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SvobodaMagika.

Polyvisioni sceniche di Josef Svoboda:


Intolleranza 1960 di Nono, Faust interpretato da Strehler, La traviata di Verdi
di Massimo Puliani e Alessandro Forlani

SvobodaMagika è un attraversamento dello spazio scenico di uno dei


massimi protagonisti del teatro del ‘900, l’Architetto/Scenografo Josef
Svoboda, prestigioso maestro di meraviglie scenografiche e inventore del
sistema Polyécran (una tecnica di composizione plastico/sonora e polyvisva
applicata al teatro) adottato nello spettacolo Lanterna Magika all’Expo di
Bruxelles del 1958.
Il volume racconta tre straordinari spettacoli svobodiani che sono entrati
nella Storia del Teatro: Intolleranza 1960 di Luigi Nono (da un’idea di
Angelo Maria Ripellino), nel riallestimento americano nel 1965, dopo la
prima a Venezia nel ’61, spettacolo considerato nel campo della
contaminazione linguistica fra musica e teatro e mezzi di riproduzione visiva
un punto di riferimento della sperimentazione; Faust/Frammenti I e II
parte che Giorgio Strehler diresse e interpretò al “Piccolo” di Milano nelle
stagioni 1989-’90 e 1990-’91;
La Traviata di Verdi, definita “degli Specchi”, andata in scena allo Sferisterio
di Macerata nel 1992.

DAGLI ESORDI ALLA LANTERNA MAGICA: LO SCULTORE DELLA


LUCE

Il teatro sperimentale Nuovo Gruppo


Il 10 maggio 1920 nasce a Čáslav, un piccolo paesino a est di Praga, Josef
Svoboda. Appassionato di pittura fin dalla giovane età, vorrebbe frequentare
il liceo artistico per poi passare all’Accademia di belle arti ma incontra
l’opposizione del padre, finendo per abbandonare la scuola e diventare
apprendista nella sua falegnameria. Ciò nonostante quest’esperienza si
rivela non poco proficua: qui apprende l’importanza del disegno, del lavoro
manuale e al contempo si dedica alla lettura di testi teatrali e manuali
scientifici. Trasferitosi poi a Praga, nel 1940 si iscrive finalmente all’Istituto
superiore di architettura interna, dove si diploma nel 1943.
È in questo stesso anno, insieme ad altri giovani artisti e drammaturghi, che
fonda all’interno del Museo Smetana il teatro sperimentale Nuovo Gruppo,
dove si cimenta per la prima volta con il mestiere di scenografo, sebbene da
autodidatta. Benché si tratti di un progetto a breve termine, presto frenato
dai disordini della guerra, esso dà la possibilità a Svoboda di elaborare fin
da subito una propria concezione dell’allestimento scenico.
Prima di tutto, l’ambiente gli permette di modificare lo spazio riservato al
pubblico e ai diversi elementi scenici per ogni spettacolo, condizione di cui
viene privato nei lavori successivi, per i quali dovrà spesso adeguarsi al
teatro all’italiana, e che sfocia dunque anni dopo nel suo sogno di costruire
un teatro-atelier, munito di spazi ampi e versatili.
In più Svoboda si accorge della necessità dello studio approfondito dei
mezzi che lo scenografo ha a disposizione e soprattutto dell’esigenza di
impiegare diverse tecniche, quali la luce, il movimento e le proiezioni, per
comunicare al meglio le tematiche del dramma, di cui l’intero spazio scenico
diventa espressione. La messinscena del Pellegrinaggio di Jiři Karnet,
diventa allora un tentativo embrionale di combinare teatro e cinema: in esso
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sette iperboloidi, ovvero strutture architettoniche disegnate con una
geometria iperbolica, coperti di tulle e raffiguranti una grotta di stalattiti,
simbolo del Protettorato, vengono accompagnati da giochi di luce e colpiti
insieme allo sfondo da proiezioni di diapositive in cui compaiono gli stessi
attori che agiscono durante lo spettacolo.
Ma la censura nazista ne vieta la rappresentazione e subito dopo il Nuovo
Gruppo chiude i battenti. Terminato il secondo conflitto mondiale, il gruppo
teatrale si disgrega del tutto, alla ricerca di un impiego nei grandi teatri.
Così, deluso dal comportamento dei compagni, Svoboda decide di
proseguire gli studi all’Accademia di architettura ed arti applicate, ottenendo,
nel frattempo, i primi incarichi come scenografo in un teatro professionale.

Intolleranza 1960. Tra sperimentazione e contestazione


Decisamente impegnativo e ricco di imprevisti è infine l’allestimento di
Intolleranza 1960, a cui Svoboda lavora per due volte con due diversi registi:
al Teatro La Fenice di Venezia nel 1961 con Václav Kašlík, all’Opera Group
di Boston nel 1965 con Sarah Caldwell.
Lo spettacolo allestito a Venezia scatena una serie di discussioni riguardo
l’attribuzione incerta dell’opera e forti polemiche legate alla quantità, forse
eccessiva, di espedienti tecnici, dividendo l’opinione della critica e del
pubblico.
Per comprenderne meglio le motivazioni, però, bisogna proseguire per gradi.
L’idea nasce da una collaborazione tra il noto slavista Angelo Maria Ripellino
e il compositore Luigi Nono. Suggestionato dalla visione di Intolerance, film
del 1916 girato dal padre del montaggio David Griffith, che provoca in lui le
prime riflessioni e suggerisce l’uso di scene simultanee.
Nono, inoltre, è un convinto sostenitore delle sperimentazioni
avanguardistiche russo-tedesche, dalle quali vorrebbe che ripartisse il nuovo
teatro musicale. Colpito dagli spettacoli della Lanterna Magica, ai quali
assiste durante un viaggio a Praga alla fine del 1959, contatta Ripellino,
desideroso a sua volta di divulgare le innovazioni del teatro ceco in Italia.
Nasce così un lungo carteggio tra i due artisti, che rivela due obiettivi
differenti: se da un lato Nono è più interessato ad ampliare le potenzialità del
teatro musicale, dall’altro Ripellino esprime l’intenzione di formare un vero e
proprio movimento interdisciplinare, realizzando anche una rivista d’opinioni
in cui coinvolgere Achille Perilli, Italo Calvino ed Emilio Vedova.
La corrispondenza si protrae a lungo. Intanto Ripellino scrive il libretto per
l’opera. La versione originale composta da 108 versi, con interpolazioni da
Brecht, Majakovskij, Sartre ed altri autori dovrebbe confluire, insieme alle
testimonianze dei collaboratori in un testo sull’azione scenica, edito da
Einaudi prima del debutto. Ma la pubblicazione non si realizza e Nono,
senza discuterne con Ripellino, riduce il libretto a 46 versi.
Come se non bastasse, il compositore aveva espressamente richiesto che
fosse Alfréd Radok a dirigere l’opera, ma per motivi non ben specificati il
regista si tira indietro, venendo sostituito da Kašlík e Svoboda su
suggerimento del Ministero della Cultura cecoslovacco. Decisione
chiaramente non molto gradita a Nono, ma in ogni caso irrevocabile.67 Si
arriva così alla prima rappresentazione del 1961, dove l’opera viene
introdotta come “un’azione scenica in due parti su un’idea di Angelo Maria
Ripellino. Musiche di Luigi Nono”, a cui si aggiungono i contributi di Václav
Kašlík per la regia, Josef Svoboda per la scenografia, Emilio Vedova per le
scene e i costumi e Bruno Maderna alla direzione d’orchestra.

