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ALESSANDRO ZIGNANI

LUDWIG VAN BEETHOVEN


Una nuova interpretazione
“Pensare è imparare nuovamente a vedere, a essere attenti. È dirigere la
propria coscienza, fare di ogni idea e di ogni immagine (…) un luogo
privilegiato”.
(Albert Camus)

“L'interpretazione del tempo (è) l'orizzonte possibile di ogni comprensione


(…) in generale”.
(Martin Heidegger)

“Il successo dei musei è l'apoteosi dei cimiteri”.


(Félix de Azúa)

“È più facile veleggiare per migliaia di miglia attraverso il freddo e le


tempeste e i cannibali che esplorare il mare personale, l'Oceano Atlantico
e Pacifico di un solo essere: qui si esige una potenza incredibile d'occhio e
di nervi”.
(Henry David Thoreau)
A Valeria: “Glücklich allein/Ist die Seele, die liebt”.
PREMESSA

Questo saggio è fatto di due parti, che ho voluto chiamare “libri” in


omaggio a quegli Antichi tanto cari a Beethoven, e che così suddividevano
le proprie opere. Le due parti possono essere lette anche
indipendentemente, ma sono legate da due ordini di fattori. Nella prima
parte, il Libro Primo, dedicata al ripensamento della biografia
beethoveniana, è protagonista il pathos: quella tragedia dell'esistere che nel
Maestro fu di un'evidenza quasi esemplare. Nella prima sezione della
seconda parte, il Libro Secondo, “Topografie”, si esamina il logos della
musica beethoveniana: quella Forma compiuta, sempre più astrale ed
esoterica, nelle cui cristalline evidenze il pathos delle cose vissute trova la
propria redenzione. Nella seconda sezione, “Cosmologie”, se ne indaga
l'ethos: l'influsso della musica beethoveniana sui destini “astrali”, le
esistenze di chi gli fu contemporaneo, e di noi posteri. Pathos, logos ed
ethos hanno, nella Tragedia antica della quale Beethoven costantemente si
nutrì, lo stesso senso gerarchico che Esposizione, Sviluppo e Ripresa
hanno nella Forma-Sonata classica. Questo saggio è, dunque, per intero in
Forma-Sonata, nel senso che ogni “motivo” accennato nella prima parte
viene poi sviluppato nelle due sezioni dell'altra; fino alla Coda
dell'Epilogo, dove Beethoven diventa figura allegorica di un'intera epoca,
quella degli Illuminati, dal cui collasso ha origine la nostra deriva attuale.
La musica, in Beethoven, riprende dai Greci una propria valenza “etica”,
di elevazione spirituale attraverso lo sfrenamento controllato, e la
successiva purificazione, delle emozioni. I Greci vedevano negli dèi
Allegorie delle forze universali. Gli dèi, presso di loro, incarnavano in
forma umana, visibile, tremende leggi governanti il cosmo, nell'oscuro
divenire del loro mistero. Nella prima sezione della seconda parte, dunque,
ho associato ad ogni categoria stilistica della musica beethoveniana una
divinità allegorica. Tutte insieme si dispongono in un teatro immaginario
sulla cui scena il processo creativo beethoveniano possa divenire, infine,
un dramma visibile. La seconda sezione, quella dell'ethos, eleva il tutto nel
“cielo delle stelle fisse” teorizzato da Aristotele. Ogni ethos è un “cielo”:
un carattere non più dello stile, ma dell'emozione.
L'Allegoria che corre sotto l'intero libro, tema dal cui frammentarsi
sorgono tutti i motivi che lo percorrono, è il titano Prometeo: colui che
volle rubare il fuoco, il logos, agli dèi, per donarlo agli uomini, e Zeus lo
punì. Legato a una rupe, condannato al supplizio di vedere ogni giorno
un'aquila divorare il suo fegato, Prometeo giunge, passo dopo passo,
all'indifferenza verso il proprio strazio, il distacco da ogni destino. Allo
stesso modo Beethoven attraversa le tre Età che ho individuato nella sua
vicenda creativa. L'Età della Integrazione è il pathos, il vissuto di cui si
alimenta la sua opera; l'Età della Lotta è il logos, la tensione sempre più
dolorosa verso la Forma compiuta. L'ultima Età, che chiamo della
Trascendenza, è quell'ascesi oltre il tempo dell'individuo che è sempre
qualità dell'ethos, quando si sublima in filantropico eros.
I Tragici greci scrivevano Trilogie nelle quali il mito veniva articolato
secondo le fasi di Colpa-Espiazione-Redenzione. Seguiva un Dramma
Satiresco destinato a osservare nel paradosso del comico le stesse
dinamiche del Fato in azione nella Trilogia. Il Libro Primo di questo
saggio è fatto nello stesso modo: è la Trilogia di Prometeo. L'unica libertà
che mi sono concessa è stata collocare il Dramma Satiresco a mo' di
Intermezzo, così come Beethoven usa lo Scherzo quale movimento libero,
capace di alterare, mutando posizione, la curvatura della Forma. Prometeo
irrompe alla fine dell'intero saggio, in quella Coda che è l'Epilogo, con
l'enfasi di un “fortissimo” beethoveniano, raccogliendo nella propria
epifania allegorica le idee germinative e le tensioni problematiche emerse
nel corso della narrazione. L'Epilogo porta anche a compimento la
dialettica tra i due Princìpi – i beethoveniani “Principio che si oppone” e
“Principio che implora”, fondamento della sua musica – di Prometeo:
Napoleone Bonaparte e Ludwig van Beethoven.
Beethoven vive l'epoca dell'utopia disillusa, l'ultima che abbia creduto di
stabilire su basi civili una presunzione di felicità su questa terra. Il suo
tradimento, perpetrato da un precipitato di ambizioni folli e meschinità
mercantili, ha inferto alla civiltà dell'Occidente una ferita da cui non si è
ancora ripresa e, credo, non si riprenderà mai. La rivoluzione degli
Illuminati non è stata ancora studiata appieno nelle sue diramazioni oscure
e potenti, capaci di correre sotterranee lungo cinque decenni di storia. Di
questa rivoluzione Beethoven non fu testimone, ma protagonista. Gli
Illuminati ne fecero il profeta artistico di una speranza che non si sapeva
irraggiungibile, perché corrotta dall'umano rigurgitare pulsioni egotistiche.
Dopo il Congresso di Vienna, Beethoven si rinchiuse nelle geometrie
labirintiche dei suoi sepolcri sonori. Smise di vivere, per poter continuare
ad esistere. L'esistenza divenne, in lui, una caricatura del carattere. Si
rifugiò negli affetti privati, e nel rapporto col nipote Karl conobbe
l'ulteriore, definitiva utopia disillusa. La sua vita fu un duplice fallimento,
politico e personale, e di questo la musica reca le cicatrici. A molti di noi
Beethoven è caro più di chiunque altro perché nella natura violenta,
contorta, talvolta sgraziata, della sua lotta con l'Angelo noi, esseri feriti
dalla disillusione, ci possiamo riconoscere, e in lui osservare – quasi fosse
egli stesso, Prometeo incatenato, una sublime Allegoria – le origini remote
di quel collasso della ragione che ci rende così alienati all'armonia del
cosmo.
E invece, Beethoven, questa armonia, alla fine del suo ottuso vagare sulle
rovine della storia, seppe intuirla in un attimo, e fissarla per l'eternità. Il
suo panteismo, la sua fiducia in un cosmo ordinato secondo princìpi di una
bellezza così evidente da farsi suono interiore, sistema gravitazionale
ordinato dal suo silenzio di sordo, lo salvarono, e restano per noi l'unica
forma di utopia che mai ci renderà disillusi. Beethoven, di fronte alla
rovina di ogni ideale, la sordità, se la scelse per rifugio. Possa questo
saggio non farvi più sentire, alla fine del suo percorso, così inoppugnabili
le voci del disinganno.

Alessandro Zignani Milano, 9 novembre 2019


LIBRO PRIMO. UN'INTERPRETAZIONE DELLA VITA
PARTE PRIMA. GLI ANNI DI BONN. LA COLPA DI PROMETEO

“Sfogati, adesso, a predare gli onori riservati ai celesti, offrili agli esseri
che in un giorno tramontano. Come sapranno i viventi cavarti di dosso la
zavorra della tua sofferenza? E i divini ti chiamano Prometeo, il Presago:
illusione di un nome! Di presagi proprio tu hai bisogno, del trucco, come
sgusciare da questo cerchio ingegnoso”.
(Eschilo, Prometeo incatenato)
1. GENETICA DELLE BARBABIETOLE, SE SIMMETRICHE

Il Brabante è una terra piatta, dove le coltivazioni si distendono a perdita


d'occhio sotto un cielo spesso piovoso. È terra di uomini flemmatici,
guardinghi, ma ai quali i tempi lunghi delle coltivazioni lasciano in testa
rigogliose fantasie. In questa terra, tra Melchen (poi Malines) poco sopra
Bruxelles, e Tirlemont, i Beethoven fiorirono a partire dal Quindicesimo
secolo. Il significato del nome “Beethoven” lo si apprezza nel titolo di un
galvanico romanzo dello scrittore indiano Ruskun Advani, Beethoven nei
campi di barbabietole. Nella lingua locale, infatti, Beet vuol dire
“barbabietola”, mentre -hoven non è altro che il dominio di una fattoria. In
Italiano sarebbe qualcosa di simile a “della Corte”, il cognome di un
musicologo, Andrea, autore di un La vita musicale di Goethe (1932) che ci
fa gioco di simmetria, annunciando un potente “motivo” all'orizzonte. Chi
crede nelle risonanze ataviche, ovvero genetiche, noterà una divaricazione,
nei due rami noti dei Beethoven, tra i piantatori di barbabietole e un ramo
secondario della famiglia, stabilitosi a Putte, fatto di letterati, preti e notai.
I Beethoven erano, ab origine, ambiziosi, e nella loro smania di salire in
alto spesso si ritrovavano con un pugno di barbabietole in mano. La
simmetria delle Forme musicali sembrerebbe un'eredità di stirpe: Ludwig
trasfigurò le ambizioni intellettuali della famiglia di Putte, e suo fratello
Johann, il farmacista fatto ricco dei Tempi Nuovi, quelle materialistiche
della famiglia di Malines. Prima e dopo di loro c'è una lista di disillusi,
essendo, il talento innato, un viatico per ogni genere di disordini. Il primo
musicista della schiera è Louis van Beethoven (proprio il nome francese
con cui Ludwig, spesso, si firmava) che figura, ventenne, come cantore
presso la cattedrale di St. Rombout, a Malines. Ancora un gioco di
simmetrie in Forma-Sonata: questo nonno di Ludwig, Louis, iniziò come
cantore a Bonn, la stessa città dove il Principe Elettore di Colonia,
Clement August, lo portò dopo averlo ascoltato forse nella illustre chiesa
di Malines, o forse a Liegi. Da allora si chiamò Ludwig. Ludwig van
Beethoven, il cantore, nato nel 1712, prese il nome di un fratello nato
prima di lui e precocemente morto. L'identica sorte del nostro Ludwig. Suo
fratello Ludwig venne battezzato il 2 aprile 1769, e sei giorni dopo
conobbe le barbabietole dalla parte delle radici.
La dinastia dei Beethoven comprende tre casistiche: i Vincitori, i Falliti, i
Falliti di Successo. Louis van Beethoven appartiene alla prima; suo padre
Corneille, falegname, alla seconda. La terza si distribuisce tra fratelli e
nipoti del nostro Ludwig. Ed ecco due bei temi, uno “forte” e l'altro
“debole”, al principio della nostra sinfonia beethoveniana: la morte di un
fratello, e il successo compensatorio del suo omonimo. Corneille fece il
passo più lungo della -hoven, mettendosi a smerciare trine e merletti fino a
piantar debiti invece che chiodi nel legno. Fuggì a Bonn, rifugiandosi
presso Louis che ospitava, frattanto, un altro fratello, Corneille II. La
mania di dare gli stessi nomi a persone diverse perseguitò sempre i
Beethoven, rendendo le vessazioni dei ritorni puntute al biografo quanto, a
Prometeo, le beccate dell'aquila. Altra simmetria: la storia dei fratelli
molesti che inseguono il fratello beniamino del Fato. Anche Ludwig si
ritrovò a Vienna, quasi da subito, quei vampiri psichici di Caspar Carl e
Nikolaus Johann (da allora semplicemente Carl e Johann) che gli
avvelenarono i rapporti con gli editori, e il primo dei quali diede al mondo
un Karl che siccome, all'anagrafe, compare con la “K” non si chiama, per
una volta, come il padre. Che ce ne importa di tutta questa genealogia?
direte voi. A me importa ancora meno, ma la tara atavica dei Beethoven
(oltre alla scarsa fantasia nei nomi di battesimo) è una concausa alla morte
precoce di Ludwig van Beethoven, il compositore. Se la genetica
penitenziale dei Beethoven non gli avesse imposto il prendersi cura del
nipote Karl, dopo la morte del padre, sarebbe di certo vissuto più a lungo.
La filiera di tutti i Beethoven, dunque, ci spiega la perdita, durante il
processo per la tutela di Karl, e poi, per il decesso del tutore suo, di svariati
capolavori.
L'Elettorato di Colonia si chiamava così perché il suo principe aveva
diritto di voto nell'elezione dell'Imperatore. Il suo principe era
l'Arcivescovo di Colonia, ovvero di una cattedrale la cui imponenza,
ossessiva per i Tedeschi, risuona nel movimento “Feierlich” della Sinfonia
n. 3 in Mi bemolle maggiore op. 97 “Renana” di Schumann, dedicato
proprio all'ascesa di un arcivescovo coloniense al cardinalato. Colonia era
la sede religiosa dell'Elettorato, e Bonn, quella civile. Bonn, piccola città
di circa diecimila abitanti, occupava una posizione strategica sul Reno, e
dunque traeva la sua ricchezza dai commerci e dal velato ricatto di poter
agevolare l'invasione dell'Impero con la semplice ricorrenza di casuali
distrazioni. L'Elettorato, ai tempi di Louis/Ludwig senior, stava nelle mani
di Clemens August, dei Wittelsbach di Baviera: una dinastia i cui rapporti
con gli Absburgo erano più o meno come quelli tra Mime e Siegfried, e
che allo scopo di mettere le mani sull'oro del drago cercava di spruzzare un
po' di profumo francese sulle ali della bicipite aquila absburgica; tanto è
vero che quando i tomi della Encyclopédie cominciarono a far
scricchiolare, col loro peso, il trono di Luigi XVI, gli Absburgo decisero
che su quel mescolone di culture non ci volevano perdere la testa, e
inglobarono, il nostro Beethoven adolescente, l'Elettorato. Clement August
era uno di quei sovrani che vengono fuori dalla Vedova allegra di Franz
Lehár. Sfruttando con cinismo la bipartizione del suo regno tra sacro e
profano: Colonia e Bonn, edificò, festeggiò, incamerò opere d'arte e
indisse feste con scenari di sfarzo ché sembrava Luchino Visconti sul set
del Gattopardo. Giacomo Casanova, che di lusso e di debiti si intendeva in
egual misura, lo descrisse come “uomo allegro, gioviale e bonario, con
un'aria di salute che sprizzava da tutta la sua persona”. Casanova era uno
jettatore notorio, e Clemens August morì l'anno dopo mentre danzava: una
morte invidiabile da qualsiasi cardiopatico. Le cronache riportano l'esordio
di Ludwig senior, non più Louis, van Beethoven, alla corte bonniense:
1740, Adamo ne La morte di Abele di un Carneade della musica, Giuseppe
Zonca. Wikipedia ci dice che studiò teologia, fu prete, e compose La morte
di Abele, “suo primo lavoro”, nel 1754 (sic). Di vero c'è che era un
“basso”, come Ludwig senior. A sentir di Abele, la mia mania “sonatistica”
delle simmetrie beethoveniane reagisce ineluttabile: Ludwig junior, il
nostro, chiamava “Caino” colui, dei suoi fratelli, che non soddisfacesse le
sue aspettative...
Alla morte di Clemens August, l'Elettorato stava messo come la Deutsche
Bank. Cambio di dinastia: basta coi francofili, largo agli Svevi. Maximilian
Friedrich, il nuovo arcivescovo elettore, chiamò a sé un nuovo ministro, un
certo Kaspar Anton von Belderbusch, che aveva il viso asimmetrico come
una partita doppia e un regolo calcolatore al posto del naso. Del clima di
micragna generale invalso fece le spese anche l'orchestra elettorale, al
punto che si prese per Capellmeister un semplice “basso” che non era
neppure compositore: Ludwig (Louis) van Beethoven senior.
L'idealizzazione postuma di cui Ludwig, il nostro, fece oggetto l'illustre
nonno – il suo ritratto fu tra le poche cose che si portò per sempre dietro
salendo le scale di oltre trenta case viennesi – gli impedì di osservare che
la sua gloria nasceva da un merito oscuro: costava poco. Costava, anzi,
così poco, il nuovo Capellmeister, che intraprese, a latere dell'incarico
pubblico, un commercio di vini. L'atavismo dei Beethoven era davvero
lombrosiano: fece lo stesso errore di suo padre Corneille. I vini del Reno
sono tuttora ben migliori della sua acqua, e gli affari andavano bene, ma
Ludwig ebbe l'imprudenza di assumere la propria moglie, Maria Poll,
come sommelier. Poco dopo, era ricoverata per alcolismo in un cronicario.
Non ne uscirà più. Fa così il suo sommesso incipit, nella sinfonia
beethoveniana, il “tema della dipsomania”, destinato poi a far felici, nella
Ripresa, quanti la ritengono una malattia di origine genetica.
Il figlio di Ludwig senior e padre di Ludwig junior dimostra la teoria
secondo la quale i padri dei geni sono figli di grand'uomini e solenni
“bamboccioni” (io la chiamo la “Legge di Felix Mendelssohn Bartholdy”,
il nipote del celebre filosofo Moses). Tenore nella Cappella di corte,
Johann van Beethoven – il secondo dei cui figli, Nikolaus Johann, prese
poi il nome di Johann, perché odiava i biografi – fu, dapprincipio, uno
scrupoloso Musikant tedesco, ricercato all'interno di Bonn come
insegnante privato di pianoforte e violino. In quella catena di rimbalzi
umorali che sono certe famiglie, la disgrazia di suo padre, una moglie
alcolizzata, divenne destino del figlio. Per sottrarsi al padre Chronos, reso
bisbetico e dominante dalla stizza, sposò in fretta e furia Maria Magdalena
Keverich. Figlia di un sovraintendente alle cucine del Principe Elettore di
Treviri, era già vedova di un valletto, e in lutto per la morte precoce di un
bambino avuto da lui. La reazione di Ludwig fu quella, solita, dei parvenu:
una sguattera in casa mia? Jamais... Trasloca altrove, con tanto di
porcellane, argenteria e lini così fini che potevano passare per un anello;
purtroppo, non così lontano da non incombere sui due sposi, ora alloggiati
in un quartierino interno angusto e senza luce. Risultato: Johann si dà al
bere, e Mara Magdalena all'hobby preferito delle casalinghe frustrate, la
depressione. Alla fine del 1773 il bisbetico Capellmeister si invola in cielo,
a litigare con Santa Cecilia, per un colpo apoplettico. Ludwig, il nostro,
aveva, allora, solo tre anni, ma la figura severa e fiera del nonno lo
ossessionò per tutta la vita, tanto da sviluppare una di quelle fissazioni
ipocondriache che, in certi casi, è indizio della più grande ammirazione:
anche lui, di certo, avrebbe fatto la stessa fine.
La mia infanzia è stata segnata dall'Elogio di Franti di Umberto Eco.
Ovvio, dunque, che io qui tenti un “Elogio di Johann”, tanto diffamato dai
cronisti della beethoveniana infanzia. Tutta colpa dei Fischer, i panettieri e
padroni di casa, i cui figli sembravano intenti dalla mattina alla sera a
spiare il piccolo Ludwig piangere e soffrire alla tastiera, sotto la ferula del
padre cattivo. Sposato a una donna che, secondo le testimonianze coeve,
non fu vista mai ridere, e che, per convincere una giovane amica a non
sposarsi, definiva il matrimonio una breve gioia seguita da una lunga
catena di dispiaceri; figlio di un despota di successo, che mai gli perdonò
un matrimonio che la sua intelligenza comprendeva fosse una fuga
dall'imposta, eterna adolescenza; scartato, alla morte del padre, come
Capellmeister, una carica che spesso era quasi ereditaria, a pro' di un
oscuro italiano, Andrea Lucchesi, oggi venuto alla ribalta perché certi
intrallazzoni assicurano l'avere, egli, composto alcuni capolavori di
Wolfgang Amadeus Mozart e diverse opere giovanili del nostro Ludwig:
che doveva mai fare, il povero Musikant? ma assommare in sé, per
beethoveniana genetica, gli errori del padre e quelli della madre...
Sorvegliare, da alcolizzato, la crescita artistica del figlio, unico bene,
eterna speranza. Ludwig junior proibiva, in sua presenza, commenti
malevoli sul padre. In compenso, quando Johann morì di cirrosi epatica,
lui era a Vienna, e non si prese il disturbo di tornare a Bonn. Il destino
atavico dei Beethoven lo punì facendolo morire come suo padre e non,
come avrebbe segretamente desiderato, di un colpo apoplettico, come il
nonno. Il rapporto – negato, sottaciuto, evaso – tra Beethoven e suo padre,
l'avesse scovato Sigmund Freud, gli sarebbe passato l'odio per la musica.
Nel Testamento di Heiligenstadt, che è indirizzato ai fratelli, Ludwig
omette il nome di “Johann”. Cercò sempre di non chiamarlo così, a costo
di dirlo “pseudofratello” e “Caino”. In tutto l'epistolario, nel cosiddetto
Diario e nei Quaderni di conversazione, non c'è menzione di Johann, il
padre. Quando un importante annuario musicale lo dichiarò figlio
illegittimo di Federico Guglielmo III di Prussia, il nostro Ludwig non fece
niente per smentire la falsa notizia. L'inventarsi una discendenza mitica,
l'essere stati generati da un eroe poi perduto, è una delle fantasie
compensatorie più abituali, nei bambini abusati.
Dedicando all'Elettore, nel 1783, le sue tre prime Sonate per pianoforte,
W.o.O. 47 (che mi rifiuto di chiamare “Sonate elettorali”, non venendo, a
mia conoscenza, precedute da alcun comizio) Beethoven fissa ai quattro
anni di età la propria iniziazione alla musica. E qui giunge la comédie
larmoyante dei piccoli Fischer, che ci raccontano di “un ragazzino
minuscolo, in piedi su di un piccolo sgabello davanti al cembalo, al quale
l'implacabile severità del padre lo aveva così innanzi tempo condannato”.
Sarà anche vero, ma perché, allora, il minuscolo Ludwig non ha
manifestato, poi, un'invincibile avversione per il pianoforte? Qualcosa di
simile, insomma, a ciò che accadde a suo nipote Karl, costretto dallo zio a
sgradite corvée sullo strumento... E senza quello sgabello piccolo come lui,
l'avremmo avuto, noi, il grande Ludwig van Beethoven? A quei tempi la
pedagogia veniva insegnata da Inquisitori sfuggiti al tribunale civile, e se
Johann, talvolta, chiudeva il suo allievo in cantina, come dice il consigliere
di corte Krupp, ciò vuol dire che l'Illuminismo era ancora tutto scritto in
Francese; del resto, il metterlo in musica fu ciò che rese Beethoven uno dei
padri dei Tempi Nuovi. Da parte sua Ludwig, il nostro, come pedagogo, fu
ancora peggio. Giunse a colpire sulle mani l'Arciduca Rodolfo, il quale,
ogni volta che entrava in casa del Maestro, abdicava temporaneamente.
Riuscì solo con Carl Czerny, perché costui, intelligentissimo, lo
distruggeva a forza di quegli esercizi tecnici che a lui furono sempre odiosi
– unica eredità, forse, dello strazio infantile – e con Ferdinand Ries, col
quale, però, aveva la pazienza di un santo stilita: il padre di Ferdinand,
Franz, aiutò la famiglia Beethoven dopo la morte di Maria Magdalena.
A Johann vanno ascritti, se non altro, due meriti. Il primo ci dice la sua
cultura di musicista. Beethoven, bambino, avrebbe passato tutto il suo
tempo ad improvvisare – soprattutto sul violino, che affiancò da subito al
pianoforte sotto la guida prima di un parente, Franz Rovantini, e poi di
Franz Ries – se il padre non lo avesse forzato a subordinare la creazione di
musiche proprie al rigido apprendimento delle norme elementari. Fosse
stato un ciarlatano, lo avrebbe esibito come abborracciatore di
improvvisazioni ad effetto di fronte al poco scafato pubblico dei paesi
renani. Il secondo merito di Johann è immenso. È l'avere riconosciuto la
propria insufficienza di fronte al genio del figlio, e cercato con un'onestà
non facile per un frustrato insegnanti di lui degni: da Tobias Pfeiffer
all'organista del Convento dei Minoriti, fino a Gilles van den Eeden,
Hofkomponist e titolare alla tastiera con mantici della Cappella elettorale.
Ne risulta una singolare circostanza: Beethoven ricevette un'educazione
migliore all'organo che al pianoforte. Il suo famoso “legato” era
conseguenza di un percorso anomalo, per un concertista dell'epoca, così
come la singolare polifonia delle voci interne che distingueva le sue
improvvisazioni dalle sventagliate di note comuni negli altri fenomeni da
baraccone esposti nelle corti di allora.
Sempre a Johann si deve l'incontro fatale di Ludwig, quello con Christian
Gottlob Neefe. Neefe, a Bonn, era un personaggio sospetto. Un
memorandum sui musicisti in forza alla Cappella – della quale Neefe era
stato nominato organista, come successore di van den Edeen, nel 1781 – lo
indica come di pochi meriti e, soprattutto, “di religione calvinista”,
suggerendone, quindi, il licenziamento. Era una copertura sotto la quale si
celava la diffidenza per un seguace delle nuove idee rivoluzionarie. A
Bonn, Neefe ci era giunto dopo essere stato lasciato senza il becco di un
quattrino da uno dei tanti impresari imbroglioni che giravano la Germania
a proporre William Shakespeare o il Singspiel, a seconda che le poche
cantanti professioniste in forza a loro fossero scappate o meno con il
nobilastro di turno. Lasciato a se stesso, si aggregò alla troupe di
Grossman ed Hellmuth, che erano appena stati invitati a gestire il nuovo
teatro di corte, costruito da Maximilian Friedrich a forza di rompere i
salvadanai dove Belderbusch conservava le estorsioni perpetrate ai danni
dei bottegai di Bonn. Neefe era allievo di Johann Adam Hiller, tra i
successori di Johann Sebastian Bach alla Chiesa di San Tommaso di
Lipsia. Era un musicista dei Tempi Nuovi, giunto per caso e forse suo
malgrado in quel posto sospeso tra un dispotismo illuminato, da romanzo
di Walter Scott, e anarchici sentori della neonata Naturphilosophie
rivoluzionaria. Rachitico e gobbo, credeva in una sorta di panteismo dove
gli esseri umani, tutti insieme, erano l'anima di Dio. Quella traduzione
della sensiblerie di Jean-Jacques Rousseau nella poesia del
Protestantesimo tedesco, dove l'uomo è il microcosmo dentro cui si riflette
il macrocosmo: l'universo, trovò in lui uno dei primi musicisti capaci di
renderla linguaggio di suoni. Il giusnaturalismo propugnato da Denis
Diderot, la laica fede nell'uomo sostenuta, con il coraggio dell'ironia, da
Voltaire, si unirono, in lui, alle suggestioni dello Sturm und Drang
rappresentato, in poesia, da Friedrich Gottlieb Klopstock, Christian
Furchtegott Gellert e il Johann Wolfgang von Goethe di Egmont, I dolori
del giovane Werther e l'Urfaust – tutti poeti con cui, poi, Beethoven, in un
modo o nell'altro, farà i conti – e, in musica, da Carl Philipp Emanuel
Bach, uno dei figli di Johann Sebastian, nel cui stile la Retorica dei poeti
antichi, i soprassalti del sentimento, la prosodia della parola poetica,
espandevano le risorse del sonatismo fino a renderlo teatro dei suoni. Un
certo stile “parlante” degli Adagi beethoveniani, il ricorso sempre più
frequente al Recitativo, soprattutto nella sua Età della Trascendenza, gli
ultimi anni, sono conseguenza del Bach figlio appreso per il tramite di
Neefe. Ma l'insegnamento del nuovo maestro di Beethoven, a partire dal
1780, si basò soprattutto sul Das Wohltemperierte Klavier di Bach Vater;
ovvero, per farla finita una volta per tutte con la storia del “clavicembalo”,
La tastiera ben temperata. Nel Magazin der Musik compare, in data 2
marzo 1783, questa notizia: “Louis van Betthoven (sic) un ragazzo
undicenne molto promettente e di gran talento. Suona il cembalo con
grande abilità e vigoria, legge benissimo a prima vista e – per dirla in
breve – esegue magistralmente La tastiera ben temperata di Sebastian
Bach che Herr Neefe gli ha messo tra le mani. Chiunque conosca questa
raccolta di preludi e fughe in tutte le tonalità – che potrebbe quasi essere
definita il non plus ultra della nostra arte – capirà ciò che questo
significhi”. Dove traspare lo stupore verso un ragazzino capace di
dominare un linguaggio allora, tre decenni soltanto dopo la morte del suo
artefice, tornato ignoto. Rimane un punto oscuro: nel 1783 Beethoven ha
tredici anni, non undici. Ludwig fu sempre persuaso di avere due anni in
meno, e quando incaricò l'amico Franz Wegeler di procurargli un
certificato di matrimonio, non volle credere all'evidenza. Nella sua testa,
c'era un errore nei documenti. Si era scambiato suo fratello Ludwig, il
premorto, per lui... In un clima da caccia alla streghe che meriterebbe la
prosa del Nathaniel Hawthorne de La lettera scarlatta, se ne dà la colpa al
solito Johann. Facendo debuttare il geniale rampollo a Colonia, nel 1778,
lo presentò come un bambino prodigio di sei anni, tanto per cavalcare il
successo impubere di Mozart. Come fosse una pratica inconsueta, allora,
quando gli impresari spesso trascorrevano i mesi di chiusura dei teatri in
soggiorni gratuiti nelle varie carceri principesche... Johann, recando il
figlio e una sua allieva di canto al concerto dell'impresario coloniense, non
avrà obiettato; poi, gli è toccato di osservare la finzione. Ma oltre alla
pratica alla tastiera, la lettura dei nuovi poeti e filosofi, l'esercizio
quotidiano sulle polifonie di Bach padre, e l'assimilazione di Bach figlio,
Neefe, a Beethoven, gli ha insegnato anche a comporre? pare di no, se il
Magazin der Musik dice “per quanto i suoi impegni glielo consentono,
Herr Neefe gli ha dato anche lezioni di 'basso continuo'”; che non è la
stessa cosa. Beethoven, in sostanza, finché non se ne andò a Vienna,
imparò a comporre decifrando le partiture degli altri. Per tutta la vita non
smise di colmare lacune vere, o comunque da lui sentite per tali. Quando il
fabbricante di arpe Andreas Stumpff, da Londra, gli inviò le opere
complete di Georg Friedrich Händel (ed era già sul letto di morte),
battendo un dito sui volumi, “qui c'è da imparare”, andava dicendo.
L'importanza di Neefe sulla formazione di Beethoven non ha reso ovvia la
cosa che sarebbe stata ovvia: riscoprire la sua produzione musicale,
soprattutto quelle Sonate ispirate a Carl Philipp Emmanuel Bach e a lui
dedicate che costituiscono un trait d'union tra la nuova drammaturgia
musicale, aperta al chiaroscuro dello Sturm und Drang, di Bach figlio e la
visione beethoveniana della Sonata in quanto Epica sul divenire umano nel
mondo. Giunto a Vienna, nel 1793 Beethoven inviò al suo maestro di Bonn
una lettera che il povero Musikant di corte fece subito pubblicare su di una
rivista: “La ringrazio del Suo insegnamento che mi ha sostenuto così
spesso nei progressi nella mia arte divina. Se diverrò un giorno un
grand'uomo, anche Lei ne avrà avuto una parte”. Non sapeva, Neefe, che
quello era il mondo in cui il grand'uomo futuro tagliava i ponti con il
passato... Ringraziare, per Beethoven, era come togliersi un sassolino dalla
scarpa, per poi andare avanti camminando sulle proprie gambe. Con Franz
Joseph Haydn, che gli fu maestro a Vienna, non ce la poteva fare, e dovette
liquidarlo dicendo che da lui non aveva “imparato niente”.
Il Beethoven adolescente viene descritto dai testimoni del tempo come un
ragazzo asociale, trasandato, sporco, astratto in un culto della natura che
comprendeva ore passate a scrutare l'orizzonte con un cannocchiale,
fantasticherie di paesi lontani, escursioni in solitaria sul Reno, verso il
paesaggio delle Siebengebirge ritte contro il cielo come se il tempo si fosse
rappreso nei loro contorni, e scalate sul Drachenfels, con il suo castello
distrutto durante la Guerra dei Trent'Anni dalla canaglia svedese, e mai più
ricostruito. Vi ritrovava un paesaggio di “morte stagioni” affine alla
sassosa poesia di Ossian: l'impostore James Macpherson, che si fingeva un
bardo antico, e che gli rimase caro per tutta la vita. Quelle rovine erano i
simboli della sua nascente fede politica: l'odio per i tiranni portatori di
morte, e la riflessione su quanti lutti avesse portato la loro avida ingiustizia
sociale. Leggeva in Rousseau che l'uomo nasce buono, ma poi la società,
con la sua violenza di classe, lo rende malvagio per delusa frustrazione.
Per questo odiò sempre, segretamente, la cosmopolita, brillante Vienna,
preferendo la compagnia di contadini e artigiani: le società rurali di
Heiligenstadt, di Mödling, alla capitale dell'Impero. Il suo giudizio sugli
esseri umani dei nascenti Tempi Nuovi, la società della prossima
industrializzazione, non cambiò se non nella scelta, quando fosse utile, di
non manifestarlo: “Non mostrare esteriormente alla gente il disprezzo che
merita, perché non si può mai sapere quando si avrà bisogno di loro”.
Come Richard Wagner, era convinto che il mondo gli dovesse ciò di cui
aveva bisogno. Sopportò accanto a sé, negli ultimi anni, un personaggio
come Anton Schindler, definito dal poeta Heinrich Heine, che lo vide
aureolato di gloria, nel suo status di “amico di Beethoven” – così stava
scritto sul biglietto da visita – “una pertica nera” con su annodato un
foulard bianco: qualcosa, insomma, come la Morte vestita a festa.
Beethoven lo chiamava “il Samotracio”, con allusione a certi
comportamenti sessuali di quell'antica popolazione, e temeva non gli
venisse da lui “una qualche disgrazia”. Ad un simile jettatore moralista e
ottuso si deve la distruzione di circa duecento di quei Quaderni di
conversazione – a suo dire, perché contenevano “osservazioni offensive”
verso la corte e l'Imperatore; in realtà, credo, perché riportavano le
osservabilissime offese della corte beethoveniana nei suoi confronti – che
gli interlocutori di Beethoven, a partire dal 1818, a sordità conclamata,
usavano per dialogare con lui.
Nessun biografo di Beethoven ha mai provato a spiegare il fascino spinto
fino alla devozione che ispirava su chi gli stava più in alto nella gerarchia
delle nascite. I modi villani, senza grazia alcuna, talvolta francamente
volgari (senza risparmiare se stesso: definì il Quartetto op. 18 n. 4 “merda
buona per il porco pubblico”) quasi sempre orientati ad ottenere un credito
illimitato di favori non ricambiati (Nikolaus Zmeskall von Domanovecz
aveva l'alto onore di cercare al Maestro adeguate penne d'oca per la stesura
delle sue note immortali, ed affilarle personalmente, in quanto in mano
all'Orso di Bonn finivano spezzate): tutto questo non impedì a Beethoven
di avere intorno un Battaglione Sacro degno di Pelopida, e disposto a tutto,
nonché donne dell'alta aristocrazia in perenne, vana attesa l'unione dei
sensi diventasse, anche, colloquio di anime. La ragione di questo mistero
affonda nelle forze più profonde secondo le quali agiscono gli esseri
umani, che sono tutti affamati di infinito e bellezza, certo, ma conoscono il
tempo, e ne temono l'erosione di ogni ideale; dunque, quando incontrano
l'artefice di una qualità di bellezza capace di sfidare il tempo, perché, oltre
che bella, è vera, gli si danno completamente. La musica di Beethoven
racconta la verità delle cose come unica potenziale bellezza delle stesse,
quando sopravvivono nel tempo; ossia, si fanno musica. E il tempo, spiega
anche la sua ingratitudine verso i benefattori. Chi crea questo equilibrio
artistico, il più difficile e precario immaginabile, non può barattare il
proprio tempo con alcun bene terreno. L'egoismo narcisistico di Beethoven
fu il bastione strategico che gli permise di difendere la propria opera. Ne fu
consapevole, e ne soffrì. Mozart, no. Ciò che fa di Beethoven il primo
compositore dei Tempi Nuovi, è proprio la sua consapevolezza. Tale
egoismo disumano ebbe, sulla cerchia del Maestro, un effetto paradossale:
se ne avvertì il significato di una dedizione totale e disinteressata alla
propria arte, accrescendone la fascinazione. Di tutto ciò, loro, furono del
tutto inconsapevoli. Del resto, se potessimo scegliere volta per volta da
quali sentimenti venire attraversati, saremmo uomini liberi...
Neefe fu non solo il maestro di Beethoven, fu il suo mentore. Gli spianò la
carriera alla corte di Bonn. Lo prese per assistente senza stipendio,
ricorrendo a quel trucco che anche oggi determina chi ci si trovi sempre tra
i piedi in teatro venga, per imbarazzo, prima o poi assunto. Vice organista,
esecutore alla viola nell'orchestra del teatro, Ludwig dovette al suo
mentore (al quale, per trovare i soldi da pagare al neoassunto, venne
trattenuta una parte dello stipendio) l'esperienza formativa più alta
possibile a Bonn: “ripetitore al cembalo” durante le prove in teatro. Il
repertorio elettorio era il solito: di Mozart, quel tanto che bastava a dire
che l'avevano fatto, ma a patto di mettergli vicino Ignaz Holzbauer e
Florian Leopold Gassmann; l'Opera buffa italiana: Antonio Sacchini,
Egidio Romualdo Duni, Niccolò Piccinni, Domenico Cimarosa, riempiva
sempre la sala; di Rousseau, si dava talvolta Le devin du village, a
dimostrazione di quanto l'amore per la filosofia renda sordi. A noi, di tutto
questo, interessano Christoph Willibald Gluck e i compositori della nuova
scena lirica francese: Pierre-Alexandre Monsigny, André Grétry e Nicolas-
Marie Dalayrac, i massimi rappresentanti della nuova Opéra à sauvetage,
dove c'è una creatura angelica, uomo o donna che sia, minacciata di morte
da un ingiusto potere, e se ne procede alla salvazione. Genere illuministico
quant'altri mai, espressione di quella fiducia rivoluzionaria e francese nel
trionfo del bello e buono, ovvero bello in quanto buono, destinata poi a
scorciare di mannaia tutti i reputati cattivi (e quindi brutti) l'Opera à
sauvetage, soprattutto nella sua espressione massima, Luigi Cherubini,
ebbe un impatto incalcolabile sulla musica di Beethoven, facendovi
penetrare gli squilli militari, i Corali dei legni, le marce e le danze che
allietano i ristori dei soldati... La verità, insomma. Il trattamento di legni e
ottoni, nella musica di Beethoven, è incomprensibile senza questo
richiamo alla spazialità scenica del grido di riscossa rivoluzionario. La
verità in Beethoven, è francese. Vale per il lontano, flebile, richiamo del
corno, prima che il “tema della gioia” irrompa di nuovo, nel Finale della
Nona Sinfonia, dopo il “fugato”, come sfondando un muro. Vale per
l'anticipo che sempre il corno perpetra, nell'“Allegro con brio” della
Sinfonia Eroica, alla Ripresa del tema – con una dissonanza risultante che
perfino Wagner ancora correggeva – e poi l'orchestra lo azzanna come una
muta di bracchi. Lo ritroviamo, un simile richiamo dall'oscurità
dell'orizzonte, nello “Scherzo” della Settima Sinfonia, a preparare il Trio.
La Harmonie, il complesso di fiati, emblema della Rivoluzione in marcia
verso l'Europa, trova la sua apoteosi nelle due orchestre “parallele” che
agiscono nella “Marcia funebre” dell'“Eroica”. Gli archi sono il dolore
terreno; i fiati, l'apoteosi celeste. Tempo contro immortalità.
2. L'EDUCAZIONE SENTIMENTALE DI UN GIOVANE
DISADATTATO, AD USO DELLA GIOVENTÙ STUDIOSA

Esistono due confessioni religiose, nei biografi: ci sono quelli che


descrivono i fatti, e dopo centinaia di pagine ne tentano un'interpretazione,
e quelli che avendo in mente un'interpretazione vanno a cercare i fatti. Non
solo io appartengo alla seconda confessione, ma ne sono un integralista:
credo che senza un'interpretazione non esistano i fatti. Essi, di fatto,
vengono sempre cercati per giustificare un'interpretazione. Io vedo l'artista
Beethoven come il simbolo dei parvenu ascesi nei Tempi Nuovi a
squassare l'ordine mondiale. Nella dimensione ideale, Beethoven è che ciò
che Napoleone è nella dimensione storica. Che poi la relazione tra le due
sia la stessa, secondo questo biografo, che intercorre tra mitocondri e
intestino, giustifica il libro sia su Beethoven, non su Napoleone, ma le
categorie in gioco rimangano, poi, le stesse. Napoleone, scendendo in
Italia, sfida generali di lui ben più vecchi e gloriosi; la Cappella musicale
di Bonn comprendeva musicisti eccellenti. C'erano Bernhard Romberg
insieme al cugino Andreas, il cornista Nikolaus Simrock, Anton Reicha...
Simrock sostiene “tra noi regna l'armonia più perfetta, e ci amiamo l'un
l'altro come fratelli”. Compare qui per la prima vita una Urlinie, un
contrafforte tematico sotteso a tutta l'esistenza di Beethoven, e senza il
quale essa sarebbe incomprensibile: la Massoneria, i “fratelli” divenuti tali
dopo i riti in uso tra gli Illuminati, e destinati a non esserlo più una volta
venuti meno i presupposti sociali e politici che giustificavano la propria
adesione alla loggia. “Fratello” Simrock poi divenne quell'editore che il
celebre Beethoven da Bonn trattò come tutti gli altri: indegnamente.
“Fratello” Bernhard Romberg è quel violoncellista che a Mosca,
impegnato a decifrare l'“Allegro vivace” del Quartetto “Rasumowsky” op.
59 n. 1, prese la partitura, la gettò a terra e cominciò a pestarla coi piedi; se
a tempo con la sua nota ripetuta nell'incipit, o no, non lo sappiamo.
Morale: Ludwig, nella Cappella musicale di Bonn, era il figlio del
famigerato Johann, sospetta spia di Belderbusch, e assunto per le tresche di
Neefe; dunque, doveva farsi valere. Non si spiega altrimenti il tristo
episodio del cantante Ferdinand Heller. Costui aveva l'incarico di intonare
Le lamentazioni di Geremia, tormentone della Settimana Santa, durante la
quale la musica per organo era proibita. Dunque, Beethoven si mette al
pianoforte, e prende a interludiare tra un lamento e l'altro del profeta,
com'era costume. E scatta la sfida: se Beethoven modula lontano, ce la fa,
Heller, detto “l'Intonatissimo”, a seguirlo? La guerra dei diesis e dei
bemolle finisce in uno scandalo: Heller finì per inventare la dodecafonia, e
l'Elettore in persona convocò al proprio cospetto il giovane importuno,
invitandolo ad andare a fare il genio in una città meno piccola, ché lui
aveva già i suoi guai. L'Elettore, a partire dal 1784, era Maximilian Franz:
un absburgo, in quanto figlio minore di Maria Teresa. Essendo Arciduca
per diritto di nascita, i parigini lo chiamavano l'“Arcibestia”. Nella realtà,
era un mediocre conscio di esserlo in una famiglia dove, quando si
partoriva un mediocre, gli si dava un incarico di governo, sicuri avrebbe
fatto quello che gli si diceva. Per un posto come Bonn, in un momento
storico come quello, a ridosso dei Francesi in animo di vendicare le
ingiustizie sociali dai tempi dei Gracchi, era l'uomo giusto: riflessivo per
mancanza di idee, diplomatico per vigliaccheria militare. Come spesso
accade in chi nasce nel posto sbagliato al momento giusto, il nuovo
Elettore, giunto a Bonn, sublimò la scarsa autostima in un divorante amore
per la cultura, soprattutto quella dei Tempi Nuovi, generando più di un
sospetto sulla natura ritorsiva verso Vienna di tanta sua infatuazione. Si
vede che tanto scemo poi non era... Così Bonn si ebbe il suo giardino
botanico, la nuova Università acquisì l'intera biblioteca privata del neo-
Elettore, e nella sua Residenz venne istituita una Lese-Gesellschaft: una
“Società di lettura”. Come si vede, tutte opere benefiche, e come tali
gradite ai maggiorenti locali, i quali plaudettero anche all'abolizione della
tortura, ma un po' meno all'istituzione di concorsi per l'accesso alle cariche
pubbliche. Quanto alla “Società di lettura”, venne vista come una vera e
propria provocazione, oppure come la redenzione dell'Arcibestia ad
Arcangelo, in base al grado discendente occupato dai sudditi nella scala
sociale. Laddove c'era una “Società di lettura”, c'era l'Illuminismo. Si
trattava di luoghi sorti per commentare, discutere, assimilare, le idee
riformiste dei Tempi Nuovi. Sotto l'apparenza di circoli culturali,
preparavano una riforma profonda. In quei territori ai confini della Francia
esisteva la convinzione che la rivoluzione fosse inarrestabile, e la si
potesse governare solo accettandone, in attenuata versione legittimista, i
princìpi di fondo. Ma quali di essi, erano quelli “di fondo”? Su questa
casistica più o meno forcaiola si giocava il ruolo, impossibile, della
“Società di lettura” di Bonn e del suo promotore Maximilian Franz. Fu,
Beethoven, consapevole di stare sul crinale di un rivolgimento senza
ritorno? la sua iscrizione all'università di Bonn, nella facoltà di Filosofia,
ci fa pensare di sì. “Non c'è quasi trattato che sia troppo dotto per me.
Senza presumere di possedere una vera erudizione, io mi son sforzato fin
dall'infanzia di comprendere il pensiero degli uomini migliori e più saggi
di ogni tempo. Vergogna all'artista che non considera una colpa il non
spingersi almeno tanto lontano”: il tutto scritto dal Maestro poco erudito in
un Tedesco che più zoppo e scombiccherato non si può. Beethoven fece
solo un fuggevole, traumatico passaggio nelle pubbliche scuole
“preparatorie”. Entrava, fissava il vuoto, non rispondeva alle domande. I
suoi compagni di classe pensavano che gli fosse morta la mamma, perché
era sempre sudicio e in disordine. Quel soprannome, “lo Spagnolo”, che
gli rimase appiccicato lungo tutto il periodo di Bonn, nacque allora.
Abbandonò gli studi regolari così presto che per eseguire una
moltiplicazione procedeva ad una lunga serie di somme. Nemmeno le
divisioni, sapeva fare. Il confidente e compagno di bevute beethoveniane
che succedette, per molti mesi, al menagramo Schindler, Karl Holz, e che
fu tra i maggiori responsabili della moria di Quaderni (Holz sparlava di
Schindler in continuazione) nonché del passaggio della cirrosi di
Beethoven allo stadio terminale, era un contabile alcolizzato, abile
violinista dilettante, e conquistò il Maestro per il suo dominio della
Matematica. Gli doveva parere una creatura superiore... Di contro,
Beethoven conosceva quasi a memoria Omero, Plutarco, Senofonte,
Tacito, Platone, Aristotele, molte cose di Immanuel Kant, Johann Gottfried
Herder, Friedrich Schiller (il preferito), Goethe, Ossian, Gotthold Ephraim
Lessing... L'elenco sarebbe sterminato, comprendendo anche svariati
trattati di Fisica, Astronomia, Biologia, Medicina (sì; anche un testo sulle
malattie veneree), e numerosi libri di Storia Universale. Beethoven
leggeva, e, a giudicare da ciò che delle sue parole ci è rimasto, ricordava
benissimo quanto leggeva. I geni non sono colti, sono curiosi. Cercano
ovunque visioni interiori che scatenino in loro il processo creativo. La
curiosità è la libera relazione tra cose distanti; l'erudizione è la riduzione
ad analogia di ciò che sta in un rapporto dialettico. La curiosità del genio è
la tensione tra poli prima della scintilla; l'erudizione è lo sbuffo di fumo
residuo. Beethoven non era colto, era un genio curioso.
Ciò che non imparò a scuola, lo imparò in casa von Breuning. Il
capofamiglia, Emanuel Joseph, era un eroe di Bonn. Cancelliere della
corte, morì nel colossale incendio del 1777, mentre cercava di portare fuori
i faldoni più importanti. Sua moglie, Helene, rimase giovane vedova con i
figli Christoph, Lorenz, e Stephan; nonché Elisabeth, detta “Lorchen”, che
fu a quanto pare la prima “immortale amata” di un uomo che una volta si
stupì perché era rimasto innamorato della stessa donna per sette mesi di
seguito. La profonda riflessione sulle libertà civili era entrata in Germania
anche attraverso i ribelli di Schiller, e di questo scrittore simbolo dei Tempi
Nuovi Beethoven meditava già allora di musicare l'“Inno alla Gioia”,
come testimonia la lettera di Bartholomäus Fischenich, un allievo di
Schiller (il poeta tenne per un po' una cattedra di Storia a Jena) a Charlotte,
la moglie di lui: “(Beethoven) intende mettere in musica Freude di
Schiller, strofa per strofa. Mi aspetto qualcosa di perfetto, perché, per
quanto io lo conosco, è completamente votato al grande e al sublime”. Da
quando era apparsa, nel 1785, l'Ode ovvero Inno di Schiller era diventata
un manifesto del riformismo illuminista, nella sua versione attenuata dallo
spiritualismo della nuova Naturphilosophie tedesca, dove l'enfasi era sui
meriti, le virtù dello spirito, in contrapposizione con quelle della casta. Fu
dunque nel nome di Schiller che Helene von Breuning accolse in casa
propria, come insegnante di pianoforte, il ragazzo disadattato, riottoso e
arso da un precoce risentimento verso la vita. Ne sopportò le
intemperanze, che lei chiamava “i raptus”, e che Beethoven, poi, definì
così per tutta la vita, con un misto di rammarico e velato
autocompiacimento. Nell'età che sarà di George Gordon Byron e del suo
famigerato Aroldo, all'artista, essere un po' borderline, non poteva fare che
bene (anche Mozart lo era, ma i tempi non erano maturi, e gli fece
malissimo). Casa Breuning fu il vaso alchemico che permise a Beethoven
di non disperdere il proprio flusso vitale nella melma di una sterile
misantropia. Gli fu insegnato a stare a tavola, a vestirsi con garbo, a sapere
quando era il momento di parlare e quello di ascoltare. La conversazione,
per Helene, era l'arte suprema dell'umanità liberata dai gioghi. Bisogna
ringraziare il dott. Wegeler, che poi sposò Lorchen, per avere introdotto il
suo amico Ludwig in un luogo dove poteva andare e venire come gli
pareva, e spesso dormire, se Johann, non tornando per cena, faceva capire
ai suoi figli quale risveglio li aspettava.
Johann, infatti, era ormai fuori controllo. Ludwig lo dovette pure sottrarre,
a forza di suppliche alla polizia, ad un decreto di confino in un altro paese.
Infine, nel 1789, chiese di poter riscuotere metà dello stipendio di suo
padre, infliggendo l'ultima e definitiva umiliazione ad un uomo che era già
in limine. Casa Breuning, dunque, divenne un mondo a parte, una scuola di
affetti necessaria per non impazzire. Ludwig si legò in particolare a
Lorenz, che aveva sette anni meno di lui, e che doveva morire giovane.
Anni dopo confessò che spesso gli amici erano, per lui, solo “strumenti” su
cui suonare, e che solo due persone gli avevano ispirato sentimenti sinceri:
uno era Karl Amenda, un teologo che la perenne lontananza da Vienna gli
rendeva gradito; l'altro, doveva essere Lorenz. Spesso, dai Breuning,
trascorreva intere notti di seguito, anche perché all'alcolismo del padre si
era aggiunta la tubercolosi della madre, e il fatto che per un bel pezzo
Ludwig temesse di morire dello stesso male dimostra che amava Anna
Magdalena quanto il nonno. Queste continue assenze di casa, il sentimento
di distacco e indifferenza che ne derivava, furono la certa causa dei
rapporti sempre, poi, conflittuali tra il genio e i suoi insipidi fratelli.
Il rapporto del ragazzo con la madre si era rafforzato durante un viaggio in
battello a Rotterdam. Franz Rovantini, il violinista cui abbiamo già
accennato, abitava con i Beethoven, e dava lezione a Ludwig. Era il nipote
di Anna Magdalena. Dopo la sua morte in giovane età, giunse a Bonn sua
sorella. Incontrò Ludwig, e propose un viaggio a Rotterdam, a cercare
fortuna. Fu una delle tante false partenze del Beethoven prodigio in
boccio, intento a ricalcare le orme di un Mozart fulmineo lungo l'Europa, e
irripetibile perché, quell'Europa, non esisteva più. “Rimasero via un bel
pezzo. Quando tornarono, Fischer domandò a tutti e due se stavano bene e
sani. Il signor Lutwig rispose che gli olandesi sono spilorci, amano troppo
il denaro. Aggiunse anche che non sarebbe mai più tornato in Olanda”.
Non aveva capito come non fosse più la musica, a veicolare le idee nuove,
ma la filosofia, la letteratura; almeno fino a quando “Lutwig” non sarebbe
diventato Ludwig van Beethoven. Anna Magdalena tenne abbracciati in
seno per tutto il viaggio sul barcone fluviale i piedi del figlio, a difenderlo
dal freddo. Si capisce perché lui, dopo la sua morte, la definisse “la mia
migliore amica”.
Questo primo viaggio di Beethoven fuori dai confini della città natale ha i
contorni del mito, con tanto di cronache d'epoca sgrammaticate e leziose.
Il viaggio del genio tirocinante a Vienna, alla ricerca di Mozart, invece, è
costellato di fandonie. Pare che fosse il conte Ferdinand Ernst von
Waldstein, dell'Ordine Teutonico, a convincere Maximilian Franz perché
sciogliesse i cordoni della borsa. Far vedere al prodigioso Wolfgang che
anche lungo il Reno i Wundermusikanten rampollavano come barbabietole,
sarebbe stato una bella vetrina per il figlio più oscuro di Maria Teresa. Si
narra che Beethoven si presentò di fronte a un Mozart in pieno raptus da
Don Giovanni, reduce da uno di quei traslochi per i quali oggi ci vorrebbe
un TIR, e che Amadé, noto per essere nemico bisbetico di quanti
praticassero l'arte dei suoni, e in diretta ragione del loro talento, dopo varie
smorfie e capricci, sentendolo improvvisare, sentenziasse “teniamo
d'occhio questo giovanotto: egli un giorno farà parlare di sé il mondo”. La
frase suona estranea al linguaggio abituale di Mozart come una poesia di
Petrarca se declamata da un'influencer internettica. Quand'anche Mozart lo
avesse pensato, tanto più per questo, magari, avrebbe etichettato Ludwig
quale “mechanicus”, come fece con Muzio Clementi. Beethoven, nel 1787,
andò sì a Vienna, ma a Mozart, non gli riuscì di incontrarlo. Forse lo
ascoltò suonare, ma è alquanto dubbio ne restasse sfavorevolmente colpito
perché gli pareva di sentire, invece che un pianoforte, un clavicembalo,
come dicono certe fonti d'epoca. E che doveva fare, Mozart, prendere
l'aereo e andare in Giappone a progettare lo Yamaha? Anche parte della
musica pianistica di Beethoven è scritta per uno strumento, allora, virtuale.
Mozart, nel 1787, voleva fare l'operista e poco altro, e ai concerti pubblici
pensava sempre meno. C'è poi quella lettera dell'Elettore ad Haydn. Siamo
nel 1793, e l'orgoglio di Max suo è accasato a Vienna, quale allievo del più
celebre compositore austroungarico. Entusiasta, l'absburgo? “Temo che,
come già per il suo primo viaggio a Vienna, egli non ne riporti altro che
debiti”. Tutto fa pensare che Beethoven, a Vienna, nel 1787, ci sia andato
per un'alzata d'ingegno, e di tasca sua.
Dovette tornare presto a Bonn. Johann gli scrisse. Sua madre stava
morendo. Se faceva in fretta, forse riusciva ancora a darle l'ultimo saluto.
“Via via che mi avvicinavo alla mia città natale, si facevano più frequenti
le lettere di mio padre, il quale mi esortava a viaggiare ancora più in
fretta”. Per viaggiare ancora più in fretta, durante una sosta ad Augusta si
fece prestare tre carlini dall'avvocato Joseph Wilhelm von Schaden,
somma che probabilmente mai restituì. La lettera con cui si scusa con lui
del mancato rimborso, è la prima che ci resta di Beethoven. Per impietosire
il munifico avvocato, gli racconta la lunga agonia della madre, e accenna
ad una sua asma che ritiene sia “il principio della tisi”. A quanto pare
pensava di tornare, se ci tornava, a Bonn, con i soldi guadagnati a Vienna.
L'Elettore non gli aveva dato un quattrino. Tutto lascia pensare che a quel
“viaggio della speranza” quale poteva venire in mente solo ad un
disadattato genio di provincia, fosse addirittura contrario. Certo è che a
Waldstein, intento a fabbricare l'immagine pubblica del genio in boccio,
questa sua iniziativa autopromozionale non poté che dispiacere.
Il conte Waldstein appare tra gli iscritti alla Lese-Gesellschaft, insieme a
Neefe, Simrock – il succitato cornista collega di Beethoven nella Cappella,
e poi suo editore – Franz Ries, il maestro di violino beethoveniano, e
benefattore della sua famiglia, e altri promotori illuminati di riforme
filofrancesi. Che un cavaliere dell'Ordine Teutonico: il tutore delle rune,
quello che nella Corazzata Potëmkin di fantozziana memoria cerca di fare
la pelle ad Alexander Nevskij, si mescolasse con simili sovvertitori, appare
ben strano, non fosse che il Gran Maestro dell'Ordine stesso era
Maximilian Franz in persona. L'Arcibestia non merita davvero la sua fama.
Aveva capito che dopo la “Dichiarazione di Pillnitz”, dove si diceva che i
sovrani tedeschi si sarebbero messi contro gli invasati della
liberfraternitegalité solo se il “concerto europeo” ci avesse messo le marce
militari, ovvero rimesso egualmente le trippe: dopo Pillnitz, l'Elettore
sapeva che il suo regno sarebbe stato l'hors d'oeuvre della pappata
rivoluzionaria. Napoleone, ingoiando l'Elettorato, che divenne la pancia
della Confederazione del Reno, dimostrò che aveva ragione, e di essere un
eccellente stratega militare, e un pessimo politico. Se la Francia si fosse
alleata con gli Illuminati della nascente clartè tedesca, oggi l'Europa non
sarebbe divisa, per un gioco di rivalse politiche che poi son diventate
ritorsioni economiche, in nazioni guten e nazioni bösen. C'entra con
Beethoven? moltissimo. La sua musica traduce in utopie sonore ciò che la
politica, in quel frangente, fu incapace di fare. In lui, la musica diventa un
metalinguaggio delle speranze deluse. È questo a renderlo il compositore
dall'impatto più immediato, materico, su chiunque, forse soprattutto su chi
non conosce la tecnica della musica.
Il Capitolo dell'Ordine Teutonico aveva sede a Bad Mergentheim, e la
solenne riunione alla vigilia della fine indetta dal Gran Maestro, che si
portò dietro la Cappella, dovette avere risonanze parsifaliane, con Max
Franz nella parte di un Amfortas costretto all'ultima, straziante cerimonia.
Dopo la morte di Beethoven si ritrovò, tra le sue cose, un astuccio sbiadito
dal tempo su cui stava impresso “un sigillo impresso nella pece”. No, non
era la sua iniziazione all'Ordine: era il titolo di “mozzo della cucina” che la
comitiva dei musicisti, imbarcati su due battelli e fuori controllo
disciplinare, come sempre capita in questi casi, aveva conferito
solennemente al lunatico Ludwig. Beethoven lo conservò, a memoria di
alcune tra le poche ore serene della sua vita.
Lungo il viaggio incontrarono la cittadina di Aschaffenburg. Johann
Sterkel, abate, vi era organista dell'Elettore di Magonza. Sterkel era un
virtuoso rinomato. A quei tempi i virtuosi, quando si incontravano,
sembravano due cani da caccia di padroni diversi che si trovino a razzolare
intorno alla stessa preda. Beethoven odiava queste cose, ma la sfida
apparteneva all'etichetta di corte. Sterkel conosceva le recenti Variazioni su
“Venni amore” di Vincenzo Righini che il rivale aveva appena stampato.
Gli disse che forse le aveva composte, ma di certo non le sapeva suonare.
Lo spartito, non si trovava. Beethoven sedette al pianoforte e decise di
punire il poco caritatevole abate, che fino ad allora si era esibito nel suo
stile manierato, elegante, sgocciolante sentimentalismo. Non solo suonò a
memoria l'intera faccenda, ma improvvisò alcune Variazioni nuove e
ancora più difficili, e nel farlo fece una esilarante parodia di quello stile
così lontano dal suo. Chiunque abbia avuto la fortuna artistica (e, talvolta,
sfortuna esistenziale) di incontrare un genio della musica, sa che la sua
dote istintiva più viva è la capacità di imitazione. In Beethoven, essa
divenne, a Vienna, capacità di trasfigurazione. La musica di Beethoven è
piena di cose prese da altri, ma ciò che in quelli è gromma del mosto, in lui
fermenta fino all'ebbrezza. Questo primo duello del virtuoso Ludwig
contro la “moda” – colei che secondo lo Schiller dell'Ode alla gioia
“severamente divide” – non è mera cronaca, ma una chiave interpretativa
del suo genio.
Giuseppe II, Imperatore del Sacro Romano Impero, è il “gemello diverso”
di Maximilian Franz. L'Arcibestia ci appare un sottile diplomatico, sagace
riformatore; Giuseppe II fu un velleitario devastatore di equilibri politici
costruiti in secoli di lesina diplomatica. Voleva rendere democratico
l'Impero, e riuscì più che altro a fare sì le due teste dell'aquila absburgica:
l'aristocrazia e i fatti ricchi dai Tempi Nuovi, si beccassero tra di loro. Non
bastava passeggiare per il Prater con il cappotto rattoppato ai gomiti e un
caschetto di tela cerata al posto della corona, per trasbordare la Civiltà dei
Lumi in territorio tedesco. Figura simpatica, sfortunata, con un che di
disillusione da Coriolano schifato, Giuseppe, quando morì di tisi, non
poteva che diventare un martire, per gli Illuminati della Lese-Gesellschaft
bonnense. “Il destino qui a Bonn non mi è favorevole”, aveva scritto
Beethoven a Schaden, nella sua manipolatoria lettera. Waldstein, invece,
doveva aver lavorato bene, se proprio al ventenne autore di nessuna opera
davvero notevole la “Società di lettura” affidò l'incarico di comporre una
solenne Cantata in memoria del discusso sovrano. Ne venne fuori quella
Cantata per la morte dell'Imperatore Giuseppe II W.o.O. 87 che è una
fucina del Beethoven maturo, con spunti e idee riprese poi in Fidelio e
osservabili, in filigrana, come incunaboli di tutto Beethoven, secondo quel
principio dell'evoluzione progressiva da motivi simbolici, essenziali, che è
la radice segreta del suo operare. La Cantata rimase inedita. Fu riscoperta
solo nel 1884, quando ebbe a Vienna la sua prima esecuzione. Johannes
Brahms ne fu entusiasta: “Tutto è del più puro Beethoven, da un capo
all'altro non una parola, non una nota, ne fanno dubitare. La bellezza, il
nobile pathos, sublime, nel sentimento e nella fantasia, l'intensità, talora
violenta, dell'espressione, e più ancora il trattamento delle voci nelle due
sezioni estreme, che riconducono al Finale del Fidelio”. È bello per il
biografo avere collaboratori di questo livello... Brahms sottolinea
giustamente lo stile fratto, corrusco, con un'orchestra che sempre narra,
anticipa, commenta. Siamo agli albori di una nuova epoca, nella Storia
della Musica. Resta il fatto che il “trattamento delle voci” di cui parla
Brahms è proprio ciò la cui imperizia Giuseppe Verdi sottolineava in
Beethoven, nonostante le lezioni che Antonio Salieri impartì, gratis, al
genio strozzasoprani giunto a Vienna. La Cantata per la morte
dell'Imperatore Giuseppe II W.o.O. 87 è un sorprendente capolavoro
sbucato dal nulla. Tuttora, la conoscono in pochi. Thomas Schippers se ne
fece un apostolo, dandone anche una versione in disco tuttora insuperata.
In generale, le composizioni di Beethoven che prevedono un coro sono le
orfanelle del suo catalogo. Alla Cantata dobbiamo accostare almeno
l'Opfernlied, “Canto votivo”, op. 121 b su testo di Friedrich von Matthison
e Calma di mare e felice viaggio op. 112, da Goethe.
La Cantata per la morte dell'Imperatore Giuseppe II, dunque, notarono
quelli della Lese-Gesellschaft, era bella. Bellissima. Troppo bella.
Leopoldo II, appena eletto, mise subito nell'armadio il cappotto rattoppato
e il caschetto di Giuseppe, e ristabilì i rituali di corte absburgici in tutta la
loro sferragliante canizie. Abolì anche, beninteso, la gran parte delle
riforme giuseppine. A Bonn, Maximilian Franz, che era della combriccola
governante, sapeva e soprattutto sentiva da che parte girava la bussola
ancora prima che la rotta verso gli avi venisse intrapresa. Se ne stesse
ferma, la Gesellschaft col suo umorale genio. Fosse una qualsiasi
musichetta di circostanza, ma un capolavoro... Vogliamo farci scoprire?
disfare tutta la tela ordita col clandestino favore della nostra dislocazione
periferica? Sta scritto che la Cantata non venne eseguita perché reputata
troppo difficile dai musicisti della Cappella, alcuni dei quali erano o
divennero tra i più illustri virtuosi del loro tempo. Pare di sentire le scuse
con cui i musicisti di Vienna archiviarono la Sinfonia n. 9 in Do maggiore
“La Grande” di Franz Schubert e la Sinfonia n. 4 in Mi bemolle maggiore
“Romantica” di Anton Bruckner. Troppo difficili. Traduzione: non
vogliamo grane con i Johann Friedrich Rochlitz e con gli Eduard Hanslick.
Il vento, dopo la morte di Giuseppe II, era cambiato. La successiva
Cantata per l'incoronazione di Leopoldo II W.o.O. 88, un capolavoro, non
è. Beethoven aveva imparato la lezione. Anch'essa non venne eseguita.
Leopoldo aveva ereditato, dagli avi, la malizia silenziosa. Subodorava la
piaggeria a distanza di Reno. Meglio star cheti, e non parlar...
Waldstein aveva capito che, per Beethoven, Bonn sarebbe stato il
mausoleo postumo della sua gloria. Doveva mandarlo a Vienna. Dopo
Neefe, è lui l'artefice di Beethoven. Senza Waldstein, nessun Beethoven.
Molti anni più tardi, dopo il Congresso di Vienna – lo sappiamo dai
Quaderni di conversazione – a Beethoven ne fu fatta notare la presenza, ad
un tavolo della taverna dove cenava abitualmente con gli amici. Si
spettegolò un po' su di lui, caduto in disgrazia e ridotto in povertà.
Beethoven non si alzò per andarlo a salutare. Non si voleva
compromettere? Preferiva cadesse il silenzio sulla sua relazione con un
uomo così inviso ai potenti della Restaurazione? Waldstein: costui, è un
mistero, commenterebbe il Giacomo Puccini di Manon Lescaut...
L'impresario londinese Johann Peter Salomon, cui Haydn dovette la sua
fama Oltremanica, era di Bonn. A Londra, aveva escogitato una stagione di
concerti a pagamento modellati su recenti modelli parigini, e indipendenti
dal mecenatismo principesco. Il suo merito principale consiste nella
sottigliezza psicologica che gli permise di capire come il “posto fisso”, per
Haydn, fosse un retaggio della sua infanzia disagiata e misera adolescenza.
Rese un musicista di corte il primo artista indipendente di successo della
storia, favorito da un contesto sociale come quello inglese – tanto
ammirato, poi, da Beethoven – dove i parlamenti non erano pourparler.
Nel 1790, partendo per Londra, Haydn si fermò a Bonn, dove la Cappella
gli fece sentire che bella musica si faceva alla periferia dell'Impero.
L'Elettore ci teneva a distinguere la sua politica culturale da quella della
corte imperiale, dove, come diceva Mozart, si faceva musica “da far
scappare i cani”. Tra i musicisti impegnati nella serenata per l'eroe della
musica tedesca da esportazione, che l'Elettore spudoratamente fece
apparire per improvvisata, c'era anche Beethoven insieme alla sua Ombra,
Waldstein. In un'epoca quando le società segrete facevano ancora onore al
loro nome, ci risulta difficile sapere quali rapporti intercorressero tra
Salomon e il teutonico conte. L'Inghilterra guidava tramite spie,
ambasciatori ex-avventurieri e ogni sorta di diplomatici che, fossero
rimasti a Londra, sarebbero stati passati per le armi, tutto un complicato
processo di assimilazione europea dell'Illuminismo in un giusnaturalismo
aperto al nuovo, ma non fomentatore di disordini. Sono certo che
Waldstein fosse noto a Londra più di quanto si immagini. Si spiega così
anche la sua disgrazia dopo il Congresso di Vienna. Gli agitatori politici,
gli utopisti che cercando di diluire la violenza rivoluzionaria avevano, a
giudizio dei sovrani, provocato l'incendio dell'Europa, divennero, in quella
festa delle pugnalate alle spalle, altrettanti capri espiatori. Tornando a noi,
di certo sappiamo che di ritorno da Londra, e dall'aver deposto la livrea del
conte Estherázy, con la sua dimora nelle paludi ungheresi, Haydn, nel
1792, si fermò ancora a Bonn. C'era già stato, era stanco del viaggio,
eppure ci si fermò. L'ingenuo Haydn non capiva di politica, e la
diplomazia, per lui, era una somma di feste e di incontri simpatici.
Waldstein, avesse fatto l'impresario ai giorni nostri, sarebbe stato
miliardario. Ad Haydn, gli mettono in mano la partitura della Cantata
giuseppina di Beethoven; così, come per caso, mentre intorno a lui tutti
fingono di essere in tutt'altre faccende affaccendati. Haydn, era Haydn.
Sono persuaso che già allora, scorgendo sulla carta il genio di Beethoven,
ne sia rimasto affascinato, ma anche spaventato. Quello, era il “Gran
Mogol”, come ebbe poi a definirlo: il barbaro della musica. Ed ecco si fa
avanti Waldstein. “Che gliene pare, Maestro?”. “Notevole, ma va dirozzato
un po'”. “E perché non lo dirozza Lei, magari a Vienna?”. L'Elettore avrà
preparato la scena, ma tutto lascia pensare che il regista di “Beethoven e
Haydn, ovvero le avventure del caso”, fosse il misterioso Conte Teutonico.
Che cosa gli doveva, quel Salomon cui Haydn tanto doveva? non lo
sapremo mai. Resta l'impressione, che sarà presto supportata dai fatti, che
Haydn, Beethoven, se lo sia preso per allievo obtorto collo. Gli piaceva di
più dare lezione a quelli come Ignaz Pleyel: i suoi cloni, ma non spiritosi
quanto lui.
Beethoven partì da Bonn intorno al primo novembre 1792. I francesi, nel
frattempo, avevano letto la locandina del “concerto europeo” di Pillnitz, e
il programma non gli era piaciuto. Il maresciallo Adam Philippe de
Custine-Sarrek prendeva a tradimento Spira, Worms e Magonza. I francesi
volevano il Reno, e non per i suoi vini. Il postiglione che portava
Beethoven a Vienna, insieme a un oboista e un altro profugo non
identificato, si trovò in mezzo alla scaramuccia di contenimento
dell'avanzata presaga di gallici furori, e solo a prezzo di una sostanziosa
mancia acconsentì a correre di fianco alle truppe, come il cameraman di un
film western durante l'assalto alla diligenza. Cominciamo bene: dovette
pensare Ludwig. E sì che l'album consegnatogli da amici e mentori, prima
della partenza, era pieno di frasi augurali. Waldstein se ne uscì con un
proclama da piazzista dell'ingegno, da allora irrimediabilmente riprodotto
in tutte le biografie di Beethoven. “Il Genio di Mozart è ancora in lutto e
piange la morte del suo alunno. Presso l'inesauribile Haydn ha provato
rifugio, ma non totale occupazione (…) Grazie a una ininterrotta fatica,
possa Lei ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn”, dice.
Qualcuno trova profetica questa roba, che dimostra solo il cinismo di usare
la fama di un Haydn miscompreso (la fatica di Haydn è così “ininterrotta”
che non riusciamo ancora a interromperla) per creare il mito di un nuovo
Mozart. Bellissime, invece, le parole di Stephan von Breuning che
Beethoven, il primo ottobre del 1797, ricordava ancora: “'La verità esiste
per il saggio. La bellezza per un cuore sensibile. Esse appartengono l'una
all'altra'. Caro e buon Breuning, non potrò mai dimenticare il tempo che ho
trascorso con te a Bonn e qui. Conservami la tua amicizia, come sempre
uguale troverai il mio affetto per te”. Stephan von Breuning si trasferì a
Vienna poco dopo Beethoven, che trovò il modo di litigare anche con lui,
dando origine ad una lunga separazione. Più una persona gli era cara, più
doveva, allontanandola, salvaguardare la propria libertà.
SECONDA PARTE. VIENNA PRIMA DEL CONGRESSO.
L'ESPIAZIONE DI PROMETEO

