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“Sfogati, adesso, a predare gli onori riservati ai celesti, offrili agli esseri
che in un giorno tramontano. Come sapranno i viventi cavarti di dosso la
zavorra della tua sofferenza? E i divini ti chiamano Prometeo, il Presago:
illusione di un nome! Di presagi proprio tu hai bisogno, del trucco, come
sgusciare da questo cerchio ingegnoso”.
(Eschilo, Prometeo incatenato)
1. GENETICA DELLE BARBABIETOLE, SE SIMMETRICHE
“Io, temerario, io volli salvare i viventi, che non finissero, polvere sfatta
sotterra, da Ade. Per questo m'inarca il tormento soffrire che lacera, da
piangere forte a vedermi. Io sì, ho pianto, fu mia quella scelta, sugli esseri
umani. Fortuna, il compianto, che a me, troppo vile, è stata negata”.
(Eschilo, Prometeo incatenato)
1. NEL TEATRO DEL GRAN MONDO, CON CORO DI
ECCENTRICI ARISTOCRATICI FILANTROPICI
“Non è favola, è reale, questa terra che vibra. Roco si infrange il boato,
muggito profondo. Turbine esplode di rovente saetta, nodo di vento.
Mulina la sabbia, sgroppano raffiche, intreccio di folate rissose. Scena di
soffi che urtano, saldi”.
(Eschilo, Prometeo incatenato)
PRIMA PARTE. TOPOGRAFIA.
PREMESSA
Ascendere/Trascendere: Sisifo
La strutturazione per sezioni tipica dello Stile Classico segna i limiti del
discorso musicale accettabili all'Illuminismo. A volte l'accennare o il
tralasciare diventa parte di un'accorta strategia retorica, come Haydn
dimostra nelle sue sinfonie e nei quartetti. Lo stile empfindsamer,
“sensibile, appassionato”, di Carl Philipp Emanuel Bach trova nelle sue
Sonate “Prussiane” pose melodrammatiche ed effetti strumentali in bilico
tra il teatro musicale francese e la “teoria degli affetti” barocca. Infine, la
psicologia da età dei Lumi della musica di Mozart: il suo trasferire sugli
strumenti le inflessioni dei caratteri viventi sul palcoscenico, espressione, a
loro volta, dell'eterna commedia umana, rende problematico a Beethoven il
ricorso ad una cantabilità ingenua. Il sonatismo beethoveniano, insomma,
subisce il confronto con una Forma che durante la sua gioventù si era già
storicizzata, era già divenuta racconto di se stessa. Costretto a fare lo
storicista, il Maestro, nello stesso momento in cui elabora la propria
Forma-Sonata, riassume e compendia tutti i modelli precedenti, finché i
limiti non diventano, in lui, orizzonti espressivi. Questa rinuncia alla
bellezza, agli sviluppi lirici di intuizioni melodiche, la troviamo già
nell'“Adagio” della Sonata op. 2 n. 1, dove la frantumazione pulviscolare
del materiale tematico assume via via l'aspetto di un'ansa impenetrabile. La
stessa intuizione verrà poi portata a compimento nel declamato byroniano,
da eroe che si strugge nel suo esilio, attraverso cui, nella Sonata op. 53
“Waldstein”, l'“Adagio molto”, Beethoven ci fa respirare il proprio anelito
alla luce, trasfigurando, nella “Introduzione”, il Recitativo operistico alla
Gluck in simbolo massonico del cammino verso il sole. La sottrazione
della mèta, il limite del bordo cieco, nelle Variazioni su un valzer di
Diabelli op. 120 diventa orizzonte visionario. Questo gioco spinto ad un
virtuosismo quasi cinico, stante la pochezza del walzerino diabellesco, è,
insieme, un repertorio dei luoghi comuni della musica a consumo
borghese, domestico, e uno studio sulla possibilità di sostituire ai temi un
mero sistema di rapporti intervallari. In tutta l'opera è la tensione tra le
note, l'intreccio di relazioni verticali e ponti tra sezioni diverse della frase,
a creare ciò che diciamo Forma solo per sottile umorismo. Senza le
“Diabelli”, la dodecafonia, e soprattutto Anton Webern, sarebbero
impensabili. Un primo laboratorio beethoveniano su queste visionarie
anticipazioni dello strutturalismo novecentesco è la Sonata in Sol
maggiore op. 31 n. 1, l'“Allegro vivace”, la cui frammentaria immanenza
nel tempo è una sfida alle capacità combinatorie della logica umana. Vi si
avverte una rinuncia al discorso per frasi asseverative; al posto della
passione, qui, c'è un gioco elusivo che fa dell'ammirazione di Beethoven
per Schiller, nel punto delle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo
dove il poeta afferma che ogni individuo non è mai se stesso come quando
gioca, una pratica artigianale. L'intero movimento è uno studio sul ritmo,
percepito quale divaricatore tra i parametri musicali: ed ecco che Armonia,
melodia, registri e imitazioni canoniche slittano tra loro senza trovare mai
un punto di riposo. Con quel risolvere in lirismo i vecchi esperimenti sulla
Forma che caratterizza tutto il Beethoven maturo, nella Sonata in mi
minore op. 90, poi, lungo il primo movimento, “Mit Lebaftigheit und mit
der innigsten Empfindung”, una simile inconcludenza espressiva si salda
alchemicamente in discorso sui gradi diversi dell'esperienza: la maniera
per cui si fanno, nel ricordo, senza più cesure né scarti, stati psichici della
coscienza. In musica, emozioni. Qui la musica vera si cela tra una nota e
l'altra, e l'orizzonte è più che mai redenzione del limite. La figura
allegorica che in noi seconda questo “paradosso dello sguardo” proprio
alla rivoluzione formale beethoveniana sarà, dunque, Dedalo: l'architetto
che per spiccare il volo deve chiudere se stesso in un labirinto.
Finire/Ricominciare: Issione
Paesaggi/Argomenti: Demodoco
Cibele guida il corteo dei coribanti, i posseduti dal demone che agitando il
sistro chiamano i devoti alla follia. L'umorismo di Beethoven è sempre di
marca fiamminga, affine alle nature morte dei pittori che nei Paesi Bassi
trasformarono la realtà nella lanterna magica del diavolo. L'umorismo è,
prima di tutto, sospensione del significato. In Beethoven abbondano le
sezioni modulanti interrotte, i temini che orbitano l'uno intorno all'altro,
deludendo qualsiasi ansia costruttiva, le perorazioni non necessarie, quasi
capricci di un bambino annoiato. L'“Allegro con brio” della Sonata in Do
maggiore op. 2 n. 3 nasce da una sorta di mulinello tematico che gira su se
stesso, esplodendo, infine, in una raffica di pura energia motoria. Questa
parodia di ogni cominciamento del mondo è dinamica di forze non
controllate, il riso del tempo di fronte all'artefice che pretende di
organizzarlo. Nella sezione indicata come “Coda” nell'“Allegro molto”
della Sonata op. 110, Beethoven alterna accordi in “sforzato” con battute
di pausa, quasi uno gnomo bussasse alle porte del cielo facendo, per
impotenza, la voce grossa. L'“Adagio ma non troppo” che segue, questo
monumento alla disillusione con tanto di “Recitativo” incorporato, segna
una frattura nell'evoluzione del brano, un'isola di sconforto per la derisione
degli dèi. Nell'“Arietta” della Sonata op. 111 c'è una variazione in 12/32
che distrugge sarcasticamente ogni ordine metrico illuministico. Il temino
sognante viene divelto da un ancheggiare di figure ebbre, un pulviscolare
delirio di ritmo liberato dalla risata di un demone. Le convenzioni del
mondo terreno, tra le quali la trivialità è quella somma, vengono osservate
nella loro spregevole evidenza e mandate a quel paese (il nostro) con
un'alzata di spalle; diversamente non vi sarebbe stata la successiva,
cristallina ascesa all'Empireo. Un luogo canonico della Cibele musicale
beethoveniana è la Sonata in Fa maggiore op. 54, sfinge provocante le più
diverse reazioni. Il primo movimento, “In tempo d'un Menuetto”, è un
prodigio di “destrutturalismo”: i materiali tematici si disgregano negandosi
reciprocamente ogni possibile sviluppo. Nell'ultima sezione il “basso”
risuona ossessivo, a farsi beffe dei tentativi umani di scalare il cielo. Nella
Sonata op. 10 n. 2 il borbottare del motivo, su un tapis roulant di terzine,
evoca qualcosa di ancestrale, e che del linguaggio organizzato non ha
nulla. Siamo nel territorio del genio bambino, con tutto il suo corteo di
insofferenze innocue, quando infantili, ma che in età adulta evocano la
follia. Pare di vederlo, Beethoven, mentre improvvisa per i suoi sodali
nell'arte confusi tra gli aristocratici in folla nei palazzi principeschi; e lui
che fa? irride il loro vacuo motorismo. Un monumento all'umorismo
distruttivo sono le Bagatelle op. 126. L'editore che le pubblicò, Peters,
vide giusto quando scrisse all'autore “è al di sotto della sua dignità che Lei
passi il Suo tempo a scrivere inezie che chiunque potrebbe scrivere”.
Beethoven, qui, inventa la pop art, l'arte realizzata con materiali di scarto.
Tutti gli spunti trascritti anno dopo anno, durante interminabili
passeggiate, nei taccuini che portava con sé vengono qui assemblati per
contraddizione reciproca, ostile prevaricazione di ogni idea sull'altra.
Siamo nel cimitero dell'Illuminismo, dove i cani sulle tombe ululano alla
luna. Nelle Variazioni “Diabelli”, infine, l'umorismo diviene macabro. La
mancanza di un centro genera un'assenza di tensione risolutiva; ogni
Variazione, dunque, collassa su se stessa fino a fare esplodere i relitti dei
vari stili musicali via via parodiati, che siano la musica di danza, il Lied, le
fanfare rivoluzionarie o l'ordine della Forma-Sonata. Si ride amaramente
su questa diagnosi che un uomo al termine della propria esistenza fa del
proprio vano operare. Cibele, col suo corteo di satiri, è divinità orrida e
distruttiva. Da qui partirà Mahler per comporre l'episodio in cui Pan, nel
primo movimento della Sinfonia n. 3, irrompe nella natura che freme di
vita, distruggendone la presunzione di senso.
Affermare/Negare: la Sfinge
Il Quartetto in Fa maggiore op. 18 n. 1 comincia con una sorta di
questione filosofica distribuita tra gli strumenti. Si argomenta intorno al
valore di un tema: se sia soltanto un pilastro architettonico, o se sotto le
volte della cupola ci sia qualcuno che canta. Beethoven rimarca la
separazione tra musica “pura” e musica vocale, e lo fa sottoponendo, lungo
tutto il movimento, il dialogo filosofico immaginario ad un sillogismo
aristotelico, diviso, qual è, in tre parti. L'“Adagio affettuoso ed
appassionato” che segue è la rivincita del canto, qui intriso di “affetti”
barocchi, su una linea quasi di “basso continuo”. Seguono uno “Scherzo”
dove Haydn viene sottoposto a sgambetti e angherie ritmiche di ogni
genere e un “Allegro” finale nel quale la popolana Deutscher Tanz riempie
di sconnessioni le travature geometriche della Suite barocca. Nei Quartetti
op. 18 Beethoven compila la propria tesi di laurea presso i dottori della
scuola classica viennese, e lo fa dimostrando che quei loro chiavistelli fatti
a regolo calcolatore non tengono più. Il quartetto che apre l'op. 18: il
secondo in ordine di composizione, sta al quarto come il n. 2 sta al n. 5. La
prima raccolta beethoveniana segue una proporzione ternaria dentro cui
giace una simmetria binaria; da cui riflessi a non finire tra i suoi diversi
brani. Sempre, in Beethoven, il Quartetto è un cosmo dove operano forze
gravitazionali scosse da improvvise esplosioni di supernovae. Nell'op. 18
si afferma la stabilità delle Forme classiche, per poi negarla con il continuo
affiorare di materiali rifluiti da altri luoghi. Ogni quartetto del ciclo è
stabile ma non concluso; tranne la “Malinconia”, pausa di contemplazione,
nel sesto Quartetto, delle rovine in cui questa dialettica tra consenso delle
Forme e dissenso delle strutture ha precipitato lo Stile Classico. Nel
Quartetto in do minore op. 18 n. 4, l'“Allegro ma non tanto” iniziale,
riaffiora il lirismo negato nel n. 1; non perché non ci fosse, ma in quanto
operava in potenza, sotto le geosinclinali dello Sviluppo. Nello stesso
quartetto, lo “Scherzo” dimostra che ogni Canone è sì affermazione della
centralità umana nell'ordine del Cosmo, ma, in quanto tale, anche
negazione di ogni dramma. Il Canone, in Beethoven, è ogni volta
“disumano”. Dopo la parodia di un “Menuetto” dove l'accento metrico
cade sempre sulle note sbagliate, quasi lo ballassero dei contadini inurbati,
clandestini in una festa di corte, l'”Allegro” finale sigilla, nel quarto
quartetto del ciclo, l'irruzione della musica celebrativa, di festa, nelle sante
volute marmoree della musica illuministica. Il rapporto di
affermazione/negazione tra il Quartetto in Sol maggiore n. 2 e il n. 5 in La
maggiore è non più, per così dire, semantico, ma funzionale. Non ci sono
riprese di spunti, ma un certo modo di interrompere l'evoluzione delle idee,
di tornare indietro, di prendere sentieri obliqui, che nei movimenti iniziali
dei due brani, con quell'opposizione tra l'asseverativa fanfara
rivoluzionaria dell'uno e la “cerimonia delle belle maniere” dell'altro,
nasce da materiali opposti i quali vengono, però, dichiarati per simili. Nei
simmetrici movimenti lenti si dimostra una maniera opposta per negare ciò
che si è appena affermato: il tema di entrambi, regolare, in sereno
equilibrio, viene divelto, nel primo caso, da un incedere fratto di
melodrammatiche fioriture; nel secondo, da uno dei meccanismi per
Variazioni più irto di squassanti ruote dentate che Beethoven abbia mai
concepito. Ovvio che questo spirito sempre pronto ad negare per meglio –
ulteriormente; ovvero, altrove – affermare, quale è Mefistofele nel Faust di
Goethe, sfoci, nel Quartetto in si bemolle maggiore n. 6, in un cimento di
analisi puramente intervallare, disgregata, che funziona, nell'“Allegro con
brio”, da discarica per i materiali reflui della lotta precedente tra coppie
quartettistiche improbabili. Il sarcastico compositore torna alle Forme
barocche, la Suite, ma scavate da dentro per le tortuose derive analitiche
proprie alla Forma-Sonata. “La malinconia”, celebre Lamento arcaizzante
quasi controriformistico incastonato nel magma sempre rifondentesi
dell'opera, inaugura la fisiologia del sentimento fatta di extrasistole
cardiache, anginae pectoris e ricordi che danno l'asma: il campionario
destrutturante che Beethoven usa per negare quel conversare tra quattro
persone ben educate cui, nei tempi dei suoi debutti viennesi, il Quartetto
veniva ridotto. La Sfinge, che pone enigmi al solo scopo di indurre in
errore, è la figura allegorica propria a questa prima categoria di stile, nei
Quartetti beethoveniani.
Riverire/Trasgredire: Edipo
Misticismo/Oggettivismo: Tiresia
Explosante/Fixe: Vertumno
Trasumanare/Incorporare: Atena
Retrogrado/Profetico: Manto
Precipizi/Vallate: Icaro
Icaro si avvicina troppo al sole, e la cera che sostiene le sue ali si scioglie,
facendolo precipitare al suolo. Il Quartetto in Mi bemolle maggiore op.
