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STUDI STORICI CAROCCI / 297

Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di


ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire.

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 4391, 23 settembre 1828

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Federicomaria Muccioli

Le orecchie lunghe
di Alessandro Magno
Satira del potere nel mondo greco (1v-1 secolo a.C.)

Carocci editore
1edizione, marzo 2018
a

© copyright 2018 by
Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Elisabetta Ingarao, Roma

Finito di stam are nel marzo 2018


da Grafiche VD srr., Città di Castello (PG)

ISBN 978-88-430-9271-o

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,


è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice

Premessa 7

Introduzione. Scherza coi fanti... Poteri monocratici nel


mondo greco tra satira e adulazione 9

I. Gli stereotipi del "buon" tiranno 9


2. T iranni e re nel mondo greco, ruoli interscambiabili? II
3. Declinare l'ironia, antidoto (pericoloso) contro l'adulazione 14
4. La corte: luogo eletto per l'ironia 17

I. Il Ciclope, mirror di tiranni e sovrani 22

2. Alessandro di Pella, predone fortunato dalle orecchie lunghe 31

3. Un padre come si deve per Tolemeo I

4. Le mogli dei diadochi sono al di sopra di ogni sospetto? 45

5. La chiocciola di Demetrio del Falera 50

6. Seduto a cavalcioni del mondo abitato 58

7. Il re e il politico "buffone" 66

8. La piuma di Agatocle 73
INDICE

9. Sogni e crudeltà dei tiranni, da Apollodoro a Ieronimo 80

IO. Un triangolo molto edificante

1 I. Regine virtuose, sovrane viziose

12. Il ronzino di Antioco IV 102

13. In cauda venenum 110

Filippo ve Perseo, sovrani on the run 116

Scacco al re a Pergamo 124

16. La testa mozza di Crasso 132

La tryphe dei Tolemei

18. Cleopatra v11,jàtale monstrum 149

Cronologia dei principali avvenimenti

Abbreviazioni e bibliografia 1 59

Indice dei nomi antichi 1 79

6
Premessa

Questo volume nasce da una frustrazione, da una scommessa e da una de­


dica.
La frustrazione è quella di chi vorrebbe o pretenderebbe di insegnare la
storia greca dagli inizi fino alla morte di Cleopatra VII e vede troppo spes­
so lo sguardo degli studenti universitari vagare nel vuoto, ogniqualvolta o
quasi le domande toccano il periodo successivo alla dipartita di Alessandro
Magno.
La scommessa è, conseguentemente, quella di offrire un quadro, per
quanto incompleto, di quell'età (con qualche incursione nelle epoche pre­
cedenti), attraverso l'analisi dell'ironia, della satira e della critica al potere
monocratico, in tutte le sue forme. Un quadro che possa essere utilmente
fruibile dal lettore anche grazie al ricorso a una scrittura in sintonia con gli
argomenti trattati. Il che non implica la rinuncia al rigore espositivo e ai
consueti apparati di note e bibliografia scientifica, aggiornata e ragionata.
La dedica è alla cara memoria di mia cugina Francesca, che forse avreb­
be apprezzato queste pagine.

Ringrazio Alice Bencivenni, Raoul De Bonis, Alessandro lannucci e Ga­


briella Poma per aver letto queste pagine, arricchendole con le loro osser-
• •
vaz1on1.

Le date e le indicazioni temporali nel testo sono da considerarsi tutte a.C., ove non
altrimenti indicato. Le parole greche traslitterate sono accentate, tranne quelle bisillabe
piane e i monosillabi, secondo una norma ampiamente in uso.

7
Introduzione
Scherza coi fanti... Poteri monocratici
nel mondo greco tra satira e adulazione

I
Gli stereotipi del "buon" tiranno

I tiranni di ogni epoca, è noto, sono uomini che non amano le mezze mi­
sure e, conseguentemente, sono oggetto di lodi sperticate o, per lo più, di
ironie se non, addirittura, di critiche spietate. Non stupisce pertanto che
la tradizione letteraria e i massmedia, nell'antichità come ai giorni nostri,
narrino quasi con divertito compiacimento le nefande gesta di questi pro­
tagonisti della commedia umana. Leggendo i quotidiani italiani del 4 gen­
naio 2014, spiccavano le notizie sul noto maresciallo KimJong-un, intento
ad inaugurare l'impeccabile stazione sciistica del Passo di Masik in Nord
Corea, mentre riecheggiano in Occidente le modalità dell'esecuzione dello
zio, Jang Song T haek, sbranato da centoventi cani affamati, assieme ai suoi
accoliti. Lo sventurato viene affettuosamente definito dalla pubblicistica
locale, devota all'ingrato nipote, come un "cane" (con involontario effetto
umoristico), "traditore per tutta l'eternità" e "feccia umanà'.
Se la morte ad opera di cani, per lo più randagi, suscita nella società
moderna comprensibile orrore, come dimenticare la morte attribuita ad
Euripide, divorato dai cani molossi del re Archelao di Macedonia, ovvero la
crudele fanciulla incurante dell'amore di Nastagio degli Onesti, condanna­
ta ad essere dilaniata dai cani nella pineta di Classe, come narra Boccaccio?
Non si può poi sottacere la condanna ad bestias nel mondo romano, che fu
col tempo legittimata attraverso l'avallo di un giudice. Ovvero, per cam­
biare epoca e arrivare all'età dell' Inquisizione, la condanna all'impiccagio­
ne degli Ebrei posti tra cani, peraltro solo due, ma comunque pur sempre
affamati (e con la non trascurabile variante che potevano essere impiegati
anche dei lupi).
Tralasciando altri avvenimenti legati al personaggio (la casistica al ri­
guardo è nutrita e costantemente in progress ), Kim Jong-un è comunque

g
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

adulato e riverito dal suo popolo, come già il padre e il nonno. Vero esem­
pio di culto dinastico che ben si inserisce in quella che è stata definita reli­
gione della politica, fenomeno tipico dei regimi autoritari.
Cambiando aristotelicamente spazio, tempo e luogo, il plot rimane il
medesimo. Ezzelino da Romano, signore della Marca Trevigiana nel Due­
cento, è descritto dalle fonti come piccolo, terribile, figlio di una maga che
addirittura ne predice il luogo della morte. Così crudele da uccidere il fra­
tello, attaccato alla coda di un cavallo, che aveva assistito, impotente, allo
sterminio della famiglia. Nella penna di Albertino da Mussato (Ecerinis ),
Ezzelino è figlio di un essere demoniaco, così come nella Physionomia di
Pietro d'Abano. Dal canto suo, Salimbene da Parma scrive che era temu­
to addirittura più del diavolo: anzi, era il diabolus in persona. Non per
nulla Dante lo inserisce a pieno titolo nell'Inferno, nel girone dei violenti
contro il prossimo: <<e quella fronte c'ha il pel così nero / è Azzolino>>
(x11 109-110).
Una tradizione negativa così forte da offuscare quella positiva, o per
lo meno più sfumata, contenuta nel Novellino, importante testo del Due­
cento letterario italiano. Anche il tiranno più efferato come Ezzelino ha i
suoi fan, o adulatori che dir si voglia. In un manoscritto vaticano si legge un
componimento poetico di autore anonimo (fine XIII-inizi XIV secolo) che
sarebbe stato letto da un cortigiano di fronte al cadavere ancora "caldo" del
suo amato signore. Egli lo definisce: <<Lo meior hom che fos al mondo / [ ...]
s'el non fose stà cusì deverso, / fo miser Ecilyn, quel de Roman>> (Peron,
1992, pp. 530-6). Cusì deverso ... !
Cambiando periodo, un signore rinascimentale come Sigismondo
Pandolfo Malatesta, che attirò l'attenzione di letterati sulfurei come Ezra
Pound o esteti della contraddizione come Henry de Montherlant, viene
presentato a tinte fosche dalla penna spumeggiante di Oscar Wilde. Nella
sua galleria di personaggi resi mostruosi o folli dal vizio o dalla noia (nel
Ritratto di Dorian Gray; e dove, se no?), ne riassume le gesta. In modo sin­
tetico, ma cristallino: amante di Isotta e signore di Rimini, bruciato in ef­
figie a Roma perché nemico di Dio e dell'uomo, strangolatore di Polisse­
na Sforza con un tovagliolo, avvelenatore di Ginevra d'Este servendosi di
una coppa di smeraldo. E, soprattutto, in onore di una vergognosa passio­
ne, edificatore di una chiesa pagana per il culto cristiano, qual è il Tempio
Malatestiano. Ben poco ha potuto fare da contrappeso la pubblicistica del
signore malatestiano, adusa a magnificarne le lodi e a paragonarlo ai per­
sonaggi dell'epica classica o, senza alcun senso della misura, addirittura ad
Alessandro Magno.

IO
INTRODUZIONE

La tirannide vive dunque spesso di stereotipi che conservano intatta la


loro attualità nelle varie epoche, e in cui risalta costantemente la crudeltà:
mostrata, talora anzi ostentata in tutte le sue forme e dunque oggetto di
critica. Il tiranno vive così una realtà quasi schizofrenica. Da una parte è
osannato dai suoi fan, ovvero dai cortigiani, prezzolati o meno, costretti o
comunque adusi all'encomio del loro signore e dunque necessari per la sua
stessa sopravvivenza (Manganelli, 1990 ); dall'altra è esecrato dai suoi ne­
mici e da quelli che fino a poco tempo prima lo adulavano (ma questo vale
generalmente solo dopo la sua morte o dopo la caduta in disgrazia, come
dimostrato da innumerevoli esempi).
In questo quadro si insinua anche la critica, talora aperta e plateale ma
più spesso intrisa di ironia e di battute ficcanti e anzi corrosive, con una
gamma di modulazioni che coprono il lato puramente comico ma anche la
satira e la parodia, in un destabilizzante rovesciamento di valori. Elementi
fondanti nello sviluppo della storia culturale europea, come già aveva vi­
sto Michael Bachtin (1979a; 19796) e che il potere autoritario (o meno) è
incapace di soffocare e irreggimentare, nonostante censure e limitazioni.
Ragione per cui continuano a fioccare singole voci fuori dal coro, ovvero
penne o periodici mordaci (dal "Candido" di Giovanni Guareschi fino a
"Il Male" e "Cuore" o, per allungarsi oltre le Alpi, "Le Canard enchainé" e
"Charlie Hebdo").

2
Tiranni e re nel mondo greco,
ruoli interscambiabili?

Apparentemente nel mondo greco tiranni e re, e tanto più i sovrani ellenisti­
ci, su cui si incentra la maggior parte del presente volume, hanno o avrebbe­
ro ben poco in comune, anche nei percorsi interpretativi dei moderni. I pri­
mi nascono dalla crisi della polis, sia in epoca arcaica sia anche in epoca clas­
sica, mentre il re (basileus) ellenistico è frutto della grande espansione ma­
cedone, con Filippo I I e soprattutto Alessandro Magno, e della conseguente
trasformazione dell'immagine del sovrano e dell'istituto della regalità.
Sui tiranni, o almeno su alcuni di essi si codifica un'immagine che
diventa sempre più stereotipata nella tradizione culturale occidentale.
Un'immagine già profilata in età arcaica (con Archiloco nel VI I secolo),
rivitalizzata e resa paradigmatica dai grandi teorici della politica nel IV se-

II
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

colo (Platone nella Repubblica, Aristotele nella Politica, Senofonte nello


lerone).
Le pagine che nel IV secolo vennero dedicate nella pubblicistica ate­
niese al tema del tiranno implicano dunque una sua conversione in un re
ubbidiente alle leggi e per questo buono e degno di elogio, come peraltro
invano proposto da Platone a Dionisio I I, tiranno di Siracusa, nell 'Epi­
stola VII. In chiave più generale, per il filosofo il buon re, in quanto regna
su se stesso, è il migliore, e va ritenuto il più giusto e il più felice; invece
il più infelice è il più ingiusto e il più disgraziato, ossia il peggior tiranno,
dal momento che esercita la sua tirannide su se stesso e la città1 Una con­

cezione superata in buona misura in età ellenistica, dove il monarca stesso


diventa legge incarnata, nonostante le accorate raccomandazioni dei filo­
sofi in appositi trattati intitolati Sulla regalita (Teofrasto ne è un primo,
importante esempio).
Il tiranno, con tutti i suoi stereotipi, esiste dunque come archetipo po­
litico, morale e culturale nel mondo greco, presenza tangibile nella dialet­
tica civica e interstatale e sempre tenuto a debita distanza, costantemente
esorcizzato con leggi e meccanismi legislativi di difesa (l'ostracismo atenie­
se e il suo equivalente siracusano, detto petalismos, così come le leggi anti­
tiranniche, particolarmente fiorenti nel IV secolo). Un modello politico
giusto e rispettoso delle leggi si costruisce dunque in opposizione al potere
autoritario, rappresentato dal tiranno, nonostante questi celi la sua natura
attraverso studiati eufemismi, sinonimi e giochi verbali, acuti ma istituzio­
nalmente privi di concreto spessore: così, ad esempio, Dionisio I, padre di
Dionisio I I, è stratega plenipotenziario e, agli occhi degli Ateniesi, <<signo­
re della Sicilia>> (De Vido, 2013).
La tradizione greca coltiva pertanto la memoria delle gesta e delle ne­
fandezze dei tiranni, amplificandole con un'aneddotica sempre più incon­
trollabile e cristallizzata, ma che diventa autentico paradigma interpretati­
vo per le epoche successive, anche per l'impero romano, come metro fon­
dante nella valutazione degli imperatori.
Tralasciando la possibile influenza del modello di potere impiantato
da Dionisio I (noto come dynasteia) su Alessandro Magno e sui cambia­
menti da lui imposti alla monarchia macedone, tiranno e re sono peraltro
due concetti che tendono ad essere interscambiabili, spesso più nella per­
cezione storiografia e nella pubblicistica, che nella realtà istituzionale del
periodo. Un buon tiranno può aspirare a diventare un re o ad essere con-

1. Placo, Rsp. IX 58ob-c.

12
INTRODUZIONE

siderato un re, e viceversa un cattivo re scivola spesso nella tirannide più


becera. Così, ad esempio, Erodoto e Pindaro possono chiamare re i tiranni
di Sicilia, e in particolare i dinomenidi Gelone e Ierone (1), senza che per
questo occorra vedervi un'autentica proclamazione regale 2 •

D'altro canto ogni re ellenistico può essere considerato a sua volta un


tiranno, persino il basileus per eccellenza, Alessandro Magno. Questi in­
sospettabilmente viene accomunato a Dionisio I e qualificato come tiran­
no da Plutarco\ per non parlare del giudizio sprezzante con cui lo defini­
sce tutta una tradizione romana che va da Tito Livio fino a Seneca e Lu­
cano, passando per Cicerone. Un giudizio negativo, spesso espresso con
livore e senza alcun tocco d'ironia, che riguarda molti altri dinasti, tra cui
Filippo 11 e, soprattutto, Filippo vdi Macedonia.
Lo stereotipo del tiranno è così valido anche per l'età ellenistica, man­
tenendo intatte le caratteristiche che già caratterizzavano i monocrati di
età arcaica e classica. Plutarco, a proposito di Arato di Sicione, a capo del­
la Lega achea, e del tiranno Aristippo di Argo nel 111 secolo, si sofferma
sulla paura di quest'ultimo, descrivendone le pratiche amatorie 4 • L'eros,
in tutte le sue forme, anche quelle più perverse, è una caratteristica dei
tiranni. Aristippo, dopo cena, una volta solo, si dedicava a momenti di
relax con l'amante in una stanza al piano superiore, chiusa da una botola.
Sopra di questa collocava il letto, non senza essere preda di agitazione e
timore, aggiunge il biografo. La madre dell'amante, lungi dal disapprova­
re cotale unione, toglieva dal basso la scala e l'accostava solo ali'alba del
giorno dopo. Il tiranno veniva così fuori come un serpente dalla sua tana.
Una vita dominata dunque dalla paura, destinata all'isolamento, incapace
di lasciare una progenie piena di orgoglio. Aggiunge infatti Plutarco che,
se i discendenti di Arato, nemico dei tiranni per eccellenza, erano ancora
stimati in Grecia ai suoi tempi, ben altra sorte era riservata a quanti <<oc­
cupavano rocche, mantenevano sentinelle, si nascondevano dietro armi,
porte e botoli per difendere la sicurezza del loro corpo>> , cercando invano
di evitare una morte violenta, quasi fossero stati lepri. Sono riecheggiati
evidentemente qui i temi dei testi della pubblicistica ateniese del IV seco­
lo, sopra evocati.

2. Hdt. V"II 161, 1 (cfr. 156, 3; 157, 2; 163, 1); Pynd., 0/. I 23; Pyth. II 25; III 124 (ma cfr. I
141; III 151); cfr. Diod. XI 26, 6.
3. Plut., Pel. 34, 1-3; cfr. De sera num. vind. 557b.
4. Plut., Arat. 26, 2-5.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

3
Declinare l'ironia, antidoto (pericoloso) contro l'adulazione

In queste pagine si parla di critica al potere nel IV-I secolo, declinata in tut­
te le sue forme, dall'ironia fino alla satira, alla parodia e allo scherno più
sferzante, che trasuda polemica politica. Ma è chiaro che questa vive anche
in antitesi alla cortigianeria, classificata dagli antichi come kolakeia (adula­
zione), e alla propaganda del potente.
Nell'antichità non è certo applicabile il concetto di propaganda, alme­
no così come sono abituati i moderni, o tute'al più lo è solo a certi ambi­
ti. Il tiranno e il sovrano potevano mostrarsi al mondo come benefattori,
vincendo e organizzando giochi panellenici, ovvero magnificando le loro
virtù grazie alla documentazione numismatica ed epigrafica, spesso omolo­
gante e standardizzata nella scelta di un linguaggio onorifico.
Altra via, ben frequentata, era l'opera di letterati che ne magnificassero
le gesta. La pubblicistica encomiastica di corte, a parte la produzione ales­
sandrina e poco altro, ha subìto il naufragio comune a quasi tutta la lette­
ratura ellenistica, favorito anche dal giudizio negativo espresso dai posteri.
All'epoca di Pausania e della sua Periegesi della Grecia, in pieno II secolo
d.C., potevano dunque avere un senso affermazioni di questo tipo:

Delle vicende di Attalo e di Tolemeo, che sono assai antiche, non rimane ormai
più la fama, e coloro che furono al séguito di quei re, per scriverne la storia, sono
caduti nell'oblìo ancor prima: per questi motivi mi è venuto in mente di narrare
quali imprese essi compirono e come i loro padri abbiano ottenuto il controllo,
rispettivamente, dell'Egitto e dei Misi e dei popoli vicini5 •

L'autore si riferisce ad Attalo I di Pergamo e Tolemeo III re d'Egitto, ma le


sue osservazioni arrivano senz'altro a Filetero e a Tolemeo I, i fondatori dei
rispettivi regni. La storiografia di corte dunque è, allora come oggi, destina­
ta a cadere ben presto nell'oblìo quasi totale o comunque a essere comple­
tamente ininfluente, nella sua stucchevole e ridondante esaltazione del po­
tente di turno. Ne consegue che i libri "cortigiani" difficilmente trovereb­
bero posto anche in un cimitero dei libri dimenticati del mondo ellenistico.
Come ricorda ancora Pausania il Periegeta, prendendo spunto dal
soggiorno di Euripide presso Archelao di Macedonia, era prassi che i poe­
ti trovassero ospitalità presso i re. E continua citando i casi di Anacreonte

5. Paus. I 6, 1.

14
INTRODUZIONE

alla corte di Policrate, Eschilo e Simonide presso lerone a Siracusa, Fi­


losseno presso Dionisio (1). Per quanto riguarda l'età ellenistica (periodo
che il Periegeta non ama affatto, soprattutto quello che va da metà I I I se­
colo in poi), scrive che alla corte di Antigono (Gonata, re di Macedonia)
dimorarono Antagora di Rodi e Arato di Soli6 • I Fenomeni del secondo
autore hanno conosciuto una notevole fortuna, soprattutto in periodi in
cui l'astrologia e l'astronomia si intrecciarono e furono materie fondanti
nella formazione intellettuale (nota è la loro popolarità in certe corti ri­
nascimentali). Trascurabile è invece la produzione di Antagora presso An­
tigono Gonata, dato che costui è ritenuto dagli antichi poeta così noioso
da scrivere una Tebaide soporifera per gli stessi Beoti. Un verseggiatore,
Antagora, peraltro bon vivant e pronto a difendere i suoi diritti a corte
con la prontezza della sua lingua, spesso senza autocontrollo (la parrhesia,
arma tuttavia che si ritorce spesso contro colui che è incapace di usarla
provvidamente) 7•
In un altro passo, lo stesso Pausania, parlando della morte di Pirro, ne­
mico acerrimo di Antigono Gonata, così scrive:

Per un uomo che è al séguito di un re è comunque impossibile scrivere una storia


imparziale. E se dunque anche Filisto nel celare le più empie azioni di Dionisio
ebbe buoni motivi, dal momento che sperava di tornare a Siracusa, bisogna essere
molto comprensivi con leronimo, se ha scritto ciò che poteva far piacere ad An­
tigono8.

Dunque Filisto, ammiratore dei tiranni (qui Dionisio 1) e più ancora del
regime tirannico, e leronimo di Cardia, legato ad Antigono Gonata. lero­
nimo è comunque uomo per tutte le stagioni, avendo avuto rapporti con­
solidati con il padre e il nonno del Gonata, rispettivamente, Antigono Mo­
noftalmo e Demetrio Poliorcete, e prima ancora con un altro diadoco, il
concittadino Eumene.
In opposizione alla strada dell'adulazione o a una scrittura fin troppo
interessata, altre sono le vie praticabili nel confronto-scontro con i tiranni
(e con i sovrani, soprattutto quelli di età ellenistica). Ben prima di Torqua­
to Accetto e della sua Della dissimulazione onesta, i Greci hanno inventato

6. Paus. I 2, 3.
7. Heges.,FHG, Iv·, p. 416, F 15, in Athen. VIII 34oe-341a; Plut., Reg. et imp. apophth.
182f; Quaest. con v. Iv· 668c-d.
8. Paus. I 13, 9; cfr. Plut., DeHdt. mal. 855c (= Philist.,FGrH ist/BNf 556 T 13a; cfr.
T 136).
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

il discorso figurato, particolarmente utile per rivolgersi a un tiranno sen­


za offenderlo: ovvero se si vuole consigliarlo di cambiare atteggiamento e
condotte sbagliate, la via migliore è quella di biasimare altre persone che
hanno agito in modo similare.
Nell'operetta Sullo stile, falsamente attribuita a Demetrio del Falera,
l'autore si sofferma su come ci si deve comportare con i tiranni 9 • Se ci si
rivolge al tiranno Dionisio (1), bisognerà richiamarsi ai suoi predecesso­
ri sicelioti, evocando la crudeltà di Falaride, tiranno d'Agrigento arcaica,
ovvero lodando Gelone e il fratello di costui lerone, tiranni di Siracusa,
definendoli padri e maestri della Sicilia. La prudenza comunque non è
mai troppa, come precisa il cauto Pseudo-Demetrio: dal momento che
Filippo I I di Macedonia ha perso un occhio in battaglia, meglio evitare
qualsiasi riferimento di stampo oftalmologico o anche mitologico (come
il rozzo Ciclope). Quanto ad Ermia, tiranno di Atarneo, in Eolide, è noto
che costui era amico fraterno di Aristotele; amico a tal punto che il filo­
sofo rischiò anche una pesante condanna per averne fatto un elogio post
mortem, strumentalmente considerato blasfemo dagli Ateniesi. Dotato di
carattere mansueto, il buon Ermia si trasfigurava ogni volta che si parla­
va di bisturi, incisioni, amputazioni, che gli ricordavano la sua (infelice?)
condizione di eunuco.
Scherzare col tiranno può infatti portare a conseguenze poco piace­
voli, come attesta il caso di Anassarco di Abdera, filosofo al séguito della
spedizione di Alessandro e consigliere assai ascoltato dal figlio di Filippo.
Questi rivolse parole di scherno al tiranno Nicocreonte di Cipro, in un
banchetto alla presenza di Alessandro Magno. Dopo la morte del Mace­
done, il caso volle che fosse costretto ad approdare a Cipro. Singolarmente
crudele la tortura scelta dal tiranno nei confronti dell'insolente filosofo:
gettatolo in un mortaio, lo fece colpire con pestelli di ferro (Diogene La­
erzio IX, Io). Una versione ancora più a tinte forti, e che tutto sommato
preferiamo, è quella che si legge in Plutarco, in cui addirittura si sostiene
che Anassarco fu triturato e spappolato con pestelli di ferro10 Una vendet­

ta consumata decisamente fredda. Infatti, se è vero che Nicocreonte entrò


in rapporti con Alessandro agli inizi della sua spedizione e andò a Tiro nel
331 per rendergli omaggio, dovevano essere passati almeno otto-dieci anni
da quel funesto banchetto.

9. [Demetr. Phaler.], De elocut. 292-293.


1 o. Plu t., De vir t. mor . 449e-f.
INTRODUZIONE

Plutarco accoppia l'episodio a quello di Magas, governatore di Cirene


per conto di Tolemeo I, e Filemone, esponente della Commedia nuova.
Il primo ordinò al carnefice di posare la spada snudata sul collo del poeta
salvo poi lasciarlo andare. Un episodio che ricorda la finta esecuzione di
Dostoevskij del 1849. A volte, forse - è questa la morale - c 'è più gusto nel
provocare scariche di adrenalina che nel vendicarsi veramente.
L'aneddoto, in un altro luogo plutarcheo, è rubricato tra quelli di co­
loro che riuscirono a trattenere l ' ira, e per questo viene lodato assieme ad
altri casi celebri (Pisistrato e Trasibulo, Porsenna e Muzio)u . Pesante, a dire
il vero, era stata l 'ironia di Filemone nei confronti del protégé di Tolemeo
in una sua commedia:

Da parte del re ti è giunta una lettera, Magas !


Oh ! Povero Magas, tu non conosci le lettere ? 12

Perché sbeffeggiare e dare dell'incolto a Magas, la storia non dice. Signori­


le comunque il comportamento di Magas, che, dopo l 'atroce scherzo del­
la finta decapitazione, lasciò partire l' incauto poeta dopo averlo dotato di
astragali e di una palla, <<come fosse un fanciullino senza testa>> , chiosa
divertito Plutarco.

4
La corte : luogo eletto per l ' ironia

Il mondo greco non ha tramandato nessuna opera paragonabile all'Apo­


lok yntosis senecana, anche se soprattutto ad Atene, notoriamente, si prati­
cava con raffinatezza e pure scurrilità tutta la gamma possibile dell'ironia,
e non solo nei concorsi teatrali e nelle battute sapide di Aristofane e degli
altri Comici, cariche di allusioni politiche ancora ai tempi di Menandro.
La tradizione ricorda infatti i nomi dei buffoni Mandrogene e Stratone, ma
flàmini dell 'ironia erano soprattutto i cosiddetti Sessanta nell'Atene del
IV secolo: costoro si riunivano nel tempio di Eracle nel demo di Diomeia,
particolarmente apprezzati dai concittadini ma anche dallo stesso Filippo
I I di Macedonia, desideroso di essere rigorosamente informato delle loro
facezie e disposto allo scopo anche ad allargare i cordoni della sua pingue

1 1. Plut., De coh. ira 45 7 f-458a.


1 2. Philem. F 1 3 2 Kassel-Austin.

17
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

borsa. Del resto, l'amore del sovrano per le battute è noto a molti, e in pri­
mis al suo acerrimo nemico, Demostene 1 3 • Questi precisa nelle Olintiche
che Filippo teneva attorno a sé, con compiacimento, persone evitate da tut­
ti: << attori di buffonate e autori di canzoni pessime presentate ai convitati
per divertirli>> . La notizia è confermata dallo storico Teopompo, che nelle
sue Storie fìlippiche non risparmia frecciate al re macedone (protagonista
dell'opera), soffermandosi sul folto séguito di parassiti, musicanti e perso­
ne che divertivano con le loro facezie il sovrano, dedito al vino 1 4 •
Nella società di corte ellenistica (come peraltro nei suoi prodromi in
epoca arcaico-classica) era il convivio il luogo deputato per esercitare ironia
e schermaglie nei confronti degli avversari, preferibilmente gli altri tiranni
e dinasti, e per praticare l'adulazione, e dunque dicere laudes nei confronti
del potente. Gli scontri tra i potenti non si giocavano solo sui campi di bat­
taglia, ma anche nelle battute e nelle frecciate verbali, con cortigiani com­
piacenti e gli stessi dinasti pronti allo sbeffeggio nei confronti dei rivali.
Ateneo ricorda che alla corte di Antioco I I , re di Siria, erano tenuti in gran
conto l'attore di mimi Erodoto e il danzatore Archelao1 5 • Anzi, precisa che
costoro erano tenuti in grandissimo onore tra i philoi (gli "amici") lascian­
do così intendere che nella scala gerarchica di corte avessero un ruolo di
notevole importanza (Massar, 2 0 0 4 , p. 2 0 6 ) .
I philoi dunque dovevano saper servire il sovrano e, all'occorrenza, es­
sere in grado anche di divertirlo, ovvero distrarlo con passatempi vari. Se­
condo la testimonianza di Demetrio di Scepsi, attivo alla corte di un altro re
di Siria, Antioco I I I, i convitati eseguivano danze in armi l'uno contro l'al­
tro, a cui partecipava lo stesso sovrano. Una pratica aborrita da Egesianatte
di Alessandria nella Troade: letterato finissimo, che non amava sporcarsi le
mani in simili occupazioni preferendo invece declamare i suoi versi 16 •
Il convivio alla corte del re ellenistico conosceva varie declinazioni e
trasformazioni rispetto all'età arcaica e classica (Murray, 199 6 ) , anche se
era pur sempre il momento prediletto per il confronto dialettico, quando il
vino scorreva e la lingua, soprattutto quella dei poeti al servizio del signore,
si lasciava andare alle frecciate più avvelenate. Banchetto in cui il signore
poteva lui stesso esercitare l'ironia, come dimostra il gioco di parole attri­
buito al tiranno Dionisio I di Siracusa su Gelone, divenuto lo zimbello del-

13. Heges., FHG, 1v·, p. 413, F 2; cfr. p. 507, in Athen. VI 26oa-b; cfr. Athen. xiv· 614d-e.
14. Rispettivamente Demosth., 0/. 11 19 e Theop., FGrHist/BNJ 115 F 236, in Athen.
X 435c.
15. Heges., FHG, 1v·, p. 416, F 13, in Athen. I 19c-d.
16. Hegesian., FGrHist 45 T 3, in Athen. 1v· 1556-c.

18
INTRODUZIONE

la Sicilia ( il Witz è nello scambio Gelon e gelos, "riso" /"derisione" in greco):


una battuta che suscitò la protesta vibrata del cognato Diane, uomo di fi­
ducia del monocrate ma dotato anche di spirito fin troppo critico1 7•
La storia ellenistica, poi, conosce diversi tiranni e dinasti capaci di ride­
re e prendere scherzosamente in giro i loro avversari (tra cui spiccano De­
metrio Poliorcete e suo figlio Antigono Gonata), sebbene il senso dell'hu­
mour (l'essere philogelos) non sia caratteristica che venga espressamente ri­
chiesta nella trattatistica sul buon re (Coloru, 2014).
Il banchetto poteva anche diventare il momento in cui il tiranno eser­
citava la sua beffarda crudeltà, secondo un luogo comune che parte già con
l' exemplum mitico di Licaone e che ben si riflette in uno dei mirrors lette­
rari più noti sull'etica rovesciata che anima la tirannide1 8 •
Le frecciate sono generalmente lanciate contro gli avversari del tiran­
no/ sovrano, ma è compreso anche il fuoco amico, con battute taglienti
pure all'interno dello stesso entourage di corte. Riguardo all'uccisione di
Clito da parte di Alessandro Magno, a Maracanda in Sogdania (nel 328),
Plutarco scrive:

Nel mezzo del banchetto, quando il vino scorreva a fiumi, furono cantati i versi di
un certo Pranico (o, secondo altri, Pierione) , composti per mettere in ridicolo e
schernire i comandanti che poco prima erano stati sconfitti dai barbari 1 9 •

Versi che suscitarono lo sdegno di un alticcio Clito, e il conseguente alterco


con Alessandro, con conseguenze esiziali per lo sventurato compagno del
Macedone.
I luoghi deputati per l'esercizio dell'ironia e delle critiche più accese
nel mondo ellenistico erano dunque i palazzi regi: Alessandria in Egitto,
Ortigia a Siracusa, ovvero Pella in Macedonia o Antiochia sull'Orante in
Siria, per non parlare di altri luoghi ancora più esotici (fino ad Ai Khanum
in Afghanistan per Eucratide nel I I secolo) e senza escludere la possibilità
che la corte regia fosse anche per talune dinastie itinerante di città in città
(come peraltro lo era già stata quella achemenide): così è per i re di Siria, i
Seleucidi, almeno fino ai primi decenni del I I I secolo.
Se questa è la geografia dell'ironia, il luogo letterario per eccellenza è
l'opera I Deipnosofìsti di Ateneo di Naucrati (fine II secolo d.C.), grande

1 7. Plu t., Dion 5, 9-1 o.


1 8. Plato, Rsp. VIII 5 6 5d-566a; cfr. De gli Innocenti Pierini, 2 0 0 8.
1 9. Plut., Alex. s o, 7-8.

1g
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

collettore di fonti e di aneddoti, forse in modo più critico di quanto si fosse


fino a qualche anno fa disposti ad ammettere.
Ma non vi era solo la corte come luogo deputato per l'ironia, nel gioco
verbale tra sovrani, amici e letterati legati a diverso titolo al regnante. Sui
dinasti si poteva scherzare anche in forma anonima, ma tale da essere tra­
mandata dalla tradizione letteraria, attraverso giochi verbali, spesso sempli­
cissimi e per questo fulminanti, creati tanto nelle corti ellenistiche quan­
to tra la popolazione stessa, soprattutto quella delle grandi città sorte in
quell'epoca (in particolare, Alessandria d'Egitto). Lo testimoniano nume­
rosi epiteti affibbiati, per lo più in segno di scherno, ai dinasti: tra gli altri,
Akairos, Apion, Auletes, Doson, Gallos, Gonatas, Grypos, Hierax, Kaisarion,
Kybiosaktes, Lathyros, Nothos, Physkon, Poliorketes, Seripides, Tryphon. No­
mignoli che mettono in risalto una caratteristica fisica, come il naso adun­
co ( Grypos per Antioco VII I di Siria), oppure una caratteristica comporta­
mentale, con giochi di parole talora oscuri o difficilmente inquadrabili nel
loro contesto storico (Àkairos, "inopportuno", riferito ad un altro seleucide,
Demetrio I I I, nasce come parodia forse di un originario Eukairos, "oppor-
tuno", ancorché inattestato).
La parodia onomastica coinvolgeva anche i titoli ufficiali, abilmente
trasformati (Epiphanes/Epimanes, Euergetes/Kakergetes), per cui è possibi­
le, ma non necessario ricercare la mano di qualche abile scrittore, prede­
cessore di Perec, Bendandi o Bartezzaghi, ovvero i moderni cultori delle
giocolerie verbali.
D'altra parte, accanto ai riferimenti dei Comici vi sono opere che tra­
discono o possono tradire una certa vena satirica. Nella corte di Bitinia un
forte sostrato anellenico (trace, per la precisione) conviveva sempre più con
una tendenza all'ellenizzazione, che toccava in primis la regalità (nei suoi
diversi aspetti). Nicandro di Calcedonia è autore di almeno sei libri di Di­
savventure (o Peripezie) di Prusia, in cui era stigmatizzata tra l'altro la figu­
ra ben poco brillante di Prusia I I : un sovrano noto per la sua dissolutezza
ed effeminatezza, ma che secondo gli antichi si è ritagliato un posto nella
storia per aver dato il nome a una coppa (denominata prousias) che stava
in piedi dritta20•

Tale filone, peraltro assai esile, è soverchiato da una produzione let­


teraria, tanto greca quanto romana, che tende a demonizzare i successori
di Alessandro Magno, soffocando i riferimenti ironici e le tratteggiature
parodiche sotto il velo di una critica spesso insistita e omologante, priva

20. Nic., FGrHist/BNJ 7 0 0 F 1, in Athen. XI 496d-e; cfr. Athen. XI 47 5f.

20
INTRODUZIONE

di leggerezza e di sapidità. Una tendenza a cui non è estraneo neppure


lo scrittore principe della parodia e della satira nell'antichità, Luciano di
Samosata, che nel suo Icaromenippo o l 'uomo sopra le nuvole redige una
rassegna invero inquietante delle peculiarità dei dinasti di età ellenistica:

Tolemeo giacersi con la sorella; Lisimaco insidiato dal figliuolo ; Antioco figliuol
di Seleuco che faceva d 'occhio alla madrigna Stratonica; Alessandro il tessalo uc­
ciso dalla moglie ; Antigono svergognar la moglie del figliuolo ; il figliuolo di At­
talo che gli porge un veleno : da un'altra banda Arsace uccider la sua donna, e l 'eu­
nuco Arbace tirar la spada contro Arsace ; e Spatino il Medo fuor del convito da'
suoi satelliti strascinato per un piede, e con un ciglio spaccato da una tazza d ' oro 21 •

21. Luc., lcar . 1 5 ( trad. it. L. Settembrini) .

21
I
Il Ciclope, mirror di tiranni e sovrani

Tucidide così scrive, in un passo celeberrimo sulla Sicilia delle origini:

Si racconta che i più antichi abitanti di una parte del paese furono i Ciclopi e i
Lestrigoni, dei quali io non so dire né la stirpe né da dove provenirono né dove
si ritirarono: su di loro sia sufficiente quello che hanno detto i poeti e ciò che
ciascuno conosce 1 •

Ciclopi e Lestrigoni sono dunque confinati a un periodo preistorico, vale­


vole per il mito ma non per un'indagine serrata e attendibile, quale compe­
te al vero padre della ricerca storica. Curiosamente il mito dei Ciclopi, e del
Ciclope per eccellenza - Polifemo -, rivive tra età classica ed età ellenistica,
in Sicilia e altrove. Ed è in particolare collegato a Filosseno di Citera, figura
di spicco quando si analizza il rapporto tra letterati e potere. Non è infatti
una coincidenza che Pausania il Periegeta, prendendo spunto dal rapporto
di Euripide con Archelao I di Macedonia e ricordando una serie di poeti
che vissero al fianco di dinasti, menzioni soltanto Filosseno alla corte di
Dionisio I, tiranno di Sicilia tra il 405 e il 3 67 2

Costui era un letterato, ma di quelli con la schiena diritta, che non


praticano la vile e interessata adulazione, anche se era esposto a pericolose
frequentazioni a Siracusa. Plutarco, in un passo del Come evitare i debiti3 ,
senza ricordare i rapporti con il tiranno, afferma che Filosseno era assegna­
tario di un lotto in Sicilia, e ciò gli aveva garantito una certa agiatezza eco­
nomica. Tuttavia lo lasciò ad altri e se ne andò, quando vide che il lusso, i
piaceri e la volgarità vi imperavano.
Le sue traversie presso Dionisio I si collegano al suo ditirambo noto
come il Ciclope o Galatea, messo in scena prima del 388, anno in cui Ari-

1. Thuc. ,.r1 2, 1.
2. Paus. I 2, 3.
3. Plut., De vit. aer e al. 831(

22
I . IL CICLOPE , MIRR OR DI TIRANNI E SOVRANI

stofane lo parodiò nella sua seconda redazione del Pluto. In quest'opera,


perduta, Filosseno rappresentava Dionisio sotto le sembianze di Polifemo,
raggirato nel suo amore (infelice) per Galatea dall'astuto Odissea, vale a
dire il poeta stesso4 •
La tradizione riguardo al soggiorno di Filosseno in Sicilia è infarcita
di aneddoti scarsamente credibili, spesso incentrati sull'atteggiamento del
poeta di fronte alle propensioni letterarie di Dionisio I . Il tiranno si dilet­
tava a scrivere tragedie; della sua produzione si ricorda solo un verso, cinico
e illuminante: << la tirannide è madre d'ingiustizia>> . Il dinasta trovò però
finalmente la sua consacrazione con il successo alle Lenee ateniesi del 3 67,
presumibilmente addomesticate per ovvi motivi politici. Un successo che
fece quasi impazzire di gioia Dionisio, e lo indusse a grandi festeggiamenti
e a una lunga serie di bevute simposiali tali da condurlo alla morte5 • Faci­
le immaginarvi una parodizzazione comica, recepita poi dalla tradizione
storica.
Il figlio Dionisio I I , invece, ebbe ambizioni più alte, cercando invano
di spiegare i fondamenti della filosofia addirittura a uno sdegnato Plato­
ne, e per questo condannato a un amaro trapasso, secondo una tradizione
a dir poco infida: insegnare a leggere e a scrivere ai fanciulli, nel suo esilio
di Corinto (dopo essere stato cacciato da Siracusa nel 344 dal corinzio Ti­
moleonte).
Il cruccio di Dionisio I , prima del tardivo premio ateniese in virtù delle
sue capacità drammaturgiche, era che gli fosse riconosciuta la propria cifra
stilistica e poetica, tanto più presso la sua corte. Filosseno, incapace di trat­
tenere la sua ironia e il suo dissenso su tali presunti capolavori, fu inviato
subito dal tiranno nelle Latomie. Successivamente, dopo questa punizione
dimostrativa, al suo ritorno alla corte di Dionisio, di fronte a una nuova ri­
chiesta di giudicare positivamente la sua attività poetica, spontaneamente e
con grande onestà intellettuale, chiese di essere riportato nelle Latomie, la­
sciando così intendere che la sua valutazione non era affatto cambiata. Plu­
tarco, invece, specifica che Filosseno aveva ricevuto addirittura l'ordine di
correggere una tragedia di Dionisio; il suo intervento era consistito in una
cancellazione totale dell'opera, cosa che indusse il tiranno a farlo rinchiu­
dere nelle Latomie. Traspare così dal passo plutarcheo un rapporto parzial­
mente diverso tra il tiranno e il letterato rispetto alle altre fonti: Filosseno
non era solo un uditore irriverente, un adulatore mancato, ma addirittura

4. Testimonianze in Fongoni (2014).


5. Diod. xv· 74, 1-4.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

il suggeritore del dinasta, l'eminenza grigia in ambito letterario, i cui dra­


stici e crudi consigli peraltro erano rifiutati e anzi puniti. Comunque sia,
<<Riconducimi alle Latomie>> diventa un'espressione proverbiale, esempio
di rigore e onestà intellettuale di fronte al trucido esercizio della violen­
za nell'antichità. La tradizione, cristallizzatasi nell'aneddotica, si sofferma
sulla crudeltà quasi topicizzata del tiranno e che in qualche modo si ritrova
anche nell'episodio di Damone e Finzia. I due Pitagorici, legati da recipro­
ca amicizia al punto da affrontare la morte l'uno per l'altro, furono oggetto
di un crudele "scherzo" del tiranno, che volle metterne alla prova il legame,
salvo poi liberarli entrambi, pieno di ammirazione: un episodio attribuito
variamente dalle fonti allo stesso Dionisio I o, in modo più attendibile, al
figlio, Dionisio II (Muccioli, 1 9 9 9, pp. 2 1 9 - 2 1 ) .
Comunque sia, riguardo a Filosseno i moderni salvano o sottolineano
solo il dato finale: l'allontamento del poeta dalla Sicilia e la sua conseguen­
te vendetta, espressa attraverso il ritratto del tiranno sotto le spoglie del
Ciclope, rimarcando la frattura insanabile tra i due, che avrebbe offerto lo
spunto per una simile ironica rappresentazione. Agli occhi del pubblico,
si tratta di una contrapposizione e di un'incompatibilità netta tra civiltà
( Odisseo/Filosseno) e barbarie (Polifemo/Dionisio I), con una delimita­
zione a quel frustrante status per l'ambizioso dinasta siracusano.
Il peripatetico Fenia (o Fania) di Ereso, dal canto suo, rappresenta il
poeta come un patito della buona tavola, che rinfacciò la grandezza mode­
sta della triglia a lui imbandita rispetto a quella offerta al tiranno. Lo fece
in modo scherzoso e provocatorio, accostando il pesce all'orecchio, giusti­
ficandosi, alla richiesta di spiegazioni da parte di Dionisio, con la volontà
di sentire qualcuno dei racconti sulla divinità marina Nereo, dal momento
che era intento alla stesura della sua Galatea. Il frammento continua con la
menzione di un'amante di Dionisio, Galatea, che sarebbe stata sedotta da
Filosseno, abituale compagno di bevute di Dionisio; incarcerato dal tiran­
no per questo motivo, il poeta si sarebbe vendicato componendo il Ciclope
nelle Latomie6 • Emerge qui l'immagine di un dinasta crapulone e libertino
che, seppure attestata nella tradizione, è comunque minoritaria: ad essa si
contrappone quella di un uomo attento alla gestione del potere, anche per
quanto riguarda la sfera affettiva e sessuale. Un altro elemento nel racconto
di Fenia, sicuramente ben poco verosimile, è la notizia circa la composizio­
ne del Ciclope nelle Latomie7• Più attendibile è forse la tradizione secondo

6. Phaen., FGrHist 1 0 1 2 F 2, in Athen. I 6e-7 a.


7. Ael. V.H. XI I 44.

24
I . IL CICLOPE , MIRR OR DI TIRANNI E SOVRANI

cui Filosseno avrebbe composto il suo ditirambo, nella sua versione finale,
proprio a Citera, il che lascia presupporre un suo ritorno in patria e una
vendetta freddamente posticipata8 •
Il tema omerico del Ciclope e del suo incontro-scontro con Odissea
aveva trovato facile presa in ambito siceliota, già prima dell'età dionisiana,
in particolare nelle opere di Epicarmo, tra le quali figura un Ciclope. L'im­
magine che Epicarmo propone di Odissea era assai negativa, lontana da
quella dell'eroe omerico, come traspare anche dai titoli di altri suoi "dram­
mi" ( Odisseo disertore, Odisseo naufrago; cfr. anche le Sirene) . C'è dunque
un filone, sottolineato in fonti assai tarde, che fa di Odissea un personag­
gio ambiguo, rappresentato come il traditore di Polifemo, che tra l'altro
rapisce la figlia del mostro dopo averlo accecato9 •
Quantunque non sia dato cogliere nessi diretti con Filosseno, non va
sottovalutata la grande popolarità di Epicarmo presso altri letterati presen­
ti alla corte siracusana (come Platone, che, secondo Alcimo, storico legato
ai Dionisi, avrebbe addirittura plagiato Epicarmo) o anche presso gli stessi
tiranni: Dionisio I I fu infatti autore di un'opera Sui poemi di Epicarmo, se­
condo la Suda10 •
Anche ad Atene lo stesso tema era assai diffuso, come testimoniato dal
dramma satiresco Ciclope di Euripide, con la sua possibile lettura in connes­
sione con gli interessi ateniesi in Sicilia, deflagrati con la grande spedizione
del 415-413 durante la guerra del Peloponneso.
Il ditirambo di Filosseno non è comunque soltanto il frutto dell'esacer­
bazione personale di un letterato: dietro occorre scorgere l'eco ben precisa
della polemica contro la politica filorbarbarica messa in atto da Dionisio I.
In quel periodo era forse già stata stretta l'alleanza con gli Illiri, mentre so­
lo congetturali sono i rapporti con i Celti, divenuti formalmente alleati di
Dionisio I quando, calati in Italia, si spinsero verso sud, forse tra l'autunno
del 38 6 e la primavera del 38 5 (390-389, secondo la cronologia varroniana),
dopo aver saccheggiato Roma e aver preso anche il Campidoglio, con buo­
na pace della propaganda romana giunta fino ai giorni nostri, con le sue
salvifiche oche.
La propaganda filodionisiana avvalora le nozze tra Polifemo e Galatea,
da cui sarebbe nata una sospetta figliolanza, almeno nell'onomastica: Cel-

8. Schol. Aristoph., Plut. 29 od.


9. Dictys Cret. ,r1 5 ; loann. Ant.,FHG, 1,r, p. 551, F 24, 9; Malal. ,r 1 8, pp. 86-7 Thurn.
10. Alcim., FGrH ist/BNJ 5 6 0 F 6, in Diog. Laert. III 9-1 7 ; Suda, s.v. Dionjsios, huios
tou Sikelias tyr an n ou.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

to, Galas e Illiria, secondo una tradizione nota da Appiano1 1 Vi è dietro


la volontà di edulcorare l'immagine dei Galli (e degli Illiri) agli occhi dei
Greci e presentare, sotto migliore veste, i rapporti instaurati con costoro,
mentre d'altro canto la rielaborazione del mito di Polifemo e Galatea si
presta a essere recepita anche sul versante barbarico, nei confronti degli Il­
liri e degli stessi Celti. Infatti la monoftalmia, in questo caso del Ciclope,
poteva far presa su costoro, in quanto aveva valenze magiche nel mondo
celtico. Dietro tutto ciò vi è l'ambizioso progetto di Dionisio I di creare un
potere multietnico e dal respiro autenticamente europeo.
Difficilmente il tiranno avrà agito da solo, senza l'apporto di un uomo
assai importante, militarmente e culturalmente, quale fu Filisto di Siracu­
sa. Costui potrebbe essere stato responsabile di questa e altre elaborazioni
pseudoetnografiche. E comunque ragionevole e prudente non limitarsi a
rapportare tale propaganda esclusivamente all'opera di Filisto, magari la­
sciandosi suggestionare dalla definizione di "filotiranno" con cui lo qualifi­
carono gli antichi, forse troppo sbrigativa, e che andrebbe almeno in parte
riponderata alla luce di un'analisi puntuale delle vicende dello storico e dei
frammenti della sua opera.
Del resto diversi studiosi attribuiscono la rielaborazione degli amori di
Polifemo e Galatea in primo luogo a un poeta attivo alla corte dei tiranni,
il cui nome rimane però avvolto nella nebbia più fitta. Forse solo una labi­
le suggestione al riguardo è la presenza in un frammento della commedia
Galatea di Alessi del filosofo Aristippo di Cirene, assiduo ospite della corte
dei Dionisi; nel frammento uno schiavo parla dell'esperienza del suo pa­
drone (Polifemo/Dionisio I?), allievo del filosofo cirenaico. L'inserimento
di Aristippo in una simile commedia può ben giustificarsi in base a una let­
tura, quale quella comica, tutta giocata tra mito e satira 1 2

Comunque sia, probabilmente è proprio la fortuna critica del ditiram­


bo di Filosseno ad avere influenzato, in qualche modo, la produzione di al­
tri autori del IV secolo, soprattutto i Comici, che descrissero le vicende di
Polifemo e Galatea: la Galatea di Alessi e di Nicocare e il Ciclope di T imo­
teo e di Antifane, anche se è difficile scorgervi chiare allusioni a Dionisio I,
data la scarsità di frammenti rimasti.
La fortuna del tema rimase costante nella tradizione di IV-I II secolo,
arrivando fino all'età ellenistica. Ciò è peraltro pienamente comprensibile
in tale epoca, quando i Celti calarono in Grecia, arrivando a lambire il san-

I I. App., Ili. 2, 3.
1 2. Alex. F 37 Kassel-Austin, in Athen. XII 544e-f.
I . IL CICLOPE , MIRR OR DI TIRANNI E SOVRANI

tuario di Delfi. Si spostarono poi in Asia, con effetti devastanti per il fragile
status quo, e divennero di fatto il nemico per eccellenza di diverse dinastie
(Antigonidi, Seleucidi, Attalidi, in particolare) o, per converso, essendo
impiegati in larga scala come turbolenti mercenari dai successori di Ales­
sandro. Callimaco, che immortala tra l'altro le vicende dei discendenti di
Polifemo e Galatea nell'opera epica intitolata appunto Galatea, celebrò la
vittoria di Tolemeo II contro queste truppe prezzolate, che avevano osato
ribellarsi al Lagide.
Plutarco afferma che Agatocle, tiranno e poi sovrano dei Siracusani
( 3 0 5 / 3 04-2 8 9 ) , quando i Corciresi gli chiesero perché devastasse la loro
isola, addusse come giustificazione l'ospitalità concessa dai loro padri ad
Odissea; ad un'analoga lamentela degli Itacesi, aggiunse il fatto che il loro
re (scii. Odissea), quando si era recato nella sua terra aveva anche accecato
il pastore, ovvero il Ciclope 1 3 •
La notizia di una devastazione di Corcira e, presumibilmente, di Itaca
si inquadra nella politica adriatica e ionica di Agatocle, incentrata, in pri­
mo luogo, sul controllo della prima isola, sottratta all'assedio di Cassandro
(29 9 -29 8 ca.) 1 4 • In relazione con l'attacco a Corcira (che faceva parte della
dote della figlia di Agatocle, Lanassa) e con quanto descritto da Plutarco
sono da leggersi anche due frammenti di Duride (rappresentante assieme a
Filarco della cosiddetta storiografia tragica nel I I I secolo, secondo un'usu­
rata interpretazione dei moderni) e tratti dalle sue Storie su Agatocle, in cui
due figure tradizionalmente positive come Euribate, compagno di Odis­
sea, e Penelope sono rappresentate in modo volutamente distorto e sotto
una luce negativa, con chiaro effetto parodico1 5 •
Se questo è un aspetto di tale rappresentazione, non va trascurato an-
che il rovescio della medaglia. E infatti importante sottolineare come nel
racconto plutarcheo sia proprio Agatocle a presentarsi come l'alfiere del­
le forze "barbare" siciliane e, tra le righe, come il vendicatore del Ciclope,
vittima di Odissea. Il ribaltamento dei ruoli dell'epos e il giudizio negativo
sui protagonisti della saga odissiaca trovano una plausibile spiegazione in­
terpretandoli, in primo luogo, come un cosciente utilizzo da parte del di­
nasta siceliota della figura di Polifemo in opposizione a quella di Odissea,
con conseguente messa in berlina dei personaggi collegati a quest'ultimo.

13. Plut., De ser a num. vind. 557b-c; Reg. et imp. apophth. 1 76f.
14. Diod. XXI 2, 1-2.
15. Duris,FGrH ist/BNJ 76 FF 20, 21, in Suda, s.v. Eurjbatos, pon er os; Schol. Lycophr.,
Alex. 772.