“Io, temerario, io volli salvare i viventi, che non finissero, polvere sfatta
sotterra, da Ade. Per questo m'inarca il tormento soffrire che lacera, da
piangere forte a vedermi. Io sì, ho pianto, fu mia quella scelta, sugli esseri
umani. Fortuna, il compianto, che a me, troppo vile, è stata negata”.
(Eschilo, Prometeo incatenato)
1. NEL TEATRO DEL GRAN MONDO, CON CORO DI
ECCENTRICI ARISTOCRATICI FILANTROPICI

Quale fu, la colpa di Beethoven? la stessa di Prometeo: voler rendere


l'individuo arbitro di ogni bellezza e verità. Infrangere la catena della
tradizione, il legame con la terra, per aspirare ad un ideale divinizzante,
angelica dannazione. Con Beethoven la musica diventa espressione dell'Io:
la sua originalità, che gli aliena ogni sostegno del tempo. Il tempo, nella
musica di Beethoven, è un nemico da soggiogare, e basterebbe la Settima
Sinfonia a dimostrarlo: non “apoteosi della danza”, come la definì Wagner,
ma vortice del tempo sospeso. Il tempo, quando orbita su se stesso, è
un'efficace metafora della distruzione ultima. Con Beethoven la musica
entra nella progressione verso il prevalere dell'intervallo sulla frase, dello
spazio sul tempo. Al termine di simile discesa negli Inferi, c'è Arnold
Schönberg, il guardiano della soglia; negli Inferi stessi, ci sono le recenti
avanguardie, che hanno alienato la musica dagli umani linguaggi.
Beethoven, a Bonn, si caricò di simile colpa; a Vienna, ne visse
l'espiazione. Film sceneggiati alla maniera dei vecchi fotoromanzi e di
novelle da rivista sartoriale, t-shirt buone per rimorchiare negli auditorium
studentesse di Lettere altrimenti zitelle; e poi statuette del Nume dei suoni
irato, panciuto, le mani richiuse dietro la schiena, come vi nascondesse
qualcosa di sporco; jingle pubblicitari con cavalli che sguazzano tra le
onde sul ritmo pulsante della Nona Sinfonia e il suo cosiddetto “Scherzo”:
ce ne voleva di più, per fare espiare a Beethoven la propria colpa? Nella
sua tutto sommato poco significativa, in quanto mero contenitore del
tempo creativo, vita a Vienna, Beethoven conobbe anche un ulteriore, più
dolorosamente fisico, tempo di espiazione: la propria esistenza di eremita
nell'anima.
La Vienna di fine Settecento è una città piena di nuovi nobili. Giuseppe II,
lo si è visto, aveva in uggia l'aristocrazia di sangue, e pensò di annacquarla
con robuste dosi di nobiltà per meriti, soprattutto economici. Gli
aristocratici per schiatta e semenza, dunque, presero a volersi distinguere
per meriti artistici. La Vienna di Beethoven è Clavierland, la terra del
pianoforte. Lo strumento, in origine solo un clavicembalo “con il piano e
con il forte”, si sviluppa attraverso le innovazioni dei costruttori viennesi
Anton Walter, Johann Andreas Stein, Johann Andreas Streicher, Konrad
Graf, non senza apporti del francese Sébastien Érard e l'inglese Thomas
Broadwood, fino a prendere la corsa sfrenata che darà origine alle moderne
macchine da guerra concertistiche. La musica pianistica di Beethoven si
modifica in base a simile evoluzione fisiologica. La comanda, spesso,
anche. Da quando Paul Badura-Skoda e via via gli altri pionieri, fino ai
recenti apostoli del “suono originale”, si sono messi a ricapitolare
l'evoluzione genetica dei pianoforti beethoveniani – con il loro telaio di
legno, i martelletti ricoperti di cuoio, il pedale “una corda”, e tutti i timbri
sfumati di un mondo ora perduto – la genialità del compositore sordo
nell'esigere ciò che gli strumenti dell'epoca non gli potevano dare appare
ancor più come una sfida mefistofelica. Anche qui, la colpa: quella del mai
abbastanza, quella dei suoni interiori in lotta e opposizione ideale ai suoni
del tempo. La via di Beethoven è quella che porterà alla musica
elettronica, ai suoni campionati, e, infine, alle “librerie” virtuali, assassine
delle orchestre vere e della musica reale. Lo strumento, con lui, diventa
artefice della musica.
Si tratta, in realtà, di un effetto collaterale. In Beethoven, sopra ogni altra
cosa, è la società a diventare non fruitrice della musica, ma materia
combustiva, alimento, alla stessa. È la “Legge dei Buddendbrook”.
Thomas Mann, estremo esponente di questa catabasi dei Pochi, i Felici, in
Europa, espone nell'omonimo romanzo il principio per cui le ricchezze e la
prosperità di censo sortiscono, infine, estremi rampolli destinati all'arte, la
malattia e la morte. Il trittico finale è epitome di tutto il Beethoven
viennese. Beethoven sempre detestò Vienna, e mai se ne andò via. Dresda,
Lipsia, e soprattutto Londra, che lo invitò sempre più forte, sempre più
disperatamente, sarebbero stati luoghi a lui ben più salubri. Perfino Parigi
lo avrebbe meglio capito, e lo dimostrò François Habeneck, il primo
direttore d'orchestra capace – per zelo, per puntiglio, non certo per talento
– di rendere giustizia alle sue sinfonie. Beethoven e Jean-Baptiste
Bernadotte, ambasciatore francese a Vienna; Beethoven e la dedica della
Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica” a Napoleone, sinfonia su di lui “fatta”;
ugualmente, la dedica della Sonata op. 47 “a Kreutzer” ad un violinista in
gran voga in Francia, e che la ritenne musica obbrobriosa e insuonabile, e
mai la suonò: tutto testimonia il desiderio di Beethoven di andare a Parigi,
dove non andò. Perché a Vienna c'era la fine di una stirpe, in un'ultima
fiammata di energia vitalizzante. A Vienna, c'erano i soldi degli
aristocratici in rovina morale e, spesso, anche fisica. C'era il principe Karl
von Lichnowsky, che ospitò nel proprio palazzo il Ludwig piovuto da
Bonn in regime di stretta sussistenza, e presto gli assegnò uno stipendio di
seicento fiorini in cambio di nulla. C'era il principe Ferdinand von
Lobkowitz, ugualmente potente a Vienna e a Praga, con una sua orchestra
privata a perenne disposizione del genio. Ferdinand von Kinsky, altro
principe, qualche tempo dopo si unì al predetto, e insieme cooptarono un
outsider d'eccezione, il fratello dell'Imperatore, l'Arciduca Rodolfo, per
offrire al già mito vivente Ludwig una pensione a vita e senza obblighi:
restasse a Vienna ad esercitarvi il mestiere di genio, invece che metter su
bottega di genio a Kassel, dove Napoleone aveva improvvisato con stucchi
e cartoni di scena una corte per il fratello Jérôme, un monarca degno di
Jack Lemmon quando lo dirige Billy Wilder...
Proprio a Napoleone dobbiamo l'interpretazione più convincente della
tragicommedia “Beethoven e i Potenti viennesi”. “Fra tutte le arti belle, la
musica è quella che ha maggiore influenza sulle passioni, quella che un
legislatore dovrebbe più di ogni altra incoraggiare. Una sinfonia
profondamente sentita di un autore maestro commuove immancabilmente
l'animo ed ha ben maggiore efficacia di un libro morale, il quale persuade
la ragione ma non influisce sulle abitudini”. Ecco il tutto spiegato: non era
Beethoven ad aver rivoluzionato la musica, era la musica, non più arte
delle sensazioni piacevoli, ma laboratorio dell'umanità futura, ad aver
rivoluzionato Beethoven. Si trattava di un ritorno alla Grecità: la musica
come ethos, sestante delle emozioni civili.
Per questo Beethoven da subito si volse agli Antichi. Quanta parte del loro
messaggio ideale abbia trasfuso nella propria musica, lo dicono le infinite
sottolineature a matita che ne segnano la lettura quotidiana di certi tra loro,
Omero sopra tutti. Non era la smania dell'autodidatta, a guidarlo, ma
l'intuizione di segrete affinità.
I nobiluomini senza i quali chi scrive questo libro, il libro, non avrebbe
potuto scriverlo, perché Beethoven, a Vienna, ci sarebbe andato a fare un
concertista e insegnante di fama sospetto di sordità, poi un sordo notorio
ricoverato in un cronicario a raccontare la sua fama di concertista e
insegnante, e non il compositore: costoro, erano un laboratorio di
teratologia. Lobkowitz era un maniacodepressivo. Ogni tanto si chiudeva
per settimane in una stanza semibuia, dove trascorreva il tempo a fissare i
passanti riflessi in un grande specchio ovale. Affascinante, questo
“complesso dell'Ombra”, il Sosia attivo, al posto suo, nel mondo, dal quale
Lobkowitz pareva affetto: siamo in quella temperie cupa del preconscio
dalla quale tra poco emergerà il Peter Schlemihl di Adelbert von
Chamisso, che fa il patto col diavolo e gli rifila, al posto dell'anima, la
propria Ombra. Le lettere spedite a Lobkowitz restavano chiuse sul suo
scrittoio anche per anni. Quando, infine, il principe usciva dal proprio
specchio, spendeva in musica i residui del suo un tempo immenso
patrimonio. Al modo in cui le vecchie vedove americane utilizzano, oggi, i
loro capitali, si fece fare un auditorium tutto per sé, che l'Imperatore trovò
un po' pacchiano, poi fallì e venne messo dai creditori in amministrazione
controllata. La sua miseria combattuta a suon di imbrogli fu spettacolare
quanto lo erano stati i suoi concerti. Lichnowsky, dalla sua, aveva sul
groppone una moglie dai nervi accordati al diapason di Belzebù, in seguito
a gravi malattie e conseguenti interventi chirurgici sfiguranti. Come gran
parte dell'aristocrazia viennese, il principe Karl di giorno conservava
l'anima nella tranquilla dignità di un ménage tra spiriti eletti, e di notte
portava il corpo a divertirsi nei bordelli. Pare che la neuropatica
principessa Lichnowsky, una volta, lo accogliesse dentro uno di quei loculi
per il sesso a pagamento girata di spalle, e con indosso una gran parrucca;
quando si girò, il principe fuggì urlando. Lichnowsky ottundeva le isterie
pubbliche della consorte in un cerimoniale domestico minuzioso e
automatico da fare invidia al Cappellaio Matto di Lewis Carrol. A casa sua
era sempre la “festa del non-compleanno”, tanto è vero che Beethoven, in
breve, traslocò, non sopportando di dover pranzare ogni giorno alla stessa
ora precisa (le quattro), doversi tirare a lucido solo per ingozzarsi di dolci,
sedersi al piano quando la principessa per ottenerlo si metteva a piangere
e, soprattutto, che il principe avesse dato ordine al suo cameriere
personale, se Beethoven suonava il campanello in sincrono con lui, di
servirlo per primo. Il povero Musikant di Bonn, insomma, era passato dalla
vita da cane di Bonn a quella da Kaimakàn Taddeo nell'Italiana in Algeri:
reverenze a ogni svolta di corridoio. Quando volle imparare a cavalcare, il
principe gli presentò le sue scuderie, ché se ne servisse, e Beethoven si
comperò un cavallo. Non sapeva che un altro benefattore, il Reichsgraf
Johann George von Browne-Camus, udita la cosa, stava per comprargli un
destriero da gran premio. A Beethoven arrivò il cavallo. Lo diede al servo
e se ne dimenticò; meglio per costui, che intanto lo noleggiava intascando i
compensi. Solo quando gli arrivò il conto della biada si ricordò di quel
ninnolo di due metri per cinque quintali di peso. Browne-Camus e moglie
erano una bella coppia di, come si chiamano oggi, “scambisti”: ognuno
cercava dove gli pareva il proprio paradiso dei sensi, di solito previa
consultazione in materia estetica, somatica e di potenziale sessuale, con
l'altro. Anche Andreas Kyrillowitsch Rasumowskij, altro patrono
beethoveniano, e futuro committente dei Quartetti recanti il proprio nome,
era ben noto sul mercato viennese del libero amore. Del resto, suo padre
Rasum era giunto dalle steppe cosacche agli allori patrizi non tanto per le
qualità canore che lo avevano fatto assumere insieme al fratello, Rasum
altrettanto, alla Corte dello Zar, ma per altre doti che le zarine Elisabeth
Petrovna e soprattutto la famigerata orchessa di maschi Caterina II non
mancarono di rilevare subito. Lui, Andreas, doveva averle ereditate, se,
destinato alla marina, lo troviamo alquanto giovane, a Napoli, quale
playstation per giochi di letto assai gradita a Carolina, la sorella
dell'Imperatore Giuseppe II, a lui tanto dissimile. Costei, quando si stufò di
giocare, fece spedire l'ex-Rasum a Copenhagen, Stoccolma e, infine, a
Vienna, dove gli accadde di sposare Elisabeth, la figlia della contessa
Thun, tanto bella da rendergli impossibile innamorarsi di altre viennesi;
così, gli era più facile separare amore e sesso in due rubriche differenti. La
vecchia contessa Thun, da parte sua, era anche lei bizzarra la sua parte, se
un giorno si inginocchiò davanti a Beethoven per implorarlo di suonare,
senza che lo scontroso genio si degnasse alzarsi dal divano... Completiamo
la cartella clinica dei mecenati lodoviciani con l'Arciduca Rodolfo,
l'epilettico, e Ferdinand von Kinsky, il quale era bulimico e tanto grasso
che morì disarcionato quando il suo cavallo si accorse di come ai colleghi,
almeno, per certi carichi, gli davano un carro.
Al quadro mancano altri “caratteri” lunatici scesi dalla carnascialesca
Nave dei Folli: tutti eroi del Bildungsroman “Beethoven a Vienna”. Li
vedremo a tempo e luogo. Per ora, traiamo le conseguenze da questi nostri
racconti scollacciati e pruriginosi, ma non fatti per colore d'epoca. I
mecenati aristocratici di Beethoven a Vienna erano, spesso, avventurieri
libertini e patrioti sospetti, personaggi con una certa aura losca di incroci
tra Don Giovanni e Faust; in loro, l'archetipo dell'Antico Regime e quello
dei Tempi Nuovi si univano in patologica sintesi. Simili Potenti, per lo più
massoni intenti a sfasciare l'ordine costituito dall'interno, vivendo se stessi
come incarnazione di ideali trasgressivi, prodromo all'imminente
rivoluzione sociale, si incarneranno poi nei personaggi dell'a noi già noto,
e da sempre notorio alle polizie dell'epoca, Lord Byron, nella vita del quale
costoro ebbero tanta parte che il padre loro, per mancanza di spazio,
dovette andarsene in esilio. Il paradossale esito dei Tempi Nuovi sortiti,
getto dopo getto, da tanto humus di immoralità provocatoria, sarà la
morale borghese, compensazione nell'etica di quella nobiltà che la nascita
non diede.
Di codesta morale un po' tartufesca, giudicatrice, Beethoven fu forse il
primo modello celebre, ed anche per questo divenne, presso le genti dei
Tempi Nuovi, la statuetta votiva del Genio musicale. “È uno dei miei
princìpi fondamentali di non avere, con la moglie di un altro, che rapporti
di amicizia. Non vorrei con una relazione di tal genere riempire l'anima
mia di sfiducia nei riguardi di colei che forse un giorno dividerà con me il
mio destino (…) Dalla fanciullezza ho imparato ad amare la virtù e tutto
ciò che è bello e buono”. Tutto questo solo per avere invitato la pianista
Maria Kiené a fare una passeggiata in carrozza nel Prater mentre il marito
era impegnato... È pur vero che costui si chiamava Paul Bigot, e la
familiarità con i Greci avrebbe dovuto ricordare a Beethoven il loro detto
“nomen omen”: nel nome si racchiude il destino. Dai Quaderni di
conversazione sappiamo che Beethoven non volle ricevere Maria
Magdalena Hofdemel, la pianista sfregiata dal marito (poi, per espiazione,
suicida) perché amante del suo maestro, Mozart. Ludwig, in
quell'occasione, giunge a dichiararla causa della morte di quello, una
diceria diffusa nella Vienna di allora. A proposito di Mozart, il Maestro,
nel suo rigore catoniano, si chiese sempre come avesse potuto, il divino
Amadé, dedicarsi a soggetti così frivoli e immorali come Don Giovanni e
Così fan tutte. Adorava, invece, Il flauto magico a tal punto da mettersi
nelle mani di quel pervertito Dulcamara degli impiastri teatrali, Emanuel
Schikaneder, che fu, secondo me, la vera causa, seppure indiretta, della
morte di Mozart. Per chiudere con i Bigot(ti), si noti lo Sviluppo sinfonico,
nella lettera beethoveniana loro indirizzata, dell'equivoco da Opera buffa a
proclama della castità prematrimoniale: un dogma già allora valido solo al
femminile, come sarà d'uso nella società borghese postrivoluzionaria, se
dobbiamo prestar fede al significato metaforico di quelle “fortezze” della
cui espugnazione il Maestro discorre con l'amico Zmeskall von
Domanovecz, e dei draghi dal fiato pericoloso che le abitano; tutte
allusioni a prostitute, bordelli e malattie veneree. “Dove stavate andando
oggi alle sette per la strada vicino al Bauermarkt?”, domanda al Nume
sonoro un importuno ospite. E lui risponde trincerandosi dietro il suo poco
Latino: “Culpam trans genitalium”. Se mai Beethoven ebbe la sifilide,
comunque, ne guarì. La morale dei Tempi Nuovi – una doppia morale di
segno opposto a quella godereccia dei “Lichnorasumowkij”, e due volte
più dannosa – lo contagiò per sempre, tornandogli, per altro, utile quando
dovette fingere di rinunciare a convivenze sublimi sulla carta da lettere e
destinate a farsi, ad ogni risveglio mattutino, ciò che i geniali Monthy
Python hanno fatto vedere in uno sketch su “casa Beethoven”, tra
aspirapolvere e bambini che piangono. La morale di Molière, quella di
Tartuffe, rovinò anche i rapporti di Ludwig con i fratelli, ben presto
piovutigli addosso a Vienna, e che non avevano letto l'edificante Pamela di
Samuel Richardson, né erano stati a passeggiare con Rousseau
(promeneur, per altro, come ci dice il titolo di un suo libro, solitaire). In
capo a tutta questa filiera di tartuferie morali Karl van Beethoven, il
nipote, si sparerà in testa, e a morire sarà Ludwig.
In quella seconda settimana del mese di novembre 1792, quando piomba
sulla capitale absburgica, Beethoven, invece, non è mai stato così vivo.
Vienna era, dicevamo, Clavierland, la “terra del pianoforte”, strumento
privilegiato dai dilettanti, simbolo della supremazia spirituale presso i
nobili di tutto spiantati, e oggetto di rivalsa sociale presso i nobili dal nulla
spuntati. Trecento pianisti, a Vienna, ognuno con il suo club di tifosi,
donde altrettante scaramucce tastieristiche a smanettate di “ottave” appena
un po' sopra il livello di quelle cui il popolino poteva assistere nelle fiere
dove i Wunderkinder si esibivano accanto al mangiafuoco e la donna
barbuta. Beethoven non era un virtuoso impeccabile. La sua tecnica
sperimentale, pensata per trasformare il pianoforte in qualsiasi altro
strumento la sua genericità timbrica potesse evocare; e poi la mano tozza,
con i polpastrelli “a bacchetta di tamburo”, per il troppo suonare da
piccolo, dicevano; i continui contrasti dinamici eccedenti le possibilità
materiali dello strumento: tutto il suo modo di suonare sembrava fatto
apposta per apparire, a gente come Cherubini o l'abate Georg Koseph
Vogler, frutto di un odio personale verso Bartolomeo Cristofori, l'ideatore
di quella cassa sonora che il vandalo renano, col pretesto di suonarla,
cercava di disassemblare. Scelti tra molti altri, Goethe, Czerny e il
compositore cèco Wenzel Johann Tomášec – il quale, dopo averlo ascoltato
a Praga, non riuscì più a toccare il pianoforte per diversi giorni –
parrebbero dirci che il Ludwig improvvisatore era il compositore
Beethoven colto nel momento della eruzione deduttiva dai suoi elementari
Motiven, senza ancora il logos normalizzatore della Forma: qualcosa come
l'“Adagio-Allegro” della Fantasia per pianoforte, coro e orchestra op. 80 e
la Fantasia per pianoforte op. 77, che sono, in effetti, improvvisazioni
passate così com'erano sulla carta. La cosa si complica se prestiamo fede al
direttore d'orchestra Ignaz Seyfried, che fu molto vicino a Beethoven.
Costui, alla prima esecuzione del Concerto n. 3 op. 37 per pianoforte, si
trovò a girare per il Maestro alla tastiera pagine di un manoscritto su cui
non c'erano che sigle incomprensibili. Immaginate il panico, e il
divertimento dell'Orso di Bonn allora già celebre anche per la tendenza
allo scherzo greve... Beethoven sosteneva di poter riprodurre per filo e per
segno ogni propria improvvisazione, e che comporre significava, per lui,
conservare nella memoria anche lungo diversi anni le idee germinative
destinate poi a farsi, per sviluppo e aggregazione, contrasto e familiarità,
strutture complesse. Quando improvvisava, dunque, procedeva all'opposto
degli altri: prima sbozzava velocemente nella testa una struttura coerente,
densa di un significato drammatico, poi la esponeva; il che spiega la sua
vittoria sull'abate Joseph Gelinek (“quel giovanotto deve essere in
combutta col diavolo”: la battuta, venendo da un abate, non va presa per
tale); Daniel Steibelt, che col suo “tremolo”, brevetto da lui depositato,
titillava le trippe dei propri mecenati, e dopo il duello con Beethoven
prima di entrare in una sala si guardava intorno, caso mai la belva fosse lì;
infine, Joseph Wölffl, quello che gli diede più trillo da torcere, perché era
così cristallino che sembrava l'avesse “soffiato” Svarowsky. Dovunque
fosse, Beethoven improvvisava, poi si girava e vedeva gli ascoltatori in
lacrime. Orrore. La musica deve ispirare sentimenti alti ed eroici, slanci
prometeici, mica far piangere... A Berlino, in tournée, fu particolarmente
caustico: “Siete pazzi. Come si può vivere tra simili bambini...”. In questa
biografia, mi sono ripromesso di indagare ogni ben noto aneddoto. Questo,
è bello succoso. Ci fa capire perché Beethoven non amasse fare il virtuoso.
Non gli piaceva l'esibizione tecnica, lo spettacolo, ma non per finezza di
carattere. Amava il successo. Sbranava i pianisti disposti a sfidarlo. Con
Steibelt arrivò alla sadica umiliazione, e ne godette. Il fatto è che la
musica, nella sua testa, si stratificava piano piano. Col tempo, diveniva
Forma. Lo sfolgorio immediato della bella idea, gliela bruciava per
sempre. La rendeva non più buona per il burchiello di scavo del genio.
Ecco perché, la sordità, se la coccolò come un prezioso dono. Essa rendeva
effetto del destino ciò che non poteva funzionare da volontà consapevole.
Nessun musicista, nella Vienna di Beethoven, avrebbe potuto dire: “Questo
tema è tanto bello che non ve lo suono. Deve fermentare, e tra dieci anni
finirà come idea secondaria dentro il movimento centrale di una sinfonia”.
Non c'è dubbio, l'avrebbero trattato da paraculo. La struttura,
nell'improvvisatore Beethoven, veniva insieme allo spunto iniziale, da
quello derivato per virtù analitica della sua mente ordinatrice; la Forma,
era un'altra storia. Beethoven è il primo compositore contemporaneo
perché in lui struttura e Forma non coincidono mai, come in Mozart e
nell'Haydn prima di Londra. Nell'Haydn di Londra, a mio parere, non
coincidono, e questo spiega la natura complicata dei rapporti, a Vienna, tra
il maestro Haydn e il suo allievo Beethoven.
2. DOVE IL GRAN MOGOL SCALPA VECCHIE PARRUCCHE,
MA IN SEGRETO LE INVIDIA

Franz Joseph Haydn è il grande dimenticato della musica occidentale. Ha


inventato, in pratica, la Sinfonia, il Quartetto, la Sonata e il Concerto.
Senza di lui, la musica “classica” non esisterebbe. Il suo umorismo, la
genialità incredibile nel derivare mondi interi da, talvolta, tre (dicasi 3)
note. La modestia e saggezza che ne fecero l'Antiprometeo. Se la prassi di
Haydn: distillare vino nuovo nelle botti vecchie, fosse prevalsa, noi, una
musica, ce l'avremmo ancora. Tieni a mente, lettore beethoveniano, questo
assunto, perché è la Forma segreta dell'intero libro. Mi chiedi se, allo
stesso modo, senza Napoleone oggi l'Europa sarebbe un'unica nazione,
retta da Pericle come Primo Ministro, Socrate alla Cultura, Solone agli
Interni, ecc.? Sì: Napoleone è stato un criminale almeno al pari di Adolf
Hitler, che ne è una diretta conseguenza. Le utopie sono comete del divino
i cui riflessi possono venire catturati solo in un'occasione; se chi li
raccoglie nella mano si crede il demiurgo del cielo, quei raggi di infinito
diventano mostri del nulla.
I rapporti tra Beethoven e Haydn sono una comica da film muto. Haydn
aveva scoperto Londra (ricambiato) e di fare il mentore all'Orso di Bonn
aveva voglia come di portarsi Oltremanica Santippe, sua moglie.
Beethoven, con lui, era carino. Gli portava anche il caffè e la cioccolata,
poi su un suo quadernetto segnava volta per volta quanto aveva speso.
Vestiva alla moda, l'ex-Musikant. Cavalcava il cavallo comperato (di
quello avuto in dono, ricordate?, non si ricordava). Da qualche parte sta
annotato anche il nome di un maestro di ballo, arte nella quale Ludwig si
rivelò versato come in quella di affilare le penne d'oca. La trascuratezza di
Haydn nel correggere i compiti del protetto di Waldstein indicano, in colui
che fu ottimo maestro di Pleyel, così ampiamente eseguito dalla Cappella
di Bonn, due cose: che Haydn, via Salomon, come abbiamo accennato,
doveva un favore al cavaliere dell'Ordine Teutonico; che, avendo letto
questo libro, sapeva che cosa Beethoven avrebbe fatto alla musica, e la
cosa non gli piaceva. Significativa la disfida tra maestro e discepolo: la
richiesta del primo perché il secondo scrivesse sul frontespizio dell'op. 2, a
lui dedicata, “allievo di Haydn”. Richiesta respinta. Ricordate? Beethoven
proclamò sempre di non avere imparato niente da Haydn. E invece, sapeva
che scrivere quella cosa avrebbe significato non poter spingersi oltre certi
limiti: aderire a quella stessa estetica che lui, il “Gran Mogol”, era
intenzionato a sfasciare. Quel dichiarasi allievo di Haydn lo avrebbe reso,
alla lunga, un ingrato. Dunque si prese un insegnante di sostegno, andando
a ripetizione da Johann Schenk, a quel tempo compositore abbastanza
noto, soprattutto di Singspiel. Schenk correggeva le non correzioni di
Haydn, poi Beethoven, per non farsi scoprire dalla diversa calligrafia,
ricopiava il tutto. Parecchi anni dopo i due monelli si incontrarono per
strada, e Ludwig condusse Johann all'osteria, e ridevano di quel vecchio
scimunito che non si era mai accorto di niente. Sì, non si era accorto di
niente... Beethoven Ludwig da Bonn non comprese mai che a Vienna, e
suoi derivati, il far finta di niente è l'acquolina che viene in bocca della
vendetta pregustata. Haydn, infatti, fino a quel momento pensava di
portarsi dietro l'allievo a Londra, e sono persuaso che se fosse capitato
oggi avremmo, di lui, non solo la Decima, ma anche alcune sinfonie in
numerali variabili a seconda dell'immaginazione individuale. Il colpo
fatale tra i due fu un agire beethoveniano che andò oltre il limite della
truffa. Ludwig presentò al maestro suo alcune composizioni nuove di
pacca (c'era anche un Concerto per oboe che è andato perduto). Haydn
notava che il Gran Mogol da qualche tempo gli chiedeva sempre più
spesso denaro in prestito. Così scrisse all'Elettore perché gli aumentasse
l'appannaggio. Un povero giovane così onesto; pensasse, la Eccellenza
Sua, che neanche un Kreutzer del denaro prestatogli era andato sprecato...
E poi, che progressi... Osservasse, l'Elettore, le nuove composizioni...
Ecco: le composizioni. Non erano nuove: erano quelle dei tempi di Bonn,
riciclate. Quanto all'appannaggio, magari non era alto, ma bisognava
aggiungerci lo stipendio di Beethoven quale membro della Cappella, che
gli era stato regolarmente pagato anche a Vienna. Haydn è l'unico genio
generoso e vero buonuomo della Storia della Musica (forse insieme a
Franz Liszt, che però era appena appena più narcisista) e questo spiega
perché Beethoven continuò a poter disporre delle falangi delle sue dita. Ma
quanto al portare quel farabutto con sé a Londra... Beethoven sapeva di
essere in difetto, e quindi da allora prese a definire Haydn “quella vecchia
parrucca”. Come tutti i visionari, da fuori, non si vedeva. La Vecchia
Parrucca si vendicò all'indomani della “prima” de Le creature di Prometeo.
Lo fece alla maniera viennese: complimentandosi con Ludwig. Lo
sventurato rispose. “Grazie, papà – così era chiamato, dai musicisti, il
vecchio Haydn – Ma non è mica la Creazione...”. “Non lo è, infatti, e
penso che non lo diventerà mai”. Quando scrisse l'Oratorio Cristo sul
monte degli ulivi, all'allievo, ancora gli bruciava; da cui goffaggini e un
certo tronfio operismo, dopo la bellissima introduzione orchestrale.
Haydn doveva avere tre guance, come le note dei suoi Motiven, da porgere
cristianamente agli schiaffi, se lo troviamo intento a dirigere il rude renano
come solista nel suo primo Concerto per pianoforte: l'op. 19, (poi
pubblicato come secondo), nel corso di una propria “accademia” destinata
a far conoscere ai viennesi tre delle sinfonie scritte per Londra. Beethoven
aveva già suonato il brano nel suo lungo, articolato debutto viennese:
1795, 29 marzo. Nella Vienna del tempo, a parte isolate “accademie” delle
quali si reputavano degni solo i geni conclamati, l'unica occasione per
sentire un'orchestra sinfonica erano i concerti di beneficenza, dove il
vantaggio era, per citare il più illustre tra essi, delle “Vedove e degli
Orfani”, ma anche del virtuoso di turno, che così diventava alla moda e si
procurava gli unici introiti sicuri: gli allievi. Quel 29 marzo il direttore era
Salieri, alla testa di un'orchestra che sarà anche stata vedova e orfana, ma
che suonava la musica di due figli suoi: gli allievi Antonio Cartellieri,
autore dell'Oratorio Gioas, re di Giuda, e Ludwig van Beethoven, al
pianoforte per il suo Concerto in Si bemolle maggiore per pianoforte e
orchestra op. 19. Scrivendo alla casa editrice Breitkopf & Härtel, di
Lipsia, Ludwig dichiarò che il Concerto, insieme al gemello op. 15, non
apparteneva “ai miei lavori migliori”; forse perché voleva sminuire,
diplomaticamente, opere da lui affidate, per la pubblicazione,
rispettivamente a Hoffmeister, oltretutto lipsiense, e Mollo (diffidare
sempre di come il Maestro giudica, nelle sue lettere agli editori, le opere
uscite altrove) o forse perché ricordava le condizioni in cui lo aveva
scritto, con il “Rondò” finale ancora in mente Lodovici due giorni prima
dell'atteso suo debutto, e quattro copisti seduti nell'anticamera, che
aspettavano di veder le scintille craniche venire fuori da quella porta
socchiusa. Testimone della scena, il dott. Wegeler, giunto a Vienna per
sfuggire all'oppressione francese su Bonn e su quell'università della quale
era Rettore. Ma non pensiate Beethoven si affidasse al “far brusco” di certi
operisti italiani che usavano la scadenza vicina come anfetamina virtuale.
Invece, scriveva a mente, e improvvisando. Quando un brano era pronto
doveva solo fissarlo sulla carta, cosa che faceva come in uno dei suoi
raptus, nel mentre l'elaborazione delle idee germinative, quelle poche
battute, era frutto di un lavoro di scavo negli intervalli musicali da
speleologo; poi, quando aveva trovato la formulazione definitiva,
scarabocchiava sopra all'illeggibile, se non da lui, “Louis” van Beethoven,
un trionfante “meilleur” (in Francese, perché quella era la lingua, quella la
cultura dominante, nella Bonn della sua adolescenza). Per il 31 marzo, due
giorni dopo il debutto ufficiale di Louis, la vedova Mozart, “Stanzi”,
ovvero Constanze, organizzò una rappresentazione de La clemenza di Tito
al Burgtheater viennese. In quell'occasione Beethoven – ora celebre per la
sua splendida improvvisazione della sera prima, in una replica della
beneficiata salieriana – eseguì il Concerto in re minore n. 20 K. 466 di
Mozart, per il quale compose anche alcune Cadenze. Non aveva scordato
la profezia del suo protettore, quel conte Waldstein che ora stava tentando
di formare un battaglione con il sussidio e le risorse degli inglesi, cosa che
i prussiani, da un cavaliere teutonico, non si aspettavano, e sull'Imperatore
Francesco II cominciarono a piovere relazioni di spie dall'accento
berlinese. Presto, quella Musica per un balletto cavalleresco W.o.O. 1 che
Ludwig, a Bonn, aveva scritto per una festa waldsteiniana – e la cui
paternità il conte gli aveva prontamente scippato – divenne una Giga in
“moto perpetuo” di lettere clonate e domestici impiccioni, e ci piacerebbe
tanto sapere che cosa mandò a dire, il Waldstein, all'autore della Sonata op.
53 “Waldstein” quando, dopo quest'ultimo pericoloso proclama di
riconoscenza, costui decise di chiudere i rapporti col suo massimo
benefattore. Tanto, non ne aveva più bisogno. Guadagnava abbastanza con
le serate in case patrizie e i concerti pubblici, che a Vienna, fino al 1798,
furono undici. Inoltre, come manager, Lichnowsky, meno politicamente
sospetto, era più bravo. Gli aveva organizzato perfino una tournée
modellata su quella che aveva messo in piedi per l'altro suo protetto,
Wolfgang Amadeus Mozart: Praga, Dresda, Lipsia e Berlino. Ottima cosa,
muoversi sulle orme di Amadé, a ereditarne “lo spirito”, soprattutto perché
a Vienna il clima si stava arroventando per via di tresche invidiose che
sulla lunga distanza daranno, lo vedremo, i suoi frutti.
Non solo Beethoven improvvisa troppo bene, ma il suo stile è difficile da
imitare, e bisogna prendere appunti. Nell'inviare a Eleonore von Breuning
quelle Variazioni sopra “Se vuol ballare” per pianoforte e violino che
stavano per divenire l'op. 1, e si dovettero accontentare di essere W.o.O.
40, Beethoven le dice di non spaventarsi se sono difficili: lei suoni i trilli, e
il violino si occuperà del resto. Eleonore, insomma, non era Vladimir
Horowitz, ma la sua imperizia tastieristica ci torna buona, perché apre la
via a quanto segue: “Non avrei mai messo per iscritto una cosa simile, ma
ho notato che quando improvvisavo la sera c'era sempre qualcuno a Vienna
che il giorno seguente trascriveva molte mie trovate e se ne faceva bello.
Siccome ho previsto che presto saranno pubblicate cose simili, mi sono
deciso di prevenirle. Un altro motivo era confondere i pianisti di qui,
infatti molti di quelli sono miei mortali nemici e ho voluto vendicarmi di
loro perché sapevo già da prima che in diversi luoghi sarebbero state poste
loro davanti queste variazioni con le quali questi signori faranno brutta
figura” (amo le traduzioni di Alfredo Casella, perché traducono il cattivo
Tedesco di Beethoven in un brutto Italiano). La lettera è importante. Ci
rivela che Beethoven diede inizio a un nuovo stile: la messa per iscritto di
tutte le idee secondarie che prima venivano fuori solo come derivazioni
improvvisative. Il foglio di musica, dopo di lui, diventa partitura; qualcosa
di simile a ciò che fece il suo idolo Johann Sebastian Bach quando prese a
scrivere tutti gli abbellimenti. Ne consegue, effetto collaterale indesiderato,
che gli allievi dei nostri Conservatori non sanno improvvisare; ma di
questo, Beethoven non ha colpa.
Praga, dove il Nostro improvvisò in quel modo così brillante da indurre
quasi il povero Tomášek alla castrazione biscromica, è importante per una
circostanza che inserisce Beethoven con prepotenza nella filiera
absburgicamente operistica Mozart-Salieri, e ci dice quanto volesse, fin dal
principio, fare di Fidelio la propria “corona del martirio”, come lo chiama.
È la città probabile dove scrisse Ah, perfido!, Scena e Aria per soprano e
orchestra op. 65 destinata a Josepha Duschek, prima interprete della
mozartiana Clemenza di Tito e invischiata con Amadé nei vani suoi
tentativi di arginare la rovina susseguente la morte del “suo” Giuseppe II.
L'allievo di Salieri si sentiva ormai abbastanza sicuro, nella prosodia
italiana, da tentare la sfida diretta con il Mozart del “Recitativo e Aria da
concerto” Ch'io mi scordi di te K. 505, del quale Ah, perfido! è quasi una
decalcomania. Nel catalogo “non ufficiale” beethoveniano compaiono
Scene, Arie, Terzetti e via dicendo, solitamente presi da testi di Metastasio
e vergati sotto il diretto controllo di quel generoso Kapellmeister alla Corte
di Vienna che sarà maestro anche di Schubert e Liszt, e che gli faceva
lezione gratis. Una volta, un visitatore in casa di Salieri trovò un biglietto
con su scritto in pessima calligrafia, “l'allievo Beethoven è stato qui”.
Dunque, Beethoven, non voleva chiamarsi allievo di Haydn; di Salieri,
invece... Alla scuola di Salieri, il barbaro renano trascriveva anche le
leziose esercitazioni neoclassiche dei suoi compagni di corso.
Stranamente, nessuno ci ha fatto troppo caso. Per me, significa che non
l'avesse colto, di lì a poco, la sordità, si apprestava a mettere su la divisa
del compositore di corte. A divenire Kapellmeister absburgico, del resto,
non rinunciò mai, e un'allusione a questo, dato per sicuro, passaggio di
status è contenuta anche nel documento che servì ai nobili suoi mecenati
per trattenerlo, previa pensione sine cura, a Vienna, piuttosto che a Kassel.
E invece gli Absburgo, pur di non farlo Kapellmeister, di Kapellmeister
non ne elessero più.
La morte della madre, e la sordità: la prima disgrazia gli impedì il divenire
allievo di Mozart; la seconda creò il Beethoven compositore della musica
che conosciamo. Come riconoscere un genio? tramite la “Legge dei
Grimm”: i geni sono come i bambini delle favole, trasformano le disgrazie
in colpi di fortuna. Abbiamo notizia di concerti anche a Pressburg e a Pesth
(che non è Budapest, la quale ancora non esisteva, nonostante le ipotesi di
alcuni biografi). La sosta a Berlino fu un trionfo. Federico Guglielmo II
donò a Ludwig una tabacchiera d'oro piena di tanti suoi omonimi luigi
francesi; ma d'oro anch'essi, e dunque a prova di svalutazione. Al suo
ritorno la faceva vedere a tutti, e si firmava Louis. Non si trattava, infatti,
di una tabacchiera qualsiasi, ma “di uno di quegli oggetti che si possono
regalare ad un ambasciatore”. Dietro le spoglie di un Bruto sdegnoso di
onori, fu sempre attirato da onorificenze e diplomi, dei quali, anni dopo,
fece una compilation per lettera a Wegeler. Venivano quasi tutte da Svezia,
Olanda, e altri luoghi rigorosamente non absburgici. Vienna si limitò a
conferirgli la cittadinanza onoraria, e quando Beethoven vide chi l'aveva
ottenuta insieme a lui, ormai la rifiutava. A Berlino, invece, per la
contentezza compose, oltre al Quintetto op. 16, per il virtuoso Jean-Louis
Duport, l'op. 5, con cui comincia, in pratica la storia del sonatismo
violoncellistico. Le cose maggiori, le componeva fuori da Vienna; magari,
in campagna. Le commissioni dei Quartetti più importanti, gli vennero da
russi. I migliori tra amici e protettori venivano da Praga, erano ungheresi,
abitavano in Curlandia... Viene da chiedersi che ci stesse a fare,
Beethoven, a Vienna. Ah ecco: ce lo dice una lettera a Karl Amenda.
Ottimo violinista, giunto a Vienna come precettore in casa Lobkowitz, poi
assunto da Constanze Mozart come insegnante privato dei figli, Amenda,
in crisi mistica, mollò tutto e si trasferì in Curlandia per fare il sacerdote.
Quand'era a Vienna, lui e Beethoven furono così intimi che quando
compariva l'uno, tutti si chiedevano l'altro dove fosse. Non doveva
mancare di coraggio, questo mite teologo: fu lui a fare il primo passo con
Beethoven, mettendoglisi alle spalle, durante un suo concerto, per girargli
le pagine. Ad un simile amico ideale, in quanto remoto, Beethoven scrive:
“Ogni cosa che io componga ha adesso una possibilità di vendita cinque
volte maggiore ed è anche ben pagata”. Amenda rimase, per il renano
inurbato, un ideale di purezza disinteressata. Meditava di trasferirsi da lui,
a menare vita contemplativa. Lo coinvolse nei preparativi per viaggi
(Polonia, Italia) a lungo vagheggiati, e poi, come tutti quelli di chi è
pellegrino solo nella propria sconfinata anima, mai realizzati. Un suo Sosia
– un Amenda de visu, non in effige – fu il corrispondente e viaggiatore di
commercio della ditta Offenheimer & Herz Franz Oliva, modesto e
riservato, uno di quei talenti pratici che a Beethoven servivano per
compensare quanto lui stesso così descrive: “Tutto ciò che intraprendo
fuori della musica mi riesce stupido e malfatto”. Subentrata la sordità, si
portò dietro Oliva nelle varie stazioni termali, come interprete capace di
sopperire alla sua infermità. Organizzò con lui quel viaggio a Londra che,
credo, l'avrebbe salvato, e che non ebbe mai il coraggio di tentare. Il dott.
Wegeler, lo conosciamo già. Partito da Vienna, rimase intimo di un uomo
per il quale l'amicizia, l'occupare il primo posto nel cuore di qualcuno,
poteva resistere ad assenze di anni; in quel caso, anzi, l'essenza spirituale
dell'amico diveniva un ideale incorruttibile. Wegeler, presto, tornò a Bonn.
Negli ultimi anni, a un Beethoven già fatalmente malato doveva scrivere
“ora guardo a te come a un eroe”. Era un massone emerito, e in quanto tale
Beethoven gli chiese informazioni su come la propria musica venisse
impiegata durante le riunioni delle logge. In questi primi tempi dei suoi
trionfi viennesi, Beethoven scrive a Wegeler: “Le mie composizioni mi
rendono molto e posso dire di avere più ordinazioni di quante sia in grado
di soddisfare. Inoltre, per ogni composizione posso contare su sei o sette
editori, o anche più, se lo volessi. Con me non discutono più, pagano
quello che chiedo”. E viene fuori il cinismo mercantile di Beethoven,
proclive a trattare le stesse partiture con editori diversi l'uno all'insaputa
dell'altro. Segue l'“Intermezzo di Tartuffe”, su parole di Molière: “Come
vedi mi trovo in una situazione piacevole. Se, per esempio, vedo un amico
in bisogno e il mio borsellino giusto in quel momento non mi permette di
aiutarlo subito, basta che io mi metta a tavolino a comporre e in poco
tempo ho la possibilità di soccorrerlo”. Questa ultima citazione va corretta
con la seguente: “Zmeskall è e sarà sempre troppo fiacco per essere un
vero amico. Lui e Schuppanzig io li considero come semplici strumenti sui
quali suono quando ne ho voglia”. In precedenza abbiamo sfiorato questo
aspetto poco godibile della personalità beethoveniana: la cinica
ingratitudine. Ignaz Schuppanzig, sommo violinista, eroe degli ultimi
Quartetti, ed abile direttore d'orchestra, fu colui senza il quale la musica di
Beethoven, a Vienna, non l'avrebbe ascoltata nessuno; quanto al nobile
Zmeskall, per meriti collocato a Vienna dall'amministrazione ungherese, e
valido violoncellista, fu colui al quale Beethoven dovette quell'amore e
quell'ammirazione incondizionata che ognuno di noi, in vita, si sogna.
Eppure, Beethoven, bisogna scusarlo. Stava scrivendo ad Amenda, che era
lontano, in Curlandia. Voleva fargli sentire la sua posizione di prediletto tra
tutti. In Beethoven, la mancanza di riguardi, l'arroganza offensiva, la
disgustosa manipolazione degli affetti: il suo indifendibile atteggiamento
verso amici e protettori derivava da una patologica paura dell'abbandono
che lo rendeva ingiusto e aggressivo, pur di far sentire chiunque gli fosse
caro come l'unico, l'Eletto. Non lo dico per giustificarlo, ma, al contrario,
per formulare una diagnosi di narcisismo borderline: il peggiore, il più
distruttivo. Come tutti i narcisisti, Ludwig faceva della propria violenza
psichica un tributo fisiologico della genialità. Eccolo citare Schiller: “Non
sono cattivo, sangue caldo è la mia cattiveria, giovinezza è la mia colpa
(…) Anche se spesso moti selvaggi affliggono il mio cuore, il mio cuore è
buono. Far bene quando si può, amare la libertà sopra ogni cosa, la verità
mai, anche dinanzi al trono, negarla”. Che bel quadretto... Sembra di
leggere il Manzoni Alessandro sciropposo dell'Ode a Carlo Imbonati, suo
probabile padre: “Il santo Vero mai non tradir/Né proferir mai verbo/Che
plauda al vizio/O la virtù derida”. Tartuffe dilaga, ride e si cala le braghe.
Il sangue caldo del renano, tanto buono, si manifesta in due biglietti inviati
in successione a Johann Nepomuk Hummel, pianista destinato a superarlo,
e suo compagno di studi presso il contrappuntista Johann Georg
Albrechtsberger, maestro di labirinti musicali e facitor di ragnatele sonore
per imitazione retta o contraria. Il primo biglietto dice: “Non venite più da
me. Siete un cane falso, e i falsi cani se li prenda il boia” (e meno male che
non gli aveva dato del cane vero). Il giorno dopo: “Nazerl (sic) del mio
cuore! Sei un galantuomo e avevi ragione, lo vedo; vieni da me nel
pomeriggio, troverai anche Schuppanzig e tutti e due vogliamo sgridarti,
tormentarti, scrollarti così che tu per questo debba avere la tua gioia... Ti
bacia il tuo Beethoven, detto anche Melschöber”. Lasciando da parte
eventuali indicazioni di tendenze masochistiche nell'Hummel, rimane
l'enigma di Melschöber. Pare quest'ultimo fosse un celebre cuoco
immortalato da una popolare commedia. L'umorismo della cosa stava nella
mania beethoveniana di mettersi ai fornelli per improvvisare cene poi
foriere di “notti trasfigurate” da fare invidia a Schönberg. Nell'imminenza
della Nona Sinfonia inviterà al suo desco Henriette Sontag e Caroline
Unger, le due soliste donne. Quelle, la notte, resero quasi l'anima a Dio, e
ormai gli eccessi gastronomici del Maestro, in un'epoca quando i cuochi
non erano ancora divi televisivi da fare invidia a qualunque musicista, ci
costavano la “prima” dell'unica sinfonia divenuta mito moderno.
I due biglietti mandati in successione a Hummel confermano la diagnosi
neuropatica. Se ne adonteranno, i musicologi beethoveniani? Meditassero,
piuttosto, la “Legge del Genio”, riassuntiva tutte le altre, che qui enuncio:
“Il genio è ancipite come l'aquila a due teste degli Absburgo. Non sa che
cosa gli succede, dunque non sa che cosa sta facendo succedere agli altri”.
Hummel ci torna buono per parlare dei rapporti discepolari tra il virtuoso
di pianoforte venuto da Bonn e il più illustre insegnante di Contrappunto
che ci fosse allora in Europa, Albrechtsberger, così illustre che Schubert
cominciò a studiare con lui quando aveva già pressoché compiuto il suo
itinerario di cometa cedua venuta ad abbacinare per sempre gli umani.
Ludwig, a quell'illustre, lo chiamava artefice “di scheletri musicali”.
Beethoven rappresenta il caso anomalo di un genio musicale la cui
educazione fu in balia del Caso. I quaderni zeppi di esercizi compiuti sotto
la ferula del rigoroso Johann Georg ce lo mostrano veloce come fu
Mendelssohn a dodici anni, quando, sotto la guida di Carl Zelter, cominciò
a scrivere le dodici Sinfonie per orchestra d'archi. A differenza di quello,
nato sapiente e quindi insidiato, per tutta la vita, dall'insipienza (la
sapienza non acquisita è un bene deteriorabile) l'Orso di Bonn continuò a
esplorare nuove norme creative fino alla fine. Prima di cominciare la
Missa Solemnis op. 123, ormai celebre e, per l'epoca, anziano, lo troviamo
nelle biblioteche principesche a decodificare Glareanus, Gioseffo Zarlino,
Giovanni Pierluigi da Palestrina, e inventare il neomodalismo. Ildebrando
Pizzetti, con la sapienza del neomodalismo, invece, c'era nato, e quindi la
sua musica è acquosa, oligominerale, stimolante solo nel senso salutista
del termine. Dobbiamo forse dedurne un'altra, residua, legge? Potrebbe
essere, questa, la “Legge di Beethoven”: “La cultura di un artista è
conseguenza del suo scopo espressivo, che è momentaneo; dunque esige,
oltre all'arte della memoria, quella dell'oblio strategico”.
Ignaz Seyfried, il direttore d'orchestra a noi già noto, nel 1832 mise
insieme, assemblando questi esercizi dello scolaro tardivo con le
prescrizioni pedagogiche da lui indirizzate all'Arciduca Rodolfo (e
probabilmente a Czerny, Ferdinand Ries, il nipote Karl...) un centone che
denominò Beethovens Studien im Generalbass, dove la fallacia sta nel
fatto che gli “studi di Beethoven” servivano a colui, semmai, “gegen”,
“contro”, il Generalbass: le norme del suo tempo, le regole codificate dai
vari Johann Philipp Kirnberger e Daniel Gottlob Türk. I trattati di
Armonia, candido modo per inibire istituzionalmente la fantasia dei futuri
compositori, crescono, decennio per decennio, a vista d'occhio, ingoiando
e facendo corpo di ciò che i geni musicali, per sempre ignari della loro
esistenza, mai avrebbero voluto ci finissero dentro. E torna “la Legge dei
Grimm”: la conoscenza raffazzonata, non sistematica, del Contrappunto
permise a Beethoven quella “neue Weg”, la “via nuova”, di cui lui stesso
parla anche e soprattutto in relazione ad una nuova maniera –
drammaturgica, scabra, dissipativa – di intendere la Fuga. Beethoven
avrebbe detestato sentirselo dire: lui, che per evitarlo idealizzò la Grecità
quale puro cielo del Sublime; e però, questa voglia di trascendere la regola,
il segno del limite, è il suo connotato preromantico, qualcosa di affine a ciò
che Friedrich Schelling, nella Filosofia dell'arte, giudicava essere la natura
dell'eroismo tragico: dar battaglia al destino, e innalzarsi al di sopra di esso
non perché trionfanti, impossibile cosa, ma proprio per la grandezza che a
noi viene dall'impossibile sfida. I Romantici, quest'aspirazione
all'impossibile redenzione dal mondo, la chiamarono Sehnsucht: parola
intraducibile, ma nella quale vibra la nostalgia di un cielo di pura luce
intravvisto e poi subito perduto; vibrano la Dominante Settima Sinfonia e
la Tonica Nona, con la Sesta, la “Pastorale”, a far da Sensibile.
Romantico fu anche il carisma di profeta del Nuovo che portò Beethoven a
veder crescere intorno a sé un Kreis, una cerchia di adepti uniti tra loro nel
cercare di tutelarlo dalle insidie del Reale. Nulla di lunare e lunatico,
nessuna patologia, in questi spesso meno titolati, più terrigeni, famuli.
Zmeskall von Domanovecz, il “barone sgombraspazzatura”, il “baron -ron
-ron -ron”, non era barone, ma conte. “Sua Violoncellità”, del quale il suo
amico Ludwig supra parodia, insieme, il servilismo e l'attitudine
all'abbiocco postprandiale, è una fucina di giochi linguistici e nonsense
partoriti da Beethoven quasi a tastare il limite cui poteva spingersi con
questo sottomesso, ma anche mercuriale, gaudente: “Maledetto ubriacone
di un Domanovecz, non conte di musica, ma conte mangione, conte-
pranzo, conte-cena”. Simile umorismo sguaiato, però mai malevolo, è la
compensazione psichica del genio alla tensione innaturale cui viene di
continuo sottoposto; ne troviamo tracce in J. S. Bach, e torrenziale sfogo in
Wagner (con somma stizza di Friedrich Nietzsche: il profeta del
Dionisiaco era sempre abbacchiato). Zmeskall, lo ricordiamo, era un genio
nell'affilare le penne d'oca, i personal computer dei compositori di allora,
né disdegnava di accompagnare l'amico a visitare certe “fortezze” da
espugnare rigorosamente in ore notturne.
Al suo maestro Albrechtsberger, Beethoven dovette la conoscenza del
barone (lui sì) Joseph Gleichenstein. Ignaz, suo figlio, presso la dimora
avita, debuttava in concerto. Beethoven non c'era andato da solo. Pare che
proprio in quell'occasione abbia formulato una delle sue due domande di
matrimonio. Magdalene Willmann, cantante lirica, aveva eseguito Ah
perfido! op. 65 nel giardino di un ristorante presso la corte dove
Schuppanzig presentava le novità della musica da camera, Beethoven (il
Quintetto op. 16 scritto a Berlino) compreso. Quella sera, in casa
Gleichenstein, la Willmann, alla formale proposta dell'irsuto pretendente
dalla capigliatura esplosa, scordò ogni metrica metastasiana e si mise
semplicemente a ridere. Lo respinse perché “così brutto e mezzo matto”.
Albrechtsberger chiese a Beethoven di dar lezioni ad Ignaz Gleichenstein,
il quale, come tanti allievi di musici insigni (il suo maestro sapeva come
far desistere col puro terrore i meno talentuosi) divenne poi impiegato di
concetto nell'amministrazione absburgica, e fu amministratore unico,
difensore civilista e cancelliere del distratto Ludwig. Fu lui a stendere il
contratto per tutto in cambio di nulla che, grazie alla munificenza dei suoi
blasonati sottoscrittori, legò per sempre Beethoven a Vienna. La loro
amicizia era cominciata all'insegna di una prima proposta nuziale
beethoveniana, e terminò per via della seconda, e ultima. Ignaz, esperto
diplomatico, fu il “messer Pandarus”, il sensale di matrimonio inviato dal
compositore a casa del dottor Johann Malfatti – oltretutto, e spesso non
volentieri, suo medico – per chiedere la mano della figlia Therese.
Gleichenstein aveva trionfato con la sorella Anna; dunque, chi meglio di
lui... Si ripeté, qui, per Beethoven la stessa situazione di Bonn, con
Wegeler che si sposa Elisabeth von Breuning, lasciandolo col cerino
acceso in mano. Gleichenstein, però, commette il peccato mortale secondo
Beethoven: nascondergli, per amore amicale, la cruda verità; da cui gli
anatemi e il distacco.
Si è accennato, poco prima, ad esecuzioni musicali in un ristorante della
corte, roba da archibar per arciduchi. Le possibilità di eseguire musica al di
fuori dei saloni aristocratici e dei teatri di corte, come abbiamo visto,
erano, nella Vienna di allora, remote. Ignaz Schuppanzig, uno dei massimi
violinisti del suo tempo, a capo di un Quartetto in forza al Rasumowskij,
fu un pioniere della libera imprenditoria musicale. Tra l'altro, organizzò nel
parco viennese Augarten una serie di concerti pubblici settimanali. I
programmi erano ambiziosi. Una volta Beethoven, che ancora ci sentiva,
vi ascoltò il Concerto in do minore n. 24 K. 491 di Mozart – il
prebeethoveniano, il suo preferito, insieme al K. 466 – in compagnia del
grande pianista e compositore Johann Baptist Cramer, colui che disse di
Beethoven, alla pubblicazione dei Trii op. 1, “ecco l'uomo che ci consolerà
della perdita di Mozart”. Beethoven e Cramer stavano passeggiando nel
parco, com'era abitudine di un pubblico non ancora, com'è adesso, in visita
devota al Tempio. A un certo punto Beethoven, colpito da un passaggio,
prese l'amico per un braccio “Cramer, Cramer – sussurrando animato –
non saremo mai capaci di cose come queste”. Schuppanzig, con i suoi
concerti nell'Augarten, fece conoscere molta musica importante anche al
futuro artefice della sua fama postuma. Era grasso, Schuppanzig, tanto che
Beethoven lo chiamava “Sir John Falstaff”. Con divertimento del sulfureo
Ludwig, sposò una donna più grassa di lui, meritando Canoni burleschi per
“aumentazione” perpetua come la sua mole dove gli si ripeteva una sola
cosa: quant'era grasso. Dopo l'incendio di palazzo Rasumovskij, nel 1814,
emigrò in Russia dove rimase nove anni. Al suo ritorno, Beethoven gli
mandò un Canone: Falstaffino Falstaff, fatti vedere, per rigorosa
“aumentazione”. Neanche fosse andato via il giorno prima; tale era,
quell'amicizia...
Fondamentale per la diffusione pubblica della propria musica fu, per il
compositore, la relazione con l'amico Moritz Joseph Johann von
Dietrichstein (e sappiate che ne ho abbreviato parecchio il nome) che
fondò nel 1807 i Liebhaber Concerte, i “Concerti dei Dilettanti”, nei quali
fu presentata la massima parte della musica orchestrale di Beethoven. I
“dilettanti” di allora erano tali solo perché la nascita illustre gli
permetteva/imponeva di non fare della musica il proprio mestiere; di fatto,
tra loro c'erano alcuni tra i musicisti più preparati di Vienna, e a loro
ricorrevano le deboli orchestre “professionali” dell'epoca quando si
schiantavano contro l'esigenza di organici sempre più ampi, nel tumulto
musicale dei Tempi Nuovi. Dietrichstein risulta anche tra i fondatori della
Gesellschaft der Musikfreunde, quella Società degli Amici della Musica
viennese che ha l'auditorium con le cariatidi dove, anno dopo anno, i fatti
ricchi dai Temi Nuovi batton batton le manine al maresciallo Josef
Radetzky, massacrator di Carbonari.
Un altro Moritz (questa volta, semplicemente tale), il von Lichnowsky,
fratello del principe Karl, spirito equilibrato, carattere immune al satirismo
di quello, fu un sostegno importante per Beethoven quando, dopo la
fiammata iniziale, l'entusiasmo dei viennesi per lui andò scemando. A
questo primo Kreis beehoveniano appartiene di diritto anche il conte
Moritz (ancora...) von Fries, banchiere e collezionista d'arte. Fu in casa sua
che il Don Chisciotte della tastiera in lotta contro i “tremoli a vento” del
ciarlatano Steibelt celebrò il proprio trionfo. Ferdinand Ries gli si legò a
vita, e gli fece conoscere la pittura a soggetti storici e la ritrattistica in voga
nell'epoca che vide nascere il mestiere di genio: quella di Beethoven.
Grazie a Fries abbiamo il ritratto beethoveniano di Willibrod Joseph
Mähler (una curiosa via di mezzo tra Gustav Mahler e il termine tedesco
per “pittore”, Maler) dove il Titano sta davanti a un paesaggio di rovine e
colonne, e sembra un archeologo che fa la pausa pranzo. Mähler ha un
merito: ci fa vedere quanto Beethoven fosse brachilineo, tozzo,
schiacciato, quasi gli avessero dato in testa, alla nascita, un colpo di
martello.
A completare il primo Kreis dei devoti orbitanti intorno a Beethoven come
la corolla degli angeli nelle Madonne del Quattrocento non manca che un
personaggio: bizzarro, lunatico, lui, e probabile, misterioso mediatore tra
Beethoven, Mozart, Haydn e l'aristocrazia viennese. Ma per conoscerlo
dovremo aspettare la prima esecuzione della Sinfonia n.1 in Do maggiore
op. 21.
3. DOVE BEETHOVEN INSULTA IL DEMONE INVIDIOSO, MA
QUELLO FA ORECCHIE DA MERCANTE

