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Sofocle nacque a Colono, demo agreste situato fra Atene ed Eleusi, intorno al 497

a.C. Suo padre Sophillos, ricco fabbricante d'armi e proprietario terriero, gli diede la
migliore formazione culturale e sportiva che poteva offrirgli l’Atene contemporanea.
Egli si distinse a 15 anni, dopo la battaglia di Salamina, conducendo il coro dei
giovinetti che celebravano la vittoria di Atene. Secondo un antico mito, in quella
stessa battaglia combatté valorosamente Eschilo, e, in quello stesso giorno, nacque
Euripide; si tratta naturalmente di una finzione, che tuttavia simboleggia il rapporto di
continuità fra i tre tragici, ma anche la distanza anagrafica esistente fra di essi e il
rapporto storico-culturale che intercorre tra l’uno e l’altro di loro. La vita di Sofocle
accompagna la grandezza e il declino dell'Atene del V° secolo: conobbe  la potenza
ateniese al suo massimo splendore e la democrazia istituita da Pericle, del quale fu
anche amico. Felice nella  vita privata, dalla moglie Nicostrate ebbe un figlio,
Iofonte, poeta tragico anch’egli, e dalla  concubina un altro figlio: Aristone, il cui 
figlio, “Sofocle il giovane”, scrisse tragedie. Secondo le fonti, tra le quali una Vita
che precede i suoi drammi in un certo numero di manoscritti, egli avrebbe messo a
frutto le proprie doti musicali e ginniche nell’attività di attore, ma poi, per la
debolezza di voce, avrebbe dovuto rinunciare alla recitazione. Già al suo esordio
negli agoni drammatici del 468 a.C., gli era toccata la vittoria, sebbene fra i
contendenti vi fosse pure Eschilo, e a decretarla fu un collegio giudicante formato
dagli strateghi. In seguito il favore degli ateniesi non abbandonò mai Sofocle, sia nei
concorsi drammatici, dove ottenne ben ventiquattro vittorie, che nella politica, che lo
vide stratega insieme a Pericle nella guerra di Samo (441-440), e forse anche una
seconda volta nel 428. Inoltre fu ellenotamo (percettore  dei tributi versati ad Atene
dai suoi alleati) nel 443-442 e membro del collegio dei probuli (una sorta di comitato
della salute pubblica) nel 413, mentre nel 433 a.C. fu amministratore del tesoro della
Confederazione Attica. Secondo il poeta Ione di Chio, “nelle cose politiche non era
né abile né solerte, proprio un bravo ateniese come gli altri”, ma la Vita attesta
invece che egli visse circondato dal successo e dalla benevolenza dei concittadini,
grazie anche al fascino suscitato dalla sua personalità amabile e serena. Sofocle,
inoltre, rivestì le funzioni di sacerdote di una divinità locale della salute, Halon, e,
quando nel 420 il simulacro del dio Asclepio venne trasferito da Epidauro ad Atene,
Sofocle fu designato ad ospitarlo nella sua casa, poiché non era ancora pronto il
santuario destinato al dio.
Una notizia secondo la quale Sofocle, all’annuncio della morte di Euripide, presentò
il coro in abiti da lutto e senza corona, e un passo delle Rane di Aristofane, messe in
scena nel 405, che lo dice ormai nell’oltretomba, consentono di collocare fra le due
date la morte dell’ormai vecchissimo poeta, che avvenne secondo varie notizie per la
gioia di una vittoria, o per la fatica di leggere ad alta voce un passo dell’Antigone,
oppure per soffocamento prodotto da un acino d’uva. A quell’epoca Sofocle aveva
ormai novant'anni, e, nonostante questo, aveva mantenuto fino all'ultimo intatta la
propria energia creatrice: lasciava infatti un’opera postuma, l’Edipo a Colono, che fu
rappresentata nel 401 a.C. a cura dell’omonimo nipote. Una selezione antica ha
salvato in forma integrale sette tragedie di Sofocle. Oltre che dell’Edipo a Colono,
conosciamo la data di altre due di queste: l’Antigone, risalente al 442, e il Filottete,
che risale al 409. Per datare le restanti si deve ricorrere a supposizioni, per altro non
immuni da controversie. Pressoché generale è l’opinione che L’Aiace sia la tragedia
più antica, risalente forse al 450, e che l’Edipo Re sia anteriore al 425, ma
probabilmente di pochissimi anni. Delle Trachinie, l’unica delle tragedie di Sofocle
intitolata al modo tradizionale, secondo la composizione del coro, si può dire tutt’al
più che verosimilmente precedettero l’Edipo Re, e dell’Elettra che venne dopo la
medesima tragedia. Gli Alessandrini tuttavia, possedevano ben centotrenta drammi di
Sofocle, tra i quali solo di pochi era messa in dubbio l’autenticità: ne rimangono ampi
e numerosi frammenti nei papiri, uno dei quali, scoperto in Egitto e pubblicato nel
1912, conteneva circa 400 versi di un dramma satiresco, I cercatori di tracce,sulle
imprese di Ermes neonato, ma già ladro delle mandrie di Apollo e inventore della
lira. Sofocle rappresentò la generazione intermedia fra quelle di Eschilo e di Euripide,
al quale per altro sopravvisse di qualche mese; la sua tragedia significa dunque la
pienezza della maturità, rispetto all’arcaica drammaturgia di Eschilo e alla crisi già
esplosa in Euripide. La sua lunghissima carriera teatrale coincide con la piena
affermazione dell’idea di “tragico”. Egli visse l’epoca delle Guerre Persiane nella
fanciullezza e nell’adolescenza, quanto bastava per sentire la grandezza della
resistenza greca all’invasione. Ma gli toccò anche di vivere in un tempo in cui non
era più possibile condividere la sicurezza eschilea che le problematiche dell’uomo
potessero venire risolte con l’aiuto benevolo e onnipotente degli dei.
Sotto l'aspetto della fede, Sofocle occupa una posizione intermedia tra Eschilo,
pervaso dalla fede, e Euripide, scettico e razionale. Privi di fiducia negli dei, i
protagonisti sofoclei sono dannati all’errore e alla sofferenza che ne è la conseguenza,
e fondano così il prototipo dell’eroe propriamente “tragico”. Sofocle, in una certa
misura, ha inventato questo prototipo di eroe: tutti gli eroi e le eroine delle sue
tragedie, sono investiti del privilegio, se non  di dirigere, almeno di condurre l'azione
drammatica. Nasce così la figura dell'eroe tragico, né completamente uomo (possiede
qualità più che umane), né completamente dio (resta sottoposto alla volontà divina).
Ma, , l'eroe tragico, posto tra l’uomo ed il dio, rifiuta il destino, si rivolta o, se si
sottomette, preferisce morire.
Sofocle, sebbene buon cittadino, ama i ribelli, gli indomabili. Il tema della rivolta,
della rivolta giusta che un uomo risoluto sostiene contro la ragione di Stato, è al
centro della sua opera: non esiste una legge più giusta di quella della coscienza. Tutti
gli eroi di Sofocle rispondono allo stesso modello di determinazione tenace: Elettra, 
Aiace,  Edipo soprattutto, che si ostina a cercare con accanimento i responsabili della
maledizione di Tebe, per poi  scoprire che è lui il colpevole, ed assumere su di se la 
punizione. Tutti quest'eroi, fuori del comune, segnati dal destino, possiedono lo
stesso coraggio e tentano disperatamente di lottare, prima di essere distrutti dalla
volontà degli dei. Questi, d’altra parte, sono sempre onnipotenti sul destino degli
umani, ma la giustizia e la responsabilità degli uomini sono ugualmente affermate:
così la tragedia mette ai primi posti l’uomo, che può, in certa misura, prendere in
mano il suo destino. Le opere di Sofocle sono fortemente unitarie, accentrate intorno
a personaggi solidi, sui quali si fonda l’altissima poesia dei singoli drammi.
Gli eroi delle sue opere sono magnanimi e sventurati, nobili e incolpevoli; è un poeta
che possiede una sincera pietà, la sofferenza dell'uomo gli sembra troppo grande e
immeritata, il mistero della giustizia gli rimane quasi sempre insoluto.
La tragedia di Sofocle fu una creazione artistica di grande equilibrio in cui le qualità
strutturali e formali si uniscono in un organismo di estrema perfezione. Le fonti
antiche informano sulle innovazioni tecniche che Sofocle apportò alla struttura della
tragedia. Esse gli attribuiscono l’invenzione della scenografia, più precisamente
l’introduzione di fondali mobili oppure di scenari dipinti secondo le regole della
prospettiva, infatti elementi di una scenografia grandiosa anche se rudimentale erano
indubbiamente già presenti in Eschilo. Maggiore importanza ha l’aumento dei coreuti
da dodici a quindici, e soprattutto fondamentale fu l’introduzione di un terzo attore
avvenuta all’epoca dei suoi esordi, grazie alla quale risultava superata la rigida
contrapposizione eschilea di due posizioni antitetiche, in questo modo i rapporti
interpersonali divennero più articolati, permettendo di ampliare dialoghi e battute, di
conseguenza il ritmo teatrale divenne più vario e dinamico. Grazie a queste riforme
Sofocle riuscì ad accentuare il rilievo attribuito all’individuo, innalzandolo al ruolo
dell’eroe, visto come portatore di un destino proprio e irrepetibile, la sua dannazione
e la sua gloria. Ma la fondamentale innovazione introdotta da Sofocle nella tragedia
fu lo scioglimento della sua struttura trilogica in tre drammi indipendenti, mentre
Eschilo si era servito di una continuità tematica all’interno della quale le singole
tragedie rappresentavano le varie scansioni di un’unica storia. Quest’ultimo era stato
il creatore della tragedia concepita come l’espressione delle relazioni dell’uomo con
gli dei, trattando dell’esistenza travagliata dell’uomo inserita all’interno di una stirpe,
di cui l’individuo, per quanto fossero grandiose le sue vicende, non costituiva che un
anello. Restava a Sofocle mitigare, ridurre, perfezionare questo genere nuovo.
Eschilo era stato il poeta del destino umano, sottoposto all’onnipotenza divina, che
portava fino alla punizione dell’orgoglio degli uomini, come nei casi ad esempio di
Agamennone e Prometeo. Aveva ignorato i dialoghi, e i suoi personaggi erano
soltanto i semplici portavoce dei grandi problemi morali e religiosi che erano
incaricati di diffondere. Nella tragedia di Sofocle, al contrario, il protagonista
assoluto diventa l’uomo singolo, e questo è evidenziato anche da un’altra
innovazione apportata dal tragediografo: mentre tradizionalmente alle tragedie veniva
assegnato il titolo in base alla composizione del coro, con Sofocle la struttura dei
drammi precedenti lascia il posto a quella dei drammi autonomi ed eponimi (che
portano il nome dell'eroe protagonista).Con lui, perciò, si accentua l’importanza del
personaggio protagonista umano, che non appare mai schiacciato dal Fato, ma che
proprio dalla sua vana lotta con questo, riceve una piena dimensione umana, portatore
di un destino che è la sua dannazione e, contemporaneamente, la sua gloria. I suoi
eroi quindi, erano immersi in un mondo di contraddizioni incurabili, di conflitti con
forze inevitabilmente destinate a travolgerli. Il teatro, con Sofocle, si propone di
rappresentare sia una realtà alternativa rispetto all’esperienza quotidiana, sia
l’immagine della condizione umana. Il suo dramma si sviluppa attraverso il calcolato
e incalzante svolgersi della sceneggiatura: la successione degli avvenimenti dimostra
una consapevole ricerca degli effetti della sospensione e del colpo di scena. Questi
due elementi di grande incisività, consentono alla vicenda teatrale di divenire
simbolo dello svolgersi dell’esistenza. All’interno del dramma, i personaggi, non
possiedono un’evoluzione psicologica né un contrasto interiore, la vicenda è costruita
interamente sull’azione; al centro degli eventi sta il destino dell’eroe, un problema
esclusivamente individuale, che egli deve affrontare da sé, e con il quale deve
misurarsi. Il teatro di Sofocle è popolato da protagonisti imponenti e inflessibili, che
rimangono fedeli alla propria natura e ai propri progetti fino all’esito ultimo, che
spesso vedrà la loro rovina, ma che non esclude la possibilità di una salvazione.
Sofocle evita di fare riferimenti al presente all’interno delle sue tragedie,
nonostante discuta avvenimenti e problematiche attuali nella dimensione del mito;
egli si propone di interpretare il posto dell’uomo nel mondo e quello dell’individuo
nella collettività: rappresenta il destino umano e l’atteggiamento che il protagonista
sostiene di fronte a fati che non dipendono da lui. Non apre spazio alle contese e ai
problemi sociali del suo tempo, che ispirano tante parte della tematica euripidea: la
condizione delle donne, la dignità umana degli schiavi, l’universalità dell’uomo.
Eppure nella sua opera si rispecchia la società dell’Atene contemporanea, nella fase
più alta del suo splendore anche se già incrinata dai primi sintomi di quella rovina che
inevitabilmente l’attende. La battaglia già perduta all’inizio che l’eroe sofocleo
combatte con il suo destino, è forse la stessa che gli ateniesi sentivano di combattere
contro la storia; ma Sofocle non dichiara le cause della sconfitta se non nel fatto
stesso di essere uomini. Nelle sue tragedie è evidente un netto contrasto fra l’agire del
singolo e una struttura politica e sociale che conferiva il massimo potere alla
collettività. L’eroe e il coro, ossia l’individuo e la comunità non riescono a
collaborare e soffrire insieme, come accadeva in Eschilo: l’eroe è solo nell’agire e nel
patire, l’individuo prevale sulla collettività, e di essa provoca a crisi. Allo stesso
tempo è anche escluso da essa, che in questo caso non coincide necessariamente con
il coro, e si oppone alla sua forma istituzionalizzata che è lo stato. La comunità non
riesce più a contenere l’individuo, né questo si considera parte di essa: Aiace,
Antigone, Filottete e lo stesso Edipo sono esempi di un’emarginazione, volontaria
oppure subita. Prima che la propria longevità eccezionale lo faccia assistere al suo
declino, Sofocle testimonia, col suo teatro, le certezze che animano il cittadino
ateniese, fiducioso di poter controllare ogni evento con la propria volontà.

Prologo
La prima scena si apre davanti alla
reggia di Edipo, a Tebe, Sui gradini
siede un gruppo di giovinetti che
stringono in mano virgulti d’ulivo, in
mezzo a loro, oltre al sacerdote di Zeus,
stanno vecchi e bambini.
Uscendo dalla reggia, Edipo chiede
spiegazioni sul motivo di questa
riunione. Stupito dal dolore e dallo
sconforto che regnavano nella
città, aveva ritenuto doveroso recarsi di persona a chiedere notizie, piuttosto che
inviare un messaggero. Rivolgendosi all’anziano sacerdote, che nel frattempo si è
fatto avanti quale portavoce della folla, Edipo afferma di essere disposto a portare
aiuto in qualsiasi modo. Il vecchio spiega ad Edipo la situazione. I cittadini più
vecchi e più giovani della città, si sono recati al suo cospetto per informarlo di una
grave circostanza, mentre tutti gli altri pregano nelle piazze e davanti ai templi: Tebe
è devastata da una terribile epidemia, della quale si ignora la causa. Il sacerdote
supplica Edipo di aiutare in qualche modo la città, come già aveva fatto salvandoli
dalle insidie della Sfinge, un terribile mostro antropomorfo che un tempo aveva
dimora presso Tebe, prima che fosse arrivato Edipo per sconfiggerlo. L’appello
accorato del sacerdote impietosisce il re, che si commuove per la triste sorte dei suoi
sudditi. Egli avendo già saputo della disgrazia, dopo aver a lungo pensato ad una
soluzione, aveva ritenuto opportuno adottare l’unico rimedio che aveva trovato:
aveva inviato Creonte, fratello di sua moglie Giocasta, a Delfi, per consultare
l’oracolo di Apollo. Ormai egli era assente da giorni, ed Edipo cominciava a
preoccuparsi, pur manifestando l’intenzione, una volta che il cognato fosse tornato, di
ubbidire al volere del dio Apollo. A questo punto interviene il sacerdote per
informare il re dell’arrivo di Creonte. Edipo, vedendo avvicinarsi il cognato con il
capo cinto di alloro, spera che sia latore di buone notizie e, rivolgendosi a lui, lo
invita a svelare il messaggio del dio. Febo ha rivelato che è un assassino la causa
dell’epidemia: il precedente signore della città, Laio, era stato assassinato, poco
prima dell’arrivo di Edipo a Tebe, e ora gli dei avevano scatenato contro di loro
quella maledizione perché il colpevole si trovava in quella città, impunito. Per porre
fine alla sofferenza dei Tebani, bisognava trovare l’assassino ed esiliarlo dalla città.
Laio era partito per interrogare un oracolo, ma dopo la sua partenza non era più
tornato a casa, gli uomini che si trovavano con lui erano stati uccisi, tutti, meno uno,
che era fuggito per la paura e non aveva mai saputo raccontare nulla di ciò che aveva
visto, tranne un unico particolare: erano stati dei briganti ad uccidere il re e gli altri.
Nessuno in seguito aveva mai indagato su quella morte, poiché in quel periodo, fuori
dalle mura di Tebe, dimorava ancora la Sfinge, e dunque la notizia aveva raggiunto i
cittadini molto più tardi, e anche allora nessuno aveva pensato di cercare di scoprire
le oscure circostanze di quella morte.
Venendo a sapere come stanno le cose, e qual è la causa della disgrazia che affligge
Tebe, Edipo giura che sarà lui a scoprire ciò che era accaduto a Laio. Poi,
rivolgendosi alla folla dinnanzi al palazzo, li invita ad alzarsi dai gradini, levando in
alto i rami d’ulivo, assicurando che diventerà loro alleato per trovare l’assassino di
Laio. Così detto rientra nella reggia, mentre il sacerdote invita la folla a disperdersi
tranquillamente, e ad avere fiducia nel sovrano e nel dio Apollo.
Entra il coro di vecchi tebani, che invoca Zeus:

“Oh, dolce parola di Zeus, quale responso da Delfi inviasti a Tebe? Io ti chiedo, o
Apollo, invaso da un’ansia angosciosa, di svelarmi il compito che vuoi impormi.
Parlami, oh oracolo. Per prima invoco te, figlia di Zeus, Atena immortale, e tua
sorella Artemide che tutela questa terra, e che siede sul suo splendido trono,
nell’agorà, e invoco anche Apollo, che lungi saetta. Voi tre, che proteggete dal
male, mostratevi a me. Altre volte allontanaste la sventura dal paese, venite perciò
anche ora! Sopporto innumerevoli sventure, l’intero mio popolo è malato e non
esiste qualcosa che gli dia scampo: la terra non produce frutti, né le donne si
liberano dei loro dolori dopo aver partorito; e gli abitanti di Tebe si affrettano a
recarsi uno dopo l’altro a Occidente, verso la riva dell’Acheronte.
La città muore e i cadaveri dei tebani giacciono al suolo, senza che i loro cari li
possano compiangere, e le mogli e le madri gemono supplicando gli dei, mentre i
loro canti di dolore risuonano, come in un’unica voce. Oh, figlia di Zeus, manda
loro il tuo aiuto! Fa che Ares il violento, che anche quando non combatte riesce a
portare distruzione con la malattia, se ne vada via dalla mia terra, verso l’Oceano,
patria di Anfitrite, o verso il Ponto Eusino, presso la Tracia, poiché ora, ciò che la
notte risparmia, il giorno si appresta a distruggerlo. Oh Zeus, che possiedi il potere
della folgore, distruggi Ares sotto il tuo fulmine. Signore Apollo, vorrei che i tuoi
dardi scoccassero dal tuo arco d’oro, per difesa e protezione, vorrei che le fiaccole
ardenti di Artemide, con le quali corre fra i monti della Licia, si accendessero, e
vorrei che venisse il dio dalla mitra d’oro, Dionisio dal volto purpureo, che ha
dato il nome a questa terra, accompagnato dalle Menadi, per scacciare Ares, a cui
tutti gli dei rifiutano onore.”

Primo episodio
Edipo esce dal palazzo e lancia un appello agli abitanti di Tebe. Chiunque conosca
l’uomo che uccise Laio, ha l’obbligo di rivelare ogni cosa al re. Se l’assassino fosse
di un altro paese, chiunque lo conosca non deve tacere, e avrà così una ricompensa.
Ma se qualcuno, per paura di nuocere a se stesso o ai propri cari, non volesse parlare,
sarebbe punito severamente. I cittadini hanno l’ordine di non rivolgergli la parola, di
non renderlo partecipe dei sacrifici agli dei, di non ospitarlo nelle proprie case, in
quanto causa di contaminazione per la città, come affermato dall’oracolo. Edipo
diviene alleato del dio e del morto, e augura al colpevole di consumare una vita
infelice. Maledice coloro che non obbediranno ai suoi ordini, e loda coloro che si
schiereranno dalla sua parte. A questo punto parla il corifeo, che si sente costretto
dallo scongiuro di Edipo, e dice di non sapere chi sia stato, ma che Apollo avrebbe
dovuto rivelarlo nel suo oracolo, tuttavia, poiché la volontà del dio è imperscrutabile,
egli propone di mandare a chiamare l’indovino Tiresia, che predice il futuro come
Febo. Ma Edipo aveva già provveduto, e si stupisce perché il veggente non è ancora
giunto. Il corifeo frattanto racconta di altre strane voci che circolavano sull’uccisione
di Laio, secondo le quali il vecchio re era stato ucciso da dei viandanti, anche Edipo
aveva già sentito dire qualcosa a riguardo, ma non si riusciva a trovare il testimone
del fatto da nessuna parte. Sopraggiunge in quel momento il cieco indovino Tiresia,
guidato da un fanciullo e accompagnato da due uomini di Edipo. Egli però non vuole
saperne di rivelare il nome del colpevole, e si lamenta della sua arte che l’ha messo in
una terribile situazione. Edipo lo prega, lo supplica, ma Tiresia parla per enigmi e non
vuole riferire ciò che sa. Il re, irato, lancia insulti e maledizioni all’indovino,
definendolo malvagio fra i malvagi e arrivando ad accusarlo di essere il colpevole. Il
cieco allora, adirato a sua volta, afferma che il colpevole della sciagura è lo stesso
Edipo. Questi, stupito da tanta impudenza, non crede alle parole di Tiresia, che
continua a rivolgergli accuse: a suo parere il re, senza saperlo, ha i rapporti più turpi
con le persone più care. Ma per Edipo chiunque sia cieco nella mente, nelle orecchie
e negli occhi non può certo invocare la verità, e perciò egli finge di non udire quando
il vate gli rivela che quelle stesse offese molto presto saranno rivolte a lui. Alla fine il
re, esasperato dall’insistenza di Tiresia, si lancia in un appassionato discorso. Non
aveva mai voluto tutto ciò che gli era stato dato, e, ora che aveva finalmente trovato
la felicità, qualcuno, tramando nell’ombra, voleva portargliela via. L’unico che
poteva aver organizzato un simile piano era la persona a lui più vicina, il cognato
Creonte, che indubbiamente aveva orchestrato tutta una messa in scena, mandando da
lui l’indovino, col compito di accusarlo ingiustamente. Edipo infierisce anche su
Tiresia, insinuando che egli non sia un vero vate, ma un mago fasullo e impostore, e a
prova di ciò porta il fatto che il cieco non era stato capace di risolvere l’indovinello
della Sfinge, allorché la città ne aveva avuto bisogno, mentre lui, Edipo, con la sua
intelligenza aveva subito trovato la soluzione. Non sarebbe stato facile portargli via la
felicità che si era così faticosamente guadagnata. Per tentare di calmare le acque,
interviene il corifeo, osservando che le parole di entrambi erano dettate dall’ira: non
era certo questo ciò di cui la città aveva bisogno in quel momento, ma di riflettere su
come interpretare l’oracolo del dio. Tiresia però vuole ribattere alle parole di Edipo:
l’indovino si proclama devoto solo ad Apollo, non avrebbe di certo avuto bisogno di
Creonte come patrono. Ciò detto fa notare ad Edipo che non si sa neanche quali siano
le sue vere origini, e che accusandolo di essere cieco, non si accorge invece di esserlo
lui stesso. Edipo non si rende conto di trovarsi in una terribile sciagura, né sa con chi
veramente vive, e neanche di essere maledetto sopra e sotto la terra. Anche la
maledizione del padre e della madre perseguiteranno per sempre Edipo, che ora vede
bene, ma presto vedrà le tenebre, e che spesso dovrà pentirsi, in futuro, di quella sorte
che lo spinse a Tebe, dove trovò una sposa e dei figli a cui badare. Il re è libero di
oltraggiare finché vuole l’indovino, che parla nel nome di Apollo, e anche Creonte,
ma in seguito sarebbe stato severamente punito per la sua arroganza. Edipo, ancora
più irato per queste parole, lo scaccia via, chiamandolo stolto e maledicendolo. Ma
Tiresia, prima di andarsene, in un ultimo moto di sfida, riferisce ad Edipo che i suoi
genitori l’avevano sempre ritenuto saggio; udendo ciò, il re lo richiama per farsi
rivelare l’identità di suo padre e sua madre, l’indovino però, chiama un fanciullo
perché lo accompagni via, ma , prima di andarsene, svela ciò per cui era stato
convocato. L’uomo che Edipo cerca per vendicare l’uccisione di Laio, si trova ora a
Tebe. Dicono che sia un forestiero, ma poi si scoprirà che è nativo di questa città, e di
questo non avrà da rallegrarsi; diverrà cieco mentre prima vedeva, e povero invece
che ricco, se ne andrà da Tebe tastando il suolo con un bastone. Si scoprirà poi che è
insieme padre e fratello dei suoi figli, e figlio e marito di sua madre, e consanguineo e
uccisore del padre. Ciò detto Tiresia ingiunge ad Edipo di riflettere su queste parole,
e se scoprirà poi che esse non sono vere, potrà anche affermare che a pronunciarle era
stato un mago fasullo.
Edipo rientra nel palazzo, il coro inizia a cantare:

“Chi è colui che, secondo quanto disse l’oracolo di Delfi, compì delitti
indicibili? Per lui ormai è giunto il tempo di fuggire: contro lui si scaglia ora
armato il figlio di Zeus. Si udì infatti una voce parlare dal Parnaso: ognuno si
metta sulle tracce dell’uomo sconosciuto, poiché va errando per la foresta
selvaggia, per antri e per rocce, come un toro, solitario, cercando di eludere gli
oracoli di Delfi, invano. Sono terribili le cose che il saggio indovino ci disse, ma
io non so se credergli o negargli fiducia, non so che dire: mi abbandonano le
speranze, non posso vedere né il passato né il futuro. Non comprendo e non ho
mai compreso quale sia stato il motivo di contesa fra Edipo e i Tebani. Non vedo
nessuna ragione per la quale io mi possa opporre alla fama che circonda Edipo
fra le genti, per vendicare la misteriosa morte subita dai Tebani.
Certamente Zeus ed Apollo comprendono e conoscono bene le vicende dei
mortali, ma non può essere vero che un vate, anch’esso mortale, valga più di me:
poiché un uomo può sempre superare per intelligenza un altro uomo. Ma io,
prima di constatare se un presagio è vero o falso mi trattengo dal biasimare
Edipo. Io vidi quando la Sfinge gli propose il suo enigma, ed egli affrontò
saggiamente la prova, e vinse, e per questo a Tebe è caro: per questo io non gli
muoverò mai accusa di malvagità.”

Secondo episodio
Entra in scena Creonte, che ha appena saputo delle accuse che gli sono state mosse da
Edipo, e vuole discolparsi. Si rivolge ai Tebani: se è tale la considerazione che ha di
lui Edipo, egli non desidera vivere ancora, per sopportare una simile fama, l’accusa di
viltà che gli è stata mossa, non è lieve, ma gravissima. Il corifeo fa notare a Creonte
che le parole di Edipo erano state dettate dall’ira, piuttosto che da un giudizio
ponderato, anche se in ogni caso era stato senza dubbio il re in persona a pronunciare
quelle false accuse. In quel momento il corifeo si accorge dell’approssimarsi di
Edipo, e avverte Creonte. Il re esce dalla reggia, e vedendo il cognato, inveisce contro
di lui, stupendosi del fatto che abbia trovato il coraggio di mostrarsi, dopo aver
tramato per ucciderlo e per rubargli il trono, senza l’appoggio del popolo né di un
seguito. Creonte, a questo punto, esasperato, risponde all’accusa. Pretende
spiegazioni sul torto che Edipo dice di aver subito. Il re si è convinto della
colpevolezza di Creonte dopo aver sentito le parole di Tiresia, che, per trovare il
coraggio di pronunciare simili assurdità, doveva essere stato pagato per forza di cose.
Per poter sostenere la propria tesi, Edipo interroga il cognato sul passato
dell’indovino, e, venendo a
sapere che il suo nome non
era mai stato fatto, prima del
suo arrivo a Tebe, si
convince sempre di più
che, se Tiresia non fosse stato
d’accordo con Creonte, non
avrebbe mai potuto
attribuire a lui la morte di
Laio. Ma Creonte,
parlando con chiarezza, fa
notare ad Edipo che ha il suo
stesso potere, e lo stesso potere
di Giocasta sua sorella e moglie del re, e che, se avesse un qualsiasi desiderio, gli
basterebbe chiedere per vederlo esaudito. Inoltre non potrebbe desiderare di meglio,
poiché lo stesso potere di Edipo è suo, senza che egli si debba assumere gli oneri del
governo, oltre a ciò non desidera niente di più, poiché è ben voluto e rispettato dai
cittadini, che, quando hanno bisogno del re invocano lui, dato che per loro ottenere
qualsiasi cosa dipende da questo. Interviene nuovamente il corifeo, a far notare che
dovrebbero perlomeno nascere dei dubbi sull’innocenza di Creonte. I due però
continuano a discutere: il re vorrebbe mandare a morte l’altro, e d’altra parte questi
continua a protestare la sua innocenza. La discussione è ancora una volta interrotta
dal corifeo, che avverte dell’ingresso di Giocasta. La donna giungendo dalla reggia
rimprovera i due litiganti, ricordando la grave situazione che affligge Tebe. Ma Edipo
sostiene che, se Creonte non andrà via dalla città, toccherà a lui andarsene e accettare
il verdetto di Tiresia, anche se ingiusto a suo parere. Creonte sentendosi sminuito
dall’atteggiamento del re, si allontana.
Rimasta sola con Edipo, Giocasta, indugia nel ricondurlo a palazzo, vorrebbe infatti
sapere il perché del litigio fra i due uomini, ed Edipo le spiega che la causa della sua
ira sono le insidie che Creonte trama alle sue spalle, accusandolo, con l’aiuto
dell’indovino Tiresia, dell’assassinio di Laio. Perché Edipo abbandoni la sua ira,
Giocasta gli racconta un episodio accadutole al tempo in cui lei e Laio erano ancora
sposati. A Laio venne una volta un oracolo, da parte dei ministri di Apollo, secondo il
quale il suo destino sarebbe stato quello di morire per mano di un figlio, che fosse
nato da Giocasta e da lui. Eppure, come si raccontava, fu ucciso da predoni forestieri
alla convergenza di tre strade. Il figlio che avrebbe dovuto ucciderlo era nato
effettivamente, ma, dopo tre giorni dal parto, Laio gli aveva legato insieme le
caviglie, e lo aveva fatto gettare per mano d’altri giù da un monte inaccessibile. Così
Apollo non ottenne né che il bambino divenisse uccisore del padre, né che Laio
soffrisse per mano del figlio una sorte tremenda. Eppure questo avevano stabilito i
responsi degli oracoli. Naturalmente ciò dimostrava come le profezie non avessero
alcun valore. Edipo però, non sembra rassicurarsi udendo il racconto di Giocasta,
anzi, nel suo sguardo si accende improvvisamente un profondo smarrimento.Subito
chiede quale sia il luogo dell’assassinio di Laio, e quanto tempo sia passato da allora.
Il fatto era accaduto poco prima che Edipo divenisse re di Tebe, nella Focide, dove
convergono le strade da Delfi e da Daulia. Udendo ciò Edipo sembra ancora più
scosso, perciò la moglie, preoccupata, gli domanda cosa mai sia accaduto. Ma Edipo
non vuole rispondere, e continua a chiedere notizie sull’aspetto di Laio alla sua
partenza, e venuto a sapere anche questo, sconvolto, comincia ad avere dei dubbi sul
fatto che Tiresia sia veramente un veggente, tuttavia, cercando di trovare una sola
prova della propria innocenza, Edipo chiede a Giocasta se Laio fosse partito con un
gran seguito, o se avesse viaggiato modestamente. La risposta, ancora una volta,
sconvolge Edipo: Laio era partito con altri cinque uomini, con un solo carro, su cui
viaggiava lui stesso, e di questi cinque, uno solo era sopravvissuto. Costui tuttavia,
una volta rientrato a Tebe, e vedendo che vi regnava Edipo, aveva pregato Giocasta
di mandarlo via dalla città, nei campi, a pascolare le greggi, per essere il più possibile
lontano da Tebe. E lei aveva acconsentito, perché, pur essendo uno schiavo, meritava
molto di più. Scoprendo l’esistenza di un sopravvissuto all’eccidio, Edipo ricomincia
a sperare, e chiede di poterlo vedere. Giocasta dice che sarà fatto chiamare, ma anche
lei vorrebbe conoscere gli affanni del marito. Egli si confida. I suoi genitori, o coloro
che reputava tali, e che aveva sempre amato, erano il re e la regina di Corinto, Polibo
e Merope. Là egli era considerato il più importante dei cittadini, prima che gli
capitasse un fatto, che gli aveva procurato molto dolore. In un banchetto, un uomo
completamente ubriaco, lo aveva chiamato falso figlio di suo padre. Edipo, il giorno
dopo, turbato da quella rivelazione, si era recato dal padre e dalla madre, per chiedere
spiegazioni a riguardo; essi mostrarono di essersi molto offesi per l’oltraggio di chi
aveva osato pronunciare quella frase, e questo indubbiamente rassicurò Edipo, ma
quelle brucianti parole rimasero da allora e per sempre nel suo cuore. Di nascosto dai
genitori, si recò allora a Delfi, per interrogare l’oracolo, ma Apollo lo rimandò
indietro senza la risposta per ciò che voleva sapere, predicendogli invece, una sorte
terribile: si sarebbe sposato con sua madre, e avrebbe mostrato all’umanità una stirpe
mostruosa, sarebbe inoltre divenuto assassino del padre che l’aveva generato. Udito
ciò, disperato per l’orrendo futuro che l’attendeva, Edipo, orientandosi con le stelle,
aveva lasciato per sempre la terra della sua infanzia, ed era fuggito dove il tremendo
vaticinio, si augurava, non l’avrebbe mai raggiunto. Lungo la strada, all’incrocio fra
le vie, gli si erano fatti incontro un araldo e un uomo, come gli era stato descritto da
Giocasta, su un carro trainato da puledri, e il guidatore e lo stesso vecchio l’avevano
spinto con arroganza fuori strada. Edipo, in un impeto d’ira, colpì il guidatore del
carro, ma il vecchio, non appena lo vide passare a lato del veicolo, lo ferì con uno
staffile a due punte. Ma pagò caro quel gesto, Edipo lo colpì a sua volta con il proprio
bastone, ed egli cadde dal carro, dal quale venne poi travolto, tutti gli altri vennero
uccisi. Il re termina il suo racconto, disperandosi sulle sue disgrazie, poiché poteva
esserci evidentemente una connessione fra Laio e lo straniero. La sorte di Edipo
potrebbe essere tragica, nessuno dopo tale delitto, lo accoglierebbe più nella sua casa,
nessuno gli rivolgerebbe più la parola, egli dovrebbe andarsene lontano, colpito dalle
sue stesse imprecazioni, solo e abbandonato da tutti, in esilio, senza più poter vedere
la sua famiglia, senza poter tornare dai suoi genitori, col costante pericolo che si
avveri quanto gli aveva predetto l’oracolo. Giocasta tenta in qualche modo di
rassicurarlo, ricordandogli che ancora non è stata udita la testimonianza del pastore,
ed Edipo ripone in lui tutte le sue speranze: se egli dovesse rivelare che furono in
molti ad uccidere Laio, Edipo sarebbe innocente, in caso contrario, il delitto
ricadrebbe su di lui. Giocasta lo rassicura che la prima di queste fu la versione allora
data dal pastore, e che in ogni caso Laio sarebbe dovuto morire per mano di un suo
figlio, cosa che non accadde, e perciò non si potrebbero tenere in conto le altre
profezie. Detto ciò la regina fa chiamare il pastore, e i due regnanti rientrano nel
palazzo.
Il coro inizia a cantare:

“Ah, se il Fato rendesse ogni mia parola e ogni mia azione pura e santa! Le sue
leggi sublimi stanno alte nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre: non le
generò natura mortale di uomini, né mai l’oblio potrebbe farle tacere, un dio
potente è in esse, e non invecchia.
L’arroganza genera i despoti, ma poi si empie follemente di molte cose non
opportune e non convenienti, e giunta sulla cima di altissimi dirupi, subito
precipita in abissi profondi.
Prego il dio di non interrompere la lotta per la salvezza della città, egli sarà
sempre il mio difensore.
Ma se qualcuno, con i suoi atti o i suoi discorsi, dimostra superbia, senza temere
Dike, dea della giustizia, e senza rispettare le sedi dei Numi d’Olimpo, mala
sorte lo colga, per il suo orgoglio sciagurato, se cercherà ingiustamente
guadagno, e non si asterrà da sacrileghi atti. Chi mai potrebbe trattenere il suo
sdegno pungente nell’animo? Se infatti queste azioni verrebbero onorate, a cosa
servirebbe il mio canto?
Non mi recherò più a Delfi, né al tempio di Abe, né ad Olimpia, finché gli
uomini non saranno d’accordo su queste cose evidenti. E tu, Zeus, sovrano,
poiché sei giustamente così chiamato, perché su ogni cosa regni, fa che nulla
sfugga a te e al tuo potere in eterno immortale. Ecco infatti gli oracoli antichi su
Laio vengono rifiutati, perché non ancora adempiuti, e in nessun luogo si onora
Apollo con i dovuti onori.”

Terzo episodio

Giocasta esce dalla reggia, seguita dalle ancelle che portano corone di fiori e vasi
d’unguenti. Annuncia al popolo di Tebe di aver preso la decisione di recarsi ai templi
degli dei, per portare le sue offerte. Edipo infatti continua a preoccuparsi con
problemi e affanni di ogni sorta. Ora, dunque, le uniche speranze risiedono in Apollo,
l’unico che potrebbe placare gli affanni di Edipo, che non pensa più a regnare sulla
sua città. Giunge in quel momento un nunzio, che chiede indicazioni per arrivare al
palazzo reale. Gli risponde il corifeo, indicandogli la reggia e la moglie del re. Il
nunzio si rivolge a Giocasta, salutandola come si conviene ad una regina, le annuncia
poi di portare buone nuove per
Edipo, nuove delle quali però, il
re potrebbe anche affliggersi.
Suo padre Polibo è deceduto, e i
cittadini di Corinto attendono
Edipo per eleggerlo come nuovo
re. Giocasta esulta, e manda
un’ancella a chiamare il
re: ancora una volta gli oracoli
non dicevano il vero, il padre
di Edipo è morto senza che il
figlio l’abbia ucciso. Edipo esce
da palazzo e chiede alla moglie
perché lo abbia mandato a
chiamare. Venuto a sapere che il vecchio re morì di malattia e di vecchiaia, Edipo si
chiede il perché di quei vaticini, che non avrebbero valore, a meno che Polibo non sia
morto di dolore per il figlio scomparso. Giocasta, trionfante, gli ricorda che lei aveva
sempre sostenuto l’invalidità degli oracoli, ma Edipo teme ancora che si possa
avverare la seconda parte della predizione, che gli preannunciava il matrimonio con
sua madre Merope, che era ancora in vita. Il nunzio, non capendo di cosa si parli,
chiede spiegazioni. Edipo gli racconta la sorte che gli predisse un tempo l’oracolo di
Apollo, per salvarsi dalla quale, egli era fuggito dalla sua terra per rifugiarsi in paesi
lontani. Il nunzio afferma di poter liberare il re dai suoi timori, svelandogli un segreto
di cui è a conoscenza. Edipo fu portato ai re di Corinto dalle sue stesse mani, e da
loro era stato adottato ed amato come il figlio che non avevano mai avuto. Dietro
insistenza di Edipo, il messo racconta di aver trovato il bambino appena nato nelle
valli del Citerone, mentre badava alle greggi montane. Il bambino aveva le giunture
dei piedi legate e sanguinanti, e il pastore, avendone pietà, aveva slegato i lacci, e gli
aveva dato come nome Edipo, “piede gonfio”. Il re allora vorrebbe conoscere le sue
origini, ma il Nunzio a questa domanda non sa rispondere, perché il bambino gli era
stato dato da un altro pastore, certamente un uomo di Laio. Si trattava probabilmente,
secondo il corifeo, dello stesso contadino che aveva assistito all’omicidio del vecchio
re. Edipo ne chiede conferma a Giocasta, ma la donna sembra voler dissuadere Edipo
dal ricordare il passato, e lo prega di non indagare oltre, perché lei ne soffrirebbe. Il
re si convince che sua moglie tema di avere un marito dalle umili origini, e decide di
continuare ad indagare. Giocasta lo supplica di ascoltarla, ma poi, con disperazione,
gli augura di non ritrovare mai le sue origini, e detto ciò rientra nel suo palazzo. Il
corifeo si domanda il perché di tale reazione, ma Edipo è convinto che sua moglie,
superba come tutte le donne, si vergogni di avere un marito di umili origini.

Interviene nuovamente il coro:

“Se davvero io sono un buon profeta, dal pensiero sapiente, ed esperto delle
vicende degli dei, o Citerone, domani tu sarai esaltato come patria e nutrice di
Edipo; e noi ti celebreremo nei cori, perché tu gratifichi con una lieta sorte i
nostri sovrani. E a te, o Febo, che guarisci dai mali, sia grato questo voto.
O figlio, quale tra le ninfe longeve ti generò, congiunta con Pan, che vaga tra i
monti? O si unì forse con il nume che predice oracoli ambigui, al quale son care
le contrade selvagge? O al dio Hermes il signore del monte Cilene? O ti ebbe
Bacco divino, che abita le vette dei monti, da qualcuna delle ninfe Eliconie, con
cui spesso si svaga? ”

Quarto episodio

Entrano due servi conducendone un terzo, un anziano pastore. Edipo, vedendo il


vecchio che gli viene condotto dinnanzi, ritiene che sia l’uomo che da tempo sta
cercando, e ciò gli viene confermato dal corifeo, che lo riconosce come il pastore più
fidato di Laio. Il re ne chiede conferma al nunzio, che a sua volta lo identifica come
l’uomo che a suo tempo gli aveva consegnato il bambino. Interrogato, il vecchio
pastore, ammette di essere stato uno schiavo di Laio, allevato in casa sua. Per tutta la
vita aveva condotto le greggi, ed era vissuto sul Citerone, e nella regione circostante.
Il nunzio gli ricorda i lunghi mesi che avevano trascorso insieme, sui monti, e il
pastore lo riconosce, anche se dopo molto tempo. Ma quando il nunzio gli ricorda del
bimbo che gli aveva donato perché lo crescesse come suo, il vecchio, sorpreso, gli
ingiunge di tacere e di non parlare oltre. Ma dopo le minacce di Edipo, sebbene
restio, confessa di avergli ceduto il neonato, e si lamenta di non essere morto quel
giorno. Il bambino gli era stato dato da uno della famiglia di Laio, il vecchio non
vorrebbe parlare oltre, ma Edipo minaccia di ucciderlo, ed egli ammette che si diceva
che il bimbo fosse figlio dello stesso re, e che fu la stessa Giocasta a darglielo. Un
vaticinio aveva infatti predetto che l’infante, una volta cresciuto, avrebbe ucciso suo
padre. Il vecchio lo aveva donato al messo, perché lo portasse lontano, ma egli lo
aveva salvato, e ora si scopriva che quello stesso bimbo era divenuto re di Tebe.
Edipo comprende, i vaticini si sono avverati, egli fu generato da chi non doveva, e
con chi non doveva si congiunse, e chi non doveva uccise. Detto ciò, disperato,
rientra nel palazzo, seguito dai servi e dal nunzio.

Il coro intona:

“Ahi, generazioni dei mortali, simile è al nulla la vostra vita! Gli uomini trovano
grande felicità nel credere di essere felici, ma non appena credono in ciò, la loro
felicità scompare. Avendo come esempio, la tua, la tua sorte, o misero Edipo, la
tua, posso capire come nessuna condizione umana sia davvero felice.
Tu, con grande abilità e con ambizione, avevi volto lo sguardo ad un’ardua mèta,
e avevi conquistato una grande felicità. Avevi sterminato la Sfinge, la vergine
dagli adunchi artigli, cantatrice di vaticini, e in questo modo ti eri elevato come
protezione contro la morte, a difesa di Tebe, e da noi fosti eletto re, e regnasti
sulla nostra città, coperto di onori.
Ma ora, chi si può dire più misero? Chi mai si ritrova ad avere la vita sconvolta a
tal punto da affanni e sciagure? Ahi, glorioso Edipo, a quale infausto porto sei
giunto! Ad un letto nuziale che ti vede insieme padre e figlio. Come ha potuto
sopportarti così a lungo, disgraziato, la terra seminata da tuo padre?
Il tempo, occhio che tutto può vedere, ti ha scoperto, tuo malgrado. E ora giudica
queste nozze, che nozze non sono, e dà dannazione al tuo letto, e a te figlio, che
sei anche sposo. Ahi, figlio di Laio, mai, mai ti avessi conosciuto! Perché adesso
mi dispero in questo cupo dolore, e verso lamenti dalla bocca: proprio io, che da
te fui salvato, ora per mano tua muoio.”

Esodo

Un nunzio esce da palazzo, e rivolgendosi ai cittadini, si lamenta della triste sorte


della casa dei Labdacidi. Nessun sacro fiume potrebbe più lavare o purificare la
reggia di Tebe, per tutto ciò che ha finora celato, e che presto verrà rivelato alla luce,
disgrazie volontarie e involontarie, e soprattutto quelle liberamente scelte. Un’altra
tragedia è da poco avvenuta: Giocasta è morta, e per sua stessa mano. Quando
Giocasta comprese che le predizioni nefaste si erano avverate, in preda alla
disperazione, subito si precipitò nella reggia, e, gettandosi sul letto nuziale, si strappò
i capelli con entrambe le mani. Poi sprangò le porte, e invocò Laio, ormai da tempo
scomparso, ricordando come dal frutto del loro amore egli stesso morì, lasciando poi
lei a generare con suo figlio una terribile stirpe. E così gemeva sul letto, dove infelice
aveva generato dal marito un marito, e dal figlio altri figli. E dopo, non si sa come, si
uccise: infatti a quel punto era giunto Edipo gridando, e non era stato possibile
assistere alla fine di lei, perché tutti gli sguardi si erano spostati su di lui, mentre si
aggirava tra i presenti, supplicandoli di dargli un’arma, e chiedendo dove fosse la
moglie, non a lui moglie ma madre, al tempo stesso sua e dei suoi figli. Il nunzio
prosegue il suo racconto, ricordando come Edipo, certo ispirato da un nume, si era
precipitato sulla porta sprangata, svellendo i battenti dai cardini, e lì un’orribile scena
si era mostrata ai suoi occhi: Giocasta si era impiccata, strozzata con lacci attorti; ed
egli, misero, non appena la vide, urlando terribilmente, allentò il cappio sospeso. Il
corpo inerte della donna giacque a terra, uno spettacolo orribile a vedersi. Edipo,
strappata la fibbia aurea che ornava le vesti di lei, la levò in alto sulla sua testa, e si
colpì ripetutamente gli occhi, gridando che così non avrebbero visto né le sventure
che soffriva, né quelle che provocava, e che ormai nelle tenebre non avrebbe visto più
i suoi figli, e non avrebbe conosciuto i suoi veri genitori. E così gridando, stravolto
dal dolore, continuava a colpirsi gli occhi, e le orbite sanguinanti bagnavano la barba,
e non versavano liquide stille di sangue, ma rovesciavano una nera pioggia,
un’orribile tempesta. E il nunzio conclude, dicendo che la terribile sciagura colpì
l’uomo come la donna, entrambi, non uno solo dei due. La felicità antica era
veramente tale, ma ora, in questo giorno tremendo, niente viene a mancare: pianto,
sventura, morte, orrore, e quante altre sciagure possono avere un nome.
“E ora-, vuole sapere il corifeo,- l’infelice avrà qualche tregua dal male?”
Ma il nunzio fa sapere che il re ha dato ordine di aprire le porte, e di mostrare alla
città l’uccisore di Laio, colui che dalla madre….
Edipo ha gridato altre orribili parole, dicendo di volersi esiliare dal paese, e che non
rimarrà più a lungo in quella casa, maledetto dalle imprecazioni che lui stesso aveva
lanciato.Eppure egli ha bisogno di un sostegno, di una guida, il suo male è troppo
grande da portare. Ma ecco che si aprono i serrami della porta, lo spettacolo che
apparirà sarà tale, da muovere a pietà i più spietati nemici.
Il nunzio smette di parlare, Edipo esce dalla reggia con il volto insanguinato,
procedendo a tastoni.

Il coro intona:

“Oh, sofferenza, terribile a vedersi per i mortali, la più terribile fra quante io
finora incontrai! Quale follia, o infelice Edipo, ti investì? Quale dio ti assalì, con
questo tuo avverso destino?
Ahi, ahi, sventurato! Non posso nemmeno guardarti, né parlarti, pur volendo
interrogarti molto, tale è il raccapriccio che susciti in me.”

Edipo si dispera, non sa dove andare, non sa che fare, non sente più la sua voce, si
lamenta del suo terribile destino. Una nuvola di tenebra, tremenda e immane lo
sovrasta, infausta per lui: il tormento delle ferite che si è inflitto, e il dolore per il
ricordo dei mali, sono troppo pesanti da sopportare. Il corifeo interviene, parlando ad
Edipo, provando pena per il dolore e per la sofferenza che deve sopportare. Egli,
nonostante la cecità, riconosce la sua voce, chiamandolo amico. Il corifeo vorrebbe
sapere quale dio ha portato Edipo a compiere la terribile azione di spegnere per
sempre i suoi occhi, ed egli dà la colpa ad Apollo per i suoi mali, il dio che gli aveva
predetto quel terribile destino, non avrebbe più senso poter vedere, perché nulla
sarebbe più dolce, dopo questi terribili avvenimenti. Vuol’essere portato via, lontano,
al più presto, perché la città sia salva, nulla può più udire con gioia. Continua a
lamentarsi della sua sorte: se nessuno l’avesse raccolto, se fosse morto il giorno
stesso della sua nascita, non sarebbe ora divenuto assassino di suo padre, né sposo di
sua madre. Ora è un sacrilego, con figli a sé uguali, il male più grande d’ogni male lo
ha colpito. È certo di aver fatto la cosa migliore, essendo ora cieco, non potrà più
vedere negli inferi sua madre e suo padre, verso entrambi aveva commesso atti, per i
quali la morte non sarebbe bastata. Non voleva più vedere i suoi figli, né la città, né le
mura, né le immagini sacre degli dei. Egli stesso diveniva vittima delle sue
maledizioni, nessuno più avrebbe dovuto accoglierlo né rivolgergli la parola, non
avrebbe esitato a otturare le proprie orecchie, se gli fosse stato possibile, sì da non
vedere le cose turpi che aveva commesso. Ma
poiché non bisogna dire ciò che non è bello fare,
desiderava essere nascosto, o ucciso, o buttato in
mare, da qualcuno che avesse voluto toccarlo,
nonostante i mali che si portava dietro. In quel
momento il corifeo annuncia l’arrivo di Creonte,
l’unico custode del paese ormai rimasto. Edipo si
rende conto di essere fino ad allora stato ingiusto nei
confronti del cognato, e non sa come comportarsi.
Creonte tuttavia non ha intenzione di rinfacciare
ad Edipo il suo comportamento, ma non
vuole che egli rimanga alla luce del sole, vuole che
sia ricondotto in casa, perché solo i suoi parenti
possano ascoltare i suoi mali. Edipo prega Creonte di essere mandato via il più presto
possibile dalla città, dove non possa più parlare con nessuno. E Creonte l’avrebbe già
fatto, ma desidera prima conoscere le decisioni degli dei a riguardo, egli sa bene che
Apollo già si pronunciò, ma desidera chiarire meglio la questione. Edipo vorrebbe
solamente affidare a Creonte quel che resta della sua famiglia. Chiede allora di
seppellire il corpo di Giocasta nel sepolcro; vorrebbe restare a vivere sui monti, sul
Citerone, che l’aveva visto nascere, è sicuro infatti che niente potrà ucciderlo, si era
già salvato dalla morte, a causa della sua terribile sorte. Quanto ai suoi figli maschi,
là dove avessero trascorso la loro infelice esistenza, avrebbero trovato di che vivere:
Edipo si preoccupa invece delle figlie femmine, e chiede a Creonte di aver cura di
loro, esprime poi il desiderio di poterle accarezzare un’ultima volta prima di essere
esiliato. Proprio in quel momento, sente le figlie piangere, Creonte le ha fatte
chiamare.
Le piccole Ismene e Antigone escono da palazzo, condotte da una schiava, e si
avvicinano ad Edipo. Egli le chiama, dispiacendosi dello stato in cui si trova,
invitandole a non spaventarsi. Piange anche per loro, sapendo che hanno davanti una
misera vita, a causa della reputazione del padre. Così dicendo si lamenta per la sorte
delle sfortunate, perché sa che mai potranno trovare marito. Prega Creonte di avere
pietà di loro, e augura alle figlie un destino migliore del suo. Creonte lo invita allora a
smettere di piangere e ad entrare in casa, ed Edipo acconsente suo malgrado, ma al
patto che Creonte prometta di bandirlo definitivamente da Tebe.Egli è convinto
infatti, di essere l’uomo più aborrito dagli dei, ed è sicuro di ottenere ciò che ha
chiesto. Tutti entrano nella reggia. Parla il corifeo, rivolgendosi ai cittadini dell’antica
Tebe: Edipo, colui che conosceva gli enigmi famosi ed era il più valente fra gli
uomini, invidiato fino a poco tempo prima da tutti i cittadini per la sua sorte, ora è
approdato ad un porto di terribili sciagure.
È vero: non si può dire che sia sereno nessun mortale che ha dentro la morte, e
guarda verso di essa con occhi sbarrati. Deve oltrepassare l’ultima soglia, oltre la
vita, prima di essere reputato tale, senza aver sofferto a causa delle ferite del male.

Personaggi

Edipo
È sulla figura di Edipo che la tragedia trova il suo significato.
L'Edipo Re è la storia di un uomo riconosciuto come uguale agli dei dal punto di vista
degli uomini, ma pari a nulla, cieco, per gli dei. L'arte di Sofocle di accentrare il
dramma attorno ad un unico personaggio, trova in quest’opera il suo culmine,
mostrando tutti gli aspetti dell’uomo. Tutta la tragedia è incentrata sul protagonista,
ed è volta svelarne la natura profondamente drammatica. Edipo risulta essere l’eroe
tragico per eccellenza, precipitando dal gradino più alto alla condizione più misera.
La figura di Edipo è quella del cieco per antonomasia: egli vede la luce solo per un
breve momento, e, dopo averla scorta, ritorna alle tenebre accecandosi con le sue
mani. Cieco prima, poiché pur vedendo non si accorgeva della sua situazione, e cieco
poi, poiché pur conoscendo, non poteva vedere le cose che sapeva.
Edipo viene condotto dall’autore al più basso grado di abiezione e di miseria, per poi
essere risollevato attraverso la compassione; gli vengono attribuiti i delitti più orrendi
per poi essere compianto nella rovina. Fin dal suo apparire, la figura di Edipo è una
continua contraddizione. Egli, l’accorto, l’esperto, non vede nulla, non si accorge di
quanto gli accade intorno. Non si rende conto della sua situazione, finché non gli
viene mostrata in ogni particolare: sembra quasi non voler credere a ciò che sente, si
ostina a rifugiarsi nell’ottusità e nell’ignoranza. Dopo essersi accecato, vorrebbe
turarsi per sempre le orecchie, per non dover sentire, dice, suoni che non gli portano
più alcuna felicità, ma sembra invece che non voglia avere alcun contatto con la
tremenda verità. Anche quando questa gli appare chiara, per lui è talmente
incomprensibile ed assurda, da portarlo ad un gesto che lo renda cieco, come se così
gli potesse essere più facile il non vederla. Le sue parole, inoltre, nascondono, sotto la
riaffermazione di questo concetto dell’errore che acceca l’eroe, delle verità
indirettamente rivelate all’intuizione del pubblico. È in queste parole che si può
evidenziare l’ironia tragica sofoclea: Edipo le pronuncia senza badarci, ma esse si
rivelano alla fine, profetiche. Un tempo amato e potente signore, Edipo, alla fine del
dramma, rivela di essere una creatura misera e mostruosa, cieco alla realtà quando i
suoi occhi vedevano, scopre le trame del destino nel momento stesso in cui la sua
vista si spegne. Trionfatore sugli arcani della sfinge, resta sordo alle allusioni che tutti
intorno a lui hanno dolorosamente compreso. Edipo è il simbolo dell’impotenza
dell’intelletto umano che si macchia di colpa nel tentativo di superare sé stesso, e che
perciò viene duramente punito. Nel suo destino si attua la tragica caduta da una
posizione di suprema felicità, alla misera follia dell’impotenza, ed è proprio nel fatale
momento della comprensione che coincide il suo annientamento. La sua colpa non sta
tanto nelle sue azioni, che per quanto siano delittuose non sono volute, quanto nella
sua tensione alla conoscenza. Edipo pretende di sapere ciò che non gli era stato
concesso, e a contatto con la conoscenza cade, annientato dalla durezza della verità.

Giocasta

La figura di Giocasta, è molto simile a quella di Edipo, ma rivela una più spiccata
capacità di comprensione. Mentre Edipo comprende solo alla fine la verità, quando
questa gli viene rivelata in tutte le sue sfaccettature, Giocasta comprende molto
prima, e solo attraverso un piccolo particolare, insignificante agli occhi di Edipo: il
bambino da lei consegnato al pastore affinché l’uccidesse, aveva i piedi legati, così
come quello ricevuto in dono dal nunzio sul Citerone. Giocasta sa di essere stata
punita soprattutto per la sua alterigia. Ella, a differenza di Edipo, non teme nel modo
più assoluto gli oracoli, e non si preoccupa di ciò che predicono, è assurdamente
sicura di essere sfuggita al destino, uccidendo il neonato da lei generato. Ma il
destino, come si sa, nella concezione greca è ineluttabile, inevitabile. E Giocasta paga
la sua presunzione in un modo atroce. Non può immaginare cosa ha in serbo il Fato
per lei, non può lontanamente pensare che il passato di Edipo sia irrimediabilmente
intrecciato con il suo. Così, quando Edipo le rivela l’oracolo infausto, non si
preoccupa minimamente per se stessa: suo figlio è morto da tempo in fondo ad un
dirupo. Alla fine la sorte colpisce entrambi, atrocemente, la donna e l’uomo,
indistintamente, come tutto il genere umano, e sempre entrambi sono puniti, l’uno
con la privazione della luce, poiché neanche quando vedeva era stato capace di
scorgerla, e l’altra con la privazione della vita, la stessa che aveva cercato di togliere.

Tiresia

Significativa la figura dell’indovino Tiresia: benché compaia esclusivamente nel primo episodio, la

sua voce e la sua predizione permeano tutta la tragedia. Egli è l’unico a conoscere interamente il

passato e il futuro, e sa anche quanto il suo sapere e la sua arte profetica gli siano d’intralcio in

questa situazione. Come tutti quelli che vengono a sapere come stanno le cose, Tiresia si rifiuta di

parlare, di svelare il colpevole. Ma Edipo, nella sua presunzione di ignorante, non ascolta le

suppliche del vecchio, e, con male parole, lo costringe a parlare. Ed egli parla, ma non tanto per

voler salvare la città dalla tremenda situazione, quanto per esasperazione. E ovviamente Edipo non
ascolta le sue parole, perché così dev’essere ai fini della trama, perché la tragedia possa compiersi

in modo ancor più drammatico. Edipo anzi si stupisce del perché il suo nome non sia mai stato fatto

prima, e una prima risposta potrebbe essere il fatto che Tiresia non abbia voluto parlare, per timore

che in futuro qualcuno risalisse a lui, e lo accusasse di aver diffamato Edipo. Ma la verità in questo

caso non ci è dato di saperla.

Creonte

In realtà la figura di Creonte nell’Edipo Re è molto più marginale rispetto alle altre
due tragedie che trattano della stirpe dei Labdacidi. La sua funzione nell’Edipo Re è
inizialmente quella di messo, annunciatore dell’oracolo di Apollo, poi quella di
antagonista di Edipo, visto come cospiratore agli occhi del re, e infine, in un certo
senso, e colui che provvede ad attuare le decisioni dell’oracolo. Edipo si convince
della sua colpevolezza soprattutto perché è Creonte che lo convince a chiamare
l’indovino che gli fornirà la profezia infausta. Creonte però riesce a dimostrare la
propria innocenza, ed Edipo, non trovando altri a cui poter attribuire la colpa per il
tremendo vaticinio, continua ad accusarlo ingiustamente, e minaccia addirittura di
mandarlo a morte. Ma pagherà alla fine questa sua arroganza, quando risulteranno
chiare l’innocenza di Creonte, e la sua colpevolezza. Tuttavia, sempre nella parte
finale, anche il personaggio di Creonte sembra acquisire una certa altezzosità, data
forse dal trionfo della verità, che lo premia, mettendo in cattiva luce il re. Nell’ultima
parte sarà Creonte ad assumere su di sé il
comando della città, e la sorte di Edipo
dipenderà da lui, la tragedia si chiude però,
senza che il verdetto sia stato emesso.

COMMENTO

Le tragedie tebane, ossia relative alla saga


dei Labdacidi, non costituiscono una
trilogia,come a volte impropriamente si
denomina il complesso. Esse vennero
composte e rappresentate da Sofocle
separatamente, a distanza di decenni: né la loro successione cronologica riflette il
corso degli avvenimenti del mito. Infatti, la più antica, è l’Antigone, che rappresenta
l’episodio conclusivo della storia; venne poi l’Edipo Re; infine l’Edipo a Colono fu
l’ultima tragedia sofoclea. Si tratta, dunque, di opere indipendenti l’una dall’altra,
anche se è possibile notare alcuni richiami a distanza, dalle opere posteriori alle
precedenti, peraltro relativi solo alla ripresa di alcuni dettagli, volta per volta ribaditi
e corretti.
La prima fase storica del mito di Edipo e della sua stirpe era rappresentata da due
poemi epici del cosiddetto ciclo tebano, l’Edipodia e la Tebaide: Ma di essi non è
rimasto abbastanza da consentire un’esauriente ricostruzione. Ci è dato anche di
sapere che in sede letteraria preesistevano a Sofocle certi dati fondamentali della
vicenda centrale della saga.
L’Edipo Re è il sommo esempio dell’arte tragica greca. Nella sua struttura i colpi di
scena e i personaggi si dispongono al di fuori del normale fluire degli eventi, e sono
volti a mettere in risalto la figura e il destino di Edipo. Accade allora che, ad esempio
nei lunghi anni del suo regno a Tebe, Edipo non abbia mai avuto notizie
sull’uccisione di Laio; ancora più illogica è l’ottusità di Edipo di fronte a rivelazioni
che si intrecciano in trasparente chiarezza. Tuttavia, è proprio grazie a queste
incongruenze che viene esaltato il personaggio tragico di Edipo.
L’intero dramma è formulato in base all’enigma: la vicenda ha inizio con la vittoria
dell’ingegno di Edipo sul quesito della Sfinge, e si conclude con la sua rovina nel
momento in cui riesce a svelare un secondo enigma, quello della sua identità.
L’opera potrebbe avere come significato simbolico la natura indecifrabile
dell’umanità: i suoi rapporti con le divinità sono oscuri, come anche i motivi del suo
agire.
L’Edipo Re ha inizio quando Edipo è già da tempo re di Tebe: ma il motivo che l’ ha
portato ad assumere l’importante carica, viene svelato per gradi, attraverso velate
allusioni. La vera storia di Edipo ha in realtà inizio in un tempo molto più lontano, ed
è caratterizzata da un andamento ciclico, che lo vede nascere a Tebe, per poi lasciare
la città e farvi ritorno, inconsapevole delle proprie origini, solo in età adulta.

La tragedia si apre, con il prologo, davanti alla reggia di Edipo, a Tebe: la città è
devastata da un’epidemia, della quale non si conosce l’origine. Indubbiamente si
tratta di una punizione divina per una colpa della popolazione. In questo modo viene
introdotto dall’inizio il tema della punizione dell’errore umano, ad opera della
divinità, il cui volere è imperscrutabile, attraverso una catastrofe naturale: ogni
evento nella vita dell’uomo viene ad assumere un preciso significato all’interno del
piano di esseri superiori, nulla avviene per caso. E questo è dimostrato anche dal fatto
che l’unica soluzione che Edipo riesce a trovare al problema, dopo aver a lungo
meditato, è quella di richiedere un responso all’oracolo di Delfi.
Il quadro iniziale della situazione viene reso alla perfezione, attraverso il dialogo tra
Edipo e l’anziano sacerdote di Zeus: la visione della città di Tebe, piegata dalla peste,
appare nitida e chiara, evocata dalle parole del sacerdote, in un passo altamente
poetico e commovente. Sempre in questo tratto viene fatta la prima allusione alla
vittoria di Edipo sulla Sfinge, mai citata direttamente, che qui viene definita con un
eufemismo “dura cantatrice”. Il popolo si rimette completamente alle decisioni di
Edipo, migliore fra i mortali, per essere salvato da lui una seconda volta. Eppure è
proprio la saggia decisione del re, che segnerà l’inizio della sua fine. Creonte, fratello
della moglie di Edipo, inviato a chiedere il vaticinio, ritorna con il responso.
Febo ha ordinato di cacciare dal paese il contagio nutrito in quella terra, sottoforma di
un uomo, o meglio, un assassino: l’uccisore di Laio. La storia dell’assassinio viene
raccontata attraverso uno scambio di battute fra Edipo e Creonte; tuttavia non è
ancora resa nei minimi particolari: verrà infatti svelata col procedere della tragedia,
parallelamente alla rivelazione della vera identità di Edipo.
Sempre in questo dialogo vengono alla luce le prime tracce dell’ “ironia tragica” di
Sofocle, volta a svelare il terribile destino che attende Edipo, sempre attraverso
enigmi e allusioni che risulteranno chiari solo alla fine. Si può anche dire che su
questa tragica ironia si basa lo stesso evento scatenante della tragedia, poiché, se la
città non fosse stata sconvolta dalla peste, Edipo probabilmente, nonostante la sua
lunga permanenza a Tebe, non si sarebbe mai interessato della morte di Laio, e non
avrebbe mai scoperto la sua vera identità, questa è ovviamente una coincidenza al di
fuori della logica e della realtà umana. È opportuno citare sempre a proposito di
quest’aspetto ironico della tragedia, il passo in cui Edipo afferma di sapere
dell’assassinio di Laio, ma di non averlo mai visto, poiché quando giunse in città egli
era già morto da tempo: egli non può ancora immaginare cosa gli riserva la sorte, non
sa di essere la causa del male che affligge Tebe, e, di conseguenza, non può notare la
concordanza cronologica fra la morte di Laio e il suo arrivo a Tebe; come afferma
Creonte poco dopo: ciò che si cerca si può prendere, ma sfugge ciò che è trascurato.
Fondamentalmente ironico, anche se grottesco, il passo in cui Edipo si nomina
difensore di Laio, e si propone di scovare ad ogni costo il suo assassinio: chiunque
infatti fu ad uccidere Laio potrebbe voler uccidere anche Edipo, e dunque in questa
lotta saranno due le possibili soluzioni, “o saremo vittoriosi, o cadremo”.
Entra a questo punto il coro, che apre con una splendida invocazione alle divinità
olimpiche, affinché si coalizzino per scacciare dalla loro terra Ares, latore non solo di
guerre, ma anche di malattie e affanni. Drammatico e commovente il lamento
accorato, nel quale si ricorda la triste sorte dei cittadini di Tebe, che muoiono l’uno
dopo l’altro, e come alati uccelli,si precipitano alla riva del dio d’occidente, ossia la
riva dell’Acheronte, poiché, secondo la concezione omerica, l’Ade è collocato
all’estremo limite occidentale della terra.

Il primo episodio, ha inizio con un lungo monologo di Edipo, in cui ancora una volta
si esplica in modo evidente l’estrema tragicità della sua figura. Egli promette a
chiunque riveli qualcosa sulle oscure circostanze della morte di Laio, una
ricompensa, ma si schiera contro coloro che, pur sapendo, tacciono. Edipo prosegue,
lanciando invettive all’indirizzo del colpevole, maledicendolo, e augurandogli ogni
male. Quanto amaramente si pentirà in seguito, di quelle parole pronunciate senza
sapere! L’intreccio comunque prosegue. Spinto dalle parole di Edipo, il corifeo, ossia
il più importante membro del coro, che assume nel contesto un ruolo di vero e
proprio personaggio, è indotto a parlare, e pur non sapendo nulla riguardo alla morte
di Laio, si stupisce del fatto che Apollo non abbia svelato nel suo oracolo l’identità
dell’assassino: Sofocle si serve dell’imperscrutabilità del volere divino, per spiegare
il perché di questa lacuna nella profezia, lacuna che è ovviamente funzionale allo
sviluppo della tragedia, la trama, infatti, sarebbe venuta a mancare se Edipo avesse
scoperto subito la verità sulla sua condizione. Il corifeo suggerisce anche al re di
mandare a chiamare l’indovino Tiresia. Ancora una volta Edipo dimostra un grande
spirito di iniziativa, e una grande intelligenza, avendo già provveduto anche a questo.
Mentre si aspetta l’arrivo del vate, il dialogo fra il re e il corifeo prosegue, e si rivela
un’altra versione della vicenda, secondo la quale sarebbero stati dei viandanti ad
uccidere il vecchio sovrano, versione non attestata però, data la sparizione, peraltro
abbastanza inverosimile, dell’unico testimone al delitto, che incredibilmente era
sopravvissuto ed era riuscito a giungere a Tebe, solo dopo che Edipo aveva sconfitto
la Sfinge e si era insediato sul trono. A questo punto entra in scena Tiresia,
l’indovino, colui che, a differenza di tutti gli altri, sa, e proprio per questo non vuole
parlare, per non nuocere a Edipo, e soprattutto a sé stesso, perché il re non potrebbe
mai sospettare la verità delle sue parole, e conseguentemente non potrebbe mai
credergli. Ma a parlare, suo malgrado, viene costretto dall’arroganza di Edipo, più
che dalle sue minacce o dalle sue suppliche. Il re, tuttavia, commette un errore
mostrando questo lato del suo carattere, per il quale, a detta dello stesso Tiresia, in
seguito sarà punito severamente. Il vate perciò parla per vendetta, più che per voler
portare salvezza alla città, e le sue parole alimentano l’ira di Edipo, che lo accusa di
attuare un complotto ideato da suo cognato Creonte, che, a suo parere, starebbe
tramando alle spalle del re per rubargli la corona e il trono. E non solo, Edipo
rinfaccia più volte all’indovino la sua cecità, sostenendo che chiunque non possa
vedere, non può neanche possedere il dono della verità. A queste parole Tiresia
controbatte, parlando, dal punto di vista di Edipo, in modo arcano: solo l’indovino sa
che il destino di Edipo è quello di accecarsi con le sue stesse mani. Egli parla con la
forza del vero, e la sua figura, resa forte e autorevole da questo fatto, mette in risalto
l’ottusità di Edipo, che, accecato dall’ira, come mai dovrebbe essere un re, non vuole
ascoltare le parole del vate, e si rinchiude in una chiusa sfera di ignoranza, pur di non
ascoltare ciò che il vecchio ha da dire. Cieco alla verità, nonostante possa ancora
vedere, Edipo si lancia in un monologo esaltato, nel quale, vantandosi delle proprie
doti intellettuale, ed eleggendosi salvezza di Tebe, denigra invece lo stolto mago
fasullo. Pian piano la situazione in cui si trova Edipo viene rivelata, ma lui non può
ancora comprendere, perché non sa a cosa va incontro e, come tutti i presenti, è
convinto che le parole dell’indovino non siano dettate dalla verità, quanto dall’ira. Da
parte sua, Tiresia è a conoscenza di tutta la storia: nella sua mente, pur non illuminata
dalla luce della vista, il passato e il futuro del re si intrecciano in un’inestricabile
concatenazione di eventi. Così, quando Edipo lo scaccia, in un moto di sfida il vate
afferma che presso i genitori del re non aveva mai riscontrato tanta ottusità e
arroganza. Le difese di Edipo crollano, il desiderio di sapere prende il sopravvento,
egli tenta, invano, di richiamare il vate, ma questi, voltosi ancora una volta verso lo
sventurato, prima di andarsene lancia un terribile monito, ciò per cui era venuto:
“l’uomo che da tempo cerchi con minacce e con proclami per l’uccisione di Laio,
costui è qui. Un forestiero, dicono, qui emigrato, ma poi si scoprirà che è nativo di
Tebe, e non avrà da rallegrarsi di questo caso; divenuto cieco mentre prima vedeva,
e povero invece che ricco, se ne andrà in terra straniera, tastando col bastone il
suolo. E si scoprirà che dei suoi figli è insieme fratello e padre, e della donna da cui
nacque figlio e marito; e del padre consanguineo e uccisore ”. Il vate riprende la sua
strada, sorretto da un giovane, Edipo rientra nel palazzo. La scena angosciosa si
interrompe per un momento, e il coro inizia a cantare, riprendendo ancora il motivo
della sciagura. Chi sarà mai l’uomo da tutti cercato? Di certo le parole di Tiresia sono
da prendere in considerazione, eppure nessuno può credere che la colpa della
disgrazia sia di Edipo, mentre proprio in questo sta il senso della tragedia per i greci,
nella catastrofe che si abbatte sul cittadino più amato e più illustre, rendendolo il più
abbietto fra gli uomini.

Nel secondo episodio, entra in scena Creonte, che ha appena saputo dell’ingiusta e
alquanto improbabile accusa di Edipo, che, non sapendo con chi prendersela per
l’infausto vaticinio di Tiresia, ha ritenuto che il cieco doveva essere stato mandato
indubbiamente da qualcun altro, e chi poteva essere il mandante se non Creonte,
avido di potere e di ricchezze? Naturalmente egli trova a dir poco offensive queste
accuse, e cerca Edipo per chiederne ragione, non stando a sentire il corifeo che tenta
di spiegargli che quelle parole del re furono dettate dall’ira del momento. Edipo
appare sulla soglia della reggia, e, vedendo Creonte, non esita a trattarlo da
impudente e sfacciato, vantandosi di essere stato eletto re con l’acclamazione dei
tebani, un consenso che Creonte non avrebbe mai potuto ottenere. Creonte vuole
difendersi dalle accuse rivoltegli, ma Edipo, ancora chiuso nella sua ottusità, non
vuole sentire ragioni, e dichiara che l’onta arrecata, dovrà essere lavata col sangue.
Edipo è assurdamente convinto della colpevolezza di Creonte, perché quest’ultimo
l’aveva convinto che sarebbe stato necessario l’aiuto dell’indovino, lo stesso che poi
l’aveva umiliato e oltraggiato. Inoltre Edipo si è accorto che l’indovino non ha mai
parlato prima di lui, neanche ai tempi della morte di Laio, perciò qualcuno doveva
avergli suggerito di incolpare il re. Ma Creonte, con logica e persuasione, fa notare ad
Edipo che non gli sarebbe servito organizzare una tanto complicata messa in scena,
per ottenere qualcosa che in fondo già possedeva. Egli infatti è allo stesso livello di
Edipo e Giocasta nella gerarchia sociale di Tebe, e non avrebbe avuto nessun senso
comportarsi da vile per avere un potere di cui poteva ampiamente disporre. Ma
l’arroganza di Edipo non cede ancora, egli vuole ottenere la morte di Creonte, per
potersi togliere il peso dal cuore che lo tormenta: trovare un colpevole a cui attribuire
l’invenzione del tremendo vaticinio. Se infatti non si trovasse un altro colpevole,
bisognerebbe accettare la verità delle parole di Tiresia, ed Edipo dovrebbe esiliarsi da
sé. A interrompere la contesa interviene Giocasta, appena uscita dalla reggia. Ella
rimprovera i due con fare materno, come per riportare la pace fra bambini capricciosi,
ricordando il grave lutto che affligge Tebe, dinnanzi alla salvezza della quale le
vicende personali non hanno più senso. E come bambini ostinati rispondono Edipo e
Creonte, che non vogliono cedere sulle loro opinioni. La discussione si interrompe
quando il re scaccia l’altro, come già aveva fatto con Tiresia. E Creonte, obbedendo
controvoglia al volere del sovrano, si allontana.
Giocasta però, rimasta sola con Edipo, stenta a ricondurlo nel palazzo. Vuole sapere
qual è stato il motivo che ha scatenato la sua ira. Giungiamo così, ad un altro evento
chiave nella tragedia: la regina viene a sapere dell’infausta profezia, e, per dimostrare
che nessun essere mortale possiede un’arte profetica, racconta ad Edipo dell’oracolo
che un tempo Laio aveva ricevuto, oracolo che poi era risultato assurdo, perché lui
era stato ucciso da briganti, e il figlio che avevano avuto era ormai morto, gettato da
un dirupo con le caviglie legate. Ella non sa, né può sapere, a quali conseguenze
porterà la sua rivelazione. La storia di Edipo comincia a prendere forma,
concatenandosi con quella dei suoi genitori. Eppure il re non sembra notare la
somiglianza fra le due previsioni, non si accorge che, come a lui era stata predetta
l’uccisione del padre, un altro oracolo aveva profetizzato a Laio la sua morte per
mano di un figlio. Edipo non può
capire, è ancora convinto che i suoi
genitori si trovino a Corinto, non ha più
pensato alle parole brucianti che una
volta gli erano state rivolte, secondo le
quali egli non era il figlio dei re della
regione dell’Istmo. Egli presta
attenzione non alla profezia, ma ad un
altro particolare rivelatogli dalla
moglie, secondo il quale il suo primo
consorte era stato ucciso ad una
convergenza fra tre strade. Il particolare
gli fa rivenire alla memoria un fatto
accaduto tempo prima e, chiedendo
altre informazioni sulle circostanze
della morte di Laio, si convince sempre
di più di aver già vissuto la vicenda: questo è forse l’unico caso nel quale Edipo
collega immediatamente i due avvenimenti, e forse ciò è dato dall’angoscia che
ancora pervade il suo animo dopo il dialogo avuto con Tiresia. Significativo risulta
essere il passo in cui Giocasta, descrivendo Laio, dice, rivolta ad Edipo: la sua figura
non differiva molto dalla tua, naturalmente Edipo non ci bada, ma Sofocle ci vuole
far notare come padre e figlio si assomigliassero anche nella corporatura. La trama
prosegue. Dietro insistenza di Giocasta, Edipo racconta finalmente la sua storia, come
lui la conosce. Turbato dalle parole dell’uomo che a una festa lo aveva chiamato falso
figlio di suo padre, si era recato a Delfi, per avere una risposta, ma qui gli era stata
fatta un’altra profezia e, a questo punto, sembra strano che Edipo, parlandone, non
noti che si tratta della stessa fattagli da Tiresia, ma così dev’essere, perché alla fine
risulti più evidente la dimensione tragica della vicenda. Dopo la sfortunata profezia,
egli fuggì, e arrivando all’incrocio fra le strade, incontrò un carro guidato da un
vecchio, accompagnato da altri cinque uomini. Questi l’aveva sospinto con arroganza
al lato della strada, ferendolo con uno staffile. In risposta Edipo, colto dall’ira, aveva
ucciso lui e tutti i suoi compagni. Qui interviene nuovamente Giocasta, sempre
convinta di fare il bene di Edipo, affermando che uno degli uomini di Laio si era
salvato dalla strage, e costui, arrivando a Tebe, proprio quando Edipo era stato
appena eletto, aveva raccontato che l’aggressione era avvenuta ad opera di briganti,
ed aveva poi pregato la regina di essere mandato via dalla città. Ancora una volta
Edipo intravede la speranza, ma non vede il significato nascosto nelle parole della
moglie: il vecchio è l’unico altro uomo, come si scoprirà in seguito, oltre a Tiresia, a
sapere tutto della vita di Edipo, o quasi. Egli sa infatti che il bambino nato da
Giocasta e da Laio si era salvato, e sa anche che il colpevole della morte di Laio è
colui che, dopo averne sposato la vedova, è divenuto il re di Tebe. L’unica cosa che il
vecchio ancora non sa, è il fatto che il bimbo e il re sono la stessa persona, cosa che
gli verrà svelata in seguito. Edipo in lui vede solo la salvezza: se costui testimonierà
ancora una volta la sua innocenza, il re potrà continuare a regnare indisturbato. Egli
non immagina quale altro stratagemma ha ideato il destino per attuare i suoi progetti.
I due coniugi, inconsapevoli, rientrano in casa, decidendo di mandare a chiamare più
tardi il testimone. Entra a questo punto il coro, che innalza agli dei una protesta.
Nessuno più rispetta gli oracoli, tutti con arroganza disprezzano i vaticini: anche
questo canto appare come una forma di profezia, la punizione per coloro che non
temono gli dei è vicina.

Si apre il terzo episodio, Giocasta esce dalla reggia, accompagnata dalle ancelle,
intende recarsi ai templi degli dei, per portare offerte votive. Giunge in quel momento
un nunzio, chiedendo indicazioni sul palazzo reale, il corifeo gli indica Giocasta
come la regina. Egli la informa che è deceduto il re di Corinto, Polibo, padre di
Edipo, e lei, felice, manda a chiamare il consorte. Se solo la sventurata sapesse che
altre notizie porta il messo, di certo non si rallegrerebbe, né lo accoglierebbe a
braccia aperte. Secondo le notizie, Polibio era morto di malattia, il vaticinio perciò, a
quanto sembra, non ha valore. Giocasta ne era certa: così come non si erano avverate
le previsioni su di Laio, anche quelle che riguardavano il nuovo re erano risultate
vane. Ma Edipo teme ancora che si avveri la seconda parte del vaticinio, che lo
vedeva sposo di sua madre. Il nunzio, rimasto in disparte fino adesso, non comprende
ciò di cui si parla e chiede spiegazioni a riguardo. Edipo ancora una volta non sa a
cosa va incontro confidando le sue pene, perciò racconta della profezia che da tempo
lo perseguita e lo affligge. Il nunzio, credendo di liberare Edipo dalle sue sofferenze,
gli rivela che in realtà Polibo non era suo padre, e spiegandogli ciò pronuncia parole
che scateneranno un’altra serie di terribili rivelazioni: dalle mie mani, sappi, ti ebbe
in dono.Inizia così un lungo dialogo nel quale, parola dopo parola, la storia di Edipo
si va lentamente delineando. Il nunzio era stato pastore sul monte Citerone, e là aveva
ricevuto in dono un bimbo in fasce, con le caviglie legate. Ecco il particolare che fa
trasalire Giocasta, i collegamenti sono chiari: Edipo era il suo stesso figlio, quello che
aveva tentato di uccidere perché non si avverasse il destino che a Delfi era stato
predetto a Laio. E tuttavia, Edipo non sembra ricordare il particolare che Giocasta gli
aveva riferito; la sua mente è ancora ottenebrata da un velo di stoltezza. Egli vuole
unicamente scoprire le sue origini, il desiderio di sapere prevale ancora una volta sul
buon senso. Edipo scopre che il nunzio aveva ricevuto il neonato dalle mani di un
altro pastore, e il corifeo gli rivela che si tratta indubbiamente dello stesso contadino
che aveva assistito ed era sopravvissuto all’eccidio di Laio e dei suoi compagni.
Interviene nuovamente Giocasta, cercando di impedire ad Edipo di continuare ad
indagare. La scena è drammatica: Giocasta sa tutto quello che deve sapere e per
questo soffre. Conosce la caparbietà di Edipo, sa che nulla potrà fermarlo, eppure
tenta, pur sapendo che i suoi tentativi sono vani. Il desiderio di sapere di Edipo lo
porterà alla rovina: così gli dei puniscono chi non si vuole appagare delle rivelazioni
concesse allo sguardo umano. Edipo non comprende le vere intenzioni di Giocasta, si
convince anzi che la donna voglia impedirgli di trovare le sue vere origini, che
potrebbero essere umili. Per questo decide di proseguire, non sapendo a cosa va
incontro, affermando: tale è la mia origine: e non potrei venirne fuori diverso, così
da non conoscere la mia nascita. Interviene ancora il coro: probabilmente l’indomani
il Citerone verrà esaltato come patria di Edipo, forse figlio delle ninfe, congiuntesi ad
una divinità.

Inizia il quarto episodio. Il pastore viene condotto alla presenza di Edipo.


Gli anziani lo riconoscono, è l'uomo di fiducia di re Laio, anche il messo corinzio,
interrogato, conferma, è l'uomo che gli ha affidato il bambino. Edipo si rivolge al
servo, e anche questi ammette di essere stato uno dei servitori più fedeli di Laio, ma
non riconosce il nunzio di Corinto. Quest’ultimo gli ricorda di quando pascolavano
insieme le greggi sul monte Citerone, e il pastore allora inizia a ricordare. Ma quando
poi il nunzio parla del bambino, dicendo “Ecco, questo è il bimbo di allora”, il
pastore, dopo un attimo di smarrimento, comprende tutto, l’ultimo tassello è al suo
posto, tutto è chiaro, ma ormai è troppo tardi, non può più negare, non può più
nascondersi: il segreto che per tanti anni aveva custodito, la sua disobbedienza, è
venuta alla luce. Guarda Edipo con orrore. Guarda il corinzio gridandogli di porre
freno alla sua lingua. Non vuole più parlare, vuole andarsene, ma non c’è niente da
fare, dietro le minacce di Edipo è costretto a confessare: il bambino gli era stato dato
da un membro della famiglia di Laio, la stessa Giocasta, e si diceva che fosse figlio
suo. Edipo finalmente comprende, il velo dell’ottusità e dell’ignoranza si squarcia,
vede la luce, ma quanto è doloroso vedere il sole dopo una vita passata nell’oscurità!
Le sue parole sono dolorose e strazianti, la tragedia ha trovato compimento nella
verità: O luce, che io ti veda per l’ultima volta, io che fui generato da chi non dovevo,
e con chi non dovevo mi congiunsi, e chi non dovevo uccisi!
E inizia il quarto stasimo del coro, doloroso: Ahi generazioni di mortali, come pari al
nulla la vostra vita io calcolo! E mai parole furono dette più a proposito. Edipo,
invidiato da tutti, uomo più felice sulla terra, ora, a quale triste porto con la verità è
giunto; meglio allora non sapere e restare felici, piuttosto che angustiarsi sapendo.
Ma con queste parole Sofocle denigra la natura umana, volta al sapere e alla
conoscenza: è la ragione dopotutto che distingue la razza umana, l’apprendimento, la
tensione verso il sapere. Inoltre in questo passo risulta evidente come, nella
concezione sofoclea, nessuna condizione mortale sia felice. Viene ribadito il concetto
secondo il quale l’essenza della tragedia si ha nell’annientamento di una vita felice,
che viene precipitata nella condizione più misera e sventurata. Il canto diviene
dunque un lamento per la sorte di Edipo, ora reietto, e inviso alle genti tebane, che
prima con lui trovarono la salvezza, e ora ricadono nel nero abisso della morte.

Ha inizio l’ultima parte della tragedia, l’esodo. Esce dal palazzo un altro nunzio, e,
rivolgendosi al popolo tebano, si appresta a raccontare le disgrazie della casa dei
Labdacidi. La notizia più rapida da dire e da apprendere è che è morta la nobile
Giocasta. La donna, dopo aver compreso in quale sciagura si era venuta a trovare, era
subito scappata via. In preda alla disperazione era entrata nel palazzo, e si era gettata
sul letto nuziale, stappandosi i capelli con entrambi le mani. Nessuno però aveva
potuto assistere alla sua fine, poco dopo infatti era giunto Edipo, gridando che gli
dessero un’arma. A quel punto però, notando i battenti sprangati della camera
nuziale, Edipo si era precipitato sulla porta, scardinandola con forza. La scena
successiva corona in modo atroce la tragedia: all’interna della stanza i presenti
scorgono la donna impiccata; Edipo, folle di dolore, allenta il cappio che stringe il
suo collo. Il corpo esanime giace a terra, Edipo si getta su di lei, strappa dalle sue
vesti la fibbia aurea di cui era adorna, la leva in alto e colpisce ripetutamente i suoi
occhi, che così non avrebbero visto né le sventure che soffriva né quelle che
provocava.Con questo passo drammatico si compie la profezia di Tiresia: la tragedia
di Edipo si concentra nella sua cecità, mentre prima vedeva e non si accorgeva delle
sue sciagure, ora, pur sapendo, non è più in grado di vedere. Edipo sa che in questo
modo non avrebbe visto mai più quelli che non doveva,ovvero i suoi figli, né avrebbe
conosciuto quelli che desiderava, ovvero i suoi veri genitori, poichè temeva di
incontrarli, una volta morto, nell’oltretomba. Il nunzio prosegue annunciando l’ordine
di Edipo di mostrare ai tebani l’uccisore del padre, ma per scrupolo di verecondia
omette di pronunciare il resto. Edipo è ormai maledetto dalle sue stesse imprecazioni,
ma ha ugualmente bisogno di un sostegno che lo aiuti: il suo male è troppo grande da
portare. In quel momento egli appare sulla soglia del palazzo, con il volto
insanguinato, procedendo a tastoni. Questa visione suscita l’orrore e la pena dei
presenti. Edipo è vittima del Fato, che lui identifica in Apollo: l’ineluttabilità del
destino si fonde qui nell’imperscrutabile volere divino. Edipo si pente solo ora di aver
voluto sapere ciò che non gli era stato concesso, e in un lungo monologo enumera i
suoi mali e le sue disgrazie, invocando i luoghi e le persone che gli avevano arrecato
tanta sofferenza.Giunge allora Creonte dicendo di non volergli rinfacciare le offese
subite; in realtà con il suo comportamento dimostra ben altro. Le sue parole sono
animate dalla stessa arroganza che prima permeava i discorsi di Edipo: rimprovera i
tebani di mostrare alla luce del sole il corpo del re, devastato dai suoi mali, e ordina
di ricondurlo in casa . Edipo chiede allora di essere esiliato per poter salvare la città
dalla devastazione dell’epidemia e prega Creonte di condurgli le figlie perché le
possa salutare un’ultima volta. Le sue parole possiedono una tristezza infinita e una
cupa rassegnazione: sa che cosa l’attende, pagherà per aver voluto troppo sapere. La
scena finale è altamente commovente, nell’incontro tra Edipo e le sue due figlie è
posto in risalto l’amore dell’uomo e la tragica condizione in cui si viene a trovare:
egli non sa più come rivolgersi alle figlie, non sa se considerarle come sorelle sue
pari. Anche Creonte sembra commosso dalla triste sorte di Edipo, e preso da pietà
accetta di prendersi cura delle bambine prendendo la mano del re. Tutti rientrano
nella reggia. Il dramma ha trovato la sua conclusione: nessun mortale può essere
ritenuto veramente felice prima che abbia trascorso il suo ultimo giorno senza aver
sofferto nulla di doloroso.

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