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Eugenio Montale

Nasce a Genova il 12/10/1896, e trascorre la sua infanzia e adolescenza nella villa di famiglia a Monterosso
(cinque terre), il paesaggio ligure sarà determinante per i componimenti. Sui suoi studi era solito scherzare,
sottolineando la sua formazione da autodidatta. Iniziò a studiare con una sensibilità musicale che
costituisce uno degli elementi portanti della sua sensibilità poetica. Questa esperienza permette di
comprendere la musicalità presente nella sua poesia, in quanto fu anche un critico musicale. Occorre tener
conto della sua partecipazione culturale nella città di Genova. Egli si interessò di filosofia e subì l’influenza
del modernismo, iniziando a sperimentare dal giornalismo al componimento. PALLIDO SOLE (1916),
QUADERNO GENOVESE (1917), nel quale riflette il suo lavoro di riflessione culturale, stesso anno in cui
venne chiamato alle armi,e qui conobbe Sergio Sordi, con il quale ci fu un intenso scambio culturale. Dopo
quest’esperienza, e relazioni significative con Barile, Messina e Filippo di Pisis, nutrirà una sensibilità per la
sfera visiva.

1920-25: è la fase di composizione di Ossi di Seppia. Ma in questo periodo egli vive dei momenti di
incertezza e depressione, a causa dell’instabilità economica. Comincia ad occuparsi di critica letteraria
collaborando alla rivista 1tempo, nel quale troviamo le sue prime poesie e il saggio su Emilio Cecchi.
Collabora anche con il Baretti, di ispirazione antifascista di Pietro Gobetti (editore di ossi di seppia). Firma il
manifesto degli intellettuali antifascisti promossa da Benedetto Croce.

1927: si ha il trasferimento a Firenze. Qui fa la conoscenza di Vittorini e Gadda, scrivendo per numerose
riviste di quel periodo.

1928: 2 edizione di Ossi di Seppia e nel ’29 è chiamato a dirigere il ‘Gabinetto scientifico letterario’.

1938: licenziamento. Chiude un anno particolare, a cui seguono le leggi razziali, la morte della sorella e le
preoccupazioni del lavoro. Questi sono gli anni della relazione con Imma Brandeis (“Clizia”: nome
attribuitole nelle poesie), a lei sono dedicate ‘Le Occasioni’. Ma la storia si interrompe quando la donna si
trasferisce negli Stati Uniti. Per sopravvivere Montale intensifica il lavoro di traduzione, formandone un
quaderno che verrà pubblicato nel 1948, anno in cui Montale ha un impegno etico-politico con Drusilla
Tanzi. Nello stesso anno si iscrisse al Partito d’Azione, dal quale ben presto se ne allontanò mantenendo un
distacco dalla politica. Si trasferisce a Milano e qui diventa redattore del ‘Corriere della sera’ fino al 1973.

1956: si ha il tema della memoria e della salvezza proiettati sullo sfondo di una terra universale ed è in
questo anno che esce ‘Farfalla di Dinard’. Nel ’62 Sposa Drusilla Tanzi ma muore l’anno successivo e alla
quale Montale dedica la raccolta di versi ‘Xenia’. Successivamente ci furono una serie di nuovi titoli tra cui
‘Satura’ che ebbe un immediato successo. Questa raccolta segna una nuova fase della poesia, caratterizzata
da una ricerca che stilisticamente porta ad un andamento colloquiale e prosastico.

1975: Premio Nobel per la letteratura.

Morì a Milano il 12/09/1981 accudito dalla governante.

Dopo la sua morte uscì ‘Diario postumo’. Lo stile: Montale pur non offrendo scorciatoie , ci restituisce una
parola poetica diversa: paesaggio, mare, terra. Il poeta si concentra molto sugli oggetti: realtà percepibile
nella sua fisicità e nella sua concretezza. La sua realtà è una tragica complessità della vita in cui il poeta vive
con una sensazione di smarrimento inarrestabile, e vede corrompersi ogni cosa. Le immagini del dolore
sono segnate da paesaggi aspri.

‘Le occasioni’: raccolta del ’39, il paesaggio passa da ligure a fiorentino. Nella ‘Bufera e Dico’ la donna,
Clizia, è trasformata in girasole sempre rivolta verso la luce.

Montale fu un poeta proprio che fece musica delle parole, in quanto le esigenze ritmiche e musicali
riscattavano per questa via tutto ciò che è stato escluso dalla poesia (ciò che è prosostico, quotidiano)
Poesia metafisica: razionalità e irrazionalità. Oggetti diventano emblema del male di vivere. Percezione del
nulla come unica salvezza dal male di vivere.

Paesaggio arido, si ha l’innalzamento della dimensione metaforica: correlativa- oggettiva.

DIRETTRICI DELLA POETICA

- Male di vivere-> dramma esistenziale, alla base della poesia ‘ spesso il male di vivere ho incontrato’
- Ricerca costante: insensatezza dell’esistenza; varco che il poeta non riesce a ritrovare. Egli vuole
trovare, quindi, una via di fuga e questa ricerca del varco si riflette in ‘Limoni’ e ‘Casa di Olgiate’
- Paesaggio
- Solitudine e incomunicabilità
- Figure femminili-> la sua fiducia rimane limitata alla possibilità di trovare un varco, cancellando il
passato, anche quella visione della donna diversa, fugace. Cancella la memoria-> desiderio di far
rivivere i ricordi.

POESIA ‘I LIMONI’

Apre Ossi di Seppia. Scritta tra il 1921-22. In essa si ha una metafora musicale che diviene un manifesto
del suo modo di scrivere in contrapposizione ai poeti letterati. Polemico contro D’Annunzio. Il varco è il
soggetto principale.

Lezione del 7 ottobre 2021

POESIE TRATTE DAGLI OSSI DI SEPPIA:

IL LIMINE (1924)

Tratta dagli OSSI DI SEPPIA

Montale vuole resistere attraverso una parola essenziale, scabra, la condizione dell essere e del reale.
Non una realtà fittizia ma la nostra realtà.

Il Limine significa sulla soglia. Suggerisce nella sua funzione introduttiva, posto alle soglie della raccolta
degli ODS il tema della tensione, dell intenzione a confine della realtà, tra un contingente una
possibilità dimensione metafisica, dell oltre, tra una condizione di prigionia esistenziale e la libertà. Ci
trasferisce questo desiderio di ritrovare un varco nella maglia rotta, una via di fuga, una possibile
redenzione.

Quel “tu” non è definito, è indeterminato, non sappiamo a chi è riferito. Si pensi all’attrice peruviana
Paola Nicoli o aAnna Degli Uberti, comunque a donne che hanno fatto parte della sua vita. Invita a
godere il vento che costituisce il segno di una forza che irrompe all’improvviso e può spezzare le catene
che imprigionano l’uomo e anche il poeta. Quindi cercare di uscire dalla rete intricata di in esistenza
che rende prigionieri.

Il testo e diviso in 4 strofe con lunghezza variabile (la prima e la terza di cinque versi, la seconda e la
quarta di quattro) e con endecasillabi e enjambment, per dare ritmo spezzato, rotto, dato che rotta è la
condizione esistenziale. Quindi lo stile si adatta alla realtà, e al dramma esistenziale. Si fa proiezione,
rivelazione, rappresentazione di ciò che è lo stato d’animo del poeta.

“Sii felice”, una preghiera, un’esortazione.

Il poeta vuole ritrovare ristoro.

Si svolge un dialogo con questo interlocutore indeterminato, che secondo la critica è alter ego di
Montale. Montale che si confronta con se stesso.
Una donna possibile con il quale costruisce questo dialogo. E ne fa riferimento ’imperativo («Godi», v.
1), che può essere anche interpretato come indicativo presente, a vivere pienamente «il vento ch’entra
nel pomario»: esso rappresenta l’irruzione improvvisa di una vitalità in un luogo – l’esistenza – chiuso in
sé stesso, che «orto non era, ma reliquario» (v. 5) di «memorie» (v. 4) ormai morte.

Può imbattersi in un salvifico «fantasma», un’apparizione misteriosa e miracolosa che, come il vento
dell’incipit, può rappresentare una via di fuga dalla prigionia esistenziale e una possibilità diversa di
vita.

A una desolazione assoluta si sostituisce una consolazione

L’«erto muro» del v. 10 è il confine insuperabile che separa l’io lirico – prigioniero di un’esistenza che è
tormento («rovello») – e il “tu” che, invitato a procedere (non è chiaro se all’interno del pomario o al di
fuori di esso).

Da un lato l’elemento misterioso, dall altro miracoloso.

I versi finali della terza strofa sembrano suggerire che la salvezza è quella degli eventi che il presente,
mutando continuamente, cancella dalla memoria per dar luogo al futuro.

La «maglia rotta nella rete» che l’interlocutore del poeta invita a cercare è paragonabile allo «sbaglio di
Natura», al «punto morto del mondo», a «l’anello che non tiene», al «filo da disbrogliare» che, nella
poesia successiva I limoni, sono immagini di “errori”, “rotture”, “meccanismi inceppati” che sembrano
offrire il segreto ultimo delle cose e dell’esistenza. Si tratta di “epifanie”, attraverso le quali oggetti o
fatti si caricano di significati profondi.

Se il “tu” a cui il poeta si rivolge riuscirà a fuggire, egli, pur rimanendo prigioniero, sarà sollevato («la
sete / mi sarà lieve», vv. 17-18) e l’insofferenza di vivere un’esistenza tormentata risulterà alleggerita
(«meno acre la ruggine…», v. 18).

NON CHIEDERCI LA PAROLA (1925)

Manifesto della poetica di Montale

Poesia che non da più certezze.

Presenta dei significati programmatici, e spiega come l’arte poetica non sia più, per l’uomo moderno,
fonte di conoscenza e saggezza di fronte ai drammi che caratterizzano l’epoca in cui il poeta vive.

La poesia non può essere più depositaria di una funzione princex fondamentale.

“Campo polveroso” è riferita all’animo, che riflette il dolore, che Montale vive interiormente.

Correlativo oggettivo: paesaggio-stato d’animo.

(Parafrasi)

Il titolo fa riferimento alla conchiglia interna della seppia (di colore bianco e dalla consistenza
schiumosa) che altro non è che la testimonianza di un organismo vivente che è stato scartato dal mare.

Montale ritiene che le sue poesie abbiano la stessa caratteristica, in quanto sono tracce di ciò che
rimane di una vita consumata dalla presa di coscienza di non poter decodificare il senso dell’esistenza e
del dolore, sia dal senso d’impotenza provato dall’uomo, attanagliato dal “male di vivere”.

Lo sfondo di queste liriche è il paesaggio della Liguria, la terra natale del poeta, che simboleggia
anch’essa l’aridità della vita. La raccolta si colloca, secondo la dichiarazione di poetica contenuta ne I
limoni, contro la poesia retorica di maestri come Carducci e D’Annunzio. In particolare Montale si
propone di “attraversare” D’Annunzio, il “poeta laureato” che si muove “fra le piante/ dai nomi poco
usati: bossi ligustri o acanti.

La raccolta contiene ventidue brevi liriche semplici e chiare, con un linguaggio semplice e comune, che
testimoniano la solitudine esistenziale del poeta. Montale scrive la raccolta negli anni in cui si sta
affermando il Fascismo, per cui il messaggio contenuto nella lirica è anche rivolto contro la veemenza e
le false certezze del regime. Come si evince dalla lirica e, come ci ricorda Guglielmino, il poeta non ha
certezze da rivelare:

Di fronte alla constatazione della negatività del reale e della condizione umana il poeta non ha certezze
da comunicare. La sua verità è solo una verità dolorosa e consiste tutta nell’affermazione di questa
negatività e dell’assenza di ogni certezza. Ma questa stessa dichiarazione costituisce, implicitamente
ma nettamente, un atto polemico nei confronti di quanti credevano, soprattutto in quegli anni, di poter
trasmettere attraverso un canto disteso, sonoro ed eloquente, delle dubbie verità “positive”. È il rifiuto
del poeta-vate, del poeta che si fa depositario delle verità ufficiali politiche o religiose che siano.

Lo sfondo di queste liriche è il paesaggio assolato della sua Liguria, che simboleggia non la felicità di
quando era fanciullo (paesaggio pascoliano) ma l’aridità della vita (si fa correlativo oggettivo).

La poesia ha il compito di esplorare il male di vivere dell’uomo novecentesco e di cercare di spiegare la


sofferenza provata dall’uomo, ma la mancanza di certezze portano ad un’unica certezza, in negativo:
“ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (v. 12).

MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO (1916)

Il poeta non adotta un titolo: il primo verso, l’incipit assume il ruolo del titolo.

È una poesia che non si caratterizza per le sue tematiche, ma è una rappresentazione dello stile
(metafore, ritmi, correlativo oggettivo).

“Tremuri”= incerti.

L’originalità dello stile non è il dissolvimento nella natura, non è il panismo di D’Annunzio. È il diario di
un estate diversa, che è pervasa, dominata dal mare di vivere.

Il titolo allude agli scheletri delle Seppie, inutili scarti che galleggiano e sono trascinati a riva dalla
corrente, perché rifiutati dal mare, che, peraltro, è il principale protagonista della raccolta.

