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Ancora sul “cuore mangiato”.

Riflessioni su Decameron IV 9, con una postilla doniana.

1. La vicenda della donna indotta, da una crudele vendetta maritale, a


cibarsi inconsapevolmente del cuore del suo amante costituisce un topos
estremamente produttivo nella letteratura occidentale, proponendosi anzi co-
me una delle sue ossessioni più tenaci e sostanzialmente invariabili, pur nella
differenziazione di epoca e di ispirazione dei testi nei quali ricorre. Un tema,
quello del “cuore mangiato”, che era in realtà già diffuso nel folklore1 e radi-
cato in arcaiche credenze religiose e antropologiche (mangiare il cuore di
qualcuno per assumerne il valore), ma che conosce nel Medioevo le sue in-
carnazioni più significative (di queste si discorrerà ampiamente più avanti),
anche se non le sole, dato che esso continuerà poi a percorrere la tradizione
letteraria europea nei secoli successivi, sino a Stendhal ed anche oltre, come
ha dimostrato una recente pubblicazione di Mariella Di Maio,2 ultima, in ordi-
ne di tempo, di una ricchissima serie di contributi critici e filologici, concen-
trati dapprima nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento e poi, dopo un so-
stanziale oscuramento d’interesse, nel quindicennio a noi più vicino. 3 Eppu-
re, nonostante l’incessante lavoro critico intorno al tema e gli ultimi decisivi
incrementi apportati alla sua storia, credo che esso possa ancora riservare
qualche spunto a chi voglia indagarvi. Per mio conto, vorrei prima aggiunge-
re alcune osservazioni intorno alla novella boccacciana che ruota attorno a

1
Cfr. S. THOMPSON, Motif-Index of folk-literature, Copenhagen, Rosenkilde-Bagger, 1955-58,
Q 478 1: Adulteress is caused unwittingly to eat her lover’s heart.
2
II cuore mangiato. Storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Gueri-
ni e Associati, 1996. Merito della Di Maio è di aver scoperto una continuità ininterrotta del tema
dopo il Medioevo e la sua presenza nei generi letterali più disparati, dalla novella macabra cin -
quecentesca al romanzo e alla tragedia nel Settecento, e infine al melodramma, dove anzi cono-
sce il suo approdo più produttivo.
3
Tra i primi contributi, caratterizzati in genere da un approccio di tipo comparatistico, oc -
corre ricordare principalmente quelli di G. PARIS, Le Roman du Châtelain de Coucy, in Rom,
VIII, 1879, pp. 343-73; di J.E. MATZKE, The legend of eaten heart, in MLN, XXVI, 1911, pp. 1-8; di
H. HAUVETTE, La 39e nouvelle du “Decameron” et la legende du “coeur mangé”, in Rom., XLI,
1912. pp. 184-205. A partire dagli anni Ottanta, si è registrata intorno al tema una ripresa degli
interessi, culminata nello studio di L. ROSSI, 11 cuore, mistico pasto d’amore: dal Lai Guirun al
Decameron. in «Studi provenzali e francesi 82», 6, L’Aquila, Japadre, 1983, pp. 28-128. Vd. inol-
tre D. BERTRAND - J.J. VINCENSINI, La vengeance est un plat qui se mange cuit, in "Bulletin du
Groupe de Recherches Sémio-Linguistiques», XVI, 1980, pp. 30-40; e *Capitoli per una storia del
cuore. Saggi sulla lirica romanza, a c. di F. Bruni, Palermo, Sellerio, 1988.
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questo motivo (Decameron, IV 9), per analizzare poi brevemente un rifaci-


mento cinquecentesco assai poco noto (e di fatto per lo più sfuggito ai prece-
denti studiosi) dello stesso racconto, la cui paternità spetta ad Anton France-
sco Doni.

2. La novella decameroniana in questione, d’altronde assai nota, vede co-


me protagonisti due nobili cavalieri, Guiglielmo Guardastagno e Guiglielmo
Rossiglione, che si presentano inizialmente legati da un’antica e saldissima
amicizia, poi irrimediabilmente compromessa dalla relazione amorosa che
Guardastagno intreccia con la moglie di Rossiglione. Quest’ultimo, anzi, sco-
perta la tresca (a causa dell’atteggiamento imprudente dei due amanti), tende
un tranello all’antico sodale e lo uccide; quindi gli estirpa il cuore e, fattolo
cucinare come fosse un manicaretto, lo offre in pasto alla moglie, rivelandole
soltanto più tardi la verità. La donna preferirà uccidersi piuttosto che soprav-
vivere all’amato Guardastagno, mentre Rossiglione, stordito e anche pentito,
fuggirà in esilio. Fin qui la trama, che ricalca con una certa fedeltà, nonostan-
te qualche minuta innovazione, la tradizione medievale precedente: sarà dun-
que il caso di ripercorrere brevemente quest’ultima, segnalandone in partico-
lare gli aspetti che risulteranno essenziali per la successiva analisi di certi si-
gnificativi scarti boccacciani.
Il punto iniziale della tradizione romanza del cuore mangiato corrispon-
de al breve lai Guirun, intonato da Ysolt nel Roman de Tristan di Thomas4
(XII sec. ex.), ma la sua incarnazione più significativa (e anche quella che so-
stanzialmente ispirerà Boccaccio) è la vida provenzale relativa al trovatore
Guillem de Cabestaing (risalente al 1230 ca.), trasmessa in realtà in quattro
differenti versioni, di lunghezza e struttura diverse,5 che narra di come Guil-
lem, cavaliere e trovatore, si innamorasse della moglie del suo signore, Rai-
mon de Castel Rossillon, e di come questi per vendetta, dopo averlo ucciso,
gli strappasse il cuore, ammannendolo poi come pietanza alla donna;
quest’ultima, conosciuta la verità, si tolse la vita gettandosi da un balcone,
mentre Raimon, non ancora pago, la stava inseguendo con una spada. Sarà il
re d’Aragona a ristabilire, alla fine, giustizia, facendo pietosamente seppellire
i due amanti e imprigionando il crudele Raimon. Conviene subito fissare l’at-

