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STEFAN JAROCINSKI

Debussy
Impressionismo e simbolismo
PREFAZIONE
DI VLADIMIR JANKÉLÉVITCH
discanto edizioni
Sezione editoriale della Casalini libri
Fiesole (Firenze)
STEFAN JAROCINSKI

Debussy
Impressionismo e simbolismo
PREFAZIONE
DI VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

discanto edizioni
Titolo originale dell’opera
Debussy. Impressionnisme et symbolisme

Versione italiana di
MARIA GRAZIA D’ALESSANDRO

© Copyright 1970 by Editions du Seuil, Paris


& 1980 by discanto edizioni, Fiesole
Prima edizione: marzo 1980
Stampa: Stabilimento grafico commerciale, Firenze
Indice

p. VII II Debussy di Stefan Jarocinski


di Vladimir Jankélévitch
3 Introduzione

7 i. L’impressionismo nella pittura del xix secolo ed


il suo ruolo nella cultura contemporanea
14 11. Significato dato al termine « impressionismo » in
storiografia musicale
27 in. Il simbolo in arte
Tentativo di definizione, p. 27 - Considerazioni ge­
netiche, p. 31 - L’espressione e il simbolo in mu­
sica, p. 46
74 iv. Debussy e il simbolismo
Il clima dell’epoca, p. 74 - Il wagnerismo e la mu­
sica francese alla fine del xix secolo, p. 84 - L’am­
biente di Debussy, p. 89 - Le opinioni estetiche di
Debussy, p. 109 - La musica di Debussy, p. 127
190 v. Debussy e la musica del xx secolo

197 Indice dei nomi


Prefazione

Il Debussy di Stefan Jarocinski

Era necessario « presentare » al pubblico un musicologo emi­


nente come Stefan Jarocinski? Ricordiamo soltanto che, dopo
aver partecipato alla guerra contro l’invasore tedesco, egli
frequentò i corsi di filosofia della Sorbona e lavorò da Nadia
Boulanger; attualmente, è capo del dipartimento di Storia
della Musica all’istituto d’Arte dell’Accademia polacca delle
Scienze a Varsavia, ed è inoltre insignito del Premio dell’Dnione
Compositori Polacchi 1978. Ha scritto otto opere (Mozart,
1954, iv ed. 1972; Anthologie de la critique musicale polo­
naise, 1955; Orphée aux carrefours, 1958, 11 ed. 1974; Witold
Lutoslawski, 1965; Debussy - Impressionisme et symbolisme,
1966, traduzione francese 1970, inglese 1976, russa 1979;
Debussy - Chronique de sa vie, de son oeuvre et de son époque,
1972 e Idéologies romantique, 1979). È già conosciuto in
Francia per il suo notevole contributo al colloquio su Debussy
che Jaques Chailley ha riunito nel 1962: Quelques aspects de
Funivers sonore de Debussy. Sta preparando, in collaborazione
con Francois Lesure, un Catalogue raisonné des oeuvres de
Debussy. In un certo senso si può considerare Stefan Jarocinski
come il portavoce e il teorico più profondo dell’« avanguardia »
musicale polacca.
Debussy ha sempre suscitato l’interesse appassionato dei mu­
sicisti stranieri, sia tedeschi sia inglesi, spagnoli o italiani. La­
sciando da parte il lavoro, spesso parziale, di Arnold Alchvang
(Mosca 1935), citeremo il magnifico numero speciale del­
l’ut Approdo musicale» (1939)t realizzato da Alberto Man­
telli e soprattutto i due volumi del Debussy di Edward Locks-
peiser (Londra 1962-1963), che è oggi il lavoro più conside­
revole e più importante consacrato a Debussy. Se si vuole
Vili PREFAZIONE

comprendere ciò che Debussy rappresenta per la musica euro­


pea del xx secolo, la cosa migliore è rifarsi al commovente
Tombeau de Claude Debussy, che la « Revue musicale * pub­
blicò nel 1920 come supplemento di un numero speciale sul
maestro scomparso: si trovano in esso raccolti, accanto a mol­
ti altri, i nomi di Béla Bartók, Manuel de Falla, Eugene Goos­
sens, Francesco Malipiero e Igor Stravinsky; a questi omaggi
dell’Europa musicale bisognerebbe aggiungere la Méditation
di Zoltàn Kodàly su un motivo del Quatuor à cordes di De­
bussy e la toccante melodia in cui Joaquin Nin, per onorare
Debussy, dà una voce alle cinciallegre della Catalogna.
È destino delle grandi opere geniali quello di prestarsi ugual­
mente bene ai punti di vista, spesso contraddittori, che le ge­
nerazioni successive vi proiettano. Dopo il Debussy impres­
sionista dei primi musicologi, Barraqué ci rivela il precursore
della musica seriale di oggi; nel suo importante Étude com-
parée des languages harmoniques de Fauré et ‘de Debussy,
Frantoise Gervais mette paradossalmente in luce la premi­
nenza del melodismo sull’elemento armonico. Tutte queste
interpretazioni sono ugualmente valide e giustificate, tutte
illuminano un aspetto di quest’opera inesauribilmente ricca.
E di fatto Debussy è talmente geniale che contiene già in sé
tutti gli elementi della successiva reazione contro di lui. De­
bussy implica nello stesso tempo il debus sismo ed il suo con­
trario. Nella scrittura incisiva, corrosiva, di Ibéria, delle Épi-
graphes antiques e di certi Études talvolta si ha come un
presentimento dell’ascetismo delle ultime opere di Satie; e,
viceversa, nelle violenze dello studio Pour les tierces e nello
studio Pour les accords si riconoscerebbero difficilmente quelle
sottigliezze estetiche che l’accademismo talvolta rimproverò
a Debussy. Spiegare Debussy attraverso il simbolismo piutto­
sto che attraverso l’impressionismo: questo è il filo conduttore
di Stefan Jarocinski. Quest’idea, ad una prima analisi, è sor­
prendentemente giusta e feconda. La cura con cui Jarocinski
differenzia Debussy dagli impressionisti contribuirà a metterci
in guardia contro qualsiasi analogia ingannevole fra la musica
e la pittura e contro la tentazione di trasporre l’ordine tem­
porale delle sensazioni uditive nell’ordine visuale della coesi­
stenza spaziale, o viceversa. All’ascoltatore ed all’interprete
PREFAZIONE IX

Jarocinski rifiuta il diritto di proiettare la musica nelle tre di­


mensioni dello spazio ottico; al creatore, egli contesta la possi­
bilità di tradurre un paesaggio in termini di successione. Jaro­
cinski non si lascia ingannare dai titoli pittorici che Debussy
dà alle sue Images, alle sue Estampes, ai suoi Préludes.
Ma se la corrispondenza letterale, ed in un certo senso in­
terlineare, dei suoni e dei colori ha un carattere puramente
metaforico, la corrispondente universale delle qualità tramite
le associazioni ed i ricordi è l’essenza stessa del simbolismo.
È in questo secondo senso, simbolico e spirituale, che il
Prométhée di Skrjabin comprendeva la corrispondenza dei suo­
ni e dei colori. La funzione simbolica è, sotto questo aspetto,
la funzione propria della musica. Ecco perché la musica, lin­
guaggio ambiguo e polivalente, e anzi plurivalente e plurivoco,
linguaggio che è l’opposto di qualsiasi linguaggio, non è mai
obbligata a scegliere fra piu significati, come fa il discorso
univoco e razionale: essa si presta invece a molteplici inter­
pretazioni,' tutte ugualmente vere, fra le quali noi stessi sce­
gliamo secondo il nostro stato d’animo. Il carattere apparen­
temente indeterminato del linguaggio musicale non è altro che
la ricchezza infinita delle determinazioni e degli innumerevoli
significati che in esso sonnecchiano. Quando il musicista ce­
coslovacco Zdenèk Fibich scrive i suoi Études de Peintre,
non cerca, per essere esatti, di tradurre musicalmente la soli­
tudine della foresta che Ruysdael esprimeva attraverso colori
e forme: ma crea uno stato d’animo con l’aiuto del quale l’in­
terprete, secondo il suo capriccio, immaginerà il suono lonta­
no del corno ed il mormorio delle sorgenti ed il fremito delle
foglie. Allo stesso modo, non è la funzione descrittiva che
caratterizza la musica di Debussy, ma Fenergia suggestiva; e
questo potere di suggestione raggiunge in lui una forza ma­
gica irresistibile. Jarocinski afferma che La mer simboleggia
il risveglio della vita e l’espandersi delle forze addormentate
nelle profondità della natura. « Vi chiamo alla vita, forze mi­
steriose », ci dice l’epigrafe della Cinquième Sonate di Skrja­
bin. Ciò è ancora piu vero per il mirabile Pan di Vitèzslav
Novak, in cui l’associazione delle montagne, del mare, della
foresta... e della donna ci trattiene nell’equivoco, a metà strada
fra il senso proprio ed il senso figurato, fra il senso gramma-
X PREFAZIONE

ticale o letterale ed il senso spirituale. Il secondo movimento


di Ibéria, Les parfums de la nuit, non si rivolge al senso ol­
fattivo più di quanto non si rivolga all’immaginazione visiva:
ma infonde in noi un profondo turbamento che fa roteare e
vacillare le immagini, le sensazioni, le qualità; « i suoni e i
profumi volteggiano nell’aria della sera », e la « languida ver­
tigine » s’impadronisce della nostra anima. Perciò l’« evoca­
zione », come all’inizio </eZZ'Iberia di Albéniz, è sempre lon­
tana e in qualche modo onirica. Onirica prima di tutto: que­
sta liquidità, questa diffluenza delle qualità e delle immagini
spiegano, per parlare come Tristan Lhermite, il fascino della
* fantasia dell’acqua che sonnecchia ». Il meraviglioso Preme-
noir des deux amants è tutto pieno di simili fantasticherie.
Bachelard, che Stefan Jarocinski ha letto, ci fornirebbe un
linguaggio atto ad esprimere tutto questo. L’acqua e i suoi
sogni, ma anche l’aria e le fantasie dell’aria, e i sospiri del
vento, e le « meravigliose nuvole » nel cielo, tutto ciò che
è fiabesco, allusivo, inconsistente, continuamente modificato
e incessantemente deformato si ritrova nell’universo di De­
bussy. D’altronde, e per lo stesso motivo, quest’universo è
abitato non da presenze massicce e tangibili, ma piuttosto da
assenze, dal lontano orizzonte e dall’immensità del mare, dal
cielo lontano e dal vento lontano che reca con sé al galoppo i
suoi lontani messaggi, e accorre nella vasta pianura, e sem­
pre viene da un altro luogo; il pastore de la Boìte à joujoux,
che suona la cennamella in lontananza, e Mélisande nel primo
atto, che dice: « Non sono di qui (Dove siete nata? - Oh!
lontano da qui, lontano... lontano...) », e le fate di una notte
d’estate che danzano, danzano nell’aria della notte, e la fan­
ciulla dai capelli di lino, vengono anche loro da un altro luogo;
non dall’Oriente, ma forse dall’Ovest, poiché l’Ovest è il
grande Altrove magico del mondo di Debussy. Mélisande in
questo somiglia al vento della pianura, che è un vento « di po­
nente » e che non è di qui. Meglio ancora: gli abitanti di quel
mondo lontano non sono di nessun luogo e la parola qui non
ha senso per loro; più in generale, nessun essere è ciò che
è, né là dove è. In questo almeno, come Manuel de Falla e
Déodat de Séverac{ Debussy sembra legato da qualche filo
segreto a Jaufré Rudel, il poeta nostalgico della lontananza.
PREFAZIONE XI

All'opposto di ogni naturalismo, Debussy ci appare nelle de­


scrizioni di Jarocinski come il poeta di un paese che non è in
nessun luogo, di un paese che non esiste. Non vedo perché
ci sia proibito paragonare questa musica che ci conduce al di
là dell'esistente all'irrealismo di Fauré: Fauré stesso non ha
forse parlato, a proposito del suo Second Quatuor, di un de­
siderio di cose inesistenti? Si comprende come Debussy, Fau­
ré e Chausson abbiano trovato il loro linguaggio nell'incom­
parabile poesia di Maeterlinck, nei suoi segni misteriosi e nel­
le sue corrispondenze.
Tuttavia, Stefan Jarocinski ha compreso molto bene che,
se la musica di Debussy non si dedica affatto alla descrizione
ed alla trascrizione dei rumori della natura, né alla registra­
zione pointilliste del gioco delle onde, non è possibile, d'altro
canto, ridurla ad un soggettivismo puramente psicologico:
Debussy non è un paesaggista, ma non per questo la sua opera
è una sinfonia patetica. Jarocinski lo dice in modo quanto mai
chiaro. Cera in Debussy una sensualità armonica, e soprattut­
to una brama di sonorità, che lo colloca agli antipodi di ogni
coscienza infelice e di ogni soggettività introversa. La sua sen­
sibilità ai timbri degli strumenti, il suo modo inimitabile di
rinnovarli, di utilizzare le risonanze del suono e di trarne gli
effetti più insoliti, la sua conoscenza dei limiti precisi della
memoria uditiva, la sua finezza percettiva hanno del prodi­
gioso. Aggiungeremo soltanto questo: il gusto della sonorità
in sé è uno dei segni distintivi della musica francese in ge­
nere. Liszt e Chopin, sotto quest'aspetto, sono le vere fonti
della modernità musicale. Siamo cosi profondamente d'accor­
do su tutto con Jarocinski, che egli ci permetterà senza dub­
bio queste osservazioni su alcuni particolari... César Franck,
per il suo senso della voluttà sonora è il più antitedesco pos­
sibile. E quanto a Chabrier, egli non è solo l'autore di
Gwendoline, ma soprattutto il musicista del Roi malgré lui e
di La sulamite, in cui ogni battuta e quasi ogni nota offrono
all'orecchio le delizie indicibili della sonorità. E c'è forse bi­
sogno di parlare qui di Chausson, precursore di Satie e di
Debussy? Les serres chaudes, quasi contemporanee alle Pro­
ses lyriques, sono per certo una delle fonti di Pelléas. Più vi­
cino a noi, tutte le forme più raffinate di diletto sonoro si sono
XII PREFAZIONE

date convegno nel pianismo di Déodat de Séverac e nell'opera


di Ravel. Gli austeri musicisti di oggi, divorati da una specie
di rancore ambivalente e sospettoso contro il piacere musicale,
che si impongono penitenze ed usano troppo spesso una parola
virtuosa e moralizzatrice come antiedonismo, avrebbero una
buona ispirazione se invocassero Debussy con grande pruden­
za. Debussy stesso scrive: « La musica francese vuole, prima
di tutto, far piacere... ». «La musica deve umilmente cercare
di far piacere ». E Jarocinski cita a tre riprese l'articolo della
« Revue bleue » da cui sono state tratte queste frasi. Maurice
Ravel, a sua volta, porrà all'inizio dei Vaises nobles et senti-
mentales queste poche parole di Henri de Régnier: « il pia­
cere delizioso... di un'occupazione inutile ». Il rapimento so­
noro è cosi acuto in Maurice Ravel che può far male e di­
venta talvolta una sorta di estasi appassionata. Ravel e De­
bussy, su questo punto, erano eredi di Scarlatti, che non si
sarebbe sentito disonorato dal rimprovero di « edonismo »,
e che non aveva paura dei godimenti proibiti. Debussy dete­
stava il tedio, le astrazioni, il pedantismo, l'austerità, i gro­
vigli della polifonia: « Aborrisco le dottrine... ». Fra i testi
ammirevolmente scelti che Stefan Jarocinski ha qui raccolto
e commentato, mettiamo in rilievo il seguente: « La musica
diventa " difficile " tutte le volte che non esiste... ». La mu­
sica si fa complicata quando il musicista di quella musica non
ha niente da dire. Debussy probabilmente inorridirebbe di
fronte a certi aspetti della secchezza e della tetraggine contem­
poranee. Debussy pensava che la musica non fosse fatta per
la carta rigata, ma per quell'organo chiamato orecchio; e in
effetti i dottrinari, assorbiti da problemi di scrittura, tendono
un poco, talvolta, a dimenticare quest'organo; la musica non
è un fenomeno grafico, ma un avvenimento uditivo; chiede di
essere effettivamente ascoltata, e non di essere letta!
Stefan Jarocinski descrive in termini mirabili la spontanei­
tà di una musica transdiscorsiva, che non ha niente a che ve­
dere con il discorso concettuale e codificato caro ai wagne­
riani. « Essa si sviluppa spontaneamente. Ignora quelle lun­
ghe introduzioni, quegli ampi finali che facevano la gioia della
retorica romantica. La musica non comincia e non finisce.
Emerge dal silenzio, s'impone senza preliminari, in medias res,
PREFAZIONE XII!

poi, interrompendo il suo corso, continua a tessere la sua tra­


ma nel nostro sogno ». Si ha l'impressione che qui Jarocinski
stia per parlare di Boris Godunov, che non ha quasi preludio
ed è quasi incompiuto, che dispiega i suoi quadri successivi
fra la cantilena monodica del preambolo e il lamento finale
dell'innocente, e che, simile all'eterna canzone del vento della
pianura, non ha inizio né fine. Ci sarebbe piaciuto, nel corso
di queste belle pagine di un libro che ne conta tante altre,
poter leggere il nome di Musorgskij: non solo perché è uno
dei più grandi geni di tutti i tempi, ma anche perché Debussy
stesso gli è fraternamente affine, e perché Musorgskij fu l'in­
carnazione vivente dell'antiretorica. C'è bisogno di ricordare
qui le pagine sconvolgenti che Monsieur Croche, messi da
parte filologi e intellettualoidi, consacrò a La camera dei bam­
bini? L' « innocente grammatica artistica » di cui parla Claude
Debussy, in termini indimenticabili, in un testo che non è
sfuggito alla perspicacia di Jarocinski, è la grammatica di Mi­
mi Brigand e del Nikolka di Boris Godunov. Senza dubbio
Musorgskij e Debussy avrebbero preferito L’opera da tre soldi
alla Tetralogia, e La messe des pauvres di Satie alle messe dei
milionari. Veder sorgere il sole, diceva Monsieur Croche,
sempre irriverente, è più importante che andare a sentire la
Sinfonia pastorale.
A partire da qui, siamo di nuovo rimandati dal « simboli­
smo » all'« impressionismo », e Stefan Jarocinski si ritrova
d'accordo con l'eccellente musicologo russo Jules Kremlev,
che mette in luce le tendenze realistiche dell'estetica di De­
bussy, e che anche lui, a suo modo, ha ragione. Il che prova -
e Jarocinski sarebbe certamente di questo avviso - la relatività
delle classificazioni e delle categorie nelle quali speravamo di
inquadrare Debussy. Debussy, che aveva in orrore i concetti,
sarebbe senza dubbio il primo a stupirsi di essere cosi sballot­
tato fra gli ismi contraddittori... Con irreprensibile onestà,
Jarocinski cita le righe ben consciute che Monsieur Croche
dedicava a quelle musiche « da aria aperta », in cui non c'è
altro che l'oceano, il vento tra le piccole foglie, i gridi acuti
delle rondini e le campane lontane. « Tutta l'aria di tutto il
mare! », esclama Pelléas, uscendo dai sotterranei. « C'è un
vento fresco, vedete, fresco come una foglia che si è appena
XIV PREFAZIONE

dischiusa... ». E Jean de la Ville de Mirmont, in quellTionzon


Chimérique a cui Gabriel Fauré ha dato un accento indimen­
ticabile: « Voglio solo il mare, voglio solo il vento ». E si
pensi ancora all’epigrafe che Gabriel Dupont pose sulla porta
della sua Maison dans les dunes; « Solo, con il cielo chiaro
e con il mare libero ». Ricordiamo che Gabriel Fauré e Déodat
de Séverac avevano esaudito, all’inizio di questo secolo, i voti
di Debussy: l’arena di Béziers non ha forse offerto alle due
bande di Prométhée poi, in Héliogabale, agli strumenti della
Cobla catalana, quel cielo libero che faceva sognare Debussy?
Oseremo dire, con il rischio di ricadere nelle astrazioni pro­
fessionali, che in Debussy si trovano tutti gli elementi di una
fenomenologia dell’immediato. Tuttavia, quest’immediato ci
sembra più statico che veramente temporale: quest’immediato
è l’immediato dell’attimo sospeso e dell’istante immobile.
Des pas sur la neige. La serénade interrompue. Ce qu’a vu le
vent de l’ouest. Non racconta nulla, il vento dell’ovest: è solo
un minuto della storia del mondo. Sottoponiamo quest’osser­
vazione a Stefan Jarocinski. Non è Debussy ad essere berg-
soniano, ma Fauré. Jarocincki scrive, in un linguaggio che
colpisce per la sua originalità e la sua profondità: « Grazie
al movimento incessante di particelle sonore piccole o più
grandi, accade sempre qualcosa in questa musica, qualcosa in
essa vive e muore, si forma, si rinnova senza sosta... ». Da
parte nostra, aggiungeremmo solo una semplice sfumatura:
questa deformazione continua non è né un’evoluzione, né un
divenire, ma un susseguirsi di « flussi » istantanei. È la suc­
cessione delle discontinuità infinitesimali che forma la conti­
nuità. Cosi, Mouvement (dalla prima raccolta di Images per
pianoforte), è un turbinio sullo stesso luogo: il movimento
di questo Mouvement non va in nessun posto, non collega un
punto ad un altro, ma è eterno come il vento nella pianura.
E cosi succede sempre qualcosa, e non succede assolutamen­
te nulla in questa musica - il che, paradossalmente, è lo stesso!
Niente accade nell’eterno dialogo del vento e del mare, nel­
l’immobile turbinio dei suoni e dei profumi al crepuscolo,
nessun avvenimento, nessun progresso temporale. Soltanto
pozze di durata abbastanza simili alle acque stagnanti ed im­
mobili che sonnecchiano nello specchio degli stagni.
PREFAZIONE XV

Ci sarebbero ancora molti altri argomenti di meditazione in


questo libro cosi ricco di intuizioni estetiche e filosofiche, in
cui l’importanza del punto di vista sociale e storico non esclu­
de, ma, al contrario, implica una solidissima cultura specula­
tiva e un’evidente inclinazione per i problemi teorici. E non
abbiamo ancora detto nulla dell’umorismo, sempre presente
in queste pagine illuminanti. Ma a che scopo parlare di que­
sto adesso? Il lettore se ne accorgerà certo da solo, senza che
lo diciamo. Prima di cedere finalmente la parola a Stefan Ja­
rocinski, mostriamo un’ultima volta come il simbolismo, cosi
come lo comprende Jarocinski con tanta profondità, si associ
all’impressionismo nel paradosso di un 'esteriorità evasiva. Non
è facile spiegare in che modo si risolva questa contraddizione
tra discontinuità sensoriale e continuità onirica, fra la disper­
sione scintillante delle qualità e la fluidità del sogno: eppure,
di fatto, si risolve, come canta la musica, nel mistero dell’ine­
sprimibile e del non-so-che. È ancora Debussy che l’ha detto
e Jarocinski lo ripete piu volte con lui: la musica è fatta per
l’inesprimibile. « La parola manca », scrive Leo! Janàtek, al
l’inizio di uno dei brani che compongono il suo album Su un
sentiero erboso. Quando la parola è « impotente ad esprime­
re », quando le parole ci mancano, quando l’ambiguità infi­
nita del senso rifiuta di essere contenuto nel linguaggio, allora
è tempo di cantare; allora, nel silenzio delle parole, gli oboi
d’amore delle Gigues tristes e la divina musica dei Par-
fums de la nuit innalzano la voce per dire, nessuno sa corsie,
quello che essi soltanto sanno dire, e per sussurrare all’orec­
chio della nostra anima le cose indicibili.

Vladimir Jankélévitch
Debussy
Impressionismo e simbolismo
Introduzione

L’intento dell’autore di quest’opera potrebbe essere ricon­


dotto ai tre punti seguenti:
— spiegare i termini « impressionismo » e « simbolismo »,
— verificare se ed in quale misura il termine « impressioni­
smo » possa essere applicato alla munsica di Debussy,
— dimostrare che la corrente estetica nella quale si è formata
la personalità artistica di Debussy, e che ha impregnato piu
durevolmente la sua opera, è il « simbolismo ».
Tratta dalla pittura e messa in voga all’inizio del xx se­
colo, quindi nel momento in cui l’impressionismo in arte co­
minciava finalmente ad essere apprezzato, la nozione di im­
pressionismo ha senz’altro favorito l’introduzione dell’opera
di Debussy; le ha permesso di imporsi senza grandi resi­
stenze, ma per questo fatto impediva di cogliere tutta la no­
vità che quest’opera portava con sé. A partire da questo
momento si vedrà una specie di « pittura sonora » nella mu­
sica di Debussy. Ogni opera d’arte, e piu che mai un’opera
musicale, è un oggetto estetico intersoggettivo !, che dipende
dalla rappresentazione che gli ascoltatori di un dato paese e
di una data epoca si fanno delle sue caratteristiche. La formula
di « impressionismo » ha cosi acquisito diritto di cittadinanza,
anzi, è perfino entrata nella terminologia ufficiale.
Non hanno tardato a sorgere difficoltà. Prima di tutto,
molte opere di Debussy non si lasciavano definire con l’aiuto
di tale formula, e, d’altra parte, lo stesso compositore non
volle mai accettarla. Considerava, non senza ragione, che, se
si fosse messo troppo in evidenza il lato esteriore della sua
musica, essa avrebbe condotto ad interpretazioni semplicisti-
che, che ne avrebbero cancellato il significato profondo. Al-
INTRODUZIONE
4

cuoi critici l’hanno ugualmente accolta con reticenza: troppo


ristretta per rendere ragione dell’opera, essa rinchiudeva la
esperienza estetica degli ascoltatori in una formula che la
impoveriva.
I sostenitori dell’etichetta « impressionista », accostata ai
nomi di Debussy, di Ravel e di altri compositori, sono stati
ben presto rafforzati dalla tendenza generale ad allargare il si­
gnificato della parola (tendenza scaturita da diverse concezioni
storiche e filosofiche), e ad applicare il termine a tutti i campi
dell’arte. Alla fine, è giunto il momento in cui l’impressionismo
ha designato lo stile di vita di tutta un’epoca ed ha caratte­
rizzato la sua cultura.
Il termine « impressionismo » ha dunque fatto una straor­
dinaria carriera nello spazio di appena mezzo secolo: usato
dapprima ironicamente (1874), è diventato la parola d’ordine
di un gruppo di pittori, poi il nome di una corrente artistica
che essi rappresentavano, ed infine quello di una categoria
estetica che abbracciava campi sempre più vasti della cultura
(Hamann), e che si estendeva perfino alle attività artistiche
di altre epoche (Weisbach). Tuttavia il suo significato pri­
mitivo è rimasto immutato. L’evoluzione semantica non ha
intaccato la radice etimologica della parola e le sue diverse
applicazioni non hanno potuto eliminare il suo senso proprio,
legato alla corrente apparsa nella pittura in Francia, nella se
conda metà del xix secolo.
La storia della parola « impressionismo » testimoniava dei
cambiamenti che sopravvenivano nella coscienza delle gene­
razioni e degli individui. In effetti, ogni epoca ha non solo le
sue proprie opere e le sue proprie idee, ma anche il suo lin­
guaggio ed il suo vocabolario. Nel caso del termine di cui ci
occupiamo, l’evoluzione del significato aveva luogo solo nella
coscienza dell’éZzte intellettuale. Per il grande pubblico, esso
ha sempre conservato il suo significato etimologico ed è ri­
masto legato alla pittura degli impressionisti.
Allo stesso modo lo intende la maggior parte degli ascolta­
tori, quando lo incontra nelle pubblicazioni di storiografia mu­
sicale, dove gli autori, generalmente, non si prendono la briga
di spiegarlo.
Insomma, gli ascoltatori attuali apprezzano la musica di
INTRODUZIONE 5

Debussy in modo altrettanto ristretto di quelli dei primi tren-


t anni del xx secolo, sebbene le prospettive aperte dallo svi­
luppo della musica piu recente abbiano radicalmente cambiato
il nostro modo di vedere la sua opera. Nella mente del pub­
blico, l’espressione « Debussy-impressionista » è associata al
prodotto di un’attività artistica: della buona musica, certo, ma
che non dispone alle emozioni profonde, che non ha il « peso »
delle opere di Bach o di Beethoven.
Quanto all’importanza della musica di Debussy, il malin­
teso che sussiste somiglia a quello che, per altre ragioni, si
era stabilito nel xix secolo a proposito di Mozart. Dopo Bee­
thoven e Chopin, e soprattutto dopo Wagner, Mozart sem­
brava futile e leggero. Nessuno allora si domandava perché
quell’arte cosi gratuita avesse ispirato Kierkegaard, né come
mai il filosofo avesse potuto vedere in Don Giovanni la fonte
da cui gli sembrava che scaturisse tutta la sua opera2. Dopo
la forza vitale di Stravinskij, l’isteria dell’espressione del­
l’espressionismo e le rapsodie estatiche di Bartók, si accusava
la musica di Debussy, come un tempo quella di Mozart, di
edonismo e di mancanza di serietà. L’etichetta di « impressio­
nismo » confermava quest’opinione degli ascoltatori, al punto
che oggi essi fanno fatica a capire come agli occhi dell’avan­
guardia l’importanza di Debussy nella musica del xx secolo
si sia accresciuta a tal punto. Ci sembra che sia giunto il mo­
mento di abbandonare una definizione che illumina di una luce
falsa l’opera di questo compositore.
Non abbiamo la pretesa di avere esaurito tutti i problemi
sfiorati nel corso del ragionamento. Più d’una delle tesi che
sono state avanzate potrà suscitare l’opposizione o il dubbio.
Scrivendo il nostro libro, ci siamo assunti il rischio di scanda­
lizzare; abbiamo tentato di rompere con l’isolazionismo della
musicologia che (forse a causa della natura stessa del suo og­
getto) è restata ai margini delle ricerche interdisciplinari intra­
prese in tutte le altre discipline delle scienze umane. All’ori­
gine della nostra opera c’è la diffidenza, generale nella nostra
epoca, suscitata dai dogmi e dalle formule accettate: lo svi­
luppo tempestoso delle arti nel xx secolo fa sf che esse sem­
brino frenare e ritardare il nostro orientamento nelle correnti
artistiche, ed impedire di apprezzare i cambiamenti sopravve-
6 INTRODUZIONE

nuti. Quindi, questo libro, il cui argomento affronta i diversi


campi delFarte in forma volutamente polemica, dovrebbe in­
coraggiare gli studiosi di estetica ed i teorici della musica, e
non solo della musica, ad approfondire i problemi che pone.
Se raggiungesse questo scopo, diremmo che esso ha assolto la
sua funzione.

1 roman ingarden, Utwór muzyczny i sprawa jego tozsamosci [L’ope­


ra musicale ed il problema della sua identità], in «Studia z estetyki »
[Studi di estetica], Warszawa 1958, t. n, pp. 292-293.
2 Nel suo studio sull’erotismo nella musica, Enten-Eller, tr. it., Adel­
phi, Milano 1978.
I.
L’impressionismo nella pittura del xix secolo
ed il suo ruolo nella cultura contemporanea

Si usa comunemente il termine « impressionismo » per de­


signare la corrente artistica rappresentata da un gruppo di
pittori francesi (Monet, Renoir, Pissarro, Sisley, Degas, ed
altri) i quali, avendo constatato che i loro scopi ed i loro
mezzi espressivi si somigliavano, organizzarono, dal 1874 al
1886, otto mostre collettive, sebbene essi lavorassero in
modo piu o meno indipendente gli uni dagli altri e si in­
contrassero solo sporadicamente, a partire dal i860.
La loro estetica e la loro tecnica partivano da una base
empirica. I pittori avevano lasciato lo studio, osservavano
l’azione della luce del sole nella natura, e da questo era venuta
loro l’idea che, nell’arte, la fedeltà alla realtà consistesse nella
rappresentazione di quello che l’artista vede, non di quello
che sa. In altri termini, si trattava, per loro, di cogliere l’im­
magine della realtà non ancora deformata dall’intervento del­
l’intelligenza, di trasmettere l’impressione pura, cosi come era
stata provata materialmente. E poiché la realtà ambientale
appare all’artista in una luce sempre nuova, secondo l’ora del
giorno ed il tempo che fa, quello che egli ne coglie è solo la
traccia del momento, la ricostituzione di una fase di una realtà
che cambia continuamente. Éduard Manet ha espresso l’es­
senza di questa estetica dicendo che un pittore non faceva
un paesaggio, una marina, un volto, ma che creava l’impres­
sione di un’ora della giornata in un paesaggio, in una marina,
su di un volto l.
È il gioco della luce sull’acqua ad aver suggerito agli im­
pressionisti la nuova tecnica pittorica. Cercando di rendere
il fenomeno della fusione e della decomposizione dei colori
sulla superficie vibrante dell’acqua, essi accostarono sulla
8 CAPITOLO PRIMO

tela pennellate di colori che non erano state precedentemente


mescolate sulla tavolozza, utilizzando solo i colori del prisma,
ed escludendo i toni neutri del chiaroscuro. La combina­
zione di queste macchie creava un’impressione di vibrazione,
cancellava i contorni degli oggetti, dava loro la forma di
« impreciso », « aperto ».
La pittura impressionista sembrava applicare i principi
formulati da Eugène Delacroix nel suo « Journal », in data
13 gennaio 1857: «non ci sono contorni più di quanto
non ci siano pennellate nella natura. Bisogna sempre rifarsi
a dei mezzi stabiliti in ogni arte, che sono il linguaggio di
quell’arte »2. Ma era proprio questo a suscitare la resistenza
più violenta.
Gli impressionisti riabilitavano i sensi e la sensazione spon­
tanea. Si ribellavano contro l’arte impersonale del naturali­
smo accademico, contro la sua ricerca di un’abilità tecnica,
e la sua insensibilità al colore che dava ad ogni cosa la fa­
mosa tinta jus de tabac.
Accadeva all’impressionismo quello che accadeva ad altre
correnti rivoluzionarie: i con temporanei erano colpiti soprat­
tutto da quello che in esso c’era di distruttivo, di contrario
alle abitudini ed ai criteri esistenti, da quello che capovolgeva
la gerarchia dei valori accettati. I sostenitori del realismo tra­
dizionale, legati alla rappresentazione statica della realtà, gli
rimproveravano di dare la precedenza, attribuendo tanta im­
portanza all’impressione passeggera, alla conoscenza senso­
riale su quella intellettuale, alla sensualità sul razionalismo.
Certe conseguenze del metodo impressionista sembravano, in
effetti, giustificare una simile conclusione, ma non i principi
epistemologici della corrente. Gli impressionisti disponevano
solo delle due dimensioni della tela per tradurre tutta la mo­
bilità del mondo, colta dai sensi allo stato bruto, quasi senza
la partecipazione della coscienza. I loro metodi ed il loro
modo di pensare cambiavano nella misura in cui la loro espe­
rienza si arricchiva.
Niente di più interessante, a questo proposito, che seguire,
per esempio, l’evoluzione di Monet, il quale sfruttò tutti i
mezzi di ricerca nella direzione scelta, per approdare infine
al simbolismo. Si potrebbe rimproverare alla sua opera quello
l’impressionismo nella PITTURA DEL XIX SECOLO 9

che Bergson rimproverava all’empirismo: di moltiplicare, cioè,


i punti di vista su un oggetto nella vana speranza di riuscire
a ricostituire l’oggetto stesso mettendoli tutti insieme. Que­
st’obiezione si rivolgeva soprattutto contro l’ambizione della
notazione istantanea dei cambiamenti dei fenomeni nel tempo.
Ma si possono considerare come uno sforzo infruttuoso le
serie di Monet (a partire dal 1891: Les moulins, La gare
Saint Lazare, La cathédrale de Rouen, ecc.)? Ben presto, nel
1895, sarebbe apparso il cinematografo. Monet non aveva
ritardi rispetto allo spirito dei nuovi tempi. Armati delle loro
teorie « scientifiche », che dovevano « perfezionare l’empiri­
smo impressionista con un razionalismo scientifico3 », Seurat e
Signac l’avevano preceduto per il semplice fatto di aver com­
preso che l’impressione ricevuta nel corso dell’osservazione
della realtà era già un atto di coscienza (questo, del resto, è il
punto di partenza della filosofia di Bergson), in altri termini,
che la partecipazione dell’intelligenza non poteva mai essere
esclusa.
Se il realismo accademico rimproverava agli impressionisti
di deformare troppo la realtà, il sintetismo dell’obbedienza di
Gauguin rimproverava loro, invece, una cieca sottomissione
alla natura, che faceva perdere loro di vista lo scopo essen­
ziale dell’artista: l’idea. Questi due atteggiamenti, pur par­
tendo da concézioni estetiche contrarie, dissimulavano, in
fondo, un imbarazzo comune: dove va l’arte se i grandi sog­
getti mitologici, storici ed umani spariscono dalla pittura, in
cui non ci sono più né dèi, né imperatori, né amore, né morte,
in cui «coincidono [...] la cosa contemplata e la contempla­
zione propriamente detta » 4 ?
La gioia con cui gli impressionisti si abbandonavano alla
esplorazione delle ricchezze dei colori che il loro sguardo
« ingenuo » scopriva nella natura, esasperava coloro che si
piegavano ancora sotto il peso dell’eredità romantica. Di qui,
le accuse di narcisismo, di edonismo, di estetismo.
L’opera di Monet, considerata a giusto titolo come l’esem­
pio più puro dell’impressionismo, era certamente più esposta
di altre ad una simile interpretazione. Era quella che spetta­
tori e critici citavano più spesso, parlando di « gioco gratuito
di forme e di colori ». Guardando le cose più a fondo, mi-
IO CAPITOLO PRIMO

stirando il cammino percorso da Monet, dai paesaggi di Hoq-


fleur (1865) fino alla serie delle Ninfee (1907), «Cappella
Sistina dell’impressionismo », come dirà André Masson5, si
esiterà ad attribuirgli motivazioni « edonistiche ».
Fin da Véteuil-Soleil couchant (1901), e forse anche prima,
ne La femme à l’ombrelle (1886), Monet rompe col naturali­
smo impressionista. I suoi colori si rivolgono meno ai sensi
che all’immaginazione ed alla sensibilità, come nei sintetisti
e, più tardi, nei fauves. L’elemento narrativo lascia il posto
al lirismo, il poeta prende decisamente il sopravvento sul cro­
nista degli avvenimenti provocati dal sole nella natura. Con
una passione da esploratore ed il desiderio di arrivare all’es­
senza dei fenomeni, Monet decompone progressivamente la
forma della materia, pietrificata dal tempo di Eraclito; la pol­
verizza in serie di quadri, ne trasforma la sostanza in energia,
un’energia lirica il cui effetto è quasi musicale, per chiuderla
infine in un simbolo universale, l’acqua dello stagno delle
Nymphéas - specchio magico del mondo, « cielo sotterraneo »,
sostanza delle sostanze di cui tutte le altre non sono che attri­
buti 6, ed annuncio profetico del tachisme.
Sono gli impressionisti ad avere iniziato la « smaterializ-
zazione della materia », sono loro ad aver compreso che il
mondo non è essere ma divenire. Come dice A. Hauser, essi
trasformavano la rappresentazione della natura in un processo,
in nascita e passaggio. Marcel Proust è stato uno dei primi a
definire perfettamente questo tratto della loro arte, parlando
a proposito dei quadri di Elstir (cioè di Monet) di « scafi va­
porizzati grazie a un effetto di sole», della «massa [...]
confusa delle case disposte a gradi nella nebbia, lungo il fiu­
me frantumato e scucito », di « scogliere [...] ridotte in pol­
vere, volatilizzate dal calore », di un mare « che più non era
se non un vapore biancastro che aveva perso la consistenza e
il colore ». Nel suo sforzo per « spogliarsi, di fronte alla
realtà, di tutte le nozioni della intelligenza », Elstir riusciva
a dipingere chiese « che, nella lontananza [...] in un polverio
di sole e di onde, parevano uscire dalle acque, soffiate in ala­
bastro o in schiuma e, chiuse nella cintura di un arcobaleno
multicolore, formare un quadro irreale e mistico »; egli aveva
saputo « assuefare gli occhi a non riconoscere una frontiera
l’impressionismo nella PITTURA DEL XIX SECOLO II

fissa, una distinzione assoluta, tra la terra e l’oceano », « in


quella giornata in cui la luce aveva come distrutto la realtà »7.
Quello che l’impressionismo apportava alla cultura della
sua epoca non era un gioco gratuito consistente nello smon­
tare il vecchio meccanismo visivo, ma una lezione di un modo
nuovo di vedere la realtà. Dopo anni di controversie sul va­
lore delle sue scoperte, uno storico contemporaneo rende
omaggio ai suoi meriti; un’opera d’arte si spiega nel modo
migliore non come funzione degli slanci affettivi dell’artista,
ma dei suoi mezzi di conoscenza: « La nuova scuola ha di­
strutto in fretta la tradizione dello spazio scenografico a
piani selettivi e della visione monoculare degli insiemi, per
sostituirle una rappresentazione dello spazio attraverso il par­
ticolare caratteristico, una rappresentazione che presuppone
l’analisi scientifica ed ir rispettosa della vita di ogni giorno.
Gli impressionisti si sono fatti una nuova concezione dello
spazio, tanto perché hanno abbandonato i grandi argomenti
ed il repertorio materiale di accessori del Rinascimento,
quanto perché hanno proceduto all’analisi scientifica delle
qualità della luce. Con ciò, essi hanno spezzato simultanea­
mente gli inquadramenti sociali e le categorie corrispondenti
della rappresentazione teorica del mondo »8.
Certo, non a torto si può dire che dall’arte degli impres­
sionisti emana un ottimismo felice che impedisce di indovi­
nare tanto l’atmosfera dell’epoca quanto le loro amarezze
personali. Ma lo spettatore che abbia superato la soglia che
separa il mondo antico da quello nuovo, saprà apprezzarlo
e potrà provare, contemplando i loro quadri, come Proust
davanti ai paesaggi di Elstir, un tale incanto che non pen­
serà ad altro « che a correre il mondo per ritrovare il giorno
fuggito, nella sua grazia istantanea e dormiente »9. Questo
non autorizza ad accusare gli impressionisti di futilità. Bi­
sogna forse rimproverarli di aver spianato la via, con fede in­
crollabile, all’arte moderna, invece di lamentarsi delle disgrazie
del loro tempo?
Proprio perché toccava tutto un insieme di problemi este­
tici e filosofici che maturavano da molto tempo, quest’arte,
che si supponeva spensierata, apportava elementi che non solo
gli altri rami dell’arte, ma anche diversi campi della cono­
12 CAPITOLO PRIMO

scenza, avrebbero utilizzato per anni. Visto unicamente come


manifestazione di una sensualità esuberante che metteva in
pericolo la supremazia della ragione, l’impressionismo poteva
effettivamente essere considerato un fatto rappresentativo
della tendenza decadente che annunciava il prossimo crepu­
scolo della cultura (Spengler), mentre invece recava con sé
elementi costruttivi del più alto valore.
Volendo rappresentare il mondo in tutta la sua mobilità,
gli impressionisti prendevano progressivamente coscienza del
fatto che l’essere reale degli oggetti appare solo nei loro rap­
porti reciproci, rapporti ai quali partecipa, evidentemente, il
soggetto della conoscenza. L’impressionismo annunciava cosi
una nuova visióne del mondo ed un nuovo modo di conoscen­
za, per il quale il mondo è un sistema di forze interdipendenti,
mentre l’uomo è, nello stesso tempo, osservatore ed una delle
forze che agiscono. Esso è all’origine dell’atteggiamento che
rifiuta di separare il mondo dalle visioni del mondo, poiché,
per citare Maurice Merleau-Ponty: « Il mondo è tutto dentro
e io sono tutto fuori di me [...]. Il mondo è il campo della
nostra esperienza [...]. Io sono un campo, sono un’espe­
rienza » ,0.
Senza ricordare i presupposti epistemologici dell’estetica e
della tecnica impressioniste, non si può comprendere il ruolo
che questa corrente artistica avrebbe avuto nella cultura con­
temporanea, spianando la strada al bergsonismo, creando con
esso il « clima metodologico » in cui potrà svilupparsi il pen­
siero matematico puro, « liberato dal realismo » e, con esso,
la fisica relativista. Nella cultura di tensioni e di crisi del­
l’epoca che sarebbe seguita, le regole cartesiane della cono­
scenza dovevano lasciare il posto a metodi più elastici, più
adatti a cogliere il dinamismo dei processi naturali e storici,
ed il loro carattere drammatico.

1 courthion e cailler, Manet raconté par lui-ménte et par ses amis,


Genève 1945.
2 eugène delacroix, Journal, 1822-1862, Paris 1932, voi. in, p. 18.
NOTE

3 Bernard DORIVAL, Les étapes de la peinture fran^aise contemporaine,


t. 1, De I’impressionnisme au fauvisme, Paris 1948, p. 226.
4 Lionello venturi, Qu’est-ce que I’impressionisme?, in « Laby­
rinth », n. 11, Genève 1945.
5 Citazione tratta da j. leymarie, L’impressionnisme, Genève 1955,
voi. 11, p. 115.
6 gaston bachelard, L’Eau et les Réves. Essai sur [’imagination de la
matière, Paris 1942, p. 203.
7 marcel proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, tr. it. Einaudi,
Torino 1974, pp. 441, 444, 306, 507, 444, 440, 440-441, 306.
8 Pierre francastel, Peinture et societé. Naissance et destruction
d’un espece plastique. De la renaissance au cubisme, Lyon 1951, p. 171.
9 MARCEL PROUST, Op. dt., p. 507.
10 Maurice merleau-ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it.
Il Saggiatore, Milano 1972, pp. 520-522.
II.
Significato dato al termine « impressionismo »
in storiografia musicale

Il termine « impressionismo » è stato applicato per la prima


volta alla musica di Debussy nel rapporto del segretario del-
l’Accademia di Belle Arti, alla fine del 1887. Usato in senso
peggiorativo, esso designava il secondo « invio romano » di
Debussy, la suite in due parti, per voci di donna (cori « a bocca
chiusa ») ed orchestra, intitolata Printemps. « Il sig. Debussy
- cito un brano di quel rapporto - non pecca sicuramente né
di piattezza né di banalità. Proprio al contrario, ha una ten­
denza spiccata, anzi, troppo spiccata, alla ricerca della stra­
nezza. Si riconosce in lui un senso del colore musicale la cui
esagerazione gli fa facilmente dimenticare l’importanza della
precisione del disegno e della forma. Sarebbe molto auspicabile
che egli stesse in guardia contro questo vago « impressioni­
smo », che è uno dei più pericolosi nemici della verità nelle
opere d’arte »
Questa prima opinione sull’impressionismo di Debussy, che
del resto passò quasi inosservata negli ambienti musicali, non
è priva d’importanza nella misura in cui, sottolineando nel­
l’opera la supremazia del colore musicale sul disegno e la for­
ma, permetteva di trarre conclusioni riguardo all’estetica del
compositore e di confrontarle con le sue intenzioni.
Perché i membri dell’Accademia di Belle Arti hanno cer­
cato in Printemps analogie con la pittura degli impressionisti,
perché denunciavano le sue presunte tendenze « impressioni-
ste »? Senza dubbio, per sottolineare il carattere di stridente
novità dell’opera. Sfortunatamente, la partitura è scomparsa.
Disponiamo solo di un estratto per piano e canto, che non può
dare un’idea esatta dell’aspetto sonoro dell’originale. La
versione orchestrale senza cori, elaborata molto più tardi
SIGNIFICATO DATO AL TERMINE « IMPRESSIONISMO » 15

(1913) sulla base di quest’estratto di H. Biisser, non può es­


serci di grande aiuto. Ma, fin da quel primo importante brano
a carattere monotematico con variazioni, appare il tratto fon­
damentale della personalità artistica di Debussy: il rifiuto delle
convenzioni laddove esse disturbano i suoi fini. È evidente
che questo non poteva non indisporre i membri dell’Accade-
mia di Belle Arti. Il vincitore del Gran Premio di Roma che
avevano appena incoronato, manifestava, infatti, una grande
disinvoltura nei riguardi delle regole generalmente ammesse.
Non contento di essere passato sopra alla raccomandazione
di Saint-Saèns, che consigliava di evitare la tonalità fa die­
sis maggiore, « fastidiosa per l’orchestra »2, egli si permet­
teva di usare motivi melodici che non rientravano nelle cate­
gorie minore-maggiore, scale di quattro e cinque toni, gamme
per toni intéri, cadenze piagali, accordi perfetti mescolati con
accordi di settima, successioni di none e di terze aumentate e,
infine, di trattare la voce umana come uno strumento (voca­
lizzi a larghi intervalli, ritmi complicati).
Tutti questi mezzi, insoliti a quell’epoca, gli servivano
forse, come ci si poteva aspettare da parte di un « impressio­
nista », a cogliere le sensazioni passeggere che provava a
contatto con la natura? I suoi biografi affermano che era la
Primavera del Botticelli ad avere ispirato il suo Printemps.
Eppure, egli stesso aveva definito le sue intenzioni con la
massima precisione nella sua lettera datata Roma, 9 febbraio
1887, indirizzata al libraio parigino Émilie Baron: « mi sono
messo in testa di fare un’opera in un colore speciale, che
deve dare le maggiori sensazioni possibili. È intitolata:
Printemps, non più la primavera presa in senso descrittivo,
ma dal lato umano. Vorrei esprimere la genesi lenta e fati­
cosa degli esseri e delle cose nella natura, poi il rigoglio che
sale e si conclude con una gioia radiosa di rinascere, in qual­
che modo, ad una nuova vita. Tutto ciò naturalmente è senza
programma, poiché io ho un disprezzo profondo per la mu­
sica che deve seguire un piccolo brano di letteratura che ci si è
premurati di farvi avere all’entrata. Allora capirete che po­
tere evocatore deve avere la musica, e non so se potrò riu­
scire ad eseguire perfettamente questo progetto 3 ».
In questo commento d’autore, del tutto eccezionale in De­
16 CAPITOLO SECONDO

bussy, niente indica Patteggiamento di un « impressionista »


innamorato della spontaneità, ciecamente fiducioso nella te­
stimonianza dei suoi sensi. I suoi intenti creativi hanno tratti
eminentemente letterari e si scostano poco dai principi « nor­
mativi » dell’opera musicale di certi romantici. Tuttavia, per
lui, non si tratta affatto di una Tonmalerei, egli non tenta di
descrivere quello che ha sotto gli occhi, ma di rendere con
mezzi musicali l’idea del risveglio della vita, dell’espansione
delle forze addormentate della natura e di una delle sue crea­
ture - l’uomo; cerca di liberare l’idea puramente astratta sim­
boleggiata per noi dalla parola « primavera ». In altri ter­
mini, non si tratta per Debussy di suggerire una giornata o
una primavera precise, ma la primavera in quanto tale, l’es­
senza del fenomeno a cui diamo questo nome.
Così, come sarebbe difficile vedere dell’* impressionismo »
nell’atteggiamento estetico di Debussy del Printemps, il solo
tratto che avrebbe potuto giustificare i timori dei membri del-
l’Accademia di Belle Arti, che temevano per il loro candidato
l’influsso « nefasto » della corrente, è, in linguaggio musicale,
la tecnica secondo cui il compositore organizza il materiale
sonoro. Ma la scelta di una tecnica personale che permetta di
caratterizzarlo non è sufficiente per decidere della sua ap­
partenenza artistica. Gli stessi mezzi possono servire a fini di­
versi, e noi sappiamo, d’altronde, che quasi tutti i mezzi con­
siderati a quell’epoca come « innovazioni » di Debussy erano
già stati usati o prendevano origine da musiche esotiche. La
scelta dei mezzi non è un criterio valido per definire lo stile
di una creazione *se non quando è messa a confronto con il
fine estetico a cui si mira, con la situazione storica della mu­
sica di Debussy e soprattutto il modo con il quale egli si
serviva delle sue innovazioni ne facevano, agli occhi dei mem­
bri dell’Accademia, un fenomeno totalmente differente da
tutto quello che conoscevano nell’ambito della musica con­
temporanea, ormai alla fine del romanticismo. Cosa che li in­
citava a mettere in guardia il giovane contro l’influsso del­
l’impressionismo, termine che era allora sinonimo di « arte
rivoluzionaria », contraria alle leggi del buon senso. Parecchi
anni dopo, Émile Vuillermoz scriverà: « Se la parola “ bolsce­
vico ” fosse già stata inventata a quell’epoca, sarebbe stata
SIGNIFICATO DATO AL TERMINE * IMPRESSIONISMO » 17

applicata senza esitare a quel ragazzaccio che osava inserire


sei diesis in chiave. Ma la lingua francese non si era ancora
arricchita di questo comodo termine e uno dei giudici di De*
hussy, Camille Saint-Saèns, scriveva ancora innocentemente
un'ouverture in onore di Spartacus, senza sospettare che lui
e lo spartachismo, un giorno, non sarebbero andati granché
d’accordo »4.
Il significato peggiorativo dato alla parola « impressioni­
smo » non era senza rapporto con la campagna ideologica che
le tendenze conservatrici conducevano accanitamente su tutti
i fronti dell’arte contro la corrente responsabile del cambia­
mento che si produceva negli atteggiamenti e nel pensiero ar­
tistici. Ma via via che la pittura impressionista guadagnava ter­
reno, l’epiteto incriminato cessava di essere solo uno spaurac­
chio; cominciava ad essere usato in senso favorevole. È inte­
ressante seguire questo voltafaccia, perché getta una certa luce
sulla nascita del concetto di « impressionismo musicale » nello
spirito dei con temporanei di Debussy. Naturalmente, noi ci li­
miteremo a citare solo le opinioni più significative.
Se si eccettua il rapporto del segretario dell’Accademia di
Belle Arti, il termine viene applicato alla musica di Debussy
a partire dal 1894. L’occasione è data dall’esecuzione a Bru­
xelles della cantata La demoiselle élue su di un testo tradotto
in francese del preraffaellita inglese Dante Gabriele Rossetti
e di altre due opere: il ciclo di melodie Proses lyriques su
parole del compositore e Le quatuor per archi. Malgrado tutta
la cortesia dei critici belgi nei riguardi di un compositore sco­
nosciuto, il Kufferath, della « Guide musical », non mancava
di rimproverare a Debussy il suo pointillisme, e vedeva nel
Quatuor una parentela di maniera con « le tele dei neo-nippo-
fili di Montmartre », mentre le Proses lyriques gli sembra­
vano a tratti « una pura cacofonia ». Un critico anonimo del
« Patriote » lodava « l’impressionismo » del Quatuor. Sol­
tanto Octave Maus - uomo di lettere belga, animatore di
avanguardia, fondatore del settimanale « L’art moderne »
(1881), e dell’associazione La Libera Estetica - evitava il ter­
mine e sottolineava il carattere « classico » del Quatuor, pur
vedendo in esso un « torrente di giovinezza, di audacie ar­
moniche, di risoluzioni impreviste » 5.
18 CAPITOLO SECONDO