127 è un ripensamento della Suite barocca. Il “Maestoso” iniziale parodia
la Intrada antica di solenne memoria, e il tema a larghe campate, in forma
di canzone, dell'“Allegro”, si distende sulla duttile cera della sua Armonia
elementare con un ordine simmetrico che serve solo a renderne più
scabrosa la successiva frammentazione. Qui, i precipizi delle vette
occludono presto la vista delle vallate. Luogo canonico del sublime,
l'“Adagio ma non troppo e molto cantabile” – ormai, smaliziati, sappiamo
che cosa significa: “basso” misurato e, a contrasto, flessibilità agogica
nelle voci superiori – gioca su di un'ambiguità metrica. Il 12/8 procede su
di un ritmo ternario disposto per gradi della scala articolati in tempo
binario. È un cantus firmus intonato da un balbuziente, di modo che la
dialettica tra la serenità del tema e la instabilità del ritmo crea un effetto di
straniamento. Le Variazioni successive procedono per saturazione,
contrazione, contrapposizione e quella lettura trasversale, obliqua, tra le
voci, che nell'ultimo Beethoven evoca temi, altri, potenziali, e che io
definisco “equivalenza motivica”. Nell'“Adagio molto espressivo” il metro
è di due battute, e la cellula tematica, di tre. L'ambivalenza del ritmo
iniziale si fa, qui, variante della Forma. Siamo vicini al principio della
Variazione permanente in tutti i parametri musicali: la cosiddetta serialità,
anima profonda del Novecento musicale. Lo “Scherzando vivace” evoca il
fantasma della Intrada iniziale, per poi ridurre a sigla la cellula tematica
del movimento lento precedente incidendola con una pausa che la tramuta
in scheletrica apparizione notturna. Il Finale, “Allegro”, disarticola la
serena convessità del canto intonato nel primo movimento. È come se
l'ombra della vallata si profilassero sulla costa di un monte, precipizio
dove si disegna l'immagine della perduta quiete. Beethoven procede per
sovrapposizione di tutti i materiali precedenti, un Contrappunto per linee
melodiche dove ogni Armonia, asse ordinatore della Forma, viene sospesa.
Il Quartetto op. 127 è, per Beethoven, la resa dei conti con ogni residuo
dello Stile Classico, che ricompare come museo della memoria nel
Quartetto op. 135. I due quartetti sono ciclicamente collegati, per gioco di
contrasti, con quel sistema alla Mallarmé per produrre quartetti, che sono i
tre centrali. Tre contro due: ancora il cinque, metro interiore della Quinta
Sinfonia. Il numero che in Beethoven significa l'uomo all'interno del
cosmo si estende, in queste opere estreme, a farsi principio di contrasto
dinamico all'interno di metastrutture formali.
Est. Le Sinfonie.
Centripeto/Centrifugo: il Minotauro
Presentimento/Visione: Atlante
J. S. Bach osserva la natura nel suo divenire; Mozart, nel suo manifestarsi;
Beethoven, nel suo farsi. In J. S. Bach la musica esiste prima di venire
pensata; in Mozart esiste quando la si agisce come “carattere”, la si mette
in scena nel mondo; in Beethoven, quando le si dà un ordine di pensiero.
L'inizio della Sinfonia n. 1 in Do maggiore op. 21 è sospeso, ambiguo. Il
“pizzicato” degli archi è il pendolo della mente che rintocca le superfici
del tempo. Allo stesso modo, nell'incipit della Sinfonia n. 4 in Si bemolle
maggiore op. 60, il Si bemolle all'unisono di tutta l'orchestra dischiude un
deserto calcificato dove il tempo piove nel “pizzicato” degli archi. Il
tempo, questo demone della Forma, assume, poi, forme avvolgenti,
sinusoidali, nelle terzine che attraversano la “Marcia funebre” della
Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”. La musica di Beethoven si svolge nello
scenario interiore dell'anima. È un presentimento del tempo. Nell'“Allegro
ma non troppo” della Sinfonia n. 6 in Fa maggiore op. 68 “Pastorale” c'è
una “corona”, a battuta quattro, che isola la simmetria della frase iniziale
rendendola un obelisco perduto della bellezza. Beethoven, qui, congela
Mozart in un'illusione senza tempo. Il “pizzicato”, le terzine, sono
presentimento; questa “corona”, è visione. Nella Sinfonia n. 5 in do minore
op. 67, l'”Allegro” finale, il rintocco del motivo con cui il tutto comincia,
l'incipit della sinfonia, diventa pulsazione di terzine, dinamismo ridotto a
ordine. La fiducia illuministica nel logos emerge con la sua disperata
chiarezza, ma per splendere deve passare dalla sua mise en abyme: la
pausa di croma sul tempo forte della prima battuta, nell'“Allegro con brio”
iniziale. Se J. S. Bach è un geologo della musica, perché scava nelle
geosinclinali del suo tempo, e Mozart coltiva giardini pensili sulle mura
della città, tempo redento dagli uomini, Beethoven è, invece, un architetto.
Nella Quinta Sinfonia i due movimenti centrali cominciano in anacrusi. La
pausa iniziale sbilancia il divenire del tempo fino a quando i timpani, tra lo
“Scherzo” e il Finale, non ne redimono l'extrasistole in un pulsare umano,
respiro dell'anima; solo allora esplode il radioso Do maggiore risolutivo.
Significativo come, secondo questa visione di trionfo presentita attraverso
una dissociazione puntilistica, nella Coda dello “Scherzo”, quel “pizzicato”
di gnomi che scavano vie di luce attraverso la montagna, l'Armonia del
Finale, nelle prime battute, sia tutta basata su “rivolti”: elementare, quasi
goffa, perché, nel tempo, l'uomo ci vede una linea solo in forza all'ottusità
dei propri sensi. Nell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto il mago Atlante
costruisce un castello dove ciascuno ritrova il fantasma del proprio
desiderio. Il tempo redento dal caso, nelle sinfonie di Beethoven, è questo
fantasma. Atlante sia, dunque, la figura allegorica di questa categoria
stilistica.
Automa/Atleta: il Golem
Catastrofe/Redenzione: Faust
Natura/Uomo: Pan
Istante/Eternità: Narciso
Narciso si contempla nello specchio del lago, e per baciare quel suo
riflesso, cadendo in acqua, annega. L'istante della sua morte è il modo che
il tempo escogita perché possa amarsi in eterno. La dialettica tra
“fenomeno”, evento, e “Forma nascosta”, progetto complessivo, nelle
sinfonie beethoveniane, è lo stesso gioco di riflessi che c'è tra biografia e
significato universale, in ogni opera d'arte. Il mistero è sempre il
medesimo: come può la sublimazione di un dolore individuale farsi
strumento di redenzione per l'intera umanità? In questa categoria stilistica
del Narciso divenuto Titano, un Prometeo dell'amore, piuttosto che del
logos, si muove la triade delle Sinfonie nn. 5-7 e 9. L'attimo della
rivelazione, l'eternità come terrore, ha, in Beethoven, l'aspetto della
“corona”, questa extrasistole del tempo musicale. La “corona” gli serve per
separare le “sentenze” dal racconto. Le prime cinque battute della Quinta
Sinfonia, che Furtwängler definiva “il frontone del tempio”, risuonano
congelate nell'eterno; sono una sentenza sul mistero che l'uomo non può
attingere. Nell'incipit dell'“Allegro con brio”, lo abbiamo visto, il metro di
due battute è l'uomo, e quello di tre, la natura. In questa “sentenza”
iniziale, cinque battute, i due metri danno origine a una lotta tra l'eroe e il
destino poi articolata, da batt. 6, di cinque in cinque battute, finché il
troncamento di questo “metro della progressione alla luce”, il venir meno
di una battuta, non causa, al centro del movimento, una catastrofe che
verrà redenta solo nella transizione tra “Scherzo” e Finale: l'episodio del
timpano solista. Sempre, l'eternità, in Beethoven, sta in ciò che non c'è.
Nel venire a mancare, nella lacuna del senso; in una battuta in meno, una
sequenza omessa. Nel “Molto vivace” della Nona Sinfonia, tra le prime
nove battute, cinque sono vuote. Le batt. 4-5, non rispondendo alla
pulsazione del ritmo iniziale, ci descrivono un cosmo indifferente al
sorgere della vita. Le batt. 7-8, dove si perde l'eco del rintocco vitale, sono
il buio inaccessibile di ogni cosmica eternità. La dicotomia tra un metro
interno binario e uno ternario, uomo e natura, qui conosce un binario
rintocco di vuoto (4-8) dentro cui giace un ternario silenzio enigmatico (4-
7); ne risulta quel qualcosa di ossessivo, biologicamente sinistro,
inarrestabile perché distruttivo, che pervade il movimento. Čajkovskij
dimostrerà di averlo compreso appieno nel terzo movimento, “Allegro
molto vivace”, della sua Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 “Patetica”. Nella
Settima Sinfonia, Beethoven attinge un'eternità indiscussa isolando un
fenomeno: una cellula ritmica, un istante del tempo, e torcendolo fino a
farne una struttura ricorsiva capace di duplicarsi, come la doppia elica del
DNA, in tutte le anse della Forma. Viene in mente William Blake, quando
dice “Vedere il mondo in un granello di sabbia (…) Tenere nel palmo della
mano l'infinito/E l'eternità in un'ora”. È, questa, l'eternità delle Effimere,
destinate a vivere un solo giorno.
Abissi/Stelle: il Demiurgo
Nella teologia dei primi cristiani, poi detti gli Gnostici, Dio, che loro
chiamano il Demiurgo, crea il cielo stellato dal vuoto, insufflandovi dentro
il tempo. Questa manifestazione dell'infinito per insistenza su materiali
inerti, minimi, è una delle categorie stilistiche più notevoli nel sinfonismo
beethoveniano. La troviamo allo stato puro in quel La reiterato cinque
volte – le ultime tre, in “crescendo” – che segna la transizione, nella
Sinfonia n. 4 in Si bemolle maggiore op. 60, dagli abissi alle stelle:
dall'“Adagio” all'“Allegro vivace”. Sempre nella Quarta, la sezione di
Sviluppo del primo movimento collassa progressivamente in un buco nero
cosmico, abisso di una tensione resa sempre più compressa, esplosiva,
dopo un episodio di rintocchi su note ripetute che sembrano il battito di un
pendolo cui si sia sfilato il contrappeso, da fuochi fatui di semicrome che
si spengono su di un “tremolo” del timpano. È un vuoto popolato di lemuri
spaventosi, dal quale l'orchestra fugge riprendendo pian piano la sua
dinamica di illusione gioiosa. Nelle ultime battute lo slancio precipita,
quando i corni intonano un Corale ultraterreno evocante l'inattingibile
ultimo cielo, in una terzina e poi una quintina che lo fanno precipitare nel
vortice del cosmo indifferenziato. Questo riflesso di stelle fredde fa della
corsa vitale un immolarsi nell'abisso, secondo una sarcastica visione della
gioia come illusione che Beethoven espone, per la prima volta, nella
Sinfonia n. 2 op. 36, la Coda dell'“Allegro molto” finale. Il mondo vi
appare una trottola impazzita tra le mani del Demiurgo, e Beethoven così
lo consacra nell'ultimo movimento, “Allegro vivace”, della Sinfonia n. 8 in
Fa maggiore op. 93, dove una semplice alterazione cromatica, una visione
distorta, costringe l'eroe dionisiaco, ebbro di vita, a una girandola di “sf”,
“sforzato”, terzine e cadenze paradossali, perché sospese, nella quale
davvero risuona il riso di un Demiurgo lontano. Il più risentito, nichilista, è
questo Beethoven dallo sfigurante umorismo fiammingo, non il Titano
padrone della Forma.
Ovest. I Concerti per solista e orchestra.
Maschera/Volto: Tespi
Linea/Cerchio: Pitagora
Cammino/Salto: Ariel
Orologi/Compassi: Chronos
Con i tre Trii op. 1 per violino, violoncello e pianoforte, Beethoven porta a
Vienna il lavoro decennale svolto a Bonn. La lunga procedura di
condensazione del materiale conduce a un'opera dove l'influenza di Haydn,
Mozart e Clementi si accompagna ad un nuovo spirito di tensione
drammaturgica ispirato a Gluck. Questi esordi beethoveniani ci illuminano
sulle sue procedure compositive. Prima di tutto, la riduzione motivica delle
idee melodiche, le quali diventano cellule, campi di forze armoniche. Così
avviene nel “Presto” del Trio n. 2 in Sol maggiore, dove il violino si lancia
in un “moto perpetuo” atematico che il pianoforte distende in una scrittura
di “ottave” spezzate, secondo quel principio della variazione permanente
di ogni parametro, dalla ritmica alla tessitura, fino alle dinamiche, che sarà
sempre il sigillo del Maestro; oppure nelle due battute con cui inizia
l'“Allegro con brio” del Trio n. 3 in do minore, poi destinate a non venir
sviluppate, ma contrastate da idee secondarie, conseguenza dell'asimmetria
metrica su cui si distende il tema principale. Beethoven, fin dal principio,
ritiene l'Armonia un elemento strutturale al pari della melodia; unisce,
bachianamente, la dimensione orizzontale della musica e quella verticale,
pur operando sempre nelle quadrature della Forma-Sonata. Per esempio,
l'“Adagio cantabile”, nel Trio n. 1 in Mi bemolle maggiore, vede il
pianoforte prodursi in fioriture eccentriche rispetto all'assetto tonale,
mentre l'“Andante cantabile con Variazioni”, nel n. 3, si sviluppa
scardinando per “diminuzioni” e spostamenti ritmici la chiara
consequenzialità del tema, fino a creare effetti di apertura a mondi lontani.
I Finali sono costruiti su un terzo carattere idiomatico, dopo la riduzione
motivica e la variazione permanente: la tecnica delle cellule replicative.
Beethoven pone gli archi allo stesso livello di importanza del pianoforte,
che viene chiamato a reagire come alter ego, piuttosto che proporre le idee
principali. Il Trio n. 1 presenta un movimento iniziale, “Allegro”, costruito
sulle Terze della scala, lungo un'estensione di due “ottave”. Non è un tema,
è la riduzione di ogni possibile tema a una linea di tensione armonica che
richiede un lungo percorso di risoluzione. All'opposto, l'“Adagio
cantabile” è costruito come un Rondò, con la testa del tema orchestrata tra
gli strumenti secondo una specularità che crea continui rimandi, e la cui
complessità destò, alla prima esecuzione, una perplessa sorpresa. Il quarto
carattere idiomatico è lo sviluppo delle transizioni armoniche in sequenze
discorsive. Beethoven usa i ponti modulanti, le transizioni a regioni
lontane, come digressioni retoriche, deviazioni nel percorso durante le
quali affiorano i contorni di paesaggi bellissimi che rimangono
evanescenze. Il “Largo con espressione” del Trio n. 2, in particolare, sfocia
in una rastremazione eterea della prospettiva sonora che pare uno di quei
paesaggi collinari intravisti dietro una finestra, sullo sfondo del quadro,
così cari alla pittura rinascimentale. Come la polifonia sempre sottesa,
nascosta sotto l'invenzione melodica – nella quinta variazione
dell'“Andante cantabile con Variazioni”, nel Trio n. 3, il violino sviluppa
una vera Invenzione a due voci del tutto inedita nella musica da camera del
tempo – si faccia, nell'Op. 1, un laboratorio per deviazioni dall'asse
strutturale dell'Armonia classica, lo dimostra il Finale, “Prestissimo”,
dell'ultimo Trio: quello nel fatidico, per Beethoven, do minore. Qui la
riduzione motivica, brusca, corrucciata, dell'inizio si proietta in una
seconda idea che dapprima è concepita a contrasto, ma poi si libera in
esuberanze di continua sospensione dell'esito armonico. Già dalla sua
opera di esordio notiamo, in Beethoven, l'importanza della Coda, quasi
sezione a parte, e fine nella quale è insito un nuovo, virtuale, inizio.
