Sei sulla pagina 1di 9

VITA

Euripide nacque a Salamina, secondo alcune fonti nel 480 a.C. (in relazione a un
sincronismo per cui sarebbe nato in quello stesso giorno della battaglia di Salamina a cui
Eschilo prese parte e che Sofocle celebrò guidando la danza per la vittoria), o forse nel 484
a.C. Poco si sa della sua vita: non partecipò all'azione politica e fu il prototipo
dell'intellettuale appartato. Iniziò la carriera di tragediografo nel 455. Negli agoni teatrali
ottenne scarso successo, ottenne solo 4 vittorie. In tarda età si trasferì in Macedonia presso
la corte del re Archelao, lì morì nel 406 a.C.
Delle circa 90 opere che vengono attribuite ad Euripide, a noi ne sono giunte solo 19, molte
di più rispetto ai suoi precedenti, questo forse è dovuto alla fortuna che Euripide ha ricevuto
postuma alla sua morte. Di queste 19, 1, il Reso, è generalmente ritenuta spuria e Il ciclope
è un dramma satiresco. Solo sei sono le opere databili con certezza mentre delle altre
possiamo dare una datazione approssimativa. La metrica viene usata come mezzo di
datazione infatti si è notato che si possono datare a epoche più tarde le tragedie che
presentano una metrica più libera.
LINEE GENERALI
La sua attenzione drammaturgica è rivolta all’uomo e ai suoi sentimenti. mentre Eschilo
cerca le cause della sventura e del dolore e Sofocle si interessa alla rappresentazione degli
effetti, come il singolo reagisce davanti alle situazioni,per Euripide il vero conflitto tragico
avviene dentro il personaggio. I personaggi di Euripide non sono quindi più eroi nel senso
tradizionale del termine: i protagonisti delle vicende del mito non sono infatti rappresentati
come individui dalla natura eccezionale, ma come uomini comuni che condividono con il
resto dell’umanità vizi, debolezze. Questi personaggi sono spesso instabili e inquieti,
suscettibili di radicali metabolai, trasformazioni nel loro comportamento, che avvengono di
sorpresa, non progressivamente. Grande è la loro profondità psicologica: la tragedia porta
allo scoperto l’intricato labirinto di emozioni e angosce che dominano l’animo umano e ne
determinano l’agire. I drammi di Euripide mettono infatti in scena la crisi della ragione
umana: gli impulsi irrazionali hanno spesso la meglio sulla volontà dell’uomo, che appare
sovradeterminato dalle sue passioni piuttosto che dal destino o dalle divinità. Euripide relega
infatti gli dei sullo sfondo della tragedia: sono assolutamente indifferenti alle vicende umane,
non si pongono come in Eschilo, a garanti della giustizia e appaiono anzi talvolta, crudeli e
meschini. Su questa traiettoria il teatro euripideo appare quindi fortemente influenzato dal
pensiero dei sofisti, con la loro critica al mito e la loro visione laica della realtà.
Tra i personaggi di Euripide hanno una forte rilevanza le donne: escluse dalla vita politica, le
figure femminili si prestavano a rappresentare al meglio il mondo dell'interiorità e dei
sentimenti. Nell' Alcesti, la prima tragedia di Euripide, l'eroina, pronta a morire al posto del
marito Admeto, incarna il modello della sposa perfetta. Ma i personaggi più riusciti di
Euripide sono donne ben diverse: inquietanti, agitate da passioni violente, ribelli alle leggi
della famiglia. Medea, maga Barbara, protagonista dell'omonima tragedia, una volta
abbandonata dal marito arriva uccidere i propri figli pur di vendicarsi di chi l'ha tradita. Fedra,
protagonista dell'Ippolito, concepisce una passione insana è immorale per il figliastro. Alle
figure femminili distruttrici e portatrici di sciagura si affiancano donne vittime della brutalità e
della sopraffazione della guerra. Alla guerra di Troia, descritta non come impresa eroica ma
come atto di pura violenza, Euripide dedicò tre tragedie, accomunate dalla prospettiva da cui
è condotto il racconto, quella delle vittime più deboli e indifese. A confronto con le figure
femminili, dolenti o determinati, pronta al sacrificio Alla vendetta, i personaggi maschili
appaiono sempre mediocri, spinti da ciniche motivazione di interesse o incapaci di agire con
risolutezza.
Questo si spiega con l'obiettivo del teatro euripideo ovvero provocare il pubblico ateniese
smascherando davanti ai suoi occhi l'aspetto più brutale della realtà umana e sociale: la
ferocia della guerra, che calpesta i più deboli; la crisi della famiglia, dominata dall'egoismo
piuttosto che dall'affetto; l'opportunismo dei politici; la fragilità dell'essere umano, in equilibrio
precario tra ragione e follia, e spesso causa della propria infelicità.
ALCESTI
Trama:
438 ( faceva parte di una trilogia e veniva rappresentata per quarta dopo Cretesi, alcmeone
a Psofide e Telefo).
Al principio del dramma ambientato a Fere in Tessaglia, Apollo, che presta servizio presso il
re Admeto per espiare lo sterminio dei Ciclopi e dal quale Admeto stesso ha ottenuto di
poter prolungare la propria vita purché qualcuno si offra di morire al posto suo, racconta che
solo la sposa di admeto, Alcesti, si è voluta dichiarare pronta a morire, mentre neppure gli
anziani genitori del sovrano hanno voluto dare la propria vita in cambio di quella del figlio.
Ora che è arrivato il momento supremo interviene thanatos, il demone della morte, a
reclamare la sua vittima, e Apollo si allontana. Il coro formato da vecchi cittadini di Fere è in
preda all'ansia per la sorte di Alcesti e viene informato da un'ancella che all'interno della
casa la donna si sta congelando dalla famiglia e dai servi. Entrano in scena i due coniugi:
Alcesti, sostenuta dal marito è in preda una visione in cui le sembra che Caronte la chiami
per l'ultimo viaggio. Essa prende congedo da tutti, soprattutto dai figli e dal letto nuziale
(tratto che la comuna a deianira nelle Trachinee di Sofocle). Rimasta poi sola col marito lo
supplica di non risposarsi e di non dare ai figli una matrigna che potrebbe addirittura odiarli.
Dopo il commo Admeto promette alla moglie che non si riposerà e che si farà forgiare da un
artista un'immagine di lei così che gli sembri che sia al suo fianco. Poi lo sfinimento assale
definitivamente Alcesti che viene portata via da thanatos, lasciando la reggia immersa nel
lutto. Intanto Eracle, nel suo peregrinare, ha bussato per chiedere ospitalità, e Admeto, pure
immerso nel lutto, non può venir meno ai doveri di un ospite e lo accoglie nella sua casa
senza rivelargli la sorte di Alcesti. Eracle si rifocilla mangiando e bevendo senza ritegno,
mentre già si preparano le esequie. Admeto riceve allora la visita del padre Ferete, venuto a
piangere la nuora. Il colloquio degenera ben presto in un alterco nel quale Admeto
rimprovera l'egoismo del vecchio, che non ha voluto sacrificarsi per il proprio figlio,
spingendolo ad accettare il sacrificio di Alcesti; ma Ferete ribatte tutte le accuse rivolgendo
sul figlio l'accusa di egoismo. Quando tutti i personaggi si sono avviati per accompagnare il
funerale si presenta in scena Eracle che viene a conoscenza della verità del racconto di un
servo. Allora decide di ricambiare la generosità di Admeto e poi parte alla volta dell'Ade per
strappare Alcesti a Thanatos. Di ritorno dalle esequie Admeto si abbandona la più cupa
disperazione poiché ritiene che ormai senza la moglie la sua vita non abbia più senso.
Nell'esodo ritorna Eracle con una donna coperta da un velo e chiede all'amico di trattenerla
con se e di ospitarla nella Reggia. Admeto in un primo momento si rifiuta finché quella non
si rivela altri che essere Alcesti. Così mentre Eracle riparte per le sue avventure i due sposi
rientrano pazzo di nuovo uniti

