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PIRANDELLO

Con Pirandello si parla ancora di decadentismo, ma in realtà quest’ultimo viene quasi ‘superato’ dallo
stesso Pirandello. Infatti, ricordiamo che un elemento fondamentale del decadentismo era il fatto che la
realtà potesse essere conosciuta solo attraverso l’intuizione, ovvero tutti gli stati alterati della
conoscenza. Con Pirandello, questo elemento viene superato; nel senso che non c’è possibilità di
conoscenza della realtà che ci circonda, e addirittura secondo Pirandello spesso non abbiamo una
conoscenza vera neanche di noi stessi.
L’UMORISMO
Tutta l’ideologia pirandelliana si basa sul concetto di umorismo. Attualmente, per umorismo si intende
un concetto che si basa sull’ironia e sullo scherzo. Per Pirandello l’umorismo è un qualcosa che avviene
attraverso due gradini. Il primo gradino è la percezione, che lui chiama l’avvertimento del contrario. Il
secondo gradino è la riflessione. In realtà anche per noi esistono e si verificano questi due gradini: l’atto
di ridere è solo una percezione momentanea, mentre in un secondo momento riflettiamo su ciò di cui si
è scherzato. Per spiegare questo concetto Pirandello fa l’esempio di una vecchia signora con i capelli tinti
e unti e con il rossetto sulle guance, che lui vede e deride, poiché non gli sembra la rappresentazione di
una vecchia signora rispettabile. Pirandello dice che qui interviene il comico che corrisponde
all’avvertimento del contrario, cioè trovare nella realtà qualcosa che stona con la realtà e che è contrario
alle convinzioni di una specifica epoca. Tuttavia, Pirandello prosegue dicendo poi di essersi soffermato a
pensare che forse quella vecchia signora si conciava in quel modo solo perché soffriva nel vedersi con le
rughe, e quindi di non essere più capace di riderne come prima. A questo punto è intervenuta la
riflessione, che l’ha portato ad andare oltre al primo avvertimento. Perciò, possiamo dire che il comico è
la percezione, un avvertimento che abbiamo al momento e che riguarda una percezione sensoriale.
L’umorismo, invece, è la riflessione, e non è caratterizzato solo dall’atto di ridere, ma anche dal senso del
tragico, come la tragedia della vecchia signora che ha un marito più giovane, che non l’accetta con le
rughe che ha. Quindi, l’umorismo è un misto di comico e tragico, è un qualcosa che parte dal sorriso, ma
che alla fine diventa amarezza. (esempio prof: ragazzo che cade e noi ridiamo)
Pirandello ha questo senso dell’umorismo basato sul comico e sul tragico contemporaneamente, perché
vive con una percezione diversa i primi 20 anni dell’Italia. Sappiamo che nasce in Sicilia in una famiglia
benestante, però questa cosa gli consente da un lato di andare a studiare fuori, infatti si laureerà a Roma
e studierà anche a Bonn, in Germania, ma dall’altro lato si parla comunque della Sicilia, non molto
diversa da quella descritta da Verga. Per cui, si tratta di una Sicilia che è ancora patriarcale e arretrata, in
cui Pirandello avrà un matrimonio combinato, voluto dal padre per unire i patrimoni di due famiglie, con
una donna che probabilmente non ama, ma che comunque rispetta, una donna inoltre molto fragile e
malata. Sappiamo che la famiglia di Pirandello era una famiglia agiata, ma quando avviene un tracollo
economico dell’intera famiglia, la moglie di Pirandello impazzisce. Quindi, in questo momento Pirandello
non solo è costretto a sostenere economicamente la famiglia, dando lezioni private, diventando docente,
scrivendo articoli a pagamento su vari giornali, ma è costretto anche a sostenere la moglie, che delira e
che è vittima di allucinazioni e visioni. Tuttavia, Pirandello a un certo punto si rende conto che non è più
possibile tenerla in casa, poiché la situazione non era più gestibile, e quindi la porterà in una casa di cura.
Potremmo pensare che sia per questo che il tema della follia è così presente nelle opere di Pirandello,
ma in realtà non è proprio così. Sicuramente la malattia della moglie influì, ma probabilmente la tematica
della follia ci sarebbe stata comunque, anche senza la malattia della moglie.
Inoltre, vi sono alcuni momenti nella vita di Pirandello, che ci fanno riflettere per l’ambiguità. Ricordiamo
che dopo la marcia su Roma si verificò il delitto Matteotti, un episodio che fece vivere al fascismo il
momento peggiore, poiché mostrò la sua peggiore faccia, quella dello squadrismo e della violenza, ma
anche dell’arroganza, attraverso il discorso di Mussolini, ribaltando l’opinione pubblica. Tuttavia, proprio
a seguito del delitto Matteotti, Pirandello decise di iscriversi al partito fascista. Sappiamo che in
Pirandello c’è sempre stata la necessità di trovare stabilità, sicurezza e ordine nelle cose che lo
circondavano, per cui riteneva che quello fosse il momento giusto per aderire a un partito che voleva
garantire l’ordine. Tuttavia, in seguito in alcune interviste, pur non rinnegando la sua adesione, afferma di
essersi sbagliato, perché il partito non ha portato ciò che lui sperava.
RELATIVISMO CONOSCITIVO
Come abbiamo detto, Pirandello nasce in Sicilia da una famiglia agiata, che gli permette di studiare a
Roma e laurearsi a Bonn. Tuttavia, si tratta di una famiglia molto all’antica, per cui Pirandello è costretto a
sposarsi con una ragazza dello stesso rango sociale. Dal matrimonio nascono anche tre figli, Stefano,
Fausto e Lietta. Sappiamo che la moglie inizia a soffrire di allucinazioni e problemi di nervi, per cui
Pirandello è costretto a ricoverarla in una clinica. Questo è uno delle tante cause che porteranno allo
sviluppo del suo pensiero pessimista.
Pirandello è immerso in una realtà in rapido mutamento, a causa dello sviluppo industriale, delle
scoperte scientifiche, della nascita delle grandi metropoli, e così via. In questo contesto, la riflessione di
Pirandello è che in qualche modo l’individuo si smarrisca, poiché questi grandi cambiamenti lo portano
ad essere solo un piccolo elemento di un sistema che è molto più grande. Quindi, in qualche modo è
come se questo progresso generasse intorno a lui l’anonimato; l’individuo perde completamente la
propria identità, al punto di non conoscere nemmeno se stesso. Questo viene chiamato relativismo
conoscitivo e si associa anche al clima del tempo (infatti, sappiamo che si parla di relativismo anche a
proposito della teoria della relatività di Einstein). Tuttavia, ciò che emerge maggiormente nel pensiero di
Pirandello è soprattutto l’incomunicabilità; vi è la mancanza di ogni certezza e il mondo di ogni individuo
diventa un mondo soggettivo. Questo concetto viene spiegato da Pirandello con una metafora, in cui dice
‘Questo è il tempo in cui non ci sono più i lanternoni, ma i lanternini’. I lanternoni erano quelle grandi luci
che guidavano gli individui, gli ideali propagandati nell’800; in quel momento questi ideali sono crollati,
quindi ci sono i lanternini, nel senso che l’uomo è come se avesse in mano una piccola lanterna che gli
crea un alone di luce intorno, ma è un alone ristretto. L’individuo, quindi, riesce ad avere la certezza di se
stesso solo in quel ristretto cono di luce e non riesce a vedere oltre. Il relativismo conoscitivo si unisce
alla concezione di umorismo.
PRODUZIONE LETTERARIA
LA POETICA
Pirandello è considerato un esponente del decadentismo, ma in realtà con lui il decadentismo è
superato, poiché non troviamo la possibilità di poter percepire l’intera realtà attraverso l’intuizione, in
Pirandello l’io, l’individuo, non è più al centro del mondo, quindi tutto è frantumato.
Pirandello è un autore estremamente versatile, un po’come d’Annunzio, infatti ha scritto poesie, romanzi,
novelle e soprattutto opere teatrali. L’arte poetica è definita da Pirandello arte fuori di chiave. Lui usa
una metafora musicale: per introdurre una qualsiasi melodia, bisogna usare ma chiave di Sol, mentre
l’arte fuori di chiave è intesa come la mancanza dell’armonia, una disarmonia, che è l’unica che può
esprimere la frantumazione del mondo.