27
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Questa appropriazione della figura del Ciclope faceva parte di una vera e
propria polemica politica legata alla questione corcirese, a cui si riallaccia
anche l'orgoglio del dinasta e dei Sicelioti, in prospettiva antimacedone 16 •
Il recupero di una genealogia mitica legata alle nozze tra Polifemo e Ga­
latea, quale era quella sviluppata sotto i Dionisi, poteva essere utile ad Aga­
tocle per stringere o rinsaldare i legami con le popolazioni illiriche e con i
Celti, che il dinasta impiegò come mercenari1 7• Il suo percorso sulle orme di
Dionisio il Vecchio, avvertito dagli antichi nella volontà di seguirne proprio
la politica in Magna Grecia (con tutto quello che comportava), comprende­
va anche una ripresa di vettori propagandistici, come appunto la venerazio­
ne e identificazione con eroi del patrimonio culturale dei Greci.
Ma il rapporto di tiranni e dinasti con il Ciclope, a scopo parodico,
non è confinato solo all'ambito occidentale. La storia greca conosce due
personaggi illustri che perdettero un occhio per questioni belliche: Filippo
I I, padre di Alessandro Magno, e Antigono, il diadoco più ambizioso e mi­
litarmente più agguerrito, insieme al figlio Demetrio Poliorcete. Una per­
dita dolorosa per entrambi e mai interamente metabolizzata.
Si è già detto che nel trattato Sullo stile attribuito a Demetrio, risalen­
te all'età ellenistica, vengono elargiti preziosi consigli su come ci si debba
comportare in presenza di tiranni1 8 • La parola d'ordine è la prudenza e un
minimo di delicatezza: pertanto, guai a parlare del Ciclope o solo a men­
zionare la parola occhio in presenza di Filippo, orbato nell'assedio di Me­
rone del 355/354.
Se nessuno, o quasi, osava scherzare su questa menomazione del sen­
sibile re macedone, Antigono, pieno di tormenti per l'occhio perduto, de­
cise di intervenire direttamente sulla sua immagine pubblica, passaggio ob­
bligato per la creazione e il consolidamento della sua regalità agli occhi
dei sudditi e degli avversari. Plinio il Vecchio infatti racconta che il pit­
tore Apelle, per nasconderne l'orbità, abilmente lo rappresentò di scorcio1 9 •
Non è da tutti fare bella mostra dei propri difetti fisici e non molti hanno
l'accortezza del quattrocentesco duca Federico da Montefeltro. Nel famo­
so dittico conservato agli Uffizi, in cui sono dipinti da Piero della Fran­
cesca il signore di Urbino e la moglie Battista Sforza, la posizione scel­
ta è quella di profilo, così come avviene di norma nelle medaglie e nella

16. Diod. XXI 2, 2 .


1 7. Diod. xx 1 1, 1 e 6 4, 2.
18. [Demetr. Phaler.] , De elocut. 29 3.
1 9. Plin., N.H. xxxv· 9 0.
I . I L C I C L O P E , MIRR OR D I T I R A N N I E S O V R A N I

monetazione antica: un richiamo alla tradizione classica e, nel contempo,


un'abile soluzione per nascondere l'occhio perduto da Federico durante un
torneo. Ma, d'altro canto, Piero della Francesca realisticamente non rinun­
cia a mostrare il naso del duca, tagliato nella parte superiore per migliorare
il campo visivo, creando così un effetto straniante per l'osservatore e raf­
figurando un personaggio quasi deforme, degno del miglior film di Pedro
Almodovar.
Non sorprende quindi che le battute sull'occhio perduto risultassero
assai indigeste ad Antigono, che pure era personaggio che aveva qualche
dimestichezza con l'ironia. Egli era infatti oggetto delle punzecchiature di
Teocrito di Chio, retore, sofista e autore di una Storia della Libye. Una fi­
gura irriverente e senza peli sulla lingua, già capace di irritare a suo tempo
Alessandro Magno, il che in realtà non era poi troppo difficile. Thymoeides
("facile all'irà') è infatti l'aggettivo con cui Plutarco nella biografia omoni­
ma qualifica a più riprese il figlio di Filippo, e non certo con tono elogiati­
vo. Al tempo stesso, Teocrito non mancava di prendersela con Aristotele e
con il concittadino, lo storico Teopompo (Weber, 1 9 9 8- 9 9, pp. 1 5 8- 9 ) .
Presente alla corte di Antigono Monoftalmo (ma le fonti lo definisco­
no correttamente heterophthalmos, ovvero "monocolo") come poeta mili­
tante (nel senso che aveva fatto parte dei ranghi dell'esercito del diado­
co), Teocrito rispose con caustica erudizione a quello che Plutarco chia­
ma mageiros del re, Eutropione, forse il capo della guardia del corpo del
diadoco (e quindi a buon diritto, metaforicamente, un "macellaio", perché
questo è il significato del sostantivo, assieme a quello di "cuoco dei sacrifi­
ci"). Invitato a far rapporto sulla sua militanza nell'esercito, ribatté infatti
in modo sprezzante ( <<So bene che vuoi servirmi crudo in tavola al Ciclo­
pe>> ), con la inevitabile conseguenza della morte per mano di sicari, inviati
dal suscettibile Antigono2.0 • A nulla valse il tentativo di salvataggio degli
amici del caustico poeta. Gli uomini dotati di spirito si vedono anche e so­
prattutto nei frangenti critici: quando Teocrito venne a sapere che doveva
chiedere la grazia sotto gli occhi del sovrano per sfuggire alla morte, affer­
mò con suprema ironia che era cosa impossibile a farsi.
La fortuna delle vicende di Odissea e del Ciclope (con o senza Galatea)
non si esaurisce certo con questi sovrani. Si ispira direttamente al personag­
gio omerico lo storico Polibio, che era buon conoscitore delle peripezie e
degli itinerari occidentali dell'eroe. Anzi, per questo motivo venne proba­
bilmente dileggiato da Catone, lo strenuo fustigatore dei "Greculi". Quan-

20. [Plut.] , De lib. ed. 11c; Plut., Quaest. con v. I I 633c; cfr. Macrob., Sat. V"I I 3, 12.

2 ()
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

do si discusse in Senato una supplica sollecitata da Scipione Emiliano (e


ispirata proprio da Polibio) sul ritorno degli esuli achei in patria, Catone
rispose sprezzantemente opponendo un netto rifiuto. Presentatosi di nuo­
vo lo storico acheo e facendo pressioni perché gli esuli riavessero gli onori
di cui godevano in precedenza in Acaia, Catone osservò, acutamente, che
Polibio era proprio come Odisseo, disposto a ritornare nella caverna del
Ciclope per riprendersi il berretto e la cintura21 Un'immagine davvero so­

pra le righe, certo denigratoria nei confronti del più autorevole storico di
età ellenistica.

21. Polyb. xxxv· 6, in Plut., Cato Mai. 9, 2- 3 .


2
Alessandro di Pella, p redone fortunato
dalle orecchie lun ghe

Alessandro Magno non è sempre stato Magno, o almeno non lo è stato per
tutti nelle varie lande dell 'ecumene. Il suo altisonante appellativo (che peral­
tro non è certo paragonabile a Re dei Re, Signore delle terre, Signore delle
quattro parti del mondo abitato, titoli propri della tradizione orientale, me­
sopotamica e utilizzati anche da quella achemenide) , è infatti solo un surro­
gato, affibbiatogli in epoca successiva, laddove in vita egli volle essere defini­
to Aniketos ("invincibile" e "invitto': nel contempo), forse attraverso l ' impri­
matur della Pizia, come attesta la pubblicistica compiacente di corte (Calli­
stene, storiografo al séguito della sua spedizione e pronipote di Aristotele).
Numerosi sono i rivoli della tradizione ostile, che vede nel Macedone
un personaggio negativo, capace solo di scompigliare e mettere a ferro e a
fuoco l ' Oriente per la sua bramosia di conquista, descrivendolo con accen­
ti fortemente sarcastici o anche solo sottilmente parodici. Già nella regio­
ne babilonese Alessandro, peraltro definito, come si deve al suo rango, " Re
del mondo" dopo la vittoria di Gaugamela, è oggetto di propaganda ostile.
Il mondo mesopotamico, con la sua sapienza caldaica antica, pullulava di
oracoli, profezie e vaticini, spesso ex eventu ( come ogni buon vaticinio che
si rispetti). Alcuni di questi preannunciarono la morte del sovrano, triste
omen di quello che poi accadde tra il IO e l ' I I giugno 3 2 3 e sono puntual­
mente riflessi dalla tradizione greca sul Macedone1 •

Ma accanto a questi presagi, ve ne è uno quanto mai misterioso, noto


come Profezia dinastica babilonese, una riproposizione, con adattament()
del canone della successione degli imperi (ben noto, attraverso varie formu­
lazioni, al mondo classico, da Erodoto in poi, e a quello giudaico, nel Libro
di Daniele) il quale prevede, nella sua forma più ampia, tale ordine : Assiri­
Medi-Persiani-Macedoni-Romani. Qui la prospettiva è tutta incentrata su
Babilonia (che si considera davvero il centro del mondo, come dimostra la

1. Diod. X\r 11 116; Plut., Alex. 73; Arr., Anab. V"II 16, 5-17, 6; App., Syr. 56, 28 8-291.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

mappa mundi del ' 5 0 0 conservata al British Museum; BM 926 87). Si parla
dapprima del regno neoassiro e della sua caduta, a cui segue la fondazione
del regno caldeo; poi, al suo ultimo sovrano, Nabonide, succede il regno
achemenide con Ciro I I . Ma è soprattutto la terza colonna del testo che pre­
senta gli aspetti più interessanti, sempre in modo assai poco perspicuo: si
apre con l'uccisione di Arses (Artaserse 1v) ad opera dell'eunuco Bagoas
e continua con l'attacco delle truppe degli Hanei (ovvero le forze di Ales­
sandro) che sconfiggono il nemico, non meglio specificato ma, con ogni
evidenza, da identificare nei Persiani e in Dario 111 ( Granico? Isso? Gauga­
mela?). Sorprendentemente, a questa vittoria segue la rivincita del re, ovvero
Dario I I I , finalmente uscito dal cono d'ombra impostogli dal Macedone (e
forse sono presenti altri eventi collegati alla prima età ellenistica, in cui pare
ravvisarsi lo scontro tra Antigono Monoftalmo e Seleuco 1).
Qualunque studente di storia greca, sbilanciandosi in tali affermazioni,
sarebbe bocciato senza pietà, ma evidentemente qui non si tratta dell'insi­
pienza dello scriba caldeo, che vagheggia un'impossibile vendetta acheme-
nide. E semmai un desideratum, di fronte ad Alessandro che, pare quasi fin
troppo semplice pensarlo, non aveva lasciato così buona fama tra il Tigri
e l'Eufrate, nonostante i suoi buoni propositi e il desiderio di presentarsi
rispettoso dei riti locali, dell'Esagila e della complessa struttura templare
della regione.
Anche nel mondo iranico Alessandro finì col tempo con l'avere una
reputazione pessima, nonostante il suo tentativo (probabilmente strumen-,
tale) di fusione tra popoli e l'adozione di costumi ed emblemi persiani. E
pur vero che egli aveva un sacro rispetto di Ciro II e della sua tomba a Pasar­
gade, visitandola e restaurandola2 così come era fervente custode della tra­
,

dizione religiosa greca, pur scardinandone l'impianto (introducendo o la­


sciando che venisse introdotto il culto della sua persona, culto del sovrano
con importanti prodromi prima del Macedone e diffuso poi, in molte dina-
stie ellenistiche, con riverberi anche nel mondo romano). E però la distru-
zione e l'incendio di Persepoli, "città-simbolo" degli Achemenidi, su cui si
sofferma la critica più feroce. Le fonti classiche descrivono i saccheggi delle
truppe, il massacro dei civili e la riduzione in schiavitù delle donne3 • Una
delle numerose pagine nere del Macedone, a cui se ne assommano altre (ta­
lora taciute - pietosamente? - da alcune fonti, come l'autorevole Arriano,
che non ricorda l'episodio in questione), tanto è vero che non è mancato

2. Strabo X\r 3, 7; Arr., An ab. VI 2 9 .


3 . Diod. X\r I I 7 0 - 7 2 ; Plut., Alex. 3 7, 2- 3 ; lustin. XI 1 4, 1 0.
2 . ALESSANDRO DI PELLA , P RE DONE F ORTUNATO

chi ha paragonato il conquistatore dell'Asia a Cortés, in un confronto tra


popolazioni anelleniche ed indigeni del Nuovo Mondo (Bosworth, 2 0 0 0 ) .
Col tempo si sedimentò una tradizione ancora più complessa, attestata
nelle fonti in pahlavi, redatte a partire dal I X secolo ma risalenti, nella loro
genesi, a secoli prima, in ambito sassanide. Secondo questo filone Alessan­
dro non si limitò a distruggere Persepoli (città peraltro mai più ricostruita),
ma addirittura fece distruggere i testi sacri zoroastriani: l 'Avesta e lo Zand.
Testi scritti con inchiostro d'oro su pelli di bue e contenuti o nella sala del
tesoro della reggia ovvero nella Fortezza delle Scritture, in una località non
lontano da Persepoli. Chiaramente un falso, perché tali opere furono fissa­
te in forma scritta solo molto più tardi, rispetto all'epoca classica. Ma tanto
basta per demonizzare la figura del già odiato Macedone.
Non stupisce dunque che in uno scritto come l 'Artd Vnliz Namak si
affermi che <<il maledetto spirito del maligno, il mentitore, allo scopo di
rendere gli uomini dubbiosi circa la religione, sviò Alessandro il Greco, il
maledetto, che stava in Egitto; e lui giunse nel regno dell'Iran con terribi­
le violenza, guerra e tormento e trucidò il sovrano dell'Iran, e distrusse e
mandò in rovina la corte e la sovranità>> (trad. it. Ciancaglini, 1 9 9 7, p. 6 9 ) .
Ma c'è di più. La tradizione orientale interpreta tra l'altro Alessandro
come Bicorne, un motivo diffuso e che figura forse anche nel Corano (Dhu
l-Qarnayn, "quello dalle due corna"; Sura XVI I I , 83-9 8 ; per altri si trattereb­
be invece di Ciro 1 1 ) . Tralasciando il Corano e la sua esegesi, allettante si
presenta la duplice spiegazione nell 'Eskandarndme (Alessandreide) di Ni­
zami Ganjavi, poeta persiano del x11-x111 secolo ma ignoto o quasi a tutti
coloro che ritengono che la letteratura si fermi sulle rive del Mediterraneo
(effettivamente l'Azerbaijan, terra natìa di Nizami, non è propriamente
dietro l'angolo). Accanto ad un'interpretazione che vede il Macedone sot­
to forma di angelo con le corna (quasi una proposizione orientale dell 'Ale­
xander rex medievale del celebre mosaico della cattedrale di Otranto: ma lì
il Nostro ha tratti quasi luciferini), Nezami ne ricorda un'altra, che richia­
ma una precisa caratteristica fisica del sovrano. Se Pericle aveva una testa al­
lungata a forma di cipolla marina, adeguatamente coperta nella ritrattistica
con un elmo d'ordinanza, Alessandro, quasi un nuovo Mida ma di calibro
ben superiore, era dotato di orecchie lunghe, anzi lunghissime, e per que­
sto chiamato appunto Bicorne. Queste sarebbero state note solo al suo bar­
biere (il rapporto tra re/tiranni e i figaro che animano la storia antica è un
topos che andrebbe indagato a fondo, e che ha dato luogo a diverse ... chiac­
chiere da barbiere, appunto !). Costui, fedele alla fama che circonda la sua
professione e, conseguentemente, incapace di tener per sé cotanto segreto,
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

lo urlò nel profondo di un pozzo, da cui crebbe poi un canneto. Il flauto


costruito con quelle canne emetteva una voce inequivocabile, sibilando la
dura e amara verità: <<Il re del mondo ha orecchie lunghissime>> .
Chi ha detto poi che mondo orientale, iranico e/ o islamico, e mondo
giudaico sono costantemente in lotta e contrapposizione frontale tra loro?
Almeno un minimo comune denominatore esiste ed è costituito proprio
dall'esecranda Alessandro, sovrano aborrito dalla tradizione giudaica e in
particolare maccabaica4 • E lui, indirettamente, il responsabile dei mali che
hanno colpito i Giudei, quando il gentlemen agreement con i Seleucidi si è
rotto e Antioco IV ha compiuto l'abominio della distruzione, saccheggian­
do il tempio di Jahvè a Gerusalemme, come si vedrà a suo tempo. Seleucidi
che, secondo una tradizione, invero assai tarda del IV secolo 5 , discendereb­
bero con il loro casato da Temeno, ovvero dalla stessa famiglia di Filippo
I I e Alessandro. Il giudizio emesso dall'autore del I Libro dei Maccabei su
quest'ultimo è netto e spietato, come solo l'Antico Testamento sa essere,
implacabile nei confronti di chi infrange la legge di Dio. Il figlio di Filip­
po, gonfio di orgoglio e pieno di esaltazione, arrivò ai confini della terra.
Nella riscrittura interessata della storia da parte giudaica, cadde poi malato
e comprese che la fine era vicina, e distribuì il suo regno tra i suoi luogote­
nenti più importanti, che avevano condiviso gli anni più belli della giovi­
nezza. Una falsificazione, quanto mai maldestra, che ha comunque un pen­
dant nel cosiddetto Testamento di Alessandro, testo medievale che si ispira
al Romanzo di Alessandro, che tradisce comunque la propaganda dei dia­
dochi (forse quella lagide) tesa a legittimare il proprio regno nei turbolenti
anni delle guerre tra IV e I I I secolo. Continua l'autore giudaico scrivendo
che i successori di Alessandro governarono, cintosi il diadema, e dopo di
loro <<i loro figli per molti anni e si moltiplicarono i mali sulla terra>> . Pa­
role forti e che preparano l'ingresso in scena della personificazione del ma­
le assoluto, Antioco IV di Siria.
La letteratura classica, in particolare quella latina, non è da meno nel
sottolineare gli aspetti deteriori del Macedone e nello sminuirne la gran­
dezza. Tralasciando l'immagine negativa che emerge da testi difficili e
complessi come gli Oracoli Sibillini6 , su tutti, è Livio il protagonista di una
feroce polemica contro coloro che, con suprema insipienza, esaltano Ales­
sandro e sono favorevoli alla gloria partica a scapito di Roma, tra i quali

4. Mach. I 1 ; cfr. Dan . 2 ; 7; 1 1.


5 . Liban., An tioch. 9 1.
6. Orac. Sib. I I I 3 81 - 3 9 2 ; Iv· 8 8-94.
2 . ALE SSANDRO DI PELLA , P RE DONE F ORTUNATO

è lecito intravedere almeno il nome di T imagene di Alessandria: retore e


storico alessandrino, poi trapiantato in Italia, dapprima come prigioniero
(nel 55) e poi, di nuovo libero, come letterato di spicco, sia pure con alter­
ne fortune fino all'età augustea7• Lo storico patavino scrive probabilmente
proprio quando i Romani sembrano aver ridimensionato la minaccia par­
tica: nel 20 Augusto riuscì infatti a riprendersi le insegne sottratte a Crasso
nel 53 e successivamente fece venire in Italia come "ospiti" quattro figli del
sovrano partico Fraate IV, azioni celebrate in pompa magna dalla sua pub­
blicistica.
Questi stoltissimi Greci, che pure non hanno eufemisticamente som­
ma simpatia per i Macedoni e i loro signori, mostrano tutto il loro impeto
patriottico e polemico nei confronti dell 'imperium Romanum. Arrivano
addirittura ad affermare che, se Alessandro non fosse morto, avrebbe con­
quistato anche l'Occidente e dunque tutta l'ecumene: vero esempio di sto­
ria controfattuale, ossia la storia fatta con i se, esercizio su cui si esercitano
molto più i moderni, di quanto non abbiano fatto a suo tempo gli antichi.
Altri avrebbero riservato a tale forzata e ormai anacronistica polemica gre­
ca la stessa importanza che, con Sancho Panza, si dà alle nuvole dell'anno
passato. Livio invece no, e pertanto affronta la questione con fiero cipiglio
e acrimonioso orgoglio patriottico, in ben tre capitoli della sua opera. Ca­
pitoli davvero scritti cum ira et studio. Per far ciò smonta, pezzo per pezzo,
l'immagine di Alessandro invincibile, dipingendo un sovrano completa­
mente imbarbarito, alla guida di un'armata Brancaleone e impegnato quasi
in una precrociata fanfaronesca contro gli imbelli e viziosi persiani. Lui e i
suoi uomini, in realtà, sono solo in preda ai fumi dell'alcol, degni seguaci
di Dioniso nelle sue avventure indiane. Livio ha peraltro gioco facile, visto
che l'accusa mossa ad Alessandro di eccedere con l'alcol è topos costante
nella tradizione, già contemporanea, a cominciare da Efippo di Olinto.
Tutt'altra tempra è invece quella dei Romani della media Repubblica,
secondo l'impettito storico patavino, pronto a elogiare personaggi come
Papirio Cursore e tanti altri protagonisti, noti e non, di quel periodo. E
dunque, riprendendo un luogo comune entrato nella retorica (anche quel­
la latina), Livio accetta la sfida sul terreno della storia controfattuale, con
pagine che poi ebbero straordinaria fortuna, in particolare con Petrarca nel
De viris illustribus e in tempi moderni con Arnold Toynbee, che preferisce
seguire la versione greca ricostruendo le vicende dei successori del Macedo-

7. Liv. I X 1 7- 1 9.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

ne, fino ad un fantomantico Alessandro LXXXVI , ormai esangue erede di


tale progenie (Toynbee, 1969, pp. 441-8 6).
Scagliandosi contro innominati autori greci che esaltano Alessandro
e sono favorevoli al nomen Parthicum, Livio afferma infatti che Papirio
Cursore e i Romani del IV secolo, come Manlio Torquato e Valerio Corvo,
avrebbero sicuramente fatto vedere i sorci verdi al Macedone nelle infide
gole dell'Apulia e dei monti della Lucania, ben diverse dalle lande asiatiche.
Il suo stesso zio, Alessandro il Molosso, aveva avuto la sua resa dei conti fi­
nale a Pandosia, variamente identificata tra Bruzio e Lucania. Qui fu ucciso
proprio da un esule lucano nel 330 e venne sepolto forse vicino a Matera,
secondo una suggestiva ipotesi ( Canosa, 2007 ) .
Se la polemica di Livio pare riguardare l'ambito retorico e storiogra­
fico, di maggior spessore filosofico è la critica mossa da altri, che contrap­
pongono Filippo I I al figlio. Sono soprattutto gli Stoici, o almeno alcuni
Stoici a muovere i rimproveri più sferzanti (scrittori di età imperiale come
Strabone o Arriano, che nutrono più di una simpatia per quella scuola, non
condividono certo tali critiche). E Seneca il grande accusatore di Alessan-
dro. Da grande fustigatore dei costumi (altrui), si lancia a più riprese in
una critica sulla libido di conquista del Macedone, ignaro di <<quanto fos­
se piccola la terra di cui aveva occupato una minima parte>> , nonostante
i suoi studi di geometria con il migliore dei precettori sulla piazza, ovve­
ro Aristotele. E dunque, conseguentemente e sprezzantemente, <<avrebbe
dovuto comprendere che il suo soprannome era sbagliato: chi può essere
grande in pochissimo spazio?>> . Alessandro diventa così quasi un precur­
sore dell'Ulisse dantesco, che muove però verso Oriente e non oltre le Co­
lonne d'Ercole come nella rivisitazione della Commedia, ed è spinto nel
suo folle volo non dal desiderio di conoscenza, ma dall'infelice volontà di
andare verso l'ignoto, smanioso di devastare paesi stranieri e di esercitare la
sua crudeltà, da vero tiranno e non da fondatore di un nuovo impero. Un
movimento quasi meccanico, il suo, e non la lucida volontà di un condot­
tiero che sa e vuole lasciare un'impronta indelebile tra i contemporanei e
i posteri: <<Non è lui che vuole andare avanti: non può restare fermo, non
diversamente da dei pesi che sono stati gettati nel vuoto, la cui meta finale
del movimento è giacere>> 8 •
Ancora più caustico il giudizio nella Farsaglia del nipote, Lucano, che
interseca le vicende del Macedone con quelle dei Romani, impegnati in al­
terne vicende belliche contro il nemico di sempre: i Parti. Per lui Alessan-

8. Sen., Ep . ad Luc. 91, 17 e 94, 62-63 (da cui la citazione).


2 . ALE SSANDRO DI PELLA , P RE DONE F ORTUNATO

dro è il folle figlio di Filippo, di Pella: solo un brigante fortunato, a cui poi
il destino si è rivoltato vendicando il mondo. Con la sua spada ha seminato
strage tra tutte le genti dell'Asia, insanguinando l'Eufrate e il Gange; egli
è <<una sventura fatale per il mondo, un fulmine in grado di abbattersi in
modo uguale su tutti i popoli e un astro infausto per le genti>> 9 •
Lucano, nel suo impeto poetico, riconosce che Alessandro avrebbe rag­
giunto l'Occidente seguendo la curva della terra, compiendo il giro dei due
poli, e dunque dà ragione, almeno apparentemente, agli odiati Greci deni­
gratori di Roma trionfante. Ma quello del Macedone è solo uno spettaco­
lo di dominio destinato a finire con lui, se è vero che egli con la sua morte
<<portò con sé il potere con lo stesso egoismo con cui aveva conquistato
tutto il mondo e, visto che non lasciò alcun erede della sua potenza, fece sì
che le città si straziassero tra loro>> 10 • Unica consolazione, quasi sotto trac­
cia per chi ne esalta le conquiste, il fatto che l'imperium Romanum arriva
a settentrione e tiene soggette le regioni occidentali e meridionali, ma in
Oriente è e sarà sempre inferiore al signore degli Arsacidi, la dinastia a capo
dell'impero partico: <<La regione dei Parti, funesta ai Crassi, fu una quieta
provincia della piccola Pella>> u .
Alessandro, il signore del mondo, viene dunque ricondotto alle sue ori­
gini, a quella piccola Pella che egli non rivide mai dopo il 336, negli anni
vorticosi delle sue conquiste. Una Pella ritornata a essere oscura come alle
origini, e misconosciuta anche dagli stessi Greci, ostinatamente orgogliosi
di ben altri modelli, culturali prima ancora che politico-militari. Così ri­
corda opportunamente Elio Aristide, in piena età della Seconda sofistica
(1 1 secolo d.C.):

Nessuno mostrerebbe fervore patriottico per Pella o Ege, se fossero la sua patria,
mentre tutti i Greci desidererebbero essere nati ad Atene piuttosto che essere cit­
tadini della loro polis 1 2 •

9. Lucan. x 1-52, partic. 34-36.


10. Lucan. x 43-45.
1 1. Lucan. x 51-5 2.
1 2 . Ael. Arist., Pan ath. 334 (233 Oliver) . Cfr. Demosth., De cor . 6 8; Dio Chrys., Tar s. I
26-28 (su Pella ormai distrutta) .
3
Un p adre come si deve p er Tolemeo I

Un passo di Plutarco allude alla mancanza di un adeguato "pedigree" di


Tolemeo, figlio di Lago e fedele amico di Alessandro Magno:

Tolemeo, per schernire l' ignoranza di un maestro, gli chiese chi fosse il padre di
Peleo; e quello rispose: << Se tu prima mi dirai chi era quello di Lago>> . Il frizzo
riguardava gli oscuri natali del re e tutti si sdegnarono per quelle parole sconve­
nienti e inopportune, ma Tolemeo replicò: << Se non è da re il sopportare di essere
schernito, non lo è neppure il beffeggiare >> 1

L'aneddoto sul fondatore del regno d'Egitto non va derubricato da ogni


contesto storico, ma acquista particolare importanza in rapporto a tutta
una tradizione composita, che comprende i nomi di Giustino, Pausania,
Curzio Rufo e, soprattutto, Eliano (lo stor yteller per eccellenza nell'aned­
dotica antica).
I compagni più in vista di Alessandro erano tutti macedoni, tranne Eu­
mene originario di Cardia. Macedoni cresciuti al fianco del figlio di Filippo
e che poi, quando presero o vollero prendere il potere, ebbero l'esigenza di
mostrare o costruirsi un lignaggio di tutto rispetto. Due sono le strade per
raggiungere tale risultato: vantare ascendenze illustri attraverso una famiglia
di nobili origini (Zeus, Eracle, Apollo, Dioniso sono gli dèi o eroi assurti al
rango di dèi tra i più gettonati), ovvero mostrare e dimostrare sul campo il
proprio valore (in altre parole, applicando il principio della doriktetos chora,
la terra conquistata appunto con la lancia, concetto in grande auge in età el­
lenistica). Le due opzioni non si escludono a vicenda: tutt'altro.
La smania di avere antenati illustri o di rango è una debolezza comune
tanto agli antichi quanto ai moderni, se è vero che Antonio De Curtis, in
arte Totò, all'anagrafe figlio di Anna Clemente, nubile, e di padre ignoto,

1. Plu t., De coh. ira 458a-b.


3. UN PADRE C OME SI DE VE P E R TOLE ME O I

arrivò a fregiarsi e a vantarsi del roboante titolo di Sua Altezza Imperiale


Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Ga­
gliardi de Curtis di Bisanzio. Lasciando ai comici quello che è dei comici,
il problema per i diadochi di costruirsi una genealogia di tutto rispetto era
un'urgenza non irrilevante nella creazione e nel consolidamento del pote­
re, e costituiva chiaramente motivo di satira e di ironia nella pubblicistica
del periodo (e non).
Lo dimostra il caso di Eumene di Cardia. Secondo Duride, era figlio
di un carrettiere del Chersoneso (che da Arriano sappiamo chiamarsi lero­
nimo, proprio come lo storico) 2 Tale notizia progressivamente entra nella

topicizzazione retorica, che si diverte a tratteggiare spassosi quadretti fami­


gliari di vita vissuta modestamente, quasi a immortalare dei non-protagoni­
sti, degni del miglior neorealismo cinematografico italiano. Secondo questa
tradizione, raccolta da Eliano, Ieronimo suonava il flauto ai funerali. Ed era
in buona compagnia, se è vero, per rimanere solo all'età ellenistica, che Per­
seo, re di Macedonia, era ritenuto di stirpe argiva e di origine oscura; An­
tigono Monoftalmo, detto anche il Ciclope, sarebbe stato un contadino;
Poliperconte un brigante e, per trasferirci ad Atene (luogo principe della
satira), Focione aveva come padre un fabbricante di pestelli e Demetrio del
Falera sarebbe nato schiavo in casa di Timoteo, figlio di Conone3 • Lo stesso
Timoteo, per completezza d'informazione, sarebbe stato a sua volta figlio di
un'etera di stirpe tracia. Il che, a ben guardare, non è così disprezzabile come
sembra. Per inciso, le etere, discetta Ateneo anticipando quasi le ballate di
Fabrizio De André, <<quando si convertono alla temperanza, riescono an­
che migliori di coloro che della temperanza si fanno un vanto>> 4 •
Le umili origini del padre di Eumene sono comunque un falso, creato
ad arte dalla pubblicistica ostile al diadoco. Prova ne sia il fatto che Plu­
tarco e Nepote, nelle loro biografie sul diadoco, attestino ed avvalorino la
notizia che egli, indipendentemente da possibili suoi trastulli musicali, ap­
parteneva all'élite cittadina e filomacedone di Cardia, e pertanto era legato
da rapporti personali a Filippo I I .
I rumores sui bassi natali non risparmiano certo altri diadochi, a co­
minciare da Lisimaco. Secondo lo storico Teopompo, suo padre Agatocle
era uno schiavo, anzi un peneste della Tessaglia (una classe subalterna, pa­
ragonabile, per alcuni aspetti, ad altri gruppi sottomessi nel mondo gre-

2. Duris, FGrHistlBNJ 76 F 53, in Pluc., Eum. 1, 1 ; Arr., Ind. 1 8, 7.


3. Ael., V.H. XI I 43; cfr. Dio Chrys. LXIV" 23.
4. Athen. XII I 577a.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

co, come i Cilliri a Siracusa, i Mariandini ad Eraclea Pontica e gli Iloti nel
mondo spartano) 5 •
Viste queste lunghe premesse, non sorprende dunque che Tolemeo I
potesse essere oggetto di maldicenze. Il luogo di Plutarco si appunta solo
sugli oscuri natali di Lago, ed è confermato da un passo di Giustino, epito­
matore delle Storiefilippiche di Pompeo Trogo, in cui si afferma che Ales­
sandro aveva preso a cuore le vicende di Tolemeo per la sua virtù, lui che
prima era solo un gregarius miles: un soldato semplice o poco più quindi,
altro che un rampollo di nobile famiglia macedone ! 6
Le cose si complicano quando entra in ballo la madre di Tolemeo e
moglie di Lago, Arsinoe I, vittima o (maliziosamente?) partecipe degli ap­
petiti sessuale di Filippo I I. È ben noto, infatti, che il padre di Alessandro
era un instancabile, se non implacabile tombeur defemmes. La tradizione gli
attribuisce sette tra mogli e concubine: Audata, Fila, Nicesipoli, Filinna,
Olimpiade, Meda, Euridice Cleopatra. Unioni spesso d'interesse, tranne
l'ultima: una fanciulla appena in fiore di cui Filippo si innamorò follemen­
te, ritenuta causa di rovina per il maturo consorte, come chiosa caustica­
mente l'informatissimo biografo ellenistico Satiro7.
Secondo una tradizione diffusa, Filippo I I indulse al suo vizio preferito
anche con Arsinoe. Le fonti sono chiare, anche se non concordano sui det­
tagli, e soprattutto su come fosse articolato l'inevitabile gioco delle parti.
Pausania il Periegeta afferma infatti che i Macedoni <<ritengono Tolemeo
solo di nome figlio di Lago, in realtà figlio di Filippo a sua volta figlio di
Aminta>> 8 • E specifica che Filippo diede Arsinoe a Lago in moglie, quando
costei era già incinta. Il fedele Lago dunque si sarebbe prestato a un matri­
monio riparatore, come un personaggio pirandelliano.
Curzio Rufo, dal canto suo, scrive che nel 325, al séguito di Alessandro
Magno, Tolemeo rimase ferito a una spalla durante uno scontro ad Har­
matelia in India, cosa che suscitò la preoccupazione del sovrano macedo­
ne. Aggiunge, a mo' di spiegazione, che Alessandro era vincolato a lui da
legami di sangue: << alcuni ritenevano che suo padre fosse Filippo. Per cer­
to si sapeva che era nato da una sua concubina>> 9 • Segue un vero e proprio
elogio del futuro sovrano d'Egitto, in cui spiccano le sue qualità, belliche
e non. Il prosieguo, che risale a uno storico immaginifico quale fu Clitarco

5. Theop., FGrHistlBNJ 115 F 81, in Athen. VI 259f-26oa.


6. lustin. XIII 4, 10.
7. Satyr., FHG, I I I, p. 161, F 5, in Athen. XIII 557 b-e.
8. Paus. I 6, 2 .
9. Cure. Ruf. I X 8, 22.

40
3 . UN PADRE C OME SI DE VE P E R TOLE ME O I

(che scrisse un'opera su Alessandro Magno), è degno di un vero e proprio


jèuilleton, con il salvataggio di Tolemeo attraverso un sogno provvidenziale
dello stesso Alessandro.
Ma c'è un risvolto della medaglia, tràdito dal lessico bizantino Suda e
risalente ad Eliano, che integra il quadro di Pausania e di Giustino attraver­
so un racconto ben più mirato ed elaborato 10 • Lago infatti, sposo di Arsinoe
e consapevole di non essere affatto il padre del futuro Tolemeo I, si lasciò
andare a una pratica antica e periodicamente rinverdita nel corso dei seco­
li, quella dell'expositio (si pensi a Ciro I I oppure a Romolo). Abbandonò
infatti il piccolo su uno scudo di bronzo; tuttavia secondo una voce ricor­
rente in Macedonia, un'aquila era solita visitare l'infante e, tendendo le ali
quando gli era vicino, lo proteggeva dai raggi solari e dalla pioggia batten­
te. Spaventava gli stormi di uccelli, faceva a pezzi le quaglie e lo sfamava col
loro sangue, come fosse latte.
Indubbiamente il racconto si presta a interessanti considerazioni, ad
esempio sul ruolo svolto dall'aquila, animale regale per eccellenza - emble­
ma stesso della regalità tolemaica ! - che come tale è ricordato anche dalla
pubblicistica sulla regalità ellenistica o pseudoellenistica, forse sorta in am­
bito alessandrino (Alessandria fu terra fiorente per la comunità giudaica e
per quella di stampo pitagorico o pseudo-pitagorico). Uno degli autori, o
presunti tali, di questo filone (peraltro di difficile datazione), lo Pseudo­
Ecfanto, nel suo trattato Sulla regalita paragona infatti il re ali'aquila, che
guarda fisso verso il sole 1 1•

La critica, e in particolare quella alla costante ricerca di archetipi narra­


tivi, si è sbizzarrita nel ritenere la falsa paternità di Lago un mito eziologi­
co, ovvero un mitema, strizzando l'occhio a certe interpretazioni di stampo
strutturalista (a partire da Propp e dalle sue analisi sulla morfologia della
fiaba). Tolemeo dunque come Ciro, Romolo e altri personaggi dell'anti­
chità, costretti a uno strugglejòr !ife già in tenerissima età. Ma anche se così
fosse, vi è da chiedersi perché questo racconto sia noto solo attraverso una
via così tortuosa nella tradizione, senza che abbia avuto grande eco nel­
la propaganda ufficiale lagide, nonostante la sua diffusione in Macedonia.
Questa, è vero, non mancò di ricordare la connessione con la casata di
Filippo II e di Alessandro Magno, sottolineando soprattutto il legarne con
il conquistatore dell'Asia e il culto a lui tributato. Così è nella processione
detta dei Ptolemaia istituita da Tolerneo I I (forse nel 279 /27 8 ) , secondo la

I O. Suda, s.v. Lagos = Ael. F 283 Domingo-Forasté.


I I . Stob., F ior. 1,r, p . 27 3, 11. 2-4 Hense.

41
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

descrizione minuziosissima, degna della penna del miglior Proust, propo­


sta da Callissino di Rodi (1 1 secolo?) 1 2 In altro contesto, Tolemeo I oppure

Tolemeo 1 1 fece realizzare ad Alessandria un gruppo statuario che inclu­


deva Alessandro Magno, che era anche onorato come ktistes, ovvero come
fondatore della città1 3 •
Ma, cosa ancor più rilevante, almeno negli anni tra il regno di Tole­
meo 1 1 e quello di Tolemeo IV, la propaganda collegava la casata dei Lagidi
a quella degli Argeadi, attraverso Eracle (che di costoro è appunto il capo­
stipite). Infatti Teocrito, fedelissimo poeta di Tolemeo 1 1 , fulgido esempio
di quella che qualche generazione fa si sarebbe chiamata poesia militante,
afferma che il fondatore della dinastia, Tolemeo I, trasse la sua origine da
Eracle, lasciando peraltro volutamente indeterminato se si tratti di una di­
scendenza patrilineare o matrilineare1 4 • Dal canto suo, Tolemeo 1 1 1 , nella
perduta iscrizione di Adulis, altro documento significativo della propagan­
da regia, precisava che il suo avo discendeva per parte di padre da Eracle e
per parte di madre da Dioniso1 5 .
Ma è Satiro, autore legato a Tolemeo IV, a fornire nel Sui demi di Ales­
sandria un dettagliatissimo quadro delle ascendenze genealogiche di Ar­
sinoe, madre di Tolemeo I. Costei, figlia di Meleagro, discendeva dai re
macedoni e, risalendo più su, dal progenitore Eracle, fino ad arrivare a Dio­
niso e alla sua unione con Altea, secondo una versione alternativa del mi­
to1 6. Più in generale, nell'ecumene ellenistica, la discendenza dei Tolemei
da Eracle (così come, ma più in sordina, quella dei Seleucidi, che invece si
richiamavano generalmente ad Apollo) era ben nota e veniva usata anche
come captatio benevolentiae da parte delle singole realtà civiche. Lo dimo­
stra, in modo isolato ma significativo, un'iscrizione di fine 1 1 1 secolo prove­
niente dal Letoon di Licia, riguardo alle richieste di aiuto della piccola città
di Kytenion ai suoi "parenti" eraclidi (Bousquet, 1 9 8 8, pp. 3 9 -40 ) , ovvero,
tra l'altro, i Tolemei ma appunto anche i Seleucidi.
Il problema cruciale è dunque quello di determinare quando sia na­
ta o per lo meno si sia diffusa la tradizione sulla paternità di Filippo e se i
racconti di Curzio Rufo, Pausania il Periegeta e, soprattutto, Eliano deb­
bano essere considerati parte della propaganda lagide o antilagide. Ora, è
indubbio che la diceria della paternità di Filippo nacque o fu propalata solo

12. Callix., FGrHistlBNJ 627 F 2, in Athen. v· 19 7c-203b, partic. 201d, 202a-b.


13. [Liban.] (Nicol. Rhet.), Progymn. 27, pp. 533-5 Foerster.
14. Idyll. XV"II 18-27.
15. O GIS 54, 11. 4-5.
16. Satyr., FGrHistlBNJ 631 F 1; cfr. P.Oxy. XXVI I 2465.

42
3 . UN PADRE C OME SI DE VE P E R TOLE ME O I

dopo il 323. Nei giorni caldi, sotto tutti i punti di vista, di Babilonia dopo
la morte di Alessandro, in cui i diadochi si confrontavano tra loro aperta­
mente, nessuna allusione è fatta alla presunta discendenza di Tolemeo da
Filippo, motivo che poteva costituire senz'altro un'arma importante. Pe­
raltro anche a doppio taglio: si sarebbe pur sempre trattato di un figlio na­
turale, anche se è vero che venne proclamato re il figlio minorato mentale,
Ar(r)ideo, ribattezzato appunto per l'occasione Filippo. Rimaneva infatti
incerto il sesso del futuro nascituro di Rossane, moglie di Alessandro, figlio
che poi sarebbe diventato Alessandro IV.
Una possibilità potrebbe essere quella di collegare il rumor al periodo
in cui Tolemeo divenne re d'Egitto, indossando il diadema: ovvero dopo la
perduta battaglia di Salamina del 30 6 /305, seguendo obtorto collo l'esempio
degli odiati Antigono Monoftalmo e Demetrio Poliorcete, ed è questa la
soluzione preferita dai più. Ma, come si è visto, è bene scindere il racconto
di Giustino e Pausania da quello di Eliano, e ancor più dal riferimento in
Curzio Rufo, che dipende in buona misura da Clitarco.
Certo è che le fonti (Pausania e Curzio Rufo) sottolineano che tale
voce era diffusa in Macedonia, e non in Egitto. E quindi doveva essere un
tema valido soprattutto per la nobiltà locale, ancora legata alla memoria
di Filippo I I, piuttosto che fatto valere alla corte di Alessandria ( Collins,
1 9 9 7 ) . Se così è, dovremmo ritenere che possa essere stato utilizzato da un
sovrano alla ricerca di legittimazione, come Tolemeo Cerauno, figlio ripu­
diato di Tolemeo I (frutto delle sue nozze con Euridice) a tutto vantaggio
di Tolemeo 1 1 (nato dall'unione con Berenice 1 ) , e sovrano di Macedonia
per breve tempo, prima della dirompente invasione celtica (28 1 -279 ) . Un
re dunque effimero, sul cui soprannome (Cerauno, "folgore") la tradizio­
ne gioca in modo ambiguo: secondo Pausania era chiamato così perché
era sempre pronto ad osare, il che potrebbe anche essere interpretato in
senso non necessariamente negativo (memento audere semper, secondo il
noto motto dannunziano), mentre per Memnone è indizio della stoltezza
e dell'avventatezza del personaggio1 7• Ma che la tradizione non abbia ben
chiaro il senso del soprannome (che peraltro potrebbe anche essere inteso
in rapporto a Zeus, dal momento che Cerauno è una sua epiclesi) è testi­
moniato dal fatto che l'altrettanto effimero sovrano seleucide Seleuco 1 1 1 è
noto anch'egli come Cerauno perché ritenuto ondivago e incapace di eser­
citare il controllo dell'esercito (Muccioli 2 0 1 3, pp. 1 5 3- 5 ) .

1 7. Paus. I 1 6, 2 ; cfr. x 19, 7 ; Memn., FGrHist/BNJ 434 F 5, 6 . Cfr. App., Syr. 62, 330.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Vi sono comunque altri momenti, a cominciare dalla guerra cremoni­


dea ( 2 6 8 /2 67- 2 6 2 /2 6 1 ca. o 2 6 9 / 2 6 8 - 2 6 3 / 2 6 2 ), in cui lo stesso Tolemeo II,
muovendosi sulla scorta della politica adottata già in precedenza dall'ormai
defunta sorella-sposa Arsinoe I I (morta nel 27 0, piuttosto che nel 26 8 come
ritengono alcuni) e alleato di Sparta e Atene contro Antigono Gonata, so­
vrano di Macedonia, poteva aspirare a una presenza più capillare nel mondo
greco, e quindi sarebbe stato utile creare un pendant di tipo genealogico.
L'età di Tolemeo II era dunque un'età in cui si operava una rivisita­
zione selettiva della storia, attraverso la poesia o altri canali (come quel­
li iconografici). Parallela a questa pubblicistica ufficiale deve essere intesa
anche l'opera del più volte citato Clitarco (già attivo probabilmente sotto
Tolemeo I , anche se in modo autonomo o semiautonomo, nonostante re­
centi tentativi di abbassarne la datazione di qualche decennio, sulla base di
malcerte letture e interpretazioni di P.Oxy. LXXI 4 8 0 8 ; cfr. Prandi, 20 1 2 ) .
E certo che questo storiografo si sforzava di collegare, almeno idealmen-
te, i Tolemei agli Argeadi, facendo di Tolemeo il salvatore di Alessandro
nella battaglia contro gli Ossidraci (in realtà i Malli) del 3 2 6 / 3 2 5, a sca­
pito del vero salvatore (Peucesta, che poi divenne satrapo della Perside).
Chiara prova di manipolazione degli avvenimenti e dei loro protagonisti:
era infatti uno scontro a cui il Lagide neppure aveva partecipato, come lui
stesso si premurò di precisare, in un impeto di rispetto della deontologia.
La storiografia successiva (e in particolare Timagene, che a Clitarco diret­
tamente si ispirava, presumibilmente nella sua opera Sui re) collegò questo
salvataggio all'appellativo Soter ("salvatore") con cui Tolemeo è noto nel­
la tradizione, ed è pertanto possibile che a questo filone risalga la versione
abbellita e "romanzata" tràdita da Eliano (e conservata dalla Suda), in cui
campeggia, un poco sinistramente, l'aquila tolemaica (così van Oppen de
Ruiter, 20 1 3 ) .

44
4
Le mo gli dei diadochi sono al di sop ra
di o gni sosp etto ?

La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto, secondo un'e­


spressione divenuta proverbiale. Ma il detto vale allo stesso modo per le
mogli dei diadochi (e dei loro immediati successori, gli epigoni)?
Anzitutto va precisato che solo con Olimpiade, madre di Alessandro
Magno, le donne grche entrano prepotentemente sul proscenio storico.
Prima di allora la presenza femminile aveva fatto timidamente capolino,
travolta, anzi quasi obnubilata dal maschilismo imperante della società gre­
ca (con l'eccezione delle donne spartane, dedite agli esercizi ginnici). Po­
che le figure da ricordare, come Saffo, Aspasia (l'etera legata a Pericle) o la
meno nota poetessa Telesilla. Quest'ultima è l'unica a portare, metaforica­
mente, i pantaloni, chiamando le altre donne alla difesa della propria città,
Argo, di fronte al nemico spartano, mentre i maschi locali erano tremebon­
di, nei giorni della sconfitta di Sepeia (494 ca.). E proprio per questo, un
giorno all'anno, le donne ricordavano ai loro compagni quel giorno glorio­
so, imponendo un curioso ribaltamento dei ruoli e delle vesti.
Ancor più scialbe le figure delle donne dei tiranni, a parte Damarete (o
Demarete), figlia del tiranno di Agrigento Terone e moglie del dinomenide
Gelone (oggetto di una celebre coniazione commemorativa). Lo stesso vale
per le consorti di Dionisio l , che, dopo il primo matrimonio con la figlia
di Ermocrate (terminato con la morte di costei), sposò lo stesso giorno, se­
condo una tradizione certo non troppo attendibile, due donne, una siracu­
sana, Aristomache, e una locrese, Doride (da cui avrà il suo successore, Dio­
nisio 11). Un ménage a tre imposto dal volitivo e intraprendente tiranno, su
cui ironizza la tradizione e che è preludio ad altre unioni multiple tipiche
dell'età ellenistica (periodo in cui la poligamìa era, se non raccomandata,
almeno tollerata per opportunismi politico-dinastici).
A ben poco valgono gli sforzi di una certa letteratura (e oratoria) di
nicchia di età imperiale, nel magnificare la virtù delle donne con appositi
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

trattati, da Plutarco a Flegonte di Tralle, per non parlare di Apollonia Stoi­


co, del sofista Sopatro o dell'oscuro Artemone di Magnesia.
In età ellenistica, è indubbiamente Arsinoe I I colei che attirò, consa­
pevolmente o meno, tutta una serie di dicerie e malevolenze, diffuse nelle
corti rivali e poi trasmesse dalla tradizione. Oggetto di tanto mormorìo
era l'intreccio di matrimoni alla corte di Lisimaco, signore degli stretti tra
Tracia e l'Asia Minore. Arsinoe era figlia di Tolemeo I e Berenice, e sorella­
stra di Lisandra (figlia di Tolemeo e di Euridice). Non si tratta però di una
regina umbratile, paga del ruolo di consorte di un diadoco ambizioso co­
me Lisimaco. Anzi, era un personaggio che non passava inosservato e che
voleva ritagliarsi un suo spazio a corte. Così riporta un passo di Pausania,
in un excursus della sua Periegesi della Grecia, che si apre con una placida
massima di vita, valida per l'età ellenistica come per tutte le altre epoche:

Gli uomini sono soliti incorrere in molte disgrazie a causa dell'amore. Lisimaco
infatti, quando era già in età avanzata e veniva considerato fortunato per i figli, e
Agatocle aveva già della prole da Lisandra, sposò Arsinoe, sorella di Lisandra. Si
dice dunque che questa Arsinoe, temendo che i propri figli non dovessero essere
alla morte di Lisimaco soggetti ad Agatocle, abbia tramato per causa loro alla vita
di quest 'ultimo. Si è pure scritto che Arsinoe si fosse innamorata di Agatocle, ma
che, non essendo riuscita nel suo intento, macchinasse la sua morte. Dicono an­
che che Lisimaco in un secondo momento abbia avuto coscienza di quanto avesse
osato fare la moglie, ma che non potesse farci ormai più nulla, essendo rimasto
completamente privo di amici 1 •

Altre fonti si spingono più in là, dipingendo Lisimaco come un sovrano or­
mai completamente manovrato dalla moglie Arsinoe I I e quindi artefice lui
stesso della morte (per avvelenamento) del figlio, Agatocle. Effettivamen­
te, nel racconto di Pausania, Arsinoe figura come una giovane matrigna o la
sorellastra cattiva delle favole che trama contro la dolce fanciulla innocente
e l'armonia di corte. Se Demetrio poteva permettersi di ironizzare pesan­
temente sulla virtù di Arsinoe-Penelope, allora moglie di Lisimaco, in ri­
sposta alle battute sulla sua adorata etera Lamia, anche altri non lesinavano
critiche alla regina figlia di Tolemeo I e Berenice, a costo della vita:

E appunto fece bene il re Lisimaco - aggiunse Mirtilo - che si adirò perché era
spesso oggetto di motteggi da parte di persone di questo tipo : una volta infatti
Telesforo, uno dei suoi ufficiali, durante un simposio fece una battuta su Arsinoe

1. Paus. I 10, 3 . Cfr. Memn., FGrHist/BNJ 434 F S, 6-7.


4 . LE MOGLI DE I DIADOCHI SONO A L DI SOP RA DI OGNI SOSPETTO ?

(la moglie di Lisimaco) , dicendo che era "vomitevole", e citò questo verso : << Fai
male a far entrare questa donna vomitevole >> . Quando Lisimaco sentì, lo fece rin­
chiudere in una gabbia e portare in giro a nutrire come una bestia; poi dopo questa
punizione lo fece morire 2 •

L'aneddoto riportato in Ateneo, in cui è compresa la dotta citazione (trat­


ta dall'Antiope di Euripide)3 , consiste in un gioco di parole tra Musa (con
ovvio, anche se implicito riferimento ad Arsinoe 11) e il participo emousa,
all'accusativo ("che vomità' o "che induce al vomito") e conobbe in séguito
un'importante rivitalizzazione in età augustea, e che riguarda il già ricorda­
to Timagene di Alessandria (cfr. infra, CAP. 1 6).
Comunque sia, tornando ad Arsinoe 11 le dicerìe sul suo conto si in­
tensificarono quando costei sposò in terze nozze il fratello germano Tole­
meo 11, unione databile attorno al 27 5 . Un atto che risultava intollerabile
alla mentalità greca, sì da suscitare fin troppo facili ironie, come quelle del
poeta di corte Sotade. Costui, come riferisce più di una fonte, era votato
alla franchezza più sfrenata, che non risparmiava niente e nessuno e non
teneva conto delle circostanze, ma era decisamente più sfortunato nelle sue
vicende rispetto a Timagene. Poeta errante, ovvero chiamato ad allietare
le varie corti con i suoi versi pungenti, ad Alessandria, presso Tolemeo 11,
sparlava di Lisimaco, mentre alla corte di Lisimaco era subito pronto a met­
tere in cattiva luce il Lagide, ripetendo lo stesso copione con altri sovrani.
Ma tutto ha un limite: salpando da Alessandria e ritenendo di essere fuori
pericolo, venne catturato nell'isola di Caudo dal generale di Tolemeo, Pa­
troclo. Spietata la punizione: rinchiuso in una giara di piombo, fu portato
al largo e gettato in mare4 • Quale la colpa di Sotade? Costui si era lasciato
andare a battute feroci e insolenti riguardo alle nozze di Tolemeo con la
sorella germana Arsinoe I I, come riporta un passo pseudoplutarcheo (che
contiene anche una versione alternativa sulla fine del poeta):

So per sentito dire che un' infinità di persone è piombata nelle più gravi sventure
per non aver saputo tenere a freno la lingua. Tralasciando gli altri, mi limiterò a
menzionare uno o due casi, a mo ' di esempio. Quando il Philadelphos [scii. Tole­
meo 11] sposò la sorella Arsinoe, Sotade gli disse : << Tu spingi il pungolo in un foro

2. Athen. XIv· 616c.


3. Eurip. F 238b Mette.
4. Sotad. F 2 Powell, in Athen. XIv· 62of-621a.

47
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

proibito >> . Così marcì molti anni in prigione, pagando il non biasimevole fio di
un parlare inopportuno, e per far ridere gli altri finì lui per piangere a lungo S .

Il pungolo rappresenta ovviamente l'organo sessuale maschile ma, come è


stato sottolineato, è anche il simbolo stesso del potere che opera una scelta,
quella del matrimonio incestuoso, che va contro le consuetudini e le leggi
del comune sentire greco. Il legame tra i due fratelli viene probabilmente
ripreso da Sotade anche in una rivisitazione critica delle nozze tra Zeus ed
Era, nozze che invece la pubblicistica di corte (Teocrito di Siracusa, Cal­
limaco) presentava come fulgido precedente dell'unione tra i due Lagidi
(Pretagostini, 1 9 84, pp. 1 3 9-47 ; 1 9 9 1 [ 20 07 ] ) .
Sotade non andava troppo per il sottile, a giudicare dai versi che scrisse
per un certo Filino, padre di Teodoro suonatore d 'aulos;

Aperto il buco del vicolo posteriore


per valle boscosa emise rombo di tuono
vano, come quello che lascia andare un vecchio bue che tira l 'aratro 6 •

Resta un problema, irrisolto: la spietata punizione di Sotade avvenne ad


anni di distanza dalle nozze di Tolemeo I I e di Arsinoe I I, e anche dalla
morte di costei. Probabilmente la tradizione ha condensato gli avvenimen­
ti e rimarcato solo il momento topico dell'irriverente satira del poeta, che
riguardava anche altri personaggi di corte, connettendovi un rapporto tra
causa ed effetto, laddove invece bisogna ipotizzare un quadro più comples­
so o comunque articolato. Dunque un'irriverenza di Sotade esercitata ripe­
tutamente, fino all'inevitabile punizione del monarca lagide.
Tolemeo era sovrano sì culturalmente illuminato, ma capace anche di
crudeltà, nei confronti del poco lungimirante Demetrio Falereo (come si
vedrà a breve) e dei fratellastri, Argeo e un altro, il cui nome le fonti non
dicono.
In quanto marito devoto, non esitò a promuovere un culto proprio e
della moglie, quello dei Theoi Adelphoi ("dèi fratelli"), ovvero una ripropo­
sizione di Zeus ed Era, forse nel 27 2/27 1, un paio di anni prima della morte
della regina, e permise se non agevolò un culto personale della moglie, rap­
presentata come Philadelphos ("che ama il fratello", epiteto attribuito anche
al fratello, ma molto tempo dopo). Ciò non toglie che anche il Lagide, nel
corso del suo lungo regno (dal 282 al 24 6, escludendo gli anni di coreg-

5 . Sotad. F I Powell, in [Plut.] , De lib. ed. 11a.


