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Il compagno dacciaio

a cura di PAOLO GIOVANNETTI


Traduzione di

LUCIANO PETULL

Indice

Il cancelliere
La maschera e il volto radioso nelle ruota delle italiche generazioni Riccardo Donati 23 La carne e il suo schermo, lo schermo e la sua carne Paolo Giovannetti 35 Io ho letto Dai cancelli dacciaio Giovanni Maffei
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Dei disegni dacciaio di cyop&kaf Blogaritmi di Gabriele Frasca

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Perch pi freddo della morte amore Saluti dal Sacro Romano Emporio Voi siete qui Alle gegen Alle E la letteratura? Che cos una forma davversione Honolulu baby! Questo il titolo, se non la prima frase We are going home, Alfredo Garcia cyop&kaf o del secondo principio della dermodinamica Linsegna e la mappa

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Linsegna La mappa

Il cancelliere

La maschera e il volto radioso nella ruota delle italiche generazioni Riccardo Donati
The greatest show on earth was in our hands. I wondered where we would put the cameras. Jerusalem was the obvious place. We even discussed how Jesus radiance might be too bright for the cameras and how we would have to make adjustments for that problem. Can you imagine telling Jesus, Hey, Lord, please tone down your luminosity; we having a problem with contrast. Youre causing the picture to flare.1

Larte del dire ci deforma il viso, ne solca la quiete, ne turba la maschera..., scriveva Osip Mandels tam nella sua Con versazione su Dante: ma se larte del discorso vincolata al dinamico succedersi dei supporti, e se il viso anche volto, il passo breve per sconfinare dal territorio della fisiognomica a quello latamente linguistico-mediologico, solo che si pensi al participio passato del verbo volgere nella accezione tecnica di tradurre/tradire, oppure che si rifletta ai molteplici significati della parola verso movenza, smorfia, gemito, ma anche porzione di testo poetico. a partire da questa giungla di etimi e significati, che si affastellano luno sullaltro come solo le parole sanno fare, che abbiamo deciso di muovere per riflettere sullultima fatica letteraria di Gabriele Frasca, il romanzo Dai cancelli dacciaio, che per molti versi rappresenta una summa del suo pi che trentennale percorso a cavallo tra poesia, saggistica e narrativa. Il volto il luogo fisico in cui il soggetto della modernit fa esperienza della propria presenza nel rutilante circo del visibile e del percepibile: verit questa che abbraccia, con un volo solo apparentemente azzardato, tanto il poeta don Francisco Quevedo, che in piena et barocca si fa ritrarre con un bel paio di occhiali sul naso, quanto i supereroi americani tanto cari a Frasca, con le loro brave calzamaglie, i mantelli svolazzanti ma soprattutto le maschere, che non stanno l a dire soltanto la cattiva coscienza dei criminali,2 ma anche Tarantino insegna la vergogna della fragile e compromessa natura umana (Clark Kent is Supermans critique on the whole human race, una ormai classica battuta di Kill Bill 2). E tutto questo perch, dichiara Frasca in una recente intervista rilasciata a Jacopo Grosser, non c percezione

che non abbia bisogno di una protesi per divenire comune.3 Le molteplici inter/facce che deformano o, al contrario, danno forma al viso/volto degli uomini, siano essi teologi, adolescenti, supereroi o fenomeni in fiera, rappresentano uno dei pilastri di quel meccanismo narcotizzante-coercitivo che sta alla base della societ uniformata e pervasiva in cui viviamo da almeno quattro secoli, produttrice in serie di corpi allucinati.4 E questo perch nellattuale reticolo audiovisivo quello che Frasca beffardamente definisce il Sacro Romano Emporio i percetti e gli affetti, tutte le paure, i dolori, le tensioni e soprattutto lingarbugliato gliommero di desideri che ciascuno di noi , passano inevitabilmente dolorosamente e gaudiosamente da qui: dalle facce-schermo che il variare o il semplice moltiplicarsi nel tempo dei supporti/protesi offre, o impone, di indossare. A patto per che, una volta raggiunto il grande e sfavillante salone degli specchi si tratti della barocca Galerie des Glaces di Louis XIV o del sotterraneo di una discoteca allultimo grido nessuna mascherina si sottragga al gran ballo, ma tutte partecipino di buon grado alla festa che per loro, e solo per loro, stata generosamente apparecchiata, sia pure con ruoli diversi e assai diversi destini.

Io ti guardo guardarmi guardare Nel Fermo Volere il volto celato dietro la mascherina nera perennemente indossata da quel paravento ingegnoso che si chiamava Spirit;5 in Santa Mira, la coppia formata da Gaudi, che un giorno scopre la sua faccia dickianamente falsa allo specchio,6 e sua moglie Dalia, cui i raggi catodici scompigliano i tratti confondendoli ora con quelli delle madri contadine dei capolavori sovietici, ora con i presentatori dei giochi a premi, ora con i vari Kim, Keith, Kate e Kirk della soap opera Cuori intrecciati. In Dai cancelli dacciaio il gioco delle facce si moltiplica, si fa addirittura vorticoso, mano a mano che lera elettrica avanzando crea nuove protesi, nuovi modi sempre pi costrittivi e terminali di allucinare menti e corpi, perch se non esistono innocue follie,7 non neppure detto che la locura dellingenioso hidalgo Don Quijote sia pi rassicurante dei sadiani sogni/incubi di jouissance. Tuttavia, la domanda resta sempre la medesima: cosa ne , o cosa resta, una volta ficcato il naso nella

protesi di turno, della nostra volont, del nostro volere? Fino a che punto, dopo che i nostri centri percettivi sono stati invasi da forze aliene, restiamo padroni delle espressioni che si propagano sul nostro volto, e continuiamo ad esercitare un controllo diretto sulle manifestazioni esteriori dei nostri stati danimo, se non della nostra anima tout court? E soprattutto, davvero salutare restare, o almeno credere di restare, fino in fondo padroni della nostra (vera o presunta) emotivit? Latamente intesa, la questione sorge gi nel secolo scorso. Sin dagli albori la fotografia, medium cui Frasca dedica da sempre unattenzione particolare,8 si trova a fronteggiare magari stringendo nel pugno il salvacondotto dellutilit scientifica e del progresso positivisticamente inteso le sue pi oscure pulsioni sadiche: basti pensare, in questottica, alle assai poco ortodosse ricerche del neurologo francese Guillaume-Benjamin Duchenne nel campo delllectro-physiologie photographique. Negli scatti fotografici di Duchenne, il viso dei pazienti viene deformato tramite reofori e bottiglie di Leyda, apparecchi volta-faradici e correnti centripete,9 che inducono i muscoli a contrarsi in smorfie di volta in volta associate a un diverso tipo di emozione (cfr. img 1). Locchio impassibile della camera registra le torsioni e i contorcimenti del paziente, poi quando la lastra fotografica si trasforma in tavola illustrativa queste pose da tableau glacialmente post-sadiano diventano di pubblico dominio: Mcanisme de la physionomie humaine, ou Analyse lectro-physiologique de lexpression des passions applicable la pratique des arts plastiques, il libro che Duchenne pubblica nel 1862, non a caso rivolto ad un uditorio pi ampio di quello strettamente medico, nella convinzione che anche le Belle Arti potranno trarre vantaggio da queste ricerche. Dal medium tecno-medico (i reofori) a quello fotografico/cartaceo, il gioco delle protesi (elettriche e non) dunque vertiginoso e modernissimo, nella misura in cui istituisce una triangolazione, davvero inquietante, tra lo sguardo del lettore (scienziato o esteta che sia), quello del medico e quello del paziente: una triangolazione in tutto degna, sia detto per inciso, di quella che nei circhi di mostri metteva tra loro in relazione lavventore, limbonitore e il freak di turno. Quanto questo regime scopico di matrice ambiguamente medico-estetico-voyeuristica possa risultare perverso il secolo scorso, il secolo delle dittature e del cinema, a rivelarcelo. In piena Guerra Fredda un grande narratore (Anthony Burgess),

seguito da un geniale cineasta (Stanley Kubrick), inventa il Ludovico Technique apparatus, la complessa strumentazione che costringe il drugo Alex a tenere occhi ed orecchie ben aperti per ingurgitare suo malgrado valanghe di immagini e suoni (cfr. img 2). La triangolazione in atto sempre la medesima: spettatore, medico, paziente, solo che stavolta gli stimoli applicati sui centri nervosi non sono pi delle primitive, ottocentesche, scosse elettriche, bens un fiume in piena di impulsi audiovisivi, di emozioni mediali totalmente eterodirette. La guarigione, poi, consiste nel ri-programmare totalmente la mente del paziente in modo da eliminare ogni impulso violento (ivi compresi gli stimoli sessuali), rendendolo finalmente adatto alla vita in societ. La cura sembra funzionare, e il viso di Alex sta l a dimostrarlo: i tratti del volto prima deformati dalla rabbia e dalla cupidigia, poi dal dolore e dalla sofferenza, si rilasciano dando infine limpressione di una sorta di ebetitudine, di istupidita passivit. Ci che tuttavia rende la Ludovico Technique particolarmente inquietante non tanto il fatto che si tratti di una pratica coercitiva, violenta e tirannica, quanto levidenza che il trattamento riservato ad Alex non differisce poi molto da quello cui vengono sottoposti tutti gli altri cittadini. Le nuove protesi ideate per guarire i soggetti anormali si chiamano radio, televisione, cinema: sono le tecniche mediali di cui il tecnopolio si serve per allucinare la popolazione, affinch diventi sanamente mansueta e sonnambolica.

Ora evidente come la terribile Ludovico Technique rappresenti il modello da cui Frasca, che nel corso di Dai cancelli dacciaio cita a pi riprese lopera di Kubrick,10 partito per immaginare le perverse pratiche di godimento/patimento che si svolgono nel sottosuolo del Cielo della Luna, la megadiscoteca di Monterzuolo diretta con spregiudicato talento manageriale dalla fatale in tutti i sensi Regina Mori. Anche in questo caso, il riflesso sulla pagina tipografica di quanto avviene dentro e fuori il corpo del Senziente ci offre una triangolazione tra soggetti implicati in un gioco di reciprocit: il lettore che spia la vicenda dal vecchio buco della serratura del medium cartaceo gli operatori addetti ai giochi e il Senziente, nella fattispecie il gesuita Padre Saverio Juvarra. Non diversamente dal paziente di Duchenne e dal drugo Alex, anche Padre Juvarra costretto a una totale immobilit fisica; la sua testa viene mossa a comando e tutte le sue percezioni sono eterodirette. Essendo tuttavia nel Ventunesimo secolo, non pi questione di gabinetti medico-scientifici di marca positivista o di novecentesche proiezioni orwelliane di stampo psicotico-fascista: le sensazioni, gradevoli o orripilanti che siano, rappresentano transazioni economiche, e bisogna pagare per ottenerle. Alle immagini socialmente e moralmente ricattatorie con cui veniva imboccato il drugo Alex, subentrano dunque nel ristretto ed eterodiretto campo visivo del Senziente una terrifica catena di corpi in copula,11 progressivamente sempre pi estrema e violenta, fino a comporre una post-ballardiana mostra delle atrocit in piena regola.12 Per pagine e pagine, il narratore sottopone il protagonista del romanzo ad una rivisitazione in chiave edonistico-individualista della Ludovico Technique, dove lormai antiquato telone cinematografico di Clockwork Orange rimpiazzato da ben 72 schermi ultra-teconologici che trasmettono i Defective Vows Disc prodotti dalla Moon Spots S.r.l., dvd realizzati assemblando immagini registrate durante i giochi svoltisi la settimana precedente nei sotterranei della discoteca. In questa lunga discesa ad inferos, il lettore costantemente chiamato in causa, ritrovandosi ora a fianco del Senziente, per scrutarne voyeuristicamente le reazioni corporee, ora addirittura nella sua pelle, diventando egli stesso la mano che gira la manovella e fa andare il terribile cinemino degli orrori che il sadico sottosotto-scrittore Gabriele Frasca ha impiantato nel cuore della sua Santa Mira.

Un Salvato allInferno... [...] Sospeso nel vuoto su una strana impalcatura,11 tanto da ricordare il Corpus Hypercubus di Dal, esposto allo scherno e alla vergogna, mentre un manipolo di aguzzini (dalla stessa Regina Mori al regista Nello Scopio, fino alla modesta prof. di matematica che occupa il ruolo dellOttico) inchioda i suoi sensi a un continuo stream of perceptions simultaneo e risonante,14 Padre Saverio Juvarra non pu non suggerire lidentificazione con una moderna, multimediale incarnazione dell'iconografia del Christus patiens. Un Cristo, per, cui sia tolta la dignit di identificarsi, e di farsi riconoscere, attraverso quella maschera di dolore che larte per secoli si sforzata di rappresentare, a sottolineare la natura anche umana del Figlio dellUomo. Il volto/maschera di Padre Juvarra infatti del tutto artificiale, ed stato disegnato per lui dai suoi stessi carnefici. Esattamente come accadeva con gli esperimenti di Duchenne e le sedute cinematografiche di Alex, la mimica emotiva del Senziente annullata, essendo per lui impossibile controllare anche uno solo dei muscoli facciali. Il sorriso, quel sorriso scettico e saccente da gesuita che lo contraddistingueva, del tutto cancellato; i lineamenti del volto sono tanto tirati che quasi sembrano scollarsi dagli zigomi,15 mentre le guance sono irrorate da [...] lacrime mute, involontarie, magari persino impercepite, non piante insomma, perch non gli contraevano il viso, che restava di pietra, o di rame, o di legno. Sgorgavano negli occhi aperti, e traboccavano lentamente a ogni battito di ciglia, una per volta.16 La totale impossibilit di controllare la mimica espressiva appare come il prerequisito essenziale per accedere ad una assoluta, totale purezza dello sguardo, ovvero per gettare la maschera della propria soggettivit, cancro inestirpabile della specie umana, e finalmente aderire [...] allocchio esterrefatto della camera [...] con la purezza priva di prevenzioni di un congegno. 17 Limmagine, che ricorre in pi luoghi del romanzo,18 allude chiaramente allenorme occhio esterrefatto del vecchio Buster Keaton nella sequenza finale di Film (1961) di Samuel Beckett,19 quando lormai anziano principe dei poker-faced comedians, alzandosi dalla sedia a dondolo, si approssima alla camera fino a trovarvisi facie ad faciem, cos da diventare egli stesso [...] il vetro della teca attraverso cui fissa-

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re gli altri corpi.20 Nella immobile iper-stimolazione forzata cui costretto, nella trappola erotico-mortuaria che lo possiede, tra patimenti e imperdonabili beatitudini, Padre Juvarra diventa dunque un vitreo soggetto-occhio, un uomo finalmente privato della propria volont, e cio sottratto a ci che Frasca chiama il giogo dellio e te, o anche, con pi amara ironia, la beffa dei diretti, io e tu, io e tu, che poi la mortificante in tutti i sensi questione delle identit. Perch se il polpo lunico animale capace di riconoscersi allo specchio, teorizza un eccentrico personaggio fraschiano, il dottor Saro Buono, luomo addirittura un ultrapolpo, un polpo cio capace di andare oltre lo specchio, di attraversarlo,21 se proprio [...] oltre lo specchio [che] il soggetto risucchia loggetto, o loggetto ingloba il soggetto, insomma ci si fa uno.22 Non trovandosi pi n al di qua n al di l dello specchio, ma facendosi esso stesso specchio, inter/faccia, Padre Juvarra esperisce allora la sconvolgente possibilit di diventare un burattino privo di volont, un pupo manovrato da fili ultra-tecnologici e tuffato in un gioco di vorticosi spossessamenti che lo condurr, per la lunga durata di una notte di agonia, al centro esatto del proprio raccapricciante mondo di volizioni. Quel che tuttavia Padre Juvarra non comprende che questa devastante esperienza di spoonfeeding audiovisivo solo in parte un castigo, una pena inflittagli per espiare le cose orribili che [ha] fatto,23 a cominciare dal tradimento consumato nei confronti del Cardinale Cristoforo Bruno.24 Quella cui il Senziente viene sottoposto nella notte fra il venerd e il sabato nel sottosuolo del Cielo della Luna semmai soprattutto una cura, un efficacissimo pharmakon, giovevole e malefico insieme che, facendo leva sul potere distruttivo dello sguardo,25 lo condurr fuori dalla gabbia oscura della volont individuale. Solo facendosi schermo o, per dirla con Dante, vetro trasparente e terso, il Senziente pu infatti giungere a gettare la maschera che volge allesterno una smorfia da individuo ed immettersi nel flusso dellesistente,26 che significa poi non volgere le spalle alle rive del Male bens specchiarsi nelle sue acque stigie tum quoque se, postquam est inferna sede receptus, / in Stygia spectabat aqua, scriveva Ovidio nelle Metamorfosi parlando, non a caso, del principe degli egocentrici: Narciso per poi immergervisi sino al collo ed ingurgitarne una quantit talmente spropositata da ritrovarsene libero. Circa la bont dellesperienza,

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la stessa Regina Mori a darne conferma, dialogando con padre Juvarra alla fine della lunga notte di tribolazioni, quando gi il prelato, scollato il volto dallo specchio oscuro, si appresta a riveder le stelle: [...] Quando si gode in modo bestiale, o si sparge il fotto dinanzi a una scena che al solo pensiero dovrebbe inorridirci, non possiamo raccontarci pi la frottola della nostra innata bont. Assumiamo piuttosto il male che in noi, e lo spremiamo una volta per tutte come unarancia. 27 Se non abbiamo ragioni di dubitare dellefficacia della cura, resta tuttavia una domanda da porsi: qual esattamente il prezzo da pagare per questo rito soterico e liberatorio? Si tratta soltanto di sborsare grosse somme di denaro, ovvero di limitarsi ad una pulita, asettica, liberale transazione di capitali, oppure c qualcosa di pi? Dove si cela il volto veramente osceno di quanto avviene tra le mura della pi grande discoteca del Belpaese?

... e un Dannato in Paradiso


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Se Padre Juvarra appartiene ancora alla generazione cresciuta allombra del proiettore e del telone bianco, nellambiente compartecipativo dei cineforum, il suo giovane amico, nonch effimero amore, Valentino Mormile, figlio dellera del monitor e dei videogiochi, ossia di media che hanno rotto ogni effetto di distanza tra percipiente e percepito, istituendo un contatto diretto tra la protesi e la fisicit del fruitore. Per questo, anche in relazione alla questione del rapporto tra visione ed impulsi libidici, il videogioco rappresenta un ulteriore passo in avanti rispetto al cinema e alla televisione, affermandosi come una machine clibataire in piena regola. 28 Il videogiocatore costitutivamente un soggetto solitario, chiuso per ore tra le quattro pareti di una cameretta perennemente rischiarata dai bagliori del monitor, un luogo che pi che un jardin des dlices ricorda le galere dei Megamicri immaginate da Casanova, dove ai criminali, per massima punizione, non concesso il conforto di riposare nellombra: On prfre l les tnbres la clart du jour [], [et donc] les coupables ne sont l jamais condamns qu des prisons claires, moins quils mritent quelque indulgence.29 Trovatosi a vivere in un tempo incapace di indulgenza, Valentino un adolescente drammaticamente infelice a causa

di un enorme complesso di inferiorit. Pur avendo un viso del tutto normale, anzi a detta di molti persino bello, Valentino convinto che i suoi tratti somatici siano orribilmente deformi, in preda a continui smottamenti e collassi, tanto da sentirsi un predestinato al brutto, un condannato, per il quale [...] a ogni specchio si rinnovava il tormento.30 La chirurgia plastica al di sopra delle possibilit della famiglia, e allora Valentino trascorre la maggior parte del tempo chiuso nella sua prison claire a trastullarsi con Facebook o con un videogame di ultima generazione, il MMOPRG Glorified Persons esplicita allusione tra laltro al concetto di Corps Glorieux enunciato da Jean-Luc Nancy con in testa un unico pensiero: rincorrere e raggiungere il traguardo della Bellezza, per poter un giorno, novello Narciso, guardarsi allo specchio e innamorarsi dei propri lineamenti armonici e aggraziati. Quella faccia era tutta da rifare, e rimodellarla sarebbe stato lo scopo della sua vita.31 La protesi, linter/faccia attraverso cui giungere a questo obiettivo stavolta rappresentata dalla sofisticatissima tecnologia ASS McLuhan VI Frasca si diverte evidentemente come un matto, quando si tratta di immaginare le nuove frontiere della manipolazione mediale capace di evocare sensazioni audiovisive e tattili tanto coinvolgenti da non limitarsi ad operare sulla faccia, sul corpo del giocatore, ma addirittura, per tappe progressive, di sostituirsi letteralmente a lui. Il primo livello di Glorified Persons un inferno dantesco di miserie, stenti e frustrazioni, grigio e monotono, nel quale si aggirano, andando perlopi in tondo, branchi di AP (Aimless People), che costituiscono la stragrande maggioranza dei partecipanti al gioco. Istupiditi e narcotizzati, tanto appagati dalle meraviglie della grafica e degli effetti audio da non desiderare di approdare ai livelli pi avanzati, i giocatori AP traggono [...] un certo godimento dal sentirsi rinchiusi in un mondo a tenuta stagna, dove non vera gesto che non fosse inutile e nulla poteva lenire il gradevole languore che era lo stato emotivo dominante, oltre che scrupolosamente indotto, fra gli utenti di Glorified Persons.32 Questo primo, superficiale livello di realt non pu tuttavia soddisfare linquieto Valentino, il quale smania per poter penetrare nel mondo glorioso, sorta di Terra Promessa situata al di l dei cancelli dacciaio, arcadia videoludica dove Bellezza e Armonia siedono in trono luna accanto allaltra. Ora dopo ora, livello dopo livello,

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indossando quellinter/faccia assolutamente appagante che il volto sereno e molle del suo avatar,33 il ragazzo gode di unesperienza multisensoriale non solo visiva e uditiva ma persino tattile che lo coinvolge totalmente, attraverso scenari sempre pi ameni e letificanti. La chiave per conquistarsi questa ascensio ad Clum e liberarsi finalmente dalle ultime zavorre terrene laccettazione di una serie di pratiche omofagiche dal chiaro contenuto eucaristico, non prive di un appagante risvolto libidinoso. La svolta arriva quando, raggiunta la massima zona di beatitudine, lavatar di Valentino si imbatte in un uomo mascherato, un Upholder, che lo incita ad abbandonarglisi con le parole Liberati dal mondo della carne, accedi in gloria al Cielo della Luna. 34 Accettando di lasciarsi divorare dallUpholder, Valentino sente di aver raggiunto lobiettivo che si era prefissato: finalmente lo schermo del monitor non rinvia pi un insieme di tratti scomposti e devastati, bens un viso di abbacinante bellezza, totalmente trasfigurato. Non era il suo avatar ad affacciarsi dallo schermo, si legge nel quarto fascicolo del romanzo, ma proprio lui, bello come non sera mai visto, e radioso:35 immagine che chiaramente allude al passo evangelico in cui Cristo, subito prima di intrattenersi in dialogo con Mos ed Elia, muta improvvisamente di aspetto dinanzi agli attoniti Pietro, Giovanni e Giacomo: E, mentre pregava, il suo volto cambi daspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante (Lc, 9, 29). Linsicuro e tormentato adolescente Valentino Mormile ha ormai una nuova identit virtuale: quella di Resettato, o ReSeth, di individuo cio rinato alla vita; il Re-Seth di fatto un corpo nuovo, un corpo ricreato perfetto nel quale insufflare la propria anima, finalmente libera dalle gabbie della corporalit infelice.36 La bellezza di quel corpo, e di quel volto, erano impareggiabili, annota la voce narrante, e sono lo specchio dellidentit che Valentino desidera per s: Sono io, si ripeteva Valentino ogni volta che si metteva di faccia allo schermo. Come dovrei essere, aggiungeva.37 Se in quella che illusoriamente chiamiamo realt il volto di Valentino stato plasmato dalla mano deforme e malvagia della crudele scimmia di Dio, ecco che il potere del software giunge a ristabilire quella perfezione somatica che sola degna di una vera divinit. Il che non farebbe che confermare, a pi di duecento anni di distanza, le osservazioni di Lava-

ter nei Physiognomische Fragmenta a proposito del fatto che la bellezza del volto rappresenta una tappa fondamentale nel cammino della fede: Pi belli sono i volti di Cristo, tanto pi si crede in Lui... Fu solo la scarsa sensibilit fisiognomica a non far credere in Lui.38 Una volta che il suo avatar divenuto Re-Seth, Valentino si avvia a percorrere le tappe conclusive del proprio cammino: tappe che prevedono una doppia prova di fede. Il primo passaggio, ancora sul terreno dellesperienza videoludica, prevede che il Re-Seth accetti di finire sgozzato per mano dellUpholder. Non si tratta per soltanto di accettarlo: bisogna dimostrare di desiderarlo ardentemente.39 Lo stadio ulteriore consiste nel passaggio dal virtuale al reale, ovvero lingresso in carne ed ossa nellEmpireo altrimenti inaccessibile dei sotterranei del Cielo della Luna. Indossando una tunica dargento candida e sfolgorante come quella di Cristo apparso ai discepoli, Valentino ormai una Persona Prossima alla Gloria, che otterr la suprema fusione con il proprio Re-Seth nel momento stesso in cui, sotto locchio impassibile della telecamera, la villosa mano dellUpholder si abbatter sulla sua gola per squarciarla. La caratteristica fondamentale di questo lungo percorso di sublimazione e morte che nelle decisioni di Valentino non c costrizione di sorta, anzi la libera scelta rappresenta un prerequisito indispensabile per varcare i cancelli dacciaio della discoteca, come Regina Mori dichiara esplicitamente:
Chiunque varcasse i sotterranei del Cielo della Luna, doveva farlo di sua volont, e non solo consapevole di quanto gli sarebbe accaduto ma desideroso che il tutto avvenisse esattamente come se lera prefigurato [...]. Come avrebbe detto Regina, esercitare la forza su chi recalcitra stato tipico dei sistemi totalitari che fortunatamente sono scomparsi nel secolo scorso, con le ultime ombre cupe che slanciavano su di loro le identit statali sorte come funghi, o bubboni, nella grande recessione barocca. Ma adesso, con tutta questa luce, volete che ci sia ancora una vittima ignara del proprio compito, e meno che smaniosa di adempierlo?40

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Sono parole, ci pare, che consentono di leggere la morte di Valentino e delle altre Persone Prossime alla Gloria come una sorta di osceno ribaltamento del martirio cristiano, solo che si ricordi quanto Giovanni raccomanda allangelo della Chiesa di Smirne: Non temere ci che stai per soffrire: ecco,

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il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti dar la corona della vita (Ap. 2, 10). Ma fino a che punto la fede di Valentino, costruita per via di manipolazioni videoludiche, pu essere considerata spontanea e volontaria? E soprattutto, a chi giova la sua morte? ... con tutta questa luce..., dice Regina nel passo sopra riportato, e sono parole rivelatrici. I terminali che rischiarano coi loro lampi e bagliori le prigioni chiare della vita domestica, solcate da luci abbondanti e insieme ottuse, accecanti, sono i non-luoghi dove si riposizionano i sensi e i flussi di desideri, dove si fortificano le inquinanti discipline del dover-voler-essere: come spiegare altrimenti la scelta di far trascorrere a Valentino gli ultimi istanti della sua vita in un ambiente che la perfetta riproduzione ma sublimata, anchessa in qualche modo glorificata della sua cameretta da adolescente?41 Nel passare da una prison claire allaltra, Valentino appare non solo perfettamente convinto della sua scelta suicida, ma smanioso di incontrare la mano che gli recider la gola, restando per sempre totalmente alloscuro di quanto avviene dietro le quinte di quei Campi Elisi del godimento e della telegenia in cui stato chiamato a immolarsi. Lungo il tortuoso cammino che lo condurr a fondersi col suo Re-Seth, Valentino non fa insomma che affermare una volont che non la sua, ma che stato, per dirla in termini leopardiani, assuefatto a volere, nella pi totale incoscienza dei meccanismi che la determinano. Da questo punto di vista il suo caso rappresenta lesatto opposto di quello del drugo Alex che, in un gesto di suprema e disperata ribellione, si getta dalla finestra e affronta la morte pur di liberarsi dagli effetti della Ludovico Technique e tornare padrone della propria (sadica e perversa) personalit. Si ricorder a tal proposito la beffarda frase I was cured, all right! con cui Alex sul finale rassicura il Primo Ministro, lasciando intendere allo spettatore di essere guarito, s, ma dalla propria precedente, seppur sanguinaria, fanciullaggine, e di essere solo ora divenuto adulto e consapevole di come funzionano le regole di un gioco dal quale non intende pi sentirsi escluso. Allora attuale, con la strumentazione mediale di cui il tecnopolio dispone, un analogo gesto di ribellione appare del tutto impensabile. Non solo, ma al videogiocatore Valentino viene negato persino quel granello di consapevolezza che inve-

ce era stato accordato a un altro personaggio fraschiano, sorta di suo fratello maggiore, ossia il telespettatore santamirese Andrea. Da adolescente, negli anni Novanta, Andrea partecipa come concorrente al gioco Trova la tramontina, frangente clou della trasmissione Sempre insieme. Durante il gioco, in un momento di epifania quasi mistica, la conduttrice del programma Maria Grazia Prena rivela ad Andrea quanto sia illusorio immaginare che partecipare ad un quiz significhi soltanto giocare, assecondando la propria presunta volont. Nel momento in cui Andrea ha deciso di emergere dalla massa informe degli spettatori passivi esattamente come gli AP sono giocatori passivi di Glorified Persons per attraversare lo schermo e partecipare al programma,42 dovr anche affrontare la verit su cosa sia davvero lindustria del divertimento, ossia un circo di bestie ammaestrate, un circo di bestie che qualcuno ammaestr. Qualcuno? Aha! S, qualcuno, da qualche parte, ammaestr, perch, bestie come sono, cos, tutte in circolo, corressero, avanti e indietro, sinistra destra, sinistra destra. Corressero e soffrissero. Senza nessun dolore apparente.43 Analoghe rivelazioni, con la consistente differenza che al circo ormai stata rimpiazzata da una vera e propria ara sacrificale, giungono alle orecchie del lettore ma non a quelle di Valentino per bocca di Regina Mori, quando spiega al suo staff:
Dobbiamo insegnare loro [...] lunica virt che fa la grandezza di un paese democratico come il nostro, la mansuetudine. No, non crediamo che dobbiamo creare degli automi, ma delle persone responsabili che sappiano accettare di buon grado, che dico, che siano capaci di volere fortemente il bene di tutti attraverso il proprio sacrificio. Esercitare la forza su chi recalcitra stato tipico dei sistemi totalitari che fortunatamente sono scomparsi nel secolo scorso, con tutti gli altri orrori che lo hanno attraversato. Preparare invece le volont al libero incontro con un volere pi alto, con una forza pi giusta nel ripartire le risorse che sono nel mondo, beh questo il nostro compito di rappresentanti consapevoli della societ civile. Alla fin fine, ci che offriamo loro esattamente la possibilit di uscire dallombra, per divenire finalmente un corpo nel mondo.44

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Se il barocco, nel senso latamente culturologico attribuito al termine dallo storico Antonio Maravall, non solo non mai morto ma anzi rimasto [...] vivo e vegeto sotto le varie

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maschere mortuarie con cui ununica classe sociale aveva tentato di fargli assumere, prima e dopo il carnevale della sua Rivoluzione [...], quello stesso aspetto composto e dignitoso che credeva le spettasse, finita la festa, di diritto,45 ebbene il discorso di Regina Mori rappresenta una sorta di eclatante manifesto del carattere barocco del neoliberismo italiano.46 Che poi, ancora una volta, una tragica conferma della validit della lezione swiftiana, se il mito di catastrofe che Frasca porta in scena non fa che denunciare, sospeso com tra tragedia e farsa, in che modo gira la ruota delle italiche generazioni, con i figli ciclicamente condannati per garantire ai padri una qualche forma di salvezza.47 La morte di Valentino rappresenta insomma, in questa nostra ipotesi interpretativa, il prezzo da pagare per garantire il buon esito della cura di Padre Juvarra, se proprio dando la propria vita in pasto alle telecamere che il giovane permette al gesuita di spremere via, per riprendere il linguaggio gnostico di Regina Mori, il male che in lui. In questottica, la scena chiave del romanzo quella in cui lo sguardo del padre (Juvarra) e del figlio (Valentino) si incrociano Io ti guardo guardarmi guardare... esattamente come possiamo immaginare potessero incrociarsi quelli di Abramo ed Isacco in occasione della aqedah, ossia quando il Patriarca [...] stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.48 Pur essendo anche, innegabilmente, un gesto damore il che da un certo punto di vista lo rende ancora pi terribile il supplizio di Valentino anche linscenamento di un olocausto, per dirla in termini biblici, generazionale, se la salvezza di Padre Juvarra dipende soprattutto dalla possibilit di godere di una cura che per essere materialmente allestita richiede sia lesistenza e la perpetuazione di un complesso e dispendioso apparato produttivo sia uno spaventoso sacrificio di giovani vite umane, ovvero i due elementi alla base di ogni conflitto bellico. Che si trovi in pace o in guerra ed questo, per dirla con Slavoj Ziz ek, il suo lato oscenamente ideologico il Sacro Romano Emporio domanda alle giovani generazioni di accettare di buon grado, anzi di sposare entusiasticamente, il proprio destino di vittime. 49 Se Valentino muore, dunque, soprattutto per perpetuare, anche economicamente il ragazzo investe in Glorified Persons ogni suo risparmio, pagando profumatamente anche il proprio sgozzamento il sistema econo-

mico e sociale vigente: pi che di gesto eucaristico, allora, si dovrebbe parlare di un vero e proprio atto cannibalico, come nel celebre Saturno devorando a un hijo dipinto da Goya. una nazione, lItalia raccontata in Dai cancelli dacciaio il tema era gi affrontato nei precedenti romanzi di Frasca, ma mai sino ad ora il motore aveva girato a cos pieno regime in cui i padri non solo non hanno intenzione di lasciare il proprio posto ai figli, ma anzi inducono i figli a desiderare, se non addirittura meritare, la propria eliminazione. Ed in questo, ancora una volta, che le maschere, le protesi, il narcotizzante ron-ron dei media intervengono a dar loro una mano, forti di leggi e meccanismi tanto persuasivi che, come il brano citato in esergo sembra suggerire, forse persino Dio, qualora commettesse la leggerezza di farsi vedere in uno studio televisivo, finirebbe per piegarvisi.50 Si potrebbe allora concludere che se lesperienza del Male e dellInferno garantiscono a Padre Juvarra di giungere, una volta gettata la maschera del desiderio, alla sua personale salvezza, lattraversamento di quel Paradiso osceno del godimento collettivo che chiamiamo capitalismo non pu che condurre il suo amato figlio ad indossare il volto radioso della vittima designata, dellagnello sacrificale.

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Sono le parole con cui uno dei produttori dello show televisivo The 700 Club, ideato dal teleevangelista Pat Robertson, racconta i preparativi per la diretta televisiva della Seconda Venuta di Cristo nel 1979 (citato in Straub 1986, p. 162). Cfr. Frasca/Dalisi 2004, p. 13. Frasca 2010b. Accanto a questo tema, un discorso a s meriterebbero poi le fondamentali questioni del montaggio e della risonanza simultanea fra spazio visivo e spazio acustico, due perni attorno cui ruota tutto il cinema mentale fraschiano sui quali ci ripromettiamo di tornare in una futura tappa del discorso che stiamo qui sviluppando. Frasca/Dalisi 2004, p. 251. Niccoli 2001, p. 22. Frasca/Dalisi 2004, p. 251. Fondamentale a questo proposito il saggio di Lisa 2005. Dibattista 2000, p. 2.

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Tra le varie citazioni kubrickiane, pi o meno ironiche il caso di Eyes Wide Shut: cfr. Frasca 2010, p. 475 vi anche quella di una delle battute di esordio di Orange Clockwork: And we sat in the Korova Milkbar (ivi, p. 50). Per una interpretazione sociosemiotica della cura Ludovico, cfr. Marrone 2005. Frasca 1996, p. 209. Frasca 2010, p. 27. Il circo pornografico di Dai Cancelli dacciaio era stato gi prefigurato in Santa Mira da una sorta di sogno cinematografico che balena nella mente di Gaudenzio Stelli: cfr. Frasca 2006, p. 91. Frasca 2010, p. 446. Frasca 1996, p. 198. Cfr. Frasca 2010, p. 446. Ivi, p. 201. Ivi, p. 48. Cfr. per es. ivi, p. 32. Frasca 1996, p. 210.

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Ivi, p. 178. Cfr. Frasca/Dalisi 2004, pp. 203-205 e Frasca 2010, pp. 96-99. Frasca/Dalisi 2004, p. 205. Per una intelligente e convincente analisi del tema dellidentit nellopera di Frasca si rinvia al capitolo Nientaltro che cantare. Su Prime e la poesia di Gabriele Frasca in Francucci 2009. Frasca 2010, p. 6. Padre Juvarra infatti venuto meno ai propri voti, ed questa la ragione per cui, in perfetta osservanza delle prescrizioni dantesche, stato destinato al Cielo della Luna. Il fatto che il gesuita sia stato un Giuda per il proprio maestro introduce una serie di questioni che richiederebbero una trattazione a parte, rappresentando uno dei temi centrali del romanzo, ossia il nodo teologico-filosofico del tradimento come ganglio vitale che regola tutta la tradizione, la trasmissione dei saperi e delle fedi non avvenendo mai per piccoli salti du mme au mme, bens per strappi e lacerazioni che sdruciscono la trama dellesistente. Film by Samuel Beckett (1965) [...] riflette proprio sul potere distruttivo dello sguardo. Di qualsiasi sguardo ma soprattutto del proprio (Di Marino 2009, p. 40). Frasca 2010, p. 285. E poco oltre: Si tratta sempre di gettare via qualcosa, dalla povera statua che calza una smorfia che crede sua, ed una maschera. Anzi, si tratta proprio di gettare la maschera (ivi, p. 286). Ivi, p. 565. Le parole di Regina Mori fanno eco a quelle con cui lo stesso Frasca concludeva il volume La lettera che muore: Occorre avere il coraggio di assumere ci che va assunto (ingoiare la morte), e poi, con altrettanto coraggio, in unepoca in cui la massiccia dose di informazioni ci arreda costantemente la vita coartandoci al passato narcisistico [...], espellere tutto il resto (Frasca 2005, p. 315). Queste teorie si nutrono di credenze gnostiche a partire, ci sembra, dal mito manicheo della Seduzione degli Arconti che non qui il caso di analizzare; ci limitiamo a rinviare al capitolo The Seduction of the Archons in Stroumsa 1984, pp. 152-158. Giocare con una macchina paragonabile allessere un corpo in un mondo (Frasca 2010, pp. 418-419). Casanova 1788, p. 76.

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Frasca 2010, p. 253. Ivi, p. 259. Ivi, p. 271. Ivi, p. 337. Ivi, p. 362. Ivi, p. 363. Ivi, p. 437. Ivi, p. 411. Citato in Michel 1990, p. 39. Cfr. Frasca 2010, pp. 414-415. Ivi, p. 433. Cfr. ivi, p. 436. chiamarci, raggiungerci, mescolare la tua voce alla nostra, vivere con noi questi momenti: Frasca 2006, p. 68. Ivi, p. 69. Cfr. Frasca 2010, p. 419. Ivi, pp. 254-255. Segnaliamo a tal proposito larticolo, per molti aspetti consonante con il pensiero fraschiano, di Berardi 2010. Sul tema ci sia consentito rinviare al capitolo Intransigenti olocausti: let dellirrisione in Donati 2010, pp. 85-129. Gen, 22, 9; le scene cui si fa riferimento si trovano in Frasca 2010 a p. 446 (punto di vista di Valentino) e 530 (punto di vista di Padre Juvarra). necessario ricordare che per certa tradizione ebraica Isacco si consegna a Dio in modo incondizionato, arrivando a legarsi volontariamente per il sacrificio ed interpretando cos in maniera attiva il suo ruolo di vittima. Sullanalogia tra riproduzione sessuata e riproduzione tecnica delle immagini si sono gi soffermati, a proposito della poesia di Frasca, Giancarlo Alfano (cfr. Alfano 2005) e in riferimento a Santa Mira, Paolo Giovannetti (cfr. Giovannetti 2006, pp. 322-323). Sul tema cfr. il capitolo Gabriele Frasca, poeta di guerra in tempo di pace in Cortellessa 2006, pp. 460-482. E non forse questo che accade in uno dei capolavori del fumetto mondiale, il graphic novel Watchmen, quando lonnipotente Dr. Manhattan a proposito del quale il suo mentore, lo scienziato Milton Glass, dichiara: [...] I never said The superman exists and hes American. What I said was God exists and hes American cortesemente invitato dallassistente di studio a scurire lazzurro della sua pelle, in modo da risultare pi telegenico (cfr. Moore/Gibbons 1986, p. 11)?

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La carne e il suo schermo, lo schermo e la sua carne1 Paolo Giovannetti

1. In definitiva: vere sustanze son ci che tu vedi, secondo recita Pd, III, 29; e poi, con If, XXXIII,129-32, sar utile ricordare che tosto che lanima trade / [...], il corpo suo l tolto / da un demonio, che poscia il governa / mentre che l tempo suo tutto sia vlto. Entrare nel Cielo della Luna, fungo o bubbone come viene pi volte ripetuto nel romanzo di Frasca che incombe su Santa Mira, significa con ogni evidenza assumere la materialit delle relazioni che in esso si svolgono, agta da corpi la cui anima forse gi morta. Ma soprattutto - e definitivamente laccesso consapevole a quel luogo, e a Dai cancelli dacciaio come opera, implica cogliere con il massimo raccapriccio che gli schermi (gli schermi, dico, dei media nelle loro molteplici declinazioni) instaurano con lo spettatore un rapporto ipocrita costringendolo ad assumere come fittizi, finzionali, eventi viceversa veri. In gioco innanzi tutto lossessione dello snuff movie, quasi una maledizione originaria e ricorrente nel modo di rappresentare il cinema, e forse anche i media in genere: se vero che quanto determin la definitiva crisi di Serafino Gubbio, allaltezza del 1915 (in quel romanzo pirandelliano inizialmente intitolato Si gira...), fu proprio lobbligo di filmare il vero sbranamento da parte di una tigre del malcapitato (anche se in fondo colpevole) Aldo Nuti; e se magari vero, poniamo, che mentre Frasca terminava la pubblicazione del suo romanzo il filmologo e massmediologo Gianni Canova appunto allinizio del 2010 esordiva come narratore con un noir gotico, Palpebre, in cui il mercato indecente di corpi mutilati e poi filmati al centro di un commercio che molto assomiglia a un complotto, a una caduta degna dellimmaginario gnostico il vero motore della storia (della Storia?). Certo, e avremo modo di dirlo: il confine tra reale e finzionale per Frasca labilissimo, e la reversibilit degli opposti

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legge. Ma, soprattutto, mai come in Dai cancelli dacciaio la semiosi estetica (la letteratura, e quella porzione di medialit che, in termini di parola anche pronunciata, la letteratura si impegna restituire al mondo) importa il confronto con una corporeit nientaffatto immateriale, simbolica, e anzi costituita dalle nostre persone fisiche, pi agenti che pensanti, quali protagonisti veri del racconto, del narrare in atto. Davanti al nuovo romanzo di Frasca, siamo insomma - ancora una volta - costretti a ragionare intorno alla morte ingoiata dalla vita (come vorrebbe uno dei personaggi, Saro Buono, nel suo tentativo di dare un senso a una delle pi enigmatiche pagine di Freud, contenute in Al di l del principio di piacere), ma soprattutto intorno al modo in cui la letteratura, la lettera che muore, riesce a rimasticare, assaporare e risputare laltro da s dei media. Il cui censimento pregresso da Frasca qui integrato e in modo assolutamente geniale, a me sembra con loccorrenza del videogioco. (A ben vedere, due parole andrebbero dette anche su quel particolare luogo elettrico che la discoteca: centro tuttavia pi pretestuoso che reale del romanzo, suo schermo pubblico a uso e consumo del perbenismo e delle convenzioni sociali. Comunque a me piace ricordare che gi in Eccetera di Emilio Tadini un romanzo del 2002 sul ballo e la discoteca - era attivo un analogon dantesco, alla stregua di una figura postmoderna capace di restituire lunico vero excessus mentis e corporis consentito dal divertimento di massa contemporaneo).2 E le pagine consacrate alla progressione videoludica attraverso la quale Vale, Vito e Joy arrivano a desiderare il desiderio che il Cielo della Luna ha di immolarli alla socialit di un rito orrendo, costituisce uno dei momenti davvero esemplari del romanzo su cui oltre tutto si dovrebbe molto discutere. La macchina sinestetica che la Rete, la costruzione di un percorso agonistico e condiviso, interattivo (il gioco appunto), e soprattutto limperativo del godimento, peggio anzi, della congiunzione con un simulacro del proprio corpo (con il fantasma narcisistico che siamo costretti a manipolare fuori di noi): tanta, quasi troppa la materia per una discussione. Che oltre tutto rischia fin dallinizio di prendere una strada sbagliata, quasi che Frasca avesse voluto far da sponda al senso comune di chi demonizza il medium recente alla stregua di uno strumento di ineluttabile corruzione. Quando viceversa

chiaro che agisce nella sua analisi il metodo del doppio s (pi volte ricordato nel romanzo anche in termini di relazioni fra persone), vale a dire unaccettazione preliminare dellalterit mediale, fatto salvo il successivo contrappelo da parte della strumentazione letteraria: che insomma tenta di ridire il detto altrui. Un ibrido mcluhaniano, in qualche modo, ma con la lente di una ferrea autoconsapevolezza, la quale implica come vedremo un costante passaggio alla metalessi, la coscienza che ci che il medium elettrico suggerisce la parola scritta deve sempre riformulare. 2. Daccordo. Ma si tratta di un percorso nientaffatto ovvio, tanto pi per chi, come il sottoscritto, davanti a taluni luoghi del testo pu solo esclamare: non ci arrivo, non capisco. A partire magari dalle questioni teologiche che tanta parte (e sottolineo un connettivo sintattico leopardiano spesso usato da Frasca in questo romanzo: forse un tic inteso a ricordarci la nostra inevitabile esclusione - pur inclusi in tanto percepire coatto dalle sensazioni giuste), che tanta parte dicevo hanno, e tanto decisiva, nella complessione concettuale del romanzo. comunque da credere che per entrare adeguatamente nellinvenzione sadiana ideata da Regina Mori, e provare a intuirne almeno un po limportanza (diciamo) mitopoietica, sia utile mettere in primo piano alcuni snodi concettuali complessivi che Dai cancelli dacciaio realizza, lasciando ad altri la puntuale escussione (narratologica, stilistica, metricologica, strutturale ecc.) di questo ricchissimo testo narrativo. Tanto per dirne una, e per farmi del male sino in fondo: a che ora del 27 settembre 2008 il cinquantenne cardiologo santamirese protagonista suo malgrado di uno dei fatti di cronaca pi sconvolgenti della primavera 1999 viene abbandonato al terzo livello della ghiacciaia (il Cocito) che Frasca colloca alla base del Cielo del Luna? Certo, a quattro ore circa di distanza dalle 11,45 del giorno prima, quando lunit primaria del tempo narrato aveva cominciato il suo conto alla rovescia, la sua corsa a esaurirsi: ma quel circa mi lascia un po insoddisfatto... In estrema sintesi, e secondo unargomentazione scontata ma forse utile, potremmo intanto dire che il corpo a corpo mediatico qui messo in scena comporta sia una sconfitta, una perdita, una ferita patita dal letterario, sia per anche una sua vittoria, un suo seppur provvisorio trionfo.

