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Storia del teatro e dello spettacolo

Storia del teatro e dello spettacolo (Università di Bologna)

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STORIA DEL TEATRO E DELLO SPETTACOLO


1- Il teatro classico greco-romano
Sulle origini del teatro greco non si sa molto, tranne quello che ci dice Aristotele nella sua
Poetica: un riferimento al canto in onore di Dioniso, dio del vino, nelle cui feste erano presenti
spettacoli teatrali ma che non era molto presente nelle tragedie.
“Tragedia” dovrebbe voler dire “Canto del capro” in onore degli uomini-capro a cui era affidata
la celebrazione corale. Il coro aveva un'importanza molto ampia come si può vedere dai 32 testi
tragici che ci sono rimasti, e soprattutto quelli di Eschilo: esso agisce a livello terra, in uno spazio
circolare denominato “orchestra”; sul fondo c'è la skenè, un edificio che serve all'attore per
vestirsi e che funge in qualche modo già da struttura scenografica minima. Il coro, rappresentato
prima da 12 e poi da 15 persone, si pone come un vero e proprio personaggio e, almeno nel
quinto secolo, condivide lo spazio con gli attori.
Una caratteristica del teatro greco è data dalla rappresentazione della maschera che ha
sicuramente un legame con l'origine religiosa: nelle società primitive alla maschera compete una
funzione rituale evidente, consente di diventare altro da sé; è chiaro tuttavia che la maschera ha
anche una funzione pratica, facilita l'identificazione dell'attore con il personaggio. Inoltre
consentiva allo stesso attore di impersonificare più parti.
Nonostante fosse uno spettacolo all'aperto il teatro greco non ignorava del tutto effetti scenici
prodotti da specifici artifici: ad esempio la mechanè era una sorta di gru che sollevava in aria gli
attori come in una specie di volo. → In Euripide essa ritorna con insistenza. L'espressione latina
deus ex machina indica appunto l'intervento risolutore di un dio che compare per mezzo del
marchingegno.

Il senso che il teatro aveva per i Greci è oggi di difficile comprensione per come noi siamo
abituati a vedere il teatro. Lo Stato infatti si assumeva il peso di quell'iniziativa culturale perché
riconosceva la funzione civile del teatro, come modo di cementare la comunità. Essa, infatti,
vedeva riflessa a teatro i miti del proprio patrimonio culturale e mitologico. Gli spettacoli si
inserivano in una struttura agonale (da agone, gara a premio) fra tre autori, ciascuno dei quali
faceva rappresentare una tetralogia, composta da tre tragedie e da un dramma satiresco.
Ci è giunta una sola trilogia tragica, l'Orestea di Eschilo, che presenta una concatenazione
organica delle tre tragedie: Agamennone (l'uccisione di Agamennone ad opera della moglie);
Coefore (l'omicidio della moglie Climetestra e del suo amante Egisto, per opera del figlio);
Eumenidi (che si concludono con l'assoluzione di Oreste per aver ucciso la propria madre).

L'Orestea merita certamente un indugio perché si tratta di uno straordinario


documento/monumento dell'ideologia che caratterizza la civiltà greca. Siamo di fronte ad una
società profondamente patriarcale e maschilista, che imprigiona la donna nel gineceo, perciò tra
universo maschile e femminile si definisce una situazione molto asimmetrica, che cogliamo nel
punto in cui Oreste si appresta ad uccidere la madre.
Egli è portatore convinto dei valori del mondo tradizionale: il lavoro e la fatica per l'uomo, la casa
e la sedia per la donna, sono questi i quattro punti cardinali entro cui sta il cielo della società
greca del quinto secolo.
Contro Oreste (reo di matricidio) si scatena- nelle Eumenidi- la persecuzione delle Erinni, divinità
infernali che non concepiscono l'assassinio dei consanguinei (quindi quello di Oreste ma non
quello di Climetestra, pochè ella è moglie di Agamennone e non consanguinea).
Oreste può però contare sull'aiuto di Apollo e Atena. Apollo contesta la presa di posizione delle
Erinni dicendo che non è la stessa cosa se si valuta la morte di un uomo nobile (Agamennone) e
per di più per mano di una donna. In più, per sottolineare il fatto che Climetestra ha ucciso con
l'inganno il marito, riporta di continuo la storia delle Amazzoni: esse, per vendicare il rapimento
della loro regina da parte di Teseo, si accamparono fuori dalla città, combattendo con le stesse
armi degli uomini, mentre Climetestra colpì Agamennone alle spalle. Ella lo avvolse in un
accappatoio “inestricabile”, “senza un foro per il capo”.
E' la modalità dell'uccisione di Agamennone che offende, più ancora della sostanza del delitto.

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Ma questo è solo il prologo. La dichiarazione più dura di Apollo verso il genere femminile arriva
dopo: “Il padre può generare senza la madre”. E' il maschile a generare, a dare la vita; in prima
approssimazione si può anche accettare la collaborazione del femminile (pur ridotto ad una specie
di “vaso”) ma in seconda approssimazione la potenza generatrice del maschile è totalmente
autosufficiente. L'esempio che porta Apollo è quello della nascita di Atena: che nasce, ma nasce
dal cervello di Zeus, non ha bisogno di essere nutrita da un ventre.
Da notare che le Erinni non replicano a questa affermazione: il principio di superiorità del marito
non è messo in discussione da nessuno, tanto meno da loro.
In realtà il fatto che Apollo citi proprio la nascita di un'altra dea che protegge Oreste la dice lunga
sul fatto che il gioco è truccato. Atena, infatti, è al tempo stesso colei che istituisce il Tribunale,
sceglie i giudici ma anche colei che parteggia per l'imputato: “Oreste vincerà anche se giudicato
a parità di voti”.
Quindi il gioco è truccato dall'inizio, sin da quando Apollo invia Oreste al tempio di Atena, la
quale “si offre” come arbitro della contesa tra lui e le Erinni.
Il quasi pareggio finale, sul quale deciderà il voto di Atena, serve per non umiliare le Erinni e così
da consentire l'operazione finale del loro recupero da parte di Atena (verranno accolte tra le
divinità protettrici e cambieranno il loro nome in Eumenidi, cioè le benevolenti).

Si capisce quindi che Climetestra è un modello di donna scandalosa: durante i 10 anni di assenza
di Agamennone si è presa un amante, Egisto, col quale convive pubblicamente; ha spedito Oreste
lontano da casa. Tuttavia con ella, Eschilo crea una figura complessa e ricca di sfaccettature: è il
primo grande personaggio femminile nella storia del teatro d'Occidente. L'autore, infatti, ci
mostra la sofferenza di Climetestra rispetto a un uomo che le ha ucciso la figlia, Ifigenia, ma ci
mostra anche la sua gelosia pungente per le umiliazioni subite.

Se pensiamo alle tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione, ci accorgiamo che con
Eschilo queste unità non sono rigide. L'Agamennone inizia nel cuore della notte con l'annuncio
della caduta di Troia e nel corso della tragedia arriva direttamente in scena Agamennone: si ha
dunque una forzatura dei tempi.
In ogni caso i teorici classicisti del Rinascimento trasformano quella che in Aristotele era una
semplice constatazione in un obbligo, in criteri normativi estremamente rigidi.
Anche la divisione in 5 atti non sembra risalire ad Aristotele: Orazio, nella su Ars poetica, scrive
che il dramma non deve essere né più corto, né più lungo di 5 atti.
Dal punto di vista dei contenuti tutti e tre i grandi tragici (Eschilo, Sofocle e Euripide) attingono
tutti dallo stesso materiale drammaturgico. Soltanto il mondo greco, privo della fede in una
giustizia divina che assicuri nell'aldilà premi e castighi, poteva inventarsi la tragedia che ha al
centro il tema del dolore come conseguenza di un destino imperscrutabile, chiamato fato. A lui
non si può fuggire.

Nel più giovane dei tre, Euripide, si avverte già un clima più disincantato. In lui l'interesse si
concentra sulla personalità umana, sulle motivazioni psicologiche, sentimentali, del suo agire. In
più spesso crea tragedie a lieto fine, sperimentando una “mutazione genetica” della tragedia
classica.
Un buon esempio è offerto da “Ifigenia in Aulide” dove protagonista è il solito Agamennone, ma
presentato come assolutamente inadeguato al ruolo di condottiero. Egli è diventato duce della
spedizione contro Troia ma per motivi assolutamente personali e di autoaffermazione e quando
risulta impossibile salpare per mancanza di venti, entra in crisi: soffre di dover rinunciare
all'impresa. Appena però l'indovino Calcante dichiara che occorre placare la dea Artemide con un
sacrificio umano, si offre di immolare la propria figlia Ifigenia.
Tuttavia quando la tragedia si apre egli ha già scritto la seconda lettera per impedire che Ifigenia
venga in Aulide: egli è comicamente oscillante fra ambizione e scrupoli, fra desiderio e paura;
egli fa e dis-fa con l'incoerenza accettabile nell'uomo normale, non nel comandante. Il peggio
arriva quando Ifigenia e Climetestra arrivano e scoprono la verità. Il clima, insomma, è quello

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degli imbrogli tipico della commedia. Lo stesso Achille è lontano dal profilo alto dell'eroe:
sembra difendere Ifigenia ma in realtà difende solo sé stesso. Siamo di fronte a tutta una serie di
maschi insicuri, maschi in carriera, che però riescono a far carriera solo sulla pelle delle donne:
Agamennone vuole confermarsi capo uccidendo Ifigenia, Achille vuole diventare un dio
impedendo che ella sia uccisa. Uno la vuole morta, l'altro viva: ma nessuno si interessa a lei, è
solo il prezzo, lo strumento. E Ifigenia si rassegna, lasciandosi plagiare totalmente dall'ideologia
dei maschi e alla fine accetta di morire dichiarando che la vita di un uomo vale quella di infinite
donne.

Un indugio più ravvicinato lo merita anche la Poetica di Aristotele. Egli individua il modello di
tragedia perfetta nell' Edipo Re di Sofocle. “E' il caso dell'uomo che senza distinguersi per virtù e
giustizia, cade nell'infelicità”.
Un primo dato che emerge dalle riflessioni sulla tragedia nella Poetica è la qualità sociale dei
personaggi tragici: i protagonisti sono tutti re, principi, condottieri, nettamente al di sopra dei
popolani; lo stesso Aristotele dice che la tragedia mette in scena uomini “superiori”.
Un secondo dato che emerge riguarda la catarsi: questo termine è usato frequentemente da
Aristotele, quasi sempre nel senso di purificazione, ma non una generica purificazione dalle
passioni, solo da pietà e terrore. C'è infatti solo un verbo connesso alla tragedia ed è perainusa,
che conduce a termine, suscita, produce. Un solo verbo che innesca da un lato pietà e terrore e
dall'altro lato, la purificazione di questi stessi. La catarsi come elemento della crisi e come motore
risolutore di essa.
Un terzo dato da notare è sicuramente il fatto che sì, noi ci immedesimiamo con i personaggi, ma
li avvertiamo comunque come appartenenti ad un' altra razza di uomini: tutti gli intrecci delle
tragedie sono troppo estremi per essere concepiti come “normali”. Forse è perché la civile e
democratica società ateniese è segretamente e inconfessabilmente attratta da queste storie.
Un quarto e ultimo dato va fatto presente. Una lunga tradizione critica ha ritenuto di vedere in
Aristotele il fermo difensore del valore letterario del testo teatrale, come se per lui ciò che
contasse fosse essenzialmente il testo e non lo spettacolo teatrale. In realtà dobbiamo tenere di
conto che la Poetica è stata scritta tra il 334 e il 330 a.C. , cioè nello stesso periodo in cui si
cercava di arginare le libere interpretazioni degli attori nelle repliche degli spettacoli. Quindi
Aristotele scrive quello che scrive solo per evitare le degenerazioni di un attivismo scenico
dominante e ormai troppo imperante.
Egli infatti riconosce che il piacere causato dai sensi, da ciò che uno vede, ha un effetto più
coinvolgente del mero testo. Riconosce, insomma, la fascinazione del teatro fatta di testo ma
anche di attori, di danzatori, di musicanti e di scenografi.
Per l'appunto nel capitolo IV Aristotele ci parla della scenografia, dicendoci che è stato Sofocle il
primo a introdurla quale “decorazione della scena”; e nel capitolo VI, quando enumera le 6 parti
costitutive della tragedia, il termine che apre l'elenco è opsis in quanto è la rappresentazione
scenica a contenere gli altri 5 restanti elementi. Non parla, però, solo di opsis, bensì di opseos
kosmos ovvero “ordine della rappresentazione scenica”: lo spettacolo, insomma, è una macchina
ordinata.

Resta da dire della commedia che, non meno della tragedia, esprime lo spirito della società
ateniese anche se il suo affermarsi arriva un po' in ritardo rispetto alla tragedia. Le origini vanno
di nuovo cercate nelle cerimonie di fertilità , per la Poetica la commedia deriva “da coloro che
guidano le processioni falliche”: il termine “commedia” discenderebbe da komos,corteo festivo.
Già gli antichi filologi distinguevano la commedia “antica” di Aristofane, da quella di “mezzo” e
dalla commedia “nuova” di Menandro. La prima presenta trame molto vaghe: un semplice filo
intorno a cui si annoda tutta una serie di spunti satirici, gli attori impersonano delle figure
buffonesche. In quella di Menandro è dominante la dimensione domestica, urbana, con al centro
la storia d'amore di un protagonista giovane, contrastato dai genitori; alla fine scatta spesso il
meccanismo dell'agnizione, cioè del riconoscimento: padri che ritrovano figli rapiti da piccoli,
ecc...

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In merito al teatro latino, dobbiamo subito constatare come esso ripeta sostanzialmente i modi e i
contenuti del teatro greco, tuttavia per i Romani il teatro non ebbe mai questo rapporto di
profonda adesione alla vita della società e fu un fenomeno di importazione che interessava
un'elitè. Non a caso la tragedia fu quasi trascurata, mentre grande successo ebbe la commedia.
I due autori più significativi furono Plauto e Terenzio. Nel primo c'era una vivacità farsesca e una
duttilità satirica notevole, mentre nel secondo c'era maggior raffinatezza psicologica. Nel prologo
di una sua commedia Terenzio affronta l'accusa di plagio nei confronti dei modelli greci e
ammette di essersene servito secondo la contaminatio, di avere cioè “contaminato” parecchie
commedie greche per comporne poche in latino. Un posto a parte merita Seneca, filosofo e autore
di una serie di tragedie. Con lui ritornano gli stessi temi della tragedia greca, ma con
un'angolazione nuova, esasperata, che attinge al macabro, al mostruoso e che risente delle fasi più
drammatiche dell'Impero. Non manca tuttavia in Seneca la ricerca di un approccio originale sia
pure a partire da personaggi e vicende della tradizione classica.

In conclusione si può dire che il teatro classico fonda un modello di drammaturgia che resta
decisivo nella storia dello spettacolo occidentale, perché ne fissa alcuni tratti caratteristici: la
semplicità della trama, il numero limitato dei personaggi, la separazione degli stili, le famose
unità di tempo e luogo.

Vitruvio: edifici greci e romani


Insieme alla Poetica di Aristotele, il trattato latino De Architectura di Vitruvio del 27-23 a.C. è
uno dei più importanti riferimenti sia per la ricostruzione di alcuni termini essenziali dei teatri
antiche sia per la costituzione ideologica del concetto stesso di teatro.
Nel V libro egli mette a confronto i (tardi) teatri greci e quelli romani: in Grecia l'orchestra che
ospita il coro è più ampia, a Roma invece è una platea dove siedono i senatori, e il palco deve
avere un'altezza rapportata alla visuale di questo pubblico privilegiato; il teatro romano poteva
essere isolato dagli elementi atmosferici grazie ad un velario (a differenza di quello greco); il
pubblico accedeva attraverso aperture alle gradinate e non calcando lo spazio corale dell'
“orchestra”.
Il primo teatro eretto in pietra a Roma fu quello di Pompeo nel 55 a.C., ma si costruirono a lungo
edifici in legno.

Attori e spettacoli antichi: miseria e nobiltà


Nell'antica Grecia l'attore era altamente considerato e godeva di notevoli privilegi. In giro tuttavia
vi era anche un'intensa attività di più umili compagnie che contribuirono a una più bassa
considerazione dell'artista scenico, che arriverà ad acquisire, a Roma, la nomea di “attore
infame”.
Del resto la complessità dello spettacolo antico non può essere ridotta a tragedia e commedia e-
soprattutto a Roma- va dato risalto proprio ai popolarissimi spettacoli circensi di cui resta
emblema il Colosseo.
Oltre ai “ludi circensi” grande rilievo nel mondo romano ebbero pure, con diverse declinazioni,
forme di spettacolo mimico.

Il teatro occidentale: fra Apollo e Dioniso


Se della tragedia greca sappiamo in fondo relativamente poco, essa si è posta come uno dei grandi
paradigmi teorici della cultura occidentale, suscitatrice di affascinanti teorie. Una delle più
interessanti è quella esposta dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche nel volumetto Nascita della
tragedia dallo spirito della musica. Egli ritiene che la tragedia greca sia una manifestazione che
tenga in dinamico equilibrio il principio apollineo, nel quale la bellezza è scopo consapevole, e il
principio dionisiaco, nel quale predomina la musica come caos e estasi. La tragedia nasce dal
coro dionisiaco, che è espressione della totalità della vita. Il vero fulcro della tragedia appare
l'annullamento dell'individuo come affermazione dell'ebbrezza dionisiaca e della potenza gioiosa
della vita.
L'uomo dionisiaco coglie l'essenza dell'essere nella sua assurdità, ma nell'arte ha la possibilità di

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liberare la propria volontà.


Tutto questo (la tragedia) ha una possibilità di rinascere nel mondo moderno: nell'opera di
Richard Wagner.

La danza nel mondo antico


La danza è una delle attività più antiche dell'uomo, si può dire che essa non sia altro che “vita
innalzata a un grado più elevato e intenso”.
I miti delle civiltà più antiche attribuiscono l'origine del mondo agli dèi che danzano, e anche la
cultura greca conferisce alla danza un carattere magico-sacrale. E' noto il valore educativo
attribuito da Platone alla danza: egli la riteneva una delle attività formative fondamentali del
cittadino ideale. La danza nella Grecia Antica è poi strettamente legata al teatro con il quale
condivide l'origine nei culti misterici e orgiastici legati al dio Dioniso.
Se, però, scarseggiano le notizie sulla pratica della danza nella Grecia Antica, quelle relative alla
Roma delle origini sono ancora più inconsistenti. A partire dal 200 a.C. Roma accoglie forme di
provenienza orientale.
Un'idea meno nebulosa di danza emerge in età imperiale. Al ritmo musicale si conforma, ora, il
movimento del danzatore che rappresenta in scena le passioni, tessendo un racconto attorno ad
argomenti seri come mito,storia e leggenda. La danza in questo periodo diventa un evento da
consumare individualmente e perde quei tratti di rito-comunitario che avevano caratterizzato le
manifestazioni della Grecia antica.
Con l'avvento delle donne sulla scena si accentua il fattore erotico della danza e aumenta di
conseguenza, da parte di conservatori e tradizionalisti, il discredito sociale dei danzatori.

2- La scena medievale
Ben poco di ciò che oggi, ai nostri occhi, costituisce la normale prassi dello spettacolo
caratterizza invece il teatro medievale.
La scena medievale si manifesta tra il IX e il XIV secolo in fenomeni di teatralità diffusa che
permeano l'intera società dell'epoca: la sua fisionomia si presenta infatti quasi sempre come
espressione ludico-simbolica delle istanze che regolano i processi sociali. Si spiega così la stretta
interdipendenza tra scena medievale e ritualità: entrambe erano azioni finalizzate al
rafforzamento dell'identità sociale tramite performances, dove lo spettacolo è più un atto
comunicativo in cui riconoscerci che un atto estetico a cui assistere. Perciò il teatro medievale
non poteva caratterizzarsi che come teatro religioso, religioso non in senso spirituale ma come
una visione complessiva della vita umana, salvata dall'evento dell'incarnazione di Dio in Gesù
Cristo. Se Cristo ha reso visibile ciò che di per sé sarebbe invisibile (non rappresentabile), scopo
del dramma sarà pertanto rievocare quegli eventi fondamentali → un teatro della memoria dove
rappresentare significherà ri-presentare.
Si capisce allora l'opposizione della Chiesa al teatro precedente. Il cuore della polemica sostenuta
dai Padri della Chiesa non riguarda tanto la rappresentazione in sé quanto i ludi tardo imperiali
che, anziché fare memoria della verità, la alterano: imitano il falso (i miti, le passioni degli dei e
degli eroi) e lo mostrano come verità.

Una volta definita la cornice teorica è più facile descriverne tempi, luoghi e modalità
rappresentative. Innanzitutto i ritmi erano quelli festivi del calendario religioso, in particolare
Natale e Pasqua con i rispettivi tempi di preparazione e sviluppo, poi le ricorrenze dei santi e le
feste come il Corpus Domini.
Tra queste feste emergono le evidenze spettacolari con i cosiddetti drammi liturgici: tra i più
celebri il Quem quaeritis (“chi cercate”), un ampliamento del canto che, il giorno di Pasqua,
raccontava la venuta delle tre donne al sepolcro di Cristo. Ciò che interessa in termini teatrali non
è il testo ma la rappresentazione che ne scaturiva: lo spazio della chiesa si trasformava nel luogo
santo, l'altare diventava il sepolcro, un monaco faceva l'angelo.
Analoga fioritura di drammi liturgici si riscontra in altre feste e soprattutto nel tempo di Natale.

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La varietà delle occasioni si accompagnò nel tempo a una sempre maggiore dilatazione creativa
dei racconti e delle azioni e alla moltiplicazione degli spazi scenici ( sedes ). Nel ludus pasquale
del Peregrinus, la vicenda dei due discepoli di Emmaus teatralizza l'intera area della Chiesa.
Altrettanto suggestiva l'evoluzione dei drammi natalizi, in particolare quelli connessi alla figura
di Erode e all'episodio della strage degli innocenti.

Ci si trova davanti a una teatralità estremamente viva e dinamica che usciva spesso dai registri
alti e disciplinati della liturgia canonica, accogliendo contaminazioni profane. La badessa di
Landsberg, autrice di un testo famoso, loda le “buone consuetudini” del teatro devozionale e
subito dopo lamenta “l'impudicizia irreligiosa e dissoluta” di alcune rappresentazioni, come
quelle di Erode: “non succede mai che si finisca senza gravi tumulti di risse e di liti”.
Quest'ultimo aspetto sottintende una cosa cruciale: nonostante infatti la chiesa avesse tentato di
cristianizzare la società, sostituendo gradualmente i culti pagani, non era riuscita ad estirparli del
tutto. Nei casi in cui non si era riusciti a scalzare la memoria dell'antico patrimonio magico
religioso, questo riaffiorava assumendo spesso (come nel caso di Erode) le forme del comico,
della parodia e del grottesco: espressioni di un sentimento collettivo di trasgressione e carnalità.
Ne sono esempio le feste dei folli e il carnevale.
Le cosiddette “feste dei folli” ereditano dal mondo pagano gli aspetti tipici dei rituali invernali di
passaggio, legati alle celebrazioni del Capodanno: da una parte emergono l'ansia e l'angoscia
della fine, dall'altra i buoni auspici per il futuro, evidenziati dall'esuberanza vitalistica della
trasgressione e della sessualità e dall'offerta di doni. Tutto ciò viene riconvertito, in età medievale,
in un ciclo di 12 notti successive al Natale, incentrate sulla simbologia dell'infanzia che, in nome
della purezza, contemplava comportamenti affini a quelli della follia.
Ne sono esempi le ricorrenze dei santi Innocenti (28 dicembre) e della circoncisione di Gesù (a
Capodanno) dedicate ai giovani chierici che festeggiavano la loro esuberanza giovanile con azioni
irriverenti all'interno della Chiesa stessa. Veniva, ad esempio, eletto un vescovo bambino che
aveva tutte le prerogative di un vero vescovo e, analogamente, si parodiava la liturgia, ci si
travestiva, oppure venivano esaltate figure evangeliche basse e umili come l'asino. Parallelamente
l'offerta dei doni era stata riassorbita, insieme alla follia, nella festa dell' Epifania, nella vicenda
dei Magi.
Analogamente alle Feste dei Folli, anche il Carnevale è una tipica festa di inversione dell'ordine
stabilito, dove a trionfare sono il comico e il grottesco. Un'esplosione di istinti e eccessi
vitalistici. Il carnevale, quindi, come esaltazione del corpo, mantenne nel Medioevo la sua
autonomia, affermandosi come la festa popolare di trasgressione più celebrata in tutto l'anno.
Tra i linguaggi teatrali più utilizzati spiccano in questo contesto i modelli del mascheramento e
della farsa.

Il mascheramento rappresenta l'espressione più tipica dell'inversione: mascherandosi l'individuo


rovescia la propria identità, trasformandosi in altro da sé (ad es: mascheramenti tradizionali dei
carnevali agrari dove avviene l'identificazione con la natura; carnevali urbani dove avviene il
ribaltamento delle gerarchie sociali).
La farsa: brevi azioni teatrali costruite sullo stile della commedia, incentrate sulla caricatura di
tipologie fisse di personaggi della vita cittadina come il medico, il prete, l'avvocato,ecc...

Un rapido processo di accelerazione della diffusione della teatralità popolare si ha a partire dal
XII secolo, anche grazie alla nascita, sul versante religioso, degli ordini mendicanti. Essi, infatti,
volevano rompere i confini elitari e vecchi del sistema ecclesiastico per coinvolgere il popolo. Il
risultato fu una consapevolezza, da parte di questi soggetti, della loro autonomia: sul piano civile
con le corporazioni e sul piano religioso con le confraternite.
Dal punto di vista teatrale la conseguenza più importante di questo processo fu l'aumento dei
destinatari degli spettacoli e la loro connotazione sempre più laica e aperta della città. Sul
versante strettamente religioso, invece, tale rinnovamento si identifica soprattutto con l'ingresso
dei laici nella gestione diretta di alcune paraliturgie teatrali. Ad es: il modello spettacolare
proposto dal movimento confraternale dei Flagellanti → un'assimilazione alla sofferenza del

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Signore dove i “disciplini” realmente si umiliavano e si battevano a sangue e che prevedeva la


recita di laudi drammatiche -narrative su Passione e Pietà (come “Donna de Paradiso” di
Iacopone da Todi). L'influsso laicale, inoltre, agì anche sulla moltiplicazione delle
rappresentazioni dedicate alla Madonna e ai Santi (nel ruolo di intercessori e di protettori delle
singole arti e mestieri). Di queste nuove rappresentazioni colpisce la presenza di un autore
specifico e di una componente testuale importante, con divagazioni, colpi di scena e continue
oscillazioni tra sacro e profano, tra registri alti e registri comici. Tutti aspetti che ritroviamo nelle
opere della monaca tedesca Rosvita di Gandersheim, che recupera nei suoi 6 drammi in latino, il
modello della commedia terenziana, con l'intenzione di sostituire al comico i valori edificanti
della fede ma restando sempre sul filo della contaminazione.

L'avvento dei laici, il passaggio dal latino al volgare e la contaminazione sacro/profano portarono
alla maturazione, tra XV e XVI sec., della grande spettacolarità tardo-medievale: si assiste
all'incremento di testi in volgare molto lunghi e articolati; gli allestimenti che ne venivano fuori
erano eventi straordinari e non a cadenza annuale → la rilevanza dell'impresa coinvolgeva tutte le
istituzioni e le maestranze cittadine ed era sovrintesa da una figura proto-registica di
coordinatore. La scena era ancora strutturata per mansiones, ovvero luoghi deputati, ma il loro
numero si era moltiplicato; allo stesso modo l'aspetto scenografico si presentava molto più
elaborato in termini visivi, al fine di colpire i sentimenti e la partecipazione emotiva del pubblico.
Assai rilevante anche la strutturazione dello spazio scenico che prevedeva la presenza simultanea
di tutti i luoghi deputati, collocati su carri o palchi disposti in base alla conformazione della
piazza → in modo che il pubblico potesse vedere lo spettacolo da più punti di vista.
Vi erano soprattutto cicli performativi su Passioni, Pietà e Miracoli e sulla scia delle Passioni si
erano imposte in questo periodo anche spettacoli legati al Corpus Domini. Infine vanno
menzionate le cosiddette Moralità, dispute tra diverse personificazioni di vizi e virtù.

Oltre, però, alla dimensione collettiva della spettacolarità medievale, bisogna dire che esiste
anche una storia del professionismo teatrale medievale, di cui furono protagonisti i giullari.
Distinguere la loro reale identità dalle ricostruzioni fantasiose non è facile, a partire dalla stessa
denominazione: saltimbanchi, buffoni, ecc... Ma è proprio in questa continua oscillazione tra
indistinzione e specializzazione che si gioca la questione dei giullari → La loro identità diventa,
infatti, tanto più certa e sicura quanto più queste figure riescono ad ottenere un riconoscimento
del loro lavoro a livello sociale, sottraendosi al mondo d'incertezza che li accomunava a
mendicanti, vagabondi, parassiti e truffatori. Tale era infatti la condizione degenerata degli
intrattenitori, agli occhi delle istituzioni e della Chiesa in particolare.
Su tutti costoro pesava quindi la condanna all'infamia, che rendeva la professione attoriale
moralmente sconveniente: vagus, vanus e turpus erano i tre aggettivi affibbiati al giullare →
girovago; vano, ossia improduttivo; turpe, nel senso che la sua azione mimica corrompeva gli
animi.
Per contro ci furono tentativi da parte di giullari più colti di emanciparsi: i veri compositori
potevano essere chiamati “trovatori”, chi eseguiva i componimenti altrui era un “giullare” →
viene così sancita la suddivisone tra autori e interpreti.
Un altro strumento di emancipazione era la collocazione a corte: è il caso dei giullari come
menestrelli, oppure dei classici buffoni, presenze di un intrattenimento associato alla follia e alla
deformità.
In questo difficile contesto professionale, il bisogno di sicurezza portò i giullari a riunirsi talvolta
in proto-compagnie oppure in vere e proprie confraternite a sfondo religioso.

La questione del giullare evoca l'importanza dell'interazione tra ambiente nobiliare e sfera
religiosa, in quanto i nobili sviluppano una propria ritualità spettacolare, riconducibile anch'essa
ala dimensione celebrativa della festa. Ne sono testimonianza gli spettacoli per le nascite, i
matrimoni, i funerali, i banchetti.
Infine, da citare, è il modello più noto: quello dei tornei. Il torneo medievale, per l'avversione
della chiesa e per l'influsso della cultura cortese, si sposta gradualmente su forme di

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combattimento sempre meno violente: la disputa tra cavalieri, quindi, si consuma non tanto in un
reale duello ma in un gioco di abilità finalizzato alla conquista della dama (come figura d'amore e
virtù). E ciò favoriva sicuramente l'inserimento nel torneo di contenuti e trame tratti dall'epica
romanza.

La linea e il cerchio nella scena medievale


Rey Flaud scrive nel 1973 “Le Cercle magique” → qui arriva a dimostrare come fosse prevalente
all'epoca la concezione di uno spazio rappresentativo circolare. Infatti tra le due formule
antitetiche della “fila gigantesca” dei luoghi deputati di una sacra rappresentazione e quella del
“cerchio”, sarebbe quest'ultima soluzione ad affermarsi sempre di più, venendo a costituire uno
spazio nel quale tutti i partecipanti comunicano nella ricerca di un disegno totale.

Direzione e organizzazione di un Mistero medievale


Verso la fine del Medioevo, la rappresentazione di un Mistero o di una Passione erano
generalmente operazioni piuttosto complesse. In pochi casi ci è stata trasmessa la presenza di
registi ante-litteram. Importante a tal proposito è la testimonianza di Richard Carew relativa ai
Misteri prodotti in Cornovaglia (1602) → Egli scrive di ampi anfiteatri in terra battuta verso i
quali “si affollavano da ogni dove”, gli attori non sanno le loro parti ma sono imbeccati da una
persona chiamata the Ordinary che li segue e sussurra loro cosa devono pronunciare. Carew
restituisce quindi alcune delle situazioni ereditate e conservate dal tradizionale stile di
messinscena medievale: la commistione sacro/profano, l'impianto circolare, la partecipazione
popolare, la recitazione dilettantesca sostenuta dall'impegno di un direttore-suggeritore.

Il Medioevo dei tanti spettacoli


Ritenere lo spettacolo medievale risolto quasi esclusivamente nell'ambito dello “spirito della
Celebrazione” religiosa è una banalizzazione. Bisogna tenere presente che il Medioevo copre,
convenzionalmente, oltre mille anni fra la caduta dell'impero romano d'Occidente e la scoperta
dell'America e ha quindi conosciuto al suo interno differenti medi Evi. E' prevedibile, perciò, che
una fase così estesa abbia presentato parecchi e indipendenti filoni spettacolari. Questi filoni
sarebbero individuabili sì, nei drammi liturgici, nei cicli organizzati dalle corporazioni, ma anche
in quelle che a Venezia si indicavano come Momarie, ovvero cortei celebrativi e in forme di
rappresentazione e di contesa cavalleresco- aristocratica (come i tornei).
La città viene, quindi, scenograficamente esaltata in tutto e per tutto, oscillando con i riferimenti
tra Gerusalemme e Roma e divenendo un'Urbe simbolica → cosa che andrà ad influenzare anche
il Rinascimento.

La danza nel Medioevo fra giulleria e cortesia


Nel Medioevo si danzava soprattutto in occasione delle feste: la festa era il momento di
celebrazione di rituali di fertilità di origine pagana, si trattava di un'esigenza prettamente
contadina che la concepiva come propiziatoria per il raccolto. La Chiesa di contro mostrava una
certa avversione per la danza, tuttavia verso di essa ebbe un duplice atteggiamento: da un lato fu
nemica di ogni manifestazione dalle connotazioni profane; dall'altra assimilò le più significative
espressioni ritualistico-spettacolari nel tentativo di cristianizzarle e di conseguenza di utilizzarle
come mezzo di edificazione morale.
Tra i protagonisti della danza medievale abbiamo il giullare: ponendosi alla guida delle danze
collettive esibiva una gestualità molto diversa da quella a cui era abituato il contadino. Fra le
danze sociali era molto frequente la canzone a ballo, la cui struttura coreografica si basava sul
cerchio che procedeva da destra a sinistra, la musica alternava strofe e ritornelli.
A partire dal XVI secolo, poi, assistiamo in Europa al formarsi delle corti signorili e l'ideale
cavalleresco concorre allo sviluppo di un nuovo tipo di danza di coppia. In questo nuovo clima la
danza viene a coprire un ruolo importante: danzare secondo regole stabilite distingue il nobile dal
contadino.

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3- Il primo Cinquecento: il Rinascimento


Proprio in Italia, nel '400, si va riscoprendo la cultura classica ad opera degli umanisti → perciò
l'intero patrimonio greco-latino e il teatro di conseguenza. Le prime in questo campo furono le
accademie, esse sono però il punto di partenza di un processo che ha come motore la rete delle
corti principesche nell'Italia centro settentrionale. Esse si circondano di artisti che abbelliscono le
città e di intellettuali che lavorano all'interno della corte.
Siamo all'invenzione del teatro moderno → inventio come ritrovamento, come riscoperta della
classicità.
La prima corte che si muove e diventa centro di diffusione è quella di Ferrara, che allestisce nel
cortile. La soluzione del cortile si alterna a quella delle recite al chiuso di una grande sala del
palazzo principesco. In entrambi i casi, comunque, adesso abbiamo il teatro che prende occasione
da una ricorrenza festiva: il teatro dentro la festa.

Se lo spettacolo medievale riguarda una comunità, quello rinascimentale delle corti si rivolge a
un'elitè. Siamo davanti a un fenomeno nuovo → la privatizzazione del teatro. Infatti il passaggio
dal Medioevo all'Età moderna segna anche l'ascesa della borghesia, che aveva il suo centro nella
città. Il teatro, quindi, segna il potere delle nuove classi dirigenti.
Ma la differenza tra il teatro in piazza (Medioevo) e quello nelle corti (Età nuova) non si risolve
unicamente nei diversi contenuti (religioso o laico) o nel diverso pubblico. Innanzitutto la
scenografia rinascimentale unifica il luogo dello spettacolo in un quadro solo (quella medioevale
ne presentava più di uno); poi rappresentava sistematicamente la città, una città astratta, con
edifici generici → le città riprodotte sono, infatti, sempre perfette poiché rappresentavano la città
del principe, un riflesso dell'ordine e della stabilità.
In più nella scena medievale non vi era la prospettiva → nella scena prospettica c'è un unico
fuoco, un unico punto centrale, così come nella città rinascimentale vi era un solo centro di
potere, il principe.
L'importanza del rappresentare la città si evince anche dal fatto che i testi drammaturgici variano,
mentre spesso la scenografia resta la stessa: non conta tanto la vicenda, quanto l'esaltazione del
vivere urbano che ha nel principe il suo reggitore politico.

Il teatro resta comunque, nel Rinascimento, un'attività marginale. E' il caso dell'Ariosto, ma pure
di Machiavelli, e la Calandria è l'unico frutto letterario che abbia composto il diplomatico e
uomo politico Bernardo Dovizi, detto Il Bibbiena. Inoltre non c'è ancora lo scenografo, diciamo
che c'è lo spettacolo ma non ci sono ancora le professioni dello spettacolo. Ugualmente i recitanti
non sono attori ma generici cortigiani.
Se, ad esempio, prendiamo la lettera in cui Baldassare Castiglione relaziona sulla prima
Calandria, notiamo che si parla molto poco della trama e molto di più dell'apparato e degli
intermezzi. Questo perché l'elemento dominante è l'eccezionalità della visione, l'eccellenza della
costruzione inaspettata, straordinaria, che sorprende e stupisce. Il teatro del Rinascimento nasce
sotto il segno di questa componente visionaria.