I tre Trii op. 1 furono, per Beethoven, un esordio clamoroso. Pubblicati da


Artaria, vennero venduti per sottoscrizione all'alto prezzo di un ducato,
fruttando al loro autore una notevole somma. L'intera aristocrazia
viennese, come rispondesse a un appello cui non si poteva dir di no,
allargò i cordoni della borsa. Con l'op. 2, tre Sonate per pianoforte,
Beethoven dovette fare ciò che a mio parere non voleva: dedicare ad
Haydn un lavoro importante. Che faccia avrebbe messo su, quello, avesse
saputo che alcune parti delle composizioni derivavano dai Quartetti con
pianoforte composti dal suo allievo quand'era a Bonn... L'avrà fatto
apposta? probabile. Ma che colpa aveva, Haydn? Forse, l'avere cercato a
Londra ciò che la Massoneria austroungarica, a parere dei suoi
rappresentanti, gli aveva già dato a sufficienza. Il catalogo del primo
Beethoven viennese presenta una marcata scissione tra le opere
sperimentali, per lo più confinate al pianoforte, suo laboratorio personale,
ed un'acquiescenza, nelle Forme sancite dalla Tradizione – il Quartetto, la
Sinfonia e la Sonata per strumenti concertanti – verso gli equilibri della
Forma-Sonata stabiliti dal magistero di Haydn e messi alla prova
dall'esuberanza mozartiana. Le eccezioni sono rare, come già abbiamo
accennato, e accolte con scetticismo dalle autorità costituite. Lavori come
l'op. 3, un Trio per violino, viola e violoncello; l'op. 6, una Sonata per
pianoforte a quattro mani ad uso delle fanciulle in età da marito; l'op. 8,
una Serenata per i canonici tre archi: tutte queste concessioni al gusto
corrente dimostrano che Beethoven voleva entrare senza sussulti nelle
derive della musica viennese, accontentando sia i conoscitori sia gli
amatori, e ingannando, in sostanza, gli uni e gli altri. La filiera
dell'opportunismo giunge fino alla Sinfonia n. 1 in Do maggiore op. 21
compresa, e dimostra, a mio parere, una sola cosa: Beethoven non voleva
spaventare Maximilian Franz, perché era sua intenzione calcare le orme
del nonno, e tornarsene a Bonn come Kapellmeister della corte.
L'invasione del Reno da parte dei Francesi e la fuga di Maximilian Franz a
Mergentheim diedero un primo colpo ai suoi progetti. L'Elettore non aveva
aderito alla coalizione antifrancese, e dunque visse l'usurpazione dei propri
domini come una barbara aggressione. A perderlo, fu probabilmente l'avere
dato ospitalità ai profughi del Terrore rivoluzionario, nonché a personaggi
come Eulogius Schneider, professore di Greco all'Università di Bonn,
autore di un Inno alla presa della Bastiglia e di vari poemi rivoluzionari dei
quali Beethoven, quando furono pubblicati, fu uno dei primi sottoscrittori.
Il legame tra gli ideali etici del compositore e quella strana simbiosi tra
Classicità e Rivoluzione riuscita a Schneider – che poi, giunto a Parigi per
combattere a fianco dei rivoluzionari, venne infine ghigliottinato – con una
nettezza pindarica, si diffonde lungo la sua opera fino a Fidelio, la
Fantasia per pianoforte, coro e orchestra op. 80 e, naturalmente, la Nona
Sinfonia. A creare un contatto tra il giovane insofferente delle ingiustizie
sociali e il teologo passato da Dio all'Essere Supremo fu la Lese-
Gesellschaft nella persona di Johann Avendonk, il librettista delle due
Cantate di Beethoven subito finite nella palude delle musiche insuonabili.
Il profugo di Bonn, dunque, credeva che la politica filofrancese del
principe suo lo avrebbe rimesso sul trono ben presto, e invece Maximilian
Franz si ritirò a Vienna, oltretutto malvisto dagli altri Absburgo, tant'è vero
che lo confinarono fuori città, nel castello di Hetzendorf, ad aspettare che
la depressione li liberasse da quel corpaccione di idealista guastanazioni.
Morì di idropisia, la stessa malattia che doveva uccidere Beethoven, il
quale – ed è significativo – era deciso a dedicargli la Prima Sinfonia:
dedica poi passata, per sopraggiunta morte del suo destinatario, a Gottfried
van Swieten, un emissario viennese di Waldstein e di quel suo Ordine
Teutonico del quale Maximilian Franz era Gran Maestro. Quando
Napoleone, nel 1806, creò la Confederazione del Reno, sembrò averlo
fatto apposta per giustificare lo strappo della dedica beethoveniana sul
frontespizio della Sinfonia Eroica. E Bonn, per l'esule di Vienna, fu persa
per sempre.
Swieten era il grande escluso del nostro primo Kreis beethoveniano. Lo
lasciamo in sospeso ancora adesso, così impara ad aver cancellato tante
testimonianze del proprio operato. Ora ci interessa considerare quali
possibilità si aprivano per il Beethoven ormai, suo malgrado, viennese.
Una carriera internazionale di concertista con sede nella capitale, e allievi
provenienti dalle mille nazioni dell'Impero? certo, allettante... Clementi
aveva portato la musica pianistica ad una complessità da rivaleggiare con
le orchestre? e Beethoven, lo rifaceva. František Xaver Dušek insufflava
nella sua tastiera lo spirito della sensibilità umbratile e mutevole fiorita
nello Sturm und Drang, il primo movimento artistico internazionale? e
Beethoven, lo rifaceva. Friedrich Wilhelm Rust, allievo di Wilhelm
Friedemann Bach – il più geniale e sregolato tra i figli di Johann Sebastian,
modello al Johannes Kreisler narrato da Ernst Theodor Hoffmann in
Kreisleriana – aveva sovvertito le regole armoniche all'interno della
Forma-Sonata? e Beethoven... Non fosse diventato sordo, Beethoven
sarebbe stato un epigono intelligentissimo di tutti costoro.
Già: la sordità, che gli venne, benedetta, per tempo a scombinare i piani.
Ne abbiamo una prima notizia in due lettere scritte a pochi giorni di
distanza, nel 1801, e destinate a Wegeler ed Amenda. “Un demone
invidioso, la mia cattiva salute, mi ha messo il bastone tra le ruote; e
questo significa, in sostanza, che il mio udito da tre anni a questa parte è
diventato sempre più debole (…) Devo confessare che la mia vita trascorre
miseramente. Da quasi due anni ho smesso di prender parte a ogni attività
sociale, proprio perché mi è impossibile dire alla gente: sono sordo.
Qualunque altra fosse la mia professione potrei tener testa alla mia
infermità, ma nel mio caso questa è un terribile svantaggio. Se lo sapessero
i miei nemici, che non sono certamente pochi, cosa direbbero?”. Wegeler
era un medico; dunque, Beethoven si sofferma sulle cure. Il dottor Joseph
Frank prescrive olio di mandorle. Carl Czerny era un bambino quando
venne portato al cospetto del grand'uomo cui dovrà, forse, il non venire
maledetto dagli studenti vittime della sua Scuola della velocità (op. 299).
Notò i batuffoli intrisi di liquido giallastro nelle orecchie di colui che gli
era stato presentato come il maggior musicista vivente e “siete sordo?”,
domandò con l'impunibilità dei bambini. Frank era il direttore
dell'Ospedale Generale viennese: un'autorità. Le sue cure tentarono di
sedare ciò che Beethoven stesso considerava l'origine della propria sordità:
“Sembra che la causa prima di questo malanno sia nelle condizioni del mio
addome, che, tu lo sai, era già malridotto prima che partissi da Bonn, ma a
Vienna è peggiorato, perché sono stato afflitto in continuazione dalla
diarrea e di conseguenza da una straordinaria debolezza”. Oggi diremmo
che Beethoven aveva il “morbo di Crohn”, una colite autoimmune che dà
accessi violenti di coliche, e spesso procura un'invalidità parziale. Di suo,
questo problema sarebbe bastato a rendergli difficile il concertismo,
soprattutto perché si aggravava prima di ogni esibizione pubblica, anche
se, a quanto pare, solo quando doveva eseguire musica scritta, e mai
quando improvvisava. Abbiamo testimonianza dei “dolori interiori”, non
dovuti al concepimento artistico, che attanagliarono Beethoven mentre
completava, di fretta come al solito, e poco prima di eseguirlo, nel 1800, le
aggiunte e modificazioni al “Grand Concert pour le Forte-Piano, Oeuvre
15” – come recita, al solito in Francese, il frontespizio fedelmente
riprodotto da Mollo, editore in Vienna – da lui già eseguito a Praga.
Chiunque non abbia troppa diffidenza per la Psicoanalisi (da non
confondere con la Psicobanalisi) capirà che qui non è luogo alle ambiguità
di Jacques Lacan (da pronunciarsi “Lachan”) tra “specchi” e “princìpi
desideranti”; qui siamo di fronte ad una sindrome psicosomatica da
esibizione pubblica ovvia in chi da bambino ne trovava la salvezza in
cannocchiali e ascese solitarie a rovine di vecchi castelli. L'unica cura di
Ludwig era poter comporre, ed evitare i confronti pubblici tra virtuosi: la
sua geniale psiche lo sapeva, e diede ordine all'inconscio, servo suo, di
provvedere alla bisogna. A dimostrazione del referto, piuttosto freudiano,
la connessione inconsapevole che Beethoven instaura, scrivendo a
Wegeler, tra la propria sordità e l'invidia ostile degli altri pianisti. Una vera
fobia, la sua, e già ne abbiamo intuito i primi segni nella lettera a Elisabeth
von Breuning. A quanto pare il celebre virtuoso temeva soprattutto che la
sua sordità si vedesse. Fino all'epoca dei Quartetti op. 59, quando scrive
“fai in modo che la tua sordità non sia più un segreto. Persino nell'arte”, ha
il terrore di comparire in pubblico, a manifestarvi la sua sordità. Però,
allorché un bimbo geniale e innocente come Carl Czerny gli vede i
batuffoli nelle orecchie con l'olio di mandorla, non va in allarme, e quasi,
anzi, si intenerisce. Era un retaggio delle vessazioni paterne: quando, in
piena notte, Johann, di ritorno dall'osteria, lo svegliava per esibirlo a suon
di schiaffi davanti a sempre nuovi, ammirati visitatori. Il narcisismo
borderline nasce da abusi infantili, e comporta una sindrome speculare tra
desiderio di ammirazione e fobia del giudizio. Una strana sordità, quella di
Beethoven. Sentiamo come la descrive a Wegeler: “Per darti l'idea di
questa strana sordità, ti dirò che a teatro mi devo mettere vicinissimo
all'orchestra per comprendere ciò che l'attore dice, e che i suoni acuti degli
strumenti e delle voci, se sto un po' lontano, non li sento affatto. Quanto al
conversare, è sorprendente come certe persone non si siano mai accorte
della mia sordità; ma siccome sono sempre andato soggetto ad accessi di
distrazione, attribuiscono a questo la mia debolezza d'udito. Odo i suoni
ma non distinguo le parole; mentre, invece, se appena uno grida mi è
addirittura impossibile sopportarlo”. Mettiamoci l'elmetto di Freud, con la
lucina euristica accesa, e scendiamo (pochi passi soltanto, ve lo prometto).
Beethoven crea un nesso tra la sordità, evento nuovo, e la sua tendenza
borderline ad astrarsi dal mondo reale, cosa vecchia, evidenziando un
nesso causa-effetto tra le due tale che, se ne fosse accorto, avrebbe
ingoiato il brogliaccio della lettera. Si illudeva che la gente non notasse la
sua sordità, al punto di raccomandare il segreto a Wegeler e Amenda? la
notavano, eccome... La cosa era di dominio pubblico, ma non si vedeva; e
tanto, a Beethoven, bastava. Memorabile, poi, quell'“odo i suoni, ma non
distinguo le parole”. La sordità non gli fu invalidante, come esecutore, fino
all'epoca del Trio “Arciduca” e della terza ripresa di Fidelio: solo allora
dovette smettere di suonare il pianoforte e di dirigere, tra collassi interiori
e smanie implacabili che denotano come soltanto in quel frangente
Beethoven metabolizzasse l'handicap, quasi esso fosse, prima, una
strategia interiore; e meraviglioso fu, da allora, il processo che lo portò a
sublimarlo nella atemporalità metafisica delle ultime opere. I suoni,
dunque, li udiva; le parole, no. Soprattutto, non sopportava gli urli. Johann,
suo padre. I fenomeni da baraccone, i supervirtuosi che l'aristocrazia, tra
chiacchiere, commenti e maldicenze, spingeva a combattere come leoni al
circo. Beethoven, il sordo, che improvvisando nel salone dei Browne si
ferma al continuo chiacchiericcio e sbotta “per simili maiali io non suono”.
Beethoven che si rovescia tutti i giorni secchiate di acqua gelida in testa,
per tener vispa quell'infiammazione del nervo acustico (non si trattò,
infatti, di una otosclerosi, che è ereditaria, e nella dinastia dei Beethoven
non ve n'è traccia) dalla quale dipendeva il suo essere il primo al mondo ad
esercitare il mestiere di genio compositore. Oltre a permettergli di
cambiare casa ogni qualche mese, stanti i danni agli intonaci dei piani
inferiori, le secchiate corroboravano, insieme al caffè – contato, da
borderline, chicco per chicco: una settantina – il processo creativo.
Beethoven divenne un sordo consapevole di non sentire solo intorno al
1818, quando iniziò ad usare i Quaderni di conversazione. E però, anche
allora, Schindler ci dice che in certi giorni si riusciva a parlargli, se gli si
urlava forte “nell'orecchio sinistro”, proprio l'orecchio da cui ebbe inizio la
sua sordità... In un passo dei Quaderni, un conversatore importuno si
merita una beethoveniana risposta enigmatica: non lo obbligasse, costui, a
sembrare più sordo di quanto era... Sir George Smart, giunto da Londra per
vederlo, e dunque ignaro di tutto questo teatrino, sostiene di averci
chiacchierato benissimo; e siamo nel 1825. Quando non trovava la causa
della propria sordità nei flussi di ventre, Beethoven ne incolpava un trauma
scatenante: un accesso di furore contro un cantante venuto più volte a
obiettare le sue ragioni, interrompendo il compositore in pieno raptus
compositivo. La smania e il deliquio successivo descritti da Beethoven: il
suo cadere in avanti e, una volta ripresosi, scoprirsi sordo, farebbero
pensare ad un'ischemia; o forse aveva il “morbo di Ménière”, quella
labirintite cronica di cui soffriva anche Jonathan Swift, e che nel suo
progredire conduce il malato sulle soglie della psicosi? Forse Beethoven,
osservando un albero in autunno, poteva dire, come Swift, “anche io
morirò così, a cominciare dalla cima”.
La medicina dell'epoca era ancora legata a concetti di energia, flussi,
riflussi ed equilibri omeostatici che facevano del corpo una di quelle
macchine a vapore in così rigoglioso sviluppo, nell'età della prerivoluzione
industriale. Ed ecco l'insigne chirurgo Gerhard Vering prescrivere a
Beethoven dei “vescicanti”: pezzi di una corteccia spurgante linfa
corrosiva che andavano applicati sugli avambracci per poi, una volta tolti,
lasciar defluire gli “umori reflui”, e quindi le tossine. Vi sembra un orrore?
aspettate di giungere agli ultimi mesi di un Beethoven confinato a letto, e
nelle mani dei suoi medici, dalla idropisia, la cirrosi epatica... Il
trattamento era doloroso, ma, soprattutto, impediva a Beethoven di
suonare. Così, giunse il turno del dott. Johann Adam Schmidt, il quale,
essendo medico militare, aveva l'abitudine di curare moncherini umani
destinati alla morte per cancrena, e si poteva dunque concedere il fare
esperimenti. Questo a suo modo geniale praticone era una via di mezzo tra
un naturopata e un seguace aggiornato alle recenti scoperte di Franz Anton
Mesmer, quel guaritore noto ai mozartiani, perché gli dobbiamo Bastien
und Bastienne, e convinto esistesse una sorta di corrente elettrica tra le
cose dal cui squilibrio nell'organismo aveva origine ogni malattia. Vi
sembra un'assurdità? certa Psichiatria moderna, rivalutando l'elettroshock,
mostra di procedere ancora secondo quei princìpi: vale a dire, di essere in
ritardo sulla Medicina di un secolo e mezzo... Schmidt era un uomo
intelligente. In qualche modo comprese l'aspetto psicosomatico della
faccenda e spedì Beethoven in campagna, ad Heiligenstadt, per un lungo
soggiorno. Se andate in quel sobborgo di Vienna trovate ancora il modesto
alloggio entro un cortile interno, ora museo. Dobbiamo a Schmidt
l'intuizione di come al suo paziente occorresse un ambiente protetto, un
isolamento difensivo contro il mondo dell'Apparire, essendo, egli, un
profeta dell'Essere. Senza Schmidt, Beethoven era perduto. Ma che
pasticcione era, però, quel genio prepsicoanalitico... Convertitosi al
galvanismo, la sua strana morte, per autofolgorazione terapeutica
sperimentale, fu una auto da fé in immolazione a Luigi Galvani. Dopo di
lui, Beethoven ricorse a un monaco erborista che con le sue cannule
insufflanti balsami ormai gli sfasciava un timpano; poi, solo protesi,
padiglioni di legno montati su pianoforti, a mo' di auditorium aurale, sottili
barre di metallo da appoggiare sulle corde del pianoforte e tenere tra i
denti...
Ciò che significa la sordità, per il Beethoven della maturità compositiva, è
incommensurabile, e lo vedremo a suo tempo. Ora dobbiamo fare i conti,
dopo la medicina “energetica” del primo Ottocento, con l'attuale medicina
“eziologica”: quella riduzionistica, che individua cause scatenanti catene
infinite di effetti collaterali; la nostra Medicina, insomma. Una teoria
sostenuta da clinici autorevoli sostiene per vero il nesso tra colite spastica
e sordità. Beethoven avrebbe sofferto di una malattia autoimmune dei
tessuti connettivi – una sorta di fibrosi cistica, la malattia di Chopin, in
versione attenuata – la quale provoca un quadro clinico, sordità compresa,
assai simile. C'è poi la storia dei capelli di Beethoven. Al suo capezzale il
mito da vivo venne, appena morto, scalpato da fans in cerca di una ciocca
dei suoi totemici capelli. Tra questi c'era il compositore Ferdinand Hiller,
giovane allievo dell'Hummel a noi già noto. Quando giunse, insieme al suo
maestro, nella Casa degli Spagnoli Neri, i capelli erano quasi finiti
(Schubert ne ricevette alcuni degli ultimi, un dono del suo amico Anselm
Hüttenbrenner, colui che a Beethoven chiuse gli occhi sul letto di morte). A
quanto pare i due devoti ritardatari corruppero un servitore perché andasse
a cercare il pelo nella testa d'uovo del genio. Si ebbero la loro ciocca, e
questa cominciò il suo viaggio nel mondo, con tanto di passaggio in un
villaggio norvegese dove si erano rifugiati alcuni ebrei durante
l'occupazione nazista. Uno di loro venne aiutato dal medico locale, che se
ne ebbe in dono la strana reliquia. Lui, non sapendo che farsene, la tenne
per anni su di una mensola, se non altro per ricordo di quei tragici
momenti (il nascondiglio degli ebrei era stato, infine, rivelato da un
paesano traditore). Alla morte del medico la ciocca finì all'asta e venne
comperata da due ultras beethoveniani di stanza in una cittadina
statunitense, dove avevano contribuito a fondare un piccolo museo di
reliquie lodoviciane. La ciocca venne incamerata e poi spedita a un
biologo e un medico legale, perché la analizzassero. Ne venne fuori un
tasso di piombo cento volte superiore a quello normale. Ecco che cosa
aveva provocato la malattia di Beethoven ai tessuti connettivi e, di
conseguenza, anche la sordità... Tubi maltenuti, stoviglie grommate,
medicine fatte senza nozioni di chimica? Quale, la causa? Pare fosse il
vino. Beethoven consumava grandi quantità di un vino ungherese molto
alcolico e pesantemente adulterato con il piombo, che lo rendeva più dolce
e ne arrotondava il sapore. In almeno un'occasione il sempre vigile, fino
allo sfinimento, Schindler “non beva quel vino, è adulterato”, raccomanda
al suo insofferente mentore. Teorie, smentite, referti su referti... Da parte
mia, rimango un ammiratore del dott. Schmidt e la sua Fisiologia olistica;
vale a dire, una Psicosomatica intuitiva.
Schmidt, dunque, spedisce Beethoven ad Heiligenstadt. Risparmiasse
l'udito... Il silenzio, l'isolamento, avrebbero attenuato l'infiammazione; per
il resto, bagni tiepidi nel Danubio. Niente olio di mandorle nelle orecchie,
perché si vede. Al periodo di questo soggiorno terapeutico in campagna
risale l'episodio che Ferdinand Ries narra nelle sue memorie
beethoveniane, scritte insieme a Wegeler. Figlio di Franz, Ferdinand, dopo
un periodo a Monaco, piombò a Vienna per diventare allievo di Beethoven.
Costui se lo prese per devozione ai servigi del padre, ma col tempo prese a
non poter fare a meno di lui. Intelligente, modesto, idealista, divenne il
braccio destro del compositore in tutte le minute faccende dell'esistere;
tanto che quando doveva eclissarsi per non finire coscritto, da cittadino
renano, nell'armata napoleonica, finché non venne riformato del tutto
perché cieco da un occhio, il Maestro andava in lutto. Alla fine, andò a
Londra e divenne uno dei musicisti responsabili della fama crescente e la
mitizzazione in vita cui Ludwig sempre e solo altrove da Vienna andò
soggetto. Ferdinand Ries non era, né mai fu, uno Schindler. Spesso tenne
testa al narcisista insordito, e questo rende le sue memorie ben altrimenti
attendibili rispetto a quelle schindleriane. Non mancarono, poi, gli scherzi.
Raccomandato dal suo maestro come pianista presso i Browne, quelli del
cavallo donato e poi obliato, prese così in antipatia i saccenti “intenditori”
della loro cerchia che una sera si mise ad improvvisare alla buona un
pezzo, e poi disse che era una nuova Marcia di Beethoven. Beethoven che
scrive marce? ebbene... Si era a Baden, e la sera dopo l'incubo di ogni
allievo prediletto di celebrità sempre pronte a giudicarlo indegno prese
corpo, davanti a Ries, nelle fattezze di Ludwig van in visita ai Browne.
Lui, però, non solo la prese bene, ma scrisse tre Marce per pianoforte a
quattro mani, poi confluite nei W.o.O. 18-24. A Ferdinand, gli andò meno
bene con l'“Andante favori”: il brano concepito da Beethoven come
movimento centrale della Sonata “Waldstein”, e poi pubblicato a parte. Il
compositore lo fece sentire, ancora non rifinito, all'allievo. Ries, poi, lo
suonò un paio di volte al Lichnowsky, e va detto che allora l'orecchio e la
memoria musicale degli studenti dovevano essere ben esercitati, se
Beethoven, quando andò a trovare il principe, dopo avere opposti energici
dinieghi alla sua richiesta di fargli sentire una nuova composizione fresca
fresca di principesco inchiostro, sbalordito, ascoltò il proprio Andante
favori. L'eccesso di zelo, il voler far vedere al Maestro di quali doti fosse
provvisto, costò caro a Ferdinand: Beethoven non suonò più davanti a lui.
Il ragazzo si vendicò a suo modo. Compose una Cadenza difficilissima per
il Concerto per pianoforte in do minore n. 3 op. 37. Beethoven gliela
ascoltò, e gli impose di non suonarla in pubblico. Ries scrisse una Cadenza
più facile. Al momento dell'esecuzione, con Beethoven accanto, a girargli
le pagine, attaccò la Cadenza originale, incurante degli sguardi da Gorgone
pietrificante che Ludwig gli scoccava in attesa dell'errore. Tutto andò
liscio. “Lei è un testone. Se avesse fatto un solo sbaglio, non Le avrei più
dato lezioni”: un modo alquanto critico, e tipicamente beethoveniano, di
fare un complimento. Ries fu anche uno dei pochissimi a rifiutarsi di
eseguire in prima esecuzione un brano di Beethoven, perché non c'era il
tempo di studiarlo a fondo. Il Maestro dovette suonarselo (non bene, pare)
da solo. Ries, insomma, è un cronista non incline all'agiografia. Il
passaggio delle memorie dove narra della sua visita ad Heiligenstadt, e del
pastorello che suonava così bene lo zufolo; e lui attira l'attenzione del
Maestro su quel musicista di natura, pensando di vederlo animarsi in volto,
e quello gli dice che non sente; e allora Ferdinand dice “anche io non lo
sento più”, poi vede Beethoven incupirsi, e fino a casa non si dicono una
parola: quell'episodio, poi, finisce al centro del Testamento di
Heiligenstadt, che sta per fare il suo trionfaltronfio ingresso in questa
biografia. A quanto pare, con la sua solita ben intenzionata goffaggine,
Ferdinand Ries per poco non era causa, al suo riverito maestro, di
suicidio...
La seconda “lettera della sordità” è indirizzata a Karl Amenda, “Mirben,
vicino a Tulsen, Curlandia”. La data sarebbe 1 luglio 1801: il “sarebbe” è
d'obbligo, perché Beethoven tendeva a confondere le date e a curiosi
lapsus cronologici che andrebbero, anch'essi, indagati psicoanaliticamente
(la “sindrome dei due anni in meno” non lasciava supporre altrimenti...).
“Tu non sei un amico viennese”, dice a Karl il suo Ludwig, e il corsivo è
originale. “Quanto spesso vorrei averti qui con me, perché il tuo
Beethoven conduce una vita molto infelice, ed è in discordia con la Natura
e il suo Creatore”. Questa natura come luogo dove si incontrano “Princìpio
dell'Agente” e “Princìpio dell'Atto” introduce il tema, assai importante in
seguito, del teismo panteistico beethoveniano. Beethoven va scoperto,
nelle sue convinzioni profonde, quando abbassa la guardia, e parlando di
altro, nella foga della lagnanza non si rende conto di rivelare intendimenti
spirituali del mondo che di solito nasconde con cura. Riguardo al Creatore:
“Sovente L'ho maledetto perché ha lasciato le Sue creature in balia del
minimo rischio, sicché perfino il più bel fiore ne rimane spezzato e
distrutto”. Sta parlando con un sacerdote teologo, e gli mostra di non
credere affatto alla Provvidenza cristiana. Non è una lettera, è un discorso
fatto al confessionale. Seguono i già noti pianti sulla forzata separazione
dal mondo, con in più un richiamo stoico alla rassegnazione frutto di pose
plutarchiane apprese nei pochi giorni intercorsi dalla lettera a Wegeler.
“Puoi renderti conto di quanto la mia vita sia triste, dal momento che sono
tagliato fuori da tutto ciò che mi è caro e prezioso; e per di più sono
costretto a frequentare meschini egoisti come Zmeskall, Schuppanzig, e
altri simili”: decisamente, il martire auricolare tiene troppo a che Amenda
intenda la loro amicizia come esclusiva... Non critica gli altri amici, li usa
per manipolare colui che ora gli serve si senta l'unico, l'Eletto. Tutta questa
lettera è sospetta, insincera. La riprova? dopo aver tanto lamentato la sorte
che gli impedisce una carriera pubblica (“nella mia attuale condizione
debbo ritrarmi da tutto, e i miei anni più belli voleranno via senza che io
possa realizzare tutto quello che la mia forza e il mio talento mi
comandano di fare”) Beethoven se ne esce in “se fra sei mesi il mio male
risulterà inguaribile, allora farò appello alla tua comprensione, dovrai
abbandonare ogni cosa per venire da me. Allora io mi metterò a viaggiare
– quando suono e compongo il mio malanno mi dà ancora il tormento
minore, lo sento invece molto quando sto in mezzo alla gente – e tu dovrai
essere il mio compagno”. Ecco a che cosa mirava l'intero discorso: una
terapia contro la tipica “sindrome da abbandono” dei narcististi borderline.
Tra l'altro, con il corollario di una conferma: che la sordità, nel far musica,
lo impedisse ben poco. Ed eccola, la clamorosa ammissione: “Ho molto
perfezionato la mia tecnica pianistica”. Prima si lamenta con la sorte che
gli impedisce di seguire la sua via nel mondo; poi sviluppa con
accanimento quel talento di virtuoso del quale, sostiene, la sua infermità
non gli permetterà di godere. Però, Amenda, “così tu potrai rimanere
sempre con me”. Un'ultima, importante spremitura dal ricco vitigno
amendiano: il passaggio dove il Maestro dice di voler “realizzare tutto
quello che la mia forza e il mio talento mi comandano di fare”. Si affaccia
qui, dopo quello del teismo, un altro tema fondamentale, nell'Epica
beethoveniana: la “Chiamata del daimon”, l'Imperativo Categorico sotteso
da Kant all'agire del genio in quanto eroe dell'Umano.
4. IL TESTAMENTO DI HEILIGENSTADT: ANALISI DI UN
GENERE LETTERARIO (CON CONSEGUENTI FRATERNE
DEVASTAZIONI)

Il cosiddetto Testamento di Heiligenstadt è l'equivalente letterario


dell'Opera Fidelio. Che cosa sia, tutti lo sanno: una lettera scritta da
Beethoven nel suo esilio terapeutico di Heiligenstadt, e con la scusa
dell'indirizzo ai fratelli Carl e Johann (ma il nome di quest'ultimo è stato
cancellato: Ludwig fa col fratello ciò che farà, nella Sinfonia Eroica, con
Napoleone) destinata a noi posteri. Fidelio si inserisce, come abbiamo già
osservato, in una tradizione di Opera francese, quelle “à sauvetage”, che
va da Henri Montan Berton, Pierre Gaveux, Monsigny, Grétry, fino
all'apice di Cherubini, e che gioca sull'opposizione bene-male – come dire
catodo-anodo, polo positivo-polo negativo di un campo elettrico – il
Testamento affonda le sue radici nella vena larmoyant, “lacrimevole”, del
preromanticismo francese: le Confessioni di Rousseau, Le stagioni di Jean-
François de Saint-Lambert, I tre regni della natura di Jacques Delille, e
infine, a sintesi in un capolavoro, l'Adolphe di Benjamin Constant. A loro
volta, questi scrittori di certo noti, Constant a parte, al Beethoven di Bonn,
traducevano nella fisiologia umana la Fisica dei vapori, le pulegge e le
forze meccaniche che stava dando vita alla Civiltà delle Macchine. Paul
Henri d'Holbach, Étienne de Condillac, Claude-Adrien Helvétius avevano
ridotto le passioni a spinte e controspinte, energie positive ed energie
negative, aprendo un'epoca di positivismo psichico che avrà la sua ultima e
più alta espressione in Freud, l'“idraulico dell'inconscio”. È sempre
nell'area linguistica francese che l'immagine autopromozionale
confezionata da Beethoven nel Testamento trova la sua espressione più
radicale ed efferata: il romanzo Jean-Christophe di Romain Rolland,
sterminato flusso di un Io beethoveniano arrogato dall'autore lungo dieci
volumi che, prendendo per sfinimento l'Accademia Reale Svedese delle
Scienze, gli valsero il Nobel. Il Testamento ci è costato Gary Oldman che
cammina scuotendo le chiome col torso contratto come gli si fosse rotta la
cintura, nel film Amata immortale; un Beethoven politically correct che
trova in Anna Holz – versione femminile dell'Holtz Karl, violinista a lui,
ormai condannato dalla malattia, inseparabile – nel film Io e Beethoven, il
paio d'orecchi necessario a dirigere la Nona Sinfonia; certi romanzi inglesi
di giornalisti BBC dove lo stile non si leva oltre “Ludwig nodded” e, a casa
nostra, “Mu(siccanti)” e “Lezioni Ultravigesime”, con tutta la zazzera di
snoblesse oblige che tali film comportano.
Il Testamento di Heiligenstadt, insomma, o lascia a bocca aperta o dà sui
nervi (oppure entrambe le cose, in due diversi momenti della vita). Che
Beethoven l'avesse concepito come lascito ai posteri, è evidente. I dolori di
un certo Werther capace di indurre al suicidio la meglio gioventù tedesca,
pur di distogliere, dallo stesso, Goethe, il suo autore, si erano
profondamente incistati nell'anima di Beethoven. Il Testamento fu
ritrovato, dopo la sua morte, nello stipetto nascosto di un armadio, insieme
ad un altro vescicante biografico, la Lettera all'Immortale Amata
(rigorosamente in maiuscolo) e le azioni bancarie messe da parte come
eredità per Karl. Dicono: era nascosto, il Testamento; dunque, il suo autore
non voleva venisse alla luce... Era nascosto, dico io, insieme alle azioni
bancarie, che Beethoven non riscattò tranne una, a costo di chiedere, in
pratica, l'elemosina alla Royal Philarmonic Society di Londra, pur di
lasciarle intatte a Karl. Figuratevi se voleva che non si trovassero...
Sgomberato il campo dalle sterpaglie, andiamo ad esaminare l'illustre
scartafaccio, che è datato 6 ottobre 1802 (sempre che sia così...). Colpisce,
si diceva, l'assenza del nome “Johann”. È l'atavismo di Beethoven,
conseguenza del culto per nonno Ludwig. Il genio teneva alla sua prosapia
almeno quanto gli Atridi alla propria (e con le stesse conseguenze). C'è
qualcosa di arcaico, miceneo, in questa ossessione di Beethoven per il
retaggio di sangue: una sindrome che gli costò rotture coi fratelli, quando
costoro generarono piccoli Beethoven con “matrici” femminili giudicate
indegne e, infine, la fatale adozione del rampollo Karl, assunto come “vas
d'elezione” di ogni Apollo possibile, con il conseguente cortocircuito
fulminante tra catodo-zio e anodo-nipote che a suo tempo vedremo.
Colpisce, del Testamento, lo stile: involuto, grondante un sentimentalismo
colpevolizzante e vagamente jettatorio, da romanzo epistolare di allora.
Non è lo stile brusco e “sgrammatico” del Beethoven solito; chissà che
lavoro di lima, quale compulsare cattivi diari ed epistolari francesi, da
disgustare la Giulia ovvero nuova Eloisa di Rousseau... Certo, finché i
traduttori renderanno in Italiano corrente questo Tedesco incrostato di
retorica, un simile retrogusto falso andrà perduto. Non è colpa loro: il
Testamento è un “piano sequenza” nel quale c'è tutto il Beethoven eroe
plutarchiano; vuoi rovinarlo con una straniante gelatina giallo ocra? farlo
diventare una parodia? E invece, parodia, è: riscrittura di modelli. Ma che
cosa rappresenta, infine, questo testamento di una persona destinata a
vivere ancora venticinque anni? Il progetto letterario di un'altra
composizione fondamentale, oltre a Fidelio, per Beethoven: l'Ouverture
Coriolano. La Tragedia di Heinrich von Collin sull'eroe costretto a tradire
la propria patria è un lungo discorso atto a giustificare il fatto che costui
non si suicidi; e il Testamento, altro non è. “Fin dall'infanzia il mio cuore,
il mio animo, erano portati alla tenerezza, ero sempre disposto a compiere
azioni generose”: così Beethoven. “Guardando indietro, non si può dire
che Ludwig tenesse molto ai colleghi o alla compagnia; se però doveva
riflettere sulla musica, o se doveva occuparsi da solo di qualcosa,
assumeva tutt'altro contegno e si preoccupava molto del rispetto che gli era
dovuto; per lui, le ore più felici erano quelle in cui era libero da ogni
compagnia”. Fin dall'infanzia indifferente, superbo e solitario, dunque,
Beethoven, secondo la testimonianza dei Fischer. Questo misantropo in
tenera età che sdegna chi ne interrompa il continuo ruminare musicale, è lo
stesso che ad Heiligenstadt scrive “per me non c'è ristoro di compagnia
umana, non nobile conversazione, non confidenze scambievoli”. Quasi la
sordità non gli avesse reso legittima la necessità insita in ogni processo
creativo: fare del mondo una favola, e della favola un mondo vero (un
corollario alla “Legge dei Grimm”). Il Testamento di Heiligenstadt nasce
dall'elaborazione di un senso di colpa. Beethoven sapeva che la sordità
sarebbe divenuta la sua preziosa alleata nel processo di trasmutazione che
lui, artista, si era imposto: rendere l'arte un sostituto religioso del Sublime,
a redimere il saccheggio e rovina del Sacro perpetrato dall'Illuminismo
rivoluzionario. Napoleone, in politica; Beethoven, in arte: due Epiche
dell'individuo, due testimonianze del Sublime reso storia, e non più mito.
Prometeo non giaceva più in catene: agiva nel tempo. “Insegnate ai vostri
figli la virtù, solo essa, non il denaro, può fare felici. Parlo per esperienza;
è stata la virtù che mi ha sollevato perfino nei grandi dolori; devo a lei
oltre che alla mia arte se non ho messo termine alla vita con il suicidio”. È
arrivata, la parola fatale, pronunciata in un contesto stoico così stantio che
Seneca l'avrebbe liquidato con un'alzata di spalle e mettendo dei punti
fermi qua e là. “Virtù”, qui, va intesa, latinamente, come “forza”. “La forza
è la morale di coloro che si distinguono dagli altri”, pronuncia perentorio,
in altro contesto, Beethoven. Virtù, uguale “energia”. Energia vitale che si
commuta in energia creativa, con entropia conseguente: una morale
esistenziale disumana. Il concetto di virtù che emerge dal Testamento, con
il comportarsi bene, non ha niente a che fare. Ne consegue il Finale di
questa pièce de résistance che Napoleone, l'avesse conosciuta, l'avrebbe
passata immantinente al grande François-Joseph Talma perché la mettesse
in scena: “Addio, e quando sarò morto non dimenticatemi completamente.
L'ho meritato, perché ho pensato spesso a voi in vita di rendervi felici.
Siatelo...”. Manipolazione affettiva e sublimazione del senso di colpa.
Tentiamone una traduzione: “O uomini, ovvero, o fratelli (la Nona
Sinfonia è già lì che lavora. N. d. T.) non è colpa mia se non mi curo di
voi; è la sordità che me lo rende impossibile. Fate in modo di essere felici
per conto vostro. Lo so: la mia Virtù vi renderebbe felici, ma io non posso
esser partecipe agli umani commerci; dunque, renderò questa mia
impotenza umana un potere immortale nei secoli”. Ma dove esercitarlo,
questo potere, che è energia liberata dal tempo? Dove può, esso, avere
virtù? “Da tanto tempo l'eco della vera gioia è sconosciuta al mio cuore.
Quando, quando, Divinità, potrò sentirla di nuovo nel tempio della natura e
degli uomini...”. Ecco, dove. La gioia, “la bella scintilla divina, figlia
dell'Elisio”, secondo Schiller, per Beethoven è un'eco: è musica. Il
Testamento apre la via che porterà il compositore alla Nona Sinfonia.
I biografi di Beethoven con pregiudizi razzistici (almeno due, ce n'è) fanno
risalire il suo atavismo alle radici nel Brabante. Per me, si tratta solo di un
imprinting subìto in età adolescenziale. Dopo la morte della madre,
Ludwig divenne il genitore virtuale dei suoi due fratelli, e tale rimase per
tutta la vita. Caspar Carl e Nikolaus Johann, da parte loro, vissero – l'uno,
infine, liberandosene; l'altro, soggiacendovi fino alla morte –
un'identificazione proiettiva con lui dalla quale cercarono di affrancarsi,
con alterno successo, mediante matrimoni compensativi. Appena Ludwig
giunse a Vienna, si misero sulle sue tracce, rendendogli impossibile, per
pregiudizi morali, la liberazione dalla famiglia. Entrambi scorciarono i
propri nomi in Carl e Johann (ed è significativo che Ludwig trovasse un
altro Johann, nome cassato nel Testamento, a sbarrargli la strada). Fu in
casa di Johann che Ludwig contrasse la malattia mortale. Johann, ricco
proprietario terriero, ex-farmacista, uomo pratico e trafficone al limite
dell'imbroglio, alla fine lo sconfisse. Sposò la prima civetta che passava di
lì, una Therese Obermayer che apparteneva alla famiglia del suo locatario,
e gli faceva da governante. Costei aveva una figlia, Amalie, di origine non
chiara, e intenzionata anch'essa a generare creature con padre incerto.
Beethoven, che definiva la prima “la Grassona”, e la seconda, “la
Bastarda”, saputo il menage, piombò a Linz, dove vivevano, per
disgiungere la peccaminosa coppia. Ottenne l'effetto di precipitare le nozze
tra il farmacista e la cameriera. In quel frangente di liti e amarezza, scrisse
la solare Ottava Sinfonia. Ad Heilgenstadt, ai tempi del Testamento, scrisse
l'umorosa, limpida Seconda. La vita gli serviva come grondaia della
disperazione. A (Caspar) Carl, andò peggio. Colpa sua: si fece musicista.
La cosa, per noi posteri, non è senza conseguenze. Assumendosi l'incarico
di curare gli interessi del fratello, rifilò agli editori certi souvenir sonori di
Bonn che poi finirono nel catalogo ufficiale: quello “serio”, e, insieme a
quelli, trascrizioni non beethoveniane per organici vari che spinsero
Ludwig a una sua pubblica dissociazione dai travasi fraterni. “Sarebbe
veramente ora di fermare quella mostruosa mania che oggi tanto
predomina di adattare anche le composizioni per pianoforte per strumenti
ad arco, strumenti che sono, sotto tutti gli aspetti, assolutamente differenti
tra loro”; con tanto di corsivi originali beethoveniani. Carl, poi, mise
giudizio e divenne un impiegato di banca sospetto, talora, di bilanci allegri.
Veniva detto “la iena”; lui, chiamava Ludwig “il drago” (conosceva forse
certe sue scappate notturne con Wegeler, all'assalto delle “fortezze”?).
Beethoven ruppe i rapporti quando ebbe il sospetto spacciasse certe sue
danze per composizioni lodoviciane. Karl, figlio di Carl (sic) – ma questa
mania degli stessi nomi doveva capitare proprio ad un ossessivo come
Ludwig? – ricordava l'irruzione improvvisa dello zio in casa, ululante e
manesco, per riprendersi i fogli pentagrammati che il padre, a suo dire, gli
aveva sottratto. Chissà che bella sensazione di pace avrà avuto quando il
tribunale lo nominò suo tutore esclusivo... Ludwig e il Carl con la “c” si
riconciliarono per caso. Per strada, il Maestro vide il fratello emaciato,
consunto dalla tisi (come sua madre; Ludwig, invece, morì come suo
padre: gli eterni ricorsi beethoveniani...) lo abbracciò, ricoprì di baci lui,
ovvero l'imago materna, e da quel momento, fino alla morte, ne ebbe cura;
naturalmente non senza incolpare, di quell'improvviso malanno, la moglie,
arrivando, a fratello morto, ad accusarla di avvelenamento. “(Carl) sarebbe
ancora vivo e non avrebbe certo fatto una fine tanto infelice (…) se fosse
tornato interamente da me”; piantando in asso, è ovvio, Johanna van
Beethoven. Costei, essendo la madre di Karl, cui Ludwig estorse il figlio, è
passata alla storia come un incrocio tra Messalina e Lucrezia Borgia.
Intanto, non è vero che fosse una morta di fame. Tra i due, a guadagnarci
con la dote, fu Carl, il quale, per il risentimento tipico dei buonannulla
beneficati, poi la accusò di furto, facendola condannare agli arresti
domiciliari. Johanna, a quanto pare, quando il marito venne accusato, in
banca, di sottrazione indebita, aveva pensato di recuperare un po' della
dote... Carl giunse a ferirla ad un mano con una coltellata della quale lei
conservò per sempre la cicatrice. Beethoven la odiò. La chiamava “la
Regina della Notte”, come la maga ambigua del Flauto magico. Johanna
viveva la vita dei sensi secondo i codici della società viennese
prerivoluzionaria: gli stessi di Wolfgang Amadeus, autore dell'idolatrato,
da Ludwig, Flauto magico, e di sua moglie Constanze. Del resto, non era
un intellettuale; non aveva letto Plutarco e Rousseau, lei. Se Beethoven la
chiamò come il personaggio dell'Opera che aveva più cara, vuol dire che
dalla sua libertà di costumi, la sua spavalderia morale, era inconsciamente
attratto.
Ma di questo avremo modo di parlare quando il piccolo Karl con la “k”
diventerà, per effetto di uno tsunami emotivo, causa al tracollo finale dello
zio. Resta la tristezza di una diagnosi: i fratelli di Ludwig si sposarono per
effetto di un “Principio che si oppone” – il Widestrebendes Prinzip della
Forma-Sonata secondo Beethoven – che rese loro impossibile una normale
vita affettiva.
5. NAPOLEONE A VIENNA. BEETHOVEN, ANCHE (MA IL MENO
POSSIBILE)

Beethoven divenne Beethoven attraverso l'arte della rinuncia e della


rassegnazione. Escluse le Sonate per pianoforte, laboratori personali di
“sprezzatura”, al modo dei bizzarri Barocchi – perché di esse, in quanto
esecutore, doveva rispondere solo a se stesso – il resto della sua
produzione giovanile, lo si è detto, dimostra lo sforzo di agire entro
modelli riconoscibili, sfidandoli sempre e solo sul piano del rispetto verso
le regole formali. Le Sonate per pianoforte e violino op. 12 sono un pallido
calco mozartiano, mentre nel Settimino op. 20 osserviamo una rassegna di
piacevolezze cortigiane adattate al filisteismo di un pubblico di fatti nobili
perché ricchi dei Tempi Nuovi. Il suo compositore, col passare degli anni,
prese a detestare questo popolarissimo tra i brani del primo periodo
viennese. Il Quartetto op. 18 n. 4, abbiamo visto, lo esecrava in toni da
facchino.
I Quartetti per archi erano il genere dove gli intenditori lo attendevano, e
lui lo sapeva bene. L' op. 18 fu ciò che più di ogni altra cosa nella sua vita
sottopose a cesello, indagine e scandaglio, a rimarcare quanto gli
importasse essere accolto non come un sovversivo, ma nella autentica
tradizione del Classicismo viennese. Nei Quartetti per archi sia Haydn che
Mozart avevano scoperchiato le porte del loro laboratorio interiore, con
tanto di luce radente onde stupire gli esperti con i propri meravigliosi
artifici. Lunghissima, la gestazione beethoveniana dell'op. 18, se ad
Amenda, cui aveva spedito il primo brano della serie, come testimonianza
di speciale sodalizio, scrive “mi raccomando di non passare ad altri il tuo
Quartetto, al quale ho apportato alcune modifiche sostanziali. Soltanto ora
ho imparato come si scrivono i Quartetti; te ne accorgerai, credo, quando li
riceverai”. Esistono grandi compositori che nessuno conosce più perché
sono stati vampirizzati dai geni, che grandi non sono, e che cosa siano,
nessuno lo sa. Per esempio, chi conosce Emanuel Aloys Förster, che
trasferì nel rigore del Quartetto classico le intemperanze empfindsamer –
erratiche, drammaturgiche, modulate sui sintagmi del sentimento – del
sonatismo di Carl Philipp Emanuel Bach? Eppure, l'influenza di Förster sul
Beethoven dell'op. 18 è gigantesca. Il maestro più anziano insegnò al
provinciale inesperto come reculer pour mieux sauter: fare un balzo
indietro per meglio saltare in avanti. La differenza tra i primi abbozzi dei
Quartetti giovanili beethoveniani e le versioni definitive, infatti, sta nel
recupero di una certa teatralità, un travaso di luoghi comuni del
Melodramma e delle danze popolari. Un'impurità di stile che la linea
“C. P. E. Bach-Förster” aveva sdoganato come espressiva, aggiornata, ma
senza scandalo, nel panorama di un pubblico smanioso di distinguersi dai
parrucconi dell'Ancien Régime com'era quello viennese. “La malinconia”,
episodio che conclude il sesto dei Quartetti op. 18, è l'intromissione di una
Cavatina operistica dentro la rocca della purezza concertante, un'apertura
della musica alla prosodia del teatro. Beethoven corteggiava uno scandalo
di maniera, osservando, in realtà, del tutto quella “moda” che poi,
complice Schiller, esecrerà nel Finale della Nona Sinfonia.
Le Forme canoniche, in quella sua fase di carriera, quando voleva solo
venire accettato dagli arbitri del gusto, gli facevano paura. Lo dimostra
anche la Sinfonia n. 1 in Do maggiore op. 21, nata come omaggio
riconoscente a Maximilian Franz, per poi venire dedicata, come sappiamo,
dopo l'improvvisa morte di quello, a Gottfried van Swieten, e concepita dal
principio alla fine quale caricatura dell'Haydn londinese e della sua
bonomia trasgressiva. Sono convinto che se Haydn, pieno di stizza, non
avesse lasciato il suo allievo a Vienna, e se lo fosse portato con sé in
Inghilterra, la Prima Sinfonia sarebbe stata del tutto diversa.
Il barone Gottfried van Swieten era il figlio del medico personale di Maria
Teresa d'Austria. Apparteneva, dunque, a quella classe di altoborghesi
saliti per meriti al rango di aristocratici di cui la Vienna pre-catastrofe
napoleonica pullulava, in un festino di fasti in tempo di peste. Come tutti
coloro che fecero in tempo solo ad affacciarsi sull'attico della Storia, prima
che le spallate francesi la rivoltassero di sotto in su, era un nostalgico della
Europa felix, la bella età del dispotismo illuminato. Ambasciatore austriaco
alla corte di Federico il Grande, un cenacolo segreto dove J. S. Bach,
ovunque disatteso, veniva canonizzato a suon di Canoni – Federico, abile
musicista, era l'autore di quel tema cromatico su cui il vecchio Bach
costruì Un'offerta musicale, opera a lui destinata, dove per “offerta” si
intende un ospitale “favorisca una fiamminga di contrappunti” – Swieten si
incapricciò di quegli ermetici dedali di note con l'entusiasmo tipico dei
dilettanti danarosi. La sua carica di Presidente della Commissione di Corte
per gli studi, con incarico della censura incluso, gli rendeva facile
procurarsi manoscritti e codici. Per uno di quegli effetti collaterali che
rendono la Storia una versione molto antica del “Gratta e vinci”, il barone
incaricò Mozart di decifrargli tutta quella roba scritta in diagonali di temi
che gli si era ammucchiata sui leggii; fu così che il divino Amadé scoprì lo
“stile imitativo” bachiano, con Sinfonie “Jupiter”, Flauti Magici et similia
conseguenti. Alla morte del genio rimasto bambino, un goffo massone
incline a confondere Isis und Osiris con Papageno, Swieten ebbe un ruolo
misterioso in quegli strani suoi funerali avvenuti nella furtività di un
imbarazzante segreto.
Insieme a Waldstein, insomma, il barone è l'eminenza oscura che si muove
dietro il successo viennese di Beethoven, il quale gli dedicò il suo debutto
sinfonico quasi a rimarcare come il vero destinatario, Maximilian Franz,
fosse morto in esilio, da Bonn per via dei Francesi, e dalla corte viennese
per via degli Absburgo. È evidente: Swieten rappresentava, agli occhi del
compositore, la continuità di una linea di pensiero illuministica, libertaria,
e dunque sospetta, qual era il neoumanesimo filofrancese da lui conosciuto
nella Bonn dell'Elettore. Dedicargli una Sinfonia, era dichiararsi per gli
Illuminati. Sarebbe stato meglio farlo sotto la protezione di un principe,
ma quei tempi di redde rationem richiedevano agli adepti di schierarsi,
ormai, apertamente. Ricordate la mossa azzardata di Waldstein: mettersi
alla testa di truppe arruolate col supporto degli inglesi, il cosiddetto
“reggimento Mergentheim”, e cercare di contrastare Napoleone senza, con
questo, favorire il decrepito Sacro Romano Impero?
I trionfi di Haydn in Inghilterra affiancano a Canone queste misconosciute
vicende politiche, nelle quali Swieten dovette avere un ruolo centrale. Al
suo ritorno a Vienna, il barone scrive per Haydn il libretto dei due grandi
Oratori, La Creazione e Le stagioni, dove il teismo panteistico dell'Essere
Supremo diventa tributo alla civiltà del Contrappunto, matematica
proporzione speculare tra il macrocosmo e l'umano microcosmo della
mente umana. La Creazione è basato sul Paradiso perduto di John Milton,
il poeta che celebrò l'Inghilterra del Parlamento e di Cromwell –
l'Inghilterra eletta da Waldstein a paladina di un'Europa “illuminata”,
libera dai tiranni – e la sua mitica genesi nell'Umanesimo dell'Italia delle
corti: il sistema musicalcosmologico, ormai sfumato, di Dante Alighieri e
Francesco Petrarca, Pietro Bembo e Torquato Tasso, modelli miltoniani di
un nuovo panteismo. Il Satana di Milton non è altri che Prometeo liberato
dalle sue catene. Haydn era vecchio e stanco. Le stagioni gli costarono un
crollo nervoso dal quale non si riprese più. Non voleva scrivere i due
Oratori; però, doveva.
Tutto questo, nella Prima Sinfonia di Beethoven, dove si riflette? Il suo
“Andante cantabile con moto” è un Canone bachiano dove viene ripreso
un elemento tematico usato da Mozart nella Sinfonia in sol minore n. 40 K.
550, l'“Andante”. Ai tempi della Prima Swieten aveva una certa familiarità
con Beethoven, se in una lettera gli dice di recarsi a casa sua portandosi
dietro “la berretta da notte”. Alludeva forse ad un modo di pensare, una
concezione esoterica del simbolismo musicale?
L'indagine sui legami tra Beethoven e la Massoneria più avanzata, segreta,
del suo tempo, è sempre stata alquanto rudimentale. A quel tempo
esistevano, a Vienna, due massonerie: una ufficiale e “innocua”; l'altra
clandestina e fortemente sospetta. La Rivoluzione Francese aveva reso
ogni traccia di clartè qualcosa da sottoporre a stretto regime di censura;
proprio per questo, i seguaci di un progresso intellettuale ottenuto per pura
forza della Ragione e della filantropia, i profeti schilleriani della ventura
Nona Sinfonia, si nascondevano in logge saldate da legami di fratellanza
fino alla morte. Una di queste confraternite clandestine era la loggia Zu
den dreien blauen Himmeln, che aveva per sede una casa di campagna di
appartenente al conte Ferdinand Pálffy, il direttore del Burgtheater, il
teatro di corte. Esisteva un'altra loggia segreta a capo della quale stava un
personaggio lui pure, come vedremo sarà il conte Pálffy, strettamente
legato alla carriera di Beethoven: il principe Dietrichstein. Non bastasse,
van Swieten presiedeva una “Società dei Cavalieri Associati” dove, col
pretesto di resuscitare la musica antica, si faceva dell'arte il laboratorio di
un nuovo Umanesimo. Spulciandone i nomi, ci troviamo un intero gotha
beethoveniano: Lobkowitz, il principe Karl Philipp Schwarzenberg – nel
cui salone il compositore fece conoscere, tra l'altro, il Settimino op. 20 – di
nuovo Dietrichstein, il conte Anton Georg Apponyi – legame diretto,
perché suo committente, tra i Quartetti op. 71 e op. 74 di Haydn e quelli
della beethoveniana op. 18 – infine, il conte Johann Esterházy, per conto di
quella famiglia che Haydn servì per quasi trent'anni, e che presto
ritroveremo sul cammino di Beethoven. Quanto a Lichnowsky,
apparteneva all'Ordine degli Illuminati, affiliato nella stessa loggia di
Mozart. Non manca Zmeskall, il “baron -ron -ron -ron”: compare tra gli
ospiti della loggia viennese Zur wahler Eintracht, che cercava, a quanto
pare, contatti con gli Illuminati di Budapest. Ogni seguace del Prometeo di
Bonn, in quei Tempi Nuovi, a quanto pare, era un “fratello” massone.
Molte volte Beethoven, nelle sue lettere, si rivolge ad un nuovo
interlocutore chiamandolo “fratello”. Per esempio, al primo approccio,
esplorativo, con l'editore Franz Anton Hoffmeister di Lipsia – città lontana,
e dove le affiliazioni di loggia non gli erano dunque perspicue come a
Vienna – lo definisce “mio carissimo signor fratello e amico”. Negli
abbozzi del Quartetto “Rasumovskij” op. 59 n. 1, “Adagio”, il
compositore scrisse, ad epigrafe: “Un salice piangente o un albero d'acacia
sulla tomba di mio fratello”. Durante i funerali dei massoni era d'uso
spargere a terra ramoscelli d'acacia, a simboleggiare l'immortalità dei puri
ideali. Stava pensando, Ludwig, al suo mentore di Bonn così infelicemente
sconfitto dalla vita? Al principe elettore Maximilian Franz, depositario di
una Prima Sinfonia poi dedicata al suo erede spirituale Gottfried van
Swieten? Potrei continuare a lungo, ma non serve. Al di là dei segni
occulti, resta la inesplicabilità della fulminea carriera beethoveniana a
Vienna, il suo divenire da subito intimo in cerchie aristocratiche
inattingibili ad un Musikant di provincia, non fosse che l'autore della
Cantata per la morte dell'Imperatore Giuseppe II era stato individuato
come Prometeo di un'arte nuova, potente nella diffusione di un Credo
affondato in culture antiche, un culto laico degli uomini. Beethoven,
dunque, come il vecchio Haydn, doveva scrivere la musica che scrisse. Il
non farlo gli sarebbe costato la damnatio memoriae, la perenne
emarginazione dalla società che l'aveva accolto con slancio così generoso.
Eccola, l'espiazione di Prometeo alla colpa del proprio individualismo: il
Napoleone della musica, egocentrico eroe, deve “diventare filosofo”,
secondo le sue stesse parole. Farsi profeta di un'umanità nuova. Nessun
documento attesta l'affiliazione di Beethoven alla Massoneria? ma certo: il
riscatto nell'arte di un ideale politico sconfitto poteva darsi solo se il suo
Titano fosse rimasto occulto, capace di operare per le vie segrete dello
spirito... E infine, chi crede che tutte le affiliazioni alle società segrete
siano state rese pubbliche, non ha capito a che cosa servono, alle società
segrete, i documenti pubblici.
Gli storici operano seguendo le derive dell'ovvio. I musicologi, quando
diventano storici, lo fanno elemosinando le briciole alla tavola degli
storici. La Storia è una strana disciplina. Richiede un'empatia sistematica
verso i personaggi che, avendo già operato nel tempo, sono storia, sapendo
che essi non fanno la Storia. È un cortocircuito letale. Se non lo vedi,
cerchi solo ciò che hai imparato, e quindi non sai. Per esempio, che la
carriera del primo Beethoven a Vienna è una lotta contro il proprio
maestro, Haydn. Fino a che Haydn non è morto, Beethoven non si è
liberato del suo vivo fantasma. Lo molesta in ogni suo territorio: il
Quartetto, la Sinfonia, la Messa, perfino l'Oratorio (Cristo sul monte degli
ulivi). Quando il principe Nikolaus Esterházy gli dice, dopo l'esecuzione
della Messa in Do maggiore op. 86, “ma caro Beethoven, che cosa ha
combinato?”, sta difendendo il suo ex-servitore musicale. Hummel, che gli
è accanto, ride, e Beethoven non gliela perdona. Entrambi sanno perché.
Napoleone aveva corrotto la sostanza nobile dell'Illuminismo. A Vienna,
alcuni Illuminati cercavano di salvare per il futuro quanto c'era di
salvabile. La musica, nella Vienna di Haydn e Beethoven, non era più
questione di suoni. Beethoven ne fu così consapevole da coccolarsi la sua
sordità; Haydn, nel dubbio, preferì lasciarsi spegnere dalla senilità.
Napoleone, quando occupò per la seconda volta Vienna, nel 1809, se ne
accorse, e mise un presidio a guardia della casa di Haydn morente. Haydn,
con quell'ironia della quale era genio, gli serviva per depotenziare ciò che
le sue guerre di stragi e massacri valevano ad annichilire. Beethoven lo
sapeva, e per questo gli fu nemico. Napoleone, il più grande criminale dei
Tempi Nuovi, insieme ad Hitler, gli aveva adulterato la Freude, schöner
Götterfunken. Se esitiamo a trarre le conseguenze della razzia di
Napoleone, è perché ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Se
Beethoven è il compositore più amato della Storia, è perché ne ha tratto le
conseguenze.
La Sinfonia n. 1 in Do maggiore op. 21 di Beethoven è una risposta
polemica alle sinfonie “londinesi” di Haydn. Ebbe una gestazione
continuamente rimandata, dagli abbozzi berlinesi durante la tournée
patrocinata da Lichnowsky, dove le idee del Finale compaiono nel primo
movimento, alla versione ultima; attenuata, meno provocatoria, rispetto
alle Sonate per pianoforte dello stesso periodo. La musica strumentale era
diventata, per gli Illuminati di Vienna, musica sacra. Doveva appartenere
alla tradizione: affondarvi le proprie radici. La Prima Sinfonia venne
eseguita al Teatro di Porta Carinzia insieme a uno dei due Concerti per
pianoforte giovanili (non sappiamo se l'op. 15 o l'op. 19), il Settimino op.
20, due brani da La Creazione di Haydn, una sinfonia di Mozart, a
rimarcare la filiera massonica. Alla fine, Beethoven improvvisò sull'Inno
Imperiale haydniano. Era il 2 aprile 1800: questa, la data. Tuttavia,
sull'attitudine delle persone còlte alle date, va fatta una precisazione. Con
Beethoven, sono fuorvianti. Il suo lavorare contemporaneamente a più
opere, quasi a tendere un tranello al giorno solare; il suo dire a
Schuppanzig, che si lamentava di un passaggio ineseguibile, “quando lo
Spirito mi detta dentro, che vuole mi importi del Suo miserando violino?”;
la natura sua di compositore che alla risposta perplessa del pubblico
rispondeva sempre “un giorno capiranno”, di un artista frutto di culture
indifferenti al presente, in quanto nutrite di Ideale, tendeva continui tranelli
al tempo. Eppure, bisognava nascondersi, lavorare occulti. E così, esistono
due Beethoven: quello della Prima Sinfonia, e quello del Settimino, da lui
quasi da subito detestato proprio per il suo inarrestabile successo. Il
secondo veniva lasciato prevalere dal primo, il 2 aprile 1800, mediante
quell'esibizione di improvvisatore che l'Illuminato sempre aborrì, e usò
come schermo, finché la sordità non venne a salvarlo.
Eppure, la strategia di proporre la Sinfonia n. 2 in Re maggiore op. 36
insieme alla Prima, il 5 aprile 1803, al Theater an der Wien, va concepita
in una logica di superamento. Le pulsioni anarchiche, l'incedere del tempo,
appaiono, in questa partitura, non ridotte a ragione. Solo l'oasi umana, la
stanza dei sentimenti: il “Larghetto”, si oppone a questa pulsione motoria
che tutto distrugge. A nascondere un simile nichilismo sotto le fattezze
dell'ironia, Beethoven lo aveva imparato da Haydn, che lui, qui, rovesciava
di segno. Sempre, il Demone di Mezzogiorno, il dio Pan, ha le fattezze di
un fanciullo.
Frattanto, mentre Beethoven cercava nella musica la soluzione di enigmi
impossibili, Napoleone, il Prometeo suo sosia politico, incendiava
l'Europa. Il generale discepolo di Plutarco, sconfitta l'Austria, si vede
negare la trattativa con l'Imperatore. Al suo posto mandano un baldacchino
in effige, al cui cospetto gli Elettori tedeschi discutono la divisione del
proprio territorio. E Napoleone: “Facciamo portare via questa poltrona,
prima di incominciare. Io non ho mai potuto vedere un sedile più elevato
senza sentir la tentazione di andarmici a mettere”. A Rastadt, gli Absburgo
si rifiutano di consegnargli la riva destra del Reno. Ci sono molti modi di
porre fine ad una storia millenaria, ma che il sigillo venga posto da un ex-
tenente nato in Corsica, nessuno lo vuole ammettere. Napoleone ha sempre
saputo che lo scandalo, di fronte alla cultura dei Tempi Nuovi, sta in tutti
quegli arcivescovi che hanno imparato la catechesi per procura, ed usano il
Sacro come gingillo dei popoli. Si sente lo strumento di Voltaire: deve
“écraser l'infâme”, schiacciare l'oscurantismo ecclesiastico. Che ci creda o
no, per gli Illuminati, non ha importanza: lui, in quel momento, è lo
strumento dell'Ideale. Vienna, sul suo conto, si divide. Qualcuno ha paura
sia la fine di tutto, altri hanno paura di desiderare che lo sia. Per prendere
tempo, ma in realtà sperando di rinfocolare le opposizioni interne
all'Impero, Napoleone manda come ambasciatore a Vienna Jean-Baptiste
Bernadotte, un giacobino forcaiolo sfuggito alla ghigliottina di
Robespierre solo perché costui, sotto di essa, ci aveva appena rimesso la
testa. Pare che a Beethoven, l'idea dell'“Eroica”, quella che doveva essere
la Sinfonia di Napoleone, sia venuta da Bernadotte; al quale, non bastando
il pericolo di venire avvelenato da cuochi filoimperiali, venne anche la
bella idea di inalberare un gigantesco tricolore da Grande Armée davanti
all'ambasciata, con conseguente tumulto di piazza domato a fatica. Aveva,
comunque, conseguito il suo scopo: dimostrare che dalla parte degli
Absburgo, ormai, stava solo il popolino dei lavoratori; i ricchi dei Tempi
Nuovi, dacché erano stati fatti “von” dall'Imperatore, lo detestavano.
Questo Bernadotte dal naso capace di guardare sempre in un'altra direzione
rispetto agli occhi era un uomo la cui fisionomia cambiava a seconda di
ciò che voleva ottenere dal proprio interlocutore; a tal punto che quando,
finalmente, ebbe ottenuto da tutti tutto ciò che voleva, e si presentò al
Congresso di Vienna tra i liquidatori effettivi dell'Impero napoleonico –
non più Ministro della Guerra e braccio destro del Còrso, ma principe
ereditario di Svezia – i viennesi quasi non lo riconoscevano. La sua fortuna
gli veniva dall'aver soffiato al Bonaparte l'amore della sua giovinezza, una
Desirée che a un saprofita come il futuro sovrano svedese deve essere
piaciuta solo per pura rivalsa verso l'invidiato generale. Fatto sta che
Napoleone scambiò quel “complesso del cuculo” per qualità seduttiva, e
siccome, come diceva, “io ho un'unica amante: la potenza”, pensò che
mandare a Vienna un cialtrone abbindolagonzi come quello poteva
portargli del buono. Ma perché quel cinico Fregoli della politica si
appassionò di Beethoven? Lo sappiamo: Beethoven era l'emissario
artistico di un movimento politico sotterraneo maturato sugli ideali
dell'Illuminismo e volto a corrodere senza deflagrazioni i basamenti
consunti del Sacro Romano Impero.
Né Bernadotte, tuttavia, né gli aristocratici con cui questi trescava a
Vienna, amavano Napoleone. Cercavano solo, con esiti alterni, di usarlo
almeno quanto Napoleone si illudeva di usare loro. In questa giostra
politica della sedia mancante dove alla fine della musica qualcuno, meno
lesto, doveva per forza restare in piedi, il compositore del Rondò era
Beethoven. E lo sapeva. Se davvero fu Bernadotte a suggerirgli la Sinfonia
Eroica, dobbiamo salutare nell'arrampichino impudico uno dei geni
strategici della propria epoca. Vuoi che non conoscesse, il braccio destro
del futuro Imperatore, le sue intenzioni? Che disillusione sarebbe stata, per
gli Illuminati di Vienna, col loro idealismo d'antan e così poco up-to-date,
scoprire di essersi immolati per un parvenu il cui unico intento era
scimmiottare il potere assoluto di chi, per finire sull'uzzolo dei suoi
sudditi, aveva attraversato i secoli con in mano lo scettro di Carlo Magno,
a lui dato dal Papa, al quale l'aveva dato Dio... Napoleone voleva saltare al
Dramma Satiresco senza aver finanziato la Tragedia. Quando si caccerà da
solo sulla testa la corona imperiale, a Nôtre-Dame, in mano teneva uno
scettro rifilatogli per quello autentico che Leone X aveva porto, l'anno 800,
a Carlo Magno fondatore dell'Impero Sacro e, perché no?, anche Romano.
L'avessero saputo, i viennesi...
Beethoven è il Bernadotte della musica. L'aurea leggenda riproposta ad
ogni “strappata” di Mi bemolle maggiore, il “si va a cominciare”
dell'“Eroica”, con Ludwig che viene a sapere della napoleonica
incoronazione nella cattedrale parigina e strappa la dedica su di un (e
soltanto uno) esemplare della partitura appena uscito di copista, ha fatto
diventare Ferdinand Ries, che la riporta, il beethovenista più detestato da
chi scrive programmi di sala. Però quando il barone Louis-Philippe-Joseph
de Trémont, emissario del neo-Imperatore, munito di una lettera di
raccomandazione di Cherubini, lo va a visitare, Beethoven, nel sondare un
possibile viaggio a Parigi, coreografa tutto un complesso pas-de-deux.
L'Imperatore non vorrà mica convocarlo? Orrore... Può sempre rifiutare,
risponde Trémont; e Beethoven: ma Lei pensa che mi vorrà convocare?
Insomma: mi si nota di più se mi convoca e non ci vado, o se, conoscendo
i miei fieri sentimenti repubblicani, capisce che non mi deve convocare?
Oddio, e se poi non mi convoca? eccolo, lo sgomento del Titano di fronte
alla Storia in visita... Nell'“Eroica”, Beethoven aveva già superato
l'incedere dei tempi. A lui interessava quel “basso ostinato” che
Napoleone, pur brachilineo, non era: il “tema di Prometeo”, già annunciato
da lontano nel balletto di Viganò e nelle Variazioni e Fuga op. 35 “Eroica”
per pianoforte, inserite nel proprio catalogo ufficiale nonostante si trattasse
di un genere musicale minore, d'occasione, perché, a suo dire, di nuova
concezione, originali. Anche Napoleone era, per Beethoven, uno di quegli
strumenti su cui suonava. La storia non gli interessava che per
trascenderla. La sua epoca segna la fine di ogni utopia politica. La visione
di una felicità sociale diventa, da allora, conquista dell'arte e paziente
indagine della scienza. Anche la filosofia si trasforma in poesia delle cose,
alleata della musica e sostegno al suo cammino contorto, sofferto, verso
l'infinito. Di questa contorta sofferenza l'“Eroica”, col suo negare fin
dall'inizio le basi dell'Armonia classica, è la prima struttura di pensiero.
La prima esecuzione della Sinfonia n. 3 in Mi bemolle maggiore op. 53
“Eroica” si tiene a palazzo Lobkowitz, con la piccola orchestra privata del
principe. Non è un concerto, è un rito, e gli invitati sanno che cosa li
aspetta. Tempo dopo, chiesero a Beethoven quale fosse, tra le sue, la
sinfonia che amava di più. L'“Eroica”, lui rispose, e lo rimarcò due volte.
La sinfonia di Prometeo, il cui tema, nel Finale, scaccia le ombre della
Storia, era il simbolo stesso dell'intero suo operare di musicista.
Napoleone? un mero pretesto, una futile occasione... Come per ogni lavoro
importante, Beethoven, alla sinfonia, ci lavorò fuori di Vienna, tra Baden e
Oberdöbling. La terminò nelle prime settimane del 1804. Sulla parte del
primo violino, il frontespizio, fece stampare questo avviso in un curioso
Italiano: “Questa sinfonia essendo scritta apposta più lunga delle solite si
deve eseguire più vicino al principio ch'al fine di un'Accademia e poco
doppo (sic) un'Ouverture un'Aria ed un Concerto acciocché sentita troppo
tardi non perda per l'uditore già faticato dalle precedenti produzioni il suo
proprio proposto effetto”. Quale fosse, questo effetto, spero di averlo
chiarito con sufficiente efficacia. Raramente un artista si dimostra a tal
punto consapevole di guidare una svolta irredimibile nella storia della
propria arte. Con un sentore di inevitabile consequenzialità, quasi il suo
autore avesse compreso ciò che l'Inghilterra era per gente come Waldstein
e Swieten, suoi mentori, la partitura della Terza Sinfonia apparve, in prima
edizione, a Londra. Lobkowitz si riservò i diritti di esecuzione per un certo
tempo, durante il quale fece ascoltare la sinfonia, tra l'altro, a Louis
Ferdinand di Prussia, che volle la si ripetesse tre volte di seguito. La
Prussia – dove l'Illuminismo, nella sua versione spiritualista, intrisa di
mistica della natura, si era confuso con certe derive del Protestantesimo a
matrice panteistica – più di ogni altra nazione europea, aveva osservato
Napoleone con un misto di spavento e attrazione per quel demonismo della
Storia esploso in energia elementare. L'“Eroica” spiegava a Louis
Ferdinand la differenza tra tempo ed eternità, e che Prometeo non si può
incarnare in un tenente còrso.
Di contro, la prima esecuzione pubblica della sinfonia, al Theater an der
Wien, durante un'Accademia del violinista Franz Clement, non fece affatto
scalpore. Clement, noto per essere stato un prodigio precoce, e un adulto
con un grande avvenire dietro le spalle, lo ritroveremo come solista del
Concerto per violino in Re maggiore op. 61, a leggere la sua parte a prima
vista, e “maestro sostituto” improvvisato nella seduta di revisione forzata
cui Beethoven venne sottoposto dopo l'infelice esito di Leonore. prima
versione di Fidelio.
La cerchia di fedeli dentro la quale l'araldo musicale dei Tempi Nuovi, il
Beethoven degli Illuminati, si muoveva, nulla aveva a che fare col
successo pubblico. Nei teatri, la sua musica riusciva incomprensibile. Lo
era anche per gli allievi. Il solito Ferdinand Ries, ascoltando l'“Eroica”,
quando il corno anticipa, con una dissonanza da far cadere stecchito
Albrechtsberger, la ripresa del tema iniziale, se ne uscì in un risentito
“maledetto cornista, ma non sa contare?”; al che Beethoven lo fulminò con
uno sguardo cui, per quella volta, non fece seguire uno schiaffo, quello già
in mente Napoleoni (“l'Austria vuole un ceffone”).
Il congedo da ogni illusione nella realtà porta questo Beethoven della
rinuncia alla sua unica esperienza nel teatro lirico. Fidelio, come si chiamò
dopo l'ultima revisione – ovvero Leonore, come il compositore avrebbe
voluto continuasse a chiamarsi – sta all'Opera come l'“Eroica” sta alla
Sinfonia. È una rinuncia alla drammaturgia, tramutata in un gioco di
simboli. Beethoven prende una storiella edificante già musicata da Pierre
Gaveaux. Leonore, per salvare il marito ingiustamente detenuto in un
“carcere di massima sicurezza” dal tiranno Pizarro, si traveste da uomo, si
fa assumere come inserviente dal carceriere Rocco, penetra dentro la
“tomba oscura” dove langue il suo Florestan e al momento buono squadra
contro Pizarro una pistola, mentre lo squillo della tromba annuncia l'arrivo
del buon Ministro venuto a terminare ogni ingiustizia. Beethoven aggiorna
Il flauto magico ad un mondo mitico sorto sulle rovine della Storia,
piuttosto che sulle derive del sogno, e lo fa sovraccaricando quella cosina
sorta per assemblaggio di stili che è il Singspiel di una responsabilità epica
che non può sopportare. Per esempio, nel Melodram – il “melologo”, lo
chiamiamo noi – che accompagna la discesa di Leonore/Fidelio dentro il
pozzo che tiene prigioniero Florestan, risuona l'eco di Faust che scende
verso le Madri e di Teseo che entra nel labirinto, a sfidare il Minotauro. La
musica descrive una condizione fisica di freddo esteriore e orrore interiore,
superando i limiti dell'Estetica classica per aprire la via che la farà
scendere, abisso dopo abisso, fino al Wort-Ton-Drama di Wagner. Fidelio
infatti diventerà, anche a causa dell'uso pro domo sua che Wagner ne fa nei
suoi scritti su Beethoven, il prototipo di ogni Romanticismo possibile.
Eppure Beethoven, forzando le parole dei suoi librettisti – dal Joseph
Sonnleithner della Leonore originaria allo Stephan von Breuning della
revisione iniziale, fino al Georg Friedrich Treitzschke del Fidelio
definitivo – aveva in mente, anche qui, la Tragedia antica. La tromba che
di lontano annuncia l'arrivo del Ministro ne fa un deus ex machina degno
di Aristotele e della sua “catarsi”. Beethoven non abbandonò mai l'idea di
scrivere Opere. Sapeva come l'Opera fosse l'Epica moderna, e lui, l'Omero
di quell'epoca di trapasso, doveva utilizzarne la retorica per giungere nel
cuore delle masse. Ebbe contatti con almeno due celebri uomini di teatro
del proprio tempo: Heinrich Collin e Franz Grillparzer, che sarà poi
l'autore della sua commemorazione funebre. Eppure, delle Melusine e
Drahomire fiabesche, dei soggetti dove il soprannaturale era in agguato,
non voleva saperne. Cercava Belisario, Attila. Nell'Oratorio Cristo sul
monte degli ulivi fece cantare Gesù da tenore: un'idea che perfino Wagner
trovò ridicola, quando gliela attribuirono per Parsifal, e di cui Beethoven,
a giudicare dai Quaderni di conversazione, si pentì. Apprezzò Il franco
cacciatore di Carl Maria von Weber solo sulla carta, per la musica,
sdegnandone la farragine scenica, e smise di seguire il profeta del
Romanticismo quando questi, con Euryanthe, mise in piedi un Medioevo
di cartapesta; e ancora di più lo avrebbe sdegnato quando, con Oberon,
trasformò il suo Shakespeare in un fenomeno da baraccone.
Eppure proprio al re dei ciarlatani, l'illusionista da fiera Emanuel
Schikaneder, già artefice del Flauto magico, Beethoven dovette, per vie
traverse, la genesi di Leonore/Fidelio. Il Nostro conservò sempre, nel
carattere, la traccia delle avversità adolescenziali, la memoria atavica della
fame. Una delle sue contraddizioni più patenti, opposizione tra Prinzipien
di Forma-Sonata, è quella tra il “Princìpio che si oppone” ad ogni
sudditanza professionale e il “Princìpio che implora” il posto fisso.
Schikaneder aveva costruito, nel 1798, un nuovo teatro opulento, in stile
Impero, capace di milleduecento posti: il Theater an der Wien, a noi già
noto per avere ospitato le prime sinfonie beethoveniane. Ciarlatano di
genio, sapeva usare i debiti come titoli di garanzia per debiti altri (oggi
sarebbe Ministro delle Finanze in qualche Stato europeo). Era anche un
abile psicologo, e sentiva che quel profugo di Bonn piovuto nel nido della
nobiltà fittizia aveva bisogno di un tetto sotto cui trovare riparo. Dunque
gli diede alloggio gratuito nel nuovo teatro e una diaria, purché musicasse
uno di quei suoi testi dove il simbolismo massonico diventava ciò che, nel
kolossal hollywoodiano Troy, è l'Iliade di Omero. Il fuoco di Vesta è uno
dei libretti più assurdi mai concepiti, e nel suo preannunciare il Dadaismo
oscilla tra genio e comicità involontaria. Eppure Beethoven, comodamente
sistemato nel suo bell'appartamento gratuito, ci lavorò con una certa
assiduità. Un numero dell'Opera mai compiuta confluì nel Fidelio: è il
duetto di gioia dei due amanti ricongiunti, “O namenlose Freude”. Dopo
avere strumentato l'intera prima scena, non potendone più di effetti
speciali, ruppe il contratto. Schikaneder, poi, diede il libretto a Joseph
Weigl, che in qualche modo lo portò sulle scene. Nel frattempo i debitori
di Schikaneder avevano avviato una “procedura d'effrazione” che neanche
l'Unione Europea. Schikaneder cedette il teatro al barone Peter von Braun;
così, venne annesso a quelli imperiali. La cosa impedì al caotico Emanuel
di poter intentare l'unica causa della sua vita: a Beethoven, per violazione
di contratto, in cui avrebbe avuto ragione.
Intanto, sulle scene viennesi, furoreggiava Cherubini, con le sue Opéra à
sauvetage, soprattutto la Lodoiska, che è Fidelio alla rovescia, visto che il
Florestan di turno, il prigioniero innocente, questa volta, è una donna. La
disillusione verso l'Illuminismo rivoluzionario, la sua deriva di sangue e
stragi (orrenda, quella della Vandea), l'assassino del Duca d'Enghien per
opera di un Napoleone, qui, più Pizarro che mai: ogni circostanza induceva
Beethoven verso un'Opera che desse voce alla sua disillusione, il ripiegare
di ogni utopia verso gli orizzonti degli affetti familiari, la devozione di una
moglie innamorata. Leonore, commissionata da von Braun per cavalcare le
fortune del teatro lirico francese postrivoluzionario, e sorto sulla
Rivoluzione come una cicatrice sonora, è il corrispettivo dell'“Eroica”:
trascende nell'eternità del mito, la costellazione dell'amore eterno, il regno
dell'anima resa pura dal sacrificio, ciò cui la Storia non potrà mai più
assolvere.
Chi distingue la musica di Beethoven nei fatali tre periodi, assemblandone
le opere in gruppi omogenei, non si accorge che questa op. 72 b termina il
suo “periodo eroico”, dividendo quella che abbiamo chiamato l'Età della
Lotta in due sequenze strutturate secondo i Prinzipen della sua Forma-
Sonata: gli anni “dell'opporsi”; gli anni “dell'implorare”, ripiegamento in
una religiosità laica della natura e dell'uomo. Non per caso, nel Finale di
Fidelio viene riutilizzato un brano della Cantata per la morte
dell'Imperatore Giuseppe II,“E gli uomini ascesero alla luce”. Qui non è
più un monarca, l'angelo dei Tempi Nuovi, ma una donna eternamente
amante che scioglie i ceppi dalle caviglie di suo marito. La Leonore prima
versione è un compromesso non intenzionale tra la comédie lyrique e la
tragédie en musique: il tutto travasato nelle esili paratie di un genere che
con quei due non c'entra niente, il Singspiel. Wagner, con quel suo vizietto
di arraffare le idee degli altri e metterci sopra la propria etichetta, ne ha
profondamente alterato la fisionomia. Con Leonore, in tutte le sue tre
versioni, fino a Fidelio, non nasce l'Opera romantica. Beethoven, lo
abbiamo visto, ebbe sempre in uggia le fumisterie fiabesche, il
soprannaturale, dei suoi nuovi colleghi. Gli sembrava una fuga
dall'imperativo neoclassico: trasmutare il reale in un sistema di simboli,
una geografia del Sacro contemplato nello specchio dell'Ideale. L'idea di
Platone: l'essere, questo mondo, solo un riflesso di un cielo intatto, puro,
oltre la sfera del sensibile, fu sempre anche la sua; fino a quel passaggio
della Nona in cui può dire, con Schiller, “Sopra la volta delle stelle, deve
abitare un Padre amorevole”. Deve, come lui deve scrivere quella musica;
come Haydn doveva consumarsi sui suoi estremi Oratori. Deve, non vuol
dire che ci sia; da cui le tensioni, torsioni, screpolature che feriscono
profondamente le celesti sfere dei templi sinfonici beethoveniani.
L'Estetica è sempre una forma paradossale di realismo; ma mai lo è stata
come in Beethoven.
Napoleone, di musica, capiva ben poco. Genio intuitivo, le cose che non
capiva, le sapeva. Forse aveva letto quanto, di Leonore/Fidelio, sono
venuto dicendo, se il 13 novembre 1805 entra a Vienna, mentre Francesco
II, l'Imperatore, prende atto del fatto che i prussiani, sempre amanti di cose
eterne, in arte come in politica, vogliono capire per chi fa il tifo la Storia, e
i russi tardano ad arrivare. Voleva, il Còrso, mandare a picco la prima
rappresentazione di Leonore? Del resto, chissà che tutto quell'ambaradan
da lui combinato in Europa, non avesse il solo scopo che farsi dedicare
l'“Eroica”... Noi siamo certi che la Terza Sinfonia di Beethoven è un
evento molto più importante della battaglia di Austerlitz. Questo fallimento
spiegherebbe l'ulcera gastrica che da allora sempre afflisse il neo-
Imperatore... Comunque sia, nella distretta, il pubblico di Beethoven
prende il largo, e in un senso non musicale, perché lo fa velocemente.
Leonore va in scena il 20 novembre. La platea è popolata quasi
esclusivamente di ufficiali francesi, i quali assistono ad una comédie
lyrique che poi diventa tragédie senza spiegare che ci fossero state a fare,
all'inizio, le schermaglie amorose tra l'en travesti eroina e Marzelline, la
figlia di Rocco il carceriere, con tanto di Volkslied alla Papageno di lui
inneggiante al potere dell'oro che tutto risolve, altro che amore... C'è poi, a
rompere i coturni, anche Jaquino, che di Marzelline è innamorato, e
dunque non se la passa bene. L'insuccesso è clamoroso. I devoti del
Maestro ne approfittando per dirgli ciò che da sempre hanno pensato del
suo Singspiel: che è un'Opéra francese travestita da “Opera semiseria”, un
Don Giovanni (non c'è anche l'apparizione del fantasma, il Ministro?)
stretto nel busto di un Singspiel. Convocano Beethoven a palazzo
Lichnowsky. Si sono organizzati prima, una vera congiura cui partecipano
anche Collin e Treitschke, non dicesse, Beethoven, che quella sua
drammaturgia funziona... La principessa Lichnowsky si mette al piano;
Clement, “spalla” dell'orchestra del Theater an der Wien – che non è un
essere umano, ma un Macintosh, perché nella sua mente rimangono
impresse tutte le pagine di musica che ha suonato – accenna l'orchestra;
due cantanti fanno le parti principali, e via si procede ad amputazioni e
protesi. Beethoven, fedele al personaggio di Bruto dei musici che si è
costruito, non ne vuole sapere; allora la principessa Lichnowsky gli
restituisce quel comportamento che lui di solito adotta con gli altri: lo
manipola, implorandolo di accondiscendere in memoria della sua cara
madre scomparsa. A raccontare il tutto è Joseph August Röckel, appena
assunto da von Braun e destinato, poi, a interpretare Florestan. Il
benintenzionato agguato finì nel modo opposto di Leonore: da tragedia in
farsa; ovvero, in una gran mangiata offerta dal Lichnowsky, che doveva
capire bene i musicisti, se ricorse a questo Finale durante altri, tempestosi
scontri tra “poeti dei suoni”. Röckel aveva una fame da neoassunto.
Beethoven gli chiese che cosa stesse mangiando così di gusto. Lui, non lo
sapeva. “Mangia come un lupo, e non sa neppure che cosa”, esplose il fino
ad allora irato come Giove pluvio compositore, con una di quelle sue risate
che sembravano, appunto, scrosci di pioggia.
Per una delle tante geosinclinali a riverbero tellurico sulle quali sempre
scivola la vita del Maestro, nel 1806 lo troviamo alloggiato nella Rothes
Haus insieme a Stephan von Breuning, che a Vienna lavorava (ma guarda
un po'...) per l'Ordine Teutonico, quello di Maximilian Franz e di
Waldstein. Proprio ora, quando il tempo diventa, per il sordo progressivo,
un evento del tutto interiore, i fili della sua esistenza si rinsaldano in una
Ripresa da Forma-Sonata. I due poi litigheranno per una questione di affitti
non saldati. Beethoven aveva lasciato la casa, per uno dei suoi esili
volontari in campagna, senza darne disdetta al locatario, e Breuning si era
ritrovato a pagare il dovuto. Si riconcilieranno solo quando Beethoven
sarà, ormai, a ridosso della morte. Senza indulgere troppo a quegli insight
psicoanalitici sgraditi ai musicisti più che a chiunque altro, dirò che una
rottura così subitanea, e resa irreparabile da una grave noncuranza da
Beethoven non voluta, ma ottenuta, il che è ben peggio, ha la sua origine
nella metamorfosi interiore del compositore, il suo non essere più di
nessun affetto, di nessuna patria, di nessuna età. Il culto della Natura e
dell'Uomo ormai prenderà il posto, in lui, dell'amore per qualsiasi
paesaggio terreno. Come in tutti i narcisisti borderline, in Beethoven
convivevano due opposti istinti: la nostalgia di un rifugio familiare e
l'insofferenza per ogni legame trasceso in familiarità quotidiana.
Dopo Breuning, ne fece le spese la contessa Anna Maria Erdödy. La quasi
esclusiva relazione infantile con la madre aveva predisposto Beethoven a
cercare figure protettive di donne mature preferibilmente colpite da
disturbi cronici. La Erdödy, che passava la più parte del tempo sdraiata
perché il parto del suo primo figlio l'aveva resa quasi paralitica, andava a
meraviglia. Spesso il Maestro, senza farsi annunciare, entrava in casa sua,
si sedeva al pianoforte che stava nell'anticamera della stanza da letto e
cominciava a improvvisare lungamente; poi se ne andava in silenzio, senza
neppure affacciarsi. Il legame tra questi due esseri ombrosi e diversamente
feriti dalla vita giunse ad un punto tale che la contessa fu, e per certuni è
ancora, una delle concorrenti in lizza per quella tediosa carica di Amata
Immortale che è il gossip mediatico beethoveniano con più like sui social.
Ludwig la chiamava “il mio Padre confessore”, e la contessa ebbe un ruolo
fondamentale nell'assicurargli la pensione a vita in cambio di nulla che lo
rese il primo genio di professione della Storia. Eppure, anche la Erdödy
aveva un neo: la relazione con il proprio segretario, tra l'altro destinato a
diventare un compositore. È probabile che Beethoven celasse sotto uno dei
suoi soliti attacchi moralistici l'attrazione per quella perfetta Sosia della
madre, oltretutto afflitta anche lei da una mortificante sindrome
progressiva. A far precipitare le cose fu una sua reazione che non appare
neanche più come nevrotica, ma paranoica tout court. Beethoven trattava i
domestici alla maniera in cui il fisiologo Ivan Pavlov trattava i suoi cani:
materia di studio sulle pulsioni arcaiche. I poveretti, esasperati, si
licenziavano l'uno dietro l'altro con la brusca limpidezza di una “Cadenza
perfetta”. L'ultimo, la contessa cercò di trattenerlo al servizio del suo
protetto mediante una sostanziosa regalia in denaro. Beethoven pensò che
ne avesse così comperato i favori sessuali, e traslocò il giorno stesso in un
adiacente edificio ospitante una “casa d'appuntamenti” che aveva tutto
l'aspetto di un bordello, anche perché lo era. L'aspetto allusivo di una
simile locazione farebbe Freud così felice che finirebbe per adottare quello
scassadivani del piccolo Hans. Seguirono chiarimenti e riconciliazioni, ma
quest'ultima esperienza indusse Beethoven a far sì che il destino gli
spianasse un'esistenza da negato all'umano consorzio; purché lo potesse, è
chiaro, di questo incolpare.
A Vienna, traslocava con la frequenza con cui altri smettono un capo di
vestiario. All'inizio andò ad abitare vicino al Duomo di Santo Stefano,
nella parte più antica della città, poi predilesse appartamenti sui bastioni:
casa Pasqualati, sul Mölkerbastei, oppure presso il Glacis, con vista sulla
periferia collinare; o ancora, dalle parti di Porta Carinzia; sempre all'ultimo
piano, lungo rampe di scale che erano il terrore dell'obeso Schuppanzig.
Era così abituato a stare in alto che una volta, soggiornando al pianoterra,
si mise a spogliarsi davanti alla finestra aperta, e non si capacitava del
perché la gente, da un vicino ponte, lo guardasse perplessa. I traslochi,
spesso, non erano una sua scelta. Una volta, all'insaputa del proprietario,
aprì una finestra sul muro per vedere l'orizzonte. I vicini lo facevano
cacciare perché svegliati in piena notte dal suo stare al pianoforte cantando
a squarciagola, come fanno i sordi. Ma la cosa peggiore erano i danni
all'intonaco e agli stucchi. Ricordate? quando componeva, il Maestro
aveva l'abitudine di rovesciarsi in testa secchiate d'acqua gelida, creando
sul pavimento pozze in rapido assorbimento e sfogo sull'impiantito degli
appartamenti sottostanti. Ricevuto lo sfratto, Beethoven caricava su di un
carro la poca mobilia acquistata da un rigattiere e trovava rifugio in un
nuovo appartamento, di solito procuratogli a tambur battente dal solerte
Zmeskall. L'unica casa dove, pure ad intervalli, risiedette più a lungo, fu
quella di Johann Baptist Pasqualati, commerciante all'ingrosso, che gli era
così devoto da lasciare ogni volta sfitto l'appartamento abbandonato dal
Fiammingo Volante, dannato dalla sua stizza a farsi eterno profugo. Come
non volle mai una famiglia, per poi accusare il destino di non avergliela
concessa, così non accettò mai di acquistare una dimora per sé, onde poter
maledire la malignità degli uomini, incapaci, com'erano, di sostenere le sue
intemperanze creative. Le condizioni ambientali delle dimore lodoviciane
sono ben sintetizzate dal barone de Trémont, a noi già noto. “Provate ad
immaginare quanto di più sporco e in disordine ci possa essere: pozze
d'acqua sul pavimento, un vecchissimo pianoforte a coda su cui la polvere
si contendeva pezzi di musica manoscritta e stampata. Sotto (non invento
niente) un vaso da notte non vuotato. Di fianco, un tavolino in noce
abituato al fatto che il materiale per scrivere gli fosse spesso rovesciato
sopra. Un mazzo di penne con resti di inchiostro secco al cui confronto
quelle, proverbiali, delle osterie brillerebbero (…) Le sedie avevano quasi
tutte sedili di paglia ed erano coperte di piatti con i resti della cena della
sera prima, di indumenti...”. Seyfried, il direttore d'orchestra presso il
Theater an der Wien, fa da controcanto a Trémont. “Libri e fogli di musica
disseminati ovunque; là i rimasugli di una cena fredda; qui delle bottiglie
sturate e semivuote; là, sopra un leggio, rapidi appunti per un nuovo
Quartetto; qui, gli avanzi della colazione; là, sul pianoforte, dei fogli
scarabocchiati con le idee per una grandiosa sinfonia ancora allo stato
embrionale; qui delle bozze di stampa in attesa di essere corrette; delle
lettere di amici o di affari sparse sul pavimento, vicino alle pozzanghere
d'acqua lasciate dalle docce che egli è solito farsi con frequenza mentre è
intento a comporre”. Spesso Beethoven, nella foga della scrittura,
rovesciava il calamaio dentro il pianoforte, ottenendo che la cordiera, con
le sue striature nere, facesse pendant con la tastiera. Lo straziante disegno
che Johann Nepomuk Hoechle fece della sua ultima stanza di lavoro, nella
Casa degli Spagnoli Neri, con il pianoforte Graf, ora al Beethovenhaus di
Bonn, coperto di manoscritti arrotolati e incastrati sotto le corde spezzate
dello strumento, divelte dal sordo nel suo furioso pensare; sullo sfondo,
scaffali di libri giacenti l'uno sull'altro: questa scena di abbandono dove
risuona il silenzio interiore che accompagnò gli ultimi anni di chi era
destinato a dare un senso, coi suoni, alla vita di intere generazioni future, è
più eloquente di qualsiasi descrizione. Naturalmente, in simile bailamme,
perdeva preziosi manoscritti. Un giorno, cercandosi da mangiare, ritrovò il
“Kyrie” della Missa Solemnis. La domestica lo aveva usato per avvolgerci
il formaggio. A completare questa disastrosa economia domestica basti
aggiungere che quando andava a trascorrere l'estate in campagna non
disdiceva l'affitto della dimora viennese, talvolta occupata senza prima
aver cessato il contratto di locazione della precedente. Certe volte si trovò
a pagare tre pigioni allo stesso tempo. Quest'uomo che alla tavola degli
aristocratici usa gli smoccolatoi d'argento per le candele come
stuzzicadenti, che sputa in continuazione nel fazzoletto, se non per terra o
negli specchi, quando li scambia per finestre aperte (perché, oltretutto, ci
vede poco, come attesta il Duo per viola e violoncello “con due paia di
occhiali obbligati” W.o.O. 32 scritto per se stesso e Zmeskall); che a
Schindler, il quale gli domanda di saldare un debito di cinquanta fiorini,
come gli ha promesso, risponde “li avrà, un giorno. Nel culo”; che quando
legge qualcosa su di lui non di proprio gradimento pronuncia all'indirizzo
del cronista “miserabile, quel che io cago è meglio di qualsiasi tuo
pensiero”; infine, che tira in testa un piatto non richiesto di carne con la
salsa ad un cameriere ingombro di vivande per ogni dove, e quando vede il
poveretto leccarsi la glassa che gli scende giù per le gote, gli ride in faccia
sonoramente: quest'uomo, anche questi, è Ludwig van Beethoven. Sempre,
il genio è un bambino, tiranno come tutti i bambini. Helene von Breuning
era giunta troppo tardi per compensare quel bilanciamento strategico tra
comportamento e segni di affetto che nel fanciullo definisce l'educazione
della persona adulta. La madre non reagiva alle vessazioni alcoliste di
Johann se non rifugiandosi nella depressione e, infine, nella malattia
mortale; Ludwig dava corpo a tutta quella rabbia che sua madre aveva
soffocato.
Nell'Inno, ovvero Ode alla gioia, da giovane, lo colpiva un verso: “I
mendicanti, dei principi diventan fratelli”, poi espunto dallo stesso Schiller
prima di ripudiare questa sua opera d'occasione, legata a una situazione
politica rivelatasi poi ingannevole, e nata come Ode alla libertà per, poi,
da subito, esser destinata fin dal titolo all'adulterazione e il plagio. In una
lettera all'editore Franz Anton Hoffmeister – tra l'altro, illustre massone, e
autore di svariati Inni massonici – Beethoven reagisce con un sarcasmo
rabelaisiano alla sua richiesta di scrivere una “Sonata rivoluzionaria” in
lode della rivolta giacobina: “Ma sì, proprio adesso che tutto riprende le
vecchie strade... Semmai, una Missa pro Sancta Maria, a tre voci”. Il
primo colpo mortale inferto da Napoleone a Beethoven, avanti
l'autoincoronazione a Imperatore, fu il concordato con il Vaticano. Il
volterriano musicista, eletto a Prometeo dei suoni da chi lo aveva mandato
a Vienna tra gli Illuminati, non poteva scordare la parola d'ordine della
Rivoluzione: “Écrasez l'infãme”. La sua risposta ad Hoffmeister, massone,
e dunque ancora più colpevole di fraintendimento, ci riconferma nella
nostra ipotesi: l'affiliazione del giovane Ludwig, a Bonn, in una cerchia
che dall'Ordine Teutonico si irraggiava fino alle logge clandestine
viennesi. La versione intellettuale della Rivoluzione Francese propugnata
da questi Happy Few prevedeva un ordine sociale egualitario ma retto
dagli Ottimati, i filosofi, secondo il modello esposto da Platone nella
Repubblica. Napoleone – un tempo, il Prometeo dell'azione – accordandosi
col Papa, aveva già tradito; poco dopo Beethoven si incontrerà con
Bernadotte, il peggior traditore che il Còrso abbia mai avuto tra le sue fila,
e nascerà l'equivoco della “Sinfonia Eroica, composta per festeggiare il
sovvenire di un grand'uomo”, come recita il titolo per esteso. Il sovvenire;
ovvero, più che il ricordo, il suo affacciarsi sulla Storia, e rapido sparire.
In una seconda lettera ad Hoffmeister, Beethoven dà corpo ad un abbozzo
di sovchoz musicale bolscevico dalla matrice visionaria. Gli offre la
Sinfonia n. 1 op. 21, il Concerto per pianoforte in Si bemolle maggiore op.
19, il Settimino in Mi bemolle maggiore op. 20 e la Sonata per pianoforte
in Si bemolle maggiore n. 11 op. 22, il tutto per settanta ducati; poi
aggiunge: “Ci dovrebbe essere nel mondo un Magazzino dell'Arte al quale
l'artista dovrebbe limitarsi a portare le proprie opere al fine di prendere ciò
di cui ha bisogno; invece, così come stanno le cose, si è costretti a fare per
metà l'uomo d'affari, e come ci si può rassegnare a questo?”. Un simile,
vagheggiato Magazin der Kunst ci appare qualcosa come i Falansteri del
contemporaneo di Beethoven Charles Fourier: sistemi sociali improntati ad
uno scambio di beni tra individui resi civili dall'influsso purificatore
dell'arte, com'era il teatro al tempo degli antichi Greci. Nella Settima
Sinfonia, costruendo l'intera sinfonia sui “piedi”, i metri, dell'antica poesia
greca, in particolare delle Odi pindariche, Beethoven trascenderà questa
utopia sociale in un tempio dei suoni, immagine di un'Armonia tra
macrocosmo e microcosmo/uomo rimpianta e vagheggiata come eterno
ideale, utopia del possibile.
Quali erano, infine, le idee politiche di Beethoven? Lo si è tirato, nel
divenire della Storia, da tutte le parti. I nazisti sfanfareggiavano None ad
ogni compleanno del Führer, i sovietici facevano cantare l'Ода к рдости
di Schiller, così tradotta in Russo, a cori di minatori e metalmeccanici
diretti da Aleksej Grigorèevič Stachanov – spregiandone la versione
datane, nel 1865, dal loro amato Pëtr Il'ič Čajkovskij – ogni volta che
Stalin massacrava la riottosa intellighenzia; infine, la musica dell'Ode
schilleriana è finita anche per essere l'Inno dell'Unione Monetaria Europea,
che ha scorciato la Nona in un jingle da campo scout. Beethoven, di suo,
credeva in un'aristocrazia dello spirito capace di elevare progressivamente,
passo dopo passo, la civiltà umana fino al punto di poterle permettere
l'eguaglianza nei beni e nei diritti. Quest'uomo rude, dai tratti grossolani,
scortese, non sopportava la volgarità interiore.
Il peggio di sé lo dava nel rapporto con i servi; allora, diventava lo
Shylock del suo amato Shakespeare, nel Mercante di Venezia. Un
visitatore ce lo descrive intento a sbirciare di continuo, mentre conversa, la
porta della dispensa, da dove la cuoca stava prelevando burro e uova. Era
convinto che tutti, profittando della sua sordità, lo derubassero. La salute,
l'handicap fisico, gli imponevano un'assistenza continua; però non
sopportava di avere, d'intorno, nessuno. Nei Quaderni di conversazione
troviamo un richiamo di Schindler: la smettesse, il Maestro, di chiudersi a
chiave per ore, e poi lamentarsi se trovava il cibo freddo e immangiabile...
Una volta lo recuperarono dopo un giorno di immersione nella Fuga del
“Credo” della Missa Solemnis. Sembrava uscito da una lotta contro tutti i
demoni del Contrappunto. Si guardò intorno, smarrito ed affamato. La
cuoca, disse, se l'era data a gambe, spaventata dal suo urlare le voci interne
del mostruoso garbuglio sonoro, pestando forte col piede il pavimento. Il
bello è che teneva una rigida contabilità delle proprie nequizie contro gli
umili, quasi volesse convincersi della intrinseca malvagità insita in ogni
umano. “31 gennaio: licenziata la governante; 15 febbraio: entra la nuova
cuoca; 8 marzo: la cuoca si licenzia; 22 marzo: entra la nuova governante
(…) 16 maggio: licenziata la cuoca a Mödling; 19 maggio: la nuova cuoca
se ne va (…) 1 luglio: entra la cuoca; 28 luglio: la cuoca è fuggita”. Non a
torto Therese Brunsvik sosteneva che se Beethoven si fosse sposato
sarebbe vissuto di più. A tavola prediligeva il pesce, del quale era fanatico,
ma per lo più si limitava ad uno stretto regime di uova consumate nella
forma di fantasiose frittate che, insieme al vino ungherese, non giovarono
ai suoi calcoli epatici. Nell'ultimo decennio della sua vita, alla rovina
quotidiana del Maestro supplì come poteva una di quelle eroine
immolantisi con virginea fede nel baratro del disordine che Beethoven
riuscì sempre ad accalappiare: Nanette Streicher, moglie di quell'Andreas
fabbricante di pianoforti che il sordo attirò nelle sue migliorie tecniche,
sensate o folli che fossero, fino a farsi fabbricare uno strumento con
annesso padiglione di legno amplificante il suono. Nanette gli fece da
madre-serva e femminile ancella. Beethoven la interrogava su quante volte
dare da mangiare la carne ai servi, e quanto pagarli, e se bisognava anche
dargli la birra e il vino, e quando, se nei giorni festivi, ovvero sia a pranzo
che a cena... A Nanette scrive sessanta lettere del tipo: “Se per caso
ritornate a casa oggi, venite subito da me. Mi troverete a casa dopo le
cinque. Che esistenza orribile?!”; oppure: “La partenza della governante
mi ha talmente terrorizzato che ero già sveglio alle tre. La mia solitudine
richiede l'assistenza della polizia”.
A proposito della polizia, va detto che l'illuminato Maestro, cantore
dell'umana fratellanza, vi ricorreva ogni qual volta si sentisse minacciato
da sentimenti ostili: nelle contese con i fratelli, per esempio, oppure nella
lunga lotta contro la madre di Karl, per strapparlo a lei. Nella trista
vertenza legale che portò alla sua adozione del nipote, lo vedremo sfruttare
la sua intimità con l'arciduca Rodolfo d'Asburgo per condizionare le
decisioni del tribunale. Quanto alla povera Nanette, fece la fine di tutte.
Beethoven cominciò a sospettare che le serve divulgassero la notizia di
una tresca sessuale tra lui e la moglie del suo amico Andreas; da cui visite
sempre più rade, fino a che non cessarono del tutto.
Nietzsche ha scritto: “Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una
stella danzante”. Forse, quando l'ha scritto, pensava a Beethoven. La
finestrella aneddotica che ci siamo concessi va giustificata dentro la linea
di un'interpretazione psichica. Ogni artista creativo, è un maniacale.
Questo suo carattere si può manifestare in un ordine ossessivo, un'esigenza
di controllo assoluto (Igor Stravinskij), una deriva dell'immaginario
condotta fino alle soglie di pericolose scissioni (Schumann), un onirico
isolamento dentro spazi minuscoli, prigioni intorno alle quali, però, si
distende la natura incontaminata (le “capanne per comporre”, paradossali
vie di liberazione per l'immaginario di Mahler); infine, o ancora, in
strategie che neghino il tempo reale. È il caso di Beethoven. Il meticoloso
disordine era, anch'esso, il risultato di un trauma: il crollo degli ideali
rivoluzionari, il laboratorio alchemico di una musica intesa a trasfigurare
la Storia in mito.
Tutto un simile fastidioso armamentario del “poeta maledetto”, così
adolescenziale, acne sulla pelle del biografo, va letto come preludio al
cuore segreto dell'anima beethoveniana: il suo culto della natura.
Heilingestadt, Oberdöbling, Hetzendorf, Mödling, e poi i centri termali di
Baden e Teplitz; le case ospitali della Erdödy, a Jedlesee, o dei Brunsvik a
Martonvásár (anche lì, hanno inaugurato un museo beethoveniano): ogni
tappa del viaggio di Beethoven nella natura è un suo pellegrinaggio in
interiore homine, dove, secondo Sant'Agostino, “habitat Veritas”.
Leggiamo nel Diario: “Una fattoria, allora ti sottrarrai alla tua infelicità!”;
e poi: “Se viene a mancare ogni altra cosa, anche in inverno rimane pur
sempre la campagna (…) Dovrebbe essere facile prendere in affitto un
alloggio da un contadino”. Ovunque, sempre, torna un simile refrain.
“Affittare una stanza e prendere un alloggio in campagna”; “È come se
ogni albero mi dicesse, in campagna, beato! beato! Estasi nel bosco. Chi
può esprimere tutto questo...”; “Dolce silenzio del bosco! Il vento, che
inizia già nel secondo giorno di bel tempo, non mi può trattenere a
Vienna”. “Il mio regno è nell'aria”: il motto di Beethoven. Nei boschi, il
dio di Beethoven, che Dio non è, ha infuso la pace, “la pace per servirLo”.
Ovunque, negli scritti privati del compositore, troviamo i segni di un
teismo panteistico che si nutre di molteplici confessioni: dall'Induismo, il
Buddismo e la mistica persiana del poeta Hāfez – mediato da Goethe, con
la sua idea di un'entelechia originaria dalla quale ogni cosa, nell'universo,
deriva – fino al naturalismo razionalistico della nuova Fisica illuministica
confluito negli scritti scientifici del primo Kant. Su un siffatto sincretismo
fideistico agisce, poi, quel pensiero ermetico, cabalistico, di Baruch
Spinoza – dove la natura naturata è immagine, nel suo splendore, della
natura naturans; il reale, mera figura dell'Ideale – che tanta parte ebbe, per
vie occulte, nel pensiero del Protestantesimo tedesco. Per giungere alla sua
mistica, Beethoven doveva attraversare il reale, onde negarlo. Ed ecco che,
d'improvviso, l'aneddotica precedente si transustanzia in una via crucis
dell'immaginario.
Siamo nel cuore pulsante del periodo creativo centrale beethoveniano, i
prodigiosi anni che vanno dal 1803 al 1808. Anni di isolamento
progressivo, di fuga, di preghiere come questa: “Spirito degli spiriti, che
sei diffuso in ogni porzione delle spazio e del tempo smisurato, sublime al
di là dei limiti del pensiero discorsivo, comandasti al caos di trasformarsi
in cosmo; prima che il cielo fosse, tu eri (…) Tu Solo eri; finché, per il tuo
mistico amore, ciò che non era un nulla entrò nella ruota del divenire, e ti
innalzò un canto di gratitudine”. Ecco che cosa fu, in quegli anni, per lui,
la musica: “la ruota del divenire”, prima di trascendere in un “canto di
gratitudine”, il tempo sospeso delle composizioni estreme. La prima strofa
dell'Inno a Narayena che abbiamo appena citato ci rivela l'idea profonda
che il Maestro aveva della sua arte, perché “c'è molto da fare sulla terra,
fallo presto!”; “Non devo continuare a vivere la mia attuale vita di ogni
giorno, l'arte esige anche questo sacrificio”. La musica di Beethoven ci
attrae così potentemente per questa sua mistica portata al sacrificio, che gli
faceva dire “non devi essere più un uomo. Non per te stesso”. “Sii
laborioso, compi il tuo dovere, abbandona qualsiasi preoccupazione circa
l'esito delle tue azioni e considera identico qualsiasi avvenimento, sia che
ti arrechi il bene come il male: questa equanimità è detta yoga”. Una
citazione della Bhagavad Gītā, sempre tratta dal Diario; ed anche la
formula dell'unica felicità possibile su questa terra. Dai sacri Veda, ecco
una premonizione della Grande Fuga op. 133: “Per Dio, il tempo non è
che un'illusione”.
Nella sua discesa alle Madri, Beethoven rischiò, in questo periodo, il
suicidio. A Jedlesee, ospite della Erdödy, sparì per diverso tempo. Lo
trovarono nascosto in un capanno ai limiti della grande tenuta. Voleva
lasciarsi morire di fame. Lo salvò la sua natura fiamminga, sempre pronta
a riequilibrare questo misticismo, puro fino ai limiti dell'inquietante, in una
sana corporeità terrestre. Una volta, durante uno dei suoi ritiri campestri, si
incapricciò di una giovane contadina. Passava interi quarti d'ora ad
osservarla di lontano lavorare nei campi, compiacendosi di vedere
ricambiata la propria attenzione. Quando il padre di lei venne arrestato,
irruppe nel Consiglio Comunale della cittadina con rabbioso sdegno, e solo
la sua fama di eccentrico geniale gli evitò la prigione. Gli dovettero
spiegare che la fanciulla dagli occhi di cerbiatto era una prostituta che il
padre mandava in giro ad adescare gli allocchi come lui.
Ludwig pativa, nel rapporto con le donne, la ferita di chi rinasce ogni volta
nello sguardo della madre, tornando dall'esilio quotidiano nel mondo.
Prendiamo la sua liederistica, così disattesa da studiosi e interpreti. Lo si
incolpa di non saper scrivere per le voci. Verdi, si è detto, sostiene che
“dispone male le parti”. Beethoven crea frizioni tra la condotta musicale e
le situazioni poetiche. Segue le antiche regole della Retorica, dove, per
conoscere, dovevi ricordare. Nei Gellert-Lieder crea uno scenario
neobarocco quasi monteverdiano, per come riduce il canto, nel
catacombale Vom Tode, a una declamazione monotona degna di un demone
che si sia incarnato in uomo, sopravvivendo ai sentimenti terresti.
Beethoven è l'anti-Rossini, e l'incontro tra i due, se mai ci fu stato, fu
benevolenza del solitario amareggiato verso colui al quale la fortuna aveva
fatto dono della non consapevolezza. Solo Goethe capì Beethoven, e
detestò qualsiasi cosa di suo questi mettesse in musica. Siamo nel periodo
critico detto da Nietzsche “la trasvalutazione di tutti i valori”. La musica si
arroga il diritto di squadrare l'universo, togliendo alla parola ogni valore
significante. Goethe, di Beethoven, ha paura. Lo contempla come un idolo
piovuto da mondi impensabili, un testimone di cose che sarebbero dovute
rimanere nascoste. L'arte dei suoni, così familiare, perché volta a nutrire i
sentimenti, sarebbe, dunque, una cosmologia? Goethe incontra Beethoven,
e lo giudica “sfrenato”, ingovernabile. Lui non se ne dà pensiero. Scova un
poeta poco più che ventenne, studente universitario di Medicina, Alois
Isidor Jeitteles, e sulle sue effusioni troppo ingenue per divenire “testo”
crea una memoria di paesaggi sonori, viaggi nel ricordo, che esaltano il
potere della musica: redimere l'oblio dei sensi dall'impotenza sua.
All'amata lontana è il primo Kreis, ciclo di Lieder, della Storia della
Musica. Un compilatore di documenti beethoveniani se la caverebbe così;
e invece, a noi interessa solo un fatto: che quel Kreis di Lieder è l'atto di
nascita della musica nei Tempi Nuovi; una indagine sulla memoria, una
ricognizione dei luoghi nei cui profili essa confluisce; e quindi, e come
istanza meramente conseguente, una storia d'amore. Amore di una donna?
no, amore di una memoria. Così, tutte le fughe di Beethoven nei boschi e
le colline, tra il 1803 e il 1808 – gli anni quando disarciona da solo l'albero
dello Stile Classico dai venti delle sue ovvie derive – sono laboratori per
comporre sulle memorie di amori passati, non Inni al sentimento
ricambiato, quali lui illude che siano le proprie interlocutrici (e non lo
avesse fatto, avrebbe dannato la propria madre introiettata al supplizio
supremo: non soffrire più). I due monumenti del liederismo
beethoveniano: i Gellert-Lieder e il Kreis All'amata lontana, sono le
ragioni profonde che spiegano l'intera sua vita amorosa.
6. LA VIOLENZA SEGRETA DELLA VITTIMA (DOVE SI SPIEGA
CHE L'AMORE È UN “PEDALE” ARMONICO CHE NON SI
SENTE PERCHÉ È SEMPRE STATO LÌ)

