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Il senso che il teatro aveva per i Greci è oggi di difficile comprensione per come noi siamo
abituati a vedere il teatro. Lo Stato infatti si assumeva il peso di quell'iniziativa culturale perché
riconosceva la funzione civile del teatro, come modo di cementare la comunità. Essa, infatti,
vedeva riflessa a teatro i miti del proprio patrimonio culturale e mitologico. Gli spettacoli si
inserivano in una struttura agonale (da agone, gara a premio) fra tre autori, ciascuno dei quali
faceva rappresentare una tetralogia, composta da tre tragedie e da un dramma satiresco.
Ci è giunta una sola trilogia tragica, l'Orestea di Eschilo, che presenta una concatenazione
organica delle tre tragedie: Agamennone (l'uccisione di Agamennone ad opera della moglie);
Coefore (l'omicidio della moglie Climetestra e del suo amante Egisto, per opera del figlio);
Eumenidi (che si concludono con l'assoluzione di Oreste per aver ucciso la propria madre).
Ma questo è solo il prologo. La dichiarazione più dura di Apollo verso il genere femminile arriva
dopo: “Il padre può generare senza la madre”. E' il maschile a generare, a dare la vita; in prima
approssimazione si può anche accettare la collaborazione del femminile (pur ridotto ad una specie
di “vaso”) ma in seconda approssimazione la potenza generatrice del maschile è totalmente
autosufficiente. L'esempio che porta Apollo è quello della nascita di Atena: che nasce, ma nasce
dal cervello di Zeus, non ha bisogno di essere nutrita da un ventre.
Da notare che le Erinni non replicano a questa affermazione: il principio di superiorità del marito
non è messo in discussione da nessuno, tanto meno da loro.
In realtà il fatto che Apollo citi proprio la nascita di un'altra dea che protegge Oreste la dice lunga
sul fatto che il gioco è truccato. Atena, infatti, è al tempo stesso colei che istituisce il Tribunale,
sceglie i giudici ma anche colei che parteggia per l'imputato: “Oreste vincerà anche se giudicato
a parità di voti”.
Quindi il gioco è truccato dall'inizio, sin da quando Apollo invia Oreste al tempio di Atena, la
quale “si offre” come arbitro della contesa tra lui e le Erinni.
Il quasi pareggio finale, sul quale deciderà il voto di Atena, serve per non umiliare le Erinni e così
da consentire l'operazione finale del loro recupero da parte di Atena (verranno accolte tra le
divinità protettrici e cambieranno il loro nome in Eumenidi, cioè le benevolenti).
Si capisce quindi che Climetestra è un modello di donna scandalosa: durante i 10 anni di assenza
di Agamennone si è presa un amante, Egisto, col quale convive pubblicamente; ha spedito Oreste
lontano da casa. Tuttavia con ella, Eschilo crea una figura complessa e ricca di sfaccettature: è il
primo grande personaggio femminile nella storia del teatro d'Occidente. L'autore, infatti, ci
mostra la sofferenza di Climetestra rispetto a un uomo che le ha ucciso la figlia, Ifigenia, ma ci
mostra anche la sua gelosia pungente per le umiliazioni subite.
Se pensiamo alle tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione, ci accorgiamo che con
Eschilo queste unità non sono rigide. L'Agamennone inizia nel cuore della notte con l'annuncio
della caduta di Troia e nel corso della tragedia arriva direttamente in scena Agamennone: si ha
dunque una forzatura dei tempi.
In ogni caso i teorici classicisti del Rinascimento trasformano quella che in Aristotele era una
semplice constatazione in un obbligo, in criteri normativi estremamente rigidi.
Anche la divisione in 5 atti non sembra risalire ad Aristotele: Orazio, nella su Ars poetica, scrive
che il dramma non deve essere né più corto, né più lungo di 5 atti.
Dal punto di vista dei contenuti tutti e tre i grandi tragici (Eschilo, Sofocle e Euripide) attingono
tutti dallo stesso materiale drammaturgico. Soltanto il mondo greco, privo della fede in una
giustizia divina che assicuri nell'aldilà premi e castighi, poteva inventarsi la tragedia che ha al
centro il tema del dolore come conseguenza di un destino imperscrutabile, chiamato fato. A lui
non si può fuggire.
Nel più giovane dei tre, Euripide, si avverte già un clima più disincantato. In lui l'interesse si
concentra sulla personalità umana, sulle motivazioni psicologiche, sentimentali, del suo agire. In
più spesso crea tragedie a lieto fine, sperimentando una “mutazione genetica” della tragedia
classica.
Un buon esempio è offerto da “Ifigenia in Aulide” dove protagonista è il solito Agamennone, ma
presentato come assolutamente inadeguato al ruolo di condottiero. Egli è diventato duce della
spedizione contro Troia ma per motivi assolutamente personali e di autoaffermazione e quando
risulta impossibile salpare per mancanza di venti, entra in crisi: soffre di dover rinunciare
all'impresa. Appena però l'indovino Calcante dichiara che occorre placare la dea Artemide con un
sacrificio umano, si offre di immolare la propria figlia Ifigenia.
Tuttavia quando la tragedia si apre egli ha già scritto la seconda lettera per impedire che Ifigenia
venga in Aulide: egli è comicamente oscillante fra ambizione e scrupoli, fra desiderio e paura;
egli fa e dis-fa con l'incoerenza accettabile nell'uomo normale, non nel comandante. Il peggio
arriva quando Ifigenia e Climetestra arrivano e scoprono la verità. Il clima, insomma, è quello
degli imbrogli tipico della commedia. Lo stesso Achille è lontano dal profilo alto dell'eroe:
sembra difendere Ifigenia ma in realtà difende solo sé stesso. Siamo di fronte a tutta una serie di
maschi insicuri, maschi in carriera, che però riescono a far carriera solo sulla pelle delle donne:
Agamennone vuole confermarsi capo uccidendo Ifigenia, Achille vuole diventare un dio
impedendo che ella sia uccisa. Uno la vuole morta, l'altro viva: ma nessuno si interessa a lei, è
solo il prezzo, lo strumento. E Ifigenia si rassegna, lasciandosi plagiare totalmente dall'ideologia
dei maschi e alla fine accetta di morire dichiarando che la vita di un uomo vale quella di infinite
donne.
Un indugio più ravvicinato lo merita anche la Poetica di Aristotele. Egli individua il modello di
tragedia perfetta nell' Edipo Re di Sofocle. “E' il caso dell'uomo che senza distinguersi per virtù e
giustizia, cade nell'infelicità”.
Un primo dato che emerge dalle riflessioni sulla tragedia nella Poetica è la qualità sociale dei
personaggi tragici: i protagonisti sono tutti re, principi, condottieri, nettamente al di sopra dei
popolani; lo stesso Aristotele dice che la tragedia mette in scena uomini “superiori”.
Un secondo dato che emerge riguarda la catarsi: questo termine è usato frequentemente da
Aristotele, quasi sempre nel senso di purificazione, ma non una generica purificazione dalle
passioni, solo da pietà e terrore. C'è infatti solo un verbo connesso alla tragedia ed è perainusa,
che conduce a termine, suscita, produce. Un solo verbo che innesca da un lato pietà e terrore e
dall'altro lato, la purificazione di questi stessi. La catarsi come elemento della crisi e come motore
risolutore di essa.
Un terzo dato da notare è sicuramente il fatto che sì, noi ci immedesimiamo con i personaggi, ma
li avvertiamo comunque come appartenenti ad un' altra razza di uomini: tutti gli intrecci delle
tragedie sono troppo estremi per essere concepiti come “normali”. Forse è perché la civile e
democratica società ateniese è segretamente e inconfessabilmente attratta da queste storie.
Un quarto e ultimo dato va fatto presente. Una lunga tradizione critica ha ritenuto di vedere in
Aristotele il fermo difensore del valore letterario del testo teatrale, come se per lui ciò che
contasse fosse essenzialmente il testo e non lo spettacolo teatrale. In realtà dobbiamo tenere di
conto che la Poetica è stata scritta tra il 334 e il 330 a.C. , cioè nello stesso periodo in cui si
cercava di arginare le libere interpretazioni degli attori nelle repliche degli spettacoli. Quindi
Aristotele scrive quello che scrive solo per evitare le degenerazioni di un attivismo scenico
dominante e ormai troppo imperante.
Egli infatti riconosce che il piacere causato dai sensi, da ciò che uno vede, ha un effetto più
coinvolgente del mero testo. Riconosce, insomma, la fascinazione del teatro fatta di testo ma
anche di attori, di danzatori, di musicanti e di scenografi.
Per l'appunto nel capitolo IV Aristotele ci parla della scenografia, dicendoci che è stato Sofocle il
primo a introdurla quale “decorazione della scena”; e nel capitolo VI, quando enumera le 6 parti
costitutive della tragedia, il termine che apre l'elenco è opsis in quanto è la rappresentazione
scenica a contenere gli altri 5 restanti elementi. Non parla, però, solo di opsis, bensì di opseos
kosmos ovvero “ordine della rappresentazione scenica”: lo spettacolo, insomma, è una macchina
ordinata.
Resta da dire della commedia che, non meno della tragedia, esprime lo spirito della società
ateniese anche se il suo affermarsi arriva un po' in ritardo rispetto alla tragedia. Le origini vanno
di nuovo cercate nelle cerimonie di fertilità , per la Poetica la commedia deriva “da coloro che
guidano le processioni falliche”: il termine “commedia” discenderebbe da komos,corteo festivo.
Già gli antichi filologi distinguevano la commedia “antica” di Aristofane, da quella di “mezzo” e
dalla commedia “nuova” di Menandro. La prima presenta trame molto vaghe: un semplice filo
intorno a cui si annoda tutta una serie di spunti satirici, gli attori impersonano delle figure
buffonesche. In quella di Menandro è dominante la dimensione domestica, urbana, con al centro
la storia d'amore di un protagonista giovane, contrastato dai genitori; alla fine scatta spesso il
meccanismo dell'agnizione, cioè del riconoscimento: padri che ritrovano figli rapiti da piccoli,
ecc...
In merito al teatro latino, dobbiamo subito constatare come esso ripeta sostanzialmente i modi e i
contenuti del teatro greco, tuttavia per i Romani il teatro non ebbe mai questo rapporto di
profonda adesione alla vita della società e fu un fenomeno di importazione che interessava
un'elitè. Non a caso la tragedia fu quasi trascurata, mentre grande successo ebbe la commedia.
I due autori più significativi furono Plauto e Terenzio. Nel primo c'era una vivacità farsesca e una
duttilità satirica notevole, mentre nel secondo c'era maggior raffinatezza psicologica. Nel prologo
di una sua commedia Terenzio affronta l'accusa di plagio nei confronti dei modelli greci e
ammette di essersene servito secondo la contaminatio, di avere cioè “contaminato” parecchie
commedie greche per comporne poche in latino. Un posto a parte merita Seneca, filosofo e autore
di una serie di tragedie. Con lui ritornano gli stessi temi della tragedia greca, ma con
un'angolazione nuova, esasperata, che attinge al macabro, al mostruoso e che risente delle fasi più
drammatiche dell'Impero. Non manca tuttavia in Seneca la ricerca di un approccio originale sia
pure a partire da personaggi e vicende della tradizione classica.
In conclusione si può dire che il teatro classico fonda un modello di drammaturgia che resta
decisivo nella storia dello spettacolo occidentale, perché ne fissa alcuni tratti caratteristici: la
semplicità della trama, il numero limitato dei personaggi, la separazione degli stili, le famose
unità di tempo e luogo.
2- La scena medievale
Ben poco di ciò che oggi, ai nostri occhi, costituisce la normale prassi dello spettacolo
caratterizza invece il teatro medievale.
La scena medievale si manifesta tra il IX e il XIV secolo in fenomeni di teatralità diffusa che
permeano l'intera società dell'epoca: la sua fisionomia si presenta infatti quasi sempre come
espressione ludico-simbolica delle istanze che regolano i processi sociali. Si spiega così la stretta
interdipendenza tra scena medievale e ritualità: entrambe erano azioni finalizzate al
rafforzamento dell'identità sociale tramite performances, dove lo spettacolo è più un atto
comunicativo in cui riconoscerci che un atto estetico a cui assistere. Perciò il teatro medievale
non poteva caratterizzarsi che come teatro religioso, religioso non in senso spirituale ma come
una visione complessiva della vita umana, salvata dall'evento dell'incarnazione di Dio in Gesù
Cristo. Se Cristo ha reso visibile ciò che di per sé sarebbe invisibile (non rappresentabile), scopo
del dramma sarà pertanto rievocare quegli eventi fondamentali → un teatro della memoria dove
rappresentare significherà ri-presentare.
Si capisce allora l'opposizione della Chiesa al teatro precedente. Il cuore della polemica sostenuta
dai Padri della Chiesa non riguarda tanto la rappresentazione in sé quanto i ludi tardo imperiali
che, anziché fare memoria della verità, la alterano: imitano il falso (i miti, le passioni degli dei e
degli eroi) e lo mostrano come verità.
Una volta definita la cornice teorica è più facile descriverne tempi, luoghi e modalità
rappresentative. Innanzitutto i ritmi erano quelli festivi del calendario religioso, in particolare
Natale e Pasqua con i rispettivi tempi di preparazione e sviluppo, poi le ricorrenze dei santi e le
feste come il Corpus Domini.
Tra queste feste emergono le evidenze spettacolari con i cosiddetti drammi liturgici: tra i più
celebri il Quem quaeritis (“chi cercate”), un ampliamento del canto che, il giorno di Pasqua,
raccontava la venuta delle tre donne al sepolcro di Cristo. Ciò che interessa in termini teatrali non
è il testo ma la rappresentazione che ne scaturiva: lo spazio della chiesa si trasformava nel luogo
santo, l'altare diventava il sepolcro, un monaco faceva l'angelo.
Analoga fioritura di drammi liturgici si riscontra in altre feste e soprattutto nel tempo di Natale.
La varietà delle occasioni si accompagnò nel tempo a una sempre maggiore dilatazione creativa
dei racconti e delle azioni e alla moltiplicazione degli spazi scenici ( sedes ). Nel ludus pasquale
del Peregrinus, la vicenda dei due discepoli di Emmaus teatralizza l'intera area della Chiesa.
Altrettanto suggestiva l'evoluzione dei drammi natalizi, in particolare quelli connessi alla figura
di Erode e all'episodio della strage degli innocenti.
Ci si trova davanti a una teatralità estremamente viva e dinamica che usciva spesso dai registri
alti e disciplinati della liturgia canonica, accogliendo contaminazioni profane. La badessa di
Landsberg, autrice di un testo famoso, loda le “buone consuetudini” del teatro devozionale e
subito dopo lamenta “l'impudicizia irreligiosa e dissoluta” di alcune rappresentazioni, come
quelle di Erode: “non succede mai che si finisca senza gravi tumulti di risse e di liti”.
Quest'ultimo aspetto sottintende una cosa cruciale: nonostante infatti la chiesa avesse tentato di
cristianizzare la società, sostituendo gradualmente i culti pagani, non era riuscita ad estirparli del
tutto. Nei casi in cui non si era riusciti a scalzare la memoria dell'antico patrimonio magico
religioso, questo riaffiorava assumendo spesso (come nel caso di Erode) le forme del comico,
della parodia e del grottesco: espressioni di un sentimento collettivo di trasgressione e carnalità.
Ne sono esempio le feste dei folli e il carnevale.
Le cosiddette “feste dei folli” ereditano dal mondo pagano gli aspetti tipici dei rituali invernali di
passaggio, legati alle celebrazioni del Capodanno: da una parte emergono l'ansia e l'angoscia
della fine, dall'altra i buoni auspici per il futuro, evidenziati dall'esuberanza vitalistica della
trasgressione e della sessualità e dall'offerta di doni. Tutto ciò viene riconvertito, in età medievale,
in un ciclo di 12 notti successive al Natale, incentrate sulla simbologia dell'infanzia che, in nome
della purezza, contemplava comportamenti affini a quelli della follia.
Ne sono esempi le ricorrenze dei santi Innocenti (28 dicembre) e della circoncisione di Gesù (a
Capodanno) dedicate ai giovani chierici che festeggiavano la loro esuberanza giovanile con azioni
irriverenti all'interno della Chiesa stessa. Veniva, ad esempio, eletto un vescovo bambino che
aveva tutte le prerogative di un vero vescovo e, analogamente, si parodiava la liturgia, ci si
travestiva, oppure venivano esaltate figure evangeliche basse e umili come l'asino. Parallelamente
l'offerta dei doni era stata riassorbita, insieme alla follia, nella festa dell' Epifania, nella vicenda
dei Magi.
Analogamente alle Feste dei Folli, anche il Carnevale è una tipica festa di inversione dell'ordine
stabilito, dove a trionfare sono il comico e il grottesco. Un'esplosione di istinti e eccessi
vitalistici. Il carnevale, quindi, come esaltazione del corpo, mantenne nel Medioevo la sua
autonomia, affermandosi come la festa popolare di trasgressione più celebrata in tutto l'anno.
Tra i linguaggi teatrali più utilizzati spiccano in questo contesto i modelli del mascheramento e
della farsa.
Un rapido processo di accelerazione della diffusione della teatralità popolare si ha a partire dal
XII secolo, anche grazie alla nascita, sul versante religioso, degli ordini mendicanti. Essi, infatti,
volevano rompere i confini elitari e vecchi del sistema ecclesiastico per coinvolgere il popolo. Il
risultato fu una consapevolezza, da parte di questi soggetti, della loro autonomia: sul piano civile
con le corporazioni e sul piano religioso con le confraternite.
Dal punto di vista teatrale la conseguenza più importante di questo processo fu l'aumento dei
destinatari degli spettacoli e la loro connotazione sempre più laica e aperta della città. Sul
versante strettamente religioso, invece, tale rinnovamento si identifica soprattutto con l'ingresso
dei laici nella gestione diretta di alcune paraliturgie teatrali. Ad es: il modello spettacolare
proposto dal movimento confraternale dei Flagellanti → un'assimilazione alla sofferenza del
L'avvento dei laici, il passaggio dal latino al volgare e la contaminazione sacro/profano portarono
alla maturazione, tra XV e XVI sec., della grande spettacolarità tardo-medievale: si assiste
all'incremento di testi in volgare molto lunghi e articolati; gli allestimenti che ne venivano fuori
erano eventi straordinari e non a cadenza annuale → la rilevanza dell'impresa coinvolgeva tutte le
istituzioni e le maestranze cittadine ed era sovrintesa da una figura proto-registica di
coordinatore. La scena era ancora strutturata per mansiones, ovvero luoghi deputati, ma il loro
numero si era moltiplicato; allo stesso modo l'aspetto scenografico si presentava molto più
elaborato in termini visivi, al fine di colpire i sentimenti e la partecipazione emotiva del pubblico.
Assai rilevante anche la strutturazione dello spazio scenico che prevedeva la presenza simultanea
di tutti i luoghi deputati, collocati su carri o palchi disposti in base alla conformazione della
piazza → in modo che il pubblico potesse vedere lo spettacolo da più punti di vista.
Vi erano soprattutto cicli performativi su Passioni, Pietà e Miracoli e sulla scia delle Passioni si
erano imposte in questo periodo anche spettacoli legati al Corpus Domini. Infine vanno
menzionate le cosiddette Moralità, dispute tra diverse personificazioni di vizi e virtù.
Oltre, però, alla dimensione collettiva della spettacolarità medievale, bisogna dire che esiste
anche una storia del professionismo teatrale medievale, di cui furono protagonisti i giullari.
Distinguere la loro reale identità dalle ricostruzioni fantasiose non è facile, a partire dalla stessa
denominazione: saltimbanchi, buffoni, ecc... Ma è proprio in questa continua oscillazione tra
indistinzione e specializzazione che si gioca la questione dei giullari → La loro identità diventa,
infatti, tanto più certa e sicura quanto più queste figure riescono ad ottenere un riconoscimento
del loro lavoro a livello sociale, sottraendosi al mondo d'incertezza che li accomunava a
mendicanti, vagabondi, parassiti e truffatori. Tale era infatti la condizione degenerata degli
intrattenitori, agli occhi delle istituzioni e della Chiesa in particolare.
Su tutti costoro pesava quindi la condanna all'infamia, che rendeva la professione attoriale
moralmente sconveniente: vagus, vanus e turpus erano i tre aggettivi affibbiati al giullare →
girovago; vano, ossia improduttivo; turpe, nel senso che la sua azione mimica corrompeva gli
animi.
Per contro ci furono tentativi da parte di giullari più colti di emanciparsi: i veri compositori
potevano essere chiamati “trovatori”, chi eseguiva i componimenti altrui era un “giullare” →
viene così sancita la suddivisone tra autori e interpreti.
Un altro strumento di emancipazione era la collocazione a corte: è il caso dei giullari come
menestrelli, oppure dei classici buffoni, presenze di un intrattenimento associato alla follia e alla
deformità.
In questo difficile contesto professionale, il bisogno di sicurezza portò i giullari a riunirsi talvolta
in proto-compagnie oppure in vere e proprie confraternite a sfondo religioso.
La questione del giullare evoca l'importanza dell'interazione tra ambiente nobiliare e sfera
religiosa, in quanto i nobili sviluppano una propria ritualità spettacolare, riconducibile anch'essa
ala dimensione celebrativa della festa. Ne sono testimonianza gli spettacoli per le nascite, i
matrimoni, i funerali, i banchetti.
Infine, da citare, è il modello più noto: quello dei tornei. Il torneo medievale, per l'avversione
della chiesa e per l'influsso della cultura cortese, si sposta gradualmente su forme di
combattimento sempre meno violente: la disputa tra cavalieri, quindi, si consuma non tanto in un
reale duello ma in un gioco di abilità finalizzato alla conquista della dama (come figura d'amore e
virtù). E ciò favoriva sicuramente l'inserimento nel torneo di contenuti e trame tratti dall'epica
romanza.
Se lo spettacolo medievale riguarda una comunità, quello rinascimentale delle corti si rivolge a
un'elitè. Siamo davanti a un fenomeno nuovo → la privatizzazione del teatro. Infatti il passaggio
dal Medioevo all'Età moderna segna anche l'ascesa della borghesia, che aveva il suo centro nella
città. Il teatro, quindi, segna il potere delle nuove classi dirigenti.
Ma la differenza tra il teatro in piazza (Medioevo) e quello nelle corti (Età nuova) non si risolve
unicamente nei diversi contenuti (religioso o laico) o nel diverso pubblico. Innanzitutto la
scenografia rinascimentale unifica il luogo dello spettacolo in un quadro solo (quella medioevale
ne presentava più di uno); poi rappresentava sistematicamente la città, una città astratta, con
edifici generici → le città riprodotte sono, infatti, sempre perfette poiché rappresentavano la città
del principe, un riflesso dell'ordine e della stabilità.
In più nella scena medievale non vi era la prospettiva → nella scena prospettica c'è un unico
fuoco, un unico punto centrale, così come nella città rinascimentale vi era un solo centro di
potere, il principe.
L'importanza del rappresentare la città si evince anche dal fatto che i testi drammaturgici variano,
mentre spesso la scenografia resta la stessa: non conta tanto la vicenda, quanto l'esaltazione del
vivere urbano che ha nel principe il suo reggitore politico.
Il teatro resta comunque, nel Rinascimento, un'attività marginale. E' il caso dell'Ariosto, ma pure
di Machiavelli, e la Calandria è l'unico frutto letterario che abbia composto il diplomatico e
uomo politico Bernardo Dovizi, detto Il Bibbiena. Inoltre non c'è ancora lo scenografo, diciamo
che c'è lo spettacolo ma non ci sono ancora le professioni dello spettacolo. Ugualmente i recitanti
non sono attori ma generici cortigiani.
Se, ad esempio, prendiamo la lettera in cui Baldassare Castiglione relaziona sulla prima
Calandria, notiamo che si parla molto poco della trama e molto di più dell'apparato e degli
intermezzi. Questo perché l'elemento dominante è l'eccezionalità della visione, l'eccellenza della
costruzione inaspettata, straordinaria, che sorprende e stupisce. Il teatro del Rinascimento nasce
sotto il segno di questa componente visionaria.
