Candidato
Emanuele Edilio Pelilli
1272831
Relatore: Correlatore:
Professoressa Donatella Di Cesare Professor Paolo Vinci
A/A 2013/2014
Soli in un abbraccio disperato
ribelli al nostro destino
piccola minaccia in un tempo sbagliato.
2
Indice
Introduzione, 4.
1. Mito, 6.
1.1 Mito, destino, diritto, 8.
1.2 Nuda vita, 13.
1.3 Destino e mito nelle Affinità elettive di Goethe, 16.
1.4 Privo d’espressione, decisione, interruzione, 18.
1.5 Nuda vita e biopolitica, 22.
1.6 Walter Benjamin e Franz Kafka, 24.
1.7 Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, 28.
1.8 Saggezza e verità. Halachah e Haggadah, 30.
1.9 Nulla della rivelazione, 32.
1.10 Burocrazia, famiglia, ragazze, 35.
1.11 La preistoria, l’oblio, lo studio, 41.
1.12 Conclusioni su Kafka, 48.
2. Storia naturale e dramma barocco tedesco, 53.
2.1 Idea, verità, nome, storia nella Premessa gnoseologica, 54.
2.2 Storia e regalità nel dramma barocco tedesco, 67.
2.3 Malinconia barocca, 82.
2.4 Allegoria barocca, 87.
2.5 Storia naturale e spirito universale, 96.
3. Interruzione del mito e redenzione storica, 110.
3.1 Per la critica della violenza, 111.
3.2 Frammento teologico-politico, carattere distruttivo, tesi, 132.
Conclusioni, 159.
Bibliografia, 162.
3
Introduzione
4
punti di vista diversi, sulle stesse grandi tematiche. Come vedremo nella Premessa
gnoseologica al Dramma barocco tedesco infatti, la ricerca filosofica della verità è un
lasciar essere dell’oggetto, che mostra ad ogni nuovo sguardo, una diversa
sfaccettatura di se stesso, per cui è fondamentale tornare costantemente, col ritmo
interruttivo del respiro, sempre sulle stesse problematiche, per lasciarle parlare e
esprimersi. In questa ricerca ci siamo concentrati sui concetti fondamentali di mito e
di storia naturale, che non sono altro appunto, che due punti di vista diversi di una
stessa problematica: quella della ciclicità e della possibilità o meno di fare storia, nel
senso integrale del termine, cioè di produzione di reale novità.
Il concetto di mito è nella riflessione benjaminiana un caposaldo, attorno a cui gira e
si connette tutta la sua produzione, giovanile e non. Così importante da essere il centro
della nostra presente analisi, un centro che permetterà di contestualizzare e
comprendere le correnti sotterranee del suo pensiero, le motivazioni e suggestioni da
cui è spinto. Sicuramente è un concetto che trova il suo sfondo nella riflessione sulla
storia1, ma che si riallaccia prepotentemente anche a discorsi estetici, di filosofia del
linguaggio, e soprattutto di una politica non settorialmente intesa, quale è quella
benjaminiana. È un concetto che nella nostra analisi, si presenterà come un negativo,
come ciò da cui la riflessione di Benjamin si vuole emancipare e ciò cui vuole
superare, cristallizzandosi in emblema di tutto quello che dovrebbe essere negato.
Quindi anche la nostra trattazione si presenterà in gran parte come uno studio in
negativo, un parlare per assenze, uno scrivere d’ombra, come in quella teologia
negativa tipica di ogni mistica religiosa: diremo e descriveremo tutto ciò che la storia,
rettamente intesa, non dovrebbe essere per Walter Benjamin. 2
1
Come notato e ribadito da molti commentatori, tra cui Castrucci, che ne contestualizza anche
l’interesse all’interno del momento storico: “Vi è un’impressione di fondo che può sorgere, con ogni
probabilità, dalla rilettura degli scritti di filosofia della storia di Walter Benjamin: essa riguarda la
combattuta centralità dell’elemento mitico nell’immanenza storica. (…) E’ possibile rilevare a questo
proposito come l’interesse (…) manifestatosi nella cultura tedesca dell’immediato primo dopoguerra
per gli aspetti “mitici” di teoria del potere (Macht) conduca spesso ad una prospettiva che privilegia i
caratteri di Gewalt, dando luogo ad un tipo di approccio al problema “potere” che, sul piano delle
dottrine politiche, non si esiterebbe a definire “antiliberale”, cit. in Emanuele Castrucci, La forma e la
decisione, Giuffrè, Milano 1985, p.54.
5
Ma allo stesso tempo c’è la necessità, da parte sua, di tematizzare incessantemente il
mito, di abbracciarlo in ogni sua forma, e solo avendolo metabolizzato, superarlo. Non
c’è dunque spazio nel suo pensiero per contrapposizioni forti e dall’esterno, ma solo
per la critica immanente, per il trovare le fratture anche all’interno del negativo, e
dall’inserirsi in esse, ripartire. Da qui la costante e apparente equivocità all’interno del
suo pensiero.3 Da qui questo movimento peculiare, che rappresenta la vera e propria
dialettica benjaminiana.4
Per aiutarci nella tematizzazione, ci serviremo inizialmente del mondo rappresentato
da Franz Kafka nei suoi racconti e ripensato da Benjamin nel suo famoso saggio
sull’autore praghese, che a nostro avviso pare essere una cristallizzazione letteraria
molto vicina al concetto di mito benjaminiano. Proprio attraverso la paradossalità e la
radicalità delle immagini kafkiane, risulterà più comprensibile, quasi più concreto, il
discorso benjaminiano, sempre frammentato e mai organicamente tematizzato nelle
sue varie opere.
Il lavoro si dividerà quindi in 3 capitoli, a loro volta suddivisi in diversi paragrafi, di
ampiezza spesso molto diversa l’uno dall’altro. Il primo capitolo sarà dedicato alla
2
“Poiché la lingua rettamente intesa non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche
simbolo del non comunicabile.”, in Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli
uomini, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, pag 67.
3
Equivocità che è stata lucidamente tematizzata, anche se non concordiamo totalmente nelle sue
conclusioni, da E.Guglielminetti, Walter Benjamin. Tempo, ripetizione, equivocità, Milano, Ugo
Mursia editore 1990, p. 14: “La nozione di un Essere equivoco fu suggerita a Benjamin da un profondo
pessimismo storico. La storia è infatti, per Benjamin, caduta, mito. L’imperialismo borghese e il
nazifascismo non sono che le espressioni più recenti della costituzione intrinseca della storia umana. I
concetti di decadenza e progresso sono perciò fuori luogo. Benjamin, nondimeno, anziché rinserrarsi
nel proprio pessimismo, intese invece abbracciare l’epoca e il suo tempo. L’adorcismo di una datità
negativa è il paradosso del suo pensiero. (…) Benjamin, però, indugiava sempre un pochino. Ed anzi
pareva attardarsi presso il mondo del mito, come se fosse sconvolto dall’idea di lasciarlo per sempre.
(…) Benjamin sembrava dover traslocare dal mondo del mito, sembrava indaffarato a raccogliere
ancora qualche ultimo pezzo, come se non volesse dimenticare nulla e non lasciare nulla indietro.
Questo sentimento della caducità, questa nostalgia del mito, questa attrazione medusica esercitata su di
lui dall’esistente dato dovettero risultare – stante quella premessa comune dell’estraneità al mondo –
affatto incomprensibile ai suoi compagni di strada.”
4
Ivi, p.65 nota 27: “La dialettica di Benjamin sta in ciò, che il bene lascia per così dire intravedere il
male in trasparenza, onde le categorie di Benjamin sono generalmente equivoche, essendo il principio
del bene piuttosto un approfondimento dell’intenzione mitica che la sua mera cassazione.”
6
tematizzazione del concetto di mito, in connessione con gli ambiti del destino e del
diritto: analizzeremo perciò il saggio Destino e carattere, il saggio sulle Affinità
elettive di Goethe, e il Saggio su Kafka.
Da qui passeremo, nel secondo capitolo, alla trattazione del concetto di storia naturale,
così come si viene delineando nella riflessione benjaminiana nel Dramma barocco
tedesco, testo complesso e stratificato, che ci permetterà di comprendere sia le basi
metodologiche della sua ricerca, che i caposoldi della sua visione storica. Importante
sarà sottolineare qui il concetto cardine di ciclicità, che farà da vero e proprio anello di
congiunzione tra tutti e tre i capitoli. Avendo delineato nel mito un mondo chiuso e
asfissiante, e nella storia naturale una ciclicità di ripetizioni senza un senso e un fine,
passeremo nel terzo capitolo a vedere quali possibilità Benjamin suggerisce per
oltrepassare e interrompere questo mondo chiuso. Solo a questo punto riceveranno
maggiore concretezza, anche a livello politico, le analisi dei primi due capitoli, che,
nella loro stratificazioni, potrebbero sembrare delle semplici analisi di fenomeni
culturali.
Primo Capitolo
Mito
7
“Chi cerca non trova, chi non cerca sarà trovato.”
Franz Kafka.
5
Walter Benjamin, Destino e carattere, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, pag 35.
6
Di incredibile interesse è il fatto che anche il giurista tedesco Carl Schmitt negli stessi anni di
Benjamin aveva trattato il concetto di colpa, elaborandolo anche lui non in termini giuridici e tecnici,
ma morali, come “un processo della vita interiore, un processo intrasoggettivo, una vera e propria
cattiva volontà, che consiste nella posizione consapevole di fini contrari a quelli dell’ordinamento
giuridico.” (C.Schmitt, Über Schuld und Schuldarten, Breslau, 1910, pag 18-24, 92) Cit. in Giorgio
Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005, pag. 32-33.
8
debito7, un rimanere in una mancanza. Proprio per questo la colpa si riferisce alla
situazione che si crea nella semplice vigenza di una legge8, che è continuativa, e non
nella trasgressione di una particolare legge, il che significherebbe un suo riferirsi
temporalmente limitato9. La colpa è dunque non un evento, ma uno stato dell’uomo,
una situazione in cui si trova. E il destino appare, è un’apparenza10 che si dà, nel
momento in cui si considera l’uomo colpevole, condannato e colpevole in quanto
vivente in un ordinamento intangibile e gerarchico, sotto determinate leggi non
scritte, e non in quanto trasgressore di una legge specifica 11. Quindi il destino si basa e
si fonda sul concetto di colpa. E la colpa è ciò che sussume, il tramite, che conduce la
vita naturale nell’ambito del destino.
Parlando di destino e di colpa possiamo dunque arrivare a un primo abbozzo del
concetto di mito. Si potrebbe delineare, seguendo Desideri, definendolo la continuità
7
Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005, pag. 32.
8
Sottolineeremo più avanti, in connessione con la lettura benjaminiana di Kafka, l’importante
argomento del Geltung ohne Bedeutung, della vigenza senza significato della legge. Ma già da qui si
può anticipare come proprio questa caratteristica della legge, questa sua opacità e onnipresenza,
condanni alla colpa.
9
“Se, là dove s’instaura la legge, la vita è presa nell’anticipazione della colpevolezza prima ancora che
si distenda in azione, ciò si definisce avere un destino. (…) Di fronte al diritto come di fronte al mito
vivere è la colpa, la vita è il debito che non si può pagare.” Cit. in Bruno Moroncini, Walter Benjamin e
la moralità del moderno, Edizioni Cronopio, Napoli 2009, p.39.
10
Apparenza è un concetto che si ritrova, in termini principalmente negativi o comunque indicando un
qualcosa da completare, in tutta la produzione benjaminiana, sia nell’ambito storico, etico e anche
estetico. Ad esempio interessante questo accostamento di Desideri dei concetti di mito e di apparenza
storica: “Difficilmente nelle pagine benjaminiane si può trovare una soddisfacente definizione o almeno
qualcosa più di un accenno a questo concetto [apparenza storica] che nella produzione più tarda sembra
sostituire quello di mito e, innegabilmente, svolge una funzione determinante in tutta la riflessione
benjaminiana.” Fabrizio Desideri, Del teologico nelle “Tesi”, in Caleidoscopio benjaminiano, a cura di
Enzo Rutigliano e Giulio Schiavoni, Istituto italiano di studi germanici, Roma 1987, pag. 294.
11
Interessante confrontarsi con lo spunto di Moroncini, per cui il destino è uno spazio pre-giuridico,
legato però strutturalmente al futuro instaurarsi di un diritto: “E’ necessario postulare l’esistenza di uno
spazio pre-giuridico che contemporaneamente prepari l’instaurarsi del diritto ma per una via indiretta e
negativa, ossia solo come risposta al tentativo di modificarne l’ordine o addirittura di abolirlo. Tale
spazio è quello del destino: esso è infatti un ordine non retto da nessuna legge scritta e tuttavia
intangibile in cui vige una ferrea distribuzione delle parti, una rigida assegnazione dei compiti e delle
competenze, una netta separazione fra ambiti e poteri.”, cit. in Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto,
Mimesis edizioni, Milano Udine, 2012, p.90-91.
9
del destino come dominio sul vivente, costrizione di esso in una indistricabile
connessione di colpevolezza.12 Il mito cioè, è il dominio di un’apparenza che porta
all’essere in colpa, ciclicamente ed eternamente in debito. Ed elemento portante del
concetto di mito è proprio la sua temporalità peculiare, ciclica e ripetitiva, che chiude
la storia e le sue possibilità in un eterno ritorno dell’uguale. Il mito è appiattimento
della storia umana ad una natura violenta e originaria, chiusura di possibilità di
salvezza e di decisione morale a favore di una ferrea necessità. È sbarramento della
redenzione, attuato da parte della natura, chiusura di possibilità da parte di una realtà
data,13 è storia irredenta e obliante. 14 Da qui si vede come destino, colpa e mito sono
concetti indistricabili e si fondino l’uno sull’altro.
Ma vediamo esattamente quale è il movimento di analisi benjaminiano.
Preliminarmente in Destino e carattere Benjamin cerca di fare chiarezza sulla
confusione che, nel senso comune (interpretato qui dunque come un’ “apparenza” che
va superata e penetrata), si viene a creare tra i termini “destino” e “carattere”, visti in
rapporto causale l’uno con l’altro, e considerato intellegibile dai segni fisici
dell’uomo, il carattere (nonché legato ad un passato conoscibile e rintracciabile),
mentre impenetrabile ed enigmatico, il destino (legato al futuro).
Suo intento nel mettere ordine a questo ambito confuso è di bandire il concetto di
carattere dall’ambito etico, e quello di destino dal contesto religioso, riportandolo
invece alla sua reale origine, cioè in correlazione con la sfera del mito e del diritto.
12
Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980, p.100.
13
Rimandiamo qui alla precisa e sintetica esplicitazione del concetto di mito, sempre di Desideri:
“Erede della Lettera sull’astrologia di Maimonide, Benjamin vede nel mito piuttosto una chiusura
dell’idea di natura alla possibilità della redenzione. Perché possa essere redenta, la natura – si afferma
nel Frammento teologico-politico – deve essere intesa nella massima caducità. Il mito raggela la vita
della natura in rapporti intemporali. Il tempo della natura e con esso quello dell’uomo si chiudono
miticamente nel ciclo della ripetizione. (…) Nel mito tutto il vivente è stretto nel “nesso di
colpevolezza”: condannato a ripetersi in un ciclo interminabile.”, in Fabrizio Desideri, Apocalissi
profana: figure della verità in Walter Benjamin, in Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino
1995, p.323.
14
L’oblio nel suo essere in rapporto col mito, è stato giustamente sottolineato da Wolin: “ Man stands
under the domination of mythical fate when his powers of remembrance fail him: that is, he is
condemned to repeat. The recurrence of myth in unredeemed historical life remains an object of
theoretical attack throughout Benjamin's writings.” Cit. in Richard Wolin, Walter Benjamin, an
Aesthetic of redemption, Berkley 1994, p.51.
10
Questo viene dimostrato nel fatto che, mentre il campo semantico e concettuale di
“destino” si fonda sui concetti di colpa e di punizione, non troviamo in questo stesso
dominio del destino l’opposto di questi concetti a livello di categorie morali, cioè la
gioia e l’innocenza. Mentre proprio la gioia e l’innocenza, cioè la felicità, sono
categorie fondanti del discorso religioso, e della sua prospettiva redentiva:
“Esiste forse nel destino un rapporto alla felicità? E’ la felicità, come senza dubbio la
sventura, una categoria costitutiva del destino? Ma è proprio la felicità che svincola
il felice dall’ingranaggio dei destini e dalla rete del proprio (…) Felicità e
beatitudine conducono quindi, al pari dell’innocenza, fuori dalla sfera del destino.”15
Con questo è spiegato che il destino non può far parte della sfera religiosa, inteso da
Benjamin come ambito della redenzione e della ricerca della felicità. Suoi mondi
affini sono, di contro, quello del mito e del diritto.
E infatti i concetti di colpa e infelicità trovano il loro luogo naturale nel raggio
d’azione del diritto, che, per quanto potrebbe sembrare proprio l’ambito che rende
l’uomo libero dalla violenza mitica, in realtà non fa che perpetuarne, in abiti diversi,
l’esistenza: “le leggi del destino, infelicità e colpa, sono poste dal diritto a criteri
della persona”.16 E’ dunque come se il diritto fosse una secolarizzazione della
violenza mitica e destinale 17, o meglio, un suo rinnovarsi sotto altra forma; è infatti
una cristallizzazione in leggi di una violenza naturale e originaria e, come si vedrà in
Per la critica della violenza, si fonda esclusivamente sulla violenza18 e sulla sua
interminabile ciclicità. Mito, destino e diritto sono cioè legati dalla stessa temporalità
e dalla medesima violenza.
15
Walter Benjamin, Destino e carattere, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 34.
16
Ibidem.
17
Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980, p.100: “Perciò il
destino è sempre alla base del potere giuridico: il destino è infatti il dominio dell’apparenza sul vivente
– come dominio della necessità dell’ordine mitico, che tale apparenza esprime – ed il diritto è
l’astrazione-cristallizzazione di tale apparenza, che esercita storicamente il suo potere.”
18
Ivi, pag.99: “Il diritto sancisce la Gewalt come forma della storia e ogni “violenza” che sostituisca
un nuovo ordinamento giuridico ad uno “vecchio” e indebolito, non fa che confermarla. Per questo il
“ciclo” che costituisce la “forma” della Gewalt è destinato a ripetersi, finchè della Gewalt non sia fatta
vacillare la radice. Questa “ripetizione” è il perpetuarsi della violenza mitica.”
11
Già da qui si scorge un leitmotiv dell’opera di Benjamin, ed è fondamentale
sottolinearlo subito, cioè la tensione e la contrapposizione tra mito e religione, e tra
diritto e giustizia. Ed è proprio questa tensione che deve essere per Benjamin chiarita
e tolta dalla loro demonica 19 ambiguità, ridonando a concetti così diversi il loro reale
ambito e campo d’azione: “per un errore, in quanto è stato confuso col regno della
giustizia, l’ordine del diritto, che è solo un residuo dello stato demonico di esistenza
degli uomini (…) si è conservato oltre l’epoca che ha inaugurato la vittoria sui
demoni”20. Il diritto riesce a sopravvivere nel corso della storia umana proprio in
quanto si traveste da giustizia, perpetua l’ambiguità mitica, traveste la colpa in pena. E
la vera religione è l’unica via d’uscita dall’ambito mitico, attraverso la sua categoria
redentiva di felicità, contrapposta alla categoria mitica di colpa.21
Non è col diritto allora (che, come abbiamo sottolineato, rappresenta solo un’esistenza
residuale del mito), ma con la tragedia (che è la messa in scena della lotta fra diritto
mitico ed eticità dell’eroe), che il destino mitico è infranto. Per la prima volta qui
l’uomo esce dalla cattiva naturalità che lo condanna ad essere ingranaggio di un
meccanismo più grande di lui, alza la testa dal mondo della colpa, si trasforma da
animale costretto al ripetersi eterno del gesto, ad uomo, capace della scelta. Nella
tragedia l’uomo si rende conto di essere superiore al dominio in cui è costretto, di
essere superiore ai suoi dei, ma questa consapevolezza lo rende muto. Ed è proprio
questo il sublime tragico, “il paradosso della nascita del genio nell’incapacità morale
di parlare, nell’infantilità morale”. La frattura esperenziale, lo choc, lo rendono
incapace di articolare un nuovo mondo. Ed in questo il genio tragico e la tragedia,
19
“The 'daemonic' refers to this illegible, inscrutable world of superstition and fear. The daemonic is
the chaotic, anomalous condition of nature, a realm which eludes clear specification and defies human
reason and understanding.” Cit. in Graeme Gilloch, Walter Benjamin. Critical constellations, Polity
Press, Cambridge 2002, p.49.
20
Walter Benjamin, Destino e carattere, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 34.
21
“Der einzige Ausweg besteht für Benjamin in einer Aufklärung des Mythos durch Vernunft und
Religion, die ihre Orentierung an einem Begriff wahrer Religion findet. Ex negative ließe diese
“wahre” Religion als die nicht-mythische Religion definieren, die durch die Zerstörung des Mythos
zuallererst ihre Konturen erhielte.” Cit. in Christine Blätter, Das Eingedenken der Geschichte, Christian
Albrechts Universität 2014, p.6.
12
sono una struttura di confine, una soglia, fine di un mondo e inizio di un nuovo,
ancora non articolabile e esprimibile.
E dunque, conclude il saggio, come il destino non appartiene all’ambito religioso, così
il carattere non appartiene all’ambito etico, ed entrambi non sono causalmente
connessi, ma sono tra loro opposti. Dove c’è carattere si rivela la naturale innocenza
dell’uomo (e non la sua naturale colpevolezza), testimoniata nell’ambito artistico della
commedia, e non c’è destino. La semplicità e la linearità del carattere, che si vede
rappresentato in Molière, libera l’uomo dall’ambiguità caotica del mito 22. Se si ha
carattere il proprio destino è costante, il che equivale a dire che non si ha un destino.23
22
“Schicksal und Charakter sets about clearing away “superficial” notions of character to “make
room” for another, seemingly retrograde one based not on the psychological novel or “modern
physiognomy” but the comedies of Molière and the “old doctrine of temperaments. (…) A multiplicity
of character traits, which is generally considered synonymus with the “richness of a creative
personality”, figures in this context as mythical “net”. It is as a highly developed individual that one
might not be clear of fateful complication. Conversely, reduction to a single, seemingly immutable
character trait does not necessarily connote the unfreedom of a compulsive monomaniac but rather a
capacity for single-minded action capable of cutting through the labyrinth of mythical “ambiguity”.
(…) “Anonymity” of character liberates the individual person from a labyrinthine “complex of law”
and guilt. Subject means subjection.” Cit. in Irving Wohlfarth, On Walter Benjamin’s “Destructive
Character”, in Diacritics, Vol.8, No.2, the Johns Hopkins University Press 1978,p.51.
23
“Destino e carattere si oppongono dunque come coazione alla colpa e naturale innocenza dell’uomo.
Una tale innocenza si dispiega però artisticamente soltanto nella commedia. Qui la morale è messa
fuori gioco. L’eroe comico non è mai oggetto di una valutazione assiologica, ma se mai di un
apprezzamento intellettuale”, in E.Guglielminetti, Walter Benjamin. Tempo, ripetizione, equivocità,
Milano, Ugo Mursia editore 1990, pag. 50.
13
“Non è quindi (in fondo) l’uomo ad avere un destino, ma il soggetto del destino è
indeterminabile. Il giudice può vedere destino dove vuole, in ogni pena deve
ciecamente infliggere destino. L’uomo non ne viene mai colpito, ma solo la nuda vita
in lui, che partecipa della colpa naturale e della sventura in ragione
dell’apparenza”.24
La nuda vita dunque è ciò che il genio della tragedia non è mai riuscito a superare del
tutto, è il residuo primordiale e nudo dell’uomo, la sua nuda apparenza, la sua cattiva
naturalità.
E sempre più si vede l’importanza di Kant nel pensiero benjaminiano, dove la
problematica sotterranea, sembra essere la contrapposizione tra determinismo nella
natura e libertà umana nell’ambito morale, il tutto ovviamente arricchito e stratificato
di livelli di senso. È come se essere inghiottiti dalle forze destinali, significhi rimanere
in quell’eterno ritorno tipico delle leggi della natura. E solo tramite la nuda vita
dell’uomo, la sua vita naturale, si rimane intrappolati. Potremmo parafrasare
Benjamin dicendo che il destino è il contesto colpevole della nuda vita, della vita
naturale, dell’apparenza dell’uomo. Solo dove c’è nuda vita ci può essere destino.
Per chiarire questo complesso concetto di nuda vita, può essere utile comprendere
l’opposizione con ciò che nuda vita non è, o non è più.
Come fa precisamente notare Sigrid Weigel, il concetto di vita acquista un significato
in base al quale essa è più che nuda vita solo attraverso il suo riferimento all’ordine
del sacro (a quelli che riguardo Kafka vengono detti “gli ordini superiori”), dove
questa dimensione sopra-naturale del concetto di vita rimanda alla rappresentazione
biblica della vita umana come parte della creazione divina (riceve i suoi particolari
tratti dall’idea che l’uomo sia fatto ad immagine e somiglianza di Dio).
Ma ciononostante l’uomo, che è egli stesso una creatura (Geschöpf), partecipa del
mondo delle creature (Kreaturen), dove la tensione e ambiguità è tra la creatura intesa
come Geschöpf, riferendocisi al contesto biblico della creazione divina (e quindi a un
ordine sopra-naturale), e la creatura come Kreautur, intendendo con ciò lo stato
24
Walter Benjamin, Destino e carattere, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 35.
14
naturale, corporeo e animale degli esseri viventi, incluso l’essere umano.25 E’ proprio
su questa tensione che si gioca il rapporto tra nuda vita e vita, tra natura e cultura, tra
mito e uscita dal mito.
E a riguardo, basandosi su questa tensione costante, Benjamin rivela una pericolosa
ambiguità, nel momento in cui si scaglia contro il dogma della sacertà della nuda vita,
che interpreta come l’ultima aberrazione dell’indebolita tradizione occidentale,
proprio in quanto è lo stesso riferimento all’ordine del sacro a superare la nuda vita.
Sacralizzare il semplicemente vivente è una contraddizione, come parafrasa Giorgio
Agamben: “Sospetto è, per Benjamin, che quel che qui è proclamato sacro sia
precisamente ciò che, secondo il pensiero mitico, è il «portatore destinato alla colpa:
la nuda vita», quasi che una complicità segreta corresse tra la sacertà della vita e il
potere del diritto”.26 La nuda vita non può essere sacra, e sacralizzarla è un pericoloso
strumento del mito e del potere, un arcanuum imperi. Questo perché abolisce la
distinzione tra la vita e la vita giusta, eticamente connotata, e conduce ad
un’indistinzione concettuale su cui il mito e il potere possono far leva. Vita giusta è
infatti quella vita che rompe con la storia naturale e animale dell’uomo, con il suo
corredo di barbarie. Mentre vita naturale è quella vita storica dell’uomo (in quanto
umana, aperta alla scelta e alla responsabilità), che il mito ha condotto e appiattito
nuovamente a natura. 27
25
Cfr. Sigrid Weigel, Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le immagini, Quodlibet Macerata 2014,
pag 12.
26
Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005, pag.75.
27
“Una vita che non sia riuscita a slegarsi dal proprio passato, ma si limiti ad essere mera
sopravvivenza ha cessato di essere vita umana. (…) Come la vita giusta si contrappone alla vita, così la
storicità è altro dalla semplice storia. Non l’uomo è storico (…) in quanto calato nel tempo – assunto
dello storicismo – ma è storico in senso proprio in quanto tenta di rompere ogni volta la dipendenza
dalla storia passata.” Cit. in Bruno Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Edizioni
Cronopio, Napoli 2009, p.49.
15
Il rapporto che lega destino e vita naturale dell’uomo, diritto e mito, ciclicità naturale
e interruzione morale, si delinea esplicitamente nel saggio benjaminiano sulle Affinità
elettive di Goethe28:
“Non si tratta qui di una colpa morale (…) ma di una colpa naturale, in cui gli
uomini incorrono non con la decisione e l’azione, ma con l’indugio e l’inerzia. Se
essi, trascurando l’umano, cadono in balia della natura, la vita naturale, che non
conserva la sua innocenza, nell’uomo, se non si lega a una vita superiore, trascina
con sé anche quest’ultima. Col dileguarsi della vita soprannaturale nell’uomo la sua
vita naturale diventa colpevole, pur senza venir meno, nell’azione, alle norme della
moralità. Poiché ora essa è nel quadro della nuda vita, che si presenta nell’uomo
come colpa. Egli non sfugge alla sventura che la colpa attira su di lui. Come ogni
moto in lui nuova colpa, ognuna delle sua azioni attirerà su di lui la sventura.”29
Passo altamente esplicativo, questo, dove Benjamin fa notare la pericolosità di ogni
allontanamento dall’umano, dalla responsabilità della decisione, dal riuscire a
decifrare e articolare la propria tradizione, dalla “vita superiore”. La colpa è naturale,
non è cioè qualcosa che viene da una decisione, ma è un’istanza che si subisce nel
momento in cui si indugia, nel momento in cui ci si consegna alla passività del
naturale, alla sua inerzia30. Ed è ecco subito riaffiorare la nuda vita nell’uomo.
28
In questo saggio Benjamin si contrappone alla visione mitizzante dell’arte, classicista e conciliante
delle Affinità elettive attuata da parte del Georgekreis, soprattutto da Gundolf, suo membro:”Far from
celebrating the power of fate and mythical forces, Goethe's story extols resolute human action to
overcome them.” Cit. in Graeme Gilloch, Walter Benjamin. Critical constellations, Polity Press,
Cambridge 2002, p.30.
29
Walter Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag 178.
30
“Goethe's novel does not celebrate omnipotent natural powers, but rather explores the struggle
between human self-determination and mythical compulsion, between resolute action in the face of
danger and meek resignation before the forces of fate. Such powers hold sway only when they remain
unheeded, uncontested by human beings lulled into apathetic acquiescence or frozen in fearful
indecision. The failure to act leads to catastrophe. Far from celebrating blind natural forces, Goethe
exhorts humans to struggle against the daemonic.” Cit. in Graeme Gilloch, Walter Benjamin. Critical
constellations, Polity Press, Cambridge 2002, p.50. Interessante il collegamento che Moroncini fa con
il Kierkegaard di Il concetto dell’angoscia : “Per Benjamin s’incorre nella colpa attraverso l’indugio e
l’inerzia. La potenza mitica può afferrare l’uomo nella colpa perché questi si sofferma nell’apparenza
della vita. Kierkegaard lo avrebbe spiegato così: è l’indugio angoscioso di fronte alla decisione, che si
genera al sorgere dello spirito – chè tale è il senso del divieto biblico -, a gettare la creatura nel peccato
originale. Il peccato non è la scelta di trasgredire la norma, che per essere compiuta implicherebbe la
conoscenza del bene e del male (…), ma quel tanto di sospensione di fronte alla possibilità. (…) La
mancanza di responsabilità morale che si può attribuire ad un nome – Adamo – fa sì che il peccato si
trasmetta ereditariamente come un carattere.” Cit. in Bruno Moroncini, Walter Benjamin e la moralità
16
E per Benjamin le Affinità elettive di Goethe sono una testimonianza precisa di tutto
ciò, dell’irruenza delle potenze ctonie del mito,”il mitico è il contenuto reale di
questo libro”31, nel momento della dissoluzione della convenzione giuridica, cioè del
matrimonio.32 E proprio da questo fallimento del diritto e del matrimonio, si vede
come esso non sia la soluzione e la conciliazione33 dell’ambito mitico, ma solo una sua
temporanea copertura, un travestimento che non ne modifica la sostanza.
I personaggi, nonostante ai massimi livelli di formazione ( Bildung ) e di cultura,
“sono in balia delle affinità elettive. Ma i loro impulsi misteriosi fondano (…) non
l’intimo accordo spirituale degli esseri, ma solo la peculiare armonia degli strati
naturali profondi.”34 E questi strati profondi seguono la ciclicità naturale dell’eterno
ritorno, come i personaggi del racconto seguono una tipicità di corrispondenze
reciproche: “poiché l’eterno ritorno dell’identico, che si impone rigidamente ai modi
di sentire internamente più diversi, è il segno del destino”. 35 Benjamin ci sta dicendo
che dove c’è ciclicità e tipicità, qui vi è il destino, il contesto colpevole di ciò che
vive, e questo Goethe lo ha compreso profondamente: “in quella tipicità non bisogna
intravvedere solo un principio artistico, ma un motivo dell’essere secondo il destino.
31
Walter Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag 178.
32
Si veda Desideri, che delinea un rapporto preciso tra mito e linguaggio, soprattutto nella forma del
mutismo e del silenzio: “Di fronte a questo destino, a questo rovesciarsi di potenze << naturali >> sulle
costruzioni della Bildung, il matrimonio non costituisce l’antitesi, l’argine che redime, che scioglie la
legge naturale in miracolo. (…) Il matrimonio (…) non può mediare: come istituzione giuridica è la
scabra prosecuzione del dominio del mito sui conflitti tra i linguaggi della vita, che cercano di uscire
dall’ordine naturale che li irretisce. Di fronte alla potenza mitica del diritto, che il matrimonio
rappresenta, questi linguaggi rimangono << natura >> che non giunge ad espressione, rimangono muti,
costretti nel silenzio della colpa.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme,
Editori riuniti, Roma 1980, p.120-121.
33
Ivi, p.119. “Il matrimonio è la norma che sancisce loro il dovere della coesistenza, l’apparenza della
conciliazione. Ma oltre questa apparenza, il matrimonio, come posizione e imposizione giuridica, non
può.”
34
Walter Benjamin, Opere complete I, Einaudi, Torino 2001-2008, pag 351.
35
Walter Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p.176.
17
Questo modo fatale di vita, che stringe più nature viventi in un solo nesso di colpa e
castigo, è stato sviluppato dal poeta attraverso tutta l’opera”.36
La civilizzazione e la culura dei personaggi non riescono a contrastare il mito, si
dimostrano essere delle semplici apparenze, un codice di gestualità che finchè non
riprende su di sé la forza dell’etico e della decisione, si mostra inefficace.37
36
Ivi, p.177
37
“La ‘condizione mitica’ è quella dei quattro protagonisti del romanzo e indica il loro stare sotto la
soggezione del destino. Essere secondo il destino, per Benjamin, significa muoversi in un nesso di
colpa e castigo; colpa, però, non morale, ma naturale, coincidente con un’esistenza intimamente falsa. È
questa la situazione in cui gli uomini si trovano non per una decisione, non con l’azione, ma per
l’indugio e l’inerzia. In pratica Benjamin ci propone una visione, per la quale la vita naturale dell’uomo
non è innocente, non ha senso in se stessa. I personaggi del romanzo hanno un formato naturale,
l’affinità che li lega è il vincolo naturale per eccellenza e la scelta è qualcosa che attiene più agli
elementi che agli uomini, è qualcosa di chimico. In questa condizione mitica i personaggi sono sotto il
dominio delle cose apparentemente morte, sono immersi in un flusso di presagi e di sogni premonitori.”
Cit. in Paolo Vinci, Amore senza memoria. Benjamin e l’Ottilia di Goethe, Almanacchi nuovi, anno III
n.s. n. 2, inverno-primavera 1998-99, p. 78.
38
“The reckless daring and successful love of the characters in this tale serve as a counterpoint to the
inaction and fatalistic resignation which distinguish the figures in the main narrative” in Cit. in Graeme
Gilloch, Walter Benjamin. Critical constellations, Polity Press, Cambridge 2002, p.45.
39
Quello di decisione è un concetto importante per la prima produzione benjaminiana. Interessante
sarebbe riflettere sui punti di contatto con il contemporaneo decisionismo giuridico di Carl Schmitt e
quindi sulla sua contestualizzazione storico-politica nella Germania di Weimar.
18
in una prosa di grado superiore.”40E così continua: “e la loro (degli sposi) animosa
decisione basta a disperdere un destino che stava per addensarsi su di loro”.41
Dunque è la decisione ciò che spezza il continuum infinito ed omogeneo della
temporalità mitica, è la presa di posizione del genio che riprende in mano la sua vita, e
per la prima volta, sceglie, e non subisce. Questo è l’aspetto performativo che la
novella Strani figli di due vicini vuole contrapporre al naturale magnetismo, alla
cattiva passività delle Affinità elettive, questo è il racconto che funge da antitesi ai
motivi mitici del romanzo, con i suoi motivi redentivi: “Per cui, se l’elemento mitico
del romanzo è la tesi, nella novella si può scorgere l’antitesi.”42
E fondamentale per Benjamin è il carattere di interruzione di questa novella. Cosa
interrompe? A cosa serve? Cosa significa l’interruzione stessa?
Strani figli di due vicini spezza la linearità e continuità della narrazione di Goethe,
esattamente come la decisione in essa contenuta interrompe la ciclicità del tempo
mitico e del destino. È l’irruzione di un qualcosa esterno alla storia che la spezza, e
proprio spezzandola, spezzando la sua bella apparenza, ne fa affiorare un livello più
alto di verità. Strani figli di due vicini è un livello superiore di conoscenza, un livello
superiore di riflessione, che interrompe l’ambigua naturalità sotto le cui forze si sta
svolgendo la vicenda delle Affinità elettive. E questa interruzione nella narrazione,
secondo il mio parere, è strutturalmente affine all’interruzione della storia e del diritto,
che Benjamin propone in Per la critica della violenza e nelle Tesi sul concetto di
storia. Strani figli di due vicini rappresenta quel concetto fondamentale in tutta la sua
speculazione (soprattutto artistica, ma che fuoriesce spesso con irruenza dall’ ambito)
che Benjamin chiama l’Ausdrucklose, il privo di espressione.
Una comprensione completa di questo concetto meriterebbe una trattazione a parte,
che dovrebbe rendere conto del rapporto di Benjamin con il primo romanticismo
tedesco, con il suo concetto di critica, e con quello di poetato. Qui posso solamente e
40
ivi, p.209.
41
Ivi, pag 211.
42
Ivi, pag 211.
19
brevemente provare a delineare dei caratteri fondamentali che continueranno a
emergere in questa trattazione.
Per Benjamin, seguendo e superando il primo romanticiscmo tedesco (utilizzando suoi
concetti chiave come ad esempio quello di riflessione43), la critica d’arte è
fondamentalmente un potenziamento della stessa opera che viene criticata, è il
“metodo del suo compimento” e la sua autoriflessione.44 La vera critica si installa
immanentemente nell’opera, mortificandone la sua bella apparenza (unico modo in cui
può darsi un’opera d’arte45), e ne dischiude un livello di verità più alto, anche se più
prosaico e meno poetico, un nucleo di verità che la connette alla stessa idea dell’arte.
Ogni singola opera è, sin dalla sua origine, predisposta alla trasformazione delle sue
forme, ogni singola opera può dissolvere i suoi vincoli individuali per connettersi con
il suo ideale assoluto: e questo è esattamente quello che deve fare la vera critica. Deve
interrompere la bella apparenza, e far irrompere in essa il potere del vero. Il suo
metodo è ironico, dove l’ironia è la dissoluzione della forma empirica nella forma
assoluta. E questa dissoluzione è mortificazione 46 dell’opera stessa, in quanto la critica
43
Il concetto di riflessione, trattato da Benjamin nella sua tesi di laurea sul romanticismo tedesco, viene
visto come un primo tentativo di superamento del paradigma soggetto-oggetto. Nella riflessione “ogni
conoscenza è autoconoscenza di un’essenza pensante che non occorre sia un’Io (…) Per i romantici non
si dà dal punto di vista dell’assoluto alcun Non-Io, alcuna natura nel senso di un’essenza che non
diviene sé. Cit. in Walter Benjamin, Opere complete I, Einaudi, Torino 2001-2008, pp.367-379. Si veda
a proposito la seguente citazione: “La questione del rapporto tra soggetto e oggetto nella conoscenza,
che nell’impostazione criticistica conduceva al reciproco irrigidirsi di due entità metafisiche
contrapposte, qui pare avviarsi a soluzione, nel senso che di fatto non si dà alcuna conoscenza di un
oggetto attraverso un soggetto ma, nel << medio >> costituito dalla riflessione, la cosa e l’essenza
conoscente trapassano l’una nell’altra.” Cit. in Gianni Carchia, Nome e immagine, Quodlibet, Macerata
2009, p.30.
44
Ivi, p.31: “In questa visione, la critica si pone come un esperimento nell’opera d’arte tramite il quale
l’opera stessa deve venire risvegliata alla sua riflessione e così portata alla coscienza e alla conoscenza
di se stessa.”
45
Bellezza e verità sono strettamente connesse nella riflessione benjaminiana, e l’apparenza è
costitutiva della stessa bellezza. Ivi, p.48: “La verità appare nella bellezza solo nella misura in cui
quest’ultima non è epifenomeno superfluo.”
46
Indichiamo la citazione di Willi Bolle sui temi della mortificazione dell’opera come sua riduzione in
frammenti, sul rapporto tra allegoria e simbolo, che collega questo saggio su Goethe con L’origine del
dramma barocco tedesco: “Dagegen stellt Benjamin in Wahlverwandtschaft-Essay eine “kritische
Gewalt”, die “das Werk zum Stückwerk zerschlägt , zum Fragmente der wahren Welt, zum Torso eines
20
rivela il nucleo prosaico all’interno della poesia, della figuratività dell’opera. La
critica è cioè pensiero che si installa immanentemente nell’arte e ne distrugge
l’apparenza di totalità compiuta, riducendola a frammento, a torso: “critica è
l’esposizione del nucleo prosaico di ogni opera.”47
Ed è questo, appunto, ciò che fa l’Ausdrucklose, il privo di espressione. Esso spezza
l’incantesimo dell’opera, il mondo di finzione che esso crea, e, agendo come una
potenza critica, ne installa all’interno la sobrietà della riflessione. È un’istanza che
spezza l’incantamento mitico, è l’irrompere del vero (della sfera morale), nel bello
(sfera estetica). È la morte e la consumazione del bello, ad opera della verità.
E lo stesso concetto di apparenza dell’opera d’arte lo abbiamo già incontrato in
tutt’altro contesto, cioè proprio nella trattazione della nuda vita e del destino:
“L’uomo non ne viene mai colpito, ma solo la nuda vita in lui, che partecipa della
colpa naturale e della sventura in ragione dell’apparenza”.48
A mio parere, questo è un nesso fondamentale: un’applicazione alla tematica morale e
giuridica, del meccanismo della critica interno alla teoria dell’arte. Come bisogna
spezzare l’apparenza dell’opera d’arte, spezzarne l’incantamento, per installare al suo
interno la potenza critica del vero, così bisogna interrompere la bella apparenza di un
continuum storico lineare e teleologicamente orientato al bene. Bisogna ritrovare in
esso le fratture e le interruzioni, le brutture e la prosaicità del vero, sotto il velo della
bellezza. E’ necessario oltrepassare la nuda vita, che, parafrasando, proprio in ragione
dell’apparenza, della sua superficialità, animalità, monodimensionalità, partecipa della
sventura e della colpa naturale.
48
Walter Benjamin, Destino e carattere, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, pag 35.
21
E per concludere la trattazione di questi concetti fondamentali relativi all’ambito
mitico, non si possono tacere gli importanti risvolti del concetto di nuda vita,
nell’ambito biopolitico, specificamente nelle ricerche di Giorgio Agamben.
Già dal titolo del suo libro, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, si mette al
centro dell’indagine il rapporto tra il concetto benjaminiano di nuda vita, e quello di
potere sovrano, esattamente come Benjamin aveva messo in connessione la nuda vita
con il mito, il destino, e il diritto.
Agamben traduce la distinzione di Benjamin tra nuda vita e vita, tra Kreatur e
Geschöpf, in quella greca tra zoé e bìos, tra vita e forma-di-vita49 , dove zoé indicava
tra i greci il semplice fatto del vivere, comune a tutti gli esseri viventi (animali,
uomini e dei), mentre bìos indicava la forma di vita qualificata, cioè un particolare
modo di vivere, una scelta di vita che vada al di là della semplice naturalità del
respirare.
E parafrasando Aristotele nella Politica, questa zoé, questa semplice vita naturale, è
nel mondo classico, esclusa dalla vita politica, dalla polis, restando confinata, come
mera vita riproduttiva, nell’ambito della casa, dell’oikos. E esattamente come
Benjamin ha scritto che il soggetto della colpa e del destino non è l’uomo, ma la nuda
vita in lui, così Foucault in Volontà di sapere esplicita che con l’età moderna
incomincia ad entrare nelle maglie e nei calcoli del potere non più la vita qualificata, il
bios dell’uomo, ma la sua zoe, la sua vita naturale, e la politica si trasforma in
biopolitica, gestione del vivente in quanto tale: “Per millenni, l’uomo è rimasto quel
che era per Aristotele: un animale vivente e, inoltre, capace di esistenza politica;
l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere
vivente.”50
49
“Col termine forma-di-vita intendiamo invece una vita che non può mai essere separata dalla sua
forma, una vita in cui non è mai possibile isolare qualcosa come una nuda vita. Una vita, che non può
essere separata dalla sua forma, è una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso
e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere.” Cit. in Giorgio Agamben, Mezzi senza
fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p.13.
50
Michelle Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2013, pag 127.
22
E il potere sovrano si trasforma ora da governo del territorio, a governo di uomini, di
corpi, attuando tutta una serie di tecniche politiche per attuare una sorta di
animalizzazione51 dell’uomo. E proprio questa animalizzazione dell’uomo, si potrebbe
dire che serva a re-inserire la nuda vita all’interno del suo destino mitico, a re-inserirlo
più facilmente nell’ordine del diritto e della sua passiva gestione da parte del potere
sovrano.
E scopo del libro di Agamben è proprio rispondere alla domanda: “qual è il punto in
cui la servitù volontaria dei singoli comunica col potere oggettivo?” 52 La risposta è
nuovamente: la nuda vita, la zoe, la semplice vita naturale all’interno dell’uomo: “Si
può dire, anzi, che la produzione di un corpo biopolitico sia la prestazione originale
del potere sovrano.”53 Quindi Agamben va oltre Foucault scrivendo che la politica è
da sempre biopolitica (e quindi che la biopolitica non è la soglia di modernità
biologica di una società), e che la nuda vita viene da sempre catturata all’interno della
politica attraverso la sua esclusione (esclusione in quanto, come sopra ricordato, la
nuda vita veniva confinata, come meramente riproduttiva, all’ambito della casa): “la
nuda vita ha, nella politica occidentale, questo singolare privilegio, di essere ciò
sulla cui esclusione si fonda la città degli uomini.”54
Proprio in questo sottolineare l’importanza del concetto di nuda vita e nel trattarlo in
rapporto al mito, al destino, al diritto, e all’emancipazione da quest’ultimi, Benjamin è
stato un precursore del pensiero biopolitico contemporaneo. E la sua analisi è tanto
più densa e stratificata, in quanto non è esplicitamente politica, anzi, a primo acchito
51
“La posta in gioco è, ora, tutt’altra e più estrema, poiché si tratta di assumere come compito la stessa
esistenza fattizia dei popoli, cioè, in ultima analisi, la loro nuda vita. Sotto questo aspetto, i totalitarismi
del xx secolo costituiscono veramente l’altra faccia dell’idea hegelo-kojeviana della fine della storia:
l’uomo ha ormai raggiunto il suo télos storico e non resta altro, per un’umanità ridiventata animale, che
la depoliticizzazione delle società umane, attraverso il dispiegamento incondizionato
della oikonomia, oppure l’assunzione della stessa vita biologica come compito politico (o piuttosto
impolitico) supremo.” Cit. in Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri,
Torino 2002, p.79.
52
Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005, pag.9.
53
Ibidem.
54
Ivi, pag.10.
23
sembrerebbe solo un’analisi storico-letteraria di concetti e forme artistiche. La sua
grandezza sta proprio nel riuscire a trattare i fenomeni in tutta la loro profondità e
stratificazione, senza astrarre da nessun livello di senso.
