Teofilo Folengo, arguto e divertito, a proposito dei cremonesi, nel
libro II della sua opera maggiore, Baldus, scrive: “Si mangiare cupis fasolos vade Cremonam”. Perché, se volete mangiare fagioli, dovete andate a Cremona? Appoggiata come una matrona al fiume Po, antico porto di pianura, la città era famosa in verità non per il torrone o per la mostarda, per il salame speziato o per i marubini in brodo, ma per i fagioli, che sfamavano gran parte dei villani: “Quale cremonesis plenum caldare fasolis, / quando parecchiatur villanis coena famatis” (Come una caldaia piena di fagioli cremonesi, quando si prepara la cena ai villani affamati) recita Folengo nel libro XIX. L’ irriverente poeta mantovano, sarcastico e dissacratore, si diverte a prendere in giro i luoghi comuni medievali sulla citta lungo il fiume e ride con un gioco di parole. Anticamente Cremona veniva chiamata “Magna Phaselus”, “grande vascello”, perché allungata sul Po e con il Torrazzo a fare da albero maestro, ma nel linguaggio maccheronico di Folengo, mezzo latino e mezzo volgare, l’epiteto suona come “magna faselus”, vale a dire mangiafagioli (Phaselus in latino significa anche “fava”). I cremonesi dunque? Doppiamente mangiafagioli. Il Po a Cremona è anche un limite invalicabile, come dimostra un racconto della Cronica di Salimbene de Adam, quando lo scrittore parla del periodo dei flagellanti che correvano da una parte all’altra della città per invitare al pentimento e alla conversione. Molti parmigiani, racconta Salimbene, erano decisi ad attraversare il Po per predicare: “Molti giovani coraggiosi di Parma progettavano di andare là senza indugio, intendendo morire con gioia per la remissione dei propri peccati, per la fede cattolica e per l’onore di Dio”. Il Pallavicino, assai malvagio, che reggeva la signoria di Cremona, per avvertire di non oltrepassare il Po fece levare sulla sponda del fiume una lunga fila di forche. Un’immagine dell’orrore, degna di un set cinematografico. Se solo qualcuno avesse osato contravvenire all’ordine sarebbe stato impiccato subito. Fu così che il podestà di Parma mandò in giro per le strade nunzi e banditori per avvertire, sotto gravissima pena, “che nessun parmigiano avesse l’ardire di andare al di là del Po”. La leggenda di Alceo Dossena Il modo di scolpire e plasmare la materia di Alceo Dossena (Cremona, 1878 - Roma, 1937) ha qualcosa che mi incuriosisce e affascina. Un talento straordinario per la creta e il marmo, un genio che, se fosse nato nel Rinascimento, sarebbe accanto a Michelangelo o a Donatello, ma essendo nato alla fine dell’Ottocento ha la condanna di essere non un autore ma un replicante, non un genio della scultura ma solo un falsario. La storia di Alceo Dossena mi intriga perché su di lui si potrebbe scrivere un romanzo: un artista che produceva falsi per vivere, eppure capace di creare vere e proprie opere d’arte, come se la sua mano riprendesse i movimenti gentili di Donatello. Alceo scolpisce e lavora nell’ombra per commercianti senza scrupoli che vendono le sue opere pagate fior di quattrini dai più grandi musei del mondo – il Metropolitan Museum di New York, i musei di Cleveland e di Boston – spacciandole per originali dei grandi maestri rinascimentali. Dossena aveva iniziato la sua carriera con un raggiro. Quella di Alceo non era solo una burla, bensì un modo per gridare il proprio talento non riconosciuto. Non ancora ventenne lavora come scultore al cimitero cittadino. Gli artisti cremonesi lo considerano un artigiano, talentuoso, ma solo un artigiano; e lui si vendica lavorando una testina romana, falsificando il marmo, creando la patinatura del tempo, ma soprattutto modellando quel frammento con quel suo tocco classico: ne viene fuori una scultura di rara bellezza. Corrompe un amico stradino che sta scavando in citta, e con lui organizza il ritrovamento, che sale agli onori della cronaca. La stampa nazionale dà rilievo alla notizia. Alceo allora si presenta alla conferenza stampa e dichiara che la testina è sua. Il giovane scultore viene accusato, come Michelangelo, di aver falsificato il suo putto. “Questa è un’opera d’arte e tu non sei nessuno!” La rivendicazione è ancora più clamorosa. Alceo, di fronte a tutti, prende la testina e la butta per terra: dentro c’è una copia del “Corriere della Sera”. Ma non basta questo gesto sfrontato a farlo salire nell’Olimpo