In fondo, però, ciò che tende a imporsi da questo punto in poi è la visione frontale che separa
nettamente spettatori e attori. C'è una superiorità gerarchica e morale in chi guarda rispetto a chi è
guardato.
E' sintomatico che la cultura del Rinascimento, che riscopre Plauto, Terenzio e Vitruvio, non
riesca a convincere il principe della necessità di costruire edifici teatrali. Sono infatti solo della
fine del '500, il teatro Olimpico di Vicenza e il teatro di Sabbioneta → gli umanisti riscoprono il
valore fondante del teatro come cemento della comunità e chiedono la creazione di teatri stabili.
Ma il Principe respinge l'edificio teatrale e conserva la consuetudine del luogo teatrale.

Ricordiamo, infine, che ciò che conta non è la commedia, quanto la scenografia, come afferma
Bernardino Prosperi. Una buona idea di scena prospettica è fornita dal trattatista Sebastiano
Serlio. Si noti, però, che il fondale dipinto non corrisponde a tutta l'immagine riprodotta ma solo

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alla porzione che chiude la prospettiva delle case, al fondo. La scena prospettica non è veramente
bidimensionale ma anche tridimensionale, non solo dipinta ma anche parzialmente in rilievo. Gli
attori devono recitare nel proscenio perché se si spostassero di più verso il fondo, la scena
risulterebbe inverosimile.

La scena di città, Vitruvio e il teatro ritrovato


A Ferrara, nel 1486, le cronache ci narrano di alcune rappresentazioni classiche caratterizzate da
una scena che indica una città. L'idea della città viene data dalla presenza di case lignee con porte
e finestre.
La scena rinascimentale tendeva a ricostituire un'immagine unitaria e civile dello spazio urbano,
rifacendosi per quanto possibile al simulacro dell'edificio teatrale come era stato conosciuto dagli
antichi romani. Infatti nel 1486 veniva pubblicata la prima edizione del trattato di Vitruvio dove si
chiedeva che a Roma si erigesse quell'edificio teatrale dalle strutture classiche. Nel “teatro
nuovo” gli studenti avrebbero imitato gli antichi nel recitare poemi e nel rappresentare favole.
Il 3 marzo 1585 fu inaugurato il Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da Andrea Palladio, con l'
Edipo Re di Sofocle. Per questo evento venne realizzata una meravigliosa scena prospettica di
città che raffigurava una Tebe somigliante a Vicenza.
Per arrivare a quella rappresentazione fu fondamentale la suggestione che il Rinascimento teatrale
trasse dalle pagine del trattato vitruviano su forma dei teatri e concezione della scenografia.

Scena pittorica e scena architettonica


La rinascita dell'edificio teatrale nel Rinascimento, però, è un tema che non riguarda solo l'Italia:
a Londra, già nel 1576, si erige il Teatro di Shoreditch. Ciò che il Rinascimento italiano fissò in
particolare fu pertanto: da un lato l'idea monumentale di edificio; dall'altro la concezione della
scena pittorica illusiva.
Infatti, seguendo un suggerimento dello storico Kernodle, possiamo distinguere due visioni di
fondo della struttura scenica: 1) quella italiana, tendenzialmente realistica, legata all'illusione
pittorica, dove la scena si organizza inglobando dai lati lo spazio centrale; 2) quella tipica dei
teatri inglesi e spagnoli, simbolista, nella quale la scena appare centrata e caratterizzata alle spalle
da un impianto architettonico fisso.
Al di là di queste due grandi categorie, Kernodle prevede una terza possibilità che organizza lo
spazio scenico su sfondo piatto, individuando dei centri d'azione in diverse nicchie.

La danza rinascimentale
Nel corso del Quattrocento diviene sempre più grande il divario tra ceti dominanti e ceti
subalterni. La nobiltà elabora una nuova forma del vivere e un gusto raffinato in tutte le arti, i
nobili ora imparano la civiltà e le buone maniere. La danza adesso costituisce uno dei modi di
espressione della cultura della corte, grazie alle due funzioni di intrattenimento sociale e di forma
spettacolare e diventa un requisito fondamentale del cortigiano. E così come i contadini
danzavano in occasione delle ricorrenze rurali, adesso i festeggiamenti vengono indetti in
occasione di eventi importanti nella vita del Principe: il potere adotta la festa come strumento di
potere.
Domenico de Piacenza è il primo di una serie di trattatisti che fondano un repertorio di
composizioni coreografiche. Se la danza non era eseguita nelle camere private ma nel mezzo
delle feste, allora era percepita come un significativo elemento del processo di comunicazione del
potere. Proprio per questo motivo le feste di corte prevedevano panche dove gli ospiti prendevano
posto secondo una gerarchia precisa, che era lo specchio della loro posizione all'interno della
scala sociale.
Alcuni dei balli in repertorio erano a tema del corteggiamento amoroso in diverse forme.

4-La drammaturgia del primo Cinquecento

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La scena cortigiana è riempita in prima istanza dalla ritrovata drammaturgia classica. Ariosto si
pone come l'inventore della commedia rinascimentale, la quale non si limita a tener presente il
modello classico ma ci aggiunge anche la grande novità della cultura romanza (situazioni buffe e
intrecci derivanti dal Decameron di Boccaccio). Infatti la commedia italiana del '500 si pone al
punto d'incontro tra commediografi latini e tradizione boccacciana. Significativo è l'esempio
offerto dalla Calandria del Bibbiena: con un marito sciocco, beffato e cornificato che riporta a
Plauto ma anche con svolgimenti d'azioni che evidenziano un accento più equivoco.
La cultura cortigiana non è però tutta caratterizzata da una scelta stilistica compatta e solenne:
non ci sono solo commedie latine o italiane, ma anche la diversa spettacolarità mimico-gestuale
di buffoni, giocolieri, mimi,ecc... Uno di questi è Niccolò Campani, detto lo Strascino. Egli è la
figura più nota di un gruppo senese di intellettuali di modesta cultura che rappresentano
commedie rusticane, cittadine e pastorali. Queste ultime costituiscono il terzo genere del '500,
accanto a commedia e tragedia, e troveranno il suo tardo capolavoro con l'Aminta di Torquato
Tasso.
La novità più significativa di questi autori senesi, però, è la commedia rusticana o alla villanesca:
nasce nel Medioevo e si prolunga fino al '500, una polemica contro i contadini che affonda nel
contrasto città-campagna (dipendenza della città dalla campagna, concorrenza che la mano
d'opera rurale fa a quella cittadina nel momento del suo inurbamento,ecc). L'area senese si
specializza nella definizione del personaggio teatrale del villano, presentato come bestiale,
grossolano e maligno. Il Campani impone nella scena cortigiana proprio questo personaggio.
Varie testimonianze farebbero intendere, inoltre, che al momento della messa in scena egli
tendesse a operare con una troupe ristretta e addirittura proclamando lui da solo le battute di 4
contadini diversi. Un one-man show, insomma. In realtà c'è un grande scarto tra la modesta
qualità della scrittura del tempo e l'entusiasmo dei contemporanei: segno che una gran parte era
data dalle qualità mimiche e dalla prestazione di chi recitava.

Fuori dalle corti centro-settentrionali, il gusto del teatro si diffonde con un certo ritardo. A
Venezia esso è percepito come una potenzialità trasgressiva: sono gli stessi patrizi a recitare e il
recitare è per loro elemento di distinzione e al tempo stesso di trasgressione. Ma accanto a patrizi
(e dilettanti,ovviamente) troviamo anche giocolieri, buffoni e professionisti del teatro più
impegnato culturalmente come Francesco Nobili, detto Cherea. E' grazie a lui se il pubblico
veneziano comincia a conoscere volgarizzamenti di Plauto e Terenzio. Da lì, infatti, Venezia si
apre all'intera gamma della spettacolarità primo-cinquecentesca: essa si consuma su invito, nelle
case patrizie, ma anche a pagamento in altre sale aperte a un pubblico variegato.
In questo ambiente di varietà di stili, dalla Venezia degli anni '20 si impone l'astro del padovano
Angelo Beolco detto Ruzante. Egli scrive e recita i suoi testi che presenta spesso a Venezia.
Della sua vita sappiamo poco: si ha il profilo di un borghese abbastanza agiato, dotato di una
certa cultura, operante sul piano pratico come uomo di fiducia del ricco latifondista Cornaro.
Con i due dialoghi Parlamento e la commedia Moschetta egli supera un contegno inizialmente
parodistico nei confronti della realtà contadina. Forse è anche la terribile carestia del 1528/29 a
far precipitare quegli spunti di simpatia filocontadina emergenti nelle prime opere. La fame non è
più ingordigia buffonesca ma è fame tragica, autentica. Il contadino non è più uno strumento per
una polemica, ma diventa personaggio autonomo. Beolco mette allo scoperto le contraddizioni
del quadro sociale, il rapporto di sfruttamento e alienazione che la campagna ha nei confronti
della città.
Il Parlamento consiste quasi interamente nella “parlata” del villano Ruzante reduce dal campo
militare. E' la tragedia del villano che va in guerra per arricchire, per sfuggire al suo destino di
miseria e di fame, e ritorna più miserabile. Dietro la figura di Ruzante si profila Gnua, la sua
donna che ora sta con un altro (un “bravo”). La tensione nel Parlamento consiste proprio nel
desiderio di Ruzante di riavere la donna e dal rifiuto della donna di tornare a dividere la miseria
con lui. L'arrivo del bravo ribadisce il suo destino di sconfitta.
La stessa trama si ha nel dialogo Bilora, in cui il contadino va in città a riprendersi Dina, la
moglie “rubata” da Andronico, mercante veneziano. Nonostante, però, qui Bilora uccida a
pugnalate l'avversario, il suo resta sempre il destino di uno sconfitto: il villano beolchiano è in un

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continuo stato d'eccitazione, necessaria per superare gli scacchi della vita.
La Moschetta segna già un superamento della fase di adesione al mondo contadino. Il Ruzante
della Moschetta è inurbato, già in qualche modo integrato nella vita cittadina, anche se rigettato ai
margini. La Moschetta, con i suoi 5 atti e il taglio da commedia regolare, segna indubbiamente il
passaggio all'ultima fase della produzione beolchiana: quella classicheggiante. In quest'ultima
fase il villano perde la sua carica e la sua pienezza umana e sociale, e rende a trasformarsi nella
figura tradizionale del servo astuto. Resta l'origine contadina ma viene meno ogni
contrapposizione con i padroni, come viene parimenti meno il contrasto città-campagna. Con
l'Anconitana, la sua ultima commedia, il Beolco non imita più i modelli classici, ma si pone su un
piano di emulazione originale: il Ruzante di questa commedia è davvero il servo astuto della
commedia del '500, vero centro motore della vicenda.

La commedia villanesca non è, però, solo Beolco. A Sienza, nel 1531, si ha la costituzione di
un'associazione di attori-autori dilettanti: la Congrega dei Rozzi. Iscriversi significava infatti
entrare in un percorso di autoformazione culturale: stendere commedie, infatti, è solo
un'articolazione di una più importante e complessiva attenzione alla creatività. Viene ribadito,
comunque, il carattere dilettantesco delle abilità espressive richieste all'interno della Congrega,
questo perché essa non voleva accogliere “persone di grado”, cioè gentiluomini. Al contrario del
teatro senese popolareggiante (che si caratterizza per una vasta plurarità di scelte teatrali), la
scelta dei Rozzi ricade sul personaggio del Villano. Il villano conquista con loro una centralità
scenica (il che non significa che sia visto con sguardo di simpatia).
A Siena, inoltre, c'è una diversificazione dell'opposizione città-campagna rispetto alle altre città:
qui la debolezza economica impedisce l'inurbamento eccessivo perciò il villano, nelle storie dei
Rozzi, si fa portavoce delle insofferenze dell'artigianato urbano verso la classe dirigente.
Il senso di questa cosa è illustrato da Salvestro detto Il Fumoso, il più importante dei Rozzi. Egli
scrive 6 testi che mettono tutti al centro la figura del contadino.

Anche a Firenze il teatro si diffonde relativamente tardi: i Medici sono cacciati periodicamente da
Firenze e sino a Cosimo I non si può parlare di corte medicea, dunque dove manca
un'organizzazione dello Stato non arriva neanche il teatro. La spettacolarità fiorentina del primo
trentennio del secolo appare saldamente innestata nelle consuetudini societarie, di cui è figura
emblematica l'araldo ufficiale della Repubblica. Il padre della storia dell'arte, Giorgio Vasari,
ricorda due “compagnie di piacere”: Paiuolo e Cazzuola. Queste compagnie svolsero a Firenze
una fondamentale opera di organizzazione e di promozione teatrale.
Quindi, se a Venezia si impone la scena villanesca, a Firenze, sotto la spinta de La Mandragola,
sembra piuttosto affiorare la scena cittadina con Machiavelli.
La Mandragola → Nella prima scena del primo atto il protagonista Callimaco Guadagni racconta
al servo l'antefatto della vicenda. Callimaco risiede a Parigi da dieci anni quando Carlo VIII
scende in Italia, ed egli decide di vendere tutto (tranne la casa fiorentina che segna le sue radici) e
rifugiarsi a Parigi. Non a caso a Parigi risulta inserito unicamente in un tessuto di relazioni sociali
e amicali esclusivamente fiorentine. Qui Callimaco vive 10 anni di grande felicità, mentre l'Italia
va a ferro e fuoco.
Clizia → (1525) l'altra successiva commedia di Machiavelli, collocata nel 1506 (come La
Mandragola era collocata nel 1504).
Sono due modi per ribadire, da parte dell'autore, un discorso sull'hic et nunc ovvero il fatto che
lui intervenga sulla contemporaneità. Le due commedie espongono in due maniere diverse lo
stesso orizzonte di problemi e mettono entrambe a fuoco lo stesso strato sociale della borghesia
cittadina divisa tra pubbliche virtù e vizi. La prima è la storia del faticoso processo attraverso cui
si perviene alla fondazione di una casata. La seconda inizia dove quella finisce, presupponendo
l'ordinato vivere civile di un clan familiare, di una casata. Qui il protagonista è un borghese che
appartiene alla classe dei mercanti e per il quale è importante la centralità della casa. La follia di
un amore senile può mettere a repentaglio il sistema dei valori antichi, ma solo per un attimo.

La scena cittadina di Machiavelli si impone negli anni '20 e convince anche chi aveva iniziato

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verso un altro indirizzo. Ludovico Ariosto comincia costeggiando i modelli classici, a partire dal
carnevale del 1528 aiuta Beolco nelle sue performances e si avvicina alla via di Beolco e
Machiavelli. La sua Lena (del 1528), infatti, è tutt'altra cosa dalle commedie plautineggianti. C'è
ancora l'intreccio plautino e la trama scontata ma c'è anche il duro spaccato di una scena di città
contemporanea, con un tranche de vie relativo alla miseria sociale di due emarginati da Ferrara:
un marito inconcludente, Pacifico, e una moglie, Lena, che si offre come amante al vecchio
padrone di casa, Fazio, in cambio della gratuità dell'affitto. Ella progetta poi di scappare da quella
casa-trappola e di andare all'avventura, diventando davvero una prostituta professionista. Ma
all'ultimo le viene meno la solidarietà del marito, schierato dalla parte del padrone e che è dunque
per il mantenimento dello status quo.
Il finale sembra, apparentemente, quello innocuo della tradizione (Fazio gestisce le nozze della
propria figlia Licinia con Flavio, figlio di un gentiluomo) ma non è il tradizionale matrimonio
dove alla fine anche l'adultera ritrova una sua collocazione istituzionale. Infatti i posti a tavola
alla fine sono 5: una coppia di sposi legittima, una illegittima e il marito cornuto-contento. Un
tocco di amarezza si insinua e spezza l'allegria festevole della commedia rinascimentale. Ariosto
si ricollega al disincanto del Machiavelli della Mandragola.
Il frutto più maturo del realismo rinascimentale è, però, costituito dall'anonima Veniexiana (la
commedia di Venezia) che già nel titolo sottolinea la centralità della città. Le due protagoniste
sono due nobildonne che si contendono l'amore dell'avvenente Iulio, un forestiero milanese.
Quest'opera è tanto eccezionale perché non ha nulla a che fare con il panorama classico del teatro
cinquecentesco: non ci sono servi astuti, travestimenti, figure tipiche. Ma soprattutto non c'è la
struttura teatrale coerente e chiusa della commedia di fattura classica: la Veniexiana è
un'anticommedia. Dopo il primo atto che funziona da prologo, la commedia si spezza in due
sezioni quasi totalmente prive di collegamenti interni: il secondo e il terzo atto dedicati all'amore
di Angela per Iulio; il quarto e il quinto dedicati all'amore di Valeria per Iulio. Ma non c'è un
processo evolutivo: Iulio non lascia Angela per Valeria, ma semplicemente si alterna. La
commedia non ha praticamente finale: domani Iulio potrà ricominciare di nuovo con Angela,
salvo ritornare poi a Valeria e così di seguito. E' qui la grandiosa novità: la commedia come
rappresentazione aperta dell'esistenza, come tranche de vie, senza una conclusione così come la
vita quotidiana che non conclude.
Ma c'è anche un altro motivo per cui questa commedia occupa un posto così eccezionale: insieme
al finale, essa rifiuta le canoniche unità di tempo e di luogo. La vicenda si svolge in 4 giorni, con
un continuo spostarsi della scena dagli interni delle case delle due donne agli esterni, all'aperto. E
di questa libertà spaziale e temporale l'anonimo autore si serve per dare ai personaggi uno
spessore psicologico che manca alle stilizzate figure tradizionali della commedia cinquecentesca.
Per Iulio il tempo è una realtà esterna ed è percepito con assoluta indifferenza. Il tempo di Angela
e di Valeria, invece, è un tempo percepito con struggimento, angoscia. Allo stesso modo è lo
spazio: le due protagoniste compaiono solo nello spazio chiuso, al contrario lo spazio esterno è
percorso incessantemente dai servi e da Iulio. Dentro lo spazio chiuso si svolge il rito della
celebrazione amorosa, dell'eros. L'erotismo è l'evasione individuale, personale soluzione
esistenziale nei riguardi di una profonda crisi dei legami umani e sociali. In questo senso la
Veniexiana rappresenterebbe non soltanto la più bella commedia del '500 ma anche uno dei più
significativi esempi di realismo del secolo.

IL SECONDO 500 E LA COMMEDIA DELL’ARTE


Capitolo 5
Il 500 è un secolo breve. Alla fine degli anni '20 è già stato prodotto quasi tutto il meglio
del teatro del rinascimento e alla data del 1547 sono già morti tutti i grandi autori della
civiltà rinascimentale: Bembo, Castiglione,Ariosto,Macchiavelli, Guicciardini. E se

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prendiamo in considerazione la data di pubblicazione o composizione delle loro opere, il


Rinascimento appare già tutto compreso entro il 3° decennio: Bembo pubblica “gli
Asolani” nel 1505, le “ prose della volgar lingua” nel 1525, le “Rime” nel 1530;
Castiglione con “Il cortigiano” 1528; Macchiavelli compone le sue opere fra il 1512 e
1520. Solo “la storia” del Guicciardini è più tarda 1537/1540.
E alla data del 25 Febbraio 1545 appartiene un documento che contrassegna la nascita
della Commedia dell’Arte. Tutto questo per dire che la stagione teatrale del Rinascimento
ha una fioritura ricca ma di breve durata. E che la grande quantità di testi si accompagna
a un progressivo irrigidimento teorico e normalizzante.
La ‘codificazione aristotelica’ comincia nel 1548 con FRANCESCO ROBORTELLO, e ha un
altro momento importante nel 1570 con LODOVICO CASTELVETRO. Prima di queste date
la cultura dei commediografi era riuscita a trovare da sola il modo di assestare il proprio
lavoro. Il punto di partenza era stato il passo dell”ars poetica” di ORAZIO che fonda la
scansione in 5 atti del testo teatrale. In maniera quasi spontanea era stato accolto il
principio dell’unità di tempo e di luogo, e così pure la scelta strategica della prosa
rispetto al verso. In maniera ancora spontanea era prevalsa la scelta del verso per la
tragedia (struttura troppo solenne per rinunciare al verso).
Va detto però che nelle corti la tragedia è una realtà assai minoritaria -> La classe
dirigente rinascimentale è laica, edonistica, ama divertirsi, non ama interrogarsi sul
significato profondo della vita e in Italia mancano le condizioni storicosociali capaci di
produrre il capolavoro della tragedia.
Nel quadro del secondo 500 merita almeno una menzione la figura dell’ebreo
mantovano LEONE DE SOMMI ( 1525/1592), autore di un trattato, "quattro dialoghi in
materia di rappresentazioni sceniche", ascrivibile alla fine degli anni Sessanta. Egli è uno
dei veri pochi uomini di teatro del '500,in mezzo a tanti letterati. L’originalità del suo
trattato consiste nell’attenzione alla dimensione dello spettacolo. Il punto di vista
privilegiato è quello dello spettatore, non del lettore. Egli dichiara con forza che ci può
essere un testo bello su carta, che non risulta tale sul palcoscenico, e viceversa.
Sorprendente è la richiesta agli attori di essere obbedienti al <<corago>>, cioè all’autore
dello spettacolo, e di accettare lunghe prove. Siamo su una linea che rinforza il
professionismo teatrale che è la realtà nuova, imposta proprio nella seconda metà del
Cinquecento dai comici dell’arte.
IL DOCUMENTO
Il 25 Febbraio 1545 otto uomini si presentano davanti a un notaio di Padova, per
stipulare un contratto. Hanno deciso di costituirsi in una sorta di società, per << recitar
commedie di loco in loco >> al fine di guadagnar danaro. Staranno insieme per un anno e
compreranno un cavallo per trasportare costumi e attrezzi di scena. Divideranno i
guadagni in parti uguali, dandosi aiuto in caso di incidenti o malattie. È uno spirito
pratico, borghese, che ha inventato una nuova professione (commedia dell'arte rinvia
alle Arti e Corporazioni del Medioevo). La specificità del loro modo di lavorare è: non piu
di 12 elementi, ruoli fissi per ogni attore, poi ci sono i canovacci che sostituiscono il testo
e sulla base del quale gli attori improvvisano battute (canovaccio significava straccio da

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cucina a trama molto rada, proprio perchè era un riassunto della trama a grandi linee).
Non bisogna tuttavia esasperare la novità -> anche nel primo '500 non c'era un testo
unitario: il testo era diviso, distribuito fra gli attori e si ricomponeva solo nello spettacolo,
dalla somma delle parti di tutti gli attori.
Di grande efficacie è la novità delle MASCHERE (4 maschere fisse: PANTALONE, il
mercante veneziano; GRAZIANO, il dottor bolognese; ARLECCHINO, servo sciocco e
BRIGHELLA servo astuto). Le maschere attraggono l'attenzione del pubblico popolare e
meno colto che nel secondo 500 frequenta la Commedia dell'Arte. Altra caratteristica
decisiva, inoltre, è la forte sottolineatura della gestualità della recitazione e della
valorizzazione del corpo (salti, capriole). Anche il PLURALISMO LINGUISTICO (con dialetti)
rende lo spettacolo più attraente.
Ma la trovata vincente della Commedia dell'Arte si ha nel 1570 con la DONNA-ATTRICE e
ciò determina il trionfo di questo tipo di commedia. Gli uomini di chiesa (specialmente i
Gesuiti) scrivono libri contro i comici dell’Arte e contro "l'uso" della donna sul palco
(secondo loro mezzo per "allettare" più efficamente il pubblico). La cosa curiosa è che gli
ecclesiastici non se la prendono tanto con ciò che avviene sul palcoscenico, quanto con
ciò che avviene prima e dopo lo spettacolo. In effetti le trame dei canovacci non si
distinguono molto dagli intrecci delle commedie messe in scena nelle corti, la differenza
la fa la reale professione del teatro e soprattutto il fatto che i comici (da quando si è
affermato il teatro come professione) costituiscano una micro società dentro la società,
con regole e modalità trasgressive rispetto alla moralità dominante. Per gli scrittori
ecclesiastici le attrici sono tutte mezze-prostitute e gli attori sono tutti gaglioffi e balordi,
la Chiesa li ghettizza e infatti ci si avvicina al teatro proprio per la possibilità di una vita
meno chiusa e repressiva.
La Commedia dell’Arte ha durata di due secoli: da metà Cinquecento a metà Settecento.
Si tratta di una realtà a più livelli: dai poveri ciarlatani di piazza alle compagnie più
consistenti e infine i comici illustri. Il picco di eccellenza è a cavallo tra fine 500 e primo
600, quando operano 3 comici illustri: i coniugi ISABELLA E FRANCESCO ANDREINI con
FLAMINIO SCALA. Francesco Andreini pubblica nel 1607 “ Le bravure del capitano
spavento” raccolta dei generici da lui elaborati e utilizzati per dar vita alla figura del
Capitano, suo ruolo fisso. Scala pubblica invece, nel 1611 “il teatro delle favole
rappresentative “, una raccolta di 50 canovacci. Da un lato, ogni canovaccio presenta
l’elenco degli oggetti che serviranno agli interpreti, dall’altro ognuno è introdotto da un
Argomento che obbedisce a un piacere di narrazione.
“Il ritratto” di Scala rappresenta un canovaccio molto importante, perché sorta di
metateatro ( teatro che riflette sul teatro) che ci offre una visione della realtà dei
teatranti vista dal di dentro. L’ambientazione è quella delle troupes dei comici illustri
che, arrivando in una città, affittano una stanzona dove si esibiscono a pagamento. Il
canovaccio non ci presenta il momento della messinscena ma del fuori scena, della vita
quotidiana dei comici. Vittoria, l'attrice protagonista, è sì attrice ma è anche una demi-
mondaine, che si conquista perle e diamanti non tanto per il merito delle sue abilità
attoriche, quanto per le sue abilità amatorie. Straordinario è l'accento sul fatto che la
donna deve essere fredda e professionale, deve monetizzare il suo fascino senza
cedimenti passionali, poichè al tempo i liberi professionisti del teatro non potevano

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contare su alcuna previdenza sociale o pensione.


È un crescente drammatico, dove l’attrice, dopo aver esibito ripetutamente il suo fascino
vittorioso, finisce per risultare vittima delle proprie arti seduttrici ed è sequestrata da
alcuni gentiluomini e dai loro bravi, come se fosse una prostituta. Gli attori sono:
Pantalone, Graziano, Vittoria, i Gentiluomini e i Bravi.
COME SI ALLESTISCE LA COMMEDIA
Leone de Sommi dirigeva a Mantova la compagnia ebrea che serviva con i suoi spettacoli
la corte dei Gonzaga. Egli trattava nel primo libro di poetica comica e tragica; nel
secondo, della suddivisione in atti degli spettacoli; nel terzo, ragiona sui precetti e modi
di vestire degli attori. Per lui l’arte teatrale è autonoma e prevalente sulla drammaturgia
letteraria, essendo infatti più necessario "aver boni recitanti che bella commedia". Per gli
attori è importante piegarsi a un principio di illusione, parametro che si consiglia a chi
recita: la voce va alzata e bisogna recitar adagio, avere buona pronuncia e offrire
spontaneità. Per quel che riguarda l'impianto scenico, persiste in de'Sommi quantomeno
l'ambizione a un teatro che dia l'idea di una "fabrica soda et durabile", le cui scnee non
presentino delle improbabili stanze "senza il muro dinanzi".
SCENE FISSE, INTERMEZZI E SCENE MUTEVOLI
Se lo stile di De Sommi imponeva agli attori di non voltare le spalle agli spettatori, la
scenografia del tempo, li vincolava invece a ragionar più in mezzo al proscenio per
accostarsi agli uditori, poiché arretrando troppo era facile far saltare l’illusione delle
proporzioni prospettiche.
Nella seconda metà del 500, VASARI e la sua cerchia sperimentarono una scena che
consentisse all’attore di spingersi oltre la terza casa della scenografia urbana. Sono
soprattutto gli <<intermezzi>> delle commedie a spingere verso una scenografia che si
trasforma davanti gli occhi del pubblico e Leone de Sommi era consapevole del pericolo
che il ritorno dagli intermezzi spettacolari ( quelli visibili) alla rappresentazione del testo
potesse far sembrare allo spettatore più noioso il secondo, poiché con la loro novità essi
traviavano la mente di chi guardava.
Nella seconda metà del 500, la scena mutevole culmina e s’impone nei portentosi
intermezzi di BERNARDO BUONTALENTI. Muta le scene con i triangoli e tante altre
macchine introdotte in scena che ingannavo l’occhio dello spettatore. Prova straordinaria
di questo suo virtuosismo furono” l’amico fido” di Giovanni de Bardi che nel 1586,
inaugurò una sala per rappresentazioni agli Uffizi e tre anni dopo , l’allestimento de “la
pellegrina” di Girolamo Bargagli.
LE FAMIGLIE DELLE MASCHERE
Nel 1699, ANDREA PERRUCCI pubblicava a Napoli “ dell’Arte rappresentativa
premeditata e all’improvviso” nella quale descriveva l principali famiglie delle maschere
che si erano fissate nella routine della Commedia dell’Arte: GLI INNAMORATI, che
devono essere giovani, parlare bene l’italiano, recitare grave; I VECCHI, ridicoli che si
innamorano, avari, viziosi in cui troviamo Pantalone e Graziano, parte di padri; CAPITANI,

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in vari dialetti o anche di nazionalità spagnola; gli ZANNI, i servi mantenuti nei limiti di
decoro, vi erano due tipi di zanni, uno astuto e uno sciocco
LA DONNA NELLA COMMEDIA DELL’ARTE
La presenza della donna e della donna poetessa è una novità che marca
un’emancipazione storica. Come attrici poetesse ricordiamo Flaminia o Lucrezia,
Vincenza Armani, Vittoria Pissimi, Virginia Ramponi, e la poetessa attrice era Isabella
Andreini.
L’INDUSTRIA DELLO SPETTACOLO: IL MELODRAMMA
1545 e 1637 possono essere considerate due date capitali per la costituzione della
moderna industria dello spettacolo. Con la prima, in virtù di un regolare contratto, si
costituisce a Padova una fraternal compagnia di attori professionisti; con la seconda,
s’inaugura a Venezia la prima stagione pubblica di melodrammi. Lo spettacolo diventa
qualcosa pagato da un pubblico e crea delle condizioni di mercato. Importante a cavallo
fra 5 e 600, la maturazione del melodramma a seguito delle speculazione della Camerata
dei Bardi: sorge soprattutto come risposta alla crisi della commedia tardo
cinquecentesca, mettendo a partito la lezione degli intermedi, quadri di sfondo
allegorico-mitologico rappresentati tra un atto e l’altro del testo letterario, accompagnati
da musiche e animati dalle meraviglie della scena mobile. La committenza signorile cercò
con il melodramma un "trattenimento appagante e divertente". La commedia dell'Arte e
il melodramma sono l'eredità più cospicua dell'Italia al patrimonio culturale mondiale:
infatti si svilupparono quasi in parallelo e non senza interconnessioni -> Infatti, in quanto
professionisti dello spettacolo, i comici contribuirono ai primi allestimenti dei
melodrammi.

LA SCENA ELISABETTIANA TRA CINQUECENTO E


SEICENTO
Capitolo sesto
Mentre in Italia, tra fine '400 e inizio '500 si determina una rottura (spettacoli religiosi in
piazza e laici nelle corti), per gli altri grandi paesi europei (Inghilterra, spagna, Germania)
la storia teatrale prosegue con il teatro medievale. Si impone comunque una mentalità
moderna, ovvero laica. SHAKESPEARE tratta di conflitti di potere, di eventi della recente
storia inglese, d’amore trovando una mescolanza di stili tra il tragico e il comico, ma
organizza i suoi intrecci ignorando assolutamente le unità di tempo e di luogo. In tre
tragedie come “Amleto”, “Otello” e “Macbeth” non mancano scene buffe e comiche. In
Amleto introduce due clown, in Otello abbiamo scambi di illusioni sessuali tra Iago e
Desdemona, in Macbeth troviamo lo sproloquio dell’ubriaco portiere. Tutto questo non
significa che non ci fossero in Inghilterra delle elites di intellettuali al corrente delle
elaborazioni classicistiche, ma la loro capacità egemonica era relativa (piace Seneca): il
teatro registra una dimensione maggiormente di massa.

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A Londra all’inizio del Seicento, la capitale conta 200.000 abitanti, e un 10 % della


popolazione frequenta il teatro una volta a settimana. Il mercato librario dei testi teatrali
era considerato concorrenziale rispetto al mercato degli spettacoli: un testo pubblicato
poteva essere messo in scena da altre compagnie, rivali rispetto a quella per la quale
l’autore lavorava.
Londra sembra in anticipo su tutta l’Europa nel definire “l’industria dello spettacolo”. Il
teatro non è riservato all’élite, c’è un pubblico pagante che acquista la merce teatro. È un
pubblico interclassista, fatto di popolani (pagano solo un penny) e di borghesi. Ma al
tempo stesso è molto forte l'opposizione cattolica al teatro, rafforzata dalla riforma
protestante. Al tempo di Elisabetta I dominano i Puritani, protestanti inglesi, che
dominano la città e questo fa capire il perché i primi teatri nascono proprio fuori la city.
L’edificio teatrale è simile all’arena da combattimento, circolare, a cielo aperto, il
palcoscenico si protende verso la platea. Sul palcoscenico una botola a simboleggiare
l’inferno ma anche colonne sul fondo, e un vano che può essere chiuso per scene
d’interno. In alto, sul fondo, una balconata dove possono stare i musici. Un teatro
spoglio, con recite diurne e privo di luci. Si parla di <<scenografia verbale>> dato che
sono gli attori a evocare l’ambientazione. I ruoli femminili sono fatti da giovinetti
travestiti. Le attrici inglesi arriveranno solo con la riapertura dei teatri, con il nuovo re
Carlo II.
Insomma il teatro si fa specchio di una società contraddittoria e inquieta. Le stesse
biografie di taluni scrittori mostrano questo clima d'inquietudine. Vite brevi e
tormentate: Cristopher Marlowe è un intellettuale laico, omosessuale, blasfemo, che
muore in una rissa; Thomas Kyd viene arrestato per le sue idee di trasgressione e per
sospetto ateismo, anche lui muore giovane.
THOMAS KYD ( 1558-94), con “la tragedia spagnola” (1592) da un bell’esempio di
senechismo, prototipo di quella tragedia della vendetta che ha grande diffusione nella
civiltà elisabettiana. CHRISTOPHER MARLOWE (1564-93) riscuote gran successo con
“Tamerlano il grande”, mitico condottiero asiatico del Trecento, ne “l’ebreo di Malta”
(1589) registra le tensioni sociali anti ebraiche della società europea. Si tratta di una
drammaturgia aperta alla contemporaneità. C'è, poi, Ben Jonson: attento ai preconcetti
classici ma comunque capace di crearte un'opera dal lucido realismo, che fotografa il
cinismo della società del tempo.
E in questo quadro generale giganteggia WILLIAM SHAKESPEARE (1564-1616): sposato
con figli, aperto alla bisessualità, fece lavoro di scrittura artigianale. È un attore, ma non
un grande interprete. Il suo impegno principale era quello di fornitore di copioni. Il suo <
blank verse > era un verso sciolto, non rimato, il cui ritmo si avvicina alla parlata inglese.
Lunga la serie di capolavori: da “Riccardo III” 1594 a “ sogno di una notte di mezza
estate” 1597 a “Romeo e Giulietta” 1597; dal “mercante di Venezia” 1597 a “Giulio
Cesare” 1599 ad “Amleto” 1601; da “Otello” a “Re Lear” a “Macbeth” scritti tra 1602
1606, da “Antonio e Cleopatra” 1607 a “La tempesta” 1611.

AMLETO

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Ricavato da un antico racconto popolare scandinavo: il re di Danimarca è morto, e la


regina è convolata a seconde nozze con il cognato. Lo spettro del sovrano morto appare
al figlio Amleto e gli rivela che è stato in realtà avvelenato dal proprio fratello CLAUDIO.
Amleto alla fine realizza la vendetta dovuta, uccidendo lo zio e morendo egli stesso. È il
testo più insigne dello scrittore e ci si sono riversate fiumi di interpretazioni. La più
celebre, è quella che vede in Amleto l’eroe del dubbio, in cui l'eccesso di riflessione frena
il passaggio all'azione. In realtà le cose non stanno cosi. Amleto rinvia e prende tempo
per la sua vendetta perché è alle prese con un sospetto di omicidio e comunque il suo
informatore è uno spettro. Peraltro Amleto in alcuni passaggi è molto deciso come
quando uccide POLONIO che origliava una conversazione tra lui e sua madre nel II ATTO.
Perciò non si può insistere sull'idea, cara ai romantici, che Amleto temporeggi per indole
e metodo. E d'altronde non regge nemmeno la teoria di Freud fondata sul complesso
edipico: Amleto non ucciderebbe lo zio perchè egli ha raggiunto i suoi desideri inconsci
(liberarsi del padre e sposare la madre), perciò uccidere lo zio significherebbe uccidere
sè stesso.
Ciò che emerge, in realtà, prima dell’incontro con lo spettro è il dolore di Amleto per la
madre che si sta risposando a due mesi dalla morte del padre. L'incontro con lo spetto
del padre è, per Amleto, un'epifania, la folograzione estatica della dimensione dell'oltre.
Ma non c è solo la vendetta; c'è in gioco anche la scelta di un rinnovamento esistenziale,
che azzeri pratiche di vita banali, tra cui l'eros e dunque Ofelia. La rivelazione dello
spettro apre un abisso tra Amleto e la donna, l'universo femminile. L’omicidio del
padre,infatti, ricade su GERTRUDE, Amleto la vede come una quasi-complice. La visione
misogina che scaturisce dalla denuncia dello spettro si allarga su tutte le donne, e anche
su Ofelia sua innamorata. A causa della sua unione con Claudio, Gertrude ( la mamma)
diventa l’immagine del negativo di un femminile percepito quale oggetto occasionale di
aggressione sessuale. Detto in altro modo: nella struttura profonda di Amleto abbiamo la
fondazione di un triangolo malsano, ma non è quello previsto da Freud (la pulsione del
figlio per la madre e contro il padre), è semmai quella del figlio con il padre e contro la
madre, è il ribadimento del grande mito fondatore della civiltà patriarcale, la storia
dell'Orestea di Eschilo che si ripete.
Il teatro dentro il teatro (o play within the play): alla corte arrivano degli attori girovaghi
e chiede loro di rappresentare la vicenda del Duca Gonzago, avvelenato dal nipote
Luciano, che s’impossessò della corona sposandone la vedova. È una storia specchio
della sua realtà. Claudio vede lo spettacolo e dinanzi al teatro parla l’inconscio
dell’assassino che si alza e fugge rivelando cosi ad Amleto che è realmente lui il
colpevole.
OTELLO
Ad aprire la tragedia è IAGO con un monologo in cui lamenta che il posto di
luogotenente sia stato dato da Otello a CASSIO e non a lui. Nella vita militare vige la
regola in base alla quale le progressioni di carriera si fondano sul valore e sull’esperienza
quindi sull’anzianeità. OTELLO ne è la prova: un moro a capo di Venezia, il merito sopra
tutto. Però egli ha contravvenuto a questa regola facendo prevalere Cassio che ha svolta
un’importante parte nella storia d’amore tra Otello e DESDEMONA. Lei ha rifiutato molte
proposte di fidanzamento da giovani aristocratici, figlia di Brabanzio senatore di Venezia.

