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Euripide
È il primo dramma in cui troviamo insieme gli elementi
della forma comica standard, quale poi si vedrà in Menan-
dro, Plauto, Shakespeare, Molière fino a Oscar Wilde.

IONE
Bernard Knox

Euripide
Alternando i colori cupi della tragedia a quelli brillanti di una
commedia ironica, lo Ione mette in scena l’incontro della principessa IONE
ateniese Creusa con il figlio adolescente, da lei abbandonato alla a cura di Maria Serena Mirto
nascita per tenere segreto lo stupro di cui è stata vittima. Autore testo greco a fronte
della violenza è Apollo, dio della verità oracolare, che ha salvato il
bambino e lo ha fatto crescere nel suo santuario di Delfi.
Nell’intreccio si susseguono equivoci, rivelazioni, un avvelenamento
e una condanna a morte sventati in extremis. Il riconoscimento tra
madre e figlio, voluto dalla provvidenza divina ma favorito dal caso,
garantisce alla fine, non senza ombre, la felicità dei protagonisti.
L’introduzione e il ricco commento evidenziano, nell’originale
disegno di questa moderna tragedia “a lieto fine”, i modi in cui
la drammaturgia di Euripide dissacra il mito di fondazione di
Atene e della stirpe ionica.

Di Euripide (- a.C.) BUR sta pubblicando l’opera C L A S S I C I G R E C I E L AT I N I


completa.

Maria Serena Mirto insegna Storia della cultura e della


tradizione classica all’Università di Pisa. Per BUR ha curato
anche l’Eracle, sempre di Euripide.

In copertina: Adamo Tadolini, Amore cacciatore (part.)


Roma, Museo Mario Praz © Foto Scala, Firenze
Progetto grafico Mucca Design

www.bur.eu

 12,00
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Proprietà letteraria riservata


© 2009 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-02893-6

Titolo originale dell’opera:


[Iwn

Prima edizione gennaio 2009

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Euripide

IONE
Introduzione, traduzione e commento
di Maria Serena Mirto

Testo greco a fronte

CLASSICI GRECI E LATINI


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IL CREPUSCOLO DEGLI EROI


E IL DISAGIO DELLA PATERNITÀ DIVINA

Non ho mai udito dai canti intorno al telaio,


né dalle leggende, che abbiano una vita felice
i figli nati dagli dèi ai mortali.

Le parole con cui le ancelle della principessa ateniese


Creusa chiudono il canto del primo stasimo (vv. 507-
509), dopo l’incontro fra lei, pellegrina a Delfi, e il gio-
vanissimo servo del tempio, enfatizzano le sofferenze e i
rischi che, nei racconti mitici, caratterizzano l’esistenza
degli eroi nati dall’unione fra un dio e una mortale e tra-
scurano in modo sorprendente il destino glorioso che
dovrebbe riscattarne l’infelicità.1 Creusa ignora che il
ragazzo per cui ha sentito ammirazione e simpatia sia
proprio il figlio nato dopo che Apollo la violentò, anco-
ra vergine, in una caverna sull’acropoli di Atene. Il tro-
vatello allevato dalla Pizia nel santuario apollineo, dove
fu prodigiosamente trasportato da Ermes dopo essere
stato esposto dalla madre, è turbato dall’incontro con la
straniera: quando gli narra, come vicenda dolorosa di
un’amica, l’esperienza da cui la sua vita è rimasta segna-
ta, lui intuisce che le accuse al dio nascondono una più
intensa emozione personale. Per la prima volta si dise-
1
Wilamowitz trova sorprendente la conclusione del primo stasimo
(Wilamowitz 1926, p. 109), e menziona per contro un verso delle Tra-
chinie sofoclee (v. 140), dove il Coro più ragionevolmente confida nel-
la sollecitudine di Zeus verso i suoi figli.
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6 INTRODUZIONE

gna ai suoi occhi un ritratto inquietante e poco lusin-


ghiero della divinità a cui deve tutto e che, dal punto di
vista affettivo, considera suo padre.
Il dramma umano di una madre – che ha dovuto ri-
nunciare alle gioie della maternità ed è lacerata dal ri-
morso di aver abbandonato a morire il bambino nato
dalla violenza divina – e di un figlio che non ha mai co-
nosciuto i genitori è lo sfondo per la messinscena che
Euripide affida al mondo olimpico. Apollo ne è il regista
occulto, ma onnipresente nella mente dei protagonisti:
ora si muovono entrambi nel suo santuario e i loro pen-
sieri, grati quelli di Ione, carichi di rancore e biasimo
quelli di Creusa, continuano a essere condizionati dalla
sua figura. A reggere i fili della vicenda più direttamen-
te, svelando al pubblico le intenzioni e i progetti del dio
della mantica o fermando all’ultimo istante i gesti che
determinerebbero la rovina degli agenti umani, sono an-
cora gli dèi – Ermes nel prologo, Atena nell’esodo – o
chi ne è portavoce autorevole, come la profetessa ispira-
ta; dopo aver allevato Ione surrogando un ruolo mater-
no, la Pizia gli impedirà di eseguire la condanna a morte
di Creusa. Accade infatti che la principessa ateniese, sot-
to gli occhi del pubblico, si trasformi da vittima dolente
di un antico sopruso, rimasto segreto a tutti ma scolpito
per sempre nella sua memoria, in criminale. Giunta a
Delfi insieme al marito Xuto – il principe straniero che
l’ha sposata nel frattempo – per interrogare il dio sul
motivo per cui la loro unione non è stata feconda, vor-
rebbe però conoscere anche la sorte di quel figlio, ab-
bandonato in segreto quando lei stessa era poco più che
adolescente. Ma non riuscirà a consultare l’oracolo in
modo riservato perché Ione glielo impedisce, scosso dal-
le velate accuse di lussuria e cinismo che lei muove al
dio. Creusa viene anzi fuorviata in modo inopinato dal
responso che Apollo concede a Xuto: la prima persona
in cui lui s’imbatterà all’uscita dal tempio è suo figlio.
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INTRODUZIONE 7

Sarà proprio il servo consacrato, il ragazzo senza storia


per cui lei aveva provato curiosità e tenerezza, a essere
così identificato dal marito come figlio naturale, pro-
creato prima del matrimonio e fortunosamente ritrova-
to. L’assenza di eredi della coppia dei sovrani ateniesi
trova soluzione, ma non per Creusa, che anzi ora si vede
in crudele solitudine con il suo desiderio di maternità
frustrato. Xuto intende tacerle il vero rapporto che lo le-
gherebbe al giovane, e rinviare a un momento successi-
vo, dopo il ritorno ad Atene, la rivelazione del responso
oracolare. Col tempo riuscirà a convincerla ad accettare
il figliastro come successore al trono. Ma Creusa, infor-
mata della penosa novità dalle fedeli ancelle, dà ora sfo-
go concreto alla sua delusione. La disperazione nutrita
nel tempo, l’aggressività verso gli esponenti umani e di-
vini dell’altro sesso, che l’hanno tradita o abbandonata a
un destino di sterilità, innescano il complotto per ucci-
dere il presunto figliastro. Quando l’attentato per avve-
lenare Ione ordito insieme al vecchio pedagogo fallisce,
Creusa viene smascherata in qualità di mandante e con-
dannata alla pena capitale. Benché cerchi rifugio come
supplice all’altare di Apollo, il figlio che ha generato al
dio ora vuol farsi suo giustiziere. La lunga scena dell’e-
sodo, che sembra dapprima orientarsi verso la catastro-
fe, si avvia al lieto fine quando la Pizia, uscendo dal tem-
pio con il cesto che contiene gli oggetti lasciati a suo
tempo dalla madre accanto al neonato, rende possibile il
riconoscimento delle rispettive identità. L’apparizione
conclusiva di Atena, che conferma il ruolo di Apollo e
annuncia il futuro destino dei protagonisti, sigla il com-
plesso intreccio in cui l’ignoranza umana, intersecando i
piani divini, ha rasentato ora il grottesco, ora esiti infau-
sti e irreparabili. Dunque tutta la vicenda illustra come
gli dèi intervengano, non sempre con successo immedia-
to, nella storia dei mortali con cui hanno intrecciato re-
lazioni intime, amori che sono all’origine del mondo
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8 INTRODUZIONE

eroico ma che la prospettiva tragica investe di luci e om-


bre. Secondo un disegno peculiare della drammaturgia
euripidea la sconsolata riflessione del coro sarà così, alla
fine, insieme smentita e avvalorata.
La sorte di Ione, nella stabile cornice della storia di un
popolo, è quella gloriosa di un eroe capostipite tornato,
dopo un’infanzia vissuta ai margini e in condizioni servili
nel tempio delfico, al trono ateniese: è l’unico discenden-
te, per parte di madre, della famiglia regnante autoctona.
La reintegrazione come erede legittimo, tuttavia, fa leva
su una menzogna che cela per sempre la paternità divina.
Una debolezza inconfessabile ha indotto Apollo a violen-
tare la principessa ateniese; ma quando il figlio, cresciuto
sotto la sua tutela, ha raggiunto le soglie dell’età adulta,
per provvedere al suo bene il dio della purezza e della ve-
rità oracolare deve donarlo a un altro padre, così cancel-
lando anche la memoria della sua relazione illecita. Se-
dotto dal fascino della giovane donna, il dio le concede
l’“onore” di possederla, e appaga il proprio desiderio
quando la sorprende da sola, trascinandola in una grotta
per violentarla, con conseguenze che peseranno poi su
tutta la sua esistenza: il figlio che le nasce, dopo una gra-
vidanza vissuta nel timore e nel segreto, rappresenta a
lungo motivo di rimorso, rimpianto, struggente dolore per
quanto ha perduto.2 Nel corso del dramma Creusa incon-

2
Cfr. invece Pindaro, Pitiche, IX 5-70: l’amore di Apollo per la nin-
fa Cirene, che culmina nelle loro nozze e nel viaggio in Libia, dove il
dio la farà regina della città che da lei prende il nome, qui è narrato
con tutti i particolari celebrativi che evidenziano il destino glorioso
non solo del figlio Aristeo, ma anche della madre. Prima di avvicinarsi
a lei Apollo sembra persino trattenuto da scrupoli e da un insolito pu-
dore, chiedendosi se gli sia lecito violare la verginità della seducente
cacciatrice, e avrà bisogno dell’incoraggiamento del centauro Chirone
per compiere «il rito soave delle nozze» (v. 66: terpna;n gavmou ... teleu-
tavn). Sul tono eufemistico con cui Pindaro narra il ratto di Cirene, cfr.
il commento di P. Giannini ad v. 6-6a (in Gentili 1995, pp. 589 sg.). L’u-
nione con Creusa, celata da lei e mantenuta segreta per volere dello
stesso Apollo anche dopo l’avvenuto riconoscimento del figlio, ben
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tra il ragazzo, ne è istintivamente attratta senza conoscer-


lo, crede poi di doversi difendere da lui quando l’oracolo
lo indica come figlio del marito straniero Xuto, dunque
un potenziale usurpatore del trono di Atene; ne com-
prende infine la vera identità solo dopo aver vissuto la
tempesta emotiva dell’odio nei suoi confronti e della pau-
ra della sua vendetta. Analogo il percorso di Ione fra sen-
timenti contrastanti: ammirazione ed empatia iniziale
verso la straniera, orrore e astio una volta scoperto il suo
complotto per ucciderlo, diffidenza e incredulità nella
scena dell’agnizione, vinte infine dall’evidenza che è lei la
madre mai conosciuta. Grazie alla protezione divina e al-
l’educazione ricevuta nel tempio è sfuggito all’intrigo da
lei ordito per avvelenarlo, ma l’ansia di giustizia rischia di
trasformarlo in un involontario matricida.
La regia divina non sembra mai in sintonia con la sfe-
ra emotiva umana: differisce in modo azzardato il rico-
noscimento, cambiando di segno i sentimenti che natu-
ralmente spingerebbero madre e figlio a interessarsi l’u-
na dell’altro, e quando tutto viene corretto all’ultimo
istante e indirizzato verso l’auspicato lieto fine non può
comunque essere cancellata la sofferenza già vissuta, né
può essere recuperata l’esperienza affettiva legata alla
difficilmente si potrebbe definire «a political marriage ad maiorem
gloriam of her family and country» (Wassermann 1940, p. 589). Anche
se la vicenda messa in scena presenta al pubblico ateniese la vera pa-
ternità dell’eroe capostipite degli Ioni, l’opportunità che induce il dio
a rinunciare per sempre a suo figlio donandolo a un ignaro padre mor-
tale non è dettata solo dalla necessaria legittimazione in una dinastia
umana, che avrebbe potuto essere imposta senza incontrare ostacoli o
proteste come accade altre volte nelle tragedie euripidee. La perduta
Auge prevedeva, secondo una plausibile ricostruzione, la salvezza del-
la giovane stuprata da Eracle e del figlio che gli aveva generato, con
l’annuncio da parte di Atena del matrimonio fra Auge e Teutrante, re
di Misia; questi avrebbe successivamente adottato Telefo quando, una
volta cresciuto, si fosse riunito alla madre. Nell’Eracle l’intera vicenda
ruota intorno alla duplice paternità, divina e umana, dell’eroe, e Anfi-
trione considera motivo di vanto aver condiviso moglie e figlio con la
somma divinità (vv. 1-3, 149, 339 sg.). Cfr. anche Seaford 1990, p. 161.
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gratificante intimità, allo scambio di tenerezze che ac-


compagnano la crescita di un figlio. Almeno da questo
punto di vista, peraltro privilegiato dal testo che lascia
grande spazio allo sfogo delle emozioni – nostalgia, an-
goscia, ricordo ossessivo dello stupro, per Creusa; turba-
mento, ansia sull’identità della madre e insorgere dei
dubbi sulla purezza e irreprensibilità divine per Ione –
resta inconfutabile che i figli nati ai mortali dagli dèi non
hanno una sorte felice. Con le parole di Creusa si può ag-
giungere che, se pure il dio volesse rimediare alle sue col-
pe, non potrebbe comunque assimilarsi interamente alla
solidarietà affettiva, alla reciprocità di obblighi e attese
che caratterizzano le relazioni umane (filiva), e i mortali
devono rassegnarsi ad accettare da lui quanto vorrà con-
cedere (vv. 425-428). Il tempo degli dèi è scandito da rit-
mi diversi, inconciliabili con quelli del tempo limitato
dell’esistenza umana, come si evince non solo dall’im-
prevedibile realizzarsi della giustizia divina, che talora
colpisce tardi, ben oltre le attese dei mortali. La riflessio-
ne su questo tema era sottesa alla fede di Eschilo in una
teodicea inesorabile, benché lenta; ma nel teatro euripi-
deo la sfasatura tra tempo degli dèi e tempo degli uomi-
ni diventa piuttosto un altro elemento di dissonanza per
delineare l’incommensurabilità tra valori, sentimenti,
emozioni degli uni e degli altri.3

3
L’unità di misura del tempo, per gli esseri umani, non si può sepa-
rare dalla sfera emotiva e dall’esperienza del dolore, mentre gli dèi
possono guardare oltre, alla storia futura di una stirpe e alla fortuna
dei suoi discendenti. In questo senso Atena ribadisce, alla fine della
tragedia, che «l’azione divina può anche tardare, ma alla fine è effica-
ce» (v. 1615: crovnia me;n ta; tw``n qew``n pw", ej" tevlo" dΔ oujk ajsqenh`). Sulla
distinta concezione, divina e umana, del tempo si veda Strohm 1976,
pp. 68-79, e per la qualità emozionale e affettiva della concezione del
tempo nel teatro euripideo, de Romilly 1968, pp. 113-141. Per il con-
trasto fra le relazioni col tempo, rispettivamente, di Ione e Creusa, il
ragazzo senza passato che vive radicato nel presente e la donna osses-
sionata da un passato doloroso, entrambi tuttavia consapevoli delle
ferite del tempo perduto, cfr. Lee 1996, pp. 85-109.
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1. IL RAGAZZO SENZA NOME

La figura dell’adolescente cresciuto nel tempio, educato


al rispetto delle regole rituali e fiero della sua purezza,
ignaro delle proprie origini ma orgoglioso dello stile di
vita semplice e retto che la consacrazione al servizio del
dio gli consente di condurre, si distingue per molti aspet-
ti da quelle degli altri eroi esposti alla nascita. Il suo no-
me, anzitutto, che gli viene imposto solo al termine del-
l’infanzia e della prima adolescenza trascorse nel santua-
rio delfico. All’alba del fatidico giorno in cui l’oracolo in-
dicherà a un pellegrino, il marito di Creusa, che colui in
cui s’imbatterà appena uscito dal tempio è suo figlio, Er-
mes espone nel prologo del dramma l’antefatto. Anticipa
anche le intenzioni benevole del dio della mantica, l’illu-
stre fratello che a suo tempo lo aveva incaricato di tra-
sportare il neonato dall’acropoli ateniese a Delfi, e quan-
do scorge il ragazzo che esce dall’edificio per ripulirne
l’ingresso, assolvendo con l’abituale devozione il quoti-
diano servizio catartico, si congeda dal pubblico, non sen-
za aver precisato che è lui il primo fra gli dèi – nel giorno
in cui il padre putativo umano lo legittimerà – a chiamar-
lo proprio con quel nome destinatogli dalla sorte.4 Ermes

4
Cfr. vv. 80 sg. Ermes è il dio che salva il bambino dall’esposizione
nella grotta dove era avvenuta la violenza, ma a Delfi lo espone una
seconda volta, sui gradini del tempio, lasciando alla Pizia il compito di
raccoglierlo e allevarlo. Fra le molte simmetrie e duplicazioni che
scandiscono la vicenda di Ione si annovera dunque anche il ripetersi
dell’e[kqesi". Ermes sembra una figura di mediazione fra mondo divi-
no e umano, perché se in alcuni miti proprio lui si fa carico di condur-
re un bambino divino, lontano dalla madre, alla nutrice che lo edu-
cherà (cfr. Pindaro, Pitiche, IX 59-65), in questo caso assolve il suo
compito ripetendo il gesto di esporre il neonato, sia pure in un luogo
sicuro e protetto. Una volta di più si dà così rilievo alla segretezza che
Apollo vuole mantenere sulla sua paternità, e alla netta separazione
tra le premure divine e quelle dei mortali, persino di coloro che vivo-
no al servizio del dio e del suo culto. Interessanti osservazioni sugli
scarti tra la vicenda elaborata da Euripide e il modello narrativo del-
l’eroe esposto alla nascita in Huys 1995, pp. 308 sgg.
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non addita la connessione paretimologica tra Ione (“Iwn)


e il participio del verbo «andare/venire» (ijwvn, da ei\mi),
come farà invece Xuto, quando decide a sua volta il no-
me che ricorda per l’avvenire la felice occasione del loro
ritrovarsi su indicazione dell’oracolo (vv. 661-663; cfr. vv.
535, 800-802, 830 sg.). La scelta viene spiegata, secondo il
punto di vista divino, con la volontà di Apollo di legare la
fama del figlio alle fondazioni coloniali sulla costa asiati-
ca, facendone l’eponimo della Ionia (vv. 74 sg.) oltre che
un re della metropoli attica: nesso garantito da un sapere
che abbraccia simultaneamente futuro e presente, così da
ribaltare la concatenazione logica tra il nome del caposti-
pite e l’etnico dei discendenti. Sono tuttavia significativi
sia il ritardo con cui si rimedia all’assenza di un nome per
il trovatello, sia la circostanza, apparentemente fortuita
ma in realtà sapientemente orchestrata dal dio, di cui es-
so dovrà serbare memoria nell’intenzione del padre pu-
tativo. Si replica così, in due distinti momenti, l’atto sim-
bolico che rappresenta l’ingresso del ragazzo nella so-
cietà, ed è un solo nome a registrare le due diverse ango-
lazioni con una sorta di doppia determinazione, divina e
umana: la prima inquadra l’ampio orizzonte del destino
glorioso di un’intera stirpe, la seconda si limita all’angu-
sta prospettiva dell’uomo che, ingannato sulla propria di-
scendenza, saluta con gioia l’intervento mistificatore del
dio oracolare.
Tratto tipico del modello narrativo cui s’ispira la vi-
cenda è proprio l’imposizione del nome da parte di chi
trova e salva il neonato esposto: spesso rispecchia le cir-
costanze sorprendenti del ritrovamento e talora è con-
nesso con l’animale che ha miracolosamente nutrito il
bambino permettendogli di sopravvivere nella natura
selvaggia.5 Ermes non ha scelto il nome quando ha sal-

5
Si vedano le spiegazioni etimologizzanti dei nomi di Anfione e
Zeto, probabilmente imposti dal pastore che aveva trovato i due ge-
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INTRODUZIONE 13

vato il bambino, ma può ora menzionare quello stabili-


to da Apollo, della cui volontà benefica a questo punto
è solo spettatore. Neppure la Pizia, dopo averlo raccol-
to a sua volta e avere assunto il ruolo di madre adotti-
va, ha pensato a imporgliene uno. La singolare situazio-
ne dell’adolescente, ormai cresciuto ma chiamato solo
con il nome generico della sua condizione di servo con-
sacrato (vv. 309-311), consente di focalizzare il passag-
gio determinante della sua esistenza, impresso non cer-
to a caso anche nel nome finalmente imposto all’eroe
dal padre adottivo. Xuto coltiverà per sempre l’illusio-
ne di esserne il padre naturale, mentre il dio garantisce
così, insieme alla gloria umana del figlio che esce da
un’anonima condizione servile, la permanente segre-
tezza del suo ruolo paterno (vv. 72 sg.). Facendo leva su
questo ritardo, il drammaturgo ha dunque l’opportu-
nità di intrecciare strettamente l’azione scenica con il
remoto antefatto – la nascita ateniese, l’esposizione e la
salvezza a opera del dio6 – ma mi sembra anche più si-

melli figli di Antiope e Zeus (Eur., Antiope, frr. 181-182 Kn.); quella
del nome di Beoto, nato da Melanippe e Poseidone (Eur., Melanippe
desmotis, fr. 489 Kn.); il nome di Ippotoonte, generato da Alope a Po-
seidone, ricordava che il bambino esposto era stato allattato da una
cavalla (Igino, Fab. 187, 5, che dipende verosimilmente dalla perduta
Alope euripidea, cfr. TrGF 5.1, p. 229); per Telefo, il figlio nato ad Au-
ge violentata da Eracle, si veda l’etimologia suggerita da Apollodoro,
Biblioteca, III 9, 1 e quanto osserva H. Van Looy (J.-V.L. 1998, p. 311 n.
9), che ne ritiene verosimile l’origine euripidea; nel Telefo tuttavia,
Euripide propone un’altra fantasiosa paretimologia: cfr. fr. 696 Kn.,
11-13. Nel caso di Paride/Alessandro due nomi diversi si avvicendano
a ricordare due distinti momenti della vicenda di eroe esposto alla na-
scita: Paride, dalla «bisaccia» (phvra) in cui il neonato era stato traspor-
tato, e Alessandro, «difensore di uomini» (ΔAlevxandro") perché, cre-
sciuto fra i pastori sull’Ida e divenuto un coraggioso adolescente, li
aveva difesi dall’assalto dei briganti (cfr. schol. ad Andr. 293 e Apollo-
doro, Biblioteca III 12, 5; Eur., Alessandro, fr. 42d Kn.). In generale cfr.
Van Looy 1973, pp. 345-366 (su Paride, p. 352), e Huys 1995, p. 305.
6
Cfr. Huys 1995, p. 309. Loraux 1981, pp. 201 sg., insiste sull’im-
portanza del riconoscimento da parte di Creusa per conferire legitti-
mità a Ione, mentre al padre tocca solo assegnargli il nome e, perché
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14 INTRODUZIONE

gnificativo che il nome di Ione rimanga legato indisso-


lubilmente, grazie al momento in cui viene assegnato,
alla rinuncia di Apollo in favore del padre umano; una
rinuncia costruita sulla menzogna dell’oracolo, motivo
di sconcerto e degli ultimi dubbi del ragazzo sulle reali
intenzioni del padre divino (vv. 1520-1548). Secondo
l’uso arcaico di affidare al nome prescelto la memoria
di eventi, talvolta anche negativi, che hanno segnato la
vita di un genitore o un antenato, Xuto fissa per sempre
in quello di Ione la propria azione fatidica: il suo «veni-
re» fuori dal tempio, pronto ad abbracciare chiunque
gli compaia dinanzi, certo della relazione di consangui-
neità annunciatagli dal responso. Eppure il ragazzo re-
siste a lungo e lo respinge con sdegno, sconcertato dal-
l’inspiegabile affetto del pellegrino per cui non prova
alcuna istintiva simpatia, in contrasto con la naturale
attrazione e la curiosità che gli suscita il primo collo-
quio con la madre sconosciuta. Ma nella polisemia del
nome, che il padre umano e quello divino motivano se-
condo le distinte prospettive e il diverso grado di cono-
scenza della realtà,7 è iscritto il senso profondo dell’i-
dentità di Ione. Della sua vita precedente, del tempo
trascorso in attesa di essere introdotto in una famiglia
umana, nessun nome serberà il ricordo.

il ragazzo sfugga al destino di novqo", «bastardo», deve trattarsi di un


padre umano, non di un dio. Questa divisione dei compiti, per la ve-
rità, è solo apparente: la donna e il dio conferiscono nobiltà alle ori-
gini del futuro sovrano ateniese, ma a nessuno dei due le convenzio-
ni di una società patriarcale, in cui le credenziali eroiche si attenua-
no progressivamente, consentono di legittimarlo dal punto di vista
sociale. Cfr. anche le critiche mosse all’interpretazione di Loraux da
Kevin Lee (Lee 1997, p. 36), che conclude: «What the play seeks is to
define the role of the father(s), rather than redefine the role of the
mother».
7
Per le diverse interpretazioni di un nome offerte dall’ottica divi-
na e da quella umana cfr. Mirto 2007.
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INTRODUZIONE 15

2. I TIMORI DELLA VERGINE VIOLENTATA

L’atteggiamento di Apollo verso il figlio è ambivalente:


nella sua persona coincidono la figura che ha interesse a
nasconderne la nascita e quella che vuole salvarlo. Così
il dio da un lato provvede a farlo sopravvivere all’ab-
bandono, ma ne occulta, dall’altro, la reale discendenza
e lo allontana dallo scenario in cui è venuto alla luce, di
fatto assimilandosi all’autorità maschile – in genere il
padre della vergine violentata – che nel modello narra-
tivo ordina di esporre il bambino e ne perseguita la ma-
dre.8 Nella storia di Creusa la vergogna e il timore di
non essere creduta dai familiari sono il solo motivo per
cui la gravidanza viene nascosta: l’amante divino garan-
tisce la segretezza e fa sì, come preciserà Atena nella sua
apparizione ex machina, che nessuno si accorga del par-
to (vv. 1595 sg.). Ma al di là del topos – ricorrente in ogni
trasgressione sessuale posta sull’incerto confine mitico
fra teogamia e stupro di una mortale da parte di un dio
– la vicenda di Creusa non potrebbe conciliarsi facil-
mente con la paura di essere scoperta dal padre. Ad essa
allude, è vero, proprio Ermes nel prologo,9 ma chi riflet-
ta su questo motivo tipico quando, più oltre, Creusa ri-
sponde alla curiosità di Ione sulla sua storia familiare, si
8
Cfr. Huys 1995, p. 92.
9
Cfr. v. 14 (ajgnw;" de; patriv) e, al v. 340, lo stesso dettaglio del parto
che avviene senza che il padre se ne accorga (lavqra patro;") torna nel
racconto di Creusa a Ione, ma riguarda l’amica immaginaria. Per mi-
surare la distanza dall’eufemistica celebrazione pindarica degli amori
fra dèi e donne mortali, si osservi come nella Pitica III si ometta di
chiarire se l’unione fra Apollo e Coronide fosse avvenuta col consen-
so della ragazza, mentre si depreca che lei, pur portando nel ventre il
seme puro del dio, si lasci prendere dalla passione per uno straniero e,
senza attendere le nozze, si unisca con l’uomo «di nascosto dal padre»
(v. 13: kruvbdan patro;"); un amore furtivo dunque, proprio come quello
con il dio, ma la colpa rimproverata a Coronide dal poeta – e dall’a-
mante divino che la punisce con la morte – è quella di non aver atteso
la nascita del figlio di Apollo, incautamente anteponendo alla ieroga-
mia il rapporto con un amante terreno.
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16 INTRODUZIONE

troverà dinanzi a un’insanabile incongruenza. Molti an-


ni prima Eretteo, durante la guerra contro l’esercito in-
vasore dei Traci guidati da Eumolpo, aveva immolato le
sue figlie «per il bene della patria» (vv. 277 sg.). La vi-
cenda era al centro del perduto Eretteo, dove Euripide
narrava come proprio l’oracolo di Delfi, quando il so-
vrano ateniese lo interrogò per sapere come assicurarsi
la vittoria, avesse risposto che doveva sacrificare una
delle sue figlie. Eretteo e la moglie Prassitea accettano
di pagare un prezzo così alto per la salvezza di Atene, e
le altre due figlie si sarebbero poi uccise, una volta com-
piuto il sacrificio della terza sorella, per mantenere il
giuramento reciproco di non sopravvivere alla morte di
una di loro. Anche nello Ione si allude al sacrificio delle
figlie – come in altre fonti, tuttavia, il numero delle vitti-
me è ora imprecisato – e poi alla straordinaria scompar-
sa di Eretteo, inghiottito da una voragine che si apre
quando Poseidone lo colpisce col suo tridente, per ven-
dicare l’uccisione del figlio Eumolpo.10 Fra le battute
che accennano sinteticamente ai due eventi, strettamen-
te concatenati, si pone la domanda di Ione, che vuole ap-
prendere come mai la principessa ateniese abbia avuto
un destino diverso da quello delle sorelle. «Ero appena
nata, fra le braccia di mia madre» (v. 280), risponde
Creusa, delineando così una cronologia dei fatti che ren-
de impossibile la tradizionale paura di essere scoperta e
punita dal padre all’epoca della violenza di Apollo e
della sua gravidanza. Eretteo era morto da tempo e non

10
Vv. 281 sg. La fine del re era narrata anche nell’Eretteo dal mes-
saggero che dava notizia a Prassitea dello svolgimento della battaglia
(fr. 370, 16 sgg. Kn.). In quella versione Euripide dava spazio al moti-
vo per cui Eumolpo assaliva l’Attica (la spedizione è inserita da altre
fonti nel contesto di una guerra fra Atene ed Eleusi): suo padre Posei-
done si era visto preferire Atena come divinità tutelare della regione.
Per una ricostruzione del mito e della versione euripidea, e per ipotesi
sulla sua datazione si vedano Collard, Cropp, Lee 1995, pp. 148-155; F.
Jouan, in J.-V.L. 2000, pp. 95-114.
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INTRODUZIONE 17

poteva avere alcun ruolo nel dramma di Creusa, benché


sia spesso evocato quando si fa riferimento alla stirpe
autoctona e alle sue tradizioni. Da lui l’unica discenden-
te ha ereditato l’amuleto, donato da Atena a Erittonio e
che ora lei porta stretto al polso, con il monile che con-
tiene separatamente due gocce del sangue della Gorgo-
ne (vv. 1003-1009). Una di esse, quella venefica, verrà
utilizzata per cercare di uccidere Ione, così diventando,
anziché un potente talismano ancestrale, il micidiale
mezzo che potrebbe determinare l’estinzione della stir-
pe. Solo a Creusa sono dunque legate le speranze di
continuarne la gloria procreando un erede, e insieme
con lei i personaggi subordinati che condividono l’ari-
stocratica xenofobia dei sovrani – le ancelle del coro e il
vecchio pedagogo del padre – vanno fieri della storia
della famiglia regnante ateniese. Più d’ogni altra cosa
temono la contaminazione della purezza dinastica da
parte di un successore che non abbia il sangue di Eret-
teo, quale parrebbe il figlio di Xuto indicato dall’oraco-
lo. I critici che hanno notato la diversità della sorte di
Creusa rispetto alle eroine che subiscono persecuzioni
dopo una violenza divina, mentre i figli che hanno gene-
rato vengono esposti – Alope, Antiope, Auge, Danae,
Melanippe – ritengono che ciò sia dovuto alla dimensio-
ne tutta interiore che Euripide ha voluto assegnare alla
sua sofferenza.11 Creusa non è stata minacciata da un

11
Huys 1995, pp. 95 sgg., a proposito dell’accenno alla necessità di
nascondere la gravidanza al padre, che affiora ai vv. 14 sg. e 340, sostie-
ne che Euripide introduce così un “locus rudimentalis”, un “motivo
inerte”, di nessuna importanza per l’intreccio ma tipico del modello
narrativo cui s’ispira. A parlare di loci rudimentales per spiegare alcu-
ne contraddizioni interne al testo fu per primo Zielinski 1925, pp. 24-
26, 55-58, 74-79, 119-121: lo studioso polacco li intendeva come residui
di precedenti versioni (per lo Ione si sarebbe trattato della Creusa
sofoclea di cui, per la verità, non si sa neppure se trattasse la stessa vi-
cenda), ormai inattivi o addirittura in conflitto con la nuova elabora-
zione drammatica.
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18 INTRODUZIONE

padre crudele, ha deciso da sola il penoso destino del


suo neonato e senza alcun aiuto ha provveduto a espor-
lo nella grotta della violenza. Nessuna ombra ha oscura-
to in seguito la sua vita, non ha conosciuto né prigionia
né esilio, anzi ha continuato a vivere nel lusso del palaz-
zo dei suoi avi e ha sposato un principe straniero, che fi-
nora l’ha rispettata e onorata. Il suo tormento è stato
dunque solo spirituale e quando esso emergerà, nel cor-
so del dramma, riuscirà a trasformare la malinconica
principessa in una donna capace di progettare senza
scrupoli la morte del suo potenziale avversario.12 La sce-
na in cui Creusa confessa il proprio antico trauma al
vecchio e leale servitore – lo stesso che aveva nutrito so-
spetti, senza tuttavia poter accertare quanto era accadu-
to (vv. 942-945) – e poi decide insieme a lui di liberarsi
dell’intruso, configura, differita nel tempo e con rove-
sciamento d’intenti, la stessa situazione che in genere
precede l’esposizione del neonato. Un ironico ribalta-
mento della funzione drammatica del confidente: non
essendo intervenuto a suo tempo, quando poteva tenta-
re di garantire l’incolumità del figlio, adesso gli viene as-
segnato dall’ignara madre il mandato opposto, quello
del sicario che dovrebbe ucciderlo.13
Ma se la figura di Eretteo non gioca nella vicenda un
ruolo attivo non è solo per consentire al poeta di tradur-
re un conflitto esteriore, quello tra padre e figlia, nel tra-
vaglio intimo della donna. Per anni angosciata dalla per-
dita del bambino, che l’amante divino avrebbe ignorato
abbandonandolo con cinica indifferenza – mentre lei è
stata costretta a farlo dalla sua fragile posizione all’in-
terno della società – Creusa si deve difendere in realtà
dalla sua stessa cultura e dall’ideologia familiare della
purezza della stirpe, più che da un antagonista detento-

12
Si veda Burnett 1962, p. 90; Burnett 1971, p. 123.
13
Su questo cfr. Huys 1995, p. 149.
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INTRODUZIONE 19

re del potere. Quando Euripide deve conciliare la vicen-


da del re dell’antica famiglia autoctona con la nuova
versione della nascita di Ione sorge così una difficoltà
che, nel corso del dramma, verrà abilmente occultata: lo
iato temporale fra la morte di Eretteo e la nascita di Io-
ne non è compatibile con lo schema narrativo della ver-
gine che teme l’ira paterna. In tutti gli altri passi in cui si
fa cenno al pudore che impone di tenere segreta la na-
scita del bambino, per la verità, non si precisa affatto chi
sia il familiare di cui Creusa deve aver timore (cfr. v.
1497). Al v. 1596, anzi, Atena allude genericamente alla
provvidenziale accortezza di Apollo: ha regolato le cose
in modo che la facilità del parto della ragazza impedisse
ai suoi cari di accorgersene (w{ste mh; gnw``nai fivlou"). Se
si trascurano i due luoghi in cui il motivo s’insinua quasi
inavvertitamente,14 la preoccupazione di Creusa sembra
14
Cfr. sopra, n. 9. Il prologo in cui Ermes dà la prima versione del-
la violenza e dei fatti successivi contiene, per la verità, anche un’altra
discrepanza minore con il racconto che ne fa poi Creusa: il parto sa-
rebbe avvenuto nel palazzo (v. 16), anziché nella stessa grotta dove ha
prima subito lo stupro e poi abbandonato il neonato (v. 949). I critici
considerano più affidabile il resoconto del dio, laddove la memoria
dolorosa e meno lucida della donna fonderebbe insieme, facendoli
coincidere, il luogo della violenza e dell’esposizione con quello del tra-
vaglio e del parto (Lee, ad v. 949, p. 266; Owen, ad v. 948, p. 133, ritiene
che Creusa qui alteri deliberatamente lo scenario per guadagnarsi il
massimo della compassione; Zielinski 1925, pp. 55-58, ipotizza che il
parto nella grotta risalga alla versione della Creusa di Sofocle, con cui
si accorderebbero meglio i segni di riconoscimento costituiti dalle fa-
sce, ricavate dagli abiti indossati da Creusa (?), e dal monile che lei
porta con sé, mentre Euripide avrebbe variato ambientando il parto
nella reggia, e con maggiore pertinenza si riferirebbero a questo sce-
nario sia la cesta, necessaria per il trasporto del bambino, sia il ramo
sempreverde, strappato all’olivo sacro dell’acropoli verosimilmente
lungo la via). Quando Atena insiste sulla prudenza divina nel garanti-
re che il parto di Creusa non abbia complicazioni, perché i familiari
non se ne accorgano (v. 1596: a[noson non può certo intendersi come
«indolore»; delle doglie Creusa ha un vivido ricordo: cfr. vv. 869, 1458),
non si riferisce tuttavia a una premura che avrebbe senso solo se il
parto fosse avvenuto in casa anziché nella solitudine della grotta (cfr.
Lee, ad v. 1596, p. 318): un travaglio rapido, privo di conseguenze sulla
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20 INTRODUZIONE

ispirata piuttosto dal biasimo dell’opinione pubblica e


dalla prevedibile diffidenza nei confronti delle gravi-
danze attribuite a rapporti amorosi con divinità: esem-
plare quella testimoniata da Ione ancora ai vv. 1520-
1527, a riconoscimento avvenuto. Apollo, del resto, evita
con ogni cura le critiche che macchierebbero la sua re-
putazione, più che quella di Creusa, fino al punto da de-
cretare un segreto permanente sulla sua paternità.
Quanto all’accenno, ritenuto da qualcuno sorprendente,
al timore ispiratole dalla propria madre – così Creusa
motiva l’impulso a esporre il neonato subito dopo il par-
to, nello sfogo lirico in cui rivela la sua storia (v. 898:
frivka/ matro;") – forse può essere chiarito proprio dal da-
to, emerso nel frattempo, della morte di Eretteo quando
lei era appena nata.15 Euripide non ha rinunciato a inte-

sua salute fisica, consente alla ragazza di non assentarsi a lungo e di


tornare indietro senza indugio. Se dunque si deve giudicare l’attendi-
bilità del resoconto di Ermes rispetto ai ricordi di Creusa, è inevitabi-
le l’impressione che la vicenda segua linee stereotipate – timore del
padre, parto nella propria dimora, elementi convenzionali cui ricorre
la stessa Creusa quando maschera la sua esperienza ascrivendola a
un’ipotetica amica (vv. 338-344) – finché, nel dipanarsi del racconto,
non sia possibile illustrare e insieme motivare gli aspetti marginali che
non si conformano al modello più noto. Al pubblico non vengono pro-
poste deviazioni dalla norma fino a quando anche i minimi dettagli
non servono a completare il quadro inconsueto di una vergine stupra-
ta e lasciata sola a decidere la sorte del suo bambino. La disperata so-
litudine interiore ha indotto la giovane donna a una penosissima scel-
ta, al di là del timore concreto dell’ostilità paterna e senza poter confi-
dare su alcuna assistenza o complicità (diversamente dalle vergini che
partoriscono segretamente in casa: per Melanippe si veda l’ipotesi del-
la Melanippe sophe, TrGF 5.1, pp. 525 sg., rr. 8-15; per Alope e Auge
cfr. Huys 1995, pp. 154-157). È importante inoltre notare che Euripide
viola un tabù e, mentre concede alla voce della donna di superare il
codice linguistico imposto dal pudore e descrivere il trauma senza
troppi veli, non può armonizzare del tutto il suo esperimento con il
modello narrativo consolidato. La singolarità letteraria della testimo-
nianza affidata a Creusa nello Ione è illustrata da Scafuro 1990, pp.
126-159; si veda anche Zacharia 2003, pp. 79, 140 sg.
15
Huys 1995, pp. 95 sg., ritiene che non si debba interpretare, com’è
più naturale, matrov" come genitivo oggettivo, se si pensa che il tratto
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INTRODUZIONE 21

grare il dettaglio della fine straordinaria del re – vitto-


rioso nella battaglia per difendere la patria, ma soccom-
bente dinanzi al dio che vendica la morte del figlio Eu-
molpo – ed è costretto a sfumare il più possibile il tratto
convenzionale della paura di una punizione paterna. Al-
meno in occasione della vivida rievocazione dell’am-
plesso imposto da Apollo, radioso e insieme brutale nel-
la sua epifania, Creusa si dichiara turbata alla prospetti-
va del biasimo della madre, che non ha potuto soccor-
rerla in questa infelice avventura. È il timore di non es-
sere creduta dalla stessa persona che ha sempre avuto
un ruolo protettivo a suggerirle di esporre il figlio del
dio proprio nel luogo dove ha subito lo stupro. Vi ritor-
na, quando avverte l’imminenza del parto, recando con
sé in un cesto di vimini munito di coperchio (dunque un
normale contenitore, non una culla) alcuni oggetti per-
sonali da lasciare accanto alla sua creatura, talismani
portafortuna e insieme potenziali segni di identificazio-
ne: il tessuto su cui è raffigurata la Gorgone è un saggio
incompleto del suo apprendistato al telaio, l’amuleto in
forma di serpenti d’oro è il gioiello tradizionale per i
neonati ateniesi, la ghirlanda intrecciata con fronde del-

convenzionale del motivo narrativo è il timore del padre e che la ma-


dre di Creusa è menzionata solo per averla salvata proteggendola fra
le sue braccia, quando le sorelle furono sacrificate (v. 280) e, nella mo-
nodia, quando Creusa ricorda di averne invocato il nome al momento
dello stupro (v. 893). Propone dunque di interpretarlo, con Paley e al-
tri, come genitivo soggettivo: «col brivido di una madre», riferito al-
l’angoscia che accompagna la decisione della stessa Creusa di abban-
donare il proprio figlio. Come quasi tutti i critici, tuttavia, non sembra
accorgersi dell’incongruenza che si cela fra le pieghe della narrazione.
Riserve analoghe incidono sui criteri seguiti dagli editori per emenda-
re il v. 1489 (cfr. Owen, ad loc., pp. 172 sg.; Lee, ad loc., p. 311). Pur ac-
cordando credito al tema della “paura della madre”, Loraux 1981, p.
234 e n. 154, ne dà un’interpretazione ideologica in armonia con la sua
analisi dello Ione (la ribellione di Creusa rivendica il ruolo femminile
nella riproduzione, negato dal mito dell’autoctonia). Corretta, invece,
se pure avanzata con qualche cautela, l’interpretazione di Hoffer
1996, p. 302, n. 42.
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22 INTRODUZIONE

l’olivo sacro di Atena è un ulteriore simbolo dell’iden-


tità autoctona del neonato. Quanto ai sentimenti con cui
Creusa si lascia alle spalle il bambino, Ermes si limita a
indicare che lo abbandona alla morte (vv. 18, 27), a ri-
prova dell’incapacità divina di leggere nell’animo uma-
no: la ragazza, al contrario, è guidata nella grotta dello
stupro dalla speranza segreta che il dio violentatore si
faccia carico del destino di suo figlio (come lei confessa
al vecchio ai vv. 964 sg.); e nonostante i timori nutriti nel
tempo solo l’oracolo, fausto per Xuto e a lei apparente-
mente sfavorevole, fa dileguare l’illusione di ritrovare
quel figlio.
La tradizione non faceva posto a Ione nella serie mi-
tica dei primi re di Atene, e l’impresa per cui era noto –
l’aiuto militare offerto agli Ateniesi nella guerra con-
dotta contro Eleusi e i Traci guidati da Eumolpo duran-
te il regno di Eretteo – 16 non è compatibile con la cro-
nologia euripidea. Adesso è piuttosto Xuto ad aver
combattuto come alleato di Atene in una guerra, non
altrimenti nota, contro l’Eubea (vv. 294-298). Anche se
la poesia epica presentava il motivo del sovrano che
concede a uno straniero di sposare la propria figlia, per
il suo valore o in premio di un’alleanza (cfr. Iliade XIII
363-382, VI 192, IX 141-157; cfr. anche Eur., Andromaca
966-970), non è agevole integrare Xuto in una tragedia
in cui la purezza etnica e l’autoctonia sono i valori fon-
danti da preservare a ogni costo. Non sarebbe stato
neppure Eretteo a concedergli la mano della figlia, e la
guerra che vede Atene in difficoltà sarebbe sorta nel
periodo di interregno fra la sua morte e il momento in
cui Creusa ha raggiunto l’età per sposarsi. La vicenda
costruita da Euripide assume così contorni che ricorda-
no piuttosto l’impresa di Edipo, venuto in soccorso dei

16
Cfr. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 3, 2; Strabone 8, 7, 1;
Pausania 7, 1, 5.
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INTRODUZIONE 23

Tebani e designato al potere della città dopo averli li-


berati dalla Sfinge: la figura che media il potere, però,
qui non è la vedova del re, bensì l’unica figlia supersti-
te. Non la si può definire propriamente una epikleros,
perché il matrimonio endogamico legato all’istituto
dell’epiclerato non può iscriversi nel mondo aristocra-
tico ed esogamico della leggenda eroica.17 Queste con-
traddizioni, non del tutto dissimulate, sembrano dun-
que la prova dello sforzo di inserire Apollo nell’albero

17
Viene suggerito di frequente l’accostamento tra la posizione di
Creusa e l’istituto dell’epiclerato, volto a garantire ad Atene la conti-
nuità dell’oikos prescrivendo che, in mancanza di altri eredi, la figlia
depositaria del patrimonio familiare si unisca in matrimonio con un
parente prossimo del ramo paterno: cfr. Burnett 1971, pp. 106-108 e n.
6, e soprattutto Loraux 1981, pp. 217-219, 223-229, peraltro costretta a
definire Creusa «une épiclère parfaitement anormale» (p. 218). L’as-
sociazione è piuttosto fuorviante, perché non tiene conto della situa-
zione delineata nella tragedia prima del pronunciamento dell’oracolo:
se il matrimonio con Xuto non fosse rimasto fino ad allora sterile e se
la comparsa di un suo figlio bastardo non rappresentasse un pericolo
concreto per la purezza etnica della stirpe ateniese, non ci sarebbe ra-
gione per enfatizzare l’origine indigena della famiglia di Eretteo e ve-
dere nel principe regnante un intruso. La dinastia autoctona rivive
grazie al contributo di un padre che viene dall’esterno – dio o alleato
mortale che sia – ma solo il marito umano di Creusa può conferire le-
gittimità sociale all’erede. Per rifondare la linea di discendenza dei
“nati dalla terra” c’è dunque bisogno di uno straniero che adotti il fi-
glio concepito, fuori dal matrimonio, dalla sola figlia di Eretteo so-
pravvissuta: doppia infrazione ai vincoli che l’Atene classica impone-
va ai suoi cittadini (cfr. vv. 589-592), consentita, tuttavia, dal codice mi-
tico. Ne sono elementi riconoscibili la paternità biologica di un dio e
l’integrazione dell’eroe straniero nella famiglia regale, quando gli si
offre di sposare una figlia che rimarrà così nella casa di suo padre an-
ziché seguire il marito (modello ben diverso dall’epiclerato, ma che ne
condivide lo scopo: mantenere il legame della donna, e dei figli che
nasceranno dalle sue nozze, con l’oikos paterno). Non ha dunque sen-
so parlare di una sfida di Creusa alle convenzioni del matrimonio e di
una sua denuncia del ruolo esclusivo del maschio nella successione,
perché l’accusa da lei rivolta a Xuto di volersi appropriare del suo pa-
trimonio metterebbe in rilievo l’impotenza della epikleros (Dunn
1990, pp. 133-136). Per la soluzione anacronistica rappresentata, nella
polis democratica, dai miti in cui un marito viene “adottato” dalla fa-
miglia d’origine della sposa, cfr. Seaford 1990, pp. 154 sgg.
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24 INTRODUZIONE

genealogico di Ione, il cui legame con i discendenti di


Eretteo non era ignoto alle versioni precedenti del mi-
to.18 In ogni caso la sua condizione di nothos non muta:
ora viene presentato come figlio della vergine violenta-
ta dal dio, nato da un’unione ineguale in cui, se la ma-
dre è aristocratica e ateniese, il padre non appartiene
alla specie umana. Nella versione ufficiale dei fatti sa-
rebbe invece il figlio illegittimo di Xuto, nato da un’i-

18
Cole 1997, pp. 89-91, sostiene che l’esistenza di una Creusa, figlia
di Eretteo e resa da Apollo madre di Ione, risulta problematica rispet-
to alla tradizione precedente. Per Esiodo (fr. 9 M.-W.) Xuto è figlio di
Elleno e fratello di Doro ed Eolo; per Erodoto (VII 94; VIII 44, 2) è il
vero padre di Ione (anche nella Melanippe sophe, fr. 481, 9-11 Kn., Eu-
ripide descrive Ione come figlio di Xuto e di una figlia di Eretteo).
Non è tuttavia corretta l’affermazione che Creusa non sia neppure
menzionata prima di Euripide, come sostiene Cole 1997 (p. 89), per-
ché proprio Esiodo ne fa la figlia di Eretteo (fr. 10(a), 20-24 M.-W.): le
integrazioni di M. L. West al frammento papiraceo del Catalogo delle
donne – basate su Apollodoro, Biblioteca I, 7, 3 e 9, 4 – dove si dice che
Xuto sposa Creusa, figlia di Eretteo, e gli genera Acheo, Ione e la bel-
la Diomeda (P. Turner 1, ed. Parsons-Sijpesteijn-Worp, London 1981,
p. 14) sono state successivamente confortate e rese virtualmente sicu-
re dal felice accostamento di un altro frammento papiraceo (P. Oxy.
2822, fr. 2, ed. Lobel: cfr. West 1983, pp. 27-30). È invece evidente che
la soluzione adottata nello Ione, fare di Creusa una superstite al sacri-
ficio delle sorelle per la sua tenera età, sembra del tutto indipendente
dalla tradizione ateniese, proprio per le difficoltà cronologiche che
comporta rispetto alla menzione del padre al v. 14 (Cole 1997, p. 154
sg. n. 8: il dettaglio è una inaccurata invenzione euripidea; la tradizio-
ne ateniese conosceva due sorelle che si erano sposate prima della
guerra, e anche Creusa avrebbe potuto salvarsi lasciando la casa pa-
terna col matrimonio). Inoltre non sono conclusive, per postulare una
versione del mito in cui Apollo fosse padre di Ione già prima di Euri-
pide, neppure le testimonianze di un antico culto di Apollo come divi-
nità ancestrale degli Ioni (cfr. Cole 1997, pp. 90 e 155, nn. 13-14; Owen,
pp. XII-XV). È molto improbabile, del resto, l’ipotesi di West 1985, p.
106, che non esclude la menzione di Apollo, evidentemente assente
nel breve resoconto delle nozze di Xuto e Creusa nel fr. 10a, 20-24 del
Catalogo esiodeo, più oltre, quando veniva raccontata la storia di
Creusa: anche lei, come le sorelle Procri e Orizia, avrebbe così avuto
una relazione con un dio. Ma nella versione di Euripide l’unione col
dio è destinata a dare una paternità divina a Ione, che in Esiodo sa-
rebbe invece, come Acheo, figlio di Xuto.
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INTRODUZIONE 25

gnota ragazza di Delfi e dunque del tutto estraneo alla


pura stirpe attica, originaria della terra stessa su cui do-
mina e vive.19

3. VIOLENZA E PUREZZA. LA CRISI DEL RAPPORTO FRA


DÈI E UOMINI

Nato da uno stupro, descritto realisticamente come tale


e più volte focalizzato dal punto di vista della vittima –
un dato affatto insolito nelle elaborazioni letterarie dei
miti, ma anche nel mondo realistico della commedia di
Menandro – 20 Ione è un eroe esposto alla nascita in cer-
ca della propria identità. La sua vicenda disloca in mo-
do inconsueto gli elementi tradizionali che articolano il
modello narrativo: lo si è visto per l’imposizione del no-
me e lo si può osservare ancora per il responso oracola-
re, in genere connesso con l’antefatto dell’abbandono,
che da esso è motivato, ma qui differito al momento in
cui l’eroe è già cresciuto e il suo destino di reintegrazio-
ne nella famiglia d’origine deve compiersi. La parola di-
vina non annuncia dunque che il nascituro sarà fatale a
un membro della famiglia – il padre, il nonno o gli zii
materni, come nelle storie di Edipo, Perseo o Telefo – e,
anziché determinarne l’allontanamento in un luogo do-
ve ci si attende che nessuno potrà proteggerlo dalla
morte, guiderà Ione verso la sua vera patria e il ruolo
che gli compete. Dunque si rovescia la direzione dello
spostamento dell’eroe causato dall’oracolo, ma è anche
più rilevante la sorprendente rinuncia a una comunica-
zione veridica, costante del segno mantico anche se
spesso inutile a modificare il destino dell’uomo, che di
solito non è in grado di decifrarlo correttamente e di
19
Cfr. Ogden 1996, p. 172: (a proposito della paternità divina) «the
fact that he is still technically bastard even now is tactfully passed
over», e Patterson 1990, pp. 67 sgg.
20
Cfr. Rosivach 1998, pp. 42-46; Omitowoju 2002, pp. 182-186.
0050.intro.qxd 15-12-2008 14:53 Pagina 26

26 INTRODUZIONE

orientarsi in modo vantaggioso, seguendo indicazioni


che rispondono oscuramente ai suoi dubbi.
Nella storia di Edipo, un’esemplare e tragica ricerca
della propria identità scandita da diversi vaticini, c’è un
altro oracolo, dopo quello relativo alla sua nascita
(Sofocle, Edipo re 711-719), che agisce con effetto simile
a quello pronunciato da Apollo per Ione – avvicinare lo
sventurato Edipo alle sue origini – ma ovviamente con
le atroci conseguenze che distinguono la vicenda di Edi-
po da quella a lieto fine di Ione. Il responso giunge di-
rettamente all’eroe protagonista quando si reca a Delfi
a chiedere al dio chi siano i suoi veri genitori, perché un
ubriaco gli aveva insinuato il dubbio di non essere figlio
di Polibo e Merope, i sovrani di Corinto. La risposta di
Apollo, come gli è consueto, è obliqua, indiretta; lascia
da parte l’argomento sulla reale paternità, spostando
l’attenzione sul mostruoso destino che lo incalza, unirsi
alla madre procreando figli maledetti e uccidere il pro-
prio padre. Edipo allora pensa solo a fuggire lontano da
Corinto e da quelli che continua a credere i suoi genito-
ri, ma in realtà si avvia così a compiere la profezia e, più
tardi, a conoscere la sua vera identità attraverso l’inda-
gine per scoprire chi abbia contaminato la comunità te-
bana (Sofocle, Edipo re 787-797). In questo caso Apollo
non mente, eppure dà un indiretto contributo al compi-
mento del parricidio e dell’incesto che sono scritti nel
destino dell’eroe: la sua domanda di chiarezza non ot-
tiene risposta e l’oracolo addita l’orrore che incombe
sul rapporto con i genitori senza sciogliere il velo della
sua ignoranza, ambiguamente guidandolo lontano dal
luogo, accanto ai genitori adottivi, dove avrebbe potuto
restare al riparo da quei misfatti.
Il compimento del destino di Ione è propiziato in mo-
do analogo dal vaticinio di Apollo delfico, ma questa
volta la parola divina sembra voler rimediare all’igno-
ranza che circonda la nascita del ragazzo: il pellegrino
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INTRODUZIONE 27

giunto da Atene insieme alla moglie, per sapere se potrà


procreare figli, si sente rispondere che è suo figlio colui
in cui s’imbatterà all’uscita dal penetrale. Xuto accetta il
responso con entusiasmo, non pone altre domande e
non si chiede in quali circostanze e con chi abbia gene-
rato il figlio, ormai adulto, che apparentemente separa
la sua sorte da quella di Creusa. Qui non c’è sfasatura
tra la comprensione umana e il destino che la parola del
dio presenta in modo non certo enigmatico. L’oracolo è
deliberatamente ingannevole, non prevede che il con-
sultante lo interpreti in un senso diverso, avvicinandosi
alla verità, anzi esclude che ciò possa avvenire anche in
futuro (cfr. vv. 69-73, 517-543, 780-789, 1601-1603).21 Il
candore e la fiducia del marito di Creusa risultano, pe-
raltro, la sola reazione umana alla profezia che non pon-
ga ostacoli al disegno divino e non lo metta in crisi. An-
che se del personaggio di Xuto i critici enfatizzano i trat-
ti che potrebbero renderlo ridicolo, è il particolare coin-
volgimento del dio nella vicenda di Ione a determinare
il ruolo poco lusinghiero cui il dramma lo confina. Non
sono la stoltezza, la presunzione o la superficialità del
consultante a precludergli la verità, bensì il peculiare
conflitto di interessi in cui è implicato Apollo, il cui re-
sponso è finalizzato a restituire alla madre e alla società
laica suo figlio, cogliendo il pretesto di risolvere il pro-
blema del fedele venuto a interrogare la sapienza pitica.
La sua remissività viene “premiata” con un inganno: gli
viene concesso il figlio che desiderava, a prezzo di ac-
cettarne, ignaro, uno non suo. Nella storia di Edipo l’in-
21
Ingiustificate alcune proposte per ricostruire una formulazione
ambigua del responso, che potesse essere interpretata sia come la in-
tende Xuto, sia nel senso che Apollo gli assegnava il proprio figlio:
Owen 1939, pp. XIX sg., Hartigan 1991, p. 76, Neitzel 1988, pp. 275 sg.;
Gavrilov 2002, pp. 56-66 (con la singolare proposta di leggere in
dw``ron, al v. 537, l’allusione dell’oracolo al figlio Dw``ro", annunciato nel-
la profezia di Atena solo al v. 1590, e ovviamente qui frainteso come
nome comune dall’ignaro Xuto!). Cfr. anche Mirto 2001, p. 41 n. 21.
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28 INTRODUZIONE

fallibilità della visione divina emerge quando la cono-


scenza della sua origine familiare gli consente di vedere
nella luce di un destino rovinoso quanto lui aveva vissu-
to come gloriosa ascesa al potere regale di Tebe.22
Nello Ione non si può dunque imputare all’oracolo,
nell’unica occasione in cui si pronuncia, né equivocità
né maliziosa oscurità. Anzi, tutto procede per indicazio-
ni chiare e precise, intese dal consultante nell’unico si-
gnificato possibile, anticipate da Ermes, il dio che pro-
nuncia il prologo, e confermate da Atena, la dea che
conclude il dramma ex machina. L’oracolo di Trofonio,
che Xuto aveva pensato d’interrogare sullo stesso argo-
mento prima di giungere a Delfi, aveva dato una rispo-
sta più veridica, pur nella sua vaghezza, perché include-
va espressamente Creusa accanto al marito: «Non ha
creduto di anticipare il vaticinio del dio. Ha detto però
una cosa: né io né tu torneremo a casa dall’oracolo sen-
za figli» (vv. 407-409). I due coniugi, in effetti, otterran-
no in modo diverso ma in relazione alla stessa persona il
compimento del loro desiderio, e la distinta menzione di
entrambi coglie un aspetto fondamentale del progetto
di Apollo che il pronunciamento delfico, tuttavia, non a
caso sottace: il disegno originale del dio prevedeva che
solo più tardi, ad Atene, madre e figlio si riconoscessero
all’insaputa di Xuto. Pur nel rispetto della gerarchia fra
i due siti oracolari, nell’antro di Trofonio si offre una
rassicurazione generica ma corretta ai sovrani ateniesi,
che saranno appagati l’uno e l’altra nel loro desiderio di
abbracciare un figlio. Con quali distinte modalità – illu-
22
Per questa lettura della vicenda si veda la presentazione della
tragedia sofoclea di Paduano 1982, pp. 28-32; un’analisi più approfon-
dita ed esaustiva in Paduano 2008, pp. 9-77. Alcune affinità e differen-
ze tra Edipo re e Ione, soprattutto per quel che riguarda il modo in cui
opera la tuvch nei due drammi, sono analizzate da Giannopoulou 1999-
2000, pp. 269-271; l’accostamento fra il percorso di Edipo e quello di
Ione, dall’ignoranza alla conoscenza della propria identità, è stato più
volte suggerito: cfr. Knox 1979, pp. 257 sg.; C. Segal 1999, pp. 100 sg.
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INTRODUZIONE 29

sione per il padre e autentica agnizione per la madre –


verrà mostrato dall’azione scenica.
Il profondo coinvolgimento del dio nelle vicende
umane condiziona le qualità profetiche e catartiche per
cui è venerato, temuto e interrogato dai mortali. Consi-
derando questo aspetto delle relazioni tra i due mondi
si può forse rinunciare all’angusta alternativa fra legge-
re il dramma come un’accesa polemica antiapollinea o,
all’opposto, come l’asserzione del trionfo finale del po-
tere di Apollo a tutto vantaggio degli uomini favoriti.23
Per valutare la sua azione, salvifica alla fine, ma anche
improvvida perché innesca pericolose reazioni umane,
si può confrontare il contegno ben diverso che proprio
Apollo assume in una situazione analoga, narrata da
Pindaro nell’Olimpica VI:24 Evadne, sedotta dal dio, cela
la sua gravidanza ma non riesce a evitare che, al termine
della gestazione, se ne accorga Épito – il re arcade che
l’ha allevata – il quale si reca irato a Delfi per avere
chiarimenti sull’ignoto responsabile della «sciagura in-
tollerabile» (v. 38: ajtlavtou pavqa"). La risposta dell’ora-
colo rivela la paternità divina del bambino, che intanto
viene partorito da Evadne nella boscaglia e lì abbando-
nato. Il responso pitico annuncia anche il futuro glorio-
so dell’eroe: riceverà in dono dal padre l’arte profetica
(la voce di Apollo che il figlio, cresciuto, potrà udire e
mediare ai mortali è definita yeudevwn a[gnwton, «ignara
di menzogna»).25 In questo caso Apollo non occulta la
sua paternità, anzi la proclama orgogliosamente al mor-
tale che lo interroga nella sede ufficiale della comunica-
zione mantica. Così garantisce la salvezza del figlio ge-
nerato da Evadne, placando immediatamente la collera

23
Questa è l’equilibrata raccomandazione di Mastronarde 2002,
pp. 29 sg.
24
Cfr. Whitman 1974, pp. 73 sg.; Loraux 1981, p. 203.
25
Pindaro, Olimpiche, VI 67; cfr. Pitiche, III 29; IX 42, Euripide, Ifige-
nia Taurica 1254.
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30 INTRODUZIONE

del re che torna con la notizia straordinaria: il bambino


appena nato è prole di Febo, eccellerà fra gli uomini per
le sue doti profetiche e da lui discenderà una stirpe di
vati. Ma poiché il parto è nel frattempo avvenuto lonta-
no dalla reggia, la madre ha lasciato il neonato tra giun-
chi e cespugli, in mezzo alle viole (i[a) che irradiano ri-
flessi di colore fulvo e purpureo sul suo corpo, suggeren-
dole il nome (“Iamo") da imporgli prima di abbandonar-
lo (vv. 55-57). Altri motivi tipici intervengono a definire
le prodigiose circostanze di questa nascita eroica: due
serpenti, animali ctonî connessi con la divinazione, nu-
trono per volere divino Íamo con «veleno innocuo» (vv.
46 sg.: ajmemfei`` ijw/`), cioè col miele delle api, un particola-
re che ricorda la vicenda di Erittonio e la tradizione ate-
niese di mettere nelle culle amuleti a forma di serpenti
(Ione 20-26). Dell’infanzia dell’eroe Pindaro tace, evo-
cando poi con brusca transizione il momento in cui Ía-
mo, uscito dall’adolescenza, compie l’itinerario che dal
fiume Alfeo, nella regione natale, lo conduce in Elide,
sull’altura del Cronio che sovrasta Olimpia, dove Apol-
lo lo guida al suo alto destino regale e sacerdotale.
Il confronto con una vicenda eroica per tanti versi si-
mile mostra come la poesia pindarica sappia dare rilie-
vo ai tratti gloriosi e positivi che, in netta opposizione
con la visione euripidea, rendono felice la sorte dei figli
generati da donne mortali agli dèi. Il taglio della narra-
zione, tuttavia, il valore paradigmatico delle biografie di
quegli eroi e i criteri di opportunità che inducono Pin-
daro a selezionare solo particolari celebrativi, in sinto-
nia con le attese del suo uditorio, rendono necessaria
una prospettiva distaccata: Íamo è figlio di Apollo e ni-
pote di Poseidone, perché la stessa Evadne era nata dal-
l’amplesso tra un dio e una mortale, ma non si troveran-
no allusioni ai timori delle vergini sedotte da dèi poten-
ti, costrette a nascondere le loro gravidanze e poi a se-
pararsi per sempre dalle creature che partoriscono in se-
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INTRODUZIONE 31

greto. Di queste madri non sentiremo più parlare dopo


la nascita dei figli e, anche se Evadne abbandona il suo
bambino proprio come Creusa, niente ci viene detto
dello strazio che accompagna la sua decisione. Nella tra-
gedia euripidea il punto di vista della madre e quello del
figlio che non l’ha mai conosciuta sono privilegiati, e
questa scelta modifica profondamente la prospettiva da
cui si guarda al futuro glorioso e felice dell’eroe. Inoltre
il padre ora non lega il destino del figlio alle proprie do-
ti divine, non trasmette qualità mantiche a lui e alla sua
stirpe, confermandone nel modo più naturale e diretto
la paternità. Ione è cresciuto nel tempio di Delfi e ha ri-
cevuto un’educazione religiosa che, tuttavia, non si può
dire lo prepari al suo futuro compito di principe eredita-
rio ateniese. Anzi il contegno sottomesso e devoto, in cui
è vissuto finora, gli consente di apprezzare gli aspetti più
umili di un servizio in cui non può certo spiccare per at-
titudine al comando e ambizioni regali. Ione diffida del-
le responsabilità connesse con il potere, non sembra at-
tratto dall’idea di succedere a Xuto e non vorrebbe ab-
bandonare l’oscura ma appagante condizione di servo
del tempio. Ereditare un regno non rientra nei suoi so-
gni e implica oltretutto la prevedibile ostilità della figlia
di Eretteo e la rinuncia alla quiete spirituale da cui fino-
ra ha tratto ogni gioia (vv. 585-647). Se si pensa alla ri-
vendicazione di Íamo, alla preghiera notturna che rivol-
ge a Poseidone e Apollo per ottenere l’onore di un seg-
gio oracolare, da cui gli deriveranno fama e potere, si
può misurare la distanza fra la strategia di Apollo nei
confronti di questo eroe – l’asse diretto mantenuto con
lui, annunciandone subito al mondo la paternità e ren-
dendolo poi partecipe del potere magico-sacrale dell’ar-
te divinatoria (Pindaro, Olimpiche, VI 57-71) – e il modo
in cui Ione viene restituito al suo posto di diritto nella
società. Il ritorno da Delfi ad Atene può avvenire solo
attraverso la negazione dei principî in cui è stato educa-
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32 INTRODUZIONE

to, forzandone i desideri e l’inclinazione naturale. La


meta che il padre divino ha progettato per lui lo allonta-
na dalla dimensione spirituale della sua paideiva, comun-
que fondata sullo status modesto cui è confinato un tro-
vatello senza nome, e lo rende all’orgoglio razziale di ul-
timo discendente degli Eretteidi attraverso la frode ai
danni di Xuto. Ad Atene il suo stile di vita cambierà di
segno e richiederà altre doti, la nascita da Apollo non
potrà essere resa pubblica, e la topografia religiosa della
città su cui dovrà un giorno regnare è meno rasserenan-
te di quella delfica. La grotta di Pan, le Rocce Alte: luo-
ghi di culto sull’acropoli che recano memoria della vio-
lenza divina da cui è nato Ione, violenza che è alla radi-
ce della sua stessa natura, anche se sembra smentire
drasticamente i tratti del dio che il ragazzo ha venerato
e assecondato di più, durante gli anni in cui era stato
adottato dal tempio delfico. Gli anni dell’infanzia e del-
l’adolescenza sono stati, per Ione, all’insegna di un fo-
sterage alla rovescia,26 perché è il vero genitore ad assol-
vere il ruolo di chi nutre ed educa lontano dalla famiglia
materna d’origine. Il ritorno con la madre ad Atene, uf-
ficialmente in qualità di figlio naturale di Xuto, inserisce
il ragazzo nella sua famiglia umana, rivelandogli chi sia
il vero padre ma insieme imponendogli il definitivo di-
stacco dal suo luogo di culto e dalla visione eticamente
irreprensibile che ne coltivava.
L’umile condizione in cui viene allevato il bambino

26
La definizione in Loraux 1981, pp. 216 sg. Su questa istituzione
sociale arcaica, che allontana un bambino “eletto” dalla sua famiglia, e
lo relega in una regione straniera presso la famiglia della madre o fra
pastori, dove verrà educato vivendo una sorta d’iniziazione prima di
tornare a pieno titolo nella sua comunità per rinnovarla grazie alle
sue doti in qualità di eroe fondatore, cfr. Gernet 19642, pp. 19-28. Nel
tema del tentato avvelenamento da parte di Creusa, che nella storia di
Teseo si ripete ad opera di Medea quando l’eroe torna ad Atene per
farsi riconoscere dal padre Egeo, Gernet (p. 23) crede di ravvisare
un’ordalia d’investitura legata alla conclusione del fosterage.
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INTRODUZIONE 33

esposto è un altro elemento tipico del modello narrati-


vo, e ne consegue di solito il contrasto fra le virtù innate
dell’eroe e l’ambiente modesto in cui viene educato.27
Ma, una volta di più, l’originale adattamento euripideo
della vicenda di Ione in una cornice non del tutto con-
grua, perché molti presupposti basilari del modello tra-
dizionale sono rovesciati o sensibilmente diversi, riduce
la distanza fra nascita aristocratica e contesto in cui cre-
sce l’eroe. Così la fuvsi" di Ione non entra in conflitto
con la sua paideiva – si pensi alla superiorità fisica di
Alessandro/Paride sui pastori che lo allevano – né sa-
rebbe ragionevole evidenziare una dissonanza tra le
qualità naturali del figlio di Apollo e i ministri del tem-
pio che, con la Pizia, si sono presi cura di lui. Si avverte
però una tensione irrisolta, sin dall’inizio del dramma,
fra l’ansia di purezza che guida ogni gesto del servo del
dio e il rigore che lo induce all’aggressività e alla violen-
za. La monodia cantata da Ione, quando si presenta in
scena e illustra i suoi abituali compiti di assistente del
culto mantico, culmina in un’apostrofe minacciosa agli
uccelli che scendono all’alba dal Parnaso: senza temere
di compiere a sua volta una profanazione, Ione è pronto
a ucciderli col suo arco se non si allontanano dalle offer-
te votive e dai cornicioni del tempio, come se i volatili
che frequentano normalmente gli edifici sacri si doves-
sero assoggettare alle stesse regole di purezza imposte
agli uomini. Con analoga inflessibilità, senza farsi scru-
polo della sacralità dei supplici e protestando contro
l’ingiustizia del diritto d’asilo concesso ai criminali, Ione
alla fine della tragedia vorrebbe strappare Creusa all’al-
tare dove si è rifugiata. Il servizio cui è votato da sem-
pre, preservare il luogo sacro da ogni contaminazione,
sembra autorizzarlo al gesto empio di perseguitare i
27
Si veda la divertente testimonianza di Menandro, L’arbitrato,
320-333, a proposito del ricorrere di questo elemento narrativo nelle
vicende tragiche di eroi esposti alla nascita.
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34 INTRODUZIONE

supplici naturali, gli uccelli che si avvicinano al santua-


rio, o la donna supplice del dio, ora che Creusa, violata
in passato proprio da Apollo, rivendica l’inviolabilità
garantita dallo status rituale a chi si affida alla protezio-
ne divina (vv. 1309-1319).28
Le contraddizioni che esplodono nel confronto con
le passioni e le angosce della madre e nel sofferto per-
corso per riconoscerla sono dunque già presenti nel ca-
rattere di Ione. Ma piuttosto che distinguere, da un lato,
la violenza primordiale, venata di caos e legata all’origi-
ne ctonia della dinastia regale ateniese, e, dall’altro, la
serenità olimpica e l’equilibrio ispirati dalla casta vita al
servizio di Apollo,29 mi sembra che nell’intreccio euripi-
deo proprio l’interferenza troppo ravvicinata del mon-
do divino con quello umano sia occasione di violenze,
malintesi potenzialmente disastrosi, dissonanze emotive
incolmabili. Atene è lo scenario di molti episodi emble-
matici, cui gli dèi sono tutt’altro che estranei: la nascita
di Erittonio dalla terra fecondata dal seme di Efesto, do-
po il suo tentativo di violentare Atena, la morte delle fi-
glie di Cecrope, il sacrificio delle figlie di Eretteo, la spa-
rizione dello stesso Eretteo ingoiato dalla terra, fino al-
lo stupro subito da Creusa. Quando a Delfi i mortali e la
divinità si confrontano ancora si dimostra, una volta di
più, che l’intesa armonica sul piano emotivo, dei valori,

28
È di grande interesse, per inquadrare questo aspetto del perso-
naggio di Ione, il confronto tra la minaccia agli uccelli della monodia
iniziale (vv. 154-183) e un passo erodoteo dove lo stesso gesto suscita
la reazione sdegnata di Apollo dell’oracolo dei Branchidi (I 159). Cac-
ciare i passeri e gli altri uccelli che hanno nidificato nel santuario è
l’empio stratagemma di un cittadino di Cuma eolica per costringere il
dio – che per due volte ha sorprendentemente consigliato agli inviati
cumani di consegnare un supplice agli inseguitori – a proteggere i suoi
“supplici” naturali e rivelare il vero intento dei precedenti responsi:
punire la sfrontatezza dei consultanti facendoli incorrere in un sacrile-
gio. Un approfondimento di questo parallelo in Mirto 2001, pp. 29-46.
29
Cfr., ad esempio, Mastronarde 1975, pp. 163-176, Huys 1995, pp.
175 sg.
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INTRODUZIONE 35

dei sentimenti è impossibile. Rispetto ai suoi fedeli, la-


cerati da dubbi, rimorsi, rancori e affanni, Apollo sem-
bra imperturbabile, del tutto indifferente ai segni inde-
lebili lasciati dal trascorrere del tempo sulla donna di
cui si è invaghito e sul figlio che lei gli ha generato. La
sua negligenza non è stata assoluta, perché ha sottratto
quel figlio alla morte e lo ha protetto fino alle soglie del-
l’età adulta; ma averli lasciati così a lungo nell’ignoran-
za delle rispettive sorti mette in risalto quanto il dio sia
insensibile all’esiguità del tempo di cui gli uomini di-
spongono per coltivare gli affetti. Ermes appare all’e-
sordio del dramma – quasi che il tempo si fosse arresta-
to nel momento in cui ha portato al sicuro il bambino di
Creusa – solo per assistere al compimento fortunato
dell’incarico affidatogli da Apollo; la cesta in cui Ione è
stato esposto, con gli oggetti che consentiranno il rico-
noscimento finale, non mostra i segni del tempo e appa-
re intatta come il giorno in cui la Pizia la raccolse (vv.
1391-1394). Ma se il dio può trascurare o anche annulla-
re alcuni aspetti del ritmo inesorabile che scandisce la
vita limitata dei mortali, sembra a sua volta condiziona-
to nella sfera delle sue competenze quando è coinvolto
nella storia umana. Apollo deve rinunciare alla voce
«ignara di menzogna» celebrata da Pindaro – dunque
ingannare, o evitare di ammettere verità scomode ri-
spondendo a domande troppo dirette sul suo ruolo – per
sciogliere i nodi del legame con Creusa e assicurare al
figlio il prestigio cui ha diritto nella società umana.
Quando il vecchio servitore crede di poter ricostruire il
“tradimento” di Xuto ai danni della moglie, lo fa guida-
to dal principio che Apollo non può mentire (v. 825), in
contrasto con la vicenda messa in scena.30

30
L’errore cui il vecchio è indotto da un atteggiamento razionali-
stico, in un dramma che mostra i limiti di una comprensione razionale
della realtà, è illustrato da Lloyd 1986, p. 40.
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36 INTRODUZIONE

Violenza, passione e sessualità non si possono scin-


dere nettamente dalla purezza, dall’equibrio e dalla
pietà religiosa che pervadono la vita a Delfi. Quando
diminuisce il distacco che dovrebbe sempre separare
gli dèi dagli uomini, quando il dio non è solo la poten-
za imperscrutabile cui i fedeli s’inchinano e da cui cer-
cano di ottenere dei segni per orientarsi nella porzio-
ne di esistenza che è loro concessa, anche sulla sere-
nità degli Olimpî si allungano ombre. Apollo ha fatto
violenza a Creusa sull’acropoli ateniese, a Delfi lei ri-
schia di far uccidere suo figlio e questi reagirà tentan-
do di vendicare l’attentato e di giustiziarla; la contami-
nazione del luogo di culto che ne deriverebbe ha le sue
lontane radici nella confusione tra stirpe divina e uma-
na, 31 un privilegio inconfessabile per chi è nato da
quell’unione e può essere reintegrato nella società
umana solo rinunciando per sempre alla fisionomia di
“bastardo” divino.

31
Al v. 406 Creusa, alludendo alla speranza di avere figli insieme al
marito, ricorre a un’espressione – «Come si potrà mescolare il nostro
seme per generare figli?» (paivdwn o{pw" nw/`n spevrma sugkraqhvsetai…) –
che indica un ruolo attivo della donna nel concepimento, secondo una
teoria presocratica (Parmenide, Empedocle, forse anche Anassagora,
nonostante la testimonianza di Aristotele, Generazione degli animali
763b, 30-33, che gli attribuisce l’opinione contraria, per cui solo il ma-
schio ha funzione attiva nel generare), condivisa dai medici del Cor-
pus Hippocraticum. Creusa parla di una futura maternità, ma è un’e-
sperienza che ha già vissuto, il suo segreto dolorosamente custodito.
L’attenzione di Euripide per le teorie fisiologiche è evidente anche
nell’Eracle (rinvio per questo a Mirto 20062, pp. 15-27 e in particolare
21-22, n. 17), e non deve sorprendere che qui all’idea della donna co-
me semplice ricettacolo del seme maschile subentri quella alternativa,
secondo cui sia il maschio che la femmina producono seme e coopera-
no nel procreare. Zeus e Anfitrione si avvicendano a fianco di Alcme-
na, ed Eracle nasce dalla misteriosa fusione di seme maschile immor-
tale e umano nel ventre della stessa donna; per Ione la mescolanza
delle due stirpi avviene solo attraverso il rapporto imposto alla donna
dal dio, e il figlio riceve dalla madre tutte le qualità che ne fanno un
degno erede del trono di Eretteo.
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INTRODUZIONE 37

4. CONVENZIONI DI GENERE: IL MOTIVO DELLO STUPRO


FRA TRAGEDIA E COMMEDIA

L’inedita articolazione formale e strutturale dello Ione


distingue il suo intreccio sia dal più consueto modello
narrativo dell’eroe esposto alla nascita, sia dagli altri
drammi euripidei imperniati su un’azione di riconosci-
mento. Di solito i personaggi che ignoravano la recipro-
ca identità, finalmente riuniti, possono ordire un piano
per ottenere la liberazione o la vendetta – ajnagnwvrisi"
che prelude al mhcavnhma, come nell’Ifigenia Taurica, nel-
l’Elena e nell’Elettra – ma qui l’agnizione tra madre e fi-
glio segue il progetto di vendetta.32 Anzi, il complotto
per uccidere Ione tramato da Creusa insieme al vecchio
pedagogo ruota intorno al malinteso creato dall’oracolo
sull’identità del ragazzo: in quanto straniero che insidia
la purezza della dinastia autoctona di Atene è un anta-
gonista da eliminare, finché l’intervento della Pizia non
innesca il riconoscimento e dissolve l’odio che ha con-
trapposti l’una all’altro madre e figlio. Si è osservato che
la posposizione dell’ajnagnwvrisi" è dovuta soprattutto
alla sua funzione di ribaltare l’abbandono originario, la
separazione che alimenta i rimorsi e il tormento di
Creusa: quando può finalmente stringere fra le braccia
Ione, in scena si rappresenta la vera e propria rinascita
32
Cfr. Solmsen 1934, pp. 400-406. Giannopoulou 1999-2000, p. 266,
osserva che porre l’intrigo (frustrato da circostanze che hanno insie-
me del miracoloso e del fortuito) prima del riconoscimento consente
a Euripide di mostrare come la tuvch non sia solo l’occasione fortunata
dell’agnizione, presupposto nelle altre tragedie per un intrigo di suc-
cesso; ora si può parlare piuttosto del Caso, l’agente soprannaturale,
non teleologico e indipendente dalla divinità, cui i personaggi attribui-
scono il repentino cambiamento della loro sorte – o, se si vuole, la
realtà che si sottrae sia al controllo umano sia a quello divino – e che
ha portato madre e figlio prima al punto di crisi e poi all’inattesa sal-
vezza (cfr. l’apostrofe di Ione alla Tuvch ai vv. 1512 sgg.). I rovescia-
menti e le sofisticate variazioni con cui vengono combinati i due ele-
menti, rispetto alla sequenza convenzionale, sono analizzati anche da
Seidensticker 1982, pp. 213 sg.
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38 INTRODUZIONE

del figlio creduto morto per tanto tempo.33 Il rovescia-


mento della sequenza dei due elementi topici si realizza
tuttavia con un sofisticato sdoppiamento dell’ajnagnwvri-
si": c’è un primo falso riconoscimento tra Xuto e Ione,
provocato dall’oracolo, che dà avvio alla reazione dispe-
rata e violenta di Creusa. Quando il mhcavnhma della sua
vendetta viene sventato, nella situazione estrema in cui
la supplice inerme sta per essere trascinata via dall’alta-
re e punita, l’intervento della Pizia e la possibilità di ve-
rificare le rispettive identità attraverso gli oggetti lascia-
ti con il neonato esposto aprono la via al vero riconosci-
mento tra madre e figlio. Adesso l’ajnagnwvrisi" non rap-
presenta l’opportunità di stringere un’alleanza, quando
il personaggio protagonista passa da una posizione di
debolezza e isolamento alla possibilità di contare sulle
risorse e sulla solidarietà di un familiare, come avviene
appunto nei drammi d’intrigo. Riconoscendo sua madre
Ione giungerà piuttosto a “conoscere se stesso”, requisi-
to determinante per aspirare a una piena serenità, ora
che la condizione precedente si è rivelata una fragile
parvenza di equilibrio, fondata sull’ignoranza delle pro-
prie origini e su molte illusioni relative al dio che si è
preso cura di lui, chiedendogli in cambio totale dedizio-
33
Cfr. Huys 1995, pp. 368 sg. Il perduto Cresfonte prevedeva l’ana-
logo rischio, per Merope, di divenire senza saperlo assassina di suo fi-
glio, ma la sequenza tra riconoscimento e intrigo di vendetta viene ri-
spettata. Un altro dramma perduto, comparabile per alcuni tratti con
lo Ione, è l’Alessandro: Ecuba condivide lo sdegno di Deifobo, umilia-
to perché sconfitto nei giochi da un giovane di condizione servile, sen-
za sapere che si tratta del figlio esposto alla nascita. Se, come parrebbe
dal fr. 62d, 25 Kn., Ecuba sembra disposta a uccidere Alessandro, an-
che lei come Creusa arriva a progettare il delitto solo per riscattare
l’oltraggio inferto al suo orgoglio dinastico. M. Huys ha suggerito, sul-
l’esempio dello Ione, che anche Ecuba avrebbe potuto maturare la sua
collera per gelosia verso il giovane pastore, perché Deifobo avrebbe
insinuato che l’indulgenza di Priamo nei confronti dello sconosciuto
autorizzava a pensare che fosse un suo figlio bastardo, nato da una
schiava e introdotto proditoriamente nell’ambiente di corte (Huys
1986, pp. 19 sgg.).
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INTRODUZIONE 39

ne, fiducia e purezza. Quando si presenta nella succes-


sione convenzionale, dunque, il falso riconoscimento
produce un intrigo destinato a fallire. Ma se si guarda
alla progressione fra intrigo e vero riconoscimento, or-
mai svincolati dal nesso di causalità, il lieto fine reso
possibile dal secondo nasce ora da eventi imprevisti e
accidentali, che sovvertono persino i progetti del dio,
senza che l’iniziativa e la scaltrezza dei protagonisti in-
cidano più affatto. Alla fine Apollo raggiunge l’obietti-
vo voluto, ma anche il suo potere deve adattarsi alla
Tukhe. Se è vero che la Commedia Nuova fa suo questo
cambiamento strutturale, la diacronia mhcavnhma-ajna-
gnwvrisi" senza relazione fra i due elementi sembrereb-
be adattarsi meglio alle trame comiche: in esse l’esigen-
za dell’epilogo felice è istituzionale, e il volto della
Tukhe appare sempre benigno e disponibile a propizia-
re il benessere umano; raggiri, finzioni argute e mistifi-
cazioni, inoltre, ora risultano d’ostacolo o semplicemen-
te indifferenti per il conseguimento del lieto fine. La
palliata, versione latina della Nea, presenta innumere-
voli esempi di frustratio (gli inganni del servus callidus
narcisisticamente finalizzati a una gratuita affermazione
dell’astuzia) cui segue, senza derivarne direttamente, la
cognitio (quando le ragazze credute illegittime si rivela-
no di buona nascita e la promozione sociale le rende
idonee al matrimonio).34
L’indagine relativa alle proprie origini, peraltro, è in-
sieme desiderata e temuta da Ione, come si evince a più
riprese nel corso del dramma, e in particolare nell’eso-
do quando la verità sembra ormai a portata di mano (vv.
1380-1384). A differenza di Edipo, che non arretra nep-
pure dinanzi agli indizi più inquietanti (Sofocle, Edipo
re 1076-1085), Ione confessa che preferisce ignorare l’i-
34
Cfr. E. Segal 1995, pp. 54 sg.; Segal manca tuttavia di notare che il
cambiamento strutturale della Commedia Nuova era già stato speri-
mentato nello Ione euripideo. Si veda anche Knox 1979, p. 265.
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40 INTRODUZIONE

dentità della madre piuttosto che apprenderne la condi-


zione servile. L’ossessione per la purezza caratterizza il
profilo del trovatello sin dalla sua prima apparizione in
scena: è il risultato della sua educazione nel santuario,
benché l’abbandono all’ingresso del tempio suggerisca
che lui stesso è frutto di una colpa, della gravidanza se-
greta di una fanciulla di Delfi (vv. 43-46, 1364-1366), for-
se stuprata nel corso di una festa notturna da un giova-
ne ubriaco, come Xuto crede di poter ricostruire quan-
do gli viene attribuita la paternità di Ione (vv. 550-556).
Quello che diventerà un motivo stereotipato della Com-
media Nuova35 qui appare come la versione umana, co-
munque attendibile, di quanto è successo nella realtà a
Creusa: sorpresa non a Delfi da un uomo, ma ad Atene
da un dio, alla luce del giorno mentre raccoglie fiori, an-
ziché di notte durante una celebrazione dionisiaca.36
Apollo impone la sua volontà alla ragazza su impulso
del desiderio (si noti, al v. 448, l’accusa di Ione di aver
anteposto il piacere alla prudenza), ma l’eros non lo in-
duce a violentare la sua vittima nell’incoscienza dell’eb-
brezza, per poi dimenticarsene subito, una volta tornato
sobrio. Xuto, come i protagonisti della Commedia Nuo-
va, avrebbe commesso uno stupro con tutte le attenuan-
ti che neutralizzano il contesto sociale, e dunque priva-
no quella violenza degli elementi che nel sistema giudi-
ziario ateniese consentirebbero una rivalsa penale con
un processo per hubris. Giovinezza, alterazione mentale
dovuta all’abuso di bevande alcoliche, oscurità notturna
che lascia nell’anonimato aggressore e vittima, festa re-
35
Cfr. Rosivach 1998, pp. 35-46.
36
La celebrazione di riti notturni sollecitava fantasie maschili di
sfrenata licenza sessuale femminile, prima ancora di essere teatro del-
le storie di violenza alle fanciulle nella Commedia Nuova: cfr. Euripi-
de, Ippolito 106, Baccanti 485-487. Per le somiglianze tra lo scenario in
cui Creusa viene sorpresa da Apollo e il ratto di Persefone da parte di
Ade descritto nell’Inno omerico a Demetra, si vedano Loraux 1981,
pp. 245-247, Zeitlin 1989, pp. 159 sgg.
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INTRODUZIONE 41

ligiosa in cui le donne sono più esposte alle offese ses-


suali, per la temporanea sospensione delle norme socia-
li: lo scenario stilizzato della Commedia Nuova più tardi
renderà convenzionale il quadro in cui sarebbe avvenu-
to lo stupro compiuto a Delfi da Xuto. In questi termini
ci sono attenuanti sufficienti per non criminalizzare il
cittadino, anche se si è lasciato trascinare dal desiderio
nei confronti di una donna ignota, che non sarebbe nep-
pure in grado di riconoscere alla luce del giorno; un abu-
so di cui ignora a lungo l’immancabile conseguenza, la
gravidanza indesiderata. In tali circostanze l’atto sessua-
le non è stato imposto con la seduzione, e neppure si
può accusare il violentatore di voler ledere la dignità so-
ciale della vittima e del suo tutore giuridico (kurios),
elemento centrale per un’accusa di hubris; si delinea
piuttosto come un incidente dettato dalla passione e
dall’eccitazione sessuale, neutro dal punto di vista giuri-
dico, perché non arriva a minare la fisionomia di chi lo
ha perpetrato e la sua idoneità a rivestire il ruolo di
buon cittadino quando il matrimonio gli permette di
procreare figli legittimi.37
Sembra di poter cogliere un filo sottilmente ironico
nella soluzione escogitata tanti anni dopo dal dio, quan-
do inganna l’uomo che potrà degnamente adottare suo
figlio e gli fa credere di averlo inconsapevolmente gene-
rato. Lo stupro occasionale parrebbe una trasgressione
non insolita tra i giovani aristocratici (gli intrecci della
Commedia Nuova riprendono il motivo con analoga ca-
ratterizzazione sociale: sempre giovani benestanti, non
ancora sposati, che poi ripareranno sposando la ragaz-
za, o riconoscendo in colei che hanno sposata nel frat-
tempo proprio la vittima di quella violenza – come
nell’Arbitrato di Menandro – o legittimando comunque
37
Cfr. l’esauriente analisi di questo meccanismo, per svuotare di
senso penale e drammatico lo stupro nella Commedia Nuova, in Lape
2001a, pp. 79-119 (in part. 89-96).
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42 INTRODUZIONE

il figlio che ne è nato). Apollo affida così a una controfi-


gura umana la riparazione laica che lui non può mettere
in atto: entrambi hanno ceduto all’impulso sfrenato del-
la sessualità senza alcuno scrupolo nei riguardi dell’og-
getto del loro desiderio. Ma se la leggerezza di Xuto
rientra nei comportamenti che la società non può ap-
provare apertamente, e tuttavia tollera nei giovani non
ancora approdati alla maturità – almeno a giudicare dal-
l’indulgenza che la Commedia Nuova mostra verso chi
fa violenza a donne inermi e non consenzienti, prima di
essere integrato nel quadro rassicurante e normativo
del matrimonio38 – il dio, estraneo al ciclo generazionale
e alle infrazioni che marcano i riti di passaggio della so-
cietà umana, non ha alcuna attenuante quando la iero-
gamia viene degradata a sopruso. La deprecazione di Io-
ne (vv. 436-451), censurando i “cattivi maestri”, lascia
emergere la consapevolezza che, diversamente dagli uo-
mini, gli dèi non sono chiamati a risarcire le loro violen-
ze sulle donne e non possono farsi perdonare gli stupri
nel solo modo contemplato dalla società patriarcale, un
matrimonio riparatore: l’ironica allusione al pagamento
di un’ammenda pecuniaria (v. 447) è probabilmente
un’eco delle procedure legali ateniesi (almeno la divkh
biaivwn, l’azione giudiziaria privata di risarcimento per
atti di violenza).39 Non si sa molto della legislazione
d’età classica relativa allo stupro, ma verosimilmente
38
Cfr. Rosivach 1998, pp. 38-42.
39
Si veda il v. 445: divka" biaivwn dwvsetΔ ajnqrwvpoi" gavmwn, dove l’i-
perbato isola, in posizione incipitaria, l’aggettivo biaivwn nel nesso con
divka". Il calco della definizione giuridica dell’azione legale privata per
atti violenti sembra additare maliziosamente il paradosso degli dèi che
si piegano alla giustizia amministrata nei tribunali umani. Cfr. anche
Wilamowitz 1926, pp. 13 e 105. In ambito comico, una deformazione
grottesca che applica alle relazioni fra gli dèi le norme giuridiche ate-
niesi si ha in Aristofane, Uccelli 1642-1670, quando si cita la legge di
Solone che esclude i figli illegittimi dal diritto di successione a propo-
sito di Eracle: come figlio bastardo di Zeus (perché di madre stranie-
ra!), a lui non toccherà nulla dell’eredità paterna.
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INTRODUZIONE 43

era possibile invocare anche pene ben più severe, ad


esempio nel caso che fosse stata avviata una grafh;
u{brew", la causa per violenza che poteva essere promos-
sa da chiunque lo ritenesse opportuno e non solo dalla
persona offesa. Dopo tutto, nelle azioni giudiziarie per
aggressioni sessuali, più dell’oltraggio contava lo status
della vittima e del suo kurios, e la legge metteva a fuoco
più che l’offesa in sé l’interpretazione che ne davano
l’accusatore e l’imputato, nel contesto sociale e nella
specifica situazione in cui era stata commessa.40 Stupro,
seduzione, adulterio, tutte le relazioni sessuali illecite
con una donna di condizione libera sono potenzialmen-
te equivalenti nel codice arcaico dell’onore maschile:
dalla castità di una madre, moglie, figlia, sorella e persi-
no di una concubina dipende strettamente la rispettabi-
lità sociale dell’uomo che ne è il custode giuridico.
Lo scarto tra il mondo mitico della tragedia e quello
realistico della scena comica ovviamente comporta che
il matrimonio fra lo stupratore e la sua vittima – la so-
luzione più naturale per scongiurare la ferita inferta al-
la società dalla procreazione di novqoi, figli illegittimi –
sia improponibile nelle vicende di unione fra dèi e don-
ne mortali. In luogo della diversa estrazione sociale, che
nella Commedia Nuova vede il giovane aristocratico
convolare a nozze con una ragazza rispettabile ma po-
vera – unione altrimenti improbabile, perché ignora le
differenze economiche e di status41 – il modello mitico