dell’arte. Il fatto viene presto dimenticato. Alceo viene richiamato alle armi per la Prima guerra mondiale. Il giovane cremonese ha un figlio e una moglie. Poggio Mirteto, vicino a Rieti, è la destinazione. Qui, nel forno reggimentale e con il lucido da scarpe nero, lavora a una Madonnina che un astuto antiquario senza scrupoli compra per settecento lire. Per Alceo sono soldi. Comincia così il suo calvario. Lavora alle sue Madonne, ai bassorilievi, alle sculture. Si ispira a opere note, poi inventa di suo genio e scolpisce, con il suo talento, una serie di lavori che girano il mondo; non finiscono però, come gli hanno raccontato i mercanti, in una grande cattedrale in costruzione, bensì nei musei, pagati a peso d’oro, con false attribuzioni. Un esperto d’arte capisce che quelle opere sono false, perché opera di una stessa mano. Il critico parte per l’Italia e cerca lo scultore. Lo trova a Roma, dove Alceo si è trasferito e lavora, ignaro del raggiro. I suoi potenti mercanti d’arte gli commissionano una testa del Duce e una del re, ma anche qui, tra verità e leggenda, invece della martellata al ginocchio come fece Michelangelo al Mosè, Alceo sputa sulla testa di Mussolini appena terminata. E finisce in prigione. Ma le disgrazie di questo scultore non finiscono qui. L’ onorevole Farinacci, potente ras di regime, eletto nelle file fasciste a Cremona, prende le difese del suo artista concittadino e lo tira fuori di prigione, con tanto di polemiche. La sua fama aumenta, gli vengono commissionati ritratti e dipinti, ma sembra impossibile togliersi quella etichetta di falsario che lo perseguita da sempre, malgrado la sua volontà. Oggi le opere del cremonese Alceo Dossena, in molti musei del mondo, portano in calce il suo nome, tardivo riconoscimento a un genio della scultura vissuto in un tempo in cui il talento può rivelarsi solo tra falsificazione e inganno. Dalla provinciale tra Cremona e Casalmaggiore incontro San Daniele Po. Il sindaco di questo paese si chiama Davide Persico, è un paleontologo che ha costituito un Museo del Po proprio qui, nella Bassa cremonese, uno dei più importanti della Lombardia. Mentre nel 1998 pubblicavo i racconti de Il coccodrillo sull’altare e immaginavo due fratelli che cercavano armi e ossa nel letto del fiume, Davide cercava davvero quello che oggi è raccolto in questo meraviglioso Museo paleoantropologico che custodisce teschi, ossa, reperti archeologici ritrovati nel fiume da quelli che io chiamo “cercatori di crani”. Con Davide e Alberto Branca, attore e assessore alla cultura di San Daniele Po, partiamo dal pontile e navighiamo con la barca a motore sul fiume. Spegniamo il motore e lasciando la barca alla corrente, beviamouna bottiglia di vino bianco. Il fiume scorre lento, smeriglia la luce del tramonto mentre i pioppi sussurrano sulle piante, sfiorati dalla brezza. Alberto recita a memoria la poesia di Petrarca che parla del fiume, quando il sole basso si specchia nell’acqua. Ugo Tognazzi, l’abbuffone La cucina lungo il Po è un piacere vitale, è un’arte che talvolta rivela un lato voluttuoso, spinto verso l’ingordigia, la cupidigia e il rito orgiastico, quando sul punto di massimo piacere sconfina verso gli abissi della morte. Il film che racconta tutto questo è La grande abbuffata con la regia di Marco Ferreri del 1973. L’ abbuffone per eccellenza, uno dei protagonisti del film insieme a Marcello Mastroianni, Michel Piccoli e Philippe Noiret è Ugo Tognazzi, indimenticato attore nato a Cremona nel 1922 e morto a Roma nel 1990. Per Tognazzi la cucina è una forma di teatro dove i commensali sono attori e spettatori che partecipano allo spettacolo del cuoco attore-intrattenitore-regista. «Ho la cucina nel sangue. Il quale, penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di salsa di pomodoro.» Così scrive Tognazzi nel suo capolavoro L’ abbuffone, storie da ridere e ricette da morire (1974) e continua: «Ingordigia, golosità: parole sciocche, dettate dalla morale corrente punitiva e masochista. Ognuno è libero di fare la sua scelta, anche di morire gonfio di foie gras o stremato dagli amplessi. Disoccultiamo queste due sane, grandi e materialistiche passioni, per troppo tempo tenute nel ghetto della peccaminosità». Tognazzi, da vero uomo di pianura, da figlio del Po, invita a vivere nella sua pienezza la passione gastronomica e amorosa, liberandola dalla morale.