Solo ora, possiamo finalmente applicare i concetti qui studiati al mondo di Kafka, un
mondo preistorico, dove le forze mitiche si manifestano in tutta la loro ambiguità
demonica.
55
Tra i due autori si può parlare di una vera e propria affinità elettiva, tanto che “Lukács ha definito
Benjamin l’equivalente teoretico di Kafka; entrambi hanno vissuto la fuga dei padri da un’identità e da
un mondo culturale, schiacciato da persecuzioni e umiliazioni.” Cit. in Paolo Consigli, Ricomporre
l’infranto, in Aut-aut, n. 211-212 (gennaio- aprile 1986).
24
continuità – alienazione con la tradizione, che fa nascere le figure del mondo
kafkiano.
Va a ciò l’interesse di Benjamin, quando ci dice: “i primi decenni di questo secolo si
collocano sotto il segno della tecnica. D’accordo. Ma bisogna sapere nello stesso
tempo che essi vedono un risveglio delle tradizioni cultuali e rituali” 57, o quando
descrive precisamente le linee di fondo del lavoro kafkiano con questa figura:
“L’opera di Kafka è un’ellisse, i cui punti focali, molto distanti l’uno dall’altro, sono
determinati da una parte dall’esperienza mistica (che è soprattutto esperienza della
tradizione) e dall’altra dall’esperienza del moderno uomo metropolitano. Quando
parlo di esperienza del moderno uomo metropolitano, in essa comprendo diversi
momenti. Parlo da un lato del cittadino moderno, che si sa consegnato a un
impenetrabile apparato burocratico (…). Parlando di moderno uomo metropolitano
mi rivolgo d’altro canto pure al contemporaneo dei fisici dei nostri giorni.”58
L’opera di Kafka è fondamentale per Benjamin, perché rappresenta una malattia della
tradizione, come una malattia della tradizione è l’epoca in cui viviamo, espropriati del
nostro passato, della nostra genuina esperienza, e gettati in un mondo di cui non
sappiamo più decifrare i simboli e le leggi. Il mondo di Kafka è un centro di
sperimentazione di cortocircuiti della storia e della temporalità, e Benjamin vi trova la
sopravvivenza di concetti religiosi e cultuali, in un mondo in cui è stato dimenticato
da dove essi provengano, così come sono stati dimenticati le dottrine, le leggi e la
speranza nella redenzione. Benjamin vi vede anche la perdita di un mondo organico e
simbolico, ormai ridotto a torso di un simbolo, a frammento insignificante o troppo
56
“L’interazione tra tecnica e rituale – si pensi a La colonia penale – o la simultaneità della mistica (o
meglio della tradizione) e del Moderno (nella forma di istanze politiche impenetrabili e di aporie fisiche
dello spazio) – si pensi ad esempio a Il castello – costituiscono la cornice dell’interpretazione
benjaminiana della contemporaneità di Kafka.” Cit. in Sigrid Weigel, Walter Benjamin, la creatura, il
sacro, le immagini, Quodlibet, Macerata 2014, p.152.
57
Walter Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 1993, p.62.
58
Walter Benjamin, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino 1978.
25
artificialmente significante, ad allegoria. Kafka non può più esprimere positivamente
qualcosa, ma solo indicarne l’assenza, testimoniarne il vuoto.59
Anche qui quello che interessa all’analisi benjaminiana, è il rapporto e la tensione tra
la nuda vita e la vita, la creatura e l’ordine del sacro, la creazione e la redenzione, la
natura e la storia.60 Non bisogna mai dimenticarsi di questo leitmotiv che attraversa il
filosofare benjaminiano, altrimenti ci si perderebbe nelle sue colte analisi di fenomeni
culturali, a svantaggio dell’organicità del suo pensiero.
Estraneità. Questo è quello che provano i personaggi di Kafka, e allo stesso tempo i
contemporanei dell’autore praghese. Non conoscono l’origine dei loro usi e dei loro
comportamenti, e il loro rapporto con la teologia e la tradizione religiosa: “l’uomo di
oggi è un estraneo, un nemico che non sa nulla delle leggi che collegano questo corpo
con altri ordini superiori”61. Questo mancato collegamento con gli “ordini superiori”,
con quello che abbiamo visto essere l’ordine del sacro, rende l’uomo di oggi semplice
creatura, o, “nuda vita”, cioè non uomo, intessuto della scelta e della cultura, ma
animale, in tutta la sua inconsapevole e negativa naturalità.
Così come il romanzo “il Castello”, si gioca sulla marcata dicotomia (tanto che in
molti hanno pensato a motivi gnostici nell’opera kafkiana) tra villaggio ai piedi del
castello e castello stesso, e sull’incomunicabilità e inavvicinabilità del castello da
parte di chi si trova nel villaggio, così viene richiamato un racconto talmudico che
simboleggia il villaggio come il corpo in cui si trova in esilio una principessa (che
59
“Egli si trova a dover comunicare l’incomunicabile e l’indicibile (la traumaticità dell’esperienza
moderna) in un contesto che appare ormai privo di ogni immediatezza simbolica e di ogni totalità viva e
significante. (…) Kafka, ebreo assimilato, frantumato, scisso, si trova di fronte la società borghese
come società in cui il mito antico, sotto forma di destino incomprensibile e assurdo, è riemerso
ibridandosi con le coordinate storiche del moderno. Il moderno in Kakfa è il mitico messo in scena da
uno stupefatto, estraniato narratore.” Cit. in Eleonora de Conciliis, La redenzione ineffettuale, La città
del sole, Napoli 2001, p. 502.
60
“Benjamin pone dunque i concetti di Kafka di processo, tribunale e legge entro dei contesti di teoria
linguistica e storica, nei quali si tratta di illuminarli nell’ambito di un ordine divino e di un ordine
mondano. La doppia posizione dell’uomo che partecipa alla “natura” e a un ordine superiore
rappresenta il punto di partenza della lettura di Kafka, a cui Benjamin continuerà a ritornare.” Cit. in
Sigrid Weigel, Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le immagini, Quodlibet, Macerata 2014, p.157.
61
Walter Benjamin, Opere complete IV, Einaudi, Torino 2001-2008, pp. 452 sgg.
26
rappresenta l’anima). Il fidanzato (simbolo del messia) sta per arrivare a riscattare la
principessa dall’esilio nel villaggio, ed essa, non conoscendo la lingua del villaggio in
cui si trova, per comunicare la sua gioia, prepara un banchetto. Questa leggenda
doveva essere la risposta di un rabbino al perché l’ebreo prepari un banchetto la sera
del venerdì, cioè doveva essere la risposta in termini religiosi, di un rituale profano.
Benjamin si serve di questo racconto come una chiave di lettura del mondo kafkiano,
e dell’estraneità del mondo contemporaneo: “poiché, come K. nel villaggio ai piedi
del castello, così l’uomo odierno vive nel suo corpo; esso gli sfugge, gli è nemico.
Può accadere che l’uomo si ridesti un mattino e si trovi trasformato in un insetto.
L’estraneità – la sua propria estraneità – si è impadronita di lui. L’aria di questo
villaggio spira in Kafka.”62
L’opera di Kafka può essere considerata la più grande testimonianza di un mondo
abitato da uomini che non sono mai usciti dall’ambito della nuda vita, del destino, del
mito, o del diritto. E in questo mondo di finzione si può scorgere in trasparenza
l’eternarsi del mito perpetuato dalla modernità, dal mondo del capitalismo e del suo
diritto. Mito antico e moderno sono un tutt’uno nella prosa kafkiana.63
Per questa mancata emancipazione dall’ambito della nuda vita si fa fatica a
distinguere se i personaggi di Kafka siano animali o umani. Questi ultimi sono
caratterizzati dal vagare senza meta, dallo sbattere la testa di porta in porta, dal
compiere gesti enigmatici e senza senso, guidati da un semplice istinto di
sopravvivenza, come potrebbe avvenire a una talpa, o a qualsiasi altro animale dei
62
Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus,
Einaudi, Torino 1995, p.291.
63
“Se per “mito” intendiamo, seguendo la terminologia benjaminiana, la sfera d’esperienza in cui
all’uomo è negata la rivelazione della trascendenza e la capacità di agire moralmente sollevandosi dalle
pastoie amorali del fato, le forze del mito moderno costituiscono l’equivalente di quelle del mito antico,
che, come un destino inesorabile e incomprensibile, schiacciava l’uomo precludendogli la libertà e la
responsabilità; al posto degli dei della tragedia ci sono ora le potenze impersonali della società
borghese, le sue convenzioni paralizzanti, il suo assetto burocratico e la sua infinita rete di mediazioni
(corviso mio). (…) Kafka, ebreo assimilato, frantumato, scisso, si trova di fronte la società borghese
come società in cui il mito antico, sotto forma di destino incomprensibile e assurdo, è riemerso
ibridandosi con le coordinate storiche del moderno. Il moderno in Kafka è il mitico messo in scena da
uno stupefatto, estraniato narratore.” Cit. in Eleonora de Conciliis, La redenzione ineffettuale, La città
del sole, Napoli 2001, p.500, 502.
27
racconti kafkiani. Ed è a questo loro essere semplici creature che si attanagliano le
forze mitiche, le forze destinali operanti sotto la forma del diritto.
L’uscita dal mito per Benjamin si ha infatti nel momento in cui l’eroe tragico, il genio
umano, solleva la testa dalla colpa, e rivolge lo sguardo contro il destino che sta
subendo. Le creature di Kafka, di contro, non sollevano mai la testa, non arrivano alla
consapevolezza di essere superiori al meccanismo che le opprime, e in questo,
rimangono animali che sbattono contro sempre nuovi muri.
Facendoci guidare dall’analisi del saggio benjaminiano su Kafka, attraverseremo
molti aspetti peculiari della sua opera.
64
“La lettura di leggende acquista nel saggio una funzione compositiva, nella misura in cui ognuna
delle quattro parti di cui si compone il saggio ruota intorno a tali (quattro) storie.” Cit. in Sigrid Weigel,
Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le immagini, Quodlibet, Macerata 2014, p. 170.
28
concettuale religioso, ma in assenza di fede e confessione - Benjamin deve tanto
all’opera dello scrittore praghese.65
Dobbiamo innanzitutto capire il perché Kafka scriva leggende e parabole, e quale sia
il rapporto di quest’ultime, cioè dell’epica, alla verità e alla dottrina.
65
Importante per la questione della particolare secolarizzazione attuata da Benjamin nella sua lingua e
nel suo apparato concettuale (questione di fondamentale importanza, ma che non possiamo trattare
tematicamente in questo lavoro), è la seguente citazione: “Forse l’espressione più adeguata a descrivere
il modo di produrre pensiero e di scrivere di Benjamin è “post-biblico” (nach-biblisch), poiché esso
scaturisce da una consapevolezza della lingua biblica, dell’ordine sacro e dell’idea di redenzione, senza
tuttavia esserci legato confessionalmente. Un punto fermo del suo pensiero è che i concetti che
appartengono all’ordine sacro hanno dei precisi significati che non possono essere trasferiti ai concetti
dell’ordine profano, dell’agire umano e della comunicazione sociale. Tale riconoscimento della lingua
biblica in assenza di fede può essere descritto come pensiero ebraico in un mondo senza Dio. (…) Per
Benjamin invece la lingua biblica ha una vita postuma, sopravvive, e precisamente nella poesia.” Cit. in
Sigrid Weigel, Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le immagini, Quodlibet, Macerata 2014, p.14-
15.
66
“The Aggadah is a wonderful mirror of spontaneous religious life and feeling during the rabbinical
period of Judaism. In particular, it represents a method of giving original and concrete expression to the
deepest motive-powers of the religious Jew, a quality which helps to make it an excellent and genuine
approach to the essentials of our religion.” Cit. in Gershom Scholem, Major trends in jewish mysticism,
Schocken Books, New York 1946.
29
“Ciò non toglie che i suoi racconti non si risolvano interamente nelle forme della
prosa occidentale e che stiano alla dottrina come l'Haggadah all'Halacha. Essi non
sono parabole, ma non vogliono neppure essere presi di per se stessi; sono fatti in
modo da potersi citare, da potersi narrare a guisa di illustrazione. Ma possediamo
forse la dottrina che è accompagnata dalle parabole di Kafka e illustrata nei gesti di
K. e nelle movenze dei suoi animali? Essa non c'è, e possiamo dire tutt'al più che
questo o quel passo allude ad essa. Kafka avrebbe forse detto: è un relitto che la
tramanda, ma noi possiamo anche dire: è una staffetta che la prepara.”67
I racconti di Kafka non sono prosa, bensì immagini di pensiero, che non possono mai
venire tradotte completamente. A maggior ragione se la dottrina a cui rimandano non
esiste più, è stata dimenticata, e la scrittura può solamente alludere ad essa, non può
catturarla.68
Proprio questa problematica è delineata dalla lettera che Benjamin scrive al suo amico
Scholem il 12 giugno 1938:
“L’opera di Kafka rappresenta una malattia della tradizione. E’ accaduto che la
saggezza fosse definita come il lato epico della verità. In questo modo la saggezza
viene a configurarsi come un retaggio della tradizione; è la verità nella sua
consistenza haggadica”, cioè la saggezza è la verità che si esprime nei racconti, nelle
storie, nelle tradizioni, in forma non dottrinale, ma storicamente stratificata.
Benjamin continua di seguito: “E’ questa consistenza della verità che è andata
perduta (…) Il tratto veramente geniale di Kafka fu che egli sperimentasse qualcosa
di completamente nuovo: sacrificò la verità, per non rinunciare alla trasmissibilità,
all’elemento haggadico. Le opere di Kafka sono costitutivamente allegoriche. Ma (…)
non si prostrano semplicemente ai piedi della dottrina, come la Haggadah alla
67
Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus,
Einaudi Torino 1995, pag 287.
68
“ Le parole di Kafka sono segni che celano nulla. Il gioco linguistico, preso ‘terribilmente’ sul serio,
non rinvia ad altro da sé. E non celando nulla, a nulla rinviando, nemmeno potrà aprire o decidere
alcunchè. Non ha segreti, non mostra occulte dimensioni. E perciò mostra anche l’insensatezza del
domandare: la sua evidenza a nulla risponde, a nulla è chiave. Non è possibile sperare risposta da un
segno di tale evidenza.” Cit. in Massimo Cacciari, Icone della legge, Adelphi edizioni, Milano 1985,
p.68.
30
Halachah. Una volta accucciate le danno improvvisamente una grossa zampata. Per
questo in Kafka non si parla più di saggezza, restano solo i prodotti della sua
disgregazione.”69
Quindi le storie kafkiane sono sì delle parabole70, che hanno una tensione interna ad
essere dispiegate in dottrina, ma allo stesso tempo rimandano ad una dottrina che non
esiste più, hanno sacrificato la verità, per non rinunciare alla trasmissibilità.
Rimandano ad un “nulla della rivelazione”, ad un vuoto.71
Le storie di Kafka non sono simboliche, ma allegoriche, non rimandano ad un’idea
infinita, compiuta, totalizzante. Tra significante e significato non c’è una connessione
precisa, come nel simbolo, ma tra di loro si apre un abisso, come verrà delineato
precisamente nella trattazione dell’allegoria nel Dramma barocco tedesco. Le
parabole kafkiane significano non attraverso l’espressione, ma in quanto interrompono
l’espressione (e come non vedere qui un richiamo all’Ausdrucklose?). La loro
grandezza sta nel creare uno spazio di tensione tra un’interpretazione che viene da
69
W.Benjamin, G.Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, Einaudi, Torino 1987, pagg.255-
256.
70
“The significance of Kafka’s oeuvre is (…) grounded in the necessary failure of his deepest
intentions, in their unrealisability in those forms that the art of modernity offers to a writer. Kafka’s
novels and stories unfold as parables, but this unfolding does not mean that they bring forth a practical
lesson – they unfold only in the sense of ripening into a concreteness that becomes even more
impenetrable. (…) He wrote parables that offer no counsel, because they are novels whose heroes are
perplexed (ratlos), problematic individuals. This Ratlosigkeit, however, is not presented by him as the
outcome of their character and the circumstances of their life. It is (as in a parable) the state of
everyman, the situation of the world, and therefore also of art. For the ultimate roots of Kafka’s willed
fiasco are not aesthetic. Its foundation is the survival of the pre-historical swamp world under the
facaede of a modernity that never overcame but merely repressed it.” Cit. in George Markus,
Benjamin’s critique of aesthetic autonomy, in Andrew Benjamin and Charles Rice, Walter Benjamin
and the architecture of modernity, Re.press, Melbourne 2009, p. 114.
71
“Da nessuna parte, in Kafka traluce l’aura dell’idea infinita, da nessuna parte si dischiude l’orizzonte.
Ogni proposizione è letterale, ogni proposizione è significante. Le due cose non sono fuse, come
vorrebbe il simbolo, bensí separate da un abisso, e da questo abisso barbaglia il crudo raggio della
fascinazione. La prosa di Kafka, nonostante la protesta del suo amico, tiene per i proscritti anche in
questo: che persegue l’allegoria piuttosto che il simbolo. Benjamin l’ha giustamente definita parabola.
Essa non si esprime mediante l’espressione, bensí mediante il rifiuto di quest’ultima, un’interruzione.
Si tratta di parabole di cui è stata sottratta la chiave; anche colui che cercasse di trasformare in chiave
proprio questa circostanza, verrebbe indotto in errore, perché confonderebbe la tesi astratta dell’opera
di Kafka, l’oscurità dell’esistenza, col suo contenuto sostanziale. Ogni proposizione dice: interpretami,
ma nessuna tollera l’interpretazione.” Cit. in Theodor W. Adorno, Noten zur Literatur, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt am Main 1974.
31
loro richiesta – esplicitamente infatti rimandano ad altro da sé – ma allo stesso tempo
dal negare un’interpretazione univoca e definita, proprio perché rimandano ad un
vuoto, ad un nulla, hanno un modo negativo di delineare. 72 Così avviene per i gesti dei
personaggi kafkiani: mentre l’intera opera è attraversata da un codice gestuale,
addirittura c’è un cristallizzarsi di tutto l’accadere nel gesto, questo non ha una forza
simbolica di rimando ad un significato univoco. I gesti di Kafka hanno perso la loro
chiave di lettura e interpretazione, non rimandano ad un senso preciso, e diventano
oggetti enigmatici di riflessioni infinite.
72
Per il particolare modo negativo del comunicare kafkiano ai limiti del linguaggio: “Benjamin will
come to speak of Kafka’s own sacrifice of truth to the hollow form of its sheer transmissibility. The
eclipse of meaning by the material form of its presentation – a “Jewish” literalism is implicit here:
Schlegel’s “apology of the letter” – defines, for Benjamin’s Kafka, at once the “sickness” of tradition
(the complete evacuation of any determinate content to be handed down) and, paradoxically, the latter’s
supreme vindication (a transmission that occurs in the absence of anything to transmit and which
indeed transmits essentially this very absence). Transformed by criticism into pure medium or
“mediality” – a medium that ceases to mediate, ceases to communicate, and ceases ultimately to mean
or signify – the work unworks itself. It strips itself of both purpose and referentiality, suspending itself
as “a means without end.” (…) By suspending intention, expression, reference, as well as the various
exteriorities of utility and power, language comes to reveal itself as pure potentiality: communicability
in (and indeed of) the utter absence of anything to communicate – at its limit, communicability of the
incommunicable.” Cit. in David Ferris, Benjamin and the ambiguities of Romanticism, in The
Cambridge companion to Walter Benjamin, Cabridge University press 2006, p. 143, 144.
73
“Solo la teologia ebraica conosce il fenomeno di un’autentica storia-della-non-salvezza
(Unheilsgeschichte), dove la storia della salvezza si rovescia nel suo esatto contrario.” Cit. in Hans
Joachim Schoeps, Theologishe Motive in der Dichtung Franz Kafkas, in Die neue Rundschau, 1951, p.
21.
32
“Benjamin scorgeva il rovesciamento nel negativo (negative Umschlag) a cui
soggiacciono le categorie ebraiche nel mondo di Kafka: mondo in cui non vi sono dei
contenuti dottrinali positivi, bensì la loro promessa del tutto utopica (e perciò
appunto non ancora formulabile) (…) Benjamin sapeva che noi possediamo in Kafka
una theologia negativa di un ebraismo che non è certo meno intenso per il fatto che
gli è venuta a mancare la Rivelazione come dato positivo.”74
E il mondo redento non è ancora formulabile o articolabile, dato che noi siamo
all’interno dell’universo della dannazione. Esattamente come l’esperienza del genio
tragico che si liberava dalla colpa destinale era un’esperienza muta, non articolabile ed
esprimibile.
E tutto questo non è altro che una Theologia negativa75, dove la religiosità di Kafka, il
suo ebraismo, si ritrova nelle atmosfere che crea, nelle immagini con cui dipinge il
suo mondo, e non in una spiegazione dottrinale precisa ed esplicita.
La teologia normalmente intesa – come ambito della creazione e della redenzione -
viene cioè rovesciata, attraverso la particolare temporalità messa in atto da Kafka,
fondantesi su due modalità: la cancellazione del presente, e la categoria del rinvio.
La modalità del rinvio è decisiva, in quanto è ciò che inserisce il personaggio dei
racconti nella temporalità dell’eterno ritorno, nell’infinità del ripetersi di atti che
hanno ormai perduto il loro senso, smarrendo ogni teleologia finale. 76 Ogni futuro
ricade sempre nell’ambito uguale del passato, e il presente viene cancellato: Kafka
74
Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978.
75
Per il rapporto tra teologia, messianismo e utopia negativa in Kafka, rimando ai preziosi spunti
suggeritemi da Michael Löwy, Redenzione e utopia, Bollati Boringhieri, Torino 1992: “Mi sembra che
il concetto di Theologia negativa sia effettivamente il solo che possa rendere conto in modo adeguato
del tipo molto particolare di problematica religiosa presente nei romanzi di Kafka. La redenzione
messianica (e anche, come vedremo, l’utopia libertaria) appare in lui soltanto “in calco”, nella “fodera”
del reale o disegnata in filigrana dal contorno nero del mondo presente.”
76
“La categoria che secondo Benjamin Kafka impiega per ottenere questo abbassamento della teologia
è quella del rinvio (Aufschub): il continuo ed esasperante rinvio del compimento del desiderio e
dell’azione determina nei protagonisti dei romanzi e dei racconti kafkiani (e nel lettore stesso) la
sensazione di trovarsi in una posizione arretrata, abietta, inadeguata, rispetto al livello teologico
autentico. Tuttavia tale livello non è mai ritenuto realmente esistente, né tanto meno raggiungibile.” Cit.
in Eleonora de Conciliis, La redenzione ineffettuale, La città del sole, Napoli 2001, p. 505.
33
conosce solo il passato, come ambito della colpa atavica ed ambigua, e il futuro, con
la certezza della pena e dell’espiazione. Il presente, in quanto spazio di possibilità del
nuovo e dell’azione morale, viene annichilito ed espropriato dagli altri tempi. 77 Il
carattere infernale del mondo di Kafka, come del moderno, è cioè dato dal suo
carattere ripetitivo e destinale, dalla sua mancanza di una via d’uscita.
Come Adorno ha sinteticamente delineato: “l’opera di Kafka è una fotografia della
vita terrena, dalla prospettiva della vita salvata della redenzione.” 78 La redenzione,
l’utopia si delineano proprio nell’assenza di redenzione e di speranza nel mondo
kafkiano, si delineano in negativo.79
Max Brod racconta di un colloquio con Kafka - “il nostro mondo è solo un cattivo
umore di Dio, una cattiva giornata”, dice Kafka, e Brod risponde: “al di fuori di
questa manifestazione, di questo mondo che noi conosciamo, ci sarebbe quindi
speranza”, egli (Kafka) sorrise e disse, “oh certo, molta speranza, infinita speranza,
ma non per noi.”80 Così secondo Benjamin le domande che pone l’opera di Kafka,
trovano la loro risposta in un altro stato del mondo, radicalmente diverso, che Kafka
non avrebbe mai incontrato, ma solo delineato in negativo.
77
“Se, inoltre, il futuro ricade sempre nel passato, e il compimento dell’interpretazione della legge
viene rinviato all’infinito, dal punto di vista temporale si ha in Kafka, secondo Benjamin, anche la
completa eliminazione del presente, ovvero della possibilità di vivere pienamente l’esperienza attuale
conferendole senso a partire dal passato e in vista del futuro. Il presente appare gravato da un peso che
lo rende insopportabile e orrendamente ripetitivo.” Ivi,p. 506.
78
Th. Adorno a W.Benjamin, 17 dicembre 1934, in Benjamin über Kafka, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
1981, pag.101.
79
“L’epoca costringe Kafka a creare con dei vuoti (…). Egli deve dare forma a delle negatività e
servirsene per aprire una strada verso il loro superamento. Egli non può descrivere la luce, perché può
descrivere soltanto ciò che conosce, la sua assenza. Ma la descrizione di questa assenza, opaca, oscura,
ha lo scopo di avvicinare a ciò che le si oppone, ciò che egli chiama luce o verità.” Cit. in R. Ferenczi,
Kafka, subjectivitè, histoire et structures, Klinksieck, Paris 1985, p.101.
80
Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus,
Einaudi, Torino 1995, pag 280.
34
E proprio per questa mancanza di speranza e per sottolineare la categoria del rinvio,
Benjamin inizia il suo saggio con il racconto Potemkin di Puskin.81 Vede cioè in
questa breve narrazione un importante antecedente del mondo di Kafka, dei suoi
enigmi. E il mondo di Kafka è il mondo della burocrazia, delle cancellerie e degli
uffici, dei tribunali, dei corridoi asfissianti: in quest’atmosfera di demonica ambiguità
e indistinzione si mescolano concetti mitici e giuridici, teologici e destinali, moderno
mondo burocratico e antico pre-mondo mitico. Ciò che viene rappresentato è da una
parte il potere, la gerarchia, la violenza, il mito e la burocrazia, e dall’altra la nuda
vita, la creatura asfissiata, la sottomissione, la colpa.82
I potenti che si muovono in questo mondo, sono inavvicinabili, allontanati dall’eroe
tramite la loro infinita altezza nella scala gerarchica, e si muovono in costante ma
lento movimento. Movimento che si avvicina al ripetersi ciclico e monotono della
natura, caratterizzato da eterna ripetizione e stretta necessità. Nel mondo di Kafka non
c’è storia, ma pre-storia o storia naturale, in quanto essa viene appiattita a processo
giuridico perenne, escludendo ogni possibilità di uscire dalle maglie del diritto, in
direzione dell’etica e della decisione.
Questi potenti sono accomunati da Benjamin alla categoria dei padri, tramite il
concetto per noi fondamentale di colpa: “Il padre è colui che punisce. La colpa lo
attira come i funzionari del tribunale. Molti indizi fanno ritenere che il mondo dei
funzionari e quello dei padri sia – per Kafka – lo stesso.”83
La famiglia cioè, è proprio l’anello di congiunzione tra il singolo individuo e il
dominio mitico che gli si attanaglia addosso, hegelianamente la figura di mediazione
81
Il personaggio Potemkin di Puskin rappresenta per Benjamin un “Antenato di quei potenti che
risiedono, in Kafka, come giudici nei solai, come segretari nel castello, e, per quanto in alto si trovino,
sono sempre decaduti o piuttosto cadenti, ma – in compenso – possono apparire di colpo, anche nei loro
rappresentanti più infimi e malandati (i portieri o i funzionari decrepiti), in tutta la pienezza dei loro
poteri.” Ivi, p. 276.
82
“Se il mondo di Kafka è dominato da processi, funzionari giudiziari, accuse, pene, colpe sconosciute
e vergogna, Benjamin mostra che in esso concetti mitici e teologici (come colpa, peccato originale e
giudizio universale) si sovrappongono all’ambito dell’umana giurisdizione.” Cit. in Sigrid Weigel,
Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le immagini, Quodlibet Macerata 2014, pag 171.
83
Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus,
Einaudi, Torino 1995, pag 277.
35
tra il singolo e l’universale. E’ cioè la prima cristallizzazione del potere e della
violenza, che su larga scala è rappresentato dal diritto. La famiglia è l’ambito in cui si
trasmette il peccato originale, ciò che congiunge il presente con il passato atavico
della colpa.84
Dal momento in cui qui Benjamin parla di colpa, si può immediatamente intuire che
per lui ci troviamo in un contesto destinale (in quanto proprio il destino è stato
definito come il contesto colpevole di ciò che vive, del semplicemente vivente) . Ed è
anche qui proprio la colpa della creatura ad attirare il potere che si esercita su di essa;
è un apriori dell’esistenza delle figure kafkiane.
I funzionari85, così come il padre, non hanno una sorte migliore dei deboli che
subiscono la loro violenza, in quanto anch’essi (e questo si nota attraverso il verbo
essere attirati, che allude al magnetismo naturale, come nelle Affinità elettive di
Goethe) fanno parte del meccanismo infernale del destino: sono attirati dalla colpa,
non hanno scelta, il loro punire e fare violenza è una necessità naturale. Anche loro
sono appiattiti ad una naturalità destinale, sono ridotti a nuda vita, semplice
creaturalità, ingranaggi appartenenti ad un livello gerarchico più elevato, ma sempre
ingranaggi, costretti dal meccanismo mitico a fare violenza.
I padri e i funzionari sono accomunati anche da un’altra caratteristica: la sporcizia, il
sudiciume. Sono così sporchi e abitano un ambiente così sudicio da essere
paragonabili, ad insetti, a parassiti, che gravano con il loro peso sulle spalle del corpo
84
“Dove la storia si presenta come storia naturale, i padri rappresentano l’istanza che accusa e quella
che punisce. La famiglia, intesa come origine “di questa colpa ereditaria – la colpa di aver fatto un
erede” - appare al contempo come fonte della colpa e come istanza che giudica, come luogo in cui si
incontrano preistoria e presente.” Cit. in Sigrid Weigel, Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le
immagini, Quodlibet Macerata 2014, pag 162
85
“Sudici, privi del piacere che dovrebbe promettere il privilegio, morti alla vita come burocrati di un
potere assoluto che sta più in alto di essi e che impedisce loro di provare emozioni, i funzionari possono
soltanto sentire il peso greve e incomprensibile del loro lavoro di responsabilità. (…) Essi
rappresentano dal punto di vista sociale (che in Kafka si trasforma immediatamente in mistero
antropologico) il risultato di una lunghissima metamorfosi, che va dal godimento al nulla. (…) Questo
processo è tanto riuscito da farne percepire l’esito come una condizione eterna dell’esistenza borghese,
che riveste la realtà come una viscida calotta a cui non si può sfuggire: la staticità dei funzionari, la loro
estrema lentezza, l’aria palustre, melmosa che inalano, sono segni del mondo mitico in cui sono
costretti a vivere.” Cit. in Eleonora de Conciliis, La redenzione ineffettuale, La città del sole, Napoli
2001, p. 517.
36
su cui abitano: “il padre, nelle strane famiglie di Kafka, vive del figlio, pesa su di lui
come un enorme parassita. Egli non consuma solo la sua forza, ma il suo diritto di
esistere. Il padre, che è il giudice, è insieme l’accusatore. Il peccato di cui accusa il
figlio sembra essere una specie di peccato originale.”86
E caratteristica del destino è proprio quella di incombere, di gravare, di pesare, su
creature che hanno colpa solo in quanto esistono, cioè, il che è lo stesso, è lo stesso
ambito destinale a generare questa colpa. Importante a riguardo è la figura del peccato
originale, cioè del debito primordiale, del peso atavico con cui l’uomo come semplice
creatura deve fare i conti. Questo è il nesso colpevole di ciò che vive, ed è da qui che
inizia quel processo perenne, che è la creaturalità catturata nel destino.
Come abbiamo visto essere il diritto non ciò che emancipa l’essere umano dall’ambito
del destino, ma proprio un ambito residuale dello stesso mito, così in Kafka la
preistoria mitica esercita il suo dominio sulla creatura, proprio attraverso l’ambito del
diritto. Tale connessione è talmente stretta che nel mondo kafkiano il diritto è il
destino, la legge è il nesso colpevole di ciò che vive, l’enigmaticità di codici
sconosciuti è la stessa ambiguità demonica dell’indistinzione mitica: “egli (Kafka) ha
solo visto apparire, nello specchio che la preistoria gli presentava nella forma della
colpa, l’avvenire nella forma del giudizio.”87 Tra l’ambito della colpa e quello del
giudizio c’è quindi una connessione così stretta da rappresentare una continuità, uno
strascico della preistoria nel presente.
Nel mondo kafkiano esistono dunque sì dei codici, delle leggi, ma esse non si possono
vedere, e proprio in questa invisibilità e indistinzione, esercitano un potere tanto più
minaccioso: “qui il diritto scritto si trova bensì nei codici, ma segretamente, ed in
base ad essi la preistoria esercita un dominio tanto più illimitato.” 88 Caratteristica
della preistoria e del tempo mitico è infatti la presenza di leggi non scritte, che
possono essere violate inconsapevolmente. 89 La legge vige ma non significa, e proprio
in questa sua struttura esclusivamente formale e non contenutistica, è tanto più
86
Ivi, pag.278.
87
Ivi, pag.293.
88
Ivi, pag.279.
37
pervasiva (come viene delineato nella parabola Davanti alla legge).90 Anzi, è proprio
per la mancanza di un significato–contenuto preciso, che essa può catturare il
semplicemente vivente, la nuda vita, dentro il contesto giuridico, e di riflesso dentro
l’ambito del destino. Nel destino e nel mito caratteristica fondamentale è appunto,
l’essere colpevoli, l’essere gravati da un peso, senza sapere il perché. Se la legge
significasse, non ci sarebbe più per lei la possibilità di condannare ambiguamente alla
colpa, e di sussumere la singolarità sotto di sé, in un rapporto di bando. 91 Proprio il
descrivere l’umanità presa dalla legge in un rapporto di bando, di esclusione-
inclusione, è il più grande contributo che ci lascia la prosa kafkiana.
In essa non c’è spazio per l’innocenza e la felicità, che abbiamo visto librarsi troppo
leggere per rientrare nell’ambito del destino e del diritto; non si ritrovano neanche
nell’ambito amoroso e sensuale, spesso ultimo rifugio di felicità in un mondo dannato
dominato dal mito. Infatti anche le ragazze nel mondo di Kafka perdono i loro tratti
umani per “cosalizzarsi” in semplici creature, in oggetti. Sono anch’esse mediate dal
sistema mitico in cui si trovano a vivere, nei loro gesti e nelle loro maniere spira il
vento atavico del mito e l’aria afosa dei corridoi; anche loro sono semplici creature
89
Come delinea precisamente Fabrizio Desideri: “il diritto segreto dei codici decreta già la
colpevolezza dell’eroe kafkiano, lo include nel contesto della colpa, gli nega l’innocenza e la felicità.”
Cit. in Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, pag.142.
90
“The parable depicts the addressees of the Law has having lost the keys to unlock its meaning: they
study the commentary (haggadah) but remain locked out of the Law (Halacah), unable to apply it.
Consequently, for them the Law appears as Nothingness: it ‘has validity but no significance”. Cit. in
Miguel Vatter, In Odradek’s world, in Diacritics, vol. 38, no. 3 (Fall, 2008), p. 62.
91
Proprio da questo punto (cioè dal carattere aperto della legge e dal rapporto di bando che instaura,
dalla parobola Davanti alla legge) che parte dalla visione di Scholem di una legge che vige ma non
significa, muovono le analisi di Cacciari e di Agamben. “Nella leggenda Davanti alla legge, Kafka ha
rappresentato in uno scorcio esemplare la struttura del bando sovrano. Nulla – e certamente non il
diniego del guardiano – impedisce al contadino di entrare nella porta della legge, se non il fatto che
questa porta è sempre già aperta e che la legge non prescrive nulla. (…) Vista in questa prospettiva, la
leggenda kafkiana espone la forma pura della legge, in cui essa si afferma con più forza proprio nel
punto in cui non prescrive più nulla, cioè come puro bando. Il contadino è consegnato alla potenza della
legge, perché questa non esige nulla da lui, non gli ingiunge altro che la propria apertura. Secondo lo
schema dell’eccezione sovrana, la legge gli si applica disapplicandosi, lo tiene nel suo bando
abbandonandolo fuori di sé. La porta aperta, che è destinata soltanto a lui, lo include escludendolo e lo
esclude includendolo. E questo è precisamente il fastigio supremo e la radice prima di ogni legge.” Cit.
in Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005, pp. 57-58.
38
guidate dalla passività e dalla necessità del destino e del diritto: 92 “la più notevole
(proprietà) è quella di prestarsi a tutto, come le timide ragazze che incontrano K. nel
Castello e nel Processo, e che si abbandonano alla lascivia nel grembo della famiglia
come in un letto. Egli le trova sulla strada ad ogni momento; e il resto presenta così
poche difficoltà come la conquista della ragazza dello spaccio.”93
E anche l’amore smarrisce il rapporto agli “ordini superiori”, quel di più rispetto alla
nuda vita che lo caratterizza, diventa anch’esso quasi una routine, caratterizzato da
una temporalità mitica ambigua, e dalla sporcizia:”e rimasero lì distesi fra piccole
pozze di birra e altri rifiuti di cui il pavimento era coperto. Così passarono ore,…
durante le quali K. ebbe l’impressione costante di smarrirsi, o di essersi tanto
addentrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui aveva mai osato, in
una terra ignota dove l’aria stessa non aveva nessuno degli elementi dell’aria nativa,
dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei, e tuttavia non si poteva far altro
in mezzo a quegli insani allettamenti che inoltrarsi ancora, continuare a smarrirsi.”94
Neanche l’amore e la sensualità indicano la strada verso l’uscita dal meccanismo
mitico, anzi. Si ritrova qui la stessa aria asfissiante, lo stesso smarrimento privo di
direzione, la stessa estraneazione, e lo stesso movimento ineluttabile del “continuare a
smarrirsi”, tipico dell’ambito mitico. Le stesse figure femminili vengono dalla
preistoria: “esse sono creature palustri, come Leni, che stende il medio e l’anulare
della destra, congiunti fra loro da una membrana fin quasi all’ultima falange.”95
Chi invece, secondo Benjamin, fuoriesce da questo ambito, chi non è gravato da
questo costante peso e per cui si dà la speranza, sono gli aiutanti, le creature
92
“In quanto le condizioni nell’ufficio e nella famiglia presentano in Kafka molti punti di contatto, in
esse sembra impossibile prendere decisioni sulla propria vita, o più semplicemente incontrare qualcuno
che non sia compromesso con il potere e con la trasgressione dei suoi labili divieti (corsivo mio). (…)
Al di fuori degli universi chiusi della famiglia e dell’ufficio, l’uomo e la donna semplicemente non
esistono, perché ne sono assolutamente dipendenti, sono completamente impregnati della loro muffa,
cosicchè l’aria aperta e la luce li ucciderebbero.” Cit. in Eleonora de Conciliis, La redenzione
ineffettuale, La città del sole, Napoli 2001, p. 522.
93
Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus,
Einaudi, Torino 1995, pag 279.
94
Ibidem.
95
Ivi, pag.295.
39
incompiute, i messaggeri che comunicano fra un gruppo e l’altro. Infatti, unici ad
essere usciti dal grembo della famiglia, seppur nella loro esistenza marginale e
infantile, sono comunque figure leggere, ridenti, sgravate del peso che incombe su
tutti gli altri personaggi, siano essi le vittime o i carnefici. Sembrano essere le uniche
figure kafkiane che si fanno carico dell’assenza di senso del mondo e delle leggi, e da
qui ripartono, con un’enigmatica allegria e leggerezza. Per questo sono figure che
indicano una via d’uscita, una possibilità di salvezza: nel loro essere intermediari tra
mondi, evadono dall’universo chiuso del mito.96 Essi sono rappresentanti perfetti di
quel mondo interstiziale o Zwischenwelt, che si trova sulla soglia tra natura e cultura,
tra inorganico e organico.
E nello stesso mondo interstiziale si trova Kafka, che viene delineato da Benjamin
come un novello Ulisse. Come l’eroe greco, “è sulla soglia che divide il mito e la
favola”, così Kafka si trova proprio su questa soglia, scrivendo “favole per
dialettici”97. Favole che segnano il superamento dell’universo chiuso del mito e del
diritto in favore della leggerezza dell’innocenza e della gioia: “Ragione e astuzia
hanno inserito nel mito le loro finte; le sue potenze non sono più invincibili. La favola
è il ricordo della vittoria su di esse.”98
97
“For Benjamin, the fairy-tale has a fundamentally anti-mythic character. Whereas myths recount
human subjection to the immutable forces of nature, the fairy-tale emphasizes the circumvention of fate
through wit and cunning. (…)In 'The Storyteller', Benjamin notes that 'the fairy tale tells us of the
earliest arrangements that mankind made to shake off the nightmare which the myth had placed upon
his chest'. Nature may appear as beneficent in this when, e.g., animals come to the aid of human
characters. This 'shows that nature not only is subservient to the myth, but much prefers to be aligned
with humanity'. Adorno notes that for Benjamin “the fairy-tale appears as the outwitting of myth or as
its fracturing”. Cit. in Graeme Gilloch, Myth and metropolis. Walter Benjamin and the city, Polity
press, Cambridge 1996, p. 203.
98
Ivi, pag.282.
40
Contrapposto alla ragione, all’attenzione e all’astuzia, è in Kafka il concetto cardine di
oblio.99
Abbiamo già visto che ciò che interessa di Kafka è la sua tematizzazione e
illustrazione di un mondo in cui si presentano contemporaneamente ere e tempi
diversi, un mondo moderno in cui la preistoria affiora in ogni momento 100. Un mondo
in cui le forze preistoriche riaffiorano come potenze storiche dei nostri giorni, in cui la
preistoria che si presentava nella forma della colpa, zampilla nel presente in quella del
giudizio, in cui non c’è discontinuità tra mito e diritto: "L'epoca in cui egli [Kafka]
vive non significa per lui alcun progresso sugli inizi preistorici. I suoi romanzi si
svolgono in un mondo palustre. La creatura appare in lui allo stadio che Bachofen
definisce eterico. Che questo stadio sia dimenticato, non significa che esso non affiori
nel presente. Anzi, esso è presente proprio in virtù di questa dimenticanza.”101
Ed eccoci arrivati ad un passo di capitale importanza per delineare una filosofia della
storia in Walter Benjamin.
Prima di tutto mi sembra importante che qui compaia il termine “progresso”, concetto
che sarà denso di ripercussioni, e fondamentale futuro obiettivo polemico di
Benjamin.
L’epoca in cui vive Kafka, non significa per lui nessun progresso sulla preistoria. Quel
mondo cioè, nonostante una parvenza di novità, una parvenza di distanza temporale
dalla preistoria, nonostante la “civilizzazione” portata dal diritto e dalle leggi, è
99
“The communication with the prehistoric and animal worlds distinguishing Kafka’s modernist
innovation embarks him, in Benjamin’s scenario, on an exploration of oblivion itself, of the collective
and cosmic unconscious. Kafka becomes the psychoanalytical explorer of prehistory in its
anthropological as well as cultural dimensions.” Cit. in Henry Sussman, Booking Benjamin: the fate of
a medium, in Andrew Benjamin and Charles Rice, Walter Benjamin and the architecture of modernity,
Re.press, Melbourne 2009, p. 28.
100
“Die vormythische Welt beschreibt Benjamin jetzt mit Kategorien Bachofens als die “hetärische”
allgemeiner und regelloser Vermischung, als seine “Sumpfwelt”, in der es nichts Festes und Geordnetes
gibt, woran die Erfahrung sich halten könnte. Eine solche Welt habe Kafka als seine “geheime
Gegenwart” empfunden; mit dem Jahr 1933 sei sie offen zur Herrschaft gekommen.” Cit. in Günther
Hartung, Mythos, in Michael Opitz und Erdmut Wizisla, Benjamins Begriffe, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt am Main 2000, p. 571.
101
Ivi, pag.295.
41
rimasto ingabbiato nelle stesse problematiche e catturato dalle stesse forze. Ed è
proprio qui che Benjamin andrà a giocare la sua critica al culto del progresso,
combattendo una novità che invece di far uscire dal mito, condanna il mondo al suo
perpetuarsi: il progresso è un’apparenza che nasconde.
Ma aspetto cruciale del passo citato è: perché la preistoria affiora nel presente? Quali
sono i meccanismi che lo permettono? La risposta di Benjamin è: l’oblio, la
dimenticanza. La preistoria affiora nel presente perché il presente è permeato dalla
dimenticanza, fondato sull’oblio. Tutti i personaggi kafkiani sono personaggi che
hanno dimenticato: da dove vengono, cosa stanno facendo nel posto in cui si trovano,
le leggi che li governano: “se altri personaggi del romanzo devono comunicare
qualcosa a K., essi lo fanno - quand’anche si tratti della cosa più grave o
sorprendente – incidentalmente, e come se egli avesse dovuto, in fondo, saperlo da
tempo. È come se non ci fosse in ciò nulla di nuovo, come se il protagonista fosse
tacitamente invitato a rammentarsi di qualcosa che ha dimenticato.”102
E questo oblio non è mai puramente individuale, ci dice Benjamin. E se non è
individuale può essere solo familiare e sociale, proprietà emergente del sistema-
mondo in cui i personaggi di Kafka vivono: “il dimenticato (…) non è mai puramente
individuale. Ogni oggetto particolare di oblio si confonde col dimenticato della
preistoria, entra con esso in combinazioni innumerevoli, cangianti, incerte, che danno
origine a sempre nuovi aborti. L’oblio è il recipiente da cui urge alla luce
l’inesauribile mondo intermedio delle storie di Kafka.”103
Sembra necessario concludere che sia proprio questo oblio a recidere i nessi che
collegano la creatura, la nuda vita, con gli ordini superiori. E che quindi sia proprio
questo oblio la causa fondamentale, il segreto più recondito del dominio nel mondo di
Kafka, e forse non solo lì.
E Benjamin continua sottolineando che sono gli animali i depositari del dimenticato,
dell’oblio, e non solo nell’opera di Kafka. Perché proprio loro? Non risponde
direttamente, ma sembra verosimile perché essi rappresentano il semplice vivente, la
102
Ivi, pag.296.
103
Ibidem.
42
nuda vita, sono essi che per antonomasia non possono comunicare con gli ordini
superiori. Non avere un rapporto con gli ordini superiori è per l’uomo come un
rientrare nel regno animale, un obliare, un cambiare forma. Come delinea Sigrid
Weigel, proprio quella colpa sconosciuta, di cui i personaggi di Kafka vengono a
conoscenza solo nella forma dell’espiazione, è sintomo per Benjamin dell’oblio,
dell’ignoranza delle leggi, di un passato imperscrutabile e della perdita di ogni legame
con un ordine superiore da parte delle creature.104
Trasformazione e oblio che tocca in primis il proprio corpo, estraneità che Benjamin
ha già sottolineato nel racconto talmudico del villaggio e del castello - “poiché la
cosa più estranea e dimenticata è il corpo – il nostro proprio corpo.” 105 – e che Kafka
non manca di rappresentare spesso, come in Gregor Samsa ne La Metamorfosi.
Così come un corpo dimenticato ed estraniato è quello di Odradek, il mostriciattolo
kafkiano, la più strana figura generata dalla preistoria e dalla colpa. 106 Odradek non ha
minimamente sembianze umane, non ha contorni netti, non ha un senso preciso.
Odradek non è neanche un animale, ma è il simbolo dell’oblio stesso: “Odradek è la
forma che le cose assumono nell’oblio. Esse sono deformate e irriconoscibili.” 107 .
