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Nietzsche - Filosofia

Contemporanea - prof. Rametta


Filosofia
Università degli Studi di Padova (UNIPD)
86 pag.

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26 marzo (lezione con Simone Aurora)

FRIEDRICH NIETZSCHE (1844-1900)


Biografia:
Nietzsche nasce nel 1844 a Rocken siamo in Germania orientale e muore nel 1900, piuttosto giovane a
Weimar (leggi Waimar) dove si trova perché è affetto da una malattia nervosa che lo porterà gradualmente
a scivolare in una condizione di follia.
Sotto la supervisione della madre e in particolare della sorella Elisabeth, Nietzsche viene appunto rinchiuso
in una clinica per malattie nervose presso la città di Weimar dove si spense dilaniato dalla malattia. Questo
è importante perché l’ultimissima fase della produzione di Nietzsche, anche dal punto di vista dell’analisi
testuale, non può prescindere dalla considerazione circa le condizioni di salute in cui versa Nietzsche stesso.
In un testo che fa in qualche modo da cerniera tra la fase matura della produzione nietzschiana e la
produzione già affetta dalla malattia nervosa, che è appunto “Ecce homo” che è una sorta di autobiografia,
già si intravedono segni, segnali del peggioramento della malattia nervosa. In questo testo ci sono già
formulazioni molto provocatorie, eccentriche da parte di Nietzsche e in scritti invece di carattere privato, in
lettere e note che invia a conoscenti e ad amici, assistiamo ad un vero e proprio delirio da parte di
Nietzsche. La malattia di N. è un elemento non solo biografico ma è un elemento che ha anche un incidenza
sulla sua produzione. Evidentemente bisogna stare attenti nel senso che non bisogna tuttavia fare della
malattia di N. un elemento che in qualche modo ne squalifichi la produzione filosofica.
In una prima fase si è infatti teso a bollare tutta filosofia di N. come intrinsecamente affetta da un elemento
patologico che i spiegherebbe sulla base delle condizioni nervose psichiche in cui N. stesso versava. In
realtà la critica più recente è giunta ormai a condividere la tesi secondo la quale, seppur non bisogna
assolutamente prescindere dall’elemento biografico della malattia, non bisogna nemmeno accentuare il
ruolo che la malattia ha avuto rispetto alla filosofia di N.
N. si iscrive inizialmente alla facoltà di teologia a Bonn nel 1864 ma l’anno successivo, 1865 vede un cambio
di indirizzo di studi che si sposta invece a Lipsia dove studia non filosofia ma filologia classica. Quindi
inizialmente si dedica allo studio della teologia a Bon ma subitaneamente cambia indirizzi di studi e dal
1865 studia filologia classica a Lipsia. Lipsia che nella seconda metà del 800 è uno dei centri universitari più
importanti d’Europa. N. si laurea in filologia classica e in un primo momento esercita la professione di
professore di lingua e letteratura greca. Quindi la formazione nietzschiana è una formazione in primo luogo
di carattere filologico e in particolare relativo agli studi di filologia classica. N. studioso della lingua e della
letteratura dei greci. Questo è evidente nella produzione di N. perché la sua prima opera importante scritta
nel 1872 è “Nascita della tragedia” che è uno studio di carattere filologico anche se già con elementi
marcatamente filosofici della cultura greca e di quella particolare espressione della cultura e dell’arte greca
che è la tragedia.
Nel 1869, a 24 anni, N. diventa professore di lingua e letteratura greca all’università di Basilea.
Qui N. conosce una figura fondamentale, soprattutto per la prima fase della sua produzione, ovvero il
compositore e musicista Richard Wagner con cui nasce una amicizia importante. Wagner rappresenta
insieme a Schopenhauer il punto di riferimento intellettuale della produzione del primo N. e la rottura con
Wagner rappresenterà invece uno degli elementi che porta il pensiero di N. ad una svolta. Sarà uno degli
elementi che caratterizzerà il passaggio dalla prima fase, una fase che potremmo definire estetica del
pensiero di N., ad una fase invece più matura che buona parte della critica, per motivi che vedremo, chiama
illuministica. Quindi Wagner, insieme a Schopenhauer è figura determinante sia in negativo che in positivo.
In positivo perché nella prima fase della produzione costituisce uno dei punti di riferimento intellettuali, e
in negativo perché sarà proprio attraverso una rottura con Wagner che N. compirà un passo che lo porterà
in una fase successiva della sua riflessione filosofica. Quindi siamo a Basilea nel 1869 e N. appunto assume
l’insegnamento di storia e cultura greca presso l’università di Basilea.

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Le prime opere sono sostanzialmente il frutto del lavoro che N. conduce. Professore universitario di lingua e
letteratura greca.
Prima opera importante nel 1872: Nascita della tragedia
Già dal titolo possiamo cogliere 2 cose fondamentali:
1) la considerazione da parte di N. dell’espressione artistica come fondamentale dell’esperienza umana.
Espressione più caratteristica dell’arte greca: la tragedia. Quindi punto di riferimento di N. inizialmente è
l’arte, una riflessione filosofica sull’espressione artistica focalizzarsi della riflessione filosofica di N.
sull’arte, tanto che appunto come dicevamo si può parlare per quel che riguarda la prima fase della
produzione di N. di una fase estetica, perché appunto l’arte è posta al centro della riflessione filosofica.
2)l’elemento tragico. La filosofia di N., come già la filosofia di Schopenhauer, è una filosofia tragica = è una
filosofia della scissione, della separazione, della cesura. Una filosofia che pone al proprio centro un confitto
insanabile tra istanze contrarie, tra forze contrarie. Un contrasto irrisolvibile, insanabile tra forze
contrastanti. L’elemento tragico interno alla filosofia di N. è ciò che la rende intrinsecamente anti dialettica,
cioè antihegeliana. Hegel è per N. un riferimento critico. Nel senso che all’interno della filosofia hegeliana,
in particolare riferimento alla dialettica hegeliana, noi troviamo una struttura che permette la
riconciliazione dei conflitti (momento affermativo al quale si oppone quello antitetico ma a tesi e antitesi
segue la sintesi = l’esclusione dei conflitti. Quindi abbiamo delle istanze opposte, abbiamo delle
opposizioni, degli elementi contraddittori che si rivelano però in ultima istanza solo apparentemente
contradittori, in realtà vi è sempre un elemento, l’elemento sintetico che risolve i contrasti. Pacifica le
opposizioni). La filosofia di N. invece manca programmaticamente dell’elemento sintetico, cioè gli opposti, i
contrasti non trovano mai una loro risoluzione. In questo senso permane una scissione, uno scontro tra
forze che sono tra loro opposte e che rendono la riflessione filosofica di N. una riflessione di carattere
tragico in senso tecnico. Su questo ritorneremo più avanti.
Quindi nelle prime opere si delinea quello che la critica ha definito il “periodo estetico” della produzione
nietzschiana, perché appunto l’arte è al centro della riflessione filosofica di Nietzsche. Elemento estetico lo
ritroviamo anche nel sottotitolo della Nascita della tragedia. Dallo spirito della musica.
Da che cosa è caratterizzata la tragedia? Dalla commistione di parole e musica dove la musica gioca un
ruolo privilegiato. (rapporto con Wagner  compositore musicale). Già in quest’opera la postura di N. è
vagamente filosofica, è un filologo già indirizzato a soffermarsi su un tipo di analisi di carattere filosofico.
Nascita della tragedia avrà un’accoglienza molto problematica da parte della comunità scientifica dei
filologi di professione e troverà semmai l’interesse di figure che sono molto più legate all’ambito della
filosofia che non a quello della filologia.
In generale comunque i primi testi di N. non trovano un grande successo.
Quando invece nel 1900 N. si avvierà a concludere la sua esistenza i suoi libri circoleranno in lungo e in
largo per l’Europa. Quindi, libro di riflessione filologica sulla grecità classica ma che presenta già una
tendenza marcatamente filosofica. Del resto N. già nel 1866 (l’anno dopo aver assunto la direzione della
cattedra presso l’università di Basilea) aveva compiuto una serie di letture filosofiche che risulteranno
fondamentali. 1866, N. è appena diventato professore universitario e legge 2 opere fondamentali che
segneranno in particolare la prima fase della sua produzione: da un lato un testo di Lange (leggi Langhe)
Storia del materialismo, opera importante da ricordare perché contiene una rivalutazione del materialismo
come opzione filosofica. Non dimentichiamo che siamo nella 2° metà dell’800, siamo in Germania, Hegel è
morto nel 1831 e il clima filosofico che si respira ancora è un clima in cui imperversano l’idealismo e il
romanticismo, quindi tradizioni di pensiero che tendono a rifiutare qualsiasi visione del mondo di carattere
materialistico. Rivalutazione del materialismo è importante per N. perché N. trova in questo testo materiale
per costruire la sua visione del mondo radicalmente anti-idealistica.
L’altro testo importante che ha letto è “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer. N.
racconta di aver letto questo testo in una notte insonne e di aver ricevuto una illuminazione totale, non a
caso Schopenhauer è il punto di riferimento filosofico del primo Nietzsche. Quindi già nel 1866 N. compie
delle importante letture filosofiche che segnano appunto il suo cammino intellettuale.

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Due anni dopo, nel 1868, N. legge e commenta con note e annotazioni il testo di Kant chiamato “Critica
della praticità di giudizio”.
Quindi questi sono le 3 letture filosoficamente più importanti che segnano la maturazione filosofica del N.
filologo.
Nella prima fase, quella estetica, due sono i riferimenti espliciti dal punto di vista individuale che N. mette
in gioco: Schopenhauer e Wagner.
Non a caso l’altro testo importante di questa prima fase della produzione nietzschiana, in realtà è una
raccolta di saggi che N. scrive tra il 1873 – 1876. 4 saggi che vengono poi raccolti e pubblicati sotto il titolo
di “considerazioni inattuali”. Qui dobbiamo soffermarci sul termine inattuale. Che cosa vuol dire questo
termine in riferimento al pensiero di N.? intanto una prima osservazione è quella che ci permette di
individuare nel concetto di inattualità un riferimento che nega la dimensione del tempo. Dimensione del
tempo e della temporalità che sarà al centro anche dell’elaborazione filosofica più matura di N. una delle
dottrine, una delle teorie filosofiche più importanti sviluppate da N. sarà non a caso la teoria dell’eterno
ritorno che troveremo nella fase matura di N. questa teoria non è altro che un tentativo di ripensare la
temporalità. Inattuale vuole ire non attuale, cioè non conforme al tempo in cui si è, estraneo rispetto al
tempo in cui l’opera è scritta. Sono considerazioni che sono fuori dal tempo in cui vengono scritte. Fuori dal
tempo = contrarie al tempo in cui vengono pronunciate, esterne, esteriori all’epoca in cui N. si trova a
scrivere. Sono considerazioni che si pongono in una dimensione altra rispetto a quella dominante nel
tempo e nell’epoca di N. e si trovano in questa condizione di esteriorità in maniera programmatica, cioè
non sono inattuali in senso negativo, non sono purtroppo inattuali, ma rivendicano invece la loro estraneità
totale rispetto alla rappresentazione del tempo e all’epoca in cui queste considerazione vengono scritte e in
cui la filosofia di N. si esprime.
= carattere polemico della filosofia di N.  polemico = guerra, conflitto. Quindi la filosofia di N. è una
filosofia polemica, conflittuale, critica che si rivolge contro il sistema di valori e le concezioni che sono
dominante.
Le considerazioni inattuali sono 4, cioè 4 sono i saggi che compongono quest’opera. Il primo è stato
composto nel 1873 ed è dedicato a David Strauss, teologo e filosofico che ha pubblicato un testo che N.
critica perché contiene una visione storico-teologica di ascendenza hegeliana, cioè di ascendenza dialettica,
idealistica. Quindi la prima delle considerazioni inattuali si chiama “David Strauss, il confessore e lo
scrittore” e costituisce appunto un attacco a una visione teologica di tipo idealistico hegeliano. La seconda
considerazione inattuale, che ci interessa di più, è dell’anno successivo 1874, e si chiama “Sull’utilità e il
danno della storia per la vita”. Importante è il tema della storia che di nuovo ci riporta alla dimensione del
tempo e della temporalità e il tema della vita che sarà fondamentale nel corso di tutta l’elaborazione
filosofica di N. Vedremo in che modo ma tutta la filosofia di N. vuole essere una difesa, una fortificazione di
ciò che costituisce la nostra vita. Vita che, come vedremo, viene programmaticamente e costantemente
mortificata, depotenziata dalle espressioni dominanti della cultura e della religione che N. prova a criticare.
Questa considerazione è una critica dello storicismo che N. definisce una “malattia storica”.
Sotto alla critica dello storicismo, che è tratto fondamentale della cultura tedesca della 2° metà dll’800, sta
di nuovo l’ombra di Hegel che viene criticata da N.
La terza considerazione, sempre 1874, ha un titolo emblematico che si chiama “Schopenhauer come
educatore” e dichiara in maniera esplicita ed evidenti il debito che N. contrae nei confronti della filosofia di
Schopenhauer.
La quarta che viene pubblicata nel 1876 indica l’altro debito che abbiamo ricordato dal punto di vista
intellettuale che N. riconosce, cioè il debito nei confronti di Richard Wagner, infatti questa inattuale si
chiama “Richard Wagner a Bayreuth” (leggi “Bairoi). Bayreuth è una cittadina tedesca dove Wagner ha
costruito il proprio teatro, un teatro che è dedicato appositamente alla messa in scena delle proprie opere.
Wagner ha l’idea di opera d’arte totale che dovrebbe convogliare tutte le espressioni artistiche, cioè non
solo la musica ma anche la letteratura, la danza, il teatro e via dicendo. Per mettere in atto questa idea di
arte che Wagner sviluppa, viene costruito in questa cittadina un teatro dove tutt’oggi si svolge il festival
wagneriano.

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Le Considerazioni inattuali ci permettono di guadagnare una serie di elementi teorici, seppur espressi in
forma embrionale, e di esplicitare i debiti intellettuali che appunto N. riconosce al pensiero di
Schopenhauer e alla vita artistica di Wagner.
Vedremo che questa prima fase si conclude nel 1880 con un opera chiamata “Umano, troppo umano”,
opera che da avvio alla seconda fase della produzione nietzschiana, che è la fase cosiddetta illuministica.
Quindi questa prima fase, fase estetica o estetizzante va dal 1872 (anno della prima pubblicazione
importante di N. “Nascita della tragedia”) al 1880 (anno in cui pubblica “Umano, troppo umano”).
Umani, troppo umani saranno i cosiddetti valori ideali assoluti e ciò che noi riteniamo essere espressione di
una qualche forma di trascendenza, di idealità, di assolutezza, non sono nient’altro che l’espressione di
bisogni e di necessità che sono assolutamente materiali, umani troppo umani appunto dietro ai valori
spirituali si nascondo appunto delle banali necessità di carattere naturale, fisiologico, psicologico. Es: che
cosa sarà Dio? Nient’altro che l’espressione di un elemento assolutamente e banalmente psicologico, cioè
la paura della morte. Quindi questi presunti valori che ci vengono presentati come assoluti, come reali,
come trascendenti, come facenti parte di un mondo iperuranio, al di la del mondo terreno, non sono altro
che le espressioni fantasmatiche di bisogni che sono materiali, fisiologici, psicologici.

Torniamo allora a questo punto all’opera del 1872, “Nascita della tragedia”, perché qui già N. comincia ad
introdurre una serie di elementi che poi saranno fondamentali per tutto il suo percorso filosofico.
Abbiamo detto che la nascita di una tragedia è una analisi filologico-filosofica della grecità classica, in
particolare della cultura propria della grecità classica e ancora più in particolare delle espressioni artistiche
del mondo greco. N. si concentra su quella che ritiene essere la forma massima, più compiuta dell’estetica
greca, ovvero la tragedia. E comincia la sua analisi ponendo alla base dello sviluppo dell’arte greca, la
contrapposizione tra due principi, che sono due principi estetici che riguardano l’arte, ma è chiaro fin da
subito che diventeranno poi anche principi antropologici, che riguardano le forme di soggettività
caratteristiche della cultura greca.
Alla base dello sviluppo dell’arte greca e al fondamento della rappresentazione che i greci hanno di se stessi
come soggetti, sta l’opposizione tra due principi che N. mutua, prende, preleva dalla religione greca: sono i
principi del dionisiaco e dell’ apollineo.
Apollineo è quel principio che fa riferimento alle caratteristiche che la cultura greca, la religiosità greca
riconosce al dio Apollo. E il dionisiaco quelle di dio Dionisio.
Importante fin da subito è fissare questa caratteristica del pensiero di N: abbiamo detto che sono principi
estetici ma alo stesso tempo antropologici, cioè che riguardano la struttura dell’espressione artistica ma
che riguardano anche la struttura della soggettività, la struttura propria dell’essere umano per come
storicamente determinata nella cultura greca. Questo è importante perché è un elemento che poi, seppur
in forma mutata, rimarrà tipico della filosofia di N, cioè la commistione di opera d’arte ed esistenza. Cioè
l’idea che l’esistenza, il proprio stare al mondo non sia altro che una forma d’arte e che l’arte, d’altro canto,
riguardi in maniera peculiare le proprie modalità di stare al mondo. Quindi la commistione tra arte e vita.
Questo è vero soprattutto per la fase estetica del pensiero di N, ma in qualche modo, seppur in forma
mutata, è un pensiero che rimane attivo nella filosofia di N.
Che cosa vuol dire che l’uomo greco, così come l’arte che l’uomo greco esprime sono attraversate da due
opposte tendenze, quella apollinea e quella dionisiaca? Che caratteristiche ha l’apollineo? Caratteristiche
che muta dalla rappresentazione religiosa del dio Apollo. Lo spirito apollineo è quello che fa riferimento
all’elemento armonico, all’armonia, all’ordine, cioè alla forma, l’individuazione = quel particolare
dispositivo che ci permette di individuarci come essere umani. Scriverà N. nella Nascita della tragedia che
l’apollineo è la magnifica immagine divina del principio individuazioni. Quindi lo spirito apollineo è lo spirito
che presiede all’elemento armonico, alla forma, alla messa in forma e all’individuazione, al costituirsi dei
soggetti come individui, cioè è lo spirito, quella forza che anima l’elemento della coscienza, cioè l‘elemento
razionale, consapevole, appunto armonico, che ha una forma e che mette in forma, che permette di
individuare, cioè di distinguere le cose. L’espressione artistica all’interno dell’arte greca dello spirito

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apollineo sarà sicuramente la scultura greca, pensate appunto alla scultura classica, quindi una scultura
attenta alla proporzionalità, alla bellezza delle forme, all’armonia appunto.
In opposizione a tutto ciò il dionisiaco sarà ovviamente i principio, la forza, che presiede all’elemento
disarmonico, l’elemento dell’informe, del non formato, che fa riferimento non tanto alla propria
individuazione ma all’oblio di se stessi e che possiamo assegnare all’inconscio, è ciò che è attraversato da
una forza disarmonica che non permette la messa in forma, che non permette di comprendersi come
individui e che quindi fa riferimento ad una serie di istinti, di forza, di tendenze che sono preindividuali, cioè
sono inconsce. L’espressione tipica dello spirito dionisiaco nell’arte greca è secondo N. la musica greca. La
grandezza della tragedia greca deriva secondo N. dal fatto che nella tragedia greca, in quanto unione di
musica e parole, si attua una perfetta combinazione di apollineo e dionisiaco. Abbiamo detto prima che la
filosofia di N. è una filosofia tragica = nella tragedia greca abbiamo una compresenza di questi due
elementi, apollineo e dionisiaco, che rimangono però opposti, che non vengono risolti, non c’è un elemento
ulteriore che li pacifica, ma rimangono opposti.
*Freud in un suo passo dice che in realtà la psicoanalisi e l’inconscio non le ha scoperte lui ma le ha
scoperte Schopenhauer con il concetto di volontà. C’è un filo rosso che lega il concetto di volontà di
Schopenhauer, il dionisiaco di Nietzsche e l’inconscio di Freud. Che cos’hanno in comune? Il fatto che
l’accento viene posto sull’elemento appunto inconscio. Infatti N. nella Nascita della tragedia dice che ciò
che è originario non è l’apollineo ma è il dionisiaco. Ciò che in Freud muove tutti i meccanismi psichici che
sono proprie della soggettività non è tanto l’elemento conscio ma è l’elemento inconscio. Ciò che è
l’essenza, la potenza profonda della realtà è per Schopenhauer non la rappresentazione che sta dal lato
dell’apollineo, ma la volontà, c’è una forza appunto irrazionale, informe, disarmonica che non è altro che il
dionisiaco di N.
Quindi opposizione tra due forze, dionisiaca e apollinea, e primato del dionisiaco sull’apollineo.
Quello che da un punto di vista più generale possiamo trarre dal punto di vista filosofico di questo tipo di
posizione è il notare come questa impostazione sia un’impostazione esplicitamente e radicalmente
dualista. Dualismo che richiama in maniera esplicita il dualismo schopenhaueriano, il mondo come volontà
e rappresentazione, cioè potremmo tradurre  il mondo come apollineo e dionisiaco. Questo dualismo è
ciò che determina la natura tragica della filosofia di Nietzsche. Tragica perché non solo e non tanto l’arte,
oggetto della prima fase della trattazione filosofica di N., ma l’esistenza stessa è caratterizzata da una
radicale scissione che vede il contrapporsi di due opposti principi che non trovano mai una loro soluzione
dialettica, ovvero il principio del dionisiaco e dell’apollineo, della volontà e della rappresentazione in
Schopenhauer e di tutti i conflitti tra inconscio, io e super-io all’interno della teoria psicoanalitica di Freud. A
differenza di Freud però la filosofia di N. non ricerca alcuna condizione di armonica convivenza tra queste
istanze. Apollineo e dionisiaco rimango opposti, separati.
Quindi il dualismo determina il carattere tragico dell’esistenza umana e della riflessione sull’esistenza, cioè
della filosofia, di N. in questo caso.
Che cosa differenzia quindi la proposta, la filosofia di Nietzsche da quella di Schopenhauer?
Al dualismo tragico che caratterizza l’esistenza, alla scissione, alla cesura incolmabile, radicale che
caratterizza l’esistenza umana, quale soluzione offriva Schopenhauer dal punto di vista filosofico? Offriva 3
vie d’uscita: 1) l’arte, 2) la simpatia nel senso di sentire insieme, di condividere la sofferenza, 3) la liberta
noluntas, era una forma di ascetismo. Nolutans si oppone a voluntas, laddove la voluntas è la volontà, la
nonluntas è quella condizione che ci permette di non volere. Qual era il ragionamento di Schopenhauer?
Poiché noi siamo schiavi della volontà, poiché noi siamo schiavi di questo elemento dionisiaco che ci
obbliga costantemente a valore e a non essere mai soddisfatti di ciò che vogliamo, aspiriamo, la soluzione
di Schopenhauer è arrivare ad una condizione in cui noi non vogliamo più, cioè non desideriamo più. In
questo modo noi dovremmo riuscire a svincolarci dalla coazione della volontà. Poiché ogni desiderio è
destinato o a condurmi alla noia se ottengo ciò che desidero, o alla disperazione ogni qual volta che non lo
ottengo, l’unica soluzione è quella di non desiderare più nulla, di vivere una forma ascetica, non volere più
nulla in modo tale da non essere in qualche modo condotti alla disperazione. A questa soluzione N. si
oppone fermamente perché in questo modo noi ci ritireremmo in una condizione che sostanzialmente

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conduce al non vivere. La soluzione di N., diversa da quella proposta da Schopenhauer è: affermazione, sì,
del carattere tragico, dualistico, radicalmente conflittuale dell’esistenza umana ma accettazione di questo
carattere e quindi non scappare dalla vita perché la vita è dolore ma accettare la vita nel suo elemento
tragico, anzi, volerla esattamente per ciò che essa è, cioè espressione di forze tragiche. Quindi
sostanzialmente N. condivide l’analisi che Schopenhauer compie dell’esistenza umana ma non en condivide
la soluzione: non si scappa dalla vita perché la vita è dolore ma si accetta con forza la vita proprio nel suo
essere dolore, proprio nel suo essere tragica. Questo è ciò che secondo N. ci ha lasciato di grande la
tragedia greca. L’eroe tragico è colui che vive una condizione di totale cesura, di impossibilità di agire
perché appunto immobilizzato dall’azione di forze contrastanti e che però tuttavia sceglie di portare al
termine il proprio destino con coraggio. Di contro quindi alla noluntas schopenhaueriana, abbiamo una
filosofia dell’affermazione, del dire sì alla vita proprio in quanto tragica. Questo è appunto ciò che di grande
ci offre la tragedia greca. La tragedia greca è grande perché ci mostra come i greci sapessero accettare la
vita nella sua tragicità.
La grande tragedia greca tuttavia secondo Nietzsche è purtroppo destinata a scomparire. La tragedia greca
muore e muore, dice N., suicida, cioè muore all’interno di se stessa. *Riferimento alla tragedia di Euripide.
Secondo N. la tragedia greca si suicida perché cessa di essere appunto tragica, cessa di essere
manifestazione della incolmabile e dolorosa cesura che attraversa l’esistenza umana. La tragedia greca
muore con Euripide ma Euripide chi è? Nient’altro, secondo N, della traduzione in termine poetici di una
elaborazione concettuale che è dovuta ad un altro grande personaggio della cultura greca che è Socrate.
La tragedia greca, secondo N, muore asassinata da Socrate. Socrate è per N. il fondatore della presa
metafisica, della grande invenzione della filosofia classica greca che ha trovato in Platone la sua massima
espressione. Qual è la colpa di Socrate? È quella di aver cancellato o represso l’elemento dionisiaco, tutto
ciò che era disarmonico, tutto ciò che era informe, tutto ciò che non era razionale, l’aveva in qualche modo
represso, accantonato per imporgli una forma che era quella della razionalità. Con Socrate, dice N.,
passiamo purtroppo dall’uomo tragico, cioè dall’uomo che ha il coraggio di vivere la vita per quella che è, di
accettarla per quella che è, all’uomo teoretico. Nasce la filosofia e nasce la scienza che per N. non sono
nient’altro che i tentativi di mascherare il dolore, di allontanare quell’elemento tragico che è proprio
dell’esistenza. Cioè sono forme di menzogna, bugie che ad un certo punto l’uomo greco comincia a
raccontarsi per far fronte ad una tragicità che non è più in grado di affrontare. Non a caso N. nel
“Crepuscolo degli idoli” compone una brevissima storia della filosofia in 5 passaggi che si chiama “Storia di
un errore”. La filosofia a partire da Socrate è la storia di un errore. Qual è questo errore? Quello di essersi
fatta portatrici di menzogne, bugie, funzionali ad un allontanamento, ad una repressione di quel carattere
disarmonico, informe, tragico, doloroso, crudele che è proprio dell’esistenza umana. In che modo la
tradizione soprattutto platonica ha cercato di nascondere la tragicità dell’esistenza? Producendo uno
sdoppiamento di piani che fa capo alla idea di trascendenza. Pensate a Platone: mondo delle idee – mondo
terreno. Il regno delle idee è il regno della perfezione; il mondo terreno dove dobbiamo vivere è invece il
regno del dolore, dolore, della tragicità, della finitudine, della morte… che cosa dobbiamo fare noi?
Dobbiamo cercare di considerare come secondario il mondo terreno per dedicarci ad un mondo ideale che
però, ci dice Nietzsche semplicemente non c’è.
L’idea fondamentale della Nascita della tragedia è che la tragedia nasce dallo spirito della musica, nasce da
un incontro non pacificante tra istanza dionisiaca e istanza apollinea e che la tragedia però muore nella
misura in cui nasce la filosofia che segna il passaggio dall’uomo tragico all’uomo teoretico, si passa ad una
operazione culturale, religiosa, artistica che ha come funzione quella di operare costantemente una
rimozione di tutto ciò che è tragico, crudele, doloroso, per riproporre invece un mondo armonico, ben
formato, ben ordinato che però semplicemente è qualcosa di fantasmatico, di inventato.
Domanda di una tizia.
Risposta: per N. è come se ci trattassero come dei bambini. Invece di allenarci ad entrare in rapporto con la
tragicità che fa parte della nostra vita, ci raccontano delle favole che in qualche modo ci fanno vivere
meglio ma che nell’idea di N. non ci fanno vivere perché quella non è la vera realtà. Questo è quello che
sistematicamente fa la tradizione filosofico-scientifica secondo N. che invece non faceva la grande cultura

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tragica greca. Grande cultura tragica greca che N. in un primo momento pensa di intravedere
nell’operazione artistica di Wagner. Per N., Wagner inizialmente è colui che sembra essere in grado di
riproporre l’arte tragica in un mondo, quello contemporaneo di N, che è invece attraversato dal trionfo
della scienza e del positivismo.
Quindi tutta la storia della filosofia a partire da Socrate è la storia di un errore e per questo la filosofia di N.
non può che essere inattuale, non può che essere contro quella rappresentazione attuale, dominante che è
quella veicolata dalla cultura. Quindi la filosofia di N. è inattuale perché cerca di abbattere costantemente
tutte quelle menzogne, tutte quelle strutture, tutti quei dispositivi che sono stati costruiti sistematicamente
per annullare la vita e per rendere la vita in qualche modo accettabile. Ma rendendola accettabile in realtà
si cancella la vita stessa.
Quindi con Socrate la filosofia e la scienza sono caratterizzate da un ottimismo intellettualistico, l’ottimismo
che ci porta a considerare che grazie al sapere, al filosofico o al scientifico, tutto sia spiegabile, tutto sia
ordinabile, tutto sia dominabile e in quanto dominabile non ci faccia più paura. Mentre invece ciò che
dovremmo recuperare è il coraggio appunto di vivere la tragicità della vita, coraggio che sarà proprio di
quel che N. nella prima fase chiamerà spiriti liberi e che in una seconda fase chiamerà superuomini, o
meglio oltre uomini.
N. è contro l’ottimismo intellettualistico perché esso consiste in una considerazione unilaterale
dell’elemento razionale che ci porta a convincerci del fatto che tutto sia spiegabile, che la scienza ci possa
spiegare tutto, positivismo, che la religione contenga ogni verità. Che quindi essendo tutto spiegabile è
tutto ordinabile, è tutto armonicamente organizzabile e che quindi nulla ci possa far paura. In realtà questa
è tutta una sovrastruttura che nasconde di fatto la vera essenza delle cose, secondo Nietzsche, che è la
tragicità dell’esistenza, la radicale scissione che è propria all’essere umano.
Quindi ciò che N. comincia a fare a partire dalla Nascita della tragedia e in maniera poi più esplicita con le
Considerazioni inattuali è il tentativo di costruire una nuova cultura, una riforma della cultura, che appunto
inizialmente vede Schopenhauer e Wagner come alleati, una riforma della cultura che cerchi di recuperare
quell’0elemento tragico che la filosofia e la scienza hanno invece appunto perso. Quindi le considerazioni
sono inattuali perché sono rivolte contro il tempo e in tal modo sul tempo e speriamo a favore di un tempo
venturo, di un nuovo tempo che in qualche modo recuperi, trasformandolo l’elemento tragico, il coraggio
di dire sì alla vita.
Cosi si conclude la prima parte della produzione nietzschiana in cui abbiamo visto che l’arte è al centro della
riflessione anche se è una riflessione sull’arte che ha già importanti ricadute sulla concezione etica di N., si
conclude questo primo periodo e si entra in quella che viene chiamata fase illuminista del pensiero di
Nietzsche che è caratterizzata da un nuovo stile da un punto di vista filosofico scrittura aforistica di
Nietzsche. In questa fase abbiamo il distacco dal pensiero di Schopenhauer e da Wagner e al centro del
pensiero di N. non vi è più l’arte ma la scienza (una scienza gaia).
Che cosa vuol dire scienza dal punto di vista di N. di questa fase? Lo spirito scientifico è quello che consente
di operare una critica della cultura, cioè è un metodo capace di emancipare gli uomini dai pregiudizi e dagli
errori, al scienza è quel metodo che permette di emanciparsi da i pregiudizi morale e dagli errori metafisici.
Quindi un idea di scienza che è illuministica in questo senso ristretto, cioè che fa della ragione uno
strumento di liberazione dai dogmi, da valori e da istanze ritenute assolute e che vengono invece
sistematicamente poste al vaglio della critica.

27 marzo
Ieri ci siamo lasciati considerando il percorso di N. fino alla fase illuministica che si apre nel 1878/1880 con
la pubblicazione di “Umano, troppo umano”. Caratteristica della fase illuministica abbiamo detto che è lo
spostamento del focus della trattazione filosofica di N. dal tema dell’arte a quello della scienza, di una
scienza però non intesa in senso positivistico ma intesa come spirito critico, come metodo che consiste

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sostanzialmente in una progressiva liberazione da una serie di istanze che N. giudica frutto di un pregiudizio
o di errore. Il pregiudizio riguarda l’ambito morale, l’errore invece riguarda più propriamente l’ambito
metafisico. Il metodo che N. giunge ad elaborare in questa fase illuministica è il cosiddetto metodo
genealogico. Che cos’è il metodo genealogico, la genealogia per N.? la Genealogia è un’istanza
metodologica che prevede due elementi fondamentali: da un lato l’elemento critico (che consiste
fondamentalmente nell’esercizio costante del sospetto, nell’utilizzo funzionale del dubbio cioè nel porre in
dubbio qualsiasi valore o istanza che una data tradizione ci consegna come assoluta) e dall’altro l’elemento
storico. Per porre in dubbio, per relativizzare i presunti valori assoluti che la tradizione ci consegna, è
necessario, sostiene N, risalire alle circostanze storiche che hanno fatto da sfondo alla creazione di questi
valori, di questi elementi. Bisogna ripercorrere l’origine di quei valori morali o di quelle convinzioni
filosofiche che la tradizione ci consegna come naturali, come necessarie e che in realtà naturali e necessarie
non sono essendo invece il frutto di un determinato contesto socio culturale e storico. Quindi ad esempio la
genealogia della morale si apre con un’analisi genealogica dei concetti di buono e cattivo. Cosa vuol dire
fare questa analisi genealogica? Significherà innanzitutto esercitare il dubbio sulla presunta naturalità delle
caratteristiche che appartengono a ciò che è buono e a ciò che è cattivo, cioè bisognerà innanzitutto
esercitare l’istanza critica, cioè sospettare di ciò che comunemente è inteso quando diciamo che qualcosa è
buono o cattivo.
In una seconda fase bisognerà poi risalire alle circostanze storiche in cui questi concetti di buono e cattivo
sono nati, per mostrare appunto come non sono affatto valori assoluti, ideali, naturali ma sono
sostanzialmente il risultato di precise dinamiche storico-sociali. Saranno nell’interpretazione di N. che
guarda tutti i valori morali, saranno fondamentalmente il risultato di una dinamica tra forze che porterà a
considerare valori ciò che le classi dominanti considerano come valori. Cosa vuol dire? Vuol dire
sostanzialmente che buono non ha valore assoluto di per sé ma identifica una serie di qualità che sono
quelle qualità sostenute dalle classi storicamente dominanti. Quindi è buono non qualcosa che si presenta
come assolutamente positivo, ma è buono tutto ciò che un insieme di forze dominanti considera come
buono ed è d’altro lato cattivo, sbagliato tutto ciò che l’insieme delle forze dominanti all’interno di un
contesto storico giudicano negativo.

Il metodo genealogico viene applicato da N. in una prima fase a gli elementi della tradizione filosofico-
metafisica e in un secondo momento ai principi e ai giudizi morali. Il metodo genealogico in quanto metodo
storico-critico, determina un’impostazione generale del pensiero di N. che potremmo definire relativistica.
Relativismo = implica tutta quella serie di convinzioni filosofiche che rifiutano il carattere assoluto di una
certa istanza, di un certo valore. Essere relativisti significa cioè negare che vi siano elementi dotati di valori
assoluto, siano essi di carattere morale o di carattere logico o metafisico. Perché significa al contrario,
sostenere che ogni valori è relativo, appunto, al contesto storico, alle circostanze socio-politiche che ne
hanno vista la nascita.
Il relativismo può essere inteso in duplice valore:
-da un lato può essere un relativismo gnoseologico. Gnoseologico = riguarda la conoscenza. In particolare
esso afferma il carattere relativo dei due concetti fondamentali di una teoria della conoscenza, ovvero i
concetti di verità e falsità. Che cosa vorrà dire affermare la relatività dei concetti di verità e falsità? Che non
c’è nulla di vero o falso in senso assoluto ma vero e falso sono semplicemente i nomi che noi diamo a ciò
che dl punto di vista di precise condizioni metafisiche, giudichiamo come positivo e questo sarà vero, o
giudichiamo come negativo e questo sarà falso. Non esiste una verità in assoluto e una falsità in assoluto
ma sono relative a certe condizioni che sono il frutto a loro volta di precisi contesti storici.
- dall’altro un relativismo etico: riguarda la morale. Da questo punto di vista invece i concetti che vengono
relativizzati, di cui viene cioè negata l’assolutezza, saranno i concetti di bene e male. Non a caso un titolo di
un'altra opera importante di N. è “Al di là del bene e del male”. Che cosa significa questo titolo? Significa
appunto costruire una visione, qual è quella di N., che si pone appunto al di la di una contrapposizione
assoluta tra bene e male.
Piccola osservazione: affermare che N. in qualche modo si faccia portatore di una visione relativistica, non
significa affermare che secondo N. tutti i valori abbiano pari dignità. Non esistono valori assoluti, e su
questo N. non cambierà mai idea, ma ci sono valori migliori e valori peggiori. Quali saranno i valori migliori?
Saranno tutti quei valori che sono funzionali ad un intensamento della vita, funzionali all’espressione

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massima di ciò che un individuo in quanto vivente può realizzare. Saranno d’altra parte da rifiutare tutti
quei valori, tipicamente trasmessi dalla tradizione metafisica-religiosa, che invece sono volti a mortificare,
limitare la potenza vitale, ciò che in quanto viventi noi possiamo realizzare.
In questo senso i critici, con riferimento al relativismo nietzschiano, più volentieri di prospettivismo.
Ogni scelta di valori è figlia di una prospettiva adottata, ma non tutte le prospettive sono identiche, sono
secondo N. da valorizzare tutte quelle prospettive che sono appunto funzionali ad un potenziamento della
vita.

N. identifica il soggetto capace di vivere al di là del bene e del male, cioè capace di vivere rifiutando
l’imposizione di quei valori che vengono veicolati come assoluti ma assoluti non sono, come “uomo libero,
spirito libero”. Chi è lo spirito libero? Lo spirito libero, se guardiamo alla totalità della filosofia di N., è ciò
che si pone come prima formulazione di quello che sarà l’oltre-uomo. Ma dal punto di vista della sua
rilevanza filosofica, lo spirito libero è l’impersonificazione di quella forma di soggettività che è capace di
dire si alla vita, accettarne tutta la carica tragica senza farsi irretire da quella serie di valori che sono solo
illusoriamente assoluti che la tradizione ci ha trasmesso. Vivere al di la del bene e del male, cioè facendo a
meno di una idea di verità assoluta e di bene assoluto, significa vivere da spiriti liberi. Liberi perché appunto
liberati dal carico di quei valori che delimitano la possibilità di espressione. Quindi lo spirito libero, che
diciamo che è l’eroe della fase illuministica del pensiero di N., è colui che riesce ad emanciparsi dai valori e
che vive la vita come libera sperimentazione. Perché in quanto libero è autorizzato, si auto-autorizza a
sperimentare tutte le forme di esistenza che sono funzionali ad una espressione della propria potenza, delle
proprie potenzialità, capacità.

Dicevamo che nella fase illuministica la critica genealogica di N. si rivolge non tanto alla morale, che sarà
oggetto dell’ultima fase del pensiero di N., ma ad una critica genealogica appunto della tradizione filosofico-
metafisica. Quindi i questa fase la critica genealogica di N. si rivolge primariamente ad una messa in
discussione delle istanza fondamentali della tradizione metafisico-religiosa. Tradizione metafisico-religiosa
che secondo N. trova nel concetto di Dio la sua massima espressione. Quindi la critica alla metafisica
culminerà nella critica radicale del concetto di Dio che esprime nella formula famosissima e che impiega per
la prima volta nella “Gaia scienza” : dio è morto. Dottrina della morte di dio.
Aforisma 125 della Gaia Scienza, prima formulazione della morte di Dio espressa da un uomo che N. giudica
folle. E’ un uomo folle che esprime il pensiero della morte di Dio perché la follia è un altro modo, diverso,
altro rispetto alla dimensione temporale, di affermare l’estraneità del pensiero di N. rispetto al tempo in cui
si colloca e rispetto al sistema dei valori che viene appunto ad affermarsi in un dato momento storico. La
follia non è altro che ciò che sta al di fuori di tutto quello che viene ritenuto ragionevole. E ciò che viene
ritenuto ragionevole, cioè vero, tutto ciò che è conforme ad un sistema di valori imposto da una specifica
classe dominante. Quindi tutto ciò che è al di fuori di questo sistema di valori, o che si propone di
abbatterlo, è in qualche modo al di fuori di quella forma di razionalità che è espressione della classe
dominante. Quindi ciò che è critico della tradizione filosofica è ciò che si pone al di fuori della filosofia, cioè
la follia. Proprio per questo N. sceglie come annunciatore della morte di Dio, cioè della fine della tradizione
metafisica, il personaggio dell’uomo folle.
Quindi, ripetiamo, nell’aforisma 125 l’uomo folle annuncia a gran voce la morte di Dio: Dio è morto. Che
cosa significa che Dio è morto per N.? In questa caratterizzazione il concetto di dio assume due
fondamentali significati.
Da un lato la morte di Dio significa per N. la fine di ogni idea di trascendenza. trascendenza = idea secondo
la quale ci sarebbe una separazione fra due piani: un piano in cui domina la verità, il bene e che è posto al
di là del nostro mondo -l’iperuranio platonico, il paradiso cristiano- e un al di qua, la nostra condizione finita
in cui domina la falsità e la cattiveria. Quindi l’idea della trascendenza è che ci sia una scissione tra due
piani: un piano della perfezione (che corrisponde alla dimensione abitata da Dio), e un piano invece
dell’imperfezione che sarebbe abitato, attraversato dall’esperienza umana.
Dire che dio è morto significa sostenere e affermare che questa suddivisione è finita, non c’è nessun al di là
che si opponga ad un al di qua, non c’è nessuna verità o bontà assoluta che si opponga ad una falsità e ad
una malvagità assoluta. Quindi da un lato con la morte di Dio N. vuol affermare la fine di questa idea
prettamente metafisica, che N. fa risalire alla tradizione socratico-platonica, della distinzione tra un mondo

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ideale e un mondo reale; dall’altro la morte di Dio significa la fine, la morte, la cessazione di ogni
assolutezza. Dire che Dio muore significa dire sostanzialmente che non siamo più in presenza, non abbiamo
più alcuna possibilità di inferire con un elemento assoluto, perfetto, incondizionato, vero una volta per
tutte. Con la morte di Dio, in altri termini, crolla l’immagine, secondo N. falsa, di un mondo ordinato,
benefico, dettato dalla proporzione e dall’armonia. Con la morte di Dio siamo posti quindi di fronte a ciò
che la realtà effettivamente è, cioè elemento di rifiuto, tragico, dolore, irrazionalità. Quindi la morte di Dio
è funzionale ad un cambio di prospettiva, alla costruzione di una nuova cultura che permetta agli spiriti
liberi di assumere la vita nel suo elemento appunto dionisiaco, nell’accettare la vita per quello che è.
Abbiamo cioè la fine di quella che N. chiama “l’alienazione dell’uomo in Dio”, siamo finalmente restituiti a
noi stessi, con tutto ciò che questo comporta in termini di responsabilità, cioè siamo gli unici responsabili in
quanto spiriti liberi di ciò che la nostra vita può diventare, di ciò che la nostra vita può essere. E’ finito un
meccanismo che consiste nell’alienazione dell’uomo in Dio, cioè della consegna delle sorti della propria
esistenza a un istanza altra, assoluta, posta in un altro mondo che è appunto rappresentata nella tradizione
metafisico-religiosa da Dio.
Qui N. trae sicuramente giovamento da le frequentazioni che dal punto di vista della sua formazione ha
intrattenuto con la cosiddetta sinistra hegeliana e soprattutto con la critica della religione proposta da
Feuerbach colui che forgia la negazione in riferimento al meccanismo religioso e giunge a dimostrare che
non è ovviamente Dio che crea l’uomo ma è l’uomo che crea Dio perché appunto di fronte alla propria
condizione di vita, mortale, alla propria imperfezione, piuttosto che accettare la propria condizione di
mortalità e di finitudine, proietta in un istanza trascendente, altra, fuori di se tutte quelle caratteristiche che
geli non ha ma che vorrebbe avere. Quindi se l’uomo è mortale, piuttosto che accettare questo fatto,
questa caratteristica essenziale della propria condizione proietta in qualcosa di esterno a se, qualcosa che al
contrario è immortale, che è ciò che raccoglie tutte le perfezioni, tutte quelle caratteristiche che l’uomo non
possiede e che vorrebbe possedere.
N. riprendendo evidentemente queste riflessioni feurbachiane rispetto l’elemento religioso e le traduce
appunto nell’idea della morte di Dio, cioè della fine di ogni trascendenza, questa proiezione viene meno e
appunto pone l’idea di una istanza assoluta che sarebbe chiamata a garantire quell’ordine che sfugge
invece all’esistenza umana.
N. legge in età giovanile “L’essenza del cristianesimo” che è uno dei testi in cui Feuerbach elabora questa
sua analisi del maccanismo religioso ed è per altro molto amico di un altro esponente di spicco della sinistra
hegeliana che è appunto Bruno Bauer. Quindi tutto questo per dire che N. ha senza dubbio in mente la
riflessione che sviluppa la sinistra hegeliana.

In qualche modo poi la riflessione nietzschiana sulla morte di Dio va al di la di ciò che Feurbach e la sinistra
hegeliana avevano sostenuto. Il passo ulteriore che N. compie consiste nel trarre le radicali ed estreme
conseguenze della morte di Dio, cioè nel sostenere che con la morte di Dio necessariamente muore anche
l’uomo, cioè la morte di dio porta anche la morte dell’uomo. Che cosa intende N. quando parla di morte
dell’uomo? Cosa vuol dire affermare che la morte di Dio necessariamente conduce alla morte dell’uomo?
Significa che venendo meno il meccanismo della trascendenza, questa suddivisione di piani che vede
appunto determinarsi come polarità da un lato l’uomo e dall’altro Dio, venendo meno uno dei due lati,
necessariamente viene meno anche l’elemento che a questa si legava. Cioè, con la morte di Dio
necessariamente cambia anche la rappresentazione che l’uomo ha di se stesso. Dio e uomo infatti non sono
che i poli di una dialettica della trascendenza e venendo meno uno dei due poli, necessariamente muta di
natura anche l’altro. In altri termini, essere uomini all’interno di un meccanismo che ci collega a dio è una
cosa, e ci relega ad una condizione che è quella propria dell’uomo metafisico. Essere uomini senza alcun dio
che noi costruiamo come garante della nostra esistenza significa ovviamente vivere da spiriti liberi, cioè
vivere con la piena responsabilità delle proprie azioni e senza alcun possibile riferimento ad un’istanza
assoluta, significa veramente vivere al di la del bene e del male e significa quindi produrre, costruire una
nuova forma di soggettività, un nuovo modo di intendere l’essere umano che è radicalmente diverso dal
modo di intendere l’essere umano che lo vede appunto in qualche modo affidato al tutoraggio di un istanza
assoluta e trascendente, cioè di Dio. La morte di Dio, quindi, è fondamentale all’interno della filosofia di N.
perché è funzionale a qual passaggio importante che conduce N. ad immaginare una nuova forma di

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soggettività che nel periodo illuministico N. chiama spirito libero e che diventerà poi nella fase più matura il
superuomo.
Il termine superuomo però ha dato adito ad una serie di fraintendimenti perché si rischiava di far pensare
che il superuomo nietzschiano fosse una sorta di uomo potenziato, di essere umano portato alla massima
potenza, in realtà questo non può essere perché abbiamo detto che con la morte di Dio, muore anche
l’uomo. Che cos’è allora questo superuomo?
Il Superuomo come ha detto Gianni Vattimo non è altro che l’“oltre uomo”, cioè quella forma di
soggettività, di individuazione che si colloca appunto al di là del bene e del male, dopo la morte di Dio e che
va oltre il modo classico di intendere la soggettività, va oltre l’uomo della tradizione metafisica in direzione
di una nuova forma di soggettività che è quella che N. intende costruire. Quindi, dal punto di vista
grammaticale superuomo è una tradizione giusta, ma è più dal punto di vista concettuale il termine più
corretto da usare sarebbe “oltre uomo”. L’oltre uomo nietzschiano non è un potenziamento dell’essere
umano ma un oltre passamento dell’essere umano, dell’uomo teoretico, cioè figlio della tradizione
teoretico-metafisica. Sarà un oltre uomo che riprende, ovviamente in un dato contesto storico, ciò che nella
grecità presocratica era stato l’uomo tragico: cioè l’oltre uomo sarà colui che sa dire s’ alla vita, volere la
vita nella propria tragicità, nel proprio elemento di dolore e che sa vivere nel “crepuscolo dell’io” = vivere in
un tempo in cui gli idoli, gli dei scompaiono, muoiono. Saper vivere nel tempo della morte degli dei è ciò
che compete, caratterizza l’oltre uomo, che è la riproposizione dell’uomo tragico della classicità
presocratica.

Altra cosa importante è che con la morte di Dio muore ogni istanza assoluta, quindi non solo quella
assolutezza che perviene all’elemento teologico, ma qualsiasi forma di idealità, muore ogni forma di
riferimento a qualche istanza assoluta e ideale, quindi ad esempio se noi in qualità di materialisti rifiutiamo
il riferimento a Dio ma eleggiamo un latro elemento come idealità, il socialismo, come fine ultimo, assoluto
della nostra azione, non stiamo facendo altro che riproporre su un altro piano questa scissione tra reale-
ideale. Qualsiasi ideale, qualsiasi riferimento a un istanza assoluta che sia al di fuori di noi e che orienti la
nostra esistenza, secondo N., deve avere fine con la morte di Dio. Quindi non serve e non basta dire che Dio
in quanto elemento teologico assoluto è morto, ma serve rifiutare qualsiasi riferimento ad ogni elemento
ideale, assoluto, cioè che sia al di fuori di noi e che nonostante ciò sia in grado di orientare il nostro
comportamento, di orientare la nostra esistenza. Noi dobbiamo orientare la nostra esistenza in quanto
oltre uomini, in quanto spiriti liberi solo sulla base della nostra volontà di vita, che N. chiamerà volontà di
potenza, non in base ad un ideale esterno a noi, altrimenti ricadremmo all’interno di quella scissione
metafisica, dualistica che rischia di mortificare la nostra capacità vitale, la nostra potenza vitale. Quindi,
esempio, l’idea di avere una fiducia assoluta nella scienza, positivismo (corrente dominante negli anni in cui
N. scrive), perché N. la critica? Perché istituisce nuovamente un riferimento ideale: non è più Dio che ci
salverà ma è la scienza, è il progresso scientifico. Socialismo: non è più Dio che ci salva ma una determinata
realizzazione di un sistema sociale che è chiamato a guarire tutti i mali della società. Nuovamente
riproposizione di un istanza ideale.

