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Torniamo allora a questo punto all’opera del 1872, “Nascita della tragedia”, perché qui già N. comincia ad
introdurre una serie di elementi che poi saranno fondamentali per tutto il suo percorso filosofico.
Abbiamo detto che la nascita di una tragedia è una analisi filologico-filosofica della grecità classica, in
particolare della cultura propria della grecità classica e ancora più in particolare delle espressioni artistiche
del mondo greco. N. si concentra su quella che ritiene essere la forma massima, più compiuta dell’estetica
greca, ovvero la tragedia. E comincia la sua analisi ponendo alla base dello sviluppo dell’arte greca, la
contrapposizione tra due principi, che sono due principi estetici che riguardano l’arte, ma è chiaro fin da
subito che diventeranno poi anche principi antropologici, che riguardano le forme di soggettività
caratteristiche della cultura greca.
Alla base dello sviluppo dell’arte greca e al fondamento della rappresentazione che i greci hanno di se stessi
come soggetti, sta l’opposizione tra due principi che N. mutua, prende, preleva dalla religione greca: sono i
principi del dionisiaco e dell’ apollineo.
Apollineo è quel principio che fa riferimento alle caratteristiche che la cultura greca, la religiosità greca
riconosce al dio Apollo. E il dionisiaco quelle di dio Dionisio.
Importante fin da subito è fissare questa caratteristica del pensiero di N: abbiamo detto che sono principi
estetici ma alo stesso tempo antropologici, cioè che riguardano la struttura dell’espressione artistica ma
che riguardano anche la struttura della soggettività, la struttura propria dell’essere umano per come
storicamente determinata nella cultura greca. Questo è importante perché è un elemento che poi, seppur
in forma mutata, rimarrà tipico della filosofia di N, cioè la commistione di opera d’arte ed esistenza. Cioè
l’idea che l’esistenza, il proprio stare al mondo non sia altro che una forma d’arte e che l’arte, d’altro canto,
riguardi in maniera peculiare le proprie modalità di stare al mondo. Quindi la commistione tra arte e vita.
Questo è vero soprattutto per la fase estetica del pensiero di N, ma in qualche modo, seppur in forma
mutata, è un pensiero che rimane attivo nella filosofia di N.
Che cosa vuol dire che l’uomo greco, così come l’arte che l’uomo greco esprime sono attraversate da due
opposte tendenze, quella apollinea e quella dionisiaca? Che caratteristiche ha l’apollineo? Caratteristiche
che muta dalla rappresentazione religiosa del dio Apollo. Lo spirito apollineo è quello che fa riferimento
all’elemento armonico, all’armonia, all’ordine, cioè alla forma, l’individuazione = quel particolare
dispositivo che ci permette di individuarci come essere umani. Scriverà N. nella Nascita della tragedia che
l’apollineo è la magnifica immagine divina del principio individuazioni. Quindi lo spirito apollineo è lo spirito
che presiede all’elemento armonico, alla forma, alla messa in forma e all’individuazione, al costituirsi dei
soggetti come individui, cioè è lo spirito, quella forza che anima l’elemento della coscienza, cioè l‘elemento
razionale, consapevole, appunto armonico, che ha una forma e che mette in forma, che permette di
individuare, cioè di distinguere le cose. L’espressione artistica all’interno dell’arte greca dello spirito
27 marzo
Ieri ci siamo lasciati considerando il percorso di N. fino alla fase illuministica che si apre nel 1878/1880 con
la pubblicazione di “Umano, troppo umano”. Caratteristica della fase illuministica abbiamo detto che è lo
spostamento del focus della trattazione filosofica di N. dal tema dell’arte a quello della scienza, di una
scienza però non intesa in senso positivistico ma intesa come spirito critico, come metodo che consiste
Il metodo genealogico viene applicato da N. in una prima fase a gli elementi della tradizione filosofico-
metafisica e in un secondo momento ai principi e ai giudizi morali. Il metodo genealogico in quanto metodo
storico-critico, determina un’impostazione generale del pensiero di N. che potremmo definire relativistica.
Relativismo = implica tutta quella serie di convinzioni filosofiche che rifiutano il carattere assoluto di una
certa istanza, di un certo valore. Essere relativisti significa cioè negare che vi siano elementi dotati di valori
assoluto, siano essi di carattere morale o di carattere logico o metafisico. Perché significa al contrario,
sostenere che ogni valori è relativo, appunto, al contesto storico, alle circostanze socio-politiche che ne
hanno vista la nascita.
Il relativismo può essere inteso in duplice valore:
-da un lato può essere un relativismo gnoseologico. Gnoseologico = riguarda la conoscenza. In particolare
esso afferma il carattere relativo dei due concetti fondamentali di una teoria della conoscenza, ovvero i
concetti di verità e falsità. Che cosa vorrà dire affermare la relatività dei concetti di verità e falsità? Che non
c’è nulla di vero o falso in senso assoluto ma vero e falso sono semplicemente i nomi che noi diamo a ciò
che dl punto di vista di precise condizioni metafisiche, giudichiamo come positivo e questo sarà vero, o
giudichiamo come negativo e questo sarà falso. Non esiste una verità in assoluto e una falsità in assoluto
ma sono relative a certe condizioni che sono il frutto a loro volta di precisi contesti storici.
- dall’altro un relativismo etico: riguarda la morale. Da questo punto di vista invece i concetti che vengono
relativizzati, di cui viene cioè negata l’assolutezza, saranno i concetti di bene e male. Non a caso un titolo di
un'altra opera importante di N. è “Al di là del bene e del male”. Che cosa significa questo titolo? Significa
appunto costruire una visione, qual è quella di N., che si pone appunto al di la di una contrapposizione
assoluta tra bene e male.
Piccola osservazione: affermare che N. in qualche modo si faccia portatore di una visione relativistica, non
significa affermare che secondo N. tutti i valori abbiano pari dignità. Non esistono valori assoluti, e su
questo N. non cambierà mai idea, ma ci sono valori migliori e valori peggiori. Quali saranno i valori migliori?
Saranno tutti quei valori che sono funzionali ad un intensamento della vita, funzionali all’espressione
N. identifica il soggetto capace di vivere al di là del bene e del male, cioè capace di vivere rifiutando
l’imposizione di quei valori che vengono veicolati come assoluti ma assoluti non sono, come “uomo libero,
spirito libero”. Chi è lo spirito libero? Lo spirito libero, se guardiamo alla totalità della filosofia di N., è ciò
che si pone come prima formulazione di quello che sarà l’oltre-uomo. Ma dal punto di vista della sua
rilevanza filosofica, lo spirito libero è l’impersonificazione di quella forma di soggettività che è capace di
dire si alla vita, accettarne tutta la carica tragica senza farsi irretire da quella serie di valori che sono solo
illusoriamente assoluti che la tradizione ci ha trasmesso. Vivere al di la del bene e del male, cioè facendo a
meno di una idea di verità assoluta e di bene assoluto, significa vivere da spiriti liberi. Liberi perché appunto
liberati dal carico di quei valori che delimitano la possibilità di espressione. Quindi lo spirito libero, che
diciamo che è l’eroe della fase illuministica del pensiero di N., è colui che riesce ad emanciparsi dai valori e
che vive la vita come libera sperimentazione. Perché in quanto libero è autorizzato, si auto-autorizza a
sperimentare tutte le forme di esistenza che sono funzionali ad una espressione della propria potenza, delle
proprie potenzialità, capacità.
Dicevamo che nella fase illuministica la critica genealogica di N. si rivolge non tanto alla morale, che sarà
oggetto dell’ultima fase del pensiero di N., ma ad una critica genealogica appunto della tradizione filosofico-
metafisica. Quindi i questa fase la critica genealogica di N. si rivolge primariamente ad una messa in
discussione delle istanza fondamentali della tradizione metafisico-religiosa. Tradizione metafisico-religiosa
che secondo N. trova nel concetto di Dio la sua massima espressione. Quindi la critica alla metafisica
culminerà nella critica radicale del concetto di Dio che esprime nella formula famosissima e che impiega per
la prima volta nella “Gaia scienza” : dio è morto. Dottrina della morte di dio.
Aforisma 125 della Gaia Scienza, prima formulazione della morte di Dio espressa da un uomo che N. giudica
folle. E’ un uomo folle che esprime il pensiero della morte di Dio perché la follia è un altro modo, diverso,
altro rispetto alla dimensione temporale, di affermare l’estraneità del pensiero di N. rispetto al tempo in cui
si colloca e rispetto al sistema dei valori che viene appunto ad affermarsi in un dato momento storico. La
follia non è altro che ciò che sta al di fuori di tutto quello che viene ritenuto ragionevole. E ciò che viene
ritenuto ragionevole, cioè vero, tutto ciò che è conforme ad un sistema di valori imposto da una specifica
classe dominante. Quindi tutto ciò che è al di fuori di questo sistema di valori, o che si propone di
abbatterlo, è in qualche modo al di fuori di quella forma di razionalità che è espressione della classe
dominante. Quindi ciò che è critico della tradizione filosofica è ciò che si pone al di fuori della filosofia, cioè
la follia. Proprio per questo N. sceglie come annunciatore della morte di Dio, cioè della fine della tradizione
metafisica, il personaggio dell’uomo folle.
Quindi, ripetiamo, nell’aforisma 125 l’uomo folle annuncia a gran voce la morte di Dio: Dio è morto. Che
cosa significa che Dio è morto per N.? In questa caratterizzazione il concetto di dio assume due
fondamentali significati.
Da un lato la morte di Dio significa per N. la fine di ogni idea di trascendenza. trascendenza = idea secondo
la quale ci sarebbe una separazione fra due piani: un piano in cui domina la verità, il bene e che è posto al
di là del nostro mondo -l’iperuranio platonico, il paradiso cristiano- e un al di qua, la nostra condizione finita
in cui domina la falsità e la cattiveria. Quindi l’idea della trascendenza è che ci sia una scissione tra due
piani: un piano della perfezione (che corrisponde alla dimensione abitata da Dio), e un piano invece
dell’imperfezione che sarebbe abitato, attraversato dall’esperienza umana.
Dire che dio è morto significa sostenere e affermare che questa suddivisione è finita, non c’è nessun al di là
che si opponga ad un al di qua, non c’è nessuna verità o bontà assoluta che si opponga ad una falsità e ad
una malvagità assoluta. Quindi da un lato con la morte di Dio N. vuol affermare la fine di questa idea
prettamente metafisica, che N. fa risalire alla tradizione socratico-platonica, della distinzione tra un mondo
In qualche modo poi la riflessione nietzschiana sulla morte di Dio va al di la di ciò che Feurbach e la sinistra
hegeliana avevano sostenuto. Il passo ulteriore che N. compie consiste nel trarre le radicali ed estreme
conseguenze della morte di Dio, cioè nel sostenere che con la morte di Dio necessariamente muore anche
l’uomo, cioè la morte di dio porta anche la morte dell’uomo. Che cosa intende N. quando parla di morte
dell’uomo? Cosa vuol dire affermare che la morte di Dio necessariamente conduce alla morte dell’uomo?
Significa che venendo meno il meccanismo della trascendenza, questa suddivisione di piani che vede
appunto determinarsi come polarità da un lato l’uomo e dall’altro Dio, venendo meno uno dei due lati,
necessariamente viene meno anche l’elemento che a questa si legava. Cioè, con la morte di Dio
necessariamente cambia anche la rappresentazione che l’uomo ha di se stesso. Dio e uomo infatti non sono
che i poli di una dialettica della trascendenza e venendo meno uno dei due poli, necessariamente muta di
natura anche l’altro. In altri termini, essere uomini all’interno di un meccanismo che ci collega a dio è una
cosa, e ci relega ad una condizione che è quella propria dell’uomo metafisico. Essere uomini senza alcun dio
che noi costruiamo come garante della nostra esistenza significa ovviamente vivere da spiriti liberi, cioè
vivere con la piena responsabilità delle proprie azioni e senza alcun possibile riferimento ad un’istanza
assoluta, significa veramente vivere al di la del bene e del male e significa quindi produrre, costruire una
nuova forma di soggettività, un nuovo modo di intendere l’essere umano che è radicalmente diverso dal
modo di intendere l’essere umano che lo vede appunto in qualche modo affidato al tutoraggio di un istanza
assoluta e trascendente, cioè di Dio. La morte di Dio, quindi, è fondamentale all’interno della filosofia di N.
perché è funzionale a qual passaggio importante che conduce N. ad immaginare una nuova forma di
Altra cosa importante è che con la morte di Dio muore ogni istanza assoluta, quindi non solo quella
assolutezza che perviene all’elemento teologico, ma qualsiasi forma di idealità, muore ogni forma di
riferimento a qualche istanza assoluta e ideale, quindi ad esempio se noi in qualità di materialisti rifiutiamo
il riferimento a Dio ma eleggiamo un latro elemento come idealità, il socialismo, come fine ultimo, assoluto
della nostra azione, non stiamo facendo altro che riproporre su un altro piano questa scissione tra reale-
ideale. Qualsiasi ideale, qualsiasi riferimento a un istanza assoluta che sia al di fuori di noi e che orienti la
nostra esistenza, secondo N., deve avere fine con la morte di Dio. Quindi non serve e non basta dire che Dio
in quanto elemento teologico assoluto è morto, ma serve rifiutare qualsiasi riferimento ad ogni elemento
ideale, assoluto, cioè che sia al di fuori di noi e che nonostante ciò sia in grado di orientare il nostro
comportamento, di orientare la nostra esistenza. Noi dobbiamo orientare la nostra esistenza in quanto
oltre uomini, in quanto spiriti liberi solo sulla base della nostra volontà di vita, che N. chiamerà volontà di
potenza, non in base ad un ideale esterno a noi, altrimenti ricadremmo all’interno di quella scissione
metafisica, dualistica che rischia di mortificare la nostra capacità vitale, la nostra potenza vitale. Quindi,
esempio, l’idea di avere una fiducia assoluta nella scienza, positivismo (corrente dominante negli anni in cui
N. scrive), perché N. la critica? Perché istituisce nuovamente un riferimento ideale: non è più Dio che ci
salverà ma è la scienza, è il progresso scientifico. Socialismo: non è più Dio che ci salva ma una determinata
realizzazione di un sistema sociale che è chiamato a guarire tutti i mali della società. Nuovamente
riproposizione di un istanza ideale.
TERZA FASE DEL PENSIERO NIETZSCHIANO: ultima fase, fase matura che precede gli anni della malattia
mentale di N. in cui N. continua a scrivere ma in una condizione psico-fisica che in molti casi rende difficile
leggere e valutare ciò che N. scrive. Scritti molto condizionati dalla malattia nervosa. Terza fase della
filosofia di N. che si concentra all’interno di un testo, che rappresenta un nuovo cambio di registro
filosofico, chiamato “Così parlò Zarathustra” che viene pubblicato in 2 volumi tra il 1883 e il 1885. Libro che
mostra un nuovo cambio di registro dal punto di vista filosofico-stilistico perché non è un trattato filosofico
(com’erano i testi della prima fase di Nietzsche: Nascita della tragedia + Considerazioni inattuali), non è una
raccolta di aforismi (come invece sono la maggior parte dei testi che N. pubblica nella seconda fase del suo
pensiero), ma è una sorta di allegoria poetica, è un poema, o per meglio dire è una prosa poetica. Scritta in
prosa, non in versi.
Anche il sottotitolo è abbastanza significativo: “Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno”.
Da tutto ciò deriva la necessità di quella che N. chiama una trasvalutazione dei valori: cioè dobbiamo in un
certo senso rinvertire quei valori che la modernità ci ha trasmesso sulla base della morale del gregge
animata fondamentalmente da sentimento di rivalsa e di vendetta nei confronti dei migliori. Necessità
quindi di una trasvalutazione di tutti i valori, dobbiamo rifiutare (genealogia) e ricostruire la nascita e il
contesto dell’emergenza di questi valori per criticarli e ovviamente per costruire nuovi valori che saranno
quindi indirizzati ad un rafforzamento della vita e che saranno i valori dell’oltre uomo.
Che tipo di morale è quella che anima l’oltre uomo?
Non la morale che propone dei valori assoluti perché come abbiamo detto nessun valore è assoluto. Che
tipo di etica ci deve consegnare dunque la trasvalutazione dei valori? un etica che consiste in una costante
produzione di valori. Cioè, chi è l’oltre uomo? È colui che è svincolato da ogni condizionamento morale e
che dunque è produttore dei propri valori, è libero produttore dei propri valori. E’ colui a cui è affidata
unicamente la responsabilità della propria esistenza, cioè è colui che si determina e si conferisce i valori che
essi stesso decide di darsi. Quindi l’etica dell’oltre uomo, che è quella che è conseguente alla
trasvalutazione dei valori non è tanto una re inversione del sistema dei valori che ci riporta ai valori
aristocratici ma è una cancellazione di qualsiasi caratterizzazione assoluta di valori, in vista della costruzione
di un etica che consiste nella produzione costante di valori. L’oltre uomo è colui che produce i propri valori,
che decide egli stessi quali sono i valori cui egli deve orientarsi e che ovviamente saranno tutti orientati alla
affermazione della propria potenza vitale, che N. chiama volontà di potenza. L’oltre uomo è colui che è
dotato di volontà di potenza, cioè che vuole tutto ciò che può e perché può volere tutto ciò che può?
Perché ciò che può e non può lo decide l’oltre uomo stesso, che è colui che produce i valori che deve egli
stesso rispettare.
Quindi la volontà di potenza è sostanzialmente la spinta all’autoaffermazione creativa. Creativa perché
produttrice di valori. È un affermazione di sé stesso come uomo libero e libero nella misura in cui crea i
propri valori. E’ il sentimento fondamentale dell’oltre uomo. Chi è l’oltre uomo? L’oltre uomo è colui il cui
sentimento fondamentale è la volontà di potenza, cioè che vuole tutto ciò che può e che può tutto ciò che
1 aprile
(domanda di Debora su Freud fino a min. 10.00)
Così parlò Zarathustra è un libro che si compone in realtà di 4 libri che vengono pubblicati a distanza di
diversi mesi l’uno dall’altro. Comunque al pubblicazione dello Zarathustra avvien tra il1883 e il 1885 e in
questi libro N. annuncia quella che per lui è la chiave per una trasformazione completa della civiltà europea.
Questa chiave è costituita da superuomo e volontà di potenza. Quindi già nello Zarathustra noi troviamo i
principi che permetteranno a N. negli anni successivi di sviluppare la sua critica della morale che appunto
viene sviluppata nei volumi “Al di là del bene e del male”, e “Genealogia della morale”. Sono libri che
vengono pubblicati immediatamente dopo “Così parlò Zarathustra” e il tema esplicito di questi libri è
appunto costituito dalla critica della morale ancora dominante nell’Europa della fine dell’800.
La genealogia della morale è un libro che N. concepisce proprio come integrazione, come una sorta di
sviluppo e di commento all’opera precedente e questo libro si compone di tre dissertazioni:
1- La prima riguarda la nascita dei concetti di buono e cattivo, cioè in altri termini riguarda la nascita
dei concetti di bene e di male.
2- La seconda dissertazione è dedicata ai concetti di colpa e cattiva coscienza (rimando a Freud).
3- La terza si intitola “che cosa significano gli ideali ascetici?”.
Allora, per capire perché N. si occupa della morale è necessario evidentemente spiegare prima di tutto la
parola che è quella più importante nel titolo di questo libro, cioè la parola GENEALOGIA. Che cosa vuol dire
genealogia? Perché N. non scrive genesi, non scrive semplicemente nascita, scrive genealogia. Perché
genealogia? Allora, genealogia sta ad indicare in N. il tentativo di ricondurre determinati concetti morali alle
forze e agli impulsi che ne stanno alla base e che secondo N. questi concetti si limitano ad esprimere sul
piano teorico o simbolico.
Allora, facciamo l’esempio dei concetti di buono e cattivo. Cosa vuol dire creare, fare una ricerca di
carattere genealogico, cioè ricostruire la genealogia di questi concetti. Si tratta di capire a quale tipo di
istinto, a quale tipo di forza corrisponde il concetto di buono, il concetto di cattivo o il concetto di malvagio.
Allora attraverso appunto una serie di riflessioni N. sostiene che questi concetti nascono da una contrasto
fondamentale tra le caste aristocratiche e guerriere che hanno dominato la società europea prima
dell’avvento del cristianesimo, e i ceti popolari, che N. in modo sprezzante chiama plebe e gregge (*istinto,
impulso del gregge di Freud che Freud sicuramente ricava dalla Genealogia della morale), che
naturalmente, dice N., mal sopportano il demonio e le vessazioni a cui sono sottoposte dalle classi
dominanti.
Quindi primo elemento: c’è una base sociale. La morale ci sta dicendo N. non è una teoria che esprime dei
valori assoluti. Nella morale si esprimono determinate forze e determinati interessi.