Abita nelle soffitte e nei corridoi, gli stessi corridoi afosi dei tribunali: e questa affinità
potrebbe forse indicare proprio i tribunali e lo stesso diritto come luoghi dell’oblio,
luoghi della deformazione. Oblio di cosa? Non sono i tribunali stessi i luoghi in cui
tutto è documentato, tutto è schedato in enormi armadi pieni di carte? Forse i tribunali
e il diritto stesso con loro, rappresentano l’oblio di qualcos’altro, da cui pensano di
104
Sigrid Weigel, Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le immagini, Quodlibet, Macerata 2014, pag
162: “Questo non-sapere pone le creature umane nel mondo di Kafka sullo stesso piano di altre
creature, gli animali.”
105
Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus,
Einaudi, Torino 1995, pag.296.
106
Interessanti i collegamenti che vengono fatti, esplicitamente a partire da Adorno, ma presenti già in
Benjamin, tra il mondo della colpa, dell’oblio, e il capitalismo avanzato: “Odradek’s life-world
symbolizes the utter profanity, the “hell” in which things exist in capitalism: used up, forgotten, left for
lost or withouth employment, they call in vain for our care.” Cit. in Miguel Vatter, In Odradek’s world,
in Diacritics, vol. 38, no. 3 (Fall, 2008), p. 47.
107
Ivi, pag.298.
43
derivare direttamente, ma di cui rappresentano il più lontano camuffamento: e cioè
della giustizia.
Ed è importante sottolineare che, come Odradek testimonia, la forma che le cose
assumono nell’oblio è deformata.108 Tutta l’opera di Kafka è, secondo Benjamin, una
descrizione della deformazione dell’essere, uno spostamento nell’asse della
redenzione, una dislocazione.109 Il che significa che lo stesso concetto di deformazione
deriva dall’oblio, cioè dalla preistoria che affiora nel presente e ne cancella le
promesse di emancipazione. Il mondo di Kafka è un mondo deformato, è impossibile
immaginare un evento che non venga estraniato nella descrizione o nella ricerca di
Kafka.
E questo spostamento nell’asse della redenzione, questo mondo distorto e non redento
con i suoi inquilini, svanirà quando verrà il messia. Lui ricalibrerà questo asse, che nel
mondo di Kafka è inevitabilmente spostato. Per Benjamin quindi la redenzione si
presenta come un aggiustamento della deformazione, che è a sua volta un
superamento dell’oblio.
In questo punto di fondamentale importanza non possiamo esimerci dal citare un
momento dello scambio epistolare tra Benjamin e Scholem, riguardo la problematica
dell’oblio della scrittura e della legge. Riferendosi alla constatazione di Scholem in
base alla quale in Kafka la scrittura non è persa, ma non può essere decifrata,
Benjamin risponde: “che gli scolari l’abbiano smarrita o che non sappiano decifrarla
108
“Oblivion is all there is, this is the source of the distortion, the deviation that affects all, and the only
response for Benjamin lies in the continual labour of studying. (…) The course of tradition is bounded
by this forgetting of death, which guides history by permeating the present with an oblivion that
burdens each new generation with an unknown past. In myth, transcendence and redemption are also
marked by a removal from history and a forgetting of the possibility of death, which thus only
replicates the daily oblivion of unknowing that enables tradition to propagate.” Cit. in William S. Allen,
Rewriting history in Benjamin and Kafka, in MLN, Vol. 123, No. 5, Comparative literature issue (Dec.
2008), p. 1074-1075.
109
“Benjamin concepisce la differenza tra lo ‘stato del mondo’ (cioè la storia) e la rivelazione nella
figura della distanza e della deformazione. Tale struttura è analoga a quella descritta nella sua teoria
della traduzione, in cui l’estraneità delle lingue marca la loro differenza nei confronti della <<pura
lingua>>. In tal senso egli interpreta qui la figura della redenzione come quella di un aggiustamento
della deformazione.” Cit. in Sigrid Weigel, Walter Benjamin, la creatura, il sacro, le immagini,
Quodlibet Macerata 2014, p. 167.
44
è infine la stessa cosa, poiché la scrittura senza la sua chiave non è scrittura, è vita.
Vita quale viene condotta nel villaggio ai piedi del monte dove sorge il castello. Nel
tentativo di trasformare la vita in scrittura vedo il senso dell’ “inversione” a cui
tendono numerose allegorie kafkiane.”110
Secondo Benjamin, che la scrittura e la legge siano smarrite o non si riesca a
decifrarle, è la stessa cosa. E questo è appunto il mondo in cui si trovano a vivere i
personaggi kafkiani, un mondo in cui gli ordini superiori sono stati obliati, le leggi che
regolano la loro vita sono segrete e incomprensibili. La scrittura senza chiave per
essere decifrata si trasforma in vita, precisamente in nuda vita (come quella che viene
vissuta ai piedi del castello).
La categoria messianica per eccellenza in Kafka è quella che riesce a produrre
un’inversione (Umkehr), un rovesciamento rispetto a questo movimento che va da una
scrittura indecifrabile alla nuda vita. Sarà una categoria che faccia riguadagnare alla
nuda vita un rapporto con gli ordini superiori precedentemente obliati, una categoria
che permette l’inversione, dalla nuda vita nuovamente alla scrittura, alla
consapevolezza. Questa non potrà essere che lo studio. Con esso gli studenti si
allontanano dal mondo distorto del mito, che condanna all’oblio e
all’inconsapevolezza animale, e lo mettono in questione. Con lo studio gli studenti
praticano una forma di ascesi: “nei loro studi gli studenti vegliano, e forse la massima
virtù dello studio è proprio quella di tenerli desti. Il digiunatore digiuna, il guardiano
tace, e gli studenti vegliano. In forma così segreta agiscono, in Kafka, le grandi
regole dell’ascesi.”111
Caratteristica degli studenti è il vegliare. Come l’oblio porta alla sonnolenza e alla
pesantezza, così gli studenti gli contrappongono la loro forza. Non bisogna dormire,
proprio perché dormire porta a dimenticare, e a perdere il momento opportuno. Come
i bambini vanno a dormire malvolentieri, perché mentre dormono potrebbe accadere
qualcosa in loro assenza, allo stesso modo gli studenti vegliano e studiano per non
110
Walter Benjamin, Gershom Scholem, Briefwechsel 1933-1940, Frankfurt a. M. 1980, pag.167.
111
Walter Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus,
Einaudi, Torino 1995, pag.301.
45
dimenticare, perché “la dimenticanza riguarda sempre il meglio, poiché riguarda la
possibilità della redenzione.” Ogni istante deve essere ricordato, e ogni momento può
essere la porta in cui entra il messia.112
Il mondo dei personaggi di Kafka e il mondo in cui lo stesso Kafka vive, condannano
all’estraneazione, all’oblio e alla distorsione. E tutto ciò che noi possiamo
contrapporgli è il non lasciarsi andare, il vegliare, il riprendere consapevolezza,
attraverso la categoria dello studio; primo passo per tornare a decidere al di fuori delle
maglie di un destino imposto, e iniziare ad agire.
Citando un’immagine che Benjamin riprenderà, mutata, nelle Tesi di filosofia della
storia: “è questa situazione [quella estraniata dell’uomo contemporaneo] che lo
rimanda allo studio. Può darsi che egli vi ritrovi frammenti della propria esistenza
(…) Che egli arrivi a comprendersi – ma con che enorme sforzo! Poiché è una
tempesta che spira dall’oblio. E lo studio è una cavalcata che muove contro di
essa.”113
Benjamin conclude dunque il suo saggio facendo riaffiorare la tensione tra diritto e
giustizia. Il diritto non è ciò che si scaglia contro il mito e ne permette
l’emancipazione, ma anzi ne è solo il camuffamento: “la parola giustizia – pensa
l’interprete – non è adoperata da Kafka; eppure è la giustizia da cui avviene la
critica del mito. (…) E’ veramente il diritto che può essere mobilitato, in nome della
giustizia, contro il mito? No.” 114
Ed è proprio lo studio che deve smascherare questo travisamento da parte del diritto e
riportare alla luce il concetto messianico per eccellenza in tutta la sua purezza , quello
di giustizia: “ il diritto che non è più esercitato ed è solo studiato, è la porta della
giustizia.’115’ Cioè è proprio lo studio, l’attenzione (che è la preghiera naturale
112
Lo studente assume dunque qui un ruolo simile a quello del materialista storico nelle Tesi sul
concetto di storia: “The historical materialist, like the rag-picker, is concerned with the salvation of
objects and people from the oblivion of forgetting,with collection and recollection.” Cit. in Graeme
Gilloch, Myth and metropolis. Walter Benjamin and the city, Polity press, Cambridge 1996p. 166.
113
Ivi, pag.303.
114
Ivi, pag.304.
115
Ibidem.
46
dell’anima secondo Malebranche), applicati al diritto, al suo studio, che ne traggono
fuori il concetto che quest’ultimo ha coperto, il concetto di giustizia: “La porta della
giustizia è lo studio.”116
116
Ibidem.
47
Janouch, in cui descrive in termini biblici e apocalittici il mondo estraniante del
taylorismo: “da un così enorme delitto non può derivare infine altro che la schiavitù
ad opera del male. Ed è ovvio. La parte più sublime e meno tangibile della creazione,
cioè il tempo, viene costretta nella rete d’impuri interessi commerciali. Così si
macchia e si umilia non solo la creazione, ma soprattutto l’uomo che ne è parte. La
vita così taylorizzata diventa un’ orribile maledizione dalla quale non può venire
altro che fame e miseria anziché l’auspicata ricchezza e il guadagno.”117
E proprio qui è contenuta una critica al progresso, intrisa di termini biblici e di
categorie ebraiche, che non poteva restare indifferente agli occhi di un pensatore come
Benjamin, dove alle volte, l’affinità con gli intenti di Kafka sfiora l’uguaglianza di
intenti. Critica che inoltre viene basata sul concetto di tempo, fondamentale in
Benjamin.
Sembra anche presente l’influsso della lettura di Stirner e del suo L’unico e la sua
proprietà nel momento in cui Kafka collega l’avvento del messia a una concezione
individualista della fede: “il messia verrà appena sarà possibile il più sfrenato
individualismo della fede” , o quando scrive che “il messia verrà soltanto quando non
ci sarà più bisogno di lui, arriverà solo un giorno dopo il proprio arrivo, non
arriverà all’ultimo giorno, ma all’ultimissimo.”118
Per Kafka dunque la redenzione messianica sarà l’opera degli uomini stessi, nel
momento in cui, seguendo la propria legge interna, essi faranno crollare le costruzioni
e le autorià esteriori; la venuta del messia sarebbe soltanto la sanzione religiosa di
un’autoredenzione umana o, almeno, questa sarebbe la preparazione, la precondizione
dell’era messianica della libertà assoluta.119
117
Franz Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1983, pag.1106.
118
Ivi, pp.721 sg.
119
Michael Löwy, Redenzione e utopia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pag.86: “Essi (i guardiani, i
giudici, i funzionari, i comandanti) sono precisamente i rappresentanti del mondo della non-libertà,
della non-redenzione, il mondo soffocante da cui dio si è ritirato. Di fronte alla loro autorità arbitraria,
meschina ed ingiusta, la sola via per la salvezza è di seguire la propria legge individuale, rifiutando di
sottomettersi e respingendo la degradazione disonorevole alla condizione di <<cane>>. L’avvento del
Messia sembra strettamente legato, agli occhi di Kafka, a questa concezione individualista della fede.”
48
E questo non mi sembra molto distante da quanto delinea Benjamin nel saggio sulle
Affinità elettive, dove è proprio la categoria di decisione, qui tradotta in volontà e
azione, ad essere ciò che spezza il dominio del mito. Inoltre anche qui in Kafka, come
in Benjamin, non risulta chiaro cosa rimane di una redenzione religiosa, nel momento
in cui sono gli uomini a doverla attuare. Problematica, che per quanto riguarda il
nostro punto di vista, rimane aperta ed irrisolta.120
Continuando, anche il Processo ed il Castello possono essere visti come una critica
all’apparato statale giudiziario e amministrativo con tutte le sue gerarchie, critica
tipicamente anarchica, e che si contraddistingue fondamentalmente da un approccio di
stampo comunista. La rabbia e l’attacco di Kafka verso la burocrazia è profonda, e
verosimilmente radicata nella sua biografia, lavorando all’Ufficio delle Assicurazioni
Sociali. Come egli stesso decisamente espone in un passo riferito dall’amico Max
Brod: “come sono umili queste persone (…). Vengono qui per supplicare. Invece di
attaccare l’ufficio e devastarlo, vengono a supplicare.”121
E sorprendente è il suo esplicito anarchismo, sia nel criticare morbosamente il mondo
delle gerarchie (e non quello dello sfruttamento economico, in termini marxisti), sia
attaccando anche le organizzazioni operaie (tipica critica anarchica verso partiti e
strutture): “costoro sono coscienti, sicuri di sè e di buonumore. Dominano la strada e
credono perciò di dominare il mondo. Ma in realtà s’ingannano. Alle loro spalle ci
sono già i segretari, i funzionari, i politici di professione, tutti i sultani moderni ai
quali essi spianano la via del potere. (…) La rivoluzione evapora e non rimane che il
limo di una nuova burocrazia. I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta
bollata.”122
La carta bollata dunque, i documenti, la burocrazia, come simboli del male
contemporaneo, della schiavitù del mondo irredento. E questa utopia negativa trasuda
120
“Per Kafka la redenzione messianica sarà l’opera degli uomini stessi, nel momento in cui, seguendo
la propria legge interna, essi faranno crollare le costruzioni e le autorità esteriori; la venuta del Messia
sarebbe soltanto la sanzione religiosa di un’autoredenzione umana o, almeno, questa sarebbe la
preparazione, la precondizione dell’era messianica della libertà assoluta.” Ivi, p. 87.
121
Max Brod, Über Franz Kafka, Fischer, Frankfurt a.M. 1966, p..213.
122
Franz Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1983, pag.1092, 1108 sg., 1124.
49
implicitamente, senza essere oggetto di tesi e di dimostrazioni 123, da ogni pagina
dell’opera di Kafka, nel modo in cui è rappresentato ossessivamente il mondo della
non libertà, cioè l’autorità, che viene avvertita inizialmente nell’ambito familiare e
paterno e poi universalizzata nel mondo contemporaneo.
L’autorità che lui descrive è sempre più impersonale, non si capisce da dove provenga
e perché agisca, ha le sembianze di un processo e di una necessità naturale, come il
mondo del mito e del destino. Addirittura nel racconto Nella colonia penale l’autorità
si confonde con la macchina di tortura, che diventa un fine in sé, un meccanismo
impersonale, sì prodotto dagli uomini, ma che poi vive di vita propria e li assoggetta e
li domina.124
E alla fine si scopre che proprio tutto il mondo di Kafka, (l’organizzazione legale, la
burocrazia, gli uffici, i funzionari) e non solo la macchina della colonia penale, è un
immenso ingranaggio reificato, dove gli uomini non hanno nessun controllo, neanche
chi tra loro detiene il potere, come il sindaco del castello, che descrive così la
macchina burocratica: “si direbbe che l’organismo amministrativo non possa più
sopportare la tensione, l’eccitazione subita durante lunghi anni per colpa di
quell’affare, forse trascurabile in sé; e da se stesso, senza l’aiuto dei funzionari,
abbia preso una decisione.”125
Per concludere vorrei sottolineare come anche per Kafka, come per Benjamin, questo
mondo non redento e dannato, non è uno stato eccezionale del mondo, ma uno stato di
assoluta normalità, dove l’inferno è che tutto rimanga così com’è. Quello che viene
qui sottolineato è la natura dannata e alienata dello Stato normale, legale e
costituzionale. Nostro compito, come lo era di Benjamin e di Kafka, è rompere il velo
che nasconde sotto le spoglie del progresso e del diritto, il destino e il mito: “Eppure
123
M. Robert, Solo come Kafka, Editori Riuniti, Roma 1982, pag.127: “Il riserbo è una componente
essenziale della sua arte, il principio di stile che garantisce la sua opera romanzesca contro la trivialità
dei romanzi a tesi.”
124
Interessantissimo qui un collegamento con le riflessioni di Theodor Adorno sul capitalismo
avanzato, visto come totalità, spirito assoluto, creato dall’insieme delle volontà dei singoli, ma totalità
non razionale, che alla fine li assoggetta e prende vita propria. Collegamento che verrà approfondito più
avanti.
125
Franz Kafka, Il Castello, Mondadori, Milano 1964, pag.98.
50
K. viveva in uno stato di diritto, dappertutto regnava la pace, le leggi erano tutte in
vigore, chi osava assalirlo in casa sua?”126
Secondo Capitolo
Storia naturale e dramma barocco tedesco
126
Franz Kafka, Il Processo, Mondadori, Milano 1988, pag.5.
51
“Dove si dà destino, là un pezzo di storia è diventato natura.”
Walter Benjamin
Insieme alla riflessione su Franz Kafka, importante per la nostra ricerca - che si
promette di tematizzare i concetti di mito e di storia naturale in Benjamin - rimane il
libro sull’Origine del dramma barocco tedesco, a cui lavora tra il 1924 e il 1925;
inizialmente nato come tesi di abilitazione all’insegnamento presso l’università di
Francoforte sul Meno, succesivamente trasformato in libro edito dall’editore Rowohlt
nel 1928, dopo il fallimento del tentativo di abilitazione.
Attraverso una riflessione critica e uno studio accurato sul fenomeno minore del
dramma tedesco del 1600 (fenomeno culturale talmente poco considerato, da non aver
avuto una ricezione al di là della sua epoca), Benjamin delinea un pensiero filosofico
di immenso spessore, coniugando un’attenta analisi filologica e artistica dei testi ad
una sorprendente profondità di pensiero.
Vengono qui delineati molti capisaldi del pensiero di Benjamin, a partire dalla sua
concezione della conoscenza nella Premessa gnoseologica, passando per il rapporto
artistico tra simbolo e allegoria, arrivando a quello che più interessa a questo lavoro,
cioè la teoria della sovranità e della storicità barocca. Nostro intento principale sarà di
delineare il concetto peculiare di storia che viene qui tratteggiato, rapportandolo con la
filosofia della storia di Hegel e con le suggestioni suggerite da Adorno; ma allo stesso
tempo non sarà possibile isolare del tutto questo materiale, da altri concetti
benjaminiani.
Senza contare la Premessa gnoseologica, l’opera si articola in due grandi capitoli. Il
primo si intitola Dramma e tragedia ed è diviso in tre partizioni: l’enunciazione del
dramma barocco come idea, il confronto con la forma della tragedia antica, e la
configurazione dello spirito barocco come spirito malinconico. Nel secondo capitolo
52
viene invece studiato lo stile del dramma barocco, incentrandosi sul concetto cardine
di allegoria.
53
trattato. È da qui che partirà Benjamin, e saggio o trattato sarà il suo studio sul
dramma barocco tedesco, dove alla linearità e consequenzialità delle deduzioni
concettuali tipiche del sistema, si sostituirà lo speculativo lasciarsi guidare
dall’oggetto tratttato, e il tornare sempre di nuovo da capo sull’oggetto di analisi, il
molteplice trattare l’argomento da una sempre nuova prospettiva.128
Concetto cardine della sua gnoseologia è qui quello di idea, indagato in rapporto
all’ambito dei fenomeni, a quello del concetto, alle problematiche dell’induzione e
della deduzione, e al suo connettersi nella tematizzazione della verità. Suoi obiettivi
polemici sono il neokantismo - che è l’ambiente culturale in cui si trova a crescere e a
formarsi – e la nascente fenomenologia di Husserl e dei suoi allievi, entrambi superati
da Benjamin attraverso una dottrina della conoscenza rifacentesi ad un neoplatonismo
mistico e qabbalistico129, ad una filosofia del linguaggio figlia della Deutsche
Bewegung di Humboldt, Herder ed Hamann, e ad un’estetica che unisce e completa
quella del primo romanticiscmo tedesco con Goethe.
Per Benjamin il dramma tedesco del 1600, inteso come fenomeno culturale (e quindi
come oggetto di analisi), nonostante la sua incompiutezza artistica e fragilità stilistica,
è un’idea. Ci dice cioè essere una sintesi virtuale di materiali empirici opposti, un polo
che collega, un nesso di eterogenei:
“Poichè nelle idee non sono incorporati i fenomeni. Essi non vi sono contenuti.
Piuttosto, le idee sono la loro coordinazione virtuale oggettiva, la loro
interpretazione oggettiva. Ma se esse non contengono i fenomeni incorporandoli, né
si volatizzano in funzioni, in leggi fenomeniche, in ipotesi, si pone la questione di
come raggiungano i fenomeni. E la risposta sarà: nella rappresentazione dei
128
“L’Umweg, la peripezia della rappresentazione, va preso alla lettera e va perciò inteso come il solo
mezzo per preservare quella allusività costitutiva del filosofare. Solo esso consente di intendere
l’oggetto non univocamente, bensì nella pluralità dei suoi significati. Il periplo della rappresentazione
non prende a motivo la ricerca dell’accessorio, del derivato, ma ha la sua giustificazione nel doveroso
rispetto della trascendenza della verità.” Cit. in Gianni Carchia, Nome e immagine, Quodlibet,
Macerata 2009, p. 16.
129
“I motivi della mistica giudaica chiaramente riconoscibili nella Vorrede, come notano i curatori delle
GS, sono: ‘la teoria del nome’, quella dei gradi di senso della contemplazione e ‘la distinzione tra una
sfera dell’interrogabile ed una del non interrogabile.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il
tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980, p. 135 nota.
54
fenomeni stessi. L’idea come tale appartiene per principio ad un ambito diverso da
quello a cui appartiene ciò che essa coglie. (…) Le idee si rapportano alle cose come
le costellazioni si rapportano alle stelle.”130
Le idee non sono dunque né i concetti, né le leggi dei fenomeni empirici, bensì
l’interpretazione e la coordinazione virtuale degli stessi fenomeni; allo stesso modo le
singole opere del dramma barocco tedesco, nonostante la loro diversità e fragilità,
possono essere coordinate nella loro idea, e solo così trovano una loro profonda
interpretazione: coordinate cioè sotto l’idea del dramma barocco tedesco, che è un
polo di sintesi degli eterogenei al di sopra della materia empirica.131
Questa idea, questa forma non si trova incarnata e compiuta in una determinata opera,
né può essere ricavata induttivamente dalle opere. E questo semplicemente perché
questa forma non ha rapporto diretto con la materia sensibile di cui è forma, esiste una
distanza tra fenomeno e idea: “le idee sono costellazioni eterne, e se gli elementi
vengono concepiti come punti di tali costellazioni, i fenomeni si troveranno ad essere,
nello stesso tempo, analizzati e salvati. E va detto altresì che questi elementi, la cui
estrapolazione dai fenomeni è compito del concetto, vengono in luce con la massima
precisione negli estremi. L’idea è definibile come configurazione del nesso che
l’unico e l’estremo ha con ciò che gli è simile.”132
Le idee non sono delle categorie kantiane, di cui si può avere uno schema e quindi
un’esibizione empirica, ma delle forme platoniche ontologicamente desostanzializzate
(in direzione linguistica, come vedremo fra poco), separate dal mondo sensibile, ma
esistenti virtualmente solo in connessione con l’empiria (come sua rappresentazione),
non dunque configurazioni create dall’intelletto umano. Le idee hanno cioè bisogno
dell’empiria e dei fenomeni per rappresentarsi, non hanno senso e non possono
130
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, pag.10.
131
“Le idee estetiche non sono classificazioni astratte, che mirano ad annettersi un gruppo di opere,
dopo averle spogliate d’ogni eccentricità d’abbigliamento e ridotte all’uniforme di prammatica. Così
procede appunto il concetto della conoscenza.” Cit. in Gianni Carchia, Nome e immagine, Quodlibet,
Macerata 2009, p. 66.
132
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, pag.10.
55
esistere senza di essi: l’essere delle idee è la stessa interpretazione dei fenomeni, le
idee esistono solo in quanto rappresentano l’empiria.133
E il processo del plasmare una forma, un’idea, è spesso maggiormente visibile nelle
opere e nei tentativi artistici più deboli e incerti, piuttosto che nelle opere
perfettamente compiute, come se attraverso l’essere scarno di queste opere, si
rivelasse il loro scheletro, cioè l’idea che hanno dietro e le guida: “La forma stessa, la
cui vita non si identifica con quella delle opere che questa determina (…) risulta
spesso evidente precisamente nel gracile corpo dell’opera difettosa, in certo modo
come il suo scheletro.”134
E proprio questo è quello che farà qui Benjamin: salvare e interpretare queste opere
teatrali del 1600, coordinandole nell’idea del dramma barocco tedesco, e in questo
modo contemporaneamente rendendo visibile quest’ultima idea. Idea che, per suo
statuto ontologico, rimarrebbe non soggetta a visione, né intuitiva né intenzionale,
perché in entrambi i casi la si chiuderebbe nel cerchio dell’intenzione e nella griglia
della conoscenza. L’unico modo in cui infatti un’idea si mostra è attraverso la
rappresentazione degli stessi fenomeni da essa plasmati, essa si può solo delimitare e
circoscrivere nei suo singoli tratti. Si può dunque solo descrivere, e mai intuire: per
questo la critica è l’unico metodo filosofico adeguato; essa non intuisce nulla, ma si
situa immanentemente nell’oggetto trattato, e lo delimita e circoscrive, segue le sue
nervature e ne sviluppa le possibilità nascoste.
133
“Così se la ‘rappresentazione dei fenomeni si compie nel medium dell’empiria’, questo è perché le
idee non possono rappresentarsi tramite se stesse. È il loro statuto interno che glielo impedisce. Le idee
possono apparire nel medium dell’empiria, perché esistono come strutturazione di quest’ultima, sua
Gestaltung. Il fatto che tale Gestaltung si esponga nell’empiria, come già costituita e non introdottavi
dal ricercatore, non sia cioè stata costretta dentro di essa, ‘definisce l’idea in quanto essere’. (…) La
partecipazione della cosa all’idea è del tutto ‘virtuale’. (…) Il modus essendi dell’idea è
l’interpretazione. Perciò – se l’idea non contiene i fenomeni, non li comprende sotto di sé ‘come il
concetto di specie comprende i generi’ – la sua generalità non è concetto risultante dalla mediazione tra
i fenomeni. È essa a connettere i fenomeni, a determinare per prima la ‘reciproca inerenza’. E non
viceversa.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980,
p. 142, 143.
134
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 33.
56
Altra caratteristica delle idee è di essere autonome, intangibili, e separate, sia
dall’empiria e dai fenomeni, che anche l’una rispetto all’altra. Sono monadi
leibniziane l’una all’altra, e l’armonizzarsi fra queste essenze, il loro insieme coerente
e armonico, costituisce l’ambito della verità.
Proprio da questo statuto della verità, deriva che essa non può essere oggetto né di
visione, né di intuizione, o di un rapporto conoscitivo e intenzionale. La verità, in
quanto separata, non è per Benjamin catturabile in una griglia conoscitiva:
“la verità non entra mai in relazione, tanto meno in una relazione intenzionale.
L’oggetto della conoscenza, quale si determina nell’intenzione concettuale, non è la
verità. La verità è un essere inintenzionale formato di idee. Il comportamento che le si
addice è perciò non già un intendere conoscitivo, bensì un risolversi e uno
scomparire in essa. La verità è la morte dell’intenzione.”
E proprio qui Benjamin si scaglia contro una visione scientifica, sistematica e
totalizzante della verità, dove questa appare come un oggetto semplicemente
imbrigliabile da parte di un soggetto conoscente. L’intenzionalità soggettiva viene qui
invece completamente dissolta nell’oggetto, e la verità si dà solo come costellazione
autonoma, esistente indipendentemente dal soggetto conoscente. Per Benjamin c’è
dunque una distinzione netta tra l’ambito della conoscenza e quello della verità.135
Visto che le idee non si danno nel mondo dei fenomeni, non sono presenti
nell’empiria, ma solo i fenomeni sono visibili nelle idee, dato che quest’ultime sono la
loro interpretazione, Benjamin si fa portavoce di un radicale anti – empirismo. Ma se
le idee sono ontologicamente diverse dai fenomeni (sono la “potenza che plasma
l’empiria”), dove e come si danno le idee? Ed è in questo punto che viene introdotto,
135
“La conoscenza si contraddistingue in quanto pro-duce il suo oggetto, determina a priori le forme del
suo darsi, costituisce un reticolo concettuale nel quale costringerlo, farlo apparire. La struttura del suo
metodo, dei suoi metodi e delle sue strategie è sempre riconducibile a ‘nessi della coscienza’
intenzionalmente relati ad un oggetto. E’ il carattere intenzionale di questa relazione che identifica
l’oggetto del conoscere in ‘oggetto da possedere’. (…) Conoscenza non è così penetrazione nella
‘concretezza’ della particolarità di uno stato di cose, ma la sua formalizzazione. Solo così ri-duce un
determinato stato di cose in classi di oggetti e classificandoli attribuisce loro ‘proprietà’. Tale riduzione
– classificazione è dunque pro-duzione dell’oggetto. La sua formalizzazione significa inserirlo in un
‘rapporto di proprietà’. (…) Tutt’altro invece, nel caso della verità. Essa non è posseduta, ma
desiderata.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980,
p.138.
57
come ponte tra la verità e le idee da una parte, e il mondo fenomenico dall’altra, il
Nome. Le idee cioè hanno un essere linguistico, questo rappresenta la loro unica e
materiale datità.136 Caratteristiche del nome sono, di essere sottratto ad ogni
fenomenicità (in quanto non semplicemente fenomeno empirico), 137 e di essere l’unico
essere a cui pertiene la potenza di plasmare l’essenza dell’empiria, caratteristica
propria delle idee e della verità. Quindi è proprio e solamente il nome a determinare il
darsi delle idee,138 cioè l’idea è lo stesso nome nella sua potenza simbolica e originaria
(estranea al carattere di mero segno che assumerà in seguito). E le idee non si danno
tanto in una lingua originaria, quanto in una percezione originaria.
Percezione del mondo e della natura, in cui le parole ancora non avevano perso il loro
carattere denotativo e simbolico a vantaggio del significato conoscitivo, tematica
ampliamente svolta da Benjamin nei sui saggi su La lingua in generale e sulla lingua
dell’uomo e su Il compito del traduttore, e qui riversata:
“L’idea è qualcosa di linguistico, più precisamente: qualcosa che, nell’essenza della
parola, coincide con quel momento per cui la parola è simbolo. (…) E’ compito del
filosofo restituire il suo primato, mediante la rappresentazione, al carattere simbolico
136
“La datità dell’idea è il suo darsi come segno, il suo presentarsi e consistere nel nome. Solo così
l’idea è sottratta ad ogni fenomenalità, è scissa dal mondo delle cose e simultaneamente si dà in ‘modo
pure e semplice’, im-mediatamente come le cose, ma senza condividere la caducità di quest’ultime.
Idea e segno coincidono dunque nel Nome, come ‘l’unità di oggetto sensibile e di quello sovrasensibile’
che costituisce il simbolo. Ma se il Nome possiede questa autotrasparenza simbolica, questa astrale
luminosità che non sembra destinata a subire trasformazioni, obnubilamenti è perché l’idea e quindi il
Nome è visibile solo nella sua Darstellung.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le
forme, Editori riuniti, Roma 1980, p.138.
137
“Il nome è, insieme, massima vicinanza al fenomenico e massima astrazione: l’essere del nome è
analogo a quello puro e semplice delle cose, eppure è sottratto ad ogni fenomenicità. Ciò dipende dal
suo darsi immediato. Eppure, in questo darsi (dove emerge indiscutibilmente l’elemento segnico, il
concetto di scrittura) non si scopre, per Benjamin, l’essenza del linguaggio come tale. (…) Il nome
appare altro rispetto al linguaggio.” Cit. in Massimo Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, in
Franco Rella, Critica e storia, Cluva libreria editrice, Venezia 1980, p.50.
138
“Correlato dell’idea è qui il Nome, non il linguaggio. E il nome viene inteso nella sua originarietà –
intentionsloses, come l’essere puro e semplice della cosa. In questo Nome, la verità non viene
rappresentata o intuita da forme trascendentali della soggettività – ma si rappresenta. La correlazione
sfugge qui completamente al ‘condizionamento’ della forma trascendentale. Soltanto il nome determina
il darsi delle idee. Vi è coincidenza originaria tra idea e nome: la loro essenza è unica. L’idea non è
costellazione iperurania, ma il nome nella sua ‘intatta nobiltà denominativa”. Ivi, p. 49.
58
della parola: quel carattere nel quale l’idea giunge all’autotrasparenza, che è il
contrario di una comunicazione rivolta all’esterno.”139
Dove il peccato dello spirito linguistico, la caduta dalla lingua paradisiaca adamitica
era vista, nel saggio sulla lingua del 1916, proprio nella perdita di questo carattere
pieno e simbolico del nome, a vantaggio del suo uso strumentale, cioè nel suo essere
ridotto a mero segno, ovvero nel passaggio da una lingua nominale alla lingua del
giudizio. Compito del filosofo è quindi rammemorare (concetto fondamentale per
Benjamin) questa percezione originaria, ridonare al nome la sua potenza originaria,
quello di plasmare l’empiria, il fenomenico, di articolare la realtà, e di essere
trasparente all’idea che rappresenta.140 La verità dunque è un ambito che si dà nel
linguaggio, e l’accesso alla verità sarà sempre una via indiretta, mediata dal
linguaggio, ma soprattutto dalla storicità intrinseca del linguaggio, dalla sua
stratificazione storica a partire dalla prima percezione originaria. La filosofia del
linguaggio dunque, si àncora qui saldamente alla filosofia della storia: i nomi, e le
idee di riflesso, sono intrinsecamente storici,141 non possono essere astratti dalla loro
stratificazione storica, e trattati come semplici segni monodimensionabili sostituibili
l’uno con l’altro.142
Come abbiamo visto, anche il dramma barocco tedesco, il Trauerspiel, secondo
Benjamin, è un’idea. Perciò, anche di essa bisognerà rammemorare la sua percezione
139
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 12.
140
“Il compito della filosofia diviene, allora, quello di liberare l’idea, in quanto parola, dal linguaggio
immerso nella notte della comunicazione e dell’ambiguità dei segni, fino a ripristinare il rapporto
simbolico della parola in quanto auto-manifestazione dell’idea.” Cit. in Fabrizio Desideri e Massimo
Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, p. 92.
141
“Il nome è una vicenda, una storia – il trasformarsi pertiene alla sua essenza.” Cit. in Massimo
Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, in Franco Rella, Critica e storia, Cluva libreria editrice,
Venezia 1980, p.50.
142
“Ma le parole, ripetiamo, non sono segni. Una volta che si sia fatta chiarezza su questo punto, si
avverte che l’altra faccia della filosofia del linguaggio dev’essere la filosofia della storia.” Cit. in
Davide Messina, Parola e segno. Teoria dell’allegoria e critica del linguaggio in Walter Benjamin, in
Andrea Pinotti (a cura di), Giochi per melanconici. Sull’Origine del dramma barocco tedesco di Walter
Benjamin, Mimesis, Milano 2003, p. 234.
59
originaria, esige un’anamnesi, un’interrogazione circa la sua origine. Ma che cos’è
esattamente l’origine?
Innanzitutto abbiamo visto che l’idea è una costellazione di elementi fenomenici, è
l’interpretazione e la coordinazione virtuale di questi: frammenti dispersi di empiria
vengono a costituire nell’idea una totalità, e proprio questo processo è per Benjamin la
salvazione platonica dei fenomeni, l’unica possibile. Mentre infatti attraverso il
concetto, il fenomeno viene smembrato e catalogato sotto il concetto ai fini della
conoscenza, attraverso l’idea il fenomeno diventa totalità, viene a far parte (come
estremo) dell’idea (che è appunto costellazione degli estremi, dei fenomeni). Il
singolare qui, non viene sussunto sotto un concetto rimanendo singolare, ma dato che
viene considerato come un “estremo”, come facente parte della costellazione dell’idea,
diventa totalità. La salvazione platonica del particolare quindi è l’istituzione di
connessioni tra i fenomeni, in direzione della loro immanente coordinazione e
interpretazione data dall’idea.143 Se il fenomeno e l’idea fossero separati l’uno
dall’altra, non sarebbe possibile nessuna salvazione, e i fenomeni rimarrebbero
ininterpretati e dominati da una mitica e caotica ambiguità, esattamente come la nuda
vita rimane intrappolata nel mito, irredenta e persa, se non viene “salvata” dal
collegamento con l’ambito etico degli “ordini superiori”: rimarrebbe semplice
fenomeno, non giustificato da nessuna interpretazione data dall’idea, e sperduto nella
più caotica semplice fatticità.144
143
Per la valenza etica e politica della salvazione benjaminiana del particolare, rimandiamo a
Moroncini: “Il platonico ‘salvare i fenomeni’ riceve in Benjamin una direzione di senso forse perduta
nelle vicende del platonismo: più che rassicurare la conoscenza intorno alla possibilità di dare ad essi
misura e durata, rapportandoli all’archetipo ideale, il compito filosofico è salvarli proprio in quanto di
caduco, transitorio e disperso – dunque di eccessivo rispetto all’esigenza, cui risponde il sapere, di
orientarsi nel reale ed essere sorretti dalla fiducia che in fondo nulla cambi - pertiene al loro essere. (…)
Salvare i fenomeni, rendere loro giustizia, è rispettarli nella loro intenzione più propria: eventi che
nessun a priori sorregge e cui nessun telòs dà senso. Giacchè i fenomeni non sono realtà neutre (…), ma
precipitati d’esperienza in cui si cristallizza la vita dell’uomo. (…) Rendere giustizia ai fenomeni vuol
dire dare voce ai vinti, far proprio nelle macerie del passato, ma anche nella catastrofe presente, ciò che
ancora risuona.” Cit. in Bruno Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Edizioni
Cronopio, Napoli 2009, pp. 15, 16.
144
“Se fenomeno e idea fossero esterni l’uno all’altra, non si darebbe assunzione dei fenomeni
nell’idea, salvazione dei fenomeni. Ma il fenomeno separato dall’idea altro non è che il fenomeno in
balìa delle forze oscure del mito. (…) Seguire la via di una troppo precoce scissione del mondo ideale
60
E come i fenomeni considerati facenti parte di un’idea possono essere distanti
spazialmente l’uno dall’altro, essi lo possono essere anche cronologicamente. La
storia anzi è la vera e propria essenza dell’idea, e parlare di origine non significa altro
che parlare della storicità dell’idea, nel suo rapporto di coordinazione della storia dei
fenomeni:145 questa è la grande intuizione di Benjamin, che confluirà nella
tematizzazione della sua “immagine dialettica”. Un evento della storia passata,
apparentemente privo di relazione con il presente, si può cioè coordinare con esso,
attraverso un’unica idea che li interpreta: in questo modo passato e presente
fenomenici costituiscono una totalità ideale. Questo è il senso dell’attualizzazione
benjaminiana del passato, questa la radice gnoseologica dell’immagine dialettica,
questa la sua valenza politica e rivoluzionaria.146
Ma bisogna capire come sia possibile che estremi fenomenici diversi e distanti
riescano a coordinarsi in un’unica idea. Benjamin critica sia il metodo induttivo che
quello deduttivo, e il suo superamento avviene proprio attraverso il concetto di
origine:
“La storia filosofica, in quanto scienza dell’origine è la forma che, dagli estremi più
remoti, dagli apparenti eccessi dello sviluppo, fa emergere la configurazione
da quello fenomenico, degli archetipi incorrotti dalla storia solo umana della caduta, è condannare
questa storia stessa all’irredimibilità; è confermare la terra nel suo sprofondamento abissale. (…) L’idea
rescissa dal mondo fenomenico è infatti puro nulla. Sottratta allo sguardo, rapita in un piano di gelida e
astratta lontananza, essa è ridotta a vuoto involucro, mera aseità, astrale essere in sé senza più alcun
significato per noi.” Cit. in E.Guglielminetti, Walter Benjamin. Tempo, ripetizione, equivocità, Milano,
Ugo Mursia editore 1990, pag. 56.
145
“La storia non è un accadere estrinseco all’idea, ma il suo contenuto interno; in quanto l’idea
raccoglie intorno a sé gli opposti senza annullarli nella loro opposizione, quest’ultima si disporrà
storicamente fra preistoria e post-storia. (…) Se l’idea è la configurazione oggettiva degli estremi, essi
si determinano nella considerazione storica come la preistoria e la post-storia dell’idea, nel senso per
cui l’idea come origine è la storicità virtuale del fenomeno.” Cit. in Cit. in Bruno Moroncini, Walter
Benjamin e la moralità del moderno, Edizioni Cronopio, Napoli 2009, pp. 323, 324.
146
“L’idea è costellazione di elementi fenomenici; in essa elementi disparati e assoluti, sciolti in
partenza da ogni legame reciproco, giungono a costituire una totalità. La salvazione si risolve da ultimo
nell’istituzione di connessioni, come accade ad esempio quando un evento della storia passata, privo di
relazione apparente con il presente, viene citato nell’agone politico, e caricato così di nuova attualità.
Nell’idea il passato è all’ordine del giorno; passato e futuro, da assoluti che erano, entrano a costituire
una totalità.” E.Guglielminetti, Walter Benjamin. Tempo, ripetizione, equivocità, Milano, Ugo Mursia
editore 1990, p. 103.
61
dell’idea in quanto configurazione di una totalità contrassegnata dalla possibilità di
una contiguità piena di senso di simili opposti.”147
La storia filosofica dunque è la scienza dell’origine, e quest’ultima è il processo che
dall’empiria fa emergere la configurazione dell’idea. Abbiamo visto che rappresentare
un’idea vuol dire fare la sua anamnesi, cioè interrogarla circa la sua origine, cioè
secondo la sua percezione e denominazione originaria (dove in Benjamin la tematica
storica non verrà più separata dall’ambito del linguaggio).148 E l’anamnesi, secondo
Desideri, significa far affiorare nella simultaneità cristallina di un contesto semiotico,
quanto – nello sviluppo storico – un’idea determinata ha investito di sé. Significa cioè
analizzare la storicità di una data idea, vedere in che modo questa ha, nel corso della
sua storia, inglobato in sé fenomeni empirici disparati. Studiare l’origine di un
fenomeno culturale, di un’idea, non vuol dire altro che analizzarne la sua inconclusa
storicità. L’origine è la stessa idea, vista dal punto di vista della sua storicità.149
Il concetto di Ursprung delimita quindi l’ambito della storia filosofica, cioè della
storia mondana considerata non dal punto di vista meramente empirico e fattuale, ma
dal punto di vista dell’idea. Cioè l’origine è il vortice che, inserendosi nella storia
fenomenica, ne interrompe il semplice fluire empirico, e permette a questi stessi
fenomeni, il coordinarsi, il raggrupparsi, in un idea. L’origine è cioè il processo che
porta alla formazione delle idee a partire dai fenomeni particolari. Attraverso questo
processo i fenomeni vengono redenti nell’idea, cioè viene salvato il loro divenire
nell’essere; il fenomeno originario cioè, non è più nella storia, non è più sottomesso
alla caducità dell’empiria, ma è idea, cioè pre e post-storia dello stesso fenomeno.
147
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 21.
148
“In this way philosophical restitution, the restitution of truth, the Darstellung of the idea, manifests
itself in an anamnesis which gives the word its proper power of denomination . Later, in his theses on
the philosophy of history, Benjamin takes up once again the concept of a constellation in order to point
to the stopping of thought which allows the messianic trace in time and history to be grasped: that is to
say, the trace of a restored language, of the language of names, of the name itself. The messianic world
is the world in which language is shared absolutely and all translation is complete.” Cit. in Alexander
Garcia Düttmann, The gift of language, The Athlone press, London 2000, p. 2.
149
“L’origine è una ritmica particolare, una legalità temporale specifica inerente al rappresentarsi, e
quindi al divenire storico di un’idea.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme,
Editori riuniti, Roma 1980, p.150.
62
E compito del filosofo è utilizzare come strumento di pensiero quella che si può
chiamare la dialettica dell’origine, la dialettica di unicità e ripetizione 150, cioè il
guardare ad ogni fenomeno, da una parte in maniera “restaurativa” cogliendo la sua
origine, e dall’altra avendo uno sguardo capace di avvertire la non conclusività del
fenomeno. Non bisogna cioè mai vedere i fenomeni contingenti, l’esistente, come
qualcosa di perfetto, totalizzante, autosufficiente e concluso, ma bisogna sottoporli
sempre ad una visione storica che li annienti e li consumi, in prospettiva e in tensione
con la loro idea.
Continua infatti Benjamin: “In ogni fenomeno originario si determina la forma sotto
la quale un’idea continua a confrontarsi col mondo storico, finchè essa non sta lì,
compiuta, nella totalità della sua storia. L’origine dunque non emerge dai dati di
fatto, bensì riguarda la loro preistoria e storia successiva.” 151 Questo significa che
l’origine interrompe il continuum storico, isola nella sua unicità il fenomeno
considerato, e in esso ritrova quel che considera i nessi essenziali, cioè in esso ritrova
l’idea, la forma.152 Le idee dunque non sono solo stratificate a livello contenutistico (in
quanto coordinazione di estremi), ma anche a livello temporale: l’idea, attraverso il
processo dell’origine, rappresenta la pre e la post- storia di un fenomeno, il suo
divenire fissato in immagine, la sua consumazione. È il ritmo stesso dell’origine che
organizza il divenire semplice dei fenomeni in un pre e in post. Per questo le idee
vengono dette monadi da Benjamin, dove la monade viene tematizzata come la
struttura nella quale i fenomeni confluiscono, si cristallizzano in idea.
E importante qui è anche sottolineare il carattere di interruzione del continuum
storico, provocato dal concetto di origine. Dunque, già da questo lavoro sul dramma
barocco, Benjamin aveva ben chiaro il suo obiettivo polemico, cioè il sempre uguale
storico, omogeneo e lineare, sotto i cui panni si traveste il concetto di progresso. Tutta
150
“Ripetizione è la modalità del confronto dell’idea con la serie delle formazioni storiche fino alla sua
consumazione.” Cit. in Bruno Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Edizioni
Cronopio, Napoli 2009, p. 335.
151
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 21.
152
Paolo Vinci, Introduzione alla lettura della Premessa gnoseologica a Ursprung des deutschen
Trauerspiel, p. 5.
63
la sua opera potrebbe essere vista come un pensiero dell’interruzione e dello
smascheramento.
E questo modo di fare storia, lo sguardo che salva i fenomeni tendendoli e mettendoli
in contatto con l’idea, viene definita da Benjamin come “storia naturale”; in questo
modo i fenomeni storici trovano sì il loro compimento in una pre-storia e post-storia,
ma nello stesso tempo, questo compimento è virtuale, in quanto non vengono inseriti
in una totalità positiva, in un decorso storico continuo e finalisticamente orientato, ma
sottratti a tutto ciò.
E “vita naturale” delle opere e delle forme è quella indipendente e non disturbata
dall’elemento umano, dal riferimento agli autori e alle loro intenzioni. Come abbiamo
visto infatti la verità non ha nulla a che fare con l’intenzione umana, è l’armonia delle
idee, che si trovano distaccate dal mondo fenomenico. Questa è inoltre una prospettiva
storica monadologica che guarda ai fenomeni a partire da una totalità che sì, è unica e
isolata (l’idea), ma che è comunque uno sguardo onnicomprensivo, un’immagine del
mondo.
Da qui si chiarisce il perché questo approccio viene chiamato di “storia naturale”, e
non semplicemente storico. Si perdono infatti due caratteristiche fondamentali del
modo di intendere la storicità, e cioè la continuità lineare (spezzata dal concetto di
origine), e il predominio dell’elemento umano-soggettivo.