TERZA FASE DEL PENSIERO NIETZSCHIANO: ultima fase, fase matura che precede gli anni della malattia
mentale di N. in cui N. continua a scrivere ma in una condizione psico-fisica che in molti casi rende difficile
leggere e valutare ciò che N. scrive. Scritti molto condizionati dalla malattia nervosa. Terza fase della
filosofia di N. che si concentra all’interno di un testo, che rappresenta un nuovo cambio di registro
filosofico, chiamato “Così parlò Zarathustra” che viene pubblicato in 2 volumi tra il 1883 e il 1885. Libro che
mostra un nuovo cambio di registro dal punto di vista filosofico-stilistico perché non è un trattato filosofico
(com’erano i testi della prima fase di Nietzsche: Nascita della tragedia + Considerazioni inattuali), non è una
raccolta di aforismi (come invece sono la maggior parte dei testi che N. pubblica nella seconda fase del suo
pensiero), ma è una sorta di allegoria poetica, è un poema, o per meglio dire è una prosa poetica. Scritta in
prosa, non in versi.

Anche il sottotitolo è abbastanza significativo: “Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno”.

Temi principali del libro e dell’ultima fase della produzione di N.:

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- tema dell’oltre uomo
- tema della dottrina dell’eterno ritorno che condensa tutta l’elaborazione concettuale di N. intorno
al tema della temporalità
- tema della volontà di potenza, sviluppato da N. nelle ultimissime opere, scritti e che rappresenta
anche un problema dal punto di vista della recensione delle opere di N. perché la volontà di
potenza è il titolo di un opera che N. annuncia ma che di fatto non scrive mai. Viene annunciata
sulla copertina del “crepuscolo degli idoli” ma questo testo non vedrà mai la luce. Tuttavia la sorella
di N. che negli ultimi anni della vita del filosofo si preoccupa di raccogliere tutti i frammenti, gli
scritti che N. continua a comporre anche negli anni della follia, sceglie arbitrariamente una serie di
questi frammenti e li riunisce in un testo a cui da il nome di “Volontà di potenza”. Questo testo è
uno dei testi che nella prima fase della recensione di N. viene letto con maggior attenzione ma in
realtà è un testo che N. non ha mai scritto. Quindi tutto questo per dire che noi abbiamo una serie
di accenni al tema della volontà di potenza nelle opere scritte direttamente da N. ma la quantità
maggiore di riferimenti a questo tema li abbiamo negli scritti postumi che vengono raccolti in un
testo intitolato appunto “Volontà di potenza” ma che non è opera di N.

Tema dell’oltre uomo (ubermensch)


L’ubermensch è ciò che rappresenta un nuovo tipo di uomo, un uomo avvenire, perché è l’uomo che verrà
una volta che il crepuscolo degli idoli si sia definitivamente compiuto, una volta che la cultura europea avrà
interiorizzato la morte di Dio, avrà fatto i conti finalmente con il dato della fine di ogni riferimento
metafisico e trascendente. Quindi è un nuovo tipo di uomo, l’uomo che verrà e che è caratterizzato e qui
dovremmo capirci se abbiamo detto che abbiamo la fine di ogni scissione metafisica, la fine della
trascendenza, è una figura della soggettività per cui N. conia come slogan la formula di “fedeltà alla terra”,
cioè l’oltre uomo è colui che è fedele alla terra. Intanto lo stile evocativo e metaforico di questa formula è
dovuto al fatto che questa opera è un grande poema scritto in prosa, quindi ci sono delle formulazioni
molto evocative all’interno di questo testo che lo rendono anche spesso difficilmente da interpretabile, è
pieno di simbolismo che non sempre è agevole. Fedeltà alla terra vuole dire che l’oltre uomo vivendo
nell’epoca della morte di Dio, della fine di ogni trascendenza, è quella forma di soggettività che si trova a
vivere in una dimensione non più dualistica ma monistica, non c’è più un al di la, e quindi dobbiamo
rivolgere tutta la nostra attenzione, tutta la nostra forza ed energia su un al di qua che però non è più un al
di qua perché non c’è più un al di la da cui distinguersi. Questa terra intesa come la dimensione in cui si
colloca la nostra esistenza, è l’unica dimensione possibile per il nostro agire e noi dobbiamo essere
assolutamente fedeli alla nostra condizione che è determinata appunto da tutto ciò che abbiamo visto
qualificare la vita, dalla finitudine, dalla mortalità, ecc. noi dobbiamo essere fedeli a questa condizione che
è l’unica a cui noi siamo assegnati, senza più alcun riferimento ad un ipotetico al di la che non esiste. L’oltre
uomo quindi non è solo colui che accetta la propria condizione, ma è colui che è fedele alla propria
condizione, che si consegna alla propria esistenza terrena, alla propria condizione di finitudine che secondo
N. si esprime in maniera determinante nell’elemento corporeo, nel corpo. Perché nel corpo? Perché se
pensate a tutta la tradizione metafisica a cui la morte di Dio ha posto fine, avevamo un iperuranio abitato,
attraversato sostanzialmente dalle idee, dall’elemento ideale, tutto ciò che era corporeo, tutto ciò che era
materiale ere relegato in qualche modo ad una dimensione di falsità, di bassezza, di immoralità. Tutto
questo poi confluiva nella tradizione della religione cristiana in cui non a caso ogni elemento che faceva
riferimento al copro, alla sessualità e via dicendo veniva in qualche modo collocato in secondo piano, se
non esplicitamente represso. Porre fine alla trascendenza significa porre fine a questa dualità e quindi
recuperare quella dimensione che la tradizione metafisico-religiosa aveva invece posto in secondo piano,
cioè tutta la dimensione della corporeità, della materialità, della naturalità dell’essere umano in quanto
animale, in quanto dotato di istinti, di un corpo, di bisogni e via dicendo. Essere fedele alla terra significa
cioè pensare alla propria esistenza come necessariamente collocata all’interno della nostra condizione qui e
ora che appunto trova la propria via di espressione privilegiata all’interno della nostra corporeità, del
nostro copro. *Freud: corpo veicolo attraverso il quale si esprime tutta quella energia che N.
chiamerebbe dionisiaca e che Freud chiamerà libidinale, istintuale.

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Quindi l’oltre uomo è colui che è fedele alla terra e che vive la propria esistenza innanzitutto come copro,
cioè come una crocevia di istinti, pulsioni che sono appunto non organizzabili e non armonizzabili a partire
da un istanza di tipo razionale, di tipo apollineo, di tipo armonico.
Quindi essere fedeli alla terra significa concepire l’esistenza umana come primariamente caratterizzata dal
proprio essere corpo, materia, pulsione, istinto e via dicendo. Contro quella tradizione platonica che non a
caso aveva definito il corpo come la tomba dell’anima, come ciò che in qualche modo ostacolava la libera
espressione di quella parte nobile dell’essere umano, che era appunto la spiritualità.

Tema dell’eterno ritorno


Qual è l’immagine principale che N. sceglie all’interno di “Così parlo Zarathustra” per rappresentare l’oltre
uomo? È il famoso discorso delle metamorfosi.
L’immagine che N. sceglie per rappresentare il superuomo è quella del fanciullo perché il bambino neonato
è innanzitutto qualcuno che vive al di la del bene e del male perché non ha ancora introiettato quei modelli
sociali che diventeranno poi i propri valori morale e soprattutto ha una forma di esistenza totalmente
libera, è sostanzialmente tutto orientato alla soddisfazione del proprio piacere. Impermeabile rispetto a
supposti valori morali, assolutamente non orientato da elementi di tipo razionale, ma è sostanzialmente
qualcuno che sperimenta liberamente il proprio corpo in direzione della affermazione, realizzazione di tutto
ciò che gli provoca piacere o che appunto è funzionale alla espressione della propria esistenza. Quindi
l’oltre uomo nella metaforica nietzschiana è sostanzialmente un bambino che gioca senza alcuno scopo,
senza alcun influenza di tipo morale, senza alcuna riflessione razionale che in qualche modo faccia si che il
bambino possa sopportare in maniera più semplice ciò che nella vita c’è di tragico ma è semplicemente
qualcuno che vive nella propria corporeità, liberamente esprimendo tutto ciò che vuole e può essere, così
come il bambino, l’infante deve essere l’uomo avvenire secondo N., l’oltre uomo, quel l’uomo liberato
appunto dal tutoraggio di una istanza assoluta.
Chi è questo oltre uomo che assomiglia ad un fanciullo?
è colui che è in grado di sopportare quello che N. chiama il fardello più grande, il pensiero più arduo, cioè è
colui che è in grado di sopportare l’idea dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno diventa cioè che una “prova
selettiva”, una istanza che determina il passaggio alla condizione di oltre uomo. è oltre uomo, è spirito
libero chiunque sia in grado di sopportare il pensiero dell’eterno ritorno.
Che cos’è questo pensiero dell’eterno ritorno? è qualcosa che appartiene alla sfera della temporalità e che
si determina come profondamente inattuale, cioè contro la rappresentazione dominante del tempo. Che
cosa ci dice questa dottrina la cui prima formulazione non è in “Così parlo Zarathustra” ma è nella “Gaia
scienza” nell’aforisma 341? Il tema dell’eterno ritorno è sostanzialmente l’idea secondo la quale tutto ciò
che è, tutto ciò che accade è destinato a ripetersi eternamente come identico a sé. Ovvero il tempo non è
più orientato secondo appunto la concezione tipica di tutta la tradizione filosofico-metafisica occidentale da
un passato a un futuro in vista di una salvezza, di un godimento che avverrà in un al di là. Quindi non è più
un passato che, attraversando il presente, conduce verso un futuro (il futuro della salvezza), ma abbiamo
invece il recupero dell’idea greca del tempo che è un idea ciclica. Quindi ciclicità del tempo, giocata in
chiave antimetafisica e anticristiana e questa ciclicità prevede che il tempo una volta conclusosi si ripete
esattamente identico a se stesso. Tutto ciò che caratterizza la nostra vita è destinato a ripetersi per sempre
e da sempre si è ripetuto esattamente così come noi lo stiamo vivendo adesso perché il tempo secondo N.
ha una conformazione circolare e non lineare. Qual è il significato di questa idea che può sembrarci un po’
strana di Nietzsche?
In realtà la funzionalità filosofica della dottrina dell’eterno ritorno fa riferimento al fatto che l’eterno ritorno
è in primo luogo una istanza di tipo pratico, cioè è una modalità di selezione dell’oltre uomo. Qui in realtà la
situazione è un po’ più complessa: in alcuni passi N. sembra sostenere la verità intrinseca della dottrina
dell’eterno ritorno, facendo anche riferimento ad alcuni studi scientifici; altre volte invece sembra che il
significato prevalente sia appunto quello pratico-etico. Dal nostro punto di vista consideriamo come
privilegiata la rilevanza etica della teoria dell’eterno ritorno. Che cosa vuol dire modalità di selezione? Vuol
dire che l’oltre uomo è quella forma di soggetto che è capace di accettare che tutto ciò che è stato sarà per
sempre, è colui che dice un sì alla vita così forte che non solo la accetta per quello che è stato, ama la vuole
per come è stata. L’affermazione della propria fedeltà alla vita è talmente intensa nell’oltre uomo che egli
rivuole esattamente tutto ciò che ha contraddistinto la sua esistenza, con tutto ciò che ovviamente di

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tragico e doloroso l’ha caratterizzata. Laddove il tipico soggetto, il tipico individuo dell’orizzonte metafisico
è un individuo che si lamenta, che cerca una consolazione, l’oltre uomo non solo non cerca una
consolazione e non si lamenta della sua sorte ma rivuole esattamente tutto ciò che gli è successo
esattamente per come gli è successo.
Una volta che si giunge a questo tipo di amore per la vita, allora non si è più uomini ma si è oltre uomini
perché qualcuno che sia capace di affrontare e sopportare il fardello più grande, cioè che tutto ciò che gli è
successo risuccederà milioni di volte allo stesso modo, allora è chiaro che siamo al dio la del bene e del
male e che siamo totalmente orientati al godimento della nostra esistenza, godimento che è talmente
totale da essere appunto oggetto del nostro desiderio. L’accettazione della vita è talmente radicale che non
solo la accettiamo nonostante sia tragica ma la rivogliamo esattamente in tuti gli elementi, compresi quelli
tragici. Se siamo capaci di un sentimento di questo genere, se siamo capaci di sopportare l’idea dell’eterno
ritorno e addirittura di volere l’eterno ritorno identico, allora siamo veramente passati alla misura dell’oltre
umanità perché abbiamo detto un ì così forte alla vita da amarla in maniera così intensa che la rivogliamo
esattamente così come essa è stata infinitamente, infinite volte.
Quindi l’eterno ritorno è l’espressione estrema dell’affermazione della fedeltà alla vita per N. ed è
l’elemento di selezione, un istanza pratica che serve a scindere la condizione dell’uomo teoretico da quella
appunto dell’oltre uomo e che ha tuttavia una caratterizzazione marcatamente aristocratica. In che senso?
Nel senso che non tutti sono in grado di elevarsi al piano dell’oltre uomo, non tutti sono in grado di
sopportare il pensiero dell’oltre uomo. Gli uomini avvenire, gli spiriti liberi, gli oltre uomini a cui N. pensa
sono in realtà i rappresentanti di una ristretta cerchia di individui che si sono elevati ad un piano che è al di
la del bene e del male. Quindi dal punto di vista politico N. afferma l’impossibilità di una rivelazione che sia
condivisa da tutto il genere umano. Anche questo è un elemento di tutta la polemica che N. svolge nei
confronti del socialismo: non c’è possibilità di una liberazione per tutti, ma è riservata a coloro i quali
riescono aristocraticamente ad elevarsi ad una condizione che è di pochi e che è quella appunto in cui noi
riusciamo a vivere appunto al di la del bene e del male.

Tema della volontà di potenza:


abbiamo detto che nell’ultimissima fase della filosofia di N., N. rivolge la propria attenzione critico-
genealogica non più tanto al tema della metafisica, della filosofia, della religione quanto al tema della
morale, del pregiudizio morale. La critica alla morale è tipica dell’ultima fase del pensiero di N. perché la
morale secondo N. è una tipica espressione della opposizione alla vita, alla potenza della vita e quindi è
l’ostacolo alla liberazione che deve portare appunto l’uomo a liberarsi dai propri condizionamenti e ad
affermarsi come oltre uomo. Che cosa comporta l’analisi genealogica che N. compie rispetto i principi
morali? Comporta l’affermazione del fatto che i pretesi valori trascendenti non sono altro che proiezioni di
tendenze umane e di bisogni umani di carattere psicologico- fisiologico. Quindi ciò che noi consideriamo
buono o cattivo non è appunto qualcosa di afferente ad un piano di assolutezza ma noi costruiamo l’idea di
buono o cattivo per venire incontro a dei bisogni che abbiamo, bisogni che però sono di carattere
materiale. Costruiamo Dio perché abbiamo paura della morte, quindi Dio, che sarebbe l’istanza assoluta,
altro non è che una proiezione che serve a rispondere ad un bisogno molto banale che è la paura della
morte.
All’interno di questa critica della moralità che N. compie, N. fa una importante distinzione che è quella tra
morale del gregge/degli schiavi e morale dei signori, e qui nuovamente affiora l’elemento aristocratico della
filosofia di N. Ovviamente la preferenza di N. è incondizionatamente legata alla morale die signori perché
abbiamo detto che i giudizi morali non sono affatto istanze di tipo assoluto ma fanno riferimento solo
all’espressione di determinate forze che caratterizzano un determinato contesto storico. Che cosa è
accaduto, dice N.?
È accaduto che con il passaggio alla modernità, con la rivoluzione francese in particolare, con la fine cioè
dell’ancien regime, e con l’ avvento delle moderne democrazie liberali, la classe dominante non più quella
degli aristocratici, ma quella del popolo. Si passa cioè dall’aristocrazia alla democrazia. La classe dominante
non è più una classe di aristocratici, non sono più i migliori a dominare, ma i mediocri, cioè la massa. Che
cosa succederà allora? Che questa classe dominante, l’aristocrazia aveva prodotto una serie di valori che
erano tipicamente i valori dei migliori ( quindi i valori che esprimevano l’aristocrazia erano: forza, orgoglio,
prodezza, maestosità, magnanimità). Con il passaggio alla morale espressione di un determinato contesto

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socio-politico in cui è la massa ad essere classe dominate, accade che ovviamente i valori positivi sono
quelli mediocri della massa. E quindi non più la forza, ma la generosità; non più l’esuberanza ma la
moderazione e via dicendo. Cioè mentre la morale tipica delle società aristocratiche era una morale che
appunto era indirizzata a rafforzare tutti quei valori che erano funzionali all’espressione della potenza
vitale; la morale degli schiavi, del gregge, della massa che ha rovesciato appunto l’aristocrazia, è tutta
indirizzata a capovolgere i valori di quella classe dominante che è stata sconfitta e quindi abbiamo un
inversione costante dei valori aristocratici nel loro opposto. Cioè invece che rafforzare la vita, la morale
tipica delle società democratiche liberali, è una morale che è colma di risentimento, di vendetta nei
confronti di quella classe dominante che ha rovesciato e che esprime quindi i valori contrari. Quindi i valori
che sono esemplificati al meglio, dice N. dal cristianesimo, sono valori che sono diretti a una totale
mortificazione della vita.
Quindi il presupposto di partenza che i valori non sono altro che i risultati di rapporti di forza, e che quindi
data una classe dominante, data una serie di rapporti di forza, si produrranno una serie di valori, e quindi
una serie valori che non sono assoluti ma sono relativi. Che cosa è accaduto storicamente? Dice N. è
accaduto che si è passati da una moralità espressione della classe dominante composta da aristocratici, cioè
dai migliori, che dunque avevano come valori quelli che esaltavano l’eccellenza; si è passati con l’affermarsi
di regimi democratici, ad una inversione di quei valori che erano l’espressione dell’eccellenza e dunque
sono diventati i valori della classe dominante composta dal popolo, quei valori che sono invece rivolti non
alla eccellenza, ma alla mediocrità, cioè a una limitazione costante della potenza vitale Quindi, laddove la
morale dei signori prevedeva quali valori la forza, la salute, la gioia, la fierezza e via dicendo, cioè
l’esaltazione della vita e del corpo; la morale degli schiavi, del gregge, prodotto delle società democratiche,
è espressione di valori che esaltano la mediocrità e quindi mortificano e che tendono a considerare e non il
corpo come veicolo fondamentale di affermazione della vita ma l’anima, la spiritualità. Quindi con la
democrazia e il cristianesimo, il mondo moderno entra in una fase a cui a determinare i valori sono i
mediocri, e dunque si affluisce una tendenza che già si era persa con la tradizione aperta da Socrate di
mortificazione della vita, di allontanamento della vita in quanto non accettazione di ciò che la vita
propriamente è.

Da tutto ciò deriva la necessità di quella che N. chiama una trasvalutazione dei valori: cioè dobbiamo in un
certo senso rinvertire quei valori che la modernità ci ha trasmesso sulla base della morale del gregge
animata fondamentalmente da sentimento di rivalsa e di vendetta nei confronti dei migliori. Necessità
quindi di una trasvalutazione di tutti i valori, dobbiamo rifiutare (genealogia) e ricostruire la nascita e il
contesto dell’emergenza di questi valori per criticarli e ovviamente per costruire nuovi valori che saranno
quindi indirizzati ad un rafforzamento della vita e che saranno i valori dell’oltre uomo.
Che tipo di morale è quella che anima l’oltre uomo?
Non la morale che propone dei valori assoluti perché come abbiamo detto nessun valore è assoluto. Che
tipo di etica ci deve consegnare dunque la trasvalutazione dei valori? un etica che consiste in una costante
produzione di valori. Cioè, chi è l’oltre uomo? È colui che è svincolato da ogni condizionamento morale e
che dunque è produttore dei propri valori, è libero produttore dei propri valori. E’ colui a cui è affidata
unicamente la responsabilità della propria esistenza, cioè è colui che si determina e si conferisce i valori che
essi stesso decide di darsi. Quindi l’etica dell’oltre uomo, che è quella che è conseguente alla
trasvalutazione dei valori non è tanto una re inversione del sistema dei valori che ci riporta ai valori
aristocratici ma è una cancellazione di qualsiasi caratterizzazione assoluta di valori, in vista della costruzione
di un etica che consiste nella produzione costante di valori. L’oltre uomo è colui che produce i propri valori,
che decide egli stessi quali sono i valori cui egli deve orientarsi e che ovviamente saranno tutti orientati alla
affermazione della propria potenza vitale, che N. chiama volontà di potenza. L’oltre uomo è colui che è
dotato di volontà di potenza, cioè che vuole tutto ciò che può e perché può volere tutto ciò che può?
Perché ciò che può e non può lo decide l’oltre uomo stesso, che è colui che produce i valori che deve egli
stesso rispettare.
Quindi la volontà di potenza è sostanzialmente la spinta all’autoaffermazione creativa. Creativa perché
produttrice di valori. È un affermazione di sé stesso come uomo libero e libero nella misura in cui crea i
propri valori. E’ il sentimento fondamentale dell’oltre uomo. Chi è l’oltre uomo? L’oltre uomo è colui il cui
sentimento fondamentale è la volontà di potenza, cioè che vuole tutto ciò che può e che può tutto ciò che

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vuole perché tutta la sua esistenza è orientata appunto all’affermazione della propria possibilità di
espressione che gli è garantita dal fatto che è egli stesso il creatore dei propri valori. Che cosa ci dice questo
meccanismo messo in luce da N. all’altezza della definizione dell’oltre uomo?
Ci dice che non tutte le interpretazioni sono identiche per N., ma sono preferibili quelle che ci consentono
di vivere liberamente. Questo vuol dire che la morte di dio non ci lascia di fronte ad una mancanza di senso,
ad una mancanza di valori, ma ci lascia di fronte alla possibilità, alla convinzione che il senso non è che non
ci sia ma va prodotto. Siamo noi che produciamo il nostro senso, quel senso, quel significato dell’esistenza
che un dio non ci può più garantire. Ma il fatto che non ci sia più un dio, una verità, una bontà assoluta che
ci garantisca un senso alla nostra vita, non significa che la nostra esistenza sia destituita di senso ma
significa che il senso alla nostra esistenza siamo chiamati noi a conferirlo, noi siamo i produttori di quel
senso che la nostra v ita sembra non avere. Non dobbiamo più affidarci a istanze trascendenti che ci
conferiscono un senso allontanandoci dalla nostra esistenza, dalla nostra condizione, dalla nostra possibilità
si esprimerci, ma il senso non è nient’altro che ciò che noi produciamo come senso. Noi siamo gli dei di noi
stessi. In questo senso l’oltre uomo è la di la delle modalità moderne di soggettivazione.
Quindi la volontà di potenza è il sentimento tipico dell’oltre uomo, consiste nella libera creazione di valori
ed è quindi una forma di nichilismo che N. caratterizza come un nichilismo attivo.
Che cos’è il nichilismo, il nichilismo è l’affermazione della mancanza di valori, e nichilistica secondo N. è
l’epoca moderna secolarizzata che arriva alla fine delle grandi religioni, della morte di Dio. Ma bisogna stare
attenti perché questo nichilismo non si esaurisce in forma di nichilismo passivo (e questa è l’accusa che N.
rivolge a Schopenhauer), cioè non è che siccome Dio è morto allora non c’è alcun senso e noi dobbiamo
semplicemente affermare la mancanza di senso e la mancanza di valori. Questa è una forma che N.
definisce di nichilismo passivo. Il nichilismo di cui invece è protagonista l’oltre uomo dotato di volontà di
potenza, è un nichilismo attivo, cioè che fa piazza pulita di tutti i valori, di tutti i significati che ci vengono
imposti non per vivere in assenza d valori e di significato ma per creare attivamente il valore e il significato.
Il nichilismo attivo è quindi quello che è proprio dell’oltre uomo che non si esaurisce in una pessimistica e
ascetica accettazione della mancanza di senso (Schopenhauer) ma da questa mancanza di senso trae a forza
per creare i valori e il senso attorno ai quali organizzare la propria esistenza di oltre uomo. Questa
creazione attiva di senso è ciò che appunto N. chiama volontà di potenza.
La volontà di potenza è questa creazione attiva di valori, ha un carattere come l’oltre uomo di tipo
aristocratico e ovviamente bisogna a che ricordare come N. affida a questa volontà dio potenza non solo il
senso di una creazione attiva di valori, cioè come espressione massima del nichilismo attivo, ma
effettivamente nei suoi testi N. caratterizza questa volontà di potenza sulla scia della sua visione
aristocratica dei rapporti tra individui da anche una caratterizzazione in termini aggressivi. Cioè
l’affermazione della propria potenza ovviamente è a discapito degli altri individui. Noi dobbiamo creare i
nostri valori e affermare la nostra potenza vitale anche a discapito di ciò che è altro da noi. Quindi la
volontà di potenza è da un lato il nichilismo attivo, creazione di valori, e dall’altro ha una caratterizzazione
di tipo agonistico, cioè questa volontà di potenza si articola in uno scontro costante con ciò che ci vorrebbe
limitare.

1 aprile
(domanda di Debora su Freud fino a min. 10.00)
Così parlò Zarathustra è un libro che si compone in realtà di 4 libri che vengono pubblicati a distanza di
diversi mesi l’uno dall’altro. Comunque al pubblicazione dello Zarathustra avvien tra il1883 e il 1885 e in
questi libro N. annuncia quella che per lui è la chiave per una trasformazione completa della civiltà europea.
Questa chiave è costituita da superuomo e volontà di potenza. Quindi già nello Zarathustra noi troviamo i
principi che permetteranno a N. negli anni successivi di sviluppare la sua critica della morale che appunto
viene sviluppata nei volumi “Al di là del bene e del male”, e “Genealogia della morale”. Sono libri che
vengono pubblicati immediatamente dopo “Così parlò Zarathustra” e il tema esplicito di questi libri è
appunto costituito dalla critica della morale ancora dominante nell’Europa della fine dell’800.

Al di là del bene e del male viene pubblicato nell’estate nel 1886.

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Allora abbiamo detto 1885 si completa la pubblicazione di “Così parlò Zarathustra”. Nell’estate del 1886 N.
pubblica “Al di là del bene e del male”. Un anno dopo, nell’autunno del 1887, viene pubblica la Genealogia
della morale.

La genealogia della morale è un libro che N. concepisce proprio come integrazione, come una sorta di
sviluppo e di commento all’opera precedente e questo libro si compone di tre dissertazioni:
1- La prima riguarda la nascita dei concetti di buono e cattivo, cioè in altri termini riguarda la nascita
dei concetti di bene e di male.
2- La seconda dissertazione è dedicata ai concetti di colpa e cattiva coscienza (rimando a Freud).
3- La terza si intitola “che cosa significano gli ideali ascetici?”.

Allora, per capire perché N. si occupa della morale è necessario evidentemente spiegare prima di tutto la
parola che è quella più importante nel titolo di questo libro, cioè la parola GENEALOGIA. Che cosa vuol dire
genealogia? Perché N. non scrive genesi, non scrive semplicemente nascita, scrive genealogia. Perché
genealogia? Allora, genealogia sta ad indicare in N. il tentativo di ricondurre determinati concetti morali alle
forze e agli impulsi che ne stanno alla base e che secondo N. questi concetti si limitano ad esprimere sul
piano teorico o simbolico.
Allora, facciamo l’esempio dei concetti di buono e cattivo. Cosa vuol dire creare, fare una ricerca di
carattere genealogico, cioè ricostruire la genealogia di questi concetti. Si tratta di capire a quale tipo di
istinto, a quale tipo di forza corrisponde il concetto di buono, il concetto di cattivo o il concetto di malvagio.
Allora attraverso appunto una serie di riflessioni N. sostiene che questi concetti nascono da una contrasto
fondamentale tra le caste aristocratiche e guerriere che hanno dominato la società europea prima
dell’avvento del cristianesimo, e i ceti popolari, che N. in modo sprezzante chiama plebe e gregge (*istinto,
impulso del gregge di Freud che Freud sicuramente ricava dalla Genealogia della morale), che
naturalmente, dice N., mal sopportano il demonio e le vessazioni a cui sono sottoposte dalle classi
dominanti.
Quindi primo elemento: c’è una base sociale. La morale ci sta dicendo N. non è una teoria che esprime dei
valori assoluti. Nella morale si esprimono determinate forze e determinati interessi.
Allora dobbiamo chiederci che cos’era buono, che consideravano virtuoso i nobili, gli aristocratici, i
guerrieri, quelle che N. chiama le caste dei signori? Evidentemente per questa categoria di uomini, buono e
bene era tutto ciò che esprimeva forza, potenza, salute, coraggio, bellezza, ed era considerato cattivo
(attenzione che qui cattivo vuol dire spregevole, inferiore, plebeo, volgare) tutto ciò che esprimeva
malattia, povertà, debolezza, viltà, bruttezza. Quindi dal punto di vista delle caste dominanti di cui N. trova
la traccia nelle società precedenti al dominio del cristianesimo, ad esempio nella Grecia arcaica, per come si
esprime nei poemi omerici, nelle società orientali di cui ci ha lasciato testimonianza la cultura indiana, e
cosi via… nelle società dei germani precedenti alla dominazione romana, cioè una serie di organizzazioni
sociali che erano strutturate su base aristocratica dove il potere era nelle mani delle caste guerriere che in
questa ricostruzione di N. avevano anche il monopolio delle ricchezze e in particolare della proprietà
terriera. Tracce di questo codice morale lo ritroviamo anche nel medioevo. Che cos’è infondo la cavalleria?
È il residuo, già però cristianizzato, di un ideale di vita basato su un modello eroico che per N. si trova
espresso al suo massimo livello nell’ Iliade dove gli eroi combattono e uccidono e quanto più riescono nelle
loro imprese militari tanto più acquistano la gloria e vengono celebrati dai poeti. Quindi la guerra è
considerata l’elemento discriminante per valutare il valore e a qualità di un uomo. L’eroe è quell’uomo che
non ha paura della morte, che accetta il combattimento, che mette a repentaglio la propria vita, e che non
si fa scrupolo di uccidere i propri nemici. Allora la forma poi codificata di questo tipo di codice è il duello.
Nell’Iliade il culmine di tutto il poema è proprio il duello tra l’eroe dei greci, Ettore e l’eroe dei troiani,
Achille. Quindi l’eroe esercita anche una buona dose di crudeltà, cioè la violenza fa parte del carattere
eroico perché l’eroe è guidato esclusivamente dall’esercizio della propria potenza, della propria, come di N.
volontà di potenza. Non ha paura della morte e non si tira indietro quando si tratta di infliggere. Un altro
elemento che era proprio di questa morale aristocratica sono i giochi, ad esempio i giochi olimpici nelle
Grecia arcaica erano l’unico momento in cui i greci non si combattevano tra di loro. Era appunto la
manifestazione della forza e delle bellezza del corpo espressa attraverso una competizione basata sulla
rivalità, sull’agonismo e sulla ricerca della vittoria. Quindi un altro elemento proprio delle civiltà

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aristocratiche è la cura del corpo. Ma non fine a se stessa, no, il copro come espressione di coraggio, virtù,
abilità, destrezza, atletismo e naturalmente anche capacità di reggere una battaglia, un duello, un
combattimento. Quindi il bene per una classe di questo tipo era legato anche all’esercizio di una
sopraffazione. Era dato dal diritto di comandare su chi veniva ritenuto inferiore. In N. ci sono questi aspetti
anche di brutalità. È il comando del più forte che si qualifica non semplicemente perché è un barbaro ma
perché produce una cultura che però non è basata sulla rinuncia e sul sacrificio, ma sull’affermazione della
proprio potenza, della propria intelligenza, della propria virtù intesa come capacità, capacità di fare, di
pensare, di creare. E’ chiaro che questo crea una morale totalmente anti egualitaria, una morale
fortemente gerarchica, c’è una minoranza che comanda e una maggioranza che deve obbedire. Quindi la
differenza tra bene e male in un epoca di questo tipo non è legata ai ideali di fratellanza, solidarietà, aiuto,
ecc. ma è esattamente legata al contrario e cattivo, questo è decisivo, è il plebeo, che è cattivo non perché
è giudicato moralmente inferiore, ma perché è giudicato inferiore dal punto di vista delle sue qualità
ontologiche, cioè per la forma di vita e di esistenza che esprime, dal punto di vista della bellezza, del
coraggio, della forza, della potenza. Ecco perché genealogia: ricondurre il significato dei concetti morali al
tipo di vita e al tipo di forze che questi concetti esprimono. Allora il buono, il virtuoso è il carattere eroico e
l’esercizio della virtù e legato anche all’esercizio della violenza e della crudeltà. Quindi una morale basata
sul corpo, sulla bellezza, sulla salute, sulla forza, sull’autoaffermazione.
Cattivo è sinonimo di spregevole, cioè di inferiore.

Cosa cambia col cristianesimo?


Il cristianesimo, dice N. è il veicolo, è la religione attraverso cui la plebe, il gregge cerca di vendicarsi dei
signori e di sostituirli nel comando della società. Abbiamo un totale capovolgimento dei valori morali.
Quello che per una morale di tipo aristocratico è il buono, il buono nel senso del virtuoso, cioè del dotato di
forza, di bellezza, di coraggio, di salute, diventa dal punto di vista della plebe il malvagio. Cioè l’uomo che
esercita un tipo di violenza moralmente ingiustificabile e da condannare come forma di perversione morale,
di corruzione etica. Quindi ciò che era buono nell’ottica di una morale aristocratica, diventa cattivo nel
senso di malvagio, espressione appunto di corruzione morale dal punto di vista della morale plebea, cioè
dal punto di vista del cristianesimo.
Correlativamente a questa trasformazione del concetto di cattivo che diventa malvagio, abbiamo
naturalmente anche il cambiamento dell’idea del buono e del bene: allora buono diventa chi? Non l’eroe, il
guerriero, ma l’uomo buono nel senso di umile, mansueto, ubbidiente, solidale con il prossimo, che non
ambisce al potere e alla ricchezza e soprattutto alla superiorità nei confronti degli altri. Ecco allora gli ideali
cristiani dell’umiltà, della carità, e della fratellanza (nessun uomo deve porsi come superiore agli altri
perché tutti gli uomini sono fratelli e figli di uno stesso padre). Vi ricordate cosa diceva Freud? il
Cristianesimo è la religione della fratellanza basata sull’unione in Cristo che garantisce l’unità, che è il
simbolo dell’unità fra tutti gli uomini in quanto figli di uno stesso padre.
Allora è chiaro che per N. il cristianesimo è la morale del livellamento. Non si può tollerare qualcuno che sia
superiore agli altri. Il cristianesimo come veicolo per una morale dell’eguaglianza intesa come livellamento
e appiattimento verso il basso.
Mentre la morale eroica aspirava ad una eccellenza e alla affermazione di una superiorità, il cristianesimo
rovescia questi valori, ritiene colpevole chi ricerca l’eccellenza, la superiorità e prende invece chi esercita
quella che appunto diventa la virtù dell’umiltà, riconoscendosi come uguale a tutti gli altri. Ma per
riconoscersi come uguale a tutti gli altri, l’uomo si deve abbassare al livello di chi sta più in basso di lui, cioè
a livello della plebe, o per usare il termine di N., a livello del gregge.

In questa ricostruzione che N. intitola non a caso “Genealogia della morale”, sottotitolo: “uno scritto
polemico”: cioè N. sì vuole fare una ricostruzione rigorosa, ma è un scritto polemico, cioè è uno scritto
anche di lotta e di battaglia per N. polemus = guerra. Uno scritto polemico vuol dire che è uno scritto che
vuol fare la guerra alla morale cristiana che secondo N. si è infiltrata nella società europea e che è ancora
dominante nonostante secondo N. gli uomini non credano più in Dio. I ceti nobiliari e borghesi, sia le masse
delle città in realtà non vivono più sulla base dei principi cristiania anche se continuano ad andare a messa
magari. Ma N. appunto dice che i riti religiosi della modernità non sono altro che le esequie di Dio, i funerali
di Dio, perché poi gli uomini vivono sulla base di principi che non hanno niente a che vedere con quelli che

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vengono professati. Però dice N. che il cristianesimo si è infiltrato ad un livello più sottile, cioè si è
trasformato nei principi che governano la vita degli stati moderni, cioè si è trasformato in democrazia, si è
trasformato nell’idea dell’uguaglianza che rende tutti gli uomini dotati degli stessi identici diritti di tutti gli
latri. Quindi il cristianesimo non vive più come religione ma vive come sistema sociale, come sistema
statale, come sistema politico e questo sistema sociale e politico ha un nome: democrazia  sovranità
popolare e abbattimento di ogni gerarchia che distingua un uomo dall’altro.
Allora l’attacco di N. alla morale cristiana è anche l’attacco di N. al sistema politico dominante nelle società
moderne. Cioè quel sistema politico che si è affermato a seguito della rivoluzione francese che è la
conseguenza, dice N., di quasi 2000 anni di cristianesimo e che porta a compimento la rivolta della plebe.
Quindi diciamo che possiamo accusare N. di qualunque cosa tranne che di ipocrisia, cioè lui dice con
chiarezza che lui vuole combattere questa cosa qua, l’idea di eguaglianza, l’idea di fratellanza e vuole
affermare un ideale che è completamente diverso, che lui chiama appunto ubermensch, che se noi lo
traduciamo superuomo dobbiamo stare attenti però a non intendere per superuomo un uomo potenziato.
Perché non è questo il superuomo di N. Allora “mensch” = uomo; “uber” invece si può tradurre sia come
“super”, sia come “oltre”. Infatti alcuni decidono di tradurre questa parola tedesca con “oltre uomo”
perché effettivamente N. vuole proporre una forma di vita che sia al di la dell’uomo. Abbiamo detto che il
libro che precede la Genealogia della morale si chiama Al di la del bene e del male, cioè al di là di quei
concetti morali che hanno plasmato l’umanità attraverso due millenni di dominio del cristianesimo. Quindi
andare al di la del bene e del male significa anche andare al di la dell’uomo, oltre l’uomo.
All’inizio dello Zarathustra N. ci dice che per lui l’uomo è un ponte tra la bestia e il superuomo. Non è una
forma di vita che debba essere considerata come definitiva, è un enorme transizione, è un passaggio tra un
esistenza puramente animale e una forma di vita superiore a quella che l’umanità si è data attraverso il
dominio dei valori cristiani.
Quindi uno scritto polemico e N. scrive anche “aggiunto a integrazione e chiarimento di Al di la del bene e
del male recentemente pubblicato”. Cioè lui stesso crea questa correlazione.
Quindi N. dopo aver formulato la sua teoria del superuomo e della volontà di potenza vuole esplicitare non
più in senso poetico, non più in senso metaforico, ma in senso filosofico le conseguenze che vanno tratte
dalle teorie dello Zarathustra. Lo Zarathustra si esprime per simboli, per metafore, usa un linguaggio di tipo
poetico. Al di la del bene e del male e la genealogia della morale traducono in prosa ciò che lo Zarathustra
esprimeva quasi in forma di poema. In effetti “Cosi parlò Zaratustra” è qualcosa di difficilmente
classificabile, epochè è un libro di poesia ma è anche un libro di filosofia, usa metafore ma è pieno di
concetti, cioè è un libro effettivamente inclassificabile. Invece “Genealogia della morale” è proprio un
trattato filosofico. E’ un trattato però non neutrale, non vuol essere un libro neutrale, ma vuole essere uno
scritto di lotta e di polemica contro la morale corrente.
Questa lotta che la plebe conduce attraverso il cristianesimo contro i valori della nobiltà, trova dice N. però
un alleato fondamentale nella casta dei sacerdoti. Allora N. ricostruisce questo processo in questo modo
qua: come nasce il modello del sacerdote, del padre? secondo N. nasce attraverso una spinta, cioè una
volontà di potenza che si esprime come desiderio di superiorità, quindi come desiderio di potere, di
dominio, però, nel modello, nel tipo del sacerdote N. vede appunto un tipo umano che aspira al potere ma
che non ha il coraggio e la forza per conquistare il potere con mezzi espliciti, diretti, cioè attraverso l’uso
delle armi, attraverso la competizione, il conflitto e la guerra. No, il prete vuole arrivare al dominio ma per
via indiretta, cioè per via intellettuale.
L’eroe greco è eroe perché manifesta la sua superiorità nel combattimento, nella gara atletica, e nella
effettiva capacità di governare le città che gli erano attribuite, di cui era il re e il signore. Questo è l’eroe.
Il modello del prete invece è il modello, il tipo di uomo che vuole scalzare l’eroe ma non confrontandosi
direttamente con l’eroe, ma per via indiretta, cioè conquistando l’appoggio della plebe, facendosi quindi il
portavoce dei valori che sono interni al modo di vita della plebe (valori dell’eguaglianza, della solidarietà,
dell’aiuto reciproco, della umiltà, della povertà). E poi N. dice che a partire da ciò sono nati i filosofi europei
successivi all’avvento del cristianesimo: anche i filosofi sono dei preti secolarizzati. I valori, i concetti che
permeano, che sono a fondamento della democrazia sono valori religiosi secolarizzati, che passano dal
livello religioso al livello politico e giuridico, quindi che non implicano più la fede in un Dio trascendente.
Non implicano più l’appartenenza ad una chiesa, diventano la base, noi oggi parliamo di stato laico (laico =
non confessionale, che lascia la libertà alle più diverse professioni religiose e anche a chi non professa

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alcuna religione) ma appunto a fondamento dello stato laico, secondo N., ci sono dei valori comunque
religiosi ma secolarizzati: eguaglianza, libertà, parità di diritti.
Ecco, il filosofo è l’espressione secolarizzata di quello che nel medioevo o alle origini del cristianesimo era il
prete, come tipo umano che attraverso la religione esercita un’egemonia sulle masse popolari e usa questa
egemonia per competere con i nobili nel controllo e nel governo della comunità.

Adesso proviamo a concretizzare tutto quello che abbiamo detto leggendo alcuni testi dalla genealogia
della morale e in particolare dalla

PRIMA DISSERTAZIONE “Buono e malvagio”, “buono è cattivo”

Paragrafo numero 4 (pag.17)


scrive N. a proposito delle genealogia di questi concetti morali:
“A offrirmi l’indicazione della via giusta fu il problema di quel che devono propriamente significare, sotto il
riguardo etimologico, le designazioni di “buono” coniate dalle diverse lingue.” Sotto il riguardo etimologico,
che cos’è l’etimologia? È lo studio delle radici da cui si compongono le parole che sono in uso all’interno del
nostro linguaggio. Quindi fare l’etimologia della parola ad esempio “polemico” significa chiedersi da quale
parola deriva questa parola “polemico”. La parola polemico deriva dalla parola greca “polemos” = guerra,
conflitto. Allora se io ricostruisco l’etimologia della parola mi rendo conto di come la parola che uso sia
arrivata ad avere il significato che io li attribuisco. Quindi è molto utile per capire esattamente il senso delle
parole che impieghiamo, risalire all’origine di queste parole perché possiamo capire sia qual era il
significato primitivo, sia in che modo questo significato si è trasformato. Quindi l’etimologia ricostruisce la
storia delle singole parole.
Allora N. dice, guardate che l’etimologia mi ha aiutato a capire il significato dei concetti morali. Perché
nell’uso le parole sono come le monete, più le usiamo più si “consumano”, più il loro significato diventa
generico, indistinto, confuso. Per recuperare il senso pregnante, definito preciso dei termini allora
l’etimologia ci aiuta. Teniamo anche conto che N. nasce come filologo, N. diventa professore di università a
25 anni, era un genio dal punto di vista filologico = dello studio della lingua greca. Era il più giovane
cattedratico tedesco della sua epoca. E quindi N. ha una formazione filologica formidabile, ecco perché
riesce poi a ricostruire anche la genealogia delle parole, oltre che dei concetti. La genealogia dei concetti
attraverso l’etimologia della parole. Questo se non fosse stato filologo non lo avrebbe potuto fare.

“trovai allora che esse (cioè le designazioni di buono) si riconducono tutte a una identica metamorfosi
concettuale” ecco qui l’idea di metamorfosi concettuale, attraverso lo studio della etimologia, cioè
dell’origine e della composizione delle parole, io non mi fermo semplicemente allo studio del linguaggio ma
capisco i concetto che vengono espressi attraverso l’uso del linguaggio. Capisco i concetti, cioè le ide, e
capisco le loro trasformazioni. Cioè appunto le loro metamorfosi allora capisco che una stessa parola può
avere dei significati molto diversi. La parola è la stessa ma il suo significato cambia radicalmente. Però se io
non faccio questa opera di decostruzione, di ricostruzione etimologica dei significati dei termini non capisco
queste metamorfosi. Perché penso che ad esempio la parola buono abbia sempre significato la stessa cosa,
cioè abbia sempre significato quello che noi intendiamo con la parola buono, ma dice N. se io invece vado a
studiarmi l’etimologia, cioè ad esempio di come la parola buono veniva usata dai greci, capisco che c’è
qualcosa che non coincide, che non funziona se proietto il significato che do io alla parola buono su quello
che questa parola significava per un greco. Ecco la metamorfosi concettuale attraverso lo studio della
etimologia delle parole.
“trovai allora che esse si riconducono tutte a una identica metamorfosi concettuale che ovunque “nobile”,
“aristocratico”, nel senso di ceto sociale, costituiscono il concetto fondamentale da cui ha tratto
necessariamente origine e sviluppo l’idea di “buono” nel senso di “spiritualmente nobile” e “aristocratico”
nel senso di “spiritualmente bennato”, “spiritualmente privilegiato”.
Allora N. sottolinea quello che abbiamo anticipato: la matrice sociale dei concetti morali. Non c’è una
origine soprannaturale dei concetti morali. I concetti morali non riflettono neppure un ordine cosmico
naturale, nei conetti morali si esprimono le concezioni proprie di determinati ceti sociali. Quindi c’è una

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base sociale all’origine dei concetti morali. Quindi prima viene il ceto sociale e poi il concetto morale
attraverso cui questo ceto sociale esprime i propri valori e il proprio stile di vita.
“Uno sviluppo che corre sempre parallelo a quell’altro, il quale finisce per far trasparire il concetto di
volgare, plebeo, ignobile in quello di cattivo”. Quello che dicevamo prima: all’origine della polarità tra bene
e male c’è in realtà la polarità, l’opposizione tra l’idea di buono come nobile, nel senso di appartenente ad
un determinato ceto sociale che ah come suo contrapposto il concetto di cattivo inteso come spregevole.
Noi usiamo ancora questo termine nel senso di spregevole quando diciamo che banalmente una pietanza è
cattiva, non intendiamo mica attribuire una colpa al piatto che non ci piace, no, diciamo che appunto lo
consideriamo mal riuscito, spregevole, cioè non cattivo in senso morale ma dal punto di vista della sua
bontà. Ecco è un po’ questo che N. effettivamente ha scoperto, che all’origine dei concetti morali non ci
sono dei concetti morali, ma ci sono delle classi sociali che danno a determinate parole un senso
completamente diverso rispetto a quello che queste parole hanno poi ricevuto nel corso del tempo.
Metamorfosi concettuale.
Quindi bene e male diventa se ricostruito genealogicamente espressione di un opposizione che è
innanzitutto fra ceti sociali. Nobili da una parte e plebei dall’altra. Poi N. fa una serie di esempi che val la
pena di seguire perché possono essere chiarificatori.
“L’esempio più eloquente di quest’ultima trasformazione è dato dalla stessa parola tedesca “schlecht”
[cattivo] che è identica a “schlicht” [semplice] e designava originariamente l’uomo semplice, comune,
unicamente in antitesi all’uomo nobile”. Quindi prima abbiamo la contrapposizione tra nobile e plebeo, poi
il plebeo diventa secondo N. l’uomo considerato semplicemente come antitetico al nobile. Adesso non
entreremo nei dettagli, è solo un esempio per mostrarvi come attraverso l’uso delle parole è possibile
risalire alla definizione di strati diversi d un determinato concetto o anche più semplicemente attraverso la
stessa parola si esprimono concetti differenti.
“Questa mi parve, in ordine alla genealogia della morale, una cognizione sostanziale” cioè, io sto parlando
di parole ma in queste parole si esprime una realtà, cioè on è semplicemente una questione di termini,
attraverso questi termini si esprime qualcosa di importanza fondamentale dal punto di vista storico e vitale.
“Se essa è stata raggiunta soltanto tardivamente (cioè questa condizione sostanziale) lo si deve alla
influenza rallentatrice che ha esercitato il pregiudizio democratico, all’interno del mondo moderno,
relativamente a tutti i problemi delle origini”. Qual è il pregiudizio democratico fondamentale? È che gli
uomini siano tutti uguali e che il bene coincida con l’affermazione dell’eguaglianza. Allora è chiaro che se io
proietto alla storia precedente questa idea del bene come uguale a eguaglianza e fratellanza è chiaro che io
non capisco più niente di come funzionavano questi concetti in una società diversa dalla nostra, in una
cultura diversa dalla nostra. Ecco perché N. parla di influenza rallentatrice, siamo talmente convinti che i
nostri valori morale siano i valori i morali in assoluto cheli estendiamo in modo acritico a tutti i periodi della
storia e a tutte le società della storia. Ecco perché allora questi valori diventano espressione di un
pregiudizio. Cos’è un pregiudizio? È una convinzione che non è più in grado id riflettere e di criticare se
stessa. È una convinzione he si considera come unica verità possibile e dunque come valida per tutti i tempi
e per tutti i luoghi. Allora abbiamo detto l’importanza dell’etimologia per comprendere le metamorfosi
concettuali e nel caso della morale la scoperta di N. è che l’origine, il significato primario dei termini morali
è un significato di tipo morale.