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A un livello di crisi quasi solo metaforica si colloca la mise en abyme filmica che in qualche modo sostiene e spiega la totalit del romanzo (e poco importa che almeno un po si presenti come omologa ai versi dellInferno dantesco sopra ricordati): si tratta del non casualmente sessantottino Notte dei morti viventi, che ammonisce il filmologo gesuita padre Polara ci ricorda qualcosa di spaventoso. Cio: Lanima pu morire, sul serio, primancora che lo faccia il corpo, e lasciare un involucro che altri potr cos muovere a suo piacimento. E non c da averne paura, ma orrore (p. 495). Il lettore di Frasca sa che tale emersione di un film in grado di rispecchiare, e generare, il senso del romanzo, perfettamente omologa allossessione dei body snatchers, agente in Santa Mira, che prendeva spunto dal film (1956: e vi risparmio le considerazioni sullemblematicit anche di questa data) Linvasione degli ultracorpi di Don Siegel: la paura, identitaria, di non essere pi se stessi, di essere stati alienati da una vita altrui, di vivere installati nella pi disperante inautenticit lesistenza di un altro. La simmetria ricercata in maniera tanto evidente che lo stesso autore si sente in dovere di ironizzarci sopra un po se vero che un discepolo del filmologo gesuita (peraltro di nome Gabriele) fa il verso a padre Polara, bofonchiando la parola orrore alla maniera del Kurtz-Marlon Brando di Apocalypse Now, onde sdrammatizzare linquietudine suscitata dal film di Romero. Ma anche questo ribadimento negato, questa rottura nella continuit e questo giocare con le invarianti del proprio immaginario, per riaffermarle e insieme per farle vacillare - una delle novit del romanzo, su cui torner. Ovviamente, sul versante di tale subalternit mediale, la maggior novit la versione MP3 dellopera, la lettura filata che per 25 ore circa lautore stesso ne restituisce peccato avere ecceduto la misura delle 24 ore, verrebbe da dire! , con una capacit attoriale davvero ammirabile ancorch sorretta da una strumentazione casalinga (come sa chiunque abbia ascoltato per tutto quel tempo, sullo sfondo del romanzo, ora il rumore del traffico di Napoli ora labbaiare di cani entro un dcor viceversa suppongo agreste). Tra laltro, il macinatore di parole rileggendosi si corregge un po, e il filologo che inutilmente alberga in me (e un futuro compilatore di tesi di laurea: cfr. infra) sente il bisogno di provare a inter-

rogarsi sulla ratio di alcune correzioni pi succose (fatta la tara agli interventi quasi prevedibili: ripetizioni, suoni indesiderati ecc.). Poniamo: perch la versione letta trasforma Per controllare tutte le altre camere, che piene di mobili e credenze erano in realt dei gusci vuoti, gli era bastato molto meno (p. 509) in Per controllare tutte le altre camere, che pur piene di mobili e credenze erano in realt dei gusci vuoti, vista quanto a trascorla [sic] si incrementasse la superficialit dellimmagine, gli era bastato molto meno (a 1h, 10 sec. del file MP3 5.2)? Il lettore-ascoltatore, badando al contesto, una o pi ragioni le trover, e soprattutto potr interrogarsi sul senso di un lavoro non solo in progress, ma anche esposto allalea dellesecuzione. Pi sostanzialmente, poi, la recitazione non pu fare a meno di alcuni effetti speciali. Il pi innocuo e forse anche meno interessante dei quali a prescindere dalle due ghost tracks musicali, che integrano lopera linserimento di vere e proprie musiche elettroniche di accompagnamento alla letturarecitazione dei versi. A partire naturalmente dalla hit di Regina Mori, Creature from the Black Lagoon (p. 187; 54 min., 16 sec. del file 2.3), passando attraverso la sonorizzazione della performance radiofonica di una poesia della stessa Regina (Mocking, poesia) con arpeggiante accompagnamento pianistico (pp. 4201; 42 min., 32 sec. del file 4.3), per arrivare infine allattacco dellultima sequenza narrativa (pp. 531 sgg.; incipit del file 5.3) in cui il Tu, tu, tu, tu, tu che costituisce anche il finale dellopera reso elettronicamente e introduce una sillabazione canticchiata (Tat tatat tatat tat, bschhh, tat tatat tatat tat) che poi si riveler essere Radioaktivitt dei Kraftwerk. Laddove assai meno innocua, e in qualche modo inedita nella sua scommessa sinestetica, la lettura, la traduzione sonora di una chat: le conversazioni via computer, dico, da parte di Vale e Vito. Qui, evidentemente, si deve registrare un ibrido di natura forse inedita, o per lo meno insolita: in che modo una voce letteraria (lesecuzione ad alta voce di un romanzo) riesce a farci udire la parola silenziosa che si illumina progressivamente su uno schermo di computer, mimandone la lenta apparizione. Fenomenologia che si manifesta, nientaffatto banalmente, in una lettura particolarmente meccanica, metallica e rallentata come potr constatare chiunque confronti pp. 264 e sgg. al min. 31, 25, sec. e sgg. del file 3.2.

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Uninteressante presa di posizione del letterario, in qualche modo: la parola passata attraverso la bocca, e filtrata da un computer solo alluso, drammatizza latto della scrittura, ritmando e quindi normalizzando la scansione necessariamente irregolare che presiede a ogni nostra digitazione su tastiera. Siamo cos giunti alle soglie delle vittorie. Ovviamente, nello schematismo del mio discorso andrebbero con pazienza discusse aree per cos dire intermedie: notevolissima senza dubbio la consapevole assunzione delle tecniche cinematografiche del montaggio, tuttavia ben motivate dallazione del soggetto focalizzante: del personaggio dico che filtra le informazioni, i contenuti del racconto. Un esempio uno dei tanti ma probabilmente davvero uno dei pi belli fornito dallattacco dellopera. Dove la percezione al presente (linizio delle quattro ore e rotti dellevento principale nella notte fra 26 e 27 settembre; pp. 5-6) del padre gesuita Saverio Juvarra lascia spazio a unaltra scena, cio limmagine (p. 6) della sua vittima, il cardinale Cristoforo Bruno ormai ridotto a un vegetale, culminante nel ricordo della sua mano che regge il vassoio, che si dissolve in una sequenza pi lunga (pp. 7-9), vale a dire linizio del dialogo con il cardinale americano Ramsey, direttore della Congregazione pro Doctrina Fidei (diciamo, il mandante del delitto) avvenuto circa sette mesi prima. Lultimo stacco (pp. 9-10), che riporta il lettore sul cardinale Bruno, realizzato sempre attraverso il rimante psichico delle mani. Vediamo questultima transizione:
Mani misericordiose [conclude Ramsey] pronte a passare quella barriera molle, per posarsi sul nostro volto sudato, magari soltanto per unultima carezza. Mani, e come no. Mani sollecite a passare lo schermo, se colpiti vi tramontano nel grigio i bersagli. Come le sue [messa a fuoco di padre Saverio], con il vassoio e tutto, mentre bussava a quella porta. O come quelle delle due sorelle infermiere, che aveva visto quel pomeriggio stesso indaffararsi intorno al corpo disanimato del cardinale Bruno [...] (p. 9).

Ma, appunto, in questa straordinaria capacit modulante risiede la forza letteraria principale del romanzo. E modulare, qui, significa trascorrere da un personaggio allaltro, da una posizione di pensiero a unaltra. Molto pi chiaramente rispetto alle altre due opere narrative di Frasca (Il fermo volere,

1987 e 2004; Santa Mira, 2001 e 2006), i fulcri attanziali della storia, i personaggi che vivono, percepiscono, elaborano verbalmente la vita propria e altrui, si presentano come veri e propri soggetti argomentanti, se del caso direi filosofici (vale a dire, volta a volta, teologici, psicoanalitici, letterari, massmediologici ecc.). Persino la figura di fatto analettica (ma curiosamente anche, per un attimo, prolettica, forse in virt della diastole cui ci tenta la prosodia del suo nome di persona: la data pi avanzata della storia, nellanno 2012, ne implica infatti il coinvolgimento, ancorch post mortem; cfr. pp. 45-6), persino la figura di Saro Buono, dunque, ha una presenza ragionante: e in pi punti del racconto, grazie ai contenuti della sua opera fondamentale, Al di l delle pulsioni di morte. Ma soprattutto notevolissimo il fatto che abbia largo, larghissimo spazio un bel quartetto di personaggi negativi, segnatamente il cardinale Ramsey, lex novizio gesuita Antonello Zamboni (alias Nello Scopio, alias Toni Giusti), la terribile signora Regina (Moira) Mori, e lantico uomo dei servizi Gerardo Quagliarone. Ci avviene non solo nellazione, com scontato, ma in particolare nei ragionamenti, nelle tirate di cui si fanno carico: e sono discorsi che possono essere realizzati vuoi nellinteriorit del monologo, riferito per lo pi in stile indiretto, legato o libero, vuoi proprio nel dialogo, entro lunghe sequenze discorsive spesso comunque regredienti di nuovo al rango di monologo (tale, in pratica, il lungo effato del Quagliarone, tra p. 543 e p. 561). Insomma, il ct sadiano della storia, con ogni evidenza normalizzante (la difesa dellordine costituito, in parole povere), spiattella largamente le sue ragioni; e saldamente le oppone al lato liberatorio, gnostico e postfreudiano (benvenistiano? deleuziano? lacaniano?), ruotante intorno alla virtualit utopica dei vangeli apocrifi e alle implicazioni profonde dello scambio comunicativo io-tu-egli. Non senza punti di contatto e curiose sovrapposizioni: e questa , tipicamente, la posizione del traditore padre Saverio, partecipe di fatto delle opposte posizioni. 3. Le conseguenze di tale atteggiamento analitico, sfaccettante, sono ovviamente molteplici. Su un piano, diciamo, microscopico, salta allocchio il fatto che la prosa sempre molto costruita, anzi (oserei dire) classicamente costruita di

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Frasca, per assecondare la nervosit ineluttabile del mondo e per evitare la tentazione dellasintattismo, si costringe a sottili ma sistematiche torsioni che solo in parte ne increspano limpeccabile tenuta. Sintomo a mio avviso clamoroso ne il frequente uso delle dislocazioni, in particolare quella a destra. Tra le numerosissime, ricordo una delle prime, assolutamente esemplare, interna alla descrizione dellimbracatura cui sar costretto padre Saverio durante la sua esperienza senziente dentro il Cielo della Luna:
Davanti alla bocca, un sottile tubicino svirgolava dalla mascella destra, cos che se avesse cacciato la lingua, lavrebbe magari leccato, il microfono (p. 12).

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Vera e propria progressiva messa a fuoco del medesimo oggetto: il mero tubicino appare infine essere quello che , appunto un microfono; e tutto ci nel giro di pochissime parole, dentro una sintassi che ritarda il pi possibile la rivelazione del tema. Esemplare, per fare un ulteriore esempio, lesposizione del medesimo artificio allattacco della quarta parte, in relazione oltre tutto a un contenuto ideologico nodale, sempre pi in luce nella progressione dellopera. E cio: la cattiva ricerca della propria identit, la distruttivit del narcisismo mediatico, limpossibilit insomma di uscire dal dialogo tautologico con un tu che, a ben vedere, sono io. Ecco: Neanche il vento, sebbene dopo ogni curva la sporgesse sul manubrio contro il breve rettilineo, lavrebbe sfiorata, sia pure solo per trapassarle il contorno di un attimo, quella faccia (p. 325). Il punto di vista, la focalizzazione interna a carico di Valentino Mormile, sconvolto dal rifiuto (il voltafaccia) di padre Saverio, dinamizza cos, davvero in medias res, la disperata corsa in motorino e la pressione dellaria sul volto. Del resto, quanto a microscopie (come accenna lo stesso narratore in una delle tanti metalessi prolettiche: cosa dovrete fare con il mio libro? unappendice metrica, che altro... cfr. p. 416), un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato alla presenza di forme metriche. Chiunque conosca lopera dellautore lo avr previsto. Mi sento solo di fare due osservazioni: una di respiro minimo, laltra invece foriera di conseguenze ideologiche importantissime, se non proprio decisive per la com-

prensione del romanzo. Appartiene forse a uninerzia dellanalista la constatazione che in uno dei passi pi sovreccitati, uno dei pochissimi in cui lordine della sintassi sembri quasi smarrire la propria tenuta ipotattica, e anzi irrompono quei moduli parallelistici, anaforici, caratteristici di certa lirica ottonovecentesca in Italia di sapore tipicamente dannunziano che in quel contesto, dico, emerga un ritmo non sconosciuto a Frasca poeta (abilissimo nella manipolazione del dodecasillabo non cesurato e del novenario) ma forse non cos spesso presente nella sua prosa. Dico del modulo ternario a dattili (+-) o, ma meno chiaramente, ad anfibrachi (-+-). Si tratta, e davvero non per caso, del trailer, somministrato a padre Saverio, di quanto percepir nel suo viaggio intramondano, di un assaggio cio dei piaceri condivisi nel Cielo della Luna. Segnalo gli accenti pertinenti (che non si discostano da quelli naturali), lunica dialefe necessaria e con # le sillabe mancanti:
Csce che mni avvinghite allargvano, bcche # gnfie di vrghe, # tste diumini e dnne dagli cchi socchisi, mammlle schiaccite sul vetro e vagne dischise e farcte, [...] crni che sfrze e randlli strazivano, e schzzi di sngue fra ordgni mostrusi [...] (p. 28 ).

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E il dato per me interessante che una simile soluzione ricorda molto davvicino la prosa impazzita del Rebora che con la monotonia allucinata del dattilo subiva e insieme distanziava il trauma della prima guerra mondiale. Quale che sia linterpretazione di simili emergenze, peraltro discontinue, va viceversa sottolineato che tuttaltro che asistematica la comparsa sulla superficie della pagina di strutture endecasillabiche. Anzi, nel videogioco raccontato dal romanzo i dialoghi alle soglie della realt che si instaurano fra mondo virtuale e corpi potenzialmente gloriosi (suscettibili cio di trascorrere allatto dellimmolazione oscena) hanno bisogno appunto dellendecasillabo per realizzarsi compiutamente. Non solo Regina Mori una grande lettrice di poesia, una condiscendente estimatrice delle poesie di Frasca (cfr. p. 194), e, come abbiamo visto, una versificatrice in proprio; ma il Kunstwollen che si addensa intorno alla sua particolare azione poetica esemplarmente intermediale (dalla pagina scritta alla canzone al videogioco, fino alla radio) proprio quello che sostiene la scrittura di Gabriele Frasca. Il verso essendo ci che

innesta la sensazione nel senso: La sensazione [...] si d quando il senso sinceppa [...] sotto pelle, apparentemente insensibile, e quando il senso perde tutte le sue bollicine, eccola che torna sullo stesso punto, e batte, batte, batte (p. 420). E cos via. La visione del mondo dellautore dunque attribuita alla grande nemica? Parrebbe di s. Ma c per cos dire anche di peggio. Nellagnizione finale che mette in contatto fra loro i due antichi compagni di collegio gesuitico, Antonello e Saverio, sin troppo mutati da quelli che erano stati, il primo si affretta in modo persino troppo didascalico ad argomentare la necessit dellabiezione che struttura il Cielo della Luna. Ecco uno dei momenti decisivi del suo ragionamento:
Quello che insceniamo qui, padre, una specie di rito di liberazione, ma non per andare di traverso al mondo. Anzi. Noi forniamo delle immagini durature, quanto superficiali, che possano rianimare il corpo che il pensiero, lasciato a se stesso, non potrebbe far altro che pietrificare. La natura fantasmatica del sesso potrebbe ridurci tutti in rocce, sa? E invece noi lo teniamo fluido (p. 566).

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Ora, tenere fluido il sesso riprende unosservazione di Adorno intorno alla musica di Bach (tener fluide le forme tramandate): e proprio quellimmagine innervava il programma di poetica espresso da Frasca in un suo importante intervento alla Certosa di Pontignano nel 2001, del resto intitolato Le forme fluide (cfr. Moderna 2001, pp. 35-63). Come spiegare insomma, insieme al dilagare di tanti sguardi e voci ostili pienamente assunti dalla voce del narratore, anche queste crasi etiche, queste fusioni di autentico e inautentico, apparentemente parodizzate in un falsetto autodistruttivo, in una satira di s e delle proprie ragioni? Un lettore meno impreparato di me potr forse andare a rileggere e interpretare adeguatamente un paio di momenti metalettici del romanzo, segnatamente quelli che si trovano alle pp. 364-6 e, magari soprattutto (per leccezionale complessit del gioco rappresentativo e per la posizione nodale: inizio della quinta e ultima parte), alle pp. 449-55. Certo, la dialettica materiale/immateriale, pi esattamente materia/sogno che vi si dispiega (la materia come ci che protegge il sogno che contiene, sebbene non sia suo, perch possa a sua volta dormire in attesa del calore che lo consegner, come una

zecca, al corpo che gli spetta; p. 453), riproduce il gioco io-tuegli come possibilit di instaurare quel legame damore giovanneo che rimbalza oltre la chiusura protettiva dellimperativo veterotestamentario (ama il prossimo tuo come te stesso) e in fondo proclama lutopia della salvezza dellanima prima della morte del corpo, appunto ingoiando la morte. Ma c sicuramente dellaltro. E laltro potrebbe essere, a ben vedere, ci che per un attimo traspare in una delle metadichiarazioni gi ricordate:
Qui, lo sapete, siamo nel Cielo della Luna, e non ce ne siamo allontanati mai, e le postille che vedete e se mai scambiate per i vostri riflessi, se non mancasse in loro qualcosa, in me, se non avessero mancato in qualcosa, con me, sarebbero di carne e sangue, come lo siete sicuramente voi, altrimenti non ascoltereste nemmeno quello che vi sto dicendo, magari non sia detto che io lo sia pi, mentre mi ascoltate, come voi (p. 365).

Come del resto tutto il romanzo si affanna ad argomentare, esiste ed agisce in modo costante una fisicit, una carnalit (di natura per Frasca eminentemente sonora) delle simbolizzazioni, segnatamente di quelle letterarie. I livelli di realt che in questo modo si istituiscono, proprio con la loro precisione ecfrastica, con la loro assidua approssimazione alloggetto, producono per paradosso un gioco di costante smaterializzazione, tuttavia preliminare a una desiderata ma non del tutto controllata rimaterializzazione, che rende confusi i confini tra la cosalit e il simbolo. Certo, la speranza che attraversa il romanzo che il segno (la lingua, il suono, limmagine, la loro sintesi estetica) prima o poi possa davvero farsi carne e sangue, uscire fuori di s e tornare a circolare virtuosamente nel mondo. Ma, a scanso di ogni facile chimera, il Cielo della Luna sta l a ricordarci che anche minimi errori, minimi fraintendimenti possono avere conseguenze disastrose e forse irreversibili; che tante antiche (auto)consapevolezze sono s necessarie, ma del tutto insufficienti. Ecco, proprio da un romanzo che un monumento alla seriet intellettuale, alla curiosit e alla ricerca, viene un gesto di diffidenza resolutamente antiumanistico verso ogni mito intellettuale (ogni mito dellintellettuale, dico), ogni percorso semplificatorio e rettilineo quanto alluso delle parole e al loro rapporto con il mondo.

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Gabriele Frasca, Dai cancelli dacciaio, Roma, Luca Sossella editore, 2008-2010. Luscita del volume in cinque fascicoli separati e il processo di scrittura cooperativa che lhanno interessato (la possibilit cio del lettore di dialogare con lautore attraverso la Rete a mano a mano che i fascicoli venivano pubblicati; cfr. http://laurencesterne.wordpress.com) non sono affrontati nel presente intervento. Sulla questione si dovrebbe per riflettere perch in effetti, anche a uno sguardo superficiale, il testo reca evidenti segni di un percorso elaborativo in progress (chess: variazione nel corpo tipografico dai primi fascicoli ai successivi, ampliamento delle aree metalettiche, emersione di contenuti politici attualiz-

zanti per esempio nella tirata di Gerardo Quagliarone, in genere la dilatazione della seconda parte), secondo modalit del tutto inedite nel quadro della letteratura contemporanea filtrata attraverso la tipografia. Lesecuzione orale (quasi un radiodramma) dellopera rientrer invece nellanalisi; le citazioni da tale testo (la cui lettera non coincide perfettamente, si vedr, con quella dello scritto) avverr con riferimento - in termini di ore, minuti e secondi - alla porzione sonora interessata, entro ognuno dei quindici file MP3 messi in commercio dalleditore. Cfr. Emilio Tadini, Eccetera, Torino, Einaudi, 2002, in particolare il capitoletto Accontentati di come mi appassiono, pp. 285-7.

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Giovanni Maffei Io ho letto Dai cancelli dacciaio*

1. La cattedrale difficile parlare di Dai cancelli dacciaio perch difficile conseguire, rispetto allultimo e per ora maggiore romanzo di Frasca (ma ci vero per la sua opera in generale), un punto di vista ulteriore, che consenta ci a cui forse stato chiamato il critico: unimmagine, una cifra invitante alla lettura, una minima istruzione per luso e labitazione del testo. Il punto di vista ulteriore difficile conseguirlo perch Cancelli unopera grande e grossa, costruita con profusione di tempo e materia e anima e sapienza, subito lo si vede, incompatibile con la merceologia ed ergonomia correnti dei romanzi: leggere questo in metropolitana si potr, ma quanti saranno a rimeritarne lautore, la sua grazia e fatica, non dico in moneta, ma con gli effetti politici e pedagogici che egli evidentemente si propose? Perch dietro Cancelli c una scommessa non esitante n sfumata il suo fascino acuto e cio di cambiare o almeno spostare qualcosa nella vita di chi legger. Se avrete occhi e orecchie e siete in attesa potr succedervi: a me qualche pietrame si smosso; se siete non in cerca di una risposta, non di una qualsiasi, e nemmeno di una su due, ma di quella che vi ripeta, magari per enigmi, la risposta che vi siete gi dati (396). La scommessa, il germe morale produsse per giorni ed anni e molte carte spese in diuturne cure solitarie con la sensazione imbarazzante, immagino e so, talvolta, di ciarlare in un assordante deserto la mole anacronistica di una cattedrale: come quelle che a Debenedetti pareva si potessero ancora edificare nellOttocento (Si estendono in superficie, si abbarbicano alla terra e alla realt, accostano le sagome pi diverse e le
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Fra parentesi, dopo ogni citazione da Dai cancelli dacciaio, il numero di pagina delledizione in dispense. Le sigle distinguono i prelievi dai saggi di Frasca: La lettera che muore. La letteratura

nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005; Loscuro scrutare di Philip K. Dick, ivi, 2007. Le frasi di Giacomo Debenedetti sono da Verga e il naturalismo , Milano, Garzanti, 1976, p. 376

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fogge pi disparate cercando lunit nellinsieme, accostano splendori e meraviglie, ceselli e ricami architettonici a locali per i bassi servizi, anche fetidi, e dimprovviso sprigionano il pinnacolo, la verticalit, il sublime) e che in verit anche nel Novecento modernista si fecero, ma ebbero laspetto meno muscolare e pi magico dei poderosi sistemi planetari, una stella dautore e rari titoli nel suo cielo, o anche uno solo, ma il tutto di enorme forza gravitazionale, sicch di poi ci hanno orbitato, con gli astri, varie posterit di astrologhi e adoranti. Che limmane ambizione architettonica e la sedimentale geometria e gli oroscopici sconfinamenti come non usa pi (col ciclo a periodi decennali in cui Cancelli sinscrive insieme a Il fermo volere e a Santa Mira, e con la trilogia satellitare dei saggi pure da lenti anni distillata in cui sono La scimmia di Dio, La lettera che muore, Loscuro scrutare di Philip K. Dick) siano unemulazione titanica, un esercizio enorme, una nostalgia chisciottesca? No di certo: questo romanzo tutto meno che un feticcio postmoderno. Lautore, vero, occhieggia a un certo punto dalla pagina a presagire la di lui filologia (secondo me gi alle porte) nellectoplasma irresistibile di un dottorando futuro giovane amico (416); e altrove si situa nellimmortalit e riserva parole confortanti al pronipote di qualcuno di noi: Era uno schifo anche prima, il mondo, anche con me (453). Ma in verit Cancelli stato scritto per loggi, per il nostro qui ed ora, per una lettura assolutamente contemporanea, anzi urgente: perch tutti i possibili lettori, se sono per davvero un popolo che manca, lo sono esattamente in quanto un messaggio deve ancora giungere, e magari gi in viaggio. Un popolo che manca un popolo cui manca qualcosa. Perch scrivere ancora, se no? (LM, 283). Sicch Cancelli non fa souplesse, non glissa sul presente, anzi ne assillato nel modo di una storiografia espressionista, quella che assume come fatto storico [...] non un accaduto ma un accadere, vale a dire lemozione da suscitare nel soggetto alla storia, e dunque in noi nel momento stesso in cui andiamo incontro a tale mondo di verit mimetiche (OS, 27). Non un libro anacronistico, casomai inattuale, perch si afferra alloggi per laltro verso: contropelo e contrattempo. Anzi si abbarbica: le cattedrali, diceva Debenedetti, si abbarbicano alla terra e alla realt; questa si abbarbica alloggi. E se lemulazione e gara con modelli sommi della letteratura

lhanno fatta nerboruta e augusta come le antiche moli, ci non sar stato a maggior mostra di s, ma per afferrarsi e abbarbicarsi meglio. E se la sfida prospettica ci appare superba, il disegno non ne nostalgico e cultuale bens, profilando nelloggi il domani, prensilmente profetico. Cancelli aggetta e sabbarbica infatti ben oltre i termini politici e mediali (e politici anche in quanto mediali) dei nostri giorni: in cui la Letteratura, anche quella che lha riccamente nutrito, racchiusa ancora nellarca del libro tipografico riesce a galleggiare a mala pena, come relitto (coi suoi classici annotati) o come schiuma (con una teoria infinita di instant-books) sul flux de connerie del niente tace audiovisivo (LM, 281). Oggi la letteratura un pacco: sempre che qualcuno [] non vi metta piuttosto un ordigno dentro, un congegno capace di forare lincubo della storia, perch vi risuoni un evento (LM, 282). E questo volle Frasca con Cancelli. Una cattedrale sorprese e segreti, ampiezza di spazi e ricchezza di dettagli, luci ed informazione: un variet e unenciclopedia. Non varr la pena di alquanto tempo e pazienza per godersela tutta e bene? Perfino di prepararsi prima di visitarla? Nulla di esoso, vi rassicuro. Tutto a portata di mano, basta fare due passi verso le fabbriche attigue. C il ciclo: sar il caso di tornare alle puntate precedenti, a Santa Mira e al Fermo volere, se non li abbiamo gi letti, per conoscere i fatti di prima e capire meglio gli ultimi e le faccende. Ci sono i saggi, e in essi le delucidazioni di Cancelli enciclopedia. Per fare questo romanzo Frasca ha studiato moltissimi libri, linvenzione letteraria come luogo dincontro e despecializzazione dei saperi una delle sue convinzioni principali e pi spesso dichiarate. Dovremo studiarli anche noi codesti libri? Non sarebbe da poco: lelenco che segue di sapienti despecializzati in Cancelli (e non ci sono gli scrittori-scrittori) una selezione veramente minima, per cime e per frequenza: Adorno (e Horkheimer), Badiou, Benjamin, Deleuze e Guattari, Foucault, Freud, Havelock, Lacan, Lotman, Marx, McLuhan, Ziz ek. Per questa trafila mi sono fatto aiutare la memoria dalla bibliografia dei saggi: vuol dire che in essi delle masticazioni e nutrizioni fraschiane si parla, e con commento pi aperto e illustrativo di quanto forzatamente non sia la presenza degli auctores nellorganismo romanzesco ben fuso e che preferisce lalludere allo spiattellare. E Frasca saggista ci parla parecchio

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anche dei suoi scrittori-scrittori: ne parla in s, da studioso e da storico, ma anche ci significa come e perch li ha amati, a cosa gli sono serviti, come li ha usati da romanziere. Fateci una capatina, nei saggi, specie nei due pi recenti, e vedrete che riducono a bolo ci che far chilo e sostanza assumendo il romanzo: letti quelli, Cancelli lo si apprezza e ci corrobora meglio (reciprocamente, letto Cancelli si comprendono meglio i saggi: che sono anchessi, a loro modo, racconto e appello e despecializzazione di una storia che ci riguarda). Solo tre dritte subito. Fanno a mio avviso la minima essenziale propedeutica per il lettore di Dai cancelli dacciaio. Primo. Per Frasca romanziere Dick lautore pi importante. Frasca da lui ha preso moltissimo; molte cose che Frasca dice dei romanzi di Dick le potremmo dire dei romanzi di Frasca. Ma un Dick cos tanto amato e amorosamente letto (e tradotto) e approfondito che alla fine si fatto carne della carne. Dick di Frasca inconfondibilmente quel Dick, personale e idiosincratico, in cui un giorno Frasca trov le risposte che gi si era dato da solo. O le domande, che conta di pi. Germi per una fecondazione nuova, in un diverso utero di scrittura. Non lavvantaggiarsi nel risucchio della volata altrui, insomma, ma qualcuno che ha gi fatto il suo pezzo di corsa e ti passa il testimone. Che i primi due dei tre saggi chiudano ciascuno con un capitolo su Dick e che il terzo saggio (appena prima che simbastisse Cancelli) sia tutto a Dick dedicato ha del teleologico. Ecco, il rapporto che Frasca sente (e costruisce) fra s e il suo autore verosimilmente quello del messaggero ulteriore, secondo la consecuzione paolina dellinviato che a sua volta invia chi deve ulteriormente inviare (LM, 59). in un presente infinito che uno schizo conduce la sua fuga nel deserto, leggiamo in un altro punto della Lettera che muore (283). Lo schizo Dick. Varr la pena di seguirlo: quasi un rimuginare fraschiano. E qui si dice del messaggio che magari gi in viaggio per il popolo che manca e per chi scrivere se no. Per questo popolo, per il suo pubblico che non mancher, Frasca di Cancelli deriva da Dick (con certe tecniche come il quinconce di personaggi e voci e punti di vista) la seduzione fantastica e fantapolitica, la strategia arredante su vasta scala dei mondi alternati e delle strutture enantiomorfe: si sfogli, su questi lemmi, Loscuro scrutare. Enantiomorfa per capirci, e ci riguarda lintero ciclo, Santa Mira, epicentro e capitale

morale del mondo uno di Frasca: la citt che un poco nel secondo romanzo ricordava quella natale del suo creatore e in questo pochissimo, valendo piuttosto, qui, a rispecchiare, e cio a farla inversa rovesciandola sullaltro mare, la dominante tirrenica dello stivale, e in tal modo a farlo pi strano il Belpaese, gemello da s diverso e pi ancora destrorso, e pi uguale, allingrosso e al dettaglio, giacch rampollano dalla maggiore millanta minori doppiezze e riflessioni e inversioni, a far confuso di segni, con la citt immaginaria e con la vita immaginata di chi ci vive, quellintero mondo uno. Sul piano, invece, dei temi e degli ideologemi sono continuit dickiane, direi, i riferimenti a Paolo e allemozione culturale dei ritrovati rotoli del Mar Morto e dei papiri di Nag Hammadi; donde la lettera (in Dick) e la suggestione (in Frasca) di una teologia gnostica e aspettazione apocalittica i cui sensi geopolitici nel secondo sono pi spiccati e analitici e non sospettabili, come nel primo, di vero e clinico delirio, e nondimeno tale delirio proficuamente reinterpretano e sfruttano trovandovi gli elementi di una congeniale mitografia espressionista. Si vedano, nellOscuro scrutare, escogitate a proposito di Dick, le formule esplicative della sottesa diagnostica mondiale di Cancelli: Sacro Romano Emporio, Millennio economico, Apocatastasi del capitale. E pare che Cancelli sia, come Ubik, un grande romanzo teologico della smithiana mano invisibile (OS, 143). La seconda cosa memoranda che si evince dai saggi, e questa in particolare da La lettera che muore, che dietro Cancelli, a decidere di Cancelli, c stato il lungo e intrepido interrogarsi dellautore sulla trasmissione (ma lui la chiama pure, ed connotazione che rileva, trasmigrazione) dellinformazione non genetica fra gli uomini, e sui media e sui supporti che lhanno consentita nei tempi andati della storia e che la consentono nel nostro. Il discorso della Lettera che muore qui non ci sta nemmeno per cenni: ti basti sapere, o lettore qualsiasi, o lettrice qualsiasi che leggerai Cancelli, che questo romanzo si propone di essere un ibrido mediale, e come tale vorr in certo modo riprogrammarti e cio riposizionarti i sensi; e, come non crederesti possibile, ti guarder negli occhi e ti sussurrer nelle orecchie. La terza cosa importante che i saggi esibiscono qual sia listanza pi fonda che vibra nel romanzo. Il modo migliore per esprimerla Frasca lha trovato intitolando lultimo capitolo

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della Lettera che muore Come rimanere rimasti. Sembra una domanda ma non ha il punto interrogativo; allora forse una risposta: Bisogna rimanere rimasti. Il capitolo su Dick: ma questa domanda, o risposta, quella che pi veramente, io credo, Frasca sera gi data prima che Dick o chi altri gliela ripetesse. Tra le emozioni culturali salienti e drammaticamente odierne acclimate in Cancelli, come rimanere rimasti mi pare, pi di tutte, unemozione altres personale: e per questo verso, vissuto e dolorante, storica e politica. Come rimanere rimasti? Questo vi sussurrer in fin dei conti il libro quando vi guarder negli occhi. E chi ha orecchie prover a togliere, nel modo che sa e pu, il punto interrogativo. Ma ora basta, conviene mutar registro. Stiamo uscendo dalla cattedrale perch voglio portarvi altrove. Era inutile indugiare, girarla ancora da turisti seppure armati di validi pieghevoli: il punto di vista ulteriore avrebbe continuato a sfuggirci. Perch una cattedrale , pi essenzialmente ancora che variet ed enciclopedia, verticalit ardua e audace. La si vedrebbe bene da unaltezza. Cosi Cancelli: che, se ce lo proiettiamo come cattedrale, effettivamente sembra congiungere terra e cielo, inabissarsi nelle latebre dellistinto e della carne mentre svetta verso il corrusco e punta alle stelle. E, come tutte le cattedrali, sembra intonare un canto: ma invece un lamento o una rabbia; un grido unanime, uninteriezione, un accordo in cui si fondono tre note: la deprecazione Questa vita questo mondo uno schifo (sicch Sky or Fry, come recita un claim dickiano); e allora la domanda Dov il paradiso? (perch tutti gli uomini vogliono, da sempre, andare in paradiso); infine lansia (giacch le vie del cielo sono, pare, precluse) Che fare? (come rimanere rimasti, appunto). Traducete il gemere della cattedrale in termini integralmente umani e mondani e avrete linteriezione politica, il codice, la molecola di rammarico da cui origina lintera complessit di Cancelli. Per dovete tradurre. Il punto di vista ulteriore che consent la Commedia di Dante era quello di Dio. Ora che Dio morto non da unaltezza concesso considerare religiosamente la famiglia degli uomini, ma dalla stessa altezza: occorre mirare ad altezza duomo, essere allaltezza dellUomo. Luomo, lumana famiglia di razze e continenti: i suoi bisogni, le sue speranze, il suo futuro. Quaggi ci posiziona e ci mette a guardare Cancelli: e scusate se poco.

2. La macchina Un romanzo con occhi che vi guardano, e che vi sussurra. Un romanzo che punta ad altezza duomo. Limmagine diversa di Cancelli (diversa dalla cattedrale) a cui vorrei invitarvi (Cancelli come corpo, e come corpo a corpo) gi balenata; ma ve la esplicher nel paragrafo prossimo, e sar incursione in una metodica e strategia e passione delle soggettivit e del loro fuoco. In questo, conviene che transitiamo per una figura intermedia, qualcosa di meno palpitante di un corpo, e per, come un corpo, mobile e marciante: una macchina. Sar loccasione, anche, significando plot e trama favola e non soltanto ben congegnata trappola, di sbrigare lufficio banale di dare unidea almeno, per quel che ci serve, di che peripezia si racconti nel romanzo, e di quando e dove essa si svolga.
Che cosa succede la notte fra il venerd e il sabato nella megadiscoteca Il Cielo della Luna, sorta in un niente, come un bubbone o un fungo, a Santa Mira? E che cosa ci fa l, appeso come un quarto di bue in un alveare di schermi rilucenti, il segretario privato del cardinale Bruno? Centra qualcosa il cosiddetto Protovangelo di Giovanni? O invece la prospettiva di partecipare da protagonisti ai dvd commercializzati dalla Defective Vows Disc a indurre ogni volta centoquarantasette persone a dissipare i propri soldi, e non solo, nei sotterranei del locale? E perch si contendono una cintura piena di esplosivo i rispettabili professionisti che affollano mascherati le riunioni dei Figli dellEvento? Per saperne di pi, baster dare unocchiata da vicino, il prossimo venerd, alla misteriosa struttura gestita da Moira Mori. Ma non vi converr entrare, se non si sa come uscirne. Restate, badando di evitare le ronde dei buttadentro, al di qua della recinzione, a scrutare per quanto possibile Dai cancelli dacciaio.

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O filologo venturo, sappi che queste mie pagine furono s compilate dopo che 65 postini avevano distribuito 65 copie di Cancelli, nel corso di due o tre anni, ogni tanti mesi un quinto della storia, a unavanguardia o cavia di 65 sottoscrittori di cui feci parte; ma ben prima che il medesimo Cancelli, tutto insieme bellamente rilegato, fosse ammannito in ogni libreria a chiunque volesse comprarselo. E che per questi lettori ignoti e alloscuro io perorai, e mi posi il problema di non rovinargli il gioco, e anzi, riuscendoci, di accrescergliela la curiosit del come finir, a nessun costo sfamandoli prima del giusto e dellacquisto, se non quel tanto che mi era necessario per andare avanti. Sicch adesso alcune notizie

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aggiunger allesca qui sopra trapiantata dal sito web delladescante editore, e il resto tacer, manterr il segreto. La megadiscoteca tutto avviene in o ruota intorno a questo fungo e bubbone e remunerativo mastodonte edilizio spuntato repentinamente sullorizzonte di Santa Mira un madornale Kitsch dantesco: in alto le nove piste celesti dove ogni notte in un prodigio di trasparenze si sfrenano il ballo e lo sballo; in basso, sotto le piste, si arrovescia un cono infernale in cui, ma soltanto nelle notti fra il venerd e il sabato (il romanzo si concentra su quella fra il 26 e il 27 settembre del 2008), si svolge un rito terribile per partecipare al quale, nondimeno, la gente disposta a sborsare fortune. Tappezzano il cono nove file di schermi, ventisette la prima fila e sempre meno a mano a mano che si discende, e sugli schermi scene di sesso e violenza a dir poco forti, e sempre pi forti a mano a mano che si discende, fino a quelli in cui pare (ma sar una simulazione! o no?) che succeda latroce a giovinetti e giovinette. Tutti pagano, e spesso al di sopra delle proprie possibilit: i protagonisti delle scene per esser guardati godere e soffrire, altri per guardare e far guardare, o per ascoltare e fare ascoltare la risacca di gemiti e carni stropicciate, mmmh oooh svu (70), o per altrimenti contribuire, con azioni e spargimenti di fotto, alla riuscita del rito. Pi di tutti paga chi riveste il ruolo di Oggetto S, dove S sta per Senziente: per sentirsi, inebriato dallimpotenza, il centro vivo e palpitante del peccato nella mira rabbiosa di un occhio esterrefatto (32). Legato a una croce costui (o costei) pian piano calato nel cono, ed costretto a percepire, luno dopo laltro, con gli occhi e con le orecchie, ci che avviene in ciascuno degli schermi (le sue percezioni saranno poi rielaborate nel dvd vendutissimo di cui si dice nellesca); fino al buco nel fondo della ghiaccia dov introdotto in ultimo fin sotto la cintola, quasi meritasse, quel povero cristo trionfante, la pena del massimo traditore (15). Nella notte del romanzo padre Saverio, il segretario privato del cardinale Cristoforo Bruno, ad essere appeso alla croce. In effetti il buco gli spetta, Saverio andato al Cielo della Luna per espiare un tradimento. Ha tradito il suo maestro, il cardinale, che ora giace in un letto dospizio, in un sonno vegetale da cui non si risveglier. Bruno deteneva un segreto, un testo dirompente per forma e contenuto scovato da giova-

ne in un codice di Nag Hammadi. linvenzione fraschiana del protovangelo di Giovanni: 46 dilogia, o coppie di logia gemelli, con Cristo che dice e subito il suo detto ripreso e rimbalzato da un Didimo Giuda, probabilmente lIscariota: il discepolo a cui Cristo consegn la parola sarebbe proprio quello che lo consegn. Eresia e memoria pericolosa, questi dilogia, di una comunit solidale duguali prima che le fosse imposto il morso della monarchia episcopale (240-41); e messaggio inquietante per autorit e gerarchie non abbandoni mistici Ges richiedeva alla comunit che da Lui sarebbe nata, ma la forza delle opere con cui i figli fronteggiano il Padre da fratelli (149) sicch il codice svan nel nulla e a Cristoforo Bruno fu altamente consigliato il silenzio. E lui ha obbedito, per decenni, finch, gi vecchio, ha sentito la necessit di divulgare il messaggio, i dilogia di quel vangelo, ancora tutti impressi nella sua mente, e per primo li ha consegnati al suo segretario e Giuda, a Saverio. Cristoforo c stato anche lui al Cielo della Luna, per vedere il Male di faccia: Bisogna passare per linferno, sostarvi, scrutarlo, se si vuole raggiungere Dio (298). Ora altrove, la mente spenta. E il suo segreto? Qui sulla croce c Saverio: cosa avr fatto per meritarsi la pena? E come lui si trovano nella megadiscoteca, in quella notte, gli altri tre protagonisti del romanzo. Uno Regina Mori (in arte Moira, perch continua a esibirsi col suo complesso: entrambi i nomi, col cognome, fanno simbolo e minaccia) che serba appena qualcosa del tratto noir e fumettistico con cui la disegnano nel Fermo volere: ora la dark lady che escogit e volle il bubbone, che trov chi glielo finanziasse, che lo dirige con mano ferma e feroce, che lo anima di una missione: Noi combattiamo spiega a Saverio contro la falsa credenza che alberga in ciascuno di noi, quella cio di essere in fondo buoni (565); e un suo stretto collaboratore aggiunge: il nostro impegno non certo quello di liberare il desiderio, perch ci finirebbe col mettere in crisi le fondamenta della nostra stessa societ, ma di assicurargli quanto meno unora daria, e in uno spiazzo comune. Noi non facciamo altro che aiutare le persone che si affidano a noi a passare dalla cella disolamento della responsabilit individuale alla grande gabbia da circo del godimento collettivo (566-67). Cella, gabbia: c dietro una filosofia tetra della societ, e anche di essa Regina linterprete: Esercitare la

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forza su chi recalcitra stato tipico dei sistemi totalitari che fortunatamente sono scomparsi nel secolo scorso, con tutti gli altri orrori che lhanno attraversato. Preparare invece le volont al libero incontro con un volere pi alto, con una forza pi giusta nel ripartire le risorse che sono nel mondo, beh questo il nostro cmpito di rappresentanti consapevoli della societ civile (419). La rappresentante consapevole ha lasciato un figlio da qualche parte, non ne sa pi nulla. Ne sapr? Avr modo dincontrarlo ancora? Il figlio di Regina dovrebbe avere pi o meno let di Valentino, un altro degli attori principali del romanzo. In casa non ci sono molti soldi, il ragazzo un solitario, non comunica coi genitori e poco con chiunque, ha una malattia mentale grave, il termine dismorfofobia, cio convinto che la sua faccia sia una mostruosit in continuo mutamento e che perci tutti debbano sfuggirlo. Sogna la bellezza del volto, di ritrovare larmonia perduta: il suo modo di volere il paradiso. Gioca ogni momento che pu un videogioco sofisticatissimo che si chiama Glorified Persons, e moltitudini lo giocano perch si pu vivere cos meglio che nel mondo vero. Glorified Persons una metafora riuscitissima dellesistenza umana. Ma i pi si fermano ai primi livelli: ognuna delle zone ascendenti in cui il gioco articolato offre motivi sufficienti per insediarvisi per sempre, potendo ciascuno trovarvi il proprio slackening, o il godimento che si trae dalla consapevolezza di aver raggiunto sia pure in una sola piega della vita un livello deccellenza (422). Alcuni arrivano al terzo livello, tutto azzurro e carezze (352): Non era una promessa di paradiso, era qualcosa in pi. Per non era nemmeno ancora il paradiso (353). Pochi conquistano il quarto, ceruleo e terso, nel quale Valentino pu finalmente riconoscersi radioso, guardare faccia a faccia il vero Valentino che lo guarda: in verit era lui, o quello che sarebbe stato di lui se larmonia non gli fosse stata sottratta (363). Pochissimi passano alla quinta zona, ed un salto dal virtuale al reale: Con la quinta zona, attraversiamo lo schermo, entriamo nella simulazione. Ma la sesta oltre, la rinascita, la vita stessa (425). Glorified Persons e il Cielo sono ununica impresa, economica e in attivo: che questo imparadisarsi abbia a che fare con i minorenni estatici scorti da Saverio negli schermi imi? Infine c Sandro, il medico della struttura. Ha avuto momenti migliori, era uno in carriera, buona clientela, guada-

gni, prospettive di entrare in politica. Poi un divorzio rovinoso, e si trovato senza nulla. Per fortuna questo posto al Cielo della Luna, che occupa da umiliato e offeso, con la Signora che lo tratta con malcelato sprezzo e il personale che ironizza Primario. Disastrato, marginale. Fu lultimo che vide Dalia prima che lei compisse glinsani gesti, ricordate in Santa Mira? Anzi con lei si giacque, e ora convinto che la tragedia fu anche colpa sua. Ma il rimorso pi ampio, Sandro ritiene di aver tradito la propria giovinezza, i sogni e glideali, certi anni e quello che cera dentro, coi pomeriggi e le sere quando ci si vedeva tutti a casa di Rico, era il collettivo della scuola che si riuniva, ma era un pretesto, si ascoltava musica e si chiacchierava di tutto, non solo di politica, che pure restava largomento principale, anche quando non lo era per nulla (378). Forse un anno in particolare suscita questo sentimento: Si chiama nostalgia, potremmo pure definirla piet, commenta lautore, E per il dottor Preziosi, un tempo cardiologo di grido, ora presunto primario del Cielo della Luna, la met degli anni Settanta, diciamo il 1975, era lanno degli anni, e non perch ne avesse compiuti diciassette, a febbraio, ma perch si rivedeva l con gli amici, e ridevano, ridevano proprio tutti (376-77). Questo anno, questa nostalgia il suo piccolo paradiso portatile (378). A Sandro, specialmente a Sandro affidata nel romanzo, se non la risposta (che piuttosto costeggiata da Cristoforo), la domanda Come rimanere rimasti: nella sua qualit pi vivida e febbricitante di emozione personale (e storica: le cose allora non avevano ancora assunto un aspetto sinistro, 379) dellautore coetaneo, il quale infatti aggiunge: E ridevamo, perch cero anchio, ed ero vivo, come tutti, persino voi che avete schiuso per unultima volta le labbra, ma non qui, dove non la smetto di raccontarvi storie pur di farvi sorridere ancora, e lo sapete quanto mi mancate (376). Come rimanere rimasti. Ma basta su Sandro. E i Figli dellEvento, la misteriosa setta di kamikaze diffusasi come un contagio in tutti i continenti allindomani dell11 settembre delle Torri, molteplice ancipite liquida e inafferrabile come il Potere (anzi i poteri) a cui attenta coi propri esplosivi umani? Ora ha preso di mira il Cielo della Luna, ma neppure su questo voglio anticiparvi altro, non mi servirebbe e non sarebbe bello. Vi lascio la curiosit. Dai cancelli dacciaio io lho letto due volte. La seconda mi piaciuto di pi. Forse chi fa questo mestiere un romanzo se lo

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gode appieno quando lo rilegge. O forse questo un romanzo che si apprezza meglio quando si sa gi come va a finire. Ma anche la prima volta, ricordo, mi piacque, e il propellente funzionava della curiosit. Ci sono personaggi vivi a cui ci si affeziona e di cui si vuol sapere la curva del destino, situazioni che avvincono, cose spaventose o buffe che ci meravigliano, frasi che ci colpiscono, ambienti e scenari e sfondi di cui siamo grati allautore che ci ha portati l. C, soprattutto, lattesa di una risoluzione o catastrofe che dia senso e catarsi allintero disegno. Temo che un godimento del tutto naif di Cancelli sia improbabile: pure si un po rosi, via via che il plot le inanella, dalle domande Come andr per questo o quel personaggio, che far, che gli succeder. E specialmente da quella sul fungo o bubbone: non se il Cielo della Luna infine croller seguendo lesempio delle vecchie torri dellorgoglio (questa ipotesi non ci ha mai sfiorati), ma come regger, dopo aver cosa vinto o scongiurato, presagio abominevole innalzato in unalba livida, o gi insegna proclamante laddivenuto regno del male; quale tonalit debitamente drammatica sconfortata, apocalittica, appellante avr assunto il suo reggere e trionfare nellultima pagina e consuntiva. Ma tante cose accadono, si scoprono, ci sorprendono in Dai cancelli dacciaio, solo perch sia chiaro, alla fine, che nulla accaduto. Nulla di speciale. La carota del telos aristotelico servita a farci fare un giro. Il romanzo finisce dove inizia. Quando finisce siamo, come al principio, in quella notte l, nella stessa megadiscoteca, e nulla veramente accaduto. Ci sembra che potremmo fare un altro giro, che tutto potrebbe ricominciare daccapo. Cancelli di quei testi dinvenzione che consistono nella perlustrazione di una macchina, che ci mostrano come funzioni, ed un modo per parlare delle leggi del mondo. Cos il castello sadiano, cos linferno dantesco: i modelli di macchina pi immediatamente ravvisabili nel romanzo, e in verit ben segnalati. Ma ci sono, rispetto ad essi, due particolarit dellingegneria fraschiana. Il castello di Durcet ermeticamente isolato dal mondo, n linferno di Dante di facile accesso: le barriere ci ricordano che per passare dalluno e dallaltro allaltra realt, in cui abitiamo, dobbiamo fare un salto, cio allegorizzare. Fra il Cielo della Luna e il mondo (il mondo uno di Frasca, certo, che per a ridosso del nostro mondo zero) il rapporto invece

metonimico: con ci non aboliamo, nello sguardo dassieme, lo statuto metaforico del romanzo, ma avvertiamo, addentrandoci e districandone i fili referenziali, che siamo altres nellambito del realistico e del documentario. Cancelli allegoria e altres reportage, notizie dal fronte; e fra le notizie, riflessa da Sandro, il dato strategico che il Cielo dovunque:
Un tempo, con gli amici dellepoca, i compagni, laveva chiamato Potere, p maiuscola, e adesso, scompagnato come sera ridotto, saccorgeva che ce nerano infiniti, tutti minuscoli, piccoli almeno quanto lo era lui. Un intreccio di poteri senza un centro che non durasse il tempo di manifestarsi e scomparire, per riproporsi altrove, ecco che cosa vedeva. Una rete a maglie strette, dai collegamenti instabili, una specie di cervello, comunque ogni volta lo stesso, che ritornava diverso. Il Cielo della Luna non era nientaltro che quello che era, una megadiscoteca. Non un mondo di orrori, ma il mondo, che cominciava qua, poi ricominciava l, poi ricominciava ancora altrove. (368-69)

Sicch, dovunque ci porti, lavventura di questo romanzo al Cielo che ci riporta. vero, ci vien detto che altissimi cancelli dacciaio recingono la megadiscoteca: ma necessario interpretare, la frase significa che i medesimi cancelli imprigionano ormai tutto il pianeta, e che in questo impera la medesima regola che in quella distribuisce dolore e godimento. E non solo questione di spazi: perch, come lazione dei personaggi ci fa attraversare, per poi farceli ritrovare, i perimetranti cancelli del Cielo, cos il discorso dellautore ci allontana dalla notte del plot per analessi delucidanti ed escursioni storiografiche ampie e amplissime (la cronaca oscura dItalia dalla seconda guerra novecentesca almeno; la storia millenaria delluomo dalla speciazione perfino) e ci fa vedere che quella notte fu sempre. Come Dick gnostico, Frasca proietta scontri in atto nelle retrovie di un destino cosmico e doppia il male tangibile ed evidente con la domanda sullorigine del male (OS, 215); il Sacro Romano Emporio del suo mondo uno ha il profilo, come in quelli di Dick, dellUrstaat dispotico, economicistico, barbarico e teocratico (OS, 223). La seconda particolarit, rispetto ad altri inferni, dellinvenzione di Frasca che qui il patto con il lettore non cos netto. Chi va nel castello di Durcet o pei gironi con Dante sa che dovranno specialmente interessargli unorganizzazione e un

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funzionamento e insomma un ordine, diabolico e provvidenziale: chi va al Cielo della Luna a questa indicazione non ci pensa. C la seduzione dellintreccio, come ho gi detto, la carota aristotelica, e si deve arrivare alla fine del libro per capire che tutti i casi che ci hanno appassionato, e che abbiamo interpretato mentre ci appassionavano come dramma capitale di anime, e scelta e rischio e volizione o scoccante fatalit, erano in effetti solo scatto qualsiasi del meccanismo, dettagli del normale compiersi del giro di ruota. Anche i dinamitardi della setta che vorrebbe disintegrare il Cielo e tutto il mondo che gli somiglia fanno parte della macchina, anche se non lo sanno sono un suo ingranaggio, ed ha ragione Gerardo Quagliarone, capo della sicurezza del fungo o bubbone ed ex agente segreto, a spiegare a uno di loro che il Cielo della Luna svolge una funzione che pu essere equiparata a quella dei Figli dellEvento, dando sfogo entrambe le organizzazioni a un bisogno epocale: la tentazione del profondo, la nostalgia dellinanimato (559); e che se il Cielo della Luna non il male, anzi il suo antidoto (559-60), anche i Figli dellEvento sono utili alla societ: I servizi di mezzo mondo [] hanno ricevuto lordine di lasciarvi fare (557). La macchina gira e i conti tornano sempre, dal momento che dopo ogni strage il segno delle borse [] brillava positivo (177). Cancelli davvero un romanzo teologico della mano invisibile: ho pensato a quella pagina dellOscuro scrutare dove si dice che dallestensione planetaria della governamentalit liberale deriva oggi che, se ciascuno per davvero imprenditore di se stesso, allora racchiude in s, e promette di congiungere nellapocatastasi del mercato, una scintilla di luce del capitale (OS, 118-19). Congiungerla esplodendo in mille pezzi sar un bel modo, e teatrale. Il sommo sacrificio un servizio che il Cielo fornisce, per la cifra giusta (560); pure per immolarsi da terrorista, lo vedrete leggendo il romanzo, le parcelle sono salate. Ma che Cancelli sia il trattato di una macchina, dicevo, mentre si legge non ci si pensa, distratti dalle peripezie e dalle psicologie dei nostri eroi; per lautore daltra parte di continuo ce lo ricorda: non per nulla il Cielo un inferno a orologeria (150), regolato da una meticolosa numerologia dantesca (quanti 9!), dove tutti gli elementi i tempi e i movimenti sono precisamente conteggiati, misurati e scanditi come nel cilindro di Beckett in Le dpeupleur (ma il cono al

contrario ripopola, i suoi effetti afrodisiaci sul pubblico hanno fatto incrementare le nascite: limpresa anche demograficamente in attivo). Non c passione senza matematica (30), e la matematica tracima dal Cielo, va a contrassegnare infatti le passioni della macchina mondiale, e anche di quella teologica che innerva la semantica del romanzo. Due, gi lo sappiamo da Santa Mira, sono molte cose in questa citt: isole, colline, santi protettori, ora anche le lune, da quando stata innalzata in cima al cono, a candire meglio di quella vera i notturni santamiresi, unenorme insegna luminosa a forma di luna. Ma due sono anche, nei dilogia, Cristo e il suo gemello (E Cristo disse, Vi sono solo due vie. E Didimo Giuda disse, E occorre percorrerle entrambe, 90), e il diavolo coppia (84), e Dio Lun laltro (291). Quanto al tre, ad esempio in un buon affair, per vincere in Glorified Persons, bisogna essere in tre, convinti di essere due (350), e a formare una cellula dei Figli dellEvento pure servono le tre figure di una coppia perfetta (482). Molte cose sono cinque, fra laltro i principali attori e le macchine da presa del set romanzesco, ci torner su; e molte sei, dai livelli imparadisanti di Glorified Persons, fra virtuali e reali, ai nani della Squadra Piccole Resurrezioni. Tredici, come gli apostoli con Giuda e i demoni della gnosi, i Saldatori, si dice, selezionati per ogni attentato, dei quali solo uno simmoler. E potremmo continuare a contare ma ci fermiamo. Ah, dimenticavo, questa bella. Cos una donna: Il sottrarsi a ogni somma moltiplicando ci che diviso (198). Non c passione senza matematica. E senza geometria: non tanto quella comune dei piani e dei solidi, per cui sappiamo ogni misura del mastodonte conico, che alto cinquanta metri e ha il cerchio grande di 1256 metri quadrati eccetera, ma laltra delle strutture enantiomorfe, la geometria strana per la quale, nel Cielo e in tutto il romanzo, ci che opposto altres si rispecchia, e il contrario e linverso sono anche il somigliante. Che la funzione del Cielo della Luna sia equiparabile a quella dei Figli dellEvento ce lha assicurato Quagliarone, e divertitevi voi a verificare, e altres a rintracciare, c gusto, il parallelismo stretto fra le procedure della setta e quelle che vigono nel famoso videogioco e che consentono anche qui a pochi chiamati di accedere alla somma gloria. Il guaio che questa geometria funziona anche sulla verticale, che anche il sopra e il sotto si corrispondono.