Allora dobbiamo chiederci che cos’era buono, che consideravano virtuoso i nobili, gli aristocratici, i
guerrieri, quelle che N. chiama le caste dei signori? Evidentemente per questa categoria di uomini, buono e
bene era tutto ciò che esprimeva forza, potenza, salute, coraggio, bellezza, ed era considerato cattivo
(attenzione che qui cattivo vuol dire spregevole, inferiore, plebeo, volgare) tutto ciò che esprimeva
malattia, povertà, debolezza, viltà, bruttezza. Quindi dal punto di vista delle caste dominanti di cui N. trova
la traccia nelle società precedenti al dominio del cristianesimo, ad esempio nella Grecia arcaica, per come si
esprime nei poemi omerici, nelle società orientali di cui ci ha lasciato testimonianza la cultura indiana, e
cosi via… nelle società dei germani precedenti alla dominazione romana, cioè una serie di organizzazioni
sociali che erano strutturate su base aristocratica dove il potere era nelle mani delle caste guerriere che in
questa ricostruzione di N. avevano anche il monopolio delle ricchezze e in particolare della proprietà
terriera. Tracce di questo codice morale lo ritroviamo anche nel medioevo. Che cos’è infondo la cavalleria?
È il residuo, già però cristianizzato, di un ideale di vita basato su un modello eroico che per N. si trova
espresso al suo massimo livello nell’ Iliade dove gli eroi combattono e uccidono e quanto più riescono nelle
loro imprese militari tanto più acquistano la gloria e vengono celebrati dai poeti. Quindi la guerra è
considerata l’elemento discriminante per valutare il valore e a qualità di un uomo. L’eroe è quell’uomo che
non ha paura della morte, che accetta il combattimento, che mette a repentaglio la propria vita, e che non
si fa scrupolo di uccidere i propri nemici. Allora la forma poi codificata di questo tipo di codice è il duello.
Nell’Iliade il culmine di tutto il poema è proprio il duello tra l’eroe dei greci, Ettore e l’eroe dei troiani,
Achille. Quindi l’eroe esercita anche una buona dose di crudeltà, cioè la violenza fa parte del carattere
eroico perché l’eroe è guidato esclusivamente dall’esercizio della propria potenza, della propria, come di N.
volontà di potenza. Non ha paura della morte e non si tira indietro quando si tratta di infliggere. Un altro
elemento che era proprio di questa morale aristocratica sono i giochi, ad esempio i giochi olimpici nelle
Grecia arcaica erano l’unico momento in cui i greci non si combattevano tra di loro. Era appunto la
manifestazione della forza e delle bellezza del corpo espressa attraverso una competizione basata sulla
rivalità, sull’agonismo e sulla ricerca della vittoria. Quindi un altro elemento proprio delle civiltà
In questa ricostruzione che N. intitola non a caso “Genealogia della morale”, sottotitolo: “uno scritto
polemico”: cioè N. sì vuole fare una ricostruzione rigorosa, ma è un scritto polemico, cioè è uno scritto
anche di lotta e di battaglia per N. polemus = guerra. Uno scritto polemico vuol dire che è uno scritto che
vuol fare la guerra alla morale cristiana che secondo N. si è infiltrata nella società europea e che è ancora
dominante nonostante secondo N. gli uomini non credano più in Dio. I ceti nobiliari e borghesi, sia le masse
delle città in realtà non vivono più sulla base dei principi cristiania anche se continuano ad andare a messa
magari. Ma N. appunto dice che i riti religiosi della modernità non sono altro che le esequie di Dio, i funerali
di Dio, perché poi gli uomini vivono sulla base di principi che non hanno niente a che vedere con quelli che
Adesso proviamo a concretizzare tutto quello che abbiamo detto leggendo alcuni testi dalla genealogia
della morale e in particolare dalla
“trovai allora che esse (cioè le designazioni di buono) si riconducono tutte a una identica metamorfosi
concettuale” ecco qui l’idea di metamorfosi concettuale, attraverso lo studio della etimologia, cioè
dell’origine e della composizione delle parole, io non mi fermo semplicemente allo studio del linguaggio ma
capisco i concetto che vengono espressi attraverso l’uso del linguaggio. Capisco i concetti, cioè le ide, e
capisco le loro trasformazioni. Cioè appunto le loro metamorfosi allora capisco che una stessa parola può
avere dei significati molto diversi. La parola è la stessa ma il suo significato cambia radicalmente. Però se io
non faccio questa opera di decostruzione, di ricostruzione etimologica dei significati dei termini non capisco
queste metamorfosi. Perché penso che ad esempio la parola buono abbia sempre significato la stessa cosa,
cioè abbia sempre significato quello che noi intendiamo con la parola buono, ma dice N. se io invece vado a
studiarmi l’etimologia, cioè ad esempio di come la parola buono veniva usata dai greci, capisco che c’è
qualcosa che non coincide, che non funziona se proietto il significato che do io alla parola buono su quello
che questa parola significava per un greco. Ecco la metamorfosi concettuale attraverso lo studio della
etimologia delle parole.
“trovai allora che esse si riconducono tutte a una identica metamorfosi concettuale che ovunque “nobile”,
“aristocratico”, nel senso di ceto sociale, costituiscono il concetto fondamentale da cui ha tratto
necessariamente origine e sviluppo l’idea di “buono” nel senso di “spiritualmente nobile” e “aristocratico”
nel senso di “spiritualmente bennato”, “spiritualmente privilegiato”.
Allora N. sottolinea quello che abbiamo anticipato: la matrice sociale dei concetti morali. Non c’è una
origine soprannaturale dei concetti morali. I concetti morali non riflettono neppure un ordine cosmico
naturale, nei conetti morali si esprimono le concezioni proprie di determinati ceti sociali. Quindi c’è una
2 aprile
Abbiamo visto l’importanza che N. da alla etimologia. Abbiamo detto che l’etimologia è la storia del
significato che una parola ha avuto nel corso del tempo e abbiamo visto che il significato delle parole
cambia nel corso del tempo. Una stessa parola nel corso del tempo esprime dei concetti, cioè assume dei
significati, differenti. E ieri lo abbiamo visto in rapporto alla parola “buono” di cui N. si occupa nella sua
prima dissertazione della Genealogia della morale”. Buono, a seconda dei contesti, dei periodi storici, a
seconda della classe sociale che usa questa parola, assume un significato molto differente Quindi non
dobbiamo farci ingannare dal fatto che il termine rimane lo stesso perché l’identità della parola non
corrisponde all’identità dei concetti espressi da questa parola. E abbiamo visto quanto importante fosse
l’idea di metamorfosi concettuale. Vedete, N. cerca di costruire la sua argomentazione non sulla base di un
ragionamento astratto, ma a partire da alcuni elementi concreti che sono costituiti dal linguaggio, dalle
parole utilizzate dagli uomini e che fanno parte della lingua che questi uomini usano per comunicare tra di
loro. Quindi è un dato storico e linguistico che N. riesca ad interpretare in modo particolarmente brillante
perché come abbiamo detto N. ha una formazione di tipo filologico la filologia è quella disciplina che studia
le lingue antiche. Ma siccome le lingue moderne derivano dalle lingue antiche, ecco che una formazione di
tipo filologico permette a N. di ricostruire le trasformazioni concettuali e i diversi significati assunti da
termini che apparentemente essendo gli stessi dal punto di vista materiale, apparentemente sembrano
esprimere un concetto che resta invariato e identico nel corso del tempo. Attraverso invece la ricostruzione
del significato che la parola buono aveva in greco, N. è in grado di dire che la parola greca che indicava il
buono o il bene, aveva un significato diverso da quello che noi moderni intendiamo con la parola.
Paragrafo 5
Abbiamo parlato di agathos, che è la parola greca che significa buono. Allora agathos in greco vuol dire
buono non nel senso cristianesimo di umile, mansueto, obbediente e cosi via. Ma buono è l’uomo dotato di
virtù, e la virtù è la capacità di fare bene le cose che contraddistinguono un uomo nobile. Quindi buono è
legato a virtù aristocratiche come l’intelligenza, il coraggio, la maestria, ecc. vediamo che cosa succede per
quanto riguarda il latino, all’origine del nostro italiano.
paragrafo 6:
Comunque appunto nel paragrafo 7 N. insiste sul ruolo delle caste sacerdotali e scrive:
“si sarà già indovinato con quanta facilità la maniera sacerdotale di valutazione può distaccarsi da quella
cavalleresco - aristocratica”. Allora N. comincia in questa sua ricostruzione da una situazione in cui abbiamo
il potere condiviso da una casta militare di nobili e da una casta sacerdotale. È la situazione attestata
storicamente dai grandi imperi, Assiri, Babilonesi, Persiani, egiziani. Un imperatore, un re attorniato da
guerrieri da una parte e sacerdoti dall’altra. Però dice N. è chiaro che in realtà il tipo d’uomo che fa il
sacerdote è un tipo d’uomo diverso da quello che fa il guerriero. E allora da questa originaria o iniziale
condivisione del potere, si arriva ad una inevitabile disunione e a un inevitabile conflitto.
“si sarà già indovinato con quanta facilità la maniera sacerdotale di valutazione può distaccarsi da quella
cavalleresco – aristocratica e svilupparsi ulteriormente fino a diventarne l’antitesi”. Ecco qua, dall’uno, il
due, dalla unità nella gestione del potere, alla separazione e al conflitto. Antitesi. “Alla quale antitesi verrà
dato un particolare impulso ogni qual volta la casta sacerdotale e quella guerriera entreranno per gelosia in
Po vi è uno dei passaggi più delicati, cioè il riferimento agli ebrei e al popolo ebraico perché voi sapete che i
testi di N. sono stati utilizzati ai nazisti per affrenare una politica di razziale e potentemente antiebraica che
ha condotto alla Shoà. Allora qui dobbiamo essere chiari: N. non è mai stato antisemita. Vi dico solo che N.
aveva in casa uno dei capi del partito antisemita tedesco che aveva sposato la sorella. E N. non è mai
riuscito ad avere delle relazioni normale con questa persona perché riteneva gli antisemiti degli imbecilli.
Riteneva cioè l’antisemitismo tedesco una forma di compensazione plebea che trovava il modo per
distinguersi, per affermare una certa volontà di dominio assumendo come pretesto l’odio verso un altro
popolo perché incapace di affermarsi con i propri mezzi e le proprie capacità. Quindi N. vede
nell’antisemitismo una ideologia di tipo plebeo che non ha nulla a che fare con la teoria del superuomo e
della volontà di potenza. Quindi N. non p mai stato antisemita. Questo non vuol dire che N. attribuisca però
agli ebrei un ruolo storico che è fortemente ambiguo perché da una parte gli ebrei rappresentano per N. un
popolo che è riuscito a mantenere per più di 2000 anni una identità, dall’altro però gli ebrei hanno la
responsabilità di aver prodotto la casta sacerdotale che ha predisposto l’avvento del cristianesimo.
“Tutto quanto è stato fatto sulla terra contro i “nobili”, i “potenti”, i “signori”, “i depositari del potere” non
merita una parola in confronto a ciò che contro costoro hanno fatto gli ebrei; gli Ebrei, quel popolo
sacerdotale (cioè quel popolo in cui il dominio è stato monopolizzato dai sacerdoti) che ha saputo infine
prendersi soddisfazione dei propri nemici e dominatori unicamente attraverso una radicale trasvalutazione
dei loro valori, dunque attraverso un atto improntato alla più spirituale vendetta”.
In che cosa consiste questo odio e questa più spirituale vendetta lo vediamo domani.
3 aprile
La metamorfosi concettuali ci aiuta a ricostruire non solo la storia delle parole, ma la storia dei concetti.
Credo che dovrebbe esservi chiaro il tipo di obiettivo che ha N: la proposta del superuomo comporta una
trasformazione completa e totale dei codici morali vigenti nella società borghese europea dell’epoca di N.
questi valori morali sono per N. il frutto di una secolarizzazione die valori cristiani. Quindi la critica del
cristianesimo è la critica delle conseguenze morali che il cristianesimo ha avuto sulla storia europea. La
conseguenza ultima della diffusione del cristianesimo è l’affermazione di regimi di tipo democratico che
Paragrafo 10
Qui N. esplicita tutto quello che ha detto nelle pagine precedenti.
“Nela morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment (N. lo riporta in francese perché
ritiene che sia intraducibile in tedesco) diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei
tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una
vendetta immaginari”. Non sono in grado di reagire dal punto di vista pratico e devono compensare questa
loro impotenza attraverso un risarcimento immaginario. Io adesso non vorrei leggere tutto questo tipo di
argomentazione perché ve l’ho già anticipata a partire da lunedì, però noi dobbiamo comunque leggerlo e
studiarlo.
Pag. 27
“mentre l’uomo nobile vive con fiducia e schiettezza davanti a se stesso (ghennaios “nobile di nascita”,
parola greca per indicare la nobiltà dalla nascita, e dice che questa parola sottolinea la nuance, che vuol dire
sfumatura, la sfumatura di significato “schietto”, cioè sincero, autentico, genuino e dice N. forse perfino
“ingenuo”, cioè non astuto, che non ha bisogno di mezzi ipocriti e simulati per affermare se stesso, non ha
bisogno della menzogna, dell’ipocrisia, dell’inganno perché è talmente forte e sicuro di se da affrontare
direttamente il proprio nemico da agire direttamente in rapporto ai proprio obiettivi. Mentre
evidentemente l’uomo del risentimento, essendo in fondo un debole e un vigliacco cosa deve fare? Deve
trovare dei mezzi indiretti per affermare la propria volontà di potenza, la propria ambizione, quindi userà
l’inganno, l’ipocrisia, la menzogna, la finzione, la simulazione). L’uomo del risentimento non è ne schietto ne
ingenuo, ne onesto ne franco con se stesso.
Poi N. va avanti e conclude mostrando come appunto ciò che era nobile e buono nella morale aristocratica
diventa malvagio nella morale plebea.
Paragrafo 11
“questo “cattivo” di origine aristocratica e quel “malvagio” attinto al calderone dell’odio insaziabile,[…]
come sono diverse queste due parole “cattivo” e “malvagio”, apparentemente contrapposte allo stesso
concetto di “buono”!” in effetti nel nostro vocabolario “cattivo” e “malvagio” si contrappongono a uno
stesso concetto, quindi spontaneamente ci viene da pensare che siccome si oppongono a uno stesso
concetto, indicano la stessa cosa. “ma non è lo stesso concetto di buono” scrive N. “domandiamoci piuttosto
chi propriamente è malvagio, nel senso della morale del risentimento. Con una risposta rigorosa occorrerà
dire appunto: appunto il “buono” dell’altra morale, appunto il nobile, il potente, il dominatore, solo che è
dipinto con altri colori, interpretato in guisa opposta, guardato di sbieco dall’occhio torvo del risentimento.”
Questo sguardo di sbieco dall’occhio torvo indica lo sguardo dell’uomo invidioso, meschino, animato da
spirito di vendetta che non ha il coraggio e la forza per esprimere direttamente questo sentimento e quindi
E qui però abbiamo uno dei passi più discussi e che purtroppo hanno avuto anche le conseguenze più
tragiche, nel senso che adesso andiamo a leggere uno dei brani che hanno permesso i nazisti di
impadronirsi di N. e di fare di N. il manifesto della loro ideologia. Allora N. nel brano che segue
immediatamente le parole che abbiamo letto dice: però se ci mettiamo nell’ottica del plebeo è chiaro che
dobbiamo dare ragione ai plebei, perché ne hanno passate di tutti i colori, dice, effettivamente i nobili
godevano nel dominare e godevano anche nell’esercitare crudeltà nei confronti dei loro servi e dei loro
schiavi. Scrive N.: “assaporano la libertà da tutte le costrizioni sociali, si rifanno nello stato selvaggio, della
tensione dovuta a una lunga segregazione e allo star rinserrati nella pace della comunità […] Al fondo di
tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere (cioè individuare) la belva feroce, la magnifica
divagante bestia bionda, avida di preda e di vittoria”. Ecco, questo brano reca la metafora sicuramente
infelice della bestia bionda che diventa il simbolo utilizzato dai nazisti per giustificare la presunta superiorità
raziale delle popolazioni germaniche di presunta razza ariana nei confronti di tutte le altre popolazioni, e in
particolare nei confronti della razza degli ebrei. Allora cosa fa il nazismo? Cosa fanno gli ideologici del
nazismo? Danno un’ interpretazione di tipo biologico e razziale al discorso di N. Adesso è inutile però
negare che N. fornisce il pretesto per questo tipo di utilizzazione perché la metafora della bestia bionda è
una metafora di N. N. la impiega non in senso biologico ma nel senso di uno scatenamento che permette
agli impulsi anche più selvaggi e primitivi di sfogarsi. Quindi non è una nozione di tipo biologico razziale, è
una metafora che sta a significare il ritorno ad una condizione di innocenza pre-civile. La guerra era questo
nell’antichità secondo N., nella guerra gli uomini davano libero sfogo a quelle pulsioni che Freud avrebbe
definito aggressive, che la civiltà reprime e alle quali impedisce di esprimersi. Nel nazismo questa metafora
viene interpretata in senso letterario e quindi dalla dimensione metaforica, diventa indice di identificazione
raziale. I popoli germanici sono quei popoli nei quali deve tronare a rivivere la bestia bionda evocata da N. e
il risultato lo sappiamo: sterminio degli ebrei, seconda guerra mondiale.
Nel paragrafo 15 N. cita alcuni brani da filosofi del cristianesimo e in particolare cita Dante Alighieri e S.
Tommaso d’Aquino.
Su Dante N. scrive questo: “Dante, a mio parere, ha commesso un grossolano errore nel porre sulla porta
del suo inferno quell’iscrizione “fecemi l’eterno amore” (cioè io sono il prodotto dell’eterno amore con cui
Dio ama le sue creature) ma attenzione dice N. “sulla porta del paradiso cristiano e della sua “eterna
beatitudine” potrebbe stare a maggior diritto l’iscrizione “fecemi l’eterno odio”. Perché? Perché l’inferno
cristiano secondo N., in realtà è l’espressione della condanna e dell’odio con cui il plebeo spedisce nelle
fiamme e nelle sofferenze eterne quegli uomini che ai suoi occhi rappresentano il malvagio che è in realtà,
se visto con gli occhi di N., il tipo umano superiore. Quindi nell’inferno cristiano e nella divina commedia
dante vede una delle espressioni più alte del risentimento come molla originale della religione cristiana. Lo
stesso N. attribuisce a Tommaso d’Aquino.
“Tommaso d’Aquino, il grande maestro e santo scrive con la mitezza di un agnello: “i beati nel regno celeste
vedranno le pene dei dannati perché possano godere maggiormente della loro beatitudine” Qui N. allora ha
buon gioco e dice… ma come? I beati godono della sofferenza dei malvagi? Ma allora vuol dire che i beati
godono delle sofferenze altrui ma allora, dice N., i beati sono ancora animati da spirito di vendetta e da
risentimento. Quindi, dice: non sono io che fa dell’odio la base del cristianesimo, sono i cristiani stessi che
lo dicono, Dante quando scrive l’inferno e Tommaso d’Aquino quando attribuisce allo spettacolo delle
sofferenze dei malvagi la causa per incrementare la felicità e la beatitudine di coloro che sono stati salvati.
8 aprile
Allora ci restavano da leggere gli ultimi 2 paragrafi della prima dissertazione. Abbiamo visto qual è il perno
della teoria di N. sui valori morali: i valori morali non esistono di per se in natura, non esiste un giusto in sé,
un buono in sé, una virtù in sé. Questi concetti sono sempre l’espressione di una determinata forma di vita
e di un particolare ceto sociale. Quindi le parole che esprimono un determinato concetto morale, ad
esempio “buono”, oppure “giusto”, oppure “virtuoso”, queste parole anche se dal punto di vista fonetico
Paragrafo 17 (pag.43)
Alla fine di questo paragrafo noi vediamo che c’è una nota scritta a caratteri più piccoli. Leggiamo le prime
parole di questa nota: “colgo l’occasione offertami da questo saggio per esprimere pubblicamente e
formalmente un voto (cioè un desiderio, un auspicio) che sino ad oggi è stato da me esternato soltanto in
occasionali conversazioni con persone dotte: che cioè una qualche facoltà di filosofia si rendesse
benemerita, attraverso una serie di concorsi accademici, per l’avanzamento degli studi di storia della
morale- forse questo libro servirà a dare il vigoroso impulso proprio in tale direzione.” Quindi N. auspica la
fondazione di cattedre dedicate allo studio dei concetti morali, ma al cosa che volevo sottolineare è quella
che N. aggiunge nella frase seguente: “In ordine a una possibilità di questo genere si propone la questione
seguente: essa merita tanto l’attenzione dei filologici e degli storici, quanto quella dei veri e propri cultori di
filosofia per professione.” E questo è u quesito che N. vorrebbe mettere a concorso per attribuire una
eventuale cattedra di storia della morale.