6. Sotad. F I Powell, in Athen. xI,r 6 2of-621b.
4 . LE MOGLI DE I DIADOCHI SONO AL DI SOP RA DI OGNI SOSPETTO ?

genza con il padre), si circondasse di un folto numero di cortigiane, da far


invidia quasi al Re Sole. Le fonti annoverano infatti i nomi di Agatoclea,
Aglais, Cleinò, Didyme, Glauce, Hippe, Mnesis, Myrtion, Potine, Strato­
nice (elencate in rigoroso ordine alfabetico). Nomi che ancora a distanza
di un secolo continuavano a essere popolari, dato che Tolemeo VI I I nei suoi
Hypomnemata li riporta diligentemente, con l'aggiunta, quasi pleonastica,
che il re era assai propenso ai piaceri dell'amore7•
Ma, su tutte, è Bilistiche la vera favorita del re, che aveva grande visibi­
lità mediatica e risultò anche vincitrice di agoni nelle Olimpiadi. E, come
tutte le favorite (da Madame de Montespan, prediletta del Re Sole, alla
Bela Rosin, legata a Vittorio Emanuele I I di Savoia), era oggetto dell'iro­
nia e del sarcasmo, a corte e non solo. E dunque non sorprende che Sotade
sia autore di un A Bilistiche (Pros Bilistichen). Visto il titolo, lo scritto può
essere inteso in senso encomiastico, come una poesia di occasione, oppure
preferibilmente in senso negativo (la preposizione pros con l'accusativo in
greco permette questi sottili giochi verbali), il che giustificherebbe la ven­
detta del risentito Tolemeo I I. Un riflesso del filone ostile alla cortigiana
del re è rintracciabile in Plutarco, che pure ricorda come a Bilistiche venisse
eretto un tempio, e dunque fosse oggetto di un vero e proprio culto divino.
A differenza di quanto riferito da altre fonti, che riportano tradizioni non
meno interessate, facendola macedone o argiva (addirittura discendente
degli Atridi), costei sarebbe solo una schiava di origine straniera, comprata
sul mercato, priva dunque di lignaggio8 •

7. Ptolem., FGrHistlBN]i. 234 F 4, in Athen. XII I 576e-f.


8. Plut., Amat. 7 53e; cfr. Paus. v· 8, 1 1 ; Athen. XIII 596e.

4 ()
5
La chiocciola di Demetrio del Falero

<< Il tempo è un galantuomo, rimette a posto tutte le cose >> , secondo un no­
to aforisma di Voltaire. Ma non sempre è vero, e soprattutto non nel caso
di Demetrio del Falero. Politico, oratore, filosofo, ovvero l'intellettuale più
bistrattato dalla storia, e al quale invece la cultura europea deve molto. An­
zi, la cultura globale, quella che pretende di racchiudere in una biblioteca,
virtuale o cartacea, tutto lo scibile del mondo, dato che fu lui il massimo
consigliere e ispiratore del progetto di Tolemeo I di creare una biblioteca
universale ad Alessandria, a cui si aggiunse il Museo, laboratorio e casa co­
mune di artisti e letterati di prim'ordine, ancorché litigiosi e pieni di invi­
die reciproche.
Ammettiamo pure, quasi per assurdo e seguendo una tradizione infi­
da, che Demetrio sia nato schiavo in casa di T imoteo, e che poi si sia fatto
da sé, come molti protagonisti della storia greca. Comunque sia, era pur
sempre discepolo di Aristotele. Per essere più precisi, uno dei principali e
migliori allievi del maestro di Stagira, e per di più ateniese doc, a differenza
dell'amico Teofrasto, originario di Ereso nell'isola di Lesbo. Un Ateniese
originario della baia del Falera, attivo in città nel periodo forse più contro­
verso e affascinante della storia ateniese, quello tra la morte di Alessandro
Magno e la democrazia radicale che prese il potere nel 307 grazie a Deme­
trio Poliorcete e vi rimase fino alla battaglia di Ipso, scontro che segnò la
morte di Antigono Monoftalmo e l'eclissi temporanea del figlio Demetrio
(estate 301). È in quel periodo che scoppiarono tutte le contraddizioni e le
tensioni covate per anni e che divisero la città in fazioni, che sarebbe sem­
plicistico etichettare come filomacedoni e antimacedoni. Una stagione di
lunghi coltelli, in cui anche l'alleato momentaneo diventava un avversario
dall'oggi al domani, un nemico se non da uccidere, almeno da esiliare. Una
stagione gloriosa e sfortunata, se intesa dal punto di vista ateniese (che poi
è quello, tutto soggettivo, che è spesso proposto nella manualistica): Iperi­
de e Demostene tentarono infatti una velleitaria e infelice ribellione contro
5 . LA CHIOCCIOLA DI DE ME TRIO DEL FALE RO

i Macedoni (la cosiddetta guerra lamiaca, nota agli inizi come guerra elle­
nica), soffocata nel sangue e che diede luogo a un regime timocratico im­
posto da Antipatro ( 3 22 / 3 2 1 - 3 1 9 /3 1 8 ) e guidato da Focione, soprannomi­
nato Chrestos ("onesto"), a cui fece séguito una brevissima stagione demo­
cratica, prima dell'avvento nel 3 1 7 di Demetrio del Falera, "curatore della
città'' sotto l'egida di Cassandra.
A differenza di un altro momento chiave di Atene, quello tra il 4 1 1 e la
caduta dei Trenta T iranni nel 40 3 / 40 2, nello scorcio finale del IV secolo il
problema non era tanto e non solo decidere quale fosse il regime politico più
appropriato, nel rispetto della patrios politeia ("costituzione patrià'), anche
se era un tema ben presente e sbandierato dalla pubblicistica. Ben cinque
peraltro se ne contarono tra il 323 e il 307. Un numero indicativo e per taluni
addirittura spropositato, dato che, dalle origini ai tempi di Aristotele e della
Costituzione degli Ateniesi a lui attribuita (redatta forse tra il 3 29 / 3 28 e il 3 2 2,
anno della morte del filosofo), se ne annoverarono undici. Sicuramente il
buon Stagirita, se avesse potuto vedere tutto ciò e i mala tempora che curre­
bant, ne sarebbe stato quanto meno profondamente turbato.
Il problema ad Atene, dal 3 24- 3 2 3 in poi, era capire se bisognava aprirsi
ai mutamenti, anche religiosi, ovvero rimanere ancorati alla tradizione, a
qualunque costo. E il nuovo in quel momento era rappresentato, tra l'altro,
dall'opportunità o necessità di attribuire onori divini ad Alessandro, e ono­
ri eroici ai suoi uomini (Efestione, eroizzato post mortem). Un personaggio
come Demostene, ad esempio, che costituiva davvero la quintessenza della
lotta agli odiati Macedoni, nel 3 2 4- 3 23 fu accusato a torto o a ragione di
pericolose giravolte e concessioni ai desideri di Alessandro dai puristi della
lotta ad oltranza, come Iperide e Dinarco. Proprio il primo espresse nel suo
Epitafio, scritto per onorare i primi caduti della guerra lamiaca ( 3 23- 3 2 2 ) ,
l'amarezza e, fors'anche, l'incapacità degli Ateniesi di cogliere il cambia­
mento epocale che stava avvenendo:

In poche parole, l 'arroganza macedone e non la forza del diritto avrebbe avuto
la meglio su ognuno, cosicché non sarebbero risparmiati a nessuno gli oltraggi
contro donne, ragazze, bambine. E questo risulta evidente anche da ciò a cui siamo
costretti ora: assistere a sacrifici in onore di uomini, vedere statue, altari e templi
dedicati agli dèi senza scrupolo religioso e invece dedicati con ogni zelo a degli
esseri umani, ed essere costretti a onorare come eroi i servi di questi. Quando le
norme religiose sono soppresse dalla temerarietà dei Macedoni, cosa bisogna pen­
sare di quelle che riguardano gli uomini ? 1

1. Hyper., Ep itaph. 20-22 ( trad. it. A. Coppola) .


LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Demetrio del Falero, che pure apparteneva a una scuola filosofica, quella di
Aristotele, ancorata alla tradizione (anche quella religiosa), viveva e cavalca­
va, per certi aspetti, anche questo travaglio. La vita talora si diverte a mettere
i fratelli in schieramenti diversi, se non opposti. Demetrio aveva un fratello,
lmereo, che era schierato su posizioni politiche divergenti dalle sue, dato
che era un seguace di Demostene e Iperide e che come loro trovò la morte,
pagando il suo sogno di libertà antimacedone. Fu infatti ucciso da un perso­
naggio che non avrebbe sfigurato nella Banda Koch, ai tempi della Repub­
blica sociale italiana: Archia di Turi, già apprezzato attore tragico e noto
come Phygadotheras ("cacciatore di esuli"). Costui si divertiva a provocare
le sue vittime, come dimostra il suo rapporto con Demostene, poi oggetto
della divertita e divertente satira di Luciano nel suo Elogio di Demostene. Ma
anche lui ebbe la sua punizione, trovando la morte dopo una vita vissuta in
grande povertà e vergogna, come stigmatizza la tradizione2 •

Demetrio Falereo, invece, come molti Peripatetici, era amico di Anti-


patro e della sua famiglia, in particolare il figlio Cassandra. E grazie all'ap-
poggio di quest'ultimo che si insediò ad Atene come epimeletes tes poleos
("curatore della città") per dieci anni ( 3 1 7- 3 07 ) . Un periodo oggetto della
feroce ironia, per non dire dello scherno, di detrattori e avversari politici.
Nutrita è poi la schiera dei letterati che si espressero pesantemente contro il
Peripatetico, quasi un cartello, in cui proprio le caratteristiche fondanti del
personaggio sono completamente ribaltate. Una descrizione spesso satirica
che va letta sempre tenendo conto del suo rovescio della medaglia, ovvero
le fonti favorevoli a Demetrio, anche le più sperticate.
Questi fu infatti censore severissimo del lusso e inaugurò un periodo
di austerità, degno contraltare dell'austerità della media Repubblica roma­
na. Non a caso il suo massimo estimatore è Cicerone, che nelle Leggi scrive
che il Peripatetico era fortemente ostile a Pericle, per le sue spese eccessi­
ve nell'erezione dei Propilei3 • Una posizione forte, non condivisa da molti
antichi, a cominciare da Plutarco, che esalta invece la bellezza senza tempo
delle costruzioni periclee, celebrando così la nascita del classico nella storia
dell'arte occidentale4 • Ma quella di Demetrio è una posizione che, a ben
guardare, ha antecedenti illustri, come Platone, nettamente ostile a quasi
tutti i politici di ve IV secolo (unica eccezione, Aristide, il Giusto per anto­
nomasia). A dimostrare in modo imperituro la volontà di Demetrio di esal-

2. Pluc., Demosth. 2 8 - 3 0 ; Arr.,FGrH ist 1 5 6 F 9, 1 4 .


3. Demetr. Phaler. F 1 1 0 Stork-van Ophuijsen-Dorandi, in Cic., De ojf. I I 6 0.
4. Pluc., Per . 1 2- 1 3 .
5 . LA CHIOCCIOLA DI DE ME TRIO DEL FALE RO

tazione della morigeratezza, vi sono tuttora nel boschetto del Ceramico di


fianco al locale Antiquarium i cippi funerari anonimi e scialbi imposti dalla
sua legge, tanto anonimi da essere puntualmente elusi dalle orde vocianti
dei turisti in gita in quei luoghi venerandi per la storia greca. Modesti mo­
numenti funebri che si contrappongono al debordante lusso delle tombe
ateniesi del IV secolo poco distanti. Un lusso per umani e non, dato che,
teste Teofrasto nei suoi Caratteri (21), anche ai cagnolini venivano edificati
monumenti con colonnine, adeguatamente fornite di iscrizioni comme­
morative (e ciò non deve sorprendere troppo, in un'epoca come l'attuale,
in cui onoranze funebri in piena regola sono riservate anche ai più fedeli
amici dell'uomo, con un tariffario perfettamente adeguato a quello in uso
per onorare il trapasso dei loro padroni) .
Se dunque Demetrio del Falera agiva con leggi funebri e suntuarie,
regolamentando il lusso dei banchetti e controllando, attraverso apposi­
ti funzionari, il decoro delle donne ateniesi, d'altro canto vi era tutta una
tradizione ostile nata già nel IV-I I I secolo e rifluita in età imperiale in Ate­
neo e in Diogene Laerzio. Duride, in particolare, riferisce che, a fronte di
entrate annue di milleduecento talenti, il Peripatetico spendeva assai poco
per i soldati e per l'amministrazione civica. Tutto il resto era riservato a fe­
stini e a mense piene di convitati, con banchetti che superavano per spese
quelli dei Macedoni e per sfarzo quelli di Cipro e della Fenicia. Caristio di
Pergamo aggiunge altri dettagli, ricordando anche il nome di Moschione,
il migliore dei cuochi assoldati da Demetrio 5 •
Particolare insofferenza è manifestata nei confronti della vita privata
del Falereo, secondo una tendenza tipica della Commedia, già ben attesta­
ta nell'Archaia, che lo dipinge come un indefesso erotomane, senza troppe
distinzioni di genere: amori clandestini e notturni ora con donne ora con
ragazzi. Ragazzi che, invidiosi di Diognide, amante ufficiale di Demetrio,
facevano di tutto per mettersi in mostra agli occhi del Peripatetico. A ciò
si aggiunga una cura del corpo maniacale, secondo il racconto puntuale
delle fonti. Regola fondamentale senza tempo per fidarsi o diffidare di un
politico è senz'altro vedere se si tinge la chioma o meno, e Demetrio non
sfugge a tale regola. I suoi capelli divennero biondi, e al posto del cerone
usato da qualche leader politico moderno, si spalmava la faccia con un bel­
letto roseo, plafond ideale su cui stendere altri cosmetici. Tutto ciò gli valse
l'appellativo ironico di Charitoblepharos ("occhioni belli"), forse di origi­
ne comica, a cui va aggiunto quello di Lampito ("radiosa"), nome in realtà

5 . Duris, FGrHist/BNJ 76 F 10 ; Carist., FHG, Iv·, p. 3 5 8, F 10, in Achen. XII 542b-c, f.


LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

di un'etera di Samo: lo storico ateniese Diillo, nel riportarlo, aggiunge che


Demetrio era ben contento nel portare questo nomignolo femminile6 •
In realtà, dietro il maquillage ambiguo di Demetrio, vi è il culto della
personalità, in cui spazio adeguato è riservato al cuito dell'immagine, pre­
messa necessaria per attirarsi la benevolenza dei concittadini. Il buon go­
vernante, e in età ellenistica soprattutto il buon re, deve mostrarsi radioso
e piacente. Non è dunque un caso che Demetrio abbia "commissionato" al
poeta Sirone (o, forse, Castorione) di Soli un carme, cantato dal coro alla
processione delle Dionisie, in cui il nostro è definito <<nobilissimo e bel­
lo come il sole>> 7, anticipando caratteristiche che furono poi proprie an­
che di Demetrio Poliorcete (riflesse nell'itifallo in suo onore del 291-29 0:
O'Sullivan, 2008 ) .
Ma c'è anche un curioso contrappasso, riportato da una fonte insospet­
tabile e più a suo agio nell'adattare in latino Esopo, piuttosto che nel trat­
tare personaggi storici. Fedro infatti, nelle sue Favole (v 1), rivolge la sua
attenzione a Demetrio del Falera e al suo regime, considerato iniquo. Un
potere tanto ingiusto quanto ammantato d'interessata adulazione dal po­
polino, ma anche dall 'upper class ateniese, pronta a baciare la mano del suo
oppressore. Nella pletora di umanità varia che si presentava al cospetto del
Falereo vi era anche il poeta comico Menandro, rappresentato come vero
esponente del lusso tipico di certa Atene di IV secolo. Un commediografo
avvolto nella sua veste, tutto profumato, e che incedeva con passo delicato
e languido (quasi come un dandy di età vittoriana). Tutte caratteristiche
che gli attirarono il poco piacevole appellativo di "cinedo" da Demetrio, il
quale peraltro fu pronto ad omaggiare l'artista, di cui era ammirato lettore,
una volta che venne finalmente messo al corrente della sua vera identità.
Ognuno ha i suoi modelli e anche il Falereo puntava in alto, addirit­
tura rapportandosi a Solone, il fautore dell 'eunomia, cioè del buon gover­
no. La democrazia, quella vera o comunque paragonabile a quella moder­
na, era altra cosa, riferibile peraltro più a Pericle che al suo predecessore e
parente Clistene, della potente e discussa famiglia degli Alcmeonidi. E la
Commedia, perfidamente, dileggiò questa ambizione di Demetrio pren­
dendo spunto da uno dei mestieri più popolareschi e ingiustamente deni­
grati nella storia mondiale, quello del pescivendolo. Così infatti si legge in
due frammenti del Calderone di Alessi tràditi da Ateneo, in cui, dietro le
vesti di Aristonico, si cela proprio il Peripatetico:

6. Diyll., FGrHist/BNJ 7 3 F 4, in Athen. XIII 593e-f; cfr. Diog. Laert. v· 76.


7. Athen. XI I 542e.
5 . LA CHIOCCIOLA DI DE ME TRIO DEL FALERO

Non ci fu mai legislatore migliore del ricco


Aristonico [ . . . ]
[ . . . ] ora dunque propone una legge,
per la quale sia subito trascinato in galera
qualunque pescivendolo offra a qualcuno
la sua merce e, una volta dichiaratone il prezzo, lo ceda a meno
della stima che fece, perché, timorosi,
si accontentino del giusto prezzo, o a sera
se li riportino a casa tutti marci.
In questo modo la vecchia, il vecchio e il fanciullo,
inviati al mercato, acquisteranno tutti al giusto prezzo.

Dopo Solone non c 'è mai stato


nessun legislatore meglio di Aristonico :
ha fissato molte leggi di ogni tipo,
ma ora ne introduce una nuova,
preziosa come l 'oro : i pescivendoli non potranno più vendere
standosene seduti, ma dovranno rimanere in piedi tutto il tempo.
Per l'anno nuovo, egli dice, proporrà che siano appesi :
più svelti liquideranno i loro clienti,
se vendono appesi a una macchina, come gli dèi 8 •

Ciò nonostante, Demetrio era politico che amava e forse ricercava il con­
senso popolare, pur in un regime di ristrettezze. Evitando misure tipica­
mente demagogiche, ricorse a marchingegni di sicuro effetto, atti a susci­
tare la meraviglia dei concittadini. Viene in mente la preziosa bambola
meccanica creata da Jacques de Vaucanson, oggetto del desiderio di Virgil
Oldman, protagonista del film La migliore offerta di Giuseppe Tornato­
re. Demetrio, certo memore di esperimenti simili che avevano incomin­
ciato a circolare nel mondo greco e che poi ebbero una certa diffusione
in età ellenistico-romana, mise in mostra qualcosa di simile nelle Dionisie
del 309 /30 8 (anno del suo arcontato). Il mezzo scelto per stupire era una
chiocciola semovente che emetteva saliva e che precedeva la processione
sacra condotta durante quell'importante festa ateniese. Una trovata ad ef­
fetto, che poteva piacere o, per converso, risultare profondamente sgradita.
Pronto infatti fu lo sdegno di Democare di Leuconoe, il nipote di Demo­
stene, a sua volta oggetto della feroce critica di Polibio di Megalopoli in
un passo che è un vero e proprio gioco di matrioske storiografiche (in cui
c'entra anche T imeo di Tauromenio, esule ad Atene e capace di spendere

8. Alex. FF 1 3 0-1 3 1 Kassel-Austin, in Athen. VI 2 2 6 a-c.


LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

una cattiva parola per chiunque gli capiti a tiro, immerso com'era nelle sue
malinconie occidentali).

A quest 'ultimo egli [scii. Democare a Demetrio] ha mosso nelle Storie un'accusa
di non poco conto, affermando che era stato un tale difensore della patria e si
vantava nell 'esercizio del governo di tali cose, quali quelle di cui avrebbe potuto
vantarsi anche un volgare esattore delle imposte. Dice infatti che egli era orgoglio­
so del fatto che nella città venissero vendute molte merci e a buon prezzo e che per
tutti ci fossero in abbondanza i mezzi per vivere. Dice anche che una chiocciola
semovente precedeva la sua processione, sputando saliva, e insieme degli asini ve­
nivano condotti attraverso il teatro, e la patria, avendo ceduto agli altri tutte le
virtù della Grecia, eseguiva gli ordini di Cassandra, e dice che egli di questo non
si vergognava. Eppure, né Demetrio né nessun altro ha detto nulla del genere di
Democare 9 •

Ma non vi era solo la chiocciola semovente che creava imbarazzo. Demetrio


amava infatti farsi effigiare pubblicamente: le fonti parlano di centinaia di
statue erette in suo onore, molte anche a cavallo (e qualcuno addirittura vi
ha voluto vedervi anche una imitatio Alexandri! ) . Decisamente troppe, so­
prattutto per chi fece dell'austerity la sua bandiera. Con l'allontanamento
di Demetrio da Atene nel 307 la vendetta si rivelò crudele e irriguardosa:
le statue vennero o distrutte o trasformate in utili pitali per la notte. Un
destino ricorrente per le statue dei tiranni e dei sovrani poco amati. Per li­
mitarsi all'evo antico, la trasformazione in pitali ricorda l'analogo destino
delle statue di Seiano, il potente prefetto del pretorio di T iberio, utili an­
che per fabbricare orcioli, catini, padelle e vasi da notte, come ricorda bef­
fardamente Giovenale in una sua Satira 10 •
Soprattutto, Demetrio incappò nell'ostilità di molti intellettuali ate­
niesi o che gravitavano attorno ad Atene, che dipinsero di lui un ritratto
spietato: quello di un uomo tutto preso dal lusso e dal culto della persona­
lità. Concetti assai pericolosi, in un periodo in cui stava diventando quasi
normale chiamare le mogli e le etere con nomi di divinità o attribuire loro
templi, culti e sacerdozi (cfr. CAP. 6).
Una polemica feroce a cui Demetrio si oppose invano, nella sua opera
Sui dieci anni, redatta con evidente scopo apologetico (il periodo riguarda
appunto i suoi anni di governo ad Atene). E probabile che sia stata compo-
sta durante gli anni egiziani di Demetrio, quando questi si stava rifacendo

9. Democh., FGrHistlBNJ 75 F 4/ 7, in Polyb. XI I 13 (trad. it. M. Mari) .


10. luven. 10, 61-64.
5 . LA CHIOCCIOLA DI DE ME TRIO DEL FALERO

una vita e una carriera alla corte di Tolemeo I nelle vesti di illuminato con­
sigliere. Le polemiche nei suoi confronti dovevano infatti aver attraversato
il Mediterraneo, lambendo il palazzo regale del Lagide ad Alessandria.
Lo stesso Demetrio, poi, commise un errore fatale, appoggiando le pre­
tese dinastiche dei figli di primo letto di Tolemeo I (in particolare Tolemeo
Cerauno, nato dall'unione con Euridice), contro quelle dell'altrettanto
rampante Tolemeo I I, nato da Berenice I e prediletto dal padre.
Comunque sia, e anche se i rapporti con Tolemeo I I furono metafori­
camente burrascosi, Demetrio del Falero era uomo di mondo e sapeva che
tutto passa o è destinato a passare, senza necessariamente essere ferventi
adepti di Eraclito o strizzare l'occhio alla sapienza orientale, come peral­
tro talora fanno i Peripatetici. Anche il dominio macedone, pertanto, era o
sarebbe destinato a essere effimero. Esattamente come quelli che lo aveva­
no preceduto, secondo l'applicazione del canone storiografico noto come
successione degli imperi (Assiri-Medi-Persiani e, appunto, Macedoni), già
visto nel capitolo su Alessandro Magno u. I Romani nel II secolo, ormai
padroni di gran parte dell'ecumene, se ne appropriarono, tentando invano
poi di esorcizzare la fine della loro egemonia con l'invenzione dell'imma­
gine di Roma aeterna.

11. F 82a Stork-van Ophuijsen-Dorandi, in Polyb. XXI X 21, 4-6; cfr. F 82b, in Diod.
XXXI I O.
6
Seduto a cavalcioni del mondo abitato

In una delle scene più famose del film Il grande dittatore (ma si potrebbe
anche definirla una delle scene più conosciute della cinematografia mon­
diale) Charlie Chaplin/ Adenoyd Hynkel, parodiando le ossessioni para­
noiche di Hitler, gioca con un leggero mappamondo nel suo lussuoso pa­
lazzo. Sollevandolo e lanciandolo, come un bambino pieno di gioia, il ti­
ranno nella sua follia si illude di poter presto avere il controllo del mondo.
L'idea di un'egemonia mondiale è antica per lo meno quanto la civiltà
umana. In ambito geopolitico, come si è appena visto, è solo dagli Assiri in
poi che si sviluppa l'idea di un grande imperium, che abbraccia dapprima
l'Asia e poi gli altri continenti (Europa, o almeno una sua porzione, e l'A­
frica, ovvero l'Egitto e parte della costa settentrionale). I diadochi coltiva­
vano tutti sogni di egemonia, pronti a ricalcare le orme di Alessandro. Co­
sì anche per quelli apparentemente più miti o prudenti, come Tolemeo I
(Meeus, 2014) .
Ma, tra tutti, è Demetrio Poliorcete (assieme al padre Antigono Mo­
noftalmo) a essere spinto nelle sue azioni da sogni ambiziosissimi e infar­
citi di eccessi, che ne fanno il personaggio più fuori dalle righe (ma anche
umanamente più simpatico, almeno per i moderni) del primo Ellenismo.
Vi è un passo di Duride illuminante al riguardo, tratto da Ateneo. Nel
XXI I libro delle sue Storie, lo storico di Samo offre un interessante spaccato
delle manie di alcuni sovrani, tiranni e aspiranti monocrati dell'antichità:

Pausania, re degli Spartani, deposto il patrio mantelletta portava la veste persica;


Dionisio, il tiranno della Sicilia, adottò la sistide, la corona d 'oro e un manto da
tragedia con fermaglio, e anche Alessandro, non appena fu padrone dell 'Asia, si
ammantava di vesti persiche. Ma Demetrio superò tutti; le calzature che indossava
le faceva fare con molta spesa: queste erano infatti confezionate ali ' incirca a forma
di stivaletti con la tomaia della porpora più costosa, sulla quale gli artigiani intes­
sevano una ricca decorazione trapunta d 'oro, aggiungendola sia davanti che die­
tro. Le sue clamidi erano di un colore cupo ma splendente, e sull ' intera superficie
6 . SEDUTO A CAVALCIONI DE L MONDO A BITATO

era intessuto un cielo stellato, completo di astri dorati e dei dodici segni zodiacali.
Una fascia tramata di punti d 'oro stringeva una kausia di autentica porpora, e la­
sciava pendere sul dorso a mo' di frange i capi del tessuto. Ad Atene, in occasione
delle feste Demetrie, si faceva ritrarre sulla parete del proscenio a cavalcioni di una
personificazione del mondo abitato 1 •

Duride accomuna figure tra loro assai lontane. Inizia citando Pausania, in
realtà "solo" reggente a Sparta per il cugino Plistarco (il figlio di quel Le­
onida che si conquistò gloria imperitura alle Termopili). Un personaggio
fuori dalle righe e lontano dalle rigide regole lacedemoni, grande artefice
della vittoria a Platea nella seconda guerra persiana (479 ) , ma anche aspra­
mente biasimato per essersi creato un potere personale a Bisanzio e dintor-
ni. E una critica pesante, in cui non c 'è spazio per la satira o anche la sempli-
ce ironia : Pausania andava contro le regole di Sparta, come ricorda lo stesso
Duride : non usava la tunica che portavano in ogni stagione gli Spartiati,
ma indossava la veste dei Persiani. Una concessione alla tryphe, ovvero al
lusso (a cui poi non fu estraneo lo stesso Alessandro) , che di per sé suscitava
il disprezzo di tutti i suoi conterranei, abituati al rigido programma educa­
tivo di Licurgo, mitico legislatore di Sparta. Lo storico passa poi alle manie
tragiche di Dionisio I, simboleggiate da alcuni oggetti e dall 'abbigliamen­
to (la sistide, la corona d 'oro e un manto da tragedia con fermaglio) : orna­
menti in linea con le velleità di scrittura tragica del personaggio.
Ma gran parte dell 'attenzione è riservata a Demetrio, che si addobbava
in modo molto vistoso nelle sue apparizioni pubbliche. Già altri diadochi
erano stati affascinati dal miraggio persiano, adottando alcuni particola­
ri nell 'abbigliamento (Peucesta addirittura, satrapo di Perside, si vestiva e
parlava proprio come un Persiano, quasi un precursore di Lawrence d'A­
rabia) . La mise del figlio di Antigono si segnala comunque per caratteristi­
che ben precise. Anzitutto, la porpora, colore regale e predominante, tanto
nei suoi preziosi stivaletti quanto nelle clamidi e nel copricapo tipicamente
macedone, la kausia. Una kausia che deve essere diadematophoros, ovvero
cinta dal diadema, fascia introdotta da Alessandro e mutuata dai Persiani
(ma l 'origine è controversa) . Diadema e porpora, dunque, simboli per ec­
cellenza di una regalità intrinsecamente diversa da quella arcaica e classica,
ostentata e, anzi, teatralizzata.
Ciò emerge in modo vistoso durante le Dionisie ateniesi, ribattezzate
Demetrie. Sull 'intera parete spiccava l 'immagine di Demetrio a cavalcio-

1. Duris, FGrHist/BNJ 76 F 1 4, in Athen. XII 535e-536a.


LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

ni del mondo abitato, in modo che tutti gli spettatori potessero vederlo.
Il passo di Duride trova un echeggiamento in Plutarco, dove figura la me­
desima descrizione del vestiario. Il biografo aggiunge che Demetrio ebbe
a lungo in preparazione un superbo mantello, con l'immagine del cosmo
e dei corpi celesti. Una tela di Penelope, ovvero una sorta di corredo che
tuttavia nessun re macedone in séguito seppe completare, specifica con un
velo d'ironia Plutarco. E ciò nonostante diversi sovrani avessero cercato di
proseguire la politica imperialistica che traspare da queste immagini di De­
metrio, signore del cosmo. Il dinasta si fece anche effigiare come un novello
Posidone in una rara coniazione: armato di tridente poggia con un piede
non già su un masso, bensì su un vero e proprio globo2..
Tutto ciò appartiene al periodo in cui egli divenne re di Macedonia
(294-28 7 ) , ma già da tempo gli Ateniesi avevano recepito le ambizioni
dell'Antigonide, ossequiando lui e suo padre Antigono, dopo la liberazione
da Demetrio del Falero, nel periodo 307- 3 01. Elargirono fin troppo genero­
samente onori divini (sotto la regìa di Stratocle, come si vedrà nel CAP. 7),
che parevano eccessivi a molti contemporanei e anche alle fonti successive.
Famoso è il reiterato sdegno di Plutarco nella Vita di Demetrio, che non
risparmia descrizioni accurate, pur con qualche imprecisione e fraintendi­
menti, stigmatizzando la perversa ambizione del protagonista e quella che
considera un'adulazione senza ritegno degli Ateniesi: il biografo accoppia
l'Antigonide ad Antonio, fermamente convinto che anche i paradigmi ne­
gativi forniscano un utile ammaestramento morale.
Gli Ateniesi, tra l'altro, intonarono un itifallo in onore del re, ali'epoca
del suo ritorno dalle nozze a Corcira con Lanassa, figlia di Agatocle (nel
29 1 o 29 0) e poco prima di un'inconcludente campagna contro gli Etoli.
In una processione in cui era portato un fallo, Demetrio fu accolto e cele­
brato come dio manifesto e benefattore. Se gli dèi tradizionali non ascol­
tavano più le preghiere, ormai sordi o abituati a vivere in un'altra dimen­
sione (come sottolinea anche Epicuro), Demetrio era pronto a soddisfare
ogni richiesta. Egli è paragonato al sole e gli uomini del suo séguito sono
considerati come satelliti che ruotano attorno a lui 3 • Nei versi dell'itifallo
il dinasta è presentato come un sovrano affabile e sorridente. Non si tratta
in questo caso soltanto di mera adulazione, perché è tangibile il cambia­
mento di mentalità nel mondo greco tra IV e I I I secolo, ma è comunque

2. Pluc., Demetr . 41, 6-8; cfr. Miedico (2010 ).


3. Athen. VI 253a-f (da Democare e Duride: Democh., FGrH ist/BNJ 7 5 F 2/ 9; Duris,
FGrH ist/BNf 76 F 13).

60
6 . SEDUTO A CAVALCIONI DE L MONDO A BITATO

una fiducia assai mal riposta. Infatti Plutarco, che non cita né mostra ap­
parentemente di conoscere i versi degli Ateniesi, afferma che Demetrio era
scostante, difficile da avvicinare ovvero aspro e duro con gli interlocutori 4 •
A fronte di questa rappresentazione positiva dei versi dell'itifallo, par­
ticolarmente violenta è la tradizione ostile, pronta a usare tutti i toni della
critica, dall'ironia al sarcasmo. A dire il vero, Demetrio viveva una conti­
nua commedia, che poi si trasformava in tragedia, come ben chiosa ancora
una volta Plutarco nella sua biografia del personaggio, mettendo in pubbli­
co, se non addirittura ostentando, virtù e soprattutto vizi. Non c'è dunque
bisogno di evocare per lui il detto hegeliano, secondo cui << nessuno è un
grande uomo per il suo cameriere>> .
Il dinasta è oggetto del gossip più sfrenato. Già riguardo ai suoi natali,
Plutarco ricorda la diceria secondo la quale Demetrio Poliorcete non era
davvero figlio di Antigono, ma del fratello di costui.
Ma a parte ciò, sono soprattutto i suoi amori e i suoi legami a suscitare
l'ironia della Commedia e della poesia. Diverse le mogli ufficiali, a comin­
ciare da Fila, attempata figlia di Antipatro (cfr. infra, CAP. 11) e per questo
disdegnata dal ben più giovane marito Demetrio, per continuare poi con
l'ateniese Euridice (o, meglio, Eutidice), discendente di Milziade (il vincito­
re di Maratona nel 490 !) e già moglie di Ofella, signore di Cirene; l'elenco
prosegue con Deidamia, sorella di Pirro e la già ricordata Lanassa.
Come e forse più di Filippo I I, le fonti sottolineano la "dedizione" del
dinasta verso il gentil sesso: "il sovrano che amava le donne", si potrebbe
dire parafrasando il titolo di un film di Truffaut. Tutte le mogli sono eufe­
misticamente trascurate a favore di amori e passioni fugaci, senza che venga
operata alcuna selezione tra donne libere ed etere. Poco importa peraltro
se vengano salvate le apparenze e venga eretto nel demo attico di Tria, per
volontà di Adimanto di Lampsaco e della sua cerchia, un tempio a Fila,
onorata come Afrodite Fila5 •
Ma sono le amanti fisse, anch'esse assimilate ad Afrodite dagli Ateniesi,
quelle su cui si appunta l'attenzione e viene cosparso il sale dell'ironia dai
detrattori: Lamia, virtuosa dell 'aulos (una sorta di flauto o, meglio, oboe a
due canne: la professione della suonatrice di aulos è spesso associata a quella
della prostituta), Leena e molte altre ancora, come ricorda Ateneo 6 • Il quale

4. Plu t., Demetr . 42, 1.


5. Athen. V"I 255c (cfr. 254a).
6. Democh., FGrH ist/BNJ 7 5 F 1/8, in Athen. VI 2536; XIII 57 7c (cfr. Macon FF 12-
13 Gow).
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

poi continua a disquisire sulle etere riportando un lungo passo degli Aned­
doti di Macone, vissuto probabilmente all'epoca dei primi due Tolemei. Il
che ci permette di affermare che Demetrio era personaggio su cui si rumo­
reggiò per lungo tempo, anche dopo la sua morte ad Apamea nel 283, e le
sue gesta, pure quelle antifrastiche al comune sentire, venivano additate ad
esempio o erano oggetto di divertita e piccante ironia.
Nel luogo il poeta si dilunga sulle doti geometrico-amatorie di Leena,
degna anticipatrice del Kamasutra ( <<una certa figura sapeva fare>> ) e della
stessa Lamia, che ripiegava invece su pose forse più convenzionali ma non
meno redditizie ( <<un dì con gran sapienza al re stava in arcione>> ). Scio­
rina poi aneddoti e facezie di grana alquanto grossa di cui si sarebbe reso
responsabile il condottiero nei confronti della stessa Lamia (oggetto dei
lazzi reciproci era l'olezzo proveniente dalle parti intime del Poliorcete, co­
me viene precisato maliziosamente). Non si può comunque chiedere a un
generale di essere anche un fine battutista, come ben sapeva Cleopatra VII ,
alle prese con il rude Marco Antonio e il suo umorismo da caserma.
Gli stessi personaggi femminili figurano anche nella biografia di Plu­
tarco, che aggiunge altri nomi di cortigiane (Criside, Anticira, Demò). Di­
versi i toni che si alternano nel corso delle pagine, e tra questi anche quelli
umoristici, a proposito di aneddoti più o meno salaci o piccanti dai contor­
ni storici malcerti (Wheatley, 2004) . Il primo di questi, che generalmen­
te si ascrive a Duride di Samo, riguarda Cratesipoli, chiaro nome parlante
("Prendicittà"), già moglie di Alessandro figlio di Poliperconte, personag­
gio lodato per le sue qualità di benefattrice, l'intelligenza e il coraggio da
Diodoro, sulla scorta di Ieronimo di Cardia, storico legato alla famiglia
degli Antigonidi7, e di cui viene magnificata la bellezza dal biografo. Co­
stei era pronta ad avere un proficuo téte a téte con Demetrio a Patre. Se si
considera che Demetrio all'epoca si trovava a Megara, circa 15 0 km ad est,
doveva essere davvero un richiamo degno delle Sirene, a meno di pensare,
più semplicemente, che il figlio di Antigono fosse a pochi chilometri di di­
stanza (e dunque bisognerebbe leggere Paghe invece di Patre). Incontro che
non passò inosservato ad alcuni avversari, legati al nemico giurato: Cassan­
dra, figlio di Antipatro e signore di Macedonia. Non sappiamo purtroppo
nulla del prosieguo, ma il finale è davvero degno di una pochade: Deme­
trio, spaventato dall'imminente pericolo, scappò ricoperto di un semplice
mantello, evitando la più vergognosa delle catture8 • Come si suol dire, il re

7. Diod. XIX 6 7, 1 - 2.
8. Plut., Demetr. 9, 5- 7.
6. SEDUTO A CAVALCIONI DE L MONDO A BITATO

è nudo (o quasi). Questa fuga repentina piacque a Kavafis, che nel suo Il re
Demetrio se ne ricordò, mescolando però i dati della storia e riferendola alla
ritirata del sovrano nel 287, di fronte alle truppe di Pirro:

Quando l 'abbandonarono i Macedoni


mostrando chiaro d 'anteporgli Pirro,
il re Demetrio ( era uomo di grande
animo) non si comportò da re -
così almeno si disse [ . . . ]
D 'umili panni, frettolosamente,
si rivestì, fuggì. Come un attore,
non appena finito lo spettacolo,
si cangia di vestito e se ne va9 •

Venendo più propriamente alle cortigiane che allietarono il soggiorno ate­


niese del figlio di Antigono, tra tutte è Lamia colei che ebbe maggiore spa­
zio, e che Plutarco definisce ormai sfiorita ma ancora concupita da De­
metrio. Il che suscitò la reazione stizzita di Mania (che in realtà si sarebbe
chiamata Demò). Una cortigiana abile, anche nel rapporto con gli Atenie­
si. Lamia era infatti tanto abile da raccogliere fondi e allestire uno sfarzo­
so banchetto: di qui il soprannome, affibbiato da un comico, di Helepolis
("prendicittà"), in chiaro pendant con il soprannome Poliorcete del figlio
di Antigono10 •

Soffici letti, dure battaglie. Demetrio era sovrano che sapeva perfetta­
mente scindere l'ambito erotico da quello bellico, e quando bisognava com­
battere non vi era Sirena che tenesse, giovane o attempata che fosse. Anzi,
durante le guerre egli era sobrio proprio come chi è temperante per naturaII .
Plutarco ricorda inoltre che dileggiava chi chiamava re chiunque altro
tranne lui stesso e il padre Antigono: una caratteristica condivisa anche dal
figlio Antigono Gonata, pronto a canzonare l'avventatezza in battaglia del
suo antagonista Pirro, pur riconoscendone il valore1 2 •

Durante i conviti i cortigiani di Demetrio, per compiacerlo, brindava­


no così a lui come re, a Seleuco comandante degli elefanti, Tolemeo ammi­
raglio, a Lisimaco tesoriere, ad Agatocle nesiarco (ovvero signore delle iso­
le, con riferimento alla Sicilia), deridendo cariche e peculiarità degli avver-

9. LI. 1-5, 8-1 1 (trad. it. F. M. Pantani) .


10. Plut., Demetr . 27, 4 e 9-10.
1 1. Plut., Demetr . 19, 5.
12. Plut., Phyr r . 8, 4; cfr. 26, 1-2.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

sari, sempre secondo il racconto di Plutarco1 3 • Battute inoffensive per i più


tranne per Lisimaco, che, in virtù della qualifica affibbiatagli di tesoriere,
si riteneva considerato alla stessa stregua di un eunuco (categoria deputata
all'amministrazione regia). Di qui la sua reazione contro Lamia. Secondo
la velenosa lingua del figlio di Antigono Monoftalmo, costei era comunque
più casta della Penelope di Lisimaco, con chiaro riferimento alla lagide Ar­
sinoe I I (allora moglie del diadoco). Tutto il luogo si ritrova anche in Ate­
neo, che attinge a Filarco, in cui si ribadisce la salacità di Demetrio:

Le battute piacevano anche a Demetrio Poliorcete, come scrive Filarco nel \'I libro
delle Storie. Demetrio diceva tra l'altro che la corte di Lisimaco non era per niente
diversa da una scena di commedia, perché tutti i personaggi che vi comparivano
avevano nomi di due sillabe ; intendeva con questo prendere in giro Biti e Pari­
de [ in greco Paris ] , che erano tenuti in gran conto da Lisimaco, ed altri amici di
costui. Invece la sua corte era frequentata dai vari Peucesta, Menelao, e persino
Ossitemide. Venuto a conoscenza della battuta, Lisimaco ribatté : << Da parte mia
non ho mai visto una puttana comparire su una scena di tragedia >> , alludendo a
Lamia, la nota suonatrice d ' aulos. Quando gli fu riferita la frecciata, a sua volta
Demetrio replicò : << Ma la puttana che sta a casa mia fa una vita più onesta che la
sua Penelope >> 1 4 •

Secondo questa descrizione a tinte forti, il re, che come si è detto era peren­
nemente sulla scena, si circondava dunque di personaggi con nomi altiso­
nanti propri della Tragedia (Peucesta, Menelao, Ossitemide), a differenza
degli amici di Lisimaco, che avevano invece nomi bisillabici, proprio come
di norma usano i servi. Pesante l'ironia nei confronti di Arsinoe I I, alla qua­
le molto si può imputare (come avvenne, successivamente, in occasione del
matrimonio in terze nozze con il fratello germano Tolemeo 11) ma che all'e­
poca doveva essere di specchiata moralità. Casomai ombre possono essere
gettate sul suo rapporto con il figlio di primo letto di Lisimaco, Agatocle.
Si profila dunque uno scambio acceso di battute tra Demetrio e Lisi­
maco, con allusioni che riguardavano la sfera sessuale, la corte e forse anche
quello che costituisce un Leitmotiv del buon re ellenistico (la capacità di
essere un sovrano in armi, pronto a difendere e a conquistare nuovi territori
con la sua lancia: principio della doriktetos chora ). Il figlio di Antigono si è
ritagliato uno spazio importante nella tradizione e rivitalizzazione dell'an-

13. Plut., Demetr. 25, 7-9.


14. Phylarch., FGrHist/BNJ 81 F 12; cfr. F 31, in Athen. XIV" 614e-615a; cfr. Athen. V"I
261b.
6 . SEDUTO A CAVALCIONI DE L MONDO A BITATO

tico. Le sue macchine da assedio, ammirate anche dai contemporanei (tra


i quali anche il rivale Lisimaco), continuarono infatti ad avere grande for­
tuna in età rinascimentale, anche dopo l'invenzione della bombarda (che
ebbe un effetto dirompente sulle tecniche di poliorcetica).
Proprio Poliorcete, il soprannome con cui Demetrio è noto, si presta,
o si presterebbe a possibili, maliziose interpretazioni. Secondo una sedu­
cente ipotesi, tale appellativo sarebbe stato assegnato per scherno (Heckel,
19 84 ). Il verbo poliorkeo, a differenza di ekpoliorkeo, indica infatti solo l'atto
di assediare, senza implicare necessariamente l'avvenuta conquista. Lisima­
co avrebbe dunque ironizzato sulla fama immeritata del rivale: un assedia­
tore provetto e consumato, che però non sempre arrivava al dunque. Del
resto, i rovesci e gli insuccessi di Demetrio (battaglia di Gaza del 3 12, asse­
dio di Rodi del 3 0 5 - 3 04 , lo stesso scontro di Ipso del 3 0 1) sono pari se non
superiori alle sue vittorie sul campo.
7
Il re e il politico " buffone"

Vi sono politici che vivono solo in funzione di sovrani potenti, tanto più in
età ellenistica. Antigono Monoftalmo e Demetrio Poliorcete furono tra i
primi a circondarsi di una serie di philoi, termine da intendersi in senso per­
sonale e, progressivamente, tecnico (secondo una scala gerarchica nella tito­
latura aulica che verrà ampliata e ramificata sotto i Tolemei e i Seleucidi, per
diffondersi anche in altre dinastie). Tutti o quasi persone degnissime, se non
addirittura figure rilevanti in patria. A cominciare da Adimanto di Lampsa­
co: uno degli uomini più famosi della sua città, insieme al logografo Carone,
allo storico e retore Anassimene, al filosofo epicureo Metrodoro. Tanto illu­
stre che gli venne affidata una delle tre copie del testamento del peripatetico
Teofrasto1 Eppure lui, come diversi altri personaggi ( Ossitemide, Burico,

Aristodemo di Mileto), è qualificato senza mezzi termini dalle fonti come


un semplice adulatore, relegato all'ambito della cortigianeria avvilente e pe­
sante da sopportare. Adulatori che erano considerati come satelliti attorno
al loro sole, e nella scala di valori della nuova religione politica che si sta for­
mando in età ellenistica, vennero venerati talora come degli eroi, mentre a
lui, al sovrano, spettavano di diritto onori divini, cosa che ad Atene suscitava
lo sdegno dei democratici più moderati, legati ai vecchi ideali di Demoste­
ne, come il nipote Democare del demo di Leuconoe.
Anche l'ateniese Stratocle, del demo di Diomeia, era a tutti gli effetti
un amico dei sovrani, in particolare di Demetrio Poliorcete, e per questo
viene qualificato sempre e solo come un kolax, secondo l'insistita critica a
lui mossa dal suo grande accusatore, Plutarco, nella Vita di Demetrio, che tra
l'altro non esita a paragonarlo al Cleone di aristofanesca memoria. L'auto­
re di Cheronea ha, notoriamente, un'idiosincrasia congenita nei confronti
dell'adulazione e, per quanto persona mitissima ed equilibratissima, si tra­
sforma in un vero e proprio Torquemada nei confronti di chi si spinge trop-

1. Strabo XI I I 1, 1 9 ; Diog. Laert. v· 57.

66
7. IL RE E IL P OLITICO .. B U F FONE

po in là nell'omaggio ai potenti. Dedica a questo vizio anche un apposito


trattato, Come distinguere l 'adulatore dall 'amico (titolo che dice tutto e di
più). Gli studiosi moderni, influenzati dall'assunto plutarcheo, non hanno
pertanto lesinato critiche all'operato di Stratocle, in una sorta di misunder­
standing collettivo. Poche le eccezioni (Muccioli, 2008 ; Bayliss 2011 ) , che
hanno messo in luce invece il suo ruolo e la sua abilità politica nel periodo
tra il 307 e il 301, dopo la liberazione dal regime di Demetrio del Falera, gra­
zie all'arrivo di Demetrio Poliorcete.
Stratocle fece il suo ingresso nella vita politica, per quanto ne sappia­
mo, come accusatore di Demostene nel processo arpalico (Arpalo era il
tesoriere di Alessandro che corruppe diversi politici ateniesi nel 324) ; in
quell'occasione dimostrò abili doti oratorie e capacità di giocare con le fi­
gure retoriche ampiamente apprezzate anche dai posteri Subito dopo lo si
2
.

ritrova negli anni caldissimi della guerra lamiaca (in cui i Greci si opposero
ai diadochi subito dopo la morte di Alessandro Magno), presumibilmente
schierato sulle posizioni di Iperide. Quando la flotta ateniese perse la deci­
siva battaglia ad Amorgo nel 322 ad opera di Clito, egli anticipò i messag­
geri, attraversando a cavallo il Ceramico con il capo incoronato e propa­
lando una notizia diametralmente opposta alla realtà: annunciò la vittoria
proponendo sacrifici e facendo una distribuzione di carne per tribù. Carne
quanto mai indigesta, visto che ben presto la verità venne a galla, con la
sconfitta ateniese. Ma anche in quel frangente emersero le qualità di retore
di Stratocle, in grado di far fronte al popolo in preda all'ira3 •
Poi divenne un fantasma, nella vita politica ateniese e nel verticoso suc­
cedersi degli eventi e dei cambiamenti costituzionali tra il 322/321 e il 307.
Figura infatti tangibilmente solo con la democrazia instaurata grazie all'in­
tervento manu militari di Demetrio Poliorcete, con l'allontanamento di
Demetrio del Falera nel giugno del 307. Un governo considerato per lo più
solo come un regime fantoccio, manovrato dagli Antigonidi e di cui Stra­
tocle era il più chiassoso corifeo. A torto, almeno in parte.
A favore del personaggio parlano i fatti, vale a dire le iscrizioni, integre
o mutile che siano. Infatti nel periodo tra il 307 e il 301 egli fu il proponen­
te di un numero spropositato di decreti presso l'assemblea ateniese, integri
o mutili, come mai nessun altro nella politica ateniese e, oseremmo dire,
nella storia di altri regimi democratici. Una capacità di indirizzare, se non
di "addomesticare" il demos quasi superiore a quella di Pericle, o di altri po-

2. Phot., Bibl. 447a, pp. 1 5 0 - 1 Henry.


3. Plut., Demetr . 1 1, 4-5 .
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

litici di IV secolo, a cominciare da Demostene. Di fronte a un Focione che


non rideva e non piangeva mai4 e a una classe dirigente che spesso lasciava
freddo il suo uditorio, Stratocle invece riusciva puntualmente a convincere
i suoi concittadini, anche ricorrendo ad argomentazioni ad effetto.
Egli non era solo o soltanto un politico legato a filo doppio a Demetrio
Poliorcete, colui che sollecitava e faceva accettare onori di ogni tipo per gli
Antigonidi, in particolare quelli divini (anche se la poco invidiabile palma
delle concessioni più servili non spetta a lui, bensì a Dromoclide di Sfetto) 5 •
Anzi, fin da subito orchestrò temi della politica e della propaganda, muo­
vendo corde care alla sensibilità politica ateniese. Temi che rinverdivano il
passato ateniese, pur sempre sotto l'egida e l'occhiuto controllo di Deme­
trio. Così egli già nel 307 /306 fece decretare onori postumi per Licurgo, il
politico e oratore che governò Atene tra il 336 e il 324, alterando la storia e
facendone un patriota oppresso dal tiranno Alessandro Magno6 •
Nello stesso anno Democare di Leuconoe, che condivise obtorto collo
per qualche anno il potere con lui, fce ricostruire le Lunghe mura ad Atene,
il che richiamava senz'altro la grandeur di v secolo (Temistocle, Cimane)
e la ripresa di IV secolo sotto Conone7• Il nipote di Demostene si oppose
poi invano al tentativo di abolire la legge di Sofocle, che mirava a proibire
l'introduzione delle scuole filosofiche ad Atene senza il controllo dell'as­
semblea (chiara manovra contro l'Accademia e, soprattutto, il Peripato che
aveva visto il potere decennale di Demetrio del Falera).
Ma forse c'è di più. Cicerone, nel par. 42 del Bruto, confronta le sorti
parallele di Temistocle e di Coriolano e il loro suicidio, ricordando le in­
venzioni sia di Clitarco sia di Stratocle riguardo all'Ateniese. Chiaro ri­
ferimento alla sua buena muerte, bevendo sangue di toro. Una morte che
sarebbe stata cercata per evitare di combattere contro la madrepatria ate­
niese, in base a una vulgata rigettata vanamente da Tucidide (che più pro-
saicamente e banalmente sosteneva la tesi di una malattia)8 • E possibile che
proprio Stratocle abbia contribuito in modo sostanziale a far erigere a Tre­
zene una copia epigrafica del cosiddetto decreto di Temistocle, che circo­
lava già da decenni ad Atene (documento in chiaro contrasto con la testi­
monianza erodotea sugli avvenimenti prima della battaglia di Salamina del
480: evacuazione degli Ateniesi prima dello scontro dell'Artemisia tramite

4. Plu t., Phoc. 4.


5. Plut., Demetr . 13.
6. IG I I 2 457 + 3207; cfr. [Plut.] , x orat. vitae 852a ss.
7. IG II 2 463.
8. Thucyd. I 138, 4.

68
7. IL RE E IL P OLITICO .. B U F FONE

un decreto proposto all'assemblea - psephisma - dall'uomo politico, non


poco prima della battaglia attraverso un semplice kerygma, ovvero un pro­
clama, come nello storico di Alicarnasso). Dunque una datazione diversa
dalla guerra lamiaca e dalla guerra cremonidea (negli anni Sessanta del III
secolo, ai tempi della guerra cremonidea), come pensano i più. La località
non è casuale, visto che colà si rifugiarono donne e bambini nei giorni cupi
della seconda guerra persiana. Tale riscrittura epigrafica sarebbe stata utile
per rinsaldare i rapporti tra Atene e Trezene nel quadro dell'alleanza panel­
lenica creata a Corinto nel 3 0 2 / 3 0 1 da Demetrio Poliorcete (con l'appog­
gio del padre, Antigono Monoftalmo). Ogni epoca riscrive la storia, con
adattamenti. E Temistocle non sfuggì a tale regola, tanto che la sua figura
era ormai cristallizzata se non trasfigurata nel IV secolo. Addirittura, da
scaltro politico e abile stratega navale qual era, lo si trasformò fino a farlo
diventare uno dei legislatori di Atene. In questo inedito ruolo, dunque, era
pressoché pari a Solone e a Pericle, nel giudizio di Lisia9 •
Pur avendo dalla sua costantemente la maggioranza dei cittadini, an­
che Stratocle era soggetto alle critiche, come ogni politico che si rispetti. Se
egli poté costringere all'esilio nella primavera del 3 0 3 il leader dei suoi op­
positori, Democare, schierato su posizioni democratiche ma non smaccata­
mente filoantigonidi, nel rispetto della tradizione religiosa, più difficile era
arginare la satira feroce della Commedia e della poesia parodica, particolar-
mente attiva in quel periodo. E in parte da sfatare il luogo comune secondo
cui la Commedia nuova è del tutto aliena dalla satira politica. Poeti comici
come Menandro, Difilo, Filemone e Apollodoro non mancarono infatti di
parodiare o lanciare strali contro i contemporanei. Durante il periodo in
cui Stratocle fu leader di Atene, uno dei suoi principali avversari era il poeta
Filippide di Cefale, il quale si divertiva a bersagliarlo nelle sue commedie e
probabilmente a farne anche uno dei protagonisti sulla scena. Sempre Plu­
tarco riporta alcuni suoi versi:

Per colpa sua il gelo ha bruciato i vigneti,


per la sua empietà il peplo si è squarciato a metà,
perché trasforma in umani gli onori divini.
E questo ciò che distrugge la democrazia, non la Commedia10 •

Nel passo si allude, tra l'altro, alle immagini di Antigono e Demetrio rica­
mate insieme a quelle delle divinità, per volontà di Stratocle, nel peplo che

9 . Lys. xxx 28.