Nei due Trii op. 70 osserviamo un aspetto determinante della pratica
compositiva beethoveniana: il suo estendere l'opposizione tra i due
Princìpi in Forma-Sonata alle macrostrutture della Forma. Non c'è dubbio,
infatti, che il Trio in Re maggiore op. 70 n. 1 sia il “Princìpio che si
oppone”, e l'altro, il n. 2 in Mi bemolle maggiore, il “Princìpio che
implora”. Il Trio n. 1 è non più in quattro, ma in tre movimenti. Beethoven
comincia a sperimentare la Forma “ad arco”, con i due movimenti estremi
pensati per compensazione speculare, e quello di mezzo a far da
intermezzo onirico. Il Trio n. 2 è in quattro movimenti, ma i due di mezzo,
“Allegretto” e “Allegretto ma non troppo” sono consequenziali, con il
secondo, una sorta di Walzer che modula su regioni lontane, a fare da
virtuale Sviluppo del primo. È come se questi due brani fossero un breve
Trio, incastonato nell'altro, in due movimenti, come l'umorosa e bizzarra
Sonata op. 54 per pianoforte. Nell'op. 70 Beethoven introduce la Forma
della Variazione all'interno degli schemi di danza ternari, un innesto che
negli ultimi Quartetti avrà esiti clamorosi. La tecnica di isolare un
materiale essenziale, un semplice rapporto di tensioni intervallari, come
nucleo germinativo, si potenzia. La osserviamo nel Finale, “Presto”, del
Trio n. 1: l'incipit, che il compositore riscrisse per pianoforte solo, mentre
la prima versione vedeva la presenza anche del violino; sicuramente, per
permettere una più ampia espansione polifonica del susseguente gioco
imitativo. Allo stesso modo, l'inizio del Trio n. 2 è affidato al violoncello
solo, linea nuda su cui gli altri strumenti edificano un discorso per
derivazioni progressive. Questa introduzione viene poi ripresa come ponte
tra primo e secondo tema, seguendo un quinto carattere idiomatico
beethoveniano, pienamente attivo, per la prima volta, nella Sonata op. 13
“Patetica” per pianoforte: lo “sguardo all'indietro”, verso l'Esposizione,
nel pieno dello Sviluppo, che scardina la logica “progressista” della
Forma-Sonata, facendone un relitto del morente Illuminismo. Beethoven
scava sempre di più nei processi analitici, fino a negare quasi l'effluvio del
canto. Il tema iniziale del Trio n. 1, l'“Allegro vivace e con brio”, è uno
schematico sistema di intervalli che via via si riducono a una scala ottenuta
per condensazione. Beethoven diventa l'architetto di un logos ideale la cui
cristallina perspicuità è ottenuta a spese del tempo, della Storia. Il carattere
idiomatico più innovativo che qui appare, però, è l'uso dell'elisione e del
silenzio. Il Trio n. 1, dopo un “Allegro vivace e con brio” dove compare
quella figura di un trocheo seguito da un giambo che si trova in pratica
ovunque nella musica di Beethoven, a significare il rintocco del destino, si
assesta su una melodia distesa del violoncello sotto la quale pulsa l'eco di
quel richiamo; poi viene un “Largo assai” la cui cellula germinativa è un
semplice “gruppetto” su armonie vuote, trilli e cesure progressive: abissi di
nulla che si aprono sul tempo. Un'ambiguità armonica incide l'intero
movimento creando un continuo gioco di echi e presenze, anche in virtù di
un'orchestrazione dove Beethoven osa come non mai prima una “melodia
di timbri” fatta di tessiture rarefatte e impalpabili. Al pari della “Marcia
funebre” nella Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”, il ricorso a materiali neutri, di
movimento senza direzione, respiro senza canto, creando il clima di un
incubo che, al suo inizio, si presenti nelle vesti ingannevoli di idillio, ha
fatto attribuire all'intero brano il nome di Trio “Degli spiriti”; e in effetti
sappiamo che in origine questo materiale era stato concepito per un coro
delle streghe da inserire in un Macbeth su testo di Collin.
Il celebre Trio in Si bemolle maggiore op. 97 “Arciduca” rappresenta per
molti aspetti un passo indietro. In primo luogo, il dialogo tra gli strumenti
non è paritario; il violino è in subordine, e la sua scrittura appare non
sempre brillante (stessa caratteristica del Triplo Concerto op. 56, destinato
alle dubbie doti pianistiche di Rodolfo...). Inoltre certe arditezze
armoniche, come, per esempio, nel primo movimento, “Allegro moderato”
– dove il “moderato” significa, come sempre in Beethoven, liberamente
“cantabile” – la Dominante a lungo disattesa, insieme a passaggi cromatici
e instabili come quello che precede la Ripresa, non sono giustificate da un
materiale tematico abbastanza compresso. L'effetto è quello di una
saturazione. Il tema disteso, ampio, con cui inizia il primo movimento
richiama per struttura quello con cui inizia il Quartetto op. 59 n. 1
“Rasumowskij”, ma in questo caso la seconda frase è ripetuta a mo' di
inciso e sfocia in un “gruppetto” che ne interrompe l'evoluzione. Il
secondo tema giunge dopo un passaggio arpeggiato pericolosamente simile
a una di quelle “rosalie”, la musica per ripetizione dello stesso motivetto
su gradi diversi della scala, per cui Beethoven sfotteva Diabelli. Lo
“Scherzo. Allegro” è un laboratorio di innesti stilistici. Beethoven
sovrappone al motivo ritmico di base un “fugato” cromatico che ne
sbilancia l'assetto, per poi sfociare in un Walzer da “musica d'uso” dove
vediamo già attivo il processo di incorporazione di materiali popolari, voce
spontanea delle cose terrene, che è il carattere idiomatico non solo della
Sinfonia n. 8 op. 93, ma anche di molti movimenti di danza negli ultimi
Quartetti. L'“Andante cantabile ma però con moto” – l'opposto di
“moderato”; qui, Beethoven vuole si avverta sempre una pulsazione di
base regolare – vive di una melodia per due semifrasi oppositive il cui
respiro è guastato da una necessità cadenzale, a compensarne la
frammentazione, che la fa apparire un grande poeta lirico affetto da
balbuzie. Le Variazioni sono condotte con rigore perfino eccessivo, e
funzionano perché livellano l'asimmetria del tema isolandone singoli
caratteri; in pratica, Beethoven rinuncia a quel suo peculiare carattere
idiomatico della riduzione motivica che abbiamo visto in azione fin dai
Trii op. 1. La Coda, stupenda, è un ricordo lontano soffuso di luce
crepuscolare. L'intero Trio ha una natura narrativa, umorale, densa di
nostalgie affioranti in una solitudine resa serena dai ricordi: un clima che
lo fa assomigliare alla Sonata per violino in Sol maggiore op. 96, dove il
tutto, però, si rapprende in una splendida innovazione formale. Ogni volta
che Beethoven vuole risolvere la propria contrattura motivica in distese di
canto, l'ordigno della sua fantasia si imbraga in lacci e suture che ne
stritolano il respiro. Lo abbiamo visto: è, questa, la sviante natura “etica”
del compositore; la sua esigenza di dare gioia attraverso la musica. L'unico
movimento davvero convincente mi pare il Finale, “Allegro moderato-
Presto”, con i suoi rimandi sia armonici sia motivici al primo movimento,
e la fusione efficace tra la Forma-Sonata e il Rondò. Sarà perché la sua
corsa verso l'esuberanza conclusiva è l'unico punto in cui Beethoven non si
preoccupa di smussare la limpidezza aproblematica della propria scrittura
“concertante”. Sono portato a credere che questo Finale sia stato concepito
come primo movimento, per poi venire usato come indifferente chiusa.
Le Sonate per violino e pianoforte sono “lineari” quanto i Trii sono
“prospettici”. La scrittura a due parti obbliga Beethoven a profilare il
materiale con un'essenzialità maggiore, più perentoria. La sua capacità
maggiormente spiccata, quella di trarre complesse derivazioni da idee
elementari, si fa, qui, fenomenale. Ne tento un'analisi che, sulla base di
pochi embrioni da laboratorio, vale per l'intera sua opera. Sarà qualcosa di
essenziale, come forse è necessario per brani tra i più apodottici di
Beethoven. Nella Sonata in La maggiore op. 12 n. 2, il tema del primo
movimento, “Allegro vivace”, nasce da una figura di due note arpeggiate
dal pianoforte. Nella Coda, questo cristallo tematico ricompare in un
dialogo tra i due strumenti che ne conferma la natura di motivo principale.
Una simile compressione tensiva sta anche alla base della Sonata in La
maggiore op. 47 “a Kreutzer”, dove il primo movimento, “Adagio
sostenuto-Presto” – “sostenuto”, in Beethoven, vuol dire articolato sui
tempi forti – è costruito su due note, Mi-Fa, l'inverso del Fa-Mi intorno a
cui ruota l'intero secondo movimento, “Andante con variazioni”. Questo
intervallo generativo appare al suo stato originario nel Finale, “Presto”,
per riduzione da un inciso di tre note, Do diesis-Re diesis-Mi, dove la
prima viene elisa nel corso rapinoso della diabolica tarantella. Questo
Finale, tuttavia, venne scritto come brano conclusivo della Sonata in La
maggiore op. 30 n. 1; dunque, la “Kreutzer”nasce come ripensamento
retrospettivo dei problemi formali che quella sonata – dove il melodizzare
disteso, mozartiano, veniva compresso dentro una tecnica dello Sviluppo
haydniana – aveva lasciato aperti. Beethoven non cerca più temi: cerca
campi di forza neutri che lo lascino libero di modulare liberamente su
regioni lontane. Anche la Sonata in do minore op. 30 n. 2 ha un incipit,
“Allegro con brio”, giocato su due note; questa volta intese come intervalli
tensivi, armonici, non embrioni tematici. Nella Sonata in Re maggiore op
102 n. 2 per violoncello e pianoforte, il motivo iniziale del primo
movimento, “Allegro con brio”, è un'inversione dell'incipit di questa stessa
sonata, un'analisi delle cui analogie con quello della Sonata op. 31 n. 1 per
pianoforte, “Allegro vivace”, ci porterebbe, adesso, troppo lontano.
Nell'“Andante più tosto Allegretto” della Sonata op. 12 n. 2 – sappiamo
che Beethoven usa la doppia indicazione di tempo quando vuole indicare
che un brano ha due sezioni contrastanti – compare una cellula ritmica che
ritroveremo, su ben più larga scala, nella Sinfonia n. 7 op. 92, come
generatrice dell'intera struttura. La Sonata in Re maggiore op. 12 n. 1,
inoltre, è una sorta di laboratorio del Quartetto op. 18 n. 3, così come la
n. 3 in Mi bemolle maggiore, l”Adagio con molta espressione” –
un'indicazione a pensare il tempo scavalcando le battute sulla base della
continuità lirica – ha tratti che richiamano il “Largo, con gran espressione”
– che significa, in pratica, “senza tempo” – della Sonata op. 7 per
pianoforte, nonché alcune figurazioni del Trio per archi in do minore op. 9
n. 3. Nella Sonata op. 12 n. 1, “Rondò. Allegro”, la Sonata op. 7 agisce
sulla struttura armonica, determinando un ultimo ritorno del tema un
semitono sopra la tonalità d'impianto. Chi ha pratica di Composizione sa
che la scrittura a due parti è una sorta di canovaccio d'impianto che
permette l'elaborazione di Forme complesse: tale fu, per Beethoven, il
lavoro sulle Sonate per violino e pianoforte. Dai brevi esempi che abbiamo
esaminato emerge il primo di quei meta-caratteri idiomatici – così li
definisco – da cui hanno origine, nel Maestro, tutti gli altri: “il pensiero
trasversale”. Beethoven ha composto sempre e solo la stessa opera: un
nucleo, un fulcro generativo dal quale si orientano, organico per organico,
sperimentazioni e correzioni continue, lungo un'evoluzione quasi
spontanea del materiale nato dal continuo scontro, dentro il suo animo, tra
rigore e libertà, volontà e destino, amore e mistica del silenzio. Beethoven,
nella musica, ha fatto del proprio dolore una forza della natura. Le Sonate
per violino e pianoforte sono preziose anche perché ci mostrano, allo stato
puro, un altro meta-carattere idiomatico del Maestro. Lo chiamo “la
progressione disattesa”. Beethoven fa delle Forme musicali ciò che fa dei
motivi: le disarticola, le riduce ad elementi che poi ricombina. Nel primo
movimento della Sonata in La minore op. 23, “Presto”, ci precipita,
all'inizio, nel bel mezzo dello Sviluppo. L'Esposizione di questa Forma-
Sonata è, come dire, implicita, disattesa. Il Finale, “Presto”, della Sonata
op. 47 “a Kreutzer” è un Rondò atematico, giocato su figure ricorsive. Per
evolversi, devono ricorrere ad una Invenzione a due voci che con la logica
classica del Rondò finale cozza clamorosamente. Il Contrappunto è
lineare, evolutivo; il Rondò, è ciclico. Tutto nasce da questa aporia
formale, gabbia dell'immaginario che diviene propulsione liberatoria. Nel
Finale della Sonata op. 12 n. 2, “Allegro piacevole” – dove quel
“piacevole” ha un valore derisorio, ed è un invito alle licenze agogiche più
bizzarre – abbiamo un Minuetto con Trio completo di riprese come si
deve, solo che la struttura del movimento è una Forma-Sonata incrinata da
un Rondò. Inevitabile la spoliazione tematica per erosione carsica. Il
celebre tema iniziale della Sonata in Fa maggiore op. 24 “La primavera”,
“Allegro” (si noti il sottotitolo da club calcistico giovanile, tra tutti gli
apocrifi beethoveniani, il più idiota), è già completo, privo di tensione
evolutiva. Pare la Ripresa sintetica di una Forma-Sonata, non certo una
Esposizione; infatti Beethoven, a contrasto, introduce una marcetta citrulla
che impedisce al canto di espandersi lungo i picchi e le vallate dello
Sviluppo. Oltretutto, quell'“Allegro” è un insulto sia che significhi “in
Forma-Sonata”, sia il tempo appropriato ad una melodia così peristaltica.
