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TERZO ANNO
di Giacomo Marciani
a.s. 2008/2009
MEDEA
TERZO ANNO
Euripide
Eurpide fu per gli antichi il tragico più discusso e
controverso: vennero formulati giudizi talmente
contrastanti che, uniti agli scherzi dei comici, la
sua immagine ci è pervenuta in gran parte
deformata. Venne sempre ritratto come un uomo
solitario, poco socievole e frustrato dall’avversione
degli Ateniesi, il cui favore fu così scarso da
costringerlo, dopo soli cinque successi, all’esilio,
considerato dal tragico il peggiore di tutti i mali
(vedi Elettra e Fenicie). Trascorse gli ultimi anni
della sua vita in esilio presso Archelao, il quale
amava circondarsi di artisti come Agatone, Cherilo
e Timoteo. La diffidenza del pubblico fu tale da
essere ritratta nella commedia Rane di Aristofane.
Euripide veniva considerato fattore di
1. Medea, particolare in un dipinto di Henri disgregazione della tragedia in netto contrasto con
Klagmann le tendenze conservatrici (assunte dallo stesso
Aristofane), i quali preferivano rispecchiarsi più in Eschilo che in un poeta dai tratti sofistici e
caratterizzato da un progressismo corrosivo. Non abbiamo comunque molte informazioni
biografiche sul suo conto: nacque da umili origini (un bottegaio e una fruttivendola)
probabilmente a Salamina (tradizionale isocronismo dei tre tragici: Eschilo ha combattuto,
Sofocle ha celebrato la vittoria ed Euripide è nato). Aveva uno spiccato interesse per la lettura
(Ateneo disse che aveva una biblioteca) e la grotta di Salamina era il suo luogo di riflessione.
Si parlò molto delle controversie amorose durante le relazioni intrattenute con Melito, Cherine
e quella omoerotica con Cesisfonte. La morte appare grottesca: si dice che fosse stato ucciso
dai discendenti di un cane molosso, del quale avrebbe difeso gli assassini. In base al Mamor
Parium e a due notizie tramandate da Sofocle, si usa collocare la nascita nel 485-484 a.C.
(coincidenza con la prima vittoria di Eschilo) e la morte nel 406 a.C. Secondo Gallio (Noctae
Atticae) Euripide avrebbe praticato assiduamente pugilato e al pancrazio l’oracolo di Delfi
avrebbe riferito al padre che sarebbe divenuto vincitore di un agone. Un possibile caso di
omonimia lo ritrae anche come pittore.
Nonostante lo scarsissimo plauso dei contemporanei, il corpus papiraceo pervenutoci,
comprendente 19 drammi, testimonia comunque una grande notorietà postuma. Sebbene una
prima fonte parlasse di 92 drammi, in nostro possesso rimangono solamente: Alcesti,
Andromaca, Ecuba, Elena, Elettra, Eraclidi, Eracle, Ione, Ippolito, Supplici, Ifigenia in
Taurine, Ifigenia in Aulide, Ciclope, Medea. Oreste, Reso (di dubbi autenticità), Troiane,
Fenicie e Baccanti. Un corpus consistente, tanto da essere numericamente inferiore solo a
quello omerico.
I grammatici alessandrini vi si interessarono molto, tanto che Aristofane di Bisanzio ne curò
un edizione speciale, apportando delle introduzioni ad ognuno dei drammi. Il Ciclope, fra tutti,
è l’unico dramma satiresco trasmessoci integralmente.
***
La Medea
II
La Medea fu rappresentata per la prima volta durante l’87ma Olimpiade, durante le Grandi
Dionisiache del 431 a.C. La precedette solo l’Alcesti, nel 438 a.C. Non appartiene alla prima
fase di produzione artistica di Euripide: il tragico aveva infatti già debuttato nel 455 a.C. con
una tetrologia di cui facevano parte Le Pleiadi. Le figlie di Pelia, ingannate da Medea, avevano
ucciso il padre e si erano cibate delle sue carni nella speranza di restituirgli la giovinezza. Nel
431 a.C. mise in scena, oltre alla Medea, anche Filottete e Ditti ed un dramma satiresco
intitolato I Mietitori, classificatosi terzo dopo Sofocle ed Euforione.
***
L’Azione
Il prologo è affidato alla nutrice, la quale rivela gli antefatti della tragedia, e al pedagogo, che
annuncia la decisione di un bando di esilio per Medea e i suoi figli. La protagonista ancora non
compare sulla scena, ma si sentono dalla casa le sue grida, che destano la preoccupazione e la
pena nell’animo della nutrice.
Durante la parodos il coro di donne corinzie esprime il desiderio di vedere Medea fuori dalla
sua casa.