La paura ha il valore emblematico di introdurre il tema-chiave dell’estate infiammata che rende tutto
arido e secco. Il meriggio di una calda e assolata giornata estiva è un momento di immobilità e
sospensione: per effetto della calura e della luce accecante, la vita è quasi ferma, inerte, tutto si muove
molto lentamente e a fatica. Il paesaggio ligure delle Cinque Terre, arido e scarno, è quello tipico di
tutta la raccolta: nonostante i numerosi echi verbali di D’Annunzio, siamo lontanissimi dal panismo.
Anche D’Annunzio, infatti, aveva dedicato una poesia al “meriggio”, ma lì il caldo sole pomeridiano
costituiva un tramite privilegiato per raggiungere l’estasi panica, tant’è che il poeta arrivava a dire “il
mio nome è meriggio”; qui, invece, il sole è una luce fortissima e abbagliante, che, però, non permette
di vedere nulla

Lezione del 15 ottobre 2021

LA BUFERA E ALTRO

La raccolta dal titolo tanto esemplificativo, La bufera e altro di Eugenio Montale venne pubblicata nel
1956. E’ divisa in sette sezioni, che si distinguono l’una dall’altra per la varietà dei temi trattati,
dall'attualità drammatica della guerra alla funzione testimoniale della poesia delle ultime liriche:
Finisterre; Dopo; Intermezzo; Flashes e dediche; Silvae; Madrigali privati; Conclusioni provvisorie, in
tutto 58 poesie. Essa racchiude al suo interno poesie composte tra il 1939 e il 1956: anni che
abbracciano un periodo storico molto denso e significativo per l’Italia e l’Europa in genere.

In questo lasso di tempo il poeta visse il dramma della Seconda Guerra Mondiale e lo sfascio del
dopoguerra: esperienze di tale portata e pathos non potevano che caratterizzare la sua produzione
poetica, e aprire un varco all’espressione del pensiero politico per mezzo della lirica. Considerando però
la poesia come qualcosa di trascendente, focalizzata sull’analisi della condizione umana nella sua
complessità e universalità, Montale non si sofferma sui singoli accadimenti storici, ma riafferma il
valore della poesia come espressione della dignità umana e intellettuale, anche nei momenti in cui il
genere umano fornisce la più vile manifestazione di sè. Clizia, che avevamo già incontrato ne Le
occasioni, subisce un’evoluzione che la porta a diventare un’interlocutrice ancora più fondamentale agli
occhi del poeta, il suo ruolo salvifico viene ulteriormente accentuato, in un mondo e in una realtà
quotidiana tanto piegati dalla dittatura fascista (anche se in altre liriche della raccolta Montale rifugge
da ogni illusione di salvezza). Ne La bufera il male di vivere diventa insomma cosmico ed universale,
conseguenza tangibile del terribile momento storico che caratterizza l’italia di quegli anni.

Anche lo stile, la metrica e il linguaggio assumono una nuova caratterizzazione.

Dal punto di vista sintattico e metrico la raccolta si rivela complessa: si alternano componimenti brevi a
poesie dalle strofe molto lunghe, i versi sono per lo più endecasillabi e settenari, la rima libera, e
marcata è la presenza di figure retoriche, che innalzano (e complicano) il livello stilistico della poesia
montaliana.

Fatti politici e fatti personali che sono alla base dell’opera poetica “La bufera e altro”.

I fatti politici italiani, gli eventi storici mondiali, la produzione poetica italiana, i fatti personali e gli
eventi europei del periodo 1940 – 1954, non fanno solo parte del contesto sociale e politico ma molte
volte assurgono a protagonisti di primo piano della raccolta poetica. Tra i fatti politici italiani importanti
che sono alla base dell’opera poetica vi sono innanzitutto: la seconda guerra mondiale; la caduta del
fascismo; la resistenza partigiana; la partecipazione del poeta al Partito d’Azione (1945 – 1946); la
fondazione della rivista “Il mondo” nel 1947; il distacco di Montale dai due maggiori partiti del
dopoguerra (PCI e DC); la delusione verso la nuova società italiana dominata dal conformismo e dal
consumismo, caratteristiche che si accentueranno nel periodo del boom economico tra il 1955 e il
1965. Tra gli eventi storici mondiali alla base dell’opera vi sono innanzitutto: le atrocità del nazismo che
aveva sterminato milioni di ebrei; l’inizio della guerra fredda tra USA e URSS; la divisone dell’Europa in
due blocchi contrapposti tra il dominio sovietico quello Usa. Tra la produzione poetica italiana vi è
innanzitutto: la pubblicazione della terza opera poetica di Giuseppe Ungaretti “Il Dolore” e le sue altre
opere poetiche degli inizi degli anni ’50; la pubblicazione delle opere poetiche di Mario Luzi: “Avvento
Notturno” del 1940, “Un Brindisi” del 1946, “Quaderno Gotico” del 1947, “Primizie del deserto” del
1952 e “Onore del vero” del 1957; le opere poetiche neorealistiche di Salvatore Quasimodo; la nascita
del cinema e della letteratura neorealista da Carlo Cassola e Carlo Levi, da Cesare Pavese a Pier Paolo
Pasolini. I principali fatti personali di Montale del periodo sono: la partenza di Irma Brandeis nel 1938
da Firenze per gli USA; la convivenza con Drusilla Tanzi dal 1939; la conoscenza e la relazione con la
poetessa Maria Luisa Spaziani tra il 1949 e il 1951; il licenziamento da direttore dell’istituto Viesseux e
l’inizio della collaborazione per il “Corriere della sera”; il suo definitivo trasferimento a Milano nel 1948,
dove collabora stabilmente con il Corriere come redattore capo. Con questo incarico nel giornale inizia
a compiere numerosi viaggi in tutto il mondo. Alla fine di questo lungo periodo ricco di fatti storici
mondiali tragici come la guerra e il post guerra, la caduta del fascismo e la nascita della Repubblica
italiana, la fine della poetica dell’ermetismo e la nascita del neorealismo cinematografico e letterario,
Montale, nel 1956, riassume la sua partecipazione a questo periodo pubblicando “La bufera ed altro”.
I temi principali dell’opera poetica sono i seguenti:

1) Gli orrori della guerra.

2) I ricordi di alcuni suoi cari, morti durante la guerra, che sono seppelliti nel giardino della sua casa in
Liguria descritti nella poesia “L’Arca”.

3) I rapporti con Clizia che si trasforma in Iride o Cristofora, cioè che ha la stessa natura di Cristo.

4) Una poesia dedicata alla morte della Madre “A mia madre”.

5) Una poesia dedicata alla moglie Drusilla Tanzi “Ballata scritta in una clinica”.

6) Poesie di ricordi personali.

7) La trasformazione di Clizia in Iride cioè donna salvatrice dell’umanità che il poeta definisce Visiting
Angel o angelo della visitazione, cioè messaggero smaterializzato del divino e della salvezza, Nunzio
alato antagonista del male storico e cosmico, le cui epifanie sono rare e delicate. Il Visiting Angel è più
assente che presente, vive in atmosfere eteree e rarefatte ma certe volte si cala nel mondo degli
uomini, è luminoso e bianco, segno della purezza divina, appare all’alba e come l’alba, si fa
annunciatore e risvegliatore della luce. La sua epifania avviene infatti all’alba come un’apparizione
improvvisa; l’alba rappresenta la possibile salvezza degli uomini, la quale salvezza può essere tanto la
pace quanto la liberazione metafisica. È un’alba polisemica che dopo la guerra si fa interprete della
missione salvifica e rigeneratrice di Clizia, allegoria incrociata della ratio illuminatrice sui disastri della
storia e della trascendentalità assoluta. Questa visione di Clizia-Iride, che scende sulla terra e salva
l’umanità dalle atrocità del nazismo e del fascismo, è espressa nella bella poesia “La primavera
Hitleriana” scritta tra il 1939 e il 1946 che riprende la poesia “Nuove Stanze” pubblicata nel libro “Le
occasioni” del 1939.

8) Iride, trasformata in donna-angelo, ha per Montale la stessa funzione che ha Beatrice nella Divina
Commedia per Dante Alighieri. Essa fa da mediatrice fra gli uomini e Dio; ma a differenza di Beatrice,
Clizia non si incarna, non può perdere i suoi attributi sacrali e mistici e dunque non scende più sulla
terra per salvare l’umanità. Quando Montale si rende conto che Clizia non può scendere sulla terra per
salvare tutti gli uomini, l’abbandona per guardare a una nuova donna terrestre che potrà salvare solo
lui: questa è Volpe, la poetessa con cui il poeta ebbe una storia d’amore nel biennio 1949 –1951.

9) Il passaggio dalla donna angelo (Clizia) alla donna anguilla, cioè Volpe. Nella famosa poesia

“L’anguilla”, Montale fa coesistere le due donne: per l’ultima volta Clizia è esaltata per la sua

capacità di portare Amore e luce sulla terra, ma ella rimane in alto, mistica, guarda a Dio e non più agli
uomini. Allora il poeta si rivolge solo a Volpe (la poetessa Maria Luisa Spaziani) che diventa l’anti-
Beatrice cioè la donna capace di portare la salvezza solo al poeta, come dice nella poesia
“Anniversario”.

Prima poesia:

A MIA MADRE

Lirica che chiude la sezione “Finisterre” della raccolta La bufera ed altro (1956), in cui Eugenio Montale
raccoglie i componimenti scritti tra il 1940 e il 1956 che raccontano il tema della barbarie nella Seconda
Guerra Mondiale. Nell’analisi del testo di A mia madre presentata di seguito, oltre a sviluppare
la parafrasi e riconoscere le figure retoriche, all’interno del commento vengono analizzate le tematiche,
i significati, lo stile e la lingua di questa poesia rivolta da Montale alla madre, il cui amore sopravvive
alla morte nel ricordo, sebbene la donna fosse defunta durante il conflitto.

Tre strofe di versi liberi, tutti endecasillabi

Testo della poesia

1. Ora che il coro delle coturnici

2. ti blandisce nel sonno eterno, rotta

3. felice schiera in fuga verso i clivi

4. vendemmiati del Mesco, or che la lotta

5. dei viventi più infuria, se tu cedi

6. come un’ombra la spoglia

7._______ (e non è un’ombra,

8. o gentile, non è ciò che tu credi)

9. chi ti proteggerà? La strada sgombra

10. non è una via, solo due mani, un volto,

11. quelle mani, quel volto, il gesto d’una

12. vita che non è un’altra ma se stessa,

13. solo questo ti pone nell’eliso

14. folto d’anime e voci in cui tu vivi;

15. e la domanda che tu lasci è anch’essa

16. un gesto tuo, all’ombra delle croci.

Parafrasi discorsiva

Adesso che il canto delle coturnici [= uccelli simili ai fagiani che migrano in autunno; la madre del poeta
era morta nel mese di novembre] allieta il tuo sonno eterno, volando a schiera sopra la tua tomba,
diretta verso le pendici vendemmiate del Mesco, adesso che la guerra fra gli uomini infuria
maggiormente [= si riferisce alla Seconda Guerra Mondiale], se cedi il tuo corpo come se fosse
un’ombra (e non è un’ombra, o gentile, non è ciò che tu credi) chi ti proteggerà? La strada vuota non è
una via che ci guida in qualche luogo [= secondo il poeta la fede in una vita ultraterrena non è veritiera],
solo due mani, un volto, quelle mani, quel volto, il gesto di una vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti distingue nel mio ricordo dall’immagine di altre anime e voci nelle quali vivi. E anche la
domanda che tu mi lasci [= la domanda che la madre lascia al poeta è di non curarsi del corpo ma
dell’anima] è anch’essa tipicamente tua, ti distingue dalle altre persone morte.

Montale vuole mettere in lui l’affetto per la madre, donna che gli ha dato la vita; amore capace di
sopravvivere alla morte.

La questione sulla quale il poeta si sofferma vede in disaccordo lui e la madre, in quanto la donna
sosteneva che alla morte sopravvivesse l’anima, invece Montale sostiene che a sopravvivere sia la
memoria del corpo sepolto, dei gesti e del volto. È evidentemente la ripresa di un tema foscoliano
secondo il quale non c’è vita ultraterrena e la morte è il definitivo annullamento dell’individuo, con
l’unica possibilità di sopravvivenza affidata al ricordo, appunto a quei pochi caratteristici frammenti
dell’esistenza che restano nella memoria dei vivi.

Il poeta si domanda chi potrà mai proteggere la donna se ella deciderà di rinunciare al suo corpo, come
se fosse la prigione della sua anima. Egli, infatti, come già anticipato, ritiene che non ci sia un’esistenza
dopo la morte, se non nel ricordo. Secondo il poeta la via che conduce all’aldilà non esiste e il solo
modo per durare in eterno è quello di rammentare a chi sopravvive i connotati fisici delle persone
morte (quelle mani, quel volto). Ed è questo l’unico modo che conosce il poeta di distinguere nel
ricordo la madre dalla folta schiera di anime meno intensamente ricordate.

LUCE DI INVERNO

Quando scesi dal cielo di Palmira

su palme nane e propilei canditi

e un'unghiata alla golo m'avvertì

che mi avresti rapito,

quando scesi dal cioelo dell'Acropoli

e incontrai, a chilometri, cavagni

di polpi e di murene

(la sega di quei denti

sul cuore rattrappito!),

quando lascia le cime delle aurore

disumane pel gelido museo

di mummie e scarabei (tu stavi male,

unica vita) e confrontai la pomice

e il diaspro, la sabbia e il sole, il fango

e l'argilla divina -

alla scintilla

che si levò fui nuovo e incenerito.

Questo componimento viene pubblicato in comunità nel 1952.

Il poeta restituisce la visione aerea di Palmira: Montale si era recato in Libano e Siria 1948, e memore di
questo viaggio compone la poesia.

Visione dall’alto di Palmira, visione suggestiva.

Il poeta vuole concentrarsi sull’ambientazione medio orientale, per renderci partecipi della sua
esperienza in Medio-Oriente, ciò che ha visto.