L'Alcesti sviluppa l'antico tema folklorico dell'eroe che sconfigge la morte in un dramma dai
tratti vagamente fiabeschi, che presenta già alcuni elementi tipici del teatro euripideo: il
gusto per gli effetti patetici, lo scontro di parole capzioso e violento tra due personaggi
contrapposti (agone), il dialogo incisivo ed eloquente, il colpo di scena finale.
Come tanti eroi euripidei, Admeto, è un personaggio mediocre, un uomo comune e non
nobile principe di cui parlava il mito. Questa mediocrità si rivela nel dialogo con il padre
Ferete, accorso a condolersi con lui e accolto a male parole perché, pur essendo vecchio,
ha rifiutato di sostituirsi al figlio. È lo scontro di due egoismi, in cui il poeta sembra essersi
ripromesso di denunciare la miseria degli uomini comuni, in confronto alla nobile
magnanimità dell'eroina, unico personaggio a possedere il tono della grandezza tragica.
Altro tema presente è il valore dell'ospitalità, con Admeto in lutto che riceve Eracle. Nella
cultura eroica l'ospitalità assumeva un alto merito sociale in quanto esprimeva in massimo
grado la virtù aristocratica; nell'Alcesti però è solo una cornice al dramma personale di una
donna che affronta la morte con grande nobiltà.
Alcesti è la prima delle grandi figure del teatro euripideo, ma potremmo dire che è ancora
imperfetta dal punto di vista psicologico. In un certo senso le manca qualche cosa, più che
essere un personaggio a tutto tondo è il modello della donna per bene e della sposa
perfetta.
Oltre al tema della pilia e dell'ospitalità vi è anche il tema della gloria che costituisce un
movente fondamentale dell'azione: nel cleos si può individuare quel prestigio che deriva dal
riconoscimento sociale della virtù, che costituisce un surrogato d'immortalità e un compenso
postumo.
Poi in questa tragedia ha centralità drammatica il problema della morte, destino comune a
tutti gli uomini. Il confronto con la morte ha un effetto rivelatore del carattere con le persone,
consentendo di verificare la consistenza dei legami familiari e sociali : coloro che sembrano
filoi di fronte alla morte dimostrano la loro vera natura di essere tenacemente attaccati alla
propria psuchè a scapito di quella altrui.