10. Philipp. Com. F 2 5 Kassel-Austin, in Plut., Demetr . 12, 6; cfr. Demetr. 26.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

veniva mostrato ad Atene durante la festa delle Panatenee; peplo che ap­
punto era stato lacerato a metà da un turbine durante la processione 11 L'e­ •

spressione <<distrugge la democrazia>> (demos nel testo), qui in rapporto al


culto divino per gli Antigonidi, è ben attestata e probabilmente aveva origi­
ni antiche, già con i legislatori ateniesi di VI I-VI secolo (Dracone e Solone),
preoccupati appunto di difendere il demos da possibili tirannidi ( Ostwald,
1 9 5 5 ) . Tra fine IV e inizi I I I secolo era un Leitmotiv di quei moderati che
disapprovavano la democrazia radicale, animata da Stratocle, tanto che fu
riaffermata nel decreto per il poeta Filippide nel 2 83/282. Anche nel decre­
to in onore di Democare del 271 /270 si afferma che egli affrontò l'esilio per
il bene della democrazia1 2 •

La ricerca della vera democrazia divenne così la ricerca del sacro Graal,
animando la passione politica di molti personaggi e le loro vicende perso­
nali e pubbliche, e si ritrovò poi anche in Callia di Sfetto, protagonista ad
Atene di qualche anno più tardi, quando la città era in sospeso tra nuove
forme di tirannide (Lacare) e ritorni di fiamma con Demetrio Poliorcete.
Filippide, come molti altri prima di lui, (tra i quali, come si è visto,
Iperide nel suo Epitaflo per i caduti nella guerra lamiaca), non si accorgeva
però che i tempi, come cantava Dylan, stavano cambiando. E che dunque
nelle dinamiche tra sovrano e città la concessione di onori divini, per cui
Stratocle era così pesantemente vituperato, era ormai una delle carte a cui
l ' élite o la democrazia civica doveva ricorrere, per ottenere o mantenere
buoni rapporti con i re emergenti.
Lo stesso Filippide, pronto a stigmatizzare le concessioni di Stratocle
nei confronti di Demetrio, non era certo una verginella pudica e inesper­
ta di come va il mondo, anche se viene ritenuto personaggio lontano dalla
petulanza e dalla vile cortigianeria sempre da Plutarco. Il biografo si di­
verte infatti a contrapporre l'uomo della tribuna (Stratocle) all'uomo del
palcoscenico (appunto Filippide). Quest'ultimo era legato a Lisimaco e,
precisa sempre doviziosamente Plutarco, <<grazie a lui gli Ateniesi ricevet­
tero molti benefici dal re>> a cui fece séguito, come contraccambio, una
corona d'oro conferita al sovrano. Apice del successo di Filippide, non nel
teatro di Dioniso ma nell'assemblea della Pnice, è il decreto in suo onore
del 283/ 282 1 3 •

1 1. Plut., Demetr. 10, 5 ; 12, 3 (e 5 per l'azione distruttiva del gelo) ; Diod. xx 46, 2.
12. Rispettivamente, IG 11 3 1, 8 7 7, IL 48-50 e [Pluc.], x orat. vitae 851f.
13. JG 11 3 I , 8 77.

70
7. IL RE E IL P OLITICO .. B U F FONE

Non vi era comunque solo costui a criticare Stratocle. Accanto al com­


mediografo va menzionato il poeta gastronomico Matrone di Pitane (in
Misia), che scrisse versi intinti nella parodia, pur nell'oscurità di molte sue
allusioni, nell'opera Un banchetto attico, ampiamente citata nei Deipnoso-
flsti di Ateneo:

Ma quando vidi Stratocle, il forte che ispira spavento,


tenere fra le mani la testa della triglia domatrice di cavalli,
di nuovo l'afferrai con ardore e lacerai la sua insaziabile gola 1 4 •

Un passo intriso di allusioni omeriche, come nella migliore tradizione pa­


rodica: il forte che ispira spavento, in realtà riferito a lupi e leoni; la testa
della triglia domatrice di cavalli che propriamente era quella di Ettore 1 5 •
Il riferimento al pesce può essere un'allusione a un aneddoto riferito da
Plutarco e di ampia diffusione nella pettegola Atene del periodo e forse di
matrice comica: Stratocle rispose all'amante Filacio che gli aveva comprato
per cena cervella e colli, che lui e gli altri politici con le teste giocavano a
palla 16 • Quasi una riproposizione in scala di altri politici capaci di manovra­
re le masse, ad Atene come in altre città greche.
Comunque sia, Matrone prosegue, sempre sul solco delle citazioni ome­
riche:

Entrarono poi le puttane, due ragazze capaci di far meraviglie [thaumatopoioi] ,


che Stratocle guidava, rapide come gli uccelli.

<<Rapide come uccelli>> ricorda l'Iliade (11 764), ma qui non si tratta come
nel poema omerico delle cavalle di Eumelo, le migliori dell'esercito acheo.
A sgombrare ogni dubbio, oltre al sostantivo, è il doppio senso dell'aggetti­
vo thaumatopoioi, generalmente e più innocentemente usato per i giochi di
prestigio con cui si allietavano i banchetti. La sfera sessuale, come si è ripe­
tutamente visto, è campo prediletto per la parodia. E anche Stratocle non
era esente da pesanti allusioni, oltre alle sue preferenze per le giocolerie (si
presume sessuali) di abili fanciulle. Del resto, un uomo di potere e di suc­
cesso è più facile alle lusinghe femminili. Le fonti antiche, evidentemente
imbeccate dalla pubblicistica coeva (Filippide, ancora lui !), si dilungano
sull'etera Filacio, con cui Stratocle conviveva. Un'etera che non sfuggì ai

14. Athen. Iv· 135b-c, 137 c, qui citati (cfr. Suppi. Hell. 534, pp. 259-66).
15. Od. X 218; Il. XXIV" 724.
16. Plut., Demetr. 11, 3.

71
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

soprannomi della Commedia, visto che è nota, con ogni probabilità, come
"Mal d'occhi" o "Abbaglio", e ad altre pungenti insinuazioni. L'informa­
tissimo Gorgia (11 secolo) nel suo scritto intitolato Sulle etere precisa che
costei si concedeva al primo venuto, per la modica cifra di due dracme 1 7•
Come nella Repubblica di Salò, in cui il Consiglio dei ministri continuò
a disquisire fino al 21 aprile del 194 5, con gli Alleati che bussavano già alle
porte, anche Stratocle era attivo ancora nell'estate del 301, sempre pronto a
indirizzare e a manipolare l'assemblea, magari in modo più cauto e in attesa
degli eventi, come dimostra la documentazione epigrafica di quel periodo.
L'ultimo atto ufficiale a lui attribuibile è /G 11 2 640, un decreto mutilo, pre­
sentato circa un mese dopo la battaglia di Ipso in Frigia (agosto 301).
Dopo quello scontro decisivo, esiziale per gli Antigonidi, Atene fu co­
stretta a cercarsi nuovi patroni politici e dunque a scendere a patti con quelli
che fino a poco prima erano odiati nemici, come Cassandra. E così in IG 11 3
1, 844, del 299/298, si decise di onorare un certo Posidippo, che aveva parte­
cipato a una (inutile dirlo, delicata) ambasceria presso il figlio di Antipatro.
La città non poté comunque sottrarsi a pericolose derive autoritarie, come
quella di Lacare (ca. 299-295), avversato ferocemente da Pausania, e da lui
considerato il tiranno più crudele nei confronti degli uomini e il più empio
verso gli dèi 1 8 •
Ma la vita è una ruota che gira, spesso vorticosamente, ed emersero ben
presto nuovi politici, come Olimpiodoro (esaltato in modo quasi imbaraz­
zante dallo stesso Pausania, e puntualmente ignorato invece dalle altre fonti
letterarie). Quando Atene si liberò della tirannide e Demetrio recuperò po­
sizioni, diventando, finalmente, re di Macedonia (294), ecco che riaffiorò
dal suo cono d'ombra Stratocle, quasi chiamato a un'ultima recita sul pro­
scenio dell'assemblea ateniese, dopo anni di forzato silenzio. Lo vediamo
infatti artefice di un decreto del 293/292, in onore di Filippide di Peania
(solo omonimo del precedente Filippide), benemerito nei confronti degli
Ateniesi così come lo era stato il padre1 9 • Un moderato, a quanto sembra, e,
ironia della sorte, legato a Cassandra: era, infatti, proprio colui che qualche
anno prima aveva proposto di onorare Posidippo.

1 7. Philipp. Com. FF 26, 41 Kassel-Austin; Plut., Amat. 7 5of ( il primo frammento);


Demetr . 1 1, 3; Gorg.,FGrH ist/BNJ 351 F 1, in Athen. XIII 596f.
18. Paus. I 25, 7.
1 9. /G 11 3 I, 857.

72
8
La piuma di Agatocle

La Sicilia è terra di eccessi, nell'antichità come nelle epoche successive. Iso­


la di tiranni e di esperimenti democratici falliti miseramente, dove alber­
gavano efferate crudeltà e idealistici slanci pieni di utopie. E Agatocle ben
rappresenta tutto ciò, degno erede di Falaride, tiranno di Agrigento (prima
metà del VI secolo) e dei Dionisi: dapprima stratega plenipotenziario di Si­
racusa (strategos autokrator), come appunto i Dionisi prima di lui, e poi re
tra il 305 /304 ca. e il 289.
Come e forse più dei suoi predecessori, egli fu un uomo in grado di di­
videre i contemporanei, ma anche i posteri: Polibio, che pure lo ritiene il
più empio di tutti gli uomini, al tempo stesso riconosce le sue grandi qua­
lità, considerandolo l'unico in grado di reggere il confronto con Dionisio
I 1 Pertanto, se è vero che Agatocle poteva contare su una pubblicistica a

lui favorevole, d'altro canto molti erano i suoi detrattori, affezionati ad al­
tri modelli di potere monocratico, come Timeo di Tauromenio e Duride di
Samo (pressoché suoi contemporanei, se non coetanei).
T imeo in particolare era il nemico per eccellenza, per motivi politici e
personali. Agli occhi di Polibio (che ormai guardava, pur con qualche di­
stinguo, a Roma come modello politico per eccellenza), egli aveva molte
colpe, tra cui quella di esaltare eccessivamente il corinzio T imoleonte, che
dopo oscure vicende in patria (forse l'uccisione del fratello Timofane, aspi­
rante tiranno) si riscattò divenendo il liberatore della Sicilia. Lodi sperti­
cate per un personaggio che, obiettivamente, ha un posto nella storia assai
piccolo (nonostante le sue vicende corinzie siano state immortalate anche
da Vittorio Alfieri in un'apposita tragedia).
Comunque sia, T imeo vide in lui il degno erede del suo dinasta predi­
letto, il dinomenide Gelone, il vincitore (insieme a Terone) della battaglia
di !mera nel 4 8 0 contro i Cartaginesi (l'equivalente, agli occhi dei Greci

1. Polyb. xv· 35, 3-4.


LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

occidentali, degli scontri nella seconda guerra persiana). Un uomo dotato


di qualità militari e morali e baciato, è proprio il caso di dirlo, dalla Fortu­
na (alla quale continuamente si appellava durante la sua impresa). Capace
di sbaragliare gli avversari, greci o barbari senza differenza e soluzione di
continuità (Dionisio II e i Cartaginesi), e di ripopolare la Sicilia dopo le
devastazioni imposte dai tiranni (anche se questo assunto corrisponde più
a un mito storiografico che a realtà storica, smentito ormai in buona misu­
ra dalla ricerca archeologica). Il Corinzio conosceva il senso della misura,
e per questo era particolarmente apprezzato in un'epoca votata agli ecces­
si, com'è quella tardoclassica ed ellenistica. Terminato il suo compito nel
fatidico 336 (anno della morte di Filippo I I e della successione di Alessan­
dro Magno), abbandonò la vita politica ritirandosi a dignitosa vita privata.
Morì di lì a poco quasi cieco, ma comunque omaggiato post mortem dai Si­
racusani (e non) come un nuovo fondatore della città, con l'istituzione di
giochi musicali, ginnici ed equestri.
Se dunque T imoleonte incarnava il buon governante, per T imeo la sua
antitesi era costituita da Agatocle. Come molti Greci, dall'età arcaica in
poi, lo scrittore di Tauromenio conobbe la dura via dell'esilio e sperimentò
come sa di sale lo pane altrui. Agatocle, infatti, lo costrinse per motivi po­
litici a una lontananza che poi si rivelò lunghissima, un esilio almeno cin­
quantennale. Consumato, per quanto ne sappiamo, tutto ad Atene tra il IV
e III secolo: una stagione di lunghi coltelli, come si è visto, di cui T imeo,
come altri letterati, era spettatore attento e oltremodo critico. Un siceliota
lontano dalla sua terra d'origine diventa nostalgico oltre modo e il Tau­
romenita, nel pieno rispetto di questa regola, era tutto proteso a esaltare
l'Occidente greco, pieno di sapienza e di valori antichi. Un esilio termina­
to con il ritorno nella beneamata Sicilia, quando questa aveva già visto le
scorrerie di Pirro.
Gli anni ateniesi della cattività, a quanto si desume, furono dunque pie­
ni di rancore e di livore contro tutto e tutti: T imeo è, per definizione degli
antichi, Epitimaios ("diffamatore", per riprendere un gioco di parole caro
agli antichi), con un esercizio della libertà di parola che spicca in un'epoca
adusa ali'adulazione più sfrenata. Tra tutte le vittime, il bersaglio prediletto
era senza ombra di dubbio Agatocle.
T imeo eccedeva per la sua innata acidità, come sottolinea Polibio. Fe­
ce di Agatocle un pubblico prostituto, aduso a pratiche malsane fin dalla
prima giovinezza, un depravato incline ai comportamenti più lascivi, una
cornacchia. Insomma, per usare un'immagine che più diretta non si può,
Agatocle era <<pronto a offrire le terga a chiunque lo volesse>> . Un concetto

74
8 . LA P IUMA DI AGATOCLE

che si ritrova ampliato in Giustino, arricchito di altri particolari non pro­


priamente edificanti o avvolti nella pudicizia2 •

Polibio ci lascia intendere che Timeo non era il solo a usare una satira
corrosiva nei confronti di Agatocle. Parallela, o forse addirittura preceden­
te, vi era la stessa tradizione comica che non esitava a dileggiare Stratocle,
Democare e Demetrio Falereo. Spicca il peraltro oscuro poeta siracusano
Beoto, anch'egli espulso dalla sua città dalla ferocia di Agatocle e autore di
satire assai indigeste al dinasta.
Ne risulta un ritratto tutt'altro che edificante, tanto nell'incipit quan­
to nell'explicit. Un ritratto in sospeso tra demonio e santità, che lascia per­
plessi gli antichi e ancor più i moderni. Agatocle era infatti uomo capace di
giocare con le parole e con i giuramenti, come molti prima di lui, non solo
tiranni (per tutti, Lisandro di Sparta, il vero vincitore della guerra del Pelo­
ponneso). Diodoro scrive che Agatocle <<disprezzò sempre i giuramenti e
la parola data, trasse la propria forza non dall'esercito che lo accompagna­
va, ma dalla debolezza dei sudditi>> 3 • Rifondò Segesta, punendone gli abi­
tanti e denominandola Diceopoli (città della giustizia) in cui il riferimento
alla dike è stato inteso dagli antichi, forse a torto, in senso negativo 4 , lad­
dove invece taluni moderni riconoscono al dinasta una vera volontà rifor­
matrice in linea con pratiche di quel periodo (cfr. De Vido, 2015 , p. 172 ) .
In tale contesto non manca neppure il coup de thédtre finale, forse uno
dei più intriganti nel panorama della regalità ellenistica, descritto sempre
da Diodoro5 • Agatocle, dopo aver consumato i pasti, era solito pulirsi i
denti per mezzo di una piuma: capitò così che, dopo aver bevuto, egli ri­
chiedesse lo strumento allo schiavo Menane che, dopo averlo intriso con
una soluzione mortale, glielo riconsegnò.
Il veleno è una costante nell'età ellenistica, dalla morte di Alessandro
(ucciso con veleno raccolto nello zoccolo di una mula, secondo una diffusa
tradizione antica) fino ad Attalo I I I, Mitridate VI, Cleopatra Thea e Cleo­
patra VII, e anche in questo caso assolse egregiamente al proprio compito.
Agatocle, incurante del pericolo e distratto dall'accaduto, si servì con
troppa foga della piuma fatale. Inevitabile l'avvelenamento determinato
dal contatto dell'improprio spazzolino imbevuto di siero. La morte del so­
vrano avvenne così con un crescendo parossistico, degno di un film di Peter

2. Tim., FGrHist/BNJ 566 F 124b, in Polyb. XI I 15 (cfr. FGrHist/BNJ 566 FF 124a,


c-d); lustin. XXII 1.
3. Diod. xx 89, 5.
4. Diod. xx 7 1, 5.
5. Diod. XXI 16.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Greenaway (su tutti, Il ventre dell 'architetto). Dapprima Agatocle avvertì


dolori incessanti che aumentavano ogni giorno di più. Questi si trasforma­
rono poi in ascessi dentali incurabili, allargatisi al punto da riguardare tutta
l'arcata dentale e provocare la cancrena.
Un trapasso descritto con minuzia e gusto per il particolare, quasi fosse
il report di un anatomopatologo, che deriva da una fonte interessata ad una
narrazione ad effetto (Duride di Samo è a riguardo un forte indiziato), e
che è in linea con il topos, ben consolidato, della morte del tiranno (Lura­
ghi, 19 9 7 ; Catenacci, 2012, pp. 19 6-206 ) .
Talora comunque la tradizione negativa si fonde con quella positiva.
Agatocle era figlio del reggino Carcino, ceramista esule a Terme, in Sicilia
(in realtà non un semplice operaio, ma un vero piccolo imprenditore, con
una sua bottega). Polibio ci presenta la figura di un working hero, capace di
fuggire la ruota, il fumo e l'argilla a diciotto anni e arrivare fino alla regalità.
Un sovrano che assunse il titolo regio per non sentirsi inferiore ai com­
pagni di Alessandro (soprattutto Antigono Monoftalmo e il figlio Deme­
trio Poliorcete, secondo un passo di Diodoro, discusso e forse impreciso
cronologicamente) 6 , anche se si rifiutò di indossare il diadema, simbolo di
regalità già nel mondo orientale e recepito da Alessandro e dai successori.
Preferì infatti coprirsi il capo con una corona di mirto7 : un segno di rispet­
to nei confronti delle dee venerande di Sicilia (Demetra e Kore), che la pro­
paganda avversa interpretò in modo ben diverso. Infatti Eliano, gran racco­
glitore di aneddoti, malignamente suggerisce che il motivo non era tanto
dettato da una insospettata forma di pudicizia e riverenza religiosa, quanto
da urgenze prettamente estetiche, legate alla non folta chioma del dinasta.
Il che è umanamente comprensibile e pure giustificabile, visto che l 'Elogio
della calvizie di Sinesio di Cirene era ancora di là da venire, vero libro del
capezzale atto a fornire conforto e sostegno morale ai calvi che si fanno un
cruccio della loro condizione.
Comunque sia, Agatocle e la sua pubblicistica seppero giocare abilmen­
te con questa supposta origine umile, ricamando sulla sua condizione di au­
tentico se/fmade man. Ribaltando le accuse e le facili ironie (e differenzian­
dosi così da alcuni diadochi, che cercavano in ogni modo di nobilitare un
pedigree spesso incerto), egli amava presentarsi al popolo come un sovrano
capace di avere e mettere le mani in pasta, concretamente e metaforicamen­
te. Eccolo, infatti, afferrare durante un banchetto una grande coppa d'oro,

6. Diod. xx 5 3, 3-54, 1.
7. Diod. xx 54, 1.
8 . LA P IUMA DI AGATOCLE

da lui finemente lavorata, e dichiarare di aver abbandonato l'attività di va­


saio solo dopo aver appreso al meglio le tecniche indispensabili a produrre
manufatti di gran pregio artistico8 • Un interessante riferimento al binomio
"Agatocle-arte della ceramica" si trova anche in un passo dei Deipnosofisti
nel quale Ateneo riferisce un detto riportato dal retore Cecilio di Calatte,
vissuto nell'età di Augusto. Nell'opera Sulla Storia questi racconta che <<il
tiranno Agatocle, mostrando agli amici delle coppe d'oro, dicesse che se le
era guadagnate a forza di fabbricare coppe di argilla>> 9 •
Agatocle era anche capace di parodiare i suoi avversari politici nelle
assemblee suscitando l'ilarità della folla, e di essere cordiale e benevolo nei
banchetti. Emerge qui un tratto tipico del rapporto tra sovrano e astanti
nei simposi: sollecitando la franchezza di parola nei suoi confronti, sotto
gli effetti del vino, Agatocle infatti capiva quanti erano avversi al suo regi­
me e li mandava a morte 10 •
I nomi della coeva tradizione filoagatoclea sono sostanzialmente due, il
fratello Antandro e soprattutto Callia. Già il fatto che Agatocle abbia avu­
to come storiografo di corte il fratello, Antandro, al quale peraltro vennero
assegnati incarichi importanti ma non la coreggenza, è indicativo. Tuttavia
né Diodoro né altre fonti si soffermano sulla faziosità di costui e già questo
costituisce un titolo di merito, per un personaggio che visse nell'ombra o
di luce riflessa, costretto dalla sorte e dal consanguineo a metterne nero su
bianco le gesta.
In realtà il vero e principale incriminato di diffondere una propagan­
da cortigiana a Siracusa e dintorni (base logistica del nostro sovrano) è
senz'altro Callia, autore di un'opera in ben ventidue libri incentrati sul di­
nasta occidentale. Diodoro, pur nella sua semplicità e talora ingenuità di
storico universale, ha pur sempre letto, ahilui !, tutti i libri, non sempre con
adeguato profitto. E quindi ha un'idea, sia pure talora vaga, della fazio­
sità dei suoi predecessori. Risaltano perciò ancora di più le sue parole di
condanna nei confronti di Callia, accolto da Agatocle e ricompensato con
grandi doni, che continuamente adula il suo datore di lavoro, falsificando
la storia, profetessa di verità1 1•

L'autore della Biblioteca storica, memore forse della lezione di Posido­


nio di Apamea, filosofo stoico di 11-1 secolo con importanti interessi sto-

8. Diod. xx 6 3, 4.
9. Caec. Calact., FGrHistlBNJ 1 83 F 2, in Achen. XI 466a.
10. Diod. xx 63, 2-3 e 6.
1 1 . Diod. XXI 1 7, 4.

77
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

rici, non transige di fronte a un crimine di lesa maestà: la storia è la vestale


vaticinante la verità e non si possono mistificare atti di empietà e di iniquità
a 3 6 0 ° , spacciandoli per imprese di eusebeia e philanthropia (pietà e umani­
tà). In altri termini, due concetti fondanti per il mondo greco, e tanto più
per la costruzione del dinasta ideale in età ellenistica, vengono completa­
mente stravolti. E dunque il buon Callia rientra di diritto nella schiera de­
gli storici perversamente impegnati, così tanto biasimati e vituperati dalla
tradizione più integerrima, non adusa a imbarazzanti (e peraltro talora ne­
cessari) compromessi. Per alcuni aspetti, Callia ricorda proprio la figura del
filotirannico Filisto, anche se non ne ha certo la statura di storico né, come
lui, è imitatore di Tucidide.
Sempre Diodoro, pur lanciando i suoi strali avvelenati contro Callia,
con una delle contraddizioni di cui è ineguagliabile maestro, recepisce an­
che la tradizione positiva (che si deve in buona misura allo stesso storico di
IV-I I I secolo), a proposito degli eventi riguardanti la nascita di Agatocle,
attribuendo un ruolo fondamentale alla madre. E lei che, in dolce attesa,
ebbe sogni inquietanti degni del miglior Edgar Allan Poe. Tanto inquie­
tanti che il marito, Carcino, decise di consultare l'oracolo delfico, grazie
ad alcuni pellegrini sacri (theoroi) cartaginesi. Ogni tanto anche la Pizia
coglie il vero, profetizzando grande sventura per Cartagine e il territorio
siciliano sotto il suo controllo, proprio per colpa di quell'esserino ancora
in fasce. Inevitabile l' expositio dell'inconsapevole infante. La salvezza ven­
ne da uno zio materno, che allevò il bambino fino a quando anche il cera­
mista fu messo al corrente della verità, con conseguente felice risoluzione e
trasferimento della famiglia a Siracusa, per timore di ritorsioni cartaginesi.
Quando si dice cuore di mamma ! La madre del futuro tiranno/re,
quando questi fu iscritto nelle liste dei cittadini di Siracusa, fece erigere
una statua del figlio in un recinto sacro, in cui anche le api costruirono il
loro alveare. Gli esperti, incredibilmente all'unanimità, decretarono che si
trattava dell'annuncio di una luminosa gloria del giovane, una volta giunto
nel fiore degli anni Le api, nella Sicilia dei dinasti (e non solo in Sicilia),
12•

erano quasi un simbolo di continuità, dal momento che si trovano anche


per Dionisio I, secondo il racconto di Filisto (in Eliano 1 3 ) : egli, non ancora
tiranno, vide uno sciame di api attorno alla sua mano, mentre era impe­
gnato a salvare il cavallo, impantanato in un fiume. I Galeoti, noti indovini
siculi, spiegarono l'accaduto come un segno del potere regio che avrebbe

12. Diod. XIX 2, 9.


1 3. Ael., V.H XII 4 6 ; cfr. Philist., FGrHistlBNJ 556 F 58, in Cic., De divin. I 73.
8 . LA P IUMA DI AGATOCLE

conseguito di lì a poco (Sammartano, 2 0 1 0 ; Pownall, 2 0 1 7 ) . Le api ritor­


nano forse non a caso anche per lerone I I, salvato ancora in fasce dal miele
delle api1 4 • Un pattern narrativo dunque ben consolidato, pur con varianti,
nell'esaltazione dei poteri monocratici d'Occidente.
L'interesse per Agatocle non si esaurisce tra Timeo e Polibio, ma con­
tinua in epoca successiva, anche se bisogna pur riconoscere che in un certo
senso T imeo ha fallito nella sua rabbia schiumante e nella sua penna intinta
nel veleno: Agatocle infatti non divenne mai il tiranno per eccellenza, l'e­
sempio negativo da additare nelle scuole di retorica ai giovani alunni. Altri
sono i tiranni assurti a paradigma, come Dionisio I e, per crudeltà, Falaride,
spesso accoppiato ad Apollodoro di Cassandrea, come si vedrà ben presto.
E certo non giovò ad Agatocle il fatto di rientrare nell'età ellenistica,
generalmente trascurata quando si vogliono ricercare esempi storici buo­
ni per le declamazioni e gli esercizi di scuola (corrispondenti più o meno
ai nostri temi). Qualche relitto aneddotico, oltre al frammento di Cecilio
di Calatte, comunque affiora nella tradizione e la fama del figlio del cera­
mista di Terme travalicò i confini dell'antichità per arrivare almeno fino a
Machiavelli. Nel cap. 8 del Principe il Fiorentino riprende tutta la tradizio­
ne contraria ad Agatocle, lasciando presagire un giudizio fortemente ne­
gativo, visti i vizi e la vita scellerata da lui condotta. Eppure, come Polibio,
anche per Machiavelli questi non è poi uomo totalmente riprovevole. E
pur vero che <<non si può ancora chiamare virtù ammazzare li sua cittadi­
ni, tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza relligione; li quali
modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria>> . Pur non potendo
essere adeguatamente celebrato, tenuto conto della sua efferata crudelità e
inumanità, Agatocle tuttavia non è inferiore a <<qualunque eccellentissimo
capitano>> .

14. lustin. XXIII 4, 6-7.

7g
9
Sogni e crudeltà dei tiranni,
da Apollodoro a Ieronimo

Nell'opera forse più affascinante e a tinte fosche dei Moralia, intitolata I


ritardi della punizione divina, Plutarco riporta un aneddoto relativo ad
Apollodoro di Cassandrea, estrapolato peraltro completamente dal suo
contesto storico:

Dicono che Apollodoro sognò di essere scorticato e poi messo a bollire dagli Sci ti,
e che il suo cuore sussurrasse dalla pentola, dicendo : << Sono io per te la causa di
questo >> . E un'altra volta sognò che le sue figlie corressero in circolo attorno a lui
con il corpo che bruciava e che era avvolto dalle fiamme 1 •

Un'immagine degna dell 'Inferno dantesco, e che ben si adatta al luogo co­
mune degli Sciti come il popolo crudele per eccellenza, privo di ogni pietà.
L'Apollodoro del testo è tiranno di Cassandrea, una fondazione di Cassan­
dra nel 316, nata sulle ceneri di Potidea, distrutta a suo tempo nella guer­
ra del Peloponneso. Colà egli riuscì a ritagliarsi un regime monocratico,
genericamente definito tirannico (ca. 279-276, secondo la cronologia tra­
dizionale). Le dinamiche politiche e socio-economiche nel mondo greco
tendono a ripetersi, dall'età arcaica a quella ellenistica, per cui la presa e la
gestione del potere di Apollodoro si prestano almeno in parte al confronto
con quelle di altri tiranni di IV-I I I secolo : Eufrone di Sicione, Clearco di
Eraclea Pontica, Cherone di Pellene, Archino di Argo, Agatocle a Siracusa,
Molpagora di Cio.
Momento davvero confuso quello in cui agisce Apollodoro. Il breve re­
gno di Tolemeo Cerauno (281-279) sulla Macedonia vede anche il control­
lo di Cassandrea, affidata alla madre Euridice, la moglie ripudiata di Tole­
meo I (dapprima la città era sotto il controllo di Arsinoe I I , sorellastra di
Tolemeo e sposa di Lisimaco, come si ricorderà, e poi di Tolemeo : un'unio-

1. Pluc., De sera num. vind. sssb.

80
9 . SOGNI E CRUDELTÀ DEI TIRANNI, DA A P OLLODORO A IE RONIMO

ne durata ben poco, che si concluse con la cacciata di Arsinoe e l'uccisione


dei suoi due figli). L'invasione celtica del 279 interruppe bruscamente que­
sto fragile equilibrio, con la morte in battaglia del Cerauno, e presumibil­
mente la fine della stessa Euridice. Apollodoro, evidentemente uno dei cit­
tadini più in vista della città e legato al partito che si rifaceva a questo Lagi­
de, tentò dapprima invano la strada del potere monocratico, poi si oppose
al tentativo di tirannide di Lacare (già signore di Atene), prendendo infine
il controllo della città. Riuscì nel suo intento approfittando del momento
di confusione dovuto all'assalto dei Celti, forse dopo il loro spostamento
verso est. Quindi onorò la memoria di Euridice istituendo delle feste Eu­
ridikeia, e disponendo i suoi soldati nell'attigua penisola della Pallene. Per
assicurarsi il controllo della situazione confidò nell'aiuto degli schiavi e de­
gli artigiani e procedette alla confisca dei beni dei ricchi, ridistribuiti tra i
poveri, aumentando anche la paga ai mercenari. Una tirannide effimera, la
sua, nonostante l'accordo con Antioco I di Siria e Sparta (sono lontani i
tempi in cui i Lacedemoni erano nemici dei tiranni, come sottolineato da
Tucidide I 18, 1). Infatti ben presto, a quanto sembra, Antigono Gonata,
il figlio di Demetrio Poliorcete, riuscì a sconfiggere Apollodoro, insidiosa
spina nel fianco nel suo regno di Macedonia.
Anzitutto, occorre dirlo, Apollodoro ebbe buoni maestri, che richiama­
no la tirannide siceliota. Il pendant è costituito, a dire di Diodoro Siculo, da
un certo Callifonte, originario della Sicilia, vissuto nella terra natale presso
molti tiranni e divenuto poi guida di questo diligente discepolo di Cassan­
drea. La Sicilia, tramontata da tempo la stagione dei Dionisi, era all'epoca
popolata e retta da poteri monocratici, talora con verniciature monarchi­
che: Agatocle, ovviamente, ma anche Iceta di Siracusa, Finzia di Agrigento,
T indarione di Tauromenio, Eraclide di Leoncini, forse Onomarco di Cata­
nia e altri ancora nelle città minori. Il nome più plausibile da collegare ad
Apollodoro è comunque quello di Finzia, tiranno di Agrigento (ma questi
si definisce re nella leggenda monetale, in linea con la mutata temperie), che
ebbe anch'egli un'intensa attività onirica. In un sogno riportato da Diodoro
vide infatti la propria morte: a caccia di un cinghiale selvatico, fu inseguito,
trafitto e squarciato da fianco a fianco dai denti dell'animale 2 Va detto che

il cinghiale è motivo ricorrente delle ultime coniazioni del tiranno, il che fa


pensare che si tratti di un'oneiromanzia post eventum.
Apollodoro non si faceva mancare niente, da buon tiranno degenere.
E dunque figura nella folta categoria dei philopotai (bevitori incalliti), a

2. Diod. XXII 2 e 7.

81
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

cui molti despoti e sovrani appartengono (e in cui rientra anche Alessan­


dro Magno, secondo una tradizione ostile attestata già dal contemporaneo
Efippo di Olinto). Anzi, il tiranno di Cassandrea era un bevitore di vino
senza pari. Incapace di contenere questa sua intemperanza, infiammato dal
vino, era ancora più sanguinario3 •
A differenza di altri tiranni (come Cherone di Pellene o Clearco di Era­
clea Pontica), non aveva nessun rapporto con scuole filosofiche, ed è figura
puntualmente elusa dai manuali di storia greca. Incuneatosi tra le pieghe
della storia e nelle lotte dei successori di Alessandro Magno, si è però me­
ritato un piccolo, significativo spazio perché divenne ben presto, forse già
tra i contemporanei, massimo esempio negativo di tiranno: la quintessenza
della crudeltà tirannica, ammesso che sia possibile.
È ipotesi suggestiva di Niebuhr (1827), uno dei giganti della scienza
dell'antichità sulle cui spalle tutti si posano e riposano, che la tragedia Kas­
sandreis di Licofrone, poeta attivo tra l'Egitto e la corte attalide, sia ispirata
proprio alle sventure dei cittadini della città, costretti a subire le angherìe
di questo tiranno, tra cui anche l'antropofagia4 • E si può anche arrivare
a ritenere che il passo plutarcheo da cui si è partiti derivi proprio da Li­
cofrone. Se la Commedia nuova non esitò a dileggiare personaggi storici,
soprattutto ateniesi del primo Ellenismo, anche la Tragedia fece proprie e
metabolizzò sulla scena le disgrazie contemporanee. Aveva incominciato a
farlo già nel vsecolo con Frinico e la sua Presa di Mileto, mentre nel IV se­
colo Moschione aveva scritto i suoi Pheraioi ispirandosi alle vicende del ti­
ranno Alessandro di Fere (369-35 8) e di sua moglie Tebe, vero personaggio
da tragedia. Costei, abbandonando le lusinghe della tirannide, incitò i suoi
tre fratelli alla vendetta e ad uccidere l'odiato consorte, cambiando così il
suo ruolo: da angelo del focolare ad angelo sterminatore. Chiosa Plutarco
che Alessandro fu l'unico o almeno il primo dei tiranni a essere ucciso dalla
propria moglie, il che evidentemente non era ritenuto un titolo di merito 5 •
Il tema del sogno del o sul tiranno è Leitmotiv trasversale, che fu parti­
colarmente vivo nel IV secolo e rifluì nella tradizione successiva, storiogra­
fica e aneddotica o semplicemente letteraria. Cicerone raccoglie diversi so­
gni nell'opera Sulla divinazione: della madre di Dionisio I, da Filisto; della

3. Ael., V.H. xiv· 41.


4. Polyaen. V"I 7, 2 (sul giovane Callimene ucciso e fatto a pezzi da Apollodoro, e poi
bollito nel vino e dato in pasto ai suoi complici), passo che fa da pendan t a Pluc., De sera
num. vind. 5556.
5. Plut., Pel. 35, 4-12.
9. SOGNI E CRUDELTÀ DEI TIRANNI, DA A P OLLODORO A IE RONIMO

madre di Falaride, da Eraclide Pontico; di Eudemo su Alessandro tiranno


di Fere, da Aristotele6 •
Ma, tra tutti, forse il più noto rimane pur sempre il sogno di Perian­
dro, tiranno di Corinto in età arcaica, che dopo aver ucciso la moglie e
aver commesso necrofilia, ebbe un'apparizione della consorte, secondo il
discorso del conterraneo Socle in Erodoto7• Come molti tiranni, anche Pe­
riandro si lasciò andare, consciamente o inconsciamente, a impulsi sessuali
perversi, sognando di congiungersi con la madre Krateia e di infornare i pa­
ni in un forno freddo, ovvero commettendo necrofilia nei confronti della
moglie: la metafora del forno e del pane è peraltro nota anche ai Comici,
e arriva fino ali'insospettabile monsignor Della Casa e in parte al mondo
yiddish di Saul Bellow (Sonnino, 2012) .
I sogni si succedono per analogie e quindi torniamo ad Apollodoro, me­
tro comparativo per tutte le nequizie di tiranni o dinasti, sia quelli imbevuti
di educazione classica sia quelli barbari. Parlando di Diegylis, re di Tracia e
soffermandosi sulla sua crudeltà, ancora Diodoro ricorda il modo con cui
costui trattava i prigionieri di Lisimachia, città caduta in suo possesso. Ta­
gliava mani, piedi e teste dei fanciulli e li faceva portare dai genitori attorno
al collo come collane, e amputava parti del corpo a mariti e a mogli facendo­
le scambiare tra loro. Immaginando il senso di disgusto e raccapriccio nell'i­
gnaro lettore, tanto antico quanto moderno, basterà solo aggiungere che
Diodoro precisa che Diegylis superava in crudeltà Falaride e Apollodoro8 •
Il binomio Falaride-Apollodoro divenne comunque un luogo comune
nella tradizione antica. Polieno, dal canto suo, non ha dubbi: Apollodoro
è stato il tiranno più sanguinario e crudele tra Greci e barbari 9 • Per finire,
la Suda propone un altro elenco di (tiranni e sovrani) violenti: Falaride,
Echeto, Dionisio, Apollodoro (che si distingueva per paranomia, ovvero
trasgressione delle leggi), il misterioso Liggis fratello illegittimo di Ilio. Ri­
mane dubbio se si tratti qui di Dionisio I o del figlio Dionisio 1 1 10 •
Se è vero che la moneta cattiva scaccia quella buona, è anche vero che
ogni tiranno supera il precedente per crudeltà e ognuno commisura le effe­
ratezze in base alla propria esperienza o secondo personalissimi criteri. Dif­
ficile dunque stabilire una graduatoria oggettiva degli autocrati più efferati
nell'antichità greca, al di là degli esercizi retorico-storiografici. In base ai

6. Cic., Dedivin . I 39, 46, 53; cfr. Tim.,F GrH ist/BNJ 5 6 6 F 29; Val. Max. I 7, ext. 6.
7. Hdt. , 92 Y]; cfr. Diog. Laert. I 94.
r

8. Diod. XXXI I I 14.


9. Polyaen. VI 7, 2.
10. Suda, s.v. Biaioi.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

tempi e alle circostanze, la palma del peggior tiranno viene variamente as­
segnata. Così Livio (che attinge probabilmente a Polibio) definisce Nabide
di Sparta <<il tiranno che fu il più crudele e il più violento nei confronti dei
suoi>> I I, mentre per Pausania, come si è visto, Lacare ad Atene è la quin­
tessenza di tutte le nequizie. Un giudizio isolato, per un protagonista in
negativo della storia ateniese del dopo Ipso, prima del rinnovato abbraccio
mortale con Demetrio Poliorcete.
Se il nome di Apollodoro è accostato a quello di Falaride, non manca
anche il collegamento con un altro tiranno siracusano, Dionisio I I . Plutar­
co, lanciandosi in un confronto con Eupoli e i suoi strali contro gli adula­
tori di Callia, sottolinea la differenza tra costoro e gli amici e famigliari di
Apollodoro, Falaride e Dionisio. Se i primi facevano male solo al ricco ate­
niese (nipote di Callia I I , noto per la pace o presunta tale che porta il suo
nome con i Persiani nel 449 ca.), i secondi, attraverso il loro rispettivo si­
gnore, facevano male a molti. Per questo motivo furono bastonati a morte,
torturati, bruciati, bollati come empi e maledetti 1 2 Un chiaro riferimento •

agli occhiuti informatori della tirannide, in particolare quelli chiamati pro­


sagogides (anche se il termine è propriamente femminile), già noti sotto il
dinomenide lerone I , che si aggiravano per le vie di Siracusa, pronti alla de­
lazione, e di cui un riflesso è nelle odi pindariche (Catenacci, 2006, p. 189 ) .
Vi era dunque in età ellenistica una tendenza, ben avvertibile, ad acco­
munare Falaride ad Apollodoro (ed eventualmente Dionisio I I ) . Del primo
la tradizione tramanda la crudeltà ( Cicerone inventa addirittura il neolo­
gismo phalarismos) 1 3 • Inoltre, con dovizia di particolari, almeno da Pindaro
in poi, si sofferma sul suo raffinato strumento di tortura: il toro di bronzo,
che per certuni sarebbe solo un'invenzione della propaganda ostile al tiran­
no (Ribichini, 2010 ) .
Il toro di Falaride e le tragiche vicende del suo costruttore comunque
divennero presto paradigmatiche nella cultura occidentale. Celebre è infat­
ti la pagina di Diodoro, sulla macchina per la tortura e sulla triste fine del
suo orgoglioso inventore Perilao (noto anche come Perillo) 1 4 • Il racconto
diodoreo è ripreso e adattato da diversi autori, tra cui spiccano Ovidio e
Luciano, con un ameno ribaltamento di ruoli e di giudizi morali. Il primo,
contrito e intristito responsabile del suo carmen e del suo error, e perciò

I I. Liv. xxx1,r 3 2, 3 .
1 2 . Plut., Max. cum prin c. phil. esse diss. 778e.
I 3 . Cic., Ad Att. ,r 11 1 2, 2 .
1 4. Diod. IX 1 8, 1 ; 1 9, 1 (cfr. XI I I 9 0, 4- 5 ; XIX 1 0 8, 1 ) .
9 . SOGNI E CRUDELTÀ DEI TIRANNI, DA A P OLLODORO A IE RONIMO

relegato dall'implacabile Augusto tra i ghiacci di Tomi, paragona le sue vi­


cende a quelle di Perillo nei Tristia. Diverso invece era stato il suo giudizio
nell 'Ars Amatoria, dove quasi paradossalmente viene lodato Falaride per
l'equità del suo provvedimento1 5 •
Falaride vive poi una gustosa parodizzazione nella penna di Luciano di
Samosata. In un bizzarro divertissement bipartito, intitolato appunto Fala­
ride, il tiranno, attraverso compiacenti emissari, dedica il suo toro ad Apol­
lo, dio di Delfi: forse la dedica più originale tra tutte quelle presentate pres­
so l'ombelico del mondo. Ad eternare il suo dono ha fatto scolpire il suo
nome e quello di Perilao (Perillo), nonché la sua invenzione e la sua giusti­
zia, la pena adatta e il canto dell'ingegnoso fabbro. Nelle parole dell'autore
di Samosata un compiacente sacerdote pronuncia un lambiccato non olet,
pieno di sofismi. A toro donato, come è noto, non si guarda in bocca...
Evidentemente i raccapriccianti mugghii che emetteva o avrebbe emes­
so il toro dovevano agitare i sonni di molti letterati, se è vero che Dante se
ne ricorda nell 'Inferno. Il suono emesso da una fiamma, che poi si rivelerà
essere Guido da Montefeltro, ricorda appunto quello del famigerato toro,
anzi del << bue cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu
dritto / che l'avea temperato con sua lima>> (xxv11 7- 9 ) .
Il toro di Falaride, comunque, non era l'unico strumento di tortura
messo in atto da un tiranno, giacché il despota agrigentino trovò degni epi­
goni in età ellenistica, a cominciare da Agatocle. Secondo Diodoro, il dina­
sta siceliota si sarebbe ispirato proprio al famoso precedente, con l'unica dif­
ferenza che nella sua macchina di tortura i malcapitati erano ben visibili 6 •
1

Qualcosa di simile fu realizzato anche da Nabide a Sparta, sebbene le


fonti non dicano se questi si ispirasse al predecessore acragantino. Si tratta­
va, come spiega Polibio, di un simulacro di donna, che era ricoperto di abi­
ti lussuosi, e che assomigliava straordinariamente alla moglie di Nabide, di
nome Apega. Coloro che si rifiutavano di concordare con le idee del tiran­
no, incorrevano nel pericoloso abbraccio del simulacro, che aveva braccia,
mani e mammelle piene di chiodi sotto le vesti. Il personaggio, con con­
gegni vari, incorreva quindi in una dolorosissima tortura1 7• Interessante si
presenta la scelta di chiamare la macchina col nome della moglie, vera figu­
ra fosca nella tradizione femminile spartana, e degna compagna di vita del

1 5 . Ovid. Trist. ,r 1, 5 3- 5 4 ; Ar s am. I 6 5 3-6 5 6.


1 6. Diod. xx 71, 3 .
1 7. Polyb. XIII 7 ; cfr. Liv. XXXII 40.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

marito. Parimenti interessante, e degno di analisi specialistica, il transfert


usato dal tiranno, da sadico voyeur, con l'amplesso simulato con Apega.
Meglio diffidare dunque di bambole e simulacri vari. Ne sapeva qual­
cosa, oltre al già ricordato Virgil Oldman, l'artista Oskar Kokoshka, il qua­
le, pazzo d'amore per Alma, vedova di Gustav Mahler, si fece costruire una
bambola che avesse in tutto e per tutto le sembianze della donna amata e
arrivò a farla a pezzi, pazzo di gelosia ( Camilleri, 201 3 ) . Continuando nel
medesimo filone, nella fantasia, tutta letteraria, di uno scrittore sulfureo
come Tommaso Landolfi, Gogol (tetragono peraltro a relazioni con il gen­
til sesso) si fece costruire Caracas, uxorio surrogato gonfiabile (La moglie
di Gogol, 1 9 54).
La categoria di tiranni crudeli in età ellenistica riguarda dunque anche
la grecità occidentale (oltre ad Agatocle), come ben sa Polibio, che si scaglia
contro quegli storici (logographoi, ma il termine non ha certo l'accezione in
buona misura positiva che aveva in età classica) che avevano ricamato sulla
ferocia di leronimo di Siracusa, ritenuta superiore a quella appunto di Fa­
laride e di Apollodoro18 • Oggetto degli strali dell'Acheo è in primo luogo
Bacone di Sinope, sul Mar Nero, interessato alle vicende di questo effimero
monarca occidentale, oltre che a quelle di tiranni d'Asia Minore. La Sicilia
è oggetto delle attenzioni anche di altri letterati d'Asia Minore, quali Pale­
mone di Ilio e, successivamente, Artemone di Pergamo.
Nell'opera di Bacone intitolata Sulla tirannide di leronimo è ricorda­
to l'adulatore Trasone, noto per la pratica quanto mai aborrita dai Greci
del bere sempre vino puro. Costui fu fatto eliminare da un altro adulatore,
Soside, che ne prese il posto nel cuore del tiranno, persuadendolo a indos­
sare il diadema e la veste purpurea e tutto il resto dell'apparato del tiranno
Dionisio (1) 1 9 • Il collegamento con il dinasta di V-IV secolo risulta quanto
mai forzato, nel riferimento al diadema e alla veste purpurea, anche se è
confermato da Livio, che aggiunge che Ieronimo, quando usciva dalla reg­
gia, usava quadrighe di cavalli bianchi, così come aveva fatto il suo prede­
cessore20. In realtà Bacone compie un interessante transfèrt, attribuendo a
Dionisio emblemi della regalità che sono invece propri dell'età ellenistica,
a cominciare da Alessandro Magno. Comunque sia, le reliquie dei Dionisi
costituivano una grossa attrattiva per gli altri tiranni, quasi una sorta di

1 8. Polyb. V"I I 7, 2.
1 9. Baton, FGrHistlBN] 26 8 F 4, in Athen. v"I 25 1 e-f.
20. Liv. XXIV" S, 3-4.

86
9. SOGNI E CRUDELTÀ DEI TIRANNI, DA A P OLLODORO A IE RONIMO

"sacrà' reliquia: infatti Dionisio di Eraclea Pontica comprò in blocco tutto


l 'armamentario regio di Dionisio I I, in esilio a Corinto 21 •

Ieronimo doveva comunque avere le idee sufficientemente chiare sulla


necessità di costruirsi un buon lignaggio e di trovare progonoi all'altezza,
dal momento che accolse favorevolmente i racconti dei Cartaginesi che gli
ricordavano che era figlio di Nereide, ritenuta figlia di Pirro o di suo nipo­
te, Pirro II 22 D 'altro canto, Eumaco di Napoli, in un'opera incentrata su

Annibale, scrive che Ieronimo sposò una prostituta di nome Peithò, dotata
di argomenti evidentemente convincenti (peitho, "persuasione"), renden­
dola regina2 3 •
Polibio classifica lo sforzo narrativo di Batone e dei "logografi" con il
verbo tragodein, ben poco elogiativo, stigmatizzando il loro indugiare su
una narrazione piena di effetti inverosimili, tipica della Tragedia, con par­
ticolari assolutamente fantasiosi. Una caratteristica peraltro propria anche
di altri scrittori, come Duride e Filarco (rappresentanti, come si è già detto,
della cosiddetta storiografia tragica), e assai viva in età ellenistica, in con­
trapposizione a una storiografia di stampo pragmatico, adatta a scrittori
amanti del buon senso: in altri termini, cultori del principio dell ' eikos, ov­
vero del verosimile, in auge comunque da Ecateo di Mileto in poi, pur at­
traverso percorsi a volte carsici.
E comunque difficile attribuire tanta crudeltà e tante stranezze a un
giovinetto, Ieronimo, al potere a Siracusa per appena due o tre anni prima
dell 'arrivo dei Romani, per cui la critica di Polibio va sottoscritta. La for­
zatura nella rappresentazione del tiranno fa da contrappeso all'esaltazione
del nonno, Ierone I I, nello storico acheo e nella tradizione antica. Quest 'ul­
timo è un personaggio che vantava o millantava antenati illustri, il dinome­
nide Gelone, attraverso una genealogia ampiamente recepita nel mondo
greco. Si proclamava infatti suo discendente per parte di padre, mentre la
madre sarebbe stata una schiava. Un collegamento assai dubbio, tanto è ve­
ro che non manca una tradizione ancora più negativa, secondo cui anche il
padre avrebbe avuto modesti natali 2 4 • Comunque sia, due figli di Ierone I I
si chiamavano Gelone e Damarata, a ricordo di una stagione illustre, legata
all 'accordo dell 'omonimo Gelone con Terone, tiranno di Agrigento e alla
vittoria di !mera del 4 8 0 contro i Cartaginesi e i loro alleati.

21. Memn., FGrHist/BNJ 434 F 4, 5.


22. Rispettivamente, Polyb. VII 4, s e Paus. I,r 35, 3.
23. Eum., FGrHist/BNJ 178 F 1, in Athen. XI II 57 7a.
24. Iustin. XXI II 4, 4-6; Paus. VI 12, 2; Zonar. VI II 6, I, p. 192 Dindorf ; cfr. Polyb. VII
8, I.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

La propaganda legata all'esaltazione di lerone narra di una serie di pre­


sagi, come quello secondo cui un lupo entrò improvvisamente a scuola,
strappando la tavoletta al futuro re, il che suona come un duplicato di ana­
loghi racconti legati a Gelone2 5 • In antitesi con quasi tutti i tiranni e dinasti
sicelioti, è difficile rintracciare una pubblicistica negativa nei confronti di
lerone I I, che davvero risulta essere stato sovrano senza macchia e senza in­
famia, venerato come un dio salvatore a Siracusa in ambito privato. Persino
Polibio sostiene che costui avrebbe regnato in tutta sicurezza, desideroso
solo di ottenere corone e onori dai Greci. Lo storico acheo, in un altro pas­
so, aggiunge che Ierone I I era un benefattore quant'altri mai nei confronti
dei Greci e fulgido nella sua gloria26 •

25 . lustin. XXIII 4, 9. Vd Tim., FGrHist/BNJ 566 F 9 5, in Diod. x 29 ( = Tzetz., Chil.


IV" 266-278) .
26. Polyb. I 1 6, 1 0-1 1 ; V"II 8, 6.