L’esecuzione a Parigi (il 22 dicembre del 1894) del Pré-


lude à Vaprès-midi d’un faune non incita i critici a divagazioni
comparative, sebbene l’articolo dell’autore nel programma
sembri invitarli a questo; ma i tre Nocturnes per orchestra,
presentati a Parigi il 27 ottobre del 1901, provocano un’on­
data di associazioni extramusicali. Uno dei commenti più in­
teressanti è senz’altro il resoconto del critico del « Courrier
musical », Jean d’Udine, che, prima di diventare « dalcrozi-
sta » si era dedicato alla ricerca dei rapporti tra i suoni e i
colori, ed aveva anche pubblicato qualche studio su questo
problema6. Diceva, fra l’altro, nel suo articolo: «Non si po­
trebbe immaginare una sinfonia più sottilmente impressioni­
sta. Fatta tutta di macchie sonore, essa non s’iscrive nella si­
nuosità di curve melodiche definite, ma i suoi concatenamenti
di timbri e di accordi - la sua armonia, direbbero i pittori -
le conservano pur sempre una sorta di omogeneità, rigorosis­
sima, che sostituisce la linea con la bellezza altrettanto plastica
di sonorità distribuite sapientemente e sostenute logicamen­
te... ». Dei tre Nocturnes, d’Udine ha preferito il secondo,
Fetes, poiché la sua musica lo faceva pensare ad un « verlai-
nismo alla Fragonard »7.
Introdotta da alcuni critici, l’idea di una parentela fra la
pittura impressionista e la musica di Debussy si faceva strada
nello spirito del pubblico, che aveva già avuto il tempo di fa­
miliarizzarsi con l’arte di Monet, di Pissarro e di Sisley, ed
anche con la pittura post-impressionistica; ne troveremo la
prova nell’articolo di Camille Mauclair, critico sempre at
tento ai gusti dei lettori, pubblicato nel 1902 nella « Revue
bleue ». Mauclair - che si credeva in diritto di pronunciarsi
su tutti i problemi artistici, mentre Gauguin8 ne smascherava
l’incompetenza pericolosa per le imprese d’avanguardia - non
ha aggiunto granché alla formula dell’« impressionismo di
macchie sonore » della musica di Debussy, ma, da solo, il ti­
tolo del suo articolo: La peinture musicienne et la fusion des
arts9, indicava già la direzione che l’evoluzione dell’arte in
generale stava prendendo.
Più esigenti, i compositori conservatori erano i soli a rifiu­
tare la formula stilistica imprecisa trasposta dal campo pittori­
co a quello musicale. Avrebbero preferito disporre di una
SIGNIFICATO DATO AL TERMINE « IMPRESSIONISMO » 19

chiave meglio assortita per quell’opera che provocava in loro


un costante imbarazzo. La costernazione in cut i Nocturnes.
per esempio, li hanno gettati si riflette in una lettera di Vin­
cent d’Indy: il direttore della Schola Cantorum cerca di tro-
vare la formula che permetta di definire quei pezzi, e constata
con irritazione che, in fondo, essi sfuggono a tutte le catego­
rie scolastiche: «Sonata. Nemmeno per sogno. [...] Suite.
Meno che mai. Poema sinfonico. Malgrado i titoli Nuages,
féiet Sirènes, [...] denominazioni molto vaghe, nessun program­
ma letterario, nessuna spiegazione d’ordine drammatico viene
ad autorizzare gli scarti di tonalità e le escursioni tematiche,
piacevoli ma non coordinate, di questi tre pezzi [...] Esisto­
no, quindi devono essere da noi classificati. Dove? Nella fan­
tasia, non vedo altro posto»10.
Le rigide opinioni di d’Indy, che un tempo si era avuto l’ar­
dire di considerare pari a Debussy, si sarebbero presto trasfor­
mate in un’ostilità non dissimulata dopo la creazione di Pelléas
et Mélisande. Allora egli non esiterà a dichiarare: « Questa
musica non vivrà perché non ha forma » 11. Le sue opinioni
avrebbero preso ben presto una piega ancora più virulenta nel
suo manuale di composizione, ma, anche in quel caso, sebbene
la nozione d’« impressionismo » fosse già penetrata nel suo
animo, d’Indy si astiene dall’usare questo termine: « L’estetica
di Debussy è un’estetica di sensazioni e questo è un princi­
pio poco compatibile con il vero fine della grande arte. [...]
Debussy è stato un apostolo del sensazionismo armonico, cosi
come Rossini lo era stato in campo melodico. Le sue armonie
non hanno elevato le menti ed i cuori più di quanto non ab­
biano fatto le cavatine del Barbiere, scritte per mettere in ri­
salto il fascino e l’agilità di una voce. In questo, quest’arte è
inferiore » 12.
Intorno all’anno 1905, il termine « impressionismo » è già
comunemente usato in Francia, a proposito della musica di
Debussy. Nell’animo del pubblico comincia a prendere forma
l’idea di uno stile musicale nuovo, così chiamato dai critici,
ma quest’idea è ancora lontana dalla precisione che avrebbe
acquisito in seguito. Nel corso delle battaglie ideologiche, nel­
l’arte, prima che cominci a sparare l’artiglieria pesante della
letteratura con ambizioni scientifiche, i critici incrociano con
20 CAPITOLO SECONDO

l’avversario armi più leggiere. I critici francesi avevano al-


l’incirca foggiato il termine « impressionismo musicale », ma
sono soprattutto gli autori tedeschi che, partendo dall’analisi
strutturale dell’opera di Debussy, gli hanno fornito basi scien­
tifiche.
Questo non significa affatto che in Francia non siano stati
intrapresi studi sui mezzi musicali di Debussy (basterebbe ci­
tare quello di René Lenormand sull’armonia moderna 1IJ, rima­
sto a lungo l’opera fondamentale in questo campo), ma essi
non erano approfonditi sufficientemente per servire di base a
considerazioni estetiche di ordine più generale. Debussy non
era un caso unico nel suo paese, nella misura in cui nutriva
una vera e propria avversione per i trattati infarciti di ana­
lisi tecniche; era del parere che, quando si tratta della bellez­
za di un’opera d’arte, in ogni modo « non si potrà mai verifi­
care come la cosa è fatta » 14 (quindi che bisogno c’è di ana­
lisi particolareggiate?). La tendenza a dividere le scienze
umane nei compartimenti stagni di specialità ristrette, in cui
lo scopo comune e la coscienza dei legami che uniscono tra
loro le discipline affini si perdono spesso in particolarità di
linguaggio, era sempre stata contraria allo spirito francese.
Completamente libero dal « complesso scientifico », caratte­
ristico degli uomini e delle nazioni che avevano una tradizione
culturale meno ricca, il pensiero umanista francese non si
chiudeva mai in torri d’avorio, non coltivava la scienza per
se stessa o per una piccola cerchia di eletti. Al contrario,
poco preoccupato di esporsi al rimprovero di superficialità,
esso aveva sempre manifestato il bisogno di un contatto con
il « consumatore » della cultura, che esso voleva servire e
non opprimere con la sua erudizione. Di qui, le sue debolezze,
forse, ma anche i suoi indiscutibili meriti, che non è qui il
caso di attestare.
Come abbiamo appena detto, il concetto di « impressioni­
smo musicale » deve soprattutto ai tedeschi, ed alla loro incli­
nazione a classificare i fenomeni artistici, il fatto di avere ac­
quisito solide basi, almeno in apparenza, e di essersi ancorato
nel vocabolario e nella letteratura musicologici. Tutto è co­
minciato con lo studio dei legami esistenti fra i diversi campi
dell’arte e la pittura impressionista, studio diventato di moda
SIGNIFICATO DATO AL TERMINE « IMPRESSIONISMO » 21

grazie al libro di Richard Hamann, celebre a quell’epoca, Iw-


pressionismus in Leben und Kunst (1907). Sebbene, esten­
dendo la categoria stilistica di impressionismo a tutta la pit­
tura dell’epoca, compreso il « divisionismo » (Seurat, Signac),
Hamann sia arrivato a conclusioni apparentemente parados­
sali - percepisce tratti « impressionistici » nell’opera di Wag­
ner, Liszt, Bruckner, Wolf, Reger e Strauss, mentre passa
sotto silenzio quella di Debussy - egli è, nondimeno, il pri­
mo a tentare di allargare la nozione di stile impressionista at­
traverso analisi di struttura. Cosi, per esempio, negli accordi
a grande volume e nei frequenti accordi dissonanti, egli vede
una parentela con la tecnica dei piccoli tocchi di colore giu­
stapposti, mentre la scomparsa della tonalità gli ricorda la
mancanza di prospettiva dei quadri degli impressionisti ”,
ecc.
L’opera di Hamann ha contribuito a specificare e ad allar­
gare l’uso della nuova categoria stilistica. Fin dal 1911, Wer­
ner Weisbach vedeva neU’impressionismo non più una cor­
rente che aveva origine nella seconda metà del xix secolo, ma
una categoria più generale che egli ritrovava nell’arte antica,
nella pittura del Tintoretto, di Goya, di Hokusai16. Un anno
dopo uscirà lo studio di E. Koehler sui fratelli Goncourt, pio­
nieri dell’impressionismo letterariol7, subito completato da
analisi particolareggiate della sintassi e dello stile dei Gon­
court 18. La tesi di Hamann e di Weisbach troveranno una
viva eco nella celebre opera di Oswald Spengler, che annun­
cia il declino della cultura occidentale. È da notare che Spen­
gler, come del resto Hamann, parlando dell’impressionismo
musicale, si ferma a Wagner ed a Bruckner 19.
Se la musicologia tedesca antecedente alla prima guerra
non aveva fatto molti progressi nella direzione indicata da
Hamann e da Weisbach (il che spiega alcuni difetti dell’opera
di Hamann, che non era musicista), è soprattutto perché P
opera di Debussy, a quell’epoca, era ancora poco conosciuta in
Germania. Solo nel periodo post-bellico dovevano moltiplicarsi
gli studi analitici intesi a provare che l’« impressionismo » di
Debussy non si riconduceva ad una somiglianza superficiale,
ma era una categoria stilistica fondata su basi scientifiche. La
lunga serie di queste opere si apre col libro di Ernst Kurth
22 CAPITOLO SECONDO

sull’armonia romantica e la sua crisi nel Tristano di Wagner


(1920); quest’opera avrebbe avuto un ruolo decisivo nella
musicologia, e perfino al di là della Germania, grazie alla sua
ricchezza d’idee ed all’uso di metodi di analisi molto convin­
centi. Senza correre il rischio di esagerare si può affermare
che lo sviluppo della musicologia, durante un quarto di secolo
almeno, avverrà sulla base delle idee di Kurth, sia approfon­
dendole sia combattendole. Il punto di vista di Kurth sulla
musica di Debussy ha avuto un grande influsso sul modo di
comprendere il suo ruolo e la sua portata per la storia della
musica recente. Partendo dal principio che lo sviluppo della
forma musicale dipenda, in fondo, da un’energia psichica im­
manente che turba costantemente, e anzi rompe e distrugge il
sistema armonico razionalizzato e funzionale, Kurth dimo­
strava che l’energia cinetica rappresentata dalla melodia aveva
raggiunto il suo apogeo con la musica dei romantici, per tra­
sformarsi sempre più, a partire dal Tristano, in un’energia po­
tenziale, facilmente assimilata dalla sonorità pura a carattere
colorista; questa tendenza sarebbe giunta fino al culmine nel
la musica di Debussy. Kurth arrivava alla seguente conclusione:
« la strada di Debussy passa per Wagner, sebbene lui stesso
[...] si sia posto come obiettivo quello di liberare la musica
dall’influsso di Wagner » 21.
Unendo Debussy a Wagner in una stessa corrente decadente,
e insistendo sull’armonia come elemento quasi essenziale del
metodo di composizione di Debussy, Kurth sembrava confer­
mare le tesi di Hamann, ed indicare la direzione principale
che avrebbero dovuto prendere le ricerche analitiche se vole­
vano arrivare alla scoperta del « vero volto » della musica di
Debussy. Aveva dunque avuto ragione S. von Hausegger
quando, dieci anni prima, accettando di redigere con due scri­
bacchini parigini un pamphlet diretto contro Debussy, par­
lava di una musica effeminata, bizzarra, decadente, una musica
senza avvenire e senza melodia, né ritmo, né forma L’arti­
colo era cattivo e caricaturale, ma né gli studi « oggettivi » di
L. Fabian, che affermavano che l’armonia era per Debussy il
primo impulso creatore, mentre la melodia era secondaria23,
né quelli di W. Harburger, che vedeva l’unico criterio dell’im­
pressionismo musicale nella negazione di qualunque principio
SIGNIFICATO DATO AL TERMINE « IMPRESSIONISMO » 23

costruttivo24, modificavano per nulla il nocciolo della que­


stione. Dalle prime opere di Werner Danckert, che ricono­
sceva in Liszt il padre dell’impressionismo musicale allo stesso
titolo di Wagner25, passando attraverso le dissertazioni di H.
Kòlsch, Otto Wartisch, Heinz Giinter Schultz o Jacobik e
molti altri che fanno incidentalmente il nome del compositore
di Pelléas et Mélisande, tutti gli autori si riferiranno soprat­
tutto e quasi esclusivamente all’armonia per annettere Debussy
all’impressionismo. '
Molti anni dopo, in una conferenza dedicata alla musica do­
decafonica, pronunciata all’Università di California a Los An­
geles, nel marzo del 1941, Arnold Schonberg dirà: « L’armo­
nia di Richard Wagner aveva provocato un mutamento nella
funzione logica e costruttiva dell’armonia, di cui il cosi detto
uso impressionistico delle armonie, praticato soprattutto da
Debussy, fu una conseguenza. Prive di funzioni costruttive, le
armonie debussyane hanno spesso soddisfatto un intento colo­
ristico volto a esprimere stati d’animo e immagini: immagini
e stati d’animo che, pur d’ordine extramusicale, divennero ele­
menti costruttivi incorporati nelle funzioni musicali » 26.
Il metodo fenomenologico di analisi musicale che, nel caso
di Kurth, prendeva come punto di partenza l’opera in quanto
campo di conflitti di energie, nel caso di Mersmann, in quanto
« organismo » in cui agiscono « forze tettoniche »27, era un
tentativo di conciliare l’analisi con un’ermeneutica sui generist
di gettare un ponte fra l’opera e la sua percezione, ed è cosi
che si spiega il suo successo in musicologia. Ma, trattandosi
di Debussy, le conclusioni a cui arrivano i seguaci di questo
metodo non si allontanavano sensibilmente dai risultati ai
quali erano giunti in precedenza i critici francesi, seguendo la
loro intuizione. L’immagine dell’impressionismo musicale e
dell’opera di Debussy, cosi come i musicologi l’hanno fissata,
sembra vicina a quella che Émile Vuillermoz presentava al­
l’ascoltatore francese: « Il meccanismo della teoria di Bergson
corrispondeva esattamente a quello che animava le ricerche
di Claude Monet o di Debussy: sostituite la parola “ coscien­
za ” con “ percezione ”, ed avrete i fondamenti filosofici del­
l’impressionismo pittorico e musicale. [...] Essere impressio­
nista, vuol dire cercare di tradurre e di trasporre nel vocabo­
24 CAPITOLO SECONDO

lario delle linee, dei colori, dei volumi o dei suoni non l’aspetto
esteriore e realista delle cose, ma le impressioni che esse ri­
svegliano nella nostra sensibilità. Vuol dire raccogliere il loro
linguaggio più segreto, le loro confidenze più intime, vuol dire
captare le loro irradiazioni, ascoltare le loro voci interiori. Poi­
ché le cose vedono, le cose parlano, le cose hanno un’anima.
L’impressionismo è il modo d’espressione che può vantarsi di
servire meglio questa verità, poiché arriva a coglierla al di là
delle apparenze. [...] Tristano era già una forma anticipata del­
l’impressionismo del cuore, che trattava l’amore come un pae­
saggio incantato di cui descriveva con compiacimento le sfu*
mature più sottili e, se cosi si può dire, le illuminazioni più
misteriose » ffl. Affrontando opere concrete, Vuillermoz descri
veva, per esempio, la seconda serie delle Images per piano­
forte (Cloches à travers les feuilles. Et la lune descend sur le
tempie qui jut e Poissons d'or): « Questi titoli che propon­
gono alla nostra immaginazione argomenti precisi si applicano,
in realtà, a studi tecnici molti approfonditi, corrispondenti ai
procedimenti “ divisionisti ” dei pittori. Debussy intraprende
qui una dimostrazione quasi scientifica della struttura im­
pressionista, soprattutto nel suo primo quadro. [...] Quello
che il musicista vuole captare è il cammino nell’aria delle onde
sonore, che si incontrano dispiegando i loro ventagli, si scon­
trano, si fondono, diventano iridescenti attraverso i loro con­
tatti, e vaporizzano poesia e sogno. Le campane delle catte­
drali vibratili di Claude Monet debbono avere la loro parte
in questa orchestrazione fremente di cui la sordina del foglia­
me decompóne e dissemina le sfumature più fini. Ed è utiliz­
zando abilmente la gamma per toni che Debussy è riuscito
a realizzare quest’analisi spettrale del suono, che è quasi una
esperienza di laboratorio e che rimane, da un capo all’altro,
uno stupefacente incantesimo musicale » 29.
Ci si potrebbe semplicemente domandare in che misura sia
giustificata questa spegazione che si fonda su una tradizione
cosi lunga e su un numero cosi grande di studi importanti, e
in che misura corrisponda a verità. Prima di rispondere a
questa domanda, dobbiamo fermarci su un problema che è im­
possibile evitare, quando si vogliano verificare le opinioni
profondamente scolpite nella coscienza sociale.
NOTE ^5
1 Rapporto del segretario a vita dell’Accademia di Belle Arti del 1887,
in « Les arts fran^ais », n. 16, 1918, p. 92.
2 Émile vuillermoz, L’oeuvre symphonique de Debussy, in « Musica-
album », Paris s.d.
3 Citazione tratta da F. ambrière, La vie romaine de Claude Debussy,
in « La revue musicale », n. 142, gennaio 1934, p. 24.
4 Émile vuillermoz, L'aeuvre symphonique, cit.
5 Citazione tratta da léon vallas, Claude Debussy, Paris 1938, pp.
I75-V7-
6 Fra l’altro, La correlation des sons et des couleurs en art (1897) e
L*orchestration des couleurs (1903).
7 LEON VALLAS, Op. dt., pp. 213-2I4.
8 Lettera ad A. Vallette, Tahiti, luglio 1896, in « Mercure de France »,
n. 999-1.000, dicembre 1946, pp. 220-222.
9 camille mauclair, La peinture musicienne et la fusion des arts,
in « Revue bleue », 6 settembre 1902.
10 Lettera ad A. Serieyx, in: léon vallas, op. cit., p. 211.
11 Émile vuillermoz, Claude Debussy, Genève 1957, p. 94.
12 Vincent d’indy, Cours de composition musicale, Paris 1933, voi.
in. Aggiungiamo, in proposito, che i rapporti di Debussy e di d’Indy,
improntati in apparenza ad un rispetto reciproco, nascondevano una pro­
fonda antipatia, dovuta alle loro idee estetiche completamente opposte.
Non sono i resoconti « cortesi » di Debussy a svelarci le sue opinioni su
d’Indy, ma le testimonianze di R. Peter, C. Koechlin ed É. Vuillermoz.
13 rené lenormand, Étude sur Tharmonie moderne, in « Monde mu­
sical », xxiv (1913), Paris.
14 Claude Debussy, Du go&t, in « Revue musicale s.i.m. », febbraio
1913.
15 Richard hamann, Der Impressionismus in Leben und Kunst, Koln
1907, p. 64.
16 Werner weisbach, Impressionismus. Ein Problem der Molerei in
der Antike und Neuzeit, Berlin 1910-1911, 2 voli.
17 E. koehler, E. und J. de Goncourt, die Begriinder des Impressio­
nismus, Leipzig 1911.
18 g. loesch, Die impressionistische Syntax der Goncourt, Erlangen
1919.
19 Oswald spengler, Il Tramonto delVOccidente, tr. it. Longanesi,
Milano 1957.
20 Ernst kurth, Romanesche Harmonik und ihre Krise in Wagners
« Tristan », Bern-Leipzig 1920.
21 Ivi, p. 351.
22 c.-F. caillard e j. de bérys, Le cas Debussy, Paris 1910, pp. 84-87.
23 L. fabian, Claude Debussy und sein Werk, Miinchen 1923, p. 26.
24 w. harburger, Form und Ausdrucksmittel in der Musik, Stuttgart
1926, p. 127.
26 CAPITOLO SECONDO

25 Werner danckert, Liszt als Vorlàufer des musikalischen Impressio-


nismus, in «Die Musik », 1929, p. 341.
26 Arnold schònberg, Composizione con dodici note, in Stile e idea,
tr. it. Feltrinelli, Milano i9602, p. 107.
27 Hans mersmann, Angewandte Musikasthetik, Berlin 1926.
28 Émile vuillermoz, Claude Debussy, cit., pp. 39, 33, 34, 37.
29 Ivi, p. 120.
III.
Il simbolo nell’arte

Tentativo di definizione

Le diverse forme di attività umana, e cosi anche Parte, tro


vano il loro punto di partenza nel sistema di azioni e reazioni
proprio di ogni epoca. Prendendo come esempio lo sviluppo
della prospettiva, legato a quello delle teorie matematiche
sullo spazio, Erwin Panofsky ha dimostrato, fin dagli anni
venti, che la nascita delle convenzioni artistiche corrisponde
esattamente ai principi ed ai modi di pensare di una data
epoca. Le opere d’arte presentano una doppia dipendenza di
funzione: da una parte, la relazione « realtà-immaginazione »,
dall’altra, quella « artista-pubblico ». Ecco perché l’analisi del­
la struttura della comunicazione artistica è d’importanza ca­
pitale per lo studio e la conoscenza delle strutture delle idee
e delle strutture sociali.
Uno dei mezzi principali di cui l’artista si serve per toccare
la nostra sensibilità e comunicarci la sua esperienza è il sim­
bolo. Il significato vasto che Cassirer dà a questo concetto lo
rende improprio per quanto riguarda l’estetica. In effetti, se­
condo Cassirer, il simbolo è un « veicolo sensibile di conte­
nuti spirituali » l. Ora, in questa definizione, scompare uno
dei tratti essenziali del simbolo, importante soprattutto per
l’arte, quello che lo distingue da un segno o da un segnale,
ossia che esso « veicola il contenuto spirituale » indiretta­
mente; di più, esso veicola il contenuto che non è pienamente
costituito. Fra le modalità della funzione simbolica (espres­
sione, rappresentazione e significazione pura), Cassirer ha tra­
scurato la funzione fondamentale dell’arte, quella suggestiva,
che non può essere assimilata alla funzione espressiva (iden­
28 CAPITOLO TERZO

tità del fattore sensibile e del contenuto spirituale), caratte­


ristica del mito, ma non di tutta Parte, come vorrebbe Cas­
sirer. La funzione rappresentativa (definita come fattore sen­
sibile che rappresenta un contenuto ideale), sarebbe più ap­
propriata, soprattutto se si ammette la distinzione fra la rap­
presentazione diretta e quella indiretta.
Nemmeno la definizione di simbolo di F. W. Leakey, per il
resto corretta, ci pare sufficiente: « Metafora il cui primo ter­
mine è astratto ed il secondo concreto »2. In effetti, essa non
lascia indovinare niente della ricchezza e dell’originalità dei
tentativi di comunicazione immediata intrapresi dalla poesia
recente e dall’arte a partire da Mallarmé e Gauguin. Inoltre,
se si accetta questa definizione, non si distingue il simbolo
dall’allegoria, che può, in fondo essere considerata un mezzo
semanticamente equivalente. I poeti stessi non avevano sem­
pre coscienza di tale differenza. Di qui, tanti cigni, sirene,
fauni e vergini nelle poesie di molti simbolisti francesi. Uno
specialista contemporaneo di questa scuola dice, non senza ra­
gione, che i suoi rappresentanti si alleavano con i pittori piut­
tosto che con i musicisti3.
Se la differenza tra l’allegoria ed il simbolo si distingue
male nei poeti minori, se ne sentiva nondimeno il bisogno.
Ne troviamo la prova in quest’articolo di un critico di se-
cond’ordine, sottratto all’oblio da Guy Michaud: « L’allegoria
è sempre didattica; il suo doppio significato è solo un velo
di civetteria; essa non è affatto spontanea, ma meditata, vo­
luta, figlia del ragionamento e non dell’ispirazione, rivolta al
pensiero più che al sentimento »4.
Già Goethe faceva una chiara distinzione fra questi due
modi di comunicazione indiretta, e senza dubbio fu anche
il primo a dare del simbolo una definizione vicina a quella che
ne diamo oggi: « L’allegoria trasforma il fenomeno in con­
cetto, il concetto in immagine, ma in modo tale che il con­
cetto non può essere dato, confermato o espresso nell’imma-
gine, se non’ in modo sempre limitato ed incompleto. Il sim­
bolo trasforma il fenomeno in idea e l’idea in immagine, ed
è in questo modo che l’idea nell’immagine agisce all’infinito
e resta inafferrabile; anche se espressa in tutte le lingue,
essa resterà sempre inespressa »5.
IL SIMBOLO NELL’ARTE ^9

Due tratti principali del simbolo sono stati, cosi, definiti:


esso trasmette un senso impreciso, che ammette diverse in­
terpretazioni; la trasposizione del senso ha carattere dinamico.
I significati semplici contenuti nelle parole-unità sono mol­
tiplicati dalla frase poetica caricata di funzione simbolica.
I poeti, dice Bergson, ci suggeriscono cose che il linguaggio
non era fatto per esprimere6. Ci riescono evitando di usare
le parole in senso letterale, eccitando la nostra sensibilità,
tanto attraverso il significato delle parole, quanto attraverso
la loro sonorità, il loro concatenamento ed il loro movimento
nel discorso, attraverso la disposizione degli accenti nella
frase, l’ordine delle sillabe forti e deboli, le strutture me­
triche ed il ritmo, le rime e le assonanze, attraverso, insom­
ma, tutto quest’insieme di mezzi che talvolta fanno somigliare
la poesia alla musica.
« L’ambiguità [sottolinea Ernst von Sydow] è l’atmosfera
essenziale del simbolo »7. J. Baruzzi esprime la stessa idea
dicendo che il simbolo « non essendo mai una traduzione, non
può neppure essere mai tradotto »8. Maurice Blanchot dirà
anche lui che, al contrario delle allegorie, il simbolo non rap­
presenta niente di concreto, non esprime niente, « rende solo
presente - rendendo noi presenti in essa - una realtà che sfugge
ad ogni altra presa e sembra sorgere là, prodigiosamente lon­
tana, come una presenza estranea »9. Il simbolo è, in fondo,
quello che Merleau-Ponty chiama parola parlante (per distin­
guerla dalla parola parlata), in cui « l’intenzione significante
si trova allo stato nascente [...]. L’esistenza si polarizza in
un certo “ senso * che non può essere definito da nessun og­
getto naturale » 10. Il suo carattere dinamico ed ambiguo av­
vicina il simbolo all’« archetipo » di Jung.
Il simbolo nell’arte è dunque, se cosi si può dire, un « vei­
colo del senso » che indica il movimento del pensiero e dei
sentimenti. Il processo di simbolizzazione differisce da una
semplice associazione di idee per analogia, poiché è spontaneo
e poiché l’artista mette in luce un’analogia non convenzionale,
intervenendo sia fra fenomeni a lui esterni, sia fra il mondo
esterno e la sua propria esperienza. Quello che T. S. Eliot in-
è un segno espressivo, ma un sistema concreto e dinamico di
simbolo: « Il solo modo di esprimere un’emozione in forma
30 CAPITOLO TERZO

artistica è quello di trovarle un “ correlativo oggettivo ”, in


altri termini, un insieme di oggetti, una serie di avvenimenti,
che dovranno essere la formula di quella particolare emozio­
ne; in modo che quando i fatti esterni che debbono sfociare
in un’emozione sensoriale sono dati, l’emozione sia evocata
immediatamente » 11. Come lo si intende oggi, il simbolo non
è un segno espressivo, ma un sistema concreto e dinamico di
segni che mettono in movimento l’intelligenza, che stimolano
la sensibilità.
Guglielmo Ferrero divide i simboli in due gruppi: chiama
« intellettuali » quelli destinati a creare immagini ed idee, ed
« emozionali » quelli il cui compito è di suscitare emozioni12.
Questa distinzione non sembra convincente, poiché ogni opera
d’arte agisce contemporaneamente sulle facoltà intellettuali e
su quelle affettive. Piu fondamento sembra avere la divisione
proposta da Emeric Fiser, in simboli « statici », fra cui po­
trebbero essere compresi l’allegoria ed i suoi sostituti seman­
tici, e « dinamici » 13, che qui ci interessano più in particolare.
Stanislaw Ossowski definiva questi ultimi come « non richie­
denti interpretazioni esplicite » 14. Secondo una confidenza di
Eliot, essi nascono nell’immaginazione del poeta non sotto
l’influsso di intense emozioni, ma in seguito ad un intenso
lavoro artistico 15.
Per usare l’espressione di Raymond Bayer, l’essenza del sim­
bolo è « la concettualizzazione in via di formazione » 16, il sen­
so dell’opera tradotto dall’artista in forma sensibile, prima di
essere costituito. Ecco perché il simbolo provoca quello stato
caratteristico di tensione e di attesa. Il suo fascino viene dal
fatto che esso è polivalente; permette interpretazioni diverse
e tutto, in esso, è lasciato all’immaginazione dello spettatore,
che esso invita ad un atteggiamento particolarmente attivo, se
vuole che l’opera d’arte gli confidi tutti i suoi segreti e tutti
i suoi valori.
Tuttavia, cosi formulata, la nozione di simbolo non può for­
se essere applicata a qualsiasi opera d’arte autentica, nel suo
insieme? In altri termini, ogni opera d’arte non è forse sim­
bolica ed il linguaggio artistico non è sempre un linguaggio
essenzialmente simbolico? Lo sviluppo dell’arte, cosi rapido a
partire dall’impressionismo, sembra condurre ad una conclu­
IL SIMBOLO NELL’ARTE 31

sione di questo genere. Prima di aderirvi, esaminiamo rapi­


damente il ruolo del simbolo, attraverso la storia.

Considerazioni genetiche

Le origini del simbolo si perdono nella notte dei tempi. Le


ricerche sulle culture primitive hanno gettato un po’ di luce
sulla sua funzione nella coscienza primitiva. Diciamo, prima
di tutto, che esso era un mezzo d’azione e non di evocazione
o di rappresentazione. Nella magia, il suono veniva diretto sul
fenomeno su cui doveva agire, il suo scopo era quello di sco­
prire il fenomeno, di renderlo palese, di provocarlo. In que­
sto senso la magia aveva un valore iniziatico. La formula so
nora che era riuscita a provocare un fenomeno (e non, biso­
gna sottolinearlo, a ricrearne l’immagine) assumeva il signi­
ficato di simbolo, era considerata l’espressione del totem del
clan. Erano veri e propri simboli sonori, non « suoni simbo­
lici »; questi ultimi appariranno piu tardi nella musica, con
la funzione di veicolare idee o immagini. Il simbolo nella
cultura primitiva conteneva, in forma condensata, il nocciolo,
l’essenza del fenomeno incomprensibile. La magia interviene
laddove la scienza fa difetto. Con l’aiuto dei simboli, l’uomo
padroneggiava, attraverso la sua forza magica, tutto quello
che gli sembrava soprannaturale. Cosi, l’azione del simbolo
era sempre diretta verso il fenomeno, mai verso l’uomo. Era
il ponte che congiungeva il microcosmo al macrocosmo. Alla
base del pensiero magico mancava la concezione analitica della
realtà; c’era solo un pensiero sintetico, la convinzione che tut­
te le forze della vita fossero unite e collegate tra loro.
Il simbolo ed il simbolismo hanno origine nella magia e
trovano un clima propizio allorquando la ragione non è in
grado di rispondere alle domande che l’uomo si pone. Non
solo la Cabala e la cultura dell’Egitto, dell’india, della
Grecia, ma anche il cristianesimo medievale è tutto impre­
gnato di simbolismo. « In Dio non esiste nulla che sia vuoto
o senza significato [scrive Johan Huizinga (...)]. Dal mo­
mento che Dio stesso era stato effigiato, tutto che ciò che
proveniva da Lui e in Lui trovava il suo significato doveva
32 CAPITOLO TERZO

pure cristallizzarsi in concetti figurati. Nasce cosi quella


grandiosa e nobile raffigurazione del mondo come di un
grande sistema di simboli, una cattedrale d’idee, la piu
ricca espressione ritmica e polifonica di tutto il pensabile » 17.
La dottrina platonica delle idee torna nel pensiero cri­
stiano proprio ai suoi inizi. Per trovare la spiegazione del­
l’espansione del simbolismo nel cristianesimo, è sufficiente
citare questa frase dello pseudo-Dionigi l’Areopagita: « In
verità, le cose visibili sono l’immagine delle cose invisi­
bili » ,8. La filosofia di S. Bonaventura, dice Étienne Gilson;
tende a mostrarci un mondo in cui ogni cosa ci parla di
Dio19, un mondo sensibile che ci ricorda costantemente
Dio.
Il simbolismo medievale si fonda sulla credenza che la
natura non è che un simbolo di una realtà di ordine più
elevato. Tutto ciò che l’artista attinge dalla natura e che
rappresenta in un’opera d’arte può dirigere il pensiero umano
verso il soprannaturale. Ecco perché le cattedrali, in cui vibra
l’intensa vita spirituale dell’uomo medievale, presentano un
insieme di simboli, di allegorie, degli oggetti più diversi
caricati di significato metafisico.
Man mano che la coscienza umana si libera dall’influsso
della religione e che il pensiero causale prende il soprav­
vento, le forme simboliche degenerano, la ricerca di simboli
e di allegoria diventa « un vano giuoco, un superficiale fan­
tasticare su analogie estrinseche »20. Insegnando che la sal­
vezza consiste in un’esistenza razionale, il protestantesimo
orienta il pensiero dell’uomo verso mete più terrene, e apre
la strada basata su una concezione razionalista del mondo e
della vita. Consacrata dai filosofi e dagli economisti dell’illu­
minismo, questa civiltà si estenderà, in seguito alla Rivo­
luzione francese, in tutta l’Europa.
Ma la ragione non ha potuto risolvere tutti i problemi,
né chiarire tutti i misteri. Quello che, nel mondo e nel­
l’uomo stesso, è giudicato irrazionale, quello che sfugge ad
una spiegazione soddisfacente e che è rimosso nel subco­
sciente, si oppone alla tendenza naturale dell’uomo all’ar­
monia perfetta con il mondo. Tjutèev dice in una sua
poesia:
IL SIMBOLO NELL’ARTE 33

C’è in tutto un ordine solenne


e la pace regna in tutta la natura
noi soli, nella nostra illusoria libertà,
siamo con essa in eterno disaccordo.

Durante tutto il xix secolo, questo disaccordo dell’uomo


col mondo resterà latente nella poesia, nella musica, nella
filosofia, nella pittura, per esplodere, alla fine del secolo, in
una grande crisi spirituale. Sarà prima di tutto la poesia,
la piu semantica delle arti, a svolgere un ruolo di com­
pensazione e sarà cosi che « il bisogno di un’esistenza ple­
naria assumerà l’aspetto di una rivendicazione metafisica »21.
Questo cambiamento si compie nel preromanticismo tedesco
(Novalis, Jean Paul, Hoffmann, Arnim), per estendersi ben
presto alla poesia di lingua inglese (Blake, Coleridge, Shelley,
Poe), ed infine raggiungere la Francia (con Baudelaire).
Per poter apprezzare il valore di questa svolta, dobbiamo
ricordare che le aspirazioni metafisiche dei poeti romantici
e dei loro successori non hanno, in fondo, più nessun punto
in comune con la metafisica cristiana. Lo scopo del simbolo,
dunque, cambia anch’esso, sebbene la sua funzione resti la
stessa. Non serve piu a portare il pensiero umano dalla
natura a Dio, ma a concentrarlo su un individuo umano
definito, il poeta. Madame de Staèl era stata una delle prime
a notare questa particolarità della poesia dei romantici te­
deschi, che consisteva nel vedere l’intero universo come un
segno visibile dei movimenti dell’anima.
L’unione con la natura, i suoi enigmi ed i suoi segreti,
reca al poeta una compensazione del suo isolamento in un
mondo privo di Dio, ma anche di armonia sociale. Da
allora, egli cercherà nella natura dei simboli, delle corrispon­
denze sottilmente allusive, per suggerire al lettore che la
natura, nella sua opera, è solo un pretesto, e che il vero
argomento è l’anima del poeta. Schiller dice che il mondo
inanimato può simboleggiare la natura umana in due modi:
può rappresentare i sentimenti oppure le idee. Attraverso
i simboli, il poeta può suggerire idee e fare allusione ai
sentimenti, a condizione di non essere troppo preciso, « poi­
ché il nostro sguando si immerge nel loro contenuto come
che il fascino di simili estetiche risiede proprio nel fatto
34 CAPITOLO TERZO

in un abisso insondabile ». E, un po’ più avanti: « Doman­


diamo che ogni composizione poetica, accanto a ciò che
esprime il suo contenuto, sia, anche nella forma, l’imitazione
e l’espressione di sentimenti, ed eserciti su di noi un effetto
musicale »22. J.-L. Austin nota, a ragione, che questa frase
di Schiller contiene in nuce tutta l’estetica dei simbolisti23.
Il desiderio di ritrovare l’unità perduta con il mondo si ma
nifesta con forza particolare nella poesia e nell’estetica di Bau­
delaire. Riprendendo la dottrina che risale a Plotino e dalle
antiche tradizioni esoteriche, sviluppate più recentemente da
Swedenborg, Baudelaire crea la sua personale teoria delle
correspondances, che espone nei Fleurs du mal, e che sarebbe
entrata poi nel decalogo della poetica simbolista. La dottrina
dell’analogia universale dei fenomeni poteva ridurre il ruolo
del poeta a quello di un scrivano che registrasse le parentele
fra le cose dopo averle notate. Ma Baudelaire ha evitato questa
limitazione dando grandissimo rilievo all’immaginazione crea­
trice, «questa regina delle facoltà»: «È la sensibilità [...].
È l’immaginazione che ha insegnato all’uomo il senso morale
del colore, del contorno, del suono e del profumo »24. « Tut­
to l’universo visibile non è che un magazzino d’immagini e
di simboli ai quali l’immaginazione darà un posto e un
valore relativo; è una sorta di pastura che l’immaginazione
deve digerire e trasformare »25. « Descrivendo ciò che è, il
poeta si degrada e scende al rango del professore; raccon­
tando il possibile, resta fedele alla sua funzione: è un’anima
collettiva che interroga, piange, spera, e che talvolta divi­
na »26. Al fine di comunicare agli altri « la visione prodotta
da un’intensa meditazione »27, il poeta deve procedere alla
scelta dei suoi mezzi con una solennità quasi sacerdotale,
poiché « c’è nella parola, nel verbo, qualcosa di sacro che ci
vieta di farne un gioco d’azzardo. Adoperare magistralmente
una lingua è come praticare una specie di magia evocatrice »28.
La frase, raramente citata, in cui Baudelaire spiega quello
che deve essere l’arte veramente « pura » nel senso moderno
della parola, sembra profondamente rivelatrice: « Una magia
suggestiva che contenga contemporaneamente l’oggetto ed il
soggetto, il mondo esterno all’artista e l’artista stesso »29.
Troppi legami univano Baudelaire alla tradizione contro la
IL SIMBOLO NELL’ARTE 35

quale si ribellava perché egli potesse realizzare l’ideale che


gli era cosi caro, e che non cesserà piu di ossessionare i
poeti. Arthur Rimbaud, il ragazzo prodigio della poesia, spi­
rito torturato, agitato dalle convulsioni della sua epoca e
dalle contraddizioni della sua natura, tenterà per primo di
incarnarlo nella sua arte. È lui che, nelle Illuminations, ri­
fiutando il verso e l’alessandrino, adottando l’annotazione
automatica delle violente esplosioni della sua immaginazione,
fa presentire la magia di una poesia che sopprimerà la se­
parazione fra l’« io » e il « non-io ». Non sarà inutile ricor­
dare che lo stesso problema, quello di superare il dualismo
ontologico, preoccupava i filosofi a partire da Fichte, e tro­
vava infine la soluzione più completa nella celebre formula
di Hegel: Sein und Denken sind identisch, che assimilava
l’oggetto al soggetto, il « non-io » all’« io ».
Edgar Allan Poe meritava anche lui alcune riflessioni, per
quanto brevi: meno per le sue poesie e per certi racconti
in cui il simbolismo di diverse strutture sonore e signifi­
cative deve suscitare il « brivido metafisico », che per i suoi
tentativi di conciliare in ciò la metafisica e la scienza, la parte
irrazionale delle sue visioni e la tecnica narrativa (dei rac­
conti) con una poetica razionalista all’estremo. Perfino la fa­
mosa « musicalità » delle sue poesie, che lo faceva passare,
almeno in Francia, per precursore (sebbene fosse stato Dio­
nigi d’Alicarnasso ad averla esposta secoli prima), non era
effetto di un’ispirazione, ma risulato di un’azione cosciente,
conforme al principio secondo il quale l’artista non deve
fidarsi dell’intuizione e del caso; l’opera d’arte deve tendere
alla sua soluzione « con la precisione e la logica rigorosa di
un problema matematico » 30.
Questo atteggiamento, apparentemente opposto alle ten­
denze della poesia e dell’arte ribellatesi contro lo scientismo
della loro epoca, rivivrà spesso nello spirito dei poeti, dei
pittori e dei critici; prenderà una sfumatura particolare nel
pensiero estetico del teorico dei simbolisti, Stéphane Mallarmé.
L’idea che l’opera d’arte sia un simbolo ed il linguaggio
un linguaggio simbolico, ancorata nella coscienza dell’uomo
da tempo immemorabile, si era molto offuscata in epoche
più recenti. Man mano che le arti perdevano il loro statuto
3$ CAPITOLO TERZO

artigianale e diventavano professioni, cosa che le sottometteva


alla pressione dei meccanismi economici della società bor­
ghese, nasceva il problema della difesa, deirindipendenza
dell’artista e della specificità dell’opera d’arte. Gli slogan
dell’« arte per l’arte », branditi periodicamente nel xix se­
colo, non erano altro che una protesta contro i doveri che
il mecenate borghese, qualunque fosse il suo orientamento
politico, si sforzava di imporre all’arte: alla difesa delta mo­
rale borghese, il xvm secolo aveva aggiunto preoccupazioni
politiche e filosofiche, il xix la scienza. Il naturalismo let­
terario era venuto al mondo con ambizioni scientifiche (Zola).
La dottrina dell’« arte per l’arte » sembra assurda o rea­
zionaria solo se la si distacca dal suo contesto storico. Anche
se essa conveniva, talvolta, alla classe dirigente (nei momenti
in cui quest’ultima preferiva un’arte neutra al un’arte cri­
tica), questo aspetto della questione non dovrebbe offuscarne
l’insieme.
Formulato in modo un po’ differente dalla prima genera­
zione dei romantici francesi, questo motto riappare sotto il
secondo Impero (Baudelaire, Gautier, Flaubert, Theodore
de Banville, Leconte de Lisle). Non è inutile notare che,
come dimostra Alfred Cassagne in un’opera eccellente per
la sua epoca31, la maggior parte dei suoi difensori ha avuto
difficoltà con la censura ed è stata perseguita dai tribunali
per « oltraggio alla morale ».
I simbolisti hanno ripreso il motto insieme con l’eredità
ideologica ed artistica del romanticismo, di Baudelaire, di
Poe, del Parnasse. Ma, a questi nuovi sostenitori dell’auto­
nomia dell’arte esso sarebbe servito più a frenare i pro­
gressi del naturalismo che a manifestare il disprezzo per il
« borghese filisteo ». Essi si concentrarono su altre questioni
ben più gravi.
La fine del xix secolo segna l’inizio di una rivoluzione
nel modo di pensare. Importanti scoperte empiriche in dif­
ferenti branche della scienza provocarono la trasformazione
dei principi teorici che impedivano i progressi rapidi. Questa
crisi passeggera - che verte sui principi metodologici più che
sulla scienza propriamente detta - fu nondimeno avvertita
come uno sconvolgimento dell’autorità del razionalismo, e
IL SIMBOLO NELL’ARTE
37

provocò una potente ondata d’irrazionalismo, che trascinò


l’arte nella sua scia.
Si semplificherebbe troppo la questione parlando solo del­
l’arte alle prese con problemi spirituali fondamentali, sorti
in seno alla crisi generale della coscienza. Bisogna anche
vedere i valori che si venivano edificando e che avrebbero
determinato la successiva evoluzione. Certo, il decadentismo
si diffondeva, fioriva un estetismo morboso, e si propagavano
misticismi di ogni sorta. Questi sintomi di decadenza e di
snaturamento di certe forme di pensiero e di azione vengono
di solito a galla quando le strutture sociali ed i rapporti
umani si trasformano, ed a maggior ragione quando le tra­
sformazioni riguardano finterà cultura. Nessuno meglio di
Stéphane Mallarmé aveva sentito questi cambiamenti del mon­
do, che seminavano negli spiriti il turbamento e l’inquietu­
dine: « In una società senza stabilità, senza unità, non può
crearsi un’arte stabile, un'arte definitiva. Da questa organiz­
zazione sociale incompiuta, che spiega nello stesso tempo
l’inquietudine degli spiriti, nasce l’inspiegabile bisogno d’in­
dividualità di cui le attuali manifestazioni letterarie sono il
riflesso diretto »32. La coscienza di una rottura è stata rara­
mente accompagnata nei creatori moderni da una volontà al­
trettanto ferma di ristabilire l’unità.
Tutta l’estetica di Mallarmé procede alla sua fede nella
ragione e nella conoscenza assoluta, fede che lo conduce spesso
sull’orlo dell’abisso metafisico. Come, egli si domanda, po­
trebbe il poeta conoscere il significato del mondo, cioè l’idea,
e raggiungere l’essenza dei fenomeni, se~fl linguaggio che
egli usa rimane legato alla tradizione ed alle convenzioni?
Non potendo creare il suo proprio linguaggio, egli deve al­
meno sbarazzare le parole dalla polvere che le ricopre, com­
pensare le deformazioni che la lingua ha loro imposto. Cosi,
ad esempio, per rendere oscura la sonorità chiara della parola
nuity che non corrisponde al suo significato, egli può farla
precedere o seguire da parole la cui sonorità sia cupa. Per
contro, sebbene usi parole immaginose, se non vuole che
un’immagine sorga nell’animo del lettore, il poeta può scon­
certarlo in modo cosf sapiente che l’immagine non si co­
stituirà. Mallarmé lo prova perfettamente, sembra, in Le
38 CAPITOLO TERZO

nénuphar blanc*\ impossibile da riassumere, che lascia il


lettore in uno stato di attesa insoddisfata. Eppure i pro­
cedimenti di questo genere non possono essere sufficienti
quando si tratta di svelare l’essenza pura della cosa che la
parola significa. Che cosa resta al poeta? È allora che Mal­
larmé sviluppa la sua celebre teoria della suggestione.
Se il poeta non può risvegliare l’essenza pura della cosa,
che è in noi assopita, né nominando la cosa, né distaccandone
la parola giusta che la significherebbe, non gli resta che un
solo mezzo, suggerirla: « Evocare, in un’ombra creata appo­
sitamente, l’oggetto taciuto con parole allusive, mai dirette,
che si riducono ad un silenzio uniforme, comporta un tenta­
tivo prossimo di creare » « Nominare un oggetto, vuol dire
sopprimere i tre quarti del godimento della poesia che è
fatta di un lento divenire: suggerirlo, ecco il sogno. È l’uso
perfetto di questo mistero che costituisce il simbolo: evocare
a poco a poco un oggetto per mostrare uno stato d’animo
o, inversamente, scegliere un oggetto e trarne uno stato d’a­
nimo, attraverso una serie di decifrazioni »35.
Fin dal 1864, troviamo nella corrispondenza di Mallarmé
una frase che prova che il linguaggio poetico fu sempre
la passione principale della sua vita, se non l’unica: « Il
verso non deve, dunque, comporsi di parole, ma di inten­
zioni, e tutte le parole debbono cancellarsi davanti alle sen­
sazioni »36. Un quarto di secolo piu tardi, egli tornerà di
nuovo sui segreti della sua alchimia verbale: «il verso che
da parecchi vocaboli rifa una parola totale, nuova, estranea
alla lingua e come incantatrice, completa quest’isolamento della
parola: negando, con un tratto sovrano, il caso rimasto ai
termini malgrado l’artificio del loro rinvigorirsi alternato nel
significato e nella sonorità, e vi causa la sorpresa di non
aver udito mai un certo frammento comune, mentre nello
stesso tempo la reminiscenza dell’oggetto nominato è im­
mersa in una nuova atmosfera » 37.
Cosi, attraverso un gioco di significati, di colori e di
sonorità, il poeta può superare l’ostacolo della natura mate­
riale delle parole; circoscrivendo, accerchiando l’idea pura,
arriva finalmente a comunicarcene il mistero. Solo cosi ci si
può « trovare faccia a faccia con l’indicibile »davanti alla
IL SIMBOLO NELL’ARTE 39

Verità pura, cioè al Bello. Ecco a che cosa potrebbe giun­


gere una poesia che si servisse non di parole isolate, ma
dei loro rapporti, che usasse la suggestione e l’allusione e
che rifiutasse la descrizione, una « poesia senza le parole »39,
sebbene operante a partire dalle parole, una poesia della man­
canza e del silenzio, quella che provoca l’apparizione dell’idea.
Georges Cattaui osserva che, secondo Mallarmé, il poeta non
deve cercare di esprimere con le parole un’idea, ma l’idea,
che crea essa stessa il Verbo40.
Mallarmé voleva liberare la poesia dal soggettivismo; evi­
tava il lirismo per sfuggire allo psicologismo. Il suo desi­
derio di cogliere l’idea oggettiva, extratemporale, gli faceva
sognare un linguaggio extratemporale, che resistesse alle de­
formazioni soggettive. La sua immaginazione sembra pro­
lungare il ricordo del linguaggio cosi come era esistito nella
Grecia antica. Nella sua opera dedicata alla musica ed al
ritmo presso i Greci41, Trasybulos Georgiades ha mostrato
la differenza essenziale di struttura tra la lingua antica e le
lingue moderne. In queste ultime, la lunghezza delle sillabe
è, in fondo, indefinita: la sillaba può essere lunga o breve,
secondo il temperamento di chi la pronuncia (grazie a que­
sto, del resto, si può facilmente comporre musica su una
poesia scritta in una qualsiasi lingua moderna). Ora, nel
greco antico, la durata delle sillabe era fissata e, per cosi
dire, definita in anticipo, e Io stato affettivo del recitante,
perciò, non aveva nessuna influenza sulla struttura dei versi.
La lingua era indipendente dalla volontà dell’uomo, nessun
soggettivismo poteva squilibrarne la struttura.
« Le parole sono là, rigide e misteriose, tessere di mosaico
allineate le une accanto alle altre. Formano figure immobili
che non si lasciano mai legare al soggetto, fondere con il
soggetto. La lingua greca è un linguaggio da maschere. Non
ricorda una fisionomia viva. Lingue simili, oggi, esistono solo
in culture esotiche. Non si può indovinare che cosa pensi
l’uomo che parla, non si sa se le sue intenzioni siano buone
o cattive, se sia allegro o in collera. I volti degli uomini di
queste culture sono anch’essi indecifrabili, fanno pensare a
delle maschere. La lingua greca agisce nella maniera in cui
agivano le maschere nella tragedia greca. Anche li, la man­
40 CAPITOLO TERZO

canza di espressione del volto non diminuisce la forza espres­


siva, al contrario, ne accresce l’importanza. Cosi, il verbo
greco può avere una sonorità potente, animale, demoniaca,
sorda, e non, come nelle culture moderne, soggettiva, dina­
mica interiore. Il “modo” di recitare, le sfumature piene di
espressione in essa non contano. Il pathos determinato dal
tema che spesso si insinua nei discorsi, le è estraneo »42.
Evidentemente, Mallarmé non poteva risuscitare una lin­
gua simile, ma credeva di poter edificare un’opera che, in
una situazione sociale e culturale differente e molto più com­
plessa, avrebbe saputo adempiere una missione simile a quella
della tragedia greca: svelare agli uomini la volontà degli
dèi. In tutta la sua opera, il cui coronamento, tragico perché
incompiuto, doveva essere Le livre, opera d’arte totale che
impegnasse tutta la personalità dell’uomo, egli aveva mirato
all’auto-oggettivazione dell’idea: « L’opera pura implica la
sparizione elocutoria del poeta, che cede l’iniziativa alle pa­
role, attraverso l’urto della loro diseguaglianza messa in mo­
vimento; esse si illuminano di reciproci riflessi come una
virtuale scia di fuoco su delle pietre preziose, sostituendo la
respirazione percepibile nell’antico soffio lirico o la direzione
personale entusiasta della frase »43. Egli pensava di poter
ricostituire l’unità della cultura in un mondo senza divinità,
abolendo le separazioni che si ergono fra le arti e realizzando
l’integrazione delle arti nel suo Livre. Mentre Wagner, in no­
me della stessa intenzione, seppe solo addizionare le arti,
Mallarmé, cosciente del fallimento del compositore tedesco,
nutriva la speranza di portare a compimento l’opera della
loro sintesi reale. Ancor oggi non possiamo passare con in­
differenza accanto alle tracce che ci restano dei suoi vani
sforzi, nobile testimonianza della grandezza del disegno che
egli, solitario, aveva tentato44.
Paul Claudel è stato uno dei primi a voler penetrare
l’opera di Mallarmé: « Il verso per Mallarmé era il mezzo
per eccellenza per far passare la realtà dal campo del sensi­
bile a quello dell’intelligibile, dal campo del fatto a quello
della definizione, dal tempo all’eternità, dal caso alla neces
sità [...], all’immagine che si fa nei nostri occhi di sosti­
tuire questa creazione »45. Si può evidentemente interpretare
IL SIMBOLO NELL’ARTE 41

come un moto di difesa dell’artista contro lo schematismo del


pensiero questo rifiuto della lingua « normale », questa fuga
verso l’ermetismo del linguaggio, autodifesa che ritroviamo
altrove alla base della filosofia di Bergson. Tuttavia, questa
spiegazione non ci sembra del tutto soddisfacente. Albert
Thibaudet ha osservato: « Lo sforzo costante di Mallarmé
fu quello di ributtare la letteratura all’estremo opposto, di
fame, come di una matematica46, un gioco supremo della
mente, di colpire come inesistente ogni chiarezza apparente,
a vantaggio di una chiarezza reale che si confonde con una
probità iperbolica »47. La conclusione di Thibaudet raggiunge
quasi quello che Jacques Rivière aveva detto precedentemen­
te: « La sintassi di Mallarmé è un grande sforzo verso
l’espressione e la chiarezza [rid], poiché essa cerca di rical­
care l’ordine delle parole sull’ordine dei pensieri; essa tende
a riprodurre la vera continuità del pensiero »48. Tuttavia,
nessuno dei due spiega perché Mallarmé avesse intrapreso
questi sforzi.
Ora, sembra che, come i romantici e come Baudelaire,
Mallarmé abbia desiderato colmare il solco che separa l’<c io »
dal « non-io », ma, mentre essi si immergevano nel panpsi­
chismo e nel panteismo, egli voleva restare sul terreno neutro
della conoscenza: cercando, attraverso la sua poesia, le strut­
ture intenzionali degli atti di coscienza, egli sperava di sve­
lare nella sua opera-simbolo il senso del mondo, poiché, in
fondo, egli poneva il principio dell’intenzionalità universale.
Avanzava verso quel limite in cui « l’occhio guarda se stesso ».
I diversi elementi che compongono il concetto di simbolo
nella sua accezione moderna appaiono nell’arte da tempi molto
antichi. Ma solo all’epoca del simbolismo tutti questi elementi
si fusero in un solo insieme, e l’opera d’arte venne identi­
ficata con il simbolo.
La ricerca di effetti musicali, spesso considerata come il
tratto essenziale dell’estetica simbolista, ha svolto in ciò un
grande ruolo. Paul Valéry, che guardava già il simbolismo
da una certa distanza, dirà: « Ciò che fu battezzato simbo­
lismo, si riassume, molto semplicemente, nell’intenzione, co
mune a parecchi gruppi di poeti, di riprendere alla musica
il loro bene »49. Che cosa li attraeva nella musica?
4^ CAPITOLO TERZO

Troviamo, in un’opera uscita poco prima dell’avvento del


simbolismo ed oggi del tutto dimenticata, un brano che,
meglio delle opere di Schopenhauer e di Wagner, i simbo­
listi leggevano con tanta passione, spiega quello che li aveva
sedotti nella musica in quanto mezzo di espressione: « Se
dal mondo delle forme visibili e delle idee, in cui si muo­
vono la poesia e le arti plastiche, entriamo nel mondo dei
suoni e dell’armonia, la nostra prima impressione è quella
di un uomo che passi bruscamente dalla luce ad una pro­
fonda oscurità. Là tutto si spiega, si concatena e si fa
immagine; qui, tutto sgorga dall’insondabile, tutto è tenebre,
mistero. Là, la fissità dei contorni, la logica inflessibile delle
forme immutabili; qui, il flusso ed il riflusso di un elemento
liquido, sempre in movimento ed in metamorfosi, che na­
sconde tutto l’infinito delle forme possibili. In questa notte
impenetrabile, in cui ci immergiamo con la musica, l’onda
della vita ci scuote potentemente, ma ci è impossibile vedere
e distinguere alcunché. Man mano, tuttavia, che l’anima si
abitua a questa strana regione, essa acquista una sorta di
seconda vista. Somiglia alla sonnambula che, colta da un
sonno sempre piu profondo, si inabissa nel suo sogno e
vede scomparire gli oggetti reali. Ma mentre il lato esterno
delle cose si cancella, quello interno appare con una chia­
rezza meravigliosa »50. Arte « asemantica » per eccellenza, la
musica sembrava soddisfare le condizioni ideali dell’opera-
simbolo, che sognavano i simbolisti.
In pittura, Delacroix parlò per primo nel xix secolo della
« musica del quadro » e dell’* accordo magico dei colori »51.
Gauguin riprenderà più tardi quest’espressione per proprio
conto52, e Baudelaire non penserà ad altro, in fondo, riflet­
tendo sulla « melodia » del quadro. Si può anche considerare
sintomatico l’uso di termini musicali nei titoli di poesia e
di quadri, instaurato da Théophile Gautier (Symphonic en
noir et blanc) e Whistler (titoli di paesaggi e di ritratti:
Harmonic, Symphonic, Nocturne, ecc.), poi diventato una
moda generale. Browning* si interessava tanto alla pittura
quanto alla musica e sentiva più profondamente quest’ultima,
di cui non ignorava i problemi tecnici; in poesie come A
Toccata of Galuppis, Master Hugues of Saxe-Gotha, Abt-
IL SIMBOLO NELL’ARTE 43

Vogler o Parleying, egli si sforzò di trasporre nella poesia


certe forme musicali, o, più esattamente, il loro spirito: toc*
cata, fuga, improvvisazione su di un tema, marcia. La sua
opera più riuscita è forse Master Hugues (fuga), mentre
Parleying « parla » della musica piuttosto che evocarne la
forma, sebbene essa sia qui trattata a titolo d’esempio (mar
eia). Comunque, Browning arriva ai suoi più begli effetti
musicali quando smette di parlare della musica o di imitarne
le forme, nelle poesie che derivano da una necessità inte­
riore, non precedute da nessun principio ammesso in antici­
po53. Ciò non toglie che sia stato Poe ad avere formulato
per primo il principio che qui ci interessa: il poeta deve
preoccuparsi dell’effetto musicale del verso, poiché è per lui
il solo mezzo per comunicare agli altri quello che c’è di
inesprimibile nell’emozione poetica54. Dopo di lui, bisognerà
attendere Verlaine che darà ai simbolisti un motto: « musica
prima di tutto », e lo applicherà con estrema felicità nelle
sue poesie. Scoperti i legami segreti fra le sensazioni ed il
linguaggio, egli traspone con una stupefacente facilità tutti
i rumori della natura in un linguaggio poetico straordinaria­
mente musicale, sebbene fortemente radicato nella sua epoca
per il carattere del suo lirismo.
Nel 1886, data decisiva perché è in quell’anno che la
dottrina del simbolismo si cristallizza, esce Le traité du verbe
di Renè Ghil, con prefazione di Mallarmé. Ispirandosi al so­
netto Voyelles di Rimbaud, Renè Ghil giunge a questa con­
clusione: « Se il suono può essere tradotto in colore, il co­
lore può tradursi in suono, e subito nel timbro di uno stru­
mento ». Si tratta semplicemente di fissare, secondo « metodi
scientifici », alcuni principi « di strumentazione del verso »,
oggetto delle ricerche di Ghil: « La PoesiaM, cosi, diventa
un vero brano di musica suggestiva che si strumenta da
sola: musica di parole evocatrici di immagini colorate, senza
danno per le Idee ». Di più, le idee ed i sentimenti risultano
da questa musica56.
Mallarmé, che aveva incoraggiato l’impresa di Ghil, pro­
clamava egli stesso che « dall’intellettuale parola al suo apo­
geo [...] deve [...] risultare la Musica»57 e che «la Poesia,
vicina l’ideaè Musica per eccellenza »59.
44 CAPITOLO TERZO

Nella pittura, in pieno rinnovamene grazie allo sforzo


creativo degli impressionisti, tendenze analoghe si facevano
strada spontaneamente, sotto l’influsso dell’atmosfera sotto­
stante. Troviamo in Odilon Redon, che si autodefiniva peintre
musicaliste, una concezione dell’opera come simbolo, che non
differisce molto da quella dei simbolisti: « I miei disegni
ispirano e non si definiscono. Non determinano niente. Ci
collocano, cosi come la musica, nel mondo ambiguo dell’in­
determinato. [...] Sono una specie di metafora»60. E in
una lettera di Gauguin, si legge: « Pensate anche alla parte
musicale che prenderà ormai il colore nella pittura moderna.
Il colore, che è vibrazione come la musica, è capace di
raggiungere quello che c’è di più generale, e perciò di più
vago, nella natura: la sua forza interiore»61. Commentando
D’où venons-nous, scriveva: « Il mio sogno non si lascia
cogliere, fa a meno del libretto62. Di conseguenza immate­
riale e superiore, nell’opera l’essenziale consiste precisamente
in “ ciò che non è espresso ”: ne risultano implicitamente
linee, senza colori o parole, esso non ne è costituito mate­
rialmente »63. Un discepolo di Gauguin, Sérusier, esprimerà
tutto ciò in altro modo: « I suoni, i colori, le parole, hanno
un valore miracolosamente espressivo, al di fuori di qualsiasi
rappresentazione, al di fuori perfino del significato letterale
delle parole »
Redon, Gauguin ed altri ancora partono dall’impossibilità di
copiare la natura (e questa era la conclusione da trarre dal­
l’analisi degli impressionisti) per dare alla pittura il compito
di creare simboli, cioè una sintesi degli elementi formali del
mondo visibile (linee, superfici piane, colori) e della sog­
gettività dell’artista. Nella sua conversazione con Gasquet,
Cézanne parlava di « alberi sensibili », ma anche del suo
desiderio di cogliere quello che c’era di comune tra gli alberi
e noi; Debussy riprenderà più tardi questa frase, sebbene non
avesse assistito alla conversazione65. Come abbiamo detto
sopra, perseverando sulla strada dell’impressionismo, Monei
arriverà ad un’opinione analoga: nelle sue ultime opere
(Nymphéas), l’impressionismo raggiunge il simbolismo.
Cosi la soggettività del simbolismo moderno, che ha sosti­
tuito il credo impersonale del simbolismo medievale, per­
IL SIMBOLO NELL’ARTE 45

mette un’evoluzione verso Parte « pura », sprovvista dell’ele­


mento rappresentativo contenuto nel soggetto dell’opera. L’im­
pressionismo è stato il primo grande passo su questa strada:
esso strappava l’arte alla stretta di un naturalismo steriliz­
zante. Il secondo è stato il sintetismo del segno di Gauguin.
Da allora, si riconosce all’artista il diritto di deformare la
natura; liberare la pittura dal suo ruolo imitativo, dal mi­
metismo, sarà solo questione di tempo (il tempo di radi­
carsi nella coscienza collettiva). L’arte diventerà creazione, e
l’artista uno stregone che cerca di strappare alla natura i
suoi segreti.
I poeti ed i pittori volevano che la loro arte somigliasse
alla musica, per poter comunicare la loro esperienza crea­
tiva in tutta la sua fluida mobilità, prima che si irrigidisse
in quadri o negli stampi del linguaggio. Volevano servirsi
della loro opera come di un simbolo, di un mezzo d’espres­
sione favorevole al gioco delle somiglianze, delle associazioni,
degli echi lontani e delle tensioni, gioco che ne faceva una
forma « aperta », pronta a ricevere significati diversi, senza
esprimerne direttamente nessuno.
I simbolisti hanno la convinzione che tutti gli elementi
del mondo siano collegati tra di loro: quale che sia la corda
che si tocca in una sfera della vita, essa troverà una riso­
nanza in tutte le altre sfere. Certo, questo sentimento deri­
vava dalle tradizioni esoteriche che stavano rinascendo a quel­
l’epoca e non da un monismo materialista, ma che impor­
tanza ha questo per noi, che cerchiamo di scoprire le fonti
reali dell’attività dei simbolisti, e non i loro motivi ideologici?
Marcel Raymond vede apparire, dietro le tendenze sim-
boliste, « il sogno di un universo magico, dove l’uomo non
si sarebbe sentito distinto dalle cose, dove lo spirito avrebbe
regnato senza intermediari sui fenomeni, oltre ogni via ra­
zionale »66. L’idea dei simbolisti troverebbe dunque la sua
migliore espressione nella filosofia di Bergson, per il quale,
raggiungendo il nostro io profondo, ci avviciniamo nello stesso
tempo all’essenza del mondo. Ci sembra tuttavia che sia
Maurice Denis, lui stesso un tempo molto legato al movi­
mento simbolista, ad aver piu profondamente penetrato le
intenzioni della corrente e ad averne analizzato i risultati:
46 CAPITOLO TERZO

quello che importava ai simbolisti era « il trionfo dello spirito


di sintesi sullo spirito d’analisi, dell’immaginazione sulla sen­
sazione, dell’uomo sulla natura »67. Uno dei principali teorici
del movimento, Charles Morice, espresse le ambizioni essen­
ziali della sua generazione, parlando dall’* Intenso e con tem­
poraneo desiderio dello spirito umano di far confluire in un
solo largo e vivo fiume di Bellezza unita alla Verità nella
Gioia, la corrente mistica e la corrente scientifica ». Egli ag­
giungeva che queste ambizioni non potevano esprimersi se
non in un’« arte integrale », che vegliasse sull’equilibrio della
natura umana68.
La vera forza motrice del simbolismo era la coscienza
della rottura, del cambiamento nel modo di vedere il mondo
(mobilità, relativismo, dinamismo), coscienza dello sconvolgi­
mento delle regole di ragionamento cartesiane e del bisogno
di preparare l’esperienza umana ad accogliere nuove regole e
metodi. Non è difficile percepire questa forza: bisogna sem­
plicemente liberarla da uno strato, non di rado spesso, di
fraseologia metafisica.
Nelle culture antiche il simbolo serviva a conoscere i grandi
misteri della natura e della vita; nel medioevo cristiano
dirigeva il pensiero verso Dio; nell’epoca romantica espri­
meva la soggettività dell’artista. Grazie ai simbolisti, che
avevano preso coscienza della specificità del linguaggio arti­
stico e dell’ambiguità di senso legata alla sua rete di rela­
zioni, il simbolo si identifica con l’arte. Se oggi si può dire
che l’arte non è fatta per essere contemplata, ma che deve
partecipare alla creazione della vita, penetrare in tutte le sue
forme, diventare non soltanto il nutrimento quotidiano, ma
anche lo strumento quotidiano dell’uomo, una manifestazione
del suo bisogno di creare, lo dobbiamo al simbolismo, mal­
grado il suo estetismo ed il suo manierismo.

