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VEDERE LA MUSICA

Il problema, come spesso accade per l’indagine di simili territori di confine, è definito dalla
non sufficiente contezza reciproca dei risultati raggiunti nei rispettivi campi, o da
un’incomprensione di base, o da un senso di diffidenza. Anche alla luce dei numerosi saggi e
mostre estere, potrà sorprendere che il tema delle relazioni tra le arti visive e la musica non
fosse mai stato oggetto in Italia di una mostra che lo affrontasse con ampiezza e organicità,
con riferimento a un arco cronologico largo. Qui si tratta di studiare con sistematicità e
completezza i molteplici rimandi al mondo musicale presenti nelle arti visive europee
nell’epoca compresa tra il 1880 e il 1940 circa, nonché le parentele e le comunanze estetiche,
talora i paralleli sviluppi delle due sfere espressive e disciplinari.

1. SIMBOLISMO
Come è ben noto, il Simbolismo a differenza del realismo o dell’impressionismo, non fu un
vero e proprio movimento, né tanto meno un gruppo omogeneo di artisti, ma piuttosto una
tendenza generale che, anticipata da alcune esperienze precedenti, esplose in europa a partire
dagli anni Ottanta dell’800, investendo, fino alla metà delle avanguardie storiche d’inizio
Novecento, tutti gli ambiti dell’espressività. Sul quotidiano Le Figarò viene pubblicato nel
1886 il manifesto Le Symbolisme, scritto da Moreas. Il termine fu usato quasi in
contemporanea dal pittore belga Khnopff tra il 1886 e il 1887. Lo scenario si faceva
complesso perché conosceva l’affermazione di due linee diverse e contrapposte, pur
caratterizzate da alcuni punti di contatto: da una parte il post- e Neoimpressionismo;
dall’altro, appunto, il Simbolismo. Pesava anche un senso d’angoscia in quegli anni ché lo
sviluppo economico e sociale minacciava, agli occhi di molti artisti e intellettuali,
d’impoverire la vita dello spirito. Questa reazione ebbe una delle proprie estrinsecazioni in un
estetismo spesso estenuato, tra decadentistiche(颓废主义) dolcezze estreme e
dandismo*(华丽). Uomini e personaggi che non si limitano a collezionare e possedere
opere d’arte ma che ambiscono a incarnarne una con il proprio essere. Il Simbolismo è tutto
ciò ma non solo come ovvio. E’ anti-impressionista e anti-naturalista: ricorre in maniera
privilegiata all’allegoria, ama i soggetti dotati di una forte connotazione mistica,
esoterica, ultraterrena, oppure mitici, leggendari. Le sue fonti sono la poesia di
Baudelaire e le componenti visionarie del romanticismo. Ricerca una pittura ideista,
capace di rapp concetti per mezzo di forme e colori. Si interessa inoltre alla musica
chiave d’argento che apre le porte alla fontana delle lacrime, ove lo spirito beve finché la
mente si smarrisce; soavissima tomba di mille timori, ove la loro madre, l’Inquietudine,
simile a un fanciullo che dorma, giace sopita ne’ fiori”. Il musicista è visto come
travagliato e inquieto, esso è armamentario dell’immaginario simbolista. Nel trattato
Frate Angelico di Domenico Tumiati si auspicava l’attuazione di una sintesi delle arti
nell’avvento di una pittura musicale capace di restituire la vibrazione mediante i colori.
In Italia però l’ideatore della rivoluzione simbolista fu Angelo Conti che professava
l’annullamento dell’anima individuale nello spirito universale durante lo stato mentale
della contemplazione artistica. Tutte le linee di pensiero simboliste hanno in comune una
certa area di indeterminazione e di mistero, la libertà di variare all’infinito sul tema
iniziale, vago e generico, sfruttando tutte le possibilità del sogno e dell’immaginazione.
Queste riescono a ricreare uno stato d’animo simile a quello che crea la musica, indefinibile e
profondo, suggerito e non imposto. In un articolo dell’87 Conti affermava che “l’arte
dell’avvenire sarà il risultato di un’intima fusione fra la musica e la poesia, con la quale si
possono rappresentare in una maniera completa tutti i fenomeni della vita interiore. La
musica è il linguaggio ritmico più profondo della parola col quale la natura si confessa ed
esprime le proprie aspirazioni. Le arti tendono ad acquistar di parlare all’intimo,
immediatamente, in ciò consiste la loro aspirazione a raggiungere la condizione di musica. La
pittura esprime questa aspirazione con la rappresentazione silenziosa dell’armonia dei colori
e delle forme. La pittura quindi mostra come la musica più alta e quindi più profonda forse
possa essere nel silenzio, cioè nello stato intimo che accompagna e che segue
immediatamente il fenomeno del suono. (temi trattati da Conti nel Giorgione) Per egli
l’emozione artistica rappresenta l’unica possibilità di percepire il mistero che sta alla base
dell’opera e di risvegliare la consapevolezza delle idee preesistenti. Bisogna ricordare che i
forti legami tra arte pittorica e musica si riscontrano in misura maggiore nel simbolismo
Italiano trovando le sue radici ispiratrici nell’estetismo anglosassone e nell’idealismo tedesco.
Un’ulteriore specificità della nostra pittura risiede nella rappresentazione di paesaggi naturali
ad un livello che permette di parlare in modo quasi paradossale di Simbolismo naturalistico,
nel quale il dato sensibile della realtà rappresentata si traduce in un messaggio che vuole
suggerire armonie o sinfonie.
Mario de Maria aka Marius Pictor serbò sempre un forte legame con l’espressione musicale.
Egli fù collezionista di Vittore Grubicy de Dragon. Questi intuì precocemente la possibilità di
una relazione strutturale fra l’arte visiva e quella sonora, e cominciò a dedicarsi alla pittura
proprio mentre si acuiva la sua perdita dell’udito, che ne accrebbe l’attitudine musicale,
proiettata in direzione di armocromie che, nelle intenzioni che l’animavano, avrebbero
dovuto avvolgere luoghi e figure in un’unità sinfonica di forme e colori, simulando
sensazioni simili a quelle suscitate dall’espressione più immateriale. Baccarini-Caputi in
modo simile attua un procedimento divisionista che proietta la sua volontà di rivestire il
paesaggio di un’intensità simbolica ottenuta anche grazie alle armonie tonali d’ispirazione
musicale, evocate dalle accuratissime piccole pennellate. Si passa da una concezione del
colore come attributo dell’oggetto ad una che lo interpreta come fenomeno percettivo e
dunque mentale e psicologico. Se all’estero le figure di spicco in ambito musicale che
vengono maggiormente rappresentate sono Beethoven e Wagner in Italia invece Chopin e
Lizst vanno per la maggiore.
In Segantini vi è ben poco di Wagneriano: era sì l’utopia di realizzare un’opera d’arte totale
che investisse in maniera polisensoriale - attraverso la vista, l’udito e l’olfatto - l’esperienza
del visitatore, ma in una chiave differente, naturalistica anziché simbolico ed epico-tragica.
L’artista si era cimentato con un abbozzo di libretto di opera lirica, inviato da Grubicy, e che
proprio in quell’occasione aveva preso le distanze dall’idea wagneriana di del Muiskdrama e
affermato l’autonomia del mezzo pittorico rispetto alle tendenze musicaliste che si
manifestavano nel fronte critico ideista e simbolista italiano. Ciò non toglie che il suo
interesse per quell’ambito espressivo fosse tutt’altro che secondario o marginale. “Sono più
di 14 anni che studio nella natura dell’alta montagna gli accordi di un’opera alpina, che
contenga in sé le varie armonie dell’alta montagna e le compendi in un’unica intera. [...] Io
pensai sempre quanta parte avessero nel mio spirito quelle armonie di forme, di linee, di
colori e di suoni. Due anni dopo la scomparsa di Segantini, Conti lo ricorderà così: “egli parla
con voce fatta di silenzio e le sue parole, eco del mistero, musica muta, saranno udite da
coloro che, dinanzi ai suoi quadri, sentiranno la meraviglia delle cose nuove e la eterna
giovinezza della natura. [...] La sua anima era un’arpa che s’empiva d’armonie quando col
vento passavano sul cielo le nubi.”

La pittura di Gaetano Previati:

L’analogia costituita dai contemporanei tra la sua pittura e la musica rapp un Leitmotiv di
singolare persistenza e durata. Il ricorsa a traslazione di termini e figure musicali per
l'interpretazione delle opere del ferrarese rappresentò un canone di marca idealista. Un
canone interpretativo, utile ad esplorare quel mondo di concezione fantasticamente
immaginarie e un impianto visivo che auto-dichiarava la propria scientificità, trovando il suo
baricentro nel fenomeno nella percezione luminosa, in tutta la sua complessità spirituale e
sensista, nell’evocazione di un universo vibrante. Proprio la vibrazione - sia quella sonora, sia
quella luminosa - equivarrà per Previati all’effetto registrato dai due sensi distinti, l’occhio e
l’orecchio, sollecitati per la propagazione fisica di onde di energia, vere e proprie forze
dinamogene.
La luce che la scienza newtoniana aveva scoperto essere composta di fasci di radiazioni
colorate, l’entità energetica che pervade l’etere e per cui il mondo visibile ci si rivela
assumendo la sua veste conosciuta e oggettiva, assumeva per Previati in nome delle ricerche
sperimentali della psicologia percettiva i condizionamenti della visione soggettiva,
inter-dipendente dalla chiarità e dalla trasparenza cromatica newtoniana, ma in grado di
screziarla di ombra. Tenendo presente la psicologia della percezione, recupera i dati della
sensazione, delle passioni e del sentimento, entro la spiritualità misteriosa della natura.
Vittorio Meoni, pittore i cui salotti erano frequentati da Previati, scambia una serie di lettere
con Vittore Grubicy. Questi veniva paragonando la tecnica pittorica divisionista alla potenza
di un pianoforte Herard, di contro al suono di spinette e clavicembali, strumenti antichi
assimilati alla fiacchezza della tecnica pittorica tradizionale.
Su “Vita Moderna” Paola Lombroso firmava un articolo sull’arte simbolista, in cui
presentava alcune ricerche sull’interferenza tra suono e colore. Andrà inoltre rammentata la
comunione artistica stretta tra Previati e Tumiati all’inizio del Novecento. Attraverso
quest’ultimo, assiduo collaboratore del “marzocco” giungeva a P la concezione dell’estetica
musicale di Conti, che nel Giorgione aveva descritto la musica come “il legame misterioso
delle varie forme artistiche [...] l’elemento purificatore delle arti [...] il mistero che è
racchiuso nello stile [...].” Ricordiamo inoltre come il filosofo esteta romano, in contatto con
Grubicy dalla fine degli anni Novanta dell’Ottocento, avesse descritto la risonanza
immateriale del silenzio come uno “stato dell’anima più profondo e più puro”, esperibile nel
silenzio musicale che segue i suoni. Una condizione contemplativa simbolizzata
autonomamente da Previati come tema dei Notturni. Egli, che discostandosi da una mimesi
naturalistica convergeva naturalmente verso una dimensione di sconfinamento sensoriale e
una moltiplicazione profonda di suggestioni evocative, ricercò mai una continuità linguistica
e/o strutturale tra la sua pittura e la musica? Se ci atteniamo alla lettura dei suoi trattati di
tecnica ed estetica pittorica, dovremmo concludere per il no.
Una analogia tra suono e colore verrà richiamata solo in Della Pittura. Tecnica e Arte del
1913, più per destituire di fondatezza la possibilità di una reale commistione di modalità
operative, che per esplorare quella che Previati definisce: la consuetudine di assimilare
accordi cromatici gradevoli o sgradevoli all’effetto provocato sui sensi da accordi sonori
causanti piacere o no. Previati non dedicherà mai alcun cenno nelle proprie trattazioni a
tematiche riguardanti la sinestesia o la percezione musicale dei colori. Sarà invece proprio
questo approccio esibito dalla critica a lui favorevole, come abbiamo accennato, per rendere
accessibile ed esteticamente fruibile la sua pittura, nel momento della difesa, o della
celebrazione, contro l’accusa di trasgressione della correttezza rappresentativa.
Le sei tele, con i quattro soggetti, dato che la Danza si estende ad un trittico, sviluppano il
tema del ciclico sorgere e morire della luce del giorno, ma allo stesso tempo anche del suono,
di una musica cosmica connessa con le trasformazioni dei colori. E, all’alternarsi delle fasi
del giorno, evocavano il potere dell’arte delle muse, quella esperienza ereditata dalla cultura
greca arcaica antica per cui poesia, musica e danza, si fondavano in un’unica indissolubile
celebrazione sacrale e mistica, e che Previati materializzava attraverso i dipinti del ciclo,
aderendo alla concezione wagneriana per cui un’unione tra musica, danza, poesia e arti visive
era auspicabile nel segno del recupero di quella radice antica.
Il tessuto pittorico delle immagini di Previati - una successione progressiva di linee vibranti
di colore che danno origine a figure sonore . potrebbe far pensare suggestivamente alla
materializzazione del suono sulla superficie piana, in analogia con le esperienze del fisico di
epoca romantica Chladni e alle sue notissime Klangfiguren ottenute sperimentalmente
visualizzando, attraverso la vibrazione del mezzo, l’oscillazione del suono. Musica, poesia e
danza erano quindi state evocate attraverso la figura delle muse in un ciclo che è stato
identificato come lo spazio ideale di un Pernaso senza Apollo, in cui Previati mostrava una
chiara volontà di rilettura di iconografie tratte dall’arte antica, nell’intenzione di emulare le
grandi e nobili decorazioni simboliste di Chavannes - ma inclinando anche nell’imagerie di
pittori come Osbert e altri.
Nel soggetto della grande tela della sinfonia che sovrasta lo spazio riservato ai pianoforti, la
Musa Calliope intona un canto che si propaga nell’etere, grazie all’analogia intuitiva tra i
raggi del sole e le corde pizzicate sull’arpa, di tipo egiziano, tenuta dalla musa sulle
ginocchia. Lo strumento scelto da Previati er rappresentare l’armonia sinfonica celata nella
bellezza dello spettacolo naturale, simboleggia dunque anche la radice primordiale, l’origine
cosmica del suono. L’opera viene a formarsi coem una composizione musicale quadripartita,
dove la forma musicale è trasfusa in una sequenza narrativa di istanti salienti fissati nel corso
della successione musicale.

