(Premessa)
Ci troviamo a Tebe, città natale di Megara, qui moglie di Eracle al posto di Deianira e figlia di
Creonte, sovrano della città, ucciso da Lico durante l’assenza di Eracle, intento a compiere l’ultima
delle dodici fatiche: sconfiggere e portare a Micene il cane Cerbero, dalle tre teste.
Gli attori in scena sono tre e il coro è composto dai vecchi tebani, che simpatizzano per la famiglia
di Ercole e cercano di convincere i protagonisti a non perdere la speranza.
Viene considerato un esperimento degli ultimi anni da parte della critica, questa è infatti una delle
sue ultime tragedie, composta forse tra il 414 a.C. e il 420 a.C., messa in scena lo stesso anno.
La tragedia si presenta come un rovesciamento, non solo nel mito in sé, dove Eracle compie le sue
fatiche nell’ultima parte della sua vita e Megara, prima moglie, qui resta l’unica. È un
rovesciamento anche perché il salvatore dei cari ne diventa l’assassino.
C’è un forte pietismo nella drammaticità dei figli, che più volte si aggrappano alle gonne della
madre, chiedendo del padre e vicino a essa uno di loro si rifugia, mentre il padre cerca di ucciderlo.
Poco prima si erano aggrappati alle vesti del padre, felici di rivederlo dopo mesi di assenza. Tutto
questo avviene per un beffardo capriccio divino.
Importante dal punto di vista etico-religioso è l’allontanarsi di Euripide alle credenze religiose,
risultando quasi blasfemo attraverso le parole di Anfitrione, così come lo è il trovare il coraggio di
vivere quando l’unica soluzione parrebbe essere il suicidio.
Encomiastico è l’elogio di Atene come terra di giusti che accolgono gli esuli e i meno fortunati,
città libera dove è possibile vivere in pace e che è sempre pronta ad offrire asilo ai giusti dal destino
sfortunato.
I parte
(Prologo: siamo nei pressi dell’altare di Zeus, due attori in scena, Anfitrione e Megara, a loro si
aggiungono almeno tre comparse che vanno a rappresentare i bambini, forse sono davvero bambini
e non attori che fingono di essere tali. I prologhi di Euripide sono lungi e digressivi, non si limitano
a narrare quale vicenda ha dato inizio alla tragedia, ma ne spiega anche gli antefatti attraverso
blocchi cronologici, simile alla logografia ionica)
Il primo personaggio che appare in scena è Anfitrione, padre dell’eroe Eracle protagonista della
tragedia. Anfitrione si presenta come "l'uomo che condivise la propria moglie con Zeus", padre
naturale di Eracle. Egli si trova a Tebe in compagnia di Megara, figlia di Creonte e moglie
di Eracle. Ad Anfitrione è vietato l'accesso nella nativa Argo per aver ucciso Elettrione. Per ottenere
la revoca del bando, Eracle si è impegnato a servire il re argivo Euristeo.
Parla direttamente al pubblico, narrando gli sfortunati eventi che stanno affliggendo Tebe durante
l’assenza di Eracle.
L’autore di tutte queste nefandezze è Lico il quale, dopo aver ucciso Creonte, padre della moglie del
protagonista, Megara, e re della città, desidera impadronirsi del trono. Purtroppo questo delitto non
basta: i figli dell’eroe infatti potrebbero in futuro essere potenziali ostacoli al suo governo,
decidendo di vendicare il nonno materno e riprendersi il trono. Costui decide quindi di uccidere non
solo i bambini, ma anche la madre, che entra in scena in preda alla disperazione e descrivendo
l’angoscia sua e dei suoi figli: ella infatti non sa se la soluzione migliore per sfuggire a questa
tremenda situazione sia darsi alla fuga o aspettare nella città, nella speranza che tutto si risolva con
il ritorno del marito. Qui Megara fa una metafora ricorrente: nascondere i bambini tra le sue vesti
come pulcini.
Nonostante la vecchiaia, appare Anfitrione il più legato alla vita e alla speranza, al contrario di
Megara, che invece ha una mentalità da eroina, consapevole della gloria che spetta alla famiglia di
un eroe: non si può accettare che la famiglia di Eracle viva di stenti in esilio.
(Pàrodo - I scena: insieme al coro, entrano in scena tutti e tre gli attori, che vanno a interpretare
Lico, Megara e Anfitrione, sono ancora presenti le comparse dei figli di Eracle. Ci si trova ancora
presso l’altare di Zeus)
Il coro inizia la propria parodo narrando la debolezza della vecchiaia, facendo da contorno al tema
del personaggio di Anfitrione, il vecchio che si tende verso la morte e non alla vita, per poi
annunciare l’entrata di Lico, annunciandolo come il re di questa terra.