Ed è proprio la storia (in quanto fenomeno) in quanto si espone all’idea e si consuma,
che diventa storia naturale, si destoricizza, 153
perchè il guardare il fenomeno storico
nell’ottica della totalità, mette in luce la sua provvisorietà, lo stacco netto tra il piano
contingente e quello ideale, e in questo modo impedisce di considerare la storia come
finalisticamente orientata e dotata di senso. La storia, in quanto è fenomeno, non potrà
mai coincidere con la sua idea. E proprio in questa sua immanenza terrena, questa si
153
“Destoricizzazione della storia significa dunque che ‘cio che è abbracciato nell’idea dell’origine’
perde il lato empirico del suo accadere, il suo divenire, per trasformarsi in ‘essere essenziale’. ‘Esso
non è più pragmaticamente effettuale’, bensì giunge alla quiete della natura, diviene ‘storia naturale’, si
ritrae nella ‘essenzialità’. Ma questo ‘ritrarsi’ nel quale il ‘divenire dei fenomeni’ è fissato nel loro
‘essere’, è un consumarsi, un infinito consumarsi della storia. Consumarsi che è l’unica condizione per
la ‘salvezza del dettaglio’, perché la sua caducità si ritragga in una durevole essenzialità, congelandosi.”
Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980, p. 152.
64
può trasformare da storia della salvezza, in cui l’umano è congiunto al divino, o il
divino è immanentizzato nell’umano, a storia naturale, abbandonata al suo scorrere e
ripetersi circolare e contingente, non animata da nessuna superiore trascendenza.
Proprio questo sarà il caso che vedremo nella sua esemplarità nella concezione
barocca della storia.
Parafrasando Vinci154, l’idea salva il fenomeno non portandolo su un altro piano, non
redimendo la sua transitorietà e contingenza, ma facendo della storia fenomenica e
umana, una storia che si consuma, una storia naturale. Così abbiamo un finito, un
fenomeno storico, che oltre a non inserirsi in una cattiva infinità di un movimento
storico ininterrotto, non viene trasfigurato, non si fa infinito, sussunto in una storia
ideale. E proprio così si esprime fino in fondo la natura del finito, di ciò che viene
meno.
Questa premessa, questa chiarificazione gnoseologica del rapporto tra idea e
fenomeno, trascendenza e immanenza, infinità e finitezza, era fondamentale per
approcciarsi allo studio vero e proprio del fenomeno storico del dramma barocco
tedesco. Solo grazie a questo preambolo è possibile comprendere come il periodo
barocco rappresentava la sua peculiare storicità.
154
Paolo Vinci, Introduzione alla lettura della Premessa gnoseologica a Ursprung des deutschen
Trauerspiel, p. 5.
155
“Benjamin individua la causa che sta a monte di tutti i fraintendimenti posteriori nell’insuccesso di
un autentico rilancio del Barocco da parte dei romantici, e il richiamo allo scarso interesse che potevano
avere gli allievi di Grimm e Lachmann per un teatro estraneo alla saga e alla storia tedesca, mette bene
65
Proprio per delimitare l’ambito di ricerca, Benjamin si chiede qual è il rapporto di
questo fenomeno culturale, con quello che veniva visto come suo illustre
predecessore, e cioè la tragedia greca. Qual è il soggetto di questi drammi? Mentre al
centro della tragedia greca c’era il rapporto con la saga e il mito, cosa pensa il dramma
barocco? Già dall’inizio del primo capitolo Benjamin risponde nettamente, delineando
la prima e importante caratteristica unitaria di questa costellazione eidetica:
“Il contenuto del dramma stesso, il suo oggetto proprio, è invece la vita storica così
come la sua epoca se la rappresentava. E in questo si distingue dalla tragedia, il cui
oggetto non è la storia bensì il mito, e in cui le dramatis personae derivano il loro
rango tragico non dal ceto – la regalità assoluta – ma dalla preistoria della loro
stirpe, dal loro passato eroico.”156
Il dramma barocco tedesco è theatrum historicum, cioè, pensa e riflette nella sua
forma la vita storica quale se la rappresentava la sua epoca, e la vita di colui che più di
tutti incarna questa vita storica, il sovrano.
Quindi, così come il tragico antico si interrogava sul dominio del mito, sulla saga, sul
nesso primordiale delle vendette di sangue, e sull’uscita da questo tipo di mondo,
interrogazione che avviene a partire dal punto di vista di maggiore consapevolezza
dell’ambiente della polis, così il dramma barocco si interroga sulla storia della sua
epoca, interpretata come catastrofe, vista dall’orizzonte di senso più elevato della
salvezza e redenzione cristiane.157
Così come i personaggi delle tragedie erano gli eroi, tali in quanto discendenti di una
stirpe atavica importante, così i protagonisti del dramma moderno sono i sovrani.
a fuoco l’incompatibilità di fondo esistita tra il metodo di una generazione intera di studiosi del pieno
Ottocento e il dramma del Seicento con i suoi esotismi geografico-storico-politici o con la sua
intronizzazione dell’eroe stoico-cristiano.” Cit. in Emilio Bonfatti, Agli albori dello studio del dramma
barocco tedesco, in Andrea Pinotti (a cura di), Giochi per melanconici. Sull’Origine del dramma
barocco tedesco di Walter Benjamin, Mimesis, Milano 2003, p. 12.
156
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, pag.37.
157
“Il Trauerspiel barocco è theatrum historicum. Qui sta la differenza fondamentale dalla tragedia, il
cui oggetto è il mito, o meglio l’effrazione del paralizzante velo che questo ha steso sul vivente, da
parte dell’eroe, attraverso la sua morte.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le
forme, Editori riuniti, Roma 1980, p. 158.
66
Il tragico è in rapporto stretto con la saga, cioè con la storia primitiva di un popolo,
che si basava sull’ordalia armata e sulla faida, su di un destino mitico che incombeva
e condannava alla colpevolezza per generazioni. La tragedia rappresenta, attraverso il
sacrificio dell’eroe, proprio l’uscita da questo mondo mitico 158, e la fondazione della
comunità della polis, non più basata sulla vendetta e la colpevolezza, ma sulla parola e
sul dialogo, come “mezzo puro di intesa” fra gli uomini.
E ruolo fondamentale nell’uscita dal mito da parte dell’eroe tragico, è il suo mutismo
e il suo rapporto con una parola nuova. L’eroe sacrifica la parte naturale del suo sé, la
sua nuda vita, attraverso la decisione, e la sacrifica per inaugurare l’uscita dal mito:
“Quanto più la parola tragica rimane indietro rispetto alla situazione – che non può
più dirsi tragica se la parola la raggiunge – tanto più l’eroe sfugge agli antichi
statuti, ai quali egli, quando alla fine lo incalzano, offre in sacrificio l’ombra muta
del suo essere, del suo Sé, mentre l’anima si salva nella parola di una comunità
lontana. (…) Di fronte alle sofferenze dell’eroe, la comunità apprende una grata
venerazione per la parola di cui la sua morte l’ha dotata: una parola che tornava a
risplendere come un dono rinnovato ad ogni variante poetica della saga.” 159 La
parola, il discorso, il dialogo, fanno uscire la persona dal vincolo fisico della sua
corporeità, consegnano l’uomo al di là del se stesso spazialmente e cronologicamente
determinato, al di là del suo semplice vivere.
E questo silenzio eroico non è interpretato da Benjamin come caparbia e rigida
individualizzazione, al modo di Lukàcs e Rosenzweig, ma come un silenzio che
scatena la parola in chi ascolta, negli spettatori: a parlare, e a ricordarsi
dell’importanza della parola come fondatrice del vivere comune, è infatti la comunità
attraverso il poeta. Di fronte alla forza dirompente e ironica della parola, il mondo del
mito perde di consistenza, la sua violenza e le sue faide si trasformano in paradossi,
diventano insensati allo sguardo della comunità parlante: come Benjamin diceva già in
158
“According to Benjamin, tragedy is founded on myth, nor on history, which, in contrast, is a
determining factor for the Trauerspiel. Tragedy is linked to prehistoric heroism. It represents a break in
the absence of orientation that still characterizes the epic.” Cit. in Rainer Rochlitz, The disenchantment
of art, Guilford press, New York 1996, p. 90.
159
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 85.
67
Destino e carattere, l’uomo pagano attraverso la tragedia si rende conto di essere
superiore ai suoi dei, ma questa conoscenza gli toglie la parola. In opposizione al
mondo mitico dominato dal destino, l’eroe rappresenta il carattere.
Quindi la tragedia e il sentimento tragico, possono essere descritti e delimitati solo
attraverso una filosofia della storia. Quest’ultima ha dimostrato una
contestualizzazione ben precisa della tragedia, e la ha delineata come una risposta a
domande puntuali poste dal suo mondo. Per questo per Benjamin è da una parte errato
considerare il dramma barocco come un’attualizzazione della tragedia, bensì entrambi
sono estremi della costellazione ideale, rappresentano la pre e la post storia del genere
drammatico. D’altra parte però, con la fine della tragedia ci troviamo di fronte
all’inizio del processo che condurrà al dramma barocco, come compimento e
consumazione della verità della tragedia. E quest’ultima si trasforma nella storia,
parodisticamente. Attraverso la parodia (che è un importante meccanismo di
superamento di forme cristallizzate, profanazione del sacro attraverso il gioco), la
tragedia infatti diventa dramma martirologico, in cui l’eroe, sopravvisuto al sacrificio
diviene martire consapevole, in cui al silenzio tragico si sostituisce il dialogo. E punto
di svolta di questa trasformazione è la figura di Socrate e soprattutto la sua morte, che
diventerà, attraverso i Padri della chiesa, il modello del dramma martirologico, e
successivamente del dramma barocco, con le sue figure del tiranno e del martire.
Le domande a cui il teatro tedesco doveva dare una tematizzazione sono infatti in
apparenza completamente diverse rispetto a quelle tragiche. Abbiamo visto che suo
fulcro tematico è la vita storica come la sua epoca se la rappresentava, cioè il
problema principale del dramma barocco tedesco è quello della storia ad esso
contemporanea. Questa viene vista come eterna catastrofe: “Si credeva che il dramma
fosse già lì, tangibile e concreto, nel corso della storia: bastava semplicemente
trovare le parole. (…) Il termine Trauerspiel si riferiva ugualmente all’opera teatrale
e alla realtà storica.”160 Ma questa storia vista dal barrocco come un’eterna catastrofe
non è, a rifletterci a fondo, forse così lontana dal mondo eternamente e
necessariamente irredento del mito. Dunque si rivela un’affinità elettiva, piuttosto che
160
Ivi, pag. 38.
68
un’esclusione reciproca, tra tragedia greca e dramma barocco tedesco: laddove quella
rappresentava l’atmosfera del mondo mitico e il suo superamento eroico, questo mette
in scena il destino che incombe su una storia trasformata in natura, dove non c’è
nessun eroe (neanche il sovrano), capace di interrompere e redimere questa eterna
caducità naturale.161
E la storia viene rappresentata, messa in scena, attraverso la vita di corte, con le sue
macchinazioni politiche, guerre, rivolte, parricidi e sofferenze; suo attore principale è
il sovrano:
“Il sovrano rappresenta la storia. Tiene in mano l’accadere storico come uno
scettro.”162
Molto interessante ed al centro del dibattito contemporaneo, a partire dagli studi di
Giorgio Agamben, è la teoria della sovranità qui delineata, e proprio il dibattito
esoterico o meno di Walter Benjamin con il giurista nazionalsocialista Carl Schmitt. È
vero che il sovrano barocco è il rappresentante della storia, ed è l’unico che la può
trattenere dalla catastrofe, ma allo stesso tempo, e questo è fondamentale nella visione
benjaminiana, è esso stesso creatura, partecipa dell’immanenza totale della concezione
storica del suo tempo, e nonostante la sua illimitata capacità decisionale sul piano
teorico, non può far niente nel pratico per oltrepassare la sua creaturalità, non può
scappare verso la trascendenza, o esserne un rappresentante, un dio in terra.
Mentre Carl Schmitt, interessato a smascherare le basi decisionali (e non positive)
della democrazia della repubblica di Weimar (e di tutte le democrazie), e a dimostrare
161
“Il dramma, invece, è figura della storia naturale, ‘rappresentazione della natura che compenetra
tutti i mutevoli casi della storia e che da ultimo trionfa in essi’. Ma la storia-natura è tutt’affatto identica
al destino: ‘dove si dà destino, là un pezzo di storia è diventato natura.’ (…) Il concetto di destino
definisce dunque il contenuto del dramma storico, in contrasto con la tragedia che si fonda sul mito. Ma
è significativo notare come mito, destino, diritto costituissero un unico blocco concettuale nel primo
Benjamin. E così è ancora. Onde si giustifica la tesi dell’unità di oggetto del dramma e della tragedia. Il
mito, infatti, non è diverso dal destino, mentre la storia ammessa dal dramma è affatto impropria,
sopraffatta dall’emergere della fatticità naturale e ridotta al rango di accessorio. (…) Tale storia
descrive un mondo ancora più soggiogato agli ordinamenti mitico-destinici di quello tragico.” Cit. in
E.Guglielminetti, Walter Benjamin. Tempo, ripetizione, equivocità, Milano, Ugo Mursia editore 1990,
p. 67.
162
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 39.
69
l’inconsistenza e il vuoto che sorreggono la concezione positivistica delle leggi
democratiche, finalizza il suo discorso alla fondazione di una sovranità basata sul
concetto di decisione163, Benjamin concorda con la sua pars destruens, ma ne ribalta
qui il paradigma. Rimane affascinato dalla definizione schmittiana della sovranità, per
cui sovrano è chi decide sullo stato di eccezione, cioè che sovrano è colui che in un
momento di emergenza si situa al di là del diritto, che non ha bisogno di diritto, per
agire e creare nuovo diritto, che è dentro e allo stesso tempo fuori dell’ordinamento
giuridico164 (è il limite del diritto, l’incommensurabile; e rappresenta in politica ciò
che era il miracolo nella teologia: cioè qualcosa che si situa al di là del normale
svolgersi di regole).165 E vede continuamente dichiarato lo stato d’eccezione nella
repubblica di Weimar, una sospensione continua del regolamento giuridico normale,
che però le mantiene il volto di una repubblica democratica. Trova infatti affine ai
suoi studi la ricerca schmittiana dello stato d’eccezione come concetto limite, su cui si
basa la creazione di sovranità e di diritto, processo che inscrive l’uomo, la “nuda vita”
all’interno del diritto, soglia e ponte tra il fatto e il diritto, tra la vita e la legge.
163
“Infatti ogni ordine riposa su una decisione ed anche il concetto di ordinamento giuridico, che viene
acriticamente impiegato come qualcosa che si spiega da sé, contiene in sé la contrapposizione dei due
diversi elementi del dato giuridico. Anche l’ordinamento giuridico, come ogni altro ordine, riposa su
una decisione e non su una norma.” Cit. in Carl Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna
1972, p. 56.
164
“Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della
decisione ultima. In ciò csta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non dev’essere
definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della
decisione. (…) Il caso s’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui
la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di
non aver bisogno di diritto per creare diritto.” Ivi, p.40.
165
I concetti di decisione e di stato d’eccezione vengono radicati proprio nell’esperienza politica
seicentesca e nella sua sensibilità: “Lo stato d’eccezione costituisce invece l’«incommensurabile», quel
che risulta assolutamente incomprensibile alle dottrine normativistiche dello Stato. Occorre ricordare
come l’«incommensurabile» caratterizzi profondamente la sensibilità manieristica e barocca -
sensibilità che segna il momento genetico, tra la fine del XVI e i princìpi del XVII secolo,
dell’esperienza del decisionismo giuridico europeo.” Cit. in Emanuele Castrucci, La forma e la
decisione, Giuffrè, Milano 1985, p. 17.
70
Ma al posto di basare il suo concetto di sovranità su quello di decisione sovrana, in
queste pagine Benjamin statuisce un discorso sull’indecisione sovrana,166 l’incapacità
strutturale e non contingente, di una creatura (il monarca) di gestire altre creature. Se
per Schmitt, il sovrano è il rappresentante di Dio in terra, la cui parola ha forza di
legge e di attuazione (al di là della legge, ma allo stesso tempo costituente legge, come
avverrà perfettamente nel regime hitleriano), per Benjamin il sovrano prova a reggere
e a gestire il fluire naturale, ma ne viene completamente travolto. 167 La sua volontà e
la sua trascendenza si rivelano appiattite al piano naturale, anche lui si ritrova ad
essere semplice e nuda vita:
“Vittima della dignità gerarchica illimitata di cui Dio lo ha investito, egli ricade nella
miseria della propria condizione umana. L’antitesi tra l’assolutezza del potere
sovrano e la sua effettiva capacità di governare crea nel dramma una caratteristica
peculiare. (…) Si tratta dell’incapacità decisionale del tiranno. Il principe che ha la
facoltà di decidere sullo stato d’eccezione, mostra alla prima occasione che decidere
gli è quasi impossibile. (…) I personaggi teatrali dell’epoca compaiono sempre nella
luce cruda della loro torturante indecisione.”168
Quindi per Benjamin il compito del sovrano è, con leggero spostamento dalla tesi
schmittiana, non quello di decidere sullo stato d’eccezione, ma di evitarlo, di
contenere la catastrofe verso cui naturalmente scorre la storia. Questa concezione di
freno, di katechon,169 dello strabordare storico da parte del sovrano, si basa proprio
166
“Für Benjamin barocken Souverän aber, der ‘schon im vorhinein dafür bestimmt ist, Inhaber
diktatorischer Gewalt im Ausnahmezustand’ zu sein, fällt diese eigentliche aussetzende Entscheidung
insofern gar nicht an, als sie schon gefallen ist.” Cit. in Bettine Menke, Das Trauerspiel Buch,
Transcript Verlag, Bielefeld 2010, p. 75
167
“Se la decisione è, per Schmitt, il nesso che unisce sovranità e stato d’eccezione, Benjamin scinde
ironicamente il potere sovrano dal suo esercizio e mostra che il sovrano barocco è costitutivamente
nell’impossibilità di decidere.”Cit. in Giorgio Agamben, Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino
2003, p. 72
168
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 46.
169
“Ci possiamo chiedere: non appartiene forse ogni potere costituito, effettualmente vigente, alla
dimensione del katechon? Non deve esso disporre di un’energia catecontica? Katechein, più che l’atto
del trattenere o raffrenare, significa contenere, comprendere in sé. La forza catecontica si è impadronita
dello spazio che ora occupa e lo tiene inflessibilmente in pugno, impedendo che qualsiasi suo elemento
71
sulla visione barocca della storia come dramma, lasciata a se stessa e incapace di
innalzarsi e di ricevere senso da un piano trascendente: “quello barocco (concetto di
sovranità) si sviluppa a partire da una discussione sullo stato d’eccezione, e
attribuisce al principe il compito supremo di evitarlo. Chi esercita il dominio è
destinato fin dall’inizio ad essere il detentore di un potere dittatoriale nello stato
d’eccezione, ove questo sia determinato dalla guerra, dalla rivolta o da altre
catastrofi.”170
La teoria dello stato d’eccezione barocco, secondo Benjamin, si fonda in maniera
radicale non sull’idea di una restaurazione di un ordine infranto, ma su quella di
catastrofe, dell’arginarla in ogni modo. Dato che il fluire storico è un dramma, il
sovrano ha il dovere (ma come abbiamo visto, non il potere) di arginarlo. Quindi è la
stessa teoria politica barocca a fondarsi su una teologia ed una escatologia: “L’uomo
religioso del barocco si aggrappa tanto al mondo perché si sente trascinato insieme
con esso verso una cataratta. (Non ?) esiste un’escatologia barocca, ma un
meccanismo che accumula ed esalta i frutti della terra prima di consegnarli alla
morte.”171 L’escatologia barocca dunque, condiziona univocamente sia la sua politica
che l’antropologia: laddove l’eschaton esiste, ma è vuoto, la storia non è animata da
una tensione finale, e l’uomo si lascia andare alla sua creaturalità. Bisogna a questo
punto anche aggiungere che il Seicento segna una svolta metafisica, politica e
antropologica all’interno del pensiero occidentale: si fuoriesce cioè dalla metafisica di
tradizione onto-teologica, dove ogni aspetto del reale era necessariamente giustificato
da un piano trascendente, o da una forma metafisica. Proprio da questa interruzione
del senso all’interno del mondo, da questo allontanamento del mondo dalla verità, si
trasgredisca la lyra, il confine della città, che essa ha tracciato, de-liri. L’immagine più esatta di tale
forza, sua vera e propria icona, sembrerebbe essere, allora, quell’hobbesiano dio mortale, creatore di
una pace esclusivamente terrena, nel cui corpo sono tenuti tutti i cives.” Cit. in Massimo Cacciari, Il
potere che frena, Adelphi, Milano 2013, pp. 10-23.
170
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 40.
171
Ivi, pag.41.
72
apre spazio alla categoria di decisione; proprio perché l’uomo si trova abbandonato
dal senso in un mondo non più organicamente giustificato, è condannato a decidere.172
E da sottolineare è proprio questo appiattimento della dimensione storica a quella
naturale, un appiattimento della trascendenza all’immanenza più totale, ad
un’escatologia vuota.173 Anche il monarca, che nella visione schmittiana veniva
considerato un rappresentante di Dio sulla terra (l’esatto correlato nel processo di
secolarizzazione dei concetti teologici, in ambito politico), non può far nulla per
donare senso alla storia, non può redimerla, non c’è spazio per una conciliazione del
finito con l’infinito. L’unico suo compito è ritardare la catastrofe che naturalmente
trascina l’umanità. E anche in questo unico compito il sovrano è incapace, nella sua
costitutiva indecisione.
È incapace e indeciso perché anche il sovrano è una creatura, nuda vita,
completamente separato dagli “ordini superiori”. Proprio questo accomuna il tiranno
e il martire, come viene testimoniato in questi drammi. Il sovrano rappresenta
entrambi gli aspetti: tiranno in quanto decide nello stato d’eccezione e cerca di
arginarlo, martire, in quanto nonostante tutta la sua dignità gerachica, subisce la stessa
fine delle creature. Come fa il tiranno a trasformarsi in martire, dal momento che i
martiri solitamente intesi, sono proprio le vittime dei tiranni?
Sorprendentemente qui si ritrova il leitmotiv della nostra ricerca, il filo conduttore che
va da Destino e carattere, al saggio sulle Affinità elettive, a quello su Franz Kafka, ed
172
“Il punto di partenza è comprensibilmente costituito dalla cesura seicentesca del moderno, che
evidenzia il distacco della decisione etico-politica dalla forma metafisica, non più considerata
preesistente. Se è vero che all’onto-teologia era indissociabilmente legata - nella grande epoca
cristiano-occidentale - un’escatologia, è con il barocco che quest’ultima viene meno per la prima volta.
La vita profana appare così separata dalla veritas trascendente: nessuna armoniosa linea di continuità è
più tracciata fra i due piani.” Cit. in Emanuele Castrucci, La forma e la decisione, Giuffrè, Milano
1985, p. 5.
173
“Il barocco conosce un eschaton, una fine del tempo. Ma come Benjamin immediatamente precisa,
questo eschaton è vuoto, non conosce redenzione né aldilà e resta immanente al secolo. (…) E’ una tale
escatologia bianca che non conduce la terra in un aldilà redento, ma la consegna ad un cielo
assolutamente vuoto – che configura lo stato d’eccezione del barocco come catastrofe. Ed è ancora
questa escatologia bianca che spezza la corrispondenza fra sovranità e trascendenza, fra il monarca e
Dio che definiva il teologico-politico schmittiano.” Cit. in Giorgio Agamben, Stato d’eccezione, Bollati
Boringhieri, Torino 2003, p. 74. Rimandiamo a queste pagine anche per quanto riguarda il problema di
traduzione dell’esistere o non esistere di un’escatologia barocca, sottolineato da Agamben.
73
è importante soffermarcisi e sottolinearlo ancora una volta. I tiranni cioè diventano
martiri per colpa della loro semplice natura. Della creatura e della naturalità presente
in loro. Infatti sono vittime di continue indecisioni e tempeste emotive, mentre a
condurli nelle loro azioni non sono pensieri, ma impulsi fisici oscillanti, “si agitano
come sventolanti bandiere”174: come i personaggi delle Affinità elettive di Goethe,
condotti alla catastrofe dalle loro passioni non metabolizzate, dalla loro creaturalità
sospinta da forze magnetiche, contrapposti ai personaggi della novella dei due amanti,
visione redentiva interna allo stesso romanzo.
Esattamente come l’eroe tragico estingue l’azione colpevole e spezza le maglie del
destino con la sua volontà e decisione, con il suo carattere, così il personaggio
drammatico (sia esso sovrano o martire) non decide mai, non vuole mai niente con
fermezza:175 in questo modo si riduce a nuda vita, la stessa anche dei romanzi di
Kafka, e viene soggiogato dall’inorganico, dal mondo delle forze ctonie e delle cose,
degli oggetti che prendono il sopravvento sulla volontà. Cade per questa mancanza di
decisione nella colpa naturale176, inaspettata e non interiorizzata (come nella tragedia
antica), accidentale e originaria, si muore per caso, vittima della passione per gli
oggetti, ponti per l’appiattimento dell’umanità verso la creaturalità, e la
cosalizzazione. Gli oggetti diventano accessori fatali, i personaggi riversano le loro
passioni in essi, e ad essi si sottomettono: nel dramma barocco c’è una fedeltà assoluta
verso gli oggetti, che si contrappone ad un’infedeltà verso l’uomo.
174
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 46.
175
“E l’instabilità e mutevolezza delle decisioni significa l’estrema contingenza di ogni dittatura,
significa l’ineluttabile rovina del tiranno. È la coscienza di questa ineluttabilità che spinge il tiranno alla
follia, svelando la miseria della sua creaturalità, facendo in lui ‘risoregere, con forza insospettata,
l’animale.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980,
p. 164.
176
“Contenuto del destino è dunque la colpa. Ma tale colpa – lungi dall’attingere il livello morale –
resta invece chiusa nell’ambito della natura. La colpa naturale differisce da quella morale appunto
perché necessaria e destinata essa stessa. Essa non dipende da un atto trasgressivo (…) Nel contesto
della colpa naturale l’agire è trasgresivo in sé, e l’uomo incappa dunque nella colpa comunque si
comporti (come anche nel caso della passività più completa).” Cit. in E.Guglielminetti, Walter
Benjamin. Tempo, ripetizione, equivocità, Milano, Ugo Mursia editore 1990, p. 69.
74
Altri eventi sintomo di un sottrarsi alla storicità in direzione di una secolarizzazione e
fissazione spaziale, sono i sogni, le apparizioni, i fantasmi, eventi che accadono di
notte, in una temporalità immobile e a-storica. Proprio i fantasmi abbattono l’unico
confine certo che potrebbe definire e donare una temporalità all’uomo: la morte, nel
suo significare la finitezza dell’uomo. 177 La storia, l’umanità, precipita
immancabilmente nella natura.
Per questo nei drammi del barocco, vengono accentuati tutti i tratti della fisicità dei
corpi, dalle passioni (che assomigliano a forze naturali, in quanto spingono le
interiorità vuote dei personaggi), alle torture fisiche, descritte con precisione
anatomica dei dettagli (in quanto anche il corpo deve essere completamente reso
oggetto e immanentizzato, senza possibilità minima di sublimazione). Non esistono
conflitti morali e complesse introspezioni, l’uomo è spinto attraverso una nuda fisicità
all’immanenza dolorosa più totale. Il fallimento storico del sovrano colpisce l’intera
umanità, e ne svela la caducità e creaturalità.
Continuando l’analisi del dramma barocco tedesco come idea, Benjamin si chiede
cosa lo contraddistingue rispetto alle forme artistiche delle cronache medievali e dei
misteri cristiani. Entrambi infatti avevano come elemento caratterizzante la “tristezza
degli eventi”, considerando come drammatica in primo lunogo la vita storica, e solo in
un secondo momento lo spettacolo teatrale. Però mentre queste ultime consideravano
il dramma storico e quello teatrale inserito in un percorso di salvezza, il dramma
barocco tedesco mette in questione la salvezza stessa. Nonostante i dolori e le
catastrofi, la storia aveva un senso. Mentre l’interrogazione barocca, da non
dimenticare mai come figlia della Controriforma, nonostante affermi come dato
indiscutibile la salvezza finale, dall’altro lato non la percepisce, non ne fa esperienza,
177
“Come chi, prigioniero del sogno, non sa nulla di un mondo diverso, di un’interruzione del sogno
che lo riporti nel mondo della veglia, così nell’epoca moderna non si vuol sentir parlare di smetterla; si
deve sempre andare avanti così (il che in verità conduce alla permanenza della catastrofe). In questo
continuum non può esserci la morte – nella sua forma reale, non denaturata e mitizzante: questa
“storica”, distruttrice, saltatrice, demolitrice par exellence.” Cit. in Hermann Scweppenhäuser, Aspetti
infernali del moderno, in Mauro Ponzi (a cura di), L’angelo malinconico. Walter Benjamin e il
moderno, Lithos editrice, Roma 2001, p. 22.
75
non la sente, ed esclude la redenzione di una escatologia, quantomeno una
positivamente intesa: 178
“Mentre il medioevo esibisce la precarietà degli eventi mondani e la transitorietà
della creatura come stazioni lungo la via della salvezza, il dramma barocco tedesco si
seppellisce per intero nella disperata desolazione della realtà terrena. Se esso
conosce una via di salvezza, questa sarà nel cuore stesso dell’angoscia più che nel
compiersi di un piano provvidenziale.”179
E questa angoscia e disperazione è precisamente il sentimento dominante nel barocco,
delineata in maniera puntuale da Benjamin, contrapponendolo al medioevo: “La
parentela fra il dramma barocco e il mistero medievale è messa in questione da
quella disperazione senza via d’uscita che sembra essere l’ultima parola del dramma
cristiano secolarizzato.”180
E in che modo il genere drammatico è uscito da questa impasse creaturale,
caratterizzata dalla completa disperazione, e dall’assenza di una seppur mondana
salvezza? Benjamin porta come esempio di una ingegnosa via d’uscita, seppur
caratterizzata dalla stessa mancanza di trascendenza e di salvezza religiosa, il dramma
spagnolo del 1600, e il suo rappresentante più illustre, Calderòn: “Se tuttavia il
dramma mondano è costretto a fermarsi sulle soglie della trascendenza, esso cerca
nondimeno di accertarsene in forma giocosa, per vie traverse.”181
Le soluzioni principali di Calderòn 182 sono il gioco, la riflessione, e l’onore. Sono
estremamente importanti nella nostra ricerca, in quanto istanze che tendono la
178
’Unter der Idee der Katastrophe manifestiert Geschichte sich, die nicht mehr in heilgeschichtlicher
Ordnung, ohne Halt im eschatologischen telos in sich und mit sich zerfallen sich darstellte.” Cit. in
Bettine Menke, Das Trauerspiel Buch, Transcript Verlag, Bielefeld 2010, p. 76.
179
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 55.
180
Ivi, pag.53.
181
Ivi, pag.56.
182
“Their (of the romantics) model was Calderon, for whom the prince possessed in miniature the
divine power of redemption, the capacity of transform earthly despair – which luteran playwrights
accepted without reservation – into fairy tales” Cit. in Rainer Rochlitz, The disenchantment of art,
Guilford press, New York 1996, p. 96.
76
creaturalità verso qualcosa di oltre, pur rimanendo nell’immanenza. Sottolineano le
soluzioni dell’uscita dalla cattiva naturalità verso la sfera superiore dell’etica.
Come fanno i personaggi di Calderòn dunque a sottrarsi dalla storia naturale,
dall’ambito del destino in cui sono confinati? La risposta è netta: essi riflettono. E
attraverso la riflessione riescono a giocare, anche con lo stesso destino. Il reale,
l’ambito senza uscita del lutto e della disperazione, viene ridotto e rimpicciolito
attraverso la riflessione. Inoltre si innesta così un processo infinito e aperto di pensiero
all’interno di una realtà che si vorrebbe chiusa e asfissiante. Il mondo del destino
viene pensato non come totalità infernale, ma come singolo ambito delimitato, che si
può osservare e riflettere in ogni suo lato, e in questo modo, attraverso questa radicale
presa di coscienza, giocarci.183 È come se si innescasse un meccanismo ironico (ironia
che in Benjamin continua ad avere un ruolo fondamentale di distruzione e salvazione),
che porta a compimento e esaurimento una totalità chiusa. Calderon riesce cioè a far
apparire la trascendenza e la salvezza, nel gioco sapiente della trama. Il dio redentore
non c’è, ma i personaggi lo vedono delineato negativamente, nel gioco del destino, nel
buon senso del principe o nella combinazione degli eventi favorevoli.
E sempre nei drammi spagnoli, è l’onore a svolgere un ruolo salvifico. Anche i suoi
personaggi sono completamente immersi nella creaturalità e nell’immanenza, ma
proprio l’onore li solleva al di sopra della loro naturalità vulnerabile; è uno scudo che
protegge la loro sfera etica, dalla distruzione naturale, è ciò che “dona al corpo la sua
spiritualità propriamente creaturale, rivelando così un mondo profano che ai poeti
tedeschi dell’età barocca, e anche ai teorici successivi, doveva restare precluso.”184
Tutte queste istanze che alludono ad un superamento del lato naturale della storia, nel
dramma barocco tedesco, non sono presenti. La storia umana entra nella scena solo
come un affaccendarsi di intriganti, loro sono il motore storico e dell’azione, e sembra
183
“It is rather the moment of Calderon's ponderacíon misteriosa, in which subjectivity, rather than
remaining in mythic deception concerning its real mediation with its objects, reaches a moment of
inwardness so profound that, ‘like an angel falling into the depths,’ subjectivity itself ‘is brought back
by allegories, and is held fast in heaven, in God." Cit. in Max Pensky, Melancholy Dialectics : Walter
Benjamin and the Play of Mourning, University of Massachusetts Press, 1993, p. 149.
184
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 62.
77
che non abbiano alcuna colpa morale, ma agiscano come spinti da magnetismo
naturale (continuiamo a vedere le strette affinità con il mondo dei burocrati e dei
potenti di Kafka, o con quello degli amanti delle Affinità elettive).
Benjamin ci fa l’esempio paradigmatico delle opere di Lohenstein, drammaturgo
barocco, in cui viene soffocata sul nascere qualsiasi riflessione etica (la stessa
riflessione che segnava una via d’uscita in Calderòn), e le vicende storiche vengono
assimilate ad eventi naturali tramite metafore tratte dalla cultura naturalistica,
metafore e divagazioni dotte copiosamente utilizzate nel barocco tedesco. L’etica e la
morale pratica sono bandite, al loro posto subentrano l’enciclopedismo e le metafore
naturalistiche.185
Insomma tutto converge nel dichiarare: la storia non è morale, ma naturale: “ Poiche,
secondo la mentalità dell’epoca, tutto ciò che era vita storica si sottraeva alla
morale, essa diventa irrilevante anche per la vita interiore delle dramatis personae.
Mai la morale è apparsa così poco interessante come negli eroi di questi drammi, in
cui solo il dolore fisico del martirio risponde alla chiamata della storia. (…) Le
azioni drammatiche si susseguono come i giorni della creazione, in cui non c’è
storia.”186
Si secolarizza completamente l’elemento storico nello stato creaturale, il movimento
del tempo viene spazializzato e messo in scena nello spazio della corte, scenario
eterno e naturale del decorso storico.187 Naturale come il suo rappresentante, il volere
185
“Peculiare maniera di illustrare i principi morali con esempi naturalistici che in realtà ne
distruggevano il senso. Questo uso della similitudine ha il suo riscontro più calzante laddove una
riflessione etica viene giustificata con un semplice richiamo a un gesto naturale.” Ivi, pag.65.
186
Ivi, pag.66.
187
“By this, Benjamin means that the baroque spirit, to account for the absence of grace in earthly
existence, returns to the state of original sin, which has constituted the human creature ever since the
expulsion from Paradise. History brings no notable change to that state; it continually reproduces the
same constellations of unhappiness proper to the creature. Contrary to what happens in tragedy, where
the hero rises above the state of the creature, the baroque accepts the inevitability of that state as
belonging to human nature. (…) By abandoning the soteriological perspective of the Middle Ages, the
hope that the stations of the earthly cross would finally lead to salvation, and by secularizing the history
of salvation, the baroque transposes the temporal order onto space. On several occasions, Benjamin
returns to the Bergsonian theme of a reifying spatialization characteristic of modernity.” Cit. in Rainer
Rochlitz, The disenchantment of art, Guilford press, New York 1996, p. 96.
78
sovrano, sempre più soggiogato dalla sensibilità e dalle passioni, fino al culmine
massimo, e finale necessario, della follia. Da questa visione della storia come
condizione creaturale e naturale dello spirito decaduto, doveva nascere per il teatro
barocco, l’interrogazione sulla salvezza.
La storia dunque, che abbiamo visto essere l’oggetto cardine di riflessione dei
drammaturghi tedeschi, perde il suo carattere peculiare – cioè la produzione di
autentica novità, lo svincolamento dall’eterno ripetersi delle stagioni e dei cicli - e si
immanentizza, si trasforma in natura. Ma in questo modo acquista i caratteri
necessitati e destinali di eterna ripetizione, si trasforma in un ambito chiuso da cui non
è possibile uscire; la conclusione è che la storia-natura è destino188:
“Il destino infatti non è un puro evento naturale, così come non è un puro evento
storico. (…) Esso è la potenza naturale elementare nell’accadere storico, un accadere
che non è soltanto natura perché lo stato creaturale riflette ancora il sole della
Grazia. Ma lo riflette nella palude della colpa adamitica.”189
Il destino, come viene rappresentato nella storia-natura del barocco, è il rimanere della
creatura, della nuda vita, in un ambito naturale, alieno alla decisione e al collegamento
con gli ordini superiori della responsabilità e dell’etica, è secondo Benjamin il vero
ordine dell’eterno ritorno, una totalità temporale senza uscita. È la natura stessa a
rappresentare la forza che immobilizza, che blocca il divenire cronologico, e lo fissa
in un’immagine spaziale, dove ogni evento è fotografato, simultaneo all’altro. La
188
“Oggetto peculiare del dramma è dunque la storia-natura, l’identità di storia e natura come irrompere
di questa in quella, soggiogamento della prima ad opera della seconda. Ma, secondo quanto afferma
Benjamin stesso, la storia affetta dalla natura è lo stesso decorso temporale come mero svolgimento del
destino. Il dramma è pertanto ‘rappresentazione del decorso naturale destinato e privo di vita’. Destino
e natura sono quindi sinonimi: la storia-natura è la storia come destino. (…) Il necessario circolo di
colpa e castigo costringe infatti la storia all’iterazione continua della propria costituzione mitica, ed
infine al sempre uguale della catastrofe e della violenza, inibendo pertanto il carattere propriamente
storico (contrapposto allo stato di natura meramente creaturale) del decorso temporale: la produzione
autentica di novità. Perché si dia storia, infatti, non è sufficiente lo scorrere del tempo meccanico, ma
occorre che questo significhi il trascendimento possibile di una cultura altrimenti sempre identica a sé e
ridotta alla stregua di una natura seconda. La storia naturale invece, ostruisce ogni accesso alla
produzione di novità.” Cit. in E.Guglielminetti, Walter Benjamin. Tempo, ripetizione, equivocità,
Milano, Ugo Mursia editore 1990, p. 69, 70.
189
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 104.
79
spazializzazione del tempo diventa sinonimo sia della naturalizzazione del divenire
storico,190 che della secolarizzazione del tempo realmente teologico, messianico e
apocalittico della redenzione: condannare la storia all’immobilità significa lasciarla
nella mancanza di redenzione. La temporalità barocca era così preoccupata della fine
dei tempi, di un’escatologia che non dona redenzione ma solo vuoto, che preferisce
bloccare il tempo e rimandare l’eschaton.191
L’inevitabilità del destino non riguarda una colpa causata da un’infrazione morale
dell’agente, ma dall’essere nati, dalla colpa creaturale. Nel barocco, fatale è la storia,
sempre colpevole quando decade a natura, dall’ambito superiore della Grazia. Il
destino quindi è la sottomissione ad una legge naturale demonica che grava sulla
storia umana: nel dramma barocco tedesco viene proclamato il giudizio colpevole su
tutto ciò che è nato: “il destino è (…) un’ espressione di come la vita segnata dalla
colpa sia sottomessa alla legge della vita naturale.”192
Quindi storia naturale, abbandonata alla catastrofe, e ambito colpevole del destino, si
compenetrano e formano un unico concetto nello spazio scenico del dramma barocco
tedesco.
190
“Spazio e natura sono infatti sinonimi; sono entrambi deputati ad irrigidire lo scorrimento fluido del
tempo. Determinante ai fini della secolarizzazione, della naturalizzazione della storia, della rinuncia
allo stato di grazia è dunque il tempo-spazio, e cioè la distorsione di categorie per sé temporali secondo
coordinate peculiarmente spaziali. La spazializzazione del tempo si compie in modo decisivo quando,
come accenna Benjamin, i tempi vengono tra loro simultaneizzati. (…) L’irruzione della natura nella
storia è dunque l’irruzione dello spazio (il teatro dell’azione) nel tempo. Lo spazio-natura è la forza di
resistenza al divenire, la causa d’arresto del flusso storico, il principio secolarizzante della
simultaneizzazione del processo di coniugazione verbale.” Cit. in E.Guglielminetti, Walter Benjamin.
Tempo, ripetizione, equivocità, Milano, Ugo Mursia editore 1990, p. 75, 76.
191
“Spazializzazione è secolarizzazione. E di che cosa? Del tempo storico, che è sempre tempo
teologico: apocalittico, messianicamente pieno. Mentre il tempo in quanto spazio è sempre mitico:
chiuso, da prigione, privo di redenzione e quindi da Ade, infernale, ma fatto in modo tale che questo
tempo sia privo di coscienza di sé.” Cit. in Hermann Scweppenhäuser, Aspetti infernali del moderno, in
Mauro Ponzi (a cura di), L’angelo malinconico. Walter Benjamin e il moderno, Lithos editrice, Roma
2001, p. 22.
192
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 106.
80
Ma cosa provoca nei drammatisti del barocco questa visione storica disperata e
luttuosa? Di quale tempo ed atmosfera culturale sono figli? Qual è il sentimento che li
domina?
Benjamin ci dice in primo luogo che essi sono luterani usciti dall’epoca della
Controriforma. Il passaggio epocale in questa nuova via al cristianesimo, è cioè
all’interno di un modo particolare di vivere la fede, dalla giustificazione per opere a
quella per fede. Mentre cioè, nel guadagnarsi la salvezza grazie alle opere compiute, si
donava un senso trascendente all’ azione umana nel mondo, veniva creato un
collegamento tra l’immanenza pratica e la trascendenza divina, ora, con la
giustificazione per sola fede, si presentano varie conseguenze che vanno a toccare
profondamente l’interiorità dell’umana vita quotidiana. In primo luogo, la salvezza
non è più una conseguenza di un atto, non è più un effetto, una realizzazione di una
facoltà in potenza, ma un premio donato arbitrariamente da Dio. È come se il premio
alla propria vita retta arrivasse per caso, senza che nessuno lo possa sapere, e
anticipare in questo modo il piano segreto di Dio. Questa situazione porta come esito
necessario, alla separazione e all’allontanamento infinito del divino dall’umano.193
A ciò si aggiungono gli sviluppi dell’astronomia - secondo cui la Terra non è più il
centro dell’universo e delle attenzioni di un Dio antropomorfo - e della fisica moderna
- con il ritorno in voga dell’atomismo antico, con il suo portato di meccanicismo e di
automatismo naturale. Situazione che toglie sicurezze e lascia il mondo umano vuoto,
193
“A melancholic gaze on the world emptied of its religious substance constitutes the correlative
human subject of tragic drama. (…) Protestantism deprived human action of all its meaning. (…)
Melancholy and the way it transforms the world into a spectacle corresponding to his deepest
convictions fascinate Benjamin. In melancholy, he sees a revolt of " life" itself against its devaluation
by an ascetic faith.” Cit. in Rainer Rochlitz, The disenchantment of art, Guilford press, New York
1996, p. 98.
81
in mano a se stesso, al ciclico ripetersi di una natura priva di Grazia: 194 “Le azioni
umane erano private di ogni valore. Nasceva un nuovo mondo, un mondo vuoto.”195
Sentimento che sorge da questo stato di cose è dunque la malinconia, stato d’animo è
il lutto, principale a priori dell’umanità barocca nel considerare il mondo e i fatti. E
proprio il sentimento luttuoso, ridona significato e senso (seppure un significato
negativo e disperato) ad un mondo svuotato di significati e di trascendenza.
L’a-priori melanconico e il suo sguardo sul mondo, sono caratterizzati da varie
caratteristiche distintive: in primo luogo la tenacia dell’intenzione, l’intensità
crescente e la gravità di pensiero. Lo sguardo del melanconico è cioè un rapportarsi
contemplativo e profondo con il proprio oggetto, caratterizzato da un crescente
perdersi e intensificarsi della visione. In questa atmosfera perde importanza la vita
attiva, pratica e trasformativa, e gli oggetti da utilizzare si trasformano in spunti per la
“fissità contemplativa”. C’è un rapporto di osmosi e di identificazione tra soggetto e
oggetto, e il dominio dell’intenzione sembra da attribuire al secondo: è infatti
l’oggetto a catturare il soggetto che contempla, e non vicevera. Proprio qui si rende
visibile ed esplicita la fedeltà agli oggetti, il perdersi in essi, il cosalizzarsi, tipico
dello sguardo barocco sul mondo: come il Rinascimento esaltava e veniva attratto
dallo studio dell’universo, così il barocco appiattisce l’universo a libro, ed esplora non
la natura, ma le biblioteche. La ricerca da attiva e pratica, si immanentizza e si
cosalizza: l’importante non è più la conoscenza della natura, ma l’erudizione fine a se
stessa.
La contemplazione è l’altra faccia dell’affaccendarsi dell’intrigante, veniva
considerata come antidoto e via d’uscita da una storia catastrofica fatta di
194
“Il Seicento mostra (in uno scenario ante litteram novecentesco) il presente storico come incubo,
sentendosi impossibilitato a fornire una qualsiasi conciliazione (Versöhnung) fra materia ‘meccanica’ e
spirito, fra politica ed escatologia. Il mondo appare ridotto ad un’apparenza dietro cui non vi è più
alcuna sostanza metafisica. Con il trionfo del razionalismo secentesco il concetto cristiano di
redenzione sembra inabissarsi; la matematizzazione del sapere elimina gli spazi consacrati
all’invisibile, il logos dell’immanenza ha la meglio sull Verbo trascendente della teologia e della
mistica medioevali.” Cit. in Eleonora de Conciliis, La redenzione ineffettuale, La città del sole, Napoli
2001, p. 406.
195
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 114.
82
macchinazioni politiche, ma non faceva altro che inseguire fantasmi e perdersi nel
vuoto, allo stesso modo. Infatti proprio il sovrano è considerato il melanconico per
eccellenza, e questo dimostra di nuovo che nessuno scappa alla creaturalità, e che la
malinconia non è una via d’uscita, ma un inabissarsi infinitamente profondo, nella
storia naturale e nei suoi cicli.
Inoltre, a partire da Aristotele, la malinconia è caratterizzata dialetticamente dal
congiungersi di genialità e follia, e dall’essere un sentimento ambiguo, a metà tra lo
spirituale e il fisiologico.196 Viene definita da Benjamin come, tra le intenzioni
contemplative, quella propriamente creaturale, dove si dimostra essere sì un pensare,
un’attività spirituale, ma immobile, statica, e caratterizzata dal nascere da un ambito
naturale e fisiologico. A partire dalla scuola medica di Salerno del XII secolo, si
considerava infatti essere effetto della bile nera, il liquido corporeo secco e freddo.
Oltre al nascere e al rifarsi all’ambito della vita naturale come patologia umorale,
viene dimostrato da Benjamin che la malinconia è l’attività spirituale maggiormente
collegata con il dominio del destino, in quanto si pensava essere provocata da pianeti e
costellazioni. Anch’essa si trova ad essere non un agire, ma un patire, un essere
trasportati dalle forze naturali della terra, dei pianeti, delle passioni.197
Particolarmente importante è il ruolo di Saturno, pianeta dalla lentissima rivoluzione,
tradizionalmente caratterizzato dal provocare gli effetti contrastanti della malinconia:
da una parte introspezione e genialità contemplativa, dall’altra depressione e follia.