OPERE
Per quanto riguarda le opere, noi innanzitutto dobbiamo dire che non esiste un ordine preciso di
scrittura delle opere, tranne la fase poetica che è quella giovanile e che poi abbandona, perché in realtà i
romanzi e le novelle camminano di pari passo.
NOVELLE
La raccolta di novelle di Pirandello si intitola ‘Novelle per un anno’, che è un enorme repertorio di
novelle, di cui alcune sono di stampo verista per quanto riguarda l’ambientazione, perché troviamo la
Sicilia arcaica descritta in Verga, mentre i personaggi sono completamente diversi, perché c’è uno scavo
psicologico che nei personaggi di Verga non troviamo.
IL TRENO HA FISCHIATO (NOVELLA)
Il treno ha fischiato è una novella che rappresenta la massima espressione del senso di alienazione
dell’individuo, un concetto tipico della società industriale del tempo e che troviamo anche in Marx per
esempio. Questa novella è particolarmente importante, perché in essa troviamo rappresentate due cose
che Pirandello definisce le trappole. Le trappole sono i due legami della società, che impediscono
all’uomo di essere se stesso e di conoscersi fino in fondo: di questi legami uno è la famiglia e l’altro è il
lavoro. Uno dei legami è la famiglia perché in tutte le famiglie secondo Pirandello ci sono delle tensioni,
dei rapporti nascosti, delle ipocrisie, delle rivalità e gelosie, che portano la famiglia ad essere una
trappola che imprigiona l’individuo. La seconda trappola è il lavoro, perché il lavoro è visto un po’ come
frustrante, monotono, che non dà gratificazione, che è soltanto una necessità per sopravvivere ma che
non fa altro che imprigionare l’individuo.
L’individuo che nella società si trova a vivere una vita così soffocante, che è soprattutto quella piccolo-
borghese, ha solo due possibilità di fuga dalle trappole. Una è la fuga dell’irrazionale, ed è quella
descritta dalla novella il treno ha fischiato. L’altra fuga è quella della follia, che è vista come una specie di
ribellione a una vita opprimente, tanto che l’individuo preferisce essere considerato pazzo piuttosto che
vivere secondo le convenzioni sociali.
Il treno ha fischiato è caratterizzata da una struttura narrativa che è come un’inchiesta, una specie di
indagine. La novella inizia in medias res, cioè quando il crimine è già avvenuto. La novella racconta la
storia di un contabile, Belluca. Egli ha un carattere molto mite, puntuale e dedito al lavoro, sottomesso
da tutti. Per descriverlo, lo scrittore adopera la metafora del somaro perché tante volte egli veniva
rimproverato e fatto sgobbare dai colleghi di lavoro senza pietà e per scherzo, con lo scopo di vedere la
sua reazione; mai egli non si era mai ribellato ed aveva sempre accettato le ingiustizie, anche le più
crudeli, senza dire una parola. Un giorno inizia a comportarsi in un modo non corrispondente al suo
carattere di sempre, tale da non sembrare più nemmeno lui: arriva in ritardo in ufficio e non svolge
regolarmente il suo lavoro. Quando il capo ufficio entra nella stanza per controllare il lavoro svolto, si
accorge che egli non aveva lavorato e sorpreso, e gliene chiede il motivo. Il contabile reagisce
scagliandosi con violenza contro il suo capo, ripetendo più volte, che un treno ha fischiato nella notte,
portandolo in luoghi lontani come la Siberia e il Congo. A questo punto viene creduto pazzo e ricoverato
in un ospedale psichiatrico. Giunto in ospedale, continua a parlare a tutti del treno; i suoi occhi hanno
una luce particolare, simili a quelli di un bambino felice, e dalla sua bocca escono frasi senza senso. La
cosa suscita incredulità e stupore perché fino ad ora si era sempre occupato di numeri e di registri e mai
dalla sua bocca erano uscite espressioni poetiche che rimandavano a paesaggi bellissimi quanto ignoti.
All’improvviso, un vicino di casa che lo conosce inizia a gridare che Belluca non è impazzito ma che è
necessario conoscere la vita che egli è costretto a condurre, prima di esprimere un giudizio su di lui ed
accusarlo di pazzia.
Infatti, egli vive in una situazione familiare disastrosa. La sua numerosa famiglia si compone di dodici
persone: la moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutte e tre cieche; hanno bisogno continuamente
di essere servite e non fanno altro che strillare, dalla mattina alla sera. Oltre alle tre donne, in casa
vivono due figlie, vedove con quattro figli la prima e tre la seconda. Con lo scarso guadagno da
impiegato, Belluca non è in grado di sfamare tutte queste bocche, per cui si è dovuto procurare un
secondo lavoro che svolge la sera, fino a tardi che lo sfinisce e lo porta all’esaurimento. Quando Belluca
riceve la visita del suo amico, che lo informa che tutti lo credono affetto da follia, lui stesso gli racconta di
quella sera quando, essendo talmente stanco, da non riuscire a dormire, sente da lontano un fischio di
un treno e, quindi, la sua mente lo riporta indietro nel tempo quando anche lui conduceva una vita
“normale” a cui da tempo non pensava più; e quello che gli è successo è stato un ritorno al passato che
lo ha fatto evadere della vita misera che conduce.
Dimesso dall’ospedale, ritorna alla solita vita da contabile, si scusa con il capoufficio il quale, però, gli
concede, ogni tanto di pensare al treno che ha fischiato e di evadere, con l’immaginazione, verso paesi
lontani.
Il treno che fischia è come un’“epifania” che rivela al protagonista l’esistenza della “vita” al di fuori della
“trappola” sociale. E questa “vita” si presenta in una prospettiva spaziale immensa (il treno che viaggia
tra Firenze, Bologna, Torino, Venezia, la Siberia e il Congo) rispetto all’angusta camera in cui Belluca
dorme e all’altrettanto stretto posto di lavoro. Pirandello ci vuole dimostrare che il vero folle non è
Belluca, ma i suoi colleghi perché accettano di lasciarsi imprigionare nel grigiore della quotidiana vita di
ufficio (la forma o la maschera). Invece Belluca cerca di uscirne ogni tanto con la fantasia e trovare così
un elemento che lo possa stimolare e dare un minimo senso alla sua esistenza. Egli si rende conto che in
futuro avrà a disposizione la fantasia come valvola di sfogo: potrà viaggiare con quel treno di cui ha udito
il fischio e sopportare, così, il peso della sua misera esistenza.
Il senso dell’umorismo all’interno della novella è nascosto ed è presente nella prima parte, in cui
Belluca risponde male al capoufficio e reagisce con violenza, che è la parte del comico, a cui assistono
tutti i colleghi. Successivamente, con il narratore che interviene abbiamo la riflessione, perché questo
narratore conosce la vita di Belluca e ci fa riflettere sul motivo delle sue azioni, che diventano tutt’altro
che divertenti.
Nella novella Pirandello utilizza la suspence. Grazie a questa tecnica che informa per gradi il lettore sugli
antefatti, l'autore (benché non abbia avuto la volontà consapevole di creare un racconto di suspense nel
senso attuale del termine) si è avvalso di elementi in grado di suscitare curiosità e attesa e quindi
tensione e sospensione emotiva. Inoltre, un altro elemento importante è il narratore, che è anche un
testimone, poiché è un vicino di casa, e poi vi è Belluca, che a volte parla indirettamente, dicendo ciò che
pensa. Quindi c’è questo scambio di piani narrativi tra il narratore testimone e il protagonista del
racconto.
CIAULA SCOPRE LA LUNA
In questa novella c’è un confronto diretto con Rosso Malpelo, perché l’ambientazione è la stessa, inoltre
vi sono anche due ragazzi che lavorano nelle miniere. Quindi, quest’ambientazione, cioè quella della
Sicilia arcaica, in cui non vi sono valori che vadano oltre il semplice interesse economico e il concetto del
lavoro minorile sottopagato, porta al confronto con Rosso Malpelo. Tuttavia, le differenze tra le due
opere sono essenziali; Rosso Malpelo è un ragazzo estremamente lucido, consapevole della sua
condizione, lui stesso sapeva di essere considerato ‘un cattivo’ e quindi si atteggiava da cattivo,
adattandosi alla situazione. In Ciàula scopre la luna, invece, abbiamo un ragazzo che ha sempre lavorato
nella cava di notte, e quindi non ha consapevolezza di sé, non ha nessuna percezione del fatto di essere
maltrattato, preso in giro dai compagni.