MEDEA
Trama:
L'azione si svolge a Corinto, dove, reduci della Colchide, vivono Medea e Giasone. All'inizio
del dramma, dopo il prologo espositivo recitato dalla nutrice, si odono dall'interno della casa
le grida di Medea per il tradimento di Giasone, che ora intende sposare Glauce, la giovane
principessa figlia di Creonte, sovrano di Corinto. Ma poi, dopo i lamenti e le invettive, Medea
appare in scena con un mutato atteggiamento e parla con grande lucidità alle donne
corinzie, che compongono il coro, dell'universale condizione della donna e della propria
personale vicenda. Lei già decisa di vendicarsi del marito ma ancora ignora la via per
tradurre in azione il suo impulso. Innanzitutto si assicura il silenzio del coro; poi, in un
dialogo con Creonte, riesce a ottenere che il bando di espulsione da Corinto, da cui è stata
colpita, sia differito di un giorno. Segue un dialogo con Giasone dopo il quale Medea trova
un decisivo alleato nel sovrano ateniese Egeo, che è di passaggio a Corinto reduce da Delfi:
egli si offre di ospitarla in Atene e così Medea puoi lavorare un piano minutamente
articolato. Incontra nuovamente Giasone e finge di volersi riconciliare con lui, anche per
evitare l'esilio almeno ai loro figli. E in questa prospettiva invia tramite loro un dono a
Glauce, che in realtà, grazie alle sue arti di Maga, ha trasformato in strumenti di morte. I
bambini tornano dalla loro missione: ora Medea sa che Glauce è perduta e che per portare
al suo ultimo stadio l'atroce vendetta che ha meditato deve uccidere i suoi stessi figli. Le
ragioni della vendetta e dell'amore materno si alternano e si scontrano in un grande
monologo. Giunge poi un messaggero che riferisce della terribile morte di Glauce e dello
stesso Creonte. Medea rientra in casa e dopo poco si odono le grida dei figli colpiti a morte.
Giasone accorso può solo esprimere la sua rabbia frustata, mentre Medea, sul carro del
sole, s'invola, portando con sé le salme dei figli.
Anche Medea deve misurarsi con la meschinità dell'uomo comune. La tragedia risulta
regolata da un perfetto rapporto tra gli accadimenti e il processo psicologico della
protagonista, che da quelli trae motivazione e a sua volta li provoca.
La tragedia è svolta in chiave esclusivamente umana, gli dei sono assenti.
Sviluppo di sentimenti che essa analizza con lucido raziocinio, proprio nell'alterno
compenetrarsi di passione e riflessione sta l'innovatrice grandezza del suo personaggio.
Il dramma si articola in una struttura a dittico: nella prima parte il desiderio di vendetta di
Medea è focalizzato contro i diretti responsabili della sventura; nella seconda parte il piano si
delinea in maniera atroce per colpire Giasone non nella sua persona ma nella sua
discendenza.
Chiave della tragedia è il cuore di Medea, personaggio caratterizzato da una diversità che la
rende sola ed emarginata. Medea presenta tratti comuni con i grandi eroi sofoclei, in
particolare con Aiace, con cui condivide sentimenti vissuti in modo esasperato: orgoglio, ira,
amore della gloria. Medea è modello di personaggio complesso, in cui raziocinio e
irrazionalità coesistono: la coscienza razionale non porta al bene e alla sua conseguente
attuazione, ma diviene strumento per rafforzare un impulso verso il male.
Medea è un grande personaggio, grande però alla maniera di Euripide, e quindi eccessiva,
mossa da istinti elementari e capace di presentare una gamma vastissima di stati d'animo.
Con questo personaggio il teatro di Euripide rivela quanto sia complessa e contraddittoria
l'identità di una persona. Nella Medea questo mondo interiore così psicologicamente evoluto
appare per la prima volta e si afferma con forza impressionante.
Quello tra Giasone e Medea lo possiamo anche leggere come uno scontro antropologico tra
culture e mentalità diverse, tra la cultura barbara e quella greca, tra la cultura maschile della
famiglia patriarcale e quella femminile delle passioni, tra la legge della città e quella della
natura, che opera nell'emotività di Medea.
Dietro le stragi della tragedia non c'è alcun progetto divino, alcuna giustizia che intervenga a
ristabilire l'equilibrio.
Gasone non è certo un personaggio esemplare: appare evidente anzi l'intento di presentarlo
in tono minore, poco più che un omuncolo opportunista