“Quali indicazioni ci fornisce la scienza linguistica, e segnatamente l’indagine etimologica, per la storia
dell’evoluzione dei concetti morali?” ecco qua, N. sottolinea in prima persona l’importanza dello studio delle
parole dal punto di vista etimologico per la ricostruzione della storia dei concetti morali. La filologia, lo
studio del linguaggio e delle parole, ci mette in grado di ricostruire la storia dei significati assunti da un
determinato termine e dunque permette al filosofo che si occupa dei concetti di ricostruire la storia dei
concetti espressi attraverso determinate parole. Quindi il nesso tra scienza linguistica e filosofia, come
Ora, nel paragrafo 16 N. ribadisce la sua critica nei confronti della religione ebraica operò la cosa molto
interessante è che cosa contrappone N. in questo testo alla cultura ebraica. Qui dobbiamo fare una piccola
parentesi perché nell’interpretazione che viene data di N. da parte di molti autori, studiosi viene sempre
sottolineato il rapporto fra N. e la antica Grecia come se il rapporto tra N. e l’antichità fosse limitato
esclusivamente alla rivalutazione, alla riscoperta della cultura e della filosofia greca. Ora per chi è ancora
convinto di questa interpretazione sicuramente questo testo rappresenta una sorpresa perché l’esempio di
cultura e di civiltà aristocratica che N. contrappone agli ebrei non è la Grecia, ma è l’antica Roma. Perché è
importante sottolineare questo aspetto? Perché rende impossibile utilizzare N. come se N. sostenesse la
superiorità dei popoli germanici nei confronti degli latri popoli europei e in particolare nei confronti degli
altri popoli latini. In questo passaggio che adesso leggiamo N: ci presenta una rivalutazione radicale e
ripeto, imprevista, se noi leggiamo alcune interpretazione come quella di Heidegger per esempio, che è
stato un grande filosofo del 900, anche se ha avuto il difetto di essere nazista, allora vi dicevo, se noi
assumiamo una lettura come quella di Hedegger sembra che N. abbia considerato soltanto i greci, perché
H. ritiene che i romani siano un popolo privo di filosofia e privo di cultura. Allora leggiamoci questo
passaggio insieme per smantellare questo mito interpretativo per cui l’antichità di N. sarebbe
esclusivamente l’antichità greca perché questa ricostruzione serviva per legittimare la superiorità dei popoli
tedeschi sui popoli latini che derivavano dai romani. Quindi un passo cosi rende molto difficile utilizzare N.
come alfiere di una ideologia nazionalista e orientata a teorizzare la superiorità die popoli tedeschi. Allora,
saltiamo le prime righe in cui N. sostanzialmente dice: guardate che al giorno d’oggi (all’epoca in cui N.
scriveva questo libro pubblicato nel 1887) questa lotta fra valori aristocratici e valori plebei, questa antitesi
tra buono e cattivo da una parte, buono e malvagio dall’altra, è un’antitesi he è tornata quanto mai attuale,
dice N, anzi, oggi possiamo dire che quanto più un individuo è di nobile sentire, tanto più questo individuo
vive una scissione tra i valori della società in cui vive, che sono quelli democratici, basati sull’eguaglianza, la
fraternità, basati insomma sula morale del gregge e i valori invece a cui aspira, che sono quelli di una
rinnovata civiltà aristocratica dove l’antitesi decisiva non è tar buono e malvagio ma è tra buono e cattivo.
Quindi questa scissione, dice N, potrebbe anche essere il segno di qualcosa che sta nascendo. Un po’ come
se si trattasse delle doglie che precedono la nascita di un bambino. Ora, dice N, quale simbolo possiamo
usare per esprimere questa lotta? Ed ecco cosa scrive il nostro filosofo:
“Il simbolo di questa letta, espresso in caratteri che sono restati sino a oggi leggibili al di sopra di tutta la
storia degli uomini, è “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma” (no Atene, no Sparta, Roma): - non c’è
stato fino a oggi alcun avvenimento più grande di questa lotta, di questa posizione del problema; di questa
contraddizione pervasa d’inimicizia mortale. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contro natura stessa
[…] Che cosa hanno sentito invece contro Roma gli Ebrei? Lo si indovina da mille segni; ma è sufficiente
richiamare ancora una volta alla memoria l’apocalisse i Giovannea, la più caotica di tutte le inventive
scritte, che la vendetta abbia sulla coscienza.” Voi sapete che l’apocalisse di Giovanni è considerato l’ultimo
libro del nuovo testamento. “I Romani erano invero i forti e i nobili, come non sono mai esistiti sulla terra di
più forti e più nobili, e nemmeno mai sono stati sognati: ogni loro reliquia, ogni iscrizione manda in estasi,
ammesso che si riesca ad indovinare che cosa scrive in quelle.” Che cosa scrive in quelle? Una volontà di
rendersi eterni, di affermare indefinitamente il proprio modo di vivere e i valori sui quali questo modo di
vivere è fondato. Che cosa dicevano gli antichi? Roma città eterna, la città per eccellenza. Questo N. vede
nell’architettura romana, nei monumenti romani e perfino nelle iscrizioni che ci hanno lasciato i romani.
Quindi la capacità e la volontà di rendersi eterni all’interno della storia. Una volontà affermativa di potenza
che non desidera essere diversamente da come è ma che desidera continuare a essere esattamente cosi
com’è. Non desiderare di essere altrimenti ma desiderare di essere esattamente come siamo ora, adesso. E
desiderare che come siamo adesso no finisca mai, si prolunghi per l’eternità. Questo dice N. è l’emblema
della nobiltà, della forza e della volontà di potenza. E gli ebrei invece? “Gli ebrei viceversa erano quel
popolo sacerdotale del risentimento per eccellenza in cui era insista una genialità popolare-morale
impareggiabile. Una genialità popolare-morale: anche per costruire una morale del gregge ci vuole genialità
e lo vedremo subito nella disertazione successiva. Ma appunto questa genialità è una genialità perché da
espressione a delle forze che però sono forze reattive. Da espressione al risentimento, allo spirito di
“subito tornò a trionfare Giudea” e qui N. dà una stoccata pesantissima ai suoi connazionali tedeschi,
perché, leggiamo quello che ha scritto: “subito tornò a trionfare Giudea grazie a quel movimento del
risentimento fondamentalmente plebeo cui si dà il nome di Riforma” ecco qua, la riforma è stato il mezzo
attraverso cui l’ebraismo si è riaffermato a scapito dell’ideale classico che si era nuovamente affacciato, che
aveva cercato nuovamente di imporsi durante il Rinascimento. Qui è chiaro che io devo darvi almeno due
date: 1517 Lutero affligge sulla porta del monastero in cui era monaco le sue 95 tesi, tesi antipapali con
le quali si da inizio alla riforma, cioè a quel movimento che ha un importanza impossibile da sottovalutare
perché è la rottura della unità religiosa dei popoli europei. Cioè finisce una storia di 1500 anni, finisce
l’unità di quella che nel medioevo si chiama res pubblica cristiana. Che cos’era la res pubblica cristiana? era
la forma politica in cui si affermava nella storia l’unità religiosa dei popoli europei, cioè il riconoscimento
che Gesù è il Cristo, è l’inviato di Dio che in quanto figlio di Dio è stato mandato dal padre a riscattare
l’umanità dal peccato e quindi a portare il messaggio della redenzione e della buona novella. Per 1500 anni
questo articolo di Fede, Gesù è il Cristo, è il figliò di Dio, è il messia, è stato sufficiente nonostante tutti i
contrasti, le lotte e le guerre, a mantenere l’unità della res pubblica cristiana. Quali erano le autorità
supreme di questa res pubblica cristiana? Erano il papa, capo della chiesa, e l’imperatore, simbolo politico
dell’unità di cui il papa era l’espressione massima dal punto di vista religioso. Agli inizi del 300 succede che il
conflitto tra papato e Lutero diventa sempre più aspro perché si riflette nel conflitto fra papato e impero
anche un conflitto interno alla chiesa e in particolare interno agli ordini mendicanti, francescani da una
parte e dominicani dall’altra. (*nome della rosa) I francescani si schierano con l’imperatore perché sono
contro il papa che nega la povertà, rifiuta l’idea francescana della povertà come criterio fondamentale
dell’appartenenza al cristianesimo. E quindi mentre i francescani vogliono che il papa si separi
completamente dal potere politico e vogliono concentrare il potere politico sull’imperatore, il papa
ovviamente vuole il contrario.
Ora, questo conflitto tra papato e impero, tra francescani e domenicani, porta ad una serie di scontri molto
aspri che tra l’altro coincidono ad uno dei periodo più straordinari della storia della chiesa dove il papa
agiva come un principe secolare, con moglie, figli, amanti ma al tempo stesso come grande mecenate delle
armi. Ecco allora le splendide chiese, gli splendidi palazzi del rinascimento finanziati con i soldi che i
tedeschi mandavano a Roma. Allora Lutero comincia ad arrabbiarsi di questa cosa: come, noi mandiamo a
voi tutti questi soldi che voi sperperati per mantenere amanti, figli, parenti, costruire palazzi, chiesi,
giardini, condurre guerre… e allora Lutero decide di affliggere queste tesi con le quali proclama la necessità
di una riforma della chiesa. Questa riforma diventa poi una vera e propria separazione e questa separazione
da inizio ad una serie di sconvolgimenti che avranno fine solo nel 1648 con appunto il trattato di Vestfailler
che pone fine alla guerra dei trent’anni, dando inizio a quella che possiamo definire la storia moderna in
senso stretto con la separazione del potere politico e del potere religioso. Prima della guerra dei trent’anni
però c’è l’episodio che per molti storici segna la fine del Rinascimento. E’ il sacco di Roma, l’occupazione e il
saccheggio della Roma rinascimentale che avviene ad opera dei mercenari tedeschi nel 1526. Avete mai
“Per riprendere il corso della nostra indagine, il sentimento della colpa, come abbiamo visto (ma noi non lo
abbiamo visto, lo rivedremo alla fine) ha avuto la sua origine nel più antico e originario rapporto tra
persone che esista”. Qual è il rapporto fra persone più antico e più originario? E anche qui formula un
ipotesi che, soprattutto per l’epoca in cui è stata formulata, fu assolutamente geniale: l’origine del senso di
colpa sta nel rapporto fra compratore e venditore, creditore e debitore, cioè sta nello scambio tra beni, in
altri termini, trova la sua origine nelle relazioni commerciali che sono le relazioni più elementari che noi
possiamo esaminare, dice N., fra individui e comunità umane.
Rapporto della compravendita: io coltivo la terra ma ho bisogno di indumenti, tu fai indumenti m hai
bisogno dei prodotti della terra per mangiare e per sopravvivere. Noi ci scambiamo i prodotti che
produciamo in eccedenza per soddisfare i nostri bisogni. Tu coltivi la terra, mi dai il prodotto che non ti
serve per soddisfare i tuoi bisogni alimentari, io faccio indumenti e quando ho protetto me e la mia
famiglia, scambio quelli che produco in eccesso con i tuoi beni alimentari. Compravendita. Però attenzione,
non è necessario che questa compravendita sia simultanea, tra l’atto della vendita e l’atto del compenso
può passare del tempo. Io ti do una serie di vestiti e però mi aspetto che quando tu farai il raccolto e
produrrai ad esempio del pane, me lo darai in cambio dei vestiti che io ti ho dato. Cosa succede se questo il
pane non glielo da? Se il venditore non riceve il ricompenso pattuito dal venditore, la società si affianca al
venditore e infligge delle punizioni nei confronti del debitore, cioè del creditore insolvente. Allora, la
punizione, la pena, nasce sul terreno delle relazioni di scambio, quindi N. ritiene che sia a partire da queste
relazioni di scambio che noi dobbiamo cominciare a ragionare. In che modo dall’idea della pena, che è
collegata, dice N, a sua volta all’idea di un debito che non è stato onorato. Io ho ricevuto qualcosa, però
non ho dato l’equivalente, il corrispettivo. Quindi ho comprato un debito che non ho onorato. Ora, la pena
è collegata ala necessità di punire qualcuno che non ha onorato i suoi debiti nei confronti di qualcun altro.
Allora è chiaro che è un interesse della società quello di costringere i suoi componenti ad onorare i propri
debiti, perché quello che capita al mio vicino altrimenti il giorno dopo può capitare a me. Quindi è
9 aprile
Oggi faremo una lezione incentrata sul confronto tra N. e Freud perché leggeremo alcuni passaggi dalla
seconda dissertazione della Genealogia della morale in cui N. effettivamente sembra davvero anticipare in
modo quasi profetico le teorie che Freud svilupperà nei due testi “Totem e tabù” e “Psicologia delle masse
e analisi dell’io”. Addirittura vedremo che n. anticipa anche alcuni aspetti della teoria freudiana
dell’aggressività che abbiamo visto essere molto importante per Freud nella spiegazione del senso di colpa
e di cattiva coscienza. Ricordate ce Freud diceva che il senso di colpa nasce quando l’aggressività innata
nella natura umana si rivolge dall’esterno verso l’interno. Cioè non si esercita più verso un oggetto
differente dall’io, ma viene indirizzata dall’io contro se stesso. Quindi Freud mette in rilievo il carattere
autolesionistico del senso di colpa e però utilizza un istinto connaturato alla vita umana ma costretto a
modificare la usa direzione originaria dal fatto che l’uomo è costretto a vivere all’interno di una società. Vi
ricordate, la teoria di Freud: fin dalla più tenere infanzia il bambino è costretto a deviare, a trovare delle vie
alternative al soddisfacimento die propri impulsi, delle proprie pulsioni. Quindi l’energia libidica, l’energia
dell’eros non può cercare il suo soddisfacimento diretto di quelle che Freud chiama le proprie mete, le
mete pulsionali, cioè gli oggetti che l’io desidera possedere, gli oggetti che l’io desidera godere, non sono
Allora, come primo passaggio leggiamo quello che inizia nel paragrafo 16 (pag73) scrive N.
“A questo punto non posso più esimermi dal fornire alla mia particolare ipotesi sull’origine della cattiva
coscienza una prima provvisoria formulazione: considero la cattiva coscienza come quella grave malattia
(concetto nietzschiano che non ritroviamo in Freud. La cattiva coscienza è una malattia, una degenerazione
della vita) in balia della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le
Diciamo che in queste righe c’è già tutta la teoria di N., la cattiva coscienza nasce con la nascita della
società, nasce quando i rimi ominidi nella condizione ancora preumana e precivile sono stati per qualunque
ragione costretti a vivere insieme, a formare dei gruppi, e quindi a sottoporsi a delle leggi, a delle regole, a
delle norme, nasce la lunga e millenaria storia del disciplinamento, cioè della subordinazione, degli istinti e
delle pulsioni umane a delle restrizioni e a delle rinunce. Poi N. fa un paragone che riprende alcune teorie
che erano state formulate fin dall’antichità secondo le quali originariamente la vita umana, la vita sulla
terra aveva preso origine nell’acqua e poi questi essere acquatici, per qualche motivo costretti a continuare
la loro vita sulla terra, hanno dovuto appunto modificare radicalmente il loro stile di ita. Qui però noi
saltiamo alcuni elementi e riprendiamo da
“credo che non ci sia mai stato sulla terra un tale senso di miseria, un tale plumbeo disagio – e intanto
quegli antichi istinti (cioè gli istinti che l’uomo poteva soddisfare in modo anarchico e selvaggio quando non
era ancora imbrigliato all’interno di una società) non avevano cessato tutta a un tratto di porre le loro
esigenze!”
Quindi abbiamo lo stato sociale che imbriglia gli istinti e costringe a sacrificare, ridurre, mortificare
reprimere le loro esigenze, dall’altro però abbiamo ancora degli istinti che non si adattano a questa forma
di disciplina, e quindi abbiamo una scissione, una condizione di disagio (come avrebbe detto Freud) e di
profonda infelicità.
“Solo che difficilmente e di rado era possibile dar loro soddisfacimento: in sostanza, essi dovettero cercarsi
nuovi e per così dire sotterranei appagamenti. Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono
verso l’interno- questo è ciò che io chiamo interiorizzazione dell’uomo.”
Questo termine viene ripreso pari pari da Freud. Gli istinti che no riescono a sfogarsi verso l’esterno… vi
ricordate cosa diceva Freud: guardate che questa energia non è che sparisce, deve trovare una via
alternativa e sostitutiva di soddisfacimento. Non la può più trovare fuori, è costretta a trovarla all’interno
del soggetto, all’interno dell’uomo, all’interno dell’io. Questo cosa produce? Produca una differenza tra ciò
che è esterno e ciò che diventa interno. l’interiorità, quella che noi chiamiamo la vita intima, o interiore, è
una costruzione, è l’effetto di una storia attraverso la quale gli istinti primordiali dell’uomo come essere
corporeo son stati, avrebbe detto Freud, inibiti, cioè ostacolati nel loro naturale, spontaneo e diretto
soddisfacimento e quindi hanno dovuto trovare un soddisfacimento sostitutivo rivolgendosi all’interno
dell’uomo, ma non perché l’interno dell’uomo preesistesse, lo hanno creato, generato loro e questi istinti
sono quegli istinti che N. chiamava volontà di potenza, e Freud chiamava aggressività.
“in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua anima”.
Non esiste in natura l’anima, è un effetto, è il prodotto di secoli e secoli di disciplinamento e di auto
coercizione a cui l’uomo è stato sottoposto a partire dal momento in cui è diventato un animale sociale, dal
momento in cui è nata la società. Quindi qui siamo di fronte ad un passaggio assolutamente capitale per la
storia della cultura contemporanea.
“Quei terribili bastioni (fortificazioni) con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti
della libertà fecero si che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si
“Tutto questo si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della cattiva coscienza”
Io che prima le mie pulsioni aggressive le potevo sfogare all’esterno, adesso dalla società sono costretto a
sfogarle contro me stesso e in questo modo produco la coscienza.
Cioè del senso di colpa, io provo l’istinto di possedere qualcosa che però appartiene già ad un altro, la
società mi fa sentire in colpa per quello che io provo perché so che quello che io provo è vietato dalla legge,
è vietato dalla norma, in questo modo sono abituato a interiorizzare i valori morali del gruppo di cui faccio
parte e a colpevolizzare me stesso, appunto a sentirmi responsabile, di quei desideri che vengono
considerati illegittimi dalla società e dalla sua morale. Ecco la nascita della cattiva coscienza.
“L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in una opprimente angustia e
normalità di costui, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole
ammansire e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi le piaghe, questo essere che manca di
qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di se stesso un’avventura, una camera di
supplizi, una selva insicura e perigliosa -questo giullare, questo desioso e disperato prigioniero divenne
l’inventore della cattiva coscienza”
Cioè, tutte quelle avventure, quelle scoperte, quei movimenti che l’uomo nello stato selvaggio faceva
attraverso il proprio corpo, è ora costretto a farli esclusivamente nell’ambito della propria immaginazione.
Abbiamo una interiorizzazione della crudeltà. Anche per N. la crudeltà fa parte della natura umana, però
appunto questa crudeltà non viene più esercitata fisicamente ma viene interiorizzata, abbiamo la nascita
del rimorso, del tormento interiore, del senso di colpa, dell’introspezione, dall’autoanalisi che sono tutte
forme sublimate di crudeltà, sono forme sublimate nel senso che non trovando può la possibilità di sfogarsi
fisicamente all’esterno, adottano la modalità di un soddisfacimento immaginario rivolgendosi verso
l’interno. È chiaro che questo comporta una mortificazione, comporta una negazione della vita nei suoi
aspetti più gioiosi e creativi, però al tempo stesso dice N, questo processo è all’origine dello spirito, della
cultura, dello sviluppo prodigioso dell’intelligenza. Quindi è vero che la valutazione di N. è globalmente
negativa però all’interno di questa valutazione negativa N. sottolinea anche gli aspetti positivi che sono
costituiti appunto dall’incivilimento, dalla raffinatezza dei costumi e dallo sviluppo dell’intelligenza. Allora
se noi cogliamo questa ambivalenza possiamo capire in che cosa consiste il progetto del superuomo: non è
un ritorno alla barbaria, ma è la produzione di una cultura che non sia più nemica della vita, non sia più
legata al senso di colpa ma sia in funzione della vita e di una sua liberazione dai condizionamenti della
morale. Questo N. intende come superuomo in quanto oltre passamento dell’uomo, cioè quella figura che
l’umanità ha assunto a seguito delle trasformazioni che hanno avuto origine ai primordi della civiltà e che
hanno trovato una loro cristallizzazione, secondo N. altamente negativa, con la diffusione del cristianesimo.
“Con essa fu però introdotta la più grande e la più sinistra delle malattia, da cui fino a oggi l’umanità non è
guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé”
La sofferenza che l’uomo prova nei confronti di se stesso, e non gioia, perché è abituato a condannarsi
come indegno, come colpevole, come iniquo perché gli istinti primordiali che lo costituiscono come vivente
sono ancora presenti in lui ma tutta la morale li ha condannati come colpevoli, come illegittimi. E quindi
l’uomo che li possiede è anche l’uomo che li condanna e condannandoli si condanna, soffre di se stesso, si
sente perennemente in colpa.
“conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, di un salto e di una caduta, per cosi
dire, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui
quali fino allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità”
Ora, però dopo che N. ci ha mostrato gli aspetti negativi, violenti, crudeli che hanno presieduto alla nascita
della coscienza morale, ecco che N. sottolinea anche l’altro aspetto che vi ho anticipato.