2. ARTE GRAFICA
Il Beethoven di Klinger, presentato all’interno della mostra del 1902 della secessione
viennese, ben si congiungeva all concezione che guidava gli spiriti della mostra, dedicata non
a un artista ma a una figura musicale, che incarnava la idee wagneriane di arte totale (citate
nel catalogo dell’esposizione). La formazione dell’artista in ambito musicale fu precoce, egli
ricevette lezioni di pianoforte fin dalla più tenera età, e lo condusse a intessere rapporti con i
più importanti compositori della sua epoca. Nonostante Klinger non si staccasse mai dal suo
pianoforte, l’attività musicale rappresentò per lui soltanto una passione amatoriale, anche se
dal punto di vista creativo, come noto, i suoi rapporti con la musica furono fondamentali per
l’intera struttura di molte sue opere. L’abitudine dell’artista di nominare le sue acrtelle di
incisioni con il nome Opus I, Opus II, Opus III ecc evidenziava senza dubbio come i cicli, al
loro interno, fossero legati da un filo narrativo e da un linguaggio sia periodico che lineare
consistente in una progressione narrativa con un necessario ritorno allo stato iniziale il cui
modello echeggiavano quelli utilizzati da Schumann.
Sebbene Klinger abbia percorso un cammino autonomo, e in parte inedito per certi suoi
riferimenti, è indubbio che alcuni precedenti per la parte strutturale fossero stati già indicati
da alcuni artisti sempre di area mitteleuropea come, ad esempio, Bonaventura Genelli con il
ciclo di incisioni Das Leben einer Hexe (1847) che ebbe tra l’altro una fortuna anche in
ambito musicale: Liszt lo volle utilizzare per l’esecuzione di una delle sue sonate proiettando
le incisioni su di un grande schermo per mezzo della cosiddetta lanterna magica.
Klinger realizzò una vera e propria compenetrazione con la musica con Opus XII un ciclo di
incisioni ispirate a dei Lieder che Brahms gli aveva dedicato in precedenza. Dopo la
pubblicazione Brahms inviò una lettera a Klinger esprimendo gratitudine e dichiarandosi
invidioso delle potenzialità della Griffel che poteva rendere più espliciti della musica i
sentimenti. L’influenza Kligeriana ebbe vasta risonanza. Questa è particolarmente visibile nei
lavori di Kubin eseguiti tra il 1900 e il 1904, oltre che in alcune citazioni tematiche, quasi
palmari soprattutto nei suoi aspetti tecnici: l’artista boemo aveva approfondito il disegno a
penna piuttosto che le tecniche calcografiche cercando di imitare, per quanto possibile, la
punta metallica dell’acquaforte e i toni sfumati dell’acquatinta. La lente deformante di Kubin
reinterpretò alcune opere a tema musicale enfatizzando gli aspetti più grotteschi delle visioni
klingeriane, che nel maestro erano piuttosto lievi suggestioni, popolando i cupi e inquietanti
paesaggi di figure mostruose: in Evocation citò l’omonima tavola della Brahmsphantasie
mentre in Die Symphonie, che riprende il tema dell’autoritratto al piano, si ispirò
palesemente ad Accorde, facente parte lo stesso ciclo.
Anche colpe fu un allievo da un punto di vista dello stile di Klinger. Li accomunano la scelta
di dedicare cicli artistici a compositori e di Klob se ne ricorda in particolar modo il risultato
pittorico e la disposizione degli elementi.
Attorno ai primi anni del secolo i temi klingeriani, complice una vera e propria vague
d’interesse per il bianco e nero, furono portati avanti da una vasta schiera di seguaci e
ammiratori che però li banalizzarono, mettendo in secondo piano i profondi sostrati filosofici
e i raffinati richiami alla musica a scapito di una più formale aderenza.

3. WAGNERISMO
E’ noto come nessun compositore nella storia abbia avuto un’influenza maggiore di Richard
Wagner nell’orientare l’evoluzione ad ampio raggio della cultura, ben oltre l’ambito
musicale, ma anzi fortemente nelle arti visive, nella letteratura e nella filosofia per dirne
alcune. Richard Wagner fù l’unico a ispirare una vera e propria corrente artistica. Due
elementi agivano per determinare l’efficacia di questo ascendente: da un lato il mero fascino
e la potenza evocativa dei Musikdramen, dall’altro la diffusione dell’ideale di opera d’arte
totale elaborato nei saggi teorici e sperimentato nelle sue opere teatrali. Ci si rende conto che
questa moda culturale ebbe molto più successo in Francia più che altrove forse perché vi
trovò assonanze con l’estetica simbolista. Si constata che un filone figurativo ispirato ai
personaggi, alle situazioni e alle atmosfere dei drammi wagneriani risale agli anni sessanta
dell’Ottocento con Echter. Sarà dopo la morte del compositore nel 1883 che si svilupperà
un'autentica moda iconografica, talora con i tartti di una mania culturale, e soprattutto di una
vera e propria “pittura wagneriana”, originata dall’elevazione a simbolo della figura del
maestro e basata sulla sua dottrina estetica, riassumibile nella necessità di creare la vita.
L’appellativo wagnerista finisce per essere appannaggio di tutte le espressioni
anti-accademiche, che vanno in cerca di rinnovamento e di modernità. La preferenza di
Wyzewa (teorizzatore della pittura wagneriana) va comunque a quel linguaggio pittorico che,
indipendentemente dagli oggetti raffigurati, si mostra in gardo di suscitare emozioni in
accordo con l’espressione musicale.
A essere messo in discussione arriva ad essere addirittura in concetto di rappresentazione, che
si rivelerebbe fuorviante anche in opere che si definiscono realiste. Al principio millenario
dell’imitazione incentrata sulla somiglianza parrebbe dunque sostituirsi quello della
connotazione basata sulla convenzionalità del segno. L’obiettivo da sostenere era di
esprimere atmosfere e suggestioni, nella manifestazione del carattere e della sensazione delle
cose, non della loro immagine. Si deve dunque cogliere i tratti essenziali e imprimere
l’essenza degli oggetti effigiati con il minimo indispensabile di linee e colori.
Sulle pagine del Figaro dove pubblicava anche Wyzewa apparve un lungo articolo del
direttore Dujardin. Si trattava di un saggio impegnato nel quale è condensato il credo estetico
dello scrittore ed esposta un’organica teoria delle arti che, dall’insegnamento di Wagner,
ricava soprattutto un vagheggiamento di una loro intima unione e comunanza d’intenti e
risultati espressivi; non però una fusione o una somma dei rispettivi elementi, ma un
cammino concorde grazie a cui, ferma restando la specificità dei mezzi e statuti della pittura,
letteratura e della musica, l’uomo potrà giungere a un perfezionamento complessivo delle
proprie facoltà di percezione e di sensibilità tattile, intellettuale e passionale.
Si profila una terza via alternativa a quella realistica e simbolista. L’orientamento sinestetico
in direzione di un’utopica opera d’arte totale, saggiato tanto in ambito scenotecnico, quanto
nell’ipotesi di un armonico abbinamento contestuale di bellezze diverse, che in prospettiva
condurrà al progetto avanguardie. A cavallo tra i due secoli questa ricerca si traduce
nell’ambizione attuazione della mostra del 1902 in onore di Beethoven al Palazzo della
Secessione di Vienna, dove gli spazi allestiti da Hoffmann accoglievano capolavori come il
ritratto scultoreo del compositore eseguito da Klinger e il famoso Fregio di Klimt,
trasposizione simbolica dell'Inno alla gioia, e il giorno dell’inaugurazione videro Gustav
Mahler dirigere il quarto movimento della Nona sinfonia di Beethoven.
Wagner non era un profondo estimatore delle arti visive. Nei confronti dell’evoluzione delle
arti a lui contemporanee rimase sempre freddo. Giudicando il Realismo nel 1850 allora
nascente in Francia si espresse in questi termini: “se l’arte copia il brutto per essere vera
finisce col rinunciare del tutto a essere bella”. Anche verso l’impressionismo l’atteggiamento
sarà di incomprensione anzi pare che Wagner ne ignorasse quasi completamente l’esistenza.
Nonostante ciò svariati artisti intrapresero rapporti con lui di varia natura e molti lo
ammirarono fino quasi all’idolatria.
Quanto all’Italia i veri protagonisti del wagnerismo nelle arti visive sono due, benché il
panorama sia piuttosto sfaccettato. Uno è il toscano Balestrieri vissuto a lungo in Francia e
divenuto famoso nel 1900 per la tela Beethoven (il compositore rappresentato di spalle
mentre suona il violino (?) e un piccolo gruppo di spettatori concentrati ad ascoltarlo in preda
a una forte emozione). Dalla seconda metà del primo decennio del secolo si dedicò
soprattutto a soggetti wagneriani. Alla Biennale di Venezia del 1909 era stata molto ammirata
la stampa a colori di Balestrieri denominata Parsifsl in cui l’epilogo della saga scenica sacra
si traduceva in una limpida visione mattutina dove il cavaliere dello spirito traversava un
prato indorato dal soffio rigenerante della primavera in una radente luminosità mattutina che
staglia in controluce l’immagine del protagonista e del suo destriero, in una composizione di
genuina poesia. Effetti di luce notturna si ritrovano anche nell’acquatinta Tristano e Isotta: i
due protagonisti sono immersi nell’estasi dei sensi, ritratti seduti nel giardino davanti agli
appartamenti di lei, nell’istante in cui stanno per essere sorpresi nella loro illecita passione.
In Italia è però Mariano Fortuny a dover essere senz’altro considerato, per qualità, continuità
e consapevolezza, il massimo esponente del filone artistico di cui stiamo trattando. Il Ciclo
Wagneriano è una summa di tutta la sua poetica.
4. MITO DI BEETHOVEN (ti mando le foto)
5. OPERA LIRICA (non si fa)
[108]
[...]
[166]
6. FUTURISMO

Se una cosa è invisibile significa, comunemente parlando, che non la si può vedere; non così
in occultismo dove una cosa è invisibile non in modo assoluto, ma soltanto relativamente alle
capacità ordinarie dei nostri sensi. Potremo quindi avere, e si hanno, i pittori dell’invisibile
che ci forniscono preziosi modelli del mondo astrale, come abbiamo opere d’arte create per
intuito coll’ausilio dell’invisibile. L’attraente ed originale descrizione di luci, colori,
forme-pensiero, pitture con la guida dell’invisibile, può parere fantastica; non pertanto è da
ritenersi vera, come si ritengono vere le asserzioni degli astronomi, i quali ci descrivono la
natura fisica degli astri, sebbene nessuno mai sia stato sul luogo a verificare.
Certamente queste parole, scritte nel 1909 da Ballatore, costituiscono un’importante
anticipazione di quello che Balla realizzerà nella fase matura della sua adesione al Futurismo.
Ballatore, esponente della Teosofia in Italia, prende ad esempio le opere del pittore Alfred
Kubin per esporre le correlazioni tra teoria e pratica artistica. In tal caso sono di significativo
e paradigmatico interesse i titoli e i soggetti delle opere scelte a illustrazione: L’angoscia, Il
fanatismo, L’interesse, La verità, La pazzia. Sono esattamente i temi degli “stati d’animo”,
che nella visione teosofica corrispondono a precise aure invisibili che emanano dall’uomo,
ma la cui identificazione e rappresentazione visiva costituisce un precipuo campo d’indagine
di importanti studi. Questa teoria della rappresentazione degli stati d’animo si sviluppa ben
prima del manifesto futurista ma comincerà a influenzare dal 1910 anche Boccioni
determinando scelte altrimenti inspiegabili come quelle espresse in dipinti come Il lutto, La
risata, e infine la serie celeberrima degli Stati d’Animo. Una riflessione su Kubin in rapporto
con la Teosofia è stato fatto probabilmente anche da Russolo e di questo si ritrovano le tracce
in uno dei dipinti più famosi del movimento: La musica del 1911. Il primo - e non certamente
singolo - dipinto che si ispira esplicitamente alla musica, risulta nettamente legato a un
suggerimento di ambito teosofico, come del resto la stessa iconografia trascendentale del
quadro lascia di per sé immaginare; in questo caso la contaminazione avvenne probabilmente
seguentemente a un suggerimento di Balla.
I rapporti tra futuristi iniziano ad entrare in crisi nel primo trimestre del 1913, vedendo
contrapporsi il gruppo milanese originario e i fiorentini di Lacerba, senza però mettere ancora
in dubbio l’appartenenza futurista dei lacerbiani. Si intuisce che a scaturire la crisi fù
l’emergere dell’identificazione di Boccioni e Marinetti come i due dioscuri che conducevano
il Futurismo dallo stato sorgivo di estetica della libertà a quello involutivo di dottrina
assolutistica e dittatoriale. Ma Marinetti e Boccioni formavano veramente un fronte univoco
nella direzione del movimento? A ben analizzare sembrano delinearsi tre fasi principali: una
prima fase iniziale mostra Boccioni agire con il sostegno massimo e senza condizioni di
Marinetti, e vede così prevalere una visione boccioniana intransigente, una concezione
elitaria del gruppo futurista che deve ben guardarsi dalle sbavature e dalle mescolanze
ibridanti, meticce, precludendo l’accesso a persone che non concordano pienamente sulle
idee estetiche stabilite da Boccioni stesso e peraltro condivise dai suoi compagni; una
seconda fase vede una sorta di diarchia Boccioni-Marinetti, ed è caratterizzata da una
maggiore apertura del Futurismo a personalità più disparate, meno fedeli e inevitabilmente
più eclettiche (13-14); la terza fase invece andrà a determinare i futuri sviluppi del futurismo
e vede la massima apertura ideologica del movimento sotto la guida principale di Marinetti (e
semmai il crescere di un ruolo direttivo di Balla). Balla, dopo il primo momento di leadership
di Boccioni, assume proprio per la sua versatilità in questo senso una funzione di riferimento
centrale per il Futurismo.
Nell’ambiento romano Balla potè fare proprie tutte le varie influenze e correnti che
attraversavano le linee futuriste. Così attraverso Russolo e poi i fratelli Ginanni Corradini
sviluppò una sensibilità per una relazione immagine-suono più stretta e interconnessa:
unendosi a suggestione che l’appartenenza teosofica aveva già contribuito a sviluppare, ma
piuttosto fino ad allora in termini di visione scientifica che rivela l’invisibile, di onde
luminose elettromagnetiche o spirituali che attraversano lo spazio, che non nelle peculiari
manifestazione di musicalità sinestetica espresse da questi artisti. Manifestazioni ed
espressioni che peraltro in Russolo erano relativamente eclissate dalle ricerche rumoristiche:
in realtà ben più tecnicamente e avanguardisticamente connotate.
L’influenza di queste idee teoriche emergerà anche quando Balla progetterà nel 1916 le scene
per Feu d’artifice di Stravinskij messo in scena l’anno successivo. La morfologia degli
elementi astratti della scena del balletto è la sostanziale evoluzione tridimensionale della serie
di magnifici dipinti del 1915. Fatta di soli volumi geometrici, è vivacemente colorata con luci
mobili intermittenti, filtrate da veli di seta. Il dinamismo scenico è risolto grazie a queste, un
incorporeo e astratto flusso di luci e colori, una novità assoluta in campo teatrale. Non v’è
dubbio che questi concetti siano nati anche dalla riflessione su un analogo esperimento ideato
dal compositore russo Aleksandr Skrjabin, che il 20 marzo 1915 presentò alla Carnegie Hall
una versione del suo Prometeo accompagnata da una performance luminosa basata sulla
sinestesia di note musicali e colori. A questo fine il compositore aveva ideato uno strumento
apposta, il clavier a lumiere, composto di una tastiera cui corrispondevano circuiti che
attivavano a ogni nota una luce differente.
Balla studiò inoltre le leggi della propagazione della luce come si può notare nelle
Compenetrazioni iridescenti. Arnaldo Ginna negli stessi anni, basandosi come aveva fatto
Balla su idee teosofiche, aveva elaborato sulla falsariga delle forme-pensiero definite da
Leadbeater e Annie Besant. Egli definì un’eccentrica pittura di stati d’animo che si era
perfino proiettata sul cinema, nel 1911, attraverso quattro cortometraggi con i fotogrammi
dipinti a mano. Prima ancora, insieme al fratello Corra, svolge esperimenti su di un
pianoforte cromatico dotato di una tastiera con 28 tasti corrispondenti a 28 proiettori colorati
che consente di suonare Mozart e altri grandi compositori trasponendo le note in una gamma
di sette colori e 28 variazioni tonali.