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Come mai nelle notti fra il venerd e il sabato un Cristo paziente viene infisso nella ghiaccia di Satana? E come mai la luce dazzurro (573) fievolmente soffusa negli abominevoli sotterranei frigoriferi del fungo cos simile a quella che su in alto inonda le piste e redime il panorama di Santa Mira contemplato dalle vetrate della passeggiata? C di che smarrirsi: Per dove si va al paradiso? Se chiedete vi risponderanno Ma qui, il paradiso allinferno: si accomodino. N aiuta a far chiarezza il teologo, quel santuomo di Bruno: Luce e tenebre, vita e morte, destra e sinistra, sorelle sono e inseparabili, per questo non v bont che sia soltanto buona, violenza solo violenta, vita solo vivificante, morte soltanto mortale (160); Se lo si volgesse, col cuore, con la forza dello Spirito, in parola, se gli si restituisse la Parola, allora il Male tornerebbe a fare riflesso col Bene, e magari saremmo finalmente salvi. Ecco perch giunto il tempo di ridargli la voce, ma una voce viva, una voce di vita (298). Non ci si raccapezza. Forse dovremo rassegnarci, forse non c alternativa, per noi come per i personaggi, allandare in tondo fra gli ingranaggi. O forse un modo per rompere i cancelli dacciaio esiste. Ma per saperlo dovete accompagnarmi nellultimo paragrafo. 3. Il corpo Cancelli come corpo, come attualit e presenza. Come corpo a corpo, dialogo e respiro. Come monito, monumento e testimonianza. E per cominciare dal concreto della tecnica come performance di una voce. La formula registica e orchestrale dei punti di vista e dascolto, il sistema sensorio e rifrangente del romanzo facilmente ravvisabile e nitidamente dichiarato dallautore: Sono cinque singolarit, se volete, tutte comprese nel sei, che a loro volta riprendono, senza comprendere. Se vi sembra pi calzante una vecchia immagine, come se fossero cinque macchine da presa (364-65). Padre Saverio, Regina, il cardinale, Valentino, il dottore: sono in effetti cinque, e la loro prospettiva prevale a turno, secondo lo schema dantesco ABA BCB CDC DED EAE, nei quindici capitoli o tratti in cui suddiviso il romanzo, tre per ciascuno dei cinque fascicoli che raggiunsero fin nelle dimore i sottoscrittori. Cinque macchine da presa, e tutte della stessa marca, ma ciascuna con il suo obiettivo, langolazione, il tipo di pellicola, uno specifico taglio delle luci, le

mascherine da inserire, con cui riprendere il set che le contiene, e che non pu offrire altro, quanto a scenografia. E via, lo sappiamo, mica si pu pensare chiss che chiss quando. Perch le cinque soggettivit in gioco sfondano s, per ricordanze e rammarichi e progetti e speranze, i termini stretti, cronologici e spaziali, della notte imbrogliata e qualsiasi che al centro del plot, ma non se ne dilungano davvero, n saprebbero liberarcene, essendo quella notte ovunque, e i suoi cancelli infiniti: Qui, lo sapete, siamo nel Cielo della Luna, e non ce ne siamo allontanati mai (365). E il sei, la sesta singolarit ripresa e non compresa dalle cinque? Si consideri questaltro riferimento tecnologico: Chi non ha un home theatre a casa, via, col suo bravo 5.1 diligentemente disposto in camera, fosse pure questa delle dimensioni di una cella monastica? (116). La soggettivit sovrannumeraria, la voce in pi quella dellautore: il subwoofer spalmato per tutti i capitoli e che d il ritmo fondo allintera musica e in sovrappi, sospetto, un sensurround di terremotanti infrasuoni; il basso e cupo che accompagna e governa e contrappunta gli altri cinque strumenti e sovente acutizza il suo timbro, cattura lattenzione, la fa da solista: quando dalla sua cella lautore salta su nella pagina e occupa il proscenio, e illustra e divulga e ammonisce, e perfino attoreggia e buffoneggia. Lautore, il sesto, , per prima cosa, colui che nel romanzo fa le voci, e le fa in certo modo mostrando di farle, e cos interloquisce con noi per molte bocche che contrastando si rafforzano, per meglio dirci quel che deve, a noialtri che lo leggiamo. I file mp3 che fu concesso scaricare dal Web, e nei quali davvero Frasca, come un bravo attore radiofonico, interpreta questo e quello e per far le voci dei suoi eroi eventualmente adatta il tono e il timbro della propria, non sono leccornia aggiuntiva o esibizionistico cimento, ma dimostrazione in re dellanima mediale di Cancelli: dellindole drammaticamente interpersonale e cospirativa del testo. Lautore fa le voci di quei cinque per aver la maniera dinterfacciarsi da cinque lati e in cinque guise col lettore, ed accrescere darmoniche efficaci il volume del domandargli e del rispondere. Ma altre voci e altre coscienze pure sono concertate, altre soggettive, talvolta davvero incidentali, pure incuneano memorie e trasalimenti. Non c rigidezza in Cancelli, non assunzione legnosa e astringente di metodo come in certi naturalisti tardi o

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ancora pi tardi americani, ma invece una scioltezza, unariosit da romanzo classico, in cui la guida autoriale sia salda e franca e tale da consentire la pi variata strategia, al punto che Frasca incorpora e rielabora nelle pagine, ed espelle ed espira con la voce, e con gesto che mi piace pensare consuntivo e postumo, unintera storia del romanzo, delle voci dei romanzi, agevolmente riconoscendosi in questo, col gi acclarato Dick cosmologo e alternante, e per limitarmi a pochi altri nomi e, fra parentesi, specificanti affinit: una funzione Sterne (andamenti digressivi, gioco a vista coi fili e le quinte dellinvenzione, lo stesso sgocciolare di Cancelli nella prima e sottoscrivibile fase editoriale), una funzione Flaubert (vocine, delibato flux de connerie), una funzione Gadda (plurilinguismo italico e dialettale, dolorosa cognizione del viscerame umano), una funzione Beckett (risate dianoetiche, quel Dante), una funzione Pynchon (lincredibile che diventa realt, generazioni elettriche, tv), e chi vorr estender lelenco nota bene: trovare un posto a Joyce o approfondir, per prima cosa compulsando, astutamente, La lettera che muore. Ah, c una funzione Manzoni: rinvigorita dal pure funzionale e impreteribile Mario Pomilio del Quinto evangelio. Manzoni nei manuali lemblema dellorgogliosa onniscienza; quello che sintrude, che fa capolino: quando simpanca lo storico, quando moraleggia o fa dello spirito, e perfino in atomi di autobiografia ipotetica (il manoscritto, i venticinque lettori). Cos Frasca: che volentieri zooma allindietro e dallalto, per escursioni di geostoria se non manzonianamente vera espressionisticamente scrupolosa e risentita; che di continuo produce sentenze come il Manzoni esperte delluomo e pessimistiche alquanto (alcune da scolpirle, e regolarci se rinasciamo: Non c modo migliore di schivare le trappole che buttarsi a piedi uniti nella prima, 42), che umorista. Ma questo invero non nel modo che Dossi trov nei Promessi sposi, quanto nellaltro pi impulsivo e impudico che altri praticarono, nel medesimo secolo fintamente stupido, mettendosi in scena, mettendosi in gioco con il lettore, per farlo di molto ridere (anche in Cancelli, come in Santa Mira, c una indimenticabile serie televisiva) e per strappargli con lo sterniano sorriso la lacrima (il tasto patetico di Cancelli: quando lautore si confida al postero, o quando mormora, alle note di un pezzo dei Devo che sembra ieri e sono trentanni: Che fretta che ha sta vita,

168); a costo di gettare spensieratamente sulle tavole, volentieri confondendole, le carte e le maschere della biografia: sappiamo di Frasca lindirizzo preciso dove a Siena comprava le coppole, e che per certo Regina ha letto Prime e le ha trovate modeste, Sta stronza (194); e che Gabriele da ragazzo andava da Rico, e chi di noi non ci andava? I fenomeni dello humour coi cammei, con le intromissioni denudanti nellintreccio: se Frasca sa tutto dei Figli dellEvento perch, cinforma, anche lui fa parte dellorganizzazione, 475 formano una categoria, dellesibizione istrionica di s, che in Cancelli ha un senso importante, lo stesso della puntuale segnalazione ai lettori (per bandierine come lo sappiamo, come sapete, lavrete notato, lavrete capito, provate a immaginare, vi starete chiedendo, ricorderete senzaltro, e simili) dellindiarsi a commento e illustrazione del narrato, del sottrarsi dellautore al set delle soggettive e agire la sfera superna della regia onnisciente e demiurgica. Il senso il rilievo della voce dietro le voci, del sesto che tutte le regge: e, con ci, la marca di un territorio. Gli artisti, convocatori della comunit per gli attraversamenti dellenciclopedia tribale, leggiamo pi o meno nella Lettera che muore a commento di Deleuze e Guattari, sono stati sempre marcatori del territorio: ma alcuni (sacerdoti, uomini della legge) hanno marcato rileggendo e ribadendo la lettera delle vecchie marche, statiche e statuali, altri hanno obbedito a spinte deterritorializzanti, e teso, pur della lettera tenendo conto, alla potenza di una convocazione acustica, corpo a corpo, cospirativa e pneumatica (LM, 42-43). Anche questo un marcare: chi in fuga, se gli sembra di scorgere dal mare un orizzonte nuovo di terre, vuol marcarlo a sua volta, ma con un fresco convocante gesticolare, con lavviso orale e vivido di un ol. Cos Frasca: che magnifica la zona del sesto, la sua propria voce di scrittore, per dar forza e sonorit, in fin dei conti, alla mozione politica, alla convocazione; perch ci sia chiaro che tutte le voci del romanzo, coi mondi che allucinano, sono in una scia, e tutte le sue anime discordi in un medesimo respiro, e perch il freddo set geometrico e quinconciale ci appaia ci che veramente , e cio un corpo, un corpo bens scritto ma essenzialmente risonante e acustico, che ha una testa e ci guarda e ci parla, e che ha membra di cartoni e pupazzi per un corpo a corpo. E questo corpo ci attende, e respira.

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Il suo palpito , dallinizio alla fine, la gi detta molecola interiettiva: questo mondo un inferno, tutti vogliono il paradiso, che fare? E il primo atomo componente si rimpolpa nel corpo di Cancelli, nel mondo uno di Frasca, di quadri e scenari della societ e della storia, e di emozioni e vicende di uomini e donne inventate: tutta una creazione dedotta dal primo assioma del teorema viva Las Vegas! col quale anche nel nostro mondo ci si conduce nellesistenza: il principio di non (vi mai) contraddizione. Anzi, da questo punto di vista Cancelli sto citando dallOscuro scrutare, dove Frasca nomina invece un romanzo di Dick: il resto, per, lo posso trascrivere identicamente fa di tutto il pianeta ununica enorme Las Vegas, indiscussa capitale del sogno neoliberale: un deserto e un campo di concentramento dove giocare ancora (OS, 81-82). Il paradiso pi sfuggente da cogliere. Alito e chimera di personaggi. Ma, c da chiedersi, la parola per Frasca ha senso? C qualcosa, per lui, nella vita degli uomini, che meriti di chiamarsi paradiso? Pesco due lunghi lacerti che mi paiono far lume, entrambi dalla zona di Cristoforo, la voce pi prossima, come laltra del medico ma in modo e per ragioni diverse, al subwoofer del sesto:
A volte per uscire da s, dal piano inclinato su cui scivola, bruttandosi degli schizzi di fango degli anni, la maschera che volge allesterno una smorfia da individuo, basta una presa in cura inattesa, qualcuno che neanche lo vorrebbe cui dedicarsi, e lequivocit del sentimento, tanto intimo proprio perch comune, risolve lidentit al dunque dolente nel coro di speranza delle creature. Rimanga allora lamore, o la sua promessa soltanto, perch il suo nome al futuro, e resti pure com, struggente e insaziabile. E se lo chiamiamo desiderio, perch una puntura di stelle che ci drizza a scrutare accogliente lazzurro del cielo, come se il nostro destino di polvere fosse la promessa di ripopolare il buio in cui si propaga la luce degli astri. Disperdersi il paradiso. (285) Lamore non ha soggetto n oggetto, solo uninfinit di abietti, residui del mondo, da inanellare lun laltro. Ed cos che ciascuno di noi pu sottrarsi alla morte, ingoiandola, perch loltre cui ci spinge lamore non mai un al di l, lillimitato cui occorre sempre un numero in pi, se solo invece al di qua del limite che il grigio dei possibili tracima lazzurro del cielo. C un limite, insomma, ed un muro dai cancelli dacciaio da cui si torna indietro, ma solo per scoprire quanto infinitesimale

sia linfinito. Lo cercavi altrove, e ce lavevi in casa, in un angolo nascosto di terra smossa. Non vedi quante minuscole formiche vi passano? (287)

Amarsi lun laltro, prendersi cura di qualcuno: fili affettuosi fra le persone. Vi sembra facile e poco? Ma andate a vedere quale maieutica si ricavi, nelle ultime pagine dellOscuro scrutare, dalle ultime dellultimo romanzo di Dick. C un ciarlatano o santone che si fa pagare cento dollari dalla gente per risolvergli la vita e gli dice:
Quando le persone vengono qui a sentirmi parlare, io offro loro un sandwich. Gli stupidi ascoltano le mie parole, i saggi mangiano il sandwich []. Le parole, i discorsi, sono solo vento niente. Vi faccio pagare cento dollari ma imparate qualcosa che non ha prezzo. Quando il vostro cane o il vostro gatto hanno fame, gli parlate? No, gli date del cibo. [] Prendete il sandwich e mangiatelo, dimenticatevi delle parole. Lunico scopo delle parole era di attirarvi qua. (OS, 247-48)

Angel, la protagonista di The Trasmigration of Timothy Archer, ha inteso: manterr fede al patto che ha stretto con la sua comunit di dispersi dando da mangiare, prendendosi cura dellunico superstite, siamo nel 1980, il povero ebefrenico Bill: cos prolungando lefficacia e testimoniando il valore massimo desistenza di un sito evemenenziale (Badiou) che poi Berkeley fra la fine degli anni Cinquanta e quella dei Sessanta, l dove parve manifestarsi, se non direttamente il mondo nuovo, quanto meno lo snodo che prometteva di rendere possibili altri mondi (OS, 243). Il mondo nuovo traluce anche, con laltro azzurro, dallinfinito infinitesimale di Cancelli. A Coprotella, provincia di Santa Mira, fra le formiche innumerevoli, e negli stessi anni speranzosi in cui a Berkeley straparlavano Angel e i suoi amici intellettuali (e Dick coi suoi amici), un uomo di poche parole, operaio e comunista, regal ai figli per Natale un mappamondo con la lampadina dentro. Quando a mezzanotte la scatola fu aperta, e il mondo brill nella stanza da pranzo lasciata al buio, C posto per tutti qua dentro, pap sentenzi, con la luce del Pacifico che glilluminava lo sguardo da saldatore (257). Perch i fili dellaffetto sono anche legami e transiti della politica, e se in molti si danno la mano, possono farsi

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trama e tessuto e monumento. Non per nulla, io credo, le frasi che seguono di Deleuze e Guattari (anchesse da un ultimo libro, Quest-ce-que la philosophie?, del 1991) le ritroviamo almeno due volte in Frasca, in una nota della Lettera che muore e nellOscuro scrutare, da cui cito:
Un monumento non commemora, [] non celebra qualcosa che successo, ma affida alle orecchie del futuro le sensazioni persistenti che incarnano levento: la sofferenza sempre rinnovata degli uomini, la loro protesta che rinasce, la loro lotta sempre ripresa. Tutto inutile, visto che la sofferenza eterna e le rivoluzioni non sopravvivono alla loro vittoria? Ma il successo di una rivoluzione coincide con la rivoluzione stessa, con le vibrazioni, le pressioni, le aperture che ha offerto agli uomini nel suo farsi e che compongono in s un monumento sempre in divenire, come quei tumuli ai quali ogni nuovo viaggiatore apporta una pietra. La vittoria di una rivoluzione immanente e consiste nei nuovi legami che instaura tra gli uomini, anche se non durano pi della sua materia in fusione e cedono presto il passo alla divisione, al tradimento. (OS, 245)
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Nuovi legami tra gli uomini. Non chiaro? Il paradiso possibile la rivoluzione: levento irripetibile e che pure si ripete, la vibrazione che attraversa la storia e che si fa monumento, a cui la memoria degli uomini pu tornare. E non conta che ogni volta subentrino la divisione e il tradimento: anzi Frasca ci dice che senza tradimenti la vibrazione non supererebbe il tempo, ed anche dellautore linsegnamento di Cristoforo a Saverio: Una tradizione che voglia essere viva [] dai suoi tradimenti che trae vita (241). Sembra un paradosso: uno slancio alimentato da ci che vorrebbe spegnerlo; e a volte i cancelli sembrano cos alti Il bimbo che ebbe il mappamondo cresciuto, si chiama Cosimo, lo si visto a casa di Rico, a met degli anni Settanta, ma poi le cose hanno assunto laspetto sinistro, si sar compromesso col terrorismo, dovuto espatriare, dopo molti anni tornato e ora lavora in fabbrica come faceva suo padre. Ora Cosimo ha un figlio, questo figlio Valentino. Non molto che gli ha portato il mappamondo, lo stesso, recuperato nella casa di Coprotella che stata messa in vendita dopo che anche la madre di Cosimo morta. Ha armeggiato tutto il giorno per sostituire il piccolo impianto elettrico e infine il giocattolo, sebbene un po ammaccato, di nuovo capace di brillare. Lo consegna, tutto

commosso e solenne, a Valentino, ripetendo le parole paterne, ma non sono proprio le stesse, ascoltate in quel Natale remoto: Questo il mondo, vasto e vuoto com, ed tutto tuo, figlio mio (255). Valentino, scorgendo le sue lacrime, reprime a stento una risata. Non facile consegnare una speranza, far transitare la memoria e il respiro. A volte basta la distanza di una generazione ed un abisso di silenzio e di diffidenza. Eppure questa distanza si varca, se ne sono varcate di maggiori. C la verticale dei padri e dei figli, dei maestri e degli allievi, e qui si vedono il tradimento e la consegna, e c, quando che sia, quando se ne danno le condizioni, nellora sempre diversa che adesso, lorizzontalit solidale dei fratelli: E qui lei pu scorgere per un momento Cristoforo sta parlando a Saverio il maestro che va, poi il discepolo amato che resta, e la materia viva della consegna, ogni volta diversa, ogni volta la stessa, nellinfinit dellamore (321). Cristoforo , fra i personaggi di Cancelli, quello che mette a giorno la principale e portante delle strutture enantiomorfe del romanzo, dove sidentificano tradire chi ci ama e consegnare il suo respiro. Riflette il cardinale:
E chinato il capo, Cristo paredoken to pneuma, consegn il fiato, o il respiro, o lo spirito. Consegn, proprio come Giuda laveva consegnato. Il verbo, e quante volte se nera stupito, era esattamente lo stesso, per il tradimento di Giuda e per lultimo respiro di Cristo. Paraddomi. Anche Giuda, lIscariota, magari lui stesso Didimo, [] aveva in verit consegnato il soffio in cui sinvola lultimo pensiero. Quello che hai da fare, fallo sbito. (218) E quanto a lui, beh non poteva certo sfuggirgli, nellora che adesso, la singolare somiglianza con la sua situazione, e con quello che, dopo mezzo secolo di dubbi, aveva scelto infine di compiere, consegnare cio il suo segreto a chi come Giuda lo aveva consegnato, perch con quello stesso tradimento riprendesse vita la tradizione del testo. (219)

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Cristo consegnato da Giuda, Cristoforo consegnato da Saverio: Quello che stava capitando a lui, ultimo degli inviati, ripeteva dunque per lennesima volta una scena che dallEvento non sera mai conclusa (314). Quale possa essere lEvento per un cardinale non difficile immaginare; ma esso ha assunto ora, per lui che conosce il vero vangelo di Giovanni, connotati

politici eterodossi e riattualizzabili, una volta rimossi i massicci inter venti redazionali avvenuti quando si era trattato di imporre il morso della monarchia episcopale a una comunit che aveva eletto a fondamento del proprio riconoscersi il congiungersi mani e piedi nel bootstrapping dellamarsi lun laltro, e a principio del proprio propagarsi il corpo a corpo della consegna di un respiro, o spirito, che non sarebbe mai stato lultimo, fin tanto che fosse stato tradito (240-41). A fondamento il bootstrapping dellamarsi lun laltro: nuovi legami tra gli uomini: c stato un cristianesimo umanamente rivoluzionario. A principio del proprio propagarsi il corpo a corpo della consegna di un respiro: e siamo nei paraggi di Paolo, e con ci, giacch stiamo per citare dalla Lettera che muore, della massmediologia di Frasca e delle sue implicazioni politiche:
Lapostolato [] come lo intendeva Paolo (linviato che a sua volta invia chi deve ulteriormente inviare) funziona se propaga, per strada si potrebbe dire, una sorta di contagio della voce, una ricircolazione dello spirito; e lepistola, dunque, contro la lettera (to gramma) che uccide, il medium del respiro (to pneuma) che vivifica (2 Cor 3, 6), chiamando a raccolta nellhic et nunc dellesecuzione lintera comunit. (LM, 59)

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Ma con questo Paolo siamo anche, di nuovo, a un passo da Cancelli: allinviato che ha insufflato la sua voce in Cancelli, a Cancelli come epistola inviata. Da Paolo a Gabriele: non paia iperbolico il salto. Perch unepistola potrebbe essere medium del respiro e non un testo della contemporaneit, oggi che anzi le arche tipografiche risentono lusura e sono piene di fessi da cui spifferare? Cos in Beckett: Quando non c (pi) pagina che contenga, larte di trovare parole mangiare lo stesso pane (compagnia, appunto), procedere bocca a bocca, scambiarsi il fiato; se la si chiama arte, perch pratica, come Comment cest con le sue lasse contenute in unemissione di fiato, la respirazione artificiale (LM, 245). E perch non un romanzo potrebbe essere epistola, un romanzo dellora che adesso, nonostante tutti i crismi appariscenti di romanzo-romanzo? In fondo sempre la stessa scelta, di un territorio da marcare, e se farlo da uomini della legge o per unaltra ragione: Non c arte del discorso, e non c dunque letteratura, che non sia il riproporsi della messa in stato, il reticolo a maglie strette e soffocanti del flux de conne-

rie, a meno di non farsi invece trasmigrazione, e cospirare dunque per nuovi legami da instaurare, sia pure nel tempo di fusione della sua materia, fra gli uomini (LM, 312). Sto per concludere, e per tradire la proposta strabiliante di Frasca, la sua risposta allatomo terzo e interrogativo dellinteriezione nucleare. Che fare? Come fare a conquistarsi qualcosa che meriti di chiamarsi paradiso in questinferno che il mondo? Ci ha esterrefatto nel Cielo della Luna: un inferno che sa, se serve, balenare azzurri, che un deserto e un campo di concentramento dove giocare ancora, dove non (vi mai) contraddizione. Ma se non ci sono contraddizioni, o non appaiono, dove incuneare la leva? Che fare? Una risposta la vorrebbe anche Sandro. Ripensa agli anni belli, quando andava da Rico, e cerano tutti (e in verit cero anchio):
Per troppo tempo mi sono chiesto quale fosse la mia colpa. E poi, dun tratto, mi stato chiaro, e ho capito che non esiste altra colpa che sottrarsi alla testimonianza. Ho lasciato che i giorni si susseguissero come fossero luno la fotocopia pi sbiadita dellaltro, senza avere la volont di scegliere fra ci che valeva e ci che non significava niente, fra ci che era mio, e nostro, e vivo, e londa di necrosi che tornava ogni volta pi profonda, indifferente a ogni stimolazione. Mi sono strangolato con queste mani alla prima contrazione, e non so pi come riaprirle per trovare laria. (384)

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Testimoniare e respirare di nuovo: il medico, come vedrete, tenter una sua via per fare luna e laltra cosa. E capirete che diversa la via scelta dallamico scrittore. Anche Frasca, con Cancelli, ha voluto testimoniare, apportare una pietra al monumento sempre in divenire; e anche lui di nuovo respirare. Ma da scrittore, da inviato di altri inviati e di una tradizione di scrittori. Nel pacco che oggi la letteratura, leggiamo nellultima pagina della Lettera che muore, uno scrittore che voglia cospirare per nuovi legami deve introdurre un ordigno o un sandwich. Frasca ci ha messo un respiro: ha fatto del suo pacco, del suo romanzo, un corpo che respira, e lo ha mandato per il mondo. Di traverso al mondo. E non era facile, perch nel Cielo della Luna troppe cose sono equivocabili, bench poi un discrimine esista, se Regina pu puntualizzare gelida a Saverio: Quello che insceniamo qui, padre, una specie di rito di liberazione, ma non per andare di traverso al mondo (566), e Cri-

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stoforo invece entusiasmarsi per il vivificante della consegna: un vero e proprio transito dinformazione vivente, e contro natura, o se preferisce in un senso inverso al mondo (231). Questo romanzo va in un senso inverso al mondo. Ma perch immaginarlo come un corpo respirante quando con pi breve e familiare metafora potremmo passare dal pacco alla bottiglia? Non dice Frasca che i testi galleggiano sul loro supporto? Facilmente ci si figura un pacco-bottiglia che galleggi, e vada per il mare tipografico, finch uno lo pesca e lapre, e ne cava il cartiglio col messaggio. Ma nel cartiglio leggeremmo contate e scontate parole, ad esempio nuovi legami tra gli uomini, e con ci tutto sarebbe stato detto, e nulla, perch la lettera muore, Frasca ci ha scritto il saggio, e il respiro no, la lettera passa e niente cambiato e il respiro forse no. In Cancelli non c un messaggio: Cancelli un messaggio. In Cancelli non c un respiro: Cancelli un respiro. Vuol essere un modo e una presa del respiro, uno scambio di fiato, un chiamare a raccolta, come unepistola paolina. E giacch chiamare a raccolta testimoniare ed insieme trovare salvezza, congiungendo coi fratelli, nellora che adesso, terra e cielo, ecco che in Cancelli il mezzo e il messaggio coincidono (McLuhan, ovviamente) e non si pu veramente distinguere fra lo strumento della convocazione (formale e tecnico: fatto di voce scritta e pneumatica) e la proposta (politica) di un cospirare per nuovi legami. Cancelli un romanzo, ed un respiro bloccato in un libro, ma come per esso migrante, sempre sul punto di involarsene. Ecco perch, o lettore a venire che immagino giunto allultimo dei mille fogli, e che vorrei fossi tra quelli che avevano gi prima domande e risposte ma smorte, in attesa di chi le ravvivasse, ecco perch, per tutto il tempo che leggevi, il libro ti stato davanti ma, anche, sentivi un corpo cospirarti accanto, anzi respirarti dentro, con la sua voce che era un coro di voci, un concerto di spiriti smarriti, tutto il mondo, finch quella voce stata la tua voce e linferno il tuo inferno. E ora che sei alla fine, nel pi profondo e diaccio dellorrore, il tuo cuore che senti battere nei caratteri. Concentri nella mente ci che hai visto, per lultima volta si profila il cono minaccioso. Chi ha consentito tutto questo?, ti chiedi. E il cuore ti risponde Tu, tu, tu, tu, tu. Per un attimo si sono schiusi i cancelli dacciaio: qualcosa passato da questa parte della pagina.

Dei disegni dacciaio cyop&kaf

mangiato: ultima cena

1+1=3

La so(stanza) dei riflessi

Segretezza massonica, democrazia dei consumi

Click / Fuck

Guardare Obbedire Combattere

Io ti guardo Io ti guardo guardare Io ti guardo guardarmi guardare

Lun laltro

Cono ottico

Lap lap lapsus

Game, over the rainbow

Oddio! Ci ha creati perch lo creassimo

Fo(t)to di gruppo

Guardare virgola morire

Mo(n)strarsi

On / Off

Le immagini viste forse non urteranno la vostra sensibilit ma potrebbero ficcarsi irrimediabilmente sottopelle. Esse si sono date prima corpo e poi pixel grazie alla lettura di Dai cancelli dacciaio di Gabriele Frasca. Lo ringraziamo, anche perch, tra i pochi, ci legge tra le righe, oltre le righe. cyop&kaf

Blogaritmi Gabriele Frasca

Si raccolgono qui, con alcune aggiunte, tutti i post, o invii, del blog dautore Dai cancelli dacciaio, apparsi sul sito di Aboslute Ville dal 22 maggio 2010 al 24 febbrario 2011

Perch pi freddo della morte amore (Intervista rilasciata a Jacopo Grosser)


[22 maggio 2010]

D. La plaquette Quevedo, ovvero Perch pi freddo della morte amore, apparsa per le edizioni dif nel 2009, una raccolta di sue versioni di sonetti di Francisco Quevedo, con in conclusione una traduzione da Dylan Thomas. Chi abbia letto la sua produzione precedente riconoscer in questi testi alcuni temi ricorrenti nella sua poesia, cos come identificher immediatamente la sua voce: in che modo, a suo parere, Quevedo entrato nella sua poesia originale, e in che modo lei ha agito sul testo di Quevedo cos da renderlo inconfondibilmente fraschiano? R. Il Quevedo in questione non esattamente il torvo don Francisco che si fa ritrarre, fra i primi a memoria mia, coi suoi bravi occhialoni montati sul naso, quasi a insegnarci che non c percezione che non abbia bisogno di una protesi per divenire comune. Il mio Quevedo, a dire il vero, una calzamaglia aderente che non nasconde le forme del corpo. I poeti, come i supereroi che per diventare tali sono condannati a dimettere la loro identit, sono costretti a indossarne, se vogliono assestare alla lingua quel paio di sberle necessarie a farla cantare. Diciamo che una calzamaglia assai aderente, e color carne, come quelle che avvolgevano le ballerine nella prima castigata tv di stato democristiana. Il problema che a furia di indossarla, non solo si sdrucita, ma qui e l appare cos logora che un occhio ben esercitato, se non acuito da quel po di concupiscenza che occorre a un critico, non dovrebbe tardare a scorgervi la pelle lucida e viva. D. Quali sono le ragioni per cui Quevedo (e, in generale, la lirica seicentesca e barocca) costituisce un modello o esercita uninfluenza per la sua poesia? R. Perch viviamo in una cultura di massa, e il Barocco ne il prototipo, anzi addirittura il paesaggio permanente, con

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tutto il suo effettismo propagandistico, lautoritarismo populista festaiolo e arrogante, il dirigismo cinico da parte delle consorterie intellettuali sempre pronte (come insegna proprio la parabola politica dellimprovvido Quevedo) ad allearsi con signorotti e poderosos, nonch linevitabile propensione allo spaccio e al consumo del kitsch. Il sistema capitalistico, come lo conosciamo, nasce nel XVII secolo, sullonda della prima grande recessione, perch il capitalismo la recessione (e la conseguente sperequazione nella ridistribuzione delle risorse), e in quanto tale non pu che ripetere il ritornello tanto caro, e non a caso, al primo punk: no future. Lesaltazione irriflessiva non gi dellora ma del mo (moda, mondo, moderno... per dirlo col trittico caro ai gesuiti del tempo), cos tipica delleffimera sontuosit dellepoca, costringe il Barocco a sporcarsi le mani con il pop. Il Barocco, contrariamente allIlluminismo e al Romanticismo (che vogliono rappresentare le istanze culturali, e le pretese politiche, di ununica classe), si prefigge unarte a classe unica, cio uniformata e pervasiva, come la nostra. In buona sostanza unarte che non sappia che farsene dei richiami allora, o come avrebbe detto Benjamin allordine del giorno, ma che sia tutta una declinazione di quel mo (o meglio ancora, come dicono i napoletani, mo mo, giusto adesso) in grado di bloccare lo stesso scorrere del tempo nel giorno perenne dellordine. No future. Unarte che intrattenga e induca allarrendevolezza; questo quello che richiede la cultura barocca, e la nostra. Se in una simile tipologia culturale resta dunque un cmpito allartista che voglia procedere per forme davversione, non potr essere che quello di riflettere, avrebbe detto padre Lubrano, in tante trasparenze. Da sempre non mi prefiggo di fare altro; quanto meno ci tento. In these places sojournemus, questi saranno i luoghi in cui soggiorneremo, aveva del resto notato con la consueta aspra lucidit, allalba dellepoca nella quale siamo immersi, quellumoroso capo dopera della distopia biopolitica che il Finnegans Wake: a phantom city, phaked of philm pholk. D. Negli anni lei si cimentato con la traduzione di altri autori, anche molto distanti tra loro (penso in particolare alle poesie di Samuel Beckett per Einaudi); quali sono le differenze di approccio ai diversi autori, e in che modo agisce in sede

di traduzione? Tende a ricercare una mimesi fonico-ritmica del testo di partenza o a privilegiare la resa di aspetti contenutistici, e perch? R. Ogni traduzione una storia a s. Come prima cosa, occorre conoscere quanto meglio si pu lautore che si traduce, sapere quali sono i concetti che tornano, la musica che insegue, leffetto che vuole ottenere su chi cerca di raggiungere. Se per un autore sono importanti i giochi fonici (e per lo pi lo sono), occorre essere allaltezza del testo, ma non con una mimesi fonico-ritmica che possa inficiare gli snodi semantici di ci che viene detto. Ogni opera non vuole che rimettere in funzione il suo lettore; questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Lequilibrio allora va ricercato, e bilanciato, nel testo nella sua interezza, non in una sua singola porzione. Sono quelli che Fortini credo chiamasse compensi. Non si pu, a mo di esempio, per rispettare fino allottundimento una rima mandare per le terre il senso: se ne pu fare unaltra altrove, se necessita, ma sempre col materiale offerto dallopera stessa. Questo vale anche per le strutture ritmiche: inseguire, dico per dire, la coazione allesametro (pi raramente al pentametro) giambico dellinglese sarebbe soffocarne la snellezza. Va adattato, o creato ad arte, un verso sillabotonico, che senta la forza del testo di partenza, senza ammutolire quello darrivo. Nulla si aggiunge, nulla si toglie, ma tutto si rimpasta con la farina fresca dellaltra lingua. Con la propria, in quanto lingua che deve divenire altra se vuole accogliere il testo; e con quella di partenza, che laltro che ci ritroviamo dimprovviso in casa come lextracomunitario della porta accanto, che ci sta snaturando il quartiere, e come no, ma magari coi suoi contributi ci paga pure la pensione. I veri turbamenti in una traduzione sono sintattici. Se vogliamo innestare nella nostra lingua, come un organo trapiantato, unopera in grado di rimettere in funzione un individuo divenuto esangue per et e dieta poco variata, dobbiamo abbassare le difese immunitarie di modo da impedire che sia il nostro stesso corpo ad aggredire e uccidere lorgano altrui che ci mantiene in vita. la lezione di un bel testo, potrei dire, di educazione civica di Jean-Luc Nancy (Lintruso), che io farei leggere propedeutico nei corsi di traduttologia. Non c traduzione, insomma, che non insegni a smaternare la lingua, sottraendola al suo destino psicotico e guerrafondaio, etimologicamente idiota.

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D. Nella plaquette, lopposizione Quevedo / Thomas totale: tematica e formale. Qual il senso di una tale giustapposizione? semplice variatio sul tema della morte (una sorta di dialogo) o vi una ragione pi profonda? E inoltre, perch nella traduzione da Thomas ricompaiono maiuscole e punteggiatura, elementi generalmente banditi nella sua poesia? R. No, pi freddo, cio bloccato fino allalgido e al maniacale, lamore di quanto non lo sia la morte stessa, questo quello che si prefigge di mettere in tema la plaquette. E credo che su una simile impostazione, un po da triste topica freudiana, Quevedo e Thomas siano meno distanti di quello che sembrano, almeno a dar credito al polvo enamorado del primo e allossessione tutta secentista womb-tomb del secondo. Lopposizione, se c, si smussa con lintermediazione di Seneca, convocato non a caso nellultimo un po ironico sonetto (che pure si chiude a sorpresa con un verso di Dylan Thomas) a fare da ponte con la versione di Do Not Go Gentle Into That Good Night aggiunta in chiusa come sed contra (maiuscole e segni dinterpunzione rispettano le volont delloriginale; linterpunzione in Thomas ha valore neumatico, come si evince dalle sue folgoranti recitazioni). unintermediazione che occorre a far scaturire il senso complessivo del passaggio dalluno allaltro. Seneca, da poco giunto in quella specie di Las Vegas che era Pompei, si ritrova nel clima della sua giovinezza, al punto tale che quasi gli verrebbe di comportarsi come quando era adulescens. Gli sembra che il tempo insomma non sia nemmeno trascorso. unintensa esperienza in qualche modo proustiana quella che lo induce, sessantenne, a scrivere la famigerata lettera 70 a Lucilio. Solo un rigurgito di vita (ma in un campo di concentramento del divertimento a tutti i costi, o della jouissance, avrebbe detto Lacan) pu far balenare in uno stoico lipotesi di sottrarsi alla vita, e accettare cio la sfida del niente che siamo. Ma, dal momento che la morte portus e non gi scopulum, non dice mica di entrarvi miti; piuttosto di affrettarsi, con tutta la foga necessaria (rage, rage, direbbe Thomas) per raggiungerlo prima che questo ti risucchi (tanto, dice Seneca a Lucilio, sta pur certo lo far). Il suicidio stoico esattamente lopposto dellandarsene miti verso quella buona notte. In aperto nos natura custodit: non siamo pecore in un recinto, nellattesa mite che qualcuno ci porti via. Possiamo, volendo, andarcene quando vogliamo.

Nulla di meglio stabil leterna legge, conclude, se non di averci dato un unico ingresso alla vita, e uscite numerose. Non cos lamore, parrebbe. Non cos lamore, sia nel suo registro ossessivo (prima o poi unesperienza cavalcantiana non la si nega a nessuno) sia in quello coniugale (che tutto un andarsene miti ecc. ecc.), sia ancor di pi nella sua universalizzazione in pietas (le pecore nel recinto, lo sappiamo, si prestano a ben altra allegoria nel vangelo di Giovanni). Quevedo non una meditazione sulla morte, ma sullarrendevolezza. Sullamore che, declinato come siamo soliti farlo in arrendevolezza (alla vita, e dunque alla morte), pi freddo e paralizzante della morte stessa, e come cinsegnava Cavalcanti finisce col creare automi che un altro, un qualsiasi altro, muove per maestria. I vo come colui ch fuor di vita. Se vuole, con un po di attualit che non guasta, il senso della plaquette potrebbe riassumersi in questa battuta: Partito dellamore? No, partitevi dallamore. D. La sua produzione ricca e multiforme: accanto al lavoro poetico, lei ha pubblicato romanzi, graphic novels (o noir in anamorfosi, secondo la definizione editoriale del suo Il fermo volere), e-books, persino un cd musicale con il gruppo ResiDante; quali sono le ragioni che la spingono a sperimentare diverse esperienze di scrittura, anche attraverso media differenti rispetto al tradizionale libro cartaceo? R. Nel corso degli anni la mia produzione, come quella di tutti gli autori che possono per loro fortuna contare su una vita abbastanza lunga, diventata un corpo. A furia di piegarsi e ripiegarsi, dategli tempo, non c foglio genetico che, per quanto piatto sia, non lo diventi. Tutto in me si regge sulla poesia, cio sullarte del discorso nella modalit assunta durante le fasi della cultura orale. lo scheletro di tutto quello che faccio, la poesia, perch non c mia opera che non preveda lesecuzione in proprio, con il proprio. Non ho mai cercato lettori; attori s, attori in grado di interpretare, cio di mettere in gioco il corpo nellopera. Ma se riesco a far muovere queste quattro ossa, perch lattivit critica che mi ha sviluppato i muscoli. Sono un animale immerso nel suo medium, come ogni essere umano; nessuno pu svegliarsi la mattina nel giardino dellEden e mettersi a nominare le cose come se fosse stato appena invasato dal Verbo. Lattivit criti-

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ca ti d la possibilit di stanare un po il parassita del linguaggio, di modo da studiarlo quel tanto necessario per poterci convivere (senza sentirlo proprio, senza sentirlo estraneo). A irrorare di sangue vivo il lavoro critico, grazie allossigeno che incameriamo sempre al di fuori di noi, contribuisce per la mia attivit di traduttore; cos come lattenzione ad altri media, soprattutto a quelli che McLuhan definiva elettrici, non pu che costituire il sistema nervoso della mia opera (vivo nella mia epoca, non nelle camere iperbariche delle discipline universitarie). Ma la carne, la pelle, cio il corpo stesso come si espone allaltro, e come si predispone allincontro con laltro (perch solo questo percepiamo di un corpo, non certo il suo interno), sono i miei romanzi, dove tutto il resto letteralmente contenuto. Per quanto ne scriva pochi, perch ho delle stesure lunghe come un incubo, io sono essenzialmente un autore di romanzi; e i tre che al momento ho messo sui loro piedi, ritengo siano le mie opere principali. Lo so che si occupa qb (come dicono i ricettari di cucina) della mia produzione preferisce limitarsi alla poesia, e poco pi; ma tutto sta nel tempo che mi si vuole dedicare. Credo che molti ritengano che magari nella mia poesia ci sia una sorta di minimo comun denominatore, e dunque tanto vale limitarsi a questa. una scorciatoia che finisce col diventare un vicolo cieco. Quando ci sono pi strade, anche se ci siamo prefissi di andare lontano, tendiamo sempre a scegliere quella che ci sta pi comoda, per il solo fatto che ce labbiamo di faccia. E poi, diciamoci la verit, si ha sempre limpressione che uno con la poesia se la cava in quattro e quattrotto. Con la mia, in genere, basta una battuta sulla forma, da esaltare come vertiginosa o bollare al contrario manierista, e ci si cava dallimpiccio. Se assemblo congegni col pilota automatico (per me questo una poesia), per portare in giro la gente, dove vuole sebbene sulla mia tratta, non per fare il nastro trasportatore dei pezzi di ricambio di un critico taylorista. Sar pure centrale in me la poesia, ma mai scambiarla per la via di mezzo, perch quella, ricordava Schnberg, lunica che non conduce a Roma. D. A cosa sta lavorando, attualmente? Sappiamo che uscir Rimi, la sua prossima raccolta poetica, che lei ha anticipato essere lultima (ho pensato da quando ho scritto Lime [...]

che avrei sempre scritto massimo quattro raccolte di poesie, quindi con Rimi si chiude). Per quale ragione? R. Sono stato ambiguo nella formulazione, e converr chiarire. Non volevo dire che non praticher pi la poesia; solo che non pubblicher pi altre raccolte. Magari riuscir a farne altre, di poesie, non so; ho una sorta di ossessione alla Cantor, e se non riesco ogni volta a trovare un limite apparentemente invalicabile, non ci gioco nemmeno con glinfiniti (della lingua). Persino come lettore amo le opere su cui torno e ritorno, perch sbatto contro il limite e mi rilancio a testa bassa contro. Sa come succede, si finisce col vedere le stelle. Un testo, per me, non smette mai di essere interrogato, e di rimettere in funzione chi lo interroga. Inseguire compulsivamente tutto quello che si produce in unepoca, lo ha detto non molto tempo fa Weinrich, il modo migliore per perdere il contatto col proprio tempo. Probabilmente quattro raccolte bastano, e potrei semplicemente limitarmi a continuare a lavorarci su, persino con delle aggiunte. Unopera, vivo lautore, non mai finita, io la vedo cos. Se dovesse poi manifestarsi una quinta raccolta, potrei persino accettarla, sia pure con qualche imbarazzo. La metterei a quinconce al centro delle altre quattro, per farle ruotare tutte. Ma al momento mi sembra difficile. Mi sto letteralmente prosciugando con Rimi. Nei prossimi mesi ritoccher invece il mio terzo romanzo, Dai cancelli dacciaio, che dovrebbe apparire in volume unico a marzo del 2011. I sottoscrittori lo conoscono gi perch uscito a fascicoli, man mano che lo facevo, e lultimo li ha raggiunti da un mese o gi di l. Anzi vorrei approfittarne per chiarire un po questa faccenda, perch ne ho lette di tutti i colori al riguardo, ad esempio che erano fascicoli dedicati a un pubblico eletto, cio selezionato, tipo intellettuali di punta o cazzate di questo tipo (c persino uno che ha scritto, assai piccato, che evidentemente non lo ritenevo allaltezza, dato che non ne aveva ricevuto nemmeno uno, di sti benedetti fascicoli). Ora il senso delloperazione, mio e delleditore Luca Sossella, che ha entusiasticamente aderito a questa follia la Sterne, era cos semplice che neanche mi spiego i fraintendimenti: si trattava di sottoscrivere un lavoro in fieri, tutto qui, vale a dire abbonarsi allopera nellattesa che venisse compiuta, ed era ovviamente una possibilit aperta a tutti (e un patto di reciproca fiducia). Chiunque poteva diventare sottoscrittore, occorreva come

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sempre semplicemente pagare (non il mio lavoro, ma quello delleditore: la redazione, la carta, la stampa, linvio). Nessuno ha ricevuto un solo fascicolo gratis, nemmeno i presunti recensori (uno degli scopi delloperazione era proprio quello di farne a meno, ovvero di rendere ogni sottoscrittore un recensore). Per quanto riguarda la mia collaborazione con lOpificio ResiDante (era un gruppo musicale, ma adesso diventato una sorta di factory), stiamo girando addirittura un film, sia pure specificamente immaginato per home theatre. Tre nuove traduzioni beckettiane dovrebbero vedere la luce, incrociando le dita. Poi, a partire da questa estate, mi piacerebbe tanto cominciare il mio libro su Joyce. [Le traduzioni, Da unopera abbandonata, Quanto estraneo via, Lo spopolatore, che volevo raccogliere in un unico volume dal titolo Tre opere abbandonate, sono rimaste nel cassetto, cio nel loro file, per taluni pasticci editoriali su cui meglio stendere un velo. La concomitanza con tanti, troppi lavori di tipo critico, mi ha costretto a rimandare la stesura del volume joyciano per lo meno di un paio danni. 28.01.11].
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D. Cosa pensa dei premi letterari, e pi nello specifico delle classifiche di Pordenonelegge? Crede che effettivamente possano avere la funzione di discernere e di selezionare per il grande pubblico le opere di maggior valore letterario fra le infinite novit editoriali? R. Dipende dai premi letterari. I pi servono essenzialmente a tenere in vita loro stessi. pi importante il Festival di Sanremo, come istituzione che si autoalimenta, che lultima canzone che lha vinto. Ma non un giudizio di valore, una semplice constatazione, diciamo cos, merceologica. Daltra parte non ritengo che una classifica di qualit, come quella di Pordenonelegge, riesca per quanto meritoria sia a scalfire i gusti del grande pubblico. Chi frequenta questo sito, lo sappiamo, gi selezionato di suo, ha gi insomma dei gusti diversi rispetto a quelli che sono rappresentati nelle grandi catene librarie. Sono lettori di nicchia, come si dice solitamente con il sottinteso sottile di farli sentire un po dei morti viventi, se non dei profanatori di cadaveri o dei sopravvissuti. La vera vita, sono in molti a pensarla cos, scorre altrove, l dove si gonfiano le classifiche di quantit. Daltra parte il merito, diciamo cos, delleditoria generalista di dare ai lettori quel-

lo che vogliono. Basta con questa fola del condizionamento, che fa deglitaliani un popolo di brava gente un po credulona e facilmente manipolabile. Bisogna smetterla, per capirci con un esempio lampante, di pensare che sia il conflitto dinteressi, e dunque la propriet di tante agenzie dinformazione, ad aver portato Berlusconi al potere. Hitler arriv al cancellierato con libere elezioni e, siatene sicuri, ce ne fossero state, anche Stalin le avrebbe vinte con percentuali da capogiro. il fascino del capetto (laveva notato Lacan, a proposito dei baffetti di Hitler), vale a dire non di un capo ieratico o possente ma di un signore come noi, proprio come noi, magari solo ritratto un po meglio di noi (lopportuno alone mediatico fa di tutti un capetto, come sanno i frequentatori dei reality). Hitler e Stalin (per non parlare di Mussolini) sorridevano molto di pi di quanto non ci facciano vedere adesso le immagini documentarie opportunamente selezionate, e la parola che usavano pi spesso nei loro discorsi era amore; e in ogni loro sorriso, sia pure non gratificato dalla fanatica ortodonzia della nostra epoca, ripetevano che chiunque avrebbe potuto godere del loro stesso alone: bastava rimettersi a loro, o in loro (etimologicamente questo vuol dire entusiasmo: non portarsi il dio dentro, ma rivestirsene). LItalia vota in maggioranza Berlusconi non per le sue televisioni o giornali o case editrici e quantaltro (lho gi detto: un alone mediatico non lo si nega a nessuno in una phantom city), e nemmeno perch un campo coltivato a stupidi, ma semplicemente perch un paese di destra, che non ha mai fatto i conti (al contrario della Germania) con la sua storia. Lo scacchiere politico internazionale dellepoca, la logica di Yalta, imped allItalia di avere la sua Norimberga: i gerarchi fascisti, con poche eccezioni, rimasero tutti ai loro posti, come tutti i docenti universitari che erano entrati in massa nel PNF, e nel corso del tempo non abbiamo smesso di pagarne le conseguenze. La nostra, dal dopoguerra in poi, sempre stata una nazione libera, fascisteggiante ma libera, che pu al momento opportuno praticare le stragi a fini politici, o costruire sul proprio territorio campi di concentramento per le razze non elette (quelle dei non-elettori). Ed dunque con la stessa libert che noi leggiamo i libri che tutti dobbiamo leggere, ed eleggiamo i capi che tutti dobbiamo eleggere.