Nella più grande Sonata per violino di Beethoven, la op. 96, il sorriso fatto
di un velo ornamentale, sorta di burqa tematico, dello strumento ad arco,
cui risponde l'assenso marpione del pianoforte, è foriero di un viaggio
fluviale, nell'“Allegro moderato” – indicazione di tempo sempre indizio, in
Beethoven, di esperimenti formali – dove tutti i detriti, i motivi secondari,
le efflorescenze spontanee, divengono salda convergenza verso l'idea
formale. Se dobbiamo pensare a esiti simili di apparente spontaneità,
scissione per meglio saldare, sguardo in tralice, in tutto Beethoven, non
possiamo evocare che tre Sonate per piano, le opp. 78, 90 e 101: tutte
effusioni spontanee del sentimento. Sempre, il Beethoven innamorato è un
genio della “progressione disattesa”. Il terzo meta-carattere idiomatico è
“la scenografia della Forma”. Beethoven usa le convenzioni delle strutture
classiche per creare tensione, suggerire una drammaturgia sottesa. Per
esempio, l'inizio della Sonata op. 30 n. 2, con la sua evanescenza su di un
gioco di ornamenti non melodico, ma quasi improvvisativo, si apre
progressivamente in un canto disteso. È quella mistica beethoveniana del
“per aspera ad astra” secondo la quale si raggiunge il cielo solo passando
per le scabrosità del mondo terreno. Nel brano citato questo dischiudersi
lento dell'orizzonte ha un tono aurorale, come succede anche
nell'evoluzione del bellissimo “Adagio espressivo” della Sonata op. 96, il
suo tema di Corale; oppure nel lungo “pedale” armonico che intride di sé
l'ultima variazione, “Adagio”, del Finale, “Poco Allegretto” – indicazione
dove Beethoven prescrive un chiaro tempo di base su cui calcolare ogni
variante – o ancora, in quel “fugato” che, nello stesso brano, complica e
ramifica il ritorno del tema. Un secondo tono, dopo quello aurorale, in
questa “scenografia della Forma”, è quello torrenziale, quale emerge nel
primo movimento, “Adagio sostenuto-Presto”, della “Kreuzer”. Talvolta,
questo tono può non essere diretto, ma obliquo. L'innocente Finale,
“Rondò. Allegro non troppo”, della Sonata op. 24, col suo melodismo
ciclico e ricorsivo, quasi germinato in un cielo immune al tempo, è uno
spostamento drammaturgico dell'orizzonte, non una risoluzione della
Forma. L'ultimo meta-carattere idiomatico che emerge nelle Sonate per
violino lo si è già avvertito operare, sotterraneo, in tutto il nostro discorso.
Si tratta della “distorsione parodica”. Il tema destrutturato, gestibile solo
per sezioni, della Sonata op. 23, il “Presto”, elude a tal punto quello che
dovrebbe essere il comportamento di un primo soggetto di Forma-Sonata
da costringere il compositore a ripresentarlo – in versione, questa volta,
ortodossa, pienamente elaborata – prima della Ripresa. La Forma-Sonata,
qui, è il Barone di Münchhausen, che esce dalle sabbie mobili
aggrappandosi ai propri capelli. Anche il temino pieno di sussiego, di
inchini complimentosi, per poi elevarsi appena di un palmo e subito
afflosciarsi in uno sbadiglio, con tutta la ridda di Variazioni che lo
pungolano, lo sminuzzano con pizzichi di fate manco fosse un Falstaff
truccato da giovine amoroso, e infine lo lasciano con un palmo di naso alla
fine di una svenevole Coda, senza un degno congedo: anche l'“Andante
con Variazioni” della “Kreutzer” è una distorsione parodica, piuttosto
maligna, di Mozart. Dove questo ultimo carattere idiomatico celebra il
proprio trionfo è nel “Poco Allegretto” della Sonata op. 96, la stoffa del cui
tema viene dal repertorio del pecoreccio Singspiel danzante in voga nella
Vienna dei fatti ricchi dai Tempi Nuovi; cose come quelle di Wenzel
Müller e Weigl. Beethoven, nel far vedere che cosa si può trarre da simile
sbobba buona ai plebei, anticipa il se stesso delle Variazioni su un Walzer
di Diabelli op. 120.
Le Sonate per violoncello sono la punta estrema dello sperimentalismo
beethoveniano nella musica da camera, fatta eccezione per i Quartetti. La
possibilità di sfruttare l'estensione dello strumento ad arco, per la prima
volta usato in modo “antifonale”, grazie all'opposizione tra il registro
grave e quello acuto, crea un gioco polifonico inedito a quei tempi,
caposaldo per i futuri Schumann, Brahms, Dvořák, fino ad Edward Elgar.
Come la scrittura delle Sonate per violino deve molto a George
Bridgetower e Pierre Rode, quella delle Sonate per violoncello – fino ad
allora relegato nella funzione anodina del “basso” – nasce dall'interazione
tra Beethoven, Jean Louis Duport (certi passaggi delle Sonate op. 5 sono
del tutto simili agli esercizi tecnici pubblicati da quest'ultimo) e Joseph
Linke. Eppure, nonostante questa natura di lavori “confezionati su
misura”, le Sonate per violoncello sono alcune tra le opere dove Beethoven
apre di più gli scenari della musica contemporanea. Nell'“Andante-Allegro
Vivace” della Sonata in Do maggiore op. 102 n. 1 troviamo fin dalle prime
battute un carattere idiomatico proto-novecentesco, “la proiezione a
ragnatela”. L'imitazione tra i due strumenti non è solo motivica, ma anche
metrica: ogni frase dell'uno si ramifica nella risposta dell'altro,
condizionandone la progressione. Accanto a questa invenzione canonica
nelle macrostrutture, però, esiste anche un più sottile gioco di specchi nelle
microstrutture. Si direbbe che la pratica del Contrappunto ritorni, qui, alla
sua origine di “punctum contra punctum”, nota contro nota. La sensazione
di un tema fantasma che nasce da linee oblique tra le due parti richiama lo
stile delle Sonate e Partite per violino (in realtà chiamate, dal compositore,
semplicemente Sei Solo a violino senza Basso accompagnato) di J. S.
Bach. L'Armonia serve a suggerire un continuo, segreto movimento
evolutivo delle parti; ovvero, ritorna al libero gioco tensivo presente nelle
Symphoniae sacrae di Giovanni Gabrieli. Questo Beethoven distende la
propria influenza fino all'Elliot Carter del Quartetto n. 1 per archi (1951).
Carter definì “modulazione metrica” un simile procedere delle parti, quasi
fossero un unico organismo che si sviluppa per minime varianti della
stessa idea. Si capisce perché Beethoven abbia voluto introdurre la Sonata
op. 102 n. 1 con un movimento lento: non più un preludiare, come nelle
Sonate op. 5, ma la definizione di un campo di forze; un habitat biologico,
verrebbe da dire, per ciò che deve nascere. Il secondo carattere idiomatico,
in queste Sonate, è una conseguenza del primo. Lo potremmo definire
“attrazione bipolare”. Nasce dalla monomania della Poetica
beethoveniana, l'applicazione dei suoi due Princìpi ad ogni parametro della
pratica compositiva (è, questo, il “serialismo” di Beethoven). Così,
nell'“Adagio Sostenuto-Allegro” della Sonata in Fa maggiore op. 5 n. 1,
dopo l'introduzione, alla batt. 194 il violoncello si mette a ronzare su un
intervallo ripetuto nel registro grave che pian piano contagia il pianoforte,
bloccandolo su di un semitono in ritmo puntato che sfocia dentro un
paesaggio di incertezza armonica. Sembra una frenata davanti a un banco
di nebbia. Nel “Rondò. Allegro Vivace” della stessa sonata, a batt. 204, la
ripetizione ossessiva di un La bemolle che sfocia in un gioco di bicordi,
nel violoncello, fa del pianoforte una sorta di arpa celtica protesa verso il
nulla, ossessionata da quei bicordi, lievi come colonne di fumo, emanati
dal violoncello in uno “sfp”, “sforzato piano”, destinato poi a trionfare
nella Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”. Ovunque, in queste Sonate op. 5,
esordio beethoveniano nel genere, il pianoforte sfugge, in qualche modo,
allo strumento ad arco elaborando in tempo reale ogni spunto di lui, per
poi porsi in ascolto passivo delle sue meditazioni. Uno strumento,
insomma, è il “Princìpio che si oppone”; l'altro, il “Princìpio che implora”.
Nel Finale, “Allegro. Allegro Fugato” dell'ultima sonata, la più grande,
l'op. 102 n. 2, la Fuga conclusiva porta all'esasperazione questa dialettica
inconciliabile che sposta continuamente in avanti il punto di riposo,
disintegrando la regolarità intervallare del materiale tematico. Trilli e
“tremolo” annullano le stanghette delle battute, determinando la frattura tra
Forma e invenzione tematica che fa del Beethoven contrappuntista un
archeologo che discende nella cripta dove giace J. S. Bach. Quello del
Beethoven “bipolare”, è un Neoclassicismo contrappuntistico. Per una
strana convergenza tra la tecnica compositiva beethoveniana e la nostra,
che la analizza, questo terzo carattere idiomatico è esito del secondo. Una
simile consequenzialità, sarà un inevitabile effetto di quella “modulazione
metrica” di cui parlava Carter? Anche noi, qui, diveniamo “seriali”: ogni
parametro, ogni carattere idiomatico, ci appare evolversi in una
successione prestabilita insieme agli altri. Il carattere idiomatico di cui ora
ci occupiamo, il Contrappunto armonico, fa sì che nelle Sonate per
violoncello beethoveniane le funzioni dell'Armonia governino non più solo
l'opposizione tra i due temi della Forma-Sonata, ma l'intera struttura. È il
principio della Urlinie, la “linea originaria” – che mai compare nel brano,
ma lo regola dal profondo per le tensioni della sua occulta tettonica – tanto
in voga, complice questo Beethoven, nell'Idealismo tedesco post-
romantico. Nel già citato “Allegro. Allegro Fugato” che chiude l'op. 102
n. 2, Beethoven non utilizza la tensione tra due regioni armoniche, come
nello Stile Classico, ma l'opposizione tra la tendenza dell'Armonia alla
risoluzione e la propulsione disgregatrice del Contrappunto. Eleva la
dialettica illuminista della Forma-Sonata a emblema della lotta tra ragione
e caos; dove il caos nasce dalla ripresa di pratiche antiche, del primo
Barocco. Vuol significare, il Maestro, il ritorno dell'Europa ad una nuova
Controriforma, per opera delle forze destinate a schiacciare la rivoluzione
occulta degli Illuminati? Di certo, questo uso dello stile imitativo ha
qualcosa della “sprezzatura”, la dolorosa ferita dissonante nell'ordine delle
voci, monteverdiana. Nella Sonata op. 69, la più ambigua, col suo disteso
lirismo, per trovarci nella regione della Dominante dobbiamo aspettare
l'oasi del breve “Adagio cantabile”. Beethoven, con questo uso
dell'Armonia come itinerario alla concordia delle voci – un uso, dunque,
contrappuntistico – rende ambigua: “delirio”, perdita del senso, della
direzione, la bellezza erratica dell'“Allegro ma non tanto” iniziale. Del
resto, quando il Maestro scrive “non tanto”, vuol dire che ci stiamo per
addentrare in un ginepraio armonico... E veniamo al meta-carattere
idiomatico più avanzato del compositore, quello che anticipa la
dodecafonia e Anton Webern: “il tema come sequenza”. Ne troviamo un
esempio illuminante nell'“Allegro ma non tanto” della Sonata op. 69, dove
il violoncello solo enuncia un tema su di una Quinta, La-Mi, che poi
trapassa cromaticamente in un Fa diesis-Do diesis capace di riassumere nel
giro di un intervallo la struttura armonica dell'intero Sviluppo. La melodia,
qui, è anche la Urlinie del brano. Per Beethoven non si tratta più di
inventare un tema, ma di disegnare una linea curva, la melodia, intorno ad
un nucleo di tensioni armoniche. Delimitare il campo di forze è il modo,
metafisico, che ha di cantare. In maniera di certo più rudimentale, nella
Sonata in sol minore op. 5 n. 2, l'“Adagio sostenuto ed espressivo” – e
questi due “correttori” all'“Adagio” dovrebbero già farci capire quanto il
Maestro voglia che ci soffermiamo sulle tensioni armoniche – il preludiare
ad imitazione diretta tra i due strumenti, con un gioco di specchi tra le
parti, cristallizza in poche battute il divenire successivo della Forma.
L'ultimo meta-carattere idiomatico ci conduce fino al Béla Bartók del
Quartetto n. 4 per archi. È la “Forma ad arco”: ciò che io più amo, in
Beethoven, perché implica un continuo processo di rigenerazione. Può
essere di due tipi: strutturale ed armonica. La seconda, la più semplice, è
un “rivolto” del carattere idiomatico precedente, il Contrappunto
armonico. Nell'“Adagio cantabile” della Sonata op. 69 abbiamo visto
come la regione della Dominante domini la Forma fissandosi nel mezzo
come il pilastro di un cavalcavia. Beethoven, in questa dimensione
macrostrutturale, sta già preparandosi a quel Quartetto op. 131 nel quale i
vari movimenti si succedono senza soluzione di continuità. L'Armonia non
organizza più, con lui, la struttura dei movimenti; sono i movimenti a farsi
struttura dell'Armonia. Questa drammaturgia della Forma lo sospinge
sempre di più verso la musica “pura”, creata da nudi intervalli costruttivi.
La “Forma ad arco” strutturale compare con evidenza nel primo
movimento, “Andante-Allegro Vivace”, della Sonata op. 102 n. 1, dove la
sezione veloce è incorniciata da quella lenta, la quale riappare alla fine del
brano per traslarlo nel movimento finale. L'”Allegro Vivace”, non essendo
più una struttura lineare, progressiva, si avvita su se stesso in un cimento
contrappuntistico che potremmo definire “a combustione interna”,
cosicché la nitida purezza dell'“Andante”, al suo riapparire, ne risulta
trasfigurata. È la lezione del J. S. Bach delle Variazioni “Goldberg”, ma
con il lavorio delle permutazioni continue ridotto a un semplice miracolo
essenziale di riflessi interni alla Forma. Il Beethoven degli ultimi Quartetti
riprende l'idea di un tempo compresso come roccia lavica, l'eternità
simbolica del Barocco, e lo incastra quasi fosse un prisma dentro le
campate della Forma-Sonata, sulle quali questo “Allegro vivace” dell'op.
102 n. 1 è, contro ogni sua natura, costruito. C'è una sorta di umorismo
silenzioso dell'intelligenza, in siffatto satanico travisamento di ogni valore,
che è tutto Beethoven. Se lo si comprende, nel sublime “Adagio con molto
sentimento d'affetto” della Sonata op. 102 n. 2 – unico vero movimento
lento concepito da Beethoven per questo organico – quell'“affetto”
ritroverà la sua natura allusiva e arcaizzante: l'antica Retorica del Barocco
musicale, il rimpianto di una civiltà perduta.
Ora esamineremo alcuni luoghi della sua musica da camera dove
Beethoven non si è soffermato, pur passando in visita di cortesia ai
compositori del proprio tempo: quelli dello “stile galante”, tanto lontano
da lui che, nello “stile obbligato”, si diceva “nato”. Questa breve
passeggiata nel Beethoven giovanile è anche una sorta di suo diario
sentimentale, una raccolta di paesaggi interiori, luoghi dell'immaginario
prima della reclusione, più o meno volontaria, nella sordità e nell'intricata
polifonia del suo stile maturo. Troveremo, poi, anche due luoghi segreti,
sconosciuti ai più, e culla del Beethoven maturo. Il primo luogo che
visitiamo, potremmo definirlo “Il matrimonio dei due Princìpi”,
intendendo i dominatori della musica beethoveniana, i Prìncipi della
Dialettica: il “Princìpio che si oppone” e il “Princìpio che implora”. Il Trio
in Mi bemolle maggiore op. 3 per archi, che risale ai tempi di Bonn, serve
a Beethoven per fare avvertito l'eletto pubblico di come quella di non
scrivere più, nelle opere mature, per un effervescente violino solista con
accompagnamento, sia una scelta, non sterilità lirica. Tuttavia, ecco che
nell'“Andante” e nell'“Adagio” abbiamo due modi diversi di declinare lo
stesso “affetto” di tenerezza: uno mosso, contrastato da idee secondarie;
l'altro disteso, sereno, astratto in un perfetto altrove. Sono i due Prìncipi,
non ancora Princìpi, colti nella loro infanzia studiosa, prima
dell'investitura. Il considerare un materiale analogo da due differenti punti
di vista diventerà, poi, la leva segreta dell'ispirazione lodoviciana.