In fondo, però, ciò che tende a imporsi da questo punto in poi è la visione frontale che separa
nettamente spettatori e attori. C'è una superiorità gerarchica e morale in chi guarda rispetto a chi è
guardato.
E' sintomatico che la cultura del Rinascimento, che riscopre Plauto, Terenzio e Vitruvio, non
riesca a convincere il principe della necessità di costruire edifici teatrali. Sono infatti solo della
fine del '500, il teatro Olimpico di Vicenza e il teatro di Sabbioneta → gli umanisti riscoprono il
valore fondante del teatro come cemento della comunità e chiedono la creazione di teatri stabili.
Ma il Principe respinge l'edificio teatrale e conserva la consuetudine del luogo teatrale.
Ricordiamo, infine, che ciò che conta non è la commedia, quanto la scenografia, come afferma
Bernardino Prosperi. Una buona idea di scena prospettica è fornita dal trattatista Sebastiano
Serlio. Si noti, però, che il fondale dipinto non corrisponde a tutta l'immagine riprodotta ma solo
alla porzione che chiude la prospettiva delle case, al fondo. La scena prospettica non è veramente
bidimensionale ma anche tridimensionale, non solo dipinta ma anche parzialmente in rilievo. Gli
attori devono recitare nel proscenio perché se si spostassero di più verso il fondo, la scena
risulterebbe inverosimile.
La danza rinascimentale
Nel corso del Quattrocento diviene sempre più grande il divario tra ceti dominanti e ceti
subalterni. La nobiltà elabora una nuova forma del vivere e un gusto raffinato in tutte le arti, i
nobili ora imparano la civiltà e le buone maniere. La danza adesso costituisce uno dei modi di
espressione della cultura della corte, grazie alle due funzioni di intrattenimento sociale e di forma
spettacolare e diventa un requisito fondamentale del cortigiano. E così come i contadini
danzavano in occasione delle ricorrenze rurali, adesso i festeggiamenti vengono indetti in
occasione di eventi importanti nella vita del Principe: il potere adotta la festa come strumento di
potere.
Domenico de Piacenza è il primo di una serie di trattatisti che fondano un repertorio di
composizioni coreografiche. Se la danza non era eseguita nelle camere private ma nel mezzo
delle feste, allora era percepita come un significativo elemento del processo di comunicazione del
potere. Proprio per questo motivo le feste di corte prevedevano panche dove gli ospiti prendevano
posto secondo una gerarchia precisa, che era lo specchio della loro posizione all'interno della
scala sociale.
Alcuni dei balli in repertorio erano a tema del corteggiamento amoroso in diverse forme.
La scena cortigiana è riempita in prima istanza dalla ritrovata drammaturgia classica. Ariosto si
pone come l'inventore della commedia rinascimentale, la quale non si limita a tener presente il
modello classico ma ci aggiunge anche la grande novità della cultura romanza (situazioni buffe e
intrecci derivanti dal Decameron di Boccaccio). Infatti la commedia italiana del '500 si pone al
punto d'incontro tra commediografi latini e tradizione boccacciana. Significativo è l'esempio
offerto dalla Calandria del Bibbiena: con un marito sciocco, beffato e cornificato che riporta a
Plauto ma anche con svolgimenti d'azioni che evidenziano un accento più equivoco.
La cultura cortigiana non è però tutta caratterizzata da una scelta stilistica compatta e solenne:
non ci sono solo commedie latine o italiane, ma anche la diversa spettacolarità mimico-gestuale
di buffoni, giocolieri, mimi,ecc... Uno di questi è Niccolò Campani, detto lo Strascino. Egli è la
figura più nota di un gruppo senese di intellettuali di modesta cultura che rappresentano
commedie rusticane, cittadine e pastorali. Queste ultime costituiscono il terzo genere del '500,
accanto a commedia e tragedia, e troveranno il suo tardo capolavoro con l'Aminta di Torquato
Tasso.
La novità più significativa di questi autori senesi, però, è la commedia rusticana o alla villanesca:
nasce nel Medioevo e si prolunga fino al '500, una polemica contro i contadini che affonda nel
contrasto città-campagna (dipendenza della città dalla campagna, concorrenza che la mano
d'opera rurale fa a quella cittadina nel momento del suo inurbamento,ecc). L'area senese si
specializza nella definizione del personaggio teatrale del villano, presentato come bestiale,
grossolano e maligno. Il Campani impone nella scena cortigiana proprio questo personaggio.
Varie testimonianze farebbero intendere, inoltre, che al momento della messa in scena egli
tendesse a operare con una troupe ristretta e addirittura proclamando lui da solo le battute di 4
contadini diversi. Un one-man show, insomma. In realtà c'è un grande scarto tra la modesta
qualità della scrittura del tempo e l'entusiasmo dei contemporanei: segno che una gran parte era
data dalle qualità mimiche e dalla prestazione di chi recitava.
Fuori dalle corti centro-settentrionali, il gusto del teatro si diffonde con un certo ritardo. A
Venezia esso è percepito come una potenzialità trasgressiva: sono gli stessi patrizi a recitare e il
recitare è per loro elemento di distinzione e al tempo stesso di trasgressione. Ma accanto a patrizi
(e dilettanti,ovviamente) troviamo anche giocolieri, buffoni e professionisti del teatro più
impegnato culturalmente come Francesco Nobili, detto Cherea. E' grazie a lui se il pubblico
veneziano comincia a conoscere volgarizzamenti di Plauto e Terenzio. Da lì, infatti, Venezia si
apre all'intera gamma della spettacolarità primo-cinquecentesca: essa si consuma su invito, nelle
case patrizie, ma anche a pagamento in altre sale aperte a un pubblico variegato.
In questo ambiente di varietà di stili, dalla Venezia degli anni '20 si impone l'astro del padovano
Angelo Beolco detto Ruzante. Egli scrive e recita i suoi testi che presenta spesso a Venezia.
Della sua vita sappiamo poco: si ha il profilo di un borghese abbastanza agiato, dotato di una
certa cultura, operante sul piano pratico come uomo di fiducia del ricco latifondista Cornaro.
Con i due dialoghi Parlamento e la commedia Moschetta egli supera un contegno inizialmente
parodistico nei confronti della realtà contadina. Forse è anche la terribile carestia del 1528/29 a
far precipitare quegli spunti di simpatia filocontadina emergenti nelle prime opere. La fame non è
più ingordigia buffonesca ma è fame tragica, autentica. Il contadino non è più uno strumento per
una polemica, ma diventa personaggio autonomo. Beolco mette allo scoperto le contraddizioni
del quadro sociale, il rapporto di sfruttamento e alienazione che la campagna ha nei confronti
della città.
Il Parlamento consiste quasi interamente nella “parlata” del villano Ruzante reduce dal campo
militare. E' la tragedia del villano che va in guerra per arricchire, per sfuggire al suo destino di
miseria e di fame, e ritorna più miserabile. Dietro la figura di Ruzante si profila Gnua, la sua
donna che ora sta con un altro (un “bravo”). La tensione nel Parlamento consiste proprio nel
desiderio di Ruzante di riavere la donna e dal rifiuto della donna di tornare a dividere la miseria
con lui. L'arrivo del bravo ribadisce il suo destino di sconfitta.
La stessa trama si ha nel dialogo Bilora, in cui il contadino va in città a riprendersi Dina, la
moglie “rubata” da Andronico, mercante veneziano. Nonostante, però, qui Bilora uccida a
pugnalate l'avversario, il suo resta sempre il destino di uno sconfitto: il villano beolchiano è in un
continuo stato d'eccitazione, necessaria per superare gli scacchi della vita.
La Moschetta segna già un superamento della fase di adesione al mondo contadino. Il Ruzante
della Moschetta è inurbato, già in qualche modo integrato nella vita cittadina, anche se rigettato ai
margini. La Moschetta, con i suoi 5 atti e il taglio da commedia regolare, segna indubbiamente il
passaggio all'ultima fase della produzione beolchiana: quella classicheggiante. In quest'ultima
fase il villano perde la sua carica e la sua pienezza umana e sociale, e rende a trasformarsi nella
figura tradizionale del servo astuto. Resta l'origine contadina ma viene meno ogni
contrapposizione con i padroni, come viene parimenti meno il contrasto città-campagna. Con
l'Anconitana, la sua ultima commedia, il Beolco non imita più i modelli classici, ma si pone su un
piano di emulazione originale: il Ruzante di questa commedia è davvero il servo astuto della
commedia del '500, vero centro motore della vicenda.
La commedia villanesca non è, però, solo Beolco. A Sienza, nel 1531, si ha la costituzione di
un'associazione di attori-autori dilettanti: la Congrega dei Rozzi. Iscriversi significava infatti
entrare in un percorso di autoformazione culturale: stendere commedie, infatti, è solo
un'articolazione di una più importante e complessiva attenzione alla creatività. Viene ribadito,
comunque, il carattere dilettantesco delle abilità espressive richieste all'interno della Congrega,
questo perché essa non voleva accogliere “persone di grado”, cioè gentiluomini. Al contrario del
teatro senese popolareggiante (che si caratterizza per una vasta plurarità di scelte teatrali), la
scelta dei Rozzi ricade sul personaggio del Villano. Il villano conquista con loro una centralità
scenica (il che non significa che sia visto con sguardo di simpatia).
A Siena, inoltre, c'è una diversificazione dell'opposizione città-campagna rispetto alle altre città:
qui la debolezza economica impedisce l'inurbamento eccessivo perciò il villano, nelle storie dei
Rozzi, si fa portavoce delle insofferenze dell'artigianato urbano verso la classe dirigente.
Il senso di questa cosa è illustrato da Salvestro detto Il Fumoso, il più importante dei Rozzi. Egli
scrive 6 testi che mettono tutti al centro la figura del contadino.
Anche a Firenze il teatro si diffonde relativamente tardi: i Medici sono cacciati periodicamente da
Firenze e sino a Cosimo I non si può parlare di corte medicea, dunque dove manca
un'organizzazione dello Stato non arriva neanche il teatro. La spettacolarità fiorentina del primo
trentennio del secolo appare saldamente innestata nelle consuetudini societarie, di cui è figura
emblematica l'araldo ufficiale della Repubblica. Il padre della storia dell'arte, Giorgio Vasari,
ricorda due “compagnie di piacere”: Paiuolo e Cazzuola. Queste compagnie svolsero a Firenze
una fondamentale opera di organizzazione e di promozione teatrale.
Quindi, se a Venezia si impone la scena villanesca, a Firenze, sotto la spinta de La Mandragola,
sembra piuttosto affiorare la scena cittadina con Machiavelli.
La Mandragola → Nella prima scena del primo atto il protagonista Callimaco Guadagni racconta
al servo l'antefatto della vicenda. Callimaco risiede a Parigi da dieci anni quando Carlo VIII
scende in Italia, ed egli decide di vendere tutto (tranne la casa fiorentina che segna le sue radici) e
rifugiarsi a Parigi. Non a caso a Parigi risulta inserito unicamente in un tessuto di relazioni sociali
e amicali esclusivamente fiorentine. Qui Callimaco vive 10 anni di grande felicità, mentre l'Italia
va a ferro e fuoco.
Clizia → (1525) l'altra successiva commedia di Machiavelli, collocata nel 1506 (come La
Mandragola era collocata nel 1504).
Sono due modi per ribadire, da parte dell'autore, un discorso sull'hic et nunc ovvero il fatto che
lui intervenga sulla contemporaneità. Le due commedie espongono in due maniere diverse lo
stesso orizzonte di problemi e mettono entrambe a fuoco lo stesso strato sociale della borghesia
cittadina divisa tra pubbliche virtù e vizi. La prima è la storia del faticoso processo attraverso cui
si perviene alla fondazione di una casata. La seconda inizia dove quella finisce, presupponendo
l'ordinato vivere civile di un clan familiare, di una casata. Qui il protagonista è un borghese che
appartiene alla classe dei mercanti e per il quale è importante la centralità della casa. La follia di
un amore senile può mettere a repentaglio il sistema dei valori antichi, ma solo per un attimo.
La scena cittadina di Machiavelli si impone negli anni '20 e convince anche chi aveva iniziato
verso un altro indirizzo. Ludovico Ariosto comincia costeggiando i modelli classici, a partire dal
carnevale del 1528 aiuta Beolco nelle sue performances e si avvicina alla via di Beolco e
Machiavelli. La sua Lena (del 1528), infatti, è tutt'altra cosa dalle commedie plautineggianti. C'è
ancora l'intreccio plautino e la trama scontata ma c'è anche il duro spaccato di una scena di città
contemporanea, con un tranche de vie relativo alla miseria sociale di due emarginati da Ferrara:
un marito inconcludente, Pacifico, e una moglie, Lena, che si offre come amante al vecchio
padrone di casa, Fazio, in cambio della gratuità dell'affitto. Ella progetta poi di scappare da quella
casa-trappola e di andare all'avventura, diventando davvero una prostituta professionista. Ma
all'ultimo le viene meno la solidarietà del marito, schierato dalla parte del padrone e che è dunque
per il mantenimento dello status quo.
Il finale sembra, apparentemente, quello innocuo della tradizione (Fazio gestisce le nozze della
propria figlia Licinia con Flavio, figlio di un gentiluomo) ma non è il tradizionale matrimonio
dove alla fine anche l'adultera ritrova una sua collocazione istituzionale. Infatti i posti a tavola
alla fine sono 5: una coppia di sposi legittima, una illegittima e il marito cornuto-contento. Un
tocco di amarezza si insinua e spezza l'allegria festevole della commedia rinascimentale. Ariosto
si ricollega al disincanto del Machiavelli della Mandragola.
Il frutto più maturo del realismo rinascimentale è, però, costituito dall'anonima Veniexiana (la
commedia di Venezia) che già nel titolo sottolinea la centralità della città. Le due protagoniste
sono due nobildonne che si contendono l'amore dell'avvenente Iulio, un forestiero milanese.
Quest'opera è tanto eccezionale perché non ha nulla a che fare con il panorama classico del teatro
cinquecentesco: non ci sono servi astuti, travestimenti, figure tipiche. Ma soprattutto non c'è la
struttura teatrale coerente e chiusa della commedia di fattura classica: la Veniexiana è
un'anticommedia. Dopo il primo atto che funziona da prologo, la commedia si spezza in due
sezioni quasi totalmente prive di collegamenti interni: il secondo e il terzo atto dedicati all'amore
di Angela per Iulio; il quarto e il quinto dedicati all'amore di Valeria per Iulio. Ma non c'è un
processo evolutivo: Iulio non lascia Angela per Valeria, ma semplicemente si alterna. La
commedia non ha praticamente finale: domani Iulio potrà ricominciare di nuovo con Angela,
salvo ritornare poi a Valeria e così di seguito. E' qui la grandiosa novità: la commedia come
rappresentazione aperta dell'esistenza, come tranche de vie, senza una conclusione così come la
vita quotidiana che non conclude.
Ma c'è anche un altro motivo per cui questa commedia occupa un posto così eccezionale: insieme
al finale, essa rifiuta le canoniche unità di tempo e di luogo. La vicenda si svolge in 4 giorni, con
un continuo spostarsi della scena dagli interni delle case delle due donne agli esterni, all'aperto. E
di questa libertà spaziale e temporale l'anonimo autore si serve per dare ai personaggi uno
spessore psicologico che manca alle stilizzate figure tradizionali della commedia cinquecentesca.
Per Iulio il tempo è una realtà esterna ed è percepito con assoluta indifferenza. Il tempo di Angela
e di Valeria, invece, è un tempo percepito con struggimento, angoscia. Allo stesso modo è lo
spazio: le due protagoniste compaiono solo nello spazio chiuso, al contrario lo spazio esterno è
percorso incessantemente dai servi e da Iulio. Dentro lo spazio chiuso si svolge il rito della
celebrazione amorosa, dell'eros. L'erotismo è l'evasione individuale, personale soluzione
esistenziale nei riguardi di una profonda crisi dei legami umani e sociali. In questo senso la
Veniexiana rappresenterebbe non soltanto la più bella commedia del '500 ma anche uno dei più
significativi esempi di realismo del secolo.
cucina a trama molto rada, proprio perchè era un riassunto della trama a grandi linee).
Non bisogna tuttavia esasperare la novità -> anche nel primo '500 non c'era un testo
unitario: il testo era diviso, distribuito fra gli attori e si ricomponeva solo nello spettacolo,
dalla somma delle parti di tutti gli attori.
Di grande efficacie è la novità delle MASCHERE (4 maschere fisse: PANTALONE, il
mercante veneziano; GRAZIANO, il dottor bolognese; ARLECCHINO, servo sciocco e
BRIGHELLA servo astuto). Le maschere attraggono l'attenzione del pubblico popolare e
meno colto che nel secondo 500 frequenta la Commedia dell'Arte. Altra caratteristica
decisiva, inoltre, è la forte sottolineatura della gestualità della recitazione e della
valorizzazione del corpo (salti, capriole). Anche il PLURALISMO LINGUISTICO (con dialetti)
rende lo spettacolo più attraente.
Ma la trovata vincente della Commedia dell'Arte si ha nel 1570 con la DONNA-ATTRICE e
ciò determina il trionfo di questo tipo di commedia. Gli uomini di chiesa (specialmente i
Gesuiti) scrivono libri contro i comici dell’Arte e contro "l'uso" della donna sul palco
(secondo loro mezzo per "allettare" più efficamente il pubblico). La cosa curiosa è che gli
ecclesiastici non se la prendono tanto con ciò che avviene sul palcoscenico, quanto con
ciò che avviene prima e dopo lo spettacolo. In effetti le trame dei canovacci non si
distinguono molto dagli intrecci delle commedie messe in scena nelle corti, la differenza
la fa la reale professione del teatro e soprattutto il fatto che i comici (da quando si è
affermato il teatro come professione) costituiscano una micro società dentro la società,
con regole e modalità trasgressive rispetto alla moralità dominante. Per gli scrittori
ecclesiastici le attrici sono tutte mezze-prostitute e gli attori sono tutti gaglioffi e balordi,
la Chiesa li ghettizza e infatti ci si avvicina al teatro proprio per la possibilità di una vita
meno chiusa e repressiva.
La Commedia dell’Arte ha durata di due secoli: da metà Cinquecento a metà Settecento.
Si tratta di una realtà a più livelli: dai poveri ciarlatani di piazza alle compagnie più
consistenti e infine i comici illustri. Il picco di eccellenza è a cavallo tra fine 500 e primo
600, quando operano 3 comici illustri: i coniugi ISABELLA E FRANCESCO ANDREINI con
FLAMINIO SCALA. Francesco Andreini pubblica nel 1607 “ Le bravure del capitano
spavento” raccolta dei generici da lui elaborati e utilizzati per dar vita alla figura del
Capitano, suo ruolo fisso. Scala pubblica invece, nel 1611 “il teatro delle favole
rappresentative “, una raccolta di 50 canovacci. Da un lato, ogni canovaccio presenta
l’elenco degli oggetti che serviranno agli interpreti, dall’altro ognuno è introdotto da un
Argomento che obbedisce a un piacere di narrazione.
“Il ritratto” di Scala rappresenta un canovaccio molto importante, perché sorta di
metateatro ( teatro che riflette sul teatro) che ci offre una visione della realtà dei
teatranti vista dal di dentro. L’ambientazione è quella delle troupes dei comici illustri
che, arrivando in una città, affittano una stanzona dove si esibiscono a pagamento. Il
canovaccio non ci presenta il momento della messinscena ma del fuori scena, della vita
quotidiana dei comici. Vittoria, l'attrice protagonista, è sì attrice ma è anche una demi-
mondaine, che si conquista perle e diamanti non tanto per il merito delle sue abilità
attoriche, quanto per le sue abilità amatorie. Straordinario è l'accento sul fatto che la
donna deve essere fredda e professionale, deve monetizzare il suo fascino senza
cedimenti passionali, poichè al tempo i liberi professionisti del teatro non potevano
in vari dialetti o anche di nazionalità spagnola; gli ZANNI, i servi mantenuti nei limiti di
decoro, vi erano due tipi di zanni, uno astuto e uno sciocco
LA DONNA NELLA COMMEDIA DELL’ARTE
La presenza della donna e della donna poetessa è una novità che marca
un’emancipazione storica. Come attrici poetesse ricordiamo Flaminia o Lucrezia,
Vincenza Armani, Vittoria Pissimi, Virginia Ramponi, e la poetessa attrice era Isabella
Andreini.
L’INDUSTRIA DELLO SPETTACOLO: IL MELODRAMMA
1545 e 1637 possono essere considerate due date capitali per la costituzione della
moderna industria dello spettacolo. Con la prima, in virtù di un regolare contratto, si
costituisce a Padova una fraternal compagnia di attori professionisti; con la seconda,
s’inaugura a Venezia la prima stagione pubblica di melodrammi. Lo spettacolo diventa
qualcosa pagato da un pubblico e crea delle condizioni di mercato. Importante a cavallo
fra 5 e 600, la maturazione del melodramma a seguito delle speculazione della Camerata
dei Bardi: sorge soprattutto come risposta alla crisi della commedia tardo
cinquecentesca, mettendo a partito la lezione degli intermedi, quadri di sfondo
allegorico-mitologico rappresentati tra un atto e l’altro del testo letterario, accompagnati
da musiche e animati dalle meraviglie della scena mobile. La committenza signorile cercò
con il melodramma un "trattenimento appagante e divertente". La commedia dell'Arte e
il melodramma sono l'eredità più cospicua dell'Italia al patrimonio culturale mondiale:
infatti si svilupparono quasi in parallelo e non senza interconnessioni -> Infatti, in quanto
professionisti dello spettacolo, i comici contribuirono ai primi allestimenti dei
melodrammi.
AMLETO
Il padre è vedovo: lei è dentro l’ombra del padre e si lascia incantare da Otello, anche lui
figura paterna. Brabanzio prende la fuga della figlia come un tradimento morendo di
dolore. Alla fine del I ATTO Desdemona decide di seguire l’amato a Cipro e Otello l’affida
alla barca di Iago quindi non nella sua. Desdemona è affascinata ogni volta dall’uomo di
potere. Dal II ATTO la storia si sposta a Cipro. Otello nel suo corteggiamento ha sempre
avuto Cassio come consigliere, ora sospettato coe amante di Desdemona. Cassio ha 3
cose che Otello non ha e che scatenano in lui grande gelosia: è bianco, parla molto ed è
giovane. Shakespeare custodisce bene il segreto di Otello che svelerà solo alla fine dopo
che avrà ucciso la povera Desdemona. Otello poi si suicida per non essere arrestato.
Tragedia dell’amore e della gelosia, Otello parla sempre della sua Venezia e ci fa capire
che il suo vero amore è la città e per lui la ragazza ha rappresentato solo un sogno di
integrazione.
MACBETH
Inventa il suo primo grande personaggio femminile. Macbeth uccide a tradimento
DUNCAN , il re della Scozia, ospite nel proprio castello, e ne usurpa la corona, ma in
realtà la macchina criminosa è la moglie, LADY MACBETH. Qest’opera è stata sempre
considerata come la tragedia del potere, ma in realtà siamo di fronte a una vicenda che
denuncia l'assurdità dell'esistenza. Si rifletta su MCDUFF, colui che alla fine uccide
Macbeth. Un polo negativo e uno positivo. Guardando da vicino il "buon Mcduff" (con gli
occhi della moglie) se ne evince "Non ci ama", "Gli manca il tocco della natura". Il tema
della NATURA è fondamentale in Macbeth poichè Macbeth sarà sconfitto solo quando la
natura offesa si rivolterà contro di lui e quando a Macbeth si opporrà un uomo non nato
da una donna, cioè un mostro innaturale. Ebbene se Macbeth è il "demone dell'Anti-
Natura", è curioso come anche Macduff sia estraneo alle leggi della natura, incapace di
fare una cosa che farebbe anche il più piccolo degli uccelli:difendere la sua famiglia.