196
“The very history of the concept of melancholia shows a systematic oscillation between denigration
and overvaluation. (…) Typically stigmatized in the medical tradition from Stoicism through
Scholasticism (where, not coincidentally, its perils were typically coded as feminine), valorized in the
Renaissance and Romantic tradition (where its benefits were correspondingly coded as masculine),
melancholia has from the beginning been burdened with a double valency. Linked, on the one hand, to
paralysing pathology (the ‘noonday demon’ of the Middle Ages), and, on the other, to ecstatic
creativity (the ‘divine mania’ of Ficino or Tasso), the concept of melancholia is itself fissured by a
crucial ambiguity.” Cit. in Rebecca Comay, The sickness of tradition: between melancholia and
fetishism, in Andrew Benjamin, Walter Benjamin and history, Continuum, New York 2005, p. 89.
197
“Il fatto che il barocco subisse l’insidia di intendere la storia come ‘ordine naturale’ sottolineava –
egli dice – il ridursi della sfera umana (…) a livelli analoghi a quelli dell’animalità, della natura
minerale o della fissità astrale. Il corpo stesso (Körper) appare – più che come un organismo vivente –
come un cadavere, che la passione (la tortura), nel suo ambivalente significato di passività e di dolore,
riduce a pura fisicità.” Cit. in Giulio Schiavoni, Sopravvivere alla cultura, Sellerio editore, Palermo
1980, p. 210.
83
Anche i sogni e le intuizioni di saggezza del malinconico, sono profetici solo in
quanto influenzati da forze estranee all’uomo, che lo governano e lo muovono: “Ma
anche questi sogni divinatori vanno intesi come l’incubazione geomantica nel tempio
della creazione, e non come ispirazioni sublimi o addirittura divine. Perché tutta la
saggezza del melanconico appartiene alla profondità: essa nasce da un’immersione
nella vita delle cose creaturali, la voce della rivelazione le è ignota. La sfera
saturnina rimanda alle profondità della terra.”198
Anche da questo passo di grande importanza e suggestione, si vede come l’intento di
Benjamin sia sottolineare come perfino lo sguardo malinconico, che nella sua
contemplazione, sembrerebbe essere un’attività peculiarmente spirituale, in realtà è
appiattito, mosso e condizionato dalla natura. Il malinconico sventola (allo stesso
modo di come abbiamo visto a proposito del sovrano) come una bandiera al vento,
trasportato dalle forze della sensibilità estranee allo spirito, come le passioni, o dagli
influssi dei pianeti. Ancora una volta sembra non esserci scampo
all’immanentizzazione creaturale, non c’è spazio per il divino e le sue ispirazioni
sublimi, la sfera della rivelazione e della redenzione è ridotta ad un paesaggio
desertico originario.
E proprio qui viene riletta da Benjamin la sovranità barocca a partire dal sentimento
melanconico, e dalla sua costitutiva pigrizia, saturnina acedia. Sia i monarchi che gli
intriganti sono melanconici, la loro indecisione è caratterizzata da questa pigrizia,
dall’incapacità di uscire dall’ordine naturale del destino, o da quello artificiale delle
cose, degli oggetti fatali. Quindi anche il decisionismo giuridico del Seicento, è sì
conseguenza della perdita di una spiegazione trascendente del mondo e della politica,
ma si rivela essere un “indecisionismo”, dettato dalle passioni e dalla natura. La
malinconia tradisce il mondo e gli uomini per amore delle cose, e della conoscenza ad
esse legata; proprio dalla morbosa fedeltà alle cose, e non da un’attività spirituale
emancipatrice, nasce la contemplazione malinconica. Anche il tradimento
dell’intrigante non è moralmente connotato, ma è un evento naturale.
198
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 127.
84
Così come Calderòn nel dramma spagnolo, così solo Shakespeare con il personaggio
di Amleto, riesce a vedere oltre questo universo chiuso e a superarlo: riesce a giocare
con la sua stessa malinconia, e in questo modo la riconosce come limitata e
oltrepassabile.
Parafrasando a proposito Giulio Schiavoni199, come abbiamo già visto, è il movimento
della riflessione ad essere in azione in La vita è sogno di Calderòn e nell’ Amleto. La
ponderaciòn mysteriosa di Calderòn, ovvera la riflessione giocosa e la
razionalizzazione degli affetti e delle fatalità grazie al libero arbitrio, costituisce una
promessa di felicità nel mondo del barocco, quasi un miracolo che consente un
innalzamento dello sguardo: innalzamento che fa comprendere che anche il mondo e
lo spazio profano del destino sono soggettivi, una costruzione di un’intenzionalità
luttuosa, che può venire distrutta in quanto illusione. Solo Calderòn e Shakespeare,
nonostante la mancanza di redenzione del loro mondo, rimandano ad essa: “Soltanto
Schakespeare riuscì a far scoccare la scintilla cristiana dalla rigidezza barocca, non
stoica e non cristiana, pseudoantica e pseudopietista, del melanconico.”200
199
Giulio Schiavoni, Fuori dal coro, in Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino
1999, p. XXXIII.
200
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 133.
85
significati lontani dai propri significanti, per poi donargli sempre nuovo senso, in un
gioco infinito di rimandi non necessari e univoci.201
Innanzitutto bisogna dunque tematizzare il confronto, le differenze e le ambiguità che
questo concetto di allegoria intrattiene con quello di simbolo, che si è imposto e ha
dominato il campo della filosofia dell’arte romantica.
Normalmente per simbolo si intende la trasparenza assoluta e la continuità tra
simboleggiante e simboleggiato, parola o immagine ed idea; mentre per allegoria,
l’esteriorità, il collegamento convenzionale, soggettivo, e non linearmente diretto tra
significante e significato. Però Benjamin puntualizza subito, dicendo che la storica
svalutazione della forma comunicativa dell’allegoria, si basa su un fraintendimento
dello stesso concetto di simbolo.
Infatti autentico simbolo è per Benjamin solo quello teologico, che sì, attraverso se
stesso rimanda all’ambito del divino, ma, data la sproporzione infinita tra
trascendenza ed ordine umano, non lo può rappresentare. L’unità di cui il simbolo
autentico e teologico è portatore non coincide con il farsi sensibile dell’idea, del
sovrasensibile, ma esso rimanda solamente a questo ambito, senza renderlo
sensibilmente apparente. Dire che c’è un autentico rapporto simbolico, vuol dire che
nell’ambito dell’apparenza del simbolo non vi è presente l’idea stessa immanentizzata,
ma attraverso di esso semplicemente vi si allude e vi si accenna. 202
201
“Il malinconico è di casa tra le allegorie; passeggia fra di esse come, più tardi, il flaneur andrà a
zonzo tra le rovine dei passages. Sotto la lente della malinconia gli oggetti della vita attiva si raggelano
e giacciono a terra, abbandonati e divelti dal flusso vitale che li irradiava. (…) È lo sguardo del
malinconico, sprofondato in questa selva di cose inerti e svuotate del loro significato, a rapirle nel
mondo allegorico. Egli si è lasciato alle spalle il mondo profano degli uomini per dedicare la sua fedeltà
agli oggetti divenuti il polo della sua ‘fissità contemplativa, della sua ‘sterile ruminazione’. Sono queste
a trasformarli in segni del linguaggio allegorico, in cifre, geroglifici, emblemi.” Cit. in Luisa Pedretti,
Von Schwelle zu Schwelle. Intorno al concetto di allegoria nel Dramma barocco tedesco di Walter
Benjamin, in Itinera, Milano, aprile 2007, p. 14.
202
“Il simbolo teologico invece mantiene fermo che l’idea, l’essenza, cioè il sovrasensibile, restino
irrappresentabili. (…) Dire che l’apparire e l’idea sono in un rapporto simbolico, significa che il primo
non esibisce la seconda, ma vi accenna, vi allude, come a ciò che, pur restandogli estraneo in linea di
diritto, tuttavia gli dona quella consistenza che altrimenti non avrebbe.” Cit. in Bruno Moroncini,
Walter Benjamin e la moralità del moderno, Edizioni Cronopio, Napoli 2009, p. 359.
86
Il concetto deformato di simbolo è invece quello secondo cui l’idea si risolve
interamente e senza residui nell’apparire di esso, il divino si ingabbia nell’immanenza
sensibile e si mostra nel suo apparire, c’è un darsi dell’essenza nel visibile.
Abbiamo visto la lontananza da una concezione del genere, da parte di Benjamin:
mantenendo l’eccessività dell’idea rispetto al fenomeno, per lui non bisogna cercare
nulla dietro i fenomeni, quanto piuttosto, attraverso l’analisi intensiva di essi, esporre
l’idea, come le stelle rimandano ad una costellazione. L’idea è cioè un principio di
coordinazione e di comprensione, Benjamin dice di “interpretazione”, del caos e della
molteplicità fenomenica.
Ma tornando al concetto deformato di simbolo, che elimina la sproporzione, per
Benjamin irriducibile, fra sensibile e sovrasensibile, esso viene fatto derivare dal
classicismo, dall’estetica romantica e da Schelling nella sua Filosofia dell’arte, come
ha puntualmente notato Moroncini.203 Secondo il pregiudizio del tempo, caratteristiche
del simbolo sarebbero state inoltre la sua istantaneità, totalità e fulmineità del
collegare divino e umano, mentre per contro nell’allegoria veniva ad interporsi il
carattere progressivo, assolutamente non intuitivo, del pensare concettoso e del
significare convenzionale umano: insomma, simbolo come essere e allegoria come
significato, simbolo come idea e allegoria come concetto, simbolo come ambito
divino e allegoria come ambito umano.
Ma se per Benjamin dunque il simbolo autentico non elimina la sproporzione tra
significante ed idea, allora allegoria e simbolo non sono così lontani come voleva il
classicismo: semplicemente l’allegoria diventa una sottospecie del simbolo, e dove
quest’ultimo continua a mantenere un riferimento, un rimando, ma non un’identità, al
sovrasensibile, l’allegoria ne è priva. Ma anche l’allegoria, come il simbolo, non è
solo convenzione segnica, ma ha dialetticamente anche una debole forza simbolica ed
espressiva, è ontologicamente cristallizzazione della polarità della lingua umana, tra
203
F.W.J Schelling, Filosofia dell’arte, Prismi, Napoli 1986, pag.103: “La rappresentazione in cui
l’universale significa il particolare, o in cui il particolare è intuito attraverso l’universale, è lo
schematismo. La rappresentazione invece in cui il particolare significa l’universale o in cui l’universale
è intuito attraverso il particolare, è allegorica. La sintesi di queste due, nella quale né l’universale
significa il particolare, né il particolare l’universale, ma nelle quali entrambi sono assolutamente una
cosa sola, è il simbolico.”
87
convenzionalità ed espressione.204 Questa è la conclusione a cui bisognava arrivare per
eliminare l’ambiguità del concetto di simbolo dato dal classicismo e dal
romanticismo, e da cui ripartire per una tematizzazione genuina dell’allegoria.
Ed è molto importante sottolineare che proprio qui Benjamin arriva a delineare
l’intenzione allegorica, come storia originaria del significare. Cioè è come se il
meccanismo allegorico esplicitasse, nel suo rimandare ad un altro da sé non univoco e
necessario, lo stesso rapporto che esiste nel dire umano, tra significante e significato:
come Benjamin aveva studiato nel suo saggio sulla lingua del 1916, la lingua
adamitica originaria, simbolicamente nominante, era decaduta - per colpa della
volontà di dominio dell’uomo sulle cose – in una lingua segnica, dove il rapporto tra
significante e significato non è più necessario, lingua che non dice più nulla di
concreto, ormai incapace di nominare, ma solo di giudicare, collegando soggetti a
predicati, la cui verità riposa fuori di essi. E questa caduta nella lingua del giudizio è
per Benjamin, oltre ad un problema gnoseologico, un problema morale, una vera
caduta nel dominio del male, dove il male è questo poter disporre soggettivamente e a
piacimento della creazione, iperdominare le cose invece che rispettarle e tradurle nel
loro genuino essere linguistico, “ciarlare” invece che nominare.
L’allegoria cioè porta a compimento la verità di quell’originaria intenzione
significante anche della stessa lingua adamitica: il suo dire nulla. Essa mostra la
differenza e l’abisso normalmente presente tra il significante e il significato, è
propriamente la messa in scena dell’intenzione del significare come esteriorità, un
trascrivere le cose concrete in scrittura morta e decaduta.205 Per questo è così
importante nella riflessione benjaminiana: non è un artificio linguistico, una figura
204
“Giacchè essa stessa (l’allegoria), in quanto forma, è dialettica, paradosso, antinomia, quale plesso
indissolubile di due cose che, pur stando ‘assieme’, sono ‘contraddittorie’, cioè ‘convenzione’ ed
‘espressione’, nomos e physis: essa è, da un lato, tensione al significato, all’arbitrio e all’astrazione,
dall’altro - simultaneamente e conflittualmente – tensione al significante, alla mimesi e alla
concretezza. (…) Vibra, al fondo dell’iperdenominazione allegorica, l’eco debolissima e deformata
della denominazione originaria. Anzi, si può dire che essa sviluppa, rovesciandone i valori, la dialettica
già presente in nuce nel nome.” Cit. in Giovanni Gurissati, Il lutto delle cose. Sulla problematica
ontologico-linguistica del ‘Dramma barocco’ benjaminiano, in Andrea Pinotti (a cura di), Giochi per
melanconici. Sull’Origine del dramma barocco tedesco di Walter Benjamin, Mimesis, Milano 2003, p.
149, 165.
88
retorica, ma è la testimonianza dell’origine del significare in una lingua e in una storia
decaduta, lontana dalla trascendenza e dalla pienezza.
Questo rapporto con la storia che intrattengono sia l’allegoria che il simbolo, viene
esplicitato da Benjamin in un passo di capitale importanza, che citiamo integralmente:
“Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità, si manifesta fugacemente
il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, l’allegoria mostra agli
occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio
originario. La storia in tutto ciò che essa ha fin dall’inizio di immaturo, di sofferente,
di mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto.”206
L’allegoria cioè mostra ed esplicita la storia come un processo naturale, manchevole,
svuotato da un senso trascendente. E questo perché quando parla di storia, Benjamin
vuole anche dire sempre, il significare umano: l’inizio della storia umana coincide con
la caduta adamitica dalla lingua del nome, e con l’origine del significare. Quindi
l’allegoria, in quanto esplicitazione del meccanismo e dell’origine del significare
umano, mostra la stessa storia come un abisso che divide il significante e il
significato, il fenomeno e l’idea, l’immanenza e la trascendenza, il sensibile e il
sovrasensibile.
In quanto dunque essa è proprio la sedimentazione del significare umano decaduto - il
suo essere svelato nella propria intrinseca verità - è anche ciò che permette di
allontanarsi dal dominio del significato, unica speranza verso l’uscita dal tempo post-
peccato. Abbiamo visto infatti essere le categorie di Benjamin caratterizzate da
equivocità, o meglio da dialetticità (soprattutto a partire proprio dall’opera spartiacque
del dramma barocco), da una continua tensione che non porta ad una sintesi, ma che
va rispetta in se stessa. Proprio questa polarità permette all’allegoria di essere
dialetticamente sì convenzione segnica decaduta e mortificante la vita delle cose, ma
205
Esattamente come accade nei drammi barocchi, in cui al mondo delle azioni si sovrappone,
attraverso la figura scenica del coro o Reyen, il mondo dei significati, come fosse un’iscrizione.
Meccanismo affine al contemplare attonito del malinconico, questi cori o interludi rivelano gli atti del
dramma, cioè dell’azione, come metafore e esempi, di cui essi stessi sono l’iscrizione, o il significato.
Continua cioè ad esserci una totale immanentizzazione e svuotamento di qualsiasi cosa viva e concreta.
206
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, pag.141.
89
allo stesso tempo, ciò che attua una distruzione salvifica, unica possibile salvezza
contemplata da Benjamin. Così come i fenomeni vanno distrutti e scomposti
attraverso il concetto, e in questo modo salvati nell’idea, così l’allegoria attraversa e
prende in carico su di sé la negatività profonda del significare umano:207 ma solo da
questo movimento si può dare, come vedremo, una salvazione. 208 Le cose non vanno
astratte e metabolizzate dall’idea per essere salvate, come accade nella dialettica
hegeliana,209 ma percorse nella loro totale caducità e peccaminosità: solo da qui si può
partire.210
207
“In der Darstellung der barocken Allegorie (…) entdeckt Benjamin nur merkwürdigweise einen
Modus von Erfahrung, der mit dem in der Vorrede entworfenen Modell der ‘Rettung der Phänomene
untergründig kommuniziert. (…) Aber im Blick des Melanchonikers auf die derart zerstückelte
Dingwelt, in seinem tiefsinnigen Grübeln in Anbetracht der kleinsten Gegenstände, aus denen alles
Leben gewichen ist, sieht Benjamin zugleich die Struktur eine Erfahrung angelegt, die unverkennbar
Affinitäten zu der Aufteilung der Dinge in ihre Elemente und ihrer Rettung im Akt der philosophischen
Kontemplation besitzt.” (Nella esposizione dell’allegoria barocca, Benjamin scopre esclusivamente in
maniera strana un modus di esperienza, che comunica clandestinamente con il modello di salvazione
dei fenomeni delineato nella premessa gnoseologica…Ma nello sguardo del melanconico sul mondo
delle cose così ridotte a pezzi, nel suo profondo rimuginare in vista degli oggetti più piccoli, da cui tutta
la vita è andata via, Benjamin vede contemporanemanete applicata la struttura di un’esperienza, che
senza dubbio possiede affinità con la suddivisione delle cose nei loro elementi e la loro salvazione
nell’atto filosofico della contemplazione.) (traduzione mia). Cit. in Heinrich Kaulen, Rettung, in
Michael Opitz und Erdmut Wizisla, Benjamins Begriffe, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2000, p.
639.
208
“In quanto antinomia di convenzione ed espressione l’allegoria incarna così la dialettica messianica
secondo cui la redenzione delle cose, nella storia, si identifica con la distruzione della loro compagine
profana. (…) Nella storia-natura come via crucis mondana, decadenza, caducità e catastrofe, l’anelito
alla redenzione delle cose non si dà – classicisticamente, umanisticamente, romanticamente – come
trasfigurazione simbolica, perseguimento illusorio della pienezza d’essere e della totalità organica, ma
all’opposto come mortificazione e degradazione allegorica.” Cit. in Giovanni Gurissati, Il lutto delle
cose. Sulla problematica ontologico-linguistica del ‘Dramma barocco’ benjaminiano, in Andrea Pinotti
(a cura di), Giochi per melanconici. Sull’Origine del dramma barocco tedesco di Walter Benjamin,
Mimesis, Milano 2003, p. 165, 166.
209
“Certamente attraverso lo schema dell’allegorico, la dialettica cessa di essere ricomposizione
teleologica del processo. L’elemento antitetico, negativo – nella filosofia ‘ebraica’ di Rosenzweig,
sostanzialmente ripresa da Benjamin – è salvato nella sua ‘particolarità’, in quanto riconosciuto-liberato
nella sua originaria ed autonoma creatività. La sintesi non è mediazione del molteplice, ma rivelazione
della sua struttura, della sua Gestalt.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme,
Editori riuniti, Roma 1980, p. 168n.
Proprio da questo movimento di pensiero traluce il pensiero politico anarchico – molto più che
210
90
Il tempo del simbolo è quello istantaneo e fulmineo in cui la natura tende se stessa
verso la trascendenza, e in questo modo si trasfigura; mentre il tempo dell’allegoria è
quello ciclicamente e luttuosamente progressivo, tempo che non redime, ma che
conduce verso una morte, che non è superamento del dato e riconciliazione di un
negativo, ma morte fisica e brutale, che si cristallizza nella figura dello scheletro e del
teschio. Benjamin dice un “morire in vista del cadavere”, proprio per sottolineare
come la morte non redima verso un’ambito superiore, ma anzi chiuda e schiacci in una
natura degradata. Solo il teschio, suprema allegoria barocca, è in grado di esprimere la
natura umana nella sua degradazione massima, nella sua totale immanenza:ӏ questo
il nucleo della visione allegorica, dell’esposizione barocca, profana della storia come
via crucis mondana: essa ha significato solo nelle stazioni del suo decadere.”211
E continua collegando in maniera stretta allegoria, morte e significato: è infatti la
morte in vista del cadavere (e non della resurrezione), a creare un abisso fra la natura e
il significato, tra l’apparenza e l’essenza. Proprio perché viene chiuso ogni ambito
trascendente, attraverso il concetto di morte fisica, anche la natura non ha possibilità
di redenzione, non ha attribuzione di senso, ma viene lasciata a se stessa. Ci dice
inoltre Benjamin che l’intenzione significante umana e la morte, si sviluppano nella
storia l’una sull’altra, indissolubilmente legate, in quanto entrambe dimensioni di
mancanza di senso e redenzione. La negatività allegorica spezza la tensione del
soggetto verso il senso, si intromette tra i due come un abisso.
Attraverso l’allegoria ogni cosa può significare qualsiasi altra, e in questo modo, ci
dice Benjamin, l’allegoria equivale ad un giudizio distruttivo, ma giusto, sul mondo
profano e umano, ogni cosa perde di un senso proprio e simbolico, nell’infinita
allegoresi barocca ogni cosa può significare tutto, e quindi anche nulla. Il mondo è
svuotato di senso.
91
La bella totalità simbolica e organica viene interrotta, spezzata, si riduce (non più
illuminata dal senso trascendente) a frammento, runa. Quella presunta totalità si è
dimostrata solo apparenza, ed è per amore della verità che va distrutta, il corpo umano
trasfigurato nella perfezione classica, si riduce a quello che è sempre stato, uno
scheletro. La storia, organicamente unica e orientata alla salvezza finale, si è rivelata,
grazie all’allegoria, solo un cumulo di macerie, un progresso nella decadenza -
esattamente lo stesso che vedrà l’angelo della storia delle Tesi benjaminiane, cioè non
un progresso storico, ma un accumularsi di rovine. E le cose, abbandonate e inerti
come nella Melancholia di Dürer, trovano un loro senso solo sotto lo sguardo del
malinconico, sguardo che non le ravviva e non gli ridona pienezza simbolica, anzi le
svuota di vitalità nel suo rimuginare speculativo privato di prassi.
Sotto lo sguardo allegorico del malinconico tutto si trasforma in scrittura, ogni azione
o concretezza si immanentizza, anche la storia stessa, e viene così trasportata sulla
scena del teatro, trasfigurata in scrittura scenica: “se nel dramma barocco la storia
emigra sulla scena, essa lo fa come scrittura. Sul volto della natura sta scritta la
parola “storia” nei caratteri della caducità. La fisionomia allegorica della storia-
natura, che il dramma barocco trasporta sulla scena, è realmente presente come
rovina. Con essa, la storia si è ridotta materialmente al palcoscenico. E, beninteso, la
storia così conformata non appare come il processo di una vita eterna, ma come il
progredire di un’inarrestabile decadenza. In questo modo l’allegoria si pone al di là
della bellezza. Le allegorie sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel
regno delle cose.”212
L’allegoria, però, proprio grazie al suo essere al di là della bellezza, dell’organicità del
simbolo, grazie al suo carattere distruttivo ma giusto del mondo profano, riesce in
qualcosa che restava precluso al classicismo, cioè il “cogliere la non libertà,
l’incompiutezza e la fragilità della natura sensibile, del bello naturale.”213
Insomma l’allegoria è l’espressione di un tempo, come quello barocco, dove la
trascendenza è preclusa, e la storia umana viene abbandonata a se stessa, al suo lento,
212
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 151.
213
Ivi, pag.150.
92
ciclico e luttuoso scorrere naturale. Ma allo stesso tempo, nella sua totale negatività
rivela una dialettica tesa ad una salvezza, l’unica praticabile in quanto rispettosa della
situazione luttuosa della storia umana, del mondo delle rovine.
Parafrasando Moroncini214, l’allegoria, conducendo all’estremo l’operare del nulla, il
suo carattere distruttivo, alla fine lo vanifica, sgombra il terreno alla possibile
redenzione, e, allo stesso tempo, offre le cose, in quanto sottratte all’intenzione
significante del soggetto (che abbiamo visto rappresentare la caduta nel peccato e il
simbolo del male), alla salvezza che da sempre attendevano.
Essa cerca di parlare con le cose, delle cose stesse, e in questo modo non le astrae
logicamente a concetti, e ne rende giustizia: “come chi precipita corre il rischio di
rovesciarsi, allo stesso modo l’intenzione allegorica si perderebbe di immagine in
immagine nella vertigine del suo abisso senza fondo se proprio nelle sue immagini
estreme non dovesse apparire che, in realtà, tutta la sua tenebra, la sua superbia, la
sua lontananza da Dio sono mero autoinganno. (…) Proprio nell’ebbrezza
dell’annientamento, là dove tutto quel che è terreno precipita in un ammasso di
rovine, ciò che si svela non è tanto l’ideale dell’allegoria come abbassamento, quanto
il suo limite.”215
Anche il malinconico, nel suo rimuginare e dare significati a ogni significante-oggetto
che incontra, arriva ad un limite. Facendosi carico di tutta la negatività della sua epoca
e del suo procedere conoscitivo, alla fine tocca un limite, e si accorge che anche la
disperazione totale può essere allegoria, cioè ingannevolemente e semplicemente
soggettiva, e rimandare, seppur negativamente, ad un suo superamento. Si rende conto
che anche il male non ha consistenza ontologica, ma è un fenomeno soggettivo, che
nasce dall’attività giudicante e dalla iperdenominazione delle cose e della natura:
“l’allegorista si risveglia nel mondo di Dio.”216
214
Bruno Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Edizioni Cronopio, Napoli 2009, p.
375.
215
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, pag. 207.
216
Ibidem.
93
Per Benjamin cioè, si tratta sempre di non trovare una facile conciliazione tra un
positivo ed un negativo, in una trasfigurazione, ma di accentuare la negatività come
tale, per non occultarne la natura e per farsene carico e da lì ripartire. Solo dal fondo
della negatività, può avvenire un ribaltamento.
Per concludere, grazie a questo studio sul dramma barocco tedesco Benjamin ci
consegna, attraverso un’analisi culturale, la teorizzazione del concetto di storia
naturale (e di allegoria, che è la percezione propria di una storia-natura), cioè di una
storia abbandonata a se stessa e condannata a ripetersi in una cattiva e ciclica infinità,
senza prospettive di una redenzione positivamente delineata, ma al massimo da
cercare nel fondo del negativo, nella “fodera del nulla”. Cioè la storia assume quel
carattere destinale che già abbiamo visto avere nel mondo di Kafka, come contesto
chiuso di colpevolezza, che scivola verso una cattiva e inconsapevole naturalità, e
tutto ciò che è vita, eticità e trascendenza, si appiattisce e perde i suoi legami con gli
“ordini superiori”.
Da questa concezione dobbiamo partire per vedere, attraverso Theodor W. Adorno,
come essa rappresenti una tematizzazione critica di tutto un modo di intendere la
storia, che trova la sua eminente sintesi e rappresentazione in Hegel.
94
Rispetto ad Hegel, diversa è già la gnoseologia benjaminiana, diversità che porterà
agli opposti esiti di visione storica. Come in Benjamin, Adorno ci dice che anche in
Hegel era presente la necessità filosofica di immergersi nel dettaglio senza lasciarsi
guidare da alcuna filosofia dall’alto 217. Ma il suo modo di immergersi nel dettaglio si
dà appuntamento con l’idea, con quello spirito, che in quanto assoluto, era già stato
posto inizialmente nella riflessione.218 In questo modo inevitabilmente i fenomeni
particolari non vengono salvati, ma trasfigurati nell’idea, nello spirito. Mentre, come
abbiamo visto, per Benjamin l’idea è una coordinazione solo virtuale dei fenomeni,
una loro interpretazione, è lo stesso fenomeno, che analizzato intensivamente, rimanda
all’idea, ma senza perdere la propria concretezza, e senza trasfigurarsi nell’idea stessa.
La critica di Adorno rimanda dunque all’esigenza benjaminiana di salvazione dei
fenomeni nella loro concretezza, e vede nel tentativo di Hegel una falsa conciliazione
tra idea e fenomeno, a spese di quest’ultimo.
Ma preliminarmente bisogna dire che compito di Adorno in questo studio è proprio
misurarsi con il pensiero hegeliano, e con il suo concetto fondamentale, quello di
spirito, concetto che criticato immanentemente porterà a svelare un movimento di
pensiero fondamentale per la nostra analisi.
Se per Hegel lo spirito era il divino in quanto totalità, facentesi mondo, la
conciliazione di umano e divino, la razionalità potenziale della storia nel suo percorso
di attuazione, per Adorno esso perde questo connotato teologico, per assumerne uno
ideologico: lo spirito è innegabilmente esistente (contro ogni positivismo e
217
“Ma la particolarità è, in quanto universalità, in sé e per se stessa una tale relazione immanente, non
per via di un passare; è totalità in lei stessa e determinatezza semplice; è essenzialmente principio. Essa
non ha un’altra determinatezza, essendo posta dall’universale stesso e risultando da lui nella maniera
che segue. Il particolare è l’universale stesso, ma ne è la sua differenza o relazione ad un altro, il suo
rispecchiarsi al di fuori. Se non che non vi è un altro da cui il particolare possa esser distinto, eccetto
l’universale stesso. L’universale si determina, e così è esso stesso il particolare. La determinatezza è la
sua differenza. Esso è distinto solo da se stesso.”, in Hegel, Scienza della logica, Roma-Bari 1974, vol
II, pag.686.
218
“L’identificazione rigorosa dell’universale con il particolare non determinato, il mettere sullo stesso
piano la mediatezza dei due poli della conoscenza riescono alla logica di Hegel, anch’essa una dottrina
a priori di strutture universali, solo perché essa non tratta affatto del particolare come un particolare, ma
unicamente della particolarità che è anch’essa già un concettuale.”, in Adorno, Dialettica negativa,
Einaudi, Torino 2004, pag.293.
95
nominalismo scientifico), ed è la totalità del sistema capitalista, ma una totalità non
conciliata, che nasce sì dalle volontà totali dei singoli, ma che poi passa sopra la loro
testa.219 Diventa un’entità autonoma rispetto ai soggetti, si disinteressa di loro
perseguendo solo i suoi fini, e per questo è sin dall’inizio antagonista; da quì anche la
necessità di uno strumento di pensiero come una dialettica negativa non conciliata,
che parta dall’irrazionalità dell’intero senza chiudersi in una facile sintesi.220
Secondo Adorno lo spirito hegeliano è la trascrizione filosofica della sostanza divina,
e il suo dispiegarsi nella storia, la secolarizzazione di una teodicea e di un cammino di
salvezza.221
Nel momento in cui Hegel dona alla storia umana il carattere di teodicea e di sviluppo
e concretizzazione dello spirito, dell’idea, del divino, gli dona anche necessità e
unificante razionalità progressiva. Ed è qui che andrà ad insistere la critica di Adorno,
utilizzando un termine benjaminiano fondamentale, come quello di destino: “come
l’immanenza destinale, lo spirito universale è intriso di dolore e di fallibilità. La sua
negatività viene banalizzata come accidentale tramite la dilatazione dell’immanenza
totale ad essenza.”222 Nel meccanismo storico hegeliano cioè, trasfigurando
l’immanenza in essenza, postulando che ciò che avviene nella storia è necessario, in
quanto momento dello sviluppo dell’idea, tutta la negatività in esso presente viene
219
“Dominio dell’universale logico sul particolare e dominio della società quale finora è stata
sull’individuo sono quindi fenomeni simmetrici.” Cit. in Remo Bodei, Strappare il vero dal falso, in
Theodor W. Adorno, Tre studi su Hegel, Il mulino, Bologna 2014, p. 13.
220
“If there were no closed system, then there would not be dialectical contradiction. So, not only is
negative dialectic not totalizing, an attempt to arrive at absolute knowing or the absolute idea, and not
only is dialectic negative because it is moved by the negative experiences of pain and suffering, and not
only is dialectic negative because it lives through a continual awareness of contradiction, but dialectic
is negative because its condition of possibility is the negative or wrong state of things.” Cit. in J.M.
Bernstein, Negative dialectic as fate. Adorno and Hegel, in Tom Huhn, The Cambridge companion to
Adorno, Cambridge University press 2006, p. 38.
221
“Nel concetto dello spirito universale il principio dell’onnipotenza divina è stato secolarizzato come
quello che pone l’unità, il piano universale come l’inesorabilità dell’accadere. Lo spirito universale
viene venerato come la divinità; la divinità viene spogliata della personalità e di tutti i suoi attributi di
provvidenzialità e di grazia.” Cit. in T.W.Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, pag.272.
222
Ivi, pag.273.
96
nullificata, trasfigurata in negazione determinata, attrito necessario e fondamentale
allo sviluppo dello spirito.
E per quanto riguarda lo spirito individuale dei singoli, Adorno ci dice che esso è
totalmente mediato dallo spirito universale, che la soggettività è un’illusione prodotta
necessariamente dall’intero: l’intero sistema di relazioni, lo spirito, funziona solo
passando attravero il principio dell’autoconservazione individuale, che spinge ogni
singolo a guardare a se stesso, come l’unica cosa certa esistente, e in questo modo
rendendolo miope e incapace di vedere l’intero stesso da cui si viene mediati e
condizionati. Anche se l’individualità sembra autofondantesi, secondo Adorno non c’è
alcun materiale d’esperienza che non sia stato predigerito e fornito dall’universale. Il
positivismo e il nominalismo filosofico sbagliano, nel momento in cui astraggono una
coscienza kantianamente pura dal sistema di relazioni, dal sistema oggettivo, dalla
sostanza in cui questa coscienza si trova immersa.
Il capitalismo, lo spirito oggettivo di Adorno, come quello di Hegel, ha dei tratti
destinali, che anche Benjamin aveva puntualmente notato nelle sue analisi:
“l’esperienza di quell’oggettività preordinata all’individuo e alla sua coscienza è
quella dell’unità della società totalmente socializzata. L’idea filosofica dell’identità
assoluta le è strettamente affine, perché non tollera niente al di fuori di sé.”223
L’idea hegeliana di identità assoluta tra particolare e universale, sembra essersi
realizzata nel capitalismo moderno. Esso ha i tratti di un processo più che di una
sostanza (come lo spirito nel cammino delle sue figure), e in quanto tale, non tollera
nulla fuori di sé, ma macina al suo interno ogni differenza e la restituisce uniformata a
sé. Sembra essere una totalità chiusa e asfissiante come era il mondo mitico di Kafka,
in cui individui ridotti a monadi (proprio grazie al forte principio d’individuazione,
che li fa vedere come l’unica cosa certa e gli fa perseguire i propri interessi
individuali), non vedono il destino loro imposto, il meccanismo che li guida, e in
questo sembrano gli uomini-animali kafkiani, senza eticità e vaganti senza senso di
porta in porta.
223
Ivi, pag.281.
97
E ciò che lega il particolare e l’universale, il ponte tra i due, è per Hegel il pensiero
presente negli uomini, che dona universalità al particolare e soggettività
all’universale; ed entrambi questi momenti vengono tradotti nel capitalismo nel
principio dello scambio, definito da Adorno un pensato soggettivamente e insieme
oggettivamente valido. Attraverso lo scambio economico, l’interesse egoistico dei
singoli si lega a quello dell’universale, in un intero non conciliato (in quanto
l’universale eserciterà sempre violenza sul particolare).224 Più i singoli si
individualizzano, cercano di crescere economicamente, e più l’oggettività cresce e si
espande. Esattamente come avveniva in Hegel, dove il motore della storia e del
dispiegarsi dell’idea era visto nell’interesse individuale e nelle passioni, variabili
estremamente più forti rispetto alla morale e al diritto. E tutto questo è un processo
oggettivo e altamente reale, da cui non si può astrarre come fa il nominalismo
filosofico. Processo descritto precisamente da Marx nei Lineamenti fondamentali
della critica dell’economia politica, in cui viene descritto l’interesse privato stesso
come già un interesse sociale, raggiungibile solo attraverso le condizioni che la società
pone e con i suoi mezzi, e quindi non astraibile da queste stesse condizioni. 225 E
interessante è che la supremazia negativa del concetto sul particolare viene descritta
anche da Marx attraverso il fondamentale concetto di destino: “gli individui sono
sussunti sotto la produzione sociale, che esiste come un fato loro estraneo; ma la
produzione sociale non è sussunta sotto gli individui e da essi controllata come loro
patrimonio comune.”226 La totalità degli individui, si aliena dunque dalla loro volontà
e assume i tratti del fato.
224
“Veicoli principali della socializzazione sono il lavoro e lo scambio, da Hegel apologeticamente
idealizzati sino a farne la sostanza dello spirito e del pensiero, oltre che il paradigma del rapporto
uomo-natura. Sotto questo profilo, lo spirito non è altro che lavoro sociale metafisicamente gonfiato e
proiettato su tutta la realtà come motore di trasformazione continua e di soggiogamento crescente del
diverso all’identico.” Cit. in Remo Bodei, Strappare il vero dal falso, in Theodor W. Adorno, Tre studi
su Hegel, Il mulino, Bologna 2014, p. 12.
225
“Si tratta di interesse dei privati; ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua
realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti.” Cit. in Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze 1968, vol I, pag.96.
226
“Ma quindi è, in base alla sola forma, internamente antagonista. L’unità è scissione. (…) Il principio
di identità assoluta è internamente contraddittorio. Esso perpetua la non identità in quanto repressa e
offesa.” Ivi, p.100.
98
Quindi, continua Adorno, a differenza di quello che vedeva Hegel, la ragione dello
spirito universale è completa irragionevolezza rispetto all’interesse generale dei
singoli: non c’è e non ci può essere conciliazione in una dialettica in cui l’universale
non tollera la diversità del particolare, ma come un despota, la uniforma e cancella.
Non è unità della molteplicità, ma unità sulla molteplicità, è su essa impressa e quindi
non conciliante227
L’interdipendenza con l’universale, viene avvertita dal singolo non come armonia e
conciliazione, ma come destino imposto, o demitologizzato, come “logica delle cose”.
Esso si rende conto di viaggiare con la corrente, di non poter uscire da un corso
imposto e “naturale”, di far parte di una storia universale che passa sulla sua testa.
Per Adorno la storia universale, hegelianamente intesa, esiste realmente, ma non è una
teodicea, non va verso il meglio e la realizzazione, tutt’altro: essa va autonomamente
dalla fionda alla megabomba, dal dominio sulla natura a quello sugli uomini. 228 Non è
il divino, l’idea, a dispiegarsi nel mondo, ma la sofferenza assoluta, in una teleologia
negativa, che riconosce sì, consistenza ad un cammino universale, ma visto come via
crucis mondana: non c’è trasfigurazione della sofferenza storica nella positiva
realizzazione dell’assoluto, ma un accumularsi di macerie e rovine, una catastrofe
permanente, esattamente come nella riflessione benjaminiana: “lo spirito universale,
un oggetto degno di definizione, dovrebbe essere definito come la catastrofe
permanente.”229
E tutto questo perché? La società degli uomini si mantiene in vita per mezzo
dell’antagonismo: il capitalismo si basa sull’interesse al profitto, che è il motore
storico su cui si fonda la vita di tutti, ma che allo stesso tempo è ciò che
227
T.W.Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, pag.284.
228
“Adorno's position is encapsulated in the aphorism 'Universal history must be construed and denied'.
It must be construed because it is the only perspective from which the sociohistorical formation of
society and thought can be grasped; it must be denied because the world has no telos and capitalism has
developed new means of enslavement, not of liberation.” Cit. in Gillian Rose, The Melancholy Science.
An introduction to the thought of T.W. Adorno, Columbia University press, New York 1978, p. 51.
229
T.W.Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 286.
99
permanentemente permette l’annientarsi reciproco: l’unità non è mai stata così
inconciliata.
Ma questo antagonismo è sorto naturalmente, dall’essere stesso dell’uomo, oppure si è
venuto a creare contingentemente nel corso della storia? Per Adorno la necessità
storica, che ha condotto a questa totalità non conciliata, va vista come un’apparenza,
che si è camuffata da realtà, per risultare ontologicamente inattaccabile. Suo compito,
come anche di Benjamin, è di interrompere l’apparenza e di far penetrare in essa la
forza critica del vero. Non è necessità, ma è un’ideologia, che vuole il corso storico
una necessità, e così mira a eliminare ogni via di fuga da questo stesso corso, ad
eliminare ogni possibilità di cambiamento.
Lo stesso camuffamento e innalzamento a verità, a trascendenza, della realtà storica
contingentemente non giustificata, avviene nello Hegel, soprattutto quello delle
Lezioni di filosofia della storia e dei Lineamenti di filosofia del diritto.
Come abbiamo visto la storia diventa la manifestazione di Dio nel mondo: “Dio
governa il mondo: il contenuto del suo governo, l’esecuzione del suo piano è la storia
universale. Compito della filosofia è cogliere questo piano della storia universale, e
suo presupposto è la nozione che l’universale si realizza, che possiede realtà solo ciò
che è conforme all’idea,”230 e ciò che non vi si conforma è solo “consumata
esistenza”. Ci continua a dire Hegel infatti, che davanti alla pura luce dell’idea divina,
svanisce il dolore e la fallibilità storica, l’apparenza che il mondo sia un succedersi di
avvenimenti insensati e folli. Per lui la filosofia, in quanto pensiero capace
dell’universalità, deve riuscire cioè a contemplare la razionalità storica e comprendere
i fenomeni dopo aver conosciuto l’idea divina, la realtà sostanziale, e in questo modo
giustificare il mondo reale, solo apparentemente e fenomenicamente insensato e
caduco. La stessa luce divina che scompariva dalla storia del barocco benjaminiano e
la lasciava nelle sue non redente rovine e macerie.
Esplicitamente Hegel in questo passo tematizza sia il suo concetto di storia, sia la sua
gnoseologia. E interessante è l’affermazione secondo cui ha una consistenza
ontologica, è reale, solo ciò che è conforme all’universale. E tutto ciò che non si
230
Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La nuova italia, Firenze 1975, pag.65.
100
conforma che statuto ha? Viene macinato nella storia e visto come “consumata
esistenza”, termine che a nostro parere in qualche modo rimanda, solo per assonanza e
con tutte le differenze, al concetto benjaminiano di “nuda vita”. Come la consumata
esistenza in Hegel è un particolare contingente negativo, che nella sua naturalità e
mancanza di razionalità (intesa come ponte tra il singolo e l’idea) non si conforma
all’idea e viene sacrificato per lo sviluppo dello spirito, così la nuda vita benjaminiana
è il semplicemente vivente che viene catturato nelle maglie del destino e costretto a
vivere nella sua asfissiante totalità, nel ciclico ritorno della natura, destino che può
essere visto proprio come lo spirito universale nella totalità del suo fluire.
A differenza del contingente sacrificato allo sviluppo dello spirito - cioè ciò che
rappresenta la “consumata esistenza” - gli individui geniali sono per Hegel quelli che
si conformano allo spirito del loro tempo e sanno regolarsi di conseguenza, scorrono
insieme a lui; agiscono sì, secondo le proprie passioni private, ma quest’ultime
concordano con lo sviluppo dello spirito, e da istanze individuali diventano un
attuazione dello spirito universale. I grandi di un popolo “sono quelli che lo guidano
secondo lo spirito universale. Per noi allora le individualità svaniscono; noi
attribuiamo loro valore solo in quanto traducono in realtà ciò che vuole lo spirito
nazionale.”231
Se le individualità svaniscono, questo significa chiaramente che la dialettica di
universale e particolare non è conciliante, ma autoritaria e macinante. Continua infatti
Hegel dicendo che la coscienza di un popolo, che è il materiale della realizzazione
della spirito nel mondo, determina tutti i fini e gli interessi del popolo stesso. È come
un’apriori universale che media ogni individuo, è l’elemento sostanziale di un popolo,
nella cui atmosfera ogni singolo cresce e pensa, ed è “come una necessità”, uno dei
tanti lapsus che escono dallo scritto hegeliano e che stanno a significare il carattere
non conciliato, chiuso e asfissiante dell’universale. Il primato logico in Hegel cioè,
continua manifestatamente ad andare all’universale, e il particolare ha diritto ad essere
particolare, solo in quanto preliminarmente mediato, in quanto già visto come
concettuale: “si tratta allora di riconoscere, nell’apparenza del temporaneo e del
231
Ivi, pag.44.
101
transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale.” 232 E proprio in
questa concezione secondo Adorno c’è “la ricaduta hegeliana nel platonismo”, l’aver
cioè mirato al trapasso della logica nel tempo - volendo trasporre e conciliare
l’universale logico con il particolare contingente - ma il finire col rassegnarsi ad una
logica atemporale, vedere nel contingente, come semplice apparenza, la staticità e la
verità dell’eterno. Il tempo, attraverso il processo dialettico, viene ontologizzato,
diventa da forma soggettiva, quale era in Kant, struttura dell’essere, un eterno.
Paragonando l’idea assoluta alla totalità della caducità di tutto il finito, Hegel
detemporalizza il contingente, fa trapassare la caducità del finito nell’eternità
dell’idea, lo sussume sotto di essa.
E proprio questa caduta nel platonismo da parte di Hegel, è ciò che principalmente ci
interessa per quanto riguarda il concetto di storia naturale e di bando mitico in
Benjamin. Vedremo infatti che per Adorno lo spirito universale, cioè il divino che si
fa temporalità e storia, altro non è che una mistificazione di ciò che sembra puramente
razionale e trascendente, un’ideologia che copre e che immobilizza ciò che Hegel
pensava essere dinamico. Per Adorno lo spirito universale, e il fluire storico che esso
rappresenta, altro non sono infatti, che natura, in tutta la sua immobile ed eterna
ciclicità, in tutta la sua manchevolezza, caducità e indifferenza verso l’umano. 233 Una
seconda natura, o una storia naturale, esattamente come la delineava Benjamin in
contrapposizione alla trasfigurazione hegeliana.
Per Adorno infatti, “l’oggettività della vita storica è quella della storia naturale.” 234
La storia naturale è cioè la sua verità, ciò che cova sotto l’apparenza di una storia
umana progressiva, tendente verso il meglio, e animata dallo spirito divino.
232
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 2004, p. 167.
233
“Adorno attempted to redefine 'nature' and 'history'. Nature did not have any connotations of
physical nature but meant myth or what human history bears as fatefully structured, pregiven, while
history refers to the sphere of human behaviour in which change occurs.” Cit. in Gillian Rose, The
Melancholy Science. An introduction to the thought of T.W. Adorno, Columbia University press, New
York 1978, p. 39.
234
T.W.Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, pag.317.
102
Già Marx ha riconosciuto che il movimento di produzione e accumulazione capitalista
ha dei tratti di spontaneità e di naturalità necessari, da cui il singolo non può uscirne
fuori e rimane “creatura”, cioè ingranaggio inconsapevole, all’interno di questo
sistema di relazioni. Chiama infatti “mistificazione” questo considerare la legge
dell’accumulazione come una legge naturale; ma allo stesso tempo questa
mistificazione è tanto più reale, in quanto sembra essere propriamente naturale
all’interno dei rapporti di produzione dominanti. Per coloro cioè che sono interni a
questo sistema di relazioni capitalista, la legge di accumulazione ha realtà e naturalità:
sembra una legge naturale incontrovertibile.235 Si viene a creare un’apparenza
socialmente necessaria, il cui nucleo è il concetto di “valore” considerato come “cosa
in sé”, come natura.