“Aggiungiamo subito che, d’altro canto, col fatto di un’anima animale (Anima animale= quando noi
parliamo di anima la attribuiamo ad un essere spirituale, ma qui N. parla di anima animale perché l’uomo è
rimasto un animale, cioè un vivente, però si è dotato di un anima, cioè di una coscienza) ricolta contro se
stessa, intenta a prender partito contro se stessa, si era presentato sulla terra qualcosa di tanto nuovo,
profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo d’avvenire, che l’aspetto della terre ne fu
sostanzialmente trasformato. […] Da allora l’uomo è annoverato tra le più inaspettate e stimolanti mosse
azzeccate che gioca il grande fanciullo eracliteo, si chiami Zeus o caso _ desta per sé un interesse, una
tensione, una speranza, quasi una certezza, come se con lui qualcosa si annunziasse, qualcosa si
preparasse, come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una via, un episodio, un ponte, una grande
promessa…”
Ecco qua che con nostra sorpresa alla fine di questo paragrafo N. rovescia tutto il segno del suo
ragionamento: millenni di sofferenza, di sacrificio e di auto modificazione però alla fine hanno aperto alla
vita una nuova forma, la forma dello spirito, dell’intelligenza, della cultura, e hanno trasformato l’uomo da
puro e semplice animale nella preparazione di qualcosa che super l’uomo, destinato a oltrepassare l’uomo.
E qui N. riprende la metafora del ponte che aveva usato nel libro Cosi parlò Zarathustra qui N aveva scritto
che l’uomo è un ponte fra la bestia e il superuomo. Quindi proprio attraverso questi millenni di sofferenza
che hanno prodotto l’interiorità, in realtà l’uomo si predisposto delle possibilità che hanno introdotto una
enorme novità nella storia della vita. E che ora, dice N, è il momento di utilizzare per promuovere un salto
verso una civiltà nuova e come dice sempre Zarathustra, verso nuove tavole dei valori.
Resta da chiare il riferimento al grande fanciullo eracliteo. Qui dobbiamo necessariamente fare riferimento
sempre allo Zarathustra. All’inizio di questo libro compare un capitolo intitolato “delle tre metamorfosi
dello spirito”. Come lo spirito diventa cammello, da cammello diventa leone e da leone divenne bambino”.
Cosa intende dire N. con questa metafora? Lo spirito cammello è lo spirito che si è accollato tutto il peso
della morale, dei divieti e degli obblighi legati al rispetto della morale, il cammello è lo spirito che vive
schiacciato dalla responsabilità, dalla coscienza morale e dal senso di colpa che inevitabilmente si
accompagna a questa coscienza. Quindi è uno spirito di gravità, pesante, serio, N. direbbe tedesco, perché il
filosofo della morale per eccellenza è Kant (l’imperativo categorico, il dovere incondizionato, la legge della
ragione, il divieto di godimento, la condanna della sensibilità). Ora però è il momento, dice N, in cui lo
spirito deve diventare leone, anzi, è già diventato leone attraverso N. stesso, attraverso cioè la critica
sistematica dei valori morali di cui il cammello si è fatto carico e si è trascinato per lunghi secoli e più in
particolare per 2 millenni dominati dal cristianesimo. Allora il leone, per N, è simbolo di un nichilismo attivo.
Il leone rappresenta il coraggio di chi ha l’audacia di negare i valori correnti dimostrando che questi valori
non rispettano più i bisogni e lo stile di vita dell’uomo moderno. Quindi il leone ha il coraggio di distruggere
e di dichiarare come una vuota impalcatura ciò che lo stato e la chiesa pretendono ancora di spacciare una
morale autenticamente vissuta e una religione effettivamente creduta e praticata. Il leone è l’espressione di
un atteggiamento nichilista che nega, che distrugge, che non crede più ma che in questo modo prepara
anche il terreno per una nuova creazione, sgombera il campo da una cultura per n: ormai morta e inutile e
quindi crea le condizioni per una nuova cultura, pe una nuova civiltà, per una nuova forma di vita che è
rappresentata dal fanciullo eracliano. Perché il fanciullo? Perché il bambino è simbolo dell’innocenza, di
gioia, di spontaneità ma il bambino è anche simbolo di una gioia che si esprime nel creare e nel distruggere,
cioè è una gioia legata la gioco delle metamorfosi. Non c’è divenire e non c’è metamorfosi se non c’è
cambiamento ma non c’è cambiamento se non c’è distruzione. La distruzione è la condizione
necessariamente correlata ad ogni creazione: se non distruggo il vecchio non avrò possibilità di creare il
nuovo. Ma se non creo il nuovo e resto nel vecchio non vivo più ma muoio. Quindi accettare la vita significa
Paragrafo 19
Qui la relazione con Freud diventa ancora più evidente perché in questo paragrafo N. parla del debito che le
prime società umane ritenevano di dover pagare ai loro antenati. Vi ricordate l’ipotesi freudiana di Totem e
tabù? Il totemismo? Che cos’era? Era una religione basata sull’idea dell’antenato, del capostipite come
divinità protettiva a cui però bisognava fornire doni, lodi, preghiere, sacrifici come se appunto la società
dovesse pagare il debito di gratitudine, di riconoscenza, fosse legata cioè da un apporto che vincola un
compratore al venditore che gli ha dato un prodotto, una merce. Vi ricordate che N. pone alla base dei
concetti morali delle relazioni mercantili, commerciali, rapporto fra venditore e compratore, questo genere
una relazione di debito e poi attraverso una serie di trasformazioni diventa concetto morale. Ora, vediamo
cosa ci dice N rispetto al rapporto tra le prime società umane e i loro progenitori ancestrali che queste
società sollevano fino alla condizione di divinità.
“E’ una malattia, la cattiva coscienza (insiste. È una condizione patologica. È una forma di degenerazione
della vita), non v’è dubbio (però poi ce l’aspetto positivo, cioè il rovescio della medaglia), ma è una malattia
come è una malattia la gravidanza (la gravidanza è dolore, sofferenza ma è nascita di una nuova vita).
Ricerchiamo le condizioni nelle quali questa malattia è pervenuta al suo apice più terribile e sublime. Ma per
fare quello che mi accingo a fare/per tale scopo occorre un vasto respiro - e dobbiamo tornare innanzitutto
ancora una volta a un punto di vista anteriore (primi paragrafi in cui N. ceraci di ricondurre l’origine de
concetti morali al rapporto tra compratore-venditore). Il rapporto di diritto privato è stato interpretato
all’interno di un rapporto in cui esso risulta per noi moderni forse del tutto incomprensibile: del rapporto,
cioè, intercorrente tra i contemporanei e i loro progenitori”
Allora, gli uomini abituati a scambiarsi merce fra di loro, ad entrare in relazioni commerciali dove il patto
che rendeva possibile la circolazione di beni era che chiunque comprava qualcosa onorava il suo debito,
ecco, questa relazione di compravendita che produce l’idea di un debito nei confronti di qualcuno che può
vantare un credito, viene trasferito dalla sfera delle relazioni mercantili, alla sfera delle relazioni tra i
N. ci dice: “Nell’ambito dell’originaria comunità la generazione vivente riconosce ogni volta un’obbligazione
giuridica nei confronti di quella più antica, fondatrice della stirpe”
Allora io sono nato perché i miei genitori mi hanno fatto nascere, mi hanno nutrito, mi hanno protetto, mi
hanno mantenuto finché ero piccolo e non ero in grado di mantenermi da solo. Già questo può essere
interpretato come un rapporto che crea un debito: il più giovane deve la sua vita ai propri genitori, cioè ai
più vecchi. Quindi deve nel corso della sua vita ripagare il proprio debito nei confronti dei genitori ed in
generale degli anziani che vengono concepiti alla stregua di creditori. Questi devono essere ripagati con
sacrifici e opere.
“Domina qui la persuasione che la specie unicamente sussiste grazi ai sacrifici e alle opere degli antenati- e
che questi devono essere ripagati loro con sacrifici e opere: si riconosce, quindi, un debito che continua a
crescere costantemente per il fatto che questi avi, perpetuando la loro esistenza come spiriti possenti, non
cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro forza”
Allora è come se i progenitori fossero innalzati a potenze divine che continuano a proteggere a promuovere
la vita delle generazione presenti, quindi più sono floride le generazioni presenti, più le generazioni presenti
si sentono debitrici del loro successo e della loro salute ai progenitori che sono stati divinizzati, trasformati
in spiriti tutelari della comunità. Quindi paradossalmente più noi stiamo bene, più ci sentiamo in debito nei
confronti dei nostri progenitori che abbiamo innalzato a spiriti e a potenze divine. Allora, in Freud questo
legame viene spiegato con il senso di colpa che deve perennemente essere calmato dagli onori, dai sacrifici,
dai tributi che vengono fatti ai progenitori perché nell’ipotesi di Freud i progenitori erano stati ammazzati e
quindi vi era stato un crimine che reclama espiazione, che richiamava il pagamento di una pena in termini
di onori religiosi, ecc..
In N. non essendoci questo tipo di spiegazione diciamo che l’interpretazione assume semplicemente come
suo criterio quello di uno spostamento concettuale. Cioè concetti originariamente utilizzati nei rapporti
della compravendita vengono trasferiti sul paino religioso attraverso una sorta di appunto dislocazione che
utilizza concetti nati in un determinato ambito e li trasferisce in un ambito completamente diverso.
“Di tempo in tempo esso impone un grande riscatto in blocco”
“Il timore per l’antenato e per la sua potenza, la coscienza d’un debito verso di lui cresce di necessità,
secondo questa specie di logica, nella stessa esatta misura in cui aumenta la potenza della stirpe
medesima”.
E in questa logica paradossale invece più la stirpe è sofferente, meno ricca, più pover, anche il timore nei
confronti del proprio progenitore diminuisce. Forse sta proprio qui, dice N. , l’origine degli dei, un origine
dunque dal timore. Timore a suo volta generato dalla dislocazione della logica della compravendita dal
piano dei rapporti mercantili, al piano delle relazioni religiosi. C’è però in N. una fase intermedia che per lui
è costituita dalle civiltà aristocratiche, quelle che lui chiama l’epoca di mezzo in cui appunto N. colloca
sostanzialmente la religione greca e quella romana. Dove abbiamo al tempo stesso l’ammorbimento delle
pretese degli dei e l’attribuzione agli dei di quelle qualità umane-aristocratiche che gli uomini
riconoscevano come specifiche della loro civiltà.
Dopo di che nel paragrafo 20 N. formula un’ipotesi verso la quale presenta dei motivi che dovrebbero
sostenerla però presenta anche dei motivi che la rendono insufficiente. Questa ipotesi consiste
nell’immaginare che questo senso del debito nei confronti della divinità si ammorbidisca mano a mano che
la fede religiosa si indebolisce.
Scrive N: “L’avvento del Dio cristiano, in quanto massimo dio che sia stato fino a oggi raggiunto”
E qui N. scrive una cosa strana perché riconosce al cristianesimo un primato rispetto a tutte le altre
religioni. Qua senza volerlo ripete una frase di Hegel: per Hegel il cristianesimo era la religione assoluta e
qui certo senza attribuire a N. una professione di fede cristiana, però, N. ripete la posizione di tipo
hegeliano nel riconoscere che il cristianesimo all’interno della storia delle religioni rappresenta il culmine
della religione, la forma più alta raggiunta dalla religiosità umana.
“L’avvento del cristiano, in quanto massimo dio che sia stato fino a oggi raggiunto, ha portato perciò in
evidenza, sulla terra, anche il maximum del senso di debito”.
Quindi il dio cristiano è un dio massimamente spiritualizzato, però proprio perché concerta su di se tutte le
caratteristiche del divino, siccome il senso del divino è basato sul senso del debito, allora evidentemente la
religione cristiana sarà la religione in cui il senso del debito è massimamente sviluppato. E in effetti siccome
la base della religione cristiana è stata data da San Paolo, voi sapete che nelle lettere di San Paolo il perno
del cristianesimo è basato sull’idea di nuovo testamento, cioè di un nuovo patto tra l’uomo e dio. Il primo
patto, il vecchio testamento, è quello degli ebrei. Con l’avvenuta di Gesù la fede nel dio degli ebrei si
estende a tutta l’umanità, al dominio della legge si affianca il dominio dell’amore però l’umanità si trova pur
sempre colpevole del fatto che Gesù si è dovuto sacrificare sulla croce per espiare i peccati dell’uomo.
Quindi c’è sempre una relazione di debito tra l’uomo e Dio e c’è sempre l’idea di un peccato che grava
sull’uomo e che l’uomo non potrà mai effettivamente estinguere del tutto se non quando Gesù tornerà
sulla terra per la seconda e ultima volta e promuoverà quindi la redenzione finale del genere umano. Quindi
il cristianesimo è una religione del debito, e anzi, in quanto massima forma della religione, è anche la
religione che esaspera al massimo l’idea di un debito che l’uomo non potrà mai riparare nei confronti del
proprio Dio. Allora N. prosegue: “ammesso che si sia entrati con l’andar del tempo nel movimento opposto,
si potrebbe derivare dall’inarrestabile declino della fede nel Dio cristiano il fatto che oggi si sta
determinando anche un considerevole declino della umana coscienza di colpa”
Allora qui N. dice che è evidente che nella società moderne la fede religiosa è sempre più debole, che gli
uomini vivono basandosi sempre meno sull’obbedienza ai precetti di tipo religioso. Quindi si potrebbe
immaginare che più decresce l’intensità della fede religiosa, più decresce il senso del debito che l’uomo
ritiene di dover espiare nei confronti di Dio. E poi aggiunge: “Anzi non si può respingere la prospettiva che la
compiuta e definitiva vittoria dell’ateismo potrebbe affrancar l’umanità da tutto questo suo sentirsi in
debito verso il principio. Ateismo e una sorta di seconda innocenza sono intrinsecamente connessi” Ma è
veramente cosi? Domani proviamo a leggere la risposta che ci darà.
E questa volontà di negare la vita è rappresentata per N. dalle religioni orientali (qui N. fa riferimento al
buddismo) e dalla filosofia di Schopenhauer che N. nella sua giovinezza aveva ammirato moltissimo come
filosofo e che aveva incorporato nella su filosofia l’idea buddista del nirvana, cioè dell’annullamento della
propria volontà di vita, annullamento della volontà. E S. aveva coniato un nuovo termine, Noluntas, da
contrapporre alla parola voluntas = volontà in latino e che deriva dal verbo “volo” = voglio. Noluntas è una
parola che S. si inventa, non esiste in latino, però esiste in latino il verbo “nolo”, che è il contrario di volo,
cioè non voglio.
Ora, S. che ritiene la vita un processo senza senso, fonte di delusione, dolore e sofferenza ritiene che l’unica
soluzione possibile per sfuggire alle sofferenze provocate dalla vita sia costituita dalla progressiva
estinzione della propria volontà di vivere, se io estinguo la volontà di vivere non soffro più perché non ho
più quei desideri e quelle aspettative che sono alla radice delle mie sofferenze. Perché l’idea è che le
aspettative siano sempre necessariamente deluse e i desideri siano destinati a rimanere costantemente
insoddisfatti. Ora S. che è fondamentale perché è lo sfondo di questa riflessioni nietzschiana, diventa
popolare in Germania proprio dopo il 1850. Quando nasce N.? N. nasce nel 1844, quindi la popolarità di S.,
cioè di questa filosofia, esplode proprio durante la giovinezza di N., ed egli ne resta molto influenzato. Solo
lentamente N. si libererà da questa influenza arrivando ad una concezione diametralmente opposta a
quella di S.
S. predicava la negazione della volontà, mentre N. predicava l’affermazione della volontà. Affermazione
della volontà che si formula nel concetto di volontà di potenza, che è l’esatto opposto della noluntas di
Schopenhauer. Volontà di potenza vuol dire affermazione dalla volontà, e vuol dire dunque, non negazione
della vita, ma accettazione della vita, anche nei suoi aspetti di dolore e di sofferenza.
Questo è il senso, il percorso di pensiero che fa da sfondo a quello che stiamo leggendo e che adesso
culminerà nell’ennesima critica di N. nei confronti del cristianesimo. Però al prof interessava questa
spiegazione per la comprensione delle espressioni di N. che abbiamo appena letto e l’esistenza che in
generale rimane non valida in se. Nichilismo. Volontà del nulla, volontà di negazione della volontà,
Schopenhauer come espressione filosofica più nobile e alta possibile del cristianesimo, epochè è il
cristianesimo per N. che spinge a negare la vita ritenendo colpevole e peccaminoso il godimento della vita.
Desiderio del nulla, noluntas, quello che i buddisti chiamano il nirvana. Il nirvana che cos’è? È la parola
indiana per indicare il nulla, annullamento del se come soggetto individuale dotato di volontà e animato
incessantemente da desideri che non sono esauribili.
“Finché eccoci all’improvviso di fronte al paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umanità
ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la
colpa dell’uomo” . quindi il creditore che assume direttamente su di se le colpe del suo debitore. Dice N.
che questa è una cosa geniale perché è totalmente illogica, assurda. E il cristianesimo è riuscito a
convincere gli uomini di questa assurdità, di un creditore, dio, che decide di sacrificarsi a favore del suo
debitore. Quindi un dio che in quanto creditore si rende debitore di se stesso, si punisce fino alla passione e
alla morte pur di salvare il proprio debitore. Cioè dice N. che è un controsenso totale, e pure gli uomini,
evidentemente erano arrivati a tal punto di insofferenza da aver bisogno di questa assurdità per poter
Paragrafo 22.
In realtà tutta questa costruzione mentale, immaginaria che però ha fondato una fede religiosa durata
quasi 2000 anni, dice N., ha alla sua radice qualcosa di pulsionale che ora N. ci spiega per l’ennesima volta.
“essendo sbarrata la più naturale via di liberazione di questo voler cagionare il dolore. pensiamo sempre
all’aggressività di Freud che N. chiama con altri nomi: volontà di sopraffazione, volontà di dominio, volontà
di imporre la propria superiorità attraverso la sofferenza degli altri, attraverso la violenza. Ecco, tutti questi
impulsi selvaggi, queste pulsioni violente che la società ha represso, si sfogano ora contro l’uomo che li
possiede e che prima della civiltà poteva sfogarli all’esterno e ora è costretto a utilizzarli e a soddisfarli
contro di se.
“essendo sbarrata la più naturale via di liberazione di questo voler cagionare il dolore” che cosa ha
escogitato l’uomo? Ha escogitato la cattiva coscienza, cioè ancora una volta, la coscienza di essere cattivo,
di essere colpevole, di essere in debito. “Quest’uomo della cattiva coscienza si è impadronito del
presupposto religioso per spingere il proprio auto martirio fino alla sua più orribile crudezza e sottigliezza”.
Allora, ancora una volta, quella relazione di debito che le generazioni successive provavano verso i lori
antenati e predecessori, viene interiorizzata attraverso la religione. Allora il rapporto di debito non è più
quello fra le generazioni più recenti e le generazioni passate, ma diventa un rapporto di colpa, cioè di
debito interiorizzato fra l’umanità e Dio. Questa interiorizzazione del debito che avviene su scala globale,
collettiva, sociale è operata dal cristianesimo. Ecco perché vi è una complicità fra cristianesimo e morale: è
come se il cristianesimo desse il fondamento religioso della cattiva coscienza. “Un debito verso Dio: questo
pensiero diventa per l’uomo strumento di tortura”.
E insomma “si tende, questo senso di colpa, nella contraddizione tra Dio e il diavolo. Ogni no che dice a se
stesso, alla natura, alla realtà del suo essere, l’uomo lo proietta fuori di se come Dio, come santità d’Iddio,
come tribunale d’Iddio, come al di là, come eternità, come inferno, come incommensurabilità fra pena e
colpa”.
Non ci saranno mai pene sufficienti per punire le colpe che l’uomo si è addossato attraverso questa logica
apparentemente incomprensibile ma che per N. è legata al fatto di una repressione fondamentale degli
istinti, di quegli istinti che non hanno più avuto modo di esplicarsi all’esterno e che ora incrudeliscono,
esercitano tutta la loro violenza insoddisfatta contro l’uomo che li possiede. Quindi è l’uomo stesso che si fa
carnefice di sé stesso nella dimensione della coscienza che poi però noi sappiamo nella storia religiosa
dell’occidente non è stato solo frutto di sofferenze interiori ma si è appunto manifestato con fenomeni di
violenza esterna come la tortura, come la caccia alle streghe, i roghi, la caccia agli eretici. Insomma, tutti
questi sono episodi che hanno costellato la storia europea. Ed è lo steso N. che parla di delirio. Leggiamo
cosa scrive: “Questo è una specie di delirio della volontà nella crudeltà psichica”. La crudeltà, ripeto per
l’ennesima volta, è per N. una delle pulsioni fondamentali della vita. La prossima settimana leggeremo i
passi che abbiamo saltato, quelli con cui comincia questa dissertazione dove N. ci spiega che
originariamente la pena non aveva il compito di correggere i delinquenti, non aveva neanche il significato di
far pagare una colpa al debitore. L’idea di N. è che in realtà la pena serviva a dare al creditore la possibilità
di sfogare sul debitore insolvente i suoi istinti di potenza e di crudeltà. Quindi secondo N. la pena
originariamente è semplicemente l’espressione di un esercizio della volontà di potenza come volontà di
crudeltà: io infliggo sofferenze all’altro e godo perché nell’infliggere sofferenze all’altro dimostro di essere
infinitamente più forte e superiore dell’altro. Ora, questa dimensione che è atroce perché violenta, perché
produce deliberatamente sofferenza, però fa parte della vita, fa parte delle pulsioni primarie. Allora N. non
è che vuole tornare a questo livello di barbaria, N. ci sta dicendo: guardate che il modo in cui la civiltà ha
provato a risolvere questo problema ha prodotto degli effetti altrettanto drammatici e negativi perché
l’uomo non è riuscito a formare in maniera armonica, non è riuscito a creare una relazione produttiva fra le
esigenze della civiltà e gli impulsi aggressivi e violenti, no, l’uomo ha deciso di reprimere semplicemente
questi impulsi. Freud che cosa avrebbe detto? Ha deciso di rimuoverli, ma siccome questi impulsi
continuano ad esistere, ecco che si sfogano contro l’uomo medesimo producendo senso di colpa, cattiva
coscienza, e cosi via. Il cristianesimo è l’espressione religiosa di questa dinamica. Quindi è un effetto che
Paragrafo 23.