L’espressione e il simbolo in musica

L'opera e la sua percezione (in sé e per noi/ Se oggi si


assimila il simbolo all’opera poetica o plastica, nell’accezione
moderna del termine, tanto più si ha ragione di farlo quando
IL SIMBOLO NELL'ARTE 47

si tratta di un’opera musicale: non essendo gravata dalla se­


mantica, la musica è per natura « ambigua ». Prima di affer­
mare che la musica comporta una significazione, in altre
parole che essa comunica un significato, bisogna chiedersi,
per evitare malintesi, se si intende con questo che essa si­
gnifichi qualcosa in sé o per noi: dicendo che essa comporta
una significazione, pensiamo all’opera come prodotto del la­
voro creativo del compositore, o all’opera come oggetto este­
tico costituito nella percezione dell’ascoltatore? La mancanza
di distinzione fra questi due aspetti del problema è all’ori­
gine della maggior parte delle controversie69.
Se la musica in sé ha un contenuto, non è, in ogni caso,
come dice Hegel, « nel senso delle arti figurative, né in quello
della poesia; infatti quello che le manca è proprio il confi­
gurarsi oggettivo, sia nelle forme di reali fenomeni esterni
sia nell’oggettività di intuizioni e rappresentazioni spirituali » TO.
Il compositore non agisce in un vuoto sociale. La musica
è per lui una materia prima a partire dalla quale egli deve
dar forma ad un insieme organizzato che comunicherà al­
l’ascoltatore. La sua opera contiene una somma di esperienze
che egli vuole dividere con l’ascoltatore. Il compositore è
legato all’ascoltatore non solo dal rapporto che l’opera crea
tra di loro, ma anche da uno sfondo sociale e culturale
comune, di cui subiscono entrambi l’influsso, sebbene in
maniera diversa. Solo in apparenza il compositore dispone
di una libertà illimitata nella scelta dei suoi mezzi. In realtà,
egli dipende dal sistema musicale della sua epoca e del suo
ascoltatore, sia pure immaginario.
Nel sistema musicale, il suono cambia modo di esistenza,
diventa una nota, un segno, un simbolo statico. È traspor­
tato dalla realtà acustica al mondo delle astrazioni, governato,
proprio come il linguaggio poetico, da regole grammaticali e
sintattiche sue proprie, che non sono necessariamente in ac­
cordo con le leggi dell’acustica o della logica. Con l’aiuto di
questo sistema, il compositore può dare « significati » diver­
si alle sue opere. Anche quando non si pone il problema
dell’espressione di valori extramusicali, disponendo i suoni,
il compositore non agisce nell’assoluto, ma si riferisce al
giudizio del suo orecchio, cioè a se stesso come ascoltatore,
48 CAPITOLO TERZO

e non a se stesso come specialista di acustica, ciecamente


fiducioso nelle leggi della fisica. La sua coscienza è un terreno
dove si affrontano costantemente ciò che gli detta la sua
illimitata inventiva e ciò che il presunto ascoltatore avrà la
possibilità di capire. In questo senso, si può dire che, nel
processo creativo, nessuna distanza separa la speculazione
e l’atto, poiché il compositore concepisce pienamente la sua
opera solo nel corso della creazione. « Il significato, in mu­
sica [dice Vladimir Jankélévitch], si forma per il compo­
sitore man mano che egli crea, per l’interprete e l’ascoltatore
nel corso dell’esecuzione » 71.
Cosi, un’opera musicale, sia che la si definisca « oggetto
intenzionale » (Ingarden), « auto-oggettivazione cosciente del­
l’artista » (Ducasse) o « espressione delle tendenze o delle
rimozioni subcoscienti dell’artista » (Parker), risulta sempre
dalla dialettica del suo significato in sé e per noi. Il compo­
sitore non crea per se stesso, ma per se stesso e per i suoi
ascoltatori. Può sbagliarsi nel valutare le loro facoltà per­
cettive, può addirittura non tenerne conto, ma non per questo
è meno consapevole che solo un equilibrio relativo mante­
nuto tra questi due poli antitetici - la sua libera immagina­
zione sonora e la percezione dell’ascoltatore - permetterà a
quest’ultimo di cogliere il « significato » della musica, la co­
struzione, nello stesso tempo esterna ed interna, di quell’in­
sieme che un’opera costituisce, e di sentire questo « signi­
ficato » come « bellezza ».
Quello che chiamiamo « bellezza » è, come l’opera stessa,
determinato da una cultura definita; la bellezza non esiste
al di fuori del tempo e dello spazio, l’ascoltatore può avver­
tirla solo quando non c’è divergenza fondamentale tra quello
che l’opera significa in sé e quello che significa per noi.
La bellezza è il certificato d’autenticità dell’opera sotto­
posta al test sociale. Entrando in contatto con l’opera, l’ascol­
tatore ammette a priori che essa susciterà in lui emozioni
estetiche. Ma, prima di definirla bella, bisogna che egli veri-
fichi nella sua percezione la fondatezza della sua fiducia. In
altri termini, mediante la sua forma esteriore, cosi come
appare attraverso i suoni nel corso dell’esecuzione, l’opera
musicale promette un’esperienza estetica, ma è la percezione
IL SIMBOLO NELL’ARTE 49

dell’ascoltatore che permette di riconoscere se questa pro­


messa viene mantenuta. Allora la forma, che è simbolo di
un’entità d’ordine superiore, ci mostra realmente tale entità,
cioè fa si che essa si costituisca nella nostra esperienza come
oggetto estetico. Un conflitto con l’ascoltatore può attestare
tanto l’immaturità di quest’ultimo, quanto quella dell’opera:
in ogni caso esso prova che l’ascoltatore non percepisce l’ope­
ra in questione come oggetto estetico.
La bellezza non esiste al di fuori della percezione. Non
c’è neppure una bellezza intenzionale, poiché allora essa do­
vrebbe precedere l’atto creativo. Essa discende sull’opera come
la grazia. È possibile che i suoi bagliori illuminino l’intui­
zione del creatore, ma essa è visibile solo quando il lavoro
artistico è stato portato a termine. Rilke dice che non si
può « fare » la bellezza, che l’artista dovrebbe pensare alla
bellezza. Il suo dovere si riduce a conoscere le condizioni
che faranno si, quando egli le avrà soddisfatte, che « la
bellezza si degni forse di scendere sulla cosa che avrà fat­
to »72. Per il creatore, la bellezza è il risultato della sua
opera; per l’ascoltatore, l’opera è la sorgente della bellezza.
J.-C. Piguet può dunque affermare che la percezione di un’o­
pera d’arte nella sua perfetta unità è il luogo dove l’arte si
lega indissolubilmente all’estetica73.
La « musica in sé » non significa niente di concreto al di
fuori di se stessa, niente che possa essere trasposto in un
linguaggio di immagini o di concetti. Essa è il paese delle
cose inesistenti che l’immaginazione del creatore e dell’ascol­
tatore possono, tuttavia, chiamare alla vita, basandosi su un
sistema musicale definito. Non appena il sistema crolla, le
formule musicali che poggiavano su di esso si decompongono;
in seguito, scompaiono completamente, oppure si inscrivono
nell’insieme del nuovo sistema, per adempiere in esso, tal­
volta, funzioni espressive totalmente diverse da quelle per
le quali un tempo erano state create.
Ogni spiegazione semantica della musica poggia su indica­
zioni del compositore (titoli, programmi, ecc.), o su associa­
zioni, o, infine, su convenzioni. Non si può parlare di « lin­
guaggio musicale » come veicolo di significati extramusicali,
se non nel quadro di una cultura definita. L’ascoltatore occi­
50 CAPITOLO TERZO

dentale di oggi ha già preso l’abitudine - le ricerche parti­


colareggiate sulla percezione musicale di R. Francès l’hanno
recentemente confermato74 - di cercare nella musica qual­
cosa di più che un gioco di strutture sonore; questo « valore
supplementare » che egli vi introduce accresce incontestabil­
mente la qualità della sua esperienza estetica. Ma non bisogna
attribuire un’importanza esagerata a questo modo di acco­
starsi alla musica. Se il valore di un’opera d’arte dipendesse
dal suo contenuto extra-artistico, esso andrebbe perduto nel
momento in cui il significato dell’opera (ciò che essa simbo­
leggia) cadesse in disuso, perdendo interesse per l’ascoltatore.
Il barocco ha lasciato una grande quantità di opere « a chia­
ve », che ancora ci colpiscono, sebbene oggi ci sia impossibile
decifrarne i segreti.
Il problema del « contenuto » della musica, e della maniera
di comunicarlo con l’aiuto di diversi simboli, è troppo vasto
e troppo complicato per tentare di presentarlo qui, anche se
brevemente, tanto più che, malgrado gli sforzi compiuti75,
questa questione non ha finora trovato soluzioni teoriche sod­
disfacenti 76. Esamineremo qui solo l’aspetto storico del pro­
blema, nei limiti in cui può chiarire il nostro argomento.
La concezione dell’opera d’arte in quanto simbolo, cosi come
l’abbiamo accettata, forma una base sufficiente, ci sembra,
per le considerazioni che seguono.

Dall’etico al patetico. In ogni epoca della sua storia, la


musica ha acquisito significati più o meno facili da trasporre
nel linguaggio verbale. Arnold Schering ha già detto che la
storia della musica è un ’arena in cui, senza sosta, certi sim­
boli muoiono ed altri nascono77. La tradizione di attribuire
alla musica facoltà psicagogiche ed espressive risale almeno
ai pitagorici, per i quali i ritmi erano simboli dello psichismo
e che usavano « la musica per purificare le anime »78. La
teoria delTe^or della musica si fa strada attraverso tutta
l’antichità greca: né i sofisti, né gli scettici ne arrestarono
il progresso. Il medioevo cristiano si affrettò a riprenderla.
Il carattere simbolico della musica sembrava evidente ed in­
discutibile e spingeva alle ricerche più sottili. Consideriamo,
ad esempio, questo testo di S. Agostino, che fa discendere
IL SIMBOLO NELL’ARTE 51

la musica dall’anima umana79: « L’uomo felice non pronuncia


parola, il suo canto gioioso è senza parola, è la voce del
cuore che si fonde nella gioia e cerca di esprimere i suoi
sentimenti anche senza comprenderne il significato » ®°.
Quattordici secoli dopo, d’Alembert dirà (pensando senza
dubbio anche alla musica strumentale) che la musica è di­
ventata progressivamente un genere di linguaggio, anzi di
lingua, che permette di esprimere ogni sorta di stato d’animo,
il che lo induce a pensare che essa potrebbe servire ad espri­
mere impressioni visive81. Rousseau va oltre: ritiene che la
musica « naturale », quella che dà solo un piacere sensuale,
sia inferiore alla musica « imitativa ». A suo parere « la
musica dipinge tutto, anche gli oggetti che non sono visibili;
grazie ad una suggestione quasi inconcepibile, essa sembra
mettere l’occhio nell’orecchio ». Rousseau non pensava agli
effetti onomatopeici (che abbondano nella musica francese,
a cominciare da La guerre (1528) di C. Janequin): compo­
sitore egli stesso, comprendeva quanto la formula imitativa
fosse limitata. « La musica, egli dice, non rappresenterà di­
rettamente queste cose, ma ecciterà nell’anima gli stessi mo­
vimenti che si provano vedendole »82.
Nel xviii secolo, la crescente pressione dello « spirito
borghese » diventa sensibile in tutte le arti, ed anche nel­
l’estetica. Per l’ascoltatore borghese, non ancora veramente
« illuminato » e già vicino al potere, la musica pura, come
quella creata da Bach, poi da Mozart e Haydn, si poneva
su di un piano troppo elevato. D’Alembert aveva ragione di
preoccuparsi, fin dal suo Dìscours préliminaire de VEncyclo-
pédie, di sapere chi avrebbe insegnato a questo nuovo ascol­
tatore ad ascoltare la musicau. Ma idee generali del tipo
« la musica porta la gioia o la tristezza », « dà piacere o
provoca dolore » non potevano soddisfare un ascoltatore non
iniziato, che chiedesse una definizione piu precisa delle facoltà
dell’arte. Cosi, il xvm secolo vede nascere la critica musicale,
il cui ruolo doveva consistere non nel limitare la libertà del
compositore (cosa alla quale, ahimè, ridurrà spesso il suo
compito, come dimostrano le sue pagine meno gloriose), ma
nello spiegare la musica. «La Rivoluzione [scriveva Grétry
in una lettera al direttore dell’Opera di Bruxelles] ci spinge
52 CAPITOLO TERZO

verso la verità in qualsiasi cosa, senza pietà per i pregiudizi »84.


Il culto del razionalismo aveva inculcato nell’ascoltatore bor­
ghese la convinzione che tutto poteva essere espresso con dei
concetti; idea che, applicata alla musica, portava talvolta al­
l’assurdo. Basta ricordare i progetti di creare regole di sim­
bolismo musicale, presentati alla fine del xvm secolo in
Germania da D. Schubart, e poco piu tardi in Francia da
Sudre. Queste idee ingenue possono oggi farci ridere, ma.
all’epoca, esse dissimulavano il desiderio, per nulla ingenuo,
di disciplinare un’arte che fino ad allora era sfuggita al buon
senso comune.
Cosi, il xvm secolo aveva fatto un gran passo verso la
comprensione dell’utilità della musica a fini espressivi. Nello
spirito dell’ascoltatore borghese ed in quello del creatore si
radica allora la convinzione che, accanto all’opera e alla mu­
sica accompagnata da un testo, una musica strumentale pura
sappia anch’essa rappresentare sentimenti, idee ed impressioni
visive. Ciò porta a parecchie conseguenze nello sviluppo ul­
teriore della musica.
Sebbene i primi romantici abbiano ancora lo sguardo ri­
volto verso modelli classici, hanno avuto luogo cambiamenti
troppo importanti nella loro situazione sociale e nel loro
modo di pensare perché sia loro possibile scrivere una musica
simile a quella dei loro predecessori. Un contenuto nuovo
esigeva un nuovo simbolismo, delle deviazioni rispetto alle
regole classiche erano inevitabili. Nelle opere di Haydn e
di Mozart, non era il linguaggio che colpiva i loro primi
ascoltatori borghesi (basato sull’armonia funzionale, esso ac­
cedeva qui, semplicemente, alla sua consacrazione), ma la
« bellezza pura » che emanava dalla musica, dal suo perfetto
equilibrio tra in sé e per noi, bellezza che l’ascoltatore non
aveva fino ad allora sperimentato, poiché essa era sempre
stata riservata agli eletti. Essa diventerà ben presto l’ideale,
e il linguaggio musicale che avrà compiuto tale miracolo con­
serverà il suo prestigio fino ai nostri giorni.
Alla base di ogni grande arte, c’è un problema etico.
Come ogni essere umano cosciente della sua ragion d’essere,
l’artista cerca la verità, cioè l’unità con il mondo. Malgrado
i suoi ideali, la Rivoluzione francese non aveva abolito l’in­
IL SIMBOLO NELL’ARTE 53

giustizia, aveva portato la libertà solo all’individualismo bor­


ghese. Fintantoché il creatore romantico nutriva delle illusioni
sulle intenzioni liberatrici della sua classe, non c’era una
contraddizione fondamentale fra i suoi intenti artistici ed i
bisogni dell’ascoltatore borghese. Il conflitto, sempre più pro­
fondo, verrà alla luce man mano che svaniranno le speranze
dell’artista di trovarsi in armonia con la realtà circostante.
Non potendo accettare la realtà, gli restavano solo due vie
per affermare la sua libertà individuale: tentare di trasfor­
mare la realtà, o voltarle le spalle con disprezzo e tradurre
le sue esperienze e i suoi pensieri più intimi in un’arte
inaccessibile ai comuni mortali.
Non si può definire altrimenti che paradossale la situazione
in cui la storia ha rinchiuso l’artista, fin dalla fine del xvm
e dall’inizio del xix secolo: non appena egli si era emancipato
socialmente, non appena aveva raggiunto, almeno in appa­
renza, l’indipendenza nei riguardi della morale, della politica,
della scienza, nel momento in cui si distaccava dall’ideale
classico, ancora cosi vicino, l’artista, che lo volesse o no,
cadeva in una nuova schiavitù, quella dello psicologismo. In
effetti, i suoi sforzi per fuggire la vita dove non trovava per
sé un posto ben definito, e per rifugiarsi in un’arte di
sentimenti e di pensieri sublimi, si mostravano vani, poiché
la critica musicale, che aveva dapprima scagliato fulmini con­
tro la « bizzarria » di ogni linguaggio musicale un po’ diffe­
rente dal linguaggio classico, fece presto a scorgerne il va­
lore espressivo: essa insegnò allora all’ascoltatore borghese
come decifrare il simbolismo apparentemente ermetico della
nuova musica. Minacciato nel suo splendido isolamento, l’ar­
tista si mette ad usare mezzi sempre più ricercati, ad esibire
con arroganza le sue esperienze più intime. Berlioz fornisce
un esempio che colpisce di questa « teatralizzazione » della
musica85, mentre in Wagner la messa in scena è « totale»:
vi si mostra tutto, dell’arte come della vita. Per poter espri­
mere con la maggior verità possibile la passione di Tristano
per Isotta, Wagner aveva voluto innamorarsi di Mathilde
Wesendonck.
Karol Szymanowski, che doveva soffrire del peso di questa
tradizione romantica, ne definisce perfettamente i tratti, no­
54 CAPITOLO TERZO

tando, già in Beethoven, la supremazia dell’elemento etico


su quello estetico; questo conduceva all’esibizionismo, al*
F« istrionismo del gesto », dice Szymanowski, non solo in
Wagner, ma anche, e soprattutto, negli artisti minori, « an­
negati in un sentimentalismo insipido [...], o che gonfiavano,
con gesti patetici, i loro problemi personali privi di interesse,
per dare loro dimensioni da catastrofe universale »tó. Non
fu forse Richard Strauss a mostrare, meglio di tutti, questi
artisti in Una vita d'eroe, dove descrive, non senza umorismo,
è vero, la sua propria vita, tipicamente borghese?
Nietzsche aveva ragione di dire che, in musica, l’intelligenza
non potrà rappresentarsi «la volontà » (allusione a Schopen­
hauer) e « la cosa in sé » (allusione a Kant), se non nel
momento in cui Finterò ambito della vita interiore si sarà
aperto al simbolismo musicale87. Il trionfo dello psicologismo
e della concezione « espressionista » avrebbe pregiudicato le
sorti della musica per centinaia di anni. Alla luce di ciò che
abbiamo appena detto, l’estetica « autonomista » di Hanslick
appare come un movimento di buon senso ed una protesta
dell’intelligenza contro l’ipertrofia dei sentimenti nella musica;
vi si potrebbe difficilmente scorgere un tentativo di apologia,
di un formalismo che un uomo appassionato dei classici e
di Brahms non poteva ammirare. Del resto, né Hanslick, né
Théophile Gautier, che quasi nello stesso periodo affermava
con asprezza che l’arte non è un mezzo ma uno scopo, e
rifiutava la qualifica di artista a chi cercasse qualcosa che non
fosse la bellezza88, l’ebbero vinta; in ogni caso non riusci­
rono a fermare il corso degli eventi. I musicisti si erano
allontanati da quelle idee e lo stesso Saint-Saèns, pur es­
sendo un difensore del « mestiere », e per questo considerato
una pecora nera da molti romantici, pensava che l’arte fosse
prima di tutto una forma. Ma egli si vide obbligato a dichia­
rare, nel 1897: « La musica non è uno strumento di piacere
fisico [...]. Non si tratta più di cercare ciò che da più o
meno piacere all’orecchio, ma ciò che allarga il cuore, ciò
che eleva l’anima, ciò che risveglia l’immaginazione »89. Solo
Debussy metterà da parte ogni « pudore », per dire aperta­
mente e in opposizione a tutti coloro che erano infatuati del
IL SIMBOLO NELL’ARTE
55

« wagnerismo »: «La musica francese vuole, prima di tutto,


far piacere »90.
La democratizzazione della cultura musicale del xix secolo
accelerava il processo attraverso il quale il simbolismo mu­
sicale diventava un linguaggio convenzionale. Non era solo
il destino della Quinta sinfonia che « bussava alle porte della
vita » con le sue quattro note, né i soli Darstellungsmotive
che imponevano all’immaginazione immagini concrete: tutto
in questo sistema poteva servire da veicolo a contenuti extra-
musicali, tutto diventava semantico.
L’invasione del linguaggio musicale da parte dei concetti
e l’allontanamento del pensiero musicale dalla realtà sonora
erano spesso favoriti dalla preponderanza dell’elemento lineare
nella costruzione dell’opera. L’introduzione dell’elemento ar­
monico nella struttura melodica, realizzata definitivamente nel
xviii secolo sulla base del sistema funzionale maggiore-minore,
non cambiava in nulla tale egemonia, poiché nello stesso
tempo faceva la sua apparizione il sistema di pensiero te­
matico basato sulla tecnica imitativa. L’accordo temperato,
generalizzato dall’uso del pianoforte, e soprattutto il trionfo
della concezione espressionista della musica, che conduceva
necessariamente all’uniformazione del simbolismo musicale,
ebbero un ruolo non meno importante. Il dialogo con l’espe­
rienza umana racchiusa dall’incantesimo dell’arte nella forma
sensibile, ambigua dell’opera, si trasformava cosi in una rice­
zione passiva di segni di un codice d’informazione che non
lasciava nessun margine al libero gioco dell’immaginazione.
Il sistema musicale in vigore era logorato e Debussy lo
avvertiva penosamente. Ne troviamo una prova nel resoconto
che fece del suo incontro con Henri de Régnier, nel 1893:
« Mentre mi parlava di certe parole della lingua francese
il cui oro si era appannato a forza di frequentare troppo
della brutta gente, pensavo fra me e me che accadeva lo
stesso per certi accordi, la cui sonorità era diventata banale
in una musica d’esportazione. Questa riflessione non sarebbe
di ima novità strepitosa, se non aggiungessi che essi hanno
perduto, nello stesso tempo, la loro essenza simbolica »91.
56 CAPITOLO TERZO

* Impressionismo »> formula imbarazzante. Un’opera musi­


cale nell’ambito di un sistema che ha una lunga tradizione,
può assorbire ogni sorta di significati; l’insieme è percepito
dall’ascoltatore come una forma che lo incita ad una spiega­
zione semantica, anzi, che gli impone associazioni di idee ed
immagini concrete; può dunque sembrare ozioso cercare di
sapere quale sia stata, tra l’impressionismo ed il simbolismo,
la molla principale della creazione di Debussy, tanto più che
il pubblico stesso si è da tempo pronunciato a favore dei-
l’« impressionismo ». Riprendere questa discussione, vuol dire
veramente tornare a sterili controversie terminologiche? Se il
problema si riducesse ad una definizione più precisa di termini,
la cosa non varrebbe la pena di essere tentata, almeno a nostro
parere. Ma si tratta di molto di più. Nel caso della musica
di Debussy (notiamo che, perfino agli occhi dei difensori più
accaniti dell’* impressionismo musicale », essa sembra essere
la sola a cui tale formula corrisponde veramente), l’analogia
stabilita con la pittura impressionista partiva da false premesse
che portavano ad una falsa categoria stilistica. Per di più, esse
deformavano la reale immagine dello sviluppo della musica,
impedendo di apprezzare nel suo giusto valore l’apporto inno­
vatore del musicista de L’après-midi d'un faune.
Nella percezione dell’opera musicale, solo il suo lato fun­
zionale è « misurabile »; invece, tutto ciò che essa rappresenta
ed esprime può essere interpretato in diversi modi; l’atten­
zione dei musicologi, soprattutto dei musicologi tedeschi, si
è dunque concentrata sulla tecnica compositiva di Debussy.
Nelle loro analisi, essi si servivano di criteri basati su mate­
riale storico, ed è per questo che le loro conclusioni possono
oggi urtarci per la loro ristrettezza. Kant l’ha dimostrato:
la conoscenza empirica dipende non solo dal materiale esa­
minato, ma anche dalle categorie di concetti in cui si fa en­
trare l’oggetto della conoscenza. Malgrado certi tentativi di
modernizzazione, la musicologia degli anni venti e trenta uti­
lizzava concetti tradizionali, e non era, dunque, in grado di
cogliere il senso profondo dell’opera di Debussy. La sua teoria
della strumentazione era allo stato embrionale e la sua psi­
cologia dell’espressione partiva da principi metafisici o restava
abbarbicata ai dati dell’atomismo associazionista (Helmholtz,
IL SIMBOLO NELL’ARTE 57

Stumpf, Ebbinghaus), non traeva conclusioni dalla Gestalt-


theorie ed ignorava la psicoanalisi. Nelle ricerche di quell’epoca,
le questioni tonali ed armoniche si trovavano in primo piano:
venivano esaminate senza tenere conto della sonorità reale
dell’opera musicale, dei suoi elementi di realizzazione, consi­
derati secondari. Tuttavia, sono proprio questi elementi che
cominciarono ad assumere un ruolo essenziale nella musica
di Debussy: il suono puro concreto prendeva in lui l’impor­
tanza di un elemento co-creatore della struttura dell’opera,
allo stesso titolo della melodia, del ritmo e dell’armonia.
Prendendo come modello le grandi opere del passato, i
musicologi ricorrevano sempre alle metafore spaziali, anco­
rate da molto tempo nella tradizione culturale europea, ed
in particolare alla definizione dei fenomeni musicali in termini
di categorie visive. Si è spesso constatato92 che gran parte
del vocabolario musicale di base proviene dal campo dell’ot­
tica (intervallo, disegno, forma, ornamento, « sopra » e « sot­
to », « alto » e « basso », simmetria ed asimmetria, ecc.).
Questo può senza dubbio spiegarsi con la trasposizione del
fatto musicale su di una superficie piana (nella notazione)
che talvolta trovava un riflesso fin nella musica stessa (le
figure polifoniche del movimento « a gambero » o « a spec­
chio »). Se si aggiunge che, nella loro accezione corrente,
« melodia » è sinonimo di « colore », non sembrerà più stu­
pefacente che, nella terminologia musicologica, i valori pura­
mente sonori della struttura, che risultano dalla scelta dei
mezzi di esecuzione e dalla maniera di trattare il suono con
l’aiuto del ritmo, della dinamica, dell’agogica e dell’articola­
zione, siano stati interpretati come manifestazioni del « colore
sonoro »: aggiungiamo che essi venivano esaminati in rapporto
con l’armonia funzionale, sebbene, in fondo, si trovino al di
fuori di essa e delle sue leggi. Sulla base di questo sistema
di metafore o, come è stato detto a ragione, di questa « to­
pografia musicale » sviluppata dalla tradizione e nel corso dei
tempi piu recenti, analogie con la pittura potevano facilmente
proliferare in musicologia, e, in effetti, si moltiplicarono.
Qualsiasi analogia può essere utile finché non serve da
fondamento a costruzioni teoriche che vengono a seminare
il disordine nelle nostre conoscenze del mondo. Tendendo alla
5* CAPITOLO TERZO

precisione, i musicologi avevano ragione di occuparsi soprat­


tutto dell’aspetto funzionale dell’opera di Debussy; il guaio
è che le loro analisi non abbracciavano tutti i problemi che
tale musica poneva. I valori puramente sonori restavano al
di fuori delle ricerche, e tuttavia essi non sono meno essen­
ziali degli altri. Per poco che si rifletta sullo sviluppo ulte­
riore della musica, si vedrà che essi lo sono molto di più
degli aspetti studiati.
Usando metodi tradizionali nell’analisi della tecnica com­
positiva di Debussy, la musicologia arrivava solo a risultati
parziali, cosa che andava di pari passo con l’aberrazione si­
gnificativa in cui si è smarrita la spiegazione estetica della
sua opera: invece di cercare corrispondenze del suo stile in
opere di poeti o di pittori contemporanei, si restava fermi
alla formula della corrente (impressionista). È vero che al
tempo di Debussy essa riportava i suoi primi successi presso
il pubblico, ma sul terreno dei combattimenti ideologici, essa
cessava già di avere un ruolo preponderante, per cedere il
posto alle nuove correnti, che si valevano delle sue conquiste
(simbolismo, sintetismo, fauvismo, espressionismo, neoclassi­
cismo). Da quel momento data l’idea del pretesto ritardo della
musica rispetto agli altri campi dell’arte, ritardo che, si diceva,
neanche un creatore come Debussy, sebbene sensibilizzato
più di qualsiasi altro musicista nella storia a tutto ciò che gli
accadeva intorno, avrebbe potuto recuperare.
Paul Valéry diceva con ragione: « Ci sono due tipi di
opere, le une che creano il loro pubblico, le altre che sono
create dal loro pubblico. Ogni nuova « scuola » tende a
creare un pubblico; ma questo pubblico crea, genera a sua
volta opere che fanno al caso suo »93. I musicologi si tro­
vavano nella situazione del pubblico sedotto dalla pittura
degli impressionisti ed in cerca di somiglianze con l’opera di
Debussy. Non seppero innalzarsi al di sopra del livello medio
di percezione ed oltrepassare la soglia che separa, soprattutto
nel momento delle grandi crisi spirituali, le esperienze este­
tiche del pubblico dalle intenzioni dell’artista. La fenomeno­
logia (Kurth, Mersmann) non faceva altro che favorire tale
visione, poiché ammetteva a priori l’armonia universale, e si
collocava cosi sul terreno neutro della conoscenza, dove la
IL SIMBOLO NELL’ARTE 59

costituzione del senso (Konstituzion) è identificata con la sua


percezione (Sinngebung), l’artista con il pubblico94, l’arte con
l’estetica; in altri termini, essa confondeva i fini artistici con
i fini estetici, e, di conseguenza, anche i tipi di linguaggio
corrispondenti. Quando un sistema musicale si decompone,
tutte le sue funzioni espressive sono alterate; l’entità sonora
che noi percepiamo cessa di essere per noi un veicolo di
senso (Sìnntràger), o, come direbbe Roman Ingarden, « di
valori sonori »; il senso che tale entità conferisce a se stessa
(Selbstsinngebung) non è percepibile a noi, poiché ignoriamo
il nuovo sistema delle corrispondenze. Allora diventa evi­
dente che, nello studio delle opere d’arte non esiste un me­
todo esaustivo e che a nessun metodo si può accordare l’e­
sclusività. Siamo, per cosi dire, condannati alla pluralità dei
metodi ed alla pluralità dei punti di vista. La tesi di Ludwig
Wittgenstein (alla quale Bertrand Russel ha apportato delle
precisazioni) ce ne ha fatto prendere coscienza: non c’è pas­
saggio da un linguaggio ad un altro - nel caso di cui ci
occupiamo, dal linguaggio « normativo » dell’estetica, al lin­
guaggio « evocatore » dell’arte - poiché ciascuno di essi pos­
siede le sue particolarità ed è regolato dalla sua propria
logica95.
Certo, la musicologia aveva scorto nell’opera di Debussy
la partecipazione dei valori sonori, ma, accordando loro una
importanza secondaria rispetto all’elemento armonico, essa
si impediva di trarre da tale constatazione ima conclusione
che la portasse a rivedere i suoi metodi di ricerca. Kurt
Westphal non era lontano dalla verità, quando scriveva che
la musica di Debussy « aveva scoperto il suono puro, il suono
avente un’azione acustica elementare, indipendente dagli in­
siemi artistici di suoni collegati secondo il principio funzio­
nale »; aggiungeva che, nel caso di Debussy, si poteva anzi
parlare di « suoni liberati dall’armonia » ma predicava nel
deserto. Nessuno cercò di approfondire il significato delle
sue parole e, oltre tutto, egli stesso sembrava non dare loro
molta importanza. Dopo la Seconda Guerra mondiale, Werner
Danckert, il più acuto degli specialisti tedeschi di Debussy,
credeva ancora di poter trascurare l’opinione di Westphal97.
Ostinatamente attaccata ai metodi tradizionali, la musico­
6o CAPITOLO TERZO

logia era in grado di spiegare la decomposizione del sistema


armonico funzionale nell’opera di Debussy, cioè la sua azione
distruttiva, ma non poteva che fallire nel descrivere Fazione
di un nuovo meccanismo delle corrispondenze e il ruolo pri­
mordiale e creatore della forma, che i valori sonori assu­
mevano in quel meccanismo. Attribuendo loro caratteri « co­
loristi », e cioè gli stessi che attribuivano agli elementi ar­
monici, ed allargando ancora la metafora con riferimenti alla
pittura impressionista, i musicologi, sebbene disponessero
delle armi della fenomenologia, seguivano schemi che potevano
condurre solo ad un vicolo cieco. In effetti, quei valori
sonori « irrazionali » di cui misconoscevano la portata, i soli
che sfuggissero al sistema concettuale esistente e che fossero
liberi da qualsiasi funzione imitativa o rappresentativa, erano
uno strumento eccezionale - e la musica di Debussy lo
prova - che permetteva non solo di rompere la struttura del­
l’opera musicale ed il suo simbolismo, ma anche di costruire
strutture nuove, su principi differenti.
La formula « impressionista » non aiutava, al contrario,
impediva di vedere il vero volto della musica di Debussy.
Essa sottolineava troppo il lato esteriore, formale, delle sue
opere, che del resto la musicologia non poteva presentare
correttamente, usando metodi tradizionali; d’altra parte, essa
era apparsa nella letteratura specializzata (non senza l’influsso
degli scritti di Hamann) come un termine puramente artifi­
ciale, che si pretendeva di far assurgere a « stile » (di una
scuola o di un’epoca).
Se si intende per stile un modo particolare di creare insiemi
artistici organizzati, modo determinato dai caratteri propri
degli artisti e della loro situazione sociale e storica, è evidente
che non ci si può ragionevolmente limitare ai soli mezzi for­
mali utilizzati da un artista, per definire il suo stile98. Biso­
gnerebbe tenere conto ugualmente di altri indizi, come la
personalità dell’autore, le sue opinioni filosofiche ed estetiche,
le sue preferenze riguardo ai soggetti ed ai generi, la sua
epoca, il suo ambiente sociale. Ora, quali sono gli indizi che
la musicologia aveva preso in considerazione creando il ter­
mine di « stile impressionista »?
Apparentemente, tutti. Ma, se si osserva più da vicino, si
IL SIMBOLO NELL’ARTE 6l

vedrà che nessuno di essi era stato approfondito a sufficienza.


Il tipo di analisi stilistica coltivato in musicologia è stato
vigorosamente criticato, in questi ultimi tempi, da uno dei
più brillanti giovani musicologi polacchi, M. Bristiger, in
margine al suo studio Le origini delle forme musicali'. « È
caratteristico del metodo di simili analisi che si utilizzino solo
frammenti delle opere studiate, il che [si afferma] è sufficiente
alla descrizione stilistica, mentre i dati che si lasciano definire
solo a partire dalla forma dell’opera nel suo insieme spesso
non vengono neppure presi in considerazione » ". Certo, molti
elementi mancavano alla musicologia dell’anteguerra, fra l’al­
tro le fonti sul periodo in cui si era formata l’estetica di
Debussy, le opere fondamentali sull’impressionismo (John
Rewald) e il simbolismo (Guy Michaud). Altre debolezze
risultavano dalla mancanza di distanza nei riguardi dei fe­
nomeni culturali della fine del xix secolo e dell’inizio del
xx. Ciò non toglie che, quasi mezzo secolo dopo la morte
di Debussy, si continui sempre ad usare la stessa formula
magica che, fin dall’inizio, significava troppe cose insieme per
poterne significare qualcuna. Perché mantenerla in vita con
artifici di cui l’articolo di Hans Albrecht, nella enciclopedia
Die Musik in Geschichte und Gegenwart I0°, dà un esempio
sorprendente? A quali prove l’autore non fa appello per sal­
varla: l’influsso del romanticismo, gli elementi realisti e na­
turalisti del linguaggio musicale, e, naturalmente, i legami
della musica con la pittura impressionista e la poesia (in cui,
del resto, egli non distingue l’impressionismo dal simbolismo),
l’esotismo ed il folclore straniero. L’onestà impedisce ad Al­
brecht di tacere gli elementi anti-impressionisti della musica
« impressionista », e cioè: ritorno al classicismo francese dei
xviii secolo, rafforzamento del ritmo e dei contorni melo­
dici, gusto della « caricatura ». Il sentimento nazionale ferito
dirà anch’esso la sua in questo studio. Debussy aveva lottato
aspramente contro il wagnerismo e l’egemonia della musica
tedesca (un intero capitolo è dedicato a questo argomento).
Infine, per quanto riguarda i mezzi artistici della musica im­
pressionista, s’indovina, già solo guardando l’inizio dei capi­
toli, che egli non avrà niente di molto nuovo da dire. Si
sarebbe potuto credere che fossero state messe insieme tutte
Ó2 CAPITOLO TERZO

le condizioni perché egli ci insegnasse che cosa sia l’impres-


sionismo in musica, ma ahimè, ne è risultato solo un ibrido
da cui si può trarre, riguardo alla musica di Debussy, solo
questa conclusione: la sua sensualità raffinata e naturalista,
macchiata di decadentismo, arriva ad un nuovo « programma »,
il cui tratto principale è il gusto dell’esotismo orientale e
del folclore straniero, che non impedisce un’impronta nazio­
nale, anzi nazionalista, molto accentuata. Per uno studio di
parecchie pagine, fatto per dare una definizione precisa di
un termine controverso, è un magro risultato; persino un
lettore non avveduto e imparziale, arrivato alla fine dell’ar*
ticolo, non mancherà di chiedersi se la posta cosi lungamente
discussa esista realmente.
Le opere di Stefania Lobaczewska, dove si tratta spesso
dell’impressionismo, attestano anch’esse la fragilità delle basi
su cui poggia tale nozione in musicologia. « Senza tenere
conto dei legami che uniscono la musica e la pittura, sarebbe
impossibile definire l’essenza dello stile della musica im­
pressionista »101, dice la Lobaczewska. E altrove: « Il pro­
gramma è stato, nella musica di Debussy, sublimato a tal
punto dal temperamento fondamentalmente musicale del com­
positore che non può essere accettato qui come criterio sti­
listico ». Che criterio bisogna allora accettare? È evidente:
« prima di tutto l’armonia »102. Ed ecco l’idea mutuata da
Kurth, che tornerà in tutti gli studi della Lobaczewska; è
pure da Kurth che prenderà a prestito la formula dell’im­
pressionismo, « ultima fase del romanticismo »; al contrario
di Mersmann, affermerà che l’impressionismo non fu una
reazione contro il naturalismo, poiché era esso stesso « un
naturalismo nel suo genereI03, e poiché, in ogni caso, esso
traeva origine dal naturalismo » 104. Solo nel 1962 l’opinione
della Lobaczewska cambierà, sotto l’infiusso degli articoli
teorici di Józef M. Chomiiiski sul « metodo sonoriale di
analisi dell’opera musicale » 10S. È un peccato che si sia dovuto
aspettare tanto perché l’idea (ripresa dopo Westphal, ma
con enfasi giovanile) che « nella musica impressionista t06, il
suono stesso è contemporaneamente scopo principale e conte­
nuto », conducesse la Lobaczewska a conclusioni piu giuste:
non è l’armonia il criterio decisivo, ma l’aspetto sonoriale
IL SIMBOLO NELL’ARTE 63

dell'opera (la Lobaczewska usa ancora il termine « colori­


sta »), finalmente riconosciuto come « l'elemento originale,
che determina la condotta degli altri elementi musicali », dun­
que dell’armonia 107. Ciò non toglie che, nello stesso articolo,
l'autrice torni all’analogia con l'impressionismo, « più in par­
ticolare, il pointillisme », o, per essere più esatti, il tachisme,
ed al criterio che era stato respinto, per affermare che tutti
gli effetti di questa musica « rimangono sempre al servizio
di un certo programma definito nel titolo, senza il quale
né le intenzioni dell'autore, né le forme della loro realizza­
zione possono essere comprese pienamente » 108.
Si potrebbero moltiplicare all’infinito gli esempi di ogni
sorta di incoerenze, di oltraggi alla logica elementare, ed
anche di affermazioni gratuite, di cui si rendono colpevoli
i difensori dell’* impressionismo » di Debussy. Ma si sba­
glierebbe se si credesse che tale formula, a cui si era
voluta ricondurre l'essenza della sua musica, non avesse in­
contrato opposizioni. La sua inadeguatezza era evidente a
molti contemporanei di Debussy, e soprattutto a lui stesso,
che l'aveva messa in ridicolo tante volte. Paul Dukas, per
esempio, che talvolta faceva della critica musicale, non usò
mai quest’etichetta. Amici di Debussy, Robert Godet, Georges
Jean-Aubry e Louis Laloy, la valutavano con grandi riserve.
Laloy, musicologo e critico musicale molto ascoltato ai suoi
tempi, previde con stupefacente esattezza le vie che avrebbe
seguito lo sviluppo della musica1W. Fu lui che disse, tanto
giustamente, di Debussy: « Unisce la logica delle note alla
logica dei suoni »110. Egli rappresenta per noi un caso in­
teressante, nella misura in cui, senza negare in Debussy
sia le tendenze impressioniste sia quelle simboliste (che, a
suo parere, si riconducevano ad un « anticerebralismo »
comune a queste due tendenze, e ad un interesse per le
« regioni sconosciute dell'esistenza » 111 ), scoprì in alcune delle
sue opere (a cominciare da La mer, o anche dalle com­
posizioni precedenti) una terza corrente: quella « classica ».
Conformemente ai suoi gusti personali, egli salutava, nel 1908,
l’avvio di uno stile nuovo: «L’arte di Debussy [...], dap­
prima tutta impressionista, oggi adotta forme più ampie,
idee più precise, costruzioni più solide, ritmi più vigorosi »112.
64 CAPITOLO TERZO

La sua speranza si basava soprattutto su opere come il trittico


sinfonico La mer (1905), Children’s Corner per pianoforte
(1908), Trots chansons de Charles d’Orléans per coro misto
a cappella (1908). Ma, poiché la curva creativa di Debussy,
alla fine della sua vita, diventava particolarmente capricciosa,
nessuna delle « nuove maniere » segnalate dalla critica potè
essere definitivamente accettata.
Laloy non è stato il solo a fame l’esperienza. D. Chenne-
vière, autore di un opuscolo su Debussy, il secondo uscito
in Francia mentre il compositore era in vita, aveva cercato
di distinguere nella sua opera, tre periodi: il primo, che ar­
rivava fino a comprendere Pelléas et Mélisande, sarebbe
stato dominato da un simbolismo venato d’impressionismo;
il secondo, dal « naturismo » che avrebbe raggiunto il suo
apogeo in Ibéria (1908), mentre, nel corso del terzo, l’arte
del compositore sarebbe diventata « idealista » ed « essen­
zialmente melodica, di una semplicità e di una chiarezza at­
tiche », per trovare la sua apoteosi in... Le martyre de Saint
Sebastien (1911)113. Questa divisione, come le altre, sembra
corrispondere più ai desideri del suo autore che alla realtà.
Ciò non impedì al termine « classicismo », introdotto da
Laloy, molto probabilmente sotto l’influsso di Busoni1,4 e
meccanicamente ripreso da Chennevière, di restare per anni
e anni legato alle opere dell’« ultimo periodo », sebbene i veri
rappresentanti del « classicismo » (Satie, Le groupe des Six,
Prokof’ev, Stravinskij, Hindemith) non riconoscessero in De­
bussy il loro precursore.
Non mancavano le voci che reclamavano che si rinunciasse
alla.« formula impressionista» (Setaccioli, Perracchio, Koe-
chlin), ma gli argomenti non erano abbastanza convincenti.
Il più delle volte, si cercavano soluzioni di compromesso.
Così, per esempio, Fabian affermerà che La mer metteva fine
all’epoca impressionista ed apriva la strada all’espressionismo.
Egli considerava gli anni 1904-1913 come il periodo dello
« stile melodico semplificato », parallelo all’espressionismo.
Infine, comprendeva nel periodo «neoclassico» (1913-1917),
fra l’altro, Le martyre de Saint Sébastien e Les jeux 115. An­
dreas Liess, nei suoi primi lavori, seguiva ancora Kurth da
vicino, sebbene fin da allora facesse fatica a spiegare certe
IL SIMBOLO NELL’ARTE 65

particolarità del linguaggio musicale di Debussy116; poi, se­


guendo Laloy, tentò di provare, in un’ampia monografia, che
la musica dell’autore di L’après-midi d’un faune, « simbolista
nello spirito e impressionista nella tecnica », tendeva netta­
mente alla musica assoluta, la musica « pura », e che segna
l’inizio dell’epoca « neoclassica » 117. È Werner Danckert ad
avere esaminato con la maggiore profondità l’opera di De­
bussy, nella sua monografia, senz’altro la migliore uscita fi­
nora; ma egli resta su antiche posizioni in materia di lin­
guaggio musicale, senza osare di passare apertamente dalla
parte dei difensori del « simbolismo » di Debussy.
Dove trovare chi abbia osato farlo? Non si poteva certo
sperare che si trattasse di Vasilij Kandinskij, il creatore della
pittura astratta. In un piccolo libro, scritto nel 1910, Uber
das Geistige in der Kunst, si può leggere fra l’altro: « I mu­
sicisti più moderni, come Debussy, introducono impressioni
spirituali, che attingono spesso alla natura e trasfigurano in
forma puramente musicale le immagini spirituali. Proprio
Debussy viene perciò spesso paragonato agli impressionisti
[...]. Sarebbe troppo ardimento affermare che la definizione
citata rappresenti in modo esauriente l’importanza di De­
bussy. Nonostante il punto di contatto con gli impressionisti,
la tendenza di questo musicista al contenuto interiore è tal­
mente forte che nelle sue opere si riconosce immediatamente
l’anima, dal suono incrinato, del presente, con tutti i suoi
dolori strazianti e la sua tensione nervosa. E d’altra parte
Debussy non usa mai, neppure nelle immagini “ impressio­
nistiche ”, una descrizione interamente materiale, che è l’ele­
mento caratteristico della musica a programma, ma si limita
all’utilizzazione del valore interiore del fenomeno » 118.
Considerata l’epoca in cui ciò è stato detto, dobbiamo
riconoscere che era difficile rendere un omaggio più bello
alla musica di Debussy.
Fra i critici, gli inglesi furono i primi a scorgere i legami
che univano Debussy al simbolismo. Arthur Symons non
esitò a scrivere, fin dal 1908: « Debussy è il Mallarmé della
musica » U9, mentre M.T.E. Clark aggiunse un commento più
preciso a questo paragone: « Debussy usa gli accordi come
Mallarmé usa le parole, come specchi che concentrano la
66 CAPITOLO TERZO

luce di cento punti differenti sul significato esatto, ma riman­


gono i simboli del significato, non il significato stesso. Queste
strane armonie [...] non sono affatto la fine, e neppure il
punto di partenza delle intenzioni del compositore, bensì la
trama sulla quale l’immaginazione deve tessere le sue fan­
tasie » 12°.
Debussy vedeva la superiorità della musica sulle altre arti
proprio nel fatto che essa era ambigua, non sottomessa a
« precisazioni e contingenze come i colori e le parole » 121.
Egli non dirige i suoi eserciti di suoni come un generale che
segua piani tattici rigorosamente stabiliti. Per lui, si tratta
di strategia. Ha fiducia nella sua intuizione e non esita,
quando è il momento, a lasciare l’iniziativa ai soli suoni;
unisce gli atti coscienti all’azione di forze fortuite, o almeno
dà l’impressione di farlo. Se attira l’attenzione dell’ascolta­
tore su dei particolari, lo fa per moltiplicare i punti di
vista nella sua percezione. Raccoglie i suoni in gruppi piu
o meno omogenei, oppure li lascia seminare il disordine in
degli insiemi che da molto tempo godevano di buona repu­
tazione, e getta cosi una luce nuova su associazioni di suoni
momentanee o durevoli, ne cambia continuamente i valori
espressivi, impedendo che essi si fissino, che assumano un’iden­
tità. Diversificando i metri, egli obbliga i suoi ascoltatori a
prendere coscienza della loro importanza nell’opera musicale;
smorza o mette in rilievo gli impulsi ritmici, divide o con­
fonde le sonorità - non si può prevedere nulla in anticipo
nella sua musica. Essa si sviluppa spontaneamente. Ignora
quelle lunghe introduzioni, quegli ampi finali che facevano
la gioia della retorica romantica. La sua musica non comincia
e non finisce. Emerge dal silenzio, s’impone senza preliminari,
in medias res, poi, interrompendo il suo corso, continua a
tessere la sua trama nel nostro sogno. La sua forma non
è chiusa, le immagini statiche non la tentano, a meno che
non si tratti di mostrare che sa utilizzarle lo stesso. Perché
sarebbe una « finestra sul mondo » (come è il quadro, se­
condo la definizione di Alberti), che crei l’illusione delle tre
dimensioni, se essa stessa è a tre dimensioni? Debussy non
spera, come gli impressionisti, di vedere la verità e di rive­
larla. Sa bene che la verità si può solo sperimentare, poi,
NOTE 67

tutt’al più, suggerirne l’esperienza. Grazie al movimento in­


cessante di particelle sonore piccole o più grandi, accade
sempre qualcosa in questa musica, qualcosa in essa vive e
muore, si forma, si rinnova senza sosta, scintilla di sensi
diversi, senza significare pienamente nulla. Essa sembra in­
carnare il divenire bergsoniano della realtà, ma è più di que­
sto: una cattedrale piena di simboli che viaggia attraverso il
tempo.

1 Ernst Cassirer, Das Symbolproblem und seine Stellung im


System der Philosophic, « Zeitschrift fiìr Àsthetik », 1927, voi. xxi.
2 Quinto Congresso deWAssociation Internationale des Études fran-
faises, Collège de France, settembre 1953.
3 marcel Raymond, Da Baudelaire al surrealismo, tr. it. Einaudi,
Torino 1975, p. 47.
4 Saint-Antoine, Qu’est-ce que le symbolisme?, in « L’Ermitage »,
giugno 1894.
5 Wolfgang goethe, Sprùche in Prosa. Maximen und Reflexionen, nn.
742, 743•
6 Henri bergson, Il riso, tr. it. Rizzoli, Milano 1961.
7 Ernst von sydow, Form und Symbol, Potsdam 1929, p. 28.
8 j. baruzi, Saint Jean de la Croix et le problème de Vexpérience
mystique, Paris 1924.
9 Maurice blanchot, Le secret du Golem, « n.r.f. », n. 29, 1955,
pp. 871-872.
10 Maurice merleau-ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it.
Il Saggiatore, Milano 1972, p. 269.
11 thomas s. Eliot, Essais choisis, Paris 1950, pp. 168-169.
12 Guglielmo ferrerò, Les lois psychologiques du Symbolisme, Pa­
ris 1894, p. 26.
13 Emeric fiser, La théorie du symbole littéraire et Marcel Proust,
Paris 1941, pp. 43-49.
14 stanislaw ossowski, U podstaw estetyki [Principi di estetica],
Warszawa 1958, p. 180.
15 THOMAS s. ELIOT, Op. dt., p. 33.
16 Raymond bayer, Traité d’esthétique, Paris 1936, p. 45.
17 johan huizinga, L'Autunno del Medio Evo, tr. it. Sansoni, Firenze
1978, p. 283.
18 Citazione tratta da wladyslaw tatarkiewicz, Historia estetyki. 1:
68 CAPITOLO TERZO

Estetyka sredniowieczna [Storia dell’estetica, i: L’estetica medievale],


Wrodaw-Kraków i960, p. 43.
19 Étienne Gilson, La philosophic au Moyen Age, Paris 1944, p. 440.
20 johan Huizinga, op. cit., p. 291. A ciò aveva contribuito altrettanto
la filosofìa antica che, come la mitologia, sopravvisse nel medioevo, dis­
simulata in diverse figure simboliche. Cfr. j. seznec, La survivance des
dieux antiques, London 1940.
21 MARCEL RAYMOND, Op. cit., p. 6.
22 james l. austin, L'univers poétique de Baudelaire. Symbolisme
et symbolique, Paris 1936, pp. 143-144.
23 Ivi, p. 14.
24 Charles Baudelaire, Salon 1859, Poesie e Prose, tr. it. Monda-
dori, Milano 1973, pp. 819-820.
25 Ivi, p. 827.
26 Ivi, Victor Hugo, p. 674.
27 Ivi, Salon 1859, p. 838.
28 Ivi, Théophile Gautier, p. 648.
29 Charles Baudelaire, L'art philosophique, Oeuvres complètes,
coll. Plèiade, Paris 1956, p. 927.
30 edgar a. poe, Philosophy of Composition. The Poems of E. A.
Poe, London-New York 1900.
31 Alfred cassagne, La théorie de l’Art pour l’Art en France, chez
les derniers romantiques et les premiers réalistes, Paris 1906.
32 stéphane mallarmé, Oeuvres complètes, coll. Plèiade, Paris 1945,
pp. 866-867. Risposta all’inchiesta di Jules Huret sull’evoluzione lette­
raria.
33 Ivi, Le nénuphar blanc, p. 283.
34 Ivi, Variations sur un su jet, p. 400.
35 Ivi, Enquéte de Jules Huret, p. 869.
36 Lettera a Henri Cazalis. In henri mondor, Vie de Mallarmé, Paris
1946, p. 143.
37 stéphane mallarmé, op. cit., p. 838, Avant-dire au « Traité du
verbe » de René Ghil.
38 Ivi, Variations sur un sujet, p. 389.
39 Ibidem.
40 Georges Cattaui, Notes, in « Fontaine », marzo 1942, p. 72.
41 trasybulos GEORGiADES, Musik und Rythmus bei den Griechen.
Zum Rusprung der abendldndischen Musik, Hamburg 1938.
42 Ivi, pp. 46-47.
43 stéphane mallarmé, op. cit., p. 366, Variations sur un sujet.
44 Si tratta del Livre di Mallarmé, l’opera della sua vita, rimasta in­
compiuta. Cfr. Jacques scherer, Le « Livre » de Mallarmé. Premières
recherches sur les documents, Paris 1937.
NOTE 69

45 paul claudel, La catastrophe d'Igitur, in « n.r.f. », novembre


1926.
46 Sotto l’influsso di Poe che voleva che il poeta fosse « matematico
della bellezza ».
47 albert thibaudet, La poésie de Stéphane Mallarmé) Paris 1912,
p. 66.
48 Jacques rivière, Correspondence avec Alain-Pournier, Paris 1926,
t. 11, lettera dell’n luglio 1906.
49 paul valéry, Variété) Paris 1924, p. 97.
50 edouard schuré, Histoire du drame musical, Paris 1882, t. 1,
P- 153-
51 eugène delacroix, Oeuvres littéraires, Paris 1923, t. 1, p. 63.
52 Cfr. jean de rotonchamp, Paul Gauguin, Paris 1906, p. 214.
53 w. s. Johnson, Browing's Music, in « The Journal of Aesthetics »,
inverno 1963, pp. 203-207.
54 EDGAR A. POE, Op. tit.