Ciàula scopre la luna è una novella di ambientazione un po' più verista, almeno apparentemente, perché
è ambientata nella Sicilia rurale e quindi c'è questa cava di zolfo (questi sono elementi autobiografici,
infatti sappiamo che la famiglia di Pirandello era proprietaria di cave di zolfo). Per quanto riguarda i
protagonisti, possiamo vedere i collegamenti con Verga, ad esempio il sorvegliante viene chiamato
"Caccia gallina” proprio come in Verga avevamo i vari soprannomi come "Zio Crocifisso",
"Mangiacarrubbe" ecc.
La vicenda è interamente ambientata in una miniera in Sicilia in cui, una sera, il sorvegliante obbliga i
minatori a lavorare tutta la notte in modo da finire il carico della giornata. Cacciagallina, il sorvegliante,
impugna una pistola per costringere i minatori a trattenersi nella cava di zolfo ma gli unici a rimanere
sono il vecchio Zi’ Scarda e il giovane Ciàula. Il ragazzo, come definisce Pirandello, "aveva già più di 30
anni, ma poteva averne anche 7 o 70 scemo come era", quindi è un ragazzo che ha probabilmente dei
ritardi mentali e obbedisce sempre agli ordini di Zi' Scarda. Lui non ha paura del buio, anzi si trova a suo
agio nella cava perché ha sempre lavorato lì, però ha un'altra paura: che all'uscita della cava possa
trovare altro buio, ovvero la notte, quindi il suo panico è dovuto a quest'esperienza che è legata proprio
al figlio di Zi' Scarda. Infatti mentre lavorano il vecchio Zi’ Scarda decide di sfogare tutto il suo dolore sul
giovane, il dolore causato dalla perdita del figlio che il minatore ha perso proprio all'interno della stessa
miniera: durante lo scoppio in una galleria Zi' Scarda rimase ferito all'occhio e il figlio fu ucciso. Per cui
l’oscurità che fa paura a Ciàula non è l’oscurità tranquilla delle gallerie, ma l'oscurità che potrebbe
trovare fuori. A un certo punto deve uscire dalla cava, quindi si mette a tremare e vorrebbe rimanere con
Zi’ Scarda, però ha l’angoscia, soprattutto perché è schiacciato da un carico molto pesante che sta
portando fuori. Il finale è a sorpresa, perché quando Ciàula esce e scorge la Luna, che illumina tutto il
paesaggio circostante, tutto il terrore e la paura del giovane minatore si sciolgono in un pianto liberatorio
e sente una grande dolcezza, perché è quasi come se la luna fosse vista in qualche modo in maniera
benevola da Ciàula, come se adesso potesse illuminare le sue notti e gli fa passare la paura che aveva.
La luna è l’epifania per Ciàula, come se rappresentasse una specie di divinità. Molti critici hanno
analizzato il confronto tra l’epifania della luna in Ciàula scopre la luna e il canto notturno del pastore
errante dell’Asia, che si rivolge alla luna, infatti anche in questo caso abbiamo una luna distante, ignara.
In realtà il pastore errante dell’Asia non era altro che l’alter ego di Leopardi, che parlava alla luna,
ponendole delle domande esistenziali, cosa che in Ciàula non abbiamo.
RAPPORTO TRA VERGA E PIRANDELLO E IL LAVORO MINORILE
“Ciàula scopre la Luna” si avvicina moltissimo, come abbiamo detto, a quello che era il racconto di Rosso
Malpelo, infatti c’è la questione meridionale e molte altre affinità. L’attenzione si sposta sul personaggio
di Zi’ Scarda, che viene preso in giro dai compagni, che ha questo labbro deforme, che praticamente è il
suo versaccio solito, e anche questo è un aspetto che lo accomuna a Verga: la descrizione fisica dei
personaggi che viene vista in maniera oggettiva, però poi arriva il momento, l’aspetto comico e
umoristico di Pirandello che in Verga non c’era e infatti vediamo che le lacrime che Zi’ Scarda raccoglie
col labbro, perché ha questo labbro sporgente che viene visto come una smorfia, alla fine ci fanno capire
che c’è il terribile episodio della morte del figlio e tra le lacrime che lui raccoglie c’è questa lacrima che
lui avverte più salata, che è quella che è legata al ricordo del figlio, quindi in qualche modo vediamo la
riflessione sull’aspetto comico di questa deformità del viso.
Quindi abbiamo detto dei particolari oggettivi che già c’erano in Verga e li ritroviamo anche in Pirandello,
però c’è poi una prospettiva diversa, mentre in Verga avevamo appunto il narratore corale, tutta la gente
sia nei Malavoglia sia in Rosso Malpelo che narrava al posto del personaggio, qua invece non c’è, qua
abbiamo uno scavo psicologico del personaggio e la frantumazione dell’io, quindi ci sono poi gli
elementi umoristici e poi c’è anche l’interesse per il fatto storico che è realmente accaduto, i cosiddetti “
Carusi” erano quelli che lavoravano un po’ nelle caverne, nelle miniere al tempo in cui c’era la questione
meridionale verso la fine dell’800. C’è poi la tematica dell’emarginazione, del diverso, mentre Rosso
Malpelo era un ragazzo come un altro, era vittima soltanto del pregiudizio per il fatto di avere i capelli
rossi, invece qua abbiamo la diversità di Ciàula che è proprio un minorato mentale e quindi c’è lo
straniamento anche per Ciàula.
Umanità nuova
L’uomo che di fronte alla luna è come se avesse una visione, questa forse è una tematica tipicamente
decadente, quindi una visione, un’epifania senz’altro, l’apparizione della luna per Ciàula è sicuramente
un’epifania che gli fa scoprire una realtà nuova, una luna che lui non aveva mai visto e quindi il panismo,
diciamo la fusione con la natura. Sicuramente questa Novella può essere considerata decadente perché
ci riporta ai temi dell’irrazionale, del mito e dei simboli tipici del Decadentismo.
Riepilogando le tematiche, troviamo l’epifania della luna, il senso di liberazione e nello stesso tempo il
panismo, la fusione con la natura.
I ROMANZI
I romanzi di Pirandello sono diversi, i due più importanti sono ’’Il fu Mattia Pascal’’ e ‘’Uno, nessuno e
centomila’’. Prima di parlare di questi due romanzi è giusto fare una piccola premessa riguardo a un altro
romanzo che viene associato un po’ a una fase naturalistica/veristica pirandelliana, e questo romanzo si
intitola ‘’L’esclusa’’: è un romanzo di ambientazione verista in quanto è ambientato nella Sicilia del
tempo di Pirandello e quindi anche di Verga, però c’è il ritrarre una certa classe sociale in maniera
oggettiva (un qualcosa che ci indica che il passaggio di Pirandello è vicino a un altro tipo di tematica).
‘’L’esclusa’’ si incentra sulla figura femminile di una donna che viene accusata ingiustamente di adulterio,
lei è assolutamente innocente ma viene ugualmente allontanata da casa, additata da tutti nel paese
come se fosse un’adultera. In un secondo tempo poi l’adulterio viene commesso realmente da questa
donna e paradossalmente, dopo che l’adulterio è stato commesso, viene perdonata e riaccolta in casa:
quindi già in questo vediamo il superamento di quello che era lo spirito del naturalismo, perché nello
spirito del naturalismo innanzitutto c’è un ritrarre in maniera oggettiva l’ambiente, il personaggio, però
c’è anche uno sviluppo razionale della vicenda, mentre invece in questo caso abbiamo uno sviluppo
completamente assurdo, irrazionale, in quanto l’assurdità sta proprio nel paradosso che la protagonista,
nel momento in cui è realmente colpevole di adulterio, viene invece riaccolta in casa e perdonata da tutti
quando in realtà da innocente era stata allontanata da tutti. Vediamo un Pirandello che si allontana dalle
tematiche naturalistiche e si avvicina invece a quelle che poi saranno le tematiche del suo pensiero
posteriore.