IPPOLITO
Trama:
Ippolito Incoronato è ambientato a Trezene, dinanzi alla Reggia di Pitteo, nonno materno di
Teseo. Nel prologo, Afrodite offesa per il dispregio in cui è tenuta dal giovane Ippolito,
unicamente dedito al culto di Artemide, annuncia che si vendicherà ispirando a Fedra,
attuale moglie di Teseo e matrigna di Ippolito, una passione irresistibile verso di lui. Dopo
una scena in cui vediamo il giovane, di ritorno dalla caccia, rinnovare la sua devozione ad
Artemide, viene trasportata in scena Fedra, oppressa da un morbo oscuro di cui la nutrice
chiede invano l'origine. Finalmente Fedra, sotto l'incalzare delle domande della nutrice,
confessa la causa della sua prostrazione. D'altra parte, vediamo proporsi l'altro versante del
personaggio di Fedra, la sua matura e robusta razionalità nel discorso che rivolge alle
donne di Trezene che compongono il coro. La nutrice cerca di ridimensionare il problema e
poi, di propria iniziativa, rivela Ippolito la passione della matrigna. Il giovane reagisce con
orrore e fugge dalla reggia, mentre Fedra, che ha udito, comprende che per lei è tutto
perduto e si impicca, ma non senza lasciare una lettera in cui accusa Ippolito di aver
attentato al suo onore. Quando la regina è stata deposta nel letto funebre, giunge Teseo e
scopre la lettera scritta dalla defunta. Tesio caccia via il figlio, che si protesta innocente ma
che d'altra parte tiene fede al giuramento, fatto alla nutrice, di non rivelare i veri motivi del
gesto di Fedra, e scaglia su di lui, come maledizione, uno dei tre desideri di cui suo padre
Poseidone gli ha promesso l'esaudimento: come racconta un messaggero, un gigantesco
mostro mandato da Poseidone fa imbizzarrire i cavalli del carro d'Ippolito, che resta
impigliato alle redini e viene mortalmente dilaniato. E’ portato in fin di vita dalla sulla scena,
dove Artemide, apparsa ex macchina, spiega a Teseo la verità e consola il giovane. Teseo
fonderà quel culto di Ippolito che era appunto celebrato a Trezene.