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Il padre è vedovo: lei è dentro l’ombra del padre e si lascia incantare da Otello, anche lui
figura paterna. Brabanzio prende la fuga della figlia come un tradimento morendo di
dolore. Alla fine del I ATTO Desdemona decide di seguire l’amato a Cipro e Otello l’affida
alla barca di Iago quindi non nella sua. Desdemona è affascinata ogni volta dall’uomo di
potere. Dal II ATTO la storia si sposta a Cipro. Otello nel suo corteggiamento ha sempre
avuto Cassio come consigliere, ora sospettato coe amante di Desdemona. Cassio ha 3
cose che Otello non ha e che scatenano in lui grande gelosia: è bianco, parla molto ed è
giovane. Shakespeare custodisce bene il segreto di Otello che svelerà solo alla fine dopo
che avrà ucciso la povera Desdemona. Otello poi si suicida per non essere arrestato.
Tragedia dell’amore e della gelosia, Otello parla sempre della sua Venezia e ci fa capire
che il suo vero amore è la città e per lui la ragazza ha rappresentato solo un sogno di
integrazione.

MACBETH
Inventa il suo primo grande personaggio femminile. Macbeth uccide a tradimento
DUNCAN , il re della Scozia, ospite nel proprio castello, e ne usurpa la corona, ma in
realtà la macchina criminosa è la moglie, LADY MACBETH. Qest’opera è stata sempre
considerata come la tragedia del potere, ma in realtà siamo di fronte a una vicenda che
denuncia l'assurdità dell'esistenza. Si rifletta su MCDUFF, colui che alla fine uccide
Macbeth. Un polo negativo e uno positivo. Guardando da vicino il "buon Mcduff" (con gli
occhi della moglie) se ne evince "Non ci ama", "Gli manca il tocco della natura". Il tema
della NATURA è fondamentale in Macbeth poichè Macbeth sarà sconfitto solo quando la
natura offesa si rivolterà contro di lui e quando a Macbeth si opporrà un uomo non nato
da una donna, cioè un mostro innaturale. Ebbene se Macbeth è il "demone dell'Anti-
Natura", è curioso come anche Macduff sia estraneo alle leggi della natura, incapace di
fare una cosa che farebbe anche il più piccolo degli uccelli:difendere la sua famiglia.
Infatti egli scappa in Inghilterra per schierarsi al fianco di Duncan, ma MALCOLM (figlio di
Duncan) , teme sia una trappola. Perchè Macduff dovrebbe aver lasciato la Scozia,
tradito Macbeth e lasciato moglie e figli alla mercè delle vendette di Macbeth? C'è
un'oggettiva brutalità nel modo in cui Macduff se ne va, senza neanche avvertire sua
moglie. Tutti, infatti, fanno qualcosa poi per aiutare Lady Macduff e figli, tutti tranne
Macduff. Il momento di maggiore pathos viene raggiunto quando Macbeth manda dei
sicari al palazzo dove Duff ha lasciato moglie e figli senza avvertirli del pericolo e il figlio
maggiore cerca di proteggere la madre. Anche lo scricciolo, quindi, si batte contro il
grande gufo, a protezione del suo nido. Animali e umani, tutti mostrano di avere the
natural touch, tutti tranne Macduf. Difficile non vederlo come fuori dall'orizzonte dei
comportamenti naturali e qui si ritorna al discorso iniziale -> Macduff è l’unico che può
sconfiggere Macbeth dato che è “no woman born”. Ma cosa significa? Almeno sino alla
fine dell'Ottocento la prassi medica non riusciva a garantire la sopravvivenza della madre
a un cesareo, che dunque resta un'esperienza di morte più che di vita; perciò "no woman
born"significa che il neonato è nato da un cadavere, da una donna morta. Tuttavia
affiora anche un fantasma segretamente antifemminile: la nascita si afferma sul cadavere
della donna,della madre. Inoltre la nascita di una comunità liberata e nuova (grazie a
Macduff) si realizza sulla carneficina di Lady Macduf. Si evince che Macduff è l'unico a

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poter liberare il mondo dal mostro Macbeth poichè è lui stesso un mostro, più mostro di
Macbeth.
La risposta finale è che non c'è limite al male, che il male viene schiacciato solo da
altro male.
L’epopea elisabettiana si chiude con JOHN FORD (1586 1640) che con “Peccato fosse una
sgualdrina” (1633) dà un quadro implacabile di una società cinica, crudele contro cui si
instaura una storia d’amore tra una sorella e fratello. Vergini entrambi, ANNABELLA e
GIOVANNI, come Romeo e Giulietta. Giovanni confessa il suo amore, ma offre alla sorella
il proprio pugnale perché lei gli apra il petto e anche lei a quel punto confessa il suo
amore, uguale, identico. Nel III ATTO abbiamo la svolta: Annabella è incinta, e il trauma
la predispone al pentimento. Si confessa con il Frate e accetta la proposta di
quest’ultimo di sposarsi con Soranzo, che la chiedeva in moglie. Egli, nel IV ATTO ha già
compreso che il figlio non è suo e lei,di fronte agli insulti del marito, svela il suo adulterio
pur celando il nome dell’amante. Nel V ATTO, Annabella si aspetta di morire e lancia dal
balcone una lettera al frate per suo fratello e dice che deve pentirsi. Soranzo organizza
un banchetto per uccidere Giovanni, questo avendolo capito va comunque alla festa e
uccide con il suo pugnale la sorella, poi entra in sala (con il pugnale sul cuore) e iniziano
a uccidersi tutti fra di loro. Cuore e pugnale all’inizio e alla fine della tragedia.

GLI SPETTACOLI DI LONDRA


In Inghilterra, la condizione professionale dell’attore viene definita nel 1572 con il
RETAINER’S ACT. Due erano le aree di svago di Londra: a nord, Finsbury Field, zona di
passeggio, a sud, Bankside, malfamata. Nella prima area sorsero THE CURTAIN e THE
THEATRE nel 1576, due teatri. Brevemente anche dall’altra parte sorsero dei teatri:
SWAN THEATRE 1594 e THE GLOBE 1599. Il teatro
elisabettiano non si riduceva a un sapiente esercizio drammaturgico ed era tutt'altro che
scevro dell'aspetto festoso e spettacolare, ma c'erano anche altri divertimenti che
facevano concorrenza agli attori, come "un locale foggiato come un teatro adibito ai
combattimenti dei tori e degli orsi".

L’ANIMA E IL CORPO DEL TEATRO


Fra i principali teatri della Londra elisabettiana non può essere ignorata la sala dei
banchetti a Whitehall nella quale si svolgevano i prestigiosi spettacoli di corte, che
ebbero dal 1605 un forte impulso dal geniale scenografo INIGO JONES. Diffuse lo stile
teatrale italiano con la sua cultura prospettica e portò a splendore il genere dei masques,
celebrazioni allegoriche e mitologiche della monarchia. Ad azzerare il tutto ci pensarono
i Puritani, che giunti al potere, il 2 Settembre 1642, chiusero tutti i teatri e nel 1649
decapitarono il monarca Carlo I.

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LA SCENA SPAGNOLA TRA CINQUECENTO E SEICENTO


Capitolo settimo
I teatri in Spagna nascono dalla matrice medioevale proprio come in Inghilterra.
L’esplodere della Riforma Protestante 1517 e poi della Controriforma, nel secondo 500
vede la Spagna in prima fila per difendere l’ortodossia cattolica. E sono i Gesuiti a
guidare la battaglia della Controriforma. Tutto questo si riflette nel teatro, ifatti non è un
caso che tutti i personaggi più significativi della scena spagnola siano fortemente
coinvolti nel discorso religioso. TIRSO DE MOLINA è un frate, CALDERON DE LA BARCA
abbraccia la carriera ecclesiastica a 50anni, LOPE prende dopo i 50anni gli ordini religiosi.
Se infatti in Spagna si assiste a una progressiva laicizzazione dei contenuti
drammaturgici, è pur vero che resta sempre viva la tematica sacra. Gli strati più rigidi del
potere religioso e politico guardano con diffidenza al teatro, ma senza incidere molto
dato che l’interesse per quest'ultimo è enorme.
Al centro della scena spagnola c’è il CORRAL, un recinto (cortile costituito dalle pareti di
case contigue) con il palcoscenico impiantato a una estremità dello spazio. Intorno,
lungo i muri, gradinate con posti a sedere, in fondo, la CAZUELA, per le femmine. Si
vedano il CORRAL DI ALMAGRO e IL CORRAL DI MADRID del1583. A partire dal 1574 la
presenza dei comici dell'Arte italiani contribuisce ad accelerare il processo di
trasformazione della scena teatrale in senso professionistico (ad esempio fà accettare le
donne come attrici, ma non fà altro).
La COMEDIA NUEVA inventata da CARPIO LOPE DE VEGA (1562-1635), ripropone i
moduli della tradizione medievale: piena libertà spazio temporale, superamento della
distinzione dei generi (nasce, ad esempio, la tragicommedia); presenza del gracioso,
sorta di buffone. Ci sono poi anche delle innovazioni: l'attenzione alla problematica
contemporanea che si esprime atteraverso la moltiplicazione all'infinito di commedie di
genere avventuroso (le capa y espada); i 5 atti lasciano posto a solo 3 atti.
Lopo si rivela pienamento consapevole della centralità sogiologica del pubblico: "Tolgo
Terenzio e Plauto dal mio studio [...] siccome è il volgo che paga, è giusto parlargli da
ignorante, pur di dargli gusto" (Nuova arte di far commedie di questi tempi)
Il testo più famoso di LOPE è “fuente ovejuna” 1612-14, villaggio abbandonato a un
signorotto feudale, il Commendador Gomez, che violenta le donne del posto.
L’indignazione spinge la popolazione alla rivolta,il tiranno viene ucciso e non si riesce a
scoprire il colpevole: tutti gli abitanti danno allora la colpa a fuente ovejuna, intendendo
che la colpa fosse di tutti di fronte alla mostruosità del potere locale. Può sembrare una
dichiarazione di grande innovazione, dove i contadini appaiono (come non accadeva
quasi mai) portatori di moralità e dignità. In realtà Lope incastona la vicenda all’interno
di un preciso conflitto politico dinastico dato che il commendatore si è schierato contro i
sovrani Ferdinando e Isabella (presenti in scena): il perdono dato dai sovrani al popolo,
macchiato di una grave colpa, viene concesso solo perchè il tale ucciso si era a sua volta
macchiato di fellonia e tradimento rispetto alla monarchia. Questo componimento
diventa quindi il momento di esaltazione del potere storicamente vincente in Spagna.

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Autore di una sola opera è FERNANDO DE ROJAS (1465-1541) con la “commedia di


Calisto e Melibea” NEL 1499. Non è un testo pensato proprio per il teatro: la prima
edizione contava 16 atti, successivamente addirittura 21. L'autore ha una buona cultura
umanistica ma non si preoccupa minimamente delle unità di tempo e luogo. È più un
testo teatrale da leggere con legami al mondo medievale a cominciare dalla storia
d’amore. Calisto è un giovane aristocratico, tutto dentro i valori dell'amor cortese, che si
accende di passione alla semplice vista di Melibea. La novità è nella mescolanza di
questo livello alto con il basso della ruffiana Celestina, che per denaro favorisce l’amore
del giovane. Accanto ai nobili innamorati si trovano quindi i "marginali": ruffiani,
prostitute, servi patibolari, pronti a tutto per denaro. Due servi, ad esempio, pretendono
che Celestina divida con loro il denaro e di fronte al rifiuto la uccidono. La trama
cavalleresca e cortese s'intreccia con tinte di violento realismo. Certamente medievale è
l'impianto moralistico della costruzione narrativa, infatti muoiono tutti i personaggi
negativi: da Celestina e i servi, a Calisto che cade dalle scale a Melibea che si suicida
buttandosi giù dal palazzo. La molteplicità delle morti sa di punizione. C’è anche una
dimensione di modernità dei personaggi: i contemporanei diedero il nome “celestina”
all’opera poiché affascinati da quest’ultima.
Sulla scia di Lope si pone TIRSO DE MOLINA (1579-1648) con “L’ingannatore di Siviglia e
il convitato di pietra”, 1630. Con qeusto ci si trova di fronte al testo fondatore del mito
secolare di Don Giovanni. Da un lato c’è il burlador, colui che vive di inganni e che arriva
alla burla di invitare a cena la statua dell'uomo che ha ucciso, dall’altro il convitato di
pietra, che al termine del banchetto stringe la mano a Don Juan ed è una stretta che lo
uccide, dannandolo per l'eternità. Da un lato il protagonista delle male imprese,
dall'altro il giustiziere divino: l'impianto moralistico è evidente. Il burlador Don Juan
inganna le donne, il suo è un desiderio cerebrale di disonorarle. È forte con i deboli, ma
debole con i forti. Infatti l’autore gestisce la storia in 4 avventure: prima la duchessa
Isabella; poi la pescatrice Tisbea; poi Donna Anna, figlia di don Gonzalo, il convitato di
pietra; infine la contadina Aminta. Per don Juan è facile sedurre le donne del popolo di
giorno a viso scoperto, con le gentildonne invece opera di notte e a viso coperto, perchè
deve ricorrere a un inganno più subdolo (ciascusa delle due donne ha un innamorato e
Don Juan deve travestirsi con i panni di quei due uomini). Non c'è grandezza in questo
Don Juan, nemmeno di fronte al tema della morte e dell'eterno: il personaggio non
mette in discussione l'esistenza di Dio e nemmeno il rischio della dannazione eterna. Si
limita a rimuovere il problema, a metterlo tra parentesi, a calcolare che la morte è una
scadenza lontana. Ma quando essa arriva a prenderlo, prima del tempo, il nostro "eroe"
svelerà tutte le sue insicurezze come il non essere riuscito a prendere la verginità di
Donna Anna (perchè lei ha capito che era un inganno), svelandolo anche al padre di lei, il
convitato, mentre egli gli strinfe la mano per trasmettergli il fuoco fatale. Anche Don
Juan, come Celestina, non è un eroe del male, non è una figura infernale: all'incontro col
destino, rinnega la sua carriera di peccatore e pretende la confessione e l'assoluzione.
Il punto più alto del teatro spagnolo è rappresentato da PEDRO CALDERON DE LA
BARCA (1600-1681), Il cui capolavoro è “La vita è sogno” 1635. Ritroviamo la struttura
della commedia di cappa y spada, intrecciata con l’ossessione dell’onore. CLOTALDO ha
sedotto e abbandonato in passato una gentildonna, cui ha lasciato però la propria spada.
ROSAURA, la fanciulla che è frutto di quell’amore clandestino, apre il primo atto vestita

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in abiti maschili, con la spada al fianco, per vendicare il suo onore (anche lei sedotta e
abbandonata da Astolfo, principe della Moscovia). Al servizio di Rosaura c’è CLARINO il
gracioso, che esprime le piccole viltà dell'uomo qualunque alle prese con i grandi eventi
della storia. Ritroviamo anche la consueta apologia del potere monarchico: BASILIO re di
Polonia, ha fatto incarcerare il suo unico figlio SIGISMONDO, sin dalla nascita a seguito di
nefasti auspici circa la sua natura malvagia, ed è pronto a lasciare il trono a ASTOLFO, ma
un'insurrezione popolare uccide il re e dà il trono al suo erede: Sigismondo perdona il
padre e anche Astolfo dandole in sposa Rosaura (benchè sia oggetto del suo amore). Il
nuovo principe dimostra subito di saper controllare tutti i suoi istiniti, malevoli e
benevoli. Di fondo c'è però la percezione acuta della labilità dell'esistenza: l'uomo è uno
scheletro vivente e, come dice Basilio, "tutti quelli che vivono sognano". E' il
convincimento profondo di un personaggio che dice "il sepolcro vivo di un ventre, perchè
il nascere e il morire sono simili". Ciò rimanda al tormento autentico di Basilio per come
ha fatto crescere Sigismono, timoroso della sua natura malvagia. In realtà gli lascia una
possibilità di provare che la sua natura è beneviola -> All’inizio del II atto Sigismondo è
nella reggia (è stato narcotizzato e trasportato) ma ha subito pulsioni maligne: cerca di
violentare Rosaura e uccide un servo, dunque viene narcotizzato e rispedito nella torre
dove era incarcerato. Grazie al sedativo penserà di aver sognato la vita da re che ha
condotto solo per un giorno. In realtà la dura pedagogia paterna produce i suoi frutti:
Sigismondo si chiede cosa è vita e cosa è sogno? Come continuare a vivere se in
qualunque momento ci si può risvegliare nella torre dopo aver governato da re? E
l'insieme di queste considerazioni trasforma Sigismondo e lo spinge a inibire i suoi
impulsi irrazionali. Alla fine del II atto,infatti,viene scarcerato dal popolo e sceglie la via
dell’obrar bien. In ultima istanza si può dire che Sigismondo insiste per ben 4 volte sul
tema che la nascita stessa è un delitto: ciò viene spiegato in un dialogo col padre -> qui
egli dice che "dare la vita" è l'azione più nobile ma darla per ritoglierla subito dopo
(riferendosi all'incarcerazione da parte del padre) es mayor bajeza (è la maggior
bassezza). In un'ottica più ampia si capisce che questa è un'afflitta meditazione sul
destino dell'uomo in generale: il lamento per una vita umana che è data per essere
necessariamente tolta, attraverso il passaggio della morte cui nessuno può sfuggire.
DALLE BARBA POSTICCE ALLE NUVOLE VOLANTI
MIGUEL DE CERVANTES (1547-1616) autore di “Don Chisciotte” delinea una sintetica
storia del teatro spagnolo, sottolinea comunque l’incidenza di una figura di attore
insigne nella recitazione e per intelligenza, quella di Lope de Reuda, sivigliano che si
distinse nelle pastorali e anche a livello sociale. Un altro attore importante fu Naharro di
Toledo, nel ruolo di ruffiano vigliacco, che diede maggior stabilità alla professione. Egli
iniziò a introdurre quinte, nuvole, effetti di tuono e lampeggiamento, battaglie, artifizi
che si affermarono dopo la messa in scena di "Il mercato di Algeri" (dello stesso
Cervantes). Questo programma fu, poi, splendidamente continuato dal grande Lope de
Vega che impose la monarchia della commedia, sottomettendo alle sue leggi tutti gli
attori.
DON GIOVANNI, ARCHETIPO DEL TEATRO OCCIDENTALE
Fra i personaggi archetipi del teatro occidentale, vanno indubbiamente menzionati
Edipo, Faust, Amleto e Don Giovanni. Nei secoli queste figure hanno polarizzato

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l'attenzione di spettatori e uomini di teatro e sono state riproposte in curiose variazioni e


contaminazioni. Il Burlador di Tirso ( a cui ci si riferisce per la "paternità" del Don
Giovanni),portato a Napoli nel 1625 da Pedro Ossorio, fu fortunato per molti anni. Sono
soprattutto Moliere e Mozart, poi, a proiettare il personaggio nel cuore della sensibilità
romantica e anche Baudelaire che lo trasfigura in un orgoglioso dandy. Da menzionare,
infine, il legame che si stabilisce tra Don Giovanni e Faust. Ancora nel XX secolo troviamo
il suggestivo "mistero" Miguel Manara, nel quale Don Giovanni muore in beatitudine in
un convento, perchè l'uomo che cerca disperatamente di possedere è infine posseduto
da Dio, "consumato" dall'amore per Dio.
LA SOLENNITA' DEGLI AUTO SACRAMENTALES
Gli autosacramentales, con i lori caratteristici carri (rocas), erano rappresentati nelle vie
delle città spagnole, per un mese durante la ricorrenza del Corpus Domini, come ci
attesta Madame d'Aulnoy. La processione (a cui partecipavano tutte le parrocchie e tutti
i monasteri) avveniva alla presenza del re, la via era piena di fiaccole. Il re, i ministri e
tutti i cortigiani reggevano una candela di cera bianca. Quando la d'Aulnoy partecipa alla
festa del Corpus Domini, tuttavia, il genere degli autos è in netta decadenza. La
Controriforma aveva sollecitato i grandi drammaturghi come Lope de Vega a scrivere
Autos che restano fra i più significativi del teatro spagnolo in assoluto, e ciò porto il
genere alla perfezione fino all'esaurimento.

LA SCENA FRANCESE DEL SEICENTO


Capitolo ottavo
La Francia, più vicina all’Italia ebbe un grande influsso classicista dal Rinascimento
Italiano. A partire dal 1653, a Parigi arrivano flussi di comici dell’arte venuti dall’Italia,
che recitano in Italiano in una sala vicino al Louvre, il Petit Bourbon.
Particolarmente sentita appare la sedimentazione della cultura classicista nella
intellettualità francese del Seicento. JEAN RACINE legge Euripide, RICHELIEU, fonda nel
1635 l’Academie francaise. PIERRE CORNEILLE (1606-1684), trionfa con un’opera “Le
Cid”, che non rispetta le unità di tempo e di luogo di aristotelica memoria. Intorno a
quest'opera si sviluppa un dibattito, la querelle, dove viene coinvolta anche l' Academie
Francaise. Bastano questi tre grandi nomi a dare il senso della pienezza artistica del
Seicento francese, definito appunto Le Grand Siècle. Il teatro è uno strumento nuovo per
i francesi e nel corso del secolo si definisce come luogo privilegiato dei conflitti sociali: la
borghesia che tenta di accedere al potere politico e l'aristocrazia che è irrequieta e vuole
riconquistare il potere feudale. Ed è l'aristocrazia a tentar di usare il teatro come arma
ideologica, per celebrare i valori che definiscono la propria superiorità di classe. Da
questo punto di vista il Cid è superbo.

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Rappresentato nel 1637, il Cid presenta una vicenda ispirata a cronache spagnole
medievali di lotta contro i Mori. Corneille ambienta la vicenda a Siviglia, alla corte di Don
Fernando, primo re di Siviglia. Don Diego ( padre di Rodrigo) e Don Gomes ( padre di
Chimene) sono 2 importanti uomini d’arme del re, ma il primo è vecchio e il secondo no.
Il re assegna al primo la funzione di precettore del proprio figlio, erede al trono, e Don
Gomes (che si riteneva più degno) insulta Don Diego e lo schiaffeggia. Don Gomes ritiene
che lo Stato si regga in piedi solo grazie al valore del suo braccio e arriva a teorizzare che
anche il re possa sbagliarsi: siamo di fronte al dibattito assolutismo monarchico-anarchia
feudale, che tanto appassiona la Francia. Lo schiaffo tirato a Don Diego presuppone un
duello, ma egli è troppo vecchio: mette mano alla spada e un colpo efficace di Don
Gomes gliela fa cadere. È un disonore. È stato come averlo ucciso. E sarà il figlio Rodrigo
a battersi per lui, contro il padre di Chimene, sua amata. Ora l’onore combatte contro
l'amore, ma sia per Rodrigo che per Chimene sarà l'onore a prevalere (dato che sono
stati cresciuti secondo i principi aristocratici). Rodrigo ucciderà Don Gomes e davanti al
dolore della ragazza amata non rinnegherà il proprio omicidio. Tuttavia i figli non sono la
copia esatta dei valori dei padri: nei due padri vive lo stesso ideale misogino che la
donna sia debolezza, invece la lingua dei giovani è più articolata, aperta a sfumature e
alle spinte contraddittorie del cuore. C’è una tentazione musicale come se la tragedia
fosse sempre sul punto di risolversi in un'opera lirica. Il Cid viene pubblicato nella sua
prima edizione del 1637 con il sottotitolo di tragicommedia. Come detto sopra l'opera
non appare coerente con le regole di Aristotele, ma il problema è che i principi di
Aristotele si impongono in Francia solo dopo il 1640. Certo, nel corso della querelle,
Corneille si adatta al punto di vista dei dotti: la sua caratteristica è proprio questa doppia
tattica -> puntare sul consendo del pubblico ma poi cercare la legittimazione dei dotti.
Con "Il Cid" Corneille ha individuato una chiave di grande efficacia: l'Amore che
combatte contro l'Onore. Questo tema è rintracciabile in tutto il suo teatro.
Su un piano diverso si colloca JEAN RACINE (1639-1699) che descrive gli uomini come
sono (al contrario di Corneille che li descrive "come dovrebbero essere"). Anche i
personaggi più aulici, sotto la penna di Racine, svelano le proprie pulsioni più
inconfessabili. In una delle sue prime tragedie, “Andromaca” 1667, Oreste giunge alla
corte del re dell’Epiro, Pirro ( figlio del defunto Achille), come portavoce dell’intera
Grecia, preoccupata (la Grecia) che Pirro non abbia ancora provveduto a eliminare il
figlio di Ettore (Astianatte) della cui madre, Andromaca (formalmente schiava di Pirro),
Pirro è innamorato. Ma Oreste ha un altro fine: Pirro nonostante ami Andromaca è in
procinto di sposare Ermione (figlia di Elena e Menelao), ma di questa è innamorato
Oreste il quale progetta di rapirla. C’è una contrapposizione tra l’interesse pubblico e
privato di Oreste. E un po' tutti i personaggi di Racine appaiono divorati dalla passione e
dal desiderio amoroso, attanagliati dai propri sentimenti, che li rendono quasi nevrotici,
e comunque sempre violenti, protni a porre dei ricatti e a pretendere di essere amati con
la forza. Pirro garantisce ad Andromaca che difenderà la vita di Astianatte in cambio del
suo amore per lui. Racine non ci presenta, a causa della buona creanza, azioni volgari e
brutali, quindi alla violenza fisica sostituisce la violenza psicologica del ricatto. La
modernità dello scrittore è proprio in questa sua capacità di scavare nella psicologia dei
personaggi, di proiettare fasci di luce tenebrosi e inquietanti sull'inconscio dei suoi eroi e
delle sue eroine. Ad esempio Pirro, il figlio del grande eroe, per esistere deve opporsi al
padre glorioso, deve fare il contrario del padre: Achille ha ucciso Ettore, Pirro ne sposa la

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vedova. Ricorrente è questo "dramma dei figli degli eroi" che si devono confrontare con
modelli insuperabili e da ciò ne deriva una sorta di fragilità psicologica.
Altro suo scritto è “La Fedra”, allestita per la prima volta nel 1677, un grande
personaggio femminile, Fedra, che ama incestuosamente Ippolito, figlio di primo letto
del proprio marito Teseo. Mito gia trattato da Euripide e Seneca ma Racine vi aggiunge il
peccato o meglio la predestinazione al peccato che spinge ineluttabilmente Fedra al
male. E soprattutto ci aggiunge uno scavo psicologico che scinde l'anima della
protagonista tra la passione e il senso morale. A livello d'intreccio Racine aggiunge la
gelosia di Fedra poichè Ippolito ama la giovane Aricia. Anche qui, comunque, ritroviamo
la conflittualità padre/figli. Ippolito apre la tragedia, dialogando con il proprio precettore
Teramene. Annuncia la propria partenza, ma non si capisce bene per dove. Da più di sei
mesi Teseo è scomparso e lui vorrebbe andarne alla ricerca. Teramene dice di non
preoccuparsi molto per Teseo dato che è un noto donnaiolo. Ippolito lo interrompe
dicendo di portare rispetto al padre. Di Aricia si sa che è principessa di sangue reale e
che i suoi 6 fratelli sono stati sterminati da Teseo, che ha posto il veto a qualunque
matrimonio della sorella superstite. Se dunque Ippolito si apre all'amore, sceglie l'unica
donna su cui il padre ha posto il veto (conflitto padre/figlio). L'amore di Ippolito, quindi,
è del tutto cerebrale, pura metafora di un problema differente, quello della sua
emancipazione genitoriale. Aricia, dal canto suo, è innamorata del suo potere, del potere
che scopre di avere su un uomo. Ippolito si illude di amare ma in realtà combatte la sua
battaglia contro il padre. Aricia, più disincantata, sa benissimo che la sua è solo la prima
mossa di una partita di potere politico che, solo, le interessa. Ippolito le da il trono di
Atene solo dopo che giunge la notizia che il padre Teseo è morto. Quando torna Teseo,
non più morto, il figlio è gelido con il padre ritrovato e si autodenuncerà sia per aver
sognato la morte del padre e sia per volere Aricia. Il padre invocherà Nettuno x mandarlo
a morte certa.
JEAN BAPTISTE POQUELIN detto MOLIERE (1622-1673) è una nuova figura di attore-
scrittore legato alla convenzione della commedia. Come scrittore resta memorabile per
aver inventato una serie di capolavori assoluti per i quali il titolo di commedia è troppo
ridttivo, benchè non si possa parlare di tragedia: “Tartufo” 1664; “Don Giovanni” 1665;
“il misantropo” 1666. Sono pieces che preparano alla lontana quello che sarà il dramma
borghese che nascerà nel corso del Settecento e si imporrà in tutta Europa alla fine
dell’Ottocento. Non c'è comunque ancora il salotto borghese, come cornice esaustiva
dell'azione scenica: le vicende si svolgono indifferentemente in ambienti e in esterni.
Moliere scrive spesso in versi e non in prosa.
TARTUFO
Collocato nella casa di un ricco mercante (Orgone), che si è infatutato del lestofante
Tartufo (che si finge anima pia), col quale Orgone vuole far sposare la figlia per
imparentarvisi, la scena è ambientata a Parigi. La moglie di Orgone, Elmira, è però decisa
a smascherare Tartufo agli occhi del marito, facendogli capire che si tratta di un ipocrita il
quale vorrebbe solo portarsi a letto la moglie del suo protettore, oltre a a sposarne la
figlia. Perciò Elmira chiede al marito di nascondersi sotto al tavolo mentre lei è a
colloquio con Tartufo. La scena tabù tra Tartufo e Elmira, quindi, è attenuata dalla gag
comica del marito sotto al tavolo. Moliere instaura al centro del suo testo una scena

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interdetta, ma soprattutto inventa un legame tra la scena proibita e un angolo di ascolto


segreto: infatti la scena è talmente devastante che l'autore non riesce a dirla e dunque la
raddoppia -> due volte avviene il gioco di seduzione Elmira-Tartufo e per due volte
Moliere ricorre all'artificio di un terzo che ascolta (prima il figlio di Orgone,poi Orgone
stesso). Inoltre in questo testo non c'è solo un'inquietante violenza psicologica, ma
anche una sostanziale carica di velata violenza fisica. C'è una forza, una violenza nella
gestualità di Tartufo che è ben messa in rilievo nel suo modo di esprimersi. E qui, infine,
si scatena l'ultimo segmento di Tartufo: Orgone, una volta abbassatosi a origliare, ha
difficoltà a uscirne fuori. Non bastano i tre colpi e un pugno sul tavolo (segni di
avvertimento dalla moglie) a fargli capire che è tempo che esca dal nascondiglio per
intervenire. Egli ama Tartufo più di quanto ami sua moglie e sua figlia, perciò è
affascinato da quella situazione triangolare. Che è quanto comprende Elmira che riesce
ad allontare Tartufo chiedendogli di controllare la porta, ed è questo che salva la donna
nonostante Orgone. Basta che Tartufo esca di scena perchè Orgone esca da sotto il
tavolo. Ciò che Moliere sta cercando di farci intendere non è l'omosessualità di Orgone
(la quale è ancora una figura di coppia) quanto l'attrazione per il triangolo (vera
eversione trasgressiva). Perciò qui viene esaltata l'eccezionale capacità dell'autore di
scandagliare le zone più misteriose dell'animo umano. Le commedie di Moliere, da
questo punto di vista, non hanno niente in meno rispetto a quello di Racine: entrambi
portano avanti uno scavo nell'Io, un'indagine spietata dei mostri dell'inconscio che
prepara alla lontana gli esiti più alti della drammaturgia borghese di fine '800.
DON GIOVANNI O IL CONVITO DI PIETRA (Dom Juan ou le festin de pierre)
Questo testo segue di 35 anni il testo spangolo ed è ben diveerso dal modello originario.
Poco prima dell'appuntamento fatale, infatti, alcune apparizioni tentano di indurre il
protagonista a pentirsi ma invano. Il Don Giovanni di Moliere non può pentirsi, perché
non crede in Dio. Non ci stupiamo, quindi, che il personaggio muoia senza invocare
assoluzioni ma semplicemente confessando la sua morte. Si capisce che per l'autore
spagnolo non è immaginabile un Don Juan ateo, ma Moliere è libertino e vive in una
società più aperta. Il suo Don Giovanni è un eroe, che non concerne più un burlador ma
un eroe del male, con spirito libertino, disinibito, spregiudicato, con lo scopo di godersi
le donne e non quello di ingannarle come il burlador.
I RAZIONALISTI FRANCESI E GLI STREGONI ITALIANI
A Parigi, i cosiddetti “ Confreres de la Passion” detenevano dal 1402 il privilegio di
perpetuare le sacre rappresentazioni, ma nel 1548, ormai in decadenza installatisi
all’Hotel de Bourgogne, fu loro interdetto di continuare. I fratelli videro qualche spiraglio
di ripresa fino al 1598 quando vennero censurati dal Parlamento e cedettero il campo ai
commedianti. L’hotel era strutturato come un semplice rettangolo con due file di palchi
e, in parte condizionati dalla struttura materiale dell'Hotel de Bourgogne, questi
professionisti si dedicarono a un repertorio fantasioso e irregolare. Quello che sembrava
essere l'inizio di un'era feconda, però, si rivelò solo il traguardo di una breve corsa: il
teatro francese, infatti, s'inidirizzò verso la via del classicismo e delle sue regole unitarie.
La dialettica dello spettacolo,però, era tutt'altro che sopita. Esistevano ancora correnti
neoepicuree e scettiche che alimentavano il "libertinismo" e s'impose l'opera-ballet.
D'altra parte se nei teatri pubblici ( Marais e Hotel de bourgogne) l’allestimento restava

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modesto, l’epoca era coincidente con la sensibilità barocca e aperta alle forme
esuberanti e lussuose della rappresentazione principesca che si erano sedimentate in
Italia. Dal 1581, con il “Ballet comique de la Reyne” si sviluppa il ballet masquerade.
Moliere e JEAN BAPTISTE LULLY svilupperanno per le feste di corte la comedie ballet
unendo alla recitazione danza e canto, recuperando in tal modo gli elementi di cui si era
privata la tragedia. Queste forme spettacolari hanno costumi splendidi e un’elaborata
scenotecnica: è l’epoca delle pieces a machines. In Francia lavora Giacomo Torelli che,
nel 1639-41, aveva realizzato un argano che consentiva la mutazione rapida e simultanea
di quelle quinte teatrali. Nel 1650 egli allestisce l'Andromede che Corneille scriven
tenendo addirittura presenti le scenografie.
LA COMEDIE FRANCAISE, PRIMO TEATRO STABILE D’EUROPA
Il 21 Ottobre 1680, gli attori di Moliere che, dopo la sua morte, si erano concentrati nel
teatro di Rue Guenegaud, si fondono, per ordine di Luigi XIV,con quelli dell’hotel de
Bourgogne. Possiamo dire che nasce il primo vero teatro stabile europeo, i Comedians
du Roi, che nel 1687 si stabiliscono nella sede della Comedie-francaise in Rue des Fosses
S.Germain, teatro inaugurato il 18 aprile 1689. Si tratta di una sala con palcoscenico che
presentava sei ordini di quinte piatte e mutevoli e già arieggiava, con la sua pianta a U, la
struttura teatrale elaborata in Italia. Nel 1740 Riccoboni riconosce che i teatri italiani
sono ormai "modelli" per tutti i teatri francesi. Ad esempio il Farnese di Parma che era
conosciuto come il più grande teatro del continente: esso era ancora costruito come i
teatri dei romani, con gradinate d'anfiteatro. Il Farnese costituisce il cruciale punto di
transizione tra le sale private dei palazzi principeschi e quelle dei teatri di gestione
pubblica. Questi teatri si perfezioneranno nell'esemplare del Teatro Nuovo di Bologna di
Antonio Bibiena. Questo modello italiano trapassa nella sala della Comedie Francaise
con qualche variazione: oltre alla platea c'è l'anfiteatro, sprofondato un poì più in basso
della prima fila di palchi, di modo che tutti possano vedere il palcoscenico con la stessa
libertà; sotto al palco c'è un recinto denominato orchestra dove prima stavano i musicia
e adesso offre posto ad altri spettatori.
ATTORI ALLA COMEDIE-FRANCAISE
Gia Moliere aveva criticato gli attori della compagnia dell'Hotel de Bourgogne per la loro
declamazione esagerata, raccomandando per contro di "recitare le parti con
naturalezza". Tuttavia alla fusione della sua compagnia proprio con quella dell'Hotel de
Bourgogne quale stile si fornalizzò nell'ambito della prestigiosa Comedie-Francaise? La
Champmeslè esibiva "delle inflessioni tanto naturali che sembrava avesse davvero nel
cuore una passione che non aveva sulla lingua"; lei e La Grange (già attore della
compagnia di Moliere) dimostravano una presenza scenica imponente e "sapevano
toccare il cuore e dipingere le passioni". Adrienne Lecouvrer veniva lodata per "la
declamazione semplice, nobile e naturale", ma qualcuno riterrà di contro la Dumesnil
più a suo agio perchè "priva della sottigliezza della Lecouvrer nella resa dei caratteri".
Rivale dell'impetuosa Dumesnil fu la Clairon che si distingueva solo per l'esagerata
declamazione, la cantilena e i frequenti sospiri. Certo è che proprio la Clarion cominciò
poi ad esercitare uno studiato approfondimento dell'interpretazione.

