriori complicazioni, un'appagante reciproca leggibilità ribadita dalla scelta di
una linea melodica complessivamente semplice, dalla rinuncia a una applicazione rigorosa
della serie dodecafonica (le note mancanti appariranno solo nel primo interludio
strumentale) e dall'uso di intervalli cardine, che ancorano l'orecchio a riferimenti
confortanti. La narrazione è schematicamente enunciativa e, pertanto, sostanzialmente
tradizionale.

13 «Così, Mallarmé nel carme La vierge, la vivace, et le bel aujourd’hui, ci conduce a identificarci
nell’uccello preso nei ghiacci dell’inverno, e perciò stesso ad avvertire l’immutabilità del passato o
la carica di una purezza negatrice di vita. È però necessario che l’io, il quale deve accedere così al
mondo immaginario, riceva un “corpo fittizio”, un “simulacro corporeo” che entri in risonanza con
l’immagine. Questo corpo vivente del carme è la sua stessa forma sonora: il contrasto tra le
dominanti sorde delle “i” e i toni più luminosi delle “a” e delle “e”, che sono gli equivalenti della
tristezza e della luminosità dell’inverno, oppure il tempo della poesia che dall’inizio alla fine, si
rallenta e si allunga, accentuando l’espressione di stabilità e costrizione», cfr. Noël Mouloud,
Linguaggio e strutture, saggi di logica e semiologia, a cura di Giuseppe Mininni, Bari, Dedalo, 1976, p.
127.
4
Non così nella Improvistaion II: l'idea di inseguire un rapporto sempre più sfrontato con la
parola, porta, in un gioco che non supera la nota opposizione sillabico-ornamentale, ad
una dilatazione di entrambe le forme melodiche, attraverso una sempre maggior ampiezza
degli intervalli da un lato e l'uso di un melisma sempre più ricco ed estroso dall'altro.
È un modo che permette di piegare il testo, meglio, di condurlo al servizio del contenuto
musicale rendendolo, a proprio piacimento, di facile o nulla comprensività14.
Ne traspare un tratto d'onnipotenza e voluttà creatrice. Dimenticata senza indugio
l'elegante geometria della prima improvvisazione, sciolto l’equilibrio dato dall'alternanza
tra la parte vocale e quella strumentale, Boulez spinge, dopo aver presentato la prima
quartina con un movimento ornamentale assai ripetitivo (do - mib), l'azzardo estremo
nella seconda, nell'ultimo verso in particolare, che appare disarticolato, sciolto, quasi
liquefatto.
Seguendo lo schema dettato dalle rime: AAB/CBC (melisma, melisma, sillabico/melisma,
sillabico, melisma), il pezzo conclude ritornando allo stile ornamentale nell'ultimo verso
dell'ultima terzina: «filial on aurait pu naître».
Scrive Dominique Jameux: «Le mouvement général est bien celui d’une confrontation de
forces contraires, l'hypothèse de leur fécondation, et le retour brutal au point de départ:
image quasiment directe de la possible lecture du poème de Mallarmé»15.
Il rapporto con la poesia agisce e supera ogni convenzione, è intimo, sotterraneo, valica la
restrizione delle apparenze.
L'Improvisation III, scritta nel 1959, sul testo di A la nue accablante tu, poesia apparsa per la
prima volta nella rivista tedesca «Pan» nel 1895, tre anni prima della morte dell’autore,
segna ancora un passo in avanti nella liberazione dai vincoli pretesi dalla struttura metrica
e strofica del testo.
A differenza delle prime due, qui il sonetto non è usato per intero, ma vi appaiono soltanto
qualche verso e alcune parole, e il senso di questa scelta apre ad una duplice lettura:
liberare la musica da costrizioni d’aderenza alla parola divenute troppo vincolanti, ma più
ancora affrancare il testo stesso da ciò che lo trattiene e distrae dal solo elemento
contenutistico che Boulez intende rappresentare: la coscienza della fine.
Non più il tema della nascita, sofferta e mancata, ma la percezione della morte imminente:
«sépulcral naufrage... mât dévêtu... abîme, ... épaves... noyé... ».
L'immagine del naufragio penetra la musica, il ricollocamento della struttura verbale va
così lontano che le parole presto si perdono in quel viaggio ferale.
In una sorta di moderno madrigalismo, il sonetto naufraga nella musica, la voce va, viene,
scompare, si sbriciola tra i flutti. La fragilità del canto -un lamento gridato, a cappella, su
fonemi che appaiono disarticolati, di fronte ad una crescente sontuosità orchestrale-
cancella e fa dimenticare ogni vitalità.
Il tema della morte, esplicito, dichiarato, appare fin nel titolo in Tombeau, brano iniziato
nello stesso anno, per soprano e grande orchestra, poi completato nei tre anni successivi,