Nella descrizione del Risotto di fine stagione, incluso nella seconda
sezione de L’Abbuffone, la realizzazione della ricetta prende la forma di uno spettacolo teatrale: Risotto di fine stagione Mezzo chilo di riso, un buon brodo di verdura, un etto e mezzo di burro, una cipolla, un gambo di sedano, una carota, un ciuffo di prezzemolo, due pomodori ben rossi, del vino bianco, due zucchine, una melanzana non troppo grande, un ciuffettino di basilico e formaggio parmigiano. Questi i protagonisti del risotto fine stagione per 6 persone. E ora vediamo come e perché entrano in scena. Il sipario di apre su un etto di burro che soffrigge con: la cipolla, il sedano, la carota, il prezzemolo (tagliati sottili sottili). Stanno lì rosolando, quando entrano, tagliate a pezzettini, le zucchine e le melanzane con il basilico. Applausi a scena aperta. E’ la volta del vino bianco, di cui ogni tanto compare una spruzzata. Ma ecco i due pomodori (tagliati a pezzetti) che fanno il loro trionfale ingresso nel tegame. Quando tutto si è ben rosolato, squillano le trombe ed entra il riso. Mescolata generale. Di volta in volta, un mestolo versa il brodo di verdure, fino a tirare il risotto nel giro di un quarto d’ora, diciotto minuti. Il fuoco viene spento quando il riso è un pochino al dente. Sul riso che riposa nella pignatta si posa dolcemente l’altro mezzo etto di burro crudo, mentre dall’alto, come una silenziosa nevicata, scende il parmigiano. In questo clima cecoviano-gastronomico, cala la tela. Applausi. Richiesta di Bis. Morire mangiando all’infinito: questa e il tema del film La grande abbuffata. Non si mangia più, si recitano le ricette. Tognazzi ricorda di aver stracciato il copione e di aver buttato le pagine dal balcone di casa sulla testa del regista: reciteranno giorno dopo giorno sapendo che uno alla volta moriranno tutti. Leggendo le ricette utilizzate nel film, tra Pâté di cinghiale, Cocktail di gamberetti e Caviar d’aubergine, passando dall’Insalata Niçoise, passando dal Puré di patate alla Faraona arrosto alla Cassoulet di Casterlnaudary, per chiudere con una Bavarese di tette, mi viene da pensare che noi emiliani che viviamo lungo il Po non mangiamo, ogni volta a tavola, come in un grande teatro, recitiamo il nostro copione gastronomico. Chi attraversò la piena nel 1951 La voce di Aldo si trasforma in quella di suo padre: «Nel 1951 a Casalmaggiore eravamo preoccupati per le piogge insistenti. Il fiume non l’avevamo mai visto così brutto. Cresceva di ora in ora, mettevano sacchetti di sabbia su argini e muri, ma per la prima volta abbiamo temuto che l’acqua esondasse come una pentola che bolle, riversando acqua e fango in citta. Sapevamo di molta gente rimasta imprigionata nelle case dentro la golena. Dall’altra parte, tra Sissa e Torricella, c’era un gruppo di famiglie in trappola, alcuni di loro stavano sui tetti per cercare aiuto. Avevo deciso di portarle in salvo. C’erano due famiglie che conoscevo bene. Ero sicuro che fossero ancora la ad aspettare qualcuno che portasse soccorso. Cosi avevo deciso.