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SETTECENTO: LA NASCITA DEL DRAMMA BORGHESE


Capitolo nono
Il teatro moderno si identifica per un paio di secoli – Cinquecento e Seicento – negli
antichi generi della Tragedia e della Commedia. Bisogna arrivare a metà del Settecento
perché si definisca un nuovo capitale genere, quello del DRAMMA, che poi è ciò che
viene chiamato < dramma borghese >. La pietra miliare è costituita dal primo testo di
DENIS DIDEROT (1713-1784) con “Il figlio naturale” 1757, importante non tanto per la
storia in sè, quanto per i materiali che lo accompagnano. Il testo è corredato da ben 3
dialoghi riguardanti il testo stesso ed è introdotto da alcune paginette di premessa, in
cui l'autore racconta che era andato a riposarsi in campagna, dopo l’uscita del sesto
volume dell’” Enciclopedia” e che qui aveva fatto la conoscenza del signor Dorval, il
quale gli aveva raccontato le prove della vita sue e di suo padre, e che aveva dovuto
superare. Diderot fissa 2 punti basilari del nuovo discorso della cultura borghese: il
valore pedagogico del teatro, la sua capacità di fare impressione sugli spettatori ; ma
anche la qualità dei contenuti drammaturgici, che non devono più essere attinti al
grande repertorio della convenzione classicista, ma vanno estratti dalla dimensione
calda della vita vissuta. Alle origini della borghesia precapitalistica (fra '300 e '400), i
mercati fiorentini affidano ai "libri di famiglia" il compito di compattare i discendenti
nella memoria del padre fondatore del clan familiare (libri non da pubblicare ma da
tenere in famiglia). A metà del Settecento, il padre di Dorval, anche lui fondatore di una
dinastia borghese, preferisce affidare al teatro la funzione di cementare gli eredi nel
ricordo religiosamente impegnativo di papà Lysmond, quasi in una sorta di rito
eucaristico. Lysmond non vuole recitare, ma fare, e muore prima di poter allestire la
messinscena della sua esperienza di vita. Il primo spettacolo è realizzato da interpreti
che hanno davvero vissuto ciò che interpretano, ma accanto a questi c’è almeno un
estraneo (nel ruolo di Lysimond) che mostra la necessaria trasformazione che porterà dal
teatro per pochi (familiare) al teatro per tutti. Dorval ha accettato di esaudire il desiderio
del padre, ma subito lo travalica consentendo a Diderot di assistere alla
drammatizzazione (quando doveva essere solo riservata ai familiari). Se il salotto che
accoglie l'evento scenico è metafora del teatro, anche la condizione di Diderot è
metafora non meno evidente del pubblico che assista al buio alla vita vera.
Quindi se "i libri di famiglia" sono il genere nuovo inventato dalla borghesia mercantile
fiorentina del '300, il "dramma" è il genere nuovo inventato dalla borghesia nel '700, che
però impone la propria drammaturgia facendo valere prima di tutto la propria casa. Il
palcoscenico coincide con il salotto della casa borghese.
Diderot è stato accusato di aver tratto il suo testo appena citato da “Il vero amico” 1750
di CARLO GOLDONI (1707-1793), ma potrebbero bastare queste notazioni didascaliche a
garantire che non è vero. In Goldoni l’ambiente conserva ancora qualcosa di
indeterminato, di genirico e di esterno, soltanto nei “Rusteghi” 1760 c’è uno spunto
straordinario quando due dei 4 rusteghi(rustici), Lunardo e Simon, si confessano
reciprocamente il proprio culto di un eros da coltivare nel chiuso dell’interno domestico.
Ma anche qui le stanze di Goldoni sono generiche,prive d'indicazioni, non sono un
interno borghese. Lo spazio interno ancora informe di Goldoni si arricchisce qualche
volta di una connotazione fondamentale, quella delle porte, che dovrebbero difendere

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l'intimità dell'interno e che invece si rivelano oggetti di violenza esterna. Nel cuore della
Locandiera, Mirandolina si rifugia nella stanza e si chiude a chiave dentro, perchè
inseguita dal Cavalier di Ripafratta. Egli cerca di sforzare la porta, in attesa di poter
sforzare anche la padrona.
La fondazione del dramma borghese non si risolve però solo nell'individuazione di uno
specifico spazio scenico, ci sono anche delle novità consistenti. Diderot in "Il figlio
naturale" fissa una storia d'amore e di soldi, saldando l'una e l'altra cosa a una istanza di
moralità dall'accento inconfondibilmente borghese. I personaggi parlano continuamente
di denaro e fortune (inteso come patrimonio), che diventano il segno linguistico di
un'ossessione sociale. Siamo a una svolta capitale della storia del teatro. La borghesia si
sente così egemone da osare raccontare sè stessa: gli amori, i sentimenti, ma anche i
soldi.
Nel 1761, Goldoni compone “Trilogia della villeggiatura” che mescola genialmente
dissipazione finanziaria e amorosa. Giacinta, fidanzata a Leonardo, si innamora di
Guglielmo, ma il suo disordine morale è l’altra faccia del disordine economico della
propria casa e della casa di Leo. Lui vuole sposare Giacinta perché è pieno di debiti e
conta sulla dote di lei di 8000 scudi, ma anche il padre di Giacinta deve scoprire in ultimo
di non possedere quegli scudi. Giacinta alla fine dovrà sposare per forza Leonardo,
costretta a dargli il suo cuore previsto per contratto assieme agli scudi mancanti. Giacinta
è un personaggio con un grande spessore sociologico: è la figlia non degenere di un
padre degenere, ella sa che non si può rinnegare la parola data, tanto più se essa è
scritta. Il contratto matrimoniale,infatti, è la materializzazione dell'ordine nel sistema dei
valori borghesi.
Dunque con Diderot e Goldoni si avvia un meccanismo che porterà alla piena
realizzazione del dramma borghese a fine '800, con Ibsen. Si tratta di un processo lungo
e contorto, il fatto è che il teatro moderno nasce storicamente come divertimento di
corte e poi la classe borghese se ne appropria. Il problema, però, resta quello di
assimilare il teatro dal punto di vista borghese, sottraendolo alla sua dimensione di
giocattolo di corte.
È un momento fondamentale anche per la CRITICA TEATRALE come nuova professione,
un primo contributo è venuto dal giornale “The Spectator” che RICHARD STEELE e
JOSEPH ADDISON animano tra 1711 e 1714. Il giornale si rivolge a una new class: il
commercio, la relazione fra i sessi, le mode, le coffee houses e il teatro sono al centro
delle sue pagine. Addison dedica fior di interventi a mettere in ridicolo i limiti della
costumistica degli attori tragici inglesi: egli opera per favorire la razionalizzazione dei
quadri scenici, la verosomiglianza e la naturalezza dell'impostazione attorica. Nella stessa
direzione si muove, qualche decennio più tardi, Lessing, che punta a una recitazione che
escluda sia l'affettazione sia la sguaiataggine sfarsesca.
GASPARO GOZZI, animatore di due altri periodici assicura un appoggio alla causa
goldoniana, ma le sue recensioni teatrali parlano quasi esclusivamente dei testi e non
degli allestimenti. C’è dunque una gracilità della critica italiana.

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L’EUROPA DANZANTE
La danza diviene un’arte europea, compatibile con pubblici diversi. Italiani e francesi
diffondono in Europa il verbo della danza accademica, imponendosi nelle sale a
pagamento, dove anche il pubblico borghese può assistere. Durante la prima metà del
1700 secolo è in auge l'opera-ballet, una forma molto semplice di intrattenimento
basata su una serie di entrate spettacolari. Nel corso del 1700, tuttavia, si fa sempre più
pressante l'istanza di rinnovamento. Già a cavallo fra Sei e Settecento, il consolidarsi
della moda BALLETTO ENTRACTES, (all’interno del melodramma) aveva suscitato un
dibattito con opposte posizioni: da un lato il pubblico gradiva l’inserimento di intermezzi
all’interno dell’opera, spesso privilegiando nell’apprezzamento il divertissement danzato
rispetto all’opera maggiore; dall’altro, l’elite intellettuale condannava queste interruzioni
dell’azione drammatica principale, considerandole una minaccia all’opera d’arte nella sua
integrità formale. Negli anni che vanno dal 1773 al 1775 si colloca la famosa Querelle sul
balletto pantomimo, genere drammaturgico che utilizzava la danza per raccontare una
storia, e per rappresentare soprattutto soggetti tragici, senza l’ausilio della parola. Veniva
così costituendosi, in quegli anni, un canone delle forme drammaturgico-coreografiche.
Per ANGIOLINI la danza era un’arte narrante, che evocava emozioni e stati d'animo, a
patto che si sbarazzasse per sempre dei freddi virtuosismi e tecnicismi. Una riforma del
linguaggio coreografico in tal senso doveva passare attraverso un ritorno al passato con il
recupero, in particolare, dell'imitazione della natura.
RIFORME SETTECENTESCHE DELLA SCENOGRAFIA
La prospettiva rinascimentale era stata mono focale. Es: signore seduto al centro,
coincidenza perfetta tra il suo sguardo e il punto di fuga della scenografia. In epoca
barocca si era aggiunta la prospettiva all’infinito che tendeva ad assorbire
vertiginosamente lo sguardo dello spettatore. È con l’aprirsi dei teatri d’opera a un
pubblico più vario, che si sente l’esigenza di non considerare più il centralistico punto di
percezione monofocale del principe, ma in qualche modo di rendere principe chiunque
paghi. In sintonia con queste trasformazioni, nel 1711 Ferdinando Bibbiena teorizza la
prospettiva per angolo: "cioè il piano sul quale si esegue il disegno, su una giacitura
obliqua rispetto alle superfici dell'oggetto da rappresentare". Il risultato è una
combinazione di illusione e verosomiglianza che si apre a una maggiore razionalizzazione
dello spazio scenico e a un riequilibrio fra lo spreco delle macchine barocche e l'arte di
un'affascinante architettura e pittura.
LA RIFORMA DELLA COMMEDIA DI GOLDONI
La Commedia d’Arte a metà Settecento, è ormai in sofferenza. Gli attori non sono
nemmeno più in grado di elaborare in prima persona i loro testi, e devono ricorrere per
questa finalità ai poeti di compagnia, come Goldoni che scrive canovacci per gli ultimi
esponenti della Commedia dell’Arte. La sua riforma della commedia procede
lentamente, per gradi; “non contro, ma insieme agli attori”. Nella fase iniziale abbiamo
così dei prodotti misti con parti di taluni personaggi compiutamente scritte e altri parti
redatte solo sotto forma di canovacci. Soltanto successivamente si avranno testi che
presentano le battute di tutti i personaggi. Nell'Otto e Novecento ormai gli attori hanno
rinunciato a improvvisare, gli attori italiani non imparano a memoria il testo e recitano

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soltanto grazie al suggeritore (nascosto in una buca). Per far sì che trionfi realmente
riforma goldiniana, comunque,bisognerà attendere l’arrivo del regista.
IL PARADOSSO SULL’ATTORE DI DIDEROT
Le teorie d'arte attorica proposte nel corso dei secoli sono molteplici. Se ne possono
individuare due particolarmene diffuse: l'una, prediletta in area romantica, accredita
l'attore caldo, partecipe dei sentimenti e dei pensieri del proprio personaggio; l'altra
pensa all'attore come ad un artista che recita in una condizione di distacco. Alla seconda
scuola appartiene Diderot, come apprendiamo da Paradosso sull'attore: qui egli scrive
che le qualità fondamentali di un abile attore sono il raziocinio, la freddezza e la
tranquillità, che in lui non sia il cuore ma la testa ad agire, che possieda penetrazione e
manchi di sensibilità”, l'attore che punterà sulla riflessione sarà sempre perfetto. La
maestria dell'interprete capace consiste nel compiere uno "studio della natura umana",
un'attenta analisi delle modalità espressive osservabili nel quotidiano e poi "nel
rappresentare così scrupolosamente i segni esteriori del sentimento da trarre in
inganno" il pubblico. Gesti e inflessioni devono quindi essere pensati e stabiliti in sede di
prove, così Diderot apprezza Clairon che definisce nei minimi dettagli la propria parte.
L’obiezione rivolta da Diderot a chi si affida, per l'opposto, all’emozione è che questa è
casuale e non sempre può scattare durante lo spettacolo, dipende da fattori troppo
variabili.

L’INTERMEZZO CLASSICI – ROMANTICI


Capitolo decimo
A metà del Settecento, commedia e tragedia cominciano ad essere arnesi non più
funzionali, e sono sul punto di essere soppiantati dalla nuova forma del Dramma. Pierre
Augustin Caron de Beaumarchais si muove perfettamente nel genere comico: Il barbiere
di Siviglia (1775), poi musicato da Rossini. In quanto alla tragedia, appare condannata da
un'ideologia aristocratica in crisi,dalla riflessione degli Illuministi e dalla Rivoluzione
Francese del 1789. Ma fino a inizio Ottocento saranno in molti a coltivarla, specialmente
la tragedia classicista (fondata sulle regole aristoteliche). FRANCOIS MARIE AROUET,
detto VOLTAIRE (1694-1778) resta fedele alla tragedia.
In Italia, l’autore più significativo è VITTORIO ALFIERI (1749-1803). Degno di lode è lo
zelo con cui egli si attiene alle regole aristoteliche, in più sfronda gli intelocutori per
ritrovare l'essenzialità dei pochi personaggi della tragedia greca (scompaiono, ad
esempio, i confidenti che normalmente circondavano i protagonisti). Per capire Alfieri
occorre, però, aprire una parentesi: dal Romanticismo in poi ciò che conta è l'Io e il
valore, il merito stanno nella novità, nell'assoluta indipendenza da ogni tipo di legame;
ben diversamente nella cultura classica il merito, la qualità stanno nella capacità di
collocarsi entro una linea di continuità, nell'essere l'anello di una lunga catena. Racine
scrive con Fedra il suo capolavoro ma non ha bisogno di inventarsi il soggetto: Fedra è e
vuole essere, prima di tutto, una sfida all'Ippolito di Euripide e alla Fedra di Seneca.
La stessa cosa vale per Alfieri che scrive "Mirra” (1786), tenendo presente la Fedra di

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Racine, da cui riprende qualche battuta. Sembra quasi un plagio, ma è unicamente la


spia della serena accettazione della catena di tradizione. Alfieri, infatti, si sente un
tragico perchè inserito nella catena dei grandi tragici che l'hanno preceduto. Ma la
continuità non impedisce comunque la sfida. Il contenuto infatti è una variante più
temeraria del mito di Fedra: non l’amore semi-incestuoso di una matrigna per il figliastro,
ma l’amore pienamente incestuoso della principessa Mirra per il padre Ciniro, re di Cipro.
Tutta la produzione greco-latina e classicista italo-francese fra Cinquecento e Settecento
rielabora continuamente vicende del patrimonio originario della cultura antica, ma
nessuno ha osato mettere in scena la vicenda di Mirra, considerata troppo scabrosa. La
scommessa da vincere consiste nel dimostrare che si può scegliere un argomento
moralmente pericoloso riuscendo comunque a creare un testo moralmente accettabile.
La differenza tra il teatro e la poesia è che il primo si rivolge a un pubblico, la seconda a
una persona isolata: perciò Ovidio si può permettere di raccontare di una figlia che va a
letto col padre ma la stessa vicenda portata sulla scena susciterebbe reazioni di disgusto.
La sfida di Alfieri risulta vincente proprio nella misura in cui lui riesce a "quadrare il
cerchio" con una serie di abili accorgimenti. Il nostro tragico, infatti, rifiuta prima di tutto
la soddisfazione della pulsione di Mirra (mentre Ovidio aveva immaginato il contrario. La
Mirra di Alfieri muore senza nemmeno aver strappato un bacio al padre e si presenta
come una vergine dell’incesto. Per 5 atti Mirra parla e parla, piange e mai nessuno
( spettatore) riesce a capire il motivo della sua sofferenza. Solo all’ultima
scenadell’ultimo atto si apre a una mezza confessione con il padre, ma subito dopo si
suicida con il pugnale del padre, punendosi da sola. Naturalmente può apprezzare
questo gioco di rimandi e citazioni solo uno spettatore raffinato, ma proprio questo il
significato profondo della tradizione: da un lato soddisfatta collocazione all'interno di un
asse ereditario e dall'altro compiaciuto gusto a mostrare la propria originalità in un
confronto continuo e serrato con quello (l'asse). E' comunque da notare che nella Mirra
non mancano alcuni passaggi comici. È come se sotto la forma tragica vi fosse una
comica. D'altra parte verso metà '700 le strutture di commedia e tragedia entrano in crisi
e le carte si rimescolano, si perdono le certezze dell'antica separazione degli stili.
Questo per Alfieri avviene sin dall'inizio della sua attività. Si veda Antigone (1776), una
delle sue prime opere. Alfieri ha davanti a sè una tradizione illustre che risale
all'Antigone di Sofocle: i figli di Edipo (Polinice ed Eteocle) si sono uccisi in battaglia, uno
attaccando e l’altro difendendo la città di Tebe. Creonte, cognato di Edipo, governa la
città, e decreta che il cadavere di Polinice resti insepolto, per terrorizzare chi mira alla
città. Antigone, sorella dei cadaveri, disobbedisce seppellendo il corpo del fratello e
Creonte la condanna a morte, nonostante suo figlio Emone ami Antigone. Il vero
obiettivo di Creonte è quello di eliminare la sua unica avversaria al potere, nonché figlia
del re Edipo. Quando scopre che il figlio la ama, diventa un buon padre rendendosi
disponibile ad imparentarsi con lei e a farla regina, in quanto moglie del figlio. Alfieri
riprende il modello classico di Sofocle, ma innova su un punto capitale, immagina una
alternativa ( matrimonio al posto di condanna) che mina alla base l’intreccio tragico. La
tragedia è sempre sul punto di trasformarsi in una commedia a lieto fine: basterebbe
infatti che Antigone accettasse la proposta matrimoniale.
Il nascente dramma borghese, quindi, preme e vive dietro le pieghe della paludata
tragedia alfieriana, ma la tragedia di impianto classicista si trova insidiata da un lato da

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una vita sociale sempre più borghese, dall'altro dall'arrivo del modello della tragedia
romantica. Se la Francia è la patria del dramma borghese, in Germania vi è il grande
movimento culturale del Romanticismo, che ha nelloo sturm and drang ( tempesta e
assalto, fiorito intorno al 1770)la sua prima espressione di massima visibilità. I tedeschi
FRIEDRICH SCHILLER(1759-1805) e WOLFGANG GOETHE (1749-1832) contrappongono
con forza al dramma diderotiano il modello del genio di Shakespeare, libero dalle regole
aristoteliche, pronto a dare sfogo all'erompere della passione. In opposizione al lungo
sforzo di individuare un genere intermedio (il dramma borghese) i romantici tedeschi
ribadiscono la centralità della tragedia pura, come espressione dell’IO in rivolta contro la
realtà esistente; alla piattezza della prosa oppongono la poesia, il verso; al controllo delle
passioni l’esplosione delle passioni; alla strutturazione dei personaggi in un quadro per
così dire corale il violento individualismo del protagonista assoluto; allo spazio interno
del salotto borghese gli spazi aperti.
Su questa linea anche ALESSANDRO MANZONI (1785-1873),che insiste soprattutto sul
problema delle unità aristoteliche. Nella “Prefazione a il Conte di Carmagnola” 1820,
individua la duplice conseguenza negativa di quelle unità: una di ordine esttico (nel
senso che esse impediscono molte bellezze e producono molti inconvenienti di
verosomiglianza) e una di ordine morale. Manzoni osserva che il teatro è stato
contestato dai moralisti francesi del Seicento poiché immorale, ma la sua immoralità è
determinata dalle regole di unità di tempo e di luogo. Immorale è la tragedia classica
francese conosciuta dai tre autori (Nicole, Bosseaut, Rosseau): una tragedia fondata sul
rispetto rigoroso delle regole classiciste. Un diverso teatro, non più basato su quelle
regole, non solo può non essere immorale ma anzi può essere decisamente morale. La
"Lettre a Monsieur Chauvet sur l'unitè de temps et de lieu dans la tragèdie" (scritta da
Manzoni in risposta a un'analisi che del Carmagnola aveva fornito il poeta francese
Victor Chauvet) sottolinea il posto preponderante che il tema passionale-amoroso ha nel
teatro tragico francese. E' la predominanza di questo tema che fonda l'immoralità
sopracitata. Ma perchè l'amore costituisce il motivo principale di quasi tutte le tragedie
francesi? Perchè la passione d'aore è quella che meglio si presta a svolgersi nel giro delle
dodici o 24 ore (quindi rispettando le unità, quindi immorale).Così tutti gli altri
sentimenti che per nascere e svilupparsi hanno bisogno di più tempo vengono esclusi. Al
fondo della Lettre ritroviamo il nucleo autentico della poetica manzoniana che consiste
nel bisogno di verità. Il vero è la sorgente della poesia. Un vero che coincide col vero
storico. Un esempio di tragedia storica del Manzoni è “L’Adelchi”, che allude a
un’Italia divisa. Per l'intera civiltà romantica la storia è importante per comprendere il
proprio passato e dunque il proprio presente. Il culto romantico del Medioevo sorge
proprio perchè nel Medioevo sono le radici degli stati nazionali. Il nazionalismo che
caratterizza tutto il movimento è bisogno di riscoperta di sè, della propria identità
linguistica e politica.
Il romanticismo francese è, invece, tardivo, tenuto conto che è solo del 1830 la famosa
battaglia di Hernani che ne segna l’avvento. In occasione della prima rappresentazione
alla Comedie Francaise di questa tragedia di VICTOR HUGO (1802-1885), intitolata
appunto “Hernani”, si scatenò infatti fra spettatori classicisti e romantici una piccola
guerriglia.

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Il teatro romantico in Francia avrà vita breve, non più di 15 anni. Vince il dramma di
ascendenza diderotiana, perché la borghesia nel momento del suo consolidamento ha
più bisogno del teatro come strumento sociale. D'altra parte anche la drammaturgia
romantica è borghese, se non nelle ambientazioni certo nei valori. L'impegno romantico,
infatti, è teso a distruggere l'ingessatura classicistica che da sempre blocca la forma
tragica, ma così facendo contribuisce alla definizione di una strategia che guarda nella
direzione del realismo e della contemporaneità.
Alla fin fine anche il romanticismo francese si piegherà al realismo con ALFRED DE
VIGNY e “Chatterton”,1835. Vicenda ambientata a Londra nel 1770, Chatterton è il nome
di un giovane poeta povero, che vive in affitto a casa del ricco John Bell, della cui moglie,
Kitty, Chatterton è perdutamente innamorato. Ma si tratta di un amore romantico, reso
impossibile dalla moralità della donna, che contraccambia il sentimento. Nell’epilogo il
giovane si avvelena e anche lei muore di dolore sul cadavere di lui. È un affresco sul
dissidio fra il poeta e la società capitalista, sul potere che uccide l’intelligenza e la
fantasia, ma è anche un primo scavo prezioso sulla vita borghese, sulle contraddizioni
della vita familiare (nella borghesia) e sulle tensioni adulterine.
Ma su questa linea drammaturgica procede la generazione successiva a Vigny, con il
figlio di Alexandre Duman, l'omonimo ALEXANDRE (1824-1895) , autore de “I tre
Moschettieri”. Egli nel 1852 fa rappresentare “La Signora delle Camelie”, riduzione
teatrale di un suo romanzo, ispirato a una propria personale vicenda. È la storia di una
prostituta di lusso, Margherite Gautier, legata agli ambienti altolocati, che entra in
contatto con un giovane di buona famiglia, Armand Duval, che rischia di divenir povero
per lei. Il padre di lui convince la donna a lasciare il figlio e lei acconsente. Alla fine
Margherite muore di Tisi, ma papà Duval le fa giungere su letto di morte il figlio: lei
muore facendosi promettere da Armand di sposare una donna buona e onesta. E'
evidente l'impasto di venature romantiche e melodrammatiche e di quadri sociali e di
costume. Lo spettacolo ebbe grande successo tanto che VERDI lo tradusse nella
“Traviata” 1853 (melodramma). Il trionfo de "La signora delle camelie" dimostra però
che il cuore della classe borghese batte incontrovertibilmente verso la rappresentazione
delle problematiche della vita quotidiana (famiglia, adulterio, divorzio, ecc...). Infatti, già
in epoca romantica, il genere largamente dominante a Parigi è il vaudeville, un prodotto
industriale fatto in serie, a più mani, con una forma drammaturgica esile, in cui parti
dialogate si alternano a canzonette. Con il tempo scompaiono le parti cantate ma resta
una struttura di teatro leggero, ovviamente a lieto fine. Questo genere è il punto di
partenza dei più popolari autori francesi dell'800: da Scribe, a Labiche, da Sardou a
Feydeau. Sia pure con alcune variazioni c'è una costante tipologia che passa per tutti
questi autori che sono i dominatori della scena parigina. Sono tutti autori che trionfano
con quella che si chiama "pièce bien faite" (l'opera ben fatta), che intreccia intrighi
complicati e pruriginose storie di adulteri.
Un caso a parte è George Buchner (1813-1837). Per la cronologia questo autore è
pienamente romantico, ma Woyzeck (sua opera pubblicata solo nel 1879 e rimasta
incompiuta per la sua morte) fu subito accolto come un testo profetico che anticipa le
più aspre cadenze del Naturalismo. Con le sue scene che si susseguono l'una all'altra
senza divisione in atti, questo testo anticipa anche il dramma degli Espressionisti. Il caso

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Buchner conferma l'idea che il Romanticismo sia solo un intermezzo rispetto a una linea
di sviluppo che conduce dal dramma di Diderot (metà '700) al trionfo della
drammaturgia di Ibsen (fine '800).

VOLTAIRE E LA MESSINSCENA
E' curioso come Voltaire, sostanzialmente fedele alla forma canonica della tragedia
classicistica, sia aperto al problema della messinscena e cooperi alla sua trasformazione.
La Semiramide verrà portata a teatro diverse volte con molte modifiche e delle differenti
versioni possediamo i commenti di Voltaire. Da essi apprendiamo come si evolva il suo
pensiero in materia di scenicità. Il primo allestimento si caratterizza per una scenografia
simultanea, vale a dire caratterizzata dalla compresenza sul palcoscenico di molteplici
ambienti. Negli allestimenti successivi le scenografie accolgono elementi tridimensionali
e praticabili, assumendo caratteri di realismo. Tutto questo diventa la premessa perchè si
renda necessaria una figura che modelli i movimenti degli attori in funzione di un
contesto assai più articolato: le innovazioni settencentesche in campo scenico sono,
quindi, una ragione fondamentale per la nascita della regia.
DAL BELCANTO A MOZART
In Italia l’opera in musica è caratterizzata fino all’Ottocento dalla tradizione de < belcanto
>: ciò che conta è la qualità della voce, e poco la scena. Il secolo vede l’esplodere dell'
<opera buffa> che arricchisce la struttura spettacolare, inserendo duetti, terzetti,
concertati. Il successo è clamoroso in tutta Europa e WOLFGANG AMADEUS MOZART
(1756-1791) guarda in questa direzione. Naturalmente l’intervento orchestrale è assai
più robusto e prolungato, e la stessa ricchezza psicologica dei suoi protagonisti risulta
ben altra cosa rispetto agli schematici caratteri dell’opera buffa, e proprio “Le Nozze di
Figaro” sono un esempio mirabile di ciò che dobbiamo chiamare <commedia in musica>.
IL BALLETTO CLASSICO-ROMANTICO
Quando si parla di danza classica ci si riferisce alla tecnica della danse d'école
stabilizzatasi fra XVIII e XIX secolo. L’ideologia proposta è ancora quella di un corpo come
opera d’arte. I contenuti di questa ideologia sono riconoscibili soprattutto nella
presentazione della figura femminile, fragile, aerea e in equilibrio sempre precario,
contrapposta a una mascolinità di supporto, posta in secondo piano nelle costruzioni
drammaturgiche. Ne viene fuori fondamentalmente una posizione di sottomissione e
remissività che fanno della danzatrice un gingillo nelle mani dell'uomo. Alla fine del '700
l'opera di riforma del balletto può dirsi quasi compiuta. Nasce il balletto in senso
moderno, considerato come un dramma a tutti gli effetti. A livello tematico fanno la loro
comparsa personaggi tratteggiati con più attenzione drammatica. Con La fille mal gardée
il coreografo Jean Dauberval recupera un'attenzione alle vicende storiche e ai
cambiamenti sociali del suo tempo. La vicenda narra del tentativo da parte di Madame
Simone, proprietaria terriera, di portare a buon fine un matrimonio d'interesse fra sua
figlia Lise e Alain, l'erede di un ricco possedimento. Lise è, però, contraria perchè ama
(ed è ricambiata) lo squattrinato Colin. La scoperta ,da parte di Alain, dei due amanti fa

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fallire il matrimonio a tutto vantaggio dell'unione povera ma ricca d'amore. Dei


molteplici aspetti che caratterizzarono in Europa il movimento romantico, il balletto
privilegiò soprattutto la passione amorosa travolgente e il mistero dell'esistenza, in bilico
tra dimensione terrena e mondo ultraterreno. Giselle (1841) è il massimo esempio di
balletto romantico.
GISELLE GRANDE BALLETTO ROMANTICO
Giselle viene messo in scena a Parigi nel 1841. L’autore è THEOPHILE GAUTIER, che
scrive il libretto. Giselle è una contadina innamorata del duca Albrecht, fattosi passare
per un suo pari. Non sapendolo nobile, la giovane sogna di sposarlo e lui incoraggia
questo sogno (ben sapendo che è irrealizzabile per le leggi del tempo), in più lui è anche
fidanzato. Hilarion, innamorato di Giselle, scopre l’inganno e lo svela a lei, che ne muore
di dolore. Nel II ATTO ci si trova in un bosco in cui appaiono le wili, i fantasmi delle donne
morte per amore prima del matrimonio, le quali per vendetta costringono qualsiasi
uomo passi di li all’ora fatidica a danzare fino allo sfinimento e alla morte. Tale sorte
toccherà a Hilarion e ad Albrecht, quest ultimo ce la farà poiché sostenuto dall’amore di
Giselle. Prima di dileguardi ella gli indica la nobile fidanzata e lui si avvia verso la bella
aristocratica. Il balletto è scandito in II ATTI: il 1° si svolge di giorno nel reale, il 2° di notte
nell’irreale. E mentre le wili rappresentano degli spiriti sensuali e carnali (che
metamorificamente sembrano obbligare i maschi di turno a numerosi amplessi fino alla
morte) Giselle incarna per Gautier la fusione della fisicità della materia e
dell'impalpabilità dello spirito.
TEATRI DEL MOVIMENTO E DELLA VITA
In un saggio del 1909, Adolphe Thalasso ha inquadrato le linee fondamentali che
caratterizzano il teatro francese dell'800. Egli definisce "il teatro della vita e del
movimento" quel genere di dramma che, tramite Scribe e i suoi eredi, domina il 1800.
Fino a Scribe il teatro francese aveva conosciuto il "movimento della vita", con Scribe
conosce "la vita del movimento". I continuatori di Scribe furono Emile Augier, il quale
appare limitato dal gusto per "l'inteccio arbitrario" animato da personaggi-fantocci;
Alexandre Dumas (figlio), che porta avanti una drammaturgia per la quale il teatro
diventa mezzo e non fine; Victoire Sardou, maestro del colpo di scena. L'inversione di
tendenza comincerebbe col Naturalismo: esso, infatti, fa sorgere un "teatro del
movimento dalla vita", che, dalle teorie di Emile Zola, sfocia nel lavoro di Andrè Antoine.
IL MAGISTERO POCO NOTO DI FRANCOIS DELSARTE
1811-1871. soffermiamoci sull’articolato sistema d’arte attorica elaborato da Francois
Delsarte, che sostiene che esiste una stretta correlazionale tra dinamica esteriore ( gesto
e voce) ed interiore. Nel corso degli anni egli raccoglie un vocabolario mimico e vocale
assai ricco: Pollice abdotto (aperto, lontano dal palmo) indicherebbe vitalità; voce e tono
alto indicherebbe collera ecc. Questo vocabolario servità all'attore per comporre la
partitura del personaggio. Il metodo dunque consiste in 3 fasi principali: prima l’attore
impara la sua partitura mimica; poi la ripete meccanicamente; infine introduce
l’immedesimazione. A Delsarte quindi spetterebbe l'invenzione di una "psicotecnica"
medialnte la quale l'interpete arriverebbe a provare davvero le emozioni del proprio

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personaggio e a provarle in modo scientifico anzichè casuale. Egli si occupa anche


dell'interpretazione del testo: il punto di partenza è che qualunque scritto può essere
inteso in mille maniere diverse, per questo egli inventa un metodo affinchè l'attore
definisca la sua personale visione della parte affidatagli. Metodo: dopo aver letto la
parte per intero l'artista avrà il compito di individuarne una parola o un'espressione
dominante; poi l'attore passerà a definire delle frasi identificative di ogni singola scena;
infine occorrerà determinare il senso sottinteso di ogni singola battuta e ognuna dovrà
contenere la parola-chiave. Il trovare un proprio metodo per l'intrepretazione è un
principio moderno per due motivi: il primo è che per secoli l'attore aveva teso a
mantenere le modalità recitative che di un personaggio aveva proposto il primo
interprete; il secondo è che se mille sono le possibilità interpretative di un testo, l'attore
deve scegliere un taglio interpretativo e mantenerlo costantemente dall'inizio alla fine
della parte. Delsarte anticipa, coi suoi metodi, l'istanza di unitarietà dello spettacolo che
costituisce uno dei cardini del fenomeno registico.

FINE OTTOCENTO TRA MARX E FREUD


Capitolo undicesimo
Si determina questo punto una divaricazione importante all'interno della borghesia:
quella che contrappone il divertimento all'istruzione, lo svago alla riflessione
intellettuale. Gli ultimi decenni dell’Ottocento,poi, vedono una battaglia importante
ingaggiata da un’ala minoritaria della borghesia, determinata a investire il teatro di una
funzione: quella di cogliere e di comunicare i segni profondi dei mutamenti epocali che il
trionfo del capitalismo ha comportato a livello europeo. Il teatro, come occasione di
riflessione e di autocritica, sulla direttrice che da Ibsen arriva a Pirandello.
L'infittirsi della popolazione urbana crea le condizioni di un mercato per la vendita dei
prodotti dello spettacolo assolutamente inedito rispetto al passato. Gli edifici teatrali si
moltiplicano nel tessuto cittadino. Parigi, la capitale d’Europa in questi anni, utilizza il
sorgere delle Esposizioni Universali ( la prima del 1855) come accelleratore per
l’industria dello spettacolo.
Il II Impero di Napoleone III (1852-1870) sviluppa enormemente la rete ferroviaria,
naturalmente facendo perno su Parigi. Dal 1853 Parigi è collegata con la Germania; dal
1855 con il Mediterraneo; dal1860 con i Pirenei e tutto ciò rende il viaggio a Parigi più
frequente e semplice. Nel 1867 c’erano una 20ina di teatri riempiti da un pubblico
cosmopolita costituito da nuovi ricchi, da commercianti. Non a caso la drammaturgia di
questo periodo è dominata dal doppio problema del denaro e del sesso. Proprio questa
interazione stretta tra vitalità edonistica borghese e inventività teatrale è evidente
nell'affermarsi di quella forma particolare di teatro che è il cafè-chantant o cafe concert
, locali pieni di musica e esibizioni dal vivo dove si beve e fuma mentre si osservano
cantanti, danzatori, giocolieri sul palcoscenico. Si evince che adesso il teatro gioca molto

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sulla logica della visuale, del piacere dell'occhio. Domina ovunque, infatti, la sala
all’italiana, ricca di dorature con architettura a ferro di cavallo, ma lo spettacolo non è sul
palcoscenico ma è nella sala, nei palchetti. E, almeno nei teatri più ricchi, la scena stessa
obbedisce ai medesimi criteri con una preponderanza schiacciante del décor, talora a
detrimento del testo. Scenografi e macchinisti operano per realizzare gli effetti più
impressionanti, il gioco scenico dell'attore si adegua rapidamente a questo teatro di
visione.
Il norvegese HENRIK IBSEN (1828-1906) è il principale rappresentante di un teatro che si
pone come momento di alta e sofferta riflessione sulla condizione borghese. È lui
l’inventore di quello che possiamo chiamare il teatro del salotto borghese. Se è con
Diderot che le didascalie iniziano ad infittirsi per definire meglio gli interni della casa, è
con Ibsen che queste didascalie diventano significative raccontando la vita dei
personaggi prima che entrino in scena. “Una casa di bambola”,1879, si apre su una
didascalia che dice << un salotto accogliente e pieno di gusto, ma arredato senza
lusso>>. È già spiegato quindi il dramma di casa Helmer, con gente che se ne intende e di
classe che però non può spendere come vorrebbe. L’artefice del calore del salotto è
Nora, la moglie di Torvald Helmer,come sottolinea nel primo atto lo stesso Torvald ed
anche, nel terzo atto, l’amico di famiglia Rank e si capisce che vorrebbe essere al posto di
Helmer. Con questo testo Ibsen si inventa il personaggio capitale del terzo escluso (Rank
appunto), funzionale alla felicità della coppia. Torvald è cinicamente cosciente del ruolo
del terzo escluso, il suo commento alla morte dell'amico sarà: "Lui, con le sue sofferenze
e con la sua solitudine, forniva come uno sfondo nuvoloso alla nostra felicità soleggiata".
Rank infatti copre i buchi che Torvald lascia aperti nel suo menage: è Rank infatti a fare
conversazione con Nora, è lui che la ascolta. Tutte cose che il marito non può fare perchè
troppo occupato a lavorare.
Nel teatro di Ibsen,poi,si origlia moltissimo. Non sono tanto i servi a origliare i padroni,
quanto i padroni a origliare i padroni. E il teatro di Ibsen diventa lo specchio critico della
società: egli sottrae al teatro la dose tradizionale di sentimentalità e di amore, e
introduce la ‘discussione’. Nasce la “ tecnica analitica” dei drammi ibseniani. Lo scatto in
più di Ibsen rispetto alla linea Diderot-Goldoni sta proprio qui: non solo intrecci familairi,
soldi, carriera ma anche la potenza delle pulsioni vitali, degli stimoli profondi. Sono i
mostri dell’inconscio che Ibsen evoca nella scena, i personaggi hanno sempre scheletri
nell’armadio e il dramma si incarica di aprirli. Non situazioni commoventi, ingarbugliate,
scene d'amore, di disperazione, neppure un pizzico d'adulterio, semplice vita quotidiana.
Non stupisce dunque che si sia parlato di Ibsen come "gemello" di Freud. Ma è
opportuno chiarire che la drammaturgia ibseniana nasce sì, nell'800 come la
psiconanalisi di Freud, ma (esattamente come quella), si prolunga ben oltre l'800.
E' doveroso, ora, fare il nome dello svedese AUGUST STRINDBERG (1849-1912), i cui
primi capolavori sono incentrati sul tema dello scontro dei sessi. Ne “Il padre” 1887
abbiamo un marito e una moglie che litigano per il tipo di educazione da dare alla figlia,
e la moglie insinua nel coniuge il dubbio che non sia lui il padre carnale della ragazza, al
punto di spingerlo alla follia. Ne “La signorina Julie” 1888 la lotta dei sessi si intreccia in
maniera pungente con la lotta di classe. Si confrontano la contessina Julie e il servitore
Jean. Fuori scena impazza la danza popolare e Julie appena lasciatasi si fa prendere dalla

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trasgressione della ricorrenza. Invita a ballare il servitore, davanti la sua fidanzata.