7. DALLA SECESSIONE DI VIENNA AGLI ASTRATTISMI DEGLI ANNI


TRENTA

Un racconto delle relazioni intercorse nel XX secolo tra l’espressione dell’universo visivo e
sonoro non può che partire dalla capitale asburgica, centro della secessione, in cui la
componente musicale riveste, per gli artisti, un’importanza fortissima. Comune alla
concezione artistica di Olbrich e Hoffmann fu l’idea che il controllo estetico dell’esistenza in
ogni aspetto coincidesse con la sua valorizzazione sul piano etico. Ne conseguiva l’utopistico
proposito di progettare integralmente gli ambienti di vita: non soltanto gli edifici ma anche la
loro articolazione urbanistica da un lato e gli arredi e la decorazione dall’altro. Si può parlare
dunque di un’influenza dell?opera d’arte totale di Wagner che trovò il suo compimento più
perfetto nella mostra della Secessione del 1902. Occasione e fulcro della mostra fu
l’esposizione del ritratto policromo a figura intera di Beethoven realizzato da Max Klinger.
Attorno alla scultura che conferisce al compositore un’aura eroica e sacrale, il sodalizio dei
secessionisti volle creare una vera e propria opera ambientale che nell’intento di celebrare il
grande musicista, riuniva i mezzi di tutte le arti visive.
Klimt realizzò un fregio composto da sette pannelli da applicare nella zona superiore delle
pareti, raffiguranti in forme allegoriche, con un linguaggio bidimensionale e stilizzato
perfettamente intonato alla linearità ed essenzialità degli ambienti predisposti da Hoffmann, il
cammino dell’uomo dal dolore fino al soddisfacimento nell’arte del proprio anelito alla
felicità (trasposizione di alcuni nuclei narrativi della nona sinfonia di Beethoven). Le tre
pareti costituiscono una sequenza coerente: l’umanità prostrata dalla sofferenza anela alla
gioia, e prega l’uomo forte ben armato affinché intraprenda, con il supporto dell’Orgoglio e
della Compassione, la battaglia per la felicità. la battaglia è ostacolata dall’azione delle forze
avverse: il gigante Tifeo, mostro dall’aspetto scimmiesco, le tre gorgoni sue figlie (Malattia,
Pazzia e Morte) e le personificazioni della Lussuria, dell’Impudicizia e dell’Incontinenza, che
cercano di volgere al male i desideri del genere umano. Tuttavia, grazie all’intervento
salvifico dell’arte, simboleggiata dalla figura della Poesia, l’anelito alla felicità trova
finalmente compimento nell’intimo abbraccio di un uomo e di una donna, nudi, attorniati dal
coro degli angeli del paradiso, che vuol costituire una parafrasi pittorica dell’inno alla gioia.
L’idea dei secessionisti deriva da Wagner ma mediata da Nietzsche: questi credevano nella
possibilità di affrancare e liberare l’uomo per mezzo delle espressioni estetiche della
creatività.
E’ della generazione seguente Oscar Kokoschka: pur restando a Vienna ci spostiamo
cronologicamente dopo la guerra e il crollo dell’impero. Fra i massimi esponenti
dell’espressionismo fu un artista estremamente sensibile alla musica e ne rappresentò il
potere travolgente nella grande tela Die Macht der Musik (1918). Risalgono a due anni dopo
una serie di disegni raffiguranti un’amica che ascolta la musica e ne descrive visivamente gli
stati d’animo mentre ascolta opere diverse, accostando i risultati della propria indagine
psicologica quasi fossero variazioni musicali sul tema. Una grafica, quella di Kokoschka,
scabra e penetrante, in contrasto con le eleganze della Vienna d’anteguerra. Del resto la
malinconia aveva ormai da tempo zittito la lira apollinea dell’artista.
E’ doveroso interrogarsi sull’essenza (o assenza) di un legame autentico tra l’Espressionismo
visivo e quello musicale. E’ vero che la rivista Der sturm era multidisciplinare e mirava alla
costruzione di una nuova arte universale, e che Der Blaue reiter ebbe tra i suoi massimi
collaboratori 3 esponenti della scuola di Vienna, ossia Schonberg, Berg e Webern, ma i
percorsi dei pittori e dei musicisti furono paralleli e poco confluenti, salvo che poche
eccezioni. Una di esse è costituita dall’inventore dell’atonalità: Schonberg è lo snodo
fondamentale della vicenda. Se infatti musicalmente sono già definibili come espressionisti
molti dei suoi componimenti dal punto di vista del linguaggio musicale il problema si fa più
complesso: Thomas Harrison chiama questo atteggiamento di S "emancipazione dalla
dissonanza”. Se dal primo punto di vista possiamo stabilire una correlazione tra queste
composizioni di S e la coeva pittura di di Gerstl e di Kokoschka, il nesso, sotto il profilo
linguistico, va piuttosto istituito con le sperimentazioni aniconiche di Kandinskij all’inizio
degli anni dieci, ormai non più espressioniste: l’abbandono della tonalità va di pari passo con
quello, nella pittura, della mimesi, cosicché, se in principio si poteva ravvisare un simultaneo
e simmetrico sviluppo tra l’avanguardia artistica e quella musicale, già dal 1911 le strade
divergono, e alla grammatica compositiva di S possiamo accostare più agevolmente
l’astrattismo di K che non l’Espressionismo degli altri esponenti di Der Blaue Reiter, degli
austriaci Kokoschka e Schiele e dei membri di Die Bricke ecc.

Cubismi: alcune considerazioni


Nel cubismo emerge molto presto l’evidente orientamento degli artisti - specialmente Braque
e Picasso nella loro fase analitica e sintetica - a prediligere, quali temi di partenza delle loro
opere, strumenti a corda come violini, chitarre e mandolini, scelti forse perché introducono
nella pittura la dimensione del tempo, che è quella tipicamente associata alla musica, e
inoltre, formando mediante vibrazioni d’aria un continuum di configurazioni scomposte,
trascendendo l’oggetto e rimandando in maniera intuitiva alla sua dissoluzione. Spesso, del
resto, nei papiers Colles sono inseriti fogli pentagrammati, oppure appare il nome di Bach.
Lo strumento musicale è ancora da mettere in relazione con la sollecitazione e con un
intervento da parte dello spettatore del quadro: muto e inerte, esso può produrre vibrazioni se
entra in gioco un processo, che parallelamente scopre anche rapporti numerici e armonici tra
gli oggetti colti in una visione tutta mentale, dove i piani si intersecano e si sovrappongono,
secondo leggi nelle quali sarebbero individuabili analogie con strutture compositive
polifoniche o addirittura contrappuntistiche.
Ovviamente non è lecito far entrare nel discorso il lavoro di Picasso per la messa in scena nel
1917 del balletto Parade, su soggetto di Jean Cocteau e musiche di Satie, in quanto
successivo al suo periodo cubista, né il rapporto con Stravinskij. Piuttosto è giusto
interrogarsi sulle ragioni del frequente riferimento a Bach nei lavori di Braque. Ebbene
perché Braque, che pure coltivava un legame stretto con la musica, dato che avevo studiato e
suonava il flauto e la fisarmonica, inserì il nome di Bach in almeno sei dipinti tra il 1912 e il
1914? E per quale motivo le sue nature morte, all’incirca tra il 1908 e il 1914, sono spesso
popolate da strumenti? Bisogna ricordare che in quegli anni, anche in ambito musicale, era in
atto una vera e propria riscoperta, avviata, secondo la tradizionale ricostruzione storica,
dall’esecuzione berlinese di Matthaus-Passion nel 1829, ma giunta a maturazione con la
cosiddetta Bach-Renaissence d’inizio Novecento. Per essere moderni bisognava, insomma,
ritornare a Bach e prendere a modello l’immaterialità, la non-referenzialità e l’assolutezza
astratta delle sue fughe. Non è quindi un caso se Braque intesse le proprie opere di riferimenti
alla musica e in particolare agli arabeschi polifonici del sommo compositore.
Quanto a Picasso non bisogna dare troppo peso alla sua affermazione di non capir nulla di
musica: l’intento dell’artista era polemico, finalizzato a rivendicare un’autonomia espressiva
e formale rispetto a interpretazioni basate su discutibili corrispondenze. Dissento anche dalle
letture in chiave psicologica del tema iconografico degli strumenti, ossia la presunta allusione
alla curve del corpo femminile: un’esegesi banalizzante, dalla quale aveva già messo in
guardia Jolanda Nigro Covre.

Gli astrattismi
Abbiamo già anticipato che, a partire dal 1910 circa, la riscoperta di Bach e l’attrattiva
esercitata dalle perfette strutture assolute dei suoi contrappunti, vanno via via a sostituirsi al
paradigma wagneriano, anche nel campo delle arti della visualità, di pari passo con la
crescente rinuncia di pittori a instaurare un nesso con il mondo oggettuale. Tale riferimento
non è ancora presente in un autentico precursore, legato alle dottrine teosofiche, Romolo
Romani, il cui disegno Riflessi Sonori, sorta di una visualizzazione di un’impressione
sensoriale di carattere acustico, fa parte di un ciclo antecedente del 1910, dove le suggestioni
esoterico-spiritualiste e le fantasie psichico-oniriche su spunti di Munch e di Redon sono
superate e sublimate in composizioni che costituiscono alcuni fra i primi esempi di
astrattismo. Su arriva ad esplorare una realtà altra.
Tutto ciò è superato nelle quasi coeve opere di Paul Klee. La corrispondenza tra la sua
produzione artistica e la sfera musica è proverbiale, oggetto di un numero di studi e
pubblicazioni, e anche di mostre monografiche. La ricerca di una temporalizzazione per
l’artista svizzero ha rappresentato un passaggio fondamentale nel superamento delle
specificazioni categoriche tradizionalmente assegnate ai due ambiti. Lo sforzo di Klee fu
appunto di confutare uno dei più comuni criteri di distinzione tra musica e pittura, cioè quello
che risiede nella caratterizzazione della prima come forma d’espressione dispiegantesi
peculiarmente nel tempo e della econda nello spazio. La presenza e l’azione del fattore
musicale possono essere ravvisate nell’utilizzo di tecniche e temi quali la fuga e la
variazione, oltre che nella resa visiva del ritmo. Klee studiò a lungo la possibilità di
conquistare alla pittura il basilare concetto di polifonia, che sarà applicato nelle opere
Polyphonie del 1932, dove quadrati e rettangoli di differenti colori sono giustapposti e
intercalati. Vengono utilizzate figure semplici di grande pregnanza: il cerchio, il quadrato, il
trangolo - sono fittamente giustapposte in colori variabili; ne risultano temi e variazioni che
ritornano in modo insistente, come per il tema in un brano polifonico.
Un capitolo rilevante nella storia delle relazioni tra le arti visive e la musica, è costituito dal
movimento del neoplasticismo termine che compare per la prima volta usato da Theo van
Doesburg sulle pagine di De Stijl; artista che dipingerà anche Compositie in Grijs.
Il più rappresentativo esponente del Neoplasticismo è Piet Mondrian, il cui rapporto con la
musica, specialmente con il jazz e la danza moderna, è stato studiato approfonditamente.
Ridurre la molteplicità delle esperienze percettive a una radice comune e universale - e quindi
l’infinita varietà del mondo visivo a una serie di pochi elementi costanti e invarianti - aveva
consentito a Mondrian di creare un nuovo codice formale, atto a eliminare la componente
soggettiva e individuale, in funzione di una restaurazione dell’armonia, dell’equilibrio e della
quiete assolute. Il repertorio pittorico si era perciò limitato a linee rette nere che si incrociano
in posizione ortogonale, definendo quadrati e rettangoli di diverse dimensioni, colorati di
bianco opaco, rosso, blu o giallo. Si può riconoscere l’aspetto musicale nelle linee e nelle
forme che vengono a crearsi che altrimenti rimanderebbero ad una immobilità anche grazie
agli scritti dell’artista stesso. La stilizzazione si poteva notare nelle danze moderne come lo
step e il tango, mentre il valzer seguiva andamenti curvilinei. Approdato nella metropoli
newyorkese, Mondrian viene conquistato dalla frenesia e dai ritmi sincopati del jazz e del
Boogie. Allora le abituali linee nere scompaiono e i quadrati e i rettangoli colorati non
appaiono più isolati come in precedenza ma connessi in allegri ghirigori scossi da un fremito
dinamico che tuttavia non arriva a infrangere lo schema ortogonale canonico.
Anche Kandinskij affrontò e sviluppò un’analisi di tale specie in un suo saggio del 26. In
questo fondamentale testo l’artista russo, studiando le virtualità degli elementi formali del
lessico visivo, e precisamente la linea e il punto, giunge a importanti conclusioni teoriche e
pratiche e fra le altre cose individua nella notazione musicale un eccezionale strumento per la
riproduzione grafica del suono. La ricerca intorno all’immagine di suono colorato, la volontà
di mettere il colore in movimento come nella musica e l’intento di dar vita ai primi organici
esempi di arte monumentale avevano condotto K ad avventurarsi con energia e impegno
anche nel campo della riflessione teatrale e nella composizione di quelli che potremmo
definire drammi cromatici, imperniati sul motivo unico centrale della creazione. Nel 1914
Terminò la composizione teatrale Violetter Vorhang, dove assistiamo alla storia di una
minuscola luce rossa che cresce mano a mano fino a occupare l’intera scena, dopodiché il
ruolo di protagonista passa a un triangolo nero, che va ruotando sempre più velocemente fino
a che tutto si conclude con una catstrofe, che è una rigenerazione insieme cosmica,
esistenziale e artistica. K, nei suoi allestimenti scenici e opere teatrali, preferì rifuggire da
strette analogie figurative, preferendo seguire con giochi di luce - destinati a creare
tridimensionalità - e con mutevoli disposizioni di forme colorate mobili il decorso melodico e
armonico dei brani.
All’interno della Bauhaus, va ricordata anche la teorizzazione teatrale di Laszlo che
pretendeva la creazione di un nuovo genere di spettacolo dinamico-ritmico, denominato
teatro della totalità, nel quale avrebbe rivestito un ruolo fondamentale l’azione scenica della
luce, cioè la proiezione di forme colorate in movimento in accordo con la musica.
Moholy-Nagy definì l’azione teatrale totale come un grande evento formale
dinamico-ritmico, che raccoglie, in una forma ridotta all’elementare, le più vaste masse di
mezzi, e per la cui realizzazione la configurazione dei suoni si varrà, in futuro, delle varie
apparecchiature sonore meccaniche, elettriche o meno, mentre il colore e la luce dovrà, sotto
questo aspetto, registrare variazioni ancora maggiori del suono, con la possibilità di usare
proiezioni con riflettori sul film in piano, nonché giochi di luce nello spazio.