Marx era persuaso del fatto che la storia umana proseguisse, attraverso il sistema
capitalista di produzione, quella legge inconsapevole della natura, il divorare o
l’essere divorati; che quindi la storia a lui contemporanea continuava ad avere un
carattere di chiusa naturalità. Ma proprio a partire da questa negatività, e dalla
consapevolezza di essa, per lui era possibile gettare le basi del suo superamento. Cioè
Marx, anche lui intriso di una scansione storica precisa e lineare di stampo hegeliano,
voleva farsi carico della naturalità negativa all’interno del capitalismo, e accelerarne il
processo che avrebbe portato al suo superamento.
Si crea quindi un concetto sociale di natura, la cui particolare dialettica tra ideologia e
realtà viene delineata da Adorno nel seguente passo di fondamentale importanza, che
cito integralmente: “la legalità naturale della società è ideologia nella misura in cui
essa viene ipostatizzata come invariabile datità naturale. Ma questa legalità naturale
è reale in quanto è quella legge di movimento della società inconsapevole. (…) Le
forme costitutive della socializzazione, una delle quali è quella mistificazione,
235
“L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto, di un’insaziabilità sbuffante, della libertà
come superattività attinge a quel concetto borghese della natura che ha servito sempre e soltanto a
sancire la violenza sociale come immodificabile, come un pezzo di sana eternità (corsivo mio).” Cit. in
Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p. 184.
103
affermano la loro supremazia incondizionata sugli uomini come se fossero la
provvidenza divina.”236
Continua cioè a venire delineata la dialettica, le due facce della stessa medaglia, tra
ideologia e realtà, mistificazione e necessità. Solo se la società capitalista non fosse
inconsapevole di essere un particolare tipo di società, solo in questo momento essa si
renderebbe conto che questa legalità naturale, non è altro che apparenza. Ma finchè si
è interni a questo sistema di relazioni, questa legalità è fin troppo reale, viene vista
anche qui come provvidenza divina che conduce il movimento del fluire storico.
E fondamentale è questo specifico meccanismo di divinizzazione del reale e del
contingente, meccanismo già in funzione in Hegel, e che ha il compito di creare
necessità e naturalità, ad un caotico storico altrimenti non schematizzabile e senza una
direzione lineare, che si mostrerebbe come un accumulo di rovine.
Esattamente come il sistema capitalista si spaccia per natura, così in Hegel si vede
questo movimento di giustificazione dello spirito e delle sue istanze, ad esempio nel
caso della costituzione: “Ma, in generale, è essenziale unicamente, che la
costituzione, sebbene sorta nel tempo, non sia ritenuta un prodotto umano; poiché
essa è anzi ciò che è assolutamente in sé e per sé e che quindi deve considerarsi come
il divino e il permanente, e come al di sopra della cerchia di ciò che è prodotto
umano.”237
Come Marx, e Adorno con lui, si rendono conto della naturalizzazione e
divinizzazione del sistema capitalista, così in Hegel c’è una divinizzazione del sistema
statale, soggetto privilegiato nella storia dello spirito, e tramite tra il singolo e l’idea:
“con ciò Hegel estende il concetto di physei a ciò che una volta era definito dal
concetto opposto di thesei. La “costituzione”, che è il nome del mondo storico che
mediava ogni immediatezza naturale, determina al contrario la sfera della
mediazione, proprio quella storica, come natura.”238 Il passaggio e la trasformazione
fondamentale è dunque da ciò che è per convenzione umana a ciò che è per natura.
236
T.W.Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 320.
237
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 2004, p. 273.
238
T.W.Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, pag.320.
104
Ed è proprio in questo meccanismo che Adorno scopre il segreto di Hegel, la
mistificazione dello spirito a seconda natura. E nel passo seguente si arriva al culmine
della speculazione e alle conclusioni su questo meccanismo di mistificazione. È come
se qui Adorno si immergesse in Hegel (alla maniera della critica immanente
benjaminiana), e lo oltrepassasse, spezzasse il velo della bella apparenza del suo
sistema con la forza critica e morale del vero, contestualizzando il periodo in cui è
venuta a trovarsi la sua riflessione e la mediatezza oggettiva da cui Hegel stesso era
affetto e mediato. Insomma, con grande stile Adorno usa la riflessione hegeliana e la
sua dialettica contro lui stesso: “tuttavia lo spirito come seconda natura è la
negazione dello spirito, e lo è tanto più, quanto più la sua autocoscienza non si
accorge della sua cattiva naturalità.” Lo spirito, ciò che più dovrebbe essere
un’uscita dalla natura, in realtà se ne uniforma al suo movimento e fluire, è una
negazione di quello che avrebbe dovuto essere (appunto spirito, razionalità, libertà),
senza che Hegel se ne accorga: “Ciò si compie tramite Hegel. Il suo spirito universale
è l’ideologia della storia naturale”, ideologia, in quanto copre e falsifica una storia
non vivificata dalla luce divina. “Egli la chiama spirito universale grazie alla sua
violenza. Il dominio diventa assoluto, viene proiettato anche sull’essere che qui
sarebbe spirito. Ma la storia, l’esplicazione di qualcosa che essa sarebbe stata già da
sempre, acquista la qualità dell’astorico. Hegel nel mezzo della storia si schiera con
ciò che essa ha d’immutabile, con quel suo essere-sempre-uguale, con quell’identità
del processo la cui totalità sarebbe salva. Pertanto l’accusa di aver mitologizzato la
storia non è metaforica. Con le parole spirito e conciliazione egli traveste il mito
soffocante.”239
In quanto storia cioè, per definizione, dovrebbe essere un’uscita dell’uomo dalla
naturalità e dalla sua tipica temporalità, cioè quella dell’eterno ritorno dell’uguale,
nella classica visione contrapposta di natura e cultura. In realtà, nel meccanismo
assolutizzante del processo hegeliano, che tutto ingloba e tutto divinizza, la storia si
ferma, diventa l’eterno e la totalità che già da sempre è uguale a se stessa. E in questa
chiusura totalizzante riemerge il mito, con il suo andamento asfissiante e destinale. Se
239
Ivi, pag.321.
105
per Hegel, attraverso il punto di vista della filosofia, tutto ciò che è casuale assume
carattere di necessità, quest’ultima prende le sembianze di una forza naturale che
spinge sotto di sé tutto il finito e il contingente. E, continua Adorno, affiancando
queste conclusioni sullo spirito hegeliano a quelle sulla totalità capitalista (che anche
nella nostra analisi si sono costantemente intrecciate), la natura assume le sembianze
della prigionia: ciò che è convenzionalmente creato dagli individui o comunque dal
loro contesto funzionale (come un certo specifico tipo di società, quella capitalista),
“si impadronisce delle insegne di ciò che la coscienza borghese considera come
natura e naturale” e in questo modo assume carattere ontologico di totalità e stabilità:
“nulla che sarebbe fuori appare più a quella coscienza; in un certo senso
effettivamente non c’è più niente fuori, niente che non sia colpito dalla mediazione
totale.”240
E come ha visto perfettamente Benjamin, conclude Adorno, il ponte tra natura e
storia, il momento che le rende tra loro commensurabili, è quello della caducità. Ed è
proprio la caducità a svelare la lontanza della storia umana dalla trascendenza e dal
divino, appiattendo la storia a natura, e delineando solo negativamente una
trascendenza che non può essere positivamente intesa, in quanto assolutamente altro
dal fenomeno e dal mondo umano:
“nessuna rimemorazione della trascendenza è più possibile, se non mediante la
caducità; l’eternità non appare come tale, ma spezzata, passando attraverso il più
caduco. Quando la metafisica hegeliana, compiendo una trasfigurazione, paragona la
vita dell’assoluto alla totalità della caducità di ogni finito, essa sbircia appena oltre
quel bando mitico che essa capta e rafforza.”241
Questo totalità e fissità storica, avvertita da un sentimento di un’epoca, o
mistificatamente indotta da un contesto funzionale, era al centro della nostra analisi,
ed è ciò che è elettivamente affine, se non costituisce proprio un isomorfismo, tra il
mondo mitico in Kafka, la storia naturale del barocco, e il capitalismo avanzato. Dopo
questa amplia, ma assolutamente non esaustiva tematizzazione di questi concetti, si
240
Ivi, pag.321.
241
Ivi, pag.324.
106
tratta di vedere nell’analisi benjaminiana come è possibile, se è possibile,
interrompere questa continuità e totalità, uscire dal mito, dal destino e dalla natura, e
finalmente alzare la testa del genio al di sopra dell’ordinamento e dell’ingranaggio in
cui ci si trova a vivere.
Terzo capitolo
Interruzione del mito e redenzione storica
107
La tematizzazione più coerente e completa di possibilità di interruzione dell’ambito
destinale e di uscita dal mito, e anche la concretizzazione a livello giuridico di questi
stessi concetti, viene data da Benjamin nel saggio giovanile del 1921, Per la critica
della violenza, da noi richiamato solo a questo punto della trattazione (e non
esaminato insieme ai saggi dello stesso periodo, come Destino e carattere e il Saggio
sulle Affinità elettive di Goethe), proprio in quanto indica delle vie d’uscita, delle
conclusioni, rimanda a qualcosa d’altro oltre il mito, concetto che ci interessava
inizialmente delineare in tutta la sua asfissiante chiusura. Questo testo giovanile
inoltre verrà da noi messo in tensione con altri testi, come il coevo Frammento
teologico-politico del 1919, e i successivi Il carattere distruttivo (1931) e Le tesi di
filosofia della storia (1940), testi che in questa trattazione vengono considerati stelle
di una stessa costellazione, fenomeni e scritti facenti parte di una stessa idea, a
testimonianza della continuità di pensiero di Walter Benjamin, che molti
commentatori vorrebbero scissa in un primo periodo religioso - ebraico, e in un
secondo politico – materialista.
E come le idee della Premessa gnoseologica basavano la loro esistenza e la loro forza
sulla tensione dei fenomeni che ad esse rimandavano, così le polarità del pensiero
benjaminiano gli danno forza e stratificazione di senso. Infatti è la stessa teologia
ebraica a conferire intelligenza e irruenza rivoluzionaria al suo marxismo, ad agire da
antidoto verso sue determinate derive che esamineremo più avanti.
242
Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pag.5.
108
pericolosi in quanto giacciono in quell’ambiguità, da Benjamin tante volte definita
come demonica. Critica della violenza è intesa in senso kantiano, come ricerca delle
condizioni di possibilità in cui la violenza come fenomeno si può manifestare; non la
dà cioè per scontata come fenomeno politico, ma cerca le condizioni di possibilità per
cui viene considerata naturale e legittima.243
Come infinitamente ripetuto dai commentatori, innanzitutto bisogna vedere già nello
stesso termine tedesco Gewalt la molteplicità di senso: esso significa infatti oltre che
violenza, anche autorità e potere: già nella stessa parola tedesca si nasconde dunque il
suo rinviare alla sfera del diritto. Quindi l’analisi Benjaminiana non si soffermerà solo
sulla violenza in se stessa, ma la tematizzerà sempre anche come potere, in rapporto al
diritto e alla giustizia.
Diritto e giustizia che dobbiamo ricordare essere nella riflessione benjaminiana
termini nettamente antitetici, nel loro rimandare, per quanto riguarda il diritto, alla
sfera umana, e la giustizia a quella divina.
Questi concetti sono stati messi in tensione dallo stesso Benjamin negli appunti per un
lavoro sulla categoria della giustizia, le Notizien zu einer Arbeit über die Kateghorie
der Gerechtigkeit, ritrovati all’interno dei diari del periodo di Gerschom Scholem, e
risalenti al 1916. Benjamin lavora quì andando a ritroso nel tempo, cercando e
comparando i termini latini, greci ed ebraici corrispondenti a quelli tedeschi di Recht
(diritto) e Gerechtigkeit (giustizia) – accomunati in questa lingua dalla stessa radice, e
quindi facilmente avvicinabili. Vuole cioè capire se in altre articolazioni linguistiche i
due termini non si equivalgono, e se anzi si apre tra di loro una tensione polare.
Trascriviamo gli appunti per maggiore chiarezza:
ius themis mishpat
243
Sulla presa di distanza benjaminiana dall’approccio di Weber:”Unlike Weber, however, Benjamin
does not take this to be a mere matter of value-orientation. That is, whereas Weber takes violence to be
a fact of politics and then moves on to consider the ethical implications of this datum for individuals
who are politically engaged, Benjamin focuses on the institutional structures that determine the
legitimacy of violence as a political means. Benjamin, in other words, is concerned with the social
ontology underwriting practical action: the institutions that dictate what a situation’s objective
possibilities are (for subjectivation, action, etc.). This explains why Benjamin privileges the concepts of
‘right’ and ‘justice.” Cit. in Alexei Procyshyn, Manifest reason: Walter Benjamin on violence and
collective Agency, Constellations Volume 21, Number 3, 2014, John Wiley & Sons Ltd, p. 393.
109
fas dìke zedek244
Ed è proprio attraverso questa comparazione-traduzione ad altre lingue che riusciamo
a rapportarci in modo estraniato e spaesante a concetti che normalmente usiamo senza
riflettere - quasi come fossero sinonimi - così da aprire una distanza critica che
permette una loro considerazione. Diritto e giustizia, questa la conclusione filologica
di Benjamin, sin dall’ebraico sono dunque contrapposti come un’istanza umana e
un’istanza divina, una riproduzione che tradisce e un modello che non si riesce a
raggiungere.245 Non serve sottolineare che questa importanza data al concetto di
giustizia246, categoria collegata all’ambito divino, è di matrice ebraica, e potrebbe
essere stata sviluppata da Benjamin durante i dibattiti giovanili col suo amico
Scholem. La giustizia è inappropriabile, e “non viene presentata come una virtù, ma
come uno ‘stato del mondo’, come la categoria etica che corrisponde non al dover
essere, ma all’esistente come tale. Ed è in questo senso che essa può essere definita
come lo ‘sforzo di fare del mondo il bene supremo.”247 L’inappropriabilità della
244
G. Scholem, Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit, in Tagebücher nebst
Aufsätzen und Entwürfen bis 1923, Halbband 1, 1913-1917, hrsg. V.k. Gründer und F.Niewöhner,
Jüdischer Verlag, Frankfurt a. M. 1995, pp. 401-402.
245
“Lo sguardo non punta assolutamente verso luoghi premoderni, ma verso costellazioni non-moderne
in grado di generare un’esperienza di spaesamento che permetta di guardare criticamente i nostri
concetti e le nostre categorie, facendo del nostro stesso sguardo l’oggetto di osservazione. Le antitesi
presentate da Benjamin sono come sospese sull’abisso della più originaria antitesi tra il divino e il
profano.” Cit. in Massimiliano Tomba, La giustizia come vero a priori del tempo, in Seminario di studi
benjaminiani, Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter Benjamin,
Quodlibet, Macerata 2010, p. 172.
246
“Nel paganesimo mitologico il diritto è la cosa suprema, nell’ebraismo lo è la giustizia. È
estremamente importante che in ebraico mishpat (diritto) e zedakah (giustizia) siano radici verbali del
tutto diverse. Mishpat è qualcosa di umano, zedakah qualcosa di divino. Il mishpat di Dio non può
rivelarsi (Isaia 58), solo la sua zedakah lo può. Diritto e giustizia sono due cose completamente diverse.
L’essenza dell’ebraismo è la giustizia. Una categoria divina. (…) Nell’ebraismo non si crede, ma si è
giusti.” Cit. in G. Bonola, Antipolitica messianica. La giustizia di Dio come critica del diritto e del
“politico” nel filosofare comune di G.Scholem e W.Benjamin (1916-1920), Fenomenologia e società
n.2, 2000, p.9.
247
“Se si ricorda che la giustizia, (…) coincideva con la condizione di un bene che non può essere
appropriato, fare del mondo il bene supremo può soltanto significare: esperirlo come assolutamente
inappropriabile.” Cit. in Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza Editore, Vicenza 2014, p. 115,
116.
110
giustizia inaugura un nuovo paradigma, segna il limite che il diritto non può
oltrepassare, in quanto finito e caduco, testimonia la negatività della proprietà e dei
confini.
E quanto più il diritto si presenterà sotto le spoglie trascendenti e intoccabili della
giustizia, tanto più esso si rivelerà imperfetto, caduco, mistificazione. Questa è la
problematica benjaminiana: il diritto si vuole naturale, sistema unico per la gestione
delle vite, di risoluzione di conflitti morali, emanazione diretta di un ordine divino in
un contesto umano, e in questo modo si rende inattaccabile ed eternamente valido,
come in Hegel ciò che era prodotto artificiale ed umano, si trasforma in figura
dell’idea, raggiungendo carattere di necessità e trascendenza.
E compito di Benjamin attraverso questo saggio è distruggere questo collegamento tra
diritto e giustizia, rendendo visibile l’equivoco su cui si fonda. Per far questo studia a
fondo il fenomeno della violenza in quanto Gewalt, in rapporto sia ai rapporti giuridici
che alle relazioni divine e umane. Suoi punti di riferimento politici in questo periodo
del 1919-1920 (in cui si concentra sulla teoria politica) vanno da Bakunin allo Aufrum
zum Sozialismus di Gustav Landauer, dalle Theorie des Anarchismus di Stammler agli
scritti di Sorel, soprattutto le Rèflexion sur la violence,248 che rappresenta lo spunto da
cui prende avvio la riflessione benjaminiana di questo saggio. Quindi si può notare
che in questo periodo del Benjamin teologo e filosofo del linguaggio, la riflessione
politica è ben presente, anche se si coniuga in termini di idea anarchica, affine per
molti aspetti al messianismo apocalittico ebraico. Cioè in questo periodo giovanile,
Benjamin non vede separazione tra il suo ebraismo e una visione politica radicale. E
questi due fuochi della sua riflessione vengono coiniugati innanzitutto nello studio
approfondito della violenza, della Gewalt.
L’analisi prende le mosse dalla questione del rapporto mezzi-fini. Il diritto è un
sistema di mezzi teso al conseguimento di determinati scopi e finalità, interni allo
stesso sistema giuridico. Ma la critica della violenza non vuole criticare questi scopi
248
“Il filo che unisce questi testi è l’impossibilità di un processo, di una mediazione storica che
trasformi lo Stato contemporaneo: la sua negazione può essere solo radicale, può essere solo negazione
del suo fondamento.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti,
Roma 1980, p. 98.
111
determinati, non vuole tematizzare se i fini del diritto siano giusti o sbagliati, quanto
analizzare la violenza in se stessa249. Essa è prima di tutto mezzo, e non fine,
all’interno del diritto: nessun sistema giuridico esistente ha cioè come fine la violenza,
ma essa è sempre un mezzo per altri obiettivi.
Benjamin ci esemplifica subito il discorso all’interno dei due pensieri giuridici
principali, il giusnaturalismo e il positivismo giuridico. Mentre per il diritto naturale
(che si basa sulla violenza, e per cui la Gewalt è naturale) la variabile fondamentale è
il fine, che deve essere giusto, e posto questo è dato raggiungerlo con ogni tipo di
mezzo, anche violento, per il diritto positivo (che vede l’ordinamento e la Gewalt
come qualcosa di divenuto storicamente, e non di naturale quindi) è la legittimità e la
giustezza dei mezzi che assicura della legittimità del fine: quindi il diritto positivo si
presenterebbe come esente dalla violenza; ma scopo del saggio è proprio portare alla
luce la violenza originaria su cui si basa ogni diritto, anche quello positivo (la legalità
delle leggi, non gli garantisce cioè la lontananza dalla violenza). Per Benjamin
entrambi questi sistemi di diritto concordano nel fatto che ci debba essere una
consustanzialità tra mezzi legittimi e fini giusti; di contro lui vuole dimostrare che
mezzi legittimi da una parte, e fini giusti dall’altra, non si legittimano a vicenda (come
avviene in queste due scuole di pensiero giuridico), ma sono tra loro contrapposti;
vuole slegare cioè la riflessione dei mezzi da quella dei fini (quindi della violenza
giuridica dalla giustizia etica), per considerare entrambi nella loro autonomia (è
possibile cioè che mezzi legali siano completamente contrapposti ai fini della
giustizia):250 “le due scuole si incontrano nel comune dogma fondamentale: fini giusti
249
“Dal momento che la violenza è sicuramente un mezzo, la sua critica, scrive Benjamin, sembrerebbe
ridursi alla domanda se in quanto tale essa si riferisca a fini giusti o ingiusti. Tuttavia questa soluzione
sarebbe impropria: essa non ci direbbe nulla sul carattere morale della violenza come principio in sé,
ma ci ragguaglierebbe soltanto sui casi della sua applicazione.” Cit. in Bruno Moroncini, Il lavoro del
lutto, Mimesis edizioni, Milano Udine, 2012, p.90-91.
250
“Non è necessario, in altri termini, che mezzi e fini siano sempre pensati in relazione. (…) Porre il
problema del fine dell’azione morale non ha alcun rapporto con la domanda sui mezzi e viceversa: la
sfera dei mezzi è morale da parte a parte e non ha alcun bisogno di trovare il proprio fondamento in una
teoria dei fini. Allo stesso modo una teoria dei fini si regge da sola, senza dover rischiare di apparire
astratta e vuota se manca di un riferimento ai mezzi.” Cit. in Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto,
112
possono essere raggiunti con mezzi legittimi, mezzi legittimi possono essere impiegati
a fini giusti. (…) L’antinomia si rivelerebbe insolubile ove si dimostrasse che è falso
il comune presupposto dogmatico, e che mezzi legittimi da una parte, e fini giusti
dall’altra, sono fra loro in contrasto irriducibile.”251
Bisogna cioè uscire sia dal pensiero giusnaturalistico che da quello del diritto positivo,
dato che entrambi si basano sulla visione di una violenza come mezzo, che prima è
espressione naturale e poi si cristallizza come potere nel diritto: entrambi sono
strettamente connessi con la violenza, ma il diritto positivo tende a camuffarne e
cancellarne il legame.252 Per far questo bisogna andare al di là di un discorso
prettamente giuridico, bisogna andare alla radice e prima dei due stessi pensieri
giuridici, e metterli a loro volta in questione, affidandosi alla filosofia della storia del
concetto di violenza: bisogna cioè analizzarla come fenomeno, dinamicamente, nel
corso di tutta la sua evoluzione, per poter capire i meccanismi profondi che portano a
trasformarla da violenza semplice, a potere e autorità.
Innanzitutto viene notato che esistono due tipi di violenza, una sanzionata
storicamente – cioè quella che si configura come potere e autorità – e una non
riconosciuta storicamente – che per questo viene demonizzata e considerata dal diritto
come negativa e distruttiva dell’ordine; e la violenza si differenzierà dunque, a
seconda che serva fini naturali o giuridici. Può essere usata sia per fini giuridici – cioè
quelli riconosciuti nel corso della loro storia come tali, e utlizzati dallo Stato – che per
fini naturali – quelli cioè che mancano di questo riconoscimento e si situano quindi al
di là di rapporti giuridici.
Qui Benjamin ha la sua prima grande intuizione: ogni sistema giuridico cerca in ogni
modo di arginare il perseguimento - da parte dei soggetti all’interno del sistema stesso
- di fini naturali. Ogni soggetto giuridico deve essere privato del proprio autonomo
252
“L’obiettivo della critica della violenza consiste, pertanto, nel far luce sull’essenziale continuità delle
due prospettive giuridiche: la violenza, che inizia come espressione naturale della forza, si evolve come
un potere che manifesta il suo dominio nella forma del diritto.” Cit. in Fabrizio Desideri e Massimo
Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, p. 62.
113
perseguimento di fini naturali: si possono perseguire solo fini giuridici; il che significa
che si viene costretti a perseguire solo dei fini e degli obiettivi già metabolizzati e
predigeriti da un sistema di diritto dato, articolatosi storicamente, e resosi autonomo
dalla sua origine contingente: “si può formulare come principio universale della
presente legislazione europea che tutti i fini naturali di persone singole entrano
necessariamente in collisione coi fini giuridici quando vengono perseguiti con
violenza più o meno grande.”253 Il problema del diritto è cioè avere il monopolio della
violenza, pena la sua messa in discussione e abolizione; i singoli privati non possono
applicare la propria violenza, ma solo rivolgersi al diritto. Essi non possono cioè
oggettivarsi nell’azione propria, rendersi autonomi nella decisione, ma solo rendersi
colpevoli nel patire, nella passività di un sistema di rapporti già a priori formalizzato –
come veniva intuendo Max Stirner ne L’unico e la sua proprietà nel 1844254 - dove la
libertà conquistata dalla borghesia è vista proprio come la scelta sì di attuare
molteplici possibilità, tutte però interne allo stesso sistema funzionale (universalismo
giuridico);255 qualsiasi possibilità che sia ad esso esterno deve venire eliminata o
inglobata, pena la perdita di legittimità del sistema stesso. Già da qui si intravede
qualcosa oltre il diritto come potere liberamente accolto dai singoli e sanzionato
storicamente, si avverte un automatismo che si distacca dai singoli su cui si vorrebbe
fondato, si intravede lo spettro del mito che si perpetua in altre forme: questo è ciò che
l’ “anarchismo” benjaminiano si fa esplicitamente carico di svelare e di combattere,
come si nota in altri testi del periodo, come ne Il diritto all’uso della violenza, dove il
253
Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 9
254
"Per lo stato è inevitabilmente necessario che nessuno abbia una volontà propria; se qualcuno
l'avesse dovrebbe escluderlo (rinchiuderlo, bandirlo, ecc.); se l'avessero tutti, si perverrebbe
all'abolizione dello stato, il quale se esiste per la mancanza di volontà degli altri, è un prodotto mal
riuscito di questi altri.” Cit. in G. M. Bravo (a cura di), Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, in Gli
anarchici, vol. I, Torino, Utet, 1978, p. 502.Questo similmente a Benjamin esprimeva Max Stirner con
forza inaudita ne L’unico e la sua proprietà, e sarebbe interessante capire se Benjamin abbia mai letto
questo autore, date le molte affinità in questo suo periodo giovanile. Dato per noi certo è comunque la
sua lettura dei classici dell’anarchismo, principalmente di Bakunin e Sorel, e del suo avvicinamento
all’idea anarchica tramite la figura di anello di congiunzione di Gustav Landauer.
255
“Questa eguaglianza nella passività e nella privazione della capacità di agire politico è alla base
dell’universalismo giuridico.” Cit. in Massimiliano Tomba, La giustizia come vero a priori del tempo,
in Seminario di studi benjaminiani, Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di
Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, p. 178.
114
problema del diritto è proprio il voler monopolizzare la violenza, che invece andrebbe
onorata come dono divino.256
Nulla può essere al di fuori del diritto, altrimenti si potrebbe incrinare la forza
peculiare del diritto stesso, cioè la sua pervasività e onnipresenza: l’esistenza del
diritto si basa sull’inesistenza dell’iniziativa privata violenta al di fuori di esso:
“Bisognerà forse (…) prendere in considerazione la sorprendente possibilità che
l’interesse del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola non si
spieghi con l’intenzione di salvaguardare i fini giuridici, ma piuttosto con quella di
salvaguardare il diritto stesso. E che la violenza, quando non è in possesso del diritto
di volta in volta esistente, rappresenti per esso una minaccia, non a causa dei fini che
essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto.”257
E queste considerazioni su fini non sanzionati o legittimati dal diritto, portano il
filosofare benjaminiano a prendere come esempio più esplicito di questo meccanismo,
il fenomeno dello sciopero generale rivoluzionario, o sciopero proletario, contrapposto
allo sciopero normalmente inteso dal diritto.
Lo sciopero è un diritto di tutti i lavoratori – “è il diritto di usare la violenza per
imporre determinati scopi” - ed è concesso dall’apparato statale, e consiste in
un’interruzione del lavoro che ha lo scopo di guadagnare nuovi diritti e agevolazioni
per i lavoratori stessi. Ottenere nuovi diritti quindi non vuol dire altro che inserirsi
meglio e in modo più confortevole nel diritto che li concede; vuol dire accettare uno
stato di cose e al massimo, fargli cambiare di poco forma: per questo lo sciopero
normalmente inteso non ha nulla di rivoluzionario, ma è uno strumento progressista
che condanna alla perpetuazione di un sistema.
256
“L’esposizione di questo punto di vista fa parte dei compiti della mia filosofia morale, nel cui
contesto il termine anarchismo può essere utilizzato molto appropriatamente per una teoria che neghi il
diritto etico non della violenza come tale, ma soltanto di ogni istituzione umana, comunità o
individualità, che si assegni il monopolio su di essa oppure si accordi da sé anche solo in linea di
principio, e in generale in una qualche prospettiva, il diritto ad essa, invece di onorarla come un dono
del potere divino, come pienezza di poteri nel caso singolo.” Cit. in Walter Benjamin. Il diritto all’uso
della violenza, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 2011, p. 76.
257
Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 9.
115
In quello che Benjamin invece chiama sciopero generale rivoluzionario, o sciopero
proletario, attraverso la violenza si cerca di raggiungere dei fini che sono diversi e
contrapposti ai fini giuridici; ed è per questo che è così pericoloso agli occhi dello
Stato: non si cercano riforme, ma attraverso un uso della violenza non sanzionato dal
diritto stesso, lo si mette in questione e si cerca di abbatterlo. È per Benjamin una
contraddizione all’interno del diritto: quest’ultimo concede una violenza a dei
soggetti, che, se smette di perseguire scopi giuridici per perseguirne dei naturali, viene
punito e visto come incostituzionale. La concessione di un potere e di una violenza a
dei soggetti è quindi un palliativo che il diritto concede per far credere a quegli stessi
soggetti di avere in mano la propria situazione, di poter decidere per loro stessi, e così
inserirli meglio all’interno dello stesso diritto.258
Stesso identico meccanismo, e forse addirittura maggiormente visibile ai fini di
Benjamin, è rappresentato nel contesto della violenza bellica. Qui i singoli stati, che
sono sistemi giuridici a se stanti, nel guerreggiare tra di loro, perseguono fini naturali
e non giuridici, utilizzano una “violenza di rapina” 259 – ad esempio conquistare una
porzione di territorio - come se fossero singoli individui ancora non entrati a far parte
di un sistema giuridico. Ma, sottolinea Benjamin, ogni guerra, intrapresa con violenza
per arrivare a fini naturali, termina sempre con una pace: e quest’ultima è
fondamentale, in quanto è l’operazione che reinscrive nel diritto, in rapporti giuridici,
una situazione che si presentava inizialmente come perseguimento di fini naturali. È
più importante la pace della guerra, in quanto de-limita e assegna diritto alle parti
belligeranti: è la mitica – in quanto sempre uguale e da sempre - cerimonia della
nascita di un nuovo diritto a partire dalla violenza naturale.260
258
“Lo Stato, concedendo il diritto di sciopero, lo trasforma in perseguimento di scopi giuridici, al fine
di arginare e, quindi, di rimuovere la sua manifestazione come perseguimento di scopi naturali.” Cit. in
Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, p. 63.
259
“È vero che la violenza bellica si rivolge dapprima ai suoi scopi in modo del tutto diretto e come
violenza di rapina.” Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi
Torino 1995, p. 11,12.
260
“Anzi, la parola ‘pace’, nel senso in cui è relativa al termine ‘guerra’ (…) indica proprio questa
necessaria sanzione a priori, e indipendente da tutti gli altri rapporti giuridici, di ogni vittoria. Questa
sanzione consiste appunto in ciò che i nuovi rapporti vengono riconosciuti come nuovo ‘diritto’,
indipendentemente dal fatto che essi abbisognino o meno, de facto, di qualche garanzia per la loro
116
Come nel concedere il diritto di sciopero, così nella dichiarazione di pace, il potere di
un sistema di diritto vuole inscriversi sul passaggio che dalla violenza naturale porta
alla creazione di nuovi rapporti giuridici. Ci dice Benjamin, che è quindi connaturata
ad ogni violenza – di cui la violenza bellica è solo un prototipo originario – la
creazione giuridica: quindi la violenza non è ciò che si oppone al diritto – quasi come
se fosse un ambito primitivo da cui il diritto si sarebbe emancipato – ma è sia ciò che
lo fonda, che ciò che lo conserva: violenza e diritto sono indissolubilmente legati
come l’unico mezzo al proprio fine.261 Per questo lo Stato pretende il monopolio della
violenza: sa infatti che è sempre la violenza a creare diritto, e che quindi la violenza
privata generalizzata, ad esempio nello sciopero rivoluzionario, può fondare un nuovo
diritto, che porta all’abolizione di quello vigente.
Da qui si dirama l’altra grande divisione e il primo risultato di Benjamin: la violenza
intesa come mezzo può essere o violenza che crea diritto – inizialmente finalizzata a
scopi naturali, ma poi inscritta nel diritto - o violenza che lo conserva - quando cioè
appare non come impiego a fini naturali, ma come mezzo a fini giuridici, 262 come ad
esempio nel servizio militare e militarismo, che è “l’obbligo dell’impiego universale
della violenza come mezzo ai fini dello Stato.” 263 Violenza che pone diritto e violenza
117
che lo conserva sono poi inoltre due facce della stessa medaglia: un potere che viene
posto, necessita naturalmente di venire garantito nel tempo.264
E la violenza, il potere che conserva il diritto, condanna al mito e al destino: 265 è un
potere che minaccia, dove – a differenza dell’intimidazione che ha una determinatezza
precisa – la minaccia è indeterminata e generica, condanna cioè alla colpa, che
abbiamo visto essere non un’infrazione precisa, ma uno stato continuativo che
opprime l’uomo. Collegamento stretto del diritto con la sfera del destino, Benjamin lo
stringe attraverso il riferimento alle pene, in primo luogo la pena di morte, che
rappresenta l’essenza del potere nel suo lasciar vivere e far morire: “è logico supporre
che nel potere supremo, quello di vita e di morte, dove esso appare nell’ordinamento
giuridico, le origini di questo ordinamento affiorino rappresentativamente nella
realtà attuale, e si rivelino paurosamente.” 266 E compito della pena di morte è per
Benjamin – più che punire l’infrazione giuridica - di statuire nuovo diritto e di
confermarlo: è un meccanismo sacrificale, un rito, che porta legittimazione alla
comunità posta sotto quel dato diritto. Inoltre si vede che ogni violenza che conserva,
è allo stesso tempo potenza che crea diritto, in un circolo infinito di autolegittimazione
mitica.
264
“La posizione è già iterabilità, appello alla ripetizione autoconservatrice. La conservazione è a sua
volta ancora ri-fondatrice per poter conservare ciò che pretende di fondare.” Cit. in Dario Gentili,
Critica della Gewalt e critica del potere in Benjamin, in Mauro Ponzi e Bernd Witte (a cura di),
Teologia e politica, Nino Aragno editore, Torino 2006, p. 186.
265
“Per penetrare la sua essenza, però, dobbiamo renderci conto di come, nella ripetizione della
posizione della propria conservazione, l’ordinamento giuridico abbia un intrinseco carattere di
minaccia, che, nella sua indeterminatezza, rimanda alla sfera del destino. Con il diritto si presenta un
ordine che per il suo stesso vigere ci immette in un contesto di colpevolezza, nel senso che la sua
esistenza non presuppone un ‘fuori’, ma una pervasività onniincludente. (…) La dimensione del destino
è costitutivamente segnata dall’infelicità e non prevede ‘via alcuna di liberazione’ dalla
‘concatenazione’ senza fine di colpa e castigo. Il destino si dà quando si considera la vita condannata
per la sua ‘costituzione naturale’, cioè la si assume come ‘nuda vita’. (…) Non si dà un irreversibile
passaggio dal conflitto al contratto, cioè anche una stipulazione pacifica non può evitare di rinviare alla
violenza, in quanto ogni contratto è garantito da un potere, la cui origine implica sempre una Gewalt,
così che la creazione di diritto è creazione di potere.” Cit. in Paolo Vinci, Nella fodera del nulla.
Violenza e redenzione in Walter Benjamin, Giornale di metafisica – Nuova serie, XXXII (2010), p. 370.
266
Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p.
15.
118
La violenza che conserva il diritto, proprio nel suo essere un potere che minaccia e
colpevolizza, rende trasparente un obiettivo del saggio benjaminiano: dimostrare che
il diritto non è l’emancipazione dall’ambito mitico della colpa, ma - proprio attraverso
il suo camuffamento nei panni della giustizia, e il suo essere strutturalmente violento –
ne rappresenta il riverberarsi nella storia dell’umanità. L’ambiguità demonica del
destino riemerge qui nella minaccia senza volto e onnicomprensiva del diritto, che
avvolge la vita e l’azione come il suo orizzonte chiuso.267
Minaccia spettrale tanto più visibile nella violenza per eccellenza, quella che si pone
nella zona d’indistizione tra violenza che pone e violenza che conserva il diritto, cioè
quella della polizia. Essa rappresenta da una parte una violenza-mezzo ai fini giuridici
(ed in questo è potere che conserva il diritto), dall’altra può statuire essa stessa i suoi
propri fini: non può promulgare leggi, ma può emanare decreti aventi forza di legge
(ed in questo si dimostra violenza che pone diritto); 268 si trova ad avere cioè una
discrezionalità e spettralità nelle sue azioni che la porta ad essere nello stesso
momento all’interno e all’esterno dell’ordinamento, emblema della dimensione
minacciosa di quest’ultimo. La polizia è il ponte che si pone tra la legge e l’attuazione
della legge, il modo in cui il diritto può raggiungere i suoi scopi anche al di là della
legislazione, è il braccio e il potere legittimato, di una violenza che non ha nulla di
legale.269
267
“Il potere (violenza) che conserva il diritto è essenzialmente un potere che minaccia. Quest’ultimo
non coincide però con l’intimidazione, che è sempre mirata e richiede precisione e determinatezza: la
minaccia è invece vaga e totalmente generica: è, scrive Benjamin, come il destino, è come
un’atmosfera, un sapore, che pervadono ogni cosa senza depositarsi in nessuna in modo particolare. Per
questa ragione essa non è afferrabile né isolabile, ed è piuttosto la bolla in cui il potere rinchiude la vita,
l’orizzonte che circoscrive ogni possibile azione.” Cit. in Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Mimesis
edizioni, Milano Udine, 2012, p. 83.
268
“L’aspetto ignominoso di questa autorità (…) consiste in ciò che, in essa, è soppressa la divisione
fra violenza che pone e violenza che conserva la legge. Se si esige dalla prima che mostri i suoi titoli
nella vittoria, la seconda è soggetta alla limitazione di non doversi porre nuovi fini. La polizia è
emancipata da entrambi le condizioni. Essa è potere che pone – poiché la funzione specifica di
quest’ultimo non è di promulgare le leggi, ma qualunque decreto emanato con forza di legge -, ed è
potere che conserva il diritto, poiché si pone a disposizione di quegli scopi.” Cit. in Walter Benjamin,
Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 13.
269
“Il ‘diritto’ della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le
connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi – con
l’ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo. Perciò la polizia
119
E che lo stato d’eccezione sia divenuto la regola, come afferma Benjamin nelle sue
Tesi sul concetto di storia, è esplicitamente dimostrato qui: lo stato di polizia è il
paradigma di governo delle contemporanee democrazie spettacolari, dove ad un
controllo capillare della popolazione si coniuga continuamente la promulgazione di
decreti aventi forza di legge, il cui statuto è di essere delle attuazioni di diritto, che
però sono al di fuori del diritto stesso, non sono cioè leggi promulgate dal legislativo,
ma atti creati dall’esecutivo.270 La problematica intuita da Benjamin è divenuta
profezia della politica odierna: l’indistinzione tra esterno ed interno nel diritto, lo stato
d’eccezione come il meccanismo di sospensione che inscrive la nuda vita all’interno
del diritto, la violenza come mezzo capillare, sono divenuti la regola.
Ogni diritto è dunque legato ad una violenza atavica che ripropone se stessa e
l’ordinamento di cui è mezzo. E ogni violenza, intesa come mezzo, deve
necessariamente o porre diritto o conservarlo, non è pensabile quindi al di fuori del
diritto: in ogni istituto giuridico dunque, per quanto possa essere lontano dalla sua
origine storica, è presente latentemente la violenza che lo ha fondato; senza violenza
ogni istituto giuridico decade, non ha più la sua legittimazione, che Benjamin scopre
non essere data dal consenso, ma dalla costrizione.
Qui finisce l’analisi benjaminiana della violenza intesa come mezzo finalizzato –
mezzo che abbiamo visto teso al fine giuridico - , e il problema diventa il capire
innanzitutto se esistano mezzi che non siano violenti all’interno dei rapporti umani, e
successivamente se esista o meno una violenza che non sia finalizzata alla
perpetuazione mitica del diritto. Benjamin vuole cioè capire a questo punto
interviene, ‘per ragioni di sicurezza’, in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione
giuridica. (…) Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni
dove, nella vita degli Stati civilizzati.” Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in
Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 16.
270
“Decisivo è però che, in senso tecnico il sintagma ‘forza di legge’ si riferisce, (…) non alla legge,
ma a quei decreti (…) che il potere esecutivo può essere autorizzato in alcuni casi – e, segnatamente,
nello stato d’eccezione - ad emanare. Il concetto ‘forza-di-legge’, come termine tecnico del diritto,
definisce, cioè, una separazione della vis obligandi o dell’applicabilità della norma dalla sua essenza
formale, per cui decreti, provvedimenti e misure che non sono formalmente leggi ne acquistano tuttavia
la ‘forza’.” Cit. in Giorgio Agamben, Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 51.
120
dell’analisi, se e come sia possibile una via d’uscita da questo circolo asfissiante tra
mezzi e fini, vuole trovare un’interruzione al mito e al destino, e al loro perpetuarsi
sotto la forma di diritto. Deve abbandonare cioè la sfera del diritto come ambito unico
e necessario di regolamentazione dei rapporti morali fra gli uomini; deve togliergli
legittimità e lavorare a corroderlo, per smascherare la sua nocività.
Mezzi non violenti, o puri, sono per Benjamin quelli non connessi con il diritto, né
come sua creazione, né come sua conservazione: sono quelli che o non hanno rapporti
col diritto, o lo interrompono e liquidano. Tra i mezzi non violenti per il regolamento
dei conflitti tra persone private Benjamin parla soprattutto della conversazione, della
sfera del comprendersi linguistico: essa è talmente non violenta per definizione, che
non c’è originariamente nessuna legislazione che punisca la sua infrazione principale,
cioè la menzogna. Nella sfera privata dei sentimenti e dell’intendersi linguistico, il
diritto è totalmente estraneo, non c’è possibilità per esso di regolarla e quindi di
iscriverla nella sua violenza. Quotidianamente cioè non si fa uso né della violenza, né
del diritto, per risolvere i conflitti morali che ci troviamo a vivere con gli altri
soggetti: questo era l’esempio di un mezzo totalmente estraneo alla violenza, e al
diritto che essa perpetua. Vuole far vedere cioè che non necessariamente il principio
secondo cui fini giusti possono essere conseguiti attraverso mezzi legali sia valido,
vuole svincolare la giustizia (la giustezza dei fini), dal diritto (la legalità dei mezzi).
Nell’intendersi linguistico abbiamo infatti dei mezzi illegali – nel senso di non gestiti
dal diritto, come è appunto la conversazione, ma anche la menzogna – che servono dei
fini giusti – cioè che dirimono contese e gestiscono vite.
Come altro mezzo puro (stavolta pubblico-politico, non privato), che però non è solo
estraneo alla violenza (come l’intendersi linguistico), ma si sforza anche di
interromperla e di eliminare il diritto che la perpetua, Benjamin torna sull’analisi del
concetto di un certo tipo di sciopero, lo sciopero generale proletario, ripreso dalle
Riflessioni sulla violenza di Sorel. Ed in questo è radicale: un mezzo è puro ed anche
non violento per eccellenza quando interrompe il diritto, anche se questa eliminazione
121
avvenisse in maniera catastrofica:271 tutto ciò che distrugge la violenza mitica e
originaria è cioè non violento; la violenza viene attribuita solo ed esclusivamente al
diritto.272 Quindi lo sciopero generale politico, chiedendo riforme e diritti, rafforza lo
Stato, ed è intrinsecamente violento; lo sciopero generale proletario, invece, mirando
all’abolizione dello stato di diritto - avendo un programma di lotta che si basa, non su
una vita migliore, ma su una vita radicalmente diversa – è non violento, è un mezzo
puro.273
L’anarchismo di Benjamin è qui profondo e radicato nel nichilismo. Non c’è spazio
per programmi, partiti ed utopie, per riforme che gradualmente portano al
cambiamento, ma che in realtà perpetuano solo l’identico dominio; non c’è spazio
neanche per la rivoluzione, ma solo per la rivolta: non c’è bisogno infatti di abbattere
un potere e istituirne un altro, come nelle rivoluzioni (che nel ciclico e naturale girare
dei pianeti, tornano al punto di partenza, senza modificare la loro orbita), ma
271
Questo concetto viene da Benjamin analizzato in maniera concisa ma puntuale, in un frammento del
1920, cioè Vita e violenza, dove porta alla luce come la violenza di difesa contro un’autorità violenta,
sia moralmente giustificata. Benjamin cioè cerca una giustificazione ad un’azione diretta, che può
anche essere distruttiva: “Per il giudizio su un’azione è indifferente se essa sia stata compiuta o meno
con violenza fisica. Dunque la pretesa anarchica di abolire la violenza è da riferirsi sensatamente solo
alla violenza amministrata, dunque anche la sua prassi terroristica non è in contraddizione col suo
teorema. Invece la pretesa di una non-violenza integrale non è esattamente definibile (dove cessa la
violenza?), non solo è assurda nella sua coerenza, che nega la vita e perfino il suicidio, ma soprattutto
non è possibile fornire ragione alcuna a suo favore.” Cit. in Walter Benjamin, Vita e violenza, in
Walter Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 2011, p. 71.
272
“Certo, il concetto di ‘mezzo puro’ è, in questo contesto, assai problematico. Esso sembra
prescindere comunque – nell’intento di negare da sé ogni deteriore realtà cruenta – dalle eventuali
‘conseguenze catastrofiche’ che fattualmente possono verificarsi nel corso della propria manifestazione,
dato che ‘si può giudicare della violenza di un’azione altrettanto poco dai suo effetti (Wirkungen) che
dai suoi fini (Zwecke), ma solo dalla legge dei suoi mezzi’. E sul piano dei mezzi è violenta, nella sua
essenza, solo l’azione di quel potere che, tradendo la giustizia, ‘pone o conserva il diritto’
(‘rechtsetzend oder rechtserhaltende’), che contribuisce cioè a ripristinare ed a rafforzare una
situazione giuridica intimamente coercitiva.” Cit. in Emanuele Castrucci, La forma e la decisione,
Giuffrè, Milano 1985, p.54.
273
“Mentre la prima forma di sospensione del lavoro è violenza, poiché determina solo una
modificazione estrinseca delle condizioni di lavoro, la seconda, come mezzo puro, è priva di violenza.
Poiché essa non ha luogo nella disposizione a riprendere, dopo concessioni esteriori e qualche
modificazione nelle condizioni lavorative, il lavoro di prima, ma nella decisione di riprendere solo un
lavoro interamente mutato, un lavoro non imposto dallo Stato; un rovesciamento che questo sciopero
non tanto provoca, quanto realizza direttamente. Ne consegue che la prima di queste imprese pone in
essere un diritto, mentre la seconda è anarchica.” Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza,
in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 21.