88
IO
Un trian golo molto edificante

Il mondo è pieno di intrecci amorosi e triangoli, voluti, forzati o estempo­


ranei. Quello tra il sovrano, la regina e la favorita del re è un classico dei
plots storici. Tra le molteplici, possibili varianti di questa figura erotico-ge­
ometrica il palmo dell'originalità spetta senz'altro a quanto avviene presso
la corte seleucide, all'epoca dei primi sovrani. I protagonisti: il fondatore
della dinastia, Seleuco I ; il figlio, predestinato al trono (e associatovi nel
29 3 ca.), Antioco I e la giovane moglie del primo, Stratonice, figlia di Fila e
di Demetrio Poliorcete.
Probabile spettatrice di questo intrigo interdinastico fu la prima con­
sorte di Seleuco, la principessa di origine iranica, Apama, figlia di Spirame­
ne di Battriana e impalmata come tante altre fanciulle nei fatidici giorni
di Susa, nel 3 24, per volere assai poco lungimirante di Alessandro (proba­
bilmente non ancora Magno all'epoca). Infatti, se i matrimoni misti tra la
truppa macedone e le donne iraniche, per tante ragioni (comprese quelle
meramente economiche), dovettero durare e probabilmente anche a lun­
go, quelli tra i compagni del re e le fanciulle delle principali casate dell'ap­
parato achemenide, imposte dal figlio di Filippo I I, naufragarono tutti o
quasi tutti, dopo la morte di Alessandro nel 3 23 . L'unico a resistere, alme­
no a quanto riportano le fonti, fu appunto quello di Seleuco I con Apama,
forse più per motivi di Realpolitik che per vera passione amorosa. Infatti
il diadoco (e con lui i suoi successori, fino ali'ambizioso se non velleita­
rio Antioco IV ) controllava gran parte dell'Asia, dove preponderante era la
presenza iranica e quindi aveva tutto l'interesse a mantenere buoni rappor­
ti con popolazioni di quel ceppo etnico.
Non molto sappiamo della personalità e del carattere di Apama: una
figura che rimase o forse agì nell'ombra per lungo tempo. In un decreto
di Mileto (29 9 -29 8 ) vengono lodate la sua "benevolenzà' (eunoia) e la sua
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

"sollecitudine" (prothymia)1 , termini canonici o quasi nel vocabolario delle


virtù. Di lì a poco, comunque, per ragioni eminentemente politiche, Se­
leuco decise di avviare nuove unioni matrimoniali, legandosi a colui che
all'epoca era solo signore dei mari, dopo la disfatta di Ipso del 301, ovvero
Demetrio Poliorcete, sposandone la figlia, Stratonice. Apama, se non morì
improvvisamente (come si pensava un tempo), venne ripudiata o comun­
que messa in un angolo, magari con tutti gli onori del caso (in quanto ma­
dre del successore al trono, Antioco I : destino comune a molte altre regine
accantonate dall'ex consorte).
Quello tra Seleuco e Stratonice non fu dunque un colpo di fulmine
o il frutto di una passione senile dell'attempato diadoco per una fanciulla
nel fiore dei suoi anni, bensì un vero matrimonio d'interesse, forse ancora
molto più di quello con Apama, su cui fiorisce una tradizione ostile, intrisa
anche di ironia, che talora non si esiterebbe a definire filolagide. Secondo
quanto racconta Luciano nell'operetta Sopra le immagini (5-7 ), Stratonice a
causa di una malattia diventò completamente calva, come e più di Elisabetta
I d' Inghilterra. Nonostante ciò, o forse proprio a causa di ciò, indisse una ga­
ra tra i poeti di corte, con in palio un talento, su chi sapesse lodare nel modo
più acconcio le sue bionde chiome. Capelli prontamente celebrati e parago­
nati al sedano. Dietro vi è forse un sottile gioco di rivalità e maldicenze tra
le corti dei Seleucidi e dei Lagidi, se solo si pensa alla chioma di Berenice I I,
moglie di Tolemeo I I I, consacrata ad Afrodite come voto per il ritorno del
marito. Questa sparì e fu ritrovata in cielo dall'astronomo Conone sotto
forma di costellazione, divenendo oggetto di una nota elegia di Callimaco
negli Aitia. E dunque è facile pensare che la pubblicistica fìlotolemaica ab-
bia ricamato sulle regine altrui, forse in momenti di particolare tensione e
contese dinastiche con i Seleucidi (Barbantani, 2014, p. 26, n. 19 ) .
Tralasciando altri racconti sulla regina, come il suo amore, non corri­
sposto, per Kombabos (tramandato sempre da Luciano nel Sulla dea Si­
ria), spicca la passione proibita di Antioco I per la moglie del padre. La
tradizione al riguardo è duplice, in cui il filone positivo, o comunque mo­
ralisticamente edulcorato, si mescola a quello fortemente critico, sicché ri­
mane difficile determinare la realtà storica.
Infatti, da un lato le fonti si divertono a sfruculiare sull'episodio. Tra
queste doveva spiccare senz'altro lo storico Filarco che, nella sua opera,
densa di episodi ad effetto e "scandalistici", si accanisce contro diversi so­
vrani ellenistici e particolarmente con i Seleucidi, e che può aver influen-

1. In schr . Didyma 48 0 (cfr. In schr. Didyma 424, 479 ; In schr . Milet I 3, 1 5 8 ) .

go
I O . UN TRIANGOLO M OLTO E D IFICANTE

zato in buona misura la tradizione negativa successiva (che potrebbe anche


annoverare il nome di Egesandro di Delfi; Mastrocinque, 19 8 3 , pp. 24-7 ) .
D'altro lato vi è anche un filone in cui l'episodio è, addirittura, idea­
lizzato. Erasistrato è il deus ex machina, l'unico in grado di risolvere l'in­
garbugliata matassa e salvare Antioco, ormai condannato a morire d'inedia
pur di non rivelare la sua passione proibita. I sintomi sono in tutto e per
tutto uguali a quelli descritti da Saffo, come riporta Plutarco: blocco della
voce, annebbiamento della vista, sudori improvvisi, palpitazioni, smarri­
mento, stordimento, pallore l.
Già il fatto che si parli di Erasistrato, all'epoca il massimo medico in
circolazione, induce a grande sospetto. Infatti tra il 299 e il 29 3 , periodo in
cui si sarebbero svolti i fatti, costui era un giovinetto, e dunque non poteva
certamente essere il medico di corte seleucide. Molto più probabile che sia
stato usato il suo nome con (voluto?) anacronismo per nobilitare un episo­
dio dalle tinte in parte scabrose, e come tale sfruttato dalle fonti avverse. Se
proprio bisogna cercare un medico (e non già lafemme), il contorno stori­
co semmai si adatta a Cleombroto, peraltro padre dello stesso Erasistrato (e
in questo caso lo scambio tra i due sarebbe ancor più giustificabile).
Comunque sia, nella tradizione occidentale l'amore di Antioco divie­
ne oggetto dell'attenzione di letterati e pittori. Basti pensare alle trasposi­
zioni pittoriche di Bernardino Mei o di Jean-Louis David. Ingres, da par
suo, vi aggiunge una sfinge, particolare che anticipa l'egittomania che im­
perverserà in Francia e nel resto d'Europa, ma che ben poco si attaglia alla
realtà storica (caso mai sarebbe stato stuzzicante e ancor più appropriato
un ammiccamento alla Dea Syria di cui parla Luciano).
Un triangolo tra padre, moglie e figlio: argomento potenzialmente lu­
brico, da Petrarca fino a Leonardo Bruni. A quest'ultimo la cultura deve
molto. Se non altro, importanti traduzioni delle Vite di Plutarco. Ma, ov­
viamente, non si può pretendere da Bruni anche una raffinata precisione
storica. In una sua Novella, egli infatti si sofferma sulla potenza del "baro­
ne" Seleuco, che ebbe in sposa da Tolemeo Cleopatra, da cui ebbe come
figlio Antioco. Divenuto vedovo, fu indotto dagli amici a prendere come
moglie Stratonica, figlia di Antipatro re di Macedonia. E proprio il caso di
dire che vi sono più errori che parole e certo Bruni sarebbe bocciato senza
pietà ad un esame di storia greca, anche dal docente più indulgente.
In questo quadretto edificante, vi è anche una versione che si potrebbe
definire controcorrente, proposta da Giuliano l'Apostata. Un imperatore

2. Plut., Demetr . 38, 4.

gI
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

ancora innamorato di un mondo, quello classico - ma è comunque da pa­


gani definirlo pagano! -, ormai irrimediabilmente "contaminato" dall'a­
vanzata del cristianesimo. Secondo Giuliano, Antioco rifiutò l'unione con
Stratonice, aspettando la morte del padre, giunta non molto tempo dopo.
Dopodiché, aggiunge con insospettato tocco moralistico, diede libero sfo­
go alle sue voglie represse3 •
Vi è poi un altro triangolo celebre nella dinastia seleucide, che vide co­
me protagonista il re Antioco III. Questi fu sovrano dal 2 2 3 al 1 8 7, in un pe­
riodo cruciale per le sorti delle dinastie ellenistiche di Siria, Egitto e Mace­
donia, impegnate nell'incontro-scontro con Roma. Dopo alcuni anni dif­
ficili, in cui dovette sedare alcune ribellioni (Molane, Acheo) e combattere,
perdendola, la quarta guerra siriaca contro il lagide Tolemeo IV, diede ini­
zio a un'anabasi, ovvero una grande spedizione orientale fino alla Battriana
per consolidare il regno ormai traballante ( 2 1 2 / 2 1 1 - 20 5 /204 ) . In essa aleggia
non solo il modello dei suoi predecessori, ma addirittura quello dello stesso
Alessandro Magno. Successivamente, Antioco III, dopo aver combattuto e
vinto la quinta guerra siriaca contro Tolemeo v, animato dalle sue ambizio­
ni di rinverdire i fasti degli antenati (progonoi) e soprattutto del capostipite
Seleuco I, inevitabilmente era destinato a scontrarsi con Roma. Un periodo
di guerra fredda, con rivendicazioni e accuse reciproche, che portò alla bat­
taglia finale di Magnesia sul Sipilo e alla pace di Apamea in Frigia del 1 8 8,
umiliante per i Seleucidi dal punto di vista geopolitico e anche finanziario
(anche se questo aspetto tende ormai a essere in parte ridimensionato).
I Romani non esitarono a presentare i Seleucidi come novelli Persiani,
e addirittura identificarono Antioco I I I come il nuovo Serse, in un sottile
ma insistito gioco di sovrapposizioni, che suonano alquanto fittizie e po-
sticce. E pur vero che il sovrano ellenistico si sentiva l'autentico re dell'A-
sia, ma raccoglieva non tanto l'eredità degli Achemenidi (nonostante l'opi­
nione di certa critica), quanto quella di Alessandro e dei suoi predecessori
nella dinastia.
In questo contesto, che portò allo scontro finale con Lucio Scipione e
alla pace di Apamea, vi è spazio anche per due episodi fondamentali in cui
traspare tutta la tendenza denigratoria delle fonti antiseleucidi. Già da anni
(nel 2 0 9 ) Antioco I I I aveva associato al trono il primogenito, definito An­
tioco il Figlio nelle fonti epigrafiche, e poi lo aveva incaricato del controllo
delle Satrapie superiori nel 1 9 3, anno davvero fatidico. L'erede però morì
improvvisamente dopo pochi mesi e subito si diffusero i rumores di chi in-

3. Iulian., Misop. 347- 348.


I O . UN TRIANGOLO M OLTO E D I FICANTE

travedeva la lunga mano del padre, desideroso di eliminare il suo successo­


re, benvoluto da tutti e quindi, con logica stringente, inviso all'indispettito
genitore (secondo quanto riferisce Livio). Per togliere così di mezzo un ere­
de ingombrante, Antioco I I I sarebbe ricorso agli eunuchi, categoria sempre
importante se non decisiva quando si parla di regalità (dall'antichità alme­
no fino al celeste impero cinese) 4 •
Nello stesso anno Antioco introdusse il culto della moglie Laodice I I I
(v, secondo alcuni) nelle varie regioni dell'impero, inserito forse a margi­
ne o in connessione con il culto dinastico: copie dell'editto (prostagma)
furono diffuse un po' ovunque nelle varie regioni sotto il controllo dei Se­
leucidi (dalla Frigia all'Iran; IGIAC 6 6, 6 8). Un culto, verrebbe da dire
endogamico, in cui vi era una sacerdotessa, ovvero un'altra Laodice, figlia
dello stesso Antioco e di Laodice I I I, e sorella sposa di Antioco il Figlio (o,
in Frigia, Berenice figlia di Tolemeo di Telmesso). L'immagine che si vuole
offrire è dunque quella di una coppia in perfetta armonia, per nulla logo­
rata dalla routine, neppure dopo quasi trent'anni di matrimonio. Laodice,
originaria del regno del Ponto (è figlia del sovrano Mitridate 11) era stata
sposata nel 222 con grande sfarzo e aveva dato al coniuge tre figli maschi
(Antioco il Figlio, Seleuco IV, Mitridate poi divenuto Antioco 1v) e alme­
no quattro figlie, alcune maritate con sovrani delle altre casate reali elleni­
stiche, nel rispetto della tela del ragno dinastica che Antioco volle intessere
nell'Oriente ellenistico.
A ben riflettere, si può davvero abbandonare ogni malizia e supporre
che fosse un matrimonio felice (o quasi), visto che, curiosamente, non è at­
testata nessuna cortigiana per Antioco I I I, sovrano peraltro su cui la pubbli­
cistica si sofferma ampiamente e con grande dovizia di particolari (Ogden,
1999, p. 139). Anzi, la regina supportava il coniuge, anche quando questi era
assente dalla capitale Antiochia in Siria, preso dalla sua campagna orienta­
le (quasi una vera e propria coreggenza) e, come si confà a tutte le consorti
reali, era attivamente impegnata nel rapporto con le realtà civiche, anche
in azioni che senza tema di esagerazione si possono definire umanitarie (il
terremoto a laso nel 196 ca. e l'aiuto prestato alla popolazione locale). Ne
consegue che, come già altre principesse prima di lei, era oggetto di culti ci­
vici a Teo (con il marito), a Sardi e nella stessa laso (dove viene assimilata ad
Afrodite). Suona quindi un po' tardivo questo riconoscimento cultuale del
sovrano, in cui si sottolineano l'affetto, la sollecitudine e la pietà della con­
sorte, virtù peraltro davvero regali, volutamente ostentate.

4. Liv. xxxv· 1 5 .
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Un riconoscimento tardivo e soprattutto beffardo. Di lì a poco An­


tioco, preso dalla sua campagna in Grecia in funzione antiromana e dalla
conquista dell ' Eubea nel 1 9 2, rimase folgorato da un' improvvisa passione,
tipica dei cinquantenni. La prescelta, come di norma in questi casi, non era
una coetanea ma una donna molto più giovane del sovrano: la figlia di Cle­
optolemo, inevitabilmente la fanciulla più avvenente di Calcide (e di no­
bile lignaggio, nonostante le insinuazioni raccolte da Livio)5. Polibio, nelle
sue Storie, non senza sottile ironia scrive del Seleucide che arrivò a Calcide
in Eubea e là si sposò, dopo aver dato inizio a due importantissime imprese,
cioè la liberazione della Grecia, secondo i suoi proclami, e la guerra contro
i Romani. Aggiunge poi che si impegnò in ogni modo a sposare la ragazza,
dedito com'era al vino e all'ubriachezza6 •
Riemerge, quasi fosse un fiume carsico, il consueto topos del tiranno/
sovrano ubriacone, e dunque dimentico dei suoi pressanti doveri, che la cri­
tica concordemente ritiene essere un'invenzione della propaganda ostile.
Nel breve schizzo profilato dallo storico acheo sugli ozi invernali di Antioco
in Eubea (che in realtà, se mai vi furono, furono davvero brevi) vi è l'eco di
ben altri ozi, quelli di Annibale a Capua, nel corso della seconda guerra pu­
nica. Plutarco aggiunge che i Siriaci, in gran disordine e privi di capi, se ne
andavano in giro per le città e si davano ai piaceri7• Un sovrano dunque suc­
cube della gioia carnale di vivere e che volle celebrare nel 1 9 1 un matrimonio
vero e proprio con la fanciulla prescelta, prontamente ribattezzata proprio
con il nome di Eubea (con grande tripudio e festeggiamenti dei locali), an­
che se, visto il carattere morganatico dell'unione, costei era destinata ad es­
sere semplice moglie ed è quanto meno assai dubbio che abbia assunto real­
mente il titolo di basilissa (regina). Unioni morganatiche non sono peraltro
così infrequenti, nell'antichità e, ancor più, ai giorni nostri: celebre il caso
del re Carlo Gustavo di Svezia, sposo nel 1 9 7 6 della hostess Silvia Sommer­
lath, omaggiata dalla canzone Dancing Queen dei conterranei Abba.
La sconfitta contro i Romani costrinse tuttavia il Seleucide a un'im­
provvisa ritirata in Asia con la compagna.
Eubea, in quegli anni tormentati, trovò tempo e modo di donare le gio­
ie della paternità al maturo e impegnato marito, generando forse una figlia.
Antioco però ebbe poco tempo per godersi le gioie famigliari, dal momen­
to che ben presto fu impegnato in una nuova campagna orientale. Le fonti

5 . Liv. XXXV"!, 1 7, 7.
6. Polyb. xx 8.
7. Plut., Philop. 1 7, 1.

g4
I O . UN TRIANGOLO M OLTO E D I FICANTE

cuneiformi descrivono la visita del sovrano a Babilonia (oltre che a Borsip­


pa e a Seleucia sul T igri): una visita in cui al re fu mostrata la veste purpurea
di Nabucodonosor, conservata nel tempio di Marduk, atto altamente sim­
bolico (Madreiter, 2016 ) . Questi morì il 3 luglio 187, tentando di depredare
un tempio di Zeus-Bel in Elimaide, e pagando la giusta punizione da parte
degli dèi, accomunato ad un suo antico alleato, Filippo v di Macedonia,
come si vedrà a suo tempo.
Nel vorticoso succedersi degli eventi rischia di scivolare nel dimenti­
catoio l'ormai attempata Laodice I I I . Di lei non si sa più nulla dal 19 3 fino
al 183 / 182 se non addirittura al 177 / 176, quando compare in due iscrizioni
provenienti da Susa (ribattezzata Seleucia sull'Euleo) e risalenti appunto a
quegli anni. Si tratta di atti di manomissione di schiavi, compiuti entram­
bi per la salvezza del re Seleuco (Iv), di Laodice madre del re, e di Laodice,
sposa del re (IGIAC 13- 14) . Dobbiamo ritenere dunque che Laodice I I I sia
vissuta a lungo in disparte, anche se sarebbe forse riduttivo ritenerla sem­
plicemente una ex moglie ripudiata. Con qualche approssimazione, si può
affermare che le norme del diritto macedone, seguite in buona misura dai
Seleucidi, contemplavano uno status particolare per colei che aveva genera­
to il figlio successore al trono (si pensi ad Olimpiade, madre di Alessandro,
a cui spettava pur sempre un ruolo di primo piano, come dimostra il Phi­
lippeion di Olimpia, dove la sua statua era posta accanto a quella di Filippo,
dei genitori di costui e di Alessandro).
I due testi epigrafici testimoniano che, nonostante l'avvenenza di Eu­
bea (della quale a sua volta si persero ben presto le tracce), come in una saga
dinastica che si rispetti, l'unione famigliare tra Laodice e i figli rimase salva,
anzi salda più che mai. Infatti l'altra Laodice, menzionata nelle epigrafi e
moglie di Seleuco IV, è figlia sua e di Antioco I I I, a suo tempo già sposa di
Antioco il Figlio.
II

Regine virtuose, sovrane viziose

'
E solo in età ellenistica, a partire da Olimpiade, che le donne divennero
protagoniste, per lo più in senso negativo. Alcune sono infatti quasi dark
ladies, avvolte da un fascino di mistero e dietro le quali si sprecano i chiac­
chiericci e le notazioni malevole. A ben guardare, tralasciando la propa­
ganda ufficiale, che magnifica sempre le virtù femminili (in questo senso
l'apice è forse toccato nel piccolo ma culturalmente importante regno di
Commagene, nel I secolo, con ad esempio la regina Isias, di cui vi è ade­
guata memoria epigrafica), non mancano però casi di regine virtuose. Due
esempi su tutti di queste autentiche, laboriose api regine: Fila, figlia del dia­
doco Antipatro e moglie dapprima di Cratero e poi del ben più impegnati­
vo Demetrio Poliorcete, e, tra I I I e I I secolo, Apollonide di Cizico, moglie
di Attalo I di Pergamo.
Secondo Diodoro Siculo, che forse attinge a Ieronimo di Cardia, la pri­
ma, fedele consigliera del peraltro già saggio padre, brillava per intelligenza
e capacità di trattare con le truppe ed era davvero una benefattrice nei con­
fronti degli indigenti e di coloro che erano ingiustamente accusati1 Ma la

sua virtù spicca ancor più nei confronti del marito Demetrio, più giovane
di lei e fedifrago impenitente (oltre che cultore della poligamia, come spes­
so capita nella regalità macedone ; cfr. supra, CAP. 6). Incurante di tutto ciò
e sempre al suo fianco anche nei frangenti più importanti, angosciata della
sorte dell'Antigonide, quando costui ritornò ad essere un privato cittadino
dopo aver perso il regno di Macedonia (287 ), rinunciò ad ogni speranza e
ripugnò la sorte di Demetrio, davvero più salda nella cattiva fortuna che in
quella buona. Perciò scelse un'uscita di scena degna delle propensioni tea­
trali del marito. Come un'eroina tragica, bevve un veleno trovando così la
morte 2 •

1. Diod. XIX 59, 3-6.


2. Plut., Demetr . 45, 1.
I I . RE GINE VIRTUOSE , SOVRANE VIZIOSE

Quanto ad Apollonide, quello con Attalo I è un matrimonio morgana­


tico, in quanto costei apparteneva a una famiglia di Cizico, nobile ma non
di stirpe regia, anche se veniva pur sempre gratificata del titolo di basilissa.
Come in una fiaba che si rispetti, quella attalide è una coppia perfetta, che
avrebbe fatto la felicità di Peynet, apprezzata anche dalla tradizione antica,
compreso Polibio, e da cui nacquero ben quattro figli maschi (Eumene I I,
Attalo I I, Filetero, Ateneo) 3 • Lungi dall'essere una parvenue in cerca di lu­
stro, Apollonide era infatti una regina che non conosceva le arti delle sedut­
trici cortigiane, ma era ispirata nei suoi comportamenti a rettitudine e di­
gnità. Il suo rapporto con i figli è paragonato addirittura a quello di Cidippe
con i figli Cleobi e Bitone, episodio celebrato in una nota pagina erodotea.
E noto che costoro, sostituitisi ai buoi, portarono ali'Heraion di Argo la ma-
dre, per poi morire subito dopo, esausti ma felici 4 • Novelli argivi divennero
Attalo II e un suo fratello (forse Filetero o Ateneo), con un confronto che
certamente deve essere balzato subito alla mente dei Ciziceni, vedendo i due
tenere per mano la genitrice mentre si aggiravano per i templi e per la città.
Un paragone riproposto poi nei rilievi del tempio eretto a Cizico per Apol­
lonide, ricordati nel I I I libro dell'Antologia Palatina (Maltomini, 20 0 2 ) .
Ma la storia ellenistica abbonda di regine negative o considerate nega­
tive dalla tradizione. Riservando a Cleopatra VII lo spazio che le compe­
te, due personaggi meritano un approfondimento: Laodice I ( o, seguendo
un'altra numerazione, I I I ) e un'altra Cleopatra, impropriamente e sbriga­
tivamente chiamata Thea ("dea") . Entrambe erano attive alla corte di Siria,
in modo molto più bellicoso delle regine che le precedettero, come Apama
e Stratonice.
Laodice I ha il discutibile privilegio di dare il nome alla guerra laodicea,
con cui è designato il terzo conflitto siriaco tra Seleucidi e Tolemei ( 2 4 6 -
2 4 1 ) . Moglie di Antioco II, subì i capricci del consorte, che a un certo pun­
to la accantonò e sposò Berenice ( 2 5 2 ), figlia di Tolemeo II re d'Egitto; se
non la ripudiò, la relegò comunque al poco invidiabile rango di concubina.
Un matrimonio politico quello con Berenice, in cui un peso non irrilevan­
te era costituito anche dalla ricca dote portata dalla principessa lagide, e per
questo soprannominata Phernophoros ("portatrice di dote") . La tradizio­
ne, spesso infarcita di episodi inverosimili, è fortemente negativa riguardo
a Laodice. Questa risale in primo luogo a Filarco e forse anche alla stessa

3 . Polyb. XVI I I 41 ; XXII 20 ; Anth. Pal. III ; Plut., DeJrat. am. 48 9d-49 oa; Strabo XI I I
4, 2 ; Suda, s.v. Apollonias.
4. Hdt. I 3 1 ; cfr. Cic., Tusc. I 1 1 3 .
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

corte lagide: la regina, accantonata, si vendicò spietatamente avvelenando


l'ondivago marito, nonostante questi fosse tornato tra le sue braccia. Fece
poi uccidere anche la rivale e il di costei figlioletto. Ricorse infine a uno
stratagemma, per avvalorare la successione al regno: sostituì al defunto co­
niuge Artemone, definito ora di stirpe regia ora un plebeo, allo scopo di
designare suo figlio, Seleuco I I, come successore al trono5 •
Le fonti contrappongono la regina buona a quella cattiva, artefice di
ogni crudeltà, facendo di Laodice il paradigma negativo per eccellenza del
I I I secolo, con notevoli esagerazioni (Martinez-Sève, 20 0 3 ) . Berenice e il
figlio furono trucidati dalla sua fazione e a nulla vale la spedizione del fra­
tello Tolemeo I I I in Siria. Una spedizione vittoriosa, come ricorda enfati­
camente la propaganda ufficiale lagide nel Papiro Gurob; poi proseguita
sicuramente fino a Babilonia se non addirittura fino alla Battriana (come
si legge nella trascrizione della perduta iscrizione di Adulis, OGJS 5 4 ), per
essere interrotta bruscamente da una ribellione in Egitto.
Cleopatra Thea, dal canto suo, è regina che si fa ricordare, a cavaliere
tra i regni lagide e seleucide, tra il 1 5 0 e il 1 2 1. E il che non è poco, se le com-
petitors sono, oltre a Laodice, figure del calibro di Arsinoe I I, Cleopatra I I,
Cleopatra I I I e, soprattutto, Cleopatra VII, la Cleopatra per antonomasia.
Non è facile infatti entrare nella storia come semplice pedina di scambio
nei rapporti interdinastici e, ben presto, diventare assoluta protagonista del
periodo, manovrando mariti e figli come un puparo fa con i suoi pupi. Il
padre, Tolemeo VI, la maritò dapprima a un pretendente al trono, che si
spacciava per figlio di Antioco IV, Alessandro Balas, con chiaro riferimen­
to nel soprannome alla divinità fenicia Ba'al e nel nome all'Alessandro per
eccellenza, Alessandro Magno (prima di lui solo un Seleucide aveva avuto
dalla nascita questo nome e poi lo aveva cambiato in Seleuco al momento
di ascendere al trono: Seleuco I I I, sovrano dal 2 2 6 / 2 2 5 al 2 2 3 ) .
Le nozze, celebrate ad Acco-Tolemaide nel 1 5 0, mostrano già nella mo­
netazione che Cleopatra era tutt'altro che un angelo del focolare, paga del
suo spazio a corte. È lei in primo piano (e il consorte dietro di lei ...) nelle
monete coniate per celebrare l'unione (Houghton, Lorber, Hoover, 2 0 0 8,
pp. 2 4 2- 5 ), mentre in uno statere d'oro figura da sola, con la doppia cor­
nucopia, elemento caratterizzante delle regine lagidi. Quando poi il padre
Tolemeo VI decise, con un voltafaccia difficilmente spiegabile, di cambiare
alleanza e di schierarsi al fianco di Demetrio II, figlio di Demetrio I e po­
co più che un giovinetto, nella lotta contro Alessandro Balas nel 1 4 5, ecco

5 . App., Syr. 65, 345; Val. Max. IX , 14, ext. 1; Plin., N.H. V"II 53.
I I . RE GINE VIRTUOSE , SOVRANE VIZIOSE

che Cleopatra sposò in seconde nozze il giovane rampollo. Lo scontro con


il supposto figlio di Antioco IV fu vittorioso e culminò con la battaglia del
fiume Enopara, ma è davvero una vittoria di Pirro o, se si preferisce e con
medesimo significato, vittoria focea: il Balas infatti morì con la testa moz­
za, tagliata dal principe arabo Zabdiel (presso cui si era rifugiato), mentre
Tolemeo lo seguì subito dopo, per i postumi di una ferita ricevuta in com­
battimento.
I successivi anni, tra il 14 5 e il 139, sono caratterizzati dalla ribellione
del figlio suo e di Alessandro Balas, Antioco VI, manovrato e poi fatto uc­
cidere da Diodato Trifone. Il secondo marito, Demetrio 11, ha fama di es­
sere vizioso, accidioso, crudele e sprezzante delle leggi (come già il padre,
Demetrio 1), sì che i sudditi preferivano i dinasti dell'altro ramo (quello, le­
gittimo o meno, di Antioco IV ) per la loro clemenza. Purtuttavia, per com­
battere l'accusa di pigrizia non esitò a muovere in armi per difendere i suoi
territori e opporsi ai Parti 6 • Questi premevano a Oriente, minacciando uno
dei grandi centri del regno dei Seleucidi: la Mesopotamia con le sue città,
Seleucia sul T igri (fondata da Seleuco I probabilmente tra il 312-311 e il 301)
e Babilonia, ormai da qualche tempo anche polis greca.
La storia è piena di soldati che vanno in guerra, rimangono prigionieri,
e poi si accasano con donne del luogo, dimenticando o fingendo di dimen­
ticare le pazienti Penelopi che aspettano al focolare natìo. Imprigionato e
rinchiuso in lrcania, volens o nolens, il buon re seleucide perse, metaforica­
mente, la testa. La precisazione è d'obbligo, dal momento che presso quella
popolazione sarebbe facile esserne privati anche concretamente (cfr. infra,
CAP. 16). Comunque sia, colpito dalle frecce (quelle partiche sono famose
nell'antichità) di Cupido, si sposò con la figlia del re arsacide Mitridate I,
Rodogune. Un'unione osteggiata a distanza da Cleopatra, determinata co­
me solo sa esserlo una donna invelenita per essere stata tradita. Certo, non
si può arrivare a pensare a un odio feroce quale quello descritto da Corneil­
le nella sua tragedia Rodogune, principessa dei Parti, con Cleopatra che in­
cita i figli Antioco e Seleuco a uccidere la principessa, cosa impossibile ( <<Je
hais, je règne encor>> , dice all'inizio del I I atto, lanciando parole di fuoco
contro la principessa partica). Rodogune rimane comunque un fantasma,
nonostante la sua fortuna letteraria, visto che di lei ignoriamo tutto, anche
le fattezze (nessuna moneta la rappresenta, come di norma nel mondo ar­
sacide). Il suo nome, bizzarramente, si ritrova però in un'ape denominata
Hexepeolus rhodogyne.

6. loseph., An t. /ud. XI I I 1 84-1 8 6; lustin. xx�rI 1.

qq
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Quella di Cleopatra fu una gelosia comunque in parte placata ben pre­


sto (nel 1 3 8 ) dal matrimonio con Antioco VII, fratello minore di Demetrio
I I : unione suggellata dalla nascita di diversi figli, ma anche dalla morte di
questo Seleucide, che mosse verso Oriente per liberare il fratello e il regno
dall'ingombrante minaccia partica. La sua fine nel 1 29 segna, per alcuni, una
vera e propria catastrofe per l'Ellenismo, con la rinuncia definitiva da parte
dei Seleucidi a tutti i territori orientali, a cominciare dalla Mesopotamia, ma
è senz'altro un giudizio che oggi nessuno si sentirebbe di condividere, dato
che la parola d'ordine per il periodo in questione è quella dell'intercultura­
lità ovvero dell'acculturazione reciproca (sia pure non simmetrica).
Il ritorno di Demetrio I I in Siria, con o senza Rodogune, dopo ben die­
ci anni di cattività partica, doveva essere dei più burrascosi, e i rapporti con
Cleopatra degni della Guerra dei Roses. Complicati dal fatto che si era pro­
filato all'orizzonte un altro usurpatore, Alessandro (supposto figlio adot­
tivo di Antioco VII ) . Nonostante il suo poco gratificante soprannome di
Zabinas ("colui che è stato acquistato': con riferimento a un'origine servile),
che lascia supporre un certo sarcasmo nato in ambito greco-macedone, egli
fu in grado di ritagliarsi un certo ruolo nelle lotte all'interno della dinastia
seleucide. Demetrio, sconfitto da costui a Damasco nel 1 2 5, venne mandato
a morte a Tiro di lì a poco, per espresso ordine dell'ex moglie. Si assiste così
a una vera e propria damnatio memoriae del sovrano in disgrazia.
A questo punto Cleopatra, padrona del campo, era in grado di deci­
dere delle sorti del regno seleucide, nonostante la minaccia di Alessandro
Zabinas (che morirà nel 1 23 / 1 22 ) . Ad Acco-Tolemaide, nel 1 2 5, vennero co­
niate monete in cui è rappresentata come Thea Eueteria, ovvero dea dell'ab­
bondanza e della fertilità. Ma, anche in età ellenistica, il retaggio maschilista
continuava a farsi sentire, e ben difficilmente una regina poteva regnare sen­
za almeno una coreggenza con un figlio maschio. Piuttosto che essere una
madre dispensatrice di ogni bene, Cleopatra si comportò con i figli con cru­
deltà e spietatezza equanimi. Il maggiore dei suoi rampolli, Seleuco v, nato
dall'unione con Demetrio II, fu giustiziato quando costui, con quello che
chiameremmo un colpo di testa, tentò di assumere il titolo regale, senza ave­
re avuto preventivamente il consenso materno, dopo l'uccisione del padre7•
Apparentemente maggior fortuna ebbe invece Antioco VI II, il secondo
figlio di Demetrio I I, con cui Cleopatra regnò tra il 1 2 5 e il 1 2 1 . Il finale di
partita della regina è descritto con dovizia di particolari da Giustino, che

7. Liv., Per . LX ; App., Sy r. 6 9, 362 ; Iustin. XXXIX 1, 9 ; Porphyr., FGrHist/BNJ 26 0 F


3 2, 22.

10 0
I I . RE GINE VIRTUOSE , SOVRANE VIZIOSE

dipinge un ritratto negativo in cui spicca la sua propensione agli avvelena-


menti8 • E vero che l'alcol è di per sé dannoso, ma i drink preparati da Cle-
opatra lo erano ancora di più, e i paragoni con Lucrezia Borgia si spreca­
no per questa sovrana. Potrebbe essere altrettanto valido il confronto con
Maria I d'Inghilterra, detta la Sanguinaria, colei che non a caso ha dato il
nome al cocktail Bloody Mary.
Eppure, vi sono indizi probanti per dubitare di tutto questo castello di
accuse nella tradizione in cui è imprigionata la potente regina ellenistica.
E noto infatti che Antioco VI II, come altri re ellenistici, aveva una certa
propensione per i veleni e per i loro antidoti, con cui aveva già eliminato
Alessandro Zabinas e tentò poi di uccidere il fratellastro Antioco I X, figlio
di Cleopatra e di Antioco VII. Non solo li studiava, ma componeva anche
versi sugli animali velenosi, in un'opera chiamata Theriake, che fa quasi da
pendant a quella pressoché omonima di Nicandro, autore che si ritiene le-
gato ad Attalo 111 9 •
E dunque, seguendo un'ipotesi di Whitehorne ( 1994 , pp. 1 6 2- 3 ) , si può
suggerire che sia stato proprio Antioco VII I a porgere la coppa proibita al­
la madre, permettendo poi che veicolasse la tradizione riflessa da Giusti­
no: un racconto creato ad arte proprio dallo stesso sovrano, per screditare
Cleopatra e scagionare se stesso da ogni accusa. Rimane comunque il fatto
che Antioco VI II si fece rappresentare in alcune monete come Philometor
("che ama la madre"). Ora, l'efferatezza può non conoscere limiti, così co­
me il cinismo nella politica. Ma è comunque difficile conciliare l'appella­
tivo con l'assunto di Giustino (che contrappone Cleopatra ad Antioco) e
immaginare tale sovrano, uno degli ultimi di un certo peso nella declinante
dinastia dei Seleucidi, come un precursore di Norman Bates di Psyco, dal
rapporto così psicanaliticamente turbato con la madre, anche se vi sono
casi di altri dinasti parricidi, in particolare tra i Parti nel I secolo. Questi
addirittura celarono il loro crimine con appellativi antifrastici (Philopator
ed Eupator = "che ama il padre" e "che ha nobili natali"), che richiamano
la loro virtù e l'amore famigliare: così fecero i due fratelli Orode I I e Mitri­
date I I I, che deposero e uccisero il padre Fraate I I I, prima di darsi alla lotta
fratricida (Muccioli, 2 0 13, pp. 2 3 2- 3 ) .

8. Iustin. xxxix 2, 7-8; cfr. App., Sy r. 69, 363.


9. Gal. xrv·, p. 1 85 Kiihn ; cfr. Plin., N.H. xx 264 (con riferimento ad Antioco 1 1 1 ) .

IO I
12
Il ronzino di Antioco IV

Un passo indietro nella dinastia seleucide, di qualche decennio rispetto a


Cleopatra Thea e al suo tormentato rapporto con mariti e figli. Antioco IV
( 1 7 5- 1 6 4) non è certo il migliore o il più importante dei sovrani seleucidi.
Altre sono le figure di maggior rilievo e spessore: il fondatore della dina­
stia, Seleuco I oppure suo figlio Antioco I. O, ancora, colui che volle ripor­
tare in auge il regno degli avi (ovvero i pro gonoi, termine spesso usato dalla
propaganda), Antioco I I I. Ma senz'altro il figlio di quest'ultimo, a nome
Mitridate (poi ribattezzatosi Antioco), il maschio terzogenito, si lascia pre­
ferire per le sue bizzarrie.
Vi sono sovrani che la storia ha giudicato e condannato solo per le loro
eccentricità, e vi è anche chi si è divertito a compilare "eccentriche" hit pa­
rades. In queste personalissime classifiche non possono certo mancare figu­
re come Cambise, Cleomene I di Sparta, Elisabetta d'Inghilterra, Giorgio
I I I di Hannover, Ivan il Terribile.
Antioco IV, a giudicare dal racconto spesso al vetriolo delle fonti (To­
lemeo VI II d'Egitto, Polibio e, sulla sua scia, Diodoro e Tito Livio), non è
inferiore a nessuno di costoro e la descrizione delle sue gesta e del suo ca­
rattere trascende nel parodico, quando non fa intravedere una vera e pro­
pria devianza psichiatrica, o almeno giudicata tale dagli antichi. Egli era
persona integerrima, a quanto sembra, negli anni della giovinezza e fino a
che non divenne sovrano. Questi assurse al trono, dapprima affiancandosi
al nipote, un altro Antioco, figlio del fratello Seleuco IV, poi fatto uccidere
nel 1 7 0. A parte ciò, col tempo si rese protagonista di una serie di compor­
tamenti spiazzanti, volutamente o no.
Leggendo le sue gesta, viene in mente il romanzo Il trono vuoto (e la
conseguente trasposizione cinematografica Viva la liberta) , in cui Valerio
Andò ricostruisce le vicende di un politico grigio e stanco, che decide di
interrompere la connessione con il mondo, concedendosi qualche giorno
lontano da tutti e da tutti, rimpiazzato dal fratello gemello pazzo. Un ge-

1 02
1 2 . IL RONZINO DI ANTIOCO IV

mello che però riesce a parlare alla gente, come si usava tempo addietro nel
lessico politico italiano, attraverso esempi calzanti e stringenti citazioni di
Brecht. A suo modo Antioco IV, a differenza dei suoi predecessori, incarna
l'animo jòu del sovrano ellenistico, con atteggiamenti popolareggianti se
non di stampo demagogico, attirandosi anche per questo i commenti ma­
levoli o smaccatamente sarcastici dei suoi detrattori, ma anche una certa
popolarità tra i sudditi.
Fu il primo o comunque tra i primi a capire l'importanza dei titoli uffi­
ciali come mezzo di propaganda, e per questo scelse appellativi altisonanti:
Theos Epiphanes Nikephoros ("dio manifesto portatore di vittoria"). Epiteti
che fanno capire come Antioco sia stato sovrano ambizioso e ostinato, in­
curante dei rovesci e degli insuccessi diplomatici, enfatizzati e considerati
significativi della crisi della regalità ellenistica, come il cosiddetto "cerchio
di Popilio Lenate" del 1 6 8, che pose fine alla sesta guerra di Celesiria. Il
momento in cui il dinasta, sotto le pressioni dei Romani, fu costretto a ri­
nunciare alle sue ambizioni di conquista del regno lagide: Popilio Lenate,
inviato per far desistere il Seleucide dalla guerra contro l'Egitto (e conse­
guentemente Roma), tracciò un cerchio sul terreno intorno al sovrano e gli
impose di decidere sulle sue intenzioni prima di uscirne. Tuttavia, al ritor­
no in Siria, il sovrano non esitò a celebrare la sua spedizione assumendo il
titolo di Nikephoros.
Nonostante il fuoco di fila delle fonti letterarie, si sa che all'interno del
suo regno Antioco IV lasciò un segno profondo, e che la sua memoria fu
coltivata a lungo anche dopo la morte. Prova ne sia il fatto che sotto Ales­
sandro Balas, probabilmente un impostore che si spacciava per figlio del
Seleucide, nelle zecche di Apamea e di Antiochia in Siria furono coniate
monete nel 1 5 1 / 1 5 0 e nel 1 4 6 / 1 4 5 con l'effigie di Antioco IV, denomina­
to Epiphanes nella seconda polis. <<Assenza più acuta presenza>> , scriveva
Attilio Bertolucci, e la mancanza di un sovrano di peso come Antioco IV è
tanto più significativa sotto il regno dei successori, monarchi per lo più di
mediocre caratura o impegnati in interminabili conflitti dinastici. La sto­
ria dei Seleucidi, fino alla dissoluzione della casata nel 63, è una serie inin­
terrotta di lotte tra i vari rami della famiglia, con l'intrusione di più di un
usurpatore, tanto che per loro si può applicare l'espressione "the sick man
of Asià'. Un'espressione che indica la debolezza intrinseca del potere mo­
narchico e delle sue capacità carismatiche, riferita tanto agli Achemenidi
quanto ad altri poteri monocratici di quel continente nel corso dei secoli.
In pochi casi la dissociazione tra realtà storica e tradizione letteraria è
così percepibile come nel caso di Antioco IV. Un piccolo prontuario delle
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

stranezze del personaggio è fornito da Polibio, compendiato poi da Livio,


in un denso capitolo che suona quasi come una perizia psichiatrica ante lit­
teram per un basileus perennemente in sospeso nel giudizio dei contempo­
ranei e dei posteri tra grande ambizione e megalomania. L'elenco polibia­
no, tràdito grazie ad Ateneo, è davvero rimarchevole:

A volte fuggiva dalla corte, di nascosto dai suoi attendenti, e lo si vedeva vagare
per la città con uno o due compagni ; lo si trovava di preferenza presso le botte­
ghe degli argentieri e degli orafi, a fare dotte disquisizioni e a parlare con sicura
competenza con toreuti ed altri del mestiere. Poi scendeva tra il popolo e si in­
tratteneva con chi capitava, e beveva anche con i più umili dei forestieri. A volte,
quando veniva a sapere che dei giovani erano riuniti a banchetto, si presentava da
loro senza alcun preavviso, a far baldoria, con l'accompagnamento di un cornetto
e di una symphonia e finiva in genere che i commensali, spaventati dalle sue stra­
vaganze, si defilassero. Spesso, smessa la veste regale, con una toga girava per la
piazza e si presentava come candidato ; porgendo agli uni la destra e abbracciando
altri, invitava tutti a votare per lui, ora per la carica di agoranomo ora per quella di
demarco. Una volta ottenuta la carica, sedeva su uno scranno d 'avorio, secondo il
costume romano, e ascoltava le liti che avvenivano sovente al mercato e alla fine
emetteva la sua sentenza, tutto serio e compreso nella parte. Questi suoi compor­
tamenti suscitarono un certo imbarazzo negli uomini di senno ; c 'era chi lo giu­
dicava spontaneo, chi, invece, folle. Anche in fatto di donazioni si comportava in
modo bizzarro. A qualcuno regalava dadi fatti di corno di gazzella, a qualcun altro
una manciata di datteri, ad altri, infine, pezzi d 'oro. Oppure dispensava doni del
tutto inattesi a gente incontrata per caso, mai vista prima. Nei sacrifici offerti in
onore delle città e nelle feste in onore degli dèi superò tutti i suoi predecessori. Lo
si capisce, ad es. , dal tempio di Zeus Olimpio ad Atene e dalle statue erette intorno
all 'altare di Delo. Usava lavarsi anche nei bagni pubblici, quando erano gremiti di
popolani, e qui si faceva portare orci pieni dei profumi più preziosi. Una volta un
tale gli disse : << Beati voi, re, che potete avere questo ben di dio, e odorate sempre
di buono >> . Antioco non rispose nulla, ma il giorno dopo tornò dove quello faceva
il bagno e gli fece rovesciare sulla testa un grande orcio pieno di un profumo chia­
mato "lacrime di mirra". Allora anche gli altri accorsero per rotolarsi nella mirra e,
unti com 'erano, scivolarono e caddero tutti quanti sul pavimento, e il re insieme a
loro, in una risata generale 1 •

Il carattere di Antioco, portato a provare sempre esperienze diverse, risulta


un mistero tanto a lui stesso quanto a chiunque altro, sostiene espressamen­
te Livio2 Scostante al punto di non rivolgere parola agli amici, e capace di

1.Polyb. x�rI 1, in Athen . v· 1 9 3d- 1 94c.


2. Liv. XLI 20, 2.

10 4
1 2 . IL RONZINO DI ANTIOCO IV

salutare affabilmente il primo che passa. Quando poi voleva mostrarsi un


benefattore, Antioco IV risultava generoso in modo sconcertante, quasi a
prendersi gioco di se stesso, della propria ricchezza e degli altri. Addirittu­
ra, nella parodia delle fonti, quasi trasformò quella che era la capitale del re­
gno seleucide, Antiochia sull'Orante, in un paese di cuccagna, mescolando
il vino alla sorgente della città3 •
C'è un'etica anche nel dono, tanto più nella società greca, almeno da
Omero in poi. E Polibio aggiunge che il Seleucide a persone distinte e che
avevano un'alta concezione di sé dava doni adatti ai bambini (qualcosa
da mangiare, dei giocattoli), mentre ad altri, che non si aspettavano nul­
la, elargiva un'autentica fortuna. La conclusione dello storico è condivisa
da Livio, che lascia un po' salomonicamente in sospeso il giudizio: <<In tal
modo ad alcuni sembrava che non sapesse cosa voleva. Alcuni dicevano che
gli piacesse giocare come un bambino; altri che senza ombra di dubbio era
un folle>> 4 •
Polibio conosceva bene i maneggi di corte del regno di Siria, ed era
schierato con il ramo ostile a quello di Antioco IV, rappresentato da un altro
figlio di Seleuco IV, Demetrio I (suo amico personale). Non sorprende dun­
que che la sua descrizione esasperi, volutamente, tutti gli aspetti negativi del
sovrano. A più riprese, lo storico gioca con l'appellativo Epiphanes, trascu­
rando Theos e dunque omettendo ogni riferimento alla divinizzazione del
Seleucide o, comunque, alla sua sfera divina. Epiphanes, che comunque sem­
bra essere stato il titolo più noto, si presta ad un facile gioco di parole grazie
alla storpiatura in Epimanes: da "eminente': dunque, a "demente" 5 • Risulta
comunque difficile capire se il bon mot vada attribuito a una tradizione dif­
fusa nel regno seleucide (e solo presso i Seleucidi?), rifluita in Polibio, o se
bisogna accordare allo storico di Megalopoli tale licenza inventiva (anche in
rapporto ad un pubblico romano). In ogni caso qualcosa di simile fecero an­
che gli Alessandrini con Tolemeo VII I, divenuto da "benefattore" un "mal­
fattore" (Euergetes-Kakergetes; cfr. infra, CAP. 17).
Il re ellenistico deve essere affabile e disponibile nei confronti dei sud­
diti, come recita l'itifallo ateniese del 29 1-29 0, ma vi è un limite a tutto, am­
piamente superato da Antioco IV. Questi addirittura partecipava alle elezio-

3. Heliod., FGrHistlBNJ 37 3 F 8, in Athen. I I 45c.


4. Liv. XLI 20, 4.
5. Polyb. XXVI 1a, 1 e 1, 1, in Athen. x 439a; v· 193c-d; cfr. Athen. II 45c (dove la citazio­
ne polibiana è mediata da Eliodoro il Periegeta : FGrHistlBNJ 37 3 F 8).
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

ni civiche (probabilmente ad Antiochia sull'Orante), e frequentava i bagni


pubblici, distinguendosi per il suo comportamento ritenuto sconcertante.
A giudicare dalle fonti, il momento clou degli atteggiamenti "contro­
corrente" del sovrano fu toccato nel 16 6 (o, per altri, nel 16 5), anno in cui
allestì una grandiosa pompe, ovvero una processione, a Dafne, vicino ad
Antiochia. Antioco IV, contrariamente agli altri re (che cercavano di au­
mentare la propria potenza di nascosto dai Romani), negli agoni voleva
mostrare a tutti la sua potenza, anche a costo di irritare gli ormai invadenti
occidentali. Così informa Diodoro:

Egli invece si comportò in modo opposto. Infatti radunò alla sua festa [lett.
panegyri.s: "processione sacra"] tutti gli uomini più illustri dell' intera ecumene, e
ornò con magnificenza tutte le parti della sua reggia. E avendo così radunato in
un unico luogo e messo quasi come su una scena tutto quanto il suo regno, non
nascose ai Romani nulla di ciò che lo riguardava6 •

Il testo non ha corrispondenze esatte nelle fonti parallele (in particolare


Polibio, in Ateneo), che invece riferiscono la motivazione addotta per or­
ganizzare una simile parata: Antioco IV, sempre in cerca di visibilità me­
diatica, era mosso dal desiderio di rivaleggiare con la festa fatta celebrare da
Lucio Emilio Paolo in Acaia nel 167. Voleva dunque celebrazioni sfarzose,
che esaltassero la tryphe, ovvero il lusso e lo sfarzo suo e del suo regno. An­
tioco non badava a spese per dimostrare a tutti che il suo regno era ancora
ricco e fiorente, nonostante si sentissero ancora economicamente gli effetti
della pace di Apamea, con le dure condizioni imposte dai Romani.
Il lungo passo polibiano, tràdito da Ateneo, in cui è descritta la proces­
sione di Dafne è forse uno dei capitoli più (involontariamente?) comico­
parodici di tutta la tradizione classica. Merita di essere trascritto nella sua
interezza, giacché ogni parafrasi ne sminuirebbe l'effetto dirompente:

Sempre Antioco, informato dei giochi che venivano celebrati in Macedonia dal
console romano Emilio Paolo, preso dal desiderio di superarlo in munificenza, in­
viò ambascerie e legazioni nelle varie città della Grecia, per annunciare che avreb­
be istituito dei giochi a Dafne. Così avrebbe suscitato nei Greci il desiderio di
accorrere da lui. Diede inizio alla festa con una solenne processione allestita come
segue. Precedevano alcuni soldati, armati alla maniera dei Romani, con corazze
a maglia, cinquemila uomini nel pieno del vigore; dopo di questi venivano cin­
quemila Misi, e subito dopo tremila Cilici armati al modo della fanteria leggera, e

6. Diod. xxxi 1 6, 1.

10 6
1 2 . IL RONZINO DI ANTIOCO IV

con corone d 'oro. Seguivano tremila Traci e cinquemila Galati. A questi tenevano
dietro ventimila Macedoni, dei quali diecimila portavano scudi d 'oro, cinquemila
portavano scudi di bronzo, gli altri, scudi d 'argento. Seguivano duecentoquaran­
ta coppie di gladiatori. A questi facevano séguito mille cavalieri di Nisa, tremila
dei contingenti cittadini, la maggior parte dei quali aveva bardatura e corona d 'o­
ro ; gli altri avevano bardature d'argento. Dopo di questi era la volta dei cavalieri
chiamati "Eteri", un migliaio all ' incirca, tutti bardati d 'oro. Subito dopo veniva il
corpo degli ''Amici del re", pari per numero e per ornamento. Dietro a questi, mille
cavalieri scelti, seguiti dal cosiddetto agema, che era ritenuto il più forte corpo di
cavalleria, di circa mille uomini. Per ultima sfilava la cavalleria "corazzata", nella
quale, come dice propriamente il nome, cavalli e uomini erano rivestiti intera­
mente di armatura: erano in tutto millecinquecento unità. Tutti questi portavano
mantelli di porpora, molti dei quali erano intessuti d 'oro e variamente istoriati.
Dietro a questi, cento carri a sei cavalli e quaranta a quattro cavalli, e poi un carro
tirato da quattro elefanti e un altro tirato da una coppia di elefanti. Seguivano, uno
dietro l 'altro, trentasei elefanti riccamente bardati.
Descrivere il resto della processione sarebbe fatica improba, per cui sarà me­
glio parlarne per sommi capi. Sfilarono circa ottocento efebi, con corone d 'oro, e
circa mille buoi, splendidi capi, e poco meno di trecento delegazioni sacre e otto­
cento zanne di elefante. Impossibile poi passare in rassegna la moltitudine di sta­
tue : furono portate in processione statue di tutti gli dèi e demoni di cui si conosca
il nome o che siano venerati tra gli uomini, e poi statue di eroi, alcune ricoperte
interamente d 'oro, altre rivestite di abiti intessuti d 'oro. Accanto alle statue stava­
no le raffigurazioni, fatte di materiali pregiati, dei miti relativi alle varie divinità,
secondo i racconti tradizionali. Dopo di queste venivano le immagini della notte,
del giorno, della terra, del cielo, dell 'aurora e del mezzogiorno. È possibile farsi
un' idea di quale fosse la quantità di oggetti d'oro e d 'argento da quanto segue :
mille schiavi, che appartenevano a uno degli ''Amici del re", Dionisio, lo scrivano
ufficiale, sfilarono portando pezzi d 'argento, nessuno dei quali pesava meno di
mille dracme. Passarono poi seicento schiavi del re, portando pezzi d 'oro. E poi
circa duecento donne spargevano profumi da vasi d 'oro. Subito dietro a queste
sfilarono ottanta donne, sedute su lettighe dai piedi d 'oro, e altre cinquecento su
lettighe dai piedi d 'argento, tutte con acconciature sfarzose. Questi sono gli ele­
menti più suggestivi della processione.
I giochi, le lotte dei gladiatori e i tornei di caccia si protrassero per trenta
giorni, tanto durarono gli spettacoli, e per i primi cinque giorni successivi tutti si
raccolsero nella palestra, dove venivano cosparsi di profumo di zafferano, attinto
da orci d 'oro, quindici di numero e altrettanti erano gli orci di profumo di cinna­
momo e di nardo. Anche nei giorni seguenti, allo stesso modo, agli ospiti veniva
offerto profumo di fieno greco, di maggiorana, di iris, tutti preziosi per fraganza.
Per il banchetto, furono approntati ora mille, ora millecinquecento triclini, ad­
dobbati con il corredo più lussuoso. Il re in persona volle sovraintendere all 'or­
ganizzazione della festa. A cavallo di un povero ronzino, scorrazzava da un capo

10 7
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

ali' al ero della processione, solleci cando gli uni ad avanzare, gli al cri a rallentare.
Poi, in occasione dei banchetti, mettendosi ali ' ingresso, ora accoglieva gli ospiti,
ora li faceva accomodare, e guidava personalmente i servitori con le varie portate.
E girava per la sala senza posa, sedendosi da una parte, sdraiandosi dall 'altra : e po ­
sando qua il piatto, là il bicchiere, si alzava e cambiava posto, andando in giro per
tutta la sala del banchetto, brindando in piedi, ora con un commensale, ora con
un altro, e non mancava, allo stesso tempo, di scherzare con i cantanti. A una certa
ora - il banchetto andava per le lunghe e molti ospiti se ne erano già andati - il
re tutto coperto di veli fu portato in sala dai mimi e deposto a terra, come fosse
anche lui un mimo. Al segnale della symphonia il re, balzando in piedi, si mise a
ballare e a recitare, insieme ai buffoni, fino a che tutti i commensali, scandalizzati,
si dileguarono. Tutto questo Antioco realizzò in parte con le ricchezze che aveva
sottratto all ' Egitto, quando tradì il re Philometor, che era ancora bambino [scii.
Tolemeo ,,1] , in parte con i contributi degli "Amici del re". Ma aveva spogliato
anche gran parte dei templi.
I commensali espressero il loro stupore sia per il comportamento del re, che
giudicarono non Epiphanes, ma davvero Epimanes [ ... ] 7•

Non può sfuggire come la prima parte del lungo estratto polibiano abbia
tutt'altro tono rispetto alla seconda. Anche accettando la motivazione che
viene suggerita (il desiderio di emulazione nei confronti di Lucio Emilio
Paolo), in realtà la processione si innesta nel filone delle parate ellenistiche,
e paralleli vanno individuati con la famosa pompe dei Ptolemaia, descritta
da Callissino di Rodi. La cerimonia del 1 6 6 era una parata militare tesa a
magnificare la potenza, militare e non, del sovrano seleucide (come ogni
buon re e tiranno ha fatto e fa, ad ogni latitudine), in una rappresentazio­
ne visiva dell'ideologia regale agli occhi degli astanti e, di riflesso, anche di
Roma. E quasi la messa in scena del regno ideale, che potrebbe trovare un
antecedente nella revue de /'empire, attestata sotto gli Achemenidi (lossif,
2011; Couvenhes, 2014, pp. 202-3) .
La seconda parte del passo comprende l'esaltazione della tryphe, in cui
l'elemento parodico è costituito dallo scambio dei ruoli, per cui il tutto
diventa alla fine una cerimonia quasi carnevalesca. Il sovrano si comportò
infatti esattamente all'opposto di come si sarebbe dovuto comportare, la­
sciandosi andare a una serie di atti che stridevano con il carattere ufficiale
e, addirittura, sacrale della pompe. L'immagine di Antioco che, in sella a
un povero ronzino, dà i tempi della cerimonia è di quelle che rimangono
impresse nel lettore, antifrastica a quella del sovrano abile cavallerizzo (in

7. Polyb. xxx 25, in Athen. v· 194c-196a; cfr. Athen. x 4936-d.

108
1 2 . IL RONZINO DI ANTIOCO IV

controluce si potrebbe anche leggere una parodia di Alessandro e Bucefalo,


anche se il Seleucide non è noto per essere stato un cultore della memoria
del Macedone) e ci fa quasi pensare a un Don Chisciotte in riva all'Orante.
Il sovrano indulgeva anche alla musica e ai canti, ma in modo goffo e
inopportuno: improvvisando quasi un karaoke di gruppo ( <<scherzando
con i cantanti>> ), si trasformò da re in buffone, in un ribaltamento di ruolo
del tutto imprevisto. Decisamente troppo, anche in un contesto conviviale,
per gli attoniti commensali e ancor più nel giudizio di Polibio.