8. PURISMO

Il Purismo è il vero e proprio motore per l’arte dell’inizio del XX secolo. Amédée Ozenfant è
il teorico, il vero direttore d’orchestra di questo originale movimento di pensiero che combina
arti e scienza. A lui si unisce Jeanneret, un giovane architetto svizzero. Nel 1918 pubblicano
insieme l’opera fondamentale per comprendere le basi del movimento, Apres le Cubisme,
nella quale tracciano un bilancio dell’arte dell’epoca. Fondano poi una rivista, L’esprit
Nouveau (Lo spirito Nuovo), che fungerà da cassa di risonanza per le idee di cui il purismo si
faceva il portatore. Si definisce fin da subito come la prima rivista al mondo dedicata
all’estetica del nostro tempo in tutte le sue manifestazioni, una manifestazione d’intenti netta
e annunciata chiaramente.
Uno dei punti forti del purismo si manifesta in occasione dell’Esposizione internazionale
delle arti decorative, che si tiene a Parigi nel 1925, con il padiglione dell’Esprit Nouveau, che
rappresenta il punto culminante dell’esperienza purista iniziata nel 1918. Domina una visione
comune agli artisti che espongono le loro opere: lo stesso modo di pensare, l’identica volontà
di unire pittura e architettura nel quadro sociale e industriale dell’inizio del XX secolo.

“Sono soddisfatto che i miei sforzi siano riusciti a portare a certi artisti il gusto della
riflessione, dell’oggetto puro, in particolare perché le loro realizzazioni sono diverse dalle
mie, e questo è prova della generosità delle mie vedute. Ho cercato di esplorare, di epurare
l’infinità dei mezzi che si offre ai pittori e di conservare solo l’essenziale; [...] il Purismo non
è un’estetica, ma l’epurazione del linguaggio plastico, che ciascuno sfrutta a proprio
piacimento un buon linguaggio non dovrebbe dar fastidio ad alcun creatore. [...] La base
fondamentale di un’opera d’arte è la sensazione. Questa universalità è il motivo per cui
un’opera antica, il cui simbolismo ci sfugge o ci lascia indifferenti, può comunque
commuoverci: per noi europei del XX secolo, una divinità egizia o maschera africana sono
un gioco commovente di forme, in pratica nulla di più, eppure quel gioco di forme ci
commuove al punto di emozionarci, talvolta in maniera poderosa: è la potenza di quel
linguaggio diretto di forme, colori e associazioni primarie.”

L’artista sicuro di ciò che vorrebbe far provare, si avvale in maniera razionale di questi mezzi
classici, in sostanza dipinge non più brancolando, ma utilizzando le specifiche proprietà
sensibili e affettive di forme e colori. Quegli elementi formali e colorati non si ritengono
dotati di virtù estetiche, ma adatti a consentire l’espressione pura (da qui la definizione di
Purismo), imperativa e intensiva dell’opera prestabilita. Sentiamo la necessità di creare che
deriva dall’angoscia, da un’inquietudine, da qualcosa che avviene nel nostro profondo.
Esplorare noi stessi è il primo stadio del concepimento ancora molto lontano
dall’immaginazione. Un lavoro da palombaro, che si immerge e risale, un’operazione
alternativa al sonnambulismo e alla chiaroveggenza, un bilanciamento dall’oscurità alla luce.
A poco a poco vediamo affiorare dal nostro inconscio elementi quasi realizzati, che ci fanno
percepire di aver afferrato qualcosa che ci appartiene, ma che oppone resistenza, e che
intorno a quei frammenti c’è la notte; l’opera non esce mai adulta come Afrodite dalla
conchiglia. Ed ecco il secondo compito dell’esploratore: far uscire dall’ombra le valli remote
quando già le vette delle montagne si illuminano; collegando le cime emerse, interpolando, si
svelano a poco a poco, l’immaginazione fa da padrona di questo processo.
Il Purismo concorda con il punto di vista della Bauhaus e con quello dei costruttivisti. Infatti
si tratta anzitutto di una filosofia, di un nuovo modo di apprendere ogni creazione artistica in
rapporto con la nascente società industriale. Il Purismo è ormai una corrente d’avanguardia,
al pari di tutte le altre avanguardie degli anni venti. Nel loro processo creativo, i puristi si
sposteranno verso l’utilizzo di un vero e proprio alfabeto, elaborato quasi matematicamente e
ripetuto grazie a numerosi disegni e studi per tendere alla perfezione, alla purezza più
assoluta.
La musica ha un ruolo fondamentale nel movimento purista. I titoli delle opere rivela
l’estrema attenzione riposta in essa. Alcune conservano nelle nature morte qualche residuo
del Cubismo, ma si percepisce la volontà di arrivare all’essenziale. E’ finita la bella pittura
classica dei loro predecessori. Dagli oggetti si vuole trarre solo la loro qualità elementare di
forma e colore, quello che qualche tempo dopo verrà definito con il termine invariant,
invariante. Il principio degli invarianti si solidifica in una mostra del 1921, i cui disegni
permettono di capire lo spirito di ricerca e sperimentazione dei due amici che lavorano
insieme. Si avvalgono di un alfabeto della forma che scatena sensazioni costanti: triangolo,
cerchio, quadrato, che generano derivate e creano in tal modo una gamma ampliata, che
tuttavia prende sempre a fondamento gli invarianti. Quanto ai colori, sono posati di piatto,
con giochi di ombre portate e sottilmente sfumate. Se all’inizio della loro produzione
l’atmosfera delle tele risulta spesso austera per l’utilizzo delle tonalità dei grigi, in seguito
questa evolve su toni più brillanti, con lo sfruttamento di colori più vivaci. In maniera
analoga, la composizione diviene a poco a poco più strutturata, un fatto da attribuire senza
alcun dubbio a Jeanneret. La volontà purista si standardizzazione della composizione esclude
in tal modo qualsiasi forma di immaginazione a opera del caso.
Nel 1936 Ozenfant apre a New York la Ozenfant School of Fine Arts. Vi resterà per dieci
anni, e avrà come allievo l’americano Roy Lichtenstein, molto influenzato dall’estetica del
Purismo. Molti anni più tardi, nel 1975, quest’ultimo realizzerà tutta una serie di dipinti
puristi, ancora decisamente segnati, quarant’anni dopo, da quell’Esprit Nouveau.

9. MUSICALISMO

Dal 17 al 30 Ottobre 1931, la galleria Bernheim-Jeune presentava a Parigi una mostra dal
titolo “Blanc-Gatti, il pittore dei suoni” che comprendeva 44 quadri. Si trattava in gran parte
di trasposizioni di opere musicali, sei delle quali erano tratte da Debussy. Questo evento
segnerà la comparsa di un neologismo, in un periodo in cui certo non mancavano: il
musicalismo.

Un movimento dimenticato
Dispersi dalla guerra, dal ‘46 al ‘56 i musicalisti, riuniti sotto la guida di Gatti, Valensi,
Bourgogne e Stracquadaini, verranno ospitati da vari salon. Il movimento, tuttavia, perderà la
propria visibilità prima di scomparire dalla storia dell’arte del Ventesimo secolo. La morte di
Valensi nel 1960 ne segnerà la fine.
Nel corso delle riunioni mensili nell’atelier di Valensi si era sviluppata un’intensa attività
teorica. Blac-Gatti lo aveva conosciuto nel ‘24 grazie al compositore Carol-Berard, autore di
una teoria della cromofonia, o sincronizzazione tra suono e immagine. Autore di diversi
articoli e principale redattore del Manifesto, Valensi in occasione del Salon d’Automne tenne
una conferenza sulla legge dell’evoluzione dell’arte e la musicalizzazione delle arti prima di
pubblicare, nel 1936, il suo saggio Le Musicalisme. Secondo lui, la musica era l’effetto di un
alleggerimento progressivo della materia. Schiller aveva già scritto che “l’arte plastica, nella
sua suprema realizzazione, deve diventare musica”.

Il pittore dei suoni


Gatti studia al collegio scientifico di Losanna, la sua città natale. Impara a suonare il violino
con un certo Merten, pratica la musica da camera ed entra a far parte di un’orchestra
amatoriale. Un primo soggiorno a Parigi a partire dal 1911 gli fa scoprire Nudo che scende le
scale di Duchamp e nello stesso anno i futuristi e la musica di Russolo alla galleria Bernheim.
Le sue prime attività musicaliste risalgono al ‘22, ma è all’inizio degli anni Trenta che
dipingerà gran parte delle sue tele ispirate alle musiche di Bach, Beethoven ecc. Spesso
realizza composizioni astratte nelle quali forme e colori evocano in libertà le musiche di cui
tratta. Così Bach viene associato ad una scacchiera di linee ortogonali. Quanto al Bolero di
Ravel, oggetto di una precisa analisi di Jean d’Udine, la struttura e il crescendo delle
variazioni ritmiche e cromatiche vengono letti dal basso all’alto su un’asse verticale.
Dopo il suo rientro in Svizzera nel ‘36, riprenderà la pittura figurativa e si dedicherà a
paesaggi alpestri e alle rappresentazioni dei campanili del Vallese cercando di evocarne la
sonorità. Fonda poi a Losanna un’accademia d’arte tra i cui fondatori si vede comparire il
nome di Valensi. Nell’ambizioso programma di insegnamento figurano sinestesie e
trasposizioni musicali nonché l’arte astratta, l’arte decorativa di domani.

Dalla pittura al cinema


// (ti mando le foto)

VISIONI MUSICALI

- ANALOGIE MUSICALI NELL’ARTE DI PRIMO NOVECENTO

Vorrei ripercorrere i molteplici tentativi effettuati da pittori - e occasionalmente da scultori -


all’inizio del XX secolo di ispirarsi a modelli strutturali desunti dalla musica, visti quasi
come una sorta di ‘rete di sicurezza’ di cui servirsi per il salto nei territori inesplorati
dell’astrazione. Ciò che da sempre, nella musica, ha ispirato i pittori, è la sua immaterialità, la
sua indipendenza dal mondo del visibile e dagli obblighi riproduttivi della mimesi, cui l’arte
figurativa, invece, si è sentita vincolata lungo tanti secoli.
Stimolato dalla rappresentazione schematica delle onde radioattive alfa, beta e gamma
pubblicata nel 1904 da Marie Curie nella sua dissertazione, e delle loro diversa deflessione in
un campo magnetico, picabia rinvia a una concezione della pittura in La Musica è come la
Pittura (1913) quale creazione dello spirito che sta al di là del mondo visibile, proprio come
accade per la musica.

Corrispondenze tra colori e suoni e passaggio all’astrazione


Il discostamento dal mondo fenomenico nelle arti visive procedette di pari passo con uno
studio approfondito delle corrispondenze tra colori e suoni, finalizzato a una conoscenza delle
leggi cromatiche che fosse conforme e paragonabile all’apparato di regole proprio
dell’armonia musicale. Uno dei pionieri in questo campo fu Adolf Holzel.
Kandinskij, invece, convinto della possibilità di un ascolto dei colori, e in possesso di una
spiccata capacità di percezione sinestetica, partì soprattutto dal presupposto di un contatto
dell’anima, occupandosi delle analogie tra suono colorato e colore sonoro. Egli pone, dunque,
in relazione determinati timbri strumentali con tonalità cromatiche ben precise. La differenza
decisiva tra Hozel e Kandinskij consiste nel fatto che il senso di armonia di Hozel era
orientato alla musica classica, mentre Kandinskij e gli altri esponenti del Blaue Reiter,
attraverso la comune esperienza del concerto schonberghiano del 1911, avevano colto assai
presto la valenza del concetto di dissonanza per la nascita di un’arte nuova. Fu la teoria di
Schonberg a ispirare a Kandinskij il celebre dipinto Impressione III (Concerto), in cui
l’autore parte da uno schizzo della situazione reale, con l'orchestra radunata attorno ad un
gigantesco pianoforte a coda, per tentare, poi, di trasporre con mezzi puramente pittorici
l’impressioni musicale dell’esecuzione dal vivo.