Qui N. si sofferma sulla religiosità propria invece dei greci che contrappone al tipo di religione
rappresentata dal cristianesimo e mostra come nei greci vi sia una concezione completamente diversa della
vita e delle relazioni tra l’uomo e le divinità.
Paragrafo che non vedremo insieme. Da leggere a casa.
Paragrafo 24
Negli ultimi due paragrafi N. cerca di tirare la fila del suo ragionamento che conclude con 3 interrogativi.
1)propriamente si sta qui erigendo un ideale oppure lo si sta abbattendo? Cioè, tu N. cosa stai facendo? Ti
stai limitando a distruggere oppure sotto questa tua smania di distruzione ci stai proponendo un nuovo
ideale? La risposta di N. è che non è possibile proporre un nuovo ideale senza distruggere i vecchi ideali, è
come se N. rifiutasse l’alternativa e ci dicesse che sta facendo contemporaneamente tutte e due le cose.
Non può essere affermato e creato un nuovo ideale senza distruggere gli ideali precedenti. Io vi ho
sicuramente menzionato quel capitolo dello Zarathustra intitolato “le tre metamorfosi dello spirito”: il leone
come condizione del fanciullo. Il leone gode nel distruggere, ma non perché la distruzione sia un fine in sé,
ma perché la distruzione è l’unica possibile condizione per una nuova creazione, per creare al meno le
possibilità che sia dia una nuova creazione, una nuova civiltà, una nuova forma di vita.
“ma vi siete mai chiesti a quanto caro prezzo si è fatto pagare l’innalzamento di ogni ideale sulla terra?
cioè, non sono solo io che proponendo un nuovo ideale voglio distruggere gli altri, ma qualunque nuovo
ideale si è costruito sulle rovine dei precedenti valori/ideali. “Quanta realtà dovette sempre essere, a tale
scopo, calunniata e disconosciuta, quante coscienze sconvolte, quanta divinità sacrificata ogni volta?
Affinché un santuario possa essere eretto, un santuario deve essere ridotto in frantumi: è questa la legge”.
Paragrafo 25:
in questo paragrafo N. fa un riferimento esplicito alla figura di Zarathustra e quindi ricollega la Genealogia
della morale al libro Così parlo Zarathustra (1883-1885) dove appunto Zarathustra è considerato il maestro
del superuomo e dell’eterno ritorno, e dove appunto Zarathustra è anche colui che annuncia e definisce le
nuove tavole dei valori in base alle quali sarà condotta la vita dell’oltre uomo. Le nuove tavole dei valori
sono le tavole della volontà di potenza come affermazione e accettazione della vita, e quindi si
contrappongo alle antiche, alle vecchie tavole dei valori basate sulla negazione della vita e sul disprezzo
della volontà.
Domanda che permette anche di mettere in luce i rapporti fra quello che sostiene Freud e quello che
abbiamo letto nel caso di N: quando N. parla del debito che le comunità umane sentono nei confronti dei
loro predecessori, N. anticipa, prefigura un modello di spiegazione che verrà poi sviluppato da Freud.
Allora noi oggi dovevamo integrare la lettura con quei brani che no avevamo letto perché risultano in realtà
più chiari una volta che abbiamo completato il percorso della seconda dissertazione. Allora, in questi primi
paragrafi Nietzsche pone a tema il problema della dissertazione e sostanzialmente si chiede come è
possibile fare dell'uomo, dell’essere umano, che inizialmente è un vivente che opera in modo analogo a tutti
gli altri animali e quindi è privo di memoria, vive secondo i suoi istinti e per soddisfare i propri bisogni man
mano che sente la fame, la sete, lo stimolo sessuale e così via. Vive nell’immediatezza, non in una continuità
temporale, non ha ricordi, ha solo riflessi. N. si chiede: ma come è possibile fare di un essere umano, che
condivide una condizione di tipo animale, un essere capace di ricordare e quindi di prendere impegni e di
rispettare gli impegni che ha preso. Nietzsche formula questo tema con una domanda: com'è possibile per
l'uomo diventare un essere capace di fare promesse? Che cos’è una promessa? La promessa è una parola
data a persone diverse da noi, con le quali ci impegniamo a fare qualcosa (dal bambino che promette al suo
amico di dare la figurina, alla promessa di matrimonio con cui due fidanzati consolidano la loro relazione).
La promessa implica l'assunzione di un impegno che prevede una durata nel tempo e che, dunque, impegna
il futuro, non solo il presente. È una sorta di vincolo attraverso cui il soggetto esercita un dominio sul tempo
perché anticipa quello che sarà in un momento futuro: quando qualcuno promette è come se dicesse al
futuro “guarda che io so già quello che dovrà accadere perché sono io padrone delle mie azioni e quindi
decido io in che modo dovrò vivere, indipendentemente da quello che potrà accadere un domani”. Quindi
N. dà alla promessa un significato conforme alla sua teoria della volontà di potenza. La promessa, nel senso
nobile e aristocratico di questo termine, è l'espressione di un uomo che vuole imporre la propria volontà al
tempo e che vuole proiettare il proprio dominio non soltanto sul presente ma anche sul futuro. Questo è
promettere ma io non potrei promettere se fossi privo di memoria perché se fossi privo di memoria
dimenticherei immediatamente quello che ho detto di promettere. Se io prometto una cosa a qualcuno e
domani mi sono dimenticato completamente di quello che gli ho detto, è chiaro che è come se io non gli
avessi promesso niente perché per me quello che ho detto ieri non esiste più. Quindi dal mio punto di vista
mi sentirei libero di fare quello che voglio, ma l’altra persona a cui ho fatto la promessa, se si ricorda quello
In questi testi iniziali, Nietzsche, però, introduce un altro elemento. Allora abbiamo detto che la colpa
presuppone la responsabilità ed è appunto la responsabilità che permette l’applicazione di pene e di
punizioni nei confronti di chi si è dimostrato colpevole di qualcosa. Ora, tutti i filosofi, a partire dall’antichità,
hanno pensato, secondo N., che questo fosse il concetto originale, cioè che l’uomo fosse per natura
responsabile e quindi soggetto a pene e a punizioni. Nietzsche rovescia invece completamente questo
discorso. Dice: guardate che all’inizio della storia umana, il problema non era quello della colpa e della
responsabilità, il problema era semplicemente quello di garantire che nei rapporti commerciali, se c’era
qualcuno che non onorava, manteneva i suoi debiti, questo qualcuno venisse punito. Ma qual era il senso
della punizione dice N.? Era legato al fatto che il debitore dissolvente venisse considerato moralmente
colpevole? Dice N, assolutamente no. Il debitore veniva messo a disposizione del creditore, per permettere
al creditore di esercitare sul debitore, la sua superiorità e, quindi, per esprimere nei confronti di qualcuno
posto in condizione di inferiorità, la propria volontà di potenza. In altri termini, la relazione originaria fra
debitore e creditore era funzionale all’esercizio di una crudeltà da parte di chi era in condizione di
superiorità (il creditore) nei confronti di chi veniva a trovarsi in una condizione di inferiorità, cioè il debitore
insolvente. Allora N. dice che alle origini dei concetti morali, ci sono delle ragioni completamente diverse da
quelle che ci vengono raccontante dalla morale e dalla religione. All’origine dei concetti morali non c’è
nient’altro che la volontà di potenza e la gioia di dimostrare la propria superiorità nei confronti di qualcuno
che viene messo a nostra totale disposizione. Questo esercizio incondizionato della volontà di potenza, nei
confronti di qualcuno che viene messo a disposizione di qualcun altro, è la crudeltà, che è l’esperienza
rimossa da tutta la filosofia morale e da tutta la teologia dominante che hanno letteralmente rimosso
questo istinto primordiale dell'umanità che è appunto la crudeltà. Nietzsche dice: dobbiamo riconoscere
questo elemento brutale e selvaggio che sta all’origine di tutti i nostri concetti morali, dobbiamo riconoscere
questo elemento brutale e selvaggio che sta all’origine di tutti i nostri concetti morali, dobbiamo riconoscere
che nella crudeltà si esprimevano, nelle fasi originarie della storia umana, tutti quegli impulsi alla gioia e al
godimento della propria superiorità che con lo sviluppo della civiltà cos’hanno fatto? N: su questo dice
esattamente le stesse cose di Freud non sono spariti, si sono spiritualizzati, si sono interiorizzati. Vi
ricordate i brani che abbiamo visto nell’ultima lezione? Al posto di esercitare la propria crudeltà all’esterno,
contro altri, l’uomo la esercita ora contro se stesso sotto forma di cattiva coscienza e di coscienza di colpa.
Allora per questo abbiamo commentato alla fine, perché vedete, il percorso di N. è un percorso molto
rigoroso ma che emerge nella sua chiarezza solo avendo presente la totalità del suo discorso. Per cui se noi
leggiamo queste pagine senza aver chiaro dove “N. vuole andare a parare” richiamo di perderci, di non
capire perché prima parla della promessa, poi della responsabilità, poi della crudeltà, poi divaga, parla di
altro, torna a parlare dell’uomo che viene inserito all’interno di relazioni sociali e poi finalmente riprende il
discorso sul senso di colpa. Ecco, in realtà questo è un filo che si tiene e che dimostra come N. voglia
veramente operare un sovvertimento dei valori dominati, dominanti soprattutto nella sua epoca, ma che
sono presenti tutt’ora, benché in crisi, alla base della convivenza civile, perché anche noi stipuliamo dei
contratti, anche noi abbiamo dei codici di leggi che prevedono reati, che prevedono il riconoscimento di
colpevolezza e le erogazioni di pene e di punizioni.
Allora, perché Nietzsche vuole far emergere questi strati di crudeltà, di brutalità e violenza? Perché ritiene
che solo riconoscendo queste origini materiali e naturali, sia possibile rispondere alla crisi morale dell'età
moderna. Risalendo alle origini della morale, è possibile, secondo N., reindirizzare quelle energie e quegli
impulsi, che sono stati all’origine della morale, in una direzione diversa. E qui torniamo ad un altro aspetto
della filosofia di N che abbiamo già affrontato, cioè l’idea che la morale, nella veste che ha assunto
attraverso il cristianesimo e la democrazia, sia in realtà l’espressione di un rifiuto della vita, sia l’espressione
di un disprezzo del corpo.
E qui possiamo ricollegare anche alla prima dissertazione: la morale è l’espressione del risentimento e dello
spirito di vendetta che i ceti inferiori provavano nei confronti dei ceti superiori. La plebe contro la nobiltà
Alla fine di questa dissertazione abbiamo detto che N. parla di grande salute, parla dell’uomo dell’avvenire,
fa riferimento a Zarathustra (che per N: è il maestro del super uomo e dell’eterno ritorno). Ecco, se noi
leggiamo l’inizio di questa dissertazione vediamo che, quando Nietzsche parla della promessa, beh N. da un
senso positivo alla capacità di promettere perché la promessa è anche una grande potenzialità. La capacità
di promettere, che è costata tanta fatica e crudeltà, però è anche una capacità che può spingere l’uomo ad
andare oltre l’uomo.
Paragrafo 1 (pag. 46
“Appunto questo animale necessariamente oblioso, si è ora plasmato con l’educazione una facoltà
antitetica, una memoria, mediante la quale in determinati casi l’oblio viene sospeso (cioè la dimenticanza
che è la condizione normale viene bloccata) – in quei casi cioè in cui si tratta di fare una promessa (nesso tra
memoria e capacità di fare promesse): è quindi in gioco non già una semplice impossibilità di liberarsi
nuovamente dell’impressione una volta incisa (cioè, non è una incapacità di dimenticare una brutta
esperienza o un brutto ricordo. Sarà capitato a tutti di volersi dimenticare di qualcosa che torna invece a
tormentarci. Non è questa la memoria di cui l’uomo diventa capace quando decide di fare una promessa, è
una memoria che l’uomo vuole fermare, cioè un esercizio di potenza, è l’affermazione di una forza che
contrasta la tendenza all’oblio). In questi casi sostiene N. è in gioco “un attivo non voler tornare a liberarsi
(cioè voglio ricordarmi di ciò che ho detto e di ciò che mi sono proposto), un continuare ancora a volere
quel che si è voluto una volta (formulazione fondamentale perché voi vedete che qui N. allude alla sua
teoria dell’eterno ritorno “Continuare ancora a volere quel che si è voluto una volta = quel che io volevo ieri
confermo di volerlo anche oggi e al tempo stesso anticipo la mia volontà di domani. Quindi domino il flusso
del tempo, rendo il tempo subordinato alla mia volontà, alla mia decisione. In questo senso allora, la
“Cosicché tra l’originario io voglio, io farò (cioè fra l’atto della volontà, tra il proporsi di fare qualcosa e…) e il
caratteristico scaricarsi della volontà, il suo atto, può essere agevolmente interposto un mondo di nuove
cose sconosciute, di circostanze e persino di attivi volitivi, senza che questa lunga catena del volere abbia a
incrinarsi”. Come definireste la nascita di questo nuovo fenomeno descritto da N.? vi viene in mente una
parola con cui potrebbe definirsi? Il prof la definirebbe come la nascita del carattere, della personalità. La
personalità, in questo caso, non è l’effetto puro e semplice di una serie di imposizioni ma è il risultato di
un’espressione positiva della propria forza di volontà. Infatti, N. dice: “senza che questa lunga catena del
volere abbia a incrinarsi”: l’uomo si crea un carattere in grado di dare ordine e forma ai propri istinti e alla
propria esperienza. Ma che cosa non presuppone tutto ciò? “Quando deve aver prima imparato, l’uomo, per
disporre anticipatamente del futuro, quanto deve aver prima imparato a separare l’accanimento necessario
da quello causale, a pensare secondo casualità (cioè secondo relazioni costanti), a vedere e ad anticipare il
lontano come presente (vede, ancora una volta dominio sul tempo. Vedo il futuro come se fosse già
presente perché lo anticipo nel pensiero), a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in generale
quel che è scopo e quel che è mezzo”: vedete, l’uomo diventa capace di orientare il proprio comportamento
in senso razionale. “Quanto, a questo fine, deve prima essere divenuto, l’uomo stesso, calcolabile, regolare,
necessario (l’uomo è come se incorporasse in sé qualcosa di immutabile, di necessario), facendo altresì di se
stesso la sua propria rappresentazione”, cioè facendo si se un’idea. Ecco qui un altro collegamento con
Freud: non esiste costruzione di personalità senza delle idee di ciò che noi vorremmo essere, di ciò che noi
vogliamo diventare. Quindi, anche l’idea in questo ha una funzione positiva, anche l’ideale è qualcosa che
spinge l’uomo all’affermazione, non è qualcosa che serve per far sentire l’uomo colpevole ma è l’apertura di
una nuova possibilità, di nuovi percorsi di vita possibili. Ecco allora “per poter alla fine rispondere di se come
avvenire (in rapporto a ciò che noi saremo perché ora vogliamo diventare cosa saremo, vogliamo ora
decidere cosa saremo domani), allo stesso modo di uno che fa una promessa”. Ma allora è chiaro che qui la
promessa è l’idea di un oltre passamento dell’uomo, cioè di un uomo che sa promettere perché vuole
promettere, non perché è stato abituato ad obbedire a comandi dettati da altri, ma perché ora vuol
diventare il suo proprio comando e, quindi, l’espressione di una volontà che non è più estranea ma che è la
propria volontà. Però per fare questo è necessario cambiare tutti i valori dominanti della nostra civiltà, cioè
dobbiamo operare quella che N. chiamava la trasvalutazione di tutti i valori, allora anche la promessa
assumerà un significato diverso rispetto a quello che ha oggi: non sarà più vincolata all’idea morale della
responsabilità ma sarà legata alla capacità di affermare positivamente il proprio volere e di fare di sé una
promessa, capace di imprimersi sul futuro e oltre che sul presente. Allora questo primo paragrafo va
collegato con la fine di questa dissertazione.
Paragrafo 2
Ora tra questi due, però, momenti, N. sviluppa allora il suo discorso. Nel secondo paragrafo abbiamo
l’introduzione del concetto di responsabilità.
“Questa appunto è la lunga storia dell’origine della responsabilità” voi dovete ovviamente collegare quello
che io ho detto fino ad ora a questi testi. Perché io ho cercato di farvi una lezione come guida alla lettura di
queste pagine. Allora, dal fare promesse, alla capacità di ricordare, alla nozione di responsabilità.
“Quel compito di allevare un animale che possa fare promesse, implica in sé, come già ci siamo resi conto,
quale condizione e preparazione, il più immediato compito di rendere (cioè è opera di un esercizio, di una
educazione e di tutto ciò che questa educazione ha comportato in termini di violenza e di crudeltà)
dapprima l’uomo, sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di
conseguenza calcolabile”. Dice N.: questo però è l’inizio del percorso.
“Mettiamoci invece al termine dell’immenso processo”. Cioè all’inizio c’è stato un disciplinamento, una
massificazione, un’equiparazione = rendere l’uomo uniforme, uguale fra gli uguali. Ma questo dice N. è il
lavoro millenario che si è reso necessario, non perché l’uomo resti uomo, non perché l’uomo resti animale
16 aprile
Oggi completiamo la lettura dei brani che ci restano della seconda dissertazione.
Domanda: quando abbiamo parlato del fatto che nel cristianesimo il creditore, cioè Dio, assume le colpe del
debitore. Non ho capito bene questa parte.
Prof: sostanzialmente N. applica al cristianesimo la sua lettura del rapporto tra i concetti di debito e di
colpa. Nelle civiltà arcaiche secondo la sua ricostruzione, il debitore veniva punito dal creditore. N. sostiene
Lezione di oggi
Paragrafo 3 (pag.48):
Qui Nietzsche sostanzialmente introduce il ruolo della crudeltà, che avevamo anticipato nei gironi scorsi.
“Come si forma una memoria nell’animale-uomo? Come si imprime qualcosa in questo intelletto dell’attimo,
in parte ottuso, in parte sventato, in questo vivente oblio? Come si imprime qualcosa in modo tale da restare
presente?”
L’uomo come tutti gli animali è portato a dimenticare, non a ricordare, vive nel presente, non è agganciato
al passato e non è proiettato verso il futuro. Qui c’è l’influenza del poeta italiano Leopardi su N.
Il poeta scrive una poesia “il pastore errante dell’Asia” dove c’è il contrasto fra l’uomo, che ricorda e quindi
pensa, e gli animali che non ricordano e quindi non pensano, non introducono alcuna una distanza fra sé e
la vita che fanno. Gli uomini, invece, con la riflessione, prodotta dalla capacità di ricordare, introducono
sempre una distanza fra ciò che sono e ciò che fanno, non sono mai totalmente presi, catturati dal presente,
siamo sempre proiettati in un futuro che ancora non c’è e siamo sempre attaccati ad un passato che ci
ricordiamo di avere vissuto.
“Questo antichissimo problema, non è stato precisamente risolto con risposte e mezzi delicati: forse
nell’intera preistoria dell’uomo addirittura nulla è più spaventoso e sinistro della sua mnemotecnica”
Cioè della tecnica che fa acquisire all’uomo una memoria. “Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella
memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare (cioè di fare soffrire) resta nella memoria- è questo un
assioma della più antica psicologia sulla terra. […] Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria,
ciò non avvenne mai senza sangue, martiri, sacrifici; i sacrifici e i pegni più spaventosi (In cui si
ricomprendono i sacrifici dei primogeniti), le più ripugnanti mutilazioni (per esempio le castrazioni), le più
crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi (e tutte le religioni, sono, nel loro ultimo fondo, sistemi di crudeltà)
– tutto ciò ha la sua ragione in quell’istinto che colse nel dolore il coadiuvante più potente della mnemonica”
cioè della capacità di ricordare.