Nel primo episodio Medea, uscita di casa, intrattiene il pubblico con un monologo di intensa
passionalità e, in seguito, di profonda razionalità sulla condizione femminile, esprimendo
infine la sua sete di vendetta. Ammette tuttavia di non avere un piano. Arriva Creonte a
notificarle il bando, ma reso ancora più insicuro dalla sticomitia con Medea, concede la
proroga di un giorno. Il coro promette allora di aiutarla, ed inizia un nuovo monologo sul tipo
di vendetta e sul rifugio in cui trovare riparo dopo la messa in atto del piano.
Nel primo stasimo il coro parla di tradimento ed annuncia l’ingresso di Giasone.
Nel secondo episodio l’agone produce una irrimediabile frattura tra Medea e Giasone. Egli le
offre il suo aiuto, ma lei lo rifiuta, rinfacciandogli per giunta l’aiuto che gli aveva posto
durante l’impresa del vello d’oro (la missione aveva implicato per Medea il tradimento del
padre Eeta e l’uccisione del fratello Absirto). Giasone ribatte dicendo che il successo si doveva
esclusivamente all’aiuto di Afrodite ed il coro gli si schiera contro, criticando la vuota retorica
delle sue parole. Giasone continua enumerando i vantaggi che il suo matrimonio con la figlia
del re Creonte potrebbe arrecare ai loro figli e si vanta di aver fatto conoscere la civiltà ad una
barbara come Medea. L’episodio si chiude con Medea, che rinnova il rifiuto di aiuto da parte
di Giasone.
Nel secondo stasimo il coro prega Afrodite di far calmare Medea e conclude il proprio
intervento discutendo sui numerosi e profondi dolori dell’esule.
Nel terzo episodio Medea riesce ad ottenere il permesso di asilo da Egeo, re di Atene di
ritorno dall’oracolo di Delfi (voleva sapere se avrebbe mai avuto figli). Uscito di scena il re,
Medea inizia un nuovo monologo nel quale si compiace di aver trovato l’aiuto necessario per
compiere la vendetta, della quale descrive i particolari al coro. Le donne corinzie cercano
invano di distoglierla dal suo intento.
Nel terzo stasimo Medea esprime una captatio benevolentiae nei confronti degli Ateniesi e
fornisce ulteriori delucidazioni riguardo l’imminente vendetta.
Nel quarto episodio Medea inganna Giasone e Glauche ed ottiene la revoca del bando di
esilio per i propri figli.
Nel quarto stasimo il coro, ormai privo di speranza per la vita di Glauche e dei figli di Medea,
compiange la madre assassina.
Nel quinto episodio il pedagogo viene interrotto dal monologo di Medea, combattuta fra gli
istinti materni e la sete di vendetta. L’idea dell’infanticidio matura nell’animo di Medea in
quanto ella considera migliore, dopo l’assassinio di Glauche, che i figli possano morire per
mano della loro stessa madre, piuttosto che per mano delle guardie di Creonte. Il coro elabora
poi un excursus sulle angosce e i dolori che i figli procurano nell’animo di una madre, ma
viene interrotto dal racconto del messaggero, il quale riferisce dell’agonia di Glauche e
Creonte, facendo pregustare a Medea il sapore della vendetta. L’episodio termina con l’ultimo
monologo di Medea, la quale, sentendosi ormai pronta a commettere l’infanticidio, fa appello a
tutte le proprie forze per metter mano alla spada.
III
Nel quinto stasimo il coro prega Terra ed Helios affinché possano arrestare la mano di
Medea, ma le suppliche vengono bruscamente interrotte dalle grida dei poveri figli assassinati
Nell’esodo Giasone, temendo per i propri figli raggiunge la casa di Medea. Egli la vede sul
carro di Helios con in braccio i corpi dei figli. Medea nega a Giasone il conforto dell’ultimo
addio ai figli ed allontanandosi annuncia di volerli seppellire presso il tempio di Era Acrea.
La critica moderna si pose in una posizione diametralmente oppositiva rispetto alla critica
antica, mossa fondamentalmente da Aristotele, riguardo l’incoerenza psicologica riscontrata
da quest’ultimo nel personaggio di Medea. I filologi moderni ne hanno infatti valorizzato la
coerenza, affidandosi al principio secondo il quale sono proprio i sentimenti opposti di amore
ed odio a riuscire più assiduamente a convivere in una stessa personalità, determinandone la
sintesi coerente di una completezza personale.
IV
Molto importanti sono state le considerazioni presentate da Pohlenz, Di Benedetto, Sestili e
Ciani. Secondo Pohlenz la Medea sarebbe stato il primo dramma psicologico, incentrato
quindi su un’introspezione che influenza totalmente l’azione, a ricreare il soccombere della
ragione alla passionalità del thumos.
Di Benedetto invece non si concentrò sul considerare contraddittoria o meno la personalità
della protagonista, quanto sull’aspetto razionale e riflessivo della stessa, basandosi su un
principio cardine della tradizione tragica greca: il riflettere su se stessi posto, non come
soluzione alla sofferenza, ma come preludio alla stessa.