I paesaggi interiori, i ricordi delle atmosfere, i colori, compreso quello del


silenzio; il vibrare dell'aria, il suono del vento o di un voce, la quale,
quando si fa ricordo, è anch'essa una brezza dell'anima... Beethoven
abbozza quasi tutti i suoi capolavori nelle molte residenze di campagna, da
solo, oppure ospite, dentro cui peregrina nei suoi anni maturi. Ogni
partitura nasce come un moto interiore fatto di suoni che si organizzano
lentamente in strutture, “motivi”, e questi generano derivazioni continue
dal loro stesso carattere, fino quando le forze che danno origine al mondo
non si fanno tensioni tra due campi contrastanti, Prinzipen: il “Princìpio
che si oppone”, il “Princìpio che implora”; natura e uomo, volontà e
destino. Solo allorché tutto questo sistema dialettico si è organizzato in una
struttura scopriamo il segreto di Beethoven, che l'esecuzione della sua
musica è disgregazione della Forma nelle sue pulsioni originarie.
Ascoltando, suonando, pensando Beethoven, scopriamo per quale processo
germinativo si è originato l'universo; e noi, in esso. Padre dell'orchestra
moderna – la cui madre è la Storia – il Maestro trova un nuovo equilibrio
tra le masse strumentali. La sua concezione dell'orchestra è scenografica;
articolata secondo distanze ed echi, percezione e memoria. Ogni suono,
nelle sue sinfonie, evoca il ricordo, più o meno remoto, di altri suoni.
All'origine della sua musica c'è sempre un moto spontaneo, irriflesso, del
sentimento. Comporre nell'esilio della natura gli era necessario per poter
vagare nello spazio atemporale della propria anima. Il tempo sospeso dei
ricordi sarebbe, così, diventato il tempo compresso della musica, pronto a
deflagrare nel sentimento di ogni esecutore, ogni regista della sua,
ciascuna volta diversa, “messa in scena”.
Ferdinand Ries, in visita al compositore, ci racconta la genesi della Sonata
cosiddetta “Appassionata”, il Finale, durante una passeggiata in
campagna. Vide Beethoven colpito da un flusso di energia sonora capace
di alterarne l'andatura, il volto e lo sguardo. Silenzioso, frenetico, egli si
precipitò al pianoforte “senza levarsi il cappello” e suonò, sviluppò quegli
spunti fisici, materici, che l'avevano colpito senza pensarli, poi, in capo ad
un'ora, si volse, notò Ries e gli disse “oggi non posso darLe lezione,
perché devo lavorare”; quasi gli fosse cascato tra i piedi in quel
momento... La vita di Beethoven è un viaggio alla ricerca di esperienze
che attivino forze contrastanti, secondo la dialettica emozione/rimpianto,
gioia/lutto, sensazione/sentimento: il campo di forze tra il “vissuto” e il
“carattere”, che del vissuto è il cristallo sulla prospettiva del tempo. Il
carattere, “Princìpio che si oppone”, resiste al richiamo luttuoso del
vissuto, il “Princìpio che implora”. Per questo abbiamo definito il secondo
periodo compositivo di Beethoven “l'Età della Lotta”, con l'avvertenza di
considerare questa lotta qualcosa di interiore, un riflesso negli specchi
dell'anima; quanto di più lontano dal tumulto sordo della Storia.
Gli eventi interiori di Beethoven sono i suoi innamoramenti. Amori, non
ne ebbe. Gli innamoramenti sono catastrofi che gli artisti si autoinducono
per, poi, cristallizzandole nel tempo, trasformarle in esperienze creative.
Gli amori, sono bastioni a difesa da tutto questo. I testimoni a lui vicini ci
dicono che Beethoven fu sempre innamorato, e che i suoi amori non
duravano più di sei mesi. Ogni volta che finiva di essere innamorato, il
romanzo dell'abbandono – del quale era, insieme, autore e unico
protagonista – lo spingeva in campagna a cristallizzare il lutto in una
Forma musicale inaudita che ne compensasse le tensioni distruttive.
Doveva innamorarsi per poter essere lasciato; doveva mettere in scena
l'abbandono per poter comporre, quasi il suo perdere il “Princìpio che si
oppone”, la donna della quale era innamorato, non fosse un sacrificio
obbligato alla divinità creatrice insita dentro di lui.
Gli innamoramenti amorosi di Beethoven si evolvono in due direzioni:
l'annichilimento sentimentale, la sublimazione degli affetti. Nel primo
caso, il “Princìpio che si oppone” scompare progressivamente, come nella
Coda di un Allegro in Forma-Sonata; nel secondo diventa il motivo di un
Canone che lo trasforma nel “Princìpio che implora”, e allora Beethoven si
incista nella famiglia della donna amata, concento di amorosi sensi che lui
nell'infanzia non ebbe, e che surrogò per tutta la vita in famiglie di altri. È
quel “complesso del cuculo” cui abbiamo già fatto cenno a proposito di
Bernadotte, e che in Beethoven diventa un'ulteriore legge, la “Legge di
Helene von Breuning”. Quando la genealogia aristocratica delle donne
prescelte per l'abbandono non era sufficiente baluardo contro l'amore, la
condizione di spose riusciva ottima per inscenare successive separazioni in
capo alle quali Beethoven poteva, finalmente, godere il calore e l'intimità
delle famiglie loro, scopo recondito all'innamoramento suo. Si dice sempre
che il genio creativo deve “fare esperienze”; in realtà, il genio creativo fa
esperienza, in vita, di una cosa sola, la replicazione della stessa esperienza.
L'arte nasce da sempre da un'ossessione non risolta che trova
compensazione imperfetta nella Forma dell'opera, ogni volta sbilanciata e
imprecisa come lo è il sentimento opprimente che le ha dato origine.
L'ossessione di Beethoven si chiamava Helene von Breuning, la madre
surrogata divenuta, nel suo immaginario, volto del goethiano Das Ewig-
Weibliche, quell'“Eterno Femminino” il cui desiderio ci “trasporta verso
l'alto”. Certi ritratti di Beethoven, le testimonianze dei contemporanei, ci
mostrano il suo sguardo sempre “nach oben”, “volto all'insù”. Beethoven
amava le madri, e per conquistare il diritto a star loro vicine si innamorava
delle figlie, oppure diventava amico fraterno dei figli; fino a porsi, nel caso
del nipote Karl, come “Princìpio che si oppone” e strappare alla donna
idealizzata il bambino, certo di stringere così con lei, “Princìpio che
implora”, il più potente tra i legami spirituali. Naturalmente, onde tutto
questo processo inconscio diventi fermento alchemico, nel processo
creativo, l'artista deve mentire a se stesso. Ecco perché Beethoven, le
uniche proposte di matrimonio della sua vita, le fece a due donne delle
quali non era innamorato, e che sperava solo lo distogliessero da tutta
questa sua fissazione su feticci. La prima, Magdalene Willmann, una
cantante, l'abbiamo già brevemente incontrata, e ora la liquidiamo in modo
fulmineo. Passata alla storia (quella con la “t” minuscola) per aver detto
Beethoven “così brutto e mezzo matto”, era una dantesca donna/schermo
troppo goffa per essere credibile. Dunque l'inconscio di Beethoven, la
volta successiva, agì più d'astuzia, e chiese la mano di Therese Malfatti, la
figlia del suo medico. Il dott. Johann Malfatti è la versione femminile di
Helene von Breuning. L'Eterno Femminino, infatti, in quanto variabile del
desiderio, non è esclusivamente femminile. Malfatti tornerà da Beethoven
a seguire il suo tardo decorso clinico, saldando quella frattura successiva
alle mire beethoveniane sulla figlia che aveva spezzato la propria solidità
di feticcio, il schilleriano Padre Amorevole. Singolare corteggiamento,
quello di Beethoven: condotto attraverso un altro feticcio di paterne cure, il
Gleichenstein, così abile nel rendere la vita del compositore immune alle
beghe burocratico-amministrative. A fuorviare meglio il tutto, poi,
coinvolse Wegeler, perché si procurasse, a Bonn, il beethoveniano
certificato di battesimo: quello con la data pregressa di due anni, dal quale
Ludwig dovette dedurre di non essere il vero Ludwig, ma quel fratello con
lo stesso nome morto prima di lui. Dunque, essendo morto, come poteva
sposarsi? Malfatti doveva essere un buon medico, se sapeva intuire con
tanto acume la natura umana. L'intera faccenda gli sembrò una psicotica
presa in giro, e mandò al diavolo il proprio paziente, il quale, assediato
dall'inconscio, immolò il povero Gleichenstein agli inferi dove esso
risiede.
Una categoria intermedia tra le due più notevoli della casistica amorosa
beethoveniana, la occupa Giulietta Guicciardi, il “vaso alchemico della
sublimazione”. Costei simboleggia ciò che gli artisti più amano, nella loro
lotta inconscia contro l'amore: l'Adoratrice del Genio, e dispregiatrice del
suo essere uomo. Occupa le giornate di queste ninfette la curiosità di
conoscere fuggevolmente la fisiologia di coloro le cui funzioni superiori
sono, per esse, oggetto di culto. Scoprire che il genio si mette le frange
ornamentali della camicia dentro la blusa, pensando sia una sciarpa, si
fruga dentro l'orecchio con qualsiasi cosa appuntita trovi sulla tovaglia e
scatarra dentro ogni pezzo di stoffa che gli capita tra le mani, fa sentire
costoro meno idiote. Giulietta Guicciardi era rappresentante eminente di
codesta sottospecie umana, e infatti sposò il conte Wenzel Gallenberg,
bello, nobile, e facitor di balletti, poi in forza alla corte di Napoli, dove
fece ciò che più amano le amanti di un giorno del Genio: la tradì senza
sosta e si mise in combutta fallimentare con Domenico Barbaja, facendo
condurre a Giulietta quella vita d'inferno che le permise di idealizzare la
sua breve storia con Beethoven, l'Immortale. Giulietta, però, non era
un'ingrata, e ricambiò il suo Ludwig con analoga sublimazione. In un
Quaderno di conversazione del 1823, Schindler, l'acchiappabubbole tra i
biografi beethoveniani, poiché il discorso è caduto su Gallenberg, indaga
sulla di lui moglie, Giulietta, sperando in rivelazioni degne del proprio
vojeurismo. Beethoven non lo delude. Sì, Giulietta lo amava “moltissimo,
molto di più di quanto avesse mai amato suo marito”. Certo: lo ha amato
così tanto che lo ha lasciato; come Beethoven si aspettava da lei. Ma non
basta. Giulietta è andata ben oltre il suo dovere. È tornata – o gioia, o
tripudio... – da lui, nell'intento di lasciare Gallenberg e diventare un
Femminino, se non Eterno, comunque quotidiano. E Beethoven, a
Schindler: “Je la meprisois”; “io l'ho disprezzata”. In Francese, come
sempre fa quando non vuole confessare qualcosa a se stesso; come farà
ogni volta che il nipote Karl, dopo l'ennesima lite, sparisce in preda alla
disperazione. E poi arriva la confessione rivelatoria: “Se avessi voluto
disperdere così la mia energia vitale, cosa sarebbe rimasto per ciò che è
nobile, per ciò che è migliore?”. Migliore di cosa? ma dell'amore, il quale,
ancorando l'artista al tempo del vissuto, gli impedisce quella fuga
nell'Ideale atemporale, il cielo platonico delle Idee Pure, che
l'innamoramento induce e di continuo tonifica... Giulietta Guicciardi
merita la nostra riconoscenza non solo per avere indotto Beethoven a
sdraiarsi sul divano di Freud, ma anche perché, in quanto cugina delle
Brunsvik, funziona da “mediante” tra queste e il motivo dominante della
nostra indagine negli amori beethoveniani: il “complesso del cuculo”;
nella sua variante beethoveniana, la “Legge di Helene von Breuning”.
“(Beethoven) viene quasi tutti i giorni ed è infinitamente grazioso. Ha
composto un'Aria per Pepi che ti mando, ma nello stesso tempo ti prego di
non mostrarla a nessuno e di non dire neppure, se la canti davanti a
qualcuno, che ne hai la musica”: così scrive Chalotte von Brunsvik a sua
sorella Therese. “Pepi” è Josephine, altra allieva di Beethoven, insediatosi
insidiosamente tra i Brunsvik come maestro di pianoforte. Delle tre, quella
più innamorata di Beethoven è Therese, che rimarrà zitella. Ludwig, lui,
ama Josephine. Sulle sorelle ha un enorme vantaggio: è sposata col conte
Joseph Deym. Costui, con quella rassegnazione che nasconde la paura del
genio razziatore propria ai mariti delle amate “immortali” beethoveniane,
colma il rivale di regali; e lui manda a ringraziarlo Zmeskall, il “baron -ron
-ron -ron”. A non coinvolgere gli amici come altrettanti messer Pandarus
del cuore suo, proprio non ci riusciva. Ecco che cosa scrive, Therese, a
Charlotte: “Ma di un po', tra Pepi e Beethoven, non c'è qualcosa? Che stia
in guardia...”. E riporta un proposito rivolto dal Maestro a Josephine, una
delle sue tipiche “rassegnazioni plutarchiane”, quando è innamorato di chi
la sorte non gli permette di amare: “Il mio cuore deve darti la forza di
rimanere casta. Triste necessità”. Freud, che sostiene la creatività sia una
mera sublimazione della libido, l'avesse letto, si sarebbe messo a studiare il
pianoforte. Peccato che poi, quando Deym morì di polmonite, Beethoven,
nella “triste necessità”, abbia perseverato, ridando ragione a ciò che Freud
pensava della musica: un'arte che sfugge a qualsiasi razionalizzazione.
Josephine, siccome amava molto Ludwig, si risposò con Christoph von
Stackelberg, che pensò bene di sparire e farle assumere il ruolo, così
melodrammatico, della “vedova bianca”, onde Beethoven potesse
compatirla, e quindi idealizzarla ancora di più. Tra ragione e sentimento, la
storia di Beethoven e le sorelle Brunsvik – con tanto di trama secondaria,
la cugina Giulietta Guicciardi – sembra un romanzo di Jane Austen, non
fosse per la nota cupa, tragica, di una figlia illegittima, Minona, che il
Maestro ebbe con Josephine, e che spiega la condotta – non immorale,
dunque, ma vendicativa – di Stackelberg. E su questa poveretta, chiamata
“Anonym” all'incontrario, vige ancora il mistero più fitto.
La linea delle rivoluzioni formali beethoveniane spesso attinge al lavorio
segreto di queste pulsioni erotiche irrisolte. A Giulietta dobbiamo la
Sonata “quasi una fantasia” op. 27 n. 2; all'affaire Brunsvik, la Sinfonia n.
4 op. 60, composta nell'euforia di un soggiorno a Martonvásár, il castello
dove la famiglia aveva la residenza estiva. La bellezza femminile, per il
Beethoven della Età della Lotta, è una variante dello splendore che la
divinità infonde nella natura. La sua religiosità laica esorta la chiamata del
daimon osservandone la forza fluire nel volto delle creature amate.
Josephine, tra queste, è la più assidua, e torna ad intervalli ad
ossessionarlo, aggiungendo al complesso meccanismo di rimozione che
abbiamo osservato la carnalità di amplessi dei quali Beethoven, quando, lei
vedova, erano legittimi, sapeva pentirsi, e quando, dopo le sue nuove
nozze, più non lo erano, doveva pentirsi. Beethoven ebbe dai Brunsvik
alcune tra le poche giornate serene della sua vita. Nel grande parco della
loro residenza ungherese ogni albero aveva il nome di un ospite, e
Beethoven prese l'usanza di comporre stando sdraiato sotto il proprio. A
Martonvásár improvvisava e faceva musica d'insieme, dimostrando che la
sordità aveva stretti legami con il suo stato psichico. Abbiamo anche
notizia di un cane, Gigons, che, dice Beethoven, “ha cenato con me
stanotte”.
Se i Brunsvik rappresentarono, per Beethoven, l'euforia, lo slancio dei
sensi, la famiglia Brentano fu la quiete di un affetto disinteressato che
nulla poté mai incrinare. Franz Brentano aveva ereditato dal padre una
ditta che importava spezie e tinture così prospera da dar vita ad una banca
a Francoforte. Sua moglie Antonie era la figlia di un personaggio che
sembra uscito dal Viaggio a Reims di Gioachino Rossini: quel don
Profondo, collezionista maniacale, che canta “Medaglie incomparabili”
imitando tutte le lingue europee. Johann Melchior von Birkenstock era
segretario di corte e amico della prima ora dell'Imperatore Giuseppe II, che
attraverso di lui ritorna ad esercitare quella paterna tutela su Beethoven per
la quale, a quanto pare, dovette aspettare di essere morto. L'Illuminismo
essendo, come dimostra la Encyclopédie, un illusorio investimento sulla
memoria storica, nella convinzione la quantità dei dati si faccia qualità
della vita, Birkenstock, dopo la morte del suo illuminato monarca,
cominciò ad accumulare nella propria dimora di Vienna “duemila incisioni
in rame, altrettanti disegni, centinaia di urne antiche e di lampade etrusche,
vasi di marmo, antichi frammenti di mani e di piedi, quadri, abiti cinesi,
monete, collezioni geologiche, insetti marini, telescopi e innumerevoli
mappe, piante di antichi Imperi scomparsi e di città, bastoni da passeggio
stupendamente intagliati, documenti preziosi e, infine, la spada
dell'imperatore Carolus” (ci si chiede che quest'ultima sia proprio quello
“scettro” che a Napoleone, durante l'incoronazione a Nôtre Dame,
rifilarono per buona). L'elenco sopra riportato, Antonie lo inviò a Goethe,
nientemeno. Figlia di Johann Melchior, crebbe in una galleria di stanze
semibuie dove ad ogni angolo spuntavano monconi di statue, scheletri
anomali donati da anatomisti patiti degli scherzi di natura e bizzarri
animali impagliati che Linneo non avrebbe saputo su che ramo del suo
albero mettere. Babbo Birkenstock aveva letto gli Enciclopedisti, ma non
Rousseau, altrimenti non avrebbe costretto la figlia a passare l'adolescenza
schedando reperti invece che lettere di bei ragazzi; il che sarebbe stato,
peraltro, inutile, visto che, il marito di Antonie, l'aveva già scelto lui: Franz
Brentano, Quanto ad Antoine, nel suo diario proclama la propria vocazione
originaria, e tradita, a rimanere per sempre nella casa paterna.
Franz si rivelò da subito incarnare in sé l'Idea platonica del marito; e se
quella del cavallo, secondo il filosofo, è la Cavallinità, lui doveva essere la
Maritità. Sapendo che la moglie non avrebbe mai potuto amarlo davvero,
quando la vide spaesata, depressa, nella Francoforte dove aveva sede
l'azienda, le permise di passare lunghi periodi a Vienna. Beethoven doveva
già conoscerla da prima del matrimonio, se è vero che palazzo Birkenstock
era uno di quei luoghi dove c'erano sempre, a disposizione per lui, un
pianoforte e una stanza per comporre. La quieta sofferenza, poi divenuta
mite disperazione, di Antonie – la quale, all'indomani del matrimonio,
scriveva “voglia Iddio che io provi gioia nella vita quotidiana della
casalinga” – non poteva che attrarlo. Lei rappresentava, in un certo modo,
quella parte femminile che secondo quanto dice Aristofane, nel Simposio
platonico, ogni maschio cerca dopo che Zeus, per sedare l'umana superbia,
col suo fulmine ha diviso in due gli Androgini umani originari. Anche
Antonie era cresciuta in simbiosi col genitore del sesso opposto, trovando,
dopo un'iniziale infatuazione per la nascente letteratura romantica, nella
musica quella voce senza parole che le permetteva di esprimere la propria
estraneità al mondo circostante. L'imprinting materno, come abbiamo
visto, aveva reso Beethoven facile preda di creature dall'abbacchio
perenne, specie se afflitte da mali vuoi di evidenza clinica vuoi di natura
psicosomatica. Antonie, che non poteva essere infedele a Franz, perché
costui esibiva una bontà perfetta fino al sadismo, cominciò a lamentare
mal di testa e vertigini che presto divennero agorafobia e, infine, mentre il
fantasma di mamma Beethoven faceva la sua comparsa in un re minore
ché neanche la statua del Commendatore mozartiano, forti dolori al petto
seguiti da diluviali crisi di pianto. Antonie era, in tutto il suo essere, così
attraente per Beethoven che egli pensò bene di assicurarsi l'amicizia del
marito Franz. Volete che uno dei fan più sfegatati del Werher goethiano si
lasciasse sfuggire l'occasione per un adattamento autobiografico della sua
trama? La triangolazione consueta, con stallo conseguente
dell'innamoramento, impossibilitato a farsi amore, fu, questa volta,
massiccia e proficua, soprattutto quando Antonie, dopo la morte del padre,
rimase per lungo tempo in pianta stabile a Vienna, col pretesto di dare lo
spolverino a quel nonnulla di diecimila reperti, perché li doveva vendere.
Il triangolo, di equilatero, divenne scaleno allorché Beethoven mise Franz
in mezzo al più grande pateracchio commerciale della sua vita, la
pubblicazione della Missa Solemnis. Tra i tanti a cui non la mandò, c'era
Simrock, il suo vecchio amico di Bonn. Franz, che aveva mediato la
vendita, spedì al compositore i novecento fiorini avuti da quello. Quando
Simrock capì che la Solemnis non gli sarebbe mai stata “missa”, e di
solenne c'era solo la fregatura, chiese i soldi indietro a Franz. Al mercante,
Beethoven fece orecchie altrettali, e l'amicizia finì lì.
Ed ecco giunto il momento più temuto da ogni biografo beethoveniano, il
tormentone dell'Amata Immortale, la Unsterbliche Geliebte, secondo solo
all'Inestirpabliche Derelichte, il Testamento di Heiligentadt. Andiamo per
esclusione. Non può trattarsi, secondo me, di una tra le numerose pianiste,
alcune anche allieve, delle quali Beethoven amò, più che altro, le dita, e
quando anche amò il resto, lo fece perché vide in esse altrettanti
“strumenti” su cui suonare: Dorothea von Ertmann, considerata da
Mendelssohn la migliore interprete beethoveniana; la a noi già nota Marie
Bigot, e poi Rahel Levin, Marie Pachler-Koschak... Che si sia pensato
insistentemente a Therese von Brunsvik, mi stupisce, trattandosi di un tal
caso di amore senza speranza che se lo sapeva Franco Zeffirelli ci faceva
un film. Qualche dubbio lo dà la cantante Amalia Sebald, con la quale
Beethoven, a Teplitz, condivise per un po' le acque termali e anche altri
liquidi. Rolland, che a Beethoven ha dedicato tutta la vita, la indica come
sua Geliebte d'elezione. C'è un ostacolo. Quel rapporto era
eccezionalmente del tutto privo di alcun “Princìpio che si oppone”, e non
si vede come potesse dar corpo ai sospiri di mani ed occhi levati al cielo,
da film muto, dei quali l'epistola gronda. Ciò che sappiamo per certo è che
la lettera non fu mai spedita. Venne trovata, dopo la morte di Beethoven,
nel cassetto del canterano dove c'era la sua degna sorella, quella di
Heiligenstadt. Rimangono Josephine Deym e Antonie Brentano. Maynard
Solomon, con una maestria ficcanasa degna di un cronista di Chi, avrebbe
dimostrato trattarsi di quest'ultima. Come dice Antonio nel Giulio Cesare
di Shakespeare, Solomon è un “uomo d'onore”, e se lo dice lui...
Ma scannerizziamo la lettera col nostro laser psicoanalitico, per fulminato
che sia. L'inizio è memorabile: “Mio angelo, mio tutto, mio Io”, un
bell'anticlimax da narcisista. “Solo poche parole oggi e a matita (la tua)”.
Singolare, questo trasferire sul feticcio della matita altrui la responsabilità
di quanto si dice... È interessante quell'“oggi”; evidentemente, esisteva una
copiosa corrispondenza tra i due amanti che non ci è pervenuta. Forse, la
condotta della Geliebte dava adito a scandalo? Sappiamo che Josephine,
per i costumi sessuali alquanto liberi – era pur sempre la moglie di un
nobile, per quanto latitante egli fosse – a un certo punto venne fatta
oggetto di attenzione da parte della polizia. Andiamo avanti con la lettera,
dove, a questo punto, troviamo un passaggio da Opera buffa: “Può forse il
nostro amore sussistere altrimenti che col sacrificio e col non chiedere
tutto? (…) Ah, Dio! Guarda la bella natura e acquieta il tuo animo
pensando a ciò che deve essere”. “Beethoven, o Dell'inutil precauzione”...
Viene in mente il Canone burlesco che sta alla base del Finale, nel
Quartetto op. 135: “Muss es sein?”, “Es muss sein!”; “Deve essere?”, “Sì,
deve essere!”. Geliebte, non ti crucciar, “Vuolsi così colà dove si puote/Ciò
che si vuole, e più non dimandare”. A Beethoven, Plutarco (ricordate?) gli
ha insegnato la rassegnazione e l'oblio nell'abbraccio della natura; facesse,
la Geliebte, lo stesso... E arriva, il passaggio ineffabile: “L'amore chiede
tutto e completamente e a ragione; così a me con te come a te con me”. Il
che vuol dire: regolarizzare questo rapporto clandestino andrà bene per te;
a me, non mi soddisfa. “Tu però dimentichi troppo facilmente che devo
vivere per me e per te; se fossimo completamente uniti risentiresti questa
sofferenza così poco come la sento io”. Traduzione: dimentichi che la mia
vita non si esaurisce nella nostra relazione; ho altro da fare, io. Se noi
fossimo completamente uniti, tu staresti come io, adesso, sto: cioè, bene.
A questo punto comincia la descrizione del viaggio, la cui mèta sarebbe,
secondo la ricostruzione dei beethoveniologi, Teplitz. È notte. A
Beethoven sconsigliano di attraversare un bosco, “tutto questo, invece, mi
dava voglia di farlo”. Si tratta di un traslato: avevo paura di scriverti la mia
decisione di mantenere le distanze, e proprio per questo l'ho fatto. Si
rompe l'asse della carrozza, e solo l'abilità dei postiglioni garantisce un
fortunoso arrivo. Ed ecco un liberatorio “eppure, in parte ero contento
come sempre quando riesco a superare felicemente qualche cosa”.
Contento, anche, di avere rimesso a posto la Geliebte; infatti, “da queste
cose esteriori passiamo al cuore”: territorio nel quale, sembra dire il
Nostro, sono contento di avere superato felicemente, con questa lettera, la
“qualche cosa”. Singolare l'insistenza sui cavalli, quattro, piuttosto che gli
otto di cui disponeva, per lo stesso viaggio, Esterházy: nome che evoca un
inevitabile confronto con Haydn, il quale venne tiranneggiato per tutta la
vita, salvo la morte tardiva di quella, da una Santippe di moglie ben nota al
suo intero entourage, Beethoven compreso. L'inconscio di Ludwig, a
quanto sembra, fa libere associazioni degne del suo genio. Il tema dei
cavalli ritorna in un sogno che il compositore descrive, per lettera, a
Gleichenstein. “L'altro ieri notte ho fatto un sogno. Mi sembrava che tu
fossi in una stalla dove restavi così incantato e affascinato da una coppia di
splendidi cavalli che dimenticavi tutto quello che ti stava attorno”.
Gleichenstein sposò la sorella di Therese Malfatti, la “fidanzata per
procura” di Ludwig. Il senso del sogno è: tu ti sei sposato, e quindi hai
scordato ciò che avevi da fare nel mondo; io, no. Beethoven manda
Gleichenstein a corteggiare Therese, e quello, poi, ne sposa la sorella. Si
sposa lui, al posto di Beethoven. Pericolo scampato...
Continuiamo con la fuga non musicale, ma letteraria, dalla Geliebte ormai
alquanto sterbliche. “Ci vedremo certamente presto; nemmeno oggi posso
comunicarti le osservazioni sulla mia vita che ho fatto durante questo
viaggio; se i nostri cuori fossero sempre vicini non ne farei di simili”. In
Retorica si chiama antifrasi: esprimere un concetto usando le parole
opposte. Beethoven vuol dire: non è il caso ti dica che cosa ho pensato sia
meglio per me; cose che, se fossimo sempre insieme, non potrei certo
progettare. “Ah, ci sono dei momenti in cui trovo che la parola non è
niente...”. Eppure, le parole, qui, le usa benissimo. “Sii allegra (…) e il
resto, ciò che per noi deve essere e ciò che sarà, lo decideranno gli dèi”.
Questa volta Beethoven ricorre all'iperbato: inserire tra termini
conseguenti parole che ne sfumino e allarghino il significato. Ritorna “Es
muss sein!”: ciò che deve essere, perché io l'ho stabilito, sarà, e
attribuiamone la responsabilità agli dèi, ché male non fa. La Geliebte
proprio stupida non doveva essere, se il Maestro, il giorno dopo, riprende
la lettera con un “tu soffri, mio caro amore”. Segue un rivelatorio “la
sottomissione dell'uomo all'uomo mi fa soffrire”. Detto da uno spirito
creatore che definì la libertà e la tranquillità i beni più importanti, ha il suo
senso. “E quando mi osservo in confronto con l'Universo, che cosa sono io
e che cos'è colui che chiamano il più grande?”. Vale a dire: quando
considero l'immensità del mio compito, lo spavento mi fa ritenere
insignificante tutto il resto, te (soprattutto) compresa. Segue l'inevitabile
“alla mia età avrei ora bisogno di una certa uniformità, di una certa calma
di esistenza, può essere ciò, con i nostri rapporti?”. Questa non è più
manipolazione retorica; questa, è una dichiarazione d'intenti. Certamente
“ti rassegnerai”; tanto più perché io, pur di poterti non sposare, prometto
che “nessun'altra potrà mai possedere il mio cuore”. Tanto, anche prima,
nessuna lo possedeva... Il cuore, Beethoven, lo concedeva soltanto in
comodato d'uso. Una glossa finale di autocommiserazione che diventa,
quasi per sbaglio, la confessione di quella dialettica del sentimento che nel
genio creatore era inevitabile: “Il tuo amore mi rende l'uomo più felice e
più infelice insieme”. Ho utilizzato la versione di Alfredo Casella, che
rende appieno la durezza spesso impacciata dello stile. Beethoven non era
un grande scrittore; ma un grande retore, sì. Casella reca la data 6-7 luglio
1801; così anche Nicolò Di Fede, in un vecchio centone beethoveniano di
Cappelli editore. Oggi si stima la lettera sia stata scritta a Teplitz negli
stessi giorni del 1812, per quanto le datazioni esatte, nell'epistolario di
Beethoven, siano un ginepraio a parer mio non ancora del tutto risolto. A
differenza di Solomon, una simile espressione di confusione interiore,
angoscia per il futuro e senso di colpa – “la bontà della gente (…) merito
tanto poco quanto poco desidero meritare”: mitigata, come si vede, da un
senso di orgogliosa indipendenza – mi convince la destinataria di questa
lettera mai spedita sia Josephine Deym, e che la sua occasione sia stata la
gravidanza di lei, il concepimento di Minona.
7. ORCHESTRE PRINCIPESCHE E PROVE DA PEZZENTI. LA
VIA PER LA GLORIA È COSTELLATA DI CEFFONI

La natura di laboratorio privato che ha, in Beethoven, la Sinfonia, esigeva


la disponibilità di orchestre private. L'“Eroica”, come si è visto, venne
confezionata sulle misure di quella di Lobkowitz; la Quarta Sinfonia trovò
il suo “figurino” in quella del conte Franz von Oppersdorff. Costui aveva
un castello ad Oberglogau, non lontano da Gräz, dove Beethoven fu ospite
di Lichnowsky in quel periodo che vide la sua lite col principe, per il
rifiuto di suonare davanti ad ufficiali francesi, e la fuga notturna sotto la
pioggia, con il manoscritto della Sonata “Appassionata” a stingerglisi tra le
mani. In realtà, ad Oppersdorff, gli aveva promesso la Quinta, ma il lavoro
a questa partitura capitale tra i capolavori della Età della Lotta si protrasse
nel mentre il suo autore terminava tutto ciò che dallo suo slancio, in
qualche modo, trae vita. Ad esempio, l'incipit del Concerto per pianoforte
in Sol maggiore n. 4 op. 58, o anche quello del Concerto per violino in Re
maggiore op. 61, che Franz Clement, leggendolo, in pratica, a prima vista,
portò alla disfatta il 23 dicembre 1806; tanto è vero che Beethoven ne
apprestò una mediocre riduzione per pianoforte, corredata, però, da una
geniale Cadenza. Il Triplo Concerto per violino, violoncello e pianoforte in
Do maggiore op. 56, concepito per le modeste doti dell'Arciduca Rodolfo,
ci mostra un compositore ormai sazio dello stile brillante buono per i
virtuosi, dal quale si congederà, dopo l'intermezzo inclassificabile del
Quarto Concerto, con il n. 5 in Mi bemolle maggiore “Imperatore”: l'op.
73, per la prima volta non destinato a se stesso, e venuto fuori una
splendida caricatura; esaltante quanto si vuole, ma pur sempre caricatura.
Nel laboratorio della Sinfonia, invece, Beethoven espande la dialettica tra i
due Prinzipien a norma di contrapposizione tra intere partiture dove il
ritmo si eleva a parametro autonomo della musica; in attesa della Settima,
nella quale questo aspetto diventerà costitutivo. In parallelo alla sofferta
genesi della Quinta, confluenza di abbozzi lungamente elaborati, abbiamo
la Sinfonia Pastorale, ovvero “Sinfonia pastorella”, per usare il termine
del compositore: la Sesta, concepita ad Heiligentadt, secondo la
testimonianza di Schindler – di mestiere, “amico di Beethoven” – che
ripercorse insieme a lui, anni dopo, quei paesaggi la cui trasmutazione in
scenari sonori costituisce la singolarità della composizione. Questo
realismo dell'anima, specchio interiore dello sguardo, la Sesta, è anche un
poema sui suoni della memoria: dalla canzone popolare croata dell'inizio
alla Danza Tedesca dello “Scherzo”, un tema di festa colto al volo da
Beethoven, per trovare il suo culmine nella trascrizione del richiamo di
usignolo, quaglia e cucù, nella “Scena presso il ruscello”. A sentire
Schindler, sotto questo intero movimento corre, simbolo nascosto della
natura che si rigenera, anche il canto dello zigolo giallo. Il sordo
progressivo stava progressivamente sentendo sempre più relazioni di
Motiven nel labirinto della propria memoria sonora.
Accanto alla Sinfonia, la Sonata trova, in questo periodo, nelle opp. 53 e
57, la “Waldstein” e l'“Appassionata” (che vorrà mai dire, questo
sottotitolo appioppatole da un editore?) nuove dimensioni sonore e
strutturali, dal caos organizzato alla sua risoluzione nei pilastri della
Forma. I tre Quartetti op. 59 – su commissione di Rasumovskij, e destinati
al suo complesso privato, che ha Schuppanzig per primo violino – dilatano
il genere ad una complessità polifonica e di elaborazione tematica
modellata su quella della Sinfonia. Come si vede, Beethoven continua a
sfidare Haydn nelle sue Forme d'elezione, quelle dello Stile Classico,
sospendendo, anzi, con gli anni, il lavoro sugli stili “concertanti”, che della
Forma-Sonata sono ospiti che non pagano la pigione.
Era inevitabile, a questo punto, il confronto anche con la Messa. Haydn ne
aveva composte sei per Nikolaus Esterházy, a celebrare l'onomastico della
moglie. Ovvio che quando a Beethoven venne conferito lo stesso incarico,
sentisse il peso della responsabilità, come gli era capitato forse solo per la
“prima” della Sinfonia n. 1 op. 21 e durante la composizione dei sei
Quartetti op. 18: insomma, ogni volta che si doveva scontrare con la
Vecchia Parrucca. Haydn era il compositore degli Illuminati di Vienna,
colui al quale il suo erede ideale, Ludwig da Bonn, era stato da Waldstein
stesso, loro eminenza grigia, affidato. Non era tanto una questione di
qualità musicale, quando entrava in collisione con Haydn, Beethoven
doveva sembrarne degno. E invece, la prima esecuzione della Messa in Do
maggiore op. 86 fu un tale disastro che Hummel, come si è detto, di fronte
al paternalistico rabbuffo del principe, se ne uscì in una risata imbarazzata
che lo rese persona non grata allo sbuffante rabbia repressa compositore.
Con l'Oratorio, con la Messa, Beethoven, il panteista aconfessionale, non
ingranava. La vendetta, clamorosa, sarà la Missa Solemnis.
Nel frattempo la scena concertistica viennese non gli era più così propizia
come agli esordi; un po' perché i viennesi, allora come adesso, delle novità
si stufano, un po' perché i tempi erano cambiati. Ora la Massoneria veniva
vista con sospetto. Le si dava la colpa di avere contribuito ad elevare
Napoleone molto oltre la sua soglia naturale del metro e sessanta. Salieri,
l'ex-maestro caro di Beethoven, da opportunista uso a passare indenne
attraverso gli scogli della Storia, il 22 dicembre 1808, ne prese atto. “Il
Concerto delle Vedove (e con esso il signor Salieri) per odio verso di me,
mi ha giocato il perfido tiro di minacciare di espulsione ogni musicista di
quella società che avesse suonato per me”, scrive Beethoven, il 7 gennaio
1809, a Härtel, commentando l'appena avvenuta débâcle. Dietro
l'onomastica “Concerto delle vedove e degli orfani”, a fini assistenziali, si
celava, lo abbiamo visto, la più importante associazione orchestrale di
Vienna, da Salieri, per l'appunto, diretta. Suonare per Beethoven sarebbe
equivalso, di quei tempi, ad un suicidio artistico. Il programma per
complessive circa quattro ore che l'esule di Bonn mette insieme per la sua
“accademia”, in una gelida serata di fine anno, comprende, nella prima
parte, “una sinfonia intitolata: Ricordi della vita campestre (in Fa); Aria;
Inno con testo latino scritto in stile ecclesiastico per cori e soli; Concerto
per piano suonato dall'autore”. Nella seconda parte “Grande sinfonia in do
minore; Sanctus in stile ecclesiastico per cori e solisti; Fantasia per piano
solo; Fantasia per piano che si conclude col progressivo ingresso di tutta
l'orchestra e col coro nel finale”. Così, la locandina. Inizio, sei e mezzo. Se
c'è un concerto monstre negli annali della musica, è questo: Quinta e Sesta
Sinfonia; due parti della Messa in Do maggiore; Ah perfido!, Scena e Aria
per soprano e orchestra op. 65 (per Salieri?); un'improvvisazione di
Beethoven, poi presumibilmente confluita nella Fantasia op. 77; il
Concerto n. 4 in Sol maggiore op. 58 per pianoforte e, a concludere il
tutto, la Fantasia corale in do minore op. 80 per pianoforte, coro e
orchestra: la prova generale della Nona Sinfonia. La parte iniziale, per
pianoforte solo, della Fantasia, non era scritta, e Beethoven, si legge
ovunque, la improvvisò. Noi, invece, ormai sappiamo come il compositore
sostenesse di poter ripetere le sue improvvisazioni per filo e per segno
anche dopo anni. Non dice a Louis Schlösser: “Mi porto in giro i pensieri a
lungo, spesso molto a lungo, prima di metterli per iscritto, e la mia
memoria li ricorda con tale precisione che sono sicuro di non dimenticare
un tema, una volta pensato, neppure a distanza di anni”? Improvvisare, per
lui, era un modo onde sperimentare connessioni tra questi materiali, prima
che finissero nelle Forme musicali più adatte a contenerli.
Il Theater an der Wien è al gelo. Le guerre napoleoniche hanno imposto il
razionamento di molti beni di prima necessità. La congiura di Salieri ha
funzionato, l'orchestra è fatta in gran parte di rincalzi. Il soprano titolato ha
dato forfait, e ad esibirsi nell'Aria pirotecnica è una debuttante che non
trema solo per il freddo. Dirige Beethoven, talora sentendo bene gli archi,
meno i fiati, talaltra immaginando i suoni dal movimento degli archetti e le
prese di respiro di legni e ottoni. Il suo stile direttoriale assomiglia a quello
di Valerij Gergiev, se Gergiev fosse epilettico. Nei “pianissimo” si
rannicchia sul podio, per poi levarsi progressivamente, nei “crescendo”, e
balzare in alto nei “fortissimo” come un pupazzo a molla, nel mentre,
cantando fuori tono e tempo, distrae chi nell'orchestra non stia
sogghignando. Le dinamiche sono la vera novità della sua musica, e per
sottolinearle indulge spesso a sottili “rubato”. Le testimonianze di chi lo
ascoltò suonare concordano nel leggero “ritardando” che faceva alla fine di
ogni “crescendo”, una nuance drammatica che pretendere da un'intera
orchestra, soprattutto quella orchestra, era un andar per guai. Già nelle
prove i musicisti erano insorti contro i balzi del Maestro verso il “cielo
stellato” kantiano che, invece della musica, mandavano per aria loro.
Beethoven, poi, aveva il difetto dei non direttori che talvolta dirigono: si
incaponiva contro il singolo strumentista cialtrone, rendendo la sua
esecuzione un duello rusticano a colpi di stecche. Nella Sinfonia
“Pastorale” fu il turno del clarinettista, che si produsse in un paio di assoli
presaghi della musica aleatoria, e lo fece proprio in quei passaggi dove
Beethoven, nella “Allegra riunione di campagnoli”, si diverte a mimare i
legni ubriachi che vanno fuori tempo. Magari, il clarinettista, sbagliava per
troppo rigore filologico... Nel Quarto Concerto il compositore, dirigendo
dalla tastiera, con una manata precipitò a terra una candela sul piancito di
legno, ché ormai il teatro prendeva fuoco. Vennero messi due fanciulli, uno
a destra l'altro a sinistra, come gli angeli in una pala d'altare, ciascuno a
reggere una candela. Uno di quelli, curioso di scoprire che mai fossero
quei geroglifici sul pentagramma, si sporse troppo e Beethoven con un
ceffone lo rovesciò, lui e la candela, sulle tavole già bruciacchiate del
palcoscenico. Ma la cosa peggiore avvenne nella Fantasia corale op. 80,
che pochi ascoltarono perché, mummificati dal gelo, erano già finiti come
reperti nel museo anatomico di Stackelberg. Nell'episodio con le
Variazioni, prima del coro, Beethoven, che stava alla tastiera, si dimenticò
di avere omesso, in prova, un ritornello. L'orchestra tirò dritto con la sua
marcetta mentre il pianoforte sfarfalleggiava il precedente tema lirico. Ci
fu un richiamo imperioso: “Da capo!”, nel silenzio seguìto al quale il
Maestro capì che gli sarebbe stato difficile, nell'accademia successiva,
vedersi davanti perfino quei Musikanten da osteria.
Nel frattempo, a proposito di ceffoni, Napoleone considerava se l'Austria,
non bastandole quello che le aveva dato nel 1805, non volesse piuttosto
una legnata in testa. Avvicinandosi a Vienna, nel maggio del 1809, per
quell'assedio dove l'artiglieria conobbe il primo suo trionfo nella Storia, si
stava riprendendo da una ferita al tallone. A differenza di Achille, se l'era
cavata bene: la cultura classica cedeva di fronte al rombo delle nuove
bocche di cannone, e il mito di Achille, colpito al tallone, zoppicava dietro
quello del brevilineo neoimperatore che al grido “il fuoco, è tutto”
apprestava un fitto tiro di palle contro i venerandi bastioni della capitale
austriaca, che pure avevano resistito ai Turchi. All'ultimo piano di un
caseggiato sul più alto di quei bastioni, frattanto, un compositore non così
sordo da non sentire il rinculo vibrante dei colpi esplosi osservava le crepe
che si allargavano lentamente sul soffitto. Prese la scala già sconnessa,
appoggiandosi alle pareti arroventate, e in un attimo fu in strada. Suo
fratello Carl abitava nel dedalo di stradine verso il Graben, la parte più
interna della città. Quando lo vide arrivare, con i capelli bruciacchiati sulle
punte, temette fosse venuto per accusarlo di rubargli le partiture e poi
pubblicarle a proprio nome. Sembrava davvero un “drago”, così come Carl
con la “c”, tra gli intimi, lo chiamava. L'infiammazione al nervo acustico
rendeva a Ludwig ogni esplosione una fitta di dolore puro. Per giorni se ne
stette nella cantina del fratello, al buio, con la testa schiacciata sotto una
muraglia di cuscini, mentre l'Imperatore dei Francesi, che aveva
trasformato l'Imperatore del Sacro Romano Impero Francesco II nel
sovrano dell'Austria-Ungheria Francesco I, cancellando con un tratto di
penna mille anni di storia, issava per la seconda volta il pennone francese a
Schönbrunn, vendicando, così, Bernadotte, che aveva visto la bandiera
della sua nazione fatta a pezzi dalla marmaglia. Dopo la battaglia di
Wagram, avendo affermato il suo ruolo di “maschio alpha”, l'anno
successivo il Bonaparte spuntò con gli Absburgo quel matrimonio
d'interesse che non gli era riuscito con la Russia. Sposò Maria Luisa, e
allorché gli comunicarono che la madre della ragazza aveva generato
tredici figli, certe tra le sue antenate fino a diciassette, ed una, addirittura,
ventisei, “ecco l'utero di cui ho bisogno”, commentò tutto gioviale.
Beethoven, invece, nel frattempo, era esasperato e furente. Vienna era
deserta. Chi poteva scappare nei possedimenti di campagna, o presso
amici, aveva pensato bene di lasciare agli Absburgo la pena di scontare
quei loro bizantini traffici con russi e prussiani che avevano impedito, per
gelosie interne, la disfatta dei francesi. Beethoven si aggira per una Vienna
irrigidita nel sepolcro di se stessa: niente più concerti nell'Augarten, nei
teatri solo vaudeville, razionamento di cibo e legname. Tutti i suoi amici
sono esuli. “Che vita di distruzione e disordine vedo e odo attorno a me:
null'altro che tamburi, cannoni e miseria umana di ogni tipo”. Ne abbiamo
ricavato la Sonata in Mi bemolle maggiore op. 81a “Les adieux” – che
Beethoven voleva si intitolasse “Liebevoll”, perché “adieux” si dice “a
un'intera assemblea, a un'intera città”, e “Liebevoll” “non si dice di cuore
che a una sola persona” – una sonata dove secondo alcuni si rimpiange
l'esilio dell'Arciduca Rodolfo; secondo altri, sotto quel pretesto,
l'abbandono di una donna amata, e le cui prime tre note sono le prime tre
sillabe, in Tedesco, di quel saluto augurale.
La domanda sorge spontanea: e perché mai, allora, Beethoven, a Vienna, ci
è restato? Che voleva ottenere da Napoleone? O meglio: chi lo ha esortato
a rimanere, perché non si notasse troppo il suo coinvolgimento con certe
combriccole i cui componenti erano fuggiti a scanso di processi sommari
ed esecuzioni capitali da tenersi francesamente sulla pubblica piazza? I
dittatori non temono i nemici, ma i Maestri: coloro che li superano quanto
a cultura e seguito popolare, sostenendo come ideali quelle che per loro
sono soltanto ragioni di Stato. Così, gli Illuminati, i fautori di una
rivoluzione non violenta, condotta attraverso la cultura dei diritti umani e
la riforma costituzionale, fuggono, e Beethoven, che a loro deve tutto,
resta. Napoleone mostra di conoscere gli Illuminati, e di temerli. Quando il
diciottenne Friedrich Staps, figlio, non a caso, di un pastore protestante,
attenta alla sua vita, Napoleone cerca in tutti i modi di convincerlo a
dichiararsi pentito. Vuole apparire un monarca all'altezza di quei
personaggi di Plutarco che gli Illuminati vagheggiano a capo dell'Europa.
Ai dinieghi di lui “chi vi ha mandato? Chi vi ha spinto al delitto?”, incalza
il gallico Imperatore; e poi “voi dovete essere un pazzo, giovanotto, o un
Illuminato”. Come tutti gli artisti, Beethoven sfrutta l'ambiguità della
situazione politica per trarre vantaggi da entrambe le parti. Non vuole
cadere in disgrazia alla corte di Napoleone, cui deve, indirettamente, un
capolavoro di mecenatismo diplomatico come il contratto che impegna
Lobkowitz, Kinsky e l'Arciduca Rodolfo a versargli una pensione annua
alla sola condizione che non si allontani da Vienna.
Il contratto risale a poche settimane prima, 1 marzo 1809. L'aveva redatto
Gleichenstein, lo juris peritus della cancelleria beethoveniana, ma la
macchinazione era stata ordita dalla dedizione fanatica della contessa
Erdödy. La sua premessa è un raro inno di sottomissione del potere
materiale alle ragioni supreme dell'arte. “Atteso che è stato dimostrato che
solamente chi sia il più possibile libero da preoccupazioni si può dedicare
ad un'unica attività e creare grandi opere che siano esaltate e che nobilitino
l'arte, i sottoscritti hanno deciso di porre Herr Ludwig van Beethoven in
una posizione nella quale le necessità della vita non gli siano
d'impedimento né soffochino il suo possente genio”. Dopo l'Encyclopédie,
è il testo più alto prodotto dalla nuova civiltà degli Illuminati, l'età dove i
meriti si affermano sui privilegi di nascita, e consacra Beethoven come
esponente artistico del movimento che Napoleone, entrando a Vienna nel
1809, rende clandestino. Il Nostro ha la coscienza tranquilla. Che
vogliono, da lui, gli Illuminati? Nel contratto non c'è scritto che non deve
mai lasciare la città? La stessa capacità manipolatoria della quale è
maestro nelle relazioni sentimentali, Beethoven la amministra nella
gestione della propria carriera. Conosce il punto debole degli aristocratici
austrotedeschi: giocare con i princìpi rivoluzionari dimostrandone il valore
ideale a tal punto sovvertito dal volgare opportunismo del despota
Napoleone. Per questo Beethoven, col suo Prometeo gemello, l'originario
modello dell'“Eroica”, non rompe mai i rapporti. Conosce il punto debole
del Còrso: il nepotismo; i suoi fratelli per lo più bolsi e corrotti,
disseminati per ogni dove a far da reggenti nelle nuove conquiste. Tra loro,
c'è anche quel vagheggino di Jérôme. Napoleone, con i fratelli, si dimostra
in tutto il Sosia segreto di Beethoven. Jérôme, per sottrarglisi, si imbarca
come marinaio, va in America e sposa una borghese; allora l'Imperatore
dei francesi, offeso nella dignità di neoaristocratico, si comporta come
Beethoven alle prese col matrimonio “indegno” dei fratelli. “Non può
essere mia cognata, crollasse il cielo”. Sequestra la nave con la coppia e
rispedisce a casa la sposa novella. Jérôme viene traslato a Parigi, e per
consolarlo gli si regala un giocattolone, il Regno di Vestfalia, con capitale
Kassel. Siamo nel 1807. L'anno successivo, il monarca bamboccione, che
si annoia, manda il suo segretario a Vienna per convocare a corte
Beethoven. Vuole fare il Kapellmeister? Alto stipendio, pochi oneri,
massima libertà. Il compositore tiene in sospeso quel soldatino di stagno
travestito da Bonaparte; in compenso, fa sì che la notizia abbia il massimo
risalto. Si vocifera che a proporgli l'incarico sia stato il dimissionario
Kapellmeister Johann Friedrich Reichardt, e lui si indigna: nessun
compositore è degno di mercanteggiare con lui, solo i sovrani... Il battage
pubblicitario ha il suo effetto. Cominciano le consultazioni tra la Erdödy,
Gleichenstein e i tre mecenati. Decisamente, il primo falso mito da sfatare,
quando si parla di Beethoven, è la sua mancanza di senso pratico. Il
significato della conclusiva sine cura da quattromila fiorini annui eccede il
suo valore fattuale. Beethoven rappresentava la testimonianza spirituale
più alta di una cultura che Napoleone aveva appena finito di adulterare e
svilire. I tre aristocratici deposero nelle opere future del genio creatore
tutta l'eredità di un ideale al tramonto, e Beethoven, ordendo l'intrigo,
dimostrò di saper sfruttare da consumato uomo d'affari la missione
originaria che Waldstein, in quel lontano 1792, a Bonn, affidandolo ad
Haydn, gli aveva messo nelle mani.
Il “cuculo” Beethoven, lo abbiamo visto parlando di Giulietta Guicciardi,
si estendeva a nidificare fin nei rami genealogici più lontani delle famiglie
prescelte. Bettina Brentano, la sorellastra di Franz, marito di Antonie, era,
dunque, una candidata ideale al ruolo di sostituta Amata Immortale e
facente funzione di musa sublimante eros. In questo caso, però, i rapporti
di molestia si invertono. Fu Bettina a scovare Ludwig, in casa Pasqualati,
imponendogli una presenza di confidente spirituale che omerici “lutti
infiniti addusse” ai futuri biografi dell'Immortale. Moglie di Achim von
Arnim e sorella di Clemens Brentano – autori, costoro, di quel Corno
magico del fanciullo senza il quale Mahler non sarebbe mai esistito –
Bettina profittò dell'antica amicizia tra i Brentano e Goethe per titillare gli
umori del satiro poeta, posando per lui a seno nudo come modello della
cupola angelica dove culmina il Faust, che senza di lei sarebbe venuta
meno a mammella; finché la moglie dell'Olimpico, Christiane, non la mise
alla porta. Fu una mitomane allo stato puro, da manuale diagnostico, e
infarcì i documenti beethoveniani di falsi circolanti per decenni tra i
romanzi d'appendice spacciati per cronache della sua vita. Nel famigerato
Carteggio di Goethe con una bimba, il cui titolo ci obbliga a dissipare un
sospetto di pedofilia sul poeta, descrive incontri con Beethoven che, li
avesse letti il giovane Werther, si sarebbe suicidato prima. Si inventò anche
due lettere di Beethoven a lei indirizzate, e le pubblicò nel 1839
sull'Athenaeum für Wissenschaft, Kunst und Leben, una via di mezzo tra
uno scrigno di perle letterarie e una rivista da parrucchiere. Molta di questa
roba circola ampiamente sul web. Per esempio: “Quando apro gli occhi
sono costretto a sospirare, poiché ciò che vedo è contro la mia religione e
sono costretto a disprezzare il mondo, che non sente che la musica è una
rivelazione più alta di ogni sapienza e filosofia. Essa è il vino che esalta a
nuove creazioni, ed io sono il Bacco che pigia questo magnifico vino per
gli uomini e li rende ebbri nello spirito”, dice Beethoven. E pigia che ti
pigia, Bettina da Beethoven ha spremuto tutto ciò che poteva servirle per
la carriera letteraria; o almeno così di lei argomenta Milan Kundera in
L'immortalità, romanzo dal quale si evince come la differenza tra il genio
di professione e il dilettante di genio stia nel fatto che il secondo fa il genio
solo per cuccare le ninfette; il primo, per appiopparle, poi, a loro
(illuminante, in questo senso, il rapporto tra Goethe e von Arnim, che alla
fine sposò Bettina). Beethoven con il tralcio di vite in testa che fa il mosto
delle biscrome per poi versarne il succo sulla melomane umanità, è cosa
che poteva venire in mente solo a Bettina. Al contrario, lui, una volta, ha
sostenuto che il dominio della poesia è assai più ampio di quello della
musica. Che poi “ampio” significasse indefinito, vago, e dunque
l'affermazione non fosse un complimento: questo, per Bettina, sarebbe
stato troppo sottile.
Di vero, c'è il suo ruolo nel creare un contatto tra Beethoven e Goethe. “Mi
conceda solo un momento per ringraziarLa del piacere che da tanti anni mi
dà la Sua conoscenza (perché io La conosco fin dalla mia infanzia): è poco
per tutto ciò che mi viene da Lei. Bettina Brentano mi ha assicurato che
Lei mi riceverebbe cordialmente, anzi con amicizia. Ma come posso
pensare a tale accoglienza, se ora sento di avvicinarmi a Lei soltanto con la
massima devozione e con un inesprimibile e profondo senso di
ammirazione per le Sue magnifiche creazioni?”. Parole simili, Beethoven
le riservò soltanto a Cherubini. Nella stessa lettera il Nostro accenna anche
alle musiche di scena per Egmont, che ha da poco composto. Pensa che il
poeta sia ancora in fase schilleriana; invece Goethe, da quando Schiller è
morto, lo si avverte quasi liberato da un peso. Si sente così tranquillo, nella
sua ortodossia, che quando Napoleone conquista Weimar, e il duca è
scappato, lui se ne resta a casa sua. Tanto, a far paura agli ufficiali francesi,
ci pensa quella generalessa di Christiane, che lo protegge col suo corpo
come Leonore farà con Florestan... È per questo che, subito dopo, se la
sposa, la verduraia. Goethe, insomma, è diventato il Canova della poesia, e
come lo scultore si diletta a ritrarre Paolina Bonaparte, a lui, Napoleone,
sigillo dell'ordine nei Tempi Nuovi, non dispiace affatto. Beethoven,
pensa, è rimasto indietro. Tutto quel suo agitarsi, gli pare sinistro. Anni
dopo, Mendelssohn gli suona la Quinta Sinfonia, e a lui sembra che la casa
gli debba cascare addosso. Chissà che roba, quando la suona un'orchestra
intera... Quella, non è più musica. Anche i Lieder su testi suoi, non gli
fanno piacere. Schubert gli spedisce Erlkönig e Gretchen am Spinnrade, e
lui non apre nemmeno lo scartafaccio. La pensa come Claudio
Monteverdi: che l'Orazione debba essere regina dell'Armonia. La musica,
se troppo sviluppata, non fa capire le parole. Inoltre gli sta vicino, come
consulente musicale, Zelter, che pensa il compositore ideale di Lieder sia
Papageno. Goethe non era solo un genio, era anche intelligente. Capisce
che contro quella collezionista di arrazzamenti tra superdotati intellettuali
di Bettina non c'è niente da fare; perfino Christiane, davanti alla frangetta
della fanciulla, se la cava peggio che con i moschetti dei francesi.
L'incontro tra il Nume del suono e quello della parola avviene nella città
termale di Teplitz, nel luglio del 1812. Goethe poi annotò che Beethoven
aveva improvvisato magnificamente per lui. Scelta accurata di parole,
degna di un poeta. L'abilità di un improvvisatore era ben'altra cosa rispetto
al valore di un compositore. Tutti la riconoscevano, a Beethoven, anche
quelli che non amavano la sua musica stampata. Teplitz, in quel periodo,
era piena di regnanti e diplomatici. Si stava organizzando la sesta Grande
Coalizione contro Napoleone, e Francesco (ora) I, lo Zar e Federico III di
Prussia avevano pensato di approfittare delle acque termali per depurare,
nel mentre si alleavano, i sovrani fegati dalla bile còrsa. Una simile
scenografia, per Bettina, era una bazza; ed eccola impastoiare la storia di
Francesco I che passa, e Beethoven che tira dritto col cappello calcato in
testa, mentre Goethe si fa da parte e si scopre devotamente la canizie. Ne
vien fuori un altro tormentone beethoveniano, Canone inverso
dell'Immortale Testamento: l'Immorale Non Attestato Testa-a-Testa tra
poeta olimpico e compositore dionisiaco. Goethe, poi, disse di Beethoven
“non ho mai incontrato artista più concentrato, più energico, più
profondo”, lamentando però la sua attitudine a trovare il mondo
detestabile; cosa giusta, ma tale da non renderlo, il mondo, così, “più
piacevole né a sé né agli altri”. Disse anche “il suo talento mi ha riempito
di stupore”, e qui bisogna stare attenti, perché Goethe è manipolatore
anche più subdolo di Beethoven, e lo stupore ci può stare anche di fronte a
una donna barbuta o un cavallo che risolve le addizioni. Lo stupore, non è
ammirazione. Ma Beethoven, conclude il poeta, bisogna “compiangerlo,
perché l'udito lo abbandona, il che forse reca meno danno alla parte
musicale dell'indole sua che non a quella sociale”. Goethe ha intuito come
la sordità, per quel compositore, fosse non già un limite, ma un passaggio
di stato, e fu forse il primo a capirlo. Beethoven, che una volta si era detto
disposto a morire dieci volte per Goethe, dell'incontro, diede un giudizio
più apodittico: “A Goethe garba troppo l'aria di corte; garba più di quanto a
un poeta non si convenga”. Ruffiano baciapile con l'acconciatura del
parrucchino orientata a destra, Goethe non era, a suo parere, ciò che i poeti
devono essere: un modello, una voce della coscienza collettiva, per la
nazione che rappresentano. Se due geni si incontrano, e si apprezzano a
vicenda, vuol dire o che uno dei due sta per morire, oppure che hanno
entrambi lo stesso editore, e quello è presente all'incontro. Il duello dei
maghi finirebbe alla pari, non ci fosse quella trista appendice di Goethe
che riceve una lettera di Beethoven nella quale gli si chiede di perorare a
Weimar l'acquisto per sottoscrizione della Missa Solemnis, e lui non si
degna neppure di rispondere. Ma, ad essere maliziosi, si può sempre
rivoltare di segno la cosa, e sostenere che il tono di Beethoven, in quel
caso, era falso, untuoso e ipocrita. L'avrà presa, l'Olimpico, per una
parodia?
INTERMEZZO. DRAMMA SATIRESCO. LA VIENNA DEL
CONGRESSO