Un altro luogo ameno cui riserveremo solo uno sguardo è “Il giardino
segreto” di Beethoven: la Serenata in Re maggiore op. 8, sempre per trio
d'archi, dove il compositore si elegge maestro delle cerimonie agresti
componendo una musica nostalgica, sapida delle antiche Cassazioni da
eseguirsi all'aperto, tra i giochi d'acqua delle fontane e il sole che tramonta
tra i labirinti di siepi. Il lavoro è curioso, perché ne deduciamo a contrariis
la tecnica compositiva di Beethoven. Qui, egli dispiega le melodie oltre la
loro capacità di sutura, svelandone l'inconsistenza, piuttosto che
comprimerle, fissarle in intervalli significativi e, quindi, sovrapporle tra
loro. Come sempre quando è in vacanza, il Maestro si dedica a un brano
“alla Polacca”: l' “Allegretto”; così è anche nel Triplo Concerto op. 56 e
nella pianistica Polonaise in Do maggiore op. 89 scritta per la Zarina
durante il Congresso di Vienna. Anche Fëdor Dostoevskij, quando vuole
indulgere al grottesco, fa entrare in scena, nei suoi romanzi, i Polacchi (e
non è certo l'unico punto di contatto che il terribile profeta della Modernità
russo ha con il provinciale di Bonn; da cui l'astio di Lëv Tolstoj verso il
Nostro...). Che cosa poi abbiano fatto di male, a Beethoven, i Polacchi:
questo, non lo sappiamo... Nel terzo movimento della Serenata il Nostro ha
uno scatto dei suoi, e facendo slittare un “Adagio” lieve come una foglia
dentro l'ingranaggio di uno “Scherzo. Allegro molto” alquanto
effervescente, manda in grippaggio la macchina dei divertimenti
neoclassica.
Allungando il passo di qualche anno, ci inoltriamo in un vero Prater
viennese della musica, un luogo di piacevoli spassi, che chiameremo,
rossinianamente, “L'equivoco stravagante”, e dove si situa il Quintetto in
Do maggiore op. 29 per archi. C'è anche la ruota panoramica, composta da
un “Adagio molto espressivo” dove si gode una veduta dentro le stanze
mentali di Mozart – o forse è un maniaco che esaspera Mozart in ogni sua
movenza – e un “Presto” finale nel quale i repentini cambi di tempo, gli
sballottamenti ginnici di modulazioni scarabocchiate mentre
Albrechtsberger dormiva, e le imitazioni di salieriane Cabalette sono il
teppismo di un Beethoven che riempie di murales le avoriate pareti delle
casa di nonno Ludwig, Kapellmeister in Bonn.
Prima di entrare in un luogo speciale, l'ultimo visitato da Beethoven sulla
rotta per l'Iperurianio, vale le pena di disquisire un po' su che cosa sia un
capolavoro. Un capolavoro lo si può scrivere o per fondare uno stile
nuovo, o per liberarsi di uno stile vecchio, esaurendolo dall'interno. La
seconda maniera, che potremmo definire “del paradossale accademismo”,
giustifica tutto Stravinskij, da capo a fondo, ed è anche la chiave per capire
una musica, oggi, così stinta come il Settimino in Mi bemolle maggiore
op. 20 per archi e fiati di Beethoven. L'epoca del compositore è già
“critica”, obbligata a volgersi indietro e guardare la Storia, prima di
procedere in avanti. Beethoven vuole dimostrare ai propri contemporanei
che, se poi farà quel che farà, non è perché non sappia fare ciò che
comunemente si fa. Il Settimino sta a lui come le “nature morte”
adolescenziali stanno al Cubismo di Pablo Picasso. E qualcosa di cubista,
di stravinskiana “musica al quadrato”, c'è, nel motorismo insensato
dell'“Allegro con brio”, in quell'impalcatura di Minuetto senza più la
danza, solo il ritmo, che sogghigna nel “Tempo di Menuetto”, fino alla
Cadenza surrealista del primo violino nel “Presto” finale. Il Settimino op.
20 è un luogo di congedi: è “La cerimonia degli addii”.
Esiste un luogo, in questa periferia, museo delle cose perdute, dove
Beethoven custodisce il segreto del suo genio. È “L'Aleph”, quel posto
occulto nelle cose visibili dove Jorge Luis Borges, in un suo celebre
racconto, colloca la compresenza dell'intero universo. E davvero
Beethoven, in età matura, costruirà immense cattedrali fatte di Aleph:
motivi neutri, anonimi, ma densi, tesi, capaci di espandersi in tutte le
direzioni, in derive infinite. Un primo saggio di questa tecnica l'abbiamo
nei Trii op. 9 per archi; tre lavori dove ogni evento sonoro, anche se
minimo, ha conseguenze sull'intera Forma. Così, nel Trio in Sol maggiore
op. 9 n. 1, nel primo movimento l'“Adagio” iniziale viene utilizzato, alla
fine dell'“Allegro con brio”, come tunnel verso la Ripresa. Beethoven
scava già da adesso sotto la montagna della Forma-Sonata, facendone
cadere un po' di calcinacci. L'incipit quasi organistico del Trio in do
minore op. 9 n. 3, l'“Allegro con spirito” – dove “con spirito” si indica la
dinamica di “crescendo” fino a “fp”, “forte/piano”, delle prime tre battute;
è dunque, un'indicazione di dinamica ottenuta per via agogica, come
spesso Beethoven fa – parte con un rigoroso “basso” di Passacaglia che poi
si apre subito in un gioco imitativo di specchi. Abbiamo qui, in boccio,
quell'uso armonico del Contrappunto, quell'interazione tra struttura
verticale, i pilastri delle funzioni armoniche, e specularità delle parti
superiori: l'incessante lavorio evolutivo che spiega da solo l'intera opera
beethoveniana. Nel Finale del Trio op. 9 n. 3, “Presto”, un breve inciso
tratto dall'idea iniziale si protende sempre più nella Ripresa, disarticolando
le prevedibili simmetrie della Forma. Siamo vicini a quel carattere
idiomatico che abbiamo definito “proiezione a ragnatela”. Senza i Trii op.
9, “L'Aleph”, non si capisce tutto il Beethoven successivo. Che non
vengano quasi mai eseguiti rimane, per me, un mistero ancora più
profondo di quello del genio beethoveniano (forse perché i due ordini di
mistero andrebbero invertiti...).
Il rapporto di Beethoven con i virtuosi è di due tipi: o ne assorbe le
trascendenti qualità nella Forma, oppure quelle assorbono lui, e la Forma
sua. La Sonata in Fa maggiore op. 17 per corno e pianoforte, composta
mentre il cornista Giovanni Punto (il quale, nell'“originale”, di cognome
faceva Stech; e si capisce lo pseudonimo...) trafficava con la ferramenta
innovativa delle sue ritorte e cacciava la mano nel padiglione dello
strumento, per fare i semitoni: questa sonata dove il corno scolpisce litanie
funebri, danza, lega frasi, modula, e insomma fa qualsiasi cosa tranne
quanto ci si aspetterebbe da lui, appartiene al secondo tipo, ed è più Punto
che Beethoven; o meglio, un punto fermo di Beethoven su questo stile
“concertante”, senza il quale, va detto, non avremmo avuto i corni boschivi
di Weber (che a Beethoven, anche per colpa loro, pareva compositore fin
troppo elaborato, artificiale). Questo luogo visitato in fretta e furia, lo
chiameremo “Niente Stech, siamo Obbligati”.
Il prossimo luogo è “L'asilo delle verghe pedagogiche”. Dentro, ci
troviamo il Trio in Si bemolle maggiore op. 11 per clarinetto, violoncello e
pianoforte. L'“Allegro con brio” è scritto col regolo calcolatore, ma
comunque un regolo concesso in prestito da Gottfried Wilhelm Leibniz,
visto l'uso intelligente degli intervalli che vi viene fatto. L'“Adagio” mostra
che cosa sarebbe successo, a Beethoven, se il suo programma per la
costruzione motivica fosse funzionato con il comando “copia e incolla” in
automatico. Pochi temi combinano allo stesso modo l'esilità
dell'invenzione e l'artificiosità della sua elaborazione, con, in più, una sorta
di oscillazione autistica inedita, nel dinamico leone delle agogiche. Il tema
del Finale, “Allegretto con Variazioni”, è di quel Weigl di cui Beethoven si
farà beffe nella Sonata op. 96 per violino, e considerando come il tema gli
venisse imposto dall'editore Artaria, e quanto le Variazioni che il Maestro
ci costruisce sopra oscillino tra uno squadernamento da geometra e una
comicità che vorremmo consapevole, ma temiamo sia involontaria, ora
sappiamo perché.
Un luogo bello, pieno di creature ancora infanti, ma destinate a svilupparsi
in fisionomie interessanti, è l'Ottetto in Mi bemolle maggiore op. 103 per
due oboi, due clarinetti, due fagotti e due corni, che sta in alto nei numeri
di catalogo, ma è una scampagnata del ventenne Beethoven insieme ai suoi
amici dell'orchestra di corte bonnense. Questa volta, il Maestro fa scuola a
se stesso, senza accademici di torno. Nell'“Allegro” rimanda il suo futuro
docente Haydn a scuola da Nicola Porpora, mettendo in evidenza un tale
nesso tra l'Opera italiana e la Forma-Sonata absburgica da mandare in
estasi gli attuali revisionisti, ciarlatani e non, diffusi nel Belpaese.
Nell'“Andante”, diabolicamente, fa sentire come i suddetti operisti
dovrebbero sviluppare i temi delle loro Arie. Nel movimento successivo
spacca un po' di caviglie ai danzatori degli eterni Minuetti, che qui
scalpicciano in uno dei primi Scherzi, di nome e di fatto, beethoveniani. È
un momento importante: la prima volta in cui il Maestro fa costantemente
del ritmo un parametro costruttivo la Forma. Il Finale, “Presto”, ci fa
sentire che Beethoven non conosceva ancora Punto, e che costui aveva, a
Bonn, molte Stech a lui cugine. L'Ottetto è il “Panorama dalla camera da
letto”: un luogo di paesaggi che rimangono per sempre nella memoria.
Anche Beethoven ha il suo “Imbarco per Citera”: l'isola delle delizie,
agognato paradiso della Forma. Un simile luogo del manierismo estetico
alla Antoine Watteau ha due promontori.
Il Rondino in Mi bemolle maggiore W.o.O. 25, concepito per lo stesso
organico dell'Ottetto, è splendido per come, nel suo “Andante”, trasfigura
un semplice inciso di marcia in un solare Inno all'equilibrio tra le sue
diverse estroflessioni melodiche. Pare di vedere raggi di luce muoversi da
un corpo celeste per poi venirne subito riassorbiti. Siamo già nel
laboratorio della Sinfonia n. 7 op. 92, come dimostra anche il ripetuto
ricorso a “ten.”, “tenuto” (ve lo ricordate, l' “Allegretto” della Settima?). Il
secondo promontorio è la Serenata in Re maggiore op. 25 per flauto,
violino e viola, superba parodia del “concertato” barocco, e tra i primi
esempi beethoveniano di una musica “desultoria”: con l'accento metrico
perennemente spostato in avanti, e il motivo che gli corre dietro
sviluppandosi, senza accorgersene, in melodia.
Il Quintetto in Mi bemolle maggiore op. 16 per oboe, clarinetto, corno,
fagotto e pianoforte fu scritto da Beethoven come “menù a prezzo fisso”
da ammannire ai salotti viennesi. È un vero “take away” dei gusti di allora;
per lo più, va detto, in forma liofilizzata. Nel “Grave” iniziale Beethoven
riprende il preludiare accordante d'antan, facendo poi dell'“Allegro non
troppo” una sorta di Concerto per solista e orchestra in miniatura.
L'“Andante cantabile” mostra che cosa succede ai temi di Mozart quando
li si incastra nel dispositivo per lo sbobinamento strutturale ideato da
Haydn. Repertorio di “gesti”, il Quintetto, di spunti dialogici gestiti con
quella civiltà delle buone maniere, dell'educato conversare, che era la
musica da camera ai tempi in cui il virtuoso acclamato Ludwig van
Beethoven non era ancora stato salvato dalla sordità progressiva. Questo
luogo è il “Come eravamo” della vicenda creativa beethoveniana.
Anche nella musica per fiati di Beethoven esiste un luogo misterioso,
esoterico. In conseguenza dell'“Aleph” borgesiano, lo chiameremo “La
biblioteca di Babele”. Sono i tre Equali per quattro tromboni che
Beethoven compose per Franz Xaver Glöggl, Domkappelmeister nella
Cattedrale di Linz, ospite frequente del Maestro e suo psicoanalista in stile
“reservatus”, quando il farmacista linzese Johann van Beethoven lo
mandava fuori del “sistema temperato”. Il Graduale è un'arcaica Forma di
musica funebre, e Beethoven ne sviluppa il linguaggio incatenandolo su
progressioni del “basso obbligato” secondo misteriose Passacaglie, in una
liturgia del viaggio dell'animo per aspera ad astra. Si tratta di studi
altissimi sul recupero di procedure fiamminghe, un vero laboratorio per gli
ultimi Quartetti e, soprattutto, la Missa Solemnis. Il Terzo Equale esegue
una condensazione armonica, un passaggio radente su regioni tonali
lontane che spiega come mai proprio questi brani vennero destinati –
anche se solo i primi due, e trascritti per coro maschile – a solennizzare le
esequie terrene di Beethoven. Infine, è probabile che questa musica sia la
prima cosa che di Beethoven il giovane Bruckner, a Linz, abbia sentito. La
loro influenza sullo stile dell'ultimo grande sinfonista in senso classico è
incalcolabile.
LA RETROSCENA. MACCHINARI PER IL DRAMMA.
“Il fatto che in un'opera d'arte venga sperimentata una verità non
raggiungibile per nessun'altra via è ciò che costituisce il significato
filosofico dell'arte, il quale si fa valere contro ogni capziosa
argomentazione”.
(Hans Georg Gadamer)
1 Dove ritornano sviluppati i temi principali del libro che è due libri
1. “Senza forza, senza energia, non c'è né virtù né felicità”. “La forza è la
morale di coloro che si distinguono dagli altri. Ed è anche la mia”.
Napoleone Bonaparte e Beethoven: le due frasi sono quasi indistinguibili.