40
Cfr., per una valutazione più dettagliata di questi temi, l’Appendi-
ce: Stupro e adulterio nel diritto attico e sulla scena euripidea, pp. 63-74.
41
L’eccezione del Duskolos di Menandro conferma la regola: il
giovane ricco che s’innamora di una ragazza povera e intende sposar-
la, vincendo le resistenze del padre di lei, misantropo e diffidente, è un
pretendente così inconsueto che quando il fratellastro della giovane,
Gorgia, lo sorprende nei pressi della sua casa, sospetta che si tratti di
un potenziale stupratore o seduttore (vv. 289-314); lo stesso Sostrato
non crede che il suo progetto matrimoniale incontri l’approvazione
dell’amico che gli offre aiuto per realizzarlo (vv. 135-138), e alla fine
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44 INTRODUZIONE

della tragedia prevede una distanza incolmabile: dèi e


mortali hanno sensibilità, rapporto con il tempo, poteri
differenti, anche se l’antropomorfismo divino contri-
buisce a ridurre il divario esponendo gli esseri immor-
tali al fascino delle fanciulle più attraenti. Quale scio-
glimento può siglare felicemente la storia di un eroe na-
to dalla violenza di un dio, storia ormai spogliata dei to-
ni eufemistici e celebrativi dell’epica e della lirica ar-
caica e divenuta, nella prospettiva euripidea, la cronaca
delle emozioni di una madre e di un figlio, dallo strazio
per l’abuso subito, all’angoscia del parto e dell’abban-
dono, dall’istintiva attrazione, quando ancora ignorano
le rispettive identità, all’odio, fino al definitivo ricono-
scimento?
Lo Ione delinea una situazione critica: accanto al fu-
turo di gloria destinato all’eroe, che si riverbera sulla
madre amata dal dio e sulla sua famiglia, si apre lo spa-
zio per testimoniare sentimenti, tormenti, dubbi centrati
sulla dolorosa esperienza femminile. Assente nella con-
sueta angolazione del mito, il punto di vista della donna
che ha subito violenza non affiora neppure nel mondo
borghese, ritagliato sull’ideologia maschile, della com-
media di Menandro; non è necessario per giungere alla
conciliazione finale, perché chi commette stupro si assu-
me sempre, presto o tardi, la responsabilità di quel ge-

solo a fatica convincerà il padre a dare il suo consenso anche alle noz-
ze tra la propria sorella e Gorgia, replicando così il gesto filantropico
di una scelta matrimoniale che ignori le differenze economiche. Per
un’esauriente analisi dei motivi della commedia si vedano Konstan
1995, pp. 93-106 e Lape 2001b, pp. 141-172: la singolare passione amo-
rosa di Sostrato si rivela un efficace mezzo per reintegrare nella co-
munità civica – grazie al vincolo di un’alleanza matrimoniale in grado
di superare l’antagonismo di classe – l’oikos del contadino pericolosa-
mente asociale, che sogna un’impossibile autarchia; un elemento del
repertorio culturale ateniese, questo, ormai superato, benché ancora
vitale nella commedia di Aristofane. In generale, sul carattere “politi-
co” dei modelli di solidarietà tra individui di diverso status nella com-
media di Menandro, cfr. Giglioni Bodei 1984.
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INTRODUZIONE 45

sto, almeno per restituire rispettabilità sociale alla vitti-


ma o al figlio che ne è nato. Creusa equipara il “tradi-
mento” del dio a quello del marito (vv. 864, 876-880),
quando apprende l’oracolo che ha annunciato l’esisten-
za di un figlio di Xuto e sembra riservarle un futuro soli-
tario di sterilità e frustrazione. Anche se l’interpretazio-
ne delle donne del coro è una forzatura del responso
(vv. 760-762), l’esclusione della loro padrona dalla feli-
cità del sovrano era motivo d’inquietudine già nelle ri-
flessioni di Ione (vv. 607-620) e di Xuto (vv. 657-660). Lo
sfogo più intenso del dolore così a lungo celato, la deci-
sione di rompere il riserbo e svelare la violenza subita
nascono dall’apparente complicità maschile (vv. 912-
918). L’amante divino ha deluso le sue residue speranze,
per aver abbandonato in apparenza a un atroce destino
di morte il figlio nato dopo l’amplesso traumatico che
l’ha iniziata alla vita adulta; il marito replica e rinnova il
tradimento della fiducia e delle attese dell’erede di una
nobile stirpe, ancora priva di figli: introdurre nella casa
di Eretteo il proprio bastardo, per legittimarlo e farne il
successore al trono, significa umiliare per sempre non
solo il desiderio di maternità di Creusa, ma anche l’or-
goglio dinastico e l’onore di una famiglia di pura discen-
denza autoctona, che lei ha salvaguardato fino a rinun-
ciare alla creatura partorita fuori dal legittimo contesto
di un matrimonio aristocratico.
L’intreccio tragico non può dunque contemplare, alla
maniera di Menandro, la felice scoperta che la vittima
della violenza e la donna che poi lo stupratore ha sposa-
to sono la stessa persona, un modo per dissolvere istan-
taneamente la lesione inferta allo status di cittadina del-
la ragazza dalla trasgressione del giovane.42 Le strade dei
42
Accanto all’Arbitrato di Menandro si può menzionare la Suocera
di Terenzio, dove appare lo stesso motivo. Per un attimo anche Ione,
nella scena di riconoscimento con la madre, immagina una situazione
simile, quando esorta Creusa a far partecipe il padre della loro gioia
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46 INTRODUZIONE

due coniugi, Xuto e Creusa, non si sono fortunosamente


intersecate prima del matrimonio, e tra il dio e l’uomo
c’è solo una simmetria di comportamenti che Euripide si
compiace di svelare sulla scena per un confronto sarca-
stico, in cui l’incoercibile stimolo del desiderio emerge,
per entrambi, come l’altra faccia del mancato rispetto
maschile per i sentimenti e il corpo delle donne.43 Del re-
sto, anche la scelta delle locuzioni per esprimere il rap-
porto imposto da Apollo a Creusa implica un ossimorico
accostamento fra gavmo" – il matrimonio rituale, da cui
deriva notorietà pubblica all’inizio di una relazione ses-
suale che integra la vergine nella sua nuova condizione
di cittadina, destinata a procreare figli legittimi – e ter-
mini che snaturano e smentiscono quella funzione socia-
le: già Ermes descrive le «nozze» che Apollo impone con
«violenza» (vv. 10-11: e[zeuxen gavmoi" biva/), e Ione rim-
provera Apollo di «sposare» le vergini «con la violenza»
per poi abbandonarle (v. 437: parqevnou" biva/ gamw`n` e cfr.
445: biaivwn... gavmwn); e se il coro dilata il quadro, inte-
grandovi l’esito doloroso dell’esposizione del bambino
nato dalle nozze (il commento si riferisce alla vicenda
dell’amica fittizia di Creusa), «oltraggio di un amaro
connubio» (vv. 505 sg.: pikrw``n gavmwn u{brin), la stessa
Creusa racconta la violenza subita definendola un gavmo"

(vv. 1468 sg.): Xuto, il padre additato dall’oracolo, lo avrebbe concepi-


to stuprando un’ignota ragazza – come hanno ricostruito insieme ai
vv. 545-557 – che poi è diventata evidentemente sua moglie (cfr. i com-
menti di Owen 1939 e di Lee 1997 ad loc.).
43
In un’altra commedia terenziana, L’eunuco, il giovane che stupra
la ragazza da cui è irresistibilmente attratto trova una giustificazione
al suo gesto non nell’ebbrezza ma nell’esempio, raffigurato su un di-
pinto, di Giove che si insinua in casa di Danae sotto forma di pioggia
d’oro per appagare il suo desiderio (vv. 583-591). Allo stesso modello
divino allude Demea, nella Donna di Samo di Menandro, cercando di
placare l’ira di Nicerato e suggerendogli che a stuprare sua figlia pos-
sa essere stato Zeus (vv. 589-602). Per l’ironica somiglianza tra l’av-
ventura di Xuto e quella di Apollo, suo “Doppelgänger” divino, cfr.
Seidensticker 1982, pp. 229, 240.
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INTRODUZIONE 47

infelice (v. 941: Foivbw/ xunh``yΔ a[kousa duvsthnon gavmon),


che il pudore impone di mantenere segreto (vv. 860 sg.,
1484), celebrato senza le fiaccole e le danze di rito (vv.
1474 sg.).44 La franchezza del linguaggio con cui la vio-
lenza viene evocata ha un parallelo tragico solo nell’allu-
sione di Cassandra,45 nell’Agamennone eschileo, al desi-
derio nutrito per lei da Apollo: l’aggressore divino è de-
scritto come un «lottatore» (Ag. 1206: palaisthv"), non
diversamente dalla metafora cui ricorre Creusa per la
«lotta» in cui è stata sopraffatta dal dio (v. 939: ajgw``na
deino;n hjgwnivsmeqa). La profetessa rivela come dapprima
fece credere ad Apollo che avrebbe acconsentito all’am-
plesso, ma poi lo rifiutò, incorrendo nell’ira del dio (Ag.
1202-1212). Cassandra dimentica la vergogna di quanto
le è accaduto solo in occasione dell’ultimo vaticinio, pri-
ma di avviarsi al suo destino di morte; Creusa supera a
sua volta ogni riserbo perché, quando vede tradito anche
l’orgoglio della stirpe, al cui buon nome ha sacrificato i
propri sentimenti di madre, crede di aver perduto tutto.
Il rancore represso così a lungo trova allora sfogo nel
44
Le locuzioni e i termini che descrivono il comportamento di
Apollo come ajdikiva e ne dissacrano il gavmo" con Creusa assimilando-
lo a un biasmov" umano sono analizzati da Huys 1995, pp. 100 sg. Defi-
nire lo stupratore un ajdikw``n, responsabile di un’ingiustizia, come mo-
stra Menandro (L’arbitrato 499, 508), riflette il punto di vista femmi-
nile piuttosto che quello degli uomini, inclini a considerare l’atto di
violenza una semplice disavventura (L’arbitrato 891, 898, 914). Persi-
no Demea, il padre che sospetta il figlio Moschione di essersi unito
alla sua concubina, finisce per assolverlo, immaginando che non ab-
bia commesso deliberatamente un torto ai suoi danni, ma sia stato
sorpreso dalla donna mentre era ubriaco, incapace di autocontrollo: il
consueto scenario, che prevede vino e giovane età come attenuanti
per il comportamento maschile, qui si deforma fino a insinuare che
l’uomo sia stato sedotto in un momento di debolezza (La donna di
Samo 338-342).
45
Cfr. Scafuro 1990, pp. 144 sg., 150: nella produzione superstite dei
tragici greci sono i soli personaggi che descrivono il loro rapporto con
la divinità nel linguaggio dello stupro (non realizzato nel caso di Cas-
sandra), violando il tabù che impediva alle eroine di dar voce sulla sce-
na alla propria esperienza traumatica senza ambiguità.
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48 INTRODUZIONE

progetto violento di eliminare il servo del tempio, il ba-


stardo che Xuto ha procreato con un’altra donna e in-
carna il doppio tradimento maschile: quello del brutale
amante divino (vv. 894-896), che ne ha rivelato l’esisten-
za col suo pronunciamento oracolare, e quello del mari-
to umano che gode di un destino diverso dal suo (vv. 771-
775, 864) e prepara la successione al trono di Atene a un
estraneo, nascondendole il suo vero disegno.
La soluzione del lieto fine euripideo consiste poi nel-
l’avvicendarsi della madre al padre, per ricondurre Ione
ad Atene dimenticando il rimorso dell’abbandono di un
tempo; si rovescia così l’ordine naturale più logico, secon-
do cui la tenera età richiederebbe le cure materne e l’in-
gresso nell’età adulta la guida del padre. Apollo rinuncia
al figlio, restituendolo ormai cresciuto alla madre e all’uo-
mo che, avendola sposata, è opportuno rivesta il ruolo di
padre putativo: darà così legittimità sociale al servo del
tempio, consentendogli di ereditare un trono illustre e
mascherando per sempre la sua paternità. Il dio si ritira
dalla vita di Ione nel momento in cui il giovane acquisi-
sce un’identità e lo attende un ruolo di comando nella ca-
sa di Eretteo perché, come Creusa cerca di spiegare a Io-
ne ancora incredulo e sgomento, «se tu fossi dichiarato fi-
glio del dio non avresti mai ereditato un patrimonio, né il
nome di un padre» (vv. 1541-1543). La sua riflessione, che
sembra ormai denunciare l’inadeguatezza delle coordi-
nate mitiche, mette a fuoco il problema della legittimità e
dell’ordine sociale che su di essa si fonda come pertinen-
za esclusiva della comunità umana: il figlio di un dio non
potrà mai esservi integrato. L’intreccio euripideo, aggre-
gando in modo imprevedibile schemi narrativi e modelli
mitici, disegna un’inconsueta parabola eroica e assegna al
giovane capostipite degli Ioni un padre divino,46 ma giun-
46
L’obiettivo sarebbe, nell’analisi di Dougherty 1996, pp. 249-270,
quello di fondere le ideologie e le narrazioni mitiche, fra loro antiteti-
che, dell’origine autoctona degli abitanti dell’Attica – implicitamente
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INTRODUZIONE 49

ge a una conclusione solo apparentemente felice. Non c’è


trasparenza nelle origini di questo futuro sovrano, egli
non potrà vantarsi di essere stato generato da un dio e
dovrà amare come padre l’ignaro marito di sua madre.
Creusa ha riabbracciato il figlio creduto morto, ma né lei
né lui avranno modo di colmare il rimpianto di non aver
conosciuto la gratificazione del rapporto tra una madre e
il suo bambino nella prima infanzia (vv. 319, 961-963,
1370-1379). Infine, lo status di umile servo del tempio, pri-
vo di riconoscibilità sociale e di nome, resta legato al mo-
mento di maggiore vicinanza al vero padre: solo quando
Apollo prende le distanze da lui lasciando che segua la
madre e un padre adottivo umano, l’eroe avrà accesso al
destino di celebre eponimo della stirpe ionica.
La descrizione dell’incontro fra la vergine e il dio co-
me uno stupro rende dunque problematica la posizione
di Apollo. Non ignorando le conseguenze della violenza,
semplicemente trascura il dolore umano, la disperata fru-
strazione di Creusa, le illusioni che Ione coltiva sul suo
conto. L’ideologia della polis non tiene conto dell’aspet-
to determinante per definire uno stupro nella società oc-
cidentale moderna: la coercizione con cui l’aggressore
impone il rapporto sessuale. Nella normativa giuridica
per punire le trasgressioni sessuali – così come negli in-
trecci della Commedia Nuova che fanno perno sulla vio-
lenza a una ragazza sconosciuta e sul matrimonio ripara-
tore del lieto fine – la preoccupazione dominante è la
protezione dell’integrità del nucleo dei cittadini di pieno
diritto, scongiurando il pericolo di figli concepiti fuori dal

anticoloniale – e dello stato democratico che legittima il suo potere


imperialistico attraverso i legami con la stirpe ionica. Ma nel ridefinire
l’identità civica degli Ateniesi, legittimandoli sia come discendenti di
Apollo delfico e abitanti autoctoni della loro regione, sia come proge-
nitori degli Ioni, non mi sembra che Euripide voglia offrire una solu-
zione agli aspetti contraddittori della politica democratica contempo-
ranea: non più di quanto delinei un quadro rassicurante e consolato-
rio del rapporto fra mortali e divinità.
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50 INTRODUZIONE

vincolo coniugale e attribuiti con l’inganno a un padre


diverso. Nel dramma euripideo l’emergere dei sentimen-
ti, ostili o struggenti, della donna violentata costituisce
quindi una deviazione sorprendente dall’orientamento
ideologico che domina la società ateniese prima e dopo
la fine del V secolo.47 Ci viene a più riprese narrata la sce-
na del rapporto estorto con la violenza, e ancora vengo-
no rievocati i timori della censura familiare e sociale, lo
smarrimento che segue il parto, l’abbandono del neona-
to, il rimpianto del figlio e l’incapacità di dimenticarlo e
rassegnarsi alla sua perdita. Anche nella storia dello stu-
pro di Creusa la sorte del neonato esposto è la recrimi-
nazione più dolorosa: quando riconosce in Ione il figlio
abbandonato tanti anni prima, sarà disposta a perdonare
il dio e ad ammettere che non ha trascurato, dopo tutto, il
suo dovere di padre. Ma se l’onore e la dignità femminile
coincidono, anche in questo caso, con la rispettabilità so-
ciale e il recupero della dimensione materna, Euripide
lascia uno spazio alla componente emotiva della vicenda
47
Di ciò non tiene affatto conto Rabinowitz 1993, pp. 189-222, nel-
la sua analisi femminista della tragedia, condizionata dalla teoria per
cui i personaggi femminili del teatro euripideo vanno intesi come co-
struzioni dell’immaginario maschile destinati a confermare il sistema
di potere patriarcale. Così si parla, a torto ritengo, di ambivalenza nel
modo in cui Creusa descrive lo stupro, mentre l’assoluzione finale di
Apollo sarebbe un modo per spostare la colpa sulla vittima della vio-
lenza. Creusa alla fine consente alla propria repressione, riconoscendo
le ragioni del dio che l’ha stuprata e celando di nuovo nel silenzio il
segreto del suo connubio e della nascita di un figlio. Il dio ha sventato
l’attentato alla vita di Ione, e ciò basterebbe a cancellare la problema-
tica trasgressione sessuale di cui è responsabile. Ma resto convinta che
additare le innumerevoli e sottili infrazioni che Euripide sperimenta
in questo dramma, rispetto alle regole del genere, agli schemi narrati-
vi familiari al suo pubblico e alle convenzioni sociali e culturali, offra
l’occasione per valutare gli inquietanti interrogativi sociali e religiosi
proposti ai primi destinatari; bisogna però rinunciare a trarre conclu-
sioni aprioristiche sulla pretesa mistificazione ideologica implicita nel
dato, ovvio e incontrovertibile, che anche questo inconsueto perso-
naggio femminile è creato da un autore, interpretato da un attore, pre-
sentato a un pubblico, tutti di sesso maschile.
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INTRODUZIONE 51

passata che non ha confronto in altri testi, teatrali e non,


e costruisce un epilogo in cui si contempla una mistifica-
zione permanente sull’origine di Ione, così incrinando se-
riamente i fondamenti stessi dell’ideologia civica. La
composizione finale dei contrasti mette in pratica ciò che
la giurisdizione attica relativa alla violenza carnale vuole
impedire, che venga carpita la buona fede di un padre
(sia pure di un padre straniero a vantaggio di uno stupra-
tore divino) per fargli credere suo il figlio generato da
una relazione illecita.48 Persino l’impurità connessa alla
trasgressione di un rapporto illecito, tale da imporre al
marito di ripudiare la moglie,49 qui deve essere ignorata,
senza però le ragioni dell’interpretazione eulogistica del
mito, quando la donna amata dal dio è anzi privilegiata,
sempre che quel legame risulti credibile e venga ricono-
sciuto dalla sua comunità.50 E se nessun dio può realisti-
48
Il problema mitico del passaggio dall’autoctonia alla riproduzio-
ne sessuale è stato considerato un motivo per fare di Ione, “bastardo”
divino, proprio il progenitore della stirpe che vincolava al matrimonio
legittimo fra cittadini il diritto di appartenervi: cfr. Loraux 1981, pp.
229-232 e Mirto 2001, p. 45 e n. 29. Rendere Apollo, anziché Xuto, il
padre di Ione, consentirebbe inoltre di estromettere lo straniero dal
gruppo di discendenza dei puri Ateniesi, in armonia con l’ideologia
della città (cfr. Lape 2001a, p. 100 e Seaford 1990, pp. 158 sg.), ma vedi
sopra p. 23 e n. 17 e, ancora, sotto n. 66.
49
Si veda l’abbandono di Panfile da parte di Carisio, ancora inna-
morato di lei, nell’Arbitrato di Menandro; la legge prevedeva la perdi-
ta dei diritti civili per il marito, se continuava a convivere con la mo-
glie sorpresa in flagrante adulterio, e a lei imponeva l’interdizione dal-
le cerimonie pubbliche: [Demostene] 59 (Contro Neera), 85-87. Cfr.
Ogden 1996, pp. 142, 145 sg.
50
Naturalmente le narrazioni mitiche contemplano rischi e conflit-
ti perché una donna ottenga l’avallo sociale al suo rapporto con un
dio: lo mostrano, ad esempio, l’indignazione di Dioniso dinanzi all’in-
credulità delle sorelle di Semele, pronte a diffamarla insinuando che il
suo vanto di essersi unita a Zeus sia un’empietà finalizzata a masche-
rare il rapporto illecito con un mortale (Euripide, Baccanti 26-31); o lo
scetticismo con cui Anfione reagisce al racconto della madre Antiope,
nell’omonima tragedia perduta, a proposito della sua unione sessuale
con Zeus, descritto come un seduttore mortale (Euripide, Antiope fr.
210 Kn.). Persino Anfitrione, per il resto fiero di condividere con Zeus
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52 INTRODUZIONE

camente prendere in considerazione le sanzioni imposte


dalla società a chi disonora una donna e il suo kurios, è
ormai seriamente compromessa anche la consolante at-
tesa dell’onore che deriva da queste unioni straordina-
rie, da cui nascono figli mortali destinati a un futuro di
gloria. L’apparenza illusoria resta intrecciata alla realtà
anche per volontà del dio, come Atena proclama solen-
nemente alla fine: «Fu questa donna a generarti da
Apollo, che ti dà a chi ti ha dato – anche se non si tratta
di tuo padre – per introdurti in una nobilissima dinastia»
(vv. 1560-1562). La distinzione sofistica tra nome e so-
stanza, tanto cara al poeta (cfr. vv. 1277 sg.), qui è una
polarità che l’inganno cela per sempre fra le pieghe del-
la storia ateniese, riducendo le certezze e relativizzando
il senso di appartenenza a un gruppo etnico (cfr. vv. 1602
sg.). È probabile che Euripide abbia presentato nell’Au-
ge (attribuita ai suoi ultimi anni) un confronto scenico
tra Eracle, l’eroe stupratore, e Aleo, il padre della vergi-
ne violentata; in esso Eracle – eroe/dio dai tratti marca-
tamente umani – si giustifica invocando come attenuan-
ti proprio le circostanze che assolvono anche Xuto e i
protagonisti della Commedia Nuova: «il vino mi ha tol-
to la ragione; riconosco di averti fatto torto, ma la mia
colpa è stata involontaria».51 Sembra quasi di cogliere
qui il passaggio a una versione profana dello stupro di-
vino, non più ierogamia, in una tragedia che avrà note-
vole influenza sulla Commedia Nuova anche se ne dif-
ferisce, come lo Ione, perché mette a fuoco le angosce e
le tribolazioni della donna violentata. Se è la protagoni-
sta, Auge, a pronunciare una battuta conservataci da
la paternità di un figlio come Eracle, poiché il dio non soccorre la fa-
miglia perseguitata dell’eroe, al culmine della disperazione, scaglia
un’invettiva in cui denuncia il suo unico intervento attivo: quando è
entrato di nascosto nel letto di Alcmena e l’ha reso “adultera” (Euri-
pide, Eracle 344-346).
51
Fr. 272b Kn.: nou`` dΔ oi\no" ejxevsthsev mΔ: oJmologw`` dev se É ajdikei``n, to;
dΔ ajdivkhmΔ ejgevnetΔ oujc eJkouvsion.
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INTRODUZIONE 53

Menandro, l’argomento sofistico che giustifica la violen-


za subita e la gravidanza che ne consegue come provo-
cate da circostanze naturali, e dunque esenti da colpa,
viene adottato in modo affatto inconsueto proprio dalla
vittima, per garantire la salvezza del figlio: «Così ha vo-
luto la natura, alla quale non importa niente delle leggi,
e la donna è nata proprio per questo [scil. per procreare
figli]».52

5. INSTABILITÀ DELLA FORMA TRAGICA E PRECARIETÀ


DELLA VICENDA UMANA

La vicenda drammatizzata dallo Ione è caratterizzata


dalla deliberata fusione di elementi tipici della narra-
zione mitologica – l’unione col dio, i timori della vergi-
ne costretta a nascondere la sua gravidanza e ad ab-
bandonare il figlio che ha concepito – con altri che di-
venteranno convenzionali quando la commedia si ap-
propria dell’intrigo, adattandolo alla società “borghe-
se” che è al centro del suo mondo, e dallo stupro di una
ragazza emerge un paradigma di comportamento civi-
co per ricomporre e sanare la lacerazione sociale dei
figli nati dalla violenza. Quando il motivo assume una
morfologia interamente umana, alla punizione della fi-
glia violentata si sostituisce la prospettiva di un’azione
giudiziaria nei confronti del suo aggressore, se non si
perviene prima a un accordo privato.53 Ma il risultato
di questa originale elaborazione euripidea offre intan-
to un quadro di irriducibile contrasto fra mondo degli
dèi, estraneo alle regole sociali, e comunità umana.

52
Menandro, L’arbitrato 1123 sg. = Euripide, Auge fr. 265a Kn.: hJ
fuvsi" ejbouvleqΔ, h|/ novmwn oujde;n mevlei: É gunh; dΔejpΔ aujtw/` tw/` dΔ e[fu. Cfr.
Rosivach 1998, pp. 43 sg.
53
Sulla novità rappresentata dalla sostituzione di aggressori scono-
sciuti, nella Commedia Nuova, agli dèi stupratori del paradigma miti-
co, cfr. Scafuro 1997, pp. 275-278.
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54 INTRODUZIONE

L’incompatibilità tra le due sfere si traduce anche nella


reciproca imperscrutabilità: i mortali ignorano i proget-
ti divini, gli dèi non riescono a prevedere le emozioni
umane e il corso degli eventi è determinato anche da
questa impossibilità di indagare, da un lato, e di com-
prendere, dall’altro. Un limite che si traduce in una for-
za autonoma e caotica, che non può essere regolata da
norme morali e condiziona gli uni e gli altri.54 Il dram-
ma degli equivoci è generato dall’inganno del dio – e
prima ancora dalla violenza con cui ha fatto irruzione
nella vita di Creusa – e la doppia prospettiva rappre-
sentata dai due registri, divino e umano, crea per conti-
guità o interferenza un arricchimento del quadro deli-
neato. Il mondo visto dallo sguardo divino (nel prologo
affidato a Ermes, nell’epilogo con l’epifania di Atena)
si affianca alla realtà che viene percepita e vissuta dagli
uomini, moltiplicata nei suoi innumerevoli e distinti
aspetti dal rispettivo grado di conoscenza, illusione, sof-
ferenza. Il loro rapporto col divino può variare dal mas-
simo coinvolgimento – occultato da Creusa, celebrato
da Ione – alla massima estraneità, per cui Xuto diviene
strumento del disegno di Apollo, ma è destinato a rima-
nere all’oscuro del suo vero ruolo di padre adottivo. Il
duplicarsi degli elementi formali e drammaturgici con-
tribuisce a creare l’effetto di una realtà poliedrica, la
cui complessa tessitura si può scomporre a beneficio
degli spettatori, senza che si debba scegliere tra le di-
verse angolazioni dei personaggi. Alla monodia di Io-
ne, una sorta di peana del giovane servo del tempio che
celebra il dio come padre vicario, risponde la monodia
di Creusa: un’accusa impietosa del cinismo e della vio-
lenza di Apollo, modellata come un anti-inno e destina-
ta a controbilanciare la devozione senza riserve dell’al-
tra secondo l’ottica opposta della donna stuprata e ri-

54
Cfr. Giannopoulou 1999-2000, pp. 262-271.
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INTRODUZIONE 55

masta priva di figli.55 Ione impedisce a Creusa di inter-


rogare in modo riservato l’oracolo per conoscere il de-
stino del figlio nato dalla violenza di Apollo (vv. 365-
373), ma alla fine sarà Creusa ad accettare con indul-
genza la menzogna dell’oracolo sulla paternità di Ione
mentre lui, dimentico di aver allora criticato la pretesa
dei mortali di imporre domande sgradite al dio, vorreb-
be costringerlo a pronunciarsi con chiarezza sulla sua
paternità (vv. 1532-1548). Su un dato comunque si mo-
strano tutti d’accordo, uomini e dèi: il connubio tra
Apollo e la principessa ateniese deve restare segreto
(vv. 72 sg.), perché il dio «si vergogna» (v. 367) della sua
aggressione a Creusa e teme il biasimo di chi, sia pure
risarcito alla fine, potrebbe recriminare per le sofferen-
ze del passato (vv. 1556-1558).
I doppioni così peculiari dell’intreccio sono certa-
mente spia di un modo di rappresentare la realtà che
va ben oltre l’artificio artistico,56 talora con esiti para-
dossali: delle due scene di riconoscimento, quello falso
con Xuto – di cui si sottolinea il tono a tratti farsesco57–
è determinato dalla volontà divina, mentre quello vero
con Creusa, venato di accenti patetici, avviene secondo
modalità che contrastano col disegno originario del

55
Cfr. Furley 1999-2000, pp. 188-192, e Zacharia 2003, pp. 89-91.
56
Zacharia 1995, pp. 60 sg., esamina alcune specularità formali
giungendo alla conclusione che esemplificano, proprio come il co-
stante intersecarsi dei toni comico e serio, la coesistenza di modi al-
ternativi di guardare la realtà. Un’analisi parallela degli aspetti for-
mali e della nuova temperie religiosa che avvicinerebbero lo Ione al-
la Commedia Nuova già in Friedrich 1953, pp. 10-29. Danek 2001, p.
58, addita nelle due diverse prospettive, divina e umana, i contesti di
pertinenza, rispettivamente, del tono comico e di quello tragico: il
pubblico, reso consapevole del piano d’azione divino, può avvertire
una nota comica nella distanza tra il sapere degli dèi e l’ignoranza de-
gli uomini, ma è partecipe del modo tragico che qualifica i sentimenti
dei personaggi umani.
57
Cfr. l’analisi che ne fanno Taplin 19852, pp. 137 sg., e Knox 1979,
pp. 260-263.
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56 INTRODUZIONE

dio. Ermes, dopo aver narrato nel prologo l’antefatto e


gli sviluppi della storia previsti dal disegno provviden-
ziale di Apollo, si ritira al riparo della macchia d’alloro
per «apprendere» come andrà a finire la vicenda: al di
là della fisionomia umile, per cui il lavtri" degli dèi si
comporta come un servo di commedia, il suo atteggia-
mento rivela che l’imprevedibilità degli eventi può sor-
prendere anche la divinità. Se la regia divina non è im-
peccabile, dunque, il resoconto di quanto è accaduto
presenta analoghe smagliature – la gravidanza «all’in-
saputa del padre», il parto nella reggia (cfr. sopra nn. 9
e 14) – che finiscono per rimarcare come sia distante lo
sguardo divino, attento ai dettagli ma secondo criteri
diversi dai protagonisti umani: schematica e convenzio-
nale la cronaca dei fatti passati, approssimativa anche
la previsione dell’imminente futuro, come Atena con-
ferma senza imbarazzo (vv. 1563-1568). Ma gli errori
metateatrali non hanno, per la verità, l’effetto di accre-
scere gli aspetti comici di questa singolarissima trage-
dia. La riluttanza dei moderni a iscrivere lo Ione nello
stesso genere cui appartengono l’Agamennone e l’Edi-
po re rivela scarso interesse per l’inesauribile capacità
di Euripide di far trasparire la precarietà e la tragicità
della condizione umana dalle stesse ironie che funzio-
navano come efficace mezzo di contrasto già nell’Ilia-
de. Insieme determinanti ed estranei rispetto alle azio-
ni umane, gli dèi dell’epos di guerra vivono in straordi-
nario equilibrio fra drammatico coinvolgimento nelle
vicende dei mortali e imperturbabile e remota serenità.
Le loro contese superficiali danno rilievo e profondità
a ciò che il conflitto rappresenta per gli uomini: dolori,
angosce, lutti e il rischio di perdere il bene più prezio-
so, la vita. Ora che il pantheon descritto sulla scena tea-
trale euripidea viene sfrondato dagli aspetti più arcani,
quando gli dèi si lasciano coinvolgere nelle faccende
umane ne derivano inesorabilmente confusione e l’im-
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INTRODUZIONE 57

possibilità di fare appello a criteri morali che valgano


in entrambe le sfere.58
Euripide nutre la certezza che le differenze basate
sulla nascita non ricalcano affatto distinzioni naturali,
benché la società e la legge penalizzino i figli illegitti-
mi.59 Nella commedia di Menandro si può menzionare
lo stesso principio ormai come un trito luogo comune:
«Ma in nome degli dèi, chi di noi è legittimo e chi ba-
stardo se siamo tutti esseri umani?» (La donna di Samo
137 sg.). Ma la questione non si lascia definire così net-
tamente quando si tratta di eroi, nati dall’unione tra im-
mortali e mortali: per loro diviene incerta persino la va-
lutazione etica, il metro codificato dagli uomini che in-
coraggia a identificare il virtuoso con il figlio legittimo e

58
Il suggestivo confronto proposto da Matthiessen 1990, pp. 271
sg., 288 sg., con A Midsummer-Night’s Dream di Shakespeare non met-
te tuttavia in rilievo una differenza, fra le altre, utile a mostrare come
lo Ione resti a pieno titolo nell’ambito del genere tragico («eine Tragö-
die der Irrungen», p. 289): l’intervento di Oberon, il re degli elfi, e del
suo servo Puck per orientare i sentimenti delle coppie umane in modo
da stabilire una giusta reciprocità amorosa avviene su un terreno per
natura imprevedibile, accidentale e precario come quello dell’eros;
l’intervento di Apollo nel destino di Creusa e di Ione, invece, determi-
na conseguenze che ledono il naturale orientamento affettivo di una
coppia costituita da una madre e da un figlio, prima tenendoli lunga-
mente separati e poi non riuscendo a prevedere i tempi giusti del loro
ricongiungimento. Se Oberon può rimediare all’errore di Puck e sta-
bilire infine amore reciproco e duraturo fra i componenti delle due
coppie, Apollo, dal canto suo, neutralizza i rischi causati dalla sua vi-
sione troppo algida e distante delle passioni umane, ma la sua magia è
assai meno straordinaria perché, dopo tutto, consente solo a una ma-
dre e a un figlio di riconoscersi e amarsi per il futuro – come normal-
mente accade alle madri e ai figli – senza poter restituire loro il tempo
perduto, né sanare tutte le ferite.
59
Come si afferma in un frammento dell’Andromeda, 141 Kn. Cfr.
anche Andromaca 632-638 e i frr. 168 Kn. (dall’Antigone) e 377 Kn.
(dal dramma satiresco Euristeo), tutti passi relativi all’infondatezza
dell’antitesi tra figli bastardi e legittimi, basata sulla convenzione so-
ciale (novmo") ma non sulla natura (fuvsi"). L’idea della fondamentale
eguaglianza dell’umanità era radicata nella teoria antropologica: cfr.
Guthrie 1971, pp. 160-163.
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58 INTRODUZIONE

l’immorale con il bastardo (La donna di Samo 139-142).


L’argomento dell’unicità della fuvsi" umana, che rende
convenzionali le distinzioni tra discendenze e gruppi di-
versi – e su cui si basava la rivoluzionaria teoria del sofi-
sta Antifonte di una comune origine di Greci e barbari
(87 B 44 D.-K.) – in questo caso non è pertinente, e ne è
una riprova l’eterogenea adesione alla morale della stir-
pe divina rispetto a quella umana.60 Il principio della
fratellanza universale degli uomini, che accompagna la
polemica contro le distinzioni di razza e di classe, nella
tragedia euripidea sembra simmetrico al riconoscimen-
to di una distanza incolmabile dal mondo divino. La nu-
trice di Fedra definisce Ippolito «un bastardo che ha
ambizioni da figlio legittimo», deplorando che non si at-
tenga al ruolo subordinato cui lo confinerebbe la sua na-
scita (Euripide, Ippolito 309: novqon fronou``nta gnhvsia);
lui stesso avverte un limite nella sua condizione di figlio
illegittimo (vv. 1082 sg.), riscattato poi quando agonizza
fra le braccia del padre, che ne riconosce finalmente la
nobiltà d’animo (vv. 1452, 1455). Ma l’avvertimento di
Apollo a Diomede, quando nella sua aristia epica sem-
bra voler travalicare i limiti che separano uomini e dèi,
è il filo conduttore della morale popolare greca anche
quando le vicende degli eroi intrecciano strettamente le
due stirpi: «Bada, figlio di Tideo, ritirati, e non pretende-
re / di pensare come gli dèi (mhde; qeoi``sin É i\sΔ e[qele fro-
60
Per Wolff 1965, pp. 169-194 (in part. 179 sg., 184 sg.), il dramma
solleva il problema dell’incompatibilità tra l’irrazionale, incarnato dal
mito e dalle figure divine, e la nozione umana di giustizia. Anziché in-
dicare una soluzione, tuttavia, si limita a subordinare il conflitto tra
umano e divino alla dimostrazione dei limiti della conoscenza umana.
Inoltre la “bellezza” del mito, il piacere estetico che deriva dalle storie
che la vicenda scenica riesce a distanziare con l’artificio dell’ekphrasis
– quando diventano soggetto di opere d’arte figurativa oltre che le vi-
cende narrate del passato familiare di Creusa – benché sia inconcilia-
bile con la morale e la giustizia può consolare e creare un opportuno
distacco dall’oscurità e dall’incertezza che la ragione constata nella si-
tuazione umana.
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INTRODUZIONE 59

nevein): non è uguale la stirpe / degli dèi immortali e de-


gli uomini che calpestano il suolo» (Iliade V, 440-442).
Di questa radicale diversità gli eroi euripidei sono testi-
moni sgomenti e, guidati adesso dalla ragione e non solo
dal timore, sanno mantenere le proprie ambizioni entro
i confini più rassicuranti della natura umana.
Menzogne e verità, purezza e contaminazione, amore
materno e delusione degli affetti, orgoglio dinastico e
odio razziale. La coesistenza di antinomie, che rimango-
no tali oltre ogni composizione, è la cifra più evidente
del compromesso imposto dall’incontro fra Apollo e
Creusa per concepire un figlio: bene comune che tutta-
via non possono condividere, se non alternandosi al suo
fianco, l’uno prima del momento in cui ritiene opportu-
no assegnarlo per sempre a un altro padre, la madre so-
lo dopo averlo a sua volta rinnegato, appena dopo il par-
to, e aver poi tentato di farlo morire una seconda volta.
All’ignoranza di lei, che vuole vendicarsi dell’inganno
del marito senza sapere quale tortuoso disegno del dio
lo abbia avviato, corrisponde l’incredibile negligenza di
Apollo; non sembra curarsi, oggi come al tempo dello
stupro, dei sentimenti della donna, violata nel corpo e
nella dignità personale allora, adesso nelle residue spe-
ranze e nella fierezza della propria illustre origine. L’in-
differenza alle reazioni umane, quelle femminili in par-
ticolare, è una spia della distanza del divino, spesso an-
nullata dalla tradizione mitologica ma incautamente, co-
me la scena euripidea mostra con evidente ironia; un’i-
ronia che si giova sempre più spesso di toni e strategie
su cui poi verrà edificata la Commedia Nuova.
Sperimentando incessantemente una varietà di sche-
mi e stili che è apparsa, sin dalle critiche degli scoliasti,
una commistione dei generi, Euripide precorre in qual-
che misura la polifonia che Erich Auerbach ha indicato
come caratteristica peculiare del teatro di Shakespeare.
Capace di catturare le forme più comuni della realtà ter-
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60 INTRODUZIONE

rena in mille rifrazioni e combinazioni, con uno stile che


esplora tutta la gamma dei sentimenti, dal sublime al
farsesco, il suo teatro s’ispirava alla tradizione medieva-
le-cristiana e a quella popolare inglese per opporsi alla
severa divisione di stili imposta, più ancora che dal
dramma antico, dai suoi imitatori umanistici.61 Euripide
– di cui pure Auerbach riconosce la carica innovativa,
benché la sua libertà rimanga molto inferiore a quella
del dramma moderno – avviò una riflessione sul destino
umano più ampia di quella convenzionale nel genere
tragico, focalizzata sul cambiamento di fortuna che si
abbatte dall’esterno sull’eroe protagonista. Quanta par-
te vi avessero le scelte e il carattere dell’uomo, quanta la
divinità o il caso, sono interrogativi che non ottengono
risposte certe o rassicuranti, e tuttavia vengono sondati
attraverso percorsi che moltiplicano le consuete pro-
spettive mitiche e, integrando il comportamento divino
nella sfera terrena, producono tensioni che si risolvono
solo rinunciando al giudizio morale, o altrimenti va-
gheggiando una dimensione divina totalmente estranea
alle categorie dell’umano. E proprio le tragedie in cui si
accentua la rappresentazione dell’inconciliabilità tra i
due piani aprono il varco a una vena comica che carat-
terizza interi episodi e cambia la cifra stilistica dell’ulti-
ma scrittura euripidea. Non bisogna dunque attendere,
diversamente da quanto ritiene Auerbach, l’opera di
Shakespeare perché si realizzi «l’intuizione che Platone
esprime alla fine del Simposio, quando Socrate all’alba
spiega ad Agatone e Aristofane, già quasi vinti dalla
stanchezza, che lo stesso poeta deve essere padrone del-
la commedia e della tragedia, e che il vero autore di tra-
gedie dev’essere anche autore di commedie». La svolta
medievale, con la mescolanza di stili, e il suo supera-
mento attraverso la rappresentazione spregiudicata del

61
Cfr. Auerbach 1956, pp. 63-87.
0050.intro.qxd 15-12-2008 14:53 Pagina 61

INTRODUZIONE 61

quotidiano e del reale nel teatro di Shakespeare sono


certo i progenitori diretti del realismo moderno.62 Ma in
questa direzione, sia pure con altri strumenti culturali e
in un diverso contesto storico, si era mosso per primo
Euripide, senza che però il genere tragico fosse in grado
di raccoglierne l’eredità. Proprio nel fiorire della Com-
media Nuova Nietzsche – fieramente avverso al reali-
smo e alla critica del mito che sarebbero alla base del
“suicidio” dell’antica arte tragica – crede di individuare,
non a caso, la forma in cui sopravvive «la figura degene-
re della tragedia, monumento della sua fine penosa e
violenta».63 Ma il mito nietzscheano dell’elemento otti-
mistico che, una volta penetrato nella tragedia, sommer-
ge progressivamente le sue regioni dionisiache e la con-
duce all’annientamento, «fino al salto mortale nel dram-
ma borghese»,64 fraintende gravemente il senso del per-
corso innovatore euripideo: non c’è alcuna corrispon-
denza necessaria tra virtù e sapere, fede e morale, giusti-
zia divina e felicità umana, e le tragedie che narrano il
disagio degli eroi nati dal connubio tra un dio e una
mortale – come l’Eracle o, in una vena assai meno deso-
lata ma con analogo disincanto, lo Ione – ne sono testi-
monianza. Abile nel sorprendere il pubblico con le sue
novità formali, le variazioni inattese e i rovesciamenti
dei modelli drammatici,65 Euripide demolisce anzi l’ot-

62
Auerbach 1956, pp. 84 sgg. Sia la menzione del passo platonico
(Simposio 223d), sia il paragone con i toni comici nella produzione se-
ria di Shakespeare ricorrono poi insistentemente nelle riflessioni criti-
che su questa peculiarità euripidea: cfr. Zacharia 1995, pp. 57 sg., Za-
charia 2003, pp. 152 sg. e la bibliografia ivi citata.
63
Nietzsche 1982, cap. XI, pp. 80-86 (in particolare p. 81).
64
Nietzsche 1982, p. 102.
65
Valutazioni molto equilibrate sulla funzione degli aspetti innova-
tivi del teatro euripideo in Fusillo 1992, pp. 270-299. Una recente ri-
flessione sul luogo comune critico che Euripide abbia trasgredito i
confini del suo genere in Gregory 1999-2000, pp. 59-74. Lo stesso invi-
to alla cautela nel confidare in una definizione astratta del genere tra-
gico, ascrivendo alla drammaturgia euripidea continue violazioni del-
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62 INTRODUZIONE

timismo della fede tradizionale senza mai abbandonare


il terreno proprio della tragedia: le passioni, i rimpianti
e le aspirazioni che scandiscono l’agire e gli stati d’ani-
mo dei protagonisti di una stagione eroica al tramonto,
non più sicuri della tutela garantita da un’origine divi-
na, ma non ancora approdati definitivamente alla di-
mensione realistica e quotidiana dei comuni cittadini
ateniesi.66
lo stile elevato convenzionale, in Mastronarde 1999-2000, pp. 23-39 (in
particolare 34-39), e Wright 2005, pp. 5-55.
66
Una più attenta considerazione meriterebbe anche la reale mi-
sura celebrativa dell’innovazione genealogica euripidea, per cui Doro
e Acheo, i figli che secondo la profezia di Atena nasceranno a Creusa
e Xuto (vv. 1589-1594), sarebbero distinti da Ione, nato da Apollo, e
così a lui subordinati perché di natura esclusivamente mortale. Nei
termini mitici convenzionali, e secondo le abituali strategie propagan-
distiche, si può certo parlare dell’intento di Euripide di glorificare il
popolo di Atene, riconducendone le origini a una divinità e così privi-
legiandolo sugli altri Greci. Ma se poi si valuta la fisionomia di Ione,
eroe nato dallo stupro che Apollo ha inflitto a Creusa, tornato ad Ate-
ne ufficialmente come figlio illegittimo dello straniero Xuto, perché la
nascita divina, anche se garantita da autorevoli conferme soprannatu-
rali, non è più un vanto in senso assoluto, la gerarchia mitica fra le stir-
pi greche che metterebbe in secondo piano gli Achei e i Dori appare
considerevolmente ridimensionata. L’adozione di Xuto maschera anzi
l’ultimo paradosso, che accosta e fa convivere nella vicenda di Ione la
legittimità degli autoctoni, nati dalla loro terra, e l’illegittimità del ba-
stardo divino, resa ancora più problematica dalla violazione delle re-
gole sociali per introdurlo nella famiglia materna assegnandolo a un
altro padre: il capostipite degli Ioni testimonia così la distanza “cultu-
rale” del presente degli Ateniesi dal mito delle loro origini. La versio-
ne euripidea non si lascia iscrivere dunque nel discorso civico, in cui
l’anomalia dello stupro di una vergine è solo una sorprendente me-
tafora dell’esigenza di legittimare il corpo politico e le sue ambizioni
di coniugare autoctonia e imperialismo (secondo la tesi di Karakantza
2004): la violenza divina, in questo caso, non si limita affatto a sovver-
tire il rituale di nozze e a “domare” il corpo di Creusa per integrarla
nella linea di riproduzione della polis, e differisce per molti aspetti dal
tema convenzionale del dio che si unisce a una vergine per generare
un eroe culturale, il capostipite di un popolo o il fondatore di una città.
Walsh 1978, pp. 301-315, tenendo conto del contesto storico che pote-
va orientare la ricezione del pubblico della prima rappresentazione,
mette in guardia da una chiave di lettura che presupponga in modo
semplicistico patriottismo e orgoglio nazionale.
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APPENDICE
Stupro e adulterio nel diritto attico
e sulla scena euripidea

La lingua greca non ha un termine specifico per designa-


re lo stupro, un crimine che in ogni cultura è sempre stato
problematico accertare e quindi sanzionare, tanto più
quando l’integrità della donna è una semplice proiezione
dello status del cittadino maschio da cui dipende giuridi-
camente. Basta passare in rassegna le espressioni con cui
si allude allo stupro, per rendersi conto che la definizione
moderna di rapporto sessuale non consensuale, spesso,
anche se non necessariamente, estorto con la violenza,
mette in rilievo aspetti diversi – relativi alla violazione
dell’integrità personale della donna da parte di un uomo
– rispetto alla società greca antica: biasmov", biavzesqai,
damavzesqai (con enfasi sull’uso della forza), u{bri", uJbriv-
zein, aijscuvnein, ajtimavzein e ajdikei``n (che appartengono
al vocabolario dell’onore e dell’oltraggio) sono i termini
che definiscono in determinati contesti lo stupro, ma ri-
guardano altrimenti la più ampia categoria di generici at-
ti di aggressione e violenza, non specificamente sessuale.
In modo analogo, le leggi dirette a punire i crimini
sessuali non sono affatto sistematiche e non si preoccu-
pano neppure di definire rigorosamente l’offesa. La leg-
ge di Solone, secondo la testimonianza di Plutarco (Vita
di Solone 23, 1), stabiliva la pena pecuniaria di cento
dracme per chi rapisse e violentasse una donna libera,
mentre il seduttore (moicov") colto in flagrante poteva
essere ucciso. Il consenso della donna, di cui in quel ca-
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64 APPENDICE

so era stata corrotta la mente oltre che il corpo (la di-


struzione della philia coniugale sarebbe la colpa princi-
pale del seduttore, secondo Senofonte, Ierone 3, 3),
avrebbe costituito dunque un’aggravante; si giustifica
così il delitto d’onore commesso dal suo kurios, che po-
teva invocare la hubris nei confronti dei membri del-
l’oikos e la violazione del domicilio. Sono questi gli ar-
gomenti, sia pure viziati da ragioni retoriche, di Lisia, I,
32-33 (Per l’uccisione di Eratostene), dove Eufileto, un
marito che ha assassinato l’amante della moglie, si di-
fende cercando di dimostrare che anche secondo la leg-
ge la seduzione è un crimine ben peggiore dello stupro,
e dunque lui, uccidendo Eratostene, sorpreso in flagran-
te con sua moglie grazie alla complicità di una serva di
casa, ha commesso un omicidio esente da conseguenze
legali. L’autodifesa di Eufileto introduce speciosamente
una distinzione giuridica fra uso della persuasione e uso
della forza che in realtà non era affatto contemplata dal-
le procedure legali, estremamente flessibili nella defini-
zione delle offese. Naturalmente era essenziale per lui
descrivere nella luce più fosca il tradimento subito, dal
momento che rischiava in prima persona la pena capita-
le se non fosse riuscito a dimostrare di non aver abusato
del suo diritto all’esecuzione sommaria del seduttore.
Sia Senofonte che Lisia, prendendo in considerazione
l’affetto coniugale come un bene prezioso da preserva-
re, introducono dunque una preoccupazione che è del
tutto estranea alla legislazione ateniese.
Benché il disagio e l’inquietudine creati nella società
dall’adulterio fossero sicuramente maggiori di quelli re-
lativi a un atto di stupro – perché metteva in crisi ogni
certezza sulla legittimità di tutti i figli della donna adul-
tera – gli studiosi di diritto greco1 hanno ormai ridimen-

1
A partire da Paoli 1976, pp. 251-307, in particolare pp. 254 sgg.,
267, 289 sgg., 293 sgg.
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APPENDICE 65

sionato l’attendibilità di una precisa gerarchia nella va-


lutazione della gravità fra le due trasgressioni. La legge
di Dracone sulle circostanze attenuanti per chi commet-
te omicidio volontario (emanata intorno al 620 a.C. e an-
cora in vigore nel IV sec.) non distingueva, in proposito,
tra donne sposate o non sposate: chi sorprendeva un uo-
mo in flagrante rapporto carnale con la moglie, la madre,
la sorella, la figlia, o addirittura una concubina con cui
intendeva procreare figli di condizione libera, poteva uc-
ciderlo senza subire la pena dell’esilio, perché l’“adulte-
rio” costituisce un oltraggio all’oikos cui la vittima ap-
partiene, contaminandone la purezza sacrale e frustran-
done il compito, la procreazione di figli legittimi.
Le azioni giudiziarie cui poteva ricorrere il kurios di
una donna vittima di stupro erano procedimenti che ri-
guardavano, dunque, anche accuse meno specifiche: la
divkh biaivwn è un’azione privata di risarcimento, intenta-
ta dalla parte offesa o dal suo rappresentante giuridico
contro chi ha commesso atti di violenza, non necessaria-
mente sessuale; la grafh; u{brew" è invece un’azione pe-
nale che poteva essere intentata da chiunque lo ritenes-
se opportuno e non solo dalla persona lesa o dal suo ku-
rios. La u{bri", come termine giuridico, sembrerebbe im-
plicare un atteggiamento arrogante che accompagna
azioni violente – anche in questo caso non necessaria-
mente aggressioni sessuali – destinate a umiliare e diso-
norare la vittima; trattandosi di un ajgw;n timhtov", una
causa il cui giudizio era rimesso alla valutazione della
corte, se l’accusatore in una grafh; u{brew" aveva succes-
so, poteva proporre per il condannato qualsiasi pena ri-
tenesse opportuna, inclusa quella capitale. L’azione pe-
nale contro l’adulterio era invece la grafh; moiceiva" (ci è
attestata da Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 59, 3):
una faccenda così strettamente privata interessava la
collettività, come mostra la procedura pubblica della
grafhv, appunto perché attraverso una relazione illecita
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66 APPENDICE

si potevano introdurre figli illegittimi nel corpo civico


facendoli passare per cittadini di pieno diritto.
Qualora il moicov" fosse sorpreso in casa della donna
in flagrante “adulterio” (ma il termine è un corrispon-
dente lessicale impreciso, dal momento che moiceiva in-
dica i rapporti carnali illeciti con una donna libera e cit-
tadina, anche nubile),2 il kurios oltraggiato poteva pre-
ferire all’uccisione l’alternativa di infliggergli pene cor-
porali degradanti e dolorose, oppure esigere un prezzo
di riscatto e privarlo della libertà personale fino a paga-
mento avvenuto, o ancora esporlo al pubblico ludibrio.
Il sequestro personale poteva essere dichiarato illegitti-
mo dal moicov" che, lasciato libero dietro presentazione
di garanti, ricorreva a sua volta al giudizio del tribunale.
Se la misura adottata nei suoi confronti era riconosciuta
legittima, l’oltraggiato poteva procedere contro di lui in-
fliggendogli immediatamente la punizione sul posto,
senza però usare armi da taglio. Il dibattito critico sulla
legislazione del IV secolo e sul preciso senso giuridico di
termini come moiceiva o u{bri" – per quanto è possibile
ricostruire dalle testimonianze degli oratori attici – è
molto vivace, e sottolinea come il consenso femminile a
una relazione illecita e la donna come soggetto autono-
mo del desiderio sessuale non siano mai in primo piano
nella giurisdizione e nel modo in cui la città democrati-
ca definisce il comportamento morale.3
A riprova del fatto che le norme giuridiche non si
preoccupano del consenso della donna va osservato che
il reato di moiceiva è esclusivamente maschile, e coinvol-
ge la donna solo come elemento passivo: la legge della

2
Non appare convincente la tesi di Cohen 1991, pp. 98-109, che in-
tende dimostrare come l’unico senso del termine greco sia quello di
volontaria violazione del vincolo coniugale, lo stesso che vale per le
lingue moderne.
3
Si veda la recente discussione di Omitowoju 1997, pp. 1-24, Omi-
towoju 2002, pp. 29-115. Utile anche la sintesi di Lape 2001a, pp. 84-89.
0060.appendice.qxd 15-12-2008 14:54 Pagina 67

APPENDICE 67

povli" non riconosce valore giuridico alla sua volontà e


la sanzione punitiva nei suoi confronti è affidata alla so-
vranità familiare, con l’unica garanzia di vietarne, anche
se colpevole, l’uccisione.
È interessante, sotto questo profilo, la testimonianza
mitico-letteraria sulla punizione prospettata per Elena
da Menelao, una volta tornato in patria dopo la caduta
di Troia (Euripide, Troiane 864-879). I Greci vincitori
hanno consegnato la sposa fedifraga al suo primo mari-
to, che ha condotto la spedizione anzitutto contro Pari-
de, l’uomo che ha violato le leggi dell’ospitalità e rapito
sua moglie. Ora che il rivale ha pagato con la vita l’offe-
sa, spetta a Menelao decidere la sorte di Elena e lui, ri-
conducendola in patria, intende a sua volta rimetterla
alla vendetta di coloro che hanno subito i lutti della
guerra. In un dibattito che assume l’aspetto formale del-
l’agone giudiziario Ecuba, la regina di Troia ora ridotta
in schiavitù, suggerisce a Menelao una punizione esem-
plare, che stabilisca una “legge” anche per le altre don-
ne, scoraggiando l’infedeltà coniugale (vv. 1029-1032).
La conclusione unanime che Elena ha disonorato il suo
primo marito andandosene deliberatamente con uno
straniero, e merita dunque la morte per lapidazione, un
deterrente perché le donne imparino a non essere disso-
lute (vv. 1055-1059), è però smentita dall’epilogo ben
noto della vicenda mitica. I due coniugi saliranno sulla
stessa nave – lo adombra il successivo canto corale (vv.
1100-1117) – nonostante le rassicurazioni di Menelao ai
timori di Ecuba (vv. 1049-1059), e lui verrà ancora sog-
giogato dal fascino di Elena, come testimonia anche
l’Andromaca euripidea per voce di Peleo (vv. 627-631).
Il pubblico di Euripide, del resto, sa dal libro IV dell’O-
dissea che torneranno a vivere insieme a Sparta. Dun-
que niente cambierà nelle leggi dei Greci: nonostante
gli auspici della regina barbara e le proteste apparente-
mente sincere dello stesso Menelao, i destinatari princi-
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68 APPENDICE

pali delle misure punitive continueranno a essere gli uo-


mini che seducono le mogli altrui, mentre l’iniziativa
colpevole di Elena – sulla cui responsabilità morale con-
cordano vinti e vincitori – resta giuridicamente indiffe-
rente. Riportarla in patria è una misura che risarcisce
l’onore del marito, possedere la sua bellezza garantisce,
nel mito, un primato e un vanto maschile. Le donne ate-
niesi d’età classica, tutt’al più, subiscono l’emarginazio-
ne civica del divorzio e dell’esclusione dalle cerimonie
religiose pubbliche ([Demostene], 59, Contro Neera,
87); una sanzione certamente grave, che si limitava però
a decretarne la “morte sociale” con effetti analoghi al-
l’atimia, la privazione dei diritti civili, per gli uomini.
Solo le donne, del resto, erano tenute alla fedeltà,
mentre la libertà sessuale maschile non era soggetta a
vincoli, se non quelli imposti dall’onore di un altro uo-
mo legato alla donna che concedesse o subisse un rap-
porto carnale illecito. Ma le proteste dei personaggi
femminili – Fedra, nel primo Ippolito (TrGF 5.1, p. 465 =
Plutarco, De audiendis poetis 8, 28a) e Clitemestra
nell’Elettra (vv. 1030-1040) – che giustificano, sulla sce-
na euripidea, le proprie trasgressioni sessuali come ri-
sposta all’infedeltà dei mariti, testimoniano la vivace
polemica contro i pregiudizi maschili e la mentalità do-
minante. L’argomento sofistico che esclude del tutto la
responsabilità umana nel tradimento nasce invece dal
considerare il desiderio erotico una “necessità della na-
tura”. Così la personificazione del Discorso Ingiusto,
nelle Nuvole di Aristofane, sostiene che l’adultero sor-
preso mentre soddisfa il suo istinto può sempre discol-
parsi con successo additando l’esempio di Zeus: se la
somma divinità non è in grado di tenere a freno il desi-
derio che lo spinge a violare le donne, come potrebbe
esserne capace un uomo (Nuvole 1075-1082)? La debo-
lezza degli dèi dinanzi alla forza dell’eros – incarnata dal
potere di Afrodite – in quanto argomento ricorrente nel
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APPENDICE 69

teatro di Euripide è, non a caso, un bersaglio del sarca-


smo di Aristofane. Vi si appellano la nutrice di Fedra,
che incoraggia incautamente la sua signora ad abbando-
narsi senza scrupoli alla forza travolgente dell’amore
(Ippolito 437-461; cfr. anche fr. 431 Kn. = 684 R., dal pri-
mo Ippolito, o forse piuttosto dalla Fedra di Sofocle), e
poi Elena, nell’autodifesa del suo serrato confronto con
Ecuba nelle Troiane (vv. 946-950). Ma se tutte le ragioni
addotte da Elena per scagionarsi dalle accuse di delibe-
rata infedeltà vertono anzitutto sull’impotenza umana
di fronte all’intervento divino, e in seconda istanza sulla
debolezza femminile, che non può sottrarsi alla violenza
e alla prevaricazione dei maschi (si noti, al v. 962, biva/ ga-
mei`, riferito alle “nozze forzate” con Paride), Ecuba mi-
na queste attenuanti convenzionali, riconducendo razio-
nalisticamente gli eventi proprio alla passione impudica
di Elena, che attribuisce il nome della divinità alle pro-
prie inclinazioni naturali. Sembra che il pubblico non
debba scegliere tra le due posizioni, almeno in apparen-
za, perché le diverse interpretazioni dei motivi dell’agi-
re umano in campo erotico sono entrambe pertinenti ai
punti di vista dei due soggetti. Elena, che ha vissuto la
passione senza riuscire a dominarla, forse può addurre
più persuasivamente di chi la giudica l’esperienza del-
l’assoluta mancanza di libertà, del sentirsi soggiogata da
un desiderio divino e irresistibile. Ecuba, vittima dolen-
te dei lutti di una guerra che le appare insensata, non in-
tende invece imputare a forze esterne, secondo il princi-
pio adottato da Elena e prevalente nella cultura arcaica,
la scelta della donna fatale, che ai suoi occhi incarna
un’imperdonabile responsabilità etica. Ne è prova in-
confutabile anche il suo comportamento nella reggia
troiana: si trovava a proprio agio nello sfarzo e fra le ric-
chezze, si compiaceva degli onori di una corte orientale
e, consapevole del proprio fascino, ha saputo trarre il
massimo vantaggio dalla situazione, schierandosi sem-
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70 APPENDICE

pre dalla parte di chi poteva appagare i suoi desideri.


Ma la singolare adesione di Menelao alla condanna for-
mulata dalla regina prigioniera, benché smentita dalla
“realtà” cristallizzata nella tradizione mitica, orienta in-
fine il pubblico a concordare con la prospettiva di Ecu-
ba: ad Elena manca, nelle Troiane, anche solo un cenno
del rimorso, dei dubbi, del disagio, della nostalgia per la
vita in Grecia, che assillano il suo personaggio nell’Ilia-
de. Conscia degli esiti nefasti della propria bellezza, Ele-
na ammetteva allora anche una colpa personale, simme-
trica alla volontà divina che l’aveva guidata a Troia. E se
questo contegno, sempre venato di pudore e disprezzo
di sé, le guadagna nel poema di guerra l’affettuosa com-
prensione di Priamo, che ritiene lei innocente e gli dèi
responsabili del conflitto (Iliade, III 162-165), l’Ecuba
della tragedia euripidea la accusa invece energicamente
di farsi schermo del nome di Afrodite per dissimulare la
sua naturale e dissennata lussuria (Troiane 987-990). Se
la virtù non oppone alcuna resistenza e la divinità fini-
sce per essere una proiezione del desiderio che nasce
nella mente umana – come ammette anche Menelao ai
vv. 1037-1039 – la donna narcisista e seduttiva, che qui
mostra la sua vanità al pubblico e non è solo descritta
attraverso il giudizio, più o meno benevolo, degli altri, è
responsabile senza giustificazioni delle scelte erotiche
compiute e del richiamo sensuale che esercita sullo
sguardo di chi l’ammira.
Con ben diverso vigore logico e intellettualistico, ri-
spetto a Elena, in un’appassionata rivendicazione d’in-
nocenza basata sull’inverosimiglianza del desiderio ero-
tico nei confronti di un essere bestiale, Pasifae spiega la
sua unione mostruosa con il toro, da cui è nato il Mino-
tauro, come malattia inflitta dalla divinità (Euripide,
Cretesi, fr. 472e, 6-26 Kn.). Poseidone ha colpito lei per
punire indirettamente l’infrazione rituale del marito
Minosse, che aveva promesso di sacrificare quello
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APPENDICE 71

straordinario toro al dio ma poi lo aveva tenuto per sé.


Laddove in una passione naturale fra esseri umani si
può ammettere la responsabilità femminile, il suo caso
la assolve proprio perché non è contemplato in un’incli-
nazione amorosa naturale. Sofferenza, malattia, fragilità
dinanzi a un’incoercibile forza esterna: anche in questa
sfera un dibattito che riguarda l’etica consacrata dalle
convenzioni umane, e si è spostato sempre più sul ver-
sante della natura e dei suoi condizionamenti, viene ri-
condotto da Euripide nell’ambito della riflessione mo-
rale. Era in particolare il personaggio di Elena a incar-
nare, nel mito e nelle sue elaborazioni letterarie, l’esem-
pio dei guasti che nascono da una passione illecita. E
l’ambivalenza della sua caratterizzazione, nell’epica ar-
caica, lascia poi ampio spazio a un giudizio radicalmen-
te negativo, nel teatro tragico del V secolo. Non stupisce
che sia ancora Euripide, tuttavia, ad affiancare al topos
della sua lussuria, che inevitabilmente accompagna l’ec-
cezionale bellezza di una donna frivola e desiderata, la
tradizione antitetica e marginale di una Elena virtuosa e
casta, che non si è mai recata a Troia dove i Greci, irreti-
ti come Paride da un inganno divino, hanno combattuto
per un simulacro con le sue sembianze. Elena rappre-
senta così, nella tragedia che porta il suo nome e segue
di pochi anni le Troiane, il paradosso dell’illusione di
poter giudicare, in base alla realtà che viene percepita
dai sensi, la responsabilità femminile nella trasgressione
erotica: la donna più odiata dai Greci, causa della morte
di tanti valorosi eroi per salvaguardare l’onore di un so-
lo uomo, è additata ingiustamente all’esecrazione uni-
versale ma è sempre rimasta fedele al marito. La sua
lealtà coniugale è comunque una realtà misconosciuta:
il fantasma di Elena, il suo doppio funesto e incorporeo
nel cui nome si è compiuto un inutile massacro, oscura
per sempre la sostanza della sua virtù e ha procurato
sofferenze incancellabili a lei e ai suoi cari. Predicare
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72 APPENDICE

l’innocenza dell’adultera più celebre significa, per Euri-


pide, eliminare alla radice il problema della sua respon-
sabilità, relegandola in Egitto e facendone la sposa one-
sta e pudica che sa resistere alle insidie del re del paese.4
Sia dunque che avesse allacciato deliberatamente
una relazione adulterina, sia che le fosse stato imposto
con la violenza un rapporto sessuale, la donna è sempre
considerata, almeno secondo la morale ufficiale della
polis, vittima sostanzialmente passiva di oltraggio (uJbri-
sqei``sa), e il diritto attico mira in primo luogo a scongiu-
rare l’introduzione surrettizia di figli bastardi nel corpo
civico. Sulla passività di Elena Gorgia, contemporaneo
di Euripide, fondava del resto la sua apologia, dimo-
strando che neppure l’amore comporta una scelta deli-
berata e, quale che sia l’origine del suo tradimento – vo-
lontà divina, violenza umana, persuasione da parte del
seduttore, innamoramento –, Elena è priva di responsa-
bilità perché è stata oggetto di costrizioni esterne, non
soggetto guidato da una volontà autonoma. Il logos so-
fistico volto a propugnare, contro la vulgata poetica,
l’innocenza dell’eroina non si distacca, dunque, dalla
mentalità dominante testimoniata dalle regole del dirit-
to: le donne coinvolte in trasgressioni sessuali non sono
imputabili, e non tanto perché la punizione della loro
colpa esula dagli interessi della città, bensì perché si può
dimostrare che non sono soggetti responsabili (anche se
ciò avviene, come suggerisce Paduano, sulla scorta di un
principio più universale che riguarda la nullità del vole-
re umano). Un frammento della perduta Melanippe eu-
ripidea (fr. 497 Kn.) addita proprio nella mancata puni-
zione delle donne che hanno generato figli dopo un rap-
porto illecito il motivo per cui la virtù femminile è un
4
La storia letteraria della colpa di Elena è efficacemente delinea-
ta, con le sue suggestive oscillazioni e incoerenze e sul filo delle co-
stanti antropologiche che affiorano nella tradizione mitica e poetica,
da Paduano 2004, pp. 3-72.
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APPENDICE 73

modello sempre meno seguito. Anche su questo tema le


riflessioni dei personaggi di Euripide sembrano così
mettere in discussione le norme giuridiche e la consue-
tudine della cultura del suo tempo. Resta aperto il pro-
blema della ricezione, da parte del pubblico ateniese, di
vicende tragiche in cui emerge la responsabilizzazione e
la condanna morale della donna come soggetto erotico;
o, viceversa, l’autodifesa per vie inconsuete, sostenuta
con lucido razionalismo e grande dignità da eroine che,
come Auge, non si rifugiano più nell’argomento della
debolezza umana soverchiata dalla forza divina.5 Il con-
tributo di Euripide, come mostra anche lo Ione, sembra
comunque orientato a spogliare l’esperienza amorosa
degli aspetti imponderabili e straordinari che, su versan-
ti opposti, attenuano la colpa degli dèi quando violenta-
no una donna, o quella delle donne quando seguono
l’impulso erotico e trasgrediscono le norme culturali.
Nella pratica sociale è comunque verosimile che non
si esponessero le offese sessuali all’attenzione dell’opi-
nione pubblica attraverso processi, ma si cercasse un ri-
sarcimento con accordi privati: la minaccia di un’azione
giudiziaria, nei casi di violenza a una vergine da parte di
un uomo non sposato, può aver funzionato da deterren-
te per convincere la famiglia dello stupratore a consen-
tire alle sue nozze con la ragazza (come avviene rego-
larmente nella Commedia Nuova) o a risarcirla provve-
dendo la dote.6 Adele Scafuro ha poi analizzato l’ambi-

5
Cfr. sopra, n. 52. Per una ricostruzione delle caratteristiche del per-
sonaggio e l’ipotesi che il fr. 265a Kn. appartenga a un confronto tra
Auge e suo padre Aleo, si veda H. Van Looy in J.-V.L. 1998, pp. 317 sg.
6
Utili punti di riferimento sulla legislazione e la prassi giudiziaria
relative allo stupro e all’adulterio, oltre agli studi già menzionati, sono
MacDowell 1978, pp. 124 sg., Todd 1993, pp. 276-279; Cole 1984, pp. 97-
113, con le obiezioni di Harris 1990, pp. 370-377, e le ulteriori precisa-
zioni di Carey 1995, pp. 407-417; Brown 1991, pp. 533-534; Ogden 1996,
pp. 136-150; Ogden 1997, pp. 25-41; Pierce 1997, pp. 176-179; Scafuro
1997, pp. 194-216.
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74 APPENDICE

valenza culturale che il linguaggio giuridico, non diver-


samente da quello dei miti, riserva alle vittime di stupro:
Euripide costituisce dunque una straordinaria eccezio-
ne, offrendo una voce all’esperienza femminile e la-
sciando che Creusa superi la barriera del pudore per
esprimere ciò che le donne non ebbero mai l’occasione
di lamentare in pubblico.7

7
Scafuro 1990, pp. 133-136.
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PREMESSA AL TESTO

Notizie biografiche e caratteristiche dell’opera euripidea

Euripide nacque a Salamina nel 480 (secondo un sincro-


nismo testimoniato da varie fonti con il giorno della bat-
taglia di Salamina) o, come è più probabile, nel 485/484
a.C. (secondo il Marmo di Paro, in coincidenza con la
prima vittoria di Eschilo), e morì in Macedonia, alla cor-
te di Archelao, nel 406 a.C. Il padre, Mnesarco o Mne-
sarchide, e la madre, Clito, erano del demo di Flia e do-
vevano essere benestanti se il giovane Euripide, che si
sarebbe dedicato al pancrazio, al pugilato e alla pittura,
ebbe un ruolo di danzatore e tedoforo nel culto di Apol-
lo Zosterio. La tradizione biografica (rappresentata dal
peripatetico Satiro di Callatide – III-II sec. a.C. – il cui
bios euripideo ci è stato in parte conservato da P. Oxy.
1176, e da alcune Vite anonime presenti in codici del
XIV secolo) è tuttavia ricca di aneddoti inattendibili,
spesso ispirati allo scherno e alle malignità dei comme-
diografi, che dei suoi genitori avevano fatto un botte-
gaio e un’erbivendola. Così si parla delle infelici espe-
rienze matrimoniali del poeta, prima con Melitó e poi
con Cherine, o dei cani che lo avrebbero sbranato a Pel-
la, dove morì e fu sepolto.
Anche prescindendo dalla dubbia notizia di un’accu-
sa di empietà mossagli da Cleone, il rapporto fra Euripi-
de e il suo pubblico fu caratterizzato da incomprensioni
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76 PREMESSA AL TESTO

e insuccessi: partecipò per la prima volta agli agoni tra-


gici nel 455, con la tetralogia di cui facevano parte le Pe-
liadi, ma ottenne il primo premio solo nel 441. A questa
vittoria ne sarebbero seguite altre tre, e ancora una po-
stuma, con la trilogia che comprendeva Ifigenia in Auli-
de, Alcmeone a Corinto e Baccanti, presentata dal figlio
o nipote omonimo: poche, se si pensa alle 23 tetralogie
per le quali avrebbe ottenuto il coro (un dato che con-
corda con i 92 drammi che gli vengono attribuiti da altre
fonti, tre dei quali però considerati spurî già nell’anti-
chità; anche l’autenticità del Reso è stata giustamente
messa in dubbio in età moderna). Euripide avrebbe
composto anche un epinicio per una vittoria olimpica
con la quadriga ottenuta da Alcibiade nel 416 (fr. 755
Page; ma sull’attribuzione di questo carme le fonti anti-
che non sono unanimi), e un epigramma per i caduti ate-
niesi a Siracusa (cfr. Plutarco, Nicia 17, 4). La frequenta-
zione dei grandi intellettuali del suo tempo, Anassago-
ra, Prodico e Protagora, che la tradizione indicava come
suoi maestri, anche se in taluni casi poté essere intensa
non va considerata alla stregua di legami di scuola: Eu-
ripide non fa mai della sua opera un semplice strumento
di propaganda delle idee dei sofisti, da cui pure fu inne-
gabilmente influenzato. L’immagine del poeta scontro-
so e distaccato si riflette nella notizia, ricorrente nella
tradizione biografica, sulla grotta in riva al mare di Sala-
mina dove, lontano dalla folla, si ritirava a riflettere sui
misteri della vita e a comporre le sue opere. Di certo
Euripide appare come un intellettuale moderno, aman-
te della lettura come testimonia il dato che possedeva
una biblioteca (Ateneo, I 3 a), non integrato nel suo am-
biente e incompreso dal pubblico. Decifrarne la perso-
nalità, le idee e la concezione del teatro è dunque possi-
bile solo a partire dalla sua opera: il corpus dei dician-
nove drammi superstiti (tra cui il Reso e un dramma sa-
tiresco, il Ciclope) e i frammenti, cospicui per alcuni
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PREMESSA AL TESTO 77

drammi, di quelli perduti. Le citazioni e le allusioni a


versi euripidei, dal contemporaneo Aristofane a Plato-
ne e Aristotele, dagli oratori attici a Plutarco e a Stobeo,
testimoniano la sua fortuna, progressivamente legata al-
la predilezione della cultura antica per le massime e i
versi sentenziosi, di cui la sua opera abbonda. La crono-
logia delle tragedie conservate è nota con sicurezza solo
per l’Alcesti, rappresentata nel 438, la Medea, del 431, il
secondo Ippolito, del 428, le Troiane del 415, l’Elena, del
412, e l’Oreste, del 408 (Ifigenia in Aulide e Baccanti, co-
me s’è detto, furono rappresentate postume dopo il
406). Per la datazione delle altre si fa riferimento ai dati
più svariati: le allusioni della commedia contemporanea
e gli ipotetici accenni nel testo a eventi politici (la critica
moderna ha però commesso non pochi eccessi nel ten-
tativo di riconoscere richiami anacronistici del poeta al-
l’attualità); l’analisi stilistica e metrica, cui si deve un au-
silio abbastanza attendibile, da quando è stata ricono-
sciuta la tendenza di Euripide ad aumentare la frequen-
za delle soluzioni e delle sostituzioni all’interno del tri-
metro giambico (il primo a consacrare uno studio esau-
stivo al fenomeno della soluzione, distinguendo, sulla
base delle percentuali dei drammi datati, quattro stadi
cronologici in cui lo stile diviene progressivamente più
libero, fu Zielinski 1925: Liber II: De trimetri euripidei
evolutione, pp. 133-240; i calcoli sono stati ripresi, suc-
cessivamente, da Ceadel 1941, Webster 1967 e, con me-
todi statistici più raffinati, da Cropp e Fick 1985). Si pos-
sono così assegnare con buona approssimazione gli Era-
clidi agli anni che vanno dalla Medea all’Ippolito; agli
anni immediatamente successivi l’Andromaca, l’Ecuba
e le Supplici; agli anni che precedono immediatamente
le Troiane, o comunque intorno al 415, l’Eracle e l’Elet-
tra. Sempre all’inizio dell’ultimo decennio della sua atti-
vità bisogna poi datare l’Ifigenia fra i Tauri (tragedia
strutturalmente molto affine all’Elena), lo Ione e, poco
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78 PREMESSA AL TESTO

prima dell’Oreste (408), le Fenicie. Rimane incerta la da-


tazione del Ciclope (R. Seaford, nel suo commento, lo
assegna all’ultimo quinquennio della vita di Euripide).
La nostra conoscenza della produzione euripidea non
risale dunque oltre il 438, data dell’Alcesti, e riguarda in
buona parte i due decenni che vanno dal 428 al 408.
Nello stile, come nello svolgimento dell’intreccio e
nella caratterizzazione dei personaggi, Euripide pre-
senta aspetti così contrastanti da essere una delle per-
sonalità poetiche più refrattarie a una definizione com-
pendiaria. L’amore per le antinomie sembra anzi la
qualità che emerge in modo più costante dalla sua ope-
ra: ad esempio fra la semplicità, la chiarezza delle parti
dialogate e la sovrabbondanza linguistica delle parti li-
riche. I personaggi presentano, volta a volta, aspetti di
forza o debolezza, positivi o negativi, in modo non sem-
pre prevedibile o motivato dalle circostanze, tanto che
a Euripide viene contestata dai suoi critici antichi, ma
anche da molti moderni, la mancanza di coerenza inter-
na in caratteri come quelli di Medea o di Eracle, nelle
tragedie omonime, di Admeto nell’Alcesti, o di Ifigenia
nell’Ifigenia in Aulide (per fare solo alcuni esempi di
personaggi in cui l’intreccio fra momenti passionali e
chiarezza introspettiva o l’evoluzione sottesa al mutare
del loro atteggiamento non sono stati compresi o sono
stati comunque biasimati). Basterà accennare alle di-
verse interpretazioni cui si prestano le Baccanti, la tra-
gedia in cui il misticismo dionisiaco è messo in scena
esaltandolo, dal punto di vista religioso, e insieme criti-
candolo, da una prospettiva razionalistica. Ma affiora
anche un altro modo di guardare al fenomeno, se si
pensa che il personaggio di Tiresia introduce l’equazio-
ne fra le divinità Demetra e Dioniso e i principi del sec-
co e dell’umido, dunque il nutrimento del pane e la be-
vanda che consente l’oblio dei mali, il vino (vv. 274-
285), un argomento squisitamente intellettualistico che
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PREMESSA AL TESTO 79

riecheggia le idee del sofista Prodico (84 B 5 D.-K.); e


che inoltre la tragedia segnala nel dionisismo la conver-
genza tra misticismo ed etica tradizionale, e mostra di
rivalutare il senso comune contro una sapienza sottile e
improduttiva. Se ne può dedurre che l’accusa di atei-
smo e scetticismo religioso – che trarrebbe conferma
dalla vendicatività spietata con cui spesso il dio trionfa
sugli uomini inermi, a cui non resta allora che mettere
in dubbio l’esistenza di una teodicea e della saggezza
divina – urta contro una paradossale rivalutazione del-
la fede tradizionale e del culto: i mortali non devono ir-
riderli e neppure contrastarli, ma piuttosto cercare di
dare un’immagine diversa alle divinità dei loro miti, più
congruente con le esigenze morali. È comunque vero
che nelle tragedie euripidee si affaccia l’ipotesi di un
mondo retto dal caso, la Tukhe non ispirata ad alcun
principio, mentre gli dèi restano lontani e insondabili
(cfr. Elena 1137-1143), anche se l’ultimo rifugio è un
agnosticismo filosofico che non rinuncia ai benefici del-
la religione, come garanzia della rettitudine e della giu-
stizia nelle comunità umane (Elena 1148-1150, Troiane
884-888). L’epilogo della sua vita, la scelta di abbando-
nare Atene per la corte macedone, testimonia un’in-
comprensione fra Euripide e il suo pubblico, cui egli
non offriva certezze ma solo un incessante interrogarsi
sulla relatività dei valori – come la nobiltà di nascita,
cui viene energicamente contrapposta quella morale –
incrinando le distinzioni, fondamentali nella società
greca, fra liberi e schiavi, greci e barbari, e mettendo in
una nuova luce il ruolo stesso della donna all’interno
della cultura maschile. Anche il razionalismo d’ispira-
zione filosofica oscilla tra l’adesione, attestata dall’elo-
gio “anassagoreo” del saggio (fr. 910 Kn., forse dall’An-
tiope), “che scruta l’ordine eterno della natura immor-
tale”, e il distacco critico di passi in cui si dubita che la
superiorità intellettuale coincida con la sophia, la vera
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80 PREMESSA AL TESTO

saggezza (Baccanti 395-401). Il senso comune e la con-


sapevolezza dei limiti della condizione umana sembra-
no rappresentare allora la sola guida per un comporta-
mento saggio. Un’altra delle polarità non dissimulate è
la capacità di armonizzare l’encomio patriottico con un
pacifismo non eroico: la classe media appare la sola in
grado di salvare le sorti dello stato, quando il protrarsi
della guerra del Peloponneso radicalizza i contrasti tra
forze democratiche e oligarchiche, e a questa teoria,
avanzata dal personaggio di Teseo nelle Supplici, il poe-
ta resta fedele fino ai drammi più tardi.
Tratti formali tipici della drammaturgia euripidea so-
no il prologo informativo sull’antefatto dell’azione, re-
citato da un dio o dal protagonista; il grande spazio
concesso agli ‘agoni verbali’, in cui la contrapposizione
fra gli antagonisti assume le forme della retorica giudi-
ziaria; l’impiego, nelle tragedie più tarde, dei tetrametri
trocaici catalettici e dell’antilabe (ripartizione dello
stesso verso fra due o più interlocutori); e il deus ex ma-
china nell’epilogo – simmetrico e stilisticamente affine
al prologo espositivo – con la funzione di sciogliere i
nodi dell’intreccio, annunciare il destino dei personag-
gi, e correlare la vicenda rappresentata a tradizioni e
culti noti al pubblico, fornendone l’eziologia. Monolo-
ghi in senso stretto (a scena vuota) compaiono solo nel
prologo, ma sono ampiamente diffuse situazioni mono-
logiche, con un personaggio che, pur al cospetto di altri,
si rivolge a se stesso, soprattutto per esprimere forte
tensione emotiva (le preghiere o le apostrofi a perso-
naggi o entità assenti ne sono un esempio). Le narra-
zioni dei messaggeri rivelano evidente ascendenza epi-
ca – sia per la tecnica narrativa che per alcune peculia-
rità linguistiche (come l’uso ridotto dell’articolo) – e si
dilatano in descrizioni ampie e impreziosite dalla preci-
sione realistica dei dettagli. Gli “stasimi ditirambici” –
come sono stati definiti da W. Kranz gli intermezzi co-
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PREMESSA AL TESTO 81

rali di tipo narrativo, perché profondamente influenzati


dalle innovazioni musicali del Nuovo Ditirambo attico
– con quadri autonomi rispetto all’azione e molte con-
cessioni all’immagine calligrafica (a partire dalla pro-
duzione del 420 circa), sono il terreno d’elezione per le
formazioni linguistiche e il conio di neologismi, spesso
con pura funzione decorativa. Le monodie affidate agli
attori sono un altro elemento peculiare della nuova liri-
ca euripidea: dall’elegia di Andromaca, nel dramma
omonimo, all’aria anapestica di Ecuba nelle Troiane;
dalle melodie patetiche di Creusa nello Ione e di Gio-
casta nelle Fenicie, alle singolari esibizioni di Ione, in
apertura del dramma omonimo, e dello schiavo frigio
alla fine dell’Oreste. Inoltre spiccano i duetti lirici (aj-
moibai`a), luogo privilegiato, come i canti a solo, del vir-
tuosismo ritmico-musicale del poeta, e in particolare
quelli che accompagnano le scene di riconoscimento
(cfr. Ifigenia fra i Tauri 827-899, Elena 625-697, Ione
1439-1509). La lingua delle parti recitate presenta, di
contro, un’apertura prima inconsueta ai nessi della lin-
gua parlata. Anche la metrica fu un banco di prova del-
lo sperimentalismo euripideo, con l’associazione di rit-
mi diversi e spesso non omogenei fra loro nelle parti li-
riche, responsioni libere e altre ‘licenze’, come la solu-
zione trisillabica della base eolica. La fortuna che il tea-
tro di Euripide incontra solo dopo la sua morte ne se-
gnala la modernità: la manipolazione innovativa dei te-
mi tradizionali non è solo una sfida alle convenzioni del
suo tempo ma, pur costituendo un modello per il teatro
successivo – in particolare la Commedia Nuova, auto-
rizzata a mettere in scena la realtà quotidiana –, rag-
giunge aperture sulla psicologia umana e ignora tabù
sociali (ne è un esempio illuminante la monodia di
Creusa nello Ione) con una libertà ignota agli intrecci
stilizzati della commedia di Menandro.
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82 PREMESSA AL TESTO

Il testo e la fortuna dello Ione

La tradizione manoscritta euripidea si compone di due


distinti gruppi: una selezione a uso scolastico di dieci
tragedie corredate da scolii, che risale al II sec. d.C.,
comprende Alcesti, Andromaca, Ecuba, Ippolito, Medea,
Oreste, Reso, Troiane, Fenicie, Baccanti e ci è pervenuta
attraverso un ampio numero di codici; il secondo grup-
po è costituito da parte di un’edizione complessiva ordi-
nata alfabeticamente e comprende tutti i drammi super-
stiti, anche quelli del primo gruppo, a eccezione delle
Troiane e della seconda metà delle Baccanti. I testimoni
che ce lo hanno preservato sono solo due codici: L (Lau-
rentianus XXXII, 2) e P (Palatinus 287 e Laurentianus
Conventi soppressi 172: sono le due parti in cui il codice
originario fu diviso intorno al 1420, rimanendo custodi-
te, rispettivamente, in Vaticano e a Firenze; lo Ione è
compreso nel Palatinus 287). L fu redatto a Tessalonica
da due diversi scribi attivi nello scriptorium di Demetrio
Triclinio verso il 1315, P verso il 1320-1325. Insieme agli
altri otto drammi cosiddetti ‘alfabetici’ – Elettra, Elena,
Eracle, Eraclidi, Supplici (= Hiketides), Ifigenia fra i
Tauri, Ifigenia in Aulide, Ciclope (= Kuklops) – lo Ione
deve dunque la sua casuale sopravvivenza alla lettera
iniziale per cui era incluso nel codice in onciale che si
salvò, unico fra gli otto o nove dell’edizione integrale, e
fu poi traslitterato in epoca medievale. Il grammatico
bizantino Demetrio Triclinio ha lavorato a più riprese
su L, introducendo varianti e correzioni e rielaborando
la colometria delle parti liriche. La relazione che inter-
corre fra L e P è molto dibattuta: Turyn pensava che si
trattasse di due codici gemelli, copie autonome di un
esemplare comune (così anche Wilamowitz e Murray,
nella sua edizione oxoniense), ma viene ora diffusamen-
te accolta l’ipotesi di Zuntz che P, per i drammi del
gruppo ‘alfabetico’, dipenda da L, e che fosse stato co-
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PREMESSA AL TESTO 83

piato dopo un primo intervento di Triclinio (Tr1) ma pri-


ma di sue ulteriori correzioni (Tr2; dal diverso colore
dell’inchiostro sono stati distinti tre diversi momenti in
cui lo studioso avrebbe apportato le sue correzioni).
Non ci sono testimonianze papiracee che ci abbiano
preservato frammenti di copie antiche dello Ione che,
del resto, non è neppure fra i drammi più citati nell’an-
tichità.
Scarsa la sua fortuna anche in età moderna: ben po-
che opere si rifanno dichiaratamente al modello euri-
pideo, e ne cito due esempi, molto differenti tra loro,
del XIX e dello scorso secolo. La prima rappresenta-
zione dello Jon di August Wilhelm Schlegel, fortemen-
te voluta da Goethe all’Hoftheater di Weimar, nel gen-
naio del 1802, provocò uno scandalo e innescò una vi-
vace contesa letteraria sui principi della poesia dram-
matica dei Romantici e sulla loro traduzione nella
prassi teatrale. Il suo interesse sta proprio nel dibattito
teorico che ne nacque, essendo una revisione critica e
artificiosa della tragedia euripidea che non cela l’am-
bizione di migliorarla.
Nell’agosto del 1953 fu rappresentato al Festival di
Edimburgo The Confidential Clerk (L’impiegato di fidu-
cia), di Thomas S. Eliot, una “commedia degli errori”
sulla casualità del destino umano ispirata allo Ione euri-
pideo. L’assoluta libertà rispetto al modello testimonia
il diverso rapporto con i classici, che Eliot considerava
solo un punto di partenza per le sue creazioni dramma-
tiche, una fonte da «nascondere così bene che nessuno
avrebbe potuto identificarla finché io stesso non l’avessi
rivelata», come dichiara a proposito di Cocktail Party,
un altro dramma ispirato a Euripide, e precisamente al-
l’Alcesti (cfr. il saggio Poesia e dramma, in T. S. Eliot,
Opere, 1939-1962, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani
1993, p. 976).
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84 PREMESSA AL TESTO

Avvertenza

Il testo che viene presentato a fronte della traduzione si


basa sull’edizione curata da James Diggle (Euripidis Fa-
bulae, II, Oxford, Clarendon Press 1981). Nei casi in cui
non concordo con le sue scelte ho apportato delle modifi-
che che sono illustrate nel commento e, per comodità del
lettore, brevemente elencate qui di seguito: il testo dell’e-
ditore oxoniense, preceduto dalla sigla D., è segnalato
senza altre indicazioni quando divergo nel giudizio su
una presunta corruzione, o interpolazione, o sullo sposta-
mento di versi. Altrimenti viene segnalato prima il testo
che ho adottato e comunque (quando né la mia scelta né
quella di Diggle lo rispecchino) anche il testo tràdito.