Penso [...] che l’armonia del nostro tempo non debba essere ricercata attraverso una via
geometrica, ma al contrario, attraverso una via rigorosamente antigeometrica, antilogica.
Questa via è quella delle “dissonanze” nell’arte, quindi tanto nella pittura quanto nella
musica. E la dissonanza pittorica e musicale di oggi non è altro che la consonanza di
domani.

Smaterializzazione e temporalizzazione
La ricerca della ‘quarta dimensione’, di un complesso di leggi nascoste dietro l’evidenza dei
fenomeni era già da molto tempo diffusa, già prima che Einstein, nel 1905, nella sua teoria
della relatività ristretta definisse questa quarta dimensione invisibile dello spazio come
dimensione temporale. Uno dei primi a preoccuparsi delle relazioni esistenti tra luce e colore,
della sensibilità musicale legata al fattore tempo e della percezione simultanea fu il francese
Robert Delaunay, che da queste riflessioni derivò la teoria della simultaneità, attraverso cui
esercitò una vasta influenza.
Specialmente nella sua serie Finestre, avviata nel 1912, egli seppe concretizzare in pure
forme-colore l’utopica concezione di una fusione di luce e colori, proporzione e ritmo, tempo
e movimento. Klee annotò questo sui suoi Diari dopo aver visto la Tour Eiffel dipinta nella
Finestra sulla città: “spostare l’accento, nell’arte, sul tempo è ciò che ha tentato Delaunay,
ricorrendo a un formato di lunghezza smisurata”.
Il desiderio di smaterializzare e di temporalizzare la pittura favorì una presa di coscienza
delle intime interconnessioni sussistenti tra suoni e colori, riconducibili alla loro comune
natura di vibrazioni e onde. Così nacquero gli studi di Johannes Kayser, mossi, come lo erano
quelli del viennese Hauer, dalla ricerca di una formula generale in base alla quale, come
Hauer spiegò nel suo testo Sull’essenza musicale, suono e colore si potessero entrambi
riferire a una formula superiore, e da questa far discendere singolarmente. Così Hauer
sviluppò un cerchio cromatico-sonoro, la cui suddivisione ritmica è attenuata mediante la
concordanza dei colori caldi con il circolo delle quinte, e dei colori freddi con il circolo delle
quarte.
Tanto le composizioni di Itten quanto le analisi di Hauer erano imperniate sulla ricerca di
regolarità e norme proporzionali, e di esatte corrispondenze tra colori e suono.

Arte della fuga e sinfonia


Con la frammentazione dell’oggetto e lo scardinamento dell’ordinata unità spaziale dondata
sulla prospettiva lineare, i cubisti cercarono fin dal 1908 di attivizzare il processo percettivo,
e in tal modo dar vita a una sorta di indicatori temporali. Lo spazio visivo, posto in vibrazione
e interazione, doveva essere percepito come uno spazio musicale, o letto come una partitura.
Dal 1912, nelle opere di Georges Braque e di altri artisti, compare in posizione alquanto
rilevata il nome BACH, quasi alla stregua di un richiamo o una dichiarazione d’intenti. Lo
sviluppo del cubismo e la Bach-renaissance procedettero pressoché di pari passo. il fatto che i
pittori, oltre alla sinfonia, eleggessero specialmente la fuga a modello e metafora della loro
ricerca di una sistematicità estetica che andasse al di là della mimesis. La crescente rinuncia a
un legame con il mondo oggettuale rese necessaria una più forte presa di coscienza
dell’autonomia dei mezzi pittorici, atta a scongiurare uno scivolamento nella semplice
ornamentalità. Così a partire dal 1912 si moltiplicarono vere e proprie evocazioni pittoriche,
generalmente designate dal titolo programmatico Fuga. La maggiore composizione di questo
genere è opera del ceco Kupka, che nel 1912 realizzò la sua monumentale Amorpha - Fuga in
due colori, nella quale il movimento musicale è concentrato in una potente forma simbolica.
E Kandinskij, il quale nel 1914 esegue una monumentale Fuga, che chiama anche
Improvvisazione controllata, profetizza un contrappunto pittorico che, in quanto arte
veramente incontaminata, si ponga al servizio del divino.
Nella trasposizione di fughe e musica polifonica va registrato uno sforzo di rigore e ordinata
strutturazione, che successivamente condurrà anche a soluzioni formali in prevalenza
costruttivistiche.

Il rumore della strada entra nell’arte


Per i futuristi italiani, nel applaudire il progresso, doveva essere preso in considerazione
soprattutto l’udito, e perciò questi predilessero ogni motivo che evocasse la velocità e il
rumore, come per esempio, Umberto Boccioni nel suo dipinto programmatico del 1911 La
strada entra nella casa. L’anno seguente Balla realizza il dipinto scomposto La mano del
violinista, che, attraverso le sue sequenze ripetute e il vivace cromatismo, rende non solo i
rapidi spostamenti della mano sulla tastiera, ma anche il vibrato da questa prodotto nei
relativi passaggi musicali. Stimolato dalle rilevazioni scientifiche di Muybridge, Balla creò,
con le sue rappresentazioni simultanee di successioni temporali, un equivalente metodo
pittorico per la trasposizione visiva della generazione dei suoni e della ritmica.
I fenomeni musicali e acustici giocano sin dal principio un ruolo essenziale nel futurismo e lo
dimostra l’evoluzione di Russolo. Del 1911 è il suo olio su tela dalla violenta cromia, ancora
ascrivibile al simbolismo, La musica: una sequenza di circonferenze concentriche che, quasi
fossero onde sonore, si propagano come un’aureola sotto la linea della melodia che sale
ondulata. Le maschere incarnano le emozioni indefinite suscitate dalla musica. Nel 1913
Russolo si è trasformato nel primo musicista Bruitista della storia. Per l’occasione costrusce e
progetta 13 intonarumori, che erano azionati mediante la rotazione manuale di una manovella
per generare ronzii, strepitii ecc La composizione eseguita in queste prime esibizioni dal vivo
si intitolava Risveglio di una città.

Analogie con la danza e ritmo assoluto


Un impulso essenziale per la pittura è derivato dalla danza e dalla musica da balletto. Artisti
come lo spagnolo Picabia o il futurista italiano Gino Severini prendono da qui le mosse per
addentrarsi nel terreno dell’astrazione con dipinti ispirati alle immagini di ballerine.
Più dure e spezzate si presentano le composizioni dei vorticisti inglesi, che si dedicarono
intensamente alla trasposizione in chiave astratta della danza. Il loro portavoce e capofila,
Ezra Pound, riferendosi alla propria attività poetica, aveva proclamato la sua fede nel verso
libero: “io credo nel ritmo assoluto. [...] Noi utilizziamo la forma come il musicista il suono.”
Nella produzione di Mondrian, il tema della danza appare esplicitamente per la prima volta
solo nel 1929-30, nei due quadri Fox Trot A e Fox Trot B, ma già i suoi precedenti studi si
configuravano come notazioni stenografiche dei ritmi delle onde sulla superficie dell’acqua.
Il suo entusiasmo per il jazz ebbe un nuovo slancio nella fase newyorkese dell’artista, dove
egli frequentava i famosi locali del centro cittadino. Nacque così una specie di lascito alla
posteriorità, il Broadway Boogie-woogie, in cui i ritmi sincopati del jazz e nel contempo
l’esperienza di Manhattan, con i suoi percorsi stradali ortogonali e le luci intermittenti delle
insegne pubblicitarie, trovarono la loro espressione più congeniale.

Dalla struttura della fuga al principio della serialità


A partire dagli anni venti si può notare una crescente tendenza alla razionalizzazione, in
ambito sia artistico sia musicale. Come Schonberg e Webern codificarono la musica atonale
in una tecnica seriale, Kandinskij e Klee svilupparono al Bauhaus personali teorie della
forma, tramite cui trassero conclusioni sistematiche dall’analisi delle rispettive precedenti
improvvisazioni. Il principio della serialità è applicato in maniera particolarmente evidente
nel lavoro su vetro multistrato Fuga, realizzato da Joseph Albers nel 1925. Quattro anni prima
Klee aveva dipinto Fuga in Rosso mettendo in evidenza le differenze strutturali alla base
delle due opere. In Fuga in Rosso distinguiamo quattro forme che potrebbero essere
interpretate come “il tema, la risposta, il tema nella terza e la risposta nella quarta parte. La
chiave che si alterna è rappresentata dalla sagoma in mutamento delle forme e lo sviluppo del
tema è indicato nella progressione dei colori”. L’opera di Klee non rappresenta la
trasposizione sistematica della fuga, e tuttavia rappresenta mirabilmente la successione delle
voci che si alternano e il loro intreccio contrappuntistico.
Ma Klee fu anche colui che già nel 1921-22 aveva cercato di realizzare una Trascrizione delle
battute iniziale dell’Adagio della Sesta sonata per violino e clavicembalo in sol maggiore di J.
S. Bach alternativa alla notazione tradizionale. Con questo esperimento, Klee voleva
dimostrare la possibilità di visualizzare in modo nuovo, attraverso un sistema di righi
musicali estesi su più di tre ottave, il rapporto reciprocamente variabile fra le due o tre voci
della frase polifonica.
Molti altri tentativi di tradurre partiture musicali in precisi termini visivi indicano che la
pittura urta qui decisamente contro i propri limiti. Luigi Veronesi dovette optare per un
supporto di oltre sette metri di lunghezza per la sua Visualizzazione cromatica del
contrappunto n°2 dall’Arte della Fuga di Bach del 1970. Veronesi, in modo scientifico, trovò
una chiave matematica per abbinare le note ai colori.
La pittura, quando di tiene così strettamente vicina alla musica, arriva a limiti invalicabili in
termini di formato, poiché anche il ristretto numero di battute prese di volta in voltab a
riferimento provoca un estendersi dell’opera in lunghi nastri, che tendono già di per sé a
emulare lo srotolarsi delle pellicole cinematografiche. Tale problema fu avvertito fin da
subito da artisti che furono indotti a creare sequenze di immagini su pellicola. Hans Richter
produsse, sulla base di elementari correlazioni di forma.colore, alcuni film sperimentali
rapportati alla musica, come Fuga 23 o Ritmo 23.
Nel terzo decennio del novecento, mentre la pittura si affidava in maniera crescente alla
temporalizzazione, la musica tendeva, invece, sempre più alla spazializzazione. Negli ultimi
decenni del secolo scorso sono scaturite da questa convergenza molte forme artistiche
multisensoriali: dai video musicali alle installazioni lase, fino al vasto terreno della cosiddetta
arte dei suoni.

- WAGNERISMO E AVANGUARDIE. KANDINSKIJ E DINTORNI

Kandinskij voleva abbandonare Wagner ma sembrava che non ci riuscisse. Su questo punto si
cercherà non di fare chiarezza ma di fare alcune riflessioni.
Kandinskij è affascinato da Schonberg nel famoso concerto di capodanno del 1911 ma ancora
nel 1913 scrive del suo fascino per Wagner. Nella sua autobiografia del 1913 parla di un suo
quadro del 1902 in termini sinestetici accostando i colori del tramonto agli accordi, sinfonie e
musiche che egli accostava. Poi passa a raccontare due eventi che hanno profondamente
segnato la sua formazione e che sarebbero una rappresentazione del Lohengrin di Wagner al
Teatro di Corte e una mostra di impressionisti francesi, in cui lo colpisce particolarmente il
Pagliaio di Monet. Quest’ultimo gli ha dato la sensazione di qualcosa di cui non si riconosce
il soggetto: ci sono forse anche altre versioni del Pagliaio ancora più astratte di questa, non
sappiamo esattamente quale fosse esposta e quale Kandinskij abbia visto. Kandinskij dice che
l’oggetto nuoce ai quadri, e che un quadro può benissimo agire in senso musicale attraverso i
colori e le linee senza che si riconosca il soggetto. Di seguito a questa impressione di Monet,
Kandinskij ricorda l’impressione provata alla rappresentazione del Lohengrin di Wagner, e
qui fa seguito un’altra pagina sinestetica molto bella parlandone in termini coloristici,
cromatici. Questo viene associato alla Mosca al tramonto. Ne deduce che la pittura deve
raggiungere la musica in questa potenza espressiva e suggestiva. Kandinskij era sicuramente
venuto a contatto con l’ambiente simbolista critico-letterario francese nei suoi viaggi a Parigi
nei primi anni del Novecento. Kandinskij conosceva, in realtà, l’approccio della Francia a
questi temi, pittura-musica e sinestesia, anche da posizioni precedenti, o comunque
indipendenti alla Revue Wagnérienne. Per esempio, gli erano note le idee di Delacroix,
espresse nei diari e nelle lettere, e per esempio l’idea fondamentale per Delacroix, la
superiorità della musica sulla pittura, ma anche la superiorità della pittura sulla musica. Egli
dice: quando entrate in una chiesa e non riuscite a vedere il soggetto di un dipinto in
penombra, restate ugualmente impressionati dalla potenza che le linee e i colori hanno su di
voi, indipendentemente dall’oggetto rappresentato. Poi gaugin e Kandinskij parlano invece
di una superiorità della pittura fondata - e qui ricordano evidentemente la distinzione di
Lessing fra arte dello spazio e arte del tempo - sulle capacità di rendere simultaneamente in
un solo istante le emozioni che la musica invece rende solo in uno svolgimento temporale.
Nonostante si possa obiettare che la musica abbia valenza all’infuori della sua riproduzione e
che lo sguardo pittorico necessiti di tempo per assimilare l’opera, tutt’e due gli artisti avevano
ereditato questa idea da Leonardo che in quel momento era osservato e amato da tutti gli
artisti.
Continuiamo con il rapporto tra Kandinskij e la Revue Wagnérienne. Wyzewa scrive “come i
poeti hanno usato le parole come sillabe sonore, per un’esigenza analoga in pittura i colori e
le linee si sono rivestiti di un valore emozionale indipendente dagli oggetti stessi che
rappresentavano”. Kandinskij andrà oltre l’associazione: non c’è bisogno di un’associazione
tra una parola e un oggetto per avvertire il suono interiore della parola. E così conclude
Wyzewa: “questi colori e questi contorni restano legati nella nostra anima a queste emozioni.
Eccoli divenuti non più solamente i simboli di sensazioni visive, ma i simboli delle nostre
emozioni; eccoli divenuti, come sillabe della poesia e le note della musica, simboli
emozionali.” In un modo molto simile si esprime Kandinskij ne Lo spirituale nell’arte.
Prendendo in prestito il termine ‘vibrazione’ dai teosofi egli scrive “e l’anima perviene a una
vibrazione senza oggetto.” Qui abbiamo qualcosa che ci può spiegare il fascino di Kandinskij
per la rivista, per la pittura wagneriana e per le idee che si dibattevano su di essa, ma anche la
paura di mescolarsi con le voci di questi letterati, che interpretavano in modo talvolta troppo
letterario la musica di Wagner. Wagner diventa metafora di sintesi di tutte le arti, metafora di
un’arte che travolge, trascina l’anima, metafora dell'indistinto e dell’indeterminato
nell’innalzare l’anima verso la luce, verso il cielo, verso ciò che è privo di peso.
Comunque chi erano i pittori wagneriani? Sono soprattutto i pittori che cita Wyzewa, che lui
ama: sono Whistler, sono i pittori della tendenza riassumibile nella poetica della nuance, della
sfumatura di Verlaine, come Moreau e Redon. Di fronte alla letterarietà di interpretazione di
Wagner Mallarmé dice no: Wagner fatemelo interpretare come un santo dei santi, ma tutto
mentale, non in modo così letterario; quindi, c’è in lui un rifiuto di una moda wagneriana che
stava degenerando in qualcosa di molto esteriore e anche molto superficiale. E probabilmente
lo stesso rifiuto induce Kandinskij a frenare il proprio entusiasmo per il compositore.
Qualche altro episodio può attrarlo al wagnerismo. Worringer era noto a Kandinskij per il
famoso libro Astrazione e empatia, che in realtà ha assai poco a che vedere con l’astrazione
kandinskiana, perché Worringer parla di astrazione geometrica. Nel 1911 pubblica un altro
libro in cui un capitolo è intitolato La melodia infinita della linea nordica: la melodia infinita
è indubbiamente un termine wagneriano. E wagnerianon è anche i capitolo in cui sembra che
Worringer stia parlando di Kandinskij o della musica di Wagner. “Sorge quindi una mobilità
che cresce di continuo, senza momenti di sospensione e cadenze, e la ripetizione ha soltanto
lo scopo di dare al singolo motivo un potenziamento infinito. La melodia infinita della linea
si libra dinnanzi agli occhi; una linea che non allieta ma stordisce costringendoci ad una
passione priva di volontà. Se dopo la visione chiudiamo gli occhi ci rimane solo
l’impressione di un’incorporea, infinita mobilità.” Kandinskij avverte il pericolo (dato dalla
lettura di Nietzsche) di questa melodia infinita, il pericolo di qualcosa che stordisce; tuttavia,
nello Sguardo al passato parla ancora con grande fascino della musica di Wagner, e di questa
idea di una musica e/o pittura che trascina al di fuori dello spazio, che fa galleggiare in
qualcosa di indeterminato.
C’è un’altra osservazione da fare a proposito del Kandinskij del 1913. Egli arriva ad un
rifiuto del Futurismo proprio nel momento in cui questo ha superato il wagnerismo, nel
momento in cui afferma di voler vomitare la musica di Beethoven e Wagner, che prima,
invece, fino al 1911 amavano. I futuristi sostituiscono il frastuono della città che poi è il
frastuono della musica rumoristica i Russolo.