55 Grazie all’applicazione di questi principi. [N.d.A.].


56 Citazione tratta da guy michaud, Message poétique du symbolisme.
il: La révolution poétique, Paris 1954, p. 329.
57 Stéphane mallarmé, op. cit., p. 368, Variations sur un sujet.
58 Cioè, vicina all’essenza della cosa. [N.d.A.J.
59 stéphane mallarmé, op. cit., p. 381, Variations sur un sujet.
80 odilon redon, A soi-méme. Journal 1867-1915. Notes sur la vie,
l'art et les artistes, Paris 1922, p. 28.
61 m. malingue, Lettres de Gauguin à sa femme et à ses amis, Paris
1949. Lettera n. 170.
62 Citazione da Mallarmé. Senza dubbio, si tratta della risposta di Mal­
larmé all’inchiesta di J. Huret, citata piu sopra nel testo: « Nominare un
oggetto vuol dire sopprimere i tre quarti del godimento della poesia » (cir.
nota 35).
63 M. malingue, Le/tres de Gauguin à sa femme et à ses amist Paris
1949, p. 288.
64 Citazione tratta da a. Humbert, Les Nabis et leur époque, 1888-
1900, Genève 1954, p. 15.
65 Cfr. joachim gasquet, Cézanne, Paris 1921. Debussy parla di « cor­
rispondenze misteriose tra la natura e l’immaginazione », il che è lo stes­
so, ma espresso in termini baudelairiani.
66 MARCEL RAYMOND, Op. tit., p. 9.
67 Maurice denis, Catalogue de I'exposition consacrée à Henri
Cross, 1910.
68 Charles morice, La littérature de tout à l'heure, Paris 1889, pp.
173 e 60.
69 Cfr. M. dufrenne, Phénoménologie de l'expérience esthétique, Paris
1953, P- 315-
7° CAPITOLO TERZO

70 Friedrich Hegel, Estetica, tr. it, Feltrinelli, Milano 1978, t. 11,


p. 1175.
71 Vladimir jankélévitch, La Musique et Vinefiable, Paris 1961,
p. 41.
72 Rainer maria Rilke, Auguste Rodin, Kraków 1963, p. I19.
73 jean-claude piguet, De Vesthétique à la métaphysique, L’Aja 1939,
p. 105.
74 robert francès, La perception musicale, Paris 1938.
75 I nomi di Kretzschmar, Schering, Kurth e Mersmann, poi dei musi­
cologi sovietici (fra gli altri, Assafijev e Kremlov), e infine quello di Gisèle
Brelet, e, in Polonia, della Lissa e della Lobaczewska, segnano le tappe
dell’abbondante letteratura sull’argomento. Pur partendo da principi dif­
ferenti, essa presenta numerose proposte metodologiche che hanno portato
al sistema di descrizione dell’opera musicale di cui la musicologia si serve
da più di cinquant’anni. Ma la crisi provocata in musicologia dai progressi
della musica più recente, avvertita soprattutto nel campo delle ricerche
estetiche, sembra confermare dubbi già segnalati in altri campi della
scienza e dell’arte, e cioè: c’è posto nella nostra cultura per 1,’estetica come
è stata formata dalla tradizione? Già divisa tra la psicologia e la socio­
logia, lacerata dalle differenze ideologiche, l’estetica conserva un certo pre­
stigio solo sotto la sua forma fenomenologica (Merleau-Ponty, Ingarden),
grazie alla « neutralità della conoscenza » limitata unicamente alla de­
scrizione delle strutture intenzionali. Un’altra soluzione sembra apparire
con la cibernetica, e la teoria dell’informazione, pronta a descrivere in
termini di comunicazione estetica ogni fenomeno acustico. £ troppo pre­
sto, oggi, per dire se l’estetica si indirizzerà in questa direzione. In ogni
caso, non appena il sistema delle corrispondenze entra in gioco, come ad
esempio nell’espressione, sorgono difficoltà insormontabili. Ne troviamo
la prova nei tentativi di rinnovamento dell’estetica « semantica » neo­
kantiana di Cassirer, che sembrano aver trovato un terreno favorevole
in America (la teoria del « simbolismo non-discorsivo » di S. K. Langer
che tenta di ricondurre ogni opera d’arte al ruolo di simbolo dei valori
affettivi’).
76 N. E. Ringbom, fra gli altri l’ha recentemente dimostrato, nella sua
opera Vber die Deutbarkeit der Tonkunst (Helsinki, 1933), sottometten­
do ad un’analisi critica i principi metodologici della scienza dei simboli
musicali di A. Schering, senza risparmiare neppure osservazioni critiche
ai metodi di Kurth e di Mersmann, oltre che alla teoria del « tempo mu­
sicale » di Gisèle Brelet. Ringbom tenta di separare il lato funzionale
dell'opera musicale dal suo lato espressivo, poiché solo il primo può es­
sere « materialmente » verificato e misurato. Ringbom pone il principio
di una rigorosa separazione, nella pratica della ricerca, dell’ « analisi del­
la funzione » e dell’ « ermeneutica dell’espressione », che sono due metodi
totalmente distinti e che possono, eventualmente, completarsi solo allo
stadio dei risultati.
77 Arnold schering, Das Symbol in der Musik, Leipzig 1941, p. 130.
78 WLADYSLAW TATARKIEWICZ, Op. CÌt., pp. IOO e IO3.
79 Si tratta della musica vocale, che allora era la sola ad essere presa
in considerazione.
NOTE 71

00 S. Agostino, nella glossa al salmo clxdc. Ivi, p. 90.


81 d'alembert, Discours préliminaire de l'Encyclopédie (1751).
82 jean-jacques rousseau, Musique, Imitation, in Dictionnaire de
musique, London 1766.
83 D*A LEMBERT, Op. Cit.
84 Georges de froide-court, Correspondance générale de Grétry, Bru­
xelles 1962.
85 L'espansione della « musica a programma » lo prova ugualmente, e
così ogni tipo di commento d’autore, che doveva facilitare all’ascoltatore
la « comprensione » di ciò che il compositore aveva voluto dire.
86 karol Szymanowski, O romantyzmie w muzyce [Il romanticismo
in musica], in «Droga», n. 1-2, 1929.
87 Friedrich nietzsche, Umano, troppo umano, tr. it. Adelphi, Mi­
lano 1979.
88 Théophile gautier, editoriale de « L’Artiste », del 14 dicembre
1856. Il libro di Edouard Hanslick, Vom musikalischen Schonen, era
uscito nel 1954.
89 camille saint-saÉns, Harmonie et mélodie, Paris 18904, pp. io
e 12.
90 « Revue bleue », 2 aprile 1904. Inchiesta di Paul Landormy sulla si­
tuazione attuale della musica francese.
91 Correspondance inedite de Claude Debussy et d’Ernest Chausson, in
« La revue musicale », 1 dicembre 1925. Lettera ad Ernest Chausson, del
6 settembre 1893.
92 Nella letteratura del dopoguerra, facciamo i nomi di Giséle Brelet,
Robert Francès, e soprattutto Vladimir Jankélévitch.
93 Paul valéry, op. cit., p. 205, Lettres à quelques-uns. Lettera a
Timmermans, del 19 dicembre 1932.
94 jean-claude piguet, op. cit., lo sottolinea ugualmente, parlando del
bergsonismo. Vede anzi, in questo tipo un atteggiamento epistemologico,
un tratto caratteristico della nostra epoca.
95 Maurice blanchot, Le problème de Wittgenstein, in « n.r.f. », n.
131, novembre 1963, pp. 866-875. Pur ricordando la tesi di Wittgenstein,
Maurice Blanchot vede in Flaubert il precursore di tale tesi, o almeno del
problema che essa pone.
96 kurt westphal, Die moderne Musik, Berlin-Leipzig 1928, p. 49.
97 Werner danckert, Claude Debussy, Berlin 1950, p. 158.
* JAN BiALOSTOCKi (Le baroque: style, epoque, attitude, in « L’infor-
mation d’histoire de l’art », gennaio-febbraio 1962) lo sottolinea energica­
mente.
99 Nell’opera collettiva: Proces historyczny w literaturze i sztuce [ Pro­
cesso storico nella letteratura e nell’arte], Warszawa 1966.
100 hans Albrecht, Impressionism™, in Die Musik in Geschichte und
Gegenwart, Kassel 1957, voi. vi, pp. 1046-1090.
101 stefania lobaczewska, O stylu w muzice [Lo stile nella musica],
in « Studia Muzykologiczne », n. 4, 1955, p. 53.
72 CAPITOLO TERZO

102 Stefania Lobaczewska, in una critica dell’opera di otto wartisch,


Studien zur Harmonik des musikalischen Impressionisms, in « Kwartalnik
Muzyczmy », n. 12-13, 1930, p. 458.
103 Eco delle invettive di Gauguin. [N.d.A.].
104 Stefania Lobaczewska, in una critica di hans MERSMANN, Die mo­
derne Musik, in « Kwartalnik Muzyczny », n. 6-7, 1930, p. 248.
105 Questo nuovo tipo di studio dell’opera musicale, introdotto da J.
M. Chomióski, prende come oggetto la tecnica sonora pura, il timbro
reale dell’opera. Le questioni che affronta saranno dunque: le tecno­
logie del timbro, la razionalizzazione del tempo, la formazione delle
strutture orizzontali e verticali, la trasmutazione degli elementi, i proble­
mi delle forze, ecc.
Utilizzeremo più avanti il termine « valori sonoriali » per significare
i valori sonori puri, indipendenti dalla melodia e dall’armonia in senso
tradizionale, valori che risultano da una scelta dei mezzi d’esecuzione e
da un certo modo di trattare i suoni con l’aiuto del ritmo, della dina­
mica, dell’agogica e dell’articolazione. Si vedano in proposito: józef
m. chomiiQski, Z zagadnien techniki kompozytorskiey XX wieku
[Alcuni aspetti della tecnica compositiva del xx secolo], in «Muzyka»,
n. 2, 1957; Kolorystyka dzwiekowa Skriabina [Colore sonoro di Skrjabin],
in « Muzika », n. 2, 1959; Glowne problemy techniki dzwiekowej Liszta
[I principali problemi della tecnica sonora di Liszt], in «Muzika», n.
4, 1961; Technika sonorystyczna jako przedmiot systematycznego szkolenia
[La tecnica sonoriale, materia d’insegnamento], in « Muzika » n. 3, 1961.
106 Più precisamente, in quella di Debussy. [N.d.A.].
107 stefania lobaczewska, Agogika jako element stylu historycznego
[L’agogica, elemento dello stile storico], in «Muzika», n. 3, 1962, p.
60.
108 Ivi, p. 63.
109 louis laloy, Musique de VAvenir, in « Mercure de France », 1
dicembre 1908. Laloy ha previsto, tra l’altro, la musica elettronica. Le
tesi del suo articolo, ingiustamente dimenticato, erano certamente co­
nosciute e discusse con Debussy, legato a Laloy da una stretta amicizia.
110 louis laloy, Sacre du printemps de Stravinsky, in Comoedia »,
vi (1913)-
111 louis laloy, Claude Debussy et le debussysme, in « Revue mu­
sicale s.i.m. », viii-ix (1910).
112 louis laloy, La nouvelle manière de Claude Debussy, in « Gran­
de revue », io febbraio 1908.
113 Daniel chennevière, Claude Debussy, Paris 1913, p. 28.
114 Ferruccio Busoni, Abbozzo di una nuova estetica della musica,
in Lo sguardo lieto, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1977.
115 ladislas Fabian, Claude Debussy und sein Werk mit gesonderer
Ruchsicht auf den musikalischen Impressionisms, Miinchen 1923.
116 andreas liess, Uharmonìe dans les oeuvres de Claude Debussy,
in « La revue musicale », gennaio 1931, pp. 45-46.
117 andreas liess, Claude Debussy, Leipzig-Strasbourg 1936, pp. 339,
316.
NOTE 73

118 Wassily kandinsky, Dello spirituale nell'arte, in Tutti gli scritti,


tr. it. Feltrinelli, Milano 1974, voi. 11, p. 84.
119 Arthur symons, Claude Debussy, in « Saturday review », 8 feb­
braio 1908.
120 m.t.e. Clark, A modern french Composer, Claude Debussy, New­
castle upon Tyme, 1908 (conferenza).
121 rené peter, Claude Debussy, Paris 1944, p. 119.
IV.
Debussy e il simbolismo

Il clima dell'epoca

Gli ultimi quindici anni del xix secolo e i primi anni del xx,
il periodo che Debussy visse più intensamente, poiché era legato
al movimento ideologico ed artistico del momento, avrebbero
avuto un’importanza capitale per le sorti della cultura e del­
l’arte europee. In questo periodo cominciò una delle più grandi
crisi culturali della storia, causata dal grande balzo in avanti
della scienza e della tecnica, che lo sviluppo della coscienza
collettiva non riusciva a seguire. Si produceva una profonda
separazione fra quello che la scienza e la tecnica avevano da
offrire e quello che la collettività umana poteva adottare ed
assimilare alle idee, alle abitudini ed alle istituzioni ancora
tradizionali.
Abbiamo detto precedentemente (nel paragrafo Considera­
zioni genetiche) che questa crisi, che toccava ugualmente la
stessa scienza ed i suoi principi metodologici, aveva provocato
una potente ondata di correnti irrazionali.
Nell’arte, queste tendenze non dovevano trionfare immedia­
tamente. I nomi di Darwin, di Pasteur, di Edison, di Helm­
holtz godevano sempre di grande prestigio. Certo, erano
passati molti anni dal momento in cui Flaubert aveva detto
che la grande arte doveva essere scientifica e impersonale, ma
Zola continuò fino al 1843 Les Rougon-Macquart, in cui si
ispirava ai metodi delle scienze sperimentali, e Seurat sosten­
ne il suo « divisionismo » pittorico con teorie scientifiche.
La critica vedeva tutto questo senza ostilità, visto che uno
dei suoi giovani e brillanti rappresentanti, Felix Fénéon, an­
nunciava in « La vogue » la fine dell’impressionismo « scien­
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 75

tifico » di Seurat Si guadagnò cosi la riconoscenza dello


stesso Seurat e del poeta simbolista Moréas, che lo designa­
vano come « il primo critico scientifico » delle loro opere.
Accanto all’« estetica scientifica » (1886) di Charles Henry, na­
sceva la «critica scientifica» (1888) di Émile Hennequin,
mentre René Ghil, nel suo Traité du verbe (1889) tentava di
gettare le basi di una « Poesia scientifica ».
Nella sua lotta contro lo spirito germanico, la Francia bor­
ghese, razionalista e nazionalista, insorgeva violentemente con­
tro Wagner. Nel 1886, venendo a sapere che VOpéra-comique
si preparava a recitare il Lohengrin, il pittore Boulanger mi­
nacciò di condurre alla prova generale duecento studenti e
modelle della Scuola di Belle Arti, vestiti di toghe e muniti
di fischietti2. La minaccia produsse il suo effetto, la direzione
déìl'Opéra-cornique ritirò lo spettacolo dal cartellone. Un
anno dopo falliva ugualmente il tentativo di Vincent d’Indy
di far recitare il Lohengrin aW'Eden théàtre, sotto la direzione
di Lamoureux: dopo la prima rappresentazione, il 3 maggio
1887, si dovette rinunciare allo spettacolo, a causa dei di­
sordini provocati da nazionalisti estremisti.
Ma le nuove correnti si diffondevano ugualmente, attraverso
periodici, libri, attività di gruppi artistici più o meno im­
portanti. L’estetismo, il decadentismo e il simbolismo entra­
vano in scena. A rebours, di Huysmans (1884), con il per­
sonaggio di des Esseintes, nevrastenico, che viveva in un mon­
do creato di sana pianta secondo il principio che bisogna
sostituire la realtà con il sogno e la natura con l’artificio, fu
definito come un’opera decadente. Ma l’impressione che il
romanzo produceva non solo per il contenuto, ma anche per
la forma, era profonda, come prova la reazione di Oscar Wil­
de: « Lo stile in cui [il romanzo] era scritto era quel singo­
lare, prezioso stile, vivido ed oscuro a un tempo, pieno di
argot e di arcaismi, di espressioni tecniche e di elaborate pe­
rifrasi, proprio delle opere dei più raffinati artisti della scuola
francese dei Symbolistes. Vi erano metafore mostruose come
orchidee e che delle orchidee avevano il prezioso colore. La
vita dei sensi vi era descritta con il linguaggio della filosofia
mistica. A tratti non si capiva se si avevano sott’occhio le estasi
spirituali di un santo medievale o le confessioni morbose di
76 CAPITOLO QUARTO

un peccatore moderno. Era un libro intossicante; un grave


odore d’incenso sembrava esalarne e turbare il cervello »3.
Malgrado le intenzioni dei critici, invece di far torto al
romanzo, l’epiteto di « decadente » gli assicurò un vivo suc­
cesso, diventando presto la parola d’ordine di numerosi arti­
sti. Due anni piu tardi, nel primo numero della nuova rivi­
sta « Le Decadent », si poteva leggere quello che segue:
« Dissimulare a se stessi lo stato di decadenza a cui siamo
arrivati sarebbe il colmo dell’ insensatezza. Religione, costu­
me, giustizia, tutto decade [...]. Affinamento di appetiti, di
sensazioni, di gusto del lusso, del godimento; nevrosi, isteria,
ipnotismo, morfinomania, ciarlataneria scientifica, schopenaue-
rismo ad oltranza, questi sono i prodromi dell’evoluzione so­
ciale »4. Le nuove idee, infinitamente più elastiche e più diffe­
renziate, corrispondono ai nuovi bisogni, da cui il vocabolario
inaudito, adattato alla complessità dei sentimenti e delle sen­
sazioni.
L’impressionismo, a lungo oggetto di contese, bandito dai
salotti e ridicolizzato, penetra lentamente nella coscienza degli
artisti e degli intellettuali, poi fa breccia per la prima volta
nel loro spirito e nelle loro abitudini. Si deve a Jules Lafor­
gue uno dei saggi più notevoli sull’impressionismo scritti al­
l’epoca, che mostra in un riassunto sorprendente l’essenza
dell’estetica di questa corrente rivoluzionaria 5. La lezione che
l’impressionismo dava alla pittura contemporanea veniva ac­
colta malgrado tutto, ancora e sempre, con una certa reti­
cenza, ed a tutto ciò veniva ad aggiungersi l’influsso di cor­
renti nuove che, pur utilizzando le scoperte tecniche degli
impressionisti, si opponevano agli scopi « troppo umili » di
un Monet, di un Renoir, di un Sisley. L’impressionismo ve­
niva attaccato da diverse parti, non soltanto dagli ambienti
conservatori, ma anche da quelli d’avanguardia (Gauguin,
Seurat); ciò disorientava talvolta il pubblico, ed anche certi
critici, a cominciare dai pompiers hésitants, come Camille
Mauclair6, che non avevano un’opinione personale sulle nuove
tendenze. Ancora nel 1905, l’impressionismo si attirerà i ful­
mini di Burne-Jones 7.
Tuttavia, le idee e lo spirito analitico, scrutatore, degli im­
pressionisti avrebbero in breve conquistato progressivamente
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 77

tutti i campi dell’arte e, ben presto, tutta la cultura.


Le certezze che si erano credute incrollabili cominciavano
a vacillare, a sprofondare. Quando, nel 1886, dopo la pubbli­
cazione de LJ oeuvre, uno dei tomi dei Rougon-Macquart, Mo­
net, Renoir e Pissarro ruppero i rapporti con Zola, sebbene
fosse un loro amico di lunga data, si sapeva bene che non si
trattava di una protesta contro il naturalismo, ma di una mani­
festazione di solidarietà con Cézanne, che si era riconosciuto
nei tratti di Lantier, una caricatura a cui Zola, suo amico di
gioventù, aveva aggiunto, almeno quanto alle opinioni, alcuni
tratti di Monet. Dall’anno seguente, alcuni scrittori di orien­
tamento naturalista proclamarono il « Manifesto dei Cinque »8,
diretto decisamente contro l’estetica di Zola. Maupassant com­
pletava la decadenza della « scuola », abbandonando le sue
posizioni, fra l’altro, nelle novelle Le boria, lui?; non le ri­
sparmiava critiche nella prefazione di Pierre et Jean (1888).
Zola non si evolveva, ma Brunetière non si sbagliava quan­
do, nel 1887, annunciava « il fallimento del naturalismo ».
Huysmans che, fra i primi, se ne era distaccato, rimprovererà
(in Là-bas) al naturalismo « di avere incarnato il materiali­
smo in letteratura [...]. Che sistema in sé meschino e ristretto
[dirà] quel volersi confinare nei pubblici lavatoi della carne,
il respingere l’ultra-sensibile, il rinnegare i sogni, il non ca­
pire nemmeno che l’arte comincia nell’attimo in cui i sensi
si rivelano insufficienti [...]. No, non c’è che dire, tutta la
scuola naturalistica, intanto che ancora vivacchia, riflette gli
aspetti di un’epoca paurosa »9.
Respinto il naturalismo in secondo piano, i racconti e le
poesie di Poe, nelle mirabili traduzioni di Baudelaire e di
Mallarmé, erano al centro della scena, l’aureola di una gloria
tardiva cingeva gli ultimi anni di Villiers de l’Isle-Adam e di
Barbey d’Aurevilly. Nata in Francia, la dottrina romantica
dell’« Arte per l’Arte » trovava un alleato in Inghilterra nel-
l’« estetismo », difeso dal pittore americano Whistler, dal
poeta Swinburne e dallo studioso di estetica W. Pater, ed
anche dai preraffaelliti. Oscar Wilde la incarnava presso il
pubblico. Si traducevano in francese scrittori inglesi: Tenny­
son, Keats, Swinburne, Browning, più tardi anche Meredith,
e gli Scandinavi: Ibsen, Bjòrnson, Strindberg, Hamsun. Le
78 CAPITOLO QUARTO

poesie di Verhaeren erano oggetto di ammirazione, si apprez­


zava Rodenbach, poi Maeterlinck, rivelato da Octave Mirbeau
nel 1890. Si discutevano Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Car­
lyle. Nel 1891, interrogato sui suoi gusti in materia di lette­
ratura, Maeterlinck enumera nell’ordine: Villiers de l’Isle-
Adam, Mallarmé, Verlaine, Barrès, Henri de Régnier, Viélé
Griffin, Moréas, poi aggiunge che ama anche i poeti inglesi:
Swinburne, William Morris, Rossetti, e, in Francia, Puvis de
Chavannes, Baudelaire, Laforgue, Les cahiers d'André Wal­
ter l0, Edgar Poe H. A parte Puvis de Chavannes che, non si
sa a che titolo, viene a mescolarsi a quest’assemblea letteraria,,
la risposta di Maeterlinck dà una lista di nomi che si potrebbe
considerare come lista-tipo, rappresentativa dei gusti del lettore
dei periodici letterari: in altre parole, del pubblico letterato.
Questa è anche l’epoca del grande successo della letteratura
russa. Delitto e castigo e Anna Karenina, tradotti nel 1886,
erano successi editoriali. Melchior de Vogué, che col suo
Roman russe vi aveva molto contribuito, riassumeva in que­
sti termini le qualità degli scrittori russi: « Il tratto essen­
ziale di questi realisti è la comprensione di ciò che sta al
disotto, intorno alla vita. Essi aderiscono strettamente allo
studio del reale, e non di meno meditano sull’invisibile. I loro
personaggi sono inquieti riguardo al mistero universale; pre­
stano orecchio al mormorio delle idee astratte » 12.
Nel 1886, esce il celebre manifesto dei simbolisti, redatto
da Jean Moréas. Secondo lui, la rinascita della letteratura è
dovuta all’uso di mezzi quali « l’abuso dello sfarzo, la stra­
nezza della metafora, un vocabolario nuovo, in cui le armo­
nie si combinano con i colori e le linee [...]. Charles Baude­
laire deve essere considerato il vero precursore dell’attuale
movimento; Stéphane Mallarmé lo dotò del senso del mistero
e dell’ineffabile; Paul Verlaine spezzò in suo onore le crudeli
pastoie del verso che le dita prestigiose di Théodore de Ban-
ville avevano precedentemente reso più malleabili » 13.
Tre grandi poeti, Baudelaire, Verlaine e Mallarmé, sono i
maestri incontestabili ed incontestati della nuova generazione
di poeti, e cosi un quarto, non nominato nel manifesto - Rim­
baud, che aveva liberato la poesia dalla tirannia del verso,
aveva inventato il vers libre, il colore delle vocali e un « verbo
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 79

poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi » 14; egli


fu rivelato quando Verlaine pubblicò le sue poesie. « Mentre
Verlaine e Rimbaud sono i continuatori di Baudelaire nel
campo del sentimento e della sensazione, dice Paul Valéry,
Mallarmé lo è nel campo della perfezione e della purezza
poetica » 15. La loro estetica ingloba tutta l’ideologia artistica
del movimento a cui si dà il nome di « simbolismo ».
Correspondances, il celebre sonetto dei Fleurs du mal, di­
venta il vangelo della nuova poetica. La lingua di Baudelaire
si rivolge sia all’intelligenza del lettore, sia alla sua sensibilità
fisica. Essa non rappresenta direttamente le cose e i sentimenti,
è una scelta delle corrispondenze piu suggestive fra le ana­
logie che esistono tra le parole, i suoni e la loro atmosfera,
una scelta che tende a creare una sostanza poetica armoniosa
che agisca sull’immaginazione non solo attraverso il significato,
ma anche attraverso la sonorità.
Scoperti i rapporti segreti tra il verbo, le sensazioni e la
spiritualità degli uomini, Verlaine traspone, con stupefacente
facilità, i rumori più leggeri della natura in un linguaggio
poetico straordinariamente musicale. Citiamo come esempio
La chanson d’automne, dove un gioco sottile di vocali nasali
e orali crea una monotonia che culla, o altre poesie delle
Fétes galantes, delle Ariettes oubliées o degli Aquarelles che
dei compositori, e Debussy per primo, metteranno in musica.
« La poesia incantatrice », basata sull’allusione ed il sim­
bolo, fu oggetto, come abbiamo già detto, di lunghe ricerche
da parte di Mallarmé. Ne troviamo un primo esempio in
Apparition (1863), poesia ugualmente utilizzata dal giovane
Debussy per una melodia che portava lo stesso titolo. Nel
1864, Mallarmé scriveva: « Ho finalmente cominciato la mia
Hérodiade. Con terrore, perché invento una lingua che deve
necessariamente scaturire da una poetica quanto mai nuova,
che potrei definire con queste due parole: dipingere non già
la cosa, ma l’effetto che essa produce »16.
Eccoci ben lontani dal naturalismo, e apparentemente molto
vicini al momento in cui non più un artista, ma un filosofo,
dirà: « la parola dai contorni ben determinati, la parola
brutale [...] schiaccia o per lo meno ricopre le impressioni
delicate e fuggevoli della nostra coscienza individuale »17.
8a CAPITOLO QUARTO

È ugualmente facile vedere i legami di questa poetica di


Mallarmé ai suoi inizi con l’estetica degli impressionisti a cui
il giovane Proust veniva iniziato dalla pittura di Elstir-Monet.
Lo sforzo di Elstir, dice Proust, mirava a « ritrarre le cose
non come sapeva che sono, ma secondo quelle illusioni ottiche
di cui è fatta la nostra prima visione ». E ancora: « ...se Dio
Padre aveva creato le cose nominandole, Elstir le ricreava to­
gliendo loro il nome, o dandogliene un altro. I nomi che desi­
gnano le cose rispondono sempre a una nozione dell’intelli-
genza, estranea alle nostre vere impressioni [...] » 18i.
Mallarmé non faceva niente di diverso nel suo Après-midi
d’un faune (1876), dove, malgrado l’alessandrino, metro pur
ormai molto logoro, tutte le immagini evocate dal suo fauno
inerte, sognante, quando « tutto avvampa nell’ora fulva » sem­
brano realmente volteggiare nell’aria, leggere come ricordi sorti
sulla soglia della coscienza.
Le idee degli impressionisti e dei « simbolisti » erano nel­
l’aria, si incontravano ovunque, nella letteratura e nella mu­
sica, nella filosofia e nella pittura. Gauguin, per cui il ruolo
dell’arte consisteva nel tradurre il pensiero attraverso mezzi
puramente plastici, raccomandava al’ pittore di cercare piut­
tosto « la suggestione che la descrizione, come, del resto, fa
la musica ». La « somiglianza » era sostituita da una « corri­
spondenza » soggettiva (e lo sviluppo della fotografia c’entrava
in qualche modo, incaricandosi di dare un’immagine identica
al modello). « Perché non dovremmo arrivare, diceva Gauguin,
a creare armonie diverse l9, corrispondenti al nostro stato d’a­
nimo? »20. Van Gogh cercava anche lui il significato simbo­
lico dei colori, per poter esprimere i suoi sentimenti, mentre,
in un’articolo che fece scalpore, Le symbolisme et la peinture,
Aurier formulava delle tesi che, in fondo, riassumevano il
futuro programma dei Nabis: « L’opera d’arte dovrà essere
ideista..., simbolista..., sintetica..., soggettiva..., decorativa »21.
Rispetto alle ambizioni degli impressionisti e dei divisionisti,
il progresso era evidente.
L’impressionismo ed il simbolismo avevano fortemente in­
fluenzato il pensiero filosofico di Bergson. Gli impressionisti
tentavano di cogliere i fenomeni al volo, in diverse ore della
giornata, in tutta la loro complessità e la loro mobilità. Le
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 8l

loro ambizioni trovavano una giustificazione inattesa nel berg-


sonismo, nella sua nuova definizione della natura della realtà,
nella sua critica dell’intelligenza, nel suo intuizionismo e so­
prattutto nella sua tesi del continuo divenire della coscienza.
Pubblicato nel 1889, l9Essai sur les données immediate; de la
conscience ne era la prima espressione, e, nello stesso tempo,
costituiva il primo e violento attacco contro l’atomismo asso-
ciazionista che regnava in psicologia. Quando Bergson dichia­
rava che non c’era uno stato psichico, per quanto semplice,
che non fosse soggetto a cambiamenti continui, oppure che non
c’erano due momenti psicologici identici nello stesso essere
cosciente22, in fondo non faceva altro che formulare il prin­
cipio che era alla base della pratica degli impressionisti.
Non è solo la vita ad essere caratterizzata da una costante
mobilità. Secondo Bergson ogni cosa non è, ma diviene, ogni
realtà è divenire, uno sgorgare ininterrotto del nuovo. Ecco
perché la nostra intelligenza, con la sua fondamentale tendenza
a semplificare, a schematizzare, non è in grado di cogliere
- e quindi di conoscere - la realtà. Le formulazioni dell’in­
telligenza falsano la realtà. I nomi e le parole di cui essa si
serve sono rigidi stampi applicati a qualcosa che è evanescente
ed in continuo movimento.
Estendendo cosi a tutta la realtà la tesi del continuo dive­
nire della vita psichica, Bergson entrava, in un momento in
cui lo « scientismo » non era ancora morto, nel campo della
metafisica; era il primo a formulare daccapo i problemi, con
tanta audacia. Non erano passati trentanni dal giorno in cui
Amiel, deplorando la ristrettezza del pensiero in Francia, an­
notava nel suo diario: « Quello che manca ai francesi, è [...]
l’iniziazione al mistero dell’essere »23. Ed ecco che, proprio
in Francia, appariva un innovatore della metafisica. Discepolo
di Boutroux, egli superava di gran lunga il suo maestro, la cui
sola audacia era stata quella di aprire la strada ad ogni sorta
di correnti irrazionali, con la sua critica dell’oggettivismo scien­
tifico.
L’« angoscia metafisica » si generalizzava nell’éZz/e, essa ri­
valutava quasi il rango dello scrittore. Jules Laforgue, poeta
scomparso all’età di ventisette anni, i cui versi conquistavano
lentamente dei lettori, poiché rispondevano ai bisogni del
82 CAPITOLO QUARTO

tempo con la loro amara ironia, con il loro tono di velato


pessimismo e di riflessione filosofica, si sentiva « un filo d’erba »,
« un atomo dell’infinito »24; a Vienna, lontana, la voce di
Hofmannsthal gli faceva eco: « Solo l’incerto, l’ambiguo, l’in­
forme ci circondano; al di là, ci sono gli abissi insondabili
dell’esistenza »25.
Il regno dello scientismo volgeva alla fine. Un dichiarato
ateismo passava di moda, veniva il tempo delle « conversioni »,
la Chiesa cattolica accoglieva con indulgenza i figli prodighi
(Bourget, Lemaitre, Huysmans, Jammes, Morice, Claudel, e
molti altri). Jacques Rivière, da parte sua, manifestava un
grande scetticismo nei loro confronti. Ecco quello che scri­
veva su Huysmans, in una lettera ad Alain-Fournier: « È
l’arte, unicamente l’arte, che lo converte. Si converte all’arte
cristiana medievale, non al cristianesimo »26. Nello stesso
tempo, l’esoterismo, l’occultismo, lo spiritismo, il satanismo
facevano proseliti.
Il positivismo filosofico aveva deluso gli spiriti, l’élite intel­
lettuale in Francia attraversava una profonda crisi spirituale.
Albert Aurier ne parla, non senza un certo accento dramma­
tico: « Il xix secolo, dopo aver proclamato per ottant’anni,
nel suo infantile entusiasmo, l’onnipotenza dell’osservazione
e della deduzione scientifiche, dopo avere affermato che nes­
sun mistero sussisteva davanti alle lenti ed ai bisturi, sembra
finalmente accorgersi della vanità dei suoi sforzi e delle sue
vanterie. L’uomo cammina sempre in mezzo agli stessi enigmi,
nello stesso spaventoso ignoto, divenuto ancora più oscuro e
più conturbante, da quando ci si è disabituati a considerarlo.
Molti scienziati, oggi, si fermano scoraggiati, comprendendo
finalmente che quell’erudizione sperimentale di cui si vantavano
è mille volte meno sicura della teogonia più bizzarra, della
fantasticheria metafisica più folle, del sogno poetico meno
accettabile ed hanno il presentimento che quella scienza arro­
gante che chiamavano, nella loro fierezza, positiva, forse è solo
la scienza delle relatività, delle apparenze, delle « ombre »,
come diceva Platone, e che, quanto a loro, non hanno niente
da mettere nei vecchi Olimpi da cui hanno strappato via le
divinità e staccato gli astri »27. Non si poteva esprimere me­
glio l’angoscia che si era impadronita degli spiriti.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 83

Da ogni parte, abbondavano correnti spiritualiste. Nel 1893,


Marcelin Berthelot parlava di una controffensiva del mistici­
smo. Nello spazio di dieci anni, la Francia, o piu esattamente
il fiore della sua cultura, cambiò volto a tal punto che la tesi
di Bourget che annunciava « il fallimento della scienza », ac­
colta con ironiche alzate di spalle nel 1888, non sembrerà
affatto paradossale nel 1895. Lo stesso Brunetière, eminente
universitario, sotterrando d’ufficio il naturalismo, riconoscerà
apertamente che la scienza aveva perduto il suo prestigio e
proclamerà la rinascita deH’idealismo 28.
Ogni arte autentica è unita, in un modo o nell’altro, fos-
s’anche difficile da scoprire per i comuni mortali, all’esperienza
della società umana. L’arte può costituire l’anello di congiun­
zione fra un grado elevato di « iniziazione » (scientifica o
religiosa, secondo il livello di civilizzazione di una data so­
cietà) e un grado inferiore. Il giovane Valéry non diceva
forse: « La poesia mi appare come una spiegazione del mondo,
delicata e bella [...], come un’elevata sinfonia che unisce il
mondo che ci circonda al mondo che vive in noi » w. I sim­
bolisti, i Nabis e gli altri gruppi artistici erano animati dal
desiderio di cogliere l’inesprimibile, di aderire a quell’atmosfera
che annunciava l’epoca delle grandi trasformazioni, inquietanti
perché sconosciute. Se il loro talento non permetteva loro di
abbracciare sempre tutti i complicati problemi dei tempi nuovi,
si può forse volergliene? Charles Henry ha reso benissimo le
trasformazioni che avevano luogo nella struttura stessa della
civiltà. Nella sua risposta all’inchiesta di J. Huret30, consta­
tava: « Non si può più credere all’avvenire del naturalismo
o di una qualsiasi scuola realista; l’avvento di un’arte vera­
mente idealista, anzi mistica, basata su tecniche nuove, è ine­
vitabile. Non si può dubitarne, vedendo lo sviluppo dei me­
todi scientifici ed i progressi industriali. L’avvenire appartiene
ad un’arte che avrà abolito ogni metodo, logico o storico, poi­
ché gli spiriti, prostrati da sforzi puramente razionali, prove­
ranno un giorno il bisogno di immergersi in regioni del pen­
siero totalmente differenti ».
Tuttavia, alla rivoluzione delle idee degli anni 1885-1895,
non corrispondeva una rivoluzione delle forme. Queste non
permettevano di esprimere tutta la ricchezza dei nuovi con-
84 CAPITOLO QUARTO

nuti e dovevano soccombere a manierismi di ogni sorta, che


avrebbero cominciato a fiorire, verso il 1900. Gli artisti im­
pegnati nel movimento sembrarono uniti finché i loro capi
spirituali erano fra loro (Mallarmé, Gauguin), ma quando que­
sti ultimi scomparvero, gruppi fino ad allora apparentemente
compatti cominciarono a disperdersi.
Gauguin, che avrà bisogno di lasciare l’Europa per ricono­
scersi, e che solo a Tahiti raggiungerà la sua piena dimen­
sione, lanciava un vano grido di allarme e incoraggiamenti
alla lotta per le nuove forme: « Bisognava dedicarsi anima e
corpo alla lotta contro tutte le Scuole, tutte, senza distin­
zione, non già denigrandole, ma con altri mezzi, affrontare
non solo i personaggi ufficiali ma anche gli impressionisti, i
neo-impressionisti, il vecchio ed il nuovo pubblico bat­
tersi contro le astrazioni più forti, fare tutto ciò che era
proibito e ricostruire più o meno felicemente, senza timore
dell’esagerazione, anzi esagerando. Imparare di nuovo, poi, una
volta saputo, imparare ancora. Davanti al suo cavalletto, il
pittore non è schiavo né del passato, né della natura, né del
suo vicino »31. Sarà la generazione successiva ad intendere il
suo appello.

Il wagnerismo
e la musica francese alla fine del XIX secolo

All’epoca del simbolismo, i pittori ed i poeti innalzarono la


musica alla dignità di arte organizzatrice dell’immaginazione.
Tutti volevano creare secondo i modelli della musica, a sua
somiglianza, poiché essa sola poteva suggerire, comunicare agli
uomini l’indicibile. Schopenhauer non proclamava forse che
solo la musica, la più nobile delle arti, esprimeva direttamente
la volontà, cioè l’essenza dell’Essere Universale, e che solo la
musica era espressione diretta della vita affettiva dell’anima32?
Perfino uno spirito « positivo » come Taine riconosceva che la
musica era adatta « meglio di qualsiasi altra arte ad espri­
mere i pensieri fluttuanti, le fantasticherie informi, i desideri
senza oggetto e senza limiti, la confusione dolorosa e grandiosa
di un cuore turbato che aspira a tutto e non si appiglia a
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 85

nulla »33. E quale altra arte poteva esprimere il « divenire »


bergsoniano della realtà?
La musica riguadagnava la stima dell’éZz7<? intellettuale fran­
cese; alcuni anni prima, Berthelot poteva spiegare, senza su­
scitare scandali, il numero relativamente alto dei casi di follia
fra i musicisti con questa frase: « Sono uomini che sentono,
ma che non pensano ». Mentre un pittore giustificava cosi la
presunta protezione straordinaria che lo Stato garantiva alla
musica: « Il fatto è che tutti i banchieri ebrei sono melomani ».
Non conosceremmo queste « battute » in voga all’epoca, se i
fratelli Goncourt non si fossero preoccupati di annotarle, con­
fessando, d’altronde, che, quanto a loro, non amavano « tutt’al
piu che la musica militare »34.
La venerazione che i simbolisti avevano per la musica era
in parte una reazione contro la mancanza di senso musicale
della generazione precedente, in cui Delacroix, Gautier o Bau­
delaire rappresentavano lodevoli eccezioni. Mai la musica aveva
annoverato tanti difensori tra gli uomini di lettere ed i pittori.
Era più che un’infatuazione, era una religione. Tutti gareggia­
vano in zelo per non esporsi al rimprovero di essere insensibili
alla musica e, per la maggior parte, andavano in estasi dinanzi
a Wagner.
Edouard Schuré, Catulle Mendès, Houston S. Chamberlain,
Théodore de Wyzewa, ed altri ancora, ne diffondevano il culto.
Catulle Mendès cercava di trovare una formula di compro­
messo che, senza irritare i nazionalisti, potesse accontentare i
wagneriani: « il dramma musicale in Francia dovrebbe es­
sere un’opera in cui l’ispirazione francese, profondamente fran­
cese, si sviluppasse secondo le leggi tratte dal sistema wa­
gneriano »35.
Theodore de Wyzewa, sostegno della « Revue wagnérienne »,
scriveva che consistendo il ruolo del poeta o dello scrittore
nel suggerire piuttosto che nel descrivere, in fondo la lette­
ratura diventa musica, poiché è la musica ad avere maggior­
mente sviluppato il potere di suggestione e poiché essa può,
molto meglio del verbo, evocare i misteri della vita. Il « mu­
sicista del verbo » per eccellenza ed il rappresentante del-
l’« arte wagneriana » in Francia era per lui Villiers de l’Isle-
Adam, mentre egli annoverava nella « pittura wagneriana » le
86 CAPITOLO' QUARTO

opere di Puvis de Chavannes, di Odilon Redon, ed anche di


Monet, di Degas, di Cézanne36.
Quello che attraeva i poeti nell’arte « sintetica » di Wagner,
era l’unione del verbo e del suono, il simbolismo dei motivi
musicali, e soprattutto il misticismo, al quale la loro imma­
ginazione era particolarmente sensibile. La concezione wagne­
riana dell’arte e la sua filosofia erano all’origine del « simbo­
lismo », dirà molti anni dopo Edouard Dujardin, redattore
della « Revue wagnérienne »37. Cosi, entusiasmandosi per
Wagner, gli artisti pensavano più alla sua estetica che alle sue
realizzazioni musicali; d’altronde, ne conoscevano solo dei fram­
menti eseguiti a qualche concerto, e i racconti dei rari pelle­
grini di Bayreuth. Léon Daudet lo confessava francamente:
« La mistica nebulosa, incestuosa, il gusto della genesi, gli
orizzonti etnici, i sentimenti eccessivi ed improvvisi, quasi
miracolosi, che caratterizzavano i drammi di Wagner, appar­
vero alla stanchezza della laboriosa giovinezza francese come
una promessa di liberazione [...]. Oggi tutto questo mi fa
sorridere, è semplicissimo riconoscerlo [...], ma noi ammira­
vamo soprattutto i suoi libretti. Studiavamo i suoi personaggi
più inverosimili con un ardore insensato, come se Wotan avesse
racchiuso in sé l’enigma del mondo, come se Hans Sachs fosse
stato il rivelatore dell’arte libera, naturale, spontanea » M.
L’atteggiamento critico di Mallarmé risaltava su questa ado­
razione di cui il ristretto ambiente letterario circondava Wagner.
Senza arrogarsi il diritto di giudicare la musica, Mallarmé
dava per scontato che fosse eccellente, ma non nascondeva il
suo imbarazzo, tanto maggiore, di fronte all’estetica ed alla
poetica di tali opere. Vedendone le lacune e le debolezze, egli
non riusciva a partecipare all’entusiasmo che esse destavano
nel suo ambiente39.
L’ondata di ammirazione per Wagner sarebbe diminuita solo
dopo la creazione di Pelléas et Mélisande, ma, fin dal 1899
(tre anni dopo la sua rottura con Pierre Louys, « wagneriano »
fino al midollo) Gide osava confessare, in una lettera a Paul
Valéry: « la musica di Wagner mi sembra di un’arte terri­
bilmente grossolana [...]. Arte di fiori finti»40.
A partire dal 1885, l’influsso di Wagner diventa sempre
più sensibile, per molte ragioni. All’indomani della sconfitta
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 87

del 1870, forti tendenze nazionaliste vennero a galla. Lo scopo


principale della Société nationale de Musique, fondata nel
1871 su iniziativa di R. Bussine e di Camille Saint-Saèns, è
quello di diffondere le opere dei compositori francesi. Tuttavia,
in seno al movimento che si assumeva il nobile compito di
coltivare VArs gallica, non dovevano tardare a comparire serie
divergenze estetiche.
Alcuni « grandi maestri », che godevano della considerazione
generale, occupavano i seggi di diverse accademie ed istituzioni
musicali, dove erano stati eletti in riconoscimento dei loro
meriti. Tuttavia, anche i piu dotati tra loro, come Gounod,
Saint-Saèns, Massenet, si lasciavano andare volentieri a co­
mode facilonerie. Si accontevano di ripetere in innumerevoli
copie la stessa trovata o formula stilistica, un tempo originale,
e, sfruttando cosi il trionfo artistico riportato un giorno, si
irrigidivano a poco a poco in un accademismo di maniera.
Per la gioventù, piu ambiziosa, l’esempio era poco edificante;
niente di stupefacente nel fatto che essa si volgesse verso altri
maestri ed altri modelli. Molti anni dopo, pensando a quei
pensionati precoci della gloria, Debussy dirà che la vera cele­
brità è « fortunatamente riservala a coloro la cui vita è con­
sacrata alla ricerca di un mondo di sensazioni e di forme in­
cessantemente rinnovato»41.
Colui che sembrava incarnare Fideale del creatore sempre
ed instancabilmente alla ricerca di forme di espressione arti­
stica sempre piu perfette, veniva dal Belgio: César Franck, or­
ganista nella chiesa di Santa Clotilde a Parigi, avrebbe rag­
giunto il culmine della sua arte solo a sessant’anni suonati
(Variations symphoniques, Symphonic, Sonate pour violon et
piano, Quatuor pour cordes). Il suo esempio incuteva rispetto
ed ammirazione, e ben presto intorno a lui si sarebbe formato
un gruppo di discepoli devoti e di fedeli della sua arte
(Bordes, d’Indy, Duparc, Chausson) futuri fondatori della
Schola Cantorum. Tuttavia, la « scuola di Franck », sebbene
avesse contribuito ad approfondire Finteresse dei compositori
francesi per la musica sinfonica e strumentale, già stimolato
da Saint-Saèns, avrebbe deluso le speranze che in essa erano
state riposte. Non diede né grandi opere né grandi talenti e,
88 CAPITOLO QUARTO

in generale, fece più male che bene alla musica francese. Si


cominciò a rendersene conto sin dal 190642.
Non bisogna dimenticare che Franck stesso, « figlio e nipote
di Germani, porta in sé la tradizione d’oltre Reno. A Vienna,
come a Parigi, ha visto, ha sentito solo la Germania, di Bach,
di Wagner, soffermandosi a lungo su Beethoven e Schubert.
Il suo destino fu quello di trasmettere ai francesi, dopo Ha-
beneck e Berlioz, la musica germanica attuale »43. Cosi, i pro­
seliti di Franck, usciti principalmente dagli ambienti naziona­
listi, diventavano, loro malgrado, apostoli del neoromanticismo
tedesco. Saranno ancora loro ad indebolire la resistenza dei
musicisti francesi al « virus del wagnerismo », se cosi si può
dire, a quel virus il cui sviluppo in Francia doveva assumere,
alla fine del secolo, la portata di un’epidemia.
Prima ancora che il wagnerismo avesse offuscato l’Ar$ gal­
lica, il bel motto si annebbiava. Non sentendo in sé la forza
di difenderlo contro l’invasione delle nuove idee, neanche nel
fòro della Société Nationale, i suoi difensori, nel 1886, cede­
vano, quasi senza lottare, la direzione dell’istituzione a Franck
ed ai suoi adepti. A partire da quel momento, nessuno vedrà
più di malocchio i viaggi annuali di delegazioni ufficiali della
Société Nationale alla nuova Mecca, a Bayreuth, dove si reca­
vano nello stesso tempo i più accesi sostenitori del wagneri­
smo.
Wagner trionfava, si prendeva una rivincita postuma sul
disastroso fiasco del Tannhauser a Parigi, nel 1861, dove solo
Baudelaire - e con Hector Berlioz, l’amico - aveva avuto
l’audacia di difendere l’opera trascinata nel fango. Ora, il nu­
mero di « apprendisti stregoni » cresceva di anno in anno.
Ciascuno credeva che bastasse stregare la propria immagina­
zione con la formula magica del maestro per creare capolavori.
Parigi era sommersa da ondate di musica non originale, di
riproduzioni mal riuscite e di idee mal digerite. La situazione
era paradossale: da una parte, c’era la Parigi borghese, che si
indignava per il Lohengrin, accettava il Tristano solo nei ré-
citals, ignorava e rifiutava di conoscere la tetralogia, subodo­
rando nei suoi miti l’orgoglio germanico, e, dall’altra, V élite
intellettuale, che contrabbandava la poetica di Wagner e la
lanciava sul mercato, idealizzata, venata delle proprie idee.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 89

D’altronde chi, se non Franck o Wagner, sarebbe potuto


servire da modello e da fonte d’ispirazione ai giovani musicisti?
Questi ultimi non avevano altra scelta. Anche un compositore
sicuro dei propri mezzi come Lalo, in Le roi d'Ys, pagava il
suo tributo all’estetica wagneriana. Chabrier, vulcano di gio­
viale umorismo, apparentemente proprio l’uomo adatto per
rinnovare l’opera buffa francese, invece di consacrare le sue
forze all’opera, trovava più opportuno sperperarle nel diffon­
dere Wagner. D’Indy e Chausson non riuscivano a liberarsi
dell’influsso di Franck e di Wagner, schiacciante per la loro
personalità, né mai ci sarebbero riusciti, sebbene Chausson
avesse parlato della necessità di « dewagnerizzare » la musica
Duparc offrirà per decine di anni lo spettacolo desolante di
un artista di talento distrutto dalla « pressione » wagneriana
fin dal 1885, e lascerà solo dodici melodie, giudicate, è vero,
« geniali » dai posteri (Ravel). Più si diffondeva, più il culto
di Wagner causava danni. Storici lucidi dell’epoca successiva
arriveranno a paragonare Wagner ad Attila, sulle cui tracce
non cresceva più l’erba (Adler). Solo Gabriel Fauré sembrava
libero da ogni esitazione. Seguiva la sua strada, per arrivare
infine a risultati che gli avrebbero assicurato considerazione in
Francia. Ma i suoi scopi non dovevano apparire chiaramente
ai suoi confratelli, se nel 1903, Debussy non sapeva definirlo
con un epiteto diverso da quello, venato di ironia, di « mae­
stro di fascino »45.
Nell’ambiente di simili compositori (e osserviamo che erano
i migliori della loro epoca), il giovane Debussy, pieno di
dubbi e di esitazioni, non poteva non sentirsi a disagio.
Di qui, la sua preferenza per gli ambienti dei pittori e
dei poeti: i musicisti, malgrado l’alta opinione che gli artisti
delle altre discipline si facevano dell’arte della musica, resta­
vano a rimorchio dei movimenti d’avanguardia e si limitavano
a ripetere modelli del passato o ad imitare Franck e Wagner.

L'ambiente di Debussy

A parte gli ultimi tredici anni della sua vita, di una stabilità
relativa, tutta l’esistenza di Debussy fu permeata di incertezza,
90 CAPITOLO QUARTO

materialmente e, in una certa misura, spiritualmente parlando.