“Tu sei matto!” mi dicevano. “Matto sul serio. Non si attraversa
il fiume in piena. Non lo vedi? In mezzo c’è una corrente fortissima, si formano delle onde paurose, alte anche due o tre metri. E poi ci sono i tronchi, i legni, e tutto quello che porta giù il fiume diventa un pericolo. Se vieni colpito da un tronco sei fritto. Diventano proiettili.”
Ma avevo deciso di andare comunque. Avevo preparato la barca,
avevo fissato i remi agli scalmi e li avevo legati con le corde, per evitare che un colpo potesse portar via tutto. Mi ero intabarrato bene perché continuava a piovere. “Ma vai da solo?” “Chi vuole può venire con me. Io non ho paura. Io di là ci vado in ogni modo!” dissi. “Ve lo posso garantire. Non posso lasciare quelle famiglie da sole. La barca la so portare. Non è la prima volta che attraverso il fiume in piena!” “Si, ma non questa volta! Non si è mai visto così alto. La corrente fa paura. Non senti come urla?” Mi preparavo all’attraversata in silenzio. L’ acqua era color fango scuro e mattone. Poi diventava grigia specchiando il cielo. Ma quello che faceva impressione era il muggito, il verso che il fiume fa quando è in piena. Mentre preparavo la barca, sentivo quel verso animale che viene dal fondo dell’inferno. Il fiume è un toro, è un dio malato che muggisce dalle viscere della terra. Prima di mettere la barca in acqua, mi feci il segno della croce, e poi partii. “Mi raccomando!” “Aspetta!” gli disse il suo migliore amico. “Vengo con te!” Sul mio volto comparve un sorriso grande così. In due avremmo bilanciato meglio la barca. L’ inizio non fu difficile. “Il problema sarà prendere la corrente. Dovremo seguirla e poi guidarla mentre ci spostiamo. Non dobbiamo farci travolgere!” “Hai paura?” chiesi al mio amico. “Mi cago addosso, se lo vuoi sapere!” Partimmo con calma. Man mano che ci avvicinavamo alla corrente, sentivamo che l’acqua ci portava via. La barca cominciò a muoversi da sola, prendendo velocità, e quando vedemmo le onde nel mezzo pensammo di tornare indietro. Si alzavano dei muri d’acqua di due, tre metri. La corrente era fortissima, non avevamo mai visto niente del genere e, adesso che iniziavamo ad avere paura, la barca cominciava a correre sempre più veloce. Sembrava legata al dorso di uomini-pesce, di tritoni che la trascinavano a valle come demoni pazzi. Cercammo di governarla. Niente. Il fiume era diventato padrone del legno. Le braccia si fecero dure come il ferro per lo sforzo. “Si comincia a ballare!” urlai, quando capii che ormai eravamo prigionieri della corrente. Era come stare sul dorso di un toro impazzito. “Dai che si va!” L’ urlo del fiume era sempre più potente man mano che la barca correva. “La corrente è fortissima!” gridai prendendo gli spruzzi in faccia, ma il mio amico non mi sentì. “Guarda!” Il fiume tirava in giù la barca, come se fosse agganciata a un elastico. Scendeva correndo, seguendo le onde. Cercavo di non farla girare, perché sarebbe stata la fine. Quando capii che dovevo lasciarla andare non frenammo più la corsa, ci lasciammo portare dalla corrente come se fossimo stati un tronco o un albero. Stavamo aggrappati alla barca, con le onde che schizzavano il fango in faccia. Era come saltare in un mare in tempesta. Le onde seguivano e correvano davanti, di fianco, ai lati. Tutto si svolgeva in modo convulso, e io urlavo come un pazzo. “Non ci freghi, bello mio! Non ci porti all’inferno!” La barca volava come una delle macchine da corsa della