IL FU MATTIA PASCAL
È un romanzo un po’ particolare che segna il percorso del pensiero di Pirandello proprio nel momento
più delicato, dopo che ci fu questo tracollo finanziario, dopo l’aggravarsi della malattia mentale della
moglie, quindi tutto questo rappresenta un momento difficile per l’autore e in questo momento la
stesura di questo romanzo è per lui quasi un rifugio, un modo per uscire da una situazione difficile che
stava vivendo. Sappiamo che in seguito a questi due eventi (il tracollo finanziario e la malattia della
moglie) fu costretto a scrivere a ripetizione proprio per portare avanti l’economia familiare.
Ne ‘’Il fu Mattia Pascal’’ ci fa riflettere già il nome del protagonista, Mattia che dal punto di vista del
suono ci riporta al nome matto, alla follia, e poi Pascal che ci fa ricordare subito il filosofo Pascal: quindi
in qualche modo è un romanzo che già ci indica un protagonista che è un po’ fuori di chiave, un
personaggio in disarmonia col mondo attorno a se, però nello stesso tempo è un personaggio che
potremmo definire quasi un filosofo perché è immerso nella meditazione, nella riflessione della sua
condizione.
L’identità di Mattia Pascal diventa ‘’fu’’ nel momento in cui avvengono determinati fatti: in realtà il
racconto è come se fosse una biografia che il protagonista stesso scrive dopo che sono già avvenuti i fatti
importanti della sua vita. Questo è un personaggio che vive in paese immaginario in cui vive la
sofferenza, l’angoscia delle famose trappole sociali, vive in una famiglia opprimente in cui lui litiga
continuamente con la moglie e con la suocera, e fa un lavoro monotono, frustrante, perché è un
semplice bibliotecario, non ha nessuno stimolo in questo lavoro. E quindi si sente frustrato sia sul lavoro,
che oppresso dalla famiglia. A un certo punto decide di prendersi una via di fuga e questa via di fuga lo
porta a Montecarlo, gioca nel casinò e fa una vincita colossale, e quindi, contento di questa vincita, sta
per ritornare a casa quando gli cade l’occhio su un giornale in cui è riportato un trafiletto in cui si dice
che questo Mattia Pascal è morto e che hanno trovato il cadavere di un uomo irriconoscibile che è
annegato in un ruscello e quindi pensano che sia lui. La moglie addirittura lo avrebbe riconosciuto, quindi
questa cosa fa scattare in lui la molla della fuga perché capisce che da questo momento lui può fuggire
da una vita assurda, opprimente, frustrante per potersi dedicare a ciò che vuole; ha i soldi della vincita e
lui inizialmente viaggia per l’Europa poi alla fine decide di ritirarsi a Roma dove affitta una camera e
questo padrone di casa è il suo interlocutore, quello con cui lui discute e parla spesso di filosofia ecc.
Lui intanto aveva acquisito un nuovo nome, non si chiamava più Mattia Pascal ma si farà chiamare
Adriano Meis.
A un certo punto si innamora della figlia del padrone di casa ma purtroppo non la può sposare perché
non ha documenti che attestino la sua identità. Poi viene derubato dei soldi che ha ma non può
denunciare il furto sempre perché non ha documenti. Quindi alla fine capisce che il suo diventare un
altro, il suo essere doppio, Mattia Pascal morto ma nello stesso tempo Adriano Meis vivo, non lo avevano
portato da nessuna parte, se non in una profonda crisi di identità. Per cui decide di lasciare Roma e
fingersi di nuovo morto, fingere la morte di Adriano Meis, e ritornare al suo paese solo che al paese
troverà la moglie, sposata con un altro uomo, che tra l’altro era un suo vecchio amico con una figlia, e a
questo punto deve farsi da parte. Gli resta solo il suo lavoro in biblioteca e lui continuerà ad insistere per
chiamarsi il fu Mattia Pascal infatti spesso si reca al cimitero a guardare la tomba in cui era stato sepolto
questo conosciuto che avevano pensato fosse lui (che in realtà si era suicidato).
Tematiche
C’è il tema delle trappole sociali, quello dello sdoppiamento, l’identità frantumata, la possibilità di avere
un doppio, un doppio che qui si frantuma anche lui e quindi ritornare alla prima identità significa
l’impossibilità di tornare indietro.
Tutto il romanzo è scritto con una vena di filosofia, perché il protagonista non fa altro che riflettere,
meditare su quella che è la sua condizione, ma in genere anche la sua condizione umana, ad esempio il
sentirsi legato a un nome da cui non riesce a liberarsi perché continua a chiamarsi il fu Mattia Pascal e
nello stesso tempo la casualità, i fatti casuali come la vincita, l’annegamento, possono incidere sulla vita
di una persona. Quindi vediamo che in questa trama, in questo racconto c’è quello che è l’umorismo
pirandelliano, che alla fine è la riflessione, e la riflessione è quella che ritroviamo anche in Mattia Pascal
e soprattutto lo vediamo perché lui dedica il saggio ‘’L’umorismo’’, in cui fa quel famoso esempio della
vecchietta e che ci fa prima ridere e poi riflettere sul senso tragico della vita e questa prefazione al saggio
‘’L’Umorismo’’ è dedicata proprio al personaggio di Mattia Pascal, che è proprio un personaggio fuori di
chiave perché ormai è in disarmonia con la vita, ma nello stesso tempo un personaggio paradossale che
perde due volte la propria identità e alla fine non sa neppure chi è se stesso.
‘’Lo strappo nel cielo di carta’’ (brano da il fu mattia pascal letto insieme)
Anselmo Paleari è il padrone della casa romana dove Mattia Pascal, trasformatosi in Adriano Meis, ha
fissato la sua residenza e dove cerca vanamente di costruirsi una nuova vita.
La riflessione di Anselmo Paleari sulle conseguenze di uno “strappo nel cielo di carta” del teatro delle
marionette mentre queste stanno rappresentando la vicenda di Oreste, in apparenza indecifrabile, è in
realtà un’importante chiave di lettura dell’intero romanzo pirandelliano. In realtà egli sta confondendo
due tragedie: una è la tragedia di Oreste, scritta da Sofocle, l’altra invece è l’Amleto, scritto da
Shakespeare.
Oreste incarna l’uomo certo dei propri principi, sicuro di combattere per valori riconosciuti come tali
dalla comunità sociale in cui vive e dagli stessi dei. Forte di queste certezze, egli può uccidere senza
lacerazioni interiori la sua stessa madre e l’amante di lei, Egisto, per vendicare l’assassinio da loro
perpetrato di suo padre Agamennone.
Amleto, nato dalla fantasia del drammaturgo inglese William Shakespeare, si viene a trovare in una
situazione analoga a quella di Oreste: anch’egli deve vendicare il padre, ucciso a tradimento con la
complicità della madre. Il comportamento di Amleto è però guidato dal dubbio, dalle incertezze;
nell’adempimento del suo compito l’eroe è tormentato da esitazioni e incertezze sul senso stesso della
sua vita.
A questo punto Paleari afferma che se avvenisse uno strappo del cielo di carta, Oreste non sarebbe più in
sé stesso ma diventerebbe Amleto.
È evidente che l’immagine del cielo strappato è una metafora del valore distruttivo della ragione nei
confronti delle illusioni create dagli uomini stessi a loro conforto; quando cade il soffitto protettivo di
queste illusioni, i valori che ad esse si riferiscono perdono di senso. Sotto questo cielo lacerato gli uomini
si ritrovano soli, privi di guide divine o umane; a loro non resta che arrendersi all’inazione: come Oreste,
si sentono “cader le braccia”.
Qua si evidenzia già quella che sarà la passione di Pirandello che è proprio il teatro.