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Il ruolo di Vedova e Maderna è in realtà assai limitato: il motivo per cui il
pittore partecipa al progetto è che i filmati e le diapositive preparate da
Svoboda per l’occasione, di tono dichiaratamente politico, non vengono
accettati dalla direzione della Biennale e sono sostituiti, di conseguenza, con
alcuni quadri astratti di Vedova. Maderna, dal canto suo, non dirige
l’orchestra dal vivo, ma registra le musiche in precedenza in uno studio di
Milano e ne monta l’audio su nastro. Il risultato è un allestimento ricco di
ricerche acustiche, ma con problemi di sincronia, parole spesso
incomprensibili e una scenografia mutilata nel suo senso drammaturgico. Il
pubblico si divide allora tra chi grida al capolavoro e chi non può fare a meno
di vedervi un inutile virtuosismo tecnico.
Giulio Carlo Argan evidenzia come Ripellino, Nono e Vedova abbiano
“riaperto improvvisamente, ponendolo in termini molto duri, il problema del
teatro d’avanguardia”. Eugenio Montale invece si schiera tra chi, senza
mettere in dubbio le buone intenzioni di Nono, ne critica il tecnicismo:
La curiosità è sostituita dal senso di assistere ad una pura esercitazione
accademica, rispettabile senza dubbio, destinata certamente ad avere libero
corso in teatri stranieri di eccezione, ma pur sempre gravata dall’equivoco di
sollecitare l’emozione poetica con la sola esasperazione del fatto tecnico
inteso come produttore di stimoli fisici. È come se un poeta volesse integrare
la lettura di un suo desolato testo infliggendoci alle membra un buon numero
di nerbate: l’effetto sarebbe certo, ma a quale spesa! Con tutto questo, non
neghiamo all’azione scenica di Nono i suoi quarti di nobiltà, ma restiamo
convinti che il suo innegabile talento meriti di approfondirsi e svolgersi senza
l’incubo del “sempre più difficile”: la peggiore di tutte le “alienazioni”, la sola
che i “progressisti” professionisti si guardano bene dal deprecare. Alla fine i
superstiti spettatori hanno organizzato un polemico trionfo ai vari autori e
responsabili dell’immaturo spettacolo. Non è stata, purtroppo, la battaglia di
Hernani. È stata una serata incivile che ha lasciato tutti a bocca amara.70
Insomma, a Venezia Intolleranza 1960 non ha fortuna e Svoboda non riesce
a realizzare pienamente il suo progetto. A Boston, al contrario, nel 1965 lo
scenografo ha maggiore libertà creativa e sperimenta, per la prima volta, un
contatto tra la tv e il teatro. L’Opera Group è infatti provvisto di due eidofori,
ovvero dei videoproiettori usati all’epoca nei cinema e nei teatri proprio
perché adatti alla riproduzione di grandi immagini, che egli sfrutta grazie
all’aiuto dell’Istituto di Tecnologia della Harvard University. Vengono allora
piazzate delle telecamere in diversi luoghi: in uno studio dove si trova il coro;
in un altro studio dove si trovano fotografie, réclame e documenti vari; lungo
le strade di New York, a Broadway; davanti al teatro; e nella stessa sala,
una orientata vero il palco, l’altra verso la platea.
Le immagini ottenute dalle riprese sono poi gestite e montate da Svoboda in
cabina di regia, secondo una sceneggiatura molto approssimativa e aperta
al coinvolgimento del pubblico, e infine inviate in scena attraverso una serie
di schermi: quello centrale, che mostra la ripresa di ciò che accade in scena,
due ai suoi lati su cui scorrono le riprese esterne e delle sale, mentre in alto
vi sono altri schermi dedicati soltanto alle diapositive. Tutti gli ambienti sono
inoltre collegati tramite monitor. Così, ad esempio, il direttore d’orchestra
dirige non solo l’orchestra all’interno del teatro ma anche il coro che si trova
in una sala separata, tramite un monitor, appunto, che mostra loro il
movimento della bacchetta.
Nasce così una nuova versione dell’opera nella quale il confine tra teatro e il
mondo esterno sfuma, affiancando gli episodi di intolleranza dell’azione
scenica a quelli registrati in tempo reale.

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Già dall'inizio della rappresentazione si venne a creare una situazione che
mi permise di rendermi conto appieno delle possibilità che mi si offrivano.
Durante il primo song, quando la cantante di colore interpretava la canzone
dell'intolleranza fra le razze, ripresi con le telecamere il pubblico e ne
proiettai l'immagine in scena, sul fondale, mentre su uno schermo,
anch'esso posto in palcoscenico, proiettai un primo piano della cantante. E il
pubblico reagì compiaciuto. Lasciai l'immagine a lungo sullo schermo di
fondo, in modo che gli spettatori avessero il tempo di riconoscersi. La cosa li
divertiva. A questo punto passai le immagini in negativo, cosicché la
cantante risultava bianca e il pubblico nero. Subito si creò scompiglio fra il
pubblico, che si alzò facendo gesti minacciosi. E noi registrammo in ampex
anche queste reazioni e le utilizzammo più tardi, per la scena dello sciopero.
Nemmeno questa versione, quindi, sfugge alle controversie, viene accusata
anzi di comunismo e sollecita manifestazioni di protesta il giorno successivo
alla prima. Ma Svoboda stavolta sfrutta la cosa a suo vantaggio, riprendendo
queste dimostrazioni ed utilizzandole nelle repliche dello spettacolo,
rafforzandone il concetto di base e nel contempo rendendolo ogni volta
diverso.

Expo ‘58. L’invenzione del Polyécran


Più volte si è fatto riferimento alla Lanterna Magica e al Polyécran, in special
modo riguardo al connubio teatro-cinema presente in alcuni spettacoli
successivi al 1958. Ma per capire in cosa consistano esattamente e come la
Lanterna sia divenuta il centro del lavoro di Svoboda negli ultimi anni della
sua carriera è necessario partire dalla sua inconsueta partecipazione alle
grandi mostre ed esposizioni di quei tempi, dietro la quale si nasconde in
realtà la necessità di proseguire con le sperimentazioni tecniche. Il teatro,
infatti, non si rivela un ambiente ideale per gli esperimenti, a causa della
“camicia di forza del repertorio e dei limiti invalicabili del tempo”, e lo
scenografo approfitta dunque di questo nuovo ambiente sia per realizzare
ciò che già ha provato a teatro, frenato dalla mancanza di mezzi e contributi,
sia come campo di prova per tecniche che vi adotta già in seguito.
L’Esposizione Universale di Bruxelles, la cosiddetta Expo ’58, assume
un’importanza enorme per gli artisti cechi e slovacchi. Non solo infatti si
tratta della prima mostra internazionale alla quale partecipano dopo la fine
della guerra. Ed è quindi l’occasione per confrontarsi finalmente con le altre
nazioni, ma il loro padiglione riesce a destare un vivo interesse da parte dei
critici, nonostante il tema scelto, una tipica giornata cecoslovacca, risulti
piuttosto banale. Svoboda, finora estraneo a quest’ambiente, comprende le
potenzialità di questo avvenimento, e vi prende parte con una triplice
mansione: come arredatore di una sala in cui colloca, in più, una sezione
dedicata alla tradizione ceca del vetro; come allestitore del primo Polyécran,
con l’aiuto di Emil Radok e dell’Istituto sperimentale della tecnica per la
produzione del suono e della luce; e come fondatore, insieme ad Alfréd
Radok, della Lanterna Magica.
Il Polyécran è un sistema multischermo, opportunamente sincronizzato alla
musica, che esclude completamente l’attore in carne e ossa, e che ambisce
a creare una sorta di collage, quasi di ispirazione cubista, che mostri la
stessa realtà nei suoi diversi aspetti o metta in relazione elementi non
connessi logicamente tra loro, lasciando all’osservatore il compito di trarne
una visione complessiva. Il primo Polyécran, che Svoboda costruisce sul
tema della Primavera praghese, è costituito da otto schermi di forme
quadrate e trapezoidali, disposti in uno spazio nero a diverse altezze ed