14 Il procedimento non sembri, però, contraddire quanto detto sulla reciproca valenza dei due
linguaggi espressivi, poiché qui nulla è sottratto a quanto di più profondamente è inteso nella
parola: all’opposto è la musica, nella sua trasfigurazione, a far propria la segreta funzione che il
verso poetico esprime.
15 Cfr. Dominique Jameaux, Pierre Boulez, Paris, Fayard, 1984, p. 400.
5
ed eseguito per la prima volta in occasione della prima del Pli selon Pli il 20 ottobre 1962 a
Donaueschingen.
La poesia Tombeau appare su «La Revue blanche» nel 1897; scritta dopo e per la morte
dell'amico Verlaine è, contrariamente ai precedenti testi, di non troppo complessa lettura e
comprensione.
L'omaggio al poeta nasce nel contrasto tra immagini dell'effimero, «Ici presque toujours si
le ramier roucoule» e l'eternità della gloria «Dont un scintillement argentera la foule».
In qualche modo ciò che, disperatamente, nelle altre poesie volgeva ogni pulsione vitale,
all’impotenza e al fallimento, in questa, dicendo di lutto, fine e morte, si celebra, in un
percorso ossimorico, l'infinito perdurare della memoria.
Il poeta consacra il poeta. L'opera dà vita all'opera. Quasi a dire di un pessimismo
ingiusto: qui, per te, amico Verlaine, il Cigno16 ha preso il volo e donandoti l’immortalità.
Boulez utilizza qui soltanto l'ultimo verso del sonetto Tombeau: «Un peu profond ruisseau
calomnié la mort» e lo pone, come citazione conclusiva, alla fine di un brano interamente
strumentale.
La voce si muove in uno stile ornato e il melisma è condotto a tale estremizzazione da
assumere caratteri univocamente timbrici. L'estensione decontestualizza ogni rapporto con
il testo e solo le due parole finali, «la mort», si rendono comprensibili, ridotte ad
esalazione, vapore.
Molto è chiarito della struttura del Tombeau, così diversa dalle tre improvvisazioni, dalla
comparazione con Don, l'ultimo in ordine cronologico, ma pezzo d'apertura nell'opera
conclusa. In un'attenzione costante, assoluta, al rigore formale, quando l'opera si delinea e
prende forma, Boulez ricerca nei due pezzi esterni una simmetria speculare.
Tratto da Don du poème, questa volta non un sonetto, il primo verso «Je t'apporte l'enfant
d’une nuit d’Idumée» apre il brano, sillabato e avvertito dal secco accordo, strappato, con
cui inizia.
Pubblicata nel 1866, ad apertura di un gruppo di poesie racchiuse sotto il titolo di Parnasse
contemporain, la poesia dona a Boulez la straordinarietà di un testo che collima ed agisce in
assoluta sintonia con il tema che sottintende tutta l'opera: l'impotenza creatrice.
La notte di Edom, della nascita mostruosa di chi procrea senza femmina17, è la notte
insonne di Mallarmé, artefice solitario di une horrible naissance, dell’opera affamata che non
riesce a nutrirsi, del foglio vergine «Par qui coule en blancheur sibilline».
In una lettera a Madame le Josne18, Mallarmé scrive: «La tristesse du Poète devant l'enfant

