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i divide in tre parti.

La prima riprende lo stile ultimo e maturo di jc in bili


dizioni poetiche a cui si richiama il bilinguismo dell’autore, quella f
izzata negli ultimi decenni da una verticalità ermetica, e influenzata
da tutta l’esperienza della rivista Ephémère; e quella italiana incline piu
i narratività diffusa e di autoironica scomposizione; al punto di attrito d
dizioni, o al punto di traduzione dell’una nell’altra, si colloca questo ultim
e di J.C. e ne scaturisce uno stile inconfondibile: narrazioni che si accen
ietà improvvise, o lampi di immagini che danno vita a straniati racconti.

parte inizia con giochi estremi di significanti esplosi – arabi, spagnoli


tedeschi portoghesi – siamo forse nell’amito dello sperimentalismo, di u
nguardia? Così sembra, ma non è così. Proseguendo, il gioco acquista prof
ato, cià che sembrava puro suono si abbarbica a corpi vecchi, bl
ti, minacciati dalla morte e dalla decomposizione; e allora si capisce fin
uella lingua disarticolata lalangue lacaniana corrisponde all’esperienz
imbolico che implode – un ordine individuale e collettivo.La poesia in cu
ondenza è più evidente è Babbell (134). L’inversione del genere del sign
o luno – accaldata sole, o anche solita amore – duro morte, contaminando
o), o l’uso del dialetto (l’uocchie belle ‘nnammorate se perdano s’accechin
sole dentro a te), non sono mai fini a se stessi, ma intonano una ballata
a risonanza arcaica, in cui quasi ogni verso insiste su un dualismo e
e, che sono contemporaneamente del linguaggio e dell’identità , una lot
e e conciliazione tra eros e thanatos, maschile e femminile che si scontr
si finali, ancora evocando la luna in generi capovolti: «la mour est un sec f
o di lunä accanto stella fredda». Aggettivi maschili si riferiscono a
ili, o femminili a sostantivi maschili, in una inversione continua dei gen
he manifestare una gioiosa sovversione, ma più spesso rivela una con
osa, la stessa delle «semivocali/ mozze in una parlata di vento»(155). L
o del significante corrisponde alla confusione delle identità culturali s
ificato, in una sorta di lamento sulla fine dell’Europa; che non manca pe
utopico, come se una più arcaica voce comune, imprendibile e se
sse nei suoni divisi e richiamasse a un’origine sconosciuta. Il soffio del
entità prelogica, interna al ritmo dei corpi, che precede l’articolazi
gi e segue alla loro rottura, a malapena riusciamo ad ascoltarne qualche
caso non al di fuori del senso e delle parole, ma alla loro estremità .

tterranea precedente a d ogni articolazione, «nocturno nombre de la d


, la lalangue è in contatto col romorio sordo e confuso, coi movimenti m
l di qua e insieme al di là del linguaggio strato della lingua ancora a conta
lii del grembo materno, e insieme strato ulteriore a cui il corpo rinvia n
osizione, non essere antecedente e postessere e parlessere di cui al
mo che barlumi di suono, improvvisi abbagliamenti.

o, come pensava Walter Benjamin, che al fondo delle lingue conosciute i


o di una voce comune e dimenticata, questo libro di JC si sporge ad asco

ro tra le lingue divise non avviene però all’insegna della riconciliazione


ione dell’origine comune, ma è dominato da cancellazioni e disfacimen
imento di apocalisse annunciato fin dalla prima poesia: «Siamo tutti
nfero/disastro che minaccia e ci disfà ./ci disincanta». Nel significato ques
anche di sottrarci e toglierci la possibilità del canto e di mettere in ques
ità stessa della poesia.

segue una «morta scordata» e cioè dimenticata, ma anche con le cord


di suono, disaccordata da se stessa, e in alto sopra questo seguire c
o «tra le nuvole sui tetti di piombo il segnale/sicuro della fine».(11).
movimenti bambini
borti di scatti di tendini
rivolte nelle arterie
verso dei sangui sognati
dolini d’aria dentro
dorato in sonno si disfa
da teme ignoto risveglio
nell’ignoto scuro
oso dietro le palpebre