Sestili parlò, dal canto suo, di una coincidentia oppositorum impenetrabile, nata dalla natura in
fieri della protagonista, il cui “work in progress” spingerebbe a nuove riletture che promettono
chiarimenti sempre nuovi. Egli attuò inoltre una lettura psicoanalitica della protagonista,
secondo al quale Medea rappresenterebbe una passionalità frustrata che, essendosi
monomaniacalmente incentrata sulla figura di Giasone, vedendosi tradita si sarebbe focalizzata
narcisisticamente su se stessa, cominciando così a giudicare tutto in base alla sete di vendetta.
Il suo iniziale sadismo distruttivo si sarebbe così tramutato in masochismo autodistruttivo,
alimentato ulteriormente dal doloro per la morte dei propri figli.
Secondo Ciani infine, sarebbe proprio l’impossibilità di definire Medea come modello preciso,
legiferato e coerente di persona, unito alla responsabilità delle proprie azioni a renderla
modello di personalità tragica.
***
La Rappresentazione
L’azione si svolge a Corinto, di fronte alla casa di Medea, rappresentata prima da una tenda,
poi da una struttura lignea, che poteva fungere da casa, tempio, palazzo reale, grotta e tenda
militare. La skenè presentava, come da tradizione nel V secolo a.C., tre eisòdoi, che
permettevano l’entrata in scena dei personaggi. Tuttavia nell’arco della rappresentazione si fa
riferimento anche a spazi extra-scenici (fonte Pirene, a Corinto).
Questa è la prima tragedia in cui il protagonistès recita un solo ruolo: questo poiché Medea
risulta sempre in scena, anche durante gli stasimi; a partire dal suo ingresso infatti la tragedia si
risolve in un continuo contrasto a due (sticomitia), intervallato solo dai monologhi della
protagonista e dagli interventi del coro di donne corinzie.
Sono state presentate alcune tesi riguardo il numero di attori impegnati nella rappresentazione.
Secondo Gredley e Di Benedetto sarebbero stati impiegati tre attori, mentre secondo Page ne
sarebbero stati coinvolti solo due, sebbene già dal 431 a.C. fosse entrato in voga l’impiego di
tre attori. La soluzione anacronistica proposta da Page fece pensare i filologi moderni ad un
possibile richiamo al modello di Neofrone.
Entrambi i filoni di pensiero concordano comunque sul ruolo dei figli: recitato da kofà
pròsopa, cioè da comparse mute, che, come anche le quindici donne del coro, venivano
considerati alla stregua di attori minori. La Medea dimostra comunque l’intento di Euripide di
sorprendere lo spettatore, innovando le convenzioni teatrali per una catalizzazione della
tensione, portata all’estremo. Questo processo si può evincere, ad esempio, nella continua
comparsa dei figli sulla scena: la tensione si accresce, in quanto lo spettatore è cosciente che,
ogni qual volta li veda, potrebbe essere l’ultima loro comparsa. L’innovazione consiste anche
nell’ampliamento dello spazio scenico e nello spostamento del punto focale dello stesso
(interno dell’edificio, e persino sul tetto dello stesso).
***
V
dal drammaturgo alla matrice del mito da cui si diparte l’intreccio tragico. Nella Medea il prologo
viene affidato alla nutrice e al pedagogo. La prima è una figura usuale nello schema narrativo della
tradizione tragica; ella assume il ruolo di confidente della protagonista, abbracciando così interamente
e nell’intimo la prospettiva femminile. Il pedagogo invece detiene una funzione prettamente di
arricchimento informativo sullo status quo e di far calare con una gradualità più rapida il pubblico
nella dimensione dell’azione presente, arricchendone così il bagaglio informativo.
- ode corale: formato da quindici donne corinzie, il coro non solo proietta sulla scena i
protagonisti, collegando quindi l’antefatto all’azione vera e propria, ma diviene qui confidente muto
al quale vengono rivolti i monologhi della protagonista, ed anche spazio di evasione riflessiva, avulsa
dall’azione e riservata ai pensieri dell’autore.
- agone: in esso si esplica massimamente lo scontro delle forze oppositive, nella quale la
sapienza retorica segue un climax ascendente, il cui culmine determina, o una svolta dell’intreccio o
l’esplosione suggestiva delle forze oppositive stesse.
- racconto del messaggero: detiene una funzione strettamente informativa, atta non solo a
supplire le carenze rappresentative causate dall’estrema economia del teatro greco e dalle rigide
prescrizioni religiose, ma anche a commuovere un pubblico tradizionalmente abituato all’ascolto
piuttosto che all’osservazione, il cui realismo diviene meno vivo del racconto stesso. C’è da dire che
solitamente il racconto viene affidato al protagonista, ma non risulta essere questo il caso.
- deus ex machina: l’intervento divino, strettamente attinente alla sacralità insita in una
rappresentazione circostanziata da feste religiose quali quelle dionisiache, risolve un intreccio portato
alla contraddizione e alla problematicità interna dall’inadeguatezza umana, istituisce un culto
(confluisce qui il motivo eziologico) o anticipa gli esiti successivi dell’azione.