Paragrafo 5 (pag. 18)


“Riguardo al nostro problema, è di non scarso interesse stabilire come in quelle parole e in quelle radici, che
hanno il significato di “buono”, traluca (= traspare) ancora, in guisa multiforme, la sfumatura principale
riguardo alla quale i nobili si sono sentiti appunto uomini di rango superiore”. Allora l’uomo ad esempio, la
parola greca agathos, non vuol di uomo in assoluto, ma vuol dire superiore rispetto a qualcun altro che
considera inferiore. E’ l’auto descrizione affermativa del proprio stile di vita e del ceto nobiliare che
attraverso il concetto di virtù celebrava se stesso e le proprie qualità, cioè le qualità che lo distinguevano
da chi apparteneva agli altri ceti. “Per la verità nella maggior parte dei casi, essi si attribuiscono nomi forse
semplicemente sulla base della loro superiorità di potenza (come “i potenti”, “gli eroi”, “i condottieri”) o
sulla base del più evidente segno peculiare di questa superiorità, nomi, a esempio, come “i ricchi”, “i
possidenti”. Ma altresì sulla base di un tipico tratto distintivo: e questo è il caso che qui ci interessa.
Chiamano se stessi, per esempio, “i veridici”; prima nel tempo, l’aristocrazia greca, portavoce della quale fu

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il poeta megarese Teognide. Ecco, per esempio Teognide è un poeta a cui il giovani N. dedicò molti scritti,
quando era filologo. Quindi attraverso lo studio dei poeti N. arriva a stabilire un’etica aristocratica alla quale
attribuisce valore esemplare attraverso appunto lo studio dell’antica società greca.
“La parola coniata in tal senso, estros, significa, secondo la radice, qualcuno che è, che ha realtà, che è
reale, che è vero”. C’è un significato ontologico, prima ancora che logico o morale. Indica un’umanità che è
pienamente tale, che è autenticamente tale, cioè che esprime al massimo della sua potenza la sua
autentica natura.
“In seguito, con una trasposizione soggettiva, il vero in quanto veridico”. Veridico, etimologia di questa
parola: veridico che dice il vero. Allora quando veridico diventa sinonimo di colui che dice il vero,
abbiamo una metamorfosi concettuale, la parola non indica più una condizione di esistenza, ma una
modalità di espressione che riguarda il rapporto tra il linguaggio e la natura. Abbiamo uno spostamento di
significato, N. parla di trasposizione soggettiva.
“In questa fase della metamorfosi concettuale essa diventa l’espressione caratteristica e il termine di
riferimento dell’aristocrazia e travalica in tutto e per tutto nel significato di “aristocratico”, per distinguerlo
dall’uomo volgare, mentitore, come lo chiama e lo descrive Teognide. Mentitore perché non avendo la fora
per mostrarsi cosi com’è, è costretto a mentire per sopravvivere, cioè è costretto a dire le cose in modo che
non corrisponde a come le cose stanno realmente. “Nella parola, cacos, come in delios, (il plebeo in
contrapposizione all’agathos) è sottolineata la codardia”. Quindi cacos, che noi traduciamo come cattivo,
dando a questa parola un significato morale (sei un bambino cattivo genesi del senso di colpa). Cattivo
come espressione di un difetto di tipo morale. Ma originariamente, dice N., il cacos era il plebeo in quanto
codardo, cioè privo della virtù nobiliare del coraggio. Nella parola cacos è sottolineata la codardia: ciò che
forse dà un avvertimento sulla direzione nella quale si deve ricercare l’origine etimologica della parola
agathos, soggetta a molteplici interpretazioni.

2 aprile
Abbiamo visto l’importanza che N. da alla etimologia. Abbiamo detto che l’etimologia è la storia del
significato che una parola ha avuto nel corso del tempo e abbiamo visto che il significato delle parole
cambia nel corso del tempo. Una stessa parola nel corso del tempo esprime dei concetti, cioè assume dei
significati, differenti. E ieri lo abbiamo visto in rapporto alla parola “buono” di cui N. si occupa nella sua
prima dissertazione della Genealogia della morale”. Buono, a seconda dei contesti, dei periodi storici, a
seconda della classe sociale che usa questa parola, assume un significato molto differente Quindi non
dobbiamo farci ingannare dal fatto che il termine rimane lo stesso perché l’identità della parola non
corrisponde all’identità dei concetti espressi da questa parola. E abbiamo visto quanto importante fosse
l’idea di metamorfosi concettuale. Vedete, N. cerca di costruire la sua argomentazione non sulla base di un
ragionamento astratto, ma a partire da alcuni elementi concreti che sono costituiti dal linguaggio, dalle
parole utilizzate dagli uomini e che fanno parte della lingua che questi uomini usano per comunicare tra di
loro. Quindi è un dato storico e linguistico che N. riesca ad interpretare in modo particolarmente brillante
perché come abbiamo detto N. ha una formazione di tipo filologico la filologia è quella disciplina che studia
le lingue antiche. Ma siccome le lingue moderne derivano dalle lingue antiche, ecco che una formazione di
tipo filologico permette a N. di ricostruire le trasformazioni concettuali e i diversi significati assunti da
termini che apparentemente essendo gli stessi dal punto di vista materiale, apparentemente sembrano
esprimere un concetto che resta invariato e identico nel corso del tempo. Attraverso invece la ricostruzione
del significato che la parola buono aveva in greco, N. è in grado di dire che la parola greca che indicava il
buono o il bene, aveva un significato diverso da quello che noi moderni intendiamo con la parola.

Paragrafo 5
Abbiamo parlato di agathos, che è la parola greca che significa buono. Allora agathos in greco vuol dire
buono non nel senso cristianesimo di umile, mansueto, obbediente e cosi via. Ma buono è l’uomo dotato di
virtù, e la virtù è la capacità di fare bene le cose che contraddistinguono un uomo nobile. Quindi buono è
legato a virtù aristocratiche come l’intelligenza, il coraggio, la maestria, ecc. vediamo che cosa succede per
quanto riguarda il latino, all’origine del nostro italiano.

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“Credo mia sia consentito interpretare il latino “bonus” come “il guerriero”: posto che a buon diritto
riconduco Bonus a un più antico “duonus”. Quindi N. dice, guardate che la parola “bonus”, che per noi è una
parola antica, in realtà dipende da una parola ancora più antica e secondo N. questa parola più antica
sarebbe “duonus”. Ora, perché è interessante questa etimologia? (prof non è sicura di questa etimologia,
verificare! Noi intanto comunque presupponiamo che abbia ragione) perché è interessante questa
riconduzione di “bonus” a “duonus”? perché nella radice di “duonus” c’è la parola due. E questo due in
latino “duo”, per N. fa emergere l’elemento della differenza e della rivalità. Scrive N.:
Bonus, quindi, come uomo della disputa, della disunione (duo)”.
E appunto quando io parlo di uno, quale parole deriva da uno? Unità. Uno unità. Unità ci trasmette l’idea
di una concordia, di una armonia (l’unità di una famiglia, l’unità di una classe, di uno stato, di una squadra),
il senso di una armonia, di un rodine condiviso, di una assenza di conflitto. Invece dire “duonus”, vuol dire
che l’uno in realtà è diviso in due. Non è uno, è un uno spaccato. E’ la forma più acuta della divisione ed
evidentemente del conflitto. Perché è nel conflitto che i due non solo si rivelano diversi, ma si rivelano
incompatibili l’uno con l’altro. Allora vedete, N. è sempre portato a spingere le cose all’estremo. Bonus,
duonus. Duonus quindi due, ma la forma più acuta della divisione che cos’è? Il litigio, la disputa, il conflitto,
cioè la guerra. Ecco allora in modo obiettivamente forse un po’ acrobatico, che N. pretende di ricondurre il
latino buono al significato di guerriero. Il significato originale di buono in latino non è quindi il senso che noi
utilizziamo per questa parola, ma un senso completamente diverso. La virtù militare del guerriero. E in
effetti in latino la parola che indica l’uomo non è una sola, sono due: homo homo è l’uomo in quanto
specie; però puoi c’è la parola vir  da cui deriva il nostro virile, virilità, cioè una parola che designa
l’elemento maschile non in senso biologico ma in senso di virtù, che il latino si dice virtus. Fa parte del vir la
forza del corpo unita al coraggio. Ancora una volta un’idea nobiliare, aristocratica, cioè l’idea di una
eccellenza che trova il suo terreno di manifestazione, di espressione privilegiata nella guerra. Allora questa
insistenza sulla guerra però dobbiamo chiarire una volta per tutte che quando i greci o i romani parlavano
della virtus, cioè del valore militare, del coraggio, della generosità, della disponibilità al sacrificio, parlavano
di una guerra che non centra niente con le nostre, non esisteva la polvere da sparo, gli aerei, al bomba
atomica; esisteva il duello, lo scontro tra uomini armati di scudo e di spada. Quindi il corpo del guerriero era
il protagonista della battaglia, non c’erano macchine nel senso della parola. Cioè in altri termini, la tecnica
aveva un significato assolutamente secondario rispetto alla abilità e appunto alla virtus. Quindi è chiaro che
noi dobbiamo ricollocare tutto il discorso di N. in rapporto a qualcosa che per lo stesso N. non esiste più. N.
fa questo discorso perché cerca di far capire ai suoi contemporanei una cosa molto semplice ma
difficilissima in realtà da comprendere, e soprattutto difficilissima da scoprire. E’ facile una volta che
qualcuno ce la spiega, ma arrivare a scoprire questa cosa è assolutamente difficile e senza N. forse non
l’avremmo ancora capita, cioè che ci sono diversi modelli di umanità e i valori dominanti nella nostra
cultura e nella nostra epoca non sono gli unici valori possibili e secondo N, non possono essere considerati
superiori a quelli dominanti in altre epoche storiche e in altre civiltà. Allora questa insistenza sulla guerra,
sulla virtù, sul coraggio ha appunto una funzione polemica. N. vuol dire ai suoi contemporanei: guardate
che il vostro stile di vita borghese, pacifico, basato sulla comodità, sulla tranquillità, sulla regolarità, non è
l’unico possibile, non è un ideale assoluto e non rappresenta uno stile di vita superiore rispetto a quelli che
per N. si sono realizzati nelle civiltà antiche come quella dei greci dei romani dove l’idea di virtù era
completamente diversa. Quindi non è che N. sia “un guerrafondaio”, N. vuole mostrare che a diversi tipi di
comunità corrispondono diversi tipi di ideale umano e quindi N. vuole porre una domanda: il nostro è
davvero il migliore degli ideali possibili? Il nostro stile di vita, i nostri valori sono veramente i migliori che
noi possiamo scegliere per affermare le nostre capacità, la nostra creatività? Infondo per affermare la
nostra vitalità. E’ chiaro che la risposta di N. è no. Attraverso l’esempio, diciamo, della virtù antica, N. vuol
dire agli uomini a lui contemporanei: dobbiamo rendere esempio dagli antichi per andare oltre la
modernità. Cioè non dobbiamo tornare a metterci la toga che usavano i romani e andare in giro con i calzari
che usavano i greci, dobbiamo prendere spunto da questi modelli per andare verso qualcosa di nuovo che
N. indica con la parola di superuomo o oltre uomo. Quindi N. prefigura un nuovo tipo di umanità che viva
secondo nuovi valori. Le nuove tavole dei valori annunciate dalla Zarathustra. Poi naturalmente su queste
nuove tavoli dei valori possiamo discutere perché alcune delle proposte di N. non è che siano proprio
totalmente accettabili, però appunto N. vuol essere bilaterale, duo, vuole non trovare un accordo, scendere

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a compromessi, no, lui vuole rompere, vuole veramente contrapporsi e quindi è portato ad andare
all’estremo, ad esasperare la sua posizione. Diciamo che in questo modo noi spieghiamo anche il modo in
cui N. scrive. N è sicuramente uno dei massimi scrittori dell’Europa moderna, della lingua tedesca ma
perché N. scrive in questo modo? Perché per lui la scrittura è una forma di azione. A lui non interessa che
uno legga i suoi libri e li metta sullo scaffale di una libreria continuando a fare e a pensare quello che faceva
e pensava prima di aver letto i suoi libri. N. scrive poco prima di impazzire (ultimi anni della vita di N.
caratterizzata da una condizione di follia) N. scrive un libro intitolato “Ecce Homo” una sorta di
autobiografia. Ecce homo non è un titolo qualunque, viene detto di Gesù prima di essere portato sul
Calvario e crocefisso. Quindi ecce homo è come se N. ad un certo punto in una fase in cui evidentemente la
lucidità cominciava a vacillare, si concepisce come un nuovo cristo. E non a caso ci sono dei biglietti, i
cosiddetti biglietti della follia, in cui N. si firma come “il crocefisso”. Quindi c’è una identificazione con la
figura di Gesù, come se nell’estrema parabola della sua vita “normale”, integra, nella fase estrema al
confine tra la normalità e la follia, N. si fosse concepito come un nuovo cristo, come un nuovo messia. Un
nuovo messia destinato come il precedente a perdere se stesso. Ecco, ora questo Ecce Homo porta come
sottotitolo “come si filosofa con il martello”. Questo vuol fare N. filosofare con il martello, cioè spaccare,
letteralmente mandare in frantumi quelli che per N. erano degli ideali diventati ormai privi di senso,
incapaci di dare forma alla vita reale degli uomini. Il martello di N. è la penna e attraverso la sua scrittura N.
quindi non cerca soltanto di comunicare delle idee ma di fare delle azioni, cioè di fare qualcosa che
intervenga nella vita effettiva degli uomini, che modifichi il loro modo di essere e di pensare. Ora, diciamo
noi dobbiamo tener presente anche un’altra cosa: che nella seconda metà dell’800 in Europa diventa
dominante l’evoluzionismo. Voi sapete che uno die libri più importanti scritti nel corso dell’800 è il libro di
Darwin “L’origine delle specie” del 1859. In questo libro Darwin ci presenta la sua teoria dell’evoluzione e ci
dice che appunto le specie animali non sono state create da Dio secondo un modello eterno e immutato, la
vita ha prodotto le diverse specie animali e vegetali nel corso di milioni di anni contrassegnati da una lenta
evoluzione che ha portato da forme di vita elementari e primitive, a organismi sempre più complessi.
Quindi è un percorso evolutivo che ha portato dal semplice al complesso, dall’indistinto al differenziato.
Questo dovrebbe ricordarvi Freud, la vita è un processo che si sviluppa per integrazione e differenziazione.
È la morta che resta nell’indistinto e che fa tornare la materia ad una dimensione di disorganizzazione di
entropia cioè di disordine, quindi questa idea dell’evoluzione ha avuto un impatto veramente enorme.
Ora, questa idea dell’evoluzione che originariamente riguarda le specie, cioè riguarda i processi della vita.
Quindi è un idea originariamente che nasce sul terreno della biologia. Vita = bios, biologia = studio della
vita. Ecco, in realtà questa idea viene poi estesa anche alla società e alla storia. Questo avviene in tutta
Europa, negli stati uniti ma soprattutto in Inghilterra e l’altro grande teorico dell’evoluzionismo è Spencer.
Che lettura da Spencer, che lettura danno gli inglesi con cui N. se la prende all’inizio della genealogia della
morale? Vede nell’evoluzione un processo di progressivo adattamento dell’organismo all’ambiente.
Trasferiamo questo concetto di adattamento dalla vita biologica alla vita sociale e viene fuori che u uomo è
tanto più riuscito quanto più si adatta a quello che fano gli latri. Una società è tanto più sana, quanto più gli
uomini che la compongono si adattano, si rendono conformi alle sue leggi, ai suoi costumi, ai suoi valori e
cosi via. L’adattamento diventa quindi una virtù sociale che spinge gli uomini non a differenziarsi gli uni
dagli altri, ma ad omologarsi, cioè a rendersi uguali gli uni agli altri. Allora N. legge l’evoluzionismo di
Darwin dei suoi seguaci come una teoria dell’adattamento dell’individuo all’ambiente sociale e alla cultura
dominante in questo ambiente. A questo punto è facile per N. fare un passo molto facile per noi. Questa
visione dell’evoluzione come progressivo adattamento e livello delle differenze, è l’ennesima concezione
collegata alla democrazia. Adattamento implica eguaglianza, e l’eguaglianza è come sappiamo il concetto
cardine della democrazia. Allora, ripetiamo: origine delle specie. Teoria dell’evoluzione. La teoria
dell’evoluzione viene letta alla luce del concetto di adattamento. Chi legge Darwin lo legge alla luce di
questa concezione: sopravvivono gli organismi che si adattano meglio degli altri all’ambiente e alle
modificazioni dell’ambiente. Se io sono abituato a stare in un clima caldo, mi sposto in un clima freddo e
non mi adatto al clima freddo, muoio. Mentre il mio amico che non ha problemi ad adattarsi al clima freddo
sopravvive perché il suo organismo è stato capace di rispondere in modo efficiente a delle modificazioni
ambientale a cui il mio organismo non è stato in grado di rispondere. Il mio organismo non si è adattato e
quindi è stato spazzato via, quello del mio amico si è adattato e quindi è sopravvissuto. Trasferiamo questa
logica alla dimensione sociale ed effettivamente l’adattamento se inteso come virtù sociale, non più quindi

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semplicemente come norma che regola lo sviluppo degli organismi, ma come criterio che serve a spiegare il
funzionamento delle società, beh è chiaro che dà come risultato una concezione che fa dell’eguaglianza
l’obiettivo fondamentale della società perché vuol dire che gli individui si sono adattati in modo sempre più
efficiente al contesto sociale, cioè all’ambiente culturale, politico, economico nel quale si sono trovati a
vivere. Allora, l’evoluzionismo diventa per N. una dottrina e una ideologia funzionale all’affermazione della
democrazia e dei valori collegati ad essa, primo fra tutti l’ideale dell’eguaglianza fra gli uomini. Allora
facciamo l’ultimo passaggio. Ma l’idea dell’eguaglianza da dove deriva? Deriva dal cristianesimo. Tutti gli
uomini sono uguali dal punto di vista della dignità, del valore, dell’importanza, perché tutti sono figli dello
stesso padre e perché tutti sono vincolati dalla unità che è rappresentata da Gesù, fratelli in Cristo dicono i
cristiani, non fratelli ideologici ma fratelli in cristo, cioè nel figlio del padre attraverso il quale tutti
diventiamo figli dello stesso padre. Allora, l’evoluzionismo è un’altra espressione della secolarizzazione del
cristianesimo. Perché l’evoluzionismo attraverso l’idea dell’adattamento finisce per difendere l’ideale
dell’eguaglianza che è alla base della democrazia. E abbiamo già detto che la democrazia per N., in quanto
basata sull’eguaglianza, l’espressione secolarizzata del cristianesimo. Secolarizzata vuol dire che non è più
fondata sulla fede in Dio ma estraggo dalla fede i concetti che erano costitutivi di questa fede, l’idea di
eguaglianza e di fratellanza che adesso vengono assunti, vengono depurati dal significato religioso e
assumono un significato politico e giuridico. Allora diciamo che quando N. attacca la morale cristiana
intende anche attaccare le conseguenze morali dell’evoluzionismo che per lui erano appunto legate
comunque al rafforzamento della democrazia. Per N. la democrazia è l’esempio della rivolta della plebe
contro non solo le classi nobiliari ma contro il tipo di umanità di cui le classi nobiliari erano il simbolo, cioè
un tipo umano superiore a livello del gregge, al livello della plebe, della massa.
Ora, vi dicevo che c’è una classe che allenta la rivolta della plebe contro i ceti aristocratici, e questa classe è
costituita, secondo N., dalla casta sacerdotale. Ieri dicevamo che nelle società antiche abbiamo una
minoranza che domina su una maggioranza, un minoranza che concentra su di se la stragrande
maggioranza delle ricchezze, che dunque è dedita alle attività che sono libere dalla necessità della
riproduzione materiale, quindi la festa, il godimento, oppure quando è necessario la guerra, la base
materiale di questa società è una base di schiavi a cui è demandato il lavoro fisico che deve garantire i
mezzi materiali per la produzione sociale, per il mantenimento della vita. Ecco, ma come fanno questi servi
e questi schiavi oppressi e schiacciati a ribellarsi contro delle classi che hanno il monopolio della ricchezza,
delle armi, che hanno quindi tutti i mezzi per potersi difendere. N. dice che l’elemento che permette alla
plebe di ribellarsi al signori sono i sacerdoti, cioè sono quegli uomini dotati di ambizione e di intelligenza
sufficiente per aspirare al potere, al dominio ma privi di quelle qualità fisiche e morali che potrebbero
metterli in grado di sfidare i nobili al potere. Quindi abbiamo un tipo umano intelligente, astuto ma privo di
coraggio, privo di virtù, di prestanza fisica e di capacità militari. Qual è allora lo strumento che questi
uomini utilizzano per insidiare il potere dei nobili e dei guerrieri? L’appoggio della plebe e lo strumento
attraverso cui i sacerdoti acquistano il controllo della plebe è la religione. Attraverso la religione, attraverso
la credenza basata sull’ignoranza, sulla superstizione, sulla paura, basata sulla credenza che questi uomini
riescono a diffondere fra il popolo. Credenza nel fatto che questi uomini sarebbero dei mediatori, dei
comunicatori fra Dio o gli dei e gli uomini. Questi sacerdoti esercitano un influsso spirituale sulle masse,
determinano le credenze e i valori delle masse e cominciano a farsi obbedire da queste masse. In questo
modo costruiscono una basa di appoggio che permette ai sacerdoti di entrare in competizione con i
guerrieri. Allora il sacerdote che si presenta come mediatore tra il popolo e la divinità acquisisce un
prestigio che gli permette di condividere il potere assieme alla casta dei guerrieri e della nobilita. Per N.
però la presenza dell’elemento sacerdotale introduce un elemento di corruzione e di corrosione, cioè di
malattia all’interno delle stesse classi nobiliari, fa perdere ai nobili l’innocenza con cui esercitavano il loro
potere. Comincia ad introdurre anche nei nobili un senso di colpa, e quindi comincia la casta sacerdotale a
introdurre un elemento di debolezza, di dubbio, di riflessione che secondo N. è all’origine della decadenza
delle classi nobiliari europee. Allora, è questo tipo di processo che porta, con il suo esito minimo, alla
rivoluzione francese e al trionfo della democrazia. N. resta convinto che senza il cristianesimo questo
risultato sarebbe stato impossibile. Leggiamo come introduce la casta sacerdotale nel

paragrafo 6:

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“A questa regola, che l’idea di preminenza politica si risolve sempre in un’idea di preminenza spirituale
(preminenza politica, primato sociale = superiorità di tipo naturale, spirituale), non fa ancora eccezione il
fatto che la casta suprema sia al tempo stesso la casta sacerdotale” però appunto l’intervento della casta
sacerdotale fa sorgere una nuova opposizione.
“si fa innanzi per la prima volta il termine di “puro” e di “impuro” […] Il puro all’inizio è semplicemente un
uomo che si lava, che si proibisce certi cibi, che non si unisce carnalmente alle donne sordide del basso
popolo, che ha orrore del sangue…” cioè all’inizio il puro è banalmente sinonimo del pulito. Però dice N.,
nonostante all’inizio questi concetti abbiano più un significato fisico e igienico che non strettamente
morale, scrive N., nonostante questo: “In siffatte aristocrazie sacerdotali, ostili all’azione, esiste sin da
principio qualcosa di non sano (qualcosa che ostacola la libera espressione della volontà di potenza) la cui
conseguenza sembra essere quella labilità viscerale (quella debolezza di carattere) e quella nevrastenia che
quasi inevitabilmente ineriscono ai preti d’ogni tempo.” Badate bene che N. originariamente doveva fare il
prete, cioè l’idea soprattutto della madre di N. è che N. doveva fare il pastore protestante, quindi questa
ostilità che emerge ha anche un fondo autobiografico. Nevrastenia = debolezza di nervi, debolezza di
carattere, sono tutte cose che N. conosceva bene perché ne soffriva lui per primo. N. per tutta la vita, per
esempio, ha dei fortissimi attacchi di emicrania, di mal di testa che gli impediscono di lavorare, di uscire, di
dormire. Quindi questa debolezza strutturale dal punto di vista fisico, secondo N. è all’origine poi di una
determinata concezione della vita che è necessariamente ostile a tutti perché è figlia di una condizione di
malattia. Prosegue il discorso N. “ma ciò che da questi stessi (cioè dei preti) è stato escogitato contro
codesta morbosa labilità – come si potrà fare a meno di dire che ha finito per dimostrarsi, cento volte
ancora più pericoloso della malattia da cui doveva liberare?” cos’è questo rimedio? È la rinuncia alla vita. È
come se l’unico mezzo che l’organismo malato ha per guarire dalla propria malattia fosse quello di svalutare
la vita e quindi di rovesciare l’ordine dei problemi e di dire, io sono malato quindi è la vita che è una
malattia, io sono malato ma la malattia non sono io, è la vita. Quindi per guarire dalla malattia che è la vita
io devo rinunciare alla vita, devo rinunciare ai godimenti e alle passioni che sono legate alla vita. Quindi
devo creare una morale che abitui alla rinuncia, al sacrifico e che da questa rinuncia e da questo sacrifico
arrivi a condannare tutto ciò che invece è legato al godimento della vita. Però è chiaro che questo attacco i
N. ai valori cristiani oggi è anacronistico. Basta leggere anche le dichiarazioni del papa ad esempio sulla
sessualità. Sono qualcosa di molto diverso da quello che N. attribuisce a queste leggi. Quindi è chiaro che
noi dobbiamo anche avere la capacità di discriminare fra l’altezza e l’attualità della filosofia di N., di
estinguere il tipo di analisi che N. ci presenta poi dalle posizioni che lui ci propone come alternative. E
perché evidentemente da questo secondo punto di vista anche N. è un figlio del suo tempo e si confronta
con la mentalità della cultura del suo tempo. Quindi importante l’operazione di ricostruire le metamorfosi
concettuali attraverso lo studio etimologico delle parole, fondamentale l’elemento critico che ci fa capire
che ogni società vive secondo valori che sono suoi propri e che non hanno il diritto di imporsi su società e su
stili di vita differenti dai propri. Differenziare operò questo elemento critico poi dall’elemento propositivo
perché quest’ultimo è molto meno convincente dell’elemento critico perché l’elemento propositivo si
confronta con idee e con concezioni religiose e morali che non sono più quelle presenti nel nostro tempo.
Quindi dobbiamo avere sempre la capacità quando leggiamo un brande autore di non prendere tutto quello
che dice per verità, bisogna esercitare sempre un attenzione critica.

Comunque appunto nel paragrafo 7 N. insiste sul ruolo delle caste sacerdotali e scrive:
“si sarà già indovinato con quanta facilità la maniera sacerdotale di valutazione può distaccarsi da quella
cavalleresco - aristocratica”. Allora N. comincia in questa sua ricostruzione da una situazione in cui abbiamo
il potere condiviso da una casta militare di nobili e da una casta sacerdotale. È la situazione attestata
storicamente dai grandi imperi, Assiri, Babilonesi, Persiani, egiziani. Un imperatore, un re attorniato da
guerrieri da una parte e sacerdoti dall’altra. Però dice N. è chiaro che in realtà il tipo d’uomo che fa il
sacerdote è un tipo d’uomo diverso da quello che fa il guerriero. E allora da questa originaria o iniziale
condivisione del potere, si arriva ad una inevitabile disunione e a un inevitabile conflitto.
“si sarà già indovinato con quanta facilità la maniera sacerdotale di valutazione può distaccarsi da quella
cavalleresco – aristocratica e svilupparsi ulteriormente fino a diventarne l’antitesi”. Ecco qua, dall’uno, il
due, dalla unità nella gestione del potere, alla separazione e al conflitto. Antitesi. “Alla quale antitesi verrà
dato un particolare impulso ogni qual volta la casta sacerdotale e quella guerriera entreranno per gelosia in

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contrasto fra di loro e non vorranno reciprocamente accordarsi intorno all’estimazione (=valutazione di ciò
che è bene e ciò che è male, di ciò che è giusto e di ciò che non lo è). Quando c’è un conflitto sui valori
allora ecco che abbiamo un conflitto far le classi sociali che incarnano questi valori: nobili e guerrieri da un
parte; sacerdoti dall’altra. E qui c’è appunto il riferimento dei valori morali alla costituzione corporea e
fisica di cui questi giudizi sono l’espressione. “I giudizi di valore cavalleresco-aristocratici presuppongono
una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente, ricca, spumeggiante, al punto da traboccare (badate
bene che è esattamente ciò che N. non aveva. È chiaro che N. qui sta idealizzando una condizione che lui
per primo non aveva a sua disposizione. Quindi attraverso un discorso che si presenta come storico, N. in
realtà ci presenta un discorso di tipo “prescrittivo”, ci sta descrivendo quello che è il suo ideale di umanità.
Non ci sta descrivendo l’umanità che è effettivamente esistita nelle classi nobiliari storicamente date. È una
trasfigurazione. Parte dalla storia per prospettarci un ideale, il modello che probabilmente nella storia non
è mai esistito) e con essa (cioè con questa salute fiorente, ricca, spumeggiante) quel che ne condiziona la
conservazione, cioè che ne rende possibile la permanenza, e cioè guerra, avventura, caccia, danza, giostre
(tornei nel senso cavalleresco del termine), nonché, in generale, tutto quanto implica un agire forte, libero,
gioioso”. Questi sono i nobili e i guerrieri.
Vediamo adesso invece i valori propri dei sacerdoti. “la maniera sacerdotalmente aristocratica di
valutazione ha presupposti diversi: quando c’è di mezzo la guerra, le cose si mettono piuttosto male per
essa! I sacerdoti, come è noto, sono i nemici più malvagi – e perché mai? Perché sono i più impotenti. È a
causa dell’impotenza che l’odio cresce in loro fino ad assumere proporzioni mostruose e sinistre, le più
intellettuali e venefiche (cioè velenose). Cioè sostanzialmente N. anticipa qui la sua teoria del risentimento.
L’odio del debole verso il forte. Solo che però siccome è un odio che non piò esprimersi fisicamente in
azioni, Freud direbbe “si sublima”, cioè trova una forma di soddisfazione indiretta attraverso idee, teorie e
parole.

Po vi è uno dei passaggi più delicati, cioè il riferimento agli ebrei e al popolo ebraico perché voi sapete che i
testi di N. sono stati utilizzati ai nazisti per affrenare una politica di razziale e potentemente antiebraica che
ha condotto alla Shoà. Allora qui dobbiamo essere chiari: N. non è mai stato antisemita. Vi dico solo che N.
aveva in casa uno dei capi del partito antisemita tedesco che aveva sposato la sorella. E N. non è mai
riuscito ad avere delle relazioni normale con questa persona perché riteneva gli antisemiti degli imbecilli.
Riteneva cioè l’antisemitismo tedesco una forma di compensazione plebea che trovava il modo per
distinguersi, per affermare una certa volontà di dominio assumendo come pretesto l’odio verso un altro
popolo perché incapace di affermarsi con i propri mezzi e le proprie capacità. Quindi N. vede
nell’antisemitismo una ideologia di tipo plebeo che non ha nulla a che fare con la teoria del superuomo e
della volontà di potenza. Quindi N. non p mai stato antisemita. Questo non vuol dire che N. attribuisca però
agli ebrei un ruolo storico che è fortemente ambiguo perché da una parte gli ebrei rappresentano per N. un
popolo che è riuscito a mantenere per più di 2000 anni una identità, dall’altro però gli ebrei hanno la
responsabilità di aver prodotto la casta sacerdotale che ha predisposto l’avvento del cristianesimo.
“Tutto quanto è stato fatto sulla terra contro i “nobili”, i “potenti”, i “signori”, “i depositari del potere” non
merita una parola in confronto a ciò che contro costoro hanno fatto gli ebrei; gli Ebrei, quel popolo
sacerdotale (cioè quel popolo in cui il dominio è stato monopolizzato dai sacerdoti) che ha saputo infine
prendersi soddisfazione dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione
dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta”.
In che cosa consiste questo odio e questa più spirituale vendetta lo vediamo domani.

3 aprile
La metamorfosi concettuali ci aiuta a ricostruire non solo la storia delle parole, ma la storia dei concetti.
Credo che dovrebbe esservi chiaro il tipo di obiettivo che ha N: la proposta del superuomo comporta una
trasformazione completa e totale dei codici morali vigenti nella società borghese europea dell’epoca di N.
questi valori morali sono per N. il frutto di una secolarizzazione die valori cristiani. Quindi la critica del
cristianesimo è la critica delle conseguenze morali che il cristianesimo ha avuto sulla storia europea. La
conseguenza ultima della diffusione del cristianesimo è l’affermazione di regimi di tipo democratico che

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trova il suo momento di affermazione decisivo con la rivoluzione francese. A partire dalla rivoluzione
francese la storia moderna è la storia della diffusione della democrazia. Dalla Francia, all’Europa,
dall’Europa al resto del mondo. Ma a N. interessa soprattutto la storia europea. Quindi, vorrei che fosse
chiaro il rapporto che c’è fra la proposta nietzschiana del superuomo e la necessità di fondare una nuova
morale, dei nuovi valori basati su una concezione della vita completamente diversa rispetto a quella del
cristianesimo. Abbiamo visto ieri che l’ideologia, cioè la teoria di cui la democrazia si serve per affermarsi
nell’Europa contemporanea a N. è l’evoluzionismo. L’evoluzionismo nasce come una teoria biologica, una
teoria di tipo scientifico legata appunto alla storia naturale, allo sviluppo delle specie che popolano il nostro
pianeta, ma appunto la teoria darwiniana dell’evoluzione viene trasferita negli anni successivi dalla storia
naturale alla storia delle società umane e diventa per N. lo strumento per affermare come modello ideale di
umanità quella che N. chiama morale del gregge. Una morale secondo la quale tutti gli uomini sono uguali e
nessuno ha il diritto di ritenersi superiore ad un altro. Quindi l’evoluzionismo, dice N., è la teoria più
aggiornata attraverso la quale, ancora una volta, si vogliono affermare gli ideali democratici della fraternità
e dell’uguaglianza.
Ieri però eravamo arrivati ad un momento di ulteriore articolazione della teoria di N., cioè eravamo arrivati
al momento in cui N. introduce in questa ricostruzione un'altra casta, un altro ceto sociale. Finora noi
abbiamo parlato di nobili, guerrieri e di masse plebee costituite da poveri, deboli, inermi e cosi via. Ora, in
questo giorno tra nobiltà guerriera e masse plebee, casta dei signori – moltitudine di servi, N introduce il
ruolo dei sacerdoti, di quella che chiama la classe sacerdotale. Abbiamo visto il tipo d’uomo che
corrisponde a questo tipo di strato sociale: il sacerdote è un uomo che ambisce al potere ma che non ha le
qualità richieste per conquistare il potere direttamente attraverso l’esercizio delle proprie capacità militari
e attraverso le virtù collegate alla guerra, come il coraggio, la forza, l’abilità nell’uso delle armi e cosi via.
Quindi il potere diventa per i sacerdoti conquistabile solo attraverso mezzi di tipo intellettuale. Non è più il
corpo, non è più l’energia fisica, non è più la virtù guerriera, ma è l’astuzia legata alla capacità di convincere
gli uomini che i sacerdoti sono gli intermediari fra l’umanità e la divinità.
Allora i sacerdoti si propongono come ceto, come classe che mette Dio in collegamento e in comunicazione
con gli uomini. E’ chiaro che i sacerdoti per ottenere il potere devono convincere gli uomini che
effettivamente comunicano con Dio, e gli uomini che sono maggiormente disponibili a farsi convincere sono
evidentemente le masse composte da poveri, deboli e ignoranti, privi di cultura e di sapere, disposti quindi
a farsi convincere dalle parole e dalle dottrine elaborate dai sacerdoti.
Le religioni sono per N. invenzioni sacerdotali che servono a dominare sulla massa dei plebei.
Allora in questo modo è chiaro che i sacerdoti però tutto sommato fanno un favore anche ai re e ai nobili,
perché contribuiscono ad istillare nel popola l’abitudine alla sottomissione e all’obbedienza.
Quindi all’inizio nobilita guerriera e caste sacerdotali sono complici, si dividono la gestione del potere: i re e
i nobili garantiscono la capacità di fare la guerra, la difesa e l’espansione dello stato; i sacerdoti tengono
sottomesse le masse attraverso la fede religiosa. Ad un certo momento però gli interessi di questi due strati
dominanti si dividono e per N. l’elemento decisivo di questo passaggio in cui l’alleanza e la complicità tra
aristocrazia cavalleresca e caste sacerdotali, il momento in cui questa complicità si rompe ha per N. un
nome, il nome del POPOLO EBRAICO. Nella storia della civiltà il popolo ebraico introduce il dominio della
casta sacerdotale.
Insomma, questo emerge anche dalla lettura del vangelo, quando diciamo che Pilato si lava le mani nella
scelta su chi condannare alla crocefissione tra Gesù e Barabba lascia in mano la decisione al popolo
manipolato dai sacerdoti.
Quindi le caste sacerdotali trovano il loro punto di “condensazione” e di massima concertazione del potere
nelle ebraismo e nel popolo ebraico. Questo è importante perché per N. la religione ebraica è una religione
della vendetta, e in termine tecnico, è una religione del risentimento. Che cosa intende dire N. con
risentimento? Intende dire un sentimento di tipo reattivo, (ri)sentimento, che cosa vuol dire sentimento di
tipo reattivo? un sentimento reattivo è un sentimento che reagisce a qualcosa, cioè non è un sentimento
spontaneo, una tendenza autonoma. C’è una reazione che indica che il nostro comportamento, le nostre
tendenze, non operano spontaneamente in modo libero e autonomo, ma operano solo per contrapporsi
nei confronti di qualcos’altro, quindi non sono libere ma sono dipendenti dalla presenza di qualcosa che le
fa reagire, cioè agire per contrapposizione ad altro. Non agisce spontaneamente ma reagisce. Nel caso del
popolo ebraico questa reazione avviene nei confronti delle caste guerriere e cavalleresche che come sapete

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avevano esercitato nei confronti degli ebrei un potere dispotico durante l’occupazione, il dominio egiziano
e babilonese. Quindi il popolo ebraico è un popolo che è stato dominato dai suoi vicini orientali e che nel
corso della sua prigionia e sottomissione ha alimentato un sentimento di vendetta e di odio nei confronti
dei popoli che lo dominavano. Questo risentimento, cioè odio e spirito di vendetta nei confronti delle classi
dominatrici però non poteva esprimersi in forma politica e militare, ha trovato modo di esprimersi e di
sfogarsi attraverso la religione.
Quindi tutta le religione ebraica, basata sull’idea di un Dio unico che ha scelto come popolo eletto il popolo
ebraico, non è altro che una compensazione immaginaria che serve a risarcire gli ebrei per una posizione
storica che è esattamente l’opposta, che non è di privilegio e di primato, ma è di schiavitù e di
sottomissione. Quindi gli ebrei introducono nella storia questa grande forza costituita dal risentimento, che
diventa per N. il movente psicologico di tutte le rivolte della plebe che si sono susseguite nel corso della
storia. E i sacerdoti, la classe dei leviti, la tribù da cui gli ebrei ricavavano i loro sacerdoti, ecco, la casta
sacerdotale diventa il veicolo per l’espressione di questo spirito di vendetta. Questo spirito di vendetta
passa poi dall’ebraismo nel cristianesimo. E attraverso il cristianesimo diventa il principio di tutte le rivolte
attraverso le quali la plebe ha cercato di emanciparsi dal dominio dei signori. Il culmine di questa rivolta,
ancora una volta, è stata la rivoluzione francese. Allora qua abbiamo già un primo indizio per rendere più
concreto il tipo di progetto che ha in mente N: se la morale cristiana è frutto della religione ebraica e la
religione ebraica è una religione del risentimento, cioè dell’invidia e della vendetta, è chiaro che il
Superuomo e la sua affermazione dovranno basarsi su principi e su forze completamente diverse: non più
su forze reattive, ma su forze attive. Cosa vuol dire allora forze attive? forze in cui la potenza si esprime in
maniera spontanea e indipendente. Nelle morali invece del risentimento noi abbiamo sempre, attenzione,
una volontà di potenza, ma una volontà di potenza che non ha una forza sufficiente per esprimersi in modo
autonomo, ha bisogno di un nemico contro cui reagire, e quindi una volontà di potenza di tipo negativo.
Mentre nel caso del superuomo noi abbiamo un tipo di volontà di potenza assolutamente
positivo/affermativo.
La cosa importante è che siamo sempre in presenza di una espressione di volontà di potenza: anche gli
schiavi e i servi hanno una volontà di potenza, solo che la volontà di potenza del servo e dello schiavo non è
in grado di esercitarsi in modo autonomo e ha bisogno quindi di esercitarsi in modo indiretto attraverso la
religione e attraverso la morale del gregge. I sacerdoti sono i grandi creatori di questa morale, sono coloro
che elaborano e inventano un sistema morale adatto ai bisogni della plebe e utilizzano l’appoggio della
plebe per contrapporsi alla casta dei guerrieri e dei nobili.
Allora vediamo in che modo si concretizza nel testo questo passaggio.
Eravamo arrivati a leggere il passo in cui N. parla di una radicale trasvalutazione dei valori.
Trasvalutazione cosa vuol dire? Valutazione trasformata rispetto a quella che veniva esercita
precedentemente, c’è una trasformazione radicale dei valori. Ciò che prima era considerato nobile e
virtuoso, adesso viene considerato immorale e malvagio. Quello che prima era considerato cattivo nel
senso di spregevole e inferiore, viene ora considerato buono e virtuoso. Quindi è un vero e proprio
rovesciamento di valori, una vera e propria inversione di valori. E questa che N. chiama radicale
trasvalutazione dei valori avviene attraverso un atto improntato alla spirituale vendetta. C’è uno spirito di
odio, c’è la ricerca di una vendetta, ma questa vendetta non si può realizzare praticamente nella realtà e
quindi, come poi dirà Freud, cerca una sostituzione immaginaria, cerca una soddisfazione sostitutiva, cioè
diventa una vendetta maturata nell’intelligenze e quindi in una elaborazione di tipo spirituale.
Pag. 22: “Sono stati gli ebrei ad aver osato, il rovesciamento dell’aristocratica equazione di valore”. Questo
rovesciamento, questa inversione N. la attribuisce al popolo ebraico perché, guardate cosa scrive nelle
parole successive: in che cosa consisteva l’aristocratica equazione di valore? N. ce lo dice tra parentesi.
Equazione = stabilire una eguaglianza fra 2 termini. Allora guardiamo questa equazione aristocratica:
(buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dei). Questi sono i valori costitutivi di una morale
aristocratica. Come vedete è una morale affermativa, è una morale di affermazione della potenza, della
vita, di potenziamento di se, quindi è una morale di auto accettazione: il nobile vuole essere così com’è,
ama il tipo di vita che fa e proprio per il tipo di vita che fa si ritiene caro agli dei. Facevamo l’esempio dei
poemi omerici: gli eroi sono talmente cari agli dei che ogni eroe ha qualche Dio che lo protegge. Cosa
avviene invece nel rovesciamento sacerdotale operato dal popolo ebraico? Scrive N. tra virgolette per
riprodurre il ragionamento della morale plebea: “i miserabili soltanto sono i buoni, solo i poveri, gli

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impotenti, gli umili sono i buoni, i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi, questi sono anche gli unici
devoti, gli unici uomini pii, per i quali soli esiste una beatitudine – mentre invece voi nobili e potenti (questo
è il ragionamento che fa la plebe alimentata dai sacerdoti) siete per l’eternità i malvagi, i crudeli, i lascivi, gli
insaziati, gli empi, e sarete anche eternamente gli sciagurati, i maledetti e i dannati!”. Rovesciamento:
quello che prima era cattivo diventa buono, e quello che prima era buono diventa malvagio, quindi viene
condannato. E finisce questo capoverso con le parole che N. riprende da “Al di la del bene e del male”
(l’opera che aveva pubblicato l’anno prima): “ha inizio con gli ebrei la rivolta degli nella morale” e poi
aggiunge ironicamente “quella rivolta che ha alle sue spalle una storia di bimillenaria (perché appunto
comincia con la religione ebraica) e che oggi non abbiamo più sotto gli occhi per il semplice fatto che è stata
vittoriosa”. E qui N. dice in forma ironica una cosa importantissima su cui abbiamo cercato di insistere
molto: cioè che noi siamo talmente abituati a vivere secondo una determinata morale che non ci rendiamo
conto della sua origine storica. Siamo abituati a pensare che la nostra morale sia sempre esistita, sia la
morale naturale. N. invece ci insegna a capire che non è così e ce lo insegna a capire attraverso l’etimologia
e la storia delle parole. Attraverso la storia delle parole noi ricostruiamo la storia dei concetti veicolati
attraverso la parola. Quindi naturalmente poi N. insomma cerca di ricondurre il cristianesimo a questa
morale del risentimento e nei capoversi successivi crea le conclusione da ragionamento che abbiamo
cercato di riprodurre insieme.

Paragrafo 10
Qui N. esplicita tutto quello che ha detto nelle pagine precedenti.
“Nela morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment (N. lo riporta in francese perché
ritiene che sia intraducibile in tedesco) diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei
tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una
vendetta immaginari”. Non sono in grado di reagire dal punto di vista pratico e devono compensare questa
loro impotenza attraverso un risarcimento immaginario. Io adesso non vorrei leggere tutto questo tipo di
argomentazione perché ve l’ho già anticipata a partire da lunedì, però noi dobbiamo comunque leggerlo e
studiarlo.

Pag. 27
“mentre l’uomo nobile vive con fiducia e schiettezza davanti a se stesso (ghennaios “nobile di nascita”,
parola greca per indicare la nobiltà dalla nascita, e dice che questa parola sottolinea la nuance, che vuol dire
sfumatura, la sfumatura di significato “schietto”, cioè sincero, autentico, genuino e dice N. forse perfino
“ingenuo”, cioè non astuto, che non ha bisogno di mezzi ipocriti e simulati per affermare se stesso, non ha
bisogno della menzogna, dell’ipocrisia, dell’inganno perché è talmente forte e sicuro di se da affrontare
direttamente il proprio nemico da agire direttamente in rapporto ai proprio obiettivi. Mentre
evidentemente l’uomo del risentimento, essendo in fondo un debole e un vigliacco cosa deve fare? Deve
trovare dei mezzi indiretti per affermare la propria volontà di potenza, la propria ambizione, quindi userà
l’inganno, l’ipocrisia, la menzogna, la finzione, la simulazione). L’uomo del risentimento non è ne schietto ne
ingenuo, ne onesto ne franco con se stesso.
Poi N. va avanti e conclude mostrando come appunto ciò che era nobile e buono nella morale aristocratica
diventa malvagio nella morale plebea.

Paragrafo 11
“questo “cattivo” di origine aristocratica e quel “malvagio” attinto al calderone dell’odio insaziabile,[…]
come sono diverse queste due parole “cattivo” e “malvagio”, apparentemente contrapposte allo stesso
concetto di “buono”!” in effetti nel nostro vocabolario “cattivo” e “malvagio” si contrappongono a uno
stesso concetto, quindi spontaneamente ci viene da pensare che siccome si oppongono a uno stesso
concetto, indicano la stessa cosa. “ma non è lo stesso concetto di buono” scrive N. “domandiamoci piuttosto
chi propriamente è malvagio, nel senso della morale del risentimento. Con una risposta rigorosa occorrerà
dire appunto: appunto il “buono” dell’altra morale, appunto il nobile, il potente, il dominatore, solo che è
dipinto con altri colori, interpretato in guisa opposta, guardato di sbieco dall’occhio torvo del risentimento.”
Questo sguardo di sbieco dall’occhio torvo indica lo sguardo dell’uomo invidioso, meschino, animato da
spirito di vendetta che non ha il coraggio e la forza per esprimere direttamente questo sentimento e quindi

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lo trasfigura in termini morali. Qual è il concetto freudiano che corrisponde a questa operazione? È il
concetto di sublimazione e di razionalizzazione. Io do una giustificazione falsa a una teoria e una dottrina
che ha un origine completamente diversa. Dico ad esempio che gli uomini devono essere fratelli, devono
essere uguali, dando a questa mia affermazione una giustificazione morale. Dicendo che gli uomini devono
essere tutti uguali perché questo è giusto , perché questa è la volontà di Dio, ma questa è un ipocrita
razionalizzazione perché in realtà, dice N., quando dico questo intendo dire: siccome non posso essere
superiore agli altri, tutti gli atri devono essere uguali a me. Quindi è una forma ipocrita e camuffata di
espressione della mia volontà di potenza, della mia volontà di dominio. Vi ricordate che cosa aveva detto
Freud sulla genesi dell’idea di giustizia? Lo abbiamo letto, quando Freud dice: siccome io non posso essere
com’era mio padre, almeno che tutti siano uguali a me. Cioè se io non posso sostituire il padre dispotico
che ho ammazzato assieme ai miei fratelli, allora nessuno dei miei fratelli deve occupare quella posizione,
dobbiamo tutti essere assolutamente uguali gli uni con gli latri. E qui N. anticipa un’argomentazione che poi
ritroviamo in Freud. L’eguaglianza ha come suo fondamento il risentimento, l’invidia per chi è superiore,
che non tollera chi è differente e migliore di se, e quindi lo abbassa al suo proprio livello. Allora, è molto
importante quando N. scrive “domandiamoci chi è malvagio”, questo è decisivo, chi pronuncia questo
giudizio morale? I concetti morali non hanno natura assoluta, dipende dal tipo di persona che pronuncia un
determinato giudizio, che esprime una determinata valutazione. È per questo che allora noi riusciamo a
capire che nell’idea di malvagio chi pronuncia questa parola non è il nobile ma è il plebeo che ha vissuto per
secoli sotto il dominio crudele e violento di una casta di dominatori e che ora trova nella morale il mezzo
per denigrare coloro da cui è stato per secoli e per millenni dominato. Allora è chiaro che non dobbiamo
farci confondere le ide che sia cattivo, che malvagio si contrappongono al concetto di buono. Perché come
dice N. “buono” vuol dire due cose completamente diverse a seconda che questo termine sia usato dai
nobili oppure dai plebei. Perché i plebei hanno un concetto di buono che corrisponde al loro interesse, alla
loro natura, alla loro posizione e che è appunto totalmente opposto e incompatibile con quello dei nobili.
Allora il concetto di buono proprio dei plebei è un concetto reattivo perché ha l’obiettivo di svalutare, di
denigrare, di abbassare il concetto di buono che avevano i nobili. Risentimento. Ai nobili non gliene fregava
niente di quello che pensavano i plebei, è il plebeo che pensa e opera in relazione e in opposizione a quello
che fanno e che pensano i nobili. Re-azione.

E qui però abbiamo uno dei passi più discussi e che purtroppo hanno avuto anche le conseguenze più
tragiche, nel senso che adesso andiamo a leggere uno dei brani che hanno permesso i nazisti di
impadronirsi di N. e di fare di N. il manifesto della loro ideologia. Allora N. nel brano che segue
immediatamente le parole che abbiamo letto dice: però se ci mettiamo nell’ottica del plebeo è chiaro che
dobbiamo dare ragione ai plebei, perché ne hanno passate di tutti i colori, dice, effettivamente i nobili
godevano nel dominare e godevano anche nell’esercitare crudeltà nei confronti dei loro servi e dei loro
schiavi. Scrive N.: “assaporano la libertà da tutte le costrizioni sociali, si rifanno nello stato selvaggio, della
tensione dovuta a una lunga segregazione e allo star rinserrati nella pace della comunità […] Al fondo di
tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere (cioè individuare) la belva feroce, la magnifica
divagante bestia bionda, avida di preda e di vittoria”. Ecco, questo brano reca la metafora sicuramente
infelice della bestia bionda che diventa il simbolo utilizzato dai nazisti per giustificare la presunta superiorità
raziale delle popolazioni germaniche di presunta razza ariana nei confronti di tutte le altre popolazioni, e in
particolare nei confronti della razza degli ebrei. Allora cosa fa il nazismo? Cosa fanno gli ideologici del
nazismo? Danno un’ interpretazione di tipo biologico e razziale al discorso di N. Adesso è inutile però
negare che N. fornisce il pretesto per questo tipo di utilizzazione perché la metafora della bestia bionda è
una metafora di N. N. la impiega non in senso biologico ma nel senso di uno scatenamento che permette
agli impulsi anche più selvaggi e primitivi di sfogarsi. Quindi non è una nozione di tipo biologico razziale, è
una metafora che sta a significare il ritorno ad una condizione di innocenza pre-civile. La guerra era questo
nell’antichità secondo N., nella guerra gli uomini davano libero sfogo a quelle pulsioni che Freud avrebbe
definito aggressive, che la civiltà reprime e alle quali impedisce di esprimersi. Nel nazismo questa metafora
viene interpretata in senso letterario e quindi dalla dimensione metaforica, diventa indice di identificazione
raziale. I popoli germanici sono quei popoli nei quali deve tronare a rivivere la bestia bionda evocata da N. e
il risultato lo sappiamo: sterminio degli ebrei, seconda guerra mondiale.