IO ()
13
In cauda venenum

Ancora Antioco IV di Siria. E pour cause. Tutti abbiamo le nostre fissazio­


ni, piccole o grandi. E la grande ossessione del sovrano seleucide si chiama
Zeus, anzi Zeus Olimpio, e non già un più modesto Zeus Kasios, Zeus Ke­
raunios o Zeus Kor yphaios. Una fissazione pari alla megalomania del perso­
naggio (in base al racconto, sempre insistitamente tendenzioso, delle fon­
ti). Livio, nel passo ricordato nel capitolo precedente, aggiunge che in due
cose Antioco IV dimostrava un animo davvero regale, che non si prestava a
maliziosi commenti, in Oriente come a Roma: i doni che offriva alle città
e il culto degli dèi 1 •
Se la propaganda di corte aveva legato la dinastia e le sue origini alla
figura di Apollo, come si desume peraltro solo dalla tradizione più tarda,
Antioco era invece devoto fervente di Zeus Olimpio. Buon conoscitore di
Atene e dei suoi tesori - dal momento che lì vi aveva trascorso alcuni anni,
forse tra il 1 7 8 / 1 77 e il 1 7 5 - non esitò a elargire donazioni per condurre
a termine il tempio di quella divinità, iniziato secoli prima da Pisistrato e
mai completato, affidandosi all'architetto romano Cossuzio. Un progetto
ambizioso per un tempio dalle dimensioni quali non ne ebbe nessun altro
edificio religioso nel mondo greco, che vide la sua realizzazione solo con il
filelleno Adriano. Tale progetto trova il suo contraltare in un altro tempio
di Zeus Olimpio ad Antiochia sull'Oronte, con il soffitto e i muri ricoperti
di lamine d'oro 2 Antioco IV, fino a quando le finanze glielo permisero, non

lesinò dunque spese. Lo dimostra la sua politica da grande euergetes, ovvero


sponsor di realtà, templari e non, sparse per il mondo greco (Olimpia, Me­
galopoli, Tegea, Delo, Cizico). Un progetto che si collegava ad altri, come
quello di chiamare Epiphaneia un quartiere attiguo ad Antiochia, e a de-

1. Liv. XLI 20, 5.


2 . Liv. XLI 2 0, 8-9 ; Vitruv. VI I praef., 1 5 e 1 7.

I IO
1 3 . IN CA UDA VENEN UM

nominare o a ridenominare altre città sparse per il regno con il suo epiteto
più altisonante, Epiphanes.
Il culto di Zeus doveva diffondersi in tutte le regioni del multietnico
regno del Seleucide. Anche laddove sarebbe stata preferibile una politica
più prudente, come nei confronti di Gerusalemme e degli Ebrei. Nei piani
di Antioco IV era anche quello di assoggettare tutti i popoli a un'unica leg­
ge, secondo un passo discusso del I Libro dei Maccabei:

Poi il re prescrisse in tutto il suo regno che tutti formassero un solo popolo e ciascu­
no abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re3 •

Il periodo è attorno al 169/16 8 (secondo il contesto, ma non si può esclu­


dere un'anticipazione di qualche anno). Dietro vi è probabilmente trac­
cia delle frequentazioni filosofiche del sovrano. Un sol popolo e un'unica
legge (o corpo di leggi) valevole per tutti è infatti espressione in accordo
con i principi stoici dettati e professati da Zenone e Crisippo. Fino al pa­
dre Antioco I I I e al fratello Seleuco IV, gli Ebrei costituivano un 'enclave
felice e pressoché tranquilla, pur con qualche frizione (in particolare, il fa­
moso episodio della cacciata di Eliodoro, primo ministro di Seleuco, dal
Tempio)4 • Invece di mantenere le concessioni e le autonomie accordate da­
gli altri Seleucidi, Antioco IV, in accordo con la sua politica uniformante
anche dal punto di vista religioso, volle impiantare il culto di Zeus Olimpio
a Gerusalemme, al posto di quello di Jahvè. Il sacrilegio supremo! Proprio
in quegli anni stava facendo qualcosa di simile anche a Babilonia. Lì non
smantellò il tempio di Marduk, ma fondò, forse riprendendo una volontà
paterna, una polis secondo i costumi e le istituzioni greche: un primo passo
per relegare la comunità sacerdotale locale sempre più in una posizione su­
bordinata, se non proprio di segregazione come vorrebbero alcuni.
La Giudea divenne per Antioco quello che è stato il Vietnam per gli
Americani: il risultato è una lotta strenua, all'ultimo sangue, capeggiata da
Giuda e poi da Gionata, della famiglia dei Maccabei, fedeli al loro nome
(maccabeo significa "martello"). Proseguita poi sotto il figlio Antioco v
(164-16 2), si concluse con la vittoria degli Ebrei, ovvero la vittoria di Da­
vide contro il Golia seleucide, con la nascita del regno asmoneo. Tali avve­
nimenti entrano così nella memoria collettiva giudaica (mentre nessuna o
scarse tracce lasciano nelle fonti classiche, che anzi apprezzano la repressio-

3. Mach. I 1, 4 1 -4 2 .
4 . Mach. I I 3.

III
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

ne antisemita del Seleucide: così in particolare Tacito, in un passo peraltro


non esente da anacronismi) 5 • Ancora oggi, infatti, gli Ebrei celebrano la Fe­
sta delle luci (Hannukkah), a ricordare la liberazione e riconsacrazione del
Tempio nel 16 5 e il miracolo dell'olio nella lucerna, durato giorni e giorni
(ben otto). La vittoria della luce dunque contro l'oscurità, il trionfo della
fede contro chi esalta idoli pagani.
Non è però solo una vittoria sul campo, entrata nei rituali giudaici. An­
zi, è accompagnata da una vera e propria pubblicistica, quasi dai toni epici
e trionfalistici, nei limiti concessi dall'Antico Testamento. La letteratura di
guerra è spesso intrisa di propaganda e di notizie gonfiate ad arte, sempre
protesa a una rozza schematizzazione dei contendenti e una caratterizza­
zione del nemico intrisa di dileggio e di offese anche gratuite. E gli Ebrei
non sfuggono a tale regola. Se le fonti classiche hanno un atteggiamento
ondivago nei confronti di Antioco IV, pur accentuando le notazioni sar­
castiche, nelle fonti giudaiche egli è l'incarnazione del male assoluto, colui
che spicca per hyperephania ("arroganzà'), termine in cui forse è ravvisabile
anche un qualche riferimento intriso di sarcasmo nei confronti della sua
pretesa di essere chiamato Theos Epiphanes. Critica avvertibile nel I Libro
dei Maccabei e, ancor più, nel I I Libro dei Maccabei, forse una delle fonti
più tendenziose della storia non solo antica, ma mondiale. I toni, rispetto
al I Libro, si fanno molto più accesi e rancorosi e danno luogo a una serie di
documenti palesemente falsi e pieni di imprecisioni.
Il capolavoro del livore, in cui non si parla più di ironia o di satira sfer­
zante, bensì di gusto macabro e quasi barocco, è la descrizione della morte
di Antioco. Questi, tra il 16 5 e il 164, intraprese una campagna orientale,
sulle orme del padre Antioco I I I e della sua celebre anabasi. L'intento era
di ristabilire l'ordine seleucide ormai traballante. Una spedizione preparata
e celebrata con tutti i crismi, in cui Antioco IV si presentava ai suoi sudditi
come il salvatore dell'Asia, ovvero dei domini seleucidi, alquanto ridotti,
dopo la pace di Apamea del 18 8 e l'avanzata partica ad Oriente. Così infatti
recita un'iscrizione, oggi perduta, proveniente forse da Babilonia, rifonda­
ta come città greca forse proprio da Antioco IV 6 • In quel periodo, dopo un
infelice tentativo di saccheggiare il santuario della dea Anaitis in Elimaide,
trovò la morte negli ultimi mesi del 164 a Tabae, località situata in Persi­
de o in Paretacene. Polibio, che come si è visto non ha nessuna simpatia
per il personaggio, scrive che questi <<morì, reso invasato, come affermano

5 . Tac.,Hist. v· 8.
6. OGIS 25 3.

II2
1 3 . IN CA UDA VENEN UM

alcuni, dal fatto che vi erano stati alcuni segni d'intervento divino come
conseguenza dell'oltraggio al tempio>> . Appiano, dal canto suo, parla di
consunzione (tubercolosi?), fisica prima ancora che morale, dopo una vita
di eccessi7•
Il I Libro dei Maccabei si allinea con il resto della tradizione, intingen­
do il manzoniano sugo della storia nel pentimento del sovrano per le male­
fatte commesse nei confronti degli Ebrei. Il re, venuto a sapere che le cose
si stanno mettendo male a Gerusalemme e nella lotta contro Giuda Macca­
beo, cadde malato per la tristezza, e rimase a letto molti giorni in preda ad
uno spleen terribile. Chiamati a sé gli amici, riconobbe i suoi peccati, causa
dei mali che lo attanagliavano. Il finale è amarissimo: <<ed ecco, muoio nel­
la più profonda tristezza in paese straniero>> 8 •
Il I I Maccabei tramanda invece una versione più cupa e infinitamente
più truce, inverosimile ma di grande effetto e che, per certuni, presenta al­
cuni tratti in comune con la cosiddetta preghiera del re neobabilonese Na­
bonide, nota da uno dei manoscritti di Qumran9 • Antioco IV, giunto nella
città di Persepoli, cercò invano di depredare il tempio locale e di impadro­
nirsi della città. Venuto a conoscenza a Ecbatana, in Media, che le vicende
giudaiche stavano volgendo al peggio per lui, fu preso non già dalla tristez­
za e dalla depressione, bensì da un violento attacco di collera (il che sarebbe
più in linea con il personaggio, in un contesto storicamente assai traballan­
te). Lo animava subito il desiderio di vendicarsi e di fare personalmente di
Gerusalemme un cimitero di Giudei, preludio di nefaste ondate antisemite
nella storia dell'umanità. La vendetta divina però, come suggerisce rassicu­
rante e rassicurato l'autore del I I Libro dei Maccabei, è una piaga invisibile
e insanabile. Lancinanti dolori alle viscere e terribili spasmi intestinali nel
corpo del re furono la prima avvisaglia che il Dio dei Giudei, con ogni evi­
denza, è più potente di Zeus Olimpio.
Antioco IV si lanciò, nonostante tutto, con il suo carro verso la Giudea
e gli odiati ribelli. Caduto però durante la sua folle corsa, riportò ferite in
tutto il corpo:

Colui che poco prima, nella sua sovrumana arroganza, pensava di comandare ai
flutti del mare, e credeva di pesare sulla bilancia le cime dei monti, ora, gettato a
terra, doveva farsi portare in lettiga, rendendo a tutti manifesta la potenza di Dio.

7. Polyb. XXXI 9, 3 -4; App. , Syr . 6 6 , 3 52.


8. Mach. I 6 , 1 - 1 3 .
9. Mach. I I 9, partic. 8 - 1 0 (per le citazioni nel testo) ; 4Q242; cfr. Daniele 4.

II �
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Segue una fine degna del miglior film del genere splatter:

a tal punto che nel corpo di quell 'empio si formavano i vermi e, mentre era ancora
vivo, le sue carni, fra spasimi e dolori, cadevano a brandelli e l 'esercito era tutto
nauseato dal fetore e dal marciume di lui. Colui che poco prima credeva di toccare
gli astri del cielo, ora nessuno poteva sopportarlo per l' intollerabile intensità del
fetore.

Chi ha redatto questa "uscita di scena" del Seleucide ha ben presente la pro­
paganda di Antioco IV e la sua pretesa di essere Theos Epiphanes e di pro­
clamarsi Nikephoros, a qualunque costo (forzando anche la realtà storica:
lo insegnano gli avvenimenti del 168, come si è visto). Probabilmente co­
nosce anche i simboli astrali presenti nella monetazione del Seleucide, utili
come collanti anche nelle regioni orientali. Nell'immaginario giudaico il
disfacimento del corpo naturale, con buona pace di Kantorowicz (1989)
e del suo noto libro sui Due corpi del re, si fonde qui con la corruzione del
corpo politico, oramai non più intangibile e inarrivabile: la putrefazione
delle membra di Antioco IV incarna dunque, agli occhi dei Giudei, la crisi
inarrestabile del regno impiantato da Seleuco I, che è vinto dalle armi dei
Maccabei, infervorate e benedette da Dio.
Di fronte a tale svilimento e decadenza della carne, l'unica via di salvez­
za è costituita dal ravvedimento e dalla preghiera. Una sana contritio cordis,
come insegnò anche la precettistica cristiana, che portò, inevitabilmente, al
pentimento, all'espiazione nonché addirittura alla conversione. Lo stesso
Nabonide, caduto malato a Teiman in Arabia, aveva rivolto una preghiera
a Dio e fu guarito da un Ebreo.
Sempre secondo il I I Libro dei Maccabei, Antioco IV, la più malvagia
delle radici di Alessandro, volle dunque farsi giudeo e annunciare la poten­
za del Dio degli Ebrei recandosi in ogni luogo abitato. Più modestamente,
il primo atto di tale cambiamento passava attraverso una lettera ai Giudei,
che reca pur sempre nell'intestazione le tracce della potenza pagana ( <<Ai
Giudei, ottimi cittadini, il re e condottiero Antioco augura perfetta salu­
te, benessere e prosperità>> )1 0 • Chiaramente un falso, di tipo epistolare, ri­
calcato, con evidenti stonature, sulle lettere regie ellenistiche (documenti
che abbondano nei Libri dei Maccabei). Un documento scritto con stilemi
degni di una supplica, in cui il sovrano, voglioso di riabilitazione, racco­
manda ai Giudei, in nome dei benefici pregressi, ricevuti pubblicamente

10. Mach. 11 9, 1 9.

1 14
1 3 . IN CA UDA VENEN UM

o privatamente, la sua persona e quella del suo figlio, il futuro Antioco v,


destinato al trono. Precisa che monarchi vicini e confinanti spiavano il mo­
mento opportuno attendendo gli eventi, pronti a intervenire (il riferimen­
to, prima ancora che ai Parti, è ancora una volta ai Tolemei). Antioco v, cui
fu significativamente dato dal "primo ministro" Lisia l'epiteto ufficiale e
altisonante di Eupator ("che ha nobili natali"), era infatti appena un bam­
bino, in balìa degli ex uomini di corte di Antioco IV, in perenne lotta tra
loro. Una resa incondizionata comunque, con un sovrano che si rimetteva
al buon cuore degli odiati Ebrei, sicuro che il figlio si sarebbe comportato
con loro con moderazione e con umanità, seguendo le sue direttive.
Ma tutto ciò non basta alla penna dell'inacerbito autore del II Libro dei
Maccabei. La vendetta di Dio, e soprattutto del Dio dell'Antico Testamen­
to, sa e deve anzi essere crudele. Nonostante le scongiure e le preghiere ac­
corate e interessate, il Seleucide, omicida e bestemmiatore, secondo il "lu­
singhiero" giudizio della fonte ebraica, finì così miseramente i suoi giorni
terreni in una terra straniera, tra le montagne.
Sic transit dunque la gloria di Antioco IV, "dio manifesto", "portatore
di vittorià', colui che solo pochi anni prima si era pomposamente e orgo­
gliosamente definito, non senza qualche ragione, salvatore dell'Asia e come
tale era celebrato e omaggiato dai suoi sudditi greco-macedoni.
Non stupisce pertanto che, sulla scorta dei Libri dei Maccabei, poi nel
Medioevo l'immagine negativa del sovrano venisse ripresa, amplificata e
demonizzata a tal punto che Antioco rappresentò l'Anticristo per eccellen­
za ( Cary, 19 5 6, pp. 121 ss.).
14
Filippo v e Perseo, sovrani on the run

La riscrittura della storia talora è così faziosamente selettiva da risultare in­


volontariamente parodistica. Se nella Russia di Putin la vittoria sulla Ger­
mania hitleriana è considerata merito solo della gloriosa Armata rossa, con
buona pace della campagna d ' Italia e dello sbarco in Normandia, nella ma­
nualistica le guerre macedoniche sono legate alle battaglie di Cinoscefale
e di Pidna. Conseguentemente vengono cristallizzate, banalizzate e conse­
gnate ai posteri le figure dei vincitori e dei vinti: Tito Quinzio Flaminino e
Lucio Emilio Paolo da un lato e dall 'altro i re di Macedonia, Filippo v e il
figlio Perseo. In realtà vi è dietro un importante scontro, politico-ideologi­
co, che riguarda anche altre forze in campo, generalmente eluse.
Lo scontro di Cinoscefale del maggio/giugno 1 9 7 è infatti anche una
vittoria degli alleati Etoli, non solo dei Romani, così come quello di Ma­
ratona del 49 0 contro i Persiani era stato anche una vittoria dei Plateesi
(colpevolmente obliterata dall 'oratoria e dalla memoria storica ateniese) .
Anzitutto va detto che Filippo v, e come lui successivamente Perseo,
erano sovrani che volevano collegarsi direttamente agli argeadi Filippo II e
Alessandro Magno, anche se appartenevano alla famiglia degli Antigonidi
(Filippo v è figlio di Demetrio I I , a sua volta figlio di Antigono Gonata, fi­
glio di Demetrio Poliorcete e dunque nipote di Antigono Monoftalmo) . A
rigore, una pretesa senza alcun fondamento nella realtà, giacché gli Antigo­
nidi non avevano nessun collegamento dinastico con gli Argeadi, né, d 'al­
tra parte, Antigono Monoftalmo e soprattutto Demetrio Poliorcete osaro­
no avanzarlo. Tutt 'al più, vi era la convinzione di essere gli eredi "spirituali"
di Alessandro e del suo sogno di controllare l 'ecumene.
Comunque sia, se è vero che una menzogna ripetuta all 'infinito diven­
ta la verità, come insegnava anche Joseph Goebbels nella sua precettistica
sulla propaganda, Filippo v e Perseo, utilizzando tutti i canali possibili, do­
vettero aver propalato a dovere la loro discendenza dalla famiglia di Filippo
I I e Alessandro. E tutto ciò in modo convincente, dal momento che per-

II6
1 4 . F ILIP PO V E P E RSEO, S OV RANI ON THE R UN

sino i loro oppositori più accaniti, come Polibio, non dubitano minima­
mente della veridicità di tale rapporto genealogico. Gli appunti, per non
dire strali, dello storico acheo sono semmai sulla reale capacità (o meglio,
incapacità) di Filippo v di essere pari ad Alessandro ma, soprattutto, a Fi­
lippo II, sovrano rivalutato nel medio-tardo Ellenismo e nella pubblicistica
greco-romana.
In particolare, il richiamo ad Alessandro da parte del re di Macedonia
poteva rivelarsi un fardello piuttosto pesante, come ben illustra un passo di
Plutarco, ambientato nei momenti immediatamente precedenti lo scontro
di Cinoscefale:

I soldati non furono colti da paura per lo scontro imminente, ma furono presi
ancor più dall 'entusiasmo e dal desiderio di gloria, dal momento che i Romani
desideravano vincere i Macedoni, la cui reputazione di valore e potenza era gran­
dissima presso di loro grazie ad Alessandro ; i Macedoni a loro volta, ritenendo
i Romani superiori ai Persiani, speravano di mostrare con una loro vittoria che
Filippo era un generale più illustre di Alessandro 1 •

Per Roma, dunque, vincere Filippo e le sue truppe significava dimostrare la


propria superiorità sulla Macedonia e sull'ombra invadente di Alessandro
Magno, mentre Filippo, preso dalle sue smanie di grandezza, convinceva se
stesso e i suoi sudditi che poteva, anzi doveva essere più grande dello stesso
fittizio antenato. Una presunzione spazzata via in Tessaglia, nella battaglia
di Cinoscefale.
Se bisogna saper perdere, è comunque forse ancor più importante saper
vincere. Chiosa ancora acidamente Plutarco, ostile alle manifestazioni di
eccessivo orgoglio greco (ancora ai suoi tempi, visto che la temperie sugge­
riva ormai un inevitabile gentlemen agreement con Roma, sia pur venato di
quieta rassegnazione), che Etoli e Romani dopo lo scontro si contendevano
a suon di ingiurie e litigi il merito della vittoria2 Anche se di lì a pochi anni

si fece quasi a gara ad esaltare i Romani come i comuni benefattori (della


Grecia e ben presto dell'ecumene), dapprima in modo collettivo e poi sem­
pre più personalizzato (magnificando, talora con apparente lungimiranza,
figure come Pompeo, Cesare, Augusto), poeti e prosatori non si erano an­
cora piegati alla Graeca adulatio tanto esecrata da Tacito3 • E dunque tutti,
anche i privati cittadini, erano impegnati a magnificare il ruolo degli Etoli

1. Plut., Flamin. 7, 4- 5 .
2 . Plut., Flamin. 9 , 1.
3. Tac., An n . VI 6, 1 8.

I1 7
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

nello scontro, riempiendo la Grecia con i racconti del loro valore, con un
impegno tale da risultare quasi boriosi, persino agli occhi di Polibio 4 •
Secondo Plutarco, un componimento si diffuse di bocca in bocca, qua­
si a testimoniare che la poesia non è solo materia per pochi eletti, neppure
nella Grecia ellenistica, quando questa tocca le corde del nazionalismo più
acceso, in questo caso etolico. L'autore è Alceo di Messene. Se esiste un ge­
nere nella letteratura greca per cui è valido l'adagio l 'art pour l 'art, questo
è forse l'epigramma ellenistico. A cavaliere tra I I I e I I secolo, però, gli epi­
grammi di Alceo contro Filippo v costituiscono una notevole eccezione,
facendo del loro autore l'unico poeta autenticamente politico dell 'Antolo-
gia Palatina, come generalmente riconosciuto. Tali componimenti mesco­
lano mirabilmente poesia e storia, satira e difesa dell'integrità della polis di
fronte al re/tiranno che viene dalla Macedonia. Il testo citato da Plutarco
.
cosi' rec1 ta:

O viandante, su questa collina, senza pianto e senza sepolcro


giacciamo sepolti noi, trentamila Tessali
domati dalle armi degli Etoli e dei Latini
che Tito condusse qui dall' Italia spaziosa,
grave danno per l ' Emazia. Quello spirito ardito di Filippo
scappò più leggero dei cervi veloci 5 •

Un epigramma ripreso da molti e in molti luoghi, in cui il numero dei ca­


duti tessali, alleati di Filippo, è gonfiato quasi ad arte rispetto agli ottomila
macedoni di cui parla Polibio. Non casualmente, gli Etoli sono posti prima
dei Latini e del loro condottiero T ito Quinzio Flaminino. È possibile per­
tanto che i versi 3-4 fossero sgraditi al Romano, e che siano stati poi espunti
da Alceo, tutto volto ormai a celebrare il liberatore della Grecia, ai giochi
istmici del 196. In un altro componimento, infatti, evoca addirittura la se­
conda guerra persiana, contrapponendo Serse all'opera meritoria del Ro­
mano, che liberò la Grecia dalla servitù 6 .
Nell'epigramma in questione si pone l'accento sulla fuga di Filippo v,
più veloce dei suoi terribili servi. Il re che scappa ha richiami lontani nella
poesia di età arcaica. Chi fugge è come Archiloco, che fa della parodia sul­
la propria viltà (o presunta tale, secondo alcuni): ha abbandonato infatti

4. Polyb. XVI I I 34, 2 .


s. Plut., Flamin. 9, 2 (cfr. Anth. Pal. VI I 2 4 7) .
6. Anth. Pal. XVI s ■

II 8
1 4 . F ILIP PO V E P E RSEO, SOVRANI ON THE R UN

lo scudo dentro un cespuglio per salvarsi la vita di fronte ai nemici7• Run


far your !ife, si potrebbe chiosare con i Beatles... Un sovrano però quando
si combatte deve combattere. Anzi, per un re scappare di fronte al nemico
non è certo un valore o non costituisce la normalità, come accadeva invece
presso gli Achemenidi (nel loro caso il Gran re era e doveva rimanere intan­
gibile, in quanto era l'immagine terrena di Ahura Mazda: così si comportò
Serse, che assistette dal suo scanno alla sconfitta di Salamina). L'etica guer­
riera, che nasce già con l'epica, e in particolare con l'Iliade (vero libro del
capezzale di Alessandro Magno e di molte generazioni greche) impone la
virtù (arete) guerriera fino alla morte.
Di fronte a tali frecciate, Filippo v non dovette rimanere impassibile,
se è vero che rispose parodiando il distico del poeta e componendo a sua
volta (o facendosi comporre) questi versi, in cui senza troppi giri di parole
si augurava la morte dell'impudente Alceo:

Senza foglie e senza corteccia, o viandante, su queste colline


una grossa croce è piantata per Alceo8 •

Il punto di non ritorno nei rapporti tra Alceo e Filippo è costituito dal 215 -
214, quando il sovrano fece una spedizione in Messenia, patria del poeta.
Secondo alcuni, in precedenza questi sarebbe stato un supporter infervora­
to del sovrano e delle sue pretese egemoniche per terra e per mare sulla scia
degli Argeadi. Così almeno recita un noto epigramma:

Alza, Zeus dell' Olimpo, le mura: dovunque Filippo


sale. Le porte dei beati chiudi !
Tutta la terra e il mare lo scettro domò di Filippo:
a lui non resta che la via d' Olimpo.

Nell'antichità questo componimento fu preso sul serio, tanto è vero che


Alfeo di Mitilene, nel nome della succitata Graeca adulatio, Io parafrasò,
riferendolo non più a Filippo vbensì a Roma:

Dio, dell' Olimpo immenso le porte incrollabili chiudi,


vigila, Zeus, l'acropoli dell'etere !
ha sottomesso la lancia di Roma il mare e la terra:
altro non resta che scalare il cielo9 •

7. Archiloch. F s West l.
8. Plut., Flamin. 9, 4.
9. An th. Pal. IX 518 e 526 (trad. it. F. M. Pantani, come negli altri testi della raccolta).

I I ()
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Tra i moderni, il massimo conoscitore di Filippo v (e del suo grande accu­


satore Polibio), F. W. Walbank, dapprima ha ritenuto che quello di Alceo
costituisca una vera e propria critica del sovrano, ma successivamente lo ha
considerato un componimento elogiativo (Walbank, 1 940; 1942 ) . La pri­
ma è probabilmente la lettura preferibile (e l'unica percorribile per salvare
l'integrità del patriottico poeta messenio). Un sarcasmo sottilmente fero­
ce, che conosce vette ancora più accese. Attraverso il riecheggiamento di
temi e toni omerici ed elegiaci, con la violenza propria della poesia giam­
bica, Alceo mostra infatti il lato oscuro di Filippo, pronto ad avvelenare i
compagni di banchetto:

Dio del torchio, berrò più di quanto non bevve il Ciclope,


quando colmò d 'umane carni il ventre.
Certo, berrò. Così avessi, divelta al nemico la testa,
trangugiato il cervello di Filippo,
che dei compagni gustò fra le coppe e i calici il sangue,
nel vino pretto il tossico versando 10

Due sono gli ospiti oggetto delle pericolose "attenzioni" a banchetto di Fi­
lippo, sempre ricordati da Alceo: Callia ed Epicrate.

<< Anche il Centauro fu perso dal vino >> né vittima fosti


soltanto tu col vago Callia, Epicrate.
Proprio un beone di morte quel guercio ; dall 'Ade tu brinda
al compiersi, per lui, d'uguale sorte ! 1 1
'
E altresì possibile che Alceo abbia orientato la sua critica, intrisa di sar-
casmo, anche nei confronti dei ministri di Cibele, i Galli, il cui culto Fi­
lippo vdoveva aver regolamentato, se non addirittura protetto. Così pare
debba essere intesa un'iscrizione di fine I I I secolo proveniente da Anfipoli,
città sotto l'orbita macedone, in cui si nomina un Gallos basilikos, ovvero
un sacerdote della Gran Madre che doveva essere alle strette dipendenze
del sovrano (Bonsignore, 20 1 3 ) .
Il ritratto del poeta non è in fondo molto lontano da quello che presen­
tano il suo nemico per eccellenza, Polibio, e altri autori. Filippo v sapeva
essere sovrano sanguinario, degno erede della migliore (o peggiore) tradi­
zione tirannica, facendo avvelenare parenti e amici, incurante dei rapporti

1 0. Anth. Pal. IX 5 1 9 .
1 1. Anth. Pal. XI 12.

12 0
1 4 . F ILIP PO V E P E RSEO, SOVRANI ON THE R UN

che intercorrevano con costoro. Racconta Plutarco che nel caso di Arato il
Vecchio, leader della Lega achea, e del figlio, Arato il Giovane, furono usa­
ti sieri con effetti completamente diversi. Il primo morì per un veleno non
rapido e violento, che ali' inizio procurava solo una febbre leggera e una
debole tosse. Al figlio invece ne fu somministrato uno che causava la follia,
inducendolo ad azioni dissennate e a comportamenti tali che la morte, a
confronto, era davvero una liberazione 1 2 •

Filippo vdunque, l'erede (o presunto tale) degli Argeadi, viene presen­


tato come assetato di sangue, in linea con il topos del tiranno di età arcaica
e classica. Non a caso Polibio, sottolineando il mutamento di costui da re a
tiranno nel corso del suo lungo regno, evoca l'immagine della Repubblica
platonica dell'uomo che si trasforma in lupo dopo aver delibato le viscere
umane. Chiara metafora del tiranno che opprime i suoi concittadini e si ri­
empie la bocca del loro sangue 1 3 •
La chiosa, meno ad effetto ma ugualmente efficace sul sovrano di Mace­
donia, spetta comunque a Diodoro Siculo e alla sua Biblioteca storica. Que­
sti accomuna le vicende di Filippo va quelle di Antioco III di Siria, di cui si
è vista la morte in Elimaide durante il tentativo di spoliazione di un tempio:

Filippo, re di Macedonia, nella buona sorte fu così oltre ogni limite arrogante che
fece sgozzare degli amici senza motivo, e saccheggiare le tombe dei predecessori,
e molti dei templi. Antioco, invece, quando pose mano a depredare il santuario di
Zeus in Elimaide, vi trovò una fine meritata e vi morì con tutto il suo esercito. En­
trambi, convinti che le loro forze fossero invincibili, con un'unica battaglia furono
costretti a ubbidire alle imposizioni altrui. Perciò attribuirono alla propria colpa
le sventure che avevano avuto, e furono grati per l'umano trattamento ricevuto
da coloro che, nella vittoria, li trattarono con moderazione. In questo modo po­
terono vedere che i loro regni venivano dagli dèi portati alla rovina, secondo una
specie di schema, composto dalle loro stesse azioni. Invece i Romani, che sia allora
che dopo ingaggiarono solo guerre giuste, e prestarono la massima attenzione a
giuramenti e trattati, non senza motivo ebbero in ogni impresa gli dèi dalla loro
parte 1 4 •

Il tema della guerra giusta, evocato nel passo in una prospettiva smaccata­
mente filoromana, fu ripreso anche per le vicende di Perseo, ultimo dinasta
legittimo del regno di Macedonia (dopo aver brigato per fare uccidere nel

1 2. Plut., Arat. 5 2 ; 5 4, 2- 3 .
1 3 . Polyb. ,r 11 1 3, 7; cfr. V" I I, 6 ; Placo, Rsp. \TIII 565d-5 6 6 a.
1 4. Diod. XX\.r 111 3 ( trad. it. G. Bejor) .

12 1
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

180 - sembra dal padre Filippo v - il fratellastro Demetrio, che era invece
decisamente filoromano). Le sorti finali della dinastia si consumarono in
poco più di un'ora: la battaglia di Pidna, in Macedonia, fu combattuta in­
fatti tra le ore 1 5 e le 1 6 del 2 2 giugno 1 6 8 .
Se vi è una coppia nella storia ellenistica per la quale vale il detto "quale
il padre, tale il figlio", questa è rappresentata da Filippo ve Perseo. Quest'ul­
timo proseguì ostinatamente la politica paterna, riallacciandosi non solo
agli Argeadi ma anche a figure come Demetrio Poliorcete (ad esempio, fa­
cendo reincidere importanti iscrizioni pubbliche dell'antenato). Nel gran­
de palazzo di Ege (oggi Vergina) vi è una tholos, presso cui è stata ritrovata
un'iscrizione frammentaria: una dedica dei rampolli regi Filippo e Ales­
sandro per il re Perseo (che era il loro padre) ad Eracle Patroos (Savalli-Le­
strade 2 0 0 9 , p. 1 3 9 ) . Di questa rimane integra solo l'ultima parte, relativa
alla divinità; il resto è stato oggetto della damnatio memoriae nei confronti
del re. Riguardo al personaggio vi è infatti davvero unanimità di giudizio,
da Polibio fino a Livio e all'annalistica romana (con la sola eccezione di
Appiano nel suo Libro macedonico) . Un'acrimonia che rasenta quasi il pa­
radosso, e che si riverbera anche nei documenti ufficiali.
Esemplare a questo proposito è una lettera inviata da Roma alla lega
sacra che amministrava il santuario di Delfi, l'Anfizionia, documento da­
tabile al 1 7 1 / 1 7 0, poco prima dello scoppio della terza guerra macedonica1 5 •
I Romani, toccando un nervo sensibile in tutti i Greci fin dall'età arcai­
ca, ovvero il rispetto del luogo per eccellenza sacro, il santuario di Apollo,
presentarono Perseo come un sovrano empio, che si permetteva di recarsi
a Delfi con il suo esercito durante la tregua pitica e di partecipare impune­
mente ai riti, ai giochi, ai sacrifici e al consiglio dell'Anfizionia. La speran­
za (frustrata) del Macedone era quella di saccheggiare e distruggere il san­
tuario, contando sui barbari che abitavano oltre il Danubio. Un re che in­
frangeva giuramenti e trattati, stipulati dal padre Filippo v, e che compiva
ogni sorta di nefandezze (tra cui un attentato al re di Pergamo, Eumene I I,
in visita a Delfi). Il motivo dominante della lettera è, senza mezzi termini,
l'instabilità mentale del monarca di Macedonia. Anzi, una vera e propria
forma di pazzia, che lo spingeva addiritturare a progettare l'uccisione di
alcuni senatori romani con il veleno, evidentemente in sintonia con le ac­
cuse mosse al padre. Un sovrano talmente folle da accogliere esuli, cercare
il favore delle masse nelle città, promettendo la cancellazione dei debiti e
rivoluzioni, quasi fosse un capopopolo qualunque, peraltro senza neppure

122
1 4 . F ILIP PO V E P E RSEO, S OV RANI ON THE R UN

l'attenuante di essere sobillato da filosofi o infervorato da pericolose teo­


rizzazioni politiche (come invece fece Aristonico nel regno di Pergamo,
dopo il 133, quando lo Stato dell'Asia Minore fu dato in eredità al popolo
romano dall'ultimo re, Attalo I I I ; cfr. infra, CAP. 1 5 ) .
Il motivo della follia del sovrano si lega ad altri temi nella tradizione,
tra cui spicca quello della viltà, peraltro respinto quasi con sdegno dalla
pubblicistica favorevole o comunque non ostile a Perseo (rappresentata
dallo storico Posidonio, presente allo scontro di Pidna e dunque testimo­
ne oculare). Diligentemente Plutarco, che non ha nessuna simpatia per il
re macedone, nella biografia di Lucio Emilio Paolo menziona dapprima la
versione di Polibio, che afferma che la fuga dal campo di battaglia del so­
vrano era dovuta alla viltà, col pretesto di fare dei sacrifici, mentre secondo
Posidonio questi, già malandato nel fisico, avrebbe combattuto senza co­
razza tra i soldati della falange e se ne sarebbe andato sfiorato da un giavel­
lotto16.
Resta il fatto che Perseo, costretto a una fuga definita ignominiosa e
indegna del decoro regale e tutta consumata tra Samotracia e Creta, ven­
ne catturato e, dopo essere stato fatto sfilare nel trionfo di Lucio Emilio
Paolo, fu imprigionato con i famigliari ad Alba Fucens in territorio marsi­
cano. Il sovrano, ridotto così in cattività, si lasciò morire di fame o, secon­
do un'altra versione (sfruttata poi da Mitridate VI e dalla sua propaganda
antiromana) 1 7, fu fatto crudelmente morire d'insonnia dai suoi carcerieri.
Colui che voleva rinverdire i fasti di Filippo I I, di Alessandro Magno
e di Demetrio Poliorcete, più sommessamente e involontariamente dà og­
gi lustro agli abitanti del piccolo comune di Magliano de' Marsi, i quali
mostrano con orgoglio lungo l'antica via Tiburtina Valeria i ruderi di una
tomba, considerata a torto o a ragione il sepolcro dell'ultimo re dei Mace­
doni.

1 6.Posid. FGrHistlBNJ 1 6 9 T 1, F 1, in Pluc., Aem. 1 9, 4- 1 0.


17. Sall., Hist. 1v· F 6 9, 7 Maurenbrecher.
15
Scacco al re a Pergamo

Aeropo di Macedonia, ogni volta che aveva del tempo libero, lo passava a costruire
tavolini e lucernette ; Attalo Philometor coltivava erbe medicinali, non soltanto
giusquiamo ed elleboro ma anche cicuta, aconito e doricnio. Le seminava e pian­
tava egli stesso nei giardini reali, preoccupandosi di riconoscere e raccogliere nella
stagione adatta i loro succhi e i loro frutti. I re dei Parti, poi, erano fieri di affilare
e aguzzare personalmente le punte delle frecce 1 .

Così la tradizione aneddotica, riflessa da Plutarco, rappresenta Attalo 111


di Pergamo, l'ultimo dinasta ammantato di ufficialità della schiatta degli
Attalidi (138- 133). Un sovrano incastonato tra un oscuro sovrano di Mace­
donia di inizi IV secolo (Aeropo 11), bricoleur degno precursore dei cultori
dei mobili fai da te dell' Ikea, e i sovrani partici, intesi genericamente come
campioni di nequizie, secondo un luogo comune assai radicato.
La pubblicistica nei confronti dei predecessori di Attalo è per lo più
positiva e non manca il consueto esercizio di adulazione, per una dinastia
in grado di ritagliarsi uno spazio importante tra I I I secolo e prima metà del
I I . A cominciare da un addomesticato oracolo di Delfi, riportato da Pausa­
nia, in cui si prediceva che Zeus avrebbe inviato come << salvatore un caro
figlio del toro divino>> in grado di arrecare il giorno fatale a tutti i Galati,
ovvero la vittoria decisiva contro le tribù celtiche da tempo trasferitesi in
Asia Minore 2 Un momento fondante per la dinastia impiantata da Filete­

ro, grazie al quale Attalo I assunse il titolo di basileus e fu proclamato Soter.


Lo stesso oracolo, beffardamente, si premurò di vaticinare al medesimo At­
talo, definito Tauricorno (per la connessione con Dioniso, nume tutelare
della dinastia attraverso l'epiteto Kathegemon), l'onore regale a lui, ai figli
dei figli, ma non alla generazione successiva3 • Una riproposizione, rivista e

1. Plut., Demetr . 2 0, 3-4.


2 . Paus. x 1 5 , 2- 3 .
3. Diod. xxx1,r-xxxv· 13; Suda s.v. Attalos.

12 4
1 5 . SCACCO AL RE A PE RGA MO

aggiornata, di un vecchio tema, valido già tanto per i tiranni di epoca arcai­
ca (Cipselo di Corinto e Pisistrato, in particolare), quanto per i Dionisi in
età classica: tirannidi e poteri monocratici non arrivavano oltre la seconda,
al massimo la terza generazione.
L'adulazione praticata a Pergamo, divenuta col tempo autentico centro
propulsore della cultura nel mondo ellenistico, finì per essere argomento
preferito di scherno presso le corti rivali. Callimaco ed Ermippo, letterati
legati ai Lagidi, ricordano infatti l'attività di Lisimaco, allievo o di Teodoro
l'Ateo o di Teofrasto, secondo un passo di Ateneo non privo di problemi
cronologici (Lehnus, 199 5 ) . Costui è definito adulatore e maestro di Atta­
lo I, e gli si attribuisce un Sull 'educazione di Attalo. Il tema non costituisce
una novità nel panorama letterario greco (dalla senofontea Ciropedia in
poi: si vedano gli scritti di Onesicrito di Astipalea e di Marsia di Pella ri­
guardanti Alessandro Magno). L'opera però, a differenza della Ciropedia
(vero modello, letterario e non, anche per la futura classe dirigente romana
della Repubblica), è ritenuta infarcita di ogni adulazione 4 • Visto il discepo­
lato, forse più indiretto che diretto da Teofrasto, è possibile che Lisimaco
sia giunto a Pergamo grazie ai buoni uffici di un altro peripatetico, Licone,
preposto all'educazione dei fanciulli 5 •
Tutto è ignoto poi riguardo a un'opera Su Attalo redatta da Neante
(il Giovane), probabilmente anch'essa incentrata su Attalo I. Non è però
frutto di una coincidenza il fatto che Palemone di Ilio, sommo erudito e
autore a sua volta di una Lettera ad Attalo, si sia cimentato anche in uno
scritto intitolato significativamente Contro Neante6 • Vi è da supporre per­
tanto che si trattasse di Attalo I I, e che vi sia stato un contrasto tra lette­
rati, pronti al reciproco sberleffo, nel quadro dei rapporti con il regnante
di turno.
Laddove si parla di critica nei confronti dei predecessori di Attalo I I I,
questa è comunque per lo più bonaria, infarcita di qualche aneddoto che
lascia trapelare una satira a volte pungente ma mai troppo urticante. Così
sappiamo che Eumene I, adottato dallo zio Filetero, fondatore del regno
di Pergamo, morì per aver bevuto una quantità eccessiva di vino, il che lo
accomuna ai grandi bevitori, siano essi tiranni o sovrani7• Ancora Plutar­
co ricorda che Attalo I I, sfibrato totalmente dall'inattività e dalla pace, era

4. Lysim., FGrHistlBNJ 1 7 0 T 1, in Athen. VI 252c.


5. Diog. Laert. v· 65 e 67.
6. Neanth., FGrHist/BNJ 1 7 1 T 1, F F 4, 16.
7. Ctesicl., FGrHist/BN] 245 F 2, in Athen. x 445c-d.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

così ingrassato che si faceva menare al pascolo, per così dire, dal suo corti­
giano Filopemene, suscitando le battute dei Romani che si chiedevano se il
re avesse una qualche influenza su costui 8. Molti sono i sovrani che soggiac­
ciono ai voleri e ai capricci dei loro sottoposti, anche se Filopemene, che
difficilmente sarà stato un semplice cortigiano, è figura importante quasi
come quella del primo ministro regio (ho epi ton pragmaton), ben attestato
presso le regalità ellenistiche.
Secondo un curioso ribaltamento etico (almeno per noi moderni), l'i­
nattività e la pace dedita all'otium sono degli antivalori, tanto per i tiran­
ni di età arcaica e classica quanto per i sovrani ellenistici. Esemplare a suo
tempo il caso di Dionisio II di Siracusa, pronto a porre fine alle guerre con
i Cartaginesi e con i Lucani, fardelli lasciatigli in eredità dal padre Dionisio
I alla sua morte nel 3 67 (come stigmatizzato da Diodoro) 9 • E dunque, nella
considerazione degli antichi, essere un sovrano o un tiranno pacifico non
necessariamente è un titolo di merito, laddove la virtù bellica (simboleg­
giata dal concetto della "terra conquistata con la lancià', doriktetos chora)
continua ad esercitare un grande fascino fino alla fine dell'età ellenistica.
E di questo è ben consapevole lo stesso Plutarco, che pure non passa certo
per un guerrafondaio.
Lo stesso Attalo I I peraltro, ai tempi in cui probabilmente non era an­
cora in sovrappeso, non si era o non si sarebbe fatto troppi scrupoli a spo­
sare Stratonice, moglie del fratello, Eumene I I, ritenuto morto in séguito
a un attentato subito a Delfi ad opera di sicari di Perseo, re di Macedonia,
come si è detto. Ma tutto si risolse con l'esaltazione della concordia frater­
na, quando finalmente si apprese la lieta novella: ovvero colui che era il le­
gittimo titolare del talamo, ritenuto erroneamente morto, era invece vivo
e vegeto. Attalo, dunque, fu pronto a ritornare sui suoi passi e a restituire
cavallerescamente Stratonice al fratello Eumene, salvo poi riprendere la co­
gnata come moglie alla morte del fratello nel 1 5 9 10 •
Quanto ad Attalo I I I, due fonti su tutte (che forse risalgono allo stesso
filone) si soffermano sulla sua crudeltà. Diodoro dipinge un quadro degno
di un tiranno africano del Novecento, tranne il particolare del cannibali­
smo (spesso presente nelle vivide descrizioni nelle dinamiche politiche del
Continente Nero), in contrapposizione a quello dei predecessori:

8. Plut., An seni 792a-b.


9. Diod. XV"I 5, 1 - 2 .
10. Plut., DeJrat. am. 48 9d-49 oa.

1 26
1 5 . SCACCO AL RE A PE RGAMO

In Asia il re Attalo, non appena fu salito al trono, tenne una condotta di vita diver­
sa da quella dei suoi predecessori. Costoro infatti, esercitando clemenza e umani­
tà, regnarono felici; egli invece, crudele e sanguinario, procurò a molti dei sudditi
del suo regno irremediabili disgrazie e funeste sventure. Sospettando che i più po­
tenti degli amici di suo padre avessero complottato qualcosa contro di lui, decise
che dovessero essere tolti di mezzo tutti. Scelti dunque i più selvaggi e pronti a
menar stragi tra i suoi mercenari barbari, gente insaziabile nella sua sete di ricchez­
ze, li nascose in certe camere della reggia e fece chiamare quei suoi amici sui quali
aveva dei sospetti. Quando questi amici si presentarono [ . . . ] li fece uccidere tutti,
dato che quei suoi aiutanti condividevano la sua sete di sangue. Subito decise che
dovessero subire la stessa punizione anche i loro figli e le loro mogli. E, degli altri
amici che avevano alti gradi nell 'esercito o governavano delle città, ne fece ucci­
dere alcuni a tradimento, ne fece mettere a morte altri, confiscandone tutti i beni.
Odiato per la sua crudeltà non solo da chi era sottoposto a lui, ma anche dalle
popolazioni vicine, spinse i suoi sudditi a desiderare un cambiamento di regime l l .

In linea con la pagina di Diodoro, oltre a un fugace accenno dell'Icarome­


nippo o l 'uomo sopra le nuvole di Luciano, è anche quella di Giustino1 2 Nella •

sua Epitome delle Storiejìlippiche di Pompeo Trogo i personaggi "originali"


non mancano certo, ma le atrocità commesse dal re di Pergamo vengono de­
scritte con un crescendo quasi rossiniano. Già all'inizio del racconto si get­
tano velatamente ombre sulla legittimità dinastica di Attalo, giacché suo pa­
dre Eumene I I è definito zio. Come un fosco personaggio tragico, Attalo I I I
uccideva amici e parenti, accusati di aver assassinato la madre Stratonice e
la moglie Berenice. A ciò seguiva un superbo colpo di teatro, con il sovrano
reprobo e pentito che si vestiva a lutto, facendosi crescere barba e capelli.
Dedicatosi poi alla botanica, coltivava piante velenose e innocue, che im­
beveva di succo velenoso inviandole agli amici. Evidentemente stancatosi di
agire come un killer seriale, si dedicò al bronzo, fondendolo e foggiandolo.
Decise quindi di innalzare un sepolcro alla madre, ma, mentre era intento a
questo lavoro, fu colpito da un'insolazione e dopo sei giorni morì.
L'ultimo particolare, con il sovrano "mammone" sempre pronto a
piangere davanti alla tomba della madre ancora in costruzione, è chiara­
mente l'esito parodico di un'interessata interpretazione dell'epiteto Phi­
lometor ("che ama la madre"), con cui Attalo I I I volle presentarsi.
La propaganda ufficiale, tràdita per via epigrafica, mostra invece tutta
la devozione filiale del re nei confronti della madre Stratonice, di cui viene

1 1.Diod. xxx1,r-xxxv· 3 (trad. it. G. Bejor) .


1 2. Iustin. XXXVI 4.

12 7
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

esaltata la pietas e lo straordinario affetto nei confronti del marito Eumene


I I, come si legge in una nota iscrizione 1 3 • Una regina che almeno in parte
rivaleggiava in popolarità con la suocera Apollonide di Cizico. La tradizio­
ne antica conosce molti casi di sovrani devoti alla loro madre, e per questo
Philometor figura nella loro titolatura ufficiale, da Tolemeo VI ad Antioco
VI I I di Siria. Curiosamente, i sovrani iranici e le regalità indo-greche e gre­
co-battriane non conoscono questo appellativo, anche se più di una regina
fu influente in quelle monarchie.
L'uccisione di amici e cortigiani cela un complesso rapporto con gli in­
tellettuali, che sfociò talora nella loro condanna a morte. Nome da ricorda­
re, equivalente attalide di Sotade inviso a Tolemeo II, è senz'altro quello di
Dafida (noto anche come Dafita), impalato sul monte Thorax (prosaica­
mente, in italiano, "corazza") vicino alla città di Magnesia. La sua colpa era
quella di essersi reso protagonista di contumeliosa dieta, più precisamente,
di aver dileggiato i re in un distico:

Segni purpurei di frusta, limature del tesoro


di Lisimaco, regnate sui Lidi e sulla Frigia 1 4 •

Tanto facile è la spiegazione dei versi quanto è complicato determinare chi


sia l'Attalo che lo punì, anche se Attalo I I I si lascia preferire dai più (in par­
te suggestionati dalla tradizione negativa sopra citata). Vi è anzitutto l'al­
lusione a una primitiva condizione servile della dinastia, ovvero, con bella
immagine poetica, << segni purpurei di frusta>> . E la porpora, come è noto,
è segno di potere e colore regale per eccellenza in età ellenistica. Non me­
no sferzante, è proprio il caso di dirlo, il prosieguo con una chiara allusio­
ne al ruolo di Filetero, fondatore della dinastia e tesoriere di Lisimaco. Un
tesoriere con ogni evidenza infido, come la storia dimostra. Dal canto suo,
Caristio di Pergamo aveva insinuato che la madre di Filetero, una donna di
Pafaglonia a nome Boa, fosse un'etera suonatrice di aulos: quindi una dop­
pia macchia nel pedigree del fondatore della dinastia1 5 • L'altra faccia della
medaglia, ovvero la storiografia ufficiale, riflessa in Strabone e in un docu­
mento epigrafico noto come Cronaca di Pergamo, presenta invece Filetero
come un eunuco nobilmente educato e degno della fiducia del diadoco Li-

I 3. O GIS 331, 11. 45 ss.


14. Strabo XIv· 1, 39; cfr. XIII 4, 1; Val. Max. I 8, ext. 8.
15. Carist., FHG, Iv·, p. 358, F 12, in Athen. XIII 57 7 b.

12 8
1 5 . SCACCO AL RE A PE RGA MO

simaco, ma quasi costretto per le calunnie di Arsinoe I I, moglie di quest'ul­


timo, a defezionare e a indurre Pergamo alla rivolta16 •
Più complesso il rapporto dei dinasti di Pergamo con un altro perso­
naggio, il poeta Nicandro, ammesso che di un unico intellettuale si debba
parlare e non di due. In ogni caso, vi è un certo consenso nel ritenere che
Nicandro, figlio di Dameo, sia stato in stretti rapporti con Attalo I I I, per
cui avrebbe composto anche un inno1 7•
Nicandro è autore, soprattutto, di due opere ben note nell'antichità:
Theriaka e Alexipharmaka, incentrate su animali velenosi e relativi antido­
ti. Testi che presentano importanti consonanze con la poesia alessandrina
di I I I secolo (Teocrito, Apollonia e, soprattutto, Callimaco) in un neppur
troppo mascherato gioco dell'allusività, e che per il loro contenuto si accor­
dano con gli interessi scientifici dell'ultimo Attalide, secondo la tradizione
"nerà' che lo accompagna.
A fronte di tale pubblicistica negativa, vi è però anche una tradizione
positiva o parzialmente positiva. Al sovrano dedito ai veleni e alle passio­
ni floreali, con il preciso scopo di eliminare amici e cortigiani, fa da con­
trappunto un re amante del giardinaggio, che doveva essere una costante
nella dinastia, se è vero che il nonno, Attalo I, in una sua opera descrisse la
flora della Troade 18 • Un amore che per certi aspetti ricorda quello di altri
regnanti o aspiranti tali, dediti al giardinaggio, anche se è difficile immagi­
nare Attalo I I I come una prefigurazione del principe Carlo d'Inghilterra, o
immerso nel verde con l'innocente sprovvedutezza di Chance il giardinie­
re del libro Bein g there di Jerzy Kosinki (impersonato da Peter Sellers nella
trasposizione cinematografica: Oltre il giardino) .
Fonti come Galeno e Celso ricordano comunque i rimedi inventati a
scopo terapeutico dal re Attalo I I I per malattie dello stomaco, del fegato e
del basso ventre e uno speciale collirio (Cardinali, 1 9 1 0 ) . Più discutibile la
notazione, peraltro apprezzata da Galeno, sul fatto che i farmaci mortali
venissero testati sui condannati a morte: Attalo si sarebbe giustificato af­
fermando che non vi era nulla di terribile in questa pratica. Il che suona de­
cisamente politically uncorrect, se non addirittura degno di Josef Mengele
e dei suoi accoliti. Va però aggiunto, a parziale discolpa del sovrano di Per­
gamo, che in tali sperimentazioni egli sarebbe stato in buona compagnia,
dal momento che qualcosa di analogo avrebbero fatto, sempre secondo Ga-

1 6. Strabo XI I I 4, 1 ; OGJS 264.


1 7. F 104 Schneider.
1 8 . Strabo XI I I 1, 44.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

leno, anche personaggi di ben più elevata caratura, come Mitridate VI del
Ponto e Cleopatra VII (cfr. infra, CAP. 1 8 ) .
Decisamente più innocua è invece la tradizione, altrettanto diffusa,
che fa di Attalo addirittura un agronomo provetto, esperto di coltivazione
della vite e dell'olivo.
All'immagine del sovrano crudele si oppone e si sovrappone quella del
re pronto a difendere meritoriamente il suo regno dalle minacce esterne (e
interne). La Suda lo qualifica come Galatonikes ("vincitore dei Galati")1 9 ,
che è epiteto altisonante e generalmente considerato una svista: l'unico au­
torizzato a fregiarsi di tale appellativo, si è detto, sarebbe in realtà Attalo I,
in base al suo successo contro i barbari.
Un appiglio per giustificare Galatonikes è in realtà offerto da un te­
sto epigrafico, che riguarda la città di Pergamo20 • Qui si ricorda con dovi­
zia di particolari l'arrivo di Attalo 111 dapprima al santuario di Asclepio,
poi in città dopo una vittoriosa spedizione militare non meglio specifica­
ta. L"'entrata in città'' (apantesis in greco, e relative varianti, o adventus in
latino) ha sempre un significato importante, nel mondo greco come nel
mondo romano (e già prima in altre culture): ad esempio, l'entrata a Ba­
bilonia nel 331 di Alessandro Magno o, prima ancora, di Sargon o di Ciro
11 nella medesima città. Certo il buon Attalo non può competere in alcun
modo con simili sovrani, ma il linguaggio ufficiale e pomposo dell'epigrafe
è comunque cristallino nella formulazione del suo elogio. Lungi dall'essere
considerato un tiranno sanguinario, il sovrano viene esaltato con un for­
mulario di virtù in gran parte comune anche ad altri monarchi di epoca el­
lenistica. In particolare, egli è ritenuto abile e capace in guerra (e, dunque,
anche superiore all'accidioso zio Attalo 11). Insomma, un ottimo basileus;
il suo è ritenuto quasi spinozianamente il migliore dei regni possibile, per
cui, si aggiunge nel testo, non ci si può augurare altro se non che rimanga
eterno. In tale contesto non sorprende certo il tributo, consueto anche per
gli Attalidi, di grandi onori divini, per la pace e la felicità garantite.
La storia, come si è detto, non è stata generosa con Attalo I I I, defor­
mandone azioni e carattere e celando dietro la satira più beffarda forse un
complesso gioco di corte. Quali i motivi di tanta crudeltà nei confronti
degli amici? E possibile, come pensano molti, che ali'interno dell'entoura-
ge del sovrano vi sia stato un partito che intendeva privilegiare Aristonico,
forse figlio di Eumene 11 e di una concubina: colui che poi, quando Attalo

1 9. Suda, s.v. Nikandros.