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angolature e colpiti da sette proiettori per inserti cinematografici e otto per
diapositive.
La struttura, di cui variano negli utilizzi successivi il numero, le forme e
l’inclinazione degli schermi, ottiene all’Expo ’58 un grande successo di
pubblico e critica, convincendo lo scenografo della sua validità. Un esito di
quest’esperienza sarà il complesso audiovisivo che Svoboda presenta nel
1967 all’Esposizione Universale di Montréal. Incaricato stavolta di
predisporre un intero piano dedicato all’industria cecoslovacca, oltre che di
allestire lo stand delle automobili Škoda, incontra difficoltà legate alle
dimensioni limitate dello spazio e pensa così di sfruttare a suo vantaggio le
ricerche compiute in precedenza. Riunisce allora ben quattro meccanismi
differenti, visibili però nel loro insieme: il Polydiaecran, la Polyvision e altre
due realizzazioni, varianti del Polyécran presentato a Bruxelles.
Il Polydiaecran cinetico o Proiezione musiva, che segue un programma
intitolato La creazione del mondo, presenta un mosaico di 9,50 metri in
larghezza e 5,50 metri in altezza, composto da 112 moduli quadrati disposti
in 14 file verticali e 8 orizzontali. Ognuno di questi moduli è costituito da un
tubo chiuso da uno schermo, all’interno del quale sono posizionati due
diaproiettori caricati con 80 diapositive ciascuno, per un totale di 160
cambiamenti per modulo, e 17.920 immagini per l’intero mosaico, di cui in
realtà, nei dieci minuti di durata dello spettacolo, vengono usate soltanto
12.293. Le immagini, a loro volta, possono muoversi da un lato all’altro dello
schermo per dissolvenza oppure essere messe in rilievo grazie al
movimento dei tubi, che essendo posti su carrelli possono avanzare o
retrocedere di un metro.
Gestire più di nove milioni di impulsi, per gli strumenti dell’epoca, è
sicuramente un’impresa, motivo per cui l’invenzione suscita un grande
interesse, non solo da un punto di vista artistico, ma anche commerciale e
pubblicitario. Tuttavia la fama porta con sé anche l’emulazione e spesso
l’originale rischia di non essere riconosciuto.
Ora potete vedere questa stessa applicazione ovunque, si tratta di una
proiezione multipla con la stessa forma, solo con un programma un po’ più
sofisticato, rielaborato col computer - ma porta un'altra firma. Il mondo degli
affari è senza scrupoli: è possibile brevettare i prodotti della tecnica ma non
l’arte. In America, tuttavia, questi sistemi vengono attribuiti a me e usati
come strumenti di lavoro. Perché l’America, al contrario dell’Europa, ne ha
capito davvero le possibilità di sviluppo e di sfruttamento. In molte università
americane c'è un Polyécran, per esempio, nei dipartimenti scientifici o di
storia dell’arte, per cui è possibile tenere una lezione sull’impressionismo, e
mostrare Manet, Monet e Cézanne contemporaneamente, operando
agevolmente nei confronti.
La Polyvision, a differenza dei precedenti, non utilizza dei veri e propri
schermi ma si serve di corpi solidi in movimento. Sui due versanti di uno
spazio di 16,60 metri di larghezza, 6 metri di altezza e 6 metri di profondità
vengono infatti disposti tredici cubi e prismi, di cui undici cinetici, affiancati,
nella parte centrale, da sfere e cilindri ruotanti. Tutti gli elementi possono
anche muoversi sul proprio asse in senso verticale ed orizzontale e, al
momento voluto, si accendono simultaneamente ai 424 segnali luminosi
posti sul fondo e sul soffitto. I cubi, nello specifico, hanno al proprio interno
tre diaproiettori, per cui su tre facce vengono alternate le immagini di alcune
diapositive, mentre su quella superiore e inferiore vi sono immagini fisse e
sulla quarta, rivolta al pubblico, viene puntato un proiettore cinematografico.

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Il tutto, infine, viene strategicamente riflesso da due specchi semitrasparenti
che, venendo posti diagonalmente con un’apertura di quarantacinque gradi,
si incrociano, tagliando lo spazio a metà. Si ha così un caleidoscopio di
trasformazioni, intitolato Sinfonie, che partendo dal tema del gioco infantile e
facendone un leitmotiv, racconta nel giro di nove minuti e mezzo le industrie
chimiche, il cristallo di Boemia, l’orologeria, le acciaierie, le fabbriche di birra,
il montaggio delle automobili Škoda, i panifici, le imprese Tesla e lo
sfruttamento del legno.
Il tema della Polyvision era ancora una volta di tipo umanistico. Si vedevano
dei bambini giocare, quindi andare a scuola, e poi, una volta adulti, scegliere
un lavoro. E avevo mostrato come sia necessario amare il proprio lavoro,
per poterlo fare bene, e quanto sia importante potersi realizzare attraverso di
esso. Un’immagine molto riuscita era quella che mostrava due visi di
bambini. Uno, sulla destra del sistema, rideva perché i suoi giocattoli erano
belli e colorati, mentre l’altro, sulla sinistra del sistema, piangeva perché i
suoi giocattoli erano brutti e bianchi e neri. Mettendo in movimento le due
immagini dai due lati dello schermo, verso il centro, sovrapponendole e
quindi sdoppiandole di nuovo, quello di sinistra rideva e quello di destra
piangeva. Quindi si creava un nuovo movimento, con una nuova
sovrapposizione, e i due bambini ridevano entrambi felici e per entrambi le
immagini diventavano a colori.
La cinetica di questi sistemi, come la scenografia a teatro, si fonda ancora
una volta e forse più di ogni altro spettacolo, sul ritmo, che diventa
essenziale anche laddove non vi sono attori o un dramma da sviluppare,
sebbene la debolezza dei temi proposti, in questo caso, rischi di ridurli ad un
semplice esercizio stilistico. Le due produzioni che completano il complesso,
invece, modificano semplicemente l’assetto del Polyécran originale,
cambiandone la superficie di proiezione: una, col tema dell’Industria tessile,
riempie lo spazio con tre rettangoli di corde che si muovono e si
sovrappongono; l’altra, con il titolo La pentola a pressione, vi dispone
diciotto superfici circolari statiche.

Quella di Montréal, comunque, è l’ultima esposizione universale alla quale


Svoboda prende parte. Negli anni successivi partecipa soltanto ad altre due
mostre. La prima, tenutasi nel 1971 a Norimberga, viene allestita in
occasione del quinto centenario della nascita di Albrecht Dürer. Lo
scenografo vi costruisce allora un’audiovisione chiamata Noricama, una
superficie a forma di cinescopio, divisa in sette parti movibili e con proiezioni
di diverso formato, la cui sceneggiatura si basa su un’immaginaria
discussione col pittore sulla storia tedesca fino all’epoca contemporanea. La
seconda si svolge in Canada nel 1973. Svoboda segue il tema della mostra,
L’uomo e il suo ambiente, per riempire l’intero padiglione americano di
palloncini bianchi e neri, fatti di gomma leggera e grandi 30 cm di diametro. I
palloncini, dei quali i bianchi possono anche servire come schermo di
proiezione, rappresentano le molecole pure e impure tra le quali
l’osservatore deve farsi spazio e che, lasciati liberi di salire in aria,
aderiscono alle pareti dell’edificio, oscurandolo.