Proiezione delle sensazioni e le emozioni del poeta, che si fanno un tutt’uno con gli elementi
paesaggistici.
Occorre soffermarsi sulla reinterpretazione del passato: la realtà che vuole restituire attraverso le
parole, immagini, non è solo descritta, partecipata, ma anche una parola-pensiero, ricerca->
reinterpretazione del passato

La donna ancora una volta è protagonista anche se non presente nel componimento.

La potenza dell’apparizione è pari a quella di Clizia. Tutto ciò che viene osservato, l’intero scenario, si
consuma all’interno di una relazione fatta a Palmira.

Nella terza strofa il poeta ricorda la visita al museo egizio, dopo aver conosciuto la Spaziani.

Gli indizi sono dissimulati, non ci sono nel contesto ma possono farci ricostruire questa relazione
sentimentale intrattenuta dal porte con la sua donna.

La forza dirompente di cui Volpe è portatrice si distribuisce anch'essa sui tre pannelli del polittico che
articola la 'narrazione' della poesia, costellata di segni che fondono ambiguamente estatiche rivelazioni
e manifestazioni violente.

Luce d'inverno si costruisce pertanto come elenco di circostanze che all'improvviso appaiono
teleologicamente indirizzate, seguendo la logica sintattica del parallelismo. Si susseguono infatti tre
subordinate temporali – a loro volta bipartite in un'indicazione geografica e nella comparsa del
profetico indizio – che confluiscono nella

reggente fino all'ultimo posticipata (cfr. Bozzola 2007: 105), creando una sospensione di messianica
attesa.

La poesia si snoda su un'accumulazione di subordinate temporali che precedono la reggente, collocata


a suggellarle conferendo loro una compiutezza di senso, tanto grammaticale quanto concettuale. La
struttura è a più livelli tripartita, per il numero di strofe, di luoghi passati in rassegna, di elementi
naturali confrontati, ma si regge a sua volta sulle cellule binarie delle «palme» e dei «propilei», dei
«polpi» e delle «murene», delle «mummie» e degli «scarabei», della «pomice» e del «diaspro», della
«sabbia» e del «sole», del «fango» e dell'«argilla divina».

La «pomice» è una «varietà po- rosa, con pasta vitrea, di roccia effusiva, appartenente alla famiglia delle
Trachiti, [...] di colore bianco-grigiastro, ruvida, tagliente lungo gli spigoli» (GDLI), mentre il «diaspro» è una
«varietà di quarzo impuro, opaco, assai duro, variamente colorato» (GDLI) e quindi, pur avendo alcune
caratteristiche in comune con la roccia che gli è appaiata (l'opacità, l'impurità), se ne differenzia perché
possiede nel contempo una durezza inscalfibile. Così la «sabbia» rappresenta solo il lato consunto,
sterilmente inaridito del clima torrido, mentre il «sole» ha in sé una potenzialità ancipite in quan- to può
bruciare ma anche infondere vita. Ed è il medesimo scarto che intercorre tra il mero «fango» e l'«argilla»,
solo apparentemente somigliante perché capace invece di plasmare nuove forme per mezzo di un creatore
afflato divino. Pur agendo in Monta- le l'archetipo della cripta (cfr. Agosti 1987: 105-120; Noferi 1997: 147-
187), non ci spingeremmo fino a vedere in queste coppie la prova di una declinazione del tentati- vo di
custodia dell'oggetto in strutture di incorporazione relativamente agli elementi classificabili come 'resti',
espliciti nelle «mummie» e negli «scarabei», e in strutture di introiezione relativamente alle loro
sublimazioni mentali (cfr. invece Agosto 1987: 109). Piuttosto la realtà più feriale, il leopardiano «fango»
del mondo con cui il poeta si è dovuto confrontare una volta svanito il sogno di Clizia acquista finalmente
un senso, nella scoperta che tra di esso può, alla «luce» di Volpe, trovarsi dell'«argilla». (scrivi bene)

NEL PARCO
La lirica presenta una struttura analoga alla precendente: quattro quartine di ottonari e novenari
concluse da un verso isolato. Rimano restringe:stinge, perde:verde,

m'appartiene:vene, canute:ossute, in quasi rima anche con «caduta», come del resto

vento:scorrente e scuote:ruota. Due le ripetizioni: «ombra» e «punge»/«pungo».

ALTRI APPUNTI

L’ORTO

Poesia complessa, attraverso le parole, le immagini che il poeta consegna. Il poeta utilizza vari
riferimenti precisi, a nomi di alberi, di piante.

Immagini si caricano di un valore metaforico: esprimono la condizione di solitudine, ti tormento del


poeta. Topos (dagli ossi di seppia) qui assume un ruolo centrare, diventa predominante. È un ortus
conclusus, non inteso come limitazione, ma come un luogo di protezione e sacralizzai one e adeguata
alla epifania di quella donna angelo che invoca, perché possa liberarlo dalla condizione di non vita.

L’oltre è qui intravisto, una meta possibile. Non c’è una netta antitesi tra una spazio chiuso dalla natura
artificiosa e sottratta alle leggi del divenire e un mondo in ripida di dissoluzione, sia perché anche
all'interno i «luì nidaci» sono «estenuanti a sera», sia perché stavolta il «varco» non è del tutto
impraticabile. Non si tratta più di un «orto» soltanto «reliquiario», di «un morto / viluppo di memorie»
inerti, perché lo sguardo si apre verso l'esterno e a ipotesi future, che nascono proprio da un globale

ripensamento del passato. Il poeta si interroga infatti esplicitamente, in un insistito anaforico «io non
so» che in qualche modo risponde al «Tu non ricordi» della Casa dei doganieri (cfr. Bettarini 2009a: 16),
su una possibile sovrapposizione tra Clizia e Arletta («io non so se il tuo piede / attutito [...] è quello che
mi colse un'altra estate») e forse anche Crisalide («io non so se la mano che mi sfiora la spalla / è la
stessa che un tempo / sulla celesta rispondeva a gemiti / d'altri nidi»).

Lo scorporamento (Iride) ha permesso la fusione tra soggetto e oggetto (Nella serra, Nel parco) e ora
persino tra le interlocutrici (L'orto, 'Ezekiel saw the Wheel...'), l'una vista come figura dell'altra in
un'ideale continuità del messaggio. Infatti non so- lo il poeta «distingue a stento» le «membra» di Clizia
dalle proprie, ma anche da quelle di Arletta, dato che il «piede / attutito» della prima, che nell'VIII
Mottetto era un «passo che proviene / dalla serra sì lieve» e che risente dei «pas retenus» di Va- léry
(cfr. Bettarini 2009a: 16), si incunea su «quello che mi colse un'altra estate / prima che una folata /
radente contro il picco irto del Mesco / infrangesse il mio spec- chio», ossia, appunto, sul «passo» che
«sfiorava» le «spume» (Punta del Mesco) di Arletta, a cui una «folata [...] scompigliò la chioma» in
Vento e bandiere (cfr. Bet- tarini 2009a: 16; Grignani 1987: 58).

Ma è comunque la solare per antonomasia che predomina sulla musa crepuscola- re e umbratile, anche
in questo caso «sommersa», ammessa a rapidi affioramenti solo per carsici repêchages della memoria.
È indubitabilmente Clizia la «messaggera», la donna capace di «leggere chiara come in un libro» il
sopraggiungere dell'«ora della tortura e dei lamenti», l'«anima indivisa» dotata di «sguardo di cristallo»
e «cuore d'ametista». Pur restando la presenza di qualche tassello arlettiano anche nella descri- zione
della «trasmigratrice», di colei che attraversa il «sentiero fatto d'aria», se i «labbri muti» sono una
diretta filiazione del «labbro / di sangue» che si fa «più mu- to» di Da una torre. Il «cieco incubo onde
cresco / alla morte dal giorno che ti vidi» si collega invece all'amore per Clizia. La redazione apparsa su
«La Fiera Letteraria» ne chiarisce infatti il senso, dato che lì l'«incubo» era ossimoricamente «dolce»,
dun- que un leopardiano «dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente», «ca- gion diletta
d'infiniti affanni», motivo per il quale «Da che ti vidi pria [...] ai sogni miei / la tua sovrana imago /
quante volte mancò?». Un Pensiero dominante che si intreccia ad Amore e Morte (Aspasia verrà
esplicitamente citata nel Quaderno di quattro anni) e che nel passaggio all'edizione Pozza del 1956
muta di segno nel bi- lancio complessivo di un passato ormai concluso. Poiché Clizia è anche portatrice
di un «cieco incubo», soprattutto a rileggere alcune liriche di Finisterre come Nel sonno e Giorno e
notte, intendendo ovviamente l'aggettivo nel suo significato meno usuale di 'nascosto', 'senza sbocco'.

Il Dio non nominato ma sottinteso di Iride si dialettizza qui nel «mio Dio» e nel «tuo», ma non
parleremmo del vero Dio in contrapposizione a quello tradizionale del poeta (cfr. invece Macrí 1996:
176), né di un rispetto verso il credo dell'interlocutrice tanto più ostentato quanto più pervaso da una
calcificata diffidenza (cfr. invece Lupe- rini 1986: 152). Clizia è ancora figura Christi, tanto che l'«ora
della tortura e dei la- menti [...] non ti divise, anima indivisa, / dal supplizio inumano». Non le è dunque
risparmiata la sofferenza tutta umana (benché «inumana» nell'intensità) della propria croce. E appunto,
in quanto divinità incarnata, è la «prediletta / del mio Dio» che in- verò il Verbo sulla terra, ma allo
stesso tempo può esserlo anche di quello della religione ebraica (il «tuo»), visto che Irma era una
seguace della dottrina frankista e di un sincretismo teosofico che unisse le due tradizioni (cfr. De Caro
1999: 48).

Il rapporto tra fenomenico e trascendente è ribadito nella strofa finale, nella ri- proposizione della
fisicità della «messaggera» («labbri», «membra», «diti»), subito trasfigurata in qualità pressoché
miracolistiche («o diti che smorzano / la sete dei mo- renti e i vivi infocano») per poi afferire a un
«intento» sovraindividuale (cfr. Croce 1998: 483). Ma in questo, che è da inquadrare all'interno
dell'universo dantesco (cfr. Macrí 1996: 176), non vediamo, insieme a Bonora (cfr. Bonora 1983: 108),
l'«ambiguità» osservata invece da Cambon. Il critico riscontra infatti un dilemma tra il verbo 'creare'
(che perterrebbe solo a Dio) e le «sfere del quadrante» (che derivano dall'uomo), per poi risolvere la
questione constatando che la mente umana è comun- que emanazione di quella divina (cfr. Cambon
1966: 177). L'«intento» è piuttosto lo stadio anteriore allo stesso «pensiero di Dio», che ha determinato
l'atto della creazione e quindi originato il mondo con le sue coordinate spazio-temporali («che hai
creato fuor della tua misura / le sfere del quadrante e che ti espandi / in tempo d'uomo, in spazio
d'uomo»). Anche se a nostro avviso L'orto non suggella la «fine del momento veramente religioso della
Bufera» (Bonora 1983: 109), che posticiperemmo semmai a dopo Voce giunta con le folaghe, la
conclusione prospetta tuttavia un «destino» già ineluttabilmente segnato (il «disco di già inciso»),
ripiegando su un senso di sconfit- ta.

Il fulcro del discorso è ancora una volta il rapporto tra libertà e necessità.

La lirica è strutturata in quattro strofe di tredici versi ciascuna, di misura endeca- sillabica o settenaria a
eco della canzone, con poche eccezioni: un decasillabo al v. 13, un novenario al v. 18 e alcuni
alessandrini (vv. 10, 17, 23, 29, 45), che sono tut- tavia dei doppi settenari piani. I periodi seguono la
scansione strofica: il primo ne abbraccia due, mentre gli altri coincidono perfettamente con l'unità
formale. Anche se non si tratta di un accumulo di subordinate prolettiche poiché la principale è subito
data («Io non so»), «la pletora delle determinazioni» in cui la reggente «si estenua» mostra un
«soggetto in affanno, che lavora di recupero», con una «sequenza crescente di brandelli di frase
complessa». L'anafora («io non so» è ripetuto per ben cinque volte) recupera di continuo le fila del
discorso.

Le rime sono piuttosto diradate, tranne nella terza strofa, a sostegno di tale com- plessità sintattica:
messaggera:sera, ghiande:ghirlande, aerine:confine, vela:trapela, cresco:Mesco, sfiora:ora,
lucenti:lamenti:morenti, muro:duro, mondo:fondo, tendì- ne:officine, mano:Vulcano:inumano,
cristallo:gallo, vista:ametista, smorzano:forza (ipermetra), volo:solo. Il ritmo è cadenzato dalle riprese,
che contribuiscono a man- tenere la coesione interna, ma che vengono altresì distribuite quasi in
sordina, inte- grate nel contesto semantico che le ingloba. Fitta è anche la presenza di parole sdruc-
ciole: «lagnano», «piovono», «sfioccano», «carpini», «accennano», «incubo», «gemi- ti», «fuliggine»,
«celavano», «opera», «smorzano», «infocano», «dèmoni», «angio- le».

La raccolta di Montale Satura è stata pubblicata nel 1971. La raccolta si divide in due parti: Satura 1 e
Satura 2. La differenza è importante sia perché esse sono appunto state scritte in due tempi cronologici
diversi, sia perché trattano temi diversi. Nella opera Montale fa emergere il tema del ricordo della
moglie orami defunta, Drusilla Tansi, soprannominata Mosca per la sua precoce cecità. Nelle sue poesie
Montale riflette in modo satirico sulle vicende legate alla vita quotidiana. Lo stile è diaristico, dunque in
stretta correlazione con la realtà e la vita di ogni giorno, che si fa, questa quotidianità, anche
dimensione espressiva nei componimenti. (Tramite la quotidianità Montale dialoga con l’ormai defunta
moglie, tramite oggetti come la macchina da scrivere, un quadro appese al muro, ecc..) .