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Scrive N: “di tanto in tanto è necessario uno sfogo per questo fondo nascosto, la belva deve di nuovo balzar
fuori, deve di nuovo rinselvarsi (cioè tornare ad essere selvatica come quando gli uomini abitavano nelle
selve come le bestie feroci) – aristocrazia romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, vichinghi
scandinavi – tutti sono eguali in questo bisogno”. Cioè sono le caste aristocratiche che in quanto depositarie
della potenza originaria della vita, siccome della vita fanno parte anche le pulsioni aggressive, sono in rado
di liberare periodicamente queste pulsioni esprimendo ciò che avesse econaturato in termini di
aggressività, distruzione e crudeltà. “sono le razze nobili ad aver lasciato su tutte le loro orme la nozione di
“barbaro”. Qui addirittura N. vuole rivalutare un termine che quando veniva utilizzato, veniva utilizzato dai
greci e dai romani, in senso dispregiativo. Chi erano i barbari per i romani? Erano i germani. Chi erano i
barbari per i greci? Erano gli orientali, i popoli che non sapevano parlare il greco. Sapete da che cosa deriva
la parola barbaro? Essere balbuzienti, cioè balbettare, cioè non saper parlare correttamente una lingua. È
chiaro che un persiano non sapeva parlare il greco. Quando cercava di parlare il greco balbettava. Allora il
barbaro è ciò che è considerato culturalmente inferiore, quindi ha originariamente un significato
dispregiativo. N. cosa fa in questo passo? Rovescia il significato di barbaro, attribuisce alla parola barbaro
un significato invece positivo, cioè affermativo, legato insomma alla liberazione da quelle repressioni che
sono costitutive dello stato civile.
“sono le razze nobili ad aver lasciato su tutte le loro orme la nozione di “barbaro, ovunque siano esse
passate; il loro superiore livello di cultura tradisce ancora una consapevolezza di questo fatto e persino un
orgoglio a questo riguardo […] Questa audacia di nobili razze, folle, assurda, improvvisa, il modo in cui essa
si estrinseca, l’imprevedibilità, la stessa inverosimiglianza delle loro imprese, (tutti valori antitetici rispetto
alla morale borghese), la loro indifferenza e il loro disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, gli agi, la loro
terribile serenità (è un ossimoro, unisce parole che hanno un significato contradditorio, perché per noi la
serenità indica una situazione di clama, di tranquillità, quindi invece la serenità è terribile perché è ottenuta
attraverso la violenza, attraverso la crudeltà) e la profondità del godimento in ogni distruzione, in ogni
voluttà di vittoria e di crudeltà- tutto ciò, per coloro che ne soffrono, si compendia nell’immagine dei
“barbari”, del “nemico malvagio”, per esempio dei “Goti”, dei “Vandali”. Cosa avviene quando l’uomo del
risentimento riqualifica allora come malvagio ciò che per le razze aristocratiche era buono? Dice N: questi
plebei che sono diventati borghesi, ma che restano plebei, cioè agli occhi di N. spregevoli e inferiori,
ritengono di essere gli strumenti della civiltà perché condannano le manifestazioni a cui attribuiscono
l’epiteto di barbaro (la crudeltà, la violenza, l’uccisione). Però N. si chiede: ma siamo convinti che abbiano
ragione?
“il contrario piuttosto sarebbe non soltanto verosimile- ma che dico! Esso è oggi evidente! (1886) Questi
depositari degli istinti compressi (Freud avrebbe detto repressi) e bramosi di compensazione (non posso
godere dell’oggetto, sostituisco il mio godimento reale con un soddisfacimento immaginario. Tutto il
discorso freudiano della sublimazione) , i discendenti di ogni schiavitù europea e non europea- costoro
rappresentano la retrocessione dell’umanità.” Ecco un altro rovesciamento dei valori, operato però questa
volta da N.: i plebei hanno rovesciato e sovvertito i valori della nobiltà, io N., voglio sovvertire il
sovvertimento plebeo dei valori aristocratici, voglio riqualificare la morale plebea per quello che è
veramente, cioè una regressione, non un miglioramento.
“questi strumenti della civiltà sono un obbrobrio per l’uomo e piuttosto un sospetto, un argomento
contrario alla civiltà in generale! Si potrà anche avere tutto il diritto di non sbarazzarsi della paura per la
bestia bionda che è nel fondo di tutte le razze aristocratiche e di stare in guardia: ma chi non preferirebbe
cento volte temere, qualora la tempo stesso potesse ammirare, invece che non temere, senza intanto
potersi più liberare dalla vista disgustosa dei malriusciti dei meschini, degli intristiti e intossicati?
Questo discorso prosegue nel paragrafo 12 di cui ci limiteremo a leggere le ultime righe però noi dobbiamo
leggerlo tutto. Insomma, hanno vinto quelli che N. chiama i meschini, i malriusciti, i tristi e gli intossicati,
cioè ha vinto la plebe.
“appunto qui sta la fatalità dell’Europa- col timore per l’uomo (cioè per quelle potenze che il plebeo chiama
padre) abbiamo perduto anche l’amore verso di lui, la venerazione dinanzi a lui, la speranza in lui, anzi la
volontà tesa a lui. La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è
questo?... Noi siamo stanchi dell’uomo…” Queste sono parole di un importanza difficilmente
sottovalutabile, soprattutto il termine “nichilismo”.

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Nichilismo  deriva dalla parola latina “nihi”= niente. Cosa vuol dire che l’epoca in cui vive N. è un epoca
nichilista? Vuol dire che è un epoca in cui gli uomini non credono più a niente, in cui la vita dell’uomo si
basa su finzioni e credenze del tutto apparenti, in realtà agli uomini della modernità manca completamente
la capacità di credere in qualcosa. Questo vuol dire che siamo nell’epoca del nichilismo compiuto, cioè della
perdita radicale e dell’assenza di ogni valore. La vita umana è diventata priva di valori e questa perdita di
valori è come sappiamo espressa da N. in una metafora che è quella della morte di Dio. Dio è morto,
secondo N, significa che la vita dell’uomo ha perso qualunque senso. Ora però ci sono due possibilità: noi
possiamo vivere l’età del nichilismo, l’età della morte di Dio e dell’assenza dei valori in modo puramente
passivo, facendo finta di niente, facendo finta di credere che dio sia ancora vivo, che la morale a cui siamo
stati educati produca ancora convinzione, capacità di agire, ci dia ancora un senso. Questo N. lo chiama
nichilismo passivo: l’incapacità di assumere il nichilismo, di accettare la morte di dio, e fare della morte di
dio, cioè della morale cristiana la condizione per una nuova morale, per la costruzione di una nuova epoca,
di nuove tavole dei valori, per la costruzione di nuove forme di vita, di nuovi stili di condotta. Questo
nichilismo che non si rassegna ma fa della morte di Dio la condizione per costruire qualcosa di nuovo è
quello che N. chiama nichilismo attivo: è il nichilismo che vuole la morte di Dio, che vuole che Dio sia morto
perché concepisce la fede nella vecchia religione e nella vecchia morale un impedimento per lo sviluppo
della vita. allora è chiaro che quando qui N. parla di nichilismo parla del nichilismo passivo. Il senso della
stanchezza, di una rassegnazione e di una incapacità di creare qualcosa di nuovo. È chiaro che il risultato di
questo nichilismo attivo dovrebbe essere per N il superamento di qualunque forma di nichilismo, la genesi
di una nuova civiltà basata su una forma di vita che va oltre l’uomo. Allora è sbagliato dire che N. è un
nichilista. No, N. non è un nichilista perché vuol fare del nichilismo la condizione per un superamento di
esso e anche attraverso libri come la Genealogia della morale N. vuole contribuire all’oltre passamento del
nichilismo, cioè vuole cercare di far capire ai suoi contemporanei che è arrivato il momento di abbandonare
l’ipocrisia e la finta credenza nella morale tradizionale per impegnarsi nella costruzione di una nuova
morale.

Nel paragrafo 15 N. cita alcuni brani da filosofi del cristianesimo e in particolare cita Dante Alighieri e S.
Tommaso d’Aquino.
Su Dante N. scrive questo: “Dante, a mio parere, ha commesso un grossolano errore nel porre sulla porta
del suo inferno quell’iscrizione “fecemi l’eterno amore” (cioè io sono il prodotto dell’eterno amore con cui
Dio ama le sue creature) ma attenzione dice N. “sulla porta del paradiso cristiano e della sua “eterna
beatitudine” potrebbe stare a maggior diritto l’iscrizione “fecemi l’eterno odio”. Perché? Perché l’inferno
cristiano secondo N., in realtà è l’espressione della condanna e dell’odio con cui il plebeo spedisce nelle
fiamme e nelle sofferenze eterne quegli uomini che ai suoi occhi rappresentano il malvagio che è in realtà,
se visto con gli occhi di N., il tipo umano superiore. Quindi nell’inferno cristiano e nella divina commedia
dante vede una delle espressioni più alte del risentimento come molla originale della religione cristiana. Lo
stesso N. attribuisce a Tommaso d’Aquino.
“Tommaso d’Aquino, il grande maestro e santo scrive con la mitezza di un agnello: “i beati nel regno celeste
vedranno le pene dei dannati perché possano godere maggiormente della loro beatitudine” Qui N. allora ha
buon gioco e dice… ma come? I beati godono della sofferenza dei malvagi? Ma allora vuol dire che i beati
godono delle sofferenze altrui ma allora, dice N., i beati sono ancora animati da spirito di vendetta e da
risentimento. Quindi, dice: non sono io che fa dell’odio la base del cristianesimo, sono i cristiani stessi che
lo dicono, Dante quando scrive l’inferno e Tommaso d’Aquino quando attribuisce allo spettacolo delle
sofferenze dei malvagi la causa per incrementare la felicità e la beatitudine di coloro che sono stati salvati.

8 aprile
Allora ci restavano da leggere gli ultimi 2 paragrafi della prima dissertazione. Abbiamo visto qual è il perno
della teoria di N. sui valori morali: i valori morali non esistono di per se in natura, non esiste un giusto in sé,
un buono in sé, una virtù in sé. Questi concetti sono sempre l’espressione di una determinata forma di vita
e di un particolare ceto sociale. Quindi le parole che esprimono un determinato concetto morale, ad
esempio “buono”, oppure “giusto”, oppure “virtuoso”, queste parole anche se dal punto di vista fonetico

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restano le stesse, esprimono dei concetti che sono profondamente diversi a seconda da chi le pronuncia, a
seconda di chi le impiega. E l’esempio fondamentale che ci fa N. riguarda proprio il concetto di nuovo. La
parola resta la stessa ma l’idea cambia radicalmente se questo concetto viene impiegato all’interno di una
società aristocratica, oppure se questo concetto viene impiegato da parte delle masse popolari. Buono
detto da un nobile implica un valore affermativo della vita ed esprime una potenza che accetta, che vuole,
che ama essere così come è. Che ama l’esistenza che fa. Ama lo stile di vita che conduce. Quindi in questo
caso il concetto polemico, cioè opposto, non è espresso dalla parola malvagio ma dalla parola cattivo.
Cattivo allora, d questo punto di vista, non indica qualcosa che è moralmente ingiusto, ma indica una forma
di vita considerata inferiore e proprio per questo spregevole, priva di valore, brutta, volgare, plebea, priva
di finezza, di stile, di bellezza, di coraggio, di forza, di ricchezza. Cosa succede invece quando la parola
buono viene impiegata dalla plebe? Dalla massa del popolo? Buono, dice N., non è più un concetto
affermativo che esprime l’accettazione e la volontà di persistere nello stile di vita che conduciamo. Buono
diventa l’espressione di una forza puramente reattiva. Esprime cioè la brama di vendetta che il popolo
prova nei confronti dei suoi dominatori. Allora mentre il nobile, il nobile, il signore, il guerriero, esprime la
sua volontà di potenza come una forza affermativa, positiva, espressiva, creatrice, il popolo, invece, è
anch’esso dotato di una volontà di potenza ma questa volontà di potenza si esprime attraverso una forza
che è invece puramente reattiva, cioè di per sé non capace di agire, di creare. Agisce solo come reazione nei
confronti di qualcuno o di qualcosa che intende negare, sopprimere, svalutare. Quindi “buono” usato dal
popolo è un concetto che non esprime superiorità, differenza, volontà affermativa ma esprime invece
necessità di eguaglianza fra gli uomini, solidarietà, fraternità, aiuto reciproco, soccorso nei confronti del
debole, del povero, del bisognoso, cioè appunto esprime quella che N. chiama morale del gregge in cui le
classi inferiori aspirano a livellare e ad eguagliare a se stesse, quegli uomini e quelle classi che si
considerano superiori e migliori nei loro confronti. Allora in questo caso il concetto polemico non è più
“cattivo”, ma è “malvagio”. Chi è il malvagio? è l’uomo nobile, aristocratico, guerriero, considerato dal
punto di vista del popolo, dal punto di vista della plebe, che nella parola malvagio esprime la denigrazione e
la svalutazione di quelle forze e di quelle energie che il nobile aveva utilizzato per dominare e per
schiavizzare il popolo.
L’ultima cosa importante che avevamo visto riguarda il metodo usato da N. per risalire dall’eguaglianza dei
termini alla differenza dei concetti: come faccio a capire se una stessa parola possiede sempre lo stesso
significato o se invece uno stesso termine può esprimere significati diversi o contrapposti?
Questo metodo dice N., ci è fornito dallo studio delle parole e cioè dall’etimologia. L’etimologia, che
letteralmente vuol dire studio delle radici che compongono un termine, ci permette di ricostruire la storia
delle parole e quindi ci permette di distinguere i diversi significati che una determinata parola ha assunto
nel corso del tempo, cioè appunto nel corso della sua storia.

Paragrafo 17 (pag.43)
Alla fine di questo paragrafo noi vediamo che c’è una nota scritta a caratteri più piccoli. Leggiamo le prime
parole di questa nota: “colgo l’occasione offertami da questo saggio per esprimere pubblicamente e
formalmente un voto (cioè un desiderio, un auspicio) che sino ad oggi è stato da me esternato soltanto in
occasionali conversazioni con persone dotte: che cioè una qualche facoltà di filosofia si rendesse
benemerita, attraverso una serie di concorsi accademici, per l’avanzamento degli studi di storia della
morale- forse questo libro servirà a dare il vigoroso impulso proprio in tale direzione.” Quindi N. auspica la
fondazione di cattedre dedicate allo studio dei concetti morali, ma al cosa che volevo sottolineare è quella
che N. aggiunge nella frase seguente: “In ordine a una possibilità di questo genere si propone la questione
seguente: essa merita tanto l’attenzione dei filologici e degli storici, quanto quella dei veri e propri cultori di
filosofia per professione.” E questo è u quesito che N. vorrebbe mettere a concorso per attribuire una
eventuale cattedra di storia della morale.
“Quali indicazioni ci fornisce la scienza linguistica, e segnatamente l’indagine etimologica, per la storia
dell’evoluzione dei concetti morali?” ecco qua, N. sottolinea in prima persona l’importanza dello studio delle
parole dal punto di vista etimologico per la ricostruzione della storia dei concetti morali. La filologia, lo
studio del linguaggio e delle parole, ci mette in grado di ricostruire la storia dei significati assunti da un
determinato termine e dunque permette al filosofo che si occupa dei concetti di ricostruire la storia dei
concetti espressi attraverso determinate parole. Quindi il nesso tra scienza linguistica e filosofia, come

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attività rivolta alla storia e alla interpretazione dei concetti, risulta in N. un nesso assolutamente
fondamentale.

Ora, nel paragrafo 16 N. ribadisce la sua critica nei confronti della religione ebraica operò la cosa molto
interessante è che cosa contrappone N. in questo testo alla cultura ebraica. Qui dobbiamo fare una piccola
parentesi perché nell’interpretazione che viene data di N. da parte di molti autori, studiosi viene sempre
sottolineato il rapporto fra N. e la antica Grecia come se il rapporto tra N. e l’antichità fosse limitato
esclusivamente alla rivalutazione, alla riscoperta della cultura e della filosofia greca. Ora per chi è ancora
convinto di questa interpretazione sicuramente questo testo rappresenta una sorpresa perché l’esempio di
cultura e di civiltà aristocratica che N. contrappone agli ebrei non è la Grecia, ma è l’antica Roma. Perché è
importante sottolineare questo aspetto? Perché rende impossibile utilizzare N. come se N. sostenesse la
superiorità dei popoli germanici nei confronti degli latri popoli europei e in particolare nei confronti degli
altri popoli latini. In questo passaggio che adesso leggiamo N: ci presenta una rivalutazione radicale e
ripeto, imprevista, se noi leggiamo alcune interpretazione come quella di Heidegger per esempio, che è
stato un grande filosofo del 900, anche se ha avuto il difetto di essere nazista, allora vi dicevo, se noi
assumiamo una lettura come quella di Hedegger sembra che N. abbia considerato soltanto i greci, perché
H. ritiene che i romani siano un popolo privo di filosofia e privo di cultura. Allora leggiamoci questo
passaggio insieme per smantellare questo mito interpretativo per cui l’antichità di N. sarebbe
esclusivamente l’antichità greca perché questa ricostruzione serviva per legittimare la superiorità dei popoli
tedeschi sui popoli latini che derivavano dai romani. Quindi un passo cosi rende molto difficile utilizzare N.
come alfiere di una ideologia nazionalista e orientata a teorizzare la superiorità die popoli tedeschi. Allora,
saltiamo le prime righe in cui N. sostanzialmente dice: guardate che al giorno d’oggi (all’epoca in cui N.
scriveva questo libro pubblicato nel 1887) questa lotta fra valori aristocratici e valori plebei, questa antitesi
tra buono e cattivo da una parte, buono e malvagio dall’altra, è un’antitesi he è tornata quanto mai attuale,
dice N, anzi, oggi possiamo dire che quanto più un individuo è di nobile sentire, tanto più questo individuo
vive una scissione tra i valori della società in cui vive, che sono quelli democratici, basati sull’eguaglianza, la
fraternità, basati insomma sula morale del gregge e i valori invece a cui aspira, che sono quelli di una
rinnovata civiltà aristocratica dove l’antitesi decisiva non è tar buono e malvagio ma è tra buono e cattivo.
Quindi questa scissione, dice N, potrebbe anche essere il segno di qualcosa che sta nascendo. Un po’ come
se si trattasse delle doglie che precedono la nascita di un bambino. Ora, dice N, quale simbolo possiamo
usare per esprimere questa lotta? Ed ecco cosa scrive il nostro filosofo:
“Il simbolo di questa letta, espresso in caratteri che sono restati sino a oggi leggibili al di sopra di tutta la
storia degli uomini, è “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma” (no Atene, no Sparta, Roma): - non c’è
stato fino a oggi alcun avvenimento più grande di questa lotta, di questa posizione del problema; di questa
contraddizione pervasa d’inimicizia mortale. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contro natura stessa
[…] Che cosa hanno sentito invece contro Roma gli Ebrei? Lo si indovina da mille segni; ma è sufficiente
richiamare ancora una volta alla memoria l’apocalisse i Giovannea, la più caotica di tutte le inventive
scritte, che la vendetta abbia sulla coscienza.” Voi sapete che l’apocalisse di Giovanni è considerato l’ultimo
libro del nuovo testamento. “I Romani erano invero i forti e i nobili, come non sono mai esistiti sulla terra di
più forti e più nobili, e nemmeno mai sono stati sognati: ogni loro reliquia, ogni iscrizione manda in estasi,
ammesso che si riesca ad indovinare che cosa scrive in quelle.” Che cosa scrive in quelle? Una volontà di
rendersi eterni, di affermare indefinitamente il proprio modo di vivere e i valori sui quali questo modo di
vivere è fondato. Che cosa dicevano gli antichi? Roma città eterna, la città per eccellenza. Questo N. vede
nell’architettura romana, nei monumenti romani e perfino nelle iscrizioni che ci hanno lasciato i romani.
Quindi la capacità e la volontà di rendersi eterni all’interno della storia. Una volontà affermativa di potenza
che non desidera essere diversamente da come è ma che desidera continuare a essere esattamente cosi
com’è. Non desiderare di essere altrimenti ma desiderare di essere esattamente come siamo ora, adesso. E
desiderare che come siamo adesso no finisca mai, si prolunghi per l’eternità. Questo dice N. è l’emblema
della nobiltà, della forza e della volontà di potenza. E gli ebrei invece? “Gli ebrei viceversa erano quel
popolo sacerdotale del risentimento per eccellenza in cui era insista una genialità popolare-morale
impareggiabile. Una genialità popolare-morale: anche per costruire una morale del gregge ci vuole genialità
e lo vedremo subito nella disertazione successiva. Ma appunto questa genialità è una genialità perché da
espressione a delle forze che però sono forze reattive. Da espressione al risentimento, allo spirito di

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vendetta. Quindi è una genialità che resta per N. nemico mortale della sua idea del superuomo e della
volontà di potenza intesa in senso affermativo. Poi dice che c’è stato nel corso della storia aperta dal
cristianesimo un periodo in cui l’ideale della classicità romana ha provato a riaffermarsi per un breve
periodo, e questo periodo è costituto dal rinascimento italiano. “è un fatto assai degno di nota: senza
dubbio Roma ha dovuto soccombere” cioè una cultura e una civiltà basata sull’affermazione della vita nella
sua reale immanenza, cioè nella sua dimensione interna alla storia, interna alla vicenda temporale degli
uomini. Ecco, Roma ha dovuto soccombere. “E’ vero che nel Rinascimento si ebbe un risveglio
splendidamente inquietante dell’ideale classico” inquietante perché dopo secoli di medioevo e di dominio
della chiesa, della religione e della teologia, la riscoperta dei classici greci, ma soprattutto latini, aveva
riproposto l’ideale dell’umanesimo inteso come umanesimo classico, cioè come affermazione dell’uomo in
ciò che l’uomo aveva di più nobile e di più alto. L’ideale umanistico del 400 italiano è l’ideale di un uomo
che si afferma nelle sue qualità più alte, più nobili e quindi un ideale che spiazzava e sconcertava coloro che
erano cresciuti in una educazione basta sul cristianesimo. È il ritorno insomma all’idea dell’eccellenza,
contro l’idea della mediocrità. “E’ vero che nel Rinascimento si ebbe un risveglio splendidamente
inquietante dell’ideale classico, della maniera aristocratica di valutare tutte le cose” però dice N., questo è
durato dal punto di vista storico poco più di un anno.

“subito tornò a trionfare Giudea” e qui N. dà una stoccata pesantissima ai suoi connazionali tedeschi,
perché, leggiamo quello che ha scritto: “subito tornò a trionfare Giudea grazie a quel movimento del
risentimento fondamentalmente plebeo cui si dà il nome di Riforma” ecco qua, la riforma è stato il mezzo
attraverso cui l’ebraismo si è riaffermato a scapito dell’ideale classico che si era nuovamente affacciato, che
aveva cercato nuovamente di imporsi durante il Rinascimento. Qui è chiaro che io devo darvi almeno due
date: 1517 Lutero affligge sulla porta del monastero in cui era monaco le sue 95 tesi, tesi antipapali con
le quali si da inizio alla riforma, cioè a quel movimento che ha un importanza impossibile da sottovalutare
perché è la rottura della unità religiosa dei popoli europei. Cioè finisce una storia di 1500 anni, finisce
l’unità di quella che nel medioevo si chiama res pubblica cristiana. Che cos’era la res pubblica cristiana? era
la forma politica in cui si affermava nella storia l’unità religiosa dei popoli europei, cioè il riconoscimento
che Gesù è il Cristo, è l’inviato di Dio che in quanto figlio di Dio è stato mandato dal padre a riscattare
l’umanità dal peccato e quindi a portare il messaggio della redenzione e della buona novella. Per 1500 anni
questo articolo di Fede, Gesù è il Cristo, è il figliò di Dio, è il messia, è stato sufficiente nonostante tutti i
contrasti, le lotte e le guerre, a mantenere l’unità della res pubblica cristiana. Quali erano le autorità
supreme di questa res pubblica cristiana? Erano il papa, capo della chiesa, e l’imperatore, simbolo politico
dell’unità di cui il papa era l’espressione massima dal punto di vista religioso. Agli inizi del 300 succede che il
conflitto tra papato e Lutero diventa sempre più aspro perché si riflette nel conflitto fra papato e impero
anche un conflitto interno alla chiesa e in particolare interno agli ordini mendicanti, francescani da una
parte e dominicani dall’altra. (*nome della rosa) I francescani si schierano con l’imperatore perché sono
contro il papa che nega la povertà, rifiuta l’idea francescana della povertà come criterio fondamentale
dell’appartenenza al cristianesimo. E quindi mentre i francescani vogliono che il papa si separi
completamente dal potere politico e vogliono concentrare il potere politico sull’imperatore, il papa
ovviamente vuole il contrario.
Ora, questo conflitto tra papato e impero, tra francescani e domenicani, porta ad una serie di scontri molto
aspri che tra l’altro coincidono ad uno dei periodo più straordinari della storia della chiesa dove il papa
agiva come un principe secolare, con moglie, figli, amanti ma al tempo stesso come grande mecenate delle
armi. Ecco allora le splendide chiese, gli splendidi palazzi del rinascimento finanziati con i soldi che i
tedeschi mandavano a Roma. Allora Lutero comincia ad arrabbiarsi di questa cosa: come, noi mandiamo a
voi tutti questi soldi che voi sperperati per mantenere amanti, figli, parenti, costruire palazzi, chiesi,
giardini, condurre guerre… e allora Lutero decide di affliggere queste tesi con le quali proclama la necessità
di una riforma della chiesa. Questa riforma diventa poi una vera e propria separazione e questa separazione
da inizio ad una serie di sconvolgimenti che avranno fine solo nel 1648 con appunto il trattato di Vestfailler
che pone fine alla guerra dei trent’anni, dando inizio a quella che possiamo definire la storia moderna in
senso stretto con la separazione del potere politico e del potere religioso. Prima della guerra dei trent’anni
però c’è l’episodio che per molti storici segna la fine del Rinascimento. E’ il sacco di Roma, l’occupazione e il
saccheggio della Roma rinascimentale che avviene ad opera dei mercenari tedeschi nel 1526. Avete mai

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sentito la parola lanzichenecco? Sono i mercenari dell’imperatore tedesco che avevano aderito alla
religione luterana e che vedevano quindi nella Roma papale il simbolo del diavolo e dell’inferno. Quindi
Roma viene saccheggiata in modo brutale e selvaggio. Lanzichenecco = servo della gleba. Quindi un esercito
plebeo al servizio dell’imperatore, saccheggia la Roma del rinascimento che aveva cercato di ridare vita
all0ideale classico e questa plebe composta da servi è una plebe animata dall’odio nei confronti di Roma
prodotto dalla diffusione della Riforma. Allora vedete in poche righe quante cosa concentra una frase di N.
in 3 o 4 righe noi abbiamo la capacità di riassumere interi decenni di storia europea, se non abbiamo
presente il quadro della storia europea è difficile capire l’importanza di quello che ci sta dicendo N. “subito
tornò a trionfare Giudea grazie a quel movimento del risentimento fondamentalmente plebeo cui si dà il
nome di Riforma”. Quindi la riforma non è stata l’affermazione autentica della spiritualità del popolo
tedesco, ma è stato il mezzo attraverso cui il popolo tedesco si è reso strumento per l’affermazione
dell’ebraismo su scala europea dopo il tentativo rinascimentale di ripristinare il dominio di Roma e della
classicità. Poi naturalmente N. fa un'altra folgorante connessione che a questo punto però ci stupisce
meno, tar la Riforma e la rivoluzione francese.
“In un senso addirittura più decisivo e più profondo di allora, Giudea pervenne, con la rivoluzione francese,
ancora una volta alla vittoria sull’ideale classico”. Vedete che c’è nella storia europea secondo N. c’è
sempre un insorgenza di queste radici classiche che mal sopportano il dominio ad opera del cristianesimo.
Nel caso della rivoluzione francese l’ideale classico contro cui si ribella la plebe è quello rappresentato per
N. dalla nobiltà francese che attorniava il re nella sua corte e che ha espresso effettivamente una cultura di
altissimo livello sia dal punto di vista letterario che dal punto di vista artistico, pensiamo alla reggia di
Versailles. Quindi scrive N.: “l’ultima aristocrazia politica esistente in Europa, quella del XVII e XVIII secolo
francese, crollò sotto gli istinti popolari del risentimento. Quindi da cui abbiamo la fondazione del moderno
concetto di democrazia come espressione di sovranità popolare basata sull’idea dell’eguaglianza fra tutti i
cittadini. Però nonostante questo trionfo apparentemente definitivo, dice N., anche in questo caso è
successo qualcosa di imprevedibile. È chiaro che N. si augura che qualcosa di altrettanto imprevedibile
possa portare nella sua epoca all’emergenza del superuomo. Questo qualcosa di imprevedibile che
successe nel periodo della rivoluzione francese fu l’emergere di una personalità eccezionale come quella di
Napoleone Bonaparte. In mezzo a tutto questo accadde la cosa più enorme e più inaspettata, lo stesso
antico ideale comparve in carne ed ossa e ancora una volta di fronte all’antica mendace (cioè bugiarda)
parola d’ordine del risentimento, espressa nel primato del maggior numero (riferimento alla teoria
dell’evoluzione. Cioè in una democrazia chi è che prende le decisioni? Il maggior numero, al maggioranza,
non conta la qualità migliore ma conta il numero delle persone che la approvano. Ora, questa idea del
dominio e del governo della maggioranza in politica è il corrispettivo della teoria evoluzionistica della
prevalenza del maggior numero nel corso della vita naturale. Una specie è tanto più riuscita quanto
maggiore è il numero degli individui che riescono a sopravvivere in condizioni ambientali avverse. Quindi
quanto più una determinata specie si adatta all’ambiente, quanti più individui di questa specie
sopravvivono, tanto più questa specie è ben riuscita secondo gli evoluzionisti.
Naturalmente N. non può essere d’accordo con questo tipo di logica. Anche perché secondo lui il maggior
numero premia sempre il mediocre a svantaggio del più dotato. Perché il più dotato è sempre secondo N.
l’eccezione, mentre il maggior numero è sempre costituito dai mediocri che tendono ad allearsi e ad
assomigliarsi gli uni agli altri. Teniamo presente sullo sfondo quello che abbiamo detto da Freud: la giustizia
come espressione di invidia sociale. I fratelli uccidono il padre, magari qualcuno vorrebbe anche provare a
sostituire il padre ma gli altri glielo impediscono, eh noi, nessuno deve essere diverso da noi, eguaglianza e
giustizia. Anche in Freud espressione di invidia sociale, di rifiuto della differenza. “ Di fronte alla volontà di
scadimento, di abiezione, di livellamento, risuonò più forte, più netta, più incisiva che mai l’opposta
tremenda e fascinosa parola d’ordine, quella del primato dei pochi!” contro il primato del maggior numero,
il primato dei pochi.
“Come un’ultima indicazione dell’altra via (appunto della via antidemocratica, antiebraica e anticristiani)
apparve Napoleone e con lui il problema incarnato dell’ideale aristocratico in sé. Napoleone questa sintesi
di disumano e superumano”. Perché di disumano? Perché distruttivo nei confronti di quelli che la società
permeata dal cristianesimo considera (?). Quindi disumano nella sua depravante volontà di dominio e nella
sua smisurata ambizione di potere, però un disumano che indica e allude a qualcosa di più che umano che è
ciò che N. auspica nella figura dell’oltre uomo, di ciò che supera l’uomo.

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Disumano perché rispetto all’umanità concepita dalla democrazia e dal cristianesimo appare come qualcosa
di distruttivo e quindi di non umano, di antiumano. Però umano in questo senso deve essere considerato
sempre alla luce dei valori cristiani, della morale del gregge. Allora se misurato nell’ottica dell’umanità
cristiana, Napoleone appare come una specie di mostro perché è un uomo dalle ambizioni smisurate.
Napoleone tenta di ricostituire un impero francese e effettivamente attraverso una serie di vittorie
straordinarie sbaraglia tutti gli eserciti europei uno dietro l’altro. Diciamo che la storia di Napoleone
comincia nel 1795 e trova una sua prima battuta d’arresto quando Napoleone tenta l’invasione della Russia
nel 1812. L’esito disastroso di questa impresa porta alla prima grave sconfitta militare di Napoleone nella
battaglia di Lipsia del 1813. Dopo di che napoleone viene mandato in esilio all’isola d’Elba, però dall’Elba
Napoleone riesce a tornare in Francia, a farsi riacclamare imperatore die francesi, riesce a ricomporre
l’esercito fino alla battaglia decisiva che come voi sapete si svolge a Waterloo nel 1815 e li diciamo anche
per gli elementi casuali quelli che potremmo chiamare sorte e fortuna, Napoleone venne sconfitto e questa
volta venne esiliato nell’isola di Sant’ Elena in pieno oceano atlantico. Ecco, quindi questa è la vicenda di
Napoleone. Quindi qualcosa di disumano perché sproporzionato rispetto alle misure considerate normali da
un umanità forgiata secondo la morale del gregge, secondo gli ideali democratici dell’ eguaglianza e quindi
della parità fra tutti gli uomini. Napoleone invece scombina coinvolge questa presunta uguaglianza. Nella
versione molto idealizzata che ne da N., Napoleone rappresenta come una sorta di anticipazione del
superuomo.

SECONDA DISSERTAZIONE: “Colpa, cattiva coscienza e simili”


È la dissertazione dove le anticipazioni di N. rispetto ai testi che abbiamo letto di Freud sono più clamorose.
Titolo: cattiva coscienza
Vi ricordate che il problema della cattiva coscienza è uno dei problemi principali che Freud cerca di
affrontare e di risolvere.
Ora N., prima di Freud, cerca di capire in che modo si genera questo senso di colpa e di cattiva coscienza
che è secondo lui, tipico della morale cristiana e tipo dell’uomo, dell’essere umano forgiato dal
cristianesimo. Ora, N. ha un ipotesi che sviluppa nei primi 7 paragrafi che per il momento noi non vediamo,
li rileggiamo alla fine. L’ipotesi di questi primi 7 paragrafi N. ce la riassume all’inizio del paragrafo 8

“Per riprendere il corso della nostra indagine, il sentimento della colpa, come abbiamo visto (ma noi non lo
abbiamo visto, lo rivedremo alla fine) ha avuto la sua origine nel più antico e originario rapporto tra
persone che esista”. Qual è il rapporto fra persone più antico e più originario? E anche qui formula un
ipotesi che, soprattutto per l’epoca in cui è stata formulata, fu assolutamente geniale: l’origine del senso di
colpa sta nel rapporto fra compratore e venditore, creditore e debitore, cioè sta nello scambio tra beni, in
altri termini, trova la sua origine nelle relazioni commerciali che sono le relazioni più elementari che noi
possiamo esaminare, dice N., fra individui e comunità umane.
Rapporto della compravendita: io coltivo la terra ma ho bisogno di indumenti, tu fai indumenti m hai
bisogno dei prodotti della terra per mangiare e per sopravvivere. Noi ci scambiamo i prodotti che
produciamo in eccedenza per soddisfare i nostri bisogni. Tu coltivi la terra, mi dai il prodotto che non ti
serve per soddisfare i tuoi bisogni alimentari, io faccio indumenti e quando ho protetto me e la mia
famiglia, scambio quelli che produco in eccesso con i tuoi beni alimentari. Compravendita. Però attenzione,
non è necessario che questa compravendita sia simultanea, tra l’atto della vendita e l’atto del compenso
può passare del tempo. Io ti do una serie di vestiti e però mi aspetto che quando tu farai il raccolto e
produrrai ad esempio del pane, me lo darai in cambio dei vestiti che io ti ho dato. Cosa succede se questo il
pane non glielo da? Se il venditore non riceve il ricompenso pattuito dal venditore, la società si affianca al
venditore e infligge delle punizioni nei confronti del debitore, cioè del creditore insolvente. Allora, la
punizione, la pena, nasce sul terreno delle relazioni di scambio, quindi N. ritiene che sia a partire da queste
relazioni di scambio che noi dobbiamo cominciare a ragionare. In che modo dall’idea della pena, che è
collegata, dice N, a sua volta all’idea di un debito che non è stato onorato. Io ho ricevuto qualcosa, però
non ho dato l’equivalente, il corrispettivo. Quindi ho comprato un debito che non ho onorato. Ora, la pena
è collegata ala necessità di punire qualcuno che non ha onorato i suoi debiti nei confronti di qualcun altro.
Allora è chiaro che è un interesse della società quello di costringere i suoi componenti ad onorare i propri
debiti, perché quello che capita al mio vicino altrimenti il giorno dopo può capitare a me. Quindi è

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necessario punire il debitore che non onora il proprio debito. Allora vedete, comincia a crearsi una
relazione decisiva fra l’idea di pena, cioè di una punizione e l’idea di un debito non onorato. Allora
proviamo intanto a focalizzare la nostra attenzione su questi 3 concetti.
Relazioni di compravendita: quindi qualcuno che compra e qualcuno che vende. Io vendo qualcosa a
qualcuno e mi aspetto che a tempo debito, entro un determinato periodo di tempo chi mi ha comprato la
merce, mi dia quello che mi spetta in termini di altri prodotti o eventualmente in termini di denaro. Se chi
non mi dà ciò che mi spetta entro un determinato periodo, il compratore diventa un debitore insolvente, su
cui la società esercita quello che ritiene il proprio diritto di punire.
Quindi debito  mancato rispetto del debito  pena come punizione ritenuta legittima nei confronti di chi
non ha onorato il proprio debito.
Allora, a cosa vuole arrivare N.? dice: a noi hanno insegnato che il debitore commette un atto ingiusto e che
la pena serve a punire un ingiustizia di cui lo stesso debitore è consapevole. Quindi, nelle teorie della
morale del diritto diffuse al tempo di N, c’è l’idea che il debitore sia colpevole e che la pena sia la giusta
punizione per una colpa commessa e riconosciuta come tale sia da chi punisce, sia da chi subisce la
punizione.
N. rovescia completamente questa logica: secondo lui infatti la colpa è prodotta dalla ------ .
In realtà al debitore, se c’è un sentimento che è totalmente estraneo è il sentimento del ---------
N. cita alcune ricerche anche di psicologi, sociologi del su tempo ecc. e dice: guardate che chi delinque
tendenzialmente non gliene frega niente di quello che sta facendo, non si sente minimamente in colpa e
dice N., la colpa e il senso di colpa non è un sentimento originario innato nella coscienza umana,
assolutamente no, il senso di colpa è l’effetto prodotto dall’esercizio di una punizione e dal fatto di
comminare delle
Quindi la colpa è l’effetto, non è la causa, non è un sentimento originario, ma è un sentimento indotto e
prodotto dalla società. Allora, ancora una volta N. ci sta dicendo che, quello che per la morale cristiana
costituisce un presupposto originario e un aspetto connaturato alla coscienza umana, non è ne un
presupposto naturale, ne è parte costitutiva della coscienza umana. la colpa e il senso di colpa sono invece
dei prodotti della storia e risultano dalla punizione inflitta originariamente a chi per qualche motivo non è
stato in grado di onorare il debito. poi questa nozione economica, di tipo mercantile che riguarda lo
scambio di merci. questa nozione originariamente economica e mercantile è stata, ancora una volta,
spiritualizzata e da economica e sociale è diventata morale e a partire dall’idea della colpa come
peccaminosità e deficienza morale, si è costruita tutta un etica basata su questo falso presupposto, cioè che
nell’uomo sia insita per natura una coscienza morale e un senso del bene e del male. Il senso del bene e del
male, dice N., non esiste in natura ma sono effetto di pratiche sociali punitive che hanno la loro origine sul
terreno delle relazioni mercantili, economiche, dello scambio di bene.
Domani proveremo ad approfondire tutto ciò.

9 aprile
Oggi faremo una lezione incentrata sul confronto tra N. e Freud perché leggeremo alcuni passaggi dalla
seconda dissertazione della Genealogia della morale in cui N. effettivamente sembra davvero anticipare in
modo quasi profetico le teorie che Freud svilupperà nei due testi “Totem e tabù” e “Psicologia delle masse
e analisi dell’io”. Addirittura vedremo che n. anticipa anche alcuni aspetti della teoria freudiana
dell’aggressività che abbiamo visto essere molto importante per Freud nella spiegazione del senso di colpa
e di cattiva coscienza. Ricordate ce Freud diceva che il senso di colpa nasce quando l’aggressività innata
nella natura umana si rivolge dall’esterno verso l’interno. Cioè non si esercita più verso un oggetto
differente dall’io, ma viene indirizzata dall’io contro se stesso. Quindi Freud mette in rilievo il carattere
autolesionistico del senso di colpa e però utilizza un istinto connaturato alla vita umana ma costretto a
modificare la usa direzione originaria dal fatto che l’uomo è costretto a vivere all’interno di una società. Vi
ricordate, la teoria di Freud: fin dalla più tenere infanzia il bambino è costretto a deviare, a trovare delle vie
alternative al soddisfacimento die propri impulsi, delle proprie pulsioni. Quindi l’energia libidica, l’energia
dell’eros non può cercare il suo soddisfacimento diretto di quelle che Freud chiama le proprie mete, le
mete pulsionali, cioè gli oggetti che l’io desidera possedere, gli oggetti che l’io desidera godere, non sono

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più alla portata diretta dell’io da quando l’uomo vive all’interno di una società che lo costringe ad obbedire
a determinati valori e quindi a fare determinati sacrifici, determinate rinunce. Quindi l’aggressività si rivolge
contro l’io perché trova nella società degli ostacoli a dirigersi spontaneamente verso l’esterno. Ecco allora
N. nella seconda parte di questa dissertazione, a partire dal paragrafo 16, ci presenta una teoria analoga. Il
problema è sempre quello: come nasce la coscienza morale? Sia Freud che N. ritengono che la coscienza
morale sia inseparabile dalla formazione di un senso di colpa. Quindi i concetti che dobbiamo tenere
presenti sono appunto quelli di coscienza morale (gewissen = coscienza morale vs bewusstsein
=consapevolezza, autocoscienza, capacità di riconoscere la nostra identità e la continuità della nostra
personalità). Però c’è un aspetto della coscienza che è più specifico e che è legato appunto al
riconoscimento di determinati valori morali che decidono che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è
giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è legittimo o lecito fare e che cosa non è permesso o è vietato dalla
morale. Ora, questa coscienza morale è inseparabile dall’idea di responsabilità. Cosa intendiamo noi con
responsabilità? Rispondere di qualcosa. Responsabilità deriva proprio dal verbo greco “respondo” che vuol
dire rispondere. Allora io sono responsabile quando sono in grado di rispondere di qualcosa = riconoscere
se stessi come autori di determinate azioni. Riconoscere noi stessi come autori di quello che facciamo
significa ritenersi responsabili di quello che facciamo, in quanto responsabili siamo tenuti a rispondere del
nostro comportamento assumendocene appunto la responsabilità. Quindi l’idea di coscienza morale è
inseparabile dall’idea di responsabilità perché se l’uomo non fosse in grado di rispondere di quello che fa,
cioè non ne fosse cosciente, non potrebbe essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. La pietra che
cade da un tetto e uccide qualcuno noi non la riteniamo responsabile della morte che ha causato perché la
pietra è priva di coscienza, è incapace di decidere se fare o non fare qualcosa e quindi non la riteniamo
moralmente responsabile. Quindi perché la morale possa funzionare, deve considerare l’uomo, l’essere
umano come un soggetto responsabile, cioè come un soggetto che è autore delle proprie azioni e che
quindi può essere appunto imputato, a cui possono essere attribuite le proprie azioni. Se io sono
responsabile ad un soggetto responsabile di quello che fa, allora posso anche giudicare ed eventualmente
punire questa persona quando fa delle cose che sono moralmente inammissibili e giuridicamente vietate
(ad esempio rubare la proprietà di un altro o uccidere un altro uomo). Ora, perché è cosi importante il
senso di colpa, la cattiva coscienza? Perché è esattamente quel sentimento che fa da tramite fra la morale e
la responsabilità. Questo è un elemento caratteristico sia di N. che di Freud: l’uomo diventa responsabile
solo nella misura in acquisisce l’idea di essere colpevole quando infrange determinati precetti morali.
Quindi la morale deve far sentire l’uomo colpevole in rapporto ad azioni che siano vietate dalla morale,
perché solo facendo sentire l’uomo colpevole, l’uomo concepisce se stesso come responsabile di quello che
ha fatto. Quindi il senso di colpa è l’elemento intermedio che collega la coscienza morale all’idea della
responsabilità. Per questo sia N., sia Freud ritengono inseparabili coscienza morale – senso di colpa e
responsabilità. Sia per Freud, sia per N. è impossibile immaginare un soggetto responsabile che sia incapace
di provare colpa per delle azioni che non sono considerate ammissibili dalla propria morale e viceversa, non
è possibile considerare una morale come depositaria dei valori e dei criteri che distinguono il giusto
dall’ingiusto, il bene dal male, senza innestare questa morale all’interno di una coscienza che come diceva
N, e come ripeterà Freud, abbia interiorizzato, abbia cioè resi propri i valori espressi all’interno di un
determinato codice morale. Allora nei passaggi che adesso andiamo a leggere vediamo che N. collega,
come ripeto farà Freud, la nascita della coscienza morale all’entrata dell’uomo in uno stato, cioè in una
condizione di socialità e al tempo stesso N. considera questa formazione della coscienza morale come
l’effetto di una interiorizzazione che dipende dal fatto che alla volontà di potenza e di affermazione, che
Freud chiamava aggressività, è stata impedita l’espressione verso l’esterno e quindi questa spinta basata
sull’esercizio di una potenza e anche di una crudeltà, è stata costretta a rivolgersi contro se stessi e verso se
stessi.

Allora, come primo passaggio leggiamo quello che inizia nel paragrafo 16 (pag73) scrive N.
“A questo punto non posso più esimermi dal fornire alla mia particolare ipotesi sull’origine della cattiva
coscienza una prima provvisoria formulazione: considero la cattiva coscienza come quella grave malattia
(concetto nietzschiano che non ritroviamo in Freud. La cattiva coscienza è una malattia, una degenerazione
della vita) in balia della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le

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metamorfosi che egli abbia mai vissuto – quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente
incapsulato nell’incantesimo della società e della pace.”

Diciamo che in queste righe c’è già tutta la teoria di N., la cattiva coscienza nasce con la nascita della
società, nasce quando i rimi ominidi nella condizione ancora preumana e precivile sono stati per qualunque
ragione costretti a vivere insieme, a formare dei gruppi, e quindi a sottoporsi a delle leggi, a delle regole, a
delle norme, nasce la lunga e millenaria storia del disciplinamento, cioè della subordinazione, degli istinti e
delle pulsioni umane a delle restrizioni e a delle rinunce. Poi N. fa un paragone che riprende alcune teorie
che erano state formulate fin dall’antichità secondo le quali originariamente la vita umana, la vita sulla
terra aveva preso origine nell’acqua e poi questi essere acquatici, per qualche motivo costretti a continuare
la loro vita sulla terra, hanno dovuto appunto modificare radicalmente il loro stile di ita. Qui però noi
saltiamo alcuni elementi e riprendiamo da
“credo che non ci sia mai stato sulla terra un tale senso di miseria, un tale plumbeo disagio – e intanto
quegli antichi istinti (cioè gli istinti che l’uomo poteva soddisfare in modo anarchico e selvaggio quando non
era ancora imbrigliato all’interno di una società) non avevano cessato tutta a un tratto di porre le loro
esigenze!”

Quindi abbiamo lo stato sociale che imbriglia gli istinti e costringe a sacrificare, ridurre, mortificare
reprimere le loro esigenze, dall’altro però abbiamo ancora degli istinti che non si adattano a questa forma
di disciplina, e quindi abbiamo una scissione, una condizione di disagio (come avrebbe detto Freud) e di
profonda infelicità.

“Solo che difficilmente e di rado era possibile dar loro soddisfacimento: in sostanza, essi dovettero cercarsi
nuovi e per così dire sotterranei appagamenti. Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono
verso l’interno- questo è ciò che io chiamo interiorizzazione dell’uomo.”

Questo termine viene ripreso pari pari da Freud. Gli istinti che no riescono a sfogarsi verso l’esterno… vi
ricordate cosa diceva Freud: guardate che questa energia non è che sparisce, deve trovare una via
alternativa e sostitutiva di soddisfacimento. Non la può più trovare fuori, è costretta a trovarla all’interno
del soggetto, all’interno dell’uomo, all’interno dell’io. Questo cosa produce? Produca una differenza tra ciò
che è esterno e ciò che diventa interno. l’interiorità, quella che noi chiamiamo la vita intima, o interiore, è
una costruzione, è l’effetto di una storia attraverso la quale gli istinti primordiali dell’uomo come essere
corporeo son stati, avrebbe detto Freud, inibiti, cioè ostacolati nel loro naturale, spontaneo e diretto
soddisfacimento e quindi hanno dovuto trovare un soddisfacimento sostitutivo rivolgendosi all’interno
dell’uomo, ma non perché l’interno dell’uomo preesistesse, lo hanno creato, generato loro e questi istinti
sono quegli istinti che N. chiamava volontà di potenza, e Freud chiamava aggressività.

“in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua anima”.

Non esiste in natura l’anima, è un effetto, è il prodotto di secoli e secoli di disciplinamento e di auto
coercizione a cui l’uomo è stato sottoposto a partire dal momento in cui è diventato un animale sociale, dal
momento in cui è nata la società. Quindi qui siamo di fronte ad un passaggio assolutamente capitale per la
storia della cultura contemporanea.

“l’intero mondo interiore, si è stemperato e dischiuso; ha acquistato profondità, latitudine (ampiezza),


altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno”. Al posto di impedito F. avrebbe scritto
“inibito” ma è la stessa identica concezione: la società impedisce/inibisce la spontanea acquisizione del
godimento e gli istinti umani che anteriormente alla condizione sociale avevano libero corso anche nei lori
aspetti più crudeli, selvaggi e violenti, si sfogano ora assumendo a proprio oggetto il soggetto stesso.

“Quei terribili bastioni (fortificazioni) con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti
della libertà fecero si che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si

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rivolgessero contro l’uomo stesso. L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’aggressione,
del mutamento, della distruzione”
Con queste parole N. che cosa ci sta dicendo? Sta dicendo che della natura umana fanno parte tutti quegli
impulsi che Freud avrebbe racchiuso in un'unica parola “pulsione di morte”, “aggressività”. Originariamente
tutti questi impulsi l’uomo li rivolge all’esterno, con la società, Freud parlava di società ma parlava
soprattutto di civiltà, di disagio della civiltà, ma è esattamente la stessa cosa.