La fondazione della Lanterna Magica


Ma un altro evento segna la popolarità del padiglione ceco all’Expo ‘58: la
fondazione della cosiddetta Lanterna Magica, o Laterna Magika, nella
dizione originale. Come la celebre scatola ottica diffusasi ampiamente nel
XIX secolo di cui riprende il nome, essa lega proiezione ed artigianalità,

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immagini filmate ed azione scenica, che in sintonia o in contrasto tra loro e
accompagnate ulteriormente da motivi musicali seguono lo sviluppo del
dramma, dando vita ad uno spettacolo suggestivo.
L’inserimento dell’elemento cinematografico, che da questo momento in poi
diviene sempre più una costante negli allestimenti di Svoboda, dimostra qui,
per la prima volta, di essere perfettamente in linea con l’andamento e i temi
della rappresentazione. Con la collaborazione di Alfréd Radok, del regista
Milos Forman, per l’occasione nel ruolo di scenografo, e del compositore O.
F. Korte, Svoboda realizza un piccolo palcoscenico adibito ad ospitare varie
azioni in contemporanea e fornito perciò di componenti di scena
intercambiabili, dal palcoscenico rivestito di velluto nero, ai sipari scorrevoli e
gli schermi a scomparsa. Sul palco prendono posto ballerini, una banda di
suonatori, un pianoforte ed altri strumenti che, tramite dei filmati registrati in
precedenza, appaiono sia sugli schermi che nello spazio teatrale.
La scena più ricordata, a questo proposito, è quella della conferenza iniziale:
avendo a che fare con un pubblico eterogeneo, si crea la necessità di
trovare uno stratagemma che permetta a chiunque di seguire lo spettacolo,
superando i limiti imposti dalle differenze linguistiche. La presentatrice, che
in scena parla al pubblico in francese, viene allora mostrata anche sui due
schermi laterali, nei quali si esprime rispettivamente in inglese e tedesco. Ma
non si tratta di una semplice sequenza nella quale lo stesso testo viene
comunicato in diverse lingue in momenti successivi. Tra le tre presentatrici si
instaura un vero e proprio dialogo che fornisce allo spettatore tutte le
informazioni necessarie, senza fornirgli illusioni o rompere la percezione
della realtà teatrale.

Da questa prima esperienza nasce un teatro sperimentale con lo stesso


nome, che diviene parte del Teatro Nazionale, i cui spettacoli ottengono
riconoscimenti in tutto il mondo. Le Danze slave, Le sorgenti, I racconti di
Hoffmann, stavolta con la regia di Kašlík, sono solo alcuni dei titoli che la
Lanterna Magica produce nei primi anni della sua attività. Sfortunatamente,
agli alti guadagni dovuti alla novità del momento corrisponde anche
un’incapacità di migliorare lo strumento in questione, e Svoboda e Radok,
preoccupati dalle derive che potrebbe prendere la situazione, lasciano
momentaneamente l’impresa. La Lanterna Magica viene così adoperata
come sala per la Cinematografia di Stato e riapre i battenti ufficialmente nel
1973, quando, ottenute le sovvenzioni statali, Svoboda decide
coraggiosamente di ritornarvi e riportarla in vita insieme al regista Evald
Shorm.
Nel frattempo perde invece i contatti con Radok, che lascia il paese nel 1968
a seguito dell’invasione sovietica, e con Krejča, anch’egli fuggito nello stesso
anno e che tornerà in patria solo nel 1991. Negli anni di transizione, dal
1973 al 1977, lo scenografo cerca di dare al teatro una propria forma
espressiva, che non si tramuti però in qualcosa di prevedibile ed
eccessivamente ripetitivo. Dalla ricerca di nuove soluzioni, nel 1976, nasce
quindi una nuova pièce destinata a diventare lo spettacolo-manifesto della
Lanterna Magica: Il circolo magico.
Fu la prima volta che tentammo di mettere in scena un racconto coerente e
scorrevole. E fu anche la prima volta che ci servimmo di una forma di
ripetizione di stile per dare risalto ai sentimenti e agli stati d'animo
universalmente noti come amore, gioia, tristezza, desiderio, invidia,
giocosità, malignità, ingenuità, furbizia. Lo spettacolo consisteva nelle scene
di vita di due clown: una favola che partiva dalla loro nascita e attraverso un

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pellegrinaggio a tratti allegro, a tratti triste, inseguendo l'ideale di Venere
sempre mutevole e irraggiungibile, si concludeva con la presa di coscienza e
la rassegnazione: un ideale resta sempre tale, e la vita scorre... Insomma
una dichiarazione di sentimenti fondamentali dell'umanità. La scenografia
accentuava il concetto naïf: un paio di attrezzi, e il panorama del circo con la
tenda che veniva spostata secondo le necessità. Anche la musica
sottolineava le varie situazioni con appropriati motivi orecchiabili. [...] Il
“miracolo tecnico” consisteva solo nelle riprese effettuate
contemporaneamente da tre camere gestite da Emil Sirotek e nella
riproduzione del suono attraverso sei canali. Tutto l'insieme doveva dar vita
a un'armoniosa collaborazione tra gli attori che agivano sulla scena e gli
artisti proiettati sullo schermo.

Eppure, negli allestimenti successivi, il lato tecnico continua a camminare


parallelamente a quello artistico, a discapito del contesto drammatico. Come
già avvenuto per Intolleranza 1960 a Boston, Svoboda fa allora ricorso allo
strumento televisivo, e lo trasforma in un personaggio che mostri al pubblico
i diversi aspetti del mondo teatrale, dal palcoscenico, al dietro le quinte.
Quasi un’eco di quel Rigoletto del lontano 1947, La prova notturna, questo il
titolo dello spettacolo del 1981, utilizza quattro telecamere, una nel
retropalco e tre in palcoscenico, per cogliere le azioni degli attori fuori scena,
le relazioni amorose o i rapporti tra compagnia e regista, oppure ancora
evidenziarne le reazioni, i particolari della mimica, proiettando poi il tutto su
uno schermo sotto il controllo del regista e del montatore. La tecnica
televisiva viene sperimentata di nuovo in Vivisezione, con l’uso del filmato
per documentare i momenti salienti della vicenda e per svelare i dettagli
della vita del protagonista.
Ma Svoboda affronta anche l’opera e i classici, superando i limiti dettati dallo
spazio limitato del teatro. Con Odissea del 1987 mette in scena la storia di
un uomo che affronta le avversità del mondo, senza comprendere i valori
della vita, sfruttando tutti gli elementi a sua disposizione: l’impalcatura che
funge da deposito permette agli attori entrate su vari livelli; il pontile, fissato
su di essa, fa sia da nave che da superficie di proiezione. Poi, nella seconda
edizione del 1993, ridimensiona ed elimina le strutture di scena, facendo
danzare i ballerini dentro l’immagine cinematografica e aprendo, in questo
modo, nuove prospettive al rapporto tra cinema e teatro.
Dal 1992 la Lanterna Magica è di nuovo un teatro indipendente, con una
propria sede accanto al Teatro Nazionale. Fra le ultime produzioni, una
versione del film di Hitchcock Psycho (1993), Casanova (1995), e The Past
del 1999. Graffiti del 2002, affidato poi alla generazione successiva di artisti,
viene infine indicato come l’ultimo spettacolo di Josef Svoboda alla Lanterna
Magica.

LA REINVENZIONE DELLO SPAZIO. STRUMENTI E MODALITÀ


Nello studio del percorso di uno scenografo quale Josef Svoboda, che tanto
dà importanza all’utilizzo del fattore tecnico nel campo teatrale,
contribuendovi altresì attraverso ricerche ed esperimenti, si cade facilmente
nell’errore di ricordarne esclusivamente le soluzioni più ingegnose ed
originali che, complice anche la scarsa conoscenza della cultura teatrale e
letteraria ceca, finiscono spesso per essere esaminate estrapolandole dal
contesto drammaturgico al quale invece sono strettamente connesse. Non
potendo evitare un rischio del genere nella ricostruzione globale di una
carriera così prolifica, ricostruzione realizzata, tra l’altro, dovendosi

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adeguare ai dati forniti dalle fonti a disposizione, risulta opportuno dedicare
una sezione specifica all’approccio che Svoboda ha nei confronti di alcune
grandi personalità della storia del teatro, appartenenti sia al mondo
operistico che a quello drammatico. In questo modo, grazie alla conoscenza
pregressa del loro pensiero e dei testi trattati, si fornirà sia il pretesto per
comprendere meglio la coesione tra scenografia e opera, sia l’opportunità di
vedere Svoboda alle prese con quei generi e quegli autori che in qualche
modo già presuppongo una precisa idea di spazio scenico.