Lo stile, dunque oscilla tra la poesia e la prosa, l’approccio è discorsivo, il linguaggio è più scorrevole,
confidenziale, quotidiano, per mantenere appunto un’aderenza alla realtà quotidiana. Quali sono allora
i temi i perni principali attorno cui ruota il nuovo stile compositivo del poeta?

1. Impegno morale;

2. Il quotidiano e la cronaca;

3. La natura diaristica;

4. La sofferenza che si fa ironia.

Questo modo di esprimersi in parte si avvicina allo stile crepuscolare che utilizza lo stesso umorismo
scarno dell’autore, ma allo stesso tempo se ne allontana, per la forza, per la spinta del poeta, che non è
vittima della vita e del sentimentalismo.

Nell’opera inoltre Montale sottolinea la sua lontananza dai poeti nuovi, dal suo uscire dagli schemi,
nella sua inappartenenza, e del suo sdegno nei confronti di quei poeti che si rinchiudono in gabbie
tematiche quali la politica, la storia. Montale si dichiara apartitico, a politico, o non appartenente a
nessun’altra afferenza. Resterà sempre autonomo, smarcato dalle mode ed indipendente rispetto al
pensiero di massa. (Tessera fascista per la quale viene licenziato).

Satura è il IV atto della produzione poetica di Eugenio Montale, la sua apparizione si ebbe nel ’71, e la
raccolta appunto conteneva vari temi articolati in due sezioni: Xenia I e Xenia II.

Il titolo di queste raccolte deriva dalla raccolta di epigrammi di Marziale, ovvero delle piccole poesie
con temi poco rilevanti. Gli Xenia erano poesie dedicati ad un amico che doveva affrontare un lungo
viaggio; Montale dedica tali poesie alla moglie Drusilla la quale però non affronta un viaggio terreno,
ma affronta il viaggio della morte. Nelle poesie Drusilla verrà identificata con l’appellativo Mosca sia per
la sua effettiva cecità sia per la sua capacità di vedere oltre le apparenze, per la sua sensibilità
spirituale, di cui il poeta parlerà ampiamente nei componimenti. Ricordiamo che: il poeta conosce
Drusilla Tanzi a Firenze negli anni 1927-28, durante le visita al caffè delle Giubbe Rosse. (E’ in questo
contesto che il paesaggio delle sue poesie si fa tensione e diventa proiezione del suo stato d’animo). La
seconda parte invece contiene poesie di argomenti vari come la politica e la filosofia, i caratteri sono
sempre parodici e derisori. Il nome Satura ha una duplice funzione, quello di esplicare il genere della
raccolta, e ad esplicare il senso di saturazione della proposta poetica.

Il tema principale dell’opera è probabilmente il DISINCANTO, una sorta di raggiunta INDIFFERENZA, una
sfiducia esistenziale verso la società, che si evolve in negativo e si presta al predominio della volgarità:
una volgarità che si fa espressione di massificazione, politiche e filosofie rivelatrici, omologazione del
pensiero. Tutto ciò per Montale è riuscito ad appiattire le istanze del pensiero critico all’interno della
società. Ecco che allora Montale al disincanto reagisce con l’ironia, un’ironia blanda, caustica. La parola
di Montale è sempre curata, incisiva, messa nel posto giusto, ma non è mai decorativa, ornativa, vuota
o retorica. Ecco allora che possiamo parlare di pessimismo attivo del poeta, che tramite l’ironia non si
piega su se stesso. Il poeta non rinuncia mai alla speranza sebbene conosce l’impossibilità dell’oltre. La
poesia è sempre dedicata ad una donna che non è più Clizia, la donna angelo, ma Mosco la sua
consorte che è assente, che è morta. L’assenza di questa donna però si trasforma per il poeta essenza,
è dunque questo il motivo per cui il poeta riesce ancora a colloquiare con lei. Il poeta parla, dialoga con
la moglie tramite quasi sempre una realtà cruda, una realtà non magica, una realtà effettiva. Gli oggetti
diventano tramite di riflessione e colloquio, e il poeta lì aspetta in attesa di una sperata risposta che
però non arriverà mai.

XENIA 1

COMPONIMENTO 6 pagina 294

COMMENTO

Questo componimento risale ad una dichiarazione che Montale fece durante un’intervista concessa a
Corrado Staiano dal titolo: “Il poeta dell’Apocalisse”. Il poeta afferma che la sua vita è sempre e solo
stata quella, e non poteva essere altrimenti, la soluzione per vivere un’esistenza diversa sarebbe stata
non scrivere nulla.

Nel primo verso: “Non hai pensato..” c’è quel tu allocutivo che ritroviamo negli Ossi di Seppia che
costituisce l’alter ego del poeta, in questo caso egli si riferisce a Mosca conversando con lei e arrivando
poi a parlare di se. Nel componimento di fa riferimento alla capacità di scrivere, e il suo rifiuto della
scrittura è esemplificazione del suo disincanto. Il non scrivere del poeta sarebbe significato vivere la vita
direttamente non attraverso l’arte. Questa consapevolezza di sé fa provare al poeta nausea di se, paura
e disprezzo per la sua inettitudine, vergogna nei confronti di colei che vive invece la vita non nella
letteratura. Dunque non sostituendo la propria esistenza. Alla nausea si aggiunge il terrore di essere
accomunato ai poeti della nuova generazione che appunto amano scrivere e parlare. E di essere per
questo motivo respinto dalla sua donna.

COMPONIMENTO 7 pagina 295

COMMENTO

In questo componimento ritorna nuovamente il tema del rapporto tra il Quaggiù, ovvero la dimensione
terrena e l’altro mondo, la dimensione ultraterrena. La contrapposizione si estende a due temi cari a
Montale Speranza e Disperazione: la speranza, quella tensione, nel voler raggiungere una nuova orbita,
ma anche disperazione perché sa che questa è un’illusione e che questa orbità non sarà mai raggiunta.
La disperazione della solitudine, della riflessione se se stessi e sulla morte e la speranza dell’esistenza di
un’altra vita, un’altra dimensione oltre la morte.

Montale spera nella vita ultraterrena ma sa che dopo la morte non esiste nulla, è per questo che la sua
carica di speranza non può essere interpretata come carica teologica ma teleologica, come impulso di
speranza. Montale sostiene durante un’inchiesta a cura di Silvio Beltoldi, chiamata “Le Grandi domande
della Fede” afferma che per quanto concerne alla sopravvivenza essa è legata alla dimensione in cui
vive l’uomo che è soggetta alle leggi temporali e spaziali. Se viene a mancare il concetto di tempo e
spazio allora non è immaginabile nulla dopo la morte. La scomparsa dell’uomo coincide con la sia uscita
del tempo e dallo spazio, è possibile però concepire qualcosa oltre al tempo e oltre lo spazio e pure che
esista.
COMPONIMENTO 8 pagina 296

COMMENTO

Argomento chiave della poesia è la comunicazione, il dialogo tra Mosca e il poeta. I temi non sono più
memoriali ma presenti di fatti, infatti questo e uno dei due Xenion in cui Montale utilizza tempi presenti
e futuri e non passati e al posto della revocazione c’è l’ascolto.

La parola della donna è carica di valore anche se quasi balbettata ed imprudente, impertinente, in
morte così come lo era in vita, ma poiché non si tratta più di parole mortali, vive, ne cambia il colore e
l’accento, assume un altro tono. Deve dunque cambiare il mezzo attraverso cui tali parole vengono
emesse, lo strumento è il poeta o meglio la macchina da scrivere che rende essente l’assenza della
defunta moglie.

Il componimento presenta una forte musicalità, essendo anche ricca di allitterazioni vv.4-5. La
precisione e la perfezione stilistica dell enjabemant al verso 6 sigari -> cesura e poi di Brissago.

COMPONIMENTO 9 pagina 297

COMMENTO

Il tema di questo componimento è l’ascolto. Si parla di Mosca della moglie del poeta che utilizzava
come modo per vedere l’ascolto. Mosca era Miope ma questo per lei non era un impedimento anzi
aveva fatto maturare il lei, a seguito della cecità una forte e acuta sensibilità percettiva. Mosca riesce a
vedere ciò che altri ignorano.

Forti dice: il poeta apprende la lezione umile di sciogliere i piccoli enigmi quotidiani ascoltando
riducendo ancora la sua ora ridotta visione delle cerniere del mondo fino a coglierne il nodo vero.

La conclusione è riservata ad uno sgradevole presente, un presente che è pervaso di inquietudine


angosciosa, un presente fatto di solitudine fatto di malinconia, segnato dal male di vivere, segnato dal
presente. Ancora una volta metafora esplicativa, dell’inutilità della realtà stessa.

COMPONIMENTO 13 pagina 301

COMMENTO

Scritta nel1965. Il tema dell’opera è la memoria e il ricordo, quello del ricordo indiretto di mosca
tramite la rievocazione del ricordo del Fratello della moglie.

Critico Forti dice: Ci troviamo di fronte al ricordo dei morti altrimenti dimenticati, la memoria è punto
fermo per quegli affetti se non ci fosse stata avrebbe consegnato direttamente queste figure all’oblio.

Il ritratto della moglie e il fratello è solo un pretesto per Montale per parlare di altro, infatti dopo i primi
versi che fungono da introduzione il poeta rifiuta ogni utilità di ricerca, perché ora ha la certezza di esse
già ombra. (Concezione della sopravvivenza tramite il ricordo).

COMPONIMENTO 14 pagina 302

COMMENTO
Il tema del componimento è l’inappartenenza e il sentimento legato a tale tema.

Emerge una particolare orchestrazione stilistica e strofica del poeta, la parola consegna quelle che sono
le emozioni di Montale.

Non si conosce l’identità di coloro che definiscono il poeta non appartenente a nessuna realtà, ma
sappiamo che l’accusa fu mossa da Pasolini che lo definisce un poeta non impegnato, non attento alle
proprie opere e ai veri problemi del suo tempo.

Montale risponde alla critica di Pasolini su Satura, nella lettera al Malborio. Giocando sull’ambiguità dei
sensi Montale risponde che la sua poesia appartiene a Mosca, che si è fatta essenza in quanto assente
ed è sempre con il poeta.

Nella poesia Drusilla è l’unica grazie alla sua sensibilità di capire, carpire la differenza tra gli estremi:
moto e stasi, vuoto e pieno, i così detti paradossi montaliani, e detto ciò il poeta vuole affermare che
forse non esiste nemmeno differenza tra malattia e vitalità. Drusilla cadde rompendosi il femore, e fu
ingessata, ma quell’occasione non divenne semplice stasi anzi, fu l’occasione per compiere un lungo
viaggio che le ha permesso di capire la verità delle cose. L’ardio vero è compreso da Mosca più di
quanto non lo abbia mai fatto il poeta. Ecco perché come dice nel I Xenion il poeta si sente inadeguato
alla donna. Nella parte finale della poesia però ripiomba la cruda realtà, Mosca non da risposta al poeta
che nonostante il suo essere una cosa con lui non riesce a saziare nel poeta la voglia di lei.

Riprendiamo dall’ultimo componimento negli Xenia I:

Quando Clizia va via negli Stati Uniti non è più un punto di riferimento per il poeta, alla figura di Clizia
allora si sostituiscono nelle Bufera ed altro la figura di Volpe (donna terrena, reale, però allo stesso
tempo l’anti-beatrice), e quella di Mosca in Satura una beatrice però resa terrena, reale.

La sezione di Xenia dell’opera Satura, si divide in I e II; il tema che accompagna quello del dialogo tra il
Poeta e la moglie ormai defunta, e la speranza, che abbiamo intravisto anche nella poesia “L’Orto”: cioè
la possibilità di intravedere un varco, e di uscire da quel recinto appunto, andare oltre quella muraglia
di cui abbiamo parlato a proposito della poesia “Meriggiare Pallido e Assorto”.

E’ un Montale diverso della prima maniera, non è chiuso, ermetico, e ci consegna un linguaggio più
colloquiale, semplice, il linguaggio è dialogico.

Anche il “Tu” Allocutivo si modifica: negli Ossi di Seppi era trasfigurazione dell’Io del poeta, che diveniva
soggettività nella sua poetica, questo della Satura è un “Tu” manifestato dalla Donna, non un alter ego.

La donna (Mosca) nei componimenti guida il poeta, non è Clizia, non appartiene ad un’altra
dimensione, ma non può nemmeno essere considerata l’anti-Beatrice come Volpe, perché concreta. La
donna consegna al poeta infatti una certa positività, ovvro la speranza, quella di poter uscire dall’Orto,
di dover continuare a sperare.