“Tutto questo si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della cattiva coscienza”
Io che prima le mie pulsioni aggressive le potevo sfogare all’esterno, adesso dalla società sono costretto a
sfogarle contro me stesso e in questo modo produco la coscienza.
Cioè del senso di colpa, io provo l’istinto di possedere qualcosa che però appartiene già ad un altro, la
società mi fa sentire in colpa per quello che io provo perché so che quello che io provo è vietato dalla legge,
è vietato dalla norma, in questo modo sono abituato a interiorizzare i valori morali del gruppo di cui faccio
parte e a colpevolizzare me stesso, appunto a sentirmi responsabile, di quei desideri che vengono
considerati illegittimi dalla società e dalla sua morale. Ecco la nascita della cattiva coscienza.

“L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in una opprimente angustia e
normalità di costui, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole
ammansire e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi le piaghe, questo essere che manca di
qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di se stesso un’avventura, una camera di
supplizi, una selva insicura e perigliosa -questo giullare, questo desioso e disperato prigioniero divenne
l’inventore della cattiva coscienza”

Cioè, tutte quelle avventure, quelle scoperte, quei movimenti che l’uomo nello stato selvaggio faceva
attraverso il proprio corpo, è ora costretto a farli esclusivamente nell’ambito della propria immaginazione.
Abbiamo una interiorizzazione della crudeltà. Anche per N. la crudeltà fa parte della natura umana, però
appunto questa crudeltà non viene più esercitata fisicamente ma viene interiorizzata, abbiamo la nascita
del rimorso, del tormento interiore, del senso di colpa, dell’introspezione, dall’autoanalisi che sono tutte
forme sublimate di crudeltà, sono forme sublimate nel senso che non trovando può la possibilità di sfogarsi
fisicamente all’esterno, adottano la modalità di un soddisfacimento immaginario rivolgendosi verso
l’interno. È chiaro che questo comporta una mortificazione, comporta una negazione della vita nei suoi
aspetti più gioiosi e creativi, però al tempo stesso dice N, questo processo è all’origine dello spirito, della
cultura, dello sviluppo prodigioso dell’intelligenza. Quindi è vero che la valutazione di N. è globalmente
negativa però all’interno di questa valutazione negativa N. sottolinea anche gli aspetti positivi che sono
costituiti appunto dall’incivilimento, dalla raffinatezza dei costumi e dallo sviluppo dell’intelligenza. Allora
se noi cogliamo questa ambivalenza possiamo capire in che cosa consiste il progetto del superuomo: non è
un ritorno alla barbaria, ma è la produzione di una cultura che non sia più nemica della vita, non sia più
legata al senso di colpa ma sia in funzione della vita e di una sua liberazione dai condizionamenti della
morale. Questo N. intende come superuomo in quanto oltre passamento dell’uomo, cioè quella figura che
l’umanità ha assunto a seguito delle trasformazioni che hanno avuto origine ai primordi della civiltà e che
hanno trovato una loro cristallizzazione, secondo N. altamente negativa, con la diffusione del cristianesimo.

“Con essa fu però introdotta la più grande e la più sinistra delle malattia, da cui fino a oggi l’umanità non è
guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé”
La sofferenza che l’uomo prova nei confronti di se stesso, e non gioia, perché è abituato a condannarsi
come indegno, come colpevole, come iniquo perché gli istinti primordiali che lo costituiscono come vivente
sono ancora presenti in lui ma tutta la morale li ha condannati come colpevoli, come illegittimi. E quindi
l’uomo che li possiede è anche l’uomo che li condanna e condannandoli si condanna, soffre di se stesso, si
sente perennemente in colpa.

“conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, di un salto e di una caduta, per cosi
dire, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui
quali fino allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità”

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Dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti che però sono ancora vivi nell’uomo, per quanto l’uomo gli
abbia mortificati , disciplinati, indeboliti, però sono ancora vivi perché fanno parte della vita. Eros, diceva
Freud, libido, tensione alla generazione, all’espansione, all’integrazione, se non ci fosse questo l’uomo non
sarebbe un vivente.

Ora, però dopo che N. ci ha mostrato gli aspetti negativi, violenti, crudeli che hanno presieduto alla nascita
della coscienza morale, ecco che N. sottolinea anche l’altro aspetto che vi ho anticipato.
“Aggiungiamo subito che, d’altro canto, col fatto di un’anima animale (Anima animale= quando noi
parliamo di anima la attribuiamo ad un essere spirituale, ma qui N. parla di anima animale perché l’uomo è
rimasto un animale, cioè un vivente, però si è dotato di un anima, cioè di una coscienza) ricolta contro se
stessa, intenta a prender partito contro se stessa, si era presentato sulla terra qualcosa di tanto nuovo,
profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo d’avvenire, che l’aspetto della terre ne fu
sostanzialmente trasformato. […] Da allora l’uomo è annoverato tra le più inaspettate e stimolanti mosse
azzeccate che gioca il grande fanciullo eracliteo, si chiami Zeus o caso _ desta per sé un interesse, una
tensione, una speranza, quasi una certezza, come se con lui qualcosa si annunziasse, qualcosa si
preparasse, come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una via, un episodio, un ponte, una grande
promessa…”

Ecco qua che con nostra sorpresa alla fine di questo paragrafo N. rovescia tutto il segno del suo
ragionamento: millenni di sofferenza, di sacrificio e di auto modificazione però alla fine hanno aperto alla
vita una nuova forma, la forma dello spirito, dell’intelligenza, della cultura, e hanno trasformato l’uomo da
puro e semplice animale nella preparazione di qualcosa che super l’uomo, destinato a oltrepassare l’uomo.
E qui N. riprende la metafora del ponte che aveva usato nel libro Cosi parlò Zarathustra qui N aveva scritto
che l’uomo è un ponte fra la bestia e il superuomo. Quindi proprio attraverso questi millenni di sofferenza
che hanno prodotto l’interiorità, in realtà l’uomo si predisposto delle possibilità che hanno introdotto una
enorme novità nella storia della vita. E che ora, dice N, è il momento di utilizzare per promuovere un salto
verso una civiltà nuova e come dice sempre Zarathustra, verso nuove tavole dei valori.
Resta da chiare il riferimento al grande fanciullo eracliteo. Qui dobbiamo necessariamente fare riferimento
sempre allo Zarathustra. All’inizio di questo libro compare un capitolo intitolato “delle tre metamorfosi
dello spirito”. Come lo spirito diventa cammello, da cammello diventa leone e da leone divenne bambino”.
Cosa intende dire N. con questa metafora? Lo spirito cammello è lo spirito che si è accollato tutto il peso
della morale, dei divieti e degli obblighi legati al rispetto della morale, il cammello è lo spirito che vive
schiacciato dalla responsabilità, dalla coscienza morale e dal senso di colpa che inevitabilmente si
accompagna a questa coscienza. Quindi è uno spirito di gravità, pesante, serio, N. direbbe tedesco, perché il
filosofo della morale per eccellenza è Kant (l’imperativo categorico, il dovere incondizionato, la legge della
ragione, il divieto di godimento, la condanna della sensibilità). Ora però è il momento, dice N, in cui lo
spirito deve diventare leone, anzi, è già diventato leone attraverso N. stesso, attraverso cioè la critica
sistematica dei valori morali di cui il cammello si è fatto carico e si è trascinato per lunghi secoli e più in
particolare per 2 millenni dominati dal cristianesimo. Allora il leone, per N, è simbolo di un nichilismo attivo.
Il leone rappresenta il coraggio di chi ha l’audacia di negare i valori correnti dimostrando che questi valori
non rispettano più i bisogni e lo stile di vita dell’uomo moderno. Quindi il leone ha il coraggio di distruggere
e di dichiarare come una vuota impalcatura ciò che lo stato e la chiesa pretendono ancora di spacciare una
morale autenticamente vissuta e una religione effettivamente creduta e praticata. Il leone è l’espressione di
un atteggiamento nichilista che nega, che distrugge, che non crede più ma che in questo modo prepara
anche il terreno per una nuova creazione, sgombera il campo da una cultura per n: ormai morta e inutile e
quindi crea le condizioni per una nuova cultura, pe una nuova civiltà, per una nuova forma di vita che è
rappresentata dal fanciullo eracliano. Perché il fanciullo? Perché il bambino è simbolo dell’innocenza, di
gioia, di spontaneità ma il bambino è anche simbolo di una gioia che si esprime nel creare e nel distruggere,
cioè è una gioia legata la gioco delle metamorfosi. Non c’è divenire e non c’è metamorfosi se non c’è
cambiamento ma non c’è cambiamento se non c’è distruzione. La distruzione è la condizione
necessariamente correlata ad ogni creazione: se non distruggo il vecchio non avrò possibilità di creare il
nuovo. Ma se non creo il nuovo e resto nel vecchio non vivo più ma muoio. Quindi accettare la vita significa

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accettare la complementarietà tra costruzione, creazione, negazione e distruzione. Non si può volere la
vita, la metamorfosi, il divenire, la gioia senza al tempo stesso volere la sofferenza, la distruzione, la
negazione di ciò che è vecchio e non è più in grado di esprimere le forze vitali di una determinata epoca, di
una determinata società, di una determinata civiltà. Questo è il bambino. Perché eracliteo? Perché Eraclito
(pensatore che vive fra il VI e il IV secolo a. C. a Efeso, città posta sulla costa dell’asia minore, attualmente in
Turchia) è appunto per N. il filosofo del divenire. A differenza di Parmenide, Eraclito dice che la verità è
puro divenire. E il divenire per lui che cos’è? È l’unità degli opposti. Metamorfosi, legame e opposizione,
fanno tutt’uno nel divenire della vita. Questo è Eraclito e questo è il motivo per cui N. amava Eraclito e si
riconosceva nel suo pensiero. Filosofia di Eraclito nell’epoca tragica dei greci. Tragico nel senso che
accetta la vita nella sua contraddittorietà che prevede la creazione ma prevede al tempo stesso anche la
distruzione. il fanciullo è una metafora utilizzata da Eraclito per esprimere la gioia del divenire, per
esprimere l’accettazione gioiosa della vita in quanto la vita è fatta da questa unità fra opposti. Unità fra
opposti. Zeus, re degli dei olimpici, la suprema fra le divinità greche, è assunto da Eraclito sempre come
metafora del divenire perché Zeus è il dio che garantisce l’ordine dell’universo. Allora nell’universo, dice
Eraclito, c’è ordine, l’universo non è un causa ma questo ordine è l’ordine del divenire. E’ un ordine in
costante metamorfosi. E questo ordine costituito dalla molteplicità delle metamorfosi che hanno luogo
nell’universo è garantito appunto da Zeus. Quindi vedete che Eraclito da una reinterpretazione filosofica
della mitologia popolare diffusa fra i greci. Quindi ecco perché N. qui scrive che l’uomo è annoverato fra le
mosse più inaspettate e stimolante giocate dal grande fanciullo eracliteo. Si chiami questo fanciullo Zeus o
caso. L’evento inaspettato, imprevedibile che è esso stesso parte integrante della vita perché senza
casualità, senza sorpresa, non ci sarebbero eventi, non ci sarebbe creazione, tutto sarebbe già previsto,
scontato. Concetto di Kairos = occasione. Gli antichi la rappresentavano con due facce: una rivolta al
passato e una rivolta al futuro, volendo dire che il caso si presenta in un momento opportuno che o si coglie
nel momento e allora riusciamo a afre del caso la condizione per una nuova esperienza rivolta al futuro;
oppure se lo lasciamo passare il caso sprofonda nel passato e non si ripresenta più alla nostra possibilità di
esperienza. Quindi questa duplice faccia del caso è un altro aspetto del divenire.

Paragrafo 19
Qui la relazione con Freud diventa ancora più evidente perché in questo paragrafo N. parla del debito che le
prime società umane ritenevano di dover pagare ai loro antenati. Vi ricordate l’ipotesi freudiana di Totem e
tabù? Il totemismo? Che cos’era? Era una religione basata sull’idea dell’antenato, del capostipite come
divinità protettiva a cui però bisognava fornire doni, lodi, preghiere, sacrifici come se appunto la società
dovesse pagare il debito di gratitudine, di riconoscenza, fosse legata cioè da un apporto che vincola un
compratore al venditore che gli ha dato un prodotto, una merce. Vi ricordate che N. pone alla base dei
concetti morali delle relazioni mercantili, commerciali, rapporto fra venditore e compratore, questo genere
una relazione di debito e poi attraverso una serie di trasformazioni diventa concetto morale. Ora, vediamo
cosa ci dice N rispetto al rapporto tra le prime società umane e i loro progenitori ancestrali che queste
società sollevano fino alla condizione di divinità.

“E’ una malattia, la cattiva coscienza (insiste. È una condizione patologica. È una forma di degenerazione
della vita), non v’è dubbio (però poi ce l’aspetto positivo, cioè il rovescio della medaglia), ma è una malattia
come è una malattia la gravidanza (la gravidanza è dolore, sofferenza ma è nascita di una nuova vita).
Ricerchiamo le condizioni nelle quali questa malattia è pervenuta al suo apice più terribile e sublime. Ma per
fare quello che mi accingo a fare/per tale scopo occorre un vasto respiro - e dobbiamo tornare innanzitutto
ancora una volta a un punto di vista anteriore (primi paragrafi in cui N. ceraci di ricondurre l’origine de
concetti morali al rapporto tra compratore-venditore). Il rapporto di diritto privato è stato interpretato
all’interno di un rapporto in cui esso risulta per noi moderni forse del tutto incomprensibile: del rapporto,
cioè, intercorrente tra i contemporanei e i loro progenitori”

Allora, gli uomini abituati a scambiarsi merce fra di loro, ad entrare in relazioni commerciali dove il patto
che rendeva possibile la circolazione di beni era che chiunque comprava qualcosa onorava il suo debito,
ecco, questa relazione di compravendita che produce l’idea di un debito nei confronti di qualcuno che può
vantare un credito, viene trasferito dalla sfera delle relazioni mercantili, alla sfera delle relazioni tra i

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contemporanei (cioè tra quelli che costituiscono un gruppo sociale attualmente vivente) e i loro
predecessori, i loro antenati, i loro progenitori ancestrali. “un rapporto in cui esso risulta per no moderni
forse del tutto incomprensibile” questo “risulta per noi del tutto incomprensibile” è esattamente il punto
dove Freud ha inserito la sua ipotesi del parricidio originale. Perché anche per Freud questa relazione di
debito che una società umana introduce fra se e il proprio progenitori risultava molto incomprensibile. Ma
quando Freud scrive totem e Tabù sono già passati 25 anni dalla pubblicazione della Genealogia della
morale però c’è sempre qualcosa che a Freud non funzionava e allora, dice Freud, io propongo questa
ipotesi: l’ipotesi che all’origine della storia umana ci fossero dei gruppi dominati da un padre dispotico il
quale ad un certo momento è stato fatto fuori dai fratelli, cioè dai suoi stessi figli che non sopportavano più
il suo dispotismo. Questo produce un senso di colpa ma il senso di colpa è l’espressione appunto di un
debito, cioè di qualcosa di cui noi siamo appunto debitori: abbiamo ucciso il padre, gli abbiamo tolto la vita,
ora dobbiamo rimediare. Il padre è in credito nei nostri confronti perché ha subito un danno e quindi
attende da noi che rimediamo a questo danno, torto che gli abbiamo fatto. Noi siamo in debito di una
riparazione e questa riparazione come la possiamo onorare nei confronti di qualcuno che vive in una forma
diversa dalla vita naturale? Che vive nella forma di uno spirito, di una potenza? Lo possiamo onorare
attraverso dei riti di tipo religioso. Quindi la religione nasce come espiazione di una colpa originaria che a
sua volta viene interpretata con categorie originariamente economiche: debitore- compratore. Il
compratore che è in credito diventa il padre divinizzato, i debitori che si trovano nella necessità di onorare
il loro debito diventano i gruppi sociali che sentono un senso di colpa nei confronti del progenitore che non
è più presente e che nell’ipotesi di Freud non è più presente perché è stato ucciso dai suoi stessi figli.
Allora vediamo un po’ l’ipotesi di N. N. non fa l’ipotesi di un parricidio originale ma vediamo come prova a
spiegare quello che Freud cerca di spiegare con questa ipotesi in Totem Tabu

N. ci dice: “Nell’ambito dell’originaria comunità la generazione vivente riconosce ogni volta un’obbligazione
giuridica nei confronti di quella più antica, fondatrice della stirpe”

Allora io sono nato perché i miei genitori mi hanno fatto nascere, mi hanno nutrito, mi hanno protetto, mi
hanno mantenuto finché ero piccolo e non ero in grado di mantenermi da solo. Già questo può essere
interpretato come un rapporto che crea un debito: il più giovane deve la sua vita ai propri genitori, cioè ai
più vecchi. Quindi deve nel corso della sua vita ripagare il proprio debito nei confronti dei genitori ed in
generale degli anziani che vengono concepiti alla stregua di creditori. Questi devono essere ripagati con
sacrifici e opere.

“Domina qui la persuasione che la specie unicamente sussiste grazi ai sacrifici e alle opere degli antenati- e
che questi devono essere ripagati loro con sacrifici e opere: si riconosce, quindi, un debito che continua a
crescere costantemente per il fatto che questi avi, perpetuando la loro esistenza come spiriti possenti, non
cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro forza”

Allora è come se i progenitori fossero innalzati a potenze divine che continuano a proteggere a promuovere
la vita delle generazione presenti, quindi più sono floride le generazioni presenti, più le generazioni presenti
si sentono debitrici del loro successo e della loro salute ai progenitori che sono stati divinizzati, trasformati
in spiriti tutelari della comunità. Quindi paradossalmente più noi stiamo bene, più ci sentiamo in debito nei
confronti dei nostri progenitori che abbiamo innalzato a spiriti e a potenze divine. Allora, in Freud questo
legame viene spiegato con il senso di colpa che deve perennemente essere calmato dagli onori, dai sacrifici,
dai tributi che vengono fatti ai progenitori perché nell’ipotesi di Freud i progenitori erano stati ammazzati e
quindi vi era stato un crimine che reclama espiazione, che richiamava il pagamento di una pena in termini
di onori religiosi, ecc..
In N. non essendoci questo tipo di spiegazione diciamo che l’interpretazione assume semplicemente come
suo criterio quello di uno spostamento concettuale. Cioè concetti originariamente utilizzati nei rapporti
della compravendita vengono trasferiti sul paino religioso attraverso una sorta di appunto dislocazione che
utilizza concetti nati in un determinato ambito e li trasferisce in un ambito completamente diverso.
“Di tempo in tempo esso impone un grande riscatto in blocco”

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Cioè a questo punto la comunità che sente accrescersi sempre di più il debito delle potenze divine, trova
delle ricorrenze in cui estinguerle una volta per tutte. In che modo? Attraverso dei sacrifici, sacrifici cruenti,
che prevedono l’uccisione non solo di animali ma anche di esseri umani. In alcune società si arrivava
appunto a sacrificare il primogenito.

“Il timore per l’antenato e per la sua potenza, la coscienza d’un debito verso di lui cresce di necessità,
secondo questa specie di logica, nella stessa esatta misura in cui aumenta la potenza della stirpe
medesima”.

E in questa logica paradossale invece più la stirpe è sofferente, meno ricca, più pover, anche il timore nei
confronti del proprio progenitore diminuisce. Forse sta proprio qui, dice N. , l’origine degli dei, un origine
dunque dal timore. Timore a suo volta generato dalla dislocazione della logica della compravendita dal
piano dei rapporti mercantili, al piano delle relazioni religiosi. C’è però in N. una fase intermedia che per lui
è costituita dalle civiltà aristocratiche, quelle che lui chiama l’epoca di mezzo in cui appunto N. colloca
sostanzialmente la religione greca e quella romana. Dove abbiamo al tempo stesso l’ammorbimento delle
pretese degli dei e l’attribuzione agli dei di quelle qualità umane-aristocratiche che gli uomini
riconoscevano come specifiche della loro civiltà.

Dopo di che nel paragrafo 20 N. formula un’ipotesi verso la quale presenta dei motivi che dovrebbero
sostenerla però presenta anche dei motivi che la rendono insufficiente. Questa ipotesi consiste
nell’immaginare che questo senso del debito nei confronti della divinità si ammorbidisca mano a mano che
la fede religiosa si indebolisce.
Scrive N: “L’avvento del Dio cristiano, in quanto massimo dio che sia stato fino a oggi raggiunto”
E qui N. scrive una cosa strana perché riconosce al cristianesimo un primato rispetto a tutte le altre
religioni. Qua senza volerlo ripete una frase di Hegel: per Hegel il cristianesimo era la religione assoluta e
qui certo senza attribuire a N. una professione di fede cristiana, però, N. ripete la posizione di tipo
hegeliano nel riconoscere che il cristianesimo all’interno della storia delle religioni rappresenta il culmine
della religione, la forma più alta raggiunta dalla religiosità umana.
“L’avvento del cristiano, in quanto massimo dio che sia stato fino a oggi raggiunto, ha portato perciò in
evidenza, sulla terra, anche il maximum del senso di debito”.
Quindi il dio cristiano è un dio massimamente spiritualizzato, però proprio perché concerta su di se tutte le
caratteristiche del divino, siccome il senso del divino è basato sul senso del debito, allora evidentemente la
religione cristiana sarà la religione in cui il senso del debito è massimamente sviluppato. E in effetti siccome
la base della religione cristiana è stata data da San Paolo, voi sapete che nelle lettere di San Paolo il perno
del cristianesimo è basato sull’idea di nuovo testamento, cioè di un nuovo patto tra l’uomo e dio. Il primo
patto, il vecchio testamento, è quello degli ebrei. Con l’avvenuta di Gesù la fede nel dio degli ebrei si
estende a tutta l’umanità, al dominio della legge si affianca il dominio dell’amore però l’umanità si trova pur
sempre colpevole del fatto che Gesù si è dovuto sacrificare sulla croce per espiare i peccati dell’uomo.
Quindi c’è sempre una relazione di debito tra l’uomo e Dio e c’è sempre l’idea di un peccato che grava
sull’uomo e che l’uomo non potrà mai effettivamente estinguere del tutto se non quando Gesù tornerà
sulla terra per la seconda e ultima volta e promuoverà quindi la redenzione finale del genere umano. Quindi
il cristianesimo è una religione del debito, e anzi, in quanto massima forma della religione, è anche la
religione che esaspera al massimo l’idea di un debito che l’uomo non potrà mai riparare nei confronti del
proprio Dio. Allora N. prosegue: “ammesso che si sia entrati con l’andar del tempo nel movimento opposto,
si potrebbe derivare dall’inarrestabile declino della fede nel Dio cristiano il fatto che oggi si sta
determinando anche un considerevole declino della umana coscienza di colpa”
Allora qui N. dice che è evidente che nella società moderne la fede religiosa è sempre più debole, che gli
uomini vivono basandosi sempre meno sull’obbedienza ai precetti di tipo religioso. Quindi si potrebbe
immaginare che più decresce l’intensità della fede religiosa, più decresce il senso del debito che l’uomo
ritiene di dover espiare nei confronti di Dio. E poi aggiunge: “Anzi non si può respingere la prospettiva che la
compiuta e definitiva vittoria dell’ateismo potrebbe affrancar l’umanità da tutto questo suo sentirsi in
debito verso il principio. Ateismo e una sorta di seconda innocenza sono intrinsecamente connessi” Ma è
veramente cosi? Domani proviamo a leggere la risposta che ci darà.

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10 aprile
Ieri abbiamo letto fino al paragrafo 20 cercando di seguire un po’ il ragioanmento nietzschiano. Abbiamo
fatto diversi confronti con Freud e oggi dovevamo capire se l’idea che l’indebolirsi della fede religiosa
provochi una diminuzione del senso di essere indebiti nei confronti della divinità sia un’idea giusta oppure
sia un’idea troppo semplice. E come vedremo nel paragrafo 21 secondo N. è un’idea troppo semplice. Cioè
quando la coscienza ha interiorizzato l’idea della colpa e l’idea del debito non basta secondo quello che ci
dirà N, non credere più a dio perché l’uomo si liberi anche della morale che si è abituato a considerare
come depositaria dei valori supremi. Proviamo a leggere dal paragrafo 21 dove N. riprende il suo
ragionamento e dice che caduto il presupposto ì, cioè caduta la fede in dio, sembra che si debba eliminare
anche la conseguenza, cioè il sentirsi in debito nei confronti di dio. Se non crediamo più in dio no abbiamo
più nessuno con cui sentirci in debito. Quindi sembrerebbe che anche la presa della morale dovrebbe
terminare. Ecco qui N. invece si esprime in questi termini:
“Da ciò si distanzia terribilmente il dato di fatto. Con la moralizzazione delle nozioni di colpa e di dovere
(cioè con la interiorizzazione per cui l’idea del debito passa nella dimensione interiore e diventa senso di
colpa) con il loro spostarsi indietro nella cattiva coscienza (ecco, vorrei che fosse chiaro che cattiva
coscienza vuol dire coscienza tormentata da un continuo senso di colpa. La cattiva coscienza è la coscienza
di un uomo che ritiene di essere cattivo, colpevole. Probabilmente la cosa risulta più chiara facendo
riferimento ancora una volta alla lingua tedesca. Ecco questo forse è un elemento che ci aiuta a
comprendere perché noi continuiamo a parlare di una relazione tra colpa e debito. N. sostiene questo: il
debito è un concetto di tipo giuridico-economico perché riguarda il rapporto tra compratore e venditore.
Cosa succede con la moralizzazione? Abbiamo la interiorizzazione di questi concetti chen originariamente
sono dei concetti di tipo economico-giuridico . quindi con l’interiorizzazione il debito diventa colpa, diventa
senso di colpa e diventa cattiva coscienza. Qual è il punto che permette a N. di fae questo ragionamento?
Che in tedesco colpa e debito sono espressi dalla stessa parola, cioè dalla parola SCHULD (vuol dire sia
colpa in senso morale, sia debito in senso economico). Noi distinguiamo i due termini e parliamo di debito
quando parliamo di relazioni economiche-commerciali, paliamo di rapporti di compravendita o parliamo
anche del bilancio di uno stato (quante volte sentiamo parlare del debito dello statolo italiano). Ora, nel
ragionamento di N. il debito diventa qualcosa di interiorizzato a partire dal momento in cui l’uomo vive in
società e crea con i propri antenati una relazione di riconoscenza che esige di essere costantemente
dimostrata.
Allora quando N. parla del debito delle generazioni successive nei confronti delle generazioni precedenti
parla contemporaneamente anche di un senso di colpa provate dalle generazioni successive nei confronti
delle generazioni precedenti, cioè parla di un debito che al posto di estinguersi, cresce costantemente col
crescere del benessere delle generazioni successive. Questo senso di debito diventa quindi senso di colpa e
cattiva coscienza perché diventa interiore, occupa una dimensione che non è più quella materiale delle cose
ma è appunto la dimensione interiore della spiritualità, della coscienza, dell’io. Ecco allora perché c’è
questo gioco che il traduttore rende secondo il prof in modo molto pertinente e intelligente perché la
lingua italiana ci fa perde il senso della unità del concetto, però il fatto che noi disponiamo di due parole ci
fa acquisire una maggiore consapevolezza delle sfumature, dell’articolazione, dei significati che sono propri
di questo concetto. Quindi questa notazione terminologica penso che ci permetta di seguire meglio il
seguito del ragionamento di N., perché N. continua così: “ora deve essere pessimisticamente preclusa una
volta per sempre proprio la prospettiva di un riscatto definitivo” debito riscatto. Riscatto qui ancora una
volta ha il significato economico, es. quando noi diciamo “ho riscattato la mia casa”, cioè ho finito di pagare
il mutuo. Ma qui in realtà il concetto economico è diventato anche concetto morale riscatto vuol dire
liberazione dal senso di colpa, esaurire il debito significa potersi considerare finalmente innocente e non
più colpevole nei confronti dei propri progenitori. Ma appunto questo riscatto si deve rendere indefinito,
deve essere concepito come impossibile da prodursi in modo tale da colmare il debito una volta per tutte.
“ora quei concetti di colpa e di dovere devono volgersi a ritroso” cioè paradossalmente quel movimento che
sembrava andare verso una liberazione dalla religione e quini una liberazione dal senso di colpa, viene
procrastinato all’infinito e si volge non più verso il futuro ma verso il passato. Devono volgersi a ritroso ma
contro chi si chiede N.? “E’ fuori di dubbio: in primo luogo contro il debitore, in cui ormai la cattiva
coscienza mette tali radici, si estende e cresce a tal punto che insieme alla inestinguibilità della colpa si

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finisce per concepire anche l’inestinguibilità dell’espiazione”. Inestinguibilità della colpa è sempre schuld, è
sempre la correlazione fra debito e colpa. La colpa è il debito di tipo morale, di tipo simbolico, di tipo
religioso che però determina la sensazione che il soggetto ha della propria qualità, della propria dignità,
della propria moralità. E se io ho l’idea che il debito che ho comprato non potrò mai onorarlo, ecco che
faccio del debito che non potrò mai onorare la condizione per un senso di colpa che non potrà avere mai
fine. Così secondo N. nasce l’idea della pena eterna, l’idea dell’inferno. Evidentemente qui N. ritiene che
quando la religione ha cominciato ad indebolirsi è stato trovato il modo per rialimentare la fede attraverso
l’invenzione di un destino di dolore e sofferenza che sarebbe stato riservato ai malvagi nella vita eterna,
dopo la seconda venuta di Gesù. Però appunto alla fine questa colpevolezza universale si estende anche al
creditore, non più solo al debitore, le generazioni future, successive, ulteriori ma anche alle generazioni
degli antenati ed ecco allora che secondo N. si sviluppa l’idea del peccato originale, l’idea della natura
peccaminosa, della natura come luogo di tentazione e appunto di negatività morale, finché questo rifiuto,
questa negazione, questa svalutazione della natura si converte nella negazione stessa della vita, nella
volontà di negare la volontà, nella volontà di negare la vita.

E questa volontà di negare la vita è rappresentata per N. dalle religioni orientali (qui N. fa riferimento al
buddismo) e dalla filosofia di Schopenhauer che N. nella sua giovinezza aveva ammirato moltissimo come
filosofo e che aveva incorporato nella su filosofia l’idea buddista del nirvana, cioè dell’annullamento della
propria volontà di vita, annullamento della volontà. E S. aveva coniato un nuovo termine, Noluntas, da
contrapporre alla parola voluntas = volontà in latino e che deriva dal verbo “volo” = voglio. Noluntas è una
parola che S. si inventa, non esiste in latino, però esiste in latino il verbo “nolo”, che è il contrario di volo,
cioè non voglio.
Ora, S. che ritiene la vita un processo senza senso, fonte di delusione, dolore e sofferenza ritiene che l’unica
soluzione possibile per sfuggire alle sofferenze provocate dalla vita sia costituita dalla progressiva
estinzione della propria volontà di vivere, se io estinguo la volontà di vivere non soffro più perché non ho
più quei desideri e quelle aspettative che sono alla radice delle mie sofferenze. Perché l’idea è che le
aspettative siano sempre necessariamente deluse e i desideri siano destinati a rimanere costantemente
insoddisfatti. Ora S. che è fondamentale perché è lo sfondo di questa riflessioni nietzschiana, diventa
popolare in Germania proprio dopo il 1850. Quando nasce N.? N. nasce nel 1844, quindi la popolarità di S.,
cioè di questa filosofia, esplode proprio durante la giovinezza di N., ed egli ne resta molto influenzato. Solo
lentamente N. si libererà da questa influenza arrivando ad una concezione diametralmente opposta a
quella di S.
S. predicava la negazione della volontà, mentre N. predicava l’affermazione della volontà. Affermazione
della volontà che si formula nel concetto di volontà di potenza, che è l’esatto opposto della noluntas di
Schopenhauer. Volontà di potenza vuol dire affermazione dalla volontà, e vuol dire dunque, non negazione
della vita, ma accettazione della vita, anche nei suoi aspetti di dolore e di sofferenza.
Questo è il senso, il percorso di pensiero che fa da sfondo a quello che stiamo leggendo e che adesso
culminerà nell’ennesima critica di N. nei confronti del cristianesimo. Però al prof interessava questa
spiegazione per la comprensione delle espressioni di N. che abbiamo appena letto e l’esistenza che in
generale rimane non valida in se. Nichilismo. Volontà del nulla, volontà di negazione della volontà,
Schopenhauer come espressione filosofica più nobile e alta possibile del cristianesimo, epochè è il
cristianesimo per N. che spinge a negare la vita ritenendo colpevole e peccaminoso il godimento della vita.
Desiderio del nulla, noluntas, quello che i buddisti chiamano il nirvana. Il nirvana che cos’è? È la parola
indiana per indicare il nulla, annullamento del se come soggetto individuale dotato di volontà e animato
incessantemente da desideri che non sono esauribili.
“Finché eccoci all’improvviso di fronte al paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umanità
ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la
colpa dell’uomo” . quindi il creditore che assume direttamente su di se le colpe del suo debitore. Dice N.
che questa è una cosa geniale perché è totalmente illogica, assurda. E il cristianesimo è riuscito a
convincere gli uomini di questa assurdità, di un creditore, dio, che decide di sacrificarsi a favore del suo
debitore. Quindi un dio che in quanto creditore si rende debitore di se stesso, si punisce fino alla passione e
alla morte pur di salvare il proprio debitore. Cioè dice N. che è un controsenso totale, e pure gli uomini,
evidentemente erano arrivati a tal punto di insofferenza da aver bisogno di questa assurdità per poter

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continuare a vivere. “Dio stesso che si ripaga su se stesso, il creditore che si sacrifica per il suo debitore (poi
N. aggiunge ironicamente) per amore (ma dobbiamo crederci?), per amore verso il suo debitore” in realtà,
dice N. tutto questo è il frutto di quello che abbiamo già visto ieri.

Paragrafo 22.
In realtà tutta questa costruzione mentale, immaginaria che però ha fondato una fede religiosa durata
quasi 2000 anni, dice N., ha alla sua radice qualcosa di pulsionale che ora N. ci spiega per l’ennesima volta.
“essendo sbarrata la più naturale via di liberazione di questo voler cagionare il dolore. pensiamo sempre
all’aggressività di Freud che N. chiama con altri nomi: volontà di sopraffazione, volontà di dominio, volontà
di imporre la propria superiorità attraverso la sofferenza degli altri, attraverso la violenza. Ecco, tutti questi
impulsi selvaggi, queste pulsioni violente che la società ha represso, si sfogano ora contro l’uomo che li
possiede e che prima della civiltà poteva sfogarli all’esterno e ora è costretto a utilizzarli e a soddisfarli
contro di se.
“essendo sbarrata la più naturale via di liberazione di questo voler cagionare il dolore” che cosa ha
escogitato l’uomo? Ha escogitato la cattiva coscienza, cioè ancora una volta, la coscienza di essere cattivo,
di essere colpevole, di essere in debito. “Quest’uomo della cattiva coscienza si è impadronito del
presupposto religioso per spingere il proprio auto martirio fino alla sua più orribile crudezza e sottigliezza”.
Allora, ancora una volta, quella relazione di debito che le generazioni successive provavano verso i lori
antenati e predecessori, viene interiorizzata attraverso la religione. Allora il rapporto di debito non è più
quello fra le generazioni più recenti e le generazioni passate, ma diventa un rapporto di colpa, cioè di
debito interiorizzato fra l’umanità e Dio. Questa interiorizzazione del debito che avviene su scala globale,
collettiva, sociale è operata dal cristianesimo. Ecco perché vi è una complicità fra cristianesimo e morale: è
come se il cristianesimo desse il fondamento religioso della cattiva coscienza. “Un debito verso Dio: questo
pensiero diventa per l’uomo strumento di tortura”.
E insomma “si tende, questo senso di colpa, nella contraddizione tra Dio e il diavolo. Ogni no che dice a se
stesso, alla natura, alla realtà del suo essere, l’uomo lo proietta fuori di se come Dio, come santità d’Iddio,
come tribunale d’Iddio, come al di là, come eternità, come inferno, come incommensurabilità fra pena e
colpa”.
Non ci saranno mai pene sufficienti per punire le colpe che l’uomo si è addossato attraverso questa logica
apparentemente incomprensibile ma che per N. è legata al fatto di una repressione fondamentale degli
istinti, di quegli istinti che non hanno più avuto modo di esplicarsi all’esterno e che ora incrudeliscono,
esercitano tutta la loro violenza insoddisfatta contro l’uomo che li possiede. Quindi è l’uomo stesso che si fa
carnefice di sé stesso nella dimensione della coscienza che poi però noi sappiamo nella storia religiosa
dell’occidente non è stato solo frutto di sofferenze interiori ma si è appunto manifestato con fenomeni di
violenza esterna come la tortura, come la caccia alle streghe, i roghi, la caccia agli eretici. Insomma, tutti
questi sono episodi che hanno costellato la storia europea. Ed è lo steso N. che parla di delirio. Leggiamo
cosa scrive: “Questo è una specie di delirio della volontà nella crudeltà psichica”. La crudeltà, ripeto per
l’ennesima volta, è per N. una delle pulsioni fondamentali della vita. La prossima settimana leggeremo i
passi che abbiamo saltato, quelli con cui comincia questa dissertazione dove N. ci spiega che
originariamente la pena non aveva il compito di correggere i delinquenti, non aveva neanche il significato di
far pagare una colpa al debitore. L’idea di N. è che in realtà la pena serviva a dare al creditore la possibilità
di sfogare sul debitore insolvente i suoi istinti di potenza e di crudeltà. Quindi secondo N. la pena
originariamente è semplicemente l’espressione di un esercizio della volontà di potenza come volontà di
crudeltà: io infliggo sofferenze all’altro e godo perché nell’infliggere sofferenze all’altro dimostro di essere
infinitamente più forte e superiore dell’altro. Ora, questa dimensione che è atroce perché violenta, perché
produce deliberatamente sofferenza, però fa parte della vita, fa parte delle pulsioni primarie. Allora N. non
è che vuole tornare a questo livello di barbaria, N. ci sta dicendo: guardate che il modo in cui la civiltà ha
provato a risolvere questo problema ha prodotto degli effetti altrettanto drammatici e negativi perché
l’uomo non è riuscito a formare in maniera armonica, non è riuscito a creare una relazione produttiva fra le
esigenze della civiltà e gli impulsi aggressivi e violenti, no, l’uomo ha deciso di reprimere semplicemente
questi impulsi. Freud che cosa avrebbe detto? Ha deciso di rimuoverli, ma siccome questi impulsi
continuano ad esistere, ecco che si sfogano contro l’uomo medesimo producendo senso di colpa, cattiva
coscienza, e cosi via. Il cristianesimo è l’espressione religiosa di questa dinamica. Quindi è un effetto che

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però diventa anche causa perché alimenta questa ruota della tortura, da effetto diventa causa che si
alimenta come effetto, cioè come ripetuto esercizio di crudeltà, però appunto non più fisica, bensì psichica.
E dice N. che questo delirio della volontà nella crudeltà non ha assolutamente eguali, è un fatto unico della
storia. “La volontà dell’uomo di trovarsi colpevole e riprovevole fino all’impossibilità di espiazione ( la sua
volontà perché è sempre all’opera una volontà di potenza, però è una volontà che si esercita contro di se)
la sua volontà di infettare e intossicare col problema della penna e della colpa le più profonde radici delle
cose, la sua volontà di pensarsi castigato, la sua volontà di erigere un ideale – quello del dio santo- e di
acquistare una tangibile certezza della propria assoluta indegnità di fronte a lui”. Cioè l’uomo si costruisce
l’idea di un Dio che è santo per poter confermare ai suoi propri occhi la sua indegnità e la sua colpevolezza.
E allora N. si esprime cosi: “Oh dissennata triste bestia, l’uomo! Qual fantasie le vengono in mente e non
appena si vede un poco impedita di essere bestia dell’azione, quale contro natura erompe, quali parossismi
di follia, quale bestialità dell’idea!” parole violentissime. L’uomo rimuove la componente animale ella
propria natura e questa componente animale della propria natura si sfoga contro di lui in termini di
bestialità ideale. La crudeltà diventa interiore, la violenza diventa spiritualizzata, ma resta sempre violenza
però, resta sempre repressione, resta sempre prigionia. Vi ricordate la metafora dell’uomo come una bestia
che cozza incessantemente contro le barrire della sua gabbia?
Poi N. diagnostica questa malattia che consiste nella negazione della vita, nel rendere la vita e la volontà di
vita espressione di qualcosa che deve essere represso, mortificato e cosi via.
Scrive: “Qui c’è malattia, non v’è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata sino a oggi nell’uomo- e
chi ancora riesce a udire come in questa notte di martirio e di assurdità ha echeggiato il grido amore, il
grido del più struggente rapimento, della redenzione nell’amore, si volge altrove, colto da un raccapriccio
incoercibile” Perché dice N: ma come è possibile parlare di amore quando siamo in presenza di un esercizio
raffinato, implacabile della più atroce crudeltà? Eppure dice N., il cristianesimo è riuscito esattamente a far
passare questa crudeltà contro l’uomo come amore nei confronti dell’uomo. qui N. parla dei vangeli ma
parla anche forse soprattutto delle lettere di San Paolo che innesta l’amore cristiano su una teologia del
peccato e dell’espiazione, espiazione che però resta impossibile. C’è l’idea di una colpa che non può mai
essere redenta, non può essere mai espiata. Allora dice N, com’è possibile che una religione che mortifica
l’uomo possa essere considerata una religione dell’amore per l’uomo. Ecco perché parla di notte di martirio
e di assurdità. E poi finisce: “già troppo a lungo la terra è stata un manicomio” cioè è come se N. cercasse di
dare un senso a quello che gli appare come un enorme controsenso.

Paragrafo 23.
Qui N. si sofferma sulla religiosità propria invece dei greci che contrappone al tipo di religione
rappresentata dal cristianesimo e mostra come nei greci vi sia una concezione completamente diversa della
vita e delle relazioni tra l’uomo e le divinità.
Paragrafo che non vedremo insieme. Da leggere a casa.

Paragrafo 24
Negli ultimi due paragrafi N. cerca di tirare la fila del suo ragionamento che conclude con 3 interrogativi.
1)propriamente si sta qui erigendo un ideale oppure lo si sta abbattendo? Cioè, tu N. cosa stai facendo? Ti
stai limitando a distruggere oppure sotto questa tua smania di distruzione ci stai proponendo un nuovo
ideale? La risposta di N. è che non è possibile proporre un nuovo ideale senza distruggere i vecchi ideali, è
come se N. rifiutasse l’alternativa e ci dicesse che sta facendo contemporaneamente tutte e due le cose.
Non può essere affermato e creato un nuovo ideale senza distruggere gli ideali precedenti. Io vi ho
sicuramente menzionato quel capitolo dello Zarathustra intitolato “le tre metamorfosi dello spirito”: il leone
come condizione del fanciullo. Il leone gode nel distruggere, ma non perché la distruzione sia un fine in sé,
ma perché la distruzione è l’unica possibile condizione per una nuova creazione, per creare al meno le
possibilità che sia dia una nuova creazione, una nuova civiltà, una nuova forma di vita.
“ma vi siete mai chiesti a quanto caro prezzo si è fatto pagare l’innalzamento di ogni ideale sulla terra?
cioè, non sono solo io che proponendo un nuovo ideale voglio distruggere gli altri, ma qualunque nuovo
ideale si è costruito sulle rovine dei precedenti valori/ideali. “Quanta realtà dovette sempre essere, a tale
scopo, calunniata e disconosciuta, quante coscienze sconvolte, quanta divinità sacrificata ogni volta?
Affinché un santuario possa essere eretto, un santuario deve essere ridotto in frantumi: è questa la legge”.

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Ora N. porta il discorso direttamente sugli uomini moderni. Come vedete lui stesso si considera un uomo
moderno, quindi N. stesso si considera alla fine un animale malato. “Noi uomini moderni siamo gli eredi di
una millenaria vivisezione della coscienza e di una tortura da bastie rivolta contro noi stessi” le pulsioni
animali della crudeltà e della violenza le abbiamo dovute indirizzare contro di noi. “Abbiamo in tutto ciò il
nostro più lungo esercizio. Troppo a lungo l’uomo ha considerato le sue tendenze naturali con un cattivo
sguardo” cioè ha considerato tutto ciò che faceva parte della sua vita animale come un peccato, come una
colpa “cosicché queste (le tendenze naturali dell’uomo, quelle legate alla sua corporeità e alla sua
istintualità) hanno finito per congiungersi strettamente con la cattiva coscienza” Ed ecco allora che N.
comincia a porre la seconda domanda:
2)Sarebbe in sé possibile un tentativo opposto, vale a dire quello di congiungere indissolubilmente con la
cattiva coscienza le tendenze innaturali? Cioè finora l’uomo ha condannato come peccaminose tutte quelle
forme di godimento e di piacere legate alle pulsioni corporee. Perché non proviamo a fare l’esperimento
opposto, dice N? perché al posto di sentirci in colpa per le pulsioni naturali che abbiamo non cominciamo a
rendere spregevoli tutti quei valori e quegli istinti che negano la vita? “tutte quelle aspirazioni al
trascendente, anti-senso, all’anti-istinto, all’anti-natura, all’anti-animale, insomma gli ideali esisti sino a
d’oggi, che sono tutti quanti ideali ostili alla vita, ideali calunniatori del mondo”. Ma qui appunto allora si
pone il problema: “a chi rivolgersi oggi con tali speranze e rivendicazioni? […] ci vorrebbe, per quella meta,
una specie di spiriti diversa da quelli che sono proprio in quest’epoca verosimili” cioè dice N: i miei
contemporanei non sono pronti per fare questa operazione di rovesciamento dei valori. “spiriti fortificati
da guerre e vittorie, per i quali la conquista, l’avventura, il pericolo, il dolore sono diventati addirittura un
bisogno […] ci vorrebbe appunto questa grande salute”
La grande salute è la metafora nietzschiana per l’amore della terra, dell’al di qua, l’amore del corpo,
l’amore della vita per come la vita è fatta nella realtà, quindi come gioia, desiderio, godimento ma anche
inevitabilmente dolore e sofferenza. Non si può volere una cosa e non volere l’altra cosa.
Questa incapacità di accettare la vita in quella che N. considera la sua tragicità, ieri abbiamo visto la
compresenza degli opposti, vita-morte, gioia-dolore. Questa incapacità di sostenere la vita ha prodotto il
nichilismo occidentale e ha prodotto la diffusione della religione cristiana.
Allora voi qui dovete ricollegare questa dissertazione con quello che abbiamo visto nella prima
dissertazione: chi non è capace di accettare la vita prova risentimento nei confronti della vita, prova odio
nei confronti della vita. E chi è che prova odio nei confronti della vita? I poveri, i malati, i deboli, i plebei,
morale del gregge. Risentimento. Quindi inversione dei valori tra morale del gregge e morali aristocratiche.
Vi ricordate? All’opposizione buono-cattivo subentra quella buono-malvagio. Questo è il punto dove noi
dobbiamo ricollegare la seconda dissertazione alla prima dissertazione. Nella prima dissertazione N. mostra
l’elemento plebeo come elemento che rovescia i criteri di valori aristocratici a partire da uno spirito di
vendetta che N. definisce come risentimento. Lo spirito di vendetta è lo spirito provato da chi non è in
grado di accettare la vita e di volere la vita.
Ora qui N. alla fine della seconda dissertazione ci sta dicendo: è possibile immaginare un rovesciamento di
questa morale plebea? Cioè è possibile riaffermare la vita dopo due millenni di negazione e diffamazione
della vita? Questo è il problema.
Allora abbiamo una prima domanda che è legata alla questione se N. stia distruggendo o costruendo. E N.
dice che sta facendo entrambe le cose, perché sono ambedue strettamente necessarie.
La seconda domanda è: chi potrebbe operare questa trasformazione? A chi rivolgersi oggi con tali speranze’
e qui N. si guarda intorno e non vede nessuno che sia in grado. Ed ecco allora che N. è costretto a rinviare la
soluzione del problema ad un indeterminato futuro che la sua filosofia ha il compito di preparare.
Ci vorrebbe, dice N., una grande salute, cioè una grande forza, un grande coraggio, e una grande capacità di
affermazione della vita in tutti i molteplici aspetti che la contraddistinguono. Ma questa grande salute è
anche soltanto possibile pensarla oggi? “Eppure in un qualche tempo, in un’età più forte, dovrà pur
giungere a noi l’uomo redentore”
Redentore: N. usa uno dei termine chiave della religione cristiana attribuendo a questo termine un
significato radicalmente non cristiano perché il redentore di N. da che cosa ci deve redimere? Secondo N. ci
deve redimere, cioè liberare una volta per tutte, dall’idea cristiana della redenzione.
Ecco allora il carattere paradossale e provocatorio del linguaggio nietzschiano, è un uso ai limiti della
parodia, con cui N. vuole affermare il proprio messaggio anticristiano, riqualificando proprio alcuni termini

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chiave usati dalla religione e dalla teologia del cristianesimo. E proprio perché usa gli stessi termini che
l’operazione risulta, almeno nelle intenzioni di N. ancora più violenta e più sconcertante, cioè deve
letteralmente provocare uno shock nel suo lettore. È chiaro che per noi questo shock è molto meno
potente di quello che poteva provocare a un lettore contemporaneo di N. Non a caso a partire dall’ultimo
decennio dell’800 si sviluppa in tutta Europa un vero e proprio culto di N.
Poi N. definisce questo uomo redentore: “uomo del grande amore e disprezzo” e anche questo deve essere
chiaro. Cosa vuol dire uomo del grande amore e disprezzo? Disprezzo nei confronti dell’uomo del presente
che ha fatto di tutto per abbassarsi, denigrarsi e modificarsi, però al tempo stesso grande amore per ciò che
l’uomo nonostante tutto racchiude in termini di potenzialità, i termini di possibilità. Quindi dice N. che noi
dobbiamo amare nell’uomo non ciò che è, ma ciò che può ancora diventare, ciò in cui si può ancora
trasformare.
“Lo spirito creatore, colui la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà” (Qui
N. sta parlando di se evidentemente) mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo
inabissarsi nella realtà, affinché un giorno possa produrre la redenzione di questa realtà”.
Inabissarsi, sprofondarsi nella realtà per poter un giorno riemergere dalla realtà e portare un messaggio di
redenzione, non come quello del cristianesimo, redenzione dalla realtà, fuga in un'altra vita, attesa in un
futuro migliore, no! Non più redenzione dalla realtà ma redenzione della realtà. E’ la vita che deve essere
riscattata dalla maledizione di cui è stata fatta oggetto i duemila anni di cristianesimo. La sua redenzione,
(cioè la redenzione della realtà) dalla maledizione che ha posto su di essa l’ideale esistito sino ad oggi.
Quest’uomo dell’avvenire. Ecco qui esplicitato l’orientamento al futuro. Che ci redimerà tanto dall’ideale
perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso (cioè il nichilismo, al negazione della vita),
dal grande disgusto, dalla volontà del nulla (Schopenhauer, noluntas), dal nichilismo, questo rintocco di
campane del mezzodì e della grande decisione. Questo rintocco di campane del mezzodì e della grande
decisioni rinvia a “Cosi parlò Zarathustra”. Per N. il mezzogiorno, cioè l’ora in cui il sole è più alto, la
giornata è più luminosa, l’ombra è ridotta al suo minimo; questa condizione di piena luminosità è per N. il
simbolo delle decisione intesa proprio nel senso etimologico di svolta e di taglio radicale rispetto a tutto ciò
che precede. Decidere vuol dire tagliare, recidere, rompere i legami con il nostro passato e proiettarsi
finalmente verso un futuro radicalmente nuovo. Lo spirito, da cammello divenuto leone, si trasforma
finalmente nel fanciullo innocente simbolo della vita e del suo interminabile divenire.
“il quale nuovamente affranca la volontà (cioè la libera), restituisce alla terra la sua meta (cioè fa della terra
la meta, non cerca fini e riscatti altrove, ma è capace finalmente nel vivere nell’immanenza radicale della
realtà) e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e anti nichilista, questo vincitore di Dio e del nulla”
Anticristo: è il titolo che N. darà ad uno dei suoi ultimi libri.
Badate bene, N. non affianca a caso i termini “Dio” e “nulla”, perché secondo lui Dio è prodotto nel
nichilismo, Dio è la proiezione di una negazione nichilistica della vita. Non sono due cose opposte, Dio è
l’espressione del nulla e il nulla trova in Dio la sua conferma perché ambedue questi concetti segnalano un
medesimo movimento: il movimento del nichilismo attraverso cui l’uomo si è sentito in colpa per il fatto di
essere vivo, per il fatto di essere dotato di un copro, di pulsioni e di desideri. Ora tutto questo, dice N., deve
finire, ora questo uomo dovrà un giorno venire

Paragrafo 25:
in questo paragrafo N. fa un riferimento esplicito alla figura di Zarathustra e quindi ricollega la Genealogia
della morale al libro Così parlo Zarathustra (1883-1885) dove appunto Zarathustra è considerato il maestro
del superuomo e dell’eterno ritorno, e dove appunto Zarathustra è anche colui che annuncia e definisce le
nuove tavole dei valori in base alle quali sarà condotta la vita dell’oltre uomo. Le nuove tavole dei valori
sono le tavole della volontà di potenza come affermazione e accettazione della vita, e quindi si
contrappongo alle antiche, alle vecchie tavole dei valori basate sulla negazione della vita e sul disprezzo
della volontà.