Infatti egli scappa in Inghilterra per schierarsi al fianco di Duncan, ma MALCOLM (figlio di
Duncan) , teme sia una trappola. Perchè Macduff dovrebbe aver lasciato la Scozia,
tradito Macbeth e lasciato moglie e figli alla mercè delle vendette di Macbeth? C'è
un'oggettiva brutalità nel modo in cui Macduff se ne va, senza neanche avvertire sua
moglie. Tutti, infatti, fanno qualcosa poi per aiutare Lady Macduff e figli, tutti tranne
Macduff. Il momento di maggiore pathos viene raggiunto quando Macbeth manda dei
sicari al palazzo dove Duff ha lasciato moglie e figli senza avvertirli del pericolo e il figlio
maggiore cerca di proteggere la madre. Anche lo scricciolo, quindi, si batte contro il
grande gufo, a protezione del suo nido. Animali e umani, tutti mostrano di avere the
natural touch, tutti tranne Macduf. Difficile non vederlo come fuori dall'orizzonte dei
comportamenti naturali e qui si ritorna al discorso iniziale -> Macduff è l’unico che può
sconfiggere Macbeth dato che è “no woman born”. Ma cosa significa? Almeno sino alla
fine dell'Ottocento la prassi medica non riusciva a garantire la sopravvivenza della madre
a un cesareo, che dunque resta un'esperienza di morte più che di vita; perciò "no woman
born"significa che il neonato è nato da un cadavere, da una donna morta. Tuttavia
affiora anche un fantasma segretamente antifemminile: la nascita si afferma sul cadavere
della donna,della madre. Inoltre la nascita di una comunità liberata e nuova (grazie a
Macduff) si realizza sulla carneficina di Lady Macduf. Si evince che Macduff è l'unico a
poter liberare il mondo dal mostro Macbeth poichè è lui stesso un mostro, più mostro di
Macbeth.
La risposta finale è che non c'è limite al male, che il male viene schiacciato solo da
altro male.
L’epopea elisabettiana si chiude con JOHN FORD (1586 1640) che con “Peccato fosse una
sgualdrina” (1633) dà un quadro implacabile di una società cinica, crudele contro cui si
instaura una storia d’amore tra una sorella e fratello. Vergini entrambi, ANNABELLA e
GIOVANNI, come Romeo e Giulietta. Giovanni confessa il suo amore, ma offre alla sorella
il proprio pugnale perché lei gli apra il petto e anche lei a quel punto confessa il suo
amore, uguale, identico. Nel III ATTO abbiamo la svolta: Annabella è incinta, e il trauma
la predispone al pentimento. Si confessa con il Frate e accetta la proposta di
quest’ultimo di sposarsi con Soranzo, che la chiedeva in moglie. Egli, nel IV ATTO ha già
compreso che il figlio non è suo e lei,di fronte agli insulti del marito, svela il suo adulterio
pur celando il nome dell’amante. Nel V ATTO, Annabella si aspetta di morire e lancia dal
balcone una lettera al frate per suo fratello e dice che deve pentirsi. Soranzo organizza
un banchetto per uccidere Giovanni, questo avendolo capito va comunque alla festa e
uccide con il suo pugnale la sorella, poi entra in sala (con il pugnale sul cuore) e iniziano
a uccidersi tutti fra di loro. Cuore e pugnale all’inizio e alla fine della tragedia.
in abiti maschili, con la spada al fianco, per vendicare il suo onore (anche lei sedotta e
abbandonata da Astolfo, principe della Moscovia). Al servizio di Rosaura c’è CLARINO il
gracioso, che esprime le piccole viltà dell'uomo qualunque alle prese con i grandi eventi
della storia. Ritroviamo anche la consueta apologia del potere monarchico: BASILIO re di
Polonia, ha fatto incarcerare il suo unico figlio SIGISMONDO, sin dalla nascita a seguito di
nefasti auspici circa la sua natura malvagia, ed è pronto a lasciare il trono a ASTOLFO, ma
un'insurrezione popolare uccide il re e dà il trono al suo erede: Sigismondo perdona il
padre e anche Astolfo dandole in sposa Rosaura (benchè sia oggetto del suo amore). Il
nuovo principe dimostra subito di saper controllare tutti i suoi istiniti, malevoli e
benevoli. Di fondo c'è però la percezione acuta della labilità dell'esistenza: l'uomo è uno
scheletro vivente e, come dice Basilio, "tutti quelli che vivono sognano". E' il
convincimento profondo di un personaggio che dice "il sepolcro vivo di un ventre, perchè
il nascere e il morire sono simili". Ciò rimanda al tormento autentico di Basilio per come
ha fatto crescere Sigismono, timoroso della sua natura malvagia. In realtà gli lascia una
possibilità di provare che la sua natura è beneviola -> All’inizio del II atto Sigismondo è
nella reggia (è stato narcotizzato e trasportato) ma ha subito pulsioni maligne: cerca di
violentare Rosaura e uccide un servo, dunque viene narcotizzato e rispedito nella torre
dove era incarcerato. Grazie al sedativo penserà di aver sognato la vita da re che ha
condotto solo per un giorno. In realtà la dura pedagogia paterna produce i suoi frutti:
Sigismondo si chiede cosa è vita e cosa è sogno? Come continuare a vivere se in
qualunque momento ci si può risvegliare nella torre dopo aver governato da re? E
l'insieme di queste considerazioni trasforma Sigismondo e lo spinge a inibire i suoi
impulsi irrazionali. Alla fine del II atto,infatti,viene scarcerato dal popolo e sceglie la via
dell’obrar bien. In ultima istanza si può dire che Sigismondo insiste per ben 4 volte sul
tema che la nascita stessa è un delitto: ciò viene spiegato in un dialogo col padre -> qui
egli dice che "dare la vita" è l'azione più nobile ma darla per ritoglierla subito dopo
(riferendosi all'incarcerazione da parte del padre) es mayor bajeza (è la maggior
bassezza). In un'ottica più ampia si capisce che questa è un'afflitta meditazione sul
destino dell'uomo in generale: il lamento per una vita umana che è data per essere
necessariamente tolta, attraverso il passaggio della morte cui nessuno può sfuggire.
DALLE BARBA POSTICCE ALLE NUVOLE VOLANTI
MIGUEL DE CERVANTES (1547-1616) autore di “Don Chisciotte” delinea una sintetica
storia del teatro spagnolo, sottolinea comunque l’incidenza di una figura di attore
insigne nella recitazione e per intelligenza, quella di Lope de Reuda, sivigliano che si
distinse nelle pastorali e anche a livello sociale. Un altro attore importante fu Naharro di
Toledo, nel ruolo di ruffiano vigliacco, che diede maggior stabilità alla professione. Egli
iniziò a introdurre quinte, nuvole, effetti di tuono e lampeggiamento, battaglie, artifizi
che si affermarono dopo la messa in scena di "Il mercato di Algeri" (dello stesso
Cervantes). Questo programma fu, poi, splendidamente continuato dal grande Lope de
Vega che impose la monarchia della commedia, sottomettendo alle sue leggi tutti gli
attori.
DON GIOVANNI, ARCHETIPO DEL TEATRO OCCIDENTALE
Fra i personaggi archetipi del teatro occidentale, vanno indubbiamente menzionati
Edipo, Faust, Amleto e Don Giovanni. Nei secoli queste figure hanno polarizzato
Rappresentato nel 1637, il Cid presenta una vicenda ispirata a cronache spagnole
medievali di lotta contro i Mori. Corneille ambienta la vicenda a Siviglia, alla corte di Don
Fernando, primo re di Siviglia. Don Diego ( padre di Rodrigo) e Don Gomes ( padre di
Chimene) sono 2 importanti uomini d’arme del re, ma il primo è vecchio e il secondo no.
Il re assegna al primo la funzione di precettore del proprio figlio, erede al trono, e Don
Gomes (che si riteneva più degno) insulta Don Diego e lo schiaffeggia. Don Gomes ritiene
che lo Stato si regga in piedi solo grazie al valore del suo braccio e arriva a teorizzare che
anche il re possa sbagliarsi: siamo di fronte al dibattito assolutismo monarchico-anarchia
feudale, che tanto appassiona la Francia. Lo schiaffo tirato a Don Diego presuppone un
duello, ma egli è troppo vecchio: mette mano alla spada e un colpo efficace di Don
Gomes gliela fa cadere. È un disonore. È stato come averlo ucciso. E sarà il figlio Rodrigo
a battersi per lui, contro il padre di Chimene, sua amata. Ora l’onore combatte contro
l'amore, ma sia per Rodrigo che per Chimene sarà l'onore a prevalere (dato che sono
stati cresciuti secondo i principi aristocratici). Rodrigo ucciderà Don Gomes e davanti al
dolore della ragazza amata non rinnegherà il proprio omicidio. Tuttavia i figli non sono la
copia esatta dei valori dei padri: nei due padri vive lo stesso ideale misogino che la
donna sia debolezza, invece la lingua dei giovani è più articolata, aperta a sfumature e
alle spinte contraddittorie del cuore. C’è una tentazione musicale come se la tragedia
fosse sempre sul punto di risolversi in un'opera lirica. Il Cid viene pubblicato nella sua
prima edizione del 1637 con il sottotitolo di tragicommedia. Come detto sopra l'opera
non appare coerente con le regole di Aristotele, ma il problema è che i principi di
Aristotele si impongono in Francia solo dopo il 1640. Certo, nel corso della querelle,
Corneille si adatta al punto di vista dei dotti: la sua caratteristica è proprio questa doppia
tattica -> puntare sul consendo del pubblico ma poi cercare la legittimazione dei dotti.
Con "Il Cid" Corneille ha individuato una chiave di grande efficacia: l'Amore che
combatte contro l'Onore. Questo tema è rintracciabile in tutto il suo teatro.
Su un piano diverso si colloca JEAN RACINE (1639-1699) che descrive gli uomini come
sono (al contrario di Corneille che li descrive "come dovrebbero essere"). Anche i
personaggi più aulici, sotto la penna di Racine, svelano le proprie pulsioni più
inconfessabili. In una delle sue prime tragedie, “Andromaca” 1667, Oreste giunge alla
corte del re dell’Epiro, Pirro ( figlio del defunto Achille), come portavoce dell’intera
Grecia, preoccupata (la Grecia) che Pirro non abbia ancora provveduto a eliminare il
figlio di Ettore (Astianatte) della cui madre, Andromaca (formalmente schiava di Pirro),
Pirro è innamorato. Ma Oreste ha un altro fine: Pirro nonostante ami Andromaca è in
procinto di sposare Ermione (figlia di Elena e Menelao), ma di questa è innamorato
Oreste il quale progetta di rapirla. C’è una contrapposizione tra l’interesse pubblico e
privato di Oreste. E un po' tutti i personaggi di Racine appaiono divorati dalla passione e
dal desiderio amoroso, attanagliati dai propri sentimenti, che li rendono quasi nevrotici,
e comunque sempre violenti, protni a porre dei ricatti e a pretendere di essere amati con
la forza. Pirro garantisce ad Andromaca che difenderà la vita di Astianatte in cambio del
suo amore per lui. Racine non ci presenta, a causa della buona creanza, azioni volgari e
brutali, quindi alla violenza fisica sostituisce la violenza psicologica del ricatto. La
modernità dello scrittore è proprio in questa sua capacità di scavare nella psicologia dei
personaggi, di proiettare fasci di luce tenebrosi e inquietanti sull'inconscio dei suoi eroi e
delle sue eroine. Ad esempio Pirro, il figlio del grande eroe, per esistere deve opporsi al
padre glorioso, deve fare il contrario del padre: Achille ha ucciso Ettore, Pirro ne sposa la
vedova. Ricorrente è questo "dramma dei figli degli eroi" che si devono confrontare con
modelli insuperabili e da ciò ne deriva una sorta di fragilità psicologica.
Altro suo scritto è “La Fedra”, allestita per la prima volta nel 1677, un grande
personaggio femminile, Fedra, che ama incestuosamente Ippolito, figlio di primo letto
del proprio marito Teseo. Mito gia trattato da Euripide e Seneca ma Racine vi aggiunge il
peccato o meglio la predestinazione al peccato che spinge ineluttabilmente Fedra al
male. E soprattutto ci aggiunge uno scavo psicologico che scinde l'anima della
protagonista tra la passione e il senso morale. A livello d'intreccio Racine aggiunge la
gelosia di Fedra poichè Ippolito ama la giovane Aricia. Anche qui, comunque, ritroviamo
la conflittualità padre/figli. Ippolito apre la tragedia, dialogando con il proprio precettore
Teramene. Annuncia la propria partenza, ma non si capisce bene per dove. Da più di sei
mesi Teseo è scomparso e lui vorrebbe andarne alla ricerca. Teramene dice di non
preoccuparsi molto per Teseo dato che è un noto donnaiolo. Ippolito lo interrompe
dicendo di portare rispetto al padre. Di Aricia si sa che è principessa di sangue reale e
che i suoi 6 fratelli sono stati sterminati da Teseo, che ha posto il veto a qualunque
matrimonio della sorella superstite. Se dunque Ippolito si apre all'amore, sceglie l'unica
donna su cui il padre ha posto il veto (conflitto padre/figlio). L'amore di Ippolito, quindi,
è del tutto cerebrale, pura metafora di un problema differente, quello della sua
emancipazione genitoriale. Aricia, dal canto suo, è innamorata del suo potere, del potere
che scopre di avere su un uomo. Ippolito si illude di amare ma in realtà combatte la sua
battaglia contro il padre. Aricia, più disincantata, sa benissimo che la sua è solo la prima
mossa di una partita di potere politico che, solo, le interessa. Ippolito le da il trono di
Atene solo dopo che giunge la notizia che il padre Teseo è morto. Quando torna Teseo,
non più morto, il figlio è gelido con il padre ritrovato e si autodenuncerà sia per aver
sognato la morte del padre e sia per volere Aricia. Il padre invocherà Nettuno x mandarlo
a morte certa.
JEAN BAPTISTE POQUELIN detto MOLIERE (1622-1673) è una nuova figura di attore-
scrittore legato alla convenzione della commedia. Come scrittore resta memorabile per
aver inventato una serie di capolavori assoluti per i quali il titolo di commedia è troppo
ridttivo, benchè non si possa parlare di tragedia: “Tartufo” 1664; “Don Giovanni” 1665;
“il misantropo” 1666. Sono pieces che preparano alla lontana quello che sarà il dramma
borghese che nascerà nel corso del Settecento e si imporrà in tutta Europa alla fine
dell’Ottocento. Non c'è comunque ancora il salotto borghese, come cornice esaustiva
dell'azione scenica: le vicende si svolgono indifferentemente in ambienti e in esterni.
Moliere scrive spesso in versi e non in prosa.
TARTUFO
Collocato nella casa di un ricco mercante (Orgone), che si è infatutato del lestofante
Tartufo (che si finge anima pia), col quale Orgone vuole far sposare la figlia per
imparentarvisi, la scena è ambientata a Parigi. La moglie di Orgone, Elmira, è però decisa
a smascherare Tartufo agli occhi del marito, facendogli capire che si tratta di un ipocrita il
quale vorrebbe solo portarsi a letto la moglie del suo protettore, oltre a a sposarne la
figlia. Perciò Elmira chiede al marito di nascondersi sotto al tavolo mentre lei è a
colloquio con Tartufo. La scena tabù tra Tartufo e Elmira, quindi, è attenuata dalla gag
comica del marito sotto al tavolo. Moliere instaura al centro del suo testo una scena
modesto, l’epoca era coincidente con la sensibilità barocca e aperta alle forme
esuberanti e lussuose della rappresentazione principesca che si erano sedimentate in
Italia. Dal 1581, con il “Ballet comique de la Reyne” si sviluppa il ballet masquerade.
Moliere e JEAN BAPTISTE LULLY svilupperanno per le feste di corte la comedie ballet
unendo alla recitazione danza e canto, recuperando in tal modo gli elementi di cui si era
privata la tragedia. Queste forme spettacolari hanno costumi splendidi e un’elaborata
scenotecnica: è l’epoca delle pieces a machines. In Francia lavora Giacomo Torelli che,
nel 1639-41, aveva realizzato un argano che consentiva la mutazione rapida e simultanea
di quelle quinte teatrali. Nel 1650 egli allestisce l'Andromede che Corneille scriven
tenendo addirittura presenti le scenografie.
LA COMEDIE FRANCAISE, PRIMO TEATRO STABILE D’EUROPA
Il 21 Ottobre 1680, gli attori di Moliere che, dopo la sua morte, si erano concentrati nel
teatro di Rue Guenegaud, si fondono, per ordine di Luigi XIV,con quelli dell’hotel de
Bourgogne. Possiamo dire che nasce il primo vero teatro stabile europeo, i Comedians
du Roi, che nel 1687 si stabiliscono nella sede della Comedie-francaise in Rue des Fosses
S.Germain, teatro inaugurato il 18 aprile 1689. Si tratta di una sala con palcoscenico che
presentava sei ordini di quinte piatte e mutevoli e già arieggiava, con la sua pianta a U, la
struttura teatrale elaborata in Italia. Nel 1740 Riccoboni riconosce che i teatri italiani
sono ormai "modelli" per tutti i teatri francesi. Ad esempio il Farnese di Parma che era
conosciuto come il più grande teatro del continente: esso era ancora costruito come i
teatri dei romani, con gradinate d'anfiteatro. Il Farnese costituisce il cruciale punto di
transizione tra le sale private dei palazzi principeschi e quelle dei teatri di gestione
pubblica. Questi teatri si perfezioneranno nell'esemplare del Teatro Nuovo di Bologna di
Antonio Bibiena. Questo modello italiano trapassa nella sala della Comedie Francaise
con qualche variazione: oltre alla platea c'è l'anfiteatro, sprofondato un poì più in basso
della prima fila di palchi, di modo che tutti possano vedere il palcoscenico con la stessa
libertà; sotto al palco c'è un recinto denominato orchestra dove prima stavano i musicia
e adesso offre posto ad altri spettatori.
ATTORI ALLA COMEDIE-FRANCAISE
Gia Moliere aveva criticato gli attori della compagnia dell'Hotel de Bourgogne per la loro
declamazione esagerata, raccomandando per contro di "recitare le parti con
naturalezza". Tuttavia alla fusione della sua compagnia proprio con quella dell'Hotel de
Bourgogne quale stile si fornalizzò nell'ambito della prestigiosa Comedie-Francaise? La
Champmeslè esibiva "delle inflessioni tanto naturali che sembrava avesse davvero nel
cuore una passione che non aveva sulla lingua"; lei e La Grange (già attore della
compagnia di Moliere) dimostravano una presenza scenica imponente e "sapevano
toccare il cuore e dipingere le passioni". Adrienne Lecouvrer veniva lodata per "la
declamazione semplice, nobile e naturale", ma qualcuno riterrà di contro la Dumesnil
più a suo agio perchè "priva della sottigliezza della Lecouvrer nella resa dei caratteri".
Rivale dell'impetuosa Dumesnil fu la Clairon che si distingueva solo per l'esagerata
declamazione, la cantilena e i frequenti sospiri. Certo è che proprio la Clarion cominciò
poi ad esercitare uno studiato approfondimento dell'interpretazione.
l'intimità dell'interno e che invece si rivelano oggetti di violenza esterna. Nel cuore della
Locandiera, Mirandolina si rifugia nella stanza e si chiude a chiave dentro, perchè
inseguita dal Cavalier di Ripafratta. Egli cerca di sforzare la porta, in attesa di poter
sforzare anche la padrona.
La fondazione del dramma borghese non si risolve però solo nell'individuazione di uno
specifico spazio scenico, ci sono anche delle novità consistenti. Diderot in "Il figlio
naturale" fissa una storia d'amore e di soldi, saldando l'una e l'altra cosa a una istanza di
moralità dall'accento inconfondibilmente borghese. I personaggi parlano continuamente
di denaro e fortune (inteso come patrimonio), che diventano il segno linguistico di
un'ossessione sociale. Siamo a una svolta capitale della storia del teatro. La borghesia si
sente così egemone da osare raccontare sè stessa: gli amori, i sentimenti, ma anche i
soldi.
Nel 1761, Goldoni compone “Trilogia della villeggiatura” che mescola genialmente
dissipazione finanziaria e amorosa. Giacinta, fidanzata a Leonardo, si innamora di
Guglielmo, ma il suo disordine morale è l’altra faccia del disordine economico della
propria casa e della casa di Leo. Lui vuole sposare Giacinta perché è pieno di debiti e
conta sulla dote di lei di 8000 scudi, ma anche il padre di Giacinta deve scoprire in ultimo
di non possedere quegli scudi. Giacinta alla fine dovrà sposare per forza Leonardo,
costretta a dargli il suo cuore previsto per contratto assieme agli scudi mancanti. Giacinta
è un personaggio con un grande spessore sociologico: è la figlia non degenere di un
padre degenere, ella sa che non si può rinnegare la parola data, tanto più se essa è
scritta. Il contratto matrimoniale,infatti, è la materializzazione dell'ordine nel sistema dei
valori borghesi.
Dunque con Diderot e Goldoni si avvia un meccanismo che porterà alla piena
realizzazione del dramma borghese a fine '800, con Ibsen. Si tratta di un processo lungo
e contorto, il fatto è che il teatro moderno nasce storicamente come divertimento di
corte e poi la classe borghese se ne appropria. Il problema, però, resta quello di
assimilare il teatro dal punto di vista borghese, sottraendolo alla sua dimensione di
giocattolo di corte.
È un momento fondamentale anche per la CRITICA TEATRALE come nuova professione,
un primo contributo è venuto dal giornale “The Spectator” che RICHARD STEELE e
JOSEPH ADDISON animano tra 1711 e 1714. Il giornale si rivolge a una new class: il
commercio, la relazione fra i sessi, le mode, le coffee houses e il teatro sono al centro
delle sue pagine. Addison dedica fior di interventi a mettere in ridicolo i limiti della
costumistica degli attori tragici inglesi: egli opera per favorire la razionalizzazione dei
quadri scenici, la verosomiglianza e la naturalezza dell'impostazione attorica. Nella stessa
direzione si muove, qualche decennio più tardi, Lessing, che punta a una recitazione che
escluda sia l'affettazione sia la sguaiataggine sfarsesca.
GASPARO GOZZI, animatore di due altri periodici assicura un appoggio alla causa
goldoniana, ma le sue recensioni teatrali parlano quasi esclusivamente dei testi e non
degli allestimenti. C’è dunque una gracilità della critica italiana.
L’EUROPA DANZANTE
La danza diviene un’arte europea, compatibile con pubblici diversi. Italiani e francesi
diffondono in Europa il verbo della danza accademica, imponendosi nelle sale a
pagamento, dove anche il pubblico borghese può assistere. Durante la prima metà del
1700 secolo è in auge l'opera-ballet, una forma molto semplice di intrattenimento
basata su una serie di entrate spettacolari. Nel corso del 1700, tuttavia, si fa sempre più
pressante l'istanza di rinnovamento. Già a cavallo fra Sei e Settecento, il consolidarsi
della moda BALLETTO ENTRACTES, (all’interno del melodramma) aveva suscitato un
dibattito con opposte posizioni: da un lato il pubblico gradiva l’inserimento di intermezzi
all’interno dell’opera, spesso privilegiando nell’apprezzamento il divertissement danzato
rispetto all’opera maggiore; dall’altro, l’elite intellettuale condannava queste interruzioni
dell’azione drammatica principale, considerandole una minaccia all’opera d’arte nella sua
integrità formale. Negli anni che vanno dal 1773 al 1775 si colloca la famosa Querelle sul
balletto pantomimo, genere drammaturgico che utilizzava la danza per raccontare una
storia, e per rappresentare soprattutto soggetti tragici, senza l’ausilio della parola. Veniva
così costituendosi, in quegli anni, un canone delle forme drammaturgico-coreografiche.
Per ANGIOLINI la danza era un’arte narrante, che evocava emozioni e stati d'animo, a
patto che si sbarazzasse per sempre dei freddi virtuosismi e tecnicismi. Una riforma del
linguaggio coreografico in tal senso doveva passare attraverso un ritorno al passato con il
recupero, in particolare, dell'imitazione della natura.