Due parvenu, due uomini di nascita oscura destinati a crearsi il proprio
destino con le loro stesse mani. “La felicità? È il massimo sviluppo delle
mie facoltà”, afferma Napoleone con beethoveniana icasticità. La ferita
all'orgoglio, il risentimento sociale, spinsero il tenente francese a farsi
“Imperatore secondo lo statuto della Repubblica”, un paradosso a tal punto
comico che il fatto di non averlo sentito per tale spinse l'Europa
all'autodistruzione. Giustizia chiama violenza? in musica, dunque, la
violenza è una forma di giustizia... Così, allo stesso modo, Beethoven
compone all'interno delle convenzioni musicali che si trova ad ereditare: la
Forma-Sonata, il cosiddetto Stile Classico, ma solo per poterle incrinare
con le spinte telluriche delle sue trasgressioni; farle implodere, per meglio
demolirle. In entrambi questi eroi dell'azione – uno nel tempo, l'altro nella
trascendenza da esso – agisce una disciplina dei modelli costruita con
rigore quasi scientifico. Entrambi, fin dal principio, studiano il mestiere
dei tempi nuovi, l'arte di diventare geni. L'ideale delle virtù eroiche è, per
entrambi, Plutarco, l'autore de Le vite parallele. “Plutarco mi ha insegnato
la via della rassegnazione”, dice Beethoven quando la sordità lo costringe
“a soli ventott'anni, a diventare filosofo”. Tiene il busto di Bruto, il
tirannicida, sulla scrivania dove compone. La biografia di Bruto, in
Plutarco, è per lui un ideale di moralità. Dice di Napoleone: “È un peccato
che io non capisca l'arte della guerra così come capisco quella della
musica. Lo conquisterei”. La guerra, dunque, gli pare un'arte...
L'arte comune a Beethoven e Napoleone, quella che li rende i due simboli
dei Tempi Nuovi nel cui tramonto sopravviviamo, è l'arte di rendersi
padroni del proprio destino. La prospettive dell'esistenza umana sono
cambiate. La Rivoluzione Francese ha “gettato l'uomo nel tempo”.
Rendendolo libero, gli ha dato la responsabilità terribile del proprio
successo. Nel 1788, la Costituzione di un nuovo paese si apre con “ogni
individuo ha diritto alla felicità”: un diritto nel quale si cela, meccanismo
di alienazione, anche un dovere. Napoleone e Beethoven, i parvenu,
devono inventarsi una nobiltà del cuore. Quando si scopre che il prefisso
“van” non è indizio di origini nobiliari, Beethoven si tocca la fronte e il
cuore, “la mia nobiltà è qui, e qui”, proclamando. “Principe, ciò che voi
siete, lo siete per nascita; ciò che io sono, lo sono per merito mio”. E a
ribadire, in altra occasione: “Prìncipi ce ne sono e ce ne saranno a migliaia,
di Beethoven ce n'è uno solo”. Parole entrate nella leggenda, dove
sarebbero dovute restare. Beethoven si trovava, allora, a Gräz, ospite del
principe Lichnowsky. Napoleone era padrone di Vienna. Al principe,
doveva tutto. Si rifiutò di suonare per alcuni ufficiali francesi, ospiti di
passaggio. Lichnowsky minacciò di rinchiuderlo nelle segrete del castello.
Vennero quasi alle mani. Beethoven fuggì nella notte, sotto la pioggia. Al
ritorno a casa diede un tal manrovescio al busto di marmo del suo
protettore da schiantarlo a terra in pezzi. A riprova dell'evento, lo abbiamo
accennato altrove, il manoscritto della Sonata op. 57 cosiddetta (non da
Beethoven) “Appassionata”, cosparso di macchie d'inchiostro disciolto
dall'acqua. È la Sacra Sindone dei Tempi Nuovi...
Beethoven vedeva Napoleone come un tiranno e un invasore. Alla sua
morte, quando la Restaurazione e Metternich avranno fatto di Vienna una
galera a cielo aperto, finirà per ricredersi. Anche lui aveva le proprie spie
personali. Le si poteva incontrare in un tavolino accanto a quello dove il
sordo strillava le sue contumelie sulla casa regnante. “Napoleone, prima,
non lo potevo soffrire, ora la penso in tutt'altro modo”. Un simbolo dei
Tempi Nuovi, ormai quasi morente, contempla la morte dell'altro. E
comprende, troppo tardi, che l'utopia del parvenu còrso, un'Europa Unita
dai diritti del suo nuovo Codice Civile, è la stessa da lui resa Inno nella
Nona Sinfonia. Anche Beethoven, nel sovvertire le regole della sua arte,
era un tiranno. Quando gli fanno notare alcune, proibitissime dai trattati,
Quinte “parallele”, che pensano essergli sfuggite, “ebbene, io le permetto”,
risponde. Qualcosa di simile fa Napoleone quando, a Nôtre-Dame, davanti
al Papa venuto per consacrarlo Imperatore, si mette da solo la corona sulla
testa. Per colpa di quella corona, ci rimise la dedica della Sinfonia Eroica.
Così la musica cominciò a sublimare gli ideali traditi dalla storia, e
dunque, fatalmente, a divorziare dal mondo reale. Napoleone si era
proclamato “Imperatore secondo lo statuto della Repubblica”, a suo dire,
per rendere realtà il sogno di una pace universale. Beethoven voleva fare
della musica una pratica di virtù spirituali. Il loro conflitto rese la musica
una dimostrazione di come la realtà e le virtù spirituali siano incompatibili.
Questa scissione tra Reale e Ideale ha, nella biografia di Beethoven,
conseguenze pesanti, e tuttora non risolte. La biografia di Beethoven e
quella di Napoleone procedono su derive opposte. Le fonti dirette sul
parvenu còrso sono inoppugnabili; quelle sul compositore renano, dubbie e
aneddotiche. La sua vita divenne mito lui ancora vivente, com'era
inevitabile in un artista cui si deve il divorzio tra arte e storia. Frasi come
le sopra citate, sull'aristocrazia del genio rispetto a quella della sorte:
l'intera relazione tra Beethoven e Lichnowsky, è più una favola bella che
una cronaca. La sordità diede a Beethoven il privilegio di non dover far i
conti con questa dialettica inconciliabile tra mondo e visione interiore. Se
la coccolò, la sordità, alimentandola a secchiate d'acqua gelida sulla testa
che facevano crollare calcinacci sui piani inferiori delle oltre trenta case
viennesi che dovette, anche per questo motivo, cambiare. “Fai in modo che
la tua sordità non sia più un segreto. Persino nell'arte”, scrisse. L'infermità
cronica, ben altrimenti che invalidante, diventava una nuova prospettiva
interiore. Per Napoleone, insidiato da un'ulcera duodenale poi destinata a
evolversi in cancro allo stomaco, fu l'opposto. Non potendo guidare i suoi
eserciti negli scontri finali, il destino lo sconfisse. “Voglio afferrare il
Destino alla gola; non riuscirà certo a piegarmi e ad abbattermi
completamente”: Beethoven, musicista, e quindi, da ora, artefice di un
mondo ideale, sa che non sta assumendo pose da antico eroe, ma
pianificando il proprio esilio dalla realtà.
2. La Rivoluzione Francese spodestò il Sacro dagli altari. La forza
creatrice dell'universo, ora, è la Ragione. Robespierre istituisce il culto
dell'Essere Supremo. Non è Dio. È l'Armonia della natura quale si riflette
nella Ragione, della quale l'intelligenza umana è un raggio visibile.
Un'emanazione. Un armonico musicale. “Sopra la volta delle stelle, deve
abitare un Padre amorevole”, dice Schiller, che Beethoven musica. È
quel“cielo stellato sopra di me” che Beethoven cita da Kant, costellandolo
di punti esclamativi. Schiller ci dice che le stelle nascondono il Padre. Ne
fanno traspirare solo l'emanazione, che è musica. Armonici. Beethoven
studia testi di Astronomia, di Fisica della natura. Osserva il cielo stellato
col telescopio. Legge la Storia universale della natura e teoria del cielo di
Kant. Di Christoph Christian Sturm, Riflessioni sulle opere di Dio nel
regno della Natura e della Provvidenza. Scrive, nella Lettera all'Immortale
Amata, “quando mi considero in rapporto all'universo, che sono io, che
cosa è, colui che è chiamato il più grande! Eppure, proprio in questo sta, il
divino dell'uomo”. Studia le energie naturali, fino a cercare nel galvanismo
una cura per la sordità. Ristabilito l'equilibrio naturale tra tensioni interiori
e forze fisiche, il male se ne andrà, pensa. Il dott. Schmidt, medico che
oggi diremmo “olistico”, medita di curare la sordità di Beethoven con
l'elettricità. Morirà per averne assorbita troppa durante uno dei suoi
esperimenti.
“Napoleone ha cercato la virtù e, non riuscendo a trovarla, ha ottenuto la
potenza”: Goethe ci dice che Napoleone è un musicista mancato. La storia
è azione, non emanazione. Beethoven ne è consapevole fin dai tempi della
Sinfonia Eroica, dove il “tema di Prometeo”, nel Finale, non risolve, ma
rende inutile l'avvento di Napoleone. Prometeo è mito, non storia. È
emanazione della volta stellata. Sconfitti gli altari, dopo la Rivoluzione
Francese, il Sacro si rifugia negli artisti. Anche gli eroi della storia sono
artisti. Ma per essere tali, devono venire sconfitti. Gli eroi della Tragedia
greca peccavano di smodata ambizione, arrogante collasso del limite: la
“hybris”. Questo, li perdeva.
Beethoven amava Eschilo. Napoleone trascorreva l'esilio a Sant'Elena
leggendo l'Edipo re. Entrambi sono i figli di una nuova visione del mondo.
La natura è il riflesso di un mondo superiore che l'uomo deve, con la forza
della ragione, ridurre a regola interpretabile. Lo può fare solo se si
abbandona all'intuizione. Napoleone disse che a sconfiggere gli Absburgo
era stata la loro mania di pianificare tutto prima della battaglia; lui si
affidava ad intuizioni fulminee e imprevedibili, nate dal suo dono di
sentire le energie operanti tra gli schieramenti nemici. Beethoven rivela al
suo giovane ammiratore, Schlösser: “Lei mi chiederà donde io tragga le
mie idee. Non posso dirlo con sicurezza. Esse vengono non chiamate,
direttamente o indirettamente. Potrei afferrarle con le mani nella libera
natura, nei boschi, durante le passeggiate”. È, questo, il Beethoven che
cammina per ore, fin dai tempi di Bonn, nella natura, e si spoglia, e annoda
a un bastone sulla spalla giacca e, talvolta, calzoni, per poi scandalizzare le
contadine che lo incontrano. Il Beethoven che, vestito come un vagabondo,
di notte, vagando per Vienna, si scorda di se stesso, e la polizia lo scorge
osservare fisso una casa, e lo arresta. Il Beethoven di Rousseau, e prima
ancora, di Spinoza. Del pensiero magico, ovvero della scienza alle sue
origini. Il devoto a una forza misteriosa immanente alla natura e fluida
nella mente umana, che l'eroe e l'artista, ciascuno nel proprio mondo,
traggono alla luce. Perché la fanno diventare luce. Napoleone: “L'uomo
non è altro che un essere più perfezionato del cane o dell'albero. La pianta
è il primo anello nella catena della quale l'uomo è l'ultimo”. Goethe, ne La
metamorfosi delle piante, aveva detto la stessa cosa. Nella ghianda è
contenuta, in potenza, la quercia. La sua manifestazione, è solo questione
di tempo. Una questione di musica: l'arte di trascendere il tempo in una
sostanza visibile alla Ragione e da lei malleabile. Goethe era la sintesi
perfetta di Napoleone e Beethoven. Napoleone incontrò Goethe, e gli disse
“vous êtes un homme”; il che voleva dire: una creatura compiuta,
realizzata. Beethoven incontrò Goethe, e non si capirono. Anche in questo,
tra Napoleone e Beethoven, un opposto destino. L'antinomia tra il parvenu
còrso e quello renano, tra l'eroe del tempo vissuto e quello del tempo
pensato, non permetteva altrimenti. La Waterloo di Beethoven – e di tutti i
Tempi Nuovi, i nostri – fu la sua mancata intesa con Goethe. Goethe aveva
iniziato la sua storia di poeta facendo suicidare il giovane Werther. Poi
capì, e riassorbendo in sé l'equilibrio classico, la scienza empirica, il
pensiero ermetico e, nel Divano occidentale-orientale – libro ben noto a
Beethoven – l'eros metafisico del poeta persiano Hāfez, liberò Prometeo
dagli artigli dell'aquila. Incontrò un Beethoven ferito, in piena Età della
Lotta. Non potevano capirsi. La sordità aveva costretto Beethoven fuori
dalla sua prima età, l'Età dell'Integrazione. Raggiungerà solo negli ultimi
anni una sua mistica del cosmo a Goethe affine. E sarà l'ultima sua età,
quella della Trascendenza. I due più grandi maestri dei Tempi Nuovi, a
Teplitz, si incontrarono troppo presto.
“Un'aquila guardava il sole. Era così, e non lo posso dimenticare”.
Beethoven chiede a Therese von Brunsvik di mandarle un suo disegno,
siffatto, che lo ossessionava. “Il mio regno è nell'aria: i miei suoni
turbinano sovente come il vento”. Beethoven sognava un'aquila fissa al
sole, e pensava di essere Prometeo. Goethe, a Teplitz, capì che quella
personalità del tutto sfrenata, ingovernabile: Beethoven, lì a Teplitz, era
quell'aquila, la carnefice del Titano legato sulla rupe della storia.
3. La ternarietà della parabola compositiva beethoveniana è uno di quei
dogmi la cui ricusazione costa la scomunica. La si deve a Wilhelm von
Lenz, autore di un libro, Beethoven et ses trois styles, che dalla sua
pubblicazione, nel 1852, a San Pietroburgo (in territorio protetto, fuori
dalla Germania) fa da capro espiatorio alla pigrizia degli storici della
musica. Si dà dunque per scontato che esistano tre Beethoven. Se volete
far prima, partite da quello di mezzo: dalla Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”
alla Sinfonia n. 8 op. 93 (con la tara di Fidelio) e ritagliate gli altri due
sullo sfondo, come si fa per un selfie popolato di intrusi. Vincent d'Indy,
compositore di un Poème des rivages trasparente come l'esiziale
antisemitismo che, di lui, appare nel suo Beethoven (1913), trasforma, da
buon cattolico integralista, la ternarietà in una Trinità: “Imitazione”,
“Transizione”, “Riflessione”, nessuna delle cui “persone” ha senso alcuno.
Il Beethoven giovanile, il “Gran Mogol” che Haydn, suo maestro, quasi
teme per i trapassi in nera ipocondria; “lo Spagnolo” venuto da Bonn,
butterato dal vaiolo e con la fessura sul mento, il collo quasi sprofondato
nelle spalle, gli occhi piccoli, grigioverdi, e accesi di emozioni troppo
rapide per poter venire fissate: questo Beethoven degli esordi viennesi
proclama di non avere imparato nulla da Haydn, e quando il “Papà” dello
Stile Classico, ora aureolato della fama londinese, gli consiglia di non
pubblicare il terzo dei Trii op. 1, quello in do minore, sospetta che sia per
gelosia, e voglia di tarpargli le ali al primo volo. Questo Beethoven che
chiede ad Eleonore von Breuning, a titolo di riconciliazione (e non
sappiamo da cosa) “un maglione di pelo di lepre lavorato dalle Sue mani”,
perché quello che lei gli ha regalato a Bonn “la moda l'ha messo così fuori
moda che posso soltanto conservarlo nell'armadio” (un caso di feticismo
erotico sostitutivo?); che prende lezioni di ballo e impara a cavalcare,
corteggiato dagli aristocratici più vicini alla corte che ci siano nell'intero
impero dell'aquila a due teste: questo Beethoven degli esordi parodia,
irride, canzona, mette in burletta e fa la caricatura, oppure esaspera i
modelli più o meno amati in un tenero melodismo da rituale della
memoria, un rimpianto della “civiltà delle buone maniere”, come la
definisce Norbert Elias. Tutto questo: ma imitare, no. I suoi anni giovanili,
a Vienna, sono l'Età dell'Integrazione.