Anfitrione e il coro, che in questa tragedia rappresentano i cittadini di Tebe, invitano Megara a
rimanere in attesa del semidio con i figli mentre sopraggiunge in scena l’usurpatore Lico, il quale
annuncia agli altri personaggi le sue diaboliche intenzioni contro la famiglia di Eracle: uccidere la
sua stirpe e sua moglie, mentre minimizza il suo valore di eroe e quello delle sue imprese,
insultando anche il suo arco che, permettendo di colpire da lontano, non ti fa realmente partecipare
alla lotta e questo lo rende un’arma da vili.
Anfitrione, difendendo l’onore del figlio, gli suggerisce di stare attento: attuando infatti il suo piano,
avrebbe di sicuro scatenato un’ira dell’eroe talmente funesta da causargli le sofferenze più
spregevoli in assoluto. Anche il coro interviene in difesa dei bambini.
Lico sbeffeggia Anfitrione e ordina ai suoi uomini di preparare l’altare sacrificale: Megara e i figli
saranno uccisi di lì a poco.
Il coro incita Anfitrione e la nuora a ribellarsi, ma secondo Megara non c’è ormai nessuna speranza.
Eracle è alle prese con Cerbero, una bestia a tre teste che si trova nell’Ade, il regno infernale da cui
nessuno prima ha mai fatto ritorno. La donna ottiene un’ultima grazia: vestire se stessa e i figli con
abiti funebri, così da andare verso la morte a testa alta e di morire nella casa di Eracle. Il
comportamento di Megara è più vicino a quello di un eroe che di una donna, così come quello di
Anfitrione lo è di un giovane rispetto a un vecchio, secondo i canoni della società ateniese.
Anfitrione invoca Zeus in una preghiera blasfema, lui non è il dio cristiano presente e pronto ad
aiutare i suoi figli, ma un dio assente e lontano che lascia patire la sua stirpe. Il vecchio si definisce
migliore del dio in quanto padre presente che non ha mai abbandonato i figli di Eracle, nonostante
con loro non condivida il sangue. Lo incolpa di essere un fedifrago e un bugiardo, bravo a introdursi
nei letti delle donne attraverso l’inganno, ma che poi non s’interessa dei figli che il rapporto ha
generato, un dio ingiusto e senza coscienza.
Secondo canto del coro, a metà tra l’encomio e il canto funebre (threnos) rivolto a Eracle, perché
non tornerà dall’Ade e fanno un lungo elogio delle sue fatiche.
II parte
(II scena: con Megara e Anfitrione entra in scena anche Eracle, la sua presenza ci fa supporre che il
suo attore interpreti anche il personaggio di Lico, sua nemesi. In scena ci sono ancora i tre bambini)
La scena inizia con un monologo di Megara, dove si chiede chi sarà il suo assassino, perché le
vittime sono pronte per l’Ade. Si rivolge disperata ai figli, raccontando le terre che il padre aveva
promesso loro di far governare un giorno, Argo, Tebe e Ecalia, e delle bellissime mogli che
avrebbero sposato, della vita feconda che avrebbero avuto. Poi si rivolge all’ombra di suo marito
per un ultimo e straziante grido d’aiuto.
Anche Anfitrione, ormai abbandonata la speranza, dice addio alla vita quando l’eroe fa il suo
ingresso in scena, lasciando tutti quanti sbalorditi. Eracle, ignaro di quanto accaduto in sua assenza,
saluta la casa e la famiglia con naturalezza. Anche lui non è meno stupefatto nel vedere la moglie e i
figli vestiti con abiti funebri. Non comprendendo cosa stia succedendo, chiede spiegazioni a
Megara, la quale gli racconta l’accaduto attraverso la sticomitica, poi l’eroe giura vendetta e di
uccidere Lico, il coro appoggia la sua scelta. Il dialogo si sposta da Megara ad Anfitrione, che prega
il figlio di non essere avventato e di affrontarlo da solo e poi prendersela con chi lo ha sostenuto,
per poi chiedergli dell’Ade. Eracle spiega per quale motivo si è intrattenuto così a lungo negli
Inferi: desiderava infatti liberare dalle fiamme Teseo, il quale aveva già fatto ritorno in patria ad
Atene. Nel secondo stasimo il coro riprende il tema dell'amarezza senile ma vi aggiunge
un'esaltazione dell'arte poetica, in relazione ad un canto sulla grandezza di Eracle.
C’è solo Anfitrione sulla scena quando sopraggiunge Lico a chiamare le sue vittime per il
sacrificio. Anfitrione lo attira in casa, ovviamente tacendogli il ritorno di Eracle.
Dall'interno della case si odono le urla ed i gemiti di agonia di Lico.
Il coro nel frattempo gioisce per il suo ritorno e ringrazia la Fortuna, la quale in questa occasione ha
parteggiato per i Tebani senza ombra di dubbio. Felici e soli in scena, annunciano al pubblico la
comparsa di due spettri: Iris e Lissa.