RIFORME SETTECENTESCHE DELLA SCENOGRAFIA
La prospettiva rinascimentale era stata mono focale. Es: signore seduto al centro,
coincidenza perfetta tra il suo sguardo e il punto di fuga della scenografia. In epoca
barocca si era aggiunta la prospettiva all’infinito che tendeva ad assorbire
vertiginosamente lo sguardo dello spettatore. È con l’aprirsi dei teatri d’opera a un
pubblico più vario, che si sente l’esigenza di non considerare più il centralistico punto di
percezione monofocale del principe, ma in qualche modo di rendere principe chiunque
paghi. In sintonia con queste trasformazioni, nel 1711 Ferdinando Bibbiena teorizza la
prospettiva per angolo: "cioè il piano sul quale si esegue il disegno, su una giacitura
obliqua rispetto alle superfici dell'oggetto da rappresentare". Il risultato è una
combinazione di illusione e verosomiglianza che si apre a una maggiore razionalizzazione
dello spazio scenico e a un riequilibrio fra lo spreco delle macchine barocche e l'arte di
un'affascinante architettura e pittura.
LA RIFORMA DELLA COMMEDIA DI GOLDONI
La Commedia d’Arte a metà Settecento, è ormai in sofferenza. Gli attori non sono
nemmeno più in grado di elaborare in prima persona i loro testi, e devono ricorrere per
questa finalità ai poeti di compagnia, come Goldoni che scrive canovacci per gli ultimi
esponenti della Commedia dell’Arte. La sua riforma della commedia procede
lentamente, per gradi; “non contro, ma insieme agli attori”. Nella fase iniziale abbiamo
così dei prodotti misti con parti di taluni personaggi compiutamente scritte e altri parti
redatte solo sotto forma di canovacci. Soltanto successivamente si avranno testi che
presentano le battute di tutti i personaggi. Nell'Otto e Novecento ormai gli attori hanno
rinunciato a improvvisare, gli attori italiani non imparano a memoria il testo e recitano
soltanto grazie al suggeritore (nascosto in una buca). Per far sì che trionfi realmente
riforma goldiniana, comunque,bisognerà attendere l’arrivo del regista.
IL PARADOSSO SULL’ATTORE DI DIDEROT
Le teorie d'arte attorica proposte nel corso dei secoli sono molteplici. Se ne possono
individuare due particolarmene diffuse: l'una, prediletta in area romantica, accredita
l'attore caldo, partecipe dei sentimenti e dei pensieri del proprio personaggio; l'altra
pensa all'attore come ad un artista che recita in una condizione di distacco. Alla seconda
scuola appartiene Diderot, come apprendiamo da Paradosso sull'attore: qui egli scrive
che le qualità fondamentali di un abile attore sono il raziocinio, la freddezza e la
tranquillità, che in lui non sia il cuore ma la testa ad agire, che possieda penetrazione e
manchi di sensibilità”, l'attore che punterà sulla riflessione sarà sempre perfetto. La
maestria dell'interprete capace consiste nel compiere uno "studio della natura umana",
un'attenta analisi delle modalità espressive osservabili nel quotidiano e poi "nel
rappresentare così scrupolosamente i segni esteriori del sentimento da trarre in
inganno" il pubblico. Gesti e inflessioni devono quindi essere pensati e stabiliti in sede di
prove, così Diderot apprezza Clairon che definisce nei minimi dettagli la propria parte.
L’obiezione rivolta da Diderot a chi si affida, per l'opposto, all’emozione è che questa è
casuale e non sempre può scattare durante lo spettacolo, dipende da fattori troppo
variabili.
una vita sociale sempre più borghese, dall'altro dall'arrivo del modello della tragedia
romantica. Se la Francia è la patria del dramma borghese, in Germania vi è il grande
movimento culturale del Romanticismo, che ha nelloo sturm and drang ( tempesta e
assalto, fiorito intorno al 1770)la sua prima espressione di massima visibilità. I tedeschi
FRIEDRICH SCHILLER(1759-1805) e WOLFGANG GOETHE (1749-1832) contrappongono
con forza al dramma diderotiano il modello del genio di Shakespeare, libero dalle regole
aristoteliche, pronto a dare sfogo all'erompere della passione. In opposizione al lungo
sforzo di individuare un genere intermedio (il dramma borghese) i romantici tedeschi
ribadiscono la centralità della tragedia pura, come espressione dell’IO in rivolta contro la
realtà esistente; alla piattezza della prosa oppongono la poesia, il verso; al controllo delle
passioni l’esplosione delle passioni; alla strutturazione dei personaggi in un quadro per
così dire corale il violento individualismo del protagonista assoluto; allo spazio interno
del salotto borghese gli spazi aperti.
Su questa linea anche ALESSANDRO MANZONI (1785-1873),che insiste soprattutto sul
problema delle unità aristoteliche. Nella “Prefazione a il Conte di Carmagnola” 1820,
individua la duplice conseguenza negativa di quelle unità: una di ordine esttico (nel
senso che esse impediscono molte bellezze e producono molti inconvenienti di
verosomiglianza) e una di ordine morale. Manzoni osserva che il teatro è stato
contestato dai moralisti francesi del Seicento poiché immorale, ma la sua immoralità è
determinata dalle regole di unità di tempo e di luogo. Immorale è la tragedia classica
francese conosciuta dai tre autori (Nicole, Bosseaut, Rosseau): una tragedia fondata sul
rispetto rigoroso delle regole classiciste. Un diverso teatro, non più basato su quelle
regole, non solo può non essere immorale ma anzi può essere decisamente morale. La
"Lettre a Monsieur Chauvet sur l'unitè de temps et de lieu dans la tragèdie" (scritta da
Manzoni in risposta a un'analisi che del Carmagnola aveva fornito il poeta francese
Victor Chauvet) sottolinea il posto preponderante che il tema passionale-amoroso ha nel
teatro tragico francese. E' la predominanza di questo tema che fonda l'immoralità
sopracitata. Ma perchè l'amore costituisce il motivo principale di quasi tutte le tragedie
francesi? Perchè la passione d'aore è quella che meglio si presta a svolgersi nel giro delle
dodici o 24 ore (quindi rispettando le unità, quindi immorale).Così tutti gli altri
sentimenti che per nascere e svilupparsi hanno bisogno di più tempo vengono esclusi. Al
fondo della Lettre ritroviamo il nucleo autentico della poetica manzoniana che consiste
nel bisogno di verità. Il vero è la sorgente della poesia. Un vero che coincide col vero
storico. Un esempio di tragedia storica del Manzoni è “L’Adelchi”, che allude a
un’Italia divisa. Per l'intera civiltà romantica la storia è importante per comprendere il
proprio passato e dunque il proprio presente. Il culto romantico del Medioevo sorge
proprio perchè nel Medioevo sono le radici degli stati nazionali. Il nazionalismo che
caratterizza tutto il movimento è bisogno di riscoperta di sè, della propria identità
linguistica e politica.
Il romanticismo francese è, invece, tardivo, tenuto conto che è solo del 1830 la famosa
battaglia di Hernani che ne segna l’avvento. In occasione della prima rappresentazione
alla Comedie Francaise di questa tragedia di VICTOR HUGO (1802-1885), intitolata
appunto “Hernani”, si scatenò infatti fra spettatori classicisti e romantici una piccola
guerriglia.
Il teatro romantico in Francia avrà vita breve, non più di 15 anni. Vince il dramma di
ascendenza diderotiana, perché la borghesia nel momento del suo consolidamento ha
più bisogno del teatro come strumento sociale. D'altra parte anche la drammaturgia
romantica è borghese, se non nelle ambientazioni certo nei valori. L'impegno romantico,
infatti, è teso a distruggere l'ingessatura classicistica che da sempre blocca la forma
tragica, ma così facendo contribuisce alla definizione di una strategia che guarda nella
direzione del realismo e della contemporaneità.
Alla fin fine anche il romanticismo francese si piegherà al realismo con ALFRED DE
VIGNY e “Chatterton”,1835. Vicenda ambientata a Londra nel 1770, Chatterton è il nome
di un giovane poeta povero, che vive in affitto a casa del ricco John Bell, della cui moglie,
Kitty, Chatterton è perdutamente innamorato. Ma si tratta di un amore romantico, reso
impossibile dalla moralità della donna, che contraccambia il sentimento. Nell’epilogo il
giovane si avvelena e anche lei muore di dolore sul cadavere di lui. È un affresco sul
dissidio fra il poeta e la società capitalista, sul potere che uccide l’intelligenza e la
fantasia, ma è anche un primo scavo prezioso sulla vita borghese, sulle contraddizioni
della vita familiare (nella borghesia) e sulle tensioni adulterine.
Ma su questa linea drammaturgica procede la generazione successiva a Vigny, con il
figlio di Alexandre Duman, l'omonimo ALEXANDRE (1824-1895) , autore de “I tre
Moschettieri”. Egli nel 1852 fa rappresentare “La Signora delle Camelie”, riduzione
teatrale di un suo romanzo, ispirato a una propria personale vicenda. È la storia di una
prostituta di lusso, Margherite Gautier, legata agli ambienti altolocati, che entra in
contatto con un giovane di buona famiglia, Armand Duval, che rischia di divenir povero
per lei. Il padre di lui convince la donna a lasciare il figlio e lei acconsente. Alla fine
Margherite muore di Tisi, ma papà Duval le fa giungere su letto di morte il figlio: lei
muore facendosi promettere da Armand di sposare una donna buona e onesta. E'
evidente l'impasto di venature romantiche e melodrammatiche e di quadri sociali e di
costume. Lo spettacolo ebbe grande successo tanto che VERDI lo tradusse nella
“Traviata” 1853 (melodramma). Il trionfo de "La signora delle camelie" dimostra però
che il cuore della classe borghese batte incontrovertibilmente verso la rappresentazione
delle problematiche della vita quotidiana (famiglia, adulterio, divorzio, ecc...). Infatti, già
in epoca romantica, il genere largamente dominante a Parigi è il vaudeville, un prodotto
industriale fatto in serie, a più mani, con una forma drammaturgica esile, in cui parti
dialogate si alternano a canzonette. Con il tempo scompaiono le parti cantate ma resta
una struttura di teatro leggero, ovviamente a lieto fine. Questo genere è il punto di
partenza dei più popolari autori francesi dell'800: da Scribe, a Labiche, da Sardou a
Feydeau. Sia pure con alcune variazioni c'è una costante tipologia che passa per tutti
questi autori che sono i dominatori della scena parigina. Sono tutti autori che trionfano
con quella che si chiama "pièce bien faite" (l'opera ben fatta), che intreccia intrighi
complicati e pruriginose storie di adulteri.
Un caso a parte è George Buchner (1813-1837). Per la cronologia questo autore è
pienamente romantico, ma Woyzeck (sua opera pubblicata solo nel 1879 e rimasta
incompiuta per la sua morte) fu subito accolto come un testo profetico che anticipa le
più aspre cadenze del Naturalismo. Con le sue scene che si susseguono l'una all'altra
senza divisione in atti, questo testo anticipa anche il dramma degli Espressionisti. Il caso
Buchner conferma l'idea che il Romanticismo sia solo un intermezzo rispetto a una linea
di sviluppo che conduce dal dramma di Diderot (metà '700) al trionfo della
drammaturgia di Ibsen (fine '800).
VOLTAIRE E LA MESSINSCENA
E' curioso come Voltaire, sostanzialmente fedele alla forma canonica della tragedia
classicistica, sia aperto al problema della messinscena e cooperi alla sua trasformazione.
La Semiramide verrà portata a teatro diverse volte con molte modifiche e delle differenti
versioni possediamo i commenti di Voltaire. Da essi apprendiamo come si evolva il suo
pensiero in materia di scenicità. Il primo allestimento si caratterizza per una scenografia
simultanea, vale a dire caratterizzata dalla compresenza sul palcoscenico di molteplici
ambienti. Negli allestimenti successivi le scenografie accolgono elementi tridimensionali
e praticabili, assumendo caratteri di realismo. Tutto questo diventa la premessa perchè si
renda necessaria una figura che modelli i movimenti degli attori in funzione di un
contesto assai più articolato: le innovazioni settencentesche in campo scenico sono,
quindi, una ragione fondamentale per la nascita della regia.
DAL BELCANTO A MOZART
In Italia l’opera in musica è caratterizzata fino all’Ottocento dalla tradizione de < belcanto
>: ciò che conta è la qualità della voce, e poco la scena. Il secolo vede l’esplodere dell'
<opera buffa> che arricchisce la struttura spettacolare, inserendo duetti, terzetti,
concertati. Il successo è clamoroso in tutta Europa e WOLFGANG AMADEUS MOZART
(1756-1791) guarda in questa direzione. Naturalmente l’intervento orchestrale è assai
più robusto e prolungato, e la stessa ricchezza psicologica dei suoi protagonisti risulta
ben altra cosa rispetto agli schematici caratteri dell’opera buffa, e proprio “Le Nozze di
Figaro” sono un esempio mirabile di ciò che dobbiamo chiamare <commedia in musica>.
IL BALLETTO CLASSICO-ROMANTICO
Quando si parla di danza classica ci si riferisce alla tecnica della danse d'école
stabilizzatasi fra XVIII e XIX secolo. L’ideologia proposta è ancora quella di un corpo come
opera d’arte. I contenuti di questa ideologia sono riconoscibili soprattutto nella
presentazione della figura femminile, fragile, aerea e in equilibrio sempre precario,
contrapposta a una mascolinità di supporto, posta in secondo piano nelle costruzioni
drammaturgiche. Ne viene fuori fondamentalmente una posizione di sottomissione e
remissività che fanno della danzatrice un gingillo nelle mani dell'uomo. Alla fine del '700
l'opera di riforma del balletto può dirsi quasi compiuta. Nasce il balletto in senso
moderno, considerato come un dramma a tutti gli effetti. A livello tematico fanno la loro
comparsa personaggi tratteggiati con più attenzione drammatica. Con La fille mal gardée
il coreografo Jean Dauberval recupera un'attenzione alle vicende storiche e ai
cambiamenti sociali del suo tempo. La vicenda narra del tentativo da parte di Madame
Simone, proprietaria terriera, di portare a buon fine un matrimonio d'interesse fra sua
figlia Lise e Alain, l'erede di un ricco possedimento. Lise è, però, contraria perchè ama
(ed è ricambiata) lo squattrinato Colin. La scoperta ,da parte di Alain, dei due amanti fa
sulla logica della visuale, del piacere dell'occhio. Domina ovunque, infatti, la sala
all’italiana, ricca di dorature con architettura a ferro di cavallo, ma lo spettacolo non è sul
palcoscenico ma è nella sala, nei palchetti. E, almeno nei teatri più ricchi, la scena stessa
obbedisce ai medesimi criteri con una preponderanza schiacciante del décor, talora a
detrimento del testo. Scenografi e macchinisti operano per realizzare gli effetti più
impressionanti, il gioco scenico dell'attore si adegua rapidamente a questo teatro di
visione.
Il norvegese HENRIK IBSEN (1828-1906) è il principale rappresentante di un teatro che si
pone come momento di alta e sofferta riflessione sulla condizione borghese. È lui
l’inventore di quello che possiamo chiamare il teatro del salotto borghese. Se è con
Diderot che le didascalie iniziano ad infittirsi per definire meglio gli interni della casa, è
con Ibsen che queste didascalie diventano significative raccontando la vita dei
personaggi prima che entrino in scena. “Una casa di bambola”,1879, si apre su una
didascalia che dice << un salotto accogliente e pieno di gusto, ma arredato senza
lusso>>. È già spiegato quindi il dramma di casa Helmer, con gente che se ne intende e di
classe che però non può spendere come vorrebbe. L’artefice del calore del salotto è
Nora, la moglie di Torvald Helmer,come sottolinea nel primo atto lo stesso Torvald ed
anche, nel terzo atto, l’amico di famiglia Rank e si capisce che vorrebbe essere al posto di
Helmer. Con questo testo Ibsen si inventa il personaggio capitale del terzo escluso (Rank
appunto), funzionale alla felicità della coppia. Torvald è cinicamente cosciente del ruolo
del terzo escluso, il suo commento alla morte dell'amico sarà: "Lui, con le sue sofferenze
e con la sua solitudine, forniva come uno sfondo nuvoloso alla nostra felicità soleggiata".
Rank infatti copre i buchi che Torvald lascia aperti nel suo menage: è Rank infatti a fare
conversazione con Nora, è lui che la ascolta. Tutte cose che il marito non può fare perchè
troppo occupato a lavorare.
Nel teatro di Ibsen,poi,si origlia moltissimo. Non sono tanto i servi a origliare i padroni,
quanto i padroni a origliare i padroni. E il teatro di Ibsen diventa lo specchio critico della
società: egli sottrae al teatro la dose tradizionale di sentimentalità e di amore, e
introduce la ‘discussione’. Nasce la “ tecnica analitica” dei drammi ibseniani. Lo scatto in
più di Ibsen rispetto alla linea Diderot-Goldoni sta proprio qui: non solo intrecci familairi,
soldi, carriera ma anche la potenza delle pulsioni vitali, degli stimoli profondi. Sono i
mostri dell’inconscio che Ibsen evoca nella scena, i personaggi hanno sempre scheletri
nell’armadio e il dramma si incarica di aprirli. Non situazioni commoventi, ingarbugliate,
scene d'amore, di disperazione, neppure un pizzico d'adulterio, semplice vita quotidiana.
Non stupisce dunque che si sia parlato di Ibsen come "gemello" di Freud. Ma è
opportuno chiarire che la drammaturgia ibseniana nasce sì, nell'800 come la
psiconanalisi di Freud, ma (esattamente come quella), si prolunga ben oltre l'800.
E' doveroso, ora, fare il nome dello svedese AUGUST STRINDBERG (1849-1912), i cui
primi capolavori sono incentrati sul tema dello scontro dei sessi. Ne “Il padre” 1887
abbiamo un marito e una moglie che litigano per il tipo di educazione da dare alla figlia,
e la moglie insinua nel coniuge il dubbio che non sia lui il padre carnale della ragazza, al
punto di spingerlo alla follia. Ne “La signorina Julie” 1888 la lotta dei sessi si intreccia in
maniera pungente con la lotta di classe. Si confrontano la contessina Julie e il servitore
Jean. Fuori scena impazza la danza popolare e Julie appena lasciatasi si fa prendere dalla
Non sanno fare altro che lamentarsi e rimpiangere il tempo felice della loro vita col
padre. E tutto riporta ad un'altra domanda: cosa ha trovato Mascia in Vierscinin per
innamorarsi di lui? E lui in lei? Questi militari non sanno far nulla ma sono dei perfetti
cavalieri, sanno corteggiare e ragionar d'amore, secondo le buone norme dell'amor
cortese. Sono un'elite oziosa e parassitaria. Non per nulla Cebutykin, il medico militare,
è stato l'amante della madre delle tre sorelle. Per dei cavalieri cortesi, infatti, è fin troppo
ovvio che la passione d'amore è sempre fuori dal matrimonio. Quindi forse il destino di
Mascia si muove non solo nel solco del padre, ma anche in quello della madre e forse il
suo destino è proprio quello di sua madre (sposata con amante delle forze militari).
Rispetto alla grande drammaturgia europea non c'è dubbio che quella italiana sia di
respiro corto: di ACHILLE TORELLI 1841-1922 ricordiamo solo “I Mariti” 1867; di MARCO
PRAGA (1862-1929) “La moglie ideale” 1890; di GIUSEPPE GIACOSA, “Tristi amori” 1887
e “Come le foglie” 1900.
In Giacosa c’è quello che ritroviamo in Ibsen: le questioni familiari, il rapporto uomo-
donna che si mescolano con le volontà di ascesa sociale. In “Tristi amori”, l’avvocato
Scarli è un self-made man che tiene uniti, nello stesso luogo, studio e casa. Questo
comporterà che il bottegaio, Fabrizio conte decaduto, si troverà a ciondolare per casa e
diventerà l’amante della moglie. Una moglie borghese che diventa adultera (come
succede al 90% delle donne) perchè il marito non ha tempo per ascoltarla. Un sapore di
sottorranea lotta di classe filtra dal testo che mette insieme, fronte a fronte, borghesi
arrivati e aristocratici spiantati. L’avvocato Giulio tiene sotto sua protezione il garzone,
ma c'è certamente il godimento di avere come subalterno un antico nemico di classe. E,
dall'altra parte, c'è un odio di classe inconscio in quello che fa Fabrizio.
“Come le foglie” vede come protagonista Giovanni Rosani , professionista in Borsa, ha
fatto fallimento e il disastro spinge alcuni familiari a perdersi, a smarrirsi incapaci di
accettare il nuovo tenore di vita. Giacosa fa emergere le contraddizioni del suo
personaggio, le sue pulsioni equivoche. La famiglia torna a spendere più di quanto
guadagni e Giovanni si inventa un nuovo lavoro. Egli dà molto in fatica, in denaro, perchè
non vuole dare nulla in attenzione psicologica, umana, affettiva. Non ha nulla da dire alla
famiglia, nulla da comunicare.
IL NATURALISMO, UN’AVANGUARDIA NEOCLASSICA
In un saggio del 1968, MARTIN ESSLIN considerava il Naturalismo la 1° avanguardia
moderna. Esso ha contribuito a forgiare nel teatro quelle opere aperte che sono i
drammi ibseniani; a sperimentare con i "caratteri senza carattere" dalla psicologia
composita che si presenta nei personaggi di Strindberg, Cechov e Pirandello. Il
naturalismo riporta in teatro l’essenzialità delle unità pseudoaristoteliche, la
conseguente semplificazione dell’azione e talvolta anche una certa limitazione del
numero degli attori. La nouvelle formule del Naturalismo teatrale doveva basarsi
attraverso la Triade "faire vrai", "faire simple" e "faire grand". Zola insisterà sul ritorno al
classicimo per "ritrovare l'altezza della concezione del dramma e rendere alle analisi
piscologica e fisiologica dei personaggi il loro ruolo sovrano". Tuttavia Zola era
decisamente contrario alla scena spoglia del classicismo e pensava a personaggi moderni
che se si siedono, se scrivono, se mangiano hanno bisogno di un arredamento completo.
Ciononostante "l'antica nudità" avrebbe trovato sostenitori e, fra questi, certo Strindberg
che, in un saggio del 1889 "Sul dramma moderno e sul teatro moderno", esaltava la nuda
scenografia di Tartufo. Essa, secondo lui, faceva appello a un realismo più grande, privo
di orpelli e concentrato sulla vivisezione psicologica. Anche il Simbolismo sembra in
sintonia con questa più acuta osservazione della vita quotidiana proposta dai grandi
naturalisti nordici.
ALLA RICERCA DELLA "FORMULA NUOVA"
Nel citato saggio del 1889, Strindberg traccia una sintetica storia degli ardui tentativi di
materializzare sulla scena quella "formula nuova" del Naturalismo che imperava da
decenni nel romanzo. Un primo tentativo lo fece proprio Zola con Therese Rasquin,
1873. Tuttavia il suo errore fu quello di far passare un anno tra le vicende del primo e del
secondo atto, tradendo l'unità di tempo, e di aver mancato un'approfondita analisi
psicologica. Per Strindberg serve, alla fine del 1800, "un grande naturalismo, indifferente
a ciò che è bello o brutto purchè grandioso" e soprattutto intenso. Da qui l'interesse per
il repertorio sperimentale del Theatre Libre di André Antoine. Per Strindberg, quindi,
psicologia, sintesi e semplicità sono essenziali per affermare un Naturalismo non
fotografico.
valenza simbolica. Soltanto nel primo quarto dell'800 compariranno i proiettori elettrici e
questo permetterà di piazzarli fuori dal palcoscenicoper creare un gioco di luci che colga
via via diverse parti dello spazio scenico. Assai lentamente, cioè, si arriva all'idea di poter
usare la luce come un fattore di poesia scenica. Da un lato proprio questo ritardo
dell'illuminotecnica esalta il valore mimico del volto dell'attore, dall'altro è indubbio che
l'arretratezza/la sommarietà dell'impianto nascono dalla concezione di un teatro
dell'attore, in cui ciò che conta è la presenza viva dell'attore e tutti gli altri aspetti del
linguaggio scenico sono tendenzialmente ricondotti a sviluppo zero.