122
l’obiettivo è abbattere il potere, il mito, la colpa tout court. C’è cioè bisogno di
un’istanza che interrompa verticalmente (come avviene nell’ambito del messianismo
ebraico) il ripetersi ciclico di una storia-natura, dove si è condannati all’eterno ritorno
dei gesti sotto la violenza, e non c’è possibilità del nuovo: serve a Benjamin una
violenza, intesa come forza di spezzare, che non abbia rapporto di mezzo al fine
giuridico, che né ponga, né conservi il diritto. Benjamin vuole trovare e preservare
una violenza che sia al di là del diritto, una violenza non violenta, una violenza che
non sia mezzo, ma fine in sè: trovarla rappresenta l’unica possibilità per respirare oltre
il mito.274
E la porta per arrivare alla violenza pura viene data dall’analisi dei mezzi puri, come
la conversazione e lo sciopero proletario, che sono, come vuole Derrida, “non senza
affinità con la pura violenza.”275: dall’ambito delle possibilità umane, essi indicano un
oltre trascendente, e in questo indicare ne delineano anche la “somiglianza
immateriale”, sebbene la non appropriabilità, l’impossibilità della presa concettuale. 276
I mezzi puri sono il corrispondente caduco e umano della violenza pura, sono due
274
Come tematizza Giorgio Agamben nel confronto tra Benjamin e Schmitt. Dove obiettivo di Schmitt
nel delineare lo stato d’eccezione è di preservare l’applicabilità del diritto anche al suo fuori, Benjamin
invece vuole mantenere una violenza al di fuori del diritto, che possa essere il fulcro per scardinarlo:
“Scopo del saggio è quello di assicurare la possibilità di una violenza (…) assolutamente al di fuori
(außerhalb) e al di là (jenseits) del diritto, che, come tale, potrebbe spezzare la dialettica fra violenza
che pone il diritto e violenza che lo conserva (rechtsetzende und rechtserhaltende Gewalt). (…) Per
Schmitt si tratta invece di ricondurre una tale violenza in un contesto giuridico. Lo Stato d’eccezione è
lo spazio in cui egli cerca di catturare l’idea benjaminiana di una violenza pura e di iscrivere l’anomia
nel corpo stesso del nomos. (…). Nello stato d’eccezione essa è inclusa nel diritto attraverso la sua
stessa esclusione.” Cit. in Giorgio Agamben, Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 72
275
Cit J. Derrida, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, Bollati Boringhieri, Torino 2003,
p. 123. Condividiamo l’analisi intelligente, ma non le conclusioni di Derrida. Benjamin non cerca la
giustizia in un’origine ormai perduta, da cui si sarebbe generato successivamente il diritto; inoltre non è
possibile paragonare la violenza pura divina all’olocausto, dato che esplicitamente Benjamin la delinea
come irrappresentabile e inappropriabile da parte degli uomini, tanto meno dal nazionalsocialismo.
276
“Pur rappresentando probabilmente l’esser mezzo nella sua forma pura, inteso appunto come
medialità originaria, i mezzi non violenti restano comunque mezzi; ma appunto per questo implicano un
immediato altrettanto puro cui riferirsi e da cui distinguersi. Un’immediatezza che come tale è
irrappresentabile dal momento che si sottrae sia alla visibilità ideale che alla resa intellettuale e
discorsiva. Ma che allo stesso tempo cerca di aprirsi una strada, indiretta e simbolica, verso il campo
della rappresentazione.” Cit. in Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Mimesis edizioni, Milano Udine,
2012, p. 83.
123
punti di vista diversi che rimandano alla stessa necessità: la redenzione dell’umano e
la distruzione del diritto, la vera giustizia contrapposta al giudizio mitico.
E la violenza pura, in quanto non concettualizzabile e imbrigliabile, viene
ombreggiata da Benjamin in contrapposizione alla violenza mitica. La violenza mitica
prima di tutto è caratterizzata dal porre confini, dal delimitare, dall’ordinare. Come
abbiamo visto nell’esempio della pace post-bellica, fissare i confini è la prestazione
originaria anche del diritto: “la fissazione dei confini, come è attuata dalla ‘pace’ di
tutte le guerre dell’età mitica, è l’archetipo della violenza creatrice di diritto. In essa
appare nel modo più chiaro che è il potere (più del guadagno anche più ingente di
possesso) che deve essere garantito dalla violenza creatrice ci diritto. Dove si
stabiliscono confini, l’avversario non viene semplicemente distrutto; anzi, (…) gli
vengono riconosciuti certi diritti. E cioè, in modo demonicamente ambiguo, pari
diritti.”277 È proprio il fatto che l’avversario non viene annientato, ma iscritto
nell’ordine del diritto, messo in una situazione ambigua di formale uguaglianza – ma
materiale sottomissione – ad essere la prestazione originaria del destino, ereditata dal
diritto. Ogni diritto è al suo inizio, citando Sorel, privilegio dei re: e l’imporre confini
e iscriverli nel diritto, equivale a iscrivere il privilegio attraverso il diritto – che è solo
ambiguamente giusto, sembrando epurato dalla violenza che lo fonda e lo conserva.
Delimitare, porre confini, vuol dire dunque ripartire destini e imporre diritti e diritto:
su questo si basa l’universalismo giuridico, su un’apparenza di formalità neutra e
astratta, che in questo modo difende la diseguaglianza e il potere sotto di essa
nascosto:278 “poiché dal punto di vista della violenza, che sola può garantire il diritto,
non c’è eguaglianza, ma, nelle migliori delle ipotesi, poteri egualmente grandi.”279
277
Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p.
25.
278
“L’ambiguità demonica investe l’intero moderno universalismo giuridico, e non solo perché la legge
nella sua maestosa equità, come scriveva ironicamente Anatole France, proibisce ai ricchi come ai
poveri di dormire sotto i ponti, mendicare per le strade e rubare il pane, ma perché, in quanto
universale, appare giusta. (…) Chi viola una confine, viola il destino che gli è stato assegnato, e va
quindi castigato e rigettato nel proprio destino. La Gewalt giuridica, assegnando confini, e quindi
destini, si mostra per quello che è: violenza mitica.” Cit. in Massimiliano Tomba, La giustizia come
vero a priori del tempo, in Seminario di studi benjaminiani, Le vie della distruzione. A partire da Il
carattere distruttivo di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, p. 175, 176.
279
Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 25.
124
Quindi il diritto e il destino mitico sono legati dallo stesso fenomeno originario, il
porre confini, che può avvenire solo ed esclusivamente attraverso una violenza mitica:
questo è il lascito definitivo benjaminiano. Chi viola un confine (giuridico), viola un
destino (mitico) che gli è stato assegnato, e in questo, va incontro al castigo: niente
risuona più inquietante di questo punto d’arrivo benjaminiano, dove nel nostro tempo
di diritto internazionale e pretesa massima civilizzazione democratica, chi oltrepassa il
suo confine viene lasciato morire in mare, o rinchiuso nei campi di identificazione ed
espulsione senza avere coscienza della legge che ha trasgredito (“l’ignoranza dalla
legge non protegge dalla pena”),280 né della colpa che si porta dietro; dove si viene
ridotti a nuda vita, passibile di internamento e di vessazioni.
Ma l’essere nuda vita all’interno del diritto, non deve essere considerato un caso
limite ed eccezionale di perdita di diritti e di umanità, ma la norma all’interno
dell’ordinamento giuridico – “lo stato d’eccezione in cui viviamo è la regola” - : la
verità del soggetto giuridico, sotto la parvenza e la mistificazione, è cioè la nuda vita,
in quanto i suoi diritti dipendono direttamente, sono emanazioni, della Gewalt che
inizialmente li crea, li garantisce, e successivamente li può sospendere e violare.281
Compito di Benjamin è allora interrompere, spezzare e distruggere il tempo del mito,
del destino e del diritto, delineando la figura di una violenza pura e immediata, non
sottomessa come mezzo ad un fine giuridico, ma che anzi ne spezzi la logica; violenza
antitetica a quella mitica su ogni fronte: “Come in tutti i campi al mito Dio, così, alla
violenza mitica, si oppone quella divina, che ne costituisce l’antitesi in ogni punto. Se
la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini,
questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina
purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è
letale senza sangue.”282
280
Ivi, p. 26.
281
Cfr. Massimiliano Tomba, La giustizia come vero a priori del tempo, in Seminario di studi
benjaminiani, Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter Benjamin,
Quodlibet, Macerata 2010, p. 175, 176.
282
Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 26.
125
Le caratteristiche di questa violenza pura vengono cioè delineate in contrapposizione
alla chiusura asfissiante e alla ciclica ripetizione dell’identico data dal mito e dal
diritto. È una violenza irruenta, la cui modalità d’esistenza è il semplice manifestarsi,
non legata ad una finalità imposta, è un mezzo senza fine, una teleologia senza scopo
finale: in ogni sua caratteristica riverbera la forza dell’interruzione, è fulminea,
283
purificante, e soprattutto non sanguinosa – dove il sangue è il simbolo della nuda vita.
Il dominio mitico si poteva attanagliare cioè al vivente, come abbiamo dimostrato,
solo attraverso la sua nuda vita, la sua vita animale in quanto lontana dagli ordini
superiori dell’eticità e del sacro. Allora, che la violenza divina non sia sanguinosa,
non vuol dire altro che essa è una violenza che libera l’uomo anche dalla sua base
biologica, dalla sua nuda vita, rendendolo finalmente libero di alzare la testa dalla
schiavitù della colpa: “con la nuda vita cessa (anche) il dominio del diritto sul
vivente.”284
È una violenza pura in quanto è l’unica che non crea nuovo diritto, né lo conserva; ed
è distruttiva in quanto fluidifica e distrugge i beni e il diritto, che si presentano come
cristallizzazione e immobilizzazione della vita, esautoramento delle infinite
possibilità in una sola realtà data, resa immutabile. Mentre la violenza mitica è legata
al diritto – e pone confini ed ordine -, la violenza pura o divina è legata alla giustizia –
e distruggendo crea spazio e nuove possibilità, che non possono più venire
cristallizzate in istituzioni e dominio nel mondo umano, ed abolisce anche ogni
283
“The focus on what or who manifests itself in violence, rather than the intentions or ends informing
violent action, offers an alternative to the means-ends rationality implicit in both positive and natural
law. Benjamin motivates its introduction by identifying, early on in the essay, the unproductive
opposition (almost antinomy, in the Kantian sense) between these two juridical frameworks. (…). But
from Benjamin’s perspective, any attempt to understand ‘Right’ in terms of legitimate means or just
ends fails to account for what is truly at stake: namely who is able to act. Indeed, insofar as the
institutions of law and jurisprudence are proxies for Reason itself, and the opposition between positive
and natural law is essentially a metacritical debate about the parameters for evaluating the legitimacy of
practical action (and its continued rationalization) in the public sphere, Benjamin’s theory of violence
qua manifestation can be said to free our noninstrumental engagements and commitments from the
constraints that Weber places on any ‘ethic of conviction.’ For what Benjamin will ultimately take to be
manifest in violence are the constitutive values of an agent.” Cit. in Alexei Procyshyn, Manifest
reason: Walter Benjamin on violence and collective Agency, Constellations Volume 21, Number 3,
2014, John Wiley & Sons Ltd, p. 394.
284
Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 26.
126
pretesa umana di una teocrazia: proprio perché esiste una violenza divina, sulla terra è
impossibile che ci possa essere un dominio dell’uomo sull’ uomo, come viene visto
nel frammento Mondo e tempo del 1919: “il principio qui è: la vera potestà divina
può manifestarsi non in forma distruttiva solo nel mondo a venire (della pienezza).
Dove invece la potestà divina interviene nel mondo terreno, diffonde distruzione.
Pertanto in questo mondo su di essa non può fondarsi alcunchè di saldo e nessuna
configurazione, per tacere del dominio come suo supremo principio.” 285 E
fondamentale nella comprensione del saggio benjaminiano è porre una connessione
tra l’idea di giustizia divina e la prassi della distruzione, l’unica dunque veramente
redentrice e salvifica. Teoria e prassi si rovesciano quì l’una nell’altra.286
E Benjamin, nella sua radicalità nel delineare la violenza divina, arriva addirittura a
negare il dogma della sacertà della nuda vita, dogma che impedirebbe – se rispettato –
qualsiasi azione distruttiva nei confronti degli uomini, compresi i malvagi (ci fa
l’esempio dell’uccisione rivoluzionaria degli oppressori). La vita umana non è cioè
sacra in quanto tale, ma sacra in quanto giusta: “falsa e miserabile è la tesi che
l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dire altro che
la nuda vita.”287 Da non toccare e da salvare, è solo la vita giusta. Sono affermazioni
di una forza dirompente, che potrebbero dare adito a molti fraintendimenti (su cui
Derrida fonda la sua tesi), che Benjamin si cura di evitare postulandone solo la
possibilità, e delineando la violenza divina come qualcosa di altro rispetto alle azioni
umane, il che significa che non ci può essere nessun soggetto umano che si possa
foggiare del ruolo di esecutore della violenza divina . La violenza divina infatti, non si
285
Cit. in Walter Benjamin, Mondo e tempo, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma
2011, p. 63.
286
“La giustizia divina distrugge questo ordine, aprendo la possibilità di nuovi infiniti ordinamenti,
quali sono contemporaneamente presenti nel carattere infinito dell’idea di giustizia. L’unica prassi che
partecipa dell’idea di giustizia è quindi la prassi distruttiva del mutamento politico.” Cit. in
Massimiliano Tomba, La giustizia come vero a priori del tempo, in Seminario di studi benjaminiani, Le
vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata
2010, p. 175, 176.
287
Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 28.
127
lascia mai riconoscere nel mondo degli uomini – a differenza di quella mitica, che si
vede onnipresente nella minaccia, nelle pene e nei castighi.288
Nel postulare cioè l’esistenza di una violenza immediata, pura, e divina, Benjamin
vuole preservare la possibilità – al di là di un universo dell’identico che perpetua se
stesso – di una violenza rivoluzionaria che possa spezzare il rapporto che la violenza
generalmente intrattiene col diritto289 - nel ruolo di mezzo ai suoi fini -, uscire dalla
sua temporalità, e inaugurare un mondo in cui la storia possa uscire dalla ciclicità
della natura, e configurarsi realmente come ambito dell’accadere del nuovo; 290 quindi
anche se da una parte Benjamin allontana la violenza divina dalla presa dell’uomo,
dall’altra lascia intendere espressamente come la violenza rivoluzionaria sia il
fenomeno ad essa più affine,291 nel suo interrompere il dominio e inaugurare una
epoca liberata: “Sull’interruzione di questo ciclo che si svolge nell’ambito delle forme
mitiche del diritto, sullo spodestamento del diritto insieme alle forze a cui esso si
appoggia, (…) e cioè in definitva dello Stato, si basa una nuova epoca storica.(…) Ma
se alla violenza è assicurata realtà anche al di là del diritto, come violenza pura e
immediata, risulta dimostrato che e come sia possibile anche la violenza
288
“Di ciò che è più grande – dell’adempimento dell’utopia – non si può parlare, ma solo testimoniare.”
Il carattere non dicibile della violenza e della giustizia divina si ritrova cioè anche in altri testi di
Benjamin del periodo, come qui nel Paul Scheerbart: Lesabendio, in Walter Benjamin, Scritti politici,
Editori Riuniti, Roma 2011, p.59.
289
“Pure revolutionary violence is a redemptive stoppage and interruption of the continuum of history.
As interruptive force that pulls the break, that interrupts the order of things, that ends all mythico-legal
violence, Benjamin’s gottliche Gewalt, divine violence, is actually gewaltlose Gewalt, non-violent
violence, caesuratic force that does neither found any order nor base itself on any law, ideology or
religion.” Cit. in Ari Hirvonen, Marx and God with anarchism: on Walter Benjamin’s concepts of
history and violence, Springer Science+Business Media, Dordrecht 2012, p. 534.
290
“Solo un potere che è stato reso inoperoso e deposto attraverso una violenza che non miri a fondare
un nuovo diritto è integralmente neutralizzato. (…) Si esprime l’opposizione fra il potere costituente,
che distrugge e ricrea sempre nuove forme del diritto, senza mai definitivamente destituirlo, e la
violenza destituente, che, in quanto depone una volta per tutte il diritto, inaugura immediatamente una
nuova realtà.” Cit. in Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza Editore, Vicenza 2014, p. 340.
291
“Il sociale al suo stato attuale è manifestazione di potenze spettrali e demoniche, ma spesso nella
loro suprema tensione con Dio, nel loro anelito ad uscire da sé. Il divino si manifesta in esse solo nella
violenza rivoluzionaria. Solo nella comunità, mai nelle ‘istituzioni sociali’ il divino si manifesta con o
senza violenza (in questo mondo la violenza divina è superiore alla non-violenza divina. In quello a
venire la non-violenza divina è superiore alla violenza divina.” Cit. in Mondo e tempo, in Walter
Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 2011, p. 63.
128
rivoluzionaria, che è il nome da assegnare alla suprema manifestazione di pura
violenza da parte dell’uomo.”292
Concludendo quindi, Benjamin delinea come il diritto sia proprio ciò che statuisce la
violenza come forma della storia, ciò che legittima in modo “legale” il dominio
sempre uguale del mito. Dove la sua temporalità abbiamo visto essere la ripetizione
eterna dell’uguale, anche il diritto – con la sua violenza che eternamente o lo fonda o
lo conserva - chiude l’umanità in un ciclo chiuso, dove l’a priori è la colpa naturale
della nuda vita. La violenza giuridica non è nient’altro che la violenza destinale,
l’apparenza che governa l’uomo e che chiude la storia alla possibilità del nuovo, la
appiattisce a natura ciclica.293 Benjamin ha bisogno in questo della teologia, nel
concepire cioè una forza messianica, che sia devastante e che possa interrompere
senza preavviso, e verticalmente – in questo esterna al mito e alla sua temporalità – il
perpetuarsi del diritto.294
292
Cit. in Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p. 29.
293
“Il diritto, sancisce la Gewalt come forma della storia ed ogni ‘violenza’ che sostituisca un nuovo
ordinamento giuridico ad uno ‘vecchio’ e indebolito, non fa che confermarla. Per questo il ‘ciclo’ che
costituisce la ‘forma’ della Gewalt è destinato a ripetersi, finchè della Gewalt non sia fatta vacillare la
radice. Questa ‘ripetizione’ è il perpetuarsi della violenza mitica che, secondo lo spirito antico, si
abbatteva sull’eroe che sfidava gli dei. Il mito è la continuità del destino come dominio sul vivente,
costrizione di esso in una indistricabile connessione di colpevolezza. L’irretimento nel mito come
destino, l’epoca storica che la Gewalt esprime, è la storia come ‘ripetizione del sempre uguale’. In
questo il mito chiude la storia – come ‘impossibilità del ritorno’ – nel suo contrario, nella necessità del
ciclo che torna sempre alla sua iniziale dimora – dove regna l’ordine divino – al luogo violento della
sua origine. Perciò il destino ‘è sempre alla base del potere giuridico’: il destino è infatti il dominio
dell’apparenza sul vivente – come dominio della necessità dell’ordine mitico, che tale apparenza
esprime – ed il diritto è l’astrazione-cristallizzazione di tale apparenza, che esercita storicamente il suo
potere.” Cit. in Fabrizio Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori riuniti, Roma 1980,
p.100.
294
“If understood so, Messianism does not mystify, neutralize or water down revolutionary politics but
activates, accelerates and intensifies it in a struggle against historical juridico-politico-economico-
material necessities. Divine violence could thus be understood as a dialectical concept, which includes
the dialectical movement where messianic and political move simultaneously in two opposite directions
—from messianic to revolution, from revolution to messianic.” Cit. in Ari Hirvonen, Marx and God
with anarchism: on Walter Benjamin’s concepts of history and violence, Springer Science+Business
Media, Dordrecht 2012, p. 536.
129
La stessa lontananza tra diritto e giustizia, tra piano umano e trascendenza divina, è
ribadita nel Frammento teologico-politico, datato 1919-1920, quindi contemporaneo a
Per la critica della violenza e agli altri frammenti metafisico-politici di Benjamin. Qui
la dicotomia è tra ordine del profano e ordine del divino, redenzione terrena e
redenzione divina, teologia politica e politica come nichilismo.
Questo è un frammento che è stato scritto in seguito all’amicizia con Enrst Bloch e
alla lettura del suo Geist der Utopie – ne rappresenta infatti un confronto critico -, ma
può anche essere letto come risposta alla volontà di Carl Schmitt di far derivare
direttamente la politica dalla teologia, e dal donarle così un ruolo forte e decisivo, un
valore teocratico.
Per Benjamin l’ambito del profano, la storia, è invece l’ambito della caducità che,
come abbiamo visto nel Dramma barocco tedesco, non è vitalizzato da nessun soffio
divino, e nessun potere umano - per quanto illimitato e fondato su una decisione
assoluta possa essere – può tenerne le redini, gestirlo e redimerlo dalla fragilità. La
teocrazia non è dunque lontanamente possibile, e la politica svela tutta la sua
provvisorietà;295l’unico nesso di congiunzione tra il politico e il religioso, è
rappresentato per Benjamin dal messianico: “solo il Messia in persona compie
l’intero accadere storico, e precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie,
produce la sua relazione al messianico stesso. Per questo nulla che sia storico, da sé,
potrà riferirsi al messianico.”296
Tra l’ordine del profano e quello del divino c’è dunque sì una connessione, ma questa
è da una parte paradossale – in quanto sono due forze che spingono in direzioni
differenti -, e dall’altra soprattutto il divino non è catturabile da parte dell’uomo, qui e
295
“Benjamin, al contrario di Schmitt che nell’interpretazione di Taubes cerca – e ciò sarà a
fondamento della sua concezione totalitaria del potere – la ricostituzione dell’identità di mondano e
spirituale, tiene distinti gli ambiti del profano e del teologico; nell’«effettivo stato d’eccezione» nega
ogni presenza immediata e concreta del teologico nel mondano e afferma la provvisorietà di ogni potere
politico nella caducità propria della storia.” Cit. Tamara Tagliacozzo, Messianismo e teologia politica
in Walter Benjamin, in Il messianismo ebraico, ed. T. Tagliacozzo, I. Bahbout, D. Gentili , Giuntina,
Firenze 2009, p. 103.
296
Cit. in Walter Benjamin, Frammento teologico-politico, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori
Riuniti, Roma 2011, p. 67.
130
ora. Come nella Premessa gnoseologica si afferma che la verità è la morte
dell’intenzionalità del soggetto, così il regno di Dio non è imbrigliabile da parte di una
politica umana. La teocrazia, il pensare di rappresentare politicamente il dominio di
Dio in terra, rientra per Benjamin cioè, in quella autoaffermazione totalizzante del
soggetto, in quel dominio dell’arbitrio umano, che nel Dramma barocco tedesco
rappresentava il peccato originale e il male stesso. L’unico in grado di realizzare la
connessione tra umano e divino è il Messia, quindi un soggetto altro e trascendente
rispetto alla volontà umana.297
L’uomo, da parte sua, può solo perseguire come obiettivo l’idea su cui è fondato
l’ordine profano: l’idea di felicità. Benjamin ci sta suggerendo allora che, tolta ogni
legittimazione al fondare un ordine terreno su un’immagine irrappresentabile di un
ordine divino, dobbiamo invece seguire il profano nelle sue estreme conseguenze,
approfondire e radicalizzare l’ordine umano. Che è basato sull’idea di felicità: questa
è la finalità che ogni uomo vuole raggiungere, e su cui ognuno deve fondare la propria
vita – c’è un’incontrarsi tra dovere ed inclinazione. E soltanto attraverso
l’approfondimento della caducità e dell’umanità si crea un rapporto tra le due forze-
frecce divergenti dell’umano e del divino: soltanto attraverso il perseguimento
dell’umano troppo umano, della felicità, si può creare un rapporto con l’ordine divino:
“Se una freccia indica la mèta, e se in questa direzione muove la dynamis del
profano, mentre un’altra freccia punta invece nella direzione dell’intensità
messianica, allora certamente la ricerca di felicità dell’umanità liberata tende ad
allontanarsi dalla direzione messianica. Ma come una forza che progredisce può
incrementare un’altra che agisce in senso opposto, così anche l’ordine profano del
profano favorisce l’avvento del regno messianico.”298
297
“Soltanto il Messia ‘realizza’ il temporaneo rapporto col Messianico che esiste già e tuttavia non c’è
ancora. Non è nel potere degli uomini redimersi con un proprio atto di volontà. Essi né possono, né
devono volersi rapportare ‘da sé’ al Messianico. (…) Il desiderio proibito di farsi un’immagine di Dio
nell’ambito politico, non può creare altro che un ibrido: lo stato teocratico.” Cit. in Irving Wohlfarth,
“Sempre radicale, coerente mai…”, in Enzo Rutigliano e Giulio Schiavoni (a cura di), Caleidoscopio
benjaminiano, Istituto italiano di studi germanici, Roma 1987, p. 268,269.
298
Cit. in Frammento teologico-politico, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma
2011, p.67.
131
Il raggiungimento del regno di Dio, della redenzione e del compimento, non è quindi
il fine dell’agire politico – e non può esserlo, dato la distanza tra gli ambiti umano e
divino -, ma la fine della dynamis storica, ciò che permette all’ordine storico di
giungere al proprio tramonto, e perciò al proprio compimento. Come i fenomeni nella
Premessa gnoseologica, qui la caducità storica non è redenta e trasfigurata nell’idea e
nell’eterno, ma semplicemente accelerata e portata alla sua fine. La felicità è cioè, in
quanto figura profana per eccellenza, paradossalmente, essa stessa già messianica:
l’ambito profano, solo nel tendere alla sua fine, e non alla trasfigurazione nell’eternità,
trova la sua verità e la sua vera natura: se tendesse all’eternità cioè, perderebbe anche
la sua unica redenzione, la felicità terrena e caduca. 299 Benjamin in questo frammento
compie dunque un’operazione paradossale: fondare un materialismo della felicità su
una radicale teologia messianica, costruire un ambito della redenzione sul nichilismo e
la caducità umana:300“mentre l’immediata intensità messianica del cuore, del singolo
uomo interiore, conduce certo attraverso l’infelicità nel senso della sofferenza. Alla
restitutio in integrum spirituale che introduce all’immortalità corrisponde una
restitutio che conduce all’eternità di una fine.”301
Non è quindi da cercare una salvazione idealistica del particolare nell’eternità, che
porterebbe alla sofferenza dell’umano e al rimandare la propria felicità, ma l’unica
299
“In questo modo felicità e fugacità vengono a identificarsi, esprimendo entrambe l’aspirazione al
tramonto di ogni terrestre, il suo inesorabile ancoraggio al ‘ritmo del trapassare.’ Il messianico assume
così i contorni di quell’attimo che esprime pienezza proprio nella sua fugacità, nell’intensificazione
della transitorietà di ciò che è umano. Affermare che tendere alla felicità ‘è il compito della politica
mondiale, il cui metodo deve essere chiamato nichilismo’ significa darsi un compito che, a fronte della
disgregatezza, delle ‘rovine’ che ci circondano, non tenta una ricomposizione, ma piuttosto una
intensificazione del negativo.” Cit. in Paolo Vinci, Nella fodera del nulla. Violenza e redenzione in
Walter Benjamin, Giornale di metafisica – Nuova serie, XXXII (2010), p. 373, 374.
300
“La novità consiste nel fatto che Benjamin, partendo da una base rigorosamente teologica – anche se
eterodossa – fonda per lo meno, sebbene non lo sviluppi ancora, un pensiero strettamente materialistico.
(…) Una teologia non ancora incrinata si presenta così tanto sicura di sé da rinviare il mondo
interamente a se stesso. (…) Perciò rimettere il mondo a se stesso non vuol dire affatto riconoscere i
rapporti di forza esistenti, ma restituirli alle forze di un nihilismo messianico.” Cit. in Irving Wohlfarth,
“Sempre radicale, coerente mai…”, in Enzo Rutigliano e Giulio Schiavoni (a cura di), Caleidoscopio
benjaminiano, Istituto italiano di studi germanici, Roma 1987, p. 268,269.
301
Cit. in Walter Benjamin, Frammento teologico-politico, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori
Riuniti, Roma 2011, p. 67,68.
132
eternità da ottenere è quella di un tramonto, quella della caducità. Come nella
Premessa gnoseologica, salvare i fenomeni nella loro idea significava mostrarli nella
loro pre e post storia, cioè nella loro consumazione, come la critica d’arte doveva
mortificare la bella apparenza dell’opera, distruggerne la bellezza, per penetrarne il
nucleo prosaico di verità, così la salvazione storica avviene attraverso la distruzione
che consuma la totalità dei fenomeni.302 Tutto, cioè, deve crollare: ogni politica umana
che ambisce all’eterno deve essere liquidata, ogni potere che si cristallizza e perpetua
il suo dominio eterno e mitico deve essere distrutto. Per questo il metodo della politica
mondiale deve essere chiamato nichilismo: nella storia – non realmente storica, ma
naturale, mitica, destinale – fino ad adesso esperita, si è sempre teso platonicamente, a
obliare la felicità e la caducità umana, alla ricerca dell’eterno. Si è preferito
condannare alla mitica ripetizione della colpa, piuttosto che prendere su se stessi la
responsabilità e l’angoscia della propria caducità e finitezza; si è sempre cercato un
regno dei cieli, o una teocrazia – forte e fondata su un modello eterno ed inattaccabile,
in quanto fondato in una trascendenza – piuttosto che la reale felicità del caduco. Per
questo per Benjamin c’è bisogno di fare spazio, di fare piazza pulita dei templi
costruiti su questi umani errori di prospettiva, c’è bisogno del Carattere distruttivo:
frammento benjaminiano del 1931, che a nostro modo di vedere, fa da ponte tra la
riflessione politica giovanile e quella matura delle Tesi di filosofia della storia.
“Il carattere distruttivo non vede alcunchè di duraturo. E proprio per questo scorge
ovunque vie d’uscita.(…) Riduce l’esistente in macerie non per amore delle macerie,
ma della via d’uscita che le attraversa.”303 Abbiamo visto che la redenzione per
Benjamin si struttura sempre in un rapporto di connessione intrinseca con la
distruzione: per poter salvare la storia c’è prima bisogno di fluidificarla, di
interromperne la ciclicità e il mito che la caratterizza. Obiettivo di Benjamin è cioè
distruggere ciò che si presenta come monolitico ed intoccabile, distruggere la bella
apparenza, ed attraversarla con la forza del vero, fluidificare la realtà per renderne
302
Cfr. Giorgio Agamben, Walter Benjamin e il demonico, in La potenza del pensiero, Neri Pozza,
Vicenza 2010, p. 239.
303
Cit. in Walter Benjamin, Il carattere distruttivo, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti,
Roma 2011, p.241.
133
visibili le possibilità sopite, siano esse sepolte nel presente, o anche nel passato: opera
come la violenza divina in Per la critica della violenza, distruggendo ciò che
impedisce il cambiamento, cioè il diritto che adopera la violenza del destino; e a
questo non sostituisce nulla, interrompendo il ciclo eterno di posizione e
conservazione, è nichilista e iconoclasta per eccellenza: “il carattere distruttivo non
ha in mente alcuna immagine. Ha poche esigenze, e la minima è: sapere che cosa
subentra a ciò che è stato distrutto.(…) Il carattere distruttivo non è affatto
interessato ad essere capito”304 (a testimonianza del fatto che il nichilismo-
anarchismo di Benjamin non viene abbandonato al suo solo periodo giovanile).305
Ciò che subentra alla distruzione infatti non deve essere più posseduto, né rivendicato,
non devono essere eretti nuovamente templi e poteri che cercano l’eternità, ma
bisogna contemplare la potenza in se stessa, bisogna auto comprendere noi stessi e le
nostre opere come intrinsecamente caduche e transitorie – “il carattere distruttivo è
sempre alacremente al lavoro. È la natura a dettargli i ritmi, indirettamente almeno:
perché deve prevenirla. Altrimenti si incaricherà essa stessa della distruzione” 306 - ,
nello stesso spirito del Frammento teologico-politico: è dunque come se nel
distruggere, noi rispettassimo la natura intorno a noi, ci uniformassimo cioè al suo
cammino di caducità e passaggio, invece di tentare di inghiabbarla nelle nostre
costruzioni di dominio, e nelle nostre volontà di trascendenza; 307
nei materiali
preparatori alle Tesi sul concetto di storia, si dice a proposito: “come si può
conciliare la critica del passato con la sua salvazione? Tener ferma l’eternità degli
304
Ibidem.
305
No image, similarly, inspires the revolutionary: neither 'the ideal of liberated grandchildren' nor the
Utopia 'painted in the heads' of the Social Democrats (GS 1.2:700/5W4:394). The long view of
historicist prognostication must thus contract to the lightning flash of historical materialist intervention.
Benjamin explicitly links such a renunciation to the iconoclastic imperative of Judaism: 'we know that
the Jews were prohibited from investigating the future' (GS 1.2:704751^ 4:397). The messianic moment
- 'Messianic power' in the 'weak' sense (GS 1.2:694/5 W4:390) - remains as inscrutable as ultraviolet
rays.” Cit. in Andrew Benjamin (edited by), Walter Benjamin and Art, Continuum, London New York
2006, p. 41.
306
Cit. in Walter Benjamin, Il carattere distruttivo, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti,
Roma 2011, p.241.
134
accadimenti storici vuol dire: attenersi all’eternità della loro transitorietà.” 308 Solo
cogliere gli eventi passati in quanto transitori e potenziali, e non in quanto fissati
eternamente, li può salvare.
Da qui comprendiamo anche meglio perché in Per la critica della violenza si parlava
di rivolta e non di rivoluzione: ciò che per Benjamin è fondamentale è tener fermo
infatti alla possibilità in se stessa, che non si concretizza nuovamente in una realtà
data, che non si tramuta in atto (come nelle ri-voluzioni), ma che rimane in sospeso;
questo è l’unico modo per riattualizzare il passato così come verrà tematizzato nelle
Tesi.309
Il problema principale che pone Il carattere distruttivo è infatti quello della tradizione
e del tramandamento del passato: “il carattere distruttivo sta nel fronte dei
tradizionalisti. Mentre alcuni tramandano le cose rendendole intangibili e
conservandole, altri tramandano le situazioni rendendole maneggevoli e
liquidandole. Questi vengono chiamati ‘i distruttivi”.310 Mentre ci sono dunque alcuni
che nella volontà di conservare le cose nella loro obiettività, le perdono e le rendono
307
“Egli (il carattere distruttivo) ha la capacità di sostare nel movimento, arrestare il passaggio ad un
nuovo ordine e contemplare la possibilità in tutte le sue forme. (…) Il carattere distruttivo impara dalla
natura che siamo esseri di passaggio e non possiamo occupare definitivamente alcuno spazio con una
nostra ‘opera’. In questo senso la salvezza non deve essere pensata come compimento, come fine, ma
come facente parte del nostro perenne transitare, e dunque non in senso escatologico, bensì storico.”
Cit. in Maria Teresa Costa, in Seminario di studi benjaminiani, Le vie della distruzione. A partire da Il
carattere distruttivo di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, p.47.
308
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997, p. 93.
309
“Il parallelo con la rivolta piuttosto che con la rivoluzione non è casuale. L’ordine viene distrutto e le
infinite possibilità, aperte dalla rivolta, lasciate sospese sull’abisso. La prospettiva di un’apocatastasi
mondana del Frammento teologico-politico è uno sviluppo del tema della violenza divina di Per la
critica della violenza: poiché l’interruzione del corso violento del diritto ad opera della giustizia apre le
infinite possibilità attuali, cioè quelle presenti e quelle che nella storia si sono già date, la restitutio in
integrum riguarda la redenzione dell’intero passato attraverso la riattualizzazione di tutte le sue
possibilità.” Cit. in Massimiliano Tomba, La giustizia come vero a priori del tempo, in Seminario di
studi benjaminiani, Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter Benjamin,
Quodlibet, Macerata 2010, p. 181.
310
Cit. in Il carattere distruttivo, in Walter Benjamin, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 2011,
p.241.
135
irrecuperabili, altri invece, i distruttivi, proprio nel distruggerle, nel renderle fluide, le
rendono maneggevoli e adoperabili, praticabili, ma soprattutto citabili.
Quello che Benjamin sta cercando di attuare, è cioè una cesura, un’interruzione
all’interno del continuum storico: citare il passato vuol dire strapparlo al suo contesto,
quindi distruggere quel contesto stesso, ma allo stesso tempo salvarlo,
nell’attualizzazione in un determinato momento del presente. Se la tradizione
tramanda degli oggetti e dei momenti nella loro oggettività e così come sono stati, li
tramanda anche alla chiusura all’interno del passato, alla loro catalogazione in quanto
morti e, appunto, passati – li condanna alla realtà data. Colui che cita invece, come il
carattere distruttivo, si può concentrare su determinati momenti del passato, li può
strappare a forza da un continuum lineare, si può attanagliare a momenti
inappariscenti, ma dalla grande potenza conoscitiva – li riporta in vita nella
possibilità: si unisce distruzione (del continuum e del dato oggettivo) a salvazione
(dell’elemento isolato e meno appariscente nell’attualizzazione con il presente).
Questa motivo della citazione lo ritroviamo confermato nella terza tesi di filosofia
della storia, a testimonianza della continuità della riflessione benjaminiana: “Certo,
solo ad un’umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire:
solo ad un’umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi
momenti.”311 Qui è importante sottolineare come il metodo della citazione sia
connesso con l’ambito della redenzione, e come la redenzione sia in rapporto con il
poter salvare il passato: la citazione attualizzando il passato, crea delle corrispondenze
con il presente, e in questo modo lo trasforma da compiuto e finito, in incompiuto e
riattualizzabile. E il distruggere insito nella citazione, lo strappare dal contesto e dal
continuum, non è una distruzione del passato e della sua memoria, ma ne è una
salvazione, in quanto rivivifica le possibilità sopite. Intento di Benjamin è
possibilizzare il passato, renderlo integralmente citabile e attualizzabile.312
311
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997, p. 23.
312
“L’attività del carattere distruttivo si volge al principio di revocazione, che apre la storia alla
possibilità di essere fatta altrimenti.(…) Il gesto del carattere distruttivo è proprio questo: non si tratta
di negare la tradizione, la memoria, il passato, ma di instaurare con essi un rapporto critico, di strapparli
dal loro contesto, citandoli. E la critica distrugge, non nel senso della Zerstörung, dell’annichilimento,
ma del far posto alla possibilità del cambiamento, dell’emancipazione, del nuovo. Si tratta di un
136
E il motivo della salvazione del passato, dell’interruzione del continuum storico e
della redenzione storica, è il leitmotiv che fonda le Tesi di filosofia della storia,
l’ultimo testo di Benjamin, datato 1940; tesi che, scritte nel momento del pericolo
imminente – l’emigrazione per sfuggire al nazismo, che lo porterà al suicidio a Port
Bou sul confine spagnolo – rappresentano il testamento spirituale di Benjamin, e
permettono di tirare le fila della sua, e della nostra ricerca.
Innanzitutto bisogna capire la particolare temporalità che Benjamin propone in questo
testo denso e stratificato, i suoi avversari e i suoi obiettivi. Nelle Tesi sul concetto di
storia Benjamin vuole correggere dei punti fondamentali della storiografia hegelo-
marxista, e fondare un nuovo metodo storico, che permetta sia di redimere il passato,
che di non commettere gli enormi errori che hanno portato in Europa all’avvento dei
fascismi. In questo testo si intrecciano due piani, uno epistemologico - di costruzione
storica e di metodo - e uno politico - di teoria dell’esperienza della storia e di possibile
attuazione rivoluzionaria. La storia e il suo tramandamento si rivelano essere l’ultimo
e il decisivo campo di battaglia su cui Benjamin combatte.
Le tesi vengono prima di tutto scritte all’indomani del patto sovietico-tedesco del
1939, e rappresentano da una parte una velata critica allo stalinismo, e dall’altra un
diretto attacco al marxismo della seconda internazionale e alla socialdemocrazia: sono
dettate da una reale angoscia esistenziale e non da una semplice preoccupazione
teoretica – ed in questo si giustificano entrambi i piani, epistemologico e politico. La
battaglia di Benjamin è quindi soprattutto contro l’intellighenzia di sinistra, che
vedeva nel fascismo una semplice parentesi all’interno del fluire storico, e proprio nel
considerarlo tale, si è presentata indifesa davanti ad esso: il fascismo non è un errore
della storia, ma il riaffiorare mitico in una società tecnicizzata. Ma da dove viene
questa concezione storica contro cui Benjamin combatte, e quella che lui ci tematizza
come soluzione?
concetto ‘positivo’ di distruzione, di una distruzione creatrice di spazio.” Cit. in Maria Teresa Costa, in
Seminario di studi benjaminiani, Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter
Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, p.51, 53.
137
Obiettivo polemico di Benjamin è, sinteticamente, la visione storica dello storicismo,
o Historismus. È una corrente che nasce dopo Hegel da una sua lettura parziale,
confluendo in essa anche aspetti del positivismo e della Lebensphilosophie di Dilthey:
aspetto fondamentale di questa tradizione è considerare la storia come
Universalgeschichte, o storia universale, ridotta a insieme di fatti da narrare; vedere
cioè in essa un cammino progressivo fatto di momenti uguali l’uno all’altro, e
caratterizzata alla radice da una concezione del tempo come vuoto ed omogeneo.313
Attraverso questa tradizione veniva cioè appiattita la complessità e soprattutto l’attrito
all’interno dello scorrere storico, e la storia si diluiva in un cammino di fatti verso un
perfezionamento finale.314
Il marxismo della seconda internazionale e la socialdemocrazia non offrivano migliori
prospettive, essendo anch’essi intrisi di determinismo storico e di teleologia: il
processo verso la redenzione in terra veniva visto come un cammino necessario nella
dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione; la classe operaia, generata dal
capitalismo come sua negazione determinata, sarebbe diventata automaticamente, con
il passare del tempo, così forte da negare il capitalismo stesso, in una dialettica
313
Per il rapporto tra storicismo e visione storica adeguata al mantenimento dello status quo: “La
conoscenza oggettiva del passato presuppone tanto un’idea di verità certa quanto un’intesa solida e
sotterranea con il progresso di tempo che dal passato condue al presente. (…) Per questo si può dire che
la storiografia storicistica è senza speranza, non ha nulla che le rimanga da scoprire, poiché tutto è
stato, e ciò che ci attende non è più di una replica. La sua integrale adesione al vincitore non le consente
di mostrare sortite possibili, il gusto di un diverso praticabile, di un divenire sospetto. Anche le nubi più
dense, annunciate all’orizzonte, sono le stesse avvistate in un più o meno lontano passato: misura finita,
misurabile in ogni sua dimensione. (…) Il presupposto di questa idea della storia è il principio di
identità, chiuso fin dalla sua natura formale in accordo politico immediato con l’evidenza del presente.”
Cit. in Paolo Pullega, Commento alle “Tesi di filosofia della storia” di Walter Benjamin, Cappelli
Editore, Bologna 1980, p.18.
314
“Proprio dello Historismus nella sua complementarietà tra una passiva ‘Einfühlung in ciò che è stato’
e una ‘proiezione di ciò che è stato nel presente’, è l’assoluto appiattimento di ogni dialettica storica.
Qualsiasi categoria teorica di comprensione del processo storico è accantonata. L’immagine di
Universalgeschichte che scaturisce da questo presupposto, non è che la totalità del processo nella sua
rozza empiricità: di fronte ad esso si può solo registrare l’accaduto o ‘riviverlo’. Gli avvenimenti
‘scorrono’ nel flusso temporale, non ne sono intessuti, gli sono indifferenti, e come tali, da un lato,
incasellati e chiusi definitivamente in esso, e, dall’altro, sconsideratamente attualizzabili, come ‘morte
cose’ nell’Erlebnis dell’Historist.” Cit. in Fabrizio Desideri, Il nano gobbo e il giocatore di scacchi, in
Franco Rella, Critica e storia, Cluva libreria editrice, Venezia 1980, p.95.
138
determinata ed evoluzionistica. Quella che Benjamin vede essere la radice di questa
concezione, è l’idea di accumulazione quantitativa (di un materiale omogeneo e
vuoto, sia esso l’istante temporale, o il semplice numero di operai organizzati),
l’illusione quantitativa che sta alla base tanto dell’evoluzionismo, quanto della fiducia
nelle masse.315
Inoltre sulla socialdemocrazia gravava il “fallimento della ricezione della tecnica del
XIX secolo”, cioè la mancata o scorretta tematizzazione del problema della tecninca,
come nota Benjamin nel saggio su Fuchs: infatti nel 1800 si era verificato un processo
tecnico e industriale senza precedenti, dovuto ai progressi della scienza naturale.
L’impensato di questo sviluppo giaceva sia nel fatto che ai progressi della scienza
naturale venivano nascosti i regressi nella società, che soprattutto la mancata
considerazione che questo processo fosse intimamente connesso con lo sviluppo del
capitalismo, con il suo portato di distruzione e sfruttamento. Quindi, facendosi forza
di un ottimismo dettato dalla scienza naturale e dalla tecnica, la socialdemocrazia
applicava questi sviluppi scientifici al cammino dell’umanità verso l’emancipazione,
mescolando due piani completamente diversi, se non contraddittori. Non si
comprendeva cioè la profonda differenza tra sviluppo delle forze produttive, cioè delle
nuove tecniche, e sviluppo dei rapporti di produzione (dato che era lo stesso rapporto
di produzione capitalista a incrementare e spingere il processo di sviluppo delle
tecniche produttive).316
315
Per un accostamento tra marxismo della seconda internazionale e positivismo nella visione storica:
“L’idea positivistica, di un’umanità in progresso nel tempo verso un futuro necessariamente migliore,
trova un corrispettivo nella concezione marxista di un passaggio storico al socialismo, condizione a
venire liberatoria e negatrice del presente, ma tuttavia generata da una similare visione del genere
umano verso una meta promessa. Benjamin spinge anche oltre l’equivalenza tra visione positivistica
della storia e concezione marxista, dopo avere indicato le correlazioni storiche tra le due concezioni
(nella tesi undicesima): la ‘fiducia nella base di massa’ rimproverata ai politici antifascisti nella decima
tesi viene accostata in un frammento preparatorio alla fede nella concezione della storia come
evoluzione: ‘la fede nell’accumulazione quantitativa sta alla base sia dell’ostinata fede nell’evoluzione,
sia della fiducia delle masse”. Cit. in Paolo Pullega, Commento alle “Tesi di filosofia della storia” di
Walter Benjamin, Cappelli Editore, Bologna 1980, p.18.
316
“Era questa ‘separazione’ ad oscurare lo spessore storico della ‘tecnica’ e la politica che racchiudeva
la direzione impressa al suo sviluppo. Dal non cogliere questo essenziale ‘lato’ della tecnica, dal vedere
in essa solo l’effetto di un progresso della scienza feticisticamente considerata, al concludere di una
‘falsa identificazione del progresso delle forze produttive con il progresso dei rapporti di produzione’, il
139
A questa concezione e a questo ottimismo, Benjamin risponde con una storia che va
spontaneamente verso la catastrofe, che accumula incessantemente macerie, e che, se
non interrotta al più presto, porterà ad un punto di non ritorno. L’unica possibilità
redentiva è quindi l’interruzione, categoria contrapposta profondamente a quella di
progresso: “Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli (l’angelo
della storia) vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su
macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata alla sue
ali, ed è così forte che l’angelo non può chiuderle. Questa bufera lo spinge
inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il
cumulo di macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa
bufera.’317’ Il progresso viene visto quindi, a differenza della sua concezione nel
marxismo e nella socialdemocrazia, esattamente come ciò che non permette la
redenzione, come la bufera che blocca l’angelo e gli impedisce di ricomporre i
frantumi nell’atto cabbalistico del Tiqqun (che è, secondo la Qabbalah luriana, la
ricomposizione messianica di tutte le cose e di Dio stesso, nella loro integrità e
armonia originaria)318, in una storia considerata, alla stregua del Dramma barocco
passo era breve. Da qui l’intreccio tra determinismo e ottimismo sulla vittoria finale del proletariato,
tra darwinismo e neokantismo nella concezione della storia, fino alla complementarità teorica tra
‘neokantismo ed empirismo’ da una parte e tra ‘neokantismo ed eticismo’ dall’altra.” Cit. in Fabrizio
Desideri, Il nano gobbo e il giocatore di scacchi, in Franco Rella, Critica e storia, Cluva libreria
editrice, Venezia 1980, p.96.
317
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997, p. 37.