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Saluti dal Sacro Romano Emporio


[7 giugno 2010]

Perch dopo tante resistenze, e una certa diffidenza per lo straparlare telematico, ho accettato linvito di Lello Voce ad animare un blog a mio nome? Innanzi tutto perch mi fido di Lello, e pi trascorre il tempo della nostra amicizia pi ne apprezzo lopera, e linfaticabile generosit che la contraddistingue. Ne vedo pochi di intellettuali in Italia capaci di impegnarsi come lui a tutto campo; ancor meno, come mostra lintera sua produzione poetica (e non solo), quelli in grado con tanta lucidit di riflettere sul medium prescelto; cmpito a mio parere che dovrebbe essere primo e imprescindibile in chi destina prodotti ad altri, sempre che questi non voglia a bella posta (e per trarne i consueti miserabili vantaggi) scivolare nello stesso mondo sonnambulico (quella che un tempo si sarebbe detta ideologia, e che non nientaltro che la pellicola dimmaginario che si stende fra i nostri corpi) contro cui ogni opera, se vuole essere allordine del giorno, dovrebbe in realt impetrare il risveglio. Se dunque Lello, mi sono detto, che ha frequentato la rete di sicuro pi di quanto io non abbia fatto in questi anni, crede nella forza e nella necessit, adesso, di questi che ha voluto definire blog dautore, non posso che dargli credito. Gi, mi sono allora chiesto, ma a che cosa serve un blog, e soprattutto in che misura posso definirmi autore? Beh, un blog, per come la vedo io, pu servire innanzi tutto a far circolare delle idee, diciamo quelle ancora un po magmatiche che dovrebbero essere, alla lettera, indegne di una posa, se non altro di quella marmorea che una pagina tipografica consegna (almeno allapparenza) una volta per sempre ai suoi lettori. Un blog dovrebbe dare loccasione a chi lo anima di scrivere fuori dai denti, situando il proprio modo di procedere a met strada fra la severa responsabilit che dovrebbe essere dei discorsi consegnati alla pagina scritta, e leffervescen-

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za delle idee che accompagna chiunque sia avvezzo, prima ancora di giungere a fissarle sulla carta, a rimuginare un bel po fra s e s. Ebbene, mi sono infine domandato, che cosa sono in grado di dire fra me e me, in questo momento, che non riguardi soltanto me, e che possa valere, per chi eventualmente vi si trovi di faccia, il tempo della lettura, quello lento necessario a mettere in gioco chi legge, non gi quello di striscio tipico del diportarsi in rete? Blog, blog, sembra proprio lonomatopea delle bolle daria con cui i pesci soffiano il loro dispetto quando non trovano pi una via che non sia quella dove li trascina la rete a strascico. E allora, ho pensato, potrei limitarmi a descrivere quello che vedo, se non altro con tutte le lenti che col tempo ho inforcato sul naso. Cio potrei imbastire questo blog con le riflessioni di un testimone, che per gli anni che ha, pi di cinquanta, si pu concedere il lusso di smetterla di fare lautore del circo editoriale, e dunque leterno fanciullino un po rozzo ma tanto alla mano (lavete notato come gli scrittori la page si vantino innanzi tutto della loro ignoranza? o deglinsuccessi scolastici?), che funge da perfetta controparte letteraria al nuovo che, qui da noi, ci avanza sempre un po alle spalle. Io ho studiato tanto nella mia vita, e continuo a farlo (non solo per il mio lavoro, ma proprio perch sono uno scrittore); e sono stato testimone, abbastanza attento, di almeno trentacinque anni della vita di questa nazione, e lho vista allopera, con tutti i contorcimenti di rito, la sua modesta industria culturale. Di discorsi poi coi quali si sono occultate le reali forze in campo che hanno trasformato il nostro mondo, qui come in tutto quello che allepoca si chiamava Occidente, ne ho sentiti tanti; ricordo perfettamente chi li ha fatti, so altrettanto bene dove ciascuno di loro (se sopravvissuto) si trova ora, e a fare che. Le parabole intellettuali, da questo punto di vista, sono addirittura nella nostra piccola nazione esemplari; quelle politiche persino fulminanti. Nellaccettare dunque la proposta di Lello, mi ha confortato il fatto che il blog che avreste avuto di faccia sarebbe stato solo per convenzione a mio nome. Lo vedete? Si chiama in realt Dai cancelli dacciaio, e rimanda dunque non tanto a un Pinco Pallino gravido di idee feconde, o al solito Filippo Argenti capace di accedere in tre battute ai gradi pi alti della scala Fahrenheit del flaming, ma a unopera, fra laltro gi nota ai

suoi sessantacinque sottoscrittori, che diverr infine pubblica a marzo del prossimo anno. Ecco, io la penso cos: non c autore che non sia tale in relazione a unopera, non a uninvestitura. In poche parole: non si autori una volta per sempre (lo diceva Raboni del poeta), ma solo nel momento in cui si ha ancora a che fare con unopera, ed pertanto solo in nome di questopera che si fa, e nel momento stesso in cui si fa, che si pu parlare da autori. Ho pi di cinquantanni, sono un buon testimone di quello che successo, ma la mia voce suonerebbe come quella di qualsiasi altro, non quella di un autore, se non parlassi in realt in nome di questo romanzo che, come avrete capito dallintervista con cui ho ritenuto giusto cominciare (se non altro per presentarmi ai tantissimi che non conoscono nemmeno il mio nome), ritengo sia il mio lavoro pi significativo e necessario, magari lunico, malgrado tutti i miei sforzi precedenti, che possa ritenere per davvero allaltezza dellordine del giorno (e non dellabbaglio del mo). Questo blog allora dautore perch ad animarlo non sono io, ma lautore di Dai cancelli dacciaio. Tutto qui. Ebbene, in quanto autore di questopera, non far dunque altro che accompagnarne luscita (e dunque pubblicizzarla), limitandomi per tutto il tempo a riflettere sul mio lavoro, nel mentre se mai gli do gli estremi ritocchi? Per niente: mi prefiggo in realt soltanto di farmi animare dalla stessa volont di analisi sulloggi che ha guidato la faticosa costruzione di quel mondo di godimenti e tradimenti che per ununica notte, per quellunica notte, si messo a ruotare intorno alla discoteca del Cielo della Luna, sorta come un bubbone nella tranquilla citt di Santa Mira. Alla fin fine dar solo delle rapide occhiate al di qua, cio nellovile dellopera: mi affaccer piuttosto dai cancelli dacciaio per scrutare lal di l che mi ha ridotto qui, per cercare almeno di capire che cosa mi abbia recintato a scrivere proprio di questo recinto che, siatene certi, non solo mica me che guarda. Di domande sulla natura del blog sono consapevole che dovrei farmene altre, e una su tutte simpone, quella sulla sua forma chiusa, che non chiede cio commenti. Consentitemi per di rimandare a un prossimo invio questo tema, e cominciamo invece da alcune considerazioni che vorrei condividere con voi. Questanno, nel mio corso di Letterature Comparate, che ho intitolato Lincubo della storia, ho affrontato (coadiuvato

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dallottimo Antonio Iannotta) il tema della cosiddetta fantascienza sociale, mettendo in risonanza tre romanzi di Philip K. Dick (Luomo nellalto castello [1962], Ubik [1969] e Un oscuro scrutare [1977]) con undici film, a partire da Metropolis (1927) di Fritz Lang fino a Sleep Dealer (2007) di Alex Rivera. Da quando mi sono trasferito a Salerno, a Scienze della Comunicazione, sempre per lo pi con il cinema, dato il corso di studi che affrontano gli studenti della Triennale, che comparo la letteratura. Una cosa a questo proposito mi va di dirla sbito: sono molto contento dei miei allievi di questanno e della loro curiosit. Quando siamo giunti a occuparci della fantascienza sociale degli anni Ottanta, e dunque dopo aver visto in sequenza Videodrome (1981) di David Cronemberg, Brazil (1985) di Terry Gilliam e Essi vivono (1988) di John Carpenter, una domanda si imposta da sola: che fine aveva fatto il potere politico neglimmaginari distopici di quegli anni? Per quanto possa apparire strano, lultimo presidente degli Stati Uniti che avevamo scorto in azione risaliva al 1964 di A prova di errore di Sydney Lumet, e dunque rimandava al clima di uno dei momenti pi surriscaldati (avrebbe detto McLuhan) della guerra fredda, e in buona sostanza allintera presidenza Kennedy (il film apparve lanno dopo lassassinio del presidente, ma, come si sa, ci si deve solo al fatto che Kubrick ottenne per via giudiziaria di poter lanciare prima il suo, assai simile nella trama sebbene virato sul grottesco, Dottor Stranamore). Certo, potrebbe venirci in mente quella specie di caricatura di presidente che sta alla base dello stesso plot di Fuga da New York (1981) di John Carpenter; ma non appena entriamo nello stesso svolgersi della storia narrata in quel film, ci accorgiamo che questi, malgrado in quel mondo sia in atto addirittura una guerra, non altro che un fantoccio. Il vero potere anche in quel mondo altrove, e non certo perch ci sia qualcuno, un grande vecchio o chi per lui, che vinfili il pugno e animi il fantoccio del presidente. In quel mondo, come nel nostro, troppi sono glinteressi, e disseminati sono glinteressati. Da questa prima domanda ne sono derivate altre. E innanzi tutto: come mai nelle uniche due opere scritte da Dick durante la presidenza Nixon (Scorrete lacrime, disse il poliziotto e Un oscuro scrutare) non troviamo nessun riferimento al potere politico, ma solo a un sistema di micropoteri polizieschi (e non

solo) sempre in lotta fra di loro? Chiunque conosce lopera di Dick, sa come questi (come tanti della sua generazione) abbia vissuto Nixon come un nemico addirittura personale, capace di arredargli tutti i deliri paranoici che lo tormentavano allepoca; e certo non si pu dire che nel precedente decennio non avesse pi volte affrontato con estrema lucidit il tema del potere politico (pensate ai Simulacri o a Illusione di potere). Gi, e allora perch lunico riferimento a Nixon, e al suo presidenzialismo imperiale (erano gli stessi ambienti repubblicani che non si riconoscevano nella sua politica a definirlo cos) lo troviamo solo dopo la sua caduta (con Valis [1981], e soprattutto con la sua precedente stesura pi politica, apparsa postuma col titolo di Radio libera Albemuth) o in quella forma sarcastica (ma fuori dal vivo della storia) in cui viene ricordato in Scorrete lacrime (nel commissariato di polizia vi un quadro che raffigura lascesa al cielo del secondogenito e ultimo figlio di Dio, Richard Nixon neanche a dirlo)? E infine (ma su questa domanda sar il caso di tornare in unaltra occasione): perch la fantascienza tutta, non solo quella sociale, a partire dagli anni Novanta non riesce pi a prevedere un futuro, e vive sostanzialmente di fantasy o di remake di temi gi sviluppati fra gli anni Cinquanta e Sessanta, o piuttosto di un eterno presente contraffatto (si pensi alla saga di Matrix)? Che fine ha fatto il futuro nella nostra science fiction? Ora, dal momento che la fantascienza, in specie quella sociale, parrebbe avere il polso, pi che dello stesso futuro, del suo presente, e persino in grado maggiore di tante opere mainstream che si limitano ad accettarlo solo come sfondo, perch mai, per limitarci ai tre film degli anni Ottanta citati, non c mai spazio in loro per il potere politico ma solo per qualche ridicola loggia massonica (in Videodrome) o per il fibrillare di una burocrazia (non orwelliana ma) kafkiana (in Brazil) o per una consorteria di imprenditori alieni e approfittatori locali senza scrupoli (in Essi vivono)? Eppure lamministrazione Nixon e quella Reagan (con lintervallo della tormentata presidenza Carter) ne avevano combinate proprio di belle, fra dismissione dello stato sociale (e liquidazione della cosiddetta New Deal coalition) e strombazzata deregulation. Perch scompare insomma il potere politico dallimmaginario fantascientifico proprio mentre nella vera (?) vita parrebbe assurgere a uno

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strapotere del tutto inedito, fra presidenza imperiale ed economia stellare hollywoodiana (diamo a Reagan quel che di Reagan, e sar dei Bush, e persino di Clinton: la nostra attuale crisi economica, figlia di quella finanza creativa, comincia l)? Per un motivo molto semplice: per consentire la nascita del suo presidenzialismo imperiale, che sarebbe divenuto il modello di tutti gli stati democratici occidentali a cavallo del crollo del muro di Berlino, Nixon in realt si era innanzi tutto appoggiato senza remore a quel complesso militare-industriale contro cui un altro presidente repubblicano, proprio lEisenhower di cui era stato vicepresidente, aveva vanamente a fine del suo ultimo mandato tentato di mettere in guardia la nazione (se ne sarebbero accorti, e come, i Kennedy, dopo aver ambiguamente tentato di piegarlo ai propri scopi). In secondo luogo, lavvocato di Yorba Linda conosciuto (anche dai suoi ammiratori silenziosi) col simpatico soprannome di Tricky Dicky aveva pensato bene di moltiplicare le agenzie di potere, con lesplicito intento (che gli valse poi lo scandalo Watergate) che luna controllasse laltra (e lui imperasse su tutte). Questa consegna del potere politico aglinteressi delleconomia vincente, e questa sua disseminazione fra piccoli e agguerriti potentati (di varia natura), sopravvissuta agevolmente alla fine ingloriosa di chi riteneva di esserne lingegnere (mentre ne era congegno). La fantascienza sociale, insomma, se liquida nel suo immaginario il potere politico, e giusto fra la presidenza imperiale di Nixon e leconomia libera di schizzare alle stelle di Reagan (quanto poco e male stato letto Lanti-Edipo di Deleuze e Guattari), perch il potere politico in quegli anni si liquidato da s; e non credo che pochi se ne siano accorti, se in tanti ne hanno tratto vantaggio (eppure, finito un attore alla Casa Bianca, non sarebbe stata una perdita di tempo mettersi alla ricerca di regista, produttori, attrezzisti, montatori, stuntmen, elettricisti, scenografi e quantaltro). La storia, come si diceva un tempo, ce lo insegna. Ogni qual volta si assiste a una virata fasciteggiante, si pu essere certi che il presunto strapotere politico mascheri in realt una duplice debolezza: quella nei confronti delle forze economiche lasciate sempre pi libere di agire, e quella nei confronti dei potentati (di varia natura) che, fra una piega e laltra, ne incarnano le istanze. N

daltro canto potr apparire un caso, se ci pensate, che i due grandi aggregati statali da sempre presi a modello dai teorici del pensiero liberista pi oltranzoso (a Friburgo come a Chicago) siano il Sacro Romano Impero e lo Stato napoleonico, cio due forme di governo aggressive allesterno, e al proprio interno molto spettacolari e assai permeabili (quanto ai flussi economici e alla disseminazione dei poteri), se non addirittura parcellizzati in autentici feudi. E per chiudere, allora, torniamo finalmente alla nostra situazione politica di piccola nazione periferica. Che ci sia in atto in Italia una svolta autoritaria (con tutto il suo corredo xenofobo, anticulturale e pseudocollettivistico) indubbio: che questa occorra a concentrare il potere nelle mani di uno solo (Berlusconi o chi per lui, con o senza conflitto dinteressi) ben lontano dallessere vero. Ogni stato fascisteggiante (o fascista tout court) non fa altro che irreggimentare i corpi (a partire da quelli del capetto) in posture di godimento replicabili, siano esse vistose divise da presentatori di spettacoli circensi o i fisici ben costrutti, un po tutti alla Barbie e Ken, dellestetica salutista se non chirurgica. La forma spettacolare di tipo mediale si addice daltra parte da sempre a ogni presa di posizione antiparlamentare (con il suo corollario di disseminazione del potere altrove: ogni forma di fascismo, ricordava Foucault, per sua natura contro lo Stato, e a favore del Partito), ed un fenomeno ben noto, che non era sfuggito allo stesso Benjamin, che in una nota dellOpera darte nellepoca della sua riproducibilit tecnica (un po dimenticata, ma che spiega perfettamente come funziona un alone mediale) scriveva non a caso: Le democrazie espongono colui che governa immediatamente, con la sua persona, e lo espongono di fronte ai rappresentanti del popolo. Il parlamento il suo pubblico! Con le innovazioni delle apparecchiature di ripresa, che permettono di far sentire, e [...] di far vedere, loratore a un numero illimitato di spettatori, lesposizione delluomo politico di fronte a queste apparecchiature di ripresa assume un ruolo di primo piano. Si svuotano i parlamenti contemporaneamente ai teatri. [...] Ci ha come risultato una nuova selezione, una selezione che avviene di fronte allapparecchiatura; da questa selezione escono vincitori il divo e il dittatore. [A questo proposito vorrei segnalarvi un saggio assai utile, anzi

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uno dei saggi in italiano pi interessanti che mi sia capitato di leggere in questi tempi, e che non troverete in nessuna classifica, nemmeno in quelle di qualit. Mi riferisco a Quando il cinema si fa politica. Saggi su Lopera darte di Walter Benjamin di Fabrizio Denunzio, apparso da poco per Ombre corte, che una lettura filologicamente assai corretta, e politicamente emozionante, di un saggio che in Italia, sin dal suo apparire, servito a pi di una scorciatoia, e ha dato vita a non pochi utili fraintendimenti]. Ma il fatto che non esiste stato fascisteggiante che non concentri in s lunico potere di concentrare corpi radiosi (tutti a godere qui, col vostro capetto). Le forze economiche che lo travalicano, fingendo di assecondarne lo spettacolo, ne possono fare tranquillamente a meno (persino Hitler, per dirla con una riflessione un po trascurata di Adorno, non era stato altro che il tamburino delle forze economiche che gli sarebbero sopravvissute); e le consorterie di micropoteri che ne traggono linfa, non verranno nemmeno scalfite dalla sua comunque auspicabile rovina. Lo avevano notato per tempo, gi durante le ultime fasi della Seconda guerra mondiale, giusto Horkheimer e Adorno: In Germania il fascismo ha vinto con unideologia grossolanamente xenofoba, anticulturale e collettivistica. Ora che devasta la terra, i popoli devono combatterlo, non c altra via. Ma quando tutto sar finito, non detto che uno spirito di libert debba diffondersi sullEuropa, e le sue nazioni possano diventare non meno xenofobe, anticulturali e pseudocollettivistiche, del fascismo da cui hanno dovuto difendersi. Anche la sua disfatta non interrompe necessariamente il moto della valanga (la citazione ovviamente dalla Dialettica dellIlluminismo). Forse Horkheimer e Adorno, con limmagine cos pessimista della slavina, avevano in realt sottovalutato gli effetti della guerra. La logica di Yalta (con la necessit di strappare ideologicamente soprattutto le nazioni che erano state fasciste, e avevano perso la guerra, alle sirene bolsceviche), e i patti per il futuro (con cui occorreva ripagare le popolazioni delle nazioni stremate dallo sforzo bellico, e rilanciare una politica dei consumi) hanno per molto tempo tenuto lontano quel moto della valanga, consentendo al capitalismo occidentale di assu-

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mere la sua ultima maschera umana (degenerata via via in umanitaria). La domanda resta per una, ed quella con cui vorrei lasciarvi, perch proprio quella sulla quale negli ultimi tempi mi arrovello, in specie dopo le avvisaglie di quanto pu capitare qui da noi, e persino in tutta Europa (e di cui al momento sembrerebbe pagare le spese la sola Grecia): li avvertiamo per davvero ancora, qui nel nostro continente (che la culla della nostra cultura, al punto da essere responsabile dei maggiori massacri) gli effetti della guerra? Siamo ancora immunizzati, dopo aver contratto il virus slatentizzato dalla recessione che port il continente al conflitto, o siamo adesso cos tanto sani, e immiseriti, da poterci ammalare di nuovo? Di fascismo? No, di guerra.

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Voi siete qui


[5 luglio 2010]

Un tempo cera lOccidente, magari alla faccia della banale fissit del punto dosservazione e delle convenzioni geografiche: sicch, dirigendo lo sguardo dalla nostra piccola penisola sotto tutela, era Occidente il Giappone della Toyota e Oriente se mai la ben prossima Albania maoista, neanche allineata e severa come un lager (ma in quanti rimpiansero quello stato-recinto, congiuntamente a quegli altri dellallora blindato blocco sovietico, dopo i primi sbarchi sulle nostre coste adriatiche...). Poi, crollato il muro di Berlino, esteso o patito il capitalismo in ogni dove, si parlato di Nord del mondo (anche i cultural studies, riconvertiti entusiasticamente con Said in postcoloniali e gramsciani, aderirono con facilit ai nuovi confini), questa volta in barba agli emisferi: sicch lAustralia era Nord (lo si capiva se non altro da come respingeva in mare glimmigrati) e lAlgeria, diciamo, con tutti i suoi bravi progressisti sgozzati, era Sud; e la cortina di ferro, che il vecchio Churchill aveva invocato per tempo con il discorso di Fulton del marzo del 1946, non occorreva pi oramai a isolare quello che Reagan, in puro stile Star Wars, avrebbe poi definito, e giusto al suo scadere, limpero del Male, ma il centro del benessere capitalistico da una marea di decentratri imprenditori di loro stessi (per Theodor W. Schultz, leconomista della scuola di Chicago, e dunque premio Nobel, che teorizz nel 1971 il concetto che tanto ancora piace di capitale umano, i giovani che protraggono il tempo dei loro studi, e i poveri disgraziati costretti a emigrare, non sono mica dei bamboccioni che non vogliono lasciare mamma e pap o dei criminali che vengono a rubarci il lavoro, ma, per lappunto, imprenditori di loro stessi... coraggio, ragazzi, c posto per tutti, se non altro nelle fiabe neoliberiste). Adesso il Nord rimasto Nord, sebbene con limbarazzo geo-economico di annettersi (ma rischiando in realt non

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poco di essere a sua volta fagocitato) quellAsia ruggente (Cina e India innanzi tutto) che, realizzando il meglio del capitalismo (mercati in grado di schizzare in ogni dove e lavoratori asserviti e mal pagati), divenuta il nostro modello di sviluppo (Pomigliano per Marchionne e soci attualmente un comune in provincia di Shanghai o di Mumbay, non certo di Napoli). E dallaltra parte, l dove le organizzazioni umanitarie vedono ancora eternamente compiersi leufemismo dei paesi in via di sviluppo che le mantengono solventi e in attivo, la coazione ai blocchi, necessaria a rendere altrettanto solvente e in attivo il military-industrial complex (per citare ancora una volta Eisenhower), ha ritrovato invece dopo l11 settembre il nemico di cui necessita (cio la giusta concorrenza) nellintegralismo islamico, che ha anche il vantaggio di non essere incarnato in una nazione o in un regime politico ma di apparire piuttosto uno stato mentale (ideologia in soluzione pura, come tutto ci che mette in questione le ragioni stesse della vita), e in quanto tale sparso a macchia di leopardo fra il Sud dei diseredati e il Nord delle migrazioni. Questa sua disseminazione (speculare, se ci pensate, a quella delleconomia capitalista), che si deve probabilmente giusto a unapertura di credito verso il futuro che la nostra societ invece nega (un kamikaze, contro tutte le apparenze, non rinuncia al futuro, anzi lo pianifica), ha lindubbio vantaggio di sollecitare nel Nord-un-tempo-Occidente la nascita di un fronte interno (un po comera accaduto a Nixon quando aveva convocato, dopo il Moratorium Day, la maggioranza silenziosa dei suoi amici americani contro i comunisti e i drogati che infestavano la nazione). Un insieme di patrioti chiamati a fare fronte allinterno di uno Stato, si sa, si abitua presto a rinunciare persino alle proprie libert, se c da combattere un nemico comune e difendere il proprio presente (nellatto stesso in cui questo presunto presente sbiadisce come un mito del passato): quando c una guerra in atto, la regola democratica per eccellenza la sospensione delle regole, e linstaurazione condivisa di un regime di tipo sostanzialmente militare. E poi, come se non bastasse, una bella jihad invoca a specchio una guerra santa, o una crociata, e non c nulla di meglio di una sicura identit religiosa per tenere insieme i corpi su cui prima o poi circoler leconomia divina (vinculo pietatis obstricti et religati sumus,

suggeriva Lattanzio, che di queste cose se ne intendeva, a proposito della controversa etimologia di religio). Ecco perch ho sempre trovato un po semplicistica lidea di impero (fra laltro in buona sostanza americano) propugnata allinizio del nuovo millennio da Hardt e Negri, e tanto generosamente condivisa persino dai nostri giornalisti pi, diciamo cos, imperiali per stipendio e per vocazione. Il fatto che la storia romana sin dallet che definiamo moderna sia sempre stata presa a modello di ogni processo imperialista un fatto (da quello asburgico, per fare qualche esempio, alleffimero impero napoleonico, fino a quello di gran lunga pi trasparente che sincarna nel colonialismo inglese, la storia romana ha avuto sempre un posto di primordine nelleducazione delle nuove generazioni); ma altrettanto evidente che tale richiamo alla favola bella di Roma civilazzatrice sia sempre stata in realt solo la copertura ideologica per lunica forma di socius che, dai tempi del Re Sole e di Colbert, non conosce confini (se non quelli sociali imposti alle manovalanze): e questo impero presunto, che sopravvive solo con un fantoccio pi o meno splendido di imperatore in grado di garantire il laissez faire, ovviamente il mercato. Ora, un impero basato sulla libera circolazione dei capitali (anche umani) e delle merci non ha centro, persino se le sue principali risorse (e il nucleo duro della sua aggressivit) sembrerebbero in certe fasi concentrarsi in uno stato-nazione. Gli Stati Uniti dAmerica, bastata questa ennesima crisi a dimostrarlo, non sono, e non possono essere, il centro dellimpero (e sarebbe altrettanto stupido ritrovarlo ora nella Cina postcomunista del denaro contante e dei lavoratori asserviti); e il loro presidente non un imperatore con stampigliato sul sorriso la data di scadenza, ma un amministratore delegato del military-industrial complex che, per il resto, meno mette mano alleconomia e meglio (per la sua possibile rielelezione, certo, e, alle brutte, persino per la sua sopravvivenza). questo il motivo per cui preferisco (a partire da un saggio che pubblicai nel 2003 sullallora rivista di filosofia Lespressione) definire questa messa-in-stato, che in tante modulazioni diverse risulta essere da per lo meno quattro secoli il nostro paesaggio permanente, Sacro Romano Emporio; l dove romano sta per la sconfinata circolazione dellinformazione (la prima autostrada informatica, laveva notato Innis

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primancora di McLuhan, si avuta proprio con la connessione nellimpero romano fra il diramato sistema burocratico e quello viario), emporio per lastrazione fantasmatica del mercato senza confini (un mercato insomma che non conosce alcun sito dove concentrare merci e acquirenti, ma che pu estendersi virtualmente in ogni dove, pu fare insomma sito su ogni acquirente), e sacro per il confine di fede necessario a trattenere in un unico luogo altrettanto fantasmatico (voi siete qui... anche se magari sarete costretti a migrare) i corpi da irreggimentare (meglio ancora se in un ordine difensivo, e dunque ospedaliero o militare) per consentirvi la circolazione di informazione e merci. Se limpero di Carlo Magno e quello di Napoleone (aggressivi allesterno e allinterno ideologicamente compatti e in armonia con le libere leggi del mercato) sono sempre stati presi a modello (lo ricordava Foucault nel suo corso al Collge de France del 78-79) del pensiero liberale, ci vero proprio perch il Sacro Romano Emporio di cui vi parlo sinsedia proprio in un intreccio sostanzialmente ancora medievale di media e poteri, in cui possono coesistere ordini imperiali e piccole rissosit locali, capitalismo sovranazionale e protezionismi rabbiosi, terrorismi e polizie mondiali, informazioni uniformanti e favole idiosincratiche, martiri da esplodere e legioni di nuovi santi spediti nelle retrovie siderali, bombe intelligenti e obbiettivi stupidi, proprio in virt della sostanziale evanescenza del potere politico, a sua volta esaltato solo in quanto fantasmatico. Al punto che limperatore, per quanto debole sia il suo potere interno, pu a suo modo, ma solo da morto, divenire addirittura un messia, come accadde allo stesso Carlo Magno trasformato dallimmaginazione popolare nellImperatore degli Ultimi Tempi, quello che un giorno sarebbe tornato a inverare il Millennio. E cos come non pochi nostalgici bonapartisti attesero per tutta la loro vita, ben oltre la fine biologica del proprio campione, il ritorno dellImperatore, non un caso che sono in molti, anche ora, persino qui da noi, a trasognare a loro modo la resurrezione dalle ceneri di Hitler, o di Mussolini, o di Stalin o, che so, di Kennedy, e persino di Berlusconi che, con lattesa di vita che gli pronosticano i suoi medici adoranti, potrebbe come in un incubo dickiano susseguire, ogni volta un po pi morto e chirurgicamente rifatto, eterna-

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mente a se stesso. La cosa, se volete, ha una sua logica: dal momento che il potere politico, quando si allentano i freni alle energie capitaliste, diviene in realt fantasmatico, non mica strano che si pensi di affidarlo direttamente a un fantasma. Il problema a ben vedere resta quello del paradosso insito in ogni regime liberale che, come del resto aveva previsto (non certo un pericoloso bolscevico ma) Carl Schmitt, tende inevitabilmente, e giusto per garantire il vuoto legislativo necessario al mercato (eh gi, si tratta sempre di far saltare i famosi lacci e laccioli), a far svanire progressivamente la politica a profitto della contrapposizione fra la tecnica (quanti ministri tecnici ha contato, e continua a contare, per la sua stessa rovina questa disgraziata nazione) e letica (l dove ancora sopravvive nelle ultime ideologie che pretendono di dire qualcosa sulla vita, qui e ora). Ogni stato liberale, lasciato a se stesso (o lasciato piuttosto in balia del mercato che non vuole intrusioni dallo Stato), savvolge insomma intorno a unintima debolezza che lo rende paradossalmente pi pervasivo e micidiale (nel controllo dei corpi), come accade per ogni forma di potere (avrebbe detto Deleuze commentando giusto Foucault) locale ma non localizzabile. Avete voglia di cercarlo in Italia, questo potere... dove credete di trovarlo, nei rami del Parlamento? Nelle ville di Berlusconi? Negli uffici di Marchionne? Nei locali di Briatore? Magari fareste bene a setacciare la Padania, che dal momento che non c, esattamente il luogo giusto dove cercare ci che non localizzabile (e che non altro che lintramontabile vecchio capitalismo, cio un potere fatto di tanti micropoteri decentrati, che pu se vuole mettersi in doppiopetto, in divisa, in gessato da mafioso, in camicia nera, persino in quella rossa, o calzare addirittura lelmo cornuto dei Celti, tanto chi lo acchiappa). Certo, al momento, con le varie restrizioni di libert che questo paese sta subendo, sembrerebbe che lItalia sia diventata (per dirla ancora con Schmitt) uno stato legislatore, afflitto da una sorta di dittatura della maggioranza; ma, lo ripeto, si tratta in verit solo di una facciata, quella pi consona a una nazione la cui vocazione democratica stata sempre in realt ladesione al conformismo (siamo stati tutti fascisti, poi tutti democristiani e comunisti, e adesso resteremo, probabilmente

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fino alla catastrofe, tutti berlusconiani e leghisti). LItalia, come tutte le altre nazioni ancora sulla carta liberali, in realt, sempre seguendo la terminologia di Schmitt, uno stato amministrativo, alla merc cio tanto della stratificazione dei suoi guardiani del vuoto legislativo (opportunamente recintato da una serie di regolamentazioni biopolitiche), quanto di quei tecnici ed esperti, a partire dagli economisti, che si dichiarano in grado di riconoscere nel mercato quelle che il grande teorico dellordoliberalismo tedesco Friedrich von Hayek, nemico giurato di ogni pianificazione, e propugnatore di autentiche utopie capitaliste per contrastare quelle comuniste (lo spaccio berlusconiano dei sogni non mica linvenzione di un massone di seconda o terza fila), defin nel 1979 (in un volume della serie Law, Legislation and Liberty significativamente titolato The Political Order of Free People) metaregole inconsce [?] condivise da tutti. C poco da ridere, sebbene sono sicuro che qualcuno lo stia facendo: in un settore avanzato degli studi economici attuali, si va addirittura oltre. E per quanto vi possa sembrare strano, fra le severe formule matematiche con cui gli economisti sono soliti irretirci (ma quanto pasticciate, e del tutto autistiche, lha dimostrato per una volta per tutte leconomista francese Jacques Sapir, che in Italia non credo goda di grande attenzione, n di traduzioni), inizia a fare capolino, persino suo malgrado... niente meno che la psicoanalisi. Insomma: non abbiate paura di quei quattro o cinque speculatori (quattro o cinque anemoni, se preferite dirlo con i fiori, o coi rizomi) che, da bravi alfieri del capitalismo che non consoce ostacoli, hanno messo in ginocchio la Grecia e possono, se vogliono, volgere la loro attenzione anche ai debiti del nostro Bel Paese gi di suo letteralmente in mutande: vedrete che prima o poi scatteranno anche in loro le metaregole inconsce, e tireremo tutti un bel sospiro di sollievo. Dalla mano provvidenzialmente nascosta nel mercato di Adam Smith (che di suo per propugnava una sorta di stato sociale, come sanno i pochi che non si limitano solo a citarlo) a queste metaregole che dovrebbero agire inconsce nellaltrimenti rapace coscienza dei veri eroi del mercato (che, inutile negarselo, sono i cosiddetti speculatori, quelli che il Seicento chiamava finanzieri, gli unici difatti in grado di trarre profitto anche in periodi funestati dalla sovrapproduzione), il cam-

mino lungo quanto la teoria di guerre giunte con precisione chirurgica a calmierare i prezzi al consumo, riequilibrare la scala di valori delle merci e selezionare manodopera e consumatori. Se si riattraversa la storia (economica) del nostro continente, non difficile vedere, fra una recessione e laltra (lo stato mentale del capitalismo, lo ripeto, la recessione), susseguire a ogni sovrapproduzione una crisi, e a ogni crisi una guerra (o unepidemia) in grado di rilanciare il ritmo produttivo. non mica roba da Seicento manzoniano, perch due guerre totali (la prima con annessa pandemia, la seconda con coinvolgimento diretto delle popolazioni civili) hanno molto alleggerito la pressione demografica europea anche nel Novecento, e rilanciato i mercati alla grande. da queste considerazioni che non pu che scaturire la risposta alla domanda con cui ho chiuso il precedente invio. Lasciate dunque che torni su un tono personale, dopo avervi fatto girare la testa con tanti alfieri del pensiero liberale. Quello che avete sotto gli occhi, lo avrete capito, del resto una sorta di diario estremo, nel senso proprio di estroflesso, sia per materiali diaristici (diciamo gli appunti di lavoro di un autore che guarda al mondo, se mai delirando razze e continenti, come suggerivano Deleuze e Guattari) sia per destinazione dei suddetti (se li metto in rete, ovvio che cerco qualcuno che voglia riflettervi). E dunque: in quanto figlio della mia generazione, sono stato abituato da sempre a vivere negli effetti della guerra, non solo perch lavevano patita i miei genitori, e nella mia citt (come in tante altre citt europee) erano ancora ben visibili, malgrado le ruspe sempre attive della ricostruzione, alcune delle aree sventrate dai bombardamenti, ma anche e soprattutto perch la cicatrice di quel conflitto, anche col balsamo del boom e del benessere, restava vistosa nel nostro stesso tessuto sociale. La guerra trascorsa, e il suo ripudio, erano del resto qui da noi alla base della stessa identit nazionale (la nostra una repubblica di guerra, altrimenti saremmo ancora un regno con sul trono un ballerino-cantante, invece di goderci alla presidenza del consiglio uno chansonnier-massone). Quegli effetti, quelli nei quali sono vissuto, e siamo vissuti in tanti, attraversavano insomma tutto il nostro continente, senza distinzione fra nazioni vincitrici e sconfitte, sebbene progressivamente erosi dalla diffusione di quella spensierata

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adolescenza di massa con cui il mercato americano reag (vittoriosamente) alla depressione dei consumi della generazione che aveva fatto (out of the frying pan into the firing line, per dirla con un cartone animato propagandistico delle Disney) la guerra (e che era stata invitata in tutti gli anni del conflitto a evitare gli sprechi, e a consumare dunque il minimo indispensabile). Il rispetto dei cosiddetti patti per il futuro, e la pianificazione del tenore di vita da assicurare alle nazioni da strappare alle sirene dellideologia comunista (dal piano Beveridge dunque, per fare qualche esempio assai noto, al piano Marshall), non solo contribuivano a ricordare quel conflitto (e la sua mattanza) ma erano esattamente gli effetti della guerra. Come molti di voi sapranno (e mi scuso di ripetere cose note), lo stato sociale (con tutte le sue necessarie regole per imbrigliare le spinte di per loro sregolate, e sempre in debito di ulteriore deregulation, del capitalismo) non stato frutto delle conquiste dei partiti socialisti o comunisti occidentali, ma lesito per lappunto di quella guerra, e dello scontro ideologico di quella che il buon McLuhan preferiva chiamare, e a ragione, piuttosto che guerra fredda una pace surriscaldata (lo stato sociale in Inghilterra, per esempio, era stato fortemente voluto e appoggiato dai conservatori; e sapete tutti quanto gli americani imbeccassero a suon di dollari i nostri politici democristiani al riguardo). Ecco, io la vedo cos: gli effetti della seconda guerra mondiale si riconoscono nelle politiche atte a garantire lo stato sociale, che per sussistere non possono che pianificare leconomia, naturalmente fra gli strepiti degli alfieri del neoliberismo sfrenato. Invertendo lordine degli addendi, ci significa semplicemente che fin quando c lo stato sociale sono presenti gli effetti della guerra, vale a dire quegli anticorpi necessari a combattere lantigene del conflitto con cui solitamente il capitalismo risolve le sue crisi (la guerra, inutile girarci intorno, la prosecuzione delleconomia degli stati, non della politica). Daltra parte una crisi come quella che stiamo attraversando, lo sappiamo, non sar di breve durata (persino pi lunga di quella del 29, a quanto parrebbe), e i quattro o cinque anemoni con i loro fiori solitari potranno, finalmente senza pi regole, mettere quando vogliono in scacco la nostra solvibilit di paese indebitato (prima di volgere se mai la loro

attenzione altrove). E che cosa potrebbe fare lEuropa per fermarli? Se prendessimo la reazione al terrorismo islamico come esempio, non potrebbe allora fare altro che bombardare gli stati-canaglia che li ospitano (con la conseguenza magari di radere al suolo, neanche fossimo ancora dalle parti do A prova di errore, le sue stesse capitali). Tanto vale allora agire drasticamente sulla riduzione del debito, che significa n pi n meno difendere a oltranza il presente (come gi consigliavano gli economisti del Seicento, convinti comerano dellineluttabile rovina) e cancellare ogni forma di programmazione per il futuro. Le nuove generazioni, trattate sempre pi come fossero un problema e non una risorsa, mortificate con mestieri saltuari e inadeguati ai loro titoli e alle loro competenze, in condizioni come queste non tarderanno a divenire prima o poi una vera emergenza sociale... e, lo ripeto, non detto che questo destino tocchi solo allItalia, e agli altri paesi pigs (anche glinglesi, che hanno coniato il simpatico acronimo, mica se la passano tanto bene). E nel frattempo, la forza dirompente del capitalismo, coi suoi bravi guardiani del vuoto legislativo, continuer a erodere quello che resta dello stato sociale (i tagli dellultima manovra che ci riguarda da vicino sono cos espliciti che non vale nemmeno la pena di commentarli). E quando con la dissoluzione dello stato sociale, svaniranno a poco a poco gli ultimi effetti della guerra trascorsa, e non saremo pi in grado di governare leccedenza della manodopera, ci ritroveremo semplicemente pronti alla prossima. Contro chi e a fianco di chi? Non c mica fretta. Persino le alleanze della seconda guerra mondiale, che a settantanni di distanza rischiano di apparirci scontate, si fecero in realt praticamente allultimo minuto...