L'autore ci fornisce un'informazione a prima vista gratuita: Julie ha il ciclo. È un modo di
sottolineare la carica passionale, istintuale della donna che si porta Jean a letto. Passano
la notte. Il giorno dopo è pentita e vuole fuggire e Jean da illuso crede di fare la sua
scalata sociale e fuggire con lei. C’è un alternarsi di ‘tu’ e ‘lei’ che segnano la difficoltà
sociale dei due. Straordinaria è la potenza espressiva del finale: Julie si accinge a partire
con Jean, portandosi la gabbia con l'amato uccellino. Il servo però si rifiuta di viaggiare
con quell'ingombro, mette l'uccello sul ceppo della cucina e lo decapita. Se Ibsen non
arretra di fronte alle più segrete pulsioni, Strindberg non esista a dichiarare che il
linguaggio dell'eros è anche quello della violenza. Siamo di fronte, infatti, al tema
ricorrente del sangue : il ciclo; il sangue dell’uccellino di Julie; il rasoio sporco di sangue
che Jean consegna a Julie perchè si tagli la gola, unica soluzione all'impossibile fuga
d'amore della contessina e del servo.
Un po' diverso è il quadro che emerge dal terzo grande rappresentante della
drammaturgia europea: ANTON CECHOV (1860-1904), russo. Il salotto borghese
cechoviano da salotto dove si parla appare sottoposto a tensioni inaspettate. La
materialità dei bisogni fisiologici invade a poco a poco lo spazio dove la borghesia era
solita autorappresentarsi nelle sue attitudini più nobili e spirituali. Il salotto si degrada
leggermente e perde anche la sua dimensione intimità, esso adesso tende a porsi come
una sorta di paradossale luogo pubblico in cui la gente circola liberamente. In “Zio Vanja”
1897, la camera da letto è in realtà un ufficio dove entra e esce gente ( dunque diventa
anche spazio pubblico). Siamo di fronte a uno spazio dilatato, perciò dilatato appare
anche il numero dei personaggi. In Cechov troviamo sempre almeno una dozzina di
personaggi privi di un centro; al contrario Ibsen ha sempre un protagonista. Anche la
struttura del dialogo cambia: non più duetti, ma concertati corali.
Tutto questo non azzera l’eredità più significativa della linea Ibsen-Strindberg, cioè
l’indagine sui mostri dell’inconscio. In “Tre sorelle” ambientata in un capoluogo della
profonda provincia russa, il sipario si è appena aperto, e la prima battuta ( detta dalla
sorella maggiore) suona: “ nostro padre è morto un anno fa, il giorno del tuo onomastico
Irina”. Cechov sembra appartenere al Naturalsimo ma in realtà appartiene al
Simbolismo: non è un caso che l’onomastico coincida con la morte del generale
Prosorov, il quale è a sua volta morto il giorno della morte di Napoleone. E' un modo per
sottolineare, nell'immaginario delle tre ragazze, la centralità dominante e possessiva di
questo padre-generale. Quando inizia la vicenda Irina ha 20 anni, Mascia 23 e Olga
qualcuno in più. Tutte e tre sono cresciute sotto l'ala del padre e tutte non riescono ad
avere una vita sentimentale soddisfacente poichè sono tutte sotto il dominio del
complesso edipico, come direbbe Freud. Nessun candidato al matrimonio per le tre
sorelle può rivaleggiare con il modello del padre: Olga non si sposa; Irina non ha voglia di
sposarsi; Mascia l’unica sposata, soffre del fatto che il marito sia uno squallido
insegnante. Mascia si innamorerà di un banale generale (Vierscinin), per il solo fatto che
ricorderà in lei il padre. Infatti, per 4 atti, Vierscinin non fa che ripetere le stesse battute,
rivelandosi un personaggio banale, che non sa fare nessun lavoro, senza arte nè parte.
Cechov disegna un quadro sociale di terrificante inefficienza, di presunzione e di
spocchia. Perchè? Gli uomini non sanno fare niente, ma le donne non sono da meno.

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Non sanno fare altro che lamentarsi e rimpiangere il tempo felice della loro vita col
padre. E tutto riporta ad un'altra domanda: cosa ha trovato Mascia in Vierscinin per
innamorarsi di lui? E lui in lei? Questi militari non sanno far nulla ma sono dei perfetti
cavalieri, sanno corteggiare e ragionar d'amore, secondo le buone norme dell'amor
cortese. Sono un'elite oziosa e parassitaria. Non per nulla Cebutykin, il medico militare,
è stato l'amante della madre delle tre sorelle. Per dei cavalieri cortesi, infatti, è fin troppo
ovvio che la passione d'amore è sempre fuori dal matrimonio. Quindi forse il destino di
Mascia si muove non solo nel solco del padre, ma anche in quello della madre e forse il
suo destino è proprio quello di sua madre (sposata con amante delle forze militari).
Rispetto alla grande drammaturgia europea non c'è dubbio che quella italiana sia di
respiro corto: di ACHILLE TORELLI 1841-1922 ricordiamo solo “I Mariti” 1867; di MARCO
PRAGA (1862-1929) “La moglie ideale” 1890; di GIUSEPPE GIACOSA, “Tristi amori” 1887
e “Come le foglie” 1900.
In Giacosa c’è quello che ritroviamo in Ibsen: le questioni familiari, il rapporto uomo-
donna che si mescolano con le volontà di ascesa sociale. In “Tristi amori”, l’avvocato
Scarli è un self-made man che tiene uniti, nello stesso luogo, studio e casa. Questo
comporterà che il bottegaio, Fabrizio conte decaduto, si troverà a ciondolare per casa e
diventerà l’amante della moglie. Una moglie borghese che diventa adultera (come
succede al 90% delle donne) perchè il marito non ha tempo per ascoltarla. Un sapore di
sottorranea lotta di classe filtra dal testo che mette insieme, fronte a fronte, borghesi
arrivati e aristocratici spiantati. L’avvocato Giulio tiene sotto sua protezione il garzone,
ma c'è certamente il godimento di avere come subalterno un antico nemico di classe. E,
dall'altra parte, c'è un odio di classe inconscio in quello che fa Fabrizio.
“Come le foglie” vede come protagonista Giovanni Rosani , professionista in Borsa, ha
fatto fallimento e il disastro spinge alcuni familiari a perdersi, a smarrirsi incapaci di
accettare il nuovo tenore di vita. Giacosa fa emergere le contraddizioni del suo
personaggio, le sue pulsioni equivoche. La famiglia torna a spendere più di quanto
guadagni e Giovanni si inventa un nuovo lavoro. Egli dà molto in fatica, in denaro, perchè
non vuole dare nulla in attenzione psicologica, umana, affettiva. Non ha nulla da dire alla
famiglia, nulla da comunicare.
IL NATURALISMO, UN’AVANGUARDIA NEOCLASSICA
In un saggio del 1968, MARTIN ESSLIN considerava il Naturalismo la 1° avanguardia
moderna. Esso ha contribuito a forgiare nel teatro quelle opere aperte che sono i
drammi ibseniani; a sperimentare con i "caratteri senza carattere" dalla psicologia
composita che si presenta nei personaggi di Strindberg, Cechov e Pirandello. Il
naturalismo riporta in teatro l’essenzialità delle unità pseudoaristoteliche, la
conseguente semplificazione dell’azione e talvolta anche una certa limitazione del
numero degli attori. La nouvelle formule del Naturalismo teatrale doveva basarsi
attraverso la Triade "faire vrai", "faire simple" e "faire grand". Zola insisterà sul ritorno al
classicimo per "ritrovare l'altezza della concezione del dramma e rendere alle analisi
piscologica e fisiologica dei personaggi il loro ruolo sovrano". Tuttavia Zola era
decisamente contrario alla scena spoglia del classicismo e pensava a personaggi moderni
che se si siedono, se scrivono, se mangiano hanno bisogno di un arredamento completo.

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Ciononostante "l'antica nudità" avrebbe trovato sostenitori e, fra questi, certo Strindberg
che, in un saggio del 1889 "Sul dramma moderno e sul teatro moderno", esaltava la nuda
scenografia di Tartufo. Essa, secondo lui, faceva appello a un realismo più grande, privo
di orpelli e concentrato sulla vivisezione psicologica. Anche il Simbolismo sembra in
sintonia con questa più acuta osservazione della vita quotidiana proposta dai grandi
naturalisti nordici.
ALLA RICERCA DELLA "FORMULA NUOVA"
Nel citato saggio del 1889, Strindberg traccia una sintetica storia degli ardui tentativi di
materializzare sulla scena quella "formula nuova" del Naturalismo che imperava da
decenni nel romanzo. Un primo tentativo lo fece proprio Zola con Therese Rasquin,
1873. Tuttavia il suo errore fu quello di far passare un anno tra le vicende del primo e del
secondo atto, tradendo l'unità di tempo, e di aver mancato un'approfondita analisi
psicologica. Per Strindberg serve, alla fine del 1800, "un grande naturalismo, indifferente
a ciò che è bello o brutto purchè grandioso" e soprattutto intenso. Da qui l'interesse per
il repertorio sperimentale del Theatre Libre di André Antoine. Per Strindberg, quindi,
psicologia, sintesi e semplicità sono essenziali per affermare un Naturalismo non
fotografico.

IL TEATRO DEL GRANDE ATTORE TRA OTTOCENTO E


1° NOVECENTO
Capitolo dodicesimo
Dal punto di vista teatrale l’Ottocento è un periodo di svolta e di modificazioni molto
complesso, in cui si intrecciano fili diversi: la drammaturgia, ma anche gli attori (cioè un
modo di fare teatro basato sugli attori) e infine la nuova figura del regista. Questi tre fili
si muovono in contemporanea.
Cominciamo con l'esaminare l’architettura delle compagnie italiane, le quali risultano
basate su un organico di ruoli: 1° attore, 1° attrice, il brillante, il caratterista, l’attor
giovane, l’attrice giovane, la 2° donna, il promiscuo, il generico. Il ruolo non va confuso
con la parte, semmai il ruolo comprende la parte.
1° ATTORE e ATTRICE: è il ruolo di maggior importanza, ma anche quello meno
definibile. Essi hanno diritto di scelta prioritaria sulle parti, in pratica gli spettano le parti
da protagonista. In una visione un po' tradizionale dei ruoli è chiaro che il primo attore
deve essere fisicamente un bell'uomo, imponente, con una voce potente (Tommaso
Salvini)e similmente alla prima attrice è richiesta una figura maestosa, con voce non
deficiente (Adelaide Ristori). La Duse introdurrà la fondamentale variante di un fisico più
gracile e di una bellezza più irregolare.
IL BRILLANTE: è sempre un ruolo maggiore che introduce una nota più leggera nei testi
seri e determinante nei testi comici, visto che assume la funzione di motore dinamico
della vicenda. Nel teatro del primo '900 il brillante si trasforma a poco a poco,
risolvendosi nella figura del raissoneur, ironico e sottile, spesso portavoce dell'autore.

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IL CARATTERISTA: è legato ai personaggi della drammaturgia molieriana e goldoniana.


Essenziale un certo tipo di fisico -> corporatura goffa e obesa, che sottolinea gli elementi
caricaturali del personaggio. Ci sono tuttavia anche varianti più serie -> l'uomo di mezza
età che sostiene parti più mature (padre nobile, madre nobile) e il tiranno (in questo
caso si richiede prestanza fisica e voce tonante).
ATTORI GIOVANI: giovani per età, ruolo che riassorbe quello cinque-seicentesco degli
innamorati.
LA 2° DONNA: rivale della prima donna, è la donna maritata ma galante, oppure la
vedova un po' maliarda o l'amante. Deve avere doti fisiche analoghe alla prima donna.
IL PROMISCUO: ruolo minore ma importante. E' un ruolo capace di consentire il
passaggio dal personaggio patetico al personaggio comico. Eduardo de Filippo è stato
l'ultimo nostro grande promiscuo.
I GENERICI: sul gradino più basso, vengono utilizzati in parti drammaturgicamente
appena abbozzate, cioè generiche.
I ruoli non sono tuttavia categorie fisse. I giovani sono destinati a diventar primi attori; il
primo attore può diventar caratterista invecchiando; il promiscuo può salire di grado e
diventare caratterista. Questi ruoli hanno una funzione importante: svolgono una parte
di mediatori fra il tramono del vecchio modo di produzione e la nuova situazione storico-
culturale che si impone tra '700 e '800. Infatti in questo trapasso si allarga la gamma dei
modelli testuali da poter utilizzare, ma al centro dei nuovi intrecci restano sempre i
giovani innamorati, i padri, gli eroi, i tiranni, ecc...
Dal punto di vista economico la compagnia ottocentesca è di proprietà del CAPOCOMICO
( il 1° attore o la 1 attrice): egli stipula i contratti , supporta le spese, si fa carico delle
paghe degli scritturati. E' la cosiddetta compagnia capocomicale. Il capocomico svolge
naturalmente anche funzioni di coordinamento del lavoro di tutti gli attori, non è
possibile parlare di regia ma è indubbio che esiste una sorta di supervisione. Manca
tuttavia l'idea di lunghi periodi di prova, la consuetudine teatrale arrivava a concedere
non più di 7/8 giorni per imparare una parte nuova e le compagnie raramente davano
delle repliche.
Ancora al capocomico spetta la cura della scenografia, che è peraltro estremamente
sommaria, fatta essenzialmente di carta dipinta. Soltanto ai primi del '900 si iniziò a
usare la stoffa e ancora più avanti il legno compensato. Ogni compagnia aveva una serie
di scenografie generiche da usare e soltanto in casi speciali si commissionavano scene
nuove allo scenografo. Per arredare il palcoscenico si usavano mobili approssimativi,
spesso non coordinati in stile e il compito di predisporli spettava al DIRETTORE DI SCENA,
solitamente un attore fallito. Accanto a lui c’è il TROVAROBE, che viaggia con la
compagnia, trasportando cianfrusaglie. I costumi sono a carico dell’attore (tranne quelli
detti di carattere o stranieri, forniti invece dalla compagnia).
Estremamente sommaria anche l’illuminazione, che si riduceva alle luci in basso della
ribalta e alla fila di lampadine in alto dette la bilancia. Un'illuminazione fissa, che si
limita a far vedere ma che non ha una funzione rappresentativa e tanto meno una

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valenza simbolica. Soltanto nel primo quarto dell'800 compariranno i proiettori elettrici e
questo permetterà di piazzarli fuori dal palcoscenicoper creare un gioco di luci che colga
via via diverse parti dello spazio scenico. Assai lentamente, cioè, si arriva all'idea di poter
usare la luce come un fattore di poesia scenica. Da un lato proprio questo ritardo
dell'illuminotecnica esalta il valore mimico del volto dell'attore, dall'altro è indubbio che
l'arretratezza/la sommarietà dell'impianto nascono dalla concezione di un teatro
dell'attore, in cui ciò che conta è la presenza viva dell'attore e tutti gli altri aspetti del
linguaggio scenico sono tendenzialmente ricondotti a sviluppo zero.
Resta da dire dell’anno teatrale che per la prosa dura dalla prima domenica di
Quaresima fino all’ultimo giorno del successivo Carnevale; per l’opera lirica dal 10
dicembre al 10 dic. Successivo. Ultima informazione -> Quello delle compagnie teatrali è
un mondo stratificato: ci sono le COMPAGNIE PRIMARIE, che percorrono capitali; LE
SECONDARIE, che si limitano alla provincia; LE TERZIARIE che sono le compagnie di
guitti, in paesini e paesetti. Fra i vari livelli, tuttavia, non esistono barriere rigide.
Il quadro complessivo delineato ci fa capire facilmente che la performance del grande
attore è fondata essenzialmente sulle risorse individuali dell'interprete, ricordiamo ad
esempio Tommaso Salvini.
ADELAIDE RISTORI (1822-1906) diventa una celebrità internazionale rappresentando a
Parigi, nel 1855, la “Mirra” di Alfieri. Ella, pur non cambiando nulla del testo, lavora con il
proprio corpo, suggerisce movimenti e slanci di carnale passionalità. Uno dei più brillanti
critici del tempo, Jules Janin, di fronte allo spettacolo della Ristori rimane incantato. La
sua Mirra è, però, un caso limite. Normalmente il grande attore non esita a intervenire
anche pesantemente sul testo, tagliando, spostando, integrando a piacere.
ERMETE ZACCONI (1857-1948) diventa celebre con “Spettri” tutta incentrata sul
protagonismo di Osvald.
ELEONORA DUSE (1858-1924) reinterpreterà “Spettri” 20 anni dopo, rovesciando la
chiave interpretativa e valorizzando al massimo la centralità del dolore della madre di
Osvald.
Shakespeare è il cavallo di battaglia dei grandi attori del secondo Ottocento, perchè ha
una ricca galleria di personaggi a tutto tondo. Tuttavia si osservi che il grande attore può
alternare tranquillamente Shakespeare con mediocri pennivendoli contemporanei. Anzi
il suo repertorio è costituito in grande presenza da lavori artisticamente dozzinali e
commerciali. Perchè? Perchè ciò che conta non è il copione ma la poesia d'attore di
Ristori e Salvini (o Duse e Zacconi). E' l'arte del grande attore a riscattare il testo,
qualunque esso sia.
Il teatro del Grande Attore non è, tuttavia, una specificità della scena italiana. L'inglese
HENRY IRVING (1838-1905) interpete shakesperiano o la francese SARAH BERNHARDT
(1844-1923), protagonista delle “signore delle Camelie” , si collocano anch'essi nel
quadro di una tendenza complessiva che esalta l'individualismo attorico sin quasi al
divismo. In Inghilterra e in Francia, infatti, non meno che in Italia, il grande attore si pone
indubbiamente come un vettore portante della nascita e dell'esplosione dell'industria

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dello spettacolo. La Rivoluzione Francese ha liberato la condizione dell'attore dal peso


dell'antica maledizione che lo vedeva come un reietto sociale e con essa anche l'attore è
diventato cittadino. Da lì in poi le folle degli spettatori daranno vita a manifestazioni
fanatiche di ammirazioni nei confronti degli artisti e le autorità politiche elargiscono loro
premi e onorificenze.
SUCCESSI COMMERCIALI NELL'EPOCA DEL GRANDE ATTORE
La storia del teatro può offrire una strana percezione e far ritenere che quel repertorio
teatrale che oggi riconosciamo come classico o ineludibile fosse tale anche per i
contemporanei. Non è così. Allorchè la Duse si recò in tournèe in Scandinavia, nel 1906,
ebbe difficoltà a rappresentare Ibsen, considerato repertorio "difficile" e le fu chiesto "La
signora delle camelie". Dobbiamo comunque tenere presente che il più grande successo
del XIX secolo non fu un copione di Strindberg o Cechov, bensì Il giro del mondo in 80
giorni (1874), tratto dal romanzo di Jules Verne. Gli scenari comprendevano una sala da
fumo di un club londinese, viste panoramiche semoventi di Suez e dell'India,
mongolfiere, pire accese, un treno e una nave a vapore; 800 costumi, 80 serpenti
meccanici, macchinisti, musicisti, comparse e attori. Ancora una volta si poteva verificare
il ricorrente scontro fra le ragioni dell'occhio e del verbo drammaturgico incarnato
nell'interprete.
EMOZIONALISTI ED ANTIEMOZIONALISTI
Nell’Ottocento si è affermata in merito al metodo di recitazione una sorta di dicotomia
traducibile nei termini di emozionalismo contro antiemozionalismo: i primi, cui si
allearono i naturalisti e gli psicologisti, stimano necessario che l’attore attinga per la
propria creazione alle fonti dell’esperienza e della memoria individuale; i secondi,
protestano che ridurre i sentimenti del personaggio poetico a quelli personali e pratici
dell’attore significa immeschinirne la potenza fantastica e condurre il processo creativo
alla falsa ricerca di una sincerità extrartistica. Per ambedue, è necessario immedesimarsi
nel personaggio cancellando l’identità dell’attore. I grandi attori italiani erano per lo più
emozionalisti: la Ristori sosteneva che fosse impossibile recitare dei sentimenti mai
provati.

IL TEATRO DELL'OPERA LIRICA TRA '800 PRIMO '900


Capitolo tredicesimo
L'800 costituisce l'epoca d'oro del melodramma, perciò non risulta strano inserire a
questo punto un discorso sull'opera lirica (nonostante il melodramma italiano nasca tre
secoli prima). L'opera in musica si impone nel corso del '700 e con l'800 gli operisti
italiani devono misurarsi con la concorrenza locale, soprattutto francese e tedesca. Per
comprendere la centralità di questo tipo di arte nella cultura italiana del tempo, bisogna
considerare che esso ha mantenuto a lungo la caratteristica di luogo deputato in cui
l'elite aristocratica consuma i propri riti mondani e sociali. L'edificio teatrale è, infatti,
strutturato per ricordarci la compresenza di classi diverse: i palchi per i nobili, la platea
per i borghesi. Non c'è certo il popolo. Il vero centro di vita è ovviamente il palco, dove si

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mangia, si beve, si gioca. Con l'800 tuttavia questa situazione tende a modificarsi: l'opera
lirica travalica la propria origine e tende a porsi come scuola di sentimenti e laboratorio
di modelli di comportamento. Da questo punto di vista il melodramma riempie il vuoto
lasciato in Italia dall'assenza del teatro di prosa. I pochi autori significativi
(Goldoni,Alfieri), infatti, non hanno mai costituito un repertorio nazionale. Se l'opera
seria gode di maggior prestigio rispetto all'opera semiseria e questa parimenti rispetto
all'opera buffa, quest'ultima è comunque considerata superiore rispetto al teatro di
prosa.
Per l'inverso il melodramma riscontra una successione di compositori eccellenti: Rossini,
Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini. Un secolo lungo e continuo. Poi, di fatto, il genere si
blocca, come se l'800 fosse non solo il punto più alto ma anche quello finale. Nel '900,
infatti, il genere matura più che altro come riproposizione di un glorioso repertorio che
come manifestazione di nuova creatività. Lo stesso Puccini viene percepito già come
estraneo, perchè con un piede già nel '900.
Gioachino Rossini è il ponte fra il passato e l'800. Se Mozart sembra esprimere la sua più
alta creatività nell'opera buffa, ecco che una sorta di passaggio di consegne avviene
proprio su questo terreno: Il barbiere di Siviglia (1816) è il suo capolavoro, ispirato
anch'esso (come Le nozze di Figaro di Mozart) a Beaumarchais. In Rossini è dominante la
potenza musicale purissima, astratta nel senso che astrae da condizionamenti
psicologici o sociologici. Si pensi al crescendo -> nella maggioranza dei casi Rossini lo
utilizza in maniera gratuita, senza motivazioni drammaturgiche. Il Conte d'Almaviva
organizza una serenata per la sua bella che però non si mostra, allora il Conte congeda i
musicante pagandoli comunque. Essi, incantati dalla sua generosità, fanno un enorme
crescente schiamazzo per esprimere la loro gratitudine. L'azione scenica (la serenata)
non incide sulla trama, è un pretesto per realizzare il crescendo rossiniano. Rossini è
sicuramente l'erede della civiltà musicale italiana, ma è anche abile a inserire rottura e
novità nel corpo della tradizione, come mostra la surreale opera buffa L'italiana in Algeri
(1813). In effetti l'opera buffa italiana è venata di patetismo, con una insopprimibile
pulsione a commuovere, ma ben altra cosa è il temperamento dei due protagonisti
rossiniani -> il pascià Mustafà apre il primo atto dichiarando di volersi liberare della
moglie. Peraltro ciò che prevale alla fine è garantire la ricca vocalità dei cantanti, senza
preoccupazione alcuna di realismo (l'essenza del belcantismo). Per Stendhal, che scrisse
Vita di Rossini, il compositore italiano è una sorta di Napoleone, anche per la rapidità
sfolgorante della carriera. Da notare che Rossini muore solo nel tardo 1868 e resta per
quasi un 40ennio in un silenzio creativo: a testimonianza di un male di vivere, di una
depressione, di una diffidenza verso la nuova civiltà romantica che sente estranea, per
via della sua formazione nell'Ancien Regime.
Resta il fatto che il melodramma romantico non nasce con la direzione di Rossini, bensì
con quella della coppia Bellini-Donizetti. Il romanticismo italiano ha però, come si sa, dei
caratteri più attenuati rispetto allo spirito originario tedesco. Manca la sensibilità per
l'interazione individuo-natura, e manca anche il nesso stringente con i miti e con la
religione (che si ritroverà in Wagner). Predomina l'amore, la passione sentimentale, ma
senza il sostrato filosofico del Tristano e Isotta.
I puritani di Vincenzo Bellini (1835), libretto di un patriota riparato in Francia, Carlo

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Pepoli, presenta sullo sfondo la lotta fra i seguaci di Cromwell e la Corona inglese, ma
l'impressione è quella di una vicenda senza tempo. Nel mezzo anche un amore
contrastato. Bellini ha prodotto un numero limitato di opere, ma non solo per la morte
precoce: c'è, infatti, un preciso intento poetico "Io mi sono proposto di scrivere pochi
spartiti, ci adopero tutte le forze dell'ingegno, persuaso come sono che gran parte del
loro buon successo dipenda dalla scelta di un tema interessante". L'accento romantico
sembra evidente e Norma (1831) è un primo modello di libretto romantico. La vicenda si
svolge in Gallia, al tempo della conquista romana, ma ha in primo piano la relazione di
Norma, sacerdotessa dei Druidi, con il proconsole romano Pollione. Romantica è la scelta
di individuare nella figura femminile il destino di passione e morte. Temendo, infatti, di
essere abbandonata da Pollione per una nuova sacerdotessa, Norma medita di punire gli
amanti salvo alla fine sacrificare sè stessa.
Di qualche anno dopo è Lucia di Lammermoor (1835) di Gaetano Donizetti, derivata da
un romanzo dell'inglese Walter Scott. Sullo sfondo un generico e vaghissimo scontro tra
due famiglie scozzesi del '700 e in primo priano la consueta vicenza passionale: Lucia ed
Edgardo si amano, ma il fratello di Lucia, Enrico, si oppone, e impone a Lucia, come
marito, Arturo (suo alleato politico). L'amore impedito conduce però a morte: Lucia
uccide il marito durante la notte di nozze e muore a sua volta di dolore, mentre Edgardo,
alla notizia, si suicida. Quest'opera non costituisce chiaramente un unicum: nelle sue
opere serie Donizetti ripropone continuamente il figurino della languida amante infelice.
Curiosamente non manca, tuttavia, qualche nota involontariamente comica. Pensiamo
soprattutto a L'elisir d'amore(1832) che tratta di un contadinotto timido e ingenuo,
Nemorino, il quale ricorre a un presunto elisir d'amore per interessare a sè la maliziosa e
inizialmente fredda e distante Adina. Donizetti introduce una notevole novità nell'opera
buffa: qui infatti l'allegria non è data tanto dalla carica energetica della musica in sè,
quanto dal personaggio che non è semplice "macchietta". Nemorino ha i suoi limiti, le
sue fragilità ma ha anche una grazia commovente che spiega la conversione finale di
Adina. Si può dire conclusivamente che Donizetti e Bellini costituiscono a loro modo un
duo artistico di reciproche influenze: sono due maestri che disegnano mezzo '800,
raccogliendolo da Rossini e consegnandolo a Verdi.
Rispetto a Donizetti che manifesta l'ossessione romantica per la passione d'amore, in
Giuseppe Verdi risuona un timbro nuovo, più virile, che coincide con la passione politica
della sua generazione. Alcuni suoi cori risultano percepiti come autentici canti patriottici.
Verdi raggiunge la piena maturità a partire dal grande trittico degli anni '50 (Rigoletto,
1851; Il Trovatore, 1853; La traviata, 1853). Rispetto ai precedenti compositori il quadro
si allarga: si apre agli affetti paterni e materni purificati dal dolore. Nel Rigoletto, tratto
da un dramma di Victor Hugo, il protagonista è un buffone di corte, la cui amatissima
figlia è sedotta dal sovrano; nel Trovatore Verdi crea un romanticismo notturno raro
nella cultura italiana, la notte esalta la zingara Azucena, quasi impazzita di dolore per la
morte del figlio adottivo.
Nella Traviata è ancora in primo piano la coppia amorosa infelice ma l'attenzione
psicologica si inserisce in un'articolata fenomenologia sociale -> infatti egli riprende La
signora delle camelie, un testo che miscela la tematica romantica con la tematica
realistica dei condizionamenti sociali. Naturalmente Verdi si muove all'interno di una

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società molto meno laica e moderna di quella francese e deve moralizzare il titolo: esso
diventa, perciò, La traviata, cioè la donna corrotta, dai costumi immorali, visto che si
parla di una prostituta che va a letto con ricchi borghesi. Tuttavia, rispetto alla sostanza
dell'originale, Verdi non indietreggia: se Dumas introduce il realismo sulla scena
francese, Verdi innova aprendo il sipario lirico su un interno borghese. Il protagonista è
sempre un giovane borghese che non ha i soldi per mantenere la cortigiana, e il padre
verdiano (venuto a intimare la dissoluzione della relazione), ha una continuità di
presenza in scena che manca a Dumas, con una sottigliezza psicologica parimenti
assente nella fonte drammatrugica. Proprio quel tanto di realismo che il compositore
introduce, tuttavia, dentro la struttura convenzionale del melodramma, è uno dei motivi
del fiasco. L'opera è accolta con maggiore successo l'anno successivo, quanto Verdi
l'ambienta in pieno '700, così da non suscitare allusioni alla realtà contemporanea.
In linea di massima bisogna riconoscere che Verdi resta fedele a quello che, nel bene e
nel male, è considerato lo spirito autentico del melodramma italiano: conflitti chiari,
semplici, esemplari, forti tinte qualche volta persino rocambolesche. Si deve aggiungere,
però, che con lui il melodramma diventa propriamente la prima espressione
nazionalpopolare dell'intera storia italiana, cioè di un paese dove la cultura è sempre
stata dell'elites. Tuttavia, nonostante non rinneghi la tradizione italiana, egli non è però
insensibile alla avventura della sperimentazione, come mostrano Otello, 1887, e Falstaff,
1893. C'è una ricchezza orchestrale notevolissima, più ampia rispetto al passato,
soprattutto nel falstaff, dove gli strumenti sembrano vivere come veri e propri
personaggi a fianco di quelli sul placo. Colpisce la tendenza a favorire maggiore
continuità tra melodia e recitativo.
Resta da dire di Giacomo Puccini, cronologicamente l'ultimo fortunato interprete del
melodramma italiano. Le sue melodie si imprimono facilmente nella memoria di un
pubblico molto largo e popolare, ma vanno anche riconosciuti i suoi meriti: la
professionalità e l'apertura delle sue scelte, attente al quotidiano ma sensibili alle
prospettive di un Oriente esotico. Se la Traviata imponeva la novità di un interno
borghese, La Boheme (1896) è un autentico melodramma-manifesto del Verismo. Viene
descritta l'esistenza di quattro bohemiens, giovani artisti di belle speranze attanagliati
dalla mancanza di soldi. Non c'è in fondo una trama, ma viene messa a fuoco il pathos e
il comico eroismo della vita quotidiana (pagare l'affitto, saldare il conto al ristorante): un
grande cambiamento rispetto all'universo glorioso e grandiloquente del melodramma
tradizionale. Sulla linea dell'esotismo si muovono invece altre opere egualmente celebri.
Madama Butterfly (1904) è ambientata in Giappone ed illustra la crudelissima e
tragicamente patetica vicenda della giapponesina pronta a innamorarsi del tenente della
marina USA (Pinkerton), che l'abbandona per poi tornare con la moglie
americana,sottrarle il figlio e condannarla a morte per harakiri. Rimasta invece
incompiuta è la Turandot. Nella cruda e cangiante vicenda della regina che uccide i suoi
pretendenti, ma si lascia infine vincere dall'amore impavido di Calaf, Puccini apre il suo
ventaglio di immense passioni a suggestioni diverse.
La grande novità di Puccini è nella morbosità con cui affronta il nodo
tenerezza/erotismo, smascherando nei suoi personaggi pulsioni ora sadiche, ora
masochistiche. Che è quanto avviene nella Tosca (1900). Apparentemente un drammone

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storico, ambientato nella Roma del giugno 1800, prossima a cadere sotto il dominio della
Rivoluzione Francese. La lotta politica si intreccia con gli amore del pittore Mario
Cavaradossi e della cantante Floria Tosca, sua amante, concupita al tempo stesso dal
torvo e brutale Scarpia, capo della polizia papalina. Passioni, ricatti, e sadismi, scanditi
dalla morte in successione dei tre protagonisti. Ciò che attrae e affascina Puccini è
l'intreccio tra violenza politica e violenza sessuale. La camera della tortura è collocata
accanto alla stanza dove Scarpia vive, lavora e dove si prepara a violentare Tosca. Puccini
coglie una verità misteriosa e profonda: che ogni violenza fisica non è altro che violenza
sessuale (e questo scatena la reazione di disgusto della donna davanti alla violenza
operata da Scarpia su Cavaradossi).
Almeno un cenno all'opera lirica francese, che ha subito a lungo l'influenza del
melodramma italiano ma che ne corso dell'800 si definisce in modo autonomo. Per lo
spirito italiano ciò che conta è la vivacità, la passione, la ricerca delle lacrime; per lo
spirito francese, invece, il melodramma deve esprimere il buongusto, la misura,
l'eleganza, l'intelligenza, in qualche modo la razionalità. Due sono i generi tipicamente
francesi: l'opera-comique e il grand-operà.
L'opera-comique: è un genere di opera sorto nel '700, così chiamato dal nome del teatro
parigino che lo produceva, caratterizzato dall'alternanza di dialoghi in proca e parti
musicate e cantate. Il carattere complessivo è di tipo prevalentemente comico e l'azione
è sempre a lieto fine.
Il grand-operà: è un genere più recente che si afferma in Francia, nel campo dell'opera
seria, tra il 1828 e gli anni '70 del 1800. Quasi sempre in 5 atti, è caratterizzato da un
allestimento scenico sfarzoso, da una coreografia imponente e da grandi scene di massa.
L'intreccio è romanzesco, ma spesso sullo sfondo di un significativo conflitto storico o
religioso.
Al genere dell'opera-comique appartiene formalmente il capolavoro del compositore
francese Georges Bizet, Carmen (tratto da una novella, 1875), che fece invaghire di sè
Nietzsche (deluso da Wagner, reo di essere caduto in imperdonabile peccato di
cristianesimo). La vicenda, ambientata a Siviglia, si apre su un gruppo di operaie della
manifattura dei tabacchi, fra cui spicca Carmen, la cui esuberante carica erotica attira sia
i militari di stanza (Zuniga, Josè), sia il torero Escamillo. Josè diserta per lei e si unisce ai
contrabbandieri, in una storia passionale che alla fine lo spinge a uccidere con una
coltellata la donna, colpevole di averlo lasciato per il torero. Alla prima il pubblico fu
freddo e perplesso. Prima di tutto perchè la morte della protagonista contraddiceva il
lieto fine tipico del genere; ma soprattutto perchè risultò traumatizzante il forte realismo
che esplicitava sia dettagli dell'intreccio, sia l'ambiguo e imbarazzante personaggio di
Carmen, portatrice di una visione scandalosamente libera dell'amore. Carmen è definita
come una bohemienne, cioè una zingara, figura fortemente trasgressiva per
l'immaginario della società patriarcale dell'Ottocento. E' l'esaltazione della liberta
assoluta. Ovvio che un siffatto personaggio, alla sua prima apparizione, abbia
scandalizzato il pubblico. Sconcerto e turbamento sono peraltro dati dallo
stravolgimento di alcuni valori della società borghese, che appare dominata
ossessivamente dalla ricerca di interessi bassi, del piacere carnale: i militari, ad esempio,
dovrebbero simboleggiare l'ordine ma insidiano Micaela, una giovane e innocente

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contadina.
Nello stesso anno di Verdi è nato Richard Wagner. I due dominano il cuore pulsante
dell'800, ma le loro grandezze si collocano su posizioni diverse, in qualche modo
contrapposte. Verdi è l'interprete più alto e geniale di una tradizione che concepisce la
musica come motore di amplificazione dei momenti emotivi che si condensano nelle arie
del cantante: l'aria ha la funzione di fermare il tempo e poi la trama riprende. Il
melodramma si configura quindi come una sorta di successione di vari fermo-immagine.
Wagner aspira ambiziosamente a realizzare quella che definisce l'opera d'arte totale
(Gesamtkunstwerk), l'opera nella quale le arti più grandi (musica, poesia, danza, pittura,
scenografia) devono fondersi. In particolare parola e musica cooperano per una
continuità drammaturgica contrassegnata dall'orchestra che racconta. Non è un caso che
con Wagner si potenzi il corpo orchestrale, con l'introduzione di nuovi strumenti (come
la tuba). E non è nemmeno un caso che il punto d'arrivo della sua rivoluzione sia
addirittura la richiesta di un nuovo tipo di edificio teatrale (destinanto a essere realizzato
a Bayreuth, in Baviera). Una prima conseguenza rivoluzionaria di tutto questo è che con
Wagner si afferma un ininterrotto tessuto musicale, dove non ci sono le rotture (le arie) e
dove non si colgono nemmeno le riprese. Nell'opera wagneriana non c'è mai un suono
puro, tutto risulta amalgamato. L'orecchio non coglie un flauto, una viola, la voce umana
ma una sintesi di tutto questo, una compenetrazione assoluta fra l'avvenimento scenico
e quello sonoro.
Wagner rifiuta i soggetti tipici del melodramma e va a cercarli nelle leggende della civiltà
germanica e nordica. L'esito più significativo è la tetralogia L'anello del Nibelungo, dove
attinge per un verso alla leggende tedesca dei Nibelumghi, e per l'altro all'Edda, saga
scandinava che contiene miti che sono patrimonio dell'intera area germanica pagana. Il
grandioso disegno ha una lunga gestazione che spiega alcune correzioni in corso d'opera:
egli è infatti animato da fermenti rivoluzionari in gioventù, ma vive successivamente le
contraddizioni della borghesia tedesca, la quale abbandona progressivamente le pulsioni
libertarie per ripiegare nell'accettazione dell'ideologia conservatrice e reazionaria. La
tetralogia è impostata originariamente in chiave anti-capitalistica, in una tensione
rivoluzionaria fiduciosa nella possibilità di cambiare il mondo, poi però (anche sulla base
di Schopenhauer), Wagner si orienta verso una visione negativa che canta l'inutilità del
genere umano e l'annientamento finale che travolge Dio e gli eroi allo stesso tempo.
Wagner finisce per esprimere l'esaltazione dell'autentico spirito germanico: l'eroe puro
della vittoria, la liberazione dell'anima errante nel peccato, la redenzione attraverso
l'amore della donna. Quest'ultimo è tema dominante della poetica wagneriana,
esaltatrice di una figura femminile disposta anche al sacrificio supremo per redimere
l'amato.
Il vertice assoluto della sua produzione sembra essere comunque Tristano e Isotta
(1865), in tre atti. Wagner si rifà a una leggenda, di probabile origine celtica, di cui si
hanno diverse versioni, ma segue quella di un poema germaico del XIII secolo di
Gottfried di Strasburgo: Tristano conduce Isotta, principessa irlandese, in sposa al re di
Cornovaglia, Marke (suo zio). I due giovani bevono per sbaglio un filtro d'amore e si
innamorano perdutamente. Wagner accentua che i due si amano dall'inizio, senza
saperlo, e il filtro serve solo a indurli alla reciproca confessione. Non ci si può sottrarre al

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destino della passione, che congiunge gli amanti in una tensione assoluta di fusione. Egli
intende questa fusione non per la vita, bensì per la morte. Il tempo degli amanti è la
notte, ma quale metafora della notte eterna, cioè la morte, cui si abbandonano in una
volontà di annientamento. Un punto complesso su cui Wagner insiste è il senso del
dominio stringente e tirannico della passione d'amore, che piega l'individuo, che lo
costringe a scelte a prima vista incomprensibili, irrazionali. C'è un antefatto che viene
ricordato all'inizio: Tristano ha ucciso il fidanzato di Isotta, Morold, gli ha tagliato la testa
e gliel'ha fatta recapitare. Tristano rischia però di morire per una ferita che nel
combattimento gli ha inferto Morold, ma proprio Isotta, non conoscendone inizialmente
l'identità, lo raccoglie e lo risana. Poi vorrebbe ucciderlo, per vendicare il fidanzato, ma i
due si guardano e la spada con cui sta per colpirlo cade di mano a Isotta. In quel silenzio
si attiva un processo di passione divorante e ineluttabile. Isotta è consapevole della
propria contraddizione, ma l'unica spiegazione che riesce a formualre ci porta diritto al
cuore di tenebra dell'ideologia germanica esaltatrice della forza dell'eroe vincitore: Isotta
se ne innamora e subisce il fascino proprio perchè è un cavaliere vittorioso.