ibilità di muoversi e ancor più di rivoltarsi contro questo senso dell


gli scatti di tendini in cui si annuncerebbe un desiderio di reazione e di ri
ono o si riducono a ombre di un’azione che stenta a tradursi in atto.
le utopie e i desideri, scorrono a ritroso nei corpi invece di espand
rsi dall’interno verso l’esterno, si estinguono in grida esili, «gridolini» inv
da, così come i movimenti erano «bambini» e non veramente adulti. Siam
sonno profondo, di inazione, di sospensione, di spazio vuoto, in cui
, «il corpo adorato» si disfa piuttosto che permetterci un incontro; e
remo da questo sonno inquietante? sarà un vero risveglio, un ritorno al
ranza, o non piuttosto una cadutà nell’oscurità senza ritorno? Quel che è
che ci attende, il non–ancora in questo tempo che non è più , è ignot
e che scava dietro le palpebre, e che sconvolge ogni punto di riferimen
ante ordine simbolico.

gine della fine del mondo è teologica e insieme politica; l’apocalisse è un


e annunciato, «un globo collassa e trascina con sé/i parassiti che tutto
o», l’oscena avidità anale del capitale, in cui l’aria vibra «di gelo nero»(5
tramonto che tutto cancella», voracità dell’accumulazione, dell’incr
o della potenza, della consunzione e dello sfruttamento della terra e dei c
ordine simbolico promette durata e protezione dall’estrema emergenza,
he potrebbe sintetizzare in un’espressione sola lo stato d’animo in
o l’inconscio del collettivo, che la poesia registra come un sismografo: «
della novità che distrugge»(111), o anche: «Vers quel nouveau/ver
disastrato/désastreux/voyage». Attesa intimorita dalla distruzione e
icamente desiderosa della distruzione di uno stato di cose cons
abile; o anche attesa rassegnata alle innovazioni distruttive del capit
no portare il nuovo, accendono luminarie di illusioni e poi accellerano
nulla.
ovità che coincide con la morte aveva parlato Baudeaire, o anzi della mor
ovità , ma qui il tema perde ogni valenza euforica esaltata o decade
re una constatazione di amaro disincanto, priva di qualsiasi superomisti
il bilinguismo qui particolarmente sottolineato, quasi che il poeta tradu
nea se stesso, ci induce a pensare a un male che trascende ogni confine d
li.
viviamo in uno stato di cose in cui i sommersi si consumano nel fondo de
ogliamo lo sguardo,
Se il cadavere permane a lungo in
acqua i batteri ne fanno sapone
oppure in mare cristalli di sale
altro che “into something rich and strange”
poveri coralli grigi morenti
e plastica nella melma invadente
cibo per gamberetti il rimanente.
Cessate lagrime, lasciate angeli…
(anofeli)
(eadem) 38,

sapone come avveniva ai corpi di Auschwitz, non vogliamo vedere, ma questo innominabile
scava nello stato d’animo collettivo, apre vertigini di angoscia repressa, di colpa irredimibile.
Il motivo della metamorfosi ad opera delle acque è nella citazione della Tempesta di
Shakespeare, le parole di Ariel si riferiscono al corpo di Alonso, tramutato appunto in
qualcosa di ricco e strano, cullato da «ninfe salmastre», dove già c’è un passaggio tuttavia
dall’organico all’inorganico; il passo viene ricordato già in Eliot con un tono fra il tragico e
l’ironico, riferito a Phlebas il fenicio che «sgretolò in bisbigli le sue ossa»; i sommersi di cui
parla jc finiscono in melma e plastica, non c’è riscatto e redenzione per queste morti, come
del resto la trasmutazione incessante dei viventi e delle cose promossa da capitale, è
piuttosto una ecomposizione senza ritorno, che una metamorfosi alchemica come quella che
probablimente ispirava Shakespeare, e di cui l’affanno delle merci è una caricatura grottesca
e priva di ogni sacralità .

Corpi dissolti o torturati come avviene in ogni parte del mondo, come è avvenuto a Giulio
Regeni, «corpo usato come una lavagna./Più mani di boia hanno torturato e
marchiato/finirlo ruotando il suo volto sfigurato su se stesso fino a spezzargli il collo»(139),
non vogliamo vederlo l’intollerabile, non ci rivoltiamo contro di esso, solo gridolini,
movimenti bambini, ombre, aborti di scatti.