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Alle gegen Alle


[21 luglio 2010]

Una guerra per uscire dalla crisi, rilanciare la produzione, rifondare i limiti da aggirare e tornare in recessione Sa un po di versione economicistica dellEcclesiaste, dato il respiro generazionale e desolatamente ciclico che gonfia e affloscia il corpo del capitale; ma globalizzato il mondo, cio ricondotto ai suoi ultimi invalicabili confini, fra fuga schizo e controfuga paranoica (per ricordare la sistole e diastole di Deleuze e Guattari) non che si possa poi per davvero, a dispetto della fede cieca degli ultraliberisti, schizzare via fra le galassie. Ce ne fossero a portata di mano! E invece no: esiste un punto, varcato il quale (ed questa la globalizzazione) il pianeta ripiega su se stesso. E concluso il mondo, per continuare a deterritorializzare e riterritorializzare, bisogna ripercorrere le stesse strade, se mai rendendole sgombre quel tanto da dare aglintrepidi esploratori del gi-noto lebbrezza di cartografare un deserto. Anche il regno delleconomia liberale non di questa terra, se non a patto che questa torni una buona volta a far rima con guerra (Knock knock. Wars where!, per ricordare le busse con cui lincubo della storia si ripresentava vichiano nella notte mediale del mondo del Finnegans Wake). Una guerra, dunque... e perch no una pandemia, se nellultimo decennio ne contiamo almeno tre di prove generali; e non sar certo il caso di sottovalutarle, con tutte le loro propaggini in ogni dove, le industrie farmaceutiche, che di e di non sono nemmeno pi seconde al famigerato military-industrial complex (che per di suo ha sviluppato, a partire dagli anni Ottanta, un inedito ramo frondoso: quello del settore dei videogiochi). Un sofisticato complotto, dunque, degno delle pagine di Thomas Pynchon, e perch no di un war game, se mai in versione MMORPG? No, la pi desolante delle necessit nel circo dei micropoteri metastabili e della deresponsabilizzazione generale deglinfinitesimali godimenti. Se ognuno ne trae il suo tornaconto, per quanto micra-

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gnoso, non c conto che non torni al mittente. Paga tu, per favore; al momento non mi trovo contante. Una guerra anche qui, nella Zone (aveva ragione Pynchon in Gravitys Rainbow: dobbiamo ancora sentire il fragore del tuono, in Europa, eppure ci hanno gi fatto a pezzi). Non uno dei tanti soliti conflitti pulviscolari e periferici per mantenere solvente e in attivo la grande industria bellica (e dunque videoludica) mondiale: una guerra che attraversi il mercato fantasma, dove si spacciano fantasmi, cui da tempo si ridotta lEuropa. Perch combatterla qui allora, fra gli spettri, questa guerra, o meglio anche qui? Per due motivi, e il primo dinanzi ai nostri occhi da tanto di quel tempo che neanche pi riusciamo a distinguerlo. Quando una qualche potenza in credito di risorse e in debito dimmaginario, il Nuovo Mondo di un tempo (ben presto lAmerica), o il Terzo solo di ieri (che so, la Cina), accarezza il suo sogno, nellEuropa delle nazioni che, per sognare quel sogno, si dorme (lo ricord alle democrazie occidentali Hitler a Monaco, convinto di avere intorno a s, come in un vecchio western, praterie da sottrarre ai selvaggi nativi: vado avanti dritto come un sonnambulo, proclam, e segn la strada del deserto americano su cui si sarebbe incamminata la politica europea). E non c mica da stupirsi che lEuropa sia la torre del mondo, e del suo imprigionato Sigismondo. Il capitalismo nato in questo continente localistico e universalista; e se pure, finito lultimo conflitto mondiale, sembrerebbe essersene andato (ma solo per farvi ritorno, diciamo cos, con le armi di Belisario), lemorragia del suo immaginario continua a scorrere come fosse linfa. La questione cos evidente, ed altrettanto fondante, che non era sfuggita persino nel suo sorgere a un cinico acuto come Caldern de la Barca: il capitalismo sopravvive incatenato e sognante, e non appena lo si libera per davvero, va avanti senza pi sentire ostacoli, dritto come un sonnambulo al macello, e di l allanticamera della solita torre. E cos moriremo probabilmente dissanguati ma capitalisti e ultraliberisti, e non ci parr vero, ove mai per davvero scoppiasse una guerra (quale che sia lo stato canaglia, o opportunamente incanaglito, a provocarla), di tornare a essere il centro spettrale del mondo. LEuropa del resto le guerre sa come farle, e se si cercano antecedenti alla cosiddetta globalizzazione, non mica azzar-

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dato ritrovarli in quellaggettivo mondiale posposto al sostantivo che ha fatto e rifatto le sostanze (per lo pi traumatiche) del continente (che nel pi trasparente sintagma inglese world war un sostantivo in funzione di modificatore che suona come un sinistro consonantismo pronto a rimartellare, knock knock, il sostantivo modificato). Era spettato proprio a questo aggettivo (perch tocca sempre a ci che non ha sostanza farlo) slatentizzare del resto il virus dispotico, lUrstaat, lintramontabile sanguinaria forma statuale asiatica, nel necessario (e assai peloso) umanitarismo delle pretese universalistiche della nuova religione europea della merce (eh gi, unesposizione rimarr universale solo fin quando non verr una guerra a ritagliarvi invalicabili i confini del pianeta). Il continente, lo sappiamo, centro di un mercato senza centro, la cui mano nascosta ha sempre a sua volta nascosto unarma, se mai ha finito col trovare pace, lo ha fatto solo in quella sorta di ghiacciaia cui stato ridotto quando, dopo lultimo conflitto che si fregiato di quellaggettivo, divenuto confine fra i blocchi. Dobbiamo tutto, come europei sopravvissuti alla mattanza, alla guerra fredda. Ci avevano, e ci eravamo, fatti a pezzi: ma il rombo di tuono era cos al di l da venire che abbiamo trascorso cinquantanni a congratularci per lo scampato pericolo. Certo, al suo interno negli anni che seguirono Yalta lEuropa ha continuato a dilaniarsi, a Est come a Ovest, fra epurazioni e terrorismi, e allesterno, o meglio nellintimo, ha potuto persino giocare coi suoi servizi segreti, deviati quel tanto da ritornare sullo stesso giro di ruota, come i criceti; ma se non altro tutto doveva nellequilibrio generale rimanere compresso, mascherato, contenuto, e gli europei hanno fatto in tempo ad ammantarsi una volta per tutte delle toghe purpuree della civilt, sinceri democratici o leali comunisti comerano stati ridotti. Ma bastato che crollasse la lamiera che divideva il frigorifero dal congelatore, e la vecchia Europa si ripresentata per quella che era; e non un caso che a godere in prima battuta di questo risveglio, appena un anno dopo il crollo del muro al rombo del tuono, sia stata lunica nazione dichiaratamente sovranazionale e pluriconfessionale (come aveva coi suoi miti fondativi professato di voler divenire, ma sempre solo in prospettiva, la CEE), che come se non bastasse poteva vantare lindubbio privilegio di non ospitare da tempo truppe doc-

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cupazione, americane o sovietiche che fossero. Magari lunica nazione veramente europea (non occidentale e non orientale), in quegli anni. E rispetto a quanto abbia detto di noi, del ritorno del rimosso che il nostro destino, confesso che non finisce di stupirmi quanto sia stata sottovalutata la questione iugoslava. Che lEuropa, incredula al riapparire dei suoi amati fantasmi, abbia preso parte al banchetto che ha straziato la vecchia Federazione fin troppo evidente, dato quanto poterono in quelloccasione il fascino del mercato del vecchio marco (in quelle che sarebbero diventate, balconi della grande economia liberista tedesca, la Slovenia e la Croazia) e le sirene dellancora pi remoto mito panslavo della grande madre Russia (soprattutto fra i serbi), finalmente (cancellato il comunismo) riabilitata al suo destino di sempre, ortodosso e barbarico. Ma altrettanto indubbio, per come precipitarono le cose quando tocc il suo apice nove anni pi tardi la crisi kosovara, che al continente, e persino al Bel Paese della responsabilit occidentale, dellamore e del mandolino (diamo a Prodi e DAlema quello che dobbiamo loro; e diamo ad Apicella quello che di Apicella: vedrete che gli storici del futuro ne faranno un Tigellino...), non paresse vero di riprendere le armi (dopo, con le missioni di pace, e quelle dei volenterosi, il tutto sarebbe diventato pi agevole), sia pure sotto la copertura della NATO. Sebbene, a onor del vero, Clinton nicchi in quelloccasione fino allultimo, alquanto insospettito dalle pressioni che subiva da molti stati europei, a partire dallappena ridestato leone britannico... magari in cuor suo lallora presidente americano si sar in quei frangenti ricordato che ogni qual volta lEuropa ha trascinato lAmerica in una guerra, sono stati dolori. Quanto insomma successo nella ex Iugoslavia a partire dal 1990, con tutte le sue guerre fratricide, gli stermini per fede (calcistica, innanzi tutto... non dimenticatele mai le origini degli eventi, per quanto ridicole e poco soprannumerarie possano apparire) e le pulizie etniche (in Bosnia, nel solo 92, ricorderete, si contarono 150.000 morti... poi dal 94 in poi avrebbe cominciato a pensarci la NATO), e soprattutto con le inspiegabili contorsioni delle diplomazie europee impegnate in un nostalgico valzer balcanico (la CEE, grazie alla pressione tedesca, e a quella del Papa, riconobbe con sospetta celerit la secessione di

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Slovenia e Croazia...), la dice a mio parere lunga sulle ferite ancora aperte del continente, che sono ancora quelle che portarono alla prima guerra mondiale. E dunque di tutta la fase dindustrializzazione, e di sviluppo di un mercato senza limiti politici o nazionali, che le aveva via via inferte nel secolo precedente. Per quanto possa sembrare paradossale difatti, dissolta la logica di Yalta, non che sia riemerso il trattato di Versailles; anche perch, come ci ricordano non pochi storici, prima e seconda alla fin fine sono ununica guerra. Si lacera una sfoglia, e ne esce sbito unaltra, abbastanza remota da sorprenderci. Per come vanno oggi le cose in Europa, possiamo volendo seguire ancora le nostre illusioni comunitarie, ma risulterebbe difficile negare levidenza: nel continente che ha sviluppato nella fase industriale del capitalismo il suo mercato fino al punto di non riuscire pi a contenerlo, svaniti gli effetti della guerra, riemergono come da un museo delle cere le miopi risoluzioni con cui il Congresso di Vienna cred di impedire linsorgenza di altri rivolgimenti sociali e conflitti, a braccetto se mai con gli stessi elementi dissolutori che le resero irrealizzabili. la solita storia, qui da noi, eppure ogni volta ci sorprende: a una generazione in debito di miti fondativi, e disposta a trovarli in ogni dove per risolvere le sue crisi, segue sempre la generazione di scurdammece o passato che ne gode i benefici, e viceversa. E ogni volta si ricorre al solito trucco. Ma a poco vale allargare le barriere doganali: i motivi del contendere raggiungeranno presto il nuovo confine. Perch il capitalismo (non il suo male perverso, la sua identit) chiede solo limiti da aggirare per spingersi fuori. La coazione allirredentismo in Europa ha di volta in volta rivestito unarmatura religiosa, ideologica, persino etnica e linguistica (Joyce in politica, anche solo a leggere come si dovrebbe lUlysses, la sapeva pi lunga dei suoi critici): ma lanima, lanima vigorosa e vigile di ogni presunto popolo che si ridesta, persegue il suo unico sogno, che fiscale (lautonomia fiscale, da contrabbandare in pieno delirio anarcoliberista come abolizione stessa dei tributi, e libert di schizzare chiss dove). Nuovi popoli sono pronti a sorgere dal nulla (dalle nebbie druidiche e dai templi remoti), per compiangere e impugnare le proprie catene (che poi non sono altro che i soliti lacci e laccioli). LEuropa comunitaria, potete esserne certi, rischia di subire unennesima ondata dinvasioni, ma non daglimmigrati che

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attira e sfrutta: sono gli stessi nuovi popoli che genera al suo interno, come unidra, che finiranno prima o poi col rovesciare le loro orde barbariche sulle sue sempre allo stremo risorse. Popoli nuovi, direttamente eletti dal mercato che il continente non contiene pi (e che forse non ha mai contenuto, se stato loro delle colonie a determinare la prima recessione da cui sorto il capitalismo). Gente fresca, tribale quel tanto da radicarsi, spettrale quel giusto per fare affari al di l del vecchio contenitore. E non detto che la cartina politica dEuropa, che gi dopo il crollo del muro di Berlino sembr sfogliare a ritroso latlante storico, non ci riservi da qui a poco la sorpresa di tanti ulteriori stati, dai nomi pittoreschi quanto quelli inventati dalla vecchia Hollywood per le sue commedie principesche ambientate in un romantico ridicolo continente di granducati e divise sgargianti. Se non pi la grande rivoluzione internazionalista ritenuta imminente dal povero Karl, la guerra lampo di Groucho, Chico, Zeppo e Harpo a portata di mano. Una guerra in Europa, dunque? Non necessariamente... ma almeno una guerra che tocchi e rimescoli lEuropa, se non altro quella che ha voluto dopo il secondo conflitto mondiale consorziarsi non certo in una confederazione, e men che meno in una chimerica societ delle nazioni, ma in un mercato, anzi in uno Stato-mercato. Lesempio, anzi il modello che guid gli estensori del Trattato di Roma (ci sono nato in quellanno, la mia storia), era apparentemente fulgido, ed era quello dellallora Germania Federale, quanto meno nella visione di colui che laveva resa un miracolo, vale a dire il cristianosociale Ludwig Erhard (con la sua schiera di collaboratori, neanche a dirlo entusiasti ordoliberalisti). E che in questione, nellatto di fondare la nostra Europa, fosse la Germania non strano, se si pensa che non solo nello smembramento di quella nazione correva il confine interno alla logica dei blocchi, ma che nellinevitabile ripensamento dellimmediato passato cui venne calorosamente invitata si dovevano lavare tutti i panni sporchi di sangue della guerra (e dei suoi reali responsabili, primi fra tutti coloro che consentirono, e persino aiutarono, lascesa dei regimi fascisti). Per la DDR, coi comunisti al potere, uscire da quella guerra, si sa, fu ideologicamente pi semplice. Se i comunisti avevano combattuto i nazisti (a parte quella sciocchezzuola del patto Molotov-Ribbentrop), e

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quella Germania era diventata comunista, allora... beh, s, si era vinta la guerra (e non si era responsabili di tutte le atrocit commesse dal nazismo). Per la Germania federale, invece, lo ricordava il solito Foucault, la questione fu estremamente pi complessa, e si risolse nella creazione di una nazione che non toccava letteralmente terra (alla faccia della sua precedente ossessione allo spazio vitale), e non era nientaltro che il fantasma del mercato. Quella logica, nellatto di gettare i semi della nuova (ennesima) Europa, parve a tutti vincente (e non difatti quella che sostanzia lintero Sacro Romano Emporio?): uno Stato, grazie ai buoni offici dellimplicazione reciproca (che un vizio logico, non economico) pu essere solo legittimato come garante delleconomia che legittima lo Stato. Certo, perch tale messa-in-stato del tutto spettrale funzionasse in Germania Federale, inutile girarci intorno, c stato bisogno di consistenti aiuti americani, generosamente elargiti per impedire agli ex nemici di essere attratti dallaltra Germania (i cui intellettuali, fin quando non si videro i primi effetti del piano Marshall, non avevano mica tutti i torti a ripetere: certo, siete pi liberi di noi, ma solo di affamare i vostri concittadini). Insomma: una messa-in-stato spettrale (una patina complessiva dimmaginario che irreggimenti i corpi e lasci schizzare i debiti con cui investire in... sogni) pu funzionare solo con uneconomia drogata, altrimenti al primo (anemone?) che chieder di vedere le carte, seguir la catastrofe. LEuropa, nella lunga stagione in cui ha ospitato la linea di confine fra i blocchi, ha goduto lindubbio vantaggio di essere un oggetto di desiderio, cosa che le ha consentito (persino a Est) di vivere ben oltre le sue possibilit, e le sue stesse risorse. E se non ha avuto pi bisogno di colonie da impoverire (prima le ha perse tutte, poi divenuta addirittura il simbolo dellanticolonialismo, maestra di tolleranza fra i popoli...), perch lo era diventata, una colonia, di qua e di l; ma non una colonia da sfruttare, da vezzeggiare piuttosto, e persino da tenere allingrasso (un animale da stalla, facile immaginarlo, dovr ritenersi ben fortunato, prima di avviarsi al macello). da questo mondo di sogni (sia pure cattivi, ma sogni), che si dicevano (di qua e di l) interdetti nella loro realizzazione dalla presenza dellaltro, ed da questo sonnecchiare fra

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coccole e bamboleggiamenti (via, civili come siete diventati, non state meglio qui con noi, che coi barbari?) che si risvegliata lEuropa allindomani del crollo del muro di Berlino. Quel risveglio, lo ricorderete, dur per solo il tempo di formularsi ununica domanda, ben presto svanita in attesa dellimpossibile risposta: ora che finito il comunismo, e si liquidato lo spettro di uno scontro fra le due superpotenze, perch non si realizza la grande cuccagna promessa? Certo pu apparire singolare, ma di che cosa avrebbe voluto dire, da quel momento in poi, vivere in uneconomia non pi drogata dalla contrapposizione con laltro, non vorrei sbagliare ma credo se ne sia accorto per tempo (e proprio dalla ex Federazione martoriata) solo il consort di guastatori mediali conosciuto col nome di Laibach: era il 1992 quando questo insolito gruppo nato punk, e cresciuto industrial, licenzi un disco intitolato beffardamente Kapital, e invase lEuropa liberata con il ritmo dance del suo hit Wirtschaft is Tot (altro che comunismo, ripetevano nel loro video in puro stile Metropolis, anzi Retropolis, leconomia che morta...). Da quelloggetto del desiderio che era, lEuropa si ritrovata insomma improvvisamente costretta a tornare a desiderare, solo per accorgersi che quei desideri da tempo sopiti che avevano fatto la sua grandezza e la sua miseria erano rimasti inguaribilmente gli stessi. Siamo ancora noi, siamo sempre i soliti, abbiamo dovuto ripeterci: e siamo stati messi nelle condizioni, pur di tornare a dare un senso a quel pronome, di resecare il noi leali comunisti o sinceri democratici (senza dimenticare quanti si opponevano da sinceri democratici negli stati comunisti, e quanti leali comunisti contavano i paesi democratici) in cui ci avevano stipato. Da quel momento in poi, abbiamo ripreso a sfogliare limmaginario delle nostre precedenti messe-in-stato come una margherita. Quando una crisi la investe, la generazione di scurdammece o passato si ritrova a sua volta in debito di miti fondativi, e li ritrova dove pu, magari nelle radici cristiane, o nellhumus celtico, o nella broda primordiale barbarica. Ci che capitato alla Iugoslavia, non facciamoci soverchie illusioni, pu capitare allEuropa, che in quanto a tribalizzazioni di ritorno, ne fa fede la sua storia, non seconda a nessuno. Anche perch non c tribalizzazione che torni, con tanto di nascita di un nuovo popolo o di uninedita etnia, che non abbia il suo ritorno fantasmatico nella presunta scorciatoia che

porta pi rapidamente al mercato che si fatto remoto. Anche questo un sogno, ma se volete quello fondativo. Del resto, come limpero di Carlo Magno non aveva capitale ma solo la sua brava barbarica corte itinerante, cos lunico centro del Sacro Romano Emporio quello che ogni volta si sottrae LEuropa non ci mette mica molto, e ritrova facilmente tutte le sue divisioni, e di inedite ne inventa, secondo la vecchia prassi capitalistica di dividere dentro ci che andr congiunto fuori (nel centro che non c). Il liberismo non drogato, non programmato cio allesterno del suo presunto laissez faire, schizza ai confini del pianeta ma inevitabilmente ci batte la testa... e rimbalza alla ricerca di un nuovo strato di mondo. Il sistema a presunta classe unica della sempre penultima fase del capitalismo (anchio sono un servo, dice oggi il padrone, ricordavano Deleuze e Guattari) ha fatto presto a scoprire le vecchie corporazioni medievali (e fasciste), e a metterle luna contro laltra (ogni corporazione viene sentita tale in virt del di-pi-di-godere del suo corpo, che ovviamente causa del godimento interdetto a ogni altro corpo). Ancora prima, mentre gi si delocalizzava qui da noi il lavoro (dividere dentro per ricongiungersi fuori), con un gioco di prestigio si trasformato il lavoro sottratto (perch fuori pi conveniente) in lavoro rubato (da tutti quei miserabili che vengono dentro). Ora, fiaccata la cosiddetta societ civile con le guerriglie corporative, rinfocolate con identit micragnose le pi inedite etnie, grazie alla guerra in atto fra lavoratori ridotti allo stremo che si contendono (a forza di rinunce e di diritti negati) i flussi imprenditoriali, persino il presunto pretesto dei privilegiati da abbattere e deglimmigrati da respingere non funziona pi, e si far presto qui in Europa a guardarsi in cagnesco rispolverando le smunte ma comunque pi consolidate identit nazionali (lo si visto da come taluni degli stati pi eminenti della CEE volevano liquidare quegli straccioni dei greci, fino addirittura a mettere in questione, lo hanno fatto per davvero nel corso di una notte, la moneta unica per cui tanto si erano battuti). Alle gegen Alle, tutti contro tutti. questo il secondo motivo per cui una guerra potrebbe scoppiare anche qui, cos da ridare se mai ai Balcani il loro consueto destino di prolessi dEuropa. E del resto: dov che minaccia di delocalizzare un po di produzione il solito Marchionne? In Serbia, naturalmente. Ma tu guarda...

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E la letteratura?
[26 agosto 2010]

Daccordo, mi si potrebbe obiettare... Obiettare? E in che modo, se ho a bella posta chiesto che il blog fosse chiuso ai commenti? E come se non bastasse, sebbene lavessi promesso, non ho ancora spiegato perch. Lasciate che rimandi ancora la questione a uno dei prossimi invii, se mi riuscir almeno una volta di stornare lo sguardo da quello che, eretti i cancelli, non ho pi smesso di scorgere nel deserto politico dellultimo capitalismo: un intreccio di micragnosi micropoteri, persino ridicoli, non per questo meno nefasti. Perch pur sempre attraverso i discorsi, di norma disarticolati, che ho dovuto tessere nel romanzo, non certo per un improvviso abbaglio, n laccensione di unestasi, che si messo a fuoco, quanto meno ai miei occhi, il presunto paesaggio permanente del Sacro Romano Emporio. Ed gi un segno, o un sintomo. Che abbia fatto il romanzo allincrocio di questi discorsi, piuttosto che lasciarlo filare sul binario morto di una sua storia? No, che ne sia consapevole. Parlare in nome di unopera, per come intendo io la questione, non parlare del proprio operato; piuttosto farsi parlare dallopera, cui per tanto tempo si pure creduto di prestare parole, sebbene a riascoltarla non c voce che non suoni contraffatta. Bella roba. Anzi, bellissima, perch la questione stessa dellarte, come forma davversione. Se unopera funziona, cos che la penso, deve incrociare i suoi discorsi fino a espellere lautore, primancora che questi, dichiarandola chiusa con un atto di propriet assai controverso, e dunque facendola finita, labbandoni a sua volta. Da ci consegue che quando unopera riesce a prendere il sopravvento alienandosi lautore, prima che questi a sua volta se lalieni, pu letteralmente non finire pi, mettendosi per cos dire allascolto di un altro che possa parlare a suo nome. limmagine della paziente zecca cara a Deleuze, se non a Guattari, in attesa non gi di un qualsiasi

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animale ma del giusto tasso di umidit. Nel Settecento, in Inghilterra, allalba della nascita di quello che da noi chiamiamo romanzo, la sapevano lunga: milza o non milza, solo questione di umori. Non che ci voglia dire che lopera faccia a meno dellautore, se mai per flirtare col primo fruitore che passa: un vecchio mito letterario, questo del reale che si parla da s, e credo che nessuno, dopo tanti sonnambuli che hanno creduto di fare la voce grossa a suo nome, ne senta la mancanza. Daltra parte, quanto pi unopera apre mondi, e attraversa saperi, pi si chiude nel suo discorso di fondo, che , per inciso, quello del legame sociale in atto: ci che in essa resta aperta, la nostra incapacit di concluderne qualcosa. Piuttosto, se a forza di stilizzare e ripetere, come tutte le cose dellarte, dellarte artigiana, se ne sta come dicevo in attesa di rimettere in funzione chi la mette in funzione, unopera costringe il suo autore, se davvero vuole farsene carico, a essere altro, che lo voglia o meno; nel migliore dei casi, ripeto, primancora che accampi il suo diritto, che quello dautore per lappunto. Le opere che funzionano, lo sappiamo, lo fanno innanzi tutto per altri; se un autore non disposto a farsi alienare per tempo, torner preda dellhorror vacui del brontolio della sua banale storia psichica, senza volgerlo nel rombo di quellamor infiniti che Gombrich attribuiva al pi modesto degli artigiani. Insomma ho le mie idee, non dico di no, quella che si dice una visione del mondo (cio, alla lettera, un delirio), ma non so quanto tutto ci abbia influito nella stesura di unopera che, poste le basi del suo funzionamento, siatene certi, si mossa ben presto sui suoi piedi. Come autore, del resto, per quanto ne prenda progressivamente distanze, se ancora quella stessa voce che sento, non sono proprio in condizione di capire chi fra di noi sia stato il fantoccio, e chi il ventriloquo. Lopera resta l, e fortunatamente, se mi parla, mi chiede orecchie e voce, ma respinge ogni sguardo che non sia attraverso. Posso usarla come un paio di occhiali, questo s, magari gli occhialini di Quevedo da cui ho cominciato queste conversazioni in scatola, ma da bravo astigmatico, divenuto con gli anni presbite, provo un certo fastidio a scrutarli quando me li

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tolgo dal naso, se mai solo per dar loro unenergica pulita. Guardare il proprio paio di occhiali, quando solo attraverso le lenti che si recuperata la vista, votarsi alla nebbia, se non alla nausea. E per arrivare a vedere cosa? La propria visione divenire remota. Oppure, a fronteggiarle opportunamente rovesciate, solo una specie dimmagine sfocata del proprio punto di osservazione ridotto allosso, che poi quello che in fin dei conti ciascuno di noi, pur senza ammetterlo mai, sa di essere nel fondo del proprio borbottio: una montatura. Senza contare quello che dismisura, o diviene piuttosto un nonnulla, invertendo le lenti. Meglio tenerli su, sporchi come si sono ridotti, gli occhiali, e continuare dunque a dare unocchiata a quello che c fuori. Non che questo blog si prefigga di essere il sguito allaria aperta del romanzo, ci mancherebbe altro. Siamo tutti al chiuso qui: possiamo, volendo, inanellare come grani di rosario le nostre camerette al momento attraversate da un unico fascio di luce, ma al pi si fa un alveare, non un prato cosparso di fiori. Daltra parte, se non stessimo tutti a incerare la nostra celletta, non scivolerebbe nemmeno via come fa, non larte, badate bene, ma la letteratura. Che poi era giusto lobiezione da cui volevo partire. Cio: daccordo, ho dato in questi invii unocchiata di qua e di l, ho raccontato quello che mi sembra di vedere, un paio di scenari da brivido non c che dire, ma dal momento che dovrei essere ritenuto un letterato... no, scusatemi se mando per le terre il periodo, non riesco proprio a sentirmi un letterato, se mai un letterrato, come ognuno di noi; perch io stesso, e tutti voi, per essere, e solo grazie a tutte le chiacchiere necessarie, di questa terra, e per farla venire su, questa terra, una chiacchiera dopo laltra, siamo troppo pieni di segni per lasciare che ce li leggano altri, cos da ridare a ciascuno il posto assegnato nel grande, si dice, romanzo della vita. Senza il blabla, il blabla che siamo, di questo possiamo pure essere certi, vivremmo ancora in un mondo senza confini che non siano quelli ineluttabili e cangianti della scena fenomenica. Non c discorso, lo dicevo in un inciso, perch pi sincide e pi si moltiplica e si riconnette, che non legga il legame sociale; a non volerne sapere si rischia di mancare il proprio voto, che manco a dirlo il proprio vuoto, fluttuando per sempre (Dante aveva per davvero la vista lunga) fra le postille di un paradiso di manche-

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volezze. Larte, invece, quanto pi sinciela nel cosmo, se per davvero ne stilizza e ripete il desiderio (che lamore dinfinito di ogni maestro artigiano), non fa altro (anche questo lo insegna Dante) che tornare ad atterrare. Se non lo facesse, che cosa potrebbe mai ridire, del ben che vi trov? E, soprattutto, cosa avrebbe da ridire, del male che lo spinse dritto come un razzo? Va bene, passi pure per il letterrato (che manco si sa, a mettersi in orbita con un simile bauletto, se uno si vota pi a Joyce o a Lacan)... ma con questa obiezione, che conta gi troppi incisi, devo decidermi a farla finita. (Per inciso: non c procedimento darte che non proceda per incisi). La questione insomma che ritengo di pormi, e giusto nel simulare di percepire la presenza di chi mi legge (che per lappunto presunzione dautore), resta: che cosa centra, con tutti gli scenari che ho fin qui attraversato, la letteratura? Beh, detta cos, la risposta semplice: niente. E allora la riformulo, la domanda, e la lascio nel vago, come ho fatto per il titolo di questinvio, convinto che proprio alla luce di quanto detto in precedenza potesse trovare, come suona la frase fatta, il posto giusto al momento giusto. E dunque ci riprovo. Daccordo, mi si potrebbe alfine obiettare, ci hai parlato di questo e di questaltro, e se mai hai privilegiato nei precedenti invii un discorso, con tutta lironia del caso, stato quello (a sua volta molto pi letterario di quanto non si creda) degli economisti... E la letteratura? Gi, la letteratura... La letteratura continua a svolgere il cmpito che le fu assegnato in culla, quando ancora se ne stava avvinghiata al suo gracile gemello, il copyright, che avrebbe per, una volta cresciuto, avuto ben pi fortuna di lei, estendendo il suo diritto di nascita in ogni campo di quella vaporosa schiuma tipografica che si chiama libero pensiero. Pi che di un cmpito, si tratta in verit di un mandato (o se volete di una lettera di cambio), e la letteratura, da quando apparsa come un evento di Badiou (qualcosa in soprannumero cui mancava solo un nome), non ha mai smesso di adempierlo: delimitare e periodizzare per unintrapresa di anonimi una messa-in-stato fantasmatica, almeno quanto il discorso che (non) regola leconomia, in cui far scorrere i voti (mancati) di unappartenenza. la solita logica del capitale su cui mi sono gi soffermato: sepa-

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rare qui (un terzo stato da un eventuale quarto, al quale lasciare in eredit il proprio destino innominabile) per ricongiungere altrove (e in mancanza di meglio persino ai primi due, stati intendo, che pure si erano voluti sovvertire: come mostra quella sorta di sindrome di don Chisciotte che la nobilt napoleonica). Batte e ribatte lo stesso chiodo, dal suo nascere, la letteratura, che quello di dare un nome a chi non ne ha, Robinson Crusoe o Moll Flanders; batte e ribatte, ed per questo che stupisce, e stupef. La classe innominabile che si sarebbe poi letta borghesia (per istupidirsene), e il collante di stupori ancora senza etichetta che sarebbe stato detto letteratura, i nomi, come cpita in simili circostanze, se li sono dati luno allaltro (limplicazione reciproca, praticamente sul nulla di un credito, lavrete oramai capito, ha nel capitalismo la funzione che Aristotele affidava al primo motore immobile: corri corri, e finisci sempre l). Attualmente, certo, se pure continua a svolgerlo, questo mandato, indubbio che la letteratura, strictu sensu, lo faccia su scala ridotta (magari su questo ci torneremo in un prossimo invio), ma comunque in buona compagnia, vale a dire con quellallegra famigliola di strumenti di comunione ben pi generalisti di cui ritiene (non del tutto a torto) di essere la primogenita [per inciso, lennesimo: ogni medium che voglia essere di massa, deve innanzi tutto dirsi familista, quanto leconomia che, noto, lo denuncia nel suo stesso etimo quanto non sia altro che una faccenda di casa, e uno sporco segretuccio]. Ma se credete che la lallazione letteraria, come tutte le altre coccole mediali (non giusto il suo nome, o la pletora dei suoi soprannomi, che si ripete ipnoticamente al bambino quando lo si bamboleggia?), sia nientaltro che un po dintrattenimento ( sempre festa nellasilo globale, notava acutamente McLuhan), vi sbagliate di grosso. Da quando ha ricevuto il suo nome dalla classe cui ha dato un nome, non c mai stato niente come il sistema letterario che abbia fatto filare dritti come sonnambuli. E per due motivi: innanzi tutto perch esattamente il modo in cui le logiche del capitale, partendo dalla prima catena di montaggio (che quella della tipografia) si sono annesse lal di l verso cui ha sempre spinto larte del discorso [per arte del discorso, a scanso di equivoci, intendo tutti i sistemi narrativi nati per avversare

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il discorso del mo, cio la frase da idiota, in senso etimologico, che ogni parlante deve ripetere per legarsi al destino designato; da questo punto di vista, non c alcuna differenza fra lIliade, la Commedia, o un canto popolare: puntano tutti verso un al di l dellidiozia]. E poi, perch al sistema letterario il laissez faire, gi nelle sue fasi sorgive, ha chiesto niente di meno che assorbire il soprannaturale (pochi ricordano che una delle questioni principali di Robinson Crusoe, presunto alfiere dellempirismo dominante, sia quella di trovare sullisola la presenza di Dio), per svincolare per cos dire leconomia da uningerenza tanto ingombrante. Alla crisi della fede nel soprannaturale (crisi necessaria perch sorga un Sacro Romano Emporio), la letteratura ha supplito con un sistema di credenze a tempo (fin quando siete qui, credete a quello che vi dico, ripete dalle pagine dei suoi tomi il solito Robinson). La letteratura, primogenita col copyright del pensiero liberale, non pu dunque che tornare ad avanzare la richiesta propria di chi le assicur i natali: datemi credito. E credere, sia pure per una momentanea sospensione del giudizio, gi obbedire e combattere. Il mondo conteso dalle nazioni (trovatemi una sola nazione, non dico uno stato, che non nasca, o quanto meno si riconosca, in un romanzo) nelle ultime due guerre, se leconomia non gradisce confini (e non assicura dunque appartenenze), da dove avrebbe potuto del resto mai stagliarsi, se non dalle pagine della letteratura? Persino coloro che si sono correttamente definiti nel secolo scorso dittatori, non hanno fatto altro, incantati come a loro volta erano, che sentirsi dittare dentro storie, per significarle ad altri, a che altri le significassero. Il rinnovato Impero di Roma, il Millennio del Terzo Reich, la Grande Madre Russia... Vi potr sembrare strano, ma per quanto Goebbels abbia saputo come pochi piegare allideologia nazista la radiofonia (e con minore genialit il cinema), Hitler, basterebbe dare unocchiata al sua guardaroba, resta un personaggio del peggiore romanzo di formazione. E se vi va di pensare alloggi, badate che la televisione con i suoi show sgangherati non regola flussi di voti; se mai, e se proprio, lo fa la sua fiction (che, ci intendiamo, letteratura latu sensu). Quiz e ballerine non hanno nulla a che fare col presunto potere berlusconiano; le vite

dei santi teletrasportati fin nel nostro salotto dalle retrovie siderali, magari qualcosa in pi. Ma facciamo un passo indietro. Il problema comunque resta il solito, ed quello su cui mi arrovello da un po di tempo: la letteratura, o meglio il sistema letterario, ha scarsi tre secoli di vita (e prima solo un altro paio dincubazione), eppure continuiamo a coprire con questo termine tutto ci che stato prodotto dallarte del discorso, prima e dopo che la letteratura abbia compiuto il suo mandato. Magari ripeter cose note, ribadite in pi occasioni da studiosi provenienti da aree diverse, a partire dal gi citato McLuhan (sulla scia delleconomista Harold Innis), fino a un grecista come Eric Havelock (via Milman Parry), o a un filologo romanzo come Paul Zumthor (e questi, a sua volta, sulla scorta di alcune interessanti notazioni di Curtius), senza dimenticare il solito Foucault (per cui, ad esempio, la comparsa delle letteratura direttamente uno dei segni, con la costituzione delle scienze positive, il ripiegarsi della filosofia sul proprio divenire e lemergere della storia come sapere [...] e modo dessere dellempiricit, della frattura profonda verificatasi nello spazio del sapere fra il 1775 e il 1825). Non per del tutto inutile ricordare (visto quanto poco si frequentino da noi questi autori) che perch si ritrovi in uso il termine letteratura nellaccezione divenuta comune (per i latini litteratura era lalfabeto, o al pi la grammatica), bisogna in realt attendere (sebbene la cosa, ancora indegna di un nome, avesse gi fatto capolino) gli ultimi decenni del XVIII secolo (come ha scritto in un suo saggio Zumthor, la letteratura ancor pi dellidea di Natura, appartiene allarsenale dei miti che la societ borghese in espansione si costruita poco a poco, allalba dei Tempi moderni). Che poi, a ben vedere, lo stesso periodo in cui il capitalismo, grazie proprio al diffondersi del sistema letterario che se n fatto pellicola, scopr la fino ad allora inedita possibilit di estendere i propri mercati su ci che per la specie sempre stato di tutti e di nessuno: il linguaggio, appunto, e la sua effervescenza discorsiva che diciamo pensiero. Il copyright, fratello gemello della letteratura, fa dunque dei processi di pensiero (che sono un bene comune) innanzi

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tutto un bene di classe, e dunque (visto che centra la borghesia) non solo quanto c di pi domestico, ma addirittura il quid stesso di tutto ci che privato. Ogni processo di pensiero, nellottica del copyright, qualcosa che un Tal dei Tali (che vi trova il suo nome) assume dalla dispensa del sapere comune, metabolizza e poi espelle dichiarandolo proprio, come le feci. Non a caso al solito Joyce, che pure ne ha vissuto, non era certo sfuggita la sua natura escrementizia, se per designare il fenomeno preferiva usare la grafia copriright (nella nostra lingua potremmo cavarcela con qualcosa tipo un digeritto dautore). Il sistema letterario (che col diffondersi in altri campi del copyright spartisce e riveste il mondo) ripete unica la classe che (per ricoprirsene e assimilarlo fino a espeller vi il proprio nome) lo ha ritagliato e astratto dal fibrillare dei discorsi che ci vivono. Per questo la letteratura non un legame sociale (la borghesia, nella sua fase capitalistica, si dichiara in verit una classe di fuoriclasse) ma una messa-in-stato (messa in terzo stato) fantasmatica (qualcosa, che non si pu trattenere, in grado per dintrattenere). Ai marxiani flussi del lavoro e della conoscenza, si aggiunge insomma con il sistema letterario (una costellazione di romanzi, non poesia ma poeti, periodizzazione e individualizzazione delle modalit di lettura, non autori ma editori, e neanche un lettore che non sia a sua volta letto dal suo romanzo) quelleccesso di produzione che Deleuze e Guattari hanno definito flux de connerie (flusso di stronzate, o, se preferite, coglionate); che poi il flot de merde contro cui, a costo di morirne, Flaubert prometteva (impegnato nella faticosa stesura di Madame Bovary) di voler far argine. Se lo si prende per il momento come esempio, il nostro homme-plume, non si pu dire che non abbia lottato per davvero per tutta la vita per il risveglio dallincantesimo diffuso da un tale sistema. Ma come, non faceva Flaubert a sua volta riferimento al sistema letterario? A leggerne i romanzi non parrebbe; larte del discorso faticosamente perseguita ( una questione di stile, o di stiletto avrebbe detto lui) tutta una declinazione di forme davversione che mettono a giorno listupidimento letterario. Eppure indubbio che proprio nelle storie letterarie sia finito (e ne era consapevole: la stupidit da bulimia

tipografica di Bouvard e Pcuchet, scriveva in una lettera del 1877, la mia, e ne crepo). E come lui tutti i grandi autori cui siamo soliti pensare quando pronunciamo la parola letteratura (che tutto un dfil di esangui dagherrotipi), che poi, a seguirne anche sul pi tedioso dei volumi scolastici i cosiddetti profili, sono esattamene coloro (con rare eccezioni a confermare la regola) che per tutta la vita lhanno avversata, o che quanto meno non si sono mai riconosciuti nel suo sistema. un paradosso, ma come tutti i paradossi funziona. Vivo Flaubert, il sistema letterario non sapeva proprio che farsene delle sue opere (giusto il processo dest, ma solo per il tempo della sua durata, un po dattenzione sul suo lavoro): erano altri, non credo che lo ignoriate, gli autori di cui si discuteva nelle pagine culturali dei giornali dellepoca, erano altri insomma coloro che venivano ritenuti in quel sistema letterario coloro che davano lustro alla Francia, se mai molandone le armi che sarebbero occorse ai suoi gloriosi destini. Di molti di costoro non ricordiamo nemmeno il nome, ma farebbero bella mostra di loro nelle tabelle di certi nostri studiosi assai seri che indagano giustamente con un piglio fra il sociologico e il merceologico lintera faccenda. Molti si annoiano fra quei cataloghi di nomi e cognomi e titoli senza sugo, ma hanno ragione loro: quella la letteratura, perch un sistema letterario vive del mo; e le genealogie che restituiscono foscolianamente le armi del povero Aiace alla sua tomba, servono solo a rendere pi pervasivo il sistema letterario in atto. Il procedimento semplice, e lo conosciamo tutti: un sistema letterario, per poter funzionare, non solo assorbe ma pone in esponente le opere degli autori che lo hanno in buona sostanza combattuto, non appena queste siano state opportunamente edulcorate dal discorso delluniversit (che una consegna, per la piccola borghesia che ancora lo incarna, di strumenti di carriera, nel nome di un sapere senza matre, che non sia piuttosto il saperci fare di un mastro-don). I pallidi dagherrotipi finiscono cos, accigliati come sono, fra i ricordi di famiglia dei discendenti di quei sempre pi accomodanti autori responsabili della messa-in-stato fantasmatica della loro epoca, che si ritrovano per solo nelle tabelle, quando giunge il tempo delle genealogie (con cui cancellare

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il male della banalit che hanno contribuito a diffondere). Quella che viene definita storia letteraria tradisce sistematicamente il sistema letterario precedente, ma solo per garantire il persistere di quello in atto, e praticamente sulle stesse basi. Strano destino, quello di questi autori che imperversano coi loro nomi nel sistema letterario di unepoca, per poi guadagnare lanonimato che fu non a caso linsegna di coloro che (se centra come centra il copyright) ne furono i progenitori, l dalle parti di Grub Street (ai quali il nostro Giuseppe Baretti, aprendo le vie gastriche che sarebbero giunte fino al joyciano copriright, attribuiva non a caso il nome di grubstritici). Una giusta nemesi? Per nulla, perch le genealogie, lo ripeto, sono sempre servite a garantire la persistenza del sistema letterario del mo, e sono stati gli autori che lo hanno di volta in volta incarnato a farsi carico del collante ideologico del mondo. Qualcuno, lo sapete, amava ripetere che si sarebbe magari evitata la guerra franco-prussiana, se si fosse letto pi diffusamente Flaubert. Non so se ci possa dirsi, ma ove mai si potesse, immaginatevi da cosaltro avremmo potuto scampare, se gente come Joyce avesse fatto parte del sistema letterario dellepoca sua. Permettetemi allora di chiudere con unulteriore notazione personale. Questanno, il mio corso per la strana (ma assai intrigante) disciplina che insegno alla laurea magistrale, Media Comparati, verteva sullUlisse di Joyce e Luomo con la macchina da presa di Dziga Vertov. Brrr. Niente paura, ho cercato di farne omogeneizzati, al meglio che posso; e a dar credito allesito degli esami mi pare che non sia andata tanto male (in questo lavoro, per inciso, c di bello che i miei studenti mi deludono molto difficilmente). Ora, durante una lezione interamente dedicata allepisodio cui ci si riferisce, secondo lo schema Linati (o Gilbert), come quello di Nausicaa, ancora con leco delle parole grosse (un po alla Borghezio per intenderci) del Cittadino/Ciclope del capitolo precedente, ho richiamato lattenzione sul fatto che nel romanzo non ci fosse personaggio (fatta eccezione per la piccola trinit gnostica cos sciaguratamente, per loro, e fortunatamente per noi, anti-edipica) che non risulti incantato dai media (a partire da quello tipografico, ovviamente): c chi parla giornali, chi parla romanzetti, chi parla poesie, chi proclami politici,

chi canzoni (damore o patriottiche) e via discorrendo. Non ce n uno, insomma, che si situi al di fuori della messa-instato del sistema letterario di riferimento, a meno che non sia un extracomunitario come Bloom, un artista dellavversione come Stephen o una soprannumeraria come Molly. Insomma, stavo chiacchierando di tutto questo, sulla scorta dei pensieri in rosa della povera Gerty McDowell, quando ho dimprovviso abbandonato lo stile scherzoso con cui cerco di alleggerire i mattoni che propongo. Ho mandato allaria la traccia che seguo sui miei appunti, e mi sono ritrovato una volta tanto ad affrontare una questione veramente seria. Perch, mi sono chiesto, dopo tanti anni che ho dedicato a un autore dichiaratamente post-traumatico come Samuel Beckett, che ha vissuto insomma la sua stagione pi produttiva negli effetti della guerra (e dunque nel mio terreno di coltura), avevo sentito urgente il bisogno di ritornare a Joyce? E soprattutto perch, nel tornar vi, avevo provato qualcosa di assimilabile a un ordine del giorno? E poi, come mai a distanza di quasi un secolo ci era sembrato un po a tutti, s anche ai miei studenti, di essere a casa nelle pagine dellUlysses, e di incontrarvi inaspettatamente i nostri vicini, i parenti, gli amici, per non parlare dei personaggi televisivi, tanto da lasciarci cullare facilmente nel ronron dei loro discorsi? Comera possibile che questo accadesse per un romanzo scritto in buona sostanza durante la prima guerra mondiale, e immediatamente dopo, quando cio era gi perfettamente avvertibile, almeno per uno come Joyce, ci che si stava preannunciando per lEuropa, e per quello che, grazie alle sue crisi e ai suoi conflitti, cominciava a dirsi mondo? Devo confessar vi che in quel momento che ho sentito con forza quanto si fossero in verit esauriti gli effetti della guerra. Su quel discorso ci sarei tornato a proposito dellepisodio detto Circe, perch proprio in quel capitolo, con tutte le sue allucinazioni flaubertiane (siamo dalle parti della Tentazione di santAntonio, dove persino unallucinazione pu avere le sue allucinazioni) per alcuni commentatori si scavalla la mezzanotte, si lascia insomma il giorno qualunque oggetto del romanzo, e si finisce in quello dopo. La domanda non da poco, e attraversa interamente unopera cos poco letteraria come lUlysses: si tratta di stabilire niente di meno se il nuovo

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giorno, quello in cui si sarebbe risvegliato lOccidente, e suo malgrado il mondo, insomma il giorno successivo a quello magnificato qualunque dalla rivoluzione permanente dellarte (del discorso o della macchina da presa: su questo per davvero Joyce e Vertov procedevano a braccetto), si apra con gli sbadigli in indiretto libero dellepisodio successivo (Eumeo), cos come avranno sicuramente pensato i pochi lettori dellopera quando questa apparve nel 1922 (e i tanti di pi che lavrebbero letta solo dopo il secondo conflitto), o invece piuttosto nel frenetico delirio mondiale, patriottico, patrilineare, e cos esplosivamente letterario in cui, come scriveva a commento del capitolo Anthony Burgess (che pure di quei deliri ne seppe incarnare parecchi), quella regione di sogni aveva influenzato la realt. Qualcuno ricorder come si chiude lepisodio. Bloom, riverso su Stephen malmenato da un soldato inglese, proprio mentre crede di dar sguito a unimpossibile filiazione non patrilineare, ha unultima allucinazione: il figlio morto pochi giorni dopo la sua nascita, il piccolo Rudy, gli appare con let che avrebbe se fosse sopravvissuto, vestito con luniforme di Eaton (ah!) e con un libro in mano, che legge da destra a sinistra, come un rabbino, sorridendo e baciando ogni pagina. Rudy!, grida Bloom. Qui i commentatori solitamente si commuovono tutti, anche quelli infastiditi dallandamento alquanto sadiano dellepisodio: il figlioletto morto, che scena straziante, alla fin fine Joyce, spietato come appare, mostra un po di sentimenti! E invece no, riponiamo i fazzoletti. Bloom, lo sapete, un ebreo, nella cattolicissima Irlanda, e per questo tutti lo trattano con unavversione appena trattenuta ( lunico, ad esempio, che gli altri chiamano sempre per cognome); in quanto ebreo fuori squadra, ma lo due volte, perch un ebreo che ha rinunciato alla fede e alla sua letteratura (Rudy non stato nemmeno circonciso). troppo materialista, e persino troppo empatico, per credere a qualsivoglia messa-in-stato che non riguardi immediatamente il sistema gravitazionale (o se volete sessuale) dei corpi. E allora? Niente, si allucina il figlioletto, certo, ma questi non lo degna di uno sguardo, continuando piuttosto a leggere, vestito come un bravo rappresentante del sistema scolastico inglese, il suo libro che bacia come un bravo ebreo ortodosso, men-

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tre sorride vacuo, con indosso tutti i segni delle possibili religioni, dallesile bacchetta davorio allagnellino bianco che gli fa capolino dal taschino. Quelluomo-non-qualunque (che sa, lui s, che cosa veramente vuole una donna) aveva preso la decisione di delirare dallidiozia del discorso, e offrirsi come padre innaturale a Stephen, lartista che si era prefisso niente meno di risvegliarsi dallincubo della storia (e della letteratura) e invece gli appare un ultimo fantasma. Alla faccia del giorno qualunque del povero Bloom, la tradizione patrilineare si rinsalda, nella consegna della lettera (che fu della religione, e poi, una volta ridotta a quella cosiddetta di cambio, della letteratura). LEuropa non avrebbe in verit fatto altro. E via tutti a filare come sonnambuli!