L’opera lirica: l’apprezzamento per Mozart


La grande quantità di allestimenti operistici che Svoboda ha curato nel corso
della sua lunga carriera, a partire dai primi incarichi al Teatro del 5 Maggio,
farebbero pensare ad un forte interesse riguardo al suddetto genere già
dagli inizi della sua attività teatrale. In realtà in un primo momento l’opera
lirica non è nei piani dello scenografo, che la considera come qualcosa di
finito, relegato al passato, come le vicende da essa narrate. Saranno
l’esperienza e l’incontro con registi come Kašlík e Friedrich a insegnargli che
lo scontro con quell’attualità a lui tanto cara non ne intacca il valore.
Per Svoboda l’opera lirica, apre nuove possibilità: da un lato, non
rispettando il normale flusso di tempo e spazio, fornisce allo scenografo una
rinnovata sensazione di libertà espressiva; dall’altro, dovendo sollecitare la
fantasia dello spettatore senza però soffocarla, diviene una sorta di sfida per
l’équipe teatrale, rivelandosi un genere particolarmente esigente. Oltretutto a
differenza del dramma qui non è soltanto il testo, ovvero il libretto, a
scandire l’andamento della rappresentazione, ma soprattutto la musica con i
suoi ritmi e le sue pause, principi che Svoboda impara appositamente a
leggere sugli spartiti così da trarne diretto spunto per la scenografia.

Mozart su tutti suscita profonda ammirazione da parte dello scenografo, che


per giunta reputa i libretti per le sue opere pressoché inutili rispetto alla
musica da lui composta.
Ogni volta che sento pronunciare la parola “opera” penso a Mozart: mi è
sempre sembrato che egli componesse le sue opere con la stessa
leggerezza con cui dipingeva Picasso, il quale, con uno slancio e una
concretezza straordinari, si impossessava dei concetti più comuni per farne
dei capolavori. In Mozart un capitolo a parte sono poi i libretti, non brutti, ma
ancora meno importanti di quanto non siano per gli altri compositori. La
musica di Mozart parla da sé, senza mediazioni.
Proprio insieme a Kašlík e Friedrich Svoboda mette in scena due delle più
celebri opere del compositore austriaco: Il flauto magico e il Don Giovanni. Il
punto di partenza per la messinscena del Flauto magico, realizzato nel 1961
al Teatro Nazionale, è il rifiuto della versione fiabesca dell’opera, che a
causa della sua versatilità è stata spesso allestita col semplice obiettivo di
concretizzarne le ambientazioni, senza indagare invece le associazioni di
sentimenti e di idee presenti nell’opera. Svoboda decide quindi di valutarne i
significati allegorici e collocarla al di fuori di un tempo stilisticamente
determinato, giocando tutto sulla contrapposizione tra il regno della Regina
della Notte, Astrifiammante, e il regno della Saggezza di Sarastro, che ne
tiene in ostaggio la figlia Pamina.
Il viaggio di Tamino e Papageno, incaricati del suo salvataggio e poi
stabilitisi con lei e Papagena nel regno solare, si svolge su una scena
ricoperta in feltro, dove si stagliano degli speciali specchi triangolari in
plexiglass, creati appositamente in laboratorio e ricoperti di uno strato

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d’argento, che rimandano in un certo senso al milieu egiziano dell’opera. Le
luci, posizionate secondo precisi calcoli e disposte su tre file sopra il
palcoscenico, vengono perciò assorbite o riflesse, ricreando i due ambienti
principali e con essi il principio della lotta tra il bene e il male.
Ma questi due mondi sono anche collegati tra loro da altre scene di
passaggio, cosicché la loro antitesi trova a volte tregua nella sobrietà del
semplice spazio scuro (sfondo delle prove degli amanti Tamino e Pamina),
altre volte in un universo di colori e danze (in sottofondo alla ricerca
dell’uccellatore Papageno), fino a giungere alla sconfitta di Astrifiammante e
delle sue dame che porta a conclusione la storia.

Tuttavia la versione del Flauto magico allestita nel 1970 all’Opera di Monaco
ricopre senza alcun dubbio un’importanza maggiore nella carriera dello
scenografo, che per la prima volta introduce lo strumento del laser in ambito
teatrale. Sebbene sia consapevole della sua pericolosità e delle precauzioni
da adottare, è infatti deciso a portare avanti le proprie sperimentazioni. Si
reca dunque appositamente ad Erlangen, sede del Centro Sperimentale
della Siemens, per richiedere uno speciale dispositivo in grado di operare la
rifrazione del raggio laser in diversi raggi e nel giro di tre settimane, la
società prepara a proprie spese la macchina, del valore di 400.000 marchi.
Per il Don Giovanni Svoboda è costretto a ideare uno spazio scenico il più
semplice e funzionale possibile, anche a causa delle spese eccessive
sostenute in precedenza per la rappresentazione della Carmen. In questa
versione non c’è più posto per il gusto barocco o l’illusione storica, il Don
Giovanni è un “dramma giocoso” nel quale la verità si rivela attraverso la
recitazione, la cui realtà è quella teatrale e il protagonista stesso non è che
una fantasmagoria che solo in essa può vivere, in un furioso continuum che
non permette interruzioni.
Il sipario viene perciò eliminato, mentre il palcoscenico viene trasformato in
una grande scacchiera, contenente tutti gli elementi decorativi, recuperati
dai magazzini del teatro, indispensabili durante lo spettacolo: un muro, il
cancello di un giardino, delle arcate, delle panchine, dei candelabri, un
sarcofago e una statua equestre. Di questi ne vengono utilizzati al massimo
tre o quattro per ogni quadro, venendo poi spostati o modificati quando
necessario dagli stessi inservienti. Il sarcofago ad esempio può essere
adibito a tavola imbandita, coprendolo con una grande tovaglia e delle
vivande, e le croci del cimitero diventano dei candelabri, piegandone i bracci
laterali verso l’alto.
Solamente la tenda, utilizzata in principio per nascondere il palco e poi
spostata sul fondo, fa da mezzo di variazione della luce. Su di essa appare
l’inquietante sagoma di un’ombra, che cresce tra i vari atti fino ad oscurare
completamente la scena. Nel frattempo gli oggetti scenici vengono spostati e
nascosti alla visuale del pubblico. Così, alla fine, Giovanni muore sul
palcoscenico vuoto, e la tenda cade e lo copre, quasi fosse un gigantesco
sudario. Un segno che il suo mondo, quello della realtà teatrale, insomma,
crolla insieme a lui.

Le messe in scena wagneriane. Lo spazio mutevole


Di Wagner, invece, Svoboda non apprezza le valutazioni tecniche,
lamentando una dilatazione eccessiva della durata di alcune scene
romantiche in opposizione al tempo ridotto dedicato agli scenari di natura
favolistica.98 Ciò nonostante non sottovaluta la forza drammatica della sua
musica e non nasconde una certa ammirazione per l’organizzazione e il