Resta da dire dell’anno teatrale che per la prosa dura dalla prima domenica di
Quaresima fino all’ultimo giorno del successivo Carnevale; per l’opera lirica dal 10
dicembre al 10 dic. Successivo. Ultima informazione -> Quello delle compagnie teatrali è
un mondo stratificato: ci sono le COMPAGNIE PRIMARIE, che percorrono capitali; LE
SECONDARIE, che si limitano alla provincia; LE TERZIARIE che sono le compagnie di
guitti, in paesini e paesetti. Fra i vari livelli, tuttavia, non esistono barriere rigide.
Il quadro complessivo delineato ci fa capire facilmente che la performance del grande
attore è fondata essenzialmente sulle risorse individuali dell'interprete, ricordiamo ad
esempio Tommaso Salvini.
ADELAIDE RISTORI (1822-1906) diventa una celebrità internazionale rappresentando a
Parigi, nel 1855, la “Mirra” di Alfieri. Ella, pur non cambiando nulla del testo, lavora con il
proprio corpo, suggerisce movimenti e slanci di carnale passionalità. Uno dei più brillanti
critici del tempo, Jules Janin, di fronte allo spettacolo della Ristori rimane incantato. La
sua Mirra è, però, un caso limite. Normalmente il grande attore non esita a intervenire
anche pesantemente sul testo, tagliando, spostando, integrando a piacere.
ERMETE ZACCONI (1857-1948) diventa celebre con “Spettri” tutta incentrata sul
protagonismo di Osvald.
ELEONORA DUSE (1858-1924) reinterpreterà “Spettri” 20 anni dopo, rovesciando la
chiave interpretativa e valorizzando al massimo la centralità del dolore della madre di
Osvald.
Shakespeare è il cavallo di battaglia dei grandi attori del secondo Ottocento, perchè ha
una ricca galleria di personaggi a tutto tondo. Tuttavia si osservi che il grande attore può
alternare tranquillamente Shakespeare con mediocri pennivendoli contemporanei. Anzi
il suo repertorio è costituito in grande presenza da lavori artisticamente dozzinali e
commerciali. Perchè? Perchè ciò che conta non è il copione ma la poesia d'attore di
Ristori e Salvini (o Duse e Zacconi). E' l'arte del grande attore a riscattare il testo,
qualunque esso sia.
Il teatro del Grande Attore non è, tuttavia, una specificità della scena italiana. L'inglese
HENRY IRVING (1838-1905) interpete shakesperiano o la francese SARAH BERNHARDT
(1844-1923), protagonista delle “signore delle Camelie” , si collocano anch'essi nel
quadro di una tendenza complessiva che esalta l'individualismo attorico sin quasi al
divismo. In Inghilterra e in Francia, infatti, non meno che in Italia, il grande attore si pone
indubbiamente come un vettore portante della nascita e dell'esplosione dell'industria
mangia, si beve, si gioca. Con l'800 tuttavia questa situazione tende a modificarsi: l'opera
lirica travalica la propria origine e tende a porsi come scuola di sentimenti e laboratorio
di modelli di comportamento. Da questo punto di vista il melodramma riempie il vuoto
lasciato in Italia dall'assenza del teatro di prosa. I pochi autori significativi
(Goldoni,Alfieri), infatti, non hanno mai costituito un repertorio nazionale. Se l'opera
seria gode di maggior prestigio rispetto all'opera semiseria e questa parimenti rispetto
all'opera buffa, quest'ultima è comunque considerata superiore rispetto al teatro di
prosa.
Per l'inverso il melodramma riscontra una successione di compositori eccellenti: Rossini,
Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini. Un secolo lungo e continuo. Poi, di fatto, il genere si
blocca, come se l'800 fosse non solo il punto più alto ma anche quello finale. Nel '900,
infatti, il genere matura più che altro come riproposizione di un glorioso repertorio che
come manifestazione di nuova creatività. Lo stesso Puccini viene percepito già come
estraneo, perchè con un piede già nel '900.
Gioachino Rossini è il ponte fra il passato e l'800. Se Mozart sembra esprimere la sua più
alta creatività nell'opera buffa, ecco che una sorta di passaggio di consegne avviene
proprio su questo terreno: Il barbiere di Siviglia (1816) è il suo capolavoro, ispirato
anch'esso (come Le nozze di Figaro di Mozart) a Beaumarchais. In Rossini è dominante la
potenza musicale purissima, astratta nel senso che astrae da condizionamenti
psicologici o sociologici. Si pensi al crescendo -> nella maggioranza dei casi Rossini lo
utilizza in maniera gratuita, senza motivazioni drammaturgiche. Il Conte d'Almaviva
organizza una serenata per la sua bella che però non si mostra, allora il Conte congeda i
musicante pagandoli comunque. Essi, incantati dalla sua generosità, fanno un enorme
crescente schiamazzo per esprimere la loro gratitudine. L'azione scenica (la serenata)
non incide sulla trama, è un pretesto per realizzare il crescendo rossiniano. Rossini è
sicuramente l'erede della civiltà musicale italiana, ma è anche abile a inserire rottura e
novità nel corpo della tradizione, come mostra la surreale opera buffa L'italiana in Algeri
(1813). In effetti l'opera buffa italiana è venata di patetismo, con una insopprimibile
pulsione a commuovere, ma ben altra cosa è il temperamento dei due protagonisti
rossiniani -> il pascià Mustafà apre il primo atto dichiarando di volersi liberare della
moglie. Peraltro ciò che prevale alla fine è garantire la ricca vocalità dei cantanti, senza
preoccupazione alcuna di realismo (l'essenza del belcantismo). Per Stendhal, che scrisse
Vita di Rossini, il compositore italiano è una sorta di Napoleone, anche per la rapidità
sfolgorante della carriera. Da notare che Rossini muore solo nel tardo 1868 e resta per
quasi un 40ennio in un silenzio creativo: a testimonianza di un male di vivere, di una
depressione, di una diffidenza verso la nuova civiltà romantica che sente estranea, per
via della sua formazione nell'Ancien Regime.
Resta il fatto che il melodramma romantico non nasce con la direzione di Rossini, bensì
con quella della coppia Bellini-Donizetti. Il romanticismo italiano ha però, come si sa, dei
caratteri più attenuati rispetto allo spirito originario tedesco. Manca la sensibilità per
l'interazione individuo-natura, e manca anche il nesso stringente con i miti e con la
religione (che si ritroverà in Wagner). Predomina l'amore, la passione sentimentale, ma
senza il sostrato filosofico del Tristano e Isotta.
I puritani di Vincenzo Bellini (1835), libretto di un patriota riparato in Francia, Carlo
Pepoli, presenta sullo sfondo la lotta fra i seguaci di Cromwell e la Corona inglese, ma
l'impressione è quella di una vicenda senza tempo. Nel mezzo anche un amore
contrastato. Bellini ha prodotto un numero limitato di opere, ma non solo per la morte
precoce: c'è, infatti, un preciso intento poetico "Io mi sono proposto di scrivere pochi
spartiti, ci adopero tutte le forze dell'ingegno, persuaso come sono che gran parte del
loro buon successo dipenda dalla scelta di un tema interessante". L'accento romantico
sembra evidente e Norma (1831) è un primo modello di libretto romantico. La vicenda si
svolge in Gallia, al tempo della conquista romana, ma ha in primo piano la relazione di
Norma, sacerdotessa dei Druidi, con il proconsole romano Pollione. Romantica è la scelta
di individuare nella figura femminile il destino di passione e morte. Temendo, infatti, di
essere abbandonata da Pollione per una nuova sacerdotessa, Norma medita di punire gli
amanti salvo alla fine sacrificare sè stessa.
Di qualche anno dopo è Lucia di Lammermoor (1835) di Gaetano Donizetti, derivata da
un romanzo dell'inglese Walter Scott. Sullo sfondo un generico e vaghissimo scontro tra
due famiglie scozzesi del '700 e in primo priano la consueta vicenza passionale: Lucia ed
Edgardo si amano, ma il fratello di Lucia, Enrico, si oppone, e impone a Lucia, come
marito, Arturo (suo alleato politico). L'amore impedito conduce però a morte: Lucia
uccide il marito durante la notte di nozze e muore a sua volta di dolore, mentre Edgardo,
alla notizia, si suicida. Quest'opera non costituisce chiaramente un unicum: nelle sue
opere serie Donizetti ripropone continuamente il figurino della languida amante infelice.
Curiosamente non manca, tuttavia, qualche nota involontariamente comica. Pensiamo
soprattutto a L'elisir d'amore(1832) che tratta di un contadinotto timido e ingenuo,
Nemorino, il quale ricorre a un presunto elisir d'amore per interessare a sè la maliziosa e
inizialmente fredda e distante Adina. Donizetti introduce una notevole novità nell'opera
buffa: qui infatti l'allegria non è data tanto dalla carica energetica della musica in sè,
quanto dal personaggio che non è semplice "macchietta". Nemorino ha i suoi limiti, le
sue fragilità ma ha anche una grazia commovente che spiega la conversione finale di
Adina. Si può dire conclusivamente che Donizetti e Bellini costituiscono a loro modo un
duo artistico di reciproche influenze: sono due maestri che disegnano mezzo '800,
raccogliendolo da Rossini e consegnandolo a Verdi.
Rispetto a Donizetti che manifesta l'ossessione romantica per la passione d'amore, in
Giuseppe Verdi risuona un timbro nuovo, più virile, che coincide con la passione politica
della sua generazione. Alcuni suoi cori risultano percepiti come autentici canti patriottici.
Verdi raggiunge la piena maturità a partire dal grande trittico degli anni '50 (Rigoletto,
1851; Il Trovatore, 1853; La traviata, 1853). Rispetto ai precedenti compositori il quadro
si allarga: si apre agli affetti paterni e materni purificati dal dolore. Nel Rigoletto, tratto
da un dramma di Victor Hugo, il protagonista è un buffone di corte, la cui amatissima
figlia è sedotta dal sovrano; nel Trovatore Verdi crea un romanticismo notturno raro
nella cultura italiana, la notte esalta la zingara Azucena, quasi impazzita di dolore per la
morte del figlio adottivo.
Nella Traviata è ancora in primo piano la coppia amorosa infelice ma l'attenzione
psicologica si inserisce in un'articolata fenomenologia sociale -> infatti egli riprende La
signora delle camelie, un testo che miscela la tematica romantica con la tematica
realistica dei condizionamenti sociali. Naturalmente Verdi si muove all'interno di una
società molto meno laica e moderna di quella francese e deve moralizzare il titolo: esso
diventa, perciò, La traviata, cioè la donna corrotta, dai costumi immorali, visto che si
parla di una prostituta che va a letto con ricchi borghesi. Tuttavia, rispetto alla sostanza
dell'originale, Verdi non indietreggia: se Dumas introduce il realismo sulla scena
francese, Verdi innova aprendo il sipario lirico su un interno borghese. Il protagonista è
sempre un giovane borghese che non ha i soldi per mantenere la cortigiana, e il padre
verdiano (venuto a intimare la dissoluzione della relazione), ha una continuità di
presenza in scena che manca a Dumas, con una sottigliezza psicologica parimenti
assente nella fonte drammatrugica. Proprio quel tanto di realismo che il compositore
introduce, tuttavia, dentro la struttura convenzionale del melodramma, è uno dei motivi
del fiasco. L'opera è accolta con maggiore successo l'anno successivo, quanto Verdi
l'ambienta in pieno '700, così da non suscitare allusioni alla realtà contemporanea.
In linea di massima bisogna riconoscere che Verdi resta fedele a quello che, nel bene e
nel male, è considerato lo spirito autentico del melodramma italiano: conflitti chiari,
semplici, esemplari, forti tinte qualche volta persino rocambolesche. Si deve aggiungere,
però, che con lui il melodramma diventa propriamente la prima espressione
nazionalpopolare dell'intera storia italiana, cioè di un paese dove la cultura è sempre
stata dell'elites. Tuttavia, nonostante non rinneghi la tradizione italiana, egli non è però
insensibile alla avventura della sperimentazione, come mostrano Otello, 1887, e Falstaff,
1893. C'è una ricchezza orchestrale notevolissima, più ampia rispetto al passato,
soprattutto nel falstaff, dove gli strumenti sembrano vivere come veri e propri
personaggi a fianco di quelli sul placo. Colpisce la tendenza a favorire maggiore
continuità tra melodia e recitativo.
Resta da dire di Giacomo Puccini, cronologicamente l'ultimo fortunato interprete del
melodramma italiano. Le sue melodie si imprimono facilmente nella memoria di un
pubblico molto largo e popolare, ma vanno anche riconosciuti i suoi meriti: la
professionalità e l'apertura delle sue scelte, attente al quotidiano ma sensibili alle
prospettive di un Oriente esotico. Se la Traviata imponeva la novità di un interno
borghese, La Boheme (1896) è un autentico melodramma-manifesto del Verismo. Viene
descritta l'esistenza di quattro bohemiens, giovani artisti di belle speranze attanagliati
dalla mancanza di soldi. Non c'è in fondo una trama, ma viene messa a fuoco il pathos e
il comico eroismo della vita quotidiana (pagare l'affitto, saldare il conto al ristorante): un
grande cambiamento rispetto all'universo glorioso e grandiloquente del melodramma
tradizionale. Sulla linea dell'esotismo si muovono invece altre opere egualmente celebri.
Madama Butterfly (1904) è ambientata in Giappone ed illustra la crudelissima e
tragicamente patetica vicenda della giapponesina pronta a innamorarsi del tenente della
marina USA (Pinkerton), che l'abbandona per poi tornare con la moglie
americana,sottrarle il figlio e condannarla a morte per harakiri. Rimasta invece
incompiuta è la Turandot. Nella cruda e cangiante vicenda della regina che uccide i suoi
pretendenti, ma si lascia infine vincere dall'amore impavido di Calaf, Puccini apre il suo
ventaglio di immense passioni a suggestioni diverse.
La grande novità di Puccini è nella morbosità con cui affronta il nodo
tenerezza/erotismo, smascherando nei suoi personaggi pulsioni ora sadiche, ora
masochistiche. Che è quanto avviene nella Tosca (1900). Apparentemente un drammone
storico, ambientato nella Roma del giugno 1800, prossima a cadere sotto il dominio della
Rivoluzione Francese. La lotta politica si intreccia con gli amore del pittore Mario
Cavaradossi e della cantante Floria Tosca, sua amante, concupita al tempo stesso dal
torvo e brutale Scarpia, capo della polizia papalina. Passioni, ricatti, e sadismi, scanditi
dalla morte in successione dei tre protagonisti. Ciò che attrae e affascina Puccini è
l'intreccio tra violenza politica e violenza sessuale. La camera della tortura è collocata
accanto alla stanza dove Scarpia vive, lavora e dove si prepara a violentare Tosca. Puccini
coglie una verità misteriosa e profonda: che ogni violenza fisica non è altro che violenza
sessuale (e questo scatena la reazione di disgusto della donna davanti alla violenza
operata da Scarpia su Cavaradossi).
Almeno un cenno all'opera lirica francese, che ha subito a lungo l'influenza del
melodramma italiano ma che ne corso dell'800 si definisce in modo autonomo. Per lo
spirito italiano ciò che conta è la vivacità, la passione, la ricerca delle lacrime; per lo
spirito francese, invece, il melodramma deve esprimere il buongusto, la misura,
l'eleganza, l'intelligenza, in qualche modo la razionalità. Due sono i generi tipicamente
francesi: l'opera-comique e il grand-operà.
L'opera-comique: è un genere di opera sorto nel '700, così chiamato dal nome del teatro
parigino che lo produceva, caratterizzato dall'alternanza di dialoghi in proca e parti
musicate e cantate. Il carattere complessivo è di tipo prevalentemente comico e l'azione
è sempre a lieto fine.
Il grand-operà: è un genere più recente che si afferma in Francia, nel campo dell'opera
seria, tra il 1828 e gli anni '70 del 1800. Quasi sempre in 5 atti, è caratterizzato da un
allestimento scenico sfarzoso, da una coreografia imponente e da grandi scene di massa.
L'intreccio è romanzesco, ma spesso sullo sfondo di un significativo conflitto storico o
religioso.
Al genere dell'opera-comique appartiene formalmente il capolavoro del compositore
francese Georges Bizet, Carmen (tratto da una novella, 1875), che fece invaghire di sè
Nietzsche (deluso da Wagner, reo di essere caduto in imperdonabile peccato di
cristianesimo). La vicenda, ambientata a Siviglia, si apre su un gruppo di operaie della
manifattura dei tabacchi, fra cui spicca Carmen, la cui esuberante carica erotica attira sia
i militari di stanza (Zuniga, Josè), sia il torero Escamillo. Josè diserta per lei e si unisce ai
contrabbandieri, in una storia passionale che alla fine lo spinge a uccidere con una
coltellata la donna, colpevole di averlo lasciato per il torero. Alla prima il pubblico fu
freddo e perplesso. Prima di tutto perchè la morte della protagonista contraddiceva il
lieto fine tipico del genere; ma soprattutto perchè risultò traumatizzante il forte realismo
che esplicitava sia dettagli dell'intreccio, sia l'ambiguo e imbarazzante personaggio di
Carmen, portatrice di una visione scandalosamente libera dell'amore. Carmen è definita
come una bohemienne, cioè una zingara, figura fortemente trasgressiva per
l'immaginario della società patriarcale dell'Ottocento. E' l'esaltazione della liberta
assoluta. Ovvio che un siffatto personaggio, alla sua prima apparizione, abbia
scandalizzato il pubblico. Sconcerto e turbamento sono peraltro dati dallo
stravolgimento di alcuni valori della società borghese, che appare dominata
ossessivamente dalla ricerca di interessi bassi, del piacere carnale: i militari, ad esempio,
dovrebbero simboleggiare l'ordine ma insidiano Micaela, una giovane e innocente
contadina.
Nello stesso anno di Verdi è nato Richard Wagner. I due dominano il cuore pulsante
dell'800, ma le loro grandezze si collocano su posizioni diverse, in qualche modo
contrapposte. Verdi è l'interprete più alto e geniale di una tradizione che concepisce la
musica come motore di amplificazione dei momenti emotivi che si condensano nelle arie
del cantante: l'aria ha la funzione di fermare il tempo e poi la trama riprende. Il
melodramma si configura quindi come una sorta di successione di vari fermo-immagine.
Wagner aspira ambiziosamente a realizzare quella che definisce l'opera d'arte totale
(Gesamtkunstwerk), l'opera nella quale le arti più grandi (musica, poesia, danza, pittura,
scenografia) devono fondersi. In particolare parola e musica cooperano per una
continuità drammaturgica contrassegnata dall'orchestra che racconta. Non è un caso che
con Wagner si potenzi il corpo orchestrale, con l'introduzione di nuovi strumenti (come
la tuba). E non è nemmeno un caso che il punto d'arrivo della sua rivoluzione sia
addirittura la richiesta di un nuovo tipo di edificio teatrale (destinanto a essere realizzato
a Bayreuth, in Baviera). Una prima conseguenza rivoluzionaria di tutto questo è che con
Wagner si afferma un ininterrotto tessuto musicale, dove non ci sono le rotture (le arie) e
dove non si colgono nemmeno le riprese. Nell'opera wagneriana non c'è mai un suono
puro, tutto risulta amalgamato. L'orecchio non coglie un flauto, una viola, la voce umana
ma una sintesi di tutto questo, una compenetrazione assoluta fra l'avvenimento scenico
e quello sonoro.
Wagner rifiuta i soggetti tipici del melodramma e va a cercarli nelle leggende della civiltà
germanica e nordica. L'esito più significativo è la tetralogia L'anello del Nibelungo, dove
attinge per un verso alla leggende tedesca dei Nibelumghi, e per l'altro all'Edda, saga
scandinava che contiene miti che sono patrimonio dell'intera area germanica pagana. Il
grandioso disegno ha una lunga gestazione che spiega alcune correzioni in corso d'opera:
egli è infatti animato da fermenti rivoluzionari in gioventù, ma vive successivamente le
contraddizioni della borghesia tedesca, la quale abbandona progressivamente le pulsioni
libertarie per ripiegare nell'accettazione dell'ideologia conservatrice e reazionaria. La
tetralogia è impostata originariamente in chiave anti-capitalistica, in una tensione
rivoluzionaria fiduciosa nella possibilità di cambiare il mondo, poi però (anche sulla base
di Schopenhauer), Wagner si orienta verso una visione negativa che canta l'inutilità del
genere umano e l'annientamento finale che travolge Dio e gli eroi allo stesso tempo.
Wagner finisce per esprimere l'esaltazione dell'autentico spirito germanico: l'eroe puro
della vittoria, la liberazione dell'anima errante nel peccato, la redenzione attraverso
l'amore della donna. Quest'ultimo è tema dominante della poetica wagneriana,
esaltatrice di una figura femminile disposta anche al sacrificio supremo per redimere
l'amato.
Il vertice assoluto della sua produzione sembra essere comunque Tristano e Isotta
(1865), in tre atti. Wagner si rifà a una leggenda, di probabile origine celtica, di cui si
hanno diverse versioni, ma segue quella di un poema germaico del XIII secolo di
Gottfried di Strasburgo: Tristano conduce Isotta, principessa irlandese, in sposa al re di
Cornovaglia, Marke (suo zio). I due giovani bevono per sbaglio un filtro d'amore e si
innamorano perdutamente. Wagner accentua che i due si amano dall'inizio, senza
saperlo, e il filtro serve solo a indurli alla reciproca confessione. Non ci si può sottrarre al
destino della passione, che congiunge gli amanti in una tensione assoluta di fusione. Egli
intende questa fusione non per la vita, bensì per la morte. Il tempo degli amanti è la
notte, ma quale metafora della notte eterna, cioè la morte, cui si abbandonano in una
volontà di annientamento. Un punto complesso su cui Wagner insiste è il senso del
dominio stringente e tirannico della passione d'amore, che piega l'individuo, che lo
costringe a scelte a prima vista incomprensibili, irrazionali. C'è un antefatto che viene
ricordato all'inizio: Tristano ha ucciso il fidanzato di Isotta, Morold, gli ha tagliato la testa
e gliel'ha fatta recapitare. Tristano rischia però di morire per una ferita che nel
combattimento gli ha inferto Morold, ma proprio Isotta, non conoscendone inizialmente
l'identità, lo raccoglie e lo risana. Poi vorrebbe ucciderlo, per vendicare il fidanzato, ma i
due si guardano e la spada con cui sta per colpirlo cade di mano a Isotta. In quel silenzio
si attiva un processo di passione divorante e ineluttabile. Isotta è consapevole della
propria contraddizione, ma l'unica spiegazione che riesce a formualre ci porta diritto al
cuore di tenebra dell'ideologia germanica esaltatrice della forza dell'eroe vincitore: Isotta
se ne innamora e subisce il fascino proprio perchè è un cavaliere vittorioso.
primus inter pares, elemento di una macchina unitaria, allora ciò che deve emergere è
tutto il quadro d’insieme, la totalità. Antoine recupera il discorso sul decor che spiega e
determina i personaggi: gli attori devono essere collocati in uno spazio credibile, non
ridicolo; lo spazio, la scenografia, non sono più un dato secondario, trascurabile -> la
scena è costruita e non già dipinta, l'attore non vi recita davanti ma dentro. Il messaggio,
quindi, non passa più attraverso lo charme della voce del grande attore, o attraverso la
sua immagine, ma passa all'interno di un effetto complesso di composizione. Quello che
può sembrare il limite del Theatre Libre, la condizione amatoriale e dilettantisca dei suoi
componenti, si rovescia alla fine in coefficiente di forza. Il dilettantismo, infatti, ha
preservato i compagni di Antoine dal rischio dei clichès della tradizione recitativa sancita
nelle accademie. I suoi interpreti sono più pronti a trarre tutto il meglio da un utilizzo
pieno dello spazio e della scena, cosa che i grandi attori (ormai abituati a recitare in un
certo modo) non riuscirebbero a fare.