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Che cos una forma davversione


[21 settembre 2010]

Ma via, mica tutta la letteratura si riduce alla saga di vampiri tormentati dallangoscioso dubbio se succhiare il sangue o schiacciarsi ancora i brufoli, se mai per una massa di adolescenti (o di lettori sempre adolescenti) ai quali, in tempo di crisi economica, neanche par vero di assicurare una vita da non-morti? [Diciamocelo: questi discendenti efebici di Nosferatu sono perfetti per il mondo che stiamo consegnando ai loro lettori. Improduttivi come il ben pi tenebroso progenitore rumeno, ma al contrario di costui capaci di procrastinare praticamente in eterno il consumo per cui sono nati]. Certo che no: il sistema letterario, per funzionare, deve ammettere per lo meno, lo accennavo nel precedente invio, una doppia velocit. E se riuscite a far svettare il capo al di l delle pile dei libri di successo, nelle megalibrerie la trovate pure da qualche parte quella letteratura che stato necessario di contro definire seria (ma il serio, suggeriva Lacan, il seriale), che poi quella di cui si occupano le pagine appena un po pi austere dei giornali, le trasmissioni radiofoniche da salotto, i tediosi telepremi e le estenuanti sagre cittadine. E non questo gi un segno, ne avessimo ancora bisogno, di come funziona il sistema letterario? C poco da girarci intorno, vampiri o non vampiri, si appartiene tutti alla stessa famiglia di morti viventi; e se il teenager stato per anni, gi allindomani della seconda guerra mondiale, il consumatore ideale, e a tutti stato chiesto di restare adolescenti nello spaccio delle merci (culturali o meno), ebbene in tempo di recessione, e di scarsit di risorse, fin troppo facile capire quanto sia il consumatore a dover essere consumato. Non si vendono libri nei megastore, ve ne sarete resi conto da un pezzo, ma lettori. E poi che cosa mai dovrebbe distinguere i libri impilati da quelli sdegnosi del loro isolamento? Le storie sono storie,

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tutte storie, e il modo in cui occorre raccontarle, per chi non pu che essere ridotto (neglintervalli pi o meno improduttivi) a mandarle gi a bocconi, finisce con lessere lo stesso. Un vampiro, un personaggio storico, un piccolo perverso o un malavitoso sono fatti della stessa pasta, che quella della grammatura (la crisi crisi) sempre pi inconsistente della carta. Qualcuno giustamente se ne rallegra, come fosse la fine, anzi il fine, di quel vasto processo di democratizzazione che la borghesia affid proprio al suo pi agguerrito mito fondativo, quello cio che doveva darle un nome. Occorre sottolineare la necessit di creare una letteratura destinata a un lettore veramente di massa, porre fine con maggior coraggio ai privilegi letterari dei pochi e, servendosi di tutti i risultati tecnici della vecchia arte, elaborare una forma adeguata, comprensibile alle vaste masse. Quello che avete appena letto non lesergo posto in testa allorganigramma di Segrate, ma la risoluzione del 1925 del Partito Comunista Russo (avevano allepoca i funzionari sovietici il loro bel daffare con le avanguardie, e ancora non si erano riorganizzati con la legge del taglione del realismo socialista). Il processo di democratizzazione letteraria, come vedete, dunque marxianamente inarrestabile; quello delle istituzioni sociali decisamente meno. Saremo pure, non dico di no, in unepoca in cui il capitalismo ha trionfato, ma per quanto riguarda la letteratura, al pari di ogni altro medium, possiamo da questo punto di vista stare tranquilli: tutto il potere resta ai soviet. Da cui volendo potremmo pure estrarre un corollario: ogni sistema mediatico un comunismo fantasmatico. E chiudere lintera faccenda con lenunciazione del teorema principale (quanto meno ai fini di questo discorso): il sistema letterario, per quanto a ragione rivendichi la propria primogenitura, oggi il settore minoritario dove si relegano le obsolete minoranze alfabetizzate ancora presenti in quello mediatico. Eppure, malgrado tutto, e forse pi che mai ora che con malcelato piacere ci sentiamo ridotti in pochi, ci costa per davvero fatica regolare una volta per tutte i conti con la letteratura e la sua promessa di spettrale (i vampiri sono a valle del processo, non a monte) promozione sociale. No, non rinunceremo facilmente al sempre pi generoso senso di appartenenza alla cerchia di intenditori cui si

ridotta quella repubblica delle lettere che per prima diede uno stato, un primo stato, a quello che invece da terzo raccoglieva una classe senza nome (e nume, e nomos). E perch mai dovremmo farlo, se vi sono anche ora feste e riconoscimenti per tutti? umanamente comprensibile, non dico di no, soprattutto adesso che appare tanto a rischio di declassamento la piccola borghesia che ancora ritiene di scorgersi riflessa nel sistema letterario, e che solitamente tenta le proprie modeste carriere corporative nei suoi interstizi ( una delle regole non scritte del libero mercato: pi si riducono i consumi pi si estende la filiera deglintermediari) o nelle rissose e massoniche quanto basta, e in proporzione alle caselle del Monopoli conquistate, consorterie universitarie. C un posto se vogliamo per ciascuno di noi nello spaccio dimmaginario del Sacro Romano Emporio, e nelle sue prebende posticce, e per molti di noi, quanto ai livelli di autoconsapevolezza, basta il valore aggiunto di aderire al vecchio medium tipografico per sentirci, e dichiararci, fuori dalla messa-in-stato barocca che di suo racconta unica la classe dei soggetti agli strumenti di comunione. Ah gi, noi mica ci si beve il cervello con la tv, noi si legge e si scrive libri... come se bastasse questo a fare di ciascuno di noi un bel tipetto sveglio, malgrado quanto sia stato istupidente nei secoli il ronron tipografico, e come abbia avuto origine la storia del romanzo, forma principe di quella che sarebbe divenuta la comunione borghese, dalla denuncia stessa del suo sonnambulismo (e a tempo debito, quando cio la parola romanzo voleva dire qualcosa di molto pi simile alle storie dei vampiri da cui partito questo invio). Quante volte ancora dovremo rileggerci il Don Chisciotte prima di venirne a capo? E per quanto tempo, ridotti in quelle che Lvi-Strauss defin non a caso parchi nazionali del pensiero selvaggio, eviteremo con cura di chiederci per chi mai, e a quale scopo, un noto quotidiano economico continui a pubblicare il suo inserto culturale ogni domenica? Non possiamo fingere di essere nati un minuto fa, nella serra dove continua a crescere stenta la letteratura, ignorando che i lettori abituali di quel giornale, i piccoli e grandi imprenditori nostrani cos come li consociano (e Dio se li conosciamo!), non degneranno certo di uno sguardo quelle pagine, nel giorno del riposo, non loro certo (che si sa che, come Marchionne, lavorano senza tregua, senza ferie e senza diritti), ma di Nostro Signore. E allora per

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chi, o per mettere in contatto chi con chi, quella testata continua a fingere, un giorno di festa dopo laltro, di non accorgersi dello scollamento che esiste oramai fra la casta imprenditoriale dichiaratamente (e orgogliosamente) postalfabetica e la piccola borghesia che, per non sentirsi proletarizzata, continua a dar vita a uno straccio di sistema letterario incistato in quello ben pi pervasivo, e a suo modo persino meno truffaldino, che chiamiamo mediatico? La faccenda assai complessa, perch via, lo sappiamo (altrimenti non stareste nemmeno a leggermi su un blog), un medium vale laltro, e tutti, dico tutti, si radicano nel discorso, quello cio del legame sociale in atto; e se facilmente verificabile che ci sono programmi televisivi di gran lunga pi narrativamente gratificanti dei romanzi che fanno come suol dirsi la media letteraria, altrettanto sotto gli occhi di tutti che in questione lintero sistema di condivisione di credenze che funge in ogni messa-in-stato da collante. Non importa con che mezzo sia detto, ci che deve essere detto, ma che sia detto. E se quanto deve essere detto non pu che essere la lallazione che ripete il nostro nome, fino a farci scivolare nel torpore giusto, allora importante che quel mezzo faccia di tutto per nascondersi, se mai dichiarando nellultimo sussurro, che proprio quello che ci mette a nanna, che di suo, ecco, quasi come se non ci fosse, dal momento che altro non si prefigge di riprendere, o raccontare, che la vera vita, nuda e muta come si dice essere, e pronta allincontro con le vaste masse. La tv verit vale da questo punto di vista il romanzo reportage; soprattutto la letteratura, ricordavano Deleuze e Guattari in Che cos la filosofia?, ad aver coltivato questo equivoco con il vissuto tipico della narrazione insieme crudele e lamentosa, piagnucolosa e soddisfatta del romanzo del giornalista. Di esempi ne abbiamo cos tanti, che non vale nemmeno la pena sprecarci fiato; lasciamo pure che lultimo (in ordine di tempo) teorico della letteratura in debito di ruolo se ne invaghisca, e andiamo avanti. Perch riorganizzare ad arte una qualsiasi porzione di mondo, anche e soprattutto quando lartificio nel dire che non c artificio, non mai un procedimento neutro. I segni, scrivevo sulla quarta di un saggio che ho dedicato qualche anno fa alla letteratura, sono sempre legami, e leggi, anche quando parrebbero messi insieme cos,

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per dilettare (e non c cosa che diletti di pi di una denuncia piagnucolosa e soddisfatta): ricoprono i corpi e stanno fa i corpi, e il modo in cui i loro reticoli ricoprono e stanno fra questi, determina la vita stessa di ciascuno di noi. I sociologi che si occupano di media definiscono, sulla scorta di Habermas, questo sistema di condivisione di credenze la sfera pubblica, e hanno buon gioco nel vederla espandersi la prima volta col diffondersi della stampa periodica (attenzione: sono esattamente gli stessi anni dellinsorgere del sistema letterario, che nasce appunto per un continuo e periodico scalzarsi di merci, non gi spettrali in questo caso ma spettralizzanti... perch in letteratura, lavrete capito, sono proprio i vampiri a essere in questione). Sullasse coprolalico che va dal flot de merde flaubertiano al copriright joyciano, ho preferito nel precedente invio sgonfiarvi il palloncino di questa presunta sfera in un pi marxiano, ma anti-edipico, flux de connerie, in quel flusso cio di stronzate necessarie a che si faccia comunit (e gestione dei ben pi importanti flussi del lavoro e della conoscenza) quando questa non pi garantita dallingerenza, diciamo pure classista, del sovrannaturale, che affidava nelle forme dispotiche di tipo asiatico a ciascuno il suo posto inalienabile nello sfruttamento delle risorse di questo mondo, e di quellaltro. Rileggiamocelo allora ancora una volta per davvero, il Don Quijote, e mettiamo pure da parte la macchina di spropositi scudiero-cavaliere che tanto ci diverte, per passare invece al vaglio i comportamenti di comprimari e comparse, tutti bravi lettori eh, e avremo sbito unidea chiara di come funziona, in un mondo amministrato che ha ricacciato Dio nel silenzio della sua solitudine appagata, la gestione comunitaria del flux de connerie che dovr ricadere infine su ogni singolo desocupado lector. Ma adesso vorrei invitarvi a rileggere lintera questione con un altro paio di occhialini, quelli particolarmente utili (data la situazione nella quale ci dibattiamo) di un economista contemporaneo. Naturalmente quando ne cito uno, lavrete notato, non ve li scelgo mai fra gli sparuti marxisti (o neomarxisti) rimasti a condolersi della barbarie, sarebbe facile gioco; anche se in questo caso non ho scomodato il solito ultraliberista di turno (con la crisi, capirete, sgomitano per raggiungere le

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poche scialuppe, piuttosto che ballare, come insistono a fare qui da noi, il ragtime, o la giga celtica, nel salone delle feste) ma un eclettico (cos si dice) dispirazione keynesiana, e dunque propenso a strategie basate sui tempi lunghi (cio su un minimo di pianificazione). Mi riferisco a Michel Aglietta, professore emerito di Paris X e grande studioso della moneta (del quale mi sentirei di esortarvi a leggere, se qui da noi lavessero tradotto, almeno il libro scritto nel 2007 con Laurent Berrebi, Dsordres dans le capitalisme mondial). In un suo recente intervento significativamente intitolato Arringa per una lunga storia, per giungere alla conclusione che lattuale capitalismo mondiale un confronto asimmetrico di politiche di potenza (eh gi: Alle gegen Alle) intermediato da interdipendenze finanziarie (a questo, di e di, si ridotto il facile mito della globalizzazione, una volta infrantasi in quella che forse verr ricordata come la rivoluzione industriale cino-indiana), il nostro valente economista si sentito in dovere di puntualizzare che cosa pu definirsi capitalismo sulla base dellinsegnamento della storia. E non , per inciso, gi un sintomo il fatto che uno studioso si senta oggi costretto a tornare a definirlo, il capitalismo che non conosce pi frontiere n contrasti? [Traggo questo saggio da uno dei volumi de Le Cercle des conomistes, organismo collettivo costituito da trenta docenti del settore per lo pi francesi ma di varia ispirazione, sebbene tutti assertori del libero mercato, che sta attualmente monitorando la crisi con estrema puntualit, riunendosi ogni anno a Aix-enProvence per dare alle stampe poi pi quaderni di lavoro. Quello in questione, nel quale mi sono imbattuto a fine agosto a Parigi, ha un titolo che mi ha fatto sobbalzare, La guerre des capitalismes aura lieu... e come se non bastasse, mi sono pure ritrovato di faccia, quando ho rigirato il volume per leggerne la quarta, questa battuta assai horrorshow, per dirla col buon Alex, attribuita al settimanale gratuito, ora divenuto un portale, conomie Matin: Un documento che occorre leggere. Non si potr dire: Non lo sapevamo. Brrr]. Per Aglietta il capitalismo, sin dai suoi prodromi nel XIII secolo, sempre stato al contempo globale e inserito in strutture sociali che costruiscono differenziazioni sempre rinnovate. Il capitalismo dunque trae il proprio dinamismo da queste differenziazioni (Deleuze e Guattari le avrebbero chiamate

riterritorializzazioni, conseguenti alle deterritorializzazioni dei suoi flussi, di loro globalizzanti ma solo perch in cerca di nuovi limiti da aggirare); risulta pertanto poco pertinente pensare a dei processi di convergenza verso una situazione ideale in cui il mondo intero diverrebbe omogeneo (che poi laspirazione nemmeno tanto segreta, ma favolosa quanto il mondo dei vampiri, del cosiddetto capitalismo anglosassone). In secondo luogo, occorre ricordare a chi ama dimenticarlo che il capitalismo e leconomia di mercato non coincidono. Il capitalismo una forza di accumulazione che innanzi tutto non si autoregola (addio invisibile intervento teologico) n mai converge su un modello ideale (addio rassicurante automatismo teleologico): lineguaglianza la sua essenza. In terza battuta, non vi alcuna indipendenza, n ancor meno primato, delleconomia, segnatamente perch la moneta un bene pubblico, e in quanto tale emanata (e dunque dipendente) da una sovranit. Il lavoro salariato, ne consegue, non pu ridursi a merce, essendo regolato da norme sociali che hanno radici nelle culture convalidate dalle sovranit dei singoli Stati. [Se il solito infaticabile Marchionne potesse delocalizzare in Cina, visto quanto uno stato dispotico asiatico divenuto capitalcomunista sa come trattare gli operai, lascerebbe i pazienti serbi fuori dalle fabbriche, mica solo i tre terroristi della FIOM di Melfi]. Risulta dunque evidente che nelle dinamiche a lungo termine dominano le istituzioni, non gi le strutture di mercato. Ma se a regolare linsieme delleconomia sono per davvero le istituzioni, non che al loro interno sintraveda un centro di potere (eh no, quello non si sa proprio dove trovarlo), quanto piuttosto quelle che Aglietta non esita a definire croyances collectives. Il bene comune dipende dunque da tali credenze che, se hanno la forza di divenire collettive, acquisiscono il ruolo (avrebbe detto Douglas North) di istituzioni informali che lo Stato via via incorpora in quelle formali, non certo al fine di acquisire ricchezza ma potenza. Le politiche di potenza insomma, attualmente come sempre sulla via del conflitto, traggono in verit linfa da quanto c di pi inconsistente (se, per fare un solo esempio, lideologia pi nociva sempre stata quella che si dichiara nientaltro che vera vita, nuda e muta; e se la forza reale di unegemonia, ricordava Jacques Sapir a proposito del cosiddetto, e gi vanificato, consenso di

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Washington, risiede nella sua capacit di mascherarsi). Un autentico flux de connerie in piena scorre dunque fra limpotente ricchezza delle merci spettrali e il potere miserabile (e alquanto vampiresco) della condivisione delle credenze. Si chiama immaginario (sin da quando ha disperso per la prima volta il suo calore, oh non da uno schermo, ma dalla catena di montaggio tipografica), e a furia di starsene fra i corpi, e non solo fra le merci (Marx, lo ricorderete, lo ha scritto assai per tempo), li ha rivestiti col suo bozzolo al punto che, a scavarci dentro, neanche pi il cacchione di un bruco ci troviamo, altro che angeli da sfarfallare postumani. Che cosa vuol dire? Che non c sistema mediatico, e dunque in prima battuta letterario, che non sia un intrattenimento (cio una messa-in-stato) attraverso cui mettere in forma le istituzioni che dovranno esercitare potere, e gestire dunque ricchezza. Voi siete qui, recitava come il piano di mobilitazione generale (o evacuazione) di una struttura un mio precedente invio, e anche se non vado errato (e mai titolo fu pi pertinente) un volume collettivo di prove di giovani scrittori. Ma proprio non riusciamo a capire a che cosa serve persino un settore in perdita, fatti salvi i soliti vampiri, come quello letterario? Credete veramente che le scelte editoriali siano, come vogliono farci credere, dettate dal mercato, e mettano dunque in questione la ricchezza? [Occorre vendere libri a palate, oppure niente!... gi, e dove li troverebbero mai i lettori giusti per ritornare almeno sulle spese, gli editori da caricatura in grado di pronunciare una simile battuta, con tutti i volumi che escono ogni anno? Non nemmeno pensabile che prevedano utili per ciascuno di loro]. Un sistema mediatico si configura in realt intorno alla raccolta e allo spaccio delle credenze collettive, e non ha dunque a che fare con la ricchezza, ma con la potenza (che regola e distribuisce la ricchezza). E come si ottiene potenza, se non beneficiando a pioggia, nel nome del bene comune, che il senso comune, i credenti delle credenze collettive con quelle stesse credenze collettive? Proviamo allora a guardare in azione, anche solo di volata, lintreccio di micropoteri che residua del vecchio glorioso sistema letterario, perch se state leggendo questo blog si suppone che il discorso vinteressi pi degli altri. Persino il pi esile dei lettori (se un anchorman di turno gli parler del libro che sta leggen-

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do, o che vorr leggere), o lultimo (a partire da me) degli scrittori (quando si trover citato a fine articolo con altri sette o otto anonimi cui regalare infine un nome), ne trarr il giusto tornaconto: il proprio posto nella credenza (spacciato per per il proprio posto nel mondo). Per non parlare degli estensori delle pagine culturali, cui manco pare vero di non sapere nulla, nulla che non sia risaputo, e di essere esigenti, come ogni buon parassita secondo una definizione di trentanni fa di Michel Serres. C insomma un posto per tutti, questo recita ogni credenza, e Dio non voglia non metterci il culo per tempo, con il rischio che te lo soffi un altro, tanto ciascuno di noi solo x valore di variabile ( lintroversione del sacrificio di cui parlarono in pieno sogno americano Horkheimer e Adorno), e Tizio vale Caio nel convulso blabla che funge da collante al sistema. Ma su questo occorre essere chiari: a nessuno di noi, persino a chi ritiene di possedere di natura o di astuzia una voce stentorea, assicurata la parola. il posto che ci stato assegnato che ci parla. Ed una voce che giunge dal profondo, coi suoi enunciati apparentemente nascosti, nel mentre si annaspa per restare a galla. Eccoci qua, potrebbe dire qualcuno, tutti belli e decostruiti a furia di rimorsi, ma sostanzialmente (come spesso avviene nelle decostruzioni) al punto di partenza! Tanto vale allora seguitare a occupare il proprio posto, anzi a occuparne quanto pi se ne pu, e prendere parola al momento opportuno, doppiati o meno, per trarne almeno un vantaggio, per noi stessi o per quelli in cui crediamo. la vecchia questione fra il farabutto e il buffone cara a Lacan, su cui prima o poi converr ritornare. Eppure un modo, non per sottrarsi a questa voce, ma per modificarla, cio modularla altrimenti, c, c sempre stato, e ogni volta che si manifestato ha avuto a che fare con quella che, in mancanza di altre definizioni, continuiamo a chiamare arte, a partire da quella del discorso, che forse la prima, e primitiva, formalizzazione che persegue un depotenziamento del flusso delle credenze collettive. Si avuto, e in parte si continua ad avere (basta dare unocchiata, in campo figurativo, al cosiddetto mercato dellarte), sempre un bel daffare nel riallinearla al sistema che gestisce la potenza: ma larte, se stilizza e ripete (come fa lartigiano a detta di Gombrich), non pu fingersi natura, come invece

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costretto a fare (se vuole essere tale) ogni sistema sorto a regolare e far circolare le credenze collettive chiamate a mettere in forma una sovranit (ogni credenza collettiva, se vuole essere creduta collettivamente, non fa altro che ripetere questo: io sono natura). Larte denatura e depotenzia, perch (per nostra fortuna) sempre degenerata, e finisce il pi delle volte, in piena assunzione collettiva di quanto opportunamente omogeneizzato, come un osso in gola. In che modo ottiene tutto questo, unopera dico e non un artista? Presentandosi per quello che : una forma davversione che si mette di traverso al fluire del senso comune. Un enunciato, diceva Deleuze commentando il metodo archeologico di Foucault, rimane nascosto se non riusciamo a elevarci sino alle sue condizioni di estrazione. Ma se unavversione prende forma e fa fluire via i discorsi di copertura lasciando, come una piccola diga, a secco lenunciato che si presume nascosto proprio l dove affiora dal profondo la voce che ci parla, allora facile scoprire come in ogni epoca tutto, anche ci che per convenzione si dice occultato, sia detto con estrema chiarezza. Una forma davversione mette in chiaro ci che, sulla presunta naturalit dove scorre opaco il sistema di credenze del senso comune, si staglia in verit chiaro. Non c nessun discorso da rivelare (cio, alla lettera, svelare e occultare di nuovo), su questo larte non ha mai avuto dubbi: tutto sempre sotto i nostri occhi. [Persino, che so, lApollo di Belvedere non per nulla unidealizzazione, che rimanda al solito mondo che non c che spesso si attribuisce (per depotenziarla) allarte, o lo per noi che ne abbiamo disimparato la lingua. piuttosto una forma che si mette di traverso alle sue credenze collettive per lasciare allo scoperto lenunciato del suo legame sociale. Da ci possiamo derivarne un utile corollario: non si fa storia dellarte, ma con larte]. Mi capitato, tanto per chiudere con il solito accenno personale, di presentare unanteprima del romanzo a nome del quale sto parlando in una sorta di meritevole libero seminario allUniversit (non in quella dove lavoro, ma in una di quelle della citt dove vivo). Dopo aver fatto ascoltare il file di una piccola porzione dellultimo capitolo (gi, Dai cancelli dacciaio apparir anche come audiolibro), ho intrattenuto un po luditorio sul caso Moro, citato in quel passo in pi di una

battuta, senza certo costituirne largomento principale. Nel giro di poco si creata una tensione stupefacente, come se in un silenzio divenuto persino un po drammatico stessi rivelando qualcosa di cui fossi a conoscenza solo io, se mai grazie allimbeccata di una non meglio identificata gola profonda dei servizi segreti deviati dellepoca, magari lo stesso Gerardo Quagliarone (che poco pi di una comparsa in quel romanzo, un vecchio entusiasta militante di Gladio riconvertito a cmpiti meno onerosi, che nel mondo zero, nel mondo in cui viviamo, vi assicuro che non esiste). Ora, io non che avessi attinto le mie informazioni sullargomento da chiss dove, n certo mi facevo bello delle rivelazioni un po gridate che appaiono in quelle pubblicazioni di successo che potremmo compendiare con titoli tipo La verit sul caso x, oppure Tutto quello che non vi hanno mai detto su questo o su questaltro; che poi il pi delle volte sono solo la gestione e il package dellacqua fresca. In verit non avevo fatto altro che controllare la bont della mia memoria (capirete che chiunque abbia vissuto quel periodo, lepisodio lo ricorda fin troppo bene) sulle ricostruzioni del caso a portata di tutti, quelle insomma che appaiono sui libri di storia generalisti e persino in una serie di siti consultabili in rete. Eppure devo confessarvi che io stesso ho sentito emergere qualcosa di angoscioso e nascosto, come se stessi rivelando chiss quale segreto che poteva mettere a repentaglio la mia stessa sicurezza, anche se in realt stavo solo ricordando quanto quel caso abbia sfiorato (pi o meno) i destini di tanti attori attuali della scena politica italiana, in uno schieramento come nellaltro. Malgrado gli ectoplasmi di una seduta spiritica da commedia allitaliana e i frammassoni incappucciati come in una risposta casereccia ai polpettoni spionistici degli anni Sessanta (eh gi, sembra quasi di sentirla la risata psicopatica che accompagna la solita battuta del grande capo dellorganizzazione: Diventer padrone di mondoooo), cose che insomma avrebbero dovuto indurre al riso, seppure amareggiato, laula dove si svolgeva quellincontro ha dimprovviso assunto un aspetto sinistro. La voce che mi parlava continuava a non essere la mia (era addirittura per scelta una voce pubblica, dal momento che mettevo in fila enunciati che non sono mica nascosti, e possono essere estratti da chiunque), eppure oramai era come se si modulasse con un timbro diverso, magari quello da basso buffo che ho attri-

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buito al povero Gerardo Quagliarone, colpito dai tagli di uno Stato irriconoscente. Cercher di far capire meglio il concetto uscendo dallaneddoto. Il personaggio gentile che vedete raffigurato nellimmagine che accompagna questo invio Alfred Deller, il pi grande controtenore del Novecento (vi parr strano ma anche la sua voce scorre nel romanzo). La sua una storia straordinaria, ed un peccato che nessuno abbia pensato di scriverne una biografia documentata (c un vecchio introvabile libro in francese, e poco pi), perch ha a che fare con la seconda guerra mondiale e lobiezione di coscienza dei cattolici inglesi (non di tutti: Burgess era nel Pacifico), con le bizzarrie del caso (che lo fecero imbattere, gi trentenne e privo di preparazione musicale adeguata, in Michael Tippett), con lesaltante storia del mitico Third Programme della BBC (che inaugur nel 1946 le sue trasmissioni proprio con unopera di Purcell interpretata dal nostro), con lo slancio dei grandi musicisti inglesi postbellici (Benjamin Britten gli affid il ruolo di Oberon nel suo Midsummer Nights Dream del 1960), con la lotta contro i pregiudizi (un cattolico renitente alla leva che canta con la voce di un castrato nellomofoba, anglicana e gloriosa Albione appena uscita dallabbraccio di Churchill e dal machismo bellico?), e soprattutto con la cosiddetta rinascita della musica antica e barocca (prima con le sue incisioni per letichetta Vanguard, poi, col figlio Mark e fino alla morte, con lindimenticabile produzione del Deller Consort per Harmonia Mundi). Ora Deller, per quanto scandalosa pot apparire allepoca la sua voce, aveva ben ragione a dichiarare che quella particolare tessitura esisteva in realt da sempre, e non aveva a che fare con la castrazione (o la scelta sessuale): in Inghilterra, in epoca elisabettiana e barocca (Purcell stesso si dice fosse dotato di una simile voce), si cantava cos, e gli unici castrati che calcavano le scene britanniche erano glitaliani. Anzi per Deller si trattava forse del pi antico tipo di voce umana, particolarmente pervasivo se, per dirla con Michael Tippett (che ne era incantato), nessun dettaglio emozionale pu distrarre dalla purezza della sua espressione. Gi, ma come ottenerla una voce cos apparentemente innaturale e macchinata, eppure malgrado tutto magari primigenia? Modulando altrove, ci ha spiegato pi

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volte lo stesso Deller, la voce del profondo, quella che impropriamente si attribuisce al petto (fino alla grande ostensione fallica del do di certi tenori che mandano in visibilio gli astanti). una voce di testa, quella del controtenore, poggiata sul diaframma (Deller si spingeva anche pi in l e lattribuiva... alla laringe? no alla faringe), un suono chiaro gestito tutto sul davanti, che impiega per risuonare le cavit del seno frontale. Non un falsetto, ribadiva, la verit di una voce sottratta alle profondit viscerali che sono di tutti, e modulata in modo che possa risuonare nella propria testa. Che cos allora una forma davversione, che faccia arte e non gestione delle credenze collettive? La macchina vocalica di Alfred Deller, mentre controlla non la voce profonda, che pure la incalza, ma le parole stesse che, se cantano, solo perch risuonano nelle cavit dove si mescola il pensiero.

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Honolulu baby!
[26 ottobre 2010]

La voce del profondo, quella che Alfred Deller incanalava nelle vasche di raffreddamento del seno frontale, canta in verit tutti i nostri tessuti, per questo vi si radica il comunitario (senza che vi si decanti il pensiero). Le prime forme di socius sono prelinguistiche e irriflessive, e dunque non meravigli che lo strato profondo di ogni forma sociale evoluta sia sostanzialmente sovrarazionale. Se qualcosa ancora ci individua, ma senza parlarci, questa voce, modulata ma non articolata. C insomma una fase nel processo di ominazione che precede la parola (e dunque linstaurarsi di una coscienza di ordine superiore, per usare la teoria della selezione dei gruppi neuronali di Gerald Edelman), ed gi di suo una forma davversione, una tecnica, o unarte. Questa voce che risuona di noi, e con noi, canta in verit il divenire-altro dellorganico che presiede nelluomo allartificio primigenio, che in realt una prima grande degenerazione, o trasformazione contro natura. Non il linguaggio, ripeto, che di suo la degenerazione di una degenerazione, se mai il suo antecedente neurale (persino Edelman lo presuppone), vale a dire listituirsi nella massa appetitosa che siamo, quanto meno a restarcene nel posto che ci assegn la natura, di una voce modulata che non della famiglia cui appartiene la specie, come ci dimostrano i nostri oramai lontani (quanto meno per estensione vocalica) parenti mammiferi. Ragliano, ruggiscono, grufolano, latrano, i membri della nostra famiglia affamata e infoiata, per lo pi in modo intraspecifico, per ribadire cio agli appartenenti della stessa specie lestensione del proprio corpo, che la pelle nemmeno contiene se sidentifica in verit con una camera deco (alimentare o sessuale). Il verso che emette un mammifero (perch solo ci che sonoro, e pu dunque vibrare nel corpo altrui, sottrae lam-

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biente al mlange di segnali olfattivi che lo rende promiscuo e indifferenziato) gi in qualche modo territorializzante, ma solo nel senso che ci che (per un vezzo antropomorfico) definiamo territorio in realt per lindividuo della specie (che lo perimetra e riecheggia con il suo verso, e per il suo verso) nientaltro che il suo stesso corpo, che assimila e si riproduce. Lindividuo di una specie, e a maggior ragione se sindividua nel branco e con esso si muove, si estende fino ai limiti dellappetibile: il suo verso si alza, identico a se stesso (nessun mammifero va al di l delle poche modulazioni speciespecifiche di presenza, minacciosa o disponibile che sia), per fare corpo con quanto risuona. Per gli animali provvisti di quella che Edelman ha definito coscienza primaria (alla base del presente ricordato grazie al quale un individuo occupa con qualcosa di paragonabile a un s decrittante la scena fenomenica), la prima possibile territorializzazione di un ambiente limmissione del proprio percepire il tempodel-ritorno (mangiare-e-scopare qui-ora, come l-allora) nello spazio che diviene in tal modo tuttuno col corpo: si tratta dunque di unincorporazione, non di una vera e propria territorializzazione. Di contro, e per chiarirci sbito, un corpo si riduce, come in noi si riduce, allesiguit dei limiti della pelle (dimenticando insomma quanto sia corpo, e proprio corpo, il cibo, e quanto lo sia il sesso) solo se contenuto in una parola. Il linguaggio, neanche a dirlo, stratifica il socius perch de-sala gli appetiti (nel doppio senso che toglie loro il sale, o trappola olfattiva, e disperde limmediata localizzazione), e cos facendo scorpora un territorio dalla prima occupazione dellambiente. Perch sinstauri un territorio, e non un corpo camera deco, occorre in realt non contarsi al suo interno. Ma prima che questo avvenga, e perch questo avvenga, quel verso che estende il corpo in una riserva dellappetibile, dovr subire la torsione che possa mettere lanimale in condizione di integrarsi (e dunque sparire) in niente di meno che un complesso ambiente sonoro: il verso insomma deve farsi richiamo (cio un doppio verso, che si presenti solo annullandosi), per divenire al dunque interspecifico (ecco larte che sfonda i limiti della specie, e degenera). Non un affare da poco, per un animale, si tratta di ricono-

scere nellambiente una molteplicit di corpi sonori (piuttosto che di transiti olfattivi), e dunque ben altro che appetito e foia; per acquisire infine la consapevolezza di non essere a propria volta che un corpo sonoro (o personaggio ritmico), in grado di risuonare nel verso dellaltro. Quando alcuni dei primati hanno cominciato a modulare la voce, avvezzando dunque il proprio corpo a vibrare in tanti modi diversi (e non nellunico modo in cui solitamente si presenta, con il sussultare sul posto del suo verso, un mammifero), sar stata non dico di no la necessit che spingeva a penzolare fra gli alberi, e poi a discenderne, ma appare fin troppo evidente che si comp in loro unautentica scelta artistica, che neg loriginaria appartenenza, e rinneg la famiglia. Gli ominidi hanno cio cominciato a modulare il loro verso (di suo un paio di suoni gutturali e nulla pi), carpendo fuori di loro, e del loro gruppo, la voce del profondo, nel momento in cui hanno studiato, cio mutuato, imitato e adattato, il ritornello di quella grande macchina evolutiva che non a caso ha continuato a incantare tutti i biologi che si sono incamminati a ritroso sulla strada dellominazione, da Darwin a Ernst Mayr [di cui vi suggerirei, se questo discorso un po vintriga, di procurarvi al pi presto lappassionato volume che questi ha pubblicato addirittura centenario, Lunicit della biologia, perch vi assicuro che vi dir qualcosa di molto importante, persino imprescindibile, sullo statuto della scienza dei nostri anni]. E questa macchina evolutiva, che Hitchcock non a caso convoc per la nostra apocalisse, sono ovviamente gli uccelli. Questanno che volge al termine, fra i tanti inevitabili anniversari, avremmo dovuto contemplare (ma non mi risulta che sia stato fatto) anche il trentennale di una delle opere pi stimolanti e complesse, peggio interpretate, e almeno in Italia pi violentate e disperse (anche grazie al consueto pressappochismo editoriale), apparse nellultimo scorcio del secolo trascorso: mi riferisco a Millepiani di Deleuze e Guattari (ai cui intenditori non sar sfuggito quanto deve lattacco di questo invio). Ora, per gli Stan Laurel & Oliver Hardy della filosofia (come amava definire quel duo lo stesso Gilles Deleuze) il ritornello, proprio a partire da quello degli uccelli, essenzialmente un agencement territoriale [la vulgata

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italiana suona concatenamento; propongo invece qui, perseguendo letimo del termine francese, che viene da gent, e dunque dal latino genitus, il ben pi barocco congegno, su cui pure occorrer dire qualcosa]. Perch ci possa essere dunque un congegno territoriale, occorre non solo marcare un territorio con un ready made (con qualcosa insomma di trovato, e messo a disposizione della degenerazione che lo trasformer in artefatto) ma entrare altres nella modulazione dellintero territorio; sar dunque necessario che lanimale territorializzante riconosca le marche interspecifiche (ben oltre le tracce olfattive dellappetibilit), non solo quelle intraspecifiche, e si predisponga dunque, come fanno quegli uccelli che imitano anche i richiami altrui, non tanto ad abitare ma a sfruttare un paesaggio sonoro. Lespressivo precede senzaltro il possessivo, ma solo a patto (come accade appunto agli uccelli che prima di esprimere il proprio richiamo si sintonizzano con quelli di altre specie) di impossessarsi della nota con cui un altro fa risuonare il proprio corpo, e gli altrui.
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Se vero che il linguaggio un parassita che ci viene inoculato, ed gi dunque nel suo nascere discorso sociale (cio discorso dellaltro), altrettanto vero che perch questo emerga, imponendo dunque costituzionalmente la disposizione ad accogliersi nellaltrui, gli ominidi hanno dovuto per generazioni (primancora di sviluppare i volumi della scatola cranica, per poi territorializzare le aree dette di Broca e di Wernicke) forzare contro natura (e dunque forgiare) il tratto sopralaringeo, per accogliere letteralmente nel proprio corpo unaltra specie. E non una forzatura di poco conto: loggetto trovato del ritornello degli uccelli non difatti solo emissione di un verso pi modulato, ma il transito in verit di un suono che impone un continuo cambio di postura (e dunque il lento instaurarsi di un verbomotore, per dirla col gesuita Marcel Jousse), che a sua volta ingenera limprevisto effetto collaterale che rimodella il muso. Nasce insomma prima del linguaggio la voce del profondo (viene sempre prima larte, poi si trova lartificio), e ci accorda a un ambiente sonoro facendoci un po per volta degenerare dalla specie. Possiamo anche non crederci, e continuare a cercare ogni volta quello che abbiamo gi tro-

vato: ma nel processo di ominazione luomo fortunatamente ha rinunciato a se stesso, senza nemmeno attendere la presunta illimitatezza della tecnica, o i cantori del postumano. Luomo, dunque, comincia la sua discesa rinunciando alla sua bella pienezza da mammifero (quella insomma del verso che incorpora), per innestare invece sulla sua stessa mutilazione di animale-in-meno quellaltro che gli ha consentito di sottrarsi allambiente (imitare un paesaggio sonoro equivale a nascondersi al suo interno): una territorializzazione, al contrario di unincorporazione, non estendersi in un ambiente ma uscirne una volta per tutte per possederlo (ecco perch la stessa spinta che fa un territorio prima o poi lo deterritorializza... altro che essere, e poi abitare: si tratta dimparare ad avere, e rinunciare). La voce altrui che risuona lominide, lo fa solo a patto di negarlo alla sua famiglia. Non un caso che lorigine delluomo, che poi la nascita del simbolico fra orecchie e muso, esattamente con questultimo che ha a che fare; perch quando questa voce altrui giunge a riprogrammare la bocca che risputa via con laria laltro (os, appunto), a furia di impetrarle nel suo transito smorfie, la rende (o concia) viso ( esattamente la viseit di cui parlavano Deleuze e Guattari). solo a patto che avvenga tutto questo (quando lominide si predispone cio addirittura con il proprio corpo allaltro), che emerge il parassita del linguaggio (che, volendo, aveva ragione Deller, corrisponde esattamente allo sforzo di portare la voce del profondo a risuonare nel seno frontale). Nasce prima una voce che possiede (un richiamo), poi un pensiero da possedere (un richiamarsi). Il linguaggio, insomma, se non proprio delluomo, lo in un modo pi impalpabile (quanto lo sono solitamente i media) di quanto non lo sia a sua volta la voce del profondo, che ha finito difatti col radicarsi nel corpo (un essere umano cresciuto al di fuori di un contesto sociale, lo sappiamo, non sviluppa alcuna facolt di parola... la voce invece s, e con tutta la sua estensione e possibilit di modulazione, perch lampiezza della scatola cranica oramai quella). Luna il fondativo innesto inorganico, laltro il primo medium (non c medium senza supporto, e non c supporto che non sia

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una modificazione innaturale del corpo). La voce del profondo, levenemenziale (da un punto di vista evolutivo) divenire-uccello delluomo, fa volare via, in un unico battito dali, la specie dallambiente, e lominide dalla sua famiglia animale. Quando giunge il linguaggio, da sbito come un parassita da inoculare e da tenere in vita per la vita, organizza in realt in una flottiglia aerea una specie altrimenti condannata, come tante altre, a strisciare sulla terra. Il linguaggio allora in realt lestraneo comunitario, o se volete lextracomunitario, che deriva dalla messa in comune della prima forma davversione con cui ci si sottratti allambiente. questo il paradosso che, ridotti dalla voce del profondo in aborti di animali (luomo lunico essere vivente che nasce incompleto), ci raccoglie nel linguaggio: siamo condannati a trascorrere, ventriloqui come siamo, tutta la vita con un estraneo, che non solo presiede al completamento del nostro sviluppo, ma che poi si arroga anche il diritto di parlare i nostri pensieri, sotto i quali si confonde una specie di nota continua, tecnicamente un ostinato, che ripete senza tregua: vai, vai, vai.... Lo diceva con la solita encomiabile orchestrazione di sussurri Samuel Beckett: donde / la voce che dice / vivi // da unaltra vita. Facile che, alla prima cosa che non va, si finisca col sentire voci. un po la nostra condanna, dicevo; solo che, se questa non ci venisse com giusto comminata, non avremmo mai ultimato la nostra discesa, che ci ha ridotti (o magnificati) in un animale sottratto e un parassita, con qualcosa di mezzo a far da tramite. Da questo punto di vista, come specie, abbiamo per davvero fatto del nostro meglio (non staremmo altrimenti nemmeno qui a raccontarcelo). Ci siamo evoluti... nel superuomo? No, in due mezze cose con linterfaccia. Siamo tutti poveri diavoli, due-in-uno, e per fortuna. Oh certo, lho presa molto alla lontana, come fanno solitamente i romanzi, visto che qui a un romanzo che presto voce [da cui desumo il solito corollario che non mi faccio mancare mai: il romanzo, rispetto a ogni altra forma di narrazione, ci che prende tutto alla lontana]. Pure era esattamente di questo che volevo parlar vi: della necessit, per adempiere qualsivoglia forma davversione, per fare insomma arte, dinscenare questo mito dellorigine, e continuare dun-

que il processo di mutilazione (propria) e innesto (dellaltro). Ci che funziona, come sa ogni coppia che (non) funziona, non la coppia, ma quella macchina che sinceppa, e non riesce proprio a farla, la coppia, se non a patto di guastare (luno e laltro), innestare (nelluno limitazione della voce dellaltro) e infine mettersi terza. Stanlio & Ollio e lukulele, per intenderci, se ricordate quella formidabile sequenza del ritorno a casa dei Figli del deserto. Ne avete un bellesempio nellimmaginetta che ho allegato allinvio. Luca Sossella, che vi ritratto in compagnia del prestavoce di questo blog, quando lha vista, e dunque in quella stessa occasione (che era unallegra quanto sostanziosa tavolata nella fondovalle del Noce), ha commentato qualcosa del tipo: Ecco cosa fa leditore! Guarda lautore che guarda il mondo. Questa battuta ve la dice lunga sul carattere generoso di Luca, sullentusiasmo che profonde nel suo lavoro, e su quanto sia solito essere affettuoso (perch solo chi sa, sa dispensare affetti) con gli amici. Perch, lo vedete da voi, io non sto guardando il mondo (cos come sono, e senza calzare gli occhiali di Quevedo, o di chi per lui, non sono letteralmente nelle condizioni di farlo). Si resta chiusi nei limiti della propria appartenenza, senza nessun possibile due-in-uno (senzarte, dunque, n ovviamente parte), se non sinnesta la macchina che possa sottrarre allambiente promiscuo dove tutto godimento che appaga. Luca su di me che converge lo sguardo, fuor di dubbio, mentre io guardo... semplicemente la macchinetta che, condannandoci allistante da cui ci ha liberato, ci ha letteralmente ripreso per quello che per lei siamo: il sotto-sottoscrittore (o sottosotto-scrittore), leditore (o editr, talvolta persino nei nostri frizzi epistolari edi-tour, visto che solo un editore pu far viaggiare) e Dacandacc (come eravamo soliti fra di noi chiamare, non tanto lopera, ma il progetto che ci riguardava). Perch fare questopera ha voluto dire per ciascuno di noi rinunciare da sbito alla compartimentazione del lavoro, tanto efficiente quanto ottusa, che garantisce gli attuali prodotti editoriali, e ripensare un po al ruolo di tutti gli attori di questa strana messa in scena. Dai cancelli dacciaio uscir fra qualche mese nella sua brava bara tipografica, in cui abbiamo pure deciso di lasciar cinguettare un po di voci, come

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non a caso pensava si potesse fare Leopold Bloom mettendo un grammofono su ogni tomba; ma nato in realt con unaltra modalit, che ha fatto s che io e Luca, e io-e-Luca e i sottoscrittori, facessimo sempre due-in-uno, per tutto il tempo in cui lopera ci ha accomunati. E giunge finalmente loccasione di spiegarvi, in un inciso, come mai questo blog sia chiuso ai commenti. Nellunica occasione in cui per errore rimasto solo per un giorno aperto, qualcuno celato dietro il divertente nick di Coscienza Remota (che poi di suo, se ci pensate, sarebbe una bella definizione di rete), a fronte di quanto si argomentava in quellinvio (era il secondo, quello intitolato Saluti dal Sacro Romano Emporio), non ha trovato di meglio che fregarsene del tutto dei suoi contenuti (e dire che si affermavano cose che potevano senzaltro essere ribattute), per porgere, direttamente a me (non al luogotenente di una narrazione), una domanda di questo tipo (traduco a parole mie perch non ricordo lesatta formulazione): Che senso ha pubblicare un romanzo che, con le sue uscite a fascicoli, dichiarava di prendere a bella posta distanze dalle modalit della vecchia editoria? [Sottinteso: Sento puzza di mercato e del sistema letterario che dici di rifiutare. Ti ho preso in castagna!] Ecco: uno dei motivi per cui questo blog non vuole commenti che, nella maggior parte dei casi, questi non si attagliano mai a quanto l esposto (e che dovrebbe essere in realt largomento da dibattere), ma chiamano in causa direttamente il Pinco Pallino di turno che ha scritto linvio. La personalizzazione , come si sa, solo la miccia, dopo di che il flaming fa il resto, e si finisce in un baleno a congiungersi al coro di reciproci insulti che fa da tempo la trama discorsiva di questo disgraziato paese. Di esempi ne avete quanti ne volete. Ma non basta. Talvolta alcuni amici si divertono a segnalarmi linfuriare di qualche polemica in rete che mi riguarda (non sono mai riuscito a capire perch nei cosiddetti blog letterati si parli sempre con estrema veemenza di Tizio e di Caio, il pi delle volte senza nemmeno averne letto le opere, e basandosi per lo pi su quanto ne dice il primo soggetto supposto sapere in transito). Ho scoperto delle cose su di me divertentissime. A detta

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ad esempio di un Tizio assai determinato, sarei il dominus (?) di Alias (??) e avrei pertanto lanciato (???) Saviano (????). Ho letto e riletto il nome e cognome cui si attribuiva tutto questo, e ho anche controllato in rete se non ci fosse un omonimo che potesse vantare una simile capacit dintervento sui salotti letterari italiani (i miei sospetti sono allora caduti, memore della definizione cara alla cultura tedesca di letteratura culinaria, su un tale Gabriel Frasca, chef italoamericano a quanto pare assai sulla breccia). Un altro invece, parlando di traduzioni, magnificava la prima versione nella nostra lingua di Molloy (che si deve a Piero Carpi de Resmini), sentendosi in dovere di aggiungere: nulla a che vedere con la brutta traduzione di Gabriele Frasca. Su questo devo amaramente concordare con lignoto critico: la mia versione di Molloy la peggiore che ci sia, visto che non c (purtroppo non ho mai tradotto questo straordinario romanzo di Beckett). E via cos. Ora, capirete, che per il tipo di prodotto che volevo offrire ai lettori del blog, cio quattro chiacchiere su quanto emerso in sette anni di lavoro (perch un romanzo, per come la penso io, dopo aver preso tutto alla lontana, o converge attraverso la sua macchinetta sul mondo, o si limita a dare una sgrassata ai fornelli di casa), non mi andava proprio di scivolare sul livello personale, con il rischio di passare tutto il mio tempo a rintuzzare il sentito dire su un nome e cognome di cui io stesso, come tutti, non so che farmene. Quelli che state leggendo, ve ne sarete accorti, sono alcuni piccoli saggi di accompagnamento a unopera, o se volete le sue vasche di decantazione; il che vuol anche dire che quando il romanzo apparir nella sua veste definitiva, questo blog non avr pi ragion dessere, e chiuder. Se ho accettato di animarlo, per proseguire liniziale sforzo comunitario dei Cancelli, sfruttando questa volta la caratteristica a mio parere pi interessante della comunicazione in rete, vale a dire la modalit copyleft. Tutto a portata di tutti (ma a patto di cercarlo), e del libero rifiuto di ciascuno... come nella vita. Quanto poi alla necessit di cercare qualcosa, piuttosto che trovarla gi preconfezionata, ciascuno la pensa come gli pare. Chi cerca trova, certo, e chi trova senza cercare, vuol dire solo che se l cercata. E torniamo dunque al funzionamento del due-in-uno, perch, una volta formulata la domanda, mi sento comunque in

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dovere di una risposta alla Coscienza Remota. Avevo gi ultimato la prima stesura dei tre capitoli iniziali (il romanzo era insomma nato per i fatti suoi, ma vi assicuro che se non avesse per tempo incontrato i fatti altrui non avrebbe mai assunto la forma che ha adesso), quando ne parlai a Luca, fra Piazza del Popolo e Villa Borghese se non vado errato (ricordo una serata assai ventosa, e con improvvisi scrosci dacqua, ma avevamo comunque voglia di passeggiare). Non so letteralmente cosa si debba a chi (quando un editore intelligente e un autore chiacchierano, e non che cpiti poi spesso, finiscono con laccendersi reciprocamente), ma nel giro di unora era nato il progetto, cos come poi si realizzato. Lidea di partenza era quella di riattraversare, in piena crisi della cultura tipografica, la nascita del romanzo (del novel in realt), e di provare a ripercorrere la trovata con cui Laurence Sterne si prefisse assai per tempo di aggirarne leffetto sonnambulico (per quanto possa apparire strano, Sterne, perfino indossando la sua maschera buffonesca di Yorick, restava un uomo di chiesa, e si prefiggeva sul serio di salvare anime): quella cio di adattare alla grande macchina del riconoscimento borghese le modalit della neonata stampa periodica. Il Tristram Shandy, lo sapete, adott da sbito (come avrebbe fatto il Sentimental Journey, se la morte dellautore non avesse lasciato lopera al palo della prima uscita) questa precisa tecnica periodica, a orologeria se volete (per lo meno quanto la pendola copulativa di pap Shandy), mettendosi in viaggio in realt non nella consueta bara tipografica (non in bigger books, per dirlo con le parole stesse del nostro reverendo) ma in agili fascicoli (cinque per lesattezza, apparsi fra il 1760 e il 1767). Le conseguenze di una tale scelta, a pensarci, ci appaiono (e ci apparvero quando ne ragionammo) ancora strabilianti: innanzi tutto Sterne aveva cos dato vita a una comunit in diretta, per dirla alla Benjamin allordine del giorno, in cui tutti i suoi lettori avrebbero letto la stessa porzione di testo pi o meno nello stesso lasso di tempo, finendo cos letteralmente col chiacchierare non solo con il loro autore (da cui la grande, divertentissima orchestrazione di apostrofi, riferimenti espliciti e puntuali chiamate in causa del Tristram Shandy) ma anche fra loro stessi (la stampa periodica, che concentra i suoi lettori in un numero, cio in uno

stesso periodo a termine, non mette in comunicazione soltanto ciascuno di loro col magazine, ma crea unautentica comunit di informati sui fatti in grado di interagire con se stessa). Ma la cosa che forse ci stup di pi fu comprendere che la nascita di una tale comunit non poteva che fondarsi sullassunzione di responsabilit da parte di tutte le parti in causa, in un senso fra laltro del tutto diverso dalla distribuzione dei ruoli degli attori del sistema letterario: lautore simpegnava a scrivere per rispettare il suo (eh gi) gentlemens agreement con il lettore (non con leditore), leditore sottoscriveva un contratto con i lettori (invece di mettere sotto contratto lautore). E i lettori? Divenivano addirittura i committenti, sottoscrivendo lopera ancora in fieri con un atto di fiducia, che equivaleva una volta tanto a dare credito, invece di richiederlo. Un lettore non in debito didentit, ma in credito di conversazione, neanche a dirlo, non lo incanter nessuno. Quando dunque abbiamo scelto di ricorrere al sistema delluscita a fascicoli e delle sottoscrizioni per Dai cancelli dacciaio, adattandolo ovviamente allattuale tessuto mediale (la sottoscrizione poteva avvenire anche in rete) e alla necessit di superare la forma libro (si potevano sottoscrivere non solo i fascicoli ma anche i file audio con la lettura ad alta voce del romanzo), non solo eravamo consapevoli che non c innovazione che non proceda come un gambero (si fa sempre un passo indietro quando si vuole fare un salto, lo insegnava il vichiano McLuhan con le sue tetradi), ma anche che in realt perseguivamo un fine dichiaratamente politico, e dunque in uno economico e culturale. Ci eravamo proposti, almeno per quella occasione, di far saltare lintera catena di intermediari dellindustria del libro, agenti promotori distributori recensori e quantaltro, per provare a puntare immediatamente, in un sistema di irresponsabilit illimitata qual quello del mercato, proprio su quanto non viene pi richiesto ai soggetti al consumo: non dunque affiliarsi a un progetto esistente, al quale aderire semplicemente consegnandosi, ma costituirne attivamente uno. Il mercato del libro, del resto, lo sappiamo quanto sia drogato (potrete anche non crederci, ma una sessantina di sottoscrittori sono bastati a rientrare nelle spese...), e ci sembrato dunque

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salutare offrire a tutti (perch la sottoscrizione era aperta a tutti, non certo a un pubblico eletto... poi naturalmente c chi ha accettato e chi no) la possibilit di stringere direttamente un patto con lautore, attraverso un editore. Il fine (politico) era dunque quello di risarcire la solitudine programmatica che la cultura tipografica ha imposto sin da sbito al lettore, pur di individuarlo (ahim nel doppio senso) e dargli un nome. Lidea, insomma, stata quella di provare a creare intorno a un progetto narrativo una sorta di rete neuronale, una specie di organo autosufficiente in grado poi di agire anche senza, e al di l, dellopera in questione. Non ho idea di che cosa ne abbiano in verit ricavato i nostri sottoscrittori, ma so per certo che molti di loro si stanno ponendo questioni, talune persino capitali, che in Italia ora come ora passano sotto silenzio. Per quello che mi riguarda, gi un bel successo. Quanto alleffetto di questa modalit di diffusione, e di scrittura (dal momento che lopera stata allestita letteralmente in diretta per questa comunit), ritengo che lesperienza sia stata addirittura entusiasmante. Ci che un tale sistema garantisce a un autore (che non lo , non lo gi, ma si fa autore, e letteralmente un fascicolo alla volta, e solo se si fanno i lettori sullo scorcio deglincavi che lopera predispone loro), al di l della piacevolissima sensazione di sentire lo sguardo di chi legge, proprio lapplicazione del metodo conversevole, tanto caro a Sterne, a tutto campo. Le digressioni, diceva il nostro reverendo, sono la vita e lanima della lettura, ma non perch ritardano, badate bene, la risoluzione di una storia. Ogni digressione innanzi tutto sentire la presenza dellaltro, e come se non bastasse consente lemersione di sempre nuove superfici di mondo. La natura conversevole della prosa narrativa che pone allinterno delle proprie strategie la presenza dei lettori, predispone insomma un organismo romanzesco ad assumere senza esitazioni quello che dovrebbe essere la funzione stessa dellarte del discorso: la despecializzazione dei linguaggi. I vari specialismi che costituiscono il brulicare dei discorsi di unepoca (e della nostra, assai parcellizzata nel suo sapere, in particolare), nel rifuggire ogni possibilit di fare sistema che nascondono la propria matrice ideologica. Larte deve invece parlare tutti i

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discorsi del mondo, se per davvero si pone ancora il problema (che storicamente, e antropologicamente, il suo problema) della sopravvivenza di una comunit. Ebbene una piccola comunit intorno ai Cancelli nata, e nascendo ha dato vita allopera (perch si pu sfruttare ad altri fini, prendendo in prestito il bootstrapping con cui funziona secondo i neurobiologi il cervello, limplicazione reciproca alla base della tautologia del sistema letterario). Quando il romanzo apparir come un bigger book, si presenter di fatto come il lavoro (o il lavorio) di questa comunit in attesa di dispiegare ulteriormente il suo foglio genetico. Gli attori resteranno insomma gli stessi della prima messa in scena (a partire dal fatto che sar sempre Luca Sossella a editare lopera, sempre il nome e cognome che fa capolino in questo blog a contrassegnarla, sempre lelenco dei sottoscrittori a controfirmarla). Eppure da sbito vi sinnester un ulteriore altro, un nuovo due-in-uno insomma, perch alla copertina (e a quattro disegni previsti a fare da sutura ai fascicoli) sta giusto in questo periodo lavorando unennesima pseudocoppia, cyop&kaf (www.cyopekaf.org), un duo di guastatori mediali (o graffiatori o writers) che molti di voi magari gi conoscer (ma su cui mi propongo di tornare in uno dei prossimi tre invii). Ecco, infine, che cos etimologicamente un congegno [il sostantivo in questione, lo sapete, abbastanza recente, visto che emerge in pieno Barocco probabilmente dalla congiunzione, come nelle macchinette due-in-uno che ho cercato di descrivervi, di due azioni distinte e inseparabili: ingegnare, far cio nascere al proprio interno, e combinare, vale a dire unire a due a due]. Quando lopera assurger alla sua ultima veste tipografica (e digitale, visto che sar anche un audiolibro), il congegno, questa paziente zecca, si metter in attesa dei corpi giusti. Perch poi si propaghi, non varrebbe nemmeno il caso di ricordarlo, occorrer pagare. Ed ecco che minfilo io stesso nella castagna! Come autore, fascicolo dopo fascicolo ho pagato il mio debito; Luca di suo, passando a questo ulteriore livello, come se non bastasse quanto ha gi investito, continuer a pagare (carta, stampa, redazione, promozione, diffusione e quantaltro). I sottoscrittori, neanche a dirlo, lhanno fatto da sbito.