Afrodite per punire Ippolito che la preferisce ad Artemide, ha deciso di destare una passione
incestosa per lui nella matrigna. Con questo il problema della colpa è eliminato: Fedra non è
un' immorale, ma la vittima di una forza possente e irresistibile contro cui nessuno può
lottare. Anche lei al pari di Medea, porta alla rovina la sua casa, non però per una
consapevole volontà di vendetta, ma perché travolta da una forza oscura che annienta la
ragione: anche in lei è presente il conflitto tra le leggi che regolano la convivenza civile e le
forze istintive e primordiali. Fedra è una dei grandi personaggi del teatro tragico: entra in
scena fuori di sé, incapace di confessare il proprio segreto, poi lo rivela tra mille reticenze,
passando dalla vergogna alla speranza; infine quando viene respinta questo amore si
trasforma in una forza autodistruttiva che la porta al suicidio e causa la rovina di chi le sta
intorno. Ma in tutto questo l'eroina non è mai pienamente padrona di sé stessa. Al contrario
di lei Ippolito in nessun modo perde la sua gelida durezza, è un uomo a una dimensione,
che taglia via da sé il desiderio e la passione. Ma queste forze da cui lui si distacca anche
con un certo disdegno, finiranno con il ritorcersi contro di lui. I due personaggi hanno due
opposte concezioni della vita. L'una e l'altra sono unilaterali e quindi colpevoli: Fedra è
l'immagine drammatica di una soggezione totale alla naturalità dell'esistenza, che sopprime
la dimensione dello spirito; mentre in Ippolito si identifica la ripulsa della corporeità, esaltata
in una dimensione esclusivamente spirituale, ma la purezza che il giovane ostenta ha un che
di irriverente, nel rifiuto categorico di Afrodite con un estremismo che sconfina nella ubris e
che richiama l'analogo atteggiamento dell'Aiace sofocleo nei confronti di Atena.
Entrambi i protagonisti sono peccatori perché in modi diversi violano una legge della polis:
entrambi corrodono la cellula fondamentale della vita sociale, vale dire la famiglia.
Anche Teseo è un impotente in balia degli eventi e preda della sua ira.
Nessuno dei tre è malvagio o colpevole nel senso della piena responsabilità morale, ma tutti
e tre vanno incontro ad un destino infelice. Non c'è ragione che giustifichi questi fatti, ma
solo la consapevolezza che le radici della sofferenza e della follia sono dentro l'uomo.
La tragedia è aperta e chiusa da due figure divine, la prima distrugge, la seconda non salva
il suo prediletto. Il mondo divino e ostile o indifferente, la grandezza degli dei consiste nell'
atterrare un mortale o nel rivolgergli un distratto occhio pietoso quando ormai i giochi sono
fatti.
Il dono degli dei è un elemento del folklore ma nella tragedia ha un ruolo molto importante. Il
dono si trrasforma quasi sempre in sventura e fa parte della polemica euripidea contro la
divinità. Gli dei sono così lontani dagli uomini da non capire cosa è bene per loro.
Nell’Alcesti Apollo era così ammirato della potenza di Admeto che gli fa un dono: nel
momento della morte potrà vivere se qualcuno fosse disposto a farlo al posto suo. Ma
questo non è un dono perché la moglie Alcesti si sacrifica; la vita senza di lei è una tragedia.
La bellezza di Elena, dono degli dei, è una sventura. I doni non servono agli uomini. Lo
stesso dono della magia donato a Medea diventa strumento di morte. Il grande
cambiamento Euripide lo fa nel finale. Di solito la divinità salva il personaggio da questa
morte e poi viene ripristinata la sua innocenza. Qui non c’è lieto fine. La dea di Ippolito non
lo salva e lo dice le stessa “io non posso intromettermi nel volere di un altro dio”. Gli stessi
dei hanno quindi dei limiti da non superare, ma Artemide può solo intervenire dopo
dimostrando la sua innocenza e fondando un aition: a Trezene ci sarà un culto di Ippolito
attestato.

ECUBA
Trama:
Con la caduta di Troia Polidoro, figlia di Priamo ed Ecuba, è stato assassinato dal re tracio
Polimestore per impossessarsi impunemente del tesoro affidatogli in custodia insieme col
fanciullo, il corpo del quale, gettato in mare attende ora la sepoltura. La scena è collocata
nel Chersoneso tracio, durante una sosta della flotta greca imposta dei venti sfavorevoli e
nel prologo proprio l'ombra di Polidoro racconta della sua morte e annuncia la sorte che
incombe sulla sorella Polistena, il fantasma di Achille ha chiesto che si è sacrificata.
Scomparso Polidoro, entra in scena Ecuba angosciata da un sogno, una cerva sbranata da
un lupo, che lei sente riguardare i propri figli. La prima sventura che le viene annunciata è
infatti la decisione presa dai Greci di sacrificare sua figlia Polissena. Odisseo viene a
prelevare la fanciulla per il sacrificio e invano Ecuba lo supplica di risparmiarla. Ma Polistena
stessa interrompe la preghiera della madre, convinta di dover anteporre la morte al destino
di schiavitù che l'attende. Dopo il Commiato della giovane, l'araldo Taltibio riferisce della
morte di Polissena e dell'ammirazione che gli stessi nemici hanno provato dinanzi al suo
coraggio. Mentre Ecuba e le donne Troiane, che compongono il coro, apprestano le
esequie, viene introdotto un cadavere, che si scopre essere quello di Polidoro, rinvenuto
sulla riva del mare. L’ira suscitata dalla scoperta della misera fine del figlio di induce Ecuba
a chiedere la collaborazione di Agamennone per vendicarsi del traditore Polimestore.
L’avido assassino, mandato a chiamare da Ecuba, cade nel tranello che gli viene teso: col
miraggio di un altro tesoro entra disarmato nella tenda dove la vecchia regina e le altre
donne accecano lui e ne uccidono i figli. Invano Polimestore implora vendetta da
Agamennone: l’Atride si mostra solidale con Ecuba e a Polimestore altro non resta che
predire a costei la metamorfosi in cagna.