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funzionamento del teatro di Bayreuth, dotato di un’acustica perfetta e
sempre pronto ad accogliere gli artisti stranieri.
Le scenografie del Tristano e Isotta, che cura per ben tre volte nel 1967,
1974 e 1978, anticipano in effetti le soluzioni adottate successivamente
anche in altre collaborazioni internazionali, quali le Tre sorelle di Čechov con
la regia di Olivier, il Prometeo di Orff con la regia di Everding e i Sei
personaggi in cerca d’autore diretto da Delcampe. I due amanti, che nel
primo allestimento vanno incontro alla morte seguendo un’ampia strada a
spirale discendente, spariscono nell’edizione del 1974, anch’essa diretta da
Everding, in un’intensa luce bianca.
Le proiezioni, che in questa versione sono dirette su delle corde di color
grigio-violetto, ormai strumento consueto per lo scenografo, fanno invece da
seguipersone nella versione del 1978, come poi avverrà per i Sei
personaggi. Ma qui, non è un colore che ne costituisce l’aura, bensì le
immagini di un lago nordico: quando Isotta dà il filtro d’amore a Tristano, la
superficie del lago si agita improvvisamente e grandi spruzzi d’acqua
invadono il palcoscenico, finché la tempesta in corso lentamente si placa.
È ancora Friedrich, però, a proporgli uno dei progetti più impegnativi
nell’ambito del teatro lirico. La tetralogia de L’anello del Nibelungo,
rappresentata tra il 1974 e il 1976 al Covent Garden di Londra, viene dai due
interpretata come un teatro mundi, uno spaccato della storia del pianeta
Terra dalle origini al disfacimento. Ma contrariamente a quanto si potrebbe
pensare, si tratta di un’opera dal finale ottimistico: poiché in natura tutto si
crea e nulla si distrugge realmente, alla fine di un’era segue un nuovo inizio,
secondo l’eterno ciclo di vita e morte.
Per il regista e lo scenografo, però, il mondo da realizzare non è altro che
quello del palcoscenico, motivo per cui Svoboda elimina il sipario e spoglia il
palco di ogni elemento, lasciandone aperte le botole e coprendole con
un’unica grande piattaforma di 12 m x 10 m e 60 cm di spessore. Questa,
ricavata dalle tavole stesse del palcoscenico e sorretta da una colonna
ancorata nelle fondamenta dell’edificio, sfrutta l’impianto idraulico di cui è già
dotato il teatro e può essere sollevata, ruotata o inclinata (fino a 45 gradi),
soddisfacendo da sola ogni esigenza dell’azione scenica.
Il suo lato inferiore, poi, è coperto interamente da uno specchio, così che,
inclinandola, si possano mostrare al pubblico le scene svolte nella buca
sotto di essa, ambientate nelle profondità della terra. Unica aggiunta a
questo spazio vuoto, circondato dai drappeggi neri e logori del teatro, un
panorama di 6 metri di altezza, capace di ricevere proiezioni su entrambi i
lati e sul cui retro vengono praticati una serie di fori.
La prima parte dell’opera, L’oro del Reno, comincia dunque nella più
completa oscurità che, accompagnata dalla musica dell’orchestra, viene
improvvisamente squarciata da un raggio laser rosso, impiegato stavolta
senza far uso del macchinario della Siemens, che attraversa tutta la sala. Il
punto rosso inizia poi a granulare e a dividersi, con l’ausilio di alcune lenti
fornite dai laboratori Siemens di Erlangen, in tanti altri punti di diverso colore
che si muovono nello spazio, dando vita a una galassia. A questo punto, la
piattaforma si innalza e ruota velocemente, ad indicare la nascita del mondo
tolemaico, per poi inclinarsi in controdeclivio così da mostrare, per riflesso, le
Figlie del Reno che nuotano nelle sue acque e ancora, poi, la fonderia di
Alberich. Solo alla fine si inclina in senso opposto, diventando una scala per
il Walhalla, posto in realtà dietro al panorama e illuminato in modo indiretto
dalla luce del palcoscenico, verso la quale gli dei si incamminano.

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La seconda parte, La Valchiria, rappresenta l’analisi dei conflitti del mondo e
del carattere dell’uomo, nel periodo dal feudalesimo al diciannovesimo
secolo. La piattaforma, stavolta, è rivestita da un panno scarlatto, simbolo
della terra imbevuta di sangue coagulato, e su di essa Svoboda costruisce
due blocchi, che insieme alle proiezioni sull’orizzonte creano i piani spezzati
del paesaggio montagnoso.
In Sigfrido lo scenografo si serve di un cubo di nastri di studiofolie
trasparente, particolare materiale per proiezioni prodotto dallo studio
Gerriets, per risolvere la scena dell’orso da lui poco amata: sia Sigfrido, che
deve muoversi tra i nastri, sia l’orso, sono infatti visibili solo in parte,
evitando quindi l’effetto quasi comico che provoca la visione di un orso
interpretato da un altro attore. Anche le fiamme, che Sigfrido attraversa sui
monti per cercare Brunhilde vengono ricreate, come al solito, tramite
proiezione. Svoboda ricopre la piattaforma con una latta ritagliata, da una
parte spruzzata d’argento, dall’altra dipinta di un nero opaco, e sorretta da
un feltro nero.
Le piccole superfici staccate dal metallo inghiottono il controluce e
impediscono il formarsi di una luce parassitaria superflua. In questo modo la
piattaforma sembra completamente in fiamme e Sigfrido, seguito dalla
proiezione, vi si muove liberamente.
Nella scena alla reggia dei Ghibicunghi, infine, dei pannelli di lenti di vetro di
2 mm di spessore e con un fuoco di -30 cm scendono dalla graticcia,
riflettendo la platea e moltiplicandone per mille volte l’immagine. Tre lenti
con un fuoco di +3 m, al contrario, ingrandiscono l’immagine dei protagonisti,
creando allo stesso tempo uno spazio inquietante. In questo frangente
Brunhilde perde il suo anello e con esso l’interesse in Sigfrido, assassinato
poco dopo dai soldati di Hagen. Solo la marcia funebre scandisce la sua
morte e la fine del mondo. Brunhilde appare già accanto al suo corpo
esanime, prima che tutto bruci in un immenso rogo.
Si chiude così anche Il Crepuscolo degli dei e con esso l’intera tetralogia, su
un palcoscenico vuoto, su quel punto rosso che segna la nascita di una
nuova galassia, l’inizio di un nuovo ciclo. Alberich, unico sopravvissuto, è
difatti insieme vincitore e vinto e la morte del suo antagonista crea una
situazione di stallo, per cui il cerchio del dramma non può chiudersi e non
può, dunque, che incominciarne un altro.

La Traviata “degli specchi”


Nel discorso riguardante l’opera lirica, merita certamente di essere
menzionata La Traviata, una tra le messinscene di Josef Svoboda più
recenti e più apprezzate. Essa viene realizzata nel 1992 allo Sferisterio di
Macerata con la regia di Henning Brockhaus, regista tedesco al suo debutto
in Italia. Lo stesso teatro l’ha ospitata anche nel 2003, con un coro più
giovane e più disponibile ai movimenti scenici, ma anche con un approccio
decisamente diverso, a causa della morte dello scenografo avvenuta l’anno
precedente.
Brockhaus, sconosciuto al pubblico italiano a differenza dell’ormai celebre
Svoboda, ha la possibilità di conoscere lo scenografo durante la sua
collaborazione con Giorgio Strehler per il Faust al Piccolo di Milano. In
quegli anni, infatti, il regista è assistente di Strehler e fa da interprete per
Svoboda, la cui seconda lingua è appunto il tedesco. Ciò gli permette di
discutere con lui costantemente del progetto della Traviata.