“Tanto è fermo il mio tempo; più di quel che vorrei”.


(Eschilo, Prometeo incatenato)
Beethoven divenne risolutamente, ma momentaneamente, antinapoleonico
solo dopo la seconda invasione francese di Vienna. La Settima Sinfonia,
che è per certi versi la più atemporale delle sue, è però quella che segna il
termine, per il compositore, di qualsiasi illusione in una redenzione terrena
dell'umanità. Beethoven la iniziò proprio a Teplitz, nel periodo
dell'incontro con Goethe, e ne fece un rito antico, un “mistero” pagano, per
certi versi paragonabile a ciò che fu, a ridosso di un altro conflitto europeo,
il Sacre du printemps stravinskiano. La Settima è l'esito dell'“Eroica”: qui
Prometeo non è più l'iniziatore al cielo immateriale del mito, ma il
coribante che guida il corteo di Satiri, indifferente al cieco divenire umano.
Quando Beethoven sostiene che chi intende la sua musica si libera dal
dolore terreno, pensa a una liberazione da Chronos: il tempo, il dio che
divora i propri figli. La circolarità della Settima è un cerchio magico. Il
prezzo per entrarci è la rinuncia al mondo degli uomini, all'identità
individuale, che viene travolta nell'orgia bacchica. Questo, l'aspetto
tremendo di una partitura la cui musica è pura gioia. L'Ottava Sinfonia, al
solito concepita come secondo pannello di un dittico, ne è il contrappeso.
Qui il congedo è alla illuministica “civiltà delle buone maniere”: dei
pendoli, delle pulegge, i bracci meccanici, i regoli calcolatori e tutto ciò
che illudeva gli uomini di poter squadrare l'universo e misurarlo secondo
gli intendimenti della propria ragione. Beethoven la completò, piuttosto
velocemente, durante quel soggiorno a Linz, in casa del fratello Johann, da
noi già descritto, dove tentò di ottenere da lui, con opposto esito, ciò che
Napoleone aveva ottenuto dal fratello Jérôme. L'angoscia e la rabbia gli
ispirarono, come sempre gli capitò, una delle sue opere più serene e
giocose, a scorno di chi individua un nesso consequenziale tra le miserie
della vita e il laboratorio delle cose immortali (la riprova è un'annotazione
in testa al manoscritto della luminosa Sonata per violoncello e pianoforte
in La maggiore op. 69: “Inter lacrimas ed luctum”). Beethoven, quando
l'Ottava ebbe meno successo della Settima, “perché è migliore”, commentò
a monito di chi ne ha fatto quella sinfonia che finisce in fondo al cofanetto
con la racconta completa delle sinfonie beethoveniane: ovvero, quasi tutti
noi. Sinfonia per musicisti, l'Ottava, fatta di Forme che ragionano su altre
Forme; stili che sono da leggersi “al quadrato”, come certe rivisitazioni
bachiane di, ancora una volta, Stravinskij. L'Ottava è anche un po'
l'omaggio commosso, un po' lo sberleffo definitivo ad Haydn e gli
Illuminati della Vienna d'antan, a questo punto, col Congresso imminente,
morta e sotterrata.
La smania faustiana che aveva spinto Napoleone ad una guerriglia
logorante in Spagna, è anche quella che lo conduce al passo fatale:
l'invasione della Russia, al ritorno dalla quale della sua Grande Armée non
restano che i torsoli. Napoleone, dunque, non è invincibile. Anche lui
subisce i colpi del caso. Prometeo ammaestra gli uomini, ma poi li
abbandona al loro destino. A Lipsia, la coalizione rincara le devastazioni
dell'inverno russo con una dura sconfitta che obbliga il Còrso ad una
precipitosa ritirata. Lo danno per annientato; e invece, ad Hanau, riesce a
superare il blocco delle forze austrobavaresi e a ritornare a Parigi. Nella
battaglia muoiono novemila soldati, e il massacro ha lo scalpore della
disillusione. A Vienna, nell'Aula Magna dell'Università, si organizza un
concerto per i feriti nello scontro. È l'8 dicembre 1813. Beethoven vi
presenta la Sinfonia n. 7 in La maggiore op. 92, insieme alla Sinfonia “La
vittoria di Wellington alla battaglia di Vittoria” op. 91. Il concerto venne
replicato il 12. La cosiddetta “sinfonia” wellingtoniana è un brano diviso
in due parti: la descrizione della battaglia e la celebrazione della vittoria.
Wellington, insieme ai suoi alleati spagnoli e portoghesi, il 21 giugno 1813
aveva inflitto ai francesi la sconfitta decisiva nella guerra per
l'indipendenza spagnola. Evento recente, dunque, quello celebrato da
Beethoven. Il successo clamoroso dell'opera portò alla sua ripetizione in
due serate tenutesi, a beneficio del suo autore, nella Redoutensaal il 2
gennaio e il 27 febbraio 1814. Nel catalogo Hess, dedicato ai lavori
beethoveniani non compresi nella edizione ottocentesca delle Opere
Complete, al numero 97, appare un arrangiamento del brano “per
pianoforte e due cannoni” (sic) di mano dello stesso compositore.
Beethoven, qui, si inseriva in una tradizione rivoluzionaria di musica
descrittiva che aveva già dato la Marche lugubre di François-Joseph
Gossec, composta per celebrare i caduti durante una scaramuccia
antirivoluzionaria a Nancy; alcune cose di Étienne-Nicolas Méhul
concepite per i grandi spazi all'aria aperta dove le fêtes repubblicane
univano la nuova umanità nel culto di se stessa e, soprattutto, gli Inni
funebri di Cherubini, in primis quello per celebrare il generale Lazare
Hoch, “Du haut de la voute éternélle”. Dopo Beethoven, e anche per
effetto suo, avremo, per esempio, il Concerto per pianoforte in Do
maggiore n. 5 di John Field “L'incendie par l'orage”, ispirato al colossale
rogo di Mosca appiccato dai russi stessi durante l'invasione napoleonica,
e, di Steibelt, il “signore dei tremoli”, il Concerto in sol minore n. 6 “Le
voyage au Mont St. Bernard”. Con un po' di malizia si può dar colpa a
questo Beethoven anche dei campanacci di vacche al pascolo che
percorrono certo Mahler, o il Richard Strauss della Sinfonia delle alpi,
nonché il sadico pigolio strozzato del clarinetto col quale quest'ultimo
suggerisce lo strangolamento di Till Eulenspiegel, nell'omonimo Poema
Sinfonico.
La mostruosità di questo La vittoria di Wellington op. 91 eccede qualsiasi
descrizione; eppure, tutto ciò che di volgare – dalle raganelle crepitanti
agli scoppi dei moschetti, fino ai rulli di tamburi e gli Inni nazionali della
finale celebrazione – qui trionfa, non è altro che la versione straniata, il
“rivolto” psichico, così come esiste quello accordale, di quei luoghi
comuni, come il passo di marcia per terzine degli archi, che elevano la
“Marcia funebre” della “Eroica” alla sua condizione immortale.
Tocchiamo, qui, il mistero più inquietante del genio beethoveniano: il suo
distillare in quintessenza del sublime la feccia più materica dell'animo
umano, ciò che nelle azioni degli individui è rumore di corpi vibranti di
odio o istinto carnale, paura e spasimo di dolore. I biografi del Maestro
quando parlano dei concerti live aid per i feriti di Hanau ammucchiano i
punti esclamativi del trionfo senza distinguere a chi fossero tributati.
Sospetto che Johann Nepomuk Mälzel vi fosse celebrato quanto e più di
Beethoven; o meglio, che il Nostro venisse considerato una sorta di
allievo, in Estetica, di quel mechanicus da cartoon, Willy il Coyote della
musica, che in quei concerti esibiva il proprio trash musicale, il
Panarmonicon, strumento di congegni sincronici capace di imitare
qualsiasi strumento, in due marce di Jan Ladislav Dussek e di Pleyel.
Finalmente l'irsuto sordo aveva messo la testa a posto; forse la sordità gli
faceva bene...
Va di moda, al giorno d'oggi, per snobismo intellettuale, rivalutare questa
roba su Wellington che, se Wellington l'avesse ascoltata, avrebbe lasciato
vincere Giuseppe Bonaparte. È pur vero che vi si inaugura una moda,
quella del landscape musicale, il “paesaggio” sonoro, così abusata nel
Romanticismo che il grande pianista e musicologo Charles Rosen scrisse
un libro, Romantics poets, critics, and other madmen, dedicato a questo
tema al di fuori della musica. In questo senso l'op. 91 è il rivolto
demoniaco di un'altra sinfonia, dopo l'“Eroica”: la Sinfonia Pastorale, che
Beethoven volle di suo pugno definire “più espressione del sentimento che
pittura”. Simili ipotesi poggiano su una base sicura: la fiera avversione che
Beethoven sempre dichiarò per le parti descrittive, onomatopeiche,
disseminate da Haydn qualche volta nelle sinfonie, e spesso, pare per
compiacere il naturalismo illuministico di Swieten, negli Oratori La
creazione e, soprattutto, Le stagioni. Con uno snobismo così estremo da
tramutarsi nello snobismo di taluni suoi attuali rivalutatori – la cui
ridicolaggine, dunque, viene degradata alla radice quadrata di meno due –
l'op. 91 è una consapevole parodia dei princìpi estetici di Beethoven messa
in scena dal compositore stesso. Lo scopo? una satanica soddisfazione di
spirito superiore nel veder confermate certe sue teorie sui bassi appetiti
della plebe, specie se altolocata e danarosa. Una disillusione etica – e
quindi, estetica – sui fatti ricchi dai Tempi nuovi. Un'indagine premarxista
sulla reificazione delle coscienze. Qualcosa di simile a ciò che Georges
Bizet disse mentre componeva i couplet di Escamillo, nella Carmen,
“voulez vous de la merde? La voilà...”.
Gli snobbologi critici, a questo punto, obiettano sfoderando i trentuno (31)
celebri musicisti che, alternandosi chi alla grancassa, chi alla batteria dei
cannoni, chi a triangolo e piatti, onorarono la cucina da campo
beethoveniana come chef stellati che preparano panini al salame. Volete la
“formazione”? la voilà: Schuppanzig primo violino, il grande
contrabbassista Domenico Dragonetti – che aveva suonato l'op. 5 di
Beethoven sul suo strumento, obbligando da allora i “bassi” delle orchestre
beethoveniane a sacramentare il suo nome – e poi il bonniense Bernhard
Romberg, (per altro odiatore, lo sappiamo, dei Quartetti op. 59), un po' di
pianisti alla moda: Hummel, Ignaz Moscheles, Johann Peter Pixis Pixis; i
Kraft, Antonín e Nikolaus, padre e figlio, Spiriti Santi del violoncello;
Salieri a coordinare le cannonate, Giacomo Meyerbeer tra grancassa e
cimbali... Beethoven prese atto della solerte scampagnata, e scrisse una
nota per la Wiener Zeitung: “Fu una rara adunanza di eccellenti musicisti,
ciascuno dei quali, ispirato dal pensiero di poter recare il contributo della
sua arte a beneficio della Patria, collaborò, senza considerazioni di rango,
anche in posizioni subordinate, alla migliore riuscita dell'insieme”. Scrisse
questa cosa, e poi non la inviò al giornale. Se la tenne con sé, quasi a
memento di quanto fosse stato bestia a scriverla, finché Schindler, dopo la
sua morte, non ci mise le mani sopra. Con queste parole Beethoven
ammette anche a se stesso che tutto quel parterre de roi di musicisti era
effetto dell'occasione patriottica, non merito suo. Se ne accorse solo alla
fine, ci rimase male, e occultò gli indizi. Tuttavia, per quel suo carattere di
dimostrazione a contrariis delle tesi estetiche fondamentali, l'op. 91 ha un
paradossale valore critico, come dimostra l'interpretazione caricaturale, da
camminata di Charlot mentre si allontana alla fine della comica, che ne dà
un direttore, di suo, alquanto demoniaco come Hermann Scherchen
(abbiamo anche la registrazione delle prove).
La vittoria di Wellington è importante anche per un altro motivo, l'utilizzo
che Beethoven vi fa di motivi popolari: da Rule Britannia a Malbrough
s'en va-t-e guerre, a denotare, rispettivamente, inglesi e francesi, e poi gli
Inni nazionali della seconda parte, con quel God save the King – già
oggetto, nel 1803 di una serie di Variazioni beethoveniane (“voglio far
vedere agli Inglesi quale benedizione è contenuta nel loro Inno”) W.o.O.
78 – a coronare il tutto, onde farci sapere quanto il compositore intendesse,
da quel momento in poi, involarsi a Londra, e lasciare Vienna alle sue spie.
I Motiven beethoveniani spesso inglobano in sé temi popolari. Nelle
sinfonie ne troviamo tracce evidenti non solo, come si è visto, nella
“Pastorale”, ma nel “Larghetto” della Seconda, lo “Scherzo” della Settima
(nel “Trio”), in parecchi momenti della Quinta, tra secondo e terzo
movimento; infine, nell'“Inno alla gioia”, anche se quest'ultimo viene
considerato da musicologi di me ben più, se non autorevoli, autoritari, un
plagio vuoi del Misericordia Domini K. 222 di Mozart (?) vuoi di
Coelestis urbs Jerusalem di Andrea Lucchesi (!). Nei Quartetti
“Rasumovskij” abbiamo, in omaggio al committente, nel Finale del n. 1 e
nello “Scherzo”, il “Trio”, del n. 2, due temi russi (quello del “Trio” venne
utilizzato anche da Modest Musorgskij nel Boris Godunov, “Scena
dell'Incoronazione”). Fatto sta che il rapporto tra Beethoven e la musica
popolare non è stato ancora indagato a fondo; eppure, proprio in questi
anni la sua principale attività compositiva è legata alla figura di un editore
scozzese, George Thomson, che per dodici ducati a numero gli
commissionò l'arrangiamento di canzoni irlandesi, scozzesi e gallesi da lui
raccolte grazie ai contributi di, tra gli altri, Scott e Robert Burns. Il lavoro
si estese poi anche a brani tirolesi, veneziani, siciliani, ucraini, russi,
spagnoli. L'organico è il Trio con pianoforte. Prima di Beethoven,
Thomson si era rivolto ad Haydn e Pleyel, che erano, rimarcò, meno cari e
più veloci di lui. Nulla di più sbagliato che sostenere, in sintonia con i
contemporanei del compositore, questa attività segnasse un collasso dei
suoi poteri creativi, un cedere ad imperativi economici. Prova ne sia il fatto
che Beethoven, delle canzoni, non aveva i testi. Dunque gli interessavano
come musica “pura”, indagine su nuovi linguaggi musicali. Lo stile
dell'ultimo Beethoven, maturato in anni di riflessione e parziale silenzio,
matura attraverso un innesto della “modalità” nel linguaggio armonico
classico arricchito dalla ripresa del Contrappunto antico. In questa sua
concentrazione progressiva dei mezzi stilistici, il Maestro agì in due
opposte direzioni: verso Franchino Gaffurio, Glareanus, Palestrina, e verso
la musica popolare; due diverse concezioni della “modalità” che in lui,
come vedremo, sono unificate dalla coincidenza, nelle sue ultime partiture,
della dimensione orizzontale, l'Armonia, e di quella verticale, il
Contrappunto.
Il 4 aprile 1814 Napoleone, in seguito al Trattato di Fontainebleau, abdica;
o meglio, viene fatto abdicare da Charles-Maurice de Talleyrand, da lui
detto “una merda in calza di seta”, che si era messo a capo di un fedifrago
governo provvisorio. Forte del suo voltafaccia, il più scaltro e infido tra
quanti diplomatici l'inferno abbia mandato in terra (pure il suo piede storto
ha i connotati di Belzebù) può andare al Congresso che i monarchi
acciaccati dal Còrso hanno, sotto la regia di Klemens von Metternich,
organizzato a Vienna, in una posizione, se non alla pari, quasi. A Vienna, in
quegli ultimi mesi del 1814, confluiscono circa centomila persone, solo
una piccola parte delle quali ha incarichi politici. La più parte sono spie,
avventurieri, bari, ricattatori, prostitute e loro protettori. Francesco –
ricordate? ora, dopo l'abdicazione da Imperatore del Sacro Romano
Impero, non più II (secondo), ma I (primo) – stordisce tutti in una
sequenza di feste, balli, intrighi amorosi e depistaggi politici all'insegna del
triplo gioco che James Bond ci sarebbe impazzito. Il popolo viennese
osserva, commenta e spesso ride. I parrucchieri, affascinati dalla chioma
dello Zar Alessandro I, mettono la sua silhouette come insegna delle
botteghe. Ogni monarca ha il suo nomignolo. In traduzione, lo Zar è
“Quello che ama per tutti”; il Re di Prussia “Quello che pensa per tutti”; il
Re di Danimarca “Quello che parla per tutti”; il Re di Baviera “Quello che
beve per tutti” e Francesco, il padrone di casa, “Quello che paga per tutti”.
C'è anche una Granduchessa di Oldenburg complementare allo Zar,
“Quella che ama tutti”. Metternich, alla vigilia del Congresso, ha aperto
una scuola alberghiera. Una quantità straordinaria di giovani svegli, di
famiglia fidata, ha studiato da cameriere per potersi insediare negli alloggi
di monarchi e diplomatici a spulciare carte, copiare lettere e spedire copie
di rapporti segreti. Altri fanno i netturbini, e passano la notte a
scandagliare l'immondizia in cerca di chissà quali tracce di maneggi.
Vienna, in quei mesi, è pulitissima; non c'è una carta straccia, in giro. Una
cura particolare viene profusa nell'assunzione di meretrici, cortigiane e
pure e semplici puttane; fatto salvo che anche alcune nobildonne non
disdegnano, certo per spirito di Patria, di imitarne i costumi. Non c'è cosa,
dunque, che Metternich non sappia, anche se gli inglesi, che della
dissimulazione sono tutt'ora grandi maestri, lo mettono alla prova. Lord
Castleregh – che ebbe l'onore di venire definito da Byron, con una satira
che anticipa quella di certi politici odierni, “eunuco intellettuale” –
“l'impopolarità si addice a un gentiluomo”, afferma, e manda alle feste
quell'oca di sua moglie, che girando con in testa l'Ordine della Giarrettiera
a mo' di turbante viene evitata da tutti, e mi sa che tanto oca non era. In
simili condizioni non stupisce ciò che il principe de Ligne riferiva a quanti
gli chiedessero come procedevano i lavori: “Si le Congrés danse, il ne
marche pas”. Grazie ai rapporti (allora) segreti, sappiamo che, tra gli altri,
anche il sovraintendente dei teatri di corte, il conte Ferdinand Pállfy, fa
parte della polizia segreta. È in buona compagnia, segnatamente, della
contessa Esterházy Rosin, il principe Wenzel Anton von Kaunitz e
Friedrich Fürnstenberg, anche se pare che questi ultimi fossero così infidi
da venir rifiutati perfino come spie. Ciò che tutti vogliono sapere è una
cosa sola: chi è, o è stato, massone; dove si nascondono, nell'Europa
liberata da Napoleone, i germi di una nuova, devastante come sempre,
Massoneria. Se ogni cena costa, a Francesco I, cinquantamila fiorini, e il
Congresso danza, invece di “marciare”, vuol dire che di massoni occulti ce
ne dovevano essere ancora parecchi. È in questi mesi che il conte
Waldstein sparisce dalle cronache per riemergere, anni dopo, nei Quaderni
di conversazione, come avventore (fortuito?) nella stessa locanda dove
Beethoven sta cenando insieme al suo entourage. Tra le spie si segnala per
la sua franchezza un certo “agente” Freddi (nome perfetto) che, basito di
fronte ad una specie di strip poker tra lo Zar e una contessa Wrbna-
Kagenech commenta “un giorno la Storia ricorderà ai posteri che il
palazzo dei Cesari servì da bordello allo Zar di Russia”.
Beethoven, al Congresso, si ricicla, con zelo sospetto, come compositore
“di regime”; e viene la Cantata Il momento glorioso op. 136 – ottima,
l'avesse scritta Albrechtsberger – sèguito ideale all'Aria per “basso”
Germania, W. o. O. 94, da lui composta poco prima per quel Singspiel La
buona notizia con musiche di, tra gli altri, Weigl, Adalbert Mathias
Gyrowetz, Hummel, su testo del librettista del Fidelio, Trietschke, che
celebrava la presa prussiana di Parigi, e che sembra il rossiniano Viaggio a
Reims messo in piedi da un compagnia di avvinazzati. Il catalogo degli
opportunismi congressuali beethoveniani annovera anche, per corollario
destinato a festeggiare la capitolazione definitiva di Napoleone dopo i
Cento Giorni, Es ist vollbracht W.o.O. 97: ancora un'Aria per “basso”
scritta come contributo ad un altro Singspiel collettivo, Le porte d'onore,
dello stesso librettista. Questo centone di musici vari si sarebbe dovuto
intitolare “Abbiamo cantato troppo presto”, visto ciò che era successo
dopo La buona notizia... Terminiamo simile rassegna di salamelecchi
giustificatori, a purificazione da ogni sospetto massonico, con il Coro Per i
Principi alleati W.o.O. 95, scritto per l'inaugurazione del Congresso, ed
eseguito al cospetto di tutte le teste coronate ivi convenute.
Tutto vano. Il capo della polizia segreta, il barone Hager, in un rapporto
datato 30 novembre 1814, all'indomani dell'esecuzione de Il momento
glorioso, insieme a La vittoria di Wellington e la Settima Sinfonia, dice che
“la rappresentazione di ieri non servì ad accrescere l'entusiasmo per il
talento di questo compositore, il quale ha i suoi partigiani e i suoi
avversari. In opposizione ai suoi ammiratori, che vedono in prima fila
Rasumovskij, Apponyi, Kraft ecc. (…) i quali adorano Beethoven, si è
formata una maggioranza preponderante di intenditori che d'ora in poi si
rifiutano categoricamente di ascoltare ancora le sue opere”. Dove
quell'“ecc.” sottintende come non ci sia alcun bisogno di seguitare la lista
degli adoratori: comprende tutti i massoni notori loro pari. Insomma,
l'avevano sbugiardato. Inutile, la maschera tardiva di parruccone.
Beethoven, a cose fatte, dichiarava che si era “lasciato corteggiare dai
massimi potenti d'Europa e si era comportato in modo ammirevole”.
Traduzione: non aveva fatto trapelare nulla che potesse compromettere
qualcuno. Il suo modello, al Congresso, era Castleregh. Però, la messa in
scena, se la godette fino in fondo. Scrisse anche una pianistica Polonaise
(ahimè, op. 89, e non W.o.O.) per la zarina, chissà con quale gradimento
dei polacchi, che dai russi erano periodicamente invasi, in cambio di
cinquanta ducati, salvo poi rinfacciarle davanti a tutti che lo Zar, in
ringraziamento alla dedica delle Sonate per violino e pianoforte op. 30,
non gli aveva fatto avere un rublo. Figuraccia pubblica di lei, con tardivo,
principesco compenso: cento ducati. Beethoven sapeva come condurre i
propri affari...
Tutti questi altolocati personaggi erano musicomani. Talleyrand, in
particolare, teneva sempre vicino a sé Sigismund von Neukomm, allievo di
Michael Haydn e poi collaboratore nella fervida officina musicale del suo
più celebre fratello Franz Joseph. Questi doveva mettersi al pianoforte
ogni volta che il suo signore cominciava a pensare. Era una posa per
rendersi gradito ai viennesi, che presero presto ad elogiarne la sensibilità
musicale? A Vienna, musica e politica furono sempre due aspetti della
stessa cosa: la lotta tra aristocrazia per censo e aristocrazia per merito,
quella che, dopo il Congresso, prese a chiamarsi “alta borghesia”.
Neukomm, per esempio, dopo un periodo a San Pietroburgo come
Kapellmeister del teatro tedesco che lo rendeva una preziosa fonte di
informazioni sullo Zar, se ne era andato a Rio de Janeiro. Un colpo di
testa, il suo, alquanto sospetto di fuga diplomatica. A Boston, la molto
massonica Handel and Haydn Society eseguì cinquantacinque volte il suo
Oratorio David. Prima di morire, Beethoven stava concependo un Oratorio
Saul e David sul modello, dicono, haendeliano. Io credo che pensasse a
Neukomm, e che Talleyrand si tenesse vicino l'equivoco compositore, un
Illuminato come pochi, dottore in Filosofia e Matematica, per ricordare ai
monarchi quanto della loro fede nei diritti dell'uomo stava venendo tradita
in quel mercato delle assoluzioni per mancanza di prove.
Il successo di Beethoven come compositore lo spinse ad esibirsi per
l'ultima volta, in pubblico, come pianista, dopo quel concerto dell'aprile
1814 che aveva visto la prima esecuzione del suo Trio in si bemolle
maggiore op. 97 “Arciduca” e la prima tragica esibizione pubblica della
propria sordità, immortalata dalla spietata cronaca di Louis Spohr. Il 25
gennaio 1815, compleanno dell'Imperatrice (ora, soltanto d'Austria) si
tenne un concerto presso la Rittersaal, e qui Beethoven accompagnò il
tenore Franz Wild in Adelaide, il Lied così caro alla regnante filistea.
Eppure questi trionfi beethoveniani presso le teste, coronate e non,
convenute a Vienna, a me appaiono, più che altro, una risposta polemica a
Talleyrand. Il nuovo Haydn, il compositore sorto dalla cultura riformista
degli Illuminati, era il loro Ludwig, e nessuno straniero poteva sdoganarne
un altro a surrogato. Poi, a Congresso finito, mettesse pur fine, Metternich,
a questo sogno descritto anche da Kant in Per la pace perpetua... I ricordi,
nessun autocrate parvenu poteva cancellarli.
Dopo il Congresso Beethoven, a Vienna, non ebbe più alcun successo
continuativo; poche esecuzioni, ancor meno interesse pubblico per quanto
andava componendo. Lui se ne rendeva conto (“l'arte non è più in alto
come una volta, non è più rispettata e soprattutto remunerata come
meriterebbe”; e poi argomentava come e qualmente i viennesi, della sua
musica, non volessero più sapere) e progettava fughe in Inghilterra. Pur di
rinnegarlo, i ricchi dei Tempi Nuovi monitorati sotto il governo di
Metternich, ché non si rimettessero a ordire utopie, si fecero piacere
Rossini.
Il giudizio su Metternich varia da quello di un autocrate reazionario a
quello di un profeta dell'Unione Europea. La verità, come al solito, sta nel
mezzo: Metternich fu un profeta dell'Unione Europea, che avrebbe voluto
sottoposta al dominio di un autocrate reazionario (nell'attuale congiuntura
storica si sarebbe trovato benissimo). Il suo nome venne da subito
associato alla micragna, i tagli al bilancio, la privazione dei privilegi.
Napoleone, col solito fair play derivantegli dalla origine “nobile”, aveva
sfasciato le finanze austriache stampando milioni di fiorini falsi e
mandandoli in giro per l'Europa al posto dei suoi soldati, per mettere in
ginocchio l'Absburgo. Con il Finanz Patent venne emessa una quantità di
“assegnati”, pezzi di carta su cui c'era scritto che, presentandoli, prima o
poi si sarebbero ottenuti dei fiorini, ma in proporzione di uno per cinque.
Dunque, ogni deposito monetario vedeva il proprio potere d'acquisto
crollare ad un quinto. I quattromila fiorini della pensione di Beethoven
divennero, d'un colpo, ottocento. Di questi, oltretutto, poté incassarne per
diversi anni solo la parte dell'Arciduca Rodolfo, perché a Kinsky, il
cavallo, l'aveva catapultato nel paradiso degli obesi, e Lobkowitz aveva i
creditori che lo aspettavano davanti alla porta. L'epistolario di Beethoven,
dopo il Congresso di Vienna, consta, dunque, in massima parte di lettere
agli editori. Tra raggiri, promesse non mantenute e offerte a lauto prezzo di
partiture mai scritte e che mai lo sarebbero state, è, questo, uno dei capitoli
più tristi della vicenda lodoviciana. La morte progressiva dei suoi
protettori – l'ultimo, Lobkowitz, venne tumulato nel 1816 sotto un dolmen
di cambiali e protesti – lo espose al bando della nuova classe dirigente, cui
le sue equivoche frequentazioni di Illuminati mentori parevano la garanzia
di avere, se lo invitavano, per amici intimi le più illustri spie di Metternich;
per lo meno, le poche non già impegnate con Ludwig stesso, a giudicare da
come qualcuno blocca, al ristorante, la sua avventata conversazione:
“Un'altra volta. C'è qui vicino la spia Hänsel”. Di chi stava per fare il
nome, Beethoven? per colpa di Hänsel, non lo sapremo mai. La rete di
protezione del controllo reazionario si strinse a cappio dopo la fuga di
Napoleone dall'esilio dell'Elba, nel marzo 1815. Troppi patrioti degli
Imperi davano segno di vedere nel Còrso redivivo un despota, sì, ma anche
colui che col Codice Civile aveva dato la sicurezza di non venire arrestati
per essersi fermati a chiacchierare sul pianerottolo col vicino di casa,
nonché, con le “Società di lettura”, il diritto di sfogliare gli scrittori
rivoluzionari senza sentire sulla spalla l'alito di nessuno. Questo
Napoleone consapevole del proprio crepuscolo, e che proclama “meglio
non aver vissuto che non lasciare traccia alcuna della propria esistenza”, a
Beethoven, nuovamente, piace. Sa che i nuovi aristocratici non lo
inviteranno nei loro palazzi: l'epoca degli Illuminati non solo è morta, ma
si fa finta che non sia mai esistita. I suoi esponenti vagano come ombre in
una Vienna dove tutti mormorano e si guardano intorno furtivamente.
Quando la settima Grande Coalizione dà il colpo di grazia al rinnovellato
Bonaparte, il resuscitato dai delusi, i viennesi temono che le spie notino la
loro andatura lievemente contratta, i segni della stizza sulla piega delle
labbra. Il Còrso viene spedito a Sant'Elena, dove, perché possa nutrire
senza disturbo il proprio cancro allo stomaco, a un certo punto gli tolgono
anche il medico.
Nel frattempo anche Rasumovskij, presso la cui residenza piena di arazzi,
quadri fiamminghi e statue del Canova aveva sede il quartetto di
Schuppanzig, anima di corde del camerismo beethoveniano: l'ambasciatore
dello zar, era diventato il fantasma di se stesso. Durante il Congresso, per
celebrare il Capodanno, aveva pensato di offrire una festa in grande stile,
così grande da obbligarlo a far costruire un padiglione in legno nel
giardino adiacente al palazzo, con tanto di cucine, camini e condotte per il
riscaldamento una delle quali, la notte di San Silvestro, dovette intasarsi,
se nel giro di un'ora divampò un incendio che si appiccò al tetto del
palazzo facendolo crollare sull'intero edificio. La rovina totale delle sue
collezioni d'arte fece uscire di senno il Rasumovskij. Nonostante lo Zar
stanziasse immediatamente la somma necessaria per la ricostruzione, da
allora in poi visse ritirato in alloggi modesti, cercando di evitare quella
società di artisti e aristocratici che gli ricordava quanto aveva perduto. In
quel capodanno del 1814 io faccio terminare il periodo di mezzo di
Beethoven la sua Età della Lotta.
Prima che il mondo intorno a lui cambiasse, e la legge capitalistica della
domanda e dell'offerta rimpiazzasse il mecenatismo dei suoi primi anni a
Vienna, il Maestro conobbe, però, una rivincita: il trionfo della vecchia
Leonore – che ora, travestita, come la sua eroina, anche nel titolo, appariva
per Fidelio – al Teatro di Porta Carinzia. Le sorti dell'unica Opera del
compositore sembrano obbedire a quella Forma ciclica che doveva, di lì a
poco, dominare la scena del Romanticismo musicale. Leonore viene
eseguita, crollando miseramente, durante la prima occupazione francese di
Vienna, e giunge, poi, al successo mentre il generale viene trasferito nella
prigione a cielo aperto dell'Elba. Fidelio, rivisto interamente con la
collaborazione del nuovo librettista, Treitschke (“Lei ha salvato i buoni
resti di una nave arenata”) vede potenziate tutte quelle parti dove la
dialettica buio/luce diventa passaggio dalla prigionia alla libertà; e infine,
per il potere sublimante dell'orchestra, dalla tirannide oscura alla luce
radiante della Ragione. Il Coro dei Prigionieri “Oh welche Lust”; la scena
della liberazione di Florestan dai ceppi, nella quale Beethoven,
riprendendo la Cantata per la morte dell'Imperatore Giuseppe II, celebra
le esequie degli stessi ideali nei quali è cresciuto; infine, l'epilogo,
anch'esso una Cantata laica dentro un'Opera che è, a suo modo, una Messa:
tutto, in Fidelio, sa di risposta pratica, estetica, alla reazione che
Metternich fomentava, a Vienna, nel chiacchiericcio delle spie; e anche, di
esequie di un'epoca intera. E si spiega, allora, l'autolesionismo di
Beethoven quando, nel 1806, alla seconda, felice ripresa dell'Opera, aveva
chiesto indietro la partitura al barone von Braun, sovraintendente al
Theater an der Wien, “io non scrivo per il loggione”, dicendo. Che la
liberazione di Florestan eccedesse i limiti del racconto, per diventare
quella di Prometeo dagli artigli dell'aquila: questo, solo il divenire del
tempo, fino al termine di una civiltà, la civiltà dei Lumi, poteva renderlo
evidente, farlo mito. In quest'ottica va letto il problema delle quattro
ouverture. L'“Ouverture” a Fidelio – scritta per la messa in scena al Teatro
di Porta Carinzia, all'ultimo momento, con tanta furia che la sera della
“prima” non era pronta, e si dovette sostituirla con quella a Le creature di
Prometeo – è un lever de rideau scabro e frettoloso; le Ouverture Leonore
nn. 2 e n. 3 sono Poemi Sinfonici capaci di riassumere l'intero contenuto
drammaturgico in una vicenda di musica pura. Esistono, dunque, due
Fidelio: uno è quello risolto internamente nella scena, l'altro è quello che
trova nell'orchestra il codice simbolico che, sulla scena, rimane irrisolto.
Solo il crepuscolo degli Illuminati poteva rendere dramma questa vicenda
di affetti religiosi traslati in amore tra gli uomini. In un periodo di
transizione, di incertezza ideologica: negli anni della lotta tra Napoleone, il
fuoco devastatore dell'Ideale, e le monarchie europee, l'acqua santa
dell'oscurantismo, il significato drammaturgico di Leonore non poteva
essere colto; e allora Beethoven ne trascese i limiti nelle Forme sublimanti
della musica orchestrale, per poi, in Fidelio, restituire alla scena i diritti
che, nell'Opera, le competono. Nel frattempo, però, aveva inventato il
Poema Sinfonico, aperto la strada alla “musica dell'avvenire”, in un tempo
quando l'Ideale diventerà sogno (Mendelssohn), follia (Schumann) e
rimpianto (Richard Strauss).
L'estate del 1816 Beethoven, ancora frastornato dalla girandola delle
vicende congressuali, la passa a Baden, dove frequenta una sala delle
terme defilata e semibuia nella quale c'è una vasca tutta per lui. La sera
chiunque, nella locanda del suo albergo, lo riconosce per la giacca verde
scuro e i pantaloni grigi, in testa una tuba tutta sformata. Sembrava un
impiegato del catasto colto nel sonnellino pomeridiano. Fumava una
piccola pipa e teneva sempre gli occhi rivolti all'insù, come è tipico dei
sordi. Il suo allievo Friedrich Hirsch lo descrive così: “Volto di un colorito
sano (?), rubizzo (segno del contrario); le sopracciglia folte e la fronte
bassa (in realtà non era bassa, ma la teneva così); il naso molto grosso e
largo (un naso da toro); soprattutto in corrispondenza delle narici che,
però, erano ben modellate (come è tipico dei tori); le mani rozze e pesanti,
le dita corte, le vene gonfie sul dorso delle mani (ahi ahi, il fegato...) e le
unghie tagliate corte”. Aggiungiamo che Beethoven aveva le dita “a
bacchetta di tamburo”. I biografi dicono “per il troppo suonare da
piccolo”; in realtà, è uno degli indizi precoci di cirrosi epatica.
A questo soggiorno di Baden dobbiamo una delle due confessioni
wertheriane del compositore: quelle relative a pene d'amore (la seconda, ci
è noto, riguarda la Giulietta Guicciardi). L'episodio era accaduto a Teplitz
cinque anni prima, e il fatto che la cosa gli venga in mente proprio a Baden
fa pensare ad uno Sviluppo in Forma-Sonata del tema “terme”. Teplitz,
ovvero il bittende Prinzip, “Princìpio che implora”. Il “tema femminile” è
una fantomatica colei unirsi alla quale “sarebbe stata la più grande felicità
della sua vita”. E adesso, lì, a Baden, “Principìo che si impone”, “è come il
primo giorno”, dice, salvo ammettere, subito dopo, che “non era mai
arrivato a una dichiarazione”. I gusti letterari di Beethoven, lo abbiamo
visto, inclinavano decisamente verso il romanzo epistolare, sul genere
della Pamela di Richardson o la Nouvelle Heloise di Rousseau, solo che
gli mancava un bravo editor. Se la poesia è, secondo la definizione di
William Wordsworth, “emozione rivissuta in tranquillità”, allora
Beethoven era il massimo poeta dell'eros vissuto nei tempi suoi. Ma chi
era, l'Amata Mortale Rammemorata Come Non Tale, Ma Non Per Questo
Immortale? Ce lo rivela un'annotazione del Diario (o comunque vogliate
chiamare la raccolta di scartafacci messa insieme da Jacob Hotschevar, che
li aveva avuti dal nipote di Beethoven) in data 27 Luglio, Baden: “Solo
l'amore, sì, solo l'amore può darti una vita più felice. O Dio, fa' che io la
trovi finalmente, colei che mi rafforzi nella virtù (il che fa pensare gli
“assalti alle fortezze” stiano continuando attivamente) e che mi sia
concesso far mia”. Segue un flashback degno di Alfred Hitchcock:
“Quando M. mi passò davanti e sembrò rivolgermi un'occhiata”. Alcuni,
invece di “M”, leggono “R”; a me pare chiaro che si tratti di un
vezzeggiativo per Amalie Sebald, qualcosa tipo “Mälschi”, e che l'occhiata
non fosse propriamente amichevole... Beethoven si era formato su J. S.
Bach, e conosceva fin troppo bene l'arte della fuga.
TERZA PARTE. VIENNA DOPO IL CONGRESSO. LA
REDENZIONE DI PROMETEO