- RELAZIONI TRA ARTE E MUSICA NELL’EPOCA MODERNA.


QUESTIONI DI LINGUAGGIO

Da sempre c’è questa mania di voler accostare i due linguaggi (pittura e musica). Una vera
corrispondenza tra musica e pittura si è cercata di trovarla da parte di moltissimi studiosi:
ricerche piuttosto futili, perché le arti non si corrispondono.
Però esiste una corrispondenza, e questa è evidente soprattutto all’epoca in cui queste arti si
sviluppano; se voi prendete il Barocco, non c’è dubbio che Bach crea una musica barocca,
non c’è dubbio che Borromini è un architetto barocco. Le somiglianze sono dovute
unicamente allo spirito dell’epoca. Quindi è la ‘mezza cultura’ che inventa analogie che non
ci sono. Una cultura autentica terrebbe sempre conto dell’epoca in cui l’arte si sviluppa, e
terrebbe conto anche del fatto che ogni grande epoca storica ha un’arte privilegiata:
nell’epoca romantica abbiamo soprattutto uno sviluppo dell’architettura, piuttosto che della
musica; in un’epoca come nell’ottocento abbiamo un’enorme sviluppo della pittura, piuttosto
che dell’architettura.
Ma quello che mi preme è considerare dove può esserci un’analogia, perché ogni tanto questa
la si trova. Per esempio quella delle scale: la scala musicale e quella pittorica, la scala
cromatica. Ma anche questo non è del tutto vero, perché, mentre la scala musicale prosegue di
ottava in ottava, la scala cromatica consiste in un’ottava che poi si ripete, ma non è più
un’altra ottava, è sempre quella. L’operazione di Veronesi è una cosa non solo mediocre, ma
completamente sballata, perché il tentativo di far corrispondere la notazione pittorica con la
notazione musicale era unicamente un artificio, che non ha portato a nessuna vera
conclusione. Questo è un esempio, ma ne potrei dare infiniti. Un altro esempio abbastanza
interessante è quello del collage musicale e pittorico, e anche letterario. Ebbene fra il collage
pittorico e quello musicale non c’è alcuna corrispondenza, perché uno si sviluppa nel tempo,
e l’altro si sviluppa nello spazio; perché se voi prendete due elementi di una partitura
musicale e li sovrapponete nella pagina musicale, sopra il pentagramma, e suonate insieme la
parte superiore e inferiore, quello che risulta non è un collage, ma è una nuova musica.
Quello che sembra interessante notare è un’evidente similarità che potrei quasi definire
strutturale tra alcune forme musicali (come la dodecafonia) e alcune forme pittoriche (come
l’arte concreta e costruttivista). Si nota l’esistenza di un intimo rapporto tra certa scansione
spazializzatrice della sintassi dodecafonica, e certa temporalizzazione della pittura e
dell’architettura neoplasticiste.
Il quadrato, come pattern strutturale, pittorico e musicale, è certo un importante e curioso
documento a cui si deve risalire se si vuole impostare un discorso di questo genere. Tanto
Webern che Mondrian hanno impostato il loro discorso sopra un’indubbia pedana di
simbologia occulta: il potere magico-misterico del numero, la misteriosa intelaiatura
pitagorica, posta alla base di tante strane coincidenze… ha attratto i due artisti ed ha in certo
senso condizionato la loro stessa libertà creativa. Se, poi, proseguendo in questo rapido
esame, il serialismo rigoroso di un certo Stockhausen, di un certo Boulez, si può far derivare
dalle premesse spazializzatrici della compagine sonora già individuate dall’ultimo Webern,
non c’è dubbio che questa spazializzazione programmata della musica postdodecafonica,
costituisce uno dei più singolari fenomeni nell’evoluzione musicale degli ultimi trent’anni.

- LUIGI VERONESI: LE VISUALIZZAZIONI CROMATICHE DELLA


MUSICA

Quando mi sono accinto a tale indagine, era opinione comune che l’astrattista milanese, nato
nel 1908 e scomparso nel 1998, si fosse dedicato a questo genere di opere in maniera
piuttosto limitata, realizzandone un numero alquanto esiguo di esemplari, che dunque
occupavano un peso non molto rilevante all’interno del suo enorme corpus pittorico. Ma ben
presto mi ritrovai di fronte a uno scenario assai diverso da quello ricavabile dalle fonti
bibliografiche, giacché il numero delle scoperte superò ogni mia attesa. Emersero circa
centonovanta visualizzazioni cromatiche fino ad allora sconosciute. L’operazione di
catalogazione fu piuttosto complicata perché nella maggior parte dei casi l’autore non aveva
riportato sull’opera l’indicazione del pezzo musicale di riferimento. Si era perlopiù ritenuto e
scritto che il pittore, una volta scelto il brano musicale di partenza, ne visualizzasse soltanto
alcune battute, quasi a mo di pura esemplificazione pratica di un principio sostanzialmente
teorico e concettuale. Gli ingenti ritrovamenti hanno palesato, invece, che, nella grande
maggioranza dei casi, egli trasponeva integralmente i pezzi prescelti. La musica lo
interessava proprio perché lo riteneva il più astratto dei linguaggi artistici e lo studio di un
rapporto tra percezione visiva e percezione auditiva, posti in una dimensione
spazio-temporale, era il tema costante dei suoi discorsi. Lo interessavano i film d’avanguardia
ma sentiva che si dovesse andare oltre il semplice rapporto ritmico contrappuntistico tra
immagine e suono. Egli riprese nel dopoguerra il proprio progetto musicale sino a giungere
progressivamente ad una verifica strutturale del rapporto tra percezione visiva e percezione
auditiva attraverso pazienti itinerari sperimentali. Approdò quindi ai recenti progetti di una
sonorizzazione visiva dell’arte della fuga di Bach. Egli stesso ha dichiarato che quando ha
iniziato a considerare la pittura in termini astratti l’associò immediatamente alla musica, che
per lui era l’idioma immateriale per eccellenza. Quando arriva ad ottenere la cattedra
all’accademia di Brera in Scienze del Colore egli ha già finalizzato il suo bagaglio di
sperimentazione e teorie sui rapporti suono-colore.
Un impulso decisivo in questa direzione venne probabilmente a veronesi dalla conoscenza del
saggio di Severini Du cubisme au classicisme che istituiva appunto un preciso parallelismo
tra le regole dell’armonia musicale e quelle della composizione pittorica, parimenti ricondotte
ai principi numerici della misura e del ritmo.
Vantongerloo aveva sviluppato, nella seconda metà degli anni Dieci, un’articolata teoria che
istituiva una precisa correlazione tra la scala semitonale e una scala di colori appositamente
costruita - per analogia con quella musicale temperata - su sette toni fondamentali e cinque
mezzi toni; sulla base del parallelismo individuato tra la gamma cromatica dei suoni e quella
dei colori egli aveva impostato, poi, una complessa dottrina armonico-cromatica esemplata su
quella della musica tonale, e dunque imperniata su scale di colori maggiori e minori, e sugli
intervalli tra i sette toni e i cinque semitoni che costituivano queste gamme. Può essere
plausibile che l’interesse di Veronesi sia stato rafforzato dalla conoscenza delle teorie sulle
interrelazioni di Vantongerloo. Quel che è certo è che egli intendeva adottare un metodo
rigoroso, aspirando a trovare nei numeri, un comune denominatore che servisse da trait
d’union fra le due discipline. Veronesi dopo la guerra inizia a rivolgersi a un’indagine
sistematica circa i rapporti tra suono e colore, approfondendo, tra l’altro, l’investigazione
storiografica delle numerose esperienze di coloro che l’avevano preceduto. Dopo le
necessarie verifiche delle sperimentazioni condotte da tutti questi artisti egli decise di
rifiutare le ricerche che non fossero suffragate da teorie esatte.
Intorno al 1959 egli iniziò a contemplare la possibilità di visualizzare cromaticamente i suoni.
Non era un’idea nuova ma originale era lo spirito con cui egli intendeva metterla in pratica,
lavorando su basi precise e non casuali o intuitive. Un metodo estraneo all’emotività.
La riflessione dell’artista parte dall’osservazione del fatto che sia il suono che la luce sono
fenomeni ondulatori. Questo è certamente vero ma egli sembra ignorare il fatto che si trattano
di due oscillazioni differenti: meccaniche e longitudinali quelle sonore, elettromagnetiche e
trasversali quelle luminose. Fondandosi su questo presupposto, confrontò i due enti fisici su
base matematica, misurando, per quanto riguarda il suono, la quantità di sinusoidi presenti
nell’unità di tempo, e per quanto riguarda la radiazione cromatica, l’ampiezza delle
vibrazioni, cioè la distanza tra le creste delle sinusoidi. Più il suono sarà acuto (e dunque la
sua frequenza elevata), più il colore corrispondente sarà chiaro. Veronesi sceglie di
rappresentare convenzionalmente il suono con il rettangolo perché è una forma facilmente
leggibile e sufficientemente astratta da non suggerire simboli o analogie figurative e anche in
quanto si presta ad essere utilizzata in maniera modulare: se, infatti, al variare della durata
della nota aumenterà o diminuirà la larghezza del rettangolo, al mutare dell’intensità ne
varierà l’altezza.
Infine, nella Proposta per una ricerca sui rapporti fra suono e colore è affrontato il problema
della resa visiva degli accordi, che Veronesi risolve istituendo un preciso parallelismo tra i
principi dell’armonia musicale e quelli della cromatica: in sostanza, egli afferma che, come
due o tre note suonate contemporaneamente si fondono nel nostro orecchio, provocando una
sensazione uditiva per così dire secondaria, così, in virtù delle leggi di Chevreul sui contrasti
simultanei, due o tra colori, non mescolati, ma semplicemente accostati, in sede di percezione
sarebbero fusi dal nostro occhio per sintesi additiva, producendo una risultante sensazione
visiva.
Esaminando attentamente le visualizzazioni cromatiche della musica, ci si accorgerà che
Veronesi traduce in colori non i suoni reali, bensì la loro trascrizione grafica sulla partitura.
Questo lavoro costituisce visualizzazioni cromatiche di partiture, piuttosto che di musiche,
configurandosi, in definitiva, come forme di scrittura musicale alternativa, certo più piacevoli
all’occhio - ma anche molto meno pratiche di quella tradizionale, e sicuramente più leggibili
dal pianista che dal fisico, dallo psicologi o dal semiologo.
Per le visualizzazioni cromatiche Veronesi adottò - pur con alcune leggere varianti nel corso
della sua attività - quasi esclusivamente la tecnica del collage, utilizzando i retini colorati
all’acetato fornitigli da una ditta statunitense. Questa maniacale ricerca di uniformità si
ricollegava alla convinzione, costante e ferrea, di dedicarsi a una procedura quasi scientifica,
che, per ciò stesso, non doveva presentare alcuna implicazione relativa a scelte soggettive o
estetiche dell’artista.
Negli anni 80 i tempi furono maturi per una ricerca sul timbro. Si osservò che, mentre nel
caso di un organico molto vasto la grande quantità di timbri strumentali presenti
contemporaneamente tende a creare un vero e proprio colore orchestrale specificamente
riconoscibile, e tale perciò che possa essere complessivamente considerato, quando a suonare
nel medesimo tempo sono due o tre strumenti, i rispettivi timbri emergono in maniera assai
distinta: essendo nettamente percepibili, come tali vanno differenziati in sede di
visualizzazione cromatica, mediante l’uso di forme geometriche diverse. Veronesi decise di
non portare a termine la ricerca sulla resa grafica dei diversi timbri orchestrali probabilmente
perché si rendeva conto della totale arbitrarietà e convenzionalità delle scelte di una figura
geometrica rispetto ad un’altra per la rappresentazione di suoni emessi da strumenti
differenti.
L’obiettivo ultimo sarebbe stato, secondo le parole dell’autore, quello - evidentemente
artistico - di realizzare un’armonia che ha sì un riferimento preciso con l’armonia scritta dal
musicista, ma si avvale però dei mezzi propri della pittura, il colore e la forma. Le
visualizzazioni non erano, tuttavia, per lui, opere dotate di autonomia e valenza estetica ed
espressiva. Secondo Gabriella Belli l’esercizio di trascrizione del componimento musicale in
forme e modi della pittura dà origine ad una sorta di metalinguaggio artistico, equidistante da
pittura e musica (nel senso che rifiuta di essere attratto nell’una o nell’altra disciplina) eppure
capace di interpretarne convergenze e relazioni.