Altro tema importante che sottende nelle poesie degli Xenia è la volontà di Montale di farsi baluardo di
una identità civile, lo scopo è recuperare un senso di Humanitas sottaciuto alla contemporanea
mercificazione, omologazione culturale e sociale. Di per se Montale si ritiene sganciato da ogni realtà,
da ogni moda, è autonomo, ed è per questo che decide di rispondere alle critiche mosse verso gli Xenia
di Pasolini. In effetti la definizione: “Ermetico” che noi diamo a Montale non è stata mai dichiarata
dall’autore, vista la sua poca o nulla aderenza a nessuna corrente, nemmeno letteraria. Per quanto
possa effettivamente il suo linguaggio essere criptico egli va oltre indagando la realtà materiale delle
cose, colloquiando con gli oggetti per trovare quello che è il senso dell’esistenza. Lo stile di Montale
inoltre non aderisce ad un unico autore passato anzi, passa da Petrarca a Dante per quanto concerne la
sua visione dell’amore stilnovistica. (Dantismo Montariano). Montale si avvicina molto anche alla
concezione Pascoliana di stupore, che però non è propriamente la stessa, se per Pascoli lo stupore è
l’arma per combattere inadeguatezza per Montale è solo un’arma conoscitiva, un renderci conto della
realtà che lo circonda. Anche Pirandello è coinvolto con Montale il senso di inadeguatezza e
smarrimento topico del male di vivere ha portato alla teoria della spersonificazione ideata proprio da
Pirandello, che reagisce però in modo diverso da Montale. Il nostro poeta continua a vivere la propria
vita senza mai rinunciare a quella tensione.

In fine è essenziale dire che la poesia è lo strumento adatto alla rievocazione e al colloquio con la
defunta moglie, ma ciò non significa che la poesia ha il potere di eternare il ricordo, prima o poi la
poesia così come il tempo che il poeta impiega per rifletterla si consuma, l’assenza prevale sull’essenza
ed al poeta non resta altro che la cruda realtà. Il paesaggio onirico, magico scompare, lasciando spazio
alla realtà.

XENION II

COMPONIMENTO N.5

COMMENTO

Il registro del poeta è lineare, colloquiale, prosastico, che si fa prosa, desublimato, con una sua raffinata
musicalità, dettata dalle rime, e anche da alcuni enjabemant, dettata inoltre dall’elemento iterazione, a
scandire il pensiero il messaggio della poesia.

Il poeta ha sceso dandole il braccio, si rivolge a Mosca, almeno un milione di scale, iperbole, con ciò
intende dire che hanno fatto insieme tante esperienze, condivise con lei, questa corrispondenza
esistenziale, si fa quasi condivisione sentimentale, corrispondenza di amorosi sensi, così come afferma
Ugo Foscolo.

Il poeta permette alla moglie di appoggiarsi al suo braccio per sentirsi più sicuro e certo: la sicurezza
che è prolettica, che sottende in se l’insicurezza della realtà, la fragilità della vita. Ora che non c’è più,
perché è morta, ora è buio, è paura, incertezza, insicurezza ad ogni gradino. Ed il poeta è costretto a
dover continuare il viaggio dell’esistenza da solo. La funzione dell’avverbio, fondamentale perché
esplica un senso di tormento nell’esistenza. Le delusioni continue, i fallimenti cui vivendo si compiono è
beato chi crede, reputa convinto che la realtà sia quella che appare.

Ha sceso milioni di scale dandole il braccio non perché con quattro occhi si vede di più, ma perché con
te ero convinto, che di noi due, alla fine le pupille capaci di vedere (ovvero cogliere, intercettare, di
scrutare, penetrare nella realtà), meglio erano le tue. Andare al di là delle sensibilità, ed intercettare
una possibile verità, quindi di poter andare oltre il muro.

Noi attraverso la forza dell’intelletto, tutti noi, (VISIONE CORALICA), possiamo tendere a cogliere la
realtà, il ragionare ci permette di uscire dal groviglio delle cose. Il poeta aggiunge la seconda strofa,
perché sottolinea che comunque bisogna continuare a vivere che la vita deve continuare ad essere
percorsa. Si poteva fermare dicendo che sono “stupidi” quelli che credono che la realtà sia quella che
appare, ma lui va oltre, ed incoraggia a continuare la vita:

L’incontro con un fantasma recuperato e rivitalizzato attraverso la memoria, gli oggetti che hanno sì
una funzione correlativa, ma in questo caso hanno una funzione evocativa, si che il poeta rifletta, riveda
che si metta in dubbio, che si analizza, che dunque si reputa umano.
Il poeta non avrebbe potuto fare questo viaggio se non ci fosse stata lei. (E’ reale perché l’ha vissuta).
L’incontro si verifica solo a livello interiore. Elementi concorrono a costruire una dimensione magica
onirica.

Nella prima strofa smarrimento, sente di precipitare nel vuoto a causa di un conforto che non c’è più, e
ad ogni passo, gli pare che l’esistenza sconfini nel vuoto, rivelandosi senza significato, senza senso.

L’immagine dello scendere le scale, simbolismo, allude al progressivo avvicinarsi alla vecchiaia
(domanda di riflessione) e poi alla morte. Confronto con Pascoli nelle Miricae, vorrebbe essere con le
Gru che migrano, si alza si appoggia al suo borbone, non alla donna, e continua il pellegrinaggio.
Continua così il viaggio Montale.

Montale si può definire un nomade ma per lui non c’è un punto di arrivo, deve confrontarsi con il vuoto
della realtà, con l’arido vero, non c’è punto d’arrivo.

Si intravede la possibilità di avere un’essenza altra CON I LIMONI? O ancora di avere dei GIRASOLI.
Perché quella pianta si assimila a quella epifania di salvezza, simbolo di luce e speranza.

Seconda strofa elogio alla virtù della donna, nonostante la grave miopia. A lei e alla sua particolare
Virtù di sondare, capire e penetrare la verità dell’esistenza. Il poeta ci dice di non avere fiducia si affida
alla donna perché lei ha capito come debba essere letta penetrata, la realtà.

Non è la vita fisica quella che più ha valore, ma l’immagine delle sole vere pupille della sua donna
simboleggiano la capacità, il vero senso del mondo, al di là delle apparenze.

COMPONIMENTO N.13

COMMENTO

Si parla di un ricordo. Anche qui c’è un oggetto di comunicazione, visivo. Ci porta a quella bella poesia,
di Guido Cozzani: “Amica di Nonna Speranza”, c’è un richiamo crepuscolare.

Il poeta intraprende un dialogo attraverso quell’oggetto Dagherrotipo, dialogo immaginario e silenzioso


con la sua donna, ormai assente, però il dagherrotipo permette l’essenza. Il poeta avverte attraverso
ancora una volta questo oggetto, questo dagherrotipo che concorre a costruire la dimensione
esplicitamente onirica e magica. Può così rivivere la propria donna, e lo riconduce ai momenti più
significativi che hanno segnato la loro storia d’amore. Il poeta avverte sente, la presenza silenziosa della
moglie ed esprime, ci restituisce, le sue emozioni, su carta, ne fa una poesia dono, ecco XENION.

E’ un soggetto-oggetto fondamentale, assume un ruolo essenziale nel componimento. Dopo la morte


della moglie il poeta ha trovato e poi appeso un’immagine fotografica, del padre di lei, il Dagherrotipo è
molto prezioso, non solo perché è molto antico, ma perché questo simboleggia in modo concreto,
autentico, la stirpe, il pedigree di Drusilla. Vuole ricomporre la storia genealogica, risultano vani e
difficili da poter realizzare, e allora: Si chiede, Qual è la ragione, la vera motivazione che lo ha spinto ad
andare avanti? La risposta è l’amore incrinato per la sua Drusilla.

Non è passivo Montale lui continua a vivere. Andare avanti, l’amore infinito per la sua Drusilla, per la
sua Mosca, permette al poeta di continuare la ricerca: infatti negli ultimi tre versi il poeta scrive:
“eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto”.

Vuole esprimere i sentimenti che arrivano, scaturiscono dal profondo del suo cuore, proprio come
l’amore per la donna.
Continuiamo con la seconda parte della raccolta di poesia Satura. La prima poesia che analizzeremo è
“La storia” una delle poesie più importanti della prima parte della seconda metà di Satura.

Il resto delle poesie sono di argomento più vago e riguardano (sempre in termini di parodia e talvolta di
derisione) la politica e la filosofia. Il termine “satura” è finalizzato sia a rendere il significato del genere
letterario, sia alla saturazione della proposta poetica, alla consunzione delle capacità del linguaggio e
dell’arte di costruire e di tutelare il bello.

In riferimento al genere letterario si nota che anche nella letteratura latina non è stata fornita una
definizione etimologica univoca. Quintiliano, nell’Istitutio oratoria afferma “Quidem satura tota nostra
est”, rivendicando con orgoglio che è un genere letterario esclusivo della civiltà romana. Talvolta è
riconducibile alla satira menippea, talvolta ancora ad una ricetta culinaria detta “satura lanx” che
consiste in un ripieno di vari alimenti. Infatti non abbiamo espedienti nella letteratura greca di generi
simili. Iniziato da Lucilio e poi raffinati dalla poesia di Orazio e Persio la “satura” si è sempre
contraddistinta per l’eterogeneità dei temi e delle forme espressive. Eterogeneità di forme e sostanze
che hanno garantito al genere letterario la prerogativa di deridere, parodizzare, attaccare ciò che risulta
in ogni altro ambito situazionale inattaccabile. Del resto anche Freud ha scritto molto sulle capacità
espressive del motto spiritoso e arguto. Satura: può esserci di tutto. Satura dunque resta la raccolta di
Montale più eterogenea per temi e forme espressive.

LA STORIA

ANALISI E COMMENTO

In queste lirica il poeta si diverte (ma con una punta di amarezza) ad ironizzare sulla storia: esso, è in un
certo senso un concetto ritenuto importante e filosofico, e che nonostante ciò il poeta si diverte a
smontare passo passo. L’angolo di visuale del poeta è un angolino, che nel finale della poesia, emerge e
da dove il poeta osserva la vita.

Il componimento, come già detto è diviso in due parte, dove viene giocosamente affermato, in antitesi,
ciò che la Storia è e ciò che la storia al contrario non è.

La storia non si snoda

come una catena

di anelli ininterrotta.

In ogni caso

molti anelli non tengono.

La storia non contiene

il prima e il dopo,

nulla che in lei borbotti

a lento fuoco.

La storia non è prodotta

da chi la pensa e neppure

da chi l'ignora. La storia


non si fa strada, si ostina,

detesta il poco a poco, non procede

né recede, si sposta di binario

e la sua direzione

non è nell'orario.

La storia non giustifica

e non deplora,

la storia non è intrinseca

perché è fuori.

La storia non somministra carezze o colpi di frusta.

La storia non è magistra

di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve

a farla più vera e più giusta.

La prima parte, che occupa un’intera lunga strofa, contiene una serie di negazioni, per dire ciò che
storia non è, rovesciando così i luoghi comuni che la cultura europea ha costruito sul concetto di storia.

La storia non un continuum, ed in ogni caso spesso le certezze che gli uomini hanno costruito su di essa
non sono veritiere. -La storia non contiene un prima e un dopo- la storia non è fatta di causa ed effetti,
non c’è una sequenza di fatti ricostruibile (non si snoda come una catena di anelli ininterrotta).

La storia non punisce i malvagi e premia i buoni (non ha una provvidenza che la guidi), non ha un
andamento graduale, non rispetta le regole che l’uomo impone e men che meno può insegare qualcosa
(non è magistra).

Il poeta demolisce tutte le certezze che l’uomo ha sulla storia:

- Che abbia in qualche modo una giustizia intrinseca;

- Che sia fatta di grandi eroi o di grandi filosofi;

- Che sia una forma di miglioramento continuo;

- Che abbia una teleologia, ovvero un rapporto di causa ed effetto, insomma, una meta.

In questa prima strofa la poetica della negazione avviene tramite due particolari figure retoriche:

- LITOTE: Consiste nel dire una cosa negando il suo contrario: io sono al secondo piano non al primo;

- ANAFORA: Consiste nella ripetizione di una o più parole all’inizio di versi consecutivi.

Questo avviene non perché il poeta non riesce a dare alla storia una definizione precisa, ma per
enfatizzare il processo di demolizione che il poeta applica lungo la lettura della poesia.

La storia è anche benevola: distrugge

quanto più può: se esagerasse, certo

sarebbe meglio, ma la storia è a corto


di notizie, non compie tutte le sue vendette.

La storia gratta il fondo

come una rete a strascico

con qualche strappo e più di un pesce sfugge.

Qualche volta s'incontra l'ectoplasma

d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.

Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.

Gli altri, nel sacco, si credono

più liberi di lui.

La storia però ci lascia dietro anfratti e ripari in cui ci si può infilare per nascondersi. Essa, infatti non
punisce e non premia nessuno, dunque da lei si può sopravvivere alla meglio. Ma, dice il poeta, chi
riesce a sfuggire dalla - rete a strascico – non ne è neppure consapevole né tanto meno e consapevole
della propria (relativa fortuna).

Noi non possiamo dire nulla di preciso e certo sulla storia, ma solo ciò che non è. Questo tema ricorda
molto quello di “Non chiederci parola” degli ODS. La storia resta indecifrabile e ambigua, e resta tale
anche nella seconda parte quando il poeta sembra chiarire ciò che forse la storia è. Ciò nonostante,
cioè nonostante l’apparente conclusione positiva il poeta, comunque non ne riesce a dare una
definizione chiara.

La conclusione lascia trasparire un finale positivo, che però ha un non so che di amaro: la storia lascia
effettivamente a volte scappare qualcuno dalle sue mani.

La fortuna di cui parla il poeta è dunque quella di non entrare a far parte della storia, così sfuggendovi.
Non essendo dunque mai nominato nei libri, nei monumenti, documenti ecc…

Il concetto di Montale si articolare sulla base di una società moderna dove l’apparire diventa una delle
cose che più conta. Ancora una volta, dunque Montale appare attuale agli occhi della sua società che
poi in fondo non è poi così diversa dalla nostra.

Montale articola il suo pensiero attraverso una spiccata semplicità lessicale, che però non appare mai
povera. La realtà del poeta è effettiva, non magica, è il poeta che parla della società.