Sostanzialmente è una tragedia minore. È strutturata a dittico: ma questo schema ha


soprattutto attinenza con la duplicità dell'azione, mentre in entrambe le parti campeggia la
figura dolente di Ecuba. Da un lato vi è il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille,
dall'altro la vendetta di Ecuba nei confronti di Polimestore per l'assassinio di Polidoro.
Comunque vi è un impegno a saldare in unità compositiva le le due vicende, e ciò è
riconoscibile in vari tratti: l'apparizione dell'ombra di Polidoro già nel prologo.
Il tema della guerra, non più in chiave patriottica ma come occasione per mostrare gli aspetti
più atroci e violenti della personalità umana.
Nell'Ecuba le vittime sono gli innocenti: Polidoro è vittima del calcolo cinico di un uomo che
avrebbe dovuto essergli amico, Polissena, sgozzata da chi pensa di poter disporre
liberamente della vita altrui; i figli di Polimestore, innocenti delle colpe del padre. La si
direbbe quindi una riflessione sul potere e sulla legge del più forte, ma su questa trama
Euripide innesta la vendetta di Ecuba, che è quindi il cuore di questa tragedia. Ed è
indubbiamente una delle grandi figure femminili euripidee: la vecchia regina è una donna
piegata e umiliata, ma capace di trarre dal suo dolore la ferocia e la vendetta, una vendetta
però fine a se stessa, senza riscatto ho speranze. È un personaggio che cambia e muta
sulla scena, oltrepassando la sottile linea che divide la disperazione dal furore e dal
desiderio di vendetta.
TROIANE
Trama:
Nel prologo Poseidone e Atena preannunciano la catastrofe che distruggerà la flotta greca
durante il ritorno e disseminerà di cadaveri le acque dell’Egeo. Poi la scena, collocata nel
campo greco dinanzi a Troia ormai conquistata, vede le donne troiane sorteggiate come
schiave insieme con Ecuba. L'araldo Taltibio viene ad annunciare ad Ecuba quale sorte
attende lei e le altre prigioniere: l'attenzione si appunta su Cassandra, la profetessa di
Apollo, assegnata ad Agamennone come sua concubina. Cassandra in preda al delirio,
intona un lugubre canto nuziale predicendo le sventure che attendono lei e il suo padrone al
ritorno in Grecia. Poi, dopo che Ecuba ha lamentato la fine dell'immenso potere della sua
famiglia, Andromaca esprime il suo desiderio di morire, ora che è stata assegnata al figlio
dell'uccisore di Ettore, Neottolemo. Ecuba la esorta sopportare la sua sorte per il bene del
figlio, ma proprio il piccolo Astianatte viene sottratto alla madre, dato che i greci dietro
consiglio di Odisseo, hanno deciso di gettarlo dalle mura di Troia e temono che il figlio di
Ettore possa diventare un guerriero ancora più forte di lui, e vendicare il padre. Quando si
presenta in scena Menelao, che sembra convinto di punire Elena finalmente riconquistata,
Ecuba lo esorta a guardarsi dal fascino di lei. Ed è proprio Ecuba a confutare l'autodifesa
della donna: Elena non è, come vorrebbe sostenere, una vittima di Afrodite, anzi chiama col
nome della dea ciò che non è altro che la sua lussuria. Attratta da Paride e dalle ricchezze
Troiane, lei lo ha seguito di sua volontà, anche se ora invoca la gara di bellezza fra le tre
dee e il giudizio favorevole ad Afrodite da parte di Paride come causa prima delle sventure
della guerra. Menelao sembra concordare con Ecuba e acconsente di far viaggiare Elena su
un’altra nave: è chiaro però che gli sia bastato rivederla per rimanerne ancora irretito. La
tragedia si chiude con la disperazione di Ecuba, alla quale toccano, dopo la partenza di
Andromaca, le esequie del nipote Astianatte: la madre ha chiesto per lui che venga sepolto
sotto lo scudo di Ettore e il pianto di Ecuba sottolinea lo stravolgimento di un ordine naturale
che avrebbe previsto che fosse piuttosto nipote a rendere onore alla sua tomba. Il dolore
della regina sembra trovare, come unica soluzione quella di lanciarsi tra le fiamme della
città. Ma, mentre Troia crolla, lei viene avviata insieme con le altre donne verso le navi che
la condurranno alla schiavitù.