Quanto alla “Transizione” di d'Indy, si tratterebbe di una categoria di stile
che accorpa tutti i capolavori davvero popolari del Nostro, essendo notorio
come davanti alle cose più alte, le ultime, di Beethoven, si sosti per lo più
come al cospetto della Sacra Sindone, dalla visita alla quale si torna con
un'espressione diversa che se si fosse contemplata la Gioconda. Direi
piuttosto che il Beethoven compiuto, forte di uno stile stabile, duttile ad
ogni scopo espressivo, sia proprio quello della “Transizione” da d'Indy
presunta... Somma alterigia del genio fu proprio il mettere in crisi, negli
ultimi anni, l'efficacia di un mondo simbolico così vittoriosamente, e con
tanta fatica, raggiunto. Un mondo con una sua semantica riconoscibile, a
costo di una certa ossessività pronta a diventare, nei momenti meno
ispirati, anche parodia di se stessa (ebbene sì: ci metto l'“Allegro con brio”
del Concerto n. 3 op. 37 per pianoforte...). Sul terzo stile di d'Indy, poi, la
“Riflessione”, sono del tutto perplesso. Non si vede quale evoluzione
riflessiva sia possibile, in una transizione; forse che il passo si distende, e
gli scalini diventano pianerottoli? Sarebbe, la riflessione, una sorta di
inerzia senile? Nel d'Indy del Poème des rivages, senz'altro; ma in
Beethoven...
Ascesa, ascesi, superamento di sé: sulla tripartita sostanza, che è una, ma
trina, di Beethoven, pesa la triciclicità della dialettica di Hegel, laboratorio
mentale ai Reich tedeschi. La sequenza Tesi-Antitesi-Sintesi poi svaporata
in quella Esposizione-Sviluppo-Ripresa che ogni studente della Forma-
Sonata recita come un mantra da esame obliabile già il giorno dopo. Dopo
la Rivoluzione Francese i triangoli amorosi dell'aristocrazia diventano,
nella borghesia studiosa, schemi di pensiero equilateri da schiantarci
dentro ogni possibile scissione schizofrenica; fino ad Io, Es e Super-Io, il
“triciclo” freudiano. Ma era poi, il Beethoven della Transizione presunta,
dialettico? Un compositore intento a tirare fuori mostri strutturali da brevi
motivi, scale e arpeggi, “ritardi” armonici, “pedali”, ovvero note tenute al
“basso” che non vanno né su né giù, di quale evoluzione progressiva è mai
capace? Sarebbe come dire che un chimico, quando butta nel precipitato
quel granello di sabbia intorno a cui si aggregherà il cristallo, ha riassunto
tra due dita l'intero big-bang... Beethoven non è un filosofo umanista: è un
recettore di forze materiali. In lui, la materia, pensa. Il caos si fa ordine,
ma prima gode un bel po' a razzolare libero per lungo tratto tra gli interstizi
dei mondi possibili. Solo Beethoven poteva osare un materiale così
insignificante come quello esposto nell'“Allegro con brio” della Sinfonia
Eroica, e renderlo, per pura fiducia nella sua evoluzione materica,
germinativo. Solo Beethoven è capace di rendere il big-bang, al principio
della Nona Sinfonia, un argomento musicale. I buchi neri, son forse
questione di dialettica hegeliana? E questo disordine materico viene creato
e, infine, risolto (tranne quando, nell'Età che io chiamo “della
Trascendenza”, risolto non viene più) ogni volta in modo diverso. Per
questo, i “tre stili” non reggono. Le mie tre età: Età dell'Integrazione, Età
della Lotta, Età della Trascendenza, invece? Ma almeno, esse sono
ripartizioni di eventi, organizzazioni di oggetti musicali, non “stili”.
Parlare di stili, in Beethoven, è come parlare di geologia davanti al
Partenone, perché è fatto di pietre. Lo stile è la parte documentabile, e
quindi transeunte, di un'opera. L'unico che abbia esposto con efficacia lo
stile di Beethoven è Alex, il protagonista del romanzo A clockwork orange
di Anthony Burgess (più noto come Arancia meccanica, in dubbia versione
italiana, per via dell'omonimo film di Stanley Kubrick). In quel romanzo,
in quel film, lo stile di Beethoven porta alla transizione tra un crimine e
l'altro. Alex, a quanto pare, non aveva la pazienza di ascoltare Beethoven
fino alla fine... I Finali di Beethoven, almeno nella presunta fase della
“Transizione”, sono l'emergere alla luce degli uomini, schiavi del Tempo.
La redenzione dal male, però, non è uno stile. Volete definirla una
religione? ne possiamo discutere. Io preferisco il termine “mito”. Il mito di
Prometeo, che dona il fuoco agli uomini, è il mito di Beethoven; per
questo ne abbiamo fatto la struttura sottesa al nostro discorso.
4. Salvatore Viganò fu il Wagner del balletto. Lo rese una vicenda
emblematica, un teatro pantomimico, un simbolo di quel linguaggio del
corpo che fisiologi illuministi come d'Holbach e Mesmer, sui due opposti
fronti della visionarietà scientifica e della ciarlataneria, stavano indagando
a correzione del fallibile idioma umano. Il ballerino era figlio della sorella
di Luigi Boccherini. Durante una serie di spettacoli a Madrid, anche allo
scopo di incontrare il celebre zio, si era innamorato di Maria Medina, che
stava a lui come la statua di Afrodite sta a Pigmalione. Viganò prendeva la
musica come guida di azioni allegoriche. Pensava il corpo fosse il tempio
di forze divine.
L'incarico che diede al giovane renano di musicare un “rituale” su
Prometeo, artefice dell'umana intelligenza, dunque, non fu una zona
d'ombra nella biografia del Prometeo di Bonn, spiegabile solo con il suo
desiderio di farsi una posizione a Vienna. Partitura centrale nella parabola
del primo Beethoven, Le creature di Prometeo viene abitualmente ignorato
dalla cucina del sublime sorta sul corpaccione pentagrammatico del Vate
sordo. Invece, ogni discorso su Beethoven deve partire da qui, da questa
allegoria del destino umano reso movimento, respiro, pulsazione del tempo
nel corpo: danza. In non dissimile maniera Stravinskij, giunto a Parigi,
ritenne di fare teatro musicale non subendo i riempitivi di un libretto
operistico – il vintage musicale per ricicli in formule narrative di quanto,
nei Classici, era pura geometria di suoni – e scelse il balletto. Il balletto,
per Beethoven come per Stravinskij, è una drammaturgia senza testo.
Significato di gesti, senza l'equivoco delle parole. Già a Bonn il Nostro
aveva sfogato (ricordate?) la propria smania di raccontare coi suoni
scrivendo per il conte Waldstein, appena aggregato nell'Ordine Teutonico,
una Musica per un balletto cavalleresco analoga a quei tableaux-vivants,
quadri fatti con persone vere, che rappresentavano il gioco di società
preferito dei fatti ricchi dai Tempi Nuovi. La partitura apre il suo catalogo
non ufficiale, i W.o.O., “opere senza numero d'opera”: opere che non sono
Opere, perché non vengono catalogate tra quelle. Non sono opere minori.
Beethoven acconsentì alla stampa di trascrizioni e arrangiamenti non suoi,
per svariati organici, di lavori importanti, e simili zeppe entrarono a
inquinare il mare magnum del catalogo ufficiale beethoveniano, “la
rassegna degli Eroi”, fino a renderne perigliosa, in alcuni tratti, la
balneabilità. La Musica per un balletto cavalleresco W.o.O. 1 venne
annunciata come opera di Waldstein. Il Beethoven di Bonn voleva fare il
pianista, non pensava di poter fare il compositore... Le Creature di
Prometeo, lo abbiamo visto, doveva chiamarsi “Gli uomini di Prometeo”.
La censura non gradì l'esondazione dal mito. Di creature abbonda il
Parnaso, ma gli uomini camminano sulla terra, che è retta da sovrani, Zar e
ministeri. Gli uomini non possono essere Allegorie, sennò sfuggono di
mano.
L'Allegoria era diventata, nel periodo rivoluzionario, la maniera più spicca
per trasmettere ideali politici e sociali. Nella cultura illuministica
sopravvivono parecchie tracce del Rinascimento: l'epoca delle Imprese,
figure allegoriche che i condottieri neopagani, liberi da ogni soggezione
alla croce, impiegavano a rappresentare il proprio carattere e destino. Ne
Gli uomini di Prometeo questa iconografia ieratica si fondeva con il
misticismo razionalistico della Massoneria, il suo culto del fuoco e della
luce. Gli studi di Ottica, cui Goethe aveva contribuito con la Teoria dei
colori, dimostravano che la luce è solo una percezione sensoriale umana,
un canovaccio che il cervello riempie di figure dai contorni immaginari.
Gli uomini creano la luce perché dalla luce sono stati creati: il fuoco di
Prometeo. Beethoven conosceva bene il mito del Titano incatenato alla
roccia. Eschilo, a lui così caro, nel Prometeo incatenato, ne fa un martire
della conoscenza. La Civiltà dei Lumi identificò nel libero pensatore,
punito da Zeus, e ritratto dal poeta tragico col pugno levato contro il dio, a
profetare la sua fine, l'Impresa di ogni vittima del fanatismo, da Tommaso
Moro, Giordano Bruno e Tommaso Campanella fino ai profeti dei Tempi
Nuovi: Helvétius, Voltaire, Rousseau, Diderot... Nella Cantata per la
morte di Giuseppe II, primo capolavoro di un Beethoven ventenne, sta
scritto: “Un mostro, Fanatismo il suo nome, emerse dalle profondità
dell'Inferno”. Il meccanicismo organico preparava il trionfo della Chimica
e la Fisica sperimentale; anche gli esseri umani, dunque, da automi,
partecipavano al movimento incessabile e vuoto, la “forza che tutto
affatica”, della natura. Attraverso il genio visionario di Viganò, Beethoven
comprese che la musica poteva studiare questa forza oscura, insensata – ed
essa sola, ovunque, presente – come le scienze esatte ne osservavano i suoi
effetti nella materia bruta. Tutto il reale andava ricondotto ai suoi riflessi
nello specchio della mente umana.
Viganò immaginò una vicenda esoterica. Prometeo infonde in automi privi
di anima la potenza vivificante dell'Armonia, e chiede ad Apollo di
convocare poeti e musici del mito, nonché le Muse stesse, ad educarne lo
spirito. Le loro arti renderanno il meccanicismo sensoriale degli automi:
gli uomini, espressioni di un ordine superiore. Infine Pan e Bacco – gli dèi
minori, quelli dei sensi – li inizieranno alla danza universale di eros. Zeus
è Re solo perché ha sconfitto Chronos, suo padre. Prometeo vuole liberare
Chronos, il Tempo, dalla sua fissità che nega la morte, perché con il negare
la morte la Chiesa aveva eretto il rogo su cui immolare Giordano Bruno, il
Prometeo che si fece martire per testimoniare mille e mille altri roghi.
Beethoven non è il più grande compositore della storia. Johann Sebastian
Bach gli è superiore. Mozart gli è superiore. Wagner ha dischiuso mondi
infinitamente più lontani e iridescenti. Claude Debussy è più musicista di
Beethoven fin dalla Suite bergamasque. Beethoven non è solo un
musicista: è Prometeo che, osservando ogni giorno la morte negli occhi
dell'aquila, la rende un evento vano. Beethoven ha introdotto nella musica
occidentale il vuoto, il silenzio di ogni lotta qualora se ne consideri l'esito
naturale. La “Marcia funebre” dell'“Eroica”, piuttosto che venire
composta, è uno studio su come Chronos decompone ogni creatura, se solo
gli si permette di agire.
“Ci siamo: qui, all'orizzonte del mondo, su questo spiazzo, ultima costa
della Scizia. Disumani, vuoti silenzi”. Così si apre il Prometeo incatenato
di Eschilo, e sembra descrivere le ultime battute della “Marcia funebre”
beethoveniana. Sono i “sovrumani silenzi” dell'Infinito di Giacomo
Leopardi. Il Prometeo di Eschilo è una figura fusa nella roccia: un'Impresa
non allegorica, perché creatura viva. L'Illuminismo è una scoperta del vero
a spese del bello; della coscienza a spese della felicità. Beethoven è il
primo intellettuale dei Tempi Nuovi a saperlo, e non averne paura. Per
questo Prometeo gli è così caro, tanto da sfidare Chronos e fissarlo in una
linea del “basso”. Nel Finale de Le creature di Prometeo compare un tema
di danza imprigionato su un “basso ostinato”, Allegoria della roccia su cui
Prometeo giace incatenato. Beethoven, pare, lo trovò per caso, rovesciando
la parte del violoncello in un Quintetto di Steibelt, il re del “tremolo”, che
lo aveva sfidato in uno di quei duelli tra improvvisatori dei quali
l'aristocrazia viennese si compiaceva come, il popolino, dei combattimenti
tra galli. Può darsi sia una storia apocrifa, ma che Beethoven lasciasse
trovare a Chronos, al caso, le idee germinative, lo dimostra l'intera sua
opera: per esempio, la canzone croata che apre la Sinfonia n. 6 op. 68
“Pastorale”, oppure l'Inno religioso su cui è costruito il “Trio” dello
“Scherzo”, nella Sinfonia n. 7 op. 92. La stessa “Marcia funebre”
dell'“Eroica” è fortemente imparentata con quella dell'Achille di
Ferdinando Paër, e una simile redenzione delle marce militari, gli Inni
rivoluzionari della musica francese e il linguaggio modale delle molte
canzoni scozzesi, gallesi – o anche polacche, tirolesi, veneziane – da lui
armonizzate, potrebbe essere oggetto di un ponderoso studio. A noi, qui,
interessa solo stabilire di che cosa queste parodie sono Impresa,
raffigurazione allegorica. Ovvero, del Tempo. Sono Impresa di Chronos.
Beethoven utilizzò il tema finale delle Creature, dapprima, in una
Contraddanza, la n. 7 W.o.O. 14, scritta nel 1795 per la festa di Carnevale
nella Redoutensaal, a Vienna. Non era un riconoscimento da poco. L'unico
incarico fisso di Mozart a corte fu proprio la fornitura di simile musica
festiva. Successivamente, sullo stesso tema viene costruita l'intera op. 35,
Quindici variazioni con una Fuga che Beethoven stesso, proponendole per
l'edizione a stampa, definisce concepite secondo uno stile completamente
nuovo. Si tratta di una Impresa; come lo è il tema dell'“Inno alla gioia”,
che attraversa l'intera vicenda compositiva beethoveniana. Il Tempo gioca
a ribadire destini, ma le voci lungo le quali essi si sviluppano attraversano
l'intera gamma delle emozioni umane: delle creature che il Tempo, come
Prometeo, ha tratto alla vita. Così la coscienza di essere vivi: la danza, la
luce della natura, l'amore; tutto il divenire del creato, fattosi voce di
individui, suoni tratti alla realtà, nega momentaneamente l'insignificanza
del Tempo, e in quel “momentaneamente” sta l'essenza stessa della musica,
l'eredità che Prometeo le ha confidato.
Cominciando la propria avventura di sinfonista Beethoven riprende, nella
Sinfonia n. 1 op. 21, “Andante cantabile con moto”, uno spunto melodico
della Sinfonia n. 40 K. 550 di Mozart, però lo incastra dentro una scrittura
a Canone che ha la fissità con cui le creature di Prometeo si destano alla
vita. Vuole evocare un diverso livello di coscienza, una svolta epocale.