“Conosci te stesso e impara a correggere i tuoi eccessi e il tuo modo di


essere”.
(Eschilo, Prometeo Incatenato)
1. IL SOTTILE RUMORE DEL MONDO

Il 15 novembre 1815 muore Caspar Carl van Beethoven. Da anni era


malato di tisi, e alternava periodi di prostrazione ad altri di apparente
salute. Ludwig, da quando l'aveva incontrato, per caso, in strada, gli si era
legato di nuovo con una dedizione, anche finanziaria, che, però, aveva un
costo: l'esecrazione di sua moglie Johanna. Come sempre accade ai tisici,
Carl, quando morì, stava benissimo, da cui i sospetti lodoviciani che
Johanna lo avesse avvelenato. L'oscuro contabile così pazzo da pretendere
di fare il compositore pur chiamandosi Beethoven, lasciava un figlio, il
Karl con la “k”, di nove anni. Nelle disposizioni testamentarie lo affidava
al fratello, ma con un codicillo, aggiunto poi, nel quale si precisava che la
tutela doveva essere esercitata congiuntamente a sua moglie. Quel
codicillo fu la rovina di Beethoven.
Alexander Wheelock Thayer ha dedicato la sua intera vita, nel
Diciannovesimo secolo, a raccontare quella di Beethoven. Americano, e
puritano molto, venne in Europa e intervistò tutti coloro che, ancora
viventi, avevano avuto contezza dell'Immortale da vivo. Scrisse una
biografia a tela di ragno, meticolosa come un verbale della Guardia di
Finanza: un materiale che tutti i biografi, me compreso, trattano come il
dott. Frankenstein (lo sapevate che il sottotitolo del romanzo di Mary
Shelley è Il nuovo Prometeo?) trattò la spoglia mortale del criminale
giustiziato che aveva tirato giù dal patibolo. Eppure, di fronte alla storia di
Ludwig e Karl con la “k”, il puritano Thayer fu colto da violente emicranie
che gli impedirono di proseguire la ponderosa biocronaca, anche se non
ostarono ai suoi doveri di Console statunitense a Trieste (una città che a
me, ogni volta che ci vado, fa venire l'emicrania). I coniugi Editha und
Richard Sterba, psicoanalisti freudiani emigrati negli Stati Uniti per
questioni attinenti l'Anschluss nazista, hanno scritto un reportage
endocranico sui rapporti tra Ludwig e Karl dal quale si evince che
Beethoven era omosessuale. Innamorato di suo nipote. Lo volle tutto per
sé, ne assunse la tutela sottraendolo alla madre, si dichiarò “padre, senza
una moglie”, il tutto per l'insano furore di eros, finché la “perversione” non
agita non divenne, nel ragazzo, pulsione suicida, inducendolo al tentato
olocausto. Il libro degli Sterba su Beethoven e suo nipote procede secondo
una docimologia sottile: siccome Beethoven, nell'ultima parte della sua
vita, si circondava di bei ragazzi (eh, quell'Holz... eh, de Trémont, che lui
accoglie festoso anche se non lo conosce; e poi lo Schlösser, cui confida
perfino i segreti dello chef...) allora, era omosessuale; come dire che
siccome io fumo sigari toscani, allora sono nato nel Kentucky... Lo dico
una volta, qui, e non lo dirò più: sarebbe stato orrendamente bello se
Beethoven si fosse comportato col nipote Karl e con sua madre come si
comportò essendo, di Karl, perdutamente innamorato; invece, a creare nei
due infelici una reciproca dipendenza distruttiva fu il fantasma del
Kapellmeister Ludwig van Beethoven, il nonno di Ludwig. Fu l'atavica
difesa della razza che aveva portato Ludwig senior a maledire il figlio
Johann per la mesalliance con la figlia del cuoco, la madre di Ludwig
junior. Ludwig junior doveva difendere il sangue dei Beethoven dalla
mescolanza con ceppi ematici inferiori: in primis, quello di Johanna. La
dinastia doveva serbarsi pura; da cui l'atteggiamento protonazista con cui
deportò il figlio alla madre, per farlo sangue del suo sangue. Che era, poi,
il sangue di suo nonno.
La via crucis di Karl è stata raccontata infinite volte. Ognuno vi ha
trasferito le proprie pulsioni irrisolte. Qualcuno vi ha dedicato romanzi
dove Karl indulge in palpeggiamenti omoerotici che, in lui, non ci sono
noti, e che rendono l'intera vicenda un Morte a Venezia come sarebbe stato
se Tadzio fosse perito, di una malattia venerea, al posto di Gustav von
Aschenbach. Karl non esiste, è uno specchio dove l'adolescenza dei
biografi di Beethoven si osserva dopo la chirurgia plastica, e si trova bella.
Tutto è repellente, in questa cronaca: l'accanimento di Ludwig nel vietare
al figlio di vedere la madre; il suo ricorrere alle amicizie altolocate onde
trasferire il processo per la tutela al Landrecht, il tribunale dei nobili, ben
sapendo che nobile non era. Il ricorso alla polizia ogni volta che Karl
fuggiva da sua madre, com'era naturale in un bambino. E poi quel trasloco
del corpo infantile e, dopo, adolescente, dal collegio di Giannatasio del Rio
– dove Johanna, per poter vedere suo figlio durante la ricreazione, si
travestiva da ragazzo; conosceva il Fidelio? – a quello di Joseph
Blöchlinger, più sicuro; fino a progettare di trasferirlo in Baviera (un po'
anche per sfuggire alla figlia di Giannatasio, Fanny, che era disperatamente
innamorata di Ludwig: una parte dei fatti li conosciamo dal suo diario). La
ridda dei tutori, da Leopold Nussböck a Hotschevar (non così male, visto
che Karl gli affidò il “diario” dello zio) e Karl Peters. Il nipote sempre più
trasandato, e sciatto, e sporco (“non so di dove vengono tutti questi
pidocchi. Ma è salutare avere i pidocchi”) finché non glielo tolgono, e
Beethoven scrive un memoriale infinito dove insulta la grammatica
tedesca e il buon senso, fino a paragonare il rapporto con suo nipote,
complice Plutarco, a quello tra il Re macedone Filippo e Alessandro
Magno: tutto questo giustifica Leonard Bernstein quando disse che il
Maestro, negli ultimi anni della sua vita, era “sul punto di diventare
pazzo”. La fissazione di Ludwig per le abitudini sessuali di Johanna era,
quella sì, un argomento che gli Sterba, non fossero stati a Freud come
Freud sta al mago Otelma, dovevano indagare. La “Regina della Notte”,
dice Beethoven, “è stata al Ballo degli Artisti fino alle tre del mattino,
esponendovi non solo la nudità del suo intelletto ma anche quella del suo
corpo. Si sussurrava che era disposta a darsi per venti gulden”; nel qual
caso, data la misera somma, non era certo una di quelle professioniste che
il Solone delle biscrome abitualmente frequentava... Karl deve studiare il
pianoforte, e lo fa con Joseph Czerny, lo Czerny dei poveri. Deve diventare
un filologo classico, e scombicchera caratteri greci davanti al naso dello
zio, che ne è deliziato (“tra poco comincerà a leggere Omero in
originale”). Beethoven lo toglie dal collegio e se lo porta in villeggiatura a
Mödling, dove lo affida a un certo padre Fröhlich, che scemo non è, perché
siccome il ragazzo infama sua madre e, pare, anche i sacramenti, lo caccia
dalla scuola. Lo scandalo è grande, e Beethoven deve presentarsi davanti
al Landsrecht, dove, per una sorta di autolesionistica pulsionalità al vero,
dice ciò che mai avrebbe dovuto rivelare: “Se solo fosse nobile, Karl, lo
manderei al Theresianum”, un'accademia che Maria Teresa aveva fondato
per chi era di natali aristocratici. Che vuol dire? che Karl non è nobile?
“Van”, non indica nobiltà? no, indica solo la provenienza da qualche posto.
Nel caso, da un campo di barbabietole. Per Beethoven, è un colpo
gravissimo. Gli aristocratici viennesi lo avevano preso per uno dei loro. Li
ha ingannati. Per questo non ha mai smentito l'essere figlio illegittimo del
Re di Prussia. Il tribunale dei borghesi, non soggetto alle manovre dei
protettori beethoveniani, riassegna Karl alla madre. Riprende la battaglia.
Beethoven si affida al dottor Johann Baptist Bach, giureconsulto, ma
soprattutto sfodera l'asso di picche, l'Arciduca Rodolfo d'Absburgo, che
dispiace scoprire a tal punto preda del proprio maestro di pianoforte. In
tutto ciò Karl, “begli occhi, bella presenza”, secondo le testimonianze
coeve, passa dal Ginnasio dei Padri antichi ad una scuola tecnica
commerciale, finché non rivela la propria vera vocazione: diventare
soldato; salvo poi, a zio morto, congedarsi in breve dall'esercito per
condurre un'esistenza esemplare di cittadino e funzionario statale.
L'esercito gli serve per scappare dallo zio. Beethoven non lo molla mai. Si
definisce il suo “bottone dei pantaloni”. Lo fa operare di ernia dal dott.
Karl Smetana, senza capire che il dolore alle parti basse è psicosomatico
ed eziologico, un complesso di castrazione; poi, in un accesso di collera, lo
picchia sulla ferita ancora non richiusa. Gli lesina i soldi, che Karl chiede
in prestito ai servi (“la sobrietà è necessaria ai giovani, ma mi sembra che
tu non l'abbia osservata abbastanza, poiché hai avuto del denaro senza che
io sapessi da dove veniva”). Licenzia i servi che gli hanno prestato i soldi.
Gli impedisce di studiare, perché ad ogni suo cenno vuole che lasci il
collegio e lo raggiunga in campagna. Gli dice di fare bagni tiepidi nel
Danubio, e di mettersi, dopo, le mutande di lana. Dispone quanti capi di
biancheria gli siano necessari, e di che stoffa siano fatti. Scrive “tu solo, o
Dio onnipotente, vedi nel mio cuore, tu sai che per amore del mio Karl ho
trascurato il mio bene”. Chiede a Dio di farlo vivere per sempre accanto al
“suo Karl”. Il Dio che invoca è il Dio di Abramo e di Isacco. Karl ha un
amico fraterno. Lo porta con sé nella villeggiatura estiva. Beethoven si
lamenta che la casa è piccola, e che lui ha le sue abitudini, e poi quel
ragazzo non gli piace. Spesso, va ad aspettare il nipote fuori del ginnasio,
per riportarlo a casa, vedi mai non gli capitasse di incontrare la madre
(“Dio esaudisca i miei desideri, perché non posso più fidarmi di te”)... I
compagni di Karl, al vederlo con quell'uomo sdrucito e con la faccia da
disperato che invece di parlare, urla, lo sfottono. Karl dice loro di non
badare al “vecchio pazzo” (“viziato come sei, non nuocerebbe che ti
sforzassi finalmente di essere più semplice e più sincero, perché il mio
cuore ha sofferto troppo per il tuo falso comportamento, ed è difficile
dimenticare”). Karl diventa adolescente, e lo zio si compra un libro sulle
malattie veneree: è di Louis-Vivant Lagneau, e si intitola Exposé des
symptômes de la maladie vénérienne ecc. ecc. Forse vuole evitare che gli
capiti ciò che è capitato a lui; fatto sta che la vita sessuale di Karl lo
ossessiona. Lo perseguita per sapere se ha donne, se c'è qualcuna con cui
fa l'amore. Dopo ogni lite, si pente. Non sopporta di vederlo afflitto e
imbronciato, quando lui stesso ha sempre usato, per manipolarlo, la tecnica
della freddezza. “Non sono così insensibile come credi”, dice il nipote.
Ogni tanto Karl, esasperato (“non credo sia consigliabile andare a teatro
adesso, perché ti porterebbe una eccessiva distrazione”) sparisce, e lo zio
gli scrive “non più altro, vieni tra le mie braccia! Non udrai da me nessuna
parola dura (…) Da me non riceverai che le cure più affettuose e l'aiuto.
Vieni! Vieni al cuore fedele di tuo padre!” – proprio lui, che poche
settimane prima si era firmato “purtroppo tuo padre, o meglio non tuo
padre” – e poi, in Francese e dandogli del Voi: “Se non tornate,
sicuramente mi ucciderete” (“si vous ne viendres pas vous me tuerez
sûrement”); e ancora “si troverà pure qualcuno che mi chiuderà gli occhi”.
La manipolazione affettiva è onnipresente, satanica. Ludwig ha sempre
fatto così: quello, è il suo stile. Eppure Karl, nei Quaderni di
conversazione, appare garbato, acuto, pronto a sostenere lo zio con un
genuino interesse verso il suo passato, una cura costante del suo benessere,
fisico e mentale. Gli interlocutori di Beethoven ne sono deliziati. Ha una
calligrafia magnifica. Traduce bene dall'Inglese, e tratta la corrispondenza
dello zio con gli editori d'Oltremanica. Copia la sua musica con cura
infinita. È spiritoso, ha un acuto spirito di osservazione... Chiunque legga i
Quaderni non può che amarlo, e compiangerlo. Non fosse per quel suo
gesto esecrabile. Ma di questo, poi. Il 20 aprile 1820 la Corte d'Appello
affida in via definitiva il martire ragazzo a quel suo apostolo che ne era
anche il carnefice. Colmo di gioiosa serenità, Beethoven abbozza la Sonata
per pianoforte n. 30 in Mi maggiore op. 109. Da quel momento ogni
proposito di matrimonio, ancora documentabile nelle lettere datate al
Congresso di Vienna, sullo slancio dell'effimero successo – pur con toni
per lo più burleschi, come quando Beethoven si raccomanda che la futura
sposa sia bella, perché “io non posso amare se non qualcosa che sia bello;
altrimenti, dovrei amare me stesso” – ogni idealizzazione fideliana
dell'amore coniugale viene accantonata, e il vecchio scapolo mette su casa
insieme a un ragazzino su cui scarica tutta la frustrazione di quel suo
romanzo familiare degno di Charles Dickens.
I biografi beethoveniani, una setta che la dieta cartacea ha reso congrega di
dispeptici, sostengono che il progressivo declino delle facoltà creative di
Beethoven, dopo l'Ottava Sinfonia, fino alla stasi pressoché totale, tra il
1816 e il 1818, sia conseguenza dell'annosa battaglia giudiziaria alla
conquista del nipote. Noi, da parte nostra, abbiamo constatato come le
opere più luminose siano state concepite dal Maestro sempre “inter
lacrimas et luctum”. Le neuroscienze stanno indagando con sistematica
lucidità nei processi inconsci lungo i quali si sviluppa l'evoluzione di un
artista, la sua rastremazione progressiva dello stile. Nel suo ultimo
periodo, quello che ho definito l'Età della Trascendenza, Beethoven
diventa il Maestro dei Labirinti Sonori. Il fattore tempo, nella sua musica,
si fa variabile dello spazio. La Forma è come un atomo di energia
quantistica pronta ad esplodere a contatto con le dita dell'esecutore.
Minimi spunti motivici, puri rapporti intervallari, si dilatano in universi dei
quali ogni stella è il centro: ogni battuta è, insieme, idea generativa e sua
variante. Karlheinz Stockhausen, che di queste cose se ne intendeva,
parlando delle Trentatré Variazioni su un valzer di Diabelli op. 120, dice
che ognuna di esse è come il riflesso di un prisma, falso movimento di
perenne rotazione attorno ad un “fuoco” invisibile. Pensare che la battaglia
contro la “Regina della Notte” abbia condotto Beethoven all'Età della
Trascendenza, sarebbe come credere che le circa settanta tazze di caffè che
Voltaire assumeva ogni giorno siano state la causa della Rivoluzione
Francese (del resto, simili argomenti da musicologi hanno, su di me, un
analogo effetto “volterriano”).
Semmai, se una causa vi è che non sia l'irradiarsi naturale del genio al di
fuori del tempo proprio, allora bisogna cercarla nella sordità. Al pianista e
compositore Cipriani Potter, l'ultimo Beethoven diede il consiglio di non
comporre mai al pianoforte, ma di mettersi allo strumento “solo quando
l'opera è terminata, perché non sempre si ha un'orchestra a disposizione”.
Sappiamo dai suoi allievi come invece, prima che, dal 1818, la sordità
divenisse uno strumento del suo comporre, usasse improvvisare lunghe ore
al pianoforte, prima di mettere le idee sulla carta (ricordate la genesi del
Finale della Sonata “Appassionata”, come ce la racconta Ferdinand Ries?).
A parte un significativo corollario – il pianoforte, dunque, per Beethoven
fu sempre un succedaneo dell'orchestra, soprattutto quando componeva per
pianoforte – durante l'Età della Trascendenza il Maestro teorizza
l'isolamento dal suono prodotto come condizione necessaria al suono
rivelato. Beethoven si chiude non al mondo, ma al tempo. Lotta contro
questo parametro teatrale, drammaturgico, della musica, in quanto falso,
sleale. Sa che dopo il collasso degli ideali illuministici la Storia è
condannata a quel lento crepuscolo che ai giorni nostri sta assumendo i
colori di un rogo planetario propiziato dal riscaldamento globale. La
disillusione politica lo porta all'ideale di un mondo cristallizzato in un
tempo senza moto che sia il suono originario della verità: questa, la mia
definizione del suo ultimo stile.
Nel mentre lo matura, la sua stravaganza al mondo delle forme quotidiane
non conosce limiti. Si chiude dentro a chiave, e Schindler lo supplica di
non farlo “perché allora non c'è nessun estraneo che Le venga in camera,
ma la governante ogni tanto deve pure entrare...”. Lo hanno sentito urlare
musica per lunghe ore, per poi fare una scenata alla cuoca; e Schindler
“pare che Lei si sia ancora infuriato spaventosamente durante la notte, è
vero? (…) Lei deve rassegnarsi a che tutte le vivande siano cotte e
stracotte e immangiabili, e non tuonare (bear! bear!)”. Ci pare di sentirlo,
in queste righe dei Quaderni di conversazione, Beethoven che ruglia e
bruisce come un orso; eppure la sua risposta a Schindler è di un'ingenuità
disarmante: “Cum sanctu spiritu”. Stava componendo uno dei passaggi
contrappuntistici più intricati della Missa Solemnis. In queste condizioni la
servitù scappa dalla finestra, e Ludwig, senza la materna devozione di
Nanette Streicher – che si ritrova, di pianista elogiata, bambina, da Mozart,
a gestrice di una lavanderia – sarebbe perduto. Alla fine si individua una
coppia di servitori disposti ad attraversare la Prova del Fuoco che
Beethoven/Sarastro impone loro nel labirinto compositivo dell'Afflato
Magico. L'intuizione della Streicher è geniale: per il reciproco amore, si
daranno a vicenda la forza di sopportare. Ora che l'ordine domestico è
assicurato, Karl finalmente può “diventare un artista o uno studioso, per
vivere una vita più elevata e non sprofondare completamente nella
volgarità. Solo l'artista o il libero scienziato porta la felicità nel suo
intimo”; sulla qual cosa non solo mi permetto di dissentire, ma trovo giusta
l'obiezione, a disastro ormai compiuto, di Karl: “A forza di volermi
rendere migliore, mio zio mi ha reso peggiore”. I Pamino/Tamina servili si
involano ben presto per il mondo incantato fuori del labirinto di suoni, e
Beethoven incontra, infine, il proprio ideale di Ewig-Weibliche Servente: la
cosiddetta “Sali”, che poi troveremo sul suo letto di morte, regolarmente
scambiata dai biografi per Johanna, più o meno come prendere Lucrezia
Borgia per una farmacista. Eccola: la si è trovata, colei che gli chiuderà gli
occhi...
L'oceano dei Quaderni di conversazione, pur in buona parte evaporato per
effetto dell'irradiazione schindleriana, è una miniera e talvolta discarica
dove si trova di tutto. Nominato depositario dei documenti di Beethoven,
dopo la morte del Maestro – cosa che avrà certo provocato inconsueti
sommovimenti tellurici, a Vienna, per i rivoltoni di colui nella tomba –
Schindler, non sappiamo esattamente quanti Quaderni diede alle fiamme;
pare, circa duecento: quelli in cui si infamava l'Imperatore d'Austria con
annessa imperial famiglia, la censura, le spie, la burocrazia, la corruzione
austriaca, dicono. Karl von Bursy, in visita al Nume il 1 giugno 1816, ci
descrive questo Beethoven “politico” come disilluso e rancoroso: “Qui
tutto è abbietto e sporco. Non può essere peggio. Dall'alto al basso sono
tutti mascalzoni. Non ci si può fidare di nessuno. Se non si mette del nero
sul bianco, nessuno mantiene la parola”. Infine, nessuno paga; e se lo paga,
lesina i soldi “come uno strozzino”. Già: gli avevano detto che se voleva
tenersi Karl, doveva “ungere” i giudici. E però, proprio lui, parla, che
arrivò a proporre la Missa Solemnis a quattro editori diversi, l'uno
all'insaputa dell'altro, senza restituire mai (ricordate?) a Franz Brentano i
novecento fiorini che Simrock gli aveva pagato, onde trasmetterli a
Beethoven, per pubblicarla, e che il banchiere di Francoforte dovette, dopo
un disgustoso seguito di false promesse, rimettere a Simrock, senza che
Beethoven mai lo rifondesse... Simrock, di Bonn, è l'editore che lo ha visto
ragazzo. Quello con cui si confidava sulla scarsa spina dorsale dei sudditi
absburgici: “I viennesi temono di non poter più aver gelati. L'inverno fu
così poco freddo, che ora il ghiaccio è raro. Hanno incarcerato molte
persone importanti, si dice che dovesse scoppiare una rivoluzione, ma
credo che l'austriaco non si rivolta finché ha ancora della birra scura e
della salsiccia”.
L'epistolario beethoveniano, lo abbiamo visto, dopo il Congresso, è
composto per lo più di lettere da ed a editori. Abbiamo Tobias Haslinger,
della casa editrice Steiner, ispiratore di un Canone burlesco in finto cantus
firmus pseudogregoriano “Oh Tobias, Dominus Haslinger!” dove su
infiniti “oh, oh!” ripetuti a Canone si sente ridere l'autore della Missa.
Haslinger (“canti ogni giorno le Epistole di San Paolo, vada ogni domenica
da padre Werner che Le indicherà il librettino adatto per farLa andare
diritto in Cielo”) ispirava il lato dadaista di Beethoven: la sua passione,
tipica di molti musicisti, e che Mozart elevò a genio, per i giochi di parole.
Così si inventò una parodia napoleonica di dispacci militari dove lui era il
Generalissimo; Steiner, il Luogotenente Generale; Haslinger, l'Intendente;
Diabelli, regolarmente detto “Diabolus” – che poi aprirà una sua casa
editrice, ma allora era ancora correttore di bozze – il Gran Carceriere,
perché tratteneva le stampe presso di sé. I ducati da inviare sono “cavalli”,
i “dispacci” sono le partiture, che senza i cavalli non possono viaggiare. La
casa di Beethoven è il Quartier Generale, e le convocazioni per colpe e
mancanze sono altrettante comparizioni davanti alla Corte Marziale.
Questo gergo bonapartiano ritorna, poi, alla vigilia della “prima” del
Quartetto op.127, con un “ordine di servizio” indirizzato a Schuppanzig e i
suoi: “Miei prodi! Ciascuno farà quanto può e compirà il proprio dovere e
ciascuno si impegna, sull'onore, di comportarsi nel modo migliore.
Ciascuno di coloro che parteciperanno a quanto convenuto deve
sottoscrivere questo foglio. Beethoven. Schindler segretario. Schuppanzig.
Weiss. Linke, il maledetto violoncello del grande maestro. Holz, l'ultimo
però solo perché firma ultimo”. Haslinger è anche la vittima dell'unico
scritto “letterario” che si conosca di Beethoven: una biografia comica del
Tobias “canonizzato” in innumerevoli giochi musicali pubblicata sulla
rivista Caecilia; all'insaputa, va detto, del suo autore. Alla fine di un
percorso irto di doppi sensi, Haslinger riesce a diventare, finalmente,
membro di parecchie “geleert”, “svuotate”, invece che “gelehrt”, “dotte”,
società musicali; dove pare si allude alla dipsomania del musico Tobias.
Tra gli editori c'è anche Moritz Schlesinger, che per ingraziarsi Beethoven
gli invia a Mödling, con un corriere speciale, un arrosto di vitello; poi gli
vuole pagare di meno la Sonata op. 111, che è in due movimenti, perché è
corta, ne manca un pezzo.... C'è Artaria, che gli pubblica da una copia
avuta per vie traverse un'edizione abusiva del Quintetto per archi op. 29; e
allora Beethoven, con la scusa di errori infiniti, si fa mandare le copie
stampate e le sconcia a tal punto di correzioni in rosso che non si legge più
niente. C'è Nägeli, di Zurigo, che quando qualcosa non gli piace aggiunge
battute di suo pugno, e Beethoven se ne accorge perché Ferdinand Ries
gliele suona, e allora lo spinge via dalla tastiera urlando. E ancora Mollo &
Cappi, il Bureau des Arts et d'industrie, Schott di Mainz, che ha la mania
delle raccolte antologiche dove tutto si perde e si guasta. Peters di Lipsia,
che si svena per la Missa, e poi scopre che la partitura sta già girando tutta
l'Europa. E c'è ancora Diabelli, che non gli manda le bozze da correggere,
e Beethoven annuncia che andrà personalmente “nella sua bottega a
cantargli un'Aria di 'basso' che ne risuoneranno insieme la sua spelonca e il
Graben”. C'è Gottfried Cristoph Härtel, della Breitkopf & Härtel: il solo,
insieme a Simrock, che intende pubblicare i beethoveniana Opera omnia, e
ne riceve, in cambio, questa lavata di capo: “Errori, errori, errori... Lei
pure è un unico errore!”. Härtel, spesso, lo paga in libri. Beethoven gli
chiede una edizione di Euripide, le opere complete di Goethe e Schiller
(”questi due poeti sono i miei preferiti, come pure Ossian ed Omero, ma
quest'ultimo purtroppo posso leggerlo solo tradotto”), il Requiem di
Mozart, le Messe di Haydn e quanto questi viene pubblicando di J. S.
Bach, nonché qualcosa del figlio di lui: “Delle opere per pianoforte di
Emanuel Bach ho soltanto alcune cose; talune di esse servono al vero
artista non solo per godimento, ma anche per studio, e il mio più grande
piacere è di suonare, in casa di veri amici dell'arte, opere che non conosco
e che ho viste di rado”. Härtel pubblica una rivista, la Allgemeine
Musikalische Zeitung, che lo stronca regolarmente, e che l'editore di
Beethoven incita a stroncarlo pensando si tratti di un'etica politically
correct; e Beethoven gli scrive “chi può desiderare recensioni del genere
quando si vede che i più miserabili imbrattacarte vengono portati alle
stelle da recensori miserevoli al pari di loro, e che in genere trattano le
opere d'arte nel modo più ingiurioso e sono costretti a questo dalla propria
goffaggine, per la quale non trovano l'unità di misura comune, come il
calzolaio la sua forma (…) E ora recensite quanto volete! Vi auguro buon
divertimento! Se anche si è punti come da una puntura di zanzara, passa
presto, ed appena passata la puntura è un vero divertimento! Re-re-re-re-
cen-cen-si-si-si-si-site! Non però all'eternità; non lo potreste fare.”. Härtel
tarda a mandare a Goethe la musica di scena per Egmont, e Beethoven gli
scrive “spedisca l'intera partitura, che farà magari copiare a mie spese (la
partitura esige ciò) a Goethe. Come può un editore tedesco essere tanto
scortese e villano verso il primo poeta tedesco?”. Ed ecco che Härtel si
merita una partecipazione di matrimonio piuttosto sarcastica: “Si mormora
che Lei prende di nuovo moglie (…) Le auguro una Santippe come quella
che toccò al santo greco Socrate, cosicché io possa finalmente vedere un
editore tedesco imbarazzato”; dove brilla un intraducibile gioco di parole,
tipicamente beethoveniano, tra Verlegen, “editore”, e verlegen,
“imbarazzato”. Infine, ci sono gli editori inglesi, Clementi in testa, che
Beethoven usa per tenere sulla corda quelli tedeschi e, giocando su ritardi
calcolati, pubblicare le stesse cose sulle due sponde della Manica come
fossero primizie, così il compenso è doppio. Ma non per niente gli inglesi
hanno fondato un Impero: da loro esiste un registro pubblico che riporta la
data di pubblicazione di ogni testo stampato, partiture comprese; così,
dopo Simrock, scottato dall'affaire della Missa, anche in Inghilterra,
Clementi a parte, l'ultimo Beethoven viene registrato come “unfit”. Lui, ha
altro a cui pensare: la lista di correzioni da apporre a mano sulle copie già
stampate delle partiture è impressionante, e continua fino alla vigilia della
morte. Spesso il Maestro deve insistere perché, prima della pubblicazione,
gli vengano mandate le bozze da revisionare. Scrive “il signor Mollo ha
ultimamente inciso in grande e in piccolo formato i miei Quartetti, pieni di
errori e di errata; essi vi brulicano dentro come nell'acqua i pesci,
all'infinito (…) Questo lo chiamo 'incidere', in verità, e la mia pelle è tutta
incisa di tagli e di strappi per queste belle edizioni dei miei Quartetti”. E
c'è la pirateria. Ogni esecuzione pubblica può essere, come avvenne per il
Quintetto op. 29, occasione perché il materiale venga copiato e ceduto
sottobanco al mascalzone di turno. Per Beethoven, il primo compositore
della Storia a vivere pressoché esclusivamente dei proventi di vendita delle
proprie opere, è una catastrofe; tanto più che i furti a volte si occultano
dentro gigantesche antologie che si chiamano qualcosa come “Scuola del
pianoforte” o “Ricreazioni melodiche per dilettanti”, e che, a volerle
inventariare tutte, i musicologi non farebbero altro. Alla fine si distacca
talmente da tutte queste miserie, comprese quelle da lui stesso perpetrate,
che quando la Sonata op. 106 “Hammerklavier”, composta “per il pane”,
vede la prospettiva di uscire a Londra, scrive a Ferdinand Ries, colà
trasferitosi, che autorizza la pubblicazione di versioni ridotte, senza il
movimento iniziale, oppure solo l'“Adagio sostenuto” e la Fuga... Di ciò
che fosse, delle sue ultime creazioni, nel mondo terreno, ormai non gli
importava niente. “Un giorno, capiranno”, ripeteva. Questa
“Hammerklavier”, poi, non si vendeva. Una nobildonna viennese ne stava
studiando la prima battuta da un mese, senza cavare una barbabietola dal
buco.
La diffusione del pianoforte tra i dilettanti permise a Beethoven di
sopravvivere, ma fu anche la ragione della sua progressiva disaffezione
verso lo strumento “imperfetto, e che sempre tale rimarrà”. Per la musica
orchestrale, le cose andavano meglio. Nel 1819 Franz Xaver Gebauer,
direttore del coro degli Agostiniani, aveva creato, sul modello parigino,
una società dei Concerts spirituels che ebbe un tale successo da trasferirsi,
in breve, nella sala della Dieta provinciale, Herngasse. Eseguirono tutte le
otto sinfonie di Beethoven, riesumandone anche l'Oratorio “Cristo sul
monte degli ulivi”. Credo che senza di loro, e la scoperta di Händel,
Beethoven non avrebbe mai pensato ad una Nona Sinfonia.
A leggere i Quaderni di conversazione sembra di stare sott'acqua e veder
parlare i pesci. Leggiamo le domande e le osservazioni degli interlocutori;
ciò che dice Beethoven, quasi sempre, lo dobbiamo immaginare. Ogni
tanto, riusciamo a dedurlo. Spesso le frasi si interrompono a metà, perché
il Maestro intuisce il resto, e interviene. Tra il chiacchiericcio curioso,
talvolta pettegolo, si insinuano idee musicali poi sviluppate nella Missa
Solemnis, nelle ultime Sonate, nei Quartetti con cui si chiuse la vicenda
terrena di Beethoven. Ogni tanto il foglio è attraversato da calcoli di spese
e futuri guadagni pieni di errori, che qualcuno (il contabile Holz,
violinista?) corregge. Libri da comprare, frasi lette sui giornali di attualità,
ricordi di giovinezza, malignità su nobildonne in vista, giudizi tranchant
su altri compositori e critiche infastidite al vuoto passeggiare in su e in giù
sulla tastiera dei virtuosi alla moda. Qualcuno si vendica. Hummel fa
credere a Beethoven che hanno inventato una lanterna per far vedere i
ciechi, e lui, tutto contento, lo racconta a tutti. Si parla anche di case.
Beethoven si sposta di continuo, dalla Sailestätte alla Landstrasse, che sta
in periferia, accanto al collegio di Karl, fino ad un appartamento sul
Glacis, nella Josephstadt, “di fronte al palazzo Auersperg, nella stessa casa
dove c'è il caffè”. Quando va in campagna per lunghi soggiorni, si tiene
l'ultimo appartamento di città, il cui affitto, si diceva in altro luogo, spesso
si somma a quello del precedente, non ancora disdetto. Con la bipolarità
che ci è ormai nota, si riaccosta al fratello Johann, per il solito senso di
colpa non risolto che veicola un masochismo dove la sofferenza si fa atto
d'amore. Siccome non sopporta sua moglie, la Grassona, prende casa in un
appartamento chiuso a cella monacale, senza canna fumaria, che
apparteneva alla famiglia Obermayer, quella della cognata Therese. La
casa è in Kothgasse, che nonostante gli sforzi dei biografi germanisti
continua ad essere la Via del Letame, ad essere gentili. Qui continua a
fumigare carni e metter sul fuoco il suo caffè pigiato in macchinette
avveniristiche; poi, siccome non c'è il camino, gli viene una congiuntivite
che per parecchio tempo non gli permette di comporre. Se ne va
minacciando di chiamare la polizia, perché in quel luogo non si rispettano
le normative vigenti. La paternalistica polizia absburgica, una sorta di
tutrice contro le frustrazioni dell'inquilino medio, è ormai diventata, per
lui, una figura materna. A un certo punto capisce che a Vienna lo
esibiscono come una bestia rara e scappa nel palazzo di campagna del
barone Sigmund Pronay, a Hetzendorf. Al barone non par vero. Ordina ai
servi di non fare rumore, perché il Maestro compone. Ogni volta che lo
incontra nei viali del giardino, si inchina. Gli fa trovare, a tavola, le
ostriche e il pesce fresco. Gli chiede solo una cosa: siccome soffre di
insonnia, e la stanza di Beethoven sta sopra la sua, la notte non cammini e
non faccia rumore. Lui, dopo un po', ne ha abbastanza, e pestando i piedi e
cantando fino al mattino fa in modo di farsi cacciare. Nei ristoranti lo
imbrogliano, dice. Il fatto è che, nella distrazione, ordina cose che non gli
piacciono, e le rimanda indietro, ma le paga insieme alle altre che ha
chiesto al posto di quelle, e capita anche che chieda il conto senza aver
mangiato. I problemi finanziari nascono dalla retta dei collegi di Karl, le
spese legali, le buonuscite continue ai servitori che spesso si licenziano o
che vengono, più spesso ancora, licenziati; e da questi affitti che si
sommano, nel caos di addizioni e moltiplicazioni contate sulle dita, e tutte
sbagliate. Non mancano, nei Quaderni di conversazione, le novità del
giorno: la moda delle ascese in mongolfiera; gli ultimi modelli di
macchine per il caffè, che Beethoven collauda l'una dopo l'altra, rischiando
di mandare a fuoco la casa; materassi di un tipo che consente il ricambio
immediato dell'imbottitura, cosa salutare per uno scapolo; le trappole per
topi, ospiti non paganti abituali nel menage beethoveniano; infine, il
gabinetto portatile del signor Cazeneuve, “completamente inodore”. Gli
ammiratori lo tampinano fuori della bottega di Artaria, che a un certo
punto distribuisce cartoncini con il numero d'ordine: chi vuole parlare con
Beethoven si accomodi al banco del salumiere. In questo periodo è il
compositore più celebre d'Europa e, a Vienna, il meno eseguito. I viennesi
hanno interesse “solo per i cavalli e per le ballerine”. Dice a Rochlitz: “Qui
a Vienna Lei non sentirà mai nulla di mio. Cosa dovrebbe sentire, il
Fidelio? Quell'Opera non la sanno dare e non la vogliono neanche sentire.
Le sinfonie? Per quelle non hanno tempo. I Concerti? Ciascuno strimpella
le cose proprie. Le composizioni per solista? Qui sono fuori moda da un
pezzo, e la moda è tutto”. Già, la moda, la quale, lui dirà nella Nona
Sinfonia, con le parole di Schiller, ogni cosa “severamente divide”...
Beethoven, in questi ultimi anni, è un sopravvissuto a se stesso, oggetto di
indagine curiosa da parte di gente che si intuisce attratta dal suo essere
relitto dell'epoca che gli ha reso possibile diventare ciò che è. Lui se ne
rende conto, e scrive: “Vivi soltanto nella tua arte. Per quanto già ora la tua
vita sia limitata a causa della sordità, pure, questa è l'unica esistenza
possibile per te”. La sua musica viene eseguita con successo a Lipsia,
Berlino, Praga, Londra; Boston, perfino. A chi gli chiedeva perché non
lasciasse Vienna, rispondeva “alcuni legami mi vincolano qui”. Il povero
Karl diventa, ancora una volta, la vittima, gravata di colpa, del suo
desiderio di sparire al mondo, essere tutto nella sua musica, e nulla nel
tempo di fuori. “Si dice che lunga è l'arte e breve la vita, ma solo la vita è
lunga, breve è l'arte. Se il suo respiro ci innalza agli dèi, il favore dura un
solo istante”, scrive. Al di fuori del laboratorio interiore, nei Quaderni di
conversazione c'è l'inutilario del quotidiano, dove il naufragar gli è dolce.
Ritorna il mito di Napoleone: lui sì, patrono delle arti. Johann e gli amici
propongono di mettere insieme un'orchestra che vada a Sant'Elena a
suonare per lui. Karl Peters, tutore del figlio di Lobkowitz, è a Venezia col
suo pupillo. Si parla di pesce cucinato alla veneziana, e Beethoven ci si
appassiona, lui che del pesce ci vive. L'abate Gelinek sparla di lui. Il
drammaturgo, e spia absburgica, August von Kotzebue, è stato appena
ucciso da un fanatico, e Gelinek dice che anche Beethoven è un terrorista,
perché con le sue critiche incita alla rivolta popolare. Tutti parlano della
Sonata “Hammerklavier”, soprattutto quelli che non ci cavano le zampe.
La vogliono anche a Milano, “per quanto lì nessuno sia in grado di
suonarla”. Compare perfino un marito prosseneta che “ma insomma, la
vuole o no, mia moglie?”, dice al zittellone. È tutta una sarabanda
grottesca. Beethoven, forse, ci si diverte, ma le sue risposte non le
sappiamo. In questo periodo compaiono accanto a lui nuovi personaggi. Il
già citato Franz Oliva, viaggiatore di commercio, che Beethoven si porta
dietro a Baden. Johann Nepomuk Wolfmayer, commerciante di tessuti, gli
fa trovare sulla sedia, al mattino, completi all'ultima moda; Beethoven li
indossa scambiandoli per i quattro stracci che si è tolti la sera prima. C'è l'a
noi noto Karl Holz, violinista e “ufficiale di cassa”, che “beve forte”, e che
incontreremo quando sarà il momento di parlare di ciò che uccise
Beethoven. C'è August Friedrich Kanne, teologo e drammaturgo, direttore
della Wiener allgemeine musikalische Zeitung, cui Ludwig deve l'interesse
per le religioni orientali e i Misteri antichi, nonché l'ispirazione, grazie al
suo Orpheus, dell'“Andante con moto” nel Concerto n. 4 op. 58. C'è Josef
Carl Bernard, il direttore della Wiener Zeitung. C'è il sovversivo Friedrich
Wähner, la cui rivista Janus viene chiusa nel 1819, e che sarà, poi, espulso
dai territori dove è issata la bandiera con l'aquila a due teste. C'è Karl
Peters, l'istitutore del figlio di Lobkowitz, che abbiamo visto, con la scusa
del Grand Tour educativo, girare l'Europa a spese del suo protetto.
Ciascuno si becca il suo Canone “enigmatico” giocato sul nome. Peters,
che è Sankt Petrus, dà origine a “Sankt Petrus war ein Fels”, “San Pietro
petrosa rocca era”; il compositore Friedrich Kuhlau, in forza a
Copenhagen e protagonista con il Maestro di un'epica sbronza, a “Kühl
nicht lau”, dove c'è una mucca, Kuh, ancora “fresca”, kühl, perché non
“stanca”, lau. Il bello è che questa sciocchezza è composta sulle note del
nome B-A-C-H, anticipando così la Grande Fuga op. 133. Hoffmann
pubblica sulla Allgemeine Musikalische Zeitung la sua storica recensione
della Quinta Sinfonia? ed ecco Beethoven omaggiarlo con “Hoffmann, sei
ja kein Hofmann”: qualcosa del genere “Hoffmann, non mi faccia tanto il
prezioso” (la schidionata di aggettivi del celebre elogio hoffmanniano al
sordo non poteva passare impunita).
A dirigere virtualmente questa congrega di begli spiriti c'è Anton
Schindler: quello che si è inventato la professione di “amico di
Beethoven”. Si crede che Schindler abbia distrutto molti Quaderni di
conversazione per tutelare l'immagine del suo mito, eliminare i passaggi
dove questi infamava Francesco I e le autorità costituite. Io credo, come ho
detto, che abbia fatto sparire i luoghi dove, dopo la sua caduta in disgrazia
alla corte del genio, veniva da costui, o dai suoi intimi, infamato.
Schindler, insomma, si è cavato i sassolini dalla scarpa; solo che non erano
sassolini, erano monoliti così grossi che io lo chiamerò, da ora in poi, “lo
Sminatore”. Il suo ingresso nella vita di Beethoven è dovuto ad un
equivoco. Il Maestro era insidiato giorno per giorno dalla censura
poliziesca. Metternich lo tollerava solo perché un suo arresto avrebbe
portato ad uno scandalo nelle alte sfere. Ebbene: il grigio, metodico
Sminatore era riuscito, studente di giurisprudenza in Moravia, a farsi
arrestare per insubordinazione e simpatie verso movimenti antigovernativi;
per quanto oscura rimanga la dinamica di questo suo mai più ripetuto
eroismo libertario, esso valse come moneta di scambio spendibile sul
mercato dell'intimità con il sordo più orecchiato e spionisticamente
ascoltato di Vienna. Oltre ad aver reso segnali di fumo buona parte dei
Quaderni di conversazione, lo Sminatore è intervenuto pesantemente con
segni, cancellature, correzioni e note a margine su quelli superstiti, al
punto che i curatori della loro edizione critica avrebbero preferito dover
decifrare la Stele di Rosetta. L'immaginario dei beethoveniani è tuttora
pervaso dalle balle schindleriane, che lo fanno allucinato come l'assenzio
faceva il cervello dei “poeti maledetti”. In ogni momento capitale della
genesi creativa lodoviciana Schindler è lì, a fare ostetricia. Beethoven
aveva un bel dirgli che la sua natura così ordinaria, così da partita doppia
della contabilità psichica, era negata al Sublime; fin sul letto di morte il
“perticone” Sminatore, lungo e scuro, con quella sciarpa bianca legata
sotto il gozzo prominente, come fosse la Morte in vacanza, con le sue
richieste di delucidazioni esegetiche, faceva rimbombare gli attributi
beethoveniani. Schindler è colui che gli chiede come mai non ha scritto un
Rondò finale per la Sonata op. 111, e Beethoven gli risponde “non ne ho
avuto il tempo”. Schindler è il responsabile dell'infamia piovuta su Weber,
che avrebbe detto, a proposito della Settima Sinfonia, il Finale, “Beethoven
è pronto per il manicomio”; e invece l'Orso di Bonn lo accoglie con un
tonante “Lei è un diavolo d'uomo”, lo riempie di complimenti e lo serve a
tavola “come fossi la sua dama”, scrive quello alla moglie. Weber ricambia
mettendo in scena Fidelio a Praga; poi compone Euryanthe, eppure
Beethoven lo aveva avvertito, “i tedeschi non sanno scrivere un bel
libretto”. Da allora, il fondatore del Romanticismo musicale sprofonda
nelle fumisterie del sogno, e Beethoven, che ha ormai la testa nelle sfere
pitagoriche, non lo segue più. Ma soprattutto lo Sminatore ha la colpa di
aver sdoganato ogni possibile lettura “a programma” della musica
beethoveniana, subissando il compositore di richieste sulle chiavi di lettura
necessarie a penetrarne i segreti, e io sono certo che quando Beethoven,
ormai agonizzante, gli dice che per comprendere il Trio op. 97 “Arciduca”
bisogna leggere la Medea di Euripide, lo sta minchionando in articulo
mortis. E così, La tempesta di Shakespeare, secondo quanto Beethoven
dice a Schindler, funzionerebbe per ben due Sonate: quella “ufficiale”, la
Sonata n. 17 in re minore op. 31 n. 2, appunto cosiddetta, e la Sonata op.
57 detta invece, altrettanto surrettiziamente, “Appassionata”, perché un
editore ha trasformato la tempesta di sottotitoli schindleriana in un uragano
di illazioni. Il giureconsulto convertito alla musica Anton, nel comportarsi
in tal modo, ha il suo interesse; non per niente, dall'aver ceduto il lascito
beethoveniano in suo possesso alla Biblioteca Reale Prussiana di Berlino
trarrà una pensione annua che farà del suo “amico” la propria
assicurazione sulla vita. Dunque, aveva ogni vantaggio a rendere la figura
di lui attuale, up to date rispetto al Romanticismo dilagante e i suoi
mostruosi ibridi frutto di incroci tra le arti. Beethoven lo asseconda per
noia, celia e disprezzo. Qualcosa in lui reagisce all'isolamento attraverso
una vuota frenesia di tornare attuale, nel mentre la sua musica diventa
sempre più un codice cifrato di labirinti che solo le generazioni future
saranno buone a prendere per mappe. Soltanto così, come fosse una sorta
di cortina fumogena utile a nascondersi anche a se stesso, e far lavorare
con più lena l'inconscio, si spiega il suo accanimento, lungo tutta l'Età
della Trasfigurazione, a cercare il librettista ideale, il genio che insieme a
lui redimerà la musica dalla corrività rossiniana.
Beethoven considerava La vestale di Gaspare Spontini e Le deux journées
di Cherubini come i modelli ideali di ogni possibile dramma musicale. La
morte precoce di Collin lo privò dell'unico collaboratore in linea col suo
eroismo neoclassico fatto di caratteri e “gesti” musicali immuni a ogni
vuoto melodizzare. Wagner, nei suoi scritti beethoveniani, su di una simile
simbiosi di testo e musica, questa drammaturgia che voleva essere moto di
emozioni attraverso l'evolversi delle Forme musicali, ci costruisce la
cronistoria intera del suo Wort-Ton-Drama. Beethoven arrivò a concepire
un linguaggio fatto di dissonanze non risolte, ad accompagnare un
declamato drammatico antesignano dello Sprechtgesang, il tedesco “recitar
cantando”, dove la musica fosse articolata sulla quantità prosodica delle
sillabe: qualcosa che, nella musica “pura”, fece con la Settima Sinfonia, e
che il compositore russo Alexandr Dargomyžskij doveva realizzare,
cinquant'anni dopo, con Il convitato di pietra, tratto da Aleksandr Puškin.
Dopo Collin, Beethoven pensa a Kotzebue, che gli ha già imbastito gli
scenari di cartone di Re Stefano op. 117 e Le rovine di Atene op. 113,
dentro i quali Minerva va a cercare l'Ellade novella nei loggioni del nuovo
teatro di Pest, e Beethoven vi trova i rottami di ogni sua futura musica di
scena. A lui si devono i due progetti “verdiani” del Maestro che abbiamo
precedentemente intravvisto appena: Attila e Belisario. Come si è detto, il
drammaturgo viene provvidenzialmente messo fuori scena dalla pugnalata
di uno studente il quale non gradisce la sua qualità di absburgica arcispia
(che Beethoven lo sapesse, e intendesse, lui tramite, ingraziarsi il
Metternich impiccione?). A poeta pugnalato, gli subentra Treitschke, con
un Romulus in stile impero dove il Coriolano di Collin viene nutrito da una
lupa, e Beethoven ci medita di far la faina. Per un po' il Maestro si baloccò
con una conoscenza fatta attraverso Bettina Brentano, il principe Hermann
Ludwig von Pückler-Muskau, gran viaggiatore ed esperto di civiltà
esotiche. Meditava qualcosa sull'Oriente e la sua misteriosa mistica, poi
fece inversione di marcia e, ricordandosi le lezioni di Salieri, si incapricciò
del Ruggiero, ossia l'eroica gratitudine di Metastasio. Qualcuno gli fece
notare le lesioni alle corde vocali provocate ai cantanti dai suoi esercizi
nello stile canoro italiano; allora si mise a studiare le Tragedie di Voltaire,
dove gli parve che gli eroi antichi conversassero in un linguaggio un po'
troppo da poltrona di barbiere. Gli misero in mano Der Vampyr, traduzione
tedesca di un racconto di John Polidori – quel medico che a Byron, suo
unico paziente, data la tossicomania, costava un oppio della testa – dal
quale Heinrich Marschner poi trasse l'omonima Opera, famosa per essere
notoriamente misconosciuta. Il Romanticismo insidiava un Beethoven
stanco di veder trionfare, a Vienna, le barbajate musicali. Sospetto che il
suo librettista preferito fosse Aloys Weissenbach, l'autore della Cantata
trombona Il momento glorioso, che era sordo, così con lui si poteva
intendere; e non è a dirsi come gli astanti osservassero a bocca aperta
quelle conversazioni su Marte. Il punto di non ritorno fu l'incontro con
Zacharias Werner, sacerdote ex-naturista e predicatore dell'amore libero,
affastellatore di mostruosi marchingegni drammaturgici pieni di simboli
per sua fortuna non comprensibili, nonché autore di una Wanda, regina dei
Sarmati che ci mancava poco Beethoven mettesse in musica; col che
avrebbe reso l'assurda Euryanthe di Weber quel capolavoro che non è. Lo
salvò Bernard, facendogli avere dalla “Società degli amici della musica” la
commissione per un Oratorio su testo suo, Der Sieg des Kreuzes, “La
vittoria della croce”, che Beethoven accettò vinto dalle croci che c'erano
sui fiorini; infatti gli venne regolarmente pagato, e lui si guardò bene dal
mettervi mano. Non era la prima volta, in quegli anni quando vendeva
Messe accessorie alla Solemnis che non erano neanche in mente Dei. Ne
promise anche una accomodata espressamente sui gusti della corte, a mo'
di tesina per il posto resosi vacante di absburgico Kapellmeister. E invece,
pur di non darlo a lui, il posto, lo “congelarono”. Beethoven, adesso, era
tranquillo. Lui ci aveva provato, a restare attuale... E proprio allora
incontrò Grillparzer. Ad attrarlo verso il drammaturgo e funzionario statale
fu la stessa dinamica che gli aveva cacciato tra i piedi Schindler: l'odio per
la censura. Grillparzer aveva incontrato spesso, nell'infanzia, il Maestro.
La prima volta ad un concerto in casa di Josef Sonnleithner, il librettista
della Leonore originaria, che era suo zio. “A quell'epoca Beethoven era
ancora magro, aveva i capelli neri e vestiva con grande eleganza”
(rovesciate questi tre termini ed avrete la figura fisica del compositore
nella sua Età della Trascendenza). Si rincontrano un paio d'anni dopo ad
Heiligenstadt, dove passano le vacanze in due appartamenti posti ad
angolo l'uno rispetto all'altro. La madre del futuro drammaturgo, stregata
dall'improvvisare etereo del Maestro, si mette sul pianerottolo ad ascoltarlo
rapita, finché costui non spalanca di scatto la porta, la scorge e fugge in
strada; e da quel giorno non ci fu preghiera che tenesse, non toccò più il
pianoforte. A cercare il poeta, fu Beethoven. Gli propose di scrivere
qualcosa per lui, e avrebbero fatto a metà dei proventi. Che l'autore della
musica mettesse il librettista sul suo stesso piano, era allora – e tuttora è –
inconcepibile. Grillparzer, che era pur sempre un dipendente
dell'amministrazione absburgica, aveva avuto noie serie con la censura per
un suo poemetto sulla gloria di Roma che era sembrato alludere ad un
qualche confronto tra la caput mundi e i due capita schizoidi della
dissociata aquila absburgica, coi Balcani che fremevano e gli ungheresi a
sogghignarci nella loro incomprensibile lingua. Nei Quaderni di
conversazione, dunque, i due parlano per lo più di censura. “Si deve star
sotto a qualsiasi imbecille. Eppure non vorrei vivere in nessun altro luogo.
Mi hanno soppresso la pensione che ricevevo dal teatro. La censura mi ha
ucciso. La censura ha proibito la mia tragedia Ottokar. Non si vuole
permettere neppure che la si stampi. Ha troppa attinenza con l'Austria.
Bisogna andare nell'America del Nord per lasciare libero corso alle proprie
idee. Il musicista non subisce censura”, dice quello che ci sente, e dunque
scrive, e ci si immagina l'altro che fa grandi gesti col capo. E poi “la
musica è l'unica arte che hanno inventato i moderni. Ciascuno dovrebbe
avere soltanto se stesso a modello”. I soggetti proposti dal poeta li
abbiamo sfiorati ormai molte righe fa. Dapprima Drahomira, un'Opera
così da maniero gotico che a Beethoven vengono i reumatismi solo a
pensarci; quindi, una Melusine che ha già conquistato, come Undine,
Hoffmann, e poi diventerà capolavoro con la Rusalka di Antonín Dvořák.
Ascoltiamo Beethoven accogliere il suggerimento di Grillparzer, che è
nientemeno un primo ricorso a wagneriani Leitmotive. E però, nella prima
scena, quanti corni ci vogliono per creare l'effetto di eco? Weber ne ha
usati quattro; qui, ne occorrono almeno otto. Siamo di fronte a un
momento critico: se Beethoven non avesse deciso che usare otto corni
fuori scena non era più musica, ma scenografia sonora, non avremmo
dovuto aspettare l'apertura di sipario di Tristano e Isotta, secondo atto, e
poi la Sinfonia n. 1 “Il Titano” di Mahler, per salutare la nascita della
musica contemporanea, dove lo spazio dei sensi si affranca dal tempo della
mente. Grillparzer finisce nella ridda dei postulanti cui Beethoven nega
perfino il diritto di sapere che le loro ambizioni non si realizzeranno mai.
Si incontreranno spesso, anche quando il poeta avrà visto scomparire per
sempre la sua ninfa nei gorghi del fiume, alle taverne Zum Römischen
Kaiser, al Goldene Birne, oppure ancora al Blumenstöckl, i luoghi dove
Beethoven spesso cenava. Per malinteso pudore d'amico illuderà a lungo il
poeta, cui vuole bene, che la Melusine si farà. Il suo posto sarà preso da
Ludwig Rellstab, colui cui si deve l'Inconcepibile tra quanti titoli “poetici”
apocrifi sconciano le Sonate beethoveniane: quell'“Al chiaro di luna” che
in lui fu eco di una passeggiata notturna sul Lago dei Quattro Cantoni. “È
così difficile trovare un bel dramma... – lo accoglie il Maestro –
Grillparzer me ne ha già scritto uno, e me ne ha anche promesso un altro,
ma non possiamo andare d'accordo. Quello che voglio io è totalmente
diverso da quello che vuole lui. Lei dovrà penare molto con me”.
2. ET NUNC MANET IN TE

L'amore della purezza è la forma umana del sacrificio, di sé e degli altri.


“Al mio amore sacrifico me stesso e il prossimo mio come me stesso”,
dice lo Zarathustra di Nietzsche. La stazione finale dell'esistenza di
Beethoven è un non-luogo: un punto, nel grande cerchio della vita, dove il
tempo rimane sospeso. In questa dimensione protetta nella psiche, ma
aperta, nell'anima, ad ogni villania violenta del mondo, nascono le ultime
tre Sonate per pianoforte, dopo l'apertura alla rêverie romantica della
Sonata op. 101 e il laboratorio di rovine e penne d'aquila, direbbe
Schumann, della Sonata op. 106. È qui che si calcifica, per accumulo
progressivo di materiale intorno al “tema della gioia”, la Nona Sinfonia; si
irradiano gli assi dei cinque Quartetti terminali, pianeti in orbite variabili
intorno al loro centro di gravitazione, che è anche il fulcro di ogni musica
futura: la Grande Fuga op. 133, quel brano di cui Stravinskij disse, con
paradosso fulminante, che sarebbe stato per sempre musica
“contemporanea”.
Più si aliena dal mondo, più Beethoven scopre, in questi ultimi anni, che
l'unica forma possibile di estraneità ad esso è una forma totale di
immedesimazione nella sua materia organica. Al pari di certi santi gnostici,
celebra l'abominio di se stesso. Svende composizioni che ancora non
esistono; mercanteggia con gli editori assicurando ad ognuno un'esclusiva
che sarà di tutti; vaga per Vienna come un clochard, gesticolando e
cantando ad alta voce, con le tasche sformate di taccuini e matite da
carpentiere, e i bambini gli tirano i sassi nella schiena; si mescola a gente
da taverna, e tiene banco in tristi tavolate di soli maschi che sono lì solo
per poter dire che, quel giorno, loro erano lì. Promette a Wolfmayer un
Requiem che gli viene pagato in anticipo, e che farà la fine del grande
Oratorio Der Sieg des Kreutzes. Riceve (forse) il suo nadir, Rossini, e per
quanto la loro conversazione non sia (di certo) quella poi entrata nella
sfera del postumo mito beethoveniano, ma il biascicare tra due che
capiscono a malapena l'uno la lingua dell'altro – e uno dei quali è sordo,
l'altro stordito dall'ammirazione – pure, Beethoven dice a Rossini che la
sua musica è ciò di cui l'età subentrata ai Tempi Nuovi ha bisogno. Ben
venga, Rossini; ben venga, la fine dell'Umanesimo. La mia opera terrena è
finita: dirà sul letto di morte, con un'identificazione cristologica negare la
quale sarebbe segno non di lucidità critica, ma di paura.
Rochlitz, non certo un suo amico, perché direttore, fino al 1818, della
Allgemeine Musicalische Zeitung, descrive questa mise en abyme
psicologica del compositore, che vide far tavolata al Blumenstöckl, dove lo
aveva portato Schubert per una delle sue abituali contemplazioni, di
lontano, del Nume: “Quelli intorno a lui contribuivano ben poco alla
conversazione, limitandosi a ridere o ad annuire con un cenno del capo
(…) Mi dava l'impressione di un uomo dall'ingegno ricco e aggressivo,
dall'immaginazione sconfinata e instancabile, come un adolescente pieno
di talento, gettato su un'isola deserta a meditare su tutto ciò che può aver
accumulato fino a quel momento di esperienza e sapere”. Al netto di una
prosa letteraria fin troppo consapevole che verrà, grazie a quell'uomo pure
da lui, come critico, malamente compreso, letta per sempre dai posteri,
l'immagine di Rochlitz, un Beethoven Robinson Crusoe, costretto a
reinventarsi un mondo interiore pieno di una musica mai scritta, e un
tempo quotidiano eluso a forza di umorismo tagliente e paradossi
linguistici: questo Beethoven sopravvissuto, negli ultimi anni, a se stesso,
è il più vero che io conosca.
Il laboratorio delle opere procede, nella fortezza ben protetta del suo
immaginario, per conto proprio, e lui acchiappa per via qualsiasi occasione
esterna che ne motivi il divenire composizioni. Alla fine del 1822 scrive a
Ferdinand Ries, a Londra, da dove la Royal Philarmonic Society gli aveva
fatto pervenire l'invito a comporre per loro una sinfonia, “ha qualche idea
dell'onorario che mi offrirebbe?”. Alla Nona Sinfonia, però, stava già
lavorando dal 1817; al suo Finale, possiamo dire, da tutta la vita, dai tempi
della Cantata per la morte dell'Imperatore Giuseppe II. La Nona doveva
essere accompagnata da una Decima, secondo il solito schema binario dei
due Prinzipen in opposizione caro al Beethoven sinfonista. “Adagio.
Cantico. Canto religioso nei modi antichi, sia in una forma indipendente,
sia come introduzione a una Fuga (…) Questa sinfonia potrebbe essere
caratterizzata dall'intervento delle voci nel Finale o già nell'Adagio. I
violini dell'orchestra decuplicati negli ultimi tempi. Nell'Adagio il testo
sarà un mito greco, un cantico ecclesiastico. Nell'Allegro, festa di Bacco”,
annota Beethoven a margine di abbozzi della Nona. Il coro, dunque,
all'inizio doveva stare nel movimento lento; per un po', Beethoven pensò
di piazzarlo nell'Ouverture Zur Namensfeier op. 115. La Fuga confluì nella
Ouverture La consacrazione della casa op. 124, scritta per l'inaugurazione
del nuovo teatro della Josephstadt, a Vienna, e seguita da un riciclo delle
musiche di scena per Le rovine di Atene, ma in realtà sorta come una
meditazione sul Contrappunto haendeliano che pervade il Finale della
Nona. Il tardo stile beethoveniano sarebbe stato l'esito naturale di tutto il
suo lavoro creativo. Nel progetto della Decima, la sinfonia di Bacco,
vediamo elevarsi al suo trionfo la celebrazione della Grecità dionisiaca
messa in scena nella Settima Sinfonia. Altri progetti incalzavano: un
Quintetto per archi, il Requiem già citato, un Oratorio Gli elementi, un
altro su Saul e David; soprattutto, il Faust di Goethe. La breve vita di
Mozart, e quella, più breve, di Schubert, sembrano compiute rispetto allo
scorciamento di prospettiva cui ci costringe l'ultima stagione
beethoveniana. “I violini dell'orchestra decuplicati”: dopo avere intuito
l'esito ultimo del linguaggio operistico, lo Sprechgesang, Beethoven già
intravvedeva il sinfonismo mahleriano (e Mahler, che lo sapeva, metteva
mano, brutalmente, all'orchestrazione delle sue sinfonie). Di dove vadano a
finire questi pannelli preparatori alla grande volta ogivale della sua opera
ultima, che Chronos non gli permetterà di comporre: il Faust, nulla gli
importa. Fa promessa alla Royal Philarmonic Society, per la Nona, della
solita esclusiva che poi si guarderà bene dal mantenere. Cerca di rifilargli
anche quella Decima della quale esistono ancora pochi sgorbi, rintuzzati
con altri, ancora meno, fino a pochi giorni dalla morte, e poi “completati”
e pubblicati dal solito musicologo intento a rovistare nella pattumiera dei
Grandi, perché Ferdinand Ries ha descritto come Beethoven gliela
suonasse, una volta, per intero (ma non era, Ries, l'allievo davanti a cui
Beethoven si rifiutava di suonare, per via di quello scherzetto dell'Andante
favori?). Rifila a Charles Neate, emissario della Royal Philarmonic
Society, come nuove le tre ouverture più mediocri da lui mai scritte, Le
rovine di Atene op. 113, Re Stefano op. 117 e Zur Namensfeier op. 115,
quella scritta “Per l'onomastico” di Francesco I, e manca poco il tranello
non rovini per sempre i suoi rapporti con la più prestigiosa istituzione
musicale d'Europa. Quando Neate, in devota visita al proprio Nume, gli
suggerisce di comporre la nuova sinfonia nello stile delle sue prime, che
sono più digeribili al pubblico inglese, mancherà poco lo butti giù dalle
scale (l'intero episodio viene romanzato da Wagner nel suo racconto Una
visita a Beethoven). Gli chiede lezioni di composizione, e lui lo dirotta da
Förster. Gli pongono come condizione quasi inderogabile che si rechi a
Londra a dirigere personalmente la sua musica, per il compenso di trecento
ghinee. Beethoven immagina quel suo Sosia mortale che ormai va in giro
al posto suo replicare la sorte senile di Haydn, e si sente vendicato della
sufficienza, quel misconoscimento viennese condito di venerazione che ha
il sapore dolciastro della barbajata; poi si mette a discutere sulle spese di
viaggio, si impunta e manda tutto al diavolo: non certo a Londra, dove ci
sono solo suoi angelici adoratori. E dire che quel viaggio sarebbe stato la
sua salvezza... L'Europa intera lo chiama, e lui rimane nell'unico posto
dove ne esaltano il genio, a patto di poterlo non tollerare.
Dalla Russia, il 9 novembre 1822, il principe Nicolas Boris Galitzin gli fa
pervenire l'invito per lettera a comporre “uno, due o tre nuovi Quartetti” al
prezzo che Beethoven stabilirà. Anche in questo caso, il compositore stava
già lavorando al Quartetto op. 127; a ricevere la commissione è il suo
Sosia terreno, contabile armeggione quanto l'Altro è assorto nelle sublimi
sfere. Schindler, lo Sminatore, ha accusato Galitzin di avere distolto
Beethoven dalle sue più alte, terminali creazioni. E di non averlo finito di
pagare. La realtà è ben diversa. Galitzin paga in anticipo il primo
Quartetto, poi comincia ad aspettare. Beethoven sta scrivendo la Missa
Solemnis e la Nona Sinfonia, e quindi scrive al principe che avrà presto il
brano commissionato, magari insieme agli altri. Prima che la partitura
raggiunga San Pietroburgo, passeranno più di due anni. Nel frattempo, a
Galitzin è morto un figlio. Sua moglie si ammala gravemente. Quanto
all'op. 132, il secondo Quartetto, non solo non gli viene spedito, ma
Beethoven contravviene all'obbligo dell'esclusiva, e fa eseguire l'opera due
volte, il 6 e il 20 novembre 1825, senza che il principe ne sappia nulla. Ed
ecco la sua nobile presa d'atto, in una lettera spedita al Maestro in data 14
gennaio 1826: “Ho appena letto nella Gazzetta Musicale di Lipsia che il
nuovo Quartetto in la minore è stato eseguito a Vienna, e sono impaziente
di conoscere questo nuovo capolavoro che vi prego di inviarmi per posta
come il precedente”. Gli fa avere settantacinque ducati, cinquanta per il
Quartetto e venticinque per l'Ouverture La consacrazione della casa op.
124, a lui dedicata. Il Quartetto, però, non lo riceverà mai. Galitzin parte
per Mosca, dove verrà incoronato il nuovo Zar, e i rapporti tra i due si
interrompono. Nel frattempo Beethoven è riuscito, tenendolo sulla corda di
violino, non solo a fargli sottoscrivere per cinquanta ducati la Missa
Solemnis, ma anche a far sì che quella cattedrale di suoni invisitabile ai più
ricevesse la sola ed unica esecuzione integrale a San Pietroburgo, il 7
aprile del 1824. Un episodio occorso in occasione della sua “prima” ci fa
addentrare di più nella paranoia quasi conclamata di questo Beethoven
ormai in exitu. Il Maestro temeva che i copisti trasmettessero la sua musica
ad editori disonesti. Gli era già successo, ricordate? col Quintetto op. 29.
Le edizioni pirata erano una tradizione del mercato musicale di allora. Per
trent'anni, fino alla sua morte, nel 1823, il copista Wenzel Schlemmer
eroicamente trasformò i criptogrammi autografici beethoveniani che
sembravano così sgradevoli a Thomas Mann in note belle ordinate in
battute (e non si sa quante geniali innovazioni armoniche di Beethoven
siano soltanto sue sviste). Dopo la sua scomparsa, Beethoven cominciò a
togliere, dalle copie pronte per essere inviate, pagine a caso, secondo una
sua neuropatica logica profilattica. Dunque, a San Pietroburgo, quando
cominciarono le prove, mancavano dei pezzi, e solo la sollecitudine del
principe e la folle velocità di corrieri principescamente pagati evitarono il
disastro.
Con i due mercati paralleli: quello vintage, perché di musica già comprata
da altri, e quello executive class, perché condotto su canali privilegiati,
della Missa Solemnis, tocchiamo il punto più basso della cupio dissolvi
beethoveniana, in siffatto suo tramonto esistenziale. Anche in questo caso
l'elevazione dell'Arciduca Rodolfo al soglio arcivescovile di Olmütz fu un
arcipretesto. La nomina di Rodolfo si sapeva fin dall'estate del 1818, la sua
consacrazione avvenne il 26 settembre del 1819 e la cerimonia di
insediamento, che era l'occasione della Missa Solemnis, slittò fino al 9
marzo 1820; la Missa Solemnis, di suo, alla metà del 1823 era già pronta
per tutt'altra destinazione, e aveva un bel dire, il suo autore, “il giorno in
cui sarà eseguita una mia messa cantata per i festeggiamenti di V. A. I.
(“Vostra Altezza Imperiale”: cosiddetta, con un acronimo che sa,
giustamente, di polizza sulla vita) sarà il mio giorno più felice”... Quel
fragile suo protettore epilettico, l'uomo senza il quale sarebbe mille volte
andato in rovina, aveva in archivio una ricca collezione di lettere autografe
del genio nella maggior parte delle quali egli adduceva le più varie
malattie immaginarie a pretesto per non dargli lezione.
La Missa Solemnis doveva essere un monumento contrappuntistico alla
civiltà umana, una messa in scena del dolore delle creature mortali di
fronte allo smisurato mistero del male; e del silenzio di Dio, a farlo
incomprensibile. “Per scrivere autentica musica religiosa, riesaminare tutti
i Corali ecclesiastici dei monaci, ecc., farne estratti, anche delle strofe
nelle migliori traduzioni con la prosodia più esatta”, scrive prima di
immergersi nelle biblioteche dove i codici dell'antica regola
contrappuntistica giacciono intonsi da secoli, onde creare quella che lui
riteneva la sua composizione più alta, la sola che “dal cuore possa di
nuovo tornare ai cuori”, come scrive in calce al manoscritto, e che Theodor
Adorno considera la più goffa, la più carente di temi, mentre Wilhelm
Furtwängler, avendone fatto, alcune volte, prova, la giudicava pressoché
impossibile da dirigere. La religiosità di Beethoven non era confessionale.
Quando Ignaz Moscheles, incaricato di preparare la riduzione per
pianoforte di alcuni numeri del Fidelio, scrive sull'ultima pagina “finito,
con l'aiuto di Dio”, Beethoven corregge l'esergo in “o uomo, aiutati da
solo!”. A sbranarsi per la Missa Solemnis, Beethoven mette nella sua rete
quattro editori: Simrock e Peters la pagano, e la pubblica Schott. Ma il
“porta a porta” non si ferma qui. Il compositore, a mio parere su ideazione
del fratello Johann e tramite, forse, l'ornata penna del “cancelliere”
Gleichenstein, si mette a stendere missive ampollose da tramortirci le
“preziose ridicole” di Molière e le manda allo Zar, il Re di Prussia, il Re di
Francia; e Bernadotte, che adesso regnava sulla Svezia; e poi anche il
sovrano della Danimarca, il Principe Elettore di Sassonia, l'Arciduca di
Toscana, il povero Galitzin (con gli esiti che conosciamo), il principe
Anton Heinrich Radziwill, che era di reggenza a Poznan, in Polonia... Le
lettere sono tutte identiche, ché pare di stare nel Falstaff allorché Alice e
Meg si leggono reciprocamente le gemelle missive di corteggiamento del
panciuto Sir. Al prezzo di cinquanta ducati, il Maestro si impegna a spedire
copie manoscritte della Missa Solemnis su carta di pregio; il che lo
obbligherà a trasformare la disordinata casa in una stamperia artigiana, con
conseguente impossibilità, per diversi mesi, di comporre. Gli affari vanno
piuttosto bene. La Reale Società delle Scienze di Svezia lo nomina pure
membro onorario, a fare il paio con quella di Amsterdam, e lui vuole che
tutti lo sappiano, e lo scrive ai giornali. Poi lo racconterà a Wegeler, per
lettera, accennando anche ad un ventilato, dalla Prussia, Ordine dell'Aquila
Rossa di seconda classe che, in realtà, era della terza, e pare non si sia mai
materializzato. Al Re d'Inghilterra Giorgio IV, a punirlo del mancato
compenso per la dedica, non richiesta, de La vittoria di Wellington op. 91,
non mandò niente. Luigi XVIII gli spedì una medaglia d'oro massiccio
(che Beethoven, appena avutala, mise subito sul bilancino) con allegato
diploma e la scritta “dono del Re al sig. van Beethoven”. Quel “van” a
lungo preteso nobiliare, ancora chiedeva compensazioni al senso di colpa...
Anche Cherubini, in quanto direttore del Conservatorio di Parigi, si ebbe la
sua lettera, ma, questa volta, personalizzata: “In spirito Le sono spesso
vicino, perché valuto le Sue opere superiori a tutte le altre composizioni
teatrali (…) La vera arte è immortale, e il vero artista trova piena
soddisfazione e piacere nelle vere e grandi creazioni dell'ingegno. E così
anche io rimango incantato ogni volta che sento parlare di una Sua nuova
composizione e mi interesso alle Sue opere non meno che alle mie. In
breve, io La amo e La venero”. È una lettera davvero unica, intrisa di
un'ammirazione spinta fino a toni devoti che Beethoven riservò soltanto ad
Händel; il quale, però, aveva il vantaggio di essere morto. Cherubini non
rispose mai, e possiamo solo immaginare l'effetto distruttivo che la cosa
poté avere sul Maestro sempre più isolato e incompreso. Lui, giurò di non
averla mai ricevuta. Forse la censura absburgica intercettava le lettere che
il suo compositore più noto, ed ex-Illuminato notorio, inviava nella un
tempo capitale dell'Illuminismo, laddove un Re, in segno di larvata
polemica, si permetteva di glorificarlo a suon di medaglie d'oro?
Se il giudizio della storia, su Cherubini, è sospeso, Goethe, invece,
attenuanti, non ne ha. Anche il Figaro factotum del duca di Weimar era
nella gratulatoria di Beethoven, e se ne ebbe da lui queste parole:
“L'ammirazione, l'amore e la stima che ho nutrito fin dagli anni della mia
adolescenza per il solo, unico e immortale Goethe sono rimasti immutati.
Sentimenti di questo genere non si possono facilmente esprimere a parole,
specialmente da un individuo rozzo come me (..) ma un sentimento
singolare mi suggerisce costantemente di dirLe tutto questo, dato che vivo
immerso nei Suoi scritti”. Beethoven gli chiede se ha ricevuto la dedica di
Calma di mare e felice viaggio op. 112, per coro e orchestra. Gli domanda
un parere sulla composizione, “anche una Sua critica, che si potrebbe
considerare l'essenza stessa della verità, mi giungerebbe estremamente
gradita, perché io amo la verità sopra ogni altra cosa”. Gli parla di Karl,
dei problemi finanziari, della sua condizione di scapolo con figlio adottivo
a carico. Forse, è proprio questo l'errore. Goethe teme lo Sfrenato, come
ebbe a definirlo. Si è creato un basamento di marmo da cui tromboneggia
usando i miti antichi come filtri all'antico maestrale, ora fattosi al suo
orecchio uno zeffiro di laude e plauso. Insomma: giovani Werther che non
si siano uccisi, ma ammazzino gli altri di cupezza, non ne vuole. Goethe
aspetta Mendelssohn, che gli scriverà l'Ouverture Calma di mare e felice
viaggio op. 27. Per noi, che siamo i rampicanti secchi cresciuti su quel
basamento di marmo, la mancata congiunzione dei due più grandi,
complementari, perché opposti, umanisti della civiltà occidentale, è stata
causa di sicura rovina.
Quel miracoloso equilibrio tra salute del genio e infermità del corpo che ha
permesso, fino ad ora, a Beethoven non solo di compensare i propri deficit
fisici in modo da non farne un ostacolo, ma addirittura di trasformarli in
baluardi difensivi appare, adesso, compromesso. La sordità, sorta di
rifugio dal mondo, oggetto alla gente di una curiosità talora quasi tenera,
d'improvviso appare per la tragedia che è. Il punto di non ritorno è la terza
ripresa di Fidelio, il 3 novembre 1822, al Teatro di Porta Carinzia, con
quella Wilhelmine Schröder che avrà poi un influsso decisivo sulla
vocazione artistica di Wagner. La diciassettenne debuttante ci ha lasciato
una cronaca della prova generale che per una volta rende credibile
Schindler, l'altro testimone, dimostrando in quanta stima la tenesse lo
Sminatore. L'“Ouverture”, pur se a scossoni, procede grazie ai cenni
furtivi di Michael Umlauff, il direttore stabile dell'orchestra, il quale, a
rischio di pigliarsi qualche ceffone, sta dietro al Maestro la cui maniera
forsennata, nel dirigere, abbiamo già altrove accennato. La Schröder,
rappresentando un Beethoven che con sguardo “ispirato, ultraterreno”,
sbatteva la bacchetta avanti e indietro “con gesti violenti”, e per ottenere
un “piano” “si piegava fin quasi sotto il leggio del direttore, se voleva un
'forte' saltava con i gesti più strani, emettendo i suoni più incredibili”, ce la
conferma, e fa così la gioia di tanti aspiranti concertatori attuali, i quali
possono sempre dire che, almeno in Beethoven, i loro bramiti desultori sul
cricchiare di podi nati per tonfi più peristaltici, è “prassi autentica”.
All'inizio del primo atto le voci vanno per conto loro, e l'orchestra si
ferma. Beethoven si guarda intorno, con quel fissare in faccia la gente che
hanno i sordi, quando capiscono che gli sfugge qualcosa. C'è un silenzio di
gelo, a rendere la sua sordità un dettaglio secondario. Il Maestro porge il
taccuino a Schindler, e questi vi scrive sopra “per favore, non continui. A
casa le spiegherò”. Beethoven vi si precipita e si getta sul sofà. “Si coprì il
volto con le mani e così rimase finché non venne l'ora di sederci a tavola.
Durante il pasto non pronunciò parola, e poi mi chiese di non lasciarlo fino
al momento di ritornare in teatro”. Schindler, al solito, descrive la propria
funzione di eine feste Burg, di salda fortezza luterana, ad arginare le derive
del suo Signore. Al netto dell'enfasi ciarlatana, appare chiaro un crollo, un
precipitare del principio di realtà dentro il mito prometeico del Titano
ferito. È come se Beethoven, d'improvviso, si rendesse conto che il mondo,
là fuori, è un ambiente che gli è precluso, e certo la vicenda di Florestan,
calato in ceppi dentro un luogo oscuro dove regna un silenzio di tomba,
deve aver contribuito per empatia a tanto apparir del vero; una simile,
orrenda rivelazione di quel vuoto riempito di suoni immaginari
che è la sordità di un genio compositore.
Dopo la terza ripresa di Fidelio, Beethoven è sordo anche dentro, e il suo
atteggiamento di fronte alla gente cambia. Diviene più diffidente,
inquisitorio, francamente paranoico. Segni di un complesso di
persecuzione, nel suo operare, appaiono con una chiarezza a mano a mano
più devastante. Progetta di presentare la Nona Sinfonia a Berlino, perché
Vienna è in mano al carrozzone degli italiani. È una mossa analoga al
balletto di Kassel, con quel pas des deux tra il novello principe illuminato,
Jérôme, e i vestali viennesi del fuoco beethoveniano. Anche in questo caso
succede ciò che il Maestro si augura: un proclama firmato da trenta
musicisti, editori e patroni delle arti, tutti di Vienna, nel quale vibrano
accenti schilleriani che sembrano presi di peso da un immaginario
Cincinnato, se il drammaturgo amico di Goethe mai vi avesse posto mano,
con un finale rombante come la “Sinfonia della vittoria” che conclude le
beethoveniane musiche di scena per Egmont: “È forse necessario
assicurarVi che, nel momento in cui tutti gli sguardi erano rivolti verso di
Voi colmi di speranza, tutti avvertivano dolorosamente come l'unico uomo
che tutti noi dobbiamo riconoscere come il più eminente nel suo campo tra
gli esseri viventi, osservasse in silenzio l'arte straniera che si impossessava
del suolo tedesco?”. Insomma, qualcosa del tipo: Monda, uom di
multiforme ingegno/Dal piede straniero il patrio suolo; non siamo lontani
dal Metastasio che Beethoven metteva in musica, da giovane, sotto la
ferula di Salieri. Beethoven acconsente. Si discutono il luogo, il
programma, i prezzi dei biglietti. Più volte “il più eminente tra gli esseri
viventi” minaccia di lasciare silente quella musica che non può sentire.
Pensa che tutti tramino alle sue spalle. Alla fine si trova la disponibilità del
Teatro di Porta Carinzia, in data 7 maggio 1824. Il programma: Ouverture
La consacrazione della casa op. 124, “Kyrie”, “Credo” e “Agnus Dei”
dalla Missa Solemnis (presentati come “Tre grandi Inni”, e permessi solo
dopo una concitata trattativa con la censura, che non permetteva si
eseguisse musica sacra a teatro) e, beninteso, la Nona Sinfonia strappata a
Berlino. Beethoven la chiama “Sinfonie Allemande”, e un qualche biografo
ne ha tratto argomento al nazionalismo pangermanico di un Beethoven
protoprussiano. Io credo che volesse solo alludere alla futura Decima, che
sarebbe stata la “Sinfonie Anglaise”. Le due voci femminili scritturate per
il concerto, la Sonntag e la Unger, sono molto giovani, carine e disinibite;
Beethoven ci si prende quasi una cotta, e le invita a una delle sue cene
capaci di stendere un fachiro mangiatore di spade, innaffiate di vino
ungherese al piombo. Già lo raccontammo, che ormai ci rimette il
concerto. Va segnalato quanto la documentazione sulla vita di Beethoven
sia impressionante, sappiamo perfino quante volte dette di stomaco, quella
notte, la Sontag, e che la Unger, invece, “ebbe il problema opposto”. La
sera del 7, la sala è piena. C'era anche Zmeskall, che per la gotta non
poteva camminare, e così lo avevano issato su di una portantina. Dei Reali
Imperiali Absburgo, però, neanche un lacchè. Schuppanzig, dal leggio di
primo violino, dà gli attacchi all'orchestra; Umlauf si occupa dei cori, e
Beethoven sta in piedi sul podio a mimare la parte del direttore. Siccome
non ha un frac nero, se ne è messo uno verde, “tanto, nell'oscurità del
teatro, nessuno si accorgerà della differenza”. Quando i timpani, nel
“Molto vivace”, hanno il loro intervento solistico, il pubblico – erano altri
tempi – comincia ad applaudire e non si ferma più, finché il commissario
di polizia si alza a zittirli. Allora la Unger prende Beethoven per le code
del frac, come Topolino, in Fantasia di Walt Disney, fa con Leopold
Stokowski, inducendolo a girarsi. Lui vede la scena del tumulto, e si
inchina leggermente al pubblico. Grillparzer, nei Quaderni di
conversazione, si dipinge a Beethoven come “un ipocondriaco”: a quel
tempo, sinonimo di depresso cronico. Dice che non sa godere dei propri
successi. Bene: la paranoia ha reso Beethoven ipocondriaco. Si fa il conto
dell'incasso. Le spese sono state gigantesche. L'orchestra potenziata conta
ventiquattro violini, dieci viole, dodici contrabbassi e violoncelli, con i
fiati tutti raddoppiati. Al Maestro restano in tasca quattrocentoventi fiorini.
Così, nella cena che segue il concerto, se la piglia con tutti, e in specie con
Schindler, che di mestiere, lo sappiamo, fa l'amico di Beethoven, e quella
sera perde il lavoro. Lo rimpiazzerà Holz, il cui cognome significa
“legno”, e che per questo verrà detto, dal “più eminente tra gli esseri
viventi”, “eccellentissimo pezzo di mogano”, “eccellentissima scheggia”, e
anche “lignum crucis” e “legno di Cristo”, con evidente ricalco
beethoveniano tra la propria condizione di martire e quella del Salvatore.
Di che cosa facesse Beethoven con Holz, nei diciotto mesi dell'esilio
schindleriano, non sappiamo molto, perché lo Sminatore, ci è ben noto, ha
fatto terra bruciata dei Quaderni di conversazione. Il dott. Andreas Ignaz
Wahwruch, fine latinista, oltre che medico, dice che Beethoven, in quel
periodo, “sedebat et bibebat”, e con questa annotazione da Carmina
Burana fa il suo ingresso nella nostra storia. La replica del concerto, il 23
maggio, era di domenica, con un sole, fuori del teatro, sfolgorante. Teatro
vuoto per più di metà, nonostante il taglio di “Credo” e “Agnus Dei”,
rimpiazzati dal Terzetto Tremati, empi, tremate op. 116 (ma vecchio di
vent'anni) e l'aggiunta di un brano di Rossini, “Di tanti palpiti”, dal
Tancredi, a lubrificare qual olio di ricino il transito dei denari nelle tasche
del compositore; il quale, sdegnato, accetta solo dopo ripetute insistenze il
minimo garantito di cinquecento fiorini che gli è stato promesso. La Nona
Sinfonia fa il suo ingresso nel mondo in questo clima di sospetti, ripicche,
accuse ingiuste e vendette postume di Sminatori maneggioni:
“Abbracciatevi, o moltitudini. Vada questo bacio al mondo intero”.
La morte per tisi del fratello Carl, nel 1815, risvegliò in Ludwig il riflesso
psicosomatico della malattia materna, a noi già noto per la vecchia lettera
all'avvocato von Schaden, il primo suo creditore mai rimborsato. Da
quell'anno la sua esistenza è quella di un paziente cronico la cui condizione
viene aggravata dalla frequente defezione del medico curante. Il suo stato
di salute è in Forma-Sonata, con l'itterizia e la gotta a fare da “tema forte”,
e la bronchite cronica a creare interessanti sviluppi di interazioni
sintomatiche. Ogni stazione di questa via crucis degenerativa è segnata dal
dileguarsi furtivo di clinici più o meno illustri: dopo la “forma catarrale
infiammatoria” del 1817, il dott. Malfatti; dopo il “terribile attacco
reumatico” conseguente, il dott. Andreas Bertolini; poi venne il dott. Jacob
Staudenheim, in tempo per constatare una “malattia dei polmoni” che lui
ebbe il potere di rendere il “basso continuo” necessario a questa sinfonia di
muchi ed espettorati vari. Staudenheim doveva praticare l'autoipnosi,
perché riesce a rimanere accanto a Beethoven fino al 1825, trattando, tra le
altre cose, un attacco itterico associato a polmonite così grave da far
accorrere al letto del malato amici, nemici e ammiratori partecipanti, in
quanto invidiosi, la qualità di entrambi. Nel 1823 le orecchie del
compositore chiedono agli occhi di rendere più efficace il suo isolamento
creativo, e lui rimane al buio per settimane, con una benda sugli stessi (lui
ne dà la colpa ai suffumigi patiti nella Kothgasse, e quindi, per lunghe
derive paranoidi, al fratello Johann). Quando va a Baden, alle volte deve
rinunciare alla cura, perché il suo corpo non la sopporta. Sull'affezione
genetica di Ludwig, che era pur sempre figlio di un alcolizzato e di una
tisica: la malattia autoimmune dei tessuti connettivi, si dovette innestare
una epatite cronica che rappresenta la frequente evoluzione di sindromi
simili. E qui sorge il problema dell'alcolismo. Beethoven era un forte
bevitore in un'epoca nella quale l'alcol era considerato una sorta di
“rimedio della nonna” a tutti i mali; tant'è vero che chi, tra i suoi
contemporanei, cerca di dissipare questa allusione alla dipsomania dice
che Beethoven “raramente beveva più di una bottiglia di vino a pasto”, e
comunque “reggeva molto bene” l'alcol; il che è una conferma implicita.
L'alcol produce cirrosi, negli alcolisti, in una percentuale che varia dal
dieci al venti per cento. Sappiamo che Goethe, di bottiglie di vino, se ne
faceva fuori anche due a pasto, ma questo non gli impedì di lavorare al
Faust fino a ridosso della morte, che lo colse ottantatreenne. La variabile
determinante è l'epatite cronica, che l'alcol fa quasi sempre degenerare in
cirrosi. Beethoven cominciò a soffrirne, nella forma compensata, fin dal
1816, e gli attacchi di itterizia marcarono il progresso del male nel fegato,
che ebbe il colpo di grazia nell'unico periodo in cui il Maestro fu, a mio
parere, un alcolista vero e proprio: i diciotto mesi del legame con Holz. Un
passaggio dei Quaderni di conversazione ci mostra Beethoven in forte
ansia. Ha affidato ad Holz un manoscritto dove è annotato il passaggio di
un Quartetto, e sa che, se perso, non riuscirà mai a ricostruirlo a memoria.
E Holz, ci dice, “in confidenza, beve forte”. La cirrosi si manifestò in tutta
la sua virulenza proprio in capo al periodo di bisbocce con Holz. Nel
referto dell'autopsia, il pancreas “duro e sodo”, con il dotto escretore
“largo come una penna d'oca”, dimostra abusi alcolici protratti. Lo
Sminatore, questa volta, qualche ragione, a toglier di mezzo Quaderni di
conversazione con frasi pesanti come massi, ce l'aveva... Intanto il
cirrotico persiste a non seguire la dieta prescrittagli dai medici. Tutto ciò
che possono cavare da lui, quando paga, è un Canone buffo sulle Noten
che risolvono il Not – il “bisogno”, inteso nel senso monetario – quando il
medico “sperrt das Tor dem Tod”, “sbarra la porta alla morte”.
Ad uccidere Beethoven, però, non fu la cirrosi, ma il nipote. Il 30 luglio
1826 Karl, dopo avere venduto l'orologio e alcuni libri dello zio per
comprare due pistole, sale sulle rovine di Rahuenstein, presso Baden, e se
le scarica tutte e due in testa. Una pallottola manca il bersaglio, l'altra si
conficca nel cranio, in modo non profondo. Lo trovano parecchio
sanguinante, ma cosciente. Viene trasportato a casa di sua madre. Altre
pistole gli erano state scoperte e confiscate poco prima, spingendo Karl a
scomparire per un'intera notte durante la quale venne cercato lungo il
fiume, con Beethoven, pure, che vagava disperato seguendone il corso.
Pensavano si fosse annegato. Quando il Maestro giunge all'ospedale, lo
scambiano per un contadino in visita a qualche parente. Ha parole di astio
e rancore verso il nipote, che chiede di vedere immediatamente.
Obbediscono, e in capo a poco Karl minaccia di strapparsi le bende, se
quello non se ne va. Il tentato suicidio, a Vienna, è un reato contro la
religione. Grazie ad intrighi tipicamente beethoveniani, ci si limita a
spedire al capezzale di Karl un sacerdote della Congregazione dei
Redentoristi, ché gli faccia un bel ripasso del Catechismo. Il 7 agosto, la
ferita si è chiusa. Karl viene dimesso. Di opporsi ancora alla sua decisione
di esser soldato, non è questione. Il Feldmaresciallo Joseph von
Stutterheim, per intercessione di Stephan Breuning, che era suo amico,
accettò di prendere il ragazzo come cadetto nel suo reggimento. Si trattava
certo di una procedura non usuale, data la sua fedina penale sporca; anche
il Feldmaresciallo, a quanto pare, apparteneva alla cerchia degli Illuminati.
A questo punto, zio e nipote si dovrebbero separare; e invece, Karl ricorre
alla scusa della cicatrice ancora visibile per chiedere a Ludwig di passare
ancora un po' di tempo insieme. Straziante, il groviglio di emozioni che il
confronto quotidiano con uno spirito “sfrenato”, secondo le parole di
Goethe – ovvero, secondo le mie, un narcisista borderline – sviluppa
nell'animo immaturo, ma limpido, del ragazzo, che ha un solo torto: non
essere un genio. Voleva davvero uccidersi, Karl? Siamo nell'epoca del
Werther, quando i giovani inscenavano psicodrammi a fine, speravano,
lieta, con una frequenza oggi incomprensibile. La scelta di un paesaggio
caro a Ludwig, meta di tante loro passeggiate; lo scenario gotico di rovine
coperte dalla vegetazione e, soprattutto, l'aver ottenuto le pistole vendendo
cose che lo zio gli aveva regalato o imprestato, così come Werther, per
uccidersi, usa una delle pistole del suo amico Alberto, lo sposo dell'amata
Carlotta: tutto lascia pensare ad un mediocre “adattamento” del romanzo
goethiano, che era, oltretutto, una delle letture preferite di Beethoven.
Probabilmente, la copia del Werther posseduta da Karl era un regalo dello
zio. Karl aveva qualche debito, un profitto scolastico sempre più in
declino; soprattutto, però, ormai giovane adulto, non sopportava più di non
essere un individuo, ma solo uno specchio nei cui riflessi Beethoven
osservava le proprie emozioni, per lui, narcisista, così difficili da decifrare.
Con la messa in scena del suicidio, Karl, di vittima, diventa carnefice. Il
male che i narcisisti fanno agli altri consiste nel renderli, per disperazione,
malvagi. Chi incontra Beethoven in quei giorni si trova davanti un vecchio
dagli occhi spenti. D'ora in poi non osserverà più alcuna cautela, nessun
riguardo al suo organismo devastato. Da allora, Beethoven diventa il
protagonista di una commedia del latino Terenzio che forse conosceva:
Heautontimorùmenos, “Il punitore di se stesso”.
Prima tappa nella discesa verso l'Ade: accetta l'invito del fratello Johann,
che ha comperato una tenuta presso Gneixendorf. Quel nome che a
Beethoven ha sempre ricordato un asse che si rompe, è anche il rumore di
fondo della sua rovina. A me questo fratello dalla faccia larga e un occhio
storto che si è arricchito col mercato nero e sfoggia un equipaggio con
carrozza e velluti su cui sale con i guanti bianchi; questo vanesio che si
tinge i capelli, eppure, come dice Karl, non potrà con questo ingannare la
Morte; questo pasticcione che ha dovuto sposare una donna che non ama,
con figlia bastarda al seguito, pur di dar nell'uzzolo al prepotente fratello,
nei cui affari si immischia con le migliori intenzioni ed i peggiori esiti
(quanta parte di colpa ha, nei raggiri beethoveniani ai danni degli editori?):
a me, Johann, non sta antipatico. Rappresenta la parte terrigna,
materialista, dei Beethoven faccendieri brabantini. Anche lui, in fondo, di
Ludwig è una vittima.
A Gneixendorf, la tragedia del Punitore di Se Stesso diventa farsa. Ludwig
vaga cantando per i campi, e spaventa le vacche. Gli devono chiedere di
non lasciare mai i sentieri. Il fratello se lo porta dietro mentre tratta i propri
affari, e tutti pensano sia il suo servo, per cui gli danno i pesi da portare.
Gli hanno assegnato un ragazzetto, cui lui si affeziona, come sempre gli
capita con le anime semplici, perché ha letto Rousseau; e tanto vuol bene a
quel ragazzetto che gli insegna a fare la spia: che cosa dicono di lui, a
tavola, i grandi? Perché, beninteso, lui non sopporta gli orari fissi, e
mangia da solo. Nel frattempo, a Vienna, Schuppanzig e il suo quartetto
eseguono il numero tre dei cinque Quartetti terminali, quello in Si bemolle
maggiore op. 130. Il movimento “Alla danza tedesca” e la “Cavatina” – il
brano che lo stesso Beethoven non poteva osservare eseguito senza
piangere; figuratevi noi, che la sentiamo pure... – hanno un grande
successo, con richieste di bis. Poi, viene la “Grande Fuga”, il Finale.
Schuppanzig, che già ha portato al disastro il Quartetto op. 127, studiato in
fretta e furia, perché, per sua stessa ammissione, non ne ha capito
“l'insieme”, la struttura, è pallido e suda sotto la ciccia come un
condannato al rogo. La solita Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia
così re-re-re-re-cen-cen-si-si-si-si-sisce: non è che la “Grande Fuga” sia
brutta, è che è scritta in Cinese. Artaria, l'editore, manda Holz da
Beethoven. Bevono, scherzano, e intanto “ma non trovi che la 'Grande
Fuga' scompensi la struttura del Quartetto? Un Finale meno monumentale
coronerebbe l'emozione della 'Cavatina'. Ti piace la 'Cavatina', vero?” –
lacrime alcoliche, “al piombo ungherese”, di Beethoven – Inoltre Artaria,
il nuovo Finale, te lo pagherebbe a parte. Puoi sempre pubblicare la
'Grande Fuga' come opera autonoma, diciamo op. 133, e magari ne
facciamo un arrangiamento per pianoforte a quattro mani, così gira di più”.
Ecco fatto: Beethoven, a Gneixendorf, scacciando le mucche, compone
quella sorta di danza campestre che chiude il Quartetto op. 130, il quale,
così, viene sconciato – lui, e tutti i cinque ultimi Quartetti, compresi i due
che verranno eseguiti postumi – della sua interna ragione di essere. Ma il
Nostro, ormai, con la realtà, indifferente, ci gioca. Non ha composto il
Finale del Quartetto op. 135 su di un Canone sarcastico, “Muss es sein?”,
“Es muss sein!”: “Deve essere?”, “Sì, deve essere!”, spedito a un
musicofilo che aveva eseguito in casa propria uno dei Quartetti senza
pagarne la sottoscrizione, e che gli chiedeva se davvero dovesse saldare il
conto? Morire? Deve essere? eh sì...
Verso la fine di quel 1826 la Grassona e la Bastarda, di Beethoven e delle
sue continue liti con Karl, non ne possono più. Sarà mica ora di spedire il
ragazzo al reggimento? poi, non ce lo prendono più. Noi stiamo per andare
giusto a Vienna, e nella carrozza c'è posto. Beethoven mangia la
barbabietola, ma con quelle due, viaggiare, mai; piuttosto, andrà su un
carro da trasporto scoperto, e se piove e tira vento, pazienza. Partono. Si
fermano per la notte in una locanda che le guide locali dicono famosa per
gli spifferi. Beethoven ha la polmonite. Durante la notte beve una grande
quantità di acqua gelida. Il fegato cirrotico ringrazia, e promette che si farà
sentire.
Le agonie sono tutte uguali, quella di Beethoven, è solo un po' più lunga.
Da poco si è trasferito nella Casa degli Spagnoli Neri, che è fuori dalle
mura, ed è un ex-convento. Lui occupa le stanze che furono dell'abate. La
vista è magnifica, la polvere è tanta, l'umidità, di più. La casa è prossima a
quella dei Breuning. Credo che il motivo per cui l'ha scelta, sia quello.
Karl va a cercare un medico. Non è vero che se ne stette tre giorni a
giocare a biliardo, perché non si ricordava più del vecchio morente; il fatto
è che sia Anton Braunhofer, l'attuale medico curante di Beethoven, che
Malfatti, si rifiutano di venire. La Casa degli Spagnoli Neri è troppo fuori
mano, dicono. In realtà, sanno che se vanno si trovano a palpeggiare il
fegato cirrotico conclamato di un genio, e non vogliono passare alla storia
per questo (e invece...). Alla fine si reperisce il dott. Wawruch, che ha
lasciato anche una memoria sull'ultima malattia di Beethoven in uno stile
che sembra scritta da un cancelliere di tribunale, e nella quale,
dimostrando di non aver capito niente, dà la colpa di tutto all'alcolismo.
Comunque, per virtù naturali, la polmonite, in una settimana, è risolta.
Ora, però, subentra l'idropisia. A Beethoven si gonfiano piedi, gambe e
ventre. Gli era già capitato, in forma più lieve, a Gneixendorf, e per questo
aveva cominciato a fasciarsi l'addome. Wawruch dice che l'idropisia è
insorta all'improvviso, in seguito ad una colossale arrabbiatura. Che Karl,
ormai strumento di distruzione, c'entri qualcosa? Fatto sta che ormai il
destino del Maestro è segnato. La sua morte, solo questione di tempo.
Questo tempo è riempito di doni, e Stumpff, fabbricante di arpe a Londra,
gli fa avere l'edizione completa delle opere di Händel, che il morente non
si stanca di compulsare; la Royal Philarmonic Society, mossa a
compassione dall'ultima lettera di un Beethoven fedifrago, invia al
possessore di azioni bancarie un grosso dono in denaro, cento sterline. Gli
mandano anche un dipinto della casa natale di Haydn. Lui ne è felice,
sempre la morte riconcilia un vecchio con colui che fu da giovane. Questo
tempo è anche riempito di visite: gli editori Haslinger e Diabelli; il suo
violinista, Clement; Streicher, inventore di pianoforti fatti ad auditorium,
perché ci senta; e poi il librettista disilluso del suo Oratorio, Bernard, e
Schuppanzig, che per fare le scale si deve fermare tre volte, e anche, a
segnare la fine di un divenire nel segno dei Lumi, Moritz Lichnovsky.
Ma la visita più gradita, perché quotidiana, è quella di Gerhard von
Breuning. Ha tredici anni. È il figlio di Stephan. Non ha mai incontrato
Beethoven a casa dei suoi genitori, solo a passeggio, perché la madre trova
le abitudini del Maestro, a tavola, troppo disgustose. Comunque quel
vecchio così infantile gli piace. Gli porta i prediletti libri di storia, e i
romanzi di Scott; e poi una polvere per ammazzare le cimici, così può
dormire. Gli dice che lui solo è buono, e gli altri sono degli impostori che
fanno la commedia, quell'Holz soprattutto (Schindler lo avrebbe adottato).
Beethoven lo chiama “Ariele”. Gerhard è l'unico raggio di luce di
un'agonia sordida resa atroce dal ciarlatanissimo dott. Wawruch, il quale,
tra le altre cose, immerge il morente in una sorta di bagno pneumatico di
vapore che lui, disidratato, trattiene, peggiorando l'idropisia. Per spurgare
il liquido dal ventre si procede a quattro paracentesi, estraendone decine di
litri. Ogni volta Beethoven ricomincia a respirare, e spera ancora. Le
incisioni, maldestramente praticate, lasciano aperta una fistola nel perineo
da cui il liquido infetto continua ad uscire. Imbratta il materasso, e poi il
pavimento, e richiama quei piccoli parassiti che Gerhard osserva quando
vede il letto di dolore di Beethoven. E viene il momento fatale quando
mettono in mano a Beethoven i Lieder di Schubert. Lui li scorre frenetico.
Ma è vero che ne ha scritti così tanti? non è possibile, se son tutti talmente
attraversati dalla scintilla divina. È il passaggio di consegne del tardo
Classicismo al Romanticismo. Schubert ha passato anni a osservarlo di
lontano, con sguardo di amante, nelle locande dove Ludwig teneva banco.
Neanche sul suo letto di morte, osa presentarsi. A tumulazione avvenuta
brinderà, insieme ai presenti in quella cerimonia, “al primo di noi che lo
seguirà”. Sarà lui; ma nel frattempo, senza più Prometeo a fissarlo
dall'alto, nei pochi mesi che gli rimangono inventerà un nuovo linguaggio
musicale. Intanto, al capezzale del malato, per un'ultima crisi di coscienza,
è arrivato Malfatti. Beethoven sorride: se mai esiste un medico capace di
salvarlo, “his name shall be called Wonderful”, canticchia sulle note del
Messiah di Händel. Malfatti capisce, e prende atto. Prescrive del punch
ghiacciato; come dire, la morte felice. Beethoven sta subito meglio, però,
ne abusa, va quasi in coma e glielo si deve togliere. Gli dicono che il vino
del Reno è un rimedio sovrano per l'idropisia. Lui sa che non è vero, ma il
Reno è il fiume dove si è bagnato da ragazzo. Vuole un messaggio di quel
fiume. L'editore Schott lo capisce, e gli spedisce una robusta dote di
bottiglie. “Troppo tardi”, mormora Beethoven mentre gliele mettono in fila
ai piedi del letto. Il suo ultimo scritto è la disposizione testamentaria con la
quale nomina Karl erede universale. Quando scivola nel coma, accanto a
lui ci sono soltanto Sali, la serva che ha saputo capirlo, Joseph Teltscher,
un pittore che io chiamo “l'avvoltoio”, e che deve ritrarre il defunto, e
Hüttenbrenner, il compositore amico di Schubert: sarà lui a raccogliere
l'ultimo respiro di Beethoven, mettendogli, al momento della morte, una
mano sul cuore. Dicono che in quel momento un temporale abbattutosi su
Vienna abbia prodotto un fulmine esploso proprio fuori della finestra di
Ludwig, e che questi, aperti gli occhi, alzasse la mano a pugno contro il
cielo. A me piace pensare che con quel gesto il Prometeo dei suoni abbia
rubato il fuoco agli dèi, per donarlo all'umanità.
E infatti, succede qualcosa. I viennesi, d'improvviso, capiscono, e da ogni
quartiere e villaggio limitrofo, dove Beethoven tante volte ha letto negli
alberi la musica che ancora doveva comporre, giungono al funerale, e
fanno ala al transito della bara fino al sobborgo di Währing, nel cui
cimitero Beethoven ha scelto di giacere. Sono trentamila, ed io, al pensare
a questo corteo smisurato di gente comune che non poteva non dico capire,
ma sentire la musica del Maestro, ho in mente Alfredo Casella, il quale, un
giorno, stava a discorrere di Beethoven con alcuni amici nelle montagne
del Canavese, e al vedere un contadino che li fissava, gli venne di
chiedergli “ma Lei sa chi è Beethoven?”; e lui “perbacco! ma non è quello
che ha inventato la musica?”.
LIBRO SECONDO. UN'INTERPRETAZIONE DELLA MUSICA.