Nato in un ambiente piccolo-borghese, fin dall’infanzia egli
doveva rivolgersi al di fuori della sua classe. Il mondo dei
protettori delle arti gli permise di sperimentare una vita
« facile », i suoi legami con gli artisti « maledetti » rafforzavano
il suo senso di alienazione. In queste condizioni si formarono
i suoi gusti e la sua personalità d’artista.
Suo padre, Manuel Achille Debussy, figlio di un ebanista
e di un’operaia analfabeta, aveva servito per cinque anni nella
fanteria da sbarco, da qualche parte in Guadalupa o in Nuova
Caledonia.
Di ritorno a Parigi, sposa Victorine Manoury, figlia di un
falegname e di una cuoca, che, nel 1862, gli dà il suo primo
figlio, Achille Claude, il futuro compositore (Debussy abban­
donò il suo primo nome nel 1893). Il padre prova parecchi
mestieri, di volta in volta mercante di maioliche a Saint-
Germain-en-Laye (dove nacque Claude), mediatore, commesso
viaggiatore, mercante di litografie, senza mai riuscire ad assi­
curare condizioni di vita decorose ad una famiglia sempre più
numerosa. La madre amava solo il figlio maggiore e lasciava
la custodia degli altri figli alla cognata, Clementine Debussy,
sarta, un po’ meno povera grazie ad una relazione con un
ricco sensale, A.-A. Arosa, e poi ad un’« amicizia », che sa­
rebbe finita in un matrimonio, con un capocameriere a Cannes,
Alfred Roustan.
Sappiamo che, nel 1864, Achille-Antoine Arosa e la sua
amante Clementine Debussy, tennero sul fonte battesimale il
futuro compositore. Sappiamo pure che, come suo fratello, il
banchiere Gustave Arosa, padrino e protettore di Gauguin,
Achille-Antoine aveva gusti da collezionista (comperava dei
Delacroix, dei Corot, dei Daubigny, Jongkind, Gavarni, Pis­
sarro, Sisley) e che i due fratelli possedevano una bella villa
a Saint-Cloud, restaurata dopo le devastazioni della guerra
1870-71. Qui conservavano le loro collezioni e ricevevano i
loro amici, fra i quali, nel 1883, Pissarro e Gauguin. Invece,
non si può affermare nulla riguardo all’influenza di A.-A. Arosa
sulla formazione intellettuale di Debussy. Si può supporre che,
almeno finché durò la sua relazione con Clementine (non oltre
il 1868), egli facesse generosi regali al suo figlioccio; forse gli
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 91

faceva anche ammirare le attrattive della ricchezza, ricevendolo


a Saint-Cloud. Arosa doveva sentire dei doveri verso i genitori
di Claude Debussy, visto che a due riprese aiutò suo padre a
togliersi dai guai - politici prima, finanziari poi. Lasciando
ai biografi il compito di esaminare questi ultimi, ci fermeremo
ai primi, più legati al nostro argomento.
Durante l’assedio di Parigi, dal dicembre del 1870 al marzo
del 1871, il padre di Debussy fu impiegato all’ufficio di
approvvigionamento del primo arrondissement. Licenziato, si
arruola nella Guardia nazionale. In data 18 marzo, viene pro­
mosso luogotenente, e, il 3 maggio, capitano al comando della
2a compagnia del 130 Battaglione dei federati. Prende parte
all’assalto del forte d’Issy, e quando il comandante del bat­
taglione, ferito, abbandona la battaglia, prende il suo posto
(osserviamo che Paul Verlaine, uno dei « diseredati » e male­
detti, si batteva sulla stessa linea del fronte). Dopo la caduta
della Comune, il 22 maggio, Manuel Debussy si trova nella
prigione di Satory ad attendervi, per più di sei mesi, la
sentenza del Tribunale, che lo condanna a quattro anni di
prigione. Sebbene venga liberato di li a cinque mesi, grazie
alle iniziative della moglie, rimasta sola con quattro figli e
praticamente senza risorse, la situazione della famiglia non
migliora affatto: è impossibile per un ex-comunardo trovare
una qualsiasi sistemazione, tanto più che la pena di morte
civile, pronunciata contro di lui, viene mantenuta. È a questo
punto, sembra, che Achille-Antoine Arosa gli viene in aiuto,
trovandogli un modesto impiego come commesso nella com­
pagnia Fives-Lille, che il vecchio Debussy conserverà, con
un’inspiegabile interruzione di otto anni (dal 1887 al 1895),
dal gennaio del 1873 fino al 1906.
Nella prigione di Satory, Manuel Debussy aveva fatto
amicizia con un musicista, Charles de Sivry (ne riparleremo
in seguito), che, liberato prima, entrò in contatto con la
moglie del suo compagno di prigionia; nell’ottobre del 1871,
la presentò a sua madre, Mauté de Fleurville, insegnante di
pianoforte. Questo avvenimento avrebbe deciso in larga misura
dell’avvenire di Claude Debussy, che aveva allora nove anni.
Antoinette-Flore Mauté de Fleurville, nata Chariat, aveva
avuto dal suo primo matrimonio un figlio, Charles de Sivry,
92 CAPITOLO QUARTO

e, dal secondo, una figlia, Mathilde, diletta fidanzata e moglie


sventurata di Paul Verlaine. Passava per un’aristocratica de­
caduta, allieva di Chopin, un tempo amica di Balzac, di
Musset, dello stesso Wagner. In realtà, era una falsa marchesa
(il nome Fleurville era pura invenzione), pianista, allieva di
maestri sconosciuti (in ogni caso, nessuno dei suoi nomi figura
nella lista degli allievi di Chopin), ma insegnante di piano­
forte dotata di un eccezionale senso pedagogico. Fu la prima
a scoprire nel figlio di Madame Debussy, che aveva appena
cominciato le lezioni di pianoforte (su iniziativa della zia Clé-
mentine, con un violinista dell’orchestra municipale di Cannes,
Jean Cerutti), un grande talento musicale, che cominciò a col­
tivare benevolmente. Dovette prendere sul serio il suo compito,
poiché, appena un anno dopo, Claude Debussy, superato il
difficilissimo concorso d’ammissione al Conservatorio di Parigi,
veniva accettato, il 25 ottobre 1872, nella classe di pianoforte
di Antoine-Fran^ois Marmontel46.
Debussy manifestò sempre riconoscenza alla sua insegnante.
Anche Paul Verlaine dedicherà, anni dopo, un buon ricordo
alla sua ex-suocera: « Era un’anima incantevole, artista d’istinto
e di talento, eccellente musicista e di gusto squisito, ed intel­
ligente, e devota a chi amava »47.
Le lezioni si svolgevano nell’appartamento in cui la Mauté
de Fleurville viveva con i coniugi Verlaine. Come è notò,
Arthur Rimbaud vi era spesso ospite; la sua presenza porterà
con sé, dal luglio 1872, avvenimenti drammatici che termi­
neranno con la rottura della coppia male assortita, Il piccolo
Claude doveva senz’altro incontrare spesso, in quella casa, i
personaggi principali del dramma, e può darsi che sia stato
testimone involontario di scene sconvolgenti. Non c’è nessuna
prova che egli mantenesse in seguito rapporti con Verlaine,
di cui ammirava tanto le poesie. Fatto sta che, fin dall’infan­
zia, egli ebbe a che fare col mondo dei « maledetti ». Questa
prima volta non sarebbe stata l’ultima.
Se ci siamo un po’ dilungati su questi particolari biografici,
quasi ignorati solo pochi anni fa48, non è unicamente perché,
alla luce di essi, si spiegano meglio fatti conosciuti sui quali
non abbiamo intenzione di tornare, ma soprattutto perché essi
costituiscono il primo anello di una serie di avvenimenti che
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 93

impregneranno fortemente Pimmaginazione di Claude Debussy,


arricchiranno la sua vita interiore, formeranno il suo pensiero
e determineranno il suo atteggiamento verso il mondo.
La « stranezza » lo aveva sempre interessato: le persone
estranee al suo ambiente e le arti diverse dalla sua. Tutto
ciò che si allontanava dalla norma, dalla mediocrità, tutto
ciò che sembrava trasgredire le regole del gioco della vita
o dell’arte, ciò che sovvertiva le convenzioni stabilite e che
sapeva di esotismo, di ignoto, ed anche di scandalo, lo atti­
rava come il fuoco attira una falena, salvo che egli non si
lasciava catturare, ma sperimentava l’« estraneità », ne impre­
gnava la sua immaginazione, e ravvivava il fuoco della sua
arte. Nell’ultimo periodo della sua vita, apparentemente più giu­
dizioso, Debussy ruppe con i suoi amici di gioventù non perché
si fosse « imborghesito » con il suo secondo matrimonio: al
contrario, furono loro a non sapergli perdonare di avere abban­
donato la moglie, a dispetto di ogni buon senso borghese, per
prendere quella di un altro e cercare la felicità al suo fianco.
Quanto a lui, non era cambiato. Il suo spirito era, come
prima, pieno di idee sempre nuove. La sua arte rimase fino
in fondo la forza ribelle e rivoluzionaria del xx secolo.
Egli entrò in una scuola di musica dalle grandi tradizioni
senza avere neanche un’istruzione da scuola elementare; come
unico bagaglio intellettuale, aveva solo ciò che aveva potuto
imparare accanto alla madre ed agli amici. Le speranze dei
suoi genitori, convinti che egli avrebbe potuto completare la
sua educazione in quel luogo, o almeno imparare tutto sulla
musica, sarebbero state doppiamente deluse. Al Conservatorio,
nessuno gli insegnava né la grammatica, né l’ortografia (che
resteranno i suoi punti deboli) e, quanto alla musica, la glo­
riosa scuola dove aveva messo radici lo spirito di un rigido
accademismo, non doveva insegnargli molto più di quello che
sapeva già grazie alla « marchesa » di Fleurville. Cosi, dopo i
primi anni in cui raccoglieva allori che permettevano ai suoi
parenti di « fare castelli in aria costruiti sul reddito futuro
della mia gloria », come dirà in seguito49, venne il momento
in cui egli non nascose più ai suoi compagni il suo spirito
indipendente ed il suo disprezzo per le regole consacrate, pur
dissimulando le sue idee ai professori, per timore di perdere
94 CAPITOLO QUARTO

il loro appoggio50. Ecco perché egli coglierà con tanta avidità


ogni occasione di fuggire dal Conservatorio e, più tardi, dalla
sua filiale romana riservata agli eletti, Villa Medici. Messe da
parte le prospettive materiali, talvolta allettanti, l'essenziale
per lui era respirare la libertà, l’aria di un altro mondo, quale
che fosse, quello dei * potenti » o quello dei « maledetti ».
La serie delle escursioni dalla parte dei primi comincia con
un soggiorno in Turenna, nel meraviglioso castello di Cre-
nonceaux, dove, nell'estate del 1879, egli assume il ruolo di
pianista, membro del trio da camera animato dalla padrona
del posto, una scozzese, la Pelouze-Wilson. Viene poi assunto
come accompagnatore e precettore dei bambini di Nadézda
Filaretovna von Meck, la protettrice di Cajkovskij. A tre ri­
prese, passò con lei vacanze piuttosto prolungate, dall’inizio
del luglio alla fine dell’ottobre del 1880, in Svizzera e in
Italia (Interlaken, Napoli, Roma, Firenze); nel 1881, dapprima
in Russia (Mosca e Gurievo, castello dei Bennigsen), poi in
Italia (Roma, Firenze); infine, nel 1882, in Russia (a Plestcheie-
vo ed a Mosca) e in Austria, a Vienna, dove, sembra, senti
per la prima volta il Tristano di Wagner. Nel 1885, già
vincitore del primo Gran Premio di Roma, il secondo anno
del suo soggiorno obbligato a Villa Medici (almeno, egli lo
considerava cosi), non potendo tornare a Parigi dove pure lo
chiamavano le sue faccende di cuore (Madame Vasnier), ac­
cetta l’invito del conte Primoli (figlio di Charlotte Bonaparte
e parente della principessa Matilde), e va a riposarsi dalla
calura romana nella sua villa di Fiumincino, situata in una
stupenda posizione sulla costa adriatica.
Questi rapporti col mondo dei « potenti », il più delle
volte motivati da ragioni finanziarie, continueranno quasi per
tutto l’arco della sua vita. La lista dei nomi comincia con
Arosa, passa per quelli che abbiamo appena nominato, si
protrae con nomi aristocratici come Balbiani, Cystria, Polignac,
Poniatowski, San Martino; quelli di banchieri (Courty, Dupin),
di editori (Durand, Fromont, Hamelle, Hartmann, Jobert), di
direttori di teatri grandi e piccoli (Antoine, Astruc, Carré,
Chariot, Chautard, Gatti-Cassazza, Lugné-Poe) e di grandi
borghesi.
A parte i vantaggi finanziari, Debussy acquisiva, grazie a
DEBUSSY E IL SIMBOLISMQ 95

queste amicizie, una certa disinvoltura mondana, il gusto della


vita agiata, un po’ al disopra dei suoi mezzi, e talvolta la
conoscenza di cose che, altrimenti, non avrebbe avuto l’oppor­
tunità di vedere cosi da vicino (per esempio, la famiglia von
Meck lo inizia alla musica russa contemporanea, ridotta, è
vero, soprattutto a Cajkovskij); stringerà anche amicizie dura­
ture (Dupin, Hartmann, Durand).
Ma, per la sua formazione intellettuale, saranno di gran
lunga più importanti i suoi rapporti con la bohème di scrittori
e pittori; quanto ai musicisti, non aveva bisogno di cercarne
la compagnia, poiché li incontrava quotidianamente al Con­
servatorio. A parte la musica, il suo spirito era soprattutto
aperto alla poesia, non si sa come mai, né sotto quale in­
flusso; in effetti, quando la sua coscienza artistica era ancora
in cerca di se stessa, egli si interessava già, con gusto infal­
libile, alle migliori opere accessibili, e che potessero essergli
utili; basta riferirsi alle sue prime melodie degli anni 1876-
1878 (Banville, Musset, Cros, Bourget). Una delle sue amicizie
del Conservatorio, quella con Raymond Bonheur, era comin­
ciata grazia ad un volume di poesie di Théodore de Banville,
che Bonheur aveva scorto in mano a Debussy. Era il 1878 5l.
Qualche tempo dopo, è la volta di Verlaine, di Mallarmé,
Baudelaire, Poe, Laforgue, insomma, di tutti i santi del sim­
bolismo. Si può affermare che la raccolta delle cinque melodie
sui testi delle Fétes galantes, scritte dal 1881 al 1882 e de­
dicate a Marie-Bianche Vasnier, l’incantevole donna del suo
cuore dotata di una bella voce, non è un incidente sul percorso,
ma proprio una manifestazione del gusto artistico già formato
di un ragazzo di vent’anni. La lettera al marito della Vasnier.
datata 1886, da Villa Medici, dimostra fino a che punto il suo
spirito fosse ricettivo all’or du temps: egli vi enuncia, senza
saperlo, quasi negli stessi termini, le idee che Baudelaire
esprime in una lettera del 1862 ad Arsène Houssaye, che
precede Le spleen de Paris52 ; la sola differenza è che Debussy
parlava della musica, non dell’arte in generale. Un concorso
di circostanze o uno scusabile plagio? Certamente né l’uno, né
l’altro, ma piuttosto un’impressione duratura delle idee di
Baudelaire sulla memoria ed il pensiero di Claude Debussy.
Cosi, di fronte agli artisti di campi diversi dal suo, egli
96 CAPITOLO QUARTO

non faceva la figura del profano: al contrario, era molto al


corrente della vita artistica parigina, sempre più ricca al di
fuori delle istituzioni ufficiali, delle accademie e delle mostre.
Egli comincia con scappate notturne al cabaret dello Chat noir,
aperto dal dicembre del 1881 e, un passo dopo l’altro, finisce
ai « martedì » di Mallarmé.
Fu probabilmente introdotto allo Chat noir da Charles de
Sivry, lui stesso compositore di canzoni e, con Georges Fra-
gerolle, fornitore di musica per le « ombre cinesi » che Henri
de Rivière, pittore e poeta, animava con successo, alternandosi
con il celebre caricaturista Caran d’Ache. Debussy partecipava
al programma come accompagnatore dei cantanti e delle can­
tanti che si esibivano sulla piccola scena di Robert Salis.
Fece subito amicizia con un altro accompagnatore, un po’ più
giovane di lui, Vital Hocquet (Narcisse Lebeau), al quale,
dieci anni dopo, dedicherà una delle sue Proses lyriques, e
grazie al quale farà la conoscenza di Eric Satie. La cerchia di
persone che Debussy incontrava allo Chat noir era così estesa
che ci è impossibile nominarle tutte. Fra le conoscenze più
durature, bisognerebbe citare Maurice Vaucaire, poeta e scrit­
tore drammatico, poi braccio destro di Antoine al Théàtre de
l’Odéon; il narratore Alphonse Allais, grande scrittore della
« letteratura sorridente », e l’umorista Raoul Ponchon, amico
di Verlaine e di Emmanuel Chabrier, ed infine un altro autore
di testi satirici, Maurice Donnay.
Lo Chat noir era anche il quartier generale dove si tenevano
i venerdì letterari di un gruppo artistico nato su iniziativa di
Goudeau, e che, sotto la protezione di Charles Cros, poeta,
inventore della fotografia a colori e del grammofono, aveva
subito tre metamorfosi, adottando successivamente i nomi di
Hydropathes, Hirsutes e Zutistes, per poi scomparire e fondersi
in parte con la principale corrente dell’epoca, il simbolismo.
Fra gli autori di canzoni e di monologhi, avevano fatto parte
di questo gruppo, tra gli altri, Rollinat, Lorin, Marie Kry-
sinska, poetessa d’origine polacca, una delle prime ad avere
usato il verso libero (prima che Gustave Kahn si fosse atteg­
giato a suo inventore). Dei personaggi direttamente legati allo
Chat noir, bisognerebbe nominare E. Harancourt, le cui « poe­
sie isteriche » provocavano scandali (La légende des sexes,
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 97

1882). Come altri scrittori d’avanguardia, Harancourt si sarebbe


più tardi impantanato in un classicismo di stampo parnassiano,
coltivato da Pierre Louys e che Jean Moréas e Henri de Régnier
avrebbero patrocinato, dopo l’estinzione del simbolismo. Non
si possono passare sotto silenzio Paul Delmet e lo chansonnier
che debuttava allo Chat noir - Aristide Bruant. Quest’ultimo
avrebbe poi aperto un cabaret tutto suo, Le Mirliton. Citiamo
anche due disegnatori e decoratori, il caricaturista Théophile-
Alexandre Steinlen, conosciuto per le sue idee radicali, che
avrebbe seguito Bruant al Mirliton\ collaboratore del « Gii
Bias », fece di Debussy il ritratto a china spesso riprodotto.
Il secondo era Adolphe Willette, che produceva Pierrot e
Colombine a catena; illustrò La mandoline di Debussy (su
testo di Verlaine), pubblicata per la prima volta nel 1890 ne
« La revue illustrée ». Ma il primo posto fra tutti questi artisti
più o meno principianti, spetta incontestabilmente a Maurice
Rollinat («a sort of locai Heine», dirà Lockspeiser53), au­
tore di una raccolta di poesie con un titolo che caratterizzava
bene lo spirito di questa nuova generazione di bohème arti­
stica: Les Névroses, dove troviamo, fra l’altro, poesie su
Chopin e Poe. Rollinat scriveva anche musica su poesie di
Baudelaire, che interpretava lui stesso o che affidava alla can­
tante Yvette Guilbert, che diventerà celebre. Il periodo d’oro
dello Chat noir si situa negli anni 1885-1895, dopo che il
cabaret fu trasferito in rue Victor Masse. Qui, una scritta
sopra la porta d’ingresso invitava i passanti ad essere moderni
ed i camerieri indossavano l’abito verde dell’Accademia. I
frequentatori abituali del luogo erano Théodore de Banville,
Renan, Maupassant, Verlaine, Villiers de ITsle-Adam, Paul
Bourget, Jehan Rictus. Seguiva un pubblico di borghesi snob,
avidi di distrazioni, che subivano gli attacchi di una satira
velenosa pur di potere, in compenso, trovarsi gomito a gomito
con la bohème decadente.
Non abbiamo la certezza che dopo la fuga dalla « deporta­
zione » romana, che era durata due anni e tre mesi, Debussy
frequentasse ancora il cabaret, ma le conoscenze e le amicizie
che vi aveva fatto costituiranno per lui un capitale di contatti
umani sempre crescente. Dai primi anni dello Chat noir, dal
tempo in cui gli Hirsutes di poco prima erano i padroni della
98 CAPITOLO QUARTO

situazione, potrebbe datare la sua amicizia di breve durata


con Paul Bourget, che Debussy cita nelle sue lettere a Vasnier
da Roma e che sarebbe potuto essere il primo ad avere
attirato l’attenzione del giovane compositore sulle poesie di
Jules Laforgues. Si può senza dubbio collocare in questo periodo
la conoscenza, più duratura, con Charles Morice54, in seguito
amico di Gauguin, di cui Debussy parlerà ancora con simpatia
nel 1912. Ricordiamo che gli Hirsutes erano stati gli iniziatori
del settimanale, ambizioso anche se eclettico, « La nouvelle Rive
Gauche », fondato nel 1882, che diventa « Lutèce » quattro
mesi dopo, nel marzo del 1883. I suoi collaboratori sono
Morice, Harancourt, Rollinat, Bourget, Moréas. Nel 1883,
Verlaine vi pubblica la sua antologia dei Poetes maudits che
rivela Rimbaud (Les voyelles e Le bateau ivre, fra l’altro),
poesie inedite di Mallarmé (Apparition, sulla quale, due mesi
dopo, Debussy componeva la sua musica), di Laforgue e di
altri.
Attraverso Maurice Vaucaire, Debussy farà la conoscenza
della famiglia Peter (resterà per lunghi anni amico di René
Peter), ed entrerà nella cerchia delle persone più o meno
vicine a Huysmans (non sempre vicine riguardo alle idee):
Robert de Montesquiou, poeta e personaggio singolare che
sarebbe servito da modello sia all’autore di A rebours sia a
Marcel Proust; Gabriel Mourey, poeta e critico, traduttore di
Poe e Swinburne, che gli farà leggere le poesie di Swinburne
e conoscere la pittura di Turner e di Redon. Mourey mise
Debussy in contatto, del resto per breve tempo, con l’occul­
tista e satanista Jules Bois, iniziatore di Huysmans ai misteri
della « messa nera ». Solo Eric Satie si lascerà conquistare dal
misticismo di Bois, e di un altro « mago », il Sàr Péladan.
Fra i compagni di Conservatorio, Raymond Bonheur, amico
di Charles Cros, di Francis Jammes, di Albert Samain, di
André Gide e del pittore Carrière, molto apprezzato dai sim­
bolisti, aiuterà Debussy a farsi degli amici negli ambienti ar­
tistici non musicali. Grazie a lui, Debussy incontrerà Charles
Cros e il poeta satirico Gabriel Vicaire, autore con Beauclair
di un’antologia parodistica di poesie decadenti e simboliste,
Les déliquescences d'Adoré Floupette (1885), che certi profeti
della critica avevano preso sul serio, grazie alla qual cosa si
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 99

erano interessati un po’ di più a Verlaine e Mallarmé.


Ma è prima di tutto a se stesso che Debussy fu debitore
della facilità con cui allargava la cerchia dei suoi amici. Non
era loquace, certo, ma il suo viso, come ce lo mostrano gli
autori dei suoi primi ritratti, Pinta e Baschet, non poteva
passare inosservato. Aveva inoltre un senso dell’umorismo ed
un’ironia che, anche senza le testimonianze dei suoi contem­
poranei, appaiono chiaramente nelle sue lettere, in Children's
Corner e nei suoi articoli. Sapeva ascoltare, e la sua intelli­
genza gli permetteva di cogliere al volo il pensiero del suo
interlocutore e di rispondergli a tono. Questa stessa intelligenza
gli permetteva di completare la sua cultura generale e la sua
educazione con una rapidità sorprendente. Non fu il suo talento
a consentirgli di accedere all’élite intellettuale ed artistica
francese, poiché nessuno al di fuori dei musicisti poteva apprez­
zarlo, e per di più non erano in molti a poterlo giudicare,
ma proprio il suo modo di pensare e di sentire.
Leggeva avidamente libri e periodici. « I suoi genitori non
sono ricchi [racconta uno dei suoi compagni di classe in una
lettera datata 1884], e invece di usare il denaro delle sue
lezioni per soccorrerli, egli si compra libri nuovi o ninnoli,
acqueforti, ecc. Sua madre me ne ha mostrati cassetti interi »55.
Altri contemporanei esprimono opinioni simili, pur dando pro­
va di maggior comprensione per le passioni giovanili di De­
bussy. Nelle prime lettere conservate della sua corrispondenza
(ad E. Vasnier, a Popelin, a Baron), egli palla delle sue preoc­
cupazioni personali e di progetti di lavoro, oppure si dilunga
sulle opere musicali che ha ascoltato, sui quadri che ha visto,
sui libri che ha letto. Nelle lettere al libraio parigino E. Baron,
datate da Roma negli anni 1886-1887, chiede che gli venga
inviato tutto quello che c’è di recente di Verlaine, le poesie
complete di Shelley nella traduzione di Rabbe, Les cantilènes
di Moréas, gli ultimi volumi pubblicati di Vignier, di Morice,
di Henri Becque; infine, e questo rispecchia bene la sua pas­
sione di bibliofilo, Les croquis parisiens di Huysmans, « l’edi­
zione su carta giapponese ». Si sa peraltro che, durante il suo
soggiorno a Roma, egli si immergeva nella lettura di Shake­
speare, di Baudelaire, di Laforgue, dei Goncourt. Attraverso
Les poètes modernes de l’Angleterre, che era appena uscito
100 CAPITOLO QUARTO

nella traduzione di Gabriel Sarrazin, aveva conosciuto i pre­


raffaelliti. Interessato al libro di Melchior de Vogiié, Le roman
russe, legge la prima traduzione francese di Anna Karenina,
il che tuttavia non gli fa cambiare opinione sulla superiorità
di Flaubert rispetto a tutti gli altri prosatori. Anche Schopen­
hauer e Spinoza destano il suo interesse e diventano argo­
mento di discussione in seno ad un piccolo gruppo di amici
di Villa Medici (per lo piu non musicisti). In questo periodo,
Debussy ammira la pittura di Whistler e l’arte giapponese.
Fra le opere ordinate a Baron, figurano « La revue indépen*
dante » e « La Vogue », « La vie moderne » e « La nouvelle
revue ». Lasciando da parte quest’ultima (si trattava di un solo
numero, con Les sonnets di Paul Bourget), ricordiamo il ruolo
che ebbero le altre negli anni 1885-1889, cioè all’epoca in
cui il movimento simbolista era al suo apogeo.
« La revue indépendante », fondata nel 1884, aveva subito
una curiosa evoluzione nel corso dei suoi primi cinque anni
di vita. Diretta dapprima da Felix Fénéon, critico apprezzato
che aveva allora ventanni, difensore delle nuove tendenze in
poesia ed in pittura, sostenitore dell’anarchismo in politica
(parecchi anni dopo avrebbe invitato Debussy a collaborare
alla « Revue bianche »), « La revue indépendante » riuniva
soprattutto i naturalisti. Nel settembre del 1886, ne assunse
la direzione Édouard Dujardin e, a partire da quel momento,
la rivista diventò un periodico letterario ed artistico illustrato,
votato interamente alla causa delle nuove correnti. Laforgue,
Kahn, Verhaeren vi pubblicavano le loro poesie; Charles Henry,
Theodore de Wyzewa, Moore, i loro articoli; vi si potevano
trovare riproduzioni delle opere di Whistler, Seurat, Signac.
Su iniziativa di Fénéon, si organizzavano, nei locali della reda­
zione, mostre di Manet, di Berthe Morisot, di Rodin, Pissarro,
Seurat, Signac, Van Gogh. Quando Dujardin, e poi Fénéon,
se ne andarono, la rivista fu diretta ancora per qualche tempo
da Gustave Kahn e René Ghil (nel 1891, Aurier vi pubblicava
il suo articolo su Gauguin), per passare, infine, nelle mani dei
reazionari, che lottavano per la restaurazione degli Orléans 56.
« La Vogue », settimanale diretto da Léo d’Orfer, visse solo
otto mesi, dall’aprile al dicembre del 1886, ma la sua breve
esistenza fu piena di gloria; Verlaine vi pubblica Les illumi-
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO IOI

nations di Rimbaud; Mallarmé, Jules Laforgue, Moréas, Gu­


stave Kahn, vi pubblicano le loro poesie; su « La Vogue »,
uscirono le traduzioni di Whitman e di Keats, una serie di
articoli di Fénéon su Les impressionnistes en 1886 (dedicati
soprattutto a Seurat e Gauguin), l’articolo di Théodore de
Wyzewa su Mallarmé e il simbolismo, articoli di Henry e di
Morice.
Infine, l’eclettica rivista edita da Charpentier, « Vie moder­
ne » che esisteva fin dal 1879, conosce un breve periodo di
grandezza nel 1887, nel momento in cui vi collaborano Pis­
sarro, Seurat e Signac.
Fra i periodici che Debussy non richiedeva a Baron poiché
li trovava sul posto, a Villa Medici, e che leggeva senz’altro
attentamente, bisogna citare « La revue wagnérienne », diretta
negli anni 1885-1888 da Édouard Dujardin. Fu una lettura
che turbò per qualche tempo lo spirito del giovane compo­
sitore, destando la sua ammirazione per Wagner. Appena ter­
minate Les ariettes oubliee su testi di Verlaine, e poco dopo
il suo ritorno a Parigi (1888 e 1889) Debussy cedeva alla
tentazione di un pellegrinaggio a Bayreuth. Per fortuna, poiché
ciò lo avrebbe completamente guarito dal « wagnerismo ». Non
ne rimane altro che una traccia in due delle cinque melodie
su parole di Baudelaire (1887-1889).
Nel marzo del 1887, con la testa piena di idee nuove e
stanco di un amore sottoposto ad una prova troppo lunga,
Debussy decide di lasciare Villa Medici e di ritornare a
Parigi, dove è ben presto preso nel turbine della vita bohème
che gli permetterà di accettare, senza eccessivo strazio, la per­
dita dell’oggetto dei suoi sogni romani. Accontentandosi di
relazioni amorose poco impegnative, egli si dedica interamente
ai suoi progetti creativi, ai confronti di idee. Non evita lo
Chat noir, ma lo si vede più spesso nei bistrot e nei caffè
dove si riuniscono gli artisti.
Era passato il tempo in cui Chez Magny cenavano Sainte-
Beuve, Taine, Flaubert, Turgenev, Renan, Gauthier, i fra­
telli Goncourt, mentre Manet e Zola, con lo stato maggiore
dei loro amici, sedevano al Café Guerbois. La nuova genera­
zione cambiava spesso luogo di riunione. Quasi tutti i grup­
petti, ed anche artisti isolati, avevano i loro angoli prediletti,
102 CAPITOLO QUARTO

dove era possibile trovarli a diverse ore del giorno, finché


non fosse loro venuta voglia di trasferirsi altrove.
A partire dal 1887, o forse un po’ più tardi, il luogo di
riunione dei simbolisti era la piccola Librairie de l’Art In-
dependant, casa editrice modesta ma non senza ambizioni di
Edmond Bailly, che occupava il locale lasciato libero dalla
« Revue Indépendante », al numero n della rue de la Chaussée
d’Antin. Bailly pubblicava raccolte di poesie, studi filosofici,
e perfino musica; proprio da lui Debussy pubblicò i suoi Cinq
poèmes de Charles Baudelaire (1890) e, nel 1893, la cantata
La demoiselle élue su parole di Dante Gabriele Rossetti (nella
traduzione di Gabriel Sarrazin), ornata da una copertina di
Maurice Denis. Il personaggio stesso di Bailly, occultista ed
amatore di musica, l’atmosfera del luogo, che era per metà
una libreria, per metà un negozio di rigattiere, pieno di vecchie
scartoffie e di ninnoli, attiravano Mallarmé, Villiers de l’Isle-
Adam, Henri de Régnier, Maurice Denis, ed in seguito anche
Pierre Louys, André Gide, Paul Verlaine, talvolta Whistler.
Dal 1891, Bailly stampava «Les entretiens politiques et lit-
téraires », mensile di tendenza anarchica, diretto in modo am­
mirevole da Viélé-Griffin, dove Gide pubblicò il suo Traité de
Narcisse e Debussy una parte del testo delle Proses lyriques
(1892). Gli stretti rapporti di Debussy con le principali per­
sonalità del simbolismo cominciarono certamente nella libreria
della Chaussée d’Antin.
Tuttavia, la bottega di Bailly era solo uno dei punti d’attra­
zione attorno ai quali gravitavano le « eminenze grigie » della
vita artistica parigina. Debussy si recava spesso anche Chez
Thommen, a Montparnasse, dove incontrava Charles Cros e
Gabriel Vicaire, o alla birreria Pousset, nel quartiere di Mont­
martre, dove Catulle Mendès si recava ad incontrare Georges
Courteline e dove si poteva vedere spesso Henri Mercier,
poeta, traduttore di Keats e amico di Verlaine. C’era, infine,
il Café Vachette, regno di Jean Moréas. Qui, nel corso di una
tempestosa discussione tra Moréas e Mercier a proposito di
Schopenhauer, Debussy fece un’osservazione cosi sensata che
lasciò senza parole i due avversari: non si aspettavano che un
musicista avesse qualcosa da dire su un argomento cosi
astratto 57.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 103

A partire dal 1890, Debussy frequenta senza dubbio il


Café Voltaire, a place de l’Odéon, dove il lunedi si ritrova­
vano Charles Morice, considerato all’epoca, grazie alla sua
Littérature de tout à l'heure, il principale teorico del movimento
simbolista, e la maggior parte dei membri della redazione del
« Mercure de France »: Alfred Vailette, con la bella Rachilde,
sua moglie, Henri de Régnier, Rémy de Gourmont, Albert
Samain. Anatole France e Maurice Barrès vi si recavano qual­
che volta, e cosi pure i Nabis, con Maurice Denis in testa, ed
il fondatore della setta dei Rosacroce, il Sàr Péladan. Sempre
qui, Gauguin fece la conoscenza di Verlaine, e Carrière di­
pinse il celebre ritratto del poeta. Aggiungiamo che proprio al
Café Voltaire ebbe luogo, nel 1891, il banchetto, presieduto
da Mallarmé, in onore di Gauguin che partiva per il suo
primo viaggio a Tahiti.
Parlando dei caffè all’italiana frequentati da Debussy, non
si può fare a meno di citare la Taverne Weber, in rue Royale,
e il bar Reynold's, non lontano di li, il cui proprietario era
A. Picton. Da Weber venivano amici stretti di Debussy, come
René Peter, Pierre Louys con J. de Tinan e P.-J. Toulet, ed
anche frequentatori abituali: Léon Daudet, libellista temibile,
legato poi al gruppo di estrema destra Action frangaise, André
Tardieu, giornalista e futuro uomo di Stato, il celebre Willy
(Henri Gauthier-Villars), critico musicale, marito di Colette,
conosciuto per i suoi giochi di parole, e Marcel Proust con
l’inseparabile Reynaldo Hahn, oltre a tre disegnatori, diversi
per orientamenti e temperamento: Robert, Dethomas e il piu
noto dei tre, Forain. Léon Daudet ricrea nei suoi ricordi l’at­
mosfera che regnava da Weber, l’umorismo, le battute lanciate
e colte al volo dagli abili giocatori58.
Reynold's, luogo d’incontro di fantini inglesi, di cocchieri
privati e di gente del circo, aveva tutt’altro carattere ed at­
tirava Debussy per un certo esotismo, quello che si trova
nelle tele di Degas, di Toulouse-Lautrec o del Picasso dei
periodi blu e rosa.
Ecco quindi Debussy introdotto nei circoli privati del mondo
artistico, che egli frequenta negli anni 1887-1900, come ospite
sempre bene accolto (dai Peter e dagli Chausson, da Henri
Mercier e Henri Lerolle), come amico (da Pierre Louys), pet
104 CAPITOLO QUARTO

presentare le sue composizioni (per esempio, da Arthur Fon­


taine), o per altre ragioni ancora (da A. Stevens); ma fra
tutte queste riunioni, quelle che si tenevano al n. 89 di rue
de Rome, da Stéphane Mallarmé avevano un’importanza par­
ticolare: essere ammessi ai « martedì », equivaleva ad ottenere
dalle mani del padrone di casa un titolo di nobiltà intellet­
tuale. Cosa curiosa, non ci si veniva per parlare, ma per
ascoltare il monologo inesauribile di Mallarmé. « Niente di piu
modesto [racconta André Gide] della casa di Mallarmé e
dell’aspetto della sua persona. La sua retribuzione di profes­
sore di inglese al liceo Condorcet non gli permetteva nessun
lusso; ma tutto a casa sua era di un gusto squisito. La
piccola sala da pranzo dove ci riceveva poteva contenere solo
otto persone, dieci al massimo, che si sedevano attorno al
tavolo dove un’enorme tabacchiera sostituiva il pasto. Il
maestro stesso restava in piedi, con la schiena appoggiata ad
una stufa di maiolica scura [...]. Mallarmé era quasi il solo
a parlare. Les divagations che pubblicò in seguito rispecchiano
abbastanza fedelmente i suoi discorsi. Ma il tono della voce,
il sorriso, e non delle labbra ma dello sguardo, un sorriso
discreto, velato, quasi timoroso, accompagnato di solito da un
gesto furtivo: un indice alzato in segno di domanda e di
attesa... Ah, come si era lontani, in quella stanzetta di rue
de Rome, lontani dai vani rumori della città affaccendata, dalle
chiacchiere politiche, dalle brighe, dagli intrighi. Si entrava
con Mallarmé in una regione sovrasensibile, dove il denaro
gli onori, gli applausi non contavano più [...]. Conservai del
suo insegnamento il sacro orrore della facilità, della compia­
cenza, di tutto ciò che adula e seduce tanto nella letteratura
quanto nella vita. Un in transigente amore e bisogno di sin­
cerità, d’integrità di fronte a se stesso ed all’uomo [...].
L’insegnamento della rue de Rome non si rivolgeva solo allo
spirito, ma lavorava a plasmare la nostra anima »S9.
Secondo i periodi, poiché gli inizi dei « martedì » risalivano
al 1880, vi si potevano incontrare Verlaine, Catulle Mendès,
Villiers de l’Isle-Adam, Jules Laforgue, Moréas, Mirbeau,
Verhaeren, Huysmans, Henri de Régnier, Heredia, Pierre
Quillard, Dujardin, Théodore de Wyzewa, Fénéon, Stuart
Merril, Gustave Kahn, René Ghil (fino al 1888), Charles
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 105

Morice, Mourey, Vielé-Griffin, Hérold, Fontainas, S. George


(verso il 1889), Oscar Wilde con Douglas (dopo il 1891),
Symons, Maeterlinck, Rodenbach, Schwob, Pierre Louys, Gide,
Valéry, Claudel, i fratelli Natanson, e i pittori Berthe Morisot,
Renoir, Monet, Degas, Whistler, Redon, Gauguin, Vuillard.
I più fedeli andavano ugualmente a trovare Mallarmé a
Valvins vicino a Fontainebleau, dove il poeta passò le vacanze
per circa vent’anni, ma il carattere di queste riunioni era di­
verso da quelle della rue de Rome60.
I « martedì » avevano attenuato il lustro di tutti gli altri
circoli intellettuali. Né i « sabati » di José-Maria de Heredia,
in rue Balzac, né i « mercoledì » di Pierre Louys, in rue
Rembrandt (verso il 1894), né, ancora meno, le serate musi­
cali che dava il principe di Polignac nel suo palazzo privato
potevano pretendere di eguagliarli.
Secondo Paul Landormy, fu Édouard Dujardin, suo compa
gno di pellegrinaggio a Bayreuth, ad introdurre Debussy nella
cerchia dei simbolisti61. Quello che oggi sappiamo della gio
vinezza di Debussy ci permette di affermare che egli non ave­
va bisogno di nessuna guida per trovare la sua strada. Ma
non sappiamo ancora quando ed in quali circostanze Debussy
avesse fatto la conoscenza di Mallarmé. La visita che quest’ul­
timo gli fece, e che Debussy racconta nella lettera del 25
marzo 1910 a Jean Aubry62, si colloca alla fine del dicembre
del 1894, o forse un po’ più tardi; ma i ricordi di André Po-
niatowski, pubblicati dopo l’ultima guerra, inducono a pen­
sare che Debussy dovesse conoscere bene Mallarmé fin dal
1890 e frequentare i * martedì » da molto tempo, visto che
in quella data osò introdurvi il suo protettore, e che potè
anche assicurargli l’accoglienza benevola del maestro. A quella
riunione assistettero pure Henri de Régnier, Rodenbach, Pier­
re Louys, e Marcel Schwob63.
Comunque sia, sembra certo che, non a caso, Debussy si
sia trovato mescolato all’ambiente dei simbolisti. Come tutti
i grandi artisti, egli si rifiutava di ripetere formule superate
e si legava all’avanguardia del suo tempo. L’apporto degli im­
pressionisti fu duraturo, ma la loro estetica, già allora, non
soddisfaceva più nessuno, loro stessi non più degli altri. Essa
aveva dato un potente impulso alle ricerche in tutti i campi
io6 CAPITOLO QUARTO

dell’arte, ma non aveva fornito la chiave universale che per­


mettesse di risolvere tutti i problemi che sorgevano. Vedere
negli impressionisti la tendenza principale dell’epoca lettera­
ria fu un errore dei teorici, la nozione di impressionismo mu­
sicale ne fu un altro. Se c’erano categorie generali da trovare,
bisognava cercarle, prima di tutto, in ogni ramo dell’arte, con
i mezzi propri di quell’arte. L’integrazione dei mezzi era pos­
sibile solo sulla base della comprensione dell’opera d’arte come
simbolo: ambiguo, dinamico, che* unisce il mondo delle idee
al mondo delle cose. Furono i simbolisti a farne prendere
coscienza a tutti gli artisti, e a Debussy, furono loro, sotto
l’egida di Mallarmé, a rappresentare la nuova avanguardia del­
l’epoca.
Il movimento simbolista era cominciato in poesia ed in mu­
sica: i suoi precursori erano stati Baudelaire e Wagner. La
poesia è più vicina alla musica di quanto non lo sia la pittura,
e perciò fu dapprima la fonte d’ispirazione di Debussy; la pit­
tura lo fu solo nella misura in cui voleva essere poesia, nella
misura in cui si rivolgeva a tutto l’uomo, e non solo alla sua
intelligenza o ai suoi sensi. Sentendosi lui stesso un po’ poeta
(Les proses lyriques e Les nuùs blanches lo attestano, e cosi
i titoli dei Preludes per pianoforte e quelli della seconda se­
rie delle Images), Debussy cercò molto naturalmente di avvi­
cinarsi ai poeti e non ai pittori; d’altronde, non doveva nep­
pure sollecitarne l’amicizia: essi venivano a trovarlo di loro
spontanea volontà, attratti dalla sua personalità.
Quanto ai suoi gusti in pittura, ancor oggi circolano opi­
nioni talmente errate che vale la pena di spendere qualche
parola in proposito. Contrariamente a ciò che spesso si afferma,
non si troverà nei suoi articoli, nella sua corrispondenza, e
nemmeno nei ricordi di persone che lo conobbero, la minima
prova di un influsso importante della pittura impressionista.
Al contrario, come abbiamo detto sopra, egli si difendeva con­
tro il termine « impressionismo », quando veniva applicato
alla sua musica, e quanto a lui, lo usava solo ironicamente.
Utilizzandolo perché sembrava adatto alla sua opera, non
solo non si tenne conto delle proteste del compositore, ma,
per di più, si cominciò ad attribuirgli propensioni per la pit­
tura impressionista che in realtà egli non ebbe mai. Per
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 107

sostenere una falsa tesi (formula risultante da un’analisi ine­


satta), se ne falsò la genesi. Menzioni disseminate nei vari
scritti di Debussy e nelle sue lettere possono informarci sulle
sue preferenze riguardo alle arti plastiche. Così, un questionario
al quale rispose nel 1889, attesta che i suoi pittori preferiti,
a quell’epoca, erano Botticelli e Gustave Moreau. Più tardi
compariranno anche i nomi di Whistler e di Turner, precur­
sore tanto dell’impressionismo che del simbolismo, i cui quadri
lasceranno la più profonda traccia nella sua immaginazione, e
che egli definisce, nella lettera a Durand, datata marzo 1908
« il più bel creatore di mistero che ci sia in arte » 64. Il suo
interesse per la pittura di Degas e per l’arte giapponese, poi
per Toulouse-Lautrec, ed infine per Goya, si colloca pressap­
poco verso il 1890. Sappiamo anche che gli piacevano alcuni
quadri di Henri de Groux (Christ aux outrages), che non gli
piacevano le sculture di Rodin, l’arte utilitaria del modem
style ed il bizantinismo di Bakst (scenografo di Djagilev).
Abbiamo buone ragioni per supporre che i preraffaelliti non
lo lasciassero indifferente, e cosi i Nabis: Walter Crane ed
Aubrey Beardsley, Redon e Gauguin. A parte pochi altri, è
a questi pochi nomi che si riduce la lista dei pittori di cui
si può dire con certezza che abbiano influenzato la sensibilità
di Debussy.
Solo Degas apparteneva al gruppo impressionista; del resto,
occupava in esso un posto a parte, ai margini di quello che
siamo abituati a considerare come impressionismo « puro »
(Monet, Sisley). In questa lista non ci sono altri rappresentanti
di quella corrente, in particolare non vi compare il nome di
Monet. Per la maggior parte, questi pittori si ricollegano, di­
rettamente o indirettamente, alla corrente simbolista.
Neppure i rapporti personali di Debussy con pittori e scul­
tori, del resto molto meno stretti di quelli che lo legavano ai
poeti, possono servire da appoggio alla tesi dei suoi legami
con l’impressionismo.
Durante il soggiorno a Villa Medici, egli aveva a che fare
o con artisti accademici (Cabat, Hébert), oppure con vincitori
del Premio di Roma, che non avevano ancora optato per nes­
suna corrente (Pinta e Baschet, a cui dobbiamo, sia detto en
passant, ritratti di Debussy abbastanza interessanti e somiglianti.
io8 CAPITOLO QUARTO

e lo scultore Lombard), e nessuno dei quali, malgrado medaglie


e premi di ogni sorta vinti in seguito, riuscì a passare ai
posteri. Nello stesso periodo, Debussy aveva incontrato il ri­
trattista della Vasnier, Paul Baudry, anche lui pittore acca­
demico. Datano dal periodo bohème i suoi rapporti con i
disegnatori Willette, Steinlen, Dethomas, Forain, Robert e
Detouche; un po’ più tardi, all’epoca dei suoi contatti con
Mallarmé e gli Chausson, incontrerà sporadicamente Whistler
e i Nabis. Se frequentò, per un breve periodo, la casa di
Alfred Stevens, non fu perché si interessasse a questo pittore
del gran mondo e del demi-monde parigini, bensì a sua figlia
Catherine Stevens: le dichiarò il suo amore nel 1896 e venne
congedato, ma con riguardo: gli sarà permesso di tornare
sull’argomento « quando Pelléas sarà stato eseguito ». Farà
amicizia con la scultrice Camille Claudel, sorella del poeta e
allieva di Rodin, fino a quando una malattia psichica incurabile
dell’artista renderà difficili i rapporti. Debussy conserverà fino
alla morte due piccole sculture di Camille, Clotho e La valse,
datate 1893. Nell’ambiente di Mallarmé e di Pierre Louys,
incontrò spesso il ritrattista dei personaggi in voga, Jacques-
Émile Bianche, per il quale posò anche in due riprese, nel
1902 e nel 1909. Fu il progetto per la copertina de La
demoiselle élue ad avvicinarlo a Maurice Denis, mentre il pit­
tore Henri Lerolle gli offriva un aiuto materiale e lo metteva
in contatto con la crema della società artistica e mondana che
riceveva a casa sua. Debussy entrava in una famiglia ospitale
(gli Chausson, i Fontaine, gli Escudier) e la sua simpatia per
l’incantevole figlia del pittore, Yvonne, contribuì senz’altro
anch’essa a questa amicizia. Quanto ad Odilon Redon, si sa
semplicemente che regalò a Debussy una delle sue stampe
e che fu l’autore delle scene de L’après-midi d’un faune, per
il balletto di Djagilev. Un ritratto ad olio di Debussy, del
1909, ed un busto attestano i suoi rapporti con Henri de
Groux. Il compositore avrebbe fatto la conoscenza di Toulouse-
Lautrec al Moulin rouge, tramite Paul Chansarel, fratello di
un suo compagno di Conservatorio. Secondo una tradizione
conservata nella famiglia Chansarel, i due artisti nutrivano una
reciproca ammirazione per le loro opere65.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 109

Le opinioni estetiche di Debussy

Come abbiamo appena visto, l’ambiente in cui si formò la


personalità artistica di Debussy era composto essenzialmente
da poeti e scrittori, insomma da uomini di lettere. Paul Dukas
aveva ragione di dire : « L’influsso piu forte che Debussy abbia
subito . è quello dei letterati. Non quello dei musicisti »66.
Aggiungiamo che tale influsso risale a molto prima che egli
entrasse in quell’ambiente, poiché cominciò fin dalla giovinezza,
con le sue letture della letteratura contemporanea.
Nel momento in cui, di ritorno a Parigi, comincia a fre­
quentare la Librairie de l’Art indépendant e i « martedì » di
Mallarmé, i suoi gesti e la sua sensibilità artistica sono pra­
ticamente formati. Gli mancano ormai solo una veduta d’in­
sieme dei problemi che l’epoca nuova pone all’artista e la
disinvoltura che le amicizie letterarie conferiranno ben presto
al suo pensiero ed ai suoi mezzi espressivi; non è facile im­
maginare come sarebbe stata, senza tutto ciò, la sua scrittura,
che oggi ci affascina e ci stupisce: Debussy vedeva i fenomeni
musicali con una lucidità straordinaria, spesso nello stesso
modo in cui noi li vediamo. Molte delle sue formulazioni
sono entrate definitivamente nel nostro modo di pensare,
senza che ce ne rendessimo neppure conto.
La produzione letteraria di Debussy si riduce a cronache,
critiche ed articoli degli anni 1901-1915, a qualche tentativo
letterario ed alla corrispondenza degli anni 1885-1917. Alcune
interviste vengono a completare quella che si potrebbe con­
siderare come la sua opera letteraria. Egli vi espone tutta la
sua estetica - evidentemente, quella che egli sosteneva, non
quella che si potrebbe dedurre dalla sua musica. Vedremo, del
resto, che non c’è contraddizione essenziale tra queste due
estetiche. L’una viene a sostenere l’altra. Si ritroveranno nei
suoi scritti il clima dell’epoca, echi di dispute di allora, anche
accenti polemici, ma, prima di tutto, vi si troverà un pensiero
vivo, seducente per la sua semplicità e, all’occorrenza, ironico.
In una cronaca de « La revue bianche », del i° luglio 1901,
che apre la raccolta postuma delle sue critiche, Monsieur Croche
antidilettante, Debussy abbozza in pochi tratti di penna la
sagoma di un interlocutore immaginario talmente espressivo,
IIO CAPITOLO QUARTO

pieno di un umorismo malizioso (che somiglia forse ad Anatole


France, o forse - dicono alcuni - a Bernard Shaw, e un
po' senza dubbio a Monsieur Teste), che si sarebbe quasi
tentati di cercare in esso il volto di uno dei suoi contempo­
ranei. In realtà, Monsieur Croche non è ricalcato su nessuno.
È lo stesso Debussy che parla per bocca sua ogni volta che
gli sembra opportuno far ricadere sul suo interlocutore parte
della responsabilità delle sue opinioni.
« Bisogna cercare la disciplina [dice Monsieur Croche] nella
libertà e non nelle formule di una filosofia diventata caduca
e buona per i deboli. Non ascoltare i consigli di nessuno, se
non quelli del vento che passa e ci racconta la storia del
mondo »67.
L’ultima frase sembra quasi consigliare ai giovani di non
prendere troppo sul serio i precetti degli anziani; esprime
la rivolta che Debussy aveva già manifestato alcuni anni prima,
in una lettera ad Henri Lerolle: « Coltiviamo solo il giardino
dei nostri istinti, e calpestiamo senza rispetto le aiuole dove
sono allineate simmetricamente le idee in cravatta bianca » °8.
Debussy credeva che il vero talento non potesse accettare
senza discutere l’insegnamento che gli veniva prodigato, poiché
una fiducia eccessiva nelle formule scolastiche porta inevitabil*
mente all’indebolimento deU’immaginazione, « quella cosa mi*
steriosa che ci fa trovare la giusta impressione di un senti*
mento ». Tuttavia, è ugualmente dannoso, cadendo nell’eccesso
opposto, forzare l’immaginazione con una « ricerca assidua ed
ostinata ». « Dobbiamo proprio dire a noi stessi che siamo
solo lo strumento di un destino, e dunque bisogna pure lasciare
che esso si compia » 69.
Molti anni dopo, nel suo articolo Du goùt, Debussy svi­
lupperà queste idee che l’avevano ossessionato in giovinezza:
« Ci sono stati, ci sono ancora, malgrado i disordini provocati
dalla civiltà, degli affascinanti piccoli popoli che impararono
la musica semplicemente come si impara a respirare. Il loro
conservatorio è il ritmo eterno del mare, il vento tra le
foglie, e mille piccoli rumori che essi ascoltarono con atten­
zione, senza mai consultare arbitrari trattati. Le loro tradi­
zioni esistono solo in vecchissime canzoni mescolate a danze,
a cui ciascuno, un secolo dopo l’altro, portò il suo rispettoso
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO III

contributo. Tuttavia, la musica giavanese osserva un contrap­


punto al confronto del quale quello di Palestrina è solo un
gioco da ragazzi. E se si ascolta, senza un partito preso
europeo, l’incanto della loro percussione, si è per forza obbli­
gati a constatare che la nostra è solo un rumore barbaro da
circo ambulante. Presso gli Annamiti viene rappresentato una
specie di dramma lirico in embrione, d’influsso cinese, in cui
si riconosce la formula della tetralogia; ci sono soltanto piu
dèi e meno apparati scenici... Un piccolo clarinetto rabbioso
guida l’emozione; un tam-tam organizza il terrore... ed è tutto.
Niente più teatro speciale, niente più orchestra nascosta. Solo
un istintivo bisogno d’arte, ingegnoso nel soddisfare se stesso;
nessuna traccia di cattivo gusto »70. Sarà forse che nei paesi
civilizzati sono i professionisti a rovinare l’arte?
I tratti « faustiani » della civiltà, che avevano raggiunto il
culmine all’epoca dello scientismo, trovavano anche un riflesso
nella musica, nel suo sinfonismo tradizionale, e Debussy se li
figura come uno scuotimento dell’equilibrio fra il pensiero e
l’esistenza, la ragione e la natura. Di qui, l’importanza, tutta
particolare, che egli attribuisce all’intuizione nel processo della
creazione musicale. Infatti, che cos’è la musica? « La musica
è una matematica misteriosa i cui elementi partecipano del­
l’infinito. Essa è responsabile dei movimenti delle acque, del
giuoco delle curve descritte dalle mutevoli brezze; niente è
più musicale di un tramonto. Per chi sa guardare con emo­
zione, è la più bella lezione di sviluppo scritta in quel libro
non letto abbastanza assiduamente dai musicisti, voglio dire:
la Natura » 71.
Dopo anni, egli tornerà una volta di più su quest’idea:
(La musica) « è un’arte libera, zampillante, un’arte d’aria
aperta, un’arte a misura degli elementi, del vento, del cielo,
del mare. Non bisogna farne un’arte chiusa, scolastica »72. E
tuttavia, dice Monsieur Croche, « se ne fa una canzone spe­
culativa. Preferisco le poche note del flauto di un pastore
egiziano: egli collabora al paesaggio e sente le armonie igno­
rate dai vostri trattati » 73.
« Chi conoscerà il segreto della composizione musicale?
[Si domanda altrove Debussy] Il rumore del mare, la curva
di un orizzonte, il vento tra le foglie, il grido di un
Ill CAPITOLO QUARTO

uccello depongono in noi molteplici impressioni. E, d’un


tratto, assolutamente senza il nostro consenso, uno di questi
ricordi si diffonde al di fuori di noi e si esprime in linguaggio
musicale. Esso porta in sé la sua armonia. Per quanto ci
si sforzi, non se ne potrà trovare nessuno che sia più ade­
guato né più sincero. Solo cosi, un animo destinato alla
musica fa le più belle scoperte [...]. Aborrisco le dottrine e
le loro impertinenze. Ecco perché voglio scrivere il mio sogno
musicale con il più completo distacco da me stesso. Voglio
cantare il mio paesaggio interiore con il candore ingenuo del
bambino. Senza dubbio, questa innocente grammatica artistica
non procede senza scontri. Scandalizzerà sempre i sostenitori
dell’artificio e della menzogna »74.
« La musica [scrive Debussy] è proprio l’arte più vicina
alla natura [...]. Malgrado le loro pretese di traduttori giurati,
i pittori e gli scultori possono darci della bellezza dell’universo
solo un’interpretazione abbastanza libera e sempre frammen­
taria. Essi colgono e fissano uno solo dei suoi aspetti, uno
solo dei suoi momenti: solo i musicisti hanno il privilegio
di captare tutta la poesia della notte e del giorno, della
terra e del cielo, di ricostituirne l’atmosfera e di ritmarne il
palpito immenso »75. Evidentemente, non si tratta di imitazione
diretta, Debussy l’aveva sottolineato bene prima del 1913, ma
di una « trasposizione sentimentale di ciò che è “ invisibile ”
nella natura. Si rende forse il mistero di una foresta misu­
randone l’altezza degli alberi? E non è piuttosto la sua pro­
fondità insondabile a mettere in moto l’immaginazione? »76.
Ed ecco come egli formula quest’idea che lo apparenta all’este­
tica simbolista: la musica non è « limitata ad una riprodu­
zione più o meno esatta della natura, ma alle corrispondenze
misteriose fra la Natura e l’immaginazione »77. Il giovane
Paul Valéry esprimeva un’opinione vicina a questa quando
diceva che l’ideale sarebbe stato un’arte che unisse il mondo
che ci circonda al mondo che vive in noi78. Si ritrova in
Gauguin un’idea quasi identica, che raggiunge le « corrispon­
denze » di Baudelaire: « Osservate l’immensa creazione della
natura e vedrete se non ci sono leggi per creare, con aspetti
completamente differenti, e tuttavia simili nel loro effetto,
tutti i sentimenti umani »79.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO JI3

Niente era piu estraneo a Debussy della musica ricercata.