***
La Lingua
Il registro linguistico muta in base alla natura dialogica o corale delle sezioni. Le parti corali
sono composte in un dialetto dorico che risente, in certi passi, di deboli influenze attiche. Le
parti dialogiche invece sono composte in un dialetto attico stilizzato da alcune cadenze
ionizzanti a da non poche licenziosità poetiche. In entrambi i casi alcune parti presentano un
avvicinamento della dizione tragica all’artificiosità poetica (libertà d’uso dell’aumento, più
forme di dativo, ampio margine di discrezionalità sull’uso dell’articolo) Per elevare la dizione
tragica rispetto alla naturale semplicità del parlato, i tragici sostituivano la forma composta dei
verbi con la relativa forma semplice, e viceversa, in modo da utilizzare una forma non svilita
del parlato; sostituiscono termini usuali con perifrasi o composizioni sinonimiche; esprimono
alcuni dimostrativi in dialetto dorico. Nella Poetica e nel Sul Sublime di Aristotele era stato
infatti già evidenziato questo intento di Euripide di solennizzare il lessico della quotidianità.
***
VI
***
Appunti di Metrica
Le sezioni dialogiche sono composte in trimetri giambici acatalettici. Le cesure più frequenti
sono quelle pentemimere, eftemimere, mediane e di elisione; viene inoltre accettato
frequentemente l’uso di enjambement e l’applicazione della legge di Porson.
I trimetri della Medea si avvicinano molto a quelli delle tragedie appartenenti alla prima
produzione euripidea, per le rare sostituzioni, ad eccezione di quelle al terzo piede, e per l’uso
di sistemi anapestici, di origine dorica, di accompagnamento alla marcia della parodos e
dell’esodo.
***
Il Prologo
[Introduzione]
Il prologo risulta suddiviso in due scene: il monologo della nutrice di Medea (vv. 1-48) e il
dialogo tra il pedagogo dei figli di Medea e la stessa nutrice (vv.48-95). Nella prima parte
vengono introdotti gli antefatti mitici della vicenda (impresa degli Argonauti, abbandono
della patria e del padre Eeta, uccisione del fratello Absirto e di Pelia, zio di Giasone, mangiato
dalle proprie figlie), così da informare il pubblico non tanto sul contenuto mitico quanto sul
taglio euripideo dello stesso, e descritto l’attuale stato d’animo di Medea, vittima di una
profonda ingiustizia che la vede abbandonata a se stessa, restia a mangiare e, con lo sguardo
sempre rivolto a terra, sorda ad ogni consiglio e parola di conforto. In questa prima sezione
bisogna notare come la deresponsabilizzazione di Medea con l’uso del periodo ipotetico
dell’irrealtà (vv. 1 e ss.) nonché la sfumatura dei particolari riguardanti le crudeltà commesse
da Medea concorrano alla connotazione positiva del personaggio (visto invece nella
reinterpretazione senecana come antifrasi del sapiens, incapace di mediare tra ratio e furor, e
completamente soggiogato da quest’ultima; e addirittura come “personaggio infernale” da
G.G. Biondi per il totale annichilimento del sentimento materno). Infine non può sfuggire,
sempre nella prima parte l’ υ σ τ ε ρ ο ν π ρ ο τ ε ρ ο ν per ragioni di connotazione
psicologico-emozionale della serva, la quale avrebbe vissuto in prima persona la devastante
invasione dei Greci nel Ponto.
Nella seconda parte il pedagogo, dopo aver dichiarato di esser venuto a conoscenza del bando
di esilio per Medea e per i figli, si intrattiene con la nutrice discorrendo sulla condizione di
Medea e raccomandandosi di mantenere il silenzio riguardo il bando di esilio. Il prologo si
conclude con i minacciosi presagi della nutrice, preoccupata per gli sguardi selvaggi e rabbiosi
di Medea rivolti ai propri figli; bisogna notare che già ai vv. 38-43 (spurii in quanto ambigui, e
ripetuti con una migliore integrazione testuale in altre parti della tragedia, secondo il parere di
J. Diggle, di certa attribuzione invece per Harsh, Murray, Vargiglio e Pratt, secondo i quali la
loro ambiguità connoterebbe ancor più profondamente un personaggio ansioso, incerto e
spaventato) si era chiaramente accennato ad un delitto, senza tuttavia lasciar intendere se si
trattasse di un suicidio o di una vendetta.