UNO NESSUNO E CENTOMILA
‘’Uno, nessuno e centomila’’ è il passaggio successivo del pensiero di Pirandello, perché se Mattia Pascal
si frantuma l’identità ed è un doppio, che poi perde anch’egli l’identità, in ‘’Uno, nessuno e centomila’’ il
personaggio perde completamente la concezione di sé stesso. Il tutto parte da un’affermazione banale: il
personaggio è Vitangelo Moscarda, un uomo apparentemente appagato, benestante, con una bella
famiglia accanto, quindi non sembra che abbia niente di cui soffrire. Tutto parte da un’osservazione che
la moglie fa un giorno sul suo naso, dicendo che ha un naso che non è propriamente dritto. Lui si guarda
allo specchio e per la prima volta capisce che quello che vedono gli altri di sé non è quello che lui pensa
di essere, o quello che lui percepisce di sé stesso; per cui la sua identità inizia a frantumarsi, Vitangelo
Moscarda non è più nemmeno quello che gli altri vedono e alla fine può essere centomila. Ecco perché si
passa a dire le maschere pirandelliane: in realtà è molto riduttivo parlare di maschere riguardo al
pensiero di Pirandello perché sembra ridurre il pensiero di Pirandello soltanto a questo fatto che ognuno
di noi ha una maschera, che gli altri percepiscono e ognuno in modo diverso. Ma non è solo questo,
perché al di là della maschera c’è una sofferenza, una tragedia nel non conoscere, non solo gli altri ma
anche se stessi, del non essere capiti, o percepiti, dagli altri, come si vorrebbe , un concetto di solitudine,
incomunicabilità che va ben oltre quello che può essere inteso come il concetto di maschera.
Mia moglie e il mio naso
Il brano è l'incipit del romanzo, in cui il lettore viene subito posto di fronte all'evento scatenante, dal
quale deriverà una crisi esistenziale. La condizione di apparente serenità in cui vive Vitangelo Moscarda è
sconvolta dall’osservazione della moglie, che di punto in bianco gli fa notare che il naso gli pende
leggermente a destra. Ma non è finita, perché subito dopo la moglie gli trova tante altre piccole
imperfezioni: le sopracciglia troppo arcuate, una gamba leggermente più curva dell’altra, le orecchie
attaccate male. Come osserva Moscarda stesso, è l’inizio della fine: non tanto perché tali osservazioni
mettono in dubbio la perfezione della sua forma fisica, quanto perché lo costringono a riflettere sul
divario tra la nostra autorappresentazione e il modo in cui gli altri ci vedono.
Nella seconda parte del brano Moscarda si sofferma sulle conseguenze della sua scoperta. Percorre il
paese alla ricerca dei difetti altrui, fino a provocare una sorta di vera e propria epidemia: nel giro di poco,
tutti gli abitanti di Richieri si aggirano per le vie specchiandosi furtivamente nelle vetrine, per osservare
meglio questo o quel difetto. Finché tutto si ritorce nuovamente contro di lui e Moscarda arriva a una
seconda acquisizione, ancora più terribile della precedente: l’ultimo dei conoscenti gli fa infatti notare un
dettaglio che nessun altro aveva ancora rilevato, il "codiniccio" con cui terminano i suoi capelli sulla nuca,
ed egli scopre così che non solo gli altri vedono in noi cose che a noi sfuggono, ma per di più ognuno
vede qualcosa di diverso da tutti gli altri.

IL TEATRO
Pirandello arriva più o meno nella fase della maturità a scrivere pezzi teatrali, anche se possiamo dire
che l’interesse per il teatro probabilmente c’era anche prima, in quanto tutti i suoi personaggi,
soprattutto quelli dei romanzi più importanti e di alcune novelle, sono sicuramente pezzi che si
potrebbero rappresentare in teatro. Ciò lo dimostra il fatto che molte novelle di Pirandello sono state poi
adattate come pezzi teatrali, in quanto hanno un’impostazione dialogica che si presta molto bene ad una
rappresentazione teatrale: fra questi ricordiamo ‘’La patente’’ oppure ‘’L'uomo dal fiore in bocca’’ (sono
dei pezzi unici caratterizzati da un solo atto, molto brevi ma carini e ci illustrano molto bene il pensiero di
Pirandello).
D’altra parte, Pirandello scrisse novelle anche contemporaneamente al periodo in cui scriveva testi
teatrali perché sappiamo che le novelle lo hanno accompagnato in tutto l’arco della sua vita. Per quanto
riguarda il teatro dobbiamo dire una cosa molto importante, cioè che Pirandello nell’ambito teatrale
attua una vera e propria rivoluzione: la rivoluzione è quella che lui intende come metateatro, cioè il
teatro che riflette su sé stesso e che fa cadere completamente la finzione scenica, e gli attori, il direttore
di scena, i macchinisti si ritrovano a lavorare a sipario aperto e dunque il pubblico è coinvolto
nell’attuazione del pezzo teatrale. A volte gli attori scendono anche nella platea, intervengono con il
pubblico, fanno domande... Inizialmente questo tipo di teatro non poteva essere ben accetto in quanto
stiamo parlando di un secolo fa, ma probabilmente anche adesso rappresentare dei testi più famosi di
Pirandello è un po’ uno shock per lo spettatore moderno che è abituato ad andare al teatro, sedersi in
platea tranquillamente aspettando che si apri il sipario per vedere la scena che viene rappresentata sul
palcoscenico.
Con i testi più importanti di Pirandello non siamo più a questi livelli, si ha una vera e propria rivoluzione. I
testi più importanti che rientrano in questa rivoluzione teatrale sono soprattutto tre: ‘’Sei personaggi in
cerca d'autore’’, in cui ci sono 6 personaggi che entrano in scena, discutono con il direttore di scena, con
il capocomico, intervengono e coinvolgono il pubblico, poi abbiamo “Ciascuno a suo modo” e infine
“Questa sera si recita a soggetto”. Lo scopo di questa rivoluzione teatrale attutata da Pirandello è quello
di dimostrare che tutto è finzione: il teatro in realtà è una finzione nella finzione e alla fine abbiamo tutti
quella famosa maschera che ciascuna persona con cui abbiamo rapporti vede ma è una maschera non
uguale per tutti, ognuno la intende in maniera propria ed infatti Pirandello questi vari testi teatrali li
raccolse sotto il titolo di ‘’Maschere Nude’’, proprio ad indicare con un vero e proprio ossimoro che
apparentemente sembra che gli attori siano mascherati ma in realtà viviamo tutti nella finzione,
nell’ipocrisia, nei rapporti sociali artefatti e dunque è tutto solo un gran recitare che ciascuno di noi fa. Si
parla di un ossimoro perché la maschera non può rappresentare la nudità, di per sé la maschera copre ed
è all’antitesi, dunque, col concetto di nudità.
Il teatro Pirandelliano portò ad estreme conseguenze il pensiero di Pirandello: anche l’umorismo quando
parliamo di teatro non è più umorismo ma assume un aspetto particolare, per cui non si chiamerà più
umorismo ma grottesco. Non a caso il teatro di Pirandello è inteso come il teatro del grottesco in cui
l’ironia, il sarcasmo, il tono tragico si accentuano ancora di più. Dunque, per quanto riguarda le novelle e
i romanzi parliamo di umorismo, mentre per quanto riguarda il teatro parliamo di grottesco.
Ci sono due opere teatrali di Pirandello che non rientrano in questo capolavoro ma che ci spiegano
perfettamente come il pensiero di Pirandello si sta evolvendo verso nuovi orizzonti: la prima è ‘’La
signora Frola e il signor Ponza’’, due personaggi, genero e suocera, che mettono in scena questa
rappresentazione in cui dicono praticamente due cose opposte riguardo alla moglie e la figlia dell’uno e
dell’altro. La novella, scritta nel 1915, fu riproposta da Pirandello nel dramma teatrale in 3 atti “Così è (se
vi pare)”. In questa novella, il tema Pirandelliano delle molteplici verità è espresso con ironia e, allo
stesso tempo, con pietà nei confronti del vivere e della solitudine dei personaggi. La frantumazione della
verità: entrambi i protagonisti nelle loro visite abituali alle signore di Valdana forniscono informazioni
soggettivamente vere, secondo il proprio punto di vista, ma oggettivamente contradditorie, ognuno
cerca di dimostrare che dice la verità e che l'altro dice il falso. Eppure, i due si dimostrano affetto
reciproco e pietà, ciascuno nei confronti dell'altro: finge la signora Frola perché il genero sia contento
della propria verità, finge il signor Ponza perché la suocera sia altrettanto contenta della propria. Anzi, la
signora Frola ritiene che il genero abbia riacquistato il pieno equilibrio delle proprie facoltà mentali, ma
che finga per il timore di perdere nuovamente la moglie. In conclusione, lei deve fingersi pazza e la sua
figliola deve fingere di essere un'altra persona. A questo non c'è soluzione, perché alla domanda "A chi
credere dei due? Chi è il pazzo? Dov'è la realtà? Dove il fantasma?", Pirandello non risponde.