Paragrafo 4
In questo paragrafo troviamo l’introduzione, da parte di N., di quest’idea. Allora in realtà, l’idea di punire
qualcuno, l’idea di infliggere sofferenza non è legata, dice N., soprattutto alle origini della storia e della
civiltà umana, non è legata all’idea che l’uomo sia responsabile di quello che fa, non è legata all’idea che
l’uomo sia l’autore delle proprie azioni, ma l’idea che ha N. è che attraverso la punizione colui che infliggeva
la pena e la sofferenza, godeva del suo sentirsi superiore rispetto agli altri.
Allora ci sono due aspetti da sottolineare:
1. L’idea morale di colpa non è un idea originaria ma è il risultato di una trasformazione che ha la
sua base nell’idea di debito.
2. La pena non era concepita come la giusta punizione per una colpa morale, ma era l’occasione
per esercitare violenza e crudeltà, nei confronti di coloro che venivano sottoposti ad un
determinato tipo di punizione.
“Per il più lungo tratto di tempo della storia umana non si sono assolutamente inflitti castighi perché si
ritenesse l’autore del male responsabile della sua azione (non c’era ancora l’idea della responsabilità, non
c’era ancora l’idea del soggetto, l’idea dell’individuo autore libero di azioni che avrebbe anche potuto non
fare) , dunque non con il presupposto che si debba punire unicamente il colpevole – si punisce, viceversa,
Paragrafo 5
E allora all’inizio del paragrafo 5, N. riprende e collega i ragionamenti che ha fatto nelle sezioni precedenti.
“Qui precisamente (cioè nei rapporti di compravendita) vengono fatte promesse; qui precisamente si tratta
di fabbricare una memoria (*paragrafo 3), qui precisamente, è lecito sospettarlo, si troverà una base per
scoprire cose dure, crudeli, penose. (*paragrafo 3) Per infondere fiducia nella sua promessa di restituzione,
per dare una garanzia della serietà e santità della sua promessa, il debitore dà in pegno, in forza del
contratto, al creditore, per il caso che non paghi (cioè che non onori il suo debito), qualcosa d’altro che
ancora possiede, su cui ha ancora potere, per esempio il proprio corpo o la propria donna o la propria
libertà o la propria vita. […] Ma specialmente sul corpo del debitore il creditore poteva infliggere ogni sorta
d’ignominia e di tortura, tagliarne giù tanto quanto pareva commisurato alla entità del debito”
C’è addirittura una legge, nel più antico codice di leggi occidentali, le 12 tavole alla base del diritto romano,
in cui si stabilisce che non può essere considerato fraudolento, tagliare dal corpo del debitore una parte più
grande o più piccola rispetto al danno subito. Il senso di questa norma è che il creditore può mutilare il
corpo del suo debitore, più o meno, andando a spranghe. Questa è una legge che fa parte delle 12 tavole
che sono il fondamento di tutto il diritto romano. Però, anche qui, N. dice una cosa che lo porta a sostenere
la tesi che abbiamo anticipato prima: che al fondo di queste pratiche giuridiche, non c’è una vera e propria
utilità, ma c’è semplicemente il piacere nell’esercitare la propria volontà di potenza, in termini di crudeltà.
“Rendiamoci chiara la logica di tutta questa forma di compensazione: è abbastanza bizzarra. L’equivalenza
(tra il danno subito e la punizione inflitta), è data dal fatto che al posto di un vantaggio in diretto equilibrio
con il danno (quindi al posto di una compensazione in denaro, in terra, possessi di qualsiasi specie) viene
concessa al creditore a titolo di rimborso e d compensazione una sorta di soddisfazione intima – la
soddisfazione di poter scatenare senza alcuno scrupolo la propria potenza su un essere impotente, la voluttà
di fare del male per il piacere di farlo, il piacere di fare violenza: piacere che come tale risulta apprezzato in
misura tanto più alta quanto più bassa e umile è la condizione del creditore nell’ordinamento della società”.
Se io sono un plebeo e presto dei soldi a un nobile fallito che non me li restituisce, beh caspita, se la società
mi autorizza a punire chi mi è socialmente superiore, è chiaro che il mio godimento sarà tanto di più, quanta
più crudeltà io potrò esercitare contro colui che normalmente mi è superiore.
“Mediante la pena del debitore, il creditore partecipa di un diritto signorile: raggiunge altresì finalmente il
sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come suo inferiore. La compensazione
consiste quindi in un mandato e in un diritto alla crudeltà”
Questa crudeltà che ha origine nei rapporti contrattuali e che poi, con il progresso della civiltà, si interiorizza
e diventa crudeltà verso di sé attraverso la formazione del senso di colpa e della cattiva coscienza.
Direi che abbiamo approfondito abbastanza questo aspetto, N. sviluppa questo elemento legato alla
relazione tra punizione, pena e crudeltà e al
17 aprile
TERZA DISSERTAZIONE: “che significano gli ideale ascetici?”
Ascesi è una parola che significa sacrificare e rinunciare ai godimenti del corpo per coltivare la vita
spirituale e le virtù dell’uomo. E’ chiaro che N. è un critico feroce degli ideali ascetici. Gli asceti erano delle
persone, in molti casi ritenute sante, quindi oggetto anche di devozione, di ammirazione da parte del
popolo, che si ritiravano dalla vita comune, che rinunciavano alla ricerca del piacere, del potere, della
ricchezza e, soprattutto all’inizio della diffusione del Cristianesimo, si ritiravano in luoghi appartati e solitari,
nel deserto ad esempio, per imporre al proprio corpo una rigorosa disciplina di rinunce e privazioni, in
modo da sentirsi sempre meno condizionati dai bisogni fisici, naturali, corporei e, per arrivare ad una
liberazione dello spirito che, secondo questo ideale, era l’unica facoltà che potesse ricongiungere l’uomo
con Dio. Un’altra parola che può essere analoga è la parola “eremita” = l’uomo che vive in solitudine, che fa
una vita spartana, frugale, che rinuncia sempre più ai bisogni corporei e che in questo modo ritiene di
arrivare ad una liberazione della mente dai condizionamenti della natura e del corpo. Questa è una
tradizione presente, non solo in occidente, ma anche nell’oriente, dove il saggio buddhista vuole
raggiungere il Nirvana, perché ritiene che la vita che noi facciamo sia una vita di apparenza, priva di
consistenza, le cose della nostra esperienza ordinaria sono cose che non durano, non permangono nel
tempo, che nascono e muoiono. Quindi fin dai primi millenni delle civiltà orientali, gli uomini si sono chiesti
che senso ha questa vita, che sostanza reale possiamo attribuire a questa esistenza, se è un’esistenza
soltanto temporanea, passeggera. Nasce così l’idea di Nirvana, che è una condizione di annientamento
della propria volontà. Ne abbiamo parlato a proposito di Schopenhauer, che è il primo che utilizza
filosoficamente le dottrine religiose dell’oriente, in particolare de buddismo. S. afferma che per eliminare la
sofferenza, dobbiamo estinguere i desideri della nostra volontà. Questo è il Nirvana: l’estinzione del
desiderio, l’annullamento della propria volontà. Una volta che sono arrivato a estinguere la mia volontà,
secondo queste dottrine, io arrivo alla beatitudine: non esisto più come individuo separato dal resto
dell’universo, io mi unifico con la totalità dell’universo, divento un’unica cosa con il cosmo, perché
riconosco che tutto ciò che vive nel cosmo è pura apparenza e che l’unica e autentica realtà è costituita dal
nulla, dal niente. Quello che può sembrare paradossale è che il niente dei buddisti coincide con una
condizione di totale pienezza perché, nella loro idea, l’annientamento della volontà coincide con
l’annientamento della mia singola individualità e attraverso questo annientamento io mi ricongiungo con
l’unità che è principio di tutte le cose: tutte le cose infatti nascono dal nulla, tutte le cose considerate
singolarmente tornano nel nulla. Quindi, attraverso l’ascesi, la rinuncia, la meditazione, è come se io
Nel corso della dissertazione poi, N., naturalmente cerca di spiegare la genesi di questo tipo di mentalità e,
nel corso della sua ricerca, N. perviene a identificare una funzione fondamentale nelle caste sacerdotali,
cioè, in altri termini, in quelle classi che secondo N. non erano sufficientemente forti per far parte
dell’aristocrazia guerriera ma che erano però abbastanza ambiziose da voler dominare sugli altri. Quindi, il
sacerdote diventa l’inventore e al tempo stesso lo strumento attraverso cui la morale ascetica nasce e si
diffonde all’interno della cultura e della civiltà umana.
Paragrafo 11 (pag.110)
Qui N. riprende il discorso sulla funzione delle caste sacerdotali e prova a descriverci la psicologia di quello
che per lui è il ministro della religione. E’ chiaro che qui N. costruisce una tipologia un po’ caricaturale,
comunque proviamo a leggere qual è il ritratto del prete ascetico, cioè di quell’uomo che usa la religione e
usa l’ascesi per imporsi come modello ed esempio nei confronti degli altri uomini.
“Il prete asceta ripone nell’ideale ascetico non soltanto la sua fede, bensì anche la sua volontà, la sua
potenza, il suo interesse. Con quell’ideale si erige e cade il suo diritto all’esistenza”
Cioè l’affermazione della morale ascetica è decisiva per la sopravvivenza del prete ascetico come tipo di
umanità, come forma specifica dell’esistenza umana. Ripeto, il prete ascetico è prete perché animato da
fede religiosa, ma anche perché non è in grado di far parte della casta della nobiltà guerriera per
temperamento caratteriale, per ragioni di ceto, per ragioni di costituzione fisica. In ogni caso è una via di
mezzo: aspira al potere ma non è in grado di acquisirlo per via diretta attraverso la politica e la guerra, e
quindi prova a raggiungere il potere a cui attraverso la via indiretta della morale e della religione.
“C’è da stupirci se ci imbattiamo qui in un tremendo avversario, una volta ammesso che noi fossimo gli
avversari di codesto ideale? Un avversario che lotta per la sua esistenza contro i negatori di quell’ideale?
Quindi N. vede nel prete asceta da una parte un avversario, però poi vedete che arriva a scrivere “una volta
ammesso che noi fossimo gli avversari di codesto ideale”. Cosa vorrà dire N. con questa frase? Perché
sembra scontato che N. sia un avversario de prete asceta, che bisogno ha di dire “una volta ammesso che
noi fossimo gli avversari di questo ideale”? N. probabilmente intende dire due cose: la prima è che non
ritiene il prete asceta degno di essere un suo avversario, cioè N. si ritiene talmente superiore da non
considerare il prete asceta degno di essere riconosciuto come suo avversario; questa è una possibile
interpretazione però in realtà ce n’è anche un'altra: cioè quello che abbiamo letto prima alla fine della
dissertazione. Infondo N. non è soltanto un negatore degli ideali ascetici, per le ragioni che ci ha detto alla
fine della terza dissertazione, anche gli ideali ascetici sono serviti per la formazione e il rafforzamento della
volontà. Allora non dobbiamo mai dimenticare che l’idea portante della filosofia di N. è l’idea di volontà di
potenza. Allora, se gli ideali ascetici hanno rafforzato la volontà, come fa N. ad essere un avversario degli
ideali ascetici? Potrà essere un avversario, nel senso che li vuole superare ma non nel senso che rifiuti di
riconoscere la loro utilità, perché anche gli ideali ascetici sono stati al servizio della volontà di potenza, cioè
di una volontà distorta, pervertita, diretta nella direzione sbagliata, però che alla fine, attraverso gli ideali
ascetici, è riuscita comunque non solo a sopravvivere, non solo a mantenersi, ma persino a rafforzarsi.
“Il pensiero intorno al quale si dà battaglia è la valutazione della nostra vita da parte da parte dei preti
ascetici”. Fondamentale, vi ricordate l’importanza che N. dava ai importanza ai rapporti di compravendita?
Ora, com’è che venivano inflitte le pene e punizioni? Attraverso una valutazione del danno subito: io valuto
il danno che ho subito dal debitore che non mi ha pagato ,e più o meno, lo punisco in modo che sia
equivalente al danno che io ho subito. Qui N. ci sta dicendo una cosa molto importante: l’uomo è un essere
che vive valutando, cioè attribuendo valore alle cose. La vita umana non può esistere senza valutare le cose,
cioè confrontarle fra di loro e stabilire una gerarchia tra la cosa che vale di più e quella che vale di meno, tra
29 aprile
Indicazioni utili che ci permettono di avere il quadro dei riferimenti principali che troveremo nella lettura:
WAGNER musicista più importante della 2° metà dell’800 a livello non solo tedesco ma anche europeo,
famoso per aver fatto la cosiddetta tetralogia intitolata “L’anello del Nibelungo”.
Per Nietzsche Wagner è il prototipo dell’artista, quindi quando N. parla di arte e di musica, di creazione dal
punto di vista estetico, lui fa riferimento a Wagner, di cui è stato anche intimo amico anche se quest’ultimo
era di molti anni più vecchio.
Wagner era stato molto abile anche dal punto di vista promozionale tanto che si è fatto costruire un teatro
dall’allora re di Baviera: il teatro di Bayreuth sede di un festival annuale in cui vengono rappresentate le
opere di Wagner, musicista specializzato in opere liriche.
Il giovane Nietzsche inizialmente è amico di w. perché vede in lui l’artista che può dare alla Germania una
nuova arte di tipo tragico: il vertice dell’arte per N. è rappresentato dalla tragedia greca.
Il giovane Nietzsche è convito che W possa essere l‘ artista in grado di costruire una nuova tragedia, una
nuova forma di arte drammatica dello stesso livello di quella dell’ antica Grecia ma adatta alla modernità,
adatta all’uomo moderno.
N. pensa queste cose perché W. Nei suoi scritti e nella sua pratica artistica aveva teorizzato la cosiddetta
”opera d’arte totale”. Opera d’arte totale perché secondo lui il dramma musicale doveva unire la parola,
(cioè la poesia), il suono, (cioè la musica) e l’azione, (cioè il dramma parola che deriva dal greco e
significa azione).
Ma N. dice ma caspita, ma allora W vuol fare la stessa cosa che avevano fatto i greci, perché la tragedia
greca era esattamente un opera d’arte che non si limitava a rappresentare un’azione drammatica, cioè una
vicenda con determinati personaggi, con una determinata trama; quello che noi intendiamo appunto per
azione drammatica ma nella tragedia c’era anche la musica, c’erano danze, canti e naturalmente c’era la
poesia, il testo poetico e le tragedie in Grecia venivano rappresentate nel corso delle feste dedicate a
Dionisio e i greci organizzavano delle vere e proprie gare tra i poeti, i cosiddetti adorni tragici, cioè delle
gare in cui alla fine il popolo premiava il poeta che secondo loro aveva scritto le tragedie più belle.
Allora W. È per il giovane N. una specie die eroe artistico verso cui N. esprime una totale ammirazione,
devozione ma come quasi sempre accade la realtà finisce con il deludere le aspettative che noi poniamo in
alcune persone o in alcuni gruppi: N. si accorge che W. È certamente un grande artista ma era anche una
persona estremamente vanitosa, furba e ambiziosa e quindi egoistica, e tutte queste caratteristiche (la
vanità, la furbizia, una certa forma di egoismo, di ambizione, di bisogno di ammirazione, di lodi, di successo)
N. le condensa in questa parola: istrione.
W diventa per N. un grande istrione = una persona che con le sue parole e atteggiamenti riesce a catturare
il favore degli altri, riesce quindi con abilità e astuzia a promuovere i propri interesse, le proprie ambizioni,
la propria sete di successo perché nel caso dell’artista l’obiettivo non è la conquista del potere ma la gloria,
l’ammirazione, il successo, l’applauso.
W. diventa, dall’artista che avrebbe dovuto dare alla Germania la uova arte tragica dei tempi moderni, il
prototipo di un uomo ricco di contraddizioni e ambiguità in cui naturalmente bisogna distinguere l’opera, la
qualità musicale di W. dall’uomo W., dalla persona, dal carattere che è molto inferiore rispetto alla qualità
dell’opera artistica.
Allora dicevo: per N. è molto importante la cosiddetta tetralogia = 4 opere che costituiscono un unico ciclo
drammatico e musicale.
Questo ciclo intitolato “L’anello del Nibelungo”, si compone di 4 opere: 1) L’oro del reno, 2) La Valchiria, 3)
Sigfrido, 4) Il crepuscolo degli dei. In queste 4 opere che costituiscono un unico ciclo W. mette in scena una
vera e propria metafisica perché W. era diventato un convinto seguace di Schopenhauer: l’anello
rappresenta tutto ciò che è legato all’affermazione della volontà, quindi brama di potere, sete di dominio,
avidità, violenza, inganno; tutto ciò che gli uomini fanno per avvantaggiarsi sugli altri e conquistare potere e
ricchezza per dominare sugli altri. Quindi l’anello è il simbolo della volontà di affermazione, di supremazia e
di sopraffazione nei confronti degli altri.
E questo carattere diabolico dell’anello emerge quando l’ anello viene sottratto al suo luogo naturale che è
il fiume Reno.
Allora, tutta la storia è volta alla conclusione costituita dal fatto che, attraverso varie vicende, l’oro viene
restituito al Reno e attraverso la restituzione dell’oro al suo luogo naturale si compie il crepuscolo degli dei
che coincide con il crepuscolo del mondo inteso come ambito dominato dalla volontà di vivere e quindi da
tutto ciò che questa volontà comporta in termini di desiderio, ambizione, sete di potere, avidità e cosi via.
Ecco, in questo modo W. Voleva trasmettere il messaggio, che è il messaggio proprio di Schopenhauer, ma
che Schopenhauer a sua volta impara dalle religioni orientali, dal buddismo e dall’induismo, dall’idea del
nirvana per esempio: estinguere la propria volontà, ricongiungersi al niente, abbandonare la propria
individualità e ripristinare la propria unità con la totalità dell’universo.
In quest’opera il protagonista fondamentale è l’eroe Sigfrido (Sigfrido in tedesco vuole dire “gioia nella
vittoria”). Sigfrido diventa il prototipo dell’eroe germanico che è caratterizzato dall’ingenuità, dal coraggio e
dalla abilità guerriera.
Quindi N. formula la sua teoria del superuomo a partire dal Sigfrido di W. e unisce in unico ideale l’eroe
greco - gli eroi dell’etica omerica, Achille (il prototipo dell’eroe epico) - con Sigfrido, modello e prototipo
dell’eroe germanico. E’ come se N. in questa teoria volesse rappresentare una sorta di staffetta ideale in cui
la fiaccola della civiltà passa dalla Grecia dell’età tragica (la Grecia di Omero e dei tragici), alla Germania di
w. e di Sigfrido; Tutto quello che sta in mezzo deve essere abbattuto, e quello che sta in mezzo ha un
nome, si chiama cristianesimo.
Ora però cosa fa W.? E questo per Nietzsche è una cosa sconcertante ma al tempo stesso anche
comprensibile se teniamo conto della psicologia istrionica dell’artista, che non è mai disinteressata ma
presenta sempre dei modelli funzionali alla propria situazione che rispecchiano lo stato d’animo e la
condizione vitale dell’artista.
N. dice ma come, W. Crea Sigfrido e alla fine della sua carriera scrive il Parsifal (l’ultima opera di W.)?
Chi è Parsifal? W. appunto nelle opere principali si è sempre rifatto, ha sempre utilizzato come materiale
per la sua costruzione artistica il materiale del mito germanico, come omero e i tragici greci utilizzavano
come personaggi gli eroi e gli dei del mito, Omero non è che si inventi Zeus, Zeus fa parte della religione
popolare e Omero da voce a queste figure che erano già esistenti.
Ora, la stessa cosa vuol fare W., non più ovviamente utilizzando i miti greci ma utilizzando i miti germanici,
nordici.
Il Parsifal fa parte del ciclo dei poemi medievali che raccontano in forma poetica le vicende di eroi cristiani
che lottano per affermare il cristianesimo contro i nemici della religione cristiana.
Nell’opera di W. Siamo in presenza di un regno cristiano sulla via del disfacimento e della decadenza perché
il re che aveva in custodia il Graal si è fatto sedurre da una donna e quindi ha perduto la purezza che era
richiesta perché il Graal potesse trasmettere la sua forza ai cavalieri che lo dovevano difendere. Parsifal
allora nell’opera di W. è l’eroe che resiste alla tentazione, che non si fa sedurre, che mantiene quindi una
innocenza di tipo quasi infantile e in questo modo riesce a ridare splendore al Graal e a salvare il regno
cristiano.
Naturalmente N. è sconcertato da questo tipo di opera, perché intanto W. era famoso per le sue avventure
galane (?), quindi nella giovinezza e nella maturità W. Era stato tutt’altro che un eroe casto, quindi
Nietzsche si chiede: ma com’è che W. Adesso fa l’elogio della castità, della rinuncia del godimento
sessuale? e com’è che W. Che ha scritto l’anello del Nibelungo, tutto centrato sul Sigfrido e sulla morte
tragica dell’eroe, adesso inventa una figura totalmente opposta a Sigfrido: cioè un eroe cristiano, un eroe
che nega radicalmente la gioia della vita e che interpreta il corpo e il godimento corporeo come il simbolo
di un peccato.