«Porte d’abisso così rotte, broken, brisées», mentre «the basement of the word» è uscito dai
suoi cardini ed è affannoso il tentativo di rimetterlo in sesto,
mentre al dissesto antropologico si accompagna quello della natura, e si leggeranno questi
versi in senso allegorico ma anche letterale: «Adesso che siamo tutti al sole feroce/sotto la
sferza dell’astro che ci consuma»; perché certo c’è un riferimento all’inferocito riscaldamento
climatico reale, ma il sole che consuma è più in generale la tensione verso l’illimitato di una
volontà di potenza che l’astrazione reale del capitale rende sempre più intollerabile ai corpi
viventi.

«ni mur où se réfugier si l’murailles tombe(nt)


ni étoile au ciel’ labouré de missiles ’aveugles
Aspettiamo se spettar si possa ‘n tal frangente
nel terribil rhasciab o alt Wald pieno di teschi
ove migliaia perirono o feriti anco soffriranno»141

Ritorna qui il tema dell’attesa nel tempo uscito dai cardini, ci si chiede se in queste condizioni
di crolli di antiche mura, di cielo travagliato da ciechi missili, si possa davvero aspettare,
siamo vicini come ad Auschwitz, a un’antica foresta piena di teschi, a foreste nere come
quelle immaginate da Kiefer, in cui affonda e si spegne nella cenere l’Europa, nei suoi
linguaggi ormai balbettanti e babelici. Lo stato babelico delle lingue, gli idioletti confusi, sono
la mimesi della nostra condizione, della perdita delle articolazioni dell’esperienza e
dell’ordine simbolico. «Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va
tagliata» (44). Il nostro può essere il tempo della fine del capitale o più in generale «la fine di
un’evoluzione della civiltà tre volte millenaria»(Benjamin). L’improbabile lingua franta a cui
si affida Vegliante nell’ultima parte del libro non è affatto un esperanto, è un documento della
perdità di ogni identità culturale europea, e il tentativo estremo di far ascoltare l’eco di una
voce comune al di sotto della scomposizione dei linguaggi.

L’acqua è una metafora ricorrente nella poesia di J.C., spesso anche col senso positivo di un
disciogliersi di vincoli e rigidezze, un «rimpianto di piogge»(8),
ci ricorda una terra più mite dove il sole non è feroce e non ci consuma, un’atmosfera più
elata e avvolgente; ma in questo libro prevale il suo aspetto dissolvente: «Gli occhi stanchi di
sostenersi nell’acqua vanno a fondo».

«Fort de cette connaissance d’une profondeur dans un élément matériel, le lecteur comprendra enfin
que l’eau est aussi un type de destin, non plus seulement le vain destin des images fuyantes, le vain
destin d’un rêve qui ne s’achève pas, mais un destin essentiel qui métamorphose sans cesse la
substance de l’être… L’être voué à l’eau est un être en vertige. Il meurt à chaque minute, sans cesse
quelque chose de sa substance s’écroule. La mort quotidienne n’est pas la mort exubérante du feu qui
perce le ciel de ses flèches ; la mort quotidienne est la mort de l’eau. ». (Bach. 17).

L’ordine simbolico dell’esperienza e segnato da una universale esperienza di corrosione,


privazione di contorni, disfarsi e cancellazione: paradossalmente la fantasmagoria in cui
viviamo ci cancella nello stesso atto con cui ci cancella, è una protratta disparizione dilatata
all’infinito, «termitaio movente neon/della grande respirazione che ci mantiene, ci
cancella»8, sicchè in questa sfera (pensiamo al moto del desiderio verso le merci e alla moda
che le pone e le supera-cancella incessante) ci aggrappiamo per mantenerci a ciò che ci
cancella, e la dissoluzione periodica di ogni forma ò la forma assoluta di sopravvivenza di
questo ordine incrinato.