Euripide scrive questa tragedia quando Atene si cingeva alla catastrofica spedizione in
Sicilia, 415, come sgomenta ripulsa degli orrori cui porta la sintesi dominio e come
lamentazioni sui vincitori e sui vinti. E se la prospettiva è collocata dalla parte degli sconfitti,
come i Persiani di Eschilo, ciò non accade per celebrare il valore e le ragioni di chi ha
trionfato, ma per portare il dolore prodotto dall'empietá degli uomini a un livello estremo di
pathos.
La tragedia è pressoché priva di azione.
Il poeta dimostra una sensibilità innovativa nell'affrontare il tema della guerra senza nessuna
concessione ai valori della tradizione eroica.
Il monito di Euripide non è soltanto morale. Tutta la tragedia è intessuta della
consapevolezza che la guerra è una dannazione anche per i vincitori. Già nel prologo
Poseidone e Atena concertano la disastrosa tempesta che annienterà la flotta greca; il
delirio di Cassandra è puntualmente presagita la morte di Agamennone.
Ma il disegno divino non è che il simbolo di una necessità storica, che vede nella violenza e
nella prevaricazione un sistema di potere, di cui gli stessi responsabili finiranno per essere a
loro volta vittime: come sarebbe accaduto agli Ateniesi.
E d'altra parte la condanna della guerra e della conquista è a sua volta la denuncia di un
dolore universale, che costituisce una tonalità di fondo della tragedia.
Potremmo dire che con questa tragedia, in apparenza cupa e senza speranza, Euripide
trasmette quasi un messaggio pacifista intriso di profonda e drammatica forza morale.
Questa tragedia è innanzitutto una lucida riflessione sui temi della violenza e della guerra in
generale.

ERACLE
Trama:
Il tema centrale è crollo dell'uomo dai sommi fastigi della gloria alla degradazione più
umiliante.
Qui compare ancora il motivo dell'encomio di Atene nella figura del suo massimo eroe
Teseo, che compare solo nella conclusione dell'opera ma che definitivamente salva il
protagonista assumendo il ruolo del deus ex machina. Al tempo stesso, il suo intervento
riconduce la vicenda a una dimensione umana. Gli dei esistono, e i loro emissari
soprannaturali compaiono sulla scena; ma viene negata la tradizione che li caratterizza
antropomorficamente, e all'opposto si afferma la capacità dell'uomo di ritrovare in sé il senso
e la responsabilità della propria esistenza. Forse mai come in questo dramma Euripide ha
espresso la crisi che c'era nella sua epoca, scissa fra il residuo delle credenze tradizionali e
la rivendicazione dell'autonomia dell'uomo.
L'arco della tragedia vede Eracle trasformarsi da eroe sovrumano a uomo, lungo
un'esperienza che trova un'intima unità drammatica nel significato del suo destino,
interpretato non più come un segno dell'irrazionale pena di esistere, ma come l'ineluttabile
alternanza delle sorti umane, che va riconosciuta e accettata.
L'intervento pietoso di Teseo, che conforta l'amico inducendolo a rinunciare alla prospettiva
del suicidio, propone un'ipotesi di accettazione del destino e di coraggio di vivere che apre
uno spiraglio sia pur esiguo di umanistica fiducia nelle risorse della persona in quanto
capace di sottrarsi alla morsa in cui gli tenderebbero a soffocarlo.
Infatti alla morte pensa anche Eracle, dopo essere tornato in sé e aver appreso dell'orribile
strage compiuta; tuttavia la sua decisione finale di sopravvivere, l'amicizia e l'aiuto che
accetta da Teseo sono altrettanto segnali che dimostrano come Euripide abbia voluto
sganciare l'eroe dal mondo tradizionale del mito, per reinserirlo in un ambiente più
quotidiano, dove bene e male sono mescolati e l'uomo è in totale balia di un destino
imprevedibile, che ora lo esalta ora lo atterra. In questo senso, è significativo il tema dalla
filantropia introdotto da Teseo: soltanto nella solidarietà di altri uomini un individuo sofferente
e piegato può trovare riscatto. Gli dei invece sono assenti o ostili (la follia di Eracle è infatti
inviata da Era), proprio come nell'ippolito.