20. OGIS 3 3 2.
1 5 . SCACCO AL RE A PE RGA MO

donò il suo regno al popolo romano nel 133, si ribellò vanamente assumen­
do il nome dinastico di Eumene I I I e, con la consulenza dello stoico
,
Blos-
sio di Cuma, volle instaurare uno Stato chiamato Heliopolis. E una delle
numerose utopie ellenistiche (come già Uranopoli di Alessarco, figlio del
diadoco Antipatro), in cui, tra l'altro, è prevista l'abolizione della schia­
vitù. Proprio sotto questa luce interpretativa, la scelta del testamento di
Attalo III può trovare un confronto con quanto aveva fatto a suo tempo
Tolemeo VII I a Cirene nel 155. Come il Lagide aveva "donato" il suo regno
ai Romani, temendo le mene del fratello Tolemeo VI, così anche Attalo I I I,
per un dispetto quasi fanciullesco, avrebbe preferito lasciare tutto al popo­
lo romano, pur di non cedere alle pretese del (supposto?) fratellastro.
Eppure questo re così bistrattato si è guadagnato, del tutto inaspetta­
tamente e forse immeritatamente, un piccolo spazio anche tra coloro che
sono ignari delle vicende ellenistiche. Infatti nel Medioevo si diffuse, non
è ben chiaro attraverso quali canali, l'idea fallace che il dinasta di Pergamo
fosse stato il creatore dell'amabile gioco degli scacchi. Gioco, se così si può
chiamare, spesso oggetto di passioni monomaniache, come ben insegnano
nella letteratura Mirko Czentovic di Zweig o, per calarsi nella realtà della
Guerra fredda, Bobby Fischer. Viene dunque quasi spontaneo immaginarsi
Attalo I I I come degno precursore di tali personaggi saturnini, giacché an­
cora una volta riaffiora la tradizione oscura sul sovrano di Pergamo. Infatti
costui, preso dalla sua smania compulsiva di trovare nuovi passatempi ne­
gli interminabili ozi di corte, era animato in modo insano dalla passione
sfrenata per questo nuovo passatempo ludico (ludendi lascivia, l'icastica
espressione usata da Giovanni di Salisbury, che riporta l'aneddoto; Han­
sen, 1 9 7 1, p. 1 4 6 ) .
16
La testa mozza di Crasso

L'Ellenismo congiunge Oriente e Occidente, come dimostra la documen­


tazione archeologica, ma è pur vero che le fonti letterarie greche e latine
sono assai parche di notizie su quanto accadde oltre l'Eufrate fino alle re­
gioni indiane e, più a nord, all'Afghanistan e regioni limitrofe. E dunque lo
storico è costretto spesso a brancolare nel buio sui regni greco-battriani e
indo-greci, anche se possiamo immaginare dinamiche simili a quelle degli
altri grandi centri del potere.
Così nel I I secolo emerse Eucratide, un usurpatore che sottrasse il regno
di Battriana al dinasta legittimo Eutidemo e ai suoi discendenti. Si fece chia­
mare non già semplicemente re, bensì Basileus Megas ("Gran re"), secondo
una tradizione preellenistica (condivisa in quegli stessi anni con T imarco,
usurpatore seleucide in Media e nella regione babilonese). Addirittura Eu­
cratide fondò o, meglio, chiamò una città Eucratidia, sulla falsariga delle al­
tre città che riverberano il nome o l'epiteto di fondatori celebri (basti pensa­
re alle numerose
'
Alessandria, Tolemaide, Seleucia, Antiochia che fiorirono
in Oriente). E possibile, se non per alcuni probabile, che questa polis debba
essere identificata con Ai Khanum, in Afghanistan, riportata alla luce da
non molti decenni grazie a scavi francesi. Un centro importante, sulle rive
del fiume Oxus, dotato di una biblioteca e in cui venivano ancora ricorda­
te le massime delfìche dei Sette saggi greci, a testimoniare un filo rosso con
il centro, anzitutto religioso, della cultura greca; anzi, il vero ombelico del
mondo,'
e così era sentito tanto ad Occidente quanto ad Oriente.
E suggestivo immaginare che proprio ad Ai Khanum si sia consumato
uno dei delitti più efferati dell'antichità, testimoniato dal solo Giustino,
nel suo riassunto di Pompeo Trogo1 Questi dipinge un Eucratide in guer­

ra : circondato dai nemici, in primo luogo i vittoriosi Parti, fu comunque


capace di tener testa, benché assediato, a Demetrio, figlio di Eutidemo, lui

1. lustin. XLI 6, 1-5.


1 6 . LA TE STA MOZZA DI CRASSO

con trecento soldati e il nemico alla guida di ben sessantamila nemici. La


tradizione positiva del personaggio - quasi un'epopea - sembra quasi sug­
gerire un rimando a ben altri scontri, ormai sedimentati nella memoria sto­
rica e culturale dei Greci, come quelli contro i Persiani nel vsecolo.
Ma i nemici più pericolosi, spesso, sono come il serpente di cui par­
la Virgilio, che si nasconde nell'erba. Si celano infatti in casa, nel rispetto
di un luogo comune ben noto fino ai giorni nostri, da Agamennone alla
Russia staliniana. Così Eucratide, tornando dall'India, fu ucciso dal figlio,
Eliocle (?), improvvidamente associato al regno. Questi non dissimulò ipo­
critamente il parricidio, ma spinse il suo carro sul cadavere insanguinato
del padre, facendone gettare il corpo insepolto e venendo meno così, tra
l'altro, a una legge non scritta ma universale del rispetto per i morti. L'e­
dificante racconto probabilmente deriva in ultima analisi da uno storico
greco di cose indiane, quale doveva essere Apollodoro, originario di Arte­
mita (città greca nella Mesopotamia caduta sotto il dominio partico) e au­
tore di Parthika forse nella prima metà del I secolo 2 Finì poi per suscitare

l'interesse di Boccaccio nella sua opera De casibus virorum illustrium e fu


ripreso, sulla scorta di questo autore e non senza fraintendimenti, dalla let­
teratura successiva. Ma fu soprattutto Pierre de Saint-Julien de Balleure a
enfatizzare l'omicidio di Eliocle. Questi pubblicò nel 15 84 uno scritto che,
tradotto, suona come Gemelli o Paralleli, raccolti da diversi autori tanto gre­
ci e latini quantofrancesi. Mettendo insieme Plutarco (evidente ispirazione
primaria con le sue Vite parallele) e altri autori, si avventura in un paragone
con un episodio accaduto nella Roma dei re: Tullia, la figlia di Servio Tul­
lio, fece passare un carro sul cadavere del padre, dopo aver istigato Tarqui­
nio il Superbo all'uccisione del genitore.
In significativa distonia con questo quadro storico è l'informazio­
ne fornita dalla monetazione, che potrebbe essere considerata, per taluni,
un segno della sfacciata impunità di Eliocle. Questi infatti portò l'epiteto
Dikaios ("giusto"), in sintonia con alcune concezioni buddhiste, in parti­
colare quella del Dharma. D'altra parte, colui che approfittò della crisi suc­
cessiva alla morte di Eucratide, il re indo-greco Menandro, è protagonista
dell'opera Milindapanha (Le domande di Milinda), testo buddhista fonda­
mentale anche per la sua propaganda (il sovrano, Milinda per gli Indiani,
si convertì e si ritirò in monastero, laddove la tradizione greca lo dipinge
valente in guerra, fino a morire e ad essere onorato dalle città greche, che

2. FGrHistlBNJ 779.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

litigarono tra loro ma poi se ne divisero le ceneri, erigendo ciascuna un mo­


numento funebre) 3 •
Ma non spetta ad Eliocle il primato delle efferatezze in ambito orienta­
le. Questo semmai va assegnato collettivamente e singolarmente ai Parti e
ai loro sovrani, i re della dinastia arsacide. Questa popolazione nel I I I seco­
lo abbandonò il suo status di popolazione arretrata, confinata alla periferia
dell'impero, per diventare una grande potenza in grado di sconfiggere i Se­
leucidi (il 247 è l'inizio dell'era partica, mentre il 312-311 quello dell'era se­
leucide). I loro regnanti assunsero tratti e caratteristiche che li avvicinavano
alle regalità greco-macedoni, pur mantenendo un importante sostrato ira­
nico, e si definirono spesso Philhellenes ("amanti dei Greci"), rivendicando
buoni rapporti con le città greche d'Oriente, a cominciare da Seleucia sul
T igri, antica fondazione di Seleuco I e quasi una metropoli ancora in età
imperiale con i suoi seicentomila abitanti.
Sganciandosi dunque dai Seleucidi ed erodendo i loro domini fino al­
la Mesopotamia, gli Arsacidi crearono un impero in grado di rivaleggiare,
spesso vittoriosamente, contro Roma. L'ecumene risultò così divisa quasi
in due, come riconoscono anche autori di stretta osservanza romana (Stra­
bone, Manilio, perfino lo stesso Tacito), fino a quando i Sassanidi nel I I I
secolo d.C. scompigliarono l'equilibro nella parte orientale.
Come molte altre popolazioni non greche (Sciti, Persiani, Traci), i Par­
ti non godettero di buona fama, nonostante la presenza di un filone nella
tradizione etnografica e storiografica greca definito addirittura filoarsacide
da alcuni studiosi. Tale filone, che si fa iniziare con Apollodoro di Artemi­
ta, prosegue con il misterioso autore oggetto della feroce critica di Livio,
che nel CAP. 2 si è inteso identificare con T imagene.
Plutarco si premura di spiegare, utilizzando Teofane di Mitilene (ami­
co e consigliere di Pompeo, in fuga da Cesare), che i Parti sono i più infidi
tra gli uomini. Una fama da fare invidia ai Cretesi, altri noti menzogneri
dell'antichità. Nelle ben poco lungimiranti parole di Teofane, miranti a
dissuadere il Romano dal recarsi tra gli Arsacidi e a fuggire invece in Egitto
da Tolemeo XIII, traspare tutta la diffidenza del mondo greco nei confronti
dell'altro. I Parti, aggiunge, sono barbari che misurano il loro potere con la
tracotanza e intemperanza, capaci di fare del male alla moglie di Pompeo,
della famiglia di Scipione 4 •

3. Plut., Praec. ger. reip. 821d-e.


4. Theoph., FGrHistlBNJ 1 8 8 T 8d, in Pluc., Pomp. 76, 6-9.
1 6 . LA TE STA MOZZA DI CRASSO

Nella tradizione classica i Parti furono pertanto considerati i degni suc­


cessori degli Achemenidi (e sotto alcuni sovrani questo sarà un importante
vettore di propaganda), e dunque erano campioni di crudeltà e delle tor­
ture più efferate: una riproposizione dello stereotipo del despota orientale,
molto lontana dalla realtà dei fatti e che arriva poi agli scrittori più tardi.
Ne sa qualcosa il buon Luciano di Samosata, città lambita dall'espansione
partica, il quale nel suo Icaromenippo o l 'uomo sopra le nuvole accenna ad
Arsace, che fece uccidere la sua donna, e ali'eunuco Arbace che tira la spada
contro Arsace (passo di difficile decifrazione, giacché tutti i sovrani assu­
mono il nome dinastico di Arsace).
Ma sono soprattutto Posidonio e Plutarco a proporre una rappresen­
tazione a forti tinte di questo popolo. Il primo, nel vlibro delle sue Storie
dopo Polibio, parlando del sovrano e degli uomini a lui legati, presenta un
quadro interessante, se non addirittura sconcertante:

Il cosiddetto "amico del re" non divide la tavola con lui, ma, seduto per terra vicino
al re che giace su un alto divano, mangia alla maniera di un cane quello che il re gli
getta e spesso, per un motivo qualsiasi, viene strappato da quel pasto consumato
per terra, è bastonato e frustrato con cinghie di ossicini infilzati, finché tutto co­
perto di sangue e prostrato a terra venera quello che l' ha fatto punire, come suo
benefattore.

Poi nel XVI libro, raccontando come il re Seleuco (in realtà Demetrio 1 1 )
in séguito a una spedizione in Media per muover guerra ad Arsace (ovvero
Mitridate 1) fu fatto prigioniero dal barbaro; rimase per molto tempo alla
sua corte, venendo trattato come un re. Posidonio dà anche questa notizia:

Presso i Parti durante i banchetti il re era sdraiato da solo su un divano più alto e
separato dagli altri, e aveva accanto una tavola per lui solo, come se fosse un semi­
dio, colma di piatti localiS.

Se è oggetto di discussione tra gli studiosi se nell'ultima parte del fram­


mento il re debba essere inteso come il sovrano arsacide oppure quello se­
leucide, ben pochi dubbi vi sono sulla prima parte del racconto. Vi è forse
la riproposizione di un antico rituale di corte, la proskjnesis (già nota alle
corti degli imperi orientali, invano proposta da Alessandro ai compagni
macedoni e comunque praticata, in forma più surrettizia, dagli adulatori di
ogni emisfero), in cui però vi sono davvero tratti sanguinari. Molte difficol-

5 . Posid., FGrHist/BNJ 87 FF 5, 12, in Athen. Iv· 15 2f-153a.


LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

tà verrebbero comunque superate se, come sostengono alcuni, ci si trovasse


di fronte non a una vera e propriaproskjnesis ma a una pratica rituale di sot­
tomissione oppure a una voluta rappresentazione a forti tinte di Posidonio,
che ha (volutamente o meno) frainteso quanto veniva fatto a corte.
Ma non spetta a questo passo il primato della descrizione più truculen­
ta dei costumi di quelli che agli occhi della cultura classica sono, sbrigati­
vamente, definiti barbari. Questo va riservato ad alcuni capitoli della Vita
di Crasso plutarchea, davvero a tinte forti6 • Qui risalta un altro aspetto
attribuito alla crudeltà orientale, ma che in realtà si presta anche a indagi­
ni di tipo comparativo in ambito etnologico: l'abilità nel tagliare le teste,
particolare questo che curiosamente accomuna i Parti ai Galli del Sud della
Francia, noti cultori della pratica delle tétes coupées, ma anche ad altri popo­
li (come gli Sciti o i Tauri della Crimea, per rimanere solo all'Evo antico).
Dopo la disfatta di Carre del 9 giugno 5 3 , Surena, ambiguo personag­
gio legato al re arsacide Orode I I, inviò in Armenia la testa e la mano di
Crasso e poi si diresse verso Seleucia sul Tigri, non senza prima aver indu­
giato in un mascheramento di dubbio gusto:

Prese fra i prigionieri quello che più assomigliava a Crasso, Gaio Pacciano, lo vestì
con una veste regale femminile e lo ammaestrò a rispondere a chi lo chiamasse
Crasso e generalissimo ; poi lo fece condurre in corteo issato su un cavallo. Lo pre­
cedevano alcuni trombettieri e littori montati su cammelli ; dai fasci pendevano
delle borse e alle scuri erano legate teste di Romani tagliate di fresco. Seguivano
alcune cortigiane cantatrici di Seleucia, che suonavano e cantavano canzoni com­
poste di frasi scurrili e burlesche prendendo di mira l 'effeminatezza e codardia di
Crasso.

E mentre a Seleucia, su istigazione dei Parti, si deridevano i Romani, e in


particolare Rustio, che si era portato durante la spedizione un libro licen­
zioso come le Favole milesie, in Armenia, al banchetto tra il figlio del re
partico Orode I I, Pacoro, e la figlia del re locale Artavasde I I, erano rappre­
sentati molti spettacoli provenienti dalla Grecia. Lo stesso Artavasde fu au­
tore di tragedie e di opere storiche, tramandate ancora ai tempi di Plutarco.
Così continua il biografo:

Nel momento in cui fu portata alle porte della sala la testa di Crasso, le tavole
erano sparecchiate e un attore tragico, di nome Giasone, di Traile, stava cantando

6. Plut., Crass. 32-3 3, p artic. 32, 2-3 e 3 3, 3 ( p er le citazioni nel testo ; trad. it. C. Carena,
con adattamenti) .
1 6 . LA TE STA MOZZA DI CRASSO

il brano delle Baccanti di Euripide che riguarda Agave. Quando poi scoppiarono
gli applausi, Silace si arrestò sulla porta, si inginocchiò e gettò in mezzo alla sala
la testa di Crasso.

Tutto ciò tra il tripudio generale degli astanti. Scena celeberrima, su cui la
tradizione ha ricamato elementi da grand guignol, tanto per condannare
l ' incauto Crasso quanto per esecrare, se mai ve ne fosse ulteriore bisogno,
i barbari Parti. Così fu aggiunto il particolare dell 'oro liquido versato nella
bocca del triumviro, tanto apprezzato anche da Dante, sì da essere beffar­
damente ricordato nel Purgatorio (xx 1 1 6 - 1 1 7 : << Crasso, / dilci, che ' l sai :
di che sapore è l 'oro ? >> ) .
Ma se è vero che le leggi della fisica hanno un qualche significato anche
nei comportamenti e nei destini umani, a ogni azione corrisponde una re­
azione esatta e contraria. Ovvero, per rimanere ancorati al poeta fiorenti­
no, vi è sempre un adeguato contrappasso. Ragione per cui, precisa ancora
Plutarco quasi con tono liberatorio, Orode I I pagò il fio della sua crudeltà,
anche se l ' implacabile vendetta degli dèi (o forse di Ahura Mazda, visto
il contesto) arrivò solo nel 3 7. Il re si ammalò di un morbo, degenerato in
idropisia, e divenne oggetto delle insidie del figlio maggiore, Fraate IV. L'a­
conito che questi gli somministrò fu assorbito dalla malattia e anzi, para­
dossalmente, diede sollievo al "mastro Adamo" arsacide.
Decisamente spazientito, il povero figliolo decise infine di trovare si­
stemi più spicci ed efficaci per ottenere il risultato che si era prefissato,
strozzando il genitore. Interessanti risvolti si trovano in Pompeo Trogo
(nel racconto di Giustino), riguardo all ' incauta scelta di Fraate come so­
vrano di Partia e successore di Orode I I. Secondo questo autore, Orode,
quando venne a sapere della morte del figlio Pacoro, designato alla succes­
sione, durante una spedizione contro i Romani guidati da Ventidio, cadde
in un lutto devastante e assoluto. Ma, come si sa, chi muore giace e chi vive
si dà pace, per cui si presentò l 'esigenza di cercare un erede dinastico tra i
trenta figli. Dopo accurata scelta, vene preferito il più scellerato tra tutti,
Fraate IV, nonostante le sollecitazioni centrifughe delle molte concubine
dell 'ormai stanco e anziano re, ognuna pronta a dare consigli pro domo sua.
Inevitabilmente, Fraate decise di liberarsi il campo una volta che fu al po­
tere, senza mezze misure. A differenza dei tiranni greci, che si limitavano
a uccidere pochi famigliari, sterminò infatti il padre e tutti i fratelli con in
aggiunta un figlio 7•

7. Iustin. XLII 4, 10-5, 2; cfr. Plut. Crass. 3 3, 8-9 ; An t. 37, 1 ; Cass. Dio XLIX 23, 3-5.

1 �7
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Ma anche i sovrani considerati più efferati hanno il loro tallone d'Achil­


le e, in questo caso, la debolezza era costituita da una donna, alla quale era
difficile resistere, anche per un dinasta abituato alle bellezze orientali: una
ballerina italica, a nome Musa. Questa fu gentilmente concessa da Augusto
all'Arsacide nel 20, nel quadro della difficile operazione del recupero delle
insegne militari sottratte a Carre nel 53; successivamente arrivarono a Roma
come ospiti di riguardo (se non addirittura ostaggi) quattro figli del re Fraa­
te IV, insieme ad altri famigliari. Una pratica questa che non stupisce certo,
ampiamente praticata, sia nel mondo ellenistico sia durante l'età repubbli­
cana: lo stesso Antioco IV di Siria era stato "ospite" a Roma per diversi anni.
Quello di Musa è uno degli episodi più intriganti e in fondo misteriosi
della storia tardoellenistica-imperiale, tramandato solo da Flavio Giuseppe,
nelle sue Antichita giudaiche, a cui fa peraltro da riscontro la monetazione
partica8 • L'unicità della fonte letteraria, della cui attendibilità non vi è co­
munque motivo di dubitare, è senza dubbio sorprendente, ma comunque
giustificabile. L'intrigo era troppo compromettente, tanto più per Augu­
sto, uomo dalle molte pruderies, che certo mal avrebbe tollerato allusioni
salaci da parte dei letterati più caustici della sua cerchia.
E però possibile che T imagene vi alluda laddove gioca, pericolosamen-
te, con la parola Musa e il participio emousa, riprendendo l'aneddoto di
Telesforo e Lisimaco, come riporta un passo delle Questioni conviviali plu­
tarchee9. Questo erudito alessandrino, in Italia, col tempo riuscì a ritagliar­
si uno spazio importante alla corte di Augusto, ma fu capace di rovinare i
suoi rapporti personali col principe per il gusto di una battuta. Davvero
una persona akairos, "inopportunà', che non avrebbe sfigurato tra i perso­
naggi di Teofrasto nei Caratteri, piccola ma veritiera antologia della com­
media umana. Oltre a questa discutibile battuta, Timagene potrebbe anche
aver fatto pesanti allusioni alla discussa e assai poco morigerata figlia di Au­
gusto, Giulia (Muccioli, 2012b).
Musa era dunque colei che potremmo chiamare, senza troppe esita­
zioni moralistiche, una escort, ma che non si accontentava di vivacchia­
re alla corte di Fraate IV. Partorì un figlio, chiamato Fraatace (ovvero pic­
colo Fraate, l'omologo arsacide di Cesarione, il piccolo Cesare, figlio di
Cleopatra VII e di Cesare). Con costui ebbe poi una relazione incestuosa,
fortemente criticata da Flavio Giuseppe. Eliminato Fraate, associata anche
al trono, assumendo l'altisonante titolatura di Thea Ourania Mousa ("dea

8. Ioseph., An t. !ud. XVI I I 3 9-43.


9. Plut., Quaest. con v. I I 6 3 4e.
1 6 . LA TESTA MOZZA DI CRASSO

urania Musà', mentre dallo storico ebraico costei viene chiamata, con cu­
rioso fraintendimento, Thesmousa). L'incesto, in certe culture (come quel­
la iranica, alla quale i Parti appartengono), non era considerato una pratica
aborrita, a differenza del mondo classico (si pensi a Edipo e Giocasta !) e di
quello giudaico, a cui Flavio Giuseppe apparteneva (sia pur divenuto citta­
dino romano). Rimane comunque sorprendente, se non affascinante, come
questa figura sorta dal nulla o quasi delle campagne italiche sia potuta as­
surgere a regina di un grande impero.
17
La tryphe dei Tolemei

Riprendendo il filo del racconto sui Tolemei, interrotto con le vicende dei
fratelli sposi Arsinoe 1 1 e Tolemeo 11, occorre osservare come i successori fa­
tichino a essere all'altezza dei primi sovrani, almeno nel giudizio della pub­
blicistica antica, maliziosa e talora piena di acrimonia. Il giudice più severo
è Appiano, peraltro originario di Alessandria ( 11 secolo d.C.) e quindi ben
informato su quelli che egli chiama << i suoi re >> . Questi, nella prefazione
alla sua Storia romana, esalta la magnificenza e l'apparato bellico di Tole­
meo 11 e degli altri sovrani del suo periodo, dissipati invece dai successori in
perenne contrasto tra loro, e coinvolgendo implicitamente anche figure di
indubbio spessore come Tolemeo 111 1 D'altro canto, in un passo della sua

Geografia nella prima età imperiale, quando ancora era vivissimo il ricordo
dei Lagidi, Strabone afferma recisamente che tutti i Tolemei, dopo Tole­
meo 1 1 1 , corrotti dalla tryphe regnarono sempre peggio2 I più depravati, in

questa poco edificante graduatoria, furono Tolemeo IV, Tolemeo VII I (v1 1
per Strabone) e, da ultimo, Tolemeo XII detto l'Aulete, il padre di Cleopa­
tra VII.
Il lusso eccessivo, ovvero la tryphe, è un tema costante del pensiero e
della storiografia greca, autentico paradigma interpretativo per vagliare
Greci e non Greci. In epoca arcaica come in età ellenistica, ogni ecces­
so finiva nel poco raccomandabile calderone della tryphe, e in questo i
Greci sono in parte simili ai Romani della media Repubblica, quella an­
corata ai valori di una volta, al fin troppo spesso evocato e celebrato mos
maiorum. Pericolose contaminazioni con la tryphe ebbe peraltro lo stesso
Tolemeo I I , secondo l'acida penna di Filarco, in una versione, ancorché
antifrastica, della favola della volpe e dell'uva ambientata nella reggia di
Alessandria:

1.App., Praef I O, 39-42.


2. Strabo XVII I, I I ; cfr. Athen. v· 206c-d.

14 0
1 7. L A TR YPHÈ D E I T O L E M E I

[ . . . ] il più augusto tra i sovrani del mondo, e che fu impegnato, se mai ce ne fu un


altro, sul piano della cultura, pure si lasciò così traviare e corrompere da una scon­
siderata sfrenatezza, da credere che sarebbe vissuto per sempre, e diceva che lui solo
aveva scoperto il modo d'essere immortale. Tormentato dunque per parecchi gior­
ni dalla gotta, quando si sentì meglio e poté spiare dagli abbaini del suo palazzo gli
Egizi che consumavano il loro pasto sul fiume, mangiando quel che capitava spar­
pagliati sulla sabbia, disse : << Sventurato che sono, non poter essere uno di loro >> '.

Lasciando da parte Appiano e Filarco, nel suo giudizio Strabone è


certamente influenzato da Polibio di Megalopoli, che ebbe modo di visitare
l'Egitto con Scipione Emiliano e di incontrare Tolemeo VII I nel 14 0 / 1 3 9 ca.
Per lo storico acheo, la degenerazione nacque con Tolemeo IV, che si
presentava ben diverso dal suo predecessore, l'ambizioso ma morigerato To­
lemeo I I I. Di lui infatti non si conoscono né scandali né amanti, quasi come
per il seleucide Antioco I I I, almeno fino al colpo di fulmine per la fanciulla
di Calcide: il che, se non è moralisticamente titolo di merito, è particolare
degno di nota, nella storia dei Lagidi e in generale dell'Ellenismo.
Polibio narra che Tolemeo IV, dopo la morte del padre, fece eliminare
il fratello Magas e i collaboratori di quest'ultimo4 • Lo storico acheo e al­
tre fonti annoverano tra le vittime lo stesso padre e la madre Berenice I I
(ispiratore dei delitti sarebbe il primo ministro Sosibio). Esagerando nel­
la caratterizzazione a tinte fosche, Giustino aggiunge erroneamente che a
Tolemeo IV fu dato il soprannome di Philopator a vituperio del delitto del
genitore, scambiando un titolo ufficiale, che esaltava l'amore filiale, con
un semplice soprannome popolare 5 • Il sovrano, approfittando anche della
debolezza dei nemici al di fuori del regno, abbandonò ogni interesse per la
politica estera (il che è inqualificabile, agli occhi di Polibio): si diede alle
feste, ad amori indegni e ubriacature folli e continue, rendendosi invisibile
e inaccessibile per gli uomini della sua amministrazione6 •
Ancora più piccante e quasi disgustato il racconto di Plutarco, che scri­
ve che dopo la morte di Tolemeo I I I vi fu un clima di grande dissolutezza
e intemperanza e aggiunge, con un tocco quasi felliniano, che si assisteva
non già a una città delle donne, bensì a un vero e proprio governo delle
donne, guidate dall'amante Agatoclea e dalla madre di costei, Oinante, di

3. Phylarch., FGrHist/BNJ 8 1 F 40, in Athen. XII 536e-f.


4. Polyb. v· 34, 1 ; 36, 1 ; xv· 25, 2; cfr. Plut., Cleom. 33, 3-5.
5. Iustin. XXIX 1, 5.
6. Polyb. , 34; cfr. Callix., FGrHist/BNJ 627 F 1, in Athen. v· 203e-206c (sullo sfarzo
r

dei battelli).

14 1
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

professione ruffiana. Così corrotto e dedito al lusso (e, in sovrammercato,


soggetto anche a impegnative libagioni), Tolemeo IV nei momenti di so­
brietà celebrava i misteri dionisiaci e andava questuante nel palazzo regio al
suono del timpano 7• Il ritratto che ne risulta, ispirato o enfatizzato secondo
alcuni da Filarco, è l'antitesi di quello del buon governante, laboriosamente
dedito agli affari di stato e al bene comune: una forma particolare di schia­
vitù, sì gloriosa, ma dura da sopportare (endoxos douleia ), come insegna l'a­
neddotica relativa ad altri sovrani di età ellenistica (Seleuco I e, soprattutto,
Antigono Gonata; Virgilio, 20 0 3, pp. 6 7- 9 ) .
In realtà Tolemeo IV è pur sempre il vincitore nel 2 1 7 dell'importante
battaglia di Rafia contro i rivali di sempre, i Seleucidi (in quella circostan­
za, Antioco 1 1 1 ), anche grazie all'aiuto di truppe autoctone egiziane. Gli
studiosi, pertanto, tendono ormai a sminuire o a smorzare il duro giudizio
degli storici antichi, riconoscendo un certo spessore a questo Lagide e a di­
versi suoi successori, in termini di politica estera e interna (Lefebvre, 2 0 0 9 ;
Fischer-Bovet, 20 1 5 ) .
Per quanto attiene poi a Tolemeo VI, questi è figura che costituisce co­
munque in parte un'eccezione nel panorama a tinte fosche della tradizione.
Stranamente non sono segnalati rumores nei suoi confronti e anche il seve­
ro Polibio ha per lui parole di apprezzamento, pur con qualche distinguo8 •
Nessuna oscillazione di giudizio nella tradizione vi è invece per il fratel­
lo minore di Tolemeo VI, ovvero Tolemeo VII I, forse tra i Lagidi il sovrano
più ambiguo, o comunque quello che si attirò i maggiori livori. Le fonti lo
presentano come un mostro sanguinario, che accumulava nefandezze su ne­
fandezze, facendo di Alessandria e dell'Egitto uno scenario da film horror.
Figlio minore di Tolemeo v e Cleopatra I, finse un attentato ai suoi danni
mentre era re della Cirenaica e redasse nel 1 5 5 un testamento in favore del
popolo romano (scoperto dagli archeologi italiani nel 1 9 29 e prontamente
sfruttato per la valorizzazione del tema del mare nostrum). Alla morte del
fratello Tolemeo VI, nel 1 4 5, riuscì finalmente a tornare ad Alessandria. La
sua vendetta nei confronti del partito del consanguineo defunto fu spietata,
tanto che uccise il nipote (colui che da diversi studiosi viene chiamato Tole­
meo v11 ) tra le braccia della madre, liberandosi di uno scomodo rivale per il
trono. Non pago di ciò, sposò la sorella Cleopatra I I e, ancora non soddisfat­
to, dopo averla ripudiata violentò e sposò la figlia di costei, Cleopatra 111 9 •

7. Plut., Cleom. 3 3 , 1 - 2.
8. Polyb. xxxix 7.
9. lustin. xx�r111 8, 4-5.

142
1 7. L A TR YPHÈ D E I T O L E M E I

Ma le atrocità non si fermano qui. Riguardavano anche la popolazio­


ne, che spesso si diede alla fuga atterrita, nonché letterati e artisti legati alla
corte del fratello Tolemeo VI, che si allontanarono rifugiandosi presso le
isole e le altre città, alla ricerca di mecenati più benevoli e munifici (in par­
ticolare i sovrani di Pergamo). E si tratta di grammatici, filosofi, geometri,
musici, pittori, maestri di ginnastica, medici e molti altri specialisti10 •
Nonostante la vita culturale tornasse ad essere intensa fino alla fine del
regno tolemaico (e soprattutto sotto Cleopatra VII ) , il 14 5 è da considerar­
si comunque una data spartiacque nella storia politica e culturale non solo
dell'Egitto lagide, ma di tutto l'Ellenismo, paragonabile per certi aspetti
alla diaspora degli intellettuali bizantini dopo la caduta di Costantinopoli
nel 14 53 o di quelli austro-tedeschi verso il mondo anglo-americano, dopo
la presa del potere del nazismo nel 1933.
Anche dopo il regolamento dei conti di quell'anno fatidico, il compor­
tamento di Tolemeo VI I I risultò inquietante, pari a quello dei più efferati
tiranni. La fonte più dettagliata, Pompeo Trago (in Giustino), che quasi
prova compiacimento pescando nel torbido, si sofferma sulle atrocità e sul­
la solitudine del Lagide ad Alessandria, memore di un luogo comune anche
letterario, che annovera una lunga schiera di penne illustri, da Senofonte
(Ierone) fino all'Alfieri (Della tirannide) o a Manzoni con il suo Innomi­
nato. Scrive infatti:

Lasciato solo con i suoi in una città così grande, vide che era re non di uomini, ma
di edifici vuoti e con un editto incoraggiò l'arrivo di stranieri 1 1 •

Non c'è dunque nessuna notte piena di turbamenti, nessun << E poi?>> nel
vorticoso succedersi di crimini del Lagide. Infatti, qualche anno dopo (ca.
nel 130) Tolemeo VII I uccise anche il proprio figlio Tolemeo detto Menfi­
te, avuto dalla sorella-sposa Cleopatra II, ormai da tempo in rotta con lui.
Sempre Giustino riferisce che ne tagliò il corpo membro a membro, lo pose
in una cesta e lo presentò alla madre il giorno dopo, raccapricciante dono
per il suo compleanno 1 2 •

Difficile trovare spiegazioni a queste ripetute crudeltà in un clima da


Regime del Terrore, e men che meno spiegazioni di tipo ideologico. Anzi,
la propaganda di Tolemeo vuole offrire un'immagine del tutto diversa, che

1 0. Athen. Iv· 184c, da Menecle di Barca e Androne di Alessandria, letterati coevi agli
. .
avven1ment1.
1 1. Iustin. XXXVIII 8, 7.
12. lustin. XXX\·;'I II 8, 13-15; cfr. Diod. XXXIII 13; xxxI,r-xxX\r 14.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

però ha un divertente effetto boomerang. Ogni re o tiranno che si rispetti


si presenta come un benefattore agli occhi dei suoi sudditi; lo ricorda anche
il Vangelo di Luca1 3 • Il re lagide non è da meno. Euergetes ("benefattore") è
infatti l'appellativo ufficiale da lui scelto, secondo un'usanza tipica dell'età
ellenistica. Ma con suprema e probabilmente amara ironia, Tolemeo VIII
fu ribattezzato dagli Alessandrini Kakergetes, cioè "malfattore': un sempli­
ce ma efficace gioco di parole.
L'elenco delle nefandezze commesse o attribuite a questo sovrano sa­
rebbe sicuramente lungo e arido, se non fosse accompagnato dalla narra­
zione polibiana dell'incontro nel 1 4 0 / 139 ca. con l'ambasceria romana
guidata da Scipione Emiliano (accompagnato dallo storico acheo, atten­
to testimone oculare) 1 4 • Il Lagide viene presentato brutto in volto e picco­
lo, il che implica nell'immaginario collettivo, evidentemente, mancanza di
carisma. Non senza qualche fondamento di verità, visto il confronto con
alcuni re spartani ovvero, per citare sovrani ben più vicini a noi cronolo­
gicamente, con Vittorio Emanuele II I di Savoia, detto "Sciabolettà' per la
spada fatta forgiare in sintonia con la sua non esorbitante statura di un me-
tro e cinquanta.
Ma era soprattutto la pinguedine di Tolemeo a impressionare: una pin­
guedine disumana, che lo rendeva simile a una bestia. Invece di ricorrere a
vesti morbide e avvolgenti, magari di color scuro e pertanto capaci, almeno
in teoria, di sfinarne le forme, ne indossava una variopinta e dal tessuto leg­
gero e quasi trasparente, in cui il vedo era purtroppo superiore al non vedo,
e tale da accentuare soltanto il senso di disgusto di chi stava al cospetto del
sovrano.
Oltre al beffardo Kakergetes, il soprannome di Tolemeo VII I, almeno
quello con cui era noto ( e disprezzato) ad Alessandria e tra i sudditi, è ine-
vitabilmente quello di Physkon ("grassone"). E un appellativo che già Alceo
aveva riservato al tiranno Pittaco, nella Lesbo degli inizi del VI secolo:

Ma tra loro non parlava sincero,


il Grassone : a cuor leggero
calcò sotto i piedi i giuramenti
e ora fa banchetto della nostra città1 5 •

1 3. Luca 22, 25-26.


1 4. Posid., FGrHistlBNJ 87 F 6, in Athen. XI I 549d-e ; Iustin. XXXVII I 8, 8-1 1.
1 5 . F 1 29 Lobel-Page (trad. it. G. Guidorizzi) .

144
1 7. L A TR YPHÈ DE I TOLE M E I

In quel caso la caratteristica fisica si sposava all'ingordigia del tiranno (in


realtà un aisymnetes, un "arbitro", per Aristotele), che addirittura si cibava,
se non
'
addiritura sbranava la sua stessa città.
E allettante ritenere che vi sia stato un raffinato gioco dell'intertestua-
lità alla corte lagide, magari suggerito da letterati carichi di livore verso il
monarca, come Aristarco di Samotracia (Nadig, 2007, p. 67 ) . Ma non biso­
gna dimenticare che gli Alessandrini erano maestri quant'altri mai nell'af­
fibbiare nomignoli ed appellativi ironici, per non dire sarcastici, dai primi
Lagidi fino al "Cesaretto" ("Cesarione") con cui è definito, non certo con
affettuosità, il figlio di Cleopatra VII e Cesare, Tolemeo xv Cesare. Una
lingua lunga e tagliente, come già peraltro avevano avuto gli Ateniesi nel
vsecolo, riservando apprezzamenti poco lusinghieri agli "ostracizzandi".
Manca però nella metropoli egizia una tradizione comica vera e pro­
pria (quale vi fu invece ad Atene) o, per andare più avanti nel tempo, non
vi furono un Belli o un Trilussa, poeti capaci di filtrare gli umori del popo­
lino. In ogni caso, le fonti ricordano che gli Alessandrini avevano molte ra­
gioni per disprezzare Tolemeo VI I I, oltre alla sua crudeltà. La sua dedizione
ai piaceri più sfrenati e inconfessabili, già manifestata durante il suo regno a
Cirene, si accompagnava, in primo luogo, all'incapacità di assumere un at­
teggiamento come si deve nelle udienze 16. In buona sostanza, Tolemeo VI I I
si comportava a corte come un fanciullo, il che lo avvicina a un altro per­
sonaggio lontano da ogni regola, l'esecrato sovrano seleucide Antioco IV,
biasimato peraltro anche dallo stesso Lagide, nei suoi Hypomnemata1 7• E
dunque, tornando al Physkon da cui si è partiti, l'obesità non era conside­
rata segno di allegria e spensieratezza, bensì rappresentava l'immagine ter­
rena dell'assoluta incapacità di ogni autocontrollo, tanto nella sfera privata
quanto in quella pubblica.
Non si tratta comunque solo di mere questioni di bilancia. Se nel mon­
do greco classico e in quello romano l'obeso aveva forme fisiche antiteti­
che ai canoni dell'arte e divenne anzi un personaggio macchiettistico se
non ridicolo (anche nella Commedia nuova), per Tolemeo VI I I invece la
veste e anche l'eccessiva pasciutezza erano la rappresentazione visiva, l'o­
stentazione della tryphe, da mostrare con orgoglio alla basita delegazione
romana, abituata a ben altro tenore di vita, improntato a grande morige­
ratezza18. Ancora oggi in India, come in molte parti dell'Africa, l'obesità è

16. Diod. XXXI I I 23; cfr. 22.


1 7. Ptol., FGrHistlBNJ2 234 FF 3, 5, in Athen. x 438d-f.
18. Diod. XXXI I I 28b.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

segno di ricchezza e benessere, se non addirittura di prestigio sociale. Non


a caso, dunque, Tolemeo VI I I fu soprannominato proprio Tryphon (come
forse già prima di lui Tolemeo I I I e Tolemeo IV, peraltro secondo tradizio­
ni malcerte).
A conferma della lingua salace degli Alessandrini nell'affibbiare appel­
lativi sferzanti, soccorrono altri e talora più intriganti esempi. Tolemeo I X,
figlio di Tolemeo VI I I e Cleopatra I I I, era detto Lathyros ("cicerchia"), in
segno di spregio: un riferimento a una verruca ovvero alla sua statura non
eccelsa (Criscuolo, 2011, p. 148 ) . Quanto a Tolemeo x Alessandro I , nono­
stante il secondo nome, che evoca il grande condottiero macedone, costui
si rese responsabile di una grossa empietà: saccheggiò il sarcofago d'oro
dove era riposto il corpo di Alessandro, fatto preparare con cura da Tole­
meo I . Gli appellativi con cui venne definito sono un poco nebulosi ma si­
curamente sprezzanti: ho Kokkes kai Pareisaktos1 9 • Il secondo soprannome
è etimologicamente chiaro: "intruso", o "colui che si introduce segretamen­
te". Più prosaicamente, un estraneo insinuatosi e impadronitosi del trono
dei Lagidi. Un termine che potrebbe anche ben adattarsi alle vicende del
personaggio. Figlio di Kokke (se davvero il termine è un genitivo) trova in­
vece una semplice, universale e acronica spiegazione, nonostante l'affan­
narsi degli studiosi per trovare soluzioni alternative, considerando che la
parola greca, invero volgarotta, indica la vagina, e quindi il nostro, per me­
tonimia, sarebbe stato figlio di una donna non troppo raccomandabile, la
discussa e chiacchieratissima Cleopatra I I I .
La passione per Dioniso e per i tiasi a lui collegati è una costante di
molti dinasti, non solo tra i Lagidi. Gli Attalidi di Pergamo, come si è sot­
tolineato, promossero il culto di Dioniso Kathegemon e favorirono gli arti­
sti, che si riunivano nell'assocazione dei technitai.
Alcuni sovrani poi, nelle regalità ellenistiche, presero l'epiteto ufficiale
di Dioniso, con o senza Nuovo (a suggerire una nuova incarnazione terrena
della divinità). Celebre è il caso di Mitridate VI del Ponto, sul cui appella­
tivo la tradizione fornisce versioni contrastanti, come emerge in particola­
re nelle Questioni conviviali di Plutarco20 • Infatti dapprima si sostiene che
il sovrano poneva premi per i più grandi mangiatori e bevitori, risultando
egli stesso vincitore in entrambi i casi; divenne il più grande bevitore tra i
suoi contemporanei e per questo era soprannominato Dioniso (tale gara

1 9. Strabo �TI I 1, 8.
20. Plut., Quaest. con v. I 6 24a-b.

I .4- 6
1 7. L A TR YPHÈ DE I TOLE M E I

viene sostanzialmente confermata da Nicolao Damasceno) 21 Plutarco ad­ •

duce, preferendola, anche un'altra spiegazione, che trae origine dalla pro­
paganda del re del Ponto: quando Mitridate era un neonato, un fulmine in­
cendiò le sue vesti, senza toccargli il corpo tranne una piccola traccia che ri­
mase sul volto e fu nascosta dai capelli. Una volta adulto, nuovamente una
saetta cadde vicino a lui. Gli indovini spiegarono che sarebbe stato temibile
per le truppe fornite d'arco e armate alla leggera, mentre i più, a causa dei
fulmini, lo chiamarono Dioniso in base alla somiglianza con quanto aveva
sofferto il dio (chiaro rimando alle vicende di Semele, madre di Dioniso,
colpita e uccisa da una folgore inviata da Zeus).
Per quanto riguarda i Lagidi, la vena filodionisiaca è soprattutto pal­
pabile da Tolemeo IV fino a Tolemeo X I I, il padre di Cleopatra VII. Costui
si proclamò ufficialmente Nuovo Dioniso, a sottolineare il legame con la
divinità e i suoi riti, che prevedevano l'uso dell ' aulos. Questa sua passione
ha fatto passare in secondo piano gran parte della sua politica, che ormai
si tende a rivalutare (a lui si dovrebbe, tra l'altro, lo sviluppo delle comuni­
cazioni navali dall'Egitto verso l'India, proseguite poi quando si creò con
Augusto la provincia romana). Nel passo di Strabone ricordato all'inizio
del capitolo, si precisa infatti che il sovrano,

al di là delle altre sfrenatezze, si esercitava a suonare l ' aulos e ne era così fiero che
non si vergognava di indire nella reggia agoni ai quali partecipava lui stesso, gareg­
giando con gli altri concorrenti.

Una descrizione confermata da Ateneo, che precisa che Tolemeo XII dissi­
pò tutta la ricchezza di Tolemeo I I conservata fino ad allora, lui che era solo
abile a suonare l'aulos e niente più che un bravo prestigiatore 2 2

Un re quindi provetto musicista, che si muoveva anch'egli quasi nella


scia di Antioco IV, e che fece della reggia e della stessa Alessandria una gi­
gantesca casa della musica, votata a Dioniso, risultando quasi un precurso­
re di certi politici moderni, travolti da spettacoli di burlesque e da eccessi­
ve e poco limpide frequentazioni femminili. Dioniso è infatti un dio che,
fin dall'epoca arcaica e classica (cfr. le Baccanti di Euripide), evocava riti
e cerimonie ben lontane dall'algida compostezza del culto per le divinità
olimpiche; cerimonie in cui alcol e momenti orgiastici erano gli elementi
fondanti. Luciano, con suprema malizia, precisa che Tolemeo X I I costrinse

21. Nic. Dam., FGrHist 90 F 7 3, in Athen. x 415e.


2 2 . Athen. v· 206c-d.

14 7
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

le persone del suo séguito a travestirsi da donna e a bere vino alle feste in
onore del dio Dioniso, le Dionisie2 3 •
Non sorprende dunque che il Lagide fosse chiamato con disprezzo da­
gli Alessandrini Auletes ("suonatore di aulos"), e che la tradizione ricami su
altre sue sfrenatezze, pudicamente alluse da Strabone (tra queste andrebbe
annoverata anche l'uccisione della figlia Berenice IV nel 5 5, che aveva osato
detronizzarlo qualche tempo prima).

2 3 . Luc., Calumn . 1 6.
18
Cleop atra v11,fa tale monstrum

Per un'inveterata convenzione, la storia ellenistica finisce con l'aspide o


gli aspidi di Cleopatra, il 12 agosto del 3 0 : Cleopatra VII o, semplicemen­
te, Cleopatra. A lei Pascal ha dedicato un fulminante pensiero, splendido
esempio di storia controfattuale:

Se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l ' intera faccia della
terra1.

Un naso più corto dunque, e non più lungo (così come propone una vul­
gata errata, che ha tratto in inganno tra gli altri Pirandello, nel saggio L ' U­
morismo) . Un aforisma spesso citato, e su cui si sono affannati a riflettere
storici, comuni mortali e pensatori illustri. Persino Gramsci, nei suoi Qua­
derni dal carcere, annota:

Cercare il senso esatto che Pascal dava a questa sua espressione divenuta tanto fa­
mosa ( è contenuta nelle Pensées) e il suo legame con le opinioni generali dello
scrittore. (Frivolità nella storia degli uomini; pessimismo giansenistico ) 2 •

In realtà, a giudicare dai denari coniati in Siria che effigiano la regina da un


lato (e sull'altro Marco Antonio: non è chiaro quale sia il diritto e quale il
rovescio), il problema estetico è più complesso di quanto non lo presenti
Pascal, senza evocare le regole malcerte della fisiognomica. In quelle mone­
te il naso è adunco o, per così dire, "importante" e tutto l'insieme fa della
figlia di Tolemeo XII una regina ben poco avvenente: il che pare peraltro
giustificato dal fatto che in quelle monete Cleopatra aveva circa trentaset­
te anni, decisamente agée per gli standard dell'epoca. Ma, d'altro canto, vi
sono attestazioni della sua bellezza, anche numismatiche (ma provenienti

1. B. Pascal, Pen sieri, parte prima, articolo IX, n. 46.


2. A. Gramsci, Quadern o 26 (x11), par. 3.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

dall'ambito tolemaico), che bilanciano tale immagine così iperrealistica,


da sembrare quasi uscita dal pennello di Bosch (Weill Goudchaux, 2000 ) .
Indubbiamente, quella di Cleopatra non era la bellezza fulminante di
Liz Taylor, capace di scagliare le sue frecce di Cupido sull'incauto Richard
Burton, inerme davanti ai suoi occhi verde-azzurro intenso, con sfumature
viola, oppure quella statuaria, eppur raggelante, di Monica Bellucci, nella
trasposizione cinematografica di Asterix e Cleopatra.
Certo, la regina era ben conscia delle armi e dei ferri del mestiere della
seduzione, tanto che la tradizione le attribuisce un libro di cosmetica (Ko­
smetikon), che altro non è che un catalogo di prodotti di cui lei faceva uso
per agghindarsi, come si addiceva al suo rango reale (il bagno nel latte d'a­
sina, pratica condivisa poi da Poppea, fa parte a pieno titolo della leggenda
del personaggio) 3 • Plutarco e Cassio Dione si soffermano sul fascino della
figlia di Tolemeo XII, che consisteva nella magìa del parlare e in un caratte­
re davvero ammaliante (del resto quale donna non ammalia, almeno o, me­
glio, soprattutto agli inizi di una relazione, il suo uomo con dolci e suadenti
parole?). Una regina capace di modulare la sua voce come uno strumento
musicale e tanto colta da conoscere le lingue di molti popoli (come solo
Mitridate VI del Ponto era riuscito a fare, prima di lei). Ma, al tempo stesso,
in grado di adeguarsi al suo interlocutore e pertanto abile a rispondere a to­
no alle facezie volgari di Antonio, così come a giocare a dadi, libare, andare
a caccia e maneggiare le armi 4 •
La tradizione favorevole alla regina, infatti, insiste sulle sue capacità di
seduzione, esercitate a Tarso, in Cilicia, nel 4 1 e descritte in una memorabi­
le pagina della Vita di Antonio di Plutarco (cap. 25). Presentandosi a Marco
Antonio, Cleopatra risalì il fiume Cidno, agghindata come una nuova in­
carnazione di Afrodite. Peraltro la regina era paredra di Venere/ Afrodite,
come dimostra la sua presenza nel tempio di Venus Genetrix, la divinità tu­
telare di Cesare (a cui era stata legata) e della gens Iulia. Anzi, l'appellativo
che col tempo assunse, sia pure saltuariamente, Thea Neotera (nuova in­
carnazione di una Dea, non meglio specificata e sulla cui identità la critica
spesso si è accapigliata), potrebbe alludere proprio al suo collegamento con
Iside/Afrodite. Cleopatra, come e più degli altri sovrani ellenistici, operò
una strategia propagandistica che non ha molto da invidiare alle macchine
del consenso in uso nei regimi politici contemporanei, monocratici o me­
no. Presentò il figlio, avuto da Cesare nel 47, come l'ultimo dei Tolemei.