Allora, N. evidentemente ritiene questa un’opera frutto della senilità di W.: con il decadimento fisico
dell’artista, ecco che l’artista modica la figura del suo eroe.
Cosa ci vuol dire Nietzsche? Che questo elogio della castità è fatto da un uomo che non ha più la forza di
agire come aveva fatto in età giovanile e nella sua età matura, quindi W., nella lettura di Nietzsche, non fa
che trasfigurare una condizione che è la condizione di un vecchio e vuole trasfigurare questa debolezza
legata alla vecchiaia come un ideale sublime, come una vittoria del bene nei confronti del male.
Allora, perché la 3° disertazione inizia con W.? Perché attraverso W., Nietzsche comincia a mettere nel
lettore un dubbio sulla effettiva validità degli ideali ascetici, cioè di quelli ideali che predicano la rinuncia
alla vita, al godimento, che predicano il disprezzo del corpo, che identificano la corporeità con una
condizione di decadenza e addirittura di punizione.
Per capire cosa intende N. con ideale ascetico è necessario avere presente il significato della parola ascesi.
Ascesi è una parola di origine greca, “askesis”, che significava “esercizio” esercizio ad esempio di tipo
fisico, una sorta di allenamento, quindi c’è l’idea di una disciplina: se io voglio preparami per una gara di
atletica leggera devo mantenere una certa dieta, un certo regime di vita, devo praticare una serie di esercizi
con regolarità e costanza, cioè devo sottopormi ad una serie di regole e a uno stile di vita che possano
condurmi a conseguire un buon risultato.
Allora l’askesis da esercizio e disciplina di tipo esercizio fisico (quasi atletico) passa poi nel cristianesimo ad
un significato di tipo spirituale; allora l’esercizio non è più l’esercizio volto al potenziamento del corpo e al
conseguimento di un risultato come quello che i poetici celebravano negli atleti che vincevano alle
olimpiadi. Olimpiadi vennero inventate dai greci e non erano un contesto solo atletico ma anche religioso e
l’atleta che vinceva una olimpiade veniva celebrato e veniva anche largamente ricompensato perché
portava un enorme prestigio alla sua città. Le olimpiadi erano le gare che riunivano tutte le città greche;
Grecia è sempre stata (prima dell’arrivo dell’ impero macedone sotto l’impero del quale è diventata una
monarchia) una civiltà policentrica, cioè basata su molte città che erano autonome e indipendenti, anzi, che
spesso e volentieri entravano anche in guerra l’una contro l’altra, però, ogni 4 anni le guerre si fermavano e
le olimpiadi rappresentavano il momento dell’unità delle diverse popolazione che si riconoscevano in una
medesima mitologia, in una medesima religione, nel culto degli stessi dei, e che quindi partecipavano a
queste gare il cui senso non era solo atletico/sportivo, ma era anche politico e religioso. Allora l’atleta ha
Ecco, per N. con il cristianesimo la askesis cambia di significato e da disciplina corporea volta al
perseguimento della gloria, al soddisfacimento dell’ ambizione, quindi alla affermazione della potenza,
diventa invece una disciplina spirituale che deve abituare l’ uomo a mortificare il corpo, a rinunciare al
soddisfacimento dei propri istinti e desideri corporei, deve portare l’uomo a ridurre progressivamente lo
spettro dei propri bisogni.
Quindi ascesi diventa una forma di autopunizione che l’ uomo infligge alla propria corporeità, perché nel
cristianesimo la corporeità e visto come sinonimo di peccaminosità.
Allora, questa lettura voi la dovete collegare a quello che abbiamo visto nelle prime 2 dissertazioni:
ma perché il corpo dovrebbe essere peccaminoso? Qual è la regione per cui la corporeità è cattiva?
Perché dice N. il cristianesimo è la religione del gregge, dei malati, di quelli che lui chiama i malriusciti, dei
deboli, dei poveri, che non possono ammirare il corpo perché per loro la bellezza e la potenza del corpo è
rappresentata da chi li domina, dalle caste dominanti.
Quindi il popolo degli inermi, dei deboli è costretto ad invertire i valori aristocratici, basati sul vigore, sulla
forza, sull’eroismo, sulla bellezza e a introdurre un elemento di disprezzo nei confronti di tutto ciò che
appartiene a questa sfera di valori, legati appunto all’affermazione della vita e al vigore del corpo.
Allora, qual è però lo strumento che permette alla plebe di operare questa inversione rispetto ad una
morale di tipo eroico ed aristocratico?
E qui troviamo il grande protagonista della 3° dissertazione, quello che Nietzsche chiama “il prete asceta”. E
anche qui ritroviamo alcune cose che abbiamo già letto nelle precedenti dissertazioni.
Il prete asceta è quell’uomo dotato di volontà di potenza, che ambisce al potere ma che non è
sufficientemente vigoroso e coraggioso per lottare in modo aperto contro le classi guerriere e
aristocratiche, quindi è costretto a conquistare il potere per via indiretta, cioè attraverso l’elaborazione di
dottrine religiose in grado di fargli conquistare l’appoggio della plebe e in grado quindi di dotarlo del potere
derivante dal controllo della plebe.
E’ una eccezionalità della malattia, cioè di una incapacità di vivere in pienezza la propria condizione umana
che spinge questi individui a operare una conversione della loro volontà di potenza quindi la potenza da
affermativa deve diventare funzionale a disprezzare la vita, attraverso il disprezzo della vita, attraverso la
conduzione della vita ad una sorta di espiazione nei confronti di una colpa originale, il prete asceta cattura il
consenso della plebe, dice alla plebe: guardate che brutte che sono le ricchezze, che spregevoli che sono le
guerre, le battaglie, i duelli, che squallido è il godimento dei sensi, cioè tutto ciò che manca alla plebe viene
dipinto alla plebe come qualcosa non solo privo di valore ma dotato di valore negativo.
In questo modo il prete asceta dà al risentimento e all’invidia delle masse popolari un obiettivo, è come se il
prete ascete consentisse di dare uno sfogo, di dirigere l’insoddisfazione vitale delle masse plebee contro un
avversario, contro un bersaglio.
1) dà alle masse un obiettivo su cui sfogare la propria invidia e il proprio risentimento, però al tempo
stesso svolge anche una
2) funzione di contenimento delle masse: impedisce al risentimento delle masse di esprimersi in una
forma politicamente rivoluzionaria perché nel dire alle masse che la vita sulla terra non ha nessun
valore, invita le masse a non lottare per migliore la propria condizione di vita sulla terra, ma invita
le masse ad attendere pazientemente l’ avvento della vita futura, della vita nell’ aldilà.
E in questo modo, dice N, anche il prete asceta (una cosa che non ho capito, minuto 49,12) perché separa le
masse plebee dai ceti aristocratico-nobiliari; questo naturalmente funziona fino all’ età moderna. Con l età
moderna, con il cambiamento complessivo che si attua a partire dal 500 anche il lavoro del prete asceta
comincia a vacillare e con la rivoluzione francese le masse conquistano il potere ponendo fine al dominio
della nobiltà. E per Nietzsche questo è catastrofico, perché segna l’avvento della società borghese basata
sulla democrazia politica e sugli ideali della fraternità e dell’uguaglianza.
Allora l’ideale ascetico indica una condizione di patologia di cui Nietzsche vuole ricostruire la genesi per
mostrare che anche l’ ideale ascetico, anche la predica al sacrificio, alla rinuncia, non è un esercizio
disinteressato, è sempre una modalità di attuazione della volontà di potenza, cioè rispecchia sempre una
determinata condizione di vita, e quindi è altrettanto egoista al pari di quelli ideali considerati egoisti dal
cristianesimo, cioè gli ideali della bellezza, della ricchezza, della superiorità, del coraggio, del godimento,
ecc.
Quindi non si esce, in latri termini, dal primato della volontà, sono sempre forme di attuazione della
volontà, però nel caso appunto del prete asceta sono forme particolarmente sottili e sofisticate.
E qui troviamo un altro elemento positivo nel prete asceta: cioè proprio perché i mezzi che il prete utilizza
per affermare la propria ambizione sono mezzi intellettuali, cioè sono mezzi indiretti, ecco che uno degli
effetti del prete asceta consiste nello sviluppo dell’ intelligenza e della cultura, quindi come sempre l’analisi
di N. è un analisi complessa, sicuramente la tendenza dominante è di critica distruttiva del prete asceta e
degli ideali ascetici però non mancano secondo Nietzsche degli aspetti positivamente vitali anche nella
predicazione degli ideali ascetici
E questi aspetti di tipo positivo sono appunto legati allo sviluppo dell’ intelligenza, l’ apertura di un mondo
interiore che mancava alla grecità e che si introduce nella storia europea attraverso la filosofia e il
cristianesimo.
Allora, se assumiamo questo punto di vista, non più l’ideale ascetico come negazione della volontà, ma
come una forma più sottile di affermazione della volontà noi possiamo vedere ad esempio perché i filosofi
siano quasi sempre stati degli asceti, abbiano sempre sostenuto la bontà degli ideali ascetici, della
parsimonia, della frugalità, della rinuncia, del controllo delle passioni; perché il controllo delle passioni era
nei filosofi la condizione per potersi dedicare in modo esclusivo alla loro passione, cioè alla passione del
pensiero, alla ricerca della verità. Quindi in alcuni brani N. elogia persino l’ ascetismo del filosofo perché
toglie all’ ascetismo del filosofo la patina della virtù, dice Nietzsche: ma guardate che l’ ascetismo dei
filosofi non ha niente a che fare con una rinuncia alla vita, è un modo attraverso cui la vita del filosofo si
afferma, cioè l’ascetismo del filosofo è funzionale alla affermazione della vocazione dei filosofi, che è la
vocazione del pensiero.
Allora in questo senso l’ascesi cambia completamente di significato, mentre quello che Nietzsche non
cesserà di condannare è il significato cristiano dell’ ascesi, intesa come rinuncia, come disprezzo, come
rifiuto della vita; questo per Nietzsche non va bene perché al posto di guarire la malattia è il sintomo della
malattia, che non solo non viene guarita ma viene aggravata, si spaccia per guarigione quello che è un
ulteriore peggioramento della malattia, la malattia che disprezza la vita.
In questo senso allora perfino l’ideale ascetico può essere funzionale all’affermazione della vita.
Ad esempio ad un certo punto N. fa riferimento ad una dottrina di Platone che è passata alla storia con il
nome “teoria della nobile o della pia menzogna”, cioè della menzogna a fin di bene.
Platone dice “guardate però che per governare il popolo purtroppo a volte è necessario mentire”, è una
forma di menzogna e anche di mito: l’idea ad esempio che l anima sia immortale e che sia sottoposta ad un
ciclo di ricompense o di punizioni a seconda del modo in cui l uomo si comporta su questa terra.
E dice Platone, questo è un mito necessario, è una pia menzogna, è una bugia fatta a fin di bene perché dice
Platone: quanti sono gli uomini, gli esseri umani capaci di seguire la virtù per amore della virtù? Per Platone
c’è solo un tipo di uomo che è in grado di fare questo, e cioè il filosofo; solo i filosofi e i giovani educati alla
filosofia però si può essere educati alla filosofia, secondo Platone, solo se c’è un anima adatta a ricevere
questo insegnamento, e queste anime sono poche, dice Platone, il resto degli uomini è troppo legato ad
una dimensione egoistica, alla ricerca della ricchezza, del potere, del successo, come faccio, dice Platone, a
convincere questi uomini a fare il proprio dovere nella città per amore della città e basta?
Allora dice Paltone, soprattutto nelle condizioni di decadenza di una città, nei momenti di corruzione dei
costumi, nei momenti in cui il legame tra i cittadini e lo stato si allenta fino quasi a disfarsi, allora è
necessario introdurre della narrazioni che mentono ma che persuadono per timore di essere puniti,
persuadono anche gli uomini tendenti all’ingiustizia, che sono la maggioranza, a rispettare le leggi e a fare
giustizia, ad agire conformemente a giustizia.
Quindi è una menzogna perché questo ciclo di eterne ricompense e punizioni non esiste, è un mito, però è
un mito necessario al bene della città e quindi è un mito necessario anche per il benessere di quegli uomini
che non conoscendo la virtù, non sanno che senza virtù non sarebbero in grado di vivere neppure loro,
perché nessun uomo può vivere senza una città, e nessuna città può sopravvivere senza cittadini virtuosi; se
i cittadini non lo sono spontaneamente, lo devono diventare attraverso dei metodi indiretti.
Inizio del paragrafo 17, una quindicina di righe dopo l’ inizio, pag. 125:
“Infatti, parlando in generale: presso tutte le grandi religioni si è trattato principalmente di combattere una
certa stanchezza e pesantezza divenuta epidermica”.
Allora, la religione nel predicare l’accanimento contro il corpo da in realtà l’obiettivo alla volontà, è una
volontà negativa perché si rivolge contro di sé, però proprio in questo rivolgersi contro di sé, trova un
motivo per esercitarsi, per vivere.
Saltare una pagina e mezzo quasi e andare ad una citazione francese che riprende la frase di un filosofo del
600 che si chiamava Pascal, filosofo famoso per l’argomento della scommessa.
Perché bisognerebbe credere al cristianesimo? Io, dice Pascal, non sono in grado di dimostrare, come
pretendeva di fare Cartesio l’esistenza di Dio (siamo nella metà del 600, Pascal è il grande nemico di
Cartesio; Pascal vede in Cartesio un filosofo ateo che crede soltanto nella scienza).
Quindi Pascal dice “io non faccio finta di essere come Cartesio che pretende di dimostrare con la sua
intelligenza l’esistenza di dio e poi di dio non se ne fa più niente, dio gli serve solo per garantire la verità
delle proprie teorie.
Io non ho delle dimostrazioni dell’esistenza di dio, quindi non posso dimostrare che il credente ha ragione
l’ateo ha torto, però io posso argomentare a favore della ragionevolezza del cristianesimo.
Perché immaginiamo un giocatore che deve scommettere sull’esito di qualcosa di cui non ha certezza: se
dice Pascal la posta è la nostra vita eterna, se io scommetto contro Dio so comunque che morirò e al tempo
stesso se poi dio esiste avrò perso la beatitudine eterna. Se io scommetto invece sull’esistenza di dio, se dio
non c’è faccio la fine che fanno gli altri, muoio e la mia vita finisce li, se invece dio c’è riceverò in premio la
beatitudine eterna per la fede che io ho dato nei confronti di dio. È chiaro che deve essere una fede
autentica, non basata soltanto su questo mio ragionamento.
Però dice pascal, questo mio ragioanmento potrebbe servire a chi si proclama ateo per rimettere in
questione la propria posizione, insomma, se scommetto su dio e dio non c’è non perdo niente ma ho tutto
da guadagnare nel caso che dio ci fosse, se invece non credo in dio e faccio la vita di un ateo libertino, a
questo punto se poi dio c’è perdo la vita eterna e naturalmente però l’ateo libertino però potrebbe
rispondere “si però, per lo meno nel frattempo mi sono goduta l’unica vita che mi è stata data, cioè la vita
sulla terra.
Ad ogni modo però Pascal era un appartenente alla corrente del giansenismo, una corrente della chiesa
francese radicalmente opposta ai gesuiti. Questa è la grande contrapposizione che separa la religione e la
chiesa francese della seconda metà del 600.
I gesuiti erano legati ad una morale non necessariamente intransigente, portati in un certo senso anche al
compromesso; i giansenisti erano invece dei rigoristi e questa fede intrisocene si riflette in questa
folgorante citazione che fa Nietzsche “il faut s’abetir” = bisogna diventare stupidi, bisogna mortificare la
propria intelligenza (e lo dice uno dei massimi matematici della storia della matematica); bisogna diventare
Ora appunto attraverso questo esercizio rivolto contro il proprio corpo, contro la propria intelligenza, cioè
contro di se, in realtà affermavano la loro volontà di vivere, davano uno scopo alla loro volontà e quindi
rianimavano quella volontà che dichiaravano di negare ma che proprio attraverso la negazione di se si
riaffermava.
Più avanti voi trovate questa ulteriore frase “tanto più è sicuro che essa serve e può servire da strada verso
ogni specie di perturbazioni intellettuali, come negli “esicasti” del Monte Athos”.
Monte Athos è nel nord della Grecia ed è la sede di una serie di monasteri dove i monaci si dedicavano a
pratiche ascetiche estreme perché ritenevano che attraverso il digiuno potessero potenziare la loro
capacità di visione e quindi potessero arrivare all’illuminazione cioè all’unità spirituale con dio.
Ecco, queste pratiche ascetiche sono appunto passate alla storia con il nome di esicasmo, quindi esicasti è il
termine greco che sta a significare monaco ascetico.
30 aprile
esicasti = monaci asceti che avevano fondato una serie di monasteri, tuttora esistenti, su il promontorio
Athos a nord della Grecia in cui le pratiche di rinuncia e di ascetismo erano particolarmente rigorose tanto è
vero che Nietzsche dice che si producevano quelle che lui chiama perturbazioni intellettuali, allucinazioni
acustiche e ottiche, e una specie di auto stordimento corporeo che apriva degli stati celebrali che questi
monaci interpretavano come luce interiore, come illuminazione, come finalmente confluenza dell’anima del
singolo con il suo creatore divino, quindi erano stati volti a stressare il corpo e a produrre condizioni
celebrali tali da dare la sensazione di ricevere un’illuminazione, una visone intellettuale di Dio che veniva
appunto interpretata come unità tra l’anima dell’asceta e la divinità come padre creatore di tutte le cose. è
quella che in latino si chiama union mistica, una unione mistica tra il credente e il proprio Dio, per questo
Nietzsche utilizzava le metafore sportive che abbiamo visto ieri: “sportsman della santità”, atleti potremmo
dire della santità, degli atleti perché comunque si tratta di una forma di disciplina, di esercizio solo che
questo atletismo è un atletismo di tipo spirituale che vuole conseguire delle condizioni in grado di mettere
la mente in uno stato che per N. è uno stato patologico di allucinazioni e di autosuggestione, per i monaci
invece è una vera e propria esperienza che appunto il monaco interpreta come illuminazione, come atto
conoscitivo che pone l’anima in diretto contatto con Dio.
E’ chiaro che per N. lo spirito di per se non esiste, esistono solo condizioni corporee che esprimono
determinate situazioni fisiologiche: un corpo potente o un corpo malato, un corpo forte o un corpo debole,
una vita sana e una vita in qualche modo danneggiata.
A queste condizioni fisiologiche corrispondono delle condizioni mentali che nel caso di una vita debole,
malata, sofferente porterebbero l’uomo al suicidio; attraverso l’ideale ascetico, della rinuncia, del sacrificio,
del disprezzo del corpo e perfino dell’autopunizione in realtà la volontà del soggetto si rianima e quindi
sono tutti mezzi attraverso cui la vita si afferma anche in volontà deficitarie, deboli, in anime sofferenti che
sono tutte espressioni che indicano una determinata condizione fisiologica per N., una determinata
condizione del corpo.
Allora anche il fraintendimento è utile alla vita perché permette, nel caso del monaco asceta ad esempio, di
voler qualcosa, di volersi identificare con dio, quindi quella che lui chiama negazione della vita è in realtà un
modo attraverso cui lui stesso continua ad affermarsi, la volontà in lui si afferma e trova appunto nella
ascesi la motivazione e la pratica della propria autoaffermazione.
“che tali sportsman della “santità”, di cui abbondano tutte le età e quasi tutti i popoli, abbaino
effettivamente trovato una liberazione reale da ciò che con un training tanto severo combattevano”
Però è comunque un mezzo che per i sofferenti funziona perché li spinge a continuare nell’ esistenza, da un
senso alla loro esistenza.
Quindi dice N. che “tali sportsman della “santità”, […] abbiano effettivamente trovato una liberazione reale
[…], è un fatto di cui non si può assolutamente dubitare. […] Con l’aiuto del loro sistema di mezzi ipnotici
(cioè di autosuggestione) si sbarazzarono realmente di quella profonda depressione fisiologica (di cui
soffrivano): ragion per cui il loro metodo si annovera tra i più generali dati di fatto etnologici.”
Cioè dice N.: guardate che questa questione è diffusa universalmente nei più diversi periodi della storia
umana e fra le più diverse civiltà, quindi vuol dire che risolve un problema che è diffuso in modo generale
perché indica una determinata condizione vitale ed è il rimedio attraverso cui chi si trova in questa
condizione depressiva trova un motivo per continuare a vivere.
“Similmente non si è in alcun modo autorizzati a includere, già di per sé, tra i sintomi della follia una tale
intenzione di ridurre alla fame la corporeità e le bramosie (cioè il desiderio).
Cioè, non siamo autorizzati ad interpretare come pazzi quelli che si sottopongono a questi sacrifici, per le
ragioni che abbiamo appena detto, perché in realtà si tratta di una strategia che è volta a conseguire uno
scopo, dà un motivo per continuare a vivere.