Per quanto riguarda il collegamento con i romanzi ritroviamo l’incomunicabilità, la solitudine di ciascuna
persona, il senso tragico della vita e soprattutto il cosiddetto essere forestiero della vita perché alla fine
tutti i personaggi di Pirandello sono i cosiddetti forestieri della vita, personaggi fuori di chiave che vivono
non ai margini ma dentro la vita però con mille finizioni che li circondano.
Nell’ambito della produzione teatrale c’è poi un caso a parte, ossia la tragedia Enrico IV che è
considerata il capolavoro di Pirandello e che non rientra proprio nel metateatro ma ha tutte le tematiche
pirandelliane all’interno. La vicenda narra di un giovane nobile che prende parte ad una cavalcata in
costume nella quale impersona l’imperatore di Germania, Enrico IV. Egli è un giovane che cade da cavallo
tornando da una partita di calcio e battendo la testa impazzisce, impazzisce veramente almeno i primi
tempi perché, visto che loro erano tutti mascherati da Enrico IV, Matilde di Canossa e così via, lui è come
se fosse rimasto quel personaggio di Enrico IV, è come se fosse rimasto nel costume, e tutti quanti,
siccome è un giovane e ricco, lo assecondano e lo trattano come se fosse effettivamente Enrico IV. Ad un
certo punto però nel corso della malattia che dura anni e anni lui rinsanisce, si rende conto di non essere
Enrico IV però continua a fingere di esserlo, continua a fingere di essere pazzo perché si è reso conto che
la vita ormai gli è estranea. Enrico IV rappresenta praticamente lo straniamento totale dell’individuo che
non si sente più partecipe di quello che è il flusso del tempo, di quello che è la vita che scorre e quindi
preferisce cristallizzarsi in questo personaggio. Tuttavia, la situazione diventa una tragedia nel momento
in cui pensando di farlo rinsanire, gli stessi personaggi con cui lui aveva fatto la partita di calcio, decidono
di mascherarsi di nuovo allo stesso modo. La scena viene così allestita, ma al posto di Matilde recita la
figlia. Enrico IV si ritrova così di fronte la ragazza, che è esattamente uguale alla madre Matilde da
giovane, la donna che Enrico aveva amato e che ama ancora. Ha così uno slancio che lo porta ad
abbracciare la ragazza, ma Belcredi, il suo rivale, non vuole che sua figlia sia abbracciata da Enrico IV e si
oppone. Enrico IV sguaina così la spada e trafigge Belcredi ferendolo a morte: per sfuggire
definitivamente alla realtà "normale" (in cui tra l'altro sarebbe stato imprigionato e processato), decide
di fingersi pazzo per sempre. Ormai la verità era svelata e tutti si resero conto che lui in realtà da anni
stava fingendo. Però lui a questo punto dice sono pazzo veramente e quindi dopo che ha commesso un
delitto decide di continuare a vivere nella pazzia perché la pazzia è l’unica via di fuga, l’unica strada che
gli permette di continuare a vivere al di fuori del flusso del tempo , è un po’ come quando abbiamo
parlato della novella Il treno ha fischiato anche se in questo caso non c’era una vera e propria pazzia ma
c’era la fuga dell’irrazionale, la pazzia era momentanea perché poi il protagonista rientra nella sua
routine giornaliera, riprende le sua attività però si lascia andare all’immaginazione e alla fantasia, qua
invece la pazzia resta l’unica possibilità di sopravvivenza.
Quindi, questa opera è considerata un vero e proprio capolavoro e alla fine Enrico IV è un eroe, è l’eroe
più straziato di tutti i personeggi pirandelliani. Dunque, tutto il teatro di Pirandello inizialmente prende le
sue origini dall’ambientazioni naturalistiche siciliane, il dramma borghese in seguito, però sicuramente
dopo sviluppa tematiche completamente diverse.
Pirandello in realtà non si ferma a questa rivoluzione del metateatro, nell’ultima fase della sua vita si
stava avvicinando probabilmente ad un misticismo forse più decadente scrivendo delle opere che poi alla
fine non completò ma che comunque avevano alla fine tendenze più irrazionalistiche e simboliche.

ITALO SVEVO
Il personaggio di Italo Svevo è un po’ diverso da quello di altri autori. Innanzitutto Italo Svevo non è il
vero nome, si chiama Aron Hector Schmitz ed è di origine ebraica, sia da parte della madre che dalla
parte del padre. Faceva parte di una famiglia italo-austriaca molto agiata, infatti il padre aveva
un’industria di vetrami.
Svevo nasce a Trieste, che era una città di confine: sappiamo che all’inizio del secolo c’era l’irredentismo,
quindi l'aspirazione del popolo italiano a completare la propria unità territoriale nazionale acquisendo le
regioni che non ne facevano parte, come il Trentino e il Friuli-Venezia Giulia. Quindi Trento e Trieste
erano l’aspirazione degli italiani, e vennero acquisite solo dopo la prima guerra mondiale, quindi in
questo periodo, periodo in cui nasce Svevo, Trieste fa ancora parte dell’impero asburgico, quindi
dell’impero austriaco. Trieste è una città di confine perché qui confluiscono varie culture: quella italiana,
quella slava e anche quella tedesca (l’impero asburgico aveva una grande componente tedesca), infatti
Svevo fu mandato in Germania per perfezionare la lingua e, secondo gli scopi del padre, per avviarlo a
quello che poi doveva essere un’attività industriale (visto che il padre si occupava di queste attività).
Grazie al fatto che studia in Germania, non solo conosce molto bene il tedesco (lo parla
tranquillamente), ma si avvicina a molti scrittori, non solo tedeschi, ma anche europei. Quando rientra a
Trieste, il padre ha un tracollo economico (dovuto probabilmente a un investimento sbagliato), per cui la
famiglia si ritrova improvvisamente senza alcuna rendita. Quindi Svevo, che è appena rientrato e che è
sempre stato abituato agli agi della borghesia, improvvisamente non ha più reddito e quindi è costretto a
trovare lavoro. Trova lavoro presso una banca, e lavorerà come impiegato per circa 19/20 anni. Questi
fatti della vita incideranno moltissimo sulla sua produzione letteraria.
LA PRODUZIONE LETTERARIA
Svevo ha scritto varie cose, però la produzione più importante si concentra su tre romanzi: ‘Una vita’,
che tratta della storia di Alfonso Nitti (inetto), che tenta la scalata sociale, ferito dal disprezzo che lo
circonda in banca, commette vari errori e infine si suicida, ‘Senilità’ e poi, dopo molti anni, arriverà il
capolavoro, cioè ‘La coscienza di Zeno’.
La fase della sua vita in cui fu impiegato di banca, perciò costretto a fare un lavoro per lui frustrante, un
lavoro in cui non si sentiva appagato, anche perché fin da giovane aveva nutrito molti interessi letterari,
anche se poi la famiglia lo aveva spinto verso studi commerciali, viene descritta attraverso il personaggio
del suo secondo romanzo, senilità, che è la storia di Emilio Brentani, che insoddisfatto dalla vita
mediocre da impiegato di assicurazioni, diviso tra Angiolina e la sorella Amalia, suicida per amore, ritorna
ad una vita squallida. In senilità vi sono richiami dannunziani, per la tematica delle due donne, che ci
riporta all’opera ‘Il Piacere’, e che è una critica implicita alla realtà del tempo.
Nel personaggio di Svevo, soprattutto nella coscienza di Zeno, ritroviamo un personaggio tipico del
decadentismo del tempo, l’inetto (ne abbiamo parlato anche con Pascoli). L’inetto di Svevo è diverso da
quello di cui abbiamo parlato con Pascoli, vi è un’evoluzione: è l’inetto che è consapevole della sua
inettitudine e non se ne vergogna, anzi la affronta con un misto di ironia, quasi con buon umore, tant’è
che la lettura della coscienza di Zeno spesso suscita la simpatia del lettore, perché è un inetto che riflette
su se stesso in maniera ironica e quasi con buon umore.