Tavola delle divergenze dall’edizione Diggle

v. 1: “Atla", oJ nwvtoi" calkevoisin oujrano;n (Elmsley);


calkevoisi nwvtoi" (L). D.: ÔO calkevoisi oujrano;n nwv-
toi" “Atla" (Page).
v. 168: aiJmavxei" (L). D.: aijavxei" (Nauck, Page).
v. 237: lacuna postulata da Diggle prima di questo verso.
v. 285: Foi``bo" (Matthiae). D.: †Puvqio"†
v. 286: tima/…` tiv tima/…` mhvpotΔ (Hermann). D.: †tima/` tima/†` wJ"
mhvpotΔ
v. 321: profh``ti" (L). D.: profh``tin (Reiske).
vv. 324-325: D.: posposti al v. 329 (Herwerden, Jacoby).
vv. 355-356: D.: posposto al v. 358 (Diggle).
v. 355: nin (L). D.: nun (Page).
vv. 374-377: D.: espunti (Badham).
v. 404: ajfivkou (L). D.: ajfivgmhn (Badham).
v. 475: karpotrovfoi (L). D.: karpofovroi (Diggle).
v. 537: a[llw" (L). D.: a[llwn (Seager).
tΔ L (ante correctionem), sΔ L (post correctionem). D.:
dΔ (Musgrave).
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PREMESSA AL TESTO 85

v. 560: oi{ mΔ e[fusan (L). D.: o{" mΔ e[fusa" (Bothe).


v. 572: o} (L). D.: oi| (Herwerden).
vv. 578-581: D.: espunti (Diggle).
v. 601: fovbou (L). D.: yovgou (Musgrave).
v. 602: au\ legovntwn (Schaefer). D.: †au\ logivwn te†
v. 711: deivpnwn (L). D.: deinw``n (Diggle).
v. 712: nevwn (L). D.: nevou (Burges, Hartung).
v. 723: D.: †aJlivsa"†
vv. 830-831: D.: espunti (Dindorf).
vv. 844-858: D.: espunti (Diggle).
vv. 847-849: espunti da Murray e Biehl al seguito di Din-
dorf (v. 847) e Badham (vv. 848-849).
v. 874: wJ" (L). D.: o} (Reiske).
v. 905: tlavmwn (L). D.: tla``mon (Diggle).
su; dΔ ãajei;Ã (Willink). D.: su; de; ãkai;Ã (Diggle).
v. 909: pro;" crusevou" ãejlqou`s ` inà qavkou" (Page). D.: †pro;"
crusevou" qavkou"†
v. 916: gΔ (correzione aggiunta in L) ajmaqhv". D.: †ajmaqhv"†
v. 1002: D.: †mevllon†
v. 1031: hJmw``n (Battezzato). D.: hJmi``n (L).
v. 1063: a/| nu``n ejlpi;" ejfevrbetΔ (Headlam); w] nu``n ejlpi;" fev-
retΔ (L). D.: a/| nu``n ejlpi;" ejfaivnetΔ (Badham).
v. 1198: naivousΔ): D.: naivousΔ),
vv. 1275-78: D.: espunti (Diggle).
v. 1276: D.: †oJ so;"†
v. 1288: patro;" (Canter) ajpousiva/ (Kirchhoff). D.: †ajllΔ
ejgenovmesqa, patro;" dΔ oujsivan levgw†
v. 1304: dev gΔ a{ma ãtw/Ã` patri; (Page). D.: †dev gΔ ajlla; patri;†
v. 1342: tovde (L). D.: tovte (Hermann).
vv. 1364-68: D.: espunti (Hirzel).
v. 1405: te sw``n (L). D.: tΔ e[sw (Tyrwhitt).
v. 1406: lovgw/ (L). D.: dovlw/ (Jacobs).
v. 1410: kalw``" (L). D.: plokav" (Jacobs).
v. 1424: D.: †qevsfaqΔ wJ" euJrivskomen†
v. 1427: dravkonte", ajrcaivw/ ti pavgcruson gevnei (Wila-
mowitz);
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86 PREMESSA AL TESTO

...ajrcaivon...pagcruvsw/ (L). D.: dravkonte marmaivronte


pavgcruson gevnun (Porson, gevnun già Toup).
v. 1428: w/| (Wilamowitz); h} (L). D.: oi|" (Page).
v. 1454: w\ (Wilamowitz) guvnai, povqen povqen (L). D.: ijw;
ãijw;Ã (Bothe) guvnai, povqen (Burges).
v. 1489: dΔ ejma``" ãeJka;"Ã matevro" (Badham, Jackson). D.: dΔ
†ejma``" matevro"†
v. 1500: D.: †ejx ejmou`` tΔ oujc o{siΔ e[qnh/ske"†
v. 1530: ou[ti" (Hartung); o{sti" (L). D.: oujdeiv" (Diggle).
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IONE
0090.testo.qxd 15-12-2008 14:55 Pagina 104

ERMHS
IWN
COROS
KREOUSA
XOUQOS
PRESBUTHS
QERAPWN
PROFHTIS
AQHNA
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PERSONAGGI DEL DRAMMA

ERMES
IONE
CORO
CREUSA
XUTO
VECCHIO
SERVO
PROFETESSA
ATENA
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ERMHS
1 “Atla" oJ nwvtoi" calkevoisin oujrano;n,
qew'n palaio;n oi\kon, ejktrivbwn qew'n
mia'" e[fuse Mai'an, h} ΔmΔ ejgeivnato
ÔErmh'n megivstw/ Zhniv, daimovnwn lavtrin.
5 h{kw de; Delfw'n thvnde gh'n, i{nΔ ojmfalo;n
mevson kaqivzwn Foi'bo" uJmnw/dei' brotoi'"
tav tΔ o[nta kai; mevllonta qespivzwn ajeiv.
e[stin ga;r oujk a[shmo" ÔEllhvnwn povli",
th'" crusolovgcou Pallavdo" keklhmevnh,
10 ou| pai'dΔ ΔErecqevw" Foi'bo" e[zeuxen gavmoi"
biva/ Krevousan, e[nqa prosbovrrou" pevtra"
Pallavdo" uJpΔ o[cqw/ th'" ΔAqhnaivwn cqono;"
Makra;" kalou'si gh'" a[nakte" ΔAtqivdo".
ajgnw;" de; patriv (tw'/ qew'/ ga;r h\n fivlon)
15 gastro;" dihvnegkΔ o[gkon. wJ" dΔ h\lqen crovno",
tekou'sΔ ejn oi[koi" pai'dΔ ajphvnegken brevfo"
ej" taujto;n a[ntron ou|per hujnavsqh qew'/
Krevousa, kajktivqhsin wJ" qanouvmenon
koivlh" ejn ajntivphgo" eujtrovcw/ kuvklw/,
20 progovnwn novmon swv/zousa tou' te ghgenou'"
ΔEricqonivou. keivnw/ ga;r hJ Dio;" kovrh
frourw; parazeuvxasa fuvlake swvmato"
dissw; dravkonte, parqevnoi" ΔAglaurivsin
divdwsi swv/zein: o{qen ΔErecqeivdai" ejkei'
25 novmo" ti" e[stin o[fesin ejn crushlavtoi"
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PROLOGO

ERMES Atlante, che logora con le spalle di bronzo la


volta del cielo, antica dimora degli dèi, generò da una
dèa Maia; e lei procreò al sommo Zeus me, Ermes, ser-
vo dei numi.1 Sono giunto qui, a Delfi, dove Febo sie-
de sull’ombelico della terra e annuncia ai mortali il
presente e il futuro con il vaticinio perenne del suo
oracolo.
C’è una città, in Grecia, non certo oscura, che prende
il nome da Atena, la dea dalla lancia d’oro; lì Febo si è
unito a Creusa, la figlia di Eretteo, violentandola sotto
la collina di Pallade, nella terra degli Ateniesi, dove le
rupi esposte a nord vengono chiamate dai signori del-
l’Attica “Rocce Alte”.2 All’insaputa del padre – se-
condo il volere del dio – lei condusse a termine la gra-
vidanza. Quando venne il tempo, Creusa partorì nel
suo palazzo e portò quindi il neonato nella stessa grot-
ta dove si era unita al dio; lo abbandona lì, esposto al-
la morte, nel cavo di un cesto rotondo, seguendo l’u-
sanza degli avi e di Erittonio, generato dalla terra: la
figlia di Zeus gli aveva messo accanto due serpenti, di-
fensori e custodi, e poi lo affidò alla cura delle vergini
figlie di Aglauro; da qui deriva per i discendenti di
Eretteo l’uso di crescere i bambini fra monili d’oro
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108 IWN

trevfein tevknΔ. ajllΔ h}n ei\ce parqevno" clidh;n


tevknw/ prosavyasΔ e[lipen wJ" qanoumevnw/.
ka[mΔ w]n ajdelfo;" Foi'bo" aijtei'tai tavde:
“W suvggonΔ, ejlqw;n lao;n eij" aujtovcqona
30 kleinw'n ΔAqhnw'n (oi\sqa ga;r qea'" povlin)
labw;n brevfo" neogno;n ejk koivlh" pevtra"
aujtw'/ su;n a[ggei spargavnoisiv qΔ oi|" e[cei
e[negke Delfw'n tajma; pro;" crhsthvria
kai; qe;" pro;" aujtai'" eijsovdoi" dovmwn ejmw'n.
35 ta; dΔ a[llΔ (ejmo;" gavr ejstin, wJ" eijdh'/", oJ pai'")
hJmi'n melhvsei. Loxiva/ dΔ ejgw; cavrin
pravsswn ajdelfw'/ plekto;n ejxavra" kuvto"
h[negka kai; to;n pai'da krhpivdwn e[pi
tivqhmi naou' tou'dΔ, ajnaptuvxa" kuvto"
40 eJlikto;n ajntivphgo", wJ" oJrw'/qΔ oJ pai'".
kurei' dΔ a{mΔ iJppeuvonto" hJlivou kuvklw/
profh'ti" ejsbaivnousa mantei'on qeou':
o[yin de; prosbalou'sa paidi; nhpivw/
ejqauvmasΔ ei[ ti" Delfivdwn tlaivh kovrh
45 laqrai'on wjdi'nΔ ej" qeou' rJi'yai dovmon,
uJpevr te qumevla" diorivsai provqumo" h\n:
oi[ktw/ dΔ ajfh'ken wjmovthta, kai; qeo;"
sunergo;" h\n tw'/ paidi; mh; Δkpesei'n dovmwn:
trevfei dev nin labou'sa, to;n speivranta de;
50 oujk oi\de Foi'bon oujde; mhtevrΔ h|" e[fu,
oJ pai'" te tou;" tekovnta" oujk ejpivstatai.
nevo" me;n ou\n w]n ajmfi; bwmivou" trofa;"
hjla'tΔ ajquvrwn: wJ" dΔ ajphndrwvqh devma",
Delfoiv sfΔ e[qento crusofuvlaka tou' qeou'
55 tamivan te pavntwn pistovn, ejn dΔ ajnaktovroi"
qeou' katazh'/ deu'rΔ ajei; semno;n bivon.
Krevousa dΔ hJ tekou'sa to;n neanivan
Xouvqw/ gamei'tai sumfora'" toia'sdΔ u{po:
h\n tai'" ΔAqhvnai" toi'" te Calkwdontivdai",
60 oi} gh'n e[cousΔ Eujboi'da, polevmio" kluvdwn:
o}n sumponhvsa" kai; sunexelw;n dori;
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IONE 109

forgiati in forma di serpente. Così la ragazza mise ac-


canto al figlio che abbandonava a morire gli ornamen-
ti preziosi che aveva con sé.3
E da fratello Febo mi prega: «Va’ dalla gente indigena
dell’illustre Atene – conosci certo la città della dea –
fratello; prendi dalla caverna il bambino che è appena
nato e portalo, con tutto il cesto e i suoi indumenti, al
mio santuario oracolare di Delfi; deponilo là, proprio
all’ingresso del mio tempio. Quanto al resto – sappi
che è mio figlio – sarò io a prendermene cura». Per fa-
re un favore a mio fratello, il Lossia, io prelevai quel
canestro intrecciato e venni a deporre il bambino sui
gradini di questo tempio, lasciando dischiuso il coper-
chio perché si potesse scorgere il piccolo.
Proprio mentre il disco solare lanciava al galoppo i
suoi corsieri nel cielo, la profetessa entrò nell’oracolo
del dio: le cadde lo sguardo sul bambino e rimase sor-
presa che una ragazza di Delfi avesse osato abbando-
nare, dinanzi alla dimora divina, il frutto di una gravi-
danza segreta. Era già pronta a portarlo fuori dal luo-
go sacro, ma il suo rigore fu vinto dalla pietà, e il dio
contribuì a evitare che il piccolo fosse allontanato dal
santuario. Anzi, dopo averlo raccolto, lo alleva, igno-
rando che sia stato Febo a generarlo e chi sia la ma-
dre; e il ragazzo a sua volta non conosce l’identità dei
genitori. Quand’era piccino si aggirava giocando fra
gli altari dove veniva allevato; divenuto adulto, i Delfî
lo nominarono tesoriere del dio e amministratore fi-
dato di tutti i suoi beni, e nel santuario continua a vi-
vere fino a oggi la sua esistenza consacrata.4
Creusa, la madre del ragazzo, s’è nel frattempo sposa-
ta con Xuto. Eccone le circostanze: una guerra turbi-
nosa divideva Atene dai Calcodontidi, gli abitanti del-
l’Eubea; Xuto prese parte alla campagna, e contribuì
da alleato alla conquista: ottenne così l’onore delle
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110 IWN

gavmwn Kreouvsh" ajxivwmΔ ejdevxato,


oujk ejggenh;" w[n, Aijovlou de; tou' Dio;"
gegw;" ΔAcaiov". crovnia de; speivra" levch
65 a[teknov" ejsti kai; KrevousΔ: w|n ou{neka
h{kousi pro;" mantei'Δ ΔApovllwno" tavde
e[rwti paivdwn. Loxiva" de; th;n tuvchn
ej" tou'tΔ ejlauvnei, kouj levlhqen, wJ" dokei':
dwvsei ga;r eijselqovnti mantei'on tovde
70 Xouvqw/ to;n auJtou' pai'da kai; pefukevnai
keivnou sfe fhvsei, mhtro;" wJ" ejlqw;n dovmou"
gnwsqh'/ Kreouvsh/ kai; gavmoi te Loxivou
kruptoi; gevnwntai pai'" tΔ e[ch/ ta; provsfora.
“Iwna dΔ aujtovn, ktivstorΔ ΔAsiavdo" cqonov",
75 o[noma keklh'sqai qhvsetai kaqΔ ÔEllavda.
ajllΔ ej" dafnwvdh guvala bhvsomai tavde,
to; kranqe;n wJ" a]n ejkmavqw paido;" pevri.
oJrw' ga;r ejkbaivnonta Loxivou govnon
tovndΔ, wJ" pro; naou' lampra; qh'/ pulwvmata
80 davfnh" klavdoisin. o[noma dΔ, ou| mevllei tucei'n,
“IwnΔ ejgwv ãninà prw'to" ojnomavzw qew'n.
IWN
a{rmata me;n tavde lampra; teqrivppwn:
”Hlio" h[dh lavmpei kata; gh'n,
a[stra de; feuvgei puri; tw'/dΔ aijqevro"
85 ej" nuvcqΔ iJeravn:
Parnasiavde" dΔ a[batoi korufai;
katalampovmenai th;n hJmerivan
aJyi'da brotoi'si devcontai.
smuvrnh" dΔ ajnuvdrou kapno;" eij" ojrovfou"
90 Foivbou pevtetai.
qavssei de; gunh; trivpoda zavqeon
Delfiv", ajeivdousΔ ”Ellhsi boav",
a}" a]n ΔApovllwn keladhvsh/.
ajllΔ, w\ Foivbou Delfoi; qevrape",
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IONE 111

nozze con Creusa, benché fosse straniero: un Acheo


nato da Eolo, figlio di Zeus.5 Pur essendo sposati da
tanto tempo, lui e Creusa non hanno figli. Per questo
sono venuti qui, all’oracolo di Apollo, per il desiderio
di generare figli. Il Lossia guida gli eventi fino a questo
punto e la sua intenzione, malgrado quel che crede,
non mi è sfuggita. A Xuto infatti, quando entrerà in
questo oracolo, assegnerà il proprio figlio dicendo che
è nato da lui: così potrà accedere alla casa materna ed
essere riconosciuto da Creusa, mentre il connubio del
Lossia resterà segreto e il ragazzo otterrà quanto gli
spetta. Farà sì che in tutta la Grecia venga chiamato
con il nome di Ione, il fondatore delle colonie d’Asia.
Ma ora andrò negli anfratti coperti d’alloro qui intor-
no, per seguire la sorte che è stata decisa per il ragaz-
zo. Vedo proprio il figlio del Lossia uscire per lustrare
il portale del tempio con ramoscelli d’alloro. Io sono il
primo degli dèi a chiamarlo col nome che gli è desti-
nato: Ione.6

[Ermes si allontana e Ione, uscito dalla porta del tempio,


entra in scena]
IONE Ecco la quadriga sfolgorante.
Il sole ormai risplende sulla terra
e gli astri, messi in fuga dal rogo della volta celeste,
tramontano nella sacra notte.
Le vette inviolate del Parnaso,
irradiate di luce,
accolgono per i mortali la ruota del giorno.
Il fumo dell’arida mirra si leva
verso i tetti di Febo.
Siede sul sacro tripode
la donna di Delfi, cantando ai Greci
gli oracoli che Apollo le fa intonare.
Ma voi, delfici servitori di Febo,
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112 IWN

95 ta;" Kastaliva" ajrguroeidei'"


baivnete divna", kaqarai'" de; drovsoi"
ajfudranavmenoi steivcete naouv":
stovma tΔ eu[fhmoi frourei'tΔ ajgaqovn,
fhvma" ajgaqa;"
100 toi'" ejqevlousin manteuvesqai
glwvssh" ijdiva" ajpofaivnein.
hJmei'" dev, povnou" ou}" ejk paido;"
mocqou'men ajeiv, ptovrqoisi davfnh"
stevfesivn qΔ iJeroi'" ejsovdou" Foivbou
105 kaqara;" qhvsomen uJgrai'" te pevdon
rJanivsin noterovn: pthnw'n tΔ ajgevla",
ai} blavptousin sevmnΔ ajnaqhvmata,
tovxoisin ejmoi'" fugavda" qhvsomen:
wJ" ga;r ajmhvtwr ajpavtwr te gegw;"
110 tou;" qrevyanta"
Foivbou naou;" qerapeuvw.
a[gΔ, w\ nehqale;" w\ ªstr.
kallivsta" propovleuma davf-
na", a} ta;n Foivbou qumevlan
115 saivrei" uJpo; naoi'",
kavpwn ejx ajqanavtwn,
i{na drovsoi tevggousΔ iJeraiv,
Êta;nÊ ajevnaon
paga;n ejkproi>ei'sai,
120 mursivna" iJera;n fovban:
a|/ saivrw davpedon qeou'
panamevrio" a{mΔ aJlivou ptevrugi qoa'/
latreuvwn to; katΔ h\mar.
125 w\ Paia;n w\ Paiavn,
eujaivwn eujaivwn
ei[h", w\ Latou'" pai'.
kalovn ge to;n povnon, w\ ªajnt.
Foi'be, soi; pro; dovmwn latreuv-
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IONE 113

recatevi ai gorghi argentei


della sorgente Castalia e poi tornate al tempio
aspersi delle sue pure acque.
Serbate pii un silenzio propizio,
sì che la vostra bocca esprima in privato
parole di buon auspicio
a chi vuole consultare l’oracolo.
Io, invece, mi affannerò,
come sempre sin dall’infanzia,
a purificare l’ingresso del tempio
con rami d’alloro e infule sacre,
detergendo con acqua il pavimento;
gli stormi d’uccelli che imbrattano i doni votivi
li caccerò col mio arco.
Perché io, senza padre né madre,
onoro col mio servizio
il santuario di Febo, che mi ha nutrito.7
E tu, virgulto di splendido alloro, strofe
sacro utensile
che spazzi il vestibolo
del tempio di Febo,
provieni da giardini immortali,
dove le acque sacre,
da cui scaturisce una sorgente perenne,
bagnano il sacro fogliame del mirto.
Con te spazzo per tutto il giorno
il pavimento del dio,
da quando rapida si leva l’ala del sole,
nel mio quotidiano servizio.
O Peana, Peana,
sii felice, felice,
figlio di Latona.
È bella la fatica, Febo, antistrofe
che m’impegna dinanzi al tempio
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114 IWN

130 w, timw'n mantei'on e{dran:


kleino;" dΔ oJ povno" moi
qeoi'sin douvlan cevrΔ e[cein,
ouj qnatoi'" ajllΔ ajqanavtoi":
eujfavmou" de; povnou"
135 mocqei'n oujk ajpokavmnw.
Foi'bov" moi genevtwr pathvr:
to;n bovskonta ga;r eujlogw',
to;n dΔ wjfevlimon ejmoi; patevro" o[noma levgw
140 Foi'bon to;n kata; naovn.
w\ Paia;n w\ Paiavn,
eujaivwn eujaivwn
ei[h", w\ Latou'" pai'.
ajllΔ ejkpauvsw ga;r movcqou"
145 davfna" oJlkoi'",
crusevwn dΔ ejk teucevwn rJivyw
gaiva" pagavn,
a}n ajpoceuvontai
Kastaliva" di'nai,
notero;n u{dwr bavllwn,
150 o{sio" ajpΔ eujna'" w[n.
ei[qΔ ou{tw" aijei; Foivbw/
latreuvwn mh; pausaivman,
h] pausaivman ajgaqa'/ moivra/.
e[a e[a:
foitw'sΔ h[dh leivpousivn te
155 ptanoi; Parnasou' koivta".
aujdw' mh; crivmptein qrigkoi'"
mhdΔ ej" crushvrei" oi[kou".
mavryw sΔ au\ tovxoi", w\ Zhno;"
kh'rux, ojrnivqwn gamfhlai'"
160 ijscu;n nikw'n.
o{de pro;" qumevla" a[llo" ejrevssei
kuvkno": oujk a[lla/ foinikofah'
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IONE 115

in onore della tua sede profetica.


Gloriosa la mia fatica,
mettere il braccio al servizio degli dèi,
non dei mortali ma degli immortali;
e non mi stanco di farmi carico
del mio pio lavoro.
Febo è il padre che mi ha generato:
celebro così chi mi nutre,
invoco col nome di padre il mio benefattore,
Febo, il signore del tempio.
O Peana, Peana,
sii felice, felice,
figlio di Latona. 8
Ma ora basta spazzare
con la granata di lauro;
spanderò da vasi d’oro
acqua sorgiva,
proveniente dai gorghi
della fonte Castalia,
verserò acqua che inumidisca il terreno,
io che vivo in castità.
Possa non smettere mai
di servire così Febo,
o smettere solo in cambio di una sorte felice.
Oh! Oh!
Gli uccelli già volteggiano
e lasciano i loro nidi sul Parnaso.
Nessuno di voi si accosti ai cornicioni
e alle dimore dorate!
Saprò colpire con le mie frecce anche te,
araldo di Zeus, che col tuo rostro
sei il più forte tra gli uccelli.
Eccone un altro, remiga verso il tempio,
un cigno: perché non muovi altrove
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116 IWN

povda kinhvsei"…
oujdevn sΔ aJ fovrmigx aJ Foivbou
165 suvmmolpo" tovxwn rJuvsaitΔ a[n.
pavrage ptevruga":
livmna" ejpivba ta'" Dhliavdo":
aiJmavxei", eij mh; peivsh/,
ta;" kallifqovggou" wj/dav".
170 e[a e[a:
tiv" o{dΔ ojrnivqwn kaino;" prosevba…
mw'n uJpo; qrigkou;" eujnaiva"
karfura;" qhvswn tevknoi"…
yalmoiv sΔ ei[rxousin tovxwn.
ouj peivsh/… cwrw'n divna"
175 ta;" ΔAlfeiou' paidouvrgei
h] navpo" “Isqmion,
wJ" ajnaqhvmata mh; blavpthtai
naoiv qΔ oiJ Foivbou ã Ã.
kteivnein dΔ uJma'" aijdou'mai
180 tou;" qew'n ajggevllonta" fhvma"
qnatoi'": oi|" dΔ e[gkeimai movcqoi"
Foivbw/ douleuvsw kouj lhvxw
tou;" bovskonta" qerapeuvwn.
COROS
ã<Ã oujk ejn tai'" zaqevai" ΔAqav- ªstr. a
185 nai" eujkivone" h\san auj-
lai; qew'n movnon oujdΔ ajgui-
avtide" qerapei'ai:
ajlla; kai; para; Loxiva/
tw'/ Latou'" diduvmwn proswv-
pwn kalliblevfaron fw'".
190 < ijdouv, ta'/dΔ a[qrhson:
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IONE 117

le tue zampe dai riflessi di porpora?


La cetra di Febo, tua compagna nel canto,
non ti salverà certo dal mio arco.
Dirigi altrove il tuo volo,
va’ a posarti sullo stagno di Delo:
se non mi ascolti, contaminerai col sangue
l’armonia dei tuoi canti.
Oh! Oh!
Chi è quest’altro uccello che arriva?
Forse vuol portare sotto i cornicioni
fuscelli per fare il nido ai piccoli?
Te lo impedirò facendo vibrare il mio arco.
Dammi retta! Va’ a generare i tuoi figli
vicino alle correnti dell’Alfeo
o nella valle dell’Istmo,
senza insudiciare i doni votivi
e il tempio di Febo.
Ma avrei ritegno a uccidervi,
perché annunciate agli uomini
i messaggi divini. Tornerò al mio lavoro
in onore di Febo, e non cesserò
di servire chi mi nutre.9

[entra il Coro]

PARODO

CORO
– Non solo nella sacra Atene strofe a
vi sono dimore degli dèi
adorne di colonnati,
e si onora il divino protettore delle strade;
anche presso il Lossia,
il figlio di Latona, rifulge
lo sguardo luminoso dei due frontoni.
– Su guarda, osserva qui!
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118 IWN

Lernai'on u{dran ejnaivrei


crusevai" a{rpai" oJ Dio;" pai'":
fivla, provsidΔ o[ssoi".
< oJrw'. kai; pevla" a[llo" auj- ªajnt. a
195 tou' pano;n purivflekton ai[-
rei ti": a\rΔ o}" ejmai'si mu-
qeuvetai para; phvnai",
ajspista;" ΔIovlao", o}"
koinou;" aijrovmeno" povnou"
200 Divw/ paidi; sunantlei'…
ã<Ã kai; ma;n tovndΔ a[qrhson
pterou'nto" e[fedron i{ppou:
ta;n pu'r pnevousan ejnaivrei
triswvmaton ajlkavn.
205 < pavnta/ toi blevfaron diwv- ªstr. b
kw. skevyai klovnon ejn teivces-
si lai?noisi Gigavntwn.
< Êw|de derkovmesqΔ, w\ fivlai.Ê
< leuvssei" ou\n ejpΔ ΔEgkelavdw/
210 gorgwpo;n pavllousan i[tun ...…
< leuvssw PallavdΔ, ejma;n qeovn.
< tiv gavr… kerauno;n ajmfivpuron
o[brimon ejn Dio;"
eJkhbovloisi cersivn…
ã<Ã oJrw': to;n davion
215 Mivmanta puri; kataiqaloi'.
ã<Ã kai; Brovmio" a[llon ajpolevmoi-
si kissivnoisi bavktroi"
ejnaivrei Ga'" tevknwn oJ Bakceuv".
ã<Ã sev toi, to;n para; nao;n auj- ªajnt. b
220 dw': qevmi" guavlwn uJper-
bh'nai leukw'/ podiv gΔ ãoujdovnÃ…
ãIw.Ã ouj qevmi", w\ xevnai.
< ÊoujdΔ a]n ejk sevqen a]n puqoivman aujdavn…Ê
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IONE 119

Il figlio di Zeus uccide


l’idra di Lerna con il suo falcetto d’oro.
Guardalo bene, amica!
– Lo vedo. E vicino a lui antistrofe a
un altro eroe solleva
una torcia ardente: non è forse Iolao
armato di scudo, di cui si narra la storia
quando lavoriamo ai nostri telai,
il compagno che insieme al figlio di Zeus
affronta e sopporta le fatiche?
– E guarda poi quest’altro,
in groppa a un cavallo alato,
uccide il possente mostro
dal triplice corpo, che spira fuoco.10
– Il mio sguardo segue tutti i dettagli. strofe b
Osserva, scolpita nel marmo,
la mischia dei Giganti.
– Guardiamo di qua, amiche.
– Vedi dunque, brandisce contro Encelado
lo scudo con la testa della Gorgone...
– Vedo Pallade, la mia dèa.
– E là? Non è il fulmine tremendo,
incandescente su entrambe le punte,
nella mano di Zeus lungisaettante?
– Lo vedo: incenerisce
il funesto Mimante.
– E Bromio, il dio Bacco, abbatte un altro
dei figli della Terra, armato
di un pacifico tirso coronato d’edera.11
– Ehi, dico a te vicino al tempio, antistrofe b
è lecito varcarne la soglia a piedi nudi?
IONE No, straniere, non è lecito.
CO. Posso almeno chiederti una cosa?
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120 IWN

Iw. tivna thvnde qevlei"…


< a\rΔ o[ntw" mevson ojmfalo;n
ga'" Foivbou katevcei dovmo"…
Iw. stevmmasiv gΔ ejndutovn, ajmfi; de; Gorgovne".
225 < ou{tw kai; favti" aujda'/.
Iw. eij me;n ejquvsate pelano;n pro; dovmwn
kaiv ti puqevsqai crhv/zete Foivbou,
pavritΔ ej" qumevla": ejpi; dΔ ajsfavktoi"
mhvloisi dovmwn mh; pavritΔ ej" mucovn.
230 < e[cw maqou'sa: qeou' de; novmon
ouj parabaivnomen,
a} dΔ ejkto;" o[mma tevryei.
Iw. pavnta qea'sqΔ, o{ti kai; qevmi", o[mmasi.
< meqei'san despovtai
me qeou' guvala tavdΔ eijsidei'n.
Iw. dmw/ai; de; tivnwn klhv/zesqe dovmwn…
235 < Pallavdi suvnoika trovfima mevla-
qra tw'n ejmw'n turavnnwn:
parouvsa" dΔ ajmfi; ta'sdΔ ejrwta'/".
Iw. gennaiovth" soi kai; trovpwn tekmhvrion
to; sch'mΔ e[cei" tovdΔ, h{ti" ei\ potΔ, w\ guvnai.
gnoivh dΔ a]n wJ" ta; pollav gΔ ajnqrwvpou pevri
240 to; sch'mΔ ijdwvn ti" eij pevfuken eujgenhv".
e[a:
ajllΔ ejxevplhxav" mΔ, o[mma sugklhv/sasa so;n
dakruvoi" qΔ uJgravnasΔ eujgenh' parh/vda,
wJ" ei\de" aJgna; Loxivou crhsthvria.
tiv pote merivmnh" ej" tovdΔ h\lqe", w\ guvnai…
245 ou| pavnte" a[lloi guvala leuvssonte" qeou'
caivrousin, ejntau'qΔ o[mma so;n dakrurroei'…
KREOUSA
w\ xevne, to; me;n so;n oujk ajpaideuvtw" e[cei
ej" qauvmatΔ ejlqei'n dakruvwn ejmw'n pevri:
ejgw; dΔ ijdou'sa touvsdΔ ΔApovllwno" dovmou"
250 mnhvmhn palaia;n ajnemetrhsavmhn tinav:
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IONE 121

IONE Di che si tratta?


CO. È vero che nel tempio di Apollo
si trova l’ombelico della terra?
IONE Rivestito di sacre bende, con le Gorgoni intorno.
CO. Così appunto si racconta.
IONE Se avete già offerto dinanzi al tempio la focaccia
di rito, e volete un responso da Febo, accostatevi al-
l’altare; ma al penetrale non avrete accesso, senza aver
immolato vittime.
CO. Ho capito. Non intendiamo
trasgredire la legge del dio,
lo spettacolo qui fuori
basterà a dilettare lo sguardo.
IONE Guardate pure tutto ciò che è lecito.
CO. I miei signori mi hanno concesso
di venire ad ammirare il santuario.
IONE Qual è la casa di cui siete al servizio?
CO. Il palazzo in cui è cresciuta la mia sovrana
è nella stessa sede di Pallade.
Ma ecco colei di cui chiedi.12

[entra Creusa]

PRIMO EPISODIO

IONE Dall’aspetto e dal contegno si evince la tua no-


biltà, donna, chiunque tu sia. Osservando l’aspetto di
una persona, in genere, si capisce se è di nascita nobile.
Oh!
Mi sgomenta che tu, serrando le palpebre, bagni di la-
crime il nobile viso alla sola vista del puro oracolo del
Lossia. Quale angoscia ti tormenta, donna? Proprio
nel luogo in cui tutti gli altri si rallegrano, ammirando
il santuario, tu hai gli occhi inondati di pianto?
CREUSA È cortese, da parte tua, mostrare sorpresa per
le mie lacrime, straniero. Ma, nel vedere il tempio di
Apollo, riaffiora in me un antico ricordo. Benché io sia
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122 IWN

ejkei'se to;n nou'n e[scon ejnqavdΔ ou\sav per.


w\ tlhvmone" gunai'ke": w\ tolmhvmata
qew'n. tiv dh'ta… poi' divkhn ajnoivsomen,
eij tw'n kratouvntwn ajdikivai" ojlouvmeqa…
255 Iw. tiv crh'mΔ ajnermhvneuta dusqumh'/, guvnai…
Kr. oujdevn: meqh'ka tovxa: tajpi; tw'/de de;
ejgwv te sigw' kai; su; mh; frovntizΔ e[ti.
Iw. tiv" dΔ ei\… povqen gh'" h\lqe"… ejk poiva" pavtra"
pevfuka"… o[noma tiv se kalei'n hJma'" crewvn…
260 Kr. Krevousa mevn moi tou[nomΔ, ejk dΔ ΔErecqevw"
pevfuka, patri;" gh' dΔ ΔAqhnaivwn povli".
Iw. w\ kleino;n oijkou'sΔ a[stu gennaivwn tΔ a[po
trafei'sa patevrwn, w{" se qaumavzw, guvnai.
Kr. tosau'ta keujtucou'men, w\ xevnΔ, ouj pevra.
265 Iw. pro;" qew'n, ajlhqw'", wJ" memuvqeutai brotoi'"...…
Kr. tiv crh'mΔ ejrwta'/", w\ xevnΔ, ejkmaqei'n qevlwn…
Iw. ejk gh'" patrov" sou provgono" e[blasten pathvr…
Kr. ΔEricqovniov" ge: to; de; gevno" mΔ oujk wjfelei'.
Iw. h\ kaiv sfΔ ΔAqavna gh'qen ejxaneivleto…
270 Kr. ej" parqevnou" ge cei'ra", ouj tekou'sav nin.
Iw. divdwsi dΔ, w{sper ejn grafh'/ nomivzetai...…
Kr. Kevkropov" ge swv/zein paisi;n oujc oJrwvmenon.
Iw. h[kousa lu'sai parqevnou" teu'co" qea'".
Kr. toiga;r qanou'sai skovpelon h{/maxan pevtra".
Iw. ei\eJn:
275 tiv dai; tovdΔ… a\rΔ ajlhqe;" h] mavthn lovgo"…
Kr. tiv crh'mΔ ejrwta'/"… kai; ga;r ouj kavmnw scolh'/.
Iw. path;r ΔErecqeu;" sa;" e[quse suggovnou"…
Kr. e[tlh pro; gaiva" sfavgia parqevnou" ktanei'n.
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IONE 123

qui, la mia mente era altrove. Infelici, noi donne! Teme-


rari gli dèi! Che fare? A quale giustizia potremo ricor-
rere, se chi ha il potere ci distrugge con la sua iniquità?
IONE Perché, donna, quest’inspiegabile sconforto?
CR. Niente. Una freccia è sfuggita al mio arco. E per il
resto io tacerò e tu non preoccupartene più. 13
IONE Chi sei? Da dove vieni? Qual è la tua patria?
Con quale nome devo chiamarti?
CR. Il mio nome è Creusa, sono nata da Eretteo, la mia
patria è Atene.
IONE Ti rendo onore, donna, perché abiti una città illu-
stre e i tuoi genitori sono nobili.
CR. La mia fortuna sta in questo, straniero, non va oltre.
IONE In nome degli dèi, è vero quel che dice la gente...?
CR. Cosa chiedi, straniero, che vuoi sapere?
IONE Un tuo avo, il padre di tuo padre, è stato partori-
to dalla terra?
CR. Sì, Erittonio. Ma la stirpe non mi è di nessuna utilità.
IONE E non è stata Atena a riceverlo dalla terra?
CR. Fra le sue braccia di vergine, senza averlo gene-
rato.
IONE E poi lo affida, come si può vedere di solito nei
dipinti...
CR. Da proteggere alle figlie di Cecrope, col divieto di
guardarlo.
IONE Ho sentito che le vergini aprirono lo scrigno del-
la dea.
CR. Per questo, morendo, tinsero di sangue le rocce
dell’acropoli.
IONE E sia!
Ma l’altro racconto è vero o falso?
CR . Cosa t’incuriosisce? Non mi stanca conversare
con te.
IONE Fu tuo padre Eretteo a sacrificare le tue sorelle?
CR. Sì, ha osato immolare le vergini per il bene della
patria.
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124 IWN

Iw. su; dΔ ejxeswvqh" pw'" kasignhvtwn movnh…


280 Kr. brevfo" neogno;n mhtro;" h\n ejn ajgkavlai".
Iw. patevra dΔ ajlhqw'" cavsma so;n kruvptei cqonov"…
Kr. plhgai; triaivnh" pontivou sfΔ ajpwvlesan.
Iw. Makrai; de; cw'rov" ejstΔ ejkei' keklhmevno"…
Kr. tiv dΔ iJstorei'" tovdΔ… w{" mΔ ajnevmnhsav" tino".
285 Iw. tima'/ sfe Foi`bo" ajstrapaiv te Puvqiai.
Kr. tima'… tiv tima'… mhvpotΔ w[felovn sfΔ ijdei'n.
Iw. tiv dev… stugei'" su; tou' qeou' ta; fivltata…
Kr. oujdevn: xuvnoidΔ a[ntroisin aijscuvnhn tinav.
Iw. povsi" de; tiv" sΔ e[ghmΔ ΔAqhnaivwn, guvnai…
290 Kr. oujk ajsto;" ajllΔ ejpakto;" ejx a[llh" cqonov".
Iw. tiv"… eujgenh' nin dei' pefukevnai tinav.
Kr. Xou'qo", pefukw;" Aijovlou Diov" tΔ a[po.
Iw. kai; pw'" xevno" sΔ w]n e[scen ou\san ejggenh'…
Kr. Eu[boiΔ ΔAqhvnai" e[sti ti" geivtwn povli".
295 Iw. o{roi" uJgroi'sin, wJ" levgousΔ, wJrismevnh.
Kr. tauvthn e[perse Kekropivdai" koinw'/ doriv.
Iw. ejpivkouro" ejlqwvn… ka\/ta so;n gamei' levco"…
Kr. fernav" ge polevmou kai; doro;" labw;n gevra".
Iw. su;n ajndri; dΔ h{kei" h] movnh crhsthvria…
300 Kr. su;n ajndriv: shkoi'" dΔ uJsterei' Trofwnivou.
Iw. povtera qeath;" h] cavrin manteumavtwn…
Kr. keivnou te Foivbou qΔ e}n qevlwn maqei'n e[po".
Iw. karpou' dΔ u{per gh'" h{ketΔ h] paivdwn pevri…
Kr. a[paidev" ejsmen, crovniΔ e[contΔ eujnhvmata.
305 Iw. oujdΔ e[teke" oujde;n pwvpotΔ ajllΔ a[tekno" ei\…
Kr. oJ Foi'bo" oi\de th;n ejmh;n ajpaidivan.
Iw. w\ tlh'mon, wJ" ta[llΔ eujtucou'sΔ oujk eujtucei'".
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IONE 125

IONE Come mai tu sola, fra le sorelle, sei stata rispar-


miata?
CR. Ero appena nata, fra le braccia di mia madre.
IONE E tuo padre scomparve davvero in un crepaccio
del terreno?
CR. Il tridente del dio marino lo colpì uccidendolo.
IONE C’è un luogo, laggiù, chiamato “Rocce Alte”?
CR. Perché me lo chiedi? Quale ricordo risvegli!
IONE Febo con i suoi lampi fa onore a quel luogo?
CR. Onore? Quale onore? Vorrei non averlo mai visto!
IONE Che dici? Detesti ciò che è più caro al dio?
CR. Per niente! Conosco bene il disonore di una certa
grotta.14
IONE Chi fra gli Ateniesi è il tuo sposo, donna?
CR. Non è un cittadino, viene da una terra straniera.
IONE Chi è? Dev’essere certo di nobile nascita.
CR. Xuto, figlio di Eolo, che è nato da Zeus.
IONE E uno straniero come ha potuto sposare te, di
stirpe indigena?
CR. L’Eubea è una terra vicina all’Attica.
IONE Divisa da confini d’acqua, dicono.
CR. La conquistò combattendo a fianco dei Cecropidi.
IONE Venne da alleato e così ottenne te in sposa?
CR. Sì, dote di guerra e premio del suo valore.
IONE Sei venuta all’oracolo con tuo marito o da sola?
CR. Con mio marito. Ma si attarda nell’antro di Tro-
fonio.
IONE Per ammirare il santuario o per chiedere un re-
sponso?
CR. Vuole apprendere una sola cosa da lui e da Febo.
IONE È venuto a proposito del raccolto o dei figli?
CR. Non abbiamo figli, benché sposati da tanto tempo.
IONE Non ne hai mai generati, ne sei priva?
CR. Febo sa bene come io ne sia priva.
IONE Infelice, fortunata per il resto, non hai vera for-
tuna.15
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126 IWN

Kr. su; dΔ ei\ tiv"… w{" sou th;n tekou'san w[lbisa.


Iw. tou' qeou' kalou'mai dou'lo", eijmiv tΔ, w\ guvnai.
310 Kr. ajnavqhma povlew" h[ tino" praqei;" u{po…
Iw. oujk oi\da plh;n e{n: Loxivou keklhvmeqa.
Kr. hJmei'" sΔ a[rΔ au\qi", w\ xevnΔ, ajntoiktivromen.
Iw. wJ" mh; eijdovqΔ h{ti" mΔ e[teken ejx o{tou tΔ e[fun.
Kr. naoi'si dΔ oijkei'" toisivdΔ h] kata; stevga"…
315 Iw. a{pan qeou' moi dw'mΔ, i{nΔ a]n lavbh/ mΔ u{pno".
Kr. pai'" dΔ w]n ajfivkou nao;n h] neaniva"…
Iw. brevfo" levgousin oiJ dokou'nte" eijdevnai.
Kr. kai; tiv" gavlaktiv sΔ ejxevqreye Delfivdwn…
Iw. oujpwvpotΔ e[gnwn mastovn: h} dΔ e[qreyev me...
320 Kr. tiv", w\ talaivpwrΔ… wJ" nosou'sΔ hu|ron novsou".
Iw. ...Foivbou profh'ti", mhtevrΔ w}" nomivzomen.
Kr. ej" dΔ a[ndrΔ ajfivkou tivna trofh;n kekthmevno"…
Iw. bwmoiv mΔ e[ferbon ouJpiwvn tΔ ajei; xevno".
Kr. tavlainav sΔ hJ tekou'sΔ a[rΔ, h{ti" h\n pote.
325 Iw. ajdivkhmav tou gunaiko;" ejgenovmhn i[sw".
Kr. e[cei" de; bivoton: eu\ ga;r h[skhsai pevploi".
Iw. toi'" tou' qeou' kosmouvmeqΔ w|/ douleuvomen.
Kr. oujdΔ h\/xa" eij" e[reunan ejxeurei'n gonav"…
Iw. e[cw ga;r oujdevn, w\ guvnai, tekmhvrion.
Kr. feu':
330 pevponqev ti" sh'/ mhtri; tau[tΔ a[llh gunhv.
Iw. tiv"… eij povnou moi xullavboi, caivroimen a[n.
Kr. h|" ou{nekΔ h\lqon deu'ro pri;n povsin molei'n.
Iw. poi'ovn ti crhv/zousΔ… wJ" uJpourghvsw, guvnai.
Kr. mavnteuma krupto;n deomevnh Foivbou maqei'n.
335 Iw. levgoi" a[n: hJmei'" ta[lla proxenhvsomen.
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IONE 127

CR. Ma tu chi sei? Tua madre sì mi sembra felice!


IONE Mi chiamano, e sono, servo del dio, donna.
CR. Dono votivo di una città o venduto da qualcuno?
IONE So una sola cosa: di me dicono che sono del Lossia.
CR. Ora tocca a me compiangerti, straniero.
IONE Perché non conosco la madre e il padre da cui so-
no nato?
CR. Abiti qui nel tempio o hai un altro tetto?
IONE Tutto il tempio è casa mia, dormo là dove mi co-
glie il sonno.
CR. Ci sei arrivato da bambino, o già adolescente?
IONE Da neonato, a detta di chi sembra saperlo.
CR. E quale donna di Delfi ti ha allattato?
IONE Non ho mai conosciuto un seno materno; mi ha
allevato...
CR. Chi, infelice? Ritrovo le stesse angosce che mi af-
fliggono.
IONE La profetessa di Febo: lei considero mia madre.
CR. Come ti sei procurato da vivere fino all’età adulta?
IONE Mi nutrivano gli altari e i pellegrini che arrivano
di continuo.
CR. Sventurata tua madre, chiunque sia stata!
IONE Forse sono nato dalla violenza subita da una
donna.
CR. Ma disponi di mezzi: sei vestito di begli abiti.
IONE L’abbigliamento viene dal dio di cui sono servo.
CR. Non ti sei mai spinto a indagare sulla tua nascita?
IONE Mi manca un indizio qualsiasi, donna.
CR. Ahimè!
Un’altra donna ha patito proprio come tua madre.
IONE Chi? Sarei lieto se condividesse la mia angustia.
CR. Per lei sono arrivata qui precedendo mio marito.
IONE Di cosa hai bisogno? Vorrei aiutarti, donna.
CR. Voglio, in segreto, un responso da Febo.
IONE Di’ pure; del resto mi occuperò io.
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128 IWN

Kr. a[koue dh; to;n mu'qon: ajllΔ aijdouvmeqa.


Iw. ou[ ta[ra pravxei" oujdevn: ajrgo;" hJ qeov".
Kr. Foivbw/ migh'naiv fhsiv ti" fivlwn ejmw'n.
Iw. Foivbw/ gunh; gegw'sa… mh; levgΔ, w\ xevnh.
340 Kr. kai; pai'dav gΔ e[teke tw'/ qew'/ lavqra/ patrov".
Iw. oujk e[stin: ajndro;" ajdikivan aijscuvnetai.
Kr. ou[ fhsin aujthv: kai; pevponqen a[qlia.
Iw. tiv crh'ma dravsasΔ, eij qew'/ sunezuvgh…
Kr. to;n pai'dΔ o}n e[teken ejxevqhke dwmavtwn.
345 Iw. oJ dΔ ejkteqei;" pai'" pou' Δstin… eijsora'/ favo"…
Kr. oujk oi\den oujdeiv": tau'ta kai; manteuvomai.
Iw. eij dΔ oujkevtΔ e[sti, tivni trovpw/ diefqavrh…
Kr. qh'rav" sfe to;n duvsthnon ejlpivzei ktanei'n.
Iw. poivw/ tovdΔ e[gnw crwmevnh tekmhrivw/…
350 Kr. ejlqou'sΔ i{nΔ aujto;n ejxevqhkΔ oujc hu|rΔ e[ti.
Iw. h\n de; stalagmo;" ejn stivbw/ ti" ai{mato"…
Kr. ou[ fhsi: kaivtoi povllΔ ejpestravfh pevdon.
Iw. crovno" de; tiv" tw'/ paidi; diapepragmevnw/…
Kr. soi; taujto;n h{bh", ei[per h\n, ei\cΔ a]n mevtron.
355 Iw. ajdikei' nin oJ qeov", hJ tekou'sa dΔ ajqliva.
Kr. ou[koun e[tΔ a[llon ãgΔÃ u{steron tivktei govnon.
Iw. tiv dΔ eij lavqra/ nin Foi'bo" ejktrevfei labwvn…
Kr. ta; koina; caivrwn ouj divkaia dra'/ movno".
Iw. oi[moi: prosw/do;" hJ tuvch twjmw'/ pavqei.
360 Kr. kai; sΔ, w\ xevnΔ, oi\mai mhtevrΔ ajqlivan poqei'n.
Iw. a\ mhv mΔ ejpΔ oi\kton e[xagΔ ou| Δlelhvsmeqa.
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IONE 129

CR. Ascolta la storia... ma ne ho vergogna.


IONE Così non otterrai nulla: la dea Vergogna non pro-
cura guadagni.16
CR. Una mia amica dice di essersi congiunta a Febo.
IONE A Febo, una donna? Taci, straniera!
CR. E al dio ha generato un figlio, all’insaputa di suo
padre.
IONE È impossibile: si vergogna della violenza subita
da un uomo.
CR. Lei lo nega; e ha sofferto in modo tremendo.
IONE Cosa ha dovuto fare, non si è congiunta a un dio?
CR. Ha abbandonato fuori dalla sua casa il figlio che
ha partorito.
IONE Il bambino esposto dov’è? Vive ancora?
CR. Nessuno lo sa. Per questo consulto l’oracolo.
IONE Ma se non c’è più, in che modo è morto?
CR. Teme che l’infelice sia stato ucciso dalle belve.
IONE Da quale indizio se ne è convinta?
CR. Tornata là dove lo espose, non lo ha trovato più.
IONE Erano rimaste gocce di sangue sulle sue tracce?
CR. Lei dice di no. Eppure ha perlustrato a lungo il ter-
reno.
IONE Da quanto tempo sarebbe morto il bambino?
CR. Se vivesse sarebbe, come te, nel fiore della giovi-
nezza.
IONE Il dio è stato ingiusto con lui, la madre una sven-
turata.
CR. Anche perché, in seguito, non ha generato altri figli.
IONE Ma se Febo, in segreto, lo avesse raccolto per al-
levarlo?
CR. Un’azione ingiusta, godersi da solo un bene comune.
IONE Ahimè! Questa vicenda è simmetrica alla mia.
CR. Sono certa, straniero, che anche la tua infelice ma-
dre ti rimpiange.
IONE Ah, non risvegliare un dolore che avevo dimenti-
cato!
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130 IWN

Kr. sigw': pevraine dΔ w|n sΔ ajnistorw' pevri.


Iw. oi\sqΔ ou\n o} kavmnei tou' lovgou mavlistav soi…
Kr. tiv dΔ oujk ejkeivnh/ th'/ talaipwvrw/ nosei'…
365 Iw. pw'" oJ qeo;" o} laqei'n bouvletai manteuvsetai…
Kr. ei[per kaqivzei trivpoda koino;n ÔEllavdo".
Iw. aijscuvnetai to; pra'gma: mh; Δxevlegcev nin.
Kr. ajlguvnetai dev gΔ hJ paqou'sa th'/ tuvch/.
Iw. oujk e[stin o{sti" soi profhteuvsei tavde.
370 ejn toi'" ga;r auJtou' dwvmasin kako;" fanei;"
Foi'bo" dikaivw" to;n qemisteuvontav soi
dravseien a[n ti ph'mΔ. ajpallavssou, guvnai:
tw'/ ga;r qew'/ tajnantivΔ ouj manteutevon.
ej" ga;r tosou'ton ajmaqiva" e[lqoimen a[n,
375 eij tou;" qeou;" a[konta" ejkponhvsomen
fravzein a} mh; qevlousin, h] probwmivoi"
sfagai'si mhvlwn h] diΔ oijwnw'n pteroi'".
a}n ga;r biva/ speuvdwmen ajkovntwn qew'n,
ajnovnhta kekthvmesqa tajgavqΔ, w\ guvnai:
380 a} dΔ a]n didw'sΔ eJkovnte", wjfelouvmeqa.
Co. pollaiv ge polloi'" eijsi sumforai; brotw'n,
morfai; de; diafevrousin: e{na dΔ a]n eujtuch'
movli" potΔ ejxeuvroi ti" ajnqrwvpwn bivon.
Kr. w\ Foi'be, kajkei' kajnqavdΔ ouj divkaio" ei\
385 ej" th;n ajpou'san, h|" pavreisin oiJ lovgoi:
o{" gΔ ou[tΔ e[swsa" to;n so;n o}n sw'saiv sΔ ejcrh'n
ou[qΔ iJstorouvsh/ mhtri; mavnti" w]n ejrei'",
wJ", eij me;n oujkevtΔ e[stin, ojgkwqh'/ tavfw/,
eij dΔ e[stin, e[lqh/ mhtro;" eij" o[yin potev.
390 ÊajllΔ eja'n crh; tavdΔÊ, eij pro;" tou' qeou'
kwluovmesqa mh; maqei'n a} bouvlomai.
ajllΔ, w\ xevnΔ, eijsorw' ga;r eujgenh' povsin
Xou'qon pevla" dh; tovnde, ta;" Trofwnivou
lipovnta qalavma", tou;" lelegmevnou" lovgou"
395 sivga pro;" a[ndra, mhv tinΔ aijscuvnhn lavbw
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IONE 131

CR. Taccio. Ma tu porta a termine ciò che ti chiedo.17


IONE Sai cos’è che vizia di più la tua causa?
CR. Ma c’è qualcosa di sano nella storia di quella sfor-
tunata?
IONE Come potrà dare responsi, il dio, su ciò che vuol
celare?
CR. Se è vero che siede sul tripode profetico di tutti i
Greci.
IONE Si vergogna di quel che ha fatto: non metterlo al-
la prova!
CR. Ma la vittima ne soffre le conseguenze!
IONE Nessuno sarà disposto a interpretare oracoli su
questa vicenda.
Smascherato come malvagio, proprio nella sua dimo-
ra, Febo sarebbe legittimato a punire chi ti annuncias-
se il responso. Desisti, donna, non si chiede al dio un
oracolo contro la sua volontà. Saremmo altrettanto
stolti se ci affannassimo a far esprimere gli dèi, loro
malgrado, su ciò che non vogliono rivelare, con sacrifi-
ci di ovini sugli altari o grazie al volo degli uccelli. I be-
ni che cerchiamo di estorcere agli dèi sono sterili, don-
na: solo ciò che concedono volentieri ci torna utile.
CO. Molte sciagure capitano a tanti mortali, le più sva-
riate; e a stento si riuscirebbe a trovare una sola vita
umana che sia del tutto felice.
CR. Non sei giusto, Febo, ora come allora, nei confronti
della donna che non è qui ma parla per il mio tramite.
Non hai salvato tuo figlio, come avresti dovuto, e pur es-
sendo profeta rifiuti di rispondere alla madre, che chie-
de se debba onorarlo con una tomba, qualora sia morto,
o se potrà mai rivederlo, nel caso che sia ancora vivo.
Ma conviene rinunciare, se il dio mi impedisce di ap-
prendere ciò che desidero. Straniero, vedo avvicinarsi
il mio nobile marito, Xuto, che ha lasciato l’antro di
Trofonio; taci con lui della nostra conversazione, che
non mi attiri l’onta di essere un’intrigante e il discorso
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132 IWN

diakonou'sa kruptav, kai; probh'/ lovgo"


oujc h/ |per hJmei'" aujto;n ejxeilivssomen.
ta; ga;r gunaikw'n duscerh' pro;" a[rsena",
kajn tai'" kakai'sin aJgaqai; memeigmevnai
400 misouvmeqΔ: ou{tw dustucei'" pefuvkamen.
XOUQOS
prw'ton me;n ãoJÃ qeo;" tw'n ejmw'n prosfqegmavtwn
labw;n ajparca;" cairevtw, suv tΔ, w\ guvnai.
mw'n crovnio" ejlqwvn sΔ ejxevplhxΔ ojrrwdiva/…
Kr. oujdevn gΔ: ajfivkou dΔ ej" mevrimnan. ajllav moi
405 levxon, tiv qevspismΔ ejk Trofwnivou fevrei",
paivdwn o{pw" nw'/n spevrma sugkraqhvsetai…
Xo. oujk hjxivwse tou' qeou' prolambavnein
manteuvmaqΔ: e}n dΔ ou\n ei\pen: oujk a[paidav me
pro;" oi\kon h{xein oujde; sΔ ejk crhsthrivwn.
410 Kr. w\ povtnia Foivbou mh'ter, eij ga;r aijsivw"
e[lqoimen, a{ te nw'/n sumbovlaia provsqen h\n
ej" pai'da to;n so;n metapevsoi beltivona.
Xo. e[stai tavdΔ: ajlla; tiv" profhteuvei qeou'…
Iw. hJmei'" tav gΔ e[xw, tw'n e[sw dΔ a[lloi" mevlei,
415 oi} plhsivon qavssousi trivpodo", ãw\Ã xevne,
Delfw'n ajristh'", ou}" ejklhvrwsen pavlo".
Xo. kalw'": e[cw dh; pavnqΔ o{swn ejcrhv/zomen.
steivcoimΔ a]n ei[sw: kai; gavr, wJ" ejgw; kluvw,
crhsthvrion pevptwke toi'" ejphvlusin
420 koino;n pro; naou': bouvlomai dΔ ejn hJmevra/
th'/dΔ (aijsiva gavr) qeou' labei'n manteuvmata.
su; dΔ ajmfi; bwmouv", w\ guvnai, dafnhfovrou"
labou'sa klw'na", eujtevknou" eu[cou qeoi'"
crhsmouv" mΔ ejnegkei'n ejx ΔApovllwno" dovmwn.
425 Kr. e[stai tavdΔ, e[stai. Loxiva" dΔ, eja;n qevlh/
nu'n ajlla; ta;" pri;n ajnalabei'n aJmartiva",
a{pa" me;n ouj gevnoitΔ a]n eij" hJma'" fivlo",
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IONE 133

non arrivi dove non intendevo farlo giungere. La posi-


zione delle donne di fronte agli uomini è difficile: ci
detestano, virtuose e malvage senza distinzione. Per
natura siamo sfortunate.18

[entra Xuto]

XUTO Offro al dio l’omaggio delle mie prime parole e


poi saluto te, moglie mia. Ti ho forse spaventato con il
mio ritardo?
CR. Niente affatto, sei tu piuttosto a preoccuparti. Ma
dimmi, quale responso riporti da Trofonio, come si po-
trà mescolare il nostro seme per generare figli?
XUTO Non ha creduto di anticipare il vaticinio del dio.
Ha detto però una cosa: né io né tu torneremo a casa
dall’oracolo senza figli.
CR. O veneranda madre di Febo, se davvero il nostro
arrivo qui fosse propizio, e le nostre relazioni con tuo
figlio migliorassero rispetto a prima!
XUTO Così sia. Ma chi è l’interprete del dio?
IONE Sono io, fuori dal tempio; ma altri si occupano
del servizio all’interno, straniero, coloro che siedono
vicino al tripode, designati per sorteggio tra i migliori
cittadini di Delfi.
XUTO Bene! È quanto volevo sapere. Mi avvio per en-
trare: a quanto sento, la vittima offerta in comune dai
pellegrini è già stata abbattuta dinanzi al tempio. De-
sidero ottenere un responso dal dio in questo giorno,
perché è fausto di sicuro.
E tu, donna, cogli ramoscelli d’alloro, va’ agli altari
che ne sono adorni e prega gli dèi, perché io riporti
dall’oracolo di Apollo un responso che promette figli.

[entra nel tempio]

CR. Lo farò, lo farò. Se ora il Lossia vuole infine porre


rimedio ai suoi errori di un tempo, non mi offrirà una
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134 IWN

o{son de; crhv/zei (qeo;" gavr ejsti) devxomai.


Iw. tiv pote lovgoisin hJ xevnh pro;" to;n qeo;n
430 kruptoi'sin aijei; loidorou'sΔ aijnivssetai…
h[toi filou'sav gΔ h|" u{per manteuvetai,
h] kaiv ti sigw'sΔ w|n siwpa'sqai crewvn…
ajta;r qugatro;" th'" ΔErecqevw" tiv moi
mevlei… proshvkei gΔ oujdevn. ajlla; crusevai"
435 provcoisin ejlqw;n eij" ajporranthvria
drovson kaqhvsw. nouqethtevo" dev moi
Foi'bo", tiv pavscei: parqevnou" biva/ gamw'n
prodivdwsi… pai'da" ejkteknouvmeno" lavqra/
qnhv/skonta" ajmelei'… mh; suv gΔ: ajllΔ, ejpei; kratei'",
440 ajreta;" divwke. kai; ga;r o{sti" a]n brotw'n
kako;" pefuvkh/, zhmiou'sin oiJ qeoiv.
pw'" ou\n divkaion tou;" novmou" uJma'" brotoi'"
gravyanta" aujtou;" ajnomivan ojfliskavnein…
eij dΔ (ouj ga;r e[stai, tw'/ lovgw/ de; crhvsomai)
445 divka" biaivwn dwvsetΔ ajnqrwvpoi" gavmwn
su; kai; Poseidw'n Zeuv" qΔ o}" oujranou' kratei',
naou;" tivnonte" ajdikiva" kenwvsete.
ta;" hJdona;" ga;r th'" promhqiva" pevra
speuvdonte" ajdikei'tΔ. oujkevtΔ ajnqrwvpou" kakou;"
450 levgein divkaion, eij ta; tw'n qew'n kala;
mimouvmeqΔ, ajlla; tou;" didavskonta" tavde.
Co. se; ta;n wjdivnwn locia'n ªstr.
ajneileivquian, ejma;n
ΔAqavnan, iJketeuvw,
455 Promhqei' Tita'ni loceu-
qei'san katΔ ajkrotavta"
korufa'" Diov", w\ ÊmavkairaÊ Nivka,
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IONE 135

vera amicizia ma accetterò – si tratta di un dio – quan-


to vorrà darmi.19

[esce]

IONE A cosa mai allude la straniera, indirizzando con-


tinuamente oscuri rimproveri al dio? È spinta da soli-
darietà verso l’amica per cui vuol consultare l’oracolo,
o forse tace qualcosa che deve restare segreto?
Ma che m’importa della figlia di Eretteo? Non siamo
consanguinei. Andrò a riempire con brocche d’oro le
vasche d’acqua lustrale. Non posso però non deplora-
re Febo per come agisce: violenta le ragazze e poi le
abbandona! Genera in segreto dei figli e non si cura
che muoiano! No davvero! Se hai il potere, persegui la
virtù. Se infatti uno dei mortali ha natura malvagia gli
dèi lo puniscono.
È forse giusto che voi, dopo aver scritto le leggi per gli
uomini, vi meritiate l’accusa di averle violate? Se mai
dovrete scontare una pena – non accadrà, ma avanzo
un’ipotesi – per i vostri stupri ai mortali, tu, Poseidone
e il sovrano del cielo, Zeus, per risarcire i torti svuotere-
te i vostri templi. Siete colpevoli di procurarvi il piacere
mettendolo innanzi alla prudenza. E allora non è giusto
dichiarare malvagi gli uomini, imitatori delle belle im-
prese divine: lo sono piuttosto i nostri cattivi maestri.20

[esce]

PRIMO STASIMO

CORO
Supplico te, mia Atena, strofe
nata senza le doglie del parto,
portata alla luce
dal titano Prometeo
dalla sommità del capo di Zeus,
beata Vittoria,
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movle Puvqion oi\kon,


ΔOluvmpou crusevwn qalavmwn
460 ptamevna pro;" ajguiav",
Foibhvio" e[nqa ga'"
mesovmfalo" eJstiva
para; coreuomevnw/ trivpodi
manteuvmata kraivnei,
465 su; kai; pai'" aJ Latogenhv",
duvo qeai; duvo parqevnoi,
kasivgnhtai Êsemnai; FoivbouÊ.
iJketeuvsate dΔ, w\ kovrai,
to; palaio;n ΔErecqevw"
470 gevno" eujtekniva" cronivou kaqaroi'"
manteuvmasi ku'rsai.
uJperballouvsa" ga;r e[cei ªajnt.
qnatoi'" eujdaimoniva"
ajkivnhton ajformavn,
475 tevknwn oi|" a]n karpotrovfoi
lavmpwsin ejn qalavmoi"
patrivoisi neavnide" h|bai,
diadevktora plou'ton
wJ" e{xonte" ejk patevrwn
480 eJtevroi" ejpi; tevknoi".
a[lkar te ga;r ejn kakoi'"
suvn tΔ eujtucivai" fivlon
doriv te ga'/ patriva/ fevrei
swthvrion ajlkavn.
485 ejmoi; me;n plouvtou te pavro"
basilikw'n tΔ ei\en qalavmwn
Êtrofai; khvdeioi kednw'n ge tevknwnÊ.
to;n a[paida dΔ ajpostugw'
bivon, w|/ te dokei' yevgw:
490 meta; de; kteavnwn metrivwn biota'"
eu[paido" ejcoivman.
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IONE 137

vieni al tempio pitico


dalle stanze d’oro dell’Olimpo
a volo, verso questa contrada
dove l’altare di Febo,
sull’ombelico della terra,
porta a compimento gli oracoli,
presso il tripode onorato dalle danze;
te e la figlia di Latona,
due dèe, due vergini,
auguste sorelle di Febo.
E voi, ragazze, supplicatele
perché all’antica stirpe di Eretteo
sia garantita da chiari responsi
l’attesa benedizione dei figli.21
Un capitale inalterabile antistrofe
di straordinaria felicità
tocca ai mortali
quando nella casa paterna
risplende il vigore della giovinezza
nutrice di figli,
che riceveranno dai padri
l’eredità di una ricchezza
da tramandare ai figli che verranno.
Difesa nella disgrazia,
gioia nella buona sorte,
con la lancia assicurano alla patria
protezione e salvezza.
Ben più che ricchezze e dimore regali
mi auguro di allevare con cura
figli assennati.
Detesto una vita senza figli,
deploro chi l’approva;
per me vorrei un patrimonio modesto
e un’esistenza allietata da figli.22
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138 IWN

w\ Pano;" qakhvmata kai; ªejpw/d.


paraulivzousa pevtra
mucwvdesi Makrai'",
495 i{na corou;" steivbousi podoi'n
ΔAglauvrou kovrai trivgonoi
stavdia cloera; pro; Pallavdo"
naw'n surivggwn
uJpΔ aijovla" ijaca'"
500 Êu{mnwnÊ o{tΔ ajnalivoi"
surivzei", w\ Pavn,
toi'si soi'" ejn a[ntroi",
i{na tekou'sav ti"
parqevno" meleva brevfo"
Foivbw/ ptanoi'" ejxovrisen
505 qoivnan qhrsiv te fonivan
dai'ta, pikrw'n gavmwn u{brin.
ou[tΔ ejpi; kerkivsin ou[te lovgwn favtin
a[ion eujtuciva" metevcein
qeovqen tevkna qnatoi'".
510 Iw. provspoloi gunai'ke", ai} tw'ndΔ ajmfi; krhpi'da" dovmwn
quodovkwn frouvrhmΔ e[cousai despovtin fulavssete,
ejklevloipΔ h[dh to;n iJero;n trivpoda kai; crhsthvrion
Xou'qo" h] mivmnei katΔ oi\kon iJstorw'n ajpaidivan…
Co. ejn dovmoi" e[stΔ, w\ xevnΔ: ou[pw dw'mΔ uJperbaivnei tovde.
515 wJ" dΔ ejpΔ ejxovdoisin o[nto", tw'ndΔ ajkouvomen pulw'n
dou'pon, ejxiovnta tΔ h[dh despovthn oJra'n pavra.
Xo. w\ tevknon, cai'rΔ: hJ ga;r ajrch; tou' lovgou prevpousav moi.
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IONE 139

Seggio di Pan e rupe epodo


vicina alle Rocce Alte
ricche di anfratti,
dove le tre figlie di Aglauro
scandiscono passi di danza
sulla verde spianata
dinanzi al tempio di Pallade,
al suono variato degli zufoli,
quando tu, Pan, nella tua grotta
dove non penetra il sole
soffi nel tuo flauto;
in quel luogo una vergine, sventurata,
partorì un figlio ad Apollo
e lo espose, preda ai rapaci
e banchetto cruento per le fiere,
oltraggio di un amaro connubio.
Non ho mai udito dai canti intorno al telaio,
né dalle leggende, che abbiano una vita felice
i figli nati dagli dèi ai mortali.23

[rientra Ione]

SECONDO EPISODIO

IONE Ancelle, che restate in attesa della vostra padro-


na qui, sui gradini del tempio fragrante d’incenso, Xu-
to ha già lasciato il sacro tripode e l’oracolo o si trova
sempre nell’edificio, a indagare sulla sua mancanza di
figli?
CO. È nel tempio, straniero, non ha ancora varcato
questa soglia. Ma sento il rumore delle porte, come se
qualcuno stesse per uscire: eccolo, puoi vedere il pa-
drone che torna.
[Xuto esce dal tempio]
XUTO Salute a te, figlio mio! Questo è l’esordio oppor-
tuno per il mio discorso.
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140 IWN

Iw. caivromen: su; dΔ eu\ frovnei ge, kai; duvΔ o[ntΔ eu\ pravxomen.
Xo. do;" cero;" fivlhmav moi sh'" swvmatov" tΔ ajmfiptucav".
520 Iw. eu\ fronei'" mevn… h[ sΔ e[mhnen qeou' ti", w\ xevne, blavbh…
Xo. ouj fronw', ta; fivltaqΔ euJrw;n eij filei'n ejfivemai…
Iw. pau'e, mh; yauvsa" ta; tou' qeou' stevmmata rJhvxh/" ceriv.
Xo. a{yomai: kouj rJusiavzw, tajma; dΔ euJrivskw fivla.
Iw. oujk ajpallavxh/, pri;n ei[sw tovxa pleumovnwn labei'n…
525 Xo. wJ" tiv dh; feuvgei" me sautou' gnwrivsai ta; fivltata…
Iw. ouj filw' frenou'n ajmouvsou" kai; memhnovta" xevnou".
Xo. ktei'ne kai; pivmprh: patro;" gavr, h]n ktavnh/", e[sh/ foneuv".
Iw. pou' dev moi path;r suv… tau'tΔ ou\n ouj gevlw" kluvein ejmoiv…
Xo. ou[: trevcwn oJ mu'qo" a[n soi tajma; shmhvneien a[n.
530 Iw. kai; tiv moi levxei"… Xo. path;r sov" eijmi kai; su; pai'" ejmov".
Iw. tiv" levgei tavdΔ… Xo. o{" sΔ e[qreyen o[nta Loxiva" ejmovn.
Iw. marturei'" sautw'/. Xo. ta; tou' qeou' gΔ ejkmaqw;n
ªcrhsthvria.
Iw. ejsfavlh" ai[nigmΔ ajkouvsa". Xo. oujk a[rΔ o[rqΔ ajkouvomen.
Iw. oJ de; lovgo" tiv" ejsti Foivbou… Xo. to;n sunanthvsantav moi...
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IONE 141

IONE La salute non mi manca. Tu serba la ragione e sa-


remo in due a star bene.
XUTO Lascia che ti baci la mano, che ti stringa in un ab-
braccio.
IONE Ma sei davvero in te, o il malanno inviato da un
dio ti fa delirare, straniero?
XUTO Solo perché desidero abbracciare chi mi è più
caro, dopo averlo ritrovato, non ragiono?
IONE Fermo! Non mettermi addosso le mani, strappe-
resti le bende del dio!
XUTO Voglio toccarti! Non intendo confiscare la pro-
prietà altrui, ho solo ritrovato il mio bene.
IONE Lasciami stare, prima che ti pianti una freccia nei
polmoni!
XUTO Perché mai ti rifiuti di riconoscere in me la per-
sona che ti è più cara?
IONE Non sono abituato a far rinsavire stranieri rozzi
e deliranti.
XUTO Uccidimi, dammi fuoco: così sarai l’assassino di
tuo padre.
IONE Tu mio padre, e come? Non è una cosa ridicola
solo a sentirla?
XUTO No, con il mio discorso ti spiegherò subito la mia
posizione. 24
IONE E che mi dirai?
XUTO Io sono tuo padre, e tu mio figlio.
IONE Chi lo dice?
XUTO Il Lossia, che ha cresciuto te, la mia crea-
tura.
IONE Lo garantisce solo la tua parola.
XUTO L’ho appreso dall’oracolo del dio.
IONE Avrai frainteso un responso enigmatico.
XUTO Allora piuttosto non ho udito bene.
IONE Ma quali sono le parole di Febo?
XUTO Chi avessi incontrato...
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142 IWN

535 Iw. tivna sunavnthsin… Xo. ...dovmwn tw'ndΔ ejxiovnti tou' qeou'...
Iw. sumfora'" tivno" kurh'sai… Xo. ...pai'dΔ ejmo;n pefukevnai.
Iw. so;n gegw'tΔ h] dw'ron a[llw"… Xo. dw'ron, o[nta tΔ ejx ejmou'.
Iw. prw'ta dh'tΔ ejmoi; xunavptei" povda sovn… Xo. oujk a[llw/
ªtevknon.
Iw. hJ tuvch povqen poqΔ h{kei… Xo. duvo mivan qaumavzomen.
540 Iw. ejk tivno" dev soi pevfuka mhtrov"… Xo. oujk e[cw fravsai.
Iw. oujde; Foi'bo" ei\pe… Xo. terfqei;" tou'to, kei'nΔ oujk hjrovmhn.
Iw. gh'" a[rΔ ejkpevfuka mhtrov"… Xo. ouj pevdon tivktei tevkna.
Iw. pw'" a]n ou\n ei[hn sov"… Xo. oujk oi\dΔ, ajnafevrw dΔ ej" to;n
ªqeovn.
Iw. fevre lovgwn aJywvmeqΔ a[llwn. Xo. tou'tΔ a[meinon, w\
ªtevknon.
545 Iw. h\lqe" ej" novqon ti levktron… Xo. mwriva/ ge tou' nevou.
Iw. pri;n kovrhn labei'n ΔErecqevw"… Xo. ouj ga;r u{sterovn
ªgev pw.
Iw. a\ra dh'tΔ ejkei' mΔ e[fusa"… Xo. tw'/ crovnw/ ge suntrevcei.
Iw. ka\ita pw'" ajfikovmesqa deu'ro Xo. tou'tΔ ajmhcanw'.
Iw. dia; makra'" ejlqw;n keleuvqou… Xo. tou'to ka[mΔ ajpaiola'./
550 Iw. Puqivan dΔ h\lqe" pevtran privn… Xo. ej" fanav" ge Bakcivou.
Iw. proxevnwn dΔ e[n tou katevsce"… Xo. o{" me Delfivsin
ªkovrai"
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IONE 143

IONE Quale incontro?


XUTO ...mentre uscivo dal tempio del dio...
IONE Cosa sarebbe successo?
XUTO ...disse che era mio figlio.
IONE Tuo per nascita, o nient’altro che un dono?
XUTO Un dono, e in più nato da me.
IONE E sono io il primo in cui ti sei imbattuto?
XUTO Proprio tu, figliolo.
IONE Come può accadere un caso simile?
XUTO Siamo in due a esserne sorpresi.
IONE Ma chi è mia madre?
XUTO Non te lo so spiegare.
IONE E Febo non lo ha detto?
XUTO Ero già così contento che non gliel’ho
chiesto.
IONE Dunque mi ha generato la madre terra?
XUTO La terra non genera figli.
IONE Com’è possibile che sia nato da te?
XUTO Non lo so, rinvio la spiegazione al dio.
IONE Via, passiamo ad altri discorsi.
XUTO Sarà meglio, figliolo.
IONE Hai avuto qualche relazione illecita?
XUTO Follie di gioventù!
IONE Prima di sposare la figlia di Eretteo?
XUTO Dopo no davvero.
IONE Dunque mi hai generato allora?
XUTO Il periodo corrisponde.
IONE E poi come sono arrivato qui...
XUTO Su questo sono confuso.
IONE ...dopo aver fatto un lungo viaggio?
XUTO Anch’io rimango perplesso.
IONE Ma prima non eri mai venuto alla rupe di Pito?
XUTO Sì, alle fiaccolate in onore di Bacco.
IONE E alloggiavi da un prosseno?
XUTO Quello che tra le ragazze di Delfi mi ha...
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144 IWN

Iw. ejqiavseusΔ, h] pw'" tavdΔ aujda'"/ … Xo. Mainavsin ge Bakcivou.


Iw. e[mfronΔ h] kavtoinon o[nta… Xo. Bakcivou pro;" hJdonai'".
Iw. tou'tΔ ejkei'nΔ: i{nΔ ejspavrhmen Xo. oJ povtmo" ejxhu'ren,
ªtevknon.
555 Iw. pw'" dΔ ajfikovmesqa naouv"… Xo. e[kbolon kovrh" i[sw".
Iw. ejkpefeuvgamen to; dou'lon. Xo. patevra nun devcou,
ªtevknon.
Iw. tw'/ qew'/ gou'n oujk ajpistei'n eijkov". Xo. eu\ fronei'" a[ra.
Iw. kai; tiv boulovmesqav gΔ a[llo Xo. nu'n oJra'"/ a} crhv sΔ oJra'n.
Iw. h] Dio;" paido;" genevsqai pai'"… Xo. o} soiv ge givgnetai.
560 Iw. h\ qivgw dh'qΔ oi{ mΔ e[fusan… Xo. piqovmenov" ge tw'/ qew'/.
Iw. cai'rev moi, pavter Xo. fivlon ge fqevgmΔ ejdexavmhn tovde.
Iw. hJmevra qΔ hJ nu'n parou'sa. Xo. makavriovn gΔ e[qhkev me.
Iw. w\ fivlh mh'ter, povtΔ a\ra kai; so;n o[yomai devma"…
nu'n poqw' se ma'llon h] privn, h{ti" ei\ potΔ, eijsidei'n.
565 ajllΔ i[sw" tevqnhka", hJmei'" dΔ oujdΔ o[nar dunaivmeqΔ a[n.
Co. koinai; me;n hJmi'n dwmavtwn eujpraxivai:
o{mw" de; kai; devspoinan ej" tevknΔ eujtucei'n
ejboulovmhn a]n touv" tΔ ΔErecqevw" dovmou".
Xo. w\ tevknon, ej" me;n sh;n ajneuvresin qeo;"
570 ojrqw'" e[krane, kai; sunh'yΔ ejmoiv te se;
suv tΔ au\ ta; fivltaqΔ hu|re" oujk eijdw;" pavro".
o} dΔ h\/xa" ojrqw'", tou'to ka[mΔ e[cei povqo",
o{pw" suv tΔ, w\ pai', mhtevrΔ euJrhvsei" sevqen
ejgwv qΔ oJpoiva" moi gunaiko;" ejxevfu".
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IONE Ti ha introdotto nella loro orgia, vuoi dire?


XUTO Sì, fra le menadi di Bacco.
IONE Ed eri sobrio o ubriaco?
XUTO Ero in preda ai piaceri di Bacco.
IONE Ecco la risposta; dove fui concepito...
XUTO ...lo ha rivelato il destino, figlio mio.
IONE Ma come sono arrivato al tempio?
XUTO Forse la ragazza ti ha esposto.
IONE Sono sfuggito a un’origine servile.
XUTO Accetta dunque tuo padre, figliolo.
IONE Non si può certo diffidare del dio.
XUTO Ecco che ragioni.
IONE E cos’altro potrei desiderare...
XUTO Ora vedi le cose nella loro luce.
IONE ...che essere figlio del figlio di Zeus?
XUTO Lo sei davvero.
IONE Devo dunque abbracciare chi mi ha generato?
XUTO Sì, se hai fiducia nel dio.
IONE Ti saluto, padre mio...
XUTO Questa parola mi giunge gradita.
IONE e con te questa giornata...
XUTO che mi ha reso felice.25
IONE Madre cara, quando mai potrò vedere anche il
tuo volto? Ora desidero vederti, chiunque tu sia, an-
cor più di prima. Ma forse sei morta, e non mi sarà
possibile neppure in sogno.
CO. Prendiamo parte alla felicità della casa. Ma vorrei
che anche la mia padrona e la stirpe di Eretteo fosse-
ro allietate da figli.
XUTO Figlio mio, il dio ha favorito in modo appro-
priato il tuo ritrovamento, ti ha ricongiunto a me e tu
hai trovato la persona più cara, che prima non cono-
scevi. Il giusto desiderio che ti anima lo condivido
anch’io: tu, figliolo, vorresti trovare tua madre, io la
donna che ti ha procreato. Forse, confidando nel
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575 crovnw/ de; dovnte" tau'tΔ i[sw" eu{roimen a[n.


ajllΔ ejklipw;n qeou' davpedΔ ajlhteivan te sh;n
ej" ta;" ΔAqhvna" stei'ce koinovfrwn patriv
ou| sΔ o[lbion me;n skh'ptron ajnamevnei patrov",
polu;" de; plou'to": oujde; qavteron nosw'n
580 duoi'n keklhvsh/ dusgenh;" pevnh" qΔ a{ma,
ajllΔ eujgenhv" te kai; polukthvmwn bivou.
siga'/"… tiv pro;" gh'n o[mma so;n balw;n e[cei"
ej" frontivda" tΔ ajph'lqe", ejk de; carmonh'"
pavlin metasta;" dei'ma prosbavllei" patriv…
585 Iw. ouj taujto;n ei\do" faivnetai tw'n pragmavtwn
provswqen o[ntwn ejgguvqen qΔ oJrwmevnwn.
ejgw; de; th;n me;n sumfora;n ajspavzomai,
patevra sΔ ajneurwvn: w|n de; gignwvskw, pavter,
a[kouson. ei\naiv fasi ta;" aujtovcqona"
590 kleina;" ΔAqhvna" oujk ejpeivsakton gevno",
i{nΔ ejspesou'mai duvo novsw kekthmevno",
patrov" tΔ ejpaktou' kaujto;" w]n noqagenhv".
kai; tou'tΔ e[cwn tou[neido" ajsqenh;" mevnwn
Êmhde;n kai; oujde;n w]nÊ keklhvsomai.
595 h]n dΔ ej" to; prw'ton povleo" oJrmhqei;" zugo;n
zhtw' ti" ei\nai, tw'n me;n ajdunavtwn u{po
mishsovmesqa: lupra; ga;r ta; kreivssona.
o{soi dev, crhstoi; dunavmenoiv tΔ, o[nte" sofoiv,
sigw'si kouj speuvdousin ej" ta; pravgmata,
600 gevlwtΔ ejn aujtoi'" mwrivan te lhvyomai
oujc hJsucavzwn ejn povlei fovbou pleva/.
tw'n dΔ au\ legovntwn crwmevnwn te th'/ povlei
ej" ajxivwma ba;" plevon frourhvsomai
yhvfoisin. ou{tw ga;r tavdΔ, w\ pavter, filei':
605 oi} ta;" povlei" e[cousi kajxiwvmata
toi'" ajnqamivlloi" eijsi; polemiwvtatoi.
ejlqw;n dΔ ej" oi\kon ajllovtrion e[phlu" w]n
gunai'kav qΔ wJ" a[teknon, h} koinoumevnh
th'" sumfora'" soi provsqen ajpolacou'sa nu'n
610 aujth; kaqΔ auJth;n th;n tuvchn oi[sei pikrw'",
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IONE 147

tempo, riusciremo a trovarla. Ma lascia adesso il suo-


lo consacrato al dio e la tua vita da emarginato e par-
ti per Atene, in piena concordia con tuo padre: lì ti
attendono il suo splendido regno e un’ingente ric-
chezza; sarai esente così da entrambi i malanni, e non
ti tacceranno di umili origini e povertà, ma di te si
dirà che sei nobile e facoltoso.
Taci? Perché te ne stai con lo sguardo fisso a terra e
sei entrato in ansia? Hai mutato espressione, da gioio-
sa che era, e spaventi tuo padre.
IONE Le cose non hanno lo stesso aspetto quando so-
no distanti o le si guarda da vicino. Io faccio buon viso
al caso che mi ha fatto trovare in te mio padre. Ma tu,
padre, ascolta ciò che penso. Si dice che la gloriosa
Atene è abitata da un popolo autoctono, di stirpe non
immigrata; e là io arriverò affetto da due mali: nato da
uno straniero, ed essendo io stesso un figlio bastardo.
E se, con quest’onta, resto una persona insignificante,
si dirà che sono un niente, un figlio di nessuno. Ma se
ambisco a una posizione di rango nella città e cerco di
diventare qualcuno, mi attirerò l’odio di chi non ha
potere. La superiorità risulta molesta. Quanti, pur va-
lenti e capaci, da persone sagge se ne stanno in silen-
zio e non s’interessano di politica mi troveranno ridi-
colo e stolto, perché non mi defilo in una città condi-
zionata dalla paura. Se accedo a una carica prestigio-
sa, coloro che parlano in pubblico e prendono parte
attiva alla vita politica mi terranno in scacco ancor di
più con l’arma del voto. Così, padre, vanno di solito le
cose. Chi ha il governo e ne riveste le cariche osteggia
senza tregua gli avversarî.26
E io, che sono straniero, arrivo in casa altrui, da una
donna senza figli, che prima condivideva con te que-
sta sventura ma ora, delusa e lasciata sola col suo de-
stino, ne sentirà tutta l’amarezza. Come potrebbe non
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pw'" oujc uJpΔ aujth'" eijkovtw" mishvsomai,


o{tan parastw' soi; me;n ejgguvqen podov",
hJ dΔ ou\sΔ a[tekno" ta; sa; fivlΔ eijsora'/ pikrw'",
ka\/tΔ h] prodou;" suv mΔ ej" davmarta sh;n blevph/"
615 h] tajma; timw'n dw'ma sugceva" e[ch/"…
o{sa" sfaga;" dh; farmavkwn ãteà qanasivmwn
gunai'ke" hu|ron ajndravsin diafqorav".
a[llw" te th;n sh;n a[locon oijktivrw, pavter,
a[paida ghravskousan: ouj ga;r ajxiva
620 patevrwn ajpΔ ejsqlw'n ou\sΔ ajpaidiva/ nosei'n.
turannivdo" de; th'" mavthn aijnoumevnh"
to; me;n provswpon hJduv, tajn dovmoisi de;
luphrav: tiv" ga;r makavrio", tiv" eujtuchv",
o{sti" dedoikw;" kai; periblevpwn bivan
625 aijw'na teivnei… dhmovth" a]n eujtuch;"
zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n,
w|/ tou;" ponhrou;" hJdonh; fivlou" e[cein,
ejsqlou;" de; misei' katqanei'n fobouvmeno".
ei[poi" a]n wJ" oJ cruso;" ejknika'/ tavde,
630 ploutei'n te terpnovn: ouj filw' yovgou" kluvein
ejn cersi; swv/zwn o[lbon oujdΔ e[cein povnou":
ei[h gΔ ejmoi; ãme;nà mevtria mh; lupoumevnw/.
a} dΔ ejnqavdΔ ei\con ajgavqΔ a[kousovn mou, pavter:
th;n filtavthn me;n prw'ton ajnqrwvpoi" scolh;n
635 o[clon te mevtrion, oujdev mΔ ejxevplhxΔ oJdou'
ponhro;" oujdeiv": kei'no dΔ oujk ajnascetovn,
ei[kein oJdou' calw'nta toi'" kakivosin.
qew'n dΔ ejn eujcai'" h] lovgoisin h\ brotw'n
uJphretw'n caivrousin ouj gowmevnoi".
640 kai; tou;" me;n ejxevpempon, oi} dΔ h|kon xevnoi,
w{sqΔ hJdu;" aijei; kaino;" ejn kainoi'sin h\.
o} dΔ eujkto;n ajnqrwvpoisi, ka]n a[kousin h\/,
divkaion ei\naiv mΔ oJ novmo" hJ fuvsi" qΔ a{ma
parei'ce tw'/ qew'/. tau'ta sunnoouvmeno"
645 kreivssw nomivzw tajnqavdΔ h] tajkei', pavter.
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odiarmi, a ragione, quando sarò al tuo fianco? Lei, che


resta senza figli, guarderà con risentimento chi ti è ca-
ro; e allora o tu mi tradirai per compiacere tua moglie
o, per rispettare me, dovrai sconvolgere la pace dome-
stica. Quante volte le donne hanno tramato per sgoz-
zare o avvelenare i loro mariti! Del resto io compati-
sco tua moglie, padre, destinata a invecchiare senza fi-
gli lei che, nata da illustri antenati, non merita davve-
ro di essere afflitta da sterilità.
Quanto al potere regale poi, lo si loda a torto: il suo
aspetto esteriore è seducente, ma all’interno dei pa-
lazzi si cela il dolore. Chi mai è beato, chi felice nel
condurre la vita fra timori e sospetti di eventuali
violenze? Preferirei vivere felice da comune cittadi-
no che essere un tiranno: lui si compiace di amicizie
ignobili e odia gli onesti, per paura di essere ucciso.
Dirai che l’oro trionfa su tutto questo, che la ric-
chezza è gradevole: a me non piace sentirmi biasi-
mare perché accumulo beni, né avere affanni; mi
auguro una modesta fortuna che non comporti an-
gustie.27
Ascolta, padre, quali erano i vantaggi di cui disponevo
qui: anzitutto tempo libero, prezioso per gli uomini,
con pochi fastidi e, ancora, nessun individuo ignobile
che mi abbia scacciato dalla mia strada; perché è in-
tollerabile cedere il passo a chi è peggiore di noi. Fra
preghiere agli dèi o conversazioni con gli uomini, ero
al servizio di gente soddisfatta che non aveva da la-
mentarsi. E quando congedavo alcuni stranieri, ne ar-
rivavano degli altri, sì che ero sempre una piacevole
novità per i nuovi venuti.
E poi la legge e la natura insieme hanno fatto di me
un uomo giusto nei confronti del dio, ed è ciò che si
deve auspicare per i mortali, persino loro malgrado.
Valutando queste ragioni, padre, credo che la situazio-
ne qui sia più vantaggiosa che laggiù. Lasciami vivere
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e[a dev mΔ aujtou' zh'n: i[sh ga;r hJ cavri"


megavloisi caivrein smikrav qΔ hJdevw" e[cein.
Co. kalw'" e[lexa", ei[per ou}" ejgw; filw'
ejn toi'si soi'sin eujtuchvsousin fivloi".
650 Xo. pau'sai lovgwn tw'ndΔ, eujtucei'n dΔ ejpivstaso:
qevlw ga;r ou|pevr sΔ hu|ron a[rxasqai, tevknon,
koinh'" trapevzh", dai'ta pro;" koinh;n peswvn,
qu'saiv qΔ a{ sou pri;n genevqliΔ oujk ejquvsamen.
kai; nu'n me;n wJ" dh; xevnon a[gwn sΔ ejfevstion
655 deivpnoisi tevryw, th'" dΔ ΔAqhnaivwn cqono;"
a[xw qeath;n dh'qen, oujc wJ" o[ntΔ ejmovn.
kai; ga;r gunai'ka th;n ejmh;n ouj bouvlomai
lupei'n a[teknon ou\san aujto;" eujtucw'n.
crovnw/ de; kairo;n lambavnwn prosavxomai
660 davmartΔ eja'n se skh'ptra ta[mΔ e[cein cqonov".
“Iwna dΔ ojnomavzw se th'/ tuvch/ prevpon,
oJqouvnekΔ ajduvtwn ejxiovnti moi qeou'
i[cno" sunh'ya" prw'to". ajlla; tw'n fivlwn
plhvrwmΔ ajqroivsa" bouquvtw/ su;n hJdonh'/
665 provseipe, mevllwn DelfivdΔ ejklipei'n povlin.
uJmi'n de; siga'n, dmw/vde", levgw tavde,
h] qavnaton eijpouvsaisi pro;" davmartΔ ejmhvn.
Iw. steivcoimΔ a[n. e}n de; th'" tuvch" a[pestiv moi:
eij mh; ga;r h{ti" mΔ e[teken euJrhvsw, pavter,
670 ajbivwton hJmi'n. eij dΔ ejpeuvxasqai crewvn,
ejk tw'n ΔAqhnw'n mΔ hJ tekou'sΔ ei[h gunhv,
w{" moi gevnhtai mhtrovqen parrhsiva.
kaqara;n ga;r h[n ti" ej" povlin pevsh/ xevno",
ka]n toi'" lovgoisin ajsto;" h\/, tov ge stovma
675 dou'lon pevpatai koujk e[cei parrhsivan.
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IONE 151

qui: godere di grandi fortune e contentarsi di piccole


cose comporta la stessa gioia.28
CO. Hai detto bene, se quel che è gradito a te significa
la felicità di colei che mi è cara.
XUTO Basta con questi discorsi, impara a sostenere la
tua fortuna: voglio inaugurare l’abitudine di condivi-
dere la tavola, figlio, proprio là dove ti ho trovato, se-
dendo a un banchetto comune, e offrire il sacrificio
per la tua nascita che allora non offrii. Adesso ti fe-
steggerò con il convito, come un ospite che s’invita a
casa propria, e poi ti condurrò ad Atene proprio come
un visitatore, non come figlio. Non voglio che la mia
felicità addolori mia moglie, che non ha figli. Col tem-
po, cogliendo l’occasione opportuna, saprò indurla a
lasciarti lo scettro del paese che ora è nelle mie mani.
Ti do il nome di Ione in accordo con la sorte, perché
sei stato il primo che ho incontrato nell’uscire dal pe-
netrale del dio. Ma tu raduna i tuoi amici, che s’affolli-
no per godere della festa sacrificale, e di’ loro addio,
perché stai per lasciare la città di Delfi. A voi, serve,
ordino il silenzio: se ne parlate con mia moglie, la vo-
stra pena sarà la morte.
IONE Ebbene andrò. Ma una cosa non mi è stata con-
cessa dalla sorte: se non riuscirò a trovare colei che mi
ha messo al mondo, padre, la vita mi sarà intollerabile.
E se posso esprimere un voto, vorrei che mia madre
fosse ateniese, perché da lei io riceva il diritto alla li-
bertà di parola.
Se uno straniero giunge in una città di stirpe pura, per
quanto lo si possa dichiarare cittadino, deve frenare
la lingua come uno schiavo e non è libero di espri-
mersi.29

[Ione e Xuto escono]


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Co. oJrw' davkrua kai; penqivmou" ªstr.