Ciò che infine può rivelarsi di grande interesse è la concezione euripidea dell’inconscio e della
schiavitù. Nella psicologia omerica il θ υ µ ο σ era considerato l’organo del sentimento;
l’uomo omerico poteva intrattenerci una conversazione e, non sentendolo come parte
integrante dell’io, era abituato ad oggettivare i “propri” impulsi emotivi. Nella psicologia
euripidea invece il θ υ µ ο σ è la sede dell’io irrazionale e passionale con la quale l’uomo
non può più dialogare; concependolo infatti come qualcosa di profondamente radicato, l’uomo
non potrà più oggettivarne le emozioni e l’irrazionalità analizzandone freddamente i pro e i
contro, ma solamente sottostare ai suoi dettami. Il fatto che il pedagogo apostrofi la nutrice
come “antica proprietà della casa” ha alimentato un dibattito riguardo la concezione
euripidea della schiavitù, la quale, di questo si è certi, sarebbe divenuta oggetto di indagine
filosofica con i Sofisti (Ippia, Antifonte, Alcidamante), i quali avrebbero messo in discussione
l’argomento del ν ο µ ο σ in favore della φ υ σ ι σ . Euripide è sicuramente tra i tragici
VII
quello più attento all’umanità dello schiavo, tanto da essere definito
δηµ ο κ ρ α τ ι κ ο ν da Aristofane (Rane). Secondo V.Citti e Nestle Euripide
avrebbe dato prova della sua ricezione del “significato rivoluzionario del messaggio sofistico
che scopriva l’uguaglianza di liberi e schiavi”. Filologi come J.Vogt e V.Di Benedetto hanno
voluto invece porre l’accento su come Euripide non metta di fatto in discussione la schiavitù,
ribadendo la netta distinzione fra liberi e schiavi.
[Traduzione]
NUTRICE
[1]Magari la nave Argo non avesse mai attraversato
la terra dei Colchi, attraverso le scure Simplegadi,
nè fosse mai caduto nelle valli del Pelio
il pino tagliato, nè avessero fornito remi alle mani
[5]degli uomini valorosi che la pelle tutta d'oro
per Pelia andarono a recuperare. Infatti non la mia padrona
Medea verso le torri della terra avrebbe navigato di Iolco,
dall’amore nell’animo ferita per Giàsone:
e non, avendo persuaso le figlie di Pelia
[10]ad uccidere il padre, questa terra corinzia
con il marito e i figli, cercando di compiacere
i cittadini, nella cui terra era giunta in esilio,inoltre
essendo di aiuto in tutto allo stesso Giasone.
ed è la più grande salvezza
[15]che una donna non sia in disaccordo con il marito.
Ora invece tutto è ostile, e soffre negli affetti più cari.
Infatti dopo aver tradito i suoi figli e la mia padrona,
con una moglie regale Giasone si corica,
sposando la figlia di Creonte che regna su questa terra.
[20]Medea dunque, l'infelice, disonorata
grida i giuramenti, reclama la destra
il più grande pegno di fedeltà, e chiama a testimoniare gli dèi
di quale ricompensa ottenga da Giasone.
Giace dunque senza cibo, abbandonato il corpo al dolore,
[25]consumando tutto il tempo in lacrime
da quando dal marito ha saputo di essere stata offesa,
senza alzare lo sguardo, senza distogliere da terra
il viso: come rupe o marino
flutto ascolta quando viene consigliata gli amici,
[30]Se mai qualche volta, volgendo il collo candido
con se stessa il padre caro rimpiange
e la propria terra, e le proprie cose tradendo le quali essa giunse qui
con un uomo che adesso l’ha disonorata.
Ha capito dunque la misera, a causa della sventura
[35]che cosa significherebbe non essere privi della terra paterna.
Ma essa odia i figli e non è felice di vederli.
Ho timore che trami qualcosa di nuovo:
infatti è violenta nell’animo, e non sopporterà che malamente
sia trattata: io la conosco e temo che lei
[40]spinga un pugnale affilato attraverso il fegato,
entrando in silenzio in casa dove è disteso il letto,
oppure uccida il sovrano e colui che l’ha sposata
e che poi riceva una sventura ancora più grande.
Infatti (è) implacabile: di certo non facilmente chi incorre
[45]Nel suo odio canterà un inno di vittoria.
Ma ecco giungono i figli dopo aver terminato le corse
VIII
senza pensare per nulla ai dolori della madre
infatti una mente giovane non ama soffrire.
PEDAGOGO
Antica proprietà della casa della mia padrona,
[50]perché davanti alle porte temendo questa solitudine
stai, lamentandoti con te stessa dei tuoi mali?
Come mai Medea acconsente ad essere lasciata da sola con te?
NUTRICE
Vecchio accompagnatore dei figli di Giasone,
per i buoni servi le sciagure che si abbattono sui padroni
[55]sono disgrazie e occupano la mente.
Infatti io sono giunta a tal punto di sofferenza
che mi ha preso il desiderio di al cielo
dire venendo qui le sciagure del padrone.
PEDAGOGO
Mai infatti l’infelice cessa di piangere.
NUTRICE
[60]Ti invidio: il dolore è all’inizio e non ancora a metà.
PEDAGOGO
Pazza, se è lecito dire questo dei padroni:
non conosce nessuno dei mali recenti.
NUTRICE
Cosa c’è, vecchio? Non rifiutarti di parlare.
PEDAGOGO
Nulla: mi sono pentito anche delle cose dette prima.