4
Cfr. THOMAS, Les fragments du “Roman de Tristan”. Poème du XIIe siede, a c. di B.H.
WIND, Genève-Paris 19602, pp. 64 sgg.
5
Soltanto due delle quali corrispondono a delle vere e proprie vidas, vale a dire biografie
romanzate (dai dati storici solo in parte attendibili), anteposte, nei mss., e probabilmente anche
nelle performances giullaresche, ai componimenti di un trovatore; si tratta delle versioni indica-
te, dall’antologia di Boutière e Schutz, con le sigle A (contenuta nei mss. FbIK) e B (mss.
ABN2). Le altre due versioni, catalogate rispettivamente come C (mss. HR) e D (ms. P), posso-
no definirsi piuttosto come esempi di quelle forme intermedie tra vidas e razos in cui alla bio-
grafia del trovatore (la vida) è giustapposta la menzione della razo, ovvero dell’occasione e del-
le circostanze all’origine di un determinato componimento, qui la più celebre delle chansos at-
tribuite a Cabestaing, Lo dous cossire. Cfr. J. BOUTIERE - A.H. SCHUTZ, Biographies des
troubadours (textes provençaux des XIII et XIV siècles), Paris, Nizet, 19732, pp. 530-55.
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tenzione sul fatto che la qualifica di poeta del protagonista non ha, nel rac-
conto, un mero valore di caratterizzazione neutra, e in fondo intercambiabile,
ma assume invece una precisa funzione strutturale, dal momento che l’insor-
gere della passione amorosa, nucleo centrale della vicenda, è stretto in un
nesso immediato proprio con il trobar, la comparsa nel protagonista di una
vocazione poetica; nesso particolarmente evidente in alcune versioni della
biografia. Ecco infatti come la razo tradita dal ms. P (corrispondente alla ver-
sione D) commenta il primo innamoramento di Guillem:

«De (s)i enan fo del(s) servenz d’Amor e comencet de trobar cobletas


avinenz e gaias, e danzas e cansos d’avinent cantar». 6

Il motivo “poesia” sembra avere del resto un ruolo determinante anche


sul tragico epilogo finale: è infatti proprio una chanso di Guillem (Lo dous
cossire),7 ispirata alla donna amata, a denunciarlo agli occhi del marito gelo-
so, e a scatenare in ultimo la truce vendetta.
Un cinquantennio più tardi, il “cuore mangiato” entra nella biografia ro-
manzata di un altro poeta, il Roman du Castelain de Couci et de la dame de
Fayel8 di Jakemes, il protagonista del quale è stato identificato col troviero
francese Gui de Ponciaus. Il racconto oitanico si distingue certo dalla vida,
caratterizzata da un andamento tragico ed essenziale, per il suo procedere
caotico e digressivo, che ha come unico scopo il piacevole intrattenimento
del lettore;9 in comune resta comunque il dato fondamentale che, in entram-
bi i casi, il ruolo dell’infelice amante, il cui cuore viene dato in pasto all’ama-
ta per vendetta del marito geloso, spetta ad un poeta. Un primo interrogativo,
rimasto a lungo insoluto, consiste proprio in questo: perché mai il motivo del
cuore mangiato si innesta sulle biografie di questi due poeti? Una risposta, as-
sai persuasiva, è stata infine data da Luciano Rossi,10 grazie all’esame conte-
nutistico del canzoniere di Cabestaing e di quello di Ponciaus, entrambi in-
centrati su una disposizione alla sofferenza amorosa ed all’autopunizione tan-

6
Ivi, p. 545.
7
Accessibile ai lettori italiani nel testo, con traduzione a fronte, approntato da G. E. SANSO-
2
NE, in la poesia dell’Antica Provenza. Testi e storia dei trovatori, Parma, Guanda 1993 , pp. 456-
61.
8
Per cui cfr. la classica edizione di M. DELBOUILLE, Le Roman du Castelain de Couci et de
la dame de Fayel, Paris 1936, e quella, più recente, con traduzione italiana a fronte, curata da
A.M. BABBI: JAKEMES il romanzo del Castellano di Coucy e della dama di Fayel, Parma. Pratiche,
1994. Della stessa studiosa cfr. anche l’edizione della mise en prose di questo testo: Le Roman
du Chastelain de Coucy et de la dame de Fayel, Fasano, Schena, 1994.
9
Del resto, una differenza sostanziale tra i due racconti sta nel fatto che il cuore di Guil-
lem de Cabestaing viene estirpato direttamente dal marito, dopo che questi lo ha ucciso, mentre
quello del Castellano, inviato per sua disposizione in uno scrigno alla dama, dopo la sua morte alla
crociata, è “intercettato” successivamente dal geloso. Questo ovviamente attenua non poco la
tragica crudeltà del finale.
10
L. ROSSI, II cuore, mistico pasto, cit., pp. 93-111.
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to estremi ed esibiti da preannunciare, e da rendere in qualche modo neces-


sario, uno sviluppo tragico, inscenato poi dalle biografie attraverso il
ricorso al rituale cardiofagico.
In realtà, i motivi presenti in queste biografie, l’ineluttabilità della soffe-
renza amorosa, lo stretto vincolo tra amore e ispirazione poetica e la centra-
lità metaforica del cuore non appartengono solo ai canzonieri di Cabestaing e
Ponciaus, ma, com’è noto, sono presenti in tutta quella tradizione lirica che,
in senso più o meno stretto, può dirsi cortese, costituendone anzi la portante
ossatura ideologica; la vicenda del cuore del poeta (cioè della sua parte più
intima, tradizionale sede della passione amorosa, ma anche della poesia, che
da esso “spira”)11 offerto in pasto alla donna amata non fa altro che condurre
all’estremo questi concetti, ratificandoli in una dimensione quasi sacralizzata e
agiografica (l’eucarestia del cuore) e proponendosi dunque quasi come una
sorta di exemplum paradigmatico e simbolico non solo dell’ideale di amore
cortese, ma al tempo stesso anche dell’attività lirica che in quell’ideologia si
riconosceva. Non sembra allora casuale l’utilizzo metaletterario del mito che
ne fa Dante, quando, nel sonetto A ciascun alma presa e gentil core - il pri-
mo della Vita Nuova - descrive la «maravigliosa visione» del proprio cuore
offerto in pasto alla donna amata: «Allegro mi sembrava Amor tenendo / meo
core in mano, e ne le braccia avea / madonna involta in un drappo dormen-
do. / Poi la svegliava, e d’esto core ardendo / lei paventosa umilmente pa-
scea: / appresso gir lo ne vedea piangendo». 12 Il tema è riconvocato, con tut-
ta la sua potenza allusiva, proprio nel momento in cui si annuncia, come la
prosa precedente aveva provveduto a dichiarare apertamente, la «conquista
del dettato poetico da parte del suo autore e l’ingresso di costui nella schiera
dei fedeli d’amore»,13 divenendone così una specie di suggello iniziatico ed
emblematico. Del resto, un valore analogo sembra assegnato alla storia di Ca-
bestaing, pur se in termini meno espliciti, nel Triumphus Cupidinis petrarche-
sco (IV 53-54), nel quale infatti «Guiglìelmo» (Cabestaing) viene ricordato co-
me «colui che per cantare a ’1 fior de’ suoi dì scemo»:11 il “canto”, la poesia,
è cioè recepito anche in questo caso come componente fondamentale della
vicenda di Cabestaing, dietro la quale resta implicito, ma certo immediata-
mente percepibile dai lettori contemporanei a Petrarca, il riferimento al mito
del “cuore mangiato”.