L'illusione dell'Illuminismo: che studiare le forze della natura sia un
esorcismo della Ragione, ha ceduto il passo al senso del Tempo
onnipossente. Chronos, ora, ha vinto. Occorre un nuovo Prometeo che
insegni agli uomini le arti necessarie a soggiogare il Tempo. L'indagine
sulle risorse disponibili alla lotta sarà, per il Maestro, l'Età della
Integrazione: la prima. Poi viene l'Età della Lotta con Chronos. Sarà vinta
da Beethoven solo con la Settima Sinfonia. Dopo la Settima, dunque, si
apre l'Età della Trascendenza, quando Prometeo viene liberato dalla rupe,
ma scopre che le sue creature sono tornate automi: esseri di pietra sordi ad
ogni suono. La chiaroveggenza è la più amara delle solitudini. “Socrate e
Gesù sono i miei modelli”, dice l'ultimo Beethoven, non più ostile, ma
indifferente al divenire del tempo, che lui ha trasformato, dal fiume di
Eraclito dove non ci si può bagnare due volte, a cerchio in perenne orbita
su se stesso. Nelle ultime sue opere non c'è evoluzione, ma solo moto
apparente. La loro Impresa è l'uroboro: il serpente che si mangia la coda,
simbolo di eternità, luogo nella cui fine è anche ogni inizio.
Sulla propria scrivania, Beethoven conservava sotto vetro queste
inscrizioni attinte ai misteri dell'antico Egitto: “Io sono colui che è. Io sono
tutto ciò che è, che è stato e che sarà. Nessun mortale ha sollevato il mio
velo”. E poi: “Egli è l'unico, da se stesso generato, e a questo unico tutte le
cose devono la loro esistenza”. Sono una dichiarazione di Poetica per gli
ultimi Quartetti. Nel suo Diario compare, trascritta, questa sentenza tratta
dal Bhagavadgītā: “Sii laborioso, compi il tuo dovere, abbandona
qualsiasi preoccupazione circa l'esito delle tue azioni e considera identico
qualsiasi avvenimento, che ti arrechi il bene come il male. Questa
equanimità è detta Yoga”. È un oracolo per la vita nel tempo di Chronos.
Una filosofia della rinuncia che spiega la sostituzione, su pressioni esterne,
della Grande fuga op. 133, come Finale, nel Quartetto op. 130.
Combattere perché non succedesse, ormai, a Beethoven non interessava
più. Gli dèi, nei miti antichi, non sono saggi, sono indifferenti.
5. Il ballettò di Viganò non fu il primo incontro di Beethoven con gli
automi, queste Imprese dell'Umanesimo ucciso progressivamente per
opera di un Faust tecnologo. Dal Golem di Rabbi Löw ai robot
protagonisti nel dramma R.U.R. di Karel Čapek (robota è, infatti, parola
cèca), fino alla Olympia di Hoffmann, la modernità cerca il segreto
dell'immortalità negli ingranaggi della vita. Il primo incontro di Beethoven
con gli automi è legato alla donna che, se non amò di più, vi fu comunque
legato più a lungo, otto anni, e che gli diede una figlia, Minona (“Anonim”
letto al contrario) mai riconosciuta: Josephine von Brunsvik. Studi recenti
l'hanno spodestata (ma non del tutto) dal trono di Immortale Amata, però
non c'è dubbio che con suo marito, il conte Joseph von Deym von Střítež,
Beethoven giocò quella partita tra privilegi di casta e virtù dello spirito che
lo vide sempre perdente.
Il conte Deym è uno di quei personaggi che ogni biografo benedice nel
nome di Casanova, Lorenzo da Ponte e quanti libertini meno folgorati dal
galvanismo nelle zone erogene produsse l'Età dei Lumi. Intanto non si
chiamava Deym, ma Müller; qualcosa come l'italiano Rossi. Aveva
cambiato nome in Olanda, dove, giovane ufficiale, si era rifugiato dopo
avere ucciso un commilitone in duello. Nel frattempo, a Ercolano,
venivano fuori colate di statue grecoromane, neanche le avesse eruttate il
Vesuvio, tutte bianche immacolate com'erano, sicché per merito loro
Antonio Canova risparmiò tutta la vita sui colori. Müller, ora Deym,
ricevette dalla regina di Napoli e Sicilia, Maria Carolina d'Absburgo, la
sorella dell'Imperatore, la licenza di farne calchi in gesso. A quel tempo la
mania di portarsi a casa copie di quei relitti così trendy di culture
leggendarie – magari provviste, queste, di testa e regolari arti – contagiava
tutti i fatti ricchi dai Tempi Nuovi. Si edificavano perfino musei che erano,
quindi, copie di musei altri, edificio compreso. Müller, dotato di più senso
pratico, guidò il “clonatore” Deym, e quando i due, che poi erano uno,
tornò/arono a Vienna, aveva/no con sé un metaforico calco, in gesso, della
mitica cornucopia. Il museo viennese di Deym ostentava copie dei grandi
capolavori scoperti ad Ercolano, ma in più c'era una sezione di ritratti in
cera di illustri personaggi, tutte maschere ricalcate al naturale da quella
faccia di bronzo del presunto conte, nonché, attrazione massima, un'intera
galleria di ordigni meccanici culminante in complicati, sferraglianti
“automati” semoventi. Quando, nel 1790, il feldmaresciallo Ernst Gideon
von Laudon – il quale, riconquistando Belgrado, cominciò il processo che
rese i Balcani quella specie di assemblea condominiale permanente che
sempre poi furono – morì, al Deym venne in mente di costruire un bel
tempietto funebre con tanto di Allegoria dell'Austria con Marte pensoso
raccolto sul feretro. A cuspide del tutto “un orologio il cui pendolo
rappresenta un sole in pierre de strasse che, specialmente di notte, produce
oscillando il più eccellente effetto. Ogni ora risuona un'appropriata musica
funebre scritta dal celebre Capellmeister Mozart che dura otto minuti”:
così la Wiener Zeitung, e si tratta dell'Adagio e Allegro per un organo a
cilindri K. 594, cui si aggiunsero (Deym pagava bene, perché i soldi glieli
prestava quel filibustiere di Müller) i K. 608 e 616. Beethoven contribuì
all'infernale ordigno nel 1799, un anno prima del Prometeo, con i Fünf
Stücke für die Flötenhur, che sarebbe quell'orologio posto sopra il Marte
corrucciato, a rintronargli, ora dopo ora, il bronzeo cimiero.
Successivamente (von, sic) Deym ideò una macchina da scrivere e una
sorta di antenato del gioco “Il piccolo chirurgo”, solo che qui il modello
pieno di sensori era una donna incinta illustrante l'intero processo della
vita, dal concepimento allo sviluppo dell'ovulo; fino a quando, festante,
partoriva. Fu fatto ciambellano, e nel 1798 costruì un palazzo all'altezza
delle sue due, una per ogni identità, vanaglorie.
Questo incrocio tra Leonardo da Vinci e il prof. Baltasar dei cartoni
animati jugoslavi veleggiava sulla cinquantina quando, il 29 giugno 1799,
sposò Josephine von Brunsvik, che, l'abbiamo visto, qualcuno ancora
identifica per l'Immortale Amata di Beethoven, e che fu, se non quella,
senz'altro la Immorale Concupita. Il Palazzo delle Arti, come venne
pomposamente chiamato, in breve aspirò tanto di quel denaro che a sentire
la musica di Beethoven per l'“orologio a flauti” c'era ad ogni ora un
creditore diverso. I devoti del Nostro sogghignano malignamente, ma forse
non sanno che la Josephine, come tante Silvie dagli occhi “splendenti e
fuggitivi”, sapeva ben distinguere tra Venere Ctonia e Venere Celeste, e
mentre il suo calco in gesso giaceva con lo specialista Deym, il suo corpo
era con Beethoven...
A noi, di tutta questa pochade alla Georges Feydeau, interessa l'ossessivo
interesse del compositore per i suoni riprodotti: la meccanica delle
emozioni, Impresa della modernità straniante. Fu sempre così. Anche il
suo rapporto con il pianoforte, uno strumento “somigliante a un'arpa”,
“imperfetto”, e che, per lui, sempre sarebbe rimasto tale. Lo strumento su
cui odiava suonare, preferendolo come confidente di improvvisazioni
ondivaghe verso mondi estremi, e pur di non rimanere confinato al quale, a
costo di divenire, da virtuoso che era, compositore – il primo vero e
proprio della storia – benedisse in segreto, in cuor suo, la sordità. Il
pianoforte era lo strumento del quale spezzava con furia percussiva le
corde, e che gli amici trovavano, in casa sua, perennemente scordato:
soprattutto quel prezioso Érard ricevuto in dono e presto usato come
cassapanca per ogni oggetto trovato sparso per casa. Lo strumento dentro
cui versava, con un gesto secco, mentre componeva, interi calamai: anche
il pianoforte, la croce dove suo padre lo teneva inchiodato, bambino, come
Prometeo alla rupe, fin oltre la mezzanotte, fu sempre, per Beethoven, “un
automate”.
E ad un automate: il Panarmonicon di Mälzel – una sorta di Roland
campionatore di suoni con, invece dei microchip, la meccanica di una
vaporiera – Beethoven dovette anche l'unico successo pieno della sua
carriera, La vittoria di Wellington alla battaglia di Vitoria op. 91, un brano
così orrendo da doversi sospettare in chi lo scrisse un feroce intento
parodistico verso il pubblico filisteo (ora va quasi di moda parlarne bene;
la madre degli snob è sempre incinta). In realtà Mälzel, l'orchestrazione di
quel jingle da videogioco Super Mario Bros., non se l'aspettava, e contava
di trasportare il Panarmonicon in Inghilterra per trasformarlo in una slot
machine incantata. Aveva ragione lui, ma Beethoven, quando quegli varcò
la Manica, gli fece causa lo stesso. La vendetta dello one man band fu
efferata, come sempre lo sono le vendette nate per metastasi dei buoni
propositi. Si tratta di quegli infernali cornetti acustici: a cremagliera, a
balconcino, a fioriera, a schiacciapatate per purea, ad innaffiatoio, che il
meccanico ordì a funestare vieppiù quella sordità che dal 1818 divenne,
nel Maestro, presuntamente completa. Il “presuntamente” è un doveroso
omaggio a Smart, che asserisce di avere conversato con lui, in data ben
successiva, senza alcuna difficoltà. Pare anche che Beethoven, a nemesi
storica dell'“orologio a flauti” deymiano, udisse perfettamente, in quegli
ultimi anni del suo passaggio terreno, anche il carillon che segnava le ore
nella sua taverna preferita, e che eseguiva un brano di Cherubini.
Comunque sia, la sordità totale, vera o simulata che fosse, permise al
Maestro di non dover sentire l'infernale ticchettio dell'ultima trovata
maelzeliana: il “metronomo”, al quale si deve l'essere, il suo nome, il più
infamato dagli studenti di musica in età prepubere. Sul metronomo, ultimo
automata da lui incontrato in vita prima dei bizzarri strumenti terapeutici a
lui recati sul letto di morte dai dottori Wawruch e Malfatti, Beethoven
aveva le idee chiare: non serve a chi ha una percezione innata del tempo,
ed è inutile per tutti gli altri. Insomma, non lo poteva soffrire. La sua
vendetta su questo Mälzel-Chronos della musica fu clamorosa; vale a dire,
in suoni. L'Ottava Sinfonia presenta, nell'“Allegro scherzando”,
l'orchestrazione di un Canone burlesco sul motivo “ta-ta-tà; ta-ta-tà; ta-ta-
tà, lieber Mälzel” improvvisato una sera di bisboccia a scherno del
meccanico metronomico, e nel quale la satira dell'automatismo stupidevole
si fa raffinato distacco dalle passioni. L'episodio è riferito da Schindler, e
quindi ha buone probabilità di non essere vero, ma qui non si parla del
Beethoven storico; invece, di un compositore sordo in visita a Prometeo
incatenato, nell'atto di insegnare al Titano i suoni per far danzare la sua
aquila (l'immagine è di Nietzsche; prendetevela con lui, ma andategli
molto vicino, perché è quasi cieco...). Successivamente, nello “Scherzo”,
che tale non si chiama, della Nona Sinfonia, Beethoven doveva ritrovare il
ritmo originario della natura: il tempo di un Prometeo danzante sfuggito al
supplizio dell'aquila. Un tempo demoniaco, inumano, nel quale la biologia
dell'esistere si redime da qualsiasi illuministica violenza ad orologeria.
Beethoven giunse a concludere un'età dove la fiducia nel flusso del tempo
in quanto sommo bene: la fede ireneica nel progresso dell'umanità, stava
subendo un deciso taglio ad opera della ghigliottina, per poi venire
definitivamente dissanguata dagli imbrogli di quell'apocalisse in forma
somatica che si chiamò Napoleone Bonaparte. Goethe, che la vide prima di
tutti, dell'apocalisse aveva una gran paura, e si rinchiuse nella corte di
Weimar a fare il Cortegiano di Baldassarre Castiglione in un Rinascimento
di gesso teutonico che sembrava fabbricato a Disneyworld; Beethoven,
l'apocalisse, la attraversò per intero e ne riuscì dentro uno di quegli
universi dei quali i Beati non possono esprimere che una vaga
luminescenza. Per questo la sua vicenda di uomo e creatore è una
“leggenda aurea”, e va, dunque, narrata usando codici simbolici.
I poeti tragici greci scrivevano trilogie basate sulla progressione dialettica
Colpa-Espiazione-Catarsi. Era la Forma-Sonata della narrazione mitica.
Nel segno di questo triplice respiro del mito è proceduta, auspice
Prometeo, anche la mia narrazione dell'esistenza beethoveniana, riflesso
– e non viceversa – di quella progressione dialettica Età dell'Integrazione-
Età della Lotta-Età della Trascendenza che ha scandito il racconto della
sua vita interiore.
BEETHOVEN. I SACRI TESTI. UN'ESEGESI.
IL PENTATEUCO
L'ANTICO TESTAMENTO
(in ordine sparso di lettura)
IL NUOVO TESTAMENTO
(in (dis)ordine (an)alfabetico)
L. LOCKWOOD, Beethoven. The music and the life, Norton, New York,
2005.
Analisi interessante per gli aspetti filologici e le rivelazioni sugli abbozzi
beethoveniani. Le trattazioni della vita e del genio del compositore nel suo
complesso sono spesso cattedratiche, non avvincenti.
I VANGELI APOCRIFI
J. SUCKET, The last master. The trilogy, 3 voll., World of books, London,
2000.
Tremendo mattone di pagg. 1500 (millecinquecento) diviso in tre libri.
Quel “The trilogy” evoca oscuramente Il signore degli anelli, e in effetti le
somiglianze tra Beethoven e Smigol, in questo affresco scrostato scritto in
uno stile rigido come una torta sbrisolona (Beethoven a ogni poco
“nodded”, “annuì”, e le descrizioni fisiche fanno apparire Liala una figlia
illegittima di Gustave Flaubert) pieno di pertichini narrativi e dove il
Maestro ci sente ben oltre i limiti biograficamente ammissibili, non si
fermano al lato fisico. Beethoven sarà anche stato un borderline, ma non
era un bambino di cinque anni. I titoli dei volumi, “Passion and Anger”,
“Passion and Pain”, “Passion and Glory”, ché tanto valeva ci mettessero
la & commerciale (ditta “Beethoven & Prometeo, fornitori di Sublimi fai
da te”) la dicono lunga.