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15 aprile
Domanda sullo schema del capitolo 8 di Freud: noi abbiamo detto che c’è un legame empatico tra gli
individui della massa, però con il leader no.
Prof: noi abbiamo detto che ci sono due tipi di identificazione, una identificazione è di tipo orizzontatale e
riguarda il rapporto empatico che lega fra di loro i membri della massa e questo legame empatica risponde
all’esempio che Freud fa quando parla delle compagne di collegio che si identificano con una delle loro
amiche che ha una crisi isterica a causa di una relazione amorosa infelice con un giovane che le altre non
conoscono ma attraverso una d’identificazione empatica vivono le stesse emozioni come se fossero
direttamente coinvolte nella vicenda amorosa che invece riguarda una delle loro amiche. In questo caso
però abbiamo appunto una relazione che consolida i rapporti emotivi tra persone che sono sullo stesso
piano perché si tratta sempre di ragazze che studiano e che sono compagne all’interno di una scuola.
Quindi legame empatico indica una identificazione orizzontale. Es. di identificazione di questo tipo è la folla
di uno stadio dove gli individui indipendentemente da quello che fanno nella vita privata si comportano
come tutti gli latri, urlano le stesse frasi, fanno gli stessi gesti di tutti coloro con cui si trovano a guardare la
partita.
Nel caso del leader l’identificazione è di altro tipo, riguarda il tipo di identificazione che si crea tra il
bambino e suo padre. Quindi non è una identificazione di tipo empatico, perché io ho empatia con chi
riconosco uguale a me, nel caso del leader abbiamo invece una identificazione di tipo verticale perché il
leader occupa, dice Freud, il posto che normalmente dovrebbe occupare l’ideale dell’io, cioè non è oggetto
di una solidarietà e di una condivisione come quella che avviene nell’esempio di Freud fra le compagne di
scuola o nell’esempio banale del prof dei tifosi di una squadra che vanno ad una partita. No, nel caso del
leader l’identificazione è bastata u una differenza perché il leader rappresenta l’ideale a cui gli individui
aspirano, che ammirano, in cui riconoscono un modello, un archetipo, quello che loro vorrebbero essere e
dunque manifesta una differenza, non una identità, una divario, non una uguaglianza. E Freud dice:
attenzione perché questa è una identificazione di tipo diverso rispetto a quella orizzontale perché qui il
posto, la funzione svolta dal leader è quella dell’ideale, non è quella dell’io con cui io ho a che fare
quotidianamente, non è l’identificazione con altre persone che considero uguali a me. Perché non è
l’identificazione con una persona, ma con il ruolo che questa persona esercita e in questo senso, dice Freud,
il fatto che gli individui riconoscano nel leader il medesimo ideale per tutti loro, è esattamente questo che
da struttura al legame della massa, cioè Freud ci dice: attenzione perché ci sono delle masse temporanee
(le folle che si riuniscono per una manifestazione o per una partita di calcio) ma ci sono anche le masse
strutturate (le masse come quelle che si sarebbero affermate sotto il nazismo o il fascismo) quelle hanno
bisogno di una figura permanente che renda costantemente attivo, che renda costantemente vivo l’unità
della massa che altrimenti si disperderebbe, cosi come si disperde alla fine di una partita di calcio o di una
manifestazione. Allora dice Freud, il leader perché è in grado di tenere unite delle masse nel corso del
tempo? Perché il leader non occupa la posizione dell’io ma dell’ideale, cioè svolge una funzione di tipo
simbolico e questo fa si che essendo tutto unificati dal riferimento ad un unico ideale, attraverso questo
riferimento a un unico ideale, tutti i componenti della massa si sentono unificati in un'unica collettività, in
un'unica comunità, in un'unica nazione, in un unico partito e quindi senza leader è difficile che si crei una
massa strutturata e durevole nel tempo. Cosa cambia in altri termini? Ciascun bambino ha un ideale dell’io
che è diverso da quello degli altri perché ciascuno ha una mamma e un papà. Ogni bambino ha nel proprio
padre il suo ideale dell’io. Questo fa si che ciascun individuo si strutturi una personalità diversa da quella
degli altri perché gli stadi dello sviluppo sono gli stessi ma avvengono poi diversamente in rapporto alle
diverse condizioni familiari, alle diverse situazioni e alle diverse esperienze concrete del bambino. Nella
massa è come se ci fosse un unico padre di cui tutti gli individui si ritengono figli, come se tutti gli individui
della massa fossero i fratelli che si riconoscono figli di un unico e stesso padre. Come nell’orda primitiva di
cui parla Freud, i fratelli dell’orda. L’orda primordiale è questo gruppo unito a partire dal potere dispotico di
un padre. Allora, se l’ideale dell’io è uno per tutti è chiaro che questi individui hanno come modello di
individuazione lo stesso modello, non hanno diversi ideali. È a partire dalla diversità degli ideali che gli

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esseri umani costruiscono dei percorsi diversi di costruzione della personalità. Quando l’ideale è
impersonato da un'unica figura è chiaro che tutti gli individui tendono ad assimilarsi ad uno stesso ideale e
quindi a diventare uguali gli uni con gli altri. Quindi il rapporto di identificazione ideale con il leader fa si che
si cimentino delle relazioni di identificazione fra l’individuo e tutti gli altri componenti della massa. Ecco il
rapporto allora tra identificazione orizzontale e identificazione verticale e perché è importante che Freud
insista nello schema a dire: guardate che l’oggetto esterno, quello che sta a destra rispunta alla fine come
ideale comune di tutti gli io che nello schema sono a metà e sono legati gli uni con gli altri perché sono presi
nel rapporto tra il leader come figura fisica e la sua proiezione simbolica come ideale, unico e medesimo
per tutti gli io che compongono la massa. E quindi in quanto tendono ad identificarsi a riconoscere nella
stessa persona un loro ideale, si riconoscono anche come egualmente sottomessi, cioè come eguali,
rispetto a tutti gli altri componenti della massa, che poi si può qualificare, ripeto, come comunità, come
nazione, come gruppo, come classe, come ceto, come popolo. Ma il meccanismo è sempre lo stesso: io
perdo una identità personale e assumo l’identità che hanno tutti gli altri. È per questo che poi Freud fa il
riferimento alla massa primitiva, cioè all’orda e dice che i fenomeni di massa sono fenomeni di tipo
regressivo, perché riproducono una situazione che esisteva agli allori della civiltà, quando nell’ipotesi di
Freud, tutti componenti del gruppo erano unificati dal timore e dl terrore nei confronti del padre dispotico
che proprio perché al tempo stesso era il depositario del potere, della forza e cosi via, rappresentava anche
il loro ideale però.

Domanda che permette anche di mettere in luce i rapporti fra quello che sostiene Freud e quello che
abbiamo letto nel caso di N: quando N. parla del debito che le comunità umane sentono nei confronti dei
loro predecessori, N. anticipa, prefigura un modello di spiegazione che verrà poi sviluppato da Freud.

Allora noi oggi dovevamo integrare la lettura con quei brani che no avevamo letto perché risultano in realtà
più chiari una volta che abbiamo completato il percorso della seconda dissertazione. Allora, in questi primi
paragrafi Nietzsche pone a tema il problema della dissertazione e sostanzialmente si chiede come è
possibile fare dell'uomo, dell’essere umano, che inizialmente è un vivente che opera in modo analogo a tutti
gli altri animali e quindi è privo di memoria, vive secondo i suoi istinti e per soddisfare i propri bisogni man
mano che sente la fame, la sete, lo stimolo sessuale e così via. Vive nell’immediatezza, non in una continuità
temporale, non ha ricordi, ha solo riflessi. N. si chiede: ma come è possibile fare di un essere umano, che
condivide una condizione di tipo animale, un essere capace di ricordare e quindi di prendere impegni e di
rispettare gli impegni che ha preso. Nietzsche formula questo tema con una domanda: com'è possibile per
l'uomo diventare un essere capace di fare promesse? Che cos’è una promessa? La promessa è una parola
data a persone diverse da noi, con le quali ci impegniamo a fare qualcosa (dal bambino che promette al suo
amico di dare la figurina, alla promessa di matrimonio con cui due fidanzati consolidano la loro relazione).
La promessa implica l'assunzione di un impegno che prevede una durata nel tempo e che, dunque, impegna
il futuro, non solo il presente. È una sorta di vincolo attraverso cui il soggetto esercita un dominio sul tempo
perché anticipa quello che sarà in un momento futuro: quando qualcuno promette è come se dicesse al
futuro “guarda che io so già quello che dovrà accadere perché sono io padrone delle mie azioni e quindi
decido io in che modo dovrò vivere, indipendentemente da quello che potrà accadere un domani”. Quindi
N. dà alla promessa un significato conforme alla sua teoria della volontà di potenza. La promessa, nel senso
nobile e aristocratico di questo termine, è l'espressione di un uomo che vuole imporre la propria volontà al
tempo e che vuole proiettare il proprio dominio non soltanto sul presente ma anche sul futuro. Questo è
promettere ma io non potrei promettere se fossi privo di memoria perché se fossi privo di memoria
dimenticherei immediatamente quello che ho detto di promettere. Se io prometto una cosa a qualcuno e
domani mi sono dimenticato completamente di quello che gli ho detto, è chiaro che è come se io non gli
avessi promesso niente perché per me quello che ho detto ieri non esiste più. Quindi dal mio punto di vista
mi sentirei libero di fare quello che voglio, ma l’altra persona a cui ho fatto la promessa, se si ricorda quello

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che io gli ho promessa, non sarebbe d’accordo con il mio comportamento perché riterrebbe la mia
promessa un impegno che io ho contratto nei suoi confronti.
Allora, è chiaro che quando Nietzsche parla della promessa, della parola data, della capacità di assumere e
di rispettare determinati impegni, beh Nietzsche parla della premessa e della condizione fondamentale che
sta alla base di ogni società, di ogni organizzazione sociale. Perché è chiaro che se gli uomini in tutto quello
che dicono dicessero qualcosa che poi non rispettano, perché si dimenticano di averlo detto, beh questo
renderebbe assolutamente impossibile ogni legame sociale perché renderebbe impossibile ogni continuità e
ogni fiducia, nessuno potrebbe veramente contare sulla parola dell’altro e quindi non si potrebbero istituire
relazioni sociali capaci di durare nel tempo. Allora il problema di Nietzsche diventa: ma come è possibile
costruire nell'uomo una capacità che di per sé non esiste in natura, la capacità di ricordare e, quindi, la
possibilità da parte degli altri di richiamare alla parola data, al rispetto degli impegni assunti, coloro i quali
dicono una cosa e poi però vorrebbero farne un'altra.
Allora collegato al tema della memoria, che è la condizione per poter fare promesse e mantenere degli
impegni, per dare una continuità ai propri comportamenti e per stabilire relazioni di fiducia reciproca con gli
altri, quindi, il rapporto fra la capacità di fare promesse e di assumere impegni e la capacità di ricordare la
promessa, gli impegni che si sono assunti. Quindi il tema della promesa che vincola il futuro è strettamente
collegato alla capacità di ricordare ciò che abbiamo fatto nel passato. La memoria è condizione per la
possibilità della promessa e non ci sarebbe capacità di promettere senza capacità di ricordare.
Ora, questa combinazione tra memoria e promessa è alla base, secondo N., del concetto di responsabilità
sui qui ci siamo già soffermati. “respondeo” = risposta, rispondere di ciò che diciamo e di ciò che facciamo.
Io non posso rispondere , cioè assumermi la responsabilità di qualcosa che non ricordo di aver detto o fatto.
E a tutt’oggi voi sapete che le persone che vengono ritenute incapaci di intendere e di volere, non possono
essere considerate responsabili di quello che fanno, quindi c’è anche un problema di tipo giuridico, rispetto
alla punibilità di queste persone. Ora però nel momento in cui io assumo che gli uomini sappiano ricordare
e quindi possano promettere, allora in questo caso io costruisco degli animali che non sono più
semplicemente degli esseri che vivono a seconda del bisogno e dello stimolo presente, costruisco degli
esseri capaci di responsabilità cioè capaci di rispondere di quello che fanno. Cioè costruisco degli essere a
cui attribuisco la capacità di decidere come comportarsi, a cui attribuisco la capacità di scegliere fra linee di
azioni differenti e quindi a cui attribuisco la capacità di decidere come comportarsi, a cui attribuisco la
capacità di scegliere fra linee e di azione differenti e quindi a cui attribuisco la capacità di rispondere cioè di
assumere appunto la responsabilità delle loro azioni.
Allora costruisco dei soggetti responsabili che si considerano, e che la società considera, come autori delle
proprie azioni, come causa dei propri comportamenti. Ora è chiaro che, solo a partire da questo momento,
può subentrare nella storia dell'umanità, il concetto di colpa.
Il concetto di colpa può essere applicato solo su qualcuno che è considerato autore delle proprie azioni e
quindi quando questo soggetto, autore delle proprie azioni, compie qualcosa di vietato dalle norme della
propria comunità, può essere ritenuto colpevole di quello che ha fatto e quindi può essere ritenuto soggetto
di giusta punizione.
Ecco che nasce allora il concetto di un rapporto fra l’idea di colpa e l’idea di pena. La pena che cos’è? è la
giusta punizione inflitta a qualcuno che si è reso colpevole di qualcosa. Il concetto di pena e il concetto di
punizione sono concetti correlati perché la pena è ciò che viene subito dal colpevole, mentre la punizione è
l’equivalente della pena inflitta al colpevole dalla società o da chi è stato offeso dal colpevole stesso. Ora
come vi dicevo, Nietzsche gioca sul doppio senso della parola “colpa” (schuld) che in tedesco ha due
significati fondamentali: ha il significato morale e giuridico che noi esprimiamo con la parola “colpa”, ma ha
anche il significato economico e commerciale che noi esprimiamo con la parola “debito”.
Allora l’originalità della teoria di Nietzsche è che il senso originario della parola schuld, che noi traduciamo
con “colpa”, è il significato economico e commerciale, cioè la colpa in senso morale, altro non è che la
trasposizione all’ambito etico, dell'idea economica e mercantile della parola “debito”. Quindi questa è la
derivazione, c’è un’origine economia e commerciale, che poi attraverso i vari processi che abbiamo studiato

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la scorsa settimana viene interiorizzato e diventa colpa. La nascita quindi dei concetti morali e giuridici ha
un’origine di tipo economico legata alle relazioni dello scambio di beni materiali.

In questi testi iniziali, Nietzsche, però, introduce un altro elemento. Allora abbiamo detto che la colpa
presuppone la responsabilità ed è appunto la responsabilità che permette l’applicazione di pene e di
punizioni nei confronti di chi si è dimostrato colpevole di qualcosa. Ora, tutti i filosofi, a partire dall’antichità,
hanno pensato, secondo N., che questo fosse il concetto originale, cioè che l’uomo fosse per natura
responsabile e quindi soggetto a pene e a punizioni. Nietzsche rovescia invece completamente questo
discorso. Dice: guardate che all’inizio della storia umana, il problema non era quello della colpa e della
responsabilità, il problema era semplicemente quello di garantire che nei rapporti commerciali, se c’era
qualcuno che non onorava, manteneva i suoi debiti, questo qualcuno venisse punito. Ma qual era il senso
della punizione dice N.? Era legato al fatto che il debitore dissolvente venisse considerato moralmente
colpevole? Dice N, assolutamente no. Il debitore veniva messo a disposizione del creditore, per permettere
al creditore di esercitare sul debitore, la sua superiorità e, quindi, per esprimere nei confronti di qualcuno
posto in condizione di inferiorità, la propria volontà di potenza. In altri termini, la relazione originaria fra
debitore e creditore era funzionale all’esercizio di una crudeltà da parte di chi era in condizione di
superiorità (il creditore) nei confronti di chi veniva a trovarsi in una condizione di inferiorità, cioè il debitore
insolvente. Allora N. dice che alle origini dei concetti morali, ci sono delle ragioni completamente diverse da
quelle che ci vengono raccontante dalla morale e dalla religione. All’origine dei concetti morali non c’è
nient’altro che la volontà di potenza e la gioia di dimostrare la propria superiorità nei confronti di qualcuno
che viene messo a nostra totale disposizione. Questo esercizio incondizionato della volontà di potenza, nei
confronti di qualcuno che viene messo a disposizione di qualcun altro, è la crudeltà, che è l’esperienza
rimossa da tutta la filosofia morale e da tutta la teologia dominante che hanno letteralmente rimosso
questo istinto primordiale dell'umanità che è appunto la crudeltà. Nietzsche dice: dobbiamo riconoscere
questo elemento brutale e selvaggio che sta all’origine di tutti i nostri concetti morali, dobbiamo riconoscere
questo elemento brutale e selvaggio che sta all’origine di tutti i nostri concetti morali, dobbiamo riconoscere
che nella crudeltà si esprimevano, nelle fasi originarie della storia umana, tutti quegli impulsi alla gioia e al
godimento della propria superiorità che con lo sviluppo della civiltà cos’hanno fatto? N: su questo dice
esattamente le stesse cose di Freud non sono spariti, si sono spiritualizzati, si sono interiorizzati. Vi
ricordate i brani che abbiamo visto nell’ultima lezione? Al posto di esercitare la propria crudeltà all’esterno,
contro altri, l’uomo la esercita ora contro se stesso sotto forma di cattiva coscienza e di coscienza di colpa.
Allora per questo abbiamo commentato alla fine, perché vedete, il percorso di N. è un percorso molto
rigoroso ma che emerge nella sua chiarezza solo avendo presente la totalità del suo discorso. Per cui se noi
leggiamo queste pagine senza aver chiaro dove “N. vuole andare a parare” richiamo di perderci, di non
capire perché prima parla della promessa, poi della responsabilità, poi della crudeltà, poi divaga, parla di
altro, torna a parlare dell’uomo che viene inserito all’interno di relazioni sociali e poi finalmente riprende il
discorso sul senso di colpa. Ecco, in realtà questo è un filo che si tiene e che dimostra come N. voglia
veramente operare un sovvertimento dei valori dominati, dominanti soprattutto nella sua epoca, ma che
sono presenti tutt’ora, benché in crisi, alla base della convivenza civile, perché anche noi stipuliamo dei
contratti, anche noi abbiamo dei codici di leggi che prevedono reati, che prevedono il riconoscimento di
colpevolezza e le erogazioni di pene e di punizioni.
Allora, perché Nietzsche vuole far emergere questi strati di crudeltà, di brutalità e violenza? Perché ritiene
che solo riconoscendo queste origini materiali e naturali, sia possibile rispondere alla crisi morale dell'età
moderna. Risalendo alle origini della morale, è possibile, secondo N., reindirizzare quelle energie e quegli
impulsi, che sono stati all’origine della morale, in una direzione diversa. E qui torniamo ad un altro aspetto
della filosofia di N che abbiamo già affrontato, cioè l’idea che la morale, nella veste che ha assunto
attraverso il cristianesimo e la democrazia, sia in realtà l’espressione di un rifiuto della vita, sia l’espressione
di un disprezzo del corpo.
E qui possiamo ricollegare anche alla prima dissertazione: la morale è l’espressione del risentimento e dello
spirito di vendetta che i ceti inferiori provavano nei confronti dei ceti superiori. La plebe contro la nobiltà

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guerriera, i poveri e i malati contro i sani, i ricchi. E’ chiaro che N. qui crea delle tipologie che hanno il
compito però di mettere in evidenza come nella morale del cristianesimo e delle moderne democrazie, si
cela, in realtà, un impulso di negazione della vita, non di affermazione, di paura della vita, non di amore.
Amare la vita significa accettare della vita anche gli aspetti più dolorosi e per certi versi più crudeli. Allora se
noi andiamo alla radice della morale, se scopriamo che alla base della morale c’è una determinata direzione
della volontà di potenza, una direzione, che per le ragioni che N. spiega, si è diretta contro se stessa, contro
la vita, contro l’affermazione, contro l’accettazione dell’esistenza, ecco, se capiamo questo possiamo
utilizzare quelle risorse, quelle energie, che l’uomo ha impiegato contro se stesso, possiamo utilizzare
queste energie e queste forze in un senso diverso, secondo il modello, cioè, delle civiltà antiche in cui
l’uomo viveva per affermarsi, per esprimersi, per creare, non per punirsi, non per attendere una vita
migliore nell’aldilà. E’ un po’ questa la logica complessiva che spiega anche perché N. usi molti concetti in
maniera ambivalente. Per il prof questa ambivalenza nell’uso dei concetti da parte di N. emerge soprattutto
attorno al tema della responsabilità perché è chiaro che per N. ci sono due modi di intendere la
responsabilità: c’è un modo plebeo (quello che abbiamo ricostruito fino ad ora) dove vediamo che la
responsabilità rende l’uomo suscettibile di punizioni e di pene. Quindi da questo punto di vista, il concetto
di responsabilità è un concetto che serve a sottomettere l’uomo, a rendere l’uomo soggetto a determinate
legge, a determinati valori e quindi alle classi che amministrano e decidono questi valori.
Nel momento in cui però l’uomo diventa responsabile, cioè capace di promettere, dice N: beh, l’uomo
acquisisce una capacità che lo può spingere anche ad una liberazione. Allora la responsabilità assume un
significato diverso, non è solo un concetto che serve a sottomettere l’uomo ai codici della morale, del diritto
e della religione, non è, in altri termini, solo un concetto che serve ad instillare il senso di colpa, ma la
responsabilità diventa anche la capacità da parte dell'uomo di prendere direttamente il controllo della
propria esistenza e quindi di svincolarsi dai rapporti di subordinazione in cui è vissuto sino ad oggi.
Ecco allora che la condizione di subordinazione e di disciplinamento, la capacità di fare promesse, emerge
come espressione positiva di una volontà di potenza capace di imporsi sul mondo esterno.

Alla fine di questa dissertazione abbiamo detto che N. parla di grande salute, parla dell’uomo dell’avvenire,
fa riferimento a Zarathustra (che per N: è il maestro del super uomo e dell’eterno ritorno). Ecco, se noi
leggiamo l’inizio di questa dissertazione vediamo che, quando Nietzsche parla della promessa, beh N. da un
senso positivo alla capacità di promettere perché la promessa è anche una grande potenzialità. La capacità
di promettere, che è costata tanta fatica e crudeltà, però è anche una capacità che può spingere l’uomo ad
andare oltre l’uomo.

Proviamo a leggere allora alcuni passi

Paragrafo 1 (pag. 46
“Appunto questo animale necessariamente oblioso, si è ora plasmato con l’educazione una facoltà
antitetica, una memoria, mediante la quale in determinati casi l’oblio viene sospeso (cioè la dimenticanza
che è la condizione normale viene bloccata) – in quei casi cioè in cui si tratta di fare una promessa (nesso tra
memoria e capacità di fare promesse): è quindi in gioco non già una semplice impossibilità di liberarsi
nuovamente dell’impressione una volta incisa (cioè, non è una incapacità di dimenticare una brutta
esperienza o un brutto ricordo. Sarà capitato a tutti di volersi dimenticare di qualcosa che torna invece a
tormentarci. Non è questa la memoria di cui l’uomo diventa capace quando decide di fare una promessa, è
una memoria che l’uomo vuole fermare, cioè un esercizio di potenza, è l’affermazione di una forza che
contrasta la tendenza all’oblio). In questi casi sostiene N. è in gioco “un attivo non voler tornare a liberarsi
(cioè voglio ricordarmi di ciò che ho detto e di ciò che mi sono proposto), un continuare ancora a volere
quel che si è voluto una volta (formulazione fondamentale perché voi vedete che qui N. allude alla sua
teoria dell’eterno ritorno “Continuare ancora a volere quel che si è voluto una volta = quel che io volevo ieri
confermo di volerlo anche oggi e al tempo stesso anticipo la mia volontà di domani. Quindi domino il flusso
del tempo, rendo il tempo subordinato alla mia volontà, alla mia decisione. In questo senso allora, la

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promessa è esercizio della volontà di potenza perché è la riaffermazione di sé, del proprio volere e del
proprio decidere. “Una vera e propria memoria della volontà” quindi non è, ripeto, l’incapacità di
dimenticare qualcosa di sgradevole ma è un voler ricordare e un voler continuare a ricordare.

“Cosicché tra l’originario io voglio, io farò (cioè fra l’atto della volontà, tra il proporsi di fare qualcosa e…) e il
caratteristico scaricarsi della volontà, il suo atto, può essere agevolmente interposto un mondo di nuove
cose sconosciute, di circostanze e persino di attivi volitivi, senza che questa lunga catena del volere abbia a
incrinarsi”. Come definireste la nascita di questo nuovo fenomeno descritto da N.? vi viene in mente una
parola con cui potrebbe definirsi? Il prof la definirebbe come la nascita del carattere, della personalità. La
personalità, in questo caso, non è l’effetto puro e semplice di una serie di imposizioni ma è il risultato di
un’espressione positiva della propria forza di volontà. Infatti, N. dice: “senza che questa lunga catena del
volere abbia a incrinarsi”: l’uomo si crea un carattere in grado di dare ordine e forma ai propri istinti e alla
propria esperienza. Ma che cosa non presuppone tutto ciò? “Quando deve aver prima imparato, l’uomo, per
disporre anticipatamente del futuro, quanto deve aver prima imparato a separare l’accanimento necessario
da quello causale, a pensare secondo casualità (cioè secondo relazioni costanti), a vedere e ad anticipare il
lontano come presente (vede, ancora una volta dominio sul tempo. Vedo il futuro come se fosse già
presente perché lo anticipo nel pensiero), a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in generale
quel che è scopo e quel che è mezzo”: vedete, l’uomo diventa capace di orientare il proprio comportamento
in senso razionale. “Quanto, a questo fine, deve prima essere divenuto, l’uomo stesso, calcolabile, regolare,
necessario (l’uomo è come se incorporasse in sé qualcosa di immutabile, di necessario), facendo altresì di se
stesso la sua propria rappresentazione”, cioè facendo si se un’idea. Ecco qui un altro collegamento con
Freud: non esiste costruzione di personalità senza delle idee di ciò che noi vorremmo essere, di ciò che noi
vogliamo diventare. Quindi, anche l’idea in questo ha una funzione positiva, anche l’ideale è qualcosa che
spinge l’uomo all’affermazione, non è qualcosa che serve per far sentire l’uomo colpevole ma è l’apertura di
una nuova possibilità, di nuovi percorsi di vita possibili. Ecco allora “per poter alla fine rispondere di se come
avvenire (in rapporto a ciò che noi saremo perché ora vogliamo diventare cosa saremo, vogliamo ora
decidere cosa saremo domani), allo stesso modo di uno che fa una promessa”. Ma allora è chiaro che qui la
promessa è l’idea di un oltre passamento dell’uomo, cioè di un uomo che sa promettere perché vuole
promettere, non perché è stato abituato ad obbedire a comandi dettati da altri, ma perché ora vuol
diventare il suo proprio comando e, quindi, l’espressione di una volontà che non è più estranea ma che è la
propria volontà. Però per fare questo è necessario cambiare tutti i valori dominanti della nostra civiltà, cioè
dobbiamo operare quella che N. chiamava la trasvalutazione di tutti i valori, allora anche la promessa
assumerà un significato diverso rispetto a quello che ha oggi: non sarà più vincolata all’idea morale della
responsabilità ma sarà legata alla capacità di affermare positivamente il proprio volere e di fare di sé una
promessa, capace di imprimersi sul futuro e oltre che sul presente. Allora questo primo paragrafo va
collegato con la fine di questa dissertazione.

Paragrafo 2
Ora tra questi due, però, momenti, N. sviluppa allora il suo discorso. Nel secondo paragrafo abbiamo
l’introduzione del concetto di responsabilità.
“Questa appunto è la lunga storia dell’origine della responsabilità” voi dovete ovviamente collegare quello
che io ho detto fino ad ora a questi testi. Perché io ho cercato di farvi una lezione come guida alla lettura di
queste pagine. Allora, dal fare promesse, alla capacità di ricordare, alla nozione di responsabilità.
“Quel compito di allevare un animale che possa fare promesse, implica in sé, come già ci siamo resi conto,
quale condizione e preparazione, il più immediato compito di rendere (cioè è opera di un esercizio, di una
educazione e di tutto ciò che questa educazione ha comportato in termini di violenza e di crudeltà)
dapprima l’uomo, sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di
conseguenza calcolabile”. Dice N.: questo però è l’inizio del percorso.
“Mettiamoci invece al termine dell’immenso processo”. Cioè all’inizio c’è stato un disciplinamento, una
massificazione, un’equiparazione = rendere l’uomo uniforme, uguale fra gli uguali. Ma questo dice N. è il
lavoro millenario che si è reso necessario, non perché l’uomo resti uomo, non perché l’uomo resti animale

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da gregge, ma, per andare oltre. Però l’idea di N. è che non dobbiamo buttare a mare tutto quello che la
civiltà ha costruito, dobbiamo oltre passare, non dobbiamo distruggere e basta, non dobbiamo ripristinare
una condizione animale di barbaria (come invece intendevano fare i nazisti). La civiltà deve essere oltre
passata in una nuova civiltà, non bisogna regredire ad una condizione da orda primitiva, per dirla come
Freud.
Mettiamoci invece al termine dell’immenso processo, là dove l’albero fa finalmente maturare i suoi frutti,
dove al società e la sua eticità di costumi (cioè la morale democratica che livella gli individui) porta infine
alla lice lo scopo per il quale esse fu unicamente il mezzo. Il cristianesimo e la democrazia ritengono di
essere il fine, no invece, sono stati soltanto il mezzo per plasmare l’animale uomo, in modo da rendere
possibile il suo oltre passamento verso il superuomo che qui è prefigurato in questi termini.
“troveremo l’individuo sovrano, l’individuo eguale soltanto a se stesso, nuovamente riscattato dall’eticità dei
costumi (cioè dalla morale corrente), autonomo, sovramorale, insomma l’uomo dalla propria, indipendente,
durevole volontà, al quale è consentito promettere”.
Ecco allora, la promessa non più come contrazione di un debito, non più come condizione per poter essere
giudicati colpevoli nel caso noi non la mantenessimo; la promessa diventa segno di aristocrazia perché
l’uomo a cui è consentito promettere, è l’uomo che vuole vincolarsi alla propria volontà e quindi non è da
tutti, dice N, promettere in questo senso, bisogna avere forza, energia, bisogna onorare la parola data e
quindi prendere sul serio quello che si dice.
“e in lui una superba coscienza, palpitante in ogni muscolo, di quel che ora finalmente è stato conseguito e
che è divenuto, in lui, carne e sangue, una vera consapevolezza di potenza e di libertà”.
Qui la libertà non è più intesa come facoltà di scelta, come libero arbitrio, ma la libertà è intesa come
esercizio spontaneo della propria potenza. La libertà è capacità di auto affermazione e la promessa, in
questo senso è una delle manifestazioni più alte della libertà come affermazione di potenza.
“Questo essere divenuto libero, che realmente può promettere, questo signore del libero volere, questo
sovrano- come non dovrebbe sapere quale superiorità abbia in tal modo a suo vantaggio su tutti coloro cui
non è lecito promettere” Allora qui N. identifica nell’individuo sovrano la prefigurazione del suo super uomo
e indica una distinzione tra individui capaci di volere e masse di soggetti incapaci di fare. Ma appunto per
quanto riguarda la nozione di responsabilità, guardate alla fine del paragrafo 2 “La superbia cognizione dello
straordinario privilegio della responsabilità” cioè qui la responsabilità è considerata come un privilegio, non
come un’imposizione. “La consapevolezza di questa rara libertà, di questa potenza sovra se stesso e sul
destino è discesa in lui sino al suo infimo fondo (più intimo del proprio essere) ed è divenuta istinto, istinto
dominante - quale nome darà a questo istinto dominante, ammesso che senta in se il bisogno di una aprila
per esso? Ma non v’è dubbio: questo uomo sovrano lo chiama la sua coscienza”. Allora, perfino il concetto di
coscienza è un concetto ambivalente perché, nella storia bimillenaria del cristianesimo, coscienza è
diventato sinonimo di senso di colpa e cattiva coscienza, ma nei ceti aristocratici dell’antichità e nella
prefigurazione del super uomo, coscienza assume un altro significato, cioè, consapevolezza della propria
libertà e del proprio diritto ad affermare la propria volontà. Quindi perfino la parola coscienza è, per N.,
legata ad un’ambivalenza, che rende perfino questo termine, disponibile per un nuovo impiego, che lo
emargina da questo nesso infernale che ha vincolato la coscienza all’idea di colpa e del necessario riscatto
che l’uomo si è costruito attraverso la sua religione. Non c’è colpa e non c’è riscatto e una nuova coscienza è
possibile se noi però oltrepassiamo la morale a cui siamo stati abituati per quasi due millenni.

16 aprile
Oggi completiamo la lettura dei brani che ci restano della seconda dissertazione.
Domanda: quando abbiamo parlato del fatto che nel cristianesimo il creditore, cioè Dio, assume le colpe del
debitore. Non ho capito bene questa parte.
Prof: sostanzialmente N. applica al cristianesimo la sua lettura del rapporto tra i concetti di debito e di
colpa. Nelle civiltà arcaiche secondo la sua ricostruzione, il debitore veniva punito dal creditore. N. sostiene

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che in una relazione normale, chi non onora i propri debiti, diventa punibile dal creditore, quindi c’è un
rapporto univoco, non c’è uno scambio di ruoli. Con il cristianesimo cosa succede? Che l’idea del debito si
interiorizza e diventa colpa. Allora, questo in realtà più che frutto del cristianesimo, è frutto dell’ebraismo,
l’uomo è considerato come colpevole del fatto di non avere obbedito al comandamento di Dio quando Dio
disse all’umo “guarda di non mangiare il frutto di quell’albero e resterai per l’eternità in paradiso”, l’uomo
ha disobbedito e da quel momento, secondo la religione ebraica, è entrato in una relazione i colpa nei
confronti di Dio che gli aveva donato la vita, quindi si è mostrato non riconoscente e dunque ha contratto
un debito non più di tipo materiale ma di tipo morale nei confronti di Dio. Di conseguenza la necessità da
parte dell’ebraismo, di fondare dei punti, di fare dei sacrifici in onore di Jhavè per placare l’ira che
comunque Dio, nel corso della storia del popolo ebraico, poi ha manifestato in più riprese. Per questo,
diciamo, tradimento originario. Allora, siccome nell’idea della religione ebraica è fondamentale il concetto
di un patto, cioè di un accordo stabilito tra uomo e Dio, e l’uomo che disobbedisce a Dio è come se violasse
le norme di un contratto ed è paragonabile quindi ad un debitore che non ripaga i debiti che ha contratto
con il proprio creditore. Cosa fa il cristianesimo? Il cristianesimo cerca di inserire nel rapporto tra Dio e
l’uomo una relazione che non è più di comando e di obbedienza, ma è di amore, il concetto paolino della
carità. La carità è il concetto che esprimer l’idea cristiana dell’amore come solidarietà verso il prossimo e
senso di fratellanza che non riguarda più soltanto il popolo ebraico ma si estende a tutta l’umanità. Cosa fa
San Paolo? Interpreta il messaggio di Gesù come la stipola di un nuovo testamento, un nuovo patto, un
secondo accordo in cui attraverso la venuta e il sacrificio di Gesù, l’uomo ha ripristinato una relazione di
pace con il proprio padre, cioè con Dio. Ora, l’obiezione di N. è questa: ma Gesù per i cristiani cosa
rappresenta? Non è semplicemente un uomo qualsiasi, per i cristiani Gesù è identico con Dio di cui
rappresenta un aspetto diverso. A dio inteso come padre secondo i modelli della religione ebraica, subentra
Dio nella figura del suo proprio figlio. Quindi nella teologia cristiana la cui origine è nelle lettere di San
Paolo, non è nella genesi, Gesù viene mandato dal padre, cioè da Dio, a riscattare i peccati e le colpe degli
uomini. Allora N. si chiede “ma se Dio è creditore nei confronti degli uomini, se Dio è colui che è stato
offeso dalla disobbedienza dell’uomo, che si è mostrato non affidabile, non riconoscente, non obbediente,
che senso ha che sia Dio steso a caricarsi di colpe che non ha commesso lui, che hanno commesso gli
uomini. Cioè, è completamente illogico che Dio si assuma delle colpe che deve riscattare ai propri occhi
attraverso il sacrificio di suo figlio che però non è soltanto suo figlio, perché per i cristiani Gesù è anche la
figura incarnata di Dio, cioè è un aspetto di Dio, non è qualcosa di separato da Dio, non è una semplice
persona, come tutte le altre, è un nuovo dio perché è dio che si fa carne e sangue, quindi N. dice: ma se dio
è buono e onnipotente e voleva perdonare gli uomini, non poteva farlo direttamente senza mana dare suo
figlio a soffrire e morire sulla croce? Se dio è buono ed è al tempo stesso onnipotente, può cancellare
tranquillamente le colpe degli uomini, senza alcuna necessità di far soffrire suo figlio, darlo condannare
ingiustamente a morte, per poi farlo risorgere. Cioè dice N. che dal punto di vista logico è totalmente
insensato perché o Dio perdona l’uomo attraverso la sua infinita bontà e lo può fare direttamente senza
dover mandare qualcuno che è giusto e che è puro a soffrire e a morire sulla croce, oppure, se dio non
vuole perdonare gli uomini, non si capisce perché alla fine decida di farlo in questo modo contorto che
prevede il sacrifico ingiusto di un innocente. In questo secondo caso abbiamo l’idea di un creditore che
viene sottoposto alle torture e alle punizioni che venivano riservate a un debitore. Qui abbiamo un
creditore che si fa punire per essere creditore, e dice N. che questo è totalmente assurdo, che senso ha che
un creditore venga punito per poter assolvere le colpe dei suo debitori, che senso ha che chi è in credito si
faccia punire al posto di chi è in debito? Cioè N. evidenzia alcuni cortocircuiti, contraddizioni logiche, alcune
assurdità che spiega soltanto con la necessita di cerare una religione della colpa che spinge gli uomini a
sottomettersi ad una determinata religione e a una determinata morale, perché secondo N. dal punto di
vista di logico questo racconto non sta in piedi e se gli uomini lo accettano non è perché si tratti di un
racconto persuasivo e convincente ma perché gli uomini vogliono credere, hanno bisogno di credere per
poter dare un senso alla loro vita, per poter dire “se noi soffriamo è colpa nostra” e quindi è giusto che noi
soffriamo, però il cristianesimo non da solo una spiegazione alle sofferenze dell’uomo ma dice anche
l’uomo “guarda, tu intanto soffri però stai tranquillo perché nella vita futura non soffrirai più”. Quindi fa si

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che l’uomo accetti le sue sofferenze e al tempo stesso non sente il bisogno di ribellarsi alle sue sofferenze
perché il cristianesimo è come se dicesse “però adesso stai tranquillo perché quello che soffri te lo sei
meritato, è colpa tua, però al tempo stesso stai tranquillo perché nel futuro cesserai di soffrire perché Dio
manderà nuovamente suo figlio sulla terra a distinguere i buoni dai malvagi, e i buoni verranno salvati”.
Quindi N. vede nel cristianesimo una religione di negazione della vita perché il cristianesimo vuole che gli
uomini si convincano che la vita è sofferenza, che la vita è il risultato di un peccato originale, cioè che
manchi a ciascun uomo all’atto della sua propria nascita, senza che quest’uomo abbai ancora fatto niente.
Allora, l’idea della colpa serve a far sentire l’uomo in difetto, e quindi a spingerlo verso a una obbedienza
nei confronti della gerarchia ecclesiastica, nella confronti della chiesa, e nei confronti del potere e non
dimentichiamo che nel medioevo anche i re erano considerati di origine divina, il potere politico veniva
ricondotto ad un origine divina: i re venivano incoronati dai papi o dai vescovi. Quini il cristianesimo,
sicuramente per molti secoli, è stata una religione della sottomissione che spingeva gli uomini ad accettare
la loro condizione di vita perché la vita era l’espiazione di una colpa costituita dal peccato originale. Allora
se la vita è una colpa e la sofferenza è giusta, perché Dio manda suo figlio a soffrire sulla croce? perché
questa venuta di Gesù non sarà l’ultima, è come una promessa che Dio ha fatto agli uomini il cui
adempimento però è lasciato al futuro, cioè alla seconda venuta di Gesù, quando ci sarà il riscatto generale
e universale di tutta l’umanità, o per lo meno di coloro che si sono comportati bene. In questo modo il
cristianesimi cerca di risolvere due problemi: far accettare agli uomini le ingiustizie in questa vita e al tempo
stesso tranquillizzarli dicendo che comunque anche se soffrono adesso devono stare tranquilli perché un
domani saranno salvati. In questo modo il cristianesimo convince le masse che la loro sofferenza è giusta,
perché loro sono comunque colpevoli i quanto peccatori, però siccome quando uno soffre è portato a
ribellarsi, il cristiano dice “no!” perché se ti ribelli violi l’ordine voluto da Dio e siccome questo
ragionamento non funzionerebbe, il cristianesimo aggiunge: non ti devi ribellare perché se ti ribelli rinunci
anche alla vita eterna, se invece sopporti la tua sofferenza come l’ha sopportata Gesù Cristo, allora un
domani verrai riscattato così come Gesù dopo tre giorni è risorto dalla morte ed è andato in paradiso.
Allora, per questo N. sostiene che il cristianesimo è una religione della sottomissione ed è una religione
nichilista perché tutto il messaggio cristiano si basa sull’idea che la vita è macchiata da una colpa, che
l’uomo nasce peccatore e che c’è bisogno di qualcuno che lo salvi, e questo qualcuno appunto può essere
soltanto Dio. Allora, in questo senso c’è un rifiuto della vita perché la vita è vista come qualcosa di
moralmente cattivo. Allora N. sostiene che quando si ha questa visione della vita vuol dire che in realtà
siamo in presenza di un’esistenza che non è sana, che è malata, siamo in presenza di una volontà di potenza
che si esercita contro se stessa, che si rivolge contro di se. E allora qui c’è tutto il ragionamento nietzschiano
sulla morale del gregge, una visione della vita di questo tipo, cioè, negativa, che è attraversata dalla
sofferenza, deve trovare una giustificazione altrimenti le masse si sopprimerebbero, perché soffrire, perché
subire? Bisogna avere una ragione per continuare a vivere in condizioni di povertà, sofferenze, inferiorità
ecc. Il Cristianesimo da alle masse queste ragioni di esistenza, da una ragione per continuare a vivere in
condizione di subalternità, facendo credere alle masse che il loro destino è colpa loro. E’ chiaro che dal
punto di vista logico siamo in presenza di una costruzione che non sta in piedi. Perché le diseguaglianze
allora? Se gli uomini sono colpevoli, dovrebbero tutti essere egualmente sofferenti, invece c’è qualcuno che
gode di ricchezze, di beni, di salute e di bellezza. E allora, perché questo? Perché appunto nella visione
cristiana, anche la disuguaglianza e la differenza è qualcosa che deve mettere alla prova la virtù. Quindi il
potente ingiusto e violento intanto resta al potere perché verrà condannato nella vita futura. Ecco, è una
visione elementare che non corrisponde più alla teologia cristiana contemporanea, N. ha presente un po’
anche una sorta di caricatura, però secondo lui anche questi aspetti caricaturali e strumentali sono legati
però ad una concezione di fondo, che secondo lui, è di negazione della vita. Questo è l’elemento centrale
della visione di N. perché la vita è qualcosa che deve essere giustificato, a cui deve essere data una ragione,
e quindi in questo senso il Cristianesimo non sta in piedi senza l’idea di una colpa che l’uomo non sarà mai
in grado di riscattare da solo e che ha bisogno di quello che per N. è un dogma totalmente assurdo, il dogma
dell’incarnazione in base al quale per sfuggire alla punizione di Dio, l’uomo crede in un Dio che si punisce al
posto suo. Ma se Dio è onnipotente potrebbe tranquillamente esercitare la sua grazia, che bisogno c’è di

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infliggere sofferenze a un colpevole? Allora dice N. c’è anche un elemento sadico in questa religione,
evidentemente questo Dio vuole vedere soffrire gli uomini in quanto colpevoli, però, al tempo stesso non li
vuole vedere soffrire perché manda suo figlio a soffrire al posto loro. Ci sono quindi degli aspetti
contraddittori. E’ chiaro che poi un altro grande tema che è in gioco è il tema della morte, il fatto che il
cristianesimo cerca anche di dare una risposta al tema della morte. La ressurezione di Gesù per chi è
credente rappresenta anche la speranza che la morte non sia l’ultima parola, che tutto non finisca con la
morte, che ci sia un riscatto da essa. Nietzsche è convinto che anche in questa speranza in una ressurezione
sia un albi per non vivere pienamente l’unica vita che secondo lui ci è data e che è quella che viviamo su
questa terra.
Allora, N. vuole sostituire all'idea cristiana del tempo lineare, l’idea, che era propria dei primi filosofi greci,
dell’Eterno ritorno. Il cristianesimo introduce nella storia una spaccatura fondamentale, evidentemente
anche dal fatto che noi calcoliamo gli anni a partire da un evento unico, che è quello della venuta di Cristo
sulla terra. Ora, questo introduce non solo uno spartiacque tra un prima e un poi, ma da al tempo una
direzione che è lineare e irreversibile: la freccia del tempo non può essere invertita, procede solo in
un'unica direzione, e questa freccia non è orientata in senso puramente casuale, no, è orientata in direzione
di uno scopo, e questo scopo che cos’è? Quello che i cristiani chiamano la fine dei tempi, è la seconda
venuta di Gesù. Qui abbiamo allora l'idea di una fine della storia, in cui appunto i buoni, i poveri, i malati, i
deboli saranno riscattati alla fine dei tempi, quando, attraverso il giudizio universale, la virtù sarà premiata e
il vizio sarà condannato.
Allora questo schema è uno schema apparentemente neutrale ma in realtà ha un fondamento biologico
perché inserisce nel tempo della natura, un tempo propriamente cronologico, cioè storico. Ripeto, l’idea
fondamentale è che la freccia scorre in un'unica direzione, sempre in avanti, si parla appunto di
irreversibilità della freccia temporale, non può essere invertita la direzione del tempo, il tempo scorre
sempre in avanti ma questo scorrere in avanti non è insensato perché è orientato a uno scopo, avrà una
fine, che è anche un fine, non è solo il termine di un movimento, ma è anche lo scopo che da un senso al
movimento, e questo scopo è quello che abbiamo cercato di dire prima.
L’idea di N. invece è quella di recuperare l'eterno ritorno, cioè il tempo non è una freccia ma è un circolo. E
se noi assumiamo l’idea del circolo d aun certo punto di vista vediamo che non c’è scampo: ciò che siamo
adesso, lo siamo una volta per tutte, non potremo mai avere una vita diversa da quella che abbiamo e
quello che siamo adesso lo siamo per l’eternità. Quindi l’idea di Nietzsche è: se quello che siamo adesso, lo
saremo per sempre e torneremo a viverlo indefinitamente, beh, tanto vale prenderla sul serio la vita che
abbiamo, non rinunciare alla vita attuale per una vita futura, ma vivere pienamente la vita attuale perché la
vita attuale sarà comunque per sempre l’unica che potremo vivere. Quindi in questa idea dell’Eterno ritorno
c’è una dimensione che è sicuramente etica: l’eterno ritorno è il simbolo di un uomo che afferma la propria
esistenza, che non la vuole cambiare, non per assegnazione ma perché in questa esistenza è in grado di
affermare se stesso, è in grado di esprimere la potenza che è propria di se stesso. Quindi non ha motivo di
cambiamento, non vuole cambiare. Esistono tra i miei contemporanei, dice N., uomini che non vorrebbero
cambiare la loro vita? Secondo me no, ma questo non vuol dire che la mia idea è sbagliata, vuol dire che
forse la vita che questi uomini stanno facendo non è una vita piena, soddisfacente, adeguata. Allora il super
uomo, nell’idea di N, è anche l’ uomo che ha un idea del tempo completamente diversa da quella cristiana.
Il cristianesimo vive nell’attesa della fine dei tempi, e intanto lui vive però, vive nell’attesa, che è come dire
che aspetta di vivere veramente, concepisce questa come una vita di prova, come una specie di esame per
capire se è buono oppure no, se si merita la salvezza eterna oppure no. Il superuomo vive, invece, secondo
l’idea di questa vita è destinata a ripetersi incessantemente così com'è adesso. Quindi con questa idea della
circolarità del tempo, Nietzsche riprende un modello temporale che era quello proprio dei Greci. È chiaro
che questa idea dell’eterno ritorno assume come modello il tempo della natura, i cicli delle stagioni, il ciclo
dei giorni, dei mesi degli anni, la rotazione delle stelle, quindi un tempo che è ricalcato su quello della
natura di cui l’uomo è considerato una parte. L’uomo nasce, cresce, si sviluppa, invecchia e muore come un
albero o come un fiore, ne più e ne meno. Ma a differenza dell’albero, o dell’animale l’uomo si è costruito
una volontà che può procedere secondo due direzioni: nella direzione della svalutazione della negazione

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della vita oppure nella direzione della sua consapevole affermazione. In questo secondo caso, l’uomo non
ha più bisogno del tempo cristiano per rendersi la vita sopportabile, perché la vita non è qualcosa che ha
bisogno di essere sopportata, ha solo bisogno di essere affermata indefinitamente. Allora, l’idea del tempo
cambia completamente e diventa quella dell’Eterno ritorno. In una prospettiva di questo tipo non c'è più ne
colpa ne debito, ma c’è quella che N. chiama l’innocenza del divenire.
Nel cristianesimo abbiamo l’idea di un peccato originale, cioè di una colpa che deve essere riscattata alla
fine dei tempi, come un debito che è finalmente è stato pagato fino in fondo. Questo riscatto e pagamento
del debito è ciò che il cristiano intende con il concetto di redenzione: riscatto dalla colpa e pagamento del
debito. In una logica di questo tipo, mentre la vita che è compresa tra la venuta di Gesù e il giudizio
universale, è concepita come pena o punizione, per la colpa che è la versione morale del concetto morale di
debito. Qui non c’è più niente da riscattare: non c’è ne una colpa, ne una redenzione, ne un debito, ne il suo
pagamento. C’è semplicemente un divenire che ritorna incessantemente con la molteplicità delle sue
metamorfosi, nella molteplicità delle sue trasformazioni. Quindi è vero che l’idea del circolo ci trasmette
l’idea di qualcosa che è sempre identico, ma ciò che è identico nell’eterno ritorno, è in realtà l’incessante
susseguirsi delle sue metamorfosi; è il divenire che ritorna. N. in modo paradossale ci sta dicendo che
l’unica cosa che è stabile è il fatto che non c’è nulla di stabile, l’unica cosa che continua a ritornare identica a
sé, è il divenire, cioè il non debito, il differente. Solo la trasformazione è costante, solo il cambiamento non
muta mai ma per millenni l’uomo ha avuto paura del cambiamento, ha avuto paura del divenire, ha cercato
sempre di imbrigliare il divenire perché esso implica anche imprevedibilità, rischio e quindi anche dolore,
angoscia, sofferenza. Quindi non dobbiamo fraintendere l’eterno ritorno come se fosse l’espressione di una
monotonia per cui non c’è mai nulla di nuovo, no. Nell’idea di N. il nuovo è esattamente ciò che si produce
attraverso l’esercizio incessante di una volontà di potenza che è in perenne trasformazione. Insomma,
questa è l’idea fondamentale. Ultimo libro della sua vita “Anticristo”.