IL TEATRO DEL REGISTA TRA 800 E PRIMO 900


Capitolo quattordicesimo
Il vecchio e il nuovo teatro ( quello del grande attore e quello del regista) convivono e
occupano più o meno gli stessi anni, cioè i decenni tra fine '800 e primo '900. E'
indubbio, comunque, che la regia nasca come reazione ai guasti più che evidenti del
modo di fare teatro fondato sull'attore. Si dice che un notevole impulso alla regia
moderna si deva al piccolo ducato tedesco di SASSONIA-MEININGEN che ha nel DUCA
GIORGIO II (1826-1914) un appassionato di teatro il quale, insieme al regista LUDWIG
CHRONEGK (1837-1891), organizza una straordinaria compagnia, i << MEININGER>>,
attiva dal 1866 al 1874 nel teatro ducale, e poi in continue tournees in Europa e in
America dal 1874 al 1890. Per questa compagnia è fondamentale il rispetto del testo, la
pratica di prove lunghe e rigorose, l’adozione di nuove tecniche d’illuminazione elettrica,
la massima cura nelle scene di massa. Mentre in genere le compagnie erano costituite di
non troppi attori, il duca di Meningen, poteva contare su una 70ina di persone alle sue
dipendenze, pagate da lui, dove vigeva il criterio della rotazione delle parti. I Meininger
erano famosi per queste scene corali, di massa, ma il loro valore storico è sicuramente
nell'imposizione della disciplina, nella fondazione del controllo sull'attore (l'aver creato la
disciplina a teatro).
Dal 24 Giugno al 1° Luglio 1888 ANDRè ANTOINE (1858-1943) è a Bruxelles per seguire
alcune rappresentazioni dei Meininger. Egli ha fondato, nel 1887, il suo Theatre Libre e la
lezione dei Meininger lo rafforza nel suo progetto. È anche lui un dilettante del teatro ma
con una geniale capacità di innovazione. Il suo punto di riferimento è ZOLA, che dopo
aver rinnovato in senso naturalistico il romanzo, si era improvvisato per 4 anni, dal 1876
al 1880, quale critico teatrale, al fine di sollecitare anche la scena a una riconversione
naturalistica. Il primo obiettivo è la riforma del decor, la cui sommarietà è sicuramente
l'altra faccia del teatro del Grande Attore. Non c'è bisogno di molto se ciò che importa è
il rapporto tra l'officiante e i "fedeli" (il pubblico); ma quando invece l'attore è solo

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primus inter pares, elemento di una macchina unitaria, allora ciò che deve emergere è
tutto il quadro d’insieme, la totalità. Antoine recupera il discorso sul decor che spiega e
determina i personaggi: gli attori devono essere collocati in uno spazio credibile, non
ridicolo; lo spazio, la scenografia, non sono più un dato secondario, trascurabile -> la
scena è costruita e non già dipinta, l'attore non vi recita davanti ma dentro. Il messaggio,
quindi, non passa più attraverso lo charme della voce del grande attore, o attraverso la
sua immagine, ma passa all'interno di un effetto complesso di composizione. Quello che
può sembrare il limite del Theatre Libre, la condizione amatoriale e dilettantisca dei suoi
componenti, si rovescia alla fine in coefficiente di forza. Il dilettantismo, infatti, ha
preservato i compagni di Antoine dal rischio dei clichès della tradizione recitativa sancita
nelle accademie. I suoi interpreti sono più pronti a trarre tutto il meglio da un utilizzo
pieno dello spazio e della scena, cosa che i grandi attori (ormai abituati a recitare in un
certo modo) non riuscirebbero a fare.
10 anni separano Antoine da STANISLAVSKIJ (1863-1938), una specie di padre del teatro
moderno. Nel giugno del 1897 fonda con NEMIROVIC DANCENKO (1858-1943) il Teatro
d’Arte di Mosca dove confluiscono da una parte il gruppo di dilettanti di Stanislavskij e
dall’altro i migliori allievi della scuola di Dancenko. In questa nuova formazione si
dichiara guerra a tutti i vizi consueti dell'attore: il ritardo, la pigrizia, le bizze, l'imperfetta
conoscenza della parte. Si rifiutano le gerarchie delle parti. Ciò che può sembrare un
elemento di limitazione si ribalta in uno di forza: gli attori dilettanti offrono il grande
vantaggio di non essere condizionati dai tic insopportabili del mestiere, ad esempio. Il
teatro di Mosca intraprende, poi, una battaglia contro tutti i guasti di una certa
tradizione attorica ottocentesca: il pathos e la declamazione affettata di marca tardo-
romantica; la teatralità come sinonimo di falsità scenica, di costumi sommari. E anche
qui Stanislavskij assume le stesse scelte di Antoine e dei Meininger: la possibilità di non
mostrare sempre il viso al pubblico, di recitare anche di spalle, la collocazione di alcune
scene in un quadro di oscurità, abbandonando la consuetudine della recitazione in piena
luce, solito studio minuzioso e fanatico per le ambientazioni degli spettacoli
(documentazione sui libri, ricerche iconografiche).
Si tratta comunque di un primo periodo di questo teatro, che dà i suoi frutti migliori nella
realizzazione di testi di carattere storico o di costume (il Giulio Cesare, Il mercante di
Venezia),con un riscontro notevolissimo di critca e pubblico che valse però a etichettare
un po' il nuovo teatro, a vederlo come saldamente legato alla matrice naturalistica (cosa
che poi si rivelerà non vera). Stanislavskij, tuttavia, non rinnega questa fase del suo
teatro (di fase difatti si tratta, cioè di momento di passaggio, di crescita e di formazione).
Egli arriverà presto a comprendere che la funzione profonda del regista non è quella di
sovrapporsi all'attore, ma di aiutarlo a esprimersi, perchè l'essenziale è nelle mani degli
attori e non in quelle dei metteurs en scene. La linea storica-di costume del teatro d'Arte
di Mosca si pone sulla strada del "realismo esteriore", perchè anche la direzione registica
non può che offire un approccio al lavoro creativo unicamente dall'esterno. Il passaggio
ulteriore avverrà solo grazie all'incontro con Cechov. Stanislavskij non ne fu subito
entusiasta, ma comprese subito il significato profondo della sua nuova drammaturgia,
che gli consentiva di scoprire il limite del "realismo esteriore" alla Meininger e lo
spingeva allo scandaglio di una sorta di "realismo interiore". Per una drammaturgia
come quella cechoviana, dove non succede mai nulla di decisivo, occorre ricreare

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un'atmosfera: nasce una recitazione fatta di tonalità sfumate, di pause e di silenzi. Non è
possibile dunque recitare il personaggio cechoviano dall'esterno, occorre ricrearne la
vita interiore, a partire dal testo ma in qualche modo anche autonomamente dal testo. Il
regista scopre la centralità assoluta dell'attore: siamo di fronte a una rivoluzione
copernicana, che ribalta l'attenzione del regista dal testo all'attore. La messinscen nasce,
quindi, in accordo con l'attore, in collaborazione con lui, anzichè calarsi su di lui in
maniera costrittiva.
Si è soliti contrapporre Stanislavskij a MEJERCHOL’D, cioè il suo allievo più geniale:il
primo sarebbe fautore del teatro della parola, e il secondo il rivoluzionario cantore del
teatro del gesto, del corpo. Al primo il teatro dei personaggi e della psicologia; al
secondo il teatro delle azioni acrobatiche e delle abilità corporali (fondamento della
Biomeccanica, sistema di addestramento dell'attore inventato da Mejerchol'd, per far
raggiungere un pieno controllo del corpo). Tutto questo è in parte vero ma finisce per
risultare fuorviante se si divide in modo netto i due: il primo solo come l'erede della fase
pioneristica della regia e il secondo che solo si impone come colui che usa il testo in
modo più spregiudicato. Non è così.
In realtà c'è un risvolto novecentesco in Stanislavskij: a partire dal 1913 Stanislavskij apre
via via una serie di studi autonomi in cui sperimenta le sue riflessioni sull’arte attorica. È
qui che si definisce il << Sistema >> (o Metodo): codice recitativo che comincia ad essere
conosciuto intorno ai primi anni '20 e che viene espresso sotanzialmente nei libri Il
lavoro dell'attore su sè stesso e Il lavoro dell'attore sul personaggio. Il Maestro è
ossessionato da un problema: come evitare che l'attore, replicando la propria parte
infinite volte, non scada in un'iterazione meccanica di cliches? Egli ritiene, inoltre, che
una partecipazione emotiva da parte del fruitore possa scattare con intensità solo se
l'attore è intimamente commosso, se vive e si cala nel personaggio, immedisimandosi,
vivendone i sentimenti, le ansie, le gioie, i pensieri. Il "metodo" appunto si configura
come la risposta alle due questioni sopracitate: è l'insieme delle proposte, dei
suggerimenti, delle tecniche per mettere l'attore nella condizione di grazia -> ovvero
attraverso uno scavo interiore, attingendo al patrimonio del proprio vissuto, delle
proprie emozioni. Reviviscenza è la parola magica del Maestro. L'attore non può recitare
un personaggio che non ha dentro di sè, che non sente.
Negli anni Trenta,però, Stanislavskij rovescia il Sistema e comincia a parlare di <<
metodo delle azioni fisiche >> : si è reso conto che è difficile fissare i sentimenti, che
sono di per sè instabili e capricciosi, ed è più facile fissare le azioni fisiche. Cambia il
modo di costruire il personaggio. Al principio delle prove non occorre nemmeno che gli
attori sappiano a memoria la loro parte. Basta che conoscano l'intreccio, scena per
scena, e, su questa base, devono improvvisare una serie di azioni fisiche. Solo quando la
successione delle azioni fisiche sarà fissata verrà il tempo di sostituire le battute
improvvisate con quelle del testo drammaturgico. Permane il rapporto stretto fra
spirituale e fisico, ma è la dimensione fisica che stimola quella spirituale; e non viceversa
come Stanislavskij pensava una volta.
La battaglia tra regia e grandi attori si risolve su due escamotage. Il primo è l'uso di
gruppi di origine dilettantistica (poichè il grande attore oppone una resistenza
fortissima). Il secondo è il discorso che presenta il regista come semplice servo d’Autore,

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fedele al testo di contro all’interprete infedele che è l’attore. L’attore è più importante
del regista, ma meno dell’Autore. Perciò il regista "si nasconde" dietro l'ombra solenne
dell'Autore per giustificare il suo comando. Del resto l’idea stessa di regista fatica a
imporsi in Francia, che esita a lungo su due termini :’metter en scene’ (che alla fine
prevale) e ‘regisseur’, che indica originariamente solo una figura di tecnico, quella del
direttore di scena , ma per il semplice aspetto tecnico-materiale. Con il tempo tutte
queste prudenze verranno cadere e in pieno 900 il regista taglierà e modificherà il testo.
Arriverà a forgiarsi un attore nuovo e differente, più pieghevole e condiscendente.
La macchina della regia, tuttavia, invoca ed esige la macchina del testo. I registi hanno la
necessità di nuove forme drammatiche: non più copioni che prevedono squarci lirici
attraverso i quali irrompe la recitazione del grande attore solista; e nemmeno la piece
bien faite della tradizione francese, fatta di intrighi e colpi di scena,ma poco credibile.
Bensì una struttra rispettosa dell'insieme, dell'interazione di tutti i personaggi,
attentissima allo sviluppo e all'approfondimento psicologico. Insomma una piece senza
intrigo, a esposizione lenta e graduale, che implica un pubblico culturalmente più
maturo e più critico. Quindi non è certo un caso che la regia e la grande drammaturgia
europea nascano negli stessi anni: i Meininger sono attivi dagli anni '70, il Theatre Libre è
del 1887, i primi drammi moderni di Ibsen sono del 1879 e del 1881, Stanislavskij fonda
il Teatro d'Arte di Mosca nel 1897. Non è possibile stabilire chi venga prima: regia e
drammaturgia sono due facce della stessa luna.
Bisogna però dire che il problema della regia è un problema criticamente ancora aperto.
Per alcuni specialisti la regia è un fenomeno tipicamente '900esco, da attribuire sia a
Stanislavskij e Mejerchol’d, sia ai teorici come ADOLPHE APPIA e EDWARD GORDON
CRAIG. Altri studiosi preferiscono invece cogliere- nello sviluppo della regia, al passaggio
dal secolo '800 a quello del '900, non già un elemento di rottura, quanto uno di
continuità. Volendo si potrebbe, secondo loro, arretrare addirittura agli anni '30, quando
Dumas padre, Hugo e de Vigny scrivono testi che mettono in scena sotto la loro
personale direzione.
D'altra parte cosa distingue il teatro dell'Attore da quello del Regista? La forza dello
spettacolo del grande attore non è fondata sul testo, bensì sul proprio corpo; la forza
dello spettacolo del regista ottocentesco è fondata invece sul testo, sul suo rispetto
rigoroso. Comunque sia è sempre difficile parlare di "nascita" della regia. Non c'è
ovviamente un giorno preciso, si parla piuttosto di "banda di oscillazione".
L'ultima cosa da dire è che quando si parla di regia si parla anche di una realtà
economica: sarà anche vero, infatti, che nel '900 la regia si mostra nel suo volto di
principio estetico, ma è certo che la regia si definisce prima di tutto come un mestiere,
come un nuovo mestiere dell'industria dello spettacolo. Sin dagli anni 1827-28, sono
infatti pubblicati a Parigi dei livrets de mise en scene che possiamo considerare come una
sorta di libretti di istruzione ad uso dei teatri di provincia perchè possano rimettere in
scena gli spettacoli più famosi. Vi è l'elenco dei personaggi e degli attori corrispondenti,
il tipo di costumi, i mobili, ecc... Manca solo una cosa: il regista, colui che garantisce che
lo spettacolo sia una copia il più possibilmente fedele. Quindi non fa nessuna azione
creativa, quanto duplicativa. La lunga storia della regia, perciò, è la storia della lenta
trasformazione di questa pratica operativa: non più mestiere ma arte, non più

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professionista ma artista. Mentre il professionista dell'800 ha come obiettivo di fare un


duplicato, l'artista del '900 ha come obiettivo di realizzare un prodotto originale, unico.
LA CENTRALITA' DI PARIGI
A cavallo fra '700 e '800 Parigi vede la genesi di una forma spettacolare di grandissimo
successo: il melodrame, un genere di teatro "di parola" in cui, però, si inserisce la musica
di sottofonfo. Nel melodrame le scenografie tridimensionali, i macchinari, i costumi,
sono ricchi e variegati e la gestualità dell'attore costituisce un elemento di estrema
importanza. Insomma si tratta di un genere fortemente spettacolare. Il suo autore
principale è Guilbert de Pixerecourt. Egli afferma che una mente super partes deve
presiedere alla costruzione della mise en scene: "Occorre un solo e identico pensiero
nella composizione, nella confezione e nell'esecuzione completa di un'opera di teatro".
Attorno agli anni '30 del 1800 almeno nel principale teatro di Parigi, la Comedie-
Francaise, a costruire la messinscena sono gli autori stessi del testo, situazione che si
riscontra quasi tutte le volte in cui il drammaturgo sia vivente. A lui spettano la
distribuzione, la guida delle prove, la definizione del copione, la discussione con
scenografi e artisti incaricati di disegnare i costumi e le scenografie. Nel corso delle prove
il copione viene abbondantemente rimaneggiato. Si operano modifiche, aggiunte.
L'ultima parola spetta sempre all'autore, tutto al contrario di quanto avviene in italia
nello stesso periodo, dove i grandi attori si permettono di ritoccare un testo a loro
piacimento. Se in Francia ciò non accade è anche ragioni giuridiche. Grazie alle battaglie
di Beaumarchais, già alla fine del '700 la legge prevede il diritto d'autore non solo
relativamente alle pieces, ma anche alla loro rappresentazione. La normativa impone ai
teatri di pagare un quid per poter mettere in scena un testo ed inoltre vieta di
modificarlo senza l'autorizzazione dell'autore.
LA COLOMBA DI STANISLAVSKIJ
Il filosofo Kant supera notoriamente la separazione tra soggetto e oggetto che aveva a
lungo opposto pensatori empiristi e razionalisti. Una colomba non può volare senz'aria e
un uomo non può concepire oggetti che non siano nello spazio e nel tempo. Una
rivoluzione copernicana quasi analoga viene realizzata da Stanislavskij che si trova a
mediare tra emozionalisti che cercavano di conferire al personaggio le emozioni
autentiche dell'interprete, e gli antiemozionalisti che accettavano l'emozione solo in una
fase preliminare per poi affidarsi alla fredda tecnica. Stanislavskij considera pericoloso
affidarsi sia all'istinto (fenomeno occasionale), sia alla tecnica (che non tocca in
profondità lo spettatore). Anche in questo caso una colomba non può volare senz'aria e
un attore deve trovare una mediazione tra istinto e tecnica. Stanislavskij sa tuttavia che
l'attore lavora largamente con materiali che la coscienza non controlla, da ciò possono
sgorgare le scintille di immaginazione e azione che fanno affiorare quei contenuti
interiori ed emotivi in grado di generare a loro volta espressioni efficaci
nell'interpretazione del personaggio finalmente compiuto. Le battute del copione a
questo punto devono essere ritrovate dall'attore alla fine del processo. Và da sè che un
simile approccio da una parte è difficoltoso, ma dischiude la possibilità di far partire uno
spettacolo dalle improvvisazioni sulle quali, al limite, nella fase conclusiva, calare un
testo. Con questi presupposti non stupisce che Stanislavskij privilegiasse le azioni fisiche,
le uniche che un attore possa fissare e ricordare.

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LA RIVOLUZIONE SCENOGRAFICA: DALL’ILLUSIONE ALL’ALLUSIONE


Il grande compositore tedesco RICHARD WAGNER (1813-1883) fece erigere, fra il 1872 e
il 1876, un teatro che intendeva contrastare l’impianto della tradizione italiana: il
Festspielhaus di Bayreuth. Wagner, con la sua idea di un nuovo teatro per via della sua
idea dell'opera d'arte totale, vuole che l’orchestra non sia visibile più all’occhio dello
spettatore, che deve percepire senza distrarsi dalla scena. Il pubblico sarà posizionato su
dei posti ascendenti in un anfiteatro; il palcoscenico rappresenta la dimensione
rappresentativa ideale scissa dal reale e dà la percezione di "una visione da sogno".
Non è un casp che una delle più radicali riforme della scenografia sia avanzata dallo
svizzero Adolphe Appia, proprio sulla scorta delle teorie wagneriane. Appia ha una
concezione astratta e ritmica della scenografia che gli deriva dall'idea che, al fine di
realizzare l'opera d'arte totale, è, la musica a imporre sia le proporzioni coreografiche,
sia i gesti del cantante-attore. La messa in scena deve innvervarsi nell'opera d'arte totale,
superando sia le convenzioni del melodramma sia quelle del dramma recitato; l'attore
stesso è integrato nella scena governata dalla musica e la pittura degli scenari va
sacrificata a un uso poetico della luce. Appia predilige la "piantazione praticabile", contro
le tradizionali tele dipinte 800esche e concepisce sempre più l'attore come un elemento
che media fra il suo corpo e la musica. Le idee di -> un attore-danzatore, spazi scenici
viventi, un autorevole coordinamento di uno spettacolo che impegna differenti e ardui
saperi artistici sono il grande contributo di Appia al teatro del '900.
Appia è, in buona sintesi, in sintonia con la necessità di "riteatralizzare il teatro" di cui
parla il teorico tedesco Georg Fuchs; una necessità portata avanti anche dallo
scenografo Craig, il quale era convinto che il teatro non andasse identificato nè con la
recitazione nè con il testo nè con la scenografia o con la danza, ma fosse una sintesi di
"azione, che è lo spirito della recitazione; parole, che formano il corpo del testo; di linea
e di colore, che sono il cuore della scenografia; di ritmo, che è l'essenza della danza".
Siamo alle soglie delle Avanguardie storiche che, in fondo, rielaboreranno queste istanze
visionarie.

PRIMO '900: LE AVANGUARDIE STORICHE E


PIRANDELLO
Capitolo quindicesimo
L’inizio del ‘900 è certamente contrassegnato da una grande irrequietudine spirituale
che corrisponde ovviamente al disagio di una società europea che si avvia verso la prima
guerra mondiale. Molti intellettuali rimettono in discussione le certezze della cultura
dominante e si impegnano in uno sperimentalismo accanito, dando vita a una serie di
correnti ( dal Futurismo al Dadaismo, dall’Espressionismo al Surrealismo) che si
identificano sotto il nome di Avanguardie Storiche (per distinguerle dalle Avanguardie
che nasceranno nella seconda metà del '900).
In termini cronologici il primo evento è rappresentato dal “Manifesto del Futurismo”,
pubblicato il 20 febbraio 1909 sul parigino <<Figaro>> da FILIPPO TOMMASO

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MARINETTI (1876-1944), che aveva studiato in Francia. È il fondatore di un movimento


che ha risonanza internazionale e che si batte per adeguare la realtà artistica alla
modernità del sistema economico-sociale. Del 1911 è il “Manifesto dei drammaturghi
futuristi” sempre di Marinetti, che rivela però tutti i limiti di consapevolezza della
problematica teatrale (non sembra porsi il problema dell'esistenza del regista, dato che
parla sempre di drammaturghi). Più interessante è il “Manifesto teatro della verità”,
firmato ancora da Marinetti nel 1913, dedicato a una forma di teatro minore che si deve
aprire a una pluralità di espressioni spettacolari ma soprattutto a una interazione con il
pubblico. In effetti la rottura della barriera palcoscenico/platea è il filo rosso che
attraversa il panorama delle Avanguardie Storiche. Il Futurismo italiano, non lascia
segno in campo teatrale ma contribuisce a definire lo spettacolo moderno con
l’invenzione delle serate futuriste. Qualche contatto con i futuristi ebbe ETTORE
PETROLINI (1884-1936), geniale artista solista di varietà, inventore di macchiette e
caratteri, di lazzi e filastrocche che irridono il sentimentalismo e l'idiozia infinita
dell'umanità.
Di matrice tedesca è l’ESPRESSIONISMO, datato 1910-1924, legato alle arti figurative,
come reazione all’Impressionismo. Esalta la visione soggettiva dell’artista. La scenografia
espressionista di una città potrà darci profili sghembi di palazzi e di lampioni perché
questo è lo sguardo – ossessivo, stravolto – dell’autore. Sul terreno teatrale esprime la
denuncia sofferta della disumanità del mondo e soprattutto dell'esperienza traumatica
della Prima Guerra Mondiale.
DADAISMO con le sue serate dadaiste (sulla stessa linea di quelle futuriste) , con
spettatori che lanciano oggetti vari. Dada non si batte per un’arte nuova. Fondata a
Zurigo nel 1916 dal poeta TRISTAN TZARA(1896-1963), Dada si estende rapidamente a
livello internazionale. Zurigo era allora rifugio di molte figure irregolari (disertori, esiliati)
che in qualche modo fanno gruppo ed esprimono il rifiuto non solo della guerra ma
anche, più in generale, dell'assurdità della società fondata sulle regole capitalistiche del
profitto e del guadagno. Nemmeno l'arte viene risparmiata. Il manifesto di fondazione,
infatti, dichiara a tutte lettere che <<l’arte non è una cosa seria>>. Lo stesso nome non
significa niente. Viene meno, con Dada, la fiducia sulla funzione positiva che l'arte e la
cultura possono esercitare nella vita quotidiana. Un testo dadaista è “Per favore” 1920
di ANDRè BRETON e PHILIP SOUPAULT, i cui primi tre atti riguardano 3 differenti
situazioni, con personaggi diversi: tre atti unici accostati. In ogni atto il dialogo passa
dalla razionalià all’incomprensibilità. Il quarto atto, invece, si presenta come un
inaspettato intervento di discussione del pubblico -> Il sipario si alza su una scena che
rappresenta un portone: due personaggi qualsiasi passeggiano davanti e appena uno dei
due fa una battuta uno spettatore si alza dicendo "tutto qui?”. Gli attori che recitano i
ruoli degli spettatori dissenzienti o consenzienti sono collocati nello spazio reale.
Ben presto proprio all’interno di Dada rinasce la richiesta di un discorso in positivo. Tzara
è arrivato a Parigi all’inizio del 1920 e gia nel 1921 emergono le prime contraddizioni tra
lui e Andre Breton. Tra il ’22 e ’23 si esaurisce il movimento dada; nel ’24 Breton firma il
primo manifesto surrealista. Molti seguono Breton e passano al Surrealismo che, sotto
l'influsso della psicoanalisi di Freud, ripropone uno sguardo costruttivo, teso a
scandagliare la profondità dell'Io.

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In terra sovietica invece abbiamo il FUTURISMO RUSSO, colorato di falce e martello.


Nella Russia della rivoluzione si registra una grandiosa attivizzazione degli spettacoli.
D'altra parte è la complessiva scelta strategica delle Avanguardie Storiche che punta a
valorizzare al massimo l'intervento del pubblico, a spingere per un'irruzione della vita nel
campo dell'arte e della finzione. Sorgono in tutta la Russia i circoli teatrali degli operai,
dei contadini, dei soldati. Il teatro è ovunque, ogni luogo può diventare spazio scenico. Si
lavora freneticamente per infrangere la contrapposizione attore-spettatore. Il poeta e
drammaturgo VLADIMIR MAJAKOVSKIJ (1893-1930) lo teorizza: << occorre abbattere
questa assurda barriera e devono recitare sia gli attori che il pubblico>>. Nel III ATTO
della sua opera “Il Bagno” 1929 è introdotto il teatro nel teatro: l'ottuso burocrate
Pobiedonosikov si è riconosciuto nella vicenda cui ha assistito come spettatore e sale sul
palco per gridare tutta la sua indignazione. Ma sale sul palco anche il regista, a
polemizzare col burocrate -> la scena rappresenta un prolungamento della platea. La
volontà di usare il teatro come arma di critica si configura come tentativo, ancora una
volta, di attirare il pubblico, di coinvolgerlo direttamente. L'atto è importante perchè
mostra "che il teatro non si limita a rispecchiare la vita, ma invece fa irruzione nella vita".
E' un quadro variegato, che si dispiega per accelerazioni e forzature, non senza eccessi
ed estremismi. Dada non crede nella cultura e tanto meno nella diversificazione dei
generi letterari (e quindi del genere teatrale). Il SURREALISMO è interessato allo
scandaglio dell’io, in una direzione che resta assai lontana dalla struttura teatrale. Di
fede inizialmente surrealista è,però, ANTONIN ARTAUD (1896-1948), attore regista e
drammaturgo, grande visionario del teatro, autore di un libro, “Il teatro e il suo doppio”
1938, che contiene intuizioni illuminanti, sebbene non sistematiche, sulla natura del
teatro o meglio di un teatro della crudeltà: una suffestione che avrà ricadute
importantissime sui principali esponenti della scena novecentesca e oltre.
Non si può non citare una figura come quella di JACQUES COPEAU (1879-1949), che
riporta il teatro a una sorta di classicismo moderno, ovvero a una nudità, fino al
palcoscenico spoglio dei saltimbanchi, ma proponendosi nel suo Theatre du Vieux
Colombier 1913 soprattutto una severa pedagogia basata su formazione dell’attore
all’esercizio dello spirito, formazione del poeta all’esercizio della scena, concordia
dell’opera letteraria con lo stile dell’architettura teatrale, unità di fondo della
rappresentazione. Copeau, si farà mediatore con il pubblico della parola del poeta
tramite l’attore. "Volevo anche liberare il teatro dalle sollecitazioni volgari, istrioniche e
commerciali, che lo avviliscono".
A livello europeo, LUIGI PIRANDELLO (1867-1936) si posiziona come il massimo
drammaturgo del Novecento, pronto a percepire gli stimoli che circolano nell’aria. Nel
1921, sfodera un testo bomba, “Sei personaggi in cerca d’autore” e trasforma la prima
romana in una serata futurista, con gli spettatori che fischiano e che lanciano monetine
all’uscita dell’autore. All'improvviso Pirandello ha distrutto la bicentenaria tradizione
europea del teatro del salotto borghese. Il pubblico entra in teatro e trova solo il teatro.
Non c’è sipario e non c'è illusione teatrale: c’è il palcoscenico nudo, e egli attori che
fanno gli attori, che stanno mettendo in prova uno spettacolo, e poi arrivano sei tipi
strani che dicono di essere dei personaggi, dichiarando di voler recitare un dramma
pretendendo che il loro capocomico sia il loro autore. Il dramma, lo hanno in loro stessi,

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ma scritto propriamente non c’è. Nel testo originario del 1921 tutto comunque si svolge
rigidamente sul palcoscenico, senza invadere la platea. Pirandello si limita, cioè, a
prudentemente a mimare una rivoluzione scenica.
La stessa cosa avviene a “Ciascuno a suo modo” 1924, secondo pezzo della cosiddetta
trilogia del teatro nel teatro. Anche qui abbiamo una bagarre fra spettatori o fra
spettatori e attori, ma tutto si svolge puntualmente sul palcoscenico. I finti spettatori
pirandelliani non si confondono in alcun modo con i veri spettatori: i primi stanno sul
palcoscenico e i secondi stanno in platea, in modo del tutto opposto rispetto a Breton e
Sopault. La commedia inventata da Pirandello è immaginata come ispirata a un fatto di
cronaca e i protagonisti del fatto di cronaca si riconoscono- in quanto spettatori (finti)
dello spettacolo- nell'intreccio teatrale e saltano su a protestare indignati. Ma alla fine i
personaggi della realtà si comportano come i personaggi della finzione. In Majakovskij la
vita irrompe nel teatro per cambiare la vita, in Pirandello la vita irrompe nel teatro solo
per riconoscere la superiorità del teatro, il suo decisivo valore maieutico. Che è poi la
peculiarità del pensiero pirandelliano: non già l’arte che imita la vita, ma la vita che imita
l’arte. Il teatro che funziona come psicoanalisi.
In effetti la centralità di Pirandello è costituita la proprio da questa sua capacità di
raccogliere, depurare, rielaborare. Pirandello recepisce le rotture delle Avanguardie
Storiche ma stando sempre all'interno del teatro di tradizione. Svolge un lavoro di
adattamento. Mentre le avanguardie storiche mirano a spezzare l’involucro dell’arte per
far emergere l’eversiva potenza dell’azione di vita, Pirandello, tutto al contrario, si tiene
ancorato saldissimamente al valore dell’arte, alla sua autoefficienza.
Le cose cominciano a cambiare solo con il 1925, data spartiacque per Pirandello, che dal
1925 al 1928 dirige una sua compagnia, il Teatro d’Arte di Roma, che mette in scena
prevalentemente suoi testi. Il letterato si impratichisce del mondo della scena, anche
sotto l'influsso della sua prima attrice Marta Abba, di cui è disperatamente innamorato.
Si apre a una più esplicita audacia avanguardistica, propone anche lui un effettivo
superamento della frattura palcoscenico/platea. Nei "sei personaggi" riscritti nel 1925, i
sei personaggi entrano dalla platea, e il capocomico si muove continuamente fra
palcoscenico e platea. E la seconda edizione di Ciascuno a suo modo del 1933, si
arrichisce di una preziosa Premessa che spezza la barriera del palcoscenico, chiedendo
che lo spettacolo inizi nei pressi del botteghino, e sulla strada. E lo stesso avviene anche
nell’ultimo pezzo della trilogia, “Questa sera si recita a soggetto” 1930, scritto a Berlino
dove Pirandello, frequentando i teatri della più avanzata scena teatrale europea, cerca di
imparare i segreti del mestiere. per diventare ciò che non gli riuscirà mai di essere: un
regista.
Naturalmente Pirandello non si esaurisce nella riflessione metateatrale della trilogia del
teatro nel teatro. Riprende il filo della piccola drammaturgia di Giacosa, e scrive una
serie di drammi da salotto borghese, che scavano in profondità nelle miserie umane e
psicologiche dei suoi eroi. Ma dietro Giacosa c'è la borghesia del nord Italia,dietro
Pirandello c’è la Sicilia dei ceti latifondisti. Giacosa innesta lo scontro uomo-donna su
una attenta ricognizione sociologica dei mestieri e dei lavori. Nella tavola dei personaggi
dei drammi piandelliani troviamo anche che il tale è "avvocato" ma poi non si parla mai
della sua condizione professionale. Pirandello cuce copioni su misura del maggiore

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attore del tempo, RUGGERO RUGGERI (1871-1953): da “Il piacere dell’onestà” 1917 a “Il
giuoco delle parti” 1918 a “Enrico IV" 1921 -> è sempre il ritratto di un uomo solo, colto e
fascinoso, a confronto con un core ostile, fatto di meschini e rozzi, a contendere una
donna che gli sfugge. Pirandello recupera l'immagine del triangolo adulterino della
drammaturgia francese, dominante tra fine '800 e inizio '900, ma riscattandola dalle
vacuità del teatro commerciale. L’immaginario pirandelliano evoca sempre 2 figure di
donne estreme: la MADRE SANTA, radicata negli archetipi della terra Sicilia; e la
BALDRACCA, che lusinga la sensualità del maschio.
Dopo il '25 l'obiettivo metterà a fuoco l'altra metà del cielo costruendo un teatro al
femminile che ripropone sistematicamente infinite varianti dell'enigmatica e sfuggente
Marta Abba. Marta quale modello di donna che è al tempo stesso affascinante,
eroticamente stimolante ma anche piena di tutte le virtù possibili (sensibile, intelligente,
fedele). Anche se a livello pià sotterraneo affiora un profilo torbido, che riporta a
un'inconscia pulsione incestuosa per la fanciulletta da parte dell'uomo maturo (Marta ha
25 anni, Pirandello 60).
Per qualche tempo GABRIELE D’ANNUNZIO (1863-1938) si illude di riuscire a realizzare
un teatro di poesia scritto in versi e non in prosa che gli fallisce, nonostante si appoggi
all’attrice Eleonora Duse. Fa eccezione l’isolato capolavoro de “La figlia di Iorio” 1904,
documento di una società patriarcale arcaica e dei suoi riti crudeli. Diseguale ma
suggestiva la “Fedra” 1909.
QUANDO COMINCIA IL TEATRO DEL NOVECENTO?
L'individuazione di inizi e finali di eventi e fasi storiche è sempre un'operazione
meramente convenzionale che, di rado combacia con la pura cronologia. Così se
dovessimo scegliere un anno per l'avvento del teatro del '900, indicheremmo il 1896. In
quest’anno la crisi artistica e spirituale di Strindberg attinge la sua fase più acuta e qui
cominciano ad incubarsi le prime due parti del dramma “Verso Damasco” che saranno
composte nel 1898. Con verso Damasco attinge una visionaria fantasmatica forza
drammaturgica, mistica e astratta, che avrà influenza sull’espressionismo tedesco.
Ancora, il 10 dicembre 1896, << la farce guignolesque>> dell’ Ubu Roi di ALFRED JARRY,
data al Louvre. E' una pietra miliare del teatro del '900, con l'irruzione dell'assurdo e
della dissacrazione sulle scene. Cominciava il '900, quindi. Lì per lì, però, era difficile
accorgersene, sicchè fu una condivisa opinione che l'800 si concludesse con l'incredibile
successo di Cyrano di Rostand. Con Cyrano "il pubblico ritorna alla poesia, verso un
mondo dove tutto è più grande della natura, dove l'amore è eroico". Tanti benpensanti
ritengono la questione del Naturalismo a teatro definitivamente conclusa, ma si
sbagliano. Prima e dopo Cyrano i problemi restano sempre lì e s'impongono alla nostra
anlisi e pretendono la nostra attenzione.
DIFFERENZA E CRUDELTA' NEL NOVECENTO
La storia dello spettacolo si trasforma radicalmente con il Novecento: è come se si
riavviasse sulla base di una differenza che potremmo sintetizzare nella formula di
spettacolo oltre lo spettacolo. Barba ha, infatti, scritto "Tutti i fondatori di tradizione del
XX secolo (Craig, Stanislavskij, Artaud), ovvero i cavalieri dell'Apocalisse, hanno seguito

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la via del rifiuto. Hanno forgiato l'idea di un teatro che non si limita allo spettacolo. Non
si preoccupano solo di riempire le sale, per essi si erge un altro imperativo: oltrepassare
lo spettacolo come manifestazione fisica ed effimera e raggiungere una dimensione
metafisica".
Un caso esemplare di questo profondo rivolgimento resta quello rappresentato da
Antonin Artaud, teorico di un teatro della crudeltà cioè di un teatro non certo di violenza
fisica, ma di forza metafisica, nel quale le immagini fisiche violente frantumano e
ipnotizzano la sensibilità dello spettatore. Si tratta di un teatro antipsicologico che
racconta in termini magici ‘lo straordinario’ mettendo in scena ‘conflitti naturali’ e
provocando una sorta di trance, grazie all’integrazione del gesto e dell’immagine, del
suono e della parola che si fanno "geroglifici" ispirati a varie espressioni di teatralità
orientale.
Artaud nei suoi scritti ha parlato di soppressione della scena e della sala teatrale, per
ristabilire una comunicazione diretta fra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore,
con lo spettatore situato al centro dell’azione, anzi accerchiato e coinvolto da un'azione
che si accende "in tutti i punti della sala" su differenti piani e profondità. Tuttavia la parte
forse più duratura dell'opera di Artaud resta la serrata e consapevole critica all'ideologia
del teatro occidentale. E' una critica anche alla nostra stessa idea di cultura, contro la
quale, per Artaud, sarebbe necessario elevare una solenne protesta: "Protesta contro la
cultura come concetto a sè stante, quasi che esistesse la cultura da un lato e la vita
dall'altro; come se l'autentica cultura non fosse un mezzo raffinato per comprendere ed
esercitare la vita".