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Fulcro della rappresentazione è la storia di Violetta, interpretata seguendo le
linee guida della versione di Verdi, nonché del romanzo d’origine La Signora
delle Camelie. L’intento di Brockhaus è di fare emergere le ragioni sociali e
ideologiche del comportamento dei personaggi e di evitare il coinvolgimento
emotivo dello spettatore, così che si senta anch’esso parte del voyeurismo e
dell’ipocrisia borghese di cui la protagonista è vittima. Per far ciò la vicenda
viene presentata al pubblico fornendo un ulteriore punto di vista per
analizzarla e sottolineando in alcuni momenti l’illusione teatrale: “Si pone
innanzi al pubblico la storia; quindi questo aprire un libro è come dire: la
storia la conosciamo già, la rileggiamo, la reinterpretiamo e vediamo cosa
succede”.
Quest’effetto viene facilmente raggiunto attraverso la particolare soluzione
scenica adottata: Svoboda libera lo spazio scenico per porvi un grande
mosaico irregolare di specchi leggerissimi lungo 22 metri e alto 12 metri,
costruito dalla ditta Gerriets con materiali utilizzati nelle sperimentazioni
aereo-spaziali, all’interno del quale viene inserito uno strato di vernice per
attutire il nitore della rifrangenza. Una vera e propria lama di luce, sotto la
quale scorre la storia di Violetta, da sfogliare come un grande album di
immagini dipinte. Riflessi dallo specchio, che assume diverse inclinature a
seconda del caso, sono infatti una serie di tappeti dipinti disposti uno
sull’altro sul palcoscenico e svelati di volta in volta nel corso dei tre atti. Le
luci, di conseguenza, sono predisposte sia sopra che sotto il palco,
mettendo in risalto sia i personaggi che i teli dipinti. Si crea quindi una
doppia scenografia, un doppio punto di vista, che permette allo spettatore di
comprendere meglio l’andamento e il significato delle cose. Anche il sipario
è in realtà steso sul pavimento. La vicenda inizia perciò con uno spazio
completamente vuoto e lo specchio poggiato a terra che, nel silenzio e nel
buio, inizia ad alzarsi, rimandando simbolicamente ad “un libro che viene
aperto, una storia riscritta, una memoria che si apre, una tomba che si
riapre”. Un susseguirsi di colori fa poi da sfondo ai diversi momenti di
straniamento: dal rosso carminio del sipario si passa ad un collage erotico,
sfondo dell’asta iniziale nella quale Alfredo tenta di recuperare le lettere
della propria defunta amata, mentre il bianco e nero predominano nelle foto
di famiglia, segno di un passato ormai lontano. La scena in cui Germont
padre convince Violetta a rinunciare ad Alfredo, è accompagnata invece da
un brusco passaggio dal dipinto della casa in campagna (dove i due amanti
vivono) ad un campo di margherite:
Si tratta di un punto debolissimo, perché non è vero che lei ha rinunciato: la
vera Marie Duplessis non ha rinunciato ad Alfredo, Alfredo l’ha abbandonata
e l’ha lasciata morire da sola. Questa è la versione di Piave e Verdi. E si
avverte ch’è una stortura... ma la si deve raccontare. Allora mi è venuto in
mente che Germont, quasi come Mefistofele, seduce Violetta riconoscendo
in lei un complesso di colpa ed approfittando di questa sua debolezza la
porta, per così dire, ad una crisi mistica. E lei, quasi moribonda, e già
guardando in faccia la morte, si fa tirare via da Germont la realtà nella quale
vive con Alfredo (tappeto dipinto della casa di campagna). E mentre
svanisce questo tappeto, che striscia verso il fondo, si scopre sotto Violetta,
questo incanto della natura, queste margherite, questa purezza e questa
speranza ideologica di redenzione.
Il momento di maggiore distacco per lo spettatore si ha però nella scena
finale. Violetta, a cui tutto è stato pignorato perché sommersa dai debiti,
muore sul palcoscenico spoglio. Lo specchio dietro di lei si alza allora a 90
gradi, così che tutta la platea ed i palchi del teatro vi vengano riflessi.

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Lo spettatore, catapultato nella vicenda, non riesce a commuoversi per la
morte di Violetta, che quasi in estasi, come se si riprendesse grazie ad una
strana forza, vi corre incontro a braccia aperte, gridando: “Finitela con
queste storie!”. Non tutti hanno gradito un allontanamento così forte
dall’interpretazione classica, ma il successo della famosa “Traviata degli
specchi” è vivo ancora oggi.
Unica pecca, la scelta dei costumi: Brockhaus avrebbe infatti voluto dei
costumi ispirati alla pittura di Boldini, ma in mancanza di finanziamenti per
realizzarli ha sempre dovuto utilizzare, nelle edizioni più disparate, costumi
di epoche diverse. Così La Traviata di Brockhaus e Svoboda, premiata dalla
Critica Musicale “Franco Abbiati” per “l’impianto scenografico genialmente
funzionale al luogo”, è stata e viene ancora rappresentata in tutto il mondo,
ma sempre priva di quei costumi “autentici” che il regista tedesco aveva
inizialmente ideato.

Shakespeare: il dramma e lo spazio


Durante il periodo di attività al Teatro Nazionale di Praga e parallelamente
alla breve esperienza del Teatro Za Branou (“Teatro dietro la porta”),
fondato nel 1965 insieme ad Otomar Krejča e chiuso poi nel 1972, Svoboda
affronta anche il difficile compito di ideare alcune scenografie per i testi di
Shakespeare, Čechov e Brecht. Grazie all’appoggio di diversi registi, Krejča
in primis, lo scenografo ceco riesce in ogni occasione a sapersi reinventare
e soprattutto a “rendere alle opere d'arte antiche la vita dello spirito umano
del nostro tempo”.
Shakespeare, come precisa Bablet, si presenta generalmente come un
autore piuttosto congeniale al teatro contemporaneo. L’attualità delle
tematiche trattate, sebbene immerse nelle ambientazioni e nelle epoche più
disparate, rende in un certo senso più semplice l’approccio al testo, in
particolar modo in relazione al pubblico, che già ne conosce le trame ed è
ben propenso ad accettarne svariate interpretazioni. Allo stesso tempo,
tuttavia, le tragedie e le commedie shakespeariane sono pensate
appositamente per seguire gli stilemi del teatro elisabettiano, dove vige una
“scenografia verbale” che pone al centro della rappresentazione il ritmo e il
trasporto emotivo dei versi, l’interpretazione dell’attore che interagisce con
quei pochi ed essenziali oggetti scenici e, non per ultimo, la capacità
immaginativa dello spettatore, che ne comprende il significato metaforico e
drammaturgico oltrepassando così la superficie delle cose.
Ne consegue che proprio a causa di quell’attualità così provvidenziale, i
drammi shakespeariani finiscono spesso per essere tra quelli più abusati a
teatro, dove un autore in realtà così difficile da mettere in scena
rispettandone lo spirito originario diviene anzi continuamente vittima di
avventate modifiche della lunghezza e del ritmo dei versi, di ricostruzioni
storiche o modernizzazioni nel luogo e tempo dell’azione e di scenografie
più o meno conformi alle necessità dell’opera.
Consapevole di ciò, Svoboda si guarda bene dal creare una mera
illustrazione del testo. I suoi spazi psicoplastici sono plasmati dagli status
psichici ed emotivi dei personaggi e giocano sull’introduzione del taglio
cinematografico al fine di evitare scomode interruzioni nell’azione scenica. In
più, la doppia natura concreta (come semplice cambiamento di luogo) ed
astratta (come manifestazione dei temi della vicenda) dello spazio scenico
unita alla rivelazione interna delle problematiche del dramma, permettono
allo spettatore di prevedere già i probabili sviluppi della vicenda e dar quindi