Lezione di oggi

Paragrafo 3 (pag.48):
Qui Nietzsche sostanzialmente introduce il ruolo della crudeltà, che avevamo anticipato nei gironi scorsi.
“Come si forma una memoria nell’animale-uomo? Come si imprime qualcosa in questo intelletto dell’attimo,
in parte ottuso, in parte sventato, in questo vivente oblio? Come si imprime qualcosa in modo tale da restare
presente?”
L’uomo come tutti gli animali è portato a dimenticare, non a ricordare, vive nel presente, non è agganciato
al passato e non è proiettato verso il futuro. Qui c’è l’influenza del poeta italiano Leopardi su N.
Il poeta scrive una poesia “il pastore errante dell’Asia” dove c’è il contrasto fra l’uomo, che ricorda e quindi
pensa, e gli animali che non ricordano e quindi non pensano, non introducono alcuna una distanza fra sé e
la vita che fanno. Gli uomini, invece, con la riflessione, prodotta dalla capacità di ricordare, introducono
sempre una distanza fra ciò che sono e ciò che fanno, non sono mai totalmente presi, catturati dal presente,
siamo sempre proiettati in un futuro che ancora non c’è e siamo sempre attaccati ad un passato che ci
ricordiamo di avere vissuto.
“Questo antichissimo problema, non è stato precisamente risolto con risposte e mezzi delicati: forse
nell’intera preistoria dell’uomo addirittura nulla è più spaventoso e sinistro della sua mnemotecnica”
Cioè della tecnica che fa acquisire all’uomo una memoria. “Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella
memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare (cioè di fare soffrire) resta nella memoria- è questo un
assioma della più antica psicologia sulla terra. […] Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria,
ciò non avvenne mai senza sangue, martiri, sacrifici; i sacrifici e i pegni più spaventosi (In cui si
ricomprendono i sacrifici dei primogeniti), le più ripugnanti mutilazioni (per esempio le castrazioni), le più
crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi (e tutte le religioni, sono, nel loro ultimo fondo, sistemi di crudeltà)
– tutto ciò ha la sua ragione in quell’istinto che colse nel dolore il coadiuvante più potente della mnemonica”
cioè della capacità di ricordare.

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Qui N. indica nella crudeltà il mezzo attraverso cui l’uomo ha imparato a ricordare. Ricordare è importante
per poter promettere qualcosa, e rispettare la parola data, cioè per diventare responsabili di ciò che
facciamo. Quindi la memoria è fondamentale per ogni società umana che voglia sopravvivere e perpetuarsi,
che deve imprimere sugli individui il rispetto per le leggi, che non può sussistere senza il terrore delle
punizioni che derivano dalla loro violazione. Questo è il diritto primitivo, questo è il fondamento delle prime
comunità umane. Poi con il tempo che cosa succede? Che questa crudeltà, che si esprime materialmente in
azioni (lo abbiamo visto) si interiorizza, si spiritualizza, non diventa più esercitata fisicamente ma tormenta
l’uomo attraverso la cattiva coscienza e il senso di colpa. Ma questo è un fenomeno che N. spiega nei
paragrafi che noi abbiamo già letto. A un certo punto N. scrive che nell’imperativo categorico di Kant si
sente ancora la puzza della crudeltà (andiamo al paragrafo 6).
L’imperativo categorico è la forma più rigorosa assunta dalla morale, l’idea di una legge assolutamente
universale che dice all’uomo che cosa è legittimo fare e che cosa non lo è. Questa legge si esprime
attraverso comandi. Quando N. scriveva la filosofia di Kant aveva solo 100 anni. Perché la Critica della
ragion pratica di Kant viene pubblicata nel 1788 e N. scrive questo libro nel 1886. N. scrive “guardate che in
Kant si esprime ancora in forma sublimata, concettuale, teorica, questa stessa pulsione alla crudeltà che nel
corso del tempo si è sicuramente attenuata, ma soltanto perché ha cambiato il modo di esprimersi: non si
manifesta più, perlomeno nei popoli europei, nelle forme della tortura e della violenza diretta, ma si
esprime come auto imposizione esercitata dall’uomo su di sé, attraverso senso di colpa e cattiva coscienza.
Quindi, ecco l’idea allora della crudeltà: questa crudeltà che per N. continua ad operare però in forma
spiritualizzata. Anche qui troviamo una vicinanza straordinaria con Freud. Anche con Freud, l’aggressività
viene trasformata con la civiltà, ma non viene annullata: al posto di esercitarsi in forma diretta, si esercita in
forma indiretta, diventa il super io che tormenta l’io, il giudice interiore che valuta e condanna = origine
della nevrosi, dei sintomi isterici, ecc.
Il problema che N. vuole mettere in rilievo è che la morale non ha un origine sopraterrena-trascendente, ma
si radica negli istinti più violenti e selvaggi dell’uomo e ha richiesto per imporsi secoli di crudeltà. Quindi è il
dolore alla base della nostra capacità di ricordare. Ora, naturalmente, si tratta di capire, attraverso quali
relazioni, l’uomo ha ritenuto necessario costruirsi una memoria? Non poteva continuare a vivere come le
greggi del pastore errante dell’Asia? Perché l’uomo ad un certo punto ha deciso che doveva imparare a
ricordare? È qui N. introduce un’altra idea generale, che noi abbiamo anche questa già anticipato, cioè l’idea
che i concetti morali di colpa, di responsabilità, di pena e di espiazione, hanno una radice di tipo economico
e commerciale, cioè, l’idea di colpa è la trasformazione morale dell’idea di debito.

Paragrafo 4
In questo paragrafo troviamo l’introduzione, da parte di N., di quest’idea. Allora in realtà, l’idea di punire
qualcuno, l’idea di infliggere sofferenza non è legata, dice N., soprattutto alle origini della storia e della
civiltà umana, non è legata all’idea che l’uomo sia responsabile di quello che fa, non è legata all’idea che
l’uomo sia l’autore delle proprie azioni, ma l’idea che ha N. è che attraverso la punizione colui che infliggeva
la pena e la sofferenza, godeva del suo sentirsi superiore rispetto agli altri.
Allora ci sono due aspetti da sottolineare:

1. L’idea morale di colpa non è un idea originaria ma è il risultato di una trasformazione che ha la
sua base nell’idea di debito.

2. La pena non era concepita come la giusta punizione per una colpa morale, ma era l’occasione
per esercitare violenza e crudeltà, nei confronti di coloro che venivano sottoposti ad un
determinato tipo di punizione.

“Per il più lungo tratto di tempo della storia umana non si sono assolutamente inflitti castighi perché si
ritenesse l’autore del male responsabile della sua azione (non c’era ancora l’idea della responsabilità, non
c’era ancora l’idea del soggetto, l’idea dell’individuo autore libero di azioni che avrebbe anche potuto non
fare) , dunque non con il presupposto che si debba punire unicamente il colpevole – si punisce, viceversa,

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allo stesso modo con cui ancor oggi (sottointeso: ai tempi di N.) i genitori castigano i loro figli, per ira di un
danno sofferto, alla quale si dà sfogo sul danneggiante. Cioè chi produce il danno non è giudicato
moralisticamente colpevole, è semplicemente visto come qualcuno che, visto che ha provocato un danno,
mi permette di sfogare la mia aggressività, mi da l’occasione per sfogare la mia aggressività.
“Da dove ha derivato il suo potere quest’idea antichissima, profondamente radicata, l’idea di una
equivalenza fra danno e dolore? Cioè io infliggo a chi ha provocato un certo danno una sofferenza che
valuto più o meno equivalente al danno che mi è stato procurato. Dice N.: ma da dove trae origine
quest’idea? “l’ho già rivelato: nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore”. Qui pone nero su bianco
qual è la sua ipotesi: rapporto contrattuale fra debitore e creditore io do un prestito o vendo qualcosa a
qualcuno, il quale promette di restituirmi il dovuto, cioè di pagarmi. “Nel rapporto contrattuale tra
creditore e debitore, che è tanto antico quanto l’esistenza di “soggetti di diritto” ( scritto tra virgolette perché
è un concetto moderno e non adatto sicuramente a descrivere il funzionamento di una società arcaica, però
N. vuole sottolineare che l’origine di tutti i nostri concetti morali e giuridici fondamentali è di tipo, è tipo
mercantile, riguarda la pratica dello scambio di beni materiali) e rimanda ancora una volta, dal canto suo,
alle forme fondamentali della compera, della vendita, dello scambio, del commercio”.

Paragrafo 5
E allora all’inizio del paragrafo 5, N. riprende e collega i ragionamenti che ha fatto nelle sezioni precedenti.
“Qui precisamente (cioè nei rapporti di compravendita) vengono fatte promesse; qui precisamente si tratta
di fabbricare una memoria (*paragrafo 3), qui precisamente, è lecito sospettarlo, si troverà una base per
scoprire cose dure, crudeli, penose. (*paragrafo 3) Per infondere fiducia nella sua promessa di restituzione,
per dare una garanzia della serietà e santità della sua promessa, il debitore dà in pegno, in forza del
contratto, al creditore, per il caso che non paghi (cioè che non onori il suo debito), qualcosa d’altro che
ancora possiede, su cui ha ancora potere, per esempio il proprio corpo o la propria donna o la propria
libertà o la propria vita. […] Ma specialmente sul corpo del debitore il creditore poteva infliggere ogni sorta
d’ignominia e di tortura, tagliarne giù tanto quanto pareva commisurato alla entità del debito”
C’è addirittura una legge, nel più antico codice di leggi occidentali, le 12 tavole alla base del diritto romano,
in cui si stabilisce che non può essere considerato fraudolento, tagliare dal corpo del debitore una parte più
grande o più piccola rispetto al danno subito. Il senso di questa norma è che il creditore può mutilare il
corpo del suo debitore, più o meno, andando a spranghe. Questa è una legge che fa parte delle 12 tavole
che sono il fondamento di tutto il diritto romano. Però, anche qui, N. dice una cosa che lo porta a sostenere
la tesi che abbiamo anticipato prima: che al fondo di queste pratiche giuridiche, non c’è una vera e propria
utilità, ma c’è semplicemente il piacere nell’esercitare la propria volontà di potenza, in termini di crudeltà.
“Rendiamoci chiara la logica di tutta questa forma di compensazione: è abbastanza bizzarra. L’equivalenza
(tra il danno subito e la punizione inflitta), è data dal fatto che al posto di un vantaggio in diretto equilibrio
con il danno (quindi al posto di una compensazione in denaro, in terra, possessi di qualsiasi specie) viene
concessa al creditore a titolo di rimborso e d compensazione una sorta di soddisfazione intima – la
soddisfazione di poter scatenare senza alcuno scrupolo la propria potenza su un essere impotente, la voluttà
di fare del male per il piacere di farlo, il piacere di fare violenza: piacere che come tale risulta apprezzato in
misura tanto più alta quanto più bassa e umile è la condizione del creditore nell’ordinamento della società”.
Se io sono un plebeo e presto dei soldi a un nobile fallito che non me li restituisce, beh caspita, se la società
mi autorizza a punire chi mi è socialmente superiore, è chiaro che il mio godimento sarà tanto di più, quanta
più crudeltà io potrò esercitare contro colui che normalmente mi è superiore.
“Mediante la pena del debitore, il creditore partecipa di un diritto signorile: raggiunge altresì finalmente il
sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come suo inferiore. La compensazione
consiste quindi in un mandato e in un diritto alla crudeltà”
Questa crudeltà che ha origine nei rapporti contrattuali e che poi, con il progresso della civiltà, si interiorizza
e diventa crudeltà verso di sé attraverso la formazione del senso di colpa e della cattiva coscienza.
Direi che abbiamo approfondito abbastanza questo aspetto, N. sviluppa questo elemento legato alla
relazione tra punizione, pena e crudeltà e al

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paragrafo 8
affronta esplicitamente il tema della dissertazione. Se vi ricordate noi avevamo cominciato la lettura di
questo capitolo proprio dal paragrafo 8, adesso rileggiamo alcune righe per permetterci di fare dei
collegamenti tra questi testi perché vedete che il ragionamento di N. è molto lucido ma anche molto
articolato nel suo complesso.
“Il sentimento della colpa, per riprendere il corso della nostra indagine, ha avuto, come abbiamo visto, al
sua origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista (*paragrafo 4). Qui, per la prima volta,
si fece innanzi persona a persona, qui per la prima volta si misurò persona a persona.”
Quindi dalla valutazione legata al valore dei beni, al danno subito in caso di mancato risarcimento, di
mancata corresponsione di un equivalente, quindi all’esercizio della crudeltà, che tutto questo comporta,
ecco, l’uomo ha cominciato a valutare le cose, e ad attribuire valore non solo agli oggetti ma anche alle
persone e ai comportamenti. Il problema del valore ha cominciato a trasformarsi non più in relazione da
creditore a debitore, ma, dice N, ha iniziato a regolare anche rapporti interni a una determinata civiltà e a
regolare anche le relazioni fra i diversi gruppi umani, e dà origine al concetto di giustizia come rapporto tra
valori considerati equivalenti. Da qui insomma, si è sviluppato poi tutto quel castello concettuale che si
sarebbe stratificato nella nostra morale.

17 aprile
TERZA DISSERTAZIONE: “che significano gli ideale ascetici?”
Ascesi è una parola che significa  sacrificare e rinunciare ai godimenti del corpo per coltivare la vita
spirituale e le virtù dell’uomo. E’ chiaro che N. è un critico feroce degli ideali ascetici. Gli asceti erano delle
persone, in molti casi ritenute sante, quindi oggetto anche di devozione, di ammirazione da parte del
popolo, che si ritiravano dalla vita comune, che rinunciavano alla ricerca del piacere, del potere, della
ricchezza e, soprattutto all’inizio della diffusione del Cristianesimo, si ritiravano in luoghi appartati e solitari,
nel deserto ad esempio, per imporre al proprio corpo una rigorosa disciplina di rinunce e privazioni, in
modo da sentirsi sempre meno condizionati dai bisogni fisici, naturali, corporei e, per arrivare ad una
liberazione dello spirito che, secondo questo ideale, era l’unica facoltà che potesse ricongiungere l’uomo
con Dio. Un’altra parola che può essere analoga è la parola “eremita” = l’uomo che vive in solitudine, che fa
una vita spartana, frugale, che rinuncia sempre più ai bisogni corporei e che in questo modo ritiene di
arrivare ad una liberazione della mente dai condizionamenti della natura e del corpo. Questa è una
tradizione presente, non solo in occidente, ma anche nell’oriente, dove il saggio buddhista vuole
raggiungere il Nirvana, perché ritiene che la vita che noi facciamo sia una vita di apparenza, priva di
consistenza, le cose della nostra esperienza ordinaria sono cose che non durano, non permangono nel
tempo, che nascono e muoiono. Quindi fin dai primi millenni delle civiltà orientali, gli uomini si sono chiesti
che senso ha questa vita, che sostanza reale possiamo attribuire a questa esistenza, se è un’esistenza
soltanto temporanea, passeggera. Nasce così l’idea di Nirvana, che è una condizione di annientamento
della propria volontà. Ne abbiamo parlato a proposito di Schopenhauer, che è il primo che utilizza
filosoficamente le dottrine religiose dell’oriente, in particolare de buddismo. S. afferma che per eliminare la
sofferenza, dobbiamo estinguere i desideri della nostra volontà. Questo è il Nirvana: l’estinzione del
desiderio, l’annullamento della propria volontà. Una volta che sono arrivato a estinguere la mia volontà,
secondo queste dottrine, io arrivo alla beatitudine: non esisto più come individuo separato dal resto
dell’universo, io mi unifico con la totalità dell’universo, divento un’unica cosa con il cosmo, perché
riconosco che tutto ciò che vive nel cosmo è pura apparenza e che l’unica e autentica realtà è costituita dal
nulla, dal niente. Quello che può sembrare paradossale è che il niente dei buddisti coincide con una
condizione di totale pienezza perché, nella loro idea, l’annientamento della volontà coincide con
l’annientamento della mia singola individualità e attraverso questo annientamento io mi ricongiungo con
l’unità che è principio di tutte le cose: tutte le cose infatti nascono dal nulla, tutte le cose considerate
singolarmente tornano nel nulla. Quindi, attraverso l’ascesi, la rinuncia, la meditazione, è come se io

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anticipassi la condizione della mia non esistenza: cesso di soffrire e al tempo stesso mi unifico con l’unica
cosa che esiste veramente, cioè il niente. È chiaro che è difficile capire una dottrina del genere, perché
bisognerebbe essere degli asceti, cioè dovremmo noi stessi essere esperti e praticare la meditazione.
Per N., il buddhismo è una delle religioni che meglio rappresenta questo ideale di tipo ascetico e che
dunque, per N., esprimono con l’evidenza più chiara il rifiuto della vita terrena, il rifiuto dell’esistenza.
Quindi è chiaro che N., che vuole invece affermare il valore della vita e dell’esistenza terrena, dovrà provare
a criticare questi ideali ascetici.
Gli ideali ascetici sono stati molto diffusi sia in oriente che in occidente, e tutte le principali religioni (il
cristianesimo in occidente, l’induismo e il buddismo in oriente) hanno infondo predicato una vita ascetica,
sono basate su ideali di tipo ascetico. N. allora evidentemente si chiede: ma cos’è che ha dato cosi tanta
forza e così tanta diffusione agli ideali ascetici?
Partiamo dal fondo per dare questa risposta, partiamo con la lettura dell’ultimo paragrafo di questa terza
dissertazione in cui N. prova a spiegare perché secondo lui gli ideali ascetici si sono diffusi su scala così
ampia e per un periodo così lungo della storia. La risposta la anticipiamo: N. dice che gli ideali ascetici
infondo sono stati gli unici che hanno provato a dare un senso alla sofferenza: il dolore sia fisico che
spirituale, la malattia, la vecchiaia, la morte, la povertà, la fame e poi naturalmente gli aspetti morali come il
sopruso, le violenze subite, le ingiustizie, le perdite affettive. Insomma, se noi ci concentriamo
esclusivamente sugli aspetti negativi della vita, vediamo che possiamo anche interpretare la vita come una
sequenza di sofferenze.
Allora, se la vita è concepita come una sequenza ininterrotta di sofferenze e dunque la felicità è concepita
soltanto come un breve intervallo fra due situazioni di infelicità e di dolore, perché l’uomo si è riprodotto
ed è diventato la specie dominante sulla terra? Perché i singoli individui hanno lottato comunque per
sopravvivere? N. dice che è perché hanno creduto negli ideali ascetici. Gli ideali ascetici hanno dato una
ragione e un significato alla sofferenza, interpretando la sofferenza come la giusta punizione di una colpa.
In questo modo, facendo del mondo, la causa della propria sofferenza. Pensiamo all’idea del peccato
originale nel Cristianesimo, pensiamo all’idea dell’individuazione propria delle religioni orientali, cioè il fatto
che l’esistenza stessa sia colpevole perché sottrae vita e essere ad altre possibili esistenze, di cui ni abbiamo
preso il posto. Quindi l’individuazione è il fatto che noi esistiamo come individui, è già di per se una colpa, a
prescinder da quello che facciamo. Ecco, queste ide che oggi forse ci sembrano un po’ strane e paradossali,
in realtà per secoli e per millenni hanno dominato l’umanità. Allora N. sostiene che, trasformando la
sofferenza nell’espiazione di una colpa, facendo della sofferenza la giusta punizione per qualcosa che
l’uomo aveva commesso, beh in realtà queste religioni hanno dato un senso alla vita dell’uomo, perché, per
quanto a livello immaginario, hanno dato una spiegazione. E N. in un altro libro di questo periodo scrive:
“meglio una spiegazione qualunque, di nessuna spiegazione”, perché se noi di fronte alla sofferenza, non
abbiamo nessuna ragione, non ci viene fornita nessuna motivazione, ci troviamo veramente in uno stato di
disperazione. Se invece c’è qualcuno ci spiega, che ci da un motivo, che ci da una ragione, siccome noi
abbiamo bisogno di aggrapparci ad un significato, abbiamo bisogno di dare un senso alle cose, ecco che
accettiamo questa spiegazione piuttosto che essere lasciati senza alcuna spiegazione. Ricondurre la
sofferenza ad una colpa, dà una ragione alla sofferenza.
Ma queste religioni non fanno solo questo  dicono all’uomo “ tu soffri per colpa tua, però noi ti
insegnamo anche una via che ti può liberare dalla sofferenza”. Quindi danno una spiegazione ma danno
anche una via d’uscita. Forniscono una ragione, e quindi rispondono ai bisogni teorici di comprensione, ma
poi forniscono anche una via d’uscita di tipo pratico, etico, morale. E qual è questa via d’uscita? È appunto
l’ideale ascetico: dicono all’uomo “guarda che tu potrai liberarti della tua sofferenza se non ti piegherai ai
bisogni del corpo, se disprezzerai il corpo, se rinuncerai ai godimenti del corpo, perché i godimenti del
corpo ti legano alla tua individualità, alla tua esistenza e, quindi, contribuiscono ad accrescere alla tua
colpa, e quindi se adesso stai soffrendo, nell’eternità soffrirai ancora di più”. Quindi queste religioni dicono
all’uomo “se tu rinunci ai godimenti del corpo, soffrirai meno in questa vita e soprattutto ti preparerai alle
gioie che ti verranno riservate nella vita futura, nella vita eterna.

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Che cosa presuppone una religione di questo tipo? Presuppone il rifiuto per la vita, perché la vita
attualmente vissuta è concepita come qualcosa che deve essere rifiutato, perché viene considerata come la
conseguenza di una colpa. Quindi N. sostiene questo, chiediamoci però come si arriva; abbiamo capito qual
è stata la funzione: dare una ragione alla sofferenza e dare agli uomini l’idea di potersi liberare dalla
sofferenza, questo spiega la funzione. Ma com’è che gli uomini ci hanno creduto? Com’è che gli uomini
hanno trovato questa spiegazione soddisfacente? Perché gli uomini non hanno provato ad inventarsi delle
spiegazioni diverse?
Allora qui N. è convinto di questo: le religioni, e anche la morale, operano uno scambio tra le cause e gli
effetti. Poniamo che qualcuno pronunci questa frase: “sto male”. La religione dice “stai male perché tu hai
commesso una colpa, di cui la tua sofferenza è il giusto effetto, il tuo stare male infatti è la pena che tu devi
espiare per una colpa che hai commesso” (ripeto: l’individuazione per gli orientali, il peccato originale per
gli occidentali). In questo modo l’uomo che sta male si dà una ragione, una spiegazione, entra in possesso
di un senso da dare al suo stare male e, come dicevamo prima, in queste religioni si fornisce anche una
strategia di fuoriuscita dalla sofferenza, di liberazione dalla colpa, attraverso appunto l’ascesi intesa come
rinuncia ai godimenti del corpo. Questa è una possibile liberazione, una possibile redenzione che viene
offerta all’uomo come mezzo, come stile di vita, per attenuare fin da ora la sofferenza che lo attanaglia e
predisporsi a godere di una beatitudine completa nella vita futura. Ecco, N. dice che questa è una
spiegazione puramente immaginaria. In realtà noi dobbiamo imparare a pensare in modo composto: il fatto
di stare male implica il rifiuto della vita. Lo stare male è la causa che produce come effetto il rifiuto, la
negazione, il disprezzo della vita. Poiché, però, l’uomo ha bisogno di un senso, ecco che trasfigura il rifiuto
della vita come la soluzione che lo può liberare dalla vita concepita come colpa. Capite la radicalità della
riflessione nietzschiana? cioè nel primo caso, il ragionamento della morale e della religione, ci invita a
concepire come un dato di fatto che la vita sia di per sé una colpa, sia cioè macchiata da un peccato
originale, sia espressione di una caduta. La sofferenza viene spiegata come effetto di questa caduta, come
la punizione che consegue giustamente ad una colpa. N. inverte il ragionamento e dice: ma no, la causa sta
nel fatto che gli uomini che si sono inventati questa spiegazione, erano dei sofferenti, dei deboli, dei malati,
quindi non potevano accettare la vita perché per loro la vita era malattia, dolore, povertà, sofferenza.
Quindi, dal loro stare male, hanno dovuto ricavare una spiegazione e hanno dovuto concepire come effetto
di una colpa il loro stare male, quando è il loro stare male che li portava a disprezzare la vita e che li ha
condotti a dare una spiegazione del loro disprezzo per la vita, facendo del loro disprezzo una virtù, facendo
cioè, della rinuncia alla vita l’espressione di un comportamento giusto e virtuoso. In questo modo le
religioni e la morale hanno prodotto un’inversione totale e elogiato come virtù ciò che per N. è il massimo
pervertimento, cioè il rifiuto e il disprezzo della vita. Ecco un po’ in che modo si è generata e si è diffusa la
morale ascetica, che ha concepito il rifiuto della vita come virtù e ha concepito l’ascesi come la liberazione
da una colpa, dando all’ascesi il compito di risolvere un problema di cui, invece, l’ascesi stessa era soltanto
il sintomo. Quindi il rimedio al posto di guarire il male, lo ha aggravato perché l’ascesi rafforza
ulteriormente il rifiuto della vita e quindi rende impossibile guarire dalla malattia che consiste nella
debolezza della volontà che è alla radice della sofferenza dell’uomo.

paragrafo 28 (pag. 156)


Ecco allora in questo paragrafo N. trae le conclusioni di questo ragionamento.
“Se si prescinde dall’ideale ascetico, l’uomo, l’animale uomo non ha avuto fino a oggi alcun senso. La sua
esistenza sulla terra è stata vuota di ogni meta; “a che scopo l’uomo?” – fu una domanda senza risposta;
mancava la volontà per uomo e terra; (debolezza, viltà, paura, mancava la volontà di affermare l’uomo e la
vita sulla terra); dietro ogni grande destino umano risuonava, a guisa di ritornello, un ancor più grande
“invano”. C’è un libro della bibbia “le ecclesiaste” che pronuncia queste parole “vanitis, vanitatum, e omnia
vanitas” = la vita è vanità delle vanità e tutto è vanità, cioè tutto è assurdo, privo di senso, destinato a finire,
a morire, a passare: vanità, vuoto.
“Questo appunto significa l’ideale ascetico: che qualche cosa mancava, che un’enorme lacuna circondava
l’uomo – egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del problema del suo

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significato. Soffriva anche d’altro, era principalmente un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se
stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda “a che scopo soffrire?” restasse senza
risposta. […] L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata
su tutta l’umanità - e l’ideale ascetico offrì ad essa un senso. E’ stato fino ad oggi l’unico senso; un qualsiasi
senso è meglio di nessun senso”
Un altra frase di N. come abbiamo detto prima: “una qualunque spiegazione è meglio di nessuna
spiegazione”. “l’ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il “faute de mieux” par excellanxce (= in mancanza
di meglio, l’ideale ascetico, è stato, per eccellenza, quello che si dice “in mancanza di meglio, l’estremo
rimedio” per eccellenza). “in esso la sofferenza venne interpretata” cioè venne dato senso alla sofferenza.
“l’enorme vuote parve colmato” ed ecco appunto l’altra frase importante “si chiuse la porta dinanzi a ogni
nichilismo suicida”, cioè, a questo punto la domanda è: ma perché devo soffrire se la mia sofferenza non ha
nessun senso? Tanto vale sopprimere la mia vita. L’ideale ascetico blocca la porta dinanzi a questa forma di
nichilismo suicida. Cioè nichilismo = assenza di senso; suicida = che porta all’auto soppressione della
propria vita.
“L’interpretazione – indubbiamente – comportò nuova sofferenza, dispose ogni sofferenza sotto la
prospettiva della colpa”.
Quindi qui possiamo ricollegarci alla seconda dissertazione che parla del senso di colpa.
“ma ciò nonostante, in questo modo l’uomo venne salvato” cioè si è salvata la specie umana dall’auto
soppressione legata al suicidio. Gli ideali ascetici per quanto negativi, per quanto “malati”, hanno permesso
all’uomo comunque di sopravvivere perché l’uomo non può vivere senza un senso e gli ideali ascetici hanno
fornito un’interpretazione, hanno dato una spiegazione, quindi hanno dato all’uomo una ragione per
sopravvivere.
“Non fu più da quel momento una foglia al vento, un trastullo dell’assurdo, ormai poteva volere qualcosa”
cioè poteva volere la negazione della vita, poteva volere la rinuncia al godimento. Per rinunciare a qualcosa
io comunque devo esercitare una volontà, quindi N. dice che, in questo modo indiretto e paradossale,
comunque anche gli ideali ascetici sono serviti per formare e rafforzare la volontà umana, una volontà che
si è diretta contro la vita, che si è sforzata di negare la vita, ma, che in questo modo si è, per quanto
paradossalmente, potenziata, cioè ha fatto del rifiuto della vita una ragione per vivere, ha fatto della
negazione del corpo, uno scopo da raggiungere attraverso l’esercizio e la formazione della volontà.
“Senza che avesse la minima importanza in che direzione, a che scopo, con che mezzo egli volesse: restava
salvata la volontà stessa”. Ecco allora che gli ideali ascetici nella lettura di N., vedete, cominciano ad avere
un significato diverso da quello che gli asceti davano alle loro pratiche. In realtà, il senso che le religioni e la
morale danno ai loro precetti ascetici, non è il vero senso, non è l’espressione del vero scopo degli ideali
ascetici. Il vero scopo e la vera utilità che hanno avuto gli ideali ascetici è esattamente il contrario di quello
che loro proclamano, perché l’ideale ascetico vuole la “noluntas”, vuole l’annullamento della volontà. Ma
voi capite bene che nel momento in cui io voglio annullare la mia volontà, la confermo perché è la mia
volontà che vuole annullare se stessa, quindi, per annullarsi, deve continuare a volere. In questo modo,
l’uomo si è trovato coinvolto in un combattimento costante contro i proprio sensi e contro i propri istinti, e
proprio attraverso questo combattimento, invece di negare la propria volontà, l’ha rafforzata. Allora N. che
cosa vuol dire? Che proprio grazie agli ideali ascetici l’uomo si è formato una volontà cosi forte da poterlo,
finalmente, proiettare oltre l’uomo. Anche in questa dissertazione, lo studio del passato serve a N. per
proiettarsi verso il futuro.
“Questo odio contro l’umano, contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, il timore della felicità e della
bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, divenire, morte, desiderio; tutto ciò
significa una volontà del nulla (quello che Schopenhauer chiamava “noluntas” = volontà del nulla),
un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una
volontà”.
Cioè proprio nel momento in cui vuole negarsi, si afferma, e affermandosi afferma la vita di cui è
espressione. Quindi, proprio attraverso la volontà di negare la vita, la vita si riafferma attraverso la volontà
che la vuole negare. Tutto ciò ha come effetto un rafforzamento del volere, non un suo indebolimento, e

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quindi anche l’ideale ascetico, secondo N., indica in una direzione che può andare oltre l’uomo, perché una
volontà che si riconosca finalmente forte, libera e autonoma, è una volontà che può smettere di disprezzare
la vita, che può smettere di negare se stessa, che può finalmente rovesciare il corso delle proprie azioni in
una direzione positiva ed affermativa.
“l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere” perché anche la volontà del nulla resta
comunque volontà.

Nel corso della dissertazione poi, N., naturalmente cerca di spiegare la genesi di questo tipo di mentalità e,
nel corso della sua ricerca, N. perviene a identificare una funzione fondamentale nelle caste sacerdotali,
cioè, in altri termini, in quelle classi che secondo N. non erano sufficientemente forti per far parte
dell’aristocrazia guerriera ma che erano però abbastanza ambiziose da voler dominare sugli altri. Quindi, il
sacerdote diventa l’inventore e al tempo stesso lo strumento attraverso cui la morale ascetica nasce e si
diffonde all’interno della cultura e della civiltà umana.

Paragrafo 11 (pag.110)
Qui N. riprende il discorso sulla funzione delle caste sacerdotali e prova a descriverci la psicologia di quello
che per lui è il ministro della religione. E’ chiaro che qui N. costruisce una tipologia un po’ caricaturale,
comunque proviamo a leggere qual è il ritratto del prete ascetico, cioè di quell’uomo che usa la religione e
usa l’ascesi per imporsi come modello ed esempio nei confronti degli altri uomini.
“Il prete asceta ripone nell’ideale ascetico non soltanto la sua fede, bensì anche la sua volontà, la sua
potenza, il suo interesse. Con quell’ideale si erige e cade il suo diritto all’esistenza”
Cioè l’affermazione della morale ascetica è decisiva per la sopravvivenza del prete ascetico come tipo di
umanità, come forma specifica dell’esistenza umana. Ripeto, il prete ascetico è prete perché animato da
fede religiosa, ma anche perché non è in grado di far parte della casta della nobiltà guerriera per
temperamento caratteriale, per ragioni di ceto, per ragioni di costituzione fisica. In ogni caso è una via di
mezzo: aspira al potere ma non è in grado di acquisirlo per via diretta attraverso la politica e la guerra, e
quindi prova a raggiungere il potere a cui attraverso la via indiretta della morale e della religione.
“C’è da stupirci se ci imbattiamo qui in un tremendo avversario, una volta ammesso che noi fossimo gli
avversari di codesto ideale? Un avversario che lotta per la sua esistenza contro i negatori di quell’ideale?
Quindi N. vede nel prete asceta da una parte un avversario, però poi vedete che arriva a scrivere “una volta
ammesso che noi fossimo gli avversari di codesto ideale”. Cosa vorrà dire N. con questa frase? Perché
sembra scontato che N. sia un avversario de prete asceta, che bisogno ha di dire “una volta ammesso che
noi fossimo gli avversari di questo ideale”? N. probabilmente intende dire due cose: la prima è che non
ritiene il prete asceta degno di essere un suo avversario, cioè N. si ritiene talmente superiore da non
considerare il prete asceta degno di essere riconosciuto come suo avversario; questa è una possibile
interpretazione però in realtà ce n’è anche un'altra: cioè quello che abbiamo letto prima alla fine della
dissertazione. Infondo N. non è soltanto un negatore degli ideali ascetici, per le ragioni che ci ha detto alla
fine della terza dissertazione, anche gli ideali ascetici sono serviti per la formazione e il rafforzamento della
volontà. Allora non dobbiamo mai dimenticare che l’idea portante della filosofia di N. è l’idea di volontà di
potenza. Allora, se gli ideali ascetici hanno rafforzato la volontà, come fa N. ad essere un avversario degli
ideali ascetici? Potrà essere un avversario, nel senso che li vuole superare ma non nel senso che rifiuti di
riconoscere la loro utilità, perché anche gli ideali ascetici sono stati al servizio della volontà di potenza, cioè
di una volontà distorta, pervertita, diretta nella direzione sbagliata, però che alla fine, attraverso gli ideali
ascetici, è riuscita comunque non solo a sopravvivere, non solo a mantenersi, ma persino a rafforzarsi.
“Il pensiero intorno al quale si dà battaglia è la valutazione della nostra vita da parte da parte dei preti
ascetici”. Fondamentale, vi ricordate l’importanza che N. dava ai importanza ai rapporti di compravendita?
Ora, com’è che venivano inflitte le pene e punizioni? Attraverso una valutazione del danno subito: io valuto
il danno che ho subito dal debitore che non mi ha pagato ,e più o meno, lo punisco in modo che sia
equivalente al danno che io ho subito. Qui N. ci sta dicendo una cosa molto importante: l’uomo è un essere
che vive valutando, cioè attribuendo valore alle cose. La vita umana non può esistere senza valutare le cose,
cioè confrontarle fra di loro e stabilire una gerarchia tra la cosa che vale di più e quella che vale di meno, tra

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la cosa che conta di più e quella che conta di meno. Quindi anche la morale altro non è che un sistema di
valutazione, come una bilancia. Solo che nel caso della morale ciò che viene valutato non è una cosa tra le
altre ma è la vita stessa, è l’esistenza. Per questo la lotta fra N. e il cristianesimo, fra N. e il prete asceta è
cosi spietata, perché si decide del valore della cosa più importante, che è la nostra esistenza, che è la nostra
vita.
“Quest’ultima (cioè la vita) viene messa da costoro in relazione a un’esistenza di specie del tutto diversa,
alla quale essa si rapporta in modo antitetico ed esclusivo, salvo il caso che non si rivolga ad un certo punto
contro se stessa, neghi se stessa: in questa eventualità, l’eventualità di una vita ascetica, la vita ha il valore
di un ponte per quell’altra esistenza”.
Allora, il prete asceta mette la nostra vita in relazione con un’altra vita, la vita futura. Quindi sembra che ci
sia soltanto una contrapposizione fra la vita presente, che non vale niente, e la vita futura, che premierà i
buoni e punirà i cattivi. Però dice ad un certo punto N., attenzione perché questa vita potrebbe anche
rivolgersi contro se stessa, arrivando a volersi negare. In questa eventualità, l’eventualità di una vita
ascetica, la vita ha il valore di un ponte. Allora come dicevamo prima: attraverso l’ascesi, io mi preparo alla
redenzione dalla colpa, al riscatto del mio peccato e quindi mi predispongo alla beatitudine eterna che
verrà garantita al buono e ai giusti.
“L’asceta tratta la vita come un cammino sbagliato, come un errore che si deve confutare mediante
l’azione. Che cosa significa questo? ( e qui N. dice la cosa che anticipavamo: che anche se noi adesso
viviamo in una fase storica dove gli ideali ascetici sono praticamente inesistenti, però questi hanno
dominato per secoli e millenni le civiltà umane. Parliamo al plurale perché non riguardano solo la storia
dell’occidente, ma anche quella dell’oriente). “Una siffatta spaventosa modalità di valutazione non sta
iscritta nella storia dell’uomo come eccezione e singolarità: essa è una delle realtà di fatto più estese e più
durevoli che siano mai esistite. Letta da una lontana costellazione, forse la scrittura maiuscola della nostra
esistenza terreste indurrebbe a concludere che la terra sia la stella propriamente ascetica, un cantuccio di
creature scontente presuntuose e ripugnanti, del tutto incapaci di liberarsi da un profondo tedio di sé, della
terra, di ogni vita, e intente a fare a se stesse il maggior male possibile, per il piacere di fare del male –
verosimilmente il loro unico piacere”. Parole pesantissime che come vedete alludono alle conclusioni a cui
N. era pervenuto nelle due dissertazioni precedenti, cioè al fatto che la crudeltà, ad un certo momento, non
si esercita più contro qualcuno di diverso da noi ma si esercita contro il soggetto stesso.
“Consideriamo pertanto come il prete ascetico faccia sentire regolarmente, universalmente, quasi in tutti i
tempi, la sua presenza; non appartiene a una determinata razza; prospera ovunque; germina da tutti i ceti.
Deve essere una necessità di primordine quella che fa sempre di nuovo crescere e prosperare questa specie
ostile alla vita – deve pur essere un interesse della vita stessa, che non vada istinto con siffatto tipo di
autocontraddizione”. La domanda è: ma perché il modello, che qui N. vede che va al di la del ceto della
professione, dice, certo, c’è il tipo che si incarna in un ceto, ma in realtà questo tipo, il tipo del prete asceta
può fare qualunque professione, è una modalità umana di reazione negativa verso la vita. Allora N. dice: ma
se questa reazione negativa contro la vita, continua a vivere, vuol dire che è nell’interesse della vita che ci
sia questo tipo d’uomo. la risposta N. ce la dà alla fine della dissertazione: l’interesse della vita sta nel fatto
che l’uomo, attraverso gli ideali ascetici, ha dato un senso alla propria sofferenza. Dando un senso alla
propria sofferenza è sopravvissuto, non solo alla sofferenza ma all’assenza di senso, all’assurdo, al vuoto
che, senza gli ideali ascetici, lo avrebbero condotto al suicidio, all’auto soppressione. In questo modo,
l’uomo, volendo negare la vita, l’ha affermata. Ma non soltanto ha affermato la vita, ha anche educato la
propria volontà, quindi ha finito con rafforzare la volontà che voleva negare. E in questo modo, dice N.,
anche gli ideali ascetici hanno svolto un ruolo per condurre dall’uomo verso il Super Uomo.
*“La vita il valore di un ponte”, ma questa metafora del pinte è una metafora che usa lo stesso N. quando
dice che l’uomo è un ponte, cioè è una forma di transizione tra l’animale e il Super Uomo. Il prete asceta
dice: l’uomo è un ponte verso una vita puramente spirituale; N. dice “no!”, l’uomo è un ponte verso una
vita finalmente vissuta nella sua pienezza e dando al corpo la centralità che gli spetta. Però c’è sempre
l’idea del ponte, solo che il ponte del prete asceta è un ponte negativo, di negazione del corpo, di

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negazione della terra; mentre il ponte verso cui vuole andare N. è un ideale affermativo sia del corpo, sia
della vita sulla terra.

29 aprile
Indicazioni utili che ci permettono di avere il quadro dei riferimenti principali che troveremo nella lettura:

WAGNER  musicista più importante della 2° metà dell’800 a livello non solo tedesco ma anche europeo,
famoso per aver fatto la cosiddetta tetralogia intitolata “L’anello del Nibelungo”.
Per Nietzsche Wagner è il prototipo dell’artista, quindi quando N. parla di arte e di musica, di creazione dal
punto di vista estetico, lui fa riferimento a Wagner, di cui è stato anche intimo amico anche se quest’ultimo
era di molti anni più vecchio.
Wagner era stato molto abile anche dal punto di vista promozionale tanto che si è fatto costruire un teatro
dall’allora re di Baviera: il teatro di Bayreuth sede di un festival annuale in cui vengono rappresentate le
opere di Wagner, musicista specializzato in opere liriche.
Il giovane Nietzsche inizialmente è amico di w. perché vede in lui l’artista che può dare alla Germania una
nuova arte di tipo tragico: il vertice dell’arte per N. è rappresentato dalla tragedia greca.
Il giovane Nietzsche è convito che W possa essere l‘ artista in grado di costruire una nuova tragedia, una
nuova forma di arte drammatica dello stesso livello di quella dell’ antica Grecia ma adatta alla modernità,
adatta all’uomo moderno.
N. pensa queste cose perché W. Nei suoi scritti e nella sua pratica artistica aveva teorizzato la cosiddetta
”opera d’arte totale”. Opera d’arte totale perché secondo lui il dramma musicale doveva unire la parola,
(cioè la poesia), il suono, (cioè la musica) e l’azione, (cioè il dramma  parola che deriva dal greco e
significa azione).
Ma N. dice ma caspita, ma allora W vuol fare la stessa cosa che avevano fatto i greci, perché la tragedia
greca era esattamente un opera d’arte che non si limitava a rappresentare un’azione drammatica, cioè una
vicenda con determinati personaggi, con una determinata trama; quello che noi intendiamo appunto per
azione drammatica ma nella tragedia c’era anche la musica, c’erano danze, canti e naturalmente c’era la
poesia, il testo poetico e le tragedie in Grecia venivano rappresentate nel corso delle feste dedicate a
Dionisio e i greci organizzavano delle vere e proprie gare tra i poeti, i cosiddetti adorni tragici, cioè delle
gare in cui alla fine il popolo premiava il poeta che secondo loro aveva scritto le tragedie più belle.
Allora W. È per il giovane N. una specie die eroe artistico verso cui N. esprime una totale ammirazione,
devozione ma come quasi sempre accade la realtà finisce con il deludere le aspettative che noi poniamo in
alcune persone o in alcuni gruppi: N. si accorge che W. È certamente un grande artista ma era anche una
persona estremamente vanitosa, furba e ambiziosa e quindi egoistica, e tutte queste caratteristiche (la
vanità, la furbizia, una certa forma di egoismo, di ambizione, di bisogno di ammirazione, di lodi, di successo)
N. le condensa in questa parola: istrione.

W diventa per N. un grande istrione = una persona che con le sue parole e atteggiamenti riesce a catturare
il favore degli altri, riesce quindi con abilità e astuzia a promuovere i propri interesse, le proprie ambizioni,
la propria sete di successo perché nel caso dell’artista l’obiettivo non è la conquista del potere ma la gloria,
l’ammirazione, il successo, l’applauso.

W. diventa, dall’artista che avrebbe dovuto dare alla Germania la uova arte tragica dei tempi moderni, il
prototipo di un uomo ricco di contraddizioni e ambiguità in cui naturalmente bisogna distinguere l’opera, la
qualità musicale di W. dall’uomo W., dalla persona, dal carattere che è molto inferiore rispetto alla qualità
dell’opera artistica.

Allora dicevo: per N. è molto importante la cosiddetta tetralogia = 4 opere che costituiscono un unico ciclo
drammatico e musicale.

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Istrione = quello che vuole W. in realtà è l’ammirazione del popolo, il successo e quindi N. comincia ad
interrogarsi sulla psicologia dell’artista e vede nell’artista un insieme di grande capacità creativa ma anche
un uomo pieno di limiti legati all’incapacità di superare la propria vanità, il proprio bisogno di successo.

Questo ciclo intitolato “L’anello del Nibelungo”, si compone di 4 opere: 1) L’oro del reno, 2) La Valchiria, 3)
Sigfrido, 4) Il crepuscolo degli dei. In queste 4 opere che costituiscono un unico ciclo W. mette in scena una
vera e propria metafisica perché W. era diventato un convinto seguace di Schopenhauer: l’anello
rappresenta tutto ciò che è legato all’affermazione della volontà, quindi brama di potere, sete di dominio,
avidità, violenza, inganno; tutto ciò che gli uomini fanno per avvantaggiarsi sugli altri e conquistare potere e
ricchezza per dominare sugli altri. Quindi l’anello è il simbolo della volontà di affermazione, di supremazia e
di sopraffazione nei confronti degli altri.

E questo carattere diabolico dell’anello emerge quando l’ anello viene sottratto al suo luogo naturale che è
il fiume Reno.

Allora, tutta la storia è volta alla conclusione costituita dal fatto che, attraverso varie vicende, l’oro viene
restituito al Reno e attraverso la restituzione dell’oro al suo luogo naturale si compie il crepuscolo degli dei
che coincide con il crepuscolo del mondo inteso come ambito dominato dalla volontà di vivere e quindi da
tutto ciò che questa volontà comporta in termini di desiderio, ambizione, sete di potere, avidità e cosi via.

Ecco, in questo modo W. Voleva trasmettere il messaggio, che è il messaggio proprio di Schopenhauer, ma
che Schopenhauer a sua volta impara dalle religioni orientali, dal buddismo e dall’induismo, dall’idea del
nirvana per esempio: estinguere la propria volontà, ricongiungersi al niente, abbandonare la propria
individualità e ripristinare la propria unità con la totalità dell’universo.

In quest’opera il protagonista fondamentale è l’eroe Sigfrido (Sigfrido in tedesco vuole dire “gioia nella
vittoria”). Sigfrido diventa il prototipo dell’eroe germanico che è caratterizzato dall’ingenuità, dal coraggio e
dalla abilità guerriera.

Quindi N. formula la sua teoria del superuomo a partire dal Sigfrido di W. e unisce in unico ideale l’eroe
greco - gli eroi dell’etica omerica, Achille (il prototipo dell’eroe epico) - con Sigfrido, modello e prototipo
dell’eroe germanico. E’ come se N. in questa teoria volesse rappresentare una sorta di staffetta ideale in cui
la fiaccola della civiltà passa dalla Grecia dell’età tragica (la Grecia di Omero e dei tragici), alla Germania di
w. e di Sigfrido; Tutto quello che sta in mezzo deve essere abbattuto, e quello che sta in mezzo ha un
nome, si chiama cristianesimo.

Ora però cosa fa W.? E questo per Nietzsche è una cosa sconcertante ma al tempo stesso anche
comprensibile se teniamo conto della psicologia istrionica dell’artista, che non è mai disinteressata ma
presenta sempre dei modelli funzionali alla propria situazione che rispecchiano lo stato d’animo e la
condizione vitale dell’artista.

N. dice ma come, W. Crea Sigfrido e alla fine della sua carriera scrive il Parsifal (l’ultima opera di W.)?

Chi è Parsifal? W. appunto nelle opere principali si è sempre rifatto, ha sempre utilizzato come materiale
per la sua costruzione artistica il materiale del mito germanico, come omero e i tragici greci utilizzavano
come personaggi gli eroi e gli dei del mito, Omero non è che si inventi Zeus, Zeus fa parte della religione
popolare e Omero da voce a queste figure che erano già esistenti.

Ora, la stessa cosa vuol fare W., non più ovviamente utilizzando i miti greci ma utilizzando i miti germanici,
nordici.

Il Parsifal fa parte del ciclo dei poemi medievali che raccontano in forma poetica le vicende di eroi cristiani
che lottano per affermare il cristianesimo contro i nemici della religione cristiana.

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Parsifal in particolare è l’eroe che è destinato a recuperare il sacro Graal = la coppa che ha raccolto il
sangue di Gesù quando Gesù sulla croce venne colpito dalla lancia di un soldato romano che gli apri una
ferita sul suo costato e il sangue sgorgato da questa ferita venne raccolto in un calice chiamato appunto
Graal e l’eroe Parsifal è appunto consacrato al recupero e alla protezione di questa coppa.