NUTRICE
[65]Per la tua barba, non tenerlo nascosto ad una compagna di servitù:
il silenzio infatti, se devo, manterrò circa questa cosa.
PEDAGOGO
Ho sentito un tale dire, non sembrando che io ascoltassi,
avvicinandomi ai dadi, dove gli anziani
siedono, presso la venerabile fonte Pirene,
[70]che questi bambini dalla terra Corinzia
insieme alla madre intende scacciare il sovrano di questa terra
Creonte. Se sia vero questo racconto
non lo so: vorrei che non lo fosse.
NUTRICE
E Giasone permetterà che dei bambini ciò
[75]subiscano, se pure la madre è in disaccordo?
PEDAGOGO
I vecchi legami di parentela cedono ai nuovi
e quello non è amico della famiglia.
NUTRICE
IX
Siamo rovinati, se aggiungeremo un male
nuovo al vecchio, prima che questo sia esaurito.
PEDAGOGO
[80]Tu intanto, non è opportuno che lo sappia
la padrona, stai tranquilla e non rivelare il (mio) discorso.
NUTRICE
O figli, sentite che (uomo è vostro) padre nei vostri confronti?
Che possa morire no: è infatti il mio padrone:
però malvagio verso i suoi cari si fa sorprendere.
PEDAGOGO
[85]Chi dei mortali non (lo è)? Solo ora capisci questo,
cioè che ognuno ama più se stesso del suo prossimo,
gli uni giustamente, gli altri per (il proprio) guadagno,
se ora non ama più questi (i bambini) per un letto?
NUTRICE
Andate, sarà infatti bene, dentro le case, bambini.
[90]E tu tienili lontani il più possibile
e non avvicinarli alla madre sconvolta.
Già infatti l’ho vista lanciare sguardi selvaggi (lett.: “da toro”)
su di loro, come se desiderasse fare qualcosa (di male): non desisterà
dall’ira, lo so bene, prima di averli colpiti.
[95]Almeno contro i nemici, non contro i cari, facesse qualcosa.
***
X
sposa, il quale non offre solo la κ τ η σ ι σ (possesso) della sposa e del suo corredo
patrimoniale, ma la vera e propria κ υ ρ ε ι α (potere) sulla sua persona e sui suoi beni.
Sebbene il discorso di Medea lasci intendere ciò, non era fatto legale divieto alla donna di
separarsi dal marito (Plutarco in Vita di Alcibiade parla del suo divorzio da Ipparete), ma
poiché la personalità giuridica della donna era riconosciuta solo in quanto estensione di quella
del suo kurios, era comunque fonte di biasimo da èarte della collettività. L’infelicità della
subordinazione femminile viene d’altra parte contrastata dalla superiorità scenica di Medea:
soprattutto nelle scene seguenti è da notarsi come venga rafforzata la superiorità sugli altri
personaggi che, solo temporaneamente, attraversano il suo spazio (Creonte, Giasone, Egeo).
Secondo il filologo tedesco Wilamowitz il verso 246 sarebbe stato inserito per pudicitia da
parte di un indoctus interpolator, nell’intento di attenuare il verso precedente, nel quale si fa
esplicito riferimento alla possibilità del marito di avere relazione extra-coniugali; la correzione
al verso 246 eliminerebbe l’allusione all’adulterio, prevedendo per l’uomo il legittimo conforto
della frequentazione di amici e coetanei. Infine bisogna notare come il termine ψ υ χ η , che
in Omero indicava il soffio vitale che dopo la morte vola via dal corpo, attraverso la bocca o
attraverso le ferite, giungendo all’Ade sottoforma di ε ι δ ω λ ο ν , nei lirici e nella
tragedia designa l’io emotivo, la parte immateriale dell’essere, finchè, con la filosofia
platonica, avrebbe designato la sede della razionalità individuale. Il termine
βα ρ β α ρ ο σ invece ha dapprima un significato linguistico, designando coloro che
non parlano la lingua greca (in sanscrito barbarah e in latino balbus si intende “balbuziente”),
mentre solo a seguito delle guerre persiane acquista un’accezione dispregiativa nel significato
di “rozzo”, “privo di cultura” e “crudele”.
[Traduzione]
MEDEA
Donne di Corinto, sono uscita di casa,
[215]perché voi non mi rimproveriate alcunchè: conosco infatti molti dei mortali
che per superbi passano, gli uni lontano dagli sguardi,
gli altri tra estranei: altri invece a causa del loro piede tranquillo
si procurano cattiva fama di inerzia.
Infatti non c’è giustizia negli occhi dei mortali,
[220]che prima di aver conosciuto bene l’animo di un uomo
lo odiano dopo averlo (solo) guardato, offeso in nulla.
È necessario poi che uno straniero si avvicini davvero alla città:
ma non approvo colui il quali dimostratosi arrogante
è sgradito ai concittadini per mancanza di conoscenza.