- L’ACROBATA INVISIBILE. MELOTTI E LA MUSICA.

Contemporaneamente al rinnovamento dell’arte europea, anche Melotti ha reinventato il suo


spazio, il suo tempo; ha riformulato i desideri, le idee, e sul grande tronco delle teorie astratte
ha innestato i suoi rami, carichi di rigogliosi frutti. Per Melotti, l’astrattismo è sempre stato
qualcosa di personale, qualcosa sempre filtrato da più ampie vedute e da più profondi,
irrequieti umori. Non sarebbe stato sciocco sclerotizzarsi, immobilizzarsi in un’unica idea, un
solo principio? Non sarebbe stato fatale, per l’estro dell’invenzione, ridursi a pochi, limitati
concetti? Usando la materia non più come fine ma come mezzo, ha costruito, attraverso segni
leggeri e fili sottili, piani immaginari, mobili strutture che si dipanano in spazi velati, svelte
figure che lievitano con il respiro dell’atmosfera. Melotti ha dimostrato che la geometria può
diventare sentimento, l’astratto può farsi organico, e il movimento regolare di un corpo può
essere la scansione misteriosa di una stella, e l’opaca materia può trasformarsi in ineffabile
spirito.
“Quando l’ultimo scalpello greco ha finito di risuonare, sul Mediterraneo è calata la notte.
Lunga notte rischiarata dal quarto di luna (luna riflessa) del Rinascimento. Ora sul
Mediterraneo noi sentiamo correre la brezza ed osiamo credere sia l’alba.” Con l’Astrattismo,
da pochi anni era stata definitiva la rinuncia alla rappresentazione del mondo naturalistico,
delle forme oggettive della realtà. Ma, per quanto riguardava la scultura, occorreva un gesto
ancora più difficile, drammatico, radicale: la rinuncia all’amore stesso della materia. [...]
Melotti seppe inventarsi uno spazio molto originale: un libero, aereo ordine che sa vibrare
armonicamente sopra i limiti disordinati del mondo. Seppe costruirsi, attraverso i plastici
esempi dell’armonia e del contrappunto musicali, meravigliose forme fatte di semplice aria e
di delicate vibrazioni, di candidi soffi e di modulati ritmi, che si originano da un discreto
silenzio e a quel silenzio umilmente ritornano. Egli ordinò la sua opera: un improvviso,
rigoroso spazio, dove non più lo sguardo ma un fine udito sembra rivolto alla natura.
“La malinconia è l’anima stessa dell’opera d’arte, perché testimonia malinconicamente la
nostra perduta armonia. E l’emozione è fredda davanti alla dimostrazione perfetta di
enunciati senza ombre. Il nostro spirito desidera l’incertezza teologica, il mistero.” Il percorso
di questi suoi ideogrammi di luce, il movimento di queste linee e queste lamelle, diventa
simbolo di lontani e siderali astri che scorgono il ritmo segreto di remote traiettorie, il
misterioso canto delle sfere, dove tra le rotazioni regolari di infinite particelle si distinguono
mondi sterminati tra infiniti mondi. Se la natura è il sipario che ci nasconde Dio, per Melotti
l’arte è quella divina rappresentazione che accennando ad un mondo oltre le tre dimensioni
scopre uno spazio spirituale, un luogo rituale e metafisico.

IL PAESE FERTILE

Alcuni quadri di Klee si leggono almeno su due piani. Lo sguardo si sposta in avanti e
indietro, passa da un piano all’altro, osserva le coincidenze e le divergenze. Ci si muove nella
più perfetta contemplazione immobile. Poche opere sono altrettanto vicine a una polifonia. Il
gran vantaggio di Klee è che non cerca di spiegarsi: dice come ha fatto una cosa e perché l’ha
fatta. Ben lungi dal presentare una dichiarazione o una serie di dichiarazioni, egli non parla
mai di sé, ma studia davanti a noi e ci aiuta a studiare con lui. E’ il più diligente, il più
fecondo, il più creativo dei maestri. Egli non usa un vocabolario specialistico, il suo è
talmente corrente, gli esempi sono talmente generali e di una tal semplicità di base che è
possibile ricavarne una lezione applicabile a qualsiasi altra tecnica. In altre parole, Klee
riduce gli elementi dell’immaginazione a un tale grado di semplicità da insegnarci due cose:
1) a ridurre gli elementi di cui disponiamo in qualsiasi linguaggio al loro principio
essenziale ossia a coglierne innanzitutto il principio, a saperlo ridurre a principi
estremamente semplici;
2) allo stesso tempo, ci insegna la forza della deduzione: trarre, partendo da un unico
soggetto, corollari multipli, proliferanti.
Nato nel 1879 a Berna, respirò la cultura musicale di una città di provincia. Era nato in una
famiglia di musicisti, cominciò a prendere lezioni di violino a sette anni e a undici entrò a far
parte dell’orchestra municipale di Berna. A quasi vent’anni parte per Monaco dove inizia gli
studi di pittura. Le rappresentazioni di opere alle quali Klee poteva assistere erano senza
dubbio di discreta qualità, ma niente di più. Ogni volta che ne aveva l’occasione, Klee
cercava di soddisfare la sua curiosità verso un repertorio più contemporaneo. Klee, forte della
sua intelligenza e immaginazione, seppe cogliere subito ciò che era nuovo e importante.
Tuttavia preferiva suonare i classici e ascoltare i moderni ai concerti. Klee stimava Hindemith
e Stravinskij: non a caso l’uno in Germania e l’altro in Francia simboleggiavano l’odio per il
Romanticismo. Non bisogna inoltre dimenticare i rapporti tra scuola di Vienna e Bauhaus:
Gropius, il fondatore dell’istituto di Weimar, aveva progettato di invitare Schonberg come
professore. C’era quindi la volontà di introdurre la musica nelle sue manifestazioni più
audaci.
Prima dell'impressionismo, Courbet possiede una visione ben più moderna e vigorosa di tutti
i pittori che hanno voluto visualizzare Wagner. Quando Wagner muore, nel 1883, tutte le arti
hanno abbandonato per sempre i remoti lidi del primo romanticismo.
Le corrispondenze fra pittori e musicisti sembrano emergere soprattutto nel ventesimo secolo.
Esempio celebre è il parallelo tra Stravinskij e Picasso. Benché i due artisti non abbiano mai
iniziato una collaborazione sistematica, tutti ricordano Pulcinella come un modella di
collaborazione teatrale, così come la copertina di Ragtime è l’esempio di una perfetta
simbiosi. Per S e P non si può negare una profonda affinità di percorso.
Più sorprendenti appaiono le affinità fra l’opera di Webern e quella di Mondrian. I due artisti
vivevano in mondi totalmente diversi ed è quasi sicuro che non si siano conosciuti. Webern
aveva scarso interesse per la pittura, i suoi gusti erano piuttosto convenzionali e provinciali.
Probabilmente non aveva mai visto un quadro di Mondrian, tutt’al più aveva letto il suo nome
su qualche rivista. Per Mondrian, da ciò che sappiamo, la musica si limitava all’orchestra jazz
dei locali notturni dove andava qualche volta a ballare. Senza mai incontrarsi, nei loro lavori
si sono trovati in simpatia. E seguendo un identico cammino, alla fine della loro esistenza
sviluppano entrambi il lato fantastico e vitale, pur mantenendosi deliberatamente entro
confini ben precisi.
E Klee? In realtà non ha mai manifestato particolare predilezione per i compositori
contemporanei: tornava sempre a Bach e Mozart. Ha analizzato i metodi, il pensiero, i mezzi
di scrittura di questi compositori, dando luogo a una sorta di transustanziazione che
costituisce l’originalità del suo percorso e gli conferisce una rara validità. Benché non sembri
possibile un parallelo tra il percorso di Klee e quello di un musicista specifico a lui
contemporaneo, si può comunque notare che la facezia in alcuni suoi disegni evoca certe
opere di Stravinskij. [14]
L’ordine del contro-Do, per esempio, può essere confrontato al Secondo pezzo per quartetto
d’archi di Stravinskij: per me il lato umoristico e manierista di questo Klee è molto vicino
alle opere del periodo russo di Stravinskij. Ma se consideriamo il periodo caratterizzato
dall’insegnamento alla Bauhaus, con le sue forme più geometriche, la divisione dello spazio,
le superfici costellate da piccoli punti, sembra imporsi il confronto con il Webern degli Opus
15, 16 e 17. Mentre Klee delinea le superfici con testure di piccoli punti di varia densità,
Webern fa la stessa cosa in musica. egli, per esprimere la durata di una nota, non la tiene, ma
la fa apparire mediante note staccate più o meno ravvicinate, e cioè più o meno rapide o lente.
Il ritorno a Bach e alla musica tradizionale si spiega con l’ipotesi che egli non osasse toccare
un argomento su cui non si sentiva competente (la musica a lui contemporanea).
Quando Klee parla di ritmo ai suoi allievi non impiega questo termine in modo vago, ma si
riferisce a strutture ben definite. Nelle sue lezioni, come nei titoli delle sue opere, attinge
varie volte al lessico musicale. Dalla pratica di Bach ha acquisito una conoscenza reale. Egli
cerca di applicare le ricchezze della musica a un’altra forma d’espressione, di studiare e di
trasporre le sue strutture. Parlando della polifonia: “La simultaneità fra più temi indipendenti
costituisce una realtà che non esiste unicamente in musica - benché tutti gli aspetti tipici di
una realtà siano validi in una sola occasione - ,a trova le sue basi e le sue radici in qualsiasi
fenomeno e ovunque”. La relazione tra i due mondi può essere solo di natura strutturale.
La vista e l’udito usano linguaggi diversi e i principi acustici non sono affatto quelli del
colore. Tutti i tentativi di paragone in materia sono stati confusi, approssimativi o ridotti a
equazioni inconsistenti. Esistono frequenze acustiche e frequenze visive, ma non per questo
seguono le stesse leggi. Il momento della percezione fa sì che il suono, il timbro, sia
differente dal colore. E’ vero che si può trovare un certo parallelismo nelle organizzazioni. Si
pensi per esempio all’abbellimento di una linea melodica dato da una serie di accordi.
Per spiegare questo Klee traccia una linea, poi la abbellisce: l’avvolge in volute più o meno
distanti, più o meno marcate, con tratti che vanno dal più sottile al più spesso. Ma l’interesse
di una linea melodica non è di permettere una trascrizione più o meno bella a vedersi. Al
contrario, una bella curva tradotta in note potrà diventare una linea melodica delle più banali.
L’occhio è incapace di apprezzare, seguendo una curva, la finezza degli intervalli, il ritorno di
alcuni di essi, i loro rapporti con l’armonia e cioè tutto quello che costituisce il valore della
linea melodica. Il principio che dobbiamo cogliere dagli esempi di Klee è che esistono una
linea principale e delle linee secondarie dipendenti dalla prima.
Per illustrare le deformazioni che l’occhio può far subire alla prospettiva, ha consigliato un
esercizio: davanti all’oggetto di cui si vuole rappresentare la proiezione sulla carta, disporre
in posizione verticale all’altezza dell’occhio una lamina di vetro. Disegnare poi a grandi linee
su di essa l’oggetto da rappresentare. Facendo girare la lamina, si otterranno vari tipi di
deformazioni ottiche. Klee, per il quale “eseguire un disegno esatto dal punto di vista della
prospettiva non ha valore in sé: tutti sono capaci di farlo”, sviluppa le possibilità di questo
fenomeno, ne fa un principio di costruzione, studia le tensioni che agiscono tra coppie di
superfici e ottiene una rappresentazione congiunta dello spazio e del movimento: “Compito
fondamentale dell’artista è creare il movimento basandosi sulla legge, utilizzare la legge
come riferimento e allontanarsene subito”. Si può trovare un equivalente musicale,
soprattutto nella musica orchestrale di Schonberg e Debussy. Queste opere presentano una
certa realtà musicale ma questa, quest’oggetto musicale, è visto attraverso diverse prospettive
sonore che saranno sviluppate da diversi gruppi di strumenti: un gruppo accentuerà la linea
melodica, un altro darà un tessuto acustico a tutta l’armonia ecc. Senza che il musicista abbia
voluto comporre espressamente su una prospettiva musicale, essa è stata creata.
Mi pare possibile, con un ampliamento dell’eterofonia, mettere in pratica le sue idee sulla
prospettiva. All’origine, l’eterofonia è definita come una sovrapposizione di due o più aspetti
diversi della stessa linea melodica. Se allarghiamo questa nozione a un insieme di linee, cioè
a una polifonia, possiamo sovrapporre diverse immagini o prospettive dello stesso materiale
attraverso diversi gruppi strumentali. Otteniamo così un approccio acustico cangiante dello
stesso fenomeno, equivalente alla variazione delle prospettive descritta da Klee.
Quel che importa è individuare il tempo:lo si individua attraverso una pulsazione, chiamata
generalmente ritmo. Una pulsazione, che sia regolare o irregolare, aiuta a misurare il tempo
così come il modulo dello spazio permette di concepire la distanza, ma essa è anche il
modulo del tempo che permette di renderlo direttivo. L’effetto di spazio in un quadro, anche
grande, è dato dal fatto che lo avvolgiamo con un solo sguardo, che vedendone
immediatamente i limiti ne percepiamo all’istante tutta la costruzione e ne cogliamo la
presenza nella sua totalità. Davanti allo spazio del quadro la visione all’inizio è globale. La
visione divisa che segue permetterà di apprezzare ancora di più lo spazio globale. In musica
succede tutto il contrario; si apprezza l’istante o per lo meno il rapporto tra un istante e un
altro. Solo alla fine dell’opera si ottiene una visione globale, ma sempre virtuale. La visione
globale del quadro invece è reale mentre quella divisa è virtuale perché si è quasi costretti a
isolarla dal circostante.
Quando Klee ha preso a modello la fuga, non intendeva comporre graficamente una fuga nel
senso musicale del termine, ma piuttosto ritrovare sulla tela un certo tipo di ritorni, ripetizioni
e variazioni che sono alla base del linguaggio fugato.
Nella Fuga in Rosso esiste, è vero, un’orizzontalità dell’immagine in analogia con la
dimensione orizzontale della sovrapposizione delle voci nella fuga. Ma si tratta tutt’al più di
un’analogia. Il contrappunto è controllato dall’armonia e questo controllo è verticale, ma la
sua natura rimanda a nozioni essenzialmente orizzontali, a un sistema di linee orizzontali che
si moltiplicano, crescono e derivano le une dalle altre e si riuniscono. Utilizzando la scrittura
in contrappunto ribaltabile, si mette in azione tutto un gioco di strette simmetrie. Se si è prima
avuta la sovrapposizione delle linee A B C, seguirà poi la sovrapposizione B C A, eccetera.
Il musicista può ammirare come l’immaginazione del pittore abbia preso possesso dei simboli
della sua scrittura che, quanto più sono scevri di ogni significato, tanto più sono esposti per
loro stessi e appaiono in tutta la loro seduzione visiva.