(III scena: la scena è vuota quando sul tetto appaiono due divinità: Iris messaggera e Lissa
attraverso l’uso della mechané. La critica ha definito quello di Iris e Lissa una sorta di secondo
prologo)
Le vere disgrazie però non sono ancora finite.
Era infatti, moglie di Zeus e nemica dichiarata del semidio, desiderando attribuire ad Eracle il
dolore più acuto possibile, invia a Tebe Lissa, demone della follia, e la messaggera Iris per
macchiare l’animo dell’eroe di un orribile delitto: far sì che egli stesso, in preda alla pazzia, uccida i
suoi adorati figli. Come spiega Iris, l’eroe ha compiuto le sue fatiche ed è quindi privo della
protezione di Zeus e del favore del destino.
Il compito di Iris è quello di assicurarsi che il lavoro assegnato venga compiuto: Lissa infatti
dapprima esita nel preparare questa sciagura atroce, prché Eracle è un uomo valoroso che per gli
uomini ha fatto tanto, sconfiggendo mostri e rendendo la Grecia un posto più sicuro.
(Forti rumori e lamenti sulla scena, il tetto della casa crolla. I rumori sono resi tramite il brontheion
e il tetto, forse, viene fisicamente tirato giù, almeno in parte)
Il coro preannuncia così al pubblico il dramma che sta per affliggere Eracle e la sua famiglia:
subentra infatti il nunzio, il personaggio che racconta la terribile uccisione dei bambini da parte del
padre, in preda alla pazzia (Lissa aveva infatti collocato nella sua mente il pensiero che i suoi figli
fossero la progenie del suo terribile nemico Euristeo, che aveva raggiunto a Micente su un carro
immaginario).
Il primo, che si era nascosto dietro una colonna, lo trapassa con una freccia, al secondo, piegatosi
sotto l’altare, fracassa la testa mentre il terzo è trafitto in petto insieme alla madre, esattamente
come fa un pulcino (il piccolo infatti si era nascosto dietro di lei). Anfitrione cercava di fermarlo,
ma era convinto che si trattasse del padre di Euristeo che chiedeva pietà (Paride)
Quando stava per uccidere Anfitrione era apparsa Atena e lo aveva colpito con un masso facendogli
perdere i sensi. Anfitrione ed i servi avevano legato Eracle ad una colonna per impedire alla sua
pazzia di nuocere ancora.
Il coro descrive la sventura dei figli di Eracle. I bambini e la loro madre sono a terra, morti, mentre
Eracle dorme, essendosi placata la sua furia omicida. Anfitrione piange triste addolorato mentre
invita il coro a non cantare ad alta voce: il vecchio infatti approfitta del assopimento dell’eroe per
legarlo ad una colonna, nel caso non si scateni la sua ira letale un’altra volta.
III parte
(IV scena)
Risvegliatosi dalla fatale amnesia, è Anfitrione a raccontargli con biasimo dell’empietà delle sue
azioni da poco compiute e Eracle chiede ad Anfitrione di slegarlo: sembra intenzionato a suicidarsi
per la vergogna.
Improvvisamente fa il suo ingresso in scena Teseo, che ha sentito del disastro avvenuto a Tebe,
senza però sapere che è Eracle la causa di tutto quello. , Anfitrione gli racconta quali angosce e i
dolori gli déi hanno riservato per lui e per la sua famiglia.
Il leggendario re rimane sbigottito dalla gravità della situazione, ma invita comunque il suo
salvatore a non rinunciare alla propria vita per ciò che ha compiuto; gli consiglia invece di lasciare
la città con lui, promettendogli aiuto per la purificazione della sua anima infamata (è il suo modo
per ripagare il favore che gli aveva fatto liberandolo dall’Ade). Gli parla con amicizia, ricorda
l'aiuto ricevuto e mostra di non temere in alcun modo di essere contaminato dal sacrilegio. Nel fitto
dialogo fra i due eroi Eracle insiste sul suicidio: ormai giudica insopportabile l'odio di Era che lo
perseguita dalla nascita. Non c’è nessun dio a salvarlo da quel dolore e l’unico modo per conservare
un briciolo di dignità è quello di accettare la sua XIII fatica.
Eracle, dopo avergli raccontato le 12 mirabili imprese compiute e che la vera autrice di tutto questo
è la dea Era, sua acerrima nemica, accetta la proposta, ottenendo dall’amico anche la promessa che
si sarebbero anche diretti ad Argo, un giorno, per reclamare la sua ricompenza per le fatiche.
I due salutano Anfitrione e l’eroe lo implora di seppellire i suoi figli, perché le sue mani sono
macchiate e impure e non possono toccare i loro corpi.
La tragedia si conclude con una frase ad effetto del coro: “… Ce ne andiamo desolati e piangenti,
abbiamo perso il migliore degli amici”.