[225]E a me questa circostanza capitata inattesa
ha distrutto la vita: io me ne vado e della vita
il piacere dopo aver abbandonato, desidero morire, amiche.
Colui nel quale per me c’era tutto, lo so bene,
è risultato il peggiore degli uomini il mio sposo.
[230]Di tutto ciò che ha vita e ragione,
noi donne (siamo) la razza più infelice:
che in primo luogo dobbiamo con una spropositata somma di denaro
un marito comprarci (e) come padrone del (nostro) corpo
prenderlo:infatti (è) il male più dolorose dell’(altro) male.
[235]E anche in questo (vi è) un grande problema: prenderlo o cattivo
o buono: infatti non sono onorevoli le separazioni
per le donne, e non è possibile ripudiare uno sposo.
Tra nuovi costumi e nuove leggi giunta
è necessario che sia indovina, dato che non li ha appresi da casa,
[240]soprattutto con che tipo di sposo avrà a che fare.
E se con noi che ci adoperiamo bene in questo,
uno sposo convivesse sopportando il gigogo non malvolentieri,
allora la vita (è) invidiabile, altrimenti (è) meglio morire.
XI
Un uomo invece, qualora conviva malvolentieri con quelli di casa,
[245]andando fuori libera il cuore dalla pena
o andando da un amico o da un coetaneo:
noi invece siamo costrette a rivolgere lo sguardo ad una sola persona.
Dicono d’altra parte che una vita senza pericoli
Viviamo in casa, mentre loro combattono con la lancia,
[250]pensando male: come vorrei per tre volte accanto allo scudo
stare piuttosto che partorire una sola volta.
Ma non vale lo stesso discorso per me e per te:
tu hai questa città e la dimora del padre,
il godimento della vita e la compagnia di persone care,
[255]io invece essendo sola e senza patria, sono offesa
da un uomo, da una terra barbara portata via come preda,
senza madre, fratello, un parente
che mi possa far sfuggire a questa sventura.
Soltanto questo dunque vorrò ottenere da te,
[260]qualora io trovi una via di scampo e un espediente,
per punire per questi mali lo sposo
a colui che gli ha dato la figlia e a colei che l’ha sposato,
cioè tacere. Una donna infatti nel resto (è) piena di paura
e vile di fronte alla forza, e alla vista di un'arma:
[265]ma qualora nel letto sia offesa,
non c’è altra mente più sanguinaria.
CORO
Farò così: Infatti giustamente ti vendicherai dello sposo,
Medea. E non mi meraviglio che tu pianga le tue sorti.
Ma ora vedo anche Creonte, signore di questa terra,
[270]arrivare, messaggero di decisioni nuove.
***
[Traduzione]
XII
CREONTE
A te dallo sguardo torvo e adirata con lo sposo,
Medea, ho ordinato che tu da questa terra te ne andassi
esule, portando con te entrambi i tuoi figli,
e di non indugiare: poiché io l’esecutore del decreto
[275]sono, e non ritornerò a palazzo,
prima che da questa terra non ti abbia espulsa.
MEDEA
Ahimè: io l’infelice sono del tutto annientata;
i miei nemici allentano infatti ogni fune,
e non vi è approdo facilmente accessibile dalla sciagura.
[280]Chiederò pur soffrendo molto:
per quale ragione mi scacci dalla terra, Creonte?
CREONTE
Temo che tu, non bisogna mascherare le parole,
faccia a mia figlia qualche male irreparabile.
Concorrono a ciò molte prove:
[285]saggia e conoscitrici di molti mali sei,
soffri rimasta priva del letto del marito.
Sento inoltre dire che tu minacci, come molti mi dicono,
che a colui che ha dato sua figlia in matrimonio, a colui che la sposa e alla sposa
vuoi fare del male. E quindi prima di patirlo starò in guardia.
[290]E’ meglio per me essere odiato da te, oh donna,debole
piuttosto che essere debole, e dopo piangerne amaramente.
MEDEA
Ahimè, ahimè!
Non ora per la prima volta ma spesso, oh Creonte,
la mia fama mi ha danneggiato e mi ha causato grandi sofferenze.
Bisogna invece che mai chi sia saggio
[295]faccia educare i figli così da renderli straordinariamente sapienti:
infatti oltre alle altre accuse di indolenza che ricevono
attirano su di sé l’invidia ostile da parte dei cittadini.
Portando infatti a degli ignoranti nuovi saperi
sembrerai essere un perditempo e non un dotto:
[310]se poi di coloro che ritengono di possedere un sapere vario
sei considerato il migliore in città sembrerai odioso.
E anche io condivido questa sorte:
infatti essendo sapiente, da alcuni sono invidiata,
ad altri sono odiosa, e ad altri di indole opposta
[305]ad altri ostile, mentre per altri non sono troppo sapiente.
Eppure ora mi temi: di subire un offesa?
Io non sono in una tale condizione, non temermi, oh Creonte,
da tramare insidie contro i sovrani.