“Non è favola, è reale, questa terra che vibra. Roco si infrange il boato,
muggito profondo. Turbine esplode di rovente saetta, nodo di vento.
Mulina la sabbia, sgroppano raffiche, intreccio di folate rissose. Scena di
soffi che urtano, saldi”.
(Eschilo, Prometeo incatenato)
PRIMA PARTE. TOPOGRAFIA.
PREMESSA

La musica è un'interpretazione della realtà che procede per


approssimazioni progressive: le opere. A loro volta, queste opere vengono
interpretate da una realtà che procede per approssimazioni a un ordine. Gli
interpreti cercano nelle opere di rendere ordine le approssimazioni cui
l'autore ha ridotto la realtà nella quale viveva. Tuttavia, la realtà che essi
vivono ha creato ordini nuovi. Il gioco di specchi è vertiginoso, e rende il
nesso tra vita e opera un labirinto di siepi organizzato da un architetto
quale potrebbe essere il figlio di Leonardo da Vinci, se questi avesse fatto
l'amore con la Gioconda. L'unica verità possibile, in simile fuga di linee
senza un centro, è la mente dell'artefice, dove la memoria ordina il vissuto
in strutture dotate di un ordine riproducibile: le opere. Tuttavia,
quest'ordine esiste solo nel momento in cui diventa necessario, quando gli
interpreti lo rendono esecuzione. I capolavori eterni sono, dunque, quelle
opere dove la Gioconda sorride, ma non a te, ad un tuo Io ideale lontano e
inattingibile. Le linee di sutura, i margini della ricomposizione formale, le
crepe sui pilastri: ogni indizio umano è, nei capolavori, la maschera del
sublime. I capolavori ordinano significati, spregiando la stasi confortevole
del bello. Beethoven è il compositore dove questi elementi umani
sfoggiano il loro incidere ferite, complicare nessi; per questo è il più
attuale, quello che darà sempre ordine al tempo nel quale viene
interpretato. Tale ordine è, sempre, un'emanazione del suo disordine.
L'interprete trova i pezzi della spada Nothung e li risalda, ma l'arma
espressiva che forgia, in comune con quella originale, ha solo la materia.
L'unica fedeltà possibile è perseguire una simile ricostruzione arbitraria del
senso con la buona fede del proprio vissuto. In ogni atto d'amore c'è un
elemento di ingenua violenza, di appropriazione.
Chi termina il suo viaggio nel tempo ordinario delle cose, ha costruito una
propria topografia dell'anima. Le opere dell'artefice sono continenti, isole,
ponti, zolle tettoniche e, anche, paludi e grotte. Giulio Camillo, vissuto tra
il 1480 e il 1544, edificò un Teatro della Memoria disposto in una serie di
ambienti abitati da simboli e figure allegoriche congegnate secondo una
specifica gerarchia. La sua intuizione fu che la memoria è un luogo dove ci
si deve poter muovere come in un paesaggio. Il movimento degli occhi
mima le connessione neuronali e le dispone secondo una progettualità
stabilita dalla coscienza: un ordine, non il caso. Visitare il Teatro della
Memoria è una strategia per rendere il labirinto un percorso iniziatico al
centro del quale c'è l'anima, ben sapendo che della propria non si può
avere coscienza. L'anima dell'artefice, il suo Teatro della Memoria,
diviene, dunque, l'unico scenario dove un ordine possa essere ricostruito,
mimando in esso, come in uno specchio, la propria ricerca di un principio
unitario all'umana esperienza. Visitando quel Teatro della Memoria,
l'interprete diventa architetto del sublime. Alla fine dello spettacolo, la
Gioconda gli sorriderà. Le immagini allegoriche di Giulio Camillo
procedono da quelle terrigene (Atlante che sostiene il mondo) alle
emanazioni di creature superne. Dalla terra alla cerchia dei cieli,
dall'istinto alla ragione, dall'amore di sé all'amor fati e, infine, la
benevolenza cosmica. Sulla falsariga di questo visionario profeta delle
neuroscienze – perché ciò che, in lui, fu premonizione geniale è, oggi,
nozione scientifica – procederò anche io a raccontare la musica di
Beethoven seguendo mappe per rotte tra le opere: canali segreti e nessi
sotterranei, da fuori invisibili. Un'interpretazione delle opere; ovvero, un
viaggio. Altro, ogni interpretazione, non è.
PALCOSCENICO. I QUATTRO PUNTI CARDINALI.

Nord. Le Sonate per pianoforte e le Non-sonate per lo stesso strumento


concepite.

La tastiera, in Beethoven, è il cane di Pavlov: un luogo di condizionamenti


dai quali liberarsi. La ricerca dello strumento ideale accompagna
l'evoluzione dello stile. L'idea cerca l'oggetto che la renda visibile. Le
Sonate, stella polare dalla luminescenza volta per volta offuscata da
differenti agenti atmosferici, sono l'orizzonte che permette di orientarsi
lungo l'intera opera di Beethoven. Ci permettono di seguire il suo pensiero
mentre si fa discorso.
Come ogni pensiero, quello musicale di Beethoven si articola per categorie
che, nel suo caso, procedono sempre per paradossali opposizioni.

Ascendere/Trascendere: Sisifo

La Sonata in fa minore op. 2 n. 1 comincia con un guizzo di energia verso


l'alto, una presa di possesso del territorio; poi la figura si disarticola in un
gioco di imitazione a specchio dove la terzina rintocca con ossessiva
regolarità. È proprio del Beethoven pianistico questo descrivere ogni grado
dell'ascesa, far sentire fisicamente il peso della materia. Una simile
tensione, quasi una mano che afferra, può assumere movenze ironiche di
danza, come nelle prime battute della Sonata in do minore op. 10 n. 1,
oppure prendere un aspetto di stasi, un girare a vuoto: l'incipit della sonata
successiva, la op. 10 n. 2 in Fa maggiore. Tutte queste formule
convenzionali sono luoghi comuni della sua epoca, ma stanno a quelli
come la fotografia di un evento sta all'emozione di chi ne fu protagonista.
Nella disinvoltura con cui il compositore maneggia le terse linee del
Classicismo c'è una disillusione che è già un trascendere. Talvolta l'ascesa
e il girare a vuoto collaborano a rendere necessaria la catastrofe del
ritorno, e abbiamo, nella Sonata in do minore op. 13 “Patetica”, il
ripiombare monolitico del “Grave” iniziale dentro il saettante “Allegro di
molto e con brio”: un momento epocale nella storia del Classicismo,
perché nega il concetto stesso di Sviluppo. Una terza figura dell'ascesa,
dopo la “progressione indefettibile” e la “stasi momentanea”, è la
“vertigine del salto”. La Sonata in Si bemolle maggiore op. 106
“Hammerklavier” comincia con un tripudio, un gettarsi nel tempo, che in
sola virtù della sua esuberanza evolve in materiale tematico. Beethoven ce
ne fa assistere alla genesi come fosse un fenomeno, più che intellettuale,
biologico. La sua fede panteistica gli faceva vedere un intimo nesso tra lo
spirito e le cose che il tempo trascina con sé. In casi ideali, come
l'”Hammerklavier”, questo tempo prende corpo in strutture di suono. Il
luogo dove tutte le figure dell'ascesa interagiscono a farsi non più linee di
forze, ma Forma, è la Sonata in Do maggiore op. 53 “Waldstein” ; qui,
quel ristagno inerziale, sorta di bussare dentro il mistero, con cui il brano
si apre dà luogo a un fremito sussultorio, quasi di più efficace richiamo, e,
infine, una progressione intervallare a imitazione tra le due mani, tra alto e
basso della prospettiva ascensionale, in cima alla quale risuona un Corale
di ringraziamento. Non si può più parlare, in questo caso, di “tema forte” e
“tema debole”: vediamo all'opera un “principio dell'ascendere” che si
trasmuta in “principio del trascendere”. Nell'op. 53 questa dinamica è
ancora stilizzata; il genio di Beethoven starà nell'insufflare
progressivamente dentro una simile drammaturgia l'esattezza analitica del
Tema con Variazioni. Ed ecco che nell'“Adagio sostenuto”
dell'“Hammerklavier” la spinta ascensionale si riduce alle prime due note:
“i gradini del tempio”, come sono stati definiti. Ciò che la tecnica della
Variazione produce nel progredire del tema è il profilo di una melodia
infinita che trascende in pulviscolo sonoro, non perché si estingua, ma in
quanto scompare al nostro sguardo. Tale trascendenza non è altro che un
ascendere non più soggetto al tempo terreno. Infine, nell'“Arietta” della
Sonata in do minore op. 111 la simbiosi è compiuta. L'ascesa nasce dal
tema più statico mai concepito da Beethoven, e la trascendenza si compie
con un gioco di trilli e terzine dove i primi interrompono la continuità del
tempo e le seconde organizzano in moto regolare la pulsazione dell'estasi.
Le terzine, altrove, Beethoven le usa come simboli di morte; qui, le
trasfigura in echi dei trilli in un mondo lontano. A loro volta i trilli, che
nella “Fuga a tre voci con alcune licenze” dell'“Hammerklavier” sono
simboli della follia, si fanno luce di stelle ormai spente. Ogni volta che,
nelle opere via via più mature, il compositore unisce tra loro parametri di
stile dapprima dialettici, opera al contempo un'inversione di segno del loro
significato simbolico. Questo è, forse, il segreto più profondo del suo stile.
Il Titano Sisifo, condannato a spingere un masso fin sulla vetta di un
monte per poi vederlo, ogni volta, di nuovo precipitare a terra, è la figura
allegorica destinata, nel nostro Teatro della Memoria, ad esprimere questa
opposizione tra slancio e ripiegamento nell'inerzia così pervasiva nelle
Sonate pianistiche di Beethoven.
Limiti/Orizzonti: Dedalo

La strutturazione per sezioni tipica dello Stile Classico segna i limiti del
discorso musicale accettabili all'Illuminismo. A volte l'accennare o il
tralasciare diventa parte di un'accorta strategia retorica, come Haydn
dimostra nelle sue sinfonie e nei quartetti. Lo stile empfindsamer,
“sensibile, appassionato”, di Carl Philipp Emanuel Bach trova nelle sue
Sonate “Prussiane” pose melodrammatiche ed effetti strumentali in bilico
tra il teatro musicale francese e la “teoria degli affetti” barocca. Infine, la
psicologia da età dei Lumi della musica di Mozart: il suo trasferire sugli
strumenti le inflessioni dei caratteri viventi sul palcoscenico, espressione, a
loro volta, dell'eterna commedia umana, rende problematico a Beethoven il
ricorso ad una cantabilità ingenua. Il sonatismo beethoveniano, insomma,
subisce il confronto con una Forma che durante la sua gioventù si era già
storicizzata, era già divenuta racconto di se stessa. Costretto a fare lo
storicista, il Maestro, nello stesso momento in cui elabora la propria
Forma-Sonata, riassume e compendia tutti i modelli precedenti, finché i
limiti non diventano, in lui, orizzonti espressivi. Questa rinuncia alla
bellezza, agli sviluppi lirici di intuizioni melodiche, la troviamo già
nell'“Adagio” della Sonata op. 2 n. 1, dove la frantumazione pulviscolare
del materiale tematico assume via via l'aspetto di un'ansa impenetrabile. La
stessa intuizione verrà poi portata a compimento nel declamato byroniano,
da eroe che si strugge nel suo esilio, attraverso cui, nella Sonata op. 53
“Waldstein”, l'“Adagio molto”, Beethoven ci fa respirare il proprio anelito
alla luce, trasfigurando, nella “Introduzione”, il Recitativo operistico alla
Gluck in simbolo massonico del cammino verso il sole. La sottrazione
della mèta, il limite del bordo cieco, nelle Variazioni su un valzer di
Diabelli op. 120 diventa orizzonte visionario. Questo gioco spinto ad un
virtuosismo quasi cinico, stante la pochezza del walzerino diabellesco, è,
insieme, un repertorio dei luoghi comuni della musica a consumo
borghese, domestico, e uno studio sulla possibilità di sostituire ai temi un
mero sistema di rapporti intervallari. In tutta l'opera è la tensione tra le
note, l'intreccio di relazioni verticali e ponti tra sezioni diverse della frase,
a creare ciò che diciamo Forma solo per sottile umorismo. Senza le
“Diabelli”, la dodecafonia, e soprattutto Anton Webern, sarebbero
impensabili. Un primo laboratorio beethoveniano su queste visionarie
anticipazioni dello strutturalismo novecentesco è la Sonata in Sol
maggiore op. 31 n. 1, l'“Allegro vivace”, la cui frammentaria immanenza
nel tempo è una sfida alle capacità combinatorie della logica umana. Vi si
avverte una rinuncia al discorso per frasi asseverative; al posto della
passione, qui, c'è un gioco elusivo che fa dell'ammirazione di Beethoven
per Schiller, nel punto delle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo
dove il poeta afferma che ogni individuo non è mai se stesso come quando
gioca, una pratica artigianale. L'intero movimento è uno studio sul ritmo,
percepito quale divaricatore tra i parametri musicali: ed ecco che Armonia,
melodia, registri e imitazioni canoniche slittano tra loro senza trovare mai
un punto di riposo. Con quel risolvere in lirismo i vecchi esperimenti sulla
Forma che caratterizza tutto il Beethoven maturo, nella Sonata in mi
minore op. 90, poi, lungo il primo movimento, “Mit Lebaftigheit und mit
der innigsten Empfindung”, una simile inconcludenza espressiva si salda
alchemicamente in discorso sui gradi diversi dell'esperienza: la maniera
per cui si fanno, nel ricordo, senza più cesure né scarti, stati psichici della
coscienza. In musica, emozioni. Qui la musica vera si cela tra una nota e
l'altra, e l'orizzonte è più che mai redenzione del limite. La figura
allegorica che in noi seconda questo “paradosso dello sguardo” proprio
alla rivoluzione formale beethoveniana sarà, dunque, Dedalo: l'architetto
che per spiccare il volo deve chiudere se stesso in un labirinto.

Finire/Ricominciare: Issione

Il Canone infinito è uno di quei paradossi concepiti dai Fiamminghi per


incidere il cranio dei musicisti di solchi ermeneutici. Beethoven lo
predilige come chimera, utopia. Lo sfiora senza mai iniziarlo. Il “basso
ostinato” su cui fiorisce il “tema di Prometeo”, poi confluito nel Finale
della Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”, funziona, nelle Variazioni “Eroica”
op. 35, come un pianeta che attragga nella sua gravità una pletora di
asteroidi: si avverte anche quando non c'è. L'interesse di Beethoven per
l'elettromagnetismo, ai suoi tempi esplorato quale chiave universale per
comprendere il Dio fattosi Natura, si riflette nella sua concezione delle
funzioni tonali, i gradi della scala. Le Variazioni “Eroica” si sviluppano
per parallelismi articolati su distanze e prospettive dove nessun elemento
occulta mai ciò che è stato, né interpreta ciò che sarà. È la coincidenza di
tempo e spazio in un punto solo, l'attimo. Finire e ricominciare, dunque,
sono due aspetti dello stesso processo. Questa circolarità della Forma tocca
i suoi esiti più alti nella Sonata in Mi maggiore op. 109, il “Gesangvoll,
mit innigster Empfindung”, dove tutto è immanente alle otto battute
simmetriche del Corale iniziale, nella cui cellula si annida perfino
l'“Arietta” dell'op. 111. L'ultimo Beethoven segue la Fisica delle particelle:
ogni opera finisce dove comincia quella a lei conseguente, e a sua volta, a
ritroso, giustifica e interpreta le opere che la precedono. Siamo in quella
“eterna ghirlanda brillante” che, per i Buddisti, è il tempo. Non stupisce
l'interesse crescente del compositore, nei suoi ultimi anni, verso le religioni
orientali. Un esempio altissimo di questo finire che è un eterno
ricominciare ce lo offre il Finale, “Allegro ma non troppo”, della Sonata in
La bemolle maggiore op. 110, dove l'elemento umano, il “Princìpio che
implora”, si incunea nel tempo eterno delle sfere angeliche, chiedendo di
venirne ricevuto fino a che la loro curvatura, per un attimo, si estroflette ad
accoglierlo. Questa Fuga che lavora in senso opposto a ciò che una Fuga
deve fare non è più “con alcuna licenza”, ma senza alcuna decenza. Il
Contrappunto diventa un affiorare momentaneo di cose che sono sempre
state lì, ma non si vedevano. Cominciare, finire: sono condizioni di livelli,
stati “quantici” della coscienza; niente a che fare col tempo. Siccome per
Beethoven vale il motto alchemico “così in alto, come in basso”, uno
studio preparatorio a tali esiti ultimi lo troviamo nel “Tempo di menuetto”
della Sonata in Sol maggiore op. 49 n. 2, che riprende, a sua volta, un tema
del Settimino op. 20; ovvero, in un brano concepito per i principianti. Un
passaggio intermedio, invece, del tutto risolto, è il “Rondò” della Sonata
Waldstein, dove la dantesca “spera che più larga gira” annulla ogni
possibilità di sviluppo nel gioco dei suoi riflessi cangianti. Siamo nella
materializzazione sonora di ogni possibile eternità. Qui Issione, crocifisso
alla sua ruota che in eterno orbita, celebra la redenzione dal proprio inutile
esistere. Issione è la figura allegorica che nel nostro Teatro della Memoria
esprime una simile distorsione beethoveniana dello spaziotempo.

Paesaggi/Argomenti: Demodoco

La musica beethoveniana non rappresenta mai, raffigura. Rende “figura”.


Per “figura” si intende, qui, il dantesco incarnare in sé una qualità
trascendente. La musica si fa così, quando “a programma”, quella
“emozione rivissuta in tranquillità” che è, secondo Wordsworth, l'essenza
della poesia. Una tale emozione appare di due ordini, esteriore e interiore:
nel primo caso, si configura come paesaggio; nel secondo, come
argomento. La Sonata in Re maggiore op. 28 “Pastorale” inizia con il
riflesso della luce nella natura, un canto disteso dove le pause, le soste di
contemplazione, hanno la stessa importanza dei motivi. Più che un
osservare, è un rammemorarsi di sensazioni lontane. La mistica
beethoveniana della Natura vive sempre di questa pennellata “a luce
radente”. La nota del “basso” ossessivamente ripetuta è il cuore nascosto
del mondo. Per Beethoven, come per l'architetto Ludwig Mies van der
Rohe, “Dio si nasconde nei dettagli”. Significativa la successione di
terzina e quintina, che fonde il tre, simbolo numerico del mondo creato,
col cinque, quello dell'uomo all'interno del cosmo, evocando il metro di
cinque battute che Beethoven, nella Sinfonia n. 5 op. 67, eleverà a chiave
segreta dell'intera struttura. Il “paesaggio”, nel Maestro, è sempre un
rapporto geometrico tra il microcosmo-uomo e il macrocosmo. La Sonata
in La bemolle maggiore op. 26, con la sua “Marcia funebre sulla morte di
un eroe”, è un'epitome della musica come “argomento”. Il Tema con
Variazioni iniziale racconta come si diventa ciò che si è, la genesi del
carattere. L'eroe descritto nel primo movimento viene, poi, traslato alla
dimensione dell'eterno nella “Marcia Funebre”: il brano più
onomatopeico, tutto giocato, com'è, su imitazioni di fanfare e rulli di
tamburi, che Beethoven abbia mai concepito. La vanità degli onori
mondani assume, qui, la maschera di una parodia dove si passano in
rassegna tutti i ridicoli effetti dei brani dedicati all'incendio di Mosca,
ovvero a battaglie navali e naufragi conseguenti, allora in voga. Il comico
si fa disprezzo della temporalità, e in grazia di una simile distorsione
assurge al sublime. L'anima dell'eroe sale al cielo solo nell'“Allegro”
finale, con quei suoi “bassi” articolati, alla maniera di J. S. Bach, sulla
gerarchia esatta delle funzioni tonali, onde significare l'armonia che si
raggiunge solo nella quiete della morte. “Uom, se' tu grande o vil? Muori,
e il saprai”, secondo Vittorio Alfieri. La Sonata in Mi bemolle maggiore
op. 81a “Les adieux” è uno dei luoghi canonici del presunto
preromanticismo beethoveniano; il che diventa vero solo se consideriamo
il Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo di J. S. Bach
un'opera che anticipa lo Sturm und Drang. Le tre note iniziali, sillabate su
“Le-be-voll”, “addio”, percorrono tutta la musica successiva fino a
diventare, nella Sinfonia n. 9 di Mahler, il referto clinico di un
cardiopatico. In realtà, la triade partenza-assenza-ritorno dà modo a
Beethoven di comporre uno dei suoi brani più neobarocchi, con quelle
inflessioni da Suite e il riemergere continuo di dissonanze, “sprezzature”,
proprie al clavicordo sul quale il “Bach di Berlino”, Carl Philipp Emanuel,
compiangeva il se stesso sotto la ferula di Federico II, il “Re sergente”. Il
“Vivacissimamente” finale, poi, ci fa sospettare se il/la Geliebt(e) in esilio
non fosse Papageno(a), tanto questa irruzione di umore casereccio ha di un
Volkslied ripensato dal Mozart del Flauto magico, l'Opera feticcio di
Beethoven. Il movimento centrale, “Andante espressivo”, “L'assenza”,
sospende il tempo in un moto circolare tutto giocato su una figura ritmica
che nei Romantici connoterà sempre lo smemoramento – beatifico per lui,
orrifico per chiunque altro – del Wanderer, il Viandante schubertiano. Il
Nume tutelare di questa quarta categoria del sonatismo pianistico
beethoveniano non può che essere Demodoco, l'aedo che durante il
soggiorno di Ulisse alla corte dei feaci declama i poemi narranti la guerra
di Troia: un paesaggio di storie che apre l'Odissea a un gioco di specchi
sottilmente affine a quello del Maestro, perché in esso Ulisse riflette il
ricordo di se stesso.

Il ridere orribile: Cibele

Cibele guida il corteo dei coribanti, i posseduti dal demone che agitando il
sistro chiamano i devoti alla follia. L'umorismo di Beethoven è sempre di
marca fiamminga, affine alle nature morte dei pittori che nei Paesi Bassi
trasformarono la realtà nella lanterna magica del diavolo. L'umorismo è,
prima di tutto, sospensione del significato. In Beethoven abbondano le
sezioni modulanti interrotte, i temini che orbitano l'uno intorno all'altro,
deludendo qualsiasi ansia costruttiva, le perorazioni non necessarie, quasi
capricci di un bambino annoiato. L'“Allegro con brio” della Sonata in Do
maggiore op. 2 n. 3 nasce da una sorta di mulinello tematico che gira su se
stesso, esplodendo, infine, in una raffica di pura energia motoria. Questa
parodia di ogni cominciamento del mondo è dinamica di forze non
controllate, il riso del tempo di fronte all'artefice che pretende di
organizzarlo. Nella sezione indicata come “Coda” nell'“Allegro molto”
della Sonata op. 110, Beethoven alterna accordi in “sforzato” con battute
di pausa, quasi uno gnomo bussasse alle porte del cielo facendo, per
impotenza, la voce grossa. L'“Adagio ma non troppo” che segue, questo
monumento alla disillusione con tanto di “Recitativo” incorporato, segna
una frattura nell'evoluzione del brano, un'isola di sconforto per la derisione
degli dèi. Nell'“Arietta” della Sonata op. 111 c'è una variazione in 12/32
che distrugge sarcasticamente ogni ordine metrico illuministico. Il temino
sognante viene divelto da un ancheggiare di figure ebbre, un pulviscolare
delirio di ritmo liberato dalla risata di un demone. Le convenzioni del
mondo terreno, tra le quali la trivialità è quella somma, vengono osservate
nella loro spregevole evidenza e mandate a quel paese (il nostro) con
un'alzata di spalle; diversamente non vi sarebbe stata la successiva,
cristallina ascesa all'Empireo. Un luogo canonico della Cibele musicale
beethoveniana è la Sonata in Fa maggiore op. 54, sfinge provocante le più
diverse reazioni. Il primo movimento, “In tempo d'un Menuetto”, è un
prodigio di “destrutturalismo”: i materiali tematici si disgregano negandosi
reciprocamente ogni possibile sviluppo. Nell'ultima sezione il “basso”
risuona ossessivo, a farsi beffe dei tentativi umani di scalare il cielo. Nella
Sonata op. 10 n. 2 il borbottare del motivo, su un tapis roulant di terzine,
evoca qualcosa di ancestrale, e che del linguaggio organizzato non ha
nulla. Siamo nel territorio del genio bambino, con tutto il suo corteo di
insofferenze innocue, quando infantili, ma che in età adulta evocano la
follia. Pare di vederlo, Beethoven, mentre improvvisa per i suoi sodali
nell'arte confusi tra gli aristocratici in folla nei palazzi principeschi; e lui
che fa? irride il loro vacuo motorismo. Un monumento all'umorismo
distruttivo sono le Bagatelle op. 126. L'editore che le pubblicò, Peters,
vide giusto quando scrisse all'autore “è al di sotto della sua dignità che Lei
passi il Suo tempo a scrivere inezie che chiunque potrebbe scrivere”.
Beethoven, qui, inventa la pop art, l'arte realizzata con materiali di scarto.
Tutti gli spunti trascritti anno dopo anno, durante interminabili
passeggiate, nei taccuini che portava con sé vengono qui assemblati per
contraddizione reciproca, ostile prevaricazione di ogni idea sull'altra.
Siamo nel cimitero dell'Illuminismo, dove i cani sulle tombe ululano alla
luna. Nelle Variazioni “Diabelli”, infine, l'umorismo diviene macabro. La
mancanza di un centro genera un'assenza di tensione risolutiva; ogni
Variazione, dunque, collassa su se stessa fino a fare esplodere i relitti dei
vari stili musicali via via parodiati, che siano la musica di danza, il Lied, le
fanfare rivoluzionarie o l'ordine della Forma-Sonata. Si ride amaramente
su questa diagnosi che un uomo al termine della propria esistenza fa del
proprio vano operare. Cibele, col suo corteo di satiri, è divinità orrida e
distruttiva. Da qui partirà Mahler per comporre l'episodio in cui Pan, nel
primo movimento della Sinfonia n. 3, irrompe nella natura che freme di
vita, distruggendone la presunzione di senso.

Per voce sola: Eco

Il lirismo, in Beethoven, è sempre un segno di distacco dal mondo. È un


ascoltare voci, non un racconto. Questo “ascoltare di lontano” è la chiave
di tutta la sua musica, che è contemplazione, e diviene azione solo quando
funziona nello specchio deformante della parodia. L'invenzione melodica,
nel Maestro, è sempre faticosa aggregazione di spunti diversi, sorti in
momenti differenti. I motivi viaggiano da una partitura all'altra, trovando
la loro sede quasi per moto proprio, talvolta a distanza di decenni. Così, è
evidente che l'“Adagio cantabile” della Sonata op. 13 “Patetica” ha dato
origine al movimento lento della Sinfonia n. 9 op. 125; meno chiaro è
come mai il suo spunto iniziale si contragga, poi, nel Canone burlesco
“Muss es sein?”, “Es muss sein!” che conclude il Quartetto op. 135. Il
rimpianto, la rievocazione malinconica, sono forse tutto ciò che ci resta
della vita, in punto di morte? Anche nella Sonata “quasi una fantasia” in
do diesis minore op. 27 n. 2 il rintocco funebre di campane sulle onde di
terzine, fiume del tempo sempre in moto, crea un canto d'amore il cui
lirismo risulta, infine, impossibile, sommerso com'è da arpeggi che
agiscono secondo quella tecnica del montaggio cinematografico, flashback
inseriti nel bel mezzo dell'azione, che è uno degli aspetti più geniali nel
Beethoven “drammaturgo”. Nella Sonata in re minore op. 31 n. 2, il
“Largo” iniziale allude a un mondo sospeso fuori dal tempo, e insidiato
dalla ossessiva propulsione ritmica dell'“Allegro”. Siamo nell'Eden, e il
Recitativo che progressivamente frena la furia degli elementi è Adamo
quando dà i nomi alle cose del mondo creato. Il logos, disciplina dei nomi,
anticipa la funzione redentrice che verrà, di lui, celebrata nel Finale della
Nona Sinfonia. Dove la voce sola festeggia il proprio esilio dal mondo, è
nella Sonata op. 110: la più alta di Beethoven, perché quella dove
l'imitazione dei più diversi stili si agglutina in struttura vivente, se per
“stili” intendiamo, nella sua musica, la modulazione di stati d'animo,
prospettive diverse sul vissuto. Nell'“Adagio ma non troppo” il tema agisce
in modo opposto rispetto alle regole classiche: disarticola
progressivamente il tempo, reitera la stessa cellula rendendola
un'ossessione non risolta. Quando poi quella stessa idea, fatta quasi furiosa
dall'impotenza, interviene a incidere la compattezza della Fuga, segnata
com'è, questa volta, da un “ermattet, klagend”, “perdendo le forze,
dolente”, già proteso sul sordo pulsare del dolore quale verrà definito negli
ultimi Quartetti: in questo spicchio di cielo dove brilla la solitudine di ogni
individuo scorgiamo non la bellezza, ma l'orrore. Beethoven non si è
ancora arreso, e reagisce chiudendo la sonata con un'apoteosi della luce,
una cupola formale perfettamente conchiusa. Le Variazioni “Diabelli”, la
più avanzata tra le opere pianistiche di Beethoven, agiscono in senso
opposto. La “Variazione XXXI”, “Largo molto espressivo”, aperta da una
settimina che richiama quel numero sette così significativo nelle strutture
beethoveniane (l'apocalittico Do diesis a battuta sette, nel primo
movimento della Sinfonia Eroica) distribuisce ovunque un polverio sonoro
onde l'asse del tempo risulta così sbilanciato da necessitare, subito dopo, di
una Fuga agglutinante, la “Variazione XXXII”, la quale, tuttavia, lungo il
ponte di un “Poco adagio” dove riaffiora il nichilismo del canto, evolve in
un “Tempo di Menuetto, moderato”, a concludere le “Diabelli”, dove
riecheggia lo spirito elusivo, aforistico, della Sonata op. 54. Cibele
interviene ad irridere i vani sforzi umani di dar voce alla propria
alienazione. Questa sorta di masochismo autodistruttivo appare per la
prima volta nelle Variazioni in Fa maggiore op. 34 sopra un tema
originale, che Beethoven stesso definì l'inizio di un nuovo stile.
L'insistenza su relazioni tonali non più di Dominante, ma di Terza – l'area
degli affetti umani, non più quella della natura – delinea, a scanso di
tecnicismi, la crisi dell'intera civiltà musicale classica, e prepara la
rivoluzione romantica. La stessa organizzazione tonale si trova nelle
Bagatelle op. 126, e in qualche modo insidia l'evoluzione formale delle
ultime sonate. La “voce sola”, in Beethoven, non è solo canto, ma anche
fiume carsico che scava sotto le volute marmoree del Classicismo: residuo
calcareo, irredimibile, del divenire terreno. Sarebbe, dunque, fondamentale
che nei programmi concertistici le Sonate venissero alternate alle
Variazioni e le Bagatelle che ne anticipano le soluzioni innovative. La
ragione sta nella pratica compositiva di Beethoven: il suo segnare le idee
così come venivano, e soltanto dopo elaborare le strutture destinate a
riceverle. Questo operare, in lui, della Forma contro il canto, a sua
redenzione, ne spiega l'impaccio nella scrittura vocale. La voce pura
risuona, cristallo della memoria, nella sua musica strumentale; il cantante,
dunque, diviene strumento surrogato. E però, nelle ultime sonate
pianistiche, il canto è disfacimento progressivo di ogni speranza. Il
mostruoso “Adagio sostenuto”, “appassionato e con molto sentimento”,
della Sonata op. 106 “Hammerklavier” dimostra come per Beethoven il
termine “appassionato” indicasse l'urgere di una sofferenza capace di
estinguere ogni lirismo. Per lui, lettore degli Antichi, era il pathos tragico.
Ogni legatura a cavallo di battuta nega il respiro; è un laccio sulla speranza
che il canto regoli l'anarchia del tempo. La ninfa Eco, ricordo di una voce
perduta che ognuno ode in solitudine, sia la figura allegorica posta su
questo settimo e ultimo gradino: l'orizzonte settentrionale del
palcoscenico, dentro il nostro Teatro della Memoria beethoveniano.
Sud. I Quartetti per archi.

Affermare/Negare: la Sfinge
Il Quartetto in Fa maggiore op. 18 n. 1 comincia con una sorta di
questione filosofica distribuita tra gli strumenti. Si argomenta intorno al
valore di un tema: se sia soltanto un pilastro architettonico, o se sotto le
volte della cupola ci sia qualcuno che canta. Beethoven rimarca la
separazione tra musica “pura” e musica vocale, e lo fa sottoponendo, lungo
tutto il movimento, il dialogo filosofico immaginario ad un sillogismo
aristotelico, diviso, qual è, in tre parti. L'“Adagio affettuoso ed
appassionato” che segue è la rivincita del canto, qui intriso di “affetti”
barocchi, su una linea quasi di “basso continuo”. Seguono uno “Scherzo”
dove Haydn viene sottoposto a sgambetti e angherie ritmiche di ogni
genere e un “Allegro” finale nel quale la popolana Deutscher Tanz riempie
di sconnessioni le travature geometriche della Suite barocca. Nei Quartetti
op. 18 Beethoven compila la propria tesi di laurea presso i dottori della
scuola classica viennese, e lo fa dimostrando che quei loro chiavistelli fatti
a regolo calcolatore non tengono più. Il quartetto che apre l'op. 18: il
secondo in ordine di composizione, sta al quarto come il n. 2 sta al n. 5. La
prima raccolta beethoveniana segue una proporzione ternaria dentro cui
giace una simmetria binaria; da cui riflessi a non finire tra i suoi diversi
brani. Sempre, in Beethoven, il Quartetto è un cosmo dove operano forze
gravitazionali scosse da improvvise esplosioni di supernovae. Nell'op. 18
si afferma la stabilità delle Forme classiche, per poi negarla con il continuo
affiorare di materiali rifluiti da altri luoghi. Ogni quartetto del ciclo è
stabile ma non concluso; tranne la “Malinconia”, pausa di contemplazione,
nel sesto Quartetto, delle rovine in cui questa dialettica tra consenso delle
Forme e dissenso delle strutture ha precipitato lo Stile Classico. Nel
Quartetto in do minore op. 18 n. 4, l'“Allegro ma non tanto” iniziale,
riaffiora il lirismo negato nel n. 1; non perché non ci fosse, ma in quanto
operava in potenza, sotto le geosinclinali dello Sviluppo. Nello stesso
quartetto, lo “Scherzo” dimostra che ogni Canone è sì affermazione della
centralità umana nell'ordine del Cosmo, ma, in quanto tale, anche
negazione di ogni dramma. Il Canone, in Beethoven, è ogni volta
“disumano”. Dopo la parodia di un “Menuetto” dove l'accento metrico
cade sempre sulle note sbagliate, quasi lo ballassero dei contadini inurbati,
clandestini in una festa di corte, l'”Allegro” finale sigilla, nel quarto
quartetto del ciclo, l'irruzione della musica celebrativa, di festa, nelle sante
volute marmoree della musica illuministica. Il rapporto di
affermazione/negazione tra il Quartetto in Sol maggiore n. 2 e il n. 5 in La
maggiore è non più, per così dire, semantico, ma funzionale. Non ci sono
riprese di spunti, ma un certo modo di interrompere l'evoluzione delle idee,
di tornare indietro, di prendere sentieri obliqui, che nei movimenti iniziali
dei due brani, con quell'opposizione tra l'asseverativa fanfara
rivoluzionaria dell'uno e la “cerimonia delle belle maniere” dell'altro,
nasce da materiali opposti i quali vengono, però, dichiarati per simili. Nei
simmetrici movimenti lenti si dimostra una maniera opposta per negare ciò
che si è appena affermato: il tema di entrambi, regolare, in sereno
equilibrio, viene divelto, nel primo caso, da un incedere fratto di
melodrammatiche fioriture; nel secondo, da uno dei meccanismi per
Variazioni più irto di squassanti ruote dentate che Beethoven abbia mai
concepito. Ovvio che questo spirito sempre pronto ad negare per meglio –
ulteriormente; ovvero, altrove – affermare, quale è Mefistofele nel Faust di
Goethe, sfoci, nel Quartetto in si bemolle maggiore n. 6, in un cimento di
analisi puramente intervallare, disgregata, che funziona, nell'“Allegro con
brio”, da discarica per i materiali reflui della lotta precedente tra coppie
quartettistiche improbabili. Il sarcastico compositore torna alle Forme
barocche, la Suite, ma scavate da dentro per le tortuose derive analitiche
proprie alla Forma-Sonata. “La malinconia”, celebre Lamento arcaizzante
quasi controriformistico incastonato nel magma sempre rifondentesi
dell'opera, inaugura la fisiologia del sentimento fatta di extrasistole
cardiache, anginae pectoris e ricordi che danno l'asma: il campionario
destrutturante che Beethoven usa per negare quel conversare tra quattro
persone ben educate cui, nei tempi dei suoi debutti viennesi, il Quartetto
veniva ridotto. La Sfinge, che pone enigmi al solo scopo di indurre in
errore, è la figura allegorica propria a questa prima categoria di stile, nei
Quartetti beethoveniani.

Riverire/Trasgredire: Edipo

Edipo uccide inconsapevolmente suo padre e giace ignaro con la madre.


Beethoven liquida “papà” Haydn con cinica sistematicità e per riposarsi
giace con la pura Pamina del suo amato Flauto magico, che gli è madre di
contaminazioni: l'Aria e il Volkslied, la Cavatina e la Liedertafel, con i suoi
canti legati alle stagioni e i riti pagani. Eppure, la ricerca di un “Padre
amorevole” schilleriano rifulge nei Quartetti come non mai. I Quartetti
Rasumovskij op. 59 sono tre pannelli dello stesso politico che, scissi subito
dopo venire dipinti, vengono esposti in musei ai poli opposti del globo.
L'accondiscendenza del compositore ad accogliere, nei primi due, temi
russi, in omaggio al committente, col rendere il riverire una forma
articolata di indifferenza, lo trasforma nella trasgressione più grande.
Nell'“Allegro” finale del Quartetto in Fa maggiore op. 59 n. 1 i trilli
incidono uno dei più aulici Inni che la Russia conosca, mentre il precipizio
a “moto perpetuo” del seguito sa di carnevale dissacratorio. Vediamo in
azione il Beethoven che parodia al pianoforte qualsiasi cosa di altri,
manierati artefici, gli venga proposto, tra ruvide risate da orso. L'altro
omaggio all'ambasciatore viennese dello zar si trova (ricordate?) nello
“Scherzo” del Quartetto in mi minore op. 59 n. 2, a mo' di “Trio”: la sua
solennità troverà adeguato sfogo nel Boris Godunov di Modest
Musorgskij, la “Scena dell'incoronazione”, mentre qui viene inghirlandata
da una ridda di crome che sanno tanto di bambini intenti ad annodare un
festone burlesco intorno a un oratore trombone. Beethoven, nei Quartetti
op. 59, è più che mai desultorio: salta da una messa in scena all'altra, fino a
che il teatro magnifico si rivela solo il riflesso di una lanterna magica. Mai
tentò un più ampio e nobile tema come nell'“Allegro” che apre il Quartetto
op. 59 n. 1, ma per farsene cosa? un frasario di riflessi dentro un bicchiere
di vetro, una fuga di scale dove lo scendere diventa salire, perché di
lontano ciò che è concavo sembra convesso. Convesso è l'“Allegretto
vivace e sempre scherzando”, nello stesso quartetto, con il suo porre il
pulsare del ritmo contro le pareti della Forma ad unico parametro
aggregante; concavo è quella specie di cantus firmus che ivi spinge contro
le figure in “ostinato”, per trovare un'impossibile via al canto. Il riverire, in
Beethoven, è estroflessione; il trasgredire, contrazione. Sempre nel
“Rasumovskij” n. 1, un luogo canonico del ripiegamento doloroso su se
stessi, l'“Adagio molto e mesto”, deve il suo flusso puro di anima ad una
cellula ritmicamente contratta che si espande verso l'alto nonostante la
propria sciancatura, finché incontra un richiamo militare dal quale viene
redenta in Inno religioso. Incorporare la cruda realtà e renderla una
scheggia di infinito è la qualità immortale, perché immorale, della musica
di Beethoven. L'officina del demiurgo, nell'“Allegro” del Quartetto op. 59
n. 2, sprilla lampi e scintille. È uno di quei momenti dove Beethoven ci fa
entrare nelle segrete del suo laboratorio creativo: ogni idea viene discussa,
negata, interrotta per accogliere in sé resti di sempre nuove idee. Siamo in
quel Beethoven a tal punto trasgressivo che adopera le tecniche della
Forma-Sonata per compromettere dall'interno le loro virtù sintetiche e
costruttive. Eppure in questo c'è una superiore, in quanto demoniaca,
riverenza. Solo chi viene considerato padre subisce, dai figli, quelle
domande cui non si può dare risposta. Il “Molto adagio”, nello stesso
quartetto, reca la didascalia “si tratta questo pezzo con molto di
sentimento”. “Sentimento”, in Beethoven, si oppone a pathos: il “patetico”
vuole rigore ossessivo; il “sentimentale”, la libertà delle anime quando
cantano oltre la soglia del tempo. Il brano, visionario, anticipa nel suo
incipit quella sospensione del cuore umano, non più pulsante nel dolore,
che sarà la catarsi dei quartetti ultimi. Il tema essenziale, dove le funzioni
tonali sono già scosse dal ricorso ai “modi” antichi, viene riflesso a
specchio tra gli strumenti, ad indicare quella gemellarità nel dolore che
rende ogni uomo, come si dirà nella Nona Sinfonia, all'altro uomo fratello.
La progressiva frantumazione del ritmo lineare, il perdersi del tema in
distanze progressivamente inosservabili, predice la qualità destrutturante
delle Variazioni “Diabelli”. Nell'“Allegretto”, una simile trasgressione
dell'ordine classico assume un valore normativo. La segnatura del tempo
viene contraddetta dal materiale tematico: ondeggia e sussulta a cavallo di
battuta creando un caos organizzato che diventa ordine solo perché il
tempo, disperato, lo convoglia fisicamente nel proprio flusso. È il
Beethoven che scardina il cosmo di Isaac Newton, facendo risplendere
quegli ingranaggi che di lontano sembrano astri. Nelle ultime battute
troviamo la chiave dell'intera op. 59. Scopriamo, così, che i tre quartetti
sono in Forma-Sonata: il primo è l'Esposizione; il secondo, lo Sviluppo, e
il terzo, la Ripresa. Non ci sono, qui, simmetrie speculari, come nell'op.
18; il laboratorio beethoveniano mette in crisi lo Stile Classico
applicandone tutti i parametri in modo ossessivo. A forza di riverire,
produce una trasgressione beffarda. Nell'“Introduzione”, “Andante con
moto”, del Quartetto in Do maggiore op. 59 n. 3 troviamo, così, le vestigia
di tutti i materiali impiegati nei brani precedenti. Sembra di osservare
ancora appesi sull'attaccapanni i vestiti di invitati a una festa che sono da
tempo andati via. La musica, nel Beethoven maturo, è, spesso, una
cerimonia degli addii. Il genere Quartetto l'abbiamo collocato a Sud, sul
palcoscenico del nostro Teatro della Memoria, proprio perché è l'esito
terminale di ogni ripensamento stilistico, il sigillo beethoveniano sulla
mappa delle proprio esplorazioni. Nell'“Andante con moto quasi
allegretto” del “Rasumovskij” n. 3 la sublimazione parodistica dello “stile
galante” trova nella condotta scolastica del “basso”, per una volta riverente
verso le regole, un grado di trasgressione paradossale che rivela
l'umorismo sottile di un certo Beethoven, quello delle maschere. Nel
“Menuetto. Grazioso”, l'imitazione canonica contrasta con il manierismo
dell'ispirazione; l'esplosione ridanciana del “Trio” ha il sapore di quelle
nature morte fiamminghe dove i colori troppo accesi contrastano con il
rigor cadaverico dei soggetti. È il Beethoven popolano, che si
impiastriccia con la mota del suono. Il quartetto si conclude con l'Allegro
molto”: un “moto perpetuo” che sembra una Toccata organistica, e
discende lungo i rami dei trattati scolastici, in omaggio all'antica disciplina
dell'Invenzione, sorta di vendetta del Beethoven ormai smarcato da ogni
accademia verso gli interminabili esercizi nello stile “reservatus” di
Albrechtsberger.

Misticismo/Oggettivismo: Tiresia

Il Neoclassicismo è uno stato d'animo nato dalla disillusione verso il


futuro. Nella “terra di mezzo” del passaggio beethoveniano, dall'Età della
Lotta a quella della Trascendenza, c'è un'isola intatta da ogni vento: il
Quartetto in Mi bemolle maggiore op. 74 stoltamente detto “Delle arpe”. Il
“Poco adagio” iniziale ha già l'aspetto aforistico dei quartetti ultimi, nei
quali il canto procede in modo diagonale, tra le voci, e non su di una linea
dominante. L'“Allegro” che segue rinuncia al dramma dello Sviluppo,
contemplando la beatitudine della stasi come unica via d'uscita dal crollo
della Forma. Eppure la Storia preme dal basso, incidendo il corso del
brano con degli “sforzando” che sono il residuo interiore del dramma, la
sua decantazione nell'anima disillusa. La concentrazione progressiva su
scenari interiori provoca, nell'“Adagio ma non troppo”, una progressiva
implosione del tempo; quasi un affanno nel tenere dietro alla piena dei
ricordi. Senza cesure, il ritorno alla vita, nel “Presto”, ha quella frenesia
controllata che in Beethoven è sempre sinonimo di catastrofe. Il
movimento è diviso in due scenari che ruotano l'uno sull'altro, con il “Più
presto quasi prestissimo” a impedire qualsiasi tentativo di costruzione
formale. L'opposizione paradossale, qui, non è più una categoria dello
stile, ma un'articolazione della Forma. Il Finale, un ingenuo e risolto con
simmetrica lesina “Allegretto con Variazioni”, ha la limpidezza sardonica,
e conseguente, della rassegnazione. L'op. 74, enigma beethoveniano nel
genere del Quartetto, segna il passaggio allo stile tardo, dove il misticismo
nasce dall'osservare le cose con fissità ossessiva, e il realismo diventa via
d'uscita dal mondo. Il Quartetto in fa minore op. 95 reca il titolo “Serioso”,
che qui va inteso come “risentito”, scorbutico. Inizia con uno sfoggio di
pose ingannevoli, dove l'ira dell'esplosione, nella prima figura motivica,
trasale in impennate d'“ottave” per poi distendersi in un canto cullante
subito negato. Beethoven irride, qui, tre diverse “maniere” classiche,
facendole collidere l'una dentro l'altra, in uno dei massimi suoi esempi,
insieme alla Sinfonia n. 8 op. 93, di umorismo esoterico, per iniziati,
perché condotto di dentro le ragioni dello stile. Accanto al “Princìpio che
si oppone” e il “Princìpio che implora” abbiamo, qui, un terzo principio: il
“Princìpio che si oppone all'implorare”, lo spirito della negazione. Un
simile Beethoven disilluso dall'Umanesimo lo ritroviamo, sulla soglia
rassegnata dell'addio, nel Quartetto in Fa maggiore op. 135, l'ultimo, nel
quale il Canone subisce, in quel Finale intitolato “La decisione
difficilmente presa”, una mortificazione delle sue qualità costruttive, e
fantasmi nei “modi” antichi spaventano ogni pretesa di ingegneria
combinatoria. Uno dei momenti catastrofici del Beethoven già proteso agli
esiti ultimi è, nel Quartetto op. 95, l'“Allegro ma non troppo”, che riprende
i monconi lirici del primo movimento e li sottopone alla disciplina di un
orologio celeste, il violoncello. Per trovare di nuovo una simile centratura
della Forma non nelle linee del tema, ma nel fulcro interno dell'Armonia,
dobbiamo balzare al “Lento assai, cantante e tranquillo” dell'op. 135, con
le sue onde liriche distese dal respiro delle voci interne, e da queste subito
richiamate nel buio. “Cantante” significa l'esasperazione paradossale di
“cantabile”: indica che il canto è finito, e fluisce solo nella memoria. Nello
spezzarsi ansimante del tema, con quei “ten.”, “tenuto”, che ne rendono le
durate quasi aleatorie, Beethoven, disingannato, si distacca da ogni
emozione. La contemplazione, però, in lui, fiammingo in fuga
dall'Illuminismo francese, è più che mai esasperazione della realtà,
dissoluzione del vero per l'eccessiva esattezza della sua osservazione. Il
tema, infatti, è, qui, di una semplicità diabolica, esibita; quasi la morte, che
è il niente, fosse il gioco di un bimbo. In quel magazzino dei vecchi
macchinari che è l'op. 95 Beethoven trova posto, nell'“Allegro assai vivace
ma serioso”, anche per le piacevolezze del Settimino op. 20, o per il
meccano infantile della Sonata op. 54. La strategia di sospendere il
“battere” con una pausa di croma, fenomenale nella Quinta Sinfonia, qui
diventa uno spintone che squilibra progressivamente la festa elegante nel
giardino alla francese. Quasi si fosse attivato d'improvviso un sistema di
canne per innaffiare, la conversazione stereotipata diventa
progressivamente un disordinato darsela a gambe. Nel “Vivace” dell'op.
135 troviamo la stessa cifra, ma raggelata dentro linee dense per il freddo
che ha irrigidito le ossa. L'effetto straniante di questa invenzione tematica
stirata dentro i “modi” antichi rende la vivacità un sarcasmo germinato
dalla disperazione. L'ultimo Beethoven isola cristalli di dolore dentro il
divenire del tempo. Divarica anima e vita con chirurgica esattezza. Nell'op.
95, il “Larghetto espressivo” respira già il clima degli ultimi quartetti, per
come vi si profilano splendidi temi che si rivelano per aborti della materia,
rinuncia dell'artefice a darvi forma. Si tratta di un nichilismo del quale,
nell'“Allegretto” iniziale dell'op. 135, troviamo la celebrazione. L'impulso
del motivo a muoversi verso una direzione viene negato dal cerchio
magnetico dei suoi riflessi: siamo sulla via del Novecento, e i prismi che
ruotando su se stessi mandano suoni da mondi lontani a noi quasi del tutto
inudibili. Nell'op. 95 Beethoven è ancora capace di resurrezione.
L'“Allegro agitato” finale procede sulle ali di un tema che scorre sulle
rovine riportando un cielo terso. Questo movimento merita appieno la
definizione di “apoteosi della danza” da Wagner riservata alla Sinfonia n. 7
op. 92. La segnatura “in sei” permette di oscillare tra la sospensione del
tempo binario e la terrestre pulsazione vitale di quello ternario. Come
sempre, Beethoven trascende la gravità delle cose solo dopo averne
assimilato la fisiologia. È la natura del suo demonismo, fare di micidiale e
salvifico i due profili dello stesso angelo. Il Nume tutelare di questa
categoria dello stile, la più inquietante di tutte, non può che essere un
indovino cieco, Tiresia. Tiresia è stato privato della vista dagli dèi, che
volevano così evitare rivelasse i loro segreti; in Beethoven la sordità, non
solo accettata, ma quasi autoindotta, è divenuta un terzo occhio di
indovino sui limiti dello Stile Classico, e le prospettive dapprima
sfolgoranti, e quindi, per abbacinamento, senza più luce, di ogni musica
futura. Dentro questo sinolo Misticismo/Oggettivismo si muove, infatti,
tutta la musica del Novecento.

Explosante/Fixe: Vertumno

Questa categoria stilistica richiama un capolavoro di Pierre Boulez il cui


titolo è preso da L'amore fou di André Breton, laddove si dice “la beauté
convulsive sera érotique-voilée, explosante-fixe, magique-circonstancielle,
ou ne sera pas”. Considerando l'op.135 un epilogo, una nota a pie' di
pagina, gli ultimi quartetti di Beethoven si configurano come una galassia
che ha al suo centro un sole, la Grande fuga op. 133, e un Big Bang la cui
esplosione dà luogo alla fissità delle costellazioni: la successione di
intervalli su cui sorge la “Canzona di ringraziamento”, terzo movimento
del Quartetto in la minore op. 132, poi ridotta a rizoma biologico, doppia
elica di DNA, al principio del Quartetto in do diesis minore op. 131.
Beethoven l'aveva concepita sul nome B-A-C-H, per una Fuga che poi
divenne, infiltrata da molto del suo amato Händel, l'Ouverture La
consacrazione della casa op. 124. Il dio etrusco Vertumno, che cambia
luogo e forma saltando da un aspetto, da un mondo, all'altro, con l'agilità
di un cavallerizzo demoniaco, ben si presta a figura allegorica per una
categoria dello stile beethoveniano dove il materiale espressivo di un
quartetto viene anticipato o ricompare, sotto forma di nucleo densissimo,
in altro luogo. Beethoven compose i Quartetti opp. 132, 130 e 131 in
un'unica campata creativa, spostando interi movimenti dall'uno all'altro
brano, quasi a comporre un suo musicale Teatro della Memoria. La
metodologia dell'Explosante/Fixe appare nuda negli incipit dei Quartetti
opp. 132 e 130, dove dapprima viene costruita una tensione progressiva
per raddensamento, poi l'irruzione del tempo trasporta la stretta relazione
tra le voci nella dimensione drammaturgica della lotta tra opposti Princìpi.
Eppure quella parola all'origine del mondo, logos misterioso: il “rizoma di
Bach”, diventa, nell'evoluzione dei movimenti, fattore di permutazione
permanente. Il sistema della Variazione si fa espressione, nell'ultimo
Beethoven, di come la divinità, che, dice Pascal, è un punto, si possa
distendere nella Creazione come perpetua metamorfosi dell'identico.
Nessuna evoluzione è possibile dove comporre è solo rivelare. Il genio
beethoveniano sta nell'avere salvato la Forma-Sonata immettendovi le
metodiche dello stile contrappuntistico, in opposizione al quale era nata.
Inevitabile il prezzo da pagare: la rinuncia allo sviluppo lineare del tempo,
la compresenza del Tutto in ogni cosa. Senza questa immanenza della
Forma, “motore immobile” di ogni idea musicale, non si comprendono i
Quartetti opp. 132, 130 e 131. A rendere più imperscrutabile l'analisi è
intervenuto lo sciagurato scorporamento della Grande Fuga op. 133, che
sarebbe dovuta rimanere al suo posto.

Trasumanare/Incorporare: Atena

La musica fa percepire il tempo come una materia manipolabile. Rende


duttile la sua curvatura. Per farlo, lo trasforma in spazio, struttura. La
Grande Fuga op. 133 era destinata a concludere il Quartetto in Si bemolle
maggiore op. 130, e reca nella sua organizzazione intervallare le sigle di
tutto il materiale motivico su cui il brano è costruito. Beethoven, come
abbiamo visto, intendeva farne un omaggio al J. S. Bach dell'Arte della
fuga, rimasta incompiuta nel punto in cui il Cantor introduce il motivo del
proprio nome: B-A-C-H, Si bemolle-La-Do-Si, a Controsoggetto. Perché
allora, nel Quartetto op. 130, la “Cavatina”, a precedere un simile
monumento all'astrazione sovratemporale? Non è, la “Cavatina”, un
ripiegamento sugli affetti privati, quanto di più umano Beethoven abbia
mai scritto? L'incipit del brano è costruito, per trasposizione, come quello
della “Overtura”, sezione iniziale della Grande Fuga, se si eliminano le
“note di volta”. Anche il tema che ne emerge è una trasposizione della
stessa figura, la quale compare, come nudo rapporto intervallare, nelle
prime battute del Quartetto op. 131. Il movimento “Alla danza tedesca”,
nell'op. 130, di suo, è basato su due cellule ritmiche la prima delle quali
deriva dall'“Allegro”, nella Grande Fuga, e la seconda ne è l'inverso. La
Grande Fuga, inoltre, essendo, insieme, Forma-Sonata, Tema con
Variazioni e Rondò, riassume in sé tutte le forme dell'op. 130. Accanto a
Bach compare, qui, il Mozart della Sinfonia n. 41 in Do maggiore K. 551
“Jupiter”: il Finale, che è una Fuga costruita “a pannelli”, innestata com'è
su una Forma-Sonata. Se si analizzano i singoli movimenti dell'op. 130 si
scopre che la Grande Fuga ne incorpora in sé l'intera vicenda,
trasumanandola nella circolarità del contrappunto. “Trasumanar significar
per verba non si poria”, dice Dante; Beethoven, difatti, lo significa con la
musica. La figura allegorica di questa categoria stilistica è Atena, dea della
sapienza, che nasce adulta dalla testa di Jupiter. Allo stesso modo, il
Quartetto op. 130 è immanente alla Grande Fuga, e balza fuori già
formato dallo scabro materiale motivico di quella.

Retrogrado/Profetico: Manto

In Un tiro di dadi non abolirà mai il caso, Stephane Mallarmé ordisce un


poema che può essere letto per diritto, per rovescio o in diagonale. Questo
calligramma è un sistema per costruire poesie; non diversamente
Beethoven, nei Quartetti opp. 132, 130 e 131 organizza i movimenti in
modo tale che, se li spostassimo da un brano all'altro, potremmo ottenere
diversi altri quartetti. Il paradosso risolutivo sta nell'aver reso elementare
l'invenzione tematica. Contrarre per meglio ampliare: l'esito ultimo
dell'influenza di Haydn. Nell'op. 131, l'ordine dei movimenti centrali
potrebbe essere invertito senza compromettere l'unità dell'insieme.
Beethoven eleva a livello della Forma il principio contrappuntistico del
moto retrogrado, per cui un tema può essere letto anche dall'ultima nota
alla prima. La sua tendenza alla sintesi ultima di tutta la civiltà musicale
anteriore lo spinge a equiparare strutture di significato, le Forme classiche,
e tecniche espressive: l'Armonia e il Contrappunto. È questo a farne il
profeta della musica contemporanea. L'op. 131 è il quartetto più avanzato
di Beethoven perché è un'“opera aperta”; la sua struttura si ramifica in altre
possibili strutture. Così, l'”Adagio quasi un poco andante” ha origine
dall'“Andante non troppo e molto cantabile”, per estensione della linea del
“basso” e contrazione del tema di danza nelle voci superiori; tuttavia,
anche la derivazione opposta sarebbe legittima, e dimostrabile. I riflessi
della Forma, nell'op. 131, si proiettano in modo retrogrado e profetico,
anticipatorio. “Quasi un poco andante” vuol dire senza “rubato”; il “molto
cantabile” invita ad una totale flessibilità agogica. A un livello più
profondo, Beethoven ci prescrive di privilegiare, nel primo brano, la
dimensione verticale, e nel secondo, quella orizzontale. Ogni tema, nell'op.
131, insomma, è anche struttura armonica di altri temi, loro sigla
potenziale. Non per niente, il compositore abolisce la suddivisione tra i
movimenti. Siamo già nel cerchio infinito delle stelle, il cielo
dodecafonico di Anton Webern. Questa categoria stilistica sta nel segno di
Manto, la sacerdotessa di Delfi che Dante pone nella quarta bolgia, dove i
dannati hanno la testa rivolta all'indietro. Osservando ciò che sta alle sue
spalle, Manto prevede solo ciò che è già stato.

Precipizi/Vallate: Icaro

Icaro si avvicina troppo al sole, e la cera che sostiene le sue ali si scioglie,
facendolo precipitare al suolo. Il Quartetto in Mi bemolle maggiore op.
127 è un ripensamento della Suite barocca. Il “Maestoso” iniziale parodia
la Intrada antica di solenne memoria, e il tema a larghe campate, in forma
di canzone, dell'“Allegro”, si distende sulla duttile cera della sua Armonia
elementare con un ordine simmetrico che serve solo a renderne più
scabrosa la successiva frammentazione. Qui, i precipizi delle vette
occludono presto la vista delle vallate. Luogo canonico del sublime,
l'“Adagio ma non troppo e molto cantabile” – ormai, smaliziati, sappiamo
che cosa significa: “basso” misurato e, a contrasto, flessibilità agogica
nelle voci superiori – gioca su di un'ambiguità metrica. Il 12/8 procede su
di un ritmo ternario disposto per gradi della scala articolati in tempo
binario. È un cantus firmus intonato da un balbuziente, di modo che la
dialettica tra la serenità del tema e la instabilità del ritmo crea un effetto di
straniamento. Le Variazioni successive procedono per saturazione,
contrazione, contrapposizione e quella lettura trasversale, obliqua, tra le
voci, che nell'ultimo Beethoven evoca temi, altri, potenziali, e che io
definisco “equivalenza motivica”. Nell'“Adagio molto espressivo” il metro
è di due battute, e la cellula tematica, di tre. L'ambivalenza del ritmo
iniziale si fa, qui, variante della Forma. Siamo vicini al principio della
Variazione permanente in tutti i parametri musicali: la cosiddetta serialità,
anima profonda del Novecento musicale. Lo “Scherzando vivace” evoca il
fantasma della Intrada iniziale, per poi ridurre a sigla la cellula tematica
del movimento lento precedente incidendola con una pausa che la tramuta
in scheletrica apparizione notturna. Il Finale, “Allegro”, disarticola la
serena convessità del canto intonato nel primo movimento. È come se
l'ombra della vallata si profilassero sulla costa di un monte, precipizio
dove si disegna l'immagine della perduta quiete. Beethoven procede per
sovrapposizione di tutti i materiali precedenti, un Contrappunto per linee
melodiche dove ogni Armonia, asse ordinatore della Forma, viene sospesa.
Il Quartetto op. 127 è, per Beethoven, la resa dei conti con ogni residuo
dello Stile Classico, che ricompare come museo della memoria nel
Quartetto op. 135. I due quartetti sono ciclicamente collegati, per gioco di
contrasti, con quel sistema alla Mallarmé per produrre quartetti, che sono i
tre centrali. Tre contro due: ancora il cinque, metro interiore della Quinta
Sinfonia. Il numero che in Beethoven significa l'uomo all'interno del
cosmo si estende, in queste opere estreme, a farsi principio di contrasto
dinamico all'interno di metastrutture formali.
Est. Le Sinfonie.

Le Sinfonie stanno ad Est, sul palcoscenico del nostro beethoveniano


Teatro della Memoria. Producono, infatti, il sorgere della musica nuova, il
Romanticismo. Beethoven ne fa laboratori di sperimentazione formale, e
ogni volta che risolve in struttura un progetto espressivo, nella sinfonia
successiva muta i parametri della ricerca.

Centripeto/Centrifugo: il Minotauro

La Sinfonia n. 7 in La maggiore op. 92 è tutta basata sulle varianti di una


stessa sequenza ritmica, che compare come sigla alle batt. 3-10
dell'“Allegretto”. Il metro di questa proporzione è sette. Nella numerologia
beethoveniana il sette indica la fine di un mondo (ricordate? Sinfonia n. 3
in Mi bemolle maggiore “Eroica”, “Allegro con brio”: Do diesis nella
settima battuta) oppure, come qui, il tempo sospeso di un mondo
iperuranio. La Settima, tutta costruita, com'è, sui “piedi”, le figure
ritmiche, dell'antica poesia greca, celebra la sizigia tra Apollo e Dioniso.
Siamo nei cieli ideali del mito, dove ogni cosa è simbolo. Un incantesimo
di smaterializzazione della gravitas terrestre è il “Poco sostenuto” iniziale,
lungo il quale intervalli discendenti di Quarta, nei fiati, vengono tratti
verso l'alto dalle semicrome in “staccato” degli archi. Beethoven adopera il
punto sulle note ad indicare, alla maniera di Händel, non solo
l'articolazione, ma anche il sottrarre ad ogni nota metà del suo valore. È un
“tempo tagliato” dentro al “C” della segnatura: artificio usato, nel Barocco,
per gli dèi e le apparizioni sovrumane. Con “Poco sostenuto” Beethoven
prescrive che, marcando il tactus, lo si possa, a vicenda, trattenere e
rilasciare, onde ottenere una simile instabilità di tempo. Saliamo insieme
agli archi fino alla soglia dell'Olimpo, dove il tempo si ferma, e un Corale
dei legni oscilla sul Mi pulsante degli archi. Al “Vivace” successivo si
giunge sull'enfasi di questa nota ripetuta. Nell'“Allegretto”, invece, l'intera
sequenza ritmica che germina da sé la sinfonia è articolata sulla nota La.
L'intervallo La-Mi, è quello che apre il brano. Sinfonia “delle quarte”,
dunque, la Settima. La Quarta, come armonico, in natura, non esiste: è
l'“intervallo dell'uomo”, da lui creato per rendere possibile la scala
temperata. La Quinta, invece, è l'“intervallo della natura”: il primo, quello
originario. Nella Sinfonia n. 9 in re minore op. 125, l'“Allegro ma non
troppo, un poco maestoso” che descrive l'origine dell'universo è costruito
sulle Quinte. Nel “Molto vivace” successivo, che è pura pulsazione
ritmica, nasce la vita organica, che è senza coscienza. Poi, nell'“Adagio
molto e cantabile”, ha origine l'uomo; allora il tema procede per Quarte e
per moto retrogrado, perché la coscienza, nell'uomo, è emanazione della
memoria. La Settima Sinfonia, chiusa ad ostrica sulla perla
dell'“Allegretto”, è centrifuga, agisce al di fuori del tempo umano; la Nona,
che procede dal caos al cosmo, dall'animale all'uomo e, infine, Dio, è
centrifuga: si sviluppa in un ordine stellare dal quale, nel “Prestissimo”
finale, scompare alla vista. Quel Dio che è logos, parola, nella Cantata che
funge da ultimo movimento, diviene il Deus absconditus del profeta Isaia,
nella Bibbia. Il moto centrifugo sconfina oltre le stelle del mondo creato. Il
Minotauro, che giace nascosto dentro il proprio labirinto, ma è, al
contempo, in ogni suo luogo onnipresente, sia la figura allegorica di questa
categoria stilistica.