11
Per una storia della diffusione del motivo del cuore e dello stretto rapporto che viene
stabilito tra amore, cuore e poesia nella lirica romanza delle origini cfr. i saggi raccolti in *Capi-
toli per una storia del cuore, cit., passim. Il cuore assume una vera centralità lirica solo a partire
da ernart de Ventadorn (come segnala C. DI GIROI.AMO, «Cor» e «cors»: itinerari meridionali,
ivi, p. 33). ma la sua presenza si farà poi dilagante, soprattutto nella prima poesia italiana (lo di-
mostra il contributo di F. BRUNI, Le costellazioni del cuore nell’antica lirica italiana, ivi, pp.
79-118).
12
D. ALIGHIERI, Vita Nuova, a c. di D. DE ROBERTIS, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980, p. 42.
13
L. ROSSI, II cuore, mistico pasto, cit., p. 112.
14
Trionfi, a c. di F. NERI, in F. PETRARCA, Rime, Trionfi e poesie latine, Milano-Napoli, Ric-
ciardi, 1951, p. 503.
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Questa relazione simbolica tra “poesia” e “cuore mangiato”, essenziale,


come si è cercato di dimostrare, nella ricezione medievale del mito, 15 sembra
improvvisamente invalidata proprio dalla novella boccacciana di Guardasta-
gno, in cui infatti il protagonista non è più caratterizzato come poeta, e in
cui, anzi, la poesia non riveste più alcuna funzionalità narrativa. Certamente,
non si tratta dell’unico mutamento che Boccaccio impone alla tradizione, no-
nostante in apertura sia dichiarata un’ascendenza diretta dalla fonte proven-
zale:
«Dovete adunque sapere che, secondo che raccontano i provenzali, in
Provenza furori già due nobili cavalieri [...]». 1 6

Affermazione preliminare che sembrerebbe suggerire cioè un rapporto di


lineare dipendenza, tra la novella decameroniana e il suo prototesto duecen-
tesco, la vida di Cabestaing, quasi si trattasse di una trasposizione meramente
linguistica dalla Provenza del Duecento all’Italia trecentesca. E in effetti, al li-
vello più superficiale, i due testi mantengono una sostanziale omogeneità,
compromessa soltanto da sporadiche innovazioni della novella, che si è cer -
cato variamente di spiegare o ascrivendole a una versione oggi perduta della
vida provenzale, 17 o attribuendole a défaillances memoriali dello stesso Boc-
caccio,l8 o più credibilmente facendo risalire almeno alcune di esse alla con-
taminazione con il Roman di Coucy. 19 In realtà, tra la vida e la novella si
apre uno spazio molto più grande di quello coperto dal semplice itinerario di
una traduzione, ed è invece l’intero corpo — stilistico, semantico ed ideologi-
co - del testo ad essere consapevolmente rimesso in gioco da Boccaccio gra -
zie a poche ma strategiche innovazioni. Le tracce più evidenti di questo ribal-
tamento prospettico si ritrovano nei differenti ruoli assegnati, nelle vidas e
nella novella, alle due figure maschili: l’amante e il marito; nel testo proven-
zale i ruoli sono nettamente definiti ed ispirati ad una contrapposizione ideo-
logica che è quella tradizionale della fin’amor, priva di sfumature: l’eroe-vitti-
ma, Cabestaing, appare totalmente degno di ammirazione e compianto, men -
tre il marito carnefice, Rossillon, corrisponde, nella sua ottusa brutalità, al gi-
los della tradizione, figura in fondo del tutto estranea al circuito amoroso (co -
me ratificato dallo stesso Andrea Capellano nel De amore), e anzi necessaria

15
L’accostamento tra la figura del “poeta cortese” e il tema del “cuore mangiato” ricorre
del resto anche in altre biografìe fuori dai confini romanzi: in Germania, per esempio, nel tardo
Duecento, si ritrova in Das Herzmäre (Racconto del cuore) di Konrad von Wurzburg, e più tardi
nella biografia quattrocentesca del Minnesänger Reinmar von Brennenberg.
16
Cito, come nelle occasioni successive, dall’ed. del Decameron a c. di V. BRANCA, Torino,
Einaudi, 1980, pp. 563-69.
17
Per una chiara sintesi sulla questione, cfr. M. DE RIQUER, Los trovadores. Historia literaria
y textos, Barcelona, Pianeta, 1975, II, p. 1065 n. 9, in cui si discutono, tra l’altro, le ipotesi di
Långfors, Panvini e Favati.
18
È questa l’opinione di H. HAUVETTE (vd. La 39e nouvelle du Decameron, cit.).
9
Cfr. L. ROSSI, II cuore, mistico pasto, cit., p. 122.
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unicamente ad una funzione negativa, cioè a far risaltare e a dimostrare e


contrario, in una sorta di teodicea amorosa, l’esistenza dell’idealità positiva
rappresentata dai due sfortunati amanti.20 Nella novella del Decameron assi-
stiamo invece ad un deciso avvicinamento tra eroe ed antieroe, per l’abbassa-
mento del primo, indicato in qualche modo come corresponsabile della tra-
gedia,21 e il contemporaneo innalzamento dell’antieroe, del quale si mostrano
motivazioni e tentennamenti umanissimi.22 Avvicinamento suggellato infine
dall’inedita identità onomastica dei due personaggi, che Boccaccio introduce
per primo: nella novella, quelli che nella vida avevano rispettivamente nome
Guillem (Cabestaing) e Raimon (Rossillon), sono entrambi nominati Guigliel-
mo! 23 In conclusione, si potrà affermare, seguendo l’analisi di H.J.
Neuschafer24 (alla quale rimando per un confronto ancora più dettagliato),
che l’ottica esemplare e unilaterale delle versioni cortesi cede il posto nella
novella ad un “caso particolare”, dai risvolti problematici e non preventiva-
mente orientati da un giudizio morale, come suggella irrevocabilmente il mu-
tamento del finale, che vede, in luogo della condanna del re, la fuga di Rossi-
glione.
A fronte di questo mutamento generale di prospettiva, e di visione del
mondo, cui è sottoposta la materia tradizionale, potrebbe apparire quindi del
tutto trascurabile l’abolizione di un singolo elemento, qual è la condizione

20
La concezione di una fin’amor adultera, completamente estranea al vincolo coniugale,
costituisce un presupposto indiscutibile, anche se venato di sfumature di volta in volta
diverse, per la maggior parte dei lirici provenzali, in questo concordi, come si è già accennato,
con la posizione di Andrea Capellano. Anzi, Köhler, nel rifiutare l’ipotesi (sostenuta da Roncaglia) che
per il “moralista” Marcabru il vero amore coincida con quello coniugale, arriva tra l’altro ad af-
fermare che, in lui come negli altri trovatori, «l’ipotesi di un marito domneiaire [corteggiatore]
della propria moglie appare solo marginalmente e cade nel ridicolo» (E. KÖHLER, Sociologia del-
la fin’amor. Saggi trobadorici, trad. e intr. di M. Mancini, Padova, Liviana, 1987 2, p. 269).
21
Nella novella, è infatti una pervicace iniziativa di Guardastagno a far sorgere l’amore, e
non una fatale coincidenza, come avveniva nelle versioni provenzali; inoltre, la scoperta della
tresca da parte del marito è causata dall’imprudente condotta di Guardastagno e della donna, e
non più da una delazione esterna, come nelle vidas.
22
In generale, la vendetta di Rossiglione appare in qualche modo giustificata dal tradimen-
to del patto amicale che lega all’inizio i due protagonisti nella novella (in verità anche la versione
D della tradizione provenzale presenta Cabestaing come «compaignon qe tant [Raimon de Rossil
lon] amava»). Boccaccio descrive del resto il turbamento di Rossiglione durante la cena
macabra da lui stesso organizzata e lo stordito pentimento che segue al suicidio della moglie: tutti ele-
menti introdotti ex novo. Allo scopo di attenuazione del giudizio negativo sul personaggio ri-
sponde anche la presentazione iniziale, in cui Rossiglione è definito infatti «prod’uomo»,
mentre le versioni provenzali lo descrivevano come «rics e mais e fers e orgoillos» (versioni AB), oppure
si limitavano ad una neutra menzione del nome e del suo stato nobiliare (versioni CD).
23
Cfr., per l’analisi di questa innovazione alla luce delle complesse strategie onomastiche
del Decameron, B. PORCELLI, Il nome nel racconto. Dal Novellino alla Commedia ai novellieri del
Trecento, Milano, Francoangeli, 1997, in partic. pp. 66-67.
24
In Boccaccio und der Beginn der Novelle, pp. 33-43 (tradotto in italiano col titolo II caso
tipico e il caso particolare: dalla “vida” alla novella, ne Il racconto, a c. di M. Picone, Bologna,
Il Mulino, 1985, pp. 299-308).
ANCORA SUL “CUORE MANGIATO”: RIFLESSIONI SU DECAMERON IV 9 55

“poetica” del protagonista: avrebbe ragione dunque la Di Maio nel limitarsi a


registrare questa omissione, senza spiegazioni ulteriori,21 considerandola così
implicitamente una semplice "variante adiafora", tra le tante che potevano
proporsi al certaldese nell’atto di riscrivere la novella? Oppure, in alternativa,
ci si potrebbe accontentare di quanto in proposito sostiene Rossi, cioè che a
Boccaccio la truce leggenda interessava unicamente come esempio della so-
cietà del passato, guerriera e feroce, e così diveniva del tutto superfluo il so-
vrasenso poetico e metaletterario che quella aveva accumulato nel tempo.26
Viene il sospetto, in realtà, che sia possibile una lettura molto diversa di
questa reticenza boccacciana. Quello che mi sembra certo è che l’assenza
non potesse assolutamente sfuggire al lettore coevo, cui dovevano essere as-
sai note e chiare le connotazioni metaletterarie del tema, affidate in gran par-
te proprio all’attributo di poeta qui obliterato. Le esperienze, sopra citate, di
due lettori autorevoli come Dante e Petrarca non fanno che confermarlo: la
ricezione del "cuore mangiato" non era mai disgiunta, anche nella società let-
teraria italiana del Due-Trecento, da quella particolare connotazione. Del re-
sto, proprio il dialogo che Boccaccio intesse con tutta la tradizione preceden-
te vale a suggerire un’interpretazione differente. Come sempre più chiara-
mente è apparso negli ultimi anni, Boccaccio non intende affatto dissimulare
l’imitazione di tutto un patrimonio letterario preesistente, e sembra indicare la
propria originalità non in una verità storica o morale, ma semmai in un supe-
ramento in verbis della stessa tradizione, cioè nell’abilità del reinvestimento
stilistico compiuto sulle fonti, incitando per questo motivo apertamente «il
lettore a scoprire il giuoco dell’intertestualità»,27 celato nella propria scrittura.
Verrebbe da aggiungere che mai tale esortazione si presenta tanto scoperta e
stimolante quanto nella novella di Guardastagno, in cui la fonte («i provenza-
li» del passo già citato) è addirittura esibita in limine. In questa prospettiva,
passare sotto silenzio un elemento così noto e importante della tradizione
non può essere che il risultato di una scelta consapevole, configurando cioè
una specie di intertestualità in absentia: l’ombra dell’assenza (del termine
“poeta” che già accompagnava il protagonista, e quindi del nesso ormai ca-
nonico tra “cuore” e poesia) continuerà a pesare sulla lettura di questa novel-
la, e il tacere diventa forse più eloquente di un dichiarato rifiuto.
Il vero problema è dunque quello di comprendere il senso di questo si-
lenzio. Si possono azzardare alcune ipotesi di lavoro: la prima suggerisce di
indagare in direzione della poetica boccacciana (o di quella decameroniana,
per lo meno), che proprio all’ingresso della IV Giornata in cui la novella è

25
M. DI MAIO, II cuore mangiato, cit., p. 24.
26
L. ROSSI, Umore, mistico pasto, cit., p. 124.
27
M. PICONE, L’invenzione della novella italiana. Tradizione e innovazione, in La novella
italiana. Atti del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Roma 1989, I, p. 149. Vd. inol
tre R. FEDI, Il “regno” di Filostrato. Natura e struttura della Giornata IV del Decameron, in MLN,
CII, 1987, pp. 39-54.
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compresa conosce uno dei momenti di più alto impegno programmatico. In


realtà, parlare di una poetica di Boccaccio, all’altezza cronologica del Deca-
meron, può sembrare abbastanza arbitrario, dal momento che essa è ancora
ben lontana dalla consapevolezza teorica che, più tardi, gli detterà alcune pa-
gine delle Genealogie, o anche del Corbaccio e delle Esposizioni, destinate ad
una vera e propria riflessione sulla funzione e sull’origine della poesia.28 Tut-
tavia, il termine, più estesamente, anche se forse impropriamente, vuole qui
riferirsi a quelle indicazioni di lettura che il Decameron stesso offre ai suoi
lettori, concentrandole nelle zone non puramente diegetiche dell’opera, tra le
quali, come appunto si è detto, va annoverata in primis l’Introduzione alla IV
Giornata. Qui, come si ricorderà, allo scopo apparente di difendersi dalle ac-
cuse di taluni critici «morditori» (le quali rappresentano probabilmente una
fictio), Boccaccio allinea una serie di argomentazioni che, oltre a fornire le
chiavi eli interpretazione dell’opera ad uso del lettore, costituiscono, come è
stato detto, «una appassionante apologià della figura del moderno
fabulator»,29 in altre parole una difesa della propria scelta in favore del gene-
re novellistico. Una necessità che può spiegarsi compiutamente solo se si tie-
ne presente la marginalità in cui, rispetto ad altri generi letterari, ancora ver-
sava la narratio brevis, nel momento in cui Boccaccio concepiva il progetto
del suo Centonovelle. Ebbene, dopo aver rintuzzato una per una le accuse
dei fittizi detrattori, l’arringa boccacciana si concludeva nella ben nota affer-
mazione che «queste cose tessendo [ovvero le «ciance» di cui lo accusavano i
«morditori»] né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano quanto
molti per a ventura s’avisano»; come a dire che la gloria poetica era ora rag-
giungibile, a differenza che nel passato, attraverso un genere assolutamente
privo di pedigree come la novella, senza snaturare o rinunciare alle sue carat-
teristiche proprie, le «ciance» (ovvero la varietà tematica, la vivace curiosità,
il distacco da ogni rigidità ideologica, la ricerca di una pura delectatio narrati-
va), eppure riconoscendone finalmente le potenzialità di impegnato esercizio
retorico e stilistico.
Non a caso, subito dopo aver enunciato questo suo programma di nobili
tazione della forma novellistica e prosastica, Boccaccio sfida la tradizione “al-
ta” sul suo stesso terreno, affrontando nella IV Giornata il tema degli «infelici
amori», proprio quello cioè che, a partire dal “paradosso amoroso” dei pro-
venzali, era stato appannaggio della letteratura in versi, della lirica e del ro-
man di ispirazione cortese, e che anzi era venuto per lungo tempo ad identi-
ficarsi con lo spazio specifico di ogni scrittura letteraria che nutrisse alte am-
bizioni estetiche.

28
Per una trattazione complessiva della poetica boccacciana cfr. F. TATEO, Retorica e poeti
ca fra Medioevo e Rinascimento, Bari, Adriatica, 1970, in partic. pp. 67-229; e R. STEFANELLI, Boc-
caccio e la poesia, Napoli, Loffredo, 1978.
29
M. PICONE, L’invenzione, cit., p. 143.
ANCORA SUL “CUORE MANGIATO”: RIFLESSIONI SU DKCAMKRON IV 9 57

S’affaccia in questo modo una prima risposta possibile, sebbene forse fa-
cilior, all’interrogativo iniziale: proprio all’akme di questa trattazione tematica
(la penultima novella, che, stante il privilegio dell’ultimo narratore Dioneo di
scantonare dal tema della Giornata, corrisponde in realtà al termine del per-
corso compiuto dai narratori in ogni Giornata), Boccaccio rievoca il topos del
“cuore mangiato”, utilizzato in un passato abbastanza recente (nella Vita
Nuova) per suggellare un nuovo e più impegnato rilancio del genere lirico.
Anche questa volta, in realtà, al mito cardiofagico spetta il compito di tenere
a battesimo un’impresa letteraria ambiziosa, ma nella continuità apparente
s’insinua un’incrinatura: il cuore non appartiene più, come nella tradizione,
ad un poeta (Cabestaing, Coucy, Dante), e anzi la poesia (ovvero la tradizio
ne lirica del passato) è oramai del tutto estranea all’intreccio narrativo.
L’espunzione (volontaria, dunque) di ogni riferimento alla poesia - quasi ca-
nonico per ogni lettore contemporaneo - dal mito del cuore, vale allora
quanto un’aperta proclamazione dell’autonoma dignità della prosa narrativa,
che si appropria da sola di questo nodo simbolico e iniziatico, con le sue
connotazioni metaletterarie. La narratio brevis in prosa non è più qui sempli-
cemente un commento accessorio, un elemento aggiunto al primo e irripeti-
bile momento dell’esperienza lirica, com’era nella vida e nelle razos di Cabe-
staing (tale era in fondo anche nella Vita Nuova), ma brilla ormai di luce
propria. Si glossa in tal modo, nella concretezza dell’applicazione narrativa
offerta dalla novella, quanto l’Introduzione, ancora vivida nella memoria del
lettore, aveva asserito.
Tuttavia, un’altra osservazione è possibile: non si dovrebbe mai dimenti-
care che l’autore Boccaccio affida in realtà la “pronunzia” delle novelle a dei
personaggi/narratori che, per quanto finora sfuggenti ad ogni tentativo di ca-
ratterizzazione definitiva, possono sempre far valere i propri diritti. Nel caso
di IV 9, la voce che scandisce la narrazione è quella di Filostrato, re della
Giornata, nonché, secondo un’etimologia boccacciana certo approssimativa,
«abbattuto d’amore» per eccellenza.30 Tale interpretatio nominis lascia facil-
mente intendere che la scelta della materia della Giornata non è affatto acci-
dentale, come del resto aveva esplicitamente suggerito lo stesso personaggio
nella Conclusione della Giornata precedente. Infatti, dopo aver ricordato il
suo destino di amante sempre deluso, il re dichiarava:
«E per ciò non d’altra materia domane mi piace che si ragioni se non
di quello che a’ miei fatti è più conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero
infelice fine, per ciò che io a lungo andar l’aspetto infelicissimo, né per altro
il nome, per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire
mi fu imposto».

30
Sul valore allusivo e rivelatore dei nomi dei novellatori cfr. L. SASSO. L’“interpretatio no-
minis” in Boccaccio, in SB, XII, 1980, pp. 129-74; in particolare, per la convinzione secondo cui
i nomi dei tre novellieri maschi «svelano il loro carattere allusivo, il riferimento a tre diversi mo-
di di essere nei confronti dell’amore» (ivi, p. 158).
58 LEONARDO TERROSI

La totale identificazione di Filostrato con il tema degli infelici amori per-


mette dunque di considerare la narrazione della Giornata, e a fortiori la no-
vella di Guardastagno da lui raccontata in prima persona, come una proiezio
ne e una graduale rivelazione della propria personale infelicità amorosa, che
si specchia e si riconosce infine nella ormai classica vicenda di Cahestaing e
del “cuore mangiato”. Allora, nell’ottica di Filostrato, quella cioè di una rievo-
cazione autobiografica del tema tradizionale che ne privilegia essenzialmente
l’aspetto tragico-amoroso, ogni allusione alla condizione di poeta che già fu
del protagonista risulterebbe forse non funzionale, e anzi fuorviante, e questo
ne giustificherebbe pacificamente l’omissione. Eppure, se guardiamo alla
Conclusione della medesima Giornata, proprio a Filostrato è assegnato il
compito di intonare una ballata (Lagrimando dimostro), costruita attorno al
tema della delusione amorosa che conduce l’amante ad invocare la morte
quale unico rimedio al martirio d’amore: «Quanto ’1 mio duol senza conforto
sia, / signor [cioè Amore], tu ‘1 puoi sentir, tanto ti chiamo / con dolorosa vo-
ce: / e dicoti che tanto e sì mi cuoce, / che per minor martir la morte bramo»
(vv. 15-19). Dunque, Fìlostrato non rappresenta soltanto la figura dell’amante
infelice e dolente, ma anche quella del poeta che canta la propria sofferenza
amorosa e la vocazione al martirio, esattamente come il Cabestaing
poeta/amante delle vidas e razos provenzali: se così stanno le cose, la pre-
sentazione come poeta di Guardastagno avrebbe offerto un ulteriore e facile
elemento di identificazione tra il novellatore e il protagonista della novella
che, come si è visto, costituisce una sua dichiarata proiezione. Rinunciarvi rap-
presenta allora tutt’altro che una scelta prevedibile e scontata, come poteva a
tutta prima apparire, e vale invece a sottolineare con forza ancora maggiore
agli occhi del lettore un distanziamento dalla tradizione ripetutamente evocata.
Infatti, il “nuovo Cabestaing”, Filostrato, affida la propria voce di amante infeli-
ce anzitutto al racconto in prosa della novella, ed escludendone ogni diretto
riferimento alla poesia, sembra abdicare al proprio stesso attributo di poeta; il
“canto” verrà recuperato soltanto nel rituale secondario della ballata finale, co
me appendice ancillare e certo meno significativa. Anche questo secondo per
corso interpretativo rivela quindi una sorta di ribaltamento del rapporto che
legava tradizionalmente i due momenti, quello della lirica e quello della prosa.

3. Un differente capitolo della storia letteraria del “cuore mangiato” ri-


guarda le riscritture parodistiche a cui il tema, sin dall’inizio, viene sottopo
sto, come nel duecentesco Lai d’Ignaure, nel quale al cuore è sostituito osce-
namente il membro virile del protagonista.31 In realtà questa è solo la prima
di una serie di versioni “degradate” dell’intreccio qui esaminato (e non sem-
plicemente nel senso di un loro viraggio al comico o al burlesco); versioni

Cfr. RENAUT [DE BEAUJEU], Le lai d’Ignaure ou Lai du Prìsonnier, a c. di R. LEJEUNE, Bruxel-
les 1938. Per la presenza del tema in A.G. de Marsan vd. l’ed. di G.E. SANSONE, Testi didattico-
cortesi di Provenza, Bari 1977, pp. 125 e 160-61.
ANCORA SUL “CUORE MANGIATO”: RIFLESSIONI SU DECAMERON IV 9 59

che hanno tra loro in comune proprio l’occultamento dell’elemento principa-


le (il cuore mangiato) e la sua sostituzione con altri parti anatomiche. Luciano
Rossi segnalava, nel saggio più volte ricordato, il «contrafactum grottesco» at-
tuato dall’exemplo CXXXIV, De prava amicizia vel societate, del Novelliere di
Giovanni Sercambi, rifacimento abbastanza scoperto della novella di Guarda -
stagno, dove però il marito geloso propina in pasto alla moglie non il cuore,
bensì la testa, anzi il vizo (il volto), dell’amante.32
Un altro esempio relativo a questo ramo, per così dire profano, della tra-
dizione, è stato tuttavia trascurato sinora da chi si è occupato del “cuore man-
giato”; si tratta di una novella inserita da Anton Francesco Doni nel Trattato
secondo della sua Libraria,33 che già il Petraglione, curatore di una raccolta
delle novelle doniane, aveva accostato a Decameron IV 9, seppur limitandosi
ad una laconica noterella comparativa. 34 In questa seconda sezione della Li-
braria, la quale nel suo Trattato primo si presentava come un’attendibile ras-
segna bibliografica delle opere in volgare stampate fino a quel momento
(1550), Doni si occupa invece degli «autori veduti a penna, i quali non sono
ancora stampati», in realtà dimostrando subito un intento ironico e parodico
(difatti, la più parte degli scrittori e delle opere sono parto della sua fantasia,
e riportano nomi e titoli spesso paradossali). D’altronde l’elenco “bibliografi-
co” è continuamente interrotto da testi di natura narrativa, per lo più brevi
novelle, 37 ma anche da lettere indirizzate a notabili e altre digressioni, tutte
poi pretestuosamente giustificate in funzione delle opere e degli autori censi-
ti. L’incastonamento nella rassegna della novella che qui si analizza, per
esempio, è spiegato con il fatto che essa «sarebbe buona a metter nel libro di
messere Cinamò Finamondo, il quale ha fatto un libro d’esempi miserabili de
gli amanti chiamato Infelicità d’Amore».36
Venendo dunque al racconto in questione, se è assente ogni riferimento
tanto al cuore quanto al banchetto canonico, alcuni richiami espliciti rendono
però evidente la parodia della vicenda di Guardastagno. Tutta la prima parte
della novella doniana asseconda anzi fedelmente il prototesto boccacciano,

32
L. ROSSI, II cuore, mistico pasto, cit., pp. 126-28.
33
La novella in questione occupa le pp. 327-29 dell’ed. de La Libraria a e. di V. BRAMANTI,
Milano, Longanesi, 1972. La prima edizione, giolitina, è del 1550.
34
G. PETRAGLIONE, Novelle di Anton Francesco Doni ricavate dalle antiche stampe, Berga-
mo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1907. La novella, la XXIa della raccolta, è qui battezzata con
il titolo Terribile vendetta che prese un marito contro ki moglie infedele, pp. 46-48; la nota com-
parativa si trova invece nell’Appendice, a pp. 193-94. Petraglione si era già occupato di alcune
novelle doniane in una serie di interventi pubblicati tra il 1899 e il 1900 sulla «Rassegna puglie-
se di scienze, lettere ed arti» (voll. XV e XVI, passim), interessati soprattutto all’individuazione
delle loro fonti. La nostra novella era analizzata nel n. 7 (luglio 1899) del voi. XVI: nessun ac-
cenno vi compare al precedente boccacciano.
35
Si tratta in alcuni casi di novelle altrui, come una novella attribuita a Luigi Pulci (e già
edita dalla tipografia del Doni nel 1547) e la novella Belfagor di Machiavelli. Cfr. La Libraria,
cit., rispettiv. pp. 354-61 e 374-88.
36
Ivi, p. 329.
60 LEONARDO TF.RKUSI

concedendosi solo rarissime libertà e ricalcando spesso quasi alla lettera lo


svolgimento narrativo e le stesse espressioni usate da Boccaccio: per esem-
pio, nella presentazione iniziale dei due personaggi (pure qui anonimi)
l’amante, «leggiadrissimo cavaliere», è da Doni definito come «molto dome-
stico amico del marito» (così come tra Guardastagno con Rossiglione era
«amistà» e «compagnia»); ovviamente, sulla scia di Boccaccio, è assente an-
che qui ogni riferimento ad una vocazione poetica del protagonista. Una va-
riante è introdotta intorno alle modalità dell’innamoramento, che qui rispon
de ad un’iniziativa della donna (a differenza del modello decameronìano, do
ve è Guardastagno ad esser preso per primo al laccio d’amore), ma identica è
la dinamica che conduce il marito a scoprire la tresca, come si vedrà ora. Si
noti come alla comunanza tematica corrisponda un’affinità nella costruzione
sintattica, e anche nel lessico, non meno evidente (pongo in corsivo i riscon-
tri letterali più scoperti): sia in Doni che in Boccaccio (che in ciò divergeva
dalla tradizione provenzale) è la scarsa prudenza dei due amanti a causare la
scoperta e lo sdegno del marito (Doni: «Nel quale poco avedutamente conti-
nuando [...] avenne pure [...] che ‘1 marchese s’accorse»; Boccaccio: «E men
discretamente insieme usando, avvenne che il marito se n’accorse»); si sotto-
linea quindi in entrambi i testi la maggiore discrezione del marito (Doni:
«Sendo pure discreto [...] fra se stesso deliberò»; Boccaccio: «ma meglio il
seppe tener nascoso [...] e seco diliberò»). Sia pure molto più sbrigativamen
te, anche nella novella doniana, come in quella di Boccaccio, è un agguato
teso dal marito ad aver ragione dell’amante, qui strangolato, nel Decameron
invece trafitto da una lancia. È a quest’altezza del racconto che Doni introdu
ce il mutamento fondamentale: la «non mai più intesa crudeltà», cioè la truce
vendetta maritale, anziché nella preparazione di un manicaretto il cui princi-
pale ingrediente sta nel cuore del rivale ucciso, consiste qui in un altro espe-
diente, ovvero nell’imbalsamazione del morto, posto poi nel letto della mo-
glie, in una sorta di slittamento semantico all’interno di una sfera antropologi
ca, che cioè dalla cardiofagia conduce ad un altro elemento ben noto al folk-
lore: quello, appunto, dell’amante imbalsamato.37
In qualche modo analogo a quello del testo decameroniano appare qui il
macabro ed ironico compiacimento con il quale il marito annuncia alla mo-
glie la sua vendetta; in Doni:
«ho deliberato ancora compiacervi eli cosa che sopra ogni cosa amate e
avete cara, e fermato che non più di nascoso, ma publicamente e con vo -

37
Cfr., in S. THOMPSON, Motif-Index, cit., per il “cuore mangiato”, il già menzionato motivo
Q 478 1; per l’imbalsamazione dell’amante il motivo T 85 4 Loner’s body kept embalmed for
years by grieving mistress, e il T 211 4 Spouse’s corpse kept after death. Questi ultimi due assur
gono nella letteratura popolare ad emblema di fedeltà amorosa oltre la mone; è evidente in Do -
ni una loro riutilizzazione ironica. Del resto, il motivo della punizione consistente nella vista del
cadavere dell’amante è già nel Pecorone (II 1 e VII 1) e soprattutto in Bandello (II 12), dove si
aggiunge, come nel Doni, anche il motivo della segregazione. Ma sembrano affinità assai gene -
riche e reciprocamente indipendenti.
ANCORA SUL “CUORE MANGIATO”: RIFLESSIONI SU DECAMERON IV 9 6l

lontà mia eli continuo la posseggiate. acciò che non sia mai più donna che
si vanti di avere avuto più amorevole marito di voi»;

in Boccaccio, dopo che la moglie dichiarava di aver apprezzato molto la vi


vanda, Rossiglione affemava:
«[...] io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che
vivo più che altra cosa vii piacque».

Molto differente appare invece l’atteggiamento di Doni verso il personag-


gio femminile, pur sempre caratterizzato in Boccaccio come eroina che prefe -
risce darsi la morte piuttosto che sopravvivere alla scomparsa dell’amato, non
senza aver pronunciato un alto discorso eloquente che celebra la nobilt à del
suo amore per Guardastagno e al tempo stesso decreta l’abiezione del coniu-
ge. La reazione della donna è invece quasi azzerata nella novella di Doni,
che accenna brevemente a un suo proposito di «entrare in parole», ma nulla
alla fine concede al suo sdegno e al suo dolore, e anzi aggiunge, senza alcu
na simpatia, che altri sette anni devono passare perché, «tra per lo puzzo e
per lo dolore», la morte possa recarle pace.
In realtà, la versione doniana pone degli interrogativi che la sbrigativa
etichetta di “imitazione”, o quella, ancor più denigratoria, di “plagio”, non
varrebbero a risolvere. E soprattutto, non andrebbe disgiunta dal macrotesto
all’interno del quale è inserita, cioè quel testo bizzarro, ma per tanti versi mo -
dernissimo, che è La Libraria. Nella sua Novellistica, Letterio Di Francia, do-
po aver diligentemente annotato debiti ed imitazioni rintracciabili nel corpus
novellistico doniano (sparso «capricciosamente» qua e là, all’interno di vari
scritti della sua produzione) e dopo aver rimarcato l’assenza di scrupoli del
nostro nell’attingere ad altri novellieri, doveva per forza precisare che «in ge-
nerale, egli non ha l’abitudine di alterare profondamente i dati fondamentali
delle novelle, per nascondere il plagio». 38 Il plagio, dunque, non è occultato,
ma semmai esibito dal Doni, come dimostra ampiamente, nel caso della pre -
sente novella, non solo l’esplicito richiamo alle strutture tematiche e formali
del modello, ma anche un altro elemento, per così dire, macrotestuale: subito
dopo il termine della novella, alla ripresa della rassegna bibliografica, Doni
inserisce, guarda caso, proprio il nome di Giovanni Boccaccio, in veste di au-
tore di due improbabili testi manoscritti, la Corona napolitano, e la Nobiltà di
Fiesole. Una procedura allusiva che, a ben vedere, risulterebbe abbastanza
singolare per un vero plagiario (cui starebbe semmai a cuore la dissimulazio
ne del prelievo incriminabile). Piuttosto, essa sembra coerentemente allineata
in Doni ad una esplicita concezione della letteratura che, come ha intuito
Quondam, 39 è da lui intesa quale “palinsesto”, inevitabile gioco intertestuale

38
L. Di FRANCIA, Novellistica, Milano, Vallardi, 1924, I, p. 613.
39
A. QUONDAM , La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa,
Torino, Einaudi, 1983, II (Produzione e consumo), pp. 621-31.
62 LEONARDO TERRUSI

che non può fare a meno di ritornare continuamente sul proprio passato, sui
propri modelli. Di tale concezione la Libraria offre non solo la prassi ma allo
stesso tempo anche la dichiarazione teorica; nella lettera dedicatoria che apre
il Trattato secondo (significativamente indirizzata «A coloro che non
leggono»), infatti, Doni definisce esattamente in questi termini l’esercizio del
la scrittura letteraria, affermando per esempio:

«Che credete voi che sia il fare un libro? [ ... ] Fate conto d’avere un
monte di bronzo, e che uno mastro struggendolo n’abbi formato uomini, ca-
valli, lioni, pecore, asini, cani, erbe, frutti, donne etc. Poi come se n’è servi
to un tempo gli disfa, e riformane degli altri medesimamente, ma sono più
grandi o più piccoli, stanno in altra attitudine, voltono il viso in altra
parte, e quel che era in piedi sta a sedere o quel che giaceva corre»." 10

Letteratura dunque come riscrittura e ripetizione: è in fondo, quanto pre-


scrivevano i grammatici del suo tempo, imponendo i modelli dei “buoni”
scrittori del passato; è quanto, meccanicamente, attuava la pletora di poeti
petrarchisti suoi contemporanei, corrivi a una scrittura circolare, tautologica,
che eternamente ripete il modello Petrarca (o meglio il Petrarca fissato dalla
mediazione bembiana e cinquecentesca). Diverso è forse il fine dell’imitazio-
ne doniana, che cerca un riscatto nella parodia, nella varìatio degradante ri-
spetto al modello, unica soluzione di libertà in un universo letterario prigio-
niero della ripetizione. Lo stesso Quondam segnalava due esempi di parodia
(di “transtestualità”) doniana nella Libraria,41 immediatamente riconoscibili
per il loro carattere di accumulazione teratologica di citazioni e topoi petrar-
cheschi nell’uno, boccacciani nell’altro, portati all’eccesso e quindi
deformati apertamente. Il caso di riscrittura che si è qui analizzato è forse più
raffinato, poiché si mantiene invece su un registro fondamentalmente affine
a quello del modello e dimostra in maniera ancora più persuasiva che il fine
del suo autore non è semplicemente la caricatura burlesca, quanto l’esercizio
di stile, la scrittura “alla maniera di”.
È il caso di notare che ancora una volta il tema del “cuore mangiato”,
seppure trasfigurato e degradato sino a divenire altro, ricompare in una scrit-
tura ad alto tasso di autocoscienza, scrittura che riflette cioè su se stessa, sui
modi e sulle forme della propria letterarietà.

LEONARDO TERRUSI

40
La Libraria, cit., p. 245.
41
A. QUONDAM, La letteratura in tipografia, cit., p. 631 n. 41.

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