Al tempo di Svevo ci sono state tante influenze culturali che hanno inciso sulla sua produzione letteraria:
una delle influenze principali è la psicanalisi di Freud, che si stava diffondendo enormemente e che a
Trieste arriva prima che nel resto dell’Italia perché, come abbiamo detto, è una zona di confine.
Alla morte della madre, Svevo rivede una lontana cugina al funerale, molto più giovane di lui, se ne
innamora e si sposano. Questo rappresenta una svolta definitiva nella vita di Svevo. La cugina appartiene
a una ricca famiglia borghese, quindi appartiene all’alta borghesia: parliamo di industriali di alto livello,
infatti la famiglia ha una fabbrica che produce vernice antiruggine utilizzata per le navi (quindi una cosa
abbastanza all’avanguardia). Nel momento in cui si sposa, c’è una sorta di passaggio simbolico di
consegna, tra la morte della madre e il matrimonio, perché è come se trovasse una compagna che lo
segue nella vita, infatti la moglie fu sempre molto importante nella sua vita, tant’è vero che questo
rapporto familiare, il matrimonio, lo ritroviamo anche nella coscienza di Zeno. Inoltre, Svevo, lascia il
lavoro in banca e comincia a lavorare nell’azienda dei suoceri, non come un semplice impiegato, ma
diventa un dirigente, un manager a tutti gli effetti, un vero e proprio uomo d’affari, che spesso viaggia
sfruttando la conoscenza della lingua tedesca per pubblicizzare il prodotto della propria azienda anche
all’estero. Questo, ovviamente, gli apre molti orizzonti culturali.
Un secondo fatto fondamentale nella vita di Svevo fu la conoscenza dell’autore inglese James Joyce. Tra i
due vi è una notevole differenza di età. Quando si conoscono, Joyce è esule all’Irlanda, si trova a Trieste e
insegna in una scuola, mentre Svevo è già un uomo d’affari di mezza età. Stringono amicizia perché
Svevo, per i suoi viaggi, si accorge di aver bisogno di un aiuto per una maggiore conoscenza della lingua
inglese, quindi si rivolge a Joyce per farsi dare delle lezioni. Tra i due nasce un’amicizia che rimarrà ferma
negli anni, tanto che anche quando Joyce andrà via, vedremo che il rapporto tra i due sarà
fondamentale.
Nel momento in cui incontra Joyce, Svevo aveva già scritto i primi 2 romanzi, che però erano stati accolti
dal pubblico italiano con notevole indifferenza. Fa leggere questi romanzi a Joyce, al quale piacciono
molto e il quale lo spinge a riprendere a scrivere (visto che, dopo essere diventato un uomo d’affari,
aveva abbandonato per un periodo la scrittura).
Poi avviene un altro fatto importante, cioè la conoscenza della psicoanalisi, in quanto un cognato di
Svevo avrà problemi e dovrà andare in terapia, per cui viene a conoscenza delle teorie Freudiane.
In tutto questo insieme di influenze culturali, che però non si esauriscono qua perché nel corso della sua
produzione incontriamo tantissimi filosofi e pensieri, completa la stesura della coscienza di Zeno e
pubblica questo romanzo. Il pubblico accoglie sempre allo stesso modo quest’opera, in maniera
indifferente, fredda, non ha grande successo, per cui Svevo rimane un po’ deluso. Manda una copia del
romanzo a Joyce, il quale si era trasferito a Parigi. Egli ne è particolarmente entusiasta, infatti lo mostra a
tutti i circoli culturali della Parigi del tempo e viene accolto con grande successo. Svevo infatti viene
invitato a Parigi per partecipare a degli incontri e presentazioni del libro e viene applaudito a livello
europeo. L’unico italiano che si accorge del valore di Svevo, autore ormai molto conosciuto a livello
europeo ma sottovalutato dagli italiani, è un giovanissimo poeta, Eugenio Montale. Quest’ultimo legge la
coscienza di Zeno e ne scrive un saggio su un giornale, in cui ne parla in maniera molto positiva. Grazie al
successo riscontrato all’estero grazie all’apporto di Joyce e al saggio di Eugenio Montale, la coscienza di
Zeno comincia a essere letto in Italia e a essere apprezzato per quel capolavoro che è.
INFLUENZE CULTURALI DI SVEVO
Svevo legge i filosofi dalla loro versione originale quindi in qualche modo ironizza anche sul modo in cui
viene frainteso per esempio Nietzsche nella teoria dell’superuomo dannunziano e diciamo lo riporta
quasi alla veste originale. Di Nietzsche approvava la critica della società borghese, mentre di
Schopenhauer condivideva il concetto di uomo non libero di scegliere. Svevo legge anche Darwin, a cui
si collega per quanto riguarda il concetto di comportamento che è il prodotto di condizioni indipendenti
dalla volontà, Marx e Freud, dei quali però se ne interessa in maniera diversa, in quanto questi per lui
sono due filosofi che devono essere considerati con spirito critico: di Marx gli interessa l’analisi sociale e
strutturale che dà della società e quindi il concetto di lotta di classe ma non condivide assolutamente
quelle che sono le soluzioni e le conseguenze del pensiero di Marx, tra cui ricordiamo la vita dura del
proletariato. Svevo, infatti, non può condividere ciò in quanto lui appartiene all’alta borghesia, alla fine è
un dirigente di industrie e certo non poteva accettare la vita dura del proletariato; una cosa simile
avviene con Freud in quanto Svevo è estremamente interessato a quelle che sono le teorie
psicoanalitiche, a quello che è il concetto del subconscio di Freud però poi non crede assolutamente
nella terapia e questo lo dimostrerà soprattutto poi nell’ultimo romanzo “La coscienza di Zeno”.
Tra i primi romanzi di Svevo ricordiamo “Una vita”, l’inetto in cui il protagonista cerca di fare una scalata
sociale ma non ci riesce, e “Senilità”.
I PRIMI ROMANZI
Il primo romanzo di Italo Sevo, Una vita, fu pubblicato nel 1892, a spese dell'autore e in sole mille copie,
dall'editore Vram di Trieste. L'opera, in cui si trova riflessa l'esperienza autobiografica della monotona
routine da impiegato, fu ignorata dalla critica ufficiale. La vicenda è ambientata nella società borghese
triestina e presenta i tratti tipici del romanzo realista e naturalista per il rigore con cui sono descritti
ambienti, fatti e situazioni. Tuttavia Svevo, con intento analitico, indaga i rapporti tra società e individuo
e, in particolare, si sofferma sulle difficoltà di chi aspira alla scalata sociale e sulle falsità delle relazioni
Interpersonali. Al centro della vicenda compare la figura dell'inetto, un individuo mediocre, alienato dalla
realtà e vittima della propria inadeguatezza e debolezza. Alfonso Nitti, il protagonista, è un impiegato che
vive una vita vuota e inappagante; egli non riesce a instaurare un rapporto con i colleghi e perde
l'occasione di fare un vantaggioso matrimonio e di conquistare il successo, preso da una totale passività.
Costretto a vivere in un mondo che premia solo gli intraprendenti e schiacciato dalla propria inettitudine,
Alfonso, nel timore di un'ulteriore sconfitta, decide di suicidarsi.
Svevo iniziò la stesura del secondo romanzo, Senilità, nel 1892, subito dopo la pubblicazione di Una vita,
e vi lavorò fino al 1897. Pubblicata nel 1898, anche quest'opera fu ignorata dalla critica ed ebbe
un'edizione definitiva solo nel 1927. Come in Una vita, sono presenti spunti autobiografici: la vicenda si
svolge a Trieste e il protagonista, l'impiegato Emilio Brentani, è un inetto che vive tra il rimpianto di una
carriera letteraria irrealizzata (in realtà è un intellettuale fallito che, in passato, ha pubblicato un
romanzo, senza successo) e la monotonia di un'esistenza destinata al fallimento. Condannato cosi a una
precoce "vecchiaia" (la «senilità» a cui allude il titolo), condizione psicologica di chi, come chiarisce
Svevo, ha l'abitudine di «ripiegarsi su se stesso e analizzarsi» rinunciando alla lotta per la vita, Emilio,
triste e apatico, in cerca di una rivincita sulla vita, potrà solo amaramente scoprire l'impossibilità di
qualsiasi riscatto.