ANNI VENTI – CINQUANTA: DAL TEATRO POLITICO AL


TEATRO DELL’ASSURDO.
Capitolo sedicesimo
Il cinema ha vinto diventando mezzo di comunicazione di massa, marginalizzando il
teatro. Il teatro si rassegnare a diventare di nicchia. Nonostante ciò, il ‘900 segna anche
delle fiammate brevi ma intense di protagonismo sociale all'interno del teatro: nel
quindicennio dopo la Rivoluzione Russa del 1917, il teatro si riscopre importante. A
differenza della tv che è fredda (per la presenza solo virtuale dell'attore), il teatro è caldo
perché c’è l’attore in carne e ossa. Nasce così il teatro AGIT PROP (agitazione e
propoganda), che interviene al di fuori degli spazi abituali (piazze, cortili…) dove non c’è
bisogno del professionismo: sono operai e impiegati a recitare. Siamo dinanzi a una
intensa politicizzazione dell'intera vita sociale e culturale. Sorgono proprio in Russia
anche i primi esperimenti di TEATRI PER BAMBINI, orientati politicamente.
Molti intellettuali russi vivono il sogno di essere contemporaneamente artisti e militanti
rivoluzionari. Ad esempio Majakovskij: il suo suicidio sigilla in qualche modo la difficoltà
di questo doppio impegno. Un esito ancora più tragico è quello di Mejerchol'd. E' il più
geniale degli allievi di Stanislavskij, ma lontano dal gusto di fondo naturalistico-

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ottocentesco del maestro. Il suo orizzonte culturale è tutto dentro l'ambito delle
Avanguardie Storiche: irrequieto sperimentatore registico dei teatri imperiali, è
l'inventore della Biomeccanica, sorta di training per forgiare attori in grado di controllare
il proprio corpo, in una scelta che valorizza la corporeità dell'attore di contro al vecchio
teatro di parola. Dopo il 1917 egli diventa fautore della Rivoluzione e dell'Ottobre
teatrale, equivalente artistico della Rivoluzione d'Ottobre. Morirà fucilato durante le
purghe staliniane, dopo essere stato torturato perchè si confessasse spia al soldo
dell'Inghilterra e del Giappone, nonchè seguace di Trotzkij. Al contrario Lenin decide di
finanziare con i soldi dello Stato dei Soviet il Teatro d'Arte. Perchè il vecchio teatro va
conservato, in modo che il nuovo pubblico proletario sia acculturato. Così Stanislavskij
può morire di vecchiaia nel suo letto e Mejerchol'd muore nel modo sopracitato.
L'avversione di Mejerchol'd per il maestro risale a prima del'17 ma l'avvento dei Soviet
rinforza e fornisce ulteriore motivazione alla sua antica diffidenza nei confronti del
"Sistema" di Stanislavskij. Secondo il primo l'attore deve avere un atteggiamento scettico
nei confronti degli avvenimenti a cui prende parte, deve "denigrare" il suo personaggio,
smascherarlo se sa di recitare la parte di una canaglia; invece l'attore sovietico non è
neutrale, non può essere apolitico.
Sa questo principio dello "smascheramento del personaggio" riparte il tedesco BERTOLD
BRECHT(1898-1956). La linea Mejerchol'd- Brecht non è casuale: il faro dell'Ottobre si
sarebbe spento se non si fosse esteso almeno a una grande nazione a capitalismo
avanzato. Dalla Russia dei soviet alla Germania della Lega di Spartaco di Rosa
Luxemburg, avanguardia del più forte movimento operaio europeo, dove lo scontro di
classe è durissimo. Ritroviamo le stesse problematiche della Russia sovietica: il teatro
agit-prop, il teatro proletario per bambini. Ed è qui che nasce il TEATRO POLITICO,
chiamato anche EPICO. In verità l'aggettivo tedesco episch ha un senso essenzialmente
tecnico, rinvia alla distinzione fissata da Aristotele nella Poetica fra epico e drammatico
-> nel poema epico c'è un narratore che racconta, nella rappresentazione teatrale i
personaggi si presentano da soli, in faccia allo spettatore, e non hanno bisogno del
narratore. Il teatro epico presuppone dunque una sorta di ‘ io epico’.
Il regista tedesco ERWIN PISCATOR (1893-1966) , cui si deve il primo tentativo di teatro
politico, allestisce nel 1925 una rappresentazione, “Ad onta di tutto” (sulle vicende
politiche dalla prima Guerra Mondiale sino all'insurrezione berlinee del 1919 della Lega
di Spartaco) che è un grandioso montaggio di discorsi autentici, articoli di giornale,
appelli, volantini.
Ma se Piscator anticipa di qualche anno Brecht, è indubbio che Brecht insiste
maggiormente sul fatto che il teatro politico deve combattere l’aspetto psicologico
emozionale della comunicazione teatrale. Brecht si oppone con forza
all’immedesimazione dell’attore nel personaggio perché questo significa far
immedesimare anche lo spettatore. L’attore deve poter straniare lo spettatore, deve
renderlo per Brecht estraneo alla rappresentazione. E' necessario che lo spettatore resti
distanziato, cogliendo così nell'accadimento teatrale l'occasione di una sua crescita
intellettuale e sociale, di una sua consapevolezza maggiormente critica. Solo con la
razionalità lo spettatore può comprendere la condizione umana come trasformabile, e
da trasformare, ma da trasformare solo attraverso la lotta politica.

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Brecht approfondisce la riflessione sulla nuova tecnica dello straniamento: dagli anni
dell'esilio, durante il Nazismo, al dopoguerra, quajdo torna a Berlino a capo di un suo
teatro il Berliner Ensemble. Egli sistematizza la ricca strumentazione già usara da
Piscator, che vale a straniare la rappresentazione per riflettere criticamente su di essa:
titoli e cartelli proiettati con funzione di anticipazione delle scene (se so già cosa sta per
succedere avrò uno sguardo più critico); canzoni che spezzano il recitativo (attori di
prosa che si mettono improvvisamente a cantare costituiscono un fatto strano che
dunque strania la scena), fotografie, proiezioni di vario genere, ecc... Tutto ciò che serve
a ricordare allo spettatore che si trova a teatro, a impedirgli l'illusione scenica e a
spingerlo a guardare con l'occhio critico.
Ma perchè tanta insistenza sullo straniamento come fondamento di uno sguardo freddo
e razionale? E cosa c'entra tutto questo con la rivoluzione di Marx? La risposta è
semplice: Marx fa un'analisi scientifica del capitalismo, fonda la sua critica su una base
razionale, non su una protesta emotiva. Dunque bisogna fare appello non tanto ai buoni
sentimenti dei rivoluzionari, ma alla loro capacità razionale, critica.
Ci sono momenti diversi nella produzione Brechtiana: la produzione giovanile è
espressionista: “Tamburi nella notte”1919 ; grande importanza hanno i drammi didattici
pensati esplicitamente per l'operaio berlinese; mentre era in esilio invece i suoi
capolavori: “Madre courage e i suoi figli” 1939, “Vita di Galileo”1939. Dopo
l’abbattimento del muro di Berlino e quindi delle ideologie il suo teatro verrà meno.
Permane però la lezione dello straniamento: l'attore post-brechtiano ha inserito una
volta per sempre nella cassetta dei propri attrezzi da lavoro la tecnica recitativa dello
straniamento, da integrare sapientemente con la tecnica di immedesimazione di
Stanislavskij -> ovvero poter stare contemporanemanete dentro e fuori il personaggio.
A partire dai primi anni ’50, si evidenzia, in antitesi, un movimento d’avanguardia ; Il
TEATRO DELL’ASSURDO che si richiama in particolare a Dada. Pensiamo al romeno
EUGENE IONESCO(1912-1994) che scrive in francese; o all’irlandese SAMUEL
BECKETT(1906-1989) che scrive sia in inglese che francese: si ha una tendenza
cosmopolita. Sono i nomi più famosi di questo nuovo teatro che esprime il disagio di una
civiltà occidentale che ha vissuto il trauma di eventi storicamente prima immaginabili:
dalla Shoah alla bomba atomica. Sono artisti che, evitando l'impegno politico della linea
precedente, si soffermano sui temi esistenziali: la solitudine, l’incomunicabilità,
l’insensatezza del vivere. La novità dei contenuti si accompagna però sempre a una
ironica rimessa in discussione del linguaggio e alla destrutturazione della forma teatrale.
Nel 1950 è messa in scena “La cantatrice calva” di Ionesco. Siamo nel salotto borghese
dei coniugi Smith; arriva una seconda coppia, i coniugi Martin, il Capitano dei pompieri
che non fanno altro che rinforzare la parodia dei luoghi comuni della comunicazione
sociale, sino a un vero e proprio delirio verbale.
Nel 1953, si ha invece la rivelazione di Beckett, con la messinscena di “Aspettando
Godot” ambientato in una strada di campagna, dove due vagabondi, Estragone e
Vladimiro, aspettano Godot. Ma lui non arriva e nei due atti del testo non succede nulla.
Ciò che emerge in primo piano non è tanto l'oggetto dell'attesa, quanto la condizione
dell'attendere, l'inutilità e l'assurdo dell'esistenza umana percepita come aspettazione
senza scopo, lungo preludio della morte. L'attesa è inerrotta nel primo atto dall'arrivo di

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Pozzo, che tiene legato con una corda una specio di schiavo, Lucky. Il secondo atto si
svolge il giorno dopo, stessa ora e stesso posto. Ritornano Pozzo e Lucky, ma il primo
cieco e il secondo muto. È una straordinaria rivelazione del senso della vita, che è puro
accidente (assurdo) in base al quale si può diventare ciechi o muti da un giorno all’altro.
Esattamente come si può nascere e morire. In ogni caso il significato di Aspettando
Godot non riposa solo sull'attesa di Estragone e Vladimiro, ma sull'incrocio dei quattro
personaggi: due che aspettano la fine della vita, e due che ne subiscono le metamorfosi.
La lezione profonda del testo è nella somma delle due coppie, è in unva vita che è attesa
della fine, ma attesa intessuta di menomazioni progressive.
Con il Teatro dell’Assurdo l’atto unico o comunque la misura breve del testo si
ripropongono come scelta consapevole. L'atto unico è una concentrazione drammatica
che coglie l’essenza di una condizione esistenziale. In Beckett, per altro, alla
concentrazione temporale corrisponde un processo di restringimento spaziale. In altre
sue opere i personaggi risultano inibiti nei movimenti: in Finale di partita Hamm è
immobilizzato al centro della stanza, mentre i suoi genitori sono immersi in due bidoni
della spazzatura.
Non c'è dubbio che Beckett costituisca una metafora lucida e implacabile dell'esistenza
umana: un aspettare la fine della vita, contrassegnato però da una condizione di sempre
maggiore handicap, in un quadro complessivo di perdita della parola fino al silenzio.
Attesa mutilazione silenzio: questi i tre vertici del triangolo perverso del teatro
beckettiano. Forse c'è un afflato religioso, ma è una religiosità che percepisce la divinità
come un essere crudele, il quale dà la vita per toglierla, e quel poco che dà, lo carica di
pene e di sofferenze.
Può sembrare strano che nel giro di un 30ennio si intersechino e si sovrappongano due
visioni così diverse del teatro e del mondo: da un lato un formidabile assalto al cielo, uno
sforzo di usare il teatro come arma per abbattere la società capitalistica, e dall'altro la
dolorosa riflessione sull'assurdo della condizione umana. Ma è come dire che la civiltà
occidentale, nonostante sia destinata sempre a trionfare sui paesi comuisti, non sembra
potersi abbandonare ai valori su cui poggia la società capitalistica. Il silenzio di Beckett
sembra configurarsi come la metafora della perdita di fiducia nella scrittura, cioè nella
parole e nel pensiero; e il ripiegamento nella riflessione sul limite della vita stessa.
LA BIOMECCANICA
Con la Biomeccanica, Mejerchol’d a partire dal 1913 avvia un sistema di allenamento
dell’attore di cui il cuore sono i etudes, delle partiture fisiche codificate a tema che si
basano sul ritmo ternario ( un piede lungo e due brevi) del dattilo, che condiziona le
tensioni del corpo dell’attore, scandendone le fasi di fermo, di preparazione e di azione.
Sicchè l'attore viene indotto a lavorare sulla macchina del proprio corpo esattamente
come un meccanico. La base teorica di tale processo stava nella teoria di Pavlov, la quale,
basandosi sui riflessi (reazioni che precedono le emozioni), faceva spostare l'attenzione
di Mejerchol'd sulla riduzione dei processi coscienti a favore di un flusso di reazioni
emotive che sgorgano dall'esecuzione fisica di un compito nonchè dall'intenzione di base
dell'attore. Growtoski opererà ancora su questi stessi concetti e se ne ispirerà per la sua
idea di "teatro povero".

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L'attore di Mejerchol'd deve pertanto procedere alla costruzione di una partitura fisica,
individuando con esattezza la spazialità delle azioni. Deve fissare quindi una memoria
fisica di quanto ha elaborato, attingendo per variazioni e con precisione: una sorta di
danza cui aggiungerà nuovi elementi che dettaglieranno lo spazio dell'azione. Si è
cercato di definire la biomeccanica con la formula: N(cioè l'attore) = A1 (il cervello da cui
parte il compito) + A2 (il corpo che realizza il compito). Una volta coscientemente
padrone dei propri movimenti, l'attore potrà liberare anche le proprie emozioni. Il testo,
infine, potrà essere aggiunto quando la partitura sarà definita compiutamente.

SECONDO’900 ITALIANO: L’AVVENTO TARDIVO DELLA


REGIA E TARDI EPIGONI DEL GRANDE ATTORE
Capitolo diciassettesimo
C'è un ritardo storico della scena italiana rispetto all'Europa. In Italia si può parlare di
regia solo dal 1932, quando Silvio d’Amico introduce un neologismo <<regista>>. Il
motivo del ritardo è complesso. L’Italia è il paese del grande attore, che ha visto nascere
la commedia dell’Arte e che quindi ha alle sue spalle una tradizione plurisecolare di
protagonismo attorico. E' ovvio che in Italia la resistenza degli attori sia più tenace e
sostanzialmente vincente. Oltre tutto la caratteristica dell’attore italiano è di tramandarsi
di padre in figlio (figlio d’arte). Non c’è una scuola di teatro e non c'è, dunque, nessuna
attitudine a stare sotto padrone, ad accettare la disciplina.
Il vero innovatore della scena italiana è SILVIO D’AMICO (1887-1955), giornalista
teatrale, che fonda nel 1935 l’Accademia nazionale di Arte Drammatica. Ha capito che
l'Italia poteva mettersi al passo col regista solo rinunciando al teatro del Grande Attore e
che il regista, per affermarsi, ha bisogno di avere tra le mani un attore disciplinato
forgiato dalla scuola. D'amico muore nel 1955 e fa in tempo a vedere i primi registi ma si
dissocia prontamente dagli esiti che gli sembrano discutibili di LUCHINO VISCONTI
(1906-1976). Regista cinematografico e teatrale, fondatore della nuova scena italiana, si
qualifica subito per una nuova disciplina del lavoro attorico. E' il primo a eliminare il
suggeritore, a imporre lunghe prove a tavolino. Nel 1946 si costituisce la compagnia di
Rina Morelli e Paolo Stoppa, diretta appunto da Visconti, all'interno della quale crescono
le leve destinate a costituire nel 1954, l'affiatata "Compagnia dei Giovani" (De Lullo,
Falks, Valli) o a perseguire una lunga carriera cinematografica (Marcello Mastroianni). È
Visconti a esaltare un talento come VITTORIO GASSMAN (in “Oreste”) e a valorizzare
nuovi gruppi privati.
Di fronte a Oreste, D'amico perde la pazienza: " Ma a che serve la messinscena rococò di
un autore, come l'Alfieri, in programmatico contrasto con le mode del secolo rococò?". E
forse ha ragione ma sicuramente si sbaglia su "La Locandiera": "L'umanità di Goldoni è
sempre impercettibilmente atteggiata, aggraziata. Sicchè Goldoni non potrà mai essere
rappresentato in chiave di mero realismo". Qui D'amico svela un fondo rigido, un autore
che non è mai interpretato una volta per sempre: la caratterisrica dell'opera d'arte è
proprio di contenere in sè una pluralità di significati. Il realismo di Goldoni è la grande
conquista degli studi goldoniani a partire dagli anni '60.

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Visconti provvede ad ambientare tutto il I ATTO e parte del II in esterni, nel cortile della
locanda. Aria e luce penetrano improvvisamente nella drammaturgia goldoniana, le cui
vicende da private si fanno pubbliche. E quel cortile è disadorno, quasi squallido, come si
addice alla fabbrica dell'accumulazione capitalistica. Candide tovaglie bianche ma
umilissime sedie di legno; il bianco che rimanda al grembiule di Mirandolina. Nel III
ATTO c’è un interno più minaccioso dell'esterno , "Una specie di capannone in cemento
armato, tutto grigio, tutto tetro, con enormi finestre". La città è continuamente visibile
sia dagli esterni che dalle finestre. La vicenda di Mirandolina si apre così a un rapporto
dialettico con la società, con la comunità e con la storia. Un' altra ondata di bianco, poi,
rimanda sempre lo stesso messaggio: pulizia, ordine, efficienza gestionale. La locandiera
è, non a caso, una locandiera e non una damina cocotte che civetta tutto il giorno.
L'impoetico grembiule è la sua divisa, è il segno distintivo della professione: padrone di
locanda, ma lavoratrice in prima persona per dare l'esempio ai suoi salariati.
Insomma c'è un filo rosso che guida la fondazione del teatro di regia in Italia nel secondo
dopoguerra, ed è la parola d'ordine del realismo, dell'attenzione allo spessore
sociologico dei testi in scena. Goldoni diventa, infatti, una bandiera della grande regia
italiana. A cominciare da GIORGIO STREHLER (1921-1997), fondatore nel 1947 del
Piccolo Teatro di Milano. Comincia nel’47 con uno spettacolo goldoniano “Arlecchino
servitor di due padroni” che esalta il gusto della corporeità, del funambolismo attorico.
Con la “Trilogia della villeggiatura” 1954 si allinea rapidamente alla linea di lettura
storicistica, non più personaggi graziosi bensì il ceto borghese al tramonto, percepito
come alle soglie di un grande trauma storico.
Strehler è un artista completto, individualità inquieta. La scelta del realismo e
dell'engagement politico, lo portano a riscopire alcuni capolavori del naturalismo
dialettale ottocentesco e si accompagnano a una vena lirico-sentimentale. La Trilogia,
infatti, è anche una grande storia di un amore infelice, perché Giacinta è promessa sposa
di Leonardo, ma ama Guglielmo (ricambiata). Strehler prosciuga un po' il testo
goldoniano ma conserva le linee portanti, compreso il monologo iniziale di Giacinta, che
dice il suo dolore per l'amore impossibile. Se guardiamo la seconda edizione dello
spettacolo del 1978, realizzata in Francia, con attori francesi,possiamo osservare che
rinforza ulteriormente la dimensione sentimentale dell'originale: il linguaggio risulta più
melodrammatico, introducendo quell'idea di "vero amore" che manca al razionalista
Goldoni. L'attrice francese ha spesso gli occhi lucidi, per il pianto a stento trattenuto, ma
conserva la sua grazia e la sua eleganza settecentesca. Confessa il suo amore a Guglielmo
senza mai perdere il controllo di sè, abbassa spesso gli occhi parlando di cose tanto
intime e Guglielmo è sulla stessa linea di discrezione. La passione resta perfettamente
sotto il controllo della ragione come impone la civiltà del '700.
Le generazioni successive a Strehler non hanno la perfezione di questa misura e di
questo equilibrio, e forse è un bene. MARIO MISSIROLI (n.1934), regista non lineare,
autore di spettacoli memorabili firma anche lui una Trilogia nel 1981. Innova
radicalmente a livello di scenografia -> Nessuna ambientazione realistica ma un
palcoscenico circolare, vuoto, inclinato verso gli spettatori, dove i servi introducono
qualche sedia. Missiroli sopprime il monologo di apertura di Giacinta, con lui siamo
subito in media res, Guglielmo afferra Giacinta e la sbatte contro il cancello. È una

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fotografia cruda, che ci da l’idea di un rapporto carnale. E Leonardo arriva proprio


mentre sono in quella posizione, entrando su di una nota musicale improvvisa. E' un
modo per straniare la crudeltà della scena: musica sentimentale nel momento esatto in
cui lui prende coscienza delle proprie corna.
Ancora diverso il modo di lavorare di MASSIMO CASTRI (n.1943), che firma a sua volta
nel 1995 una Trilogia in tre distinte serate. Cambia anche lui la scenografia mettendo
due ragazzetti ad amoreggiare dietro la biancheria stesa in mezzo al cortile, in modo di
darci l’idea che Giacinta e Gugliemo siano origliati. Castri applica a Goldoni le chiavi
interpretative che utilizza solamente per mettere in scena due suoi autori prediletti
(Ibsen e Pirandello), dove la dimensione dell'origliamento è fondamentale. Il duetto
d'amore che vediamo tra Gulglielmo e Giacinta, poi, è fortemente emozionante: non c'è
la grazia fredda e settecentesca di Strehler, ma nemmeno la brutalità dell'amplesso in
piedi di Missiroli. Il Guglielmo di Castri spinge Giacinta con le spalle al muro e la bacia
passionalmente ma lei si sottrae e risponde con grande dignità. E Leonardo arriva in
scena molto determinato. Il fatto è che Strehler era maggiormente fedele a Goldoni,
mentre gli altri due forzano il testo e fanno in modo che Leonardo veda le sue corna.
Castri è regista assai rappresentativo della generazione del '68, che ha scoperto Marx ma
anche Freud. La dimensione sociologica è un primum per il lavoro artistico del regista,
che opera poi degli scandagli sulla psicologia dei personaggi, sullo strato profondo,
nascosto dal testo.
LUCA RONCONI (n.1933) sembra meno coinvolto dai condizionamenti della Storia; si
aggira da sempre circondato dall’aura del genio teatrale cui tutto è concesso. Percorre
instancabile i camminamenti solitari di uno sperimentalismo ininterrotto e inesausto,
relativo essenzialmente alla dimensione spaziale-comunicativa. Basta pensare
all'adattamento de “l’Orlando furioso” di Ariosto, realizzato insieme al poeta Sanguineti:
azioni orchestrate in simultanea su molteplici palchi e pubblico libero di spostarsi ora
qua e ora là. Rispetta anche lui la lettera del testo, ma lo scandaglio del testo è per
Ronconi una sua collocazione in uno spazio inedito, imprevisto. “Il Ventaglio” realizzato
nel 2007, opera tarda e minore di Goldoni. Essa narra una storia singolare: alla borghese
Candida, sul balcone, case un ventaglio che si rompe; il borghese Evaristo, suo
innamorato, gliene compra un altro e chiede alla contadinella Giannina di porgerlo alla
sua amata. Ma Candida vede la scena e immediatamente immagina che tra i due ci sia
una tresca. Ronconi tuttavia carica tutte le scene in cui Evaristo e Giannina si trovano a
contatto, tanto che sembra Giannina e non Candida l'oggetto di eros da parte di Evaristo.
Il fatto è che Ronconi ha colto perfettamente la qualità di simbolo erotico del ventaglio:
in Goldoni il ventaglio nasce essenzialmente da questa fantasia carnale, un po' cruda ->
il ventaglio serve a sventagliare il sesso femminile. E' un arnese strettamente connesso
con la concupiscenza. Candida lo lascia cadere perchè evidentemente non concupisce e
non si sente concupita. Ha di fronte a sè un corteggiatore troppo spirituale. Ronconi
quindi afferra il filo goldoniano e lo sviluppa, legge insomma il testo con una capacità
rara e geniale. Evaristo ha come fattore il fratello di Giannina, Moracchio. Non è difficile
immaginare una consuetudine di rapporti che risale all'adolescenza ed è facilmente
ipotizzabile un'inconscia attrazione di Evaristo per la vitale contadinella, la quale non può
che essere lusingata delle attenzioni del padrone. Le battute del Barone (pretendente di
Candida) e di Candida mostrano inequivocabilmente che loro stessi si accorgono di

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questa cosa. Naturalmente il Barone ne approfitta prontamente e rivolge questa sua


considerazione a Candida.
Non c'è dubbio che Ronconi sia uno degli esiti più alti della regia. In effetti il teatro di
regia rappresenta la grande novità della scena italiana del secondo '900, che si
accompagna alla fondazione dei teatri pubblici (o stabili).
Anche in Italia, come nei paesi più avanzati dell'Europa, si riconosce ormai il valore
culturale dello spettacolo, che deve dunque essere incoraggiato e sostenuto dal denaro
pubblico. Sono gli stati totalitari a investire per primi nella cultura proprio perchè il
teatro si è rivelato uno strumento notevole di promozione del consenso e di
propaganda. Le nazioni democratiche invece fanno fatica ad accettare questo ordine di
problemi: la loro fede liberale preferisce che lo Stato resti neutrale di fronte all'iniziativa
privata. Il teatro in fondo è un'attività commerciale come un'altra. Nel corso del '900,
tuttavia, dopo la crisi economica del 1929, la mentalità cambia; anche l'Occidente
comprende che l'intervento statale può essere utile per limitare i danni delle crisi
periodiche del capitalismo. Sul piano culturale si fa strada l'idea che la cultura vada
comunque promossa e sostenuta finanziariamente. Si afferma la parola d'ordine del
teatro come servizio pubblico. S'intende, però, che in questo modo si aprano le porte
anche a sprechi e a narcisismi insopportabili, tanto più perchè ai pochi registi artisti si
affiancano una moltitudine di registi modesti, tavolta sostenuti dalle raccomandazioni
dei politici. Ne viene fuori una situazione non esaltante, solo temporaneamente sfiorata
dalla ventata del '68 con l'animazione teatrale. La tensione para-rivoluzionaria del '68 ha
riproposto infatti la problematica del teatro per/dei bambini, piegandosi però a un
impiego meno rivoluzionario e più riformistico: come animazione teatrale soprattutto
all'interno delle scuole.
La novità della regia non esaurisce però il panorama della scena italiana. Permangono
alcune espressioni della tradizione illustre del grande attore ottocentesco. A cominciare
da VITTORIO GASSMAN (1922-2000): uno dei frutti più felici dell'Accademia d'Arte
Drammatica, ma troppo indocile per lavorare a bottega dei registi, corpo e voce possenti
come nei primattori del passato, fu risucchiato presto dal cinema. Poi il napoletano
EDUARDO DE FILIPPO (1900-1984): figlio d'arte, gioca sui due tavoli di interpretazione e
scrittura. Sicuramente come autore amplia il ventaglio della scena italiana, bloccata sul
salotto pirandelliano percorso da borghesi benestanti. Eduardo ci spalanca sotto gli occhi
la vita materiale dei suoi popolani e piccolo-borghesi, collocati bel riquadro di
impoetiche camere da letto o in dei bassi (abitazioni napoletane al pianterreno che si
aprono direttamente sulla strada). Comunque sia la maschera facciale di Eduardo rimane
più indimenticabile della sua produzione drammaturgica. Autore/attore è anche DARIO
FO (N.1926) che scrive commedie satirico-politiche le quali vengono accolte senza troppi
problemi (forse per la bellissima presenza di Franca Rame). Anche in questo caso la
grandezza scenica prevale di gran lunga sulla qualità della scrittura, spesso retorica. Se
Eduardo lavora con la maschera facciale, Dario Fo lavora teatralmente con tutto il corpo,
ed è un mimo straordinario, insuperabile. E' l'ultimo erede dei grandi attori
ottocenteschi. Mistero buffo -> fulgido exemplum di one man show. L'ultimo nome da
fare è quello di CARMELO BENE (1937-2002), il massimo esponente della
Neoavanguardia italiana degli anni '60 e '70, ma con una distinzione che va colta

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immediatamente: perchè il teatro di quegli anni punta tutto sul linguaggio non verbale,
polemizza cioè con la centralità della parola e valorizza al massimo la dimensione del
corpo, del gesto e del suono, del colore e della scenografia. Al contrario Carmelo ha una
potenza di voce straordinaria, una ricchezza di timbri eccezionale e porta avanti una
sperimentazione sulla voce, sulla phonè, di notevole impegno. Al tempo stesso rimane
costante la sua attenzione per il testo poetico. I suoi molti spettacoli shakespeariani non
sono mai presentati come di Shakespeare, bensì da Shakespeare. Carmelo Bene
rielabora liberamente le scritture shakespeariane, ne sfronda violentemente i
personaggi, spingendo alle estreme conseguenze la pratica del Grande Attore
ottocentesco alle prese coi copioni di Shakespeare.

SCIAMANI E POETI DELLA SCENA


Capitolo diciottesimo
Si è parlato spesso di industria dello spettacolo, cioè di un processo di mercificazione che
pone al centro di tutto il teatro-prodotto, il prodotto ben confezionato, indirizzato a un
pubblico-consumatore distaccato che guarda al teatro come occasione di svago. Di
contro, però, si determinano anche reazioni opposte, ovvero un tentativo di teatro che
vuole recuperare un rapporto di fusione tra attori e pubblico. Ciò che conta quindi è
l'incontro fra attori e spettatori, lo sforzo di abbattere il muro fra platea e palcoscenico.
Nel 1959 abbiamo la presentazione a NY del primo happening ( avvenimento) : un tipo
di spettacolo che rifiuta tanto l’idea di palcoscenico quanto l’idea che tutti gli spettatori
vedano la stessa cosa. In molti happenings ciò che vedono certi spettatori è diverso da
ciò che vedono altri. Non esiste più un luogo deputato per la rappresentazione;
qualunque spazio è adatto per lo happening. E' importante in questa nuova forma il
rifiuto dell’elemento dialogico a favore del visuale, del gestuale, del sonoro. Occorre
cogliere il legame che intercorre fra la dimensione dell’incontro e la dimensione dello
spazio. Lo spazio teatrale tende ad essere uno spazio di relazione, per l’attore ma anche
per lo spettatore. Non è più un a priori, qualcosa che pre-esise allo spettacolo, sorta di
contenitore neutro, buono per qualsiasi rappresentazione. Lo spazio diventa una
componente dello spettacolo. Al limite, ogni spettacolo avrà il suo spazio, sempre
diverso. Si fa teatro in capannoni industriali dismessi, in chiese sconsacrate, nei garages.
Nello stesso 1959 abbiamo il primo grande successo del Living Theatre, fondato nel
1947 a NY da JUDITH MALINA, attrice e da JULIAN BECK, attore, con “The connection” di
Jack Gelber. La traduzione in inglese nel 1958 de “Il teatro e il suo doppio” di ANTONIN
ARTAUD è per loro un rafforzamento e una conferma rispetto alla direzione intrapresa. Il
primo artaudiano “teatro della crudeltà” è rappresentato dallo spettacolo “The brig” di
KENNETH H.BROWN allestito nel 1963, e dal 1964 rappresentato in Europa con grande
clamore. Il titolo indica la prigione per marines indisciplinati, dove vige la legge della
violenza fisica e psicologica. Gli attori danno un’impressione di violenza assoluta e
coinvolgente, al punto da doversi scambiare le parti ogni sera. L'effetto sul pubblico fu
traumatico.
Nel luglio del '68 si tiene il Festival d'Avignone dove debutta il Paradise Now, il grande

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evento-scandalo del Living. Viaggio verso "la bella Rivoluzione Anarchica Non-Violenta",
in realtà si tratta di un'operazione di per sè abbastabza intellettualistica, in cui entrano la
cultura religiosa dei Beck, influenze di culti orientali, teorie Zen, tecniche yoga e la
psicoanalisi di Reich. Il dato più clamoroso è la rottura, concreta, della barriera che
oppone palco e platea, è la trasformazione dello spettacolo in un grandioso happening,
in cui gli spettatori recitano o comunque agiscono. Si può dire, comunque, che il risultato
teatrale è comunque meno importante del fatto che un gruppo di persone con uguali
valori e convincimenti si sia riunito in una grande famiglia per fare teatro. Ciò che conta è
soprattutto l'esperienza esistenziale. Nasce un'immagine di vita, l'icona di una tribù
apolide.
PETER BROOK è un altro dei grandi sciamani della scena contemporanea. Della stessa
generazione di Beck e Malina presenta però un percorso professionale assai diverso.
Regista inglese, lavorava sia nel teatro commerciale, sia nelle severe istituzioni della Gran
Bretagna, come la Royal Shakespeare Company. Mette in scena Shakespeare in maniera
eccentrica, ma geniale. Nel 1970, la svolta, si trasferisce a Parigi e dà vita al Centro
Internazionale di Ricerca Teatrale. Inizia il suo processo di “allontanamento” dalle
istituzioni teatrali. Si lega in amicizia a Grotowski e anche per lui diventano fondamentali
il lavoro sulle radici del fenomeno teatrale e lo scavo sull'arte dell'attore (corpo, voce,
tecniche di improvvisazione). Decisiva è la scelta di operare con una troupe di attori di
varia nazionalità, che parlano lingue diverse e che rompono pertanto la compiaciuta
convenzione della dizione perfetta su cui si regge l'industria dello spettacolo. Lo affascina
la ricerca di un pubblico nuovo, in qualche modo vergine. Interviene con il suo gruppo in
Iran, in Africa, negli Stati Uniti. Nel 1974 si installa in un vecchio teatro abbandonato a
Parigi, “Les Boufes Du Nord” che viene lasciato volutamente in stato di degrado. Le
edizioni dei classici teatrali lasciano via via più spazio a progetti costruiti sulla centralità
attorica, sino a Mahabharata (1985), summa del pensiero indù, che dura 9 ore.
Il più ascetico interprete di questo rinnovamento resta, però, JERZY GROTOWSKI (1933-
1999), fondatore nel 1959 del Teatro Laboratorio e regista polacco. Parte da una
riflessione sulla progressiva perdita di identità del teatro rispetto al dispiegarsi del potere
del cinema, prima, e della televisione, dopo. Riconosce l’inferiorità tecnologica del teatro
rispetto ai nuovi mezzi, ma per concludere che è impossibile pensare a un ribaltamento
dei rapporti di forza. Il teatro deve ammettere i suoi limiti, evitando scenografie, effetti
luminosi e sonori, costumi, trucco, ecc... Solo così, accettandosi come “teatro povero”,
potrà ritrovare la sua “specificità”, poiché ricco di presenza viva in carne e ossa
dell'attore. Grotowski spinge su un punto dove molti teatranti del Novecento
ugualmente insistono: il teatro può esistere non solo senza apparato tecnologico ma
anche senza testo. Apparentemente la sua produzione implica sempre dei testi: solo nel
suo ultimo spettacolo, “Apokalipsis cum figuris” (1969) manca volutamente una
scrittura compiuta. Ma è altresì vero che il testo in Grotowski è essenzialmente una
partitura e lo spettacolo è costruito a partire dal rapporto con l ‘attore. Ciò che conta è
l’incontro tra regista ed attore, che può benissimo scattare anche senza testo. Alle
messinscene del Teatro Laboratorio gli spettatori non sono mai piu di 50. La prospettiva
dell'incontro mira alla concezione del teatro come esperienza di vita che è lavoro su di
sè, arricchimento spirituale in grado di trasformare chi fa e chi osserva il teatro. Si è
parlato a questo proposito di un percorso iniziato di Grotowski, di una sua vena gnostica.