BACCANTI
Trama:
il dio rivela nel prologo di essere venuto a Tebe, patria di sua madre Semele, oltre che per
introdurvi il culto bacchico, per punire le sorelle di lei, fra le quali Agave madre di Penteo,
per aver dubitato della sua origine Divina: per questo ha infuso il loro e nelle altre donne
tebane un invasamento che le ha indotte a lasciare le case e a correre verso il Citerone.
Dopo una scena in cui le ragioni del nuovo culto sono difese contro Penteo da suonano
Cadmo e dall'indovino Tiresia, il re fa chiudere in carcere lo straniero sotto le cui sembianze
si cela Dioniso. Questi però si libera dalle catene provocando un terremoto che scuote il
palazzo e riescie a convincere Penteo, più che mai deciso a ricondurre all'ordine le nuove
baccanti tebane, a recarsi travestito da donna sul Citerone. Così Penteo segue Dioniso sul
Citerone, verso l’anfratto dove le menadi sono raccolte, ma là, come apprendiamo nel
racconto del messo, viene abbandonato dal dio alla furia delle donne invasate, che lo
vedono come un leone. Ed è proprio sua madre Agave che nella esaltazione conficca la
testa del figlio su un tirso e mostra le compagne la macabra preda. Nella parte finale della
tragedia, che ci è pervenuta lacunosa, compare Agave, ancora in preda a uno stato di
allucinazione, reggendo sul Tirso la testa del figlio: il suo progressivo riprendere coscienza,
di fronte alla rivelazione della verità a cui la guida pazientemente il padre Cadmo, riduce la
donna ad uno strato stato di estrema disperazione. Infine appare Dioniso stesso, che
condanna Agave e le sorelle all'esilio e annuncia a Cadmo che sarà trasformato in drago e
sposerà Armonia, ma la tragedia si chiude sulle accuse al Dio di eccessiva durezza e di
comportamento troppo simile a quello di un mortale i sui lamenti di Agave e Cadmo, che
abbandonano la città.

La crisi della ragione è il motivo conduttore delle baccanti, ma a fronteggiare l'intelletto


umano non sono qui i sentimenti ma il mistero del divino, secondo l'originaria concezione
tragica. Si tratta dell'unica tragedia tra quelle che ci sono giunte, che abbia un dio come
protagonista.
Penteo è campione della razionalità assoluta, poi accecato da una smania di conoscenza
che si traduce in rovinosa follia; e ad ispirare il suo delirio è Dioniso.
Le Baccanti presentano il retaggio di errore e dolore che appartiene all'uomo Penteo,
travolto dalla ubris di credersi autore del suo destino e di quello dei suoi cittadini e di voler
conoscere l'inconoscibile. In questa tragedia Euripide misura la distanza che intercorre tra
l'umano e il divino.
Il dio domina radioso nel mistero della sua smisurata forza, e Penteo appare dapprima
chiuso nell'orgoglio della sua ragione, e poi domato da una smaniosa follia. Ma questa
metamorfosi non incrina la coerenza di un carattere sempre pervaso dalla volto e dominare
ciò che gli si sottrae.
Al centro dell'opera sta soprattutto una dimensione della psiche da cui Euripide fu
profondamente attratto nel corso di tutta la sua carriera di drammaturgo: vale a dire la follia,
l'operare sotterraneo di forze cieche e possenti all'interno della mente umana, che ne è
contemporaneamente attratto e travolta. In effetti l'attenzione con cui vengono descritte le
modalità della trasformazione di un personaggio e l'indagine sui fenomeni dell'irrazionale
sono i temi più profondi della tragedia e insieme anche un po' il motore che anima le scene
più notevoli del dramma.
Alla fine del dramma appare il dio che dice che se avessero imparato a essere più modesti
ora sarebbero salvi.
Nella tragedia si gioca molto sul tema del doppio: il doppio confonde, distrae, fa vacillare le
certezze di un mondo governato dalla verosimiglianza.

Potrebbero piacerti anche