«Siamo tutti estromessi/forse/Siamo tutti offesi dal torto subito/Quando?»,


perché lo stato d’animo collettivo è dominato dall’irruzione di un trauma non superato e non
elaborato, di cui si perde il ricordo e agisce come una potenza muta, oscuri risentimenti,
eredità di generazioni precedenti, rigurgiti attuali di guerre e stermini passati, ombre
dell’inconscio del collettivo che deflagrano in gesti inconsapevoli,
«nessuno ricorda ma soffre aspetta/ la slatentizzazione/la retenzione»,
la nuova emergenza del trauma rimosso e dimenticato, che però irriflesso si palesa in forme
violente, distruggenti e autodistruttive, in istinti aggressivi di morte,
«– parole feroci dilagano/– volevo dire siamo nell’età crudele/o forse imbecille e felice»,24
e non si legga questa come un’alternativa, è una complementarità che pone insieme
l’imbecillità e la tragedia, il grottesco e il grido, la smorfia del clown e il sovversivismo
neofascista ed isterico, «pareti di cartapesta marcia/vengono giù a lembi da gelidi occhi»108,
il mascherone grottesco, il variopinto marciume scopre dietro di sé il gelo astratto, i due lati
del capitale,
«Viene/sulle acerbe piste/per pianure aliene/lo stesso svanire»
I capannoni disfatti, «disfatiscenti, lungo acque fatali e aranci»44 di una qualche sordida
periferia di roma o di Parigi sono l’emblema della «distruzione-sistema»45, ossimoro
speculare a quello del ritmo che mantiene e cancella: è questo che indica l’aggettivo
«disfatiscente», non qualcosa di già in rovina, neanche una maceria, ma qualcosa che vive
una paradossale durata dell’atto di disfarsi, e che del moto del disfarsi si fa una ragione o una
sragione di vita, «mode, età e facce:/ cose fuggitive:/come noi al macero»54
Atonia e anaffettività psichica conducono all’ebetudine a un «non sguardo interiore», sintomi
depressivi che collocano l’esperienza sotto l’«astro atro» della malinconia.

Molte poesie sono un dialogo, spesso con poeti italiani, Porta, Pagliarani, De Signoribus,
Benedetti, Cucchi, Fortini…Ogni poesia è infatti in certa misura traduzione dell’altro e
risposta ad un altro, immersione nel flusso collettivo del linguaggio in cui l’io e l’altro vivono
solo nel riconoscimento reciproco. La traduzione è in effetti riconoscimento di un’alterità
entro un fondo comune. C’è un centro sconosciuto e inafferrabile in ogni «respiro di
verso»(39), quella voce sconosciuta che può anche essere feroce e inafferrabile come una
«nebbiosa pantera»(32), o come le parole imprendibili di De Signoribus.

C’è in queste poesie una meditazione sul corpo fragile e malato e sull’insensatezza di voler
rimuovere la caducità dei corpi trascorrenti «avant le saut/dans l’inconnu aux derniers
maux»(27). Del resto di fronte alla morte (abbiamo passato gli anni dal 2020 al 2022 sotto la
presenza costante del suo astro atro e il corpo anziano e malato è stato scisso con violenza
dal “normale” sopravvivere) una religiosità laica può andare poco oltre l’enunciazione
esitante: «Dio è – troppo Dio; il verme – troppo verme»(30), oppure soffermarsi su presenze
enigmatiche: come «l’aria ddoce da nottē passa su sa fronte/come ’na mane sente jje fa na
carezza»(136), nella poesia Il vecchio solo. Il «pobretonto» della poesia O viejo(137) oscilla
tra i suoi brandelli di memorie confuse e l’ignoto, «ombre strisciano intorno alla bruma dei
capelli»(137), perde la distinzione tra presente e passato. Dramma creaturale del nostro
essere, che tuttavia si intensifica in una dimensione sociale dove il venir meno e il
trascorrere dei corpi viene misconosciuto, medicalizzato o recluso in un «mouroir»(27),
ridotto a oggetto numerato, in corsie in cui ci si risveglia «attoniti di starci»(150). Eppure si
potrebbe ancora ascoltare nell’ «osso vecchio», «che più omai non punzecchia l’appetito
d’animale», l’ansimare «dell’antico mare ubriaco del suo sale», l’affiorare dell’antica madre.
Ma come è violata la sacralità della vita, così anche quella della morte, che nel nostro
universo non ha riti di accompagnamento e non conosce il lavoro del lutto, né sapienza
creaturale. Così le poesie sulla vecchiaia in questo libro hanno certo il tono di un compianto o
di un lamento, di una dignità e di una dicibilità da restituire alla sofferenza, ma anche quello
dell’indignazione per la trascuratezza di ogni pietà . Alcune di queste poesie hanno il tono di
quello che Luca Lenzini ha definito «stile tardo», segnato da crepe e macerie, pronto a
incrinare ogni forma precedentemente acquisita, ben indicato nell’Apocalypseis cum figuris,
titolo immaginario di un’opera del musicista protagonista del Doktor Faustus del settantenne
Thomas Mann:

Accogliamo pure quest’ultima espressione, catastrofe, nel senso etimologico, insieme di mutazione e
rivolgimento; senza dimenticare che nell’arte della vecchiaia, allorché si manifesta il demone dello
stile tardo, si aprono strade incognite al presente ma feconde per il futuro…l’elemento messianico e
quello apocalittico si fondono per porre in modo stringente e ultimativo il tema dell’eredità .