10 anni separano Antoine da STANISLAVSKIJ (1863-1938), una specie di padre del teatro
moderno. Nel giugno del 1897 fonda con NEMIROVIC DANCENKO (1858-1943) il Teatro
d’Arte di Mosca dove confluiscono da una parte il gruppo di dilettanti di Stanislavskij e
dall’altro i migliori allievi della scuola di Dancenko. In questa nuova formazione si
dichiara guerra a tutti i vizi consueti dell'attore: il ritardo, la pigrizia, le bizze, l'imperfetta
conoscenza della parte. Si rifiutano le gerarchie delle parti. Ciò che può sembrare un
elemento di limitazione si ribalta in uno di forza: gli attori dilettanti offrono il grande
vantaggio di non essere condizionati dai tic insopportabili del mestiere, ad esempio. Il
teatro di Mosca intraprende, poi, una battaglia contro tutti i guasti di una certa
tradizione attorica ottocentesca: il pathos e la declamazione affettata di marca tardo-
romantica; la teatralità come sinonimo di falsità scenica, di costumi sommari. E anche
qui Stanislavskij assume le stesse scelte di Antoine e dei Meininger: la possibilità di non
mostrare sempre il viso al pubblico, di recitare anche di spalle, la collocazione di alcune
scene in un quadro di oscurità, abbandonando la consuetudine della recitazione in piena
luce, solito studio minuzioso e fanatico per le ambientazioni degli spettacoli
(documentazione sui libri, ricerche iconografiche).
Si tratta comunque di un primo periodo di questo teatro, che dà i suoi frutti migliori nella
realizzazione di testi di carattere storico o di costume (il Giulio Cesare, Il mercante di
Venezia),con un riscontro notevolissimo di critca e pubblico che valse però a etichettare
un po' il nuovo teatro, a vederlo come saldamente legato alla matrice naturalistica (cosa
che poi si rivelerà non vera). Stanislavskij, tuttavia, non rinnega questa fase del suo
teatro (di fase difatti si tratta, cioè di momento di passaggio, di crescita e di formazione).
Egli arriverà presto a comprendere che la funzione profonda del regista non è quella di
sovrapporsi all'attore, ma di aiutarlo a esprimersi, perchè l'essenziale è nelle mani degli
attori e non in quelle dei metteurs en scene. La linea storica-di costume del teatro d'Arte
di Mosca si pone sulla strada del "realismo esteriore", perchè anche la direzione registica
non può che offire un approccio al lavoro creativo unicamente dall'esterno. Il passaggio
ulteriore avverrà solo grazie all'incontro con Cechov. Stanislavskij non ne fu subito
entusiasta, ma comprese subito il significato profondo della sua nuova drammaturgia,
che gli consentiva di scoprire il limite del "realismo esteriore" alla Meininger e lo
spingeva allo scandaglio di una sorta di "realismo interiore". Per una drammaturgia
come quella cechoviana, dove non succede mai nulla di decisivo, occorre ricreare
un'atmosfera: nasce una recitazione fatta di tonalità sfumate, di pause e di silenzi. Non è
possibile dunque recitare il personaggio cechoviano dall'esterno, occorre ricrearne la
vita interiore, a partire dal testo ma in qualche modo anche autonomamente dal testo. Il
regista scopre la centralità assoluta dell'attore: siamo di fronte a una rivoluzione
copernicana, che ribalta l'attenzione del regista dal testo all'attore. La messinscen nasce,
quindi, in accordo con l'attore, in collaborazione con lui, anzichè calarsi su di lui in
maniera costrittiva.
Si è soliti contrapporre Stanislavskij a MEJERCHOL’D, cioè il suo allievo più geniale:il
primo sarebbe fautore del teatro della parola, e il secondo il rivoluzionario cantore del
teatro del gesto, del corpo. Al primo il teatro dei personaggi e della psicologia; al
secondo il teatro delle azioni acrobatiche e delle abilità corporali (fondamento della
Biomeccanica, sistema di addestramento dell'attore inventato da Mejerchol'd, per far
raggiungere un pieno controllo del corpo). Tutto questo è in parte vero ma finisce per
risultare fuorviante se si divide in modo netto i due: il primo solo come l'erede della fase
pioneristica della regia e il secondo che solo si impone come colui che usa il testo in
modo più spregiudicato. Non è così.
In realtà c'è un risvolto novecentesco in Stanislavskij: a partire dal 1913 Stanislavskij apre
via via una serie di studi autonomi in cui sperimenta le sue riflessioni sull’arte attorica. È
qui che si definisce il << Sistema >> (o Metodo): codice recitativo che comincia ad essere
conosciuto intorno ai primi anni '20 e che viene espresso sotanzialmente nei libri Il
lavoro dell'attore su sè stesso e Il lavoro dell'attore sul personaggio. Il Maestro è
ossessionato da un problema: come evitare che l'attore, replicando la propria parte
infinite volte, non scada in un'iterazione meccanica di cliches? Egli ritiene, inoltre, che
una partecipazione emotiva da parte del fruitore possa scattare con intensità solo se
l'attore è intimamente commosso, se vive e si cala nel personaggio, immedisimandosi,
vivendone i sentimenti, le ansie, le gioie, i pensieri. Il "metodo" appunto si configura
come la risposta alle due questioni sopracitate: è l'insieme delle proposte, dei
suggerimenti, delle tecniche per mettere l'attore nella condizione di grazia -> ovvero
attraverso uno scavo interiore, attingendo al patrimonio del proprio vissuto, delle
proprie emozioni. Reviviscenza è la parola magica del Maestro. L'attore non può recitare
un personaggio che non ha dentro di sè, che non sente.
Negli anni Trenta,però, Stanislavskij rovescia il Sistema e comincia a parlare di <<
metodo delle azioni fisiche >> : si è reso conto che è difficile fissare i sentimenti, che
sono di per sè instabili e capricciosi, ed è più facile fissare le azioni fisiche. Cambia il
modo di costruire il personaggio. Al principio delle prove non occorre nemmeno che gli
attori sappiano a memoria la loro parte. Basta che conoscano l'intreccio, scena per
scena, e, su questa base, devono improvvisare una serie di azioni fisiche. Solo quando la
successione delle azioni fisiche sarà fissata verrà il tempo di sostituire le battute
improvvisate con quelle del testo drammaturgico. Permane il rapporto stretto fra
spirituale e fisico, ma è la dimensione fisica che stimola quella spirituale; e non viceversa
come Stanislavskij pensava una volta.
La battaglia tra regia e grandi attori si risolve su due escamotage. Il primo è l'uso di
gruppi di origine dilettantistica (poichè il grande attore oppone una resistenza
fortissima). Il secondo è il discorso che presenta il regista come semplice servo d’Autore,
fedele al testo di contro all’interprete infedele che è l’attore. L’attore è più importante
del regista, ma meno dell’Autore. Perciò il regista "si nasconde" dietro l'ombra solenne
dell'Autore per giustificare il suo comando. Del resto l’idea stessa di regista fatica a
imporsi in Francia, che esita a lungo su due termini :’metter en scene’ (che alla fine
prevale) e ‘regisseur’, che indica originariamente solo una figura di tecnico, quella del
direttore di scena , ma per il semplice aspetto tecnico-materiale. Con il tempo tutte
queste prudenze verranno cadere e in pieno 900 il regista taglierà e modificherà il testo.
Arriverà a forgiarsi un attore nuovo e differente, più pieghevole e condiscendente.
La macchina della regia, tuttavia, invoca ed esige la macchina del testo. I registi hanno la
necessità di nuove forme drammatiche: non più copioni che prevedono squarci lirici
attraverso i quali irrompe la recitazione del grande attore solista; e nemmeno la piece
bien faite della tradizione francese, fatta di intrighi e colpi di scena,ma poco credibile.
Bensì una struttra rispettosa dell'insieme, dell'interazione di tutti i personaggi,
attentissima allo sviluppo e all'approfondimento psicologico. Insomma una piece senza
intrigo, a esposizione lenta e graduale, che implica un pubblico culturalmente più
maturo e più critico. Quindi non è certo un caso che la regia e la grande drammaturgia
europea nascano negli stessi anni: i Meininger sono attivi dagli anni '70, il Theatre Libre è
del 1887, i primi drammi moderni di Ibsen sono del 1879 e del 1881, Stanislavskij fonda
il Teatro d'Arte di Mosca nel 1897. Non è possibile stabilire chi venga prima: regia e
drammaturgia sono due facce della stessa luna.
Bisogna però dire che il problema della regia è un problema criticamente ancora aperto.
Per alcuni specialisti la regia è un fenomeno tipicamente '900esco, da attribuire sia a
Stanislavskij e Mejerchol’d, sia ai teorici come ADOLPHE APPIA e EDWARD GORDON
CRAIG. Altri studiosi preferiscono invece cogliere- nello sviluppo della regia, al passaggio
dal secolo '800 a quello del '900, non già un elemento di rottura, quanto uno di
continuità. Volendo si potrebbe, secondo loro, arretrare addirittura agli anni '30, quando
Dumas padre, Hugo e de Vigny scrivono testi che mettono in scena sotto la loro
personale direzione.
D'altra parte cosa distingue il teatro dell'Attore da quello del Regista? La forza dello
spettacolo del grande attore non è fondata sul testo, bensì sul proprio corpo; la forza
dello spettacolo del regista ottocentesco è fondata invece sul testo, sul suo rispetto
rigoroso. Comunque sia è sempre difficile parlare di "nascita" della regia. Non c'è
ovviamente un giorno preciso, si parla piuttosto di "banda di oscillazione".
L'ultima cosa da dire è che quando si parla di regia si parla anche di una realtà
economica: sarà anche vero, infatti, che nel '900 la regia si mostra nel suo volto di
principio estetico, ma è certo che la regia si definisce prima di tutto come un mestiere,
come un nuovo mestiere dell'industria dello spettacolo. Sin dagli anni 1827-28, sono
infatti pubblicati a Parigi dei livrets de mise en scene che possiamo considerare come una
sorta di libretti di istruzione ad uso dei teatri di provincia perchè possano rimettere in
scena gli spettacoli più famosi. Vi è l'elenco dei personaggi e degli attori corrispondenti,
il tipo di costumi, i mobili, ecc... Manca solo una cosa: il regista, colui che garantisce che
lo spettacolo sia una copia il più possibilmente fedele. Quindi non fa nessuna azione
creativa, quanto duplicativa. La lunga storia della regia, perciò, è la storia della lenta
trasformazione di questa pratica operativa: non più mestiere ma arte, non più
ma scritto propriamente non c’è. Nel testo originario del 1921 tutto comunque si svolge
rigidamente sul palcoscenico, senza invadere la platea. Pirandello si limita, cioè, a
prudentemente a mimare una rivoluzione scenica.
La stessa cosa avviene a “Ciascuno a suo modo” 1924, secondo pezzo della cosiddetta
trilogia del teatro nel teatro. Anche qui abbiamo una bagarre fra spettatori o fra
spettatori e attori, ma tutto si svolge puntualmente sul palcoscenico. I finti spettatori
pirandelliani non si confondono in alcun modo con i veri spettatori: i primi stanno sul
palcoscenico e i secondi stanno in platea, in modo del tutto opposto rispetto a Breton e
Sopault. La commedia inventata da Pirandello è immaginata come ispirata a un fatto di
cronaca e i protagonisti del fatto di cronaca si riconoscono- in quanto spettatori (finti)
dello spettacolo- nell'intreccio teatrale e saltano su a protestare indignati. Ma alla fine i
personaggi della realtà si comportano come i personaggi della finzione. In Majakovskij la
vita irrompe nel teatro per cambiare la vita, in Pirandello la vita irrompe nel teatro solo
per riconoscere la superiorità del teatro, il suo decisivo valore maieutico. Che è poi la
peculiarità del pensiero pirandelliano: non già l’arte che imita la vita, ma la vita che imita
l’arte. Il teatro che funziona come psicoanalisi.
In effetti la centralità di Pirandello è costituita la proprio da questa sua capacità di
raccogliere, depurare, rielaborare. Pirandello recepisce le rotture delle Avanguardie
Storiche ma stando sempre all'interno del teatro di tradizione. Svolge un lavoro di
adattamento. Mentre le avanguardie storiche mirano a spezzare l’involucro dell’arte per
far emergere l’eversiva potenza dell’azione di vita, Pirandello, tutto al contrario, si tiene
ancorato saldissimamente al valore dell’arte, alla sua autoefficienza.
Le cose cominciano a cambiare solo con il 1925, data spartiacque per Pirandello, che dal
1925 al 1928 dirige una sua compagnia, il Teatro d’Arte di Roma, che mette in scena
prevalentemente suoi testi. Il letterato si impratichisce del mondo della scena, anche
sotto l'influsso della sua prima attrice Marta Abba, di cui è disperatamente innamorato.
Si apre a una più esplicita audacia avanguardistica, propone anche lui un effettivo
superamento della frattura palcoscenico/platea. Nei "sei personaggi" riscritti nel 1925, i
sei personaggi entrano dalla platea, e il capocomico si muove continuamente fra
palcoscenico e platea. E la seconda edizione di Ciascuno a suo modo del 1933, si
arrichisce di una preziosa Premessa che spezza la barriera del palcoscenico, chiedendo
che lo spettacolo inizi nei pressi del botteghino, e sulla strada. E lo stesso avviene anche
nell’ultimo pezzo della trilogia, “Questa sera si recita a soggetto” 1930, scritto a Berlino
dove Pirandello, frequentando i teatri della più avanzata scena teatrale europea, cerca di
imparare i segreti del mestiere. per diventare ciò che non gli riuscirà mai di essere: un
regista.
Naturalmente Pirandello non si esaurisce nella riflessione metateatrale della trilogia del
teatro nel teatro. Riprende il filo della piccola drammaturgia di Giacosa, e scrive una
serie di drammi da salotto borghese, che scavano in profondità nelle miserie umane e
psicologiche dei suoi eroi. Ma dietro Giacosa c'è la borghesia del nord Italia,dietro
Pirandello c’è la Sicilia dei ceti latifondisti. Giacosa innesta lo scontro uomo-donna su
una attenta ricognizione sociologica dei mestieri e dei lavori. Nella tavola dei personaggi
dei drammi piandelliani troviamo anche che il tale è "avvocato" ma poi non si parla mai
della sua condizione professionale. Pirandello cuce copioni su misura del maggiore
attore del tempo, RUGGERO RUGGERI (1871-1953): da “Il piacere dell’onestà” 1917 a “Il
giuoco delle parti” 1918 a “Enrico IV" 1921 -> è sempre il ritratto di un uomo solo, colto e
fascinoso, a confronto con un core ostile, fatto di meschini e rozzi, a contendere una
donna che gli sfugge. Pirandello recupera l'immagine del triangolo adulterino della
drammaturgia francese, dominante tra fine '800 e inizio '900, ma riscattandola dalle
vacuità del teatro commerciale. L’immaginario pirandelliano evoca sempre 2 figure di
donne estreme: la MADRE SANTA, radicata negli archetipi della terra Sicilia; e la
BALDRACCA, che lusinga la sensualità del maschio.
Dopo il '25 l'obiettivo metterà a fuoco l'altra metà del cielo costruendo un teatro al
femminile che ripropone sistematicamente infinite varianti dell'enigmatica e sfuggente
Marta Abba. Marta quale modello di donna che è al tempo stesso affascinante,
eroticamente stimolante ma anche piena di tutte le virtù possibili (sensibile, intelligente,
fedele). Anche se a livello pià sotterraneo affiora un profilo torbido, che riporta a
un'inconscia pulsione incestuosa per la fanciulletta da parte dell'uomo maturo (Marta ha
25 anni, Pirandello 60).
Per qualche tempo GABRIELE D’ANNUNZIO (1863-1938) si illude di riuscire a realizzare
un teatro di poesia scritto in versi e non in prosa che gli fallisce, nonostante si appoggi
all’attrice Eleonora Duse. Fa eccezione l’isolato capolavoro de “La figlia di Iorio” 1904,
documento di una società patriarcale arcaica e dei suoi riti crudeli. Diseguale ma
suggestiva la “Fedra” 1909.
QUANDO COMINCIA IL TEATRO DEL NOVECENTO?
L'individuazione di inizi e finali di eventi e fasi storiche è sempre un'operazione
meramente convenzionale che, di rado combacia con la pura cronologia. Così se
dovessimo scegliere un anno per l'avvento del teatro del '900, indicheremmo il 1896. In
quest’anno la crisi artistica e spirituale di Strindberg attinge la sua fase più acuta e qui
cominciano ad incubarsi le prime due parti del dramma “Verso Damasco” che saranno
composte nel 1898. Con verso Damasco attinge una visionaria fantasmatica forza
drammaturgica, mistica e astratta, che avrà influenza sull’espressionismo tedesco.
Ancora, il 10 dicembre 1896, << la farce guignolesque>> dell’ Ubu Roi di ALFRED JARRY,
data al Louvre. E' una pietra miliare del teatro del '900, con l'irruzione dell'assurdo e
della dissacrazione sulle scene. Cominciava il '900, quindi. Lì per lì, però, era difficile
accorgersene, sicchè fu una condivisa opinione che l'800 si concludesse con l'incredibile
successo di Cyrano di Rostand. Con Cyrano "il pubblico ritorna alla poesia, verso un
mondo dove tutto è più grande della natura, dove l'amore è eroico". Tanti benpensanti
ritengono la questione del Naturalismo a teatro definitivamente conclusa, ma si
sbagliano. Prima e dopo Cyrano i problemi restano sempre lì e s'impongono alla nostra
anlisi e pretendono la nostra attenzione.
DIFFERENZA E CRUDELTA' NEL NOVECENTO
La storia dello spettacolo si trasforma radicalmente con il Novecento: è come se si
riavviasse sulla base di una differenza che potremmo sintetizzare nella formula di
spettacolo oltre lo spettacolo. Barba ha, infatti, scritto "Tutti i fondatori di tradizione del
XX secolo (Craig, Stanislavskij, Artaud), ovvero i cavalieri dell'Apocalisse, hanno seguito
la via del rifiuto. Hanno forgiato l'idea di un teatro che non si limita allo spettacolo. Non
si preoccupano solo di riempire le sale, per essi si erge un altro imperativo: oltrepassare
lo spettacolo come manifestazione fisica ed effimera e raggiungere una dimensione
metafisica".
Un caso esemplare di questo profondo rivolgimento resta quello rappresentato da
Antonin Artaud, teorico di un teatro della crudeltà cioè di un teatro non certo di violenza
fisica, ma di forza metafisica, nel quale le immagini fisiche violente frantumano e
ipnotizzano la sensibilità dello spettatore. Si tratta di un teatro antipsicologico che
racconta in termini magici ‘lo straordinario’ mettendo in scena ‘conflitti naturali’ e
provocando una sorta di trance, grazie all’integrazione del gesto e dell’immagine, del
suono e della parola che si fanno "geroglifici" ispirati a varie espressioni di teatralità
orientale.
Artaud nei suoi scritti ha parlato di soppressione della scena e della sala teatrale, per
ristabilire una comunicazione diretta fra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore,
con lo spettatore situato al centro dell’azione, anzi accerchiato e coinvolto da un'azione
che si accende "in tutti i punti della sala" su differenti piani e profondità. Tuttavia la parte
forse più duratura dell'opera di Artaud resta la serrata e consapevole critica all'ideologia
del teatro occidentale. E' una critica anche alla nostra stessa idea di cultura, contro la
quale, per Artaud, sarebbe necessario elevare una solenne protesta: "Protesta contro la
cultura come concetto a sè stante, quasi che esistesse la cultura da un lato e la vita
dall'altro; come se l'autentica cultura non fosse un mezzo raffinato per comprendere ed
esercitare la vita".
ottocentesco del maestro. Il suo orizzonte culturale è tutto dentro l'ambito delle
Avanguardie Storiche: irrequieto sperimentatore registico dei teatri imperiali, è
l'inventore della Biomeccanica, sorta di training per forgiare attori in grado di controllare
il proprio corpo, in una scelta che valorizza la corporeità dell'attore di contro al vecchio
teatro di parola. Dopo il 1917 egli diventa fautore della Rivoluzione e dell'Ottobre
teatrale, equivalente artistico della Rivoluzione d'Ottobre. Morirà fucilato durante le
purghe staliniane, dopo essere stato torturato perchè si confessasse spia al soldo
dell'Inghilterra e del Giappone, nonchè seguace di Trotzkij. Al contrario Lenin decide di
finanziare con i soldi dello Stato dei Soviet il Teatro d'Arte. Perchè il vecchio teatro va
conservato, in modo che il nuovo pubblico proletario sia acculturato. Così Stanislavskij
può morire di vecchiaia nel suo letto e Mejerchol'd muore nel modo sopracitato.
L'avversione di Mejerchol'd per il maestro risale a prima del'17 ma l'avvento dei Soviet
rinforza e fornisce ulteriore motivazione alla sua antica diffidenza nei confronti del
"Sistema" di Stanislavskij. Secondo il primo l'attore deve avere un atteggiamento scettico
nei confronti degli avvenimenti a cui prende parte, deve "denigrare" il suo personaggio,
smascherarlo se sa di recitare la parte di una canaglia; invece l'attore sovietico non è
neutrale, non può essere apolitico.
Sa questo principio dello "smascheramento del personaggio" riparte il tedesco BERTOLD
BRECHT(1898-1956). La linea Mejerchol'd- Brecht non è casuale: il faro dell'Ottobre si
sarebbe spento se non si fosse esteso almeno a una grande nazione a capitalismo
avanzato. Dalla Russia dei soviet alla Germania della Lega di Spartaco di Rosa
Luxemburg, avanguardia del più forte movimento operaio europeo, dove lo scontro di
classe è durissimo. Ritroviamo le stesse problematiche della Russia sovietica: il teatro
agit-prop, il teatro proletario per bambini. Ed è qui che nasce il TEATRO POLITICO,
chiamato anche EPICO. In verità l'aggettivo tedesco episch ha un senso essenzialmente
tecnico, rinvia alla distinzione fissata da Aristotele nella Poetica fra epico e drammatico
-> nel poema epico c'è un narratore che racconta, nella rappresentazione teatrale i
personaggi si presentano da soli, in faccia allo spettatore, e non hanno bisogno del
narratore. Il teatro epico presuppone dunque una sorta di ‘ io epico’.
Il regista tedesco ERWIN PISCATOR (1893-1966) , cui si deve il primo tentativo di teatro
politico, allestisce nel 1925 una rappresentazione, “Ad onta di tutto” (sulle vicende
politiche dalla prima Guerra Mondiale sino all'insurrezione berlinee del 1919 della Lega
di Spartaco) che è un grandioso montaggio di discorsi autentici, articoli di giornale,
appelli, volantini.
Ma se Piscator anticipa di qualche anno Brecht, è indubbio che Brecht insiste
maggiormente sul fatto che il teatro politico deve combattere l’aspetto psicologico
emozionale della comunicazione teatrale. Brecht si oppone con forza
all’immedesimazione dell’attore nel personaggio perché questo significa far
immedesimare anche lo spettatore. L’attore deve poter straniare lo spettatore, deve
renderlo per Brecht estraneo alla rappresentazione. E' necessario che lo spettatore resti
distanziato, cogliendo così nell'accadimento teatrale l'occasione di una sua crescita
intellettuale e sociale, di una sua consapevolezza maggiormente critica. Solo con la
razionalità lo spettatore può comprendere la condizione umana come trasformabile, e
da trasformare, ma da trasformare solo attraverso la lotta politica.
Brecht approfondisce la riflessione sulla nuova tecnica dello straniamento: dagli anni
dell'esilio, durante il Nazismo, al dopoguerra, quajdo torna a Berlino a capo di un suo
teatro il Berliner Ensemble. Egli sistematizza la ricca strumentazione già usara da
Piscator, che vale a straniare la rappresentazione per riflettere criticamente su di essa:
titoli e cartelli proiettati con funzione di anticipazione delle scene (se so già cosa sta per
succedere avrò uno sguardo più critico); canzoni che spezzano il recitativo (attori di
prosa che si mettono improvvisamente a cantare costituiscono un fatto strano che
dunque strania la scena), fotografie, proiezioni di vario genere, ecc... Tutto ciò che serve
a ricordare allo spettatore che si trova a teatro, a impedirgli l'illusione scenica e a
spingerlo a guardare con l'occhio critico.