Non ripeteva forse spesso che « la musica deve umilmente
cercare di far piacere. [...] L’estrema complicazione è il
contrario dell’arte » 80. Egli spiega anche ciò che intende dire:
« La musica fino ad oggi si è basata su un falso principio. Si
cerca troppo di scrivere, si fa musica per la carta, mentre
essa è fatta per le orecchie. Si dà troppa importanza alla
scrittura musicale, alla formula ed al mestiere. Si cercano le
idee in se stessi, mentre si dovrebbe cercarle intorno a sé.
Si combinano, si costruiscono, si immaginano dei temi che
vogliono esprimere delle idee; essi poi si sviluppano, si modi­
ficano all’incontro con altri temi che rappresentano altre idee,
si fa della metafisica ma non si fa piu della musica. Quest’ultima
dev’essere registrata spontaneamente dalle orecchie dell’ascolta­
tore, senza che egli abbia bisogno di scoprire le idee estratte
nei meandri di un complicato sviluppo »81.
« Bisogna che la bellezza sia sensibile [egli dice ancora]
che ci procuri un godimento immediato, che s’imponga o che
s’insinui in noi senza che dobbiamo fare nessuno sforzo per
coglierla » w. O anche: « La musica diventa “ difficile ” tutte
le volte che non esiste, dove difficile non è altro che una
parola-paravento per nascondere la sua povertà » M.
«Purifichiamo la nostra musica [dice in un articolo]. De­
dichiamoci a decongestionarla. Cerchiamo di ottenere una mu­
sica più nuda. Guardiamoci dal lasciar soffocare l’emozione
sotto l’ammucchiarsi dei motivi e dei disegni sovrapposti: come
potremmo renderne il fiore o la forza conservando la preoc­
cupazione per tutti i particolari di scrittura, mantenendo un’im­
possibile disciplina nella muta brulicante dei piccoli temi che
si urtano e si accavallano per mordere le gambe al povero
sentimento che cerca ben presto la salvezza nella fuga... In
linea di massima, tutte le volte che in arte si pensa a com­
plicare una forma o un sentimento, il fatto è che non si sa
che cosa si vuole dire » M.
Egli accordava anche alla reazione spontanea dell’ascoltatore
la stessa importanza che attribuiva alla spontaneità dell’artista.
Si incontra spesso, egli dice, questa frase: « Ho bisogno di
ascoltare questo più volte... Non c’è niente di più falso.
Quando si ascolta bene la musica, si sente subito quello che
II4 CAPITOLO QUARTO

si dive sentire. Il resto è solo questione di ambiente, o di


influenza esterna »85.
Debussy ha spesso parlato della musica drammatica, e quindi
anche di Wagner. Non dimentichiamo che fu lui stesso autore
di uno dei più grandi capolavori operistici, che dovette su­
perare l’influsso del maestro di Bayreuth e che avrebbe voluto
liberarne anche le persone che gli stavano intorno.
Secondo Debussy, il « sinfonismo » introdotto da Wagner
nell’opera non risolve il problema del dramma musicale; inol­
tre, tale formula non evita la contraddizione. « La musica ha
un ritmo la cui forza segreta dirige lo sviluppo; i moti del­
l’anima ne hanno un altro, più instintivamente generale e
sottomesso a molteplici avvenimenti. Dalla giustapposizione di
questi due ritmi nasce un perpetuo conflitto. Ciò non si
compie nello stesso tempo: o la musica si affanna a rin­
correre un personaggio, o il personaggio si siede su una nota,
per permettere alla musica di riacciuffarlo. Ci sono incontri
miracolosi di queste due forze [...], ma ciò è dovuto al
caso [...]. L’applicazione della forma sinfonica ad un’azione
drammatica potrebbe certo arrivare ad uccidere la musica
drammatica, invece di servirla ... » M.
Dei personaggi di Wagner, Debussy scriverà: « Pensate che
non compaiono mai senza essere accompagnati dal loro dan­
nato Leitmotiv} ce ne sono perfino alcuni che lo cantano.
Ciò somiglia alla dolce follia di uno che, consegnandovi il
suo biglietto da visita, ve ne declami liricamente il conte­
nuto ... »87. « E Wagner ha esagerato questo procedimento
fino alla caricatura. Odio il Leitmotiv, quand’anche egli non
ne avesse affatto abusato, ma l’avesse solo usato con gusto
e discrezione. Pensate forse che in una composizione una
stessa emozione possa essere espresa due volte? Bisogna non
aver riflettuto, oppure è un effetto della pigrizia. Non lasciatevi
abbindolare dal cambiamento del ritmo o del tono: ciò equivale,
semplicemente, ad andare più oltre nell’inganno » M. « Wagner
tende avvicinarsi alla parola parlata; in realtà sostiene soltanto
di avvicinarsi ad essa, anche se tratta le voci in un modo
molto “ vocale ”. Ha un modo di declamare che non è né
il recitativo all’italiana, né l’aria lirica. Sovrappone le parole
ad una sinfonia continua, pur subordinando tale sinfonia alle
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO II5

parole. Non abbastanza, tuttavia. Le sue opere realizzano sole


in parte i principi, che egli ha dichiarato, di tale necessaria
subordinazione. Manca dell’audacia per applicarli. Ha troppa
precisione e troppa minuzia; non lascia spazio a nessun sot­
tinteso [...]. E poi, si canta troppo spesso. Bisogna “can­
tare ” solo a tratti » w.
« Quello che, dal punto di vista di noi francesi, è soprat­
tutto falso, è il suo teatro. Quattro serate per un dramma.
Vi sembra ammissibile? E notate che in queste quattro serate,
si sente sempre la stessa cosa. I personaggi e l’orchestra si
ripassano successivamente gli stessi motivi, e arrivate al Cre-
pucolo degli dèi, che è ancora un riassunto di tutto quello
che avete appena sentito. Ebbene, lo ripeto, tutto ciò è inam­
missibile per chi ami la chiarezza e la precisione »90.
Nel dramma musicale, tutto deve servire ad esprimere l’ele­
mento lirico incarnato nella voce umana. Non bisogna anne­
garlo nella massa orchestrale, che esprime l’elemento dionisiaco
del cosmo, ed è proprio questo che accade in Wagner. Nel
Parsifal, Debussy apprezzava proprio il fatto che la musica
veniva ricondotta a proporzioni piu umane: « Non è più quel­
l’affanno nervoso nell’inseguire la passione morbosa di un
Tristano, le grida da bestia furiosa di un’Isotta, né il com­
mento magniloquente della disumanità di un Wotan »91. Tut­
tavia, il lato pretenzioso di questo mistero pseudo-religioso,
che doveva servire alla rinascita morale dell’umanità, non gli
sfugge. Infatti, quale insegnamento morale si può trarre da
quest’arte redentrice? « Guardate Amfortas, triste cavaliere
del Graal [...]. Quando ci si passa la lancia attraverso il
corpo, non si porta in giro una ferita colpevole attraverso
malinconiche cantilene, e questo per tre atti ». A Wagner è
riuscito meglio di tutti il personaggio di Klingsor. Ma chi è
Klingsor? « Antico cavaliere del Graal, messo alla porta del
Luogo Sacro per via di opinioni troppo personali sulla ca­
stità », astioso e vendicativo, « stregone astuto », « vecchio
recidivo », ecco « il solo personaggio “ umano ”, l’unico per­
sonaggio “ morale ” [...] in questo dramma cristiano [...], in
cui si proclamano le idee morali e religiose più false », ed in
cui nessuno vuole sacrificarsi, tranne la sentimentale Kundry,
« vecchia rosa d’inferno » 92.
n6 CAPITOLO QUARTO

La lezione del Parsifal - opera ideologicamente reazionaria


e, dal punto di vista drammatico, fallita, sebbene racchiuda
pili di una pagina di bella musica - offre a Debussy l'occasione
di un paragone sarcastico: « Si può trarre un’immagine abba­
stanza sorprendente dall’opera di Wagner: Bach, è il Santo
Graal; Wagner, è Klingsor che vuole schiacciare il Graal e
prendere il suo posto... Bach risplende sovrano sulla musica
e, nella sua bontà, ha voluto che ci restino da sentire delle
parole, ancora sconosciute, della grande lezione che egli ha
lasciato per servire all’amore disinteressato per la musica.
Wagner va [...] scomparendo [...], ombra fuligginosa e in­
quietante»93. Queste parole furono scritte nel Ì903, nel
momento in cui la gloria del riformatore di Bayreuth brillava
in tutto il suo splendore, e niente ne annunciava il crepu­
scolo. Fin da quest’epoca, Debussy si rende perfettamente
conto che, per recuperare il ritardo che Wagner aveva causato
nello sviluppo della musica, bisognava cancellarne il mito dallo
spirito ottenebrato degli artisti. Di qui, le sue invettive contro
l’autore di Tristano.
Il suo « eroico istrionismo » e la sua « isteria magnilo­
quente »94 hanno perduto Wagner nella stessa misura di « quel
bisogno tedesco di battere ostinatamente sullo stesso chiodo
intellettuale, per timore di non essere compreso »95. L’opera di
Wagner non resisterà alla prova del tempo, prevede Debussy.
« Ne resteranno comunque delle belle rovine, all’ombra delle
quali i nostri nipoti andranno a sognare sulla grandezza passata
di quest’uomo al quale è mancato solo di essere un po’ piu
umano per essere davvero grande » %. Wagner ha fuorviato i
suoi epigoni in un vicolo cieco: « Wagner non ha mai ser­
vito la musica. Non ha neppure servito la Germania. [...] E
quando Wagner, in un moto di folle orgoglio, gridava: Ed
ora avete un’arte, avrebbe potuto dire allo stesso modo: E
adesso vi lascio il Nulla, tocca a voi uscirne fuori »97. « Wagner
[conclude Debussy], se ci si può esprimere con un po’ della
magniloquenza che gli si addice, fu un bel tramonto che è
stato preso per un’aurora »98.
La sua influenza è stata nefasta per la musica francese:
« Bisogna ammettere che non ci fu niente di piu malinconico
di quella scuola wagneriana in cui il genio francese sprofonda
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO II7

in contraffazioni di “ Wotan n in mezzi stivali e di “ Trista­


no ” in giacca di velluto»99. «In generale [constata De­
bussy], nella nostra epoca, la musica tende sempre più a
servire da accompagnamento ad aneddoti sentimentali o tra­
gici ed assume il ruolo un po’ losco di imbonitore sulla
porta di una baracca in cui si esibisce il sinistro Niente di
Niente » 10°.
Egli sottomette pure ad una severa critica il verismo ita­
liano; solo Verdi viene risparmiato, malgrado tutto il contributo
dell’estetica della Traviata alla nascita della corrente. « Si va
di romanza in romanza, viaggio in cui si può trovare piacere
per quello che vi si trova di passione veritiera. Non si
aspira mai alla profondità. Tutto resta in superficie e, malgrado
la tristezza delle situazioni, c’è sempre il sole. L’estetica di
tale arte è certamente falsa, perché non si traduce la vita in
canzoni, ma in Verdi c’è un modo eroico di mentire alla
vita, forse più bello del tentativo di realtà perseguito dalla
giovane scuola italiana »101. Le opere di Leoncavallo e di
Mascagni? una formula da « cinema verista, nella quale i per­
sonaggi si precipitano gli uni sugli altri, strappandosi la melo­
dia dalla bocca, dove, in un atto, si fa rientrare tutta una
vita: nascita, matrimonio, assassinio compresi... Cosa che
permette di scrivere il minimo possibile di musica, poiché,
molto logicamente, non si ha tempo di sentirla »102. Ecco
perché Debussy invita i musicisti della giovane generazione
a non lasciarsi sedurre dal verismo. « Tanti sforzi per svin­
colare la musica dai solchi della menzogna, riconducendola
alla sua bellezza originale, non possono marcire in quella fab­
brica del nulla che è il verismo » 103.
Né il « wagnerismo », né, meno ancora, il « verismo »,
potevano soddisfare il musicista di Pelléas et Mélisande, la
cui estetica doveva, certo, molto ai simbolisti, ma si era for­
mata soprattutto, contrariamente alla loro, in opposizione a
Wagner. Ricordando la svolta decisiva della sua evoluzione
artistica, Debussy scriveva: « Dopo alcuni anni di pellegrinaggi
appassionati a Bayreuth, cominciai a dubitare della formula
wagneriana; o piuttosto, mi sembrava che essa potesse essere
utile solo nel caso particolare del genio di Wagner. [...] Bi­
u8 CAPITOLO QUARTO

sognava, dunque, cercare dopo Wagner, e non secondo Wag­


ner »104.
Quello che soprattutto lo disgustava nel compositore tede­
sco, era la trasparenza del suo simbolismo. Privi di qualsiasi
ambiguità, i simboli (Leitmotive) wagneriani erano per De­
bussy solo una traduzione di frasi verbali, una distrazione
intellettuale a buon mercato per un ascoltatore dai gusti un
po’ difficili. Non obbligandolo ad uno sforzo di immaginazione,
essi non gli permettevano neppure di conoscere il valore di
un’esperienza estetica di una certa profondità: « Pretendere
che una certa successione di accordi rappresenti un certo
sentimento, una certa frase, un qualsiasi personaggio, è un
gioco di antropometria abbastanza inatteso » ,05.
Qual’era, dunque, per Claude Debussy, l’ideale della musica
drammatica? Lo disse molto presto, fin dal 1889, a Ernest
Guiraud, e non è senza interesse sottolineare quanto il suo
ideale si avvicini all’estetica di Mallarmé: « Non sono tentato
di imitare quello che ammiro in Wagner. Concepisco una
forma drammatica diversa: la musica in essa comincia laddove
la parola è impotente ad esprimere; la musica è fatta per
l'inesprimibile ,oé; vorrei che essa avesse l’aria di uscire dal­
l’ombra e che, a tratti, vi rientrasse; che fosse sempre di­
screta. [...] Niente deve rallentare l’andamento del dramma:
qualunque sviluppo musicale, per quanto poco prolungato, è
incapace di armonizzarsi con la mobilità delle parole... ». Quale
poeta sarà capace di scrivere un libretto d’opera conforme a
queste esigenze? « Quello che, dicendo le cose a metà, mi
permetterà di innestare il mio sogno sul suo; che concepirà
personaggi la cui storia e la cui dimora non appartengano a
nessun tempo, a nessun luogo; che non mi imporrà, dispoti­
camente, la u scena da fare ”, e mi lascerà libero, in un
punto o nell’altro, di avere piu arte di lui, e di completare
la sua opera [...]. Sogno poesie che non mi condannino a
perpetrare atti lunghi, pesanti; che mi forniscano scene mo­
bili, diverse nei luoghi e nel carattere; in cui i personaggi non
discutano, ma subiscano la vita e la sorte » 107.
Queste parole annunciano già Pelléas.
Al fine di liberare i musicisti francesi dalla loro infatuazione
per Wagner, Debussy ricorda loro i gloriosi modelli del loro
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO II9

passato, non esitando a toccare la corda del patriottismo:


« Credere che le qualità proprie del genio di una razza siano,
senza danno, trasmissibili ad un’altra razza è un errore che
ha falsato la nostra musica abbastanza spesso, poiché noi
adottiamo senza diffidenza formule in cui non può entrare
niente che sia francese. Sarebbe meglio confrontarle con le
nostre, vedere che cosa ci manchi e cercare di ritrovarlo senza
cambiare in nulla il ritmo del nostro pensiero. Cosi arricchì*
remmo il nostro patrimonio »
« Io [dice] ho lasciato parlare la mia natura ed il mio tem­
peramento. Ho cercato soprattutto di ridiventare francese. I
francesi dimenticano troppo facilmente le qualità di fierezza
e di eleganza che sono loro proprie, per lasciarsi influenzare
dalle lungaggini e dalle pesantezze germaniche »IW. « Eppure
[aggiunge] avevamo una pura tradizione francese nell’opera
di Rameau, fatta, di tenerezza delicata ed incantevole, di ac­
centi giusti, di declamazione rigorosa del racconto, senza
quell’affettazione tedesca di profondità [...]. Ci si può comun­
que rammaricare del fatto che la musica francese abbia se­
guito, per troppo tempo, strade che l’allontanavano perfida­
mente da quella chiarezza neU’espressione, da quella precisione
e concisione nella forma, che sono qualità particolari e signi­
ficative del genio francese » n0. Oggi, « non osiamo quasi piu
avere spirito, per timore di mancare di grandezza » 111.
Quanto a Couperin, « il più poeta dei nostri clavicembalisti,
la cui tenera malinconia sembra l’eco adorabile dello sfondo
misterioso dei paesaggi in cui si rattristano i personaggi di
Watteau », egli merita che si mediti l’esempio proposto da
alcuni dei suoi piccoli componimenti per clavicembalo: « Sono
adorabili modelli di una grazia e di una naturalezza che non
conosciamo più [...]. Couperin e Rameau, ecco dei veri
francesi... La musica francese è la chiarezza, l’eleganza, la
declamazione semplice e naturale; la musica francese vuole,
prima di tutto, far piacere... Il genio musicale della Francia
è qualcosa come la fantasia nella sensibilità » 112.
Evidentemente, per Debussy, non si trattava né di un’imi­
tazione dei modelli del passato, né di un ritorno alla musica
antica. Quello che gli importava, era liberare l’arte dall’ege­
monia germanica e spingerla su nuove vie. Le sue opere erano
120 CAPITOLO QUARTO

l’esempio migliore che ciò fosse possibile, ma egli sentiva il


bisogno di ricapitolare le sue esperienze, di precisare il senso
del suo procedimento estetico.
Nel corso di un « mercoledì » da Pierre Louys (pressappoco
nel momento in cui, terminato il Prélude à l’après-midi d’un
faune, egli lavorava alla prima versione di Pelléas et Mélisande,
quindi sei o sette anni prima di cominciare a scrivere per i
giornali), esasperato dagli entusiasti di Wagner, molto nume­
rosi tra gli amici di Pierre Louys, Debussy formulò una delle
sue opinioni piu interessanti:
« Già per Beethoven Parte di sviluppare consiste in ripe­
tizioni, in incessanti riprese di motivi identici [...]. E Wagner
ha esagerato questo procedimento quasi fino alla caricatu­
ra [...]. Vorrei che si arrivasse, arriverò ad una musica
veramente libera da motivi, o formata da un solo motivo
continuo, che niente interrompa e che non ritorni mai su se
stesso. Allora ci sarà uno sviluppo logico, serrato, deduttivo;
non ci sarà, fra due riprese dello stesso motivo, caratteristico
e topico dell’opera, un riempimento frettoloso e superfluo. Lo
sviluppo non sarà più quell’amplificazione materiale, quella
retorica da professionista plasmato da eccellenti lezioni, ma
verrà preso in un’accezione più universale e, finalmente, psi­
chica »113.
Dopo molti anni, egli tornerà sull’argomento: « Mi persuado,
sempre più, che la musica non è, nella sua essenza, una cosa
che possa calarsi in una forma rigorosa e tradizionale. Essa
è fatta di colori e di tempi ritmati [...]. Solo Bach ha pre­
sentito la verità »,I4. Altrove, parlando del coro che doveva
avere un ruolo di primo piano nell’opera buffa, Le diable
dans le beffroi, che egli progettava di scrivere, esprime il
desiderio seguente: « Quello che vorrei fare, è qualcosa di
più sparso, di più diviso, di più slegato, di più impalpabile,
qualcosa che sia disorganico in apparenza, eppure fondamen­
talmente ordinato; una vera folla umana in cui ogni voce sia
libera, eppure tutte le voci riunite producano un’impressione
ed un movimento d’insieme » n5.
Risulta chiaramente dalle citazioni precedenti che Debussy
pensa ad una nuova organizzazione dello spazio sonoro. Ma
quale? Dei legami con l’idea bergsoniana della durata sembrano
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 121

innegabili. Ma c'è di piu: l’ultimo brano citato ci fa pensare


alla tecnica aleatoria, come la troviamo, per esempio, nella
maniera in cui sono trattati i cori in Trois poèmes d'Henri
Michaux di Witold Lutoslawski. D’altro canto, quello che
Debussy disse in diverse occasioni dell’* arabesco musicale »
dà qualche delucidazione sul problema.
Parlando del Concerto brandeburghese in sol di Bach, egli
scrive: « Vi si ritrova quasi intatto 1’ “ arabesco musicale ”
[...]. I primitivi, Palestrina, Victoria, Orlando di Lasso, ecc.,
si servirono di questo divino “ arabesco ”. Ne trovarono il
principio nel canto gregoriano e ne sostennero i gracili intrecci
con resistenti contrappunti. Bach, riprendendo l’arabesco, lo
rese più elastico, più fluido e, malgrado la severa disciplina
imposta alla Bellezza dal grande maestro, esso potè muoversi
con quella fantasia sempre rinnovata che ancora stupisce alla
nostra epoca.
Nella musica di Bach, non è il carattere della melodia che
ci tocca, ma la sua curva; più spesso, anzi, è il movimento
parallelo di più linee, il cui incontro, sia fortuito, sia unanime,
sollecita l’emozione » H6.
Un anno e mezzo dopo, riprendendo l’esempio di Bach,
scriverà: « Il vecchio Bach, che contiene tutta la musica,
se ne infischiava, credetelo, delle formule armoniche. Preferiva
il gioco libero delle sonorità, le cui curve, parallele o con*
trastanti, preparavano l’espandersi insperato che orna di una
bellezza imperitura anche il minore dei suoi innumerevoli qua*
derni. Era l’epoca in cui fioriva “ l’adorabile arabesco ”, e la
musica partecipava cosi a leggi di bellezza inscritte nel movi­
mento totale della natura » ,l7.
Si designa abitualmente con « arabesco » quella linea capric*
dosa, sinuosa, che prende origine nei motivi di piante stilizzate
dell’arte ornamentale greca, bizantina, araba e persiana. Ma
già per Baudelaire, « il disegno ad arabesco è il più spiritualista
di tutti »118. Sembra che fosse questo stesso significato ad
essere adottato dalla seconda generazione dei preraffaelliti in­
glesi (William Morris, Walter Crane, Edward Burne-Jones);
quest’ultimo, con Aubrey Beardsley, illustratore di libri un
tempo molto noto, aveva largamente contribuito a diffonderlo,
non senza l’influsso di certe tele di Van Gogh e di Seurat,
122 CAPITOLO QUARTO

ed anche dei legni di Gauguin, delle tempere di Gustave


Moreau, delle litografie di Odilon Redon, dei disegni di
Toulouse-Lautrec, dell’arte giapponese, della pittura dei Nabis
e di quella, infine, di Edvard Munch; lo si trova in particolare
nell’arte grafica e decorativa della fine del secolo; l’arabesco
divenne cosi l’elemento essenziale di quello stile 1900 nel
quale l’epoca si sforzava di esprimere le sue aspirazioni uni-
versaliste e spiritualiste. Influenzato dalle tendenze di questo
periodo, anche Oswald Spengler attribuirà all’arabesco parti­
colarità magiche: « Antiplastico all’estremo, nemico sia della
figurazione, sia della corporeità, esso è il motivo propriamente
magico. In sé incorporeo, decorporizza l’oggetto che esso va
a ricoprire con una ricchezza senza fine » ,19. Nella morfologia
della cultura di Spengler, l’arabesco appartiene allo stesso
genere di mezzi attraverso i quali il sogno dell’artista si libera
dal peso della materia (del materiale) della unendliche Melodie
di Wagner, o almeno sgorga dalla stessa fonte: la nostalgia
dell’extraterrestre, il desiderio dell’anima che vorrebbe congiun­
gersi con l’infinito.
Tuttavia, se abbandoniamo quest’interpretazione che, a torto
o a ragione, vede intenzioni metafisiche nel fatto stesso di
usare l’arabesco (tanto in pittura quanto, per analogia, in
musica), per tornare ai testi di Debussy citati precedentemente,
dovremo per forza constatare che niente, nell’autore di Pelléas,
indica un qualsiasi interesse per la metafisica. Quello che af­
fascina Debussy nell’arabesco è, prima di tutto, il suo carat­
tere astratto, e precisamente la sua mancanaza di valori simbo­
lici definiti. Quello che lo avvince è che esso agisce unica­
mente attraverso la sua bellezza pura, non individualizzata,
priva di qualsiasi psichismo. « Con questa concezione orna­
mentale [spiega Debussy, ma aggiunge che quello che egli
intende per « ornamento » non ha niente a che vedere con il
significato che le teorie musicali danno a questa parola], la
musica acquisisce la sicurezza di un meccanismo per impres­
sionare il pubblico [...]. Non si creda a qualcosa di inna­
turale o di artificiale. Al contrario, ciò è infinitamente più
“ vero ” delle povere, piccole grida umane che il dramma lirico
tenta di vagire. Soprattutto, la musica conserva cosi tutta la
sua nobiltà, non accondiscende mai ad adattarsi a quei bisogni
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO I23

di sensibilità affettata delle persone di cui si dice che “ amano


tanto la musica ” pili altera, essa li costringe al rispetto, se
non all’adorazione [...]. Debbo aggiungere che questa conce­
zione ornamentale è completamente scomparsa » 12°.
Notiamo che i Nabis, o più esattamente Maurice Denis,
condividevano quest’opinione, d’altronde completamente estra­
nea ai romantici, ma in compenso vicina alle idee di Edouard
Hanslick. Nella sua pittura insipida, Maurice Denis arrivava
solo ad un tradizionalismo di tendenza classica, ma nei suoi
scritti aveva espresso idee che annunciavano già il pensiero
moderno. Nessuno dei suoi contemporanei aveva operato una
distinzione cosi netta fra « le tendenze mistiche e allegoriche,
cioè la ricerca di espressione attraverso il soggetto, e le ten­
denze simboliche, cioè la ricerca attraverso l’opera d’arte. In
questa, è la forma ad essere espressiva, mentre in quella è
la natura imitata che vuole esserlo. L’arte è, prima di tutto,
un mezzo d’espressione, una creazione del nostro spirito di
cui la natura è solo l’occasione ». Non dimentichiamo, diceva
ancora, che un quadro « è essenzialmente una superficie piana
ricoperta di colori messi insieme in un certo ordine ». Com­
pletò questa definizione del quadro, famosa a quell’epoca,
aggiungendo che bisognerebbe sostituire la prospettiva tradi­
zionale con una nuova concezione dello spazio, in cui niente
impedisca allo sguardo di seguire il gioco degli arabeschi; la
pittura acquisirebbe cosi quel carattere « ornamentale », ‘re­
clamato già da Albert Aurier e praticato dalla scuola di Pont-
Aven, con a capo Gauguin.
Evidentemente, ciò significava (come osserva Bernard Dori­
vai, dal quale abbiamo tratto le citazioni di Maurice Denis 121 ),
schiudere la porta all’arte non figurativa, alla quale porteranno,
alla fine, dopo Gauguin, il fauvismo ed il cubismo. Ma
quello che ci interessa qui, è la coincidenza di queste idee
con le opinioni che Debussy esprime parlando di musica.
Anche per lui, come per Gauguin e per Mallarmé, o per
Denis, si tratta di porre l’accento sul modo in cui l’opera
esprime la personalità dell’artista, l’essenza della realtà o lo
spirito dell’epoca; in effetti, Debussy comprendeva meglio di
qualsiasi altro compositore suo con temporaneo (prima di Stra-
vinskij) che l’espressione tradizionale, trita e logora, non per­
124 CAPITOLO QUARTO

metteva di cogliere la diversità del mondo trasformato, che


aveva cessato di essere per l’immaginazione dell’ascoltatore,
un elemento che lo stimolasse ad uno sforzo, ad uno slancio
creativo.
Torneremo ancora sull’arabesco in senso strettamente musi­
cale, nel capitolo dedicato alle idee innovatrici di Debussy nel
campo del suono. Allora comprenderemo meglio il significato
che il compositore dava a questo concetto. Sarebbe tuttavia
difficile non esprimere fin da ora il nostro stupore per il
fatto che la musicologia tra le due guerre, cercando la chiave
dell’opera di Debussy, non vi abbia visto altro che la compli­
cazione (poiché essa era stata studiata solo dal punto di vista
dell’armonia), senza scoprire che quest’artista, rifiutando osten­
tatamente l’affettazione romantica, di fatto elaborava, consape­
volmente e sistematicamente - le sue opinioni estetiche lo
confermano - nuovi metodi di strutturazione dell’opera musi­
cale, liberi da qualsiasi preconcetto, che avrebbero liberato la
musica dal peso dei simboli tradizionali. L’arabesco di Debussy
nasce raramente da un lirismo soggettivo, come nel caso dei
romantici; piu spesso, esso è funzione di masse sonore che
si spostano orizzontalmente, luogo di polarizzazione di movi­
menti, che permette di cogliere, in un lampo, il senso delle
trasformazioni in corso; una simile musica rivela sostanze sub­
coscienti, quelle che si sognano attraverso simboli, ma che
non si pensano in termini di concetti. « Ricerche fatte prece­
dentemente nel campo della musica pura mi avevano portato
ad odiare lo sviluppo classico, la cui bellezza è tutta tecnica
e può interessare solo gli intellettuali della nostra classe. Vo­
levo per la musica una libertà che essa contiene in sé forse
piu di ogni altra arte, non essendo limitata ad una riprodu­
zione più o meno esatta della natura, ma alle corrispondenze
misteriose della natura e dell’immaginazione » 122.
Debussy teneva gli occhi aperti sui cambiamenti che avve­
nivano nella cultura della sua epoca. Non accettava tutto ciò
che lo sviluppo delle arti portava con sé. Lo spirito dei tempi
nuovi infiammava la sua immaginazione creativa, ma, d’altro
canto, la sua brutalità lo spaventava. Provava per Le sacre
du printemps un’ammirazione mista a timore. Tuttavia, com­
prendeva perfettamente che ogni epoca ha la sua arte, e che
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 125

è evidente - come lui stesso diceva - che « il secolo degli


aeroplani ha diritto alla sua musica »123. Egli prevedeva pure
che, estendendosi la democratizzazione nella cultura, avrebbe
creato, per i suoi propri fini, nuove forme d’arte, e che, forse,
avrebbe fatto risorgere forme antiche, riempiendole di un con­
tenuto nuovo. Come se avesse presentito la rinascita dell’ora­
toria e dei soggetti antichi nella musica drammatica (Milhaud,
Honegger), scriveva: « Non è forse in Euripide, Sofocle, Eschi-
lo, che si trovano quei grandi moti d’umanità, dalle linee
semplici, dagli effetti cosi naturalmente tragici, che possono
essere comprensibili alle anime meno affinate come alle meno
prevenute? »124.
Il suo sguardo da veggente precedette realmente la sua
epoca, quella domenica in cui Debussy ascoltava in un parco
il concerto all’aperto di una fanfara: « Intravedo la possibilità
di una musica costruita appositamente per l’aria aperta, fatta
tutta di grandi linee, di audacie vocali e strumentali che gio­
chino nell’aria libera e planino gioiosamente sulle cime degli
alberi. Una simile successione armonica, che sembrerebbe anor­
male nel chiuso di una sala da concerto, assumerebbe certo
il suo giusto valore all’aria aperta [...]. Si produrrebbe una
collaborazione misteriosa dell’aria, del movimento delle foglie
e del profumo dei fiori con la musica; essa riunirebbe tutti
gli elementi in un’intesa cosi naturale che sembrerebbe parte­
cipare di ciascuno di essi... Poi, finalmente, si potrebbe veri­
ficare decisamente che la poesia e la musica sono le uniche
due arti che si muovano nello spazio... Posso sbagliarmi, ma
mi sembra che in quest’idea ci sia materia di sogno per le
generazioni future » 125.
La realizzazione di questa « musica di spazio », trasportata
fuori del luogo rituale da concerto consacrato dalla tradizione
borghese - idea che già si trova nei Veneziani (opere poli­
corali), in Mozart (Serenata notturna, k. v. 239), in Berlioz,
e che Karlheinz Stockhausen ha realizzato recentemente 126 -,
Debussy la lasciò ai suoi successori; era cosciente del fatto
che non era ancora venuto il tempo in cui la sua idea sarebbe
stata presa sul serio. Quanto a lui, si accontentò di praticare
quella « alchimia dei suoni » che nomina spesso nelle sue let­
tere, sapendo che, presto o tardi, i suoi risultati avrebbero
126 CAPITOLO QUARTO

raggiunto gli spiriti creatori ed avrebbero rivoluzionato il


modo di pensare dei compositori. Non si sbagliava quando
diceva: « Lavoro a cose che saranno comprese solo dai nipoti
del xx secolo » 127. In effetti, sarà solo la generazione di Pierre
Boulez a trarre le conclusioni dalla sua « alchimia ».
Abbiamo detto sopra che Debussy si ribellava contro gli
analisti. Quando René Lenormand gli presentò il suo libro
sull’armonia moderna I28, in cui faceva spesso riferimento ad
esempi tratti dalle sue opere, Debussy non esitò a dirgli:
« Pensi alle mani inesperte che maneggeranno il suo studio
senza precauzioni e che se ne serviranno solo per dare il colpo
di grazia a tutte quelle belle farfalle già un po’ ammaccate
dall’analisi » ,29. Utilizzava anche argomenti più gravi per con­
vincere i suoi lettori della validità della sua avversione: « Quan­
do il dio Pan mise insieme le sette canne della siringa,
dapprima imitò solo la lunga nota malinconica del rospo che
si lamentava ai raggi della luna. Più tardi, rivaleggiò con il
canto degli uccelli. Probabilmente, fu da allora che gli uccelli
arricchirono il loro repertorio. Sono origini sufficientemente
sacre, da cui la musica può trarre una certa fierezza e con­
servare una parte di mistero... In nome di tutti gli dèi, non
cerchiamo né di privarla di questo, né di spiegare » 13°.
Cercando cosi di preservare il mistero della musica, egli
agiva nell’interesse dell’ascoltatore, o desiderava soltanto con­
servare intatto per sé quel fascino della sorpresa che si prova
immergendosi nell’ignoto? Non credo. La sua esperienza della
vita gli aveva insegnato che la conoscenza distrugge l’oggetto
della curiosità, lo priva di quel valore particolare che ha per
noi, ne fa qualcosa che si separa da noi e ci diventa biolo­
gicamente estraneo. Ma non accade lo stesso per le opere d’arte.
Si direbbe che Debussy dimenticasse talvolta che la sola in­
telligenza non basta, che un’opera d’arte si sente, nella stessa
misura in cui si conosce. La forza con cui essa agisce sull’im­
maginazione e suscita l’emozione, viene dal fatto che essa è
nello stesso tempo una particella conoscibile della materia ed
un atto indescrivibile della coscienza umana che crea con l’aiuto
di quella materia, una realtà che, senza quell’atto, non esi­
sterebbe. Cosi, un’opera d’arte non rientra solo nel campo della
conoscenza, ma presenta anche un aspetto esistenziale.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 127

L’arte deve, quasi per definizione, nascondere segreti inaf­


ferrabili per l’intelligenza. Altrimenti, non ci sarebbe differenza
tra l’arte e la scienza, per la quale, secondo la formula di
Marcelin Berthelot (1900), il mondo non ha misteri. Alain
attribuiva il valore più grande a quelle opere di Balzac che,
pur stimolando l’immaginazione del lettore, mantengono a
lungo il loro segreto. Simbolici, ambigui, inafferrabili, i grandi
ed i piccoli capolavori di Debussy rischiavano meno dei ro­
manzi di Balzac di perdere la loro forza sotto l’effetto di
un’analisi critica, eppure né il tempo, né le centinaia di studi
sono riusciti a strappare la Comédie humaine dal corpo vivo
della cultura.

La musica di Debussy

Dialogo con la tradizione nell’opera vocale del primo pe­


riodo (prima di Pelléas et Mélisande/ L’opera musicale di
Debussy in questo periodo comprende circa sessanta melodie,
cioè piu dei due terzi di ciò che egli scrisse in questo campo.
In gran parte inedita e disseminata in collezioni private, essa
attende ancora di essere studiata. Aveva dapprima attratto
l’attenzione di Georges Servières, poi Charles Koechlin rac­
colse materiali considerevoli, infine Léon Vallas ed altri autori
di monografie su Debussy tentarono di descriverla. Ma in
fondo, nessuno finora ha proceduto ad una seria analisi di
questa parte molto importante e molto significativa dell’opera
di Debussy. Certo, in uno dei suoi primi studi dedicati al
grande compositore, Stefania Lobaczewska 131 lascia largo spa­
zio all’armonia di certe melodie pubblicate, partendo dal prin­
cipio « impressionista » e considerando il simbolismo, secondo
la tesi allora generalmente ammessa (1929), come una delle
manifestazioni dell’impressionismo; tuttavia, analizza il testo
musicale senza tenere conto del testo poetico, per constatare,
con ragione, che quasi tutte le innovazioni armoniche di De­
bussy appaiono per la prima volta nelle sue opere vocali
scritte su versi di poeti simbolisti francesi, ma per trarne una
conclusione paradossale: la conferma dell’appartenenza di De­
bussy alla corrente impressionista.
128 CAPITOLO QUARTO

Noi abbiamo tentato di tenere conto, più di quanto non si


sia fatto finora, delle melodie inedite di Debussy, ma neppure
il nostro esame esaurisce l’argomento; d’altronde, l’abbiamo
intrapreso solo per dimostrare i legami che univano Debussy
al simbolismo, quasi a partire dall’inizio della sua attività
artistica. Questi legami sono visibili non solo nella scelta
delle poesie, ma anche nel modo nuovo in cui è trattato il
testo, e nell’invenzione puramente musicale che si sviluppa
sul canovaccio delle parole e che permette al compositore di
oltrepassare il cerchio della musica funzionale, con il suo
simbolismo logoro, per aprire alla musica nuove prospettive.
Aggiungiamo che l’evoluzione della produzione vocale di De­
bussy nel corso di questo primo periodo - nessuno sembra
averlo notato finora - sembra riflettere in modo molto esatto
quella del movimento simbolista stesso, dalla sua nascita nei
giardini del Parnaso fino al suo apogeo nelle opere incompiute
e nelle Divagations estetiche di Mallarmé, il teatro di Mae­
terlinck, la pittura di Redon, di Gauguin e del Monet dell’ul­
timo periodo. Tra il 1876 ed il 1884, l’immaginazione di De­
bussy resta sotto il dominio esclusivo dei « parnassiani »
Theodore de Banville e Leconte de Lisle, e del loro imita­
tore Paul Bourget. Lettore occasionale di Verlaine e di Mal­
larmé alla fine di questo periodo della sua vita, egli diventerà
un loro ammiratore negli anni 1885-1891, con una corta in­
terruzione all’epoca della sua infatuazione per Baudelaire.
Seguono saggi poetici dello stesso Debussy e le letture di
Maeterlinck, di Pierre Louys, di Mallarmé, infine la maturità
e, con essa, la coscienza della propria forza creatrice, aperta a
tutte le voci del mondo.
Nel 1911, Debussy pubblica un testo molto significativo
sull’atteggiamento del compositore verso la poesia: « I mu­
sicisti che non capiscono nulla di versi non dovrebbero met­
terli in musica [...]. Schumann non ha mai capito niente di
Heinrich Heine. Almeno, questa è la mia impressione. Si può
parlare del suo grande genio, ma egli non poteva cogliere
quanto c’era di sottile ironia in Heinrich Heine. Vedete, per
esempio, come in Gli amori del poeta, gli sia del tutto sfug­
gita [...]. Henri de Régnier, che fa versi pieni, classici, non
può essere messo in musica. E vedete forse la musica sui
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 129

versi di Racine o di Corneille? [...] I veri versi hanno un


ritmo loro proprio [...]. È molto difficile seguire bene, “ af­
ferrare ” i ritmi pur conservando un’ispirazione [...]. I versi
classici hanno un vita propria, un “ dinamismo interno [...]
Con la prosa ritmata, si è maggiormente a proprio agio, ci si
può rivoltare meglio in tutti i sensi. Il musicista dovrebbe
fare egli stesso la sua prosa ritmata. Perché no? Che cosa aspet­
ta? Wagner faceva cosi; ma le poesie di Wagner sono come
la sua musica, non è un esempio da seguire. I suoi libretti
non valgono più di altri. Era per lui che valevano di più.
E questa è la cosa principale [...]. Lasciamo stare i grandi
poeti » 132.
Abbiamo riportato questa lunga citazione poiché essa rias­
sume, ci sembra, un’esperienza giovanile del compositore che,
per parecchi anni, aveva vissuto cosi vicino alla poesia. Le
righe di cui sopra provano forse che Debussy cominciò più
tardi a dubitare dei favori che la poesia poteva rendere alla
musica? Credo che esse attestino piuttosto la sua fede nel­
l’onnipotenza della musica. Egli aveva attinto a tutte le fonti
della poesia con temporanea, per staccarsene alla fine e trovare
la sua forma sublimata nella sola musica.
Il primo poeta che il giovane compositore amò fu senza
dubbio Théodore de Banville, poiché, fra tutti i « parnas­
siani », univa con più finezza la malinconia all’ironia, e poiché
curava particolarmente la « musica » dei suoi versi cesellati;
di qui, più tardi, il suo successo presso i simbolisti. L’opinione
che egli esprime nel suo Traile de poésie franqaise potrebbe be­
nissimo applicarsi all’estetica simbolista: « La poesia è con­
temporaneamente musica, cultura, pittura, eloquenza; deve af­
fascinare l’orecchio, stregare lo spirito, rappresentare i suoni,
imitare i colori, rendere gli oggetti visibili e suscitare in noi
i movimenti che vuole produrre » 133.
Le melodie su parole di Banville, una decina, fanno parte
delle prime composizioni di Debussy. Fra quelle che ci sono
giunte, due soprattutto meritano attenzione: nella prima, pub­
blicata nel 1882, Nuit d’étoiles (la data 1876, aggiunta dal
compositore molto più tardi, non sembra accertata), nei primi
cinque accordi dell’accompagnamento appare molto nettamente
il motivo di Mélisande. Visto che esso è strettamente collegato
130 CAPITOLO QUARTO

al motivo principale della cantata La demoiselle élue (1888)


oltre che all’inizio di De fleurs, delle Proses lyriques (1892-
1893)» e visto c^e, inoltre, il disegno melodico tracciato qui
dalle parole: « La sereine mélancolie... », sarà ripetuto piu
tardi da Mélisande all’inizio della terza scena del primo atto,
sulle parole: « Il fait sombre dans le jardin... » (p. 47 della
partitura), è lecito affermare che in Nuit d’étoiles si trova il
germe dello stile melodico di Debussy.
La seconda melodia su parole di Banville, Pierrot (1882
circa) annuncia già l’umorismo pieno di finezza che troverà
una brillante espressione in Pantoches, Children's Corner o
Botte à joujoux. Le prime battute di Au claire de la lune
fanno d’accompagnamento alla storiella semi-umoristica del
giovane che, uscendo da una rappresentazione in cui ha reci­
tato la parte di Arlecchino, segue i viali, immerso nei suoi
pensieri, indifferente alle avances di una Colombina della
strada; il suo sdegno virtuoso risveglia la curiosità de « la
bianche Lune aux cornes de taureau », che finisce col ricono­
scere in lui non il romantico Gaspard de la Nuit, ma un bravo
impiegato, Jean Gaspard de Bureau. Un’armonizzazione sot­
tile (dove troviamo già parallelismi di settima ed il motivo
dell’accompagnamento astutamente trasformato alla fine) an­
nuncia il musicista del Colloque sentimental.
L’immaginazione giovanile di Debussy si avventura nelle
regioni del Parnasse, classico e freddo, ma non sprovvisto di
fascino; si ispira ai testi di Leconte de Lisle: La fille aux che-
veux de Un (1880 circa), la cui grazia primaverile resisterà a
tutte le tempeste del cuore, per apparire di nuovo, sebbene
in forma completamente differente, nel celebre preludio per
pianoforte che porta lo stesso titolo (vni, libro 1); Jane
(1882), la dolcezza della cui melodia (secondo la testimo­
nianza di coloro che hanno avuto occasione di sentirla can­
tare da Claire Croiza, nel 1938, poiché il manoscritto in se­
guito è scomparso) tornerà di nuovo in Green, delle Six arìet-
tes oubliées.
Più che dal folclore spagnolo, le cui ricchezze lo sedur­
ranno solo nel 1907, grazie alla raccolta di melodie popolari
di Felipe Pedrell, il giovane Debussy è attratto dalla fine
ironia con cui Alfred de Musset dipinge le persone ed il pae­
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO I3I

saggio, in Les contes dEspagne et d’Italie. Di qui gli venne


l’idea di scrivere musica sul piccolo quadro satirico, Madrid,
princesse des Espagnes. Ahimè, il manoscritto è stato acqui­
stato da una collezione privata, cosi come la musica su un
altro testo.di Musset, Ballade à la lune (essa fa, sembra, pen­
sare piu a Gounod che a Lato, il quale aveva cercato di tra­
sporre in musica lo stesso verso). Sarà solo in Serenade in­
terrow pue che Debussy riuscirà a congiungere, come Musset,
l’ironia e l’andatura « iberica » della sua musica. Per il mo­
mento, egli non poteva fare niente di meglio che « cose alla
spagnola » secondo la convenzione romantica.
Il tono diventerà molto più autentico nel duetto su parole
di Alfred de Musset Chanson espangole (1882), grazie so­
prattutto, è vero, ai ritmi di bolero, il cui disegno melodico
si ritroverà venticinque anni dopo, quasi immutato, nella se­
conda delle tre Chansons de Charles d'Orléans per cori a
cappella (Quand fai oui le tambourin sonner). Quello che
colpisce particolarmente in questo « duetto di voci identiche »,
è meno la tessitura della prima, che supera i limiti normali
del soprano (Charles Koechlin l’ha già sottolineato), nelle suc­
cessioni di quinte nell’accompagnamento ad imitazione della
chitarra - accade lo stesso anche in Mandoline, scritta nello
stesso periodo - che l’esigenza imposta alle cantanti di can­
tare pianissimo le note acute, raccomandazione che ben si ad­
dice a Debussy, sempre incline a frenare l’esaltazione roman­
tica.
Passiamo alle dieci melodie su parole di Paul Bourget,
scritte in circostanze e per ragioni diverse. Il loro valore ar­
tistico è abbastanza diseguale. Solo coloro che applicano ai
grandi creatori formule semplicistiche si stupiranno di ve­
derle figurare nell’opera di un compositore dotato di un gusto
letterario cosi raffinato. La qualità del testo, fosse pure del
più alto valore, non influisce sul valore della musica, e, vice­
versa, molte opere musicali celebri sono nate sulla base di
testi mediocri. Mettendo da parte l’amicizia che, alla fine degli
anni del Conservatorio, legò Debussy a Paul Bourget, poeta e
scrittore già famoso, non dimentichiamo che il genere di li­
rismo che l’autore del Disciple coltivava nelle sue poesie
giovanili toccava la corda sentimentale che vibrava in quel
I32 CAPITOLO QUARTO

periodo e che Debussy, torturato inoltre da dispiaceri d’amore,


non poteva restare ad esso insensibile. Quasi tutti i versi di
Bourget che Debussy ha messo in musica raccontano ricordi
malinconici di una felicità passata. Sono generalmente opere
minori, che sarebbero senz’altro scomparse se il compositore,
sempre cosi esigente verso se stesso, non fosse stato obbligato
ad accettarne la pubblicazione, assillato dal bisogno di denaro.
Comunque sia, non si può non parlarne, tanto più che alcune
di queste melodie figurano ancor oggi nei programmi dei con­
certi.
Già nella prima, Beau soir (1880 circa), sotto una melodia
quasi « massenetiana », appaiono elementi che annunciano 1’
autore di Pelléas. La linea della melodia segue il testo molto
esattamente, il suo fascino non ha nulla della leziosità in cui
eccelleva il musicista di Manon e, quanto all’armonia, l’esor­
diente si mostra molto più audace del maestro. Fin dalle prime
battute, due tonalità progrediscono parallelamente, e l’ac­
cordo di nona si stabilisce a partire dalla battuta 32: « Car
nous nous en allons... ». Si sarà dovuta fare una grande fa­
tica per analizzare, secondo i criteri dell’armonia funzionale,
l’accompagnamento di questa melodia, vecchia oggi di novant’
anni.
La romanza Void que le printemps, composta un po’ più
tardi, non presenta niente di molto particolare, se non fosse
per una successione di accordi paralleli che accompagnano le
parole « et sur leurs petits pieds... ». Si può contestare l’opi­
nione di Léon Vallas che vede in Paysage sentimental, che
data dallo stesso periodo, l’influsso di Borodin lJ4, o il pare­
re di Henrich Strobel che indicava come modello Balakirev 135 :
resta comunque il fatto che, prima di diventare un artista
originale, Debussy aveva subito ogni tipo d’influsso: quello
della musica russa e della musica dell’Estremo Oriente, quello
di Wagner, ecc. Ma ciò che colpisce sempre in lui, fin dal­
l’inizio ed in tutte le sue opere, è una straordinaria sensi­
bilità alla parola, alla sua sonorità ed al suo rapporto con la
musica. E, sebbene brani come Silence ineffabile (1883) o
Regret (1884), che «prolunga le ore in cui era amato», o
ancora La romance d’Ariel (1884), che tenta di evocare «la
musica della voce di Miranda » che « vibra nel suo cuore »,
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 133

non vengano presi in considerazione quando si parla della


grande opera di Debussy, essi assicurerebbero titoli di gloria
a più di un compositore minore. Prendiamo ad esempio Les
cloches (1891), battute i-6 135bis:

vediamo la fattura delicata e fine di questa melodia che,


dalle prime battute fino alle ultime, non va mai al di là del
piano, come se il compositore temesse di sgomentare, con
una voce più forte, con un suono più acuto, il ricordo degli
« anni di felicità », evocato dall’eco delle campane lontane.
Bisognerebbe paragonare Hugo Wolf e Debussy: da una
parte, un’illustrazione discreta che non impone all’immagina-
zione nessuna associazione precisa di idee extramusicali, poiché
perfino le campane non imitano campane « vere », ma conser­
vano il timbro del piano, dall’altra, l’accompagnamento pesan­
te, cosi caratteristico dello stile « sinfonico » dei Lieder di
Hugo Wolf (per nominare solo Auf einer Wanderung o Im
Lruhling, tutti e due datati 1888 e scritti su parole di E. Mò-
rike; o ancora le Spanisches Liederbuch, su testi di Heine e
di Geibel (1891), e soprattutto Auf dem grùnen Balkan dove,
per accrescere la forza espressiva, Wolf fa ricadere sulla parte
del pianoforte tutto il peso dell’azione). Nella sua musica vo­
134 CAPITOLO QUARTO

cale, fin dalla giovinezza, un abisso separa Debussy dall’


estetica del romanticismo in declino.
Tra le melodie composte su testi di poeti meno conosciuti,
tre soprattutto meritano che ci si soffermi su di esse. Datano
tutte pressappoco nello stesso periodo (intorno al 1890) e fu­
rono pubblicate, in anni diversi, quando Debussy era vivo:
La belle au hois dormant, su una poesia di Vincent Hyspa,
considerata da Vallas come una replica francese di Biancaneve
di Borodin, è quasi una canzone da cabaret sul tema popolare
Nous n’irons plus au bois, Debussy utilizzerà in seguito
ancora a due riprese, in Jardins sous la pluie e in Rondes de
printemps; les Angélus, su parole di G. Le Roy, trattiene l’at­
tenzione per un’abile trasposizione della sonorità delle cam­
pane; infine la terza, Dans le jardin, su parole di Paul Grave-
let, emana un’atmosfera di serenità in cui tutto sembra ad­
dolcito, attutito, un’atmosfera creata con mezzi semplicissimi
di successione di accordi di settima, mentre alla fine appare
una pentatonica.
Nella musica vocale, Debussy giungeva ai risultati più in­
teressanti, se non ai più notevoli della sua opera, quando
doveva misurare le sue forze con la poesia di Baudelaire, di
Verlaine o di Mallarmé. È ai loro testi che egli ricorreva più
volentieri, forse perché non ponevano ostacoli alla sua im­
maginazione, lo lasciavano libero di completare con la sua
musica il significato delle parole, mai espresso fino in fondo.
Non era lui che diceva: « La musica comincia là dove la pa­
rola è impotente ad esprimere »?
La straordinaria musicalità dei versi di un Verlaine o di
un Mallarmé stimolava prodigiosamente la sua invenzione.
Come riuscire a mettere in musica una simile poesia? Che
cosa si può aggiungere ad una Chanson d’automne dove tutto
è musica, e perché mai aggiungervi qualcosa?

Les sanglots longs


Des violons
De l’automne
Blessent mon coeur
D’une langueur
Monotone 136.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO I35

Le poesie di Mallarmé ponevano un altro problema; oltre


alla loro armonia, bisognava trasporre la loro sintassi ed il
loro vocabolario « barocco », dove il momento della costi­
tuzione del significato è respinto quasi all’infinito; compiere
prodigi per non perdere nulla né della loro « musica », né
della loro struttura grammaticale. Debussy osò affrontare a
piu riprese le poesie di Mallarmé, ma soltanto quelle che
si scostavano meno dalla forma tradizionale (Apparition, Placet
futile, Soupir, Éventail de mademoiselle Mallarmé)-, si direbbe
che temesse di non saper andare fino in fondo nei testi più
innovatori del poeta (Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui,
Surgi de la croupe et du bond, Une denteile s’abolit137, o la
grande poesia Un coup de dés jamais n’abolira la hasard), di
non saperli decifrare a sufficienza perché il suo commento mu­
sicale potesse misurarsi con loro. Tuttavia, anche queste poe­
sie di ambizioni più modeste dovevano esercitare una potente
azione sull’immaginazione di Debussy: ogni incontro eccitava
la sua passione esploratrice e sembrava la fonte di un nuovo
linguaggio musicale, di una nuova sintassi o di un nuovo stile.
Cosi per Apparition, nel 1884, per L’après-midi d’un faune
che, dopo diversi progetti abbandonati, diventò finalmente,
nel 1894, Le prélude puramente orchestrale, ed anche per
Les trois poèmes de Mallarmé, nel 1913.
È il primo di questi incontri che ci interessa qui. Il giovane
compositore (ha ventidue anni a quell’epoca), aveva potuto
essere attratto, in Apparition, dell’atmosfera della prima
quartina, vicina a quella dei preraffaelliti:
La lune s’attristait. Des séraphins en pleurs
Révant, l’archet aux doigts, dans le calme des fleurs
Vaporeuse, tiraient de mourantes violes
De blancs sanglots glissant sur l’azur des corolles 138.

Man mano che egli ascoltava la poesia letta ad alta voce,


doveva coglierlo il dubbio: era possibile comporre musica
che fosse in armonia con quella dei versi, o almeno che non
introducesse dissonanze? Era necessario che egli si sottomet­
tesse al testo, che cercasse l’equivalente musicale dimenti­
cando talvolta quello che gli avevano insegnato al Conser­
vatorio, che ascoltasse solo il suo intuito. Si troverà cosi, in
136 CAPITOLO QUARTO

questa melodia giovanile, l’opposizione di una grande esten­


sione (quasi due ottave) della voce umana ad un’estensione
ridotta, vicina al recitativo, come nelle battute seguenti139 :

ed anche un principio di strutturazione degli accordi diffe­


rente da quello tradizionale: i rapporti delle funzioni restano
totalmente in sospeso, sia in seguito alla sovrapposizione di
semitoni o di seconde su relazioni semplici, sia all’impiego di
modulazioni inattese, e molto espressive, sia infine all’intro­
duzione di successione di accordi non funzionali, come nelle
battute 4-8 14°, dove gli accordi in fa maggiore, re bemolle
maggiore, re minore, si maggiore, re minore, legati soltanto
da note comuni, ed il disegno ritmico uniforme delle voci
superiori dell’accompagnamento, rendono la tonalità di mi
maggiore del tutto illusoria (cfr. es. p. 137).
L’esperienza acquisita da Debussy in simili confronti con
una materia poetica del più alto valore rimase impressa nella
sua coscienza e potè riaffiorare alla sua memoria in qualsiasi
istante: se ne troverà la prova in una certa affinità fra Appari­
tion ed il Balcon ( Poèmes de Baudelaire ), che è posteriore, ed
anche nella frase melodica sulle parole « dans le calme des fleurs
vaporeuses », che Debussy ripeterà letteralmente, compreso
l’accompagnamento, dieci anni dopo (come ha già notato Oscar
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO B7

d’Estrade-Guerra 141 ), nella scena della fontana nel secondo at­


to di Pelléas et Mélisande, dove essa appoggia la timida propo­
sta che Pelléas rivolge a Mélisande: « Voulez-vouz vous asseoir
au bord du bassin de marbré? » (p. 76 della partitura).
Debussy ammetteva il principio della sottomissione asso­
luta della musica, ma unicamente da una poesia che la­
sciasse alla sua fantasia tutto lo spazio che voleva. Ne
troveremo conferma nella lettera ad E. Vasnier, datata 4
giugno 1885, da Villa Medici, un anno e mezzo appena
dopo che egli aveva composto la musica per Apparition,
la quale prova che anche il suo atteggiamento verso i testi
138 CAPITOLO QUARTO

poetici, definito nel 1911, era stato fissato molto tempo


prima: « Credo che non potrò mai rinchiudere la mia musica
in uno stampo troppo corretto Non parlo della forma
musicale, ma solo da un punto di vista letterario. Preferirò
sempre qualcosa dove, in qualche modo, l’azione sia sacri­
ficata all’espressione lungamente perseguita dei sentimenti
dell’anima. Mi sembra che in tal caso la musica possa farsi
più umana, più vissuta, che si possano approfondire e raf­
finare i mezzi espressivi » 142.
Nel momento in cui scriveva queste righe, egli era già
autore di parecchi melodie su parole di Verlaine, che l’ave­
vano convinto di aver fatto una buona scelta volgendosi
verso un poeta che non era né « classico », come i parnas­
siani, né posseduto, come Mallarmé, dall’idea di sopprimere
la separazione tra poesia e musica. Verlaine forse non lo in­
citava tanto quanto Baudelaire o Mallarmé a sforzi innova­
tori, ma gli dava l’occasione di appagare il suo bisogno di
lirismo, e grazie a questo nacquero, l’una dopo l’altra, opere
degne dei più grandi compositori di musica vocale. Delle
diciassette melodie ispirate alla poesia di Verlaine che ci sono
note, quattordici furono scritte prima del 1891, quindi nel
periodo che ci interessa qui più particolarmente.
A parte La serenade (cantata ugualmente da Claire
Croiza nel 1938, giudicata eccellente) e Pantomime, sospe­
sa fra maggiore e minore, vicina a Pierrot (Banville) ed a
Fantoches (Verlaine), sebbene di valore inferiore, si conta,
fra le prime composizioni vocali di Debussy, la celebre Man­
doline, oltre alle melodie scritte negli anni 1881-1882 e
che, dopo qualche cambiamento e ritocco entrarono nella
prima raccolta di Fétes galantes (1891): En sourdine, Fanto­
ches e Clair de lune. Composta nel 1881, Mandoline rimase
quasi immutata nella versione del 1890. Koechlin aveva ra­
gione di chiamarla « piccolo capolavoro ». Un’invenzione me­
lodica, una sensibilità armonica ed una verve ritmica straor­
dinarie contribuiscono a renderne l’umorismo un po’ amaro,
a dissimulare la tenerezza e la malinconia che colgono il poeta
al ricordo di quella scena, uscita, si direbbe, da un Watteau,
e che si smorza come un sogno nel vocalizzo finale, apparen­
temente spensierato. Come nella Chanson espagnole, di poco
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 139

precedente, l’accordo di quinta imitava la chitarra, qui, fin


dall’inizio, esso imita il mandolino 143:

Allegretto ,

Appare un modo nuovo di trattare la sonorità reale dei tim­


bri, non fosse altro che nella sovrapposizione di due quinte.
La sovrapposizione di accordi maggiori di cinque tonalità suc­
cessive (sol, sol bemolle, do, do bemolle, si bemolle), senza
modulazioni né transizioni144, prova meno una disinvoltura
armonica che un modo di pensare secondo categorie sonore
nuove, che servono qui a rendere esplicito il senso profondo
del verso. Più tardi, esse saranno largamente usate anche
nella musica puramente strumentale.

Mentre Eantoches, dove l’unità tonale è sostituita con suc­


cesso da una rigorosa costruzione di motivi, ricevette nella
versione definitiva una forma quasi immutata, En sourdine
subì molte correzioni (il canto pentatonico dell’usignolo all’ini­
zio ed alla fine tornerà più tardi nel Colloque sentimental).
Sono anche da notare cambiamenti in Clair de lune, ma essi
non sono essenziali e, perfino con quelle poche ingenuità che
Debussy decise di eliminare, questa melodia avrebbe sicura­
140 CAPITOLO QUARTO

mente occupato un buon posto nella sua musica vocale.


Dal punto di vista armonico, essa non si distingue per inno­
vazioni particolarmente audaci. Tutto l’inizio è insieme tona­
le e funzionale e gli accordi (uno di nona, in do diesis, e
quello napoletano), malgrado la loro relazione di tritono, non
escono dal sistema funzionale, cosi come le successioni di
accordi perfetti o di accordi di settima e di nona che com­
paiono più avanti nell’accompagnamento. La melodia plana al
di sopra, del tutto originale, fondendo nella sua forma le mo­
dulazioni fonetiche del verso, adottando talvolta il ritmo
del valzer. La sua linea, di stile straordinariamente conciso
e già molto « alla Debussy », dà il suo carattere a quest’opera,
dove non si sa se si debba ammirare di più la scelta infalli­
bile dei mezzi che il giovane compositore usa per comunica­
re la sua malinconia all’ascoltatore, o l’esattezza delle equiva­
lenze allusive che egli inventa per commentare discretamente
il testo del poeta (per esempio, nel passaggio: « Tout en
chantant sur le mode mineur... Ils n’ont pas l’air de croire
à leur bonheur... »).
Non c’è grande distanza tra la prima versione delle melo­
die della prima raccolta di Féte galantes e le Six ariettes ou-
bliées, scritte negli anni 1886-1888, ciascuna delle quali me­
riterebbe di figurare in un’antologia delle più belle melodie
francesi. Tutti i testi sono tratti dalle Romances sans paroles
di Verlaine. L’ultima, Spleen, è forse la meno originale, poi­
ché la sua melodia, ripetuta in sette riprese, fa pensare, come
ha notato Vallas, a Épithalame di Gwendoline di Chabrier.
Nelle altre, la personalità di Debussy appare con tanta forza
che qualunque ricerca di affinità sarebbe ingiustificata. C’est
Uextase langoureuse si distingue per la grande unità del testo
e della musica, dove le successioni di quinte parallele e di ot­
tave sembrano perfettamente naturali, e dove l’accordo fi­
nale di nona non può essere avvertito come una dissonanza,
poiché la tonalità di mi maggiore è evitata e mascherata con
tanta cura che la nona di sol perde il suo carattere di domi­
nante; d’altronde, per tutto il tempo, le funzioni restano in
sospeso. In II pleure dans mon coeur, l’accompagnamento
monotono di sedicesime evoca irresistibilmente « le bruit doux
de la pluie », e si allaccia con la linea melodica in un insieme
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO I4I

in contrappunto mantenuto nel tono di sol diesis minore.