Emilio Brentani, proprio come Alfonso Nitti, rispetto ai tradizionali protagonisti dei romanzi romantici,
mostra l'inadeguatezza dell'uomo alla vita. Come in Una vita, anche in quest’opera è presente l'analisi
dell'ambiente sociale, che però rimane sullo sfondo, lasciando maggiore spazio alla rappresentazione
delle dinamiche dei rapporti tra i personaggi.
La cosa interessante è che entrambi questi primi romanzi sono caratterizzati da una narrazione in terza
persona, dunque non abbiamo più un romanzo pro naturalistico ma abbiamo un romanzo psicologico
come quello di Paul Bourget e quello russo di Dostoevskij e il narratore è un narratore che smaschera gli
inganni, è come se rappresentasse un autore che ha un atteggiamento critico. Viceversa, nella “coscienza
di Zeno” ritroviamo la narrazione di prima persona, infatti c’è questa specie di diario che fa il
protagonista perché lui va in terapia e il suo psicoterapeuta gli consiglia di scrivere un diario in modo da
poter analizzare meglio il suo intimo, la sua parte interiore. Però questo diario salta continuamente tra il
presente ed il passato, quindi alla fine abbiamo un continuo svariare temporale.
IL PERIODO DI SILENZIO LETTERARIO
Nonostante alcune esplicite dichiarazioni di voler abbandonare la letteratura, Svevo si dedicò in realtà
alla scrittura per tutta la vita. Se durante il cosiddetto periodo di silenzio letterario l'autore rinunciò alla
stesura di romanzi, scrisse comunque articoli, saggi, racconti, molti dei quali pubblicati postumi.
Compose inoltre 13 commedie che non ebbero fortuna sulla scena; in vita e gli venne rappresentato solo
l'atto unico ‘terzetto spezzato’. Al 1918 risale il lavoro di traduzione, compiuto con l'aiuto di un nipote
medico, di quella che Svevo nel profilo autobiografico definisce l'opera di Freud sul sogno; con molta
probabilità non si trattò dell'interpretazione dei sogni ma dello scritto freudiano sul sogno pubblicato in
italiano nel 1919. L'interesse per la psicoanalisi si era già manifestato in lui nel 1908 quando il cognato si
era sottoposto alle cure di Freud a Vienna il lavoro di riflessione sull'opera del medico austriaco sarà
indispensabile per la stesura del suo più innovativo romanzo, la coscienza di Zeno.
LA COSCIENZA DI ZENO E LE ULTIME OPERE
Dal 1919 al 1922 Svevo si dedicò al suo terzo romanzo, la coscienza di Zeno, che fu pubblicato nel 1923 a
Bologna e accolto dal consueto iniziale silenzio della critica. Lo scrittore aveva allora 62 anni e ne rimase
molto amareggiato; tuttavia, fece leggere il romanzo a Joyce, che trovo all'opera nuova e interessante. La
svolta arrivo due anni più tardi, nel dicembre del 1925, quando il giovane Eugenio Montale pubblicò una
recensione favorevole sulla rivista L'esame, suscitando l'interesse della critica.
La figura del protagonista introduce un elemento di evoluzione nella figura dell'inetto. Zeno tenta di
curare con sedute psicoanalitiche una forma di nevrosi che lo fa vivere in perenne disagio esistenziale,
ma che gli permette di smascherare la falsità, gli inganni e le illusioni della società borghese, sana ed
equilibrata solo in apparenza. Nella sua complessa problematicità, Zeno rappresenta la condizione
nevrotica dell'uomo moderno.
La “coscienza di Zeno” si basa su quattro cose importanti: innanzitutto la figura del padre che è una
figura opprimente con cui Zeno non riesce ad avere un dialogo perfino al momento della morte del
padre, poi l’inizio del fumo in quanto è famoso il fatto che Svevo avesse provato a smettere di fumare e
quindi ogni sigaretta che si accendeva per lui era l’ultima tanto che addirittura annottava vicino al muro
della sua camera la data precisa in cui aveva deciso di smettere ma poi si ritrovò in una stanza tutta
tappezzata di date di quelle sigarette che non erano mai state ultime, e infine poi c’è il matrimonio che è
visto in chiave paradossale perché lui avrebbe dovuto sposare la prima di tre sorelle ma questa era già
fidanzata, ripiega sulla seconda ma non fu possibile e dunque alla fine sposa la terza, e poi la nevrosi del
personaggio e dell’inetto.
Il narratore è inattendibile perché racconta continuamente bugie e quindi c’è questo distacco dell’autore
che vede con ironia questo atteggiamento interiore. In qualche modo in Zeno si intravede la figura di
Svevo: Svevo aveva anche lui il vizio del fumo tanto è vero che lui è morto per un incidente d’auto e pare
che avesse riportato delle ferite molto gravi però nel letto di ospedale durante le sue ultime ore pare
abbia chiesto un’ultima sigaretta ancora; sappiamo poi che Zeno aveva suonato il violino, nella coscienza
di Zeno c’è questa citazione che ama la musica, e anche Svevo per un certo periodo di tempo aveva
suonato il violino; la compagna di Zeno che alla fine lo asseconda nelle sue nevrosi è forse anche la
moglie di Svevo che ha fatto la stessa cosa e quindi possiamo dire che troviamo molte similitudini tra i
due personaggi.
Nella coscienza di Zeno noi troviamo un narratore in prima persona perché è scritto sottoforma di diario
da parte del protagonista però per molto tempo la coscienza di Zeno è stata considerata simile all’
Ulysses di Joyce: in Ulysses di Joyce c’è una vera e propria rivoluzione dal punto di vista narrativo perché
i pensieri dei protagonisti vengono narrati in maniera così come vengono, spesso senza un’apparente
logica, senza punteggiatura e quindi in questo modo questo tipo di narrazione viene chiamato flusso di
coscienza, il narratore scrive i pensieri così come arrivano alla mente, in forma sparsa e per cui diventa
difficile seguire il narratore. È stato un tipo di narrazione che da un lato sconcertò moltissimo il pubblico
ma che poi ebbe molto successo.
Quello di Svevo in realtà non è un flusso di coscienza, innanzitutto perché lui utilizza la punteggiatura,
utilizza uno schema un po' più tradizionale e dunque potremmo dire che per certi aspetti è quasi un
monologo interiore, un discorso indiretto libero come quello usato da Flaubert in Madame Bovari.
Abbiamo anche un collegamento con vari autori inglesi tra cui Swift, Sterne e Dickens: l’umorismo di
Dickens lo ritroviamo anche nella “coscienza di Zeno” quando Zeno ironizza su se stesso, sulla sua figura
di inetto. Infine, abbiamo anche un collegamento con il naturalista francese Zola per quanto riguarda la
descrizione minuziosa degli ambienti.

Ci restano solo alcune pagine composte nel 1928, di un quarto romanzo romanzo che Svevo aveva
intenzione di scrivere, dal titolo Il vecchione o Le confessioni del vegliardo. Si tratta della continuazione
della coscienza: oltre a Zeno e la moglie compaiono anche i figli, il genero il nipotino. Attorno a Zeno,
quindi, è cresciuta una grande famiglia che, dietro la tranquilla facciata borghese, cela tensione e
malesseri. In quest'ultima prova letteraria Svevo voleva rappresentare la condizione alienata del vecchio
nella società moderna.
Risale al 1928 Il profilo autobiografico di cui Svevo parla di se stesso in terza persona ricorda gli
avvenimenti più importanti della sua vita, le tappe della sua formazione umana e culturale e il suo
percorso artistico, dagli inizi fino al successo. Il profilo fu pubblicato dopo la morte dello scrittore, nel
1929. Tra i numerosi testi inediti, ritrovati dopo la morte dello scrittore e oggi conservati nel museo
sveviano di Trieste, ricordiamo anche le pagine di diario, pubblicate quasi integralmente per la prima
volta solo nel 1954. Le pagine oggetto in tempi recenti con edizione critica a cura di Clotilde Bertoni,
sono spesso di difficile datazione e presentano una natura molto eterogenea, includendo frammenti
narrativi, dedica familiari amici, abbozzi di racconti, aforismi, appunti di natura diaristica.

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