In fine è essenziale dire che pur capendo quanto detto dal poeta, e giungendo ad una conclusione
rivelatrice del NON valore della storia, questo non porterà comunque ad una maggiore veridicità di
quest’ultima. – Accorgersene non serve / a farla più vera o giusta - .

LA POESIA

L’angosciante questione

se sia a freddo o a caldo l’ispirazione

non appartiene alla scienza termica.

Il raptus3 non produce, il vuoto4 non conduce,

non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto5.

Si tratterà piuttosto di parole


molto importune

che hanno fretta di uscire

dal forno o dal surgelante6.

Il fatto non è importante. Appena fuori

si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:

che sto a farci?

II

Con orrore

la poesia rifiuta

le glosse7 degli scoliasti8.

Ma non è certo che la troppo muta

basti a se stessa

al trovarobe9 che in lei è inciampato

senza sapere di esserne

l’autore.

COMMENTO

Nel corso della sua vita, Montale riflette spesso sul ruolo della poesia, fino a giungere alla concezione
presente in Satura che appare sicuramente più pessimista delle altre. Con il suo solito sarcasmo
Montale discute sulla disputa secolare che vede come tema la nascita della parola poetica, che può
essere generata o dal lavorio della ragione o dall’istinto del cuore.

Egli, in sintesi nega entrambe le tesi affermandone una sua terza e innovativa: la poesia non è frutto nel
le cuore ne della ragione, ma frutto di un urgenza del poeta, le parole chiedono disperatamente di
essere tramutate in poesia, ma una volta divenute capolavoro perdono ogni sorta di utilità.

Infatti il poeta durante il discorso presso l’accademia di Svezia del 1975, per il conferimento del premio
nobel per la letteratura disse: “Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile,
ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo a poesia una
produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile”.

Montale definisce la questione sull’origine della parola angosciante, questo per sottolineare l’inutilità in
primis di questo dibattuto.

In una società di massa, drammaticamente travolta dal consumismo e pervicacemente rivolta alla
mercificazione di ogni cosa, il dibattito sull’origine della poesia appare a Montale grottesco e privo di
senso. Egli afferma che la poesia non appartiene alla scienza termica, la quale studia i fenomeni del
freddo e del caldo; prosegue sempre più divertito, avvalendosi di termini appartenenti all’area
semantica scientifica, come raptus, parola attinente alla psicologia, e vuoto, attinente alla fisica.

Montale conclude la parte iniziale (vv. 1-5), affermando che la poesia non nasce né dal freddo
ragionamento speculativo (sorbetto) né dal calore del sentimento (girarrosto).
Le parole poetiche – definite importune perché inadatte alla società della mercificazione totale – sono
espressioni che germogliano sia nell’anima (forno) sia dalla mente (surgelante), ma contro le intenzioni
stesse dell’autore. Balenano nella sua mente ed egli le mette per iscritto quasi contro la sua volontà.

Ma la poesia non ha uno scopo ben definito: non può assolvere a nessuno dei compiti che la tradizione
le aveva assegnato, non può consolare, né insegnare, né ampliare la conoscenza, né deliziare con la
bellezza dei suoi versi, né proporre valori. L’interrogativa finale che sto a farci? spegne all’improvviso la
pungente ironia dei versi e chiude la prima parte della lirica, prospettando un’immagine accorata e
struggente della poesia, che acquista consapevolezza del suo totale non senso, della sua tragica
inutilità.

Si avverte, nella lirica, l’eco dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello. Le parole poetiche
hanno urgenza di venire alla luce e di divenire suono, pronuncia, proprio come i personaggi
pirandelliani cercano un autore che dia loro una forma artistica eterna. Esse hanno fretta di uscire dalla
mente; cercano un autore che le liberi dallo stato di attesa. Purtroppo il poeta “inciampa” casualmente
in esse, nel senso che le ritrova suo malgrado nella mente e, dopo aver dato loro forma scritta, non ha
neppure consapevolezza di esserne l’autore. Nella visione montaliana egli è soltanto un trovarobe,
ossia uno che cerca cose per una scena fittizia, per una copia non vera del reale; non è certo in grado di
dare alle parole la verità e l’eternità cui aspirano. Di fatto la poesia è muta, incapace di esprimere valori
autentici, eterni. A nulla possono servire le spiegazioni, le interpretazioni, le chiose (glosse) di critici e
commentatori (scolianti). La poesia le rifiuta con orrore.

PIOVE

COMMENTO

Questa poesia è una parodia amara de La pioggia nel pineto di Gabriele D'Annunzio, che richiama
attraverso le espressioni «favola bella» e «Ermione».

Si tratta di un passaggio significativo, innanzitutto perché D'Annunzio è uno dei poeti di riferimento per
il primo Montale, come del resto per molti scrittori di quella generazione. Qui la parodia è da intendersi
come un attacco a un'idea della poesia come forma d'arte capace di incidere sulla realtà, di
trasformarla attraverso un processo di sublimazione dei suoi aspetti più concreti e prosaici, di donare
una visione più ampia e una speranza, per quanto difficile, all'uomo.

RITMO DELLA POESIA  L'andamento anaforico del testo, con quel piove ripetuto diciotto volte, serve a
dare non soltanto ritmo ma anche forza all'idea centrale del poeta già racchiusa nella strofetta iniziale:
la vita altro non è che uno stillicidio, una ripetizione monotona di cose banali, proprio come la pioggia
che il poeta osserva.

Questa pioggia di cose banali finisce per sommergere l'animo dell'autore e mutare la sua visione della
realtà, anche dei suoi ideali più alti e di alcuni simboli dell'evoluzione della civiltà moderna: lo sciopero
generale, la Gazzetta Ufficiale, il Parlamento, le nuove conoscenze raggiunte, il progresso, l'idea stessa
di Dio («il cielo ominizzato», «i teologi»).

Anche in questa poesia viene rievocata per un attimo la figura di Drusilla Tanzi: sia nella terza strofa,
dove si fa riferimento alla sua tomba nel cimitero di San Felice a Firenze, sia nell'ultima strofa, dove
concordemente alla terza se ne riafferma con dolore l'assenza, che diventa la causa stessa, per
Montale, di ciò che potremmo definire una deriva della banalità («piove perché se non sei / è solo la
mancanza»). Senza una persona così affettivamente importante tutto rischia di perdere senso: a causa
di quell'assenza ogni cosa annega nel nonsenso e in questo nonsenso anche il dolore rischia infine di
perdere il suo valore esistenziale («e può affogare»).

Perde senso anche l'ideale della civilizzazione come tradizionalmente inteso, visto ironicamente da
Montale come un work in regress (non in progress, secondo un'espressione usuale). Ciò è reso
magistralmente tramite l'utilizzo ripetuto di espressioni colloquiali e frasi fatte, che servono di solito
per semplificare la comunicazione, rendendola spesso superficiale: «sciopero generale», «cartella
esattoriale», «greppia nazionale» (equivalente elegante della ben più colorita espressione nostrana
“magna magna”), «smuova le carte», «se Dio vuole», «pubblica opinione».

CONCLUSIONE : Infine, come si diceva, perde senso anche la poesia, attività che non è più portatrice di
rivelazione salvifica («piove sugli ossi di seppia», dice Montale prendendo in giro anche se stesso in
quanto poeta) né della speranza di una pace interiore simboleggiata dall'immagine dei cipressi («piove
sui cipressi malati del cimitero»), secondo quel significato simbolico che Carducci aveva dato a questi
alberi in una nota poesia (Davanti a San Guido), qui rievocati da Montale in chiave sarcastica così come
aveva fatto con i versi di D'Annunzio.

Diario del 71’ 72’

Nel diario del 71’ 72’ Montale utilizza lo stesso stile che utilizza in Satura, che aveva già ormai costituito
il cambiamento del linguaggio e dello stile dell’autore verso toni più prosastici e colloquiali, facendo
concentrare il poeta su temi di vita quotidiana da cui poi prendono avvio riflessioni esistenziali. A
questo periodo (1973), risalgono molti componimenti, che però nella produzione letteraria di Montale
occupano meno spessore delle raccolte precedenti.

Anche nei temi Il diario del 71’ 72’, si avvicina molto a Satura, dato che si affrontato temi come:

- Il senso dell’esistenza;

- L’essenza-presenza di Dio, esplicata in un rapporto teleologico dell’esistenza secondo cui è possibile


concepire un oltre ma impossibili raggiungerlo. La tendenza è la chiave.

- La possibilità di felicità, dunque la tensione che si fa tenzione.

- Dubbi sulla propria identità poetica: Chi è il poeta? A cosa serve la poesia?

La realtà che descrive Montale, dunque assume tratti di finzione, una sorta di illusione, però pronta a
crollare. Giulio Ferroni afferma che questa condizione di non esistenza del poeta da vita ad un modo
originale di raccontare la realtà, le situazioni, trasformandole in allucinazioni, in un vuoto che si muove
indipendentemente dalla volontà di chi vi partecipa.

Inoltre all’interno del corpus non mancano poesie che minano la società contemporanea dell’autore,
come “Il trionfo della Spazzatura”, dove Montale tra le altre cose riflette anche sul valore della poesia e
della parola poetica considerata ormai solo “merce”:

“le parole | preferiscono il sonno | nella bottiglia al ludibrio | di essere lette, vendute, | imbalsamate,
ibernate”.

Sugli stessi temi, quindi massificazione e mercificazione della poesia si ricorda anche “La letterata a
Malvolio” indirizzata a Pasolini, in quale aveva criticano il corpus Satura accusando il poeta di non aver
preso posizioni su questioni politiche e contemporanee.

Si scaglia inoltre il poeta anche contro gli intellettuali che dal boom economico hanno tratto solo
guadagni.
IL POETA

Si bùccina che viva dando ad altri

la procura, la delega o non so che.

Pure qualcosa stringe tra le dita

il deputante, il deputato no.

Non gli hanno detto al bivio che doveva

scegliere tra due vite separate

e intersecanti mai. Lui non l’ha fatto.

È stato il Caso che anche se distratto

rimane a guardia dell’indivisibile.

COMMENTO

Si dice che la struttura del calabrone sia inadatta al volo, ma che lui non lo sa e vola. Eugenio Montale
(1896-1981) in certo modo analogamente applica ai poeti questo paradosso: alla base dell’essere poeta
c’è la mancata scelta tra due vite - la materiale e la contemplativa, la realtà e il sogno - così che la
capacità di fare poesia diventa una involontaria fuga dall’incasellamento, un distinguersi che alla fine
altro non è che un ruolo attribuito dal Caso al “trovarobe che in lei è inciampato / senza sapere di
esserne / l’autore”.

La poesia critica coloro che vogliono fare i poeti, e mette in evidenza la crisi dell’intellettuale del ‘900.

LETTERA A MALVOLIO

Non s’è trattato mai d’una mia fuga, Malvolio,

e neanche di un mio flair che annusi il peggio

a mille miglia. Questa è una virtù

che tu possiedi e non t’invidio anche

perché non potrei trarne vantaggio.

No,

non si trattò mai d’una fuga

ma solo di un rispettabile

prendere le distanze.

Non fu molto difficile dapprima,

quando le separazioni erano nette,

l’orrore da una parte e la decenza,

oh solo una decenza infinitesima


dall’altra parte. No, non fu difficile,

bastava scantonare scolorire,

rendersi invisibili,

forse esserlo. Ma dopo.

Ma dopo che le stalle si vuotarono

l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto

fondarono l’ossimoro permanente

e non fu più questione

di fughe e di ripari. Era l’ora

della focomelia concettuale

e il distorto era il dritto, su ogni altro

derisione e silenzio.

Fu la tua ora e non è finita.

Con quale agilità rimescolavi

materialismo storico e pauperismo evangelico,

pornografia e riscatto, nausea per l’odore

di trifola, il denaro che ti giungeva.

No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore

non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.

Ma lascia andare le fughe ora che appena si può

cercare la speranza nel suo negativo.

Lascia che la mia fuga immobile possa dire

forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,

che la partita è chiusa per chi rifiuta

le distanze e s’affretta come tu fai, Malvolio,

perché sai che domani sarà impossibile anche

alla tua astuzia.

COMMENTO

La lettera venne scritta a Pasolini che aveva criticato Montale sulla rivista “Nuovi Argomenti”
definendolo “pessimista metafisico” accusandolo di non aderire a nessun partito che esso sia politico e
meno. Lo definiva farlo moralista, o moralista in mala fede. In definitiva Pasolini definisce Montale un
uomo che non si misura con i problemi reali del suo tempo. Più volte infatti abbiamo definito Montale
un poeta DISINGAGGIATO.

Il personaggio di Malvolio è un personaggio Shakespiriano famoso per la sua ipocrisia.

Questa lettera a Malvolio rappresenta la risposta di Montale a tutte le critiche che Paolini li mosse
contro:

Per quattro strofe Montale si attribuisce un merito: quello di tenersi alla larga, di aver sempre preso le
distanze dal mondo dei potenti di turno prima e dopo, durante il Fascismo e con l’avvento della
Repubblica; chiarisce per quattro strofe che questo atteggiamento non era da tutti e non era stato di
tutti; forse era stato più facile quando le separazioni tra bene e male erano nette, ma dopo si era creato
un “ossimoro permanente”, una “focomelia concettuale” (malformazione) , con l’onore e l’indecenza
stretti insieme; chi teneva le distanze e badava a mantenere alta la propria moralità finiva per essere
semplicemente deriso o confinato nel più profondo silenzio.

Il poeta vuole dunque tenere alto il suo orgoglio che consiste in una amata autonomia, nel preservare
la sua identità, senza aderire al conformismo, ma il risultato era la derisione.