Presentimento/Visione: Atlante

J. S. Bach osserva la natura nel suo divenire; Mozart, nel suo manifestarsi;
Beethoven, nel suo farsi. In J. S. Bach la musica esiste prima di venire
pensata; in Mozart esiste quando la si agisce come “carattere”, la si mette
in scena nel mondo; in Beethoven, quando le si dà un ordine di pensiero.
L'inizio della Sinfonia n. 1 in Do maggiore op. 21 è sospeso, ambiguo. Il
“pizzicato” degli archi è il pendolo della mente che rintocca le superfici
del tempo. Allo stesso modo, nell'incipit della Sinfonia n. 4 in Si bemolle
maggiore op. 60, il Si bemolle all'unisono di tutta l'orchestra dischiude un
deserto calcificato dove il tempo piove nel “pizzicato” degli archi. Il
tempo, questo demone della Forma, assume, poi, forme avvolgenti,
sinusoidali, nelle terzine che attraversano la “Marcia funebre” della
Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”. La musica di Beethoven si svolge nello
scenario interiore dell'anima. È un presentimento del tempo. Nell'“Allegro
ma non troppo” della Sinfonia n. 6 in Fa maggiore op. 68 “Pastorale” c'è
una “corona”, a battuta quattro, che isola la simmetria della frase iniziale
rendendola un obelisco perduto della bellezza. Beethoven, qui, congela
Mozart in un'illusione senza tempo. Il “pizzicato”, le terzine, sono
presentimento; questa “corona”, è visione. Nella Sinfonia n. 5 in do minore
op. 67, l'”Allegro” finale, il rintocco del motivo con cui il tutto comincia,
l'incipit della sinfonia, diventa pulsazione di terzine, dinamismo ridotto a
ordine. La fiducia illuministica nel logos emerge con la sua disperata
chiarezza, ma per splendere deve passare dalla sua mise en abyme: la
pausa di croma sul tempo forte della prima battuta, nell'“Allegro con brio”
iniziale. Se J. S. Bach è un geologo della musica, perché scava nelle
geosinclinali del suo tempo, e Mozart coltiva giardini pensili sulle mura
della città, tempo redento dagli uomini, Beethoven è, invece, un architetto.
Nella Quinta Sinfonia i due movimenti centrali cominciano in anacrusi. La
pausa iniziale sbilancia il divenire del tempo fino a quando i timpani, tra lo
“Scherzo” e il Finale, non ne redimono l'extrasistole in un pulsare umano,
respiro dell'anima; solo allora esplode il radioso Do maggiore risolutivo.
Significativo come, secondo questa visione di trionfo presentita attraverso
una dissociazione puntilistica, nella Coda dello “Scherzo”, quel “pizzicato”
di gnomi che scavano vie di luce attraverso la montagna, l'Armonia del
Finale, nelle prime battute, sia tutta basata su “rivolti”: elementare, quasi
goffa, perché, nel tempo, l'uomo ci vede una linea solo in forza all'ottusità
dei propri sensi. Nell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto il mago Atlante
costruisce un castello dove ciascuno ritrova il fantasma del proprio
desiderio. Il tempo redento dal caso, nelle sinfonie di Beethoven, è questo
fantasma. Atlante sia, dunque, la figura allegorica di questa categoria
stilistica.

Automa/Atleta: il Golem

L'Illuminismo è l'età degli automi. La tecnica vi diventa una filosofia. In


musica, l'evoluzione degli stili vi passa attraverso la conoscenza del
passato, la sua riduzione a formule riproducibili. La Sinfonia n. 8 in Fa
maggiore op. 93, che Beethoven preferiva alla Sinfonia n. 7 op. 92, è la sua
più elusiva, enigmatica. L'indicazione del primo movimento, “Allegro
vivace e con brio”, ci rivela come per “vivace” il compositore intenda
sempre un tactus col tempo forte “in levare”. Le voci più gravi si svolgono
in un “ostinato” il cui meccanicismo racconta la civiltà delle macchine ai
suoi albori. I “bassi” sono le pulegge, le ruote dentate; i fiati, il canto
dell'uomo. La dialettica archi-fiati, tipica delle Serenate e i Divertimenti
cari allo “stile galante”, viene, qui, rovesciata di segno. Questo movimento
che procede per moto proprio, per accumulo organico di tensione, tra molti
“sf”, “sforzato”, verso uno squassante “fff”, “fortissimissimo”, sembra un
pianeta che nella propria orbita attiri sempre nuovi satelliti: motivi, spunti
tematici, transizioni che si aggregano tra loro secondo una calcolatissima
casualità. L'essere umano, l'artefice, vi appare il Golem, una creatura fatta
di materia inerte, di argilla nella quale è stata infusa con formula magica la
scintilla del pensiero. La Forma-Sonata si sfalda sotto gli urti delle idee
secondarie. L'atleta, eroe del corpo, così come l'artefice lo è dello spirito:
colui che spinge l'energia oltre i limiti concessi all'uomo, pare farsi,
nell'Ottava, creatore di una Forma che travalica le simmetrie classiche.
L'intera sinfonia ha la cifra di un simile delirio controllato. È la sinfonia
più eccessiva, critica, con quello scardinamento di pendoli e orologi che è
l'“Allegretto scherzando”, mai osata dal Maestro. In Beethoven, lo
“scherzando” appare laddove il tempo della natura procede in modo
implacabile, travolgendo ogni cosa; nulla di faceto, in tanta insensata
violenza. Il nichilismo dell'Ottava sta nel suo non essere redentrice di
alcun senso. Il suo umorismo ha il respiro di un demone che nega il pianto.
Senza questa officina dei folli, luna nera della malinconia: quella che
Albrecht Dürer dipinge in forma di clessidra, bilancia e figura geometrica,
non avremmo avuto la Sinfonia n. 9 op. 125, nel cui “Molto vivace” il
demonismo delle macchine si redime in slancio della materia, dal germe a
Dio, lungo la scala degli esseri. Il Golem, qui, diventa atleta dell'uomo
nuovo. Secondo la Qabbalah, solo la parola, il logos, può fermare il
mostro d'argilla dal suo farsi omicida. Nella Nona, la parola fa del tempo il
corso concluso dell'evoluzione, la logica del divenire terreno. Ma la luna
nera dell'Ottava, l'argilla del Golem al quale il suo artefice, ancora, non ha
dato il logos, si proietta sullo splendore della Nona: null'altro che
prospettiva umana, finitezza di sguardo che, come tale, il “Prestissimo”
finale dissolve nello scardinamento impazzito del tempo.

Catastrofe/Redenzione: Faust

Nelle sinfonie, il cammino musicale di Beethoven per aspera ad astra si fa


drammaturgia. Le tre tappe evolutive della sua vita: colpa, espiazione e
catarsi, come le abbiamo descritte, vi diventano i tre atti di un'azione
scenica. Un simile scenario appare, stilizzato in essenziali linee formali,
nell'“Adagio molto” della Sinfonia n. 2 in Re maggiore op. 36, la più
trascurata. “Adagio” va inteso, latinamente, come “ad agium”, “in tempo
libero”, e il “molto” indica l'umbratile volatilità di questo campionario di
umori in luogo di un'introduzione sinfonica. Dopo un'apertura di sipario
isolata da una “corona”, abbiamo un Corale religioso, nei legni, che il
ritorno dell'accordo iniziale trasfigura a canto intonato, negli archi,
dall'intera assemblea dei viventi. Lo stile antifonale ha il senso di
un'Armonia perduta, che la condotta per linee cromatiche dei “bassi” rende
sofferta certezza. Segue una transizione ritmica dove si accendono bagliori
di fenomeni celesti; presto la materia sonora si agglutina in un movimento
dalla regolarità disumana che esplode, infine, a batt. 24, in un ritorno degli
accordi iniziali su di un ritmo che il punto doppio – come avviene, dei
fiati, nel primo movimento della Sinfonia n. 4 op. 60, batt. 36 – rende
indizio di violenza demoniaca. Ne emergono figure convenzionali del
primo sinfonismo: il cosiddetto “singhiozzo di Mannheim”, qui rese
tremende dalla regolarità dello stile imitativo. Fare di questo materiale
inerte, indifferenziato, un Canone indefettibile comporta la diagnosi di una
profonda disillusione. Dopo simile espiazione laboriosa della colpa – la
frattura dell'Armonia, scissione dell'accordo iniziale – viene la redenzione.
I trilli che guidano la Forma alla luminosità risolutrice dell'“Allegro con
brio” , tra “sforzato e “sfp”, “sforzato piano” – una innovazione
beethoveniana, a indicare la tensione di un pugno vanamente levato verso
il cielo, che avrà la propria apoteosi nella Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica” –
sono la volta del cielo che si apre alla luce. I trilli, in Beethoven, hanno
due opposte valenze: alla fine di una sequenza, sono zampilli del divenire
eterno, luce delle origini; isolati, sono il riso demente della follia (Sonata
op. 111, Coda dell'“Arietta”). Nella Seconda Sinfonia, il “Larghetto” segna
un ulteriore progresso formale. Lo Sviluppo procede per contrapposizione
tra due differenti idee, senza che la Forma valga a rinsaldare questa
anfibolia tra canto dell'amore celeste e danza plebea dell'amore terreno.
Per “Larghetto” Beethoven intende un cantabile faticosamente lirico,
scandito sui tempi forti. Lo “Scherzo” ha un metro “in sette” che lo fa
sghembo, orma di rettile sulla roccia della Forma. La Seconda si conclude
con il trionfo del trillo, festa della follia: l'incipit dell'“Allegro molto”
finale, nella cui Coda la formula cadenzale, con la sua ovvietà, pare il
simbolo di quella beffa del destino che fa della morte l'evento più naturale
della vita. In questa, la negletta tra le sue sinfonie, Beethoven, col suo fare
delle convenzioni più viete la via per esprimere l'impossibile, si atteggia a
Faust. Al pari di quello, il suo sforzo di trasformare la colpa in redenzione
resterà vano fino a quando non verrà inondato da quell'amore ideale il cui
cuore pulsa, fin dalle prime battute, nell'“Adagio” della Quarta Sinfonia: la
sinfonia alla Seconda gemellare, in accordo con quella strutturazione a
binomio che caratterizza l'intero corpus sinfonico del Maestro.

Natura/Uomo: Pan

Le Sinfonie nn. 3, 6 e 9 formano una successione dialettica di Tesi, Antitesi


e Sintesi. La Dialettica, con la sua arte di assimilare argomenti contrastanti
gli uni dentro gli altri, portandoli a collidere, è la macchina per pensare più
potente congegnata dalla Età dei Lumi. Senza di essa, la Forma-Sonata
sarebbe inconcepibile. Beethoven la eleva a criterio di interrelazione tra le
tappe diverse del suo itinerario sinfonico. La Sinfonia Eroica è la fine della
Storia. Riassumiamo i tratti di quanto abbiamo altrove alluso. Alla battuta
sette dell'“Allegro con brio”, sul Do diesis dei bassi, Napoleone si mette in
testa la corona d'Imperatore; viene sepolto, ancora vivo, nella “Marcia
funebre” successiva; poi lo “Scherzo”, con i suoi corni di caccia, fa da
interludio del mondo nuovo, e sulla sua smemorata natura che risorge il
Finale disegna il profilo di Prometeo. La Storia è morta, rimangono le
ragioni ideali del Mito. Nella Terza Sinfonia Beethoven inventa la Poetica
del Romanticismo: trascendere il tempo. Il “gruppetto”, notazione
irregolare, dei contrabbassi in “battere”, al principio della “Marcia
funebre”, dopo l'anacrusi iniziale, segna una divaricazione tra il segno
scritto e il risultato sonoro. Un'impossibilità del tactus a risolvere la
determinazione del tempo. Il divorzio tra la realtà e l'Ideale. La Sesta
Sinfonia, la “Pastorale”, lo abbiamo visto altrove, è una Messa laica.
Celebra il Dio disciolto nella propria Creazione. Vive della scissione tra le
prime quattro battute dell'“Allegro ma non troppo”, “Risveglio dei
sentimenti all'arrivo in campagna” – il canto dell'uomo, con quella
“corona” sulla quarta battuta a segnare il limite del suo sguardo – e il
flusso indifferenziato del tempo cosmico, il tempo del dio Pan, quale ci
appare, ingannevolmente ordinato, nel primo movimento, da batt. 150,
oppure nelle onde di crome distese, immutabili e indifferenti, lungo tutta la
“Scena al ruscello”. Nella sezione a progressione immutabile del primo
movimento, l'unico segno evolutivo è l'enfasi progressiva delle dinamiche.
La natura è immota, eppure si presenta ai nostri sensi come germoglio,
sbocciare di riflessi emanati da una sorgente invisibile di luce. Nella natura
le cose succedono, non accadono; solo nell'uomo, avvengono. L'uomo,
dice il filosofo della Naturphilosophie, Schelling, è il luogo in cui la natura
prende coscienza di se stessa. Diventa parola, e poi suono. Le didascalie
apposte dal compositore sulla sua “Pastorale” sono evocazioni di Pan,
strategie perché la natura, divenuta autocosciente tramite il logos umano,
mandi suoni. Secondo Schelling, Dio “diviene” nell'uomo e per mezzo
dell'uomo. Il Dio vivente, nell'uomo, si fa evento; e questo evento, ci dice
Beethoven nella Sesta, è la musica. Tutta una simile teologia sonora trova,
lo abbiamo accennato, il suo compimento nella Nona Sinfonia. Non è
strano che un cultore di Kant, cui si deve, insieme a Pierre Simon de
Laplace, la prima intuizione del Big Bang, abbia scritto una musica come
quella dell'“Allegro maestoso” iniziale, dove l'imprecisione della segnatura
ritmica, quel vibrare del cosmo prima dell'esplosione creatrice, viene
ottenuta indicando il tempo con una esattezza tanto matematica da farsi
aporia: due terzine più tre sestine? Più i musicisti contano, più il risultato è
il caos. Beethoven intuiva i frattali e la teoria delle stringhe? Il caos
materico dell'universo, dentro cui si disegnano fugaci regole trasversali che
a noi paiono leggi? Tutti gli episodi in Fugato del Finale, nella Nona,
sembrano dimostrarlo. La doppia Fuga che sovrappone le due idee
fondamentali: il “tema della gioia” e quello “dell'abbraccio cosmico”,
funziona in cerchio, dentro un microcosmo che è quello della coscienza
umana. La Fuga, qui, è il contrario di una bachiana legge universale, e
Beethoven, facendo regredire, da quel momento in poi, a forza di “musica
turca” e marce rivoluzionarie parodiate con cinica serenità, l'invenzione
musicale a balbettamenti infantili, “canzona” l'uomo nella sua presunzione
di specchio della divinità. Allo stesso modo le ultime battute della Sinfonia
“Pastorale”, con quel corno in sordina che si perde nel flusso bellissimo e
spaventoso della natura, per poi venire interrotto dalla brusca cadenza,
sono il Dio che sbatte la porta in faccia all'uomo, pervenuto un attimo solo
a sbirciare oltre la Sua soglia. Viene in mente il poeta August von Platen:
“Chi ha visto la bellezza con gli occhi/È già consegnato alla morte”.
Un'isola sola di canto resta immune, in questo trittico sinfonico del
sublime in quanto irruzione del tremendo, allo sguardo distruttivo del dio
Pan, natura rivelata: l'“Adagio molto e cantabile” della Nona Sinfonia. Il
prezzo da pagare è il ripiegamento su se stesso del materiale tematico,
avvolto in una Forma elementare di Volkslied, canzone popolare, con
Variazioni dove il mondo incantato ma alieno – mondo di automi, spiriti
prigionieri – del Flauto magico replica rituali fatti di soli gesti, ormai del
tutto irrelati al divenire del cosmo. È, questo, il riso di Pan, che nella
mitologia antica prende sempre la seduzione di un canto; allo stesso modo,
il suo occhio che pietrifica comincia come sguardo d'amore. Rainer Maria
Rilke lo esprimerà così: “Il bello, è il tremendo al suo inizio”.

Istante/Eternità: Narciso

Narciso si contempla nello specchio del lago, e per baciare quel suo
riflesso, cadendo in acqua, annega. L'istante della sua morte è il modo che
il tempo escogita perché possa amarsi in eterno. La dialettica tra
“fenomeno”, evento, e “Forma nascosta”, progetto complessivo, nelle
sinfonie beethoveniane, è lo stesso gioco di riflessi che c'è tra biografia e
significato universale, in ogni opera d'arte. Il mistero è sempre il
medesimo: come può la sublimazione di un dolore individuale farsi
strumento di redenzione per l'intera umanità? In questa categoria stilistica
del Narciso divenuto Titano, un Prometeo dell'amore, piuttosto che del
logos, si muove la triade delle Sinfonie nn. 5-7 e 9. L'attimo della
rivelazione, l'eternità come terrore, ha, in Beethoven, l'aspetto della
“corona”, questa extrasistole del tempo musicale. La “corona” gli serve per
separare le “sentenze” dal racconto. Le prime cinque battute della Quinta
Sinfonia, che Furtwängler definiva “il frontone del tempio”, risuonano
congelate nell'eterno; sono una sentenza sul mistero che l'uomo non può
attingere. Nell'incipit dell'“Allegro con brio”, lo abbiamo visto, il metro di
due battute è l'uomo, e quello di tre, la natura. In questa “sentenza”
iniziale, cinque battute, i due metri danno origine a una lotta tra l'eroe e il
destino poi articolata, da batt. 6, di cinque in cinque battute, finché il
troncamento di questo “metro della progressione alla luce”, il venir meno
di una battuta, non causa, al centro del movimento, una catastrofe che
verrà redenta solo nella transizione tra “Scherzo” e Finale: l'episodio del
timpano solista. Sempre, l'eternità, in Beethoven, sta in ciò che non c'è.
Nel venire a mancare, nella lacuna del senso; in una battuta in meno, una
sequenza omessa. Nel “Molto vivace” della Nona Sinfonia, tra le prime
nove battute, cinque sono vuote. Le batt. 4-5, non rispondendo alla
pulsazione del ritmo iniziale, ci descrivono un cosmo indifferente al
sorgere della vita. Le batt. 7-8, dove si perde l'eco del rintocco vitale, sono
il buio inaccessibile di ogni cosmica eternità. La dicotomia tra un metro
interno binario e uno ternario, uomo e natura, qui conosce un binario
rintocco di vuoto (4-8) dentro cui giace un ternario silenzio enigmatico (4-
7); ne risulta quel qualcosa di ossessivo, biologicamente sinistro,
inarrestabile perché distruttivo, che pervade il movimento. Čajkovskij
dimostrerà di averlo compreso appieno nel terzo movimento, “Allegro
molto vivace”, della sua Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 “Patetica”. Nella
Settima Sinfonia, Beethoven attinge un'eternità indiscussa isolando un
fenomeno: una cellula ritmica, un istante del tempo, e torcendolo fino a
farne una struttura ricorsiva capace di duplicarsi, come la doppia elica del
DNA, in tutte le anse della Forma. Viene in mente William Blake, quando
dice “Vedere il mondo in un granello di sabbia (…) Tenere nel palmo della
mano l'infinito/E l'eternità in un'ora”. È, questa, l'eternità delle Effimere,
destinate a vivere un solo giorno.

Abissi/Stelle: il Demiurgo

Nella teologia dei primi cristiani, poi detti gli Gnostici, Dio, che loro
chiamano il Demiurgo, crea il cielo stellato dal vuoto, insufflandovi dentro
il tempo. Questa manifestazione dell'infinito per insistenza su materiali
inerti, minimi, è una delle categorie stilistiche più notevoli nel sinfonismo
beethoveniano. La troviamo allo stato puro in quel La reiterato cinque
volte – le ultime tre, in “crescendo” – che segna la transizione, nella
Sinfonia n. 4 in Si bemolle maggiore op. 60, dagli abissi alle stelle:
dall'“Adagio” all'“Allegro vivace”. Sempre nella Quarta, la sezione di
Sviluppo del primo movimento collassa progressivamente in un buco nero
cosmico, abisso di una tensione resa sempre più compressa, esplosiva,
dopo un episodio di rintocchi su note ripetute che sembrano il battito di un
pendolo cui si sia sfilato il contrappeso, da fuochi fatui di semicrome che
si spengono su di un “tremolo” del timpano. È un vuoto popolato di lemuri
spaventosi, dal quale l'orchestra fugge riprendendo pian piano la sua
dinamica di illusione gioiosa. Nelle ultime battute lo slancio precipita,
quando i corni intonano un Corale ultraterreno evocante l'inattingibile
ultimo cielo, in una terzina e poi una quintina che lo fanno precipitare nel
vortice del cosmo indifferenziato. Questo riflesso di stelle fredde fa della
corsa vitale un immolarsi nell'abisso, secondo una sarcastica visione della
gioia come illusione che Beethoven espone, per la prima volta, nella
Sinfonia n. 2 op. 36, la Coda dell'“Allegro molto” finale. Il mondo vi
appare una trottola impazzita tra le mani del Demiurgo, e Beethoven così
lo consacra nell'ultimo movimento, “Allegro vivace”, della Sinfonia n. 8 in
Fa maggiore op. 93, dove una semplice alterazione cromatica, una visione
distorta, costringe l'eroe dionisiaco, ebbro di vita, a una girandola di “sf”,
“sforzato”, terzine e cadenze paradossali, perché sospese, nella quale
davvero risuona il riso di un Demiurgo lontano. Il più risentito, nichilista, è
questo Beethoven dallo sfigurante umorismo fiammingo, non il Titano
padrone della Forma.
Ovest. I Concerti per solista e orchestra.

Maschera/Volto: Tespi

Tespi è il primo tragediografo della tradizione attica. Gli si deve


l'invenzione della maschera, nonché la creazione del ruolo dell'attore così
come lo concepiamo oggi: personaggio, carattere individuale. Il Concerto
solistico è il genere che Beethoven utilizza per attraversare il virtuosismo e
le mode stilistiche, fino a sbucare nel cielo della musica “pura”. Nel
Concerto, il maestro improvvisatore dall'inedita forza barbarica brucia le
scorie della musica in voga ai suoi tempi. Quando la sordità gli impedisce
di suonarli in pubblico, dopo il Concerto n. 5 in Mi bemolle maggiore op.
73 “Imperatore”, Beethoven, di Concerti, non ne scrive più. La loro
funzione è mettere in scena ciò che il compositore, nella sua anima segreta,
ha già risolto e superato. Tuttavia, c'è un'eccezione. Nel Concerto n. 4 in
Sol maggiore op. 58, Beethoven esprime un lirismo in permanente
emanazione di riflessi che resta il suo contributo massimo alla musica
vocale. Nient'altro che Romanza senza parole, infatti, può venire detto
l'“Allegro moderato”. Il Maestro trova una Forma costruita su tre idee
germinative che vanno dall'Ode religiosa al Volkslied – ma un “canto
popolare” trasognato, smarrito nelle correnti del ricordo – fino ad una
marcia militare sospesa, raggelata: una sorta di Marsigliese allucinata alla
mente di un soldato morente in battaglia dopo aver appreso che Napoleone
si è incoronato Imperatore. Questo tritematismo non è nuovo, c'è già
nell'“Allegro con brio” della Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”; i temi, però,
qui non sono più Princìpi in opposizione, ma cellule di un embrione che si
sviluppa per agglutinamento. Ogni motivo di un tema si unisce a quello,
affine, dell'altro a formare sempre nuove idee, transizioni che evolvono in
canto e ponti modulanti nei quali risuonano echi, riverberi, degli episodi
passati. Una simile Variazione permanente nella quale è impossibile
segnare cesure, creare metri proporzionali, è già vicina alla unendliche
Melodie, la “melodia infinita”, teorizzata da Wagner. La dialettica dei
Prinzipien, così disattesa nel primo movimento, si prende la sua rivincita
nell'“Andante con moto”, dove la tecnica del Recitativo deve così tanto a
Gluck da aver fatto meritare a questo brano il sottotitolo “Orfeo e le
Furie”. E invece, è proprio la maniera drammaturgica – non più strutturale,
ma sottesa, segreta – in cui Beethoven utilizza il campo di forze che si crea
tra il “Princìpio che si oppone” e il “Princìpio che implora”: è questa
altissima retorica a denunciare l'abbandono di ogni dialettica illuministica,
e fare del Quarto Concerto – ancora prima della Sonata per violoncello e
pianoforte in La maggiore op. 69, il Quartetto op. 74 “Delle arpe” e la
Sonata per pianoforte in Fa diesis maggiore op. 78 – uno dei profeti
antivedenti il tardo stile beethoveniano. Il volto del Beethoven proteso ai
mondi lontanissimi dell'Ideale si scopre ancora più adamantino per la
discesa nell'effimero della festa, la celebrazione dei sensi terreni, operata
nel “Rondò. Vivace” finale. Notevole, qui, come il pianoforte imiti
strumenti popolari ad arco, a tamburo e a mo' di ghironda. Decisamente, in
Beethoven il pianoforte vuole essere qualsiasi strumento tranne che un
pianoforte.

Linea/Cerchio: Pitagora

I Concerti per pianoforte e orchestra nn. 3 in do minore op. 37 e 5 op. 73


“Imperatore” sono due momenti critici nell'evoluzione della Forma
beethoveniana. Nel Terzo Concerto, l'“Allegro con brio”, prevalgono le
linee: i due temi, qui più che mai Prinzipien, procedono in parallelo
ognuno abitando una propria zona di tensioni evolutive, ma senza mai
giungere a una sintesi, così come in ogni circonferenza è possibile
inscrivere differenti poligoni. La costrizione genera una libertà potenziale,
utopica, perché compressa. Il termine “con brio” significa, come sempre in
Beethoven, la regolarità del tempo conseguente alla stretta aderenza alla
Forma-Sonata, la sua struttura ternaria, a dispetto di motivi tematici
inadatti ad uno sviluppo regolare; il che obbliga, per compensazione, ad un
leggero e continuo “rubato”. Questa opposizione tra invenzione e Forma,
sorta di stigmate della Lotta, nell'età bethoveniana che abbiamo posto sotto
la sua effige, è indizio di crisi per un'intera civiltà. Il trapasso dall'eroismo
del popolo a quello, solitario, dell'individuo, splende nella Cadenza
dell'“Allegro con brio” dell'op. 37, dove il pianoforte riprende il rintocco
ossessivo dell'orchestra e lo dilacera in precipizio cadenzale, alla maniera
in cui Alessandro Magno risolve il nodo di Gordio tagliando la corda con
un colpo di spada. Mentre nel Quarto Concerto non si riesce a scorgere la
transizione tra le sezioni della Forma, nel Terzo esse sono state definite
prima dell'invenzione tematica, e ne prendono, in un certo modo, il posto.
La linearità dell'evoluzione formale è tale da divenire ciclica. Nel Terzo,
sulle ultime battute dell'“Allegro con brio”, il brano potrebbe ricominciare
da capo, ma con diversa valenza, ora, del solista, che la Cadenza ha reso
voce narrante, in questa Tragedia del tempo ciclico. L'“Allegro” del
Concerto n. 5 op. 73 “Imperatore”, la Cadenza, la risolve al principio,
onde affermare da subito il solista come interprete – antagonista, dunque –
di ciò che nell'orchestra evolve. In questo ultimo sforzo beethoveniano per
dilaniare la Forma-Sonata a forza di esasperarne le simmetrie troviamo un
senso altissimo del gioco schilleriano; anzi, l'intero movimento trascorre
dal ludus iniziale alla techne del mondo contemporaneo, con quell'insistere
su “ottave”, arpeggi e passaggi a mani incrociate che non evolvono idee
melodiche, ma stanno al posto delle stesse. La “tecnica” salva l'individuo
dal torrente del tempo, ma a costo di impedirgli il canto. La Ripresa,
nell'“Allegro”, incorpora una variante della Cadenza iniziale, a sberleffo
dei vari Concerti in stile militare in voga ai tempi. Questa compresenza di
un tono crepuscolare, da fine della civiltà illuministica, e di farsa
parodistica, mette a dura prova qualsiasi interprete. Una simile categoria
stilistica, dove la lotta tra invenzione e Forma porta ad un irrigidimento
delle simmetrie, trova il suo nume tutelare in Pitagora, che fece della
geometria un'espressione visuale della matematica.

L'arco/La lira: Apollo e Marsia

La contesa tra il sileno Marsia, flautista, e Apollo citaredo si conclude con


la vittoria del dio, il quale, per ripicca, scuoia vivo il suo incauto
avversario. Il “Largo” del Concerto n. 3 op. 37 comincia in una tonalità,
Mi maggiore, non affine al do minore del primo movimento. Lo
sprofondare nell'interiorità ha, qui, il carattere di una di quelle meditazioni
sospese fuori dal tempo, tutt'altro che “cantabili”, perché intrusive, più che
espressive, cui Beethoven ricorre quando vuole sfondare i limiti di un
genere (l'esempio più alto è l'assolo di violino nel “Benedictus “ della
Missa Solemnis). I fiati segnano il confine di un mondo sognato, ideale
della quiete rassegnata, immagine mite della morte. Il pianoforte prende
presto lo stile di uno strumento concertante, in dialogo con fantasmi di
temi che si affacciano sulla superficie immobile dell'Armonia.
Nell“Adagio un poco mosso” del Concerto n. 5 op. 73 “Imperatore”
vediamo un altro uso, in Beethoven, dell'agogica per scopi normativi,
tutt'altro che liberi. Quell'“un poco mosso” vuole contrapporre la regolarità
dei “pizzicati” e l'effluvio morbido del canto: creare una drammaturgia
nell'incompatibile compresenza di tactus diversi. Il tempo interiore è
visione di intere vite nell'attimo, faglia nel processo deduttivo della mente.
La crisi del linguaggio classico si fa premonizione del Notturno, la
Fantasia e il Capriccio romantici; eppure il magnifico tema, una volta
ridotto alle sue note funzionali, ha qualcosa dell'Arioso barocco, respira un
clima da Cantata bachiana. Beethoven tenta un primo esperimento di
elevazione dei fiati a simbolo del cielo stellato, come poi realizzerà, con
mistica evidenza, nel Finale della Nona Sinfonia. Il canto umano, la lira di
Apollo, nega al flauto di Marsia l'appoggio dell'Armonia. Alienandolo dal
procedere del tempo, scuoiandolo, lo trae dalla sua pelle di uomo e lo
traduce ad angelo. Nei movimenti lenti dei Concerti nn. 3 e 5 Beethoven
traduce in modo oppositivo le due dimensioni del sublime secondo Kant:
“Il cielo stellato sopra di me, la coscienza morale dentro di me”. Nel Terzo
Concerto la coscienza morale, il pianoforte, scorge il proprio riflesso nel
cielo stellato; nel Quinto, è il cielo stellato a proiettare le geometrie della
propria perfezione nelle linee, due semifrasi con congedo, del tema umano,
troppo umano. Non sorprende che il compositore tenesse la massima di
Kant, sotto vetro, sulla propria scrivania.

Cammino/Salto: Ariel

La transizione tra l'“Adagio un poco mosso” e l'“Allegro”, nel Concerto n.


5 op. 73 “Imperatore”, è una redenzione del ponte che unisce gli ultimi
due movimenti della Sinfonia n. 5 op. 67. Anche ora è il timpano a
governare la transizione, ma lo fa con opposta maniera rispetto alla
sinfonia, per poi accendere la luce fissa del corno in lontananza, alba di
una nuova genesi riassunta in un punto. La più essenziale funzionalità
dell'orchestra, nei Concerti, fa percepire con maggiore evidenza la
innovazione profonda del Beethoven orchestratore: il suo fare della
differenziazione timbrica una topografia dell'universo, una mappa
dell'anima nel suo pellegrinaggio tra le dimensioni dell'esistere.
Nell'orchestra di Beethoven non abbiamo più solo dinamiche, ma
prospettive. Ogni indicazione espressiva, in partitura, indica anche la
posizione dell'interprete e, di riflesso, dell'ascoltatore, rispetto all'infinito
del cielo stellato, il ricondurre nel quale è scopo, “redenzione”, della
musica. Per questo il “Rondò. Allegro” finale del Quinto Concerto si
svolge nel clima di una festa. È il più ciclico, interminabile, dei Rondò: il
simbolo di quella fede nella rigenerazione della natura, il ritorno del sole al
mattino, che in età rinascimentale diede vita alla Bassadanza – in ritmo
binario ma con suddivisione ternaria, come questo “Rondò” – ad esprimere
l'abbraccio consolatorio della natura risorta all'uomo che morirà. Nella
Coda il pianoforte regredisce all'infanzia e fa terminare l'orchestra con un
rintocco di scappellotti che è la più splendida versione beethoveniana
dell'ironia socratica: l'arte di quei sileni che, nelle edicole poste ai bivi
delle strade, lungo l'antica Attica, mostravano un volto grottesco dentro al
quale se ne nascondeva un altro di divina bellezza. Un simile procedere
per salti, in luogo di un cammino, ha per immagine allegorica Ariel, lo
spirito dell'aria: colui che nella Tempesta di Shakespeare, così cara a
Beethoven, esprime l'entusiasmo quando abbatte i limiti di qualsiasi
Forma. Ci viene in soccorso, qui, un detto di Martin Heidegger: “Il
pensiero giunge attraverso un salto all'ampiezza di quel gioco in cui ne va
del nostro essere umani”. Il cammino che sfocia in salto; l'elisione come
via d'uscita dalla crisi del logos: in questo paradosso, c'è tutto Beethoven.

Orologi/Compassi: Chronos

Il Concerto n. 1 in Do maggiore op. 15 comincia con un richiamo militare.


L'“Allegro con brio” ha un primo tema bipartito tra un arpeggio in
“staccato” e un motivo di due semifrasi che ha il sapore di un congedo, il
saluto di chi parte per il fronte. Il secondo tema, una di quelle ninne-nanne
regressive che Beethoven introduce a significare gli affetti domestici
contro l'incedere della Storia, subisce una metamorfosi progressiva fino a
sfociare in un'adunata sempre più incalzante; solo a questo punto il
pianoforte interviene con un inciso svagato e indifferente alla tensione che
l'orchestra ha così sapientemente costruito. In una simile denegazione dei
princìpi costruttivi si respira un umorismo disilluso che poi trasforma in
divertimento concertante la marziale compattezza dell'incipit. Tutto è
strutturato dagli ingranaggi di un orologio dove il tempo è dato come
materia, e viene riempito da idee anodine, insufficienti a giustificarne
l'ottuso movimento in avanti. Beethoven, personificazione musicale degli
Illuminati, con i loro ideali progressisti, tenta un pericoloso gioco di
demistificazione che lo porterà a definire cautamente questo Concerto, e il
successivo, opere di poco conto. Il riferimento a un'epoca spazzata via da
vani venti di guerra prende un aspetto nostalgico nell'“Allegro con brio”
del Concerto n. 2 in Si bemolle maggiore op. 19. Vi serpeggia lo spirito dei
Divertimenti per fiati così cari allo “stile galante”, immagine di quella
redenzione della natura, la levigata proporzione dei giardini alla francese,
che l'Illuminismo al suo nascere aveva osato sperare per vera. Il compasso
dell'umano ingegno delimita, qui, tramite le leggi appena rivelate dalle
scienze esatte, i canoni del vivere in armonia con il caso. Dio è l'Essere
Supremo, e si gode, in musica, la propria vacanza nel mondo. Il “Largo”
del Primo Concerto è una delle melodie più ampie, sviluppate e concluse
di tutto Beethoven. Risente del canto di Orfeo affiorato nei Campi Elisi,
come lo descrive, trasognato, Gluck. La segmentazione ritmica interna al
respiro, tuttavia, imprime al tutto il vibrare di un sogno rammemorato solo
per barbagli, istanti di una beatitudine scomparsa e teneramente rimpianta.
L'orchestra, entrando con una disposizione, nei fiati che sfondano lo
spazio, memore del Mozart dei Concerti per pianoforte, sottrae alla
melodia la sua natura di sentimento, per farne una commemorazione. Nel
Secondo Concerto, l' “Adagio”, nulla di tutto questo; piuttosto, una
combinazione motivica di incisi fratti, sospinti su “sf”, “sforzato” e accenti
spostati: qualcosa proveniente da quelle figure musicali che nella scuola di
Mannheim e nel teatro musicale mozartiano sono simboli della nostalgia,
l'inganno e l'amore perduto. Beethoven lavora per sottrazione sull'essenza
della cultura musicale recente, ma già sommersa dall'incedere della Storia.
La rievoca affettuosamente per meglio liquidarla. Chronos, che governa il
tempo, ma non ha uno scopo, si accampa qual Nume in capo a questa
categoria stilistica.

La Tradizione visionaria: Mercurio

Il “Rondò. Allegro” finale del Concerto n. 1 op. 15 delimita l'inizio di un


nuovo Classicismo, sorto sulle rovine del precedente appena passate in
rassegna. Il ritmo desultorio, impossibilitato a procedere per assenza di una
terra dove poggiare, ribalta di segno l'enfasi soldatesca dell'idea
germinativa, ne svella il meccanismo da macchina bellica facendone un
rudere marciante su cingoli zoppi. È il carnevale della guerra, l'inutile
incedere dell'Ideale nel giardino d'infanzia degli uomini. Beethoven
scherza pesantemente con la Tradizione, non sicuro dei suoi esiti. Il dio
Mercurio, che vaga ovunque, senza appartenere a nessun posto, è
l'ispiratore di simile suo scardinare i limiti della Forma per troppo premere
sulle sue superfici esattamente delimitate. Questo nuovo Classicismo
trasferisce nelle simmetrie della Forma-Sonata quel lavorio di
permutazione permanente che è un connotato del Contrappunto barocco. Si
tratta di un meta-principio organico sotteso ai due Prinzipen formali
beethoveniani. Nell'”Allegro ma non troppo” del Concerto per violino in
Re maggiore op. 61 i due temi dell'Esposizione sono l'uno una variante
dell'altro: il primo è riduzione a Corale del secondo, che distende il proprio
canto sulla permutazione del suo materiale motivico. Si tratta di un
artificio che J. S. Bach attua quasi ovunque, tra Preludi e Fughe, nella
Tastiera ben temperata, la Bibbia musicale di Beethoven. Una densità di
interrelazioni formali siffatta agisce sulle aspettative dell'ascoltatore
rendendolo più vulnerabile all'abisso che il compositore apre, nell'“Allegro
non troppo” a batt. 331-366, dove i melismi del solista si protendono in un
altrove inattingibile a qualunque dialettica di Forma-Sonata. Come nella
Sinfonia n. 4 op. 60, il compositore rinserra i limiti della Forma per
rendere più angosciosa – domanda che il Nulla fa all'essere umano,
allorché questi esperisce la vita – la deprivazione di senso del passaggio
che abbiamo evocato, ancora più esposto in quanto conduce alla Ripresa.
Comprendere una tale drammaturgia di pause e silenzi significa andare a
fondo nel significato di Beethoven per la musica contemporanea. Un altro
momento visionario, in questo Concerto così legato alla Tradizione che
appare costantemente segnato da strutture quaternarie alla Giovanni
Battista Viotti, è il modo in cui la Cadenza, sul trillo finale, solleva in alto
l'orchestra, che riprende il tema principale come fosse un Inno piovuto dal
cielo (di questa meravigliosa “svalutazione” dall'interno della Forma-
Sonata si ricorderà Brahms nel suo Concerto per violino in Re maggiore
op. 77). Il “Larghetto” vive di un respiro interno al rintocco dei corni, che
sembrano suonare fuori scena, in un clima preromantico affine al Weber
del Franco cacciatore e al Mahler della Sinfonia n. 1 “Il Titano”.
Beethoven, poi, spreca un po' questo suo lavorare per allusioni e
sottrazione, sua abituale cifra stilistica, indulgendo ad un melodizzare
all'italiana inteso a far emergere il “cantabile” melodrammatico del
violinista Clement, primo esecutore del brano, il quale, come
Konzertmeister del Theater an der Wien, vedeva passare sul proprio leggio
tutte le novità operistiche del tempo. Il “Rondò. Allegro” finale è una
danza collettiva dove a ballare si resta da soli. Il tema è composto di due
incisi, uno ascendente e l'altro per moto opposto, che sfociano in una frase
conseguente di carattere cadenzale. È la Barform A-A-B degli antichi
Minnesänger, poi confluita nella Ballata germanica. Beethoven rende il
Rondò, Forma classica per eccellenza, un laboratorio per la
contaminazione del linguaggio “alto” con la musica popolare. Il suo
ossequio alla Tradizione vale solo per rendere più visionaria la natura della
trasgressione. Il secondo tema è un Lied strofico il più vicino possibile
all'ispirazione folklorica. Brentano e von Arnim vi eressero un monumento
con Il corno magico del fanciullo (che meglio sarebbe tradurre “la
cornucopia”), poi seconda pelle del Mahler giovanile. L'ingenuità esibita
accentua questo operare per disillusione e straniamento che rischia di far
apparire il piacevole Finale del Concerto più limpido e innocente di quanto
non sia. Ancora una volta appare singolare come Beethoven, sempre
impacciato quando scrive per la voce umana, non lo sia affatto quando la
stessa venga surrogata da uno strumento.

Il dialogo muto: Arpocrate

Arpocrate è il dio egizio del silenzio. Ha la testa completamente rasata, a


indicare che in lui il pensiero si congela, non dà parole. Il Triplo Concerto
per violino, violoncello e pianoforte in Do maggiore op. 56 riposa su
formule convenzionali che rendono inutile, se non impossibile, il dialogo
concertante tra i solisti. Beethoven affonda la sua cinica risata nel tessuto
musicale della società a lui contemporanea, svelandone l'inautenticità.
L'“Allegro” iniziale si sviluppa su una breve sequenza ripetuta che sfocia
in un motivo marziale cui segue, senza transizioni, un tema ingenuo
ispirato ai couplet dell'Opéra comique à la Méhul. Beethoven ritorna alla
sua militanza come viola nel teatro di corte di Bonn, per poi subito ridere
di tanta sfacciata imitazione marcando il tutto con accenti ritmici
destabilizzanti. La natura ibrida, costruita sulla negazione di se stessa,
costringe i tre solisti a girare l'uno sull'altro, senza mai trovare possibile
una vera intesa. L'“Allegro”del Triplo Concerto sembra il passaggio sulla
scena di ballerini impegnati, ognuno, nelle proprie pirouettes. È il
momento meno sinfonico, e il più sarcastico, nell'intera produzione
beethoveniana. L'intermezzo del “Largo” recupera uno scoperto lirismo la
cui efficacia è minata dal suo essere irrelato al resto del brano. Si tratta di
una di quelle melodie di ampio respiro che poi, a ben vedere, sono
costruite rigidamente sulle funzioni armoniche; dunque, quanto di più
lontano dallo “stile vocale” si possa immaginare. Beethoven studia, qui, le
possibilità future dei Trii op. 70, rendendo l'orchestra l'intrusa vojeur in un
idillio privato. Nel “Rondò alla polacca” torniamo alla caricatura insistita,
per quanto il compositore, lo strutturalista per eccellenza, non manchi di
far sentire l'affinità di questo tema col materiale che introduce il primo
movimento. I solisti si alternano in varianti, più che Variazioni, della danza
con l'aplomb manierista della musica concepita dal Maestro per gli allora
famosi balletti di Salvatore Viganò. Come Prometeo spregia gli umani,
così il compositore ci fa sentire la distanza che separa ogni propria
drammaturgia musicale (“il mio balletto per Viganò era ben diverso”,
sembra dire) dalla materia sonora abborracciata in voga ai tempi suoi. La
Coda funziona per scorciamento, a fare dell'intera Forma un suicidio
programmato per imbecillità intrinseca. Arpocrate usa il silenzio per
sentenza e condanna; Beethoven, nel Triplo Concerto, appare più che mai
vicino a quella riscrittura dei cliché che nel Novecento, mèntore
Stravinskij, verrà detta “musica al quadrato”.

Nel foyer del Teatro

Ora il palcoscenico del nostro Teatro della Memoria è affollato. Vi sono


ventotto figure tutelari, disposte ai quattro punti cardinali e orientate a
seconda della gerarchia di importanza che hanno, nell'evoluzione
beethoveniana, i quattro generi che rappresentano. Ora è possibile creare
itinerari mnemotecnici tra di loro, accorpandole per diritto, per rovescio o
in diagonale, à la Mallarmé. Per moto retto o retrogrado. Per affinità
stilistiche o incompatibili negazioni. Le nostre “categorie” sono una
macchina scenica per interpretare la musica di Beethoven: un laboratorio
di possibilità analitiche. A ciascuno, in base alle proprie esigenze
espressive, la scelta della via da percorrere.
IL RIDOTTO DELLE VOCI

Fidelio, unica Opera di Beethoven, è un feticcio. Ha condizionato tutto lo


sviluppo del teatro musicale tedesco, senza mai entrare stabilmente in
repertorio. Lo si direbbe un testo mitico, del quale sopravvivano
commenti, riassunti, valutazioni critiche, ma che per incuria sia andato
perduto. Beethoven vi sconta la sua utopia: fare della musica vocale una
testimonianza etica, la portatrice di un intento civilizzatore così alto da
richiedere l'intervento della musica “pura”, la magnificazione
dell'orchestra, onde redimere il suo testo dall'inefficacia intrinseca ad ogni
linguaggio verbale. Le parole, in Beethoven, sono troppo importanti per
non venire commentate dall'orchestra fino a che del loro senso non
rimanga traccia alcuna. L'Opera, dopo la riforma di Gluck, è l'esatto
opposto: è catarsi, immedesimazione dello spettatore nelle vicende
individuali, umane, dei protagonisti, non sua trascendenza in redentori
modelli formali. La catarsi di Aristotele è redenzione solo in quanto esito
del dramma, non usa il dramma per giustificare l'intento programmatico di
una redenzione originaria. Fidelio, invece, agisce nella atemporalità; mette
in scena idee platoniche, astrazioni di caratteri umani. Riprendendo la
lezione di Cherubini, un teatro dove la musica incalzi come destino, e il
canto sia lamento sulla sua rabbiosa ingiustizia, il compositore compie
l'errore di confondere tra loro la natura del pathos e quella dell'eros. La
sofferenza redenta grazie al trionfo della giustizia nulla ha a che fare con
quell'“amore coniugale” del quale Fidelio vorrebbe essere la
consacrazione. L'eros è un sentimento privato che diventa ideale sociale;
l'amore coniugale è un sentimento di deprivazione sociale nato dal pathos,
la privata sofferenza. Davanti all'amore coniugale non si può dare catarsi,
solo benevolenza: della catarsi, esatto opposto.
Beethoven, in Fidelio, mette in scena un episodio di ingiustizia di cui fu
testimone Jean-Nicolas Bouilly, il librettista della prima versione, con
musica di Pierre Gaveaux, dell'Opera. Come nella Sinfonia n. 3 op. 55
“Eroica”, il Maestro, qui, rende drammaturgia il fallimento della
Rivoluzione Francese; infatti, la vicenda si svolge al tempo del Terrore,
esito sanguinario della filantropia mancata di Maximilien de Robespierre.
Il ritorno agli affetti domestici si fa, così, trionfo dell'orchestra, specchio di
un dolore umano che la musica “pura” redime da ogni attualità. Un dolore
fuori dal tempo, immune alla Storia. Di rifacimento in revisione, nelle tre
versioni successive dell'Opera Beethoven interviene sulle due Arie di
Leonore, “Komm Hoffnung”, e Florestan, “In des Lebens Frühlingstagen”,
elaborando due grandi introduzioni orchestrali; accentua l'importanza del
Coro dei prigionieri, “O welche Lust”, alla fine del primo atto; lima sempre
di più la convenzionale storia di amori en traversi su cui si aprono le prime
scene dell'Opera; sposta il climax di Leonore che toglie i ceppi ai piedi di
Florestan dalle buie segrete della prigione al sole festoso dell'assemblea
riunita di fronte al Ministro nel frattempo sopraggiunto, questo deus ex
machina fantoccio di una giustizia casuale e disattenta. L'astuzia del
drammaturgo è inversamente proporzionale al genio del sinfonista:
introducendo la storiella di Marzelline che si innamora di Fidelio –
Leonore travestita da uomo, onde farsi assumere come inserviente e
raggiungere la prigione di Florestan – riassume un certo intreccio farsesco
e pettegolo proprio ai Singspiel che vedeva trionfare intorno a sé, con
l'intenzione di creare uno sfondo buono a far risaltare con maggiore enfasi
la propria nuova idea etica di teatro musicale. Il risultato è colmare di eros
inutile e insoddisfatto la prima parte, e rendere asessuato, frigido, il
sentimento di devozione coniugale celebrato nella seconda. In questo
senso l'idea di Mahler: introdurre l'Ouverture Leonore n. 3 in Do maggiore
op. 72b a mo' di Poema Sinfonico prima dell'ultima scena, che è una
Cantata giustapposta ad azione ferma, è geniale, perché fa emergere come
l'intera vicenda sia una sorta di allucinazione sorta nella mente alienata di
Florestan – in tutto e per tutto, un alter ego di Beethoven – mentre giace tra
le catene, conseguenza di quella visione angelica di Leonore giunta a
salvarlo capace solo di esacerbare, quando si rivela fallace, la sua
solitudine. Beethoven conobbe l'amore carnale, la passione, l'estasi; ma
l'agape, la comunione spirituale con un altro essere, quella, mai. Il suo eros
rimase sempre quello di un adolescente, così come lo era la sua
bipartizione manichea tra bene e male. Di questo settarismo non maturato
risente, nel Fidelio, il personaggio di Pizarro, il vilain. La “Marcia” con
cui entra in scena ha lo sfrigolio di una di quelle musiche per strumenti
meccanici nelle quali, pure, Beethoven si produsse. La sua Aria “Ha,
welch ein Augenblick” sembra quella di un pronipote dell'Osmin
mozartiano, nel Ratto dal serraglio, convertitosi al fondamentalismo
islamico. Beethoven riprende tutti i luoghi comuni e gli irritanti
automatismi dell'Opéra comique francese; del Cherubini meno ispirato,
quello che nel celeberrimo a Vienna Portatore d'acqua, talvolta, l'acqua, la
fa; del Mozart “turchesco”, da lui osservato con irritata benevolenza, e
pretende di redimere il tutto bruciando le scorie per esasperazione della
loro piattezza. Si prenda il carceriere Rocco. Beethoven espunse dalla
revisione dell'originaria Leonore la sua Aria “Hat man nicht auch Gold
beineben”, benevola ammissione di cupidigia volta ad assicurare il
benessere della sprovveduta coppia di promessi sposi, sua figlia Marzelline
e Fidelio. Aveva ragione: esaurito questo aspetto spregevole del carceriere
con una franca risata, il compositore, poi, lo fa riapparire sotto forma di
diabolica disponibilità all'assassinio allorché Pizarro ordina al vecchio di
aiutarlo a sbarazzarsi clandestinamente di Florestan. Peccato che infine,
nel Fidelio definitivo, l'Aria sia tornata al suo posto...
L'azione di Fidelio, versione ultima di Leonore o Il trionfo dell'amore
coniugale, insomma, si svolge nella mente e nell'alienazione emozionale
dei caratteri, e non sulla scena. Che Beethoven non comprendesse che cosa
sia l'evoluzione progressiva di un personaggio lo dimostra la ricorrenza,
nell'Opera, di materiali che risalgono ai suoi vent'anni, al compositore che
per la Lese-Gesellschaft di Bonn scriveva la Cantata per la morte
dell'Imperatore Giuseppe II, con una pratica del riciclo non seconda a
quella di Rossini, ma con valenza addirittura opposta: quanto in Rossini è
catalogo di “affetti” quasi barocco, in Beethoven è trascendenza dal
mondo, esilio dell'anima. È pur vero che il Maestro, al reimpiego di vecchi
materiali, ricorre anche nelle sue opere strumentali; ma il problema è
proprio questo: che il teatro musicale ha leggi drammaturgiche, e non
strutturali. Quando Florestan, liberato, si rivolge sconvolto di ardore
all'eroica moglie, “che hai dovuto sopportare per causa mia!”, esclamando,
e quella gli risponde “nulla, mio Florestan!”, noi ci aspettiamo segua, che
so, un “si figuri”, “non c'è di che”, “a buon rendere”, e vorremmo strozzare
questo compositore che non ha strozzato il librettista.
L'episodio straordinario dell'Opera è il ricongiungimento dei due consorti,
“O namenlose Freude”, l'unico momento in cui il loro amore non abbia del
democristiano. E si tratta, infatti, di un brano scritto per un'altra Opera, un
reimpiego; giacché la “gioia senza nome”, namenlose Freude, fosse
rimasta tale, ci saremmo risparmiati quel che segue. La noncuranza dello
strutturalista compositore di fronte alla volatile natura umana, quale trionfa
sulle scene, lo porta a costruire il Finale esultante “Heil sei dem Tag” come
risoluzione della marcetta che introduce, nel primo atto, il Pizarro
malvagio. Pare così che la folla tumultuante sia quella stessa che poc'anzi
ugualmente tumultuava il criminale fattore di lager, prototipo di ogni
Heinrich Himmler razzista e persecutorio; e pure, qui, origine dell'Inno
finale a giustizia e libertà. I tedeschi, col loro Singspiel, ebbero sempre
problemi, finché Wagner non lo redense a Musikdrama. Quando i francesi
facevano del teatro musicale un agone ideale da fare invidia alla Tragedia
attica, gli italiani catturavano le emozioni umane negli artifici della voce, e
il Singspiel arrancava tra la Zauberoper, l'Opera fiabesca, talora un po'
baggiana, e la farsa da taverna, a Fidelio, i tedeschi si dovettero attaccare
per non dover ammettere ciò che se lo si ammette collassa anche Wagner:
che l'idealismo astratto, il filosofare chiuso al mutevole gioco dei
sentimenti – nato in loro dalla catastrofe distruttiva che per sempre li isolò
dall'Europa, la Guerra dei Trent'Anni – gli rendeva impossibile un proprio
teatro musicale se non quando venisse redento dal genio di un grande
sinfonista; e quindi, per ciò stesso, negato. Beethoven adopera le voci
come strumenti che parlano, e gli strumenti come voci che dicono. Le voci
conversano, gli strumenti asseriscono. Non c'è gara. Dove Fidelio resta
immortale è nel Melodram – la musica che accompagna la nuda
recitazione, e in Italiano si dice Melologo – nella quale si descrive la
discesa agli inferi di Rocco e Fidelio. Laddove il vecchio carceriere e la
donna travestita da ragazzo danno al moribondo vino e pane, il tutto si
sposta nella sfera di un rito cristologico; con quale stupefazione e
diffidenza del pubblico francese alla “prima”, e viennese in tutte le altre
repliche, lo possiamo solo immaginare.
Ormai sappiamo che, a voler rinchiudere Beethoven in un'unica formula,
essa è la permeabilità tra gli stili e i generi musicali. La Missa Solemnis in
Re maggiore op. 123, dunque, risulterà infiltrata da innesti del linguaggio
melodrammatico. L'intento moralizzatore della Poetica beethoveniana
scavalca qualsiasi limite della tradizione. La Missa Solemnis è l'opera, tra
le sue, che Beethoven predilesse, forse perché gli si formò per moto
proprio, lungo quattro anni di ripensamenti e dilatazioni del progetto
originario. Alcuni abbozzi del “Kyrie” dove si prevede un preludio
organistico all'entrata del coro farebbero ipotizzare che il Maestro, al
principio, pensasse ad una “messa bassa”, senza orchestra: qualcosa da
sbrigare in tempo per la consacrazione di Rodolfo ad Arcivescovo di
Olmütz. Dopo il crollo delle utopie illuministiche la sua particolare fede
diventa, per il compositore, una ricostruzione del senso, un viatico per
creare ancora. Il suo panteismo, la sua visione di un Dio disciolto nella
Creazione sua, lo porta a innervare la gigantesca partitura di “figure”
essenziali, simboli del divenire del Dio nella multiforme apparenza delle
cose, senza che la Sua identità subisca mai mutamenti. Questa specularità
tra Dio e Natura è il cuore segreto di tutto Beethoven; ammesso che di un
Dio si possa parlare, laddove i segni musicali parlano di una qualità
trascendente che gli uomini incarnano in svariate maschere del Sacro.
L'insistenza, lungo la Missa Solemnis, verso le misure ternarie, la triplice
ripetizione di ogni professione di fede; il ricorso continuo all'imitazione
speculare, a creare crittografie musicali ricorsive, a croce greca, come le
basiliche paleocristiane: tutto, qui, fa pensare ai compositori umanisti della
scuola fiamminga e la loro musica picta, musica fatta di simboli inudibili,
ma formanti un meta-testo segreto. Il J. S. Bach della Messa in si minore
fu, in questo senso, determinante; eppure Beethoven, al contempo,
immette dentro un siffatto codice arcaizzante il pulsante e melodrammatico
linguaggio degli Oratori haendeliani, icona dell'umano e della sua difficile
accettazione del Deus Absconditus. La triplice perorazione “Kyrie”, da
parte del coro, con quella dialettica coi solisti che indica l'immanenza delle
sfere angeliche contro l'implorazione degli esseri mortali; la ternarietà del
“Credo”, concepito come l'antifona del Verbo e il suo immediato riflesso
nella risposta dell'assemblea; le tre volte in cui il “basso”, nell'“Agnus
Dei”, implora “miserere”: il mistero più alto della fede cristiana, la Trinità,
diventa simbolo musicale con una logica ossessiva che lascia pochi dubbi.
Però, la visione che Beethoven ha della trinità è eretica, perché
cristologica; per lui, Cristo non è risorto, ma continua a soffrire in noi e
tramite noi. Quell'accorata invocazione apposta al dogma, “oh, miserere
nobis”, nella versione che l'implorazione ha nel “Gloria”, è un gioco di
specchi tra Cristo e il Padre suo: colui che nell'“Agnus Dei” viene invocato
in quanto l'Invisibile e Irrafigurabile, come lo definirà Schönberg in Mosè
e Aronne. La musica, per il Beethoven della Missa Solemnis, vale proprio a
rendere visibile questo principio unico ed eterno che altri chiama Dio. Il
principio creatore agisce nel tempo e nella natura. Pervade il “Gloria”, con
la sua esultanza ascensionale che è il piovere della luce nel mondo, senza
che la sua essenza remota divenga conoscibile agli uomini. La ripetizione a
cerchio, nella carola incantata degli angeli, di “gloria in excelsis”, con
quell'“aumentazione” delle note, il disporsi per gradi progressivi, segna ad
ogni creatura mortale il limite dello sguardo. Beethoven qui introduce il
secondo simbolo della Missa Solemnis: l'imitazione canonica è la charitas,
l'ecclesia umana; la circolarità, è il gioco delle creature angeliche, sguardo
del Dio inaccessibile. Ed ecco: quell'“oh” interpolato, nel “Gloria”, al
“miserere” lo rende un lamento; non più, come nell'“Agnus Dei”,
un'invocazione. Nell'“Et incarnatus est” Beethoven ricorre al “modo
dorico”, la scala più arcaica della musica occidentale, quella che
rappresenta la creta e il corpo organico della mortalità umana. Il flauto che
liberamente fraseggia su questo obelisco sonoro è il sorriso di un Dio
sereno nella sua ineluttabile giustizia; la quale è, come il flauto, fuori dal
tempo, e agli esseri effimeri appare quale Caso e oscura vicenda.
L'aspetto più esoterico della Missa Solemnis è la sua circolarità
macrostrutturale. Così, per esempio, gli accordi sostenuti che introducono
l' “Agnus Dei” risolvono la fissità dell'incipit del “Kyrie” nella rocciosità di
un Graduale, una Forma liturgica arcaica legata alla morte e la cupio
dissolvi. Il “Kyrie” inizia riprendendo i primi accordi dell'“Ouverture” del
Flauto magico mozartiano. Sembra che Beethoven ci voglia avvertire del
significato laico, massonico, di questa evocazione del Dio ultraterreno, il
quale, nel momento in cui si fa musica, è materia umana dell'infinito,
rappresentazione di un tempo che continua oltre l'estinzione di ogni suono.
L'inganno estetico dell'arte è l'unica religione possibile in un'età di
tirannide. Il mondo, dopo il Congresso di Vienna, torna indietro ai
totalitarismi; il Beethoven della Missa Solemnis ricorre al cantus firmus, la
prosodia dell'antico canto cristiano, il Contrappunto fiammingo, le “figure”
del Barocco cattolico austriaco (quanto Michael Haydn non ancora
indagato vi gira...). Sopra al Dio concepito come canto e luce c'è un altro
Dio: l'Autentico, ed Egli mai si sarebbe fatto uomo. Ingannando Cristo, lo
ha rinchiuso per sempre in noi, nelle spirali del nostro tempo. Le
macrostrutture della Missa Solemnis sono cicliche e ricorsive: ogni motivo
generatore di una sezione risolve in quello della sezione ad essa
simmetrica. È il cerchio infinito dell'universo, che mai si chiude sull'uomo,
occhio di un Dio che non lo vede. Dentro a questo cerchio ci sono due
linguaggi: quello per imitazione speculare e quello per espansione
circolare. Uno rappresenta la comunità orante degli uomini; l'altro, la
cerchia delle sfere angeliche e degli spiriti i cui suoni giungono a noi solo
come riflessi stellari di armonici. Dopo la pietas per il dolore – elevata nel
“Sanctus” a rassegnato stupore, raggelata gratitudine per il nulla liberatorio
– viene l'organo celeste che introduce, nel “Benedictus”, il violino, voce
interiore ascoltata nel segreto sacello dell'anima. L'incantesimo di questo
celebre assolo sta nel fatto che in esso la discesa “modale” per gradi dà
luogo a tutta una serie di fioriture che eccedono il metro della frase. Il
tempo inaccessibile degli angeli guida il buio della via umana verso il
senso. Gli angeli scendono dalle loro sfere circolari per ordinare le voci
disperse degli esseri mortali. Un'indagine più attenta svelerebbe le affinità
fenomenali tra questo passaggio e il “Pleni sunt cieli et terra”, nel
“Gloria”: laddove questo è visione mistica in dissolvenza, l'assolo del
violino è sua riconduzione al respiro dei viventi. Il “Benedictus”, infatti, è
tutto costruito su di un metro sistole-diastole evocante la meravigliosa
provvisorietà della creatura umana. Lo stesso metro, sfrenato, senza limiti
di corpo, lo troviamo nel “Molto vivace” della Nona Sinfonia, che, come
ormai sappiamo, rappresenta la nascita della vita biologica, prima della
coscienza.
Il puntilismo della scrittura, nella Missa Solemnis, rende gli strumenti
musicali attori in scena. Le trombe sono le chiome degli angeli; i clarinetti,
l'innocenza umana; gli oboi, come sempre in Beethoven, il pianto; i
violoncelli, l'amore di Dio; i violini, l'empatia tra i viventi... Gli episodi di
Klangfarbenmelodie, “melodia di timbri”, sono molteplici, e culminano in
quella orchestra “fuori scena” che intride l'“Agnus Dei” di richiami militari
ed echi della guerra: il dolore non sacro, quello non cristologico. Quello
che non insegna niente. Seguono Recitativi e “miserere” urlati, già occidui
ad ogni strutturalismo classicista. Siamo sulla via che porterà
all'Espressionismo. Eppure la Missa Solemnis si chiude con una formula
convenzionale, parodia del Rossini sulla via per il Guglielmo Tell. Questo
mondo è chiuso dentro un cerchio al di là del quale un Dio inaccessibile
osserva altri, infiniti mondi, tutti disposti su di un'asse che è il Suo tempo,
e che per noi prende la veste sonora di un cantus firmus antico, così antico
che ce ne siamo dimenticati. Il nostro Dio ha inviato sulla terra Gesù
perché ce ne ricordiamo, ma egli si è attardato troppo con noi, ed ora non
ricorda più di essere Dio. Solo la musica gliene può ridare la coscienza.
Non esistono studi sulla teologia beethoveniana. Un'analisi delle sue
letture e dei passi espunti dai libri che avidamente compulsava lo fanno
assimilare ai Marcioniti, eretici paleocristiani che ritenevano ci fossero due
divinità: una buona, ma remota, e una così cattiva da inviare sulla terra una
propria emanazione, Gesù, a indurre la speranza della salvezza, e farsi
adorare al posto dell'altra. Nella Missa Solemnis, la dialettica tra le
macrostrutture – chiuse, enigmatiche, intangibili all'ascolto – e le quasi
melodrammatiche intemperanze delle microstrutture, costituisce un
problema che andrebbe affrontato secondo un metodo analitico, ma
umanistico, del quale si è persa la misura. La vertigine prospettica di questi
problemi provoca una censura della ragione: ed ecco l'Analisi musicale. La
Missa Solemnis di Beethoven, infine, è davvero, come lui stesso sosteneva,
il suo capolavoro. Per certi versi, è la cosa più grande mai osata in musica.
Beethoven è sempre lucido nel valutare le proprie opere, e va preso, in
questo, come un oracolo. Dunque perché, la Missa Solemnis, la si ammira
di lontano, ma non la si conosce, non la si studia, non la si esegue? Un po'
agisce un'istintiva censura verso sensi opposti alla propria educazione
cattolica; un po', il fatto che tutto quanto ho molto brevemente accennato,
con i suoni, non c'entra affatto. Ben l'aveva capito Wilhelm Furtwägler,
che definiva la Missa Solemnis ineseguibile. Non perché sia difficile (lo è);
non perché sia scritta con scarso rispetto delle voci (lo è; vale a dire, l'ha
scritta Beethoven), ma perché non è musica: è una cosmologia privata.
Beethoven, nella Missa Solemnis, è incorso nella hybris tragica di porre se
stesso a specchio dell'ordine cosmico. La sua più grande opera ne sta
pagando, e sempre ne pagherà, le conseguenze.
Sulla Messa in Do maggiore op. 86 pesa l'ombra irredimibile di Haydn. La
destinazione alla corte degli Esterházy attivò l'istinto edipico del Gran
Mogol verso l'ingombrante maestro dei suoi esordi viennesi. La Messa,
come è noto, non piacque, suscitando la stizza di Beethoven, secondo il
quale il trattamento del testo sacro vi aveva ricevuto un'impronta del tutto
nuova. Che cosa deluse il principe mecenate? Innanzitutto, la ridotta
presenza dei solisti, qui espressione di un'umanità raccolta in meditazione
intorno al Mistero del Verbo; inoltre, lo stile “concertante” dell'orchestra,
trattata in modo sinfonico, e dunque lontano dalle convenzioni del
“ripieno” organistico reputate, al tempo, ortodosse. I fiati, in particolare,
assumono il carattere di una trascendenza del canto verso le soglie di un
cielo irraggiungibile. Nel “Sanctus”, al “Pleni sunt coeli”, l'assolo del
flauto e la ripresa del Coro da parte dei fagotti disegnano una scenografia
della trasfigurazione immateriale dove il simbolismo soffoca l'invenzione
melodica. Tutto questo doveva sapere troppo di Opera, al bigotto
entourage della corte ungherese. All'opposto, l'isolamento di certi momenti
patetici, come il “peccata”, nell'“Agnus Dei”, ripetuto in imitazione
canonica, o ancora l'esuberanza di idee secondarie, in orchestra, quale la
parte dei violini nel “Benedictus”, dove le linee terse degli archi collegano
il Coro, comunità degli oranti, col cielo delle voci soliste, splendore degli
angeli: questo innesto sperimentale di stilemi opposti sembrava poco
devoto, quasi irriverente. Nel “Sanctus” i timpani espongono in “piano”
una figura che sembra richiamare il tema del destino, nella Quinta
Sinfonia: una citazione profana, e ancora meno sdoganabile dovette
apparire il ricorso ad agogiche d'effetto, teatrali, come la serie di “sf”,
“sforzato”, nel “Christe”, o il “crescendo” che chiude il “Gloria” in un
moto ascensionale non conclusivo, quasi la Gloria di Dio sparisse alla
vista. L'Estherázy, che voleva un prodotto di alto artigianato, al constatare
come Beethoven avesse fatto della Messa un laboratorio per la sua
progressiva fusione tra tradizioni incompatibili, non poté che trattare
l'intera faccenda come un'inadempienza contrattuale. Tuttavia l'opera, nella
sua tensione tra opposte derive, trova una compattezza ciclica – siglata
dalla ripresa, ultimo episodio, del “Kyrie” – che apre uno spiraglio
sull'ultimo stile beethoveniano. L'Età della Trascendenza si manifesta, qui,
come incunabolo.
Minor commento merita l'Oratorio Cristo sul monte degli Olivi op. 85, il
cui unico merito è costituire un ponte tra La Creazione di Haydn
(l'“Introduzione”, con il suo incedere degli archi su di un tema ansimante,
sullo sfondo dei tromboni rinforzati da corni e fagotti) e Fidelio, con Gesù
impegnato ad anticipare, nella sua dubbiosa solitudine, la disperazione di
Florestan. La fretta del lavoro compositivo emerge nell'abbondanza di
“tremolo” ed effetti teatrali la cui timbrica massiccia nasconde una scarsa
integrazione tra voce e orchestra. La successione di Recitativo, Minuetto
ternario e Marcia di soldati con successivo coro degli stessi, nel quarto
numero della partitura, fallisce non per mancanza di idee, ma per un difetto
che Beethoven ebbe solo nei momenti meno felici: la loro sovrabbondanza
superflua. Nel Finale, il “fugato” del coro e la scrittura innovativa
dell'orchestra, visionaria nel trattamento dei legni – icone, come sempre in
Beethoven, della luce – danno vita ad un dramma che non è quello
cristologico, ma quello di un compositore che vive la Tradizione come una
maschera di cera sul volto di un se stesso ormai defunto. Va da sé che
l'Oratorio fu una delle opere più eseguite, in vita, di Beethoven, a dispetto
della stroncatura che il Maestro, nonostante una revisione successiva,
pronunciò su di lui in una lettera del 1811 al suo editore Härtel. Questo suo
unico Oratorio ci fa capire come mai, in seguito, vivesse la propria
ammirazione per Spontini con accesi sensi di colpa.
Come Minerva esce già armata dalla testa di Giove, nella Cantata per la
morte dell'Imperatore Giuseppe II W.o.O. 87 c'è già tutto Beethoven,
soprattutto nella sua orchestra trasfigurante la scabra invenzione melodica,
come ci appare nell'Aria del soprano con coro “E gli uomini salirono alla
luce”, dove la progressione dal canto agli strumenti sfonda lo spazio
scenico illuminando i fondali tersi dell'eternità. Questa idea della timbrica
come ascesa dal corpo allo spirito era del tutto nuova, e Beethoven,
trasferendo il tutto in quel momento di Fidelio quando Leonore svelle i
ceppi dai piedi di Florestan, bagnò la sua Opera nella stessa tinta di
utopismo massonico nel quale era maturato, a Bonn, il suo genio. L'incipit
della Cantata, quattro battute ciascuna con “corona”, su un “bordone” dalla
controriformistica cupezza – poi riutilizzate nell'“Introduzione” al secondo
atto di Fidelio – ci mostra già matura quella tecnica per elisione, per
oscuramento della continuità consequenziale, che porterà al “frontone”
della Quinta Sinfonia: le due più tre battute iniziali, con le due “corone” a
isolarle nella loro fissità. L'uso della terzina come evocazione ineluttabile
della morte si protende verso il Beethoven dell'Età della Lotta. La Cantata
è ciclica. Il Beethoven diciannovenne sposta la musica nella dimensione
della rigenerazione, la rinascita temporale. Ne fa quel mito che corregge le
derive della Storia. E così sempre, per lui, sarà.
La Cantata Il momento glorioso op. 118, che Beethoven compose per
rifarsi una verginità di fronte ai sovrani restauranti l'Europa dell'Ancien
Régime al Congresso di Vienna, sembra scritta da Berlioz se Berlioz
avesse odiato Beethoven. Concepita sul testo surrealista, per quanto è
assurdo, del sordo Weissenbach, Beethoven lo sostituì, poi, con uno di
Bernard. Dopo la sua morte il libretto, come in un karaoke metafisico,
venne mutato ancora con uno di Rochlitz dal titolo Elogio della musica,
che con il Kaiser a cavallo dell'arcobaleno intento a unificare l'Europa
sull'onda di intendimenti germanici pre-Terzo Reich, non c'entrava una
biscroma. Il tutto solo per dire che la musica è una tale infilata di luoghi
comuni, un trovarobato da messi giudiziari intenti a mettere all'asta
abbozzi rinvenuti alla rinfusa nei tanti cassetti del catalogo beethoveniano:
una tale autoparodia, da sopportare qualunque testo (se ne conta perfino
uno, “socialdemocratico”, del direttore d'orchestra Scherchen). L'incipit è
simile a quello di Cristo sul monte degli olivi, non fosse che dