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Rebecca Bazzano

Economie della paura, Letteratura Italiana Contemporanea


Stefan Zweig, Paura - Angst
Opera scritta nel 1910, pubblicata nel 1920 da uno scrittore austriaco (autore di “il mondo di ieri”,
principale portavoce della civiltà italo europea al tramonto, manifesto del declino degli anni
precedenti al fascismo). Irene Wagner è la testimone di che cosa sia la paura nelle sue manifestazioni
esterne (sintomi della paura, secondo Freud): senso di freddo, paralisi, presenza di movimenti
nervosi, a scatto, dettati da una perdita di controllo del movimento fisico, poi le connessioni con altri
sentimenti quali la colpa, il senso di vergogna, condizionamento rispetto al giudizio altrui - da
individui esterni e da un insieme sociale che ci richiede adeguati a un ruolo sociale ben determinato.
La paura, inoltre, altera la nostra percezione del tempo, può essere legata a una soggettività del
tempo, che perde così la sua linearità dilatandosi o restringendosi radicalmente. Tutto ciò che
superficialmente, cioè in modo percettivo, si lega alla paura si muove in molte direzioni, causando
incapacità di scelta.
La letteratura è un esorcismo della paura. La paura è il contrario di due radici tematiche molto usate:
il coraggio e il desiderio. È un nucleo di racconto che precede la letteratura, è oggetto di racconto
nelle civiltà che non hanno scrittura, fin dall’epica antica che non ha a che fare con la guerra.
Parliamo dell’importanza espressiva di questo sentimento.
-> mettere tutto in rapporto con Irene, primo parametro (fittizio)
Irene= vittima della fenomenologia della paura
In Irene abbiamo due tipi di paure: la paura iniziale - meno incisiva- e la paura di secondo grado, più
profonda, connessa alla vergogna di aver visitato un amante ed appartenere alla borghesia. La prima
paura è più soggettiva, individuale; la seconda è legata al contesto sociale. Irene non ha
istintivamente paura, ma si trova in una società nella quale non può fare ciò che vuole fare.
Lo sfondo borghese preme sugli individui nel momento sbagliato, nel momento in cui le loro difese
razionali sono cadute.
Questo inizio di racconto ci dà due direzioni riguardo come dobbiamo intendere la paura: alterazioni
improvvise, protratte poi nel tempo solo successivamente; e il lato relazionale - ciò che connette la
paura agli altri (con Irene è durante il ritorno nella società). Irene cerca di crare una parentesi di
isolamento rispetto alla società che la circonda; è un suo modo strumentale disperato per sfuggire
alla paura (si chiude dentro - letteralmente dentro la stanza dell’amante. La paura è una spirale nera,
un gelo che circonda le gambe e diventerà poi un cane che morde, un senso di sospensione del
respiro, del fiato: è una descrizione molto dettagliata che connetterà poi la paura all’attesa - tempo
non lineare, oro per chi fabbrica storie. Il tempo è una funzione importantissima del racconto:
percezione del tempo, distribuzione del tempo durante la storia.
Nelle lingue occidentali il termine paura è sostanzialmente diviso in tre grandi settori lessicali:
 Angst - area tedesca| sentimento opprimente di essere minacciati
Sinonimo -Beklemmendes -> essere stretti: la paura stringe, schiaccia. La causa della paura è
perciò la minaccia. Nel germanico occidentale ci sono delle radici che si somigliano (Enge,
Angst, aghos). Le forme astratte sono inoltre costruite con il suffisso di appartenenza -st: la
paura sembrerebbe quasi, nell’area tedesca, un appartenere a un mondo Ang, che significa
ciò che è legato alla qualità dell’essere stretto (in tedesco stretto si dice Eng).
Etimologicamente ha perciò a che fare con la restrizione. Ci sono alcune forme che invece
mostrano una costruzione diversa che indicano altri concetti: Zusammenschnurung -
restringimento alla gola; Bedrangung - disagio; Not - emergenza; gefangenschaft - sentirsi
prigionieri. Tutte queste radici che indicano restrizione, minaccia, difficoltà di diverso tipo
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appartengono alla stessa radice di Angst. Angst nella storia contorta della lingua tedesca
tocca tutti questi ambiti.
Angstiich, engstig sono ambivalenti: indicano paura e desiderio. Anche nel tedesco c’è una
traccia del fatto che la paura è una parola che guarda verso il desiderio (oggi rimane nel
tedesco colto).
 Fear: calamità, pericolo immediato, situazione di pericolo o attacco immediato. nell’area
inglese questo termine è legato a una temporalità molto stretta (sudden danger). La paura in
ambito sassone è legata alla sfera militare (imboscata); lo stato originario della paura è
legato a una funzione primaria: la paura serve, è il motore del mio movimento. Sembra una
contraddizione rispetto alla paura di Irene, che era invece paralizzante: l’origine, il nucleo
della paura è molto discusso, in ogni caso si tratta di aspetti diversi che spesso si
accompagnano l’uno con l’altro, sono complementari. c’è un’ambiguità: fear pare essere una
forma allungata di Per, dal tedesco, che indica una scelta di rischio, il voler tentare qualcosa
(essere minacciati | voler rischiare). Il significato di essere preoccupati, sentirsi minacciati
arriva alla fine del XII secolo, quindi successivamente rispetto all’area germanica. Dal 1400 in
poi si parla anche di fyrtho, paura di Dio o provocare il fatto che una persona si inginocchi,
intimidire (deriva dai contesti coloniali).
-> connessione paura - vergogna: “società della vergogna”, indurre la paura attraverso il
senso della vergogna - impotenza (creare un’aspettativa di minaccia).
 Paura (secolo XIII), stato emotivo di repulsione e apprensione. Dal latino pavere - essere
colto da spavento - da cui paventare (aspettativa non serena di un evento; prendere in
esame le varie opzioni che si hanno) che è un esempio in italiano di una certa capacità
dell’area semantica della paura di essere attiva (valutare opzioni) o passiva (attendere un
evento). Si può paventare uno scenario catastrofico, un’ipotesi inducendo così la paura
(avere potere). Pavere ha un legame interno con Pavire che significa battere la terra,
probabilmente connesso con battere i piedi per terra, batteri i denti: manifestazione fisica
della paura (da qui deriva pavimento). La paura diventa così assenza di basi, bisogno di
battere la terra per sentire il contatto. -> la paura sottrae la percezione dello spazio.
Pavor in latino significa letteralmente “essere pallido”, è innanzitutto una sottrazione, una
mancanza di circolazione del sangue, un difetto. La parola opposta è legata infatti alla pompa
del sangue, il cuore (coraggio).
Il panico è il senso della totalità (dal greco pas, cioè tuto, indifferenziato): tutto ciò che appare
intorno è totale, unico e per questo manca orientamento. Freud dice che il bambino nasce in una
totalità indifferenziata; dopo mesi sviluppa la distinzione, il primo elemento che ha il bambino per
combattere la paura poiché significa riconoscere qualcosa. Un attacco di panico fanno pensare che il
mondo intorno a noi non sia più distinguibile (Cerca mito greco Panos). Ora panica: mezzogiorno,
momento in cui è più facile mettersi in contatto con il tutto, con l’indistinto (la divinità) che appunto
compare. Contatto con indistinto = contatto con il divino. Paura = insieme di fenomeni sintomatici
strettamente legati alla semanticità della parola
Pirandello, La paura del sonno
Scritta nel 1896 e pubblicata con un primo titolo L’albero di fico, esce poi in volume nel 1900 - con
pochi cambiamenti, “la paura del sonno”.
Pirandello voleva fare “Novelle per un anno”, quindi 365 novelle - genere che si adatta molto alla
serializzazione (trasformare singoli racconti in una serie). Le Novelle per un anno non sono però mai
esistite, ne ha scritte 221. Questa novella fa parte di un periodo durante il quale Pirandello credeva
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ancora nella novella in quanto modo di istruzione: una storia breve, a volte allegorica, mettibile in
serie. Pubblicava prima in rivista e poi le raccoglieva in volumi che portavano a volte il titolo di una
delle 8-15 novelle. Quando le riorganizzò pubblicò i volumi con cadenza serrata sapendo di non
portare a termine il progetto. Ripubblica le novelle apportando qualche modifica; la filologia
pirandelliana ha qualche piccolo problema.
La filologia pirandelliana è un percorso tortuoso: Novelle per un anno era un grande progetto
editoriale fallito anche perché Pirandello si dedicò principalmente al teatro, come scritture e
promozione. È stato infatti uno scrittore globale, la sua produzione teatrale è stata rappresentata in
tutto il mondo; la sua vita infatti è stata continuamente in movimento.
Importante è la sua cultura tedesca (primordiale) che ha avuto come prima conseguenza il contatto
con la psicoanalisi; Pirandello è stato uno dei più attenti alla rapida evoluzione della psicoanalisi, a
volte in modo non sistematico e a volte rifacendosi a Freud. Questa novella è precedente agli
interessi freudiani. Si parla però di paura e della capacità di questa di produrre senso.
L’inizio della novella è abbastanza frequente in Pirandello: è destabilizzante, guarda il nucleo della
vicenda che si andrà a raccontare da fuori, con uno sguardo radente (come fossimo controluce). Gli
inizi di Pirandello non sono quasi mai referenziali: non fotografano mai i personaggi in modo diretto
e a volte adottano un punto di vista corale, collettivo, concentrato su personaggi singoli (il
protagonista).
È una lingua ricca di sfumature, termini ricercati e sintatticamente: la frase iniziale presenta uno
spazio chiuso molto affollato da burattini, appesi ad asciugare alle pareti (in fase di fabbricazione).
Il primo personaggio compare al complemento oggetto: i burattini chiamavano la moglie del
fabbricante di burattini. Questo mostra la luce laterale: i personaggi compaiono chiamati. Abbiamo
perciò uno spazio naturalistico (in senso descrittivo, cioè dettagliato): ci avviciniamo al naturalismo
per la ricchezza di dettagli - trascurati successivamente. La barriera del naturalismo è però superata
dal fatto che i burattini parlano (- Pinocchio).
La lingua utilizzata dal burattino arlecchino è il veneziano: “parona bela!”; quella di Pulcinella è il
napoletano: “Neh, signo’ ”. La signora si chiama Fana, buffo abbreviativo, e cuce le parrucche e i
vestitini dei burattini che fabbrica il marito. Mentre lavora, però, cede al sonno.
L’espediente narrativo più evidente, in questa parte isolata dal resto del testo, serve a rappresentare
il passaggio dal sonno alla veglia: si tratta della ripetizione (scena che deve quindi saltarci agli occhi),
che crea una scena - uno spazio nel quale qualcosa si deve muovere- (l’addormentarsi riempie la
scena e sembra dettare il movimento alla scena). Per dimostrare ciò, però, Pirandello mette in scena
l’addormentarsi cronico, attraversi il tempo, con la ripetizione. un’altra tecnica è la progressiva
caratterizzazione dei personaggi che nascono come una moltitudine indifferenziata e poi piano piano
prendono una determinata specificità: ognuna avrà un nome e una storia, una tradizione diversa.
Questa caratterizzazione è presentata con una enumerazione, una struttura ad elenco.
Ripetizione + enumerazione: due cose che sembrano in contrasto (ripetizione - struttura che diverge,
fa percorrere un percorso molto vario) ma in realtà sono le due energie che tengono in piedi tutto il
racconto. Risultano così i biglietti da visita di tutto il racconto: siamo in una scena non del tutto reale,
quasi fiabesca, in cui però sono presenti anche esseri umani che occupano la scena con ripetizione
ed enumerazione. Ecco perché sono i motori di questo racconto.
Può essere definito un testo fiabesco, non naturalistico, anche perché le sequenze del testo, le parti
in cui il testo cambia scena, sono ben riconoscibili: sembra che Pirandello abbia rinunciato a un po’ di
continuità narrativa per scegliere qualcosa che ci faccia capire la pluralità di prospettive del racconto,
che si muove proprio grazie al fatto che il punto di vista cambia (folla di burattini, folla di esseri
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umani, fabbricante Don Saverio). Pirandello privilegia la discontinuità sulla continuità.


-> la scena sembra accadere tra il sonno e la veglia anche per noi: risulta difficile distinguere la realtà
dalla finzione.
Saverio Càrzara viene introdotto senza connettivi: è un’interruzione voluta che cambia inquadratura
ed espedienti narrativi. c’è un focus sul personaggio principale, che fino ad adesso era stato un
complemento indiretto, un complemento di specificazione (moglie del fabbricante), un personaggio
sintatticamente minore. Si tratta di un personaggio molto ben descritto, al contrario della signora
Fana, con un paragone molto riverente - mette più passione nel fabbricare i burattini più di quanta
ne mise Dio per creare gli uomini. È un piccolo demiurgo, sembra quasi avere la funzione di un
grande creatore in un piccolo mondo. Si tratta di un’allegoria. Saverio è un personaggio allegorico e
Pirandello lo mostra con il paragone con Dio. I burattini sembrano una collettività di esseri umani. -
>racconta in piccolo il destino dell’umanità
Il protagonista entra poi in dialogo con il suo doppio allegorico: lui, dio per i burattini, parla con il suo
Dio. Don Saverio ci informa sulla condizione dell’umanità, che è destinata a morire e non ne trova il
senso. Le influenze di Leopardi sono fortissime.
[tanto studio e tanto amore: studio come impegno - lessico dantesco, medievale - teologia antica,
riletta in negativo come rimprovero]. Pirandello sta provando a dialogare con dei fondamenti della
nostra tradizione in modo molto ironico: facciamo fatica a distinguere comico e tragico.
Un altro personaggio al quale Pirandello sta guardando è Verga, al quale fa un vero e proprio
omaggio.
Don Saverio crede moltissimo nel suo lavoro: si informa molto sui personaggi da riprodurre. Non
comprende però il passare del tempo, che ci trasforma in fantasmi di noi stessi, nelle nostre stesse
controfigure. Come la moglie passa dalla realtà al sonno, anche lui perde il contatto con la realtà
immedesimandosi nei suoi personaggi e bevendo vino.
Il contrasto tra passato e presente è evidente nella descrizione del protagonista da giovane e da
adulto. Il motivo sembra essere la moglie, anch’ella in contrasto con il marito. Si parla infatti della
focosità dell’uomo e della freddezza della donna, motivo per cui gli ardori di Saverio si erano
raffreddati. Il sonno della moglie batte come una dolorosa coscienza di una ridicola infermità: il
sonno della moglie è un mistero non risolto che lo attanaglia.
Questi due personaggi producono un significato: possiamo distinguerli tramite il loro modo di
parlare e agire. -> la differenza tra chi produce il significato e chi no (o perlomeno solo in alcune
situazioni) è evidente: Fana e Saverio vs burattini - presenze allegoriche che non hanno alcuna
connessione logica, strutturale e temporale con l’azione che si svolge. Producono significato in base
a come il narratore li dispone (due sequenze diverse): lui si esalta con storie e vino, lei dorme. Manca
comunicazione a causa, forse, della vecchiaia. Sono due mondi separati in cui i personaggi si
esprimono attraverso i gesti. La critica pirandelliana ha chiamato questo sistema semantica
ostensiva: i personaggi comunicano attraverso la sequenza, la logica e l’illogicità dei gesti. (es.
Semantica Fana: testa che si abbassa ripetutamente mostrando l’avvento del sonno).
-> semantica ostensiva di Irene: tremore, movimenti bruschi, immobilità |i suoi gesti sono
sottotraccia, cerca di reprimerli - tutto il racconto è un tentativo di repressione. I personaggi di
Pirandello sono costretti invece al contrario.
Il sonno è la causa della paura: Don Saverio è entrato in una strana spirale di diffidenza, paura
proprio a causa del sonno della morte. Pirandello ci inserisce in questo meccanismo: la moglie
sembra avere la narrazione in mano ma si limita a dormire, non fa niente. Questa particolarità del
sonno di Fana viene inserita nel contesto narrativo, nello sfondo della narrazione.
Rebecca Bazzano

Il carattere naturalistico del sonno viene trasformato in qualcosa di mobile, dinamico: il motore del
racconto. Il carico di tensione, angoscia che dovrebbe stare sui personaggi va a finire sulle
marionette: è un’operazione non naturalistica, è una sorta di trasferimento di energia dai personaggi
fisici a quelli inanimati. In psicoanalisi si chiama conversione: riversare un trauma su un oggetto
fisico, una situazione (chiudersi in una stanza, stare a contatto con una folla) o una persona (che
diventa oggetto della mia angoscia.
In questa novella non vediamo esercitarsi la fenomenologia della paura come in Irene, vediamo
venire a galla la struttura che permette lo spostamento, la loro perenne attesa di diventare burattini
completi. Pirandello usa lo schema della fiaba, nella quale qualsiasi oggetto può avere un’anima, e
attraverso questo meccanismo ci fa vedere il transfert psicologico.
De Benedetti
-> senso e significato| la loro apparente sinonimia nasconde un’antitesi: senso è ciò che viene
emanato dagli oggetti (siano persone, cose o eventi), il quid che manifestano con il loro semplice
presentarsi, con la loro apparizione - ci rendono partecipi ma non possono esprimere altro, non
possiedono un linguaggio che faccia da moneta di scambio. Il significato è tutto quanto si può far
dire agli oggetti estraendo o piuttosto astraendo dall’unicità del loro manifestarsi, gli aspetti e i
rapporti che riusciamo a formulare con il linguaggio ordinario: grammatica, sintassi, retorica del
senso. Il significato è mediato, il senso immediato.
Tra senso e significato sussiste un’antitesi pari a quella tra simbolo e allegoria: anche simbolo è
un’apparizione che non vuole dire altro che il senso di sè stessa; l’allegoria invece è una similitudine
prolungata, è un’elaborazione più complessa.
La comunicazione tra Don Saverio e le marionette è una comunicazione di senso: lui appare così a
loro - nell’ipotesi che le marionette abbiano capacità percettiva- e loro appaiono a lui. L’unica
comunicazione è a livello strettamente personale: Pirandello identifica un’emozione, la paura, e la
identifica come senso comunicativo della scena. La paura non viene mai citata ma comunicata con il
senso dei personaggi.
Pirandello odiava il termine filosofia ma nelle sue opere vediamo dispiegarsi riflessioni sull’opera
stessa: metateatro per esempio. De Benedetti lo ha individuato come uno scrittore che costruisce la
sua materia in una metafora continuata, un’allegoria: in un’apparente vita coniugale Pirandello
percepisce il serpeggiare della tensione che trasferisce sui prodotti del lavoro di Don Saverio. Riesce
a cogliere attraverso il senso il fenomeno di ciò che gli si presenta, usa due personaggi simboli e li
racconta in allegoria.
Pirandello organizza i suoi simboli attraverso il naturalismo, tratto fondamentale della narrativa
moderna, e utilizza i suoi strumenti superando la logica naturalistica. Il naturalismo è una metafora
narrativa, un modo di raccontare metaforicamente il materiale simbolico. Pirandello anche nella
storia più banale mostra un sottofondo sensoriale turbativo - ci lascia con un certo disagio - anche se
non è esibito. È come organizza narrando le sequenze: un esempio è il passaggio dalla mente di
Saverio a quella delle marionette. Va oltre il naturalismo.
-> Nietzsche, superamento del naturalismo - svolta
Le creature umane di Pirandello sono per lo più inadatte alla vita che hanno intorno; tutto e tutti
sono fuori contesto radicalmente rispetto all’ambiente in cui vivono. Mattia Pascal è l’esempio più
palese: il suo cambio d’identità è talmente devastante che lui legge di un se stesso morto su un
giornale. È il paradigma dell’inadatto. A differenza dei grandi naturalisti francesi, come il Rosso e il
nero di Stendhal, i personaggi di Pirandello non hanno la forza di modificare il contesto intorno a
loro: non interagiscono, non fanno una scalata sociale. Restano fermi.
Rebecca Bazzano

Don Saverio, ad un certo punto, scopre che la moglie è morta: la disperazione iniziale si trasforma in
una chiacchierata tra amici. Ciò che gli capita succede in modo distorto: crede di essere in un luogo,
avere una funzione precisa e invece non ce l’ha.
Pirandello è cresciuto nel positivismo ma la sua idea di uomo va oltre; secondo De Benedetti ha una
sorta di sottofondo inquieto che lo porta a interpretare i fenomeni naturali in modo spiritualistico,
come se esistesse qualche esistenza esterna che infierisce.
Si parla di essere fuori contesto anche dal punto di vista sociale: abbiamo una coppia disfunzionale in
cui lui è invecchiato male - senza capelli, sbalzi di voce, - e tra i due non sembra esserci mai stata
grande intesa. Entra poi in scena la vicina che sembra avere la situazione opposta: Pirandello mette
davanti ai personaggi uno specchio attraverso il quale i protagonisti vedono la propria situazione
riflessa in altri. È un gioco di rimbalzi.
Alla morte di Fana Pirandello ci rende esplicita la sua filosofia attraverso i burattini: fa della meta-
narrativa. Non racconta niente, parla degli effetti dell’azione in una situazione allegorica: la reazione
delle marionette alla morte. Siamo ben oltre il naturalismo, l’asse della storia è spostata sulle
marionette, in una parte del racconto che un linguista, Weinrich, definirebbe commentativa.
-> raccontare significa alternare due mondi: mondo narrativo (in cui racconto- es. Imperfetto “Don
Abbondio passeggiava”| passato remoto “incontrò”) e mondo commentativo.
Il presente qui dà un senso di vicinanza: il mondo narrato è lontano, il presente interrompe il flusso
della narrazione e ci fa riflettere su quello che è stato appena narrato. Siamo stati sospesi nella
narrazione e stiamo riflettendo a ciò che Don Saverio ci trasmette. Da un lato siamo avvicinati allo
spazio narrato, dall’altro abbiamo la possibilità di riflettere e considerare la storia in un momento in
cui è ferma. Pirandello vuole mantenere il punto di vista delle marionette, che non a caso sono
l’oggetto della paura. Il lettore, tra il tragico e il comico, viene investito della paura di Don Saverio.
-> Pirandello non è un narratore neutro, è presente, ironico, con toni sprezzanti.
La moglie magicamente resuscita, tutti festeggiano - comprese le marionette - e poi il tono cambia.
La novella torna ad essere individuale e la paura torna a stare dentro il Mago.
Inizia un discorso indiretto libero, ci troviamo quasi nella mente di Don Saverio, siamo vicino al
protagonista dal punto di vista cognitivo. Inizia così un altro transfer della paura, che è contagiosa:
Fana, sentendo il marito spaventato, si angosciava dal terrore di dormire. Non vedendola dormire
Saverio era contento e riusciva a dormire, finché la moglie però non lo svegliava a sua volta per
paura. È un meccanismo perverso.
Siamo in mezzo alle marionette, che sono dentro la scena, in mezzo ai due coniugi e si trasmettono
come gli uomini la paura.
Cava il brando: sotto interpretazione sessuale corredata dal fatto che la prima versione era più
lunga ed evidente.
La paura ha attanagliato i personaggi a tal punto che la loro storia si è fermata: lui non lavora più, lei
non fa più niente. Sono uno lo specchio dell’altro.
Alla fine Fana muore mentre è sveglia.
La paura è il motore della vicenda perché si trasferisce: c’è uno spazio della paura che è condiviso. A
differenza di Irene che teneva la paura dentro sé e si sforzava per non far trasparire il suo stato,
Pirandello espone a tal punto la paura da trasferirla agli oggetti intorno, in particolare alle
marionette, e mostra il progressivo montare della paura come fenomeno esterno, mettendo dentro
il lettore.
Un elemento fondamentale è l’attesa: Fana è in attesa che qualcosa le possa mancare, c’è una
connessione molto stretta con la paura.
Rebecca Bazzano

Carattere proliferativo della paura: è una manifestazione di senso che tende a espandersi,
contagiare.
Dal testo si intuisce anche il rapporto della paura con la temporalità; nella novella non sembra
particolarmente importante, però in Pirandello è uno studio importante attraverso i tempi verbali.
Pirandello sperimenta l’alternanza dei tempi verbali e delle loro capacità espressive.
La paura, Pirandello
In questa novella i parametri di lettura sono diversi rispetto alla precedente. È una novella nata
contestualmente a una pièce teatrale, a uno dei primi drammi di Pirandello, l’Epilogo (1892). È uno
dei rari casi in cui da un dramma Pirandello ricava una novella, di solito è il contrario. Non abbiamo
grandi testimonianze manoscritte e materiale filologico; per questo è in dubbio il momento in cui
venne scritta. Corrisponde a un’intera scena, molto lunga, dell’Epilogo che ha però un finale tetro
(omicidio della moglie da parte del marito) che stona con la profondità della struttura della novella.
La paura è protagonista assoluta; è una novella importante per la riflessione sul rapporto tra paura e
tempo. L’inizio è tipico pirandelliano, è un punto di vista laterale con un’omissione di soggetto.
Sembra il continuo di un racconto già iniziato: si ritrasse dalla finestra con un atto e un’esclamazione
di sorpresa.
Ci troviamo in uno spazio chiuso con due porte: quella principale e una soglia secondaria nascosta da
una tenda, quasi clandestina. Si tratta di uno spazio scenico che potremmo trovare molto facilmente
in un teatro -> c’è una forte connessione. È un cronotropo: invenzione di Michael Martin è
un’interazione tra spazio e tempo. Lo spazio, qui, è molto chiaro, sembra essere più importante
perfino dei soggetti al suo interno; all’interno di questo però agisce il tempo.
I protagonisti sono uniti da un rapporto amoroso furtivo.
Nel dialogo tra i due amanti abbiamo molte risposte: il marito di lei è anche amico dell’amante; il
rapporto furtivo non è neanche idilliaco - lei parla dolcemente mentre lui la guarda odiosamente
negli occhi. Questa differenza assomiglia a quella dei due coniugi Saverio e Fana con la differenza
però che qui ci porta a delineare i caratteri dei due: in questa novella, la parte femminile è quella
dalla quale ci sentiamo più rappresentati. Lillina ha meno difetti; il suo amante Antonio Serra è un
uomo fisicamente molto forte, apparentemente capace di affrontare la vita ma dentro di sè molto
meschino, pervaso da una certa paura di essere scoperto.
La paura è come fosse uno spazio chiuso ma vulnerabile; la principale vittima di questa vulnerabilità
è Lillina, che cercherà però di resistere. Il suo amante ne sarà completamente sopraffatto.
La paura fa alterare i tempi e i modi dei dialoghi: Pirandello scommette sulla capacità del dialogo
teatrale.
Attraverso i puntini di sospensione l’azione si trasferisce, abbiamo una seconda inquadratura.
Antonio ha una voce arida e cupa, è sempre descritto in modo negativo: sembra una voce seccata,
senza più flusso vitale. La paura è legata spesso alla mancanza di sangue, anima: essere pallidi è una
sottrazione, una mancanza di sangue.
Lillina comprende la situazione, Antonio trasforma il suo stato di paura in violenza verbale, innesca
lui stesso il meccanismo della paura nell’amante. Anche in questo caso la paura nasce da una
situazione assolutamente banale.
Abbiamo altri esempi di discorso indiretto libero: non doveva tornare quel giorno il padrone? è il
dubbio della serva che entra nella stanza.
Il fattore tempo è fondamentale: è un tempo di sospensione, attesa, in cui si guarda continuamente
l’orologio. La linearità del tempo è alterata.
Rebecca Bazzano

Alla sospensione nei riguardi del futuro si aggiunge quella verso il passato: Antonio cerca di
interpretare il passato per cercare indizi, per scoprire se Andrea, il suo amico, li avesse scoperti.
Questa sospensione del tempo, però, non porta fuori dal tempo: i due protagonisti hanno perso il
senso del tempo, non riescono a dominarne la percezione perché sono prigionieri di un passato che
non riescono a interpretare e un futuro che non possono conoscere. Qui entra in azione il
cronotropo: è un tempo chiuso, che rende prigionieri, in uno spazio chiuso che rende prigionieri, con
due aperture - quella della famiglia borghese, normale, usata dal marito e dai figli e la porta
nascosta, che rende lo spazio vulnerabile. Spazio e tempo sono sullo stesso piano di percezione e li
facciamo agire insieme.
L’ambiente deve poter interagire con la forma temporale sulla quale Pirandello vuole agire.
-> attraverso il dialogo la paura tende a salire, crescere, come la curva di un diagramma. Non è un
caso che il dialogo sia la struttura più adatta a far crescere la tensione: il climax maggiore della
manifestazione della paura si ha durante un dialogo anche in La Paura del Sonno. I due personaggi
non sono equivalenti, leggono il mondo in modo diverso ma l’uno funziona con l’altro come un
amplificatore. I due personaggi entrano in vibrazione reciproca grazie alla paura che diventa una
forma di interazione. Insieme a questo crescendo c’è sempre il rapporto con il tempo, angoscia per il
futuro e per il passato, e la differenza tra i personaggi: lui, personaggio ben saldo, tende a incolpare
lei e tende a sottrarsi mentre lei cerca di capire, ha voglia di sapere.
-> Il Serra, Antonio, è definito erculeo, nella sua grossezza (non grandezza, grossolanità): il narratore
fa comprendere da che parte sta.
La paura del passato del Serra si affanna ad interpretare i gesti di Andrea di qualche giorno prima: il
protagonista diventa narratore, ma attanagliato dalla paura rende una narrazione confusa,
inaffidabile, volutamente erratica; è uno sguardo pieno di dubbi. Pirandello, qui, ha avuto l’intuizione
di qualcosa che nella storia della paura è un elemento fondamentale: Antonio Serra è lo specchio, la
rappresentazione più genuina di un intero modo di interrogarsi sulla paura e su come questa agisce
su di noi (da questo forse il titolo).
La paura è un senso di interpretazione della realtà che tende a crescere soprattutto grazie
all’interazione (lo stesso avviene per Irene) e al rapporto con il tempo e con lo spazio, sempre
chiuso. La paura è una componente della nostra psiche che con Pirandello diventa un elemento
narrativo.
Storicamente il termine angst è stato il primo a mettere in crisi la psicoanalisi di Freud; due
psicoanalisti in particolare hanno elaborato una teoria dell’angoscia prima approvata e poi
contestata da Freud stesso. La paura è il primo elemento nell’orizzonte della psicoanalisi che causa
una rottura.
->la traduzione inglese di Freud ha scelto dei termini in modo che la percezione di Freud rimanesse
confinata al campo medico: un caso clamoroso è il termine zeele, cioè anima, soul. Freud usava zeele
per quello che in inglese è diventato mind - che ha condizionato poi l’italiano, con mente. l’opera di
Freud viene così medicalizzata.
“Il trauma della nascita”: l’autore mostra perché paura e ansia non sono sinonimi.
Per l’autore l’ansia, anxiety angst, non è semplicemente la conseguenza di un trauma fisico -il
bambino deve acquisire il respiro, ha angoscia a causa della restrinzione - è un’entità psichica che si
può provare e registrare nel corpo per tutta la vita in quanto trauma di passaggio - dal grembo al
mondo esterno. Nella definizione di Rank l’angoscia è un qualcosa che il bambino si porta dietro nel
passaggio dal grembo al mondo. A seconda della sua violenza, maggiore o minore, porta un carico di
angoscia maggiore o minore che ci portiamo dietro tutta la vita. Questa esperienza è il primo
Rebecca Bazzano

contenuto della percezione, il primo atto psichico per poter mettere su delle barriere: attraversiamo
una soglia che è il primo contenuto psichico di quando siamo bambini. l’ansia subentra proprio
quando nasciamo. Contenuto psichico significa anche tentativo di difesa: ciò che proviamo si
accompagna a tentativi di mettere delle barriere, di difenderci. Venire al mondo è una violenza che
subiamo e scatena in noi la capacità di tirare su delle difese, la paura, attraverso la quale ci
impediamo di ritornare indietro, nel grembo materno, e uscire dal mondo, quindi morire. La paura ci
permette di rievocare il dolore della nascita in modo che il nostro istinto non ci riporti nel mondo di
fuori- grembo materno. La paura mette i primi muri con l’oltre mondo -> grembo materno; la paura
è una soglia da noi creata per difenderci dal contatto con la morte - non si vuole riattraversare il
trauma della nascita.
L’ansia invece è il persistere della paura.
Perché si prova paura quando l’oggetto della paura non è presente o il pericolo è già passato o non
c’è alcun indizio di pericolo? è l’ansia, il sentirsi stretto (radice di angst), la paura nel tempo.
-> primo stadio della nevrosi

Fobia= angoscia trasferita su un oggetto con il quale agisco patologicamente. La paura è trasmissibile
e si autoriproduce, amplificandosi.
La paura è sulla soglia del desiderio: paura di essere stati scoperto ma anche desiderio di essere
rassicurati dalla persona che abbiamo di fronte. Pirandello mostra i confini.
Ogni accenno indeterminato diventa una prova, ogni fatto apparentemente collegato diventa prova.
Rank definisce una paura psicofisica: come il corpo registra le reazioni dell’inconscio e le trasforma in
atti fisici.
La paura è anche al confine dell’aggressività: chi ha paura diventa aggressivo, con Antonio. Lei invece
è nauseata, sta distanziandosi da lui.
-> Pirandello è precisissimo nella fisiognomica e prossemica dei personaggi
Improvvisamente lei riesce ad andare verso il passato con un filo logico e tira fuori le cause vere del
suo tradimento: la loro fuga, non accettata dalla famiglia di lui e compensata dal suo lavoro.
Lui ha una prospettiva unidirezionale: ha solo paura di essere scoperto. Lei sembra “l’isterica”, ma in
realtà ha capito tutto quello che ha causato il suo distacco dal marito e che Antonio, qualificato da
suo amante, ha approfittato della sua debolezza. Lillina ha trasformato la sua paura in un piano di
ragionamento, lui invece ne è solo vittima.
I personaggi di Pirandello sono inadatti alla società in cui vivono: qui abbiamo una coppia clandestina
in un orizzonte borghese che non fa che restringersi (Lillina deve essere mantenuta dal marito per
mantenere la classe della famiglia, l’amante è disinteressato ai figli di Lillina).
Rank crede che la paura sia fatta da due componenti: l’angoscia primaria dell’essere nati e la
conversione, cioè la trasformazione di una paura interna, primaria dell’inconscio, in qualcosa che
sostituisca quella primaria inaffrontabile. l’idea di ripassare la soglia di angoscia della nascita è
intollerabile e quindi troviamo delle mezze misure, una ritirata dai confini dell’angoscia durante la
quale l’io è spinto in avanti, stimolato a cercare il paradiso in terra (immagini della madre). Ogni
volta che la ricerca dell’io fallisce, cerca allora in una volontà di sublime qualche compensazione.
L’angoscia è la barriera che ci impedisce di tornare nel ventre il contatto con questa angoscia
provoca nell’uomo il desiderio di tornare in quella situa paradisiaca; ma siccome è una ricerca
destinata a fallire abbiamo meccanismi di compensazione per cui uno diventa artista, filosofo
pittore. È un artista chi ha elaborato la paura primaria. È un percorso concluso da Rank in “L’artista”.
Freud legge il trauma della nascita di Rank e scrive un saggio “Inibizione, Sintomo e Angoscia”
Rebecca Bazzano

definendo in modo psicoanalitico la paura. Sono gli anni in cui scrivono Pirandello e Di Roberto.
Freud si accorge che coloro che provano angoscia, angst, provano spesso inibizioni; il fatto che
l’angoscia sia una barriera è perciò condiviso, serve a non precipitare in qualche abisso più o meno
conosciuto.
Il piccolo Hans aveva paura dei cavalli e per questo non usciva più di casa; Freud lo sottopone ad
analisi e ricava il suo paradigma infantile: secondo Freud questo piccolo Hans è il tipico caso di
bambino che, per amore della madre, ha una pulsione a uccidere il padre. Questa pulsione è stata
sostituita con un’auto-inibizione verso un oggetto esterno, cioè i cavalli. Freud comprende che Hans
associa il cavallo alla morte del padre, al fatto che una volta il padre ha rischiato di cadere da cavallo.
Per impedire a sè stesso di uccidere il padre Hans sviluppa questa fobia - poi nevrosi.
È il caso di una pulsione nei confronti di un pericolo interno ma c’è anche una proiezione sull’esterno
- come le marionette di Don Saverio. Parliamo di proiezione.
Il bambino è per Freud un repertorio di proiezioni: Jacques Laquan diceva che il meccanismo di
creare metafore è fondamentale nel bambino e spesso siamo noi ad impedirglielo con il nostro
linguaggio. Crescendo inibiamo l’ampiezza delle nostre metafore.
L’angoscia è in primo luogo qualcosa che si sente, è meno appariscente di altri stati d’animo
spiacevoli (tensione, dolore e lutto); è simile a quella di Irene, compressa all’interno. nell’angoscia
avvertiamo poi determinate sensazioni corporee che si riferiscono a organi ben precisi: cuore, organi
respiratori, capacità motorie. Lutto, tensione e dolore sono riproduzioni di cose più antiche.
l’’angoscia alo stesso modo è il risultato di qualcosa successo prima, ma noi non siamo in grado di
individuarne la fonte.
Freud confuta Rank, sulla nascita dell’angoscia.
Secondo Freud c’è un motivo biologico innanzitutto: non siamo tutti mammiferi quindi non è il
processo della nascita l’inizio dell’angoscia; inoltre il bambino non è in grado di elaborare il materiale
psichico per cui le sensazioni che prova sono puramente psichiche. Il bambino è un grumo che tende
a sopravvivere senza essere cosciente del dolore che prova, per Freud. Dobbiamo capire perché
esistono personaggi come Lillina, che domina l’angoscia e la trasforma in consapevolezza, e come
Antonio Serra che non elabora l’angoscia e non ne esce.
L’angoscia per Freud ha tre fattori che agiscono insieme:
 biologico: viviamo in mezzo ai pericoli, quindi biologicamente siamo portati a reagire a
pericolo. Inoltre il bambino piccolo, rendendosi conto man a mano dei pericoli e di essere
troppo piccolo, si angoscia e sente il bisogno di essere amato (perché non riesce a dominare
il mondo)
 filogenetico: filogenesi significa che ci sono certe condizioni socio-culturali che portano
l’affetto del singolo a diventare una percezione di massa, condivisa con gli altri. l’angoscia
tende a conformarsi a seconda della società nella quale siamo inseriti. Siamo all’inizio di
quello che Freud nel ‘27 chiamerà “il disagio della società”, pagine finali della Coscienza di
Zeno. Zeno proietta su altro le sue nevrosi (matrimonio, sigaretta, fumo) e finisce con la
consapevolezza che in fondo siamo tutti malati, una consapevolezza filogenetica.
 psicologico: c’è una battaglia tra la nostra percezione interna e ciò che ci connette con il
mondo esterno che porta al meccanismo di proiezione.
Freud arriva a una conclusione interessante: l’angoscia ha un’innegabile connessione con l’attesa (è
angoscia prima di e dinanzi a qualcosa). Freud non considera l’angoscia una semplice reazione
biologica ma è una costruzione di attesa: costruiamo il pericolo nel tempo, forse nel tentativo di
anticiparlo, circoscriverlo.
Rebecca Bazzano

->L’insonne: occhi incavati ma per qualche motivo capiamo che sta guardando verso di noi: noi
siamo il pericolo, come nell’Urlo, come nella novella di Pirandello (siamo tra le marionette). Il
pericolo coinvolge il lettore. Inoltre, è curvo: protegge se stesso da qualcosa, si curva per vedere un
punto preciso - da dove potrebbe venire qualcosa. l’attesa dell’insonne è diretta verso l’osservatore.
È una rappresentazione dell’attesa collegata a quella della paura: non sappiamo se sta provando
paura, ma si trova nell’imminenza dell’attesa.
->frontalità della paura: paura di ciò che sta di fronte (Urlo di Munch)
-> l’insonne : paura dell’attesa
Federico De Roberto, La Paura
-> premessa: Erwartung, Arnold Schonberg. È un dramma musicale, un organico orchestrale molto
ridotto (piccola orchestra). È un capolavoro del dramma espressionista - movimento di idee che ha
invaso l’Europa nel primo decennio del Novecento. I rapporti con il mondo e con le persone sfociano
in questo movimento (Vienna, Praga, Monaco, Nord Italia).
Erwartung vuol dire attesa e in effetti si racconta l’attesa di una donna sola in mezzo a un bosco. Si è
persa in questo bosco che era originariamente il luogo in cui si incontrava con il suo amante - nel
bosco troverà il suo cadavere al quale intonerà un’elegia finale, come se lo dovesse accarezzare,
accompagnare nel suo ultimo viaggio. La voce del soprano è impaurita e ci sono caratterizzazioni che
la avvicinano al parlato, anzi “gridato”. Per la prima volta abbiamo a che fare con la voce della paura.
La prima cosa che connette la paura all’attesa è il ricordo del passato. In questo dramma il presente
è un buco nero nel quale non ci si orienta più: siamo tra una rievocazione del passato e un futuro
ignoto, il presente quasi non esiste più. Di per sé, infatti, non succede nulla nella rappresentazione
(se non la scoperta del cadavere, che resta però soltanto qualcosa che ha davanti - Urlo di Munch).
La resa è quella di un sentimento legato al primordiale - ci si avvicina così alla teoria di Rank, paura
che nasce alla nascita, collegata al nostro essere prima della nascita.
-> paura come discontinuità temporale, come frammentazione del tempo
De Roberto
È uno scrittore solitamente inserito nel Verismo. È uno scrittore molto determinista spietato: il
destino tragico dell’uomo è determinato dalla sua posizione di debolezza nel mondo rispetto alla
grandezza della natura e all’ingiustizia che caratterizza la società, suddivisa in caste - il passaggio
dall’una all’altra provoca fratture irrimediabili. De Roberto fotografa una situazione sociale,
culturale, politica che rivela la sua precarietà.
-> Autore de I Vicere, che ha avuto successo soprattutto a Catania, dove è ambientato. De Roberto
però a parte fama locale passò piuttosto inosservato (questo causò depressione). Con la Prima
Guerra Mondiale, vista in anticipo dagli espressionisti, tutta la società affronta una discontinuità
temporale: tutto cambia e l’essere umano si incontra debole rispetto a tutto ciò che ha creato. De
Roberto scrive anche racconti di guerra.
-> Clemente Rebora: O ferito laggiù nel valloncello, poesia di espressionismo puro. Immagini
violente, crude, tempo che s dilata e restringe - agonia. “nella demenza che non sa impazzire”: la
paura condiziona la nostra mente ma rimane latente a distruggere il nostro rapporto con la realtà. La
guerra ha sconvolto la percezione di tempo e spazio. -> spazio bianco: momento nel quale lui
registra il passaggio del soldato in un’altra dimensione, fotografa la sua morte lasciando uno spazio
bianco e la morte è una liberazione.
Il racconto di De Roberto inizia con lo spazio di guerra: la porta dell’Inferno. Sono nomi inventati che,
però, assomigliano alle zone di Trento, Vicenza. Non è uno scenario rintracciabile nella cartina
Rebecca Bazzano

geografica ma mostra come suona lo scenario di guerra a un lettore del 1924. È uno stile nominale,
senza verbo: non è narrazione, è rappresentazione spaziale pura.
L’inizio della narrazione è netto.
De Roberto sembra voler lasciare il lettore da solo con sé stesso nello scenario; utilizza il plurale per
cui sembra solidarizzare con i soldati. Lo scenario, nudo e frontale, non ha protagonisti: c’è solo una
natura martorizzata dall’uomo. l’atmosfera, inoltre, crea attesa: è la quiete prima della tempesta,
una quiete irreale, una calma minacciosa, un momento di rincorsa in cui tutto sembra fermo.
Sappiamo che sta per succedere qualcosa ma non sapendo cos’è e quando e come ne abbiamo
paura. È un’attesa che, potenzialmente, potrebbe prolungarsi infinitamente ma in realtà sappiamo
che non è così. La resa corporea del paesaggio è fondamentale; è un paesaggio frontale che lascia
solo il lettore ma ha una fisicità molto marcata: è un ammasso corporeo minaccioso perché orrido,
sproporzionato, scomodo da attraversare.
La paura, qui, è inevitabile: è un salto di livello rispetto al sentimento di Lillina e Antonio. È una
situazione di impotenza individuale che diventa poi collettiva: nell’orrore della guerra l’orrore della
natura, è uno spazio stratificato, totalmente inesplorato, ineluttabile e che ci lascia incapaci di agire.
Il paesaggio può anche essere prefigurazione dei soldati: lo svolgimento del racconto sarà il
compimento di questo spazio. È un paesaggio oltre mondano, oltre la nostra capacità riduttiva.
Abbiamo la paura della guerra in senso cosmico: la natura ci è ostile senza possibilità di dialogo o
compromesso. De Roberto era molto amante di Leopardi e Flaubert (Riconoscibile nei dettagli
trasposti in chiave corporale: il fatto che la natura sia corpo non ci sottrae ai suoi dettagli. Non è più
naturalismo, è un’attenzione ai dettagli che diventa qualcos’altro).

Il paesaggio, presentato in maniera nuda, richiama l’atmosfera romantica ma la trasforma, è molto


dettagliato ma in modo metaforico. È come se De Roberto avesse preso ciò che aveva a disposizione
dalla narrativa dell’Ottocento e li avesse sfigurati. È una violenza fatta all’idea del sublime, che è
come ferita.
È una calma apparentemente permanente in cui le due schiere potrebbero quasi parlare (anche
Ungaretti raccontava di questi dialoghi). L’attesa è snervante.
Compare un personaggio centrale, il tenente Alfani, l’unico personaggio caratterizzato del racconto.
-> stagnazione temporale
La calma minacciosa, diventata tedio, percorso all’indietro (pensa a situazioni di guerra già vissute) è
interrotta dagli spari (o da inganni del senso?). Dall’assenza di punto di vista adesso abbiamo un
personaggio che percepisce. Il tenente Alfani ci fa da voce e punto di vista insieme.
Il racconto diventa poi un piccolo esercizio di stile sui vari dialetti italiani: ogni soldato parla la
propria lingua - De Roberto non rinuncia alla sua eredità naturalista, resta consapevole degli
strumenti che sta usando.
Il racconto si sfalda: abbiamo voci ignote caratterizzate da un’identità dialettale.
Il primo soldato che va in perlustrazione è l’unico descritto, Caletti, che ha un piccolo ritratto fisico e
caratteriale: emerge la sua voce, il suo viso e diventa un vero e proprio personaggio nel momento in
cui viene ucciso dal fuoco nemico. È un gesto di crudeltà da parte del narratore.
Il Caletti sembrava umano, il povero Maramotti è caratterizzato da dettagli microscopici: tende a
essere un fantasma, è sfigurato dalla rappresentazione, ha perso la sua umanità complessiva ed è
solo un insieme di dettagli che non si conciliano tra loro.
Lo spazio è ritratto da De Roberto come un corpo e noi lo guardiamo frontalmente - senza punto di
vista esterno. Questo è l’eredità di Leopardi: piccolezza umana rispetto all’orrido.
Rebecca Bazzano

Il tempo è stagnante. Le cose succedono in una serie che quasi si ripete.


Questi scompensi spazio- temporali sono sofferti dal tenente Alfani, quello che passa più
rapidamente dalla monotonia della vita di trincea alla paura di fronte al pericolo.
È una novella che psicologicamente ci riporta a Freud: paura come risposta al pericolo e come
richiamo ai traumi subiti - in questo caso il trauma è generale, subito da tutti, materiale, è un
pericolo di fatto.
De Roberto usa una sintassi molto ordinata, chiara, consequenziale: ordina il tempo mostrando che
la paura è anche un disordine della percezione temporale. (Attesa= dilatazione del tempo di fronte a
una contrazione degli affetti, un trauma istantaneo).
-> altra similitudine con Pirandello: effetto della paura sulla voce. Pirandello gioca molto sull’aspetto
gestuale; in De Roberto c’è una sottolineatura del fatto che la voce diventa acre - non è solo rabbia o
senso di impotenza: è la paura che agisce direttamente sulla gola.
-> necessità strategica di vedere cosa sta succedendo
È una novella che de Roberto aveva scritto su commissione di un amico, Renato Simoni, per la rivista
La Lettura - doveva realizzare un ciclo di novelle di guerra. Questa novella fu complicata perché
causa amarezza, un effetto poco rassicurante nel lettore.
Un aspetto particolare di questa angoscia che ci lascia è l’idea della polemica antibellicista: i soldati
muoiono perché c’è uno scudo di acciaio che Alfani ha ordinato al comando e che non arriva.
Entra in scena Zocchi che ha un ritratto diverso: ha un passato e delle caratteristiche fisiche che quasi
lo avvicinano a un personaggio Pirandelliano. Tende a fare tutt’uno con gli oggetti che ha indosso. È
un ragazzo qualunque, senza particolari prospettive intellettuali: orecchie grandi e spalmate come
manichi di pignatta -> metafora che caratterizza molto bene il personaggio, funzionale a darci
l’orizzonte del personaggio.
Il soldato ha una storia, caratteristiche personali, non fa come gli altri: torna indietro e pensa alla sua
famiglia
-> dettagli alla Flaubert: inghiotti in modo che il pomo di Adamo gli viaggio per il collo (per farsi
coraggio)
Anche qui la paura si contagia.
-> tentativo di reagire alla paura, evocazione a un certo moto di coraggio - lì dove la paura glielo
toglie- similitudine finale (non neutra o decorativa): la volontà deve irrigidirsi, deve rendersi come
una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello. È una similitudine
moralmente connotata; De Roberto vuole mostrare che il mondo ha una logica e se questa viene
seguita si deve per forza arrivare a un determinato punto - volendo o non.
La rappresentazione della paura è spesso collegata a qualcosa di stagnante: c’è sempre una parte di
silenzio che precede il manifestarsi del pericolo e della paura.
La paura si estende piano piano, ma non è solo paura: è qualcosa di simile all’orrore.
De Roberto ha studiato molto per fare questa novella: c’è una proporzione ben mantenuta tra le
origini dei soldati e i loro dialetti?
C’è un destino determinato e non c’è modo di uscirne; è una situazione di aporia: il lettore si aspetta
che succeda qualcosa, che torni l’ordine, ma in realtà l’ordine è solo il fatto che i soldati debbano
andare a morire uno ad uno. Di fronte a questa cruda verità la paura è un tentativo di reazione, un
segnale di una volontà di sconfessare questa serie di cause determinate.
L’apirétique de la temporalité
L’autore è famoso per tre libri:
* Il primo dedicato al tempo soggettivo, all’idea che la misura del tempo siamo noi stessi
Rebecca Bazzano

* Il secondo è dedicato al tempo cosmico, della natura, che abbiamo intorno a noi
* Il terzo invece è dedicato al tempo raccontato, sintesi dei primi due, tempo che cerca di
sovrascrivere il suo carattere sugli altri due tempi. Raccontando creiamo un universo a parte con un
tempo tutto suo.
Agostini è il grande scopritore del tempo soggettivo prima ancora di Petrarca (anche Dante aveva
una concezione del tempo teologica: il suo viaggio è preordinato. Petrarca invece ha compreso che
la nostra vita è spezzata, il nostro tempo è orizzontale; struttura la sua produzione di poesie volgari
in 366 giorni, con una matematica che funziona ma una struttura illogica - c’è un momento in cui la
vita si spezza con la morte di Laura).
Ci fa immaginare il tempo come qualcosa che ha due estremità :
* Natura, universo e mondo - sinonimi per noi
* Anima, spirito
Riquer sembra dirci che per fare una teoria narrativa sul tempo, per comprendere come funziona si
deve immaginare una cosa con due estremità, due accessi: l’universo naturale e l’anima.
Tutti noi sentiamo cosa è il tempo, ci accorgiamo del suo scorrere ma non riusciamo a spiegarlo,
definirlo. La teoria della temporalità consiste nella difficoltà di tenere le due estremità della catena
(tempo dell’anima e tempo del mondo); per questo si deve ammettere che una teoria psicologica e
cosmologica del tempo si nascondono e implicano reciprocamente
Posso esplorare profondamente il mio senso del tempo ma man a mano che procedo mi accorgo che
queste due estremità si nascondono l’una con l’altra e implicano: questa è l’aporia del tempo.
Raccontare significa superare la difficoltà di tenere entrambe le estremità del tempo. Lo stesso
accade per la paura, situazione durante la quale non dominiamo io sentimento.

In De Roberto il tempo del racconto diventa sempre più fluido, come se scorresse meglio e
percepissimo tutti i gesti nella loro successione esatta. Il punto di vista si è spostato sul cosmo,
esprimendo un senso più totalizzante: perfino la morte viene descritta in modo indiretto.
-> anche Alfani non prova solo paura, pavor (impallidire) ma anche orrore
Etimologia:
* L’orrore è qualcosa che ha a che fare con il tempo cosmico, non soggettivo. Non è solo spaventarsi
ma avere repulsione, raccapriccio. Deriva da horrere, inorridire, il cui segno primitivo è “sentirsi
rizzare i peli” come conseguenza fisica di una sensazione agghiacciante e all’interno del latino si
confronta con hirsutus, cioè irsuto (pieno di peli) e hirtus, cioè irto. Vedi anche ORZO: l’orzo ha le
spighe piene di spine dritte, come peli.
* Terrore, prestito latino da terror, spavento, terrore, tremore provocato dalla paura. Da questa
terrorismo.
La paura di Alfani si manifesta come orrore verso qualcosa di ingiusto, verso un universo che lotta
contro di noi senza una logica, qualcosa contro cui non possiamo ribellarci, che semplicemente ci
investe.

Paradigma narrativo dell’orrore nel 900: cuore di tenebra. Marlow il personaggio principale va a
cercare un ufficiale di origine tedesca in Congo, terra coloniale, parte da Londra, poi va in Africa e
cerca di riportare l’ufficiale in Europa. Marlowe arriva dall’ufficiale e ne viene in qualche modo
affascinato: è un fascino maligno, il personaggio è rappresentante di un male che seduce nel suo
essere estremo. Durante il viaggio di ritorno l’ufficiale muore e sospira queste ultime parole: “the
Rebecca Bazzano

horror, the horror”. Questo è tutto ciò che ha vissuto durante la sua vita: orrori, distruzioni,
sopraffazioni, guerre.
I personaggi che vanno a morire lo fanno in maniera insensata; ad Alfani gli alti comandi
suggeriscono di mandarci più uomini possibili per avere cadaveri che facciano muro. È un’esecuzione
meccanica degli ordini dall’alto, senza logica. È la paura del vuoto di logica; a fianco alla paura di
spersonalizzazione, di diventare niente. De Roberto infatti avanzando con il racconto fa crescere i
dettagli sugli uomini. Da un lato abbiamo il bisogno di umanità (il soldato Morana, l’ultimo
presentato, mostra il manifestarsi dell’amore ore, del vuoto, la paura di mostrarsi privi di identità -
da lui ci si aspetterebbe il gesto eroico e invece si ritira denunciando la logica della guerra).
Vuoto, orrore, assenza di logica: presente in Cuore di Tenebra.
Tenta di riportare verso l’Europa un personaggio molto oscuro, Curto, diventato in Africa trafficante
di avorio, un santone, personaggio venerato ma quasi ucciso per ribellione delle tribù che ha
soggiogato.
Si parla di paesaggi isolati, oscuri, fatti di foreste, boschi.
Kurtz morirà nel viaggio di ritorno e con lui resterà il mistero della vita, l’orrore che ha dentro di sé,
che non riesce a portare totalmente fuori.
“Non avevo mai visto qualcosa che superasse le caratteristiche del suo volto e spero di non vedere
mai più una rappresentazione del suo volto come quella che ho visto. Non ero emotivamente
toccato da questa cosa, ne ero affascinato, era come se un velo fosse stato strappato e io vidi, in
quella faccia d’avorio, l’espressione di un malinconico orgoglio, di un potere spietato. Viveva la sua
vita a ritroso, in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa; piangeva in una specie di sussurro
davanti a un’immagine, una specie di visione e gridò due volte sospirando “the horror, the horror””.
-> ambivalenza tra potere, violenza e l’emergere di un qualcosa di pauroso, vile.
L’orrore è il marchio definitivo sulla vita di Kurts.
La morte è descritta indirettamente (ricorda Mastro Don Gesualdo, preso in giro da un cameriere).
È importante ricordarlo per l’eredità che ha lasciato nella letteratura successiva: molte narratorie
dell’Africa.
gli uomini vuoti, 1925
Si parla di uomini vuoti, come se i burattini di Pirandello cominciassero a parlare.
È un inno di compianto nei confronti del vuoto in cui siamo tutti: shape without form, forma senza
forma; ombra senza colore, gesto senza movimento. Sono gli ignavi, uomini che non lasceranno
traccia, ma sono un po’ tutti noi in questo grande paesaggio senza senso, senza logica. Le voci nel
canto del vento sono più distanti, più solenni di una stella che svanisce.
Elliot inserisce cose che apparentemente non c’entrano niente - come la filastrocca al centro- per
dare l’idea della realtà che gira a vuoto. Gli uomini vuoto sono figli di Cuore di Tenebra, continuano il
tema centrale dell’orrore visto negli occhi di Kurtz alla sua morte. Introducono anche, un po’ per
differenza un po’ per analogia, a diverse altre rappresentazioni della paura.
L’orrore, così come appare al narratore, all’individuo, legato a una manifestazione della natura, un
vuoto di logica, insensatezza, è qualcosa che può dare un senso di repulsione, lontananza. Un
esempio di questo nella letteratura è paradigmatico: le metamorfosi di Kafka.
Qui, con gli occhi di Waine nella retorica della narrativa racconta gli effetti della narrazione sul
lettore, come se la narrazione dovesse appartenere a un effetto retorico. Parla della narrazione
impersonale, impersonal narration, quella di De Roberto. A prima vista sembra un metodo che un
narratore ha per distanziare ciò di cui parla: non dà giudizi, implicazioni e porta il lettore a giudicare
lui stesso ciò che legge.
Rebecca Bazzano

Secondo l’autore, con una narrazione impersonale, il lettore finisce per creare empatia con i
personaggi.
Fa l’esempio di Gregor nelle metamorfosi: è un insetto, uno scarafaggio (il termine tedesco implica
un insetto repulsivo), è ciò di più lontano dell’umanità, ha capacità però tanto forti da cancellare in
noi la repulsione. La nostra simpatia è interamente con lui, si crea empatia con il personaggio. “Si
svegliò una mattina da sogni terribili e si trovò trasformato in un orrendo insetto”.
Siamo catturati in questa scena, così come Gregor stesso è prigioniero nel corpo di un animale
repulsivo; non c’è alcun metodo narrativo che possa trasmettere tanta intensità di repulsione fisica
condividendo al contempo la strana situazione che il personaggio sta vivendo. L’insetto resta orribile
ma trasporta noi in una situazione simile a quella del personaggio. C’è una forte connessione tra
repulsione e relazione benevola con il personaggio - soprattutto quando questo entra in contatto con
la famiglia, che vuole eliminarlo, toglierlo di mezzo (questo crea per noi ancora più empatia).
Simpatizzammo con lui perché lui è vittima di un ordine borghese, una costruzione sociale che esige
puntualità, poca privacy, decoro: essere un insetto lo tira fuori da una situazione scomoda e l’odio
nei suoi confronti ce lo rende simpatico.
Il mancato filtro del narratore ci mette davanti a una situazione paradossale di per se: l’orrore per il
tremendo scarafaggio si affianca alla simpatia per lui.
L’orrore può essere assoluto come nel caso di Kurtz, la cosa più repulsiva come per Gregor, eppure la
situazione può lo stesso diventare produttiva: non ci pone davanti al vuoto assoluto, l’orrore non è
più svuotamento totale, è riempimento di vuoto.
Maurice Ravel, L’Enfant et les sortileges
Ci fa tornare alla paura come situazione infantile; la paura nasce dall’inizio e verso la fine tornano i
fantasmi iniziali. Il tempo della paura è duplice, va verso il futuro e torna poi verso il passato, è
collegato all’attesa e richiama qualcosa che è già successo.
La narrazione in sé assomiglia alla paura (tempo cronologico e cosmico). Ravel parla di un bambino
pigro, che non vuol fare i compiti; la madre lo rimprovera e gli fa mangiare del pane secco a
colazione, mentre lui vorrebbe mangiarsi tutti i dolci della terra. Il bambino allora si arrabbia
moltissimo e vorrebbe punirla, però gli oggetti attorno al bambino, nel corso dell’opera, cominciano
a ribellarsi a lui, a spaventarlo: si muovono, parlano, assumono tratti spaventosi. Il bambino capisce
che il suo moto di vendetta nei confronti della madre è sbagliato.
Siamo nella sfera del fantastico, fittizio; tutto ciò che concerne la paura va pensato in rapporto con il
fantastico, favolistico.
-> presente poi l’idea di quiete prima della tempesta: in questa sospensione ci aspettiamo un
qualcosa e proviamo così ansia.
-> permanere quasi ossessivo dell’elemento infantile con il suo portato di immaginazione: anche
Pirandello aveva tratti fiabeschi
Melanie Klein
Riprende una recensione in cui viene raccontato cosa accade nell’opera di Ravel.
Sottolinea la connessione tra l’ansia, la sospensione è il piacere, l’impulso di distruggere. Il mondo in
cui il bambino esprime il piacere di distruggere richiama le aggressioni contro il corpo materno e il
pene del padre contenuto (tema Freudiano) - orologio come simbolo.
Freud ipotizza che si verifichino delle trasposizioni: da un pericolo interiore ne creo uno esteriore
Si porta su un piano di leggibilità un mondo illeggibile.
Rebecca Bazzano

“Il mondo finirà con un piagnucolio”: l’orizzonte della paura va spegnendosi va verso il vuoto, senza
significato. C’è però una parte della rappresentazione della paura che è invece produzione di
immagini, significati.
C’è bisogno di riportare alla luce, operazione simile a quella della creazione letteraria: scrivere è
riportare alla luce cose che stanno allo scuro.
Provare paura è un meccanismo per uscire da quella situazione. Freud pensa che la situazione di
pericolo consista nella perdita, mancanza della persona amata-> tipo quando la mamma si allontana.
Il bambino che comprende qual è la direzione in cui deve guardare per sentirsi sicuro (madre),
quando questa situazione allontana il bimbo si sente perduto.
La paura è permanenza infantile nell’adulto scenario fantastico, onirico, sospeso nel tempo e nello
spazio. È un’altra forma dell’orrore, quasi speculare. È la paura in senso produttivo, positivo
Paura - modo di preservare l’infanzia dentro di noi

Secondo Calvino i personaggi sono rapporti di forza all’interno dell’economia del racconto. Ogni
racconto è bilanciamento di economia, un investimento.
Nel parlare dei personaggi non si può soffermarci solo sulla linea biografica ma anche sui rapporti
con gli altri.
Spersonalizzazione legata alla paura del vuoto, paura di diventare gli uomini vuoto di Elliot - non
esplosione ma piagnucolio. È la situazione degli ignavi di Dante.
The Horror di Kurtz ha due facce: l’orrore fisico che ha vissuto, gli stermini, le torture, tutto ciò che
ha passato in questo posto oscuro; il secondo horror è quello del vuoto che ha davanti.
[finale: quando Kurtz muore Marlow prende una scatola di lettere scritte da Kurtz destinate alla
fidanzata, va da lei a Londra e le racconta una menzogna: le dice che nel momento della morte ha
ricordato che lei esisteva ]
La paura è anche capace di creare racconto; è una soglia attraverso la quale noi passiamo di la e
cerchiamo di creare, di riempire il vuoto. È una soglia quasi necessaria da attraversare, per non
cedere al vuoto.
Siamo nella dimensione del pieno: tentativo disperato di riempire un vuoto- che significa
aggressività, immagini caotiche (bambino nella canzone) - è un fiabesco ostile.
Il mar delle blatte, Tommaso Landolfi
Appartenente a una famiglia aristocratica, fedele ai Borboni, viveva in un palazzo che nel 1944 verrà
bombardato (dopo la morte della madre quando era molto piccolo). Questi due traumi
caratterizzeranno per sempre la sua personalità. Era un uomo molto schivo, ironico - perfino quando
riceveva riconoscimenti o premi.
Si laureò a Firenze, frequento gli Ermetici (Carlo Bo’ , Traversa).
-> il figlio gli dà dei pensieri MA quella era una giornata di sole malato.
Nei racconti di Landolfi bisogna capire le correlazioni tra ciò che è momentaneo e ciò che è eterno,
tra ciò che è umano è ciò che non lo è. Molto spesso incastra elementi che sembrano non avere una
correlazione l’una con l’altra: prima o poi però viene compresa.
È il suo modo di concepire la struttura della frase: la narrazione. Non è un filo di continuità ma un
continuo ramificarsi.
-> questo è riuscito solo in Kafka in termini spaziali più che temporali (una stanza potrebbe diventare
uno stadio, una prateria).
I tempi di Landolfi sono o molto ristretti o molto dilatati - fa pensare al nostro rapporto con la paura.
Landolfi ci abitua a incongruenze.
Rebecca Bazzano

La presenza del figlio testimonia il fatto che lui è anziano.


Si dilunga sui particolari più truci e poi non spiega gli elementi più strani della storia.

Senso di spiazzamento: la scena cambia in modo repentino e incongruente


Siamo di fronte a una compresenza di tempi: abbiamo il tempo del lettore costretto a soffermarsi su
alcune connotazioni senza riuscire a empatizzare con le emozioni dei personaggi (perché le cose
accadono troppo velocemente).
-> ci sentiamo catapultati, nessuno ci dà abbastanza informazioni: è come se la narrazione fosse
dietro e davanti a noi, noi frontalmente. Accadono cose che nessuno ci aveva detto. È un inizio di
narrare legato anche a come si presentano gli oggetti: per esempio dice “la nave” come se l’avesse
già nominata. È una narrazione anaforica (da anafora: ripetizione di alcuni termini, un parallelismo
che ci fa soffermare su alcune cose). Calo di informazione e crescita di tensione sono proporzionali.
Nessuno dei due personaggi sembra essere semanticamente in relazione con la nave.
Lo spazio di mediazione nel quale o personaggi agiscono è uno spazio di orrore in senso fisico: per
tutto il racconto avremo l’incubo della nave che sta per solcate in mare fatto completamente di
scarafaggi. Questa sottolineatura passa poi a un piano psicologico.
Il perturbante, Freud
Freud nel 1919 racconta il passaggio repentino dal quotidiano all’esperienza dell’orrore.
Rapporto dell’angoscia come contesto: Freud smette di fare lo psicoanalista con il camice e comincia
a fare una riflessione legata alla filosofia.
C’è uno spaventoso nel familiare: una paura che risale
Freud passa poi a definire le caratteristiche esterne che possono indurre nell’essere umano un senso
di perturbamento. La traduzione italiana -perturbamento- non è corretta: con il termine Hinheinlich
in tedesco si intende qualcosa di strano, sinistro.
La fonte di angoscia è il coesistere in ciò che è straniero qualcosa di familiare. Il perturbamento,
l’angoscia derivano dal fatto che in qualsiasi fenomeno riconosciamo qualcosa di familiare.

-> Landolfi: parametri di gestione del tempo asimmetrici, non lineari; oggetti illogici
Landolfi trasporta il lettore da un mondo all’altro senza stabilire soglie logiche, di racconti, di
gestione dell’economia della storia (Kafka è modello).
In Landolfi però il senso di empatia presente in Kafka è ramificato; c’è qualcosa che avvicina il
racconto a un “teatrino”.
Non è un caso il fatto che molti dei racconti che leggiamo hanno a che fare con le marionette, con i
teatrini, oggetti inanimati con forma inorganica che ci inducono un senso di inquietudine.
Nella raccolta di racconti in cui viene pubblicata per la prima volta Il Mar Delle Blatte, abbiamo la
sezione chiamata Teatrino. È quindi forse una vera e propria scelta poetica: si costruisce un racconto
come fosse un teatrino -> ricorda Pirandello, marionette e scene teatrali strutturate in dialoghi.
I personaggi sembrano animati da qualcosa che sta sopra di loro, non sembrano avere profondità
psicologica, possono trasformarsi piano piano.
Il Teatrino è lo spazio-tempo di questo racconto. Ciò che ci lascia sorpresi di Landolfi è il fatto che,
non solo ci continua a spostare in modo brusco, ma anche che non voglia dare una consistenza
umana ai suoi personaggi - che diventano pupazzi.
Le cose sarebbero in contraddizione senza Freud, che ci offre la giusta terminologia per
l’interpretazione.
Rebecca Bazzano

Freud spiega anche come funziona il racconto perturbante: sta cercando, in quanto medico, i sintomi
di questo senso di perturbamento.
-> oggetto inanimato che risulta a noi animato.
L’angoscia è un sentimento primario, Rank sostiene essere la soglia del nascere - contenuto psichico,
mentre Freud sostiene si sviluppi al momento del distacco con la madre da piccoli.
Jentsch dice che nelle manifestazioni di forte trauma psichico lo spettatore viene turbato dal fatto
che una persona con un attacco epilettico sia mossa da qualcosa di meccanico, di non consuetò.
Freud invece prende un esempio letterario, Der Zang Mann (l’uomo della sabbia), e lo utilizza come
elemento di partenza per costruire una situazione perturbante: vedere il familiare - non familiare
(es. vedere qualcuno identico a me). Il doppio ci spaventa perché ci riporta nel passato, quando da
piccoli non riusciamo a identificare i confini tra l’Io e il mondo esterno.
-> il doppio ci fa tornare nel panico, indistinto, tutto
Freud poi spiega il secondo fattore con una storia in prima persona.
Freud non mette il contatto con il Perturbante solo sul piano spaziale, ma anche su quello temporale:
parla del ripetersi di una situazione (incontrare due volte una persona che si riteneva incontrata
casualmente, perdersi e trovarsi più volte nella stessa strada).
-> Landolfi vuole farci paura ma anche ridere

Il perturbante che appartiene alla finzione letteraria merita di essere considerato a parte. Freud
intuisce che sia un fenomeno più complesso, vastò. Per costruire una situazione perturbante il poeta
e narratore ha delle carte in più. Il perturbante narrativo ha molto più margine di libertà.

Quando proviamo paura ci sentiamo indifesi come fossimo bambini di pochi mesi.
Questo tornare indietro di una situazione apparentemente familiare provoca paura.
Non é il senso di novità che ci mette paura, ma il ritorno a una pulsione che avevamo da bambini -
che nelle situazione di pericolo ci porta a ricordare qualcosa che avevamo visto. Ciò che conosciamo
già - se ritorna più volte- ci spaventa.
Questo ritornare nel già visto è per noi un’interessante chiave interpretativa: il racconto, l’opera
letteraria in senso generale non è sole novità, ma è un ritorno di certi elementi, che sono ciò che ci
rende più inquieti.
I teorici della poesia lo chiamano parallelismo: la poesia è un gesto che va letto in verticale, in cui si
devono trovare gli elementi che tornano.
Il perturbante è molto dentro la logica del narrativo.
Landolfi:
Siamo nella nave, per ultima arriva un personaggio chiave, Lucrezia - presentata in modo
estremamente grottesco.
È una scena smarginata, irrealistica: non sappiamo chi lei sia, perché faccia quel che sta facendo. La
scena è resa ancora più grottesca dal brusco commento da parte dell’uomo.
Lucrezia è l’oggetto del desiderio del figlio dell’avvocato, diventato capitano dell’avventura piratesca
in cui si è trasformata la scena, si fa chiamare Alto Variago (nome dai fondatori dell’antico stato di
Kiev).
Lucrezia è un personaggio anomalo alla quale Landolfi affiderà le battute più prive di connessione
logica.
È una ragazza seminuda, prigioniera di una ciurma di marinai comandata da un pazzo che vuole
corteggiarla; che deve però combattere con il verme che si trovava nella ferita di Roberto.
Rebecca Bazzano

Tutto il racconto é strutturato con un’incoerenza totale tra il logos espresso nei dialoghi e ciò che
accade.
-> l’avvocato sente su di sé tutto il peso del perturbante che Landolfi sta costruendo, una situazione
complessa che nel suo insieme diventa perturbante.
Viene descritto poi lo spazio della paura: tutto è sproporzionato, nelle dimensioni, nei rapporti, nella
gestione del tempo, nel tono delle risposte (a volte troppo aggressive). Abbiamo perso le proporzioni
architettoniche della realtà.
-> il verme che parla viene condannato a morire e si giustifica, mostra perché dovrebbe essere degno
di Lucrezia.

Siamo tra orrore fisico e desiderio; Landolfi mantiene la logica del teatrino - personaggi clown,
grotteschi, inconsistenti- della fiaba - oggetti inanimati che parlano- e la meta-narrazione, il racconto
mascherato dal racconto.
Gli spazi in Landolfi sono molto ravvicinati, a volte perfino troppo (questo, questa etc.). Inoltre gli
spazi temporali sono da favola: lo spazio risponde a questo senso di paura, terrore che cresce nel
mar delle Blatte. È un orrore polifonico, che racchiude molte altre sensazioni.
E’ una meta-narrazione perché rivela la sua artificiosità, mostra il suo essere racconto. Questo
elemento, però, non distanzia dalla paura. Le conseguenze della paura e il raccontare sono elementi
molto più connessi rispetto a quanto possiamo immaginare. c’è una connessione molto interessante
tra la paura e il racconto.
L’angoscioso, il perturbante ha a che fare con qualcosa dentro di noi: pesca nel familiare per toccare
il pauroso, l’orrendo, il tremendo. Il familiare e il tremendo sono strettissimamente collegati:
all’interno di ciò che viviamo quotidianamente c’è la radice del perturbante.
Adriana Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme
E’ un libro che tende a creare un nuovo termine, orrorismo - diverso da terrorismo, che appunto
deriva dall’idea di tremare. È un tentativo di policitizzazione dell’orrore (il rizzarsi dei peli sull’uomo,
secondo Landolfi).
Adriana comincia con l’etimologia del termine terrore, da terreo e tremo. Il terrore quindi fa
riferimento a una sensazione fisica e implica la fuga.
-> il tempo è una stanza con due entrate
la paura è sconvolgimento dell'ordine, quindi Rivoluzione, non adesione a un programma, a qualcosa
che ci è stato imposto (soldato alla fine del racconto di De Roberto per esempio).
Terrore - dinamico, Orrore - statico
L’orrore possiamo parlarne in termini di significato inscrivendolo nel grande campo semantico della
paura
L’orrore è anche silenzio (ricorda Medusa, che agghiaccia, pietrifica).
La vista è il primo senso con il quale percepiamo l’orrore; non ci sono elementi distintivi: il
movimento di blocca nella totale paralisi e riguarda ciascuno ad uno ad uno. Nell’orrore torniamo ad
essere singoli.
Idea della figura dantesca: i protagonisti di Dante sono elementi di compimento rispetto a un
percorso storico mitologico. La figura compie la totalità della persona: Farinata degli Uberti nel
tornare personaggio rivela la sua identità tanto che Dante lo chiama personaggio. l’essere sfigurato
significa negare questo processo di compimento e ha come risposta proprio l’orrore. l’essere umano
è offeso nella dignità ontologica di essere corpo singolare. L’orrore non è paura della morte, è paura
Rebecca Bazzano

dello smembramento: la morte infatti non offende il corpo - finchè almeno, questo rimane figura.
-> Medusa rappresenta l’inguardabilità della propria morte.
La politicizzazione del terrore tocca l’etimologia dell’orrore per attuare violenza sull’inerme; non è
solo vulnerabilità - possibilità di essere feriti - l’inermità significa essere condannati a una perdita
d’identità.
-> attentati Londra: ricorda l’urlo di Munch
(Urlo) Il personaggio non ha più consistenza corporea. È assorbito nel grande urlo del cielo e della
terra che lo circonda. È frontale, ha dei tratti indefiniti, le mani al volto ed è solo, il suo urlo è
solitario. Nella foto l’unica differenza è che la donna viene soccorsa, non è sola. Rappresenta però la
frontalità dell’orrore, primo istante in cui si paralizza.
L’orrore si incarna in volti femminili: dopo Medusa abbiamo Medea.
l’orrore aumenta quando l’infantilità - non potersi esprimere o difendere - viene portato alla luce:
l’orrore è sempre una violenza nei confronti dell’inerme, dell’infante - anche quando è cresciuto. È
come se fossimo di fronte a noi stessi bambini.
Adriana adotta uno schema simile a quello di Freud: se consciamente pensi qualcosa, ti focalizzi in
qualcosa, il tuo inconscio pensa il contrario. Freud è molto binario: più ci focalizziamo su un concetto
e pensiamo che questo sia il nostro vero agire psichico, più l’inconscio elabora il suo contrario.
-> saggio sulle Parole primordiali: che significavano tutto e il suo contrario e poi si sono differenziate
nel tempo.
L’orrore ha in sè il concetto della cura: è implicata l’idea, la possibilità ontologica della cura, della
sistemazione di questa sfigurazione. La parola figura è sempre dentro la parola figura. Nel
manifestarsi dell’orrore siamo chiamati all’ontologia del corpo umano, ontologicamente siamo
portati a figurare un corpo umano come integro.
Vengono ristabilite le unità delle parti: perfino Medea è legata al rapporto con i figli, anche quando li
uccide “Tu li hai amati, sventurata Medea!”.
L’orrorismo è l’uccisione dell’unicità, un crimine ontologico che va al di là della morte: nelle guerre
contemporanee, nei grandi conflitti contemporanei, nel modo di manifestarsi della realtà l’orrorismo
è la nuova frontiera di eccesso, è il terrore che non si è fermato neanche di fronte alla morte. È un
nuovo modo di organizzare e di percepire la paura. c’è un’analisi che ci porta dall’individuale al
collettivo: l’orrore viene sperimentato individualmente ma c’è una dimensione collettiva che arriva a
manifestarsi oggi.
Il bambino è inerme di fronte alla relazione. Il bambino è il paradigma primario di ogni discorso sulla
vulnerabilità: non può offendere, non ha armi ed è dentro la relazione pura, è il narratore per
eccellenza perché il raccontare è stabilire relazioni. Un personaggio all’interno del racconto è un
nucleo nel quale il racconto si sviluppa. l’orrore è legato al racconto.
La paura genera racconto: forse per metabolizzare dei temi - meccanismi di strutturazione ed
elaborazione. Raccontare significa tirar fuori dall’oblio.
Un esempio di paura che genera il racconto è il Decameron: è il punto finale di una tradizione
novellistica in cui la paura di morire, del moro, dell’essere smembrati e perdere la nostra unicità, ha
generato racconto. Dall’Alto Medioevo al Basso tutta la novellistica deriva dal primo esempio
conosciuto della paura della morte che ha generato racconto: Le Mille e Una Notte.
La paura è ontologicamente legata al raccontare.
Mente e Natura, Bateson
Bateson ipotizza che ci siano delle omologie tra ciò che vediamo manifestazione dei fenomeni
naturali e la nostra mente.
Rebecca Bazzano

Qui parla in particolare di bellezza e dell’idea che questa non solo esista, ma che si possa
manifestare in termini esterni e come modo di pensare.
Un’omologia è un’intuizione di un qualcosa che funzionando in un certo ambito, dovrebbe
funzionare anche in un altro.
Schema- struttura di un’opera d’arte figurativa
Ritmo - struttura della musica
Nella nostra struttura mentale però prevale l’idea dello schema: la musica e la danza sembrano
dover riempire gli spazi vuoti di una griglia già presente. Le strutture per Bateson non sono griglie da
riempire.
Noi ragioniamo per storie, che sono strutture complesse. La natura stessa pensa per storie; questo
ci apre a un’ontologia del pensiero che non comporta la prevalenza, il dominio del pensiero umano:
il contesto, la pertinenza sono caratteristici di tutto il comportamento.
La filogenesi è l’evoluzione collettiva di una mente: un pensiero sta alla base dell’evoluzione di
un’intera specie, di un intero complesso collettivo. La filogenesi è quella parte della psicologia che
studia i comportamenti collettivi della mente.
Ipotizza che ci sia una sostanza di cui siamo fatti completamente, mente e natura, nella quale
pensiamo; c’è un’omologia di strutture: la mente pensa come un qualsiasi meccanismo naturale si
evolve: c’è un’identità tra mente e natura.
Bateson ragiona in termini di danza, musica: questa struttura è qualcosa che si muove nel tempo,
che lui chiama contesto.
-> esempio: andiamo da uno psicoanalista freudiano.
Il meccanismo della psicoanalisi ci fa capire come il mio raccontare una storia è anche il mio essere:
io stesso sono parte della storia, anche se apparentemente non c’è nessun collegamento. Chi
analizza un testo letterario senza collegamenti (che lui chiama strutturali o di contesto) sbaglia.
Ogni elemento del vivente è in un contesto e deve essere pertinente a quel contesto.
->lo psicoanalista dà consistenza a come sono io, così come la mia presenza dà consistenza a lui. È il
fenomeno del transfert psicoanalitico. La psicoanalisi ci serve come modello di rapporto, di
sensazioni. È importante l’idea di storia, che ha a che fare con il contesto - legato al significato,
nozione non definita.
Il testo è un processo e come tale lo dobbiamo leggere. Si tratta di un’analogia tra il contesto
Buzzati sposta la focalizzazione del racconto e i poli di interesse.
transfert - termine tecnico per definire la relazione tra paziente e psicoanalista. È una relazione, in
realtà, sociale.
In letteratura abbiamo qualcosa di simile: raccontiamo una storia nostra ma che si svolge sullo stesso
piano (Dante ad esempio cerca di creare una dimensione del mondo che lo salvi dalla banalità della
vita). Anche la paura, l’angoscia, il terrore si possono trasferire non solo da un individuo all’altro, ma
anche da un individuo a una massa o a un contesto. In relazione a qualcosa che succede all’esterno,
come il pericolo, trasferiamo le nostre emozioni. Con Buzzati abbiamo il primo esempio di
modulazione della paura dal privato al politico, al collettivo. È una modulazione con caratteristiche
interessanti non solo dal punto di vista della conoscenza del mondo, ma anche letterario. Buzzati
ambienta la storia nel teatro alla scala, ambiente borghese in cui questa borghesia è ben adattata,
bene a suo agio. Non a caso, il nome del compositore è Grossgemith, che richiama l’idea di
familiarità. Il familiare però può essere origine anche di perturbante.
Il titolo è La Strage Degli Innocenti: qui, c’è un passaggio geniale, un doppio transfert. Da una parte
comincia parlando dell’opera musicale, del suo maestro - sembra una recensione allo spettacolo
Rebecca Bazzano

teatrale; poi però trasferisce la storia su un altro piano. È una situazione tipica borghese, interrotta
da uno strano raggruppamento che sembra organizzare una rivolta civile, motivo per cui la polizia
non è presente a teatro.
Buzzati riprende allegoricamente l’atmosfera che vive: è una sorta di colpo di stato di cui non si
comprende la provenienza. L’ansia sviluppata dal pericolo la troviamo sul piano collettivo: non
conosciamo la fonte del pericolo. Buzzati utilizza molto bene le risorse del ritmo narrativo. A
differenza di Pirandello e Landolfi che maneggiano la temporalità in modo molto elastico -
prolungandola o riducendola notevolmente - qui il ritmo cresce lentamente: abbiamo un insieme di
informazioni che cresce lentamente e va dal piano domestico allargandosi -simile a De Roberto.
Il personaggio non viene solo narrato, crea sé stesso in funzione dello spazio esterno; qui Buzzati
allarga sempre di più l’orizzonte in modo astuto: non come De Roberto per dettagli sempre più
precisi, Buzzati mantiene sempre vaghezza, una sorta di mistero, un’inespressa sensazione di
pericolo.
Utilizza molte locuzioni avverbiali: tende a far emergere la paura come un qualcosa a lungo covato.
“nell’aria si era fatta una sensibile tensione”
Paradossalmente, c’è una maggioranza di gente che continua a fare come se niente fosse. Reagire
alla paura significa diventare soldati, abbiamo la militarizzazione della paura.
-> sente come familiare l’ambiente milanese tanto da parlarne il dialetto
-> rapporto padre - figlio. È un uomo normale, un normale borghese, colto, con le sue caratteristiche
di vita quotidiana, molto appassionato di musica, era considerato un ottimista. C’è un problema di
comunicazione generazionale sul quale si innesterà un altro problema: il figlio è un compositore e
sapeva che la nuova arte doveva soprattutto far soffrire l’ascoltatore. Il senso di disagio serpeggia, si
propaga in vari aspetti della vita.
Le elazioni con l’esterno si fanno sempre più complicate.
La paura assume una forma anche nel tempo: quando inizia a manifestarsi l’eventualità di un
pericolo si tende a scavare nel passato per cercare una sintassi o una continuità alla paura, anche per
esorcizzarla
-> strano palco con tre personaggi immobili, inespressivi, vestiti di nero, non inquadrati - come si
volesse esorcizzarli.
Nei racconti di Buzzati c’è un punto nero che attraversa vari stati della narrazione, va dall’umano
all’animale alle pianti: c’è sempre un punto che, come un buco nero, è incomprensibile e attira tutto
il resto per la massa rappresentativa che ha.
Paura Liquida, Bauman
Origine, dinamica e usi della paura
Bauman ha scritto tante cose liquide. È la stessa metafora del serpeggiare: siamo in una società che
costruisce le relazioni in modo liquide, come le infiltrazioni d’acqua nel muro, non con una logica
gerarchica ma come qualcosa che si diffonde a macchia d’olio senza una possibilità di
razionalizzazione o concettualizzazione. È la società dei media elettronici, che spargono informazioni
ma anche sentimenti, percezioni, inquietudini. Economie della paura come oigos, cioè paura che si
insidia nella casa.
“la paura ha mille occhi e vede anche le cose che stanno sotto terra”
La paura più temibile è quella indefinita, sparsa, libera, diffusa (per noi può essere quella mediatica):
paura è ignoranza della minaccia, è incertezza. La paura non se ne va; e non è una questione solo
individuale.
Il liquido per Baumer non è positivo: serve a farci capire la multidirezionalità del pericolo.
Rebecca Bazzano

È un senso di permanenza, di pervasività del pericolo.


Per la prima volta si parla di una paura socializzata, in paura alla scala. È una struttura narrativa
associata a una paura che da individuale diventa gradatamente pervasiva. (Anche in Pirandello c’è
stato un primo esempio della paura che si contagia in realtà).
Qui si parla però di una paura che si contagia da un individuo a una collettività. La paura ha rilevato
un suo carattere pervasivo: quasi mai o mai riusciamo a riconoscere la fonte primaria della paura
eppure la paura è un elemento primario per eccellenza. Si tratta di una specie di paradosso: paura
primordiale (abbiamo paura fin da prima di nascere secondo Rank) ma è difficile riconoscere la fonte
primaria. È una sorta di primordialità nascosta che finisce per colpirci.
-> si dipartiscono i ruoli di una micro società, struttura allegorica di ciò che può succedere quando la
paura si socializza. La paura che si socializza e per Bauman una paura derivata, un corollario del
sentimento primordiale della paura, è qualcosa che viene dopo, secondariamente. È però
importante sapere che la paura non è un sentimento chiuso, può sfociare in altri stati d’animo
apparentemente anche aggressività.

Buzzati è un narratore ritmico; quasi sempre nei suoi racconti le linee narrative di svolgono in modo
graduale, proprio come in Paura alla Scala. È stato definito impropriamente il Kafka italiano, ma
Kafka ha un ritmo narrativo molto più irregolare: le cose accadono o molto velocemente i molto
lentamente. In Buzzati invece ci sono ritorni quasi geometrici, movimenti lenti.

Bauman dice che i pericoli possono essere di tre tipi: contro il corpo e gli averi, contro la stabilità e
l’affidabilità dell’ordine sociale.
In Buzzati sono presenti entrambe le minacce.
Esistono poi pericoli che insidiano la nostra collocazione nel mondo, la posizione nella gerarchia
sociale, l’identità di classe, genere, etnia o religione.
L’ultima è una paura narrativamente più produttiva: tocca l’aspettò fisico, dell’affidabilità dell’ordine
sociale. Comprende entrambi i punti, è un’identità come collocazione nell’ordine sociale: chi sono io
e come mi colloco nel mio contesto. È una paura contestuale, questo significa entrare nella radice di
questo fenomeno: ragioniamo per storie e per costruzione di contesti.
Se la paura invade la capacità di costruire un contesto, narrativamente funziona.
L’ubiquità della paura è consustanziale al mondo delle relazione stesso: tutto può crollare, tutto può
essere ridotto alla base
Tuttavia, in questa grande zona grigia tutto viene pervertito, venivano lanciati AVVERTIMENTI
GLOBALI che suscitavano inizialmente spavento, ma poi la gente ha cominciato ad affezionarvisi.
La politicizzazione della paura ha causato una sorta di affezione: sapere che questi è un mondo non
significa vivere nella paura,
Amiamo l’avvertimento globale perché c’è un mercato che ci mostra piccoli espedienti per sfuggirvi.
-> essere sui social è un espediente: avvertiamo il pericolo, ci viene segnalato da tutte le parti, ma il
fatto stesso di essere in quel contesto fa si che non ne abbiamo costantemente paura, ci sentiamo
protetti in una bolla.
Tutto è stato appaltato a un sistema di mercato: l’avvertimento del pericolo e la reazione al pericolo.
È una società che produce paura ma rende anche possibile convivere con essa.
I ricci crescenti, Buzzati
Sono racconti quelli di Buzzati che delineano sfumature della paura derivata.
Rebecca Bazzano

I ricci crescenti è un racconto in cui abbiamo Giovanni Auer (nome tedeschizzante per mostrare
autorità) che vede tre ricci sul tappeto del suo salotto.
La presenza dei ricci non era strana perché si trattava di una casa in campagna; però si trovavano di
solito in cantina o in legnaia.
Auer è dimostrazione l’aggressività di fronte all’invasione di un estraneo.
Pensa inoltre di mangiarseli - aggressività.
Rivede poi la stessa scena con i ricci più grandi.
Il non umani scatena la reazione di paura.
Buzzati gioca sul perno del racconto: come era Auer e come diventa con la percezione di questa
stranissima cosa (riccio che parla) per lui primario pericolo.
Adesso nei confronti del pericolo Auer elimina il fatto che esistano ricci piccoli, che non parlano.
Elemento importante narrativo della paura è come essa trasformi i personaggi.
Abbiamo l’emergere del terrore: Auerb provava un sentimento sconosciuto, come se stesse
diventando un altro.
La goccia
Fuga di alcuni coinquilini, paura di un rumore - ticchettio leggerissimo
Nuovi strani amici
È un inferno Dato dall’assenza della paura: la paura è talmente ubiqua che quanto non c’è trasforma
la nostra vita in un inferno
La Paura di Moravia
Il personaggio principale ha messo insieme, ha fatto un’equazione distorta tra la madre e Tocci, che
dicono e pensano le stesse cose. La paura, per quanto vendibile, manipolabile, contagiabile è un
istinto primario: ognuno dei nostri autori fa i conti con la primordialità di questo sentimento
dell’origine.
Questo rende la paura un’area facilmente narrabile, raccontabile: possiamo facilmente organizzare
un racconto sulla paura. C’è una particolare identificazione tra il personaggio esterno e la madre.
Il linguaggio di Moravia è estremamente colloquiale: è un parlare medio della piccola borghesia di
Trastevere. Moravia è abilissimo a mettere in campo un’analisi psicologica piuttosto profonda in un
linguaggio che appartiene al personaggio senza artificiosità: il personaggio pensa e parla come
penserebbe e parlerebbe andando al bar. Il meccanismo psicologico però lo vediamo lo stesso, come
analizzassimo il personaggio da fuori - diventato una cavia.
-> gli Indifferenti sono quattro personaggi dalla calatura intellettuale nulla, ma guardandoli da fuori
noi lettori riusciamo a fare loro la psicoanalisi.
C’è una sintassi dialogica molto precisa, si potrebbe parlare di una paratassi - i personaggi parlano
per coordinate. Siamo agli antipodi di Landolfi, in cui il dialogo era volutamente artificioso, barocco.
Il dialogo è la rappresentazione della paura.
C’è anche un sottofondo fiabesco, orroristico (fratelli Grimm - si fanno ingrassare i bambini per poi
mangiarli).
Dalla porchetta e dal vino dei castelli questo romano di nome Remo è la nostra soglia verso la
sintassi onirica, che segue quella dialogica. È un personaggio che sogna a suo modo, con un sogno
molto diverso da quello di Landolfi: il sogno guidato dalla paura è estremamente logico, i passaggi
che collegano un’azione all’altra sono estremamente logici, il ritmo è regolare e richiama una certa
consequenzialità - ci aspettiamo quello che sta per succedere. Questo modo di raccontare il sogno
influisce su di noi: ad un certo punto non sappiamo più se sta ancora raccontando il sogno o si trova
in fase di veglia.
Rebecca Bazzano

È un sogno a più strati: crediamo che si sia svegliato ma in realtà non è così.
-> contadino che vede: estraneo che entra nel familiare
-> dialogo tra sogno e realtà
La paura primordiale che lui ha provato inizialmente ha assunto un oggetto: la campagna.
Dentro di loro e intorno a loro si svolge questa vicenda che ha implicazioni più complesse.
Che cos’è il coraggio, Tillich
A differenza di quanto avrebbe fatto poi Bauman (3 tipi di pericoli a cui reagiamo in modo
indifferente), Tillich crede che l’angoscia accompagni sempre l’uomo: diventa connaturata al vivere
umano, permanente e in questo suo diventare permanente conforma la vita. Ci fa essere
consapevoli che il nostro esistere comprende anche il non essere - la paura è consapevolezza che
esiste il nulla, il vuoto, il non essere.
Il coraggio dell’essere è il coraggio di affermare sè stessi in una situazione ostile.
Tillich vuole fare un’ontologia della paura, vuole arrivare ai concetti cardine. Distingue perciò tre tipi
di angoscia:
o Angoscia del Fato e della Morte: è quella dei soldati di De Roberto. È la paura di un pericolo mortale,
manifesto. È un’angoscia, universale, inevitabile. Ho paura della morte perché nega il fatto che io sia;
c’è una minaccia assoluta e una minaccia relativa - quella del Fato, che fa paura tanto quanto la
morte. La paura della morte e del Fato diventa indeterminata - panico, paura del tutto,
dell’indifferenziato. È una paura di trovarsi inermi di fronte a una totalità più grande di noi. Siamo
consapevoli di essere limitati e quindi proviamo angoscia. Quello che ci rende angosciati è che da un
momento all’altro la causa che ci ha portato in questa contingenza può riportarci via, poiché la
contingenza è dominata dal Fato. Il fatto che io sia qui non è affatto necessario. Siamo sottoposti a
un destino estraneo: questa è l’angoscia più profonda. [ontologia dell’uomo]
o Angoscia del vuoto e della mancanza di significato : quella del tenente Alfani di De Roberto. È
l’angoscia di essere in un meccanismo che non ha alcun significato. Siamo vittime di una mancanza di
senso, logica e razionalità. (-> che senso ha mandare a morire tanti soldati perché non disponibili
armi?). È angoscia per la mancanza di un interesse supremo; è provocata dalla perdita di una
risposta all’interrogativo del significato dell’esistenza. È l’angoscia di non significare niente,
l’angoscia di essere lasciati perché non si significa più nulla, di essere annullati nella percezione
dell’altro. Il vuoto e la mancanza di significato sono espressioni della minaccia del non essere alla vita
spirituale. Ci sono anche vie di uscita da questa situazione. [spiritualità dell’uomo]
o Angoscia della colpa e della condanna : il non essere minaccia l’autoaffermazione morale dell’uomo.
Se il mio essere viene minacciato dall’angoscia, in me subentra un senso di colpa: non sono stato in
grado di preservare il mio essere dalla paura. La paura sfocia nella colpa; se le potenzialità dell’uomo
non si realizzano, l’uomo si sente colpevole. È un auto-ripudio successivo al non essere riuscito a
controllare il destino [moralità dell’uomo]. È un’angoscia che deriva dalla nostra auto-
consapevolezza dei nostri limiti.
Essere consapevoli del non essere implica però un po’ di essere, che può riprendere le fila e quindi
coraggio. Il coraggio di Fillich parte dalla consapevolezza di avere ancora energia per superare il non
essere, abbracciarlo, comprenderlo.
Il Male Oscuro, Giuseppe Berto
Siamo nel 1964, nel Boom Economico. Berto parla di uno stato di cose, una dinamica interiore.
-> Con Zeno abbiamo una stratificazione di sé.
-> con Gadda abbiamo una madre messa sotto la lente di ingrandimento. L ’equazione tra la madre e
il senso di morte.
Rebecca Bazzano

C’è un contatto molto forte tra Gadda e Berto. Berto è uno scrittore veneto che vinse moltissimi
premi con questo romanzo. È un romanzo che rivendica la sua posizione all’interno del sistema
letterario in modo abbastanza esplicito.
L’espressione Il Male Oscuro deriva da Gadda e lo dichiara nelle citazioni iniziali.
L’unico rimedio all’angoscia è il finale del Male Oscuro -funziona solo se leggi tutto il libro.
Autobiografia, Narcisismo e Gusto del narrare sono completamente intrecciati.
È un romanzo scritto praticamente tutto di seguito, è un blocco narrativo che ha delle interruzioni
non segnate, è un flusso che va per blocchi sintattici lunghissimi. Poche volte poi va a capo; in questo
somiglia a Kafka.
È un libro pensato da un solo personaggio - monologo interiore.
Chatman parla di flusso di coscienza e monologo interiore. Il flusso di coscienza è un discorso
mentale, causale, che si svolge attraverso sensazioni, è una catena di sensazioni strutturata in modo
da apparire casuale al lettore. Il monologo interiore è invece un racconto pensato da una sola
mente; qui ci sono sensazioni, ma anche pensieri, riflessioni, elaborazioni intellettuali, strutturati in
modo che i sintagmi di collegamenti siano impliciti.
Questa tecnica è stata inventata da Du Jardin e resa celebre da Joyce.
Il monologo interiore non è un espediente di realismo ma una selezione.
Lo scrittore seleziona alcune parti del processo mentale; questo fa Berto. Il Male Oscuro è un caso
classico di monologo interiore, che va seguito ma anche inteso come un’opera di concatenazione di
quello che sembra apparentemente casuale.
È un ritorno a un tentativo di definizione psicologica della paura, si vuole tornare nella psiche.
Giuseppe Berto infatti aveva concepito questo libro come un esempio di stile psicoanalitico, cioè uno
stile di esplorazione dell’inconscio e dei suoi movimenti, è un tentativo per lui da uno stato di disagio
e malattia.
Assomiglia in questo a Svevo ma va oltre certe sue intuizioni perché è come se le radicasse nella
scrittura, vista come una struttura allegorica. È un romanzo pensato a un solo personaggio e, infatti,
oltre le citazioni abbiamo la nota d’autore sul tema dell’autobiografia che mostra quanto questo
romanzo non sia del tutto autobiografico: ognuno ci si può in qualche modo rivedere.
-> filmo tratto dal libro diretto da Mario Molicelli
Il romanzo sarà tutto in prima persona, è un romanzo omodiegetico in cui il racconto coincide con il
pensiero.
Non ha intenti artistici, la struttura mostra che lui vuole raccontare o forse guarire raccontando ciò
che pensa.
Della sua diligenza espressiva si notano i colloquialismi: senza intenti artistici, scrittura medio piana,
registro medio, con colloquialismi nel lessico come “pezza d’appoggio” o di tipo sintattico come il
che polivalente all’inizio delle frasi per tenere vivo il periodo.
Statisticamente c’è qui ha studiato la presenza di subordinate: quelle più presenti sono le relative e
le oggettive. Ci sono però molti altri che: è un connettivo funzionale, un colloquialismo - tendiamo a
usarlo in modo inappropriato.
Altri esempi: “sebbene a me non ne venga un bel nulla”.
Da questi colloquialismi abbiamo l’impressione che il protagonista sia un uomo abituato alla
psicoanalisi.
C’è però, una sorta di tensione tra i colloquialismi e parti in cui si scopre una certa attitudine, in cui il
narratore fa un autoritratto di sé stesso in quanto scrittore non molto sicuro dei propri mezzi (“le
oscure profondità dell’essere”, “staccarsi da ogni umana ambizione”).
Rebecca Bazzano

C’è una minaccia di suicidio che ogni tanto esce fuori. È una possibilità e forse tutto il romanzo è
scritto per allontanare questa possibilità: connessione tra paura della morte e scrittura, stornare la
minaccia del non essere attraverso la scrittura (->Boccaccio; Mille e una Notte). Il Male Oscuro è
scritto per tenere vivo il racconto ma anche per sopravvivere; forse per questo si spiega la citazione
iniziale “il silenzio è dolore”; è come scegliere un male minore che permette di sopravvivere.
Una chiave fondamentale è la lotta con il padre: il padre, in effetti, sarà l’antagonista, molto più della
madre. Non è però un antagonista di azione - non agisce contro il figlio, ma contro la psiche del figlio
- è un antagonista di proiezione. Il romano è tutto una proiezione di un passato e di un presente
labirintico da cui questa mente non riesce a uscire.
Berto ci sospende a qualcosa che verrà dopo - serve per tenerci attenti. È un romanzo che insinua
continuamente dei punti da proiettare nel resto della narrazione e sono quei punti che ci tengono
avvinti alla narrazione. Abbiamo un sovrapporsi di ipotesi delle quali solo una si svilupperà; manda il
vettore della narrazione in diverse direzioni, poi ne sceglie una e in modo inaspettato riprenderà le
altre.
Proust parlava di sistema dei fini multipli non c’è una finalità, la narrazione ci porta in direzioni
diverse senza il nostro controllo razionale.
Berto vuole continuamente mettere in difficoltà il lettore.
Berto, inoltre, utilizza solo la virgola nonostante abbia fatto la tesi di laurea su D’Annunzio - che
odiava le virgole, ha scritto un articolo “Contro le virgole” in cui considerava la virgola un segno
plebeo, rozzo che non aveva presa sul lettore.
Notiamo che non ci sono mai due punti (rapporto presentativo - la prima presenta la seconda frase)
e neanche il punto e virgola. Questi vengono sostituiti da altre forme che vogliono compensare
quest’assenza: il che ad esempio.
-> sapeva usarli, non li ha voluti usare volontariamente
Le coordinate vengono eliminate o gerarchizzate, questo lo rende più colloquiale; queste soluzioni
sintattiche sono costanti.
“comunque sia” -> Il flusso mentale c’è, ma lui ne sceglie solo alcune parti che poi mette da parte:
“potrei aver detto questi ma anche un’altra cosa, quindi vado avanti”. Anche questo è un modo per
metterci in difficoltà.
-> tutti i pensieri che presenta è come se fossero già stati raccontati. Abbiamo una stratificazione di
percorsi già compiuti, c’è qualcosa che lui ha già raccontato a qualcuno, c’è qualcosa di già detto che
non ha raggiunto lo scopo che si prefiggeva. Noi non conosciamo esattamente questo scopo -
potrebbe essere la conclusione vittoriosa della lotta con il padre. Poco prima ha parlato del cammino
della gloria. Il personaggio che dice “io” in questa narrazione è un allievo mancato di D’Annunzio:
dichiarazione di essere scrittore, gloria eterna - omaggio a distanza del ruolo dello scrittore nella
narrativa di D’Annunzio.
c’è però qualcosa di non riuscito, una stratificazione di narrazioni non riuscite che non hanno portato
dove dovevano portare.
Parla di aborti spontanei - paura del feto di venire al mondo? una resistenza da parte del feto?
Questo riporta all’ipotesi di Rank sul trauma della nascita: le angosce che abbiamo derivano dal
superare quella soglia e dal fatto che il bambino abbia già psiche.
Berto sembra ipotizzare che il bambino ancora feto abbia ancora un rapporto conflittuale con i
genitori. In questo libro però non c’è niente di esatto, è tutto magmatico.
Fa anche dell’ironia: “aborti spontanei, non è il caso mio”.
Rebecca Bazzano

Quest’uomo ha un rapporto con la conoscenza in continuo movimento: ci presenta questo lavoro


come fosse un trattato scientifico e lo esprime come un lavoro, una scrittura in progress.
Non è però un trattato scientifico, è un romanzo, ma ha dentro di sè il non finito da integrare con
informazioni successive.
Allo stesso tempo Berto ha una logica a perdere: non tutto quello che è stato acquisito è utilizzabile,
la sua poetica è quella di rendere tutto apparentemente utilizzabile e poi scegliere tra queste. Molte
informazioni andranno perse ma non del tutto: sono dati da immagazzinare perché verranno
utilizzati, non subito e non tutti. Uno dei connettivi più interessanti è “ad ogni mondo”: mostra il
movimento della narrazione anche se si è lasciata dietro dei punti oscuri - la sintassi è talmente
complicata che è inevitabile ciò.
Non è solo un monologo interiore ma anche un monologo psicoanalitico: riproduce il discorso
psicoanalitico, cioè quello che un paziente di psicoanalisi è tenuto a fare davanti a uno psicoanalista.
C’è però anche una presenza tematica della psicoanalisi, ancor più che in Svevo: lo psicoanalista
diventa un personaggio piuttosto evanescente, una specie di polo di interlocuzione senza una grossa
caratterizzazione. È una sorta di autobiografia psicoanalitica divisa in tre fasi:
 Infanzia
 Fase Adulta
 Post mortem del padre, fase in cui si sviluppa tutto il racconto praticamente
Le fasi sono però in continuo rapporto con le altre, c’è una temporalità continua.
La lotta con il padre continua anche dopo la sua morte.
Un romanzo psicoanalitico anticipa o arretra la presenza del tempo; qui, il protagonista si muove nel
tempo in prolessi o al contrario.
L’io di Berto nel testo attribuisce alla psicoanalisi un valore terapeutico; nei confronti dei medici e
degli psicoanalisti avrà invece un giudizio negativo, crudele. Dal punto di vista teorico crede che la
psicoanalisi funzioni e la considera l’unico salvataggio per non soccombere alla lotta con il padre.
Berto ha colto nella psicoanalisi l’aspetto di interazione con il corpo, non è solo parole e racconti ma
anche interazione tra queste parole e la reazione che ha il corpo nei confronti dei traumi
dell’esistenza della vita: è una psicoanalisi fisiologica, non scontata negli anni ‘60 in cui scrive.
-> 40 anni prima Svevo aveva fatto la stessa operazione ma questo lato fisiologico della sua malattia,
percorso e cura era un aspetto insieme agli altri, con Berto il centro dell’attenzione viene spostato
sul corpo.
La lotta con il padre non è superstiziosa o tenebrosa, non è un richiamo ai morti; si tratta di dare un
profilo scientifico alla presenza dei morti nel nostro modo di agire.
Il denaro emerge quasi costantemente nel romanzo in modo spesso comico; è una forma
dell’economia della paura: l’atteggiamento di disagio nei confronti della vita è molto spesso mediato
dall’economia o accompagnato da riflessioni su esse. Abbiamo una visione del denaro come flusso,
come elemento che rende liquida, fluida la società.
-> nella liquidità di Bauman la paura si può infiltrare ovunque
Allo stesso modo il denaro è una presenza sotterranea ma infiltrata.
-> Lo stato di disagio in Berto viene presentato prima nel corpo e solo dopo nello spirito
La psicoanalisi ti mette davanti dei problemi che sono dentro di te attraverso il meccanismo del
transfert; questo funziona anche con la paura, Freud diceva che tendiamo ad oggettivare la paura -
abbiamo paura di un certo oggetto, animale o persona per compensare il fatto che la paura di cui
siamo prigionieri va limitata in un oggetto. Allo stesso modo lo psicoanalista ci guida verso qualcosa
che rende visibile il nostro disagio, altrimenti rischiamo di scaricarlo su un’altra persona.
Rebecca Bazzano

Non dice mai “mio padre”, ma solo “il padre” oppure “col padre mio”; il padre, infatti, è nominato
sempre nel momento della lotta, è perciò una forma di distacco, vuole evidenziare che sia prima
padre e poi suo: questo conferma che i libri più autobiografici non parlano dell’autore, sembra che
non gli interessi il fatto che sia suo padre ma semplicemente una figura che rappresenti il polo di
conflitto con un genitore.
-> è un aggettivo in funzione predicativa: il padre, che può essere anche mio - definizione che può
venire dopo.
Potrebbe anche essere un rimando a Cristo; Berto per falsa modestia si è impersonificato in Gesù
che deve percorrere una sorta di martirio; abbiamo il Dio che si umanizza (lettura ardita, solo
possibile).
Quando parla degli altri familiari invece li definisce come propri.
Indizio anche di qualcosa che sta al di là della psicoanalisi, di una storia che vuole essere tale, che
crea contesto, ramificazione tra i personaggi, che vuole lasciare il segno e forse mettersi al posto di
una situazione che ci spaventa, scabrosa.
-> si racconta per non morire
Tutto ciò che succede nel fisico del personaggio è in relazione con ciò che pensa e con quello con cui
lotta.
Lo stile è psicoanalitico ma è un nuovo paradigma che passa attraverso il corpo.
-> al paziente conta il dolore alle cinque vertebre lombari, che sono il primo elemento di crisi che poi
si svilupperà e farà sì che arriveranno altre malattie e altri dolori fisici, sui quali il personaggio si
vedrà costretto a riflettere.
Il percorso passa attraverso il corpo, che ci comunica qualcosa.
Il male oscuro non è la paura, non è un romanzo sulla paura, però ci dá una connessione fisica,
fisiologica tra la paura e il nostro cervello.
In questo romanzo la paura ha la sua sede primordiale nel corpo.
Ogni volta che c’è un sintomo fisico - e ce ne sono moltissimi- abbiamo una connessione biologica
della paura, che resta un istinto primario, una pulsione primaria (Freud) però ha una prima
manifestazione nel corpo, il suo primo modo di esistere in noi è all’interno del corpo.
Questo spiega l’insistenza di Berto sulla corporeità, sul nostro essere finiti, legati alla limitatezza del
corpo.
La paura di cosa? In questo caso di addolorare li psicoanalista, una paura superficiale quasi.
C’è anche il sogno, strumento analitico tipico della psicoanalisi.
In Moravia dialogo e sogno erano complementari: il personaggio ricostruiva la sua realtà prima volta
dialogo e poi con il sogno (attiva all’identificazione della fonte della paura)
In Berto abbiamo metalessi, cioè ingressi del narratore nella storia. Abbiamo infatti un narratore che
esce di scena periodicamente per poi tornare per commentare, o spostare la gerarchia delle cose
appena raccontate.
È un personaggio che tende a raccontare quello già vissuto; il narratore interviene nella storia per
modificarne le proporzioni, la logica spazio temporale.
E come se spiegasse che quello che ha raccontato va interpretato in un certo modo.
È un intervento che modifica la nostra percezione della storia.

Il racconto della libreria Rossetti è limitato alle ultime righe, per il resto è un’altra cosa, una
digressione.
Rebecca Bazzano

Solo il nominare la libreria gli fa venire in mente la società di quelli che lui chiama radicali,
intellettuali antifascisti post Seconda guerra mondiale, alcuni dei quali però hanno cambiato casacca
e hanno conservato una certa radicalità. È un termine negativo, un settarismo.
C’è un lungo girare intorno al sogno per poi arrivarci nell’ultima parte. Questo non è a caso.
Interpretazione sogno: il protagonista è isolato dal contesto, dalla società e i rituali; poi c’è un uomo
con il tabarro, uomo molto importante, che potrebbe rappresentare la figura paterna.
Il primo non è solo isolato, ma è l’unico che non può toccare la riproduzione fatta dall’altro
individuo, e viene per questo mandato via.
È umiliato rispetto agli altri: c’è un piano di società in cui gli equilibri funzionano e lui sta sotto.
L’opera d’arte sembra essere qualcosa su cui il padre non ha dato la sua approvazione, il padre non
ha approvato una determinata cosa che lui invece avrebbe voluto fare.
Il padre evidentemente non ha approvato qualcosa della vita di questo figlio.
-> la lotta con il padre sarà poi dimostrare lui che quel che è stato fatto era giusto
Il divieto è dato da fatto che il personaggio non approva ciò che l’io fa.
Questo sogno è una storia più piccola dentro l’anima storia più grande, strutturata come la storia più
grande. Il sogno è ciò che accadrà nel romanzo in scala ridotta.
È un apparente girare intorno alle questioni che però dà spazio a una proliferazione di dettagli,
apparentemente irrilevanti - che sembrano portarci fuori dalla direttrice narrativa- ma che in realtà
accendono alcune scintille che poi diverranno importanti.
In questo sogno la logica ə simile: è un male oscuro in scala ridotta.
-> complesso di Elettra maschile
La riproduzione potrebbe essere ciò che è riuscito, il figlio ciò che non è riuscito.
Il piano familiare è proprio il vero problema, è un’incompatibilità che si rifletterà su ogni affetto del
protagonista.
Il signore col tabarro si piazzerà davanti a lui nel momento in cui vorrà iniziare una relazione
affettiva, sulla quale non investirà più nulla perché non ne considera valida la pena.
Non sappiamo cosa sia il quadro, potrebbe essere qualsiasi riproduzione: sappiamo solo che è degno
di attenzione o importanza e rimaniamo sospesi in questo.
Nell’auto interpretazione del sogno fa un percorso velocissimo su vari elementi della paura: paura in
relazione col desiderio, paura con le inibizioni del padre, paura come voglia di morire o di uccidere
(primo stadio di un desiderio di farsi o fare del male)
Il male oscuro non è un romanzo sulla paura ma sulla centralità della paura nel nostro sistema
psichico e fisiologico e sulle cose che comporta, sulle derivazioni. Non si tratta di paure derivate, cioè
paure che si espandono in una società conservando la fisionomia della paura, ma si tratta di punti di
connessione della paura. È come se la paura fosse il centro di solitudine, senso di incomprensione,
desiderio di uccidere e morire.
La riproduzione non sappiamo cosa è, è qualcosa di delicato messo in relazione con la madre. Anche
il padre è senza volto, segno di ciò che la paura che può fare. In tutta la prima fase del romanzo il
padre resta senza volto, oltre a non essere “mio padre”. Berto lo descrive dettagliatamente ma
limitandosi ai capelli, al portamento, alla corporatura. Questo diventa la principale fonte di angoscia
Il paradigma psicoanalitico freudiano non è l’’unico attraverso cui si può leggere il brano.
Con John Bowlby la paura fa parte di un sistema di adattamento biologico.
Nussbaum introduce invece la paura come stato di primissima infanzia, stato improntato sulla
monarchia: il neonato comanda sugli altri.
Rebecca Bazzano

Entrambe le riflessioni partono dal fatto che il bambino è suscettibile di attaccamento: individua una
figura che gli garantisce supporto. La paura ha un’influenza formativa che accompagna il bambino
tutta la vita: ci insegna ad adattarci. Quindi nel punto di vista di un biologo che affronta la paura
come risultato in un sistema di adattamento, la paura favorisce il mantenimento in vita della specie
umana - come il desiderio.
Ci insegna che la paura può avere aspetti costruttivi, può mettere in piedi strutture emozionali.
La paura può essere orientata verso qualcos’altro.
Tutto questo può coesistere: non siamo in grado a priori di scegliere per una via o per l’altra. È un
modo di essere estremamente complesso che contamina gli altri stati d’animo. È qualcosa di
pervasivo che ci può portare verso molte direzioni, non necessariamente in peggio.
Dario Bellezza
Un poeta estremamente tormentato dal fatto di essere omosessuale, dall’angoscia di vivere, da una
sorta di avvicinamento esistenzialista alla vita, da un modo di fare estremamente diretto.
È il secondo libro di poesie, Morte Segreta.
Il libro nasce in disprezzo dei valori della società costituita, siamo nel 1976.
Ci si sposta dal piano soggettivo a quello oggettivo in modo continuo.
È come se Bellezza avesse scelto un controsoggetto che parla della morte dell’autore stesso. È
un’autobiografia vista dal lato della morte- come, in che punto è presente la morte. In che modo è
presente la morte nella nostra vita.
Parla della morte di qualcuno che si è ribellato al potere, è un cammino di vita che ha visto al suo
interno una ribellione forte, intensa.
-> è coerente con la vita di Dario Bellezza
Fingere è una parola molto poetica (Leopardi, io nel pensier mi fingo): indica anche il costruire un
mondo che prima di questa finzione non esisterebbe.
Questo fingere è strettamente connesso alla paura: il primo stato d’animo che l’io, il cuore
sperimentano nel fingere è la paura; la finzione poetica è una specie di abisso sul quale non tutti
siamo preparati ad agire come vorremmo.

Un libro di poesia è di solito diviso in sezioni secondo una logica percepibile. Si comprende solo se
letto per intero.
-> lirica: genere poetico in cui ogni testo ha un valore singolo, specifico e funzionale alla buona
riuscita del testo.
“Alla follia, non badate, datemi retta”
Impressione primaria: forte malinconia - Leopardi: malinconia distanziante. Vedo qualcosa del
passato da lontano, tutte cose che riguardano un io visto nella sua giovinezza per cui si può pensare
a un romanzo di formazione.
-> le poesie scivoleranno via: può essere una fotografia di un’età.
Non si comprende il tono dell’esortazione iniziale. Bellezza parla sempre di grandi temi -universo,
morte, vita- senza avere molti schermi di proiezione (Montale proiettava tutto sulle figure femminile
per dare a questa figura un valore positivo, che facesse svoltare la situazione nella quale la poesia
era costruita). In Bellezza non si comprende se le esortazioni sono realmente accorate o abbiano una
certa di distanziamento.
I ritmi a cui cerca di far stare attenti i giovani sono temporanei, hanno una scadenza e quindi vanno
colti esattamente in quel momento. Se non lo si fa, sono perduti, non si possono costruire
artificialmente.
Rebecca Bazzano

Sensibilità acuta e desiderio di indirizzare l’energia di quella sensibilità in qualcos’altro.


l’estraniarsi dalla figura, diventare dio o demiurgo di sé stessi comporta il certificare il fatto che la
sensibilità che si ha da giovani è destinata a perdersi. Nel momento in cui si mette davanti alla
mortalità di un giovane, dice a lui di cercare l’immortalità.
È interessante per capire la scelta del titolo: la morte è sempre compresente allo scrivere ma è
anche un tentativo costante di cogliere l’immortalità. Montale aveva rinunciato a questo (Non
chiederci la parola), mentre Bellezza rimette in campo l’idea della morte come un polo dialettico con
il quale tornare a combattere.
Anche la scelta del termine follia è particolare: Bellezza non spreca parole.
La follia è un parametro della poesia, un poeta folle, nella nostra percezione, è un vero poeta; la
follia è un vestito del poeta, che è un emarginato. Bellezza sembra voler convincere i giovani a
seguire nuovi ritmi - contrapposti alla follia non come espressione di essa.
-> personaggio di Lucrezio che guarda il mare in tempesta dal litorale in cui si è salvato.
È presente anche una specie di geometria nel testo, anche se sembra caotico e legato alla
soggettività momentanea; è come se avesse una sua sintassi complessa.
Bellezza dà i parametri per inquadrare lo stato di sensibilità che è la giovinezza e poi parla del Trionfo
della morte. Il Tempo e la Morte sono comunque forze sempre presenti nella vita. C’è un senso di
andare a scoprire ciò che c’è di là: la morte è un oltraggio ce ci guarda da un oltre, forse.
“Io dimenticato relitto”: in questo porsi come io che ha agito in un determinato modo e che esorta
gli atri ad agire diversamente, c’è anche il fatto che si lega a un’altra civiltà. È come se parlasse di
un’altra epoca. Biograficamente non ha senso, ma è come se l’essere in questa situazione lo facesse
appartenere a qualcosa che non c’è più. Ti mette davanti il trionfare del tempo e il trionfare della
morte.
c’è molto Pasolini: la presenza forte della madre, l’impatto del materno, i miti (non li nomina ma non
fa che costruirli - è come se il personaggio che parla fosse protagonista di una tragedia in cui le
divinità dirigono la sua esistenza anche quando non vuole).
È un libro per il quale l’epoca passata è morta con la morte di Pasolini.
È anche un modo per ricostruire un mondo che è stato devastato da quella esperienza. La storia
agisce moltissimo in questi testi, sono anni molto densi.
Caratteristiche tecniche: enjambement, gestione del ritmo singhiozzante che rende le pause incerte,
cesure, sintassi volutamente caotica.
-> verso: elemento transifrastico
Doppia voce - andamento della mia sintassi, arco regolare ed elemento di spezzatura che rende la
sintassi più difficile da seguire e più suscettibile di attenzioni.
La scelta di un verso costringe un certo tipo di lettura.
-> sintassi simile ad amelia rosselli
Si delinea una posizione di ribellione nei confronti di un voi che legge: chiamatemi pazzo, deserto
testimone di un deserto - qualcuno senza speranza.
La poesia è definita come gesto osceno, nel senso di portare sulla scena anche qualcosa che non si
deve portare, talmente visibile da dare fastidio. La poesia di Bellezza ha infatti pochi traslati, picchia
sulla letteralità.
Questo autoritratto è come un autoritratto del poeta di strada, del giullare di strada (come figura
emarginata).
Rebecca Bazzano

-> ricorda Palazzeschi in”Lasciatemi divertire” - inoltre la poesia nasce in teatro, era un attore prima
di un poeta. È una rielaborazione che nasce dalla pratica della scena: Pasolini e Bellezza stabiliscono
un contato diretto con il teatro, per cui ha un’esperienza simile a quella di Palazzeschi.
-> ricorda Tondelli per altri motivi; è un clima culturale che esploderà nella Bologna del ‘77.
-> Svevo: diffidate dalla pazzia - Zeno esempio più chiaro di narratore inattendibile
È un io che si mette davanti a noi, non si nasconde dietro a un personaggio; più si presenta davanti a
noi più sembra mettere in dubbio la sua credibilità. È un gioco paradossale, forse teatrale, scenico:
più si denuda più percepiamo che la teatralità che ha in sé è una recita, è un porsi in termini attoriali.
È un io poetico che va sulla scena non per ingannarci ma per compiere una specie di rituale: il teatro
nasce dal rito e questa poesia sta tra teatrale e rituale in cui il teatro è funzionale alla celebrazione i
un rito, che magari non comprendiamo.
Diventa chi sacrifica e al contempo chi è sacrificato.
È un teatro-rituale.
Da Chiamatemi pazzo c’è un cambio di espressività.
Si potrebbe dire che ci sono due momenti della poesia: uno più meditativo sul tempo, che richiama
una struttura di flusso e un altro in cui il personaggio assume una sua voce e ce la fa sentire per
come è, mostrando il motivo stesso della sua presenza sulla scena.
Sembra essere una chiosa al periodo precedente “Chiamatemi così”.
Come se desse una chiave di lettura al processo precedente, fissandola in un concetto.
Le sue poesie sono spesso flussi che tendono a coagularsi verso la fine: sono testi estremamente
mobili, non poesie fisse ma veri e propri processi, diagrammi di processo.
Il romanzo dalla fine dell’Ottocento si insinua molto in altre forme di scrittura; in questa raccolta di
poesie quindi si può parlare di una struttura, un ritmo romanzesco.
Influenza Pasolini: teatro di movimento, riscrittura del mito, tecnica di presentare il soggetto in un
certo modo
Tutta la raccolta è orientata sul Tempo, non è solo una riflessione ma anche un’esortazione alla
coscienza del tempo, del fatto che siamo provvisori e soprattutto che il tempo al quale la poesia si
rivolge è fragile, passa in fretta. È un Tempo nel quale c’è una sensibilità molto acuta alla vita che
però è destinata a tramontare subito, a finire molto presto. Tutta la raccolta è definita intorno a
questa Morte segreta che ognuno vive in sé: ognuno è condannato a uccidere il giovane in sé. Un
poeta è perciò chiamato ad avere consapevolezza dell’esistenza di quel periodo.
Dario Bellezza sa di essere in un’epoca in cui la morte non è solo individuale, è quella di una civiltà ed
è la possibile estinzione del genere umano; sono anni importanti da questo punto di vista: dai primi
anni ‘50 fino alla fine degli anni ‘80 c’è qualcosa nel mondo che ci fa ricordare che l’uomo è
estremamente fragile. Tutto ciò ha a che fare con la paura -pericolo atomico: dalla Seconda Guerra
Mondiale si è usciti con due bombe atomiche e da allora il pericolo atomico ha creato un nuovo
concetto di paura collettiva. Tutto il genere umano è di fronte a qualcosa che può annientarlo
completamente, senza compromessi.
Tra i predecessori di questa poesia - Palazzeschi, Pasolini, Amelia Rosselli (Documento, raccolta sul
pericolo nucleare) - è importante Elsa Morante che nel 1968, in un momento di crisi profonda
personale, oltre la depressione: ha rasentato il suicidio perché un suo amico e amore, un pittore
americano, si è buttato dall’Empire State Building a 26 anni. Per lui lei scrive Il Mondo salvato dai
Ragazzini, un libro che tende ad andare fuori di sé e diventa un oggetto non identificabile: abbiamo
disegni, onomatopee, fumetti - la forma tende a espandersi. È un libro della dismisura che prelude a
La Storia, 1974.
Rebecca Bazzano

Dario Bellezza, dopo l’autodichiarazione oscena (come se si fosse denudato sulla scena), mostra il
soggetto come oggetto delle traversie della vita incontrollabili: la vita lo spassa da un dolore all’altro.
Bellezza smonta l’impianto di Montale: le ferite sballottate dalla vita sono di pur amore, non ci sono
infingimenti, non c’è retorica dell’amore, ma amore puro e basta, così come si presenta nella vita.
Non ci sono neanche personaggi femminili salvifici, donne a cui dedicare un Canzoniere, schermi che
proteggano dal dolore.
[Si tratta di testi contemporanei perché ci costringono a tarare i nostri strumenti di lettura].
-> fare una comparazione testo a testo
Giovanni Raboni, Cadenza d’inganno
Per cadenza d’inganno si intende un finale che non ci si aspetta nella musica; le cadenze sono
movimenti tra un accordo e un altro. Raboni ha scelto questa metafora: un flusso tonale che va dove
non ci aspettiamo che vada e che ci trasmette in un certo senso un’idea di sospensione, di attesa
della quiete. La cadenza d’inganno ritarda il conseguimento della quiete, è uno stato di sospensione
che aggiunge complessità e consapevolezza della fragilità: siamo in un mondo complesso in cui non
tutto va come dovrebbe andare.
Dobbiamo pensare a una specie di sottotesto musicale che pervade tutto il libro.
Abbiamo un libro con 17 sezioni, alcune delle quali molto brevi, che hanno ognuna dei titoli e una
datazione: Raboni ci fa vedere il laboratorio in cui è cresciuto questo libro. È il suo secondo; il primo
era Le case della Vetra - una piazza di Milano, una porzione di quartiere vicino a cui Raboni aveva
abitato. È un luogo della sua infanzia e adolescenza, che è cambiato moltissimo nel tempo. Questi
cambiamenti di paesaggio urbano sono l’ossatura del suo libro.
Cadenza d’Inganno invece parte con premesse diverse: nonostante ci sia molta Milano è presente un
tornare indietro rispetto all’ambiente familiari. Sono poesie dal ‘57 al ‘64 dedicate alla morte della
madre.
Siamo di nuovo di fronte alla separazione e alla soglia del materno, condizioni in cui si sviluppa
l’angoscia, la paura, a cui il sentimento della paura va sempre ad attingere. La prima parte del libro è
una ricerca di contato con la persona da cui per forza ci si è dovuti separare.
Quadratura
La poesia è più semplice rispetto a quella di Bellezza.
Il valore della punteggiatura è coerente. Dopo la parola segnali abbiamo una sospensione; la poesia
sembra risolversi alla fine, arriviamo alla chiusura del tema da cui eravamo partiti.
In un punto la poesia sembra cambiare modo di muoversi
Brotski dice che ogni poesia ha due momenti: al prima parte della poesia, che è il quadro, e la
seconda parte della poesia che diventa la storia. Ogni singola poesia è un modo di muoversi
dall’immagine fissa alla storia in movimento.
Il Ma avversativo nel quinto verbo introduce un cambiamento simile a quello di Bellezza; Raboni
però introduce questo cambiamento in uno stesso verso, non in modo casuale: da un lato vuole
sottolineare visivamente l’opposizione, dall’altro vuole aggiungere informazioni per aiutarci nella
prima parte. La prima parte è appositamente poco chiara, sospesa. La sospensione della seconda
parte invece è diversa, perché prelude a una soluzione. Le due parti sono comunque ben collegabili.
È una poesia molto corporea, però nella prima parte sembra molto distante dall’umano: abbiamo un
metallo ossidato, una bottiglia di vetro aggredita dalla muffa. La morte aggredisce con una fisicità
molecolare, non ha una tangibilità, ha una temporalità diversa da quella dell’uomo. Nella seconda
Rebecca Bazzano

parte si recupera la fisicità dell’essere umano: è come se i morti rimanessero lì a sorvegliare, vicino ai
loro resti.
I corpi incerti aspettano dei segnali: la persona morta manda un messaggio a quella viva. Il
messaggio non si costruisce nel ricordo della persona morta, ma direttamente dai morti.
La comunicazione con i morti e dai morti è fondamentale in tutto il libro: il loro presentarsi è più
importante del nostro ricordare.
c’è una specie di metafora economica, che tornerà nel libro: in qualche modo bisogna far tornare i
conti. Il nostro destino è investire psichicamente, moralmente per poi ricevere qualcosa indietro.
Questo paragone con la sfera economica ci riporta al titolo: quadratura in senso economico ci
indirizza verso il far quadrare i conti, ma quadratura indica nell’astrologia una certa gradazione di un
pianeta rispetto a un altro, in modo negativo. Si cerca perciò una quadratura economica ma anche
cosmica: non si tratta solo di lamentarsi con le spese di un funerale, ma anche di rientrare in contato
con qualcuno che non c’è più.
È in fondo lo stesso problema del Male Oscuro di Berto: c’è un tornare di qualcuno che
apparentemente non c’era più, in modo preponderante. La crisi vera di Berto inizia con la morte del
padre, momento in cui deve davvero fare i conti con chi non c’è più.
Non è una celebrazione della madre morta, è un tentativo di ritrovarsi in una situazione che non
esiste più.
Si può fare un’interpretazione anche Pascaliana: qualcosa che non necessariamente è la
testimonianza di una fede religiosa ma che comunque ha un sentore che certi segnali di un altrove
possano essere ricollegati a qualcosa di cui intuiamo la grandezza ma non riusciamo a capire.
Creditori
Anche qui è presente il piano metaforico dell’economia.
Ancora è presente l’attenzione della madre verso i bisogni del figlio, anche se lei stessa è vicina alla
morte.
Abbiamo una forte contrapposizione temporale: la madre deve portar pazienza, vede un tempo più
emotivo mentre per l’autore si parla in due minuti e gli amici si affrettano. I morti hanno un altro
tempo che non coincide con il nostro, che è sempre stretto tra le cose che dobbiamo fare.
La banale quotidianità (chi aggiusta le tende) è stretta in piccoli blocchi ai quali si può dedicare un
tempo ben preciso; i morti devono invece portar pazienza per entrare in contatto con noi,
imprigionati in questa temporalità di un momento dopo l’altro.
Si può fare un confronto con Bellezza: il meccanismo è simile perché si parla della temporalità di un
diario, una concezione del tempo frammentata. Il diario è la scrittura del tempo così come viene, è il
cercare di fissare un momento sapendo che è transitorio. È la transitorietà dalla quale il soggetto
cerca di scappare. Succede lo stesso: i morti ci insegnano un’altra concezione del tempo, più ampia e
più partecipata, che ha più il senso dell’interazione umana, del curarsi dell’altro.
c’è la stessa idea della temporalità che ci imprigiona rispetto alla quale il nostro compito è diverso:
dobbiamo uscirne, per Raboni attraverso ciò che ci trasmettono i morti.
C’è una certa vicinanza all’ultimo Montale, di Satura e Xenia (1971): le ultime poesie sono dedicate
alla moglie morta. A Raboni quel libro non piacque: lo accusò di aver svenduto la sua tecnica poetica
a una prosa molto bassa, cursorea, da giornale. In effetti Montale è molto più prosastico, però
ricorda dinamiche simili. Raboni forse ha sentito stridente la scelta di Montale di ridurre a estrema
prosa la memoralità del linguaggio precedente. Le aree tematiche però sono simili: dialogo con la
morte.
Rebecca Bazzano

In Creditori abbiamo dei versi endecasillabi, eccetto i primi due, si ruota intorno a una misura
dell’endecasillabo (accento sulla decima, conformazione ritmica che va a cadere o sulla quarta o
sulla sesta o entrambe: due posizioni accentate devono essere tra la terza e la settima sillaba).
l’endecasillabo più canonico è l’ultimo: è un endecasillabo accentato sulla terza, sesta e ovviamente
decima. È un endecasillabo di terza e sesta, presente in tutta la tradizione poetica dai poeti siciliani.
Lo stesso vale per il quarto verso, che presenta lo stesso schema.
Il terzo verso presenta l’accento sulla seconda e sesta sillaba; è però diverso dagli altri: c’è una
sinalefe tra tende e alle (sinalefe: etimologicamente significa spargere un unguento su due parti; qui
la sinalefe fa rientrare due vocali in una stessa unità di tempo). Leopardi parlava di Concorso delle
vocali, del concorrere quindi di due vocali in un’unità, una delle caratteristiche fondamentali
dell’italiano.
Anche tra finestre ed e dovrebbe esserci una sinalefe ma questo non accade perché altrimenti si
verifica una ipometria: avremmo un verso più corto, con meno sillabe nel conteggio.
In una fila di endecasillabi si presume che il poeta abbia scelto una determinata misura anche
forzando un verso, forse cercando di trasmettere qualcosa anche tecnico: è come se dovesse
separare anche le due scene. Qualcuno mette a posto le finestre e gli amici fanno altro: la vita
quotidiana si disperde in piccole cose nelle quali non stabiliamo contatto.
È un messaggio che ci arriva anche nella piccola separazione della e.

Paranoia ha una forte valenza scientifica: indica gli stati nei quali ci si comporta in una situazione di
estremo pericolo. Ci fa comportare come se l’ambiente fosse estremamente diverso rispetto a quello
che è davvero.
Non è una reazione frontale al pericolo ma un tentativo di ridimensionamento del pericolo che causa
sensazioni di estremo disagio.
Rumore, oggetti che si ingrandiscono, isolamento
Il rumore può presagire un pericolo.
La reazione alla paura è l’evitamento o la fuga
Dal punto di vista letterario ci porta a pensare che molti testi sono legati all’interazioni di questi
fattori: essere da soli, al buio, in gruppo, sottoposti a un forte rumore o a un silenzio prolungato.
Molto spesso questi indizi sono presenti in modo isolato o raggruppato nei testi. Si può parlare di
isotopie, convergenza di fattori di significato che orientano un sistema di segni (per noi testo
letterario). l’isotopia della paura è una compresenza di alcuni di questi fattori che per il biologo sono
appunto il buio, lo stare soli etc. Questi fattori interagiscono, innanzitutto, nella soglia tra veglia e
sonno; questo è presente sia in Bellezza che in Raboni.

Bellezza, Paranoia
È una situazione di risveglio ma di permanenza di un incubo, che intatto risuscita. È una poesia
estremamente piena di pathos che ci mette davanti a uno stato di dolore, che non chiude la porta al
patetico in termini espliciti.
Fattori sia lessicali sia della disposizione delle parole che compongono la presenza della paura (non si
sceglie solo le parole giuste ma anche il modo giusto di combinarle): io che ricorre come pronome
(c’è molto io), il suo modo di disporre è però insoggettivo - l’inquadratura non cambia mai; c’è poi
molto visualità, il canale di percezione privilegiato è quello della vista. Questo tutto al quale fa
riferimento è il dolore: tutto aggiunge dolore.
Rebecca Bazzano

Con l’enjambement si sottolinea ciò che altrimenti andrebbe a perdersi; non sono molto forti ma
sono frequenti.
Marco Praloran ha ipotizzato che l’enjambement potesse essere uno stato naturale della poesia, il
vero segnale dell’ossessione per la disposizione propria della poesia. È infatti l’unico elemento della
poesia che non si può ridurre a prosa.
“Dopotutto”: ridondanza sul fatto che il panico sia insormontabile, tipico segnale di patetico, di
messa in campo diretta del pathos. Lui è il soggetto e ci fotografa la sua reazione, sta per essere
travolto da un incubo che permane e agisce in paranoia, come se le immagini fossero vere.
Symos- grumo tra cuore e stomaco nel quale si sviluppavano i sentimenti. Racchiude una
condensazione di passione.
Ulcerato cuore - inversione che vuole sottolineare e che da un ritmo diverso.
Bellezza infatti a differenza di Raboni non allude a strutture metriche esistenti, punta all’energia
scaturita dal ritmo.

Mostra tutti qualcosa di grande: universo, sole, giorno. Un insieme lessicale che richiama lo
smisurato, la smisuratezza della paura.
Percorso dall’ individuale al politico. Abbiamo le tre sfere di azione di Baumer: soggetto,
sopravvivenza della specie, paura colpa.
Queste tre si uniscono quando cerca un rapporto con il fuori, il politico
Richiama un certo tipo di paura letteraria in modo evidente.
C’è un vettore che porta nell’astrazione

Alcune paure scaricano l’energia vitale, che in Bellezza si scarica sul binomio classico di Amore e
Morte. Il titolo di questa sezione è Paranoia. Dopo la stabilizzazione degli equilibri in Europa i termini
come terrore e paranoia tendono a politicizzarsi: terrorismo, paranoia in senso sociale.
Anche Paranoia è un termine che indica un campo al di fuori della razionalità, scelto da Bellezza per
la connessione con la paura e per l’indicazione che dà sul fatto che queste poesie siano un manifesto
dell’uscita dalla razionalità.
Non c’è una speranza nell’al di là, c’è un combattere tra Amore e Morte nel pieno della nostra vita
soggettiva. È un continuo racconto di come ci si rende conto che il pensiero razionale non porta da
nessuna parte. Dario Bellezza è un poeta volutamente chiuso su sè stesso, che potrebbe far pensare
a un’idea di poesia più vicina alla nostra; in più c’è una specie di vitalismo della morte, una coscienza
di una morte che compare continuamente ma anche un’idea che di fronte a questa morte l’unico
modo di agire sia dichiarare la propria essenza vitale, dichiararsi quindi come soggetto, come io,
come persona devastata dalla vita che però esiste e resiste a questo vuoto che lo circonda. La
paranoia è un viaggio all’interno di questo io che bussa continuamente alla porta.
l’Inferno di cui parla è la mancanza di riferimenti metafisici e la mancanza di corrispondenze con la
nostra natura, condannata a combattere da sola.
-> Ricorda Leopardi
Bellezza riprende Leopardi in chiave moderna: l’uomo è solo in mezzo a un mondo che non pensa
più, non ha più imparato a pensare se non in termini utilitaristici, materiali e cerca di cancellare la
morte dai propri orizzonti. Una persona ancora viva però, paradossalmente, è continuamente legata
alla morte.
Rebecca Bazzano

Pensare significa cancellare il richiamo della profondità, della madre fuggitiva, dei battiti del cuore: la
poesia non è pensiero, è il racconto di una concentrazione di passioni e per questo il suo linguaggio è
estremamente diretto.
Poesia Amleto: personaggio della dicotomia essere e non essere, coraggio ad essere e paura di non
essere; forse in Dario Bellezza vediamo in forma poetica l’idea che la rappresentazione della paura è
un passo necessario per superarla.
Dalle scelte lessicali sembra riscrivere gli ultimi grandi scritti di Leopardi. Anche quando nega
qualcosa sembra essere affermativo, di sé stesso e della sua posizione. Una vittima sacrificale che va
contemplata nella sua consapevolezza di essere mortale, destinato a scomparire.
“chi ama la vita lo conservi e bruci”: il compimento della vita è viverla, che significa anche
conservarla nella sua idea di relazione, di caducità, buttarla via.
“la paura. Lo ripeto a me stesso invano. Questo non è né poesia né testamento[...]e si muore “. c’è
anche qui un lessico leopardiano molto forte, la paura di “non scriverlo “ è paura di non viverlo,
paura che la sua stessa paura passi inosservata, che non venga affrontata.
Bellezza nega poesia e testamento: che sia qualcosa di artificiale e che sia qualcosa che rimanga nel
tempo. Fare poesia significa scrivere mentre si vive. Per lui la poesia aveva senso solo se fatta così; la
poesia gli serviva per vivere perché era in quel momento dentro la sua vita. Per questo, forse, sceglie
di negare. La sua poesia diventa tale nel momento in cui ha paura; è il sistema per fissare la parola in
quello che si sta vivendo da dentro. Di fronte a questo che vale cercare le parole per dirlo meglio: lui
non vuole dirlo meglio, vuole dirlo e basta. Lo scrivere è incarnato dentro questa necessità.
La scrittura in versi è sottoposta a una forte messa in discussione; siamo all’inizio degli anni ‘70, dopo
una stagione poetica che va dalla metà degli anni ‘50 fino al ‘68 in cui la scrittura in versi è molto
centrale, il verso è un meccanismo di espressione su cui si è scommesso molto.
All’inizio degli anni ‘70 c’è invece una certa attenzione a una poesia performata, legata alla voce, alla
presenza scenica, del corpo: il poeta diventa un corpo: si fanno letture di poesia, performance,
improvvisazioni. Si esce dalla dinamica della pagina e si entra in un flusso di parole che passa
attraverso i corpi.
-> Pasolini scrive Trasumanare, un libro scritto in versi nel quale i versi tendono ad altro; Elsa
Morante in Il mondo Salvato dai Ragazzini mostra il verso diventare prosa, disegno etc.
La scelta del verso è una scelta di adattamento a un clima culturale; il verso di Bellezza tende a stare
in piedi non tanto perché dialoga con i versi strutturati precedentemente ma perché tende a
riscrivere l’accavallamento dei ritmi. È un meccanismo dinamico più che un’adesione a una
tradizione. Lo scrivere in versi è fare i conti con la crisi del verso che ha intorno ma anche dare una
dinamica al verso. Scommette sul verso perché è qualcosa di dinamico.
Poi c’è la questione antropologica: il verso è una trascrizione in forma scritta di ciò che abbiamo in
forma orale, è un meccanismo di memoria, serviva per ricordarsi una sequenza.
Il verso è un tentativo di raggruppare i un solo nucleo parole che altrimenti sarebbero staccate. La
sua funzione primaria è consentire il processo del racconto.
-> la pagina è solo un supporto
Scrive in versi perché non aveva altri mezzi per formare un racconto e ricordarlo.
-> The Singer of Tales: che cosa significa scrivere in versi anche oggi
Scrive in versi per riconoscersi antropologicamente, forse era l’unica scelta possibile.
Raboni
Raboni dedica alcune sezioni all’Economia della paura.
1968 è un anno chiave
Rebecca Bazzano

“Possono, Possono sempre” -> Aspettando Godot, leggi


È una prosa.
Cèline: lo ricorda per la gestione del ritmo, per le piccole omissioni di termini.
Non dà identità nel testo (punteggiatura) ma fa immedesimare molto il lettore, che prova empatia
con il personaggio per i dispositivi tecnici (empatia dei soldati di De Roberto).
Ci sentiamo molto vicini alle due voci: effettivamente, non si tratta di personaggi fisici, sentiamo solo
la loro voce.
È una conversazione che ha momenti di incertezza: uno parla di una cosa, l’altro pensa si parli di
altro. C’è una necessità di correggere l’altro.
Una di queste due cose di cui parlano ha a che fare con qualcosa di ospedaliero.
Idea di allucinazione, visione di un singolo, ma allo stesso tempo verità non compresa (un matto che
non viene creduto). È come se volesse farci capire che c’è un fenomeno che tutti possiamo verificare,
presentato sotto forma di allucinazione.
È un’interpretazione molto elaborata.

Si tratta di un’intercettazione: abbiamo il nastro che si avvolge, un nastro magnetico di registrazione.


Parallelamente abbiamo l’iniezione dell’anestesia.
Il sughero è un isolante: abbiamo cabine fatte di sughero per intercettazioni telefoniche.
-> Le vite degli altri film
I due protagonisti hanno paura di essere intercettati; è un dialogo volutamente indeterminato. Lei ha
paura di essere sottoposta a un’anestesia, perché durante questa potrebbe parlare e rivelare la
storia che condividono. È un farmaco che porta a parlare e lei ne ha paura.
-> 1984
Si passa da un campo sociale all’altro. Dalla sfera pubblica a quella privata e viceversa.
La paura non è risolta alla fine: il dialogo parte da questa doppia paura e si chiude allo stesso modo,
è simmetrico.
Partendo da Boulevard Berthier
È l’inizio di una manifestazione pubblica, di un corteo in memoria di uno studente ucciso dalla
polizia. Raboni inserisce molta cronaca di quei tempi. È il punto più pubblico del libro.
Siamo nel maggio ‘68, lo studente Gile è una delle diverse vittime dei moti che portarono
all’occupazione del teatro Odeon.
In Italia, a Bologna, in via Mascarella (41) nel 1977 fu ucciso Francesco russo.
Un’altra sezione si intitola l’alibi del Morto, 1970 il 12 dicembre del 1969 a Milano esplode una
bomba che uccide 17 persone. Questo è l’inizio della Strategia della Tensione, una serie di attentati
che arrivano alla strage di Bologna del 2 agosto 1970 e del Rapido del 1984.
Un’altra sezione è Notizie false e tendenziose: a Milano nel ‘72 un traliccio esplode per una bomba.
Viene ucciso Giangiacomo Feltrinelli, l’editore. Su questa morte si costruiscono una serie di ipotesi.
Sono tre punti della cronaca della paura di quegli anni da esplorare.

Contatto con la paura trasmutato in termini politici.


Abbiamo infatti due domini, privato e politico; possiamo parlare di un resoconto di due tipi di paura
che si intrecciano.
L’affetto privato sovrapposto e intrecciato nella stessa costruzione testuale con l’essere vittima di
una situazione politica.
Rebecca Bazzano

In Dario Bellezza avevamo la rappresentazione frontale, visiva, diretta dell’incontro tra Amore e
Morte.
In Raboni abbiamo la stessa situazione, espressa però in termini diversi.
La Morte è però il versante più a contatto con la paura, con le sue dinamiche e forzature.
Il punto di partenza tra Paura e Morte è fisico: partendo da Boulevard Berthier, una zona piuttosto
degradata, un pessimo quartiere.
Vengono rappresentati i funerali di uno studente tra il marzo e il maggio del ‘67. Raboni diventa
testimone di questi funerali, occasioni di ribellione e quindi altra repressione.
È un testo in prosa; il passaggio dalla poesia non è però definitivo. Raboni è un grande manipolatore
di tecniche rappresentative, usa la parola in modo molto multiforme.
-> la punteggiatura è la gestualità della lingua
Raboni cerca un effetto apnea, soffocamento, ansia, tensione rispetto a tutto il sistema percettivo
che abbiamo: da un lato abbiamo il funerale, la celebrazione di un morte, dall’altra la
consapevolezza che possa nascere una ribellione. Interrompe, inoltre, il traffico: siamo a metà tra un
funerale e una protesta.
Il corteo, la manifestazione sono visti come una massa organizzata, un corpo che si muove e ha i suoi
ritmi di rappresentazione e narrazione; è un flusso continuo con ondate che si sovrappongono. È
come se ci volesse dire qualcosa, volesse darci il significato per cui lui è lì. Sembra assorbire questa
tensione.
Questo corpo è in silenzio, un silenzio che assorbe perfino i rumori circostanti: è una protesta
silenziosa in reazione alla paura: le scariche elettriche della paura, che vengono dal contesto, sono
assorbite. È un esempio di elaborazione e superamento in chiave politica della paura.

Alcune sezioni tornano alla paura del singolo, come l’Alibi del Morto.
-> bomba nella Milano della gente comune (Banca nazionale dell’Agricoltura); è una bomba
assimilata dal corpo sociale in modo particolare: è il primo esempio di grande depistaggio politico, la
prima indagine riguarda, in molti anni, i movimenti anarchici. Viene arrestato infatti un intellettuale
di caratura piuttosto alta, insieme ad altri simpatizzanti anarchici, tra cui Giuseppe Finelli, un
ferroviere trattenuto e interrogato per quattro giorni e poi morto - secondo i rapporti ufficiali -
gettandosi dal secondo piano del commissariato.
Raboni fa una specie di sacra rappresentazione in quartine: trasforma in personaggi i nuclei nominali
delle persone reali.
Chi subisce il clima di paura è disposto a trovare una soluzione per ammorbidirla: la paura che
possano scoppiare altri attentati fa sì che appena trovato un possibile colpevole, viene accettato.
Si entra ancora una volta nell’economia della paura: la paura ha implicazioni economiche, in senso
monetario, molto importanti. Le Borse guadagnano molto dai capitalismi, dagli attentati, dagli
avvenimenti nefasti.
È un lato politico della paura che mostra come le generazioni che dovrebbero pilotare la paura la
manipolino.
l’odio di classe nella teoria Marxista (in Gramsci è l’istinto di classe) è quella forza che consente a
una classe sociale di diventare consapevoli della propria inferiorità; è un primo antidoto alla paura.
Il diventare vittima oggi consiste in una ricerca di quiete, stagnazione, è come se fosse un modo per
sentirci felici, pienamente membri di una comunità. È uno strano meccanismo che nella discussione
politica di oggi è interessante da affrontare.
Rebecca Bazzano

Raboni anticipa questo pensiero: aveva già intuito la capacità dei media di farci sentire vittime ma
felici (felici per essere dentro una grande angoscia condivisa, repressione condivisa).
In Notizie false e tendenziose abbiamo un’altra notizia di cronaca, quando venne ucciso Feltrinelli,
un personaggio un po’ strano: uomo ricchissimo, coltissimo con conoscenze a livello politico e
nazionale pari a quello di un gran ambasciatore; aveva amici governatori americani e personaggi di
grandissimo rilievo. È una scheggia impazzita del sistema borghese a contato con le parti più estreme
delle teorie marxiste; passa alla clandestinità e organizza delle azioni di disturbo, sabotaggio come
quella del traliccio. Gli esplode però la bomba in mano, e si crede sia stata un’esplosione fortuita. In
realtà molti anni dopo si scoprirà che l’attentato progettato da Feltrinelli era in realtà un attentato
contro Feltrinelli: era stato mandato lì per un sabotaggio interno alla sua organizzazione.
Feltrinelli era un personaggio molto controverso per cui non è facile ricostruire i suoi movimenti in
quegli anni e il motivo per cui potesse dare fastidio.
La moglie di Feltrinelli, fondatrice delle librerie, ha sempre creduto nel fatto che fosse saltato in aria
per una ragione politica specifica; il figlio Carlo, invece, sostiene che la morte sia stata un incidente.
Raboni si sofferma su questo episodio di cronaca politica, istituzionale; all’inizio mette una citazione
di Mandelstam: freddo in Europa, buio in Italia, il potere ripugnante come le mani di un barbiere.
Raboni sceglie una rappresentazione della cronaca, un’invasione nel tessuto poetico.
Raboni ci fornisce una specie di fotografia dell’attentato, un dissolversi delle prove, una denuncia del
fatto che non tutte le prove sono state raccolte.
In questa sezione c’è un’idea di riuscire a estraniarsi da questa cronaca e salvarsi da questo flusso di
angoscia, non è solo un reportage.
La paura è verso un senso repressivo ma anche un inizio di una reazione.
Non è un tremare istintivo, è sempre una sensazione fisica ma è un qualcosa che va elaborato
Conclude la sezione con una sorta di monito a prendere lezioni dalla storia.

-> brigate rosse: sono un’opzione militare che non ha molto a che fare con il caso Feltrinelli
I gruppi di estrema destra, d’altro canto, hanno una storia diversa e agiscono attraverso dei contatti
con organizzazioni straniere.

Se la paura diventa uno strumento di dominio posso indirizzare una determinata comunità a fare
certe cose. La paura può incidere anche sul guadagno o le perdite di una borsa, soprattutto in un
paese in cui l’economia si basa su rapporti fiduciari e di dipendenza.

La paura è stata teorizzata come area di dominio politico da alcuni politologi.


È un rilanciare la paura in senso geografico e politico (libro di Dominique Moisi, geopolotics of
emotions).
In questo libro Moisi dice che ci sono nel mondo tre aree: quella della Speranza, quella della Paura e
quella dell’Umiliazione. In terra islamica umiliazione, in Asia speranza e nelle terre occidentali la
paura, perché il futuro sarà ancora più preoccupante.
Quel libro era stato scritto prima delle conseguenze della crisi economica del 2008.
Nel territorio della speranza la convinzione del futuro luminoso è stata smentita dai fatti; e ha
rimesso in discussione queste grandi categorie politiche. È giusto non separare gli ambiti.

Patrizia Vicinelli
Tema del canto, del coro
Rebecca Bazzano

Elementi atmosferici, tramonto o alba - momento in cui il contatto con il sole è molto ravvicinato e si
sta passando da una situazione di sonno a una di veglia o viceversa (situazione di confine costante).
Molto spesso il soggetto è inseguito.
Altra presenza è la violenza, l’essere chiusi in stanze non esplorabili, l’essere prigionieri di una
violenza che non ha limite: l’irrazionale si unisce all’istituzionale
È una paura istituzionalizzata
Nonostante la presenza della voce sia molto forte e che questa può essere modulata
dall’improvvisazione, quando lei performava era tutto scritto nei minimi particolari, perfino le
modulazioni della voce venivano indicate con i colori.
C’è molto studio, molto ragionamento sulla fisicità.
La paura, di solito, è legata o al silenzio o all’urlo; è come se Patrizia Vicinelli entrasse nel linguaggio
riproponendocelo.
Non sempre ricordano è uno studio sul linguaggio della paura, quasi una scannerizzazione delle
sfumature di linguaggio legate alla repressione, all’autoritarismo, al totalitarismo.
Viveva in un clima complesso, una società molto aperta, con molte sollecitazioni che vengono da
molte parti (sovrabbondanza di informazioni) e molta intermedialità tra le forme artistiche (la poesia
non può essere letta come un risultato di intertestualità).
-> distorsione, senso di ribellione, gesto violento contro qualcosa che ci imprigiona; idea di una
situazione schizzoide, bipolare, orientata in modo contraddittorio, senso apocalittico.
La sua poesia è un prodotto culturale vicino ai prodotti musicali, un concept album con tracce intese
come disco e come viaggio, diverse tra di loro ma ricollegate a un percorso all’interno del quale c’è
anche il soggiorno nel carcere femminile di Rebibbia.
Fa pensare a uno studio sulla lingua, un’esplorazione del linguaggio. Infatti, lavorava sul
plurilinguismo ma anche sui registri linguistici.
È un’avventura epica tra i registri, i gerghi.
Torna nella rappresentazione dell’ansia e della paura Amleto, sospeso tra la paura e il coraggio, il
desiderio di agire e il tremore.
Mette in scena una situazione in cui ogni senso di verità è fuggito, le parole sono prive di vita. In
questi personaggi che dialogano c’è l’intenzione di ritrovare la vita nelle parole, di accorgersi che le
parole sono deprivate di funzione, come anestetizzate, prive di flusso vitale.
Ci sono due possibilità: andare al di là della parola, arrivare al suono (grido, urlo, scomposizione delle
parole) oppure lo studio delle parole, la trasformazione del linguaggio in un campo di studio.
Queste due forze agiscono insieme.
Ci sono riferimenti alla sua cattura, lei con la bimba in mano
C’è molta riflessione sulla condizione femminile, una denuncia sulle discriminazioni e le violenze che
subiscono le donne, soprattutto in queste parti in cui l’ambientazione carceraria c’è molta
solidarietà: Patrizia fu molto amata dalle detenute che stavano con lei e insegnò loro a scrivere,
recitare, stare su un palco.
C’è repressione e ribellione allo stesso tempo: strutture chiuse (corridoi, stanze, cancelli), ma anche
elementi vitali (Sole, voglia di non morire in questo contesto, voce meridionale). È come se le forze
della repressione e della resistenza si trovassero una vicina all’altra. È una poesia ricca di attriti, non
C’è sintassi consequenziale anche se si vede che si tratta della riproduzione di un viaggio, con
momenti cronologici di riflessione, ritorno e avanzamento.
È una polifonia, la voce è un nucleo centrale di espressione e mostra i pensieri, le associazioni
mentali.
Gioca molto sulla punteggiatura, i trattini, maiuscolo-minuscolo, parentesi: vuol farci capire quando
la voce è interiore e quando no.
Portare sulla scena significa dare una tridimensionalità anche al pensiero; tutto questo rimane nel
testo, anche se non tutto possiamo cogliere.
Ci sono anche differenze ritmiche: la violenza parla con parole pesanti, il pensiero è rapidissimo e
mette sotto la lente tutte le espressioni della violenza istituzionale.
Rebecca Bazzano

Vivian Lamarque
Patrizia Vicinelli aveva toccato la paura in modo più tangibile, corporeo. Vivian Lamarque in modo
presente, costante ma traslato.
Nonostante appartengano alla stessa generazione hanno un percorso nella poesia opposto agli
antipodi.
C’è una messa in discussione dello stesso linguaggio con il quale sto scrivendo: tra gli anni ‘70 e ‘80
ha ancora senso questo principio estetico ma anche pragmatico (è un modo di agire) che porta a una
critica e disorienta il lettore, che non sa se le cristallizzazioni linguistiche sono ancora utilizzabili o
meno.
-> Ulisse, Joyce: nell’atto in cui tolgo legittimità alle strutture consolidate, ne creo di nuove.
Victor Klempler - ebreo filologo con moglie ariana
Oltre ad aver fatto studi filologici, ha scritto Curriculum vitae, un reportage continuo delle cose che
gli succedevano; aveva una mania di annotare tutti i fatti che gli sono capitati della sua vita passata,
anche, sotto il nazismo. È un modello di diarismo tipico novecentesco, senza fronzoli, chiaro,
dettagliato, senza commenti.
l’altra opera è Taccuino di Un Filologo, LTI, cioè la lingua del terzo reich.
-> Weltanshauung: visione del mondo. È in realtà una parola nazista; Klemper lo spiega bene in un
capitolo: i nazisti odiavano la filosofia e avevano sostituito a filosoifia Weltanshauung. Anshau
significa guardare dritto verso un obiettivo, contrario di ciò che fa la filosofia (che mette punti
interrogativi, ragiona in senso dialettico e critico su ciò che succede).
Il nazismo ha sostituito la parola filosofia perché con weltanshauung si intende vedere il mondo con
gli occhi della mistica, dell’intuizione, dell’esoterismo, dello sguardo sul mondo preso come una
fede.
[Trasferire su un essere umano un gergo relativo alla meccanica].
-> 46-47: scetticismo
I sopravvissuti al nazismo usano la parola, inconsapevolmente, come la usavano i nazisti.
Il vocabolario della paura sopravvive ai momenti della sua nascita e della sua elaborazione; l’area
semantica della paura ha un vocabolario che molto spesso attraversa queste stesse situazioni, va al
di là del contesto nel quale è nata.

Terror and violence (2006)


- Uso del corpo connesso alla costellazione della paura
- Sociologia del terrore -> terrore e terrorismo come avvenimenti mondiali che si sono realizzati in
determinate zone del mondo
- Queste forme di terrorismo hanno in comune le cose che abbiamo visto nella poesia di Vicinelli , il
passare attraverso il corpo, Orrorismo Cavarero
- Salto simbolico che permette di raggiungere i suicide bombers-> determinati dal fatto che il
controllo dei corpi sia vivi che morti in modo immaginativo o fisico è un modo per creare potere
politico
- Corpo e potere politico sono strettamente connessi
- I cinegiornali sono un’invenzione della Russia Sovietica, il fascismo li ha ampliati.
- Possibilità della distruzione tra corpo e politica
- 11 settembre: per la prima volta abbiamo sperimentato il controllo sul corpo e il rapporto con la
politica
- La poesia della Vicinelli è molto politica

L’esprit du terrorisme
- Risveglio di una paura globale
- Relazione tra paura e corpo, paura come vettore politico, sensazione collettiva e serie di
rispondenze politiche
Rebecca Bazzano

- Sorta di sciopero di avvenimenti negli anni Novanta non succede niente degno di nota poi arriva
l’11 settembre
- 11-09 avvenimento puro che concentra in se tutti gli avvenimenti che non hanno avuto mai luogo,
concentrazione simbolica di eventi
- Concentrazione in forma figurativa che possiamo leggere con molte chiavi di lettura
- Realizzazione di un sogno distopico

Vivian Lamarque
Il signore degli spaventati
- è un genere di poesia opposto a quello della Vicinelli
Nasce nel 1946 ed è una figlia illegittima, nucleo centrale nelle motivazioni di scrittura. Viene data in
adozione a una famiglia milanese e a 4 anni suo padre adottivo muore, a 9 anni scopre di avere due
madri (biologica e adottiva).
Racconta che quando conosce questa realtà scrive la prima poesia; inizia così il suo percorso
psicologico - poetico.
La prima raccolta importante si intitola Teresino, nome di un bambino immaginario (femminile
trasposto al maschile) nome che riprende un campo di concentramento, sterminio e transito della
Repubblica Ceca, Terezin.
Era usato soprattutto come campo di dissimulazione: apparentemente tenuto molo bene, mostrato
alla Croce Rossa per non far pensare al vero trattamento riservato ai prigionieri.
Oggi è dentro una cittadina abitata.
È una storia anche di quei bambini nel campo di concentramento, è un’opera scioccante tutta
sotterranea.
Segue poi una trilogia.
Scrive ciò perché aveva bisogno di aiuto. Parla di un tentativo psicoanalitico per uscire dal disagio.
Sono dedicate a uno psicoanalista di cui non ha mai rivelato il nome. Lui è il signore d’oro e il signore
degli spaventati, che invece siamo noi. È la storia di un innamoramento esplicito.
I bambini persi
I bambini sono una presenza quasi costante sia come soggetti che come destinatari potenziali.
Potrebbero essere lettere come poesie per bambini ma non solo.
La paura è lo stato d’animo che ci fa tornare più bambini.
Siamo nello spazio della fiaba, del sogno del bosco (luogo privilegiato della paura). È come se ci
desse le coordinate spazio-temporali in cui dobbiamo trovarci.
Il signore di fronte
Molte sue poesie si trovano in micro-prose che possono anche essere lette come versi.
La psicoanalisi hungiana è un tornare indietro verso un passato a fondamento del nostro equilibrio
individuale e collettivo.
Noi viviamo per Hung su uno strato di archetipi, immagini primordiali che rievochiamo ogni volta che
viviamo un disagio psichico.
Sono immagini primordiali che connettono molte culture e che dobbiamo andare a disturbare per
chiedere loro cosa ci ha portato a un livello di disagio e malessere.
Il signore degli spaventati
Evoca gli animali primordiali e tenta di stabilire un dialogo con loro. Fanno parte del nostro inconscio
e se non si dialoga con loro finiscono per sbranarci.
Questo sarà presente anche in Anna Maria Ortese.
I treni di Vivian Lamarque sono molto presenti: situazioni di passaggio, precarietà.
Le aree di queste poesie sono molto chiare: sono immagini che possiamo ricostruire facilmente e
sono tenute insieme da vari elementi.
- Il linguaggio fanciullesco da bambini per bambini, didascalico, lessico semplice
- C’è una terza persona, il soggetto lirico non è forte, preponderante. C’è un alto grado di formalità,
si usa spesso signore, parola polivalente (immagini evocative ma anche colui che tiene il gioco,
Rebecca Bazzano

governa il viaggio. È anche un simbolo, un pianeta, una costellazione, una carta dei tarocchi - unisce
diversi piani e non si capisce se sia un modo per distanziare o uno per comporre una storia)
- Faunetto - associato a Dioniso e quindi all’irrazionale, è l’animale come ci che non è dotato di
articolazione linguistica e quindi parla un linguaggio che non possiamo decifrare se non con fatica e
approssimazione. Si parla tra l’altro di un animale selvatico ma c’è un forte contatto con questo
essere animato ma non umano
- È il racconto della sua terapia è un diario terapeutico trasformato in storia usando la terza persona
e creando personaggi usando tempi narrativi come l’imperfetto il passato remoto.
- Il sogno non riguarda solo la paziente ma anche il medico, che sogna ciò che gli suggerisce
l’irrazionale, il faunetto.
- È forte anche il distacco l’idea di attore l’allontanamento, vero nodo della paura - che nasce da un
attaccamento che non riusciamo a sciogliere
- Apparente assenza di artificio
- Schema domanda e risposta: usato per i bambini ma anche in terapia; essere bambini implica il
fatto di farsi sempre domande
I signore della fotografia
- Usa la terza persona probabilmente anche per mettere in serie le immagini - come fosse un
corridoio con le immagini sestate- e perché lei stesa le visualizza volta per volta
- Il lettore partecipa alle immagini; è più importante l’immagine che chi le visualizza
- Si potrebbe pensare che sia una fase dell’analisi in cui visualizza il padre, non è importante però lei
ma il fatto che questa immagine si formi.
Il signore delle trappole
- quando si visualizza un’immagine, è il segnale di star ricostruendo uno stadio dell’inconscio mai
raggiunto prima. Tutto ciò provoca un grande dolore: si rivede una situazione traumatica alla radice.
- È un modo di rendere le trappole: trappole a fin di bene ma che ci fanno soffrire e urlare. È una
strategia, una specie di lotta in cui ciò che è doloroso è in realtà necessario
Il signore che faceva male
- la terapia viene rappresentata quasi in diretta, l’incapacità di staccarsi da qualcuno è forte da fare
malissimo ma immediatamente dopo un po’ meno. Il dolore è iniziale, poi viene ridimensionato
Il signore della calligrafia
- è poesia italiana per cui ha dietro se una forte tradizione lirica, di rapporto con il soggetto e ritualità
amorosa
- Lei gioca molto su questo
Il signore della febbre
- anche la vecchina è un’immagine dell’inconscio di cui non conosciamo il ruolo
Il signore e la signora
- sole e luna sono principali archetipi, tutta la terapia jungiana è basata sulla dualità tra elemento
maschile e femminile
- Non si comprende l’insistere delle domande: forse toglie al lettore la possibilità di farsi le sue
La signora nel bosco
- chi attraversa un disagio fa fatica a farlo capire agli altri: altri boschi sembrano più facili da
attraversare
La signora della paura
- Abbiamo la paura, che provoca la fuga
- L’orrore è la paralisi
- Radunare le forze anche se non serve a niente è necessario perché è unica cosa da fare
La signora del parasole
- è un vero e proprio quadro: lo spazio delle poesie è molto quadrato
- Qui la donna protegge l’uomo; in realtà sappiamo che essendoci una certa equivalenza è anche lui
che protegge lei (è lui che sogna - dovrebbe essere lei)
Rebecca Bazzano

La signora felice
- Tentativo di uscire dalla paura in modo reale o potenziale
- La madre è un punto irrisolto della sua vita
- Un po’ come i bambini che assimilano le cose a ciò che conoscono già; il bambino è una metafora
pure - si passa da un oggetto all’altro con una facilità estrema - gli autori imprigionano questa
fantasia e queste analogie continue
- L’ultima analogia porta al cuore autobiografico: una sua non mamma, situazione che lei ha vissuto
da bambina
La signora spostatrice delle montagne
- nel mondo ostile bisogna fare sforzi incredibili cercando di dosare le forze

Anna Maria Ortese e Fabrizia Ramondino


È un modo per congedare la paura: la paura, il terrore e l’orrore non sono centrali in Sonno e In
Veglia e in Passaggi a Trieste, ma sono uno stadio di un determinato numero di relazioni. La paura è
qualcosa che sentiamo come presente ma che si supera o con la quale prima o poi veniamo a un
compromesso. La paura è una specie di patto che le autrici fanno con il lettore.
I due libri hanno affinità e differenze.
La prima affinità riguarda la presenza di una narratrice e quindi di un punto di vista centrato su una
persona che racconta e che in linea di massima si qualifica come io narrante, femminile per cui è
qualcosa di particolare, non è un caso che siano due donne a inventare e raccontare queste storie.
La seconda somiglianza è nella quantità di personaggi, inventati, immaginati o reali; sono libri che,
nonostante non si presentino come romanzi -campo in cui l’interazione tra i personaggi è strutturale-
hanno moltissimi personaggi. Sono poi libri che vanno a fondo: sono due esplorazioni verticali che
danno la sensazione di voler scavare fin dove possibile, entrano in profondità nell’angoscia che si
può provare vivendo da soli (Ortese) o in collettività (Ramondini).
Sono libri crudeli e incisivi che costringono il lettore a riflettere.
La differenza fondamentale è innanzitutto nel genere: In sonno e in Veglia è una raccolta di racconti,
Passaggio a Trieste è un reportage in forma di diario. Nessuno dei due è un genere romanzesco;
questo essere generi diversi li porta a organizzarsi in un modo narrativo differente e forse anche
verso un punto di vista diverso, nonostante sia in entrambi soggettivo e femminile. Il campo di
visuale è diverso e soprattutto lo è la voce; è un modo diverso di dar voce al soggetto che racconta.
Anna Maria Ortese
È dentro e in mezzo alla scrittura; la scrittura è la sua vita, non potrebbe vivere senza scrivere tanto
che la scrittura a volte ha finito per soverchiare la vita stessa. Raccontare la propria vita significa
anche raccontare i modi di scrivere e come sono cambiati.
Il libro più autobiografico si intitola Corpo Celeste, che sembra farci riflettere su qualcosa di
metafisico, fuori dal mondo reale. Invece contatto con il mondo reale non significa raccontare i fatti:
per Ortese c’è tanta realtà nell’immaginazione, immaginare i mondi significa anche viverli. Questa è
una costante che ha molto disorientato critici e lettori.
Ogni personaggio è il polo di una conversazione, c’è molto discorso nella narrativa di Ortese (anche
in Ramondini): i personaggi dialogano. Ognuno di questi però ha un “catasto di memoria” fatto di
avvenimenti, fatti, esperienze e soprattutto sopravvivenze di qualcosa di lontano. Sono donne,
uomini, bambini che sembrano aver vissuto vite precedenti lunghissime e piene di contenuto.
Memoria e conversazione sono le due componenti principali; anche i personaggi più insignificanti
sono pieni di memoria e pronti alla conversazione, una memoria che appartiene a qualcosa di più
grande del proprio vissuto.
Sembra che questi corpi celesti ci portino a comporre le nostre mappe, ad aprire le mappe dei nostri
sogni e aprire un senso di colpevolezza.
È un autoritratto di dichiarazione poetica: Ortese parla di una persona consapevole del fatto che
siamo su un pianeta che sta su un sovramondo; raccontare qualcosa di surreale significa anche del
mondo reale e al contrario ogni fatto raccontato si trova in relazione a un sovramondo.
Rebecca Bazzano

Il mondo di Ortese al contrario di quello dantesco non è ordinato e non si riferisce ad alcuna
cosmologia: è un mondo immenso e basta, incommensurabile e per questo fonte di angoscia.
In Sonno e In Veglia
Viene pubblicato nel 1987, anno importante perché pubblica per la prima volta con Adelphi, fondata
da Calasso e Bazlen, citato in Passaggio a Trieste.
Nessuno degli editori ha capito come Ortese lavorasse, ha pubblicato per editori molto piccoli per
cui le sue pubblicazioni sono state molto accidentate.
Con Adelphi si stabilizza ma è tardi perché il canone letterario si è molto cristallizzato e lei ne è fuori.
È il primo progetto editoriale di Anna Maria Ortese ed è un modo per tornare indietro nella propria
narrativa e presentarsi come narratrice che ha un credito nei confronti dell’ambiente letterario.
Monica Farnetti ha definito questi racconti purgatoriali: è come se con Ortese passassimo
dall’Inferno della paura al purgatorio della conversazione e della memoria. Come nel Purgatorio di
Dante il dolore esiste ma è diverso da quello dell’Inferno: guarda al passato, perché viene dalla
memoria, ma ha speranza di essere superato.
C’è un’aspettativa di salvezza nonostante il dolore; la conversazione è fondamentale, la parola serve.
La Casa del Bosco
Il Bosco è il luogo della paura (dramma di Shemberg), è il territorio dell’angoscia, ma la paura è
legata molto spesso all’ambito domestico, il perturbante in quanto ciò che è familiare diventa
straniero.
“Narrare è tempo, descrivere è spazio”: la descrizione della narratrice è dettagliata. La casa descritta
è quella in cui abita ed è piena di dettagli che inseriscono la narratrice nella storia, il suo punto di
vista ed elementi inquietanti. Noi ci stiamo muovendo dentro il paesaggio, non abbiamo un punto di
vista fermo. Le metafore e metonimie in Ortese sono fondamentali: la strada è come una bimbetta
di cinque o sei anni, è un’interazione di spazio e tempo simultanea.
È un dato importante perché nella paura si torna bambini. I vezzeggiativi e i diminutivi sono molto
frequenti e mostrano una realtà alterata, sono forme che subiscono il punto di vista della narratrice
tanto da diventare quasi stucchevoli. La materia narrata è riempita del punto di vista della narratrice,
caratterizzata però dalla memoria della bambina: è come se non ci fosse differenza tra bambino e
adulto.
Lo sguardo della bambina ad un certo punto si apre e come nella pittura impressionista le tinte
sfumano: l’azzurro, come in Cezanne, è il carattere della lontananza e diventa il colore dominante. Le
alture diventano tenui e l’occhio della narratrice, prima così attento e preciso, comincia a non vedere
più i limiti e si perde.
È uno schema interessante che non riguarda solo i paesaggi ma anche i personaggi, spesso
presentati da Maria Ortese in questa chiave a sfumare dal piccolo al grande: ogni personaggio ha un
carico di memoria, mistero, cose non dette che diventa come la regione sconfinata.
C’è però anche il ritornare alla casa: il fuoco della prospettiva si sposta all’interno della casa, del
condominio dove le figure sono silenziose, non fanno rumore e sembrano dipinte o appena uscite
dalla sua immaginazione. Non sapremo mai se queste figure sono reali o se le immagina. Questo
aspetto la avvicina a Passaggio a Trieste, in cui si racconta fatti completamente reali in cui però
interviene lo scatto dell’immaginazione.
È un’alternanza di punti di vista: dal grande al piccolo, poi di nuovo al grande e poi al minuscolo.
La descrizione è permeata da un realismo magico, quasi riflette la psiche della narratrice. È una casa
apparentemente semplice che attraverso la sua descrizione diventa psicologicamente connotata.
È una descrizione poco sensata: il camino è la luce in fondo al tunnel.
La paura è una specie di stanza che noi sentiamo come chiusa ma che ha in realtà un sacco di
aperture, per cui non ci sentiamo protetti; allo stesso modo noi non ci sentiamo protetti da questa
casa, che ha la forma di una mente.
Il realismo magico è una caratteristica notata soprattutto nei primi racconti di Ortese, Angelici Dolori,
una raccolta in linea con il modo di concepire il realismo narrativo. Ogni cosa è piena di ricordi
memoriali che permettono la dilatazione dello spazio e del tempo.
Rebecca Bazzano

Il realismo magico poi passa la soglia del sonno e della veglia, titolo del libro; non tanto tra sogno e
realtà ma tra sogno e veglia, momento in cui il confine tra ciò che vivo e ciò che immagino è molto
labile. È una situazione di soglia continuamente attraversata.
Anche la paura è una soglia, qualcosa che mi costruisco per non oltrepassare di nuovo la soglia del
materno (Rank).
Ortese non parla propriamente di paura ma della soglia che la mente narrante passa più volte: il
meccanismo della soglia va sviscerato.
Lo sguardo è sempre più concentrico: tutto porta al caminetto.
Nel realismo magico non c’è gerarchia tra personaggi e oggetti.
all’interno della casa c’è un aprirsi di un abisso sconosciuto: il labirintico fa sempre capolino e non è
abitabile. l’unica fonte di luce è una vetrata che illumina la casa da est.
l’ACCADUTO , quello che ci aspettiamo, è come se fosse un cartello. Nonostante tutto è indefinibile
anche quello perché si è sempre in sospensione

Il camino è l’unico punto consolatorio di questa casa così pervasa di una strana cupezza, per cui
Ortese ha una definizione interessante: malinconico terrore, formula che tiene insieme tutto il libro.
È una definizione che rasenta l’ossimoro: il terrore è legato all’adrenalina, al movimento, qui invece
è malinconico, tocca l’area della paura quasi retrospettivamente, come se ci fosse un’eredità che ci
accompagna, legato alla malinconia, all’umore nero, ma anche al passato - in quanto nostalgia e
incapacità di attingere al passato. Nei racconti di Maria Ortese abbiamo questa associazione tra
malinconia e terrore, tanto che c’è una proliferazione di reazioni e di tentativi di via di uscita (come il
camino, ma ci sono anche oggetti e personaggi che nascono dall’immaginazione, dal sogno, la cui
presenza è necessaria nel racconto a prescindere dal fatto che esistano davvero o no o che siano
animati o no). Nella narrativa di Ortese tutto è animato, anche ciò che è costruito dall’uomo, siamo
forse agli antipodi di Pirandello, con gli uomini meccanizzati nelle azioni: perfino l’inanimato fa parte
del vivente, convinzione che l’autrice ha dall’inizio.
È una narrativa di soglie continuamente oltrepassate.
Il Camino
La paura degli insetti è un tema molto legato a qualsiasi narrazione della paura: il ragno non fa solo
orrore per l’aspetto ma anche paura per il suo modo di architettare la realtà, di costruire una
trappola o lasciare un’impronta sulla realtà. È un animale abbastanza presente nel bestiario della
paura.
È una casa in cui ci sono tensioni che si vanno a concentrare su oggetti, animali e presenza oltre che
sulla narratrice, creando questa dialettica tra difesa all’orrore e senso di malinconia, oppressione.
Malinconie
Il lato malinconico della paura viaggia nel tempo, è uno dei vettori che in tutti i racconti funziona allo
stesso modo: è come se avesse preso la paura per viaggiare nello spazio e la malinconia per viaggiare
nel tempo.
Gli idraulici
Poi ci sono le presenze, come gli idraulici, che compaiono dal niente e non si capisce se compaiono
nel sonno o nella realtà. Si tratta di due personaggi che non si sa da ce parte siano della soglia; sono
le prime presenze che compaiono (una prima è solo attesa, non arriva). Tutto ciò che succede nella
casa del bosco ha questa dinamica: ha un potenziale di racconto molto vivace ma è sempre sospeso
al di qua o al di là della soglia della realtà. Tra sonno e veglia è un continuo intercalare.
“la calma rassegnata, compagna fedele dei terrori”
Compare poi una terza persone, che lei dice non di amare e quindi di non ricordarsene: sé stessa.
Anna Maria Ortese nomina qualsiasi presenza, anche immaginaria, con un nome proprio, a volte
buffo, a volte inventato; questi nomi possono anche cambiare (es. Trude o Trade).
A questo punto più non sentivo
È la lettera che sancisce la precarietà della casa del bosco e fornisce quindi uno spazio e un tempo
preciso alla paura di cui parliamo, al terrore che aleggia nelle mura della casa. Si parla di una casa
Rebecca Bazzano

che sarà abbattuta, che si trova su un terreno inquieto: è il momento di riconoscimento della
precarietà della vita, dell’esistenza di fronte alla quale il sentimento dell’incertezza e della paura si
manifesta. Compaiono poi Antonio e Pulicino.
Una cosa importante che tiene insieme questi racconti è il fatto che il sonno sia strumento di analisi
della realtà: quello che succede è strano ma non è lontano da una qualsiasi operazione psicoanalitica
- senza però il tramite del racconto del sogno e l’interpretazione logica.
Il sogno è la coscienza e dentro il sogno capiamo aspetti della realtà nascosti alla veglia, che è invece
la realtà che condividiamo tutti. Sognare non è un privilegio, è un dolore perché entriamo in una
visione sinistra della realtà. Il sonno è la coscienza, è un mondo rovesciato rispetto a ciò che ci
aspettiamo dalla narrativa.
Tutti i personaggi mandano messaggi, sono simboli della vita negata alla narratrice; sono presenze in
grado di comunicare e salvare la narratrice. In un certo senso la casa del bosco è luogo della paura e
della coscienza, che passa attraverso il sogno e incontra personaggi in grado di lanciare dei messaggi.
Uno dei personaggi che compare improvvisamente è M’Yskin, riferimento alla letteratura persiana (è
un vento persiano che Ortese tira fuori da qualche ricordo letterario e coincide con il protagonista de
L’Idiota). C’è molta letteratura perché anche la letteratura è un repertorio di ricordi che fa sì che la
paura diventi malinconica. Anche la letteratura in un certo senso è un insieme fantasioso tra sogno e
veglia al quale attingere - cosa in comune con Fabrizia Ramondino: c’è un substrato forte di
letteratura, sono libri stratificati anche se in realtà non sono romanzi.
Piccolo Drago
L’ultimo racconto è un auto-intervista, un autoritratto. Esiste una normalità, un insieme di norme e
consuetudini ed esiste un modo di deviare da queste norme, una deviazione che ha una sintassi,
quella del raccontare. Poche persone possono essere in grado, vivendo in una piena normalità, di
essere scontente di queste normalità e di cercare più mondi alternativi: questa normalità è
minacciata continuamente da deviazioni, errori e stranezze e risultati negativi che portano ansia e
soffocazione. In questo caso c’è perciò la necessità di trovare uno stato diverso, un bene assoluto dal
quale ci siamo forse distaccati in un tempo lontano e di cui ora sentiamo la mancanza.
La Ragione è probabilmente il fantasma di questa mancanza di questo stato di bene, calma. La
Ragione è ciò che abbiamo perduto, di cui sentiamo la presenza sotto forma di ansia e soffocazione,
come se avessimo deviato un percorso. Pochi se ne accorgono perché in questo stato ci
dimentichiamo della nostra condizione.
-> La Ramondino entra in un ex manicomio per andare a fondo di questa ricerca di uno stato di
calma, di armonia con il mondo che abbiamo perduto, uno stato di calma che il mondo stesso si
illude di creare in regolari rapporti, rinchiudendo la stranezza in strutture i cui possano essere
apparentemente lontane. È uno dei motivi, dei temi che uniscono i due libri: concepire la ragione
umana come qualcosa che si è perduto, qualcosa da cui ci sentiamo deviati.
Questa deviazione, che pochi sono in grado di rappresentare, è la radice della nostra ansia, del
nostro disagio, terrore. La consapevolezza di un’anomalia, di una malattia è paura legata alla
malinconia, perché malinconia è rendersi conto di aver perduto qualcosa e paura è invece
consapevolezza di essere nella minorità, nella parte non giusta, irrazionale.
Fabrizia Ramondino, Passaggio a Trieste
-> le vite degli altri abitano la mia
Un punto caratteristico di Fabrizia Ramondino è che tutto passa attraverso l’autobiografia ma non
c’è niente di autobiografico. È come se la vita reale stesse sempre a bussare alla sua coscienza per
essere narrata, ogni suo romanzo ha qualcosa di profondamente radicato nella sua vita o nella storia
della sua famiglia. Questo ci fa pensare a molti rimandi letterari: Proust certamente è un riferimento
importante, ci sono molte concatenazioni che ricordano la Ricerca.
Il primo romanzo di Fabrizia Ramondino si intitola Althénopis, significa “occhio di vecchia” (opis - dal
greco occhio; alt - dal tedesco vecchia) ed è una trasposizione della città di Napoli. È una Napoli che
rimonta per ad epoche precedenti alla vita dell’autrice e si snoda su un asse temporale, familiare e
soprattutto materno (tra figlia, madre e nonna).
Rebecca Bazzano

È la prima radice di una narrativa sviluppata in forma di romanzo e al contempo di scrittura diaristica
e cronografica, quasi di reportage.
In questo percorso di vita c’è Passaggio a Trieste. Fabrizia Ramondino non è una scrittrice che vive
sul suo tavolo di scrittura: ha viaggiato molto e fatto molte cose, come ad esempio lavorare presso il
sindacato dei disoccupati napoletani e seguire storie e vicende molto tristi e complicate del disagio
sociale della sua zona, oppure creare percorsi scolastici di recupero e scolarizzazione. È molto legata
al contesto sociale in cui opera, Passaggio a Trieste è un cambiamento di luogo ma non di vocazione
sociale. È un’autrice percorsa da periodi non facili: depressioni, dipendenza da alcool. È morta
improvvisamente per una cosa abbastanza misteriosa, si pensa una mareggiata l’abbia portata via su
uno scoglio di Gaeta; non è chiaro se si sia stata suicidata - è strano però che sia stata portata via da
un’onda poiché era un’ottima nuotatrice. È stato un gesto però che l’ha ricondotta a ciò che amava
di più, il mare.
In Fabrizia Ramondino, come in Ortese c’è una sensazione di vivente, di qualcosa che sta vicino
all’essere umano e comunica con lui.
C’è un piano di realtà costantemente presente, parla sempre in autopsia, di cose che ha visto con i
suoi occhi, sempre legate al suo passato. Non vuole inventare dei mondi, vuole partire da ciò che ha
visto ed è legato alla sua esperienza; può sembrare un limite ma in realtà è il motore della sua
scrittura.
Un fantasma letterario ma privato è Elio Gianturco, il fidanzato della madre di Fabrizia prima che
sposasse il marito e poi padre di Fabrizia, intellettuale, giovane, spregiudicato.
È un personaggio lateralmente della sua famiglia che la ricongiunge a Trieste. Elio Gianturco è un
click che fa scattare la permanenza del rapporto con la madre; la linea materna è il suo nucleo
doloroso e si proietta anche con il rapporto con la figlia, che è una danzatrice che abita a Berlino e
spesso ha raccontato la conflittualità che intercorreva tra le due.
La linea materna è perciò preponderante nei nuclei che poi diventano racconto.
Trieste è la città in cui Fabrizia Ramondino scopre la femminilità, la sua e quella collettiva, come
valore e patrimonio. Parla di Assunta Signorelli, di origine napoletana, che abita a Trieste. È il
personaggio fisico, reale, che unisce Fabrizia Ramondino a Trieste, è colei che la traghetta verso
Trieste.
Prima di iniziare il lavoro con Assunta (scrivere un reportage delle attività del centro donna di
Trieste) ed entrare nel centro donna salute mentale c’è un passaggio intermedio, una specie di
Purgatorio: una settimana passata in ospedale per disintossicarsi dall’alcool. La sintassi è già quella
che sarà propria del libro, c’è molta architettura, c’è molto senso dello spazio.
La paura in questo spazio è soprattutto quella della morte: Fabrizia si trova accanto a pazienti
terminali, che vivono la loro agonia finale con un certo timore e intorno a sé hanno un’atmosfera di
ansia, timore e angoscia. Fabrizia mostra come si sia immersa nell’ospedale pur mantenendo una
capacità critica importante.
Questi modi di vedere la vita sono compresenti: la paura diventa essa stessa una compresenza delle
opere, in dialogo continuo con altri modi di sentire la vita.
Si parla di sentire in senso estetico, scienza del percepire con i sensi: questa parola, sentire, è il
motivo principale di questa narrativa, non dissimile da quella di Ortese anche se con strumenti di
concezione del progetto differenti. Abbiamo la compresenza di ascesa e discesa, è un libro che va
verso il basso. È uno scendere ma anche uno scoprir sé stessa come donna, la sua femminilità messa
da parte per un certo tempo.
Il contrasto non è tra ragione e follia, ma tra amore e follia che si accompagnano come nella cultura
greca; la follia ha accecato amore ma deve adattare il passo a lui facendosi guidare. Il viaggio di
Fabrizia dentro questo centro di salute mentale è qualcosa che guida la follia, che la tempera e
attenua, rendendola più umana. Allo stesso tempo però questo amore che tiene la mano alla follia si
fa guidare: possono andare solo insieme.
Così comincia il diario, di cui tutte le giornate sonno scandite da delle poesie di Saba, significativo
perché è un autore che ha attraversato vari stadi della depressione, della malinconia.

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