16 Ben diverso destino ha il Cigno di Le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui, al quale è negata ogni
speranza di librarsi in volo: «Tout son col secouera cette blanche agonie/Par l'espace infligée à
l'oiseau qui le nie,/Mais non l'horreur du sol où le plumage est pris.».
17 «L’Idumée est le pays de l'Edom, pays d'Esaü, l'aîné déshérité en faveur du cadet Jacob, l'aîné
hirsute et monstrueux. 'Pour la cabaie juive, continue Denis Saurat, Dieu avait créé une humanité
monstrueuse. Ii l’a remplaça par l'humanité actuelle. Jacob remplaça Esaü: hommes pré-
adamiques, rois d'Idumée. C'étaient êtres sans sexe, se reproduisant sans femmes, et non
hermaphrodites à l'image de Dieu», cfr. Stéphane Mallarmé, Œuvres complètes, Bibliothèque de la
Pléiade, Gallimard, 1965, p. 1439.
18Madame Le Josne, animatrice di un salotto letterario parigino frequentato, tra gli altri, da
Baudelaire.
6
de sa Nuit, le poème de sa veillée illuminée, quand l’aube, méchante, le montre funèbre et
sans vie: il le porte à la femme qui le vivifiera»19.
Confortano, per come concordano con quelle di Mallarmé, le parole di Jacques Derrida che
riflette sulla poesia: «il se laisse faire, sans activité, sans travail, dans le plus sobre pathos
[…] Le poéme échoit, bénédiction venue de l’autre […] don du poeme ne cite rien, il n'a
aucun titre, il n'histrionne plus, il survient sans que tu t'y attendes, coupant le souffle,
coupant avec la poesie discursive, surtout litteraire»20.
L'estraneità dell'oggetto poetico che, prosciugatene le energie, si libera del suo demiurgo e
muove verso il proprio irriconoscente destino.
Boulez non abbandona invece il suo Pli. Un aspetto non secondario nel divenire della
composizione è il succedersi di differenti versioni, non il ripensamento che prende forza e
si affina in una nuova definitiva riscrittura, bensì la reinvenzione che ne moltiplica le
sembianze senza smentire quelle che la precedono.
Cosi è nata quest'opera, non pre-meditata, lungo una strada la cui traccia si delinea pian
piano, come le pietre di Bruges dietro le nebbie, e così procede.
Una nuova versione di Don nel 1989 suggerisce l'idea che il Pli selon Pli, pur se Boulez
sembra averne determinato i confini formali, debba rimanere una composizione coerente
con l'imprevedibilità della sua genesi, e perciò vitale perché pronta ad abitare i luoghi di
un futuro temporale che nessuno potrà mai dichiarare chiuso.
E l'intricata complessità da cui, alla fine, il pezzo affiora e si offre all'ascoltatore, davvero
lascia l'impressione che non tutto sia ancora svelato.

BIBLIOGRAFIA

BORTOLOTTO MARIO, Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale, Milano,
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JAMEAUX DOMINIQUE, Pierre Boulez, Fayard, Paris, 1984.
JANKELEVITCH VLADIMIR, La musica e l'ineffabile, trad. e cura di Enrica Lisciani Petrini
Milano, Bompiani, 2007.
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ROSEN CHARLES, Piano Notes. Il pianista e il suo mondo, Torino, EDT, 2008.

19Cfr. Pamela Maria Hoffer, Reflets réciproques. A prismatic reading of Stéphane Mallarmé and Hélène
Cixous, New York, Peter Lang Publishing, 2006, pag. 92.
20
Cfr. Jacques Derrida, Points... Interviews 1974-1994, a cura di Elisabeth Weber, Stanford, Stanford,
University Press, 1999, p. 296.
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