3. P.Oxy. LXXI 48 0 9.
4. Plut., An t. 27 ; cfr. Cass. Dio XLII 34, 4-5.
1 8 . CLE OPATRA VII, FA TALE MONS TR UM

Quanto ai gemelli avuti da Antonio, furono chiamati Alessandro Helios e


Cleopatra Selene: sole e luna, simboli ben presenti nell'Oriente, greco-ma­
cedone e anellenico. L'ultimo figlio fu poi pomposamente definito Tole­
meo Philadelphos, a sottolineare l'accordo con i fratellastri o, in alternativa,
a rinverdire i fasti dell'altro celebre Philadelphos, Tolemeo I I ( a cui comun­
que l'appellativo fu assegnato molto tempo dopo la morte). Lei stessa, nel
corso degli anni, oltre a Thea Neotera, ebbe anche altri titoli ufficiali: as­
sociata probabilmente al trono dal padre, Tolemeo XII, nel 5 1 (pochi mesi
prima della morte di costui), venne chiamata Philopator, e poi, condividen­
do il trono in successione insieme ai fratelli Tolemeo XI I I e Tolemeo XIV,
anche Philadelphos (nella coreggenza con quest'ultimo).
In un papiro figura inoltre come Philopatris ("che ama la patria"): una
dichiarazione d'affetto da intendere in primo luogo nei riguardi dell'Egit­
to, non certo nei confronti della Macedonia degli avi. In séguito all'unione
con Marco Antonio, e alle conseguenti donazioni del triumviro a lei e ai
suoi figli (tra il 37/3 6 e il 34) assunse il titolo di Basilissa basileon/Regina
regum (così come Cesarione viene definito Rex regum) : "regina dei re", rie­
cheggiando il re dei re proprio della tradizione iranica.
"Re/regina dei re" è espressione che nessun sovrano ellenistico aveva
osato assumere, neppure Alessandro Magno, e che si giustifica solo in base
alla tradizione orientale. Una regina e un re, dunque, che erano al di sopra
di altri re, fossero essi gli altri figli della Lagide o sovrani vassalli, nell'il­
lusorio sogno di una revanche orientale, con la creazione di un grande im­
pero d'Oriente sotto l'egida di Antonio, da contrapporre all' imperium
Romanum.
A ciò si aggiunga che Cleopatra fece davvero della propria vita un'ope­
ra d'arte, insieme al fido Antonio. Antesignani di Des Esseintes e Andrea
Sperelli, i due amanti forse già a partire dal 4 1/ 4 0 si dedicarono al piacere,
al lusso e alla gioia più sfrenata, in quella che da loro stessi venne definita
associazione dei << Viventi inimitabili>> 5 e in cui il Romano ritornò ai gior­
ni spensierati dell'adolescenza, tra scherzi e zingarate. La maschera della
commedia, sotto gli occhi divertiti degli Alessandrini (peraltro cinicamen­
te adusi a personaggi sui generis) , era però destinata a virare in tragedia, co­
me presagirono gli uomini fidati del triumviro.
Viste tali premesse, è quasi scontato pensare che la propaganda avversa
abbia voluto denigrare con tutti i mezzi a disposizione l'ultima grande re­
gina ellenistica, ricorrendo ben poco all'ironia e molto al sarcasmo e all'of-

5. Plut., An t. 28, 2.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

fesa, non di rado anche gratuita. Sprezzantemente, la tradizione definisce


Cleopatra VI I l'Egiziana, come si può leggere nella Vita di Antonio di Plu­
tarco. Questi non ha alcuna simpatia per il triumviro e la sua compagna la­
gide e anzi definisce una terribile disgrazia il suo amore per la regina.
Il disprezzo di tipo etnico, che accomuna Greci e Romani nei confron­
ti dell "'altro", sottintende qui forse una critica alla tradizione malcerta sui
natali della regina, dato che la madre non è mai nominata nelle fonti clas­
siche. Dunque, ribaltando il noto detto "il padre è certo, ma la madre è
tutt'altro che certa ! ", si è pertanto addirittura proposto che Cleopatra VI I
non sia nata da Tolemeo X I I e da Cleopatra v, bensì avrebbe avuto come ge­
nitrice la figlia di un sacerdote di Ptah, dunque della classe sacerdotale della
città-simbolo della tradizione egizia: Menfi (Huss, 1 9 9 0 ) . Ipotesi apparen­
temente avvalorata dalla notizia di Strabone, secondo cui Tolemeo ebbe
una sola figlia legittima, Berenice IV, mentre le altre due erano illegittime
(Cleopatra VII, Arsinoe IV ) 6 • Ma va d'altro canto precisato che lo scrittore
di Amasea è autore quanto mai interessato se non fazioso, giacché, come si
è visto, oltre ad essere filoromano e schierato con l'establishment imperiale,
aveva una chiara percezione della crisi dei Lagidi, che sarebbe culminata
proprio con Cleopatra.
Vi sono inoltre diverse ragioni per dubitare del fatto che Cleopatra ab­
bia realmente avuto una vera e propria unione legale e non di fatto con
gli uomini a cui la tradizione l'associa, a cominciare da Cesare (anche se
poi si avrà tutto l'interesse a ritenere legittima la liaison, per avvalorare le
pretese dinastiche di Cesarione, il figlio nato dalla coppia nel 47 ) . In par­
ticolare, riguardo ai supposti matrimoni con i fratelli Tolemeo XI II e poi
Tolemeo XIV, anche se essi non costituiscono una novità nella tradizione
lagide, risultano però alquanto sospetti, non tanto per il fatto che i due
fratelli fossero notevolmente più giovani della più scafata sorella, quanto
per il carattere infido della tradizione che ne parla. A ricordarli è soprat­
tutto Cassio Dione, autore di una Storia romana nella prima metà del I I I
secolo, secondo il quale sarebbe stato proprio Tolemeo X I I a lasciar scritto
nel testamento che Cleopatra e Tolemeo X I I I vivessero in accordo con il
costume egizio7• Accanto a questa testimonianza vi è quella, ben più fanta­
siosa, di Lucano nella Farsaglia, attraverso le preoccupate parole di Potino
ad Achilla. Con i suoi filtri d'amore, sostiene costui, Cleopatra aveva già

6. Strabo �r1 1 1, 1 1.
7. Cass. Dio XLI I 3 S, 4.
1 8 . CLE OPATRA VII, FA TALE M O NS TR UM

ammaliato un vecchio (Cesare) e sarebbe bastata solo una notte d'amore8


con il più giovane fratello per causare la morte dei due ministri tolemaici.
Una critica insistita e peraltro molto sessista, se è vero che in un altro passo
il nipote di Seneca non si perita di precisare che ad Azio, nel mare di Leu­
cade, << si corse il rischio che diventasse padrona del mondo una donna, e
neppure della nostra razza>> , svilendo così il ruolo del povero Marco Anto­
nio a quello di comparsa accecata da un folle amore9 •
Una tradizione che arriva per lo meno fino a Shakespeare. In apertura
dell'Antonio e Cleopatra, il personaggio di Filone osserva:

Sarà, ma questa follia del nostro generale oltrepassa ogni misura. Quegli indomiti
suoi occhi che in guerra come Marte in armi fiammeggiavano sulle schiere e le
coorti, ora si chinano e dedicano l'ufficio e l 'ossequio dei loro sguardi ad una fron­
te bruna. Il suo cuore di condottiero, che negli scontri delle grandi battaglie gli
spezzava le fibbie sul petto, ora rinnega ogni moderazione ed è divenuto mantice e
ventaglio per alimentare e rinfrescare le smanie di una zingara 10 •

Ancora più paradossale il secondo matrimonio, che sarebbe avvenuto nel


4 7 per volontà di Cesare, con la regina ormai donna fatta e il fratello Tole­
meo X IV poco più di un bambino. Vi è dunque un filone, evidentemente
nato in ambito romano e dunque antilagide, riflesso da Cassio Dione, che
ha qualche addentellato nel resto della tradizione e che riflette un pregiu­
dizio di vecchia data sull'incesto come strumento politico nel mondo elle­
nistico, retaggio in questo caso della realtà egizia 11 •

Se Cleopatra durante la sua breve permanenza a Roma nel 4 6 aveva


comunque suscitato scandalo, attirandosi qualche commento malevolo di
Cicerone, i toni si fecero decisamente più accesi all'epoca dello scontro tra
Antonio e Ottaviano, fino al fatidico giorno di Azio e all'arrivo del vinci­
tore in una rassegnata Alessandria.
Come pochi altri personaggi, Cleopatra rappresenta un archetipo
dell'altra metà del cielo, la donna bella e fatale, figura ben nota alla lettera­
tura occidentale da Elena in poi e rivitalizzata dalla letteratura ottocentesca
e dal cinema. La pubblicistica filoaugustea, scagliandosi contro la regina,
sembra dunque quasi esorcizzarne il fascino, demonizzandola o svilendone
la caratura umana e politica, ricorrendo ali'invettiva e alla facile ingiuria, in

8. Lucan. x 360-365.
9. Lucan. x 66-67.
10. Shakespeare, An tonio e Cleopatra, atto I, scena I ( trad. it. F. Franconeri).
1 1. Cass. Dio XLII 4 4 , 2-4; cfr. Beli. Alex. 33, 1 - 2.
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

un tourbillon di sidri, eunuchi e altri elementi di facile effetto, in una Roma


pur sempre aperta e soggetta alla moda egittizzante.
Chiunque abbia qualche dimestichezza con Orazio, ricorda almeno il
monte Soratte, la via Sacra con i suoi improvvidi frequentatori e, appunto,
ilfatale monstrum, Cleopatra, espressione che evoca ben altri mostri, le fi­
gure mitologiche che animano l'antichità classica: Idra, Gorgone, Cerbe­
ro, la Sfinge e, dulcis infundo, la Chimera (Luce, 1 9 6 3 ) . E l'oraziano inno
alla gioia, da intonare per la morte dell'Egiziana, simboleggiato da un ca­
tartico brindisi ( <<nunc est bibendum >> ) , indica la vittoria dell'Occidente
sull'Oriente, di Apollo contro Dioniso, ovvero di Ottaviano contro Anto­
nio. Riprendendo, in un aperto gioco dell'allusività, un celebre verso di Al­
ceo (in cui si festeggia la morte del tiranno Mirsilo), il poeta vede Cleopa­
tra come un funesto tiranno, che minaccia le sorti progressive dell'impero
di Roma con la sua masnada di uomini debosciati e depravati, ubriaca nella
sua sorte favorevole, ma comunque pur sempre capace di riscattarsi con la
morte, cercata per evitare di essere trascinata in trionfo come una donnet­
ta qualsiasi, lei che è l'orgogliosa quintessenza della femminilità1 2 Gentile •

omaggio postumo, quasi cavalleresco.


Le parole ispirate e, almeno su questo punto, rispettose di Orazio non
hanno corrispettivi negli altri poeti della cerchia augustea e neppure nel re­
sto della tradizione. Plutarco e, tra l'altro, un'operetta di propaganda anti­
lagide come il Carmen Actiacum addirittura avvalorano la notizia secondo
cui la regina avrebbe sperimentato il veleno più indolore facendo ricorso
a cavie umane, peraltro forse spalleggiata da un nutrito gruppo di medici
presenti alla sua corte: il che la porrebbe allo stesso livello di sovrani come
Attalo I I I e Mitridate VI del Ponto1 3 •
Il più livoroso nei confronti della regina è probabilmente Properzio,
poeta peraltro avvezzo alle donne impegnative (l'imperiosa ed esuberante
Cinzia) e ai toni accesi nelle sue Elegie. Toni che trovano con Cleopatra
il più libero sfogo 1 4 • Addirittura questo autore riprende il tema, già visto,
dell'origine illegittima di Tolemeo I, a proposito della regina meretrice del­
la corrotta Canopo, considerata il marchio d'infamia della schiatta di Fi­
lippo. Avventurandosi in una sequela di stereotipi e con gusto quasi iper­
bolico, Properzio immagina costei stendere turpi zanzariere (l'Egitto è per

1 2. Horat., Od. I 37.


13. Plut., An t. 7 1, 6-8; P.H er c. 817, coll. ,.r_vI ; cfr. Cass. Dio LI 11, 2.
1 4. Propert. 111 1 1.
1 8 . CLE OPATRA VII, FA TALE M O NS TR UM

antonomasia terra di zanzare) sulla Rupe Tarpea, e dettar legge tra le statue
e le armi di Mario.
Il poeta insiste poi sulla lussuria della regina, accostandola a un'altra
nota o supposta lussuriosa, Semiramide. Il tema dell'ipersessualità della re­
gina tolemaica si accrebbe sempre più, così come la sua ambigua fama. Nel­
la tarda antichità, nell'opera Gli uomini illustri della citta di Roma dello
Pseudo-Aurelio Vittore, figura una descrizione in grado di lasciare il segno
nella cultura occidentale:

Era così lasciva che spesso si prostituiva, e talmente bella che molti comprarono
una notte con lei pagandola con la propria morte 1 5 •

La lussuria di Cleopatra, dunque, attraversò i secoli e trovò una rivitalizza­


zione in età romantica, con l'apoteosi dellafemmefatale, simbolo dell'O­
riente. Celebri i versi di Puskin nel poema Cleopatra, rifluito nel racconto
Notti egiziane (1 837 ), ispirati proprio allo Pseudo-Aurelio Vittore. Nell'u­
suale scenografia di un banchetto nel palazzo regio, accompagnato da suo­
ni di lire e flauti, Cleopatra si leva, con un colpo di teatro, e pronuncia l'an­
nuncio fatidico:

Al mercato delle passioni chi accederà ?


Il mio amore io lo metto in vendita ;
dite; fra di voi chi acquistare vorrà
una mia notte al prezzo della vita 16 ?

Da Aurelio Vittore (o chi per lui) a Puskin dunque, e poi oltre, toccando
T héophile Gauthier e molti altri.
Tornando a Properzio, a proposito della fine della regina, malignamen­
te il poeta romano aggiunge il dettaglio, non riportato da altre fonti, secon­
do cui Cleopatra avrebbe pronunciato le sue ultime parole e affrontato la
morte essendo ormai obnubilata dal vino. Vigliaccamente incapace quindi
di andare incontro al suo destino. Il che, francamente, è davvero troppo,
anche per un'Egiziana pesantemente e ripetutamente infangata nella me-

moria.

1 5 . [Aur. Vict.] , De vir . ili. Ur bis Romae 86, 2 .


1 6. Trad. it. A. Alleva.
Cronologia dei principali avvenimenti

40 5-3 67 tirannide di Dionisio I di Siracusa


3 67-357 /347-344 tirannide di Dionisio 11 a Siracusa
3 59-33 6 regno di Filippo I I
336-323 regno di Alessandro Magno
3 17-307 regime di Demetrio del Falera ad Atene
3 17-28 9 Agatocle signore di Sicilia (basile us dal 3 0 5 /304 ?)
312 battaglia di Gaza
307-30 1 regime democratico ad Atene, guidato da Stratocle
30 6 battaglia di Salamina e proclamazione a re di Antigono Monof­
talmo e Demetrio Poliorcete, seguiti dagli altri diadochi e da
Agatocle
Demetrio assedia invano Rodi
battaglia di Ipso (morte di Antigono Monoftalmo nello scontro
contro gli altri diadochi)
294-287 Demetrio Poliorcete re di Macedonia
29 3 unione tra Antioco I e Stratonice
282 morte di Tolemeo I
28 1 battaglia di Curupedio (morte di Lisimaco nello scontro con Se­
leuco 1)
28 1 -27 9 regno di Tolemeo Cerauno in Macedonia
279-27 6 ? tirannide di Apollodoro a Cassandrea
27 5 ? nozze tra Tolemeo I I e Arsinoe I I
269-215 regno di lerone I I in Sicilia
247 inizio dell'era partica
246-241 guerra laodicea
241-197 regno di Attalo I di Pergamo
221 - 1 9 6 regno di Filippo v in Macedonia
215-214 regno di leronimo a Siracusa
2 12 /2 11-2 0 5 /2 0 4 anabasi di Antioco 111 nelle satrapie superiori
20 1 - 1 97 seconda guerra macedonica (battaglia di Cinoscefale: 197)
CRONOLOGIA DEI P RINCIPALI AVVENIMENTI

1 9 2- 1 8 8 guerra romano-siriaca e pace di Apamea ( 1 8 8 )


187 morte di Antioco I I I in Elimaide
1 7 9- 1 6 8 regno di Perseo in Macedonia
1 7 5- 1 6 4 regno di Antioco IV di Siria
17 1 - 1 6 8 terza guerra macedonica (battaglia di Pidna: 1 6 8 )
170-145 ? Eucratide signore della Battriana
150 nozze tra Alessandro Balas e Cleopatra, figlia di Tolemeo VI
145 Tolemeo VIII ritorna ad Alessandria e caccia intellettuali e artisti
141 i Parti occupano Babilonia
1 40 / 1 3 9 ca. ambasceria romana in Egitto e in altri regni ellenistici
138-133 regno di Attalo I I I di Pergamo
130 uccisione di Tolemeo Menfite, figlio di Tolemeo VIII e di Cleo­
patra II
12 1 / 120 morte di Cleopatra Thea
8 0- 5 1 regno di Tolemeo XII (e, nel 5 1, con Cleopatra VII)
53 battaglia di Carre
5 1-30 regno di Cleopatra VII (dapprima con Tolemeo XIII, poi con To­
lemeo XIV, e infine con il figlio Tolemeo xv Cesare)

1. Tolemei
Tolemeo I 3 0 5 / 3 0 4- 2 8 2
Tolemeo II 2 8 2- 2 4 6
Tolemeo I I I 246-222
Tolemeo IV 222-204
Tolemeo v 2 0 4- 1 8 0
Tolemeo VI 1 8 0 - 1 45
Tolemeo, f. di Tolemeo VI (Tolemeo VII ? ) 145 ?
Tolemeo VIII 1 7 0 - 1 6 4 ; 1 4 5- 1 1 6
Tolemeo IX 1 1 6 - 1 07 ; 8 8- 8 1 / 8 0
Tolemeo x Alessandro I 1 0 7- 8 8
Berenice I I I e Tolemeo XI Alessandro I I 80
Tolemeo XII 8 0 - 5 8 ; 5 5- 5 1
Berenice IV 58-55
Cleopatra VII
e Tolemeo XIII
e Tolemeo XIV
e Tolemeo xv Cesare
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

2. Seleucidi (e usurpatori)
Seleuco I 305 /304-28 1
Antioco I 28 1-26 1
Antioco I I 26 1-246
Seleuco II 246 -226 /225
Seleuco III 226 /225-223
Antioco III 223- 1 8 7
Seleuco IV 1 87- 1 7 5
Antioco, f. di Seleuco IV 17 5- 17 0 ?
Antioco IV 17 5- 1 64
Antioco V 1 6 4- 1 62
Demetrio I 1 6 2- 15 0
Timarco 1 6 2- 1 6 1
Alessandro Balas 150-145
Demetrio II 145- 1 3 9 ; 1 29 - 1 25
Antioco VI 1 4 5 / 1 44- 1 42/141
Diodato Tryphon 1 42/141- 1 3 8 / 1 37
Antioco VII 1 3 8 - 1 29
Alessandro Zabinas 1 28- 1 23 / 1 2 2
Antioco VIII 128 ?; 125- 9 6
Cleopatra Thea 125- 1 2 1
Antioco I X 1 1 4- 9 5 ca.
Seleuco VI 9 6-94 ca.
Antioco x 94- 8 8 ca.
Antioco XI 94/93
Demetrio I I I 97/96-8 8/87
Filippo I 94- 84/8 3 ?
Antioco XII 8 7 /8 6-84/83 ca.
Antioco XIII 6 9 / 6 8- 67, 6 5 / 64
Filippo II 67 / 6 6 - 6 6 / 6 5

3. Attalidi
Filetero 282/28 1-263
Eumene I 263-241
Attalo I 241 - 1 9 7
Eumene II 1 97-159
Attalo II 1 5 9- 1 3 8
Attalo I I I 138-133
Abbreviazioni e biblio grafia

Le traduzioni delle opere degli autori antichi sono dello scrivente, tranne quelle di
Ateneo (ed. Salerno, con minimi adattamenti, in Canfora, 20 0 1 ) ; di altre versioni
è indicato il nome del traduttore. Le abbreviazioni nelle citazioni sono quelle ge­
neralmente in uso.
I frammenti degli storici greci figurano secondo le edizioni di K. MULLER,
Fragmenta Historicoru1n Graecorum, voli. 1-,r, Parisiis 1841-70 (FHG) e, soprattut­
to, di F. JACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker, Berlin-Leiden 19 23- 58,
con relativa continuazione (FGrHist) , e del Brill's New ]acoby (BNJ) , il cui com­
mento si dà per presupposto. Per quanto riguarda le abbreviazioni di iscrizioni e
papiri, oltre a /G (Inscriptiones Graecae) si segnalano IGIAC (Inscriptions grecques
d'Iran et d'Asie Centrale), OGIS ( Orientis Graeci Inscriptiones Selectae) e SJG (Syl­
loge Inscriptionum Graecarum ), nonché P.Oxy. (Papyrus Oxyrhynchus) e P.Herc.
(Papyrus Herculanensis ).
Le sigle delle riviste rispettano, di norma, quelle dell 'Année Philologique.

Introduzione

Punto di partenza per qualsiasi indagine sulla tirannide nel mondo greco è Berve
( 1 9 67 ) ; cfr. anche De Libero ( 1 996 ) e, per alcuni aspetti indagati nel testo, Vattuo­
ne ( 20 0 2) ; Azoulay (201 2) ; Luraghi ( 2014) ; Teegarden ( 2014). Importante, anche
per il rapporto dell' immagine del tiranno con la Tragedia, Catenacci (20 1 2; cfr.
anche Catenacci, 20 09 ). In generale, sul potere monocratico cfr. i saggi (ri)pub­
blicati in Luraghi ( 2013) e, sul binomio re/tiranni in età ellenistica, soprattutto nel
giudizio delle realtà cittadine, Mari ( 2009 ).
Sulle regalità ellenistiche cfr. Virgilio (20 0 3 ) ; Muccioli (2013, ivi bibliografia
dettagliata sulle singole dinastie, così come sugli epiteti ufficiali e i soprannomi dei
sovrani) ; Grainger ( 20 17 ). Il rapporto tra letterati e sovrani in quell 'epoca è inda­
gato, tra gli altri, da Weber ( 1992; 1 993; 199 5 ; 1 9 9 8-99 ) ; altri riferimenti sono con­
tenuti in Clauss, Cuypers ( 2010) e, più in generale, in Franco ( 20 0 6, pp. 59- 7 5 ) ;
Strootman ( 2010 ) . Sulle dinamiche di corte cfr. i saggi pubblicati in Spawforth
( 20 07 ) ; Strootman ( 2014) ; Erskine, Llewellyn-Jones, Wallace ( 2017 ).
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Una storia dell ' ironia e della satira nel mondo greco, e in particolare nelle cor­
ti dei tiranni e dei sovrani ellenistici, non è stata ancora scritta; oltre a Scott ( 1 9 3 2) ,
cfr. comunque Bremmer, Roodenburg ( 1997) e i lavori citati da Coloru ( 20 14) ;
inoltre Weber ( 1 9 9 8- 9 9 ) ; Touloumakos (20 0 6 ) ; Hamm ( 20 09). Sul banchetto
(soprattutto in età ellenistica) , luogo deputato ai giochi verbali, quale appare in
particolare nei Deipnosofisti di Ateneo e nelle fonti ivi citate, cfr. Murray ( 19 9 6 ) ;
McClure (2003) ; Vossing ( 20 04) e i saggi raccolti in Grandjean, Heller, Peigney
( 20 1 3) (nonché in Grandjean, Hugoniot, Lion, 20 1 3 ) .

Capitolo 1

Sulle tradizioni relative a Ciclopi (e Lestrigoni) cfr. Anello ( 20 0 6 ) . Riguardo al


ditirambo di Filosseno Ciclope o Galatea e al rapporto con Dionisio I cfr. Muc­
cioli ( 2004) ; Grandolini (2006) e i frammenti raccolti in Fongoni (2014). Per
la riattualizzazione del tema sotto Agatocle cfr. De Vido (2015) ; Pownall ( 20 1 6,
pp. 1 8 9-96). Sull' ironia nei confronti di Filippo II e Antigono Monoftalmo, nuovi
Ciclopi, cfr. Teodorsson ( 1 9 9 0); Franco ( 1 9 9 1, pp. 453-4) ; Swifc Riginos ( 1 9 94) ;
Weber ( 19 9 8- 9 9 ) ; Coppola ( 20 0 2, pp. 9 1-9, partic. 9 6- 9 ) ; Billows ( 1 9 9 0, p. 3 8 6) ;
Gabelko ( 20 1 6, con posizione divergente rispetto a quella qui seguita).

Capitolo 2

Sulla fortuna (e sfortuna) di Alessandro nelle varie culture cfr. Briant ( 20 1 6 ) ,


nonché Boyce, Grenet ( 1 9 9 1 ) ; Ciancaglini ( 1 9 9 7 ) e i contributi in Stoneman,
Erickson, Necton (20 1 2). La Profezia dinastica si legge in Grayson ( 19 75, pp. 24-
37 ). Sul Macedone nel I Maccabei cfr. Klçczar ( 2017), mentre per la tradizione
romana cfr. Morello ( 20 0 2) ; Spencer ( 20 0 2) ; Muccioli (2007 ).

Capitolo 3

Sulle origini di Eumene cfr. Pownall ( 20 1 3 ) ; Anson ( 20 1 5). La presunta paternità


di Filippo II, nei vari filoni della tradizione, è indagata, con conclusioni divergen­
ti, da Collins ( 19 9 7 ) ; Ogden ( 19 9 9 ; 20 13; 20 17); Lianou (2010); van Oppen de
Ruiter ( 20 1 3 ).

Capitolo 4

Sulla dimensione politica di Arsinoe I I , spesso sminuita (Burstein, 1982) , cfr. Car­
ney (2013). Per i suoi anni alla corte di Lisimaco cfr. i riferimenti in Landucci Gac­
tinoni ( 1992) ; Lund ( 199 2) ; Franco ( 1993); Dmitriev ( 2007 ). Sulla coppia Arsinoe
II-Tolemeo II cfr. Mi.iller (2009a) ; Caneva (2016). Su Sotade (e Macone) cfr. Preta-

16 0
A B B RE V IAZIONI E B I B L IO G R A F IA

gostini ( 1 9 84; 199 1 [2007 ] ) ; Weber ( 19 9 8-99, pp. 162-5) ; Prioux (20 09). Riguardo
a Bilistiche e alle altre cortigiane di Tolemeo II cfr. Kosmetatou (20 04) ; Ogden
(20 0 8 ) .

Capitolo s
I frammenti e le testimonianze di Demetrio del Falero sono raccolti in Stork, van
Ophuijsen, Dorandi (2000) , mentre per un quadro dell 'Atene ellenistica (cfr. an­
che Bibliografìa del CAP. 6 ) fondamentale è Habicht ( 20 0 6). Sulla politica legisla­
tiva del Peripatetico cfr. O ' Sullivan ( 20 0 9 b) ; B anfi (20 10) ; nonché Haake (20 07,
pp. 6 0 ss., importante anche per una panoramica generale del ruolo politico dei
filosofi). Sul culto della personalità di Demetrio e, per converso, la tradizione ne­
gativa cfr. Bardelli ( 1 9 9 9 ) ; O ' Sullivan ( 20 0 8 ) ; Muccioli ( 201 5a) ; Faraguna ( 20 1 6 ) .
Sul suo ruolo presso i Tolemei e l a nascita della Biblioteca di Alessandria e del Mu­
seo cfr. MacLeod ( 20 0 0 ) ; Bagnali (2002); Berti, Costa ( 20 10). Sulla successione
degli imperi cfr. Muccioli ( 20 0 5).

Capitolo 6
Sulle vicende di Demetrio Poliorcete nella tradizione (soprattutto la Vita di Plu­
tarco) cfr. , da ultimi, Duff (2004) ; Monaco (20 1 1- 1 2) ; Scuderi (20 1 4) ; Diefenbach
(20 15). Sull'abilità militare di Demetrio cfr. Lo Presti (2010). Sugli onori ad Atene
cfr. Chaniotis ( 20 1 1 ) ; Landucci Gattinoni (2014). Sull'universo femminile legato
a Demetrio cfr. Miiller (2009b) ; Harders (20 1 3 ) ; nonché Pownall (20 1 6, pp. 185-6,
per Lamia).

Capitolo 7
Sugli amici del re cfr. Savalli-Lestrade ( 1 9 9 8 ) e, su Adimanto di Lampsaco, Landuc­
ci Gattinoni (20 0 1 ) ; Wallace (2013). Una rivalutazione di Stratocle è in Muccio­
li (20 0 8, ivi anche l ' ipotesi di una riattualizzazione del decreto di Temistocle nel
302-301 ) ; Bayliss (20 1 1). Sulla rappresentazione di Stratocle come un kolax nella
Vita di Demetrio di Plutarco cfr. i lavori citati supra, Bibliografia del CAP. 6, nonché
Whitmarsh ( 20 0 6 ) , in particolare sull'opera Come distinguere l'adulatore dall'ami­
co. Su Democare cfr. Smith ( 1962); Marasco ( 19 84) ; Di Salvatore (20 0 2) ; Asmonti
(20 04) ; Haake (20 0 8 ) . Riguardo a Filippide, cfr. Mastrocinque ( 19 79 ) ; O ' Sullivan
(20 09 a) ; Luraghi (20 1 2) ; Monaco (2013). Su Matrone di Pitane cfr. Olson, Sens
( 1999); D 'Andria (20 0 2) ; Condello ( 20 05).

Capitolo 8
Sull ' immagine deformata di Agatocle in Timeo, Giustino e nelle altre fonti, in
particolare Polibio e la tradizione comica, cfr. Vattuone ( 19 9 1, pp. 1 8 7-99, 63-85).
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Sulla tradizione positiva su Agatocle (Callia e Antandro) cfr. Muccioli ( 20 0 2,


pp. 1 64-7 1, 176) ; Simonetti Agostinetti (2008). Utili osservazioni, anche in rap­
porto alle fonti archeologiche e numismatiche, sono in Portale (201 1 ). Più in ge­
nerale, cfr. Consolo Langher (20 0 0) ; Zam6on (20 0 6 ) ; Haake ( 20 1 3 ) ; De Vido
( 20 1 6, anche per la valorizzazione della ci razione di Machiavelli nel testo).

Capitolo 9

Su Apollodoro di Cassandrea e il culto di Euridice cfr. Mir6n Pérez ( 1 9 9 8, pp. 229-


30 ). Sul rapporto fra la tragedia Kassandreis di Licofrone e le vicende del tiranno
cfr. Niebuhr ( 1 827); più recentemente, Kotlinska-Toma ( 20 1 5 , pp. 26, 83-6). Su
Finzia e le altre tirannidi d ' Occidente cfr. Zam6on ( 200 8 , pp. 5 3-69 ). Per Falaride
paradigma di crudeltà, soprattutto in Timeo, cfr. Schepens ( 19 7 8 ; 1994, pp. 260-
5); Bianchetti ( 19 8 7 ) ; Ri6ichini (2010 ) ; su Dionisio 11 cfr. Muccioli ( 1 9 9 9 ) . Per
quanto attiene a Ierone I I e il nipote Ieronimo cfr. De Sensi Sestito ( 1 9 77 ) ; Presti­
anni Giallom6ardo ( 1 9 9 5 ) ; Portale (2004) ; Haake (20 1 3 ) ; cfr. anche Rizzo ( 1 9 83-
84, riguardo alla testimonianza di Bacone di Sinope) .

Capitolo 10

Su Apama e Stratonice cfr. i contributi contenuti in Co�kun, McAuley (2016),


nonché Widmer (20 0 8a; 20 1 6 ) . Riguardo alla tradizione sull ' intreccio amoroso
tra Seleuco I , Stratonice e Antioco I , con il supposto intervento del medico Erasi­
strato, cfr. Mastrocinque ( 1 9 83, pp. 1 1- 3 8 ) ; Primo (2009, pp. 1 1 8-24, nonché 45-6,
228-9, 244-5); Ogden (2017). Il collegamento con Saffo (fr. 31 Voigt) è analizzato
da Liuzzo (20 1 6). Per quanto riguarda Laodice I I I (compreso il suo culto e la sua
condizione dopo il 1 9 3) cfr. Widmer (200 8b) ; lossif ( 20 1 4).

Capitoli 11 e 12

Su Antioco I\r fondamentali sono M0rkholm ( 1 9 6 6 ) ; Mittag ( 20 0 6) e i saggi rac­


colti in Feyel, Graslin-Thomé (2014). Sui suoi epiteti ufficiali e la relativa parodiz­
zazione cfr. Muccioli ( 20 1 3 , pp. 29 1-7, 345-6). La processione di Dafne è indagata,
tra gli altri, da Iossif (201 1 ) ; Heller (2013). Sul progetto di unificare tutti i popoli
sotto un'unica legge cfr. Muccioli ( 20 1 56). Sulla monetazione cfr. Iossif, Lor6er
( 20 09a; 20 096) ; Houghton, Lor6er, Hoover ( 20 0 8 , pp. 41 ss. , anche per i dinasti
successivi). Su Antioco I\' nei Libri dei Maccabei cfr. Mendels ( 19 8 1 [ 1 9 9 8 ] ) ; Pas­
soni Dell'Acqua (20 0 0 ) ; più in generale, Ha6icht ( 1976 [20 0 6 ] ) ; Fischer ( 1 9 8 0) ;
Bringmann ( 19 8 3 ) ; Rajak, Pearce, Aitken, Dines ( 20 07 ) ; Troiani (20 0 8 ) ; Honig­
man ( 20 14) ; Babota (2014) ; Bernhardt (2015) e i saggi contenuti in Baslez, Mun-
A B B RE V IAZIONI E B I B L IO G R A F IA

nich (20 1 4). Sulle tradizioni intorno alla morte del sovrano cfr. Mendels ( 19 8 1
[ 1 9 9 8 ] ) ; Lorein ( 20 0 1 ) ; Wiesehofer ( 20 0 2).

Capitolo 1 3

Per un quadro delle donne nella storia greca prima dell 'età ellenistica cfr. i contri­
buti contenuti in Bultrighini, Dimauro (20 1 4). Su Apollonide di Cizico, oltre ai
riferimenti nelle opere di carattere generale sugli Attalidi, cfr. Van Looy ( 19 76) ;
Van Looy, Demoen ( 19 8 6 ) ; Mir6n Pérez (2015). Su Laodice I e Berenice nelle fonti
cfr. Martinez-Sève (20 0 3 ) ; Savalli-Lestrade (20 0 6, pp. 72- 6 ) ; D 'Agostini ( 20 1 6 ) .
Riguardo a Cleopatra Thea e il periodo delle guerre dinastiche nel regno di Siria
cfr. Whitehorne ( 1994, pp. 149-63); Ogden ( 19 9 9, pp. 146-53); Muccioli (20 0 3 ) ;
Ehling (2008, pp. 154- 21 6 ) ; Chrubasik (20 1 6).

Capitolo 14

Un inquadramento delle guerre macedoniche è in Thornton (20 14). Sulla sovrap­


posizione dello scontro contro i Persiani cfr. Russo (2014). Sugli epigrammi di Al­
ceo di Messene, oltre alle classiche pagine di Walbank ( 1 94 2; 1 943; cfr. Walbank,
1940 ) , più recentemente, Coppola ( 20 0 2, pp. 104-6, 1 15-22) ; Mondin ( 20 1 1- 1 2) ;
Bonsignore (20 1 3 ) ; Jones ( 20 1 4). Su questo autore in Plutarco e sul giudizio del
biografo sui protagonisti e gli avvenimenti cfr. Pelling ( 1 9 9 7, pp. 247 ss. ).

Capitolo 15

Per un inquadramento della dinastia pergamena cfr. Queyrel ( 20 0 3 ) ; Kosmetatou


( 20 0 3) ; Evans (2012) ; Coarelli (2016) e, specificatamente su Attalo III, Cardinali
( 1 9 10 ) ; Engster (20 04) . Su Dafida/Dafita cfr. Fontenrose ( 19 6 0 ) (posizione agno ­
stica è invece in Braund 19 84, pp. 3 5 4-7 ). Per quanto riguarda Nicandro, fonda­
mentale è Pasquali ( 1 9 1 3 [ 19 8 6 ] ) ; cfr. anche Massimilla ( 20 0 0 ) ; Magnelli (2010 ).
Sul testo dei Theriaka e degli Alexiphannaka cfr. Spatafora ( 2007 ). Su OGIS 332
cfr. Robert ( 1 9 84; 1985 [ 1 9 8 7 ] ) ; Coarelli (2016, pp. 177-8 5 , con interpretazione
diversa da quella qui seguita) e, in generale sull ' apantesis, Perrin-Saminadayar
( 20 0 9 ).

Capitolo 1 6

Su Apollodoro d 'Artemita cfr. Muccioli ( 20 07 ) . Riguardo a Eucratide cfr. Colo­


ru ( 20 0 9, pp. 109- 17 ). La rappresentazione dei Parti è oggetto di numerosi studi :
tra gli altri, Sonnabend ( 1 9 8 6 ) ; Lerouge ( 20 0 7); Muccioli ( 20 1 6 ) e, sul rapporto
tra il sovrano e il philos, specificatamente Lerouge- Cohen (2013). Riguardo alla
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

spedizione di Crasso e alla popolarità della cultura greca nelle corti degli Arsacidi
e d 'Armenia cfr. Wiesehofer ( 20 0 0 ) ; Traina ( 20 1 0 ; 20 1 4) ; Muccioli (201 2a) ; in
chiave più generale, D�browa ( 20 1 1 ) ; Olbrycht (2014).

Capitolo 17

Sulla tradizione negativa riguardo ai Tolemei ( in particolare da Tolemeo 1,, in


poi) cfr. Lefebvre ( 20 0 9 ) ; Fischer-Bovet (20 15). Su Cleopatra I e Cleopatra 1 1 cfr.
Bielman Sanchez, Lenzo (2015). Per quanto attiene alle vicende di Tolemeo \'III e
alla sua immagine cfr. Heinen ( 1 9 8 3 [20 0 6 ] , fondamentale sul concetto di tryphe) ;
Chauveau ( 19 9 0 ; 1 9 9 1 ; 2000 ) ; Huss ( 20 0 2) ; Nadig (2007 ). Riguardo alla sua pro ­
duzione letteraria cfr. Bearzot ( 20 1 1, pp. 67-70 ) ; Cuniberti (2012). Una rivaluta­
zione di Tolemeo XII è in Kyrieleis (20 0 0 ). Più in generale, il rapporto tra Tolemei
e culti dionisiaci è stato oggetto di numerosi studi di J. Tondriau, rifluiti in Cer­
faux, Tondriau ( 1 9 57).

Capitolo 1 8

Sulla figura di Cleopatra \'II nelle fonti letterarie cfr. Luce ( 1963) ; Becher ( 1 9 6 6 ) ;
Pucci ( 20 0 3 ) ; Nebelin (20 1 1 ) . Per una visione d ' insieme cfr. Chauveau ( 19 9 8 ) ;
Burstein ( 20 04) ; Roller (2010). Riguardo alla realtà storica dei matrimoni di
Cleopatra con i fratelli, contro la communis opinio, cfr. Criscuolo ( 1 9 8 9 ). Circa i
supposti esperimenti medici alla corte della regina cfr. Marasco ( 19 9 5) ; Scarborou­
gh ( 20 1 2). Sullo scontro, anche ideologico, tra Antonio e Ottaviano cfr. Borgies
( 20 1 6 ) .

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178
Indice dei nomi antichi

Sono compresi i nomi propri storici, epico-mitologici e di divinità presenti


nell 'Introduzione e nei capitoli, con specificazioni e apposizioni in caso di omoni­
mie ( per i dinasti con lo stesso nome, in particolare nella stessa casata, si è seguito
un ordine cronologico) *. Gli autori antichi figurano quando sono agentes in rebus.

Acheo, 9 2 Alessandro I\' ( f. di Alessandro Ma-


Achilla, 15 2 gno) , 43
Adimanto di Lampsaco, 61, 6 6 Alessandro (f. di Poliperconte) , 62
Adriano, 1 10 Alessandro (f. di Perseo) , 1 22
Aeropo 1 1 , 124 Alessandro Balas, 9 8 - 9, 103
Afrodite, 61, 9 0, 93, 150 Alessandro Zabinas, 100- 1
Afrodite Fila, 61 Alessandro Helios, 15 1
Iside/ Afrodite, 150 Alessarco, 1 3 1
Venere/ Afrodite, 150 Altea, 4 2
Agatocle ( tiranno, re di Sicilia) , 27- 8, Aminta, 40
6 0 , 63, 7 3- 8 I , 85- 6 Anacreonte, 14
Agatocle (padre di Eumene) , 3 9 Anassarco di Abdera, 1 6
Agatocle ( f. di Lisimaco) , 46, 64 Anassimene, 6 6
Agatoclea (amante di Tolemeo 1 1 ) , 49 Annibale, 8 7, 94
Agatoclea (amante di Tolemeo 1 1 1 ) , 141 Antagora, 15
Agave, 137 Antandro, 77
Aglais, 49 Anticira, 62
Ahura Mazda, 1 1 9, 137 Antigono Gonata, 15, 19, 44, 63, 8 1,
Alceo di Lesbo, 144 1 1 6, 142
Alceo di Messene, 1 1 8-20 Antigono Monoftalmo, 15, 21, 28-9, 32,
Alessandro di Fere, 21, 82-3 3 9, 43, 5 0, 58-6 4, 6 6, 69, 76, 1 1 6
Alessandro il Molosso, 3 6 Antioco I , 21, 8 1, 8 9- 9 2, 9 7
Alessandro Magno, 10-3, 1 6, 19-20, 27- Antioco 1 1 , 1 8, 9 7
9, 3 1-8, 40-5, 50-1, 5 7 -9, 67-8, 74-6, Antioco 1 1 1 , 1 8, 9 2- 5, 10 1-2, 1 1 1-2, 1 21,
82, 8 6, 8 9, 9 2, 9 5 , 9 8 , 109, 1 1 4, 1 1 6-7, 1 41 - 2
1 1 9, 1 23, 1 25 , 1 30, 1 3 5 , 146, 15 1 Antioco il Figlio, 9 2-3, 9 5

* Abbreviazioni: f. = figlio/ figlia; m. = moglie.

17 ()
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Antioco (f. di Seleuco 1,r) , 10 2 Artavasde 1 1 , 136


Antioco 1,, (Mitridate), 34, 9 3, 89, 98- Artemone, 98
9, 10 2- 15, 1 3 8, 1 45, 1 47 Aspasia, 45
Antioco ,,, 1 1 1, 1 1 5 Ateneo (f. di Attalo 1 ) , 97
Antioco ,,1 , 9 9 Attalo I , 14, 9 6-7, 1 24- 5, 1 29-30
Antioco ,,1 1 , 100-1 Attalo 1 1 , 21, 9 7, 125- 6, 130
Antioco ,.r1 1 1 , 20, 10 0- 1, 128 Attalo 1 1 1 , 7 5, 101, 123- 3 1, 154
Antioco IX, 101 Audata, 40
Antipatro, 5 1- 2, 61-2, 72, 9 1, 9 6, 131
Antonio Marco, 6 0, 6 2, 149-54 Ba'al, 9 8
Apama, 8 9 - 9 0, 97 Bagoas, 32
Apega, 85- 6 Beota, 75
Apelle, 28 Berenice I , 43, 46, 57
Apollo, 3 8, 42, 8 5, 1 10, 1 22, 154 Berenice (f. di Tolemeo 1 1 ) , 9 7-8
Apollodoro (tiranno), 79- 84, 86 Berenice 11 (m. di Tolemeo 1 1 1 ) , 9 0, 141
Apollonide, 9 6-7, 1 28 Berenice 1,,, 1 48, 152
Apollonia Rodio, 129 Berenice (f. di Tolemeo di Telmesso), 93
Arato di Soli, 1 5 Berenice (m. di Attalo 1 1 1 ) , 1 27
Arato il Vecchio, 13, 1 21 Bilistiche, 49
Arato il Giovane, 121 Biti, 64
Arbace, 21, 1 3 5 Bitone, 9 7
Archelao (danzatore), 18 Blossio di Cuma, 1 3 1
Archelao I (re di Macedonia), 9, 14, 22 Boa, 1 28
Archia di Turi, 5 2 Burico, 66
Archiloco, 1 1 8
Archino di Argo, 8 o Callia, 1 20
Ar(r)ideo (Filippo Ar(r)ideo), 43 Callia di Sfetto, 70
Aristarco di Samotracia, 145 Callia 1 1 di Atene, 84
Aristide, 52 Callia (nipote di Callia 1 1 ) , 84
Aristippo di Argo, 13 Callia (storiografo di Agatocle), 77-8
Aristippo di Cirene, 26 Callifonte, 8 1
Aristodemo di Mileto, 66 Callimaco, 129
Aristomache, 45 Cambise, 10 2
Aristonico, 54- 5 Carcino, 76, 78
Aristonico (Eumene 1 1 1 ) , 1 23, 130 Carone, 66
Aristotele, 1 6, 29, 3 1, 3 6, 50-2 Cassandra, 27, 5 1-2, 56, 62, 72, 80
Arsace (re di Partia, non determinato), Catone Marco Porcia, 29 -30
21, 135 Centauro, 1 20
Arses (Artaserse 1,,), 3 2 Cerbero, 154
Arsinoe I , 40-2 Cesare Gaio Giulio, 1 17, 134, 1 3 8, 145,
Arsinoe 1 1 , 44, 46-8, 64, 8 0- 1, 98, 1 29, 150, 15 2-3
140 Cesarione ( Tolemeo x,, Cesare), 1 3 8,
Arsinoe I\', 15 2 1 45, 1 5 1-2

18o
INDICE DE I NOMI ANTICHI

Cherone di Pellene, 8 0, 8 2 Demetrio Falereo, 39, 48, 5 0-7, 6 0, 67-


Chimera, 154 8, 7 5
Cibele, 1 20 Demetrio Poliorcete, 1 5 , 1 9 , 28, 43, 46,
Cidippe, 97 5 0, 54, 58-70, 72, 76, 8 1, 84, 8 9- 9 0,
Cimane, 6 8 9 6, 1 1 6, 1 22-3
Cipselo, 1 25 Demetrio II (re di Macedonia) , 1 1 6
Ciro 1 1 , 32-3, 41, 130 Demetrio (f. di Filippo ,,) , 1 22
Clearco di Eraclea Pontica, 8 0, 82 Demetrio I (re di Siria) , 9 8-9, 105
Cleinò, 49 Demetrio I I (re di Siria) , 9 8- 1 0 0, 1 3 5
Cleobi, 97 Demetrio 1 1 1 (re di Siria) , 20
Cleombroto, 9 1 Demetrio (f. di Eutidemo) , 1 3 2
Cleomene I , 10 2 Demetrio di Scepsi, 1 8
Cleone, 6 6 Demò (Mania) , 6 2-3
Cleopatra I , 1 4 2 Democare, 55-6, 66, 68-70, 7 5
Cleopatra I I , 9 8, 142-3 Demostene, 1 8 , 50-2, 5 5 , 66-8
Cleopatra 1 1 1 , 9 8, 142, 146 Didyme, 49
Cleopatra ,,, 1 5 2 Diegylis, 8 3
Cleopatra ,,1 1 , 62, 7 5 , 9 7-8, 130, 1 3 8, Dinarco, 5 1
1 40, 143, 145, 1 4 7, 149-55 Diodato Trifone, 9 9
Cleopatra Selene, 1 5 1 Diognide, 5 3
Cleopatra Thea, 7 5 , 9 7- 10 2 Dionisio di Eraclea Pontica, 8 7
Cleoptolemo, 94 Dionisio (cancelliere di Antioco I\'), 107
Clistene, 54 Dionisio I di Siracusa, 1 2-3, 15-6, 1 8, 22-
Clito ( il Bianco) , 67 6, 28, 45, 58-9, 73, 7 8-9, 8 2-3, 8 6, 1 26
Clito ( il Nero) , 19 Dionisio 1 1 di Siracusa, 1 2, 23-5, 45, 74,
Conone, 39, 68 83-4 , 8 7, 1 26
Conone (astronomo) , 90 Dioniso, 3 5 , 3 8, 42, 70, 1 24, 146-8, 154
Coriolano Gneo Marcio, 6 8 Kathegemon, 1 24
Cossuzio, 1 10 Doride, 45
Cratero, 9 6 Dracone, 70
Cratesipoli, 62 Dromoclide di Sfetto, 6 8
Criside, 6 2
Crisippo, 1 1 1 Echeto, 83
Efestione, 5 1
Dafida (Dafita) , 1 28 Egesianatte di Alessandria Troade, 1 8
Damarata (f. di Ierone 1 1 ) , 8 7 Elena, 153
Damarete (Demarete, m . di Gelone), Eliocle, 1 3 3-4
45 Eliodoro, 1 1 1
Dameo, 1 29 Emilio Paolo Lucio, 1 0 6, 1 0 8 , 1 1 6, 1 23
Damone Pitagorico, 24 Epicrate, 1 20
Dario III, 3 2 Era, 48
Deidamia, 6 1 Eracle, 1 7, 3 8, 42
Demetra, 76 Patroos, 1 22
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Eraclide di Leoncini, 8 1 Filopemene (funzionario attalide), 1 26


Erasistrato, 9 1 Filosseno, 15, 22-6
Ermia di Atarneo, 1 6 Finzia di Agrigento, 8 1
Erodoto (attore di mimi), 1 8 Finzia Pitagorico, 24
Eschilo, 15 Focione, 39, 5 1, 68
Ettore, 7 1 Fraate 111, 101
Eubea, 94 Fraate 1,r, 35, 137- 8
Eucratide, 132-3 Fraatace (Fraate v), 138
Eudemo, 83
Eufrone di Sicione, 8 0 Galatea, 23-9
Eumelo, 7 1 Gelone (tiranno), 13, 16, 18, 45, 73, 87-8
Eumene di Cardia, 15, 38-9 Gelone (f. di lerone 1 1 ) , 8 7
Eumene I (re di Pergamo), 125 Giasone di Tralle, 1 3 6
Eumene II (re di Pergamo), 9 7, 122, Gionata Maccabeo, 1 1 1
1 26-8, 130 Giuda Maccabeo, 1 1 1
Euridice Cleopatra (m. di Filippo 1 1 di Giulia, 1 3 8
Macedonia), 40 Giuliano l'Apostata, 9 1-2
Euridice (Euridice, m. di Demetrio Po­ Glauce, 49
liorcete), 61 Gorgone, 154
Euridice (m. di Tolemeo 1) , 43, 46, 57,
80-1 Hippe, 49
Euripide, 9, 14
Eutidemo, 1 3 2 lceta di Siracusa, 8 1
Eutropione, 29 Idra, 154
lerone I, 13, 15-6, 84
Falaride, 16, 73, 79, 83- 6 Ierone 1 1 , 79, 8 7-8
Fila (m. di Filippo 1 1 ) , 40 leronimo (padre di Eumene di Car-
Fila (f. di Antipatro), 61, 8 9, 9 6 dia), 3 9
Filacio, 7 1 leronimo di Cardia, 15, 62
Filemone, 17 Ieronimo di Siracusa, 86-7
Filetero (fondatore della dinastia atta- Illo, 83
lide), 14, 1 24-5, 1 28 lmereo, 52
Filetero ( f. di Attalo I), 9 7 lperide, 5 0-2, 67, 70
Filinna, 40 lsias, 9 6
Filino, 48 Iside, 150
Filippide di Cefale, 69-72
Filippide di Peania, 72 Kombabos, 9 0
Filippo 1 1 , 1 1, 13, 16-8, 28-9, 34, 36-43, Kore, 76
6 1, 74, 8 9, 9 5, 1 1 6-7, 1 23, 154 Krateia, 83
Filippo ,,, 13, 9 5, 1 1 6-23
Filippo (f. di Perseo), 122 Lacare, 70, 72, 8 1, 84
Filisto, 15, 26, 78 Lago, 3 8, 40-1
Filone, 153 Lamia, 46, 61-4
INDICE DE I NOMI ANTICHI

Lampitò, 5 3 Mitridate ,rI (re del Ponto), 75, 1 23,


Lanassa, 27, 60-1 130, 146-7, 150, 154
Laodice I (m. di Antioco II di Siria), Mnesis, 49
9 7-8 Molone, 9 2
Laodice I I I (m. di Antioco I I I di Siria), Molpagora di Cio, 8 o
93, 9 5 Moschione, 5 3
Laodice (f. di Antioco I I I e Laodice I I I , Musa, 1 3 8-9
forse Laodice I\'), 9 3 Muzio Scevola Gaio, 17
Laodice I\' (f. di Antioco III di Siria), Myrtion, 49
93, 9 5
Leena, 61-2 Nabide, 84-5
Leonida, 59 Nabonide, 3 2, 1 13-4
Licaone, 19 Nabucodonosor, 9 5
Licone, 125 Nereide, 8 7
Licurgo Ateniese, 68 Nereo, 24
Licurgo Spartano, 59 Nicandro di Calcedonia, 101, 1 29
Liggis, 83 Nicesipoli, 40
Lisandra, 46 Nicocreonte di Cipro, 1 6
Lisandro, 75
Lisia, 115 Odisseo, 23- 5, 27, 29 -30
Lisimaco, 21, 3 9, 46-7, 63-5, 70, 8 0, 1 28- Ofella, 6 1
9, 138 Oinante, 141
Lisimaco (adulatore), 1 25 Olimpiade, 40, 45, 9 5-6
Olimpiodoro, 72
Magas (f. di Tolemeo I\'), 1 41 Onomarco, 81
Magas di Cirene, 17 Orode II, 10 1, 136-7
Mandrogene, 17 Ossitemide, 64, 66
Manlio Torquato Tito, 3 6 Ottaviano (Augusto), 35, 77, 85, 1 1 7,
Marduk, 9 5, 1 1 1 1 3 8, 147, 153-4
Mario Gaio, 155 Ovidio Nasone Publio, 84
Meda, 40
Meleagro, 42 Pacciano Gaio, 136
Menandro (poeta comico), 17, 5 4 Pacoro, 1 3 6-7
Menandro I (re indo-greco), 133 Papirio Cursore Lucio, 35-6
Menelao, 64 Paride, 64
Menone, 7 5 Patroclo, 4 7
Metrodoro, 6 6 Pausania di Sparta, 58-9
Mida, 3 3 Peithò, 87
Mirsilo, 154 Penelope, 27, 46, 64
Mirtilo, 46 Periandro, 83
Mitridate I (re di Partia), 99, 1 3 5 Pericle, 33, 45, 5 2, 54, 67, 69
Mitridate III (re di Partia), 101 Perilao (Perillo), 84-5
Mitridate I I (re del Ponto), 93 Peucesta, 44, 59, 64
LE ORECCHIE LUNGHE DI ALESSANDRO MAGNO

Pirro, 15, 6 1, 63, 74 , 8 7 Simonide, 15


Pirro 1 1 , 8 7 Sirone di Soli (Castorione) , 54
Pisistrato, 17, 1 10, 1 25 Socle, 83
Pittaco, 144 Sofocle (politico ateniese) , 68
Platone, 1 2, 23, 25 , 5 2 Sosibio, 141
Plistarco, 59 Solone, 54-5, 6 9-70
Polibio, 29-30 Soside, 8 6
Policrate, I s Sotade, 47-8, 1 28
Polifemo ( Ciclope) , 22-8 Sparino il Medo, 21
Poliperconte, 39, 62 Spiramene, 8 9
Pompeo Gneo, 1 17, 1 3 4 Stratocle, 6 0, 6 6-72, 75
Popilio Lenate Gaio, 103 Stratone, 17
Poppea Sabina, 150 Stratonice (f. di Demetrio Poliorcete) ,
Porsenna, 1 7 21, 8 9 - 9 2, 9 7
Posidippo, 72 Stratonice (amante di Tolemeo 1 1 ) , 49
Potine, 49 Stratonice (m. di Eumene 1 1 di Perga­
Potino, 1 5 2 mo) , 1 26-7
Pranico (Pierione) , 1 9 Surena, 1 3 6
Prusia 1 1 , 20
Tarquinio Lucio ( il Superbo) , 1 3 3
Quinzio Flaminino Tito, 1 1 6, 1 1 8 Tebe (m. di Alessandro di Fere) , 8 2
Telesforo, 46, 1 3 8
Rodogune, 99-100 Telesilla, 4 s
Romolo, 41 Temeno, 34
Rossane, 43 Temistocle, 6 8-9
Rustio, 1 3 6 Teocrito di Chio, 29
Teocrito di Siracusa, 42, 48, 1 29
Saffo, 45 Teodoro l'Ateo, 1 25
Sargon, 130 Teodoro (suonatore di aulos), 48
Scipione Asiatico Lucio Cornelio, 92 Teofane di Mitilene, 134
Scipione Emiliano Publio, 3 0, 141, 144 Teofrasto, 5 0, 6 6, 1 25
Seiano, 56 Terone, 45, 7 3 , 8 7
Seleuco I, 21, 3 2, 63, 8 9 - 9 2, 99, 10 2, 1 14, Tiberio, 5 6
1 3 4, 142 Timagene, 3 5 , 47
Seleuco 1 1 , 9 8 Timeo, 55
Seleuco 1 1 1 , 43, 9 8 Timofane, 7 3
Seleuco IV, 9 3 , 9 5 , 10 2, 105, 1 1 1 Timoleonte, 23, 7 3-4
Seleuco v, 100 Timoteo, 39, so
Semele, 147 Tindarione di Tauromenio, 8 1
Serse, 9 2, 1 1 8-9 Tolem eo I, 14, 17, 40-4, 46, 50, 57-8, 63,
Servio Tullio, 133 8 0, 9 1, 146, 154
Sfinge, 154 Tolemeo II, 21, 27, 41-4, 47-9, 57, 64,
Silace, 1 37 8 0, 9 7, 1 28, 140, 147, 15 1
INDICE DE I NOMI ANTICHI

Tolemeo III, 14, 4 2, 9 0, 9 8 , 140-1, 1 46 Tolemeo di Telmesso, 9 3


Tolemeo I\', 42, 9 2, 140-2, 1 46-7 Trasibulo, 1 7
Tolemeo ,,, 92, 1 4 2 Trasone, 8 6
Tolemeo \'I, 9 8-9, 108, 1 28, 13 1, 142-3 Tullia, 133
Tolemeo (f. di Tolemeo \TI , Tolemeo
\TII ? ) , 142
Valerio Corvo Marco, 36
Tolemeo \'III, 105, 1 3 1, 140-6 Ventidio Basso Publio, 1 37
Tolemeo Menfite, 143
Tolemeo IX , 1 4 6
Zabdiel, 9 9
Tolemeo x Alessandro I, 1 46
Zenone, 1 1 1
Tolemeo X I I , 140, 1 47, 149-52
Tolemeo X I I I , 134, 15 1-2 Zeus, 38, 43, 48, 1 10-1, 1 1 9
Tolemeo XI\-', 15 1-3 Kasios, 1 10
Tolemeo X\' Cesare ( Cesario ne) , cfr. Keraunios, 1 10
Cesario ne ( Tole1neo xv Cesare) Koryphaios, 1 10
Tolemeo Philadelphos, 15 1 Olimpio, 104, 1 10-1, 1 1 3
Tolemeo Cerauno, 43, 57, 8 0 Zeus-Bel, 9 5

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