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E i lettori? C una quota associativa, quella che troverete scritta sulla quarta di copertina, ed un prezzo che non si pu aggirare. Magari nei supermercati troverete libri e dischi per quattro soldi; il che vuol dire che troverete soltanto quello che stato messo l a cercarvi. La musica si scarica, ed un bene; ma si tratta di musica che ci ascolta, non di musica che ascoltiamo, perch, lo sapete, con la politica dei grandi numeri possono sopravvivere solo gli autori di cassetta, e rischieremo prima o poi di ascoltare tutti la stessa roba (a meno di non tornare ad ascoltare roba vecchia). Chi non disposto a pagare, nelle faccende dellarte, che sono quelle della comunit, vuol dire che appagato (buon per lui, vorr dire che se la gode). Quanto a me, lo sanno i miei editori, non riscuoto mai i diritti dautore (per modesti che siano), li reinvesto in iniziative editoriali. Io lavoro, per vivere; e se dunque scrivo, non per vivere, ma per vivere oltre. Ci che paghiamo, ogni volta che acquistiamo un prodotto non uniformato, la possibilit che ci sia qualcuno che continui a produrlo e a farlo circolare. Non siamo nel paese di Bengodi: la libert non ci aspetta nel suo gregge, si paga. Nel febbraio del 1974, giovane ed emozionatissimo, ero al concerto dei King Crimson. Dur unora e mezza di continue sorprese (qualcuno di voi ricorder che quella formazione era unautentica macchina da improvvisazione), e per me, che ero letteralmente con le lacrime agli occhi, fu quasi un fenomeno di conversione (capii per esempio quanto fosse necessario acquisire le tecniche, per poter essere in grado di aggirarle, o prenderle in giro). Il concerto, come quasi sempre in quegli anni, fu preceduto dagli scontri fra la polizia e chi cercava di entrare senza biglietto, nel nome di uno slogan allepoca molto in auge: La musica nostra e non si paga!. I tafferugli in quelloccasione si protrassero molto a lungo, anche a spettacolo iniziato, e la sala fu letteralmente invasa dai lacrimogeni (ecco perch ne versavo tante). A un certo punto anche noi che eravamo gi dentro (io avevo investito tutti i miei risparmi, non solo nel biglietto del concerto, ma anche in quello del treno, e gi mi figuravo tutte le sigarette, e non solo, che non avrei per un bel po fumato), cominciammo a nostra volta rabbiosamente a intonare lo stesso slogan. La cosa prese una piega assai insolita, per chi

conosce il carattere schivo e taciturno di Robert Fripp. I musicisti si fermarono, lui si tolse la chitarra, si alz dallo sgabello su cui sin dalle prime apparizioni se ne sta immobile e and... potete anche non crederci!... al microfono. Ci guard un po, alla sua solita maniera (con la mano a fare solecchio), sorrise (!) e disse: Avete ragione, la musica vostra. Ma voi ci pagate per viaggiare...

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Questo il titolo, se non la prima frase


[9 dicembre 2010]

Ne segue sbito unaltra, a meno che non sia un inciso. Non c che dire, il reverendo Sterne, a furia di procedere elicoidale fra pulpito e pressa, la sapeva lunga, e nella vita di ciascuno di noi, che una digressione che ci auguriamo ampia, i fatti talvolta si torcono ad incontrare le opinioni, sempre che non siano queste ultime a presentire, o quanto meno prefigurare, un evento che Alain Badiou chiamerebbe in attesa del suo nome. Le cose che accadono insomma stanno l, sono in verit situazioni, e aspettano solo di farsi avanti come suol dirsi a parole, sempre che, presentandoci noi stessi come il respiro che le anima, non sia una porzione del niente innominabile a gonfiarsi cos, come un palloncino, per negarsi al mondo del possibile, e cascare gi dallonda evenemenziale sul bagnasciuga dei fatti. Sia come sia, devo ammettere che il buon Robert Fripp, convocato a chiusa del precedente invio, proprio come se me lo fossi evocato, quasi a corroborare la vocazione capocaudata di questa sequenza. Avevo difatti appena finito di rievocare quel vecchio concerto, ricordate, e mi giunta la notizia che erano previste alcune date italiane del tour europeo di Travis & Fripp. Due-in-uno. Ma tu guarda. Ed eccomi di nuovo, trentasei anni dopo, sullo stesso treno. Oh certo, lalta velocit adesso fa la barba agli Appennini, e non ci premia pi a met percorso con limprovvisa vista mare, ma quel treno parte e arriva nelle stesse stazioni di allora, anche se adesso sembra solo di prendere la tradotta da un centro commerciale allaltro. Dal dedalo di vetrine con cui di addio alla tua citt, allincubo di vetrine con cui ti risponde salve quellaltra. Le hanno chiamate Mille Stazioni, ma sono tutte la stessa. E al centro, fra viaggiatori storditi dal volume discoteca dei maxischermi, e in cerca ad arte del primo riparo (se sono state loro sottratte finanche le sale daspetto), mastodontica e spettra-

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le svetta la solita megalibreria viva Las Vegas!, con le vetrine piene dei bei volumi Mondadori/Mediaset. Oh, che volete, un presidente del consiglio, scadente quanto vi pare, ci ricordano allineate e lucide quelle vetrine, se ne sta inculato in ciascuno di noi, e alla prima sosta che ci concediamo, eccolo che si risente, d in un guizzo e torna a ripetere le paroline giuste che tanto ci fanno godere. Spartiamo tutti la stessa sbobba, baby. Neanche fai in tempo a schivare quel santuario del tempo che si perde fra una partenza e un arrivo, ed eccoti come in un vecchio film di Fellini circondato da una fila ciarliera di giovani seminaristi diretti alla metro, a orecchio veneti. Due di loro, aggiornati come si ama essere quando si freschi di tonaca e si freme allidea di dover presto andare nel mondo, stanno discutendo dellultimo avvenimento televisivo della stagione. Largomento di quelli caldi, e ci si accapigliano un po, dal momento che non c giornale che non vi dedichi almeno un paio di pagine. Si tratta niente meno dellunica forma di questione morale che questo Paese si consente collettivamente, naturalmente in vitro, e dallemittente pubblica: un noto presentatore stipendiato dalla Mondadori/Mediaset ha da qualche giorno preso a fare coppia con un noto scrittore stipendiato dalla Mondadori/Mediaset. Piovono dallo schermo e schizzano nel mondo pillole di saggezza, impegno e antagonismo. Omnia munda mundadoris... Segue, come suol dirsi, bibliografia. Buy or Fry! Benvenuti nel Sacro Romano Emporio. Avvicinandomi al luogo del concerto ripenso alla lunga battaglia legale condotta da quel piccolo chitarrista testardo contro la pletora di etichette discografiche (Island, Polydor, BMG, Virgin, Sony) che si sono susseguite, dalla fine degli anni Sessanta in poi, fagocitandosi lun laltra, a spolpargli fin quasi allosso i diritti maturati (come del resto accaduto, e in parte accade ancora, a tanti rappresentanti della musica un tempo detta alternativa, poi underground, poi di tendenza, poi magari indie, poi non si sa nemmeno cosa). Vivere di musica, per quanto a suo modo popolare, non mai stato facile, e adesso che le multinazionali svendono i cataloghi in rete (tanto si sono tutte riconvertite) naturalmente ancor meno. Per chi ha, come se non bastasse, la pretesa di fare un po di arte, e di andarsene dunque per forme davversione, le cose vanno anco-

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ra peggio. A meno di non riuscire a creare un singolare circuito etico basato su un patto, diciamo cos, di circolazione della libert (che si paga): quella del musicista di seguire la propria inclinazione, e quella del fruitore di aderirvi o meno senza ulteriori intermediari. il potere di credere, che non laccettazione di una credenza (le merci ci aspettano, come un libro in vetrina o un programma in tv, quasi fossero il bene di natura che ci proprio, e noi ci facciamo comprare da loro, e naturalmente paghiamo per questo). Il potere di credere (rubo unespressione cara al nostro chitarrista) al contrario la condivisione di un atto politico, cio un gesto innaturale con cui mettersi di traverso al mondo (Siamo una buona band, dichiarava Fripp dellennesima incarnazione del suoi veicolo pi popolare, per poi sbito aggiungere, perch solo una provocazione convoca: abbiamo solo bisogno di buone orecchie). Vi propongo pertanto una visita al sito della Discipline Global Mobile, perch pi di tutte le mie chiacchiere precedenti, vi mostrer fin dove si pu arrivare con una comunit che sottoscrive un patto, e non per riconoscersi, ma per avere.
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Qualcosa insomma accaduto, e assai per tempo, nel mondo della musica popolare che non parrebbe essere nemmeno in prospettiva in quello della letteratura. La creazione di minoranze insomma assai agguerrite, esperte, motivate, che non solo si sottraggono allomologazione delle majors, ma che finiscono paradossalmente col risultare persino trainanti in un settore in cui ogni velleit artistica dovrebbe essere, ed , strategicamente depressa. Certo, si tratta di un mercato molto pi vasto di quello letterario, legato com questultimo alla diffusione di una lingua nazionale, ma anche per lappunto attraversato da una maggiore offerta, e dunque soggetto a una pressione per luniformit dei prodotti di gran lunga superiore. Fin quando ha avuto peso una stampa di settore, gli sforzi per far convergere i gusti dei possibili acquirenti su questo o su questaltro gruppo o fenomeno del momento, sono sempre stati fin troppo evidenti, e altrettanto sistematicamente premiati dai pi, ma al contempo frustrati da un pubblico (di ragazzini!) che non si lasciava facilmente imbambolare (pensate solo a quanto tempo ci hanno messo le case discografiche per riorganizzarsi dopo lavvento del punk...). Ora certo ci bada MTV a liofilizzare il tutto e a farne pappetta, eppure in molti ancora

riescono a divincolarsi dalle pressioni del mercato, il pi delle volte con un gesto di fondazione comunitario, che la rete fra laltro rende alla portata di tutti. La rete? Con quel casino che lattraversa, e mentre mostra tutto immediatamente occulta? S, perch in questione non dove si rifugia, o nasconde, o seppellisce un enunciato. Resta l, ci ricordava Deleuze, alla portata di tutti. In gioco solo la nostra capacit di estrazione. Eh gi, non bisogna smettere di cercare, che poi il ritornello (gnostico) di Didimo Giuda Tommaso nel vangelo che gli viene attribuito, posto addirittura in prima battuta, e come se non bastasse affidato alla voce (mai cos tanto sfrontata) del Cristo. Continuare a cercare, certo, e perch mai? Per completarsi? Realizzarsi? Trovare una rarit preziosa con cui farsi riconoscere un dandy dai consumi raffinati? No, per stupirsi, e turbarsi ancora. Colui che cerca non desista dal cercare, fino a quando non avr trovato; e quando avr trovato, si stupir. E quando si star stupito, si turber e dominer su tutto. Dovrebbe essere pi o meno roba del II secolo, questa faccenda del cercare stupirsi e turbarsi, quando pure sestendeva una forte societ dello spettacolo solvente e in attivo, e avremmo dovuto farci il callo. La musica che amavi, nei primi anni Settanta (come adesso), non la sentivi mai per radio (nemmeno nellunica stenta fascia di programmazione che lemittente pubblica destinava alla minoranza di giovani alternativi), e le riviste di settore per lo pi la stroncavano (piaceva er rocke, quello tutto emozioni, giro di basso e sentimenti). Il primo disco di Brian Eno, ricordo, fu recensito come il trionfo in plastica di un grande mistificatore (ma del resto anche i primi, e ben pi ecumenici, Roxy Music erano passati dalle nostre parti per cialtroni), e un album a mio parere epocale come No Pussyfooting di Fripp & Eno venne descritto come unoperazione di dubbio gusto per spennare i polli (chi cazzo se la sente roba del genere?, era la domanda sottesa dellarticolista). Non vi dico nemmeno, per continuare a limitarmi a un bacino generalista, che cosa si scaten contro lassunzione di responsabilit tecnologica, e tecnologicamente omologata, dei Kraftwerk. Per non parlare del problema che tanti dischi non venivano allepoca nemmeno importati in Italia, e per averli occorreva fare i salti mortali, oltre che dissanguare le pochissime risorse a disposizione.

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Quanto a me (che questo inatteso testacoda quasi quarantennale induce a coccolare la memoria), limitando dolorosamente qualsiasi altra spesa, riuscivo con la paghetta dei miei, che coi loro sacrifici oggi non sarebbero in grado nemmeno di farmi completare gli studi, a comperare un disco al mese, e poi restavo in casa ad ascoltarlo, perch anche per uscire non avevo pi un soldo. Possedevo allepoca uno stereo ridicolo, di quelli a valigetta smontabili, che dovevi applicare quasi le casse alle orecchie, se volevi avere una lontana idea di che cosa fosse la stereofonia. Eppure... Dovetti attendere un paio di mesi, nel 1972, non appena compreso quale fosse il canale giusto (un negozio di dischi di Bologna, per lesattezza), perch mi arrivasse dallInghilterra il primo disco dei Matching Mole (il secondo, il maoista Little Red Record, lavrebbe poi prodotto giusto Fripp), e dato quanto mi cost, per tutto quel periodo non potei letteralmente fare altro che attendere. Ma quando finalmente scivol sul piatto [perch mai, anche ora, ricordo che quella copertina con le talpe occhialute, ruvida non liscia, ruvida e bianca, profumava di fragole?], e sugli accordi del piano e il tappeto di un vecchio mellotron flautato si spalm il miracolo della voce di Robert Wyatt che salmodiava O Caroline, prima di diffrangersi in Instant Pussy, per divenire poco pi di un sospiro roco allinizio di Signed Curtain [This is the fisrt verse, first verse, first verse... lui che allora le usava ancora le gambe, il rullo e la grancassa, e cantava tautologie, e automatismi psichici, perch a nostra volta ne sortissimo]... oh beh, ragazzi, che volete che vi dica? Ne era valsa proprio la pena. Ne vale sempre la pena di pagare la propria consapevolezza, sia pure quella di essere niente, niente di pi di quello che in quel momento si sta ascoltando, che gi qualcosa. And this is the chorus / Or perharps its a bridge / Or just another part / Of the song that Im singing. Questa la strofa, questo il ritornello, questo lintermezzo della canzone che sto cantando, e sono, nel momento in cui la canto, e non sono nientaltro, come sei nientaltro tu, che lascolti. Sono questo, e basta, ed con questo che cerco un contatto con te che sei questo e basta. Perch il bene, il bene di ciascuno di noi, non essere cosa o chi, ma essere consapevoli che tutto ci che credi di essere di tuo, non lo di tuo, non lo potrebbe essere mai: se mai tuo, tuo per il tempo in cui lo dici tuo, perch il tuo modo di ten-

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tare un contatto. Sei esattamente ci che hai, e dichiari di avere, ma prima o poi devi fare un ultimo acquisto, che in realt il primo, quello della consapevolezza che tutto ci che hai, e dichiari di avere, se ce lhai, beh non in dotazione. Quello che acquisti, durante una vita, con la paghetta che abbiamo tutti a disposizione, o che dovremmo essere tutti messi in condizione di avere (e se c ancora un motivo per battersi al mondo, e battersi allo stremo, sempre solo quello di assicurarla a tutti, sta cazzo di paghetta), ebbene quello ti resta. Ci che sei riuscito a fare tuo, fra mille sforzi, quello e nientaltro sei, se sei cos scanzonato da dichiararlo per quello che , un modo di mettersi in cerca. E se tintestardisci a restare in te e andare a fondo, ritrovi invece quello che tutti ci spartiamo come il pane: niente. Ci che ciascuno di noi, strappandolo allaltro, chiama io un vano: di suo il solito ambientino spoglio. Se qualcosa lo distingue, solo larredamento, e quel piccolo elemento in pi, che non un acquisto, che a furia di contrarre debiti, per arredare casa, emerso come la favola che racconta proprio te: il gusto. Il tuo gusto. Sei perch ce lhai. qualcosa che sai, il gusto [non mi dire che non te lo senti in bocca, mentre passa il cibo, che gi il tuo corpo]; qualcosa che nel momento stesso in cui cominci a sapere, ecco che diventa una cosa che sa, e sa del tuo sapore. Ora sto cambiando chiave, recitava la seconda strofa di Signed Curtain: niente paura, vuol dire solo che ho perso fede nella canzone che canto, perch non mi aiuta a raggiungere te, e la far sfumare, per cantarne unaltra, che sappia ancora pi di me, mentre ripeto esattamente che la sto cantando per raggiungere te. [Una dritta: andate su You Tube e guardatevi il concerto filmato qualche anno fa dalla BBC, con lormai vecchio Robert Wyatt sulla sua sedia a rotelle che canta, sigaretta in mano, Free Will and Testament. Lo trovate se volete persino coi sottotitoli (ma un po infidi) in italiano. Inchiodato alla sedia, come lo oramai da trentacinque anni, Wyatt non ha mai smesso di insegnarci come ci si schioda da tutto ci che sembra trattenerci: Be in the air, but not be air, be in the no air...]. E se per caso hai intrapreso unanalisi, e lanalista coi suoi silenzi non ti dice questo, che sei insomma il vuoto col sapore intorno, in cerca di non si sa chi, e cosa, e provvede invece a ripopolarti a chiacchiere un mondo dombre, o indicarti in quale calco dovresti accomodarti, schizza via dal lettino: il guardiano della

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prigione. No, non te ne scappi via se limi le sbarre, o fai saltare la porta col tritolo, anche perch nessuno te li passa sotto banco. Evadi solo quando ti accorgi che vuota. Proprio cos: la cella che timprigionava, se la guardi bene, vuota, e se vuota, lo capisci, vuol dire che sai, non certo che sei. Sai di essere una strofa, una strofa, una strofa, o il ritornello, o magari linciso. Ne vale sempre la pena di dare uno sguardo intorno, e scambiare il sei col sai. La chiesa evangelica che ospita il concerto di Theo Travis e Robert Fripp, accoglie a guardarmi in giro un pubblico che mi sorprende. Cpita sempre nei concerti di questi musicisti che sono riusciti a creare il loro gruppo di sottoscrittori, aggirando majors, giornalisti pi o meno prezzolati, deejay piacioni, e tutto il circo Barnum della musica popolare. Anche nellultimo evento cui ho assistito dei Residents, mi stupii molto della fisarmonica generazionale che si dispiegava intorno a quei corroboranti guastatori mediali. In questo caso mi meraviglia la circostanza di trovare fra gli astanti molte persone pi vecchie di me. Questo non me lo sarei proprio aspettato, e mi fanno in verit un po invidia, perch evidentemente avranno incrociato, non appena apparso, il primo disco dei King Crimson, nel lontanissimo 1969. Beh, deve essere stata unesperienza mica male, e in tanti certo occorre supporre che labbiano fatta, ma mi sorprende che qualcuno di loro sia rimasto, per cos dire, fedele allevento. Chiss perch ho sempre immaginato, con le dovute eccezioni, i sessantottini oramai tutti smobilitati, o bolliti, o al servizio del peggio, che lo stesso. Ma mi piace essere smentito; forse la cosa che mi piace di pi. Quanto a me, il primo disco dei King Crimson che comprai alla sua uscita, e per cui poi mimposi di recuperare i precedenti, ricordo che fu Island, nel 1971. Ne avevo quattordici, di anni, ed ero appena al terzo LP di quella che in sguito sarebbe divenuta la mia collezione. Di miei coetanei, settantasettini mi auguro, ce ne sono abbastanza in sala, comera prevedibile. La penuria di quarantenni invece mi stupisce meno. Ma non una questione che riguarda coloro che oggi ne hanno quaranta, che pure qualcosa di loro lhanno vista e fatta, piuttosto la conseguenza di come si reagisce a quel giro di boa. Lo per tutti. A quarantanni, si sa, ne ho parlato recentemente con un amico, suona un rintocco, risuona nel vuoto, e sbito si sente il

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niente; e tutto quello che si faticosamente acquistato col tempo, che poi nientaltro che un sapore, sfuma a tal punto che si rischia, pur di non deprimersi, di barattare il che cosa con il quanto, il sentore di te che hai ricavato dai tuoi faticosi acquisti col potere che ti garantirebbe la loro eventuale ricollocazione sul mercato. Uno, in fondo, ci va pure a cuor leggero, alla prima asta di modernariato che ti offrono (ce n una per ciascuno di noi): alla fin fine pensi di vendere soltanto cose nemmeno tue, un po di ciarpame raccattato qui e l, non il vero te stesso. Solo che tu, malauguratamente, sei proprio quello che non tuo, ma hai; cio esattamente tutte quelle cianfrusaglie che ti sei messo a vendere sottocosto. A quarantanni, neanche a dirlo, cantano le ultime sirene del mondo, e a meno che non ci sindurisca (a costo di pagare un prezzo veramente alto, quello di capire che non sei nientaltro che ci che sai di non essere, e che di via cos, senza nemmeno ti sia chiesto), ci si guarda intorno, e si finisce con linvidiare chi ha fatto man bassa di ci che viene offerto a tutti, e che per davvero sempre alla portata di ognuno, come in quelle famose vetrine, al punto che trovi sempre gli acquirenti, quando il tempo di rivenderlo. uno spaccio, il piccolo potere micragnoso che ciascuno di noi pu gestire, a condizione che non si sappia di s (prima strofa), o si sia piuttosto rimasti inopinatamente disgustati (seconda strofa). Potentati, consorterie, affiliazioni, ce ne sono quante ne vogliamo, basta guardare nella direzione giusta, anche se questo significa non sentire pi il proprio sapore, e smettere dunque di cercare. Del resto, innegabile, la gestione anche del pi miserabile potere ha i suoi vantaggi, a partire dal fatto che ti ripete almeno una cosa, di cui siamo in debito tutti: che, cio, sei questo e sei questaltro, e se dunque resti dove dicono che sei, qualcuno infine pure ti riconosce. Uniformarsi, lo sappiamo, vuol dire semplicemente contarsi tutti per uno. Li vedi per la prima volta sotto unaltra luce, questi potentati insapori incistati intorno al vuoto che siamo, e alla fin fine ti sembra che abbiano quanto meno capito il gioco, sia pure quello dei riflessi. Hai perso del tempo, e loro invece s che si sono dati da fare. E che miseria, ti dici, a spacciare quello che alla portata di tutti, e a spacciarlo in proprio, si finisce infine nella luce piena della facile riconoscibilit. Almeno ti dicono quello che sei, e pace. Che ci guadagno invece a restarmene nellombra, a ripetere che sono solo la strofa, il ritornello o linciso in cerca di un altro che

non potr mai raggiungere? Non meglio cogliere almeno di tanta luce a giorno una scintilla? lultima tentazione, per chi riuscito a evitare le altre; e per alcuni, i pi sottili, si ammanta addirittura della bella veste del sacrificio, e di una sana ecumene. Vado verso gli altri, mi assimilo ai simili, e per farlo, ripeto quello che vogliono sentirsi dire. E se anche so che in fondo una truffa, va bene; almeno mi faccio uno con tanti, e non me ne resto solo, orgoglioso del mio niente, come Lucifero. Via, lo sappiamo: il diavolo, se esistesse, e fosse per davvero pago della sua dannazione, del suo essere insomma il due-in-uno in attesa del tre, sarebbe nessun altri che Dio. Ma a fare linferno bastano al contrario tanti poveri diavoli, o poveri cristi, disposti a spartire le proprie pochezze e sofferenze, gabellandole per il sommo gaudio o per una piccola soddisfazione, e traendone un qualche vantaggio. Imparate a godere, ci dicono: e uno impara a farsi riconoscere per quello che dicono che [non un che piange, eh, ma un che gode], e ci sta proprio bene. Il traslato del verbo fottere e limitrofi, serve perfettamente alla bisogna. Fottere, fregare, prendere per il culo, equivalgono tutti a ingannare, ma con un certo che di godimento che trasuda dal senso letterale, che riguarda chi compie linganno, certo, ma finanche chi lo riceve. Io ti riconosco, tu mi riconosci, e ce la spassiamo. Io ti dico che sei questo, e tu mi dici che sono quello, tutti si fottono lun laltro, e nessuno mette pi in gioco ci che ha; e se qualcuno pensa ancora di non essere nientaltro, niente di pi che il proprio sapore (che sa di s, ma non il s), beh se insiste gli si aprono i campi. Non mai stato Satana con la sua orgogliosa rinuncia, ma tanti balordi messi insieme, inculati luno allaltro, a fare il Male assoluto. Non Hitler, ma la pletora di poveracci che ne hanno tratto vantaggio, ha consentito la presa del potere e la diffusione del nazismo. Fino ai suoi esiti estremi. Per questo occorre riflettere: uno psicopatico lo si trova con una certa facilit in giro, e ha di norma il suo tormentato destino psichiatrico. Ma se in tanti ne scelgono uno con cui fare uno, e cominciare il carosello del reciproco riconoscimento, non certo a lui che si pu imputare la colpa. Daltra parte, se molti acquistano un unico prodotto, persino se scadente, non che dietro ci sia qualcuno che trama per uniformare i gusti, ma tanti che chiedono solo di essere uniformati, per convinzione o convenzione, e di non sapere (di) nientaltro. Lignoranza, diceva Lacan, una passione (ma, aggiungerei, nel senso che dava al termine Sade).

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Avrebbero rallegrato con le loro piccole e in fondo innocue bizzarrie qualche ufficio periferico, dove discettare se mai coi colleghi di esoterismo e purezza della razza, fatto la gioia di qualche riunione aziendale, divertito un condominio, titillato un cliente, questi anonimi che sono il vero volto delle tirannie efferate [Stalin un paio di baffoni; lo stalinismo invece un mondo di soddisfatti dal reciproco riconoscimento, che deve postulare lesclusione di altri. Da questo punto di vista, vedrete che tra poco lo rivaluteranno, il piccolo padre Stalin, magari per dichiararlo il politico pi lungimirante, quanto a intuizioni democratiche, del secolo trascorso]. Qualcuno sarebbe stato salutato come unautorit nei cruciverba, o sarebbe diventato corrispondente di una rivista di occultisti, o sarebbe andato in giro col binocolo ad avvistare gli UFO (i pi fortunati sarebbero stati addirittura rapiti, per poi essere risputati chiss perch ancora su questo mondo); altri invece, dopo un paio di birre, o di vodke, e qualche canzone lacrimosa cantata in coro, si sarebbero limitati a tornare a casa per picchiare moglie e figli. Tutto nero su bianco: lo trovate persino nellUlysses (anzi questo che dovremmo imparare a trovare in quellopera straordinaria, se vogliamo una volta per tutte cominciare a capire per che cosa ha lottato, persino contro la sua stessa lingua, Joyce). E invece rischiavano, e da allora rischiano sempre, questi amiconi beceri e solo moderatamente violenti (perch di per loro, lo sappiamo, non farebbero male a una mosca), di governare il mondo, e ripulirlo finanche per bene. Un ebreo fa una barzelletta, ce lo insegna anche il nostro scadente presidente del consiglio: messe insieme tante barzellette, fanno per una soluzione. Li cerchiamo nei palazzi del potere, questi uomini insapori, innocui, persino bonaccioni, e pi pericolosi della peste, e non ci accorgiamo di averli sul pianerottolo. E nemmeno che anche per noi, prima o poi, a lasciarli fare, e dire, scivoler sul volto la stessa espressione di godimento. Per convenzione, se non per convinzione. Il pianerottolo, neanche a dirlo, ci attira, perch uno ci vive tutta una vita gomito a gomito con quelle persone, ed meglio farci quattro chiacchiere quando le sincontra. Magari la prossima volta non ti faranno causa, per la solita infiltrazione dacqua. Questo il mondo, ti dici. Meglio accettarlo per quello che . Poi, alla prima occasione, ci faccio quattro chiacchiere io, con quella gente l, e provo a farla ragionare

un po. Alla fin fine lo faccio per il bene di tutti. Cpita sempre cos, e non detto che non sia proprio questo a essere capitato anche a loro: non fai in tempo a stagliarti nel primo tizzone dinferno, che sbito ti convinci che a brillare sia laureola, e vai avanti come un santo, o un sonnambulo. leterna storia del farabutto e del buffone, cos come ce lha raccontata Lacan in un inciso del suo settimo seminario. Da una parte c il Fool (cio il latino follis, che viene da flare, perch in fin dei conti uno che in testa ha solo aria), che dunque un ritardato dalla cui bocca escono delle verit (che certo non cambieranno il mondo), funzione questa che lo psicanalista francese attribuiva (era il marzo del 1960) aglintellettuali di sinistra; dallaltra il Knave (allorigine ragazzo, e dunque fante; poi valletto servizievole, infine briccone, truffatore), il signor Tutti con pi decisione, spiegava Lacan raffrontandolo agli a lui coevi intellettuali di destra, un rude realista capace al momento giusto di saper fare la canaglia. Per convenzione, se non per convinzione. Di questi tempi sarei meno stagno nelle compartimentazioni: il Knave, sotto gli occhi di tutti, pur restando saldamente a destra, ha sfondato lietamente a sinistra, e non c intellettuale, di punta quel giusto, che non faccia il cinico, senza per avere il coraggio delle scelte che lo renderebbero per davvero tale. Pi interessante, notava per Lacan, considerare i risultati di tali modelli di comportamento. Perch se vero che una canaglia vale uno stolto, quanto meno per il divertimento [cambiate pure freneticamente canale, passate da Fazio a Fede, per limitarci alla effe, e c sempre di che divertirsi], altrettanto vero che il risultato della costituzione delle canaglie in branco una stoltezza collettiva. [Ci siamo immersi dentro, al momento, sicch non vale manco la pena di esemplificare]. Cos come, di converso, la foolery, un tempo deglintellettuali di sinistra (e ora di qualche rompicoglioni residuato), finisce benissimo in una knavery di gruppo, in una canaglieria collettiva. [Se date unocchiata alla fine che ha fatto la maggior parte dei sessantottini, in specie glintellettuali del gruppo, il discorso credo che vi torni; ma vi basti anche riandare alla trasmissione televisiva di cui parlavano quei due simpatici futuri sacerdoti, che certo avr spostato glindici dascolto, ma non i voti, n le appartenenze].

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Ritengo che siano considerazioni un po sconfortate di questo tipo, a paralizzare a quarantanni chi ancora non sera fatto fregare prima. Perch per come sono state presentate le cose, parrebbero bilanciarsi al punto che alla fin fine, farabutti o buffoni, si finisce comunque con lessere affetti tutti (come in un romanzo di Flaubert) dalla stessa appassionata btise. Insomma: come pu un intellettuale uscire da questa trappola, che poi quella del flux de connerie? Per Lacan (a quellaltezza), presto detto: con Freud, per Freud, in Freud. Una quindicina danni dopo, quello stesso ritornello sarebbe invece divenuto, e sempre per bocca sua, e nellintrecciarsi dei nodi: con Joyce, per Joyce, in Joyce. Ci servono queste due risposte? Non lo so, ma magari sar il caso di trovare un minimo comun denominatore, fra queste due gioie gioiose. Allora mi ci metto, e provo a tradurle a parole mie (rubate, come sono sempre tutte le parole nostre; nella fattispecie, a un bel saggio di Maria Corti). C un solo modo, penso ci abbia insegnato nel corso dei ventiquattro anni del suo seminario Lacan, per continuare a fare lintellettuale senza essere un Fool o un Knave, e quel modo ce lo mostrano, se proprio vogliamo, giusto le parabole di Freud e di Joyce (e anche di tanti altri, prima e dopo di loro). Perch il denominatore comune, nella joy di Joyce e nella Freude di Freud, la felicit mentale. Felicitas, o voluptas, speculandi? No: solo la consapevolezza, se vogliamo ridurre i sistemi di queste due gioie allosso, che c una frase fatta, questo s, per tutti, ma che la digressione di ciascuno di noi. Ne possiamo insomma interpolare ancora tante, per tutta una vita, di frasi che restano sempre fatte, e ripetono, come se non bastasse, di non essere altro che frasi, strofe, ritornelli, incisi. Ne possiamo aggiungere quante ne vogliamo, a fare ampia la digressione, tutte sempre le stesse, s... ma mica sempre nel verso giusto! Eh s: la felicit mentale procede per forme davversione. Un cospicuo numero di trentenni invece cera, al concerto di Travis & Fripp. Era questa la generazione pi rappresentata, insieme a quella che adesso ne ha sessanta. Non molti ventenni, e a sorpresa, per me, due gruppi di adolescenti. Probabilmente apprendisti chitarristi, per come sono andati prima dello spettacolo a studiare con estrema attenzione lo strumento di Fripp (gi collocato vicino al fedele sgabello) e il sistema di registrazione digitale che ha preso il posto dei primi Revox dei fripper-

tronics degli anni Ottanta. Lemozione, assai composta in verit, sui loro volti limmagine pi bella che conserver di questo concerto. Si sono seduti vicini, si sono scambiati commenti, hanno dato di gomito quando un po a tutti successo di farlo, e hanno sorriso quando i musicisti lo hanno fatto prima di andarsene. This is the second verse, second verse, second verse. Il concerto, neanche a dirlo, stato di una grande intensit: su una base dichiaratamente soundscape, Travis & Fripp creano al momento (c molta improvvisazione, e tanto si deve dunque allenergia che viene dal pubblico) strutture che spaziano dallestremamente rarefatto, a volte con inattese connotazioni noir, alla costruzione di autentiche cattedrali sonore (una digressione dopo laltra, insomma). In due occasioni Fripp, a memoria mia mai cos nostalgico, persino straziante, ha fatto emergere temi che hanno, come dicevo, messo in moto i gomiti dellintesa. Prima stata la volta addirittura di Moonchild (proprio dal fortunato disco di esordio dei King Crimson) di sprigionare tutte le sue potenzialit, una volta ingabbiata nella ripetibilit elettronica. Poi, beh, poi c stato il miracolo di Starless, a riconfermarmi linatteso testacoda da cui ho cominciato questo invio. In quel giorno del febbraio del 1974, oltre alla sorpresa di una versione ancora pi bisbetica di Cat Food, i King Crimson presentarono il repertorio del disco uscito lanno prima (Larks Tongues in Aspic), con tre brani allora ancora non editi: Lament e Night Watch (che sarebbero apparsi da l a un mese in Starless and Bible Black), e questo terzo incredibile pezzo che, frustrando le nostre attese, sarebbe stato inciso solo in Red nel 1975. Per noi amici che eravamo andati insieme al concerto, Starless ha rappresentato per un bel po di tempo una specie di oggetto di desiderio, e il ricordo di qualcosa non ancora ottenuto. Ce lo canticchiavamo fra di noi, perdendo progressivamente il ricordo della melodia. Risentire ora quel brano, e il suo tema finale quasi solo accennato nellimprovviso silenzio dellelettronica, in una tensione che vi assicuro era divenuta palpabile nella piccola comunit allascolto (contenuta in quel solo momento, e pronta fortunatamente a riconoscersi solo in quellatto), per me, se volete, stata una conferma. Che la meta del desiderio non il godimento, che la sua morte, ed il diffondersi stesso della morte, ma una nuova digressione che consenta di desiderare ancora. a questo che serve una forma davversione.

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We are going home, Alfredo Garcia


[2 febbario 2011]

Farabutti o buffoni, a filare nel discorso del padrone, nessuno escluso? S, ma avendo innanzi tutto laccortezza di aggiungere un posto per le isteriche. Fortuna che ci sono, altrimenti chi lo farebbe saltare il banco? E poi non mica una questione che riguarda solo intellettuali, artisti e quantaltro: in loro magari, ma solo perch del mestiere farsi denunciare da unopera, la questione risulta solo pi evidente. Ma a chiunque di noi, se non ci dato che tagliare e ricucire il socius (e dunque essere immersi in quel discorso), non si offre che uno di questi tre luoghi dellenunciazione. Anche nel pi piccolo ambiente di lavoro, rispetto al discorso che lattraversa, che pur sempre il discorso di un padrone, meglio se amabile, solo queste tre posizioni possono essere assunte. Se da qualche parte c un pap, e ce n sempre uno, piccolo o grande che sia, figura carismatica o primo bauscia in transito, si sta da figli; e i figli stagliati sul padre, mai unigeniti e perennemente in contrasto, possono comportarsi solo da farabutti, o da buffoni, o da isteriche. lenunciazione fraterna del discorso del padre, che poi lattuale configurazione del patriarcato, dal quale parrebbe proprio, papi o non papi, che non si sappia come uscirne. Pensate ai fratelli gemelli sempre belligeranti che Joyce ha lasciato imperversare nella lunga notte del padre del Finnegans Wake: Shem the Penman (il buffone) e Shaun the Postman (il farabutto). Pap, il signor Ho Comunque Eredi, per giocare un po con la sigla con cui si presenta nel mondo (HCE... che poi nientaltro che Ecce... Ecce Homo), ovunque in quellopera, cos come avviene nella vita, anche se morto, sepolto, ridotto in pezzi; e ogni volta di nuovo assemblato e risorto, perch chi lo fa transitare, cio mamma (Anna Livia Plurabelle), se non la sua brava figlia isterica

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(gi... Issy), che lo rimette puntualmente insieme. La mamma (che alla lettera il discorso del padre), il fratello farabutto e quello buffone, e listerica: li inquadri nella loro economia domestica, dice Joyce, e fai, come sempre nel capitalismo, un padre mitico che non c ma sogna il sogno di tutti. E qual il sogno di ciascuno di noi? Ovvio, che torni pap. C sempre un pap, nella nostra fase del patriarcato, non il padre: il Padre, quello che si suppone che tenga tutto in funzione, cade sbito col suo rombo di tuono, e resta immerso come il Finnegan originario, il gigante archetipico che sintravede solo nel capitolo iniziale del primo libro dellopera, in uno strato profondo di sonno, persino geologico. Il Padre dorme sotto traccia e sogna. Che cosa? Sogna ci sia un pap che, a sua volta caduto e sprofondato nel suo sogno, se la gode per tutti; e se la gode perch sogna che in tanti non sognino altro (avrebbe glossato acidamente Pynchon in Vineland) di restare figli per sempre, farabutti, isteriche o buffoni. Da Caldern a Joyce e oltre (via Cervantes, Sterne, Flaubert), e qui da noi fino a Gadda, non c forma davversione letteraria che non abbia sbugiardato a suo modo il mondo di ombre familiste del Sacro Romano Emporio. Questa chiassosa farsa luttuosa (funferal la chiamava Joyce) di sogni che sognano e sonnambuli, non era del resto una strana fantasia dellautore irlandese; basta dare unocchiata a come andavano le cose al mondo negli anni di stesura di quellopera eccelsa, per accorgersi di come questa interpreti in modo addirittura puntuale le forze che contribuirono alla nascita e al consolidamento di tutti i regimi totalitari (e impiegatizi, cio fraterni)) che hanno fatto la storia del Novecento. [Corollario: non fidatevi nemmeno degli artisti, farabutti, buffoni o isteriche per necessit, come tutti; affidatevi solo alle forme davversione, perch l si sempre costretti a saltare su una macchina due-in-uno, uninterfaccia depatriarcante, per filare attraverso le maglie del discorso che sempre si cuce addosso]. Se Hitler, Mussolini, Stalin erano (per dirla ancora con Lacan) capetti, non capi, perch gli allora nuovi media della compresenza (radio, cinema, poi televisione) propagavano il piccolo sogno domestico (che prima era stato solo della letteratura) nellincubo della storia (che la regalit divina). Se li osservate in maniera un

po pi ravvicinata, quei regimi, vi accorgete che sprizzano ovunque unaffettivit diffusa, come se a tenerli insieme non ci fosse altro che unintima voglia di tenerezza. Persino adesso, malgrado il bagno di sangue cui condussero tutte quelle coccole, la situazione non sembra essere migliorata di tanto (no: non ci siamo risvegliati da quel sogno). Di padri, ora come allora, non se ne vede in giro uno; talvolta piace immaginare ce ne sia da qualche parte, ma chiss dov che se la dorme (un grande vecchio, o un veglio della montagna, di tanto in tanto si presuppone esistere, fa bella mostra di s per un po, e poi scompare esattamente comera apparso). Di pap, invece, con cui farsi belli da farabutti o buffoni, ce ne sono quanti ne vogliamo. Per quanto ridicolo e patologico possa sembrare, anzi proprio perch tale, persino Berlusconi, papi o non papi, pap. Un buon pap, vi direbbe una buona isterica, funziona (ma sarebbe quasi il caso di farsi prendere dalla joycite e scrivere invece finziona, perch tutto una grande messa in scena) solo se castrato. Pi appare inerme e alla mano, pi si riveste della sua stessa pochezza, e pi esercita violenza. Pensate solo ai maglioncini di Marchionne. Che tenerezza! Farabutti, buffoni o isteriche, insomma, a starsene al calduccio nel discorso di pap (che poi, teste il Finnegans Wake, lo fa ogni volta daccapo la mamma); sempre che qualcosa non accada dimprovviso. Qualcosa in cui pap non centra per nulla, perch se accade, e sorprende, perch non c una sua parola che le dia senso. Unorfanit inattesa, ci pensate; e solo perch a pap manca una parola, o la parola non proprio quella giusta? Certo, perch un limite al potere apparentemente illimitato del discorso. Se insomma accade qualcosa che il padre non sa dire, se il figlio al dunque rinuncia in quello stesso istante a essere ci che non pu che essere in quanto figlio (nientaltro, persino teologicamente, che la parola del padre, quella che pronuncia la mamma), beh s, salta tutta leconomia domestica, se non altro perch sacquista un credito (direbbero in Toscana) a babbo morto. Succede allimprovviso: accade qualcosa che non ha nome, o meglio ancora che ha un nome che non dice ancora tutto ci che significa.