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Il capolavoro di Grotowski rimane “Il principe costante”, allestito per la prima volta nel
1965, adattamento di un testo di Calderon de la Barca, riscritto da Slowacki (autore
romantico). La realizzazione grotowskiana elimina, tuttavia, ogni connotazione storico-
ideologica di contrasto fra religione cattolica e musulmana. L'essenza dello spettacolo si
concentra sull’affinamento della ricerca sul corpo dell’attore protagonista, Ryszard
Cieslak, il più celebre degli attori grotowskiani. Il tema dell'incontro riguarda primo di
tutto la coppia regista-attore e in occasione de Il principe costante, Grotowski prova non
a caso per mesi e mesi solo con Cieslak, che soltanto in un secondo tempo comincia a
lavorare con i compagni.
L'influenza di Grotowski nella scena contemporanea è tanto puù sconvolgente perchè
tutto si gioca sull'arco breve di un decennio: 1959- fondazione del Teatro Laboratorio;
1963- La tragica storia del dottor Faust, primo spettacolo che suscita attenzione; 1969-
Apocalypsis cum figuris, ultimo spettacolo. E' paradossale che per trent'anni, fino alla
morte (nel 1999), Grotowski sia oggetto di grande venerazione, benchè non sia più
presente a livello di creazioni sceniche. Perchè abbandona il teatro? Lo dice lui stesso:
"Non è l'avventura teatale che è importante nella vita, ma la vita come avventura,
questo è importante. [...] Il teatro non è stato niente di più per me, mai; l'attore era
pseudonimo per dire essere umano, niente più". Grotowski, infatti, a un certo punto
smette di creare spettacolo ma continua a incontrare esseri umani, egli continua la sua
indagine psicofisica in una lunga serie di esperimenti parateatrali, da intendere
comunque come lavoro su di sè.
Il grande allievo di Grotowski è notoriamente l'italiano EUGENIO BARBA (1936). Nel
1964 fonda a Oslo l’Odin Teatret, con attori rifiutati dalle accademie. Poi sposta la sede
del suo teatro nella cittadina di Holstebro: a Oslo non possiedono la dizione ottimale dei
colleghi diplomati delle accademie, a Holstebro non possiedono nemmeno la lingua ->
tuttavia di questo doppio handicap ne fanno un elemento di forza e creano spettacoli
non fondati principalmente sul tessuto dialogico. E tale è effettivamente il primo grande
successo del gruppo “Min Fars Hus” (La casa del padre) del 1972, partito come lavoro
sulla biografia di FEDOR DOSTOEVSKIJ, ma nei fatti l’allestimento risultò il frutto
dell’incontro fra la personalità dello scrittore russo e il gruppo teatrale. Gli attori (e in
questo consiste il metodo di Barba) creano delle improvvisazioni durante il lunghissimo
periodo delle prove, a partire da spunti che essi stessi ritrovano, studiando la vita e le
opere di Dostoevskij. Lo stimolo iniziale può suscitare una sua illustrazione o
un'immagine opposta. Ne viene fuori una ricca partitura di azioni che solo in un secondo
tempo il regista corregge e modifica.
Proprio all'indomani di Min Fars Hus Barba attivò la pratica dei baratti: l’Odin offre i suoi
spettacoli in territori marginali e la gente del posto ricambia con canzoni, danze,
narrazioni, ecc attinte dal patrimonio locale. Non per nulla è Barba a lanciare nel 1976 il
Manifesto del Terzo Teatro (terzo fra teatro di tradizione, teatro dell'industria dello
spettacolo da un lato e teatro d'avanguardia dall'altro) sul variegato pullulare di teatri di
base dei gruppi giovanili, indicati come via di fuga per la generazione '68-'77 che doveva
sfuggire alla lotta armata e alle droghe.
Ma il senso ultimo della creatività barbiana è tutto da cogliere all'interno di una carica
vitale prorompente, passionale che ha essenzialmente una vocazione lirica, non

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drammaturgica. Gli spettacoli più riusciti di Barba sono frammenti poetici che
comunicano non attraverso il logos ma attraverso il fluire delle immagini e dei suoni. E'
un teatro musicale, giocato sui contrasti di silenzi prolungati, di accensioni subitanee, di
strazianti melodie. Ed è un teatro intensamente cromatico. Gli allestimenti di Grotowski
possono anche essere ripresi in bianco e nero, quelli di Barba no. Sono i suoni e i colori
di una incontenibile pulsione di vita, che sta agli estremi opposti del gusto della
macerazione, dell'ascesi gnostica di Grotowski.
TADEUSZ KANTOR (1915-1990) si situa su una linea diversa, pittore, scenografo polacco,
legato alle Avanguardie storiche. Tra gli anni Settanta e Ottanta arriva il suo successo con
due spettacoli capolavori: “La classe morta” e “Wielopole-Wielopole”. Non siamo più
nella dimensione dell'evento o del lavoro sull'attore, ora siamo nella dimensione dello
spettacolo e di qualità. Il dato che più ha sorpreso è l'ossessiva presenza del regista sulla
scena. Non già attore fra attori, ma piuttosto proprio nel ruolo esplicito del regista,
intento a controllare i propri interpreti e ad aiutarli. La presenza del regista sulla scena
ha un valore simbolico fortissimo, evidenzia la presenza risolutrice del regista nel teatro
del '900, la sua presa di possesso del palco, il suo sottrarlo definitivamente agli attori.
Nell'imporsi agli attori, originariamente, il regista praticava un compromesso: lasciava
piena visibilità agli attori, unici presenti sul palcoscenico, ma stava dietro le quinde e li
dirigeva. Kantor spinge il processo agli esiti estremi e scopre le carte. Non mette più in
scena testi di autori, ma è lui stesso autore. Regista-autore di testi/spettacoli che
discendono direttamente dalla sua biografia.
Questa pulsione autobiografica è meno visibile in Classe morta ma diventa invece
clamorosa in Wielopole-Wierlopole, che è il nome del villaggio a Cracovia dove è nato
Kantor. I personaggi della storia sono suo padre, sua madre, il nonno, il fratello.
S'intende da subito però che l'album di famiglia non ha nessun accento "caramelloso": il
ricordo che scava conserva sempre un tono lucido, ironico, straniato fino alla spietatezza.
Inoltre il privato si allarga al sociale, alla Storia. Ci sono i reduci della Prima Guerra
Mondiale, ma anche i mostri della seconda. Ci sono molte immagini religiose ma
anch'esse sottoposte al solito gusto straniante (una croce meccanizzata, ad esempio). Da
notare che il flusso memoriale è stettamente connesso alla dimensione sonora: prima
c'è la musica, poi i dialoghi. Le parole vengono sempre dopo. La musica nasce dal
silenzio, a fatica, non è mai esplosiva. Non la musica come colonna sonora, bensì il
contrario: le immagini come prolungamento musicale, che concretizzano emozioni
profonde dell'animo, emozioni musicali appunto. Un teatro della memoria che si pone
come un teatro della musica. Tutto Wielopole-Wielopole è basato sull'alternanza di 4
motivi: una percussione di bastoni, il Salmo 110, la marcia militare Grigia Fanteria, la
melodia natalizia della Notte della Vigilia (Chopin).
Non si può concludere il capitolo sui registi sperimentali senza ricordare l'americano
ROBERT WILSON (1941) (Bob Wilson) che ,invece, lavora sulla dimensione del tempo e
dello spazio: ovvero le forme del teatro immagine. Nelle sue realizzazioni il tempo viene
rallentato: l’attore può impiegare un’ora ad attraversare la scena o dieci minuti a voltare
lo sguardo. Il rallentamento fa addormentare e questo è considerato non accettabile nel
teatro occidentale. Invece è un effetto che Wilson vuole. Lo spettatore deve raggiungere
uno stato misto di sonno e veglia, di stato neutro e elaborazione onirica. Anche grazie

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all'accompagnamento di una musica armonica a lenta modulazione (la trance music) si


ha un effetto ipnotico, che determina una sorta di dissociazione fra ciò che si vede sulla
scena e ciò che si pensa. Uno spettatore arriva a vedere, in uno spettacolo, un cavallo
rosso ma esso non c'è, è solo frutto della sua fantasia.
Il regista recupera però, paradossalmente, la nozione di teatro all'italiana, organizzato
sulla contrapposizione palco/platea. Egli è un maestro di effetti di luci di scena e
necessita dello sguardo frontale. Del tutto secondario, invece, il tessuto dialogico del
suo lavoro, benchè egli abbia messo in scena più di cento produzioni, portando di tutto a
teatro, ma sempre con un trattamento di profonda incisione dei testi: tagliati, scorciati,
manipolati, soprattutto usati come mero materiale acustico.

TEATRO DEL NOVECENTO E TEATRO EURASIANO


Capitolo diciannovesimo
I Teatri d’Asia hanno nutrito le principali esperienze dell’avanguardia novecentesca
(Artaud, Grotowski, Brook), per esempio fondendosi con il mito della tragedia greca al
fine di realizzare un'arte contraria alla "restituizione" della realtà; qualcosa che si
avvicina a una danza della forma che manda in frantumi ogni illusione scenica o
verosomiglianza con la vita. Questi teatri sono caratterizzati da una fusione di danza,
teatro e musica; in tal senso, è emblematica la composizione del nome del Kabuki
giapponese, che nasce dall’unione delle sillabe ka ( canto), Bu (danza), Ki (arte). Essi
conservano un evidente sostrato religioso, una marcata codificazione e una dinamica
storica di lente metamorfosi e contaminazioni. Sommariamente i teatri asiatici si trovano
in diverse aree geografiche.
INDIA. Nel contesto di questo paese si contano svariate forme di danza religiosa, spesso
solistica, riportabile a sacerdotesse del culto di Shiva. Nel teatro e nella danza indiana si
possono ancora vedere l’equivalente fisico di parole come Dio, Dea, Divino; il luogo in cui
gli occhi possono all’improvviso trasformarsi nell’immagine del sole. Fra le danze più
note: BHARATA NATYAM e la ORISSI. La prima tipica dell’india meridionale e si sviluppa
secondo i canoni del Natya Sastra (un importante trattato teatrale) in cui i piedi tengono
il ritmo, le mani raccontano la storia, il volto esprime le espressioni e reazioni, e il testo
viene intonato da un cantante. La Seconda è caratterizzata dalla zona di Orissa ed è
risorta grazie all’impegno di SANJUKTA PANIGRAHI (collaboratrice di Barba), la cui
tecnica è basata sulla divisione del corpo in due metà uguali, secondo una linea che lo
attraversa verticalmente, e sulla suddivisione ineguale del peso ora su una parte, ora
sull’altra.
KATHAKALI. Il termine significa << rappresentazione di storie >>, ed è una forma del
teatro classico indiano, caratteristica della zona di Kerala. È un’espressione spettacolare
basata sul canto, la recitazione, il mimo e la danza, portata avanti da esecutori maschi su
un repertorio eroico e mitico che attinge ai grand poemi del Mahabarata e del
Ramayana. La rappresentazione avviene all’aperto con un apparato scenico minimo e si
protrae talora sino a notte avanzata. Il pubblico può assistere al trucco degli attori e alla

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vestizione. Codificati sono i movimenti dei piedi e delle mani come le caratteristiche
espressioni del volto.
BALI. L’isola di Bali presenta una varietà di espressioni sceniche, dagli spettacoli di
marionette proiettate su uno schermo bianco e della durata di una notte intera, alle
danze le quali presentano influssi indù e un sottofondo religioso e sciamanico. Queste
danze sono accompagnate dalle orchestre GAMELAN e sono state suddivise nel 1971 in
tre categorie: a) Sacre, si danzano nel cortile del tempio ( Tari Wali) come la suggestiva
danza di trance femminile; b) Cerimoniali, nel cortile intermedio del tempio ( Tari
Bebali); c) D'intrattenimento, anche fuori dal tempio ( Tari Balih Balihan). ARTAUD dice
che il teatro balinese ha immagine sceniche pure e riporta a un piano di creazione pura e
autonoma, per la cui comprensione sembra sia stato inventato tutto un nuovo
linguaggio. Gli attori con i lori costumi,infatti,compongono geroglifici vivi e in
movimento.
CINA. Le compagnie della cosiddetta Opera Cinese (che supera la concezione del nostro
melodramma, sia per l'importanza della parte mimico-acrobatica, sia per la
specificazione dei personaggi in ruoli, costumi e trucchi prefissati), sono
prevalentemente di soli uomini o sole donne. L’importante OPERA DI PECHINO prevede
una recitazione mimica con canto e improvvisazione assieme ad una orchestra. I tipi su
cui si fonda sono i 4 tradizionali: SHENG ( personaggio maschile); DAN (p. femminile);
JING (faccia dipinta) e CHOU (buffone).
MEI LAN FANG (1894-1961), celebre dan, attore e innovatore dell’Opera di Pechino, fu in
tournée in Russia nel 1935 e influenzò larga parte del teatro di quella nazione e del
continente. Chaplin ne parlò estasiato a Ejzenstejn; Mejerchol'd lo apprezzò e la teoria
brechtiana dello stranimento gli deve non poco. BRECHT scrive che l'attore cinema
sottolinea la consapevolezza di essere visto e quindi elima una delle illusioni tipiche della
scena europea. L’attore si sforza di riuscire strano e sorprendente allo spettatore:
considera estranea l’esibizione e sè stesso.
GIAPPONE. Qui troviamo il NOH, nobile forma drammatica di ascendenza sciamanica
che si struttura nel XIV secolo. I suoi attori (maschi) sono mascherati e parlano, danzano
e cantano con monotonia, accompagnati dal flauto e da percussioni. Kiyotsugu e
Motokiyo, padre e figlio, contribuirono in maniera determinante a formalizzare il
genere. Il secondo fu autore di tanti testi del repertorio, le cui trame eroiche alternano
fra i personaggi divinità, spiriti, figure storiche e leggendarie. La scena del Noh è
caratterizzata da un’area quadrangolare prossima a un ponte che collega con lo
spogliatoio; 4 pilastri sorreggono la pagoda del tetto; a destra, una veranda per il coro;
sul fondo, è dipinto un pino nodoso. Il pubblico si situa di fronte il palco e a sinistra del
ponte. Lo SHITE (protagonista) è spesso una visione del WAKI (deuteragonista -> il
secondo protagonista positivo) e il dramma si sviluppa dall’interrogazione di
quest’ultimo e dalla narrazione del primo. Nel teatro giapponese resta centrale l’arrivo
di qualcuno , e negli intervalli viene recitato il KYOGEN, che valorizza il dialogo più della
danza. Il KABUKI, invece, è una forma di spettacolo che concerne eventi sia drammatici
sia storici sia amorosi, si manifesta ne XVII secolo. Esso conquistò un largo pubblico
borghese e decisamente più popolare di quello del Noh. La rappresentazione può essere
articolata in 5ATTI, contempla interventi di danza e di mimo e si tiene su una scena

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caratterizzata dal tipico ponte che attraversa la sala e porta gli attori verso la ribalta.
Esso presenta, inoltre, una piattaforma rotante. Gli attori arrivano ad essere una trentina
anche tutti in scena contemporaneamente, agendo e usando gesti convenzionali.
Sono molte, quindi, le differenze di stile tra i vari teatri d'Asia ma essi condividono,
secondo Barba, lo stesso nocciolo storico e tecnico. L'attore occidentale infatti non ha un
rigido sistema di riferimento a cui rifarsi, mentre gli attori del kathakali, del Kabuki, del
Noh debbono attendere a codici espressivi ben precisi e tramandati. Se ciò può
sembrare un limite dai teatri asiatici ricaviamo in primo luogo uno stimolo essenziale: la
fine della distinzione dell'attore dal danzatore. Scrive Barba: "La rigida distinzione tra il
teatro e la danza, caratteristica della nostra cultura, rivela una ferita profonda, un vuoto
di tradizione che rischia di attrarre l'attore verso il mutismo del corpo e il danzatore
verso il virtuosismo". Da qui un impulso a pensare il teatro in termini più ritmici ed
energici in senso corporeo che psicologici in senso intellettuale. Le ricerche di Barba
hanno evidenziato che l'energia del attore-danzatore orientale è ciò che ci attrae, come
una radiazione non premeditata che capta la nostra attenzione, e l'acquisizione di tale
qualità da parte dell'attore occidentale rappresenterebbe un'opportunità espressiva
straordinaria.
Se il teatro asiatico può apparire profondamente diverso, la contrapposizione netta con
quello Occidentale ha poco senso. Gli studi di Nicola Savarese hanno dimostrato anzi
l'opportunità di una prospettiva d'analisi parallela o "eurasiana", nella quale cioè
inquadrare la relazione costante fra teatro d'Oriente e d'Occidente sin dalla tragedia
greca. Si tratta di uno scambio intenso che è presente con una continuità esemplare
soprattutto nel '900, essendosi spesso manifestato nel campo non scritto dei corpi degli
attori. Per questo motivo oggi si tende a individuare i teatri propriamente asiatici e le
loro tradizioni specifiche da un'idea più larga di teatro orientale, meglio ancora
euroasiano, inteso da Savarese come "il più grande crogiolo di arti dell'attore e tecniche
spettacolari a cui il teatro occidentale abbia attinto nel tentativo di rinnovarsi".

IL SECOLO LUNGO DELLA DANZA


Capitolo ventesimo
Nel ‘900 l’addestramento, il training, diventa fondamentale nel lavoro attorico e gli
esercizi quotidiani potenziano la dimensione fisica dell'attore, ponendone il corpo
attorico al centro della scena. In questa valorizzazione del corpo il teatro è stato
stimolato dalla danza.
Esempi: ISADORA DUNCAN (1877-1927) , fondatrice in Europa della “danza libera”,
libera dalle convenzioni del balletto accademico. Per lei la danzatrice si libra nello slancio
del corpo quasi nudo, scalzo, in ascolto della propria spinta interiore. MARTHA GRAHAM
(1894-1991), profetessa della “modern dance”, negli anni ’50 ha fortunate tournee in
Europa con la sua compagnia. Propone un movimento carico di senso e drammaticità.
È sempre in America che si designano molti generi della danza moderna: hip hop, break,
danza jazz. L’origine di queste fenomenologie è molto antica e si intreccia con la storia

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particolare dei neri d’America e con le loro forme di espressione. Le fenomenologie della
danza di strada odierna (hip hop, funky, break) cercano di perpetuare l'originario
ingrediente di protesta sociale e razziale.
La definizione “danza moderna” viene riferita anche a tutto il movimento della danza
d’espressione tedesca (i cui temi sono: la rivolta dell'individuo, la denuncia sociale, il
disagio esistenziale) che precede la seconda guerra mondiale ed è attribuita a RUDOLF
VON LABAN (1879-1958) e ai suoi allievi, definiti neo espressionisti. Quando si parla
invece di “Balletto Moderno” ci si riferisce a un utilizzo libero della tecnica accademica,
più o meno contaminata con altri linguaggi e tecniche strutturati. Il riferimento qui va a
MAURICE BEJART (1927-2007), con la sua produzione sempre in bilico tra spettacolarità
d'evasione e impegno sociale/filosofico, o a WILLIAM FORSYTHE che ha reinventato il
balletto secondo una nuova estetica, minando alla radice le strutture del racconto , per
presentare sulla scena situazioni nuove, legate al sentire del tempo, di grande rigore
formale ma sempre entro l'alveo di una tecnica riconducibile al classico.
Il segno più forte e convincente del secondo dopoguerra è senza dubbio il
TEATRODANZA. Deriva da Tanztheater, una forma fatta conoscere in Italia da PINA
BAUSCH. È un neologismo efficace. Questo fenomeno è storicamente preciso e
circoscrivibile a un'area geografica e culturale determinata. Bisogna risalire alla
Germania dei primi decenni del ‘900: il teatrodanza tedesco degli anni '70 infatti muove
proprio da questo retroterra -> la danza d'espressione e le Avanguardie Storiche,
vivendo però in osmosi col clima di generale ridefinizione dei linguaggi artistici. Ciò che
fa dunque il Tanztheater è una riscoperta del linguaggio del corpo, ma anche la ripresa
dell'antico mito dell'arte totale e la riaffermazione del teatro come luogo dello
spettacolo, all'interno del quale non esistono più confini di genere. In Cafe Muller 1978,
tra gli spettacolo più famosi tedeschi, i personaggi non sono ben definiti e la narrazione
è labile, affidata all'atmosfera complessiva della messa in scena e della coreografia. In un
cafè in disuso e chiuso, una donna si aggira come una sonnambula nello spazio
ingombrato da sedie e tavoli; accanto a lei uomini e donne (che sembrano essere tanti
doppi della protagonista) attraverso la danza intrecciano rapporti ora affettuosi, ora
violenti, quasi materializzando i fantasmi del suo vissuto e delle sue sofferenze.
Negli Stati Uniti l'innovazione è rappresentata dalla corrente rivoluzionaria della POST
MODERN DANCE, fenomeno di ripensamento globale del medium danza, nonchè
momento di rifondazione di un’estetica della contemporaneità adeguata ai grandi
mutamenti degli anni '60 e '70. le performances dei danzatori spingono all’esplorazione
di luoghi alternativi al teatro: la danza esce all’aperto, occupa le strade di città. La danza
diviene il luogo della liberazione del corpo dall’alienazione che esso subisce in una
società regolata unicamente dalla competizione economica. Fra gli anni '60 e ’70
l’attenzione di questi coreografi e ballerini si concentra sui temi politici: sono gli anni del
femminismo, del pacifismo, della rivoluzione studentesca, dell'emancipazione delle
minoranze.
Nel corso degli anni '90 è stata introdotta, poi, la nozione di DANZA D’AUTORE. Questa
espressione descrive un nuovo territorio della danza in cui autori diversi fra loro
rigettano il classico e quello moderno, proponendo un’originale costruzione di segni che
è il portato di una nuova estetica della danza, sintesi di molte delle tendenze che l'hanno

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preceduta.
All'interno delle nuove danze europee degli anni '80 e '90, un posto particolare ha
assunto il TEATRODANZA POVERO. Il danzatore non si fa mediatore di un contenuto
estraneo, ma recupera dentro sè stesso dimensioni che gli sono proprie. Il vissuto
personale torna a vivere nel corpo danzante e vi si giunge improvvisando. Il risultato è
una forma d'espressione pre-verbale, un nuovo teatro in cui anche la parola è vissuta
per il suo valore gestuale e non puramente sonoro.
ISADORA DUNCAN
Isadora Duncan ha una visione della storia come corruzione della condizione
primordiale. A suo parere nel mondo delle Origini si viveva secondo criteri di "grazia" e il
privilegiato modo di essere degli antichi implicava un ideale accordo tra la sfera interiore
e l'espressione, possibile solo in presenza di un corpo che non fa uso di una dinamica
spezzata e marionettistica. Ella studia l'arte greca ma non per copiarla, bensì per
riscoprire le leggi eterne che gli uomini del passato conoscevano e di cui la nostra civiltà
ha perso le tracce. Scopo ultimo del danzatore è, per lei, riscoprire il modello e
reimparare a realizzarlo nelle proprie movenze. Il ballerino sarà così in automatica
connessione con il Tutto, se asseconderà la pulsazione universale che si riverbera in noi
attraverso il plesso solare (punto del corpo subito sotto il diaframma), basta che accolga
le vibrazione della natura e che le lasci fluire. Le sue prime opere presentano un volto
gioioso e sereno, le ultime sono più gravi, assoli minimalisti, quasi privi di movimento:
con lentezza l'artista si solleva da terra in piedi e alza emblematicamente le braccia verso
il cielo. Il costume, la scenografia, le luci sono sufficientemente neutri da focalizzare tutta
l'attenzione su quello straordinario essere umano che ha riscoperto la naturalità del
proprio mezzo primario di espressione e che danza a piedi nudi al fine di revitalizzare un
contatto in primis con la Terra.
MARTA GRAHAM
Pochi mesi prima di morire, Marta Graham pubblica "La memoria del sangue" che è una
sorta di testamento, nel quale il grande danzatore è proposto come colui che riesce a far
affiorare i ricordi del passato più remoto nascosti nella Memoria della specie e a renderli
visibili attraverso il corpo. Per far questo occorre aver liberato la propria mente
dall'eccesso di coscienza: ad es. se tutta la nostra attenzione è volta al raggiungimento di
una posizione, di un gesto o di una sequenza perfetti, dimentichiamo qualcunque altra
realtà e arriviamo a una "dimenticanza di sè". Solo in questo modo è possibile espugnare
il superfluo e raggiungere l'essenziale. Non si tratta dunque di cercare qualcosa di nuovo
ma piuttosto di "tirare fuori" quanto è già dentro di noi. La Graham ambisce a un
movimento sincero del corpo e per acquisire la sincerità occorrono lavoro, tecnica,
disciplina. Un cardine del lavoro per questa coreografa diventa il peso del corpo: il modo
in cui lo si sposta diviene essenziale per il movimento. Marta Graham afferma di aver
studiato la dinamica del peso osservando gli animali, creature assai meno contaminate
dalla riflessione dunque assai più capaci di "sincerità". I soggetti delle sue coreografie
sono spesso tratti dal mito, ossia da storie che racchiudono valori, principi, verità che
appartengono alla collettività: Phaedra, 1962, ad esempio.

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PINA BAUSCH
Attorno al 1978 il processo di costruzione dello spettacolo di Pina Bausch cambia in
modo determinante. Ella pone ai danzatori domande o suggerisce temi sui quali
intervenire e chi vuole risponde alla sollecitazione e può farlo impiegando parole o
movimenti o entrambi. "Qualcosa sul vostro primo amore", "Offrirsi". Una volta
terminata questa fase, in un paio di settimane ella sceglie i materiali tra l'enorme
quantità prodotta e li monta assieme, concependo una sorta di collage di azioni e di
parole. Si tratta dunque in questo stadio, di un problema di composizione che spetta
unicamente alla regista. La scenografia va elaborandosi parallelamente al lavoro dei
danzatori, sulla base degli oggetti e dello spazio a loro necessari per proporre i loro
materiali; nessun elemento scenografico è puramente decorativo. La musica è sempre
un collage di pezzi diversi. L'argomento primo è sempre l'io degli interpreti e l'esprimere
la propria personalità non avviene in modo spontaneo, ma è frutto di un esercizio
costante, tenace e spesso doloroso. Le modalità espressive sono prodotti da individui in
possesso di una tecnica solidissima. Tuttavia l'io del danzatore è protetto: il montaggio
realizzato dalla regista veste diversamente le singole sequenze, perciò esse vengono
lette dal pubblico dentro a un contesto che lo porta a vederne un altro senso,
nonostante per il danzatore esse rimangono l'espressione della sua personalità più
profonda. Quando capia che una persona assuma la parte di un'altra, a quel punto si
applica un tipo di procedimento più simile a quello in cui l'attore deve costruirsi
l'emozione sulla base di un copione preesistente.

CONCLUSIONI SUL '900: IL SECOLO DELLE 5


RIVOLUZIONI
Capitolo ventuno
Un bilancio complessivo del '900 appare necessario. Non c'è dubbio che si tratti di un
secolo portatore di autentiche rivoluzioni. Prima fra tutte la regia. La relazione
fondamentale non è più autore-attore ma regista-attore. Il regista si pone come il nuovo
creatore dello spettacolo, l'autore della messa in scena come nuova opera d'arte. Egli è il
responsabile del principio estetico unitario che ne fa, appunto, un'opera. C'è una prima
immagine da fissare: il regista demiurgo -> un artista che compone l'opera teatrale
utilizzando e piegando ai propri voleri tutti i mezzi espressivi e tutti i linguaggi della
scena, con l'attore posto sullo stesso piano dello spazio, della musica, delle luci, degli
accessori, oltre che del testo se del caso . Craig, Ronconi, Kantor, Wilson. Quasi tutti i
grandi uomini di teatro del 1900 sono partiti da una fase demiurgico-totalizzante della
regia e della messa in scena: persino Artaud e Grotowski, cioè i più celebrati alfieri di
quello che per semplicità possiamo chiamare teatro d'attore. Perchè, in effetti, c'è un
processo, una trasformazione, su cui occorre soffermarsi con attenzione: il regista
demiurgo tende molto spesso a ridefinirsi come regista pedagogo. Pur non rinunciando
alla responsabilità complessiva dell'allestimento, ne sposta il fulcro e rimette al centro
della creazione teatrale l'attore: un attore nuovo, riformato e rifondato sulla base delle

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varie pedagogie, tutte tendenti a legare intimamente teatro e scuola, ovvero creazione e
formazione, ricerca artistica e tecnica. Con il regista demiurgo e pedagogo siamo di
fronte a due modi profondamente diversi di intendere la messa in scena. Il primo crea
tutto da solo, mentre il secondo crea insieme a tutti gli altri, attori compresi.
E' chiaro quindi che se già le prove si erano allungate sensibilmente con l'avvento della
regia, adesso (col regista pedagogo che collabora con tutti) si allungheranno ancora di
più. Su queste basi si fa largo, nel '900, l'idea che le prove non siano soltanto la tappa
obbligata ma possan essere qualcosa di più e di diverso: un momento di ricerca,
un'esperienza esistenziale e umana. Diventa quindi fondamentale il lavoro dell'attore su
di sè, trasformato in un fine e non più soltanto in un mezzo. Questa tensione a concepire
le prove come qualcosa di autosufficiente è una tensione che percorre l'intero secolo e si
impone difinitivamente con le scelte di Grotowski. Si tratta del punto s'arrivo di quella
che potremmo definire l'era del processo creativo.
Tutto ovviamente a condizione che si parli di un attore nuovo, rifondato. In effetti la
seconda rivoluzione del '900 sta proprio qui: siamo nel secolo delle scuole teatrali e
degli esercizi per gli attori. La novità forte, inequivocabile del 1900 sta nel modo in cui la
scuola e gli esercizi vengono intesi ed entrano in rapporto con il lavoro teatrale nel suo
complesso. Si afferma l'idea che l'attore sia come un cantante, un ballerino, un
musicista, che deve costantemente tenersi in allenamento. Inoltre la scuola non è più un
luogo dove si insegna un sapere già noto, ma diventa il luogo della sperimentazione
sempre nuova e diversa. La stessa trasformazione la subiscono gli esercizi. Fino all'inizio
del '900 l'attore faceva esercizi solo per acquisire specifiche abilità, in relazione alle parti
che doveva interpretare. Nel corso del nuovo secolo l'allenamento dell'attore diventa
qualcosa di indipendente dalle esigenze dello spettacolo: gli esercizi tendono a temprare
la personalità e la creatività dell'attore. Nelle nuove scuole teatrali troviamo quindi:
acrobazia, ginnastica svedese, yoga, danza, ecc... L'intenzione è quella di far prendere
coscienza all'attore delle possibilità espressive, in modo da trasformarlo in un creatore,
cioè un artista in grado di rigenerare scenicamente la parte scritta, infondendole una
nuova vita.
Ma come arrivare concretamente a questo? La risposta fu trovata spesso nell'idea di
costringere l'attore a esprimersi da solo, senza il testo. Da qui la sottrazione temporanea
del testo. Agli attori viene chiesto di ricostruire la sequenza delle azioni fisiche del
personaggio da interpretare semmai con parole proprie.
Questa sensibilità per la centralità dell'attore, cioè per la sua dimensione corporale, ci
spinge a utilizzare l'espressione tedesca Korperkultur, cultura del corpo, per indicare
l'insieme delle esperienze che concorrono, tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 a mettere
il corpo al centro. La prima a recepire le nuove istanze è sicuramente la danza (libera e
moderna). L'Europa si trova di fronte per la prima volta a un'immagine della bellezza del
movimento puro. Anche il mimo trova ospitalità nelle scuole teatrali. Decroux fonda la
nuova concezione del mimo, detto anche mimo corporeo. Non più soltanto un insieme di
esercizi, ma anche un'arte autonoma, l'arte dell'attore per eccellenza. Infatti, se il teatro
è nella sua essenza attore, e se l'attore è prima di tutto presenza in scena, cioè corpo,
allora questo corpo dovrebbe bastare per dare vita a un'arte teatrale
essenziale,depurata da ogni intrusione estranea (letteraria, musicale, ecc...). Perchè ciò

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diventasse possibile era indispensabile che l'attore-mimo ricreasse la propria arte su basi
completamente diverse dalla pantomima tradizionale, la quale: 1) non usava tutto il
corpo ma solo mani e volto; 2) si esprimeva per stereotipi; 3) dipendeva strettamente
dal linguaggio verbale (gesti-parole). Il mimo corporeo non nasce per rinnovare la
tradizione pantomimica, ma per rivoluzionare il teatro: esso rappresenta, nel '900,
l'utopia di un teatro puro.
Ma cosa sta dietro a questa riscoperta del corpo? C'era sicuramente la volontà di liberare
l'attore dalla tirannia del testo e magari di creare autonomamente oltre il testo. Ma c'era
anche una sorta di sfiducia nel linguaggio verbale. Come dire che, invece, è proprio
soltanto il gesto ad avere la capacità di esprimere l'ineffabile, il profondo, l'essenziale.
Siamo davanti a un altro paradosso: da un lato la regia si incarica di mettere sotto
controllo l'attore, e dunque si definisce al servizio del testo, dall'altro è lo stesso '900 a
registrare una diffidenza crescente verso la centralità del testo. Potremmo usare il
termine senocentrismo, per intendere un processo creativo che sposta il suo baricentro
dal testo scritto alla scena e ai suoi linguaggi. Chi ha teorizzato per primo un teatro
senocentrico è stato sicuramente Artaud. Eugenio Barba opera una distinzione tra teatro
per il testo (assumere l'opera letteraria come valore principale dello spettacolo) e teatro
con il testo (scegliere uno o più scritti, non per mettersi al loro servizio ma per estrarre
una sostanza che alimenti un nuovo organismo: lo spettacolo).
Una delle matrici 900esche del teatro senocentrico, che in genere non viene considerata
tale, è il "metodo delle azioni fisiche" di Stanislavskij. Esso rappresenta una delle più
grandi innovazioni teatrali del XX secolo. Con il modo nel quale il maestro lo sperimenta
negli anni '30, il processo creativo muta radicalmente rispetto alla prima versione del
Sistema, in cui si partiva dai sentimenti, dalla memoria emotiva. Ora si parte dalle azioni
fisiche, date dalle improvvisazioni. Nel metodo delle azioni fisiche le parole non erano
vietate, anche se venivano considerate secondarie, ma era assolutamente proibito
servirsi di quelle dell'autore. Agli attori veniva richiesto di ricostruire di loro iniziativa e
aggiungendovi parole proprie, la linea delle azioni fisiche del personaggio. Soltanto in
una fase molto avanzata del lavoro era consentito di ritornare alla parte scritta. Negli
anni '60 Grotowski parte da qui e porta in fondo le conseguenze di questo metodo. Un
episodio inauguarle di questo processo di liberazione dell'attore attuato da Grotowski è
il lavoro di Cieslak per il Principe costante. Il suo lavoro infatti non fu minimamente
legato al tema del martirio (su cui verteva la rappresentazione) ma su un ricordo felice e
sulle azioni legate a quel ricordo concreto. Sulla scia di questo episodio inaugurale nel
nuovo teatro postbellico l'affermazione dell'autonomia creativa dell'attore forza
definitivamente gli argini del personaggio. Questi diventa per l'attore solo un mezzo, alla
stregua di tutti gli altri di cui si serve per innescare il proprio processo espressivo. Si
attua così un rovesciamento dello schema stanislavskiano, nel quale nonostante tutto il
personaggio rimaneva l'alfa e l'omega dell'attore. Ora, invece, è la verità interiore
dell'attore a diventare il fine, l'obiettivo. L'emancipazione dell'attore va di pari passo con
la definitiva fuoriuscita dal testo centrismo, dando vita a spettacoli teatrali che per la
prima volta rinunciano completamente a un testo: Paradise Now, Apocalypsis cum
figuris, ecc...
L'ultima rivoluzione novecentesca riguarda lo spazio scenico. Viene rimessa in

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discussione, nel '900, la struttura teatrale -> E' operante una tnsione al superamento del
teatro e della scena all'italiana, con l'obiettivo di trasformare la relazione
spettacolo/spettatore. Questi tentativi di superamento possono essere ricondotti a tre
diverse soluzioni: 1) Progettazione di nuovi edifici teatrali con possibilità di
organizzazioni multiple, includenti anche assetti altrnativi quali la scena centrale (con il
pubblico che attornia lo spettacolo) e la scena anulare (dove è lo spettacolo ad avvolgere
gli spettatori). 2) Ristrutturazione, più o meno radicale, di vecchi edifici teatrali,
quantomeno per rendere possibile una relazione spettacolo/spettatori più ravvicinata e
coinvolgente. L'abolizione del sipario, l'eliminazione dell'arcoscenico, lo sviluppo del
proscenio. 3) Ricerca di spazi non teatrali: piazze, strade cortili usai come luoghi teatrali.
Celebri le cantine romane degli anni '60-'70.
Non bisogna però semplificare sostenendo riduttivamente che la rivoluzione spaziale del
'900 è consistita solo nell'aver portato lo spettacolo fuori dagli edifici teatrali all'italiana.
Perchè il teatro è sempre stato fatto anche fuori dai luoghi convenzionali. La rivoluzione
è consistita piuttosto nell'aver valorizzato lo spazio teatrale come spazio di relazione e di
esperienza, cioè una diversa collocazione attori-spettatori che determina una diversa
fruizione da parte di questi ultimi. E poi, soprattutto, si verifica la trasformazione del
rapporto fra spazio e spettacolo. Tradizionalmente il luogo scenico è un contenitore
neutro, a priori, indipendentemente dal tipo di spettacolo. Adesso si comincia a capire
che la dimensione spaziale fa parte del processo creativo: lo spazio, quindi, diventa un
elemento della drammaturgia.

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