Nella quinta strofa, la più lunga, esce il ritratto del suo antagonista; un quadretto terribile: Pasolini
sarebbe quello che ha furbescamente mescolato marxismo e cristianesimo, traendone grandi vantaggi
e guadagni personali proprio mentre, apparentemente, ostentava la nausea per questo tipo di relazioni
umane e di società.

Il guadagno di cui parla il poeta è economico, ricordiamo che egli infatti parla anche di una
mercificazione della parola poetica. Il pensiero va subito a D’annunzio.

Montale si dice orgoglioso del suo modo di essere: non ha mai voluto fuggire dalla realtà, piuttosto la
sua è stata una “fuga immobile” (bell’ ossimoro ironico), ovvero una fuga che consisteva nel trovare
nella realtà di tutti i giorni una dimensione altra per poter rendere ad una felicità, e neppure ha avuto
mai un fiuto particolare (quello che invece attribuisce al suo avversario) per tenersi vicino ai potenti.
Furbizia e astuzia di Pasolini.

Infatti il suo atteggiamento è stato esattamente il contrario di quella furbizia che – a suo dire – esercita
il suo oppositore, quell’arte cortigiana/servile che gli impedisce di vedere e tenere le giuste distanze;
un’astuzia, che comunque in un auspicabile e diverso domani non sarà più esercitabile. Parole molto
grosse, tanto più se indirizzate ad uno spirito libero, fortemente critico e senza paure come fu Pasolini.
Il poeta si è dunque definito mai prono ai potenti, ne sottomesso a loro in quanto dipendente da un
compenso o da un atteggiamento servile.

La conclusione di Montale in fondo però appare perfino ottimistica: è vero che ora, hic et nunc, a mala
pena si può cercare la speranza nel negativo (cfr. Non chiederci la parola), ma questo atteggiamento di
fermezza morale può essere stimolo per tanti e comunque “la partita resta aperta”. Ciò significa che il
pessimismo attivo di Montale ancora una volta emerge dai suoi componimenti. Se pur è vero che la vita
è complessa nella sua più profonda comprensione è pur vero che l’uomo ha pur sempre modo di poter
sperare di raggiungerla. C’è sempre la possibilità di tendere alla felicità, alla piena consapevolezza della
propria esistenza. Ciò che emerge è dunque ancora una volta, l’atteggiamento di RICERCA del poeta.

Non tardò la replica di Pasolini con una poesia intitolata “L’impuro al puro”.

Non ho banda, Montale, sono solo.//Non ti rimprovero di aver avuto //Paura, ti rimprovero di averla
giustificata.//Male forse ne voglio, ma il mio.//Ti ha ottenebrato la tua un po’ troppo //Musa
oscura.//Astuto poi non lo sono://di solito è astuto chi ha paura.
Da questi otto versi emerge un chiaro riferimento biografico, un’insinuazione relativa all’argomento
della “Paura”: il poeta ligure era sempre stato antifascista, vedeva nel fascismo un’offesa all’intelligenza
e alla moralità; aveva firmato nel 1925 il Manifesto degli Intellettuali antifascisti, ma nel 1938 per
timore di perdere il suo posto di lavoro al Gabinetto Vieusseux, si “costrinse” a chiedere l’iscrizione al
Partito Fascista, iscrizione subito negata con conseguente licenziamento a Dicembre. Da qui il
rimprovero di Pasolini a Montale: per aver tentato di giustificare questo gesto, non tanto per averlo
fatto, come purtroppo tanti altri uomini semplici erano stati costretti dalle circostanze a fare.

STRUTTURA DEL COMPONIMENTO DI MONTALE LETTERA A MALFOLIO

Ha una forma del tutto irregolare, senza rima, con numerose assonanze; il poeta appare concentrato
sulla concatenazione logica delle sue argomentazioni, sui concetti che intende esprimere; in molti
hanno intravisto in questa lirica il suo testamento politico, morale, e culturale. Emerge con forza il tema
degli ossimori che dominano la nostra vita e l’argomento della “focomelia concettuale”, ovvero della
scarsa coerenza tra il “dover essere” e la “realtà effettuale”.

Certo risalta la figura di un uomo che non si fa grandi illusioni, che vede la realtà per quello che è, senza
tanti infingimenti, un uomo forse poco impulsivo e molto realistico, ma passionale, con un bagaglio di
valori etici e spirituali che ne fanno una sorta di roccia, inattaccabile.

Già dalla prima riga compare il personaggio di Malvolio = Pasolini . Si tratta di un’accusa crudele.
Malvolio è un personaggio shakespeariano (La dodicesima notte ndr. quella dell’ Epifania), un
maggiordomo segretamente innamorato della padrona, un po’ comico, un po’ puritano, molto ipocrita,
al punto da falsamente disprezzare ogni divertimento e gioco; sostanzialmente uno sciocco e un
presuntuoso arrogante che alla fine viene beffato. Beffardo e sferzante è l’accostamento di questo
atteggiamento (flair: l’aver – più che un fiuto finissimo – la predisposizione a fare il cortigiano) col
termine “virtù”: siamo sempre nel campo dell’uso sarcastico degli ossimori da parte di Montale. Questa
“virtù” lui proprio non la possiede, neppure potrebbe esercitarla se l’avesse, tanto è contraria alla sua
natura.

Nella seconda strofa il poeta sembra voler ribadire e rafforzare un concetto, rispondere a una domanda
sottintesa; tutto il verso è dominato da un unico lemma : “no” ! Montale nega di avere avuto paura, di
essere fuggito di fronte ai problemi e alle difficoltà; spiega nuovamente che quello che ha fatto è stato
prendere le distanze, non volersi mescolare.

Facile prendere le distanze, mostrare la propria diversità, quando c’era da scegliere tra l’orrore del
Fascismo e la decenza dell’Antifascismo, sostiene. Come non richiamare a questo punto almeno alla
vicinanza di Montale a Piero Gobetti fin dal 1917, a colui che possiamo considerare come l’incarnazione
stessa dell’idealismo e del moralismo di matrice risorgimentale. Ma sull’Antifascismo Montale lascia
intuire un non troppo velato avvertimento (solo una decenza infinitesima) a non gonfiare di retorica la
vicenda complessa e sotto certi aspetti ancora poco illuminata della Lotta di Liberazione; c’è forse
un’allusione alla tragedia familiare di Pasolini (la morte del fratello partigiano per mano di altri
partigiani). Per distinguersi e prendere le necessarie distanze – dice Montale con grande onestà –
bastava “scantonare scolorire rendersi invisibili, forse esserlo”; e ammette :“ho vissuto il mio tempo col
minimum di vigliaccheria che era consentito alle mie deboli forze” (finta intervista, Intenzioni 1946).

Quella che segue è la parte più dolorosa della lirica: dopo che fu vinto il Fascismo, l’onore e l’indecenza
si sposarono; dominava su tutto la “focomelia concettuale”. Il distorto – visto da un’altra ottica – era
considerato dritto e per chi tentava di aprire bocca, criticare oppure opporsi, la cura era quella della
derisione o della condanna al silenzio.
Al di là dei fatti concreti che possono essere facilmente ricordati, adombrati da queste parole, colpisce il
richiamo alla focomelia. Proprio in quegli anni scoppiò in Italia e nel mondo il caso del farmaco
Talidomide e dei suoi effetti devastanti sui feti. La medicina più evoluta e di avanguardia, nata dagli
sforzi congiunti a livello mondiale, anziché curare finì per causare danni spaventosi e irreversibili sui
nascituri. Una metafora tragica di quanto stava succedendo nel nostro paese, risorto dopo la lotta
antifascista, avrebbe potuto vedere sbocciare le migliori intelligenze ed energie e invece era di nuovo
allo sbando sul piano della moralità pubblica, in preda alla corruzione, al malaffare, al sottogoverno,
nelle mani della criminalità organizzata e di estremismi politici devastanti. Un sintetico riferimento alla
realtà che il Poeta percepiva in tutta la sua crudezza, che contrastava a modo suo e dalla quale non
voleva fuggire, ma prendere le distanze, non essere contaminato.

L’ultima strofa è intessuta di richiami fin troppo personali alla vita e all’opera di Pasolini; materialismo
storico e pauperismo evangelico) come non pensare al “Vangelo secondo Matteo” , uscito nel 1964,
visto da gran parte della critica cinematografica come l’avversione comune sia del cattolicesimo che del
comunismo nei confronti del materialismo borghese o (pornografia e riscatto) alla sceneggiatura di
dieci novelle del Decamerone, ambientate nel territorio napoletano, o ai Racconti di Canterbury oppure
infine a Il fiore delle Mille e una notte, tutte pellicole allora individuate da gran parte della stampa
nazionale e anche della critica cinematografica come intrise di insopportabile “pornografia” .
Un’attività cinematografica che, accanto alle critiche scontate, produceva denaro: per Montale Pasolini
era colpevole di mostrarsi schifato verso un certo mondo che pure frequentava e dove si trovava a
proprio agio (l’odore di trifola) senza sentire il lezzo del denaro (pecunia non olet).

Adesso – lo ripete da tanto tempo Montale – possiamo soltanto dire “ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo”… e basta con le ideologie ; non fuggo, resto immobile a testimoniare i miei valori, che
serviranno a qualcuno per avere più forza perché il mondo può tornare a una sua rispettabilità, a una
sua decenza. Sono davvero duri gli ultimi versi, ma proviamo ad accostare queste parole a quanto
accade in questi giorni e in questi anni, ad esempio a quanto emerge dallo scandalo di Roma Capitale.

Al di là di ogni visione ideologica o religiosa, tornare almeno a un po’ di decenza “borghese” nei
comportamenti sarebbe un passo in avanti considere.

La funzione della poesia:

Qual è la funzione delle poesia o della parola poetica per Montale? L’autore sosteneva la valenza
morale e conoscitiva della letteratura sull esempio di Dante e Leop.

Il poeta è disincantato, avveduto, saggio-dice Montale- che ha una coscienza, e è chiamato a capire e
interpretare il presente. Vi è un riferimento al classicismo-> classicismo montaliano..

>Il classicismo montaliano:

Lui stesso dichiarò nel 1946 di considerarlo una sorta di antitodo contro ogni eccesso di soggettivismo
e di esagerazione sentimentale, per assicurare alla poesia obiettività e resistenza al tem- po e alle
mode; solo le forme della tradizione possono assicurare alla scrittura la tenacia e la solidità necessaria
per potersi far carico dei drammi dell’uomo contemporaneo.

>Il “correlativo oggettivo”

Il “correlativo oggettivo” è la tecnica espressiva che Montale utilizzò a partire dalle poesie inserite nella
seconda edizione di Ossi di seppia (1928), per la quale gli oggetti veicolano un senso ulteriore al di là del
loro significato elementare; gli oggetti quotidiani divengono epifanie che alludono a ciò che la
sensibilità del poeta non riesce a esprimere altrimenti. Di questa tecnica Montale è debitore in
particolare a Eliot, ma anche a Proust, a Joyce e alla Woolf. Il linguaggio poetico montaliano è, in
generale, estremamente ricco e articolato (deve rappresentare quello che Montale vuole far capire
della sua esistenza=dimensione espressiva): il poeta ha fra i suoi modelli Dante e gli stilnovisti, Petrarca,
Leopardi, fra gli italiani; Shakespeare, Donne, Browning, Baudelaire, fra gli stranieri.

La parola poetica di Montale è ontologica: ci restituisce un realismo non magico, ma percepito nella
evidenza concreta delle cose.

>Temi e motivi:

L’ispirazione montaliana ruota attorno a tre poli: il rapporto con la natura, l’esperienza dell’amore e il
miracolo, ossia il desiderio di libertà. La ricerca della verità muove in Montale dal rifiuto assieme della
visione materialistico-positivistica della realtà e di quella derivante dalla religione cattolica o dalle
ideologie ottocentesche. L’interrogativo centrale è se l’uomo sia libero oppure costretto a obbedire a
forze superiori; la risposta non è univoca: Montale oscilla fra l’ango- scia soffocante del prigioniero (il
«male di vivere»), la speranza di trovare un varco, una via di fuga, e l’attesa del «miracolo». La scrittura
montaliana persegue tutto questo senza farsi mai astratta, ma rimanendo sempre all’interno di un
orizzonte concreto segnato dal paesaggio, dalla natura, dalla storia civile.

>Il “fantasma salvifico”

Il «male di vivere», tema dominante in Ossi di seppia, è per Montale malattia individuale ma,
soprattutto, indica il disorientamento della cultura europea fra le due guerre, da cui nasce insicurezza,
isolamento, incomunicabilità; per sfuggire a tutto questo Montale si pone in attesa di un “liberatore”. In
Ossi di seppia tuttavia questa attesa è destinata ad andare delusa; invece nelle Occasioni la rottura
dell’ordine negativo è affidata all’avvento di un personaggio esterno, un “fantasma salvifico”, capace di
comprendere e dominare la realtà. Questo “fantasma” assume progressivamente tratti femminili; è la
donna che sa condividere la sofferenza umana per il male del mondo, rimanendone però
incontaminata, sorta di nuova Beatrice dantesca. Con questa figura Montale intreccia un rapporto
ambiguo, oscillante fra speranze di salvezza e timori di dimenticanza e abbandono. Infine in Satura alle
figure femminili mitizzate, angelicate e miracolose si sostituisce il “fantasma” più vicino e consolatore
della moglie morta; accantonata l’attesa di una rivelazione metafisica, Montale sceglie l’accettazione
del mistero, forse insolubile, della vita.