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spazio alla propria fantasia in merito alla percezione dell’ensemble
drammatico.
Secondo questi principi, Svoboda mette in scena diverse opere di
Shakespeare, che considera “un autore multimediale ante litteram, perché ci
ha creato uno strumento in grado di scoprire le proprietà umane, da suonare
allo stesso modo degli altri strumenti, tristemente, tragicamente o con
grande allegria. E grazie a questo strumento si può esprimere l’intera storia
dell’umanità”.
Per la messinscena della tragedia romantica Romeo e Giulietta (1963), ad
esempio, lo scenografo punta alla semplicità e continuità dell’azione,
impiegando un controllato movimento delle strutture architettoniche. Nessun
dettaglio o particolare effetto di luce stavolta, l’intento di Svoboda e Krejča è
semplicemente di “mostrare questa celeberrima storia d'amore fra due
giovani calandolo nello spirito del tempo in cui è stata ambientata
dall’autore”. Per far ciò, lo scenografo realizza un dispositivo scenico
composto di varie piattaforme mobili e ricoperto soltanto con un materiale
povero come la juta, spolverizzata di bianco e oro, un espediente che
rimanda alla messinscena del Tristano e Isotta, ma che si basa su un
principio diametralmente opposto:
Consideriamo [...] due storie d'amore. La prima, Romeo e Giulietta, è il
dramma di due giovani che si amano, che si dibattono in grossi problemi, ma
che lottano per la vita che vorrebbero vivere insieme. La pianta della
scenografia deve quindi offrire una via d'uscita, anche se i due protagonisti
non ne fanno uso. La scenografia deve avere chiaramente una struttura
aperta. Tristano e Isotta, invece, vanno incontro al proprio destino - alla
morte - come due agnelli sacrificali, senza opporre resistenza, quasi
consenzienti, perché sono convinti di essersi macchiati di una colpa. Se è
così che si considera la vicenda dei due amanti allora io credo che la pianta
della scenografia per Tristano e Isotta dovrà essere una spirale, che non
offre vie d’uscita, con un movimento che va dal fuori al dentro e si spinge
sempre più verso il centro. Si può solo tornare indietro, ma Tristano e Isotta
non considerano questa possibilità e vanno sempre avanti. Ogni pianta
scenografica deve avere alla base un’idea, una filosofia. Se non l’ha, il
risultato non sarà una scenografia.
La scenografia per Romeo e Giulietta è costituita dunque da una cornice
profonda tre metri e delimitata da due pannelli laterali che possono spiegarsi
verso il pubblico: dietro questa cornice sono posti una piattaforma di 5,50 m
x 6 m, da impiegare come piazza o interno, e una galleria di arcate sottili
sospesa fino a 3,50 metri di altezza, adoperata per la scena del balcone;
nella parte anteriore, invece, si trovano una scala discendente nel
sottosuolo, fiancheggiata a sua volta da un muro che può innalzarsi fino a
due metri d’altezza, abbassarsi fino a diventare una panca o sparire del
tutto, e un podio, mobile in senso verticale, che diventa fontana, letto dei due
giovani amanti e infine catafalco, prima di sparire del tutto scendendo
insieme a loro nel sottopalco. L’interpretazione degli attori diventa così
l’unico elemento che riempie lo spazio e ne definisce le molteplice realtà,
seguendo pertanto alla perfezione lo spirito del teatro elisabettiano per il
quale il testo è stato originariamente concepito e parlando,
contemporaneamente, anche ai giovani del nostro tempo.

Čechov e Brecht: il confronto con atmosfere e spazi predefiniti


Le messinscene shakespeariane vengono dunque risolte riflettendo sul
contesto storico delle vicende narrate, raccontate al pubblico sfruttando le

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numerose funzionalità dello spazio scenico. I drammi čechoviani, al
contrario, presentano ambientazioni indefinite e richiedono una maggiore
attenzione sul piano emotivo.
I drammi di Cechov mi hanno sempre stimolato, per l'impossibilità di
rappresentarne l'atmosfera effimera. Che cosa può fare uno scenografo
moderno? Se cede al testo e lo lascia parlare mancherà qualcosa. Se
comincia a illustrarlo, ci sarà qualcosa di superfluo. Come afferrare
l'atmosfera, laddove le parole hanno anche un significato nascosto? Come
creare uno spazio limitato, laddove esiste lontananza tra le persone, e come
rendere la lontananza se queste invece si trovano vicine?
La risposta a questi quesiti risiede, nel caso del Gabbiano del 1960
realizzata al Teatro Nazionale di Praga con la regia di Krejča, nello
strumento immateriale della luce. Le distanze infinite dei paesaggi russi
vengono infatti ricreati ancora una volta con l’aiuto del controluce, che in uno
spazio scuro, rivestito di velluto nero, viene non solo puntato sulla parte
anteriore della scena, ma anche fatto passare attraverso dei rami frondosi.
In questo modo Svoboda ricrea l’atmosfera di una calda e umida giornata
estiva, nella quale gli attori, seguendo il sentiero formato dai “raggi di sole”,
camminano verso il retroscena fino a scomparire in una nebbia luminosa.
Al contrario, la nostalgia e il senso di oppressione che pervadono le scene
d’interno delle Tre Sorelle richiedono uno spazio privo di movimenti
materiali, proiezioni e trasparenze. Le dimensioni del palco del Divadlo Za
Branou, dove viene realizzato, rendono impossibile ricorrere al potere
smaterializzante della luce. Ecco allora che la distanza emotiva e
psicologica tra i personaggi si manifesta nel grigio delle pareti e nei colori
spenti degli abiti. Solo qualche oggetto contribuisce alla sua metamorfosi nel
corso degli atti, ma il comprimersi dello spazio non si arresta che nell’ultimo
quadro, quando in quel giardino, luogo dei fallimenti e degli addii, l’unico
elemento a spiccare nel grigiore della vita è un’altalena, quasi simbolo di
quel continuo sballottarsi dei personaggi e ironico piedistallo di chi, fallendo
poi miseramente, ha tentato almeno un po’ di dominare gli eventi.

Ben più controverso e problematico è il rapporto con la drammaturgia


brechtiana. “Conoscevo bene Brecht: Praga e Berlino non sono molto
distanti e ci incontrammo diverse volte, parlando sempre a lungo. Ma non
abbiamo mai lavorato assieme”, afferma Svoboda. “Non mi piaceva il modo
di rappresentare Brecht in uso in tutto il mondo, e d'altro canto sapevo che
andando contro questa forte tradizione qualsiasi scenografia avessi
realizzato sarebbe stata accolta in malo modo”. Per questo motivo lo
scenografo rifiuta ogni proposta di mettere in scena Brecht fino agli anni ’70,
cedendo soltanto in due occasioni.
La prima è la realizzazione di Madre Coraggio nel 1970 al Teatro Nazionale
di Praga. Trattandosi di un luogo privo di una tradizione brechtiana, Svoboda
riesce qui ad avere una certa libertà creativa e con la direzione del collettivo
Flora, che già si era occupato dell’allestimento dei padiglioni per le
esposizioni universali di Bruxelles e Montréal, riesce ad allestire una scena
piuttosto impegnativa e rischiosa per la sicurezza sul palco: costruisce infatti
una superficie irregolare di latta di 14 metri di diametro e dal peso di ben tre
tonnellate, per poi dividerla in una parte inferiore (simbolo del reclutamento e
delle promesse di vittoria) ed una superiore (coperta di sangue e sulla quale
Madre Coraggio trascina il suo carro di vita sofferta) e sorreggerla infine,
secondo precisi calcoli, con tre sole funi di 10 millimetri.

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È l’insistenza di Bucwitz nel proporgli L’opera da tre soldi, però, a svincolarlo
finalmente dal peso della tradizione e dal timore di provocare scandalo.
Svoboda, dopo un’attenta analisi del testo, decide infatti di riaprire la fossa
dell’orchestra e riportare il direttore nella sua posizione consueta, piuttosto
che porlo di spalle ai cantanti come vorrebbe il dramma. Decisiva, poi, la
scelta di reintrodurre il sipario, così da proiettarvi immagini che creino le
atmosfere adatte ai song: esso viene tagliato a strisce nella sua parte
inferiore e fornito di un sistema che lo sposti
, con un movimento quasi impercettibile all’occhio umano, dal boccascena al
fondo del palcoscenico, in modo da utilizzarlo anche come fondale.
Realizzato con uno schermo “harcnes”, un Pvc nero dalla memoria
meccanica capace di ricevere proiezioni da entrambi i lati, Svoboda vi
indirizza dei proiettori posti sia nella sala che nel retropalco.
L’interpretazione dello scenografo ottiene infine, contrariamente alle
aspettative inziale, un grande interesse e successo di pubblico, riuscendo
quindi in quell’arduo intento di reinventare uno spettacolo in teoria già
scenograficamente risolto.

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