318
Per quanto riguarda la Qabbalah luriana ci sarebbe molto da scrivere, ma qui rimando al
collegamento tra la redenzione cabbalistica, la ricomposizione dei frammenti, e la traduzione, a Di
Cesare: “La dottrina della ‘rottura dei vasi’ fa parte del racconto cabbalistico della creazione. Avvenuto
per contrazione di Dio, che ritirandosi ha dato luogo al mondo, il processo della creazione si è
dispiegato nello spazio primordiale attraverso un’emanazione. Ma in quest’ultima la spinta della luce
divina, sinonimo della sua Schekhinah, della sua Presenza, è stata tanto forte, che i vasi emanati dalla
Sua saggezza per accoglierla, non riusciendo a contenerla, sono andati in frantumi. Così hanno lasciato
che la luce fluisse disperdendosi in ogni parte della creazione.” Cit. in Donatella Di Cesare, Utopia del
comprendere, Il nuovo Melangolo 2003, Genova, p.135, 136. “La Qabbalah insegna che non c’è angolo
del mondo che non racchiuda una scintilla divina in attesa di essere liberata e redenta dalla sua
prigionia. La redenzione è la liberazione delle scintille disperse, la riunificazione di Dio con la sua
Schekhinàh, con la sua Presenza in esilio nel mondo. Ogni tiqqun, ogni atto di riparazione, avvicina la
140
tedesco, come ‘inarrestabile decadimento’. Il progresso ha bisogno di fissare
miticamente un punto di inizio e un punto di fine della storia, e in questo modo poter
postulare nell’intermezzo un continuum lineare e orientato: statuendo miticamente un
inizio inattingibile, lo salva anche dalla critica, e lo getta nella non-attuabilità. 319 Il
progresso è cioè ciò che condanna a continuare ad andare avanti, senza curarsi del
passato, senza attualizzarlo, e in questo modo, è ciò che - nell’illusione della novità -
condanna l’umanità al perpetuarsi del mito, al suo eterno ritorno. 320 E infatti Benjamin
stesso sottolinea in Zentralpark come la catastrofe non sia uno stato eccezionale della
storia, ma la quotidianeità del nostro presente, la bufera che ci condanna ad andare
avanti e ci lascia nella disperazione: “Il concetto di progresso dev’essere fondato
nell’idea di catastrofe. La catastrofe è che tutto continui come prima. Essa non è ciò
che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato. Il pensiero di
Strindberg: l’inferno non è nulla che ci attenda – ma la nostra vita qui.” 321 Il
progresso e la modernità assumono i tratti dell’inferno e del mito, dal cui contesto di
fine dell’esilio. Riparare vuol dire allora riunificare. Proprio come si riparano, riunificandoli, i
frammenti di un vaso. Dal punto di vista umano questa riunificazione è già redenzione, perché l’unità è
mentre diviene, l’unità è divenire unità. Ogni atto di riparazione, per quanto umile sia, è un atto
messianico, anticipa la redenzione. Ma in tutta la tradizione ebraica è il tradurre, inteso nel senso più
ampio, il compito messianico per eccellenza. La dispersione dell’umanità è avvenuta infatti a Babele
attraverso la frantumazione dell’unica lingua originaria. La via della riunificazione non può non passare
per il linguaggio. Tradurre è redimere. Forse nessuno meglio di Walter Benjamin ha sintetizzato il
compito messianico del traduttore.” Cit. in Donatella Di Cesare, Grammatica dei tempi messianici,
Edizioni Albo Versorio, Milano 2008, p. 32, 33.
319
“Il progresso, invece di una concezione discontinua della storia che procede a salti, necessita di
un’immagine lineare della storia in cui inizio e fine, pur se determinati miticamente, siano
indiscutibilmente i soli punti fissati di un unico, continuo e inarrestabile, sviluppo storico. Solo così
nessun presente, compreso tra questi due punti, può arrestare il soffiare continuo della bufera dell’inizio
che non si placa se non alla fine, quando è ormai troppo tardi. La classe dominante ha posto la garanzia
del perdurare del suo potere proprio nel carattere mitico di tale origine: il fondamento del suo dominio è
quindi inattingibile e fuori discussione pe ogni prassi sovversiva nel presente.” Cit. in Dario Gentili, Il
tempo della storia. Le “Tesi sul concetto di storia” di Walter Benjamin, Guida editori, Napoli 2002,p.
148.
320
“La continuità dell’Historismus – continuità da cui è stata espunta ogni discretezza, essendo il tempo
che lo sottende tanto completamente astorico, quanto infondatamente naturale - , cela in sé ‘l’eterno
ritorno dell’uguale.” Cit. in Fabrizio Desideri, Il nano gobbo e il giocatore di scacchi, in Franco Rella,
Critica e storia, Cluva libreria editrice, Venezia 1980, p.96.
321
Walter Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, Einaudi Torino 1995, p.136.
141
colpa naturale l’uomo non riesce ad uscire: la temporalità è quella del sempre uguale,
della ripetizione a cui è condannato tanto l’operaio, che l’intera umanità nella società
della merce, nel suo nascere, produrre, consumare, morire, dove il “culto della novità”
è precisamente il dispositivo di mistificazione, che copre come un’apparenza
necessaria, il volto ciclico della società.322
E le rovine di cui si parla qui nella IX tesi non sono ricomposte in un cammino di
salvezza, ma sono testimonianza che il dolore e l’incompiuto nella storia rimangono
tali, non vengono trasfigurati: l’obiettivo polemico di Benjamin è qui, palesemente, lo
Hegel delle Lezioni di filosofia della storia e dei Lineamenti di filosofia del diritto,
che, nonostante riconosca la storia come un immenso campo di rovine, come un
‘banco da macellaio’, afferma che bisogna elevarsi al di sopra di questa prima visione
immediata (e perciò incompleta e ingenua), per comprenderne l’essenza, e vedere le
rovine e le sofferenze come tappe necessarie e momenti ineluttabili del progresso
dell’umanità verso la coscienza della libertà. Benjamin mira a ribaltare specularmente
la prospettiva, e fare dell’incompiuto storico il fulcro per scardinare questa concezione
di teodicea razionale.
Contro questo determinismo nel cammino storico, Benjamin usa la teologia ebraica
come antidoto: inserendo infatti la fluidificazione della storia ad opera del ricordo e
della citazione, postulando l’interruzione messianica come ciò che interromperà
l’accumulo delle macerie, salva la spontaneità e l’improvvisa interruzione
rivoluzionaria dalle maglie del determinismo storico:323 “nel ricordo noi facciamo
322
“Per Benjamin, nel Passagenwerk, la quintessenza dell’inferno è l’eterna ripetizione dell’identico; il
suo paradigma più terribile non si trova nella teologia cristiana, ma nella mitologia greca: Sisifo e
Tantalo, condannati all’eterno ritorno della medesima punizione. In questo contesto, Benjamin cita un
passo di Engels, che paragona l’interminabile tortura dell’operaio, condannato a ripetere senza posa lo
stesso movimento meccanico, con la punizione infernale di Sisifo. Ma non si tratta solo dell’operaio:
tutta la società moderna, dominata dalla merce, è sottomessa alla ripetizione, al ‘sempre-uguale’
(Immergleichen) mascherato da novità e ultima moda: nel regno delle merci, ‘l’umanità appare come
dannata.” Cit. in Michael Löwy, Segnalatore d’incendio, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p.78,79.
323
“La teologia appare qui come ‘ciò che libera dal fascino del futuro’ e, insieme, dal fascino delle
grandi costruzioni (architetture filosofiche) in cui il destino del singolo non trova posto o significato
qualora si contrapponga alla realizzazione del disegno. (…) La storia – sembra suggerire Benjamin – è,
in una prospettiva rivoluzionaria, sempre matura per la rivoluzione proprio perché da sempre i dominati
142
un’esperienza, che ci vieta di comprendere per principio in modo ateologico la storia,
tanto meno noi possiamo cercare di scriverla in concetti teologici.” L’obiettivo delle
tesi è di appropriarsi del passato in un nuovo modo, sia a livello storiografico che
rivoluzionario (non bisogna mai dimenticarsi di questi due piani all’interno di questo
testo, il piano epistemologico e quello politico): per costruire questo nuovo modo, è la
teologia a fornire gli strumenti. Il rapporto che ci deve essere tra i due piani – quello
storiografico, e quello politico – deve essere lo stesso che si impone tra le categorie
teologiche della memoria e della redenzione: la memoria rappresenta il metodo, la
redenzione l’atto che attraverso il giusto metodo, si rivela salvifico; allo stesso modo
la storiografia deve dare il giusto metodo di salvazione del passato, che poi la
rivoluzione politica potrà mettere in pratica.
Nella teologia ebraica quella di memoria è una categoria fondamentale; e il ricordo
svolgerà un ruolo cardine anche nella filosofia della storia benjaminiana.324
La redenzione è infatti indissolubilmente legata all’idea di felicità, e l’idea di felicità
a quella del nostro passato; nella seconda tesi Benjamin fonda questo importante
parallelismo. Noi radichiamo infatti la nostra idea di felicità nelle nostre esperienze
passate: non potrebbe essere altrimenti, in quanto non possiamo distaccarci dal nostro
vissuto; desideriamo infatti ciò che abbiamo visto o che abbiamo immaginato,
all’interno delle possibilità che a noi si sono date. 325 E soprattutto l’idea di felicità che
hanno soggiaciuto al dominio; per essi, era ‘quello’ il tempo del cambiamento, anche se in contrasto col
tempo ‘giusto’ previsto dal progetto. Di fronte ad una concezione della storia che subisce la
maledizione di dare ragione a ciò che è accaduto, il pensiero rivoluzionario deve emanciparsi.” Cit. in
Enzo Rutigliano, Lo sguardo dell’angelo. Su Walter Benjamin, Dedalo libri, Bari 1981, p.13,14.
324
“Diese Idee des historischen Erinnerns als Vergegenwärtigung der Vergangenheit zum Zwecke der
Gegenwartserknntnis wollte Benjamin zum Fundament einer ‘neue dialektischen Methode der Historik’
machen, die er mit dem Anspruch einer ‘kopernikanischen Wendung’ der Geschichtsauffassung
verbunden hat.” (Questa idea del ricordare storico come presentificazione del passato allo scopo della
conoscenza del presente, Benjamin la vuole erigere a fondamento di un nuovo metodo dialettico della
storia, che ha collegato con l’esigenza di una svolta copernicana della concezione storica). Cit. in
Detlev Schöttker, Erinnern, in Michael Opitz und Erdmut Wizisla, Benjamins Begriffe, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt am Main 2000, p. 279.
325
“Solo nel già vissuto, nel già conosciuto c’è la possibilità del non-ancora vissuto e del non-ancora
conosciuto: è il ricordo delle esperienze vissute a dover orientare nel futuro. Per Benjamin il conosciuto
non rappresenta qualcosa da dover dimenticare per procedere nel futuro, ma è la stessa conoscenza ad
143
abbiamo, tende sempre a costruirsi su ciò che abbiamo desiderato, ma che ci è stato
negato, proiettiamo cioè la nostra realizzazione completa sempre su una mancanza nel
passato. Questo è il fulcro del pensiero benjaminiano: la felicità è legata alla
redenzione. E redenzione è il movimento di salvazione di qualcosa di incompleto del
passato, di qualcosa che avremmo voluto, ma che non abbiamo potuto ottenere; la
redenzione è il completamento di una mancanza di ciò che è accaduto, è il passaggio
all’atto di una possibilità che in passato non ha avuto modo di realizzarsi. 326 Per questo
Benjamin, nella seconda tesi di filosofia della storia può dire: “l’immagine di felicità
che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai
relegati il corso della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi
l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo
potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi. In altre parole,
nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione.”327
Questo è il pensiero-leva di Benjamin, che ci permette di capire il perché il passato
abbia un ruolo di primo piano: come nella nostra esperienza personale l’idea di felicità
si basa sulla redenzione di ciò che è accaduto, così nella storia. Il passato non deve
essere dunque chiuso, e considerato dallo storico materialista e dal rivoluzionario,
come concluso.328 Abbiamo visto che l’umanità redenta è quella che possiede
indicare, dove essa necessariamente lascia spazio al non ancora realizzato, la possibilità della felicità.”
Cit. in Dario Gentili, Il tempo della storia. Le “Tesi sul concetto di storia” di Walter Benjamin, Guida
editori, Napoli 2002,p. 145.
326
“La Vorstellung della felicità esprime proprio una dialettica temporale di possibilità e realtà: la
felicità presente è il risultato della realizzazione di possibilità passate, ma ogni realtà conserva sempre
ulteriori possibilità di essere felice. La felicità non si realizza mai pienamente, resta comunque in essa
l’invidia nei confronti della Vergangenheit che non-ancora è realizzata nel presente: la vera felicità non
si realizza totalmente nel Gewesen del presente, la sua Vorstellung piuttosto è una costante promessa di
felicità.” Cit. in Dario Gentili, Il tempo della storia. Le “Tesi sul concetto di storia” di Walter
Benjamin, Guida editori, Napoli 2002,p. 56.
327
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997, p. 23
328
“Ciò che è ‘passato’, non per questo è irrimediabilmente ‘abgeschlossen’, la struttura dell’accadere
storico non è aperta solo in direzione del futuro (come sembrerebbe ovvio), ma pure – per il ‘presente’
che lo conosce (e per chi nel presente ‘agisce’), in direzione del passato: ‘il passato reca con sé un
indice segreto, che lo rimanda alla redenzione.” Cit. in Fabrizio Desideri, Il nano gobbo e il giocatore
di scacchi, in Franco Rella, Critica e storia, Cluva libreria editrice, Venezia 1980, p.91.
144
integralmente il suo passato, che lo può citare: la redenzione passa cioè per la
salvazione di ciò che nel passato si è rivelato inconcluso, abbandonato, sconfitto: 329
“La storia non solo è una scienza ma non meno una forma della memoria. Ciò che la
scienza ha fissato, la memoria lo può modificare. La memoria può fare di ciò che è
inconcluso (la felicità) qualcosa di concluso, e di ciò che è concluso (la sofferenza)
qualcosa di inconcluso.” Proprio in questa fluidificazione del continuum storico e del
passato, la teologia – con le sue categorie fondamentali di memoria e di ricordo – è
fondativa del nuovo metodo storiografico e politico che Benjamin sta cercando di
delineare qui nelle Tesi.
E questa concezione storica benjaminiana deriva da una profonda fusione e osmosi tra
messianismo ebraico ed utopia libertaria, le cui influenze maggiori sono, da una parte
l’amico Gerschom Scholem, e dall’altra l’anarchico ebreo-tedesco Gustav Landauer.
L’associazione intima tra temi messianici e utopico-anarchici affonda le sue radici
nella critica neoromantica del “progresso”:330 dal romanticismo nasce infatti
l’attenzione di Benjamin per il passato, come unica prospettiva redentrice per il
futuro, la critica di una civiltà tecnico-scientifica che non porta la novità, ma,
ignorando il passato, lo condanna a ripetersi vuoto, infinitamente nel presente. Da qui
l’inclassificabilità del suo pensiero: è come se messianismo ebraico e marxismo si
correggessero l’uno con l’altro, dando luogo ad una strana forma di anarchismo
romantico.331
329
“Se applichiamo questa teoria della citazione a quella possibilità di citare il passato in ognuno dei
suoi momenti che costituisce il proprio dell’umanità redenta, allora la redenzione storica apparirà
inseparabile dalla capacità di strappare il passato a forza dal suo contesto, distruggendolo, per
restituirlo, trasfigurato, all’origine.” Cit. in Giorgio Agamben, Walter Benjamin e il demonico, in La
potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2010, p. 239.
330
“Partendo dalle stesse radici neoromantiche le due figure culturali (messianismo e utopia libertaria)
hanno in comune una struttura utopico-restituzionista, una prospettiva rivoluzionaria-catastrofica della
storia e un’immagine libertaria del futuro edenico.(…) Utopia, anarchismo, rivoluzione e messianismo
sono alchemicamente combinati ed articolati con una critica culturale neoromantica del progresso e
della conoscenza puramente tecnico-scientifica. Il passato (le comunità monastiche) e il futuro (l’utopia
anarchica) sono direttamente associati (in Benjamin) in una sintesi tipicamente romantico-
rivoluzionaria.”Cit. in Michael Löwy, Redenzione e utopia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p.106.
331
“Di solito, classifichiamo le diverse filosofie della storia secondo il loro carattere progressista o
conservatore, rivoluzionario o nostalgico del passato. Walter Benjamin sfugge a questi schemi. È un
145
Importante da sottolineare è come già dai suoi primi scritti giovanili, Benjamin si
scontri con il problema della temporalità, nodo cruciale che lo accompagnerà per tutto
il suo pensiero. La sua finalità è scardinare la concezione del tempo lineare, come
accumulazione di istanti, tipica dello storicismo e dell’illuminismo. Vuole e cerca di
fluidificare il concetto di passato, come un qualcosa di determinato e di ormai
concluso, che ormai si può solo contemplare in qualità del suo essere “fatto”.
E questa esigenza di rendere fluido il tempo si intravede già in Metafisica della
gioventù del 1913-1914, dove Benjamin tratta della scrittura diaristica. Il diario infatti,
fitto di punteggiatura nervosa, di spazi bianchi e di intervalli, dove solo il flusso di
coscienza dell’autore determina la struttura della narrazione, interrompe il continuum
temporale, fluidifica la cristallizzazione del tempo in passato, presente e futuro. Il
diario ci ridona il nostro passato, ne svela l’incompiutezza e ce lo restituisce nella
veste di possibilità futura.
E proprio questa incompiutezza del passato, ritorna in tutto il pensiero di Benjamin, ed
ha per lui un carattere positivo. È questa che rende possibile l’apertura delle
possibilità di un qualsiasi atto rivoluzionario o redentivo.
Nel primo Benjamin, questo ruolo viene svolto dalla gioventù. Sono gli studenti e i
giovani infatti che devono vedere nella realtà esistente quello scarto di incompiutezza,
che impone a cercare una ricomposizione del passato e a sviluppare una lotta per le
generazioni future. Scrive a riguardo in un articolo nella rivista “Der Anfang”, che
“segno sicuro di vecchiaia è di vedere la compiutezza dell’esistente”. È la gioventù a
doversi risvegliare e a mettere in discussione radicalmente i residui di incompiutezza
sparsi nel mondo. La gioventù deve risvegliare un passato, che se viene visto come
pietrificato e concluso, rende inermi, e imprigiona il futuro in una visione
omogeneizzata e livellata dal presente. Bisogna quindi rinnegare il tempo vuoto di
un’attesa che demanda la possibilità dell’emancipazione umana alla categoria del
critico rivoluzionario della filosofia del progresso, un avversario marxista del ‘progressismo’, un
nostalgico del passato che sogna l’avvenire, un romantico partigiano del materialismo. Egli è, in tutti i
sensi della parola, ‘inclassificabile.” Cit. in Michael Löwy, Segnalatore d’incendio, Bollati Boringhieri,
Torino 2004, p.8.
146
progresso, e “liberare il futuro dalla forma degenerata che lo imprigiona nel
presente”.
Il mito infatti si perpetua attraverso molte forme, tra cui una è anche la trasmissibilità
storica del passato, tradizionalmente intesa:
“Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo ‘proprio come è stato
davvero.’ Vuol dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di
pericolo. Per il materialista storico l’importante è trattenere un’immagine del
passato nel modo in cui s’impone imprevista al soggetto storico nell’attimo del
pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi
destinatari.(Tesi VI)”332
Conoscere il passato “così come è stato davvero” equivale a trattarlo al modo dello
storiscismo, come un insieme di fatti: in questo modo condannandolo
all’immobilità,333 e soprattutto portando ad immedesimarsi con i vincitori. La storia è
infatti sempre scritta da coloro che vincono, e trattare i fatti come semplici dati, porta
ad occultarne il loro lato nascosto, la possibilità e la dialetticità insita in loro, che
ancora non ha avuto modo di attualizzarsi. 334 La storia della cultura, il patrimonio
culturale, è sempre di una determinata società che è fondata sul dominio degli
oppressi e sul loro occultamento, sui senza nome che non hanno potuto parlare: per
questo ogni documento di cultura è contemporaneamente tesimonianza di barbarie,
non né può cioè venire astratto.335 Quello che Benjamin cerca, come abbiamo visto ne
Il carattere distruttivo, è un riarticolare il passato, citandolo e attualizzandolo:
nell’attimo di pericolo, in un determinato momento storico, un momento del passato
s’impone nel presente, e forma con esso una costellazione, una monade satura di
332
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997, p. 27.
333
“In un passato ammutolito dagli stretti nodi sistematici che la classe dominante ha intessuto al fine di
perpetuare, con l’ideologia del progresso, il proprio dominio nel presente, non risuona alcuna speranza
di felicità.” Cit. in Dario Gentili, Il tempo della storia. Le “Tesi sul concetto di storia” di Walter
Benjamin, Guida editori, Napoli 2002, p. 146..
334
“Questo non significa, per Benjamin, accantonare qualsiasi Wissenschaft der Geschichte, ma
volgersi contro quella che ha ‘fissato’ il passato nella ‘memoria’ della classe dominante, per far
risuonare nel presente l’eco del ‘rimosso’, l’insignificante che si voleva in essa definitivamente
sepolto.” Cit. in Fabrizio Desideri, Il nano gobbo e il giocatore di scacchi, in Franco Rella, Critica e
storia, Cluva libreria editrice, Venezia 1980, p.91.
147
Il carattere distruttivo, è un riarticolare il passato, citandolo e attualizzandolo:
nell’attimo di pericolo, in un determinato momento storico, un momento del passato
s’impone nel presente, e forma con esso una costellazione, una monade satura di
tensioni. Il carattere d’intervento su cui si deve basare la prassi del materialista
storico, deve cioè fondarsi nell’inversione del rapporto tra passato e presente, sulla
rivoluzione copernicana di Benjamin, in cui il tempo non è una successione lineare di
istanti, determinata ed irreversibile, ma si basa su una costruzione, che vede il passato
come non concluso e attualizzabile. Compito di Benjamin è spezzare la coscienza
mitica ed anestetizzata che sta dietro anche alla concezione storica dello storicismo:
bisogna smettere di lasciarsi trasportare e di fluire con la corrente del tempo, per
riuscire a “leggere ciò che non è mai stato scritto.”, fare di ciò che sembra concluso,
una possibilità. 336
Mentre lo storicismo vede nella storia universale un continuum lineare (in quanto
storia degli oppressori), Benjamin ha come fine il mostrare ciò che è discontinuo
all’interno del processo storico (cioè la storia degli oppressi e dei vinti), e che viene
occultato dalla tradizione dominante. Deve distruggere, in questo caso l’apparenza
continuum e con esso identificarsi: quello di queste crepe, delle rotture. Questo continuum è l’esatto
contrario dell’altro: mentre il primo si presentava come patrimonio culturale, quest’ultimo è ciò su cui
ogni cultura riposa: l’immensa massa di sofferenza senza nome. Dare a tali sofferenze un nome, una
memoria, è compito del materialista storico che ri-costruisce.” Cit. in Enzo Rutigliano, Lo sguardo
dell’angelo. Su Walter Benjamin, Dedalo libri, Bari 1981, p.24,25.
336
“Benjamin described his work as a "Copernican revolution" in the practice of history writing. His
aim was to destroy the mythic immediacy of the present, not by inserting it into a cultural continuum
that affirms the present as its culmination, but by discovering that constellation of historical origins
which has the power to explode history's "continuum." In the era of industrial culture, consciousness
exists in a mythic, dream state, against which historical knowledge is the only antidote. But the
particular kind of historical knowledge that is needed to free the present from myth is not easily
uncovered. Discarded and forgotten, it lies buried within surviving culture, remaining invisible
precisely because it was of so little use to those in power. Benjamin's "Copernican revolution"
completely strips "history" of its legitimating, ideological function. But if history is abandoned as a
conceptual structure that deceptively transfigures the present, its cultural contents are redeemed as the
source of critical knowledge that alone can place the present into question. Benjamin makes us aware
that the transmission of culture (high and low), which is central to this rescue operation, is a political
act of the highest import not because culture in itself has the power to change given, but because
historical memory affects decisively the collective, political will for change. Indeed, it is its only
nourishment.” Cit. in Susan Buck-Morrs, The dialectics of seeing: Walter Benjamin and the Arcade’s
project, The MIT Press, Cambridge Massachussets – London England, 1989, p. X.
148
storica, per poter poi costruire.337 Solo facendo leva su queste contraddizioni si può
arrivare a scardinare il dominio e a trasformare il presente: al tempo omogeneo e
vuoto dello storicismo si cerca di determinare il concetto di tempo storico come
costituito da Jetztzeit, cioè momenti discontinui, carichi di attualità. Il passato cioè è
all’interno del presente, ma non in maniera solo cronologica e logico-causale come
tradizione che ha portato ad essere in un determinato modo il presente, ma come parte
del presente stesso nella sua struttura stratificata: sostanza del tempo è il passato, e
non è una linea continua (come vorrebbe la tradizione dei vincitori), ma una strada
dissestata fatta di contraddizioni e interruzioni.
Il momento del pericolo all’interno del proprio presente, è per Benjamin l’unica
possibilità per far risvegliare una coscienza storica - dall’immedesimazione
(Einfühlung) in cui lo storico è caduto lasciandosi andare alle condizioni del presente -
: è cioè lo choc che richiama alla realtà, nascosta sotto la bella apparenza del fluire
storico continuo e lineare: l’attimo, con il suo essere fulmineo, caduco e
frammentario, è dunque ciò che si oppone all’infinitamente grande della continuità,
resistenza al tempo come continuum lineare.338 Se l’immedesimazione nel progresso
337
“Der Historismus sieht auf die Vergangenheit mit einem Blick, dessen Optik von der etablierten,
fortlaufenden Zeitlinie begrenzt ist. Er befestigt damit die Geschichte von Macht und Unterdrückung,
welche zu sprengen der materialistische Historiker sich als Aufgabe gesetzt hat. Der materialistiche
Historiker muß die Vorstellung von der kontinuierlichen Zeit zerstören, um die rettende Dimension der
Geschichte sichtbar zu machen. Er muß, um den historischen Sachverhalt konstruieren zu können, eine
destructive Rolle einnehemen. Benjamin behauptet: ‘Die Konstruktion setzt die Destruktion voraus.”
(Lo storicismo guarda al passato con uno sguardo, la cui ottica è delimitata da una linea del tempo che
scappa e che è già stabilita. Egli fissa la storia della violenza e della sottomissione, la stessa che il
materialista storico si è posto come compito di far saltare in aria. Lo storico materialista deve
distruggere la rappresentazione del tempo continuo, per rendere visibile la dimensione salvifica della
storia. Egli deve occupare un ruolo distruttivo, per poter costruire la situazione storica. Benjamin
afferma: “La construzione presuppone la distruzione.” Cit. in Dag T. Andersson,
Destruktion/Konstruktion, in Michael Opitz und Erdmut Wizisla, Benjamins Begriffe, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt am Main 2000, p. 147.
338
“L’attimo è l’unica forma possibile di resistenza al tempo, una volta che si intenda il divenire
temporale come l’insieme dei detriti dell’essere. Allora, e deduttivamente, l’istante diviene la forma di
negazione dell’infinitamente grande nella possibilità dell’infinitamente piccolo. (…) La pretesa
d’essere del materialista storico, in quanto si annuncia in una rottura con l’esistente, ne riceve dal
presente dominante riprovazione e condanna. La visione dell’attimo è di per se stessa terroristica,
149
dei vincitori è il ponte, l’anello di congiunzione che unisce lo storicismo come metodo
storiografico alla classe dominante, ciò che permette di fluire nella corrente storica, il
momento di pericolo opera come l’Ausdrücklose nel Saggio sulle affinità elettive,
interrompendo la bella apparenza di continuità e inserendo in essa la forza critica del
vero. Alla descrizione epico-narrativa e semplicemente empirica della storia data dallo
storicismo, il metodo benjaminiano prospetta una Konstruction teorica: alla passività
della descrizione, viene contrapposta l’attività della costruzione, e questa è possibile
solo se l’attimo di pericolo risveglia le coscienze: “Lo storicismo culmina di diritto
nella storia universale. Con essa la storiografia materialistica constrasta
metodologicamente forse in modo più chiaro che con ogni altra. La prima non ha
alcuna armatura teoretica. Il suo procedimento è additivo; essa mobilita la massa dei
fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto. Per contro alla base della storiografia
materialistica sta un principio costruttivo.”339
La forza teorica e pratica della Jetztzeit, del tempo-ora come istante qualitativamente
diverso l’uno dall’altro (e perciò non inscrivibile in una storia quantitativamente
omogenea e lineare), può essere verificata solo nella coscienza di far saltare il
continuum della storia che le classi rivoluzionarie hanno nel momento della loro
azione; qui esse guadagnano la loro verità messianica. Come il Dio ebraico si affida al
suo popolo, dice a Mosè nell’episodio del roveto ardente “io sarò colui che sarò” -
affidando all’azione dell’uomo anche la sua stessa redenzione-restituzione
all’origine340 - così la potenza teorica del concetto di Jetztzeit rivela la sua verità solo
violenta, nel suo far balenare l’immagine ‘una volta per tutte’ anziché in un’ordinata successione. Un
prima e un dopo fanno norma, l’istante fa eversione, nell’alternativa proposta dall’insieme delle tesi.
Secondo etica, chi vive nell’attimo muore, poi, subito; e chi vive nella continuità è morto, sempre in
essa.” Cit. Paolo Pullega, Commento alle “Tesi di filosofia della storia” di Walter Benjamin, Cappelli
Editore, Bologna 1980, p.18.
339
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997, p. 51.
340
“Sarò colui che sarò lascia aperta ogni definizione alla imprevedibilità infinita dell’a-venire, alla
esperienza umana del tempo. (…) Lo scarto che si apre tra i due futuri è quello del linguaggio e dunque
della storia. Ed è in questo scarto che l’io divino si lascia declinare e coniugare nella grammatica del
tempo umano. Con la rivelazione Sarò colui che sarò Dio, affermando la sua identità, si proietta
nondimeno sul filo della storia. Nel nominarsi al tempo futuro e nella modalità dell’im-perfetto, rivela
la sua esigenza di divenire, palesa la sua incompiutezza. Mentre promette di essere e di compiere,
150
se effettivamente il movimento rivoluzionario riesce ad interrompere la linearità della
storia dei vincitori:341 ancora una volta piano epistemologico e piano politico sono
strettamente connessi. Il rapporto teoria-prassi è talmente stretto, che dall’azione
pratica ne va della validità teorica di un concetto.
Con l’azione rivoluzionaria quindi non si modifica solamente l’assetto politico-sociale
del presente, ma anche l’immagine del passato, si distrugge cioè la tradizione su cui si
appoggiava la classe fin’allora dominante.342 E questo è fondamentale: senza il passato
mistificato dai vincitori, senza la tradizione su cui legittimare e su cui riprodurre
miticamente l’atto di nascita e di perpetuazione di un potere, questo stesso potere
crolla, non ha più le sue stampelle rituali e le sue liturgie strutturali: per questo per
Benjamin la distruzione del presente deve passare prima per la demolizione della
concezione e della tradizione storica dei vincitori (questo “prima è da intendersi in
senso logico e non cronologico, perché cronologicamente sì dà contemporaneità di
azione e pensiero).
Come il fenomeno della moda, scrive Benjamin nella XIV tesi, “ha buon fiuto per ciò
che è attuale, dovunque esso si muova nel folto di tempi lontani. Essa è il balzo di
tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante.
Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx
chiede di divenire e di compiersi. (…) La redenzione appare anche redenzione di Dio. (…) Questo Dio
che diviene fino alla fine, il ‘Dio vivente’ della Toràh, è ben lontano dall’Ente supremo dell’onto-
teologia greca, immobile e identico a se stesso.” Cit. in Donatella Di Cesare, Grammatica dei tempi
messianici, Edizioni Albo Versorio, Milano 2008, p.56, 57.
341
“In his ‘Theses on the Philosophy of History’ Benjamin speaks of a ‘Messianic cessation of
happening, or, put differently, a revolutionary chance in the fight for the oppressed past’. Here we see
that the Messiah causes a cessation in the ‘happening’ of the phantasmagoria, a rent in our (idolatrous)
sense of space and time. In this space or cessation we get ‘a revolutionary chance’. The Messianic act
of eliminating its own idolatry affords the possibility of our own response. The rest is up to us. And, for
Benjamin, we have one other vital ally in our fight with myth, namely the very idols that compose our
world. This is perhaps the key strategic insight that Benjamin affords us, because it offers us a way not
to have to rely on our own intentions (which for Benjamin are always compromised, even for the most
ardent leftists amongst us). It means that we do not have to ‘wait for God’ to deliver us (the subject of
the next chapter), insofar as there is an element of divine violence that is always present in the world. “
Cit. in James R. Martel, Divine violence. Walter Benjamin and the eschatology of sovereignty,
Routledge, Londra 2012, p. 52.
342
Cfr. Fabrizio Desideri, Il nano gobbo e il giocatore di scacchi, in Franco Rella, Critica e storia,
Cluva libreria editrice, Venezia 1980, p.95.
151
ha concepito la rivoluzione.”343 La moda è cioè bravissima nel citare e riattualizzare il
passato, essa però compie questo movimento al servizio del capitalismo e della classe
borghese. Installandosi formalmente nello stesso dispositivo della moda, il vero salto
dialettico nel passato può essere compiuto solo dalla rivoluzione. Rivoluzione e moda
sono quindi accomunate dalla stessa forma (se comprendiamo il movimento della
prima, afferriamo anche la seconda), l’una però al servizio del potere, l’altra per la sua
abolizione. E il salto dialettico nel passato è sempre ciò che interrompe la continuità
narrativa dello storicismo e della storia raccontata dai vincitori, e oppone a questa
come descrizione, una costruzione attiva:344 citare il passato, renderlo attuale nel
presente, vuol dire costruirlo, vuol dire rendere visibile una costellazione satura di
tensioni.
E questa “costellazione satura di tensioni” è proprio il cristallizzarsi monadico della
storia ad opera della costruzione materialistica: dove gli eventi del passato vengono
citati e messi in collegamento col presente, essi non sono più riducibili al metodo
additivo dello storicismo, non sono più vuoti ed omogenei, ma, dotati di qualità e di
spessore, interrompono il corso di una storia lineare con la loro profondità e viscosità:
345
“Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul
343
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi editore, Torino 1997, p. 47.
344
Interessante l’accostamento del metodo benjaminiano del montaggio, alla marxiana divisione tra
metodo della ricerca e metodo della costruzione: “In merito a tale ‘principio costruttivo’ possiamo
avanzare l’ipotesi che esso sia nei confronti della precedente ‘ricerca filologica’ in un rapporto analogo
a quello che Marx pone, nel Nachwort alla seconda edizione del Capitale, tra Forschungweise e
Darstellungweise. Se il concetto di costruzione si può derivare, in Benjamin, dal ‘principio di
montaggio’ delle avanguardie, non lo si può affatto limitare ad esso, in quanto vi è senz’altro presente
la tradizione speculativa dell’idealismo tedesco, come del resto nel concetto marxiano di Darstellung.”
Cit. in Fabrizio Desideri, Il nano gobbo e il giocatore di scacchi, in Franco Rella, Critica e storia,
Cluva libreria editrice, Venezia 1980, p.112.
345
“Denn die Erinnerung verfährt konstruktiv, weil sie die Vergangenheit nicht abbildet, sondern neu
erschafft; sie bringt die Geschichte zum Stillstand, weil sie die Zeit zu Bildern verdichtet; sie zitiert die
Geschichte, weil sie nur bestimmte Elemente der Vergangenheit vergegenwärtigt; sie ist destruktiv,
weil sie aus dem Kontinuum der Vergangenheit nur Bruckstücke vergegenwärtigt; sie verfährt
monadisch, weil sie die Vergangenheit in geschlossenen Einheiten präsentiert; und sie verfährt rettend,
weil sie alle Elemente der Vergangenheit gegen ihre offizielle Überlieferung bewahren kann.” (Quindi
il ricordo procede construttivamente, in quanto non riproduce semplicemente il passato, ma lo crea
nuovamente; porta la storia allo stato di quiete, perché condensa il tempo in immagini; cita la storia, in
152
passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora
in una costellazione. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è
puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica:
non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti.”346
Esattamente come l’idea del dramma barocco tedesco era una connessione di estremi
fenomenici, visti nella loro pre e post storia, così la monade è una connessione di
estremi storici, un collegamento tra un passato, un presente e un futuro, legati da una
comune interpretazione. L’idea è monade, e la monade come costellazione satura di
tensioni è un’immagine dialettica: tre figure che vengono a diventare quasi sinonimi
nella riflessione dell’ultimo Benjamin. L’immagine dialettica infatti è per Benjamin
una coesistenza di poli dialettici, di estremi, che non arrivano ad una sintesi, non
cercano il continuo sviluppo, ma si stabilizzano nella loro instabilità e tensione, in una
quiete carica di tensioni.347 Per questo le immagini dialettiche sono caratterizzate da
ambiguità (Zweideutigkeit), la stessa ambiguità che Benjamin andrà a scandagliare
negli oggetti inappariscenti e nelle figure della duplicità della Parigi del
diciannovesimo secolo, nel lavoro sui Passages, e che viene messa in mostra
nell’analisi del patrimonio culturale, documento di cultura che nasconde e oblia dietro
di sé la barbarie del sistema di produzione e sfruttamento in cui si è venuto a dare.348
quanto presentifica solo elementi determinati del passato; il ricordo è distruttivo, perché presentifica dal
continuum del passato solo dei frammenti; procede monadicamente, in quanto presenta il passato in
unità organiche; e infine procede salvando, perché può salvare tutti gli elementi del passato contro il
loro tramandamento ufficiale.) (traduzione mia). Cit. in Detlev Schöttker, Erinnern, in Michael Opitz
und Erdmut Wizisla, Benjamins Begriffe, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2000, p. 296.
346
Walter Benjamin, I “Passages” di Parigi, Einuadi, Torino 2010, p. 516.
347
“Das dialektische Bild ist eine Konfiguration im historischen Prozeß, die dadurch aus dem Fluß des
Geschehens sich als Bild heraushebt, daß sie einem aktiv fixierenden Moment des Erkennens unterliegt
und damit auf eine Wirklichkeit ungelebten Lebens verweist. (L’immagine dialettica è una
configurazione nel processo storico, che si strappa via in forma di immagine dal flusso degli
avvenimenti, che soccombe ad un attivo e fissante momento del conoscere, affinchè si indirizzi ad una
realtà di una vita non vissuta) (traduzione mia). Cit. in Ansgar Hillach, Dialetkisches Bild, in in
Michael Opitz und Erdmut Wizisla, Benjamins Begriffe, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2000, p.
187.
348
“La strutturale ambiguità (Zweideutigkeit) che la caratterizza non si configura come assenza di
determinazione o di determinabilità, ma è data dalla coesistenza dei poli dialettici, che non vengono
153
E la costruzione storica in monade ad opera dello storico materialista, non può essere
una costruzione soggettiva, un portato dell’Erlebnis dello stesso storico: piuttosto è
un’ Erfahrung della storia.349 Da un lato infatti la monade storica viene prodotta
dall’arrestarsi del pensiero, quindi da un’operazione soggettiva dello storico, dall’altro
però, il pensiero può arrestarsi - nell’attimo del pericolo, quindi in un preciso
momento storico - proprio perché è in questo determinato momento che una
connessione storica monadica si presenta già parzialmente formata. C’è un reciproco
costituirsi e un incontro tra un’oggettività storica in potenza, che si potrebbe dare, ma
che ha bisogno dello sguardo attento e dell’arrestarsi del pensiero di un soggetto
storico preciso.
La storia si deve strutturare dunque, in quanto monadica, non come omogenea e
lineare, ma come una sequenza discontinua di attimi, di frammenti, di immagini
dialettiche – portatrici di un indice storico e che quindi giungono a visibilità solo in un
154
preciso momento - , che non cercano una sintesi, ma un’esplosione, un’interruzione. 350
Le immagini dialettiche producono una lettura critica del presente in cui si trovano,
svelano la mistificazione al di sotto della bella apparenza: come le allegorie nel
Dramma barocco tedesco, esse svelano l’incompiutezza e la mancanza di totalità di
un mondo non redento, distruggono una concezione di un progresso sintetico verso
l’attuazione di una ragione universale, combattono contro l’universo chiuso del mito
che vorrebbe perpetuare se stesso.351 Se la dialettica hegeliana conferisce la struttura
teoretica al concetto di progresso del capitalismo avanzato, la dialettica benjaminiana
le si contrappone come ciò che la interrompe e ne svela tutta la mistificazione e
caducità.
350
“Seine Geschichtsschreibung ist ein nichtlinearer Diskurs, bestehend, aus Fragmenten, die aus der
Kontinuum der Geschichte herausgelesen und zu einer Konstellation angeordnet werden, die den
geschichtlichen Gesamtprozeß beleuchtet.” (Il suo scrivere storia è un discorso non lineare, consistente
in frammenti che vengono letti tra le righe del continuum storico, e che vengono ordinati in una
constellazione che illumina l’intero processo storico) (traduzione mia). Cit. in Willi Bolle, Geschichte,
in Michael Opitz und Erdmut Wizisla, Benjamins Begriffe, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2000,
p. 419.
351
“L’immagine dialettica è la trasposizione dell’allegoria in ambito di filosofia della storia. Benjamin
stesso istituisce in più luoghi questo paragone. Immagine dialettica e allegoria costituiscono degli
antidoti contro il mito e in particolare contro la sua pretesa di formare una totalità. Esse oscillano tra
gli estremi e nel fare questo vogliono confermare il fatto che la modenità non si offre al soggetto come
totalità, ma come insieme di frammenti, percepiti in una successione discontinua di chocs.” Cit. in
Maria Teresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia, Quodlibet,
Macerata 2008, p. 52.
155
Conclusioni
Cosa ci prospettano dunque le Tesi di filosofia della storia ai fini del nostro discorso?
La nostra problematica è stata fin dall’inizio quella di delineare, nell’arco della
produzione benjaminiana, il concetto di mito e di storia naturale: come abbiamo visto,
due punti di vista diversi della stessa problematica, cioè della ciclicità e della
possibilità o meno di fare storia nel senso profondo del termine, cioè come produzione
di novità reali.
Abbiamo visto essere per Benjamin la storia normalmente intesa, la storia dei
vincitori, solo una mistificazione di questa storia come produzione della novità: cioè
essa è per Benjamin, mito, universo chiuso dove tutto si ripete da sempre e per
sempre. E questa ciclicità, questa ripetizione, è sempre intimamente connessa alla
perpetuazione di un potere che si vuole intoccabile, in quanto miticamente fondato. Il
mito nella modernità e per Benjamin è cioè un dispositivo di legittimazione di un
qualcosa che ha le sue basi sul nulla: proiettarne invece le origini in un inizio
inattingibile, e mistificando ciò che è contingente sotto i panni di ciò che è necessario,
lo rendono invincibile.
Per questo, a partire da Per la critica della violenza Benjamin ci smaschera il potere,
l’autorità e il diritto, come spettri del mito, e in questo modo ne rompe la tradizione di
inattaccabilità su cui si vorrebbero fondare. Sempre in questo testo prospetta il darsi
della possibilità di una giustizia divina che si contrapponga alla giustizia mistificata
del diritto, e ne spezzi l’apparenza. Spezzandone l’apparenza, ne spezzerebbe anche il
suo ciclico porsi e conservarsi, in eterno.
Quello a cui Benjamin aspira è cioè rivelare tutti gli strumenti e le forme che il mito
usa per nascondersi e insinuarsi nella storia dell’umanità per bloccarla ed eternarla a
natura. Una delle forme maggiormente paradigmatiche di questo movimento
sotterraneo è per Benjamin sicuramente il concetto di progresso. Potremmo leggere
156
tutta l’opera di Benjamin infatti come una demistificazione di questo concetto, in tutte
le forme in cui si viene a trovare, e principalmente, a livello politico, in quelle del
progressismo e della riforma. Se il progressismo – fondato sul mito di un progresso
ineluttabile – ha portato all’avvento dei fascismi in Europa, in quanto ha condannato
alla passività e all’inazione – la riforma del diritto e della politica non è altro che il
meccanismo che inscrive ogni possibilità insurrezionale e di cambiamento all’interno
di un discorso e di un potere demonicamente mitico. La riforma è cioè il palliativo che
porta le forze rivoluzionare a volere il diritto, a desiderarlo ardentemente, pensando di
cambiarlo: è ciò che perpetua maggiormente il dominio del mito come dominio di una
fissità di potere falsa e nociva.
Per rompere questa continuità monolitica di una storia ridotta alla ciclicità della
natura, le Tesi sul concetto di storia prospettano invece una fluidificazione della storia
vista come unico blocco condannato al progresso, e, di contro, un’attualizzazione di
ciò che nel passato è stato sconfitto e amalgamato in un progresso lineare e continuo.
Scopo di Benjamin è rendere visibili le crepe della storia, per poterle usare come leve
per scardinare la sua apparente continuità e la sua mistificata razionalità. Quello cioè
che nei saggi giovanili veniva visto come “mito”, assume nelle Tesi l’aspetto della
storia tout court così come viene tradizionalmente tramandata.
E categoria che fin dagli scritti giovanili si contrappone al fluire e alla ciclicità è
quella di decisione, di eticità: come negli scritti giovanili permette infatti di uscire
dalla vita semplicemente naturale, dalla nuda vita, con il suo legame intimo con il
mito ed il destino, nelle Tesi e negli scritti dell’ultimo periodo, è la presenza di spirito
che permette di attualizzare un momento carico di tempo del passato, e così di
interrompere il continuum storico mitico. La decisione è dunque ciò che interrompe la
natura, è l’arresto della ciclicità.
Bersaglio polemico rimane nella riflessione benjaminiana sempre Hegel, come colui
che più di ogni altro può essere utilizzato per legittimare la storia come progresso,
come natura e come mito (al di là della sua effettiva compromissione con questi
concetti: appoggiandoci il più possibile all’interpretazione di Adorno, non siamo
voluti infatti entrare nel dibattito sulla giustezza o meno della sua stessa
157
interpretazione; questo sforzo avrebbe richiesto un lavoro a parte altrettanto
impegnativo, e nel presente, superiore alle nostre forze).
Speranza di questo lavoro è di avere un carattere performativo, cioè di – dopo aver
analizzato il processo mitico in tutte le sue forme – portare chi ne usufruirà, a spezzare
la mistificazione di questo processo stesso, e di agire contro le forme in cui esso si
perpetua.
A posteriori possiamo infatti leggere anche, ogni volta che Benjamin usa la parola
mito e ne descrive un aspetto, il fenomeno del capitalismo avanzato: processo – e non
sostanza – che in quanto tale, ingloba dialetticamente tutto ciò che gli si presenta
contro come attrito, diventando sempre più onnicomprensivo.
Il lascito benjaminiano è intenso e insieme disperato. L’attimo della leggibilità e della
conoscibilità del passato – la crepa su cui si può far leva per interrompere la storia
mitica degli oppressori, il momento ancora non inglobato nel processo della modernità
capitalista – passa di sfuggita, è continuamente soggetto alla possibilità di svanire per
sempre. Per questo, come nel saggio su Kafka, prima qualità che deve esercitare sia lo
storico materialista che il rivoluzionario (due aspetti della stessa medaglia nel
Benjamin delle Tesi), è l’attenzione, il non lasciarsi sfuggire l’occasione per
riarticolare la storia e interromperla, dove ogni momento deve essere considerato la
piccola porta da cui può entrare il messia e la redenzione.
Perché è una tempesta che spira dall’oblio - oblio che vediamo, in ambito di
biopolitica, attuato in tutti i campi di gestione dei corpi nelle società spettacolari
avanzate - e lo studio, l’attenzione, devono essere una cavalcata che muove contro di
essa.
158
Bibliografia primaria
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