Siamo sospesi, dice una poesia dedicata ad Antonia Anedda, in un vuoto del tempo, un
«tempo che rode”, in cui «tutto va cadendo nel vuoto», e noi «stiamo sospesi nell’attesa della
caduta»(37). Questo essere in sospeso, Stillstand lo definiva Benjamin, caratterizza lo stato
d’animo dell’inconscio del collettivo, è un’apocalisse dilatata, che non si manifesta in una crisi
verticale e improvvisa, in un giudizio con trombe e angeli, ma in una lenta progressiva
erosione, che tutto contribuisce a renderci inavvertibile; perché lo sforzo maggiore dei poteri
dominanti del capitale non è volto a evitare la fine della terra, ma a renderla inconscia, lenta
e inesorabile: «vide, vide effrayant vide/sotto ‘l navigio tua tirant sur sa chaîne
rugissant»(147). È un «tempo sospeso come ceneri»(181), e quest’ultima immagine rinvia a
un trauma primario che ha determinato lo stato di sospensione, di ceneri dell’Europa parlava
Celan a proposito della Shoah e di Hiroshima, ceneri sono sparse nei quadri di Kiefer, sulla
condizione umana del ‘900, cenere è quanto resta delle città distrutte e bombardate nella
Germania di Sebald. Ceneri restano e di nuovo avvelenano l’aria nel nostro presente.

Anche le notti incerte vaneggiano


Il buio si sfalda in residui di spaventi
Rumori si mescolano al respiro dei dormenti
La traversata del cieco fiume ci cambia
E non riconosciamo più il passaggio
In delirio anonimo tarda un’alba

Nel vuoto di tempo che è il nostro non possediamo più strumenti di pensiero e forme di
esperienza che ci permettano di riconoscere il punto di transito nel fiume cieco che
dovremme attraversare, quelle che abbiamo ereditato sono fragili e transitorie, residuali,
rumori sordo entro il sonno; le grandi figure dell’ordine simbolico cristiano non ci consolano
più veramente, i messianismi del secolo passato sono tramontati o hanno condotto al
dissesto attuale (chi potrebbe dire oggi cosa sia il socialismo?), le parole, anche quelle più
nobili, si mescolano in un delirio senza soggetto, impersonale, confuse e rimestate in un nulla
di senso dalla società dello spettacolo che le riassorbe e le ricicla in forma di slogan
occasionali ed effimeri, in chiacchiera. Così tarda un’alba, una metamorfosi dei fondamenti
della vita, la speranza che potrebbe salvarci. Siamo, sintetizza Vegliante, in una «fremenda
landa di nessuno o perduta»(143).

A cosa possiamo affidarci? La poesia non può dare soluzioni politiche o religiose, può solo
mostrare gli estremi entro cui queste potrebbero muoversi, lo stato d’animo entro cui
nascono o muoiono le configurazioni del mondo, può solo mostrare «arsi azzurri»,
«l’abbaglio feroce nel frinire»(66). Può auspicare che venga preservato il ricordo degli
scomparsi e dei sommersi, «esseri cari come vicini e umani» (169), e non si perdano in una
estraneità di oblio: e i loro atomi dispersi dalla morte si raccolgano «in fiori vapore»(176). La
natura nelle sue metamorfosi spesso crudeli ci sospende ciclicamente a «una piccola anima
verde», giunta sotto la nostra finestra dove «dormirà nel suo prossimo ente». Questa
immagine di metamorfosi riguarda anche noi, che pure abbiamo un sonno «più lieve», «più
breve»? Il poeta non può che lasciarci nell’intensità di questa domanda, in cui la verticalità
del destino individuale si unisce all’orizzontalità di quello storico e collettivo, perché l’uno è
concepibile solo nella coloritura, nell’ombra portata dell’altro. «Tradurre devi ancora per non
far morire – la pianticella che comincia ad attecchire – incedere verso un cielo d’olla podrida
– /con dignità sempre, che ne va della vida»(145).

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