Lo spazio diventa tempo

Le due nozioni sono paragonabili? Basta cambiare parametro per trarre le stesse conclusioni
in musica e in pittura?
Quando si parla di un quadro, lo spazio non è l’unico parametro poiché anche il tempo è
molto importante. Si possono cogliere, all’istante o quasi, un disegno o un dipinto nella loro
totalità, soprattutto quelli di Klee che in genere hanno dimensioni ridotte. Si può anche
considerare il tempo richiesto dal modo di lavorare del pittore. Se si percepisce un gesto, per
esempio di picasso, si coglie retrospettivamente la sua velocità.
E la musica? Anzitutto, non si può avere nessuna percezione globale dell’opera prima di
averla sentito fino alla fine. Poi, non vi è altra scelta che seguirne lo svolgimento. In puttura
la percezione è facilitata dal fatto che il tempo di riflessione è imposto fa chi guarda,
viceversa, in musica la percezione può essere disturbata dal fatto di dover dipendere dal
tempo di esecuzione. I nuclei di memoria funzionano perfettamente e aiutano l’ascoltatore a
procedere nel buio grazie ad alcuni segnali, tanto più forti in quanto sono stati prima percepiti
separatamente. Giacché la difficoltà per l’ascoltatore, soprattutto per la musica i cui sviluppi
non rispettano alcuna simmetria, è appunto saper individuare, all’istante, i segnali che fanno
scattare la memoria. Se entriamo all’interno della partitura, l’equivalente dello spazio
pittorico può essere definito dal registro: acuto, medio, grave ecc. Ma lo spazio può essere
anche legato alla nozione di ritmo: un andamento lento,una trama rarefatta, sono assimilate a
uno spazio quasi vuoto; un tempo veloce con una trama molto serrata evoca, senza dubbio,
uno spazio denso. E’ importante sapere che le deduzioni di Klee nel campo visivo possono
essere tradotte in un mondo di suoni, a condizione di situare la corrispondenza fra i due piani
a un livello strutturale molto elaborato.
Esistono architetture che costringono al gesto. I veneziani devono utilizzare l’antifonia nella
chiesa di San marco, per non trovarsi in contraddizione con il disegno architettonico a loro
imposto: l’antifonia, per essere leggibile, esige la separazione delle fonti sonore. Il
dispositivo di Berlioz nel suo Requiem è prima di tutto simbolico: è gesto prima che scrittura.
Il gesto legato all’architettura non potrebbe sostituire il pensiero e la scrittura: gesto e
scrittura devono sempre far riferimento l’uno all’altra.
Si è visto che, considerate dal punto di vista della pittura e della musica, le nozioni di spazio e
di tempo appaiono in antinomia. La maggior difficoltà per chi ascolta la musica
contemporanea consiste nell’orientarsi. Obbligato a seguire un percorso determinato,
l’uditore rimarrà disorientato se ascolta un brano solo una volta. E se lo ascolta una seconda
volta, ma due anni dopo per esempio, sarà ancora disorientato perché il potere di associazione
è stato annullato dalla distanza temporale. Le forme della musica classica come la sonata
erano, per che le conosceva un po’, un mezzo per orientarsi in un’opera. Avevano, e hanno
ancora, la funzione di promemoria.
“Più distanti sono le linee immaginarie di proiezione e più raggiungono grandi dimensioni,
migliore è il risultato”.
Un’altra riflessione mi viene in mente quando penso alle lezioni del Bauhaus: a volte è
necessario, per aprire nuovi territori, che l’approccio teorico avvenga con elementi
ridottissimi. Si ritiene in genere molto pericolosa l'idea che la creatività possa essere
stimolata dalla teoria e si crede invece che un approccio teorico soffochi ogni forma
d’ispirazione. Ciò nonostante non tutto può essere opera della spontaneità che è pesantemente
condizionata dalla memoria. Si tratta dunque di lavorare con un’iterazione fra immaginazione
e rigore, da cui risulterà un impulso pieno di forza verso la realtà di un’opera.
Nel periodo del Bauhaus, si scorgono in Klee i due poli della sua attività. E certo l’atmosfera
teorizzante del bauhaus lo ha spinto in una direzione più radicale. Klee prende gli elementi
più semplici: la scacchiera, il cerchio, la retta, e ne deduce in maniera perfettamente logica
tutte le influenze reciproche. Per contrasto, introduce alcuni elementi molto figurativi e
sembra compiacersi del confronto fra i due mondi. La linea non è perfetta, ma
un’approssimazione della linea; la mano non gareggia con il regolo, ma produce una sua
deviazione, una sua distorsione. Si ha insieme la geometria e la deviazione da essa, il
principio e la sua trasgressione. Ecco qual è per me la più importante lezione di Klee, ed è
ancora più notevole se si pensa all’ambiente piuttosto austero, rigoroso, geometrico del
Bauhaus. Egli conserva una zona di insubordinazione. Non si deve mai essere prigionieri di
una logica, sia essa accademica o una propria costruzione. Occorrono disciplina e rigore nei
fondamenti, e l’anarchia deve costantemente combattere la disciplina. Da questa lotta nasce la
poesia, una poesia fondata sul dinamismo e la trasformazione; una poesia che porta
l’irrazionalità in un mondo che richiede una struttura solida; una poesia che trascende il
conflitto tra ordine e caos.
E’ noto che l’eccesso di ordine è senza interesse; quando possiamo prevedere troppo
facilmente gli eventi, l’attenzione cade; lo stesso avviene con il caos per ragioni opposte. Che
cosa occorre dunque per ottenere allo stesso tempo continuità e varietà? Klee ci dà una
meravigliosa lezione su questo problema. Si deve essere capaci non solo di derivare e di
scegliere fra i possibili sviluppi, ma di avere sufficiente immaginazione per mantenere
l’impulso in movimento. Se ne trovano l’esposizione e la dimostrazione nelle lezioni del
Bauhaus. Egli corregge le soluzioni fornite dai suoi allievi a un problema che aveva dato da
risolvere: “La combinazione di elementi a struttura solida e di elementi a struttura fluida in
vista della formazione di un tutto”, e cioè il problema stesso della composizione. Uno
studente aveva scelto il cerchio e la retta e si era limitato a porre il cerchio su quest’ultima,
una soluzione erronea per Klee perché, non mettendo gli elementi in opposizione, non
approda a una composizione, ma tutt'al più a una semplice fusione. I due elementi sono
semplicemente sovrapposti e il risultato non presenta alcun interesse, né una caratteristica
inventiva.
Klee prosegue con un altro esempio: se si guarda un bastone attraverso un fondo di bottiglia o
una lente, lo si percepirà leggermente deformato: è una cosa visibile, manifesta. La retta è
penetrata in un cerchio ostile, ne è stata trasformata, ma alla fine ne uscirà intatta. Klee spiega
che si tratta di un vero principio organico. E’ organico perché le due forme si sono
confrontate e una è stata modificata dall’altra.
Possibilità di interazione tra due forme (solida e fluida):
1. Il cerchio è più forte della retta e la modifica non appena ci entra dentro. Il cerchio
non cambia.
2. La retta usa la sua massima forza di penetrazione; il cerchio sarò fortemente
modificato, conformemente alla forza della retta e alla sua direzione.
3. Le figure concorrono a modificarsi entrambe. Vi è un fenomeno di assimilazione
reciproca.
Dopo questo studio Klee trasfigura l’esercizio in un acquerello “Lampo che attraversa un
Viso”. Il problema è dimenticato, l’invenzione ne ha tratto profitto, dandogli una
trasposizione realista-irrealista. Il principio di Klee è utilizzato in maniera fondamentale dai
grandi compositori germanici. Ne troviamo nel Wozzeck un esempio molto facilmente
comprensibili.
Nel terzo atto, la scena dell’annegamento è costruita su un accordo. Esso entra in tutte le
componenti del linguaggio. Ora u accordo scivola lungo una certa linea melodica, tenendovisi
costantemente parallelo, ora lo stesso accordo è statico, diviso, frantumato in unità simili a
punti luminosi isolati che si accendono alternativamente per segnalare la loro presenza E’ un
principio che invade tutti gli altri, li fa fruttificare, ma solo in funzione di sé stesso.
Il suo principio di base è essenziale, ma la sua immaginazione poetica, lungi dall’essera
impoverita dalla riflessione su un problema tecnico, non smette di arricchirsi. In lui la
pedagogia è valsa ad arricchire l’invenzione. La profondità del suo metodo viene dal fatto che
non può generare routine perché riscopre a ogni momento la realtà, una realtà in costante
rinnovamento ; la scopre per analizzarla.
Spesso abbiamo confuso rinnovamento con dispersione e perseveranza con monotonia. Non è
facile, in effetti, navigare fra questi due scogli: il catalogo che cambia secondo la stagione
non è una soluzione soddisfacente così come non lo è la chiusura ostinata in un tempo
definitivamente fisso. Rinnovarsi? Sì, ma secondo un’evoluzione organica che sviluppa e
amplia le possibilità, cambia le prospettive.
Cos’ha di tipico il punto di vista di Klee quando osserva la natura? Egli non guarda per
riprodurla, ma per carpirne le strutture e i meccanismi. Klee vede la nuvole come struttura
mobile, senza posa rinnovata, senza posa ridefinita. Vi è in lui una grande capacità di creare
sviluppi organici e di reinventare così una natura che gli è propria. Nella produzione di Klee
iniziò un periodo di quadri con frecce, nei quali vediamo materializzarsi una funzione
dinamica. Analizzando in questo modo una realtà, concettualizzando con le frecce un
universo dove entrano in gioco determinate forze, la freccia diventa a sua volta una realtà che
consente a Klee di scoprirne una poetica della freccia.
Klee fa riferimento a Goethe: la pianta viene da una cellula unica e si sviluppa organicamente
in accordo con una geometria molto precisa. E’ allo stesso tempo una e molteplice. Questa
dialettica può essere riscontrata in ciò che Klee chiama dividuale e individuale: da una parte
una struttura dividuale rappresentata da strati regolari, anonimi, oggettivi; dall’altra “una
struttura individuale puramente lineare”, soggettiva, irregolare, una proporzione portante,
come quella dell’uomo proposta come esempio. Klee ricerca un contrasto tra il razionale e
l’irrazionale, tra l’organizzato e l’accidentale dell’istante stesso. Ciò si riflette nella
contrapposizione presente in numerose opere tra figure molto determinate e fondi assai
complessi su cui si stagliano. Preparare il fondo era per lui una fase essenziale della creazione
e non risparmiava il tempo per ottenere ciò che cercava; a volte passava un mese a
modificarlo con vari procedimenti. Ne risulta un fondo straordinariamente sviluppato e
insieme amorfo, voglio dire senza direzionalità. Non si sa bene come guardarlo, ci sono mille
modi di guardarlo, come fossimo di fronte a una nuvola improvvisamente fissata la cui
mobilità non sia più dell’oggetto, ma nello sguardo. Insomma, la potenza dello sguardo
modifica la testura del dipinto.
Su questi fondi concepiti per offrire all’occhio fluttuante una molteplicità di aspetti, Klee
disegna quache figura molto precisa con un tratto nero, quasi inciso, che non si può guardare
in diversi modi, forma un animale o vegetale che sia. Ho provato a riprodurre in musica
quello che Klee ha conseguito nel campo dell’arte plastica, proponendo all’orecchio ciò che
permette la mobilità dell’ascolto e insieme ciò che obbliga alla fissità. Si può così
immaginare una musica che, come le nuvole, non evolve realmente, ma cambia solo
apparenza. Non è fatta per essere ascoltata dall’inizio alla fine. Potrebbe essere una musica di
fondo registrata su nastro; si ascolta il fondo soltanto quando uno strumento come il
pianoforte lo attiva e se quest’ultimo non suona al di sopra di un certo livello dinamico.
Quando il pianoforte non suona abbastanza forte o non suona affatto, il fondo scompare.
Scoprendo l’acquerello di Klee (Al Limite del Paese Fertile) vi ho trovato un approccio teso
alla spersonalizzazione del creatore, al suo anonimato. Il titolo Al Limite del Paese Fertile
sarebbe stato perfetto poiché l’estremo rigore dei procedimenti impiegati poteva portare alla
sterilità. Puntando tutto sulla meccanica dei materiali si è votati al fallimento, perché il libero
arbitrio, questa parte originaria del creatore, non ha più spazio per operare la sua magia.
Quest’opera di Klee è rimasta per me un quadro-simbolo. Se non si è riusciti a evitare lo
scoglio dell’obbedienza a un desiderio di strutturazione senza poetica, se la strutturazione
diventa troppo forte e costringe la poetica all’inesistenza, ci troviamo in effetti al limite del
paese fertile, ma dalla parte della sterilità. Se invece la struttura spinge l’immaginazione a
entrare in una nuova poetica, ci troviamo allora nel paese fertile.

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