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sapone come avveniva ai corpi di Auschwitz, non vogliamo vedere, ma questo innominabile
scava nello stato d’animo collettivo, apre vertigini di angoscia repressa, di colpa irredimibile.
Il motivo della metamorfosi ad opera delle acque è nella citazione della Tempesta di
Shakespeare, le parole di Ariel si riferiscono al corpo di Alonso, tramutato appunto in
qualcosa di ricco e strano, cullato da «ninfe salmastre», dove già c’è un passaggio tuttavia
dall’organico all’inorganico; il passo viene ricordato già in Eliot con un tono fra il tragico e
l’ironico, riferito a Phlebas il fenicio che «sgretolò in bisbigli le sue ossa»; i sommersi di cui
parla jc finiscono in melma e plastica, non c’è riscatto e redenzione per queste morti, come
del resto la trasmutazione incessante dei viventi e delle cose promossa da capitale, è
piuttosto una ecomposizione senza ritorno, che una metamorfosi alchemica come quella che
probablimente ispirava Shakespeare, e di cui l’affanno delle merci è una caricatura grottesca
e priva di ogni sacralità .
Corpi dissolti o torturati come avviene in ogni parte del mondo, come è avvenuto a Giulio
Regeni, «corpo usato come una lavagna./Più mani di boia hanno torturato e
marchiato/finirlo ruotando il suo volto sfigurato su se stesso fino a spezzargli il collo»(139),
non vogliamo vederlo l’intollerabile, non ci rivoltiamo contro di esso, solo gridolini,
movimenti bambini, ombre, aborti di scatti.
«Porte d’abisso così rotte, broken, brisées», mentre «the basement of the word» è uscito dai
suoi cardini ed è affannoso il tentativo di rimetterlo in sesto,
mentre al dissesto antropologico si accompagna quello della natura, e si leggeranno questi
versi in senso allegorico ma anche letterale: «Adesso che siamo tutti al sole feroce/sotto la
sferza dell’astro che ci consuma»; perché certo c’è un riferimento all’inferocito riscaldamento
climatico reale, ma il sole che consuma è più in generale la tensione verso l’illimitato di una
volontà di potenza che l’astrazione reale del capitale rende sempre più intollerabile ai corpi
viventi.
Ritorna qui il tema dell’attesa nel tempo uscito dai cardini, ci si chiede se in queste condizioni
di crolli di antiche mura, di cielo travagliato da ciechi missili, si possa davvero aspettare,
siamo vicini come ad Auschwitz, a un’antica foresta piena di teschi, a foreste nere come
quelle immaginate da Kiefer, in cui affonda e si spegne nella cenere l’Europa, nei suoi
linguaggi ormai balbettanti e babelici. Lo stato babelico delle lingue, gli idioletti confusi, sono
la mimesi della nostra condizione, della perdita delle articolazioni dell’esperienza e
dell’ordine simbolico. «Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va
tagliata» (44). Il nostro può essere il tempo della fine del capitale o più in generale «la fine di
un’evoluzione della civiltà tre volte millenaria»(Benjamin). L’improbabile lingua franta a cui
si affida Vegliante nell’ultima parte del libro non è affatto un esperanto, è un documento della
perdità di ogni identità culturale europea, e il tentativo estremo di far ascoltare l’eco di una
voce comune al di sotto della scomposizione dei linguaggi.
L’acqua è una metafora ricorrente nella poesia di J.C., spesso anche col senso positivo di un
disciogliersi di vincoli e rigidezze, un «rimpianto di piogge»(8),
ci ricorda una terra più mite dove il sole non è feroce e non ci consuma, un’atmosfera più
elata e avvolgente; ma in questo libro prevale il suo aspetto dissolvente: «Gli occhi stanchi di
sostenersi nell’acqua vanno a fondo».
«Fort de cette connaissance d’une profondeur dans un élément matériel, le lecteur comprendra enfin
que l’eau est aussi un type de destin, non plus seulement le vain destin des images fuyantes, le vain
destin d’un rêve qui ne s’achève pas, mais un destin essentiel qui métamorphose sans cesse la
substance de l’être… L’être voué à l’eau est un être en vertige. Il meurt à chaque minute, sans cesse
quelque chose de sa substance s’écroule. La mort quotidienne n’est pas la mort exubérante du feu qui
perce le ciel de ses flèches ; la mort quotidienne est la mort de l’eau. ». (Bach. 17).
Molte poesie sono un dialogo, spesso con poeti italiani, Porta, Pagliarani, De Signoribus,
Benedetti, Cucchi, Fortini…Ogni poesia è infatti in certa misura traduzione dell’altro e
risposta ad un altro, immersione nel flusso collettivo del linguaggio in cui l’io e l’altro vivono
solo nel riconoscimento reciproco. La traduzione è in effetti riconoscimento di un’alterità
entro un fondo comune. C’è un centro sconosciuto e inafferrabile in ogni «respiro di
verso»(39), quella voce sconosciuta che può anche essere feroce e inafferrabile come una
«nebbiosa pantera»(32), o come le parole imprendibili di De Signoribus.