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Ora nella vita di ciascuno di noi avvengono uninfinit di cose, e il sostantivo non unesagerazione colloquiale, perch non c accadimento, per quanto apparentemente insulso, che non sia dato approfondire ( questa la felicit mentale) nella direzione dinfiniti che sincastrano luno allaltro. Il nostro modo di portarci nel mondo, e reagire pertanto alle cose che possono accadere (ognuna di loro in attesa di un eventuale slittamento semantico), estranei e persino un po impotenti come rischiamo di sentirci allimprovviso manifestarsi di ci che apparentemente non ci riguarda, finisce facilmente col sembrare solo una visita guidata in pinacoteca. Qualcuno la fa rimettendosi diligentemente alla voce della guida... ah, ma solo una cuffia con il solito discorsetto registrato, mica una persona. [E che fine fa il discorso del padre in questa immagine? La fine che gli spetta, perch pure ad averlo davanti agli occhi, simpatico burbero o buffo come appare, siatene sicuri: pap parla in playback]. Qualcuno, invece, non vede proprio lora che sia finita e spegne il tasto primancora che la voce abbia smesso di parlare, tanto sa gi dove andr a parare, e si limita a precederla. E qualcun altro infine ha la fortuna dimbattersi nel quadro che lo incanta al punto che, quando tutto tace, finalmente li comincia a sentire, e se ne sorprende, i suoi pensieri. Aveva ragione Cantor: esistono molteplici ordini dinfinito (che sappartengono, sincludono), e tutti in atto, ed esattamente perch ci sono dei limiti. una questione matematica, non una trascendenza (ogni discorso, di suo, si dice illimitato, e quello del padre in special modo; ma non lo , una registrazione che pu solo incantarsi nella replica). Il quadro del museo in cui vi ho chiesto per un attimo di entrare, non nientaltro che questo: un limite. Uno ci sbatte di faccia, e sbito parte la sua brava voce registrata che gli dice di che cosa si tratta e come goderne: Quello che scorgi davanti a te, gli ripete come fa con tutti, bada bene che non un tuo limite; ascoltami, e affrettati, perch in verit non ne hai nemmeno uno, solo roba da trasvolare, se vuoi divertirti. E se per caso a questo qualcuno non riesce in quel momento di balzare di qua e di l nella quadreria come la pallina di un flipper, o un operaio di Marchionne alla catena di montaggio, allora si ferma, e lo incorna, quel quadro che lo sta

inquadrando (cos si mette in funzione una forma davversione). La voce la sua brava filastrocca lha finita (potrebbe solo ripeterla), e lui se ne sta l, fra s e s, e guarda. Cazzo, si dice scorgendo un mondo remoto e cos ricco di particolari e sfumature che nemmeno supponeva si squadernasse altrove, se non posso che restarmene al di qua di tutto questo, allora sono di fronte a un limite! Certo che lo , e se lo sfonda (e vi appartiene, o se lo include), fatta. S, ma che cos, un miracolo? Un sublime fremito romantico? Macch: unannessione (una presa di posizione per avere, non per essere), ed una cosa che fortunatamente facciamo molto pi spesso di quello che crediamo nella vita. Questo lo ricorder fino allultimo, diciamo a volte al cospetto di una piccola o grande perturbazione del nostro animo, per un avvenimento qualsiasi o un incontro; e in certe occasioni non arriviamo nemmeno a formularlo un simile giudizio, eppure su un fatto qualsiasi della nostra vita come se avessimo passato levidenziatore. E perch? Non un trauma, eppure quel certo accadimento che si fece gi inquadrare come unico (un limite) torna, persino quando non ce ne accorgiamo. E se cos, perch in realt labbiamo aperto allinfinito (perch questo significa avere). Ce n tanto, ce n per tutti in giro, senza mettersi ad aspettare con pazienza la morte. Luomo un essere che preferisce rappresentarsi nella finitezza, scriveva Alain Badiou nella sua opera maggiore (Lessere e levento), piuttosto che sapersi interamente attraversato, e accerchiato, dallonnipresenza dellinfinito. Il che vuol dire una sola cosa, ed imprescindibile: non c vita ulteriore che non sia adesso, non c essere che non sia lavvenire dellavere. Si risorge in vita, mica dopo la morte, avrebbe detto uno gnostico del secondo secolo, pensando a quanto fosse necessario, per giungere a quello che alcuni di loro chiamavano il luogo, approfondire come suol dirsi in loco. [Oh, anche per loro cera un Padre che li sognava, ma se lerano scelti cos remoto da poter sbugiardare pi pap di quanto non facessero allepoca i primi cristiani, col Padre loro che se ne stava molto pi a portata di mano nei cieli]. Sia come sia, su una cosa avevano ragione: le cose che accadono sono gi tutte qui,

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e aspettano solo di ricevere un nome (o che il nome che hanno cominci a significare altro). un po quella faccenda della nostra capacit di estrazione e della visibilit di tutti gli enunciati, anche quelli apparentemente nascosti. Daltra parte se i discorsi coprono linterezza del mondo, solo perch per dirlo mondo occorre giusto ricoprirlo interamente di discorsi (senza il budello, lo sappiamo, non si d salsiccia). Per questo gli avvenimenti talvolta appaiono come sorti dal nulla, ma non lo sono. Manca una parola, anzi molto meno: perch occorre in verit che una parola, una parola vecchia, scivoli su un evento come su una buccia di banana, e ammacchi quanto basta il suo significato. Badiou la chiamerebbe una decisione ontologica, perch in tutto questo ci vuole sempre qualcuno che la prenda. Per me una specie di possessione, perch come se si entrasse in possesso di qualcosa in grado di possedere chi la possiede. La questione importante, perch senza una tale reciproca possessione (che al dunque non un invasamento a senso unico ma uninterfaccia) non ci sarebbe nemmeno quella che Badiou chiama produzione soggettiva. Uno slittamento semantico (un nome vecchio tolto via dal discorso del padre e forzato a significare altro) d nome a un evento che altrimenti nemmeno sarebbe detto, e nemmeno esisterebbe. E nel dar nome a quellevento che altrimenti nemmeno ci sarebbe, quel piccolo slittamento semantico produce il suo soggetto, liberandolo da un precedente assoggettamento. Vi sembra poco? Ne fornisce un esempio che cade opportuno lo storico Paul Veyne, soffermandosi in un saggio apparso nel 2007 sulla cosiddetta conversione di Costantino, che poi fu semplicemente la decisione da parte del generale, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, di assumere un segno, un segno onirico che prima non cera (non la croce ma il crisma che aveva sognato) come augurio di vittoria (perch significava affidarsi, e per lappunto alla lettera, a un dio che si diceva onnipotente), in unepoca in cui gli appartenenti alla nuova religione erano al massimo il cinque o il dieci per cento della popolazione dellImpero. Quanto occorreva a Costantino, per produrre la sua soggettivit imperiale (e proprio per questo si tratt di una reale conversione, non di una semplice decisione politica), era dun-

que a portata di mano, anche se non aveva il nome che quella decisione contribu a dargli. Scegliere la religione di una minoranza, in altre circostanze persino perseguitata, indossare sul proprio elmo il marchio del nome del figlio (chi, se non uno sguardo paterno, avrebbe mai interpretato quelle lettere incrociate?) fu certo un azzardo, ma il dio invocato come padre fantasmatico, non era solo linvitto e non si limitava a promettere salvezza (come Mitra, laltra divinit particolarmente cara ai soldati). Era qualcosa in pi: si diceva unico (geloso, cosmico), dirimendo una volta per tutte la questione della legittimit del potere (che poi era la questione di Costantino). Quel dio era Dio, come Costantino sarebbe stato Costantino assumendo non le sue insegne ma quelle di un figlio (sacrificato al padre). Un figlio dellevento. E non mica un caso che lo storico francese per farci capire meglio il concetto (dellevento come slittamento semantico nel discorso del padre, si potrebbe dire), ci inviti a fare un unico balzo dalla notte fra il 27 e il 28 ottobre del 312 nei dintorni di Roma, a quella fra il 25 e il 26 ottobre del 1917, a San Pietroburgo. L, occupato listituto Smolny, i bolscevichi avevano installato il loro comitato centrale, e in una camera, gettati a terra due materassi, invece di dormire, Lenin e Trotski trascorsero lintera notte a chiacchierare. Il giorno dopo tutto il potere sarebbe stato affidato ai soviet, cio a una minoranza dellarcipelago rivoluzionario; e soviet (che voleva dire semplicemente consiglio, e derivava come se non bastasse dallo slavo ecclesiastico), come dio (che indicava una delle tante possibili luminose divinit, mica il solo fulgido padre geloso), avrebbe assunto un significato determinato dallevento stesso, modificando addirittura il soggetto che laveva enunciato. Sono solo esempi scelti in quanto macroscopici, badate bene, e vogliono dire ununica cosa: che non esiste un meccanismo a orologeria dialettica che faccia scattare questo o quellevento, e questa o quella produzione di soggettivit. Tutto quanto occorre a che un elemento non messo nel conto possa manifestarsi non niente di meno (sempre con la terminologia di Badiou) che una forzatura, che fa s che una cosa che apparentemente non cera, non che dimprovviso ci sia, di pi: venga letteralmente posseduta, ci

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sia insomma qualcuno che la possieda (nel doppio senso di prima). Ci che non era, ha dimprovviso un nome, e se ne entra in possesso. Lavere unazione di forza sul vuoto dellessere; e persino il senso, se non ridondante (ecco dove andava a parare lestremo Joyce), lo . Ma la questione vera che tali forzature abbisognano per consolidarsi di un susseguirsi di altri eventi, cio di altre possessioni. [Se le gerarchie militari dopo la morte di Giuliano lApostata, che aveva avuto facile gioco a reintrodurre il paganesimo succedendo a Costanzo II, non si fossero accordate per motivi del tutto corporativi su un imperatore cristiano, Gioviano prima e poi Valentiniano, le cose per il cristianesimo avrebbero preso tuttaltra piega]. Capirete bene che da quanto detto si ricavano alcune considerazioni interessanti: 1. tutto ci che accade in noi non accade per forza di cose ma per forzature (su un discorso che si dice stabile e imperituro, come quello del padre nel patriarcato); 2. un forzatura prender possesso di un evento con un nome vecchio che dia ragione del fatto che nulla accaduto che non lo fosse gi; 3. levento si manifesta insomma il pi delle volte come negazione di se stesso, al punto che a non dare nuovo senso al nome che lo dice gi accaduto (a non assumere soggettivamente lo slittamento semantico che lo copre), come se non si fosse nemmeno manifestato. Prendiamo la crisi economica. C, e come no, e nel suo nome (gi: nel suo nome) si eroso lo stato sociale, e ora si attacca il lavoro salariato; eppure non si pu dire che non ci sia chi ne tragga degli utili, dopo averla in buona sostanza provocata. La crisi detta mondiale, ma innanzi tutto non onora per nulla il suo aggettivo, perch non riguarda per davvero linterezza del globo (anzi: lAsia e lAmerica latina parrebbero esserne oramai tanto fuori da trarne inattesi vantaggi). E poi, quanto al sostantivo, se una crisi, non lo per tutti, non nella stessa accezione semantica se non altro. Se qualcuno continua a giovarsi di una simile congiuntura, allora leconomia, a intenderla nel verso del suo stesso discorso, procede di slancio, dal momento che il capitalismo porta a segno il suo cmpito: quello di generare profitto, e mica per tutti (altrimenti non ci sarebbe profitto ma ridistribuzione delle risorse). E dunque, anche da un punto di vista mera-

mente logico, non c crisi. C piuttosto quello che c sempre stato: il capitalismo (che, non mi stancher mai di ripeterlo, sin dal suo sorgere crisi). Insomma, c un bel balletto semantico (mi piacerebbe chiamarlo fucked ballet, come Peckinpah era solito definire la concitata scena finale del Mucchio selvaggio), che rende progressivamente inservibili molti dei termini utilizzati a descrivere quanto sta capitando. E non un caso. Le parole hanno un peso, soprattutto quando il loro significato slitta, lasciando apparentemente inalterato il discorso. Ne cartina di tornasole il concetto di salario medio. Preso per quello che , come valore decontestualizzato, il salario medio aumenta, non c che dire, persino in Italia. E non strano? Per nulla, perch una media una media, che non fa altro che mettere insieme tutto quello che c (il salario di Marchionne con quello delloperaio alla catena di montaggio), per poi ridistribuirlo, diciamo cos, in modo fantasmatico. Gli economisti pi avvertiti sono stati costretti a introdurre il concetto alternativo di salario mediano (anche in questo caso si dovuto riequilibrare qualche seme contestuale per dare senso nuovo allaggettivo chiamato a sostituire il precedente, divenuto oramai inutilizzabile), intendendo non la media ma la capacit dacquisto della classe che storicamente ne aveva assunto il nome. Il reddito della classe media (oramai mediana, tra poco magari mezzana o chiss che cosaltro) sabbassa, e il salario medio aumenta. Della gloriosa classe che credeva dincarnare il capitalismo si salva insomma laggettivo (diciamo cos: un avere puro, il medio opportunamente spiritualizzato), mentre il sostantivo si dichiara per quel vuoto che , e va in pezzi. Jacques Gnreux, in un suo saggio giunto straordinariamente puntuale nel 2006, quando insomma a quello che si racconta nelle ricostruzioni aprs coup eravamo soltanto alla vigilia della cosiddetta crisi, questa sperequazione per cui siamo stati costretti a stropicciarci la ghiandola semantica lha battezzata a sua volta con un neologismo, che in realt una parola-baule (bentornato signor Joyce) assai trasparente: dissociet (dissocit). E il punto esattamente que-

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sto: la dissociet (che dissocia la classe media dalla media, e il lavoro salariato dai suoi diritti) non ha mica atteso la crisi dei titoli subprimes per manifestarsi; perch la condizione attuale nella quale siamo immersi, che per tanti lavoratori perdita o mancanza di lavoro, per molti piccoli investitori decrescita, e per le giovani generazioni rischia persino di essere un bagno di sangue, mentre per tanti manager (con o senza maglioncino) vertiginoso incremento dei propri profitti, comincia molto prima. La crisi si chiama neoliberismo, che non che in tutto questo sfacelo abbia perso, anzi: ha talmente vinto che ha divorato la nazione stessa che credeva di imporlo al mondo (per poi passare a quelle che maggiormente si erano affrettate a riconoscersi nel suo impero fantasmatico). Questa crisi ha radici molto profonde, e segna in realt uno slittamento semantico fondamentale per il destino dellEuropa: quello che ha fatto s che anche in uneconomia assistita, come in buona sostanza fu quella continentale, lunico capitalismo degno di questo nome divenisse da una certa data in poi quello di marca anglosassone, che nel frattempo aveva a sua volta subito lo slittamento semantico che ha reso sostanzialmente sinonimi (Foucault ci aveva avvertiti) liberismo e neoliberismo. [Eppure ha ragione lorganismo collettivo che si fa chiamare Cercle des conomistes di cui vi ho parlato in un precedente invio: se esistono altre forme di capitalismo nei continenti attualmente emergenti, basati in buona sostanza, come avviene in modo conclamato per la Cina, non sulla finanziarizzazione ma sulleccedenza commerciale, la rotta di collisione fra i vari capitalismi sar inevitabile]. Se qui da noi si attacca adesso in modo tanto sfacciato la relazione salariale (che dovrebbe costituire laltra gamba, col mercato, delleconomia capitalista), perch il neoliberismo per affermarsi non pu che far saltare le regole stesse del liberismo, per crearne di nuove (magari severissime...) al solo scopo di aggirarle (fuga schizo e controfuga paranoica, per tornare a scomodare Deleuze e Guattari, che alla fin fine avevano visto meglio di tutti, e assai per tempo). Ora, lerosione da parte dei neoliberisti (scuola di Chicago in testa) ai danni delle istituzioni del liberismo classico stata certo lenta e sistematica a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ma ha toc-

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cato il suo apice, consumando al dunque (e alla lettera) la sua vittoria, negli anni Novanta del secolo scorso, quando furono in molti, venuta meno la contrapposizione fra i blocchi, a decretare Impero ci che in verit continuava a restare il solito Sacro Romano Emporio. La presunta vittoria ideologica americana, del resto, con la dissoluzione dellURSS, sembr avere in quel decennio un diretto corollario economico, che tante nazioni europee si affrettarono a issare a vessillo della definitiva vittoria della libert: non esiste bene pubblico che non sia la liberalizzazione finanziaria. [In Italia tutto ci accadde addirittura primancora che scendesse in campo il cavaliere senza scrupoli e senza regole: ci pensarono, dopo gli ultimi pseudosocialisti sul viale del tramonto, i primi postcomunisti folgorati sulla via di Washington, a spianare quella per Arcore]. La nuova Russia di Elstin (etilista e familista come alla fin fine ogni buon pap) si offr del resto, ricorderete, da autentica vittima sacrificale, e tanti bravi economisti americani (tutti di ottimi studi e folgoranti carriere accademiche, insomma autentici Harvard Boys pronti al Nobel) sbarcarono da profeti nel vecchio Impero del Male desideroso di redimersi (con effetti cos devastanti, e una cocciutaggine nel proporre i loro preconcetti ultraliberisti tanto demenziale, che a farne un film ci vorrebbero i fratelli Cohen, se non il Landis dei tempi doro). Insomma, tutto sembrava filare nella direzione del mondo unipolare, con tanto di finanza creativa (pronta a lottare contro lidra dai mille lacci e laccioli) e il contraltare dellarcigno Fondo Monetario Internazionale che, stabilmente legato agli USA, spingeva invece ogni economia nazionale (ricattata dal cosiddetto consenso di Washington) verso un equilibrio finanziario a breve termine che rinunciasse a ogni rischiosa politica di sviluppo. [Neanche a dirlo, c lintera vertiginosa parabola del nostro attuale Ministro dellEconomia: dal primitivo ottuso entusiasmo per la liberalizzazione finanziaria allattuale ottuso rigore senza piani dinvestimento, tutto in lui cambiato, se non laggettivo]. Insomma, lAmerica, liquidata infine ogni eredit del New Deal, procedeva ultraliberista verso il suo destino radioso, senza pi nemmeno un nemico... se non se stessa.

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In un saggio apparso nel 2008 (che si ha qualche speranza di vedere tradotto in Italia), Jacques Sapir ha facile gioco a dimostrare che la vera congiuntura che ha scompaginato lassetto del vecchio mondo (quello sortito dalla guerra fredda), e di cui quella che ora attraversiamo non sarebbe altro che una conseguenza, si sia determinata in verit fra il 1997 e il 1999 con quella crisi che, sebbene allepoca piacesse immaginare limitata ai mercati asiatici, si sarebbe ben presto diffusa anche in America latina (per ritornare poi come un boomerang alla base, con lesplosione della bolla di Internet del 2000). Ci che dunque ha determinato, a detta delleconomista francese, la fine dellallora prefigurato secolo americano (e della globalizzazione unipolare, con il conseguente ritorno delle nazioni e il costituirsi di nuove inedite alleanze), stata lincapacit da parte del Fondo Monetario Internazionale (e dunque degli USA che in buona sostanza lo gestiscono) di fronteggiare, malgrado si fosse impegnato con aiuti massicci, gli effetti pi devastanti della crisi (dalla svalutazione della moneta thailandese del 2 luglio 1997 a quella della moneta brasiliana deglinizi del 99, passando per la bancarotta argentina). Quel fallimento, insomma, rappresent agli occhi del mondo un autentico scacco subito dalla potenza americana, e addirittura sul suo terreno specifico (la liberalizzazione finanziaria imposta su dimensioni globali), cui lamministrazione dellepoca (quella di Clinton) reag con una complessiva rimilitarizzazione (aprendo dunque la strada alle avventure mediorientali di Bush figlio), di cui si fece pretesto (sempre nel 1999, ben prima dunque dell11 settembre) la questione del Kosovo. LAmerica, che si era per anni vantata del suo soft power, riscopriva, in un mondo che sulla carta non gli opponeva pi nemici, la necessit di tornare alle maniere forti (ma solo a patto di unulteriore questione nominale: quella di non pronunciare mai la parola guerra). La circostanza colpisce, pi delle bombe che piovvero allepoca in Serbia: proprio mentre una parte consistente dEuropa (ivi compresa lItalia), probabilmente atterrita dagli effetti devastanti della liberalizzazione finanziaria (che aveva sostanzialmente accettato supinamente), tentava di fare corpo unico con gli USA nel gestire quella che non era

altro che una sua ennesima questione interna, quasi in sincrono coi bombardieri della NATO prendeva lentamente il volo leconomia russa (sottratta gi con Primakov alla sfera americana, con tanti saluti ai bravi ragazzi di Harvard tornati, in attesa del Nobel, a gironzolare nei giardini del campus), e con una maggiore accelerazione quella cinese. Certo quellintervento militare aveva fra i suoi obiettivi secondari anche quello di scoraggiare i due futuri concorrenti (attaccare la Serbia ha sempre significato mandare un avvertimento alla Russia; e il bombardamento dellambasciata cinese a Belgrado da parte della NATO, se fu un errore, fu intelligente, quanto meno come le famose bombe). Ma non solo ci non avvenne, ma ebbe anche come effetto collaterale (come poi sarebbe accaduto per lAfganistan e lIraq) lo svuotamento di significato di alcune parole dordine care al pensiero liberale (diritti degli uomini, libert, autodeterminazione, umanitarismo ecc.), divenute da quelloccasione in poi, dal momento che coprivano un massiccio inter vento militare nemmeno legittimato da una dichiarazione di guerra, sostanzialmente inutilizzabili (se non come minacce). N avrebbe potuto essere altrimenti: il neoliberismo si afferma in quanto fuga da ogni costrizione, al punto che dissolverebbe nel giro di poco persino il collante ideologico, se non giungesse puntuale una controfuga paranoica (quale fu, con la precisione di un timer, lingresso nellorizzonte della politica americana del fondamentalismo islamico). Ma il processo di erosione, dopo lo scacco economico (e poi ideologico) americano fra il 1997 e il 1999 stato inarrestabile; ed toccato proprio alla Russia essere la prima nazione a uscire dal Fondo Monetario Internazionale, e dal consenso di Washington, seguita a ruota dalla Thailandia, dal Brasile, dallArgentina, dalla Bolivia, dalla Serbia, dallIndonesia ecc. Il capitalismo ha vinto, ci hanno ripetuto al crollo dellUnione Sovietica. Lo vedete? ovunque, e il mondo finalmente unificato. Invece sono trascorsi appena ventanni, e non solo in atto unautentica frammentazione che parrebbe inarrestabile, ma lipotesi di un conflitto, di un qualsiasi conflitto, si accompagna oramai stabilmente con la questione stessa della scarsezza di risorse. [Ve lo ricordate quante volte in questi anni il solito giornalista di turno un

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po farabutto ci ha ripetuto che, dati economici alla mano, se volevamo fare il pieno di benzina, bisognava bombardare Bagdad? Date tempo al tempo, e vedrete che per abbonarsi alla pay-tv bisogner colpire Teheran, o per comprare la playstation al pupo sar necessario radere al suolo Belgrado]. E se tutto ci avvenuto, solo perch un evento si dato, ma solo per essere nascosto dallo slittamento semantico che, se nessuno pronuncia in quanto tale, lo rende inavvertito. Nominare un evento, assumere in prima persona il senso pieno di uno slittamento (tutto il potere ai soviet, con questo segno vincer), un atto rivoluzionario, o una fuga schizo se preferite; occultare le tracce della modificazione intervenuta, ricondurla al solito discorso del padre che non c ma sincarna sempre identico a se stesso neglinnumerevoli pap che si limitano a parlare in playback, beh questa la vera e propria controfuga paranoica. Perch adesso, con tutto quello che accaduto dopo il crollo del sistema bipolare, e con questa crisi che ne lunico reale effetto, possiamo dircelo: il capitalismo ha vinto ma non prima di aver liquidato il suo discorso ideologico. La vittoria ideologica, se mai c stata, laveva ottenuta la New Deal Coalition (attualmente Roosevelt, come esempio di capitalismo civilizzato, viene citato solo in Russia... e figuratevi!), da un lato, e lo stato sociale in Europa dallaltro; ma quello che poi ha tratto vantaggi da tanta inattesa fortuna stato tuttaltro capitalismo. La parola la stessa, come resta apparentemente lo stesso lanimale infestato da un parassita. Il neoliberismo ha prosperato incistato nel pensiero liberale, e alla fine lo ha svuotato. Ed questo il capitalismo che ci spetta, in America come in Europa, probabilmente fino alla consunzione. Gli altri capitalismi, inutile girarci intorno (basta vedere come sono trattati i salariati in Cina), tendono a riproporre le forme del primo capitalismo industriale: forte politica di investimenti su autentiche sacche antimercato (le imprese locali, per intenderci) ed estroversione della crescita (con tanto di eccedenza commerciale; e non un caso che proprio a partire dal biennio 19992000 si sia avuta quella che gli economisti chiamano svolta predatrice nel commercio internazionale). Sia come sia, gli attuali capitalismi, neoliberisti o veteroindustriali, possono

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ancora trovare un terreno comune su due obiettivi che continuano a condividere (e in virt dei quali non a caso tentano di dialogare): lo svuotamento dei principi liberali (il capitalismo non il liberalismo, che solo il suo discorso di copertura) e la negazione dei diritti dei lavoratori. Marchionne da questo punto di vista resta encomiabile, perch si spende come pochi per un mondo unico e pacificato (la finanza di qua, e la produzione di l), e simpegna come pu per rivelare a tutti noi quanto il neoliberismo sappia aspramente combattere il suo acerrimo nemico, che non altri che lo stesso capitalismo liberale. Ce la saremmo mai aspettata in certi anni una simile contrapposizione? [S, se avessimo letto bene Lanti-Edipo]. Se non rinunciate ai vostri diritti, ha detto agli operai, investo i soldi (mica i miei, quelli della Fiat) altrove. E in attesa che un simile ricatto potesse essere metabolizzato (se non salutato da tanti come una vera rivoluzione liberista), se n andato a spasso, e sempre senza un giorno di ferie o unora di sonno, con la deriva dei continenti, per scoprire due paesi di Bengodi pronti ad accogliere con entusiasmo il ritorno di pap: uno dei quali siamo soliti ritenere povero, veteroindustriale e virtualmente canaglia, la Serbia, mentre laltro ce lo raccontiamo comunque ricco, sviluppato e sicuramente virtuoso, dal momento che si tratta niente meno degli Stati Uniti. Da una parte e dallaltra (cos radicalmente contrapposte in quel non tanto lontano 99), ci ha spiegato, i lavoratori non avrebbero fatto storie, e avrebbero accettato condizioni ben peggiori, spingendosi finanche a lodare il ruolo svolto dal sindacato in America, senza per avere il cuore di farlo per gli altrettanto commendabili politici serbi. [Alla fin fine non possiamo dargli torto: abbiamo anche qui da noi una malavita rigogliosa, e se imparassimo a prendere a modello i sindacati americani, quadri e funzionari pi graditi alla Fiat non mancherebbero di certo; senza dimenticare che, quanto alla tenuta morale dei politici, coi serbi ce la giochiamo alla pari]. Ottenuto quanto voleva col referendum, Marchionne ha per rivelato inatteso il lato generoso della faccenda: aumenter gli stipendi, ha detto, porter gli operai nella gestione dellazienda, e divideremo gli utili. Sentendosi

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per in dovere di aggiungere immediatamente: Sempre che ce ne siano, di utili. Del resto da un po di tempo a questa parte, lo sappiamo, non che la Fiat faccia faville (in questi giorni strategicamente strombazzano gli utili del 2010, che per neanche coprono il disavanzo dellanno precedente), eppure la retribuzione di Marchionne (come quella di tutti i manager) aumenta quasi in maniera esponenziale. Ecco dunque due assiomi del neoliberismo (finanziario) nella sua lotta contro il capitalismo liberale: 1. colui che viene preposto da una qualsivoglia intrapresa al cmpito di produrre utili, non necessario che li faccia (e se non li fa mica perde il lavoro); 2. chi deve fare utili, li fa o non li fa, aumenta il suo salario. Se questo vero per Marchionne, lo anche per i grandi azionisti, che vivono in una sorta di fluido finanziario in cui galleggerebbero sempre, persino se lindustria fallisse, perch non certo dalle intraprese produttive che si trae oramai guadagno. Del resto, lavrete notato, non c manco pi un padrone, nemmeno a pagarlo a peso doro (a esercitare violenza non mai un padrone, se mai un gestore), n di conseguenza un giorno lavorativo che sia uno; solo tanti pap col sorriso bonario, e uneterna domenica. Una di quelle domeniche in cui uno non sa nemmeno dove andare a nascondersi, perch c in giro pap, con indosso il suo maglioncino, che fa gli aggiusti in casa. E quando giunger la sera, allora s: tutti a fare quattro salti con papi! Aha, dimenticavo. Questa cosa nuova qui, questa che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, e che non si sente nemmeno pi il bisogno di occultare, ha un nome vecchio. Si chiama lotta di classe. Il neoliberismo, se vuole sopravvivere a se stesso, non pu che praticarla, e addirittura su vasta scala. un rischio, ma il neoliberismo tale solo se lo corre. Oh cribbio, la lotta di classe? Ma non era un ricordo del passato? S, quanto meno nel vecchio senso di ballo figurato (non si chiamava del resto concertazione?) che aveva assunto col tempo in Occidente, oppure in quello da parata con cui si commemorava (e tuttora si commemora) nelle pantomime comuniste della vecchia forma statuale asiatica. Eppure, lasciate solo che, slittato il senso, si torni infine a pronunciarla al punto da produrre soggettivit, e vedrete che, com che accade, chi la cerca lavr. Magari lo stiamo al momento

ripetendo solo alla testa mozza e sotto ghiaccio del povero Alfredo Garcia, immolato al discorso di pap, cos come avveniva in un altro straordinario film di Peckinpah; eppure, date solo uno sguardo a ci che sta accadendo al di l del nostro braccio di mare, e non sar difficile capire che, malgrado continui a essere sempre festa, toccher proprio a chi non stato invitato, se non come esecutore del discorso del padre, tornare a casa a festeggiare pap.

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cyop&kaf o del secondo principio della dermodinamica [apparso sul catalogo Fuoco!, Napoli, MAO, 2010]

Messe in sequenza, sullunica parete ideale che dovrebbe contenerle tutte, che non un muro questa volta ma una parete di roccia, le vignette fittili di cyop&kaf narrerebbero una storia, quale che fosse lordine prescelto desposizione. Dal che potremmo dedurne gi una prima acquisizione: lidea di sequenza implicita nellopera, se non v mattonella che non si chiuda con lideale parentesi in cui scrivere continua. La circostanza, se volete, deriva proprio dalla pratica dei graffiti, a partire da quelli con cui i nostri progenitori hanno proiettato il primo grafo dellominazione, che vita inferta dal distillato inorganico sociale a ci che continua a residuare inorganico, fino agli ultimi e urbani e detti writing che educano un fungaia di nonsenso, talvolta persino di dissenso, nelle foreste pietrificate dal senso che si dice comune nelle nostre citt. Come per le arti minori secondo Gombrich, che sono in realt le cosiddette arti applicate, il susseguirsi di queste vignette, al pari della striscia idealmente senza fine della street-art, non che insegni langoscia dellhorror vacui, consegna piuttosto il salto di limite che ritrova proprio nella finitezza di un muro, e del mondo che altro non che un muro, lamor infiniti. Per questo per le mattonelle di cyop&kaf non esiste una sequenza in grado di assicurare linsorgere del fumetto laterizio cui ciascuna concorre, ma tante quante ne consente ogni possibile permutazione. Eppure, disponetele come volete queste vignette, isolatene persino una soltanto, e vi narreranno, e narrer, sempre una storia. Anzi non una storia, ma la storia, quella di cui larte da sempre responsabile, quella che continua a replicare il punto esatto dirritazione che suscita nella materia il vivente. Il preso di mira dellarte, da sempre, tutto ci che precede levoluzione degli animali, cio il punto esatto in cui qualcosa (non un essere, qualcosa!) diviene. Se non divenissimo con quel qualcosa non ci

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sarebbe arte, e non ci saremmo noi. Proviamo a raccontarcela, persino con quel po di malinconia coattiva freudiana che non guasta, la storia che larte ripete, perch questo che cinvita a fare il duo in questione. Una rivoluzione inorganica, cio al di sotto di quellorganizzazione materica che fa solo dopo millenni di evoluzione un organo, di e di produce unentit plasmabile, e questa, sublimata come diviene, resta in attesa come una zecca di una porzione di vita che la ospiti. Il Logos, se proprio si vuole, un processo a sbalzo: in principio, si sa, era il Silenzio. Non per caso larte, che qualcosa che tratta ciascuno di noi come fosse vuoto e da soffiar via come una parola, non incarnazione (singola) ma parassitosi (collettiva): per sentire la propria carne, c sempre bisogno che ce la racconti un altro. La roccia sente il calore, ma se in quello stesso momento un punto di niente non gli spiegasse e ripiegasse la sua sensazione, non si irriterebbe, e in prospettiva non diventerebbe carne. la storia di sempre, dicevo, la nascita stessa della vita; larte non pu proprio fare a meno di tornarci sopra. Al principio naturalmente c una scena fissa, poniamo un bel deserto di rocce, magari sedimentate dal consolidamento del fango alluvionale, e la luce incidente sparpagliata con tutti i suoi fotoni a fare il surf sullonda. Poi qualcosa non va pi per il verso giusto, vuoi per un sovraccarico vuoi per un improvviso collasso, e un qualsiasi punto di niente si smeriglia e viene messo nelle condizioni di riflettere. Nato da sbito in coppia com, materia muta e il suo riflesso che la dice vita, il vivente letteralmente unapparizione, cio una figura. La prima forma di vita fittile, prende quel po di materia e la trapassa tutta nella forma dellespressione. Non si fa quasi in tempo a vivere, e si finisce storto o morto (e contorti quel tanto per durare la fatica di morire) in una fiction. Lattanzio non aveva dubbi: se persino le mani di Dio non disdegnavano dimpastare il fango, Adamo era il prototipo dellhominis fictio. Finge larte, come la vita stessa, e per fortuna. Il latino ne porta ancora le tracce, con quella remota radice indoeuropea che d al verbo fingere (e dunque a fictio, fictus, fictilis...) il suo senso primo, cio plasmare, che solo in un secondo momento si estende per traslato a tutto ci che pu essere modellato, formato, e poi tirato su ad arte, a partire dallargilla, e dalla materia della mente. Per la fisica molare solo dispersione di calore, una forza che non diviene lavoro ma si spreca sul posto, un punto di

niente da cui collasserebbe tutto luniverso: il vivente, lo sappiamo, sfrutta e corrode la materia stessa che lo ospita, la infetta, coi tempi giusti la porta persino a distruzione. Se cos non facesse, nemmeno vivrebbe. Ma la questione, si sa, fra le variabili biologiche e le inerzie causa-effetto delle cosiddette scienze pesanti, si risolve al livello subatomico con unequazione differenziale: la scena fissa iniziale si modula, e diviene tutto questione di probabilit e sovrapposizione. Il vivente stesso una piega, unebollizione della materia inorganica per il solo tempo di sgocciolarvi quello che di questa andato apparentemente disperso. Dallinorganico allorganico, e ritorno. Ma perch nel vivente subentri, come ulteriore dilazione, luomo, occorre che lorganico si plasmi inorganico nella vita stessa. Lominazione insomma si conclama quando la stessa perdita di energia che determina il vivente (per inciso: vi siete mai chiesti perch un fisico e un biologo non riescano nemmeno a intendersi quando parlano fra loro?) diviene una storia che si racconta da sola (una simbolizzazione, insomma, che prevede un corpo, organico o inorganico, solo in quanto disposto a ospitarla). Lenergia si perde sprecando calore sul posto, e il vivente residua, nel momento stesso di lasciare il suo posto (perch il vivente ci che lascia il suo posto, nello spazio e nel tempo), linformazione. Questo stesso processo, che esattamente quello che larte continua a replicarci, cyop&kaf lo chiamano misentropia (date unocchiata alla mattonella che lo tematizza, da l che sono partito): lominazione contrasta lentropia nella misura in cui luomo non altro che un animale (mortale, entropico) immerso in un medium (che lo nega e gli sopravvive). Per me, sulla scorta di quanto minsegnano le loro mattonelle, questo il secondo principio della dermodinamica, quello che fa s che la materia rifletta la sua inorganicit, divenendo dunque non pelle irritata sensibile (il primo principio che fa il vivente) ma carne senziente nel momento in cui si finge la storia della sua incarnazione (il secondo principio che fa luomo nel momento stesso in cui lo nega). Non a caso c qualcosa (qualcosa!) della vacua remota malinconia delle figure (umane o meno) dei mosaici, nelle mattonelle di cyop&kaf, e vuoi perch talvolta si simulano nel tratto tessere (in realt crepe, resistenza inerziale della materia), vuoi anche perch gli oggetti stessi, a partire da tutta unattrezzeria meccanica, concorrono a mettere a giorno la protesi collettiva nella singo-

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larit dellanimale. E c pure langoscia da ultimo coperchio che traspira da ogni bassorilievo (si pensi ai loro guerrieri, tutti per lo pi di fede), con tanto di occhi puntati contro chi si presuppone sporgersi, per quellammiccare opportunamente svuotato che ha reso la fingendi ars non unofficina di calchi inerti, ma larte di risucchiare gli occhi per impietrire chi guarda. Voi chiedete a noi, ci ripetono, che cosa significhi essere immersi in un medium? E cosa si prova a essere fatti della sua stessa pasta, fino a rimanerne schiacciati? Ma lo volete capire o no, inebetiti come vi rendiamo, che a voi stessi che lo state chiedendo? Il rispecchiamento nellarte una cosa seria, ma roba di cui si fa carico, quando funziona, la materia dellespressione, non la forma. Una forma non rispecchia, contiene. E cosa? Lessudato sublimato nellinorganico di cui si diceva, grazie al quale la materia resta inerte e mette a sbalzo lespressivo. Certo, non c vignetta fittile che non vimprigioni il suo bravo animale (prigionieri oggi domani sempre, ce lo scrivono le rughe sul volto, se ci pensate, non solo il nostro duo in una delle loro mattonelle), come fosse lambra che ingemma il suo insetto, o lessiccato piuttosto di un fossile. Ma ci che in verit l s raffreddato, rivoltando il corpo del vivente fino ai sali di calcio o agli utensili che vi simpastano, la stessa sostanza che li ingravida e contiene. Esterno e interno, contenitore e contenuto, sono tuttuno, ed evidenziano il doppio movimento (inevitabile se gi cyop&kaf fanno, luno sullaltro, una pseudocoppia) che presiede alla messa in figura di ogni mattonella: quello che sfalda il corpo in un paesaggio (si spicca la testa, si disarticolano gli arti a caleidoscopio, si scaglia il sistema digerente sul mondo...) e quello che condensa (per linee, macchie e forme) una discarica di oggetti in un corpo. Non c altro modo per raffigurare luomo, e raffigurarlo un gesto politico. Gi, un gesto politico, cio una riflessione sul medium che si condivide, presiede da sempre il tratto ultimo dellominazione, che per lappunto lhominis fictio, vale a dire, e in un solo movimento, raffigurazione e creazione del corpo umano. Perch il vivente possa essere parlabile, pi che parlante, occorre che lo si riconosca a prima vista, esalandogli via ogni altra forma sensibile di riconoscibilit (un uomo potr puzzare o profumare, ma di suo inodore; qualcosa in lui parler, grider o canter, e poi se ne andr via, magari oltre le stelle, lasciandolo come un sacco floscio). Che in cyop&kaf si tratti proprio del gesto politico della

creazione del corpo umano (incavato o a sbalzo, ma nel suo medium) lo mostra la circostanza che da queste mattonelle (come da tanti muri ancora della nostra citt) non si stagli corpo che non sia, alla lettera, una chimera. Su una delle tante vorrei invitarvi a riflettere, perch gi di per s una riflessione, e dunque squaderna una tipologia di cultura, n pi n meno dellApollo del Belvedere. Sono pi che sicuro che a scorrere anche rapidamente la mostra, su questa precisa vignetta avrete finito col soffermarvi, e non perch sia pi significativa delle altre, o pi bella, o pi vistosa o quello che volete voi, ma semplicemente perch prevede che vi soffermiate. Al momento in cui sto scrivendo, non ho proprio idea di dove quei due la disporranno, quando metteranno le vignette in sequenza; ma dovunque finiranno col metterla, sar un punto. Oh, non un punto e a capo, solo un punto, o se volete un accento: un punto fermo, ma nel senso che ferma. Suolo giallo, cielo bianco e stracotto, astro blu: e la chimera. Ridatele uno sguardo. Non ne conosco il titolo, non so se ne preveda uno. E allora, per una volta, facciamo finta che lo possa mettere io: Secondo principio della dermodinamica.
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Proviamo adesso a riconoscere a prima vista la chimera: in tutto quattro colorazioni (con le loro gradualit) provvedono ad assemblarla, blu, nero, rosso, bianco. Il blu quello dellastro e presiede (determinismo, inclinazioni naturali) al movimento degli arti inferiori, che sono ungulati, e che potrebbero essere quelli di un felino, o di un canide, o di un rapace (quanto a me, preferisco questultima ipotesi, perch c qualcosa delluccello, nel corpo, e riesco persino a sentirne il ritornello con cui traccia il perimetro del suo territorio). Il bianco, dellinfinito vuoto che le sta alle spalle, scivolato fin dentro la chimera, perch le articola in bocca sei zanne di voce, e le incava gli occhi. E che occhi! Non dubito che siano loro a mettere il punto che vi ha appena fermato (sono questi che ci prevedono fermi), perch, come si direbbe al cinema, guardano in macchina, e vi dicono macchina (se restiamo invece dalle parti del pittorico, si tratta del tipico sguardo prensile che rovescia la scena, come quelli che piacevano tanto a Velzquez). Sono occhi disperatamente umani, e vi offrono il piccolo dramma della lateralizzazione del cervello: il destro, incrociato com allemisfero sinistro, vinquadra, vi riconosce e vi perseguita, mentre il sinistro si dilata per provare a darvi una forma che comprenda uno sguardo. il paradosso

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degli occhi umani: guardano solo per ripetere Guardami! Il grosso del corpo, una macchia di materia e nientaltro, materia che si contrappone con tutta la sua inerzia al bianco del medium, nero, com nera la testa, spropositatamente grande come quella di ogni essere umano, e legata al resto del corpo da un collo cos filiforme e lungo, che parrebbe gi disposta a spiccare il volo, se solo strattonasse qual tanto che basta, come un palloncino tentato dal cielo. Nera anche la protesi, impugnata da mani che estendono il loro rosso fino al braccio. Rare gocce dello stesso colore sbalzano pure sulla pece del corpo, ma soprattutto la lingua, bene in vista com, a rispondere allinvito fiammeggiante degli arti superiori. Questi, lo sappiamo, sono appena discesi dagli alberi, sono dunque liberi di usare gli utensili, e hanno perci distaccato il pollice dalle altre dita. Ma se non si fossero sviluppate le aree di Broca e di Wernicke nel cervello, e il tratto sopralaringeo che consente di modulare la parola, saremmo rimasti quadrumani. Il colore di lingua e mani, non nella mattonella di cyop&kaf ma nella storia dellevoluzione, per davvero lo stesso. Ma occhio alla protesi, adesso, che si staglia sul bianco del medium! Ci omina nello stesso momento in cui la brandiamo contro noi stessi per ripeterci, ogni volta, quello che grazie allintero processo siamo pronti a essere: niente. E torniamo allora a quella specie di teschio/bulbo che ci fa da palloncino, sempre pronto a volar via alla prima folata di vento. C un viso, l, un viso che il bianco degli occhi mette in rilievo, esattamente mentre incava lindividuo nelle rughe sulla fronte (prigionieri oggi domani sempre). Ma, lo vedete? Siamo finiti dalla descrizione di quella che un neodarwinista chiamerebbe evoluzione a mosaico (ecco perch raffigurare un uomo significa ripercorrere una chimera), dritti dritti nellantropologia culturale (n poteva essere diversamente, dato limpossibile bianco del medium). Per fare di questo vivente, che si dice uomo solo a patto di rinnegarsi fino al niente che sa di essere, non un animale sociale (deleghi a un unico individuo la riproduzione e divieni unape, o una formica, non un uomo) ma un animale politico, cio una persona, beh ci vuole una persona... cio una maschera. Una maschera del suo stesso colore (qualcuno, siamo pur sempre a Napoli, potr riconoscervi quella di Pulcinella) adagiata sul teschio, e dice che quelluomo l, pronto a spararsi in bocca, non un uomo qualsiasi, no, ma una persona. Anzi il concetto stesso di quali siano le condizioni, nella nostra tipologia della

cultura, necessarie a fare persona. Non un ritratto, e nemmeno unidea: un composto di materia e medium, da riflettere (n pi n meno dellApollo del Belvedere). come ho detto allinizio: quale che sia la sequenza, o quale che sia la vignetta, le mattonelle di cyop&kaf narrano una storia, la storia, quella che narra sempre larte, e persino la storia dellarte. Ne trovi tanta, non solo quella alla base della street-art (murales, fumetto underground e quantaltro), o quella imprescindibile delle avanguardie del secolo scorso, ma anche propriamente quella recentissima, che fa della nostra citt un luogo in cui larte continua con gran dispendio di energie a farsi, non certo a esporsi, men che meno a offrirsi come facile investimento per flussi di denari che qui da noi, diciamocelo, non sono mai troppo puliti. Per cyop&kaf, guastatori mediali in cerca di muri, sar facile varcare i confini dItalia, ma si porteranno fortunatamente dietro ci che sono diventati guardando il mondo, certo, guardandolo su un muro, ma guardandolo qui, e conoscendo fin troppo bene come da qui si guarda il mondo. Nessuno nasce armato come Minerva, anche se questa sensazione ce lhanno spesso data quando abbiamo, da passanti, cominciato a imbatterci nei loro graffiti sui muri, sulle lapidi, sulle false finestre e sulle palizzate, negli angoli, e persino sui ceppi degli alberi. Da dove vengono fuori? ci siamo chiesti, ma poi diventato a poco a poco chiaro. Se tanto cyop&kaf sono in grado di riflettere sulla figura come composto di materia e medium, perch hanno metabolizzato uninfinit di stimoli, ovvio, ma si sono anche fatti le ossa (eh gi, proprio quelle che tanto volentieri le loro chimere espongono) con il teatro nel teatro delle sfigurazioni di Persico (il corpo umano una proiezione del suo medium), con i paesaggi defigurativi di Ruotolo (il corpo umano unesplosione percettiva), con lanimosit animale di Rezzuti (che continua a ripeterci che ci che fa un viso, solo la cornice che racchiude un muso), e con tanti altri stimoli che Napoli continua a produrre, alla faccia (letteralmente) delle cecit istituzionali. Ed un insegnamento, importante per loro, e per tutti noi che sappiamo che Napoli non una citt da abbandonare e poi cantare (col mitra o il mandolino), ma un luogo in cui vivere e da cui guardare il mondo. Larte fa politica, perch la politica riflette il medium che si condivide; per questo quando la politica si mette a fare arte, fa solo un gioco di specchi.

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Linsegna e la mappa

Linsegna [il soffietto per il lancio dei fascicoli, modificato per lultimo invio al blog]

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Che cosa succede la notte fra il venerd e il sabato nella megadiscoteca Il Cielo della Luna, sorta in un niente, come un bubbone o un fungo, a Santa Mira? E che cosa ci fa l, appeso come un quarto di bue in un alveare di schermi rilucenti, il segretario privato del cardinale Bruno? Centra qualcosa il cosiddetto Protovangelo di Giovanni? O invece la prospettiva di partecipare da protagonisti ai dvd commercializzati dalla Defective Vows Disc a indurre ogni volta centoquarantasette persone a dissipare i propri soldi, e non solo, nei sotterranei del locale? E perch si contendono una cintura piena di esplosivo i rispettabili professionisti che, secondo alcuni, affollano mascherati le riunioni dei Figli dellEvento? E a quale ulteriore livello mai di coinvolgimento giunger da ultimo il videogioco Glorified Persons? Per saperne di pi, baster dare unocchiata da vicino, venerd prossimo, alla misteriosa struttura gestita da Regina Mori. Ma non vi converr entrare, se non si sa come uscirne. Restate, badando di evitare le ronde dei buttadentro, ben al di qua della recinzione, a scrutare per quanto vi sar possibile dai cancelli dacciaio.

La mappa [inviata a Federico Francucci il 10 febbraio 2009]

1. Saverio Juvarra il Cielo della Luna, prima dellinizio dei giochi: venerd 26 settembre 2008, a partire dalle 23,30 allo scoccare della mezzanotte. 2. Regina Mori il Cielo della Luna, durante la prima parte dei giochi: sabato 27 settembre, a partire dalla mezzanotte fino alle 0,30. 3. Saverio Juvarra il Cielo della Luna, durante la prima parte dei giochi: sabato 27 settembre, dalle 0,30 alluna. 4. Regina Mori il Cielo della Luna, durante e fino alla conclusione della prima parte dei giochi: sabato 27 settembre, dalluna all1,45. 5. Cristoforo Bruno Camera della Meditazione del Cielo della Luna, dopo la fine dei giochi: sabato 9 febbraio, dalle 3,30 alle 4,30. 6. Regina Mori nellintervallo e poi allinizio della seconda parte dei giochi: sabato 27 settembre, dall1,45 alle 2,20. 7. Cristoforo Bruno vescovado di Santa Mira: luned 11 febbraio dalle 9,00 in poi (ma con consistenti ricordi della sera di domenica, la prima dettatura a padre Saverio, e dellalba del 9 febbraio, quando il cardinale fu accompagnato alluscita del Cielo della Luna). 8. Valentino Mormile Parco delle Ginestre, Lotto 14: marted 12 febbraio dalle 14 in poi. 9. Cristoforo Bruno vescovado di Santa Mira: mercoled 13 febbraio dalle 15 in poi. 10. Valentino Mormile tornando a casa dallappuntamento mancato con padre Saverio: gioved 19 giugno, dalle 11 in poi. 11. Sandro Preziosi presidio medico del Cielo della Luna, durante la seconda parte dei giochi: sabato 27 settembre dalle 1,50 alle 2,10. 12. Valentino Mormile il Cielo della Luna, durante la seconda parte dei giochi: sabato 27 settembre, a partire dalle 2,20 fino a quasi le 3,00.

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13. Sandro Preziosi: presidio medico del Cielo della Luna, durante la seconda parte dei giochi: sabato 27 settembre, dalle 2,10 alle 2,40. 14. Saverio Juvarra il Cielo della Luna, durante la seconda parte dei giochi e fino alla loro conclusione: sabato 27 settembre, dalle 2,20 alle 3,00 (ma con consistenti ricordi dei fatti del 19 giugno). 15. Sandro Preziosi vano caldaia, cunicoli e gelatina del Cielo della Luna: sabato 27 settembre, dalle 3,30 in poi.

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NB. Il tempo-ora si riferisce a quello immediatamente percepito dal personaggio-camera (ma il gioco della memoria trascina di frequente in altri luoghi e in altri tempi, come ho esemplificato per i solo capitoli 7 e 14; RiNB: per chi temesse di confondersi, segua il metodo del cardinale Bruno: badi ai tempi verbali e tiri dritto). Lalternarsi dei personaggi segue un ritmo da terzarima non (solo) per omaggio al modello dantesco ma perch si spera che il meccanismo, una volta scoperto, faciliti la memorizzazione (e il reperimento di persone ed eventi). Esclusi Regina Mori (da Il fermo volere) e il cardiologo Sandro Preziosi (da Santa Mira), gli altri personaggi-camera sono nati col romanzo (la comparsata un po buffonesca del cardinale Bruno nel decimo capitolo di Santa Mira lunica traccia delle prima idea del romanzo, intorno al 99... ma la vera ideazione della storia del luglio del 2003, quando ho disegnato lo schema dei sotterranei su un libro che stavo leggendo). Quando nei primi mesi del 2004 ho cominciato la stesura del primo capitolo, il romanzo era gi ambientato nella notte fra 26 e il 27 settembre del 2008 (ho insomma perseguito appositamente quel ballonzolare nel tempo cui sono stato costretto in Santa Mira dalla lunghissima lavorazione... inizialmente quel romanzo era ambientato nell89 del muro, non nel 99 dellattacco NATO alla Serbia). La scelta della data stata determinata dal fatto che mi occorreva un 27 settembre (santi Cosma e Damiano, patroni di Santa Mira) che cadesse di sabato. La sorte mi ha aiutato (si fa per dire!): proprio in quei giorni difatti, nel 2008, sui giornali italiani si prestata maggiore attenzione alle notizie sullincipiente crisi economica, che avevano cominciato a fare timidamente capolino a luglio per

esplodere poi con il caso Lehman Bros. Fra il 26 e il 27 settembre del 2008, dunque, ho raggiunto il romanzo e lho superato (indenne), brindando con mia moglie allo scampato pericolo di restare mio malgrado un autore di fantascienza. Tali circostanze mi hanno fatto riflettere su un dato di cui mi sono reso conto da poco: scrivo un romanzo a decennio, e scrivo esattamente di quel decennio. Non c narrazione per me che non sia soggetta a una doppia presa: quella diretta, e quella di posizione.

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