Ma perchè tanta insistenza sullo straniamento come fondamento di uno sguardo freddo
e razionale? E cosa c'entra tutto questo con la rivoluzione di Marx? La risposta è
semplice: Marx fa un'analisi scientifica del capitalismo, fonda la sua critica su una base
razionale, non su una protesta emotiva. Dunque bisogna fare appello non tanto ai buoni
sentimenti dei rivoluzionari, ma alla loro capacità razionale, critica.
Ci sono momenti diversi nella produzione Brechtiana: la produzione giovanile è
espressionista: “Tamburi nella notte”1919 ; grande importanza hanno i drammi didattici
pensati esplicitamente per l'operaio berlinese; mentre era in esilio invece i suoi
capolavori: “Madre courage e i suoi figli” 1939, “Vita di Galileo”1939. Dopo
l’abbattimento del muro di Berlino e quindi delle ideologie il suo teatro verrà meno.
Permane però la lezione dello straniamento: l'attore post-brechtiano ha inserito una
volta per sempre nella cassetta dei propri attrezzi da lavoro la tecnica recitativa dello
straniamento, da integrare sapientemente con la tecnica di immedesimazione di
Stanislavskij -> ovvero poter stare contemporanemanete dentro e fuori il personaggio.
A partire dai primi anni ’50, si evidenzia, in antitesi, un movimento d’avanguardia ; Il
TEATRO DELL’ASSURDO che si richiama in particolare a Dada. Pensiamo al romeno
EUGENE IONESCO(1912-1994) che scrive in francese; o all’irlandese SAMUEL
BECKETT(1906-1989) che scrive sia in inglese che francese: si ha una tendenza
cosmopolita. Sono i nomi più famosi di questo nuovo teatro che esprime il disagio di una
civiltà occidentale che ha vissuto il trauma di eventi storicamente prima immaginabili:
dalla Shoah alla bomba atomica. Sono artisti che, evitando l'impegno politico della linea
precedente, si soffermano sui temi esistenziali: la solitudine, l’incomunicabilità,
l’insensatezza del vivere. La novità dei contenuti si accompagna però sempre a una
ironica rimessa in discussione del linguaggio e alla destrutturazione della forma teatrale.
Nel 1950 è messa in scena “La cantatrice calva” di Ionesco. Siamo nel salotto borghese
dei coniugi Smith; arriva una seconda coppia, i coniugi Martin, il Capitano dei pompieri
che non fanno altro che rinforzare la parodia dei luoghi comuni della comunicazione
sociale, sino a un vero e proprio delirio verbale.
Nel 1953, si ha invece la rivelazione di Beckett, con la messinscena di “Aspettando
Godot” ambientato in una strada di campagna, dove due vagabondi, Estragone e
Vladimiro, aspettano Godot. Ma lui non arriva e nei due atti del testo non succede nulla.
Ciò che emerge in primo piano non è tanto l'oggetto dell'attesa, quanto la condizione
dell'attendere, l'inutilità e l'assurdo dell'esistenza umana percepita come aspettazione
senza scopo, lungo preludio della morte. L'attesa è inerrotta nel primo atto dall'arrivo di
Pozzo, che tiene legato con una corda una specio di schiavo, Lucky. Il secondo atto si
svolge il giorno dopo, stessa ora e stesso posto. Ritornano Pozzo e Lucky, ma il primo
cieco e il secondo muto. È una straordinaria rivelazione del senso della vita, che è puro
accidente (assurdo) in base al quale si può diventare ciechi o muti da un giorno all’altro.
Esattamente come si può nascere e morire. In ogni caso il significato di Aspettando
Godot non riposa solo sull'attesa di Estragone e Vladimiro, ma sull'incrocio dei quattro
personaggi: due che aspettano la fine della vita, e due che ne subiscono le metamorfosi.
La lezione profonda del testo è nella somma delle due coppie, è in unva vita che è attesa
della fine, ma attesa intessuta di menomazioni progressive.
Con il Teatro dell’Assurdo l’atto unico o comunque la misura breve del testo si
ripropongono come scelta consapevole. L'atto unico è una concentrazione drammatica
che coglie l’essenza di una condizione esistenziale. In Beckett, per altro, alla
concentrazione temporale corrisponde un processo di restringimento spaziale. In altre
sue opere i personaggi risultano inibiti nei movimenti: in Finale di partita Hamm è
immobilizzato al centro della stanza, mentre i suoi genitori sono immersi in due bidoni
della spazzatura.
Non c'è dubbio che Beckett costituisca una metafora lucida e implacabile dell'esistenza
umana: un aspettare la fine della vita, contrassegnato però da una condizione di sempre
maggiore handicap, in un quadro complessivo di perdita della parola fino al silenzio.
Attesa mutilazione silenzio: questi i tre vertici del triangolo perverso del teatro
beckettiano. Forse c'è un afflato religioso, ma è una religiosità che percepisce la divinità
come un essere crudele, il quale dà la vita per toglierla, e quel poco che dà, lo carica di
pene e di sofferenze.
Può sembrare strano che nel giro di un 30ennio si intersechino e si sovrappongano due
visioni così diverse del teatro e del mondo: da un lato un formidabile assalto al cielo, uno
sforzo di usare il teatro come arma per abbattere la società capitalistica, e dall'altro la
dolorosa riflessione sull'assurdo della condizione umana. Ma è come dire che la civiltà
occidentale, nonostante sia destinata sempre a trionfare sui paesi comuisti, non sembra
potersi abbandonare ai valori su cui poggia la società capitalistica. Il silenzio di Beckett
sembra configurarsi come la metafora della perdita di fiducia nella scrittura, cioè nella
parole e nel pensiero; e il ripiegamento nella riflessione sul limite della vita stessa.
LA BIOMECCANICA
Con la Biomeccanica, Mejerchol’d a partire dal 1913 avvia un sistema di allenamento
dell’attore di cui il cuore sono i etudes, delle partiture fisiche codificate a tema che si
basano sul ritmo ternario ( un piede lungo e due brevi) del dattilo, che condiziona le
tensioni del corpo dell’attore, scandendone le fasi di fermo, di preparazione e di azione.
Sicchè l'attore viene indotto a lavorare sulla macchina del proprio corpo esattamente
come un meccanico. La base teorica di tale processo stava nella teoria di Pavlov, la quale,
basandosi sui riflessi (reazioni che precedono le emozioni), faceva spostare l'attenzione
di Mejerchol'd sulla riduzione dei processi coscienti a favore di un flusso di reazioni
emotive che sgorgano dall'esecuzione fisica di un compito nonchè dall'intenzione di base
dell'attore. Growtoski opererà ancora su questi stessi concetti e se ne ispirerà per la sua
idea di "teatro povero".
L'attore di Mejerchol'd deve pertanto procedere alla costruzione di una partitura fisica,
individuando con esattezza la spazialità delle azioni. Deve fissare quindi una memoria
fisica di quanto ha elaborato, attingendo per variazioni e con precisione: una sorta di
danza cui aggiungerà nuovi elementi che dettaglieranno lo spazio dell'azione. Si è
cercato di definire la biomeccanica con la formula: N(cioè l'attore) = A1 (il cervello da cui
parte il compito) + A2 (il corpo che realizza il compito). Una volta coscientemente
padrone dei propri movimenti, l'attore potrà liberare anche le proprie emozioni. Il testo,
infine, potrà essere aggiunto quando la partitura sarà definita compiutamente.
Visconti provvede ad ambientare tutto il I ATTO e parte del II in esterni, nel cortile della
locanda. Aria e luce penetrano improvvisamente nella drammaturgia goldoniana, le cui
vicende da private si fanno pubbliche. E quel cortile è disadorno, quasi squallido, come si
addice alla fabbrica dell'accumulazione capitalistica. Candide tovaglie bianche ma
umilissime sedie di legno; il bianco che rimanda al grembiule di Mirandolina. Nel III
ATTO c’è un interno più minaccioso dell'esterno , "Una specie di capannone in cemento
armato, tutto grigio, tutto tetro, con enormi finestre". La città è continuamente visibile
sia dagli esterni che dalle finestre. La vicenda di Mirandolina si apre così a un rapporto
dialettico con la società, con la comunità e con la storia. Un' altra ondata di bianco, poi,
rimanda sempre lo stesso messaggio: pulizia, ordine, efficienza gestionale. La locandiera
è, non a caso, una locandiera e non una damina cocotte che civetta tutto il giorno.
L'impoetico grembiule è la sua divisa, è il segno distintivo della professione: padrone di
locanda, ma lavoratrice in prima persona per dare l'esempio ai suoi salariati.
Insomma c'è un filo rosso che guida la fondazione del teatro di regia in Italia nel secondo
dopoguerra, ed è la parola d'ordine del realismo, dell'attenzione allo spessore
sociologico dei testi in scena. Goldoni diventa, infatti, una bandiera della grande regia
italiana. A cominciare da GIORGIO STREHLER (1921-1997), fondatore nel 1947 del
Piccolo Teatro di Milano. Comincia nel’47 con uno spettacolo goldoniano “Arlecchino
servitor di due padroni” che esalta il gusto della corporeità, del funambolismo attorico.
Con la “Trilogia della villeggiatura” 1954 si allinea rapidamente alla linea di lettura
storicistica, non più personaggi graziosi bensì il ceto borghese al tramonto, percepito
come alle soglie di un grande trauma storico.
Strehler è un artista completto, individualità inquieta. La scelta del realismo e
dell'engagement politico, lo portano a riscopire alcuni capolavori del naturalismo
dialettale ottocentesco e si accompagnano a una vena lirico-sentimentale. La Trilogia,
infatti, è anche una grande storia di un amore infelice, perché Giacinta è promessa sposa
di Leonardo, ma ama Guglielmo (ricambiata). Strehler prosciuga un po' il testo
goldoniano ma conserva le linee portanti, compreso il monologo iniziale di Giacinta, che
dice il suo dolore per l'amore impossibile. Se guardiamo la seconda edizione dello
spettacolo del 1978, realizzata in Francia, con attori francesi,possiamo osservare che
rinforza ulteriormente la dimensione sentimentale dell'originale: il linguaggio risulta più
melodrammatico, introducendo quell'idea di "vero amore" che manca al razionalista
Goldoni. L'attrice francese ha spesso gli occhi lucidi, per il pianto a stento trattenuto, ma
conserva la sua grazia e la sua eleganza settecentesca. Confessa il suo amore a Guglielmo
senza mai perdere il controllo di sè, abbassa spesso gli occhi parlando di cose tanto
intime e Guglielmo è sulla stessa linea di discrezione. La passione resta perfettamente
sotto il controllo della ragione come impone la civiltà del '700.
Le generazioni successive a Strehler non hanno la perfezione di questa misura e di
questo equilibrio, e forse è un bene. MARIO MISSIROLI (n.1934), regista non lineare,
autore di spettacoli memorabili firma anche lui una Trilogia nel 1981. Innova
radicalmente a livello di scenografia -> Nessuna ambientazione realistica ma un
palcoscenico circolare, vuoto, inclinato verso gli spettatori, dove i servi introducono
qualche sedia. Missiroli sopprime il monologo di apertura di Giacinta, con lui siamo
subito in media res, Guglielmo afferra Giacinta e la sbatte contro il cancello. È una
immediatamente: perchè il teatro di quegli anni punta tutto sul linguaggio non verbale,
polemizza cioè con la centralità della parola e valorizza al massimo la dimensione del
corpo, del gesto e del suono, del colore e della scenografia. Al contrario Carmelo ha una
potenza di voce straordinaria, una ricchezza di timbri eccezionale e porta avanti una
sperimentazione sulla voce, sulla phonè, di notevole impegno. Al tempo stesso rimane
costante la sua attenzione per il testo poetico. I suoi molti spettacoli shakespeariani non
sono mai presentati come di Shakespeare, bensì da Shakespeare. Carmelo Bene
rielabora liberamente le scritture shakespeariane, ne sfronda violentemente i
personaggi, spingendo alle estreme conseguenze la pratica del Grande Attore
ottocentesco alle prese coi copioni di Shakespeare.
evento-scandalo del Living. Viaggio verso "la bella Rivoluzione Anarchica Non-Violenta",
in realtà si tratta di un'operazione di per sè abbastabza intellettualistica, in cui entrano la
cultura religiosa dei Beck, influenze di culti orientali, teorie Zen, tecniche yoga e la
psicoanalisi di Reich. Il dato più clamoroso è la rottura, concreta, della barriera che
oppone palco e platea, è la trasformazione dello spettacolo in un grandioso happening,
in cui gli spettatori recitano o comunque agiscono. Si può dire, comunque, che il risultato
teatrale è comunque meno importante del fatto che un gruppo di persone con uguali
valori e convincimenti si sia riunito in una grande famiglia per fare teatro. Ciò che conta è
soprattutto l'esperienza esistenziale. Nasce un'immagine di vita, l'icona di una tribù
apolide.
PETER BROOK è un altro dei grandi sciamani della scena contemporanea. Della stessa
generazione di Beck e Malina presenta però un percorso professionale assai diverso.
Regista inglese, lavorava sia nel teatro commerciale, sia nelle severe istituzioni della Gran
Bretagna, come la Royal Shakespeare Company. Mette in scena Shakespeare in maniera
eccentrica, ma geniale. Nel 1970, la svolta, si trasferisce a Parigi e dà vita al Centro
Internazionale di Ricerca Teatrale. Inizia il suo processo di “allontanamento” dalle
istituzioni teatrali. Si lega in amicizia a Grotowski e anche per lui diventano fondamentali
il lavoro sulle radici del fenomeno teatrale e lo scavo sull'arte dell'attore (corpo, voce,
tecniche di improvvisazione). Decisiva è la scelta di operare con una troupe di attori di
varia nazionalità, che parlano lingue diverse e che rompono pertanto la compiaciuta
convenzione della dizione perfetta su cui si regge l'industria dello spettacolo. Lo affascina
la ricerca di un pubblico nuovo, in qualche modo vergine. Interviene con il suo gruppo in
Iran, in Africa, negli Stati Uniti. Nel 1974 si installa in un vecchio teatro abbandonato a
Parigi, “Les Boufes Du Nord” che viene lasciato volutamente in stato di degrado. Le
edizioni dei classici teatrali lasciano via via più spazio a progetti costruiti sulla centralità
attorica, sino a Mahabharata (1985), summa del pensiero indù, che dura 9 ore.
Il più ascetico interprete di questo rinnovamento resta, però, JERZY GROTOWSKI (1933-
1999), fondatore nel 1959 del Teatro Laboratorio e regista polacco. Parte da una
riflessione sulla progressiva perdita di identità del teatro rispetto al dispiegarsi del potere
del cinema, prima, e della televisione, dopo. Riconosce l’inferiorità tecnologica del teatro
rispetto ai nuovi mezzi, ma per concludere che è impossibile pensare a un ribaltamento
dei rapporti di forza. Il teatro deve ammettere i suoi limiti, evitando scenografie, effetti
luminosi e sonori, costumi, trucco, ecc... Solo così, accettandosi come “teatro povero”,
potrà ritrovare la sua “specificità”, poiché ricco di presenza viva in carne e ossa
dell'attore. Grotowski spinge su un punto dove molti teatranti del Novecento
ugualmente insistono: il teatro può esistere non solo senza apparato tecnologico ma
anche senza testo. Apparentemente la sua produzione implica sempre dei testi: solo nel
suo ultimo spettacolo, “Apokalipsis cum figuris” (1969) manca volutamente una
scrittura compiuta. Ma è altresì vero che il testo in Grotowski è essenzialmente una
partitura e lo spettacolo è costruito a partire dal rapporto con l ‘attore. Ciò che conta è
l’incontro tra regista ed attore, che può benissimo scattare anche senza testo. Alle
messinscene del Teatro Laboratorio gli spettatori non sono mai piu di 50. La prospettiva
dell'incontro mira alla concezione del teatro come esperienza di vita che è lavoro su di
sè, arricchimento spirituale in grado di trasformare chi fa e chi osserva il teatro. Si è
parlato a questo proposito di un percorso iniziato di Grotowski, di una sua vena gnostica.
Il capolavoro di Grotowski rimane “Il principe costante”, allestito per la prima volta nel
1965, adattamento di un testo di Calderon de la Barca, riscritto da Slowacki (autore
romantico). La realizzazione grotowskiana elimina, tuttavia, ogni connotazione storico-
ideologica di contrasto fra religione cattolica e musulmana. L'essenza dello spettacolo si
concentra sull’affinamento della ricerca sul corpo dell’attore protagonista, Ryszard
Cieslak, il più celebre degli attori grotowskiani. Il tema dell'incontro riguarda primo di
tutto la coppia regista-attore e in occasione de Il principe costante, Grotowski prova non
a caso per mesi e mesi solo con Cieslak, che soltanto in un secondo tempo comincia a
lavorare con i compagni.
L'influenza di Grotowski nella scena contemporanea è tanto puù sconvolgente perchè
tutto si gioca sull'arco breve di un decennio: 1959- fondazione del Teatro Laboratorio;
1963- La tragica storia del dottor Faust, primo spettacolo che suscita attenzione; 1969-
Apocalypsis cum figuris, ultimo spettacolo. E' paradossale che per trent'anni, fino alla
morte (nel 1999), Grotowski sia oggetto di grande venerazione, benchè non sia più
presente a livello di creazioni sceniche. Perchè abbandona il teatro? Lo dice lui stesso:
"Non è l'avventura teatale che è importante nella vita, ma la vita come avventura,
questo è importante. [...] Il teatro non è stato niente di più per me, mai; l'attore era
pseudonimo per dire essere umano, niente più". Grotowski, infatti, a un certo punto
smette di creare spettacolo ma continua a incontrare esseri umani, egli continua la sua
indagine psicofisica in una lunga serie di esperimenti parateatrali, da intendere
comunque come lavoro su di sè.
Il grande allievo di Grotowski è notoriamente l'italiano EUGENIO BARBA (1936). Nel
1964 fonda a Oslo l’Odin Teatret, con attori rifiutati dalle accademie. Poi sposta la sede
del suo teatro nella cittadina di Holstebro: a Oslo non possiedono la dizione ottimale dei
colleghi diplomati delle accademie, a Holstebro non possiedono nemmeno la lingua ->
tuttavia di questo doppio handicap ne fanno un elemento di forza e creano spettacoli
non fondati principalmente sul tessuto dialogico. E tale è effettivamente il primo grande
successo del gruppo “Min Fars Hus” (La casa del padre) del 1972, partito come lavoro
sulla biografia di FEDOR DOSTOEVSKIJ, ma nei fatti l’allestimento risultò il frutto
dell’incontro fra la personalità dello scrittore russo e il gruppo teatrale. Gli attori (e in
questo consiste il metodo di Barba) creano delle improvvisazioni durante il lunghissimo
periodo delle prove, a partire da spunti che essi stessi ritrovano, studiando la vita e le
opere di Dostoevskij. Lo stimolo iniziale può suscitare una sua illustrazione o
un'immagine opposta. Ne viene fuori una ricca partitura di azioni che solo in un secondo
tempo il regista corregge e modifica.
Proprio all'indomani di Min Fars Hus Barba attivò la pratica dei baratti: l’Odin offre i suoi
spettacoli in territori marginali e la gente del posto ricambia con canzoni, danze,
narrazioni, ecc attinte dal patrimonio locale. Non per nulla è Barba a lanciare nel 1976 il
Manifesto del Terzo Teatro (terzo fra teatro di tradizione, teatro dell'industria dello
spettacolo da un lato e teatro d'avanguardia dall'altro) sul variegato pullulare di teatri di
base dei gruppi giovanili, indicati come via di fuga per la generazione '68-'77 che doveva
sfuggire alla lotta armata e alle droghe.
Ma il senso ultimo della creatività barbiana è tutto da cogliere all'interno di una carica
vitale prorompente, passionale che ha essenzialmente una vocazione lirica, non
drammaturgica. Gli spettacoli più riusciti di Barba sono frammenti poetici che
comunicano non attraverso il logos ma attraverso il fluire delle immagini e dei suoni. E'
un teatro musicale, giocato sui contrasti di silenzi prolungati, di accensioni subitanee, di
strazianti melodie. Ed è un teatro intensamente cromatico. Gli allestimenti di Grotowski
possono anche essere ripresi in bianco e nero, quelli di Barba no. Sono i suoni e i colori
di una incontenibile pulsione di vita, che sta agli estremi opposti del gusto della
macerazione, dell'ascesi gnostica di Grotowski.
TADEUSZ KANTOR (1915-1990) si situa su una linea diversa, pittore, scenografo polacco,
legato alle Avanguardie storiche. Tra gli anni Settanta e Ottanta arriva il suo successo con
due spettacoli capolavori: “La classe morta” e “Wielopole-Wielopole”. Non siamo più
nella dimensione dell'evento o del lavoro sull'attore, ora siamo nella dimensione dello
spettacolo e di qualità. Il dato che più ha sorpreso è l'ossessiva presenza del regista sulla
scena. Non già attore fra attori, ma piuttosto proprio nel ruolo esplicito del regista,
intento a controllare i propri interpreti e ad aiutarli. La presenza del regista sulla scena
ha un valore simbolico fortissimo, evidenzia la presenza risolutrice del regista nel teatro
del '900, la sua presa di possesso del palco, il suo sottrarlo definitivamente agli attori.
Nell'imporsi agli attori, originariamente, il regista praticava un compromesso: lasciava
piena visibilità agli attori, unici presenti sul palcoscenico, ma stava dietro le quinde e li
dirigeva. Kantor spinge il processo agli esiti estremi e scopre le carte. Non mette più in
scena testi di autori, ma è lui stesso autore. Regista-autore di testi/spettacoli che
discendono direttamente dalla sua biografia.
Questa pulsione autobiografica è meno visibile in Classe morta ma diventa invece
clamorosa in Wielopole-Wierlopole, che è il nome del villaggio a Cracovia dove è nato
Kantor. I personaggi della storia sono suo padre, sua madre, il nonno, il fratello.
S'intende da subito però che l'album di famiglia non ha nessun accento "caramelloso": il
ricordo che scava conserva sempre un tono lucido, ironico, straniato fino alla spietatezza.
Inoltre il privato si allarga al sociale, alla Storia. Ci sono i reduci della Prima Guerra
Mondiale, ma anche i mostri della seconda. Ci sono molte immagini religiose ma
anch'esse sottoposte al solito gusto straniante (una croce meccanizzata, ad esempio). Da
notare che il flusso memoriale è stettamente connesso alla dimensione sonora: prima
c'è la musica, poi i dialoghi. Le parole vengono sempre dopo. La musica nasce dal
silenzio, a fatica, non è mai esplosiva. Non la musica come colonna sonora, bensì il
contrario: le immagini come prolungamento musicale, che concretizzano emozioni
profonde dell'animo, emozioni musicali appunto. Un teatro della memoria che si pone
come un teatro della musica. Tutto Wielopole-Wielopole è basato sull'alternanza di 4
motivi: una percussione di bastoni, il Salmo 110, la marcia militare Grigia Fanteria, la
melodia natalizia della Notte della Vigilia (Chopin).
Non si può concludere il capitolo sui registi sperimentali senza ricordare l'americano
ROBERT WILSON (1941) (Bob Wilson) che ,invece, lavora sulla dimensione del tempo e
dello spazio: ovvero le forme del teatro immagine. Nelle sue realizzazioni il tempo viene
rallentato: l’attore può impiegare un’ora ad attraversare la scena o dieci minuti a voltare
lo sguardo. Il rallentamento fa addormentare e questo è considerato non accettabile nel
teatro occidentale. Invece è un effetto che Wilson vuole. Lo spettatore deve raggiungere
uno stato misto di sonno e veglia, di stato neutro e elaborazione onirica. Anche grazie
vestizione. Codificati sono i movimenti dei piedi e delle mani come le caratteristiche
espressioni del volto.