Quindi non è affatto folle o pazzo, poi certo queste privazioni portate all’estremo limite producono
situazioni allucinatorie, producono condizioni che possono diventare patologiche,
Una cosa che il prof ci teneva a sottolineare è che N. nella paretesi se la prende ancora una volta con gli
inglesi: “ (come ama fare una balorda genia di “liberi spiriti”, e di nobili Cristofori divoratori di roastbeef)”
Il roastbeef ci rimanda immediatamente all’Inghilterra così come l’uso ironico di termini inglesi quando si
tratta di sport e di allenamento, training.
Saltano fuori da una commedia di Shakespeare: “La Bisbetica domata”, nel prologo di quest’opera c’è un
popolano che amava mangiare e bere abbondantemente e che quindi si trovava molto frequentemente
ubriaco, a scopo di presa in gira viene prelevato da alcuni nobili, portato in una casa aristocratica e gli viene
fatto credere di essere il nobile a cui viene offerto uno spettacolo teatrale che narra in che modo un uomo
riesce a domare una donna insopportabilmente aggressiva, lamentosa e fastidiosa.
Allora, come si chiama questo personaggio? Cristoforo, allora alla fine i Cristofori divoratori di roastbeef
sono gli inglesi che evidentemente N. considera un popolo materialistico incapace di porsi degli obiettivi
autenticamente spirituali o culturali, è un popolo materialista che non a caso ha inventato la teoria
dell’evoluzione per cui l’uomo deriva dalla scimmia.
La cultura inglese rappresenta per N. una cultura in cui l’uomo viene considerato nei suoi aspetti più
meschini, più legati alla sua dimensione animale e quindi ecco il riferimento ai nobili Cristofori divoratori di
roastbeef, che pensano solo a mangiare e a bere e non a caso in Inghilterra la morale dominante è
l’utilitarismo, per cui ciascuno deve infondo ricercare il proprio benessere privato, personale.
Allora solo un popolo di nobili Cristofori divoratori di Roastbeef, cioè che non riescono a sollevarsi oltre un
certo tipo conoscenza spirituale, possono liquidare il problema dell’ascetismo dicendo “massi, sono tutti
pazzi”, ma N. dice, “no non è vero questo”, non è vero anche perché attraverso l’ascetismo, l’abbiamo
detto ieri, in realtà si produce un avanzamento dell’uomo in termini di intelligenza e di cultura, abbiamo
detto che anche la filosofia alle sue origini era una pratica ascetica, una pratica che presuppone di
privilegiare determinate forme di vita.
E quindi il prete asceta, quello che N. indentifica come modello negativo, è però anche qualcuno che ha
come effetto quello di innescare un certo tipo di avanzamento, di progresso.
Altra cosa interessante di questo testo è che attraverso le pratiche ascetiche si produce comunque un
superamento della morale e anche questo a N. non poteva non piacere; l’opera infatti che N. aveva
pubblicato un anno prima si chiamava “Al di là del bene e del male”, cioè oltre le categorie della morale
convenzionale.
Ora, nel seguito di questo testo N. mostra come i mistici, i santi e gli asceti a loro modo hanno cercato una
via per andar oltre la morale; cioè anche il santo e l’asceta a suo modo ha capito che la morale non basta
per arrivare a una condizione superiore dell’esistenza, che non basta arrestarsi alla virtù nel senso di
rispetto dei valori socialmente corretti per congiungersi con Dio, per arrivare quindi all’espressione più alta
della verità; quindi anche qui, pur esasperando gli aspetti negativi e polemici della sua critica, però è
attento anche a riconoscere gli elementi positivi delle pratiche ascetiche e N. appunto cita da alcuni testi
buddisti e induisti alcuni frasi (pag. 127):
Cioè, il santo, l’uomo che è arrivato ad unirsi con la totalità del cosmo, che quindi si è liberato delle
imperfezioni legate alla singolarità, alla finitezza che è propria di ciascuno di noi, quindi chi è arrivato
veramente allo stato di perfezione, non è piu soggetto, non è piu subordinato al bene e al male, per lui
bene e male sono diventate delle catene e ora non è piu lui a essere soggiogato da queste catene ma
viceversa queste catene sono diventati strumenti subordinati al perfetto. Quindi entra in una condizione in
cui bene e male non stanno più sopra di lui ma stanno sotto di lui perché segnalano una condizione
esistenziale che ha ancora bisogno di orientamenti istituiti dalla società che non si è ancora sollevata oltre.
<< ”Fatto e non fatto” – dice il credente del Vedanta, “no gli cagiona alcun dolore: siccome un saggio,
scuote da sé il bene e il male (è come un animale che si libera dai lacci che dovrebbero tenerlo prigioniero);
il suo regno non soffre più a causa di veruna azione; oltre bene e male, oltre l’una e l’altra cosa procede
costui>>
Oltre il bene e il male è il titolo del libro di N., quindi al culmine della pratica ascetica, N. ritrova un’affinità
con quelle che sono le sue stesse dottrine, cioè la necessità di andare al di là del bene e del male, solo che
N. ci vuole andare per via affermativa, in altre parole N. vuole assumere il tragico della vita, non vuole
rinunciare come fanno glia asceti, vuole vivere fino in fondo la dimensione tragica, gioia e dolore,
godimento ma anche sofferenza, tutto questo come condizione per creare qualcosa che sia sempre nuovo
in termine d arte, di politica, di storia, di pensiero; Gli asceti, anche loro vogliono oltrepassare il bene e il
male però non attraverso l’ affermazione della potenza ma attraverso la negazione di essa, non attraverso l’
accettazione del tragico proprio della vita ma attraverso la fuga dalla dimensione tragica, attraverso la
rinuncia.
Ecco perché N. sostiene che gli ideali ascetici sono adatti a uomini non sufficientemente forti per accettare
la vita, uomini che soffrono della vita, che temono le sofferenze della vita e che hanno bisogno quindi di
fuggire di rimediare al dolore che la vota prova ad essi; l’ascetismo è uno dei mezzi più potenti e quindi
arriva ad un risultato che sembra lo stesso ma che in realtà ha un significato diverso perché l’ al di là del
bene e del male a cui perviene il santo è un al di là del bene e del male che è frutto di autoillusione, di
autosuggestione, e soprattutto è l’effetto di una fuga e di una rinuncia.
Però nonostante questo abbiamo delle correlazioni in ogni caso molto significative, nel seguito che non
leggiamo vedremo che N. effettivamente dice che ci sono altri aspetti abbastanza ridicoli quando poi questi
santi fanno l’elogio del sonno e vedono nel sonno
“il profondo sonno da parte di questi stanchi della vita, divenuti troppo stanchi anche per sognare”
*Schopenhauer parlava di “autoestinzione della volontà” che deve condurre ad una condizione di totale
acquietamento, ma questa condizione di totale acquietamento è un sonno senza sogni, un sonno che è
talmente totale che è privo anche di quella attività onirica che noi nella nostra vita quotidiana colleghiamo
col sonno. Il perfetto che si è davvero unito con Dio, non sogna neppure più e naturalmente è chiaro che in
questo esito N. vede la conferma della sua lettura: cioè, questi soggetti hanno bisogno di abbandonare la
vita e di annullarla perché solo cosi riescono a dimenticare le loro sofferenze e a non sentire più il loro
dolore.
Alla conclusione di questo paragrafo N. scrive “l’ipnotico senso del nulla, la quiete del sonno profondissimo,
insomma l’assenza di dolore”; qui N. fa riferimento al filosofo greco Epicuro che parlava di “aponia” =
assenza di dolore. Poi Epicuro aggiungeva anche atarassia = sempre assenza di dolore ma in questo caso
non più fisico ma spirituale, cioè assenza di inquietudine, tranquillità dell’animo; questo ideale di
Siamo sempre in presenza di un desiderio di una volontà di nulla, un desiderio di annullamento della
volontà, un desiderio di estinzione della volontà, però attenzione, ci dice N. perché si tratta sempre di un
desiderio.
*Avevamo letto prima di Pasqua il paragrafo finale di questa dissertazione che finiva: “meglio volere il nulla
che non volere e per la volontà è impossibile non volere qualcosa, anche se questo qualcosa è chiamato
nulla, perché attraverso questo volere del nulla la volontà riproduce se stessa e riproducendo se stessa
produce dei risultati che vanno comunque in direzione di un ampiamento della vita e delle sue dimensioni”
Allora, l’assenza di dolore “può considerarsi per i sofferenti e per i radicalmente scontenti già come bene
supremo, come valore dei valori, questo deve essere stimato da costoro come positivo, deve essere avvertito
come il positivo stesso”
Perché N. sottolinea “deve”, perché non è un frutto di libera scelta: questi soggetti lo interpretano come se
avessero scelto liberamente di fare quello che fanno, ma in realtà quello che fanno riflette la loro natura,
non potrebbero agire diversamente, per questo “devono considerarlo come il bene supremo” perché per
loro la vita è male.
E poi la conclusione lapidaria ma significativa “secondo la stessa logica del sentimento, il nulla, in tutte le
religioni pessimistiche, è chiamato Dio”, quindi N. in una frase ci sta dicendo che tutte le più importanti
religioni del mondo, che per lui sono Cristianesimo, buddismo e induismo, sono religione nichiliste perché
fanno di Dio il principio che nega la vita.
Ecco, a partire da questo punto poi, N. presenta una serie di paragrafi che potremmo definire di critica della
cultura a lui contemporanea, cultura intesa sia come stili di vita, sia proprio come produzioni di tipo
letterario o artistico. (su questi paragrafi non ci fermeremo in modo analitico, il prof si limiterà a segnalarci
alcuni elementi che a lui sembrano particolarmente significativi)
Nel paragrafo 18 dice N. io adesso ho esaminato in che modo l’ascetismo può costituire una forma
apparente di guarigione dalla malattia che è costituita dall’incapacità di vivere e dal rifiuto della vita, però
dice N., questo bisogno di stordimento, questo bisogno di attutire la sensibilità nei confronti del dolore, non
è possibile soddisfarlo solo con i metodi estremi degli asceti orientali o dei santi del buddismo o degli
induismo, dice N., perché ce l abbiamo anche noi nelle nostre società un modo molto diffuso di
stordimento del dolore e di ottundimento della propria coscienza ed è quella che N. chiama l’ “attività
macchinale”, cioè in altri termini l’uso di svolgere delle attività di tipo meccanico, quella che noi chiamiamo
la routine di fare sempre le stesse cose, di svolgere sempre gli stessi compiti e di abituarsi quindi ad una
esistenza che con la sua stessa regolarità ci allontana da noi stessi e ci distrae dalla nostra condizione di
disagio e di sofferenza.
<<Molto più frequentemente di un siffatto ipnotico smorzamento totale della sensibilità, viene tentato
contro stati depressivi un diverso training: l’attività macchinale. Che con essa un’esistenza sofferente si
senta alleviata in misura non irrilevante, sta fuori da ogni dubbio: oggi questo fatto viene chiamato, un po’
disonestamente, “la benedizione del lavoro”>>.
E’ chiaro che N. sta parlando in una fase in cui le attività macchinali si stavano diffondendo pe la prima volta
su scala mondiale, soprattutto appunto nelle società di tipo industriale e di tipo capitalistico dove i ritmi di
vita erano stati regolarizzati in rapporto alle esigenze della nascente grande industria e in rapporto all’
ampliamento spropositato della burocrazia, allo sviluppo delle banche, all’ampliamento degli apparati
statali.
Per N. questo però è il sintomo di uno stordimento di massa, cioè l’uomo europeo, l’uomo moderno
moltiplicando le proprie attività cerca di restringere il più possibile il tempo dell’ozio in cui potrebbe
riflettere perché ha paura di riflettere, perché ha paura di guardare dentro a se stesso, perché ha paura di
scoprire che la propria vita non ha alcun senso e dire che la propria vita non ha alcun senso, significa dire
che noi non siamo capaci di darle alcun significato.
E questo è l’ennesimo sintomo proprio del nichilismo, cioè della civiltà moderna, in quanto secondo N. la
civiltà moderna ha esaurito la forza dei propri valori e quindi ha bisogno di un oltre passamento che è
quello naturalmente legato al superuomo.
Un altro aspetto che N. trova è costituito dallo sviluppo delle scienze. Anche le scienze in realtà nella
società contemporanea funzionano come degli enormi stupefacenti, servono cioè a stordire, si dice che la
scienza è simbolo di progresso e di emancipazione ma in realtà secondo N. la scienza fine a se stessa non è
altro che un modo per stordire se stessi e allontanare il proprio pensiero da se stessi. Quindi anche le
scienze, anche gli uomini che decidono di dedicarsi allo studio di determinate discipline, in realtà sono degli
asceti travestiti, cioè sono persone che incapaci di dare un senso autentico dell’ esistenza fingono di essere
soddisfatti nel praticare una disciplina scientifica sostenendo che il sapere e la conoscenza sono dei fini in
sé. N. rifiuta questa idea del sapere come fine in se: il sapere è funzionale a un determinato tipo di
esistenza, non può essere un fine in sé perché il fine in sé non esiste, quando gli uomini parlano di fine in sé
vuol dire che c’è qualcosa che non funziona, vuol dire che devono nascondere qualcosa, vuol dire che
devono sublimare qualcosa, saturare qualcosa, cioè crearsi dei surrogati che sostituiscano un senso
autentico che nelle società autentiche N. non vede, perché nelle società moderne N. legge il tramonto di
una religione, il Cristianesimo, a cui non è subentrata nessun’altra prospettiva di tipo diverso e alternativo.
A questo proposito leggiamo dei brani tratti dai paragrafi 23, 24 e 25: in questi paragrafi N. critica l’ idolatria
della scienza che era diffusa nell’Europa della seconda metà dell’800.
Dopo il 1848-49 età del positivismo in cui in Europa si è convinti che il progresso tecnico e scientifico sia
destinato ad alimentare un progresso indefinito, un miglioramento nelle condizioni di vita dell’umanità
destinato a risolvere tutti i problemi. E in realtà N. dice “si, può darsi che alcuni problemi possano essere
risolti, quelli di tipo puramente fisiologico legato all’alimentazione, legato alla medicina, ma tutto questo in
realtà è un immenso stratagemma per nascondere la morte di Dio, cioè l’elemento propriamente nichilista
che corrode e che scarna, che rende friabili le società dell’Europa contemporanea. Quindi Darwin, gli inglesi
in generale sono per lui proprio gli alfieri di questo tipo di mentalità, di una mentalità positivistica, di
idolatria della scienza, e di fede un po’ stupida nel progresso indefinito dell’umanità.
E N. sembra avuto aver ragione visto che qualche decennio dopo l’Europa è stata testimone delle 2 guerre
mondiali, quindi evidentemente vuol dire che qualcosa non funzionava in questa celebrazione della civiltà,
in questa celebrazione della tecnica, della scienza. Quello che è sconvolgente nella prima guerra mondiale,
e che poi verrà confermato nella seconda è che la tecnica e la scienza possono essere impiegate anche a
scopi distruttivi e che quindi non si può affidare il progresso soltanto alla tecnica e alle scienze, perché la
tecnica e la scienza possono essere impiegate in una direzione positiva e in una direzione distruttiva.
E questo non c’è bisogno di argomentarlo perché è la storia che purtroppo lo ha dimostrato ampiamente.
Quindi N. dice “guardate che la scienza da sola non risolve nessun problema” perché la scienza non è in
grado di indicare una direzione, uno scopo, un obiettivo; la scienza può essere impiegata in un senso e in un
altro, quindi a affidare le sorti della propria civiltà alla scienza e alla tecnica è miope, e sta a indagare una
incapacità di governare, di dare un senso alla scienza e alla tecnica.
La scienza ha bisogno di una direzione e che è quello che N. sosteneva quando parlava di “grande politica”,
la grande politica è la politica di chi assume come problema il problema della terra nella sua universalità,
non il popolo tedesco, il popolo tedesco, questa è piccola politica, e per N. tra l’altro questa politica era
proprio rappresentata dall’impero tedesco.
N. è uno dei critici più feroci dell’impero tedesco, del reich tedesco fondato da Bismark perché vede una
ottusità nazionalistica all’interno di questo tipo di politica che lui vedeva poi diffusa anche negli altri paesi
europei e la cosa paradossale è che N. ammirava degli ebrei proprio il loro cosmopolitismo, che è un
aspetto del nichilismo ma è anche un aspetto che supera il particolarismo nazionalistico.
Proviamo a vedere allora il passo presente nel paragrafo 23 dove N. mostra come in realtà la scienza così
idolatrata dai suoi contemporanei non sia che l’ennesimo travestimento dell’ideale ascetico.
“Dov’è il contrapposto di questo sistema? Dov’è l’altra meta? (cioè l’altra meta alternativa a quella degli
ideali ascetici) Mi si dice però che non manca, che non solo ha ingaggiato una lunga fortunata battaglia con
quell’ideale, ma che già si sarebbe imposto su quell’ideale: ne sarebbe una testimonianza tutta quanta la
nostra scienza moderna - questa scienza moderna che crede evidentemente soltanto a se stessa, possiede
evidentemente il coraggio di sé, la volontà di sé e sino a oggi s’è cavata d’impaccio abbastanza bene senza
Dio, trascendenza e virtù negatrici.
Quindi sembra che nella scienza ci possa essere una alternativa e una via d’uscita degli ideali ascetici, ma è
veramente cosi?
“Frattanto con tutto questo chiasso e queste ciance d’agitatori non si arriva, per me, a un bel nulla: questi
strombettatori della realtà sono cattivi musici. […] infatti la parola “scienza” è su codesto becco di
strombettatori nulla più che un malcostume, un abuso, una sfrontatezza. […] Oggi la scienza non ha
assolutamente alcuna fede in sé, tanto meno ha un ideale ascetico, ma piuttosto la sua stessa forma più
recente e nobile. […] Meno che mai vorrei guastare a questi onesti operai (scienziati e dotti)il piacere del
loro mestiere: poiché del loro lavoro io mi rallegro. (N. non è ironico, N. aveva una grande stima del lavoro
dei dotti perché lui stesso era un dotto) Ma col fatto che oggi nella scienza si lavora duramente e che
esistono lavoratori soddisfatti, non è assolutamente dimostrato che la scienza abbia oggi una meta, una
volontà, un ideale, un fervore di grande fede. E’ il caso, come ho detto, del contrario. […] La scienza è oggi
un nascondiglio per ogni specie di scontento, di incredulità, di arrovellamento, di cattiva coscienza – essa è
l’inquietudine della stessa assenza di ideali (ci si da fare per coprire il vuoto che è interno alla nostra vita), il
soffrire la mancanza del grande amore. […] Quante mai cose non nasconde oggi la scienza! O almeno
quante ne deve essa nascondere! […] La scienza come mezzo di auto stordimento (la scienza è il surrogato di
una mancanza di fede, di ideali, di scopi, però come facevano gli ideali ascetici delle vecchie religioni è un
mezzo che è utile perché stordisce, perché fa dimenticare, ha lo scopo di impedire agli uomini di prendere
coscienza di questa loro drammatica situazione).
“non mi si tiri in ballo la scienza quando cerco il naturale antagonista dell’ideale ascetico […] A questo
riguardo la scienza è ben lontana dal riposare su se stessa, ha sotto ogni aspetto bisogno di un ideale di
valore, di una potenza creatrice di valori, al servizio della quale possa credere in se medesima ma – essa
stessa non è mai creatrice di valori. Il suo rapporto con l’ideale ascetico non è ancora per nulla
antagonistico” e cosi via poi nel seguito del paragrafo.
Ricordate che N. aveva scritto un’opera nella sua giovinezza intitolata “Sull’utilità e il danno della storia per
la vita” e N. in questo libo aveva già criticato il modello positivistico di storiografia, secondo il quale lo
storico deve limitarsi a raccontare i fatti, raccontare le battaglie, raccontare la vita dei re, dei principi, ma
questo dice N. che interessa ha? A cosa serve? Ha un senso solo se è utile perché io possa trovare nel
passato dei modelli da emulare, degli ideali che mi spingono ad agire in maniera analoga, che mi spingono a
pormi determinate mete, determinati obiettivi; se io mi limito a raccontare e a descrivere dei fatti di cui tra
l’altro non sono neanche stato testimone diretto, questo non serve assolutamente a niente, è anche questo
un sintomo di nichilismo, di incapacità di dare un senso a quello che facciamo, e quindi rientra anche
questo in un ideale ascetico di rinuncia e di rifiuto, è una forma anche questa di stordimento mentale.
Gli ultimi due paragrafi tirano le conclusioni e per il prof è molto importante il paragrafo 28 che noi
abbiamo già letto e in cui N. esprime il significato delle sue analisi che consiste nell’aver mostrato che anche
negli ideali asceti si afferma una determinata modalità della volontà di potenza.
E N. dice che il problema era non la sofferenza ma dare un senso alla sofferenza, e il prete asceta da un
senso alla sofferenza facendo risalire questa sofferenza ad una colpa che l’uomo è chiamato ad espiare in
questa vita, in questo modo il prete asceta riattiva la modalità di riscatto di espiazione, di redenzione, di
salvezza dal peccato e in questo modo, proprio nel predicare la rinuncia scrive N. restava salvata la volontà
stessa.
“Tutto ciò (ovvero la storia degli ideali ascetici) significa una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una
rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà! … E per ripetere in
conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere…”