C’è in queste poesie una meditazione sul corpo fragile e malato e sull’insensatezza di voler
rimuovere la caducità dei corpi trascorrenti «avant le saut/dans l’inconnu aux derniers
maux»(27). Del resto di fronte alla morte (abbiamo passato gli anni dal 2020 al 2022 sotto la
presenza costante del suo astro atro e il corpo anziano e malato è stato scisso con violenza
dal “normale” sopravvivere) una religiosità laica può andare poco oltre l’enunciazione
esitante: «Dio è – troppo Dio; il verme – troppo verme»(30), oppure soffermarsi su presenze
enigmatiche: come «l’aria ddoce da nottē passa su sa fronte/come ’na mane sente jje fa na
carezza»(136), nella poesia Il vecchio solo. Il «pobretonto» della poesia O viejo(137) oscilla
tra i suoi brandelli di memorie confuse e l’ignoto, «ombre strisciano intorno alla bruma dei
capelli»(137), perde la distinzione tra presente e passato. Dramma creaturale del nostro
essere, che tuttavia si intensifica in una dimensione sociale dove il venir meno e il
trascorrere dei corpi viene misconosciuto, medicalizzato o recluso in un «mouroir»(27),
ridotto a oggetto numerato, in corsie in cui ci si risveglia «attoniti di starci»(150). Eppure si
potrebbe ancora ascoltare nell’ «osso vecchio», «che più omai non punzecchia l’appetito
d’animale», l’ansimare «dell’antico mare ubriaco del suo sale», l’affiorare dell’antica madre.
Ma come è violata la sacralità della vita, così anche quella della morte, che nel nostro
universo non ha riti di accompagnamento e non conosce il lavoro del lutto, né sapienza
creaturale. Così le poesie sulla vecchiaia in questo libro hanno certo il tono di un compianto o
di un lamento, di una dignità e di una dicibilità da restituire alla sofferenza, ma anche quello
dell’indignazione per la trascuratezza di ogni pietà . Alcune di queste poesie hanno il tono di
quello che Luca Lenzini ha definito «stile tardo», segnato da crepe e macerie, pronto a
incrinare ogni forma precedentemente acquisita, ben indicato nell’Apocalypseis cum figuris,
titolo immaginario di un’opera del musicista protagonista del Doktor Faustus del settantenne
Thomas Mann:
Accogliamo pure quest’ultima espressione, catastrofe, nel senso etimologico, insieme di mutazione e
rivolgimento; senza dimenticare che nell’arte della vecchiaia, allorché si manifesta il demone dello
stile tardo, si aprono strade incognite al presente ma feconde per il futuro…l’elemento messianico e
quello apocalittico si fondono per porre in modo stringente e ultimativo il tema dell’eredità .
Siamo sospesi, dice una poesia dedicata ad Antonia Anedda, in un vuoto del tempo, un
«tempo che rode”, in cui «tutto va cadendo nel vuoto», e noi «stiamo sospesi nell’attesa della
caduta»(37). Questo essere in sospeso, Stillstand lo definiva Benjamin, caratterizza lo stato
d’animo dell’inconscio del collettivo, è un’apocalisse dilatata, che non si manifesta in una crisi
verticale e improvvisa, in un giudizio con trombe e angeli, ma in una lenta progressiva
erosione, che tutto contribuisce a renderci inavvertibile; perché lo sforzo maggiore dei poteri
dominanti del capitale non è volto a evitare la fine della terra, ma a renderla inconscia, lenta
e inesorabile: «vide, vide effrayant vide/sotto ‘l navigio tua tirant sur sa chaîne
rugissant»(147). È un «tempo sospeso come ceneri»(181), e quest’ultima immagine rinvia a
un trauma primario che ha determinato lo stato di sospensione, di ceneri dell’Europa parlava
Celan a proposito della Shoah e di Hiroshima, ceneri sono sparse nei quadri di Kiefer, sulla
condizione umana del ‘900, cenere è quanto resta delle città distrutte e bombardate nella
Germania di Sebald. Ceneri restano e di nuovo avvelenano l’aria nel nostro presente.
Nel vuoto di tempo che è il nostro non possediamo più strumenti di pensiero e forme di
esperienza che ci permettano di riconoscere il punto di transito nel fiume cieco che
dovremme attraversare, quelle che abbiamo ereditato sono fragili e transitorie, residuali,
rumori sordo entro il sonno; le grandi figure dell’ordine simbolico cristiano non ci consolano
più veramente, i messianismi del secolo passato sono tramontati o hanno condotto al
dissesto attuale (chi potrebbe dire oggi cosa sia il socialismo?), le parole, anche quelle più
nobili, si mescolano in un delirio senza soggetto, impersonale, confuse e rimestate in un nulla
di senso dalla società dello spettacolo che le riassorbe e le ricicla in forma di slogan
occasionali ed effimeri, in chiacchiera. Così tarda un’alba, una metamorfosi dei fondamenti
della vita, la speranza che potrebbe salvarci. Siamo, sintetizza Vegliante, in una «fremenda
landa di nessuno o perduta»(143).
A cosa possiamo affidarci? La poesia non può dare soluzioni politiche o religiose, può solo
mostrare gli estremi entro cui queste potrebbero muoversi, lo stato d’animo entro cui
nascono o muoiono le configurazioni del mondo, può solo mostrare «arsi azzurri»,
«l’abbaglio feroce nel frinire»(66). Può auspicare che venga preservato il ricordo degli
scomparsi e dei sommersi, «esseri cari come vicini e umani» (169), e non si perdano in una
estraneità di oblio: e i loro atomi dispersi dalla morte si raccolgano «in fiori vapore»(176). La
natura nelle sue metamorfosi spesso crudeli ci sospende ciclicamente a «una piccola anima
verde», giunta sotto la nostra finestra dove «dormirà nel suo prossimo ente». Questa
immagine di metamorfosi riguarda anche noi, che pure abbiamo un sonno «più lieve», «più
breve»? Il poeta non può che lasciarci nell’intensità di questa domanda, in cui la verticalità
del destino individuale si unisce all’orizzontalità di quello storico e collettivo, perché l’uno è
concepibile solo nella coloritura, nell’ombra portata dell’altro. «Tradurre devi ancora per non
far morire – la pianticella che comincia ad attecchire – incedere verso un cielo d’olla podrida
– /con dignità sempre, che ne va della vida»(145).