BALI. L’isola di Bali presenta una varietà di espressioni sceniche, dagli spettacoli di
marionette proiettate su uno schermo bianco e della durata di una notte intera, alle
danze le quali presentano influssi indù e un sottofondo religioso e sciamanico. Queste
danze sono accompagnate dalle orchestre GAMELAN e sono state suddivise nel 1971 in
tre categorie: a) Sacre, si danzano nel cortile del tempio ( Tari Wali) come la suggestiva
danza di trance femminile; b) Cerimoniali, nel cortile intermedio del tempio ( Tari
Bebali); c) D'intrattenimento, anche fuori dal tempio ( Tari Balih Balihan). ARTAUD dice
che il teatro balinese ha immagine sceniche pure e riporta a un piano di creazione pura e
autonoma, per la cui comprensione sembra sia stato inventato tutto un nuovo
linguaggio. Gli attori con i lori costumi,infatti,compongono geroglifici vivi e in
movimento.
CINA. Le compagnie della cosiddetta Opera Cinese (che supera la concezione del nostro
melodramma, sia per l'importanza della parte mimico-acrobatica, sia per la
specificazione dei personaggi in ruoli, costumi e trucchi prefissati), sono
prevalentemente di soli uomini o sole donne. L’importante OPERA DI PECHINO prevede
una recitazione mimica con canto e improvvisazione assieme ad una orchestra. I tipi su
cui si fonda sono i 4 tradizionali: SHENG ( personaggio maschile); DAN (p. femminile);
JING (faccia dipinta) e CHOU (buffone).
MEI LAN FANG (1894-1961), celebre dan, attore e innovatore dell’Opera di Pechino, fu in
tournée in Russia nel 1935 e influenzò larga parte del teatro di quella nazione e del
continente. Chaplin ne parlò estasiato a Ejzenstejn; Mejerchol'd lo apprezzò e la teoria
brechtiana dello stranimento gli deve non poco. BRECHT scrive che l'attore cinema
sottolinea la consapevolezza di essere visto e quindi elima una delle illusioni tipiche della
scena europea. L’attore si sforza di riuscire strano e sorprendente allo spettatore:
considera estranea l’esibizione e sè stesso.
GIAPPONE. Qui troviamo il NOH, nobile forma drammatica di ascendenza sciamanica
che si struttura nel XIV secolo. I suoi attori (maschi) sono mascherati e parlano, danzano
e cantano con monotonia, accompagnati dal flauto e da percussioni. Kiyotsugu e
Motokiyo, padre e figlio, contribuirono in maniera determinante a formalizzare il
genere. Il secondo fu autore di tanti testi del repertorio, le cui trame eroiche alternano
fra i personaggi divinità, spiriti, figure storiche e leggendarie. La scena del Noh è
caratterizzata da un’area quadrangolare prossima a un ponte che collega con lo
spogliatoio; 4 pilastri sorreggono la pagoda del tetto; a destra, una veranda per il coro;
sul fondo, è dipinto un pino nodoso. Il pubblico si situa di fronte il palco e a sinistra del
ponte. Lo SHITE (protagonista) è spesso una visione del WAKI (deuteragonista -> il
secondo protagonista positivo) e il dramma si sviluppa dall’interrogazione di
quest’ultimo e dalla narrazione del primo. Nel teatro giapponese resta centrale l’arrivo
di qualcuno , e negli intervalli viene recitato il KYOGEN, che valorizza il dialogo più della
danza. Il KABUKI, invece, è una forma di spettacolo che concerne eventi sia drammatici
sia storici sia amorosi, si manifesta ne XVII secolo. Esso conquistò un largo pubblico
borghese e decisamente più popolare di quello del Noh. La rappresentazione può essere
articolata in 5ATTI, contempla interventi di danza e di mimo e si tiene su una scena
caratterizzata dal tipico ponte che attraversa la sala e porta gli attori verso la ribalta.
Esso presenta, inoltre, una piattaforma rotante. Gli attori arrivano ad essere una trentina
anche tutti in scena contemporaneamente, agendo e usando gesti convenzionali.
Sono molte, quindi, le differenze di stile tra i vari teatri d'Asia ma essi condividono,
secondo Barba, lo stesso nocciolo storico e tecnico. L'attore occidentale infatti non ha un
rigido sistema di riferimento a cui rifarsi, mentre gli attori del kathakali, del Kabuki, del
Noh debbono attendere a codici espressivi ben precisi e tramandati. Se ciò può
sembrare un limite dai teatri asiatici ricaviamo in primo luogo uno stimolo essenziale: la
fine della distinzione dell'attore dal danzatore. Scrive Barba: "La rigida distinzione tra il
teatro e la danza, caratteristica della nostra cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto
di tradizione che rischia di attrarre l'attore verso il mutismo del corpo e il danzatore
verso il virtuosismo". Da qui un impulso a pensare il teatro in termini più ritmici ed
energici in senso corporeo che psicologici in senso intellettuale. Le ricerche di Barba
hanno evidenziato che l'energia del attore-danzatore orientale è ciò che ci attrae, come
una radiazione non premeditata che capta la nostra attenzione, e l'acquisizione di tale
qualità da parte dell'attore occidentale rappresenterebbe un'opportunità espressiva
straordinaria.
Se il teatro asiatico può apparire profondamente diverso, la contrapposizione netta con
quello Occidentale ha poco senso. Gli studi di Nicola Savarese hanno dimostrato anzi
l'opportunità di una prospettiva d'analisi parallela o "eurasiana", nella quale cioè
inquadrare la relazione costante fra teatro d'Oriente e d'Occidente sin dalla tragedia
greca. Si tratta di uno scambio intenso che è presente con una continuità esemplare
soprattutto nel '900, essendosi spesso manifestato nel campo non scritto dei corpi degli
attori. Per questo motivo oggi si tende a individuare i teatri propriamente asiatici e le
loro tradizioni specifiche da un'idea più larga di teatro orientale, meglio ancora
euroasiano, inteso da Savarese come "il più grande crogiolo di arti dell'attore e tecniche
spettacolari a cui il teatro occidentale abbia attinto nel tentativo di rinnovarsi".
particolare dei neri d’America e con le loro forme di espressione. Le fenomenologie della
danza di strada odierna (hip hop, funky, break) cercano di perpetuare l'originario
ingrediente di protesta sociale e razziale.
La definizione “danza moderna” viene riferita anche a tutto il movimento della danza
d’espressione tedesca (i cui temi sono: la rivolta dell'individuo, la denuncia sociale, il
disagio esistenziale) che precede la seconda guerra mondiale ed è attribuita a RUDOLF
VON LABAN (1879-1958) e ai suoi allievi, definiti neo espressionisti. Quando si parla
invece di “Balletto Moderno” ci si riferisce a un utilizzo libero della tecnica accademica,
più o meno contaminata con altri linguaggi e tecniche strutturati. Il riferimento qui va a
MAURICE BEJART (1927-2007), con la sua produzione sempre in bilico tra spettacolarità
d'evasione e impegno sociale/filosofico, o a WILLIAM FORSYTHE che ha reinventato il
balletto secondo una nuova estetica, minando alla radice le strutture del racconto , per
presentare sulla scena situazioni nuove, legate al sentire del tempo, di grande rigore
formale ma sempre entro l'alveo di una tecnica riconducibile al classico.
Il segno più forte e convincente del secondo dopoguerra è senza dubbio il
TEATRODANZA. Deriva da Tanztheater, una forma fatta conoscere in Italia da PINA
BAUSCH. È un neologismo efficace. Questo fenomeno è storicamente preciso e
circoscrivibile a un'area geografica e culturale determinata. Bisogna risalire alla
Germania dei primi decenni del ‘900: il teatrodanza tedesco degli anni '70 infatti muove
proprio da questo retroterra -> la danza d'espressione e le Avanguardie Storiche,
vivendo però in osmosi col clima di generale ridefinizione dei linguaggi artistici. Ciò che
fa dunque il Tanztheater è una riscoperta del linguaggio del corpo, ma anche la ripresa
dell'antico mito dell'arte totale e la riaffermazione del teatro come luogo dello
spettacolo, all'interno del quale non esistono più confini di genere. In Cafe Muller 1978,
tra gli spettacolo più famosi tedeschi, i personaggi non sono ben definiti e la narrazione
è labile, affidata all'atmosfera complessiva della messa in scena e della coreografia. In un
cafè in disuso e chiuso, una donna si aggira come una sonnambula nello spazio
ingombrato da sedie e tavoli; accanto a lei uomini e donne (che sembrano essere tanti
doppi della protagonista) attraverso la danza intrecciano rapporti ora affettuosi, ora
violenti, quasi materializzando i fantasmi del suo vissuto e delle sue sofferenze.
Negli Stati Uniti l'innovazione è rappresentata dalla corrente rivoluzionaria della POST
MODERN DANCE, fenomeno di ripensamento globale del medium danza, nonchè
momento di rifondazione di un’estetica della contemporaneità adeguata ai grandi
mutamenti degli anni '60 e '70. le performances dei danzatori spingono all’esplorazione
di luoghi alternativi al teatro: la danza esce all’aperto, occupa le strade di città. La danza
diviene il luogo della liberazione del corpo dall’alienazione che esso subisce in una
società regolata unicamente dalla competizione economica. Fra gli anni '60 e ’70
l’attenzione di questi coreografi e ballerini si concentra sui temi politici: sono gli anni del
femminismo, del pacifismo, della rivoluzione studentesca, dell'emancipazione delle
minoranze.
Nel corso degli anni '90 è stata introdotta, poi, la nozione di DANZA D’AUTORE. Questa
espressione descrive un nuovo territorio della danza in cui autori diversi fra loro
rigettano il classico e quello moderno, proponendo un’originale costruzione di segni che
è il portato di una nuova estetica della danza, sintesi di molte delle tendenze che l'hanno
preceduta.
All'interno delle nuove danze europee degli anni '80 e '90, un posto particolare ha
assunto il TEATRODANZA POVERO. Il danzatore non si fa mediatore di un contenuto
estraneo, ma recupera dentro sè stesso dimensioni che gli sono proprie. Il vissuto
personale torna a vivere nel corpo danzante e vi si giunge improvvisando. Il risultato è
una forma d'espressione pre-verbale, un nuovo teatro in cui anche la parola è vissuta
per il suo valore gestuale e non puramente sonoro.
ISADORA DUNCAN
Isadora Duncan ha una visione della storia come corruzione della condizione
primordiale. A suo parere nel mondo delle Origini si viveva secondo criteri di "grazia" e il
privilegiato modo di essere degli antichi implicava un ideale accordo tra la sfera interiore
e l'espressione, possibile solo in presenza di un corpo che non fa uso di una dinamica
spezzata e marionettistica. Ella studia l'arte greca ma non per copiarla, bensì per
riscoprire le leggi eterne che gli uomini del passato conoscevano e di cui la nostra civiltà
ha perso le tracce. Scopo ultimo del danzatore è, per lei, riscoprire il modello e
reimparare a realizzarlo nelle proprie movenze. Il ballerino sarà così in automatica
connessione con il Tutto, se asseconderà la pulsazione universale che si riverbera in noi
attraverso il plesso solare (punto del corpo subito sotto il diaframma), basta che accolga
le vibrazione della natura e che le lasci fluire. Le sue prime opere presentano un volto
gioioso e sereno, le ultime sono più gravi, assoli minimalisti, quasi privi di movimento:
con lentezza l'artista si solleva da terra in piedi e alza emblematicamente le braccia verso
il cielo. Il costume, la scenografia, le luci sono sufficientemente neutri da focalizzare tutta
l'attenzione su quello straordinario essere umano che ha riscoperto la naturalità del
proprio mezzo primario di espressione e che danza a piedi nudi al fine di revitalizzare un
contatto in primis con la Terra.
MARTA GRAHAM
Pochi mesi prima di morire, Marta Graham pubblica "La memoria del sangue" che è una
sorta di testamento, nel quale il grande danzatore è proposto come colui che riesce a far
affiorare i ricordi del passato più remoto nascosti nella Memoria della specie e a renderli
visibili attraverso il corpo. Per far questo occorre aver liberato la propria mente
dall'eccesso di coscienza: ad es. se tutta la nostra attenzione è volta al raggiungimento di
una posizione, di un gesto o di una sequenza perfetti, dimentichiamo qualcunque altra
realtà e arriviamo a una "dimenticanza di sè". Solo in questo modo è possibile espugnare
il superfluo e raggiungere l'essenziale. Non si tratta dunque di cercare qualcosa di nuovo
ma piuttosto di "tirare fuori" quanto è già dentro di noi. La Graham ambisce a un
movimento sincero del corpo e per acquisire la sincerità occorrono lavoro, tecnica,
disciplina. Un cardine del lavoro per questa coreografa diventa il peso del corpo: il modo
in cui lo si sposta diviene essenziale per il movimento. Marta Graham afferma di aver
studiato la dinamica del peso osservando gli animali, creature assai meno contaminate
dalla riflessione dunque assai più capaci di "sincerità". I soggetti delle sue coreografie
sono spesso tratti dal mito, ossia da storie che racchiudono valori, principi, verità che
appartengono alla collettività: Phaedra, 1962, ad esempio.
PINA BAUSCH
Attorno al 1978 il processo di costruzione dello spettacolo di Pina Bausch cambia in
modo determinante. Ella pone ai danzatori domande o suggerisce temi sui quali
intervenire e chi vuole risponde alla sollecitazione e può farlo impiegando parole o
movimenti o entrambi. "Qualcosa sul vostro primo amore", "Offrirsi". Una volta
terminata questa fase, in un paio di settimane ella sceglie i materiali tra l'enorme
quantità prodotta e li monta assieme, concependo una sorta di collage di azioni e di
parole. Si tratta dunque in questo stadio, di un problema di composizione che spetta
unicamente alla regista. La scenografia va elaborandosi parallelamente al lavoro dei
danzatori, sulla base degli oggetti e dello spazio a loro necessari per proporre i loro
materiali; nessun elemento scenografico è puramente decorativo. La musica è sempre
un collage di pezzi diversi. L'argomento primo è sempre l'io degli interpreti e l'esprimere
la propria personalità non avviene in modo spontaneo, ma è frutto di un esercizio
costante, tenace e spesso doloroso. Le modalità espressive sono prodotti da individui in
possesso di una tecnica solidissima. Tuttavia l'io del danzatore è protetto: il montaggio
realizzato dalla regista veste diversamente le singole sequenze, perciò esse vengono
lette dal pubblico dentro a un contesto che lo porta a vederne un altro senso,
nonostante per il danzatore esse rimangono l'espressione della sua personalità più
profonda. Quando capia che una persona assuma la parte di un'altra, a quel punto si
applica un tipo di procedimento più simile a quello in cui l'attore deve costruirsi
l'emozione sulla base di un copione preesistente.
varie pedagogie, tutte tendenti a legare intimamente teatro e scuola, ovvero creazione e
formazione, ricerca artistica e tecnica. Con il regista demiurgo e pedagogo siamo di
fronte a due modi profondamente diversi di intendere la messa in scena. Il primo crea
tutto da solo, mentre il secondo crea insieme a tutti gli altri, attori compresi.
E' chiaro quindi che se già le prove si erano allungate sensibilmente con l'avvento della
regia, adesso (col regista pedagogo che collabora con tutti) si allungheranno ancora di
più. Su queste basi si fa largo, nel '900, l'idea che le prove non siano soltanto la tappa
obbligata ma possan essere qualcosa di più e di diverso: un momento di ricerca,
un'esperienza esistenziale e umana. Diventa quindi fondamentale il lavoro dell'attore su
di sè, trasformato in un fine e non più soltanto in un mezzo. Questa tensione a concepire
le prove come qualcosa di autosufficiente è una tensione che percorre l'intero secolo e si
impone difinitivamente con le scelte di Grotowski. Si tratta del punto s'arrivo di quella
che potremmo definire l'era del processo creativo.
Tutto ovviamente a condizione che si parli di un attore nuovo, rifondato. In effetti la
seconda rivoluzione del '900 sta proprio qui: siamo nel secolo delle scuole teatrali e
degli esercizi per gli attori. La novità forte, inequivocabile del 1900 sta nel modo in cui la
scuola e gli esercizi vengono intesi ed entrano in rapporto con il lavoro teatrale nel suo
complesso. Si afferma l'idea che l'attore sia come un cantante, un ballerino, un
musicista, che deve costantemente tenersi in allenamento. Inoltre la scuola non è più un
luogo dove si insegna un sapere già noto, ma diventa il luogo della sperimentazione
sempre nuova e diversa. La stessa trasformazione la subiscono gli esercizi. Fino all'inizio
del '900 l'attore faceva esercizi solo per acquisire specifiche abilità, in relazione alle parti
che doveva interpretare. Nel corso del nuovo secolo l'allenamento dell'attore diventa
qualcosa di indipendente dalle esigenze dello spettacolo: gli esercizi tendono a temprare
la personalità e la creatività dell'attore. Nelle nuove scuole teatrali troviamo quindi:
acrobazia, ginnastica svedese, yoga, danza, ecc... L'intenzione è quella di far prendere
coscienza all'attore delle possibilità espressive, in modo da trasformarlo in un creatore,
cioè un artista in grado di rigenerare scenicamente la parte scritta, infondendole una
nuova vita.
Ma come arrivare concretamente a questo? La risposta fu trovata spesso nell'idea di
costringere l'attore a esprimersi da solo, senza il testo. Da qui la sottrazione temporanea
del testo. Agli attori viene chiesto di ricostruire la sequenza delle azioni fisiche del
personaggio da interpretare semmai con parole proprie.
Questa sensibilità per la centralità dell'attore, cioè per la sua dimensione corporale, ci
spinge a utilizzare l'espressione tedesca Korperkultur, cultura del corpo, per indicare
l'insieme delle esperienze che concorrono, tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 a mettere
il corpo al centro. La prima a recepire le nuove istanze è sicuramente la danza (libera e
moderna). L'Europa si trova di fronte per la prima volta a un'immagine della bellezza del
movimento puro. Anche il mimo trova ospitalità nelle scuole teatrali. Decroux fonda la
nuova concezione del mimo, detto anche mimo corporeo. Non più soltanto un insieme di
esercizi, ma anche un'arte autonoma, l'arte dell'attore per eccellenza. Infatti, se il teatro
è nella sua essenza attore, e se l'attore è prima di tutto presenza in scena, cioè corpo,
allora questo corpo dovrebbe bastare per dare vita a un'arte teatrale
essenziale,depurata da ogni intrusione estranea (letteraria, musicale, ecc...). Perchè ciò
diventasse possibile era indispensabile che l'attore-mimo ricreasse la propria arte su basi
completamente diverse dalla pantomima tradizionale, la quale: 1) non usava tutto il
corpo ma solo mani e volto; 2) si esprimeva per stereotipi; 3) dipendeva strettamente
dal linguaggio verbale (gesti-parole). Il mimo corporeo non nasce per rinnovare la
tradizione pantomimica, ma per rivoluzionare il teatro: esso rappresenta, nel '900,
l'utopia di un teatro puro.
Ma cosa sta dietro a questa riscoperta del corpo? C'era sicuramente la volontà di liberare
l'attore dalla tirannia del testo e magari di creare autonomamente oltre il testo. Ma c'era
anche una sorta di sfiducia nel linguaggio verbale. Come dire che, invece, è proprio
soltanto il gesto ad avere la capacità di esprimere l'ineffabile, il profondo, l'essenziale.
Siamo davanti a un altro paradosso: da un lato la regia si incarica di mettere sotto
controllo l'attore, e dunque si definisce al servizio del testo, dall'altro è lo stesso '900 a
registrare una diffidenza crescente verso la centralità del testo. Potremmo usare il
termine senocentrismo, per intendere un processo creativo che sposta il suo baricentro
dal testo scritto alla scena e ai suoi linguaggi. Chi ha teorizzato per primo un teatro
senocentrico è stato sicuramente Artaud. Eugenio Barba opera una distinzione tra teatro
per il testo (assumere l'opera letteraria come valore principale dello spettacolo) e teatro
con il testo (scegliere uno o più scritti, non per mettersi al loro servizio ma per estrarre
una sostanza che alimenti un nuovo organismo: lo spettacolo).
Una delle matrici 900esche del teatro senocentrico, che in genere non viene considerata
tale, è il "metodo delle azioni fisiche" di Stanislavskij. Esso rappresenta una delle più
grandi innovazioni teatrali del XX secolo. Con il modo nel quale il maestro lo sperimenta
negli anni '30, il processo creativo muta radicalmente rispetto alla prima versione del
Sistema, in cui si partiva dai sentimenti, dalla memoria emotiva. Ora si parte dalle azioni
fisiche, date dalle improvvisazioni. Nel metodo delle azioni fisiche le parole non erano
vietate, anche se venivano considerate secondarie, ma era assolutamente proibito
servirsi di quelle dell'autore. Agli attori veniva richiesto di ricostruire di loro iniziativa e
aggiungendovi parole proprie, la linea delle azioni fisiche del personaggio. Soltanto in
una fase molto avanzata del lavoro era consentito di ritornare alla parte scritta. Negli
anni '60 Grotowski parte da qui e porta in fondo le conseguenze di questo metodo. Un
episodio inauguarle di questo processo di liberazione dell'attore attuato da Grotowski è
il lavoro di Cieslak per il Principe costante. Il suo lavoro infatti non fu minimamente
legato al tema del martirio (su cui verteva la rappresentazione) ma su un ricordo felice e
sulle azioni legate a quel ricordo concreto. Sulla scia di questo episodio inaugurale nel
nuovo teatro postbellico l'affermazione dell'autonomia creativa dell'attore forza
definitivamente gli argini del personaggio. Questi diventa per l'attore solo un mezzo, alla
stregua di tutti gli altri di cui si serve per innescare il proprio processo espressivo. Si
attua così un rovesciamento dello schema stanislavskiano, nel quale nonostante tutto il
personaggio rimaneva l'alfa e l'omega dell'attore. Ora, invece, è la verità interiore
dell'attore a diventare il fine, l'obiettivo. L'emancipazione dell'attore va di pari passo con
la definitiva fuoriuscita dal testo centrismo, dando vita a spettacoli teatrali che per la
prima volta rinunciano completamente a un testo: Paradise Now, Apocalypsis cum
figuris, ecc...
L'ultima rivoluzione novecentesca riguarda lo spazio scenico. Viene rimessa in
discussione, nel '900, la struttura teatrale -> E' operante una tnsione al superamento del
teatro e della scena all'italiana, con l'obiettivo di trasformare la relazione
spettacolo/spettatore. Questi tentativi di superamento possono essere ricondotti a tre
diverse soluzioni: 1) Progettazione di nuovi edifici teatrali con possibilità di
organizzazioni multiple, includenti anche assetti altrnativi quali la scena centrale (con il
pubblico che attornia lo spettacolo) e la scena anulare (dove è lo spettacolo ad avvolgere
gli spettatori). 2) Ristrutturazione, più o meno radicale, di vecchi edifici teatrali,
quantomeno per rendere possibile una relazione spettacolo/spettatori più ravvicinata e
coinvolgente. L'abolizione del sipario, l'eliminazione dell'arcoscenico, lo sviluppo del
proscenio. 3) Ricerca di spazi non teatrali: piazze, strade cortili usai come luoghi teatrali.
Celebri le cantine romane degli anni '60-'70.
Non bisogna però semplificare sostenendo riduttivamente che la rivoluzione spaziale del
'900 è consistita solo nell'aver portato lo spettacolo fuori dagli edifici teatrali all'italiana.
Perchè il teatro è sempre stato fatto anche fuori dai luoghi convenzionali. La rivoluzione
è consistita piuttosto nell'aver valorizzato lo spazio teatrale come spazio di relazione e di
esperienza, cioè una diversa collocazione attori-spettatori che determina una diversa
fruizione da parte di questi ultimi. E poi, soprattutto, si verifica la trasformazione del
rapporto fra spazio e spettacolo. Tradizionalmente il luogo scenico è un contenitore
neutro, a priori, indipendentemente dal tipo di spettacolo. Adesso si comincia a capire
che la dimensione spaziale fa parte del processo creativo: lo spazio, quindi, diventa un
elemento della drammaturgia.