Tu poi, che torto mi hai commesso? Avendo dato in sposa la figlia
[310]a chi ti disse l’animo. Ma io il mio sposo
odio; tu invece, credo, hai agito saggiamente.
Dunque non invidio il fatto che a te la situazione vada bene:
celebrate le nozze, e state bene; ma questa terra
lasciatemi abitare. E infatti benché offesa
[315]saprò tacere, vinta dai più forti.
CREONTE
XIII
Dici parole piacevoli a sentirsi, ma dentro l’animo
(è) il sospetto a me che tu trami qualche male.
Tanto meno di prima quindi mi fido di te:
una donna furente infatti, così come un uomo,
[320]è più facile tenere a bada di una saggia che sa tacere.
Orsú, vattene al piú presto, non dire parole:
poiché questo è deciso e tu non hai alcun mezzo per
rimanere presso di noi essendo nostra nemica.
MEDEA:
No, per le tue ginocchia, e per la figlia giovane sposa!
CREONTE:
[325]Sprechi parole: non potresti mai convincermi.
MEDEA:
Dunque mi scacci e in nessun modo avrai rispetto per le suppliche.
CREONTE:
Non amo infatti più te della mia casa.
MEDEA:
O patria, come mi ricordo di te adesso.
CREONTE:
A parte i miei figli infatti per me è la cosa più cara.
MEDEA:
[330]Ahi, ahi, che gran male sono gli amori per i mortali.
CREONTE:
Ritengo a seconda di come volgano le circostanze.
MEDEA:
Giove, non ti sfugga chi fu la causa del male.
CREONTE:
Vattene, o stolta, e liberami dai tormenti.
MEDEA:
Io soffro e non ho bisogno di tormenti.
CREONTE:
[335]Immediatamente dalla mano dei miei servi sarai cacciata via.
MEDEA:
Questo no, te ne supplico, Creonte.
CREONTE:
Creerai problemi a quanto sembra, donna
MEDEA:
Andrò in esilio: non ho supplicato per ottenere questo da te.
CREONTE:
Perché ancora ti opponi e non lasci la mia mano?
XIV
MEDEA:
[340]Concedi che io rimanga questo unico giorno
e decidi dove andremo in esilio,
la partenza per i miei figli e per me, dal momento che il padre
non si occupa per nulla dei propri figli.
Abbi pietà di loro: anche tu sei padre di figli:
[345]è naturale che tu sia benevolo nei loro confronti.
Non mi preoccupo infatti della mia sorte, se riuscirò a fuggire,
piango loro colti dalla sventura.
CREONTE:
Per nulla la mia determinazione è da tiranno,
per il fatto di avere riguardi molte cose ho rovinato:
[350]e ora capisco di sbagliare, donna,
eppure otterrai ciò. Ma ti avverto,
se la fiaccola del dio che sopraggiunge vedrà te
e i figli dentro i confini di questa terra,
morirai: questa parola è stata detta come veritiera.
[355]Ora, se devi rimanere, rimarrai un giorno:
difatti non potrai mettere in atto qualche delitto di quelli di cui ho paura.
CORO:
[358]Ahi, ahi, infelice per le tue sofferenze,
[357]misera donna,
dove mai ti rivolgerai? Verso quale ospitalità
[360]a quale casa o a quale terra rimedio dei mali
troverai?
In un mare senza via d’uscita il dio,
Medea, di sventure ti ha spinto.
***
XV
[Traduzione]
MEDEA:
La situazione è disperata: chi potrà negarlo?
[365]Ma queste cose non andranno così, non pensatelo mai.
Vi sono ancora pericoli per i novelli sposi
E per i parenti sofferenze non da poco.
Pensi infatti che l’avrei adulato allora
Se non per ottenere qualche vantaggio o tramare qualcosa?
[370]Non gli avrei parlato e non lo avrei toccato con le mani.
Ma egli ad un tale livello di stupidità è giunto,
che, benchè scacciandomi via dalla terra gli fosse possibile distruggere i miei piani,
accordò questo giorno
a me di rimanere, nel quale tre dei miei nemici cadaveri
[375]renderò, il padre e la figlia sposa.
Avendo per loro molte vie di morte,
non so a quale per prima io debba accingermi, amiche:
se dovrei bruciare la dimora nuziale con il fuoco,
oppure dovrei spingere un pugnale acuminato per il fegato,
[380]introducendomi silenziosamente nella casa dove è disteso nel letto.
Ma una sola cosa mi si oppone: se sarò sorpresa
mentre entro in casa e mentre tramo,
morendo offrirò ai miei nemici motivo di ridere.
Meglio la via diretta, nella quale
[385](sono) particolarmente esperta, cioè ucciderli con i veleni.
E sia pure:
ed ora sono morti: quale città mi accoglierà?
Quale ospite una terra inviolabile e una dimora sicura
Offrendomi salverà il mio corpo?
Non c’è.
[390]Che apparirà per me un rifugio sicuro,
preparerò con l’inganno ed il silenzio questa uccisione.
XVI