L'Ombre des arbres dans la rivière embrumée, vicino all’ar­
monia di Tristano, affonda in una nebbia tonale da cui si
emerge solo all’ultima battuta. In Chevaux de bois, ecco il
turbine di una toccata dalle figure melodiche e ritmiche ripe­
tute, e dalle armonie che cambiano in ogni strofa per ritor­
nare al loro punto di partenza (tonalità: mi, do, mi bemolle,
si, sol, mi bemolle, fa diesis, mi). Debussy trasse l’ottava
strofa, quella che assicura all’insieme la sua unità (tonalità
di mi maggiore), da una versione poco conosciuta della poe­
sia, pubblicata per la prima volta nella raccolta Sagesse145.
Infine Green piena di fascino, contraddice la tesi principale
di chi, non potendo perdonare a Debussy la sua irriverenza
verso gli schemi accettati, gli rimproverava di mancare d’in­
venzione melodica. La freschezza e la spontaneità della sua
musica smentiscono una volta di più le affermazioni astiose.
Le altre melodie su parole di Verlaine, dalla raccolta Sa-
gesse - Le son du cor s’afflige (vi), L’écbelonnement des haies
(vili) e La mer est plus belle que les cathédrales (ix) - furono
scritte nel 1891; le caratteristiche dello studio vocale di De­
bussy (melodia dove si tiene conto delle particolarità di into­
nazione della parola, accompagnamento sciolto, allusivo, di
una straordinaria inventiva musicale) raggiungono qui una
perfezione formale tale da provare che, fin da questo mo­
mento, il compositore era pronto ad assumersi i compiti più
difficili. L’artista si fermò a questo punto, forse per trarre
profitto dall’esperienza acquisita: cosi, nella seconda melodia,
la parte del pianoforte è uno sviluppo del tema della Taran­
telle styrienne, del 1890, con i ritmi un po’ cambiati (Danse,
per pianoforte); o, forse, per accentuare il suo desiderio di
andare al di là del sistema musicale convenzionale: cosi nella
prima, sospesa fra minore e maggiore grazie all’uso della
scala per toni interi, che dà già un’anticipazione di Pelléas
et Mélisande, soprattutto nella conclusione, con i suoi accordi
paralleli di settima e di nona.
Debussy tornerà solo un’altra volta alla poesia del pauvre
Lélian 146, dopo tredici anni di grandi voli artistici, come per
rendere un ultimo omaggio a quello che, fra tutti i poeti, ri­
svegliava in lui « i più forti movimenti dell’animo », ma sarà
142 CAPITOLO QUARTO

un Debussy diverso, non più il giovane ribelle, ma un mae­


stro che domina pienamente il suo linguaggio, e che dimo­
stra, nella seconda raccolta di Fétes galantes, di sapere, mal­
grado l’estrema economia dèi suoi mezzi espressivi, restare
sensibile a tutte le finezze dei versi di quello che un tempo
era il suo poeta preferito. Senza fare riferimento al Colloque
sentimental, quasi sopravvalutato in rapporto alle altre due
melodie della raccolta, vediamo le due strofe del Faune, tes­
suto, si direbbe, sul basso continuo del tamburello, al di
sopra del quale aleggia come un canto di flauto, e, ancora
più in alto, il recitativo. Nel momento in cui quest’ultimo
arriva alle parole: « Jusqu’à cette heure dont la fuite tour-
noie au son des tambourins », lo scarto tra il registro grave
e quello acuto aumenta, provoca l’apparizione di livelli in una
struttura fin qui omogenea e l’emancipazione dell’elemento
ritmico, che risponde al senso degli ultimi versi della poesia.
Henri Gauthier-Villars (Willy) disse, parlando di Debussy,
che era « il Verlaine della musica, pari all’altro Verlaine e
che, anche lui, ode voci che nessuno aveva sentito prima di
lui » 147. Credeva, senza dubbio, non senza ragione, di accre­
scere con questo paragone la fama del compositore, ancora
poco conosciuto dal grosso pubblico. Oggi non giudichiamo
allo stesso modo i due artisti. Quali che fossero i legami che
li avevano avvicinati, e la riconoscenza che il compositore
nutriva verso il poeta, Debussy sembra molto più innovatore,
all’avanguardia rispetto al suo tempo e lontano da Wagner.
Verlaine, invece, è ancora vicino alla poetica romantica ed al
Parnasse.
È senz’altro nelle melodie composte sui testi di un altro
grande poeta, Baudelaire, che si compie la svolta decisiva
dell’opera di Debussy: avrebbe seguito Wagner, o avrebbe
imboccato una strada del tutto diversa? Nei Cinq poèmes de
Charles Baudelaire, che Gabriel Fauré ha definito, forse troppo
frettolosamente, « opera geniale », il compositore si distacca
dal passato romantico e da Wagner, e rinnova la funzione ed
il carattere dei mezzi antichi. Queste melodie furono conce­
pite sotto l’influsso di Baudelaire, wagneriano entusiasta, ed
anche sotto quello di Wagner stesso, all’epoca dei pellegri­
naggi a Bayreuth. Nel corso dei sedici lunghi mesi che se­
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 143

parano la prima, La mort des amants (xn, 1887), dall’ultima,


Le jet d’eau (in, 1889), Debussy riesce a liberarsi compieta-
mente dall’influenza di Wagner e ad opporgli la sua propria
estetica ed il suo proprio vocabolario musicale.
Ne La mort des amants domina ancora la linea melodica
romantica, largamente sviluppata, che si appoggia su un ac­
compagnamento completo. In Le balconi che Paul Valéry e
T. E. Eliot sono d’accordo nel considerare come la più bella
poesia di Baudelaire, domina ugualmente un fattura un po’
pesante, mentre il tema, preso dalla cantata La demoiselle
élue, composta nello stesso periodo, è accompagnato da armo­
nie quasi « alla Chausson ». Notiamo tuttavia i tratti curiosi
che prende il motivo « di Tristano », mi-sol, nel sospiro fi­
nale del poeta che fantastica sulla felicità passata 148:

Wagner l’avrebbe rafforzai con una cadenza sviluppata, lo


stesso testo sarebbe stato per lui un’occasione di mostrare
il dolore cocente del ricordo; egli non avrebbe esitato a la­
cerare a colpi di dissonanze le sue ferite cicatrizzate. In De­
bussy, gli accordi paralleli conferiscono al motivo un carat­
tere statico; tutto avviene come se si fosse fermato un istante
per ritrovare il passato intatto: « serments, parfums, baisers
infinis », senza nessuna disperazione. Lo stesso accordo di
nona risuona cosi come una serena assonanza.
« Vapori di wagnerismo » e a momenti anche della « scuola
russa », salgono da L’harmonie du soir, l’opera meno origi­
nale della raccolta, scritta molto palesemente sotto l’impres­
sione di una recente visita a Bayreuth. In Recueillement, in­
vece, malgrado l’atmosfera « tristaniana » creata fin dall’inizio
da un’eco, si direbbe, dei corni del secondo atto dell’opera di
Wagner, si sente già il Debussy della maturità, soprattutto
144 CAPITOLO QUARTO

alla fine del pezzo, nell’oscillazione piena di fascino di ac­


cordi perfetti semplici e di accordi di nona (battute 56-58),
discretamente allusivi, che accompagnano le parole: « Et corn­
ine un long linceul trainant à l’Orient ».
Ma è soltanto in Le jet d’eau che Debussy riesce a liberarsi
completamente dagli influssi, è qui che si può osservare me­
glio quanto sia cambiato il suo atteggiamento nei riguardi
della sonorità e dell’elemento armonico. Fin dalle prime bat­
tute, si rimane colpiti dalle modalità della linea melodica alla
fine di certe frasi; queste modalità sono basate sulla dipen­
denza da un tono intero o da una terza discendente. Perfino
un’accordo arpeggiato non ha carattere armonico.

flM/fo p

p ji ji ji M-frW
po.ee noa.cha.lu.te Oò fa.enr.pri.ee le plal.elr.
tpi.rif lottino» —nitrtfrtt.

_
£
r
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 145

Nell’accompagnamento, la sonorità isolata della seconda crea


come un terzo strato, indipendente nello stesso tempo dalla
melodia e dalla parte inferiore dell’accompagnamento corri­
spondente. Questa seconda non è evidentemente dovuta al
caso, il suo ruolo si spiega a partire dai versi successivi della
poesia, poiché sino al luogo in cui si trovano gli amanti
giunge il mormorio di uno zampillo d’acqua. Nel passaggio
seguente 149 :
UH
MlI

la successiQne armonica, apparentemente tradizionale, della


dominante alla tonica si appoggia su un accordo di nona, e
grazie a questo la sonorità della seconda si distacca con
un’intensità ancora maggiore, cosa che del resto le parole
giustificano pienamente. Vediamo infine le battute finali (cfr.
es. p. 146). Il loro sviluppo dinamico è opposto alla retorica ro­
mantica: la forza del suono, invece di aumentare, discende da pp
a ppp, con il concorso di elementi nettamente sonoriali. Debussy
amava questa scomparsa progressiva dei suoni. Le sue opere
ne presentano numerosi esempi.
i46 CAPITOLO QUARTO

Pur segnando una tappa significativa della cristallizzazione


delle tendenze innovatrici e dello stile personale di Debussy,
Le jet d’eau non significa che il tempo delle esitazioni sia
trascorso. Se tre melodie (1891) su poesie di Verlaine, come
abbiamo detto precedentemente, permettono di intravedere i
capolavori futuri {Quatuor à cordes, L’après-midi d’un faune,
Pelléas et Mélisande), non bisogna dimenticare che è nel-
l’anno in cui scrive il Quatuor (1893), e Poco tempo prima
di aver terminato, che Debussy finisce Les proses lyriques,
composte su parole sue proprie e che è impossibile definire
un’opera omogenea. Vi si possono ammirare il dono poetico
del compositore, il suo gusto e la sua cultura del verbo, ma
si noterà anche la sua dipendenza dai modelli dell’epoca, il
cui fascino si è oggi molto attenuato. Quanto alla musica,
bisogna riconoscere che è composita. La piu bella delle quattro
Proses è senz’altro De grève, poesia sul mare i cui ondeggia­
menti sono suggeriti fin dall’inizio da un accompagnamento
non funzionale. Verso la fine, compaiono accordi di sesta, e
la loro dolce oscillazione evoca le « clochettes attardées des
flottantes églises » del testo. Le altre tre melodie non egua­
gliano questa: né De ré ve, con i suoi tre temi ripetuti (quasi
dei leimotiv wagneriani), sostenuti da fluide armonie; né De
fleurs, vicina alle composizioni « wagnerizzanti » della raccolta
Poèmes de Baudelaire, sebbene « l’ennui si désolément vert
de la serre de douleur » sia reso meravigliosamente dalla
musica, né, infine, De soir, con il suo contrasto della gaiezza
del motivo iniziale « La tour prends garde » contrapposta alla
dolcezza della preghiera indirizzata alla « Vierge or sur argent ».
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 147

Se bisogna considerare i cicli di melodie, e non opere sepa­


rate, diremmo che Debussy raggiunge la perfezione e contem­
poraneamente la sua maturità nelle tre Chansons de Bilitis,
su testi di Pierre Louys, scritte nel 1898, quindi dopo la prima
versione di Pelléas et Mélisande (1893-1895). Vi si trovano
tutte le particolarità del suo linguaggio e del suo stile musi­
cale; esse erano visibili anche nelle melodie anteriori, ma qui
sono unite ad un abile pastiche delle frivole poesie erotiche
greche, che lasciavano all’immaginazione del compositore più
libertà della poesia rimata. Si considera quest’opera, a giusto
titolo, come l’apice della musica vocale di Debussy. La natu­
ralezza, la freschezza d’invenzione, la raffinatezza, ed un in­
comparabile fascino hanno assicurato l’immortalità a queste
melodie, testimonianze di una bellezza che era potuta nascere
solo sotto il cielo di Francia. La flùte de Pan, dalla melodia
semplice, pentatonica, che segue esattamente le perifrasi della
declamazione, accompagnata da successioni di accordi costruiti
su una scala modale (lidia), costituisce un miracolo di equi­
librio e di gusto. Il « pudore delle emozioni » francese ha
raramente trovato un’espressione musicale altrettanto perfetta,
soprattutto nell’ultima frase. « Ma mère ne croira jamais ... »,
pronunciata « quasi senza voce » e su una stessa nota (cfr. es.
p. 148) 15°. L’uso di diversi registri e le successioni di accordi
dell’accompagnamento non possono spiegarsi in termini di armo­
nia funzionale, poiché ricadono in un accordo di nona, con una
settima aumentata.
Le tombeau des nàiades ha un carattere tutto diverso: lo
sfondo armonico di questo affresco che ricorda un gamelan
giavanese è composto di successioni di accordi diatonici in cui
intervengono, qua e là, accordi di settima e di nona; è su
questo sfondo, senza mai svincolarsene, che si sviluppa il
canto, basato su una scala cromatica ed una scala per toni
interi. La seconda delle tre canzoni, La chevelure, ha una forza
espressiva straordinaria, uguale senza dubbio a quella della
celebre prima scena del terzo atto di Pelléas, come se il com­
positore avesse voluto abbordare lo stesso problema in un altro
modo. Qui, il recitativo plana al di sopra di un torrente di
armonie dissonanti (relazioni di tritono), per riversarsi con
esso in un accordo diatonico.
148
CAPITOLO QUARTO

Nella nostra breve analisi della musica vocale di Debussy


del primo periodo, abbiamo spesso fatto riferimento a paragoni
con Pelléas et Mélisande. Il fatto è che Debussy avrebbe sfrut­
tato tutta l’esperienza acquisita in questo campo, passando ad
una forma più complessa, un dramma musicale, composta sulla
base della pièce di Maeterlinck. Più di sessant’anni sono passati
dalla creazione del capolavoro di Debussy, terminato in linea
di massima nel 1895. (Più tardi, nella versione definitiva, alle
correzioni ed ai ritocchi, poco numerosi, furono aggiunti solo
gli interludi, che riempivano il tempo necessario ai cambia­
menti di scena). Nel corso di questi anni, l’opera è stata og­
getto di tante analisi e di tanti commenti che noi ci limite­
remo a richiamare i punti essenziali per il nostro ragiona­
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 149

mento, o che ci riconducono ai problemi spesso affrontati in


questo capitolo.
Quello che aveva attratto Debussy nella pièce di Maeterlinck
fu, come confessò lui stesso, « una lingua evocatrice la cui
sensibilità poteva trovare il suo prolungamento nella musica
e nell’apparato orchestrale » 151. Non si trattava solo della
lingua: l’arte di Maeterlinck rispondeva esattamente all’ideale
di dramma, cosi come Debussy lo evocò nel suo colloquio con
Guiraud precedentemente citato, un dramma con personaggi
« la cui storia e la cui dimora non siano di nessun tempo e
di nessun luogo » e che « non discutano, ma subiscano la
vita e la sorte ». In effetti, Debussy rifiuta la maniera tradi­
zionale di differenziare i personaggi e la psicologia rudimentale
che consiste nel mettere i personaggi e le situazioni in con­
trasto, regola sacrosanta dell’opera che Wagner stesso non
era veramente riuscito a superare. Ora, rendere come Wagner,
« lo sviluppo sinfonico responsabile dell’azione drammatica » 152
non interessa Debussy, né lo interessa collocare le dramatis
personae come lo spettatore può immaginarsele nella vita e
sulla scena. La sua ambizione va oltre, egli desidera creare
un’opera drammatica che ci conduca nel cuore delle coscienze,
che situi le forze che determinano il destino dell’uomo non
negli avvenimenti esterni, ma nell’uomo stesso. Il teatro di
Maeterlinck risponde in una certa misura a questo desiderio,
poiché il dramma in esso si svolge su due piani contempo­
raneamente: l’uno manifesto, fatto delle parole e dei gesti
degli attori, e l’altro interiore, in cui si svolge l’azione reale,
quella che condiziona l’azione sulla scena. Le parole e gli atti
dei personaggi hanno importanza solo nella misura in cui sve­
lano l’esistenza di leggi ineluttabili. Gli eroi hanno gesti da
personaggi di sogno. Non sanno né da dove vengono, né dove
vanno. Sono come dei ciechi, come privi di volontà, potenze
invisibili e crudeli dirigono il loro destino. Sono queste ultime
i personaggi principali del dramma.
In questa pièce rinasceva, in modo ancora ingenuo e un po’
schematico, il sentimento tragico della vita (argomento parti­
colarmente caro a Debussy), che lo scientismo aveva soffocato;
il simbolo e l’allusione svolgono qui un ruolo dominante, e
cosi il subcosciente dei personaggi, le loro parole ed i loro
150 CAPITOLO QUARTO

gesti sobri, i loro silenzi. C’è forse bisogno di aggiungere


che proprio questo aveva sedotto il compositore, per il quale
la musica doveva « esprimere l’inesprimibile »? Era inevitabile
che un simile teatro s’impadronisse dell’immaginazione dell’ar­
tista che voleva liberare l’opera dal giogo delle formule logore,
« dewagnerizzarla », eliminarne il pathos e la « volontà di
potenza » teutonici.
A quali mezzi fa appello Debussy per animare le pallide
ombre del teatro di Maeterlinck e far commuovere lo spetta­
tore sulla loro sorte? Mezzi apparentemente semplici, e per
lo piu già usati nella sua musica vocale, che provano la sua
grande cultura musicale ed un gusto raffinato. Egli utilizza
il più delle volte il recitativo che rispetta le inflessioni parti­
colari della lingua francese, ma non è schiavo di questa for­
mula. Per cogliere e trasmettere il significato nascosto delle
parole, fa del recitativo uno strumento di un’elasticità estrema,
non esita ad usare mezzi scoperti da altri, perfino da Wagner,
ma adattandoli a modo suo.
Si è spesso detto, e lo si ripete ancora oggi, che Debussy
fa uso in Pelléas et Melisande, di quei Leitmotive che scher­
niva cosi crudelmente negli altri compositori. Per affermarlo,
bisogna non aver capito nulla della differenza che separa il
mondo di Wagner da quello di Debussy. Nel primo, i
Leitmotive hanno un carattere dinamico, il loro ruolo con­
siste nel cementare delle masse orchestrali assicurando loro
una continuità tematica, essi sono al servizio della narrazione.
Nel secondo, i motivi (M. Emmanuel ne enumera tredici in
Pelléas) sono statici, spesso frammentari, cambiano secondo
le situazioni, l’atmosfera del momento o lo stato d’animo degli
eroi. Servono ad altri scopi e risultano da una maniera dif­
ferente di trattare il materiale sonoro. Già Vincent d’Indy
aveva notato questa differenza, chiamando i motivi di Debussy
« temi-cardine », il cui compito consiste nel seminare fasci di
raggi armonici. A che scopo? Per evitare quella chiarezza a
cui tendeva Wagner nel suo Gesamtkunstwerk, per non scac­
ciare con simboli musicali troppo trasparenti il senso oscuro,
ambiguo, degli uomini, delle situazioni e delle cose.
Proprio all’inizio della prima scena del secondo atto, i
flauti annunciano Pelléas 153:
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO I5I

ma questo motivo non ritornerà più sotto una forma identica


a questa, né in un contesto simile, come del resto accade ai
motivi di Mélisande, di Golaud, della fontana nel parco; altri
compaiono soltanto una volta. Una delle varianti del motivo
di Golaud si identifica con il motivo dell’anello che Mélisande
lascia cadere nell’acqua. Altri si intersecano, cambiano colore
e consistenza, talvolta suggeriscono la realtà, talvolta soltanto
un’idea della realtà. Quando l’anello cade nell’acqua, nel
glissando della sua caduta svanisce anche il carattere tonale
della musica. Debussy non si vieta di illustrare, all’occorrenza
ricorre perfino ai mezzi tradizionali, per esempio all’inizio
CAPITOLO QUARTO

della seconda scena del terzo atto (p. 187 della partitura), in
cui i registri gravi rendono l’atmosfera lugubre dei sotteranei
del castello. In simili casi, accade che il compositore si serva
di invenzioni sonoriali, come nell’interludio che separa le
scene due e tre del secondo atto (p. 131 della partitura),
dove gli strumenti ad arco ed i timpani imitano il rumore
delle ali di un volo di grandi uccelli:
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 153

Debussy utilizza anche effetti puramente sonoriali nell’inter­


ludio a due strati che succede alla seconda scena del terzo
atto (n. 32-33, pp. 193-198 della partitura): la traversata
delle tenebre da parte di Pelléas e Golaud, che termina con
l’esclamazione di Pelléas « Ah, je respire enfin! » ed un ac­
cordo di nona (p. 200 della partitura). Ma non si tratta qui
né di un’illustrazione romantica né di un’onomatopea natu­
ralista, alle quali del resto Debussy ricorre solo eccezional­
mente.
Quello che gli interessa molto di più che il lato sensibile
dei fenomeni, è associarli a pensieri e sentimenti. Cosi, per
esempio, il tema ad arabesco dell’inizio del secondo atto non
ricrea il rumore della fontana nel parco (come accadeva in
Jet d’eau)\ fa pensare alla fluidità in generale, alla freschezza,
ma in altre circostanze potrebbe suggerire tutt’altra cosa. È
con simili procedimenti, semplicissimi in apparenza, che De­
bussy liberava progressivamente la musica dagli spessi strati
di simboli tradizionali, e che restituiva alla musica la sua
ambiguità.
Egli si discosta dai modelli romantici e da Wagner soprat­
tutto laddove sono in gioco i « temi eterni »: l’amore e la
morte. I trasporti dell’amore, il dolore, la disperazione erano,
secondo le ricette secolari della composizione, un pretesto per
rafforzare l’espressione con tutti i mezzi. Nel primo quadro
del terzo atto, la grande scena tra Pelléas e Mélisande,
affacciata alla finestra di una torre del castello, viene recitata
per tutta la sua durata, malgrado una formidabile tensione
emotiva, con un accompagnamento orchestrale pianissimo (cfr.
es. p. 154).
Wagner, per non citare che lui, avrebbe spinto qui l’orchestra
al delirio, affinché nessuno ignorasse i sentimenti che agitano
il suo eroe.
Nella scena della fontana (pp. 332-333 della partitura),
Debussy va ancora oltre: nel momento in cui Pelléas e
Mélisande si dichiarano il loro amore, l’orchestra, che finora
suonava forte, tace, poi riappare come uscendo dall’ombra
(ppp), Per accompagnare il recitativo appassionato (recitativo
e non aria, il che è molto caratteristico) di Pelléas (cfr. es.
p. 155 sg.).
154 CAPITOLO QUARTO

Con la musica vocale di Debussy ed il dramma lirico


Pelléas et Mélisande, suo coronamento, comincia il processo
di rinnovamento del linguaggio musicale e del suo simboli­
smo.
Vediamo l’opera del grande compositore sotto questo du­
plice aspetto.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 155

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I}6 CAPITOLO QUARTO
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 157

Innovazioni sonore. I valori puramente sonori, o « sono-


riali », come diremmo oggi, cominciano ad assumere un certo
ruolo nella musica solo nel xvm secolo; infatti, solo in questo
periodo l’apparato strumentale si trova definito con preci­
sione. Con Beethoven, le categorie dinamiche (da fff fino a
ppp) e le categorie di articolazione (legato, staccato) si diver­
sificano, ma domina il pensiero tematico, strettamente legato
alla struttura tonale ed armonica dell’opera, e la fattura stru­
mentale è interamente subordinata ad esso. Si può parlare di
una certa sensibilità ai valori puramente sonori in certe opere
di Berlioz e di Liszt, che rimangono casi piuttosto eccezionali
nel xix secolo. Nel suo studio su Stravinskij, Boris de Schloezer
nota non senza ragione: se si può dire di Berlioz che « armo­
nizzava con dei timbri », si dirà di Wagner che « orchestrava
con delle armonie » 154. Schloezer pensava senza dubbio al
famoso « pedale » orchestrale di Wagner, che Debussy para­
gonava a « una specie di mastice multicolore steso quasi uni­
formemente e nel quale egli [...] diceva di non poter più distin­
guere il suono di un violino da quello di un trombone » 155.
Debussy, in fondo, è il primo compositore per il quale
l’immagine sonora dell’opera musicale sia essenziale, per il
quale essa sia oggetto di cure particolari. Nelle sue lettere e
nei suoi articoli, almeno a partire dal 1894 (lettere a Eugène
Ysaye e Henri Lerolle), si parla continuamente della « messa
a punto sonora », delle ricerche che egli continuava per esten­
dere il materiale sonoro al di là dell’orizzonte tradizionale
in cui si evolveva l’immaginazione del musicista. In una lettera
del 1915, indirizzata a Bernardino Molinari, troviamo un passo
che avrebbe dovuto da molto tempo incitare dei ricercatori
a rivedere i loro metodi e ad esaminare l’opera di Debussy
sotto il suo aspetto puramente sonoro: « siamo ancora alla
“ progressione armonica ”, e sono rari quelli a cui basta la
bellezza del suono » 156.
Questa sola frase giustifica pienamente il fatto che abbiamo
dedicato un intero capitolo alla tecnica sonora di Debussy.
È senz’altro in questo campo che egli compì la rivoluzione
più profonda: diede impulso ad un nuovo modo di pen­
sare in materia di composizione. A partire da Debussy, a
meno di cadere nell’astrazione pura, non si potrebbero esa-
158 CAPITOLO QUARTO

minare le questioni tonali ed armoniche senza tenere conto


dei problemi di fattura.
Parlando della sonorità reale dell’opera musicale, si pon­
gono due problemi, quello della fonte del suono, cioè dei
mezzi di esecuzione, e quello della maniera in cui il compo­
sitore tratta il materiale sonoro. Debussy, si sa, utilizzava
strumenti tradizionali. Si potrebbe dire in modo molto gene­
rale che egli abbia tendenza a ridurre l'orchestra. Fa cessare
l'egemonia degli ottoni, mette il più delle volte la sordina
ai corni ed alle trombe, dà la priorità ai legni, usa volentieri
l'arpa, la celesta, i gong, affida spesso parti importanti ai
pizzicati, tratta all'occorrenza voci umane come strumenti
(Printemps, Sirènes). L’economia dei mezzi è il suo motto.
Evita di raddoppiare i timbri, sottolinea discretamente l’indi­
vidualità dei gruppi strumentali, elimina dal quartetto le tracce
del « coro » introducendo frequenti divisi (in Pelléas e in
La mer, gli strumenti ad arco suonano rispettivamente 12 e
15 parti differenti). Victor Ségalen riferisce un’opinione molto
significativa di Debussy: « I musicisti non sanno più scom­
porre il suono, darlo puro. In Pelléas, il sesto violino è al­
trettanto necessario del primo. Io mi sforzo di usare ogni
timbro allo stato puro [...]. Abbiamo imparato troppo a
mescolare i timbri [...]. In questo, Wagner è andato molto
lontano. Egli lega, per esempio, la maggior parte degli stru­
menti a 2 a 2, o a 3 a 3. Il colmo del genere è Strauss,
che ha buttato tutto all’aria. Unisce il trombone al flauto
[...]. Invece, io mi sforzo di conservare ad ogni timbro la
sua purezza, di metterlo al suo vero posto. L’orchestra di
Strauss [...] è un’orchestra-cocktail » 157.
Per poter sfruttare pienamente tutte le possibilità di uno
strumento, Debussy rifiuta il mito dei registri « naturali ».
Ricordiamo la sua lettera ad André Caplet, in cui esprime la
sua indignazione nel vedere Pierre Lalo rimproverarlo di non
usare mai « gli strumenti nei loro timbri naturali » ,58.
Neppure il problema della « propagazione stereofonica »
del suono, dell’organizzazione dello spazio acustico gli era
estraneo. Fin dal 1894, afferma di aver pensato di mettere,
nella scena della morte di Mélisande,- « un gruppo orche­
strale sulla scena, per avere in qualche modo una morte di
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 159

ogni sonorità » 159. Parecchi anni dopo, in un colloquio con


Victor Ségalen, parlerà di una riforma generale della dispo­
sizione dell’orchestra sulla pedana: « gli archi non dovreb­
bero fare barriera, ma cerchio intorno agli altri. Disperdere i
legni. Mescolare i fagotti ai violoncelli, i clarinetti e gli oboi
ai violini, affinché il loro intervento sia qualcosa di diverso
dalla caduta di un pacco » 16°.
Le diverse maniere di trattare il suono con l’aiuto della
dinamica e dell’articolazione derivano dalla sua tendenza ad
allargare la scala dei valori sonori. Mentre nei romantici la
forza del suono è, quasi obbligatoriamente, direttamente pro­
porzionale al suo volume (la sua densità), in Debussy, spesso
accade il contrario: un volume importante ed una intensità
relativamente ridotta. Egli ricorre raramente agli effetti dina­
mici risultanti dal cambiamento della forza originaria del suono;
che, in Jeuxf 557 battute su 709 restano entro questi limiti W1.
Le sue altre opere mostrano una percentuale pressoché equi­
valente (80%). Si dice dunque con ragione che Debussy ha
« ridotto il dinamismo » della musica.
In compenso, l’articolazione assume in lui un ruolo impor­
tante. Un’occhiata ad una qualsiasi delle sue partiture è
sufficiente per vedere la ricchezza dei mezzi di articolazione
che usa per dare alla sua idea musicale la forma voluta.
In Ibéria, per esempio, si vedrà una costante alternanza
dell’arco e del pizzicato degli strumenti a corda divisi, diversi
tipi di tremolo, « sul tasto e sul ponticello », accordi glissati
dei violini, effetti di percussione del pizzicato degli archi che
imitano la chitarra. In Rondes de printemps, degli armonici
di violoncelli intervengono fin dalle prime battute (cfr. es.
p. 160)162.
Arricchendo enormemente la fattura strumentale dell’opera,
tutti questi mezzi contribuiscono a formare il suo particolare
aspetto sonoro.
La razionalizzazione del tempo nella musica di Debussy
merita che ci soffermiamo attentamente su di essa. La capitale
importanza che ha l’organizzazione dell’opera nel tempo per
il suo aspetto sonoro non è più da dimostrare. Tuttavia,
ammettendo a priori un ordine immutabile, l’armonia funzio­
nale non dava l’opportunità di comprendere veramente il ruolo
i6o CAPITOLO QUARTO

*' h'M la Kai, tiaaaaaa tail la Kai


DEBUSSY E IL SIMBOLISMO l6l

essenziale del fattore tempo. Soltanto lo sviluppo della musica


più recente ha fatto prendere coscienza del fatto che il movi­
mento determina in larga misura la sonorità dell’opera. E
poiché sono i rapporti di durata e di intensità che governano
il movimento, la nostra maniera di vedere il ruolo del ritmo,
del metro e dell'agogica si è fondamentalmente evoluta. Ancora
non molto tempo fa, nell’analisi dell’opera musicale, non si
teneva nessun conto della durata propria di un suono. Eppure,
è questa a decidere della sua selettività o, al contrario, della
sua fusione con altri suoni. Il significato armonico degli ac­
cordi sfuma in un movimento rapido, in cui essi possono
trasformarsi sia in valori dinamici, sia in ciò che oggi chiamiamo
« bande sonore ». La stessa successione di suoni crea valori
differenti, a seconda dei cambiamenti della concezione agogica.
Debussy usa principi diversissimi. Introduce rapporti agogici
e ritmici; talvolta favorisce la concezione autonoma, successiva
delle sonorità, per esempio in Le prelude X (battute 1-4)163:
PralkaMwM «ala» (latta aa»

talaltra la loro integrazione, come in Le prelude III (battute


1-2)164 :

Le sonorità selettive determinano il percorso della linea


melodica che esse possono dividere in motivi separati, come
all’inizio di Rondes de printemps, e perfino in note isolate,
come ih Le prelude XII (battute 3-6)ltó:
i64 CAPITOLO QUARTO

Dal rinascimento in poi, la musica europea coltivava il mo-


nocronismo, la misura di tempo secondo un’unità invariabile,
quali che fossero il principio di divisione e la natura del
metro. Il primo scarto da questa pratica fu l’associazione della
duina e della terzina. Incontriamo spesso la poliritmia in
Debussy (per esempio, in Le prelude IV, libro i), e possiamo
affermare con sicurezza che senza la libertà di ritmi che egli pra­
ticava, le invenzioni di Stravinskij in questo campo sarebbero
state inconcepibili. La tendenza al policronismo appare in De­
bussy molto piu che in nessuno dei suoi predecessori, ed è
da notare che la diversità risulta meno dalla « grande » divi­
sione che dalla « piccola », soprattutto se c’è di mezzo l’ago­
gica. Un cambiamento di battuta prende il significato di un
accento. Alcune microstrutture, abbastanza frequenti, hanno,
per esempio in Jeux 169, nella parte dei violini, già il carat­
tere di « bande sonore ». Una battuta di piccoli valori ritmici
(12/16), in Le Prelude V (libro 1), può essere considerata un
esempio di precisione nell’estensione delle sonorità, ma Debussy
li usa il più delle volte per rendere relativi i rapporti dei
tempi, come in Jeux (p. 21), dove si osserva la giustapposizione
di battute a 2, 3, 4 e 5 tempi (che tornano, del resto, anche
all’inizio di La mer). Nella partitura di Jeux, quest’esempio non
è isolato. Una delle pagine più significative al riguardo è la 112,
dove la variabilità delle battute è estrema e dove, nella parte dei
clarinetti, troviamo già, allo stato embrionale, quei valori ag­
giunti (qui, i punti alle biscrome) che Olivier Messiaen utilizze­
rà a modo suo. Ora il significato di tali valori è prima di tutto
sonoriale, poiché essi conducono ad una cancellazione degli im­
pulsi ritmici e ad una fusione delle sonorità (cfr. es. p. 165).
Abbiamo detto precedentemente che i timbri selettivi de­
terminavano il movimento della linea melodica. Essi possono
anche condurre alla disintegrazione dell’elemento lineare e
creare strutture orizzontali che non si possono ricondurre alle
categorie dei fenomeni melodici nel senso tradizionale del
termine. Evidentemente, incontriamo in Debussy diversi tipi
di strutture orizzontali, sia l’ampia melodia tradizionale, per
esempio nelle prime sette battute del Prelude Vili (libro 1),
sia strutture melodiche rotatorie, soprattutto nelle composi­
zioni dai ritmi espressivi, propri della musica da ballo. Ma
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 165
166 CAPITOLO QUARTO

Debussy usa di preferenza frasi brevi, facili da selezionare.


In Le prelude VII (battute 1-2)170:

S*b*J

i motivi non possono essere definiti melodici. Sono complessi


sonori autonomi, che hanno, proprio come i suoni isolati in
Le prelude IV (battute 8-10)171 :

un significato puramente sonoriale. Le prélude XII (che ab­


bonda in valori sonoriali) mostra come una melodia figurativa
ed ornamentale possa, grazie ad un movimento rapido, tra­
sformare una struttura orizzontale in una verticale (battute
25-26)172:

Le prélude XI173 fornisce un esempio sorprendente della terza


trattata come elemento sonoriale (battute 1-10):
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO

Noi siamo abituati all’interpretazione lineare dell’armonia.


È il modo di pensare tematico, da cui lo stesso Schonberg
non riuscì mai a liberarsi, che ci ha trascinati in questo
schema metodologico. Poiché a Debussy importava la sono­
rità degli accordi e non il loro concatenamento secondo suc­
cessioni prestabilite, egli separò realmente la melodia dall’ar­
monia. Gli accordi paralleli, cosi frequenti nella sua musica,
fanno vacillare il principio tradizionale della condotta delle
voci. La sola nozione di « arabesco », che torna cosi spesso
nei suoi scritti, dimostra un pensiero nuovo del compositore.
L’arabesco, come egli lo intende, è una linea melodica oscil­
lante, indipendente da qualunque sviluppo di temi e di motivi.
Fran^oise Gervais 174 nota che certi parallelismi di accordi
(per esempio, all’inizio di Cour des lys nel Martire de Saint
Sebastien) possono essere considerati come un genere di « me­
lodia di timbri » (Klangfarbenmelodie di Schonberg), e di­
verse aggregazioni sonore che non ammettono una spiega­
zione armonica, come punti di convergenza di linee armoniche.
Sembra tuttavia che questa concezione, del resto interessante,
abbia allontanato un po’ troppo la sua autrice dalla realtà
sonora di questa musica, in cui la distinzione fra le nozioni
i68 CAPITOLO QUARTO

di omofonia e di polifonia perde spesso ogni significato, poiché


anche le strutture polifoniche hanno qui spesso un carattere
puramente sonoriale. L’uso degli accordi paralleli deriva, in
Debussy, da un modo di pensare secondo categorie sonoriiali.
In Le prélude XII, già citato a più riprese, le successioni di
accordi non hanno alcun carattere funzionale. Un disegno
rapido crea associazioni di suoni, e invano si cercherebbe a
questo una giustificazione nelle regole dell’armonia tradizio­
nale. Stessa cosa per gli accordi glissati, anch’essi frequenti
nella musica di Debussy (per esempio, in Ibéria, pp. 56-57
della partitura). Di che cosa si tratta se non delle « bande
sonore », come vengono definite oggi? In questi procedimenti,
ed in altri, di cui si è discusso prima, si ha il diritto di
vedere i primi segni precursori del « post-webernismo ».
Debussy ha cambiato il ruolo ed il significato del fattore
armonico. L’armonia funzionale prevedeva un ordine immuta­
bile, mentre in lui gli accordi e le aggregazioni hanno il carat­
tere di strutture polivalenti. Già Andreas Liess aveva notato
che Debussy sostituiva con delle sequenze le cadenze e le
modulazioni in quanto elementi di costruzione n5. In effètti,
le serie di suoni estranei o di note di passaggio che, nell’ar­
monia tradizionale avevano il valore di un elemento che
smorzava le funzioni, acquisiscono per Debussy quello di ele­
menti d’integrazione formale. Quasi tutto quello che, nell’ar­
monia funzionale, aveva il carattere di una forza d’inerzia,
un carattere statico, o comunque era considerato un elemento
che frenava o arrestava il movimento delle masse sonore, di­
venta un modo nuovo del pensiero musicale. Cosi, solo osti­
nandosi a considerare la sua opera dal punto di vista fun­
zionale si è potuto mantenere il termine « impressionismo »,
o i termini « colore » e hòchste Passività!, che si presumeva lo
fondassero, Io motivassero. Ogni elemento che sfuggisse alle
categorie armoniche era considerato come una manifestazione
di « colore », gli elementi selettivi « coloravano » la linea me­
lodica. Non si aveva coscienza del fatto che ogni accordo non
ha • necessariamente un significato armonico. Un’analisi della
musica di Debussy che trascuri i suoi valori puramente sonori
sarà parziale, incompleta e deformante.
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 169

Solo poco tempo fa, si identificavano il verticalismo e l’ar­


monia; eppure queste due nozioni non si equivalgono, poiché,
secondo il materiale sonoro usato, le strutture verticali saranno
omogenee, compatte e si fonderanno in un solo strato sonoro
o, al contrario, saranno eterogenee, o poligenee, e si distingue­
ranno due o piu livelli (strati sonori e non linee melodiche).
Le strutture orizzontali non offriranno obbligatoriamente un
disegno melodico, e quelle verticali possono scomporsi, divi­
dersi in piani sonori distinti ed i loro legami armonici pos­
sono indebolirsi, e perfino cancellarsi sotto Fazione sia di ele­
menti agogici e di elementi di articolazione, sia di differenti
valori strumentali (associazione di registri diversi).
Il fatto che una costruzione sia monofonica o polifonica non
comporta affatto la sua omogeneità. Si tratta di due categorie
differenti. Una costruzione monofonica può avere delle sono­
rità più ricche di una costruzione polifonica, come dimostra
l’esempio del Prélude IX (battute 1-12)176:

Il tratto essenziale della costruzione polifonica è il fatto che


essa trascura, per cosi dire, l’armonia. Se ne può parlare
laddove non c’è integrazione di strati sonori. Prendiamo, per
esempio, Gigues (cfr. es. p. 170)177. Gli strumenti a corda
costituiscono uno strato, i corni e gli oboi un altro, le trombe
un terzo; ci saranno ugualmente tre strati in Ibéria (p. 54
dell’edizione Durand).
Del resto, si incontrano anche strutture eterogenee nelle
i/o CAPITOLO QUARTO

E51 Moina vite

composizioni per pianoforte: per esempio, in Le prelude X,


citato prima, con le sue strutture verticali a due strati netta­
mente distinti, o in Le prélude VII (battute 34-35)178:
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO

dove gli accordi di seconda, con il loro carattere di accenti


dinamici, costituiscono un canto separato. Nei Prelude I e
III (libro n) tornano spesso costruzioni a due strati, mentre
in Le prelude XI (libro li), malgrado qualche passaggio poli­
tonale, prevarrà un tipo di costruzione omogenea. In Le pré-
lude Vili (libro i), già citato, Debussy usa, accanto alle
tradizionali strutture verticali ed ai frammenti politonali che
si compenetrano, delle strutture verticali a due strati; in
altre parole, egli oppone, quando ciò si rivela necessario, la
scrittura armonica a delle forme nuove. Si può considerare
questo preludio come caratteristico della dialettica del pensiero
armonico e sonoriale di Debussy, che si osserva nella maggior
parte delle sue opere, fin dalle piu antiche. Abbiamo tentato
di dimostrarlo nel capitolo dedicato alla sua musica vocale.
Non bisogna dedurre da ciò che precede che l’importanza
del pensiero sonoriale renda inutile lo studio dell’aspetto ar­
monico e melodico della musica di Debussy. Ci siamo un
po’ soffermati su quest’aspetto della sua musica, che nes­
suno finora aveva studiato, per dimostrare, sia pure troppo
rapidamente, che è dalla tecnica sonora di Debussy che pren­
dono inizio le idee e le ricerche di tutta la musica successiva,
sino ad oggi.

Elementi simbolici. Per evitare il logoro simbolismo del


sistema sonoro, Debussy dava prova dell’abilità di un Ulisse.
Evitava lo scoglio dell’armonia funzionale e si avvicinava con
prudenza alla musica puramente sonoriale. Cosi riuscì a supe­
rare lo stretto che separava due epoche senza quella sensazione
di isolamento che sarebbe toccata ai suoi successori - Webern
*7* cernii vM&m
o Varèse - che, trascinati dal suo esempio, sarebbero stati
meno prudenti. Con una tecnica abbastanza vicina a quella di
Mallarmé, Fautore del Prelude à l’après-midi d’un faune ci
rimanda talvolta al « senso >> (che può essere interpretato se­
condo il codice dell’armonia funzionale), talvolta al « suono »
(valori sonoriali); compone cosi un insieme simbolico, un’« ope­
ra totale » ambigua, incantatrice, « evocatrice dell’idea na­
scosta ».
Se egli avesse accordato maggiore importanza ai valori af­
fettivi, non sarebbe stato altro, come i romantici, che un
traduttore, uno di più, dell’anima umana. È perché fuggi l’ap­
passionato, il narcisismo, perché volse le spalle allo specchio
di Hérodiade e perché era pronto ad accettare la spersonaliz­
zazione, che potè trovare quelle corrispondenze che ci legano
al mondo e che preoccupavano Baudelaire. Gaston Bachelard
distingueva due tipi d’immaginazione: quella formale e quella
materiale. Debussy era certamente dotato della seconda, cioè
di quella che non cerca la forma negli oggetti esterni, pitto­
reschi e mutevoli, e neppure attraverso l’introspezione, ma che
va in fondo alle cose, laddove « la forma è impressa in una
sostanza, dove la forma è inerte ». « L’immaginazione mate­
riale, dice Bachelard, drammatizza il mondo in profondità.
Essa trova nella profondità delle sostanze tutti i simboli della
vita umana intima »179. Per risvegliare le corrispondenze ata­
viche che sonnecchiano nell’uomo, per rinnovare la sua unione
con le creature e le cose della natura, Debussy, al contrario
di Wagner, non ha bisogno di sostituti semantici. Gli è
sufficiente parlare direttamente attraverso il canto degli uccelli,
il rumore del mare, l’oscillare di una barca sui flutti, il movi­
mento delle nuvole nel cielo o il propagarsi delle nebbie, per
guidare il nostro pensiero verso le origini, per dirigerlo verso
le questioni ultime. La sua musica non dà risposte, non
crea miti, non suggerisce soluzioni, ma con tanta maggiore
forza attira il nostro spirito nella sua scia.
Questo non vuol dire che la sua musica sia sprovvista di
simboli tradizionali; ma la loro partecipazione resta relativa­
mente modesta, e la maniera in cui egli li utilizza si discosta
in generale dai modelli abituali. Per esempio, lo squillo lon-
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO V3

tano dei comi, motivo prediletto dei romantici ripreso dai


simbolisti, compare spesso non solo in Recueillement (Poèmes
de Baudelaire), ma anche, ed a piu riprese, in Pelléas et
Mélisande (fra l’altro, nella prima scena del primo atto, nel­
l’interludio che segue la seconda scena e nella terza scena del
secondo atto), in La mer (terza parte, n, 52-53) e nelle ultime
quattro battute del Prélude IV (libro 1), dove un’indicazione al
di sopra del rigo musicale precisa: « Come un lontano squillo
di corni ».
Il flauto emanava di solito una bucolica serenità; in De­
bussy, il suo canta ammaliatore, tutto fatto di sfumature,
esprimerà la malinconia e l’angoscia, in Le prélude à l’après-
midi d'un faune, La syrinx, la Sonate pour flùte, alto et
harpe, e pure in trascrizioni per pianoforte, per esempio la
prima Chanson de Bilitis, o Le faune (l’inizio) della seconda
raccolta di Fétes galantes, o ancora la prima Épigraphe antique.
Il suono delle campane doveva esercitare un grande fascino
sul compositore che lo evoca cosi spesso. Le campane annun­
ciano il declino del giorno, e l’approssimarsi della notte, e
Debussy mantiene questo significato simbolico e cristiano, nelle
sue melodie: Les cloches (Paul Bourget), Chevaux de bois
(Paul Verlaine), dove introduce nel testo del poeta l’effetto
onomatopeico din-din-don; in Les angélus (G. Le Roy), dove
la ripetizione misurata di una seconda maggiore all’inizio ed
alla fine evoca un suono di campane, e infine, in De grève
(Proses lyriques). Il pezzo per pianoforte Cloches à travers
les feuilles, della seconda serie di Images, si riferisce alla
stessa tradizione simbolica, mentre il suono sordo delle cam­
pane della cattedrale sommersa della città d’Ys (Prélude X,
libro 1), che risuona in fondo all’acqua ad ogni ora del
giorno, invita alla riflessione sulla vanità delle cose di questo
mondo.
Ma il più delle volte, Debussy non tiene in nessun conto
le suggestioni simboliche dei mezzi d’esecuzione che sceglie
o della disposizione del materiale sonoro. Cosi, la tonalità di
fa diesis maggiore, considerata tradizionalmente un insieme
di toni caldi, dorati, gli permette spesso di creare un’atmosfera
da notturno, per esempio alla fine di De réve, o nel finale
174 CAPITOLO QUARTO

del primo atto di Pelléas, o ancora, sempre in Pelléas, nel­


l’interludio che segue la prima scena del terzo atto, o nella
parte finale di Champ de baiatile (Bolle à joujoux).
Il suo rifiuto dell’estetica romantica, del furore espressio­
nista non è, senza dubbio, mai apparso ai suoi contemporanei
con tanta forza come in Pelléas et Mélisande, opera che,
paragonata allo scatenarsi delle passioni nelle opere di Wagner
o di Strauss, doveva passare per un’oasi di calma e di racco­
glimento. In effetti, dopo i primi abbozzi Debussy realizzava
metodicamente il suo programma estetico. « Sono di nuovo
partito alla ricerca di una piccola chimica di frasi pili personali
[scriveva ad Ernest Chausson, nell’ottobre del 1893], e mi
sono sforzato di essere tanto Pelléas che Mélisande, sono
andato a cercare la musica dietro tutti i veli che essa accu­
mula, anche per i suoi devoti più ardenti. [...] Mi sono
servito, molto spontaneamente del resto, di un mezzo che mi
sembra abbastanza raro, cioè del silenzio, come di un fattore
espressivo e forse come il solo modo di far risaltare le emo­
zioni di una frase » 18°. Appena due anni dopo, terminata la
sua opera, scriveva a Pierre Louys: « Il silenzio è una bella
cosa e Dio sa che le battute bianche di Pelléas attestano il
mio amore per questo genere di emozioni » 181. Parla del-
l’« espressione dei silenzi », di cui è costellata la sua opera
anche nelle lettere ad Eugène Ysaye 182 e ad Henri Lerolle 183.
Del resto, il silenzio non è un dono del solo Pelléas. Quasi
tutta la musica di Debussy emerge dal silenzio, svanisce a
momenti e nel silenzio ricade; il compositore sembra ascoltare
i misteri della vita, della morte, del « soprasensibile ». Ve­
diamo quante espressioni usa per significare i diversi modi di
estinzione della musica: cancellandosi (Brouillards), allonta­
nandosi (La sérénade interrompue), svanendo (fine di Mando-
line, Apparition, De réve, Colloque sentimental, Sirènes),
« perdendosi » (Le faune, La fille aux cheveux de Un, Pour
un tombeau sans nom, Ibéria, 1, p. 53, Boite à joujoux, p. 24,
Laurier blessé dal Martyre de Saint Sébastien, p. 75, Jeux,
p. 114), indebolendosi (Pelléas, 11, p. 149), estinto (Étude pour
les quartes), appena (Études pour les agréments e pour les
notes répétées, Eventail), pp dolce e lontano (Ibéria, 11, p. 79),
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 175

pp il piu possibile (fine del Quatuor pour cordes, Pelléas,


finale del quinto atto, p. 405), quasi più nulla (Le faune,
Colloque sentimental). Nuages termina con un pppp degli
archi: come dire che la musica si smaterializza. Allo stesso
modo si dissolvono le campane lontane in De grève, o le
onde alla fine di Reflets dans l’eau 1M.
Dopo le tirate assordanti di Wagner, di Strauss, la musica
di Debussy sembra appena udibile, tanto ci parla dolcemente.
Les ingénus (Fetes galantes II), Les nuages (Nocturnes), Les
fees sont d'exquises danseuses, La terrasse des audiences,
Le vent dans la piaine sono, come è stato detto, « poesie di
pianissimo », è inframusica. « Et la nuit seule entendit leurs
paroles », la frase finale di Colloque sentimental, nota Vladimir
Jankélévitch, « potrebbe terminare pure Pelléas et Mélisande,
che racconta in cinque atti l’estenuarsi o il rarefarsi progres­
sivo dell’esistenza, cioè l’avvento del Nulla » 185. Debussy coglie
l’ultimo soffio della vita sulla soglia stessa che separa l’essere
dal non-essere. I suoi silenzi e le sue pause vengono talvolta
come « dall’altra riva ».
La poesia dell’agonia degli esseri e delle cose (Baudelaire,
Laforgue, Samain) deve aver profondamente impressionato il
giovane Debussy, poiché il suo influsso si incontra ad ogni
passo nella sua musica. La malinconia dello svanire, del dile­
guarsi del crepuscolo, dell’estinzione - del fuoco o della
vita -, della corsa lenta verso la morte del giorno quando
il sole scende dallo zenith, ecco i temi che l’ossessionano e
che ispirano la loro poesia agli arabeschi discendenti di
Brouillards, di Feuilles mortes, di Soupir (Poèmes de Mallarmé).
In Le son du cor s’afflige (Verlaine), « la neige tombe à longs
traits de charpie » attraversando sei tonalità sovrapposte: do,
si bemolle, la bemolle, sol bemolle, mi, re. In Jet d’eau,
seguendo l’intenzione di Baudelaire, Debussy mette l’accento
non sull’innalzarsi ma sulla caduta dell’acqua: le parole finali
« tombe comme une averse de larges pleurs » sono accompa­
gnate da tre arpeggi discendenti illuminati successivamente da
un sol diesis minore, da un fa diesis maggiore e da un mi
bemolle maggiore, prima di essere fusi in un do maggiore
incolore, nota del non essere. È, per citare con Vladimir
Jankélévitch le parole di Mallarmé, « la fulva agonia d’ottobre
176 CAPITOLO QUARTO

pallido e puro, che contempla nelle grandi vasche il suo


languore infinito » 186.
Anche quando s’ispira alla natura, Debussy non si sforza
mai di riprodurla. Traspone i suoi elementi solo per la gioia
di ascoltarli in musica. Non è il quadro che lo interessa, ma
la percezione, non il fiore, ma il suo schiudersi. Come ha
detto cosi bene André Michel, egli presta in suo cuore alle
cose, lo ascolta battere nel cuore delle cose 187. Perché avrebbe
tradotto in impressioni uditive le impressioni visive che la
pittura (e questa è la sua vocazione) trasmette cosi bene? Non
era forse lui che rifiutava a Berlioz la qualifica di musicista
proprio perché dava « l’illusione della musica con procedi­
menti presi dalla letteratura e dalla pittura » 1M?
L’illusione d’istantaneità che Monet cercava di realizzare
(rendere i cambiamenti che intervengono alla superficie delle
cose in diverse ore del giorno) gli era estranea. La natura
riveste nella sua musica un ruolo secondario, è solo un pre­
testo, un canovaccio sul quale l’artista tesse il suo sogno.
I titoli che Debussy dà alle sue composizioni non possono in­
durre in errore. È lo spirito dell’epoca che glieli suggeriva,
il più delle volte - sottolineamelo - dopo che la musica era
stata scritta. Per esempio, i celebri titoli dei suoi ventiquattro
preludi per pianoforte figurano non all’inizio di questi piccoli
capolavori (destinati, secondo l’autore stesso, ad essere suonati
in una certa intimità piuttosto che in una sala da concerto),
ma alla fine, sotto il testo musicale. In generale, essi sono
di gran lunga piu poetici che pittorici, e, contrariamente alle
apparenze, servono molto di più a velare le intenzioni del
compositore che ad esprimerle. E poi, quali immagini con­
crete potrebbe mai suggerire una musica fornita di titoli come
Les fées sont d’exquises danseuses, Hommage à Sam Pickwick,
Les sons et les parfums tournent, Des pas sur la neige, Sé-
rénade interrompue o La cathédrale engloutieì I titoli indi­
cano la fonte dell’ispirazione, la cosa originaria che ha dato
il primo impulso al compositore: un’immagine della natura,
una poesia, una vecchia leggenda, un personaggio della lette­
ratura; ma l’ascoltatore ha la libertà di cercare il significato
nascosto dell’opera.
Che cosa ha voluto esprimere Debussy, per esempio, con
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 177

Des pas sur la neige? Avrà forse semplicemente tentato di


descrivere un paesaggio invernale? Abbandonandosi all’azione
suggestiva di questa musica, si comprenderà che si trattava
per lui di molto di più, forse di esprimere il vuoto immenso
lasciato da una persona scomparsa, o forse il sentimento di
una solitudine più generale. £ stato spesso sottolineato, ed i
sostenitori dell’* impressionismo » di Debussy l’hanno fatto per
primi, poiché questo sembrava portare acqua al loro mulino,
che il compositore di Pelléas riesce soprattutto ad evocare
stati di immobilità, di ristagno. Se ne attingevano esempi
proprio da Des pas sur la neige, da Canope, Brouillards, Le
son du cor s’afflige, En sourdine. Si indicavano gli ostinato
del Vent dans la piaine o dell’epigrafe Pour remercier la pluie
au matin, i movimenti apparenti, il segnare il passo di
Mouvement, le ripetizioni incantatrici di Jardins sous la pluie
e di Masques. Quello che non veniva notato, è che tutti questi
mezzi erano la prova di una maniera altra, fondamentalmente
differente, di organizzare tanto il materiale sonoro quanto
la sua forma; spiegare questa musica con l’aiuto di metodi
e di categorie stilistiche ammesse fino ad allora non poteva
far altro che condurre a pericolose generalizzazioni. Nell’av­
versione di Debussy per gli sviluppi, nella sobrietà ascetica
che egli imponeva alla sua invenzione melodica (e che deri­
vava dalla sua opposizione al romanticismo), si ravvisava un
naturalismo sensualista (è a questo, in effetti, che si ricon­
duceva l’impressionismo in musica), mentre al contrario il
suo pensiero musicale è agli antipodi di ogni illustrazione,
dell’aneddoto, della musica a programma o di un qualsiasi
asservimento alla natura.
Se Debussy si fa talvolta pittore, egli lo è unicamente di
corpi immateriali, senza volume. Certo, niente impedisce di
interpretare i cortei di quinte e di terze della seconda Ballade
de Francois Villon o di Et la lune descend sur le tempie qui
fut, o ancora della terza parte di La mer (n. 53, pag. 133),
come una « calma e bianca processione che scivola nel cielo
notturno e si stringe e si dilata di volta in volta », ma quello
che importa è che questa immagine ci conduce in un’altra
dimensione. Quando, alla fine del primo atto di Pelléas et
Mélisande, appaiono i tremolo dei violini in sordina e dietro
178 CAPITOLO QUARTO

le quinte i cori cantano « a bocca chiusa », ci sentiamo,


nostro malgrado, colti dalla nostalgia di un altro mondo, no­
stalgia che emana cosi spesso dalla musica di Debussy, e più
particolarmente in questa scena in cui, fin dall’inizio, essa dà
il tono alla strana inquietudine di Mélisande.
«Se la musica di Debussy è [...] come un sommario di
cosmogonia [dice Vladimir Jankélévitch], un riepilogo della
storia del mondo, Pelléas et Mélisande è a sua volta un
sommario di quel sommario »189. « Nessuna musica [dice
ancora] ha saputo come quella, captare in un volteggio una
corrispondenza inafferrabile,* intercettare i messaggi telepatici
o simpatetici, sorprendere la comunicazione delle anime nel­
l’etere, suggerire infine la sensazione ambigua di ciò che è
contemporaneamente qui e là, vicino e lontano, essere e non­
essere. Sono sussulti impercettibili della melodia, e molto
meno ancora che dei « temi », delle reminiscenze ellittiche,
fuggevoli come il pensiero [...]. Il “ tema ” di Golaud, spesso
ridotto ad una semplice figura ritmica nel basso, talvolta anche
da una sola nota ripetuta più volte, il tema di Golaud con
la sua caratteristica terzina e la sua croma puntata evocatrice
di lontane galoppate [...], dovunque appare, appare come
portatore d’angoscia. Accade anche che l’angoscia si esalti fino
al panico - due vertigini simmetriche che terminano gli atti
ni e iv: il terrore del piccolo Yniold, la fuga sconvolta di
Mélisande nella notte si rispondono; qui e là, il vento del
delirio piega le note in un inseguimento ansimante, cosi come
spazza le nubi, le messi e tutta la campagna sulle ultime
tele di Van Gogh » l9°.
Il mare di Monet non è mai terrificante. Si partecipa alla
contemplazione del pittore, lui stesso in un accordo panteista
con la natura. Ma in La mer di Debussy tutto sembra avve­
nire - come in Turner - ad un livello cosmico. Nella parte
finale di questa sinfonia poliritmica, Le dialogue du vent et
de la mer, il rumore funesto dell’uragano sembra annunciare
la morte e la distruzione; la stessa impressione. promana dal
Prélude VII (libro i): Ce qu'a vu le vent de VOuest.
Malgrado tutto, fare di Debussy l’Edgar Poe della musica,
il cantore del Mare delle Tenebre sarebbe troppo sommario.
Due anni appena prima della sua morte, già molto malato,
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO 179

egli diceva in una lettera che solo il mare avrebbe potuto


guarirlo, « il mare - la madre di noi tutti />191. Nel suo
studio psicanalitico su Poe, Marie Bonaparte dice che il mare
è per tutti gli uomini uno dei simboli più grandi e più
durevoli della maternità 192. Ora, Debussy compensa talvolta
il doloroso sentimento della solitudine assoluta di fronte alla
morte con la nostalgia dell’« orizzonte chimerico » dell’infinito
che nasce nel suo spirito quando pensa all’immensità del mare.
Questo sembra esprimere, nel terzo Nocturne (Sirèner), l’ocea­
no, simbolo della madre primordiale, verso cui l’uomo torna
alla fine della sua vita terrena, e che talvolta, al chiaro di
luna, chiama con la voce delle sirene i suoi figli prodighi
dispersi per il mondo.
Poe affascinò sempre Debussy con la sua poetica di terrore
e di dolore. Dopo le traduzioni di Baudelaire e di Mallarmé,
pochi artisti della generazione dei simbolisti avevano saputo
resistere al « brivido metafisico » che destavano le folli visioni
dell’autore di Ligeia e di Ulaiurne. Se non fosse stato per
la morte prematura di Debussy, il dramma espressionista sa­
rebbe nato non in Germania, ma in Francia. Questo « espres­
sionismo » non avrebbe avuto niente in comune con il furor
teutonicus romantico o con l’espressionismo viennese. Non
avrebbe rinnegato l’arte padrona degli elementi, delle emo­
zioni e dei sensi.
Niente di più drammatico che seguire nella corrispondenza
di Debussy la lenta maturazione dell’idea dell’opera in un atto
tratta dal racconto The fall of the hause of Usher. Dovremmo
allontanarci troppo dal nostro argomento per raccontarne det­
tagliatamente le drammatiche peripezie. Limitiamoci a citare
i frammenti di lettere che vi fanno riferimento. Essi illustrano
senza alcuna ambiguità l’atteggiamento del compositore di fronte
alla musica e di fronte alla propria opera. « Ci sono momenti,
scrive nel 1908, in cui perdo la sensazione esatta delle cose
circostanti: e se la sorella di Roderick Usher entrasse in casa
mia, non ne sarei estremamente sorpreso » 193. E, due anni
dopo: « È ancora in quei momenti che mi sento meglio in
grado di soddisfare il mio gusto dell’inesprimibile 194. Se posso
riuscire, come voglio, in questa progressione nell’angoscia 195
i8o CAPITOLO QUARTO

che deve essere II crollo della casa Usher, chedo che avrò ben
servito la musica ».
Nel 1911, egli si lamenta con un amico: «Non riesco a
finire i due piccoli drammi di Poel96, tutto di essi mi
sembra fastidioso come un sotterraneo, Per una battuta quasi
libera, ce ne sono venti che soffocano sotto il peso di una
sola tradizione di cui, malgrado i miei sforzi, riconosco Fin-
flusso ipocrita e vile. Noti che poco importa che questa tra­
dizione mi appartenga... è deludente lo stesso, poiché é un
ritrovarsi sotto maschere diverse » 197. Infine, nel 1916, dice
con amarezza: « Bisogna approfittare dei momenti belli per
compensare le ore brutte. Stavo per mettere a punto - o
qualcosa di simile - Il crollo della casa Usher, la malattia
ha spento con un soffio la mia speranza »198.
Queste citazioni, la prima soprattutto, danno un’idea del­
l’intensità delle esperienze del compositore e del suo bisogno
costante di rinnovamento. Un anno e mezzo appena dopo
avere terminato Pelléas, scriveva: « Quanto alle persone che
mi fanno la cortesia di sperare che non potrò mai venir fuori
da Pelléas, esse si tappano accuratamente gli occhi. Non sanno
dunque affatto che, se dovesse succedere, mi metterei imme­
diatamente a coltivare l’ananas in camera, considerando che
la cosa più spiacevole è proprio “ ricominciarsi ” » ,99. Quello
che fa dell’opera di Debussy un fenomeno del tutto eccezionale
nella storia della musica, quello che affascina i creatori del
nostro tempo, è proprio la sua apertura, il suo disprezzo
della formula, il suo rifiuto della rigidezza e di ogni automa­
tismo delle proprie reazioni affettive ed intellettuali.
Al fine di non rompere il legame della tradizione e di
conservare il contatto con i suoi ascoltatori, Debussy si sforza
di rimanere nei limiti della tonalità e dell’armonia funzionale,
ma li allarga all’estremo, ed attraverso il suono puro, libero
da qualsiasi funzione rappresentativa, apre la via al nuovo
pensiero musicale. Notiamo nella sua opera la progressiva
invasione delle seconde, che sono, in fondo, la negazione del­
l’armonia. Dopo essere servite dapprima a far risaltare il
colore del tessuto armonico, a partire da Le jet d’eau, esse
assumono sempre più spesso il ruolo di elemento integratore
di masse sonore (Jardins sous la pluie, Jeux de vagues, di
DEBUSSY E IL SIMBOLISMO l8l