Nell’opera di W. Siamo in presenza di un regno cristiano sulla via del disfacimento e della decadenza perché
il re che aveva in custodia il Graal si è fatto sedurre da una donna e quindi ha perduto la purezza che era
richiesta perché il Graal potesse trasmettere la sua forza ai cavalieri che lo dovevano difendere. Parsifal
allora nell’opera di W. è l’eroe che resiste alla tentazione, che non si fa sedurre, che mantiene quindi una
innocenza di tipo quasi infantile e in questo modo riesce a ridare splendore al Graal e a salvare il regno
cristiano.

Naturalmente N. è sconcertato da questo tipo di opera, perché intanto W. era famoso per le sue avventure
galane (?), quindi nella giovinezza e nella maturità W. Era stato tutt’altro che un eroe casto, quindi
Nietzsche si chiede: ma com’è che W. Adesso fa l’elogio della castità, della rinuncia del godimento
sessuale? e com’è che W. Che ha scritto l’anello del Nibelungo, tutto centrato sul Sigfrido e sulla morte
tragica dell’eroe, adesso inventa una figura totalmente opposta a Sigfrido: cioè un eroe cristiano, un eroe
che nega radicalmente la gioia della vita e che interpreta il corpo e il godimento corporeo come il simbolo
di un peccato.

Allora, N. evidentemente ritiene questa un’opera frutto della senilità di W.: con il decadimento fisico
dell’artista, ecco che l’artista modica la figura del suo eroe.

Cosa ci vuol dire Nietzsche? Che questo elogio della castità è fatto da un uomo che non ha più la forza di
agire come aveva fatto in età giovanile e nella sua età matura, quindi W., nella lettura di Nietzsche, non fa
che trasfigurare una condizione che è la condizione di un vecchio e vuole trasfigurare questa debolezza
legata alla vecchiaia come un ideale sublime, come una vittoria del bene nei confronti del male.

Allora, perché la 3° disertazione inizia con W.? Perché attraverso W., Nietzsche comincia a mettere nel
lettore un dubbio sulla effettiva validità degli ideali ascetici, cioè di quelli ideali che predicano la rinuncia
alla vita, al godimento, che predicano il disprezzo del corpo, che identificano la corporeità con una
condizione di decadenza e addirittura di punizione.

Per capire cosa intende N. con ideale ascetico è necessario avere presente il significato della parola ascesi.

Ascesi è una parola di origine greca, “askesis”, che significava “esercizio”  esercizio ad esempio di tipo
fisico, una sorta di allenamento, quindi c’è l’idea di una disciplina: se io voglio preparami per una gara di
atletica leggera devo mantenere una certa dieta, un certo regime di vita, devo praticare una serie di esercizi
con regolarità e costanza, cioè devo sottopormi ad una serie di regole e a uno stile di vita che possano
condurmi a conseguire un buon risultato.

Allora l’askesis da esercizio e disciplina di tipo esercizio fisico (quasi atletico) passa poi nel cristianesimo ad
un significato di tipo spirituale; allora l’esercizio non è più l’esercizio volto al potenziamento del corpo e al
conseguimento di un risultato come quello che i poetici celebravano negli atleti che vincevano alle
olimpiadi. Olimpiadi vennero inventate dai greci e non erano un contesto solo atletico ma anche religioso e
l’atleta che vinceva una olimpiade veniva celebrato e veniva anche largamente ricompensato perché
portava un enorme prestigio alla sua città. Le olimpiadi erano le gare che riunivano tutte le città greche;
Grecia è sempre stata (prima dell’arrivo dell’ impero macedone sotto l’impero del quale è diventata una
monarchia) una civiltà policentrica, cioè basata su molte città che erano autonome e indipendenti, anzi, che
spesso e volentieri entravano anche in guerra l’una contro l’altra, però, ogni 4 anni le guerre si fermavano e
le olimpiadi rappresentavano il momento dell’unità delle diverse popolazione che si riconoscevano in una
medesima mitologia, in una medesima religione, nel culto degli stessi dei, e che quindi partecipavano a
queste gare il cui senso non era solo atletico/sportivo, ma era anche politico e religioso. Allora l’atleta ha

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una componente ascetica dal punto di vista dell’esercizio, della disciplina, della regolarità, dello stile di vita,
ma questo elemento legato al corpo e alle necessità della gara e della competizione, quindi l’ascesi in
questo caso non è fatta per mortificare il corpo ma il contrario, per potenziare la corporeità in modo da
pervenire a una vittoria che avrebbe dato gloria a se e alla propria città.

Ecco, per N. con il cristianesimo la askesis cambia di significato e da disciplina corporea volta al
perseguimento della gloria, al soddisfacimento dell’ ambizione, quindi alla affermazione della potenza,
diventa invece una disciplina spirituale che deve abituare l’ uomo a mortificare il corpo, a rinunciare al
soddisfacimento dei propri istinti e desideri corporei, deve portare l’uomo a ridurre progressivamente lo
spettro dei propri bisogni.

Quindi ascesi diventa una forma di autopunizione che l’ uomo infligge alla propria corporeità, perché nel
cristianesimo la corporeità e visto come sinonimo di peccaminosità.

Allora, questa lettura voi la dovete collegare a quello che abbiamo visto nelle prime 2 dissertazioni:

ma perché il corpo dovrebbe essere peccaminoso? Qual è la regione per cui la corporeità è cattiva?

Perché dice N. il cristianesimo è la religione del gregge, dei malati, di quelli che lui chiama i malriusciti, dei
deboli, dei poveri, che non possono ammirare il corpo perché per loro la bellezza e la potenza del corpo è
rappresentata da chi li domina, dalle caste dominanti.

Quindi il popolo degli inermi, dei deboli è costretto ad invertire i valori aristocratici, basati sul vigore, sulla
forza, sull’eroismo, sulla bellezza e a introdurre un elemento di disprezzo nei confronti di tutto ciò che
appartiene a questa sfera di valori, legati appunto all’affermazione della vita e al vigore del corpo.

Allora, qual è però lo strumento che permette alla plebe di operare questa inversione rispetto ad una
morale di tipo eroico ed aristocratico?

E qui troviamo il grande protagonista della 3° dissertazione, quello che Nietzsche chiama “il prete asceta”. E
anche qui ritroviamo alcune cose che abbiamo già letto nelle precedenti dissertazioni.

Il prete asceta è quell’uomo dotato di volontà di potenza, che ambisce al potere ma che non è
sufficientemente vigoroso e coraggioso per lottare in modo aperto contro le classi guerriere e
aristocratiche, quindi è costretto a conquistare il potere per via indiretta, cioè attraverso l’elaborazione di
dottrine religiose in grado di fargli conquistare l’appoggio della plebe e in grado quindi di dotarlo del potere
derivante dal controllo della plebe.

Il cristianesimo è l’elaborazione, quindi, dottrinale di un particolare tipo di umanità, di una particolare


tipologia umana; si tratta comunque di uomini a loro modo eccezionali, fuori dal comune, la cui
eccezionalità però è sintomo e frutto di una vita malata.

E’ una eccezionalità della malattia, cioè di una incapacità di vivere in pienezza la propria condizione umana
che spinge questi individui a operare una conversione della loro volontà di potenza quindi la potenza da
affermativa deve diventare funzionale a disprezzare la vita, attraverso il disprezzo della vita, attraverso la
conduzione della vita ad una sorta di espiazione nei confronti di una colpa originale, il prete asceta cattura il
consenso della plebe, dice alla plebe: guardate che brutte che sono le ricchezze, che spregevoli che sono le
guerre, le battaglie, i duelli, che squallido è il godimento dei sensi, cioè tutto ciò che manca alla plebe viene
dipinto alla plebe come qualcosa non solo privo di valore ma dotato di valore negativo.

In questo modo il prete asceta dà al risentimento e all’invidia delle masse popolari un obiettivo, è come se il
prete ascete consentisse di dare uno sfogo, di dirigere l’insoddisfazione vitale delle masse plebee contro un
avversario, contro un bersaglio.

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Però dice N,. attenzione, perché il prete asceta in realtà non fa solo questo, perché non è un capo
rivoluzionario il prete asceta, non sta dicendo alle masse “dovete ribellarvi per conquistare il potere”, eh
no, perché altrimenti lui sarebbe il primo a perderlo, lui dice alle masse “guardate che quello che soffrite
adesso vi verrà ricompensato in una vita futura”.

Quindi il prete asceta svolge una duplice funzione:

1) dà alle masse un obiettivo su cui sfogare la propria invidia e il proprio risentimento, però al tempo
stesso svolge anche una
2) funzione di contenimento delle masse: impedisce al risentimento delle masse di esprimersi in una
forma politicamente rivoluzionaria perché nel dire alle masse che la vita sulla terra non ha nessun
valore, invita le masse a non lottare per migliore la propria condizione di vita sulla terra, ma invita
le masse ad attendere pazientemente l’ avvento della vita futura, della vita nell’ aldilà.

E in questo modo, dice N, anche il prete asceta (una cosa che non ho capito, minuto 49,12) perché separa le
masse plebee dai ceti aristocratico-nobiliari; questo naturalmente funziona fino all’ età moderna. Con l età
moderna, con il cambiamento complessivo che si attua a partire dal 500 anche il lavoro del prete asceta
comincia a vacillare e con la rivoluzione francese le masse conquistano il potere ponendo fine al dominio
della nobiltà. E per Nietzsche questo è catastrofico, perché segna l’avvento della società borghese basata
sulla democrazia politica e sugli ideali della fraternità e dell’uguaglianza.

Allora l’ideale ascetico indica una condizione di patologia di cui Nietzsche vuole ricostruire la genesi per
mostrare che anche l’ ideale ascetico, anche la predica al sacrificio, alla rinuncia, non è un esercizio
disinteressato, è sempre una modalità di attuazione della volontà di potenza, cioè rispecchia sempre una
determinata condizione di vita, e quindi è altrettanto egoista al pari di quelli ideali considerati egoisti dal
cristianesimo, cioè gli ideali della bellezza, della ricchezza, della superiorità, del coraggio, del godimento,
ecc.

Quindi non si esce, in latri termini, dal primato della volontà, sono sempre forme di attuazione della
volontà, però nel caso appunto del prete asceta sono forme particolarmente sottili e sofisticate.

E qui troviamo un altro elemento positivo nel prete asceta: cioè proprio perché i mezzi che il prete utilizza
per affermare la propria ambizione sono mezzi intellettuali, cioè sono mezzi indiretti, ecco che uno degli
effetti del prete asceta consiste nello sviluppo dell’ intelligenza e della cultura, quindi come sempre l’analisi
di N. è un analisi complessa, sicuramente la tendenza dominante è di critica distruttiva del prete asceta e
degli ideali ascetici però non mancano secondo Nietzsche degli aspetti positivamente vitali anche nella
predicazione degli ideali ascetici

E questi aspetti di tipo positivo sono appunto legati allo sviluppo dell’ intelligenza, l’ apertura di un mondo
interiore che mancava alla grecità e che si introduce nella storia europea attraverso la filosofia e il
cristianesimo.

Allora, se assumiamo questo punto di vista, non più l’ideale ascetico come negazione della volontà, ma
come una forma più sottile di affermazione della volontà noi possiamo vedere ad esempio perché i filosofi
siano quasi sempre stati degli asceti, abbiano sempre sostenuto la bontà degli ideali ascetici, della
parsimonia, della frugalità, della rinuncia, del controllo delle passioni; perché il controllo delle passioni era
nei filosofi la condizione per potersi dedicare in modo esclusivo alla loro passione, cioè alla passione del
pensiero, alla ricerca della verità. Quindi in alcuni brani N. elogia persino l’ ascetismo del filosofo perché
toglie all’ ascetismo del filosofo la patina della virtù, dice Nietzsche: ma guardate che l’ ascetismo dei
filosofi non ha niente a che fare con una rinuncia alla vita, è un modo attraverso cui la vita del filosofo si
afferma, cioè l’ascetismo del filosofo è funzionale alla affermazione della vocazione dei filosofi, che è la
vocazione del pensiero.

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E in questo senso allora N. stesso si ritiene un’ asceta. Ci sono dei brani dove N. fa chiaramente riferimento
alla propria vicenda autobiografica ad esempio lui dice “attenzione che asceta non vuol dire per forza
andare nel deserto, ad esempio si può anche vivere in albergo dove non si conosce nessuno e dove quindi
possiamo conversare con chiunque mantenendo la nostra più totale indipendenza”, è esattamente il tipo di
vita che faceva lui.
Oppure ad esempio Nietzsche dice che per pensare non bisogna per forza starsene rinchiusi tra 4 mura, lui
per esempio dice che il suo studio preferito è piazza S. Marco a Venezia e dà anche l’ora: dalle 10,00 a
mezzogiorno.
Allora che cosa vuol dire? Che in questo senso l’ascetismo è veramente una condizione vitale, non è legato
ad atteggiamenti di tipo esteriore, non è legato a forme di vita eccezionali, no anzi, è il contrario, dice
sembra dire “guardate che il vero asceta è uno che si mimetizza con gli altri, che tende a non farsi notare e
che proprio in questo modo mantiene la sua indipendenza.
Allora in questo senso c’è un grande elogio della filosofia come pratica di pensiero a carattere ascetico, se
alla dimensione della ascesi recuperiamo quello che era il suo significato greco, cioè “pratica di
potenziamento della propria volontà, esercizio nel senso appunto di capacità di praticare lo stile di vita che
è il più adatto per noi, non di rinunciare alla vita ma di affermarla nelle modalità che sono le più adatte per
noi, che ci rendono più felici, che ci permettono di esprimere al meglio le nostre possibilità.

Allora in questo senso l’ascesi cambia completamente di significato, mentre quello che Nietzsche non
cesserà di condannare è il significato cristiano dell’ ascesi, intesa come rinuncia, come disprezzo, come
rifiuto della vita; questo per Nietzsche non va bene perché al posto di guarire la malattia è il sintomo della
malattia, che non solo non viene guarita ma viene aggravata, si spaccia per guarigione quello che è un
ulteriore peggioramento della malattia, la malattia che disprezza la vita.

In questo senso allora perfino l’ideale ascetico può essere funzionale all’affermazione della vita.

Nelle prime sezioni di questa ricerca ci sono altri aspetti da chiarire.

Ad esempio ad un certo punto N. fa riferimento ad una dottrina di Platone che è passata alla storia con il
nome “teoria della nobile o della pia menzogna”, cioè della menzogna a fin di bene.

Platone dice “guardate però che per governare il popolo purtroppo a volte è necessario mentire”, è una
forma di menzogna e anche di mito: l’idea ad esempio che l anima sia immortale e che sia sottoposta ad un
ciclo di ricompense o di punizioni a seconda del modo in cui l uomo si comporta su questa terra.

E dice Platone, questo è un mito necessario, è una pia menzogna, è una bugia fatta a fin di bene perché dice
Platone: quanti sono gli uomini, gli esseri umani capaci di seguire la virtù per amore della virtù? Per Platone
c’è solo un tipo di uomo che è in grado di fare questo, e cioè il filosofo; solo i filosofi e i giovani educati alla
filosofia però si può essere educati alla filosofia, secondo Platone, solo se c’è un anima adatta a ricevere
questo insegnamento, e queste anime sono poche, dice Platone, il resto degli uomini è troppo legato ad
una dimensione egoistica, alla ricerca della ricchezza, del potere, del successo, come faccio, dice Platone, a
convincere questi uomini a fare il proprio dovere nella città per amore della città e basta?
Allora dice Paltone, soprattutto nelle condizioni di decadenza di una città, nei momenti di corruzione dei
costumi, nei momenti in cui il legame tra i cittadini e lo stato si allenta fino quasi a disfarsi, allora è
necessario introdurre della narrazioni che mentono ma che persuadono per timore di essere puniti,
persuadono anche gli uomini tendenti all’ingiustizia, che sono la maggioranza, a rispettare le leggi e a fare
giustizia, ad agire conformemente a giustizia.
Quindi è una menzogna perché questo ciclo di eterne ricompense e punizioni non esiste, è un mito, però è
un mito necessario al bene della città e quindi è un mito necessario anche per il benessere di quegli uomini
che non conoscendo la virtù, non sanno che senza virtù non sarebbero in grado di vivere neppure loro,
perché nessun uomo può vivere senza una città, e nessuna città può sopravvivere senza cittadini virtuosi; se
i cittadini non lo sono spontaneamente, lo devono diventare attraverso dei metodi indiretti.

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E dice paltone “non basta la coercizione, ci vuole la convinzione e questa la produco persuadendo,
convincendo”
Guardate allora l’elemento sofistico del pensiero di Platone, queste cose le avevano dette i sofisti contro cui
Platone si è battuto tutta la vita.
Questa idea della menzogna necessaria è una teoria sofistica, allora quando leggerete in Nietzsche questo
riferimento a Platone a alla teoria della pia menzogna, tenete presente che il contesto platonico è quello
che ho cercato di riassumere.
C’è un altro punto che vi segnalo e in cui Nietzsche fa riferimento a delle pratiche ascetiche che si erano
diffuse soprattutto nella chiesa cristiana d’Oriente e in alcune regioni della Grecia.

Inizio del paragrafo 17, una quindicina di righe dopo l’ inizio, pag. 125:
“Infatti, parlando in generale: presso tutte le grandi religioni si è trattato principalmente di combattere una
certa stanchezza e pesantezza divenuta epidermica”.
Allora, la religione nel predicare l’accanimento contro il corpo da in realtà l’obiettivo alla volontà, è una
volontà negativa perché si rivolge contro di sé, però proprio in questo rivolgersi contro di sé, trova un
motivo per esercitarsi, per vivere.

Saltare una pagina e mezzo quasi e andare ad una citazione francese che riprende la frase di un filosofo del
600 che si chiamava Pascal, filosofo famoso per l’argomento della scommessa.

Perché bisognerebbe credere al cristianesimo? Io, dice Pascal, non sono in grado di dimostrare, come
pretendeva di fare Cartesio l’esistenza di Dio (siamo nella metà del 600, Pascal è il grande nemico di
Cartesio; Pascal vede in Cartesio un filosofo ateo che crede soltanto nella scienza).

Quindi Pascal dice “io non faccio finta di essere come Cartesio che pretende di dimostrare con la sua
intelligenza l’esistenza di dio e poi di dio non se ne fa più niente, dio gli serve solo per garantire la verità
delle proprie teorie.

Io non ho delle dimostrazioni dell’esistenza di dio, quindi non posso dimostrare che il credente ha ragione
l’ateo ha torto, però io posso argomentare a favore della ragionevolezza del cristianesimo.

Perché immaginiamo un giocatore che deve scommettere sull’esito di qualcosa di cui non ha certezza: se
dice Pascal la posta è la nostra vita eterna, se io scommetto contro Dio so comunque che morirò e al tempo
stesso se poi dio esiste avrò perso la beatitudine eterna. Se io scommetto invece sull’esistenza di dio, se dio
non c’è faccio la fine che fanno gli altri, muoio e la mia vita finisce li, se invece dio c’è riceverò in premio la
beatitudine eterna per la fede che io ho dato nei confronti di dio. È chiaro che deve essere una fede
autentica, non basata soltanto su questo mio ragionamento.

Però dice pascal, questo mio ragioanmento potrebbe servire a chi si proclama ateo per rimettere in
questione la propria posizione, insomma, se scommetto su dio e dio non c’è non perdo niente ma ho tutto
da guadagnare nel caso che dio ci fosse, se invece non credo in dio e faccio la vita di un ateo libertino, a
questo punto se poi dio c’è perdo la vita eterna e naturalmente però l’ateo libertino però potrebbe
rispondere “si però, per lo meno nel frattempo mi sono goduta l’unica vita che mi è stata data, cioè la vita
sulla terra.

Ad ogni modo però Pascal era un appartenente alla corrente del giansenismo, una corrente della chiesa
francese radicalmente opposta ai gesuiti. Questa è la grande contrapposizione che separa la religione e la
chiesa francese della seconda metà del 600.

I gesuiti erano legati ad una morale non necessariamente intransigente, portati in un certo senso anche al
compromesso; i giansenisti erano invece dei rigoristi e questa fede intrisocene si riflette in questa
folgorante citazione che fa Nietzsche “il faut s’abetir” = bisogna diventare stupidi, bisogna mortificare la
propria intelligenza (e lo dice uno dei massimi matematici della storia della matematica); bisogna diventare

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stupidi perché l’amore per la nostra intelligenza ci può portare a peccare di superbia e a sopravalutare noi
stessi, ci può portare cioè a infrangere il precetto dell’unità, e magari ci può spingere a sentirci superiori agli
altri.

Per Nietzsche questo è l’espressione esasperata di una morale ascetica.

Pascal invita al disprezzo dell’intelligenza.

Ma allora dice Nietzsche:


“che tali sportsman della “santità”, di cui abbondano tutte le età e quasi tutti i popoli, abbaino
effettivamente trovato una liberazione reale da ciò che con un training tanto severo combattevano, è un
fatto di cui non si può assolutamente dubitare – in innumerevoli casi, con l’aiuto del loro sistema di mezzi
ipnotici, si sbarazzarono realmente di quella profonda depressione fisiologica”
Cioè la ricerca dell’ascetismo era un modo per rianimare la propria forza di volontà e non è un caso da
parte di Nietzsche l’uso di termini legati al vocabolario dello sport, cioè dell’esercizio (sportsman, training
 traduzione inglese di askesis, dell’esercizio, cioè dell’allenamento).

Ora appunto attraverso questo esercizio rivolto contro il proprio corpo, contro la propria intelligenza, cioè
contro di se, in realtà affermavano la loro volontà di vivere, davano uno scopo alla loro volontà e quindi
rianimavano quella volontà che dichiaravano di negare ma che proprio attraverso la negazione di se si
riaffermava.

Più avanti voi trovate questa ulteriore frase “tanto più è sicuro che essa serve e può servire da strada verso
ogni specie di perturbazioni intellettuali, come negli “esicasti” del Monte Athos”.

Monte Athos è nel nord della Grecia ed è la sede di una serie di monasteri dove i monaci si dedicavano a
pratiche ascetiche estreme perché ritenevano che attraverso il digiuno potessero potenziare la loro
capacità di visione e quindi potessero arrivare all’illuminazione cioè all’unità spirituale con dio.

Ecco, queste pratiche ascetiche sono appunto passate alla storia con il nome di esicasmo, quindi esicasti è il
termine greco che sta a significare monaco ascetico.

30 aprile
esicasti = monaci asceti che avevano fondato una serie di monasteri, tuttora esistenti, su il promontorio
Athos a nord della Grecia in cui le pratiche di rinuncia e di ascetismo erano particolarmente rigorose tanto è
vero che Nietzsche dice che si producevano quelle che lui chiama perturbazioni intellettuali, allucinazioni
acustiche e ottiche, e una specie di auto stordimento corporeo che apriva degli stati celebrali che questi
monaci interpretavano come luce interiore, come illuminazione, come finalmente confluenza dell’anima del
singolo con il suo creatore divino, quindi erano stati volti a stressare il corpo e a produrre condizioni
celebrali tali da dare la sensazione di ricevere un’illuminazione, una visone intellettuale di Dio che veniva
appunto interpretata come unità tra l’anima dell’asceta e la divinità come padre creatore di tutte le cose. è
quella che in latino si chiama union mistica, una unione mistica tra il credente e il proprio Dio, per questo
Nietzsche utilizzava le metafore sportive che abbiamo visto ieri: “sportsman della santità”, atleti potremmo
dire della santità, degli atleti perché comunque si tratta di una forma di disciplina, di esercizio solo che
questo atletismo è un atletismo di tipo spirituale che vuole conseguire delle condizioni in grado di mettere
la mente in uno stato che per N. è uno stato patologico di allucinazioni e di autosuggestione, per i monaci
invece è una vera e propria esperienza che appunto il monaco interpreta come illuminazione, come atto
conoscitivo che pone l’anima in diretto contatto con Dio.

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Allora l’interpretazione di N. è: “è utile per la vita questo tipo di esperienza? Si, perché rianima una volontà
che per N. è una volontà sofferente e da a questa volontà uno scopo, lo scopo di mortificare il corpo e di
potenziare lo spirito.

E’ chiaro che per N. lo spirito di per se non esiste, esistono solo condizioni corporee che esprimono
determinate situazioni fisiologiche: un corpo potente o un corpo malato, un corpo forte o un corpo debole,
una vita sana e una vita in qualche modo danneggiata.

A queste condizioni fisiologiche corrispondono delle condizioni mentali che nel caso di una vita debole,
malata, sofferente porterebbero l’uomo al suicidio; attraverso l’ideale ascetico, della rinuncia, del sacrificio,
del disprezzo del corpo e perfino dell’autopunizione in realtà la volontà del soggetto si rianima e quindi
sono tutti mezzi attraverso cui la vita si afferma anche in volontà deficitarie, deboli, in anime sofferenti che
sono tutte espressioni che indicano una determinata condizione fisiologica per N., una determinata
condizione del corpo.

Allora anche il fraintendimento è utile alla vita perché permette, nel caso del monaco asceta ad esempio, di
voler qualcosa, di volersi identificare con dio, quindi quella che lui chiama negazione della vita è in realtà un
modo attraverso cui lui stesso continua ad affermarsi, la volontà in lui si afferma e trova appunto nella
ascesi la motivazione e la pratica della propria autoaffermazione.

Allora riprendiamo proprio da questo passo, pag. 126

“che tali sportsman della “santità”, di cui abbondano tutte le età e quasi tutti i popoli, abbaino
effettivamente trovato una liberazione reale da ciò che con un training tanto severo combattevano”

Cioè, l’interpretazione è immaginaria ma l’effetto è reale, effettivamente da uno stato depressivo di


sofferenza attraverso l’ascesi questi uomini trovano uno scopo da dare alla loro esistenza che è uno scopo
per N. patologico perché nega il corpo, perché è di tipo reattivo, è tutto basato su ideali asceti di negazione
della corporeità, è tutto basato sull’alimentazione del senso di colpa, sulla necessità in qualche modo di
infliggere a se stessi determinate penitenze, punizioni, sacrifici, privazioni,

Però è comunque un mezzo che per i sofferenti funziona perché li spinge a continuare nell’ esistenza, da un
senso alla loro esistenza.

Quindi dice N. che “tali sportsman della “santità”, […] abbiano effettivamente trovato una liberazione reale
[…], è un fatto di cui non si può assolutamente dubitare. […] Con l’aiuto del loro sistema di mezzi ipnotici
(cioè di autosuggestione) si sbarazzarono realmente di quella profonda depressione fisiologica (di cui
soffrivano): ragion per cui il loro metodo si annovera tra i più generali dati di fatto etnologici.”

Cioè dice N.: guardate che questa questione è diffusa universalmente nei più diversi periodi della storia
umana e fra le più diverse civiltà, quindi vuol dire che risolve un problema che è diffuso in modo generale
perché indica una determinata condizione vitale ed è il rimedio attraverso cui chi si trova in questa
condizione depressiva trova un motivo per continuare a vivere.

“Similmente non si è in alcun modo autorizzati a includere, già di per sé, tra i sintomi della follia una tale
intenzione di ridurre alla fame la corporeità e le bramosie (cioè il desiderio).

Cioè, non siamo autorizzati ad interpretare come pazzi quelli che si sottopongono a questi sacrifici, per le
ragioni che abbiamo appena detto, perché in realtà si tratta di una strategia che è volta a conseguire uno
scopo, dà un motivo per continuare a vivere.

Quindi non è affatto folle o pazzo, poi certo queste privazioni portate all’estremo limite producono
situazioni allucinatorie, producono condizioni che possono diventare patologiche,

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ma come vengono interpretate dai soggetti che le sperimentano? non come patologie ma come un livello
superiore di conoscenza, e anche questa interpretazione è utile, è falsa ma è utile perché conferma queste
persone nelle cose e nelle pratiche che stanno facendo, le motiva ulteriormente a sviluppare queste
pratiche e quindi a conservare la loro vita.

Una cosa che il prof ci teneva a sottolineare è che N. nella paretesi se la prende ancora una volta con gli
inglesi: “ (come ama fare una balorda genia di “liberi spiriti”, e di nobili Cristofori divoratori di roastbeef)”

Inglesi = Cistofori mangiatori di roastbeef

Il roastbeef ci rimanda immediatamente all’Inghilterra così come l’uso ironico di termini inglesi quando si
tratta di sport e di allenamento, training.

Da dove salta fuori il termine “nobili Cristofori”?

Saltano fuori da una commedia di Shakespeare: “La Bisbetica domata”, nel prologo di quest’opera c’è un
popolano che amava mangiare e bere abbondantemente e che quindi si trovava molto frequentemente
ubriaco, a scopo di presa in gira viene prelevato da alcuni nobili, portato in una casa aristocratica e gli viene
fatto credere di essere il nobile a cui viene offerto uno spettacolo teatrale che narra in che modo un uomo
riesce a domare una donna insopportabilmente aggressiva, lamentosa e fastidiosa.

Allora, come si chiama questo personaggio? Cristoforo, allora alla fine i Cristofori divoratori di roastbeef
sono gli inglesi che evidentemente N. considera un popolo materialistico incapace di porsi degli obiettivi
autenticamente spirituali o culturali, è un popolo materialista che non a caso ha inventato la teoria
dell’evoluzione per cui l’uomo deriva dalla scimmia.

La cultura inglese rappresenta per N. una cultura in cui l’uomo viene considerato nei suoi aspetti più
meschini, più legati alla sua dimensione animale e quindi ecco il riferimento ai nobili Cristofori divoratori di
roastbeef, che pensano solo a mangiare e a bere e non a caso in Inghilterra la morale dominante è
l’utilitarismo, per cui ciascuno deve infondo ricercare il proprio benessere privato, personale.

Ecco, questi elementi edonistici e materialistici a N. evidentemente non piacevano.

Allora solo un popolo di nobili Cristofori divoratori di Roastbeef, cioè che non riescono a sollevarsi oltre un
certo tipo conoscenza spirituale, possono liquidare il problema dell’ascetismo dicendo “massi, sono tutti
pazzi”, ma N. dice, “no non è vero questo”, non è vero anche perché attraverso l’ascetismo, l’abbiamo
detto ieri, in realtà si produce un avanzamento dell’uomo in termini di intelligenza e di cultura, abbiamo
detto che anche la filosofia alle sue origini era una pratica ascetica, una pratica che presuppone di
privilegiare determinate forme di vita.

E quindi il prete asceta, quello che N. indentifica come modello negativo, è però anche qualcuno che ha
come effetto quello di innescare un certo tipo di avanzamento, di progresso.

Altra cosa interessante di questo testo è che attraverso le pratiche ascetiche si produce comunque un
superamento della morale e anche questo a N. non poteva non piacere; l’opera infatti che N. aveva
pubblicato un anno prima si chiamava “Al di là del bene e del male”, cioè oltre le categorie della morale
convenzionale.

Ora, nel seguito di questo testo N. mostra come i mistici, i santi e gli asceti a loro modo hanno cercato una
via per andar oltre la morale; cioè anche il santo e l’asceta a suo modo ha capito che la morale non basta
per arrivare a una condizione superiore dell’esistenza, che non basta arrestarsi alla virtù nel senso di
rispetto dei valori socialmente corretti per congiungersi con Dio, per arrivare quindi all’espressione più alta
della verità; quindi anche qui, pur esasperando gli aspetti negativi e polemici della sua critica, però è
attento anche a riconoscere gli elementi positivi delle pratiche ascetiche e N. appunto cita da alcuni testi
buddisti e induisti alcuni frasi (pag. 127):

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<<”Bene e male”, dice il buddhista –“sono entrambe catene: dell’una e dell’altra s’impadronisce il
Perfetto>>

Cioè, il santo, l’uomo che è arrivato ad unirsi con la totalità del cosmo, che quindi si è liberato delle
imperfezioni legate alla singolarità, alla finitezza che è propria di ciascuno di noi, quindi chi è arrivato
veramente allo stato di perfezione, non è piu soggetto, non è piu subordinato al bene e al male, per lui
bene e male sono diventate delle catene e ora non è piu lui a essere soggiogato da queste catene ma
viceversa queste catene sono diventati strumenti subordinati al perfetto. Quindi entra in una condizione in
cui bene e male non stanno più sopra di lui ma stanno sotto di lui perché segnalano una condizione
esistenziale che ha ancora bisogno di orientamenti istituiti dalla società che non si è ancora sollevata oltre.

Poi N. cita un testo della religione induista i cui è scritto:

<< ”Fatto e non fatto” – dice il credente del Vedanta, “no gli cagiona alcun dolore: siccome un saggio,
scuote da sé il bene e il male (è come un animale che si libera dai lacci che dovrebbero tenerlo prigioniero);
il suo regno non soffre più a causa di veruna azione; oltre bene e male, oltre l’una e l’altra cosa procede
costui>>

Oltre il bene e il male è il titolo del libro di N., quindi al culmine della pratica ascetica, N. ritrova un’affinità
con quelle che sono le sue stesse dottrine, cioè la necessità di andare al di là del bene e del male, solo che
N. ci vuole andare per via affermativa, in altre parole N. vuole assumere il tragico della vita, non vuole
rinunciare come fanno glia asceti, vuole vivere fino in fondo la dimensione tragica, gioia e dolore,
godimento ma anche sofferenza, tutto questo come condizione per creare qualcosa che sia sempre nuovo
in termine d arte, di politica, di storia, di pensiero; Gli asceti, anche loro vogliono oltrepassare il bene e il
male però non attraverso l’ affermazione della potenza ma attraverso la negazione di essa, non attraverso l’
accettazione del tragico proprio della vita ma attraverso la fuga dalla dimensione tragica, attraverso la
rinuncia.

Ecco perché N. sostiene che gli ideali ascetici sono adatti a uomini non sufficientemente forti per accettare
la vita, uomini che soffrono della vita, che temono le sofferenze della vita e che hanno bisogno quindi di
fuggire di rimediare al dolore che la vota prova ad essi; l’ascetismo è uno dei mezzi più potenti e quindi
arriva ad un risultato che sembra lo stesso ma che in realtà ha un significato diverso perché l’ al di là del
bene e del male a cui perviene il santo è un al di là del bene e del male che è frutto di autoillusione, di
autosuggestione, e soprattutto è l’effetto di una fuga e di una rinuncia.

Però nonostante questo abbiamo delle correlazioni in ogni caso molto significative, nel seguito che non
leggiamo vedremo che N. effettivamente dice che ci sono altri aspetti abbastanza ridicoli quando poi questi
santi fanno l’elogio del sonno e vedono nel sonno

“il profondo sonno da parte di questi stanchi della vita, divenuti troppo stanchi anche per sognare”

*Schopenhauer parlava di “autoestinzione della volontà” che deve condurre ad una condizione di totale
acquietamento, ma questa condizione di totale acquietamento è un sonno senza sogni, un sonno che è
talmente totale che è privo anche di quella attività onirica che noi nella nostra vita quotidiana colleghiamo
col sonno. Il perfetto che si è davvero unito con Dio, non sogna neppure più e naturalmente è chiaro che in
questo esito N. vede la conferma della sua lettura: cioè, questi soggetti hanno bisogno di abbandonare la
vita e di annullarla perché solo cosi riescono a dimenticare le loro sofferenze e a non sentire più il loro
dolore.

Alla conclusione di questo paragrafo N. scrive “l’ipnotico senso del nulla, la quiete del sonno profondissimo,
insomma l’assenza di dolore”; qui N. fa riferimento al filosofo greco Epicuro che parlava di “aponia” =
assenza di dolore. Poi Epicuro aggiungeva anche atarassia = sempre assenza di dolore ma in questo caso
non più fisico ma spirituale, cioè assenza di inquietudine, tranquillità dell’animo; questo ideale di

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tranquillità che era proprio di Epicuro N. lo assimila all’ideale buddista e induista del sonno profondo come
simbolo supremo dell’unita fra uomo e Dio.

Siamo sempre in presenza di un desiderio di una volontà di nulla, un desiderio di annullamento della
volontà, un desiderio di estinzione della volontà, però attenzione, ci dice N. perché si tratta sempre di un
desiderio.

*Avevamo letto prima di Pasqua il paragrafo finale di questa dissertazione che finiva: “meglio volere il nulla
che non volere e per la volontà è impossibile non volere qualcosa, anche se questo qualcosa è chiamato
nulla, perché attraverso questo volere del nulla la volontà riproduce se stessa e riproducendo se stessa
produce dei risultati che vanno comunque in direzione di un ampiamento della vita e delle sue dimensioni”

Allora, l’assenza di dolore “può considerarsi per i sofferenti e per i radicalmente scontenti già come bene
supremo, come valore dei valori, questo deve essere stimato da costoro come positivo, deve essere avvertito
come il positivo stesso”

Perché N. sottolinea “deve”, perché non è un frutto di libera scelta: questi soggetti lo interpretano come se
avessero scelto liberamente di fare quello che fanno, ma in realtà quello che fanno riflette la loro natura,
non potrebbero agire diversamente, per questo “devono considerarlo come il bene supremo” perché per
loro la vita è male.

E poi la conclusione lapidaria ma significativa “secondo la stessa logica del sentimento, il nulla, in tutte le
religioni pessimistiche, è chiamato Dio”, quindi N. in una frase ci sta dicendo che tutte le più importanti
religioni del mondo, che per lui sono Cristianesimo, buddismo e induismo, sono religione nichiliste perché
fanno di Dio il principio che nega la vita.

Ecco, a partire da questo punto poi, N. presenta una serie di paragrafi che potremmo definire di critica della
cultura a lui contemporanea, cultura intesa sia come stili di vita, sia proprio come produzioni di tipo
letterario o artistico. (su questi paragrafi non ci fermeremo in modo analitico, il prof si limiterà a segnalarci
alcuni elementi che a lui sembrano particolarmente significativi)

Nel paragrafo 18 dice N. io adesso ho esaminato in che modo l’ascetismo può costituire una forma
apparente di guarigione dalla malattia che è costituita dall’incapacità di vivere e dal rifiuto della vita, però
dice N., questo bisogno di stordimento, questo bisogno di attutire la sensibilità nei confronti del dolore, non
è possibile soddisfarlo solo con i metodi estremi degli asceti orientali o dei santi del buddismo o degli
induismo, dice N., perché ce l abbiamo anche noi nelle nostre società un modo molto diffuso di
stordimento del dolore e di ottundimento della propria coscienza ed è quella che N. chiama l’ “attività
macchinale”, cioè in altri termini l’uso di svolgere delle attività di tipo meccanico, quella che noi chiamiamo
la routine di fare sempre le stesse cose, di svolgere sempre gli stessi compiti e di abituarsi quindi ad una
esistenza che con la sua stessa regolarità ci allontana da noi stessi e ci distrae dalla nostra condizione di
disagio e di sofferenza.

<<Molto più frequentemente di un siffatto ipnotico smorzamento totale della sensibilità, viene tentato
contro stati depressivi un diverso training: l’attività macchinale. Che con essa un’esistenza sofferente si
senta alleviata in misura non irrilevante, sta fuori da ogni dubbio: oggi questo fatto viene chiamato, un po’
disonestamente, “la benedizione del lavoro”>>.

E’ chiaro che N. sta parlando in una fase in cui le attività macchinali si stavano diffondendo pe la prima volta
su scala mondiale, soprattutto appunto nelle società di tipo industriale e di tipo capitalistico dove i ritmi di
vita erano stati regolarizzati in rapporto alle esigenze della nascente grande industria e in rapporto all’
ampliamento spropositato della burocrazia, allo sviluppo delle banche, all’ampliamento degli apparati
statali.

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La vita degli uomini cominciava ad assumere l’aspetto di una società di massa: stessi orari, stesse attività,
stessi modi di divertirsi, stessi valori, quindi un tipo di meccanizzazione che per N. andava di pari passo con
il livellamento democratico.

Per N. questo però è il sintomo di uno stordimento di massa, cioè l’uomo europeo, l’uomo moderno
moltiplicando le proprie attività cerca di restringere il più possibile il tempo dell’ozio in cui potrebbe
riflettere perché ha paura di riflettere, perché ha paura di guardare dentro a se stesso, perché ha paura di
scoprire che la propria vita non ha alcun senso e dire che la propria vita non ha alcun senso, significa dire
che noi non siamo capaci di darle alcun significato.

E questo è l’ennesimo sintomo proprio del nichilismo, cioè della civiltà moderna, in quanto secondo N. la
civiltà moderna ha esaurito la forza dei propri valori e quindi ha bisogno di un oltre passamento che è
quello naturalmente legato al superuomo.

Un altro aspetto che N. trova è costituito dallo sviluppo delle scienze. Anche le scienze in realtà nella
società contemporanea funzionano come degli enormi stupefacenti, servono cioè a stordire, si dice che la
scienza è simbolo di progresso e di emancipazione ma in realtà secondo N. la scienza fine a se stessa non è
altro che un modo per stordire se stessi e allontanare il proprio pensiero da se stessi. Quindi anche le
scienze, anche gli uomini che decidono di dedicarsi allo studio di determinate discipline, in realtà sono degli
asceti travestiti, cioè sono persone che incapaci di dare un senso autentico dell’ esistenza fingono di essere
soddisfatti nel praticare una disciplina scientifica sostenendo che il sapere e la conoscenza sono dei fini in
sé. N. rifiuta questa idea del sapere come fine in se: il sapere è funzionale a un determinato tipo di
esistenza, non può essere un fine in sé perché il fine in sé non esiste, quando gli uomini parlano di fine in sé
vuol dire che c’è qualcosa che non funziona, vuol dire che devono nascondere qualcosa, vuol dire che
devono sublimare qualcosa, saturare qualcosa, cioè crearsi dei surrogati che sostituiscano un senso
autentico che nelle società autentiche N. non vede, perché nelle società moderne N. legge il tramonto di
una religione, il Cristianesimo, a cui non è subentrata nessun’altra prospettiva di tipo diverso e alternativo.

A questo proposito leggiamo dei brani tratti dai paragrafi 23, 24 e 25: in questi paragrafi N. critica l’ idolatria
della scienza che era diffusa nell’Europa della seconda metà dell’800.

Dopo il 1848-49 età del positivismo in cui in Europa si è convinti che il progresso tecnico e scientifico sia
destinato ad alimentare un progresso indefinito, un miglioramento nelle condizioni di vita dell’umanità
destinato a risolvere tutti i problemi. E in realtà N. dice “si, può darsi che alcuni problemi possano essere
risolti, quelli di tipo puramente fisiologico legato all’alimentazione, legato alla medicina, ma tutto questo in
realtà è un immenso stratagemma per nascondere la morte di Dio, cioè l’elemento propriamente nichilista
che corrode e che scarna, che rende friabili le società dell’Europa contemporanea. Quindi Darwin, gli inglesi
in generale sono per lui proprio gli alfieri di questo tipo di mentalità, di una mentalità positivistica, di
idolatria della scienza, e di fede un po’ stupida nel progresso indefinito dell’umanità.

E N. sembra avuto aver ragione visto che qualche decennio dopo l’Europa è stata testimone delle 2 guerre
mondiali, quindi evidentemente vuol dire che qualcosa non funzionava in questa celebrazione della civiltà,
in questa celebrazione della tecnica, della scienza. Quello che è sconvolgente nella prima guerra mondiale,
e che poi verrà confermato nella seconda è che la tecnica e la scienza possono essere impiegate anche a
scopi distruttivi e che quindi non si può affidare il progresso soltanto alla tecnica e alle scienze, perché la
tecnica e la scienza possono essere impiegate in una direzione positiva e in una direzione distruttiva.

E questo non c’è bisogno di argomentarlo perché è la storia che purtroppo lo ha dimostrato ampiamente.

Quindi N. dice “guardate che la scienza da sola non risolve nessun problema” perché la scienza non è in
grado di indicare una direzione, uno scopo, un obiettivo; la scienza può essere impiegata in un senso e in un
altro, quindi a affidare le sorti della propria civiltà alla scienza e alla tecnica è miope, e sta a indagare una
incapacità di governare, di dare un senso alla scienza e alla tecnica.

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Noi oggi non è che ci troviamo in una situazione cosi diversa perché gli effetti di determinate applicazioni
della scienza e della tecnica si stanno rivelando palesemente autodistruttive (es. questione ambientale ed
ecologica che è legata esattamente a questo problema: uso la scienza per continuare a produrre petrolio e
carbone o la uso per ricercare stili di vita e modelli energetici alternativi?)

La scienza ha bisogno di una direzione e che è quello che N. sosteneva quando parlava di “grande politica”,
la grande politica è la politica di chi assume come problema il problema della terra nella sua universalità,
non il popolo tedesco, il popolo tedesco, questa è piccola politica, e per N. tra l’altro questa politica era
proprio rappresentata dall’impero tedesco.

N. è uno dei critici più feroci dell’impero tedesco, del reich tedesco fondato da Bismark perché vede una
ottusità nazionalistica all’interno di questo tipo di politica che lui vedeva poi diffusa anche negli altri paesi
europei e la cosa paradossale è che N. ammirava degli ebrei proprio il loro cosmopolitismo, che è un
aspetto del nichilismo ma è anche un aspetto che supera il particolarismo nazionalistico.

Proviamo a vedere allora il passo presente nel paragrafo 23 dove N. mostra come in realtà la scienza così
idolatrata dai suoi contemporanei non sia che l’ennesimo travestimento dell’ideale ascetico.

Pag. 142, inizio del paragrafo 23.

“Dov’è il contrapposto di questo sistema? Dov’è l’altra meta? (cioè l’altra meta alternativa a quella degli
ideali ascetici) Mi si dice però che non manca, che non solo ha ingaggiato una lunga fortunata battaglia con
quell’ideale, ma che già si sarebbe imposto su quell’ideale: ne sarebbe una testimonianza tutta quanta la
nostra scienza moderna - questa scienza moderna che crede evidentemente soltanto a se stessa, possiede
evidentemente il coraggio di sé, la volontà di sé e sino a oggi s’è cavata d’impaccio abbastanza bene senza
Dio, trascendenza e virtù negatrici.

Quindi sembra che nella scienza ci possa essere una alternativa e una via d’uscita degli ideali ascetici, ma è
veramente cosi?

“Frattanto con tutto questo chiasso e queste ciance d’agitatori non si arriva, per me, a un bel nulla: questi
strombettatori della realtà sono cattivi musici. […] infatti la parola “scienza” è su codesto becco di
strombettatori nulla più che un malcostume, un abuso, una sfrontatezza. […] Oggi la scienza non ha
assolutamente alcuna fede in sé, tanto meno ha un ideale ascetico, ma piuttosto la sua stessa forma più
recente e nobile. […] Meno che mai vorrei guastare a questi onesti operai (scienziati e dotti)il piacere del
loro mestiere: poiché del loro lavoro io mi rallegro. (N. non è ironico, N. aveva una grande stima del lavoro
dei dotti perché lui stesso era un dotto) Ma col fatto che oggi nella scienza si lavora duramente e che
esistono lavoratori soddisfatti, non è assolutamente dimostrato che la scienza abbia oggi una meta, una
volontà, un ideale, un fervore di grande fede. E’ il caso, come ho detto, del contrario. […] La scienza è oggi
un nascondiglio per ogni specie di scontento, di incredulità, di arrovellamento, di cattiva coscienza – essa è
l’inquietudine della stessa assenza di ideali (ci si da fare per coprire il vuoto che è interno alla nostra vita), il
soffrire la mancanza del grande amore. […] Quante mai cose non nasconde oggi la scienza! O almeno
quante ne deve essa nascondere! […] La scienza come mezzo di auto stordimento (la scienza è il surrogato di
una mancanza di fede, di ideali, di scopi, però come facevano gli ideali ascetici delle vecchie religioni è un
mezzo che è utile perché stordisce, perché fa dimenticare, ha lo scopo di impedire agli uomini di prendere
coscienza di questa loro drammatica situazione).

Pag. 147 paragrafo 25:

“non mi si tiri in ballo la scienza quando cerco il naturale antagonista dell’ideale ascetico […] A questo
riguardo la scienza è ben lontana dal riposare su se stessa, ha sotto ogni aspetto bisogno di un ideale di
valore, di una potenza creatrice di valori, al servizio della quale possa credere in se medesima ma – essa
stessa non è mai creatrice di valori. Il suo rapporto con l’ideale ascetico non è ancora per nulla
antagonistico” e cosi via poi nel seguito del paragrafo.

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Nel paragrafo 26 N. critica invece un altro aspetto delle attività culturali del suo tempo, cioè la storiografica:
critica la pretesa di alcuni storici, lui fa il nome dello storico Ranke, che identificavano la storiografia come
la neutralità e la obbiettività, cioè in altri termini, ritenevano che lo storico potesse descrivere come erano
andate le cose in modo totalmente imparziale e appunto rigorosamente neutrale. Ma secondo N. questo è
impossibile perché per forza, nel momento in cui io affronto una determinata epoca storica, già per il fatto
che io non vivo in quella epoca storica, devo adottare una prospettiva, devo adottare un punto di vista, se
non altro il punto di vista di un uomo che non è più contemporaneo di quegli uomini di cui vuole scrivere la
storia. Quindi c’è sempre l’applicazione di uno schema interpretativo e la pretesa di essere puramente
obiettivi nasconde ancora una volta l’incapacità di dare un senso alla storia, l’incapacità di dare un senso a
quello che lo storico fa, è un modo per nascondersi dietro a questa pretesa neutralità e oggettività. Quindi
anche la storiografia intesa in questo senso cade sotto il bersaglio della critica Nietzschiana.

Ricordate che N. aveva scritto un’opera nella sua giovinezza intitolata “Sull’utilità e il danno della storia per
la vita” e N. in questo libo aveva già criticato il modello positivistico di storiografia, secondo il quale lo
storico deve limitarsi a raccontare i fatti, raccontare le battaglie, raccontare la vita dei re, dei principi, ma
questo dice N. che interessa ha? A cosa serve? Ha un senso solo se è utile perché io possa trovare nel
passato dei modelli da emulare, degli ideali che mi spingono ad agire in maniera analoga, che mi spingono a
pormi determinate mete, determinati obiettivi; se io mi limito a raccontare e a descrivere dei fatti di cui tra
l’altro non sono neanche stato testimone diretto, questo non serve assolutamente a niente, è anche questo
un sintomo di nichilismo, di incapacità di dare un senso a quello che facciamo, e quindi rientra anche
questo in un ideale ascetico di rinuncia e di rifiuto, è una forma anche questa di stordimento mentale.

Gli ultimi due paragrafi tirano le conclusioni e per il prof è molto importante il paragrafo 28 che noi
abbiamo già letto e in cui N. esprime il significato delle sue analisi che consiste nell’aver mostrato che anche
negli ideali asceti si afferma una determinata modalità della volontà di potenza.

E N. dice che il problema era non la sofferenza ma dare un senso alla sofferenza, e il prete asceta da un
senso alla sofferenza facendo risalire questa sofferenza ad una colpa che l’uomo è chiamato ad espiare in
questa vita, in questo modo il prete asceta riattiva la modalità di riscatto di espiazione, di redenzione, di
salvezza dal peccato e in questo modo, proprio nel predicare la rinuncia scrive N. restava salvata la volontà
stessa.

“Tutto ciò (ovvero la storia degli ideali ascetici) significa una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una
rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà! … E per ripetere in
conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere…”

Con questo termina la genealogia della morale.

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