Mille Miglia. Prima o poi la corrente ci avrebbe inghiottiti. Non ci avrebbero più trovati. I nostri corpi sarebbero finiti nella tomba del mare. E invece riuscii a capire: la corrente faceva le gobbe, bastava prenderle nel verso giusto perché la barca scivolasse oltre. E cosi facemmo. Quando fui sul punto cruciale affondai i remi, la barca scartò di lato, prese un’onda gigante, salto sulla cresta e discese dolcemente. Il mio amico davanti aveva mollato i remi per tenersi agli scalmi con tutta la forza che aveva. Ci eravamo sentiti lo stomaco in gola ma tutto era andato bene. Facemmo un altro dondolo, meno forte, ma sempre con la barca che sembrava volare con la prua verso il cielo. Una, due, tre volte: all’ultimo sembrò volare in cielo. Poi ci rendemmo conto di aver superato il peggio, la tensione del fiume diminuiva. Era ora di spingere con i remi e di andare verso la sponda di Sissa che compariva all’orizzonte. Alla nostra destra vedevamo le cime degli alberi della golena completamente sommersa. Quando capimmo che ce l’avevamo fatta, che avevamo superato la corrente, dopo che un’onda ci aveva sputati fuori come un tronco qualsiasi, cominciammo ad andare leggeri. Urlavamo dalla gioia! Vedemmo in lontananza dei tetti. Erano quelli che cercavamo. Remammo fino alla casa. Il muggito del fiume era diventato più lontano, lo avevamo lasciato alle spalle. L’ acqua era calma. “Ce l’abbiamo fatta!” dissi al mio amico. “Si, ma non lo rifarei per tutto l’oro del mondo. Mi sono visto all’inferno. Pensavo che la corrente c’inghiottisse dopo averci fatto volare verso il cielo.” Mentre remavamo sfogavamo la tensione, parlavamo e ridevamo del fatto che avremmo raccontato a tutti che avevamo domato il fiume in piena e avevamo portato soccorso alla riva parmigiana. Lontano si sentirono delle grida. Nel pomeriggio plumbeo, nel grande mare del fiume, un bambino sopra il tetto di una casa sventolava lontano una specie di bandiera, con una canottiera bianca fissata a un palo. “Eccoli là! Visto che non mi sbagliavo?” Raggiungemmo la casa, con forza, felici come non lo eravamo mai stati, con le onde della corrente negli occhi, il muggito nelle orecchie e il lago calmo che solcavamo con tutta la forza delle nostre braccia. “E quelli cosa sono?” mi chiese il mio amico. Ci avvicinammo. Erano delle galline morte e un maiale immobile, gonfio. Li scansammo con i remi. Dalle case arrivavano le urla di aiuto e noi rispondemmo alle grida. Approdammo infine alla finestra del terzo piano. Lo sterco di vacca galleggiava vicino alla casa con sopra le galline, isole nella calma piatta del fiume. Aspettavano tutti alla finestra. Piangevano e ridevano per l’arrivo dei soccorsi. Salii in piedi sul davanzale, mi tolsi il cappello e la tela cerata. “Come va?” dissi sorridendo. Feci un salto in casa facendo traballare il pavimento. Ci abbracciammo. “E da dove venite?” “Da Casalmaggiore!” “E avete superato la piena del fiume?” “Certo, per portarvi fuori di qui!” “Siete dei matti! Dei folli. Avete rischiato la vita per noi!” Io e il mio amico ridemmo. “Un gioco da ragazzi!” “E come sapevate che noi eravamo in mezzo all’acqua?” Sorrisi di nuovo. Guardai una ragazza con i capelli raccolti sotto un fazzoletto, che diventò rossa. Era dolce e gentile. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Ci abbracciammo davanti a tutti. Per lei avevo rischiato la morte attraversando il Po in piena. Quella poi sarebbe diventata mia moglie.»