LE OPERE

Il “correlativo oggettivo” è la tecnica espressiva che Montale utilizzò a partire dalle poesie inserite nella
seconda edizione di Ossi di seppia (1928), per la quale gli oggetti veicolano un senso ulteriore al di là del
loro significato elementare; gli oggetti quotidiani divengono epifanie che alludono a ciò che la
sensibilità del poe- ta non riesce a esprimere altrimenti. Di questa tecnica Montale è debitore in
particolare a Eliot, ma anche a Proust, a Joyce e alla Woolf. Il linguaggio poetico mon- taliano è, in
generale, estremamente ricco e articola- to: il poeta ha fra i suoi modelli Dante e gli stilnovisti, Petrarca,
Leopardi, fra gli italiani; Shakespeare, Don- ne, Browning, Baudelaire, fra gli stranieri.

LE OPERE

•Ossi di seppia [1925-1948]

>La struttura:

Formata da testi composti prevelentemente dopo il 1920, la raccolta ebbe quattro edizioni: nel 1925,
1928 (con l’aggiunta di sei nuove liriche), 1931 e 1948. Le poesie sono riunite in quattro sezioni:
Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre, precedute e seguite da due liriche isolate,
In limine e Riviere.
>I temi:

Gli «ossi di seppia» del titolo, gettati sulla spiaggia, alludono all’essenziale che si rivela una volta
consumato il superfluo. Scegliendo una poesia antiretorica, che aderisce alla realtà quotidiana e cerca
una verità sommessa nascosta dietro le apparenze, Montale rifiuta il prototipo dannunziano del poeta
vate (ma anche carducciana); nessuna pretesa ideologica, quindi, ma al contrario la registrazione del
negativo («ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»; da Non chiederci la parola). La raccolta è pervasa
da un disagio esistenziale, un «male di vivere», condizione di chi nella realtà non trova nulla in cui
riporre fiducia; chiuso nella prigione dell’isolamento e dell’incomunicabilità, al poeta non resta che
sperare nell’aprirsi miracoloso di un «varco» che gli schiuda una via di fuga. La volontà di partecipare
comunque alla vita, di aprirsi alla relazione con il prossimo, emerge dal continuo riferirsi del poeta a un
“tu”, spesso femminile, figura impalpabile e legata alla memoria più che alla realtà. Riconoscendosi
debole e fragile, il poeta affida a lei speranze, ideali e aspirazioni che si sente incapace di realizzare di
persona.

>Le forme:

Montale adotta uno stile duro e asciutto, che rifugge da ogni facile musicalità e costituisce il
corrispettivo formale del contenuto, in quanto specchio della disarmonia del mondo. La sintassi è
prevalentemente ipotattica e la frequenza di condizionali e ipotetiche testimonia le incertezze
esistenziali del poeta. Lo sperimentalismo lessicale è bilanciato dalla solidità delle soluzioni metriche:
Montale preferisce il recupero della tradizione e rifiuta la strada ungarettiana della dissoluzione delle
forme.

•Le occasioni [1939]

>La struttura:

La raccolta comprende circa cinquanta liriche composte fra il 1926 e il 1939, suddivise ancora in quattro
sezioni e introdotte da una lirica proemiale, Il balcone, che enuncia il tema fondamentale: l’attesa di
una presenza d’amore capace di salvare l’uomo dal nulla. Il titolo sottolinea come ogni testo sia legato a
una particolare occasione, da intendersi come un istante fatale dell’esistenza in cui appare
all’improvviso possibile intravedere una realtà diversa e afferrare un senso. Rispetto a Ossi di seppia
muta il paesaggio (dalla Liguria alla Toscana) e la riflessione del poeta acquista una maggiore
dimensione politica e sociale.

>I temi:

La prima sezione contiene riflessioni sulla precarietà del destino dell’uomo. Nella seconda sezione,
Mottetti, costituita da brevi poesie di squisita eleganza e intensa musicalità, domina il personaggio di
Clizia, pseudonimo di Irma Brandeis, e il tema della lacerazione, dell’umana richiesta d’amore forse
destinata a rimanere inappagata. Nella terza sezione, la collina fiorentina di Bellosguardo stimola il
poeta alla contemplazione, ma il turbamento predomina sulla serenità. L’ultima sezione, infine, è
pervasa dalla percezione dell’incombente tragedia della guerra. La raccolta appare come un canzoniere
d’amore ambientato in tempi minacciosi, un dialogo a distanza con la donna amata che si svolge negli
anni oscuri dell’affermazione del nazifascismo. Il poeta appare diviso fra la dolorosa constatazione
dell’involuzione politica e civile della società e il sentimento di amore verso una donna (figura dietro la
quale si celano diverse donne reali conosciute da Montale) percepita ora come ricordo, ora come figura
angelica, simbolo di una bellezza e una purezza ideali non raggiungibili, ma capaci di dare un senso alla
vita, di preservare l’uomo dalla follia e di consentirgli di sopravvivere all’inferno.
>Le forme:

Montale ha ormai raggiunto la piena maturità espressiva; sulla scorta di Hölderlin, Leopardi e Valéry, il
suo stile poetico appare caratterizzato da nitidezza formale, raffinata musicalità e rigore logico-
argomentativo. Da Eliot Montale riprende l’uso del «correlativo oggettivo», cercando di oggettivare i
propri sentimenti e di tradurre il proprio mondo interiore in oggetti e immagini di forte valenza
allegorica. Ne risulta un linguaggio difficile, allusivo e a volte oscuro, che ha fatto accostare le poesie di
Montale a quelle dei poeti ermetici. Il lessico in particolare è ricco, spesso ricercato e colto, la rima
predilige soluzioni foneticamente intense, la sintassi evidenzia strutture di straordinaria densità e
complessità.

•La bufera e altro [1956]

>La struttura:

La raccolta comprende cinquantotto liriche, composte fra il 1940 e il 1954 e suddivise in sette sezioni:
Finisterre (pubblicata inizialmente in forma autonoma nel 1943 e poi nel 1945), Dopo, Intermezzo,
“Flashes” e dediche, Silvae, Madrigali privati, Conclusioni provvisorie; domina la figura di Clizia, ma
anche un personaggio femminile a lei antitetico come Volpe (Maria Luisa Spaziani). La «bufera» del
titolo allude in primo luogo alla guerra, ma diviene anche emblema di tutte le forme che il dolore può
assumere nella vita dell’uomo; così anche il nazifascismo appare una manifestazione del male assoluto
e metafisico.

>I temi:

La violenza e la follia della guerra e le speranze, pre- sto deluse, della ricostruzione costituiscono lo
sfon- do storico della raccolta; in questo quadro, la donna (Clizia) rappresenta la speranza e la
consolazione. Non si tratta più però di una creatura pura e intatta, subisce anch’essa, ora, la negatività
della vita e della storia, ma a questa negatività si ribella, incarnando il coraggio, oltre alla fermezza e
alla generosità: solo la tenacia dell’amore può ribaltare il segno negativo della storia. A volte questa
figura femminile sembra acquisire un valore religioso, di mediatore fra l’uomo e Dio: la sua luce nel
buio dell’esistenza umana appare come il sigillo di Dio creatore. A questa figura femminile se ne
contrappongono altre, come Volpe, dai caratteri antitetici (corporeità, sensualità, animalità).

>Le forme:

Ancora una volta le scelte formali nascono da un’esigenza di aderenza al contenuto; a una realtà tragica
e lacerata corrisponde un linguaggio poetico in cui registri diversi si alternano e si scontrano
continuamente, creando una studiata disarmonia. Interessato non ai fatti in sé, ma al loro significato
profondo, Montale rinuncia alla cronaca e alla descrizione, evocando la guerra solo per via metaforica;
essa infatti è in realtà il segno di un principio infernale, di un Assoluto che è istanza cattiva e perversa.

•L’ultima stagione poetica

Dopo diversi anni di silenzio, Montale pubblicò le sue ultime cinque raccolte di versi in dieci anni:
Satura (1971), Diario del ‘71 e del ‘72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977), Altri versi e Poesie
disperse (1980). Lo stile è radicalmente mutato, per adattarsi al nuovo orizzonte culturale dominato
dall’avvento della società di massa. Dai toni sublimi e tragici Montale passò a toni umili e comici («I
primi tre libri sono scritti in frac, gli altri in pigiama [...]: ho voluto suonare il pianoforte in un’altra
maniera, più discreta»).

•Satura [1971]
Il titolo rimanda a un genere letterario della poesia latina dedicato alla rappresentazione mordace dei
vizi e dei desideri umani. Montale adotta un linguaggio semplice e quotidiano per parlare, con tono
sarcastico e amaro, dei piccoli accadimenti della vita quotidiana. Estraneo a un mondo che non riesce a
capire e che lo disgusta, il poeta sembra abbandonarsi al pessimismo: nulla di angelico o di miracoloso
può trovare spazio in un mondo segnato dalla banalità e dalla volgarità («non può nascere l’aquila /dal
topo»). Anche la presenza femminile perde i suoi tratti angelicati per farsi figura quotidiana e concreta,
come nelle poesie dedicate alla moglie morta, in cui vengono rievocate le piccole avventure di
un’esistenza normale.

•Diario del ‘71 e del ‘72 [1973]:

Continua la nuova ispirazione autobiografica e diaristica di Satura: Montale consegna a queste liriche il
proprio autoritratto, denunciando al tempo stesso un mondo dominato dalla legge del profitto e
invitando il lettore a non arrendersi e a ostinarsi nella ricerca del senso autentico della vita.

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Poesia:

LA PENDOLA A CARILLON

La vecchia pendola a carillon

veniva dalla Francia forse dal tempo

del secondo impero.

Non dava trilli o rintocchi ma esalava

più che suonare tanto n’era fioca la voce

l’entrata di Escamillo o le campane

di Corneville: le novità di quando

qualcuno l’acquistò: forse il proavo

finito al manicomio e sotterrato

senza rimpianti, necrologi o altre

notizie che turbassero i suoi non nati nipoti.

I quali vennero poi e vissero senza memoria

di chi portò quell’oggetto tra inospiti mura sferzate

da furibonde libecciate – e chi

di essi ne udì il richiamo? era una sveglia

beninteso che mai destò nessuno

che non fosse già sveglio. Io solo un’alba

regolarmente insonne tradii l’ectoplasma

vocale,il soffio della toriada,

ma appena per un attimo. Poi la voce


della boîte non si estinse ma si fece parola

poco udibile e disse «non c’è molla né carica

che un giorno non si scarichi. Io ch’ero

il *Tempo lo abbandono. Ed a te che sei l’unico

mio ascoltatore dico cerca di vivere

nel fuordeltempo, quello che nessuno

può misurare. Poi la voce tacque

e l’orologio per molti anni ancora

rimase appeso al muro. Probabilmente

v’è ancora la traccia sull’intonaco.

___________________

*Tempo con la lettera maiuscola: ha un valore particolare

Questa poesia è centrata sul tema della morte, pur non essendo questa nominata esplicitamente da
Montale.

La pendola a Carillon è un orologio: descrizione di un vecchio orologio.

Riferimento alla figura di Escamillo, e alle campane di Corneville.

Il poeta è infatti colui che riesce ad ascoltare la voce flebile delle cose («Ed a te che sei l'unico / mio
ascoltatore»), che presta attenzione anche agli aspetti più nascosti o dimenticati della realtà, come può
essere appunto un vecchio orologio, che però pur apparendo secondari nascondono dei segreti
importanti. Il poeta è in qualche modo partecipe di un'altra dimensione della vita, che è oltre il tempo e
che solo pochi colgono («e chi di essi ne udì il richiamo?»). È necessario però abbandonare la normale
concezione delle cose (razionale, quantitativa) per coglierne di più importanti («cerca di vivere / nel
fuordeltempo, quello che nessuno / può misurare»). Si tratta tuttavia di momenti fugaci, epifanie
straordinarie che bisogna essere pronti a cogliere («Poi la voce tacque / e l'orologio per molti anni
ancora / rimase appeso al muro»).

La poesia si conclude con l'immagine straordinaria della traccia lasciata dal vecchio orologio
sull'intonaco del muro (immagine che vale da sola tutta la poesia), che condensa perfettamente il
concetto della morte, ciò che essa lascia a chi resta: un ricordo sempre più debole, un fantasma,
l'ombra di qualcosa che c'è stato.

->Contrappunto, antitesi

Si riaffaccia per un attimo anche in questa raccolta, contrassegnata spesso da toni ironici e sarcastici,
mai aulica e sempre rassegnata, una concezione elitaria del poeta più tipica del primo Montale (e di
certa tradizione romantica): il poeta è visto come un essere umano dotato di una sensibilità fuori dal
comune, che lo mette nelle condizioni di percepire una realtà altra, di essere cioè in contatto con altre
dimensioni dell'esistere.
La pendola a Carillon è un amuleto, talismano, appartiene al passato, che non è possibile più
riproporre. In un momento non precisato la pendola inizia a suonare, e poi tace e esce dal tempo
(quello che nessuno può misurare).

Senso della poesia: la speranza di dover raggiungere un mondo lontano, attraverso la memoria, il
ricordo, con la visione di questa pendola talismatica.

Domande:

1. Cos’è il tempo (che ruolo ha) per Montale?

Non è una realtà oggettiva, tutt’altro rispetto a Ungaretti; ma è distensione dell’anima, che si incarna
nella storia in un istante imprevedibile ma possibile-> di qui la speranza, non passivo ma attivo (se fosse
stato passivo non ci sarebbe stata la speranza), è metafisicò: attraverso la speranza possiamo uscire
“fuori dal tempo”.

Esiste una epifania che può rivelarsi e trasferirci (TRANSFER) un’emozione straordinaria.

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