La mer, Parfums de la nuit, di Ibèrta, le ultime pagine di


Gigues, Feux d1artifice, Champ de baiatile, di Botte à joujoux,
Khamma, Martyre de Saint Sébastien), per apparire infine, in­
dipendenti, portatrici di sonorità aggressive (Jeux, Étude pour
les degres chromatiques e Étude pour le notes répétées, Éven-
tail e Soupir, di Trois poèmes de Mallarmé, En blanc et noir).
Per Vladimir Jankélévitch c’è « nell’ultimo Debussy un rin­
secchirsi dell’armonia: la scrittura diventa irta e si increspa
con cattiveria, diventa corrosiva come l’acqua ragia » “°.
Gli accordi dissonanti cessano allora di essere una transi­
zione fra due tonalità, non preparano più la risoluzione, si
liberano, accedono all’uguaglianza, e perciò ogni legge di gra­
vitazione e d’interdipendenza si trova esclusa, tutto è rimesso
in questione, assume un carattere ambiguo, polivalente, mentre
gli accordi paralleli sono un passo evidente sulla via del pen­
siero sonoriale.
Fidando nel suo istinto, Debussy infrangeva le regole con­
sacrate, istituiva un nuovo linguaggio musicale ed un nuovo
simbolismo; egli permetteva all’immaginazione dei suoi ascol­
tatori di giocare liberamente, di volgersi verso uno spazio più
vasto, liberato dalle schiavitù del sistema tradizionale. Il pub­
blico è stato ingannato dalla critica e dalla musicologia che
gli suggerivano un’analogia superficiale con la pittura impres­
sionista. Debussy ci fa prendere coscienza di quello che i ro­
mantici ci hanno fatto dimenticare: la vera musica non si
rivolge a quello che nell’uomo c’è di individuale, ma a quello
che egli ha in comune con i suoi simili ed a quello che c’è
in lui di più profondo. Terminando il suo bel saggio sulla
musica di Debussy, Vladimir Jankélévitch ha pieno diritto
di dire: «Non c’è musica al mondo [...] che parli all’uomo
più profondamente del suo mistero, che infonda nel suo cuore
un turbamento paragonabile, che dia all’immaginazione una
scossa più profonda [...]. Egli non ha mai parlato d’altro che
delle cose più semplici e più importanti, le più essenziali per
l’uomo, la morte e l’amore, il dolore e il destino; una grande
nuvola bianca nel cielo durante quei lunghi pomeriggi d’estate
in cui la siesta è cosi dolce; il vento dell’ovest che fa sospirare
le foglie e che parla all’uomo del suo avvenire. Nessuno potrà
mai prendere il posto di Claude l’Unico » a*1.
182 CAPITOLO QUARTO

1 felix fénéon, Les impressionnistes en 1886, in «La Vogue»,


1886. Articolo pubblicato in occasione dell’ottava (ed ultima) mostra
degli impressionisti.
2 isabelle de wyzewa, La revue wagnérienne. Essai sur l’interpré-
tation esthétique de Wagner en France, Paris 1934, p. 75.
3 Oscar wilde, Il Ritratto di Dorian Gray, tr. it. Rizzoli, Milano,
197% PP- 153*154-
4 « Le Décadent » del io aprile 1886.
5 jules laforgue, Critique d'art. L’impressionnisme, Mélange* posthu-
mes, Paris 1903, pp. 133-137.
6 Fin dal 1896, Gauguin reclamava che si eliminasse Camille Mau-
dair dalla redazione del « Mercure ». Cfr. Lettera ad Alfred Vailette,
« Mercure de France », n. 999*1000, 1946.
7 p. burne-jones, The Experiment of Impressionism, in « Nineteenth
Century and after », marzo 1905.
8 II « Manifesto dei Cinque » era firmato da Paul Bonnetain, Joseph-
Henri Rosny, Lucien Descaves, Paul Margueritte e Gustave Guiches.
9 Joris-Karl huysmans, L’abisso, tr. it. Sugar, Milano 1970, pp. 7
e 9.
10 Di Gide.
11 « L’Écho de Paris», del 15 giugno 1891. Inchiesta di Jules Huret.
12 melchior de vogué, Le roman russe, Paris 1886.
13 jean moréas, Le symbolisme, in « Le Figaro littéraire » del 18 set­
tembre 1886.
14 Arthur rimbaud, Una stagione all’inferno, Opere, tr. it. Monda-
dori, Milano 1975, p. 241.
15 Paul valéry, Variété II, Paris 1929, p. 153.
16 stephane mallarmé, Versi e prose, tr. it. Dall’Oglio, Milano
1979» P- 48.
17 H. bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it. Bo-
ringhieri, Torino 1964, p. 135.
18 marcel proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, tr. it. Einaudi,
Torino 1974, pp. 44^*443 e 439-
39 Di colori. [N.dA.].
20 Bernard dorival, Le* étapes de la peinture franose, Paris 1948,
t. 1, pp. 70 e 76.
21 albert aurier, Le *ymboli*me en peinture, in « Mercure de Fran­
ce », marzo 1891.
22 Henri bergson, Introduction à la métaphysique, in « Revue de
métaphysique et de morale », 1 (1903).
23 henri-frédéric amiel, Fragments d’un journal intime, Genève
1911, t. 1, p. 166.
24 jules laforgue, op. dt., p. 181.
25 HUGO VON HOFMANNSTHAL, Prosa I. Englischer Stil, p. 301.
NOTE 183

26 Jacques rivière, Correspandanee avecAlain-Fournier, Paris 1926,


t. I, p. 72.
27 albert aurier, (Euvres posthumes. Les peintres symbolistes, Pa­
ris 1893, p. 293.
28 Ferdinand brunetière, Après une visile au Vatican, in « Revue
des deux mondes », 1895.
29 Paul valéry, Lettres à quelques-uns, Paris 1952, pp. 46-47. Lettera
a Mallarmé del 18 aprile 1891.
30 « L’Écho de Paris», giugno 1891. Charles Lalo annovera Char­
les Henry fra i « pitagorici moderni ». Nel numero di gennaio-febbraio
1903 dei « Cahiers de l’Étoile », Valéry gli dedica un articolo in cui ne
parla con molta simpatia. Charles Henry era uno spirito brillante, amico
fra gli altri di Jules Laforgue, di Gustave Kahn, ed anche di Seurat e
di Signac, le cui idee «divisioniste» erano fortemente influenzate dalle
teorie di Henry.
31 Paul Gauguin, Racontars d'un rapin. Citazione tratta da JEAN de
rotonchamp, Paul Gauguin, Paris 1925, p. 241.
32 Arthur Schopenhauer, Parerga und Paralipomena, 1851.
33 hippolyte taine, Philosophic de Part, Paris 18813, t. 1, p. 113.
34 Journal des Goncourt, Paris 1888-1896, t. m, p. no; t. vi, p. 70;
t. 11, p. 12.
35 catulle mendès, Le jeune Prix de Rome et le vieux wagnériste,
in « Revue wagnérienne », 8 giugno 1883.
36 théodore de wyzewa, Nos maitres, Études et portraits littéraires,
Paris 1895.
37 édouard dujardin, La revue wagnérienne, in « La revue musicale »,
ottobre 1923, p. 149.
38 LÉON daudet, Souvenirs des milieux littéraires, politiques, artisti-
ques et médicaux, Paris 1920, p. 278.
39 Si tratta della Divagation: Richard Wagner. Reverie d'un poète
franfais, in « Revue wagnérienne », 8 agosto 1883.
40 andré gide e Paul valéry, Correspondance, 1890-1942, Paris
1933, P* 358. Lettera del 19 ottobre 1899.
41 Claude Debussy, De quelques superstitions et d'un opéra. Mon­
sieur Croche et les « Barbares » de Saint-Saens, in « Revue bianche »,
13 novembre 1901.
42 Cfr. l'articolo, molto discusso all'epoca, di Émile Vuillermoz nel
« Mercure musical» (del 13 giugno 1906), che attaccava i metodi d'in­
segnamento della Schola Cantorum. Questo articolo fu all’origine di una
disputa tra i sostenitori di Debussy e quelli di d’Indy, che sarebbe du­
rata parecchi anni.
43 norbert dufourcq, César Franck, Paris 1949, p. 109.
44 Charles OULMONT, Musique de l'amour. Ernest Chausson et la
«bande à Franck », Paris 1933, t. 1, p. 44.
45 Claude Debussy, Ballade de Fauré, in « Le Gil Bias », 9 marzo
1903.
184 CAPITOLO QUARTO

46 Su 137 candidati (di cui 38 maschi e 119 femmine), ne furono


ammessi 39 (di cui 8 maschi e 31 femmine). Alla fine dell’anno scola­
stico, Marmontel annotava nel registro di classe, a proposito di De­
bussy: « Fanciullo incantevole, vero temperamento d'artista - diventerà
un musicista noto; farà molta strada ».
47 paul Verlaine, Confessions, Paris 1895.
48 Le ricerche di marcel dietschy hanno gettato una nuova luce
su questo periodo della vita del compositore (La passion de Claude De
buay, Neuchàtel 1962). L’opera in due volumi di Edward lockspeiser,
Debussy, his life and mind, New York-London 1962-1966, apporta molti
particolari nuovi, soprattutto riguardo al periodo della giovinezza.
49 Lettera ad André Poniatowski. In andré poniatowski, D’un siècle
à iautre, Paris 1948, p. 307.
50 Maurice emmanuel, Pelléas et Mélisande, Paris 1930, pp. 18-19.
51 Raymond bonheur, Souvenin et impressions d’un compagnon de
jeuneae, in « La revue musicale », maggio 1926, p. 3.
52 Cfr. Charles Baudelaire, Oeuvrei complètes, coll. Plèiade, Pa­
ris 1956, p. 291: «Chi di noi non ha sognato, nei suoi giorni di ambi­
zione, il miracolo di una prosa poetica, musicale, senza ritmo e senza
rima, abbastanza elastica ed abbastanza ricca di contrasti da adattarsi
ai movimenti lirici dell’anima, alle ondulazioni della fantasticheria... ».
Confrontiamo quello che dice Debussy nella lettera ad E. Vasnier, del
19 ottobre 1886: « ... il genere di musica che voglio fare, lo voglio abba­
stanza elastico, abbastanza ricco di contrasti da adattarsi ai movimenti
lirici dell'anima, ai capricci della fantasticheria ». («La revue musicale »,
maggio 1926, p. 39). Sembra stupefacente che nessuno, finora, sia stato
colpito da questa convergenza di vedute.
53 EDWARD LOCKSPEISER, Op. cit., t. I, p. 144.
54 Cfr. Paul delsemme, Un théoricien du symbolisme, Charles Mo­
rice, Paris 1958, p. 232. Nelle No/er quotidiennes, Morice registra, in
data 24 maggio 1912: « Da Debussy. Molto gentile; mi dice che deve
a me in gran parte la formazione del suo spirito ». Nessuno dei biografi
di Debussy ha ancora notato questo particolare.
55 Claude Debussy. Textes et Documents inèditi, in «La revue de
musicologie », n. speciale, 1962, pp. 99-100. Lettera di Paul Vidal a Hen­
riette Fuchs, del 12 luglio 1884.
56 JOHN rewald, Poit-Impreaioniim. From Van Gogh to Gauguin,
New York 1956.
57 Robert godet, En marge de la marge, in « La revue musicale », mag­
gio 1926, pp. 63-64.
58 LÉON DAUDET, Op. dt., pp. 637-646.
59 andré gide, Souvenin ìittéraires et Problèma actueli, in « L’ar-
che », n. 18-19, 1946, pp. 4-6.
60 Cfr., fra gli altri, thadée natanson, A Valvini, auprèi de Mallarmé,
in « La Nef », febbraio 1949. Thadée Natanson è il fratello del fondatore
e redattore de « La revue bleue », Alexandre Natanson, avvocato che
aveva assunto la difesa di Félix Fénéon nel celebre processo dei trenta
anarchici, e che era il primo marito di Misia Godebska (Sert).
NOTE 185

61 paul landò rmy, La musique franqaise de Franck à Debussy, Pa­


ris 1943, p. 211.
62 Claude Debussy, Lettres à deux amis, Paris 1942, pp. 120-121.
63 ANDRÉ PONIATOWSKI, Op. CÌt., p. 24I.

64 Claude Debussy, Lettres à son éditeur, Paris 1927, p. 58.


65 MARCEL DIETSCHY, Op. CÌt., p. 8o.

66 robert brussel, Claude Debussy et Paul Dukas, in «La revue


musicale», maggio 1926, p. 101.
67 Monsieur Croche antidilettante, 1945, p. 21.
68 Citazione tratta da Maurice denis, Henry Lerolle et ses amis, Paris
1932, P- 30. Lettera a Henri Lerolle, del 28 agosto 1894.
69 Correspondence inèdite de Claude Debussy et d’Ernest Chausson,
in « La revue musicale », dicembre 1925, p. 126. Lettera del febbraio
1894.
70 « Revue musicale s.i.m. », 15 febbraio 1913.
71 Considération sur le Prix de Rome au point de vue musical, in
« Musica », maggio 1903.
72 «Excelsior», 18 gennaio 1911.
73 Monsieur Croche antidilettante, p. 19.
74 Est-ce une renaissance de la musique religieuse?, in « Excelsior »,
2 febbraio 1911. Intervista concessa a Henri Malherbe in occasione del
Martyre de Saint Sébastian.
75 « Rcvuc musicale s.i.m. », novembre 1913.
76 « Le Gil Bias », 16 febbraio 1903.
77 « Comoedia-Charpentier », 18 ottobre 1941.
78 Paul valéry, op. cit. Lettera a Mallarmé, del 18 aprile 1891.
79 Cfr. m. malingue, Lettres de Gauguin, Paris 1949. Gauguin a
Schuffenecker, lettera del 14 gennaio 1883 (n. 11).
80 L'état actuel de la musique frenfeise, in « La revue bleue », 2 apri­
le 1904, p. 422.
81 « Comoedia », 4 novembre 1909.
82 L'état actuel de la musique frenqeise, dt.
83 « Revue musicale s.i.m. », febbraio 1913, p. 48.
84 Ivi, novembre 1913, p. 44.
85 Ivi, dicembre 1912, p. 52.
86 « Revue bianche», 15 maggio 1901. Resoconto deXPOuragan di
Alfred Bruneau.
87 « Le Gil Bias », 1 giugno 1903.
88 André FONTAiNAS, Mes souvenirs du symbolisme, Paris 1928, pp.
92“93-
89 MAURICE EMMANUEL, Op. CÌt., 1930, p. 34.

90 « Comoedia », 4 novembre 1909.


i86 CAPITOLO QUARTO

91 « Le Gil Blas », 6 aprile 1903.


92 Ibidem.
93 Ivi, 19 gennaio 1903.
94 Ivi, 12 gennaio 1903.
95 Ivi, 1 giugno 1903.
96 Ivi, 6 aprile 1903.
97 Ivi, 19 gennaio 1903.
98 « Mercure de France », gennaio 1903, p. 93. Risposta all’inchiesta
su «gli influssi tedeschi».
99 A propos de Charles Gounod, in « Musica », luglio 1906, p. 99.
100 « Revue bianche », 15 aprile 1901.
101 « Le Gil Bias », 16 febbraio 1903.
102 « Revue musicale s.i.m. », febbraio 1914.
103 « Le Gil Bias », 16 febbraio 1903.
104 « Comoedia - Charpentier », 8 ottobre 1941. Colloquio con G. Ricou,
del mese di aprile 1902.
105 « Revue bianche», 15 maggio 1901.
106 II corsivo è mio.
107 MAURICE EMMANUEL, Op. cit., pp. 35-36.
108 « Revue musicale s.i.m. », 15 gennaio 1913.
109 La musique d’aujord’hui et celle de demain [intervista], «Co­
moedia », 4 novembre 1909.
110 « Le Gil Bias », 2 febbraio 1903.
111 A propos d’ « Hippolyte et Aride » de Romeau, in « Le Figaro »,
8 maggio 1908.
112 « Revue bleue », 2 aprile 1904.
113 ANDRÉ FONTAINAS, Op. dt., pp. 92-93.
114 Lettres à son éditeur, cit., p. 55. Lettera a Durand, del 3 settem­
bre 1907.
115 léon vallas, Claude Debussy et son temps, 1958, p. 364.
116 « Revue blanche », 1 maggio 1901.
117 « Musica », ottobre 1902, p. 5. Risposta all’inchiesta su « l’orien­
tamento musicale» .
1,8 CHARLES BAUDELAIRE, Op. dt., p. II92.
119 Oswald spengler, Il Tramonto dell’occidente, tr. it. Longanesi,
Milano 1957, p. 349.
120 « Revue bianche », i maggio 1901. •
121 Bernard dorival, Les étapes de la peinture franose contempo-
raine, Paris 1948, t.i, pp. 108-110.
122 « Comoedia-Charpentier », 8 ottobre 1941. Colloquio con G. Ri­
cou, citato sopra (nota 104).
NOTE 187

123 « Revue musicale s.i.m. », 1 novembre 1913.


124 « Le Gil Blas », 2 marzo 1903.
125 Ivi, 19 gennaio 1903.
126 Karlheinz Stockhausen, Musik im Raum, in « Die Reihe », Heft
V, 1959» PP- 59’73-
127 Correspondance de Claude Debussy et de Pierre Louys, 1945, p. 45.
m rené lenormand, Etude sur V harmonie moderne, in « Monde mu­
sical », xxiv, Paris 1913.
129 léon vallas, Claude Debussy, cit., p. 336. Lettera a René Lenor­
mand, del 25 luglio 1912.
130 « Revue musicale s.i.m. », 15 febbraio 1913.
131 Stefania lobaczewska, O muzyce Klaudiusza Debussy’ego w
pierwszym okresie jego twórczoici [La musica di Claude Debussy del prh
mo periodo], in « Kwartalnik Muzyczny », n. 3, 1929, p. 36.
132 «Musica», marzo 1911. Risposta all'inchiesta sul rapporto tra la
musica e la poesia.
133 th. de banville, Petit traité de poésie franose, Paris 1888, p. 9.
Part en Prance, Paris 1906, p. 431.
134 léon vallas, Achille-Claude Debussy, 1944, p. 88.
135 Heinrich strobel, Claude Debussy, Paris 1932, p. 31.
»35bis Ed. A. Durand, 1906.
136 « I singhiozzi lunghi | dei violini | dell'autunno | feriscono il mio
cuore | d’un languore | monotono» (paul verlaine, Poesie, tr. it.
Dall'Oglio, Milano 1978, p. 28). [N.d.T.].
137 Ricordiamo che Maurice Ravel scrisse i suoi Trois poèmes de Sté­
phane Mallarmé lo stesso anno di Debussy, nel 1913; per i primi due
aveva scelto gli stessi testi (Soupir e Placet futile), per il terzo, Surgi de
la croupe et du bond.
138 « La luna s'attristava. Serafini in lagrime | sognando, con l’ar­
chetto fra le dita, nella calma dei fiori | vaporosi, traevano da morenti
viole | bianchi singhiozzi scivolanti sull’azzurro delle corolle».
stéphane mallarmé, Versi e prose, tr. it. Dall’Oglio, Milano 1979,
p. 23). [N.d.T.].
139 « La Revue musicale », 1926.
Ivi.
141 Oscar d'estrade-guerra, Les manuscrits de «Pelléas et Mélisan­
de » de Claude Debussy, in « La revue musicale », n. 233, 1937, pp. xo-ii.
142 « La revue musicale », maggio 1926, p. 29.
143 E. A. Durand, 1903.
144 Battute 10-13, ed- A. Durand.
145 Société Générale de Librairie Catholique. Debbo quest’informa­
zione a Oscar d’Estrade-Guerra.
146 Anagramma di Verlaine nei Poètes maudits.
147 « L’Écho de Paris », 27 agosto 1900.
i88 CAPITOLO QUARTO

I48 Le balcon, ed. A. Durand, battute 122-125.


I49 Ed. A. Durand, battute 22-25.
150 Ed. J. Jobert, battute 24-30.
151 « Comoedia-Charpentier », 18 ottobre 1941. Colloquio dell’aprile
1902.
152 « Revue musicale s.i.m. », febbraio 1914.
153 Ed. Durand, p. 70 della partitura.
15* BORIS de schloezer, Igor Stravinsky, Paris 1929, p. 41.
155 Monsieur Croche antidilettante, cit., p. io.
I56 r. paoli, Debussy, Firenze 1951, p. 204. Lettera del 6 ottobre.
[Il corsivo è mio].
157 Ségalen et Debussy, Monaco 1962, p. 107. Colloquio del 17 dicem­
bre 1908.
158 Claude Debussy, Lettres inédites à André Caplet, Monaco 1977,
p. 47. Lettera del 25 novembre 1910.
159 Cfr. Maurice denis, op. cit., p. 30. Lettera a Henri Lerolle, del
28 agosto 1894.
Ié0 Ségalen et Debussy, cit., p. 108.
161 Herbert eimert, Debussys Jeux, in «Die Reihe », n. 5, 1959.
p. 18.
162 Images, ed. A. Durand, n. 3, p. 1.
163 Libro 1, ed. A. Durand.
1^4 Ivi.

i65 Libro 11, ivi.


166 Ivi.
167 Libro 1, ivi.
168 Ivi.
I69 Ed. A. Durand, n. 8, p. n.
170 Libro 11, ed. A. Durand.
171 Ivi.
172 Ivi.
173 Ivi.
174 Fran$oise Gervais, La notion d'arabesque chez Debussy, in « La
revue musicale », n. 241, 1958, pp. 14-15.
175 andreas liess, L’harmonie dans les oeuvres de Claude Debussy,
in « La revue musicale », gennaio 1931, p. 45.
i76 Libro 1, ed. A. Durand.
177 Images, ed. A. Durand, n. 1, p. 17.
i78 Libro 11, ed. A. Durand.
179 GASTON BACHELARD, L’Eau et les Réves, Paris 1942, pp. 31 e
202.
18° Lettera a Ernest Chausson, del 2 ottobre 1893.
NOTE 189

181 Lettera a Pierre Louys, del 17 luglio 1895.


182 Claude Debussy et Eugène Ysay e. Lettere inedite, in « Les an-
nales politiques et littéraires », 26 agosto 1933, p. 226. Lettera del 13 ot­
tobre 1896.
183 Lettera a Henri Lerolle già citata. Cfr. Maurice denis, op. cit.
184 VLADIMIR jankélévitch, Debussy et le mystère, Neuchatel 1949,
p. 136. Debbo piu di un’idea e piu di un suggerimento a questo bel
lavoro.
185 Ibidem.
186 Ivi, p. 31.
187 andré Michel, Psychanalyse de la musique, Paris 1952, p. 221.
188 « Revue bleue », 2 aprile 1904. Colloquio con Paul Landormy.
189 Vladimir jankélévitch, La Musique et ITneffable, Paris 1961,
p. 164.
190 Vladimir jankélévitch, Debussy, cit., pp. 14-16.
191 G. courty, Dernières années de Debussy, in « Revue des deux
mondes », 13 maggio 1938. Lettera a Courty, del 18 giugno 1916.
192 marie bonaparte, Edgar Allan Poe. Studio psicoanalitico, tr. it.
Newton Compton, Roma 1976.
193 Lettera a Jacques Durand, del 18 giugno 1908.
194 II corsivo è mio.
195 Lettera a Jacques Durand, dell’8 luglio 1910.
196 II secondo doveva essere The Devil in the Belfry.
™ Lettera a André Caplet, del 22 dicembre 1911.
198 Lettera a Robert Godet, del 4 gennaio 1916.
199 L'enfance de Pelléas. Lettres de Claude Debussy à André Messagef,
Paris 1938, p. 74. Lettera del 12 settembre 1903.
200 Vladimir jankélévitch, Debussy, cit., p. 119.
201 Ivi, p. 149. Uno studio recente su La Vie et la Mort dans la mu­
sique de Debussy (Neuchatel 1968), dello stesso illustre autore, sviluppa
in modo brillante il tema principale di tutta la creazione in Debussy. Mi
rincresce vivamente di non aver avuto conoscenza di quel libro mentre
scrivevo questo.
V.
Debussy e la musica del xx secolo

Si è cercato di definire la musica di Debussy con l’aiuto


di ogni sorta di termini: impressionismo, naturismo, e perfino
neoclassicismo, ma nessuna di queste formule magiche è
riuscita ad aprire le porte del suo regno, né a coglierne
l’essenziale. L’opera sfugge agli schemi ed alle definizioni
scolastiche che il suo creatore aveva tanto denigrato. « Tutta
la sua vita è stata una ricerca dell’inanalizzabile [dice Pierre
Boulez], di uno sviluppo che incorpora, nel procedimento
stesso, le sorprese dell’immaginazione. Diffida dell’architettura,
nel senso pietrificato di questa parola; preferisce a essa delle
strutture composte insieme di rigore e di libero arbitrio. Per
questo in lui quelle parole, quelle chiavi, di cui l’insegna­
mento ci satura, divengono prive di senso e di oggetto; le
categorie mentali solite di una tradizione esaurita non si
potrebbero applicare alla sua opera, neanche cercando di
aggiustarle con qualche torsione » Non abbiamo intenzione
di trascurare questo giudizio lucido e convincente, né di
sostituire un’etichetta migliore ad una meno valida, ponendo
il « simbolismo » al posto dell’« impressionismo ». Pur ammet­
tendo la fondatezza di una simile operazione, diciamo che
equivarrebbe a sostituire un gran male con un male minore,
senza uscire dal labirinto delle generalizzazioni errate.
L’impressionismo ha ricondotto le arti plastiche alla loro
vera natura, ha ricordato che esse erano nate dal bisogno di
esprimere le esperienze della sensibilità visiva; il termine cor­
risponde esattamente ai principi estetici della corrente. Una
tale tendenza, con principi simili (ma non identici), sarebbe
potuta servire in musica? Certo, se si ammette che essa sia
basata su impressioni uditive. Il pensiero sonoriale che, con
DEBUSSY E LA MUSICA DEL XX SECOLO 191

Debussy, comincia ad esercitare un’influenza decisiva sulla


formazione dell’opera musicale, ha senza dubbio favorito l’at­
tuale invasione della musica da parte di impressioni uditive
provenienti dal mondo esterno, anzi di atti puramente acu­
stici. Ne troviamo una conferma nei progressi del bruitisme,
che introduce nella musica tutto un assortimento di effetti
sonori, che fino ad allora erano al di fuori del suo campo.
L’impressionismo, si sa, tendeva a trasporre in arte le im­
pressioni allo stato bruto (in crudo), prima che siano state
organizzate dall’intelligenza. Ora, se si può in una certa
misura considerare le tendenze del bruitisene come una forma
di « impressionismo musicale », questo termine è del tutto in­
giustificato se applicato alla musica di Debussy, in cui le im­
pressioni uditive, anche se appaiono occasionalmente (cosa
che ci siamo sforzati di sottolineare con cura), non costitui­
scono mai il punto essenziale dell’opera. Quanto alla traspo­
sizione in musica delle impressioni visive - alla quale si
era tentato di ridurre l’opera del musicista più puro che
sia mai esistito dopo Mozart - abbiamo dedicato abbastanza
spazio alla questione per non riprenderla più in esame.
Poiché respingiamo il termine « impressionismo » come
falso ed inadeguato, almeno riguardo alla musica di Debussy,
perché non accettare il termine « simbolismo »? Diverse ragioni
vi si oppongono, e prima di tutto questa: la corrente sim­
bolista, che aveva cominciato a formarsi in letteratura a par­
tire da Baudelaire ed aveva raggiunto il suo apogeo negli
anni 1884-1891, esercitò un potente influsso in tutti i rami
dell’arte, fra cui la musica (quella di Debussy in particolare),
ma svolse un ruolo decisivo nel campo del verbo. Accordando
alla sonorità delle parole quasi altrettanta importanza che al
loro significato, e cercando rapporti non convenzionali nel
funzionamento del linguaggio, i simbolisti francesi restituivano
all’arte del verbo la sua vera funzione, cosa che gli impressio­
nisti avevano fatto per la pittura. Essi ricordavano nello stesso
tempo la particolarità strutturale di qualsiasi comunicazione
realmente artistica, e cioè la sua essenziale ambiguità. Ora,
non comportando, in linea di principio, elementi chiamati
a rivestire una funzione semantica, la musica è ambigua quasi
per definizione (evidentemente, nei limiti di una sfera cui-
192 CAPITOLO QUINTO

turale definita), ed anche gli sforzi congiunti dei romantici


e di Wagner non avevano potuto eliminarne interamente il
gioco dell’immaginazione. Cosi, sebbene Debussy abbia con­
siderevolmente allargato il campo in cui quest’ultima può eser­
citarsi, non si può ritenere questo tratto tutto suo; è piuttosto
« naturale », poiché abbiamo appena ammesso che la musica
è simbolica « per definizione ». Neppure il simbolismo distingue
l’opera di Debussy dalle altre arti, che volevano tutte avvi­
cinarsi alla musica e creare solo « opere-simbolo ». Possiamo
tuttavia non tenere conto di questo aspetto del problema: una
simile trasposizione di termini e di concetti da un campo
all’altro non è senza precedenti. Ma la ragione decisiva per
scartare la categoria del « simbolismo » è che questo termine
non definisce sufficientemente la musica di Debussy.
Crediamo che si debba rispettare il suo rifiuto delle etichette:
ci sembra veramente impossibile attribuirgliene una. Egli co­
nobbe ogni sorta di correnti artistiche: il naturalismo, l’im­
pressionismo, il preraflaellismo, il divisionismo, il simbolismo,
il sintetismo, il fauvismo, l’espressionismo. A parte il cubismo,
di cui vide senza entusiasmo la nascita e lo sviluppo, egli
attinse un po’ a tutte queste correnti, ne subì talvolta pro­
fondamente l’influsso (come nel caso del simbolismo), ma non
sottomise interamente a nessuna di essa la sua personalità
artistica, presto cristallizzata, anche se impiegò molto tempo per
raggiungere la piena maturità.
Malgrado il suo interesse per la letteratura, Debussy era
decisamente troppo musicista per accettare una spiegazione
« pittorica » o « letteraria » della sua opera. Espresse più di
una volta le sue opinioni sull’argomento, opinioni abbastanza
vicine a quelle di Whistler, che rimproverava a Ruskin (in
Ten o’ clock) di ridurre la pittura al livello di mezzo, col
suo modo letterario di interpretare i quadri; la poesia della
pittura pura e l’idea che animava l’artista, in altre parole ciò
che distingue la sua opera da tutte le altre, sfuggono ad un
simile commento.
Alla ricerca di un simbolismo nuovo, Debussy liberava la
musica dal semantismo prima ancora di essere arrivato al pen­
siero sonoriale. Il suo istinto di musicista lo spingeva ad
andare controcorrente rispetto alle opinioni ottenebrate dalla
DEBUSSY E LA MUSICA DEL XX SECOLO 193

magia di Wagner, a trovare soluzioni originali in quel continuo


dialogo con il mondo che l’artista persegue nella sua opera.
Il suo senso dell’equilibrio gli diceva che bisognava porre
fine all’eccessivo desiderio di espressione, frenare l’immagina­
zione, il diluvio dei sentimenti e la sensualità orgiastica. Non
c’è niente che caratterizzi meglio la sua reticenza verso l’enfasi
e l’esagerazione della sua ribellione contro le orgie verbali di
D’Annunzio o contro il bizantinismo decorativo di Bakst in
Le martyre de Saint Sébastien, Citiamo a questo proposito
il suo giudizio riguardo ad una delle raccolte di Swuinburne,
poeta che peraltro egli stimava molto: « Quest’uomo è pro­
babilmente ammirevole. Non trovate tuttavia che la follia
delle immagini gli dia alla testa al punto di fargli dimenticare
ciò di cui parla? So bene che nel regno del lirismo i pazzi
sono re. Ma insomma ... »2.
Nella sua musica, Debussy mantiene con estrema abilità
l’equilibrio tra la natura e l’uomo, non accordando mai la
supremazia ad una parte piuttosto che all’altra, e grazie a
questo la trama vi è raramente lacerata da furiose esplosioni
delle forze della Natura o da bruschi aumenti delle passioni
violente, sia che la musica conduca da sola il proprio discorso,
sia che essa sostenga il verbo poetico. Debussy non cerca
la profondità, non ammette niente a priori-, dà completa fiducia
al proprio istinto e si fonde con la sua opera solo nel corso
della creazione. Di qui, la spontaneità con cui sviluppa la
sua musica.
La sviluppa o, invece, le ordina di fissarsi? L’uno e l’altro:
tutto fa al caso suo purché serva a mettere in luce « l’ine­
sprimibile ». L’essenza della sua estetica corrisponde alla poe­
tica di Mallarmé. Tutti e due agli antipodi del wagnerismo,
essi hanno cercato « l’essenza delle cose », le nude verità,
non deformate da piatte categorie spaziali o da una pomposa
retorica. Ma, mentre l’opera di Mallarmé non è più che una
stupefacente traccia salvata dal naufragio, quella di Debussy
continua a vivere, recando gioia al cuore ed all’intelligenza.
Vera « opera totale », essa parla all’uomo intero, non solo ai
suoi sensi, o solo ai suoi sentimenti, od alla sua ragione.
Sebbene avesse disprezzato Wagner, qualsiasi estremismo
nella critica gli era estraneo. Se lottò contro il soggettivismo,
194 CAPITOLO QUINTO

arrivando a dimostrare talvolta le virtù della spersonalizza­


zione, non negò mai alla musica qualsiasi possibilità di espres­
sione» come fece Stravinskij, poiché sapeva intuitivamente, o
forse era il genio della Francia a suggerirglielo, che gli estremi
finiscono sempre per toccarsi, cosicché « gli occhi vuoti della
sua musica3 sono talvolta più espressivi dell'espressione
stessa » *.
Debussy non scherzava quando diceva di essersi sforzato
di dimenticare tutto quello che gli avevano insegnato. Era
un nemico irriducibile di qualsiasi accademismo, la sua arte
è l’esempio di un rinnovamento continuo.
Nella storia della musica, Debussy apre un capitolo nuovo.
Quasi tutte le tendenze apparse nel xx secolo hanno origine
nella sua arte, si ispirano direttamente ad essa o in opposi­
zione ad essa nascono. Quando la decomposizione del sistema
armonico, che egli aveva accelerato, si compì definitivamente,
quando la musica creata dopo di lui si sbarazzò della sua
polemica aggressività» si cessò di vedere nella sua opera solo
la negazione. È stato detto a ragione che egli rivoluzionò la
tecnica orchestrale e pianistica, ma non è mai stato sottolineato
abbastanza il fatto che, grazie alla sua eccezionale sensibilità
musicale, egli fu il primo a dare al suono isolato, od al
gruppo di suoni, un'importanza pari a quella della melodia,
del ritmo e dell'armonia (infatti, è a partire da Debussy che
si comincia a parlare non più di accordi» ma di aggregazioni
sonore). Ciò avrebbe avuto conseguenze di grande portata,
che si manifesteranno pienamente solo nella musica più recente,
sotto l'impulso di Webern.
Non vogliamo affermare che Debussy non ebbe mai esita­
zioni o che non si contraddisse mai. Come dice Adorno:
« Nessun artista è di per sé in grado di eliminare fa con­
traddizione fra arte svincolata e società vincolata »5. Debussy
spezzava l'interdipendenza della melodia e dell'armonia, la­
sciava la melodia planare liberamente, annientava le regole
consacrate, senza per questo essere attratto da un cromatismo
anarchico. Egli si muoveva fra il pensiero armonico ed il
pensiero modale, contribui largamente alla rinascita della mu­
sica modale. Pensiamo ai modi di Messiaen, e soprattutto alla
« serie » considerata come una forma particolare di pensiero
NOTE 195

modale. Rifiutando gli accordi di terza, la disposizione aprio-


ristica del materiale, egli tendeva istintivamente, attraverso
le scale modali, quella pentatonica e quella eptatonica, ad una
sintesi del materiale sonoro e, in modo del tutto naturale,
arrivava all’armonia afunzionale, atonale, atematica. L’idea della
Klangfarben melodie non sarebbe potuta nascere nello spirito
di Schonberg e di Webem se la musica di Debussy non
l’avesse loro suggerita. Il pensiero sonoriale, che appare in
Debussy per la prima volta, troverà in Webern il suo vero
continuatore, mentre Schonberg, dopo essere stato il primo a
riprendere questa strada dopo Debussy, nel terzo brano dei
suoi Fùnf Orchesterstiìcke op. 16 e nella parte di Die
giuridiche Hand intitolata Tempesta di luce, l’abbandonerà
del tutto nella sue composizioni dodecafoniche.
Il desiderio di rinnovare il linguaggio musicale, di ripulirlo
dai suoi luoghi comuni e dalla sua retorica astratta in cui
si perdeva il senso della realtà sonora, spingeva Debussy alla
ricerca di mezzi nuovi, a rivolgere la sua attenzione a pro*
blemi di sintassi. Cosi, in alcune delle sue opere, si sarebbe
portati a vedere elementi distruttivi, ed altrove idee costrut­
tive. Ma la verità è che il suo pensiero, totalmente libero
da pregiudizi e da miti, indietreggia talvolta solo per meglio
balzare in avanti. Il suo senso quasi metafisico del materiale
musicale puro, in cui scompare il dualismo dell’idea e della
materia, lo conduceva alle eterne sorgenti della musica, alle
sue origini magiche, al tempo in cui il suono, libero da pre­
concetti, era per l’uomo lo strumento che gli serviva a padro­
neggiare le forze della Natura.
Come il dio Pan, che cosi spesso torna nelle sue opere,
Debussy aveva lasciato il corteo di Dioniso per fare ritorno
alla sua patria. Sul sentiero che separava due epoche, cantò
il suo amore della terra e la sua nostalgia del cielo.

1 Note di apprendistato, tr. it. Einaudi, Torino 1968, p. 37.


2 Debussy et Edgar Poe, Monaco 1962 p. 40. Lettera a G. Mourey,
del io febbraio 1902.
196 CAPITOLO QUINTO

3 Di Stravinskij. [N.d.T. dal polacco, T. Douchy].


4 Theodor w. adorno, Filosofia della musica moderna, tr. it. Einaudi,
Torino 19594, p. 174.
5 Ivi, p. 108.
Indice dei nomi

Ache, C. d’, 96. 142, 143, 172, 175, 179.


Adler, G., 89. Baudry, P., 108.
Agostino, A. santo, 50. Bayer, R., 30.
Alain-Fournier, H.-A. Fournier Beardsley, A., 107, 121.
detto, 82. Beauclair, H., 98.
Albéniz, L, x. Becque, H., 99.
Alberti, L.B., 66. Beethoven, L. van, 5, 54, 88, 120,
Albrecht, H., 61. 157-
Alchvang, A., vii. Bergson, H., 9, 23, 29, 41, 45, 80,
Alembert, J.-B. Le Rond detto d’, 81.
Berlioz, H., 88, 125, 157, 176.
Allais, A., 96. Berthelot, M., 83, 85, 127.
Amiel, H.F., 81. Bjórnson, B., 77.
Antoine, A., 94, 96. Blake, W., 33.
Arnim, L.A. von, 33. Bianche, J.-É., 108.
Arosa, A.-A., 90, 91, 94. Blanchot, M., 29.
Arosa, G., 90. Bois, J., 98.
Astruc, G., 94. Bonaparte, Ch., 94.
Aubry, J., 105. Bonaparte, M., 181.
Aurevilly, B. d’, 77. Bonaventura, santo, 32.
Aurier, A., 80, 82, 100, 123. Bonheur, R., 95, 98.
Austin, J.-L., 34. Bordes, C., 87.
Borodin, A.P., 132, 134.
Bach, J.S., 5, 51, 88, 116, 120, 121. Botticelli, S., 15, 107.
Bachelard, G., x, 172. Boulanger, N., vii, 75.
Bailly, E., 102. Boulez, P., 126.
Bakst, L., 107. Bourget, P., 82, 83, 95, 97, 98,
Balakirev, M.A., 132. 100, 128, 131, 132, 173.
Balzac, H. de, 92, 127. Bountroux, E., 81.
Banville, Th. de, 36, 78, 95, 97, Brahms, J., 54.
128, 129, 130, 138. Bristiger, M., 61.
Baron, E., 15, 99, 100, 101. Browning, R., 42, 43, 77.
Barraqué, J., vili. Bruant, A., 97.
Barrès, M., 78, 103. Bruckner, A., 21.
Bartók, B., vili, 5. Brunetière, F., 77, 83.
Baruzzi, J., 29. Bume-Jones, E., 121.
Baschet, M., 99, 107. Burne-Jones, P., 76.
Bandetaire, Ch., 33, 34, 36, 41, 42, Busoni, F., 64.
77-79, 85, 88, 95, 97, 99, 101, Biisser, H., 15.
106, 112, 121, 128, 134, 138, Bussine, R., 87.
198 INDICE DEI NOMI

«Cabat, L., 107. Duparc, H., 87.


Cajkovskij, J.I., 94, 95. Dupont, G., xiv.
Caplet, A., 158. Durand, editore, 94, 95, 107, 169.
Carlyle, Th., 78.
Carré, M., 94. Ebbinghaus, H., 57.
Carrière, E., 98, 103. Edison, Th. A., 74.
Cassagne, A., 36. Eliot, Th.S., 29, 30, 143.
Cassirer, E., 27, 28. Emmanuel, M., 151.
Cattaui, G., 39. Eraclito, 10.
Cerrutti, J., 92. Eschilo, 125.
Cezanne, P., 44, 77, 86. Estrade-Guerra, O. de, 136.
Chabrier, E., xi, 89, 96, 140. Euripide, 125.
Chailley, J., vn.
Chamberlain, H.S., 85. Fabian, L., 22, 64.
Chansarel, P., 108. Fabia, M. de, vm, x.
Charpentier, G., 101. Fauré, G., xi, xiv, 89, 142.
Chausson, E., xi, 87, 89, 103, 108, Fénéon, F., 74, 100, 101, 104.
174- Ferrero, G., 30.
Chautard, É., 94. Fibich, Z., ix.
Chavannes, P. de, 78, 86. Fichte, J.G., 35.
Chennevière, D., 64. Fiser, E., 30.
Chominski, J.M., 62. Flaubert, G., 36, 74, 100, ioi.
Chopin, F., xi, 5, 92, 97- Fontaine, A., 104, 108.
Clark M.T.E., 65. Forain, J.-L., 103, 108.
Claudel, C., 108. Fragerolle, G., 96.
Claudel, P., 40, 82, 105. Fragonard, J.-H., 18.
Coleridge, S.T., 33. France, A., 103, no.
Corot, J.-B.-C., 90. Francès, R., 50.
Couperin, F., 119. Franck, C., xi, 87, 88, 89.
Courteline, G., 102. Fromont, editore, 94.
Crane, W., 107, 121.
Croiza, C., 130, 138. Gasquet, J., 44.
Cros, Ch., 95, 96, 98, 102. Gatti-Cassazza, G., 94.
Gauguin, P., 18, 28, 42, 44, 45,
Danckert, W., 23, 59, 65. 76, 80, 84, 90, 98, 100, 101,
Darwin, Ch., 74. 103, ics, 107, 122, 123, 128.
Daubigny, Ch.-F., 90. Gautier, Th., 36, 42, 54, 85.
Daudet, L., 86, 103. Gavarni, S.-G. Chevalier detto, 90.
Debussy, Clémentine, 90, 92. Geibel, E., 133.
Debussy, M.A., 90, 91. George, S., 105.
Degas, E., 7, 86, 103, 105, 107. Ghil, R., 43, 75, 100, 104.
Delacroix, E., 8, 42, 83, 90. Gide, A., 86, 98, 102, 104, 105.
Delmet, P., 97. Gilson, E., 32.
Denis, M., 45, 102, 103, 108, 123. Gervais, F., vm, 167.
Dethomas, M., 103, 108. Georgiades, T., 39.
Dionigi d’Alicarnasso, 35. Godet, R., 63.
Dionigi 1’Areopagita, 32. Goethe, J.W. von, 28.
Djagilev, S.P., 107, 108. Goncourt, fratelli, 21, 85, 99, 101.
Donnay, M., 96. Goossens, E., vm.
Dorivai, B., 123. Gounod, Ch., 87, 131.
Douglas, A., 105. Gourmont, R. de, 103.
Dujardin, E., 86, 100, 101, 104, Goya, F., 21, 107.
105. Gravelet, P., 134.
Dukas, P., 63, 109. Grétry, A.-E.-M., 51.
INDICE DEI NOMI 199

Groux, H. de, 107, 108. Kandinskij, V.V., 65.


Guilbert, Y., 97. Kahn, G., 96, 100, 101, 104.
Guiraud, E., 118, 149. Kant, I., 54»
Keats, I., 77, 101, 102.
Habeneck, F.-A., 88. Kierkegaard, S., 5.
Hahn, R., 103. Kodaly, Z., vm.
Hamann, R., 4, 21, 22, 60. Koechlin, Ch., 64, 127, 131, 138.
Hamelle, editore, 94. Koehler, E., 21.
Hamsun, K., 77. Kòlsch, H., 23.
Hanslick, E., 54, 123. Kremlev, J., xin.
Harancourt, E., 96, 97, 98. Krysinska, M., 96.
Harburger, W., 22. Kufferath, M., 17.
Hartmann, K.A., 94, 95. Kurth, E., 21-23, 58, 62, 64.
Hausegger, S. von, 22.
Hauser, A., 10. Laforque, J., 76, 78, 81, 95, 98-101,
Haydn, F. J., 51, 52. 104, 175.
Heine, H.; 128. Lalo, E., 89, 131.
Hegel, F., 35, 47, 78. Lalo, P., 158.
Helmholtz, H. von, 56, 74. Laloy, L., 63, 64, 65.
Hennequin, E., 75. Lamoureux, Ch., 75.
Henry, Ch., 75, 83, 100, 101. Landormy, P., 105.
Heredia, J.-M. de, 104, 105. Leakey, F.W., 28.
Herold, L.-J.-F., 105. Lemaitre, L, 82.
Hindemith, P., 64. Lenormana, R., 20, 126.
Hocquet, V., 96. Leoncavallo, R., 117.
Hoffmann, E.Th.A., 33. Lerolle, H., 103, 108, no, 157,
Hofmannsthal, H. von, 82. 174-
Hokusai, Katsushika, Nakajima Le Roy, G., 134, 173.
detto, 21. Lesure, F., vn.
Honegger, M., 125. Lhermite, T., x.
Houssaye, A., 95. Liess, A., 64, 168.
Huizinga, J., 31. Lisle, L. de, 36, 128, 130.
Huret, J., 83. Liszt, F., xi, 21, 23, 157.
Huysmans, J.-K., 75, 77, 82, 98, Lobaczewska, S., 62, 63, 127.
99, IOd. Lockspeiser, E., vn, 97.
Hyspa, V., 134. Louys, P., 86, 97, 102, 103, 105,
108, 120, 128, 147, 174.
Lugné-Poe, A. Lugné detto, 94.
Ibsen, H., 77. Lutoslawski, W., 121.
Indy, V. d’, 19, 75, 87, 89, 150.
Ingarden, R., 48, 59.
Isle-Adam, V. de 1’, 77, 78, 85, 97, Maeterlinck, M., xi, 78, 105, 128,
102, 104. 149, 150.
Malipiero, F., vm.
Mallarmé, S., 28, 35, 37-41, 43,
Jammes, F., 98. 65, 77-80, 84, 86, 95, 96, 98^
Janàcek, L., xv. 99, 101-106, 108, 109, 118, 123,
Janequin, C., 51. 128, 134, 135, 138, 174, i77’
Jankélévitch, V., 48, 175, 178, i8r. 181.
Jarocinski, S., vn-xv. Manet, E., 7, 100, 101.
Jaen-Aubry, G., 63. Manoury, V., 90.
Jean Paul, J.P.F. Richter detto, Mantelli, A., vn.
33- Marmontel, A.-F., 92.
Jongkind, J.B., 90. Martino, S., 94.
Jung, C.G., 29. Mascagni, P., 117.
200 INDICE DEI NOMI

Massenet, J., 87. Péladan, S., 98, 103.


Masson, A., 10. Perracchio, L., 64.
Mauclair, C.» 18, 76. Peter, R., 98, 103.
Maupassant, G. de, 97. Picasso, P., 103.
Maus, O., 17. Picton, A., 103.
Mauté de Fleurville, A.-F., 91, 92, Piguet, J.-fc., 49.
93- Pissarro, C., 7, 18, 77, 90, 100,
Meek, N.F. von, 94, 95. 101.
Mendès, C., 85, 102, 104. Platone, 82.
Mercier, 102, 103. Plotino, 34.
Meredith, G., 77. Poe, E.A., 33, 35, 36, 43, 77, 78,
Merleau-Ponty, M., 12, 29. 95, 97, 98, 178, 179, 181.
Merril, S., 104. Polignac, principe di, 94, 105.
Mersmann, H., 23, 58, 62. Ponchon, R., 96.
Messiaen, O., 164. Poniatowski, A., 94, 105.
Michaud, G., 28, 61. Primoli, G. conte, 94.
Michel, A., 176. Prokof’ev, S.S., 64.
Mirbeau, O., 78, 104. Proust, M., 10, 11, 80, 98, 103.
Molinari, B., 158.
Monet, C., 7-10, 18, 23, 24, 44, Quillard, P., 104.
76, 77, 80, 86, 105, 107, 128,
178, 180. Rameau, J .-Ph., 119.
Montesquiou, R. de, 98. Ravel, M., xn, 4, 89.
Moore, G., 100. Raymond, M., 45.
Moréas, J., 75, 78, 97-99, 101, Redon, O., 44, 86, 98, 105, 107,
104. 108, 122, 128.
Moreau, G., 107. Reger, M., 21.
Morice, Ch., 46, 82, 98, 99, 101, Régnier, H. de, xn, 55, 78, 97,
ioj, 105. 102-105, 128.
Morike, E., 133. Renan, E., 97, 101.
Morisot, B., 100. 105. Renoir, A., 7, 76, 77, 105.
Morris, W., 78, 121. Rewald, J., 61.
Moureau, G., 122. Rictus, J., 97.
Mourey, G., 98, 105. Rilke, R.M., 49.
Mozart, W.A., 5, 51, 52, 125. Rimbaud, A., 35, 43, 78, 79, 92>
Munch, E., 122. 98, 101.
Musorgskij, M.P., xm. Rivière, H. de, 96.
Musset, A. de, 92, 95, 130, 131. Rivière, J., 41, 82.
Natanson, fratelli, 105. Robert, H., 103, 108.
Nietzsche, F.W., 54, 78. Roden bach, G.R., 78, 105.
Nlin, J., vili. Rodin, A., 100, 107, 108.
Novak, V., ix. Rollinat, M., 96-98.
Novalis, F.L. von Hardenberg Rossetti, D.G., 17, 78, 102.
detto, 33. Rossini, G., 19.
Rousseau, J.-J., 51.
Orfer, L. d’, 100. Roustan, A., 90.
Orlando di Lasso, 121. Rudel, J., x.
Ossowski, S., 30. Russel, B., 39.
Ruysdael, J.I., ix.
Palestrina, G.P. da, 121.
Panofsky, E., 27. Sainte-Beuve, Ch.A. de, 101.
Pasteur, L., 74. Saint-Saèns, C., 15, 17, 54> ®7-
Pater, W., 77. Salis, R., 96.
Pedrel, F., 130. Samain, A., 98, 103, 175-
INDICE DEI NOMI 201

Sarrazin, G., 100, 102. Tintoretto, I. Robusti detto, 21.


Satie, E., vm, xi, xm, 96, 98. Tjutèev, F.I., 32.
Scarlatti, D., xn. Turgenev, I.S., 101.
Schering, A., 50. Toulouse-Lautrec, H. de, 103, 107,
Schiller, J. Ch. F., 33. 108, 122.
Schloezer, B. de, 157. Toulet, P.-J., 103.
Schonberg, A., 23, 167. Turner, J.M.W., 98, 107, 178.
Schopenhauer, A., 42, 54, 78, 84,
100, 102. Udine, P. d’, 18.
Schubart, D., 52.
Schubert, F., 88. Valéry, P., 41, 58, 79, 83, 86, 105,
Schultz, H.G., 23. 112, 143.
Schumann, R., 128. Valias, L., 127, 132, 134, 140.
Schuré, E., 85. Vailette, A., 103.
Schwob, M., 105. Van Gogh, V., 80, 100, 121, 178.
Ségalen, V., 159, 160. Varèse, E., 172.
Sérusier, P., 44. Vasnier, E., 137.
Servières, G., 127. Vasnier, M.-B., 94, 95, 98, 99, 108.
Setaccioli, G., 64. Vaucaire, M., 96, 98.
Seurat, G., 9, 21, 74-76, 100, 101, Verdi, G., 117.
121. Verhaeren, E., 78, 100, 104.
Séverac, D. de, x, xn, xiv. Verlaine, P., 43, 78, 79, 91, 92,
Shakespeare, W., 99. 95» 97, 98-104, 128, 134, 138,
Shaw, G.B., no. 140-142, 146, 173, 175.
Shelley, P.B., 33, 99. Vicaire, G., 98, 102.
Signac, P., 9, 21, 100, 101. Victoria, T.L. de, 121.
Sisley, A., 7, 18, 76, 90, 107. Viélé-Griffin, F., 78, 102, 105.
Sivry, Ch. de, 91, 96. Vogue, M. de, 78, 100.
Skrjabin, A.N., ix. Vuillard, E., 105.
Sofocle, 125. Vuillermoz, E., 16, 23, 24.
Spengler, O., 12, 21, 122.
Spinoza, B. de, 100. Wagner, R., 5, 21-23, 40, 42, 53,
Staèl, A.-L.-G. Necker, Mm. de, 33. 54» 75, 85, 86, 88, 89, 92, 94,
Steinlen, Th.-A., 97, 108. 101, 106, 114-118, 120, 122, 129,
Stevens, A., 104, 108. 132, 142-143, 149, 150, 153, 157,
Stevens, C., 108. 158, 172, 174, 175.
Stockhausen, K., 125. Wartisch, O., 23.
Strauss, R., 21, 54, 158, 174, 175. Webern, A., 171.
Stravinskij, I.F., vin, 5, 64, 123, Weisbach, W., 4, 21.
157, 164. Wesendonck, M., 53.
Strindberg, I.A., 77. Westphal, K., 59, 62.
Strobel, H., 132. Whistler, J., 42, 77, 100, 102, 105,
Stumpf, F.C., 57. 107, 108.
Swedenborg, E., 34. Whitman, W., 101.
Swinburne, A. Ch., 77, 78, 98. Wilde, O., 75, 77, 105.
Sydow, E. von, 29. Willette, A., 97, 108.
Symons, A., 65, 105. Willy, H. Gauthier-Villars detto,
Szymanowski, K., 53, 54. 103, 142.
Wittgenstein, L., 59.
Taine, H.-A., 101. Wolf, H., 21, 133.
Tardieu, A., 103. Wyzewa, Th. de, 85, 100, 101,
Tennyson, À.L., 77. 104.
Thibaudet, A., 41. Ysaye, E., 157, 174.
Tinan, J. de, 103. Zola, E., 36, 74, 77, 101.
Indice

p. VII II Debussy di Stefan Jarocinski


di Vladimir Jankélévitch
3 Introduzione

7 i. L’impressionismo nella pittura del xix secolo ed


il suo ruolo nella cultura contemporanea
14 11. Significato dato al termine « impressionismo » in
storiografia musicale
2/j in. Il simbolo in arte
Tentativo di definizione, p. 27 - Gin siderazioni ge­
netiche, p. 31 - L’espressione c il simbolo in mu­
sica, p. 46
74 iv. Debussy e il simbolismo
Il clima dell'epoca, p. 74 - Il wagnerismo e la mu­
sica francese alla fine del xix secolo, p. 84 - L’am­
biente di Debussy, p. 89 - Le opinioni estetiche di
Debussy, p. 109 - La musica di Debussy, p. 127
190 v. Debussy e la musica del xx secolo

197 Indice dei nomi

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