ãajlalaga;"Ã stenagmavtwn tΔ ejsbolav",
o{tan ejma; tuvranno" eujpaidivan
povsin e[contΔ eijdh'/,
680 aujth; dΔ a[pai" h\/ kai; leleimmevnh tevknwn.
tivnΔ, w\ pai' provmanti Latou'", e[crh-
sa" uJmnw/divan…
povqen oJ pai'" o{dΔ ajmfi; naou;" sevqen
trovfimo" ejxevba… gunaikw'n tivno"…
685 ouj gavr me saivnei qevsfata mhv tinΔ e[ch/ dovlon.
deimaivnw sumforavn,
ejfΔ o{ãtià pote; bavsetai.
690 a[topo" a[topa ga;r paradivdwsiv moi
tavde qeou' fhvma.
plevkei dovlon tevcnan qΔ oJ pai'"
a[llwn trafei;" ejx aiJmavtwn.
tiv" ouj tavde xunoivsetai…
695 fivlai, povterΔ ejma'/ despoivna/ ªajnt.
tavde torw'" ej" ou\" gegwnhvsomen
Êpovsin ejn w|/ ta; pavntΔ e[cousΔ ejlpivdwn
mevtoco" h\n tlavmwnÊ…
nu'n dΔ hJ me;n e[rrei sumforai'", oJ dΔ eujtucei',
700 povlion ejspesou'sa gh'ra", povsi" dΔ
ajtiveto" fivlwn.
mevleo", o}" qurai'o" ejlqw;n dovmou"
mevgan ej" o[lbon oujk i[swsen tuvca".
705 o[loitΔ o[loito povtnian ejxapafw;n ejmavn,
kai; qeoi'sin mh; tuvcoi
kallivfloga pelano;n ejpi;
puri; kaqagnivsa": to; dΔ ejmo;n ei[setai
ã
710 Ã turannivdo" fivla.
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IONE 153

SECONDO STASIMO

CORO Vedo lacrime e grida di dolore strofe


e accessi di gemiti
quando la mia regina saprà
del suo sposo padre felice,
mentre lei è sterile, senza speranza di figli.
Dio oracolare, figlio di Latona,
cosa annuncia il tuo canto profetico?
Donde viene questo ragazzo
allevato nel tuo tempio? Chi è la madre?
Questo responso non mi rallegra,
temo che celi un inganno.
Pavento l’esito
cui si potrà infine giungere.
Strano l’oracolo del dio,
strani eventi comunica.
Trama un’astuzia infida
il ragazzo cresciuto qui,
che viene da un’altra stirpe.
Chi non ne converrà?30
Amiche, dovremo riferire con chiarezza antistrofe
la verità all’orecchio della mia padrona,
infelice, sullo sposo che per lei era tutto,
partecipe delle sue stesse speranze?
Lei ora affonda nella sventura, lui è fortunato;
la canuta vecchiaia l’ha raggiunta,
ma lo sposo non onora più chi amava.
Sciagurato, venuto in casa da intruso
non ha saputo essere all’altezza
di una grande fortuna.
Muoia, muoia chi ha ingannato la mia signora,
e non sia di buon auspicio la fiamma
su cui arderà la sua offerta
nel consacrarla agli dèi. Quanto a me,
si saprà quanto fossi leale
all’antica casa regnante.
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154 IWN

h[dh pevla" deivpnwn kurei'


pai'" kai; path;r nevo" nevwn.
ijw; deiravde" Parnasou' pevtra" ªejpw/d.
715 e[cousai skovpelon oujravniovn qΔ e{dran,
i{na Bavkcio" ajmfipuvrou" ajnevcwn peuvka"
laiyhra; phda'/ nuktipovloi" a{ma su;n Bavkcai".
mhv ãtivà potΔ eij" ejma;n povlin i{koiqΔ oJ pai'",
720 nevan dΔ aJmevran ajpolipw;n qavnoi.
stegomevna ga;r a]n povli" e[coi skh'yin
xeniko;n ejsbolavn ã
Ã
aJlivsa" oJ pavro" ajrcago;" w]n
ΔErecqeu;" a[nax.
725 Kr. w\ prevsbu paidagwvgΔ ΔErecqevw" patro;"
toujmou' potΔ w]n tovqΔ hJnivkΔ h\n e[tΔ ejn favei,
e[paire sauto;n pro;" qeou' crhsthvria,
w{" moi sunhsqh'/", ei[ ti Loxiva" a[nax
qevspisma paivdwn ej" gona;" ejfqevgxato.
730 su;n toi'" fivloi" ga;r hJdu; me;n pravssein kalw'":
o} mh; gevnoito dΔ, ei[ ti tugcavnoi kakovn,
ej" o[mmatΔ eu[nou fwto;" ejmblevyai glukuv.
ejgw; dev sΔ, w{sper kai; su; patevrΔ ejmovn pote,
devspoinΔ o{mw" ou\sΔ ajntikhdeuvw patrov".
PRESBUTHS
735 w\ quvgater, a[xiΔ ajxivwn gennhtovrwn
h[qh fulavssei" kouj kataiscuvnasΔ e[cei"
tou;" souv", palaiw'n ejkgovnou" aujtocqovnwn.
e{lcΔ e{lke pro;" mevlaqra kai; kovmizev me.
aijpeinav moi mantei'a: tou' ghvrw" dev moi
740 sunekponou'sa kw'lon ijatro;" genou'.
Kr. e{pou nun: i[cno" dΔ ejkfuvlassΔ o{pou tivqh".
Pr. ijdouv:
to; tou' podo;" me;n braduv, to; tou' de; nou' tacuv.
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IONE 155

Ormai un banchetto inatteso


riunirà il figlio e il padre ritrovato.31
Ah, gioghi scoscesi del Parnaso epodo
con il picco e la celeste sede
dove Bacco, levando fiaccole fra le mani,
balza agile in compagnia delle Baccanti
che vagano nella notte.
Possa il ragazzo non giungere mai nella mia città,
e muoia, lasciando la sua giovane vita.
E la città sarebbe giustificata
nel difendersi dall’invasione di estranei,
‹ ›
quando radunò ‹ ›
il nostro antico signore, Eretteo.32

[entrano Creusa e il vecchio pedagogo]

TERZO EPISODIO

CREUSA Vecchio pedagogo, dei tempi in cui mio padre,


Eretteo, era ancora in vita, sali fino all’oracolo del dio
per gioire insieme a me, se il Lossia ha pronunciato un
responso con la promessa di generare figli.
È un piacere dividere la felicità con gli amici. E se poi
– non voglia il cielo – capita una sventura, è una con-
solazione poter guardare in volto una persona cara.
Io, pur essendo la tua padrona, ti rispetto alla stregua
di un padre, come tu a suo tempo onoravi il mio.
VECCHIO Figlia, serbi un’indole degna dei tuoi nobili
antenati e non li disonori, loro che discendono dall’an-
tica stirpe autoctona. Tirami su, guidami al santuario e
sorreggimi: l’oracolo è su una strada ripida per me; as-
sisti le mie gambe e allevia così il malanno della mia
vecchiaia.
CR. Stammi dietro ora. Bada dove metti il piede.
VE. Sì, ecco. Se il piede è lento, la mente è ancora agile.
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156 IWN

Kr. bavktrw/ dΔ ejreivdou: periferh;" stivbo" cqonov".


Pr. kai; tou'to tuflovn, o{tan ejgw; blevpw bracuv.
745 Kr. ojrqw'" e[lexa": ajlla; mh; parh'/" kovpw/.
Pr. ou[koun eJkwvn ge: tou' dΔ ajpovnto" ouj kratw'.
Kr. gunai'ke", iJstw'n tw'n ejmw'n kai; kerkivdo"
douvleuma pistovn, tivna tuvchn labw;n povsi"
bevbhke paivdwn, w|nper ou{necΔ h{komen…
750 shmhvnatΔ: eij ga;r ajgaqav moi mhnuvsete,
oujk eij" ajpivstou" despovta" balei'" cavrin.
Co. ijw; dai'mon.
Kr. to; froivmion me;n tw'n lovgwn oujk eujtucev".
Co. ijw; tla'mon.
755 Kr. ajllΔ h\ ti qesfavtoisi despotw'n nosei'…
Co. aijai': tiv drw'men qavnato" w|n kei'tai pevri…
Kr. tiv" h{de mou'sa cwj fovbo" tivnwn pevri…
Co. ei[pwmen h] sigw'men h] tiv dravsomen…
Kr. ei[fΔ: wJ" e[cei" ge sumforavn tinΔ eij" ejmev.
760 Co. eijrhvsetaiv toi, keij qanei'n mevllw diplh'/.
oujk e[sti soi, devspoinΔ, ejpΔ ajgkavlai" labei'n
tevknΔ oujde; mastw'/ sw'/ prosarmovsai potev.
Kr. w[moi qavnoimi.
ãPr.Ã quvgater. ãKr.Ã w\ tavlainΔ
ejgw; sumfora'", e[labon e[paqon a[co"
ajbivoton, fivlai.
765 dioicovmesqa. Pr. tevknon.
Kr. aijai' aijai':
diantai'o" e[tupen ojduvna me pleu-
movnwn tw'ndΔ e[sw.
Pr. mhvpw stenavxh/"... Kr. ajlla; pavreisi govoi.
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IONE 157

CR. Appoggiati al bastone; il sentiero è tortuoso.


VE. Se la mia vista è corta, il bastone è cieco.
CR. Hai ragione, ma non cedere alla fatica.
VE. Non di mia volontà: non ho potere sul vigore che
ormai mi manca.
CR . Donne, serve fedeli che mi assistete nel lavoro
al telaio e con la spola, quale responso ha ottenuto
mio marito a proposito dei figli? Siamo venuti per
questo.
Ditelo, e se il vostro annuncio sarà fausto non spre-
cherete un favore con una padrona ingrata.33
CO. Ah, destino!
CR. L’esordio del tuo discorso non è di buon augurio.
CO. Ah, sventurata!
CR. C’è qualcosa che va male per i tuoi padroni secon-
do il responso?
CO. Ahimè! Che fare? Su questa faccenda pesa una
minaccia di morte.
CR. Che musica è questa, di cosa hai timore?
CO. Parlare o tacere, che devo fare?
CR. Parla! Hai notizie tristi per me.
CO. Ebbene parlerò, anche se poi mi toccasse morire
due volte. Non potrai mai stringere fra le braccia un
figlio, padrona, né accostarlo al tuo seno.
CR. Ah, vorrei morire.
VE. Figlia!
CR. Me infelice, che disgrazia,
il dolore che provo, amiche,
mi toglie il gusto della vita.
Sono perduta.
VE. Figlia mia!
CR. Ahimè!
Un dolore acuto
mi trafigge il petto.
VE. Non abbandonarti al pianto...
CR. Ma i lamenti sono già qui.
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158 IWN

770 Pr. ...pri;n a]n mavqwmen... Kr. ajggelivan tivna moi…


Pr. ...eij taujta; pravsswn despovth" th'" sumfora'"
koinwnov" ejstin h] movnh su; dustucei'".
Co. keivnw/ mevn, w\ geraiev, pai'da Loxiva"
775 e[dwken, ijdiva/ dΔ eujtucei' tauvth" divca.
Kr. tovdΔ ejpi; tw'/de kako;n a[kron e[lake" ãe[lake"Ã
a[co" ejmoi; stevnein.
Pr. povtera de; fu'nai dei' gunaiko;" e[k tino"
to;n pai'dΔ o}n ei\pa" h] gegw'tΔ ejqevspisen…
780 Co. h[dh pefukovtΔ ejktelh' neanivan
divdwsin aujtw'/ Loxiva": parh' dΔ ejgwv.
Kr. pw'" fhv/"… Êa[faton a[fatonÊ ajnauvdhton
lovgon ejmoi; qroei'".
785 Pr. ka[moige. pw'" dΔ oJ crhsmo;" ejkperaivnetai
safevsterovn moi fravze cw[sti" e[sqΔ oJ pai'".
Co. o{tw/ xunanthvseien ejk qeou' suqei;"
prwvtw/ povsi" sov", pai'dΔ e[dwkΔ aujtw'/ qeov".
790 Kr. ojtototoi': to;n ejmo;n a[teknon a[teknon e[lakΔ
a[ra bivoton, ejrhmiva/ dΔ ojrfanou;"
dovmou" oijkhvsw.
Pr. tiv" ou\n ejcrhvsqh… tw'/ sunh'yΔ i[cno" podo;"
povsi" talaivnh"… pw'" de; pou' nin eijsidwvn…
Co. oi\sqΔ, w\ fivlh devspoina, to;n neanivan
795 o}" tovndΔ e[saire naovn… ou|tov" ejsqΔ oJ pai'".
Kr. ajnΔ uJgro;n ajmptaivhn aijqevra povrsw gaiv-
a" ÔEllaniva" ajstevra" eJspevrou",
oi|on oi|on a[lgo" e[paqon, fivlai.
800 Pr. o[noma de; poi'on aujto;n ojnomavzei pathvr…
oi\sqΔ, h] siwph'/ tou'tΔ ajkuvrwton mevnei…
Co. “IwnΔ, ejpeivper prw'to" h[nthsen patriv:
mhtro;" dΔ oJpoiva" ejsti;n oujk e[cw fravsai.
frou'do" dΔ, i{nΔ eijdh'/" pavnta tajpΔ ejmou', gevron,
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IONE 159

VE. ...prima di sapere...


CR. Quale notizia?
VE. ...se il signore condivide questa stessa sventura, o
se la patisci da sola.
CO. A lui il Lossia ha dato un figlio, vecchio, e si gode
in disparte questa felicità privata.
CR. Annunci, annunci un male
peggiore dell’altro,
un’angoscia che m’induce al pianto.
VE. L’oracolo ha detto che deve ancora nascere da una
donna il figlio di cui parli, o che esiste già?
CO. È già nato, il Lossia gli ha dato un giovane nel fio-
re degli anni: io ero presente.
CR. Che dici? Quel che sostieni è inaudito,
inaudito, indicibile.
VE. Anche per me. Come si è realizzato il vaticinio?
Spiegamelo in modo più chiaro. Chi è questo ragazzo?
CO. Il dio ha assegnato come figlio a tuo marito colui
che per primo avesse incontrato, all’uscita dal tempio.
CR. Ah! E a me ha annunciato
una vita senza figli,
senza figli: abiterò da sola
una casa deserta.
VE. Chi fu designato dunque dall’oracolo? In chi s’è
imbattuto il marito di quest’infelice? Come l’ha visto,
e dove?
CO. Ti ricordi, signora cara, del giovane che spazzava il
tempio? È lui il ragazzo.
CR. Potessi volare via, attraverso il liquido etere,
lontano dalla Grecia fino agli astri della sera,
amiche, tale è il dolore, il dolore che provo.
VE. Quale nome gli ha imposto il padre? Lo sai, o non
lo ha detto e resta incerto?
CO. Ione, poiché per primo si è trovato di fronte al pa-
dre. Ma chi sia la madre non saprei dirtelo. E perché
tu sia informato di tutto, vecchio, all’insaputa di lei il
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805 paido;" proquvswn xevnia kai; genevqlia


skhna;" ej" iJera;" th'sde laqraivw" povsi",
koinh;n xunavywn dai'ta paidi; tw'/ nevw/.
Pr. devspoina, prodedovmesqa (su;n ga;r soi; nosw')
tou' sou' pro;" ajndro;" kai; memhcanhmevnw"
810 uJbrizovmesqa dwmavtwn tΔ ΔErecqevw"
ejkballovmesqa. kai; so;n ouj stugw'n povsin
levgw, se; mevntoi ma'llon h] kei'non filw'n:
o{sti" se ghvma" xevno" ejpeiselqw;n povlin
kai; dw'ma kai; sh;n paralabw;n pagklhrivan
815 a[llh" gunaiko;" pai'da" ejkkarpouvmeno"
lavqra/ pevfhnen: wJ" lavqra/ dΔ, ejgw; fravsw.
ejpeiv sΔ a[teknon h[/sqetΔ, oujk e[stergev soi
o{moio" ei\nai th'" tuvch" tΔ i[son fevrein,
labw;n de; dou'la levktra numfeuvsa" lavqra/
820 to;n pai'dΔ e[fusen, ejxenwmevnon dev tw/
Delfw'n divdwsin ejktrevfein. oJ dΔ ejn qeou'
dovmoisin a[feto", wJ" lavqoi, paideuvetai.
neanivan dΔ wJ" h[/sqetΔ ejkteqrammevnon,
ejlqei'n sΔ e[peise deu'rΔ ajpaidiva" cavrin.
825 ka\/qΔ oJ qeo;" oujk ejyeuvsaqΔ, o{de dΔ ejyeuvsato
pavlai trevfwn to;n pai'da, ka[pleken ploka;"
toiavsdΔ: aJlou;" me;n ajnevferΔ ej" to;n daivmona,
Êejlqw;n de; kai; to;n crovnon ajmuvnesqai qevlwnÊ
turannivdΔ aujtw'/ peribalei'n e[melle gh'".
830 kaino;n de; tou[nomΔ ajna; crovnon peplasmevnon
“Iwn, ijovnti dh'qen o{ti sunhvnteto.
Co. oi[moi, kakouvrgou" a[ndra" wJ" ajei; stugw',
oi} suntiqevnte" ta[dikΔ ei\ta mhcanai'"
kosmou'si. fau'lon crhsto;n a]n labei'n fivlon
835 qevloimi ma'llon h] kako;n sofwvteron.
Pr. kai; tw'ndΔ aJpavntwn e[scaton peivsh/ kakovn:
ajmhvtorΔ, ajnarivqmhton, ejk douvlh" tino;"
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IONE 161

marito se n’è andato nel padiglione sacro, a offrire sa-


crifici in onore del figlio, per celebrare la loro amicizia
ospitale e la sua nascita, e intende sedersi a banchetto
insieme al figlio ritrovato.34
VE. Siamo stati traditi da tuo marito, padrona – io con-
divido il tuo malessere – oltraggiati dalla sua macchi-
nazione, e stiamo per essere cacciati dalla casa di Eret-
teo. E non lo dico in odio a tuo marito, ma ho più af-
fetto per te che per lui.
È uno straniero che, sposandoti, si è introdotto nella
città e nella casa, e ha ricevuto l’intera tua eredità, ma
si scopre che in segreto ha generato figli da un’altra
donna. In segreto, e ti spiego come. Quando si rese
conto che eri sterile non s’è rassegnato a essere come
te e condividere la tua sorte, ma s’è preso come aman-
te una schiava e, unitosi a lei di nascosto, ha generato
il figlio che poi affida, in terra straniera, a qualcuno di
Delfi perché lo allevi. Viene cresciuto all’interno del
santuario, come un animale consacrato al dio, perché
si continui a ignorarne l’esistenza.
E quando capì che il giovane era ormai grande, ti per-
suase a venire qui col motivo della mancanza di figli.
Non è stato il dio, allora, a mentire, ma lui che da tem-
po allevava il figlio e tramava il complotto. Se fosse
stato scoperto, avrebbe attribuito la responsabilità al
dio; altrimenti, cogliendo il momento opportuno, per
difendersi dall’invidia avrebbe assegnato a lui la so-
vranità del paese. E il nuovo nome, Ione, se l’è inven-
tato nel corso del tempo, come se derivasse proprio
dal suo incontro. 35
CO. Ah, come odio da sempre i malvagi che tramano
ingiustizie e poi le abbelliscono con i loro espedienti!
Preferirei come amico un ignorante onesto a uno più
sapiente ma perfido.
VE. E fra tutti i mali che patirai ecco il più grave: ti
porta in casa, da padrone, uno che è senza madre, una
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gunaiko;" ej" so;n dw'ma despovthn a[gei.


aJplou'n a]n h\n ga;r to; kakovn, eij parΔ eujgenou'"
840 mhtrov", piqwvn se, sh;n levgwn ajpaidivan,
ejswv/kisΔ oi[kou": eij dev soi tovdΔ h\n pikrovn,
tw'n Aijovlou nin crh'n ojrecqh'nai gavmwn.
ejk tw'nde dei' se dh; gunaikei'ovn ti dra'n.
h] ga;r xivfo" labou'san h] dovlw/ tini;
845 h] farmavkoisi so;n kataktei'nai povsin
kai; pai'da, pri;n soi; qavnaton ejk keivnwn molei'n.
ªeij gavr gΔ uJfhvsei" tou'dΔ, ajpallavxh/ bivou.
duoi'n ga;r ejcqroi'n eij" e}n ejlqovntoin stevgo"
h] qavteron dei' dustucei'n h] qavteronº.
850 ejgw; me;n ou\n soi kai; sunekponei'n qevlw
kai; sumfoneuvein pai'dΔ uJpeiselqw;n dovmou"
ou| dai'qΔ oJplivzei kai; trofei'a despovtai"
ajpodou;" qanei'n te zw'n te fevggo" eijsora'n.
e}n gavr ti toi'" douvloisin aijscuvnhn fevrei,
855 tou[noma: ta; dΔ a[lla pavnta tw'n ejleuqevrwn
oujde;n kakivwn dou'lo", o{sti" ejsqlo;" h\/.
Co. kajgwv, fivlh devspoina, sumfora;n qevlw
koinoumevnh thvndΔ h] qanei'n h] zh'n kalw'".
Kr. w\ yucav, pw'" sigavsw…
860 pw'" de; skotiva" ajnafhvnw
eujnav", aijdou'" dΔ ajpoleifqw'…
tiv ga;r ejmpovdion kwvlumΔ e[ti moi…
pro;" tivnΔ ajgw'na" tiqevmesqΔ ajreth'"…
ouj povsi" hJmw'n prodovth" gevgonen…
865 stevromai dΔ oi[kwn, stevromai paivdwn,
frou'dai dΔ ejlpivde", a}" diaqevsqai
crhv/zousa kalw'" oujk ejdunhvqhn,
sigw'sa gavmou",
sigw'sa tovkou" poluklauvtou".
870 ajllΔ ouj to; Dio;" poluvastron e{do"
kai; th;n ejpΔ ejmoi'" skopevloisi qea;n
livmnh" tΔ ejnuvdrou Tritwniavdo"
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IONE 163

nullità, figlio di una schiava. Sarebbe stato un danno


meno grave se, dopo averti persuaso adducendo la tua
sterilità, avesse insediato in casa un figlio nato da una
madre nobile. E se tu non avessi gradito questa solu-
zione, doveva aspirare alle nozze con una donna della
stirpe di Eolo.
Ora che è andata così, bisogna che tu agisca da donna!
Con la spada, o con un inganno, o col veleno uccidi
tuo marito e il figlio, prima che siano loro a darti la
morte. [Se ti farai scrupoli, sarai perduta. Quando due
nemici si trovano sotto lo stesso tetto, la sventura toc-
ca all’uno o all’altro.] Per parte mia, voglio collabora-
re con te a uccidere il ragazzo, entrando furtivamente
nel padiglione dove sta preparando il banchetto: in-
tendo ripagare i miei padroni per avermi nutrito, sia
che debba morire sia che debba continuare a vivere.
Una sola cosa arreca onta agli schiavi, il nome; in tut-
to il resto, uno schiavo onesto non è per nulla inferio-
re agli uomini liberi.
CO. Anch’io, padrona cara, voglio condividere quest’im-
presa, e morire o vivere con onore.36
CR. Anima mia, come tacere ancora?
Ma come potrò svelare l’amplesso segreto
e perdere così ogni ritegno?
Quale ostacolo me lo impedisce ormai? Con chi mi
sono impegnata in una gara di virtù? Mio marito non
mi ha forse tradito? Privata della casa, privata dei fi-
gli, svanite le mie speranze: non sono riuscita a con-
durle a buon fine come desideravo, anche tacendo il
connubio, tacendo il parto che mi ha fatto versare tan-
te lacrime.
Ma no, per la dimora stellata di Zeus, per la dèa che
regna sulle mie rocce e per le auguste rive del lago Tri-
tone, ricco d’acque, non nasconderò più quell’unione:
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164 IWN

povtnian ajkthvn,
oujkevti kruvyw levco", wJ" stevrnwn
875 ajponhsamevnh rJav/wn e[somai.
stavzousi kovrai dakruvoisin ejmaiv,
yuch; dΔ ajlgei' kakoboulhqei'sΔ
e[k tΔ ajnqrwvpwn e[k tΔ ajqanavtwn,
ou}" ajpodeivxw
880 levktrwn prodovta" ajcarivstou".
w\ ta'" eJptafqovggou mevlpwn
kiqavra" ejnopavn, a{tΔ ajgrauvloi"
keravessin ejn ajyuvcoi" ajcei'
mousa'n u{mnou" eujachvtou",
885 soi; momfavn, w\ Latou'" pai',
pro;" tavndΔ aujga;n aujdavsw.
h\lqev" moi crusw'/ caivtan
marmaivrwn, eu\tΔ ej" kovlpou"
krovkea pevtala favresin e[drepon
890 ÊajnqivzeinÊ crusantaugh':
leukoi'" dΔ ejmfu;" karpoi'sin
ceirw'n eij" a[ntrou koivta"
krauga;n “W ma'tevr mΔ aujdw'san
qeo;" oJmeunevta"
895 a\ge" ajnaideiva/
Kuvpridi cavrin pravsswn.
tivktw dΔ aJ duvstanov" soi
kou'ron, to;n frivka/ matro;"
bavllw ta;n sa;n eij" eujnavn,
900 i{na mΔ ejn levcesin melevan melevoi"
ejzeuvxw ta;n duvstanon.
oi[moi moi: kai; nu'n e[rrei
ptanoi'" aJrpasqei;" qoivna
pai'" moi kai; soiv.
905 tlavmwn, su; dΔ ãajei;Ã kiqavra/ klavzei"
paia'na" mevlpwn.
wjhv, to;n Latou'" aujdw',
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IONE 165

liberandomi dal suo peso opprimente proverò sollie-


vo. Dai miei occhi sgorgano lacrime, la mia anima sof-
fre, vittima degli inganni di uomini e dèi: ma denun-
cerò in loro gli ingrati traditori del mio letto.37

Tu che intoni la melodia


della cetra a sette corde, quando fa risuonare
da selvatiche corna inanimate
gli inni armoniosi delle Muse,
figlio di Latona, il mio biasimo per te
voglio gridare, qui alla luce del giorno.
Sei venuto da me, radioso nella tua chioma dorata;
nel grembo della mia veste
raccoglievo petali di croco dai riflessi d’oro,
per ornamenti floreali.
Serrandomi i bianchi polsi,
verso il giaciglio in fondo alla grotta,
mentre gridavo: “Madre mia!”,
tu, dio e amante,
mi hai trascinato senza pudore
per compiacere Cipride.
E io, sventurata, ti partorisco
un figlio e, per timore di mia madre,
lo abbandono nel tuo stesso giaciglio,
là dove ti sei unito a me, infelice,
in un amplesso infelice, me sventurata.
Ahimè! E ora non c’è più,
ghermito dai rapaci e divorato,
il figlio mio e tuo.
E tu, sciagurato, sempre a pizzicare la cetra
e a cantare peani.
Ehi! Dico a te, figlio di Latona,
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166 IWN

o{stΔ ojmfa;n klhroi'"


pro;" crusevou" ãejlqou``sinà qavkou"
910 kai; gaiva" messhvrei" e{dra".
ej" fw'" aujda;n karuvxw:
ΔIw; ãijw;Ã kako;" eujnavtwr,
o}" tw'/ me;n ejmw'/ numfeuvta/
cavrin ouj prolabw;n
915 pai'dΔ eij" oi[kou" oijkivzei":
oJ dΔ ejmo;" genevta" kai; so;" gΔ, ajmaqhv",
oijwnoi'" e[rrei sulaqeiv",
spavrgana matevro" ejxallavxa".
misei' sΔ aJ Da'lo" kai; davfna"
920 e[rnea foivnika parΔ aJbrokovman,
e[nqa loceuvmata sevmnΔ ejloceuvsato
Latw; Divoisiv se kavpoi".
Co. oi[moi, mevga" qhsauro;" wJ" ajnoivgnutai
kakw'n, ejfΔ oi|si pa'" a]n ejkbavloi davkru.
925 Pr. ãw\Ã quvgater, oi[ktou so;n blevpwn ejmpivmplamai
provswpon, e[xw dΔ ejgenovmhn gnwvmh" ejmh'".
kakw'n ga;r a[rti ku'mΔ uJpexantlw'n freniv,
pruvmnhqen ai[rei mΔ a[llo sw'n lovgwn u{po,
ou}" ejkbalou'sa tw'n parestwvtwn kakw'n
930 meth'lqe" a[llwn phmavtwn kaka;" oJdouv".
tiv fhv/"… tivna lovgon Loxivou kathgorei'"…
poi'on tekei'n fh;/" pai'da… pou' Δkqei'nai povlew"
qhrsi;n fivlon tuvmbeumΔ… a[nelqev moi pavlin.
Kr. aijscuvnomai mevn sΔ, w\ gevron, levxw dΔ o{mw".
935 Pr. wJ" sustenavzein gΔ oi\da gennaivw" fivloi".
Kr. a[koue toivnun: oi\sqa Kekropivwn petrw'n
provsborron a[ntron, a}" Makra;" kiklhvskomen…
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IONE 167

che estrai a sorte gli oracoli


per chi giunge al tuo seggio dorato,
nella sede al centro della terra.
Lo annuncio gridando alla luce del giorno:
ah, ingrato amante,
hai concesso un figlio,
per la sua casa, a mio marito
che non può vantare con te alcun merito;
ma il figlio mio e tuo, insensibile,
è scomparso, sottratto dai rapaci,
separato dalle fasce materne.
Delo ti odia, e i germogli dell’alloro
presso il palmizio dalle tenere fronde,
là dove Latona con sacre doglie
ti partorì, protetta dal giardino di Zeus.38
CO. Ahimè, si dischiude un grande forziere di mali, da
far piangere chiunque!
VE . Figlia, guardare il tuo volto mi riempie di com-
passione, mi fa smarrire la ragione. Avevo appena
vuotato la sentina della mia mente, sommersa da
un’ondata di mali, ed ecco che un’altra mi solleva da
poppa nel sentire le tue parole: pronunciandole, ti
sposti dalle attuali sventure sulla via funesta di altre
sofferenze.
Che dici? Quale accusa muovi al Lossia? Che figlio di-
ci di aver partorito? In quale luogo della città lo hai
esposto, in quale sepolcro in balia delle fiere? Ripeti-
melo di nuovo.
CR. Mi vergogno dinanzi a te, vecchio, ma parlerò
egualmente.
VE. So condividere generosamente le lacrime degli
amici.
CR. Ascolta allora: conosci la grotta sul versante set-
tentrionale delle rupi di Cecrope, che noi chiamiamo
“Rocce Alte”?
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Pr. oi\dΔ, e[nqa Pano;" a[duta kai; bwmoi; pevla".


Kr. ejntau'qΔ ajgw'na deino;n hjgwnivsmeqa.
940 Pr. tivnΔ… wJ" ajpanta'/ davkruav moi toi'" soi'" lovgoi".
Kr. Foivbw/ xunh'yΔ a[kousa duvsthnon gavmon.
Pr. w\ quvgater, a\rΔ h\n tau'qΔ a{ gΔ hj/sqovmhn ejgwv…
Kr. oujk oi\dΔ: ajlhqh' dΔ eij levgei" faivhmen a[n.
Pr. novson krufaivan hJnivkΔ e[stene" lavqra/.
945 Kr. tovtΔ h\n a} nu'n soi fanera; shmaivnw kakav.
Pr. ka\/tΔ ejxevkleya" pw'" ΔApovllwno" gavmou"…
Kr. e[tekon: ajnavscou tau'tΔ ejmou' kluvwn, gevron.
Pr. pou'… tiv" loceuvei sΔ… h] movnh mocqei'" tavde…
Kr. movnh katΔ a[ntron ou|per ejzeuvcqhn gavmoi".
950 Pr. oJ pai'" de; pou' Δstin, i{na su; mhkevtΔ h\/" a[pai"…
Kr. tevqnhken, w\ geraiev, qhrsi;n ejkteqeiv".
Pr. tevqnhkΔ… ΔApovllwn dΔ oJ kako;" oujde;n h[rkesen…
Kr. oujk h[rkesΔ: ”Aidou dΔ ejn dovmoi" paideuvetai.
Pr. tiv" gavr nin ejxevqhken… ouj ga;r dh; suv ge…
955 Kr. hJmei'", ejn o[rfnh/ sparganwvsante" pevploi".
Pr. oujde; xunhv/dei soiv ti" e[kqesin tevknou…
Kr. aiJ xumforaiv ge kai; to; lanqavnein movnon.
Pr. kai; pw'" ejn a[ntrw/ pai'da so;n lipei'n e[tlh"…
Kr. pw'"… oijktra; polla; stovmato" ejkbalou'sΔ e[ph.
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IONE 169

VE. La conosco, è nei pressi del santuario e dell’altare


di Pan.
CR. Là ho sostenuto una tremenda lotta.
VE. Che lotta? A sentirti mi vengono le lacrime agli
occhi.
CR. Mi sono congiunta a Febo, mio malgrado, in un’in-
felice unione.
VE. Figlia mia, era dunque questo ciò che presentivo?
CR. Non so. Ma potrei confermarti se ciò che dici è la
verità.
VE. Era quando gemevi di nascosto per una segreta
malattia.
CR. Il periodo dei guai che adesso ti rivelo.
VE. E come hai potuto tenere nascosta l’unione con
Apollo?
CR. Ho partorito un figlio. Rassegnati ad ascoltare
questo racconto, vecchio.
VE. Dove? Chi ti ha assistito? O eri sola nel travaglio
del parto?
CR. Sola, nella grotta dove si congiunse con me.
VE. Ma il bambino dov’è? Così neppure tu saresti più
senza figli.
CR. È morto, vecchio, esposto in preda alle fiere.
VE. Morto? Apollo, il vile, non lo ha protetto per nulla?
CR. Non lo ha protetto. Viene allevato nella casa di
Ade.
VE. Ma chi lo ha esposto? Non certo tu!
CR. Proprio io, nell’oscurità, dopo averlo avvolto in un
manto.
VE. Avevi un complice quando hai esposto il bambino?
CR. Solo sventura e segretezza.
VE. Ma come hai osato abbandonare tuo figlio nella
grotta?
CR. Come? Continuando a gemere parole di commise-
razione.
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170 IWN

Pr. feu':
960 tlhvmwn su; tovlmh", oJ de; qeo;" ma'llon sevqen.
Kr. eij pai'dav gΔ ei\de" cei'ra" ejkteivnontav moi.
Pr. masto;n diwvkontΔ h] pro;" ajgkavlai" pesei'n…
Kr. ejntau'qΔ i{nΔ oujk w]n a[dikΔ e[pascen ejx ejmou'.
Pr. soi; dΔ ej" tiv dovxΔ ejsh'lqen ejkbalei'n tevknon…
965 Kr. wJ" to;n qeo;n swvsonta tovn gΔ auJtou' govnon.
Pr. oi[moi, dovmwn sw'n o[lbo" wJ" ceimavzetai.
Kr. tiv kra'ta kruvya", w\ gevron, dakrurroei'"…
Pr. se; kai; patevra so;n dustucou'nta" eijsorw'n.
Kr. ta; qnhta; toiau'tΔ: oujde;n ejn taujtw'/ mevnei.
970 Pr. mhv nun e[tΔ oi[ktwn, quvgater, ajntecwvmeqa.
Kr. tiv gavr me crh; dra'n… ajporiva to; dustucei'n.
Pr. to;n prw'ton ajdikhvsantav sΔ ajpotivnou qeovn.
Kr. kai; pw'" ta; kreivssw qnhto;" ou\sΔ uJperdravmw…
Pr. pivmprh ta; semna; Loxivou crhsthvria.
975 Kr. devdoika: kai; nu'n phmavtwn a{dhn e[cw.
Pr. ta; dunatav nun tovlmhson, a[ndra so;n ktanei'n.
Kr. aijdouvmeqΔ eujna;" ta;" tovqΔ hJnivkΔ ejsqlo;" h\n.
Pr. nu'n dΔ ajlla; pai'da to;n ejpi; soi; pefhnovta.
Kr. pw'"… eij ga;r ei[h dunatovn: wJ" qevloimiv gΔ a[n.
980 Pr. xifhfovrou" sou;" oJplivsasΔ ojpavona".
Kr. steivcoimΔ a[n: ajlla; pou' genhvsetai tovde…
Pr. iJerai'sin ejn skhnai'sin ou| qoina'/ fivlou".
Kr. ejpivshmon oJ fovno" kai; to; dou'lon ajsqenev".
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IONE 171

VE. Ah!
Sciagurata per ciò che hai osato fare, ma il dio più
sciagurato di te.39
CR. Se avessi visto come il bimbo mi tendeva le mani.
VE. Cercava il tuo seno, voleva essere stretto fra le tue
braccia?
CR. Sì, e non poterci stare è l’ingiustizia che ha subito
da me.
VE. Perché ti è venuta l’idea di esporre il bambino?
CR. Speravo che il dio salvasse la sua creatura.
VE. Ahimè, quale tempesta scuote la prosperità della
tua casa!
CR. Perché, vecchio, ti copri il capo e piangi?
VE. Vedo la tua sventura e quella di tuo padre.
CR. È la condizione dei mortali: niente dura stabilmente.
VE. Basta, figlia, lasciamo stare i continui lamenti.
CR. Cosa dovrei fare? La sventura è mancanza di ri-
sorse.
VE. Vendicati del dio, che per primo ti ha oltraggiato.
CR. E come posso io, mortale, trionfare di potenze su-
periori?
VE. Incendia il sacro oracolo del Lossia.
CR. Ho paura. Ho già abbastanza guai.
VE. Allora tenta ciò che è alla tua portata: uccidi tuo
marito.
CR. Ho riguardo per il vincolo nuziale, per quando lui
era onesto con me.
VE. Ma almeno uccidi il figlio, che è comparso per dan-
neggiarti.
CR. E come? Se solo fosse possibile, quanto lo vorrei!
VE. Arma di spade i tuoi servi.
CR. Potrei farlo. Ma dove avrebbe luogo l’attentato?
VE. Nel sacro padiglione dove offre un banchetto agli
amici.
CR. Ma il delitto richiama l’attenzione e i servi sono
deboli.
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172 IWN

Pr. w[moi, kakivzh/: fevre, suv nun bouvleuev ti.


985 Kr. kai; mh;n e[cw ge dovlia kai; drasthvria.
Pr. ajmfoi'n a]n ei[hn toi'ndΔ uJphrevth" ejgwv.
Kr. a[koue toivnun: oi\sqa ghgenh' mavchn…
Pr. oi\dΔ, h}n Flevgra/ Givgante" e[sthsan qeoi'".
Kr. ejntau'qa GorgovnΔ e[teke Gh', deino;n tevra".
990 Pr. h\ paisi;n auJth'" suvmmacon, qew'n povnon…
Kr. naiv: kaiv nin e[kteinΔ hJ Dio;" Palla;" qeav.
994 Pr. a\rΔ ou|tov" ejsqΔ oJ mu'qo" o}n kluvw pavlai…
995 Kr. tauvth" ΔAqavnan devro" ejpi; stevrnoi" e[cein.
996 Pr. h}n aijgivdΔ ojnomavzousi, Pallavdo" stolhvn…
997 Kr. tovdΔ e[scen o[noma qew'n o{tΔ h\/xen ej" dovru.
992 Pr. poi'ovn ti morfh'" sch'mΔ e[cousan ajgriva"…
993 Kr. qwvrakΔ ejcivdnh" peribovloi" wJplismevnon.
998 Pr. tiv dh'ta, quvgater, tou'to soi'" ejcqroi'" blavbo"…
Kr. ΔEricqovnion oi\sqΔ h] ãou[Ã… tiv dΔ ouj mevllei", gevron…
1000 Pr. o}n prw'ton uJmw'n provgonon ejxanh'ke gh'…
Kr. touvtw/ divdwsi Palla;" o[nti neogovnw/...
Pr. tiv crh'ma… mevllon gavr ti prosfevrei" e[po".
Kr. ...dissou;" stalagmou;" ai{mato" Gorgou'" a[po.
Pr. ijscu;n e[conta" tivna pro;" ajnqrwvpou fuvsin…
1005 Kr. to;n me;n qanavsimon, to;n dΔ ajkesfovron novswn.
Pr. ejn tw'/ kaqavyasΔ ajmfi; paidi; swvmato"…
Kr. crusevoisi desmoi'": oJ de; divdwsΔ ejmw'/ patriv.
Pr. keivnou de; katqanovnto" ej" sΔ ajfivketo…
Kr. naiv: kajpi; karpw'/ gΔ au[tΔ ejgw; cero;" fevrw.
1010 Pr. pw'" ou\n kevkrantai divptucon dw'ron qea'"…
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IONE 173

VE. Ahi, il coraggio ti abbandona. Su, proponi tu qual-


cosa.
CR. Io ho un piano che unisce l’inganno all’efficacia.
VE. Potrei essere al servizio dell’uno e dell’altra.
CR. Ascolta dunque: conosci la battaglia dei Giganti,
nati dalla Terra?
VE. Sì, quando combatterono a Flegra contro gli dèi.
CR. Allora la Terra generò la Gorgone, un terribile
mostro.
VE. Per aiutare i suoi figli e affliggere gli dèi?
CR. Sì. La dèa Pallade, figlia di Zeus, l’ha uccisa.
VE. È questa la storia che sentii raccontare tempo fa?
CR. Che Atena ne porta la pelle sul petto.
VE. Quella che viene chiamata “egida”, l’armatura di
Pallade?
CR. Prese quel nome quando lei balzò nella mischia
degli dèi.
VE. Come appare la sua forma selvaggia?
CR. Una corazza frangiata di spire di serpenti.
VE. Ebbene, figlia, che danno potrà fare ciò ai tuoi ne-
mici?
CR. Conosci Erittonio o no? E perché non dovresti,
vecchio?
VE. Il vostro primo antenato, partorito dalla terra?
CR. Pallade, quando era neonato, gli diede...
VE. Che cosa? Le tue parole si fanno attendere.
CR. ...due gocce del sangue della Gorgone.
VE. Qual è il loro effetto sull’organismo umano?
CR. Una è mortale, l’altra guarisce le malattie.
VE. Come le ha fissate al corpo del bambino?
CR. Con una catenina d’oro. Lui l’ha passata a mio padre.
VE. Alla sua morte è venuta in tuo possesso?
CR. Sì. La porto al mio polso.
VE. Ma il duplice dono della dèa come ottiene il suo
effetto?
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174 IWN

Kr. koivlh" me;n o{sti" flebo;" ajpevstaxen fovno"...


Pr. tiv tw'/de crh'sqai… duvnamin ejkfevrei tivna…
Kr. ...novsou" ajpeivrgei kai; trofa;" e[cei bivou.
Pr. oJ deuvtero" dΔ ajriqmo;" w|n levgei" tiv dra'/…
1015 Kr. kteivnei, drakovntwn ijo;" w]n tw'n Gorgovno".
Pr. ej" e}n de; kraqevntΔ aujto;n h] cwri;" forei'"…
Kr. cwriv": kakw'/ ga;r ejsqlo;n ouj summeivgnutai.
Pr. w\ filtavth pai', pavntΔ e[cei" o{swn se dei'.
Kr. touvtw/ qanei'tai pai'": su; dΔ oJ kteivnwn e[sh/.
1020 Pr. pou' kai; tiv dravsa"… so;n levgein, tolma'n dΔ ejmovn.
Kr. ejn tai'" ΔAqhvnai", dw'mΔ o{tan toujmo;n movlh/.
Pr. oujk eu\ tovdΔ ei\pa": kai; su; ga;r toujmo;n yevgei".
Kr. pw'"… a\rΔ uJpeivdou tou'qΔ o} ka[mΔ ejsevrcetai…
Pr. su; pai'da dovxei" diolevsai, keij mh; ktenei'".
1025 Kr. ojrqw'": fqonei'n gavr fasi mhtruia;" tevknoi".
Pr. aujtou' nun aujto;n ktei'nΔ, i{nΔ ajrnhvsh/ fovnou".
Kr. prolavzumai gou'n tw'/ crovnw/ th'" hJdonh'".
Pr. kai; sovn ge lhvsei" povsin a{ se speuvdei laqei'n.
Kr. oi\sqΔ ou\n o} dra'son: ceiro;" ejx ejmh'" labw;n
1030 cruvswmΔ ΔAqavna" tovde, palaio;n o[rganon,
ejlqw;n i{nΔ hJmw`n bouqutei' lavqra/ povsi",
deivpnwn o{tan lhvgwsi kai; sponda;" qeoi'"
mevllwsi leivbein, ejn pevploi" e[cwn tovde
kavqe" balw;n ej" pw'ma tw'/ neaniva/
1035 ijdiva/ ge, mhv ãtià pa'si, cwrivsa" potovn
tw'/ tw'n ejmw'n mevllonti despovzein dovmwn.
ka[nper dievlqh/ laimovn, ou[poqΔ i{xetai
kleina;" ΔAqhvna", katqanw;n dΔ aujtou' menei'.
Pr. su; mevn nun ei[sw proxevnwn mevqe" povda:
1040 hJmei'" dΔ ejfΔ w|/ tetavgmeqΔ ejkponhvsomen.
a[gΔ, w\ geraie; pouv", neaniva" genou'
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IONE 175

CR. La goccia che è sgorgata dalla vena cava...


VE. A che serve? Qual è il suo potere?
CR. ...tiene lontane le malattie e alimenta la vita.
VE. E la seconda goccia di cui parli che effetto ha?
CR. Uccide, è il veleno dei serpenti della Gorgone.
VE. Le porti mescolate insieme o separate?
CR. Separate. Il bene non si mescola al male.
VE. Figlia carissima, hai tutto quanto ti occorre.
CR. Con questo mezzo il ragazzo morirà; l’assassino
sarai tu.
VE. Dove e come? A te ordinare, a me osare l’azione.
CR. Ad Atene, non appena arriva nella mia casa.
VE. Questa non è una buona idea. Anche tu hai criti-
cato la mia.
CR. Come? Forse hai lo stesso sospetto che viene an-
che a me?
VE. Si penserà che tu hai ucciso il ragazzo, anche se
non sei l’assassina.
CR. È vero. Dicono che le matrigne odino i figliastri.
VE. Uccidilo adesso qui, dove puoi negare il delitto.
CR. Posso così gustarne in anticipo il piacere.
VE. Raggirerai tuo marito proprio in ciò su cui lui vuol
raggirare te. 40
CR. Ecco cosa devi fare: prendi dalla mia mano questo
monile d’oro d’Atena, antico manufatto, e va dove
mio marito, di nascosto da me, compie il sacrificio.
Quando, terminato il pasto, staranno per offrire liba-
gioni agli dèi, tenendolo nascosto nella veste versa ra-
pidamente il veleno nella coppa del ragazzo; a lui sol-
tanto, non a tutti, riservando questa bevanda a chi si
propone di essere signore della mia casa. Se solo la de-
glutisce, non raggiungerà più l’illustre Atene ma re-
sterà qui, morto.
VE. Tu ora vai in casa dei pròsseni; io eseguirò il com-
pito che mi hai assegnato. Su, vecchio piede, ringiova-
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176 IWN

e[rgoisi, keij mh; tw'/ crovnw/ pavrestiv soi.


ejcqro;n dΔ ejpΔ a[ndra stei'ce despotw'n mevta
kai; sumfovneue kai; sunexaivrei dovmwn.
1045 th;n dΔ eujsevbeian eujtucou'si me;n kalo;n
tima'n: o{tan de; polemivou" dra'sai kakw'"
qevlh/ ti", oujdei;" ejmpodw;n kei'tai novmo".
Co. Eijnodiva quvgater Davmatro", a} tw'n ªstr. a
nuktipovlwn ejfovdwn ajnavssei",
1050 kai; meqamerivwn
o{dwson dusqanavtwn
krathvrwn plhrwvmatΔ ejfΔ oi|si pevmpei
povtnia povtniΔ ejma; cqoniva"
1055 Gorgou'" laimotovmwn ajpo; stalagmw'n
tw'/ tw'n ΔErecqei>da'n
dovmwn ejfaptomevnw/:
mhdev potΔ a[llo" h{-
kwn povlew" ajnavssoi
1060 plh;n tw'n eujgeneta'n ΔErecqeida'n.
eij dΔ ajtelh;" qavnato" spoudaiv te despoiv- ªajnt. a
na" o{ te kairo;" a[peisi tovlma",
a|/ nu'n ejlpi;" ejfevr-
betΔ, h] qhkto;n xivfo" h]
1065 laimw'n ejxavyei broco;n ajmfi; deiravn,
pavqesi pavqea dΔ ejxanuvtousΔ
eij" a[lla" biovtou kavteisi morfav".
ouj ga;r dovmwn gΔ eJtevrou"
1070 a[rconta" ajllodapou;"
zw'sav potΔ ãejnà faen-
nai'" ajnevcoitΔ a]n aujgai'"
aJ tw'n eujpatrida'n gegw'sΔ oi[kwn.
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IONE 177

nisci nell’azione, anche se il tempo trascorso non te lo


consente. Procedi contro il nemico a fianco della pa-
drona e con lei uccidi, con lei libera la casa. Per chi è
fortunato è bello rispettare le norme della pietà; ma
quando si è determinati a danneggiare i nemici, nessu-
na legge è d’ostacolo.41

[Creusa e il vecchio escono]

TERZO STASIMO

CORO Enodia, figlia di Demetra, strofe a


tu che presiedi le aggressioni notturne,
guida anche quella diurna
per riempire la coppa,
che procuri morte straziante,
con gocce di sangue stillato
dalla gola recisa
della Gorgone ctonia,
a chi la mia signora, la mia signora le invia,
a colui che minaccia la casa
della stirpe di Eretteo.
Che un intruso non regni mai sulla città:
è un privilegio
dei nobili discendenti di Eretteo.
Se né il piano di morte avrà compimento, antistrofe a
né gli sforzi della mia padrona,
e svanisce il momento propizio per l’impresa audace
di cui ora si nutriva la speranza,
o con una spada affilata,
o stringendo un cappio intorno al collo,
con dolore mettendo fine al dolore,
trapasserà a un’altra forma di vita.
Né mai potrebbe soffrire,
finché vive alla chiara luce del sole,
che regnino nella sua casa degli stranieri,
lei che è nata da nobile stirpe.42
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178 IWN

aijscuvnomai to;n poluvu- ªstr. b


1075 mnon qeovn, eij para; Kallicovroisi pagai'"
lampavda qewro;" eijkavdwn
ejnnuvcion a[upno" o[yetai,
o{te kai; Dio;" ajsterwpo;"
ajnecovreusen aijqhvr,
1080 coreuvei de; selavna
kai; penthvkonta kovrai
ÊNhrevo" aiJ kata; povnton
ajenaw'n te potamw'nÊ
divna" coreuovmenai
1085 ta;n crusostevfanon kovran
kai; matevra semnavn:
i{nΔ ejlpivzei basileuv-
sein a[llwn povnon ejspesw;n
ãoJÃ Foivbeio" ajlavta".
1090 oJra'qΔ, o{soi duskelavdoi- ªajnt. b
sin kata; mou'san ijovnte" ajeivdeqΔ u{mnoi"
aJmevtera levcea kai; gavmou"
Kuvprido" ajqevmito" ajnosivou",
o{son eujsebiva/ kratou'men
1095 a[dikon a[roton ajndrw'n.
palivmfamo" ajoida;
kai; mou'sΔ eij" a[ndra" i[tw
Êduskevlado" ajmfi; levktrwn.
deivknusi ga;r oJ Dio;" ejk
1100 paivdwnÊ ajmnhmosuvnan,
ouj koina;n tekevwn tuvcan
oi[koisi futeuvsa"
despoivna/: pro;" dΔ ΔAfrodiv-
tan a[llan qevmeno" cavrin
1105 novqou paido;" e[kursen.
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IONE 179

Ho vergogna dinanzi al dio strofe b


celebrato da tanti inni,
se presso le sorgenti di Callicoro
il visitatore insonne
assisterà alla fiaccolata notturna
della veglia del ventesimo giorno,
quando anche l’etere di Zeus
con i suoi astri prende parte alle danze,
e danza la luna
e le cinquanta figlie di Nereo
nel mare e fra i gorghi dei fiumi perenni
danzano in onore
della vergine dal diadema d’oro
e della sua augusta madre:
è qui che spera di regnare
facendo suo il frutto della fatica altrui
il vagabondo di Febo.
Voi che diffamate nei canti, antistrofe b
seguendo l’ispirazione poetica,
i nostri amori e le unioni empie
di passioni illecite
vedete quanto superiamo in pietà
l’iniqua razza dei maschi.
Che un canto di segno contrario,
sui toni del biasimo,
attacchi gli amori degli uomini!
Nato da un figlio di Zeus,
costui rivela
la sua ingratitudine:
non condivide con la padrona, nella casa,
la sorte di una prole comune,
ma cercando il piacere d’amore
in un’altra, ha ottenuto un figlio,
un bastardo.43
[entra un servo]
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180 IWN

QERAPWN
kleinhvn, gunai'ke", pou' kovrhn ΔErecqevw"
devspoinan eu{rw… pantach'/ ga;r a[stew"
ã Ã
zhtw'n nin ejxevplhsa koujk e[cw labei'n.
Co. tiv dΔ e[stin, w\ xuvndoule… tiv" proqumiva
1110 podw'n e[cei se kai; lovgou" tivna" fevrei"…
Qe. qhrwvmeqΔ: ajrcai; dΔ aJpicwvrioi cqono;"
zhtou'sin aujth;n wJ" qavnh/ petroumevnh.
Co. oi[moi, tiv levxei"… ou[ti pou lelhvmmeqa
krufai'on ej" pai'dΔ ejkporivzousai fovnon…
1115 Qe. e[gnw": meqevxei" dΔ oujk ejn uJstavtoi" kakou'.
Co. w[fqh de; pw'" ta; krupta; mhcanhvmata…
Qe. ªto; mh; divkaion th'" divkh" hJsswvmenonº
ejxhu'ren oJ qeov", ouj mianqh'nai qevlwn.
Co. pw'"… ajntiavzw sΔ iJkevti" ejxeipei'n tavde.
1120 pepusmevnai gavr, eij qanei'n hJma'" crewvn,
h{dion a]n qavnoimen, ei[qΔ oJra'n favo".
Qe. ejpei; qeou' mantei'on w[/cetΔ ejklipw;n
povsi" Kreouvsh" pai'da to;n kaino;n labw;n
pro;" dei'pna qusiva" qΔ a}" qeoi'" wJplivzeto,
1125 Xou'qo" me;n w[/cetΔ e[nqa pu'r phda'/ qeou'
bakcei'on, wJ" sfagai'si Dionuvsou pevtra"
deuvseie dissa;" paido;" ajntΔ ojpthrivwn,
levxa": Su; mevn nun, tevknon, ajmfhvrei" mevnwn
skhna;" ajnivsth tektovnwn mocqhvmasin.
1130 quvsa" de; genevtai" qeoi'sin h]n makro;n crovnon
meivnw, parou'si dai'te" e[stwsan fivloi".
labw;n de; movscou" w[/ceqΔ: oJ de; neaniva"
semnw'" ajtoivcou" peribola;" skhnwmavtwn
ojrqostavtai" iJdruveqΔ, hJlivou bola;"
1135 kalw'" fulavxa", ou[te pro;" mevsa" flogo;"
ajkti'na" ou[tΔ au\ pro;" teleutwvsa" bivon,
plevqrou staqmhvsa" mh'ko" eij" eujgwnivan,
mevtrhmΔ e[cousan toujn mevsw/ ge murivwn
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IONE 181

QUARTO EPISODIO

SERVO Donne, dove posso trovare l’illustre figlia di


Eretteo, la nostra padrona? Sono andato a cercarla in
ogni angolo della città, senza riuscire a trovarla.
CO. Che succede, compagno? Perché tanta fretta, quali
notizie porti?
SER. Ci danno la caccia. I magistrati del paese la cerca-
no perché venga eseguita la condanna a morte per la-
pidazione.
CO. Ahimè, che intendi dire? Forse si è scoperto il no-
stro piano occulto per uccidere il ragazzo?
SER. Hai capito. E tu sarai fra i primi a pagare.
CO. Ma come è venuto alla luce il segreto dell’intrigo?
SER. L’ha svelato il dio, per evitare la contaminazione.
CO. Come? Ti supplico di spiegarmelo. Una volta ap-
presa la verità, la morte sarà più sopportabile se dob-
biamo morire, o la vita se ci è dato vivere.
SER. Quando il marito di Creusa, Xuto, se ne andò dal-
l’oracolo del dio insieme al nuovo figlio, per recarsi al
banchetto e al sacrificio che si apprestava a offrire agli
dèi, lui s’avviò verso il luogo dove balena nella danza
il fuoco bacchico del dio, per aspergere col sangue del-
le vittime i due picchi sacri a Dioniso, in luogo dei riti
per la nascita del figlio. Prima però gli disse: “Ora re-
sta qui, figlio mio, e fa erigere dai carpentieri un soli-
do padiglione. Se per caso mi attardassi a sacrificare
agli dèi della nascita, si dia inizio al banchetto con gli
amici presenti”.
Prese con sé dei vitelli e se ne andò. Il giovane allora
delimitava con solennità, per mezzo di pilastri, il peri-
metro della tenda ancora priva di pareti: tenendo con-
to della direzione dei raggi del sole, evitò di orientarla
sia verso la luce accecante del mezzogiorno, sia verso
quella morente del tramonto. Calcolò la misura di un
pletro, per ciascun lato di un quadrato che coprisse
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182 IWN

podw'n ajriqmovn, wJ" levgousin oiJ sofoiv,


1140 wJ" pavnta Delfw'n lao;n ej" qoivnhn kalw'n.
labw;n dΔ uJfavsmaqΔ iJera; qhsaurw'n pavra
kateskivaze, qauvmatΔ ajnqrwvpoi" oJra'n.
prw'ton me;n ojrovfw/ ptevruga peribavllei pevplwn,
ajnavqhma Divou paidov", ou}" ÔHraklevh"
1145 ΔAmazovnwn skuleuvmatΔ h[negken qew'/.
ejnh'n dΔ uJfantai; gravmmasin toiaivdΔ uJfaiv:
Oujrano;" ajqroivzwn a[strΔ ejn aijqevro" kuvklw/:
i{ppou" me;n h[launΔ ej" teleutaivan flovga
”Hlio", ejfevlkwn lampro;n ÔEspevrou favo":
1150 melavmpeplo" de; Nu;x ajseivrwton zugoi'"
o[chmΔ e[pallen, a[stra dΔ wJmavrtei qea'/:
Pleia;" me;n h[/ei mesopovrou diΔ aijqevro"
o{ te xifhvrh" ΔWrivwn, u{perqe de;
“Arkto" strevfousΔ oujrai'a crushvrh povlw/:
1155 kuvklo" de; pansevlhno" hjkovntizΔ a[nw
mhno;" dichvrh", ÔUavde" te, nautivloi"
safevstaton shmei'on, h{ te fwsfovro"
”Ew" diwvkousΔ a[stra. toivcoisin dΔ e[pi
h[mpiscen a[lla barbavrwn uJfavsmata:
1160 eujhrevtmou" nau'" ajntiva" ÔEllhnivsin
kai; mixovqhra" fw'ta" iJppeiva" tΔ a[gra"
ejlavfwn leovntwn tΔ ajgrivwn qhravmata.
katΔ eijsovdou" de; Kevkropa qugatevrwn pevla"
speivraisin eiJlivssontΔ, ΔAqhnaivwn tino;"
1165 ajnavqhma, crusevou" tΔ ejn mevsw/ sussitivw/
krath'ra" e[sthsΔ. ejn dΔ a[kroisi ba;" posi;n
kh'rux ajnei'pe to;n qevlontΔ ejgcwrivwn
ej" dai'ta cwrei'n. wJ" dΔ ejplhrwvqh stevgh,
stefavnoisi kosmhqevnte" eujovcqou bora'"
1170 yuch;n ejplhvroun. wJ" dΔ ajnei'san hJdonh;n
ã Ã parelqw;n prevsbu" ej" mevson pevdon
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IONE 183

un’area di diecimila piedi – come dicono gli esperti –


così da poter invitare al banchetto tutta la popolazio-
ne di Delfi.44
Poi trasse dal tesoro tessuti sacri, splendidi da ammi-
rare, e li drappeggiava per far ombra: anzitutto dispo-
se a copertura del soffitto un velario di stoffe, dono
votivo di Eracle, che il figlio di Zeus dedicò al dio co-
me bottino delle Amazzoni. E sulla loro trama erano
tessute queste raffigurazioni: Urano che raduna gli
astri nel cerchio della volta celeste; il Sole che guida i
suoi cavalli verso l’estremo barlume del giorno, tiran-
dosi dietro il chiarore brillante di Espero; la Notte dal
manto tenebroso spingeva innanzi il suo carro, traina-
to da cavalli aggiogati e privo di corsieri esterni, men-
tre un corteggio di stelle seguiva la dea; la Pleiade
avanzava nel mezzo del cielo, e anche Orione, armato
di spada, con l’Orsa sopra di loro che volgeva la coda
dorata intorno al polo; il disco della luna piena irra-
diava verso l’alto i suoi dardi, come se indicasse la
metà del mese, e poi c’erano le Iadi, il segnale più
chiaro per i naviganti, e l’Aurora che porta la luce
mettendo in fuga le stelle. Alle pareti adattava altri
arazzi, di provenienza barbara: navi ben munite di re-
mi che fronteggiano quelle greche, uomini semiferini,
cavalieri all’inseguimento di cervi, battute di caccia
contro leoni selvaggi.
All’entrata mise Cecrope, che s’avvolgeva in spire ser-
pentine vicino alle sue figlie, dono votivo di un Ate-
niese; e nel mezzo della sala del banchetto dispose
crateri d’oro. Un araldo, procedendo eretto in tutta la
sua statura, invitò alla festa chiunque della popolazio-
ne locale desiderasse prendervi parte. Quando il padi-
glione si riempì, i convitati si adornarono il capo di
ghirlande e si saziarono a piacere con il lauto pasto.
Dopo che ebbero soddisfatto il loro appetito, un vec-
chio, che si era fatto avanti, si fermò al centro e suscitò
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184 IWN

e[sth, gevlwn dΔ e[qhke sundeivpnoi" polu;n


provquma pravsswn: e[k te ga;r krwssw'n u{dwr
ceroi'n e[pempe nivptra kajxequmiva
1175 smuvrnh" iJdrw'ta crusevwn tΔ ejkpwmavtwn
h\rcΔ, aujto;" auJtw'/ tovnde prostavxa" povnon.
ejpei; dΔ ej" aujlou;" h|kon ej" krath'rav te
koinovn, gevrwn e[lexΔ: ΔAfarpavzein crew;n
oijnhra; teuvch smikrav, megavla dΔ ejsfevrein,
1180 wJ" qa'sson e[lqwsΔ oi{dΔ ej" hJdona;" frenw'n.
h\n dh; ferovntwn movcqo" ajrgurhlavtou"
cruseva" te fiavla": oJ de; labw;n ejxaivreton,
wJ" tw'/ nevw/ dh; despovth/ cavrin fevrwn,
e[dwke plh're" teu'co", eij" oi\non balw;n
1185 o{ fasi dou'nai favrmakon drasthvrion
devspoinan, wJ" pai'" oJ nevo" ejklivpoi favo".
koujdei;" tavdΔ h[/dein. ejn ceroi'n e[conti de;
sponda;" metΔ a[llwn paidi; tw'/ pefhnovti
blasfhmivan ti" oijketw'n ejfqevgxato.
1190 oJ dΔ, wJ" ejn iJerw'/ mavntesivn tΔ ejsqloi'" trafeiv",
oijwno;n e[qeto kajkevleusΔ a[llon nevon
krath'ra plhrou'n: ta;" de; pri;n sponda;" qeou'
divdwsi gaiva/ pa'siv tΔ ejkspevndein levgei.
sigh; dΔ uJph'lqen: ejk dΔ ejpivmplamen drovsou
1195 krath'ra" iJerou;" Biblivnou te pwvmato".
kajn tw'/de movcqw/ pthno;" ejspivptei dovmou"
kw'mo" peleiw'n (Loxivou ga;r ejn dovmoi"
a[tresta naivousΔ): wJ" dΔ ajpevspeisan mevqu
ej" aujto; ceivlh pwvmato" kecrhmevnai
1200 kaqh'kan, ei|lkon dΔ eujptevrou" ej" aujcevna".
kai; tai'" me;n a[llai" a[noso" h\n loibh; qeou':
h} dΔ e{zetΔ e[nqΔ oJ kaino;" e[speisen govno"
potou' tΔ ejgeuvsatΔ eujqu;" eu[pteron devma"
e[seise kajbavkceusen, ejk dΔ e[klagxΔ o[pa
1205 ajxuvneton aijavzousΔ: ejqavmbhsen de; pa'"
qoinatovrwn o{milo" o[rniqo" povnou".
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IONE 185

grande ilarità fra i convitati per il suo zelo: distribuiva


acqua dalle brocche per lavare le mani, faceva evapo-
rare resina di mirra e si prese cura delle coppe d’oro,
un incarico che s’era assegnato da solo.45
Quando venne il momento della musica dei flauti e
della distribuzione del vino dal cratere comune, il vec-
chio disse: “Bisogna portar via le coppe da vino picco-
le e introdurre quelle grandi, perché costoro arrivino
più rapidamente a rallegrare il loro umore”. Si affan-
narono a portare tazze d’argento cesellato e d’oro; e
lui prese una coppa speciale, come per fare omaggio
al nuovo padrone, e gliela porse colma, dopo aver ver-
sato nel vino il potente veleno consegnatogli, si dice,
dalla padrona, perché il nuovo figlio abbandonasse la
vita. Ma questo non lo sapeva nessuno. Mentre il fi-
glio riapparso teneva fra le mani, insieme agli altri, la
coppa per libare, uno dei servi pronunciò un’espres-
sione di cattivo augurio. Lui che era stato allevato nel
tempio, fra i migliori indovini, lo ritenne un presagio e
ordinò che si riempisse un nuovo cratere. Gettò a ter-
ra la prima libagione del dio e disse a tutti di gettar via
anche la loro. Scese il silenzio, e noi riempimmo i sacri
crateri d’acqua e di vino Biblino.
Mentre eravamo intenti a far ciò, si avventa sulla ten-
da un festoso stormo di colombe: vivono indisturbate
nel tempio del Lossia. Immersero il becco, assetate,
proprio nel vino della libagione, poiché era stato ver-
sato a terra, e lo sorbirono attraverso le gole piumate.
Per tutte le altre la libagione fu innocua, tranne per la
colomba che s’era posata là dove il nuovo figlio aveva
versato la sua: l’assaggiò e subito il suo bel corpo piu-
mato fu scosso da spasmi e fremiti, come nel delirio
bacchico, ed emise un grido lamentoso, indecifrabile.
La folla dei convitati rimase attonita dinanzi all’ago-
nia dell’uccello. Morì fra le convulsioni, distendendo
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186 IWN

qnhv/skei dΔ ajpaspaivrousa, foinikoskelei'"


chla;" parei'sa. gumna; dΔ ejk pevplwn mevlh
uJpe;r trapevzh" h|cΔ oJ manteuto;" govno",
1210 boa'/ dev: Tiv" mΔ e[mellen ajnqrwvpwn ktanei'n…
shvmaine, prevsbu: sh; ga;r hJ proqumiva
kai; pw'ma ceiro;" sh'" ejdexavmhn pavra.
eujqu;" dΔ ejreuna'/ grai'an wjlevnhn labwvn,
ejpΔ aujtofwvrw/ prevsbun wJ" e[conqΔ e{loi
ã Ã.
1215 w[fqh de; kai; katei'pΔ ajnagkasqei;" movli"
tovlma" Kreouvsh" pwvmatov" te mhcanav".
qei' dΔ eujqu;" e[xw sullabw;n qoinavtora"
oJ puqovcrhsto" Loxivou neaniva",
kajn koiravnoisi Puqikoi'" staqei;" levgei:
1220 “W gai'a semnhv, th'" ΔErecqevw" u{po,
xevnh" gunaikov", farmavkoisi qnhv/skomen.
Delfw'n dΔ a[nakte" w{risan petrorrifh'
qanei'n ejmh;n devspoinan ouj yhvfw/ mia'/,
to;n iJero;n wJ" kteivnousan e[n tΔ ajnaktovroi"
1225 fovnon tiqei'san. pa'sa de; zhtei' povli"
th;n ajqlivw" speuvsasan ajqlivan oJdovn:
paivdwn ga;r ejlqou'sΔ eij" e[ron Foivbou pavra
to; sw'ma koinh'/ toi'" tevknoi" ajpwvlesen.
Co. oujk e[stΔ oujk e[stin qanavtou
1230 paratropa; meleva/ moi:
fanera; fanera; tavdΔ h[dh
Êsponda;" ejk Dionuvsou
botruvwn qoa'" ejcivdna"
stagovsi meignumevna" fovnw/Ê.
1235 fanera; quvmata nertevrwn,
sumforai; me;n ejmw'/ bivw/,
leuvsimoi de; katafqorai; despoivna/.
tivna fuga;n pterovessan h]
cqono;" uJpo; skotivou" mucou;" poreuqw',
1240 qanavtou leuvsimon a[tan
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IONE 187

infine le sue zampe rosse. Il figlio designato dall’oraco-


lo allora, liberate le braccia dal manto, le allungò sulla
tavola e gridò: “Chi cercava di uccidermi? Denuncialo,
vecchio: eri tu a darti da fare, e la bevanda l’ho ricevu-
ta dalle tue mani”. E subito afferrò il vecchio per il
braccio e lo perquisì, per poterlo cogliere in flagrante
possesso <di una fiala di veleno>. Fu scoperto ma, solo
perché costretto, confessò con riluttanza l’audace pia-
no di Creusa e l’intrigo della bevanda. Il giovane del
Lossia indicato dall’oracolo pitico corse subito all’e-
sterno, portando con sé dei convitati, e stando in mez-
zo ai signori di Delfi disse: “Terra augusta, stavo per
morire avvelenato dalla figlia di Eretteo, la straniera”.
I signori di Delfi comminarono alla mia padrona la pe-
na di morte per lapidazione, con la maggioranza dei vo-
ti, perché ha attentato alla vita di un uomo consacrato e
ha cercato di contaminare il santuario con un delitto.
Tutta la città va in cerca di lei, che s’è avviata, infelice,
su una strada infelice: venuta per il suo desiderio di figli
da Febo, ha perduto insieme ai figli la vita.46

[il servo esce]

CORO
Non posso, non posso sottrarmi
alla morte, sventurata che sono!
È palese ormai, è palese:
la libagione mescolò il succo
dei grappoli di Dioniso, in modo fatale,
con gocce di sangue del fulmineo rettile.
È palese che siamo vittime votate agli inferi:
sciagura per la mia vita,
lapidazione mortale per la mia padrona.
Dove potrei fuggire a volo,
o in quali oscuri recessi della terra,
così scampando alla morte per lapidazione:
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188 IWN

ajpofeuvgousa, teqrivppwn
wjkista'n cala'n ejpiba'sΔ
h] pruvmna" e[pi naw'n…
oujk e[sti laqei'n o{te mh; crhv/zwn
1245 qeo;" ejkklevptei.
tiv potΔ, w\ meleva devspoina, mevnei
yuch'/ se paqei'n… a\ra qevlousai
dra'saiv ti kako;n tou;" pevla" aujtai;
peisovmeqΔ w{sper to; divkaion…
1250 Kr. provspoloi, diwkovmesqa qanasivmou" ejpi; sfagav",
Puqiva/ yhvfw/ krathqei'sΔ, e[kdoto" de; givgnomai.
Co. i[smen, w\ tavlaina, ta;" sa;" sumforav", i{nΔ ei\ tuvch".
Kr. poi' fuvgw dh'tΔ… ejk ga;r oi[kwn prouvlabon movli" povda
mh; qanei'n, kloph'/ dΔ ajfi'gmai diafugou'sa polemivou".
1255 Co. poi' dΔ a]n a[llosΔ h] Δpi; bwmovn… Kr. kai; tiv moi plevon tovde…
Co. iJkevtin ouj qevmi" foneuvein. Kr. tw'/ novmw/ dev gΔ o[llumai.
Co. ceiriva gΔ aJlou'sa. Kr. kai; mh;n oi{dΔ ajgwnistai; pikroi;
deu'rΔ ejpeivgontai xifhvrei". Co. i{ze nun pura'" e[pi.
ka]n qavnh/" ga;r ejnqavdΔ ou\sa, toi'" ajpokteivnasiv se
1260 prostrovpaion ai|ma qhvsei": oijstevon de; th;n tuvchn.
Iw. w\ taurovmorfon o[mma Khfisou' patrov",
oi{an e[cidnan thvndΔ e[fusa" h] puro;"
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IONE 189

forse dovrei salire su una quadriga


trainata da rapidi destrieri,
o sulla poppa di una nave?
Non è possibile nascondersi,
a meno che un dio benevolo non ci rapisca.
Quale dolore ti attende ancora,
infelice padrona?
Noi che abbiamo desiderato
il male del prossimo
lo subiremo, secondo giustizia?47

[entra Creusa]

ESODO

CREUSA Ancelle, m’inseguono per immolarmi, con-


dannata dal verdetto dei Delfî; sono tradita!
CO. Sappiamo, infelice, delle tue sventure e qual è la
tua sorte.
CR. Dove posso rifugiarmi? Sono corsa fuori di casa
appena in tempo per non morire, e giungo qui eluden-
do i miei nemici.
CO. Dove se non all’altare?
CR. Che vantaggio ne avrò?
CO. Non è lecito uccidere una supplice.
CR. Ma la legge decreta la mia morte.
CO. Solo se ti avrà in suo potere catturandoti.
CR. Eccoli i miei feroci avversarî, si precipita-
no qui armati di spade.
CO. Siediti sull’altare. Se dovessi morire in questa po-
sizione, il tuo sangue ricadrà sui tuoi carnefici. Ma ras-
segnati al destino.

[entra Ione con uomini armati]

IONE Volto taurino del padre Cefiso, quale vipera hai


generato, un serpente nel cui sguardo arde una vampa
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190 IWN

dravkontΔ ajnablevponta foinivan flovga,


h|/ tovlma pa'sΔ e[nestin oujdΔ h{sswn e[fu
1265 Gorgou'" stalagmw'n, oi|" e[mellev me ktanei'n.
lavzusqΔ, i{nΔ aujth'" tou;" ajkhravtou" plovkou"
kovmh" kataxhvnwsi Parnasou' plavke",
o{qen petrai'on a{lma diskhqhvsetai.
ejsqlou' dΔ e[kursa daivmono", pri;n ej" povlin
1270 molei'n ΔAqhnw'n cujpo; mhtruia;n pesei'n.
ejn summavcoi" ga;r ajnemetrhsavmhn frevna"
ta;" sav", o{son moi ph'ma dusmenhv" tΔ e[fu":
e[sw ga;r a[n me peribalou'sa dwmavtwn
a[rdhn a]n ejxevpemya" eij" ”Aidou dovmou".
1275 ajllΔ ou[te bwmo;" ou[tΔ ΔApovllwno" dovmo"
swvsei sΔ: oJ dΔ oi\kto" oJ so;" ejmoi; kreivsswn pavra
kai; mhtri; thjmh'/: kai; ga;r eij to; sw'mav moi
a[pestin aujth'", tou[nomΔ oujk a[pestiv pw.
i[desqe th;n panou'rgon, ejk tevcnh" tevcnhn
1280 oi{an e[plexe: bwmo;n e[pthxen qeou'
wJ" ouj divkhn dwvsousa tw'n eijrgasmevnwn.
Kr. ajpennevpw se mh; katakteivnein ejme;
uJpevr tΔ ejmauth'" tou' qeou' qΔ i{nΔ e{stamen.
Iw. tiv dΔ ejsti; Foivbw/ soiv te koino;n ejn mevsw/…
1285 Kr. iJero;n to; sw'ma tw'/ qew'/ divdwmΔ e[cein.
Iw. ka[peitΔ e[kaine" farmavkoi" to;n tou' qeou'…
Kr. ajllΔ oujkevtΔ h\sqa Loxivou, patro;" de; sou'.
Iw. ajllΔ ejgenovmesqa: patro;" ajpousiva/ levgw.
Kr. oujkou'n tovtΔ h\sqa: nu'n dΔ ejgwv, su; dΔ oujkevti.
1290 Iw. oujk eujsebei'" ge: tajma; dΔ eujsebh' tovtΔ h\n.
Kr. e[kteinav sΔ o[nta polevmion dovmoi" ejmoi'".
Iw. ou[toi su;n o{ploi" h\lqon ej" th;n sh;n cqovna.
Kr. mavlista: kajpivmprh" gΔ ΔErecqevw" dovmou".
Iw. poivoisi panoi'" h] puro;" poiva/ flogiv…
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IONE 191

letale! È capace di ogni audacia, la sua natura non è


da meno delle gocce del sangue di Gorgone con cui
intendeva uccidermi. Prendetela: le rupi del Parnaso
pettineranno le ciocche intatte della sua chioma,
quando da quelle alture verrà scaraventata nel bara-
tro. Ho avuto un colpo di fortuna, prima di giungere
ad Atene e cadere in balìa di una matrigna.
Ho potuto misurare le tue intenzioni, qui tra i miei
amici, quanto danno mi avresti fatto e quanto mi eri
ostile. Se m’avessi stretto nelle tue insidie in casa tua,
m’avresti spedito senza scampo nell’Ade. Ma né l’al-
tare né il tempio di Apollo ti salveranno: la pietà che
tu vorresti suscitare è dovuta piuttosto a me e a mia
madre. Anche se il suo corpo non è presente, il suo no-
me non mi abbandona mai. Guardate la criminale, co-
me ordisce uno stratagemma dopo l’altro: si è rannic-
chiata presso l’altare del dio convinta di non pagare i
suoi misfatti.48
CR. In nome mio e del dio che mi protegge, ti proibi-
sco di uccidermi.
IO. Cosa c’è in comune tra te e Febo?
CR. Affido il mio corpo al dio, consacrandolo a lui.
IO. E tuttavia hai tentato di uccidere col veleno chi è
consacrato al dio?
CR. Tu non appartenevi più al Lossia, ma a tuo padre.
IO. Ma ero diventato suo, intendo in assenza di mio pa-
dre.
CR. Ebbene, una volta eri del dio; adesso lo sono io,
non più tu.
IO. Tu non sei pia, mentre io lo ero.
CR. Intendevo ucciderti perché sei nemico della mia
casa.
IO. Non ho certo assalito il tuo paese in armi.
CR. Sì, e avresti cercato di dare alle fiamme la casa di
Eretteo.
IO. Con quali torce, con quale fuoco?
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192 IWN

1295 Kr. e[melle" oijkei'n ta[mΔ, ejmou' biva/ labwvn.


1300 Iw. ka[peita tou' mevllein mΔ ajpevkteine" fovbw/…
1301 Kr. wJ" mh; qavnoimiv gΔ, eij su; mh; mevllwn tuvcoi".
1302 Iw. fqonei'" a[pai" ou\sΔ, eij path;r ejxhu'rev me…
1303 Kr. su; tw'n ajtevknwn dh'tΔ ajnarpavsei" dovmou"…
1296 Iw. patrov" ge gh'n didovnto" h}n ejkthvsato.
Kr. toi'" Aijovlou de; pw'" meth'n th'" Pallavdo"…
Iw. o{ploisin aujth;n ouj lovgoi" ejrruvsato.
1299 Kr. ejpivkouro" oijkhvtwr gΔ a]n oujk ei[h cqonov".
1304 Iw. hJmi'n dev gΔ a{ma ãtw/`Ã patri; gh'" oujk h\n mevro"…
1305 Kr. o{sΔ ajspi;" e[gco" qΔ: h{de soi pamphsiva.
Iw. e[kleipe bwmo;n kai; qehlavtou" e{dra".
Kr. th;n sh;n o{pou soi mhtevrΔ ejsti; nouqevtei.
Iw. su; dΔ oujc uJfevxei" zhmivan kteivnousΔ ejmev…
Kr. h[n gΔ ejnto;" ajduvtwn tw'ndev me sfavxai qevlh/".
1310 Iw. tiv" hJdonhv soi qeou' qanei'n ejn stevmmasin…
Kr. luphvsomevn tinΔ w|n leluphvmesqΔ u{po.
Iw. feu':
deinovn ge qnhtoi'" tou;" novmou" wJ" ouj kalw'"
e[qhken oJ qeo;" oujdΔ ajpo; gnwvmh" sofh'":
tou;" me;n ga;r ajdivkou" bwmo;n oujc i{zein ejcrh'n
1315 ajllΔ ejxelauvnein: oujde; ga;r yauvein kalo;n
qew'n ponhra'/ ceiriv, toi'si dΔ ejndivkoi":
iJera; kaqivzein ãdΔÃ o{sti" hjdikei'tΔ ejcrh'n,
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IONE 193

CR. Intendevi governare ciò che è mio portandomelo


via con la forza.
IO. E così, per paura delle mie intenzioni, hai provato
a uccidermi?
CR. Sì, per non morire, se tu non ti fossi limitato alle
intenzioni.
IO. Provi invidia, tu senza figli, perché mio padre mi ha
ritrovato?
CR. Vuoi dunque portar via la casa alle donne senza
figli?
IO. Mio padre, invero, mi ha dato la terra che si è con-
quistata.
CR. Che diritti hanno i figli di Eolo sulla terra di Pal-
lade?
IO. L’ha difesa con le armi, non con le parole.
CR . Un alleato non può abitare la terra da proprie-
tario.
IO. Ma non ho diritto di condividere la terra insieme a
mio padre?
CR. Quanto valgono uno scudo e una lancia: è questo
tutto il tuo patrimonio.
IO. Lascia l’altare e la sede sacra del dio.
CR. Ammonisci tua madre, dovunque possa essere.
IO. E tu che hai tentato d’uccidermi non sconterai nes-
suna pena?
CR. Solo se sei disposto a sgozzarmi dentro questo san-
tuario.
IO. Che piacere provi a morire tra le bende sacre al dio?
CR. Farò soffrire qualcuno che mi ha fatto soffrire.
IO. Ah! È tremendo che il dio abbia imposto leggi ai
mortali secondo un criterio iniquo e irragionevole: an-
ziché lasciar sedere all’altare i colpevoli, bisognereb-
be cacciarli. Non è bello che sia il malvagio, ma solo il
giusto, a toccare con la sua mano ciò che è sacro. Rifu-
giarsi nel tempio dovrebbe esser consentito solo a chi
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194 IWN

kai; mh; Δpi; taujto; tou'tΔ ijovntΔ e[cein i[son


tovn tΔ ejsqlo;n o[nta tovn te mh; qew'n pavra.
PROFHTIS
1320 ejpivsce", w\ pai': trivpoda ga;r crhsthvrion
lipou'sa qrigkou;" touvsdΔ uJperbavllw podi;
Foivbou profh'ti", trivpodo" ajrcai'on novmon
swv/zousa, pasw'n Delfivdwn ejxaivreto".
Iw. cai'rΔ, w\ fivlh moi mh'ter, ouj tekou'sav per.
1325 Pr. ajllΔ ou\n legovmeqav gΔ: hJ favti" dΔ ou[ moi pikrav.
Iw. h[kousa" w{" mΔ e[kteinen h{de mhcanai'"…
Pr. h[kousa: kai; su; dΔ wjmo;" w]n aJmartavnei".
Iw. ouj crhv me tou;" kteivnonta" ajntapolluvnai…
Pr. progovnoi" davmarte" dusmenei'" ajeiv pote.
1330 Iw. hJmei'" de; mhtruiai'" ge pavsconte" kakw'".
Pr. mh; tau'ta: leivpwn iJera; kai; steivcwn pavtran...
Iw. tiv dhv me dra'sai nouqetouvmenon crewvn…
Pr. ...kaqaro;" ΔAqhvna" e[lqΔ uJpΔ oijwnw'n kalw'n.
Iw. kaqaro;" a{pa" toi polemivou" o}" a]n ktavnh/.
1335 Pr. mh; suv ge: parΔ hJmw'n dΔ e[klabΔ ou}" e[cw lovgou".
Iw. levgoi" a[n: eu[nou" dΔ ou\sΔ ejrei'" o{sΔ a]n levgh/".
Pr. oJra'/" tovdΔ a[ggo" cero;" uJpΔ ajgkavlai" ejmai'"…
Iw. oJrw' palaia;n ajntivphgΔ ejn stevmmasin.
Pr. ejn th'/dev sΔ e[labon neovgonon brevfo" potev.
1340 Iw. tiv fhv/"… oJ mu'qo" eijsenhvnektai nevo".
Pr. sigh'/ ga;r ei\con aujtav: nu'n de; deivknumen.
Iw. pw'" ou\n e[krupte" tovde labou'sΔ hJma'" pavlai…
Pr. oJ qeo;" ejbouvletΔ ejn dovmoi" ãsΔÃ e[cein lavtrin.
Iw. nu'n dΔ oujci; crhv/zei… tw'/ tovde gnw'naiv me crhv…
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IONE 195

ha subito un torto. Non è giusto che, ricorrendo allo


stesso asilo, chi è onesto e chi non lo è ottengano pari
protezione dagli dèi.49

[entra la Pizia]

PROFETESSA
Fermati, figlio mio. Lasciato il tripode oracolare oltre-
passo questa soglia, io, profetessa di Febo, scelta a custo-
dire l’antica legge del tripode fra tutte le donne di Delfi.
IO. Salve, madre cara, anche se non mi hai concepito.
PR. Chiamami pure con un nome che mi suona dolce.
IO. Hai sentito come costei ha cercato d’uccidermi con
le sue trame?
PR. Ho sentito. Ma anche tu sei nel torto comportan-
doti con crudeltà.
IO. Non dovrei uccidere a mia volta chi ha tentato di
uccidermi?
PR. Le mogli sono sempre ostili ai figliastri.
IO. E noi alle matrigne quando ci trattano male.
PR. Non così. Lasciando il tempio e andando nella tua
patria...
IO. Cosa dovrei fare, qual è il tuo consiglio?
PR. ...va’ ad Atene con le mani pure e con buoni au-
spici.
IO. Chiunque uccida i suoi nemici ha le mani pure.
PR. Non tu: ascolta ciò che ho da dirti.
IO. Parla. Quel che dirai sarà per il mio bene.
PR. Vedi questa cesta che tengo fra le braccia?
IO. Vedo un vecchio canestro avvolto nelle bende.
PR. Qui dentro ti raccolsi un giorno, neonato.
IO. Che dici? Questa storia mi giunge nuova.
PR. L’ho taciuta a lungo, ma ora la rivelo.
IO. Perché me lo hai tenuto nascosto da allora?
PR. Il dio volle averti nel tempio come suo servo.
IO. E ora non lo vuole più? Come posso esserne certo?
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196 IWN

1345 Pr. patevra kateipw;n th'sdev sΔ ejkpevmpei cqonov".


Iw. su; dΔ ejk keleusmw'n h] povqen swv/zei" tavde…
Pr. ejnquvmiovn moi tovte tivqhsi Loxiva"...
Iw. tiv crh'ma dra'sai… levge, pevraine sou;" lovgou".
Pr. ...sw'sai tovdΔ eu{rhmΔ ej" to;n o[nta nu'n crovnon.
1350 Iw. e[cei dev moi tiv kevrdo" h] tivna blavbhn…
Pr. ejnqavde kevkruptai spavrganΔ oi|" ejnh'sqa suv.
Iw. mhtro;" tavdΔ hJmi'n ejkfevrei" zhthvmata…
Pr. ejpeiv gΔ oJ daivmwn bouvletai: pavroiqe dΔ ou[.
Iw. w\ makariva moi fasmavtwn h{dΔ hJmevra.
1355 Pr. labwvn nun aujta; th;n tekou'san ejkpovnei.
ãIw.Ã pa'savn gΔ ejpelqw;n ΔAsiavdΔ Eujrwvph" qΔ o{rou".
ãPr.Ã gnwvsh/ tavdΔ aujtov". tou' qeou' dΔ e{kativ se
e[qreyav tΔ, w\ pai', kai; tavdΔ ajpodivdwmiv soi,
a} kei'no" ajkevleustovn mΔ ejboulhvqh labei'n
1360 Êsw'saiv qΔ: o{tou dΔ ejbouvleqΔ ou{nekΔ oujk e[cw levgein.Ê
h[/dei de; qnhtw'n ou[ti" ajnqrwvpwn tavde
e[conta" hJma'" oujdΔ i{nΔ h\n kekrummevna.
kai; cai'rΔ: i[son gavr sΔ wJ" tekou'sΔ ajspavzomai.
a[rxai dΔ o{qen sh;n mhtevra zhtei'n se crhv:
1365 prw'ton me;n ei[ ti" Delfivdwn tekou'sav se
ej" touvsde naou;" ejxevqhke parqevno",
e[peita dΔ ei[ ti" ÔEllav". ejx hJmw'n dΔ e[cei"
a{panta Foivbou qΔ, o}" metevsce th'" tuvch".
Iw. feu' feu': katΔ o[sswn wJ" uJgro;n bavllw davkru,
1370 ejkei'se to;n nou'n dou;" o{qΔ hJ tekou'sav me
krufai'a numfeuqei'sΔ ajphmpovla lavqra/
kai; masto;n oujk ejpevscen: ajllΔ ajnwvnumo"
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IONE 197

PR. Annunciando il nome di tuo padre ti congeda da


questa terra.
IO. Hai conservato la cesta perché ti è stato imposto, o
per quale altro motivo?
PR. Il Lossia mi ispirò quest’idea allora...
IO. Di far cosa? Parla, completa il tuo racconto.
PR. ...custodire ciò che avevo trovato fino a questo mo-
mento.
IO. Quale vantaggio o quale danno ne ricavo?
PR. Qui dentro sono nascosti i tessuti in cui eri avvolto.
IO. Me li mostri come indizio per rintracciare mia
madre?
PR. È il dio a volerlo. Ma prima non era così.
IO. Beato questo giorno con le sue rivelazioni!
PR. Prendili ora, e va’ in cerca di tua madre.
IO. Anche a costo di attraversare tutta l’Asia e i confi-
ni d’Europa.
PR. Decidi da solo. Ti ho allevato per volere del dio, fi-
glio mio, e ti consegno questi oggetti che, pur senza
darmi un ordine preciso, lui volle che raccogliessi e cu-
stodissi. Perché lo abbia voluto non so dirtelo.
Nessun mortale sapeva che io li possedevo, né dove
fossero nascosti. Addio! Ti abbraccio come farebbe
una madre. Inizia la ricerca di tua madre là da dove è
giusto partire: prima accerta se una donna non sposata
di Delfi, dopo averti generato, non ti abbia esposto in
questo tempio. E poi se non si tratti di un’altra donna
greca. Questo è tutto quel che ti dovevo, anche a nome
di Febo, che ha avuto una parte nel tuo destino.50

[la Pizia rientra nel tempio]

IO. Ahimè! Quante lacrime scorrono dai miei occhi


quando penso al momento in cui mia madre, dopo es-
sere stata sedotta in segreto, mi ha venduto di nasco-
sto senza offrirmi il suo seno. E io ho condotto una vi-
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198 IWN

ejn qeou' melavqroi" ei\con oijkevthn bivon.


ta; tou' qeou' me;n crhstav, tou' de; daivmono"
1375 bareva: crovnon ga;r o{n mΔ ejcrh'n ejn ajgkavlai"
mhtro;" trufh'sai kaiv ti terfqh'nai bivou
ajpesterhvqhn filtavth" mhtro;" trofh'".
tlhvmwn de; chj tekou'sav mΔ: wJ" taujto;n pavqo"
pevponqe, paido;" ajpolevsasa carmonav".
1380 kai; nu'n labw;n thvndΔ ajntivphgΔ oi[sw qew'/
ajnavqhmΔ, i{nΔ eu{rw mhde;n w|n ouj bouvlomai.
eij gavr me douvlh tugcavnei tekou'sav ti",
euJrei'n kavkion mhtevrΔ h] sigw'ntΔ eja'n.
w\ Foi'be, naoi'" ajnativqhmi thvnde soi'":
1385 kaivtoi tiv pavscw… tou' qeou' proqumiva/
polemw', ta; mhtro;" suvmbolΔ o}" sevswkev moi…
ajnoiktevon tavdΔ ejsti; kai; tolmhtevon:
ta; ga;r peprwmevnΔ oujc uJperbaivhn potΔ a[n.
w\ stevmmaqΔ iJerav, tiv potev moi kekeuvqate,
1390 kai; suvndeqΔ oi|si ta[mΔ ejfrourhvqh fivla…
ijdou; perivptugmΔ ajntivphgo" eujkuvklou
wJ" ouj geghvrakΔ e[k tino" qehlavtou,
eujrwv" tΔ a[pesti plegmavtwn: oJ dΔ ejn mevsw/
crovno" polu;" dh; toi'sde qhsaurivsmasin.
1395 Kr. tiv dh'ta favsma tw'n ajnelpivstwn oJrw'…
Iw. sivga suv: ph'ma kai; pavroiqen h\sqav moi.
Kr. oujk ejn siwph'/ tajmav: mhv me nouqevtei.
oJrw' ga;r a[ggo" w|/ ΔxevqhkΔ ejgwv pote
sev gΔ, w\ tevknon moi, brevfo" e[tΔ o[nta nhvpion,
1400 Kevkropo" ej" a[ntra kai; Makra;" petrhrefei'".
leivyw de; bwmo;n tovnde, keij qanei'n me crhv.
Iw. lavzusqe thvnde: qeomanh;" ga;r h{lato
bwmou' lipou'sa xovana: dei'te dΔ wjlevna".
Kr. sfavzonte" ouj lhvgoitΔ a[n: wJ" ajnqevxomai
1405 kai; th'sde kai; sou' tw'n te sw``n kekrummevnwn.
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IONE 199

ta da servo, senza nome, nel tempio del dio. Ma se il


dio mi è stato propizio, la sorte è stata gravosa. Nel pe-
riodo in cui avrei dovuto essere teneramente accudito
fra le braccia materne, e gustare un po’ della gioia di
vivere, sono stato privato del nutrimento e dell’amore
di mia madre. Infelice, però, anche chi mi ha messo al
mondo: quanto è simile al mio il suo dolore per aver
perduto le gioie della maternità!
Ora voglio prendere questa cesta e dedicarla al dio,
per non dover scoprire nulla di indesiderato. Se per
caso mi avesse partorito una schiava, ritrovarla sareb-
be peggio che perderla mantenendo il segreto. Febo,
offro in voto questa cesta nel tuo tempio! Ma cosa mi
succede? Resisto alla volontà divina, che ha preserva-
to per me i segni per conoscere l’identità di mia ma-
dre? Devo aprire la cesta e avere coraggio: non potrei
mai sfuggire al mio destino. Cosa mi nascondete dun-
que, sacre bende, legami cui è affidata la custodia di
ciò che mi è caro?
Guarda come l’involucro del canestro rotondo, mira-
colosamente, non è invecchiato, la muffa non ha intac-
cato l’intreccio dei vimini: eppure è trascorso tanto
tempo da quando questi oggetti furono conservati!51
CR. Quale rivelazione inattesa ho dinanzi agli occhi?
IO. Taci! Anche prima sei stata fonte di guai per me.
CR. Non è più il momento di tacere la mia situazione.
Non rimproverarmi! Vedo proprio la cesta in cui un
giorno ti esposi, figlio mio, creatura appena nata, nella
grotta di Cecrope presso le Rocce Alte.
Lascerò quest’altare anche se devo morire.
IO. Prendetela! Resa folle da un dio, è balzata lascian-
do l’altare e i simulacri. Legatele le braccia.
CR. Non rinunciate a uccidermi? Io rivendicherò co-
munque il possesso di questa cesta, di te, e dei tuoi og-
getti che vi sono celati.
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200 IWN

Iw. tavdΔ oujci; deinav… rJusiavzomai lovgw/.


Kr. ou[k, ajlla; soi'" fivloisin euJrivskh/ fivlo".
Iw. ejgw; fivlo" sov"… ka\itav mΔ e[kteine" lavqra/…
Kr. pai'" gΔ, eij tovdΔ ejsti; toi'" tekou'si fivltaton.
1410 Iw. pau'sai plevkousa: lhvyomaiv sΔ ejgwv kalw``".
Kr. ej" tou'qΔ iJkoivmhn, tou'de toxeuvw, tevknon.
Iw. keno;n tovdΔ a[ggo" h] stevgei plhvrwmav ti…
Kr. sav gΔ e[nduqΔ, oi|siv sΔ ejxevqhkΔ ejgwv pote.
Iw. kai; tou[nomΔ aujtw'n ejxerei'" pri;n eijsidei'n…
1415 Kr. ka]n mh; fravsw ge, katqanei'n uJfivstamai.
Iw. levgΔ: wJ" e[cei ti deino;n h{ ge tovlma sou.
Kr. skevyasqΔ o} pai'" potΔ ou\sΔ u{fasmΔ u{fhnΔ ejgwv.
Iw. poi'ovn ti… polla; parqevnwn uJfavsmata.
Kr. ouj tevleon, oi|on dΔ ejkdivdagma kerkivdo".
1420 Iw. morfh;n e[con tivnΔ… w{" me mh; tauvth/ lavbh/".
Kr. Gorgw;n me;n ejn mevsoisin hjtrivoi" pevplwn.
Iw. w\ Zeu', tiv" hJma'" ejkkunhgetei' povtmo"…
Kr. kekraspevdwtai dΔ o[fesin aijgivdo" trovpon.
Iw. ijdouv:
tovdΔ e[sqΔ u{fasma: qevsfaqΔ w}" euJrivskomen.
1425 Kr. w\ crovnion iJstw'n parqevneuma tw'n ejmw'n.
Iw. e[stin ti pro;" tw'/dΔ h] movnon tovdΔ eujtucei'"…
Kr. dravkonte", ajrcaivw/ ti pavgcruson gevnei
dwvrhmΔ ΔAqavna", w/| tevknΔ ejntrevfein levgei,
ΔEricqonivou ge tou' pavlai mimhvmata.
1430 Iw. tiv dra'n, tiv crh'sqai, fravze moi, cruswvmati…
Kr. devraia paidi; neogovnw/ fevrein, tevknon.
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IONE 201

IO. Non è terribile? Essere confiscati a parole!


CR. No, chi ti ama ritrova in te una persona cara.
IO. Io caro a te, che hai tentato di uccidermi a tradi-
mento?
CR. Sì, come lo è un figlio, e i genitori non hanno nien-
te di più caro.
IO. Smetti di tramare, ti agguanterò per bene.
CR. Sono qui per questo, figlio, è il mio proposito.
IO. Questa cesta è vuota o racchiude qualcosa?
CR. Gli indumenti con cui ti esposi allora.
IO. E sapresti menzionarli con precisione prima di ve-
derli?
CR. Sì, e se non ne fossi capace accetto di morire.
IO. Parla. La tua audacia ha un che di sconcertante.
CR. Guardate il tessuto che feci quando ero ancora
una fanciulla.
IO. Di che tipo? Le fanciulle si cimentano in molti la-
vori al telaio.
CR. Non è terminato, era un saggio di tessitura.
IO. E qual è il suo aspetto? Non vorrei che su questo
mi prendessi in giro.
CR. C’è una Gorgone al centro dell’ordito.
IO. Zeus, quale destino è giunto sulle mie tracce?
CR. Ha una frangia di serpenti, come un’egida.
IO. Guarda!
Questa è la stoffa, ne trovo la conferma come se fosse
un responso oracolare.
CR. Prodotto del mio telaio di ragazza, tessuto tanto
tempo fa!
IO. C’è qualcos’altro, o la tua fortuna si limita a questo?
CR. Dei serpenti, un dono tutto d’oro di Atena alla mia
antica stirpe: la dea invita a crescere i figli con questo
amuleto, a imitazione dell’avo Erittonio.
IO. Cosa devono farne, a che serve, dimmi, quel gioiel-
lo d’oro?
CR. Una collana per il neonato, figlio mio.
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202 IWN

Iw. e[neisin oi{de: to; de; trivton poqw' maqei'n.


Kr. stevfanon ejlaiva" ajmfevqhkav soi tovte,
h}n prw'tΔ ΔAqavna" skovpelo" ejxhnevgkato,
1435 o}" ei[per ejstivn, ou[potΔ ejkleivpei clovhn,
qavllei dΔ, ejlaiva" ejx ajkhravtou gegwv".
Iw. w\ filtavth moi mh'ter, a[smenov" sΔ ijdw;n
pro;" ajsmevna" pevptwka sa;" parhivda".
Kr. w\ tevknon, w\ fw'" mhtri; krei'sson hJlivou
1440 (suggnwvsetai ga;r oJ qeov"), ejn ceroi'n sΔ e[cw,
a[elpton eu{rhmΔ, o}n kata; ga'" ejnevrwn
cqonivwn mevta Persefovna" tΔ ejdovkoun naivein.
Iw. ajllΔ, w\ fivlh moi mh'ter, ejn ceroi'n sevqen
oJ katqanwvn te kouj qanw;n fantavzomai.
1445 Kr. ijw; ijw; lampra'" aijqevro" ajmptucaiv,
tivnΔ aujda;n ajuvsw boavsw… povqen moi
sunevkursΔ ajdovkhto" hJdonav…
povqen ejlavbomen caravn…
1450 Iw. ejmoi; genevsqai pavnta ma'llon a[n pote,
mh'ter, parevsth tw'ndΔ, o{pw" sov" eijmΔ ejgwv.
Kr. e[ti fovbw/ trevmw.
Iw. mw'n oujk e[cein mΔ e[cousa… Kr. ta;" ga;r ejlpivda"
ajpevbalon provsw.
w\ guvnai, povqen povqen e[labe" ejmo;n
brevfo" ej" ajgkavla"…
1455 tivnΔ ajna; cevra dovmou" e[ba Loxivou…
Iw. qei'on tovdΔ: ajlla; tajpivloipa th'" tuvch"
eujdaimonoi'men, wJ" ta; provsqΔ ejdustuvcei.
Kr. tevknon, oujk ajdavkruto" ejkloceuvh/,
govoi" de; matro;" ejk cerw'n oJrivzh/.
1460 nu'n de; geneiavsin pavra sevqen pnevw
makariwtavta" tucou'sΔ hJdona'".
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IONE 203

IO. I serpenti ci sono. Ma desidero che tu mi parli di un


terzo oggetto.
CR. Quel giorno ti misi intorno una ghirlanda di fron-
de d’ulivo, dell’albero che crebbe per la prima volta
dalla rocca di Atena: se c’è, non ha perduto il suo co-
lore verde e non è avvizzita, perché è germogliata da
un ulivo inviolabile. 52
IO. Madre carissima, che felicità nel rivederti, nello
stringermi al tuo viso felice.
CR. Figlio mio, luce per tua madre più sfolgorante del
sole (il dio mi perdonerà), ti stringo fra le braccia,
quando non speravo più di trovarti
e credevo dimorassi sotto terra,
con le ombre e Persefone!
IO. Ma fra le tue braccia, madre cara, io che ero morto
ricompaio vivo.
CR. Oh, distesa luminosa dell’etere,
quali parole devo pronunciare, gridare?
Da dove mi giunge questa gioia inattesa?
Da dove ricevo questa letizia?
IO. Tutto mi sarei immaginato più probabile, madre,
che non scoprire di essere tuo figlio.
CR. Tremo ancora di paura.
IO. Dubiti forse di avermi, pur tenendomi stretto?
CR. Sì, le mie speranze
le avevo interamente perdute.
Da dove, da dove hai preso, donna,
la mia creatura fra le braccia?
Quali mani lo hanno portato nella casa del Lossia?
IO. Questa è opera del dio. Ma per il futuro auguria-
moci una buona sorte, così come siamo stati sfortunati
per il passato.
CR. Figlio, ti ho partorito fra le lacrime,
fra i singhiozzi fosti separato dalle braccia materne.
Ma ora respiro serrandomi alle tue guance
e assaporo la più profonda beatitudine.
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204 IWN

Iw. toujmo;n levgousa kai; to; so;n koinw'" levgei".


Kr. a[paide" oujkevtΔ ejsme;n oujdΔ a[teknoi:
dw'mΔ eJstiou'tai, ga' dΔ e[cei turavnnou",
1465 ajnhba'/ dΔ ΔErecqeuv":
o{ te ghgenevta" dovmo" oujkevti nuvkta devrketai,
ajelivou dΔ ajnablevpei lampavsin.
Iw. mh'ter, parwvn moi kai; path;r metascevtw
th'" hJdonh'" th'sdΔ h|" e[dwcΔ uJmi'n ejgwv.
1470 Kr. w\ tevknon,
tiv fhv/"… oi|on oi|on ajnelevgcomai.
Iw. pw'" ei\pa"… ãKr.Ã a[lloqen gevgona", a[lloqen.
Iw. w[moi: novqon me parqevneumΔ e[tikte sovn…
Kr. oujc uJpo; lampavdwn oujde; coreumavtwn
1475 uJmevnaio" ejmov",
tevknon, e[tikte so;n kavra.
Iw. aijai': pevfuka dusgenhv", mh'ter… povqen…
Kr. i[stw Gorgofovna... Iw. tiv tou'tΔ e[lexa"…
Kr. ...a} skopevloi" ejpΔ ejmoi'"
1480 to;n ejlaiofuh' pavgon
qavssei... Iw. levgei" moi skolia; kouj safh' tavde.
Kr. ...parΔ ajhdovnion pevtran
Foivbw/... Iw. tiv Foi'bon aujda'/"…
Kr. ...kruptovmenon levco" hujnavsqhn...
1485 Iw. levgΔ: wJ" ejrei'" ti kedno;n eujtucev" tev moi.
Kr. ...dekavtw/ dev se mhno;" ejn
kuvklw/ kruvfion wjdi'nΔ e[tekon Foivbw/.
Iw. w\ fivltatΔ eijpou'sΔ, eij levgei" ejthvtuma.
Kr. parqevnia dΔ ejma``" ãeJka;"Ã matevro"
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IONE 205

IO. Parli insieme delle mie e delle tue emozioni.


CR. Non sono più senza figli, senza prole.
La casa ha il suo focolare, la terra i suoi sovrani,
Eretteo ritrova la sua giovinezza!
La casa della stirpe autoctona
non è più accecata nel buio,
ma riacquista la vista nel fulgore del sole.
IO. Madre, anche mio padre dovrebbe essere qui e
prender parte alla felicità che vi ho procurato.
CR. Figlio mio, che dici?
Quale, quale accusa
suona ancora per me!
IO. Cosa intendi?
CR. Da un altro sei nato, da un altro.
IO. Ahimè! Ragazza non sposata, tu mi hai generato
bastardo?
CR. Senza fiaccole né danze
si è celebrato, figlio, il rito di nozze
da cui sei stato concepito.
IO. Ahi! Sono di umile origine, madre? Da chi nasco?
CR. Mi sia testimone la dea che uccise la Gorgone...
IO. Perché dici così?
CR. ...e che sulle mie rocce,
abita la collina
da cui germogliò l’ulivo...
IO. Dici frasi ambigue e poco chiare.
CR. ...vicino alla rupe
dove cantano gli usignoli, con Febo...
IO. Perché parli di Febo?
CR. ...mi unii in un connubio segreto...
IO. Continua il racconto, ciò che stai per dire è una
buona notizia, una fortuna.
CR. ...e al compiersi del decimo mese
a Febo ti ho partorito in segreto.
IO. Hai detto la cosa più gradita, se è la verità. 53
CR. Lontano da mia madre,
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206 IWN

1490 spavrganΔ ajmfivbolav soi tavdΔ ajnh'ya ker-


kivdo" ejma'" plavnou".
gavlakti dΔ oujk ejpevscon oujde; mastw'/
trofei'a matro;" oujde; loutra; ceiroi'n,
ajna; dΔ a[ntron e[rhmon oijwnw'n
1495 gamfhlai'" fovneuma qoivnamav tΔ eij"
”Aidan ejkbavllh/.
Iw. w\ deina; tla'sa, mh'ter. Kr. ejn fovbw/, tevknon,
katadeqei'sa sa;n ajpevbalon yucavn.
e[kteinav sΔ a[kousΔ. Iw. ejx ejmou' tΔ oujc o{siΔ
1500 e[qnh/ske".
Kr. ijw; ãijwvÃ: deinai; me;n ãaiJÃ tovte tuvcai,
deina; de; kai; tavdΔ: eJlissovmesqΔ ejkei'qen
1505 ejnqavde dustucivaisin eujtucivai" te pavlin,
meqivstatai de; pneuvmata.
menevtw: ta; pavroiqen a{li" kakav: nu'n
de; gevnoitov ti" ou\ro" ejk kakw'n, w\ pai'.
1510 Co. mhdei;" dokeivtw mhde;n ajnqrwvpwn pote;
a[elpton ei\nai pro;" ta; tugcavnonta nu'n.
Iw. w\ metabalou'sa murivou" h[dh brotw'n
kai; dustuch'sai kau\qi" au\ pra'xai kalw'"
tuvch, parΔ oi{an h[lqomen stavqmhn bivou
1515 mhtevra foneu'sai kai; paqei'n ajnavxia.
feu':
a\rΔ ejn faennai'" hJlivou periptucai'"
e[nesti pavnta tavde kaqΔ hJmevran maqei'n…
fivlon me;n ou\n sΔ eu{rhma, mh'ter, hu{romen,
kai; to; gevno" oujde;n memptovn, wJ" hJmi'n, tovde:
1520 ta; dΔ a[lla pro;" se; bouvlomai movnhn fravsai.
deu'rΔ e[lqΔ: ej" ou\" ga;r tou;" lovgou" eijpei'n qevlw
kai; perikaluvyai toi'si pravgmasi skovton.
o{ra suv, mh'ter, mh; sfalei'sΔ a} parqevnoi"
ejggivgnetai noshvmatΔ ej" kruptou;" gavmou"
1525 e[peita tw'/ qew'/ prostivqh" th;n aijtivan
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IONE 207

ti ho avvolto in questi panni,


prodotto verginale della mia spola insicura.
Non ti ho nutrito, come una madre,
con il mio latte, porgendoti il seno,
né ti ho lavato con le mie mani,
ma in una grotta solitaria,
preda del becco dei rapaci,
pasto cruento, tu fosti respinto nell’Ade.
IO. Hai osato azioni terribili, madre!
CR. Attanagliata dalla paura,
figlio, gettai via la tua vita.
Ti ho dato alla morte mio malgrado.
IO. E io stavo per ucciderti in modo empio.
CR. Ah, terribili gli eventi di allora,
terribili anche gli attuali:
la sfortuna e la buona sorte ci travolgono
in ogni direzione, e i venti mutano sempre.
Ma si plachino ora; bastano i mali di prima:
adesso soffi una brezza propizia, figlio, dopo le sven-
ture.
CO. Nessuno creda mai, alla luce di quanto accade ora,
che qualcosa possa essere negato alla speranza.54
IO. Mutevole fortuna, hai reso innumerevoli mortali
sventurati e poi di nuovo felici! A qual punto cruciale
della vita sono giunto, uccidere mia madre e soffrire
pene immeritate! Ah, non accade forse ogni giorno
che si possano capire tante cose sotto i fulgidi raggi
del sole? Trovandoti, madre, ho fatto una gradevole
scoperta e, per quanto mi riguarda, non c’è niente da
deplorare in quest’origine.
Ma ci sono altre cose che voglio dire a te sola. Vieni
qui, vorrei parlarti all’orecchio e velare d’ombra la fac-
cenda. Non sarà, madre, che scivolata in una relazione
clandestina – un male cui le vergini sono esposte – tu
abbia poi attribuito la colpa al dio e, cercando di evita-
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208 IWN

kai; toujmo;n aijscro;n ajpofugei'n peirwmevnh


Foivbw/ tekei'n me fhv/", tekou'sΔ oujk ejk qeou'.
Kr. ma; th;n paraspivzousan a{rmasivn pote
Nivkhn ΔAqavnan Zhni; ghgenei'" e[pi,
1530 oujk e[stin ou[ti" soi path;r qnhtw'n, tevknon,
ajllΔ o{sper ejxevqreye Loxiva" a[nax.
Iw. pw'" ou\n to;n auJtou' pai'dΔ e[dwkΔ a[llw/ patri;
Xouvqou tev fhsi pai'dav mΔ ejkpefukevnai…
Kr. pefukevnai me;n oujciv, dwrei'tai dev se
1535 auJtou' gegw'ta: kai; ga;r a]n fivlo" fivlw/
doivh to;n auJtou' pai'da despovthn dovmwn.
Iw. oJ qeo;" ajlhqh;" h] mavthn manteuvetai…
ejmou' taravssei, mh'ter, eijkovtw" frevna.
Kr. a[koue dhv nun a{mΔ ejsh'lqen, w\ tevknon:
1540 eujergetw'n se Loxiva" ej" eujgenh'
dovmon kaqivzei: tou' qeou' de; legovmeno"
oujk e[sce" a[n potΔ ou[te pagklhvrou" dovmou"
ou[tΔ o[noma patrov". pw'" gavr, ou| gΔ ejgw; gavmou"
e[krupton aujth; kaiv sΔ ajpevkteinon lavqra/…
1545 oJ dΔ wjfelw'n se prostivqhsΔ a[llw/ patriv.
Iw. oujc w|de fauvlw" au[tΔ ejgw; metevrcomai,
ajllΔ iJstorhvsw Foi'bon eijselqw;n dovmou"
ei[tΔ eijmi; qnhtou' patro;" ei[te Loxivou.
e[a: tiv" oi[kwn quodovkwn uJpertelh;"
1550 ajnthvlion provswpon ejkfaivnei qew'n…
feuvgwmen, w\ tekou'sa, mh; ta; daimovnwn
oJrw'men, eij mh; kairov" ejsqΔ hJma'" oJra'n.
AQHNA
mh; feuvgetΔ: ouj ga;r polemivan me feuvgete
ajllΔ e[n tΔ ΔAqhvnai" kajnqavdΔ ou\san eujmenh'.
1555 ejpwvnumo" de; sh'" ajfikovmhn cqono;"
Pallav", drovmw/ speuvsasΔ ΔApovllwno" pavra,
o}" ej" me;n o[yin sfw'/n molei'n oujk hjxivou,
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IONE 209

re il disonore della mia nascita, sostieni di avermi ge-


nerato a Febo anche se il padre non è un dio?
CR. Per Atena Nike, che ha combattuto sul carro al
fianco di Zeus contro i giganti nati dalla terra, giuro
che tuo padre non è un mortale, figlio mio, bensì il si-
gnore Lossia che ti ha allevato.
IO. Perché allora ha dato suo figlio a un altro padre e
dice che è stato Xuto a generarmi?
CR. Non dice che ti abbia generato, ma ti dà in dono,
anche se tu nascesti da lui. Proprio come un uomo po-
trebbe dare il proprio figlio a un amico, per farne l’e-
rede della sua casa.
IO. Il dio profetizza il vero o il falso? È naturale, ma-
dre, che il mio animo ne sia turbato.
CR. Ascolta, figlio, ciò che penso. Per fare il tuo bene il
Lossia ti ha insediato in una casa nobile. Se tu fossi di-
chiarato figlio del dio, non avresti mai ereditato un pa-
trimonio, né il nome di un padre. E come avresti potu-
to, quando io stessa avevo celato la mia unione ed ero
sul punto di ucciderti in segreto? Ma lui, per venirti in
aiuto, ti assegna a un altro padre.
IO. Non mi fermerò a un’indagine così superficiale su
questa vicenda, ma andrò all’interno del tempio a chie-
dere a Febo se nasco da un padre mortale o dal Lossia.
Oh! Quale divinità è apparsa sopra l’edificio fragran-
te d’incenso e mostra verso oriente il suo volto? Fug-
giamo, madre, non guardiamo un essere divino se per
noi non è giunto il momento di farlo.55

[appare Atena ex machina]

ATENA Non fuggite dinanzi a me: non vi sono ostile,


anzi sono ben disposta nei vostri confronti, qui come
ad Atene. Io, Pallade, che ho dato il mio nome alla tua
terra, sono accorsa inviata da Apollo. Lui non ha rite-
nuto conveniente apparirvi, temendo di essere biasi-
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210 IWN

mh; tw'n pavroiqe mevmyi" ej" mevson movlh/,


hJma'" de; pevmpei tou;" lovgou" uJmi'n fravsai:
1560 wJ" h{de tivktei sΔ ejx ΔApovllwno" patrov",
divdwsi dΔ oi|" e[dwken, ouj fuvsasiv se,
ajllΔ wJ" komivzh/ Δ" oi\kon eujgenevstaton.
ejpei; dΔ ajnewv/cqh pra'gma mhnuqe;n tovde,
qanei'n se deivsa" mhtro;" ejk bouleumavtwn
1565 kai; thvnde pro;" sou', mhcanai'" ejrruvsato.
e[melle dΔ aujta; diasiwphvsa" a[nax
ejn tai'" ΔAqhvnai" gnwriei'n tauvthn te soi;
sev qΔ wJ" pevfuka" th'sde kai; Foivbou patrov".
ajllΔ wJ" peraivnw pra'gma kai; crhsmou;" qeou',
1570 ejfΔ oi|sin e[zeuxΔ a{rmatΔ, eijsakouvsaton.
labou'sa tovnde pai'da Kekropivan cqovna
cwvrei, Krevousa, kaj" qrovnou" turannikou;"
i{druson. ejk ga;r tw'n ΔErecqevw" gegw;"
divkaio" a[rcein th'" ejmh'" o{de cqonov",
1575 e[stai dΔ ajnΔ ÔEllavdΔ eujklehv". oiJ tou'de ga;r
pai'de" genovmenoi tevssare" rJivzh" mia'"
ejpwvnumoi gh'" kajpifulivwn cqono;"
law'n e[sontai, skovpelon oi} naivousΔ ejmovn.
Gelevwn me;n e[stai prw'to": ei\ta deuvtero"
ã Ã
1580 ”Oplhte" ΔArgadh'" tΔ, ejmh'" ãtΔÃ ajpΔ aijgivdo"
e}n fu'lon e{xousΔ Aijgikorh'". oiJ tw'nde dΔ au\
pai'de" genovmenoi su;n crovnw/ peprwmevnw/
Kuklavda" ejpoikhvsousi nhsaiva" povlei"
cevrsou" te paravlou", o} sqevno" thjmh'/ cqoni;
1585 divdwsin: ajntivporqma dΔ hjpeivroin duoi'n
pediva katoikhvsousin, ΔAsiavdo" te gh'"
Eujrwpiva" te: tou'de dΔ ojnovmato" cavrin
“Iwne" ojnomasqevnte" e{xousin klevo".
Xouvqw/ de; kai; soi; givgnetai koino;n gevno",
1590 Dw'ro" mevn, e[nqen Dwri;" uJmnhqhvsetai
povli" katΔ ai\an Pelopivan: oJ deuvtero"
ΔAcaiov", o}" gh'" paraliva" ÔRivou pevla"
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IONE 211

mato pubblicamente per le azioni passate; così manda


me ad annunciarvi il suo messaggio: fu questa donna a
generarti da Apollo, che ti dà a chi ti ha dato – anche
se non si tratta di tuo padre – per introdurti in una no-
bilissima dinastia.
E dopo che la faccenda fu svelata e resa nota, nel ti-
more che tu morissi per il complotto di tua madre e
lei per mano tua, il dio vi trasse in salvo con i suoi
espedienti. Era intenzione del signore Apollo mante-
nere tutto segreto e poi, ad Atene, far sì che tu sapessi
chi era questa donna e come fossi nato da lei e da Fe-
bo. Ma, per portare a termine il mio compito, ascolta-
te entrambi gli oracoli del dio, il motivo per cui ho ag-
giogato i miei cavalli: tu, Creusa, prendi tuo figlio e va
alla terra di Cecrope, e là insedialo sul trono regale.
Poiché discende dalla stirpe di Eretteo è giusto che sia
lui a regnare sulla mia terra, e sarà famoso in tutta la
Grecia. I suoi quattro figli, nati da una sola radice, da-
ranno il loro nome al paese e alle popolazioni tribali
che abitano la mia rocca. Geleonte sarà il primo; il se-
condo < > gli Opleti e gli Argadei, e gli
Egicorei, che prenderanno il loro nome dalla mia egi-
da, avranno la loro distinta tribù. I loro figli, quando
verrà il tempo destinato, si stabiliranno nelle città del-
le isole Cicladi e in quelle costiere del continente, don-
de viene la potenza della mia terra. Abiteranno le pia-
nure sulle rive opposte dello stretto che divide i due
continenti, Asia ed Europa, e dal suo nome saranno
chiamati Ioni e avranno gloria.
Tu e Xuto avrete poi figli in comune: Doro, da cui
avrà fama nei canti la città dorica, nella terra di Pelo-
pe; poi Acheo, che sarà sovrano del paese costiero vi-
cino a Rio, e un popolo si distinguerà prendendone il
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212 IWN

tuvranno" e[stai, kajpishmanqhvsetai


keivnou keklh'sqai lao;" o[nomΔ ejpwvnumon.
1595 kalw'" dΔ ΔApovllwn pavntΔ e[praxe: prw'ta me;n
a[noson loceuvei sΔ, w{ste mh; gnw'nai fivlou":
ejpei; dΔ e[tikte" tovnde pai'da kajpevqou
ejn spargavnoisin, aJrpavsantΔ ej" ajgkavla"
ÔErmh'n keleuvei deu'ro porqmeu'sai brevfo",
1600 e[qreyev tΔ oujdΔ ei[asen ejkpneu'sai bivon.
nu'n ou\n siwvpa pai'" o{dΔ wJ" pevfuke sov",
i{nΔ hJ dovkhsi" Xou'qon hJdevw" e[ch/
suv tΔ au\ ta; sauth'" ajgavqΔ e[cousΔ i[h/", guvnai.
kai; caivretΔ: ejk ga;r th'sdΔ ajnayuch'" povnwn
1605 eujdaivmonΔ uJmi'n povtmon ejxaggevllomai.
Iw. w\ Dio;" Palla;" megivstou quvgater, oujk ajpistiva/
sou;" lovgou" ejdexavmesqa, peivqomai dΔ ei\nai patro;"
Loxivou kai; th'sde: kai; pri;n tou'to dΔ oujk a[piston h\n.
Kr. tajma; nu'n a[kouson: aijnw' Foi'bon oujk aijnou'sa privn,
1610 ou{necΔ ou| potΔ hjmevlhse paido;" ajpodivdwsiv moi.
ai{de dΔ eujwpoi; puvlai moi kai; qeou' crhsthvria,
dusmenh' pavroiqen o[nta. nu'n de; kai; rJovptrwn cevra"
hJdevw" ejkkrimnavmesqa kai; prosennevpw puvla".
Aq. h[/nesΔ ou{nekΔ eujlogei'" qeo;n metabalou'sΔ Êajeiv pouÊ
1615 crovnia me;n ta; tw'n qew'n pw", ej" tevlo" dΔ oujk ajsqenh'.
Kr. w\ tevknon, steivcwmen oi[kou". Aq. steivceqΔ, e{yomai
ªdΔ ejgwv.
Iw. ajxiva gΔ hJmw'n oJdourov". ãKr.Ã kai; filou'sav ge ptovlin.
Aq. ej" qrovnou" dΔ i{zou palaiouv". Iw. a[xion to; kth'mav moi.
Co. w\ Dio;" Lhtou'" tΔ “Apollon, cai'rΔ: o{tw/ dΔ ejlauvnetai
1620 sumforai'" oi\ko", sevbonta daivmona" qarsei'n crewvn:
ej" tevlo" ga;r oiJ me;n ejsqloi; tugcavnousin ajxivwn,
oiJ kakoi; dΔ, w{sper pefuvkasΔ, ou[potΔ eu\ pravxeian a[n.
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IONE 213

nome. Apollo ha condotto ogni cosa per bene: anzi-


tutto ti ha fatto partorire senza complicazioni, così
che i tuoi cari non se ne accorgessero. E dopo che hai
dato alla luce tuo figlio e lo hai esposto con le sue fa-
sce, ordinò a Ermes di prendere fra le braccia il neo-
nato e portarlo qui: lo ha allevato e non ha lasciato
che morisse.
Ora dunque non rivelare a nessuno che si tratta di tuo
figlio, perché Xuto rimanga con la sua felice illusione
e tu, donna, te ne vada insieme con il bene che ti ap-
partiene. Addio! Vi prometto un destino lieto, dopo la
tregua dalle vostre pene. 56
IO. Pallade, figlia del supremo Zeus, accolgo le tue pa-
role con fede e credo di essere il figlio del Lossia e di
costei: anche prima non se ne doveva dubitare.
CR. Ascolta anche me: lodo Febo, io che prima lo bia-
simavo, perché mi rende il figlio che un tempo aveva
trascurato. È bella la vista delle porte e dell’oracolo
del dio, che prima mi erano odiosi. Adesso mi è dolce
aggrapparmi al battente e dire addio alle porte.
AT. Ti approvo, perché hai cambiato idea per il meglio
e benedici il dio. L’azione divina può anche tardare,
ma alla fine è efficace.
CR. Figlio, andiamo a casa.
AT. Andate, io vi seguirò.
IO. Per noi una scorta preziosa.
CR. E amica della città.
AT. Sali sull’antico trono.
IO. Nobile eredità per me.
CO. Apollo, figlio di Zeus e di Latona, addio. Chi vede
la propria casa perseguitata dalle sventure deve avere
fiducia, senza smettere di venerare gli dèi.
Alla fine ai buoni toccherà in sorte una giusta ricom-
pensa, e i malvagi, come si conviene alla loro natura,
non avranno più fortuna.57
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO

1. (vv. 1-4). La scena è ambientata a Delfi, dinanzi al tempio


di Apollo, proprio nel momento in cui sta per sorgere il sole
(cfr. vv. 82 sgg.). Ermes, messaggero degli dèi e loro interme-
diario nei rapporti con i mortali, ma anche astuto ed elusivo
patrono di ladri e bugiardi, si presenta al pubblico e fornisce
un resoconto dell’antefatto della vicenda drammatica ancor
più dettagliato di altri analoghi prologhi euripidei affidati a
una figura divina (Alcesti, Ippolito, Troiane; il fantasma di Po-
lidoro, nell’Ecuba, assolve la stessa funzione, dotato com’è di
una conoscenza superiore rispetto ai personaggi umani). An-
che in questo caso il dio non avrà più alcun ruolo nell’azione,
dopo aver delineato le complesse circostanze che preludono
alla situazione attuale e fornito per sommi capi un’anticipa-
zione di quanto accadrà in scena e in un futuro ancora più di-
stante. Ma il pubblico, proprio perché chiamato a partecipare
della preveggenza divina, potrà poi verificarne i limiti: la pro-
spettiva degli dèi non riesce a intuire l’emotività e le reazioni
umane, né sa armonizzarle con l’indirizzo impresso al corso
degli eventi. Ermes definisce il suo ruolo subordinato qualifi-
candosi come “servo dei numi” (lavtri" è un termine che pre-
senta talora sfumature sprezzanti: cfr. Eschilo, Prometeo inca-
tenato 966-969, Sofocle, fr. 269c, 35 R., sempre in riferimento a
Ermes; nel rapporto fra due divinità denota comunque un
completo asservimento, segno di inferiorità gerarchica: cfr.
Euripide, Eracle 823). Ma questa definizione arriva solo dopo
che ha esposto con enfasi la sua genealogia: figlio di Zeus e di
Maia, una delle sette Pleiadi, nate dall’unione fra il titano
Atlante e una dèa (l’indicazione generica dei vv. 2-3 non ne se-
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216 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

gnala il nome; secondo la tradizione mitica successiva sarebbe


stata un’oceanina, Pleione). Dell’avo materno si descrive inve-
ce la celebre punizione inflittagli proprio da Zeus, perché ave-
va lottato a fianco degli altri Titani contro le divinità dell’O-
limpo: Atlante sorregge sulle sue spalle la volta celeste, con
energia e fatica sovrumane che traspaiono dall’immagine in
cui cielo e spalle sembrano fondersi insieme (si noti l’espres-
sione dei vv. 1-2: il bronzo, metallo tradizionalmente riferito al
cielo – cfr. Iliade, XVII 425, V 504, Odissea, III 2 – qui caratte-
rizza le spalle mentre, con analoga inversione, il verbo ejktriv-
bein configura un logoramento della superficie che vi si ap-
poggia). Al v. 1 adotto, rispetto all’ordine presentato dai ma-
noscritti, la trasposizione – proposta da Elmsley – fra l’aggetti-
vo calkevoisi e il sostantivo nwvtoi": in tal modo viene rispetta-
ta la cosiddetta “legge di Porson”, la norma metrica secondo
cui nel trimetro giambico, salvo trascurabili eccezioni, quando
una parola di “forma cretica” (< + <) conclude il verso si evita
che il polisillabo che la precede termini con sillaba lunga. Ri-
spetto ad altre correzioni, compresa quella adottata da Diggle,
questa risulta economica e lascia al nome di Atlante il rilievo
della posizione incipitaria, secondo una costruzione tipica di
Euripide nei prologhi (cfr. ad es. Ifigenia Taurica 1; Archelao,
fr. 228, 1 Kn.; Melanippe sophe, fr. 481, 1 Kn.).

2. (vv. 5-13). All’indicazione del luogo scenico, il santua-


rio di Delfi, il più rinomato centro oracolare del mondo greco,
si contrappone subito la descrizione del luogo che rappresenta
lo sfondo virtuale della storia di Ione, dov’è nato e tornerà a
regnare, e in cui è ambientato l’antefatto del dramma: l’acro-
poli di Atene. A Delfi, sulle falde del monte Parnaso in Focide,
si pensava che fosse il centro della terra, e una pietra sacra de-
nominata “ombelico” (ojmfalov") contrassegnava il punto in cui
si erano incontrate due aquile che Zeus aveva inviato dai con-
fini opposti del mondo. La pietra era collocata nel penetrale
del tempio (cfr. v. 224), come il tripode su cui siede la sacerdo-
tessa ispirata quando intona cantando i responsi del dio (al v. 6
l’annuncio profetico è attribuito direttamente ad Apollo, di
cui la Pizia trasmette la voce). Il presente e il futuro, in parti-
colare, sono oggetto del sapere mantico (ma la conoscenza
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 217

profetica di Calcante, in Iliade, I 70, vi associa anche il passa-


to). Qui Ermes addita la prerogativa del culto apollineo che
guida incessantemente a Delfi pellegrini da ogni parte, nella
speranza che il dio riveli loro ciò che è inaccessibile all’espe-
rienza o risulta incomprensibile alla ragione umana: ma in
questa tragedia la voce dell’oracolo non avrà scrupolo a in-
gannare proprio chi più se ne fida. Lo scenario della violenza
carnale di Apollo a Creusa – la vicenda del passato su cui il
dio intende far calare un definitivo velo di oblio – è descritto
con precisione oggettiva e senza reticenze. Apollo ha stuprato
la figlia di Eretteo sotto l’acropoli ateniese (anacronisticamen-
te la sua divinità eponima è detta «dalla lancia d’oro», evocan-
do la punta dorata dell’arma impugnata dalla statua di Atena
Promachos, l’opera di Fidia che dominava la rocca), sul ver-
sante settentrionale ricco di anfratti naturali e sovrastato da
ripide pareti rocciose, che solo in questa tragedia vengono de-
nominate «Rocce alte» (Makraiv). La prima attestazione di
una Creusa, figlia del mitico re dell’Attica, Eretteo, sposa di
Xuto e madre di Ione, risale a un frammento del Catalogo del-
le donne pseudoesiodeo (fr. 10a, 20-24 M.-W.; cfr. sopra, Intro-
duzione, p. 24 n. 18). Il suo rapporto con Apollo non ha invece
alcun riscontro prima della tragedia euripidea.

3. (vv. 14-27). Ermes racconta la gravidanza di Creusa,


condotta a termine «all’insaputa del padre», secondo un mo-
dello narrativo che prevede la punizione della vergine violen-
tata, costretta comunque a esporre il frutto della sua unione
clandestina. Questo dettaglio contrasta tuttavia con la versio-
ne della nascita di Ione elaborata da Euripide (cfr. Introduzio-
ne, pp. 15-25), perché Eretteo è morto al tempo della guerra
condotta da Atene per resistere a Eumolpo, al comando di un
esercito di Traci. Allora Creusa, ancora neonata fra le braccia
della madre, evitò la sorte sacrificale delle sorelle maggiori
(cfr. vv. 277-282). Sembrerebbe che il desiderio di inserire que-
sti particolari della leggenda attica – al centro della vicenda
narrata dal perduto Eretteo – abbia prevalso sul controllo del
tema nella sua versione attuale. Euripide ha comunque varia-
to l’intera storia, quale si può ricostruire dai frammenti del-
l’Eretteo (che viene datato alla fine del terzultimo decennio
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218 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

del V secolo, e dunque precederebbe lo Ione): le figlie del so-


vrano in quella tragedia sono tre, e una sola di loro viene sa-
crificata per la salvezza della patria, con l’assenso convinto
della madre, mentre le altre due si danno la morte volontaria-
mente per rispettare un giuramento che legava il loro destino
a quello della sorella. Non ci sono figli superstiti (cfr. fr. 360,
34-37 Kn.). I motivi tipici della “paura del padre” e del parto
segreto nel palazzo (presenti, ad es., nelle tragedie euripidee
perdute Eolo, Alope, Melanippe sophe) si ritroveranno ancora
solo nel racconto, parzialmente mistificato, in cui Creusa narra
la sua esperienza dolorosa al giovane servo del tempio, attri-
buendola però a un’immaginaria amica (vv. 340, 344). Per il re-
sto questi dettagli vengono smentiti dalle ripetute rievocazio-
ni che delineano una diversa vicenda, in cui il padre non ha al-
cun ruolo e il parto avviene nella stessa grotta dove il bambi-
no sarà abbandonato. Il racconto del dio, pur ricco di partico-
lari, segue la linea stereotipata adottata dalla stessa Creusa,
quando il pudore le impone di non rivelare l’identità dell’infe-
lice violentata da Apollo. La correzione di questi due aspetti
della vicenda spetta dunque a chi l’ha vissuta in prima perso-
na, quando deciderà di non nascondere più la verità (nella sua
monodia e poi ancora nel dialogo col vecchio pedagogo). A
partire da quel momento l’intervento degli dèi, compreso
quello di Ermes, sollecitato da Apollo ma rimasto ignoto alla
madre disperata, apparirà benevolo nelle intenzioni ma in dis-
sonanza con le attese, i rimorsi, i progetti degli esseri umani.
Pur conoscendo la storia e le tradizioni della famiglia regnan-
te, Ermes integra gli elementi che si riferiscono alla sfera emo-
tiva della vergine violentata in modo errato, senza tener conto
della sua peculiare esperienza (cfr. Introduzione, pp. 19 sg.); le
inesattezze riguardano così il passato su cui dà informazioni
ma anche, più oltre, il futuro progettato da Apollo (la profezia
finale di Atena invece, siglando la conciliazione e il definitivo
congedo del dio dalla donna e da suo figlio, non è in contrasto
con la testimonianza di Creusa). Il termine che designa la ce-
sta rotonda (ajntivphx) appare solo in questa tragedia (vv. 19,
40, 1338, 1380, 1391): è di vimini, munita di un coperchio, e la
sua funzione di culla improvvisata replica quella assegnata a
un altro simile contenitore in cui Atena racchiuse il misterioso
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 219

bambino Erittonio, nato dalla terra fecondata dal seme di Efe-


sto quando aveva cercato di violentare la dea vergine senza
riuscirvi. Atena si era tuttavia preoccupata di prendere con sé
la creatura partorita dalla terra su cui era caduto il seme divi-
no. Poi aveva affidato quello scrigno rotondo alle figlie di Ce-
crope, il primo re della città: Erse, Pandroso e Aglauro (dette
Aglauridi, perché la loro madre portava questo stesso nome).
Le ragazze, nonostante un espresso divieto, non seppero resi-
stere alla curiosità di sollevarne il coperchio, così decretando
la propria rovina (cfr. vv. 272-274). A ricordo dei due serpenti
che Atena aveva chiuso nel cesto perché custodissero Eritto-
nio – animali, insieme mostruosi e apotropaici, la cui vista fa
impazzire di terrore le Aglauridi – i discendenti di Eretteo (o
forse già la sua generazione, dal momento che la figlia ha con
sé quel gioiello?) usavano mettere ai neonati una preziosa col-
lana formata da serpenti d’oro intrecciati. Probabilmente
Eretteo ed Erittonio furono distinti solo tra il VI e il V sec. a.C.,
essendo i loro nomi in epoca arcaica forme alternative per in-
dicare lo stesso personaggio autoctono, rappresentato talora
con la parte inferiore del corpo serpentina, come, del resto,
Cecrope (cfr. vv. 1163 sg.). Creusa lascia così al figlio la pro-
pria collana, che sarà il secondo segno di riconoscimento del-
l’identità di Ione (vv. 1427-1431).

4. (vv. 28-56). Ermes riferisce in forma di discorso diretto,


dando viva testimonianza della preoccupazione del fratello per
la sorte del piccolo, l’ordine con cui Apollo lo invia ad Atene
per prelevare il neonato esposto nella grotta e andarlo a de-
porre al sicuro, all’ingresso del suo santuario di Delfi. Ai vv. 29
sg. la definizione del popolo di Atene come «autoctono» esten-
de la peculiarità della dinastia regnante a tutti gli abitanti del-
l’Attica: una generalizzazione accostata con disinvoltura, dato
che le due versioni dell’autoctonia mitica non sono fra loro
congruenti. Era questa l’ideologia patriottica democratica pro-
pagandata dalla retorica degli epitafi – il genere oratorio desti-
nato, dopo le guerre persiane, a celebrare i caduti in guerra – in
cui si passava dal mito del singolo sovrano originato dalla terra
a quello di un’etnia che, a differenza degli altri popoli, non è
immigrata. Gli Ateniesi sarebbero così nati collettivamente
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220 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

dalla loro terra, allo stesso modo degli Sparti, l’aristocrazia te-
bana, ma su ciò fondavano l’unità e l’eguaglianza naturale dei
cittadini, figli “legittimi” e non adottivi della loro madrepatria.
L’epiteto Lossia, che qualifica il dio oracolare come «ambi-
guo», in genere allude all’oscurità dei responsi. Nel corso del
dramma, tuttavia, Apollo non sceglierà espressioni oblique per
comunicare con i mortali – il suo unico pronunciamento sarà
chiarissimo e deliberatamente non veridico – ma resta elusivo
ed evita ogni contatto diretto con gli esseri umani nelle cui vi-
cende è troppo coinvolto. La soglia del tempio è il luogo dove
il bambino viene “esposto” per la seconda volta; non più però
in un ambiente selvaggio, ma al riparo da veri pericoli, là dove
il dio può meglio assicurarne la salvezza senza tuttavia lasciar
trapelare la verità sulla sua nascita. La Pizia, quando al sorgere
del sole fa ingresso nell’oracolo, è la prima a scorgerlo attra-
verso il coperchio opportunamente sollevato; la sua istintiva
indignazione, perché il bambino è evidentemente il frutto di un
amore illecito e dunque la purezza del luogo ne verrebbe con-
taminata (cfr. il destino del figlio partorito e nascosto nel tem-
pio di Atena da Auge, in Apollodoro, II, 7, 4; III, 9, 1 e Introdu-
zione, pp. 52 sg.), viene subito mitigata su ispirazione del dio.
La pietà che la induce ad allevare il trovatello, senza porsi do-
mande sulle sue origini, segnala la strategia scelta da Apollo
per salvare il figlio nato dallo stupro di Creusa: neppure i mini-
stri del culto, suoi vicari nell’allevarlo ed educarlo, possono co-
noscerne la vera paternità. Accogliendo Ione in deroga alle
norme catartiche che scandiscono la vita del santuario, lo inte-
grano nella comunità delfica fino ad assegnargli incarichi di re-
sponsabilità (il compito di tesoriere delle ricchezze donate al
dio dai suoi fedeli si affianca, in modo inatteso, all’umile servi-
zio che il ragazzo poi assolve in scena).

5. (vv. 57-64). L’esposizione dell’antefatto focalizza ora il


destino della madre. Creusa, la cui vicenda è rimasta ignota a
tutti, non ha subito alcuna persecuzione, diversamente da
quanto accade alle vergini con analoghe vicissitudini, Auge,
Alope, Antiope, Danae, Melanippe. Ha sposato anzi un alleato
della sua città, Xuto, qui indicato come figlio di Eolo (non fra-
tello, secondo la genealogia esiodea che fa di Doro, Xuto ed
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 221

Eolo i figli di Elleno, fr. 9 M.-W.; lo stesso Euripide la adotta


nella Melanippe sophe, fr. 481 Kn., dove Eolo e Xuto nascono
da Elleno, figlio di Zeus). In questa variante sembra che si vo-
glia marcare come Xuto sia estraneo al ramo degli Ioni, che
discendono dalla casa regnante di Atene, attraverso Creusa, e
da Apollo. In quanto figlio di un altro degli eponimi delle stir-
pi greche, Eolo signore della Tessaglia (al v. 64 l’indicazione
dell’origine “achea” di Xuto allude al distretto tessalo dell’A-
caia Ftiotide), e futuro padre di Doro e Acheo (sarà dunque
suo figlio il progenitore degli Achei del Peloponneso, come
Atena annuncia a Creusa alla fine della tragedia), Xuto è inte-
grato in una linea diversa. Euripide rende così le stirpi greche
non omogenee fra loro, isolando e distinguendo la posizione
degli Ioni per via della paternità divina del loro eponimo e del
legame privilegiato con la terra che abitano: l’enfasi sulla pu-
rezza etnica consentita dal mito dell’autoctonia conquista il
suo spazio di riguardo, insieme alla famiglia di Creusa, a spese
di un dio elusivo, che rinuncia al proprio figlio assegnandolo a
un padre putativo. La guerra combattuta da Atene contro gli
abitanti dell’Eubea (Calcodonte, qui loro eponimo, era figlio
di Abante e padre di Elefenore, il capo del contingente euboi-
co nella spedizione troiana: Iliade, II 540 sg.) non è nota da
nessun’altra fonte. È possibile che Euripide assegni a Xuto il
ruolo di alleato in un conflitto del tempo mitico come la tradi-
zione faceva proprio con Ione, venuto in soccorso degli Ate-
niesi nella guerra condotta da Eretteo contro Eumolpo e i Tra-
ci o gli Eleusinî (cfr. Erodoto, VIII 44; Aristotele, Costituzione
degli Ateniesi, III 2; Pausania, I 31, 3; VII 1, 5). Le nozze con
Creusa, un premio per l’aiuto militare offerto agli Ateniesi in
difficoltà, non sarebbero state decise dal padre – Eretteo es-
sendo già morto al tempo della guerra contro Eumolpo, du-
rante la prima infanzia di Creusa – ma evidentemente metto-
no fine al vuoto di potere dovuto alla mancanza di eredi ma-
schi del re (cfr. Introduzione, pp. 22-25).

6. (vv. 64-81). Ermes passa a considerare il presente e gli


sviluppi imminenti dei fatti narrati. Il matrimonio della princi-
pessa ateniese, finalizzato a continuare la stirpe di Eretteo, è
rimasto finora sterile, e la coppia giunge adesso in pellegrinag-
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222 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

gio a Delfi per sapere dall’oracolo se potrà procreare un ere-


de. Ai vv. 67 sg. la frase che descrive il ruolo di Apollo nel cor-
so degli eventi è apparsa alquanto enigmatica: gli interpreti la
spiegano diversamente e ogni traduzione deve rispondere di
forzature sintattiche o oscurità di senso. La scelta fatta qui ri-
spetta la costruzione più ovvia (cfr. Kraus 1989, p. 36; Seiden-
sticker 1982, p. 216 n. 32; Lesky 1996, p. 639 e n. 282), per cui il
soggetto dei verbi che si susseguono nel tricolon del v. 68 e poi
ancora ai vv. 69 e 71 non cambia: è il Lossia che «guida» (ejlauv-
nei) il corso degli eventi fino al punto appena narrato – il mo-
mento iniziale del dramma che renderà possibile l’incontro fra
i protagonisti – e «non resta nascosto» (kouj levlhqen), come
pure egli «ritiene» (wJ" dokei`), ed è sempre il dio che «darà»
(dwvsei) a Xuto il proprio figlio e gli «dirà» (fhvsei) che è nato
da lui. Non solo sarebbe forzato, infatti, presupporre un muta-
mento di soggetto in una sequenza di verbi così serrata, ma an-
che l’uso assoluto del verbo lanqavnein rinvia alla più consueta
costruzione personale e transitiva (cfr. v. 822, 1244, Eracle 985,
Auge fr. 271b, 1 Kn.), con il pronome (me) come oggetto sottin-
teso (o facilmente integrabile nel testo, secondo il suggerimen-
to di Schömann: kouj levlhqev mΔ): si tratterebbe ovviamente di
Ermes, cui non sarebbero sfuggiti i progetti del fratello. Pur
essendo questo il valore più naturale della frase, si è pensato
che non abbia senso che Ermes alluda alla propria curiosità
per gli sviluppi del caso e per le intenzioni più recenti di Apol-
lo, benché questi non ne abbia alcun sospetto. Nonostante la
collaborazione chiesta e ottenuta a suo tempo, tuttavia, il pu-
dore che ha indotto Apollo a velare l’intera vicenda è coeren-
te con lo spunto ironico che si può leggere in questa osserva-
zione di Ermes: si è già visto che gli è stato comunicato solo
l’indispensabile perché portasse a termine la sua missione (vv.
29-36), e tutto fa ritenere che la sua attuale presenza a Delfi,
alla vigilia della soluzione della vicenda, non sia stata affatto
sollecitata (è necessaria solo dal punto di vista drammaturgi-
co, per informare il pubblico del retroscena e del futuro corso
dell’azione, che anzi vengono rivelati quasi a dispetto della se-
gretezza imposta da Apollo). Anche se ignora alcuni dettagli
della dolorosa esperienza di Creusa (cfr. n. 3), Ermes conosce
bene qual è lo scopo ultimo del fratello e sa che la sterilità del
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 223

matrimonio regale non è determinata dal caso, ma dalla vo-


lontà divina di riunire felicemente madre e figlio. L’interesse
per quanto accadrà in concreto, che lo spinge infine ad allon-
tanarsi annunciando che si nasconderà nei paraggi per spiare
senza essere visto, è la nota dominante del suo contegno e ne
motiva la comparsa, indipendentemente dalla volontà di Apol-
lo e senza che gli sia affidato alcun ruolo nello sviluppo dell’a-
zione scenica. La successiva informazione riguarda oltretutto
la clamorosa frode ai danni di chi è venuto a consultare l’ora-
colo più celebre del mondo antico: l’esplicita menzogna, che
indurrà Xuto a riconoscere nel servo del tempio il proprio fi-
glio, testimonia l’uso strumentale cui il dio piega la parola pro-
fetica, non più infallibile nel veicolare agli uomini la verità.
L’intento benevolo – consentire che il ragazzo vada al séguito
del presunto padre ad Atene, dove possa poi riconoscere la
madre e realizzare il suo destino di capostipite degli Ioni d’ol-
tremare, i fondatori delle città sulla costa asiatica dell’Egeo –
si associa all’esigenza di mantenere il segreto sulla sua nascita
e sulla sua vera paternità (al v. 1345 la Pizia dà un’autorevole
conferma che il messaggio del responso vada inteso alla lette-
ra). Sarà, questo, il motivo conduttore del dramma, la chiave
per intendere l’elusività di Apollo persino quando vuole ripa-
rare i torti passati e rendere al figlio il ruolo e l’onore che gli
spettano nella famiglia materna. Xuto avrà altri figli da Creu-
sa, ma per consentire che proprio quello nato dal dio sia erede
del trono di Atene è necessario che lo creda il suo primogenito
naturale, non semplicemente un figlio adottivo, e gli trasmetta
il diritto a regnare che lui stesso ha acquisito sposando Creusa.
Prima di scomparire nella macchia d’alloro che si stende intor-
no al tempio (il dimostrativo tavde, al v. 76, fa supporre che fos-
se visibile, ad esempio in forma di pannello dipinto accanto al-
la skene), dopo aver scorto il ragazzo che esce per il suo servi-
zio mattutino di pulizia e lustrazione dell’ingresso, Ermes an-
nuncia il nome con cui verrà chiamato d’ora in avanti per vole-
re del padre divino (vv. 74 sg.; cfr. Introduzione, pp. 11-14), an-
che se sarà poi Xuto a imporglielo, in ricordo della singolare
circostanza del loro incontro. Ritirandosi, sottolinea infine di
essere il primo fra gli dèi a pronunciare quel nome, con un ul-
teriore guizzo d’impertinente provocazione rispetto alle deci-
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224 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

sioni di Apollo: la sua volontà resta velata di mistero ma è pro-


prio lui, un tempo complice nel dare una svolta positiva alla
scabrosa vicenda, a volerne seguire adesso l’epilogo. Da spet-
tatore curioso, è venuto a verificare se tutto si svolgerà secon-
do il disegno del dio della verità oracolare, ora che intende
reintegrare il figlio nato dalla sua violenza nella dinastia della
madre, un disegno ignoto agli uomini ma non certo allo scaltro
e diligente mediatore delle divinità olimpiche.

7. (vv. 82-111). La monodia di Ione presenta efficacemen-


te il protagonista, che esce dalla porta del tempio mentre Er-
mes si dilegua. Il ragazzo esprime, da un lato, sentimenti di se-
rena devozione e l’umore lieto che accompagna il suo umile
servizio – spazzare il portico, aspergere il pavimento con ac-
qua lustrale, tenere lontani gli uccelli che potrebbero insudi-
ciare i doni votivi – assolto con la gratitudine di chi sa di esse-
re sfuggito, al riparo del santuario, alla sorte infelice dei bam-
bini abbandonati; dall’altro lascia trasparire, nella vivace apo-
strofe agli uccelli dell’ultima parte, la sua rigida concezione
della purezza, peculiarità del culto delfico e della sua stessa
Weltanschauung da salvaguardare a ogni costo. Ione saluta il
sorgere del sole e descrive le occupazioni dei ministri del tem-
pio nella prima sezione in anapesti recitativi (vv. 82-111), per
passare poi al canto in eolici (vv. 112-143), modulato in strofe
e antistrofe, entrambe seguite da un efimnio in molossi (un ri-
tornello cultuale), e quindi concludere con un brano astrofico,
in anapesti lirici (vv. 144-183). Questa parte iniziale si articola
in quattro segmenti dedicati, rispettivamente, alla descrizione
dell’alba, alle attività del tempio, alle istruzioni rivolte agli at-
tendenti perché procedano ai loro compiti, e infine a illustrare
il lavoro in cui s’impegna in prima persona: ciascun segmento
è marcato ritmicamente da un paremiaco di chiusura (vv. 88,
93, 101, 111). La radiosità della luce dell’aurora, riflessa dai
picchi montuosi del Parnaso (identificati con due rupi caratte-
ristiche, le Fedriadi, visibili a nord-est del tempio, o forse da
intendere genericamente come le cime investite per prime dal
chiarore dell’alba), è descritta con l’immagine delle costella-
zioni che fuggono, incalzate dal «fuoco» che ormai incendia
l’etere percorso dal carro del sole (cfr. anche i vv. 1157 sg.), per
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 225

sprofondare nelle tenebre oltre l’orizzonte occidentale. Si di-


scute se il momento del sorgere del sole coincidesse realistica-
mente con l’ora in cui veniva rappresentata la tragedia – se
dunque lo Ione occupasse il primo posto all’interno della trilo-
gia di cui faceva parte – ma non si sa nulla di certo in proposi-
to, e non si può escludere che la finzione drammatica chiedes-
se al pubblico, anche per questo dettaglio, uno sforzo d’imma-
ginazione. Ione passa poi a indicare i preparativi rituali all’at-
tività oracolare: con l’eccezione della stagione invernale, l’ora-
colo era consultabile nel settimo giorno di ogni mese. Il fumo
della mirra (definita «arida», al v. 89, perché probabilmente si
allude alla gommoresina del tipo secco, distinta da quella oleo-
sa e grassa usata invece durante il simposio: cfr. v. 1175) già
s’innalza diffondendone l’aroma nell’edificio, mentre la Pizia
è pronta all’interno del penetrale, seduta sul sacro tripode, una
sorta di seggio rituale che la mette in contatto col dio per in-
durre la trance estatica. È dunque la voce del dio che si espri-
me attraverso le grida modulate della profetessa, quasi una
nenia che gli interpreti poi traducono in versi. Rivolgendosi
quindi ai «servitori» del culto (v. 94) – apparsi nel frattempo in
scena da una delle eisodoi, se si presuppone che Ione sia usci-
to da solo dalla porta principale del tempio – il ragazzo li esor-
ta ad avviarsi alla purificazione nelle acque della vicina sor-
gente Castalia. Garantita la purezza fisica con l’abluzione, i
servitori dovranno rispettare durante gli atti di culto un rigo-
roso silenzio rituale (indicato dall’aggettivo eu[fhmoi, al v. 98),
e poi parlare ai pellegrini mediante un linguaggio sorvegliato,
che sia di buon auspicio quanto lo è tacere durante la consul-
tazione oracolare. L’attenzione quasi ossessiva per questi det-
tagli delinea come l’esistenza del giovane servo del dio sia in-
flessibilmente guidata dal principio che onorare Apollo, nel
suo santuario delfico, significa scongiurare ogni potenziale
fonte di contaminazione. Lui, del resto, intraprende la fatica
quotidiana spazzando e lavando il vestibolo, un compito estre-
mamente umile di cui non avverte il peso perché la funzione
catartica ne riscatta l’apparenza dimessa. Il modesto utensile
di cui si serve è una scopa fatta di ramoscelli d’alloro, pianta
sacra ad Apollo, legati insieme da bende consacrate. Un altro
strumento, piegato analogamente a prevenire ogni possibile
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226 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

impurità, benché nell’immaginario collettivo evocasse piutto-


sto l’arma peculiare di Apollo, è l’arco brandito da Ione nella
parte finale della monodia per minacciare gli uccelli: con la
stessa fierezza esibita nel provvedere alla pulizia del pavimen-
to (un servizio che in altre tragedie euripidee caratterizza le
schiave e personaggi femminili costretti a lavori umilianti: cfr.
Andromaca 163-168, Ecuba 359-364, Ipsipile, fr. 752f, 15-18
Kn., Fetonte, fr. 773, 10-12 Kn.), Ione accenna alla solerzia con
cui tiene lontani i volatili dalle offerte votive. Esprime infine il
primo di una serie di omaggi al dio che ha protetto e nutrito
lui senza padre né madre (cfr., nella sezione lirica, i vv. 136-
140, 182 sg.), e la sua devozione è subito investita dalla luce
ironica della storia già narrata nel prologo: il ragazzo designa
come padre adottivo Apollo e gli tributa gratitudine e venera-
zione attraverso il suo modesto lavoro, ignorando che dietro
la sua ambigua generosità si cela un padre reale, restio tutta-
via a rivelarsi.

8. (vv. 112-143). Mentre inizia il lavoro Ione intona un


canto monodico, strutturato alla maniera di un inno che cele-
bra Apollo; il ritornello cultuale, caratterizzato dalle sillabe
lunghe dei molossi, dall’anadiplosi dell’invocazione e dalla
menzione della madre della divinità, è in forma di peana (in-
sieme epiteto di culto e canto corale dei fedeli in onore del dio
guaritore o liberatore dal pericolo in battaglia: vv. 125-127,
141-143). L’apostrofe all’attrezzo che utilizza per spazzare l’a-
rea antistante al portale del tempio conferisce ai semplici gesti
del ragazzo la solennità di un servizio rituale. La scopa è fab-
bricata con ramoscelli d’alloro raccolti nei boschetti sacri in-
torno al santuario: la vegetazione di macchia – insieme all’al-
loro anche il mirto – vi cresce rigogliosa per l’abbondanza
d’acqua, la stessa che alimenta una sorgente perenne (proba-
bilmente la fonte Castalia già menzionata). Al v. 118 manca
una sillaba lunga in prima sede (cfr. il corrispondente v. 134) e
una correzione dovrebbe introdurre un sostantivo al genitivo,
dipendente dal verbo ejkproivhmi: Diggle propone di integrare
gaiva", eliminando il ta;n del testo tràdito, una dizione vicina a
quella usata al v. 147 per definire l’acqua attinta alla Castalia
(dunque: «dove le sacre acque, che fanno sgorgare dalla terra
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 227

una sorgente perenne, bagnano...»). La metafora dell’«ala del


sole» (vv. 122 sg.) sembra riferirsi ancora, in modo compen-
dioso, all’immagine della corsa del carro solare attraverso l’e-
tere o, più semplicemente, alla luce che attraversa il cielo co-
me un’ala (cfr. Troiane 848 sg., dove si parla della «luce del
giorno dall’ala bianca»). La ripetizione incessante di gesti
sempre eguali nel monotono servizio quotidiano, la fatica che
esso comporta, sono elevati a compito nobile e gratificante so-
lo perché ne è destinatario non un mortale ma Apollo, il signo-
re divino dell’oracolo, il benefattore del ragazzo senza genito-
ri che lo invoca come padre e ne loda l’eterna beatitudine. In
qualche modo essa riverbera anche sulla serenità della sua vi-
ta, dedicata a preservarne la caratteristica saliente, la purezza,
nel suo luogo di culto più celebre, e riscatta così l’umiltà della
condizione servile, che gli offre l’opportunità di impegnarsi
per la gloria del dio e di ricambiarne il favore.

9. (vv. 144-183). L’ultima parte della monodia, interrom-


pendo l’ordine regolare del sistema strofico, segnala l’anda-
mento via via più concitato con anapesti lirici in cui, verso la
fine, prevalgono i paremiaci. Dapprima Ione passa dal lavoro
con la ramazza alla lustrazione del pavimento, versando da va-
si d’oro l’acqua sorgiva della Castalia – sia il metallo prezioso
che l’acqua corrente hanno peculiari virtù catartiche (sulla pu-
rezza attribuita all’oro tra i metalli e alla pianta di alloro tra i
vegetali, cfr. Parker 1983, pp. 228 sg.) – e poi, accorgendosi de-
gli uccelli che volteggiano avvicinandosi al tempio, impugna
arco e frecce e li apostrofa vivacemente per scoraggiarne le in-
tenzioni. Alla qualità del suo ufficio si addice anche la purezza
fisica che deriva dalla castità, di cui Ione si vanta al v. 150: di-
versamente da Ippolito, il servo del tempio non ha scelto di
astenersi dal sesso per disprezzo verso la sfera amorosa e la
divinità che la incarna, Afrodite (cfr. Eur., Ippolito 10-14). Il
luogo dove vive e il ruolo di uomo consacrato al culto gli im-
pongono di mantenere l’austerità, evitando ogni contatto con
il sesso (un aspetto dell’esistenza umana ritenuto fonte di par-
ticolare contaminazione insieme alla nascita e alla morte). Io-
ne si augura di poter continuare a servire il dio senza mai per-
dere il requisito fondamentale della purezza, a meno che al-
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trove non ci sia in serbo per lui un destino diverso, egualmente


felice (l’alternativa presa in considerazione ai vv. 151-153 dif-
ferenzia dunque Ione da Ippolito, la cui scelta di vita è insieme
rigorosa ed esclusiva: cfr. Ippolito 87). L’arrivo degli uccelli,
che con le prime luci scendono dal Parnaso verso il santuario,
ne devia infine l’attenzione verso il terzo dei compiti cui ha
già accennato. La scena si fa ora particolarmente animata, e ri-
chiede una vivace gestualità all’interprete (come notava già
un antico trattato di retorica: Demetrio, De elocutione 195),
che deve far immaginare al pubblico anche con la mimica la
presenza dei volatili e le loro circonvoluzioni sul tetto e intor-
no ai cornicioni del tempio. Nell’Oreste (vv. 268-274) è il ma-
tricida, colto dal delirio, che vorrebbe impugnare l’arco dona-
togli dal dio per difendersi dalla persecuzione delle Erinni (se-
condo la versione stesicorea del mito: cfr. fr. 217, 14-24 Da-
vies): una scena drammatica che prevede probabilmente solo
gesti mimetici da parte dell’attore che interpreta Oreste in
preda alle allucinazioni, e non la reale presenza dell’arco di
Apollo (cfr. Medda 2001, pp. 90-92). Qui invece l’aspetto illu-
sorio della performance dell’attore non riguarda gli incubi
soggettivi di un personaggio e tuttavia connota l’eccesso della
misura adottata rispetto alla “minaccia” degli uccelli: benché
l’arco appaia davvero in mano al giovanissimo servo del tem-
pio, l’aggressività e l’accanimento con cui è pronto a bersaglia-
re i volatili risultano grotteschi piuttosto che drammatici. Il
modello tragico cui la scena s’ispira, ambientato nello stesso
luogo, è del resto estremamente serio e solenne: Apollo in per-
sona, nelle Eumenidi eschilee (vv. 179-197), punta l’arco con-
tro le Erinni per allontanarle dal suo tempio (si noti l’uso del
verbo crivmptein, in Eum. 185 e qui al v. 156). Ione replica così
la minaccia che il padre divino indirizzava alle mostruose, ar-
caiche divinità ctonie, per scongiurare la contaminazione della
sua sede profetica (cfr. Eum. 194 sg.) e dopo essere stato a sua
volta accusato di rendere impuri il seggio oracolare e il pene-
trale di Delfi, perché aveva offerto protezione a un matricida
(Eum. 162-172). Ma quando il figlio di Apollo si rivolge ai sin-
goli uccelli, pronto a scagliare le sue frecce se non si allontana-
no dall’edificio, dall’altare e dalle offerte votive, il quadro del-
lo scontro fra divinità ctonie e olimpiche, che fa da sfondo alla
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 229

scena della tragedia eschilea, getta una luce ironica sui suoi
gesti. È improbabile che si possano considerare fonte di con-
taminazione proprio i volatili, dato il loro rapporto privilegia-
to con la sfera divina: gli si perdona normalmente che frequen-
tino i luoghi di culto, e non solo negli ambienti selvaggi (si pen-
si alla grotta Coricia, sul Parnaso, sacra a Pan e alle Ninfe e de-
finita, proprio in Eumenidi 22 sg., fivlorni", daimovnwn ajna-
strofhv «gradita agli uccelli e dimora dei numi»). I templi, anzi,
possono essere considerati rifugio non solo dei supplici uma-
ni, ma anche dei supplici del mondo della natura, quali gli uc-
celli appaiono in un episodio delle Storie di Erodoto (I 159:
cfr. Introduzione, p. 34 n. 28). Primo ad essere apostrofato è
proprio l’«araldo di Zeus», l’aquila, sovrano indiscusso della
sua specie ed emblema di regalità in quanto rapace dotato di
forza straordinaria. In successione viene affrontato e cacciato
via un cigno, e il movimento delle ali del grande volatile è con-
densato icasticamente nel verbo ejrevssei (v. 161), che lo assi-
mila a quello dei remi di un’imbarcazione. L’aggressività di Io-
ne non è affatto attenuata dalla consapevolezza di avere di-
nanzi l’animale sacro ad Apollo per eccellenza. I segni distinti-
vi del suo legame col dio diventano anzi motivo di scherno e
ritorsione: la cetra, lo strumento che Apollo suona accompa-
gnando il canto del cigno, non può contrastare l’arco (entram-
bi simboli del dio, da lui designati come tali alla nascita: cfr. In-
no omerico ad Apollo, III 131). L’arma apollinea qui sceglie il
bersaglio più inappropriato, e Ione non si fa scrupolo di rap-
presentare in modo cruento l’esito della minaccia: se il cigno
non si dirigesse altrove planando, anziché sul tempio di Delfi,
sul piccolo lago dell’isola di Delo, presso le cui rive Latona ha
partorito Apollo, non esiterà a trafiggerlo lasciando che il san-
gue «arrossi» i suoi canti armoniosi. La strana immagine è ap-
parsa così ardita da suggerire a molti editori di intervenire sul
testo: Diggle corregge aiJmavxei" del v. 168 in aijavxei" (Nauck,
Page), nel senso di «emettere un suono lamentoso» (cfr. v.
1205), ma la costruzione che ne risulta non è priva di difficoltà.
La sinestesia implicita nell’«insanguinare i canti» è invece del
tutto in armonia con lo stile euripideo, che associa volentieri
qualità cromatiche e sonore in una stessa immagine. Si è pen-
sato di localizzare la gola o il becco come luogo di emissione
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230 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

della voce, da cui sgorgherebbe anche il sangue, una volta che


l’uccello venga ferito mortalmente. In ogni caso il suo canto,
che sarebbe stato particolarmente melodioso in punto di mor-
te (cfr. Eschilo, Agamennone 1444 sg.), è un motivo poco reali-
stico (così anche il dettaglio delle zampe, non rosse come ai vv.
162 sg., bensì nere). Il cigno non è un uccello canoro (anche se
allo stato selvatico è capace di emettere grida squillanti), e al-
cuni autori sembrano alludere a un suono generato dal batte-
re delle ali o comunque confuso con lo strepito che esse pro-
ducono (cfr. Inno omerico XXI, 1; Pratina, TrGF vol. 1, fr. 3, 3
= 708, 5 Page; Aristofane, Uccelli 769-772); anche questo dato,
la stretta connessione tra il fitto movimento delle ali dell’uc-
cello, quando si posa a terra o sull’acqua, e il suono inteso co-
me un canto, potrebbe spiegare l’immagine per cui colpirlo si-
gnifica “sporcare di sangue l’armonia dei suoi canti”. L’ultimo
uccello avvistato da Ione non viene identificato per la specie,
né dunque associato a una particolare divinità, ma dal suo av-
vicinarsi ai cornicioni dell’edificio si arguisce che potrebbe
avere l’intenzione di costruirvi un nido per covare i piccoli;
dunque non si tratta di un rapace o un grande volatile, ma di
un uccello di piccole dimensioni (Owen pensa alla rondine, ma
non è necessario caratterizzarlo oltre le generiche indicazioni
fornite dal testo). L’avversione suscitata dalla possibilità di
una nidiata di uccellini al riparo del tempio ricorda il tabù che
impedisce alle donne di partorire in un luogo sacro (cfr. Euri-
pide, Auge fr. 266 Kn., con l’osservazione di Clemente Ales-
sandrino, Stromata VII, 3, 23, 4 sg., che ci conserva il frammen-
to, secondo cui gli animali, invece, non violano alcuna norma
generando la prole nei templi). Ossessionato dalla sua conce-
zione restrittiva della purezza, Ione delinea la contraddizione
in cui si trovano impigliati sia lui che Apollo: il dio lo ha gene-
rato con la violenza e la sua nascita lo marca come figlio ba-
stardo di una relazione illecita. L’ordine di andare altrove a
procreare i piccoli, a Olimpia, presso il tempio di Zeus sul fiu-
me Alfeo, o nella valle boscosa dell’istmo di Corinto, dov’è il
celebre santuario di Poseidone, più che suonare come una sfi-
da ai danni di altre divinità sembra registrare la consapevolez-
za che non è possibile impedire agli uccelli di frequentare i
luoghi di culto, nidificarvi, persino sporcare con i propri escre-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 231

menti i templi e i doni votivi che vi sono esposti (l’uso dei mh-
nivskoi, dischi metallici che proteggevano la testa delle statue
dagli escrementi dei volatili, testimoniato da Aristofane, Uc-
celli 1114-1117, mostra una misura per evitare che le proprietà
del dio vengano insudiciate ben diversa da quella radicale
adottata da Ione). Al v. 178 gli editori preferiscono presuppor-
re una lacuna di due o tre sillabe lunghe (in genere un epiteto
che qualifica naoiv) per evitare un docmio in un contesto di
anapesti lirici, ma questa associazione non è priva di paralleli
(cfr. Martinelli 19972, pp. 185, 188 n. 15, 273). L’apparente resi-
piscenza finale, mostrando di rispettare il ruolo di messaggeri
della volontà divina attribuito agli uccelli – l’ornitomanzia era
una delle tecniche divinatorie più popolari (cfr. Aristofane,
Uccelli 716-722) – introduce un motivo di ritegno, che frena la
determinazione di Ione a respingere ogni potenziale veicolo
d’impurità anche a costo di commettere violenza. Il ragazzo
torna a ribadire la sua devota subordinazione ad Apollo, ma la
brillante monodia lo ha ormai presentato al pubblico in bilico
tra i due aspetti polari, purezza e violenza, che caratterizzano
anche «colui che lo nutre».

10. (vv. 184-204). Le quindici ancelle di Creusa che com-


pongono il coro fanno ingresso nell’orchestra per intonare la
parodo (vv. 184-236), una sequenza di due coppie strofiche, ca-
ratterizzate da ritmo eolo-coriambico, articolata in battute af-
fidate a diverse voci. Le coreute non sembrano avvedersi della
presenza di Ione – che nel frattempo avrà continuato le sue
occupazioni in posizione più defilata – fino al v. 219, all’inizio
della seconda antistrofe, quando lo apostrofano coinvolgen-
dolo in un dialogo. Le sue repliche, in anapesti recitativi, si in-
seriscono nel canto in responsione interrompendolo. L’atteg-
giamento di stupore dinanzi ai capolavori d’arte che ornano il
tempio, e che le ancelle sono venute ad ammirare col consen-
so della padrona, anticipandone così l’arrivo (vv. 233 sg.), sta-
bilisce il tono leggero e vivace del canto a più voci: l’ekphrasis,
la descrizione delle decorazioni scolpite che le donne si addi-
tano a vicenda riconoscendovi noti episodi e personaggi del
mito, consente di mettere in scena il puro piacere visivo garan-
tito da una visita turistica a Delfi, e insieme di stabilire un nes-
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232 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

so sotterraneo tra la raffigurazione della lotta di eroi e mostri


e i nuclei tematici che percorrono il dramma (un’equilibrata
analisi del sottile rapporto tra lo stupore che caratterizza il co-
ro nella parodo e il senso generale della tragedia in Danek
2001). L’entusiasmo delle ancelle dinanzi allo spettacolo arti-
stico, inoltre, fa da elemento di contrasto al mesto contegno di
Creusa: alla fine della parodo la principessa farà il suo ingres-
so, sorprendendo Ione per l’evidente infelicità che proprio la
vista del santuario sembra ispirarle (vv. 241-246). Si discute sul
modo in cui erano realizzate concretamente, se lo erano, le de-
corazioni scultoree in scena: dipinte sul fondale che rappre-
senta il frontone orientale del tempio, oppure, se le prime im-
magini descritte (fino al v. 204) facevano parte delle metope
sul fianco dell’edificio, invisibili agli spettatori e suggerite alla
loro immaginazione dalle coreute che avanzano da una delle
eisodoi; solo quando esse giungono dinanzi alla facciata visibi-
le al pubblico, con gli episodi della gigantomachia, la descri-
zione avrà avuto riscontro nelle decorazioni riprodotte. La li-
cenza rispetto alla realtà storica – una gigantomachia era rap-
presentata sul frontone occidentale, non su quello orientale
del tempio delfico costruito nel VI secolo – sarebbe giustificata
dalla congruenza tematica con la vicenda del dramma: lo scon-
tro violento fra il potere oscuro delle forze ctonie e l’ordine
superiore imposto dalle divinità olimpiche (Mastronarde
1975, Rosivach 1977; ma non si deve esagerare nella ricerca di
un parallelismo che addita come nucleo della vicenda tragica
il trionfo dell’ordine sul caos; la distanza ormai incolmabile
tra il presente e la preistoria ateniese, la netta separazione dal-
la sfera del mito e dalle interferenze divine sembra una cifra
di lettura più persuasiva: Danek 2001). Sarebbe dunque in li-
nea con la libertà drammaturgica, evidente in tutta questa par-
te d’esordio, che le decorazioni del tempio venissero evocate
solo verbalmente – piuttosto che per mezzo di pannelli dipin-
ti, di cui non si sarebbero potuti distinguere i dettagli – pre-
scindendo anche dalla memoria degli spettatori che avessero
visitato il santuario delfico (il soggetto rappresentato dal fron-
tone orientale del tempio degli Alcmeonidi, distrutto da un
terremoto nel IV sec. a.C., era l’arrivo di Apollo sulla quadriga,
vista di prospetto, con tre korai e tre kouroi che assistono ai
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 233

lati e, alle due estremità, un leone che divora un toro e un leo-


ne che divora un cervo). L’osservazione iniziale delle coreute
ne indica la provenienza ateniese e qualifica la loro ammira-
zione non certo come stupore naïf dinanzi a bellezze artistiche
mai viste prima: è anzi la sorpresa nel constatare che i monu-
menti consacrati agli dèi nella propria città hanno uno splen-
dido termine di confronto qui a Delfi a connotarne il gusto so-
fisticato e lo sguardo esperto, mentre commentano e illustra-
no i gruppi scultorei. Anche le espressioni cui ricorrono sono
piuttosto ricercate: a cominciare dal parallelismo imperfetto
tra ciò che si può ammirare ad Atene – gli edifici sacri abbelli-
ti da colonnati e i pilastri conici dedicati ad Apollo Aguieus,
protettore di chi esce da casa e si incammina per le strade (vv.
185-186) – e lo spettacolo offerto dalla luminosità che irradia
dalle due facciate del tempio delfico (vv. 187-189). Ma si deve
immaginare, nonostante la particolare struttura logica della
frase, che i vari tipi di monumenti descritti siano presenti in
entrambi i luoghi, e che lungo la strada percorsa per arrivare
al santuario abbiano già ammirato colonnati (si pensi ai the-
sauroi, i tempietti votivi eretti dai vari centri greci, lungo la Via
Sacra) e altari o strutture di analoga funzione (come le basi su
cui si ergevano i pilastri di Apollo Aguieus, utilizzate per le of-
ferte; improbabile, invece, che l’espressione ajguiavtide" qera-
pei`ai si riferisca, come suggerisce Danek 2001, p. 51 n. 13, alla
scena del solenne arrivo di Apollo a Delfi rappresentata sul
frontone orientale). La dizione elaborata ha suggerito diverse
interpretazioni per i divduma provswpa, i «volti gemelli» del v.
188: se intesi come le due facciate del tempio, quella occiden-
tale e quella orientale, la metafora si spiega naturalmente (cfr.
Pindaro, Pitiche, VI 14; Olimpiche, VI 3). Assimilati alla lumi-
nosità di uno sguardo umano, i frontoni simmetrici compen-
diano, benché non siano visibili contemporaneamente, il com-
plesso decorativo della struttura architettonica. Dopo averne
menzionato l’effetto d’insieme, le coreute passano a illustrare
i dettagli. L’ekphrasis ha inizio quando un gruppo di loro – o
un intero semicoro – invita le altre a osservare con attenzione
la scena (che si può immaginare inquadrata in una metopa) di
una nota fatica di Eracle: l’eroe figlio di Zeus taglia le teste
dell’idra, il mostro acquatico della palude di Lerna, in Argoli-
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234 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

de. L’idra è un gigantesco serpente nato da Tifone ed Echidna


(Esiodo, Teogonia 313-318), le cui innumerevoli teste vengono
tagliate da Eracle con un falcetto d’oro mentre Iolao, suo ni-
pote e compagno in molte imprese, provvede a cauterizzarne
le ferite con una torcia per evitare che ricrescano di nuovo (il
suo ruolo è descritto da un secondo gruppo di coreute, ai vv.
194-200). In questi termini la vicenda è narrata da Esiodo e
rappresentata su una metopa del tempio di Efesto ad Atene.
Nell’Eracle, dove questa fatica è fra quelle celebrate dal coro
nel primo stasimo, Euripide concentra tutta l’azione nelle ma-
ni dell’eroe, che «distrugge col fuoco» (v. 421) l’idra, come se
lui solo ne mozzasse le teste e poi ne impedisse la ricrescita
con una torcia ardente (ma in quella tragedia Eracle, per una
deliberata innovazione del poeta, non ha un gemello umano, e
ne deriva anche la damnatio memoriae del figlio di questi, Io-
lao: cfr. Mirto 20062, p. 32). Questa versione è invece quella
tradizionale, appresa dai racconti familiari che le donne si nar-
rano a vicenda quando lavorano al telaio (cfr. anche v. 507): la
tessitura è l’attività femminile più consueta, tipica delle schia-
ve come delle donne aristocratiche, almeno nella società de-
scritta dall’epica arcaica (si pensi ad Elena, in Iliade, III 125-
128, ad Andromaca, in VI 490-492, o a Penelope nell’Odissea).
Con l’intervento di un’altra voce, che sposta adesso l’attenzio-
ne su una scena diversa, si chiude la prima antistrofe. Si ripete
l’invito a scrutare con attenzione la figura di un eroe, in grop-
pa a un cavallo alato, che uccide un altro mostro e, come in
precedenza per Eracle, neanche qui vengono menzionati i no-
mi dei protagonisti. Si tratta della ben nota impresa di Belle-
rofonte, l’eroe corinzio che, in groppa al cavallo alato Pegaso,
uccide la Chimera, mostro dalla triplice natura, con una testa
leonina davanti, una di serpente per coda, e una di capra che
emerge al centro del dorso: da tutte e tre (o solo da quella di
capra) spirava fuoco. Già nell’Iliade (VI 179-183) si parla di
questa straordinaria prova imposta a Bellerofonte dal re di Li-
cia, senza accennare però alla sua magica cavalcatura alata,
che compare poi nel racconto di Esiodo (Teogonia 325) e Pin-
daro (Olimpiche, XIII 84-90). Entrambi gli eroi, Eracle e Bel-
lerofonte, sono in un certo senso paragonabili a Ione: appar-
tengono alla stirpe dei «figli nati dagli dèi ai mortali» che non
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 235

hanno un destino felice – lo testimoniano proprio i racconti


tradizionali delle donne – come le ancelle ricorderanno alla fi-
ne del primo stasimo (vv. 507 sg.). Eracle è nato dall’amplesso
fra Zeus e l’inconsapevole Alcmena, cui il dio si è presentato
nelle sembianze del marito Anfitrione, e l’ostilità di Era, la ge-
losa matrigna divina, segna dolorosamente la sua esistenza.
Bellerofonte, secondo alcune fonti (cfr. lo pseudoesiodeo Ca-
talogo delle donne, fr. 43a M.-W., 81 sgg.; Pindaro, Olimpiche,
XIII 67-69), era stato concepito dalla moglie di Glauco, padre
putativo dell’eroe, dopo un amplesso con Poseidone; il destino
di Bellerofonte è anche più amaro: venuto in odio agli dèi e
condannato a vagare in una folle solitudine (come si dice ge-
nericamente in Iliade, VI 200-202), è un esempio di empietà
punita da Zeus perché, dopo aver tentato di salire sull’Olimpo
in groppa a Pegaso, viene disarcionato e fatto precipitare dal
cielo (Pindaro, Istmiche, VII 44-47).

11. (vv. 205-218). La successiva descrizione, frammentata


anch’essa tra diverse voci che arricchiscono di dettagli il qua-
dro complessivo, sembra riferirsi a una decorazione continua,
probabilmente quella del frontone: una Gigantomachia, sog-
getto caro alle arti figurative sin dall’età arcaica (era rappre-
sentata anche sul fregio settentrionale del Tesoro dei Sifni,
lungo la Via Sacra che sale al santuario e, ad Atene, sulle me-
tope del lato est del Partenone). Danek 2001, p. 51, ipotizza
che venga ora illustrato il frontone occidentale, visibile nella
finzione drammatica solo alle coreute, una volta che i due se-
micori hanno completato il giro dell’edificio: difficile valutare
con precisione i loro spostamenti, ma è verosimile comunque
che l’osservazione del coro sia “selettiva” e isoli alcuni episodi
mitici, indipendentemente dalla loro reale dislocazione nel
complesso figurativo del tempio delfico. I Giganti erano esseri
mostruosi, nati dalla Terra impregnata dal sangue di Urano
quando fu evirato dal figlio Crono. La loro epica lotta con gli
dèi dell’Olimpo, per liberare i Titani segregati nel Tartaro, eb-
be luogo nella pianura di Flegra, antico nome della penisola di
Pallene, la punta occidentale della Calcidica (cfr. vv. 987 sg.).
Zeus riesce a sconfiggerli e a mantenere il potere grazie al
contributo di Eracle, perché secondo una profezia gli dèi
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236 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

avrebbero vinto solo alleandosi con un mortale. I singoli scon-


tri in cui si articola la battaglia vedono anzitutto Atena che af-
fronta Encelado (cfr. Eracle 907 sg., dove si allude al «tumulto
infernale» di quella lotta, in cui Atena avrebbe scagliato l’inte-
ra Sicilia sul gigante, seppellendolo sotto il peso del vulcano
Etna); qui la dea brandisce lo scudo che reca al centro la testa
della Gorgone: il mostro generato dalla Terra sarebbe stato in-
fatti ucciso da Atena anziché da Perseo (per la variante del mi-
to scelta da Euripide, cfr. ancora vv. 989 sgg., dove si parla però
dell’egida – ricavata proprio dalla pelle della Gorgone, scuoia-
ta da Atena – e non dello scudo). Dopo aver ammirato l’im-
presa della loro divinità poliade – e aver suggerito un gioco
etimologico fra il nome Pallav" e il participio pavllousa, ai vv.
210 sg. – le ancelle additano la figura di Zeus, in posizione di
rilievo nello schema iconografico più diffuso (in genere sulla
quadriga: cfr. Eracle 177); la folgore, la sua arma peculiare, che
sta per essere scagliata contro un avversario, Mimante, ha en-
trambe le punte fiammeggianti ed è l’elemento che qui cattura
la loro attenzione. Non viene invece menzionato il nome della
vittima di Dioniso, protagonista di un altro scontro con la sua
eccentrica arma: il tirso, elemento distintivo del dio (Bromio e
Bacco sono due epiclesi che si riferiscono al rumore e alla fre-
nesia della condizione orgiastica, tipica dei suoi rituali), è un
bastone adorno di foglie d’edera che si trasforma da simbolo
pacifico in una sorta di lancia per atterrare il gigante. Poiché
manca la responsione metrica tra il v. 208 della strofe e il v. 222
dell’antistrofe, e non è facile intervenire sul testo in modo con-
vincente, i due versi sono posti tra cruces da Diggle.

12. (vv. 219-236). L’antistrofe conclusiva si compone di un


dialogo tra le donne del coro e Ione, cui esse si rivolgono per
chiedere il permesso di accedere al tempio. Dall’ekphrasis si
passa dunque a una sezione in cui il canto è interrotto da ri-
sposte recitate. Avendo notato la presenza di un addetto al ser-
vizio del santuario, le coreute gli chiedono se è possibile pro-
seguire la visita all’interno. Alla fine del v. 221 l’integrazione
di oujdovn, la «soglia», consente di restituire le due sillabe man-
canti a completare un enoplio coriambico B e migliora anche
la sintassi, fornendo un oggetto al verbo uJperbaivnein, che al-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 237

trimenti sarebbe costruito con il genitivo guavlwn (oujdov" è un


termine epico: cfr., in Odissea, VIII 80, la stessa locuzione pro-
prio per indicare l’ingresso del consultante nel tempio di Del-
fi). Le donne segnalano il rispetto devoto che le indurrebbe a
entrare scalze: il candore della pelle, da solo, connota la nudità
del piede e la caratteristica dell’incarnato femminile che le di-
stingue dagli uomini anche sulla pittura vascolare. Non è tut-
tavia sufficiente un gesto di riguardo, come precisa Ione, che
più oltre indica nelle offerte preliminari il tributo necessario
per poter superare la soglia. Il coro non può comunque abban-
donare la scena – regola drammaturgica che contempla raris-
sime eccezioni – e la prescrizione rituale dà un motivo cogente
per la loro permanenza nell’orchestra. La curiosità delle co-
reute si sposta allora sui dettagli della parte più segreta del
tempio, inaccessibile ai fedeli, perché il servo del dio confermi
quanto conoscono per sentito dire. L’omphalos, l’ombelico
della terra, viene così descritto da Ione come un sacro oggetto
simbolico – nell’iconografia appare come una pietra di forma
ovoidale, ricoperta da una fitta rete di infule di lana – circon-
dato da Gorgoni (secondo Esiodo, Teogonia 274 sgg., erano
tre, ma soltanto una di loro, Medusa, era mortale). Al di fuori
di questo passo non si ha alcuna testimonianza che nell’adu-
ton fossero rappresentati plasticamente proprio i mostri ctoni,
a custodire il misterioso oggetto sacro (Strabone, IX 3, 6, parla
invece delle immagini dei due uccelli – aquile o, secondo alcu-
ni, corvi – che Zeus aveva inviato dagli opposti confini della
terra, perché incontrandosi in volo indicassero il punto centra-
le del mondo abitato). Non è tuttavia ragionevole intervenire
sul testo per eliminare questo elemento, considerato eccentri-
co e quindi inverosimile: le Gorgoni con funzione apotropaica
sono molto popolari nelle arti figurative e l’inaccessibilità del-
l’omphalos suggeriva leggende e tradizioni discordi fra loro.
Ione distingue poi due possibilità per i pellegrini che intendo-
no consultare l’oracolo: per avvicinarsi all’altare (probabil-
mente un altare nella cella, non quello esterno visibile sulla
scena) basta l’offerta vegetale prescritta, il pelanov", un denso
impasto di farina di cereali, miele, latte (in genere semiliquido,
sì da poter essere versato sull’altare, ma talvolta cotto in for-
ma di focaccia); per entrare nella parte più interna del tempio
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238 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

(il mucov", che comunque non coincide con l’a[duton, dove si tro-
vavano il tripode e l’omphalos e potevano accedere solo i mi-
nistri del culto) è invece necessario un sacrificio cruento di vit-
time animali. Le coreute non devono comunque interrogare
direttamente il dio e si accontentano di ammirare le bellezze
artistiche visibili all’esterno del santuario. Quando Ione cerca
di identificarne meglio l’origine – chiedendo chi siano i padro-
ni di cui si dicono al servizio – le ancelle menzionano ancora
una volta con fierezza la città della loro signora: Atene, protet-
ta dalla dea Pallade; la sovrana intanto arriva in scena, prima
ancora che il canto sia finito, e l’annuncio del suo ingresso
chiude la sezione lirica.

13. (vv. 237-257). Creusa si trova dinanzi al figlio scono-


sciuto ancor prima che le ancelle abbiano potuto completare
la sua presentazione. Il lunghissimo dialogo tra il servo del
tempio e la regina ateniese delinea il quadro dello stato d’ani-
mo di lei, della storia familiare e dei ricordi dolorosi che non
l’abbandonano, oltre a stabilire fra i due un’intesa speciale,
suggerita dall’istintivo interesse che provano per le rispettive
vicende. Ione le rivolge la parola per primo in contrasto con
l’etichetta, che in genere prevede un saluto formale prima di
un’apostrofe. Considerando anche il brusco cambiamento sin-
tattico al v. 237, Diggle (seguendo un suggerimento di Lloyd-
Jones) ipotizza la caduta di un verso introduttivo che conte-
nesse parole di benvenuto e il verbo, altrimenti sottinteso, che
ha gennaiovth" per soggetto (il senso della frase perduta nella
lacuna sarebbe: «Ti saluto, signora, c’è nel tuo aspetto...»). Ri-
tengo tuttavia che il testo sia sano: sia la costruzione ellittica,
sia le considerazioni sull’origine aristocratica, subito interrotte
dalla sorpresa nello scorgere la singolare mestizia della sua
espressione, potrebbero essere spia della simpatia spontanea e
dell’ammirazione del ragazzo per la straniera. Così Ione non
le chiede di precisare la propria identità, ma s’informa subito
dei motivi dello sconforto per nulla mascherato, quando inve-
ce la gioia sarebbe la condizione di spirito più naturale per chi
giunge al cospetto della bellezza pura e rasserenante dell’ora-
colo delfico. Si tocca subito la corda dell’emozione segreta di
Creusa, che non nega il suo turbamento, né il sotterraneo lega-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 239

me tra la sofferenza alimentata da un ricordo lontano e la se-


de del dio: non a beneficio dell’ignaro interlocutore, bensì del
pubblico che è stato informato dal prologo, Creusa lascia in-
tendere che la vista del tempio scava nella memoria dolorosa
dello stupro subito ad Atene. È grata e stupita della sensibilità
mostrata dal ragazzo nei suoi confronti, e il generico lamento
sull’infelicità del suo sesso, associato alla protesta contro il
comportamento irresponsabile degli dèi, focalizza i nuclei te-
matici principali del dramma. La divinità non è più un punto
di riferimento che possa garantire giustizia agli uomini, anzi è
il potere divino a calpestare i mortali. Nell’avvicendarsi di
esclamazioni desolate e domande venate d’angoscia, apparen-
temente rivolte a se stessa, Creusa lascia percepire al cortese
servo del tempio che la sua compassione coglie nel segno; ma,
incoraggiata a spiegarsi meglio, si pente dello sfogo ripiegan-
do su una malinconica reticenza. L’incontro di Ione con Xuto,
più tardi, pur essendo avallato dall’autorità del dio, sarà carat-
terizzato per contrasto dalla sua diffidenza e dall’istintiva irri-
tazione dinanzi agli slanci d’affetto del sedicente padre. Qui
invece si crea una spontanea solidarietà, anche se sullo sfondo
s’insinua la denuncia dell’ingiustizia subita da Apollo.

14. (vv. 258-288). Ione chiede nome e provenienza alla


straniera e mostra di conoscere la fama della stirpe dei sovrani
ateniesi. Nonostante gli accenni di Creusa a un’infelicità che
neppure le illustri origini possono attenuare (vv. 264, 268), le
incalzanti domande di Ione sono tutte centrate sulla sua storia
familiare e danno avvio alla più lunga sticomitia che ci sia per-
venuta dell’intera produzione tragica (105 versi). Viene così
ripercorsa la vicenda, cara al patriottismo ateniese, della nasci-
ta di Erittonio (cfr. n. 3) e della morte delle Aglauridi, quando
si precipitano dalle rupi dell’acropoli, impazzite di terrore alla
vista dei serpenti messi da Atena a guardia del bambino gene-
rato dalla terra. Ancora delle vergini che appartengono alla
dinastia regnante muoiono, due generazioni dopo, questa vol-
ta immolate dal padre: Creusa rammenta il sacrificio delle so-
relle e spiega a Ione come lei, ancora neonata fra le braccia
della madre, sia sopravvissuta alla temeraria decisione di Eret-
teo di salvare così la patria minacciata dall’invasione di Eu-
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240 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

molpo; infine accenna alla morte del re, colpito dal tridente di
Poseidone e ingoiato dalla terra, una volta vinta la battaglia e
ucciso l’invasore, il figlio del dio (cfr. Introduzione, par. 2, pp.
15 sgg., per il contrasto tra la cronologia della morte di Eret-
teo e la vicenda elaborata da Euripide). La terra partorisce o
si apre ad accogliere e nascondere per sempre i sovrani autoc-
toni di Atene. In questa dinamica, che affascina il ragazzo cre-
sciuto a Delfi, si consuma anche il dramma familiare che vede
Creusa unica superstite, la sola cui sono affidate le speranze di
continuare la stirpe. E proprio la vicenda di maternità frustra-
ta che la riguarda affiora nelle battute immediatamente suc-
cessive, celata nello sgomento di dover rispondere alla curio-
sità su un luogo sacro dell’acropoli, le Rocce Alte: è questo lo
scenario dello stupro da lei subito tanti anni prima e masche-
rato a prezzo di abbandonare il figlio nato dalla violenza divi-
na. Ione chiede ora conferma di quel che già conosce della to-
pografia religiosa ateniese legata ad Apollo, ma Creusa ha in
mente piuttosto come l’infelice intreccio di azioni divine e
umane non riguardi solo i suoi avi, ma prosegua fino alla sua
generazione e abbia lasciato in lei una ferita profonda. La di-
screzione impone comunque al ragazzo di non cogliere gli
spunti offerti dalle esclamazioni della nobile straniera, elusive
ma di evidente condanna (vv. 284, 286, 288). La sorpresa di Io-
ne, nel constatare l’avversione di Creusa verso quegli stessi
luoghi in cui ad Atene si venera Apollo, non viene affatto
smentita: accennando al «disonore» che si è consumato in una
di quelle grotte, lei anticipa di conoscere una vicenda ignomi-
niosa che, più tardi, attribuirà a un’altra persona. I lampi che
segnalano agli Ateniesi il favore di Apollo, secondo l’allusione
del v. 285, si riferiscono a una consuetudine di cui apprendia-
mo i dettagli da Strabone (IX 2, 11): ogni anno nell’arco di tre
mesi, per tre giorni e tre notti ogni mese, si scrutava in direzio-
ne di Arma, un luogo sul monte Parnete ai confini tra Attica e
Beozia, e se il lampeggiare lontano segnalava la caduta di ful-
mini veniva inviata un’ambasceria che portasse offerte sacrifi-
cali a Delfi per ringraziare Apollo. Strabone però localizza al-
trove (tra i templi di Apollo Pitico e di Zeus Olimpio) l’osser-
vatorio, niente affatto vicino alle grotte delle Rocce Alte sul
versante settentrionale dell’acropoli. Non stupirebbe che Eu-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 241

ripide voglia deliberatamente concentrare nel luogo della na-


scita di Ione i rituali relativi ad Apollo. Al v. 285 l’aggettivo
Puvqio", ripetuto nello stesso verso, va corretto anche per la
difficoltà che crea alla scansione metrica: si è proposto di
emendarlo con un altro nome del dio (Foi``bo", Matthiae, adot-
tato qui; ΔApovllwn, Blaydes; o con l’indicazione generica gΔ oJ
qeov", Kayser). Al v. 286, fra le soluzioni proposte per dare sen-
so al testo tràdito (Diggle lo stampa fra cruces), si segnala
quella di Hermann, che qui si adotta: tima/`… tiv tima/`… omettendo
subito dopo wJ" («Fa onore? Quale onore?»).

15. (vv. 289-307). Ione sposta le sue domande su dati più


neutri e di dominio pubblico, come l’identità del marito di
Creusa e le circostanze per cui uno straniero ha sposato l’ere-
de di una stirpe autoctona. Non essendo ateniese, neppure agli
occhi di Ione Xuto ha i requisiti per sposarla, nonostante l’ap-
partenenza a una nobilissima discendenza (cfr. n. 5). L’espres-
sione usata da Creusa, al v. 290, riecheggia le parole orgogliose
di Prassitea nell’Eretteo (fr. 360, 7 sg. Kn.), quando definisce il
popolo d’Atene oujk ejpakto;" a[lloqen («non venuto da fuori»).
Il contributo offerto alla città nella guerra contro la vicina Eu-
bea offre un titolo di merito all’alleato e fa di Creusa un «pre-
mio» concesso al suo valore (cfr. Introduzione, p. 23 e n. 17). Il
legame matrimoniale porta anche in dote il regno e apre così
la dinastia ateniese verso l’esterno, secondo un costume ben
attestato in epoca eroica, quando sovrani senza eredi maschi
devono “adottare” un genero perché la famiglia non si estin-
gua; un modello ovviamente in contrasto con l’esclusivismo e
la chiusura della città, orgogliosa del rapporto privilegiato con
il territorio dove vive la sua popolazione: la crisi che esploderà
in questo dramma ne è una chiara esemplificazione. L’assenza
di Xuto è dovuta alla sua sosta a Lebadea, in Beozia a poca di-
stanza da Delfi, per consultare l’oracolo di Trofonio. Questo
eroe beotico, che aveva contribuito a edificare il quarto tem-
pio di Apollo a Delfi, aveva un oracolo sotterraneo che impo-
neva a chi volesse interrogarlo elaborati riti preliminari e una
sorta di “discesa” agli inferi, in cui si otteneva una rivelazione
diretta (Pausania, che ne fece l’esperienza nel II sec. d.C., de-
scrive la procedura in IX 39, 5 sgg.). Spesso i pellegrini che an-
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242 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

davano a Delfi cercavano una doppia assicurazione, rivolgen-


do lo stesso quesito anche a Trofonio, e Xuto, rimasto indietro
per ottenere un primo responso sulle ragioni per cui il suo ma-
trimonio non è fecondo, permette a Creusa di arrivare in anti-
cipo. Lei vorrebbe provare a consultare autonomamente l’o-
racolo e, anche se questa intenzione non viene esaudita, si crea
così l’opportunità, dal punto di vista drammaturgico, per un
incontro da sola con il ragazzo del tempio, il figlio da cui si sen-
te istintivamente attratta e a cui rivela ambiguamente molti
dettagli della sua storia. L’empatia che si stabilisce fra loro ha
come nota dominante proprio il rimpianto di una maternità
non realizzata, ben nota al dio, come Creusa sottolinea ironi-
camente al v. 306: una consapevolezza che deriva dalla sua re-
sponsabilità nella vicenda, anche se Ione deve interpretare la
battuta come una conferma dell’onniscienza di Apollo.

16. (vv. 308-337). La sensibilità di Ione desta l’interesse e


l’ammirazione di Creusa. S’inverte così la posizione degli in-
terlocutori, ed è lei a chiedere notizie sulle circostanze che lo
hanno portato a vivere nel tempio al servizio del dio. Se prima
il ragazzo aveva saputo scorgere i limiti della fortuna che ap-
parentemente arride alla nobile straniera, lei adesso rivolge
un complimento indiretto alle qualità che si celano sotto la sua
condizione servile, attraverso la formula che proclama felice
sua madre (in questo caso non vengono menzionati entrambi i
genitori, come di consueto, perché per Creusa conta solo la
prospettiva materna). Quando apprende da lui che non cono-
sce l’identità di chi lo ha generato e che la sua storia personale
si limita allo status di proprietà consacrata al dio, Creusa gli
offre la sua compassione e ribalta l’esclamazione del v. 308 in
quella, antitetica, del v. 324. Il pathos del dialogo è in buona
parte affidato a valutazioni che riguardano proprio colei che
le esprime, ignara di ciò ma intuendo una segreta affinità tra i
propri rimpianti e la carenza di affetti familiari del ragazzo
senza nome che potrebbe essere suo figlio. Essendo arrivato al
tempio non già in età adulta, come offerta votiva di una comu-
nità o perché venduto schiavo da un privato, Ione può addita-
re nella sacerdotessa del dio una figura materna ma, tuttavia,
nessuno ha potuto sostituire la vera madre allattandolo. Il do-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 243

lore che questo dettaglio risveglia in Creusa nasce dalla situa-


zione speculare di inadempienza del suo ruolo materno: nep-
pure lei ha offerto il seno al suo bambino, né lo ha cullato fra
le braccia (un pensiero angoscioso e ricorrente: cfr. vv. 320,
961-963, 1492 sg.). Al v. 321 mantengo il nominativo profh``ti"
tramandato nel testo – diversamente da Diggle che corregge
con la forma in accusativo (Reiske) – perché riprende in mo-
do naturale la frase interrotta al v. 319 dalla domanda di Creu-
sa (si sottintende facilmente tauvthn come oggetto di nomivzo-
men). Le due domande in sequenza su come sia stato garantito
al ragazzo quel benessere che traspare dal suo aspetto – fatto-
ri concreti, come il cibo e il vestiario, che sono al centro delle
preoccupazioni di una madre – sono poi separate dalla rifles-
sione penosa di Creusa sulla sventura di colei che lo ha abban-
donato. Ione replica con l’ipotesi che si tratti di una donna che
ha subito uno stupro (il genitivo gunaikov" in dipendenza da aj-
divkhma, al v. 325, è da considerare oggettivo; in una relazione
illecita è sempre il maschio che commette ajdikiva, secondo i
canoni della morale convenzionale: cfr. vv. 341, 355 e Appendi-
ce, pp. 66 sg.). L’argomento tocca nel vivo il nodo irrisolto del-
la sua sofferenza, e Creusa devia il discorso, constatando che
l’abbigliamento di Ione gli conferisce una dignità che contra-
sta con l’oscurità delle origini. Diversi editori spostano i vv.
324-325 dopo il v. 329 (così anche Diggle), dando al testo una
sistemazione che sembra più lineare e congruente; Owen ha
ragione, tuttavia, nel ritenere il filo del ragionamento così ot-
tenuto certo più logico – l’osservazione di Creusa, che un’altra
donna ha subito le stesse pene della madre di Ione, discende-
rebbe dalla congettura di lui sulla violenza da cui sarebbe nato
– ma non necessariamente più efficace dal punto di vista
drammatico. Credo che l’ordine tràdito evidenzi invece l’esi-
tazione di Creusa, che oscilla fra la tentazione di confidare più
apertamente la sua storia e il pudore che la costringe a un ri-
goroso segreto da tanti anni: la scelta di aprirsi solo in modo
ambiguo, attribuendo a un’altra l’esperienza angosciosa di
quel parto rinnegato, testimonia a favore di un andamento del
dialogo fatto di considerazioni più esplicite e di ripensamenti.
Anche l’interiezione extra metrum prima del v. 330, punto di
svolta verso una rivelazione parziale, è un segno della divisio-
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244 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

ne interiore di Creusa, annunciata già dai vv. 256 sg., quando si


era pentita dello sfogo perché ne era derivata la richiesta di un
chiarimento. L’esclamazione d’angoscia è il punto d’arrivo del
confronto tra l’impasse in cui si trova quel figlio abbandonato,
che non sa da dove iniziare a indagare sulla sua nascita, e la
propria frustrante situazione di ignoranza sulla sorte del figlio:
comincia adesso a prender corpo la figura della donna che ha
sofferto come la madre di Ione, l’«amica» per cui lei, all’insa-
puta del marito, vorrebbe chiedere un responso riservato al-
l’oracolo. La disponibilità di Ione a favorire il suo progetto na-
sce dalla simmetria tra le due figure femminili: aiutare una
donna sconosciuta a ritrovare il figlio perduto rappresenta un
modo per provare a ricostruire la sua analoga vicenda. La bar-
riera del pudore va però abbattuta, e Creusa viene sollecitata
a mettere da parte la vergogna, una «dea che non procura gua-
dagni» (v. 337: ajrgov", nel senso che risulta inutile, non dà frut-
to come il terreno non coltivato, il denaro non investito; cfr.
Eracle 557, Elena 560, Fenicie 506, 531 sg., 782, Oreste 213 sg.,
per altri esempi dell’inclinazione di Euripide a divinizzare i
concetti astratti).

17. (vv. 338-362). Quando Creusa inizia a delineare il qua-


dro di un rapporto illecito, in cui la trasgressione sessuale è sta-
ta imposta alla sua amica fittizia da Apollo, Ione s’irrigidisce e
passa dalla solidarietà alla diffidenza. Il suo primo istinto è di
smascherare la bugia per cui la violenza subita da un uomo
verrebbe attribuita per vergogna al dio; un espediente che, a
giudizio di un’opinione pubblica malevola, innesca molte sto-
rie di “teogamie” da cui nascono figli illegittimi (lo stesso scet-
ticismo gli suggerisce di esortare la madre ad ammettere che il
suo seduttore è un mortale anche dopo il riconoscimento: cfr.
vv. 1523-1527). Ma Creusa ora non si scoraggia e, dietro lo
schermo dell’immaginaria amica, ripercorre la vicenda dello
stupro subito secondo il modello narrativo più consueto – ri-
spetto al quale in seguito emergeranno dettagli diversi – che
vede molte vergini costrette a una precoce maternità e alla
straziante decisione di esporre i loro nati. La sentiamo così
evocare la figura del padre (v. 340), cui la ragazza sarebbe riu-
scita a nascondere la gravidanza: lo stesso “timore del padre” è
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 245

additato, ad esempio, da Melanippe, per giustificare il gesto di


chi ha abbandonato nella stalla del padre Eolo due neonati ge-
melli e impedire, con la sua appassionata difesa, che vengano
uccisi, prima di confessare che proprio lei li ha partoriti a Po-
seidone (Melanippe sophe, fr. 485 Kn.; cfr. anche Introduzione,
par. 2 e nn. 9 e 14). Accanto a questo tratto tipico, già menzio-
nato nel prologo da Ermes (v. 14: cfr. sopra n. 3), Creusa parla
dell’esposizione «fuori dalla sua casa» (v. 344): dunque parreb-
be che il parto sia avvenuto in casa. Mentre la narrazione dei
fatti indugia sulla sorte del bambino, esposto ai rischi della na-
tura selvaggia e mai più ritrovato dalla madre che – apparente-
mente spinta dal rimorso – è tornata sul luogo dove l’aveva ab-
bandonato, Ione passa dall’incredulità e dal dissenso a una di-
screta partecipazione emotiva, senza più mettere in dubbio l’u-
nione divina. Adombra anzi l’ipotesi che il neonato scomparso
non sia morto, forse tratto in salvo da un intervento provviden-
ziale di Apollo, così evidenziando senza saperlo la simmetria
con la sua storia, assai meno superficiale di quanto lui immagi-
ni. La reazione di Creusa a questa congettura consolatoria è
eloquente: anche se affidarlo alle cure del padre divino era la
sua sola speranza (cfr. v. 965), non può fare a meno di uno sfo-
go venato di amarezza contro l’egoismo di Apollo; è ingiusto
che si goda da solo il bene comune nato dalla loro unione (v.
358: ta; koinav), che lo allevi in segreto tenendola all’oscuro del
suo destino (l’unione coniugale destinata essenzialmente a ge-
nerare figli è definita paivdwn... koinwnivan in Fenicie 16). In ogni
caso, dunque, sia che lo abbia lasciato morire sia che abbia
provveduto alla sua sopravvivenza, il dio ha commesso un’in-
giustizia. Questo è il punto di vista della madre, ma Ione – in
un momento di forte identificazione con quel bambino che, se
vivo, avrebbe la sua stessa età – aveva già convenuto con lei
nel considerare ingiusta l’indifferenza di Apollo verso il figlio
(v. 355). Diggle propone anche qui un diverso ordine degli ar-
gomenti, spostando i vv. 355-356 subito dopo il v. 358 (e sosti-
tuendo con Page nun al tràdito nin del v. 355). Anche questa ra-
zionalizzazione della sequenza dei pensieri non sembra neces-
saria: secondo l’ordine dei manoscritti si ha prima un dubbio
di Ione sulla correttezza del dio verso il proprio figlio e la con-
statazione dell’infelicità della donna (v. 355), acuita – aggiunge
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246 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

Creusa – dal fatto che non ha più procreato; poi il tentativo del
servo devoto di assolvere il comportamento di Apollo, cui
Creusa replica confermando che la decisione del seduttore di-
vino non sarebbe giusta comunque, perché ha tenuto il bambi-
no lontano dalla madre, privando entrambi del reciproco affet-
to (v. 358: ouj divkaia dra/` riprende e dilata il senso di ajdikei` nin
del v. 355). L’assimilazione ai ruoli materno e filiale, che li avvi-
cina l’una all’altro, induce Ione ad ammettere che il rimpianto
struggente per l’assenza della madre adesso riaffiora dolorosa-
mente, nonostante i suoi sforzi per superarlo. Il clima emotivo
sembra quasi preludere al riconoscimento, ma sia Creusa che
Ione restano alla fine chiusi nelle loro private angosce, come
mostra la sintassi ambigua del testo greco, al v. 360: il senso può
essere «Credo che anche tu, straniero, rimpianga tua madre»
(con se soggetto dell’infinito poqei``n, come probabilmente in-
tende Ione), oppure «Credo, straniero, che anche tua madre
rimpianga te» (con se oggetto dell’infinito, come sicuramente
intende dire Creusa). E la sua richiesta di aiutarla a porre un
quesito all’oracolo prima dell’arrivo del marito, come Ione
aveva promesso, devia la conversazione su un obiettivo prati-
co, rompendo l’incanto che li ha portati così vicini a riconosce-
re, dietro le analogie, le rispettive identità.

18. (vv. 363-400). Ione, tornato al suo ruolo di garante del


buon funzionamento del culto mantico, s’irrigidisce di nuovo e
obietta che sarebbe imperdonabile sfidare il dio nella sua ca-
sa. Non mette più in dubbio l’attendibilità della vicenda, ma
esclude che si possa consultare Apollo su una relazione che lo
coinvolge direttamente e della quale non vuole certo rendere
conto. Ione ha accettato il punto di vista di Creusa ma, proprio
perché il comportamento del dio non è in nessun caso lusin-
ghiero e lui vorrà mantenere la segretezza su quanto è accadu-
to, i mortali si devono astenere dall’estorcergli un pronuncia-
mento oracolare. La replica di Creusa annuncia la successiva,
più articolata protesta, con l’aspra ironia del verbo ajlguvnetai
che riecheggia, al v. 368, aijscuvnetai del verso precedente, mar-
cando come la “vergogna” che rende il dio elusivo abbia per la
donna conseguenze penose. Ma Ione prende ora le distanze
da una richiesta che al dio suonerebbe provocatoria: nessuno
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 247

dei ministri addetti a mediare fra i devoti e l’oracolo si fareb-


be prima portavoce della domanda e poi interprete della ri-
sposta pronunciata dalla Pizia, perché rischierebbe in prima
persona di essere colpito dalla collera divina. Ne deriva l’in-
giunzione a non insistere nel suo proposito, illustrata da una
considerazione generale sul rapporto ìmpari, che dovrebbe
consigliare ai mortali di non forzare in nessun caso la volontà
degli dèi: sarebbe altrettanto stolto provare a ottenere i segna-
li che non intendono concedere con altre tecniche divinatorie,
l’aruspicina o l’osservazione del volo degli uccelli. Diggle e al-
tri editori preferiscono espungere i vv. 374-377, sia per alcune
durezze linguistiche – che tuttavia non appaiono insuperabili,
anche con semplici interventi sul testo – sia perché sembrano
un doppione dei successivi vv. 378-380. L’insistenza sul concet-
to che non bisogna sfidare gli dèi è affidata da Ione all’esem-
pio del tradizionale canale di comunicazione tra le due sfere,
la mantica, che trae auspici dalle viscere delle vittime sacrifi-
cali o dalla direzione dei volatili: anche in questo campo – che
pure sembra relegare l’essere umano a un ruolo meno diretto,
affidato alla sua capacità di “leggere” i segni – si possono
“estorcere” delle verità che gli dèi non hanno alcuna intenzio-
ne di concedere e, per questo, non saranno comunque di nes-
suna utilità. Bisogna poi tener conto del fatto che, nella pratica
oracolare delfica, i mezzi per accertare se il dio era disposto o
meno a concedere un responso erano proprio l’ornitomanzia
o un sacrificio preliminare in cui veniva osservato il comporta-
mento della vittima (cfr. Inno a Ermes 543-549, Plutarco, de
defectu oraculorum 435 bc, 438 ab). Il commento finale ribadi-
sce, in termini più generali, l’assurdità di chiedere favori a di-
spetto della volontà divina: una dichiarazione venata di singo-
lare pessimismo, se espressa da un ministro dell’oracolo delfi-
co, perché addita come illusoria qualsiasi richiesta per ottene-
re aiuto o chiarezza sulla realtà che ci circonda, dal momento
che i benefici degli dèi sono legati solo alla loro imperscruta-
bile volontà. Al v. 378 si sottolinea l’impotenza umana, se è ve-
ro che la «forza» (biva/) usata per ottenere vantaggi dagli dèi ci
si ritorce contro, mentre quando il dio impone un rapporto al
mortale (cfr. v. 11: biva/) suo malgrado, non deve poi subirne le
conseguenze (cfr. Fenicie 18: l’oracolo ingiunge a Laio di non
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248 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

generare figli «facendo violenza», biva/, al volere dei numi). Do-


po una sentenza della corifea, un luogo comune sulla diversità
delle sventure che colpiscono invariabilmente la vita umana,
Creusa prende la parola per rivolgere – a nome dell’amica che
finge di rappresentare – la sua personalissima accusa ad Apol-
lo. Nel comportamento ingiusto del dio è inclusa anche l’inac-
cessibilità dell’oracolo – appena illustrata da Ione – a richieste
che gli creerebbero imbarazzo: qui a Delfi, come là ad Atene,
oggi come al tempo dello stupro, Apollo è inadempiente, co-
me padre che non ha salvato il figlio e come divinità che do-
vrebbe dispensare la verità a chi lo consulta. L’ignoranza sulla
sorte del bambino preclude la possibilità di dedicargli un ce-
notafio, per onorare la sua memoria se non le sue spoglie, ma
frustra anche la speranza di poterlo incontrare e riconoscere,
prima o poi (con opposto desiderio, rispetto a Creusa, anche
Laio, in Fenicie 35-37, chiede all’oracolo se il figlio esposto a
suo tempo fosse morto). La rinuncia a perseguire il suo pro-
getto segna il ritorno di Creusa al ruolo di moglie responsabi-
le, preoccupata di esporsi al giudizio sociale e di destare so-
spetti anche nel marito (al v. 390 le cruces segnalano una lacu-
na metrica anche se il senso è chiaro). Creusa scorge Xuto che
si avvicina e fa a tempo a chiedere a Ione di mantenere riser-
vata la loro conversazione: ancora segretezza e pudore per far
tornare nell’ombra la storia dolorosa che ha raccontato per la
prima volta, attribuendola all’esperienza di un’altra e modifi-
candone in senso generico alcuni particolari. A Ione dice che
vuol evitare il sospetto di favorire intrighi, come spesso si rim-
provera alle donne, le cui iniziative autonome irritano gli uo-
mini rendendole tutte oggetto di biasimo. Chiedendogli com-
plicità evidenzia una volta di più l’intesa e l’empatia che si so-
no stabilite tra loro: questa volta ai danni di Xuto che, per vo-
lontà del dio, verrà escluso dalla conoscenza del segreto sulla
nascita di Ione anche in futuro, ma in modo ben più contorto,
facendogli credere di esserne il padre.

19. (vv. 401-428). Xuto si annuncia come un pellegrino de-


voto: rivolge al dio le sue prime parole di omaggio e poi saluta
Creusa. Ma il silenzio turbato di lei – essendo reduce da una
consultazione oracolare, Xuto si attende un’accoglienza cor-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 249

diale e festosa (cfr. Ippolito 792 sg.) – viene interpretato come


un segnale di angoscia, perché lui si è trattenuto più a lungo
del previsto. Creusa nega recisamente di essere in ansia, anzi
ribalta sul marito l’osservazione, preoccupandosi di spostare il
discorso su dati concreti – il responso ricevuto da Trofonio –
anziché definire il proprio stato d’animo. Il testo del v. 404 è
sembrato indifendibile, perché ajfivkou dΔ ej" mevrimnan può rife-
rirsi solo a Xuto e al suo «essere entrato in ansia» (cfr. le ana-
loghe locuzioni ai vv. 244 e 583), mentre per la maggior parte
degli interpreti è più logico che Creusa parli della propria agi-
tazione, minimizzandola ma non negandola del tutto. Diggle
sostiene che per questo è inevitabile sostituire la seconda per-
sona del verbo con la prima, ajfivgmhn (Badham), ma ritengo
che non abbia torto Kraus 1989, pp. 50 sg., a difendere la lezio-
ne tràdita: la distanza emotiva tra i due coniugi, la rispettosa
freddezza dei loro rapporti emerge proprio da queste prime
battute e, dopo il diniego netto (oujdevn ge), non avrebbe senso
che Creusa affettasse una pur minima preoccupazione, ri-
schiando di alimentare la curiosità di Xuto e far trapelare i ve-
ri motivi del suo turbamento. Accanto a lei Ione è un complice
silenzioso che può apprezzare l’ironia della risposta. L’espres-
sione con cui chiede di apprendere il responso dell’oracolo
beotico – «come si potrà mescolare (sugkraqhvsetai) il nostro
seme per generare figli?» (v. 406) – testimonia l’attenzione di
Euripide per le teorie fisiologiche: il concepimento dell’em-
brione qui è visto, in modo analogo ai trattati ippocratici, co-
me il risultato della fusione tra il seme maschile e quello fem-
minile (cfr. Introduzione, p. 36 n. 31). La partecipazione attiva
di Creusa alla procreazione è fondamentale, per salvaguarda-
re l’ideologia ateniese della purezza della stirpe autoctona, e
Xuto riferisce la risposta generica ma confortante di Trofonio:
né lui né la moglie torneranno a casa da Delfi senza figli. Il fat-
to che non vengano indicati come una coppia con un proble-
ma comune ma siano menzionati separatamente sembra ri-
specchiare la prospettiva di Creusa (la madre non è un ricetta-
colo passivo nel generare), ma in realtà annuncia la complica-
zione drammatica. I due coniugi risolveranno in modo distinto
la mancanza di figli, sia pure in riferimento alla stessa persona;
l’oracolo minore prepara il terreno al pronunciamento di
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250 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

Apollo, che sarà insieme più circostanziato ma anche inganne-


vole: per eccesso d’informazione nei confronti di Xuto, cui as-
segna un figlio che dovrà credere di aver generato anni prima,
per difetto nei confronti di Creusa, di cui non fa menzione al-
cuna. La gioia di Creusa prende la forma di una preghiera in-
dirizzata alla madre di Apollo, Latona, quasi a garantirsi la so-
lidarietà di una figura divina materna e la sua intercessione
nei confronti del figlio (per preghiere che chiamino in causa i
legami affettivi tra due divinità, in analogia con quelli che ali-
mentano la solidarietà tra gli uomini, cfr. Ifigenia Taurica 1082-
1085, 1398-1402). Dopo il divieto di accedere all’oracolo per
conoscere la verità sul passato, con la consultazione di Xuto si
profila almeno la speranza di una prole comune per il futuro
e, a nome di entrambi, Creusa auspica un “miglioramento” dei
rapporti con la divinità. Dal suo intimo punto di vista ciò si-
gnifica passare dal trauma del suo incontro con Apollo a una
più normale relazione tra il fedele che impetra una grazia e il
dio che la concede; alle orecchie di Xuto l’invocazione si rife-
risce invece all’efficacia delle offerte, che forse adesso saranno
ripagate ma in precedenza non avevano ottenuto nulla (il ter-
mine sumbovlaia, al v. 411, è tratto dal lessico delle transazioni
commerciali). Xuto condivide l’auspicio e s’informa su chi sia
il portavoce dell’oracolo. Ione interviene brevemente, preci-
sando di essere responsabile del servizio cultuale all’esterno
del tempio, mentre nel penetrale altri si occupano di interpre-
tare i responsi (cinque o{sioi, designati a sorte e appartenenti
alle più nobili famiglie di Delfi, si avvicendavano a rotazione
per questo ufficio). Senza indugiare oltre e congedandosi in
modo sbrigativo da Ione – in contrasto con la curiosità e la
simpatia che hanno stabilito un’intesa fra il ragazzo e Creusa –
Xuto annuncia il suo ingresso nel tempio; è un giorno propizio
per interrogare il dio, come ha confermato la vittima offerta
dai pellegrini nel sacrificio collettivo dinanzi al santuario (il
fremito del capretto, quando veniva asperso d’acqua prima di
essere immolato, forniva questa garanzia). Prima di entrare
ordina a Creusa di contribuire con preghiere per il buon esito
del responso, raccogliendo i rami d’alloro che servono a orna-
re gli altari; i supplici deponevano sugli altari i rami, la loro in-
segna distintiva, e Creusa assolverà il suo compito fuori dalla
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 251

scena, dirigendosi verso altari diversi da quello accanto alla


facciata, su cui siederà come supplice nell’esodo della tragedia
(anche il sacrificio preliminare è avvenuto altrove). La rispo-
sta di Creusa, eccetto le parole iniziali di consenso, non viene
udita da Xuto, che ormai è sparito dietro la porta del tempio:
vi si legge un accenno ancora più esplicito al torto subito in
passato, cui un diverso comportamento del dio potrebbe porre
rimedio. Lei sa che la promessa di figli futuri non sanerà il do-
lore per quello che ha perduto, e che l’«amicizia» di Apollo si
limiterà a una concessione distante, che non rimetta in discus-
sione il suo ruolo nel passato, come le è stato spiegato da Ione;
ma si rassegna ad accettare quanto le viene offerto.

20. (vv. 429-451). La critica non troppo velata al dio, pro-


nunciata da Creusa prima di allontanarsi a sua volta, ha scosso
la coscienza di Ione. Rimasto solo s’interroga sul senso di
quella polemica, che sempre più gli appare motivata da un se-
greto personale anziché dalla solidarietà per un’amica infeli-
ce. L’ambiguità delle parole di Creusa rispecchia l’impotenza
degli uomini dinanzi alla superiorità divina – non si può mani-
festare troppo apertamente il biasimo – così come lo stile enig-
matico del linguaggio oracolare rimarca a suo modo la stessa
distanza incolmabile: la divinità manda dei segni, ma i mortali
spesso non sono in grado di decifrarli. Dunque la chiarezza del
responso che verrà dato a Xuto è un’ulteriore spia dell’uso
strumentale della profezia: in questo dramma la consultazione
del dio viene scoraggiata o ostacolata (prima quella di Creusa
e alla fine quella dello stesso Ione), ma quando Xuto pone il
suo quesito al dio riceve una risposta falsa, premeditata da
tempo da Apollo, che così salda i conti con la donna amata e il
figlio mortale. Quasi scuotendosi dalla riflessione sui motivi
che ispirano il malcelato risentimento di Creusa, Ione s’impo-
ne poi di tornare alla monotonia del suo lavoro. Ma l’idea che
non deve preoccuparsi della straniera, perché in fondo tra lo-
ro non c’è alcun legame, non basta a dissipare i dubbi che gli
creano disagio e a rendere meno dirompenti quelle critiche.
La presunta distanza verrà annullata, come il pubblico può im-
maginare, dalla rivelazione del vincolo più diretto e saldo,
quello tra un figlio e sua madre, ma l’immagine del padre “spi-
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252 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

rituale”, del dio della purezza che ispira il suo stile di vita, ne
ha ricevuto un duro colpo. Prima di uscire di scena Ione pro-
nuncia così un atto d’accusa inatteso nei confronti di Apollo,
per estenderlo poi agli dèi dell’Olimpo che, come lui, non han-
no scrupoli a sedurre e abbandonare le vergini. Il linguaggio
che descrive la violenza sulle donne è più esplicito di quello,
ancora pudico e reticente, usato da Creusa nel suo racconto
(cfr. v. 338 e qui v. 437: parqevnou" biva/ gamw``n, un’espressione si-
mile a quella usata da Ermes nel prologo, ai vv. 10 sg.: e[zeuxen
gavmoi" biva/). Non era possibile infatti equivocare la natura del
rapporto imposto dalla divinità potente a una ragazza inge-
nua, e Ione non ignora le avventure che sono all’origine della
nascita degli eroi, la lussuria degli dèi e le loro incursioni fra i
mortali per assecondare il proprio piacere. Ma non è questo
l’aspetto della personalità di Apollo che lo affascina e cui lui
dedica devotamente tutta la sua esistenza; lo sdegno dello sfo-
go è pari al disincanto per essersi direttamente imbattuto in
una storia che rispecchia i difetti della natura antropomorfica
del dio, di cui venerava solo l’aspetto incorporeo e trascenden-
te. Dal monologo passa allora all’apostrofe diretta (v. 439), con
l’argomento più scottante della critica antica alla religione:
l’incoerenza di figure divine del tutto amorali che, pure, do-
vrebbero imporre la moralità agli uomini ed esserne garanti
(si veda lo stesso spunto nella protesta di Creusa, ai vv. 252-
254). Non solo la giustizia degli dèi non è più credibile, ma per-
sino l’inapplicabilità della giustizia umana alle loro infrazioni
rende particolarmente inique le aggressioni alla virtù femmi-
nile, da cui nascono figli bastardi il cui destino non può essere
regolato dalle norme giuridiche dei tribunali o dagli arbitrati
tra famiglie: in questo senso va intesa l’immagine paradossale
delle multe che svuoterebbero i templi dei loro tesori, se po-
tessero essere comminate ad Apollo, Poseidone e Zeus, per
punire gli stupri e gli adulteri di cui si rendono responsabili
(cfr. Introduzione, p. 42 e n. 39). Anche nel lessico dei vv. 448
sg. si coglie la prospettiva umana delle azioni giudiziarie: si
può imputare a colui che «commette una colpa» (il verbo usa-
to è ajdikei``n) ai danni di una donna (ma più precisamente del-
l’uomo che ne è il tutore giuridico, padre o marito) la violazio-
ne della legge – ma nel caso degli dèi si può parlare solo di
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 253

promhqiva, «prudenza», «cautela» – cui viene anteposto il pia-


cere sessuale (cfr. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene, I 26).
L’impossibilità di distinguere il bene dal male, quando il mo-
dello divino che ispira il comportamento umano è così indiffe-
rente a criteri etici, assolve in un certo senso i suoi “emuli”; ma
questa amara considerazione finale suona molto diversa dal-
l’argomento consolatorio della fragilità morale degli uomini
giustificata a fortiori dalle colpe degli dèi (cfr. Ippolito 451-
461, Eracle 1314-1321).

21. (vv. 452-471). Anche Ione, dopo Xuto e Creusa, ab-


bandona la scena, e il coro intona il primo stasimo (nel metro
prevalgono versi eolici con clausola di anapesti seguiti da un
reiziano). Le ancelle si uniscono alle preghiere con cui Creusa
starà nel frattempo impetrando la grazia di ottenere figli e mo-
strano nel loro canto l’intenso legame di solidarietà e parteci-
pazione emotiva alle vicende della sovrana. Atena, la vergine
protettrice della loro città, è la prima a essere invocata nella
strofe, strutturata come un inno “cletico”: dopo la menzione
degli epiteti e delle vicende che motivano la scelta della divi-
nità, segue un appello a lasciare il suo luogo d’elezione e veni-
re dai fedeli per esaudirne la preghiera. Può sembrare con-
traddittorio invocare proprio la dèa che non solo non conosce
la maternità, ma non è stata neppure partorita da una madre;
tuttavia lei è certo sensibile alla causa della stirpe autoctona
dei sovrani ateniesi. Atena ha allevato Erittonio, nato dal se-
me di Efesto che la inseguiva per possederla (cfr. n. 3), e pur
senza perdere la sua verginità ha in un certo senso conosciuto
la gioia di accudire il figlio che non ha partorito (cfr. Iliade, II
547-549); la storia di Creusa, che è stata violentata da Apollo
ma non ha potuto tenere con sé suo figlio e allevarlo, rappre-
senta – per quanto le ancelle del coro non ne siano consapevo-
li – il rovesciamento sfortunato di quella divina. La nascita
straordinaria di Atena dalla testa di Zeus, quando la somma
divinità ingoiò la sua sposa incinta, Meti, per impedire che gli
generasse figli più saggi e più potenti, avvenne senza l’inter-
vento di Eileithyia (la divinità del travaglio femminile), ma
con quello decisivo di Efesto. Dunque la purezza speciale di
una dèa vergine, nata senza le doglie del parto e incontamina-
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ta dal sesso, viene qui enfatizzata fra i meriti della sorella di


Apollo, invocata perché interceda presso di lui che, sullo sfon-
do di quest’ode, è anzitutto il signore della purezza e della ve-
rità oracolare. Invece del dio fabbro che agisce da “levatrice”
e consente ad Atena di balzare fuori dal cranio del padre, qui
si parla però del titano Prometeo, il filantropo figlio di Giape-
to, che la tradizione conosce piuttosto come benefattore degli
uomini e ribelle a Zeus. Si è pensato a un’antica tradizione lo-
cale ateniese (Wilamowitz), o forse Euripide innova proprio
per evitare la menzione di Efesto – lo stesso dio che poi avreb-
be tentato di farle violenza – in un’occasione in cui si celebra
anzitutto la castità e la verginità di Atena. L’altro epiteto che
la caratterizza, Nike (v. 457), non solo è popolare nel culto ate-
niese dopo le guerre persiane, ma garantisce il successo del
suo intervento in soccorso di chi ne implora l’aiuto (non c’è
corrispondenza tra il v. 457, un enoplio, e il verso 477 dell’anti-
strofe, un paremiaco; di qui varie proposte per correggere
mavkaira, “beata”, e ottenere una sequenza di due sillabe bre-
vi: Wilamowitz propone mavkar, che è di genere femminile in
Ifigenia Taurica 647, Elena 375 e in Baccanti 565, dove la stes-
sa corruzione è stata emendata da Hermann). L’arrivo della
dèa alata dall’Olimpo a Delfi, per propiziare il responso tanto
atteso dalla coppia regale, focalizza l’attenzione sul tempio e
sul contesto relativo alla consultazione oracolare, anche se
l’accenno alle danze intorno al tripode è più ornamentale che
realistico. Artemide, l’altra dea vergine invocata subito dopo,
ha invece connessioni cultuali con la fecondità e la nascita, ma
è soprattutto come sorella di Apollo che viene associata ad
Atena per patrocinare la supplica delle ancelle in favore di
Creusa (anche tra il v. 467 e il v. 487 manca la corrispondenza,
e non è facile analizzarne il metro). Le ragazze del coro, infine,
si esortano a vicenda a supplicare le dèe perché intercedano
col fratello (al v. 468 iJketeuvsate dΔ, w\ kovrai, riprende iJketeuvw
del v. 454: Furley 1999-2000, pp. 186, 190 sg., interpreta come
autoesortazione delle ancelle-coreute, tipica dello stile innico,
l’apostrofe che invece, per lo più, viene riferita alle stesse divi-
nità che dovrebbero intercedere: «Pregate, vergini, affin-
ché...»). Una volta giunte a Delfi, Atena e Artemide potrebbe-
ro esaudire la supplica del coro favorendo un vaticinio non
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 255

ambiguo oltre che propizio (e tale sarà, ma da questa chiarez-


za non scaturirà la gioia bensì la disperazione di Creusa, anche
per l’amplificazione indebita del suo messaggio dovuta pro-
prio al coro: cfr. vv. 747-762).

22. (vv. 472-491). L’antistrofe è dedicata a illustrare come i


figli siano una benedizione per ogni famiglia: non può esserci
felicità in nessuna casa senza quella forma d’immortalità che
per gli uomini consiste solo nel tramandare ai discendenti il pa-
trimonio accumulato. L’eredità trasmessa da una generazione
all’altra mantiene viva la stirpe e dà senso alle esistenze indivi-
duali: i termini del lessico economico (v. 474: ajformavn; v. 475:
karpotrovfoi di L, che Diggle a torto corregge in karpofovroi,
giudicando la metafora inappropriata per i giovani; v. 478: dia-
devktora) sottolineano come la produttività dei beni sia alimen-
tata e proiettata nel futuro dalla capacità di procreare. E oltre
la cerchia familiare, che nella forza giovanile ha una protezio-
ne contro le avversità e insieme un motivo per godere appieno
della fortuna, anche la comunità civica e la patria fondano sui
giovani la speranza di difesa e salvezza in guerra. Il rifiuto del-
la ricchezza e del potere – beni sterili se non ci sono eredi cui
trasmetterli – a tutto vantaggio della prole culmina infine nel-
l’esecrazione per chi si accontenta di vivere senza figli (uno
schema analogo, dove però il termine auspicato, per cui si ri-
nuncia alla ricchezza, è l’età giovanile e quello deprecato la
vecchiaia, in Eracle 643-650). Purché si riesca ad appagare
questo desiderio, un patrimonio misurato può bastare a ren-
dere felici. Le massime di universale buon senso relative ai
vantaggi o agli svantaggi di mettere al mondo, allevare ed
eventualmente perdere dei figli riecheggiano spesso in trage-
dia, sulla base dell’assunto che l’amore dei genitori per i figli è
caratteristica distintiva del genere umano, e dunque sia la
gioia che la sofferenza sono esperienze più intense se mediate
da coloro cui abbiamo dato la vita (cfr. Andromaca 418-420,
Medea 1090-1115, Eracle 633-636, Supplici 1087-1091, Fenicie
355 sg., 965 sg., Ifigenia in Aulide 917 sg., Alcmena fr. 103 Kn.,
Ditti frr. 345 e 346 Kn.; in quest’ultimo caso gli animali e gli
uomini sono accomunati dall’amore per le loro creature): non
ha dunque molto rilievo il fatto che lo status delle schiave ren-
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256 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

da poco pertinente alle loro speranze una riflessione che ri-


guarda piuttosto chi vive in condizione libera.

23. (vv. 492-509). L’epodo conclude lo stasimo rievocando


la vicenda narrata da Creusa, l’infelice sorte della sua “amica”
che ha partorito un bambino sull’acropoli e lì ha dovuto ab-
bandonarlo in pasto agli animali selvatici. Il paesaggio ateniese
viene apostrofato nei toni celebrativi dedicati fin qui alla città
e alla sua dea, ma dalla descrizione idilliaca dei luoghi di culto
nei pressi delle Rocce Alte si passa poi agli aspetti sinistri e in-
quietanti dello stupro divino e delle sue conseguenze. A Pan è
dedicata una grotta, sul lato settentrionale dell’acropoli, non
lontano da quella in cui Apollo ha violentato Creusa; s’imma-
gina che la divinità che incarna la vita pastorale e la forza pro-
creativa, e predilige i luoghi solitari, la musica e il riposo meri-
diano, frequenti quel pendio scosceso e si riposi su una roccia,
accompagnando poi con la musica del suo flauto (il flauto di
Pan è una “siringa”, formata da canne aperte a zufolo e legate
fra loro in ordine crescente di lunghezza) i passi di danza delle
vergini Aglauridi (cfr. n. 3). La spianata erbosa dove le tre figlie
di Cecrope intrecciano danze – non è chiaro se qui s’intenda
che frequentino dopo la morte il luogo che è stato teatro della
loro vicenda dolorosa – sarebbe «dinanzi al tempio di Palla-
de»: forse un riferimento all’Eretteo (prima ancora di quello
costruito fra il 421 e il 406 a.C., che poi ne avrebbe ereditato la
funzione, Atena Poliade ed Eretteo erano venerati insieme sul-
l’acropoli in un altro tempio arcaico, poi distrutto dai Persiani
e lasciato in rovina; in Erodoto, VIII 55, si chiama nhov" quell’e-
dificio che altrove è definito dovmo", «casa»: cfr. Odissea VII 81,
Eschilo, Eumenidi 855). Connesso al lato ovest dell’Eretteo più
tardo era un altro edificio sacro, il santuario dedicato a Pan-
droso, l’unica delle figlie di Cecrope che non aveva trasgredito
l’ordine di Atena: in questo complesso cresceva l’ulivo sacro
alla dea (cfr. Pausania, I 26, 5 – 27, 2). Al v. 500 bisogna conside-
rare guasta la lezione u{mnwn dei manoscritti, ma le correzioni
proposte non sono particolarmente convincenti. Dalla descri-
zione di Pan, che suona il suo strumento nell’oscurità della
grotta, il coro passa repentinamente alla torbida storia ricorda-
ta da Creusa (la sovrapposizione delle immagini suggerisce
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 257

un’indebita identificazione tra le due diverse caverne). Il parto


della sventurata ragazza è definito «oltraggio di un amaro con-
nubio» e l’apposizione che ne qualifica le conseguenze consiste
così in un termine (v. 506: u{brin) più appropriato per lo stupro.
Non solo le ancelle non hanno dubbi sulla natura di quel rap-
porto fra il dio e la vergine sconosciuta, ma danno per scontata
la tesi più pessimistica, la morte del neonato sbranato dai rapa-
ci e dalle fiere. La conclusione del canto, la massima sulla sorte
infelice che i racconti tradizionali attribuiscono ai figli generati
dagli dèi con donne mortali, può forse essere contraddetta dal-
le versioni più celebrative dei miti eroici, ma non è in contrasto
con la lettura che ne dà in più occasioni Euripide (esemplare,
fra le tragedie che ci sono pervenute, l’Eracle e, fra quelle per-
dute, il Fetonte).

24. (vv. 510-529). Il secondo episodio si apre con il ritorno


di Ione da una delle eisodoi per chiedere alle ancelle informa-
zioni su Xuto e sapere se la consultazione oracolare è ancora
in corso. La corifea risponde che è ancora all’interno del tem-
pio, ma udendo il rumore della porta che si apre può annun-
ciarne l’arrivo. Ha inizio qui la scena di riconoscimento, aval-
lata dal responso divino, tra il preteso genitore e suo figlio: i
tetrametri trocaici catalettici (vv. 510-565) ne evidenziano il
tono emotivo, sempre più intenso e incalzante man mano che
la sticomitia procede, fino a dividere i singoli versi fra le battu-
te dei due interlocutori (antilabe–). Quando Ione, a lungo incre-
dulo e restio, ammette infine l’attendibilità dell’indicazione di
Apollo e consente a riconoscere in Xuto suo padre, il metro
tornerà ai trimetri giambici, e la conversazione tra i due si di-
stenderà in riflessioni generali sulle decisioni da prendere ora
che si sono ritrovati. La solenne apostrofe di Ione (l’accenno
al tripode non significa che il consultante abbia accesso all’a-
duton – cfr. n. 12 – ma rappresenta una sineddoche enfatica
per indicare il luogo sacro, a prescindere dalle interdizioni ri-
tuali) e l’elaborata risposta del Coro creano attesa per la fon-
damentale svolta drammatica che ha inizio con l’uscita di Xu-
to dal tempio. Dall’annuncio dell’oracolo e dalle diverse rea-
zioni umane nel venirne a conoscenza prende avvio il piano
divino anticipato dal prologo. Il saluto entusiasta del marito di
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Creusa, che si rivolge a Ione con l’appellativo «figlio» susci-


tandone prima lo scetticismo ironico e poi l’irritazione, segna-
la la straordinaria novità. L’esuberanza e lo slancio manifesta-
ti nell’andargli incontro vengono giudicati dal servo del tem-
pio mancanza di riguardo al suo status di persona consacrata
al servizio del dio, oltre che segno di scarso autocontrollo: ne
nasce una commedia degli equivoci, destinata a protrarsi fin
quando non emerge che l’espansività di Xuto deriva proprio
dal responso oracolare. Si è creduto – sulla scorta di un sugge-
rimento di Wilamowitz – che l’efebo Ione fraintenda le inten-
zioni dell’aristocratico di mezz’età e si ritragga indignato dal
tentato abbraccio scambiandolo per un’avance erotica. Non è
necessario tuttavia immaginare che il ragazzo respinga con
veemenza lo straniero per la sfumatura sessuale che crede di
leggere nel suo approccio: accusandolo di sragionare e com-
portarsi da pazzo, Ione semplicemente non sa spiegarsi cosa
abbia provocato il mutamento di Xuto, sino a poco prima fred-
do e distante nei suoi confronti (cfr. vv. 413 sgg.). Mentre lui
insiste nel manifestargli affetto parlando di un bene ritrovato
(vv. 521, 523, 525), senza preoccuparsi di render conto del suo
comportamento stravagante, Ione, così sensibile alla tristezza
e all’evidente infelicità di Creusa, prova fastidio dinanzi a una
smodata esibizione di gioia. Si può confrontare l’addio ben più
misurato di Eretteo, che porge la mano al figlio adottivo pri-
ma di avviarsi in battaglia e rimarca come il pudore gli impe-
disca di stringerlo in un abbraccio, perché considera l’abban-
dono emotivo una debolezza femminile (Eretteo, fr. 362, 32-34
Kn.). L’ironia affiora sin dalle prime risposte; si noti il gioco
verbale su cai``re, saluto che augura benessere, nella replica del
v. 518: qui lo stesso verbo viene usato da Ione per contrappor-
re la sua condizione di buona salute all’apparente insania
mentale dell’interlocutore. Xuto vorrebbe baciargli la mano e
abbracciarlo (il primo gesto non ha paralleli tragici, ma si pos-
sono confrontare le effusioni di alcune scene di accoglienza o
di riconoscimento in Odissea, XVI 15-21, XXI 225, XXII 499
sg., XXIII 87, XXIV 397 sg.). Ione si allarma per la sua insi-
stenza, teme che gli strappi le infule sacre di dosso (cfr. il timo-
re della profanazione anche nella scena di riconoscimento fra
Oreste e Ifigenia, Ifigenia Taurica 798 sg.), e lo respinge inorri-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 259

dito minacciando di usare l’arco, che nel frattempo avrà di


nuovo impugnato come nella scena della monodia iniziale,
quando lo brandiva per allontanare i volatili. Ma la violenza
cui sembra disposto a ricorrere non frena per nulla lo slancio
del suo interlocutore. Xuto ripete insistentemente termini af-
fettivi che descrivono il rapporto fra lui e il ragazzo (ta; fivlta-
ta, fivla, filei``n), ribadisce che non «sequestra» (v. 523: rJu-
siavzw, cfr. v. 1406 e n. 52) la proprietà altrui, ma si riappropria
di quanto gli appartiene, e quando Ione rimarca ancora la di-
stanza fra loro, definendolo uno straniero (v. 526), pronuncia
finalmente la parola decisiva (v. 527): si arrende alla sua osti-
lità ma lui, uccidendolo, diventerebbe parricida. Un tono fri-
volo accompagna il contrasto (cfr. v. 528), che non raggiunge
mai una tensione seria neppure quando delinea risvolti irrepa-
rabili: facendo leva sull’incomprensione tra i due e sulla cre-
dulità di Xuto, l’incontro tra padre e figlio è un’anticipazione
ironica del vero riconoscimento con la madre, dove per Ione il
pericolo di uccidere chi lo ha generato è ben più concreto e la
temeraria esultanza di Creusa, che si slancia ad abbracciare il
figlio, molto più patetica (cfr. vv. 1395 sgg.).

25. (vv. 530-562). Anche nel momento del chiarimento –


frammentato dalle antilabai nel rapido botta e risposta degli
emistichi – Xuto non va oltre il nudo dato che ha acceso il suo
incontenibile entusiasmo. Sono padre e figlio, secondo il pro-
nunciamento di Apollo. Il dio lo ha fatto crescere nel suo tem-
pio, ma Xuto non dubita di essere stato proprio lui a generar-
lo, anche se non sa spiegare affatto come sia potuto accadere e
in quale circostanza. L’ipotesi di Ione, la più ovvia, è che abbia
frainteso l’oracolo perché formulato in modo oscuro. Ma non
è questa la via seguita dalla divinità, che intende raggiungere
un risultato sicuro e non mettere alla prova la perspicacia
umana (già con l’annuncio di Ermes nel prologo – vv. 70 sg.,
dove appare la stessa locuzione riferita da Xuto al v. 536 – e
poi con l’epifania finale di Atena, vv. 1601 sg., si garantisce che
la menzogna di Apollo è deliberata, benché Creusa, ai vv. 1534
sg., sembri volerla interpretare in modo assolutorio, sottoline-
nando l’idea del dono; cfr. anche Introduzione, p. 27 n. 21). L’e-
spressione del vaticinio, parafrasata da Xuto, indica come fi-
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260 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

glio del consultante la prima persona che avesse incontrato al-


l’uscita dal tempio. Il motivo folclorico del responso profetico
che rende decisivo il rapporto con la prima persona incontrata
(ripreso da Aristofane in Pluto 40 sgg.) è testimoniato anche
da alcuni degli oracoli delfici che ci sono pervenuti. Ione, in-
calzando Xuto con le sue domande, enuncia la possibilità che
la paternità non sia biologica e che lui sia un figlio concesso
“in dono” dal dio. Ma la replica di Xuto fonde le due alternati-
ve, come se l’una non escludesse l’altra (ciò risulta anche più
evidente, al v. 537, con la congiunzione tΔ che appare nel Lau-
rentianus, poi corretta in sΔ; Musgrave, seguito da Diggle, ha
preferito congetturare la particella avversativa dΔ). Lui intende
il dono solo come rinuncia della divinità al suo servo, non lo
riferisce all’adozione di un trovatello cui allude Ione (è il caso
di Edipo, “donato” a Polibo dal pastore che l’ha salvato, e alle-
vato come figlio dal re di Corinto che non ne ha: Sofocle, Edi-
po re 1021 sgg.). Al v. 537 la lezione tràdita viene corretta da
Diggle, che stampa la congettura a[llwn (dono «di altri», Sea-
ger) invece di a[llw", considerando che l’avverbio sottintenda
una sfumatura di svalutazione e disprezzo poco adatta al con-
testo («nient’altro che un dono»). Dal punto di vista di Ione,
tuttavia, proprio la possibilità di essere «solo un dono» limite-
rebbe la gratificazione di essere legittimato da un padre nobi-
le: se non fosse legato da un rapporto di consanguineità con
Xuto, tornerebbe a turbarlo l’ombra di un’origine ignota, for-
se servile, finora ridotta ad ansia remota dalla vita appagante
sotto la protezione del dio. La ricostruzione successiva della
vicenda avvalora le ragioni della diffidenza di Ione anche in
questo momento, in cui la realtà del “dono” – come s’è visto
inteso da lui e da Xuto in un’accezione diversa – non può ap-
parire nella sua vera luce: la terza possibilità, ignorata dai lo-
cutori, è che il dio lo doni a un altro padre rinunciando alla sua
paternità; un messaggio che solo il pubblico può decifrare ma
dimostra che l’oracolo, al più, cela nel responso una verità am-
bigua (didovnai É dw``ron) accanto alla menzogna (pefukevnai É
o[nta tΔejx ejmou``). Ione continua a porre domande cui Xuto non
sa dare risposta. Anzi, confessa candidamente di non essersi
neppure chiesto chi possa essere la madre: la gioia di appren-
dere l’esistenza di un proprio figlio lo ha confuso al punto da
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 261

non porre più nessun quesito, ritirandosi per andare a cono-


scerlo anziché indagare su dettagli fondamentali, che gli per-
metterebbero di ricordare l’occasione in cui lo ha concepito e
verificarne l’attendibilità. Non è chiaro se il dio confidasse nel-
l’ingenua devozione di Xuto, ma è sicuro che solo una fiducia
acritica (cfr. v. 543) avrebbe favorito il suo progetto, limitando
l’inganno all’essenziale, senza creargli l’imbarazzo di spinger-
lo troppo oltre. Nel gioco delle ironie c’è spazio anche per uno
scambio di battute che sfiora la verità delle origini di Ione ben
oltre le intenzioni, sarcastiche, di chi parla (v. 542): deluso di
non poter accertare chi sia sua madre, Ione ricorre a una sorta
di adunaton – «mi avrà generato la terra?» – cui Xuto replica
con la rigidità del pensiero razionale – «la terra non genera fi-
gli» – ma l’uno e l’altro trascurano così la storia familiare di
Creusa, che ha come capostipite proprio un essere autoctono,
benché ne siano ovviamente entrambi a conoscenza (cfr. la do-
manda di Ione al v. 267). Nel teatro euripideo non mancano
esempi di personaggi che contraddicono la propria esperienza
mitica (cfr. Eracle 1341-1346), ma qui la doppia prospettiva –
quella del passato mitico e quella del presente governato dalla
ragione – fa da sfondo a un ammiccamento divertito del poe-
ta, che incornicia e distanzia l’orgoglio dinastico dei discen-
denti di Eretteo, legato a vicende antiche e misteriose, irripeti-
bili e anzi in contrasto con un’attualità ben più prosaica: per-
ché il figlio illegittimo del dio diventi re, bisogna far credere
che sia nato da un altro. Rompere l’illusione drammatica addi-
tando la finzione del mito, del resto, è considerato un tratto af-
fine ai momenti di consapevole metateatralità della comme-
dia, quando vengono esibite le invenzioni, gli artifici dramma-
turgici e il carattere improbabile delle utopie comiche (cfr., ad
es., Aristofane, Uccelli, 1164-1167). Anche per questo aspetto
la scena tra Ione e Xuto sembra ignorare una rigida divisione
fra i generi. Il dialogo si sviluppa nella direzione realistica così
annunciata, per delineare, con l’aiuto della logica stringente di
Ione, il possibile scenario del suo concepimento. Xuto ammet-
te di aver avuto relazioni illecite prima di sposare Creusa; ma
solo a fatica, facendo leva sull’apparente età del ragazzo, si ri-
corda di un viaggio a Delfi in occasione di una festa in onore
di Dioniso, durante la quale si svolgeva una processione not-
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262 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

turna alla luce delle fiaccole (il culto dionisiaco sul Parnaso è
poi evocato nel secondo stasimo, vv. 714-717; cfr. n. 32). Il gio-
vane aristocratico ha approfittato della mediazione del suo
pròsseno, l’ospite ufficiale presso cui alloggiano gli stranieri in
visita, per essere introdotto in una cerchia di menadi, ragazze
di condizione libera iniziate a Dioniso. Nel clima di sospensio-
ne delle regole che caratterizza la celebrazione di un’orgia
dionisiaca, quando l’ebbrezza annebbia la coscienza e non
consente il dominio degli istinti (cfr. Fenicie 21 sg., per il nesso
tra vino e desiderio), Xuto si rammenta di aver avuto un rap-
porto sessuale: la descrizione del fatto si limita, per la verità,
all’allusione eufemistica alla sua partecipazione al raduno
femminile dove si è abbandonato ai piaceri di Bacco, ma è suf-
ficiente perché Ione ne tragga l’ovvia conclusione che venne
concepito allora (cfr. il racconto reticente di un’analoga vicen-
da, che vede protagonista Moschione, in Menandro, La donna
di Samo 41-50 e, per il motivo divenuto ormai convenzionale
nella Commedia Nuova, Introduzione, pp. 40 sg.). Se ne può
dedurre che quella ragazza fu costretta a esporre il bambino
nato fuori dal vincolo del matrimonio, e il tempio di Apollo
era un luogo sacro e molto frequentato, dove si poteva sperare
che qualcuno ne avesse pietà e si prendesse cura di lui (per gli
scrupoli della Pizia, ai vv. 44-46, cfr. sopra n. 4). Sembra così fu-
gato il timore di essere nato da genitori di condizione servile,
anche se questo dubbio continuerà ad affiorare finché non
verrà accertata l’identità della madre (cfr. vv. 1380-1383). Xu-
to ha vinto infine la resistenza di Ione e può rimarcare lui, que-
sta volta, che il figlio ragiona in modo assennato perché ha cre-
duto alla parola del dio. La fiducia nella verità del responso
oracolare ha un ulteriore risvolto ironico nell’affermazione di
Ione: non poteva desiderare di più, un padre aristocratico, na-
to da Zeus. Xuto è figlio di Eolo e quindi Ione sarebbe solo
pronipote della somma divinità (cfr. v. 292), ma la sua formula
inaccurata (v. 559: Dio;" paido;" genevsqai pai``"), che Xuto non
bada a correggere, ne descrive più adeguatamente la vera ori-
gine: nipote di Zeus in quanto figlio di Apollo. Nel testo del v.
560 non è necessario emendare, con Diggle, la terza persona
plur. – che mantiene un certo distacco anche nel momento in
cui Ione sta per arrendersi – in seconda sing. (o{" mΔ e[fusa",
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 263

Bothe). L’abbraccio finale sigla il riconoscimento e realizza


l’intento iniziale di Xuto, senza pathos e con una gioia conte-
nuta, all’insegna dell’obbedienza al vaticinio di Apollo. La tra-
sgressione sessuale, o forse meglio la violenza di cui Xuto si è
reso responsabile, è la versione umana di quanto è accaduto
nella realtà, e il marito di Creusa rappresenta una credibile
controfigura del dio. Rispetto al più potente modello ha però
il vantaggio di poter rimediare al proprio errore, legittimando
il figlio che crede di aver generato (questo è il motivo che ha
indotto Apollo a mentire: cfr. vv. 1534-1536).

26. (vv. 563-606). Non tutte le ombre si sono dissipate per


Ione, come rivela l’apostrofe alla madre assente, che ora più
che mai lui desidera conoscere. Non indugia affatto sulla gioia
per aver ritrovato un padre, anzi mette in primo piano la tri-
stezza e il rimpianto – non dissimulati neppure nel colloquio
con Creusa (cfr. vv. 319, 361) – nel momento in cui si è delinea-
ta la storia di una vergine che, come l’“amica” della sovrana
ateniese, avrà sofferto lo strazio della gravidanza segreta e il
rimorso dell’abbandono del figlio. Questa donna non ha anco-
ra una fisionomia e forse il tempo trascorso impedirà di rin-
tracciarla, o forse è morta e non sarà possibile neppure imma-
ginare i suoi lineamenti: la fisicità della struggente nostalgia
per la figura materna rende verosimile l’intervento sul testo
del v. 565 (oujde;n a]r dunaivmeqa, L) proposto da Parmentier e
Harry e accolto da Diggle: oujdΔ o[nar dunaivmeqΔ a[n. Alcuni com-
mentatori (Owen, Lee) obiettano che non è necessario aver
conosciuto la persona di cui si coltiva l’immagine in sogno (se
il rapporto affettivo, come in questo caso, è un dato scontato
benché non vissuto), ma la poesia greca – sin dalle descrizioni
epiche della figura onirica come una visitazione concreta, che
sta librata sopra la testa del sognatore (cfr., ad es., Iliade XXIII
65 sgg.) – sottolinea invece l’importanza del ricordo di una fi-
sionomia nota perché, almeno in sogno, si possa ricreare l’illu-
sione della sua presenza (cfr. Eschilo, Agamennone 416-421;
Euripide, Alcesti 348-356, Ecuba 30 sg., Eracle 494 sg., 516-
518). Ione ha sempre sofferto per l’assenza di ricordi e indizi
che lo guidassero alla ricerca della madre, e non ha mai potuto
accarezzarne il volto in una visione notturna. Se la sua morte
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264 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

rendesse vana la speranza di poterla vedere e conoscere, nem-


meno in futuro potranno esserci le «dolorose visioni che ap-
paiono in sogno e portano un vano piacere» di cui parla Eschi-
lo. Il coro interviene, a delimitare la fine della sezione in tetra-
metri trocaici, con un commento in trimetri che, accanto alla
formale partecipazione alla gioia del sovrano, adombra la de-
lusione per la novità che non coinvolge affatto la loro padro-
na. La stirpe di Eretteo e Creusa continua a non avere un ere-
de, e il responso tanto atteso, per cui le ancelle avevano prega-
to nel primo stasimo (vv. 468-471), sembra destinato a risolve-
re invece solo il problema di Xuto. Si dovrebbe ora avviare un
dibattito (ajgw;n lovgwn) tra padre e figlio, in cui entrambi
espongano come intendono agire dopo l’evento straordinario
che li ha ricongiunti; ma, a differenza del modello convenzio-
nale, i discorsi dei due personaggi non sono simmetrici né per
l’estensione né per gli argomenti dibattuti. La riconoscenza di
Xuto verso il dio, che ha seguito fino al suo compimento ciò
che ha vaticinato (il verbo kraivnw, «realizzare», del v. 570, ap-
pariva anche nell’invocazione corale del v. 464 e al v. 77 nel
prologo), rappresenta la nota dominante del suo attuale stato
d’animo. Quanto alla ricerca della donna che lui ha reso ma-
dre del ragazzo, si limita ad ammettere che lo slancio che ani-
ma il desiderio del figlio è legittimo; ma differisce a un mo-
mento successivo ogni iniziativa, anzi sembra delegare al sem-
plice trascorrere del tempo l’occasione in cui si rivelerà l’iden-
tità della sconosciuta (al v. 572 mantengo il tràdito o{ – che si
può intendere come una sorta di oggetto interno del verbo, ri-
preso dal dimostrativo che segue – invece della correzione oi|
di Herwerden, stampata da Diggle). Il desiderio più urgente,
per Xuto, è quello di condurre con sé il figlio ad Atene, dando-
gli subito una dignità diversa rispetto all’umile condizione del-
la sua vita nel tempio (ajlhteiva definisce propriamente il «va-
gabondaggio», ma qui sarà piuttosto lo status di chi non ha fis-
sa dimora, non è radicato in una famiglia: cfr. vv. 314 sg. e lo
sprezzante Foivbeio" ajlavta" che gli riserva il coro al v. 1089).
Per il futuro lo attendono il regno e la ricchezza che gli con-
sentiranno di sfuggire al pubblico biasimo: sotto entrambi gli
aspetti, la nascita e la disponibilità di mezzi, avrà infatti una
posizione ragguardevole e un netto vantaggio rispetto alla sua
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 265

vita precedente. I vv. 578-581, espunti da Diggle nella sua edi-


zione, sono difesi a ragione dalla maggior parte degli esegeti:
una certa durezza dell’espressione ai vv. 579 sg. non deve ren-
derli sospetti, né vale l’obiezione che Ione, ai vv. 591 sg., alluda
a «due mali» che non coincidono con quelli di cui ha parlato
Xuto, ma si compendiano nella sola nascita, illegittima e per di
più da un padre straniero. È una correzione dell’analisi di Xu-
to perché, se la ricchezza gli verrà di certo assicurata, la “no-
biltà” di cui parla il padre gli sembra, nel peculiare contesto
ateniese, meno garantita dall’ostilità di un popolo fiero della
propria autoctonia. La preoccupazione che si è impadronita di
Ione, e gli impedisce di gioire dei progetti che il padre ha in
mente per lui, deriva dunque dall’entusiasmo superficiale di
Xuto: non è sufficiente la legittimazione che dovrebbe inte-
grarlo nella famiglia regnante, perché la sua origine rimane
oscura dal lato materno (per quanto la ragazza di Delfi fosse
di condizione libera, lui è comunque un bastardo) e tanto me-
no si potrebbe ignorare questo dato considerando che suo pa-
dre non è ateniese. Ione mostra un’evidente apprensione – si
notino le indicazioni del testo sul suo silenzio e la posa turba-
ta, con gli occhi fissi al suolo, che hanno cambiato il sobrio
compiacimento di prima – e, pur senza smentire la fortuna del
casuale ritrovamento, precisa subito che diverse prospettive
danno possibilità di valutazione antitetiche. Il contrasto fra ap-
parenza e realtà è sullo sfondo dell’intero discorso di Ione, ri-
tenuto un’evidente rottura dell’illusione drammatica: l’ana-
cronismo dei temi della politica democratica ateniese contem-
poranea (tutt’altro che raro nella produzione euripidea),
l’informazione stranamente dettagliata su tutti i suoi aspetti,
dibattuti anche a costo di incoerenza con il proprio ruolo, che
sarebbe invece quello di un principe ereditario, hanno spesso
incoraggiato diffidenza verso l’autenticità o anche solo la per-
tinenza delle riflessioni del giovane servo di Apollo. Tuttavia è
proprio il contrasto tra l’indifferenza di Xuto all’orgoglio pa-
triottico della città su cui regna e l’acuta sensibilità di Ione per
i disagi connessi con il suo inserimento nella dinastia di Eret-
teo a motivare l’apparente digressione. I problemi passati in
rassegna mostrano come il vizio d’origine della sua nascita lo
esporrà alla xenofobia degli abitanti, quale che sia il suo atteg-
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266 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

giamento una volta giunto ad Atene. La descrizione delle va-


rie categorie di cittadini che lo avverseranno presuppone che
lui debba misurarsi con gli altri nella lotta politica, o eventual-
mente astenersene, con lo stridente paradosso di tratteggiare
la sua ascesa al potere come se avvenisse in una polis demo-
cratica, attraverso la conquista di cariche pubbliche. Il v. 594 è
guasto sia dal punto di vista metrico, sia per la ridondanza del-
l’idea «niente, nessuno»; la traduzione tiene conto del suggeri-
mento di Seidler: ãkaujto;" to;Ã mhde;n koujdevnwn. Ione enfatizza il
punto di vista dei suoi denigratori, per cui nascere da Xuto
non basterebbe a farlo considerare “nobile”, e rovescia la pro-
spettiva secondo cui non lo si potrà biasimare per umili origini
e povertà: Atene è una città in cui provenire dall’esterno rap-
presenta, di per sé, un titolo di demerito (cfr. Eretteo, fr. 360, 5-
13 Kn.). La prima categoria di cittadini ateniesi che si mostre-
rebbe ostile, nel caso in cui lui riuscisse a ottenere una posizio-
ne di prestigio sulla scena pubblica, è quella degli ajduvnatoi (v.
596), coloro che non hanno alcuna influenza o potere politico
e per questo odiano chi ne dispone. La gestione del potere e la
superiorità in genere rendono detestabili (cfr. Medea 300 sg.,
Tucidide, II 64, 5). Ma neppure coloro che rinunciano delibe-
ratamente agli onori e agli oneri della competizione politica
apprezzerebbero che lui emergesse con un ruolo di spicco.
Una scelta, il quieto vivere (ajpragmosuvnh o astensione dai
pravgmata: cfr. v. 599, sigw``si kouj speuvdousin ej" ta; pravgmata,
«se ne stanno in silenzio e non s’interessano di politica»), che
fu variamente giudicata nell’età di Pericle e poi nel logorante
protrarsi della guerra del Peloponneso. Qui si direbbe che pre-
vale una sfumatura eticamente positiva – è per “saggezza”,
non per mancanza di autorevolezza o capacità, che alcuni pre-
feriscono il disimpegno – ma si può cogliere egualmente un’e-
co del dibattito che agitava Atene nei primi anni del conflitto:
non stupisce che il Pericle di Tucidide esortasse i suoi concitta-
dini all’attivismo stigmatizzando l’ajpragmosuvnh, in quanto
dettata dal timore e da una falsa pretesa di ajrethv (Tucidide, II
63, 2-3; cfr. Fantasia 2003, ad loc.). Ione, dunque, potrebbe es-
sere deriso e considerato stolto perché non ha scelto la tran-
quillità in una città lacerata dalla lotta tra fazioni e per questo
«piena di paura» (v. 601: fovbou pleva/, secondo la lezione tràdi-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 267

ta, corretta da alcuni editori senza plausibili motivi; Diggle ac-


coglie la congettura di Musgrave, yovgou, che sottolinea il ruo-
lo del «biasimo» dell’opinione pubblica. Il passo tucidideo ci-
tato, come s’è detto, suggerisce invece proprio l’accostamento
tra inerzia e paura). Infine, la terza categoria menzionata è
quella dei cittadini impegnati nella politica. Anche per loro,
abituati a misurarsi con gli avversari in una lotta senza rispar-
mio di colpi attraverso le votazioni che scandiscono il ritmo
della democrazia di una polis, nell’assemblea come nei tribu-
nali, Ione sarà un rivale da osteggiare, e non solo attraverso il
dissenso e il biasimo ma con l’azione (si è pensato che l’uso
del voto come arma politica alluda all’ostracismo, ma forse
non si tratta di un provvedimento così specifico). Il testo del v.
602 presenta un termine raro, lovgioi, il cui senso dovrebbe es-
sere «persone eloquenti» (compare in Pindaro nell’accezione
di «prosatori, narratori»); la correzione di Schaefer qui adotta-
ta (legovntwn) introduce un participio in antitesi con lo starse-
ne in silenzio di coloro che non prendono parte attiva alla po-
litica. La prima sezione del discorso si chiude poi con un’apo-
strofe di Ione a Xuto (v. 604) e una sentenza generalizzante su
quanto avviene di solito nella vita pubblica, quasi a giustifica-
re la singolare ricchezza di informazioni su problemi remoti
dalla società di Delfi ed estranei alla sua esperienza, ma tutta-
via noti perché se ne parla diffusamente.

27. (vv. 607-632). Ione passa a considerare gli aspetti ne-


gativi del suo inserimento nella casa dei discendenti di Eret-
teo per la vita privata di Xuto. Creusa resta senza figli accanto
a lui, che però d’ora in poi non sarà più partecipe della sua sor-
te; il diverso destino dei coniugi, sancito dall’oracolo, crea una
frattura che l’odiosa presenza del figlio “straniero” renderà in-
sanabile. Ione, come più tardi le ancelle del coro, considera de-
finitiva la condizione di Creusa proprio perché Apollo non ne
ha parlato, ignorando la speranza accesa dal responso di
Trofonio. Tuttavia riserva comprensione all’amarezza e al ri-
sentimento che la situazione susciterebbe in lei, ancora una
volta mostrandosi sensibile all’infelicità della donna che ha
appena conosciuto: il doppio ruolo di Xuto, padre e marito, lo
costringerebbe a scegliere chi dei due appoggiare, facendo tor-
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268 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

to all’uno o all’altra e mettendo a repentaglio la pace domesti-


ca. Con matura consapevolezza Ione esprime il suo disagio al-
la prospettiva di essere lui stesso motivo di dolore per Creusa,
intuisce la delusione e il senso di abbandono che potrebbero
alimentarne l’odio e persino la vendetta. L’idea che le donne
possano arrivare al delitto contro i loro uomini è parsa ad al-
cuni editori un’anticipazione indebita degli sviluppi dell’azio-
ne: oltretutto Ione avrà poi una reazione feroce, tutt’altro che
indulgente, quando viene smascherato l’attentato alla sua vita.
Così i vv. 616 sg. sono stati ritenuti interpolati (Dindorf, Wila-
mowitz, più recentemente Kraus e Kovacs). Ma i timori di Io-
ne non arrivano a prevedere un pericolo per la propria incolu-
mità: è piuttosto Xuto che potrebbe rischiare in quanto “tradi-
tore”. Si crea così l’ironia del richiamo al luogo comune sulla
violenza di cui le donne sarebbero capaci verso i mariti, quan-
do invece nell’azione drammatica Creusa rifiuterà il suggeri-
mento in questo senso del vecchio pedagogo, adducendo un
residuo rispetto verso la precedente correttezza di Xuto (pro-
prio lei allude al simmetrico luogo comune dell’odio delle ma-
trigne per i figliastri, al v. 1025). La compassione per la sovra-
na che invecchia senza figli e non ha più la speranza di genera-
re eredi della propria nobilissima dinastia – a giudicare dal si-
lenzio di Apollo per quanto la riguarda – determina qui il sin-
cero scrupolo di Ione, e suggerisce a Xuto lo stratagemma di
rinviare a un momento adatto, una volta giunti ad Atene, la ri-
velazione a Creusa del rapporto di consanguineità che lo lega
al suo giovane ospite (cfr. vv. 654-660). Ma Ione esprime anche
esplicite riserve al potere assoluto, passando così dallo scena-
rio di una polis democratica a quello della monarchia, vista
però nella sua forma degenerata, secondo la propaganda anti-
tirannica. Dietro la facciata attraente della vita di un tiranno si
celano l’infelicità della continua paura di essere spodestato e
ucciso, la miseria delle amicizie con gente priva di valore, per-
ché solo così sarà al riparo dai pericoli. L’apprensione conti-
nua che caratterizza la vita dei potenti non è compensata dalla
ricchezza, e piuttosto bisognerebbe augurarsi di essere un co-
mune cittadino, possedere un patrimonio misurato senza l’an-
gustia del rancore popolare. La critica della tirannide, in parti-
colare additare l’“infelicità” del tiranno, riecheggia argomenti
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 269

di carattere gnomico correnti nella poesia tragica (cfr. ad es.


Ippolito 1013-1020, Peliadi fr. 605 Kn.). Il potere autocratico
può apparire invidiabile, ma si fonda sulla diffidenza nei con-
fronti dei sudditi; e qui si tacciono i motivi che alimentano l’o-
dio – la violenza e gli aspetti illegittimi con cui viene esercitato
il dominio – anche se nell’abitudine di circondarsi per timore
di persone vili si adombra la riprovazione che può indurre i
migliori a ribellarsi e abbattere il tiranno (cfr. Supplici 444-
446; per l’idea che il comportamento arrogante e invidioso di
chi esercita il potere monarchico, fosse anche il migliore degli
uomini, sia una costante ineluttabile, cfr. Erodoto, III 80, 3-5).
L’intera sezione è dunque caratterizzata dalla genericità del
repertorio gnomico (i vv. 621-628 sono riportati anche da Sto-
beo nel capitolo yovgo" turannivdo") e completa il panorama
eclettico della vita pubblica ad Atene, che Ione si figura prima
nei termini della lotta democratica e ora in quelli del governo
dispotico. La paura, suscitata nella città dagli scontri politici
(v. 601) e nel tiranno dai pericoli che incombono sulla sua vita
(vv. 624, 628), emerge come il comune denominatore che met-
te in luce il privilegio di una tranquilla esistenza a Delfi.

28. (vv. 633-647). All’auspicio di una fortuna moderata e


priva di affanni si lega la conclusione del discorso, dedicata a
illustrare i vantaggi della sua attuale modesta condizione e a
perorare la richiesta di rimanere a Delfi. Il quadro delineato
nella sua monodia indugiava sugli aspetti più umili e sull’im-
pegno devoto al servizio del dio; qui invece Ione illustra a Xu-
to i lati piacevoli della vita nel tempio, secondo un’ottica ari-
stocratica: il tempo libero (v. 634: scolhv), senza fastidi, conce-
de agli uomini la serenità. Ma la sua non è una vita introversa,
anzi frequenta molta gente, sempre diversa, senza peraltro do-
ver competere con nessuno o misurarsi con persone di condi-
zione inferiore, che pretendano di passargli avanti (l’immagi-
ne del dissidio per un diritto di precedenza evoca il fatale in-
contro tra Edipo e Laio, il padre sconosciuto, al trivio in Foci-
de: Sofocle, Edipo re 800-812, Euripide, Fenicie 37-42). Consa-
pevole del suo status, Ione può sottolineare quanto la vita so-
ciale del santuario differisca da quella cittadina, sempre vena-
ta da tensioni e antagonismi. Così i rapporti con i pellegrini
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270 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

che arrivano di continuo sono di reciproco gradimento: con la


singolare eccezione di Creusa, Ione è abituato a vedere volti
lieti, e i visitatori trovano in lui un puntuale esecutore dei ser-
vizi del culto e qualcuno con cui conversare piacevolmente.
Nel contesto di Delfi sia le regole del luogo sacro (v. 643: nov-
mo") che la sua inclinazione naturale (fuvsi") hanno contribui-
to a fare di lui un uomo giusto: l’alleanza tra i due principi che
nel corso del V secolo erano al centro del dibattito culturale –
e nel pensiero dei sofisti più giovani e più radicali divengono
assolutamente inconciliabili – testimonia un atteggiamento di
tipo conservatore, legato alla morale aristocratica. Quale de-
gno figlio di Creusa e Apollo, Ione considera la nobiltà spiri-
tuale strettamente associata a quella genetica. Virtù e giustizia
sono insieme connaturate in lui e imposte dalle norme, come
sarebbe auspicabile per tutti gli uomini, anche contro la loro
volontà (v. 642, un’idea antitetica al relativismo morale sofisti-
co, cui aderisce invece il vecchio pedagogo, cfr. vv. 1045-1047;
per Eschilo, Agamennone 180 sgg., il disegno divino impone
all’uomo la saggezza con violenza, anche quando la rifiuta).
Continuare la sua esistenza protetta nel santuario gli sembra
infine la scelta migliore: gli garantirebbe la felicità, che non
deriva né dal potere regale né dalla ricchezza offerti dal padre
appena ritrovato.

29. (vv. 648-675). Il coro interviene con un breve commen-


to di approvazione: le ancelle di Creusa sono inquiete per l’e-
sclusione della padrona dall’evento felice determinato dall’o-
racolo, e il rifiuto del ragazzo di recarsi ad Atene sembra scon-
giurare proprio quel dolore, vissuto in disperata solitudine, che
lo stesso Ione ha saputo prevedere. La replica di Xuto non ri-
sponde a nessuno degli argomenti esposti da Ione; così l’ajgw;n
lovgwn, apparentemente inaugurato dalle sue riflessioni sulla
difficile posizione degli stranieri ad Atene, viene troncato con
la secca esortazione a lasciar perdere gli scrupoli e fare espe-
rienza della fortuna che il ragazzo ha messo in dubbio. Xuto
non indugia sulla visione problematica del futuro, non s’impe-
gna neppure a delineare uno scenario diverso, e con spirito pra-
tico passa a organizzare i festeggiamenti che segnano insieme
l’inizio della loro vita comune, il ringraziamento che non ha sa-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 271

lutato la sua nascita, e il commiato del figlio da Delfi. Dal pun-


to di vista rituale verrà così offerto un sacrificio che compensi i
genevqlia (v. 653), celebrati nel quinto o settimo giorno dopo la
nascita, ma anche la dekavth (cfr. Elettra 1125 sg.), la festa del
decimo giorno, in cui veniva imposto il nome al bambino (cfr. v.
661). Naturalmente quei riti presuppongono un contesto do-
mestico e comportano anche la purificazione della puerpera e
di coloro che l’hanno aiutata nel parto, oltre a raccomandare il
neonato agli dèi protettori della casa. Ora invece la protagoni-
sta femminile di quell’evento è assente, il senso dell’offerta ri-
tuale si compendia in un devoto omaggio alle divinità che han-
no esaudito il padre e nel legame che si istaura fra lui e il figlio,
a grande distanza dalla vera e propria nascita ma con la spe-
ranza di recuperare il tempo perduto. Sarà Xuto, allontanando-
si dal santuario, dove nel frattempo Ione curerà che venga alle-
stito il banchetto per congedarsi dagli amici, a recarsi da solo
nel luogo sul Parnaso dove si onora Dioniso – proprio là dove
presume di aver concepito il figlio (cfr. vv. 550 sgg.)! – per rin-
graziare «gli dèi della nascita» (cfr. vv. 1125-1131). Xuto è at-
tento a non urtare la suscettibilità di sua moglie e il progetto di
fingere che la festa pubblica inauguri un nuovo rapporto di xe-
nia, amicizia ospitale, è la sola risposta che venga fornita alle
preoccupazioni di Ione (vv. 607-620). L’accoglienza ad Atene
sarà dissimulata come visita di un caro ospite e l’inganno ri-
specchia ironicamente la reale estraneità tra i due; col tempo,
quando si presenterà l’occasione per persuadere Creusa ad ac-
cettarlo come erede del regno, Xuto s’impegna a rivelarle la
“verità”, ma naturalmente sarà proprio la sua illusione a con-
sentire al figlio di Apollo di salire sul trono della città autocto-
na. Creusa non avrebbe mai accettato il bastardo di suo marito,
come l’azione scenica sta per mostrare, e le due «malattie» che,
agli occhi di Ione, rappresentano un marchio incancellabile – la
nascita, per di più illegittima, da un padre straniero (vv. 591 sg.)
– possono essere ignorate solo perché la madre è figlia di Eret-
teo e il padre, in quanto dio, è estraneo alla stirpe umana, non a
una determinata comunità. Il nome che Xuto assegna solenne-
mente a Ione, lo stesso anticipato da Ermes nel prologo (vv. 80
sg.), si accorda con il caso fortunato che ha fatto incontrare pa-
dre e figlio: lui è la prima persona che ha incrociato all’uscita
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272 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

dal tempio. Il participio di ei\mi (ijwnv , cui viene collegato il nome


“Iwn) viene riferito in genere dagli interpreti al ragazzo che «va
incontro» al padre. Ma in realtà Xuto, con la forma composta
del verbo, privilegia il proprio «uscire» dopo aver consultato
l’oracolo (v. 662, ejxiovnti moi; cfr. vv. 535, 831). Il coro, più tardi,
spiegherà il senso del nome in termini non diversi (v. 802, dove
il verbo ajntavw non è un sinonimo che gioca lo stesso ruolo di
ei\mi, come opportunamente osserva Zacharia 2003, p. 126 n.
100): è sempre Xuto che «va», anche se il participio ijonv ti resta
sottinteso, per essere poi esplicitato al v. 831 dal vecchio. L’eti-
mologia sembra evidenziare, più che un malinteso gioco lingui-
stico, proprio l’inganno su cui si fonda il disegno divino (cfr. In-
troduzione, pp. 11-14): il padre putativo s’illude di imbattersi
nel figlio che non sapeva di aver generato, il presunto figlio è il
primo a incontrare colui che socialmente farà le veci del padre,
e dovrà così allontanarsi dal vero genitore che rinuncia a rico-
noscerlo pubblicamente. Dopo l’imposizione formale del no-
me, Xuto esorta Ione a invitare tutti gli amici per la festa d’ad-
dio a Delfi, mentre ordina alle ancelle del coro di mantenere il
silenzio, minacciandole di morte se rivelassero la novità a
Creusa. Complicità e silenzio non sono dunque richiesti, come
di solito, dal personaggio cui va spontaneamente la solidarietà
dei componenti del coro (cfr. Medea 259 sgg., Ippolito 710 sgg.,
Ifigenia Taurica 1056 sgg., Elettra 272 sg., Elena 1387 sgg., Ifige-
nia in Aulide 542). Credendo di poterli ottenere con l’intimida-
zione, Xuto non tiene conto della lealtà delle ancelle nei con-
fronti della padrona; la paura di una ritorsione non impedirà
infatti che trasgrediscano l’ordine, assumendo così un ruolo de-
terminante per gli sviluppi dell’azione, come non accade mai
altrove sulla scena tragica. Dal silenzio del coro – una conven-
zione drammatica strettamente connessa con la sua costante
presenza in scena – deriverebbe il compimento senza ostacoli
del piano divino. Ma Apollo, e come lui Xuto, non sa prevedere
l’affettuosa solidarietà e l’empatia tra donne, sia pure di diver-
so rango. La coraggiosa trasgressione dell’ordine è una delle
reazioni umane, potenzialmente disastrose, che mettono in lu-
ce l’ignoranza e la fierezza dei protagonisti mortali insieme alla
preveggenza imperfetta del dio. Ione non replica più al decisio-
nismo di Xuto e aderisce al suo invito, ma prima di allontanarsi
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 273

con lui ribadisce il desiderio di ritrovare la madre e il timore di


scoprire che non sia di origine ateniese. Solo da una madre che
appartenga alla pura stirpe autoctona lui riceverebbe il diritto
alla parrhsiva, la «libertà di parola» che era un vanto dei citta-
dini dell’Atene democratica e da cui erano esclusi schiavi, stra-
nieri, esuli (cfr. Fenicie 390-392). L’anacronistica preoccupazio-
ne di non godere di questa libertà egualitaria si lega ancora al
rispetto di Ione per il peculiare orgoglio ateniese: solo in appa-
renza verrà integrato, e definito cittadino «a parole» (v. 674, cfr.
Eretteo fr. 360, 13 Kn.), senza poi esserlo davvero in pratica.
Godere della parrhsiva è privilegio esclusivo dei veri cittadini,
che ad Atene sono coloro che nascono da genitori entrambi
ateniesi (in base alla legge di Pericle del 451 a.C.), anche se Eu-
ripide lo proietta nel tempo mitico con l’abituale disinvolta me-
scolanza di costumi attuali e passato indistinto e remoto (cfr.
anche Ippolito 421-425, dove la legittimità dei figli di Fedra po-
trebbe retrospettivamente essere messa in dubbio, se lei diso-
norasse il marito, e così l’indegnità morale della madre li prive-
rebbe della libertà di parola; Andromaca 150-153: la ricca dote
di Ermione può garantirla; Oreste 904 sg.: il demagogo arro-
gante può abusarne).

30. (vv. 676-694). Il secondo stasimo – il cui testo presenta


molti guasti non facili da sanare – è formato da una singola
coppia di strofe e antistrofe seguita da un epodo. Il metro è
dominato da docmi e giambi lirici, e denota l’inquietudine e
l’emozione delle ancelle dinanzi al futuro che si annuncia infe-
lice per la loro signora, tradita da un marito ingrato e da un re-
sponso oracolare sulla cui veridicità s’interrogano sgomente.
Dalla concitazione del canto emergono sia l’adesione ai senti-
menti della sovrana, che anticipa la successiva reazione di
Creusa, sia l’esasperato patriottismo xenofobo. Viene enfatiz-
zata l’origine straniera del marito, ora che lui non sembra più
destinato a generare all’interno della stirpe di Eretteo e anzi si
configura come usurpatore del suo ruolo. Se il figlio attribuito
a Xuto non è nato da Creusa, tuttavia, ciò non equivale a una
sentenza negativa per lei e le sue future possibilità di procrea-
re, come il coro si affretta a dedurre (in modo non diverso da
Ione, del resto: cfr. vv. 608-613, 618-620). Nonostante la sensi-
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274 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

bilità mostrata dal ragazzo dinanzi al problema della sterilità


di Creusa, per cui l’oracolo non ha additato rimedi, le ancelle
focalizzano essenzialmente su di lui, oltre che sul padre e sul
dio, la loro diffidenza. E in Ione ravvisano alla fine l’avversa-
rio da osteggiare, perché sulla sua persona si addensa l’ap-
prensione per quanto accadrà nella casa regnante ateniese.
Dopo averlo trovato Xuto gioisce, mentre si può immaginare
il dolore disperato di Creusa, priva adesso del conforto di con-
dividere con il marito la frustrazione del desiderio di un erede.
Il responso oracolare potrebbe essere stato frainteso (cfr. vv.
690 sg.), ma se molti punti rimangono oscuri – la vera origine
del ragazzo cresciuto nel tempio, l’identità della madre – sem-
bra evidente che non è stata esaudita la preghiera del primo
stasimo alle divinità da cui le ancelle si attendevano un’inter-
cessione, le vergini Atena e Artemide. Il v. 691 manca di un
verso corrispondente nell’antistrofe e, nella forma tramandata
(tovde tΔ eu[ϕhma), non ha senso. Tuttavia sembra necessario
emendarlo, anziché espungerlo come interpolazione o residuo
corrotto di una glossa, per non lasciare il verbo paradivdwsi
privo di un soggetto convincente. La correzione di Nauck (tav-
de qeou`` fhvma) mette di nuovo in rilievo l’oracolo e il messag-
gio che ha pronunciato come fonte d’inganno (cfr. v. 685). Nel
successivo v. 692 a «tramare» inganni sarebbe Ione in prima
persona (secondo le correzioni di Diggle, plevkei anziché e[cei,
e di Schoemann, tevcnan anziché tuvcan); anche se così gli viene
assegnato un ruolo forse troppo diretto – non solo strumento
del complotto di Xuto, ma attivo e complice nella cospirazio-
ne per insediarsi sul trono di Atene – la fervida immaginazio-
ne del coro, che si lascia trasportare ben oltre i fatti di cui è
stato testimone, sembra incline a distribuire equamente la pro-
pria ostilità tra il sovrano e lo sconosciuto servo di Apollo. Un
augurio di morte, del resto, sarà indirizzato prima all’uno e poi
all’altro, e le ancelle non intendono distinguere tra padre e fi-
glio, entrambi stranieri e nemici nell’ottica di protezionismo
della stirpe che esse rivendicano.

31. (vv. 695-712). Nell’antistrofe il coro si chiede se tra-


sgredire l’ordine di Xuto. La partecipazione emotiva al dolore
di Creusa, cui non viene confermata – e per ciò stesso verrebbe
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 275

preclusa – la speranza di avere figli, fa intuire che le ancelle so-


no pronte a rivelare quanto è successo. Il v. 698 è probabilmen-
te guasto, perché rimane sospeso in un anacoluto (anche se Wi-
lamowitz ritiene possibile che l’espressione indignata non se-
gua la logica grammaticale), ma il senso è comunque perspicuo
(Page propone di correggere tlavmwn in tolma`n` , «osare», facen-
do così di povsin il soggetto di un’infinitiva che avrebbe come
oggetto tavde, dislocato un po’ a distanza, al v. 696). Si dovrà de-
nunciare Xuto, il marito che viene additato come unico punto
di riferimento di Creusa, più in armonia con una visione ideale
del matrimonio (cfr. Medea 228) che in base ai reali rapporti
tra i due coniugi. L’antitesi tra la condizione che si profila per
Creusa e la fortuna toccata a lui solo va oltre il senso del vatici-
nio, letto come sanzione dell’impossibilità di continuare la stir-
pe di Eretteo: così, da una parte c’è la desolata attesa di una
vecchiaia senza il conforto dei figli – ma descritta già come uno
stato angoscioso del presente – e, dall’altra, la gioia di averne
trovato uno si accompagna alla mancanza di riguardo per la
sposa sterile (ajtiveto", al v. 701, dovrebbe assumere qui signifi-
cato attivo, «che non onora», e non passivo come di norma, a
meno di correggere il testo). La descrizione di Xuto come un
profittatore, entrato in una casa di straordinaria prosperità sen-
za sapersi innalzare allo stesso livello di quella fortuna – dun-
que privo di lealtà verso la famiglia che lo ha integrato nella
sua discendenza – è analoga alla valutazione che più tardi ne
darà il vecchio pedagogo (vv. 813-818). La maledizione diretta
contro il sovrano che «ha ingannato» Creusa si accompagna al-
l’auspicio che anche gli dèi non gradiscano le sue offerte: il rito
sacrificale che Xuto intende celebrare, in ringraziamento per la
nascita del figlio (cfr. v. 653), dovrebbe suscitare una risposta
inquietante e negativa, secondo l’ostile fantasia del coro. La
fiamma dell’altare dovrebbe crepitare in modo sinistro, non ar-
dere in modo beneaugurante quando il pelanov" viene versato
su di essa (cfr. n. 12, al v. 226, per l’offerta vegetale di questo
nome). Il testo dei vv. 709-710 presenta una lacuna (manca la
corrispondenza con il v. 691) e le proposte d’integrazione svi-
luppano il senso di ciò che resta: un’attestazione di lealtà alla
casa regnante (la traduzione tiene conto, exempli gratia, del
suggerimento di Willink, accolto nel suo testo da Kovacs, che
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276 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

restituisce la sequenza di un docmio e un dimetro giambico:


<ti" o{son ajrcaiva"É e[fun> turannivdo" fivla). L’immagine che
chiude la strofe è quella dell’imminente banchetto in cui padre
e figlio – dopo che Xuto avrà sacrificato agli dèi – siederanno
insieme per cementare il loro sodalizio. Diggle stampa un testo
diverso da quello tràdito, che ritiene insulso e incoerente. Non
sembra necessario, però, cambiare deivpnwn in deinw`n` (v. 711) e
intendere che i due, il nuovo padre e il nuovo figlio (v. 712: con
nevou di Hartung, anziché nevwn), stiano per compiere azioni
«tremende». L’epiteto riferito al convito imminente (deivpnwn...
nevwn), in luogo dell’esasperato parallelismo proposto dalla cor-
rezione, può invece suggerire la novità di un festeggiamento
imprevisto, che oltretutto nasconde l’inganno della vera rela-
zione per cui si celebra.

32. (vv. 714-724). Nell’epodo le ancelle rivolgono un’apo-


strofe ai luoghi del Parnaso in cui si svolgono i riti durante i
quali, molti anni prima, sarebbe stato concepito Ione. La strut-
tura è simmetrica a quella dell’epodo conclusivo del primo
stasimo (vv. 492-509), dove si evocavano le Rocce Alte e la ca-
verna di Pan, lo scenario della presunta morte del bambino
esposto dall’“amica” di Creusa. Ora il coro prende invece in
considerazione i picchi del Parnaso che sovrastano Delfi, le
rupi Fedriadi, oltre le quali si stendono gli altopiani dove si ce-
lebravano ogni due anni le feste orgiastiche notturne in onore
di Dioniso (dette, nel conteggio inclusivo dei Greci, “trieteri-
che”), cui Xuto prese parte quando violentò la ragazza scono-
sciuta (vv. 550 sgg.). I fedeli danzano in estasi con in mano le
torce e Dioniso partecipa al rito selvaggio delle Baccanti,
un’immagine ricorrente nella poesia drammatica (cfr. Sofocle,
Antigone 1126 sgg., Aristofane, Nuvole 603 sgg., Euripide, Ifi-
genia Taurica 1243, Fenicie 226-228, Baccanti 306-308). Il culto
delfico di Dioniso prevede una sorta di divisione del potere e
l’alternanza tra i due fratelli divini: nei mesi invernali, quando
Apollo si assentava da Delfi e l’oracolo non funzionava, c’era
spazio per i riti orgiastici di Dioniso; sempre circondato dalla
schiera dei suoi devoti, che perdono la propria identità in una
sorta di comunione mistica con il dio, nei suoi riti si celebra
l’alterazione della coscienza, quando il divino fa irruzione at-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 277

traverso l’ebbrezza, non come aberrazione ma come accresci-


mento della forza spirituale. In ogni caso è significativo che
l’episodio del presunto concepimento di Ione sia accaduto a
Delfi in assenza di Apollo e sotto l’egida di Dioniso: la vicen-
da che è stata così ricostruita si delinea come antitetica a quel-
la da cui è nato realmente e Xuto, la controfigura umana del
dio, avrebbe agito in un’atmosfera radicalmente estranea al
nume tutelare di Delfi. Un augurio di morte sigla l’avversione
per il frutto di quell’incontro erotico trasgressivo: l’esistenza
del ragazzo abbia fine prima che lui raggiunga Atene (al v. 720,
nevan dΔ aJmevran può ben indicare la «giovane vita» oppure, se
inteso in senso non metaforico, il «nuovo giorno» che segna la
“nascita” di Ione con la celebrazione dei genevqlia). Un ricor-
do della storia della città suffraga la preghiera del coro, ma il
testo dei vv. 721 sgg. è oscurato da una lacuna, come si evince
dalla mancanza di un verbo di modo finito che completi il sen-
so della frase di cui Eretteo è soggetto. Le proposte d’integra-
zione sono innumerevoli e disparate, ma l’unica certezza ri-
guarda l’allusione all’impresa di Eretteo contro Eumolpo e i
Traci, archetipica difesa contro un’aggressione straniera. Al v.
721, stegomevna è la correzione proposta da Grégoire per ste-
nomevna, e consente di intendere: “Atene avrebbe una buona
ragione per proteggersi da un invasore straniero”. Nella frase
successiva si potrebbe cogliere semplicemente l’orgoglioso ri-
cordo della resistenza vittoriosa di Atene all’assalto nemico,
modello per ogni successiva opposizione alle insidie esterne,
che ebbe protagonista il padre di Creusa, Eretteo, quando «ra-
dunò» un esercito per salvare la città (se non si corregge il par-
ticipio aJlivsa", come tendono a fare quasi tutti gli interventi; il
verbo ionico aJlivzw è usato da Euripide anche in Eraclidi 403,
Eracle 412: Diggle lo pone tra cruces). Il pensiero delle ancel-
le, fedeli all’ideologia xenofoba della casa regnante, anticipa
così la svolta violenta che sarà progettata nel successivo episo-
dio, assimilando la necessità di proteggere Atene da un usur-
patore all’antica impresa militare, che era costata anche il sa-
crificio delle figlie del re (cfr. n. 14 ai vv. 277 sgg.).

33. (vv. 725-751). Il terzo episodio si apre con l’arrivo in


scena di Creusa e di un vecchio servo di famiglia, pedagogo di
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278 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

Eretteo e legato da affetto speciale alla sovrana, custode dei


valori familiari e in grado di influenzare le sue scelte. Il perso-
naggio si caratterizza per l’età avanzata, che sollecita un com-
portamento filiale e rispettoso in Creusa (vv. 733 sg.) e gli con-
ferisce un’autorevolezza poi determinante per gli sviluppi del-
l’azione: quasi cieco e privo di forze, viene sorretto e aiutato
dalla padrona nel cammino verso il santuario. Come altri servi
in tragedia – si pensi al pedagogo di Agamennone in Elettra
487 sgg. – il vecchio può vantare, più che un rapporto di devo-
zione, la solidarietà amicale che rende ragione della sua pre-
senza al fianco di Creusa nel delicato momento in cui lei torna
per apprendere la risposta dell’oracolo. Nonostante la diffi-
coltà nel procedere e la lentezza dei suoi spostamenti sulla ri-
pida salita che dà accesso al tempio, la padrona lo vuole ac-
canto a sé a condividere la gioia o, se le speranze fossero disat-
tese, a confortarla nella delusione (non è necessario immagi-
nare che un pendio scosceso portasse allo stilòbate del tem-
pio, considerando la predilezione di Euripide per la rappre-
sentazione mimetica della fragilità senile: cfr. Eracle 119 sgg.,
Fenicie 834 sgg.; un leggero dislivello sarebbe bastato a con-
sentire agli attori di descrivere l’ultimo tratto del faticoso cam-
mino). Sembra comunque che Creusa sia orientata adesso ver-
so un moderato ottimismo, rispetto all’infelicità che trabocca-
va dai suoi ricordi al momento dell’arrivo a Delfi, e si avvia fi-
duciosa in compagnia di questa figura paterna a conoscere il
responso che le renderà Xuto ancora più estraneo. Le parole
con cui il vecchio l’apostrofa enfatizzano come motivo d’orgo-
glio l’appartenenza alla stirpe autoctona (ai vv. 29 e 590 si par-
lava di origine autoctona per l’intero popolo ateniese: cfr. n.
4): la nobiltà d’animo che lei dimostra ne rivela la discendenza
e la rende degna dei suoi antenati. L’aristocratica diversità de-
gli Eretteidi si delinea come chiusura rispetto agli stranieri,
mentre le differenze di classe non impediscono ai servi di es-
sere partecipi della fierezza dei padroni, a loro volta inclini a
cercarne il sostegno e la solidarietà. L’ideologia xenofoba può
sposarsi così, in modo singolare, con una visione interclassista
di matrice sofistica, che tende a distinguere le gerarchie socia-
li dai giudizi di valore. La scena indugia sulle difficoltà fisiche
che impediscono al vecchio di procedere speditamente, con
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 279

battute di tono colloquiale che sottolineano la confidenza tra


servo e padrona; alla debolezza delle membra e della vista lui
contrappone comunque l’agilità mentale (v. 742), un’ironica
anticipazione dell’irruenza che più tardi lo guida a conclusioni
avventate e a consigli disastrosi. Quando finalmente Creusa,
sorreggendo il passo incerto del vecchio, si avvicina al coro,
chiede se ha notizie sul responso ottenuto da Xuto e ricorda
anche alle ancelle il legame di reciproca solidarietà: le sue fe-
deli compagne nel lavoro di tessitura – evocato dal coro al v.
507 – possono contare sulla gratitudine con cui saprà remune-
rarle se hanno per lei felici novità (l’offerta di un premio, in
quel caso la libertà e il ritorno in patria, viene promesso da Ifi-
genia alle donne greche che compongono il coro in cambio
della loro complicità: Ifigenia Taurica 1056 sgg.).

34. (vv. 752-807). Le esclamazioni del coro preoccupano


Creusa ben prima di apprendere cosa è successo. Vanno attri-
buiti a lei, che ha posto la domanda, i vv. 753 e 755 (nei mano-
scritti sono assegnati al coro, ma gli editori oscillano tra il vec-
chio e, com’è più probabile, Creusa). Le prime espressioni del-
le ancelle preludono a una risposta dell’oracolo infausta per la
padrona, e per di più accennano alla minaccia di morte che im-
porrebbe loro di mantenere il silenzio. Ma l’angosciato interro-
garsi del coro su cosa fare approda subito alla decisione di tra-
sgredire l’ordine di Xuto, anche se – come le ancelle proclama-
no con slancio – questo dovesse costare loro la vita non una ma
«due volte» (cfr. l’analoga iperbole in Oreste 1116). Più che ri-
ferire il responso, tuttavia, ne focalizzano impropriamente le
conseguenze, la delusione delle attese di Creusa e la sua soffe-
renza per non poter appagare il desiderio di maternità, distor-
cendo così il dettato dell’oracolo che emergerà solo più tardi,
dietro le incalzanti domande del vecchio. Anche Ione aveva
considerato questo aspetto, come esito ineluttabile del pronun-
ciamento di Apollo (cfr. vv. 607 sgg.), ma ora le ancelle lo for-
mulano nei termini solenni della profezia (vv. 761 sg.), così di
fatto ascrivendo a un autorevole verdetto ciò che, tutt’al più, si
poteva evincere dal silenzio su Creusa (contraddittorio, del re-
sto, con quanto aveva anticipato l’oracolo di Trofonio: cfr. vv.
407-409). La reazione alla notizia dà avvio a uno scambio a tre
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280 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

(che assume il carattere di un kommos), in cui Creusa esprime


la sua disperazione cantando versi lirici (dal ritmo docmiaco e
giambico) mentre il vecchio e il coro replicano recitando in tri-
metri. I manoscritti presentano qualche confusione nella divi-
sione delle battute e anche fra gli editori permane l’incertezza:
la scelta di Diggle prevede di lasciare a Creusa le interiezioni
emotive, che comprendono desiderio di morte (v. 763) e stra-
ziante descrizione di un dolore insopportabile, interrotte dalle
apostrofi affettuose del vecchio ai vv. 763 e 765, a sottolineare
le sue frasi spezzate. Il pedagogo cerca di frenare i lamenti di
Creusa e impedire che si abbandoni allo sconforto prima di
aver appreso i particolari sul vaticinio. A ogni domanda del
vecchio, cui il coro risponde spiegando la diversa sorte toccata
a Xuto, segnalando poi l’esistenza di un figlio già cresciuto, che
il padre ha potuto riconoscere all’uscita dal tempio, e identifi-
candolo infine nel servo del dio, Creusa reagisce con i suoi
commenti intensamente patetici, in cui si accumulano artifici
retorici come l’anadiplosi (vv. 776, 783, dove però crea un’ano-
malia metrica, 790, 799) e il desiderio di evadere a volo in terre
lontane (vv. 796 sgg.). La distanza che si crea tra le rispettive
sorti dei due coniugi è un ulteriore motivo di angoscia: Creusa
può misurare, nel contrasto con la gioia del marito, la profon-
dità della sua desolazione. L’oracolo avrebbe così decretato per
lei sola una vita senza figli – al v. 790 Creusa ripete, secondo la
distorsione suggerita dal coro, il contenuto del responso – e al-
la delusione delle speranze si aggiunge l’amarezza del “tradi-
mento” dello straniero Xuto, che ha già avuto un figlio in pas-
sato e ora lo ritrova su indicazione del dio. Una volta identifi-
cato il ragazzo con la stessa persona che assolveva l’umile com-
pito di spazzare l’ingresso del tempio, Creusa raggiunge il cul-
mine delle sue espressioni d’infelicità e s’abbandona a una fan-
tasia di fuga da una realtà intollerabile: sparire lontano, volare
attraverso l’etere nel remoto occidente fino agli astri della se-
ra. In questo caso il desiderio d’evasione enfatizza una volontà
di sparire, quasi confondendosi con la natura – gli astri, i limiti
estremi del mondo (cfr. Ecuba 1100-1105, Ippolito 732-751) –
ma talvolta la poesia euripidea riserva il motivo a un desiderio
onirico di libertà in un luogo lontano (cfr. Ifigenia Taurica
1138-1142, Elena 1478 sgg.); più avanti, in questa tragedia, il co-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 281

ro lo riprenderà in una situazione che appare senza sbocco, di-


nanzi al concreto pericolo di vita che incombe sulle ancelle e
Creusa (vv. 1238 sg.). Le ultime informazioni date dal coro
completano il quadro rispondendo a proposito del nome (v.
802, ancora un’allusione al gioco etimologico: cfr. n. 29 ai vv.
661 sg.), con ulteriori dettagli non richiesti sul fatto che s’igno-
ra chi sia la madre e sull’intenzione di Xuto di offrire sacrifici
per celebrare l’amicizia ospitale e la nascita del figlio ritrovato;
dalle sue parole poco esplicite, ai vv. 651 sgg., le ancelle hanno
capito che il banchetto e i riti di ringraziamento si svolgeranno
nello stesso luogo e che l’uno sarà il camuffamento degli altri.
Quanto all’indicazione del padiglione, la tenda consacrata che
verrà eretta sotto la supervisione di Ione per ospitare il convi-
to, ancora non è stato neppure menzionato (verrà descritto so-
lo dal messaggero, ai vv. 1128 sgg.); che il coro vi faccia già cen-
no è un’incoerenza, ma viene così presentato per la prima volta
un elemento di rilievo drammaturgico: lo scenario dell’attenta-
to alla vita di Ione. Una volta rotto il silenzio, le ancelle non
hanno più remore nel rivelare quanto sta per accadere, sottoli-
neando la volontà di Xuto di tener celata la vera motivazione
dei festeggiamenti alla moglie.

35. (vv. 808-831). Il vecchio assume ora la guida del grup-


po femminile, la padrona e le ancelle, valutando le implicazio-
ni della vicenda e traendone le conclusioni: si ribaltano così i
ruoli, rispetto al momento della sua comparsa in scena, sorret-
to e accompagnato da Creusa e persino incapace di orientarsi
per la debolezza della vista. È come se si fosse squarciato un
velo e la perfidia di Xuto, la macchinazione con cui vuole im-
porre il proprio bastardo nella linea regnante di Atene, venis-
se improvvisamente alla luce: una deduzione che equivale alla
scoperta di un complotto di lesa maestà e alla certezza di do-
ver abbandonare la casa di Eretteo (vv. 810 sg.). Il pedagogo
dichiara di non nutrire malanimo nei confronti di Xuto – ben-
ché sia più legato com’è ovvio alla sua signora e questa predi-
lezione, lo si vedrà, ha un fondamento ideologico – e descrive
il probabile antefatto del responso delfico in tono volutamen-
te oggettivo e razionale. L’origine straniera del marito di
Creusa, l’opportunità di gestire un patrimonio di cui non era
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282 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

destinatario sono additate ora come il vizio d’origine, che au-


torizza a diffidare di lui e della lealtà dei suoi rapporti coniu-
gali. A partire dal semplice dato dell’esistenza a Delfi di un fi-
glio già cresciuto di Xuto, il vecchio ricostruisce una versione
dettagliata dei fatti senza tener conto della loro attendibilità
cronologica: Ione sarebbe nato un po’ di tempo dopo il matri-
monio – dunque dovrebbe avere alcuni anni meno della sua
vera età – quando Xuto, constatata la sterilità della moglie, de-
cide di procreare egualmente da una schiava e far allevare al-
trove il figlio concepito in segreto. Il coro, che pure ha ascolta-
to la vicenda secondo la più plausibile ricostruzione di Ione e
Xuto, non interviene mai a smentire l’astiosa ipotesi, tutta fon-
data sul pregiudizio, evidentemente condiviso dalle ancelle,
della malafede del marito straniero. Il santuario di Apollo, do-
ve il bambino viene allevato dopo essere stato inviato a Delfi
perché non se ne scopra l’esistenza, diventa così funzionale a
una macchinazione umana e non, viceversa, il luogo dove si
esplica la trama divina fino al definitivo passaggio di consegne
al genitore mortale (l’epiteto a[feto", al v. 822, si riferisce in ge-
nere agli animali consacrati alla divinità, lasciati liberi di muo-
versi all’interno dell’area sacra e non costretti al lavoro, e qui
è usato in senso dispregiativo). Il vecchio aggiunge poi l’ulti-
ma tessera all’immaginario complotto: l’incontro a Delfi è sta-
to organizzato, ora che il ragazzo è cresciuto, in occasione del
pellegrinaggio voluto da Xuto col pretesto di interrogare il dio
sulla mancanza di figli. Una certezza sta alla base di tutta la ri-
costruzione e il pedagogo la esibisce, fugando il dubbio che
pure si era affacciato nella prima reazione del coro (vv. 685-
691): Apollo non mente, è Xuto a servirsi dello schermo del-
l’oracolo per ottenere i suoi scopi. Al punto da poter immagi-
nare l’alternativa che lui avrebbe progettato, se l’inganno in-
vece di andare a buon fine venisse svelato. La responsabilità
della vicenda può sempre essere rovesciata sul dio e sul suo re-
sponso, evidentemente inventato se non c’è di mezzo la corru-
zione dei ministri del tempio (v. 827; cfr. 543, dove ajnafevrein si-
gnifica «rinviare» al dio la spiegazione di un fatto incompren-
sibile – il concepimento di Ione! – e Ifigenia Taurica 390, dove,
come qui, ha il senso di «imputare» una colpa); altrimenti, nel
caso in cui non ci fossero sospetti su di lui, a tempo débito
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 283

avrebbe trasmesso al figlio il diritto a ereditare il trono. Il ra-


gionamento del vecchio si legge bene solo nelle linee generali,
ma il v. 828 non ha senso nella forma tràdita e, nonostante in-
numerevoli proposte, non sembra facile sanarlo: Musgrave
proponeva laqwvn, «se fosse sfuggito», invece dell’iniziale ejl-
qwvn, in antitesi con il participio aJlouv" del verso precedente;
ma la seconda parte del verso andrebbe ancora emendata. Ja-
cobs suggeriva labw;n (o euJrw;n) de; kairovn, fqovnon..., e la tra-
duzione si riferisce a questa proposta: «cogliendo il momento
opportuno e volendo difendersi dall’invidia» (scil. dei cittadi-
ni). I vv. 830 sg., dopo Dindorf, sono per lo più ritenuti interpo-
lati ed espunti dagli editori (Diggle fra gli altri): l’ennesima
spiegazione del senso del nome andrebbe attribuita – così so-
spettava Wilamowitz – a qualcuno che trovava poco chiaro il
v. 802. Ma non mi sembra che la circostanziata analisi del vec-
chio potesse tralasciare l’invenzione del nome e la sua etimo-
logia, direttamente collegata al responso oracolare: attribuirla
a un’idea premeditata di Xuto, anziché a un’invenzione estem-
poranea, equivale a spostare definitivamente sulla sua perso-
na la trama e l’esecuzione del raggiro, mentre Delfi e l’indica-
zione profetica rappresentano solo un comodo alibi.

36. (vv. 832-858). La corifea, che aderisce senz’altro alle


ipotesi del vecchio, interviene con un’esclamazione indignata,
seguita poi da frasi sentenziose (i manoscritti assegnano al pe-
dagogo i vv. 832-835, ma non c’è dubbio che si tratti invece del
consenso delle donne del coro, espresso con il tipico corredo
di aforismi e generalizzazioni). Il quadro che è stato delineato
– le perfide macchinazioni di Xuto ai danni di Creusa e della
sua stirpe – deriva essenzialmente dai pregiudizi nei confronti
dello straniero, e le ancelle trascurano perciò altre possibili in-
terpretazioni dell’incontro tra padre e figlio di cui sono state
testimoni, anche perché la responsabilità o la connivenza del
dio possono essere così escluse. Mentre Creusa – che invece
non può condividere la tesi dell’innocenza di Apollo – conti-
nua a tacere, il vecchio prosegue nelle sue considerazioni,
guardando ora alle conseguenze “politiche” dell’inganno e al-
le misure che andranno adottate. L’adozione del figlio di una
schiava, socialmente una nullità, rappresenta l’oltraggio più
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284 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

grave. Dinanzi al problema della sterilità della moglie, infatti,


Xuto sarebbe stato autorizzato a cercare, col suo consenso,
una soluzione. Ma sia che adottasse il figlio avuto da una don-
na aristocratica, sia che fosse costretto – per non contrariare
Creusa imponendole un figlio non suo – a contrarre nuove
nozze, scegliendosi una sposa all’interno della propria stirpe
(un matrimonio endogamico tra i discendenti di Eolo), il suo
comportamento sarebbe stato meno sleale. Ovviamente la pri-
ma alternativa prende in considerazione la possibilità di legit-
timare i figli nati fuori dal matrimonio (la legge periclea del
451 a.C. escludeva invece che fossero cittadini coloro che non
avevano entrambi i genitori ateniesi e, con ogni probabilità,
anche tutti i figli illegittimi, a prescindere dall’origine dei geni-
tori). Generare prole con una concubina, soprattutto quando
la moglie è sterile, è tuttavia fonte di tensioni e dissidi insupe-
rabili come mostra, a differenza del modello di tolleranza co-
niugale testimoniato dai poemi epici (cfr. Iliade, V 70 sg., VIII
283 sg., Odissea, IV 11-14), la vicenda dell’Andromaca euripi-
dea. Il pedagogo soggiunge dunque che Xuto avrebbe dovuto
tornare in Tessaglia a risposarsi, il che significa non solo rinun-
ciare a Creusa, ma soprattutto al regno di Atene e al patrimo-
nio di Eretteo. Il tradimento di Xuto impone ora una vendetta
“femminile”, una reazione passionale con gli strumenti tipici
delle donne: deboli e inermi come sono, ci si attende che ricor-
rano al sotterfugio e al complotto. I vv. 844-858 sono stati
espunti dai recenti editori (Diggle, Kovacs) e già erano sospet-
tati da Murray: si pensa che siano un’indebita anticipazione
degli argomenti passati in rassegna nella sticomitia tra il vec-
chio e Creusa per ordire l’attentato a Ione (vv. 970 sgg.), e inol-
tre presentano particolarità linguistiche di un uso più tardo
(secondo Kraus si tratterebbe peraltro di un’interpolazione
antica, e i vv. 854-856 sono citati da Stobeo). La prima obiezio-
ne è però tutt’altro che determinante, e inoltre eliminare l’in-
tero passo crea una transizione eccessivamente brusca alla
monodia di Creusa, che prenderebbe avvio in risposta al v.
843. L’esortazione a vendicarsi, cui le donne del coro si unisco-
no con slancio, è esemplificata solo in modo generico ed è
inoltre rivolta alla sovrana che, assorta ora in un flusso di pen-
sieri diversi, quasi non ascolta le parole che la incitano a ucci-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 285

dere marito e figliastro, offrendole collaborazione per l’impre-


sa. Liberarsi dei nemici significa, secondo il vecchio, difendersi
per prima dalla loro aggressione, sempre nell’ipotesi di un de-
liberato piano di Xuto per imporre un usurpatore. Viene sug-
gerita una triade di possibili mezzi – spada, inganno, veleno –
in cui il primo termine prevede l’assalto diretto, in contrasto
con l’idea di vendetta “femminile” (ma la modalità viene pre-
cisata poi nella vera pianificazione, al v. 980), e il terzo rappre-
senta solo un’esemplificazione del secondo: proprio la conven-
zionalità di queste indicazioni mostra che qui il pedagogo non
ha ancora in mente un progetto. I vv. 847-849 sono comunque
ritenuti interpolati anche dai filologi più conservatori: in parti-
colare la frase gnomica dei vv. 848 sg. desta sospetti per l’uso
di qavtero" come maschile (invece di o{ e{tero"), non attestato
prima di Menandro. Neppure la proposta di collaborare, en-
trando furtivamente nel padiglione dove si terrà il convito fe-
stivo, comporta ancora un vero piano, ma piuttosto la prova di
un’assoluta devozione e gratitudine: l’intento di ricambiare i
benefici e l’affetto dei padroni può spingere anche uno schia-
vo a mettere a rischio la vita, e qui sia il vecchio che le ancelle
del coro dichiarano di essere legati da autentica philia alla lo-
ro signora. L’egualitarismo di matrice sofistica (cfr. anche
Alessandro fr. 61b Kn.) e la nobiltà d’animo, che induce persi-
no gli schiavi a esprimersi secondo un codice d’onore aristo-
cratico (cfr. vv. 853 e 858), siglano le ultime considerazioni di
coloro che sono solidali con la principessa ateniese: l’umile
cerchia dei servi partecipa alla sua sofferenza, mentre lei sem-
bra sprofondare in un dolore inesprimibile per aver scoperto
che il nobile marito, il suo compagno di vita, come il dio stu-
pratore l’ha tradita e non condivide più il suo destino.

37. (vv. 859-880). La monodia intonata da Creusa s’inseri-


sce nel terzo episodio ritardando il corso dell’azione e, con un
salto indietro nel tempo, focalizza nei dettagli l’episodio trau-
matico della violenza divina attraverso lo sguardo della prota-
gonista. Come se avesse seguito solo in parte il filo degli argo-
menti esposti dal vecchio, e ignorando per ora il suo incita-
mento alla vendetta, Creusa decide di rivelare la radice
profonda del suo dolore: rompe dunque il silenzio, imposto
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286 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

dalla vergogna e dalle regole del suo status, per liberarsi del
peso sopportato così a lungo in solitudine. Lo sfogo lirico del-
la sofferenza, del rancore verso chi l’ha oltraggiata – e dello
strazio per aver dovuto abbandonare il bambino nato dallo
stupro – sembra innescato proprio dalla parzialità delle accuse
del vecchio. La sua condanna andava esclusivamente a Xuto,
mentre il dio veniva così riscattato dal sospetto di menzogna.
Ma prima di prendere in considerazione una rivalsa sul marito
Creusa sente il bisogno di gridare la verità, additare Apollo
come il primo maschio che l’ha violata in segreto e abbando-
nata a una vita infelice, dominata dal rimorso e non rasserena-
ta dalla nascita di altri figli. Ora che svanisce la speranza di
averne, insieme a quella di sapere se il bambino nato dal dio
sia riuscito miracolosamente a sopravvivere o è morto come
lei teme, non c’è più alcuna ragione di continuare a celare
quella vicenda: il buon nome della sua stirpe, l’onore del mari-
to che è stato scelto per lei dalla famiglia, tutto si dissolve nel-
la brutale realtà in cui aver taciuto, anziché preservare la sua
integrità morale come futura madre dell’erede di Eretteo, ha
solo acuito la sua disperazione e il senso di abbandono. Gli
anapesti lirici inaugurano l’angoscioso interrogarsi di Creusa
e veicolano l’intensa emozione che la induce a confidare il suo
segreto ai servi più devoti (vv. 859-861). Seguono poi anapesti
recitativi (vv. 862-880), in cui la decisione è raggiunta in modo
razionale, argomentandola e soppesando i benefici che, dopo
tanta sofferenza, deriveranno dall’aperta denuncia dell’oltrag-
gio subito. L’accusa al dio, una sorta di anti-inno in cui la for-
ma celebrativa è piegata al biasimo, si dispiega ancora in ana-
pesti lirici (vv. 881-922), con l’inserzione di alcuni docmi (vv.
894-896, 906, 908). L’apostrofe al proprio animo ha molti pre-
cedenti poetici – a partire da Odissea, XX 18 – ed esprime in
genere il conflitto interiore di chi deve imporsi autocontrollo
(come nel passo odissiaco, in Teognide 695, 1029, e in Sofocle,
Trachinie 1260) o farsi coraggio (Archiloco, fr. 128, 1 W.); qui
l’impasse della situazione, insieme al compatimento di sé (cfr.
Oreste 466), si esprimono nell’appello che altrove Euripide
(parodiato per questo da Aristofane: cfr. Acarnesi 450, 480,
483, Vespe 756) impiega volentieri con variazioni (in Ifigenia
Taurica 839, nel riconoscimento tra Ifigenia e Oreste, addita
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 287

l’inadeguatezza delle parole a descrivere il colmo della feli-


cità). Infrangere la regola del silenzio, osservata per tutto que-
sto tempo, significa mettere da parte il pudore, l’aijdwv", cifra
distintiva del comportamento femminile nella società arcaica,
che in precedenza le ha impedito di essere del tutto sincera nel
raccontare la propria storia a Ione (cfr. vv. 336 sg.). Le doman-
de che seguono, nella sezione recitata, sono improntate a un
tono più riflessivo e fanno un bilancio dei risultati della sua re-
ticenza, comunque negativi: Xuto l’ha ingannata e tradita, e
non ha più senso mantenersi irreprensibile per lui. Nel suo fu-
turo non si profilano più speranze da coltivare, gioie che la
compensino per quanto ha sofferto, e non vale dunque la pena
di continuare a tacere il connubio e il parto, motivi del dolore
lacerante che avrebbe potuto proiettare ombra anche sulle no-
vità felici della sua vita. Dunque il solenne pronunciamento,
nel nome di Zeus e di Atena, invocati direttamente e attraver-
so i luoghi rappresentativi del loro potere: la sede del sovrano
degli dèi è il cielo, dove gli astri sono i testimoni naturali di
quanto accade sulla terra, mentre la dèa poliade veglia sull’a-
cropoli – scenario dello stupro di Apollo – e la tradizione (in-
terpretando il misterioso epiteto epico Tritogeneia) narra che
sia venuta alla luce sulle rive del lago Tritone, in Libia, o sia
stata lì allevata una volta uscita dalla testa di Zeus. Creusa è
decisa a parlare della sua unione col dio, e chiama a testimoni
altre venerande divinità perché la denuncia non nasce da tra-
cotanza sacrilega, ma è solo la via per liberarsi da un peso in-
tollerabile. Negli anni ha vissuto come una colpa il ricordo di
quell’incontro, ha taciuto e sofferto, ma rivelare tutto ora può
darle finalmente sollievo, spiegando il motivo delle lacrime e
della tristezza che non ha mai potuto condividere con altri (al
v. 874 mantengo wJ" del testo tràdito, che Diggle corregge in o{,
con Reiske, ritenendo che il participio ajponhsamevnh abbia bi-
sogno di un oggetto espresso). Rispetto alle accuse formulate
dal vecchio il quadro ora si allarga in direzione inattesa: il tra-
dimento di Xuto si aggiunge a un altro tradimento (v. 864: pro-
dovth"; v. 880: prodovta"), e così la sua ingratitudine; l’uomo vie-
ne dopo il dio, e non solo perché l’oracolo sembra stringere
una perfida alleanza tra maschi, mortali e immortali, ai danni
della regina ateniese.
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288 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

38. (vv. 881-922). Il canto cui Creusa affida la denuncia


dello stupro è strutturato come un inno ed è così simmetrico
alla monodia celebrativa di Ione. Ma tutti gli elementi che do-
vrebbero esaltare la gloria di Apollo – la musica che lui intona
suonando la cetra, in qualità di guida delle Muse, l’aspetto ra-
dioso e attraente – sono solo la maschera illusoria di un bruta-
le seduttore. L’invocazione d’esordio lo addita come patrono
dell’armonia musicale e indugia con particolari curiosi sulla
sua cetra: la kiqavra è un’ampia cassa armonica lignea che si
prolunga in due bracci, in mezzo ai quali sono tese le sette cor-
de fissate alla sua base. La luvra è invece uno strumento più
agile (compare nelle arti figurative almeno dall’inizio del VII
sec. a.C.), la cui invenzione è attribuita a Ermes dall’Inno ome-
rico a lui dedicato: la sua piccola cassa è un guscio di tartaruga
o una struttura in legno che lo imita, su cui è tesa una pelle bo-
vina e al quale sono applicati bracci ricurvi, in origine le corna
di un animale (cfr. Inno a Ermes 38, Sofocle, Segugi, fr. 314,
299 sg. R., dove s’insiste sulla straordinaria qualità dello stru-
mento: solo da morta la tartaruga, grazie all’estro creativo del
piccolo Ermes, acquista voce). La descrizione della cetra di
Apollo attribuisce dunque le peculiarità della lira al più sofi-
sticato strumento di legno del virtuoso professionista: ai vv.
882 sg., infatti, vengono descritte le corna di animali che, ben-
ché privi di vita, contribuiscono a crearne la sonorità. La scelta
di descrivere in modo improprio la cetra sembra guidata dalla
ricerca di contrasti polari: l’armonia degli inni risuona dalle
corna di animali uccisi; si noti che anche il suono emesso dalle
corde toccate dal plettro è definito, al v. 882, con il termine ej-
nophv, «grido, urlo», adatto piuttosto al suono acuto del flauto
(cfr. Iliade, X 13, Inno a Ermes 512), e un senso analogo ha la
scelta del verbo klavzw, al v. 905, a sottolineare il tono stridulo
della musica del dio (cfr. Inno a Pan 14, per il suono dello zufo-
lo). Lo stesso gusto dell’antitesi accosta alla luminosità sfolgo-
rante dell’apparizione di Apollo – la sua chioma dorata (un
elemento tipico: cfr. Pindaro, Olimpiche VI 41, Euripide, Sup-
plici 975, Troiane 254, Ifigenia Taurica 1236), sullo sfondo di
un paesaggio idillico – gli sviluppi brutali dell’incontro: la ra-
gazza trascinata senza pietà in fondo a una grotta, mentre in-
voca vanamente l’aiuto della madre. La stridente antinomia,
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 289

che nei ricordi di Creusa oppone gli aspetti gradevoli dell’epi-


fania del dio a quelli abietti del suo contegno, corregge così
l’immagine astratta e pura proiettata dal devoto inno di Ione.
Non è necessario sottolineare, come fanno molti critici, che
Creusa mostrerebbe sentimenti ambivalenti verso il suo stu-
pratore. La distorsione della forma innica ha proprio lo scopo
di svelare cosa si cela dietro le qualità celebrate dai fedeli: l’a-
mara esperienza del traumatico incontro insegna cosa resta
della gloria divina quando si riduce o si annulla la distanza tra
dèi e mortali. La fanciulla che coglie fiori, ignara e innocente,
ricalca il motivo del ratto di Persefone, divenuto tradizionale
per la narrazione di vicende analoghe, quando una vergine
viene sorpresa e violentata. Il testo del v. 890, dove compare il
prezioso aggettivo composto crusantaugh` (quasi che il colore
dei fiori di croco rivaleggiasse con la capigliatura divina, riflet-
tendo bagliori dorati), presenta un infinito epesegetico sintat-
ticamente piuttosto duro, per il quale sono state proposte cor-
rezioni poco persuasive (a[nqizon Wilamowitz, ajnqizomevna
Diggle). La descrizione di Creusa, afferrata ai polsi e trascina-
ta nel buio della grotta mentre invoca la madre (dal momento
che Eretteo è morto non può, come Persefone in lacrime, in-
vocare il nome del padre: cfr. Inno a Demetra 20 sg., 27), cam-
bia repentinamente il tono della scena. Il gesto dell’uomo che
prende possesso della donna stringendole il polso (cei;r ejpi;
karpw``/) è codificato nell’iconografia del corteo nuziale ma, es-
sendo in quel caso rassicurante, non è paragonabile ovviamen-
te con quanto accade qui: la resistenza della ragazza, le sue gri-
da, il rapporto erotico imposto violandone il pudore descrivo-
no senza reticenza come Apollo abbia crudelmente mutato la
felice innocenza di Creusa in una nuova sofferta condizione. E
l’esito sconvolgente del parto viene messo subito a fuoco con
un corto circuito temporale: senza soluzione di continuità la
grotta dello stupro è ora il luogo della nascita e dell’abbando-
no del figlio del dio; a far da cornice, ripetuti epiteti di auto-
commiserazione (vv. 897-901). Il timore di non essere compre-
sa e perdonata dalla madre (ancora un’altra spia dell’assenza
della figura paterna: cfr. Introduzione, pp. 20 sg. e n. 15) induce
Creusa a lasciare esposto il neonato sullo stesso giaciglio dove
il dio l’ha posseduta, insieme un’accusa allo stupratore e un
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290 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

invito a prendersi cura del figlio. La certezza che quell’invito


non sia stato accolto dà poi voce al lamento per il piccolo: i ra-
paci lo hanno dilaniato e non è stato sottratto allo scempio
che, nell’immaginario dei Greci, rappresenta la sorte più orri-
bile per il morto, l’incubo dei guerrieri epici perché priva il
corpo delle cure rituali che garantiscono la transizione nell’A-
de (cfr. Iliade, I 4 sg.). Il figlio, bene comune tra il dio e la don-
na (v. 904), non c’è più; e se la madre non riesce a superare il
rimorso dell’abbandono, Apollo resta distante, intento a colti-
vare la sua gloria divina con la musica: suona imperterrito la
cetra e canta il gioioso peana, che si oppone al lamento treno-
dico (cfr. Ifigenia Taurica 179-185), esempio eclatante di stoli-
da indifferenza (vv. 905 sg. in composizione anulare con i vv.
881 sg.). Per creare un dimetro anapestico, al v. 905, come Ko-
vacs preferisco l’integrazione dΔ ãajeivà di Willink a quella stam-
pata da Diggle (de; ãkai;Ã). La parte finale della monodia è
un’apostrofe ruvida (si noti l’interiezione wjhv, al v. 907, per ri-
chiamare l’attenzione in modo tutt’altro che cerimonioso) che
mette in discussione il prestigio della mantica apollinea. Creu-
sa non può accettare serenamente il responso che è stato con-
cesso a suo marito e, dopo aver denunciato l’aggressione subi-
ta ad Atene, vuol gridare al mondo l’inganno perpetrato ai
suoi danni nel santuario oracolare. Coloro che giungono al
trono profetico per ottenere risposte ai propri dubbi si vedono
assegnare per sorteggio un vaticinio. Se questo è il senso dei
vv. 908 sg., si potrebbe cogliere un riferimento alla modalità di
divinazione più antica, la cleromanzia, che avrebbe preceduto
a Delfi la mantica ispirata (o addirittura avrebbe rappresenta-
to, secondo uno studioso delle tecniche di funzionamento del-
l’oracolo come Amandry, un ausilio normale nei pronuncia-
menti della Pizia anche in epoca arcaica e classica: cfr. Aman-
dry 1950); ne rimase traccia in espressioni come ajnei``len oJ
qeov", hJ Puqiva, che continuarono a indicare l’atto profetico con
un verbo che significa «sollevare, estrarre». Qui si dice klh-
rou``n ojmfavn, una locuzione che risente, forse anche più marca-
tamente, della confusione tra due tecniche divinatorie che do-
vrebbero invece avvicendarsi nel tempo: Apollodoro, III 115,
sostiene che Apollo concesse a Ermes, in cambio della siringa,
la divinazione mediante yh``foi, «ciottoli»; qriaiv li chiama Cal-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 291

limaco, Inno ad Apollo 45, un nome che deriverebbe da tre


ninfe del Parnaso, nutrici di Apollo (cfr. Filocoro, FGrHist 328
F 195, e il significativo proverbio polloi; qriobovloi, pau``roi dev
te mavntie" a[ndre" «molti sono quelli che lanciano le sorti, po-
chi i profeti», a denotare lo scarso credito riservato, nel corso
del tempo, alla cleromanzia). Wilamowitz e Owen ritengono
invece che il sorteggio decida solo l’ordine per accedere all’o-
racolo e intendono che lo scherno dell’espressione – «tu che
estrai a sorte la tua voce» – riguardi il modo indiscriminato in
cui Apollo distribuisce la sua saggezza (ma non è certo il v. 416
a suggerire come il sorteggio funzionasse nei preliminari della
consultazione, perché allude solo alla designazione dei notabi-
li di Delfi che vi assistevano). Forse Eschilo, Eumenidi 31 sg.,
potrebbe indicare che il sorteggio, insieme ad altri criteri co-
me il prestigio e la provenienza dei richiedenti, contribuisse a
decidere l’ordine di consultazione, ma non mi sembra in ogni
caso che sia questo il significato da attribuire qui alle parole di
Creusa: l’associazione dei termini che riguardano un oracolo
tratto con la sorte e la voce divina (ojmfhv, tipico della dizione
epica), trasmessa attraverso un profeta ispirato, è un modo di
squalificare le credenziali attribuite in particolare alla secon-
da. L’integrazione di Page, al v. 909, aggiunge il participio di
cui la frase mancava (ejlqou``sin) e ricostituisce un dimetro ana-
pestico. L’oro che impreziosisce il seggio di Apollo, più che
veicolare come di consueto l’idea di purezza, potrebbe allude-
re con sarcasmo alla ricchezza di Delfi (cfr. l’enfasi ironica sul-
l’avidità del piccolo Apollo in Ifigenia Taurica 1275). Ma Creu-
sa trova intollerabile soprattutto il fatto che l’oracolo conceda
favori, senza distinzione, a chi non ha alcun legame privilegia-
to con il dio: suo marito Xuto ha trovato il figlio concepito fuo-
ri dal matrimonio, mentre lei si vede tradita nella speranza di
figli proprio da Apollo, suo stupratore e padre del bambino
scomparso tanti anni prima. Di qui la ribadita determinazione
a violare il segreto, a denunciare la violenza del dio proprio
nel suo santuario: la correzione di Wilamowitz, che al v. 911
scrive ej" fw``" invece della lezione tràdita ej" ou\", è necessaria
perché non avrebbe senso un’accusa pubblica (karuvxw) fatta
sussurrando la verità all’orecchio degli interlocutori (cfr. inve-
ce v. 696). Al v. 916 ajmaqhv" dev’essere un’apostrofe (al nomi-
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292 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

nativo, anziché al vocativo, come tlavmwn al v. 905) riferita al


dio, non un epiteto di genevta" (qui «figlio») e, come per altre
accuse rivolte a una divinità, la carenza intellettuale coincide
così con quella morale (cfr. Eracle 347, Elettra 971, Ifigenia
Taurica 386, Oreste 417). Ma il quadro vivido dello scempio
dei rapaci, che avrebbero ghermito il bambino strappandolo
alle fasce in cui la madre lo aveva avvolto – e di cui per la ve-
rità lei stessa non ha trovato traccia – verrà smentito dai fatti:
proprio quei tessuti saranno uno dei segni di riconoscimento
(v. 918: spavrgana matevro", cfr. v. 1490). Il parto e l’esposizione
del neonato nella grotta offrono l’immagine per le ultime
aspre parole di biasimo: il sacro luogo della nascita di Apollo,
l’isola di Delo, dove Latona ha trovato rifugio per il suo trava-
glio e ha potuto partorire protetta dalle fronde di una pianta
d’alloro e di un palmizio, si contrappone al luogo impervio e
oscuro del parto di Creusa. Ma Delo non può che disprezzare
la negligenza di Apollo, proprio perché è stata lo scenario del
provvidenziale intervento di Zeus, quando fece crescere sull’i-
sola spoglia di vegetazione le piante (al v. 922 kavpoi" è la cor-
rezione di Kirchhoff per karpoi`" del testo tràdito) che avreb-
bero offerto riparo alla dea, da lui amata segretamente e per-
seguitata per questo dalla gelosia di Era.

39. (vv. 923-960). Creusa ha concluso il suo canto, ispirato


dallo sdegno e dal dolore, e la partecipazione emotiva del coro
e del vecchio, subito testimoniata dalle loro parole, lascia poi
spazio allo sgomento dinanzi all’inquietante denuncia di
Apollo. Il vecchio chiede spiegazioni con domande incalzanti
e dà avvio alla sticomitia in cui la storia dello stupro e dell’ab-
bandono sarà narrata e rivissuta ancora in tutti i dettagli. L’an-
goscia dell’uomo si esprime nella ridondanza retorica della
metafora dei mali, che si abbattono su di lui come una tempe-
sta su una nave, ma anche nella sintassi irregolare: il participio
al nominativo del v. 927 rimane sospeso in anacoluto. La ripe-
tizione della vicenda segue ora le vie razionali di un resocon-
to, in cui verrà di nuovo messa da parte la vergogna (v. 934: aij-
scuvnomai) che solo lo sfogo lirico era riuscito a superare, e nul-
la sarà taciuto, né le colpe del dio né l’infelice decisione della
madre immatura. Sollecitata dal vecchio, Creusa descrive lo
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 293

scenario dello stupro, la grotta sulle pendici settentrionali del-


l’acropoli di Atene, cui accennava il prologo di Ermes e che
anche il coro aveva evocato – pur senza conoscere la protago-
nista della vicenda – nell’epodo in chiusura del primo stasimo
(vv. 492 sgg.). La «lotta» (v. 939) sostenuta invano per resistere
all’assalto del dio è un’immagine straordinariamente esplicita
e inconsueta (cfr. Introduzione, p. 47 e n. 45), che descrive lo
stupro con un paragone agonistico, in cui si condensano mi-
meticamente l’aggressione maschile, la sconfitta della vittima
femminile e l’amplesso. Il pedagogo chiede precisazioni, ma la
sua commozione mostra che ha capito perfettamente cosa
Creusa ha subito. Il ricordo di quel periodo, quando la ragazza
non senza pena nascose a tutti la sua gravidanza, tanto che il
vecchio aveva intuito una «malattia» segreta, si integra con la
confessione e gli antichi sospetti si chiariscono; ma l’annuncio
del parto lo fa trasalire e Creusa cerca di prepararlo prima di
proseguire il doloroso racconto (v. 947: ajnavscou). Emerge su-
bito la solitudine disperata del momento del parto, senza assi-
stenza e conforto, protetta solo da quell’aspro rifugio, la stessa
grotta in cui si era consumata la violenza (per l’incoerenza con
la versione del prologo cfr. n. 3 ai vv. 16 sg.). La notizia risve-
glia comunque la speranza che il figlio sia sopravvissuto e sem-
bra sottrarre Creusa al destino di donna sterile, incapace di ge-
nerare un erede. Ma lei non nutre dubbi sulla sorte del bambi-
no: esposto alla natura selvaggia è stato divorato dagli animali
e non solo Apollo non si è preso cura di lui, ma la divinità pres-
so cui il bambino trascorre l’infanzia è Ade, qui immaginato
come un padre adottivo. Il motivo degli inferi in cui si celebra-
no comunque i riti di transizione, per compensare i giovani di
una morte prematura, è un luogo comune poetico – le nozze
con Ade sono l’immagine più consueta – ma Euripide ne ela-
bora variazioni (cfr. Eracle 481-484, dove il motivo si declina
al maschile: i figli di Eracle avranno come spose le Chere, de-
moni della morte, e come suocero Ade). Le domande del vec-
chio si spostano ora sulle responsabilità di Creusa: era sola
quando ha deciso e messo in atto l’abbandono, o qualcuno ne
era a conoscenza? Benché l’esposizione dei neonati fosse una
pratica diffusa nel mondo antico, qui il vecchio lascia trapelare
il suo dissenso insieme alla compassione per la creatura e per
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294 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

la madre che ha trovato il coraggio di lasciarla morire. Creusa


addita i suoi complici metaforici nelle circostanze e nel modo
in cui le ha vissute; disgrazia e segreto, ciò che le è accaduto e
averlo nascosto a chiunque, rappresentano i soli testimoni del-
la sua sofferenza, anche se il modello di queste storie prevede
sempre la collaborazione di una persona fidata, come avrebbe
potuto essere proprio il vecchio. Ed è lui invece a esprimere
indignazione anche per la decisione crudele di Creusa, la sua
capacità di far tacere sentimenti ed emozioni nel momento
straziante del distacco dal suo bambino, ponendo un proble-
ma di coscienza tutt’altro che consueto e associando la rifles-
sione etica a un elemento strutturale dei racconti mitici sugli
eroi esposti alla nascita.

40. (vv. 961-1028). La responsabilità del dio, pur essendo


maggiore, non oscura quella della donna: i tratti patetici del
bambino che protende le mani verso la madre, per avere pro-
tezione e nutrimento fra le sue braccia mentre lei s’allontana,
condensano nel serrato dialogo i rimorsi e la coscienza, ben vi-
va in Creusa, di aver sacrificato un innocente al buon nome
della sua stirpe. E sapere di aver commesso un torto non meno
grave di quello subito – benché dalla violenza derivi anche la
sola giustificazione al suo comportamento – la induce a sottoli-
neare come la sua unica speranza che il bambino potesse so-
pravvivere fosse affidata a un intervento divino (v. 965): essen-
do evidentemente una speranza infondata (nella struggente
scena del riconoscimento non vi farà più cenno: cfr. vv. 1492-
1499), il senso di colpa cresce e domina su ogni altro motivo di
dolore. Il vecchio si abbandona per un po’ al gesto di simbolica
rinuncia alla vita di chi è in lutto, velandosi il capo e coprendo
gli occhi per non vedere e non essere visto mentre piange.
Creusa è quasi sorpresa da un coinvolgimento emotivo così in-
tenso, mentre lui segnala che la sventura si allarga ben oltre la
vicenda personale della donna: proprio Eretteo, il padre morto
prima di lasciare eredi maschi, è toccato altrettanto duramente
dall’evento che sembra mettere a rischio il futuro della dina-
stia ateniese; il simbolico danno che deriva al re dalla morte
del nipote mostra, una volta di più, che lui non ha rappresenta-
to un concreto motivo di timore per la figlia, costretta a na-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 295

scondere la gravidanza da più generiche ragioni familiari e so-


ciali (cfr. n. 3 al v. 14). Lo spostamento del punto di vista, dal
dolore privato ai problemi dinastici, induce Creusa a una rea-
zione più misurata e a cogliere nell’instabilità della sorte una
costante della vita umana da cui trarre consolazione. Il vecchio
riprende allora il ruolo di guida morale e, con un brusco ulte-
riore scambio delle parti, scuote Creusa e la esorta a vendicar-
si, anziché piegarsi nell’autocommiserazione. Ma quando lei si
ritrae spaventata dalla prospettiva di dare alle fiamme il tem-
pio – un bersaglio sacro per rivalersi dell’oltraggio più profa-
no, lo stupro subito dal dio – e rinuncia altresì a prendere in
considerazione di colpire il marito, il secondo maschio che l’ha
tradita, non resta che additare l’ultimo obiettivo, la concreta
minaccia alla purezza della stirpe di Eretteo: Ione. Così, con
l’ammissione di debolezza dinanzi allo strapotere divino e con-
fessando di non provare per Xuto un’ostilità tanto radicale da
deciderne la morte – è stato anche un marito rispettoso, prima
della svolta segnata dal responso oracolare – Creusa sembra
non accordare troppo credito alla ricostruzione dei fatti pro-
posta dal vecchio. Il nemico da uccidere è piuttosto il successo-
re che usurperà il trono, ma un’aggressione diretta, da parte di
servi armati di spada che lo affronterebbero nel corso della fe-
sta in preparazione a Delfi, non le sembra un progetto destina-
to al successo. La via di Creusa è invece quella “femminile”
dell’inganno, vivamente suggerita dal senso pratico e non dalla
mancanza di coraggio: benché sia circondata da servi che han-
no scelto senza tentennamenti di starle a fianco, rischiando in
prima persona, la tradizionale diffidenza dell’aristocratico
sconsiglia azioni di forza affidate agli schiavi, privi di addestra-
mento e non allevati certo secondo il codice d’onore eroico
(non c’è contraddizione con le affermazioni del vecchio, ai vv.
854-856, perché qui si rimarca la differenza creata dalla strut-
tura sociale, non già dalla natura). Un servo fedele come il vec-
chio pedagogo può rivelarsi invece un prezioso aiutante, anche
se debole nel fisico, per mettere in atto un delitto che nessuno
può sospettare, né dunque impedire. Dopo aver rifiutato l’atto
empio e temerario di incendiare il santuario sfidando Apollo,
dunque, Creusa ricorre allo strumento di morte che le è perve-
nuto dal suo avo Erittonio per salvaguardare la purezza della
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296 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

propria stirpe. La storia che illustra l’origine del veleno è stret-


tamente intrecciata con le vicende ancestrali dei sovrani di
Atene, con la violenza delle lotte tra poteri ctonî e divinità
olimpiche e con i privilegi concessi dalla dea poliade, Atena, al
primo re autoctono e ai suoi discendenti. Creusa rammenta al
vecchio la Gigantomachia combattuta nella piana di Flegra
(cfr. n. 11 al v. 207), quando la Terra generò la Gorgone perché
aiutasse i Giganti contro gli Olimpî: la versione scelta da Euri-
pide fa qui della Gorgone un mostro che nasce direttamente
dalle viscere della terra – come lo stesso Erittonio – viene ucci-
so da Atena (anziché da Perseo, come nella più comune tradi-
zione) ma poi si rivela magicamente utile, perché dalla sua pel-
le la dea ricava la corazza protettiva ornata da frange di ser-
penti, l’egida, una sorta di corto mantello che le copre le spalle
e il petto nell’iconografia vascolare, considerata un manufatto
di Efesto dalla tradizione epica (cfr. Iliade, XV 309 sg.). Rac-
conti mitografici posteriori attribuivano la sua origine a un
mostro dello stesso nome (Diodoro Siculo, III 70, 3-5), e la fu-
sione tra la storia della Gorgone e la spiegazione eziologica
dell’egida sembra una peculiarità di questo passo; al v. 997 vie-
ne inventato anche un gioco etimologico che connette l’egida,
aijgiv", non con una pelle di capra (ai[x) ma con il verbo ajis
? sw, il
cui aoristo (h\/xen) descrive il balzo di Atena nella battaglia in
cui avrebbe sconfitto il mostro. La trasposizione dei vv. 992-
993 dopo il v. 997 (Kirchhoff) consente di riferirne il contenuto
alla corazza di cui Pallade si arma e non all’aspetto della Gor-
gone (se si mantenesse l’ordine tramandato qwvraka andrebbe
inteso nel senso di «petto, busto», come in Eracle 1095, anziché
«corazza, pettorale»; ma ne conseguirebbe in ogni caso che il
singolare aspetto del mostro, prima ancora che Atena ne utiliz-
zi la spoglia, sia quello di un “petto protetto da serpenti”). Ma
dalla Gorgone non deriva solo la portentosa egida, attributo
distintivo di Atena; il suo sangue aveva qualità in parte guari-
trici e in parte distruttive – sempre associando aspetti benefici
e funesti come tutti gli esseri ctonî – e Atena ne ha donato a
Erittonio due gocce con le opposte prerogative. Così sia la dea
sia il capostipite dei regnanti autoctoni di Atene hanno tali-
smani di comune origine: come l’egida ha funzione protettiva
(cfr. Iliade, XXI 400 sg.) ma, anche più spesso nelle descrizioni
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 297

epiche, serve per destare panico fra i nemici e dare salvezza


agli uomini favoriti quando Atena, Zeus, o Apollo la portano
in mano scuotendola (cfr. Iliade XV 229 sg., 307-311), allo stes-
so modo le due diverse gocce del sangue della Gorgone, tra-
smesse con il monile che le contiene da una generazione all’al-
tra degli Eretteidi, possono restituire la salute o uccidere (al v.
1002 Diggle pone tra cruces mevllon, perché ritiene strano che
l’esitazione sia riferita al discorso piuttosto che a colei che lo
pronuncia; ma una «parola che indugia» sembra una metoni-
mia ben comprensibile, e l’impazienza del vecchio può ravvisa-
re titubanza o lentezza in Creusa anche se lei è ormai determi-
nata a esporre i dettagli del suo piano di vendetta). Il racconto
di Creusa illustra nei dettagli la magia ambivalente racchiusa
nel braccialetto d’oro che adorna il suo polso, e spiega al vec-
chio come intenda servirsi della goccia che proviene dal vele-
no dei serpenti della Gorgone per il suo piano: proprio lei, la
madre che dovrebbe garantire protezione e salvezza al figlio,
rischia di ucciderlo ignorandone l’identità e dimostra quanto il
bene e il male, benché separati nettamente, siano spesso peri-
colosamente contigui e si avvicendino in modo imprevedibile
(cfr. la massima del v. 1017, ironicamente contraddetta dagli
eventi scenici). Perché i mortali possano distinguere con cer-
tezza il bene dal male occorre avere piena conoscenza di sé e
della realtà in cui si agisce, la conoscenza che gli dèi non con-
cedono, se non gradualmente e dopo atroci malintesi. L’atten-
tato alla vita di Ione è così affidato a un inganno che il vecchio
dovrebbe mettere in atto una volta tornati ad Atene, ma su
questo punto lui dissente dal progetto di Creusa: la notoria
ostilità delle matrigne nei confronti dei figliastri (v. 1025; cfr.
anche Alcesti 305-310, Egeo fr. 4 Kn., Frisso fr. 824 Kn.) orien-
terebbe i sospetti su di lei, anche se non agisce in prima perso-
na. Ucciderlo subito a Delfi, prima che la convivenza possa
creare tensioni, le offre invece la possibilità di assaporare in
anticipo il gusto della vittoria e ripagare il marito con la stessa
moneta, l’inganno: fingerà dunque d’ignorare il suo segreto,
dandogli l’illusione di averla raggirata con successo.

41. (vv. 1029-1047). Il piano enunciato ora da Creusa fa


leva sulla possibilità di versare il veleno nella coppa del ragaz-
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298 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

zo durante il banchetto offerto in suo onore dal padre. Xuto,


in realtà, non sarà presente all’attentato – la sua funzione sce-
nica si è già esaurita con il falso riconoscimento di Ione – ma
le informazioni di cui Creusa e i suoi servi dispongono induco-
no a credere che il rito sacrificale si svolgerà nello stesso luogo
della festa di congedo da Delfi (cfr. n. 34 ai vv. 805-807). Nella
cornice del rito di ringraziamento camuffato, che il marito in-
tende celebrare a sua insaputa, Creusa immagina dunque di
potergli uccidere a tradimento il figlio: lo colpirebbe così pro-
prio nel momento in cui festeggia la gioia che lo separa per
sempre da lei (al v. 1031 scrivo hJmw``n, anziché il tràdito hJmi``n: un
suggerimento di Battezzato 1998, accolto nel suo testo da Ko-
vacs; il dativo etico qui avrebbe poco senso, e anzi il sacrificio
di Xuto deve rimanere nascosto proprio alla moglie: cfr. v.
806). Come in altre tragedie euripidee, anche in questo caso il
delitto dovrebbe aver luogo nel corso di un rito religioso, più
precisamente mentre i convitati libano agli dèi alla fine del pa-
sto per passare poi al momento simposiale, quando si beve vi-
no a volontà e ci si dedica all’intrattenimento. Il vecchio terrà
nascosto il braccialetto che la padrona gli consegna fino al mo-
mento in cui, non visto, potrà versare il veleno nella coppa di
Ione. Il v. 1035, con l’esortazione a distinguere accortamente la
bevanda che gli è destinata dalle altre distribuite fra gli ospiti,
viene espunto da alcuni editori perché considerato una ridon-
danza, che spezza in modo maldestro il nesso sintattico tra il
verso che precede e quello che segue (interpolazione d’attore
secondo Page). Ma, una volta integrata la lacuna metrica di
una sillaba, non sembra fuori luogo l’insistenza di Creusa sulla
cautela con cui va somministrato il contenuto letale del suo
monile: si pensi che il vino era sempre diluito con acqua in un
cratere comune, prima di essere distribuito, e sarebbe stato più
facile versarlo lì per non dare nell’occhio (il racconto del mes-
saggero descriverà poi il ridicolo affannarsi del vecchio per
giustificare la sua solerzia verso il “nuovo” padrone: vv. 1182
sgg.). Pur determinata a eliminare il ragazzo, ripetendo senza
scrupoli e per lo stesso motivo – la reputazione della propria
stirpe – la scelta distruttiva che l’ha guidata quando lo ha mes-
so al mondo, Creusa mantiene lucidità ed equilibrio: il suo pia-
no non deve provocare una strage indiscriminata, neppure
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 299

Xuto sarà colpito direttamente; l’unica vittima del suo orgo-


glio ferito sarà il potenziale usurpatore, che così non metterà
mai piede ad Atene. Il vecchio invita la padrona a ritirarsi dai
pròsseni, i rappresentanti della sua città a Delfi, mentre lui
procede all’esecuzione del complotto. Lasciando la scena con
un incarico che non era prevedibile al suo arrivo, quando si
appoggiava con passo incerto a Creusa lasciandosi guidare da
lei, il pedagogo si fa coraggio con un’apostrofe alle proprie de-
boli membra, che dovranno essere all’altezza dell’impresa. In
altri drammi euripidei figure di vecchi lamentano la fragilità e
l’impotenza cui sono costretti dall’età (cfr. Eracle 268 sgg.,
Troiane 1275 sg.; in Eraclidi 740 sgg. l’apostrofe di Iolao al pro-
prio braccio prelude al suo ringiovanimento miracoloso in bat-
taglia); qui lo zelo del vecchio nasce da una convinta adesione
all’ideologia xenofoba dei suoi signori – al fianco di Creusa,
più che su suo ordine, lui immagina di agire nella macchina-
zione delittuosa, come evidenzia il ripetersi del prefisso sun-
al v. 1044 – e culmina in una cinica dichiarazione di relativismo
morale, che lo assolve in anticipo dall’accusa di empietà. Con-
sapevole di muoversi in un’area consacrata per uccidere, nel
corso di una libagione, un servo del dio (come Ione obietterà a
Creusa: v. 1286), il vecchio sottolinea che le norme della pietà
guidano senza incertezze le azioni di chi gode di buona sorte,
ma l’arcaica misura che impone di danneggiare i nemici non
può essere limitata in alcun modo. È questa la morale che lo
ispira e uccidere Ione risponde insieme a un aiuto accordato
agli amici (Creusa e gli Eretteidi): se il tempio di Apollo non
gli incute alcun timore reverenziale è proprio perché il dio ha
agito come un maschio mortale ai danni dell’amata padrona e,
nella sua ottica parziale, avrebbe potuto essere persino desti-
natario di una ritorsione diretta. Nel fraintendimento generale
di quanto accade, ignorando il disegno divino e i vantaggi che
ne deriveranno alla casa regnante ateniese, Creusa e il vecchio
sono accecati da un’ostilità che non potrà tuttavia essere loro
rimproverata: il dio deve intervenire solo per correggere il
corso degli eventi, affrettando i tempi del riconoscimento, ma
non potrà alla fine imputare ai mortali il cinismo da cui nep-
pure lui è esente.
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300 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

42. (vv. 1048-1073). Il terzo stasimo, articolato in due cop-


pie strofiche dal ritmo eolico, è un canto che unisce l’invoca-
zione alla dea notturna della magia e degli incantesimi alla fo-
sca premonizione del disastro causato da un eventuale falli-
mento del complotto e al biasimo, infine, per la stirpe dei ma-
schi. Come evidenzia l’inganno di Xuto, favorito da Febo, gli
uomini si mostrano infatti inclini a relazioni amorose illecite,
le cui conseguenze non sono meno gravi di quelle rimprovera-
te alle donne fedifraghe dalla tradizione poetica. Ecate, qui
identificata con Persefone e definita figlia di Demetra (cfr. Fe-
tonte, fr. 781, 59 Kn.), è la dea spettrale dei terrori notturni e
delle strade, cui allude l’epiteto Enodia (cfr. anche Elena 569
sg.), in particolare degli incroci e dei trivi dove erano poste le
sue immagini di culto e le venivano consacrate offerte. Come
la maga Medea, che confida nella sua protezione per l’effica-
cia dei propri filtri magici (cfr. Medea 395-397), anche le ancel-
le di Creusa invocano Ecate perché guidi e renda letale un’ag-
gressione che tuttavia non è notturna, come quelle da lei natu-
ralmente favorite, e mira a uccidere chi vuole usurpare il tro-
no di Eretteo. Il veleno che verrà impiegato deriva dal sangue
della mostruosa Gorgone nata dalla terra e l’arcaica divinità
ctonia dovrà vegliare sull’intrigo ordito dalla regina ateniese
perché nessuno straniero possa ambire a regnare sulla sua
città. La lealtà delle ancelle, che si uniscono al vecchio nell’au-
spicio di coronare di successo l’audace complotto contro Ione,
non impedisce loro di considerare anche i risvolti funesti di un
eventuale scacco. La prima antistrofe è così dedicata alle im-
magini del suicidio, cui Creusa si vedrebbe costretta se il dise-
gno delittuoso non andasse a buon fine. Il testo dei vv. 1063 sg.
rimane incerto e s’impongono interventi (qui si adotta ejfevr-
betΔ di Headlam per emendare fevretΔ del testo tràdito, in luo-
go di ejfaivnetΔ di Badham, la correzione scelta da Diggle), ma il
senso s’intuisce comunque: se il momento propizio per l’azio-
ne sfumasse e Creusa non potesse liberarsi dell’usurpatore, lei
per prima si darebbe la morte o meglio, secondo l’eufemismo
che la definisce «un’altra forma di vita», trapasserebbe a un’e-
sistenza diversa e meno sofferta. L’espressione del v. 1068 sem-
bra alludere all’idea che l’anima, liberata dalla prigione del
corpo, non cesserebbe di vivere. Il relativismo che mette in
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 301

dubbio la distinzione assoluta tra vita e morte ricorre più volte


in Euripide (cfr. i frammenti dal Poliido, 638 Kn., e dal Frisso,
833 Kn.; Supplici 531-536, Elena 1014-1016; l’idea che niente
di ciò che nasce muore ma, attraverso un processo di separa-
zione degli elementi, si presenta sotto altra forma, ha una for-
mulazione analoga nel fr. 839, 12-14 Kn., del Crisippo). L’al-
ternativa tra spada e cappio è quella convenzionale per il sui-
cidio delle eroine tragiche (cfr. Andromaca 811-813, 841-844,
Troiane 1012 sg., Elena 353-356), ma l’impiccagione è ovvia-
mente la via più semplice per le donne (si veda anche Oreste
1035 sg., Eretteo fr. 362, 26 Kn., e la gerarchia tra le due scelte
in Alcesti 228-230, Elena 299-302). La motivazione è ricondot-
ta al dolore intollerabile di vedere, finché lei è in vita, degli
stranieri regnare nella sua casa: si ripete così l’enfasi della fine
della strofe sul contrasto xenofobo tra la nobile stirpe autoc-
tona e chiunque intenda usurparne i privilegi.

43. (vv. 1074-1105). La seconda strofe riporta la fantasia


del coro al panorama religioso della città d’origine – sempre
sullo sfondo, sin dalla parodo, anche solo come termine di con-
fronto per il culto delfico – e alla processione che conduceva
da Atene ad Eleusi, alla luce delle fiaccole, una statua di Iacco
(identificato nei misteri con Dioniso, ma in origine personifi-
cazione del grido rituale “IakcΔ w\ “Iakce), nella notte che pre-
cede il ventesimo giorno del mese di Boedromione (settem-
bre-ottobre), il sesto della festa eleusina dei Grandi Misteri.
La sacra veglia evoca il pozzo del Callicoro, ad Eleusi, dove
avrebbe sostato Demetra nella sua ricerca della figlia Kore,
rapita da Plutone. Il dio Iacco-Dioniso non è menzionato se
non con un epiteto, poluvumnon, che lo caratterizza anche in un
Inno omerico a lui dedicato (XXVI, 7). Le donne del coro di-
chiarano la propria vergogna all’idea della profanazione del
rito, se lo straniero – solo alla fine della strofe la sua identità è
chiarita con la sprezzante espressione «il vagabondo di Febo»
– assistendovi, sancisse la propria illegittima integrazione nei
culti attici. Il rituale – che, per la danza collettiva alla luce del-
le torce, sembra simmetrico all’evocazione dei riti orgiastici di
Dioniso a Delfi (vv. 714-717), durante i quali sarebbe stato
concepito il “figlio illegittimo” di Xuto – vede il coinvolgimen-
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302 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

to degli elementi divini della natura, come spesso accade per il


culto dionisiaco (cfr. Sofocle, Antigone 1146 sgg.): la sfera ce-
leste, con la luna e gli astri, quella acquatica del mare e delle
acque dolci, con le Nereidi, partecipano alle danze in onore di
Demetra e Persefone-Kore, le divinità eleusine (le cruces dei
vv. 1082-1083 e 1098-1100 segnalano che manca la corrispon-
denza tra strofe e antistrofe, e dunque vi sono anomalie metri-
che, benché il senso sia soddisfacente). L’ultima antistrofe si
rivolge ai maschi con toni di rivendicazione sessista: la poesia
e la tradizione di cui essa è veicolo sono appannaggio del ge-
nere maschile e dunque registrano pregiudizi misogini. Ma la
vicenda di cui le donne del coro sono testimoni dimostra come
l’idea popolare che la stirpe femminile sia lasciva, priva di au-
tocontrollo e moderazione nella sfera erotica, è calunniosa:
l’obiettivo polemico andrebbe rovesciato, e canti di biasimo si
dovrebbero piuttosto indirizzare contro gli uomini che tradi-
scono la fede coniugale o si rivelano ingrati come Xuto (un’a-
naloga utopistica protesta si ha nel primo stasimo della Me-
dea, vv. 410-428). Il nipote di Zeus (cfr. n. 5 al v. 63) – la nobile
discendenza non gli impedisce di comportarsi indegnamente,
come del resto la natura divina nel caso di Apollo – ha scelto
di privilegiare un amore illecito e il figlio bastardo che ne è
nato ai danni della sua legittima consorte, la regina ateniese
con cui avrebbe dovuto procreare l’erede della casa di Eret-
teo. Ione viene di nuovo menzionato con lo stesso disprezzo
che venava la fine della strofe, ma questa volta non per il suo
rapporto col dio, presunto padre adottivo, bensì per quello con
l’uomo che è stato indicato come suo padre naturale. L’accusa
contro l’iniquo comportamento degli uomini e la diffamazio-
ne che riservano all’altro sesso chiude il cerchio dei tradimen-
ti maschili: la gerarchia creata dalle strutture di potere della
società patriarcale aggrava, ovviamente, la debolezza di chi
non può rispondere ad armi pari.

44. (vv. 1106-1140). Il quarto episodio inizia con l’arrivo


di un servo trafelato in cerca di Creusa. Il servo si dilunga a
informare il coro, lasciando che il ruolo di messaggero differi-
sca la sua missione più urgente: trovare la padrona prima che
venga catturata da Ione e dagli uomini armati che intendono
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 303

giustiziarla. Dopo la concitazione delle prime battute, difatti, il


discorso in cui narra quanto è successo fuori scena – il falli-
mento dell’attentato alla vita di Ione durante il banchetto
d’addio, la scoperta del mandante e la condanna a morte di
Creusa da parte delle autorità di Delfi – si distende per più di
cento versi, impreziosito persino da una lunga ekphrasis, in cui
viene descritta l’erezione del padiglione festivo con le opere
d’arte che lo decorano. Dopo il v. 1107 Diggle ipotizza una la-
cuna perché il verbo ejxevplhsa («ho completato») manca di un
oggetto, che andrebbe estrapolato dalle parole circostanti (per
es.: th;n zhvthsin, «la ricerca»); la costruzione della frase non è
perspicua, ma s’intende che il servo ha già percorso in lungo e
in largo la città senza tuttavia riuscire a rintracciare Creusa.
Le ancelle intuiscono che il loro compagno è latore di notizie
decisive, e la tensione aumenta con la rivelazione che il com-
plotto è venuto alla luce e chi lo ha ideato, insieme ai suoi
complici, dovrà pagare. La lapidazione è una condanna a mor-
te di tipo eccezionale, con connotazioni evidentemente reli-
giose (era il supplizio dei capri espiatori): in origine era la pe-
na comminata ai traditori e a chi avesse compiuto un delitto
dissacrante per i fondamenti della comunità, che sarebbe stata
coinvolta nel suo insieme nell’esecuzione ma avrebbe evitato
così ogni contatto diretto con il criminale contaminato. Qui
Creusa si sarebbe macchiata, senza saperlo, di entrambe le
possibili colpe che sono in genere motivo di una lapidazione:
un assassinio all’interno della famiglia (cfr. Eschilo, Agamen-
none 1117 sgg., 1615 sg., Euripide, Oreste 50, 442), ma anche un
sacrilegio, poiché ha attentato alla vita di un servo consacrato
ad Apollo (cfr. Baccanti 356, la minaccia di Penteo allo stra-
niero che vuole introdurre a Tebe un culto “immorale”). Non
è subito chiaro, invece, cosa sia successo alla vittima designata
del crimine, benché al v. 1118 si accenni a un intervento di
Apollo per evitare la profanazione del santuario: di Ione per il
momento non si parla, e solo nel corso del racconto emergono
i particolari di come sia sfuggito fortunosamente alla morte. Il
v. 1117 («Che l’ingiustizia fosse sconfitta dalla giustizia»), un
giudizio morale sul complotto di Creusa inappropriato per un
suo servo, è molto verosimilmente un’interpolazione, intro-
dotta per fornire un oggetto al verbo ejxhu``ren (v. 1118), che si
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304 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

riferisce in realtà ai mhcanhvmata, i disegni nascosti del v. 1116.


L’intento per cui il dio ha smascherato l’intrigo – che l’area sa-
cra non venga contaminata da un assassinio – è un’ipotesi ov-
via del messaggero, basata sulla credenza diffusa secondo cui
anche la purezza divina può essere intaccata dalla morte, vista
come una barriera che separa rigidamente gli uomini dalle di-
vinità (cfr. Alcesti 22 sg., Ippolito 1437 sg. e la polemica di Ifi-
genia Taurica 380-384). Le donne del coro, coinvolte diretta-
mente nella macchinazione contro Ione, chiedono spiegazioni
in tono di supplica, e il servo dà inizio a un racconto dettaglia-
to di quanto è avvenuto dopo che Xuto e il figlio ritrovato
hanno abbandonato la scena. Solo adesso si apprende che i
due si sono separati subito e che Xuto si è recato da solo nel
luogo, presso i due picchi del Parnaso (evocato dal coro ai vv.
714 sgg.: cfr. n. 32), dove è convinto di aver concepito diversi
anni prima suo figlio – il fuoco delle torce agitate nella veglia
dionisiaca (vv. 1125 sg.) richiama quell’occasione – per offrire
un sacrificio di ringraziamento e riparare alla sua ignoranza
dell’evento della nascita. Dunque una sorta di compensazione
dei riti di riconoscimento e d’integrazione del neonato nella
famiglia (cfr. n. 29: qui si parla di ojpthvria, propriamente i doni
che parenti e amici portavano in occasione della festa di pre-
sentazione del bambino, mentre al v. 653 e al v. 805 si nomina-
va la festa dei genevqlia). Prima di allontanarsi, Xuto ha dato
disposizioni al figlio perché sovrintenda alla costruzione di un
padiglione, una struttura provvisoria che ospiti il banchetto.
Le sue parole vengono riferite in discorso diretto e giustifica-
no in anticipo la sua assenza dalla scena del complotto: Ione è
autorizzato a dare avvio ai festeggiamenti, se il padre dovesse
tardare. L’allontanamento definitivo di Xuto è in realtà un’e-
sigenza tecnica, dal momento che il terzo attore verrà impie-
gato per i ruoli della Pizia e poi di Atena; ma viene richiesto
anche dagli sviluppi drammatici, perché è necessario che non
assista né al tentato avvelenamento, né alla minaccia di morte
che incombe su Creusa, da cui scaturisce infine il riconosci-
mento tra madre e figlio. La dichiarazione conclusiva di Atena
sottolinea che lui deve continuare a coltivare l’illusione di es-
sere il vero padre del ragazzo, ed è perciò indispensabile che
non sia presente agli eventi tumultuosi che d’ora in avanti si
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 305

susseguiranno. Ingannato dall’oracolo, lo si può immaginare


assorbito nel suo impegno devoto e opportunamente distolto
dal luogo del confronto diretto tra Creusa e Ione. Il modo in
cui il ragazzo procede, nel frattempo, a delimitare l’area che
verrà coperta da tessuti e arazzi, sospesi ai pali che costituisco-
no la struttura della tenda, è improntato alla serietà cerimo-
niale che ne contraddistingue sin dall’inizio il servizio religio-
so. Il messaggero descrive la sua cura nel prevedere come la
luce solare sarebbe entrata dall’apertura d’ingresso, orientan-
do il padiglione in modo da tenerlo al riparo dal sole del mez-
zogiorno e da quello pomeridiano; quindi la misurazione at-
tenta del perimetro di una superficie che ha il lato di cento
piedi (a seconda dell’unità normativa adottata, il pletro pote-
va oscillare tra i 27 e i 35 metri). La perizia di Ione nel proget-
tare la struttura gli consentirà di invitare l’intera popolazione
di Delfi, poiché il servo del dio considera tutti i cittadini suoi
amici e intende congedarsi da loro con una grandiosa festa
collettiva: il coinvolgimento popolare avrà come conseguenza
una reazione rapida e indignata al fallito attentato.

45. (vv. 1141-1176). La descrizione delle scene raffigurate


sui preziosi tessuti che Ione, in qualità di tesoriere del tempio
(vv. 54 sg.), trae dalle offerte votive perché vengano stesi fra i
montanti e costituiscano le pareti e la copertura del padiglio-
ne, costituisce una seconda ekphrasis, dopo quella affidata al
canto delle coreute nella parodo (vv. 184-218). In quel caso si
articolava vivacemente nelle battute distribuite fra diverse vo-
ci, mentre qui la narrazione procede in modo convenzionale e
il messaggero, quasi dimentico del suo compito di avvertire
Creusa del pericolo, sembra piuttosto incline a indugiare sui
minuti dettagli delle immagini. I drappi scelti per formare il
soffitto rappresentano il cielo, le costellazioni, e segnalano le
varie fasi del giorno, della notte e del ciclo stagionale. Se ne in-
dica anche l’origine: fanno parte del bottino che Eracle ha ri-
portato dopo la sua vittoria sulle Amazzoni – il popolo di don-
ne guerriere che abitava oltre il Mar Nero, nella regione del
Mar d’Azov – impresa narrata nel primo stasimo dell’Eracle;
là il cimelio più pregiato era indicato nella cintura della loro
regina, Ippolita, custodita però non a Delfi ma in un tempio di
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306 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

Micene (vv. 408-418). Si ha anche un’eco della precedente


ekphrasis del dramma, giacché la prima decorazione scultorea
descritta nella parodo era dedicata a un’altra celebre fatica
dell’eroe figlio di Zeus, l’uccisione dell’idra di Lerna (vv. 190-
200). Urano che raduna i corpi celesti sembra definire il tema
generale della scena, come il verso che apre la descrizione
omerica dello scudo di Achille sintetizza probabilmente il con-
tenuto iconografico dell’intero scudo forgiato da Efesto (Ilia-
de XVIII 483). Da un estremo all’altro si possono dunque am-
mirare in successione: il Sole alla guida della sua quadriga, sul
punto di tramontare, seguito dalla luminosa stella della sera,
Espero (il pianeta Venere). La Notte, il cui carro è trainato dai
due soli cavalli aggiogati, senza quelli ausiliari esterni – è così
meno imponente della quadriga solare – e ha però un ricco sé-
guito di stelle. Quelle che vengono poi descritte occupano la
parte centrale del soffitto-velario: la Pleiade (qui si adopera il
singolare, per la prima volta nella letteratura attica, come poi
in Oreste 1005, per il gruppo di sette stelle della costellazione
del Toro), dal momento che sorge a maggio e tramonta a otto-
bre, costituisce un punto di riferimento per gli agricoltori e per
i marinai nella stagione in cui si naviga. Il catasterismo delle
sette ninfe figlie di Atlante e Pleione era dovuto, secondo una
versione del mito, all’intervento pietoso di Zeus, perché esse
erano inseguite dal gigantesco cacciatore Orione che qui com-
pare – anch’egli trasformato in costellazione – mentre, armato
di spada, le incalza perennemente. Sopra di loro si distingue
l’Orsa Maggiore, la cui rotazione circumpolare la fa sempre
apparire al di sopra dell’orizzonte: questo dettaglio era già nel-
la narrazione omerica dello scudo di Achille (Iliade, XVIII
487-489; cfr. Sofocle, Trachinie 130 sg.), ed è qui ripreso con
l’immagine icastica secondo cui fa girare la sua coda dorata in-
torno al Polo. La luna piena diffonde la sua luce – il giorno del
plenilunio segna la metà del mese lunare – e le Iadi (intese co-
me «piovose»: la prima sillaba, breve in Omero, è allungata co-
me se derivasse dal verbo u{ein), anch’esse un gruppo di stelle
all’interno della costellazione del Toro, vengono additate come
un segnale ben noto ai naviganti: annunciano infatti la stagio-
ne delle piogge, quando tramontano al mattino nel mese di no-
vembre, e dunque la fine del periodo in cui si poteva affronta-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 307

re il mare. Il loro numero e i nomi variano nel mito: Euripide,


alla fine del perduto Eretteo, annunciava il catasterismo che
avrebbe trasformato nelle Iadi proprio le tre figlie di Eretteo
di cui il dramma aveva narrato la morte (le sorelle di Creusa!
Cfr. fr. 370, 107 Kn.; scolio ad Arato, Fenomeni 172), ma altri
autori parlano di sette o di cinque diverse eroine. All’estremità
opposta, rispetto alla raffigurazione del sole al tramonto, il ci-
clo è completato dall’Aurora, che porta le prime luci oscuran-
do le stelle notturne (l’immagine dei vv. 1157 sg. richiama quel-
la usata da Ione, all’inizio della monodia, per salutare il sole
nascente che mette in fuga gli astri: vv. 83-86). Gli arazzi tesi a
formare le pareti del padiglione, d’origine orientale, verosimil-
mente persiana, illustrano scene di scontri tra una flotta barba-
ra e una greca: un motivo storico anacronistico che evoca al
pubblico greco la sconfitta subita nel 494 a.C. dalla flotta ioni-
ca a Lade, dinanzi a Mileto, ma anche il successo di Salamina
nel 480, decisivo per la vittoria sull’invasore persiano. Non
mancano neppure i motivi tipici delle tappezzerie persiane, fi-
gure mitiche ibride e animali fantastici (cfr. Aristofane, Rane
937 sg.), per metà uomini come i centauri, e poi cacce al cervo
o al leone. All’ingresso del padiglione Ione colloca un gruppo
figurativo – il verbo usato fa pensare a un gruppo statuario
piuttosto che a un’altra cortina con funzione di portiera – in
cui è rappresentato Cecrope, il primo sovrano di Atene, anche
lui una creatura ctonia, come indicano le spire serpentine della
parte inferiore del suo corpo. Alle figlie, le Aglauridi che gli
stanno accanto, si è già fatto più volte cenno a proposito della
vicenda di Erittonio, dato loro in custodia da Atena (cfr. n. 3 ai
vv. 23 sg. e vv. 271-274): la storia primordiale di Atene è così in
posizione di rilievo, grazie a un dono votivo di origine attica,
tra i simboli figurativi scelti da Ione per ornare la costruzione
che ospiterà la festa del suo congedo da Delfi. L’ekphrasis si
conclude e il messaggero passa a illustrare come preziosi cra-
teri d’oro per diluire il vino venissero disposti al centro dello
spazio coperto, e un araldo procedesse poi a invitare la popo-
lazione al convito. Al banchetto gli abitanti di Delfi partecipa-
no numerosi. Dopo il pasto vero e proprio si passa al simposio,
con la distribuzione del vino da bere a volontà. Prima si com-
piono però abluzioni rituali delle mani, l’ambiente viene pro-
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308 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

fumato facendo bruciare essenze aromatiche e si liba con vino


mescolato ad acqua. All’inizio del v. 1171 c’è una lacuna di due
sillabe, variamente integrata dagli editori: il termine, se non è
un avverbio, potrebbe completare l’espressione del verso pre-
cedente (ad es. hJdonh;n É ãdaito;"Ã, suggerito da Reiske: «il pia-
cere del pasto»), oppure dipendere da ej" mevson pevdon (ad es.
stevgh" proposto da Diggle: «al centro del padiglione»). A que-
sto punto entra in azione il vecchio pedagogo: per il pubblico e
il coro è facile identificarlo nella figura che si fa avanti, arro-
gandosi con entusiasmo compiti che non gli sono stati assegna-
ti da chi ha organizzato la festa. L’ilarità che il suo zelo suscita
tra i convitati rammenta il celebre passo omerico in cui Efesto
si affanna, zoppicando, a versare nettare nelle coppe degli dèi
riuniti a banchetto (Iliade, I 595-600). Ma se Efesto s’improvvi-
sa coppiere per sedare il dissidio tra Zeus ed Era che turba il
consesso divino, qui la strana iniziativa del vecchio mira al con-
trario a un disegno delittuoso e le risa degli astanti non segna-
lano l’allentarsi della tensione, bensì la sottovalutazione di una
manovra destinata a un risultato fatale, poiché l’attenzione ge-
nerale viene opportunamente distratta.

46. (vv. 1177-1228). Il simposio è inaugurato dalla musica


intonata dai flauti, mentre il vecchio si preoccupa di sovrin-
tendere alla distribuzione del vino, che viene attinto dal crate-
re predisposto per il gruppo di convitati in mezzo ai quali si
trova il festeggiato. L’ordine di sostituire le coppe con altre
più capienti, perché i bevitori cedano più rapidamente all’eb-
brezza, sembra ancora dettato dalla preoccupazione del loro
benessere, ma è invece l’espediente che gli consentirà di por-
gere lui stesso a Ione, con un cerimonioso gesto augurale, una
coppa in cui avrà avuto modo di versare il veleno. L’inserzione
del discorso diretto (vv. 1178-1180), insieme alla precisazione
che solo successivamente il messaggero ha appreso chi sia
mandante del crimine (vv. 1185, 1187), rende vivacemente il
punto di vista di chi, pur testimone dell’evento, prende le di-
stanze incredulo dalle accuse che sono all’origine della con-
danna di Creusa. L’inconveniente che manda a monte l’intrigo
è tanto banale quanto significativo dell’importanza, in questo
momento, degli scrupoli rituali appresi da Ione con l’educa-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 309

zione all’interno del santuario. Il figlio «riapparso» grazie al


responso oracolare si blocca, con la coppa fra le mani – parte
del suo contenuto doveva essere bevuto e parte versato a ter-
ra come libagione alla divinità – perché un servo pronuncia
un’espressione che gli suona di cattivo auspicio. Non esita, lui
cresciuto fra i ministri del culto, a leggere il funesto presagio
che vi si cela, e a esortare gli astanti a seguire il suo esempio: la
prima delle tre libagioni prescritte (dedicata a Zeus Olimpio e
a tutte le altre divinità olimpiche; agli eroi era indirizzata la
seconda e a Zeus Salvatore la terza) viene così interrotta, il vi-
no versato interamente al suolo, e Ione invita a procedere al
rito solo dopo che sia stato di nuovo riempito un altro cratere
comune. Il silenzio generale sottolinea la solennità del mo-
mento, mentre si versano per mescerli acqua e vino Biblino (la
denominazione è di origine sconosciuta, e già gli antichi erano
incerti sulla provenienza di questo vino pregiato, generalmen-
te associato con la Tracia e già menzionato da Esiodo, Opere
589). Lo stormo di colombe, che rumorosamente cala sul luo-
go del convito e si abbevera accostandosi al vino versato a ter-
ra, crea poi l’incidente da cui emerge la verità. Curiosamente
questa circostanza evoca anche l’aspetto negativo del rigore
religioso di Ione – dopo quello positivo, che lo ha frenato nel
momento in cui avrebbe dovuto bere il veleno che gli era de-
stinato – perché stride con l’ostilità riservata, all’inizio del
dramma, ai volatili che si avvicinavano al tempio (vv. 106-108,
154-181, cfr. n. 9). L’intransigenza con cui cercava, nella sua
monodia, di evitare la contaminazione dell’edificio e delle of-
ferte votive qui appare con evidenza viziata dalla sua ossessio-
ne catartica. Il pubblico ricorderà il suo accanimento contro
un bersaglio che ora appare il veicolo usato dagli dèi per far
conoscere agli uomini la porzione di realtà che sfugge alla loro
percezione. Non solo gli uccelli – almeno le colombe, come si
precisa qui – vivono indisturbati all’interno del santuario di
Apollo, ma uno di essi in questa occasione avrà il ruolo di vit-
tima sostitutiva, e la sua morte sarà utile a smascherare il com-
plotto contro il servo del dio. Non a caso, il termine che defini-
sce lo «stormo», al v. 1197, è kw``mo", una brigata chiassosa che
interrompe la festa (come quelle dei giovani che ad Atene fa-
cevano baldoria ubriachi per le vie, e andavano di casa in casa
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310 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

fermandosi, non invitati, ai simposi dei conoscenti), ma non


per questo va temuta né allontanata. L’innocua confusione su-
scitata dal loro arrivo sposta l’attenzione su quanto accade al-
lorché si dissetano: tutte gustano la bevanda dalle pozze che si
sono formate a terra, dopo che le coppe sono state vuotate;
ma solo quella che ha immerso il becco nel vino versato da Io-
ne è colta dagli spasmi di un’agonia che viene assimilata al de-
lirio bacchico. Le grida della colomba, innaturali e perciò in-
decifrabili anche per chi è abituato a interpretare i normali
versi degli uccelli (al v. 1205 ajxuvneton, «incomprensibile», ri-
chiama l’attività degli àuguri e il senso sinistro di un grido che
accompagna una morte violenta), suscitano lo sgomento degli
astanti, che assistono attoniti alle ultime convulsioni finché la
colomba distende le zampe perché ha smesso di lottare. Ione
ha una reazione immediata, si protende oltre la tavola, in mo-
do da bloccare il vecchio che gli sta dinanzi, e lo accusa di es-
sere il sicario che ha cercato di avvelenarlo. La sua perspicacia
e la violenza con cui procede a perquisirlo e poi a fargli con-
fessare chi sia il mandante del complotto, una volta scoperto-
gli addosso il contenitore del veleno, fanno precipitare gli
eventi verso il loro epilogo giudiziario (al v. 1214 il participio
e[conta manca di un oggetto espresso, che non è implicito nep-
pure nelle frasi precedenti: presupporre la lacuna di un verso
che contenesse la menzione del veleno è il modo più semplice
per ovviare alla difficoltà). Lo schiavo può essere impunemen-
te torturato – o minacciato di tortura – e per questo finisce per
tradire la padrona, rivelando il progetto omicida: di lui non
sentiremo più parlare. L’accusa di Ione, corso con un drappel-
lo di testimoni a denunciarlo alle autorità di Delfi (l’appello
alla terra evoca ritualmente la sacralità dei magistrati che la
rappresentano), si appunta su Creusa, la sovrana ateniese che
ha cercato di avvelenarlo. Il racconto si conclude con la preci-
sazione di quale pena i magistrati abbiano comminato alla
straniera, riconosciuta colpevole a larga maggioranza di aver
cercato di uccidere, nel santuario, un uomo consacrato al dio
(l’espressione ouj yhvfw/ mia/`, «non con un voto», al v. 1223, sem-
brerebbe una litote per indicare molti voti di condanna, piut-
tosto che la distinzione tra una votazione per l’accusa di tenta-
to omicidio e una per quella di sacrilegio, suggerita da Wila-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 311

mowitz; Reiske proponeva invece di correggere ouj in ejn per


indicare un voto unanime). Al v. 1222 (come già al v. 1112, cfr.
n. 44, e poi al v. 1237) si parla di lapidazione, anche se la furia
di Ione nel perseguire la condannata lo induce a fantasticare
più tardi su una pena diversa, precipitarla dalle rocce del Par-
naso (vv. 1266-1268). Le ultime parole del servo sono di com-
miserazione per la padrona, che non potrà sfuggire agli inse-
guitori – l’intera comunità cerca di catturarla – e si trova così a
dover perdere a Delfi non solo ogni speranza di aver figli, il
motivo che l’aveva condotta all’oracolo, ma la vita stessa. La
parte conclusiva del dramma rovescerà queste attese – Creusa
ritroverà il figlio e darà così nuovo senso alla sua vita – e l’iro-
nia dell’espressione finale (correggendo con Matthiae, al v.
1227, Foivbon del testo tràdito in Foivbou), consente al pubblico
di scorgere la verità ignota ai personaggi proprio nel «deside-
rio di figli da Febo», il cui senso non è solo quello di ottenere
notizie relative ai figli (nonostante i dubbi dei critici sulla for-
zatura dell’espressione, che hanno indotto alcuni di loro a
espungere i vv. 1227 sg.).

47. (vv. 1229-1249). Uscito il messaggero, il coro intona un


breve canto astrofico (vv. 1229-43), in cui dominano le sequen-
ze di ritmo eolico (in particolare gliconei e ferecratei). Alla fi-
ne di questo interludio, alcuni anapesti recitati (vv. 1244-49)
segnano la transizione alla scena concitata dell’esodo, quando
Creusa giunge inseguita da Ione e dagli uomini che intendono
catturarla e giustiziarla. Le ancelle esprimono terrorizzate la
consapevolezza di non essere esenti, in quanto complici della
loro signora, dall’imminente punizione che la città ha decreta-
to per lei (si veda il timore dei marinai di Aiace, in Sofocle,
Aiace 251-256). L’anadiplosi (vv. 1229, 1231) e l’iterazione ri-
corrente di alcuni termini rendono il senso dell’ineluttabilità
della morte, l’angoscia di non avere scampo ora che il com-
plotto è venuto alla luce. Il testo dei vv. 1232-34 è stato varia-
mente emendato perché la sua costruzione non è affatto per-
spicua: l’accusativo sponda;"... meignumevna" manca di un lega-
me convincente col resto della frase (Page suggeriva di cor-
reggere col nominativo, spondaiv gΔ... meignumevnai, come appo-
sizione esplicativa del dimostrativo tavde al v. 1231, e la tradu-
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312 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

zione tiene conto di questa semplice proposta). Il destino che


attende le ancelle non è definito, se non vagamente: il generi-
co termine sacrificale di «vittime» degli inferi dissimula la pe-
na che metterà fine alla loro vita accanto alla lapidazione cui è
stata condannata Creusa. L’incubo di una morte così strazian-
te alimenta poi la fantasia di fuga, a volo nell’etere o sprofon-
dando sotto terra, un topos della poesia euripidea (altrove co-
me sogno d’evasione da una realtà dolorosa e intollerabile: cfr.
Fetonte fr. 781, 61-64 Kn., Eracle 1157 sg.; cfr. sopra n. 34 ai vv.
796 sg.). Ma né il desiderio di sparire dal consorzio umano, né
quello più realistico di fuggire su un veloce mezzo di trasporto
per terra o per mare (ancora in parallelo con i marinai di Aia-
ce: Sofocle, Aiace 245-250) riescono a contrastare la coscienza
dell’impossibilità di mettersi in salvo, se non è una divinità a
fare il miracolo. La giustizia umana è autorizzata a punire chi
ha progettato un crimine, e le parole finali delle ancelle pren-
dono atto del valore retributivo del male che subiranno: il pe-
ricolo che incombe ha fatto smarrire loro ogni baldanza eroica
(cfr. vv. 857 sg.).

48. (vv. 1250-1281). Creusa entra di corsa in scena, dando


avvio al lungo movimento drammatico dell’esodo che culmi-
nerà nel riconoscimento tra madre e figlio. L’ostilità che li
contrappone toccherà il suo vertice subito prima degli eventi
che consentiranno ai due personaggi di capire quanto si sono
allontanati dal vero, non solo continuando a ignorare le ri-
spettive identità, ma per di più fuorviati da una fittizia attri-
buzione dei ruoli (matrigna/figliastro, erede legittima/usurpa-
tore). Il dialogo con il Coro (vv. 1250-1260) è in tetrametri tro-
caici catalettici, a sottolineare la tensione emotiva, un tratto
che caratterizza l’ultima produzione euripidea. Creusa con-
fessa di essersi sottratta alla cattura fuggendo dalla casa del
pròsseno che la ospitava, ma non ha speranza di riuscire a elu-
dere gli inseguitori che la incalzano. Il tradimento del vecchio,
che ha indicato in lei l’artefice del complotto, la inchioda alla
sua responsabilità, ma Creusa si rivolge ancora con fiducia al-
le ancelle perché le suggeriscano un rifugio. L’altare dinanzi al
tempio sembra il luogo più naturale per evitare di essere ucci-
si, e la sacralità del supplice potrà salvaguardare la vita del
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 313

condannato anche contro l’applicazione di un giusto verdetto.


L’esitazione di Creusa sembra dipendere dal cambiamento
paradossale che le viene proposto: lei ha finora accusato il dio
di insensibilità e di aver tradito tutte le sue attese, ne ha de-
nunciato la violenza e ha provato a vendicarsi uccidendo nel
suo santuario il ragazzo a lui consacrato; ma ora, disperata e
senza via di scampo, dovrebbe affidarsi ad Apollo come una
devota, senza riserve né scetticismo, e farsi partecipe dell’in-
violabilità del suo altare per fermare i persecutori. Eppure l’a-
zione di supplica – che in genere inaugura una vicenda tragica
e rappresenta un momento d’impasse da superare (cfr. Andro-
maca, Eraclidi, Supplici, Eracle, Elena) – sembra arrivare ora
come ultima risorsa drammaturgica, quando le circostanze
non consentono più nessun chiarimento tra i protagonisti
umani, confusi e sviati dal dio. Ed è anche una cerniera fra la
situazione in cui la relazione tra Apollo e i mortali “predilet-
ti”, priva della giusta distanza, rivela la loro inerme fragilità, e
il finale, quando si ristabilisce un rapporto più equilibrato, di
sincera ma formale gratitudine per i benefici che il dio vorrà
loro concedere. Questa titubanza di Creusa sembra sottoli-
neata sia dalle sue repliche al Coro – che distinguono ciò che
non è lecito, in base al diritto rituale dei supplici, da ciò che è
stato decretato secondo la legge umana (v. 1256) – sia dall’a-
zione scenica. Si deve immaginare che Creusa impieghi un
tempo considerevole, dopo l’esortazione del Coro al v. 1258,
per assidersi effettivamente sull’altare. Quando Ione, giunto
insieme agli attendenti armati di spada, la vede in compagnia
delle ancelle, può nutrire la ragionevole certezza che non gli
sfuggirà più. Pronuncia allora l’allocuzione furibonda in cui
ne denuncia la natura malvagia e dà poi l’ordine di afferrarla,
al v. 1266, mentre lei indietreggia progressivamente in direzio-
ne dell’altare e del tempio (vv. 1275 sg.), così mostrando più
chiaramente le sue intenzioni e frenando verosimilmente la
determinazione degli uomini che avanzano per catturarla. So-
lo quando Ione esclama che, rifugiandosi all’altare, Creusa ha
messo in atto l’ultimo odioso stratagemma (vv. 1279-1281), lei
ha ormai raggiunto la posizione che le conferisce lo status di
supplice. Questa ricostruzione dei movimenti dei personaggi
rende conto della reazione di Ione, che solo alla fine dell’apo-
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314 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

strofe s’indigna perché la sua nemica cerca la protezione di


Apollo dopo aver tentato di ucciderne il servo consacrato.
Nella sua monodia la minaccia al cigno si univa alla conside-
razione che accompagnare con il canto la musica di Febo (la
cetra del dio) non avrebbe messo il volatile al riparo dalle sue
frecce (cfr. vv. 164 sg.). Anche qui Ione si arroga il diritto di
valutare chi sia degno della protezione divina e chi no, prima
ancora che il bersaglio del suo sdegno abbia raggiunto l’asilo
verso cui si dirige. Del resto tutto il discorso non si caratteriz-
za né per autocontrollo, né per l’attendibilità della pena che
prospetta: quando apostrofa Creusa, evocando i tratti mo-
struosi dei suoi antenati (il Cefiso, uno dei fiumi dell’Attica,
che assume forma taurina come molte divinità fluviali, è bi-
snonno materno di Creusa), le prospetta un destino analogo a
quello delle Aglauridi. Le figlie di Cecrope (v. 274, cfr. n. 14)
erano precipitate dalle rupi dell’acropoli e anche Creusa, nel-
la fantasia aggressiva di Ione, verrebbe non già lapidata ma
scagliata giù dalle rocce del Parnaso, che «pettinerebbero» la
sua chioma «intatta», e dunque «pura» (sarcastico accenno al-
lo scempio e alla profanazione del suo corpo: l’epiteto scelto,
ajkhvrato", usato ancora al v. 1436 per l’ulivo sacro ad Atena,
ricorda i capelli “intonsi” di Apollo, la cui giovanile bellezza è
simboleggiata, nella poesia epica e poi in quella lirica, da que-
sto dettaglio; cfr. ajkersekovmh" in Iliade, XX 39, Inno omerico
ad Apollo 134, Esiodo, fr. 60, 3 M.-W., Pindaro, Pitiche, III 14,
Istmiche, I 7, Peani, IX 45). Gli interventi testuali per spostare
gruppi di versi o espungerne altri, al fine di rendere più “coe-
rente” il ragionamento di Ione, sembrano una soluzione trop-
po drastica (i vv. 1275-78, trasposti da Musgrave dopo il v.
1281, sono espunti da Diggle soprattutto per la difficoltà del
nesso sintattico del v. 1276) e presuppongono che Creusa ab-
bia raggiunto l’altare subito dopo l’esortazione del Coro, al v.
1260; il che, come s’è detto, non è probabile. L’espressione dei
vv. 1276 sg. risulta piuttosto forzata nella sua sintassi ma, no-
nostante i dubbi di alcuni critici, non è impossibile che oJ dΔ
oi\kto" oJ so;" ejmoi; kreivsswn pavra É kai; mhtri; thjmh/` si debba in-
tendere: «la compassione nei tuoi confronti (cfr. Andromaca
62) è più forte in relazione alla mia persona e a quella di mia
madre»; dunque: “io e mia madre meritiamo più commisera-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 315

zione di quella che tu cerchi di suscitare con l’assumere la po-


sizione di supplice”. Sembra opportuno, come suggerisce Lee,
non espungere dunque questi versi che, forse, non conservano
un testo integro, ma sono tuttavia in linea con l’ironia tragica
che torna insistentemente a marcare prima l’istintiva simpa-
tia, poi la distanza creata dal disegno divino tra la madre e il
figlio, mentre si fronteggiano senza saperlo. Ai vv. 1277 sg.
l’antitesi sw``ma É o[noma, un topos prediletto dalla poesia euripi-
dea (cfr. Elena 588: «il nome può stare ovunque, il corpo no»),
qui piega la distinzione fra corpo e denominazione, tra perso-
na e strumenti conoscitivi idonei a definirla, al servizio della
stessa ironia: Ione crede di poter disporre solo del termine che
designa il ruolo materno, in assenza della persona fisica, ma
gli spettatori vedono invece che a Creusa, pur presente, viene
negato da Ione proprio l’appellativo di “madre” fino alla svol-
ta del riconoscimento.

49. (vv. 1282-1319). Le prime parole pronunciate da Creu-


sa non sono improntate all’umiltà del supplice ma, con tono
perentorio, ricordano la contaminazione che incombe su chi
viola il diritto d’asilo. Il divieto di ucciderla è tuttavia pronun-
ciato «a nome mio e del dio presso cui siedo», che equivale a
dire – con la solita ironia involontaria imposta al locutore dal
drammaturgo – “in nome di tua madre e di tuo padre”, formu-
la d’esordio convenzionale nelle suppliche (cfr. ad es. Iliade,
XXIV 466, Sofocle, Filottete 468). Quando Ione chiede scon-
certato, quasi fingendo di non capire perché venga fatto il no-
me di Apollo, cosa i due abbiano in comune (cfr. v. 358: ciò che
hanno in comune, ta; koinav, è ovviamente un figlio!), Creusa
spiega che a legarla al dio è l’atto stesso di affidargli il suo cor-
po, rendendolo sacro e inviolabile: anche qui un doppio senso,
questa volta consapevole, allude non solo alla supplica ma al-
l’antico rapporto, quando è stata costretta a «dare» il suo cor-
po allo stupratore divino (il presente può riferirsi anche a un
dono fatto nel passato). L’accusa di non avere rispettato la sa-
cralità del luogo, tentando di uccidere il servo che appartiene
al dio, induce Creusa a replicare che Ione, ormai assegnato al
padre umano, non sarebbe più proprietà di Apollo. E lui riba-
disce che credeva di appartenergli (nella monodia lo ripeteva
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316 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

con orgoglio), almeno finché non si è presentato il vero padre


(la traduzione del v. 1288 si basa sulla sistemazione del testo di
Kraus, che accetta ajpousiva/ di Kirchhoff invece del tràdito ouj-
sivan; Diggle lo stampa invece tra cruces). Creusa insiste sul-
l’avvicendamento, per cui non è più Ione che può dirsi sacro
ad Apollo, bensì lei, supplice ormai intoccabile. Qui l’enfasi sui
rispettivi diritti può fare spazio ai meriti nei confronti del dio
cui si appellano: Ione è sempre stato pio, la supplice si è mac-
chiata di sacrilegio. L’intenzione di ucciderlo, risponde Creusa,
nasceva dall’evidente conflitto tra la sua posizione e la casa di
Eretteo. I timori della sovrana ateniese, che tanto credito ave-
vano trovato presso il vecchio e le ancelle, vengono denunciati
come assurdi nel seguito della sticomitia (benché lo stesso Io-
ne avesse previsto il rancore e l’invidia della “matrigna”: cfr.
vv. 607-620): la schematica attribuzione dei ruoli, per cui l’osti-
lità equivale a una guerra senza quartiere, consente alla madre
di rappresentare il pericolo come un assalto armato e al figlio
di ironizzare sull’esagerazione metaforica di un esercito che
mette a ferro e fuoco il paese da conquistare. Nella sequenza
delle battute lo stretto nesso di ritorsione verbale tra il v. 1295
e il v. 1300, in cui il verbo mevllein è ripreso da Ione per replica-
re al sospetto di Creusa e smascherare la sproporzionata rea-
zione a un timore non verificato, suggerisce di spostare con
Nauck i vv. 1300-1303 subito dopo il v. 1295. L’ordine che si ot-
tiene consente di apprezzare al meglio il gioco verbale e non
altera la consequenzialità delle frasi che valutano lo status di
Xuto: alleato di Atene, non ha conquistato la terra con le armi,
ma ha messo il suo valore militare al servizio della città e, se
può abitarla, non è tuttavia proprietario della terra attica e non
può trasmettere il potere a chi crede. L’eredità del padre che
Creusa addita con sarcasmo a Ione riguarda esclusivamente le
armi che ha portato con sé: come un soldato di ventura, Xuto
resta uno straniero per la casa di Eretteo. Solo se avesse gene-
rato un figlio insieme alla moglie ateniese gli avrebbe potuto
trasmettere il potere. Questa problematica era comunque ben
chiara a Ione (cfr. vv. 591 sgg., quando rifletteva sulla doppia
macchia di essere straniero e di nascita illegittima); una volta
sfuggito al complotto, egli sembra però aver dimenticato gli
scrupoli e la profonda inquietudine per cui aveva accettato le
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 317

prospettive legate alla rivelazione sulla sua nascita solo con


molta riluttanza. Ora mette avanti i diritti del padre, come se
non comprendesse le implicazioni del termine oijkhvtwr (v.
1299: chi possiede la terra in cui abita, o per diritto autoctono,
come gli ateniesi, o per averla colonizzata; il testo del v. 1304,
di cui Diggle segnala solo il guasto, qui è corretto secondo la
proposta di Page: a{ma ‹tw/›` , in luogo del tràdito ajlla;). La rispo-
sta di Creusa liquida ogni rivendicazione: l’intero patrimonio
di Xuto ammonta al valore di scudo e lancia, e il progetto divi-
no per integrare Ione nella società ateniese viene così messo in
crisi anche sul piano giuridico (cfr. vv. 297 sg. e n. 15 per il mo-
dello matrimoniale e la trasmissione ereditaria presupposti,
che entrano in conflitto, come si vede in particolare qui, con l’i-
deologia autoctona). Da questo momento in avanti Ione smet-
te di sondare le ragioni dell’ostilità di Creusa e recrimina con-
tro l’insensatezza di sospendere la persecuzione di un colpevo-
le se questi trova rifugio in un luogo sacro. Quando le intima di
rinunciare allo status di supplice, lei replica che può usare quel
tono con sua madre, dovunque lei sia: l’ironia tragica mette so-
prattutto in rilievo come si sia dissolta l’iniziale simpatia, quan-
do il senso nascosto di analoghe espressioni (cfr. vv. 308, 324)
rivelava un’istintiva affinità, anziché l’esigenza di mantenere
le distanze. Poi la sfida a giustiziarla lì, sull’altare, la cui sacra-
lità è segnalata dalle bende (si ricordi che al v. 522 Ione, inorri-
dito dinanzi alle effusioni di Xuto, minacciava di ucciderlo per-
ché toccava ta; tou`` qeou`` stevmmata). Il tempio oracolare è carat-
terizzato per sineddoche proprio dalle sacre bende in un passo
di Aristofane che parodia la vicenda dello Ione euripideo (Plu-
to 39), e «morire tra le bende» compendia un sacrilegio che il
ragazzo, nella sua rigida devozione, ritiene così intenso da do-
ver suscitare orrore persino nella vittima designata (non pren-
de neppure in considerazione, invece, il vantaggio postumo che
ne deriva al supplice, la cui vendetta consiste proprio nella
contaminazione di chi non ne rispetta lo status: cfr. vv. 1259
sg.). Ma Creusa non fa allusione all’impurità o alla collera divi-
na che ricade su chi uccide il supplice. Se usa il linguaggio del-
la vendetta è in relazione al dio, ambiguamente definito «qual-
cuno che mi ha fatto soffrire» (v. 1311), senza che l’interlocuto-
re possa comprendere che si tratta non già degli aggressori, ma
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318 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

proprio di chi dovrebbe garantirle protezione. Ione deve rasse-


gnarsi – la condannata non lascerà l’altare – e l’indignazione
trova sfogo in una protesta contro l’abuso del diritto d’asilo,
consentito da una norma rituale che non distingue tra i crimi-
nali e chi è perseguitato ingiustamente: poiché gli dèi offrono a
tutti la stessa garanzia di inviolabilità, malvagi e disonesti non
hanno scrupolo a ricorrervi e chi è impuro si accosterà inde-
gnamente al sacro. Mettere in rilievo questo paradosso serve a
esprimere con forza l’esigenza di far coincidere la legge mora-
le e quella rituale e, ancora una volta (cfr. vv. 436-451), Ione si
mostra deluso dall’indifferenza degli dèi all’etica dei mortali.
In ogni caso l’impasse è reale e non sembra che lo sdegno pos-
sa indurlo a infrangere l’interdetto relativo all’incolumità del
supplice (il fr. 554a Kn., dall’Edipo di Euripide, mostra invece
un’esplicita determinazione a strappare un colpevole dall’alta-
re, senza temere la collera divina, pur di consegnarlo alla sua
giusta punizione).

50. (vv. 1320-1368). Lo stallo dell’azione di supplica, in cui


Creusa non riesce a mitigare l’avversione del suo persecutore
e Ione non sa decidersi al sacrilegio (cfr. gli scrupoli che se-
guono le minacce verbali anche nei confronti degli uccelli, ai
vv. 179-181), è risolto dall’arrivo in scena della Pizia. La profe-
tessa di Apollo sarà determinante per avviare il riconoscimen-
to tra madre e figlio, benché non sia affatto consapevole della
vera identità della supplice. Ispirata dal dio, appare all’improv-
viso sulla soglia del tempio per consegnare al ragazzo il cesto
in cui era stato esposto da neonato, conservato per tanto tem-
po all’insaputa di tutti. Al suo interno sono ancora custoditi gli
oggetti che consentiranno alla madre presente di rivelare la
sua identità, ma la sacerdotessa non sarà testimone di questa
prova decisiva: il suo ruolo è quello di docile strumento della
volontà divina, ignara sia quando veicola una menzogna (il re-
sponso di Apollo a Xuto), sia quando offre una via di salvezza,
innescando l’agnizione che metterà fine ai malintesi e al fune-
sto conflitto tra Ione e Creusa. L’ordine di fermarsi, rivolto al
suo pupillo, rivela la sua sensazione – evidente anche dal rim-
provero del v. 1327, relativo alla mancanza di pietà verso la
supplice – che la furia di Ione potrebbe anche indurlo a viola-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 319

re il diritto d’asilo. Il pubblico lo ha visto titubante dinanzi al


sacrilegio anche nella monodia d’esordio, ma sembra forzata
l’ipotesi (Lee ad loc.) che la Pizia non sia preoccupata dalle in-
tenzioni di Ione nei confronti di Creusa e che l’imperativo ej-
pivsce", al v. 1320, voglia solo impedirgli di allontanarsi indi-
gnato e frustrato (dalle sue parole non si evince affatto che ab-
bia rinunciato a far applicare la condanna, né che abbia deciso
di abbandonare la scena). L’annuncio solenne con cui la pro-
fetessa si presenta denota che un impulso straordinario l’ha
indotta ad abbandonare il tripode e l’aduton del tempio, e sin
dalle prime battute emerge il tenero legame di affetto che la
rende, agli occhi di Ione, una madre vicaria. Tra loro c’è un’in-
tesa che non le impedisce di dissentire dal rigore crudele (v.
1327: wjmov") del ragazzo: all’inizio della vicenda lei stessa, ispi-
rata dal dio, ha mutato la sua intransigenza, wjmovth", in pietà
(cfr. v. 47, a proposito della decisione di accogliere e allevare il
frutto di un’unione illecita, anziché pretendere inflessibilmen-
te che venga espulso dal santuario). Gli argomenti avanzati
dall’uno e dall’altra evitano comunque il delicato tasto del sa-
crilegio: Ione rivendica il diritto di uccidere la nemica che ha
attentato alla sua vita (tacendo persino il pronunciamento giu-
diziario dei Delfî); la Pizia fa rientrare il suo caso nella diffusa
ostilità tra matrigne e figliastri (cfr. v. 1025 e n. 40, vv. 1269 sg.).
Ma il compito che Ione ora ha dinanzi a sé non è la vendetta,
bensì l’accertamento della verità in relazione alla sua nascita:
recarsi dunque ad Atene senza commettere nessuna azione
che lo renda impuro, ora che il dio, avendo rivelato chi è il pa-
dre, gli consente di lasciare il suo servizio. Ione protesta anco-
ra che «uccidere i nemici» non intacca la purezza (con la stes-
sa prospettiva di conflitto dichiarato cui ricorreva Creusa), ma
la sua cecità naturalmente non gli permette di vedere che si
macchierebbe invece di matricidio, il delitto più problematico
anche dal punto di vista rituale, come dimostra altrove la diffi-
coltà di placare le Erinni che perseguitano Oreste. Il mancato
consenso della Pizia al suo desiderio di giustizia è netto, anche
se non motivato (v. 1335: viene detto in modo assiomatico che
Ione non si manterrebbe kaqarov" uccidendo Creusa, senza
neppure menzionare l’empietà di chi viola la sacralità dei sup-
plici). L’attenzione generale viene poi focalizzata sulla cesta
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320 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

che la profetessa ha portato con sé, la vecchia culla del neona-


to che lei ha custodito intatta fino a questo momento, protetta
dagli stevmmata (v. 1338), le bende di lana che contrassegnano
oggetti e persone consacrati al dio. Le domande ansiose di Io-
ne sollecitano allora chiarimenti e precisazioni sul perché solo
adesso gli venga mostrato un oggetto così prezioso per capire
le sue origini e l’identità di sua madre (al v. 1342 non seguo
Diggle, che corregge con Hermann il dimostrativo tovde in avv.
di tempo, tovte, creando un’antitesi ridondante con nu``n del ver-
so precedente, che è già in contrasto con pavlai). La Pizia è cer-
ta di rispettare i tempi e i modi voluti dal dio (vv. 1347, 1353,
1357-1360) esibendo adesso la cesta che contiene i “segni di ri-
conoscimento” del bambino abbandonato, i tessuti usati come
fasce per avvolgerlo, indizi per andare alla ricerca della ma-
dre. Con ciò si è esaurito il suo compito. Da questo momento
rinuncia all’affetto del figlio adottivo e lo esorta ad allonta-
narsi da Delfi, in concomitanza con il segnale esplicito dato
dallo stesso Apollo per congedarlo dal suo servizio: il respon-
so che ha permesso a Xuto di riconoscere in lui il figlio gene-
rato prima delle nozze con Creusa. Ione saluta la novità con
incontenibile entusiasmo e si dichiara pronto ad andare da un
capo all’altro della terra abitata per condurre la ricerca, mo-
strando uno slancio ben diverso dal contegno diffidente e cau-
to che lo guidava nell’incontro con Xuto. Il v. 1360 presenta
sette piedi (Diggle segnala il guasto e preferirebbe espungere
l’iniziale sw``saiv qΔ); tra le proposte per restituirgli la giusta lun-
ghezza metrica sembra più persuasiva quella di Badham, che
scrive o{tou dev gΔ ou{nekΔ omettendo ejbouvleqΔ, verbo che si rica-
va facilmente dal verso precedente. Tutta la sezione dei vv.
1357-1368 è comunque investita da sospetti, e la proposta di
Hirzel di espungere i vv. 1364-68 viene diffusamente accolta
dagli editori (così anche Diggle), che ritengono probabile che
il v. 1363, con l’addio della Pizia a Ione, chiudesse efficacemen-
te il suo discorso. Le frasi successive sembrano contraddire
l’affermazione del v. 1357, con la rinuncia a dare consigli sulla
ricerca. Ma in realtà servono a ribadire come persino la porta-
voce di Apollo ignori la verità e, uscendo di scena, continuerà
ad esserne esclusa anche in futuro (la prima ipotesi sulle origi-
ni della madre è la stessa fatta quando ha trovato Ione: vv. 44
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 321

sg.). Pur essendo stata ispirata ad agire dal dio, nei momenti
cruciali in cui andava salvata la vita del figlio o della madre,
solo nell’ambiguo registro dell’ironia tragica la Pizia può di-
chiarare a Ione che Apollo «ha avuto una parte nel tuo desti-
no» (v. 1368).

51. (vv. 1369-1394). Ione resta a contemplare la cesta, che


la profetessa gli ha consegnato prima di rientrare nel tempio.
Sopraffatto dalla commozione, torna col pensiero al momento
della separazione da sua madre, neonato concepito in segreto
e poi ceduto ad altri, senza che lei gli abbia offerto il suo latte
e l’affetto più intenso e rassicurante. Aver perduto nella prima
stagione della sua esistenza il rapporto con colei che lo ha ge-
nerato e aver vissuto al riparo del dio di Delfi una vita da ser-
vo anonimo sono due diversi motivi di rammarico: il primo lo
accompagna da sempre, il secondo affiora adesso che si pro-
spetta la rivelazione sull’origine della madre e cambia radical-
mente di segno la fierezza di prima per il suo servizio nel tem-
pio, dovuto alla generosità del dio che gli ha consentito di so-
pravvivere in un dignitoso benessere. Ora il ragazzo distingue
l’operato del dio – verso il quale si mostra sempre grato – da
una più generica, meno benigna, sorte (anche se questa è desi-
gnata, al v. 1374, con il termine daivmwn, altrove usato per lo
stesso Apollo: cfr. v. 1353); le scelte lessicali e l’azione dram-
matica illustrano tuttavia che non è possibile separare netta-
mente la divinità dal caso, perché imprevedibilità, errori, di-
stanza dalle più profonde esigenze degli uomini si registrano
in tutti gli eventi, a qualsiasi origine si debbano ricondurre. Lo
smarrimento, l’immagine, emotivamente intensa, del rapporto
affettivo primario che gli è stato tolto suggeriscono a Ione un
parallelo ideale con il dolore sofferto dalla madre, che ha do-
vuto rinunciare a lui (vv. 1378 sg.; Creusa si identificava in mo-
do analogo con la madre del servo del dio: vv. 324, 330). Ma il
timore che la verità sulla sua nascita non sia all’altezza delle
nuove alte aspirazioni (già espresso ai vv. 670 sgg.) lo induce,
con mossa inattesa, a desistere: la cesta che contiene gli indizi
per rintracciare la persona più cara e desiderata deve essere
restituita al dio. Ione vuole consacrargliela e lasciarla intatta
tra i doni votivi del tempio, angosciato all’idea di poter scopri-
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322 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

re che sua madre è di origine oscura: ma se la condizione ser-


vile gli appare così ignobile da preferire che resti ammantata
nel segreto, in contrasto col desiderio da sempre accarezzato
di conoscere e abbracciare sua madre, chiunque lei sia (vv. 563
sg.), non è perché la ragione umana, incapace di intuire i dise-
gni divini, li metta a repentaglio fino alla fine. Ione fa tacere i
suoi sentimenti proprio nel momento in cui aderisce al proget-
to di Apollo e, lasciando chiusa la cesta con gli oggetti deposti
dalla madre accanto al neonato, segue piuttosto il buon senso:
non vuole aggiungere ai due mali che rendono difficile la sua
integrazione nella dinastia ateniese – nascita da un padre stra-
niero e, per di più, illegittima (vv. 591 sg.) – l’ulteriore macchia
di una madre schiava. Quando esponeva a Xuto le sue preoc-
cupazioni era proprio l’auspicio che almeno sua madre non
fosse immigrata, ma di pura razza ateniese, ad alimentare la
speranza di aver diritto alla libertà di parola, cifra essenziale
della politica democratica (cfr. vv. 670-675 e n. 29). Solo un ri-
pensamento – proprio il dio ha voluto che quegli oggetti fosse-
ro custoditi per venirgli ora consegnati – lo induce ad affron-
tare la verità, quale che sia. Diversamente dall’atteggiamento
che lo guidava quando ha riconosciuto in Xuto suo padre, co-
munque, la devozione e la gratitudine nei confronti di Apollo
non sono più sottese dalla fiducia che le rivelazioni sulla sua
nascita siano socialmente gratificanti (cfr. vv. 556 sg.). L’apo-
strofe alle bende, che vengono adesso disciolte, lo stupore per-
ché il tempo trascorso non ha lasciato alcun segno sui vimini
intrecciati annunciano il miracolo dell’imminente ricongiungi-
mento di madre e figlio. Lo choc della scoperta s’innesta sul
diverso rapporto dei mortali e degli dèi con il tempo (cfr. In-
troduzione, p. 10 e n. 3): l’oggetto che, sotto la custodia di
Apollo, non mostra alcun invecchiamento, appartiene alla do-
lorosa esperienza adolescenziale di Creusa e ha conosciuto i
primi vagiti di Ione; ora li riporterà entrambi mentalmente in-
dietro, al momento della loro separazione – come se il tempo
non fosse passato inesorabile lasciando cicatrici sulla loro af-
fettività – assecondando le aspettative divine che, come si
evince dal prologo di Ermes, annodano disinvoltamente pas-
sato, presente e futuro in un continuum privo di emozioni.
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 323

52. (vv. 1395-1436). Creusa, a lungo silenziosa durante la


scena del dialogo fra la Pizia e Ione, prorompe in un’esclama-
zione di gioia nel momento in cui, osservando meglio la cesta,
la riconosce. Ione, assorto nelle sue riflessioni e quasi dimenti-
co di lei, la zittisce bruscamente, ma Creusa – per la seconda
volta nel corso della tragedia – non è più disposta a tacere:
quando ha rivelato al vecchio e alle ancelle il suo segreto (vv.
859 sgg.), si è messo in moto il complotto che poteva fare di lei
l’assassina del figlio; ora che annuncia la verità al suo persecu-
tore, avendo improvvisamente capito che è proprio il figlio
esposto e creduto morto, rompere il silenzio avrà l’effetto con-
trario e porterà allo scioglimento felice di tutti i malintesi. An-
nunciando che abbandona l’altare (v. 1401) mette fine all’azio-
ne di supplica, una decisione motivata dalla certezza di essere
ormai protetta da elementi sostanziali: la vera relazione che li
lega sarà presto riconosciuta anche dal figlio, perché lei non
avrà difficoltà a dimostrare ciò che sul momento appare incre-
dibile. Benché Creusa abbia ormai dichiarato la sua identità,
Ione dà l’ordine di afferrarla e legarle le braccia: la replica alla
rivelazione della madre è ispirata allo stesso scetticismo di
quando frenava sgomento l’affetto di Xuto, in occasione del
falso riconoscimento. Nell’uno e nell’altro caso c’è il sospetto
di un attacco di follia (vv. 520, 1402), mentre il genitore che ri-
vendica il suo ruolo non si lascia intimorire dalle minacce e di-
chiara la felicità per aver ritrovato la persona più cara (vv. 524-
527; 1402-1407). Torna anche una metafora affidata, rispettiva-
mente, a Xuto nella prima scena e a Ione nella seconda: il ver-
bo rJusiavzw – in origine «razziare per rappresaglia» – entra poi
nel lessico giuridico e indica l’atto di prendere in pegno e por-
tar via qualcosa che appartiene ad altri, come garanzia di un
indennizzo cui si ritiene di aver diritto (per un’analisi detta-
gliata dei suoi usi, anche in tragedia, cfr. Bravo 1980, pp. 750-
792). Al v. 523, Xuto sostiene che toccare il servo del dio non
significa mettere la mano su un bene altrui, ma riappropriarsi
come padre di ciò che è suo; ora, al v. 1406, anche Ione ricorre
alla metafora della “confisca”, perché giudica una procedura
indebita la “rivendicazione” di beni – la cesta, con il suo conte-
nuto, e la persona stessa del figlio – fatta da Creusa (al v. 1404
è questo il senso di ajnqevxomai, per cui si può confrontare Ari-
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324 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

stofane, Uccelli 1658: si veda ancora Bravo 1980, pp. 774 sg.;
nello Ione non è importante l’avversario cui si contesta la pro-
prietà, evidentemente Apollo, che rimane sullo sfondo della
metafora giuridica). Creusa, a differenza di Xuto che voleva
abbracciarlo, reclama solo a parole ciò che le appartiene di di-
ritto, senza ricorrere al gesto simbolico di mettervi sopra la
mano. È inoltre probabile, se l’ordine di afferrarle le braccia è
stato eseguito dagli uomini armati – e non è verosimile che
l’abbiano ignorato – che lei venga trattenuta a una certa di-
stanza, impedita in ogni movimento. Diversamente dalla mag-
gior parte degli interpreti della tragedia (fa eccezione Kraus
1989, pp. 96-98), non ritengo dunque che il verbo ajntevcomai
qui significhi, come in genere, «tener stretto», e che quindi
Creusa si stringa alla cesta che Ione ha fra le mani, o anche so-
lo ne annunci l’intenzione: mi pare più ragionevole che per
tutta la sticomitia i due si fronteggino soltanto. Il contatto fisi-
co avverrà, come climax della scena del riconoscimento, ai vv.
1437-40 (Lee, ad loc., ritiene che Creusa esprima il suo propo-
sito di abbracciare la cesta e Ione senza tuttavia poterlo met-
tere in atto, e non dà peso alla metafora giuridica di ajntevco-
mai; approva così la correzione di lovgw/, al v. 1406, termine as-
solutamente appropriato, invece, secondo questa interpreta-
zione: Diggle preferisce infatti scrivere, con Jacobs, dovlw/, in
quanto Creusa compirebbe un gesto concreto e non si limite-
rebbe a parlare; al v. 1405 mantengo ancora la lezione tràdita,
tw``n te sw``n, in luogo della correzione di Tyrwhitt, adottata da
Diggle, tw``n tΔ e[sw). La sfida a procedere nei suoi confronti, ora
che non è più protetta dallo status di supplice ma rivendica il
possesso di una persona amata e degli oggetti che consentono
di identificarla, suggerisce dunque a Ione l’immagine di una
confisca verbale (anche se il verbo rJusiavzomai è paradossal-
mente usato, altrove, proprio per un supplice strappato con
violenza al suo asilo, come ad esempio in Eschilo, Supplici
424). Paralizzato, non più dal timore del sacrilegio ma dalla ri-
velazione che farebbe di lui un matricida, Ione non crede al
rovesciamento della situazione e dei sentimenti implicito nelle
affermazioni appassionate di Creusa. Per smascherare le sue
astuzie ora però si offre un’opportunità. La mandante del de-
litto gli sta dinanzi e non può sfuggirgli, anzi il desiderio di sot-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 325

toporsi a un esame, dimostrando che non può essere colta in


fallo, le consente di giocare, ai vv. 1410 sg., sul senso del verbo
lhvyomai: per lui significa «prendere, catturare» con successo
(mantengo la lezione tràdita kalw``" anziché adottare, con Dig-
gle, la correzione di Jacobs plokav"), nel senso di debellare le
insidie che Creusa continua ad architettare, benché inerme e
circondata dalle guardie; per lei vale come auspicio del chiari-
mento definitivo. L’interrogatorio che si avvia al v. 1412, con la
domanda se la cesta, di cui è stato ormai sollevato il coperchio,
contenga qualcosa oppure no, consente a Creusa di affrontare
la prova risolutiva, elencando gli oggetti che ha lasciato accan-
to al neonato, mentre Ione verifica l’esattezza dei suoi ricordi.
Abbandonato ogni timore, Creusa è pronta a mettere in gioco
la sua vita se dovesse commettere errori, con una spavalderia
che, per la prima volta, suscita smarrimento nel suo persecuto-
re (al v. 1406 deinav suggeriva l’irritazione di Ione, qui, al v.
1416, ti deinovn segnala la sua inquietudine). Passare in rasse-
gna gli oggetti – la seconda persona plur. dell’imperativo sem-
bra alludere agli altri testimoni, forse gli uomini armati al se-
guito di Ione – rappresenta una profonda emozione sia per la
madre, che ritorna indietro nel tempo al trauma del parto, sia
per il figlio abbandonato. Il tessuto prodotto da Creusa ragaz-
za, nel suo apprendistato al telaio, un saggio non finito che raf-
figura una Gorgone frangiata di serpenti, è il primo e il più
personale dei segni di riconoscimento: una stoffa che ricorda
insieme la sua giovanissima età e la preistoria mitica di Atene
(cfr. vv. 989 sgg. e n. 40). Ione può trarre fuori dalla cesta il tes-
suto e mostrarlo, con l’oscura sensazione che si stia delinean-
do la verità sulla sua nascita: il v. 1424 viene considerato gene-
ralmente corrotto nella sua seconda parte (Diggle stampa qev-
sfaqΔ wJ" euJrivskomen tra cruces), perché il riferimento a un pro-
nunciamento oracolare sembra qui fuori luogo. Tuttavia il pri-
mo riscontro si rivela esatto nei dettagli e Ione – che ha dovu-
to aiutare Xuto a ricostruire il suo vincolo di paternità, con l’o-
racolo come sola garanzia – è sopraffatto questa volta dalla
coincidenza tra la descrizione che gli viene fatta e l’oggetto
che ha in mano. È dunque probabile che il testo sia sano (con-
siderando w}", accentata, come particella pospositiva: Grégoi-
re, Biehl) e adombri l’ironia tragica di un annuncio, per bocca
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326 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

di Creusa, che il pubblico sa più veridico del precedente re-


sponso di Apollo, cui viene in un certo senso accostato. Il se-
condo oggetto evoca la nascita di Erittonio, il fondatore della
dinastia ateniese: la collana d’oro a forma di serpenti intrec-
ciati che viene posta accanto ai neonati era già menzionata ai
vv. 24-27 (cfr. n. 3), ma qui l’eziologia del costume è ricondotta
a un dono di Atena, per ricordare i veri serpenti che erano sta-
ti posti dalla dea a protezione del bambino nato dalla terra
(per i vv. 1427-28 preferisco le economiche correzioni di Wila-
mowitz, con lo scambio tra le terminazioni di ajrcai`on e pag-
cruvsw/, rispetto alla fantasiosa sistemazione del testo adottata
da Diggle, sulla base delle proposte di Porson – marmaivronte
anziché ajrcai`ovn ti – e Toup, gevnun invece di gevnei). Infine il
terzo e ultimo oggetto, ancora un simbolo del rapporto fra la
dea Atena e la terra che è posta sotto la sua protezione, viene
identificato da Creusa con dovizia di particolari: la corona in-
trecciata con fronde dell’ulivo sacro dell’acropoli. Se è all’in-
terno della cesta, sarà ancora verde e fresca, perché non viene
da una pianta qualsiasi, ma appunto dall’albero prodigioso fat-
to nascere da Atena quando affermò il suo primato sull’Attica
nella contesa con Poseidone: perenne e inestirpabile, esso si
trova nell’area sacra a Pandroso, collegata con l’Eretteo (cfr.
n. 23 al v. 497). La tradizione, attestata già da Erodoto (VIII
55, cfr. Pausania, I 27, 2), narrava che dopo l’incendio dei tem-
pli dell’acropoli, durante l’invasione persiana, un virgulto ri-
crebbe subito dal tronco bruciato. Al v. 1434 le correzioni di
Stephanus (skovpelo" in luogo di skovpelon) e Scaliger (ejxh-
nevgkato in luogo di eijshnevgkato), adottate giustamente da
Diggle, consentono di lasciare immutato il genitivo tràdito
(ΔAqavna") e rispettare la versione della leggenda secondo cui
Atena non “piantò” ma “fece germogliare” l’ulivo dalla terra
(cfr. v. 1480 e anche Troiane 801 sg.).

53. (vv. 1437-1488). Superata felicemente la prova, Creusa


viene abbracciata con slancio da Ione che, vinte le ultime resi-
stenze, dà avvio al duetto lirico in cui madre e figlio esprimo-
no la loro felicità (vv. 1437-1509). Dopo un esordio in trimetri
(vv. 1439-40) Creusa canta tutti i suoi versi, di ritmo prevalen-
temente docmiaco e giambico e senza scansione strofica, men-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 327

tre Ione le risponde recitando in trimetri giambici, talora in-


completi (parakataloghv era una sorta di recitativo accompa-
gnato da uno strumento musicale). Duetti lirici analoghi, con
il personaggio maschile che si esprime sempre o prevalente-
mente in trimetri e quello femminile, più incline all’emotività,
che ha solo o prevalentemente metri lirici, ricorrono anche in
Ifigenia Taurica 827-899, Elena 625-697, Ipsipile fr. 759a Kn.
Stringendosi l’uno all’altra, madre e figlio dichiarano di essere
sopraffatti da una gioia direttamente proporzionale alla sfidu-
cia, che entrambi nutrivano, di potersi mai più incontrare.
Creusa saluta Ione come se, ora che ha ritrovato in lui suo fi-
glio, uscisse dalle tenebre in cui ha vissuto per tanti anni: la lu-
ce del sole non è paragonabile a quella vivificante che per lei
emana dalla persona così a lungo creduta morta, e di questo
confronto quasi sacrilego lei si scusa con la divinità solare. Qui
non è in gioco l’assimilazione tra Apollo ed Elio (che pure, per
la prima volta, appare con sicurezza in un frammento del Fe-
tonte euripideo, fr. 781, 11-13 Kn., accompagnata da una pare-
timologia, già eschilea, che spiega il nome di Apollo come se
derivasse dal verbo ajpovllumi, «distruggere»). La madre enfa-
tizza la gioia che la invade, irradiandosi dal figlio umano del
dio, la cui violenza lei ha denunciato proprio alla luce del gior-
no (v. 886) – evidente dunque la distinzione tra divinità olim-
pica ed entità naturale divinizzata – con un giuramento che
chiamava a testimone, tra gli elementi divini, la volta del cielo
(cfr. v. 870; qui Creusa invoca a prendere atto della sua esul-
tanza la «distesa luminosa dell’etere»: v. 1445). Il pathos del ri-
conoscimento attinge a tutti gli artifici, come il paradosso sofi-
stico dell’essere insieme morti e vivi (v. 1444; cfr. Alcesti 141,
520 sg., Supplici 968-70, Elena 138) e le reiterate domande re-
toriche che sottolineano quanto sia ineffabile una gioia così
insperata (al v. 1454 va mantenuta l’anadiplosi dell’avverbio
povqen, che Diggle sostituisce con quella dell’interiezione ini-
ziale per ottenere due docmi; è dunque preferibile leggere, con
Wilamowitz, w\ anziché ijwv, e scandire un ipodocmio seguito da
docmio come ai vv. 1490 e, probabilmente, 1489). Ritraendosi
dal baratro verso cui li aveva spinti l’ignoranza delle rispettive
identità, Creusa s’interroga soprattutto su come il figlio sia po-
tuto giungere a Delfi (l’apostrofe del v. 1454 è rivolta alla Pi-
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328 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

zia, benché la donna si sia ormai ritirata nel tempio) e Ione ri-
conduce l’inspiegabilità degli eventi all’operato del dio. Non
può peraltro evitare di augurarsi che il futuro abbia in serbo
per loro una sorte diversa da quella che li ha tenuti così a lun-
go lontani, segnando la vita di entrambi. Creusa torna allora
con la memoria al trauma del parto e della separazione, de-
scritta in termini che evocano un allontanamento forzato più
che un abbandono volontario (v. 1459). La felicità della madre
rovescia gli stilemi del lutto (v. 1463: i composti con a- privati-
vo accumulati in asindeto sono tipici del lamento; cfr. Supplici
966, Ifigenia Taurica 220) e poi proietta sulla dinastia ateniese
la sua fortuna individuale: la stirpe di Eretteo non è più desti-
nata a estinguersi o a essere contaminata da estranei, ritrova
la continuità in un erede che rinnova la vita e la giovinezza del
capostipite e rappresenta – come il focolare della casa – un
elemento di forza e stabilità per il futuro (cfr. Eschilo, Coefore
808-811 per una simile personificazione della casa di Agamen-
none che esce dal buio a rivedere la luce della libertà, grazie al
figlio Oreste). L’immagine della famiglia di sovrani autoctoni
che torna alla luce, uscendo dalle tenebre che ne oscuravano
la vista (vv. 1466 sg.), rinnova la metafora iniziale con cui
Creusa aveva stretto a sé Ione (v. 1439). Il tema dell’autocto-
nia torna così alla ribalta, dopo aver alimentato l’orgoglio pa-
triottico della regina, condiviso dalle ancelle del coro e dal
vecchio pedagogo di Eretteo, e aver innescato il complotto per
uccidere il servo del tempio. L’aristocratica fierezza a cui
Creusa ha sacrificato il figlio illegittimo, nato dopo la violenza
di Apollo, può ricevere paradossalmente nuova linfa ora che
lei lo riabbraccia adulto; l’oracolo lo ha assegnato come figlio
a suo marito, lo straniero sposato in ossequio al volere familia-
re e per il bene della città, ma lei torna col pensiero a Xuto so-
lo quando Ione soggiunge che la loro felicità sarebbe comple-
ta se il padre si unisse a loro. Ricomporre il nucleo familiare,
dopo le distinte agnizioni col padre e con la madre, rispette-
rebbe il principio che la stessa Creusa additava al dio, nel caso
che avesse egoisticamente tenuto solo per sé la gioia che i ge-
nitori devono condividere (vv. 357 sg.). Ma se Ione pensa evi-
dentemente a Xuto – avendo ricostruito con lui un episodio di
stupro commesso in stato di ebbrezza, cui sarebbe seguito, sen-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 329

za che evidentemente i protagonisti ne fossero consapevoli, il


matrimonio (episodio ricalcato poi nel concreto intreccio del-
l’Arbitrato di Menandro: cfr. Introduzione, p. 45 e n. 42) –
Creusa, nel momento della verità e del fortunato ricongiungi-
mento con il figlio, sente di dover sconfessare ogni finzione,
anche quella architettata dal dio, così rassicurante per una so-
cietà gelosa delle proprie convenzioni sociali. La svolta finale,
che prende ora avvio e svelerà a Ione la sua vera origine, muta
i toni del duetto lirico: dall’esultanza all’angoscia, che per la
madre nasce dall’ennesima rievocazione della violenza, del
parto segreto, dell’abbandono del neonato, e per il figlio dal ti-
more di scoprirsi nato da un padre indegno. Come già nel fal-
so riconoscimento con Xuto, la preoccupazione di Ione riguar-
da sia lo status del genitore (di straniero per Xuto, v. 592: pa-
tro;" ejpaktou`; di vergine non sposata per Creusa, v. 1473: par-
qevneuma... sovn) sia la personale condizione di figlio illegittimo
(v. 592: noqagenhv"; v. 1473: novqon). Nel primo caso le due “mac-
chie”, quella del genitore straniero e quella del figlio nato fuo-
ri dal matrimonio, si sommavano rendendo inaccettabile l’in-
serimento di Ione ad Atene; nel secondo la condizione di ver-
gine non sposata è causa diretta dell’illegittimità del figlio. Ac-
certare chi sia davvero il padre – poiché Creusa ha smentito
che si tratti della stessa persona che adesso è suo marito – im-
plica di nuovo l’angustia di non essere degno erede del trono
ateniese. Lo stupro è ora evocato da Creusa con gli eufemismi
che lo designano come un accoppiamento ignoto a tutti, un
«rito di nozze» cui manca la sanzione sociale (v. 1474: «senza
fiaccole né danze»), e chiama a testimone di quell’incontro fa-
tale la dea protettrice dell’acropoli, Atena. Quando il nome di
Febo viene infine pronunciato, mentre le rupi a nord della roc-
ca fanno da sfondo sia alla violenza del dio sia al parto e all’e-
sposizione del bambino, la reazione di Ione non è più in sinto-
nia con l’amarezza di quei dolorosi ricordi. È probabile che il
canto degli usignoli, al v. 1482, non registri un dato zoologico,
bensì la tradizione mitica di un’altra principessa ateniese:
Procne, sorella di Eretteo, che sarebbe stata concessa in mo-
glie al trace Tereo, in premio della sua alleanza militare con
Atene (vicenda analoga a quella di Creusa: cfr. Apollodoro,
III 14, 8). Procne divenne assassina del figlio per vendicarsi
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330 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

del tradimento del marito Tereo e nella poesia tragica era l’e-
sempio prototipico della madre in lutto, per la sua metamorfo-
si in usignolo che lamenta perennemente la morte del figlio.
Ione sembra infine sollevato, quando apprende che proprio
Apollo, il suo dio, è autore della violenza da cui è nato: l’escla-
mazione con cui saluta la notizia dimostra l’orgoglio di esser
nato dal più nobile dei padri, anche se questo non lo riscatta
dalla condizione di “bastardo” (al v. 1486 la durata della gesta-
zione è indicata in dieci mesi, anziché nove, secondo il conteg-
gio inclusivo dei Greci).

54. (vv. 1489-1511). Creusa esprime ancora una volta ri-


morso per aver abbandonato il figlio: non solo gli ha negato il
nutrimento e le cure materne ma, esponendolo allo scempio
famelico degli uccelli predatori, lo ha destinato a morire. Al v.
1489 la lezione tràdita va corretta: ejma``" matevro" (che Diggle
pone tra cruces) non ha senso, perché sappiamo che le fasce in
cui il neonato fu avvolto non erano certo preparate dalla ma-
dre di Creusa: si precisa anche qui che si tratta di parqevnia...
spavrgana... kerkivdo" ejma``" plavnou" (come, al v. 1425, iJstw``n
parqevneuma tw``n ejmw``n), riprendendo la considerazione pateti-
ca che sono il manufatto incompleto dei suoi primi esercizi al
telaio (forse per questo l’andirivieni della spola – e quindi del-
la donna che tesse spostandosi da un capo all’altro del telaio –
comporta un movimento incerto, designato dal termine plav-
nou" al v. 1491; una definizione del suo percorso regolare si ha
in Pindaro, Pitiche IX 18 sg.: iJstw``n palimbavmou"... oJdouv"). L’e-
mendamento adottato qui (Badham, Jackson, caldeggiato da
Kraus) è il più semplice: inserire l’avverbio eJkav" dopo ejma``"
consente di stabilire una sequenza metrica di ipodocmio e
docmio (come al verso successivo e, verosimilmente, al v.
1454), mentre il riferimento all’assenza della madre, nel mo-
mento traumatico che normalmente richiederebbe il suo aiuto
e il suo conforto, enfatizza ancora la solitudine e il contesto
selvaggio in cui la ragazza ha affrontato la sofferenza e i rischi
del travaglio e del parto (Elettra si attende che persino una
cattiva madre come Clitemestra non rifiuterà di andarla a tro-
vare, se lei finge di aver partorito: cfr. Euripide, Elettra 656-
658, 1129 sg.). Altri interventi sul testo, meno probabili sia dal
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 331

punto di vista paleografico sia in considerazione del successi-


vo v. 1497, dove la «paura» è l’ultimo e decisivo elemento di
difesa, suggeriscono la ripetizione del motivo della “paura”
della madre (variazione necessaria, a questo punto della vi-
cenda, del tradizionale “timore del padre” che assilla le vergi-
ni possedute da una divinità e costrette a generare in segreto;
cfr. v. 898 e n. 38): così le integrazioni lavqra/ (Murray), fovbw/
(Wilamowitz) o deivmati (Grégoire); oppure correggono il pos-
sessivo ejma``" per riferire il termine «madre» alla stessa Creusa
(de; sa``", Paley): ma l’aggettivo parqevnia sembra un qualificati-
vo sufficiente che, insieme alla successiva immagine del movi-
mento insicuro della spola, tocca la nota dello smarrimento
giovanile, e un complemento di specificazione matevro" riferito
a spavrgana, come al v. 918, qui sembra una ridondanza. Le at-
tenuanti invocate da Creusa non celano l’esito crudele che la
sua decisione avrebbe potuto avere e che lei ha lungamente
temuto, e Ione osserva con un brivido che il suo gesto è stato
tremendo. La paura – ora evocata dunque in modo generico,
senza uno specifico riferimento alla figura materna come nella
monodia, al v. 898 – ha condizionato le sue scelte, e Creusa si è
sentita costretta a votare suo figlio alla morte subito dopo
averlo generato. Al tentato avvelenamento non accenna nep-
pure, perché il trauma primario, l’esposizione del neonato, re-
sta il motivo dei suoi rimorsi. Al v. 1500, secondo quanto ci è
tramandato, Ione intonerebbe eccezionalmente la sua risposta
in un metro lirico (cretico seguito da docmio), anziché com-
pletare con la recitazione il trimetro iniziato da Creusa. Per
ovviare a quest’anomalia Wilamowitz proponeva di espungere
oujc o{siΔ, ottenendo così un trimetro giambico catalettico (che
sarebbe comunque un metro lirico, ben rappresentato nelle
battute di Creusa: cfr. vv. 1459, 1463 sg., 1492 sg.). È tuttavia
possibile che il personaggio, benché si sia limitato fin qui al re-
citativo, abbandoni il suo registro in un momento di viva emo-
zione per passare al canto (è l’ipotesi di Grégoire, condivisa
da Kraus e Lee; Menelao ha sortite paragonabili, nel suo duet-
to con Elena, in Elena 659 e 692 sg.): il pio servo di Apollo non
si perdona l’intenzione di uccidere la supplice, sacrilegio an-
che più intenso ora che ne conosce l’identità e sa che, oltre a
violare il diritto d’asilo, sarebbe diventato matricida. Il duetto
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332 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

lirico si conclude con una considerazione di Creusa sull’insta-


bilità della fortuna umana, paragonata all’incostanza e all’im-
prevedibilità dei venti, e con l’auspicio che ora ci sia una tre-
gua: l’immagine è analoga a quella sviluppata in Eracle 95 sg.,
101-104, con l’assimilazione metaforica tra l’avvicendarsi re-
pentino di cattiva e buona sorte e il vento che, mutando forza
e direzione, può favorire o rendere impossibile la navigazione.
Il coro sigla la fine della scena di riconoscimento e la transi-
zione al successivo scambio dialogico in trimetri con una ri-
flessione gnomica: la conclusione di alcune tragedie euripidee
(Alcesti, Andromaca, Elena, Baccanti e, con una leggera varia-
zione, Medea) ha una simile morale affidata al coro, ma qui
manca il riferimento agli dèi che, nella clausola convenzionale,
sottende l’imprevedibilità delle sorti umane.

55. (vv. 1512-1552). Ione dilata il breve commento del co-


ro guardando ancora indietro agli eventi disastrosi che il colpo
di scena ha scongiurato col riconoscimento (l’associazione di
peripevteia e ajnagnwvrisi" era particolarmente apprezzata da
Aristotele: cfr. Poetica 1452a, 32 sgg.). La metafora agonale
che paragona la vita a una gara di corsa è frequente nella poe-
sia tragica (il termine stavqmh, equivalente a grammhv, al v. 1514
indica la linea che delimita il percorso dello stadio alla parten-
za e all’arrivo: cfr. Pindaro, Nemee, VI 7; in Elettra 953-956 la
metafora della vita come corsa doppia, divaulo", ha un ampio
sviluppo). Qui si dovrà intendere che il crimine di cui si sareb-
be macchiato, con tutte le inevitabili dolorose conseguenze,
rappresenta ora ai suoi occhi un punto d’arrivo cruciale e do-
loroso, il traguardo sventurato della sua vita, provocato dall’i-
gnoranza e dalla casualità che ha fatto intersecare di nuovo le
strade di madre e figlio. Ma sempre il caso ha squarciato il ve-
lo che impediva loro di riconoscersi, replicando il rovescia-
mento che così spesso, in tutto il mondo, cambia di segno il de-
stino di tanti individui. Il ragazzo continua però a nutrire un
residuo di diffidenza verso la scoperta gratificante e inattesa.
La paternità ingombrante di Apollo, se non altro per la violen-
za con cui il dio ha costretto una vergine indifesa a cedere al
suo desiderio e per l’indifferenza con cui l’ha abbandonata al-
l’esperienza traumatica della gravidanza e alle scelte dolorose
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 333

che sono seguite al parto, induce Ione a dubitare ancora della


storia raccontata da Creusa, come già ai vv. 338-341 aveva du-
bitato della vicenda dell’amica fittizia. La discrezione con cui
le sussurra all’orecchio la sua ipotesi non è necessariamente
intesa a escludere il coro, ma è in armonia con l’ossessione di
purezza dello stesso Ione (cfr. v. 150); con il rispetto del pudo-
re, che impedirebbe a Creusa di confessare la normale relazio-
ne con un mortale, tirando piuttosto in ballo uno stupro divi-
no; con il timore, infine, che una paternità poco onorevole di-
venti di pubblico dominio. Il dubbio di Ione è assimilabile a
quello che ispira la calunnia delle sorelle di Semele (cfr. Bac-
canti 26 sgg. e Introduzione, p. 51 n. 50): il rapporto illecito in
cui restano coinvolte vergini sprovvedute viene considerato
un passo falso, una «malattia» (cfr. v. 1524) che colpisce le ra-
gazze ad opera dei loro seduttori. La trasgressione erotica è
definita novso" nei luoghi deputati a veicolare i valori sociali
convenzionali (cfr. Ippolito 394, 405, 764-766), soprattutto per-
ché la passione è considerata diffusamente una forza invinci-
bile che dall’esterno s’impadronisce di dèi e mortali; le donne,
che tradizionalmente hanno meno risorse degli uomini per
contrastarla, possono solo occultarne le conseguenze (cfr. An-
dromaca 220 sg., Ippolito 474-481). L’eventuale menzogna di
Creusa sarebbe dunque giustificata, secondo Ione, dalla ver-
gogna e dal disonore in cui incorre la donna che procrea fuori
dal matrimonio. La risposta a questa insinuazione è un solen-
ne giuramento (al v. 1530 correggo o{sti" del testo tràdito in
ou[ti", secondo il suggerimento di Hartung seguito da Wila-
mowitz e Kraus; Diggle propone invece oujdeiv"). Ancora una
volta Atena è chiamata a testimoniare la sincerità della figlia
di Eretteo quando confessa l’amplesso col dio (cfr. vv. 871 sg.,
1478-1482 e, per il suo ruolo nella Gigantomachia, vv. 205-211
e n. 11, vv. 987 sgg. e n. 40). Ma la conferma che Apollo, il dio
che lo ha allevato e verso cui lui nutre sentimenti di devoto af-
fetto, è davvero suo padre non rasserena Ione. L’oracolo che
lo ha assegnato come figlio a Xuto rappresenta una contraddi-
zione inquietante e non è facile credere alle parole di Creusa
se così entra in crisi l’autorità profetica di Apollo. La formula-
zione del responso – che Xuto ha riferito parafrasandola, e in
cui ricorrevano i termini didovnai/dw``ron e pefukevnai già antici-
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334 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

pati da Ermes (cfr. vv. 69-71, 534-537 e n. 25) – mescolava deli-


beratamente verità a menzogna, e Creusa non può offrirne
un’interpretazione alternativa. Lei stessa ha appreso l’oracolo
dalle parole del coro (vv. 787-789), che ne dava comunque una
versione distorta da congetture personali. Nel rettificare l’as-
sunto da cui nasce la domanda turbata di Ione, dunque, Creu-
sa introduce a sua volta una spiegazione del dettato del vatici-
nio basata sul buon senso: Apollo non avrà inteso indicare in
Xuto il padre biologico del ragazzo, ma semplicemente rinun-
ciare alla sua paternità, facendone dono al mortale che ha spo-
sato la figlia di Eretteo. La ragione è molto prosaica e viene
descritta nei termini di un’adozione imposta a Xuto, perché
Ione sia l’erede del patrimonio e del potere regale. L’adozione
nell’Atene classica era del resto destinata a garantire i beni e
l’oikos, più che il figlio adottivo: normalmente si adottava un
maschio adulto, non un bambino da allevare e proteggere pri-
ma di trasmettergli il patrimonio; data la natura contrattuale
della procedura, nel caso che il figlio non avesse ancora rag-
giunto la maggiore età era richiesto il consenso del padre na-
turale, e l’adozione legale di un trovatello era dunque impossi-
bile (cfr. vv. 1534-1536 e Todd 1993, p. 224). Anche secondo le
parole di Creusa (vv. 1541-1543), se la nascita di Ione fosse
ascritta al dio la prassi normale per rendere valida l’adozione
non sarebbe immaginabile: la madre ha sempre taciuto la vio-
lenza di Apollo e il suo tentativo di uccidere il ragazzo sareb-
be considerato un indizio per smentire la loro relazione di
consanguineità. Xuto invece avrebbe potuto adottare il pro-
prio figlio illegittimo e dargli il suo nome (Ione avrebbe cioè
usato come patronimico il genitivo del nome paterno), pro-
prio come fu consentito di fare a Pericle, dopo la morte dei fi-
gli legittimi, in violazione della legge da lui stesso promulgata
nel 451/50 a.C., iscrivendo nei registri delle fratrie e così ren-
dendo cittadino il figlio avuto da Aspasia (Plutarco, Pericle 37,
5). La felicità rende ora Creusa indulgente nei confronti di
Apollo: dimenticata l’aspra denuncia della sua monodia, è in-
cline a cogliere gli aspetti positivi della menzogna dell’oracolo
che tanto sgomento suscita in Ione (il soggetto di taravssei, al
v. 1538, è qeov" del verso precedente: sembra svanita la serena
fiducia della monodia iniziale, quando Ione cantava le gioie
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 335

modeste del suo servizio e, ai vv. 136-140, invocava Apollo co-


me padre e benefattore). Ma non tutto si può intendere nella
prospettiva da lei suggerita: se il pubblico avesse dato peso al
paragone con la pratica giuridica dell’adozione, ad esempio,
avrebbe potuto misurare l’ironica distanza tra questa vicenda
e il contratto umano, che prevede la libera scelta del padre che
“adotta” oltre al consenso del padre che “dona”; qui manca la
trasparenza fra i contraenti, anzi Xuto ignora persino di essere
coinvolto in un accordo che ha il dio come parte in causa. Io-
ne, del resto, non ha ricevuto risposta al suo determinante que-
sito: Apollo ha disatteso il suo ruolo di dio della verità oraco-
lare oppure no? Solo interrogandolo direttamente, sfidandolo
come Creusa avrebbe voluto fare all’inizio del dramma, quan-
do intendeva chiedergli conto della sorte del loro figlio (cfr.
vv. 365-380), Ione raggiungerebbe una definitiva certezza sulla
sua origine. Si crea così, pur nello scioglimento positivo dell’a-
zione drammatica, un’altra impasse, una situazione in cui l’am-
bigua strategia del dio, dovuta all’errore della violenza a una
donna e alla successiva difficoltà di garantire uno solido status
al figlio che ne è nato, sarebbe implicitamente messa sotto ac-
cusa. Costringere Apollo a pronunciarsi sulla sua paternità si-
gnifica fargli ammettere la menzogna precedente, creandogli
imbarazzo nel suo tempio: una provocazione che proprio Ione
aveva scoraggiato, sia pure biasimando poi per la prima volta
l’amoralità del dio e il modo frivolo e privo di scrupoli in cui
interferisce nelle vicende umane (cfr. vv. 436-451). L’epifania
di una divinità è allora il solo modo per ricondurre l’azione su
un piano che rispetti le gerarchie, subordinando l’iniziativa
dell’uomo alla volontà superiore degli immortali. Ione è il pri-
mo ad accorgersi dell’improvvisa apparizione di una divinità
al di sopra del tempio – verosimilmente tenuta sospesa su un
carro (cfr. v. 1570) dalla macchina scenica (mhcanhv), una sorta
di gru – ed esprime con un’esclamazione la sua sorpresa e il ti-
more che non sia lecito guardarne il volto, orientato verso il
sole poiché si mostra al di sopra della facciata est dell’edificio
(v. 1550: ajnthvlion). L’invito a fuggire, rivolto a Creusa, denota
la sua consapevolezza dei rischi di un incontro diretto fra dèi e
mortali: nonostante la spavalda determinazione appena mo-
strata nei confronti di Apollo, Ione è stato educato al rispetto
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336 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

delle regole e al senso del limite e paventa un’eccessiva vici-


nanza che non sia autorizzata dall’alto (ma Creusa ha pagato
comunque a caro prezzo la decisione del dio di infrangere la
barriera che tiene separate le due stirpi).

56. (vv. 1553-1605). L’epifania di Atena assolve il compito


di sciogliere tutti i nodi della vicenda, con un intervento che
segnali ai protagonisti mortali il favore del dio e insieme ne ri-
stabilisca l’opportuna distanza. Apollo resta così estraneo al-
l’azione, limitandosi a un’ultima scelta di regia che gli consen-
ta il ruolo più distaccato di benefattore divino e padre ance-
strale della stirpe ionica, la cui nascita e gloria futura vengono
annunciate autorevolmente da Atena. Lei stessa è stata coin-
volta negli eventi traumatici della prima generazione della di-
nastia autoctona, che ormai appartengono alla memoria miti-
ca degli Ateniesi; il suo ruolo di divinità poliade la vede ora
accorrere, come dea ex machina, per assicurare la transizione
ad Atene del nuovo “Erittonio”, il bambino nascosto in una
cesta e poi allevato dalla divinità cui si deve la sua procreazio-
ne. Atena chiede a Ione e Creusa di non fuggire e ascoltarla: li
rassicura dichiarando che giunge su incarico di Apollo per an-
nunciare la verità sui loro rapporti, facendo la chiarezza che
Ione ormai esige, e conferma che il dio non ha ritenuto oppor-
tuno apparire in prima persona per non correre il rischio di
urtare la sensibilità di chi ha sofferto per le sue azioni. Apollo
teme l’emotività umana e le possibili accuse che gli verrebbe-
ro rivolte, qualora si rivelasse direttamente alla donna che ha
subito la sua aggressione erotica e al figlio che lei gli ha gene-
rato. L’intreccio drammatico, i cui sviluppi sono sfuggiti più
volte al suo controllo e alle sue previsioni, costringendolo a
correre ai ripari (vv. 1563-1568), ha mostrato che il bene di
quei due mortali dipende dalla sua decisione di tenerli, per il
futuro, a rispettosa distanza. Il ragazzo senza nome e senza ge-
nitori uscirà di scena dopo aver conosciuto l’identità della ma-
dre e aver acquisito due padri: ma il padre biologico, il dio sin-
ceramente venerato e servito per tutta la sua giovane vita, si
farà da parte cedendo il posto al padre sociale e fittizio, l’uo-
mo che avrà quel ruolo per l’opinione pubblica e gli consen-
tirà di entrare, come figlio adottivo, nella dinastia degli Eret-
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 337

teidi. La società umana pretende una legittimazione che la na-


scita dal dio non potrà mai assicurare – così come la violenza
inferta dal dio alla donna non può essere sanata dal matrimo-
nio – e Creusa, per prima, ha reagito con furioso dolore alla
prospettiva di integrare nella successione un estraneo che non
sia consanguineo dei sovrani autoctoni. Il figlio di Apollo ha
dunque bisogno di un padre adottivo umano, marito legittimo
di Creusa, per regnare sul trono del nonno materno, Eretteo.
Solo quando si realizzeranno queste condizioni il più vasto
progetto del dio, che si allarga a disegnare il futuro dei figli e
dei discendenti di Ione, acquisterà concretezza. Un inganno ai
danni di Xuto – che presto potrà generare figli propri in un
matrimonio finora sterile – resta la cifra della strategia con
cui Apollo fa insediare il figlio avuto da Creusa al governo di
Atene: a torto il vecchio pedagogo, nella sua razionalistica ri-
costruzione dei fatti, invertiva le responsabilità dell’uomo e
del dio (cfr. vv. 825-829 e n. 35). La nobilitazione degli Ioni, ri-
spetto ai Dori e agli Achei – discendenti dei figli che Atena
annuncia a Creusa e a Xuto, secondo la riscrittura euripidea
della genealogia delle stirpi elleniche (vv. 1589-1594; cfr. In-
troduzione, p. 24 n. 18) – si fonda dunque su una paternità di-
vina, disconosciuta e mascherata, e su una frode: in ambito
umano la legislazione attica, senza sottilizzare fra le categorie
di stupro e adulterio, mirava a punire con severità ogni rap-
porto illegittimo proprio per evitare che un cittadino, e con lui
l’intera comunità, venisse raggirato sulla sua discendenza (cfr.
Appendice, pp. 63-74; non sono persuasive le proteste contro
ogni analogia fra la morale civica contemporanea e la macchi-
nazione di Apollo – cfr. ad es. Müller 1983, p. 37 – perché è
proprio la drammaturgia euripidea a sollecitare il confronto,
svestendo l’unione col dio di ogni connotazione straordinaria
e incorniciando tutta la vicenda in termini che evocano men-
talità e linguaggio giuridici). Il solenne annuncio del destino
glorioso di Ione si staglia così sulle ombre della cattiva co-
scienza del dio, costretto a rinunciare alla sua prerogativa più
eminente, la sapienza veridica su cui si fonda il culto delfico,
nell’impossibilità di armonizzare il proprio comportamento
con i valori della società umana (l’insincerità di Apollo, quan-
do l’impulso amoroso lo spinge a ottenere a ogni costo l’og-
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338 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

getto del desiderio, era presa ironicamente in considerazione,


del resto, anche dalla religiosissima poesia di Pindaro: cfr. Pi-
tiche IX 42 sg.). Creusa dovrà riportare Ione ad Atene e dare
il suo consenso perché possa regnare sulla città, com’è giusto
nell’ottica dei “nati dalla terra”, rigidi custodi della purezza
della propria dinastia. Da lui nasceranno quattro figli, eroi
eponimi delle tribù in cui era suddivisa la popolazione del-
l’Attica (non è chiaro se in base a una distinzione locale, di ca-
sta, religiosa o etnica) prima delle riforme di Clistene (508/7
a.C.): Geleonte, il cui nome viene spiegato come «splendido,
nobile» (ma per Plutarco, Solone 23, 5, i Geleonti sono i «col-
tivatori») sarà il primo; al v. 1579 segue probabilmente una la-
cuna, perché dopo il singolare deuvtero" si avvicendano i nomi
delle tre tribù anziché quelli degli altri eponimi (Hartung, per
non postulare una lacuna, proponeva di correggere in deuvte-
roi): gli Opleti (interpretati da Plutarco come «guerrieri»), gli
Argadei («artigiani»), gli Egicorei («pastori»). Per questi ulti-
mi Euripide fornisce un’etimologia ulteriore e originale (Van
Looy 1973, p. 356), che sembra prescindere dal capostipite fi-
glio di Ione: il loro nome deriva dall’egida di Atena, il magico
mantello per cui veniva fornita analogamente una paretimo-
logia ai vv. 996 sg. (cfr. n. 40); come per il nome di Ione si ha
così una sorta di doppia determinazione onomastica, e l’ulti-
ma tribù ionica prende nome dal suo progenitore umano Egi-
coreo (vv. 1577 sg.) ma anche dall’attributo peculiare di Ate-
na, siglando la particolare alleanza tra la dea poliade e i di-
scendenti dell’eroe. I nomi delle quattro tribù tradizionali
compaiono anche nella maggior parte delle città della Ionia,
attestando la comune appartenenza al ceppo ionico. Questo
passo euripideo suggerisce tuttavia, in linea con la propagan-
da celebrativa dell’impero ateniese, non tanto un’origine co-
mune ma un movimento migratorio e politico-culturale a sen-
so unico: in un tempo che la profezia definisce «fissato dal de-
stino» (v. 1582), i discendenti dei figli di Ione andranno a sta-
bilirsi dall’Attica nelle isole dell’Egeo (le Cicladi sarebbero
propriamente le isole intorno a Delo, ma qui l’accezione è più
ampia e comprende le isole che facevano parte della lega de-
lio-attica), sulla costa asiatica e sulle opposte rive dell’Elle-
sponto. Dalla stirpe di Ione, figlio di Apollo e dell’erede degli
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 339

autoctoni, nasceranno così i colonizzatori delle città sulla cui


alleanza, dopo la sconfitta della potenza persiana, si fondava
la forza militare di Atene, e la gloria che si profetizza per loro
riverbera anche sulla madrepatria. Nel profluvio di indicazio-
ni genealogiche di questo finale Atena annuncia a Creusa che
anche lei e Xuto avranno dei figli: Doro, progenitore della
stirpe che abiterà il Peloponneso e renderà celebre la città do-
rica per eccellenza, Sparta; e Acheo, capostipite degli Achei
che abiteranno la regione del Peloponneso settentrionale (per
la designazione di Xuto come Acheo, cfr. v. 64 e n. 5), identifi-
cata dalla menzione del promontorio di Rio, all’ingresso del
golfo di Corinto. Si è speculato sui motivi per cui questa loca-
lità viene nominata in un contesto celebrativo, e si è voluto
ravvisare l’orgoglio patriottico ateniese dietro l’allusione al
luogo presso cui, nella fase iniziale della guerra del Pelopon-
neso (429 a.C.), il generale Formione aveva ottenuto due bril-
lanti vittorie navali (cfr. Tucidide, II 83-92) e dove più tardi,
nel 419, Alcibiade fece un’incursione militare con le sue trup-
pe (Tucidide, V 52, 2). È però difficile stabilire se davvero si
celi in questo epilogo l’intento di glorificare gli Ateniesi a sca-
pito dei loro nemici e insieme rivendicare dagli alleati della
Ionia il rispetto dovuto a un’antica metropoli, come si è detto
e si continua a ripetere. La genealogia tradizionale esiodea
(frr. 9 e 10a, 20-24 M.-W.), cui Euripide in parte si attiene al-
trove (Melanippe sophe, fr. 481, 1-11 Kn.; fr. 929b, 1-2 Kn., da
un dramma non identificato), fa di Elleno il capostipite di tut-
te le stirpi greche: da lui nascono Doro, Xuto ed Eolo, e da
Xuto e Creusa nascono Acheo e Ione. In questa tragedia Eolo
diviene invece figlio di Zeus, e non più fratello ma padre di
Xuto; Doro viene poi spostato alla generazione successiva e,
anziché come fratello, figura ora come figlio di Xuto, generato
con Creusa insieme ad Acheo. Così Doro, Acheo e Ione ap-
partengono tutti alla stessa generazione, ma hanno in comune
solo la madre. Ione poi, essendo figlio di Apollo, non ha più
alcuna parentela con Eolo, diversamente dai fratellastri che
ne sono nipoti. Comunque, attraverso Creusa, anche i Dori e
gli Achei discendono dalla casa di Eretteo. Questo nuovo qua-
dro, come si è sostenuto, raggiunge davvero il risultato di ren-
dere Dori e Achei stirpi inferiori a quella ionica, il cui caposti-
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340 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

pite è figlio di un dio mentre i loro possono al più vantare


Zeus come bisavolo? E il collegamento per linea materna alla
dinastia di Eretteo li subordina in qualche modo alla potenza
ateniese, fornendo una giustificazione mitologica all’impero
in un momento di crisi (dopo il fallimento della spedizione si-
ciliana), e alle ambizioni egemoniche su Sparta e sul Pelopon-
neso? Nutro seri dubbi che questa lettura restituisca la vera
intenzione di Euripide, la celebrazione del primato di Atene
in tempi politicamente difficili (pur con margini d’incertezza,
sulla base di criteri stilistici e metrici appare verosimile una
datazione negli anni immediatamente successivi al 415 a.C.;
Zacharia 2003 propone la data del 412 a.C., nella stessa trilo-
gia che comprendeva l’Elena e la perduta Andromeda). L’am-
bigua presentazione dei rapporti fra Apollo e i mortali, la
menzogna dell’oracolo che sigla la rinuncia del dio alla pater-
nità in favore dell’eolico Xuto, la legittimità sociale e giuridi-
ca di Doro e Acheo, a fronte della contorta legittimazione di
Ione, nato da uno stupro e reintegrato, non senza rischi e diffi-
coltà, nella famiglia umana della madre (il suo status, sotto la
finzione, resta quello di un figlio bastardo): tutto concorre a
rendere problematica la glorificazione finale di Ione. Il suo
destino di prestigioso sovrano degli Ateniesi ed eroe eponimo
degli Ioni non ne cancella del tutto l’oscuro passato, come mo-
stra il pudore del dio e la necessità di occultarne per sempre
la paternità. La profezia di Atena si conclude con un bilancio
dell’operato di Apollo, ora che madre e figlio sono felicemen-
te riuniti. “Tutto è bene quel che finisce bene”: solo partendo
da questo assioma si può lodare l’abilità della regia divina (v.
1595), perché l’azione drammatica ha messo invece in rilievo
le sofferenze umane e gli imprevisti che hanno generato. Ma
la prospettiva divina preferisce segnalare, come punti a pro-
prio vantaggio, il parto privo di complicazioni (v. 1596: cfr. In-
troduzione, p. 19 n. 14), che ha consentito a Creusa di tenere
celata alla sua famiglia la nascita del bambino, e l’intervento
di Ermes, che lo ha salvato dalla morte e ha fatto sì che fosse
allevato nel tempio di Delfi. Anche se Apollo può vantare
questi meriti, l’imbarazzo relativo alla violenza subita da
Creusa e il velo steso sul modo in cui Ione è stato generato
impongono di mantenere per sempre il segreto e lasciare a
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 341

Xuto la sua illusione: solo così la successione al trono di Ate-


ne è tutelata (non si dimentichi che la coppia regale avrà pre-
sto figli legittimi). La necessità di perpetuare l’inganno è il
prezzo che Ione deve pagare per essere integrato nella dina-
stia dei discendenti di Eretteo, la sola garanzia della promessa
di felicità con cui la dea si congeda.

57. (vv. 1606-1622). Le risposte di Ione e Creusa e il com-


mento conclusivo del Coro, in tetrametri trocaici catalettici
(cfr. vv. 510-565 e 1250-1260), mutando tempo e ritmo siglano
il finale della tragedia. Ione accetta senza riserve il discorso di
Atena, venuta a supplire ex machina il dio oracolare nel suo
stesso santuario. Al di là della convenzione teatrale, la dea che
pronuncia dall’alto la parola definitiva sul passato e prospetta
gli eventi futuri può riscuotere il credito compromesso dagli
ambigui rapporti di Apollo con i mortali proprio perché, da
mediatrice, ristabilisce la giusta distanza. Ormai convinto che
Apollo e Creusa sono i suoi genitori, Ione sembra rammarica-
to di aver mostrato scetticismo in precedenza, ma forse è solo
rasserenato dalla distensione ristabilita da Atena, che s’è in-
terposta fra lui e il padre divino impedendo una rischiosa pro-
va di forza e proteggendolo dalla tracotanza che lui stesso bia-
simava negli altri (cfr. vv. 365-380). Creusa, a sua volta, tributa
ora ad Apollo l’omaggio di cui il suo cuore non era capace
quando, giunta a Delfi, il doloroso ricordo dell’oltraggio subi-
to e la speranza frustrata di conoscere la sorte del figlio le ispi-
ravano solo risentimento. Adesso ha ritrovato Ione e può lo-
dare l’operato del dio, anche se abbracciare un figlio alle so-
glie dell’età adulta non cancella le sofferenze e non attenua il
rimpianto del tempo che non hanno potuto trascorrere insie-
me (le sue riserve sulla possibilità di medicare ogni ferita af-
fioravano anche nel momento di maggiore speranza: cfr. vv.
425-428). I critici che credono di poter leggere nell’epilogo un
radicale pentimento di Creusa per il suo contegno precedente
propongono addirittura di correggere il v. 1610: anziché hjmevlh-
se, suggeriscono di leggere la prima persona del verbo, hjmevlh-
sa (Heath, Wassermann 1940, Müller 1983, Kraus 1989 e Ko-
vacs), come se lei riconoscesse di essere stata la sola a «trascu-
rare» il figlio, dubitando ingiustamente di Apollo e attribuen-
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342 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

do a lui la sua colpa. In realtà qui si giunge a una conciliazione


che non cancella il dolore per quanto è accaduto ma, caso mai,
lo supera, distinguendo a più riprese il momento della gioia
presente dall’ignoranza che ha inasprito il suo animo nel tem-
po trascorso (cfr. la struttura accuratamente bilanciata del
chiasmo tra i vv. 1609 e 1610, che fa corrispondere aijnw` a ajpo-
divdwsiv moi, e oujk aijnou``sa privn a ou| potΔ hjmevlhse, e ancora gli
avverbi di tempo al v. 1612, pavroiqen... nu``n). Il gesto di conge-
darsi da Apollo e da Delfi, stringendo il battente fissato all’u-
scio del tempio, sembra una forma di contatto fisico devoto,
espressione della grata sottomissione di un normale fedele.
Creusa può interpretare solo ora questo ruolo, nel distacco de-
finitivo dal dio che rende il figlio a lei e alla società laica, men-
tre al suo arrivo appariva la sola, tra i pellegrini festosi, con il
volto rigato dal pianto (vv. 241-246). Questo addio è il segno
che Creusa ha superato il rancore di donna che ha conosciuto
troppo intimamente Apollo e, d’ora in avanti, potrà cercare di
sublimare quell’esperienza nell’orizzonte di gloria, non solo
attica ma panellenica, profetizzata da Atena. Il suo stato d’ani-
mo, mentre parte per tornare ad Atene, è analogo a quello dei
tanti visitatori che lasciano Delfi dopo aver benedetto il dio e
averne ammirato la splendida sede. Anche lei ora è disposta a
mescolarsi tra la gente pia e fiduciosa, ad allontanarsi serena
dal luogo dove ha toccato in rapida successione dolore, ribel-
lione, paura, e poi gioia e appagamento: può proiettare final-
mente le speranze del suo aristocratico destino nel futuro, per-
sonale e dei figli, sia quello nato dalla violenza divina, sia quel-
li che avrà dal marito legittimo. La misura della felicità annun-
ciata ha un limite nelle angosce già vissute, ma Atena approva
comunque le parole di Creusa, la sua capacità di voltare pagi-
na e mutare il giudizio su Apollo. Alla fine del v. 1614 manca
una sillaba nel testo tramandato e anche il senso appare gua-
sto. Una delle soluzioni proposte (Hermann: ajei; ga;r ou\n inve-
ce del tràdito ajeiv pou) collega la locuzione avverbiale alla sen-
tenza del verso successivo: «Perché l’azione divina può dun-
que sempre...»; un’altra – di cui tiene conto la traduzione –
suggerisce di qualificare il mutamento di Creusa, anziché anti-
cipare qui l’inizio della massima sull’azione divina, inesorabile
anche se lenta (Musgrave: ajmeivnona): «hai cambiato idea per il
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NOTE DI COMMENTO AL TESTO 343

meglio». L’aforisma secondo cui il ritardo dell’intervento degli


dèi non impedisce loro, alla fine, di ristabilire la giustizia riflet-
te, per bocca di Atena, un’idea ben radicata nel pensiero gre-
co. Tuttavia qui essa si adatta, non senza un lieve effetto di sto-
natura, a eventi in cui il dio non ha dovuto castigare errori
umani, né affermare il principio di equità punendo persino nei
figli le colpe dei padri, ma ha semplicemente rimediato alle
penose conseguenze di un suo precedente intervento nella vi-
ta dei mortali (si veda, per contrasto, quanto è diverso il conte-
sto dell’analoga sentenza nel terzo stasimo delle Baccanti, vv.
882 sgg., dove la forza divina vien fatta coincidere con la nor-
ma etica). Gli editori distribuiscono le ultime battute fra i per-
sonaggi secondo un criterio logico, senza tener conto delle po-
co affidabili attribuzioni dei vv. 1617 sg. nella tradizione mano-
scritta, che non ne assegna nessuna a Ione. La sistemazione
suggerita da Hermann prevede che ciascuno dei tre personag-
gi dica due battute, alternandosi nello stesso ordine: Creusa,
Atena, Ione. La dea esorta madre e figlio a partire e annuncia
che scorterà il loro viaggio: non è affatto necessario ipotizzare
a questo punto lo spostamento dell’attore che interpreta Ate-
na, per raggiungere dal tetto della skene gli altri due attori sul-
la scena e avviarsi processionalmente insieme a loro. L’inten-
zione di accompagnare Ione e Creusa nel viaggio da Delfi ad
Atene evoca piuttosto una presenza, d’ora in avanti, discreta e
fisicamente invisibile: la divinità protettrice, da Omero a Euri-
pide, solo in momenti straordinari si rivela agli uomini che, pe-
raltro, non sempre sono in grado di riconoscerla (cfr. Odissea
XIII 312-319; in Ifigenia Taurica 1488 sg., Atena annuncia ex
machina che navigherà insieme a Oreste e Ifigenia, già lontani
in mare). È dunque verosimile che Atena sparisca sulla mac-
china stessa che ha consentito la sua epifania (o dietro la ske-
ne, se la macchina l’avesse depositata sul tetto del tempio),
mentre Ione e Creusa escono da una delle eisodoi. Anche le
ancelle del coro, prima di lasciare l’orchestra, si congedano da
Apollo e da Delfi: il dio dell’oracolo può essere ora venerato
nella forma più consueta, in armonia con la conciliazione del
finale, e le espressioni sentenziose che siglano la tragedia toc-
cano dunque temi tradizionali. La fede nelle divinità non deve
abbandonare i mortali, neppure se colpiti dalle sventure, per-
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344 NOTE DI COMMENTO AL TESTO

ché la teodicea alla fine garantisce un premio ai meriti e alla


virtù; ai malvagi sarà invece negata la fortuna di cui non sono
degni. La storia messa in scena ha scosso proprio la morale
convenzionale, ma il coro preferisce interpretare nei termini
più triti una vicenda in cui, se si dovesse valutare quanto sia
equilibrata la compensazione tra fortuna e sventura, felicità e
angoscia, il punto di vista – e dunque il bilancio – degli uomini
andrebbe nettamente distinto da quello divino.
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SOMMARIO

5 Introduzione
63 Appendice
75 Premessa al testo
87 Bibliografia

103 IONE

215 Note di commento al testo


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0110.sommario.qxd 15-12-2008 15:25 Pagina 347

Euripide in

Alcesti Elena
A cura di Guido Paduano A cura di Massimo Fusillo
Il sacrificio di Alcesti disposta a morire al po- Tragedia del doppio e del rovesciamento.
sto del marito, Admeto, sovrano generoso e Una variante paradossale del celebre mito
devoto agli dèi. Una meditazione sulla mor- troiano.
te e sull’amore. Classici greci e latini - Pagine 208
Classici greci e latini - Pagine 160 ISBN 1717178

ISBN 1716931 ✧
✧ Eracle
Andromaca A cura di Maria Serena Mirto
A cura di Caterina Barone La follia di Eracle, spinto da Era ad assassi-
Schiava di Neottolemo, cui ha dato un fi- nare i figli e la moglie: la sua trasformazio-
glio, Andromaca è bersaglio dell’ostilità di ne da eroe leggendario a uomo impuro e
Ermione, la moglie legittima, angustiata colpevole.
dalla sterilità. Classici greci e latini - Pagine 288
Classici greci e latini - Pagine 160 ISBN 1717180

ISBN 1717156 ✧
✧ Fenicie
Le Baccanti A cura di Enrico Medda
A cura di Vincenzo Di Benedetto La contesa sanguinosa tra Edipo e i suoi figli,
La macabra punizione inflitta a Penteo, re Eteocle e Polinice, si conclude con l’annien-
di Tebe, sbranato dalle Baccanti per essersi tamento dei figli maledetti dal padre e il sui-
opposto all’introduzione in città del culto cidio della madre Giocasta.
dionisiaco. Classici greci e latini - Pagine 368
Classici greci e latini - Pagine 540 ISBN 1700960

ISBN 1710025 ✧
✧ Ifigenia in Tauride
Il ciclope Ifigenia in Aulide
A cura di Guido Paduano A cura di Franco Ferrari
In una divertente parodia ritmata dagli Due momenti della storia di Ifigenia. Un’a-
sberleffi di un coro di satiri, il Polifemo del- cuta esplorazione dell’interiorità di figure
l’Odissea sveste i panni del ciclope antropo- consacrate dall’epos, private del loro alone
fago e si fa interprete di una visione edoni- mitico.
stica della vita. Classici greci e latini - Pagine 336
Classici greci e latini - Pagine 144 ISBN 1716668

ISBN 1700499
0110.sommario.qxd 15-12-2008 15:25 Pagina 348

Ippolito Troiane
A cura di Guido Paduano Introduzione, premessa al testo
La lussuriosa matrigna cui la tradizione tragi- di Vincenzo Di Benedetto
ca attribuiva un’insana passione per il figlio Traduzione, appendice metrica di Ester Cerbo
diventa, nelle mani di Euripide, una donna Note di Ester Cerbo, Vincenzo Di Benedetto
virtuosa ed esemplare, baluardo dei valori La sventurata e luttuosa sorte delle vedove
morali. troiane, la tragedia corale dei sopravvissuti.
Classici greci e latini - Pagine 144 Una dura condanna della guerra.
Classici greci e latini - Pagine 304
ISBN 1717309

✧ ISBN 1717240

Medea Euripide, Seneca
Introduzione di Vincenzo Di Benedetto
Il mito di Medea
Traduzione di Ester Cerbo
A cura di Vincenzo di Benedetto
L’indimenticabile eroina della Colchide,
Uno dei drammi più famosi della storia del
assassina dei figli per punire il padre, Gia-
teatro antico, di cui qui si offre la “versione”
sone, colpevole di averla abbandonata.
Classici greci e latini - Pagine 240 greca di Euripide e quella latina di Seneca.

ISBN 1717186 Pillole - Pagine 128

✧ ISBN 1700972

Oreste
A cura di Enrico Medda
La corrosiva riesplorazione di uno dei miti più
frequentati dalla drammaturgia antica. Euripi-
de affida il matricida al giudizio della polis.
Classici greci e latini - Pagine 340
ISBN 1712512
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Finito di stampare nel gennaio 2009 presso


il Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - Bergamo
Printed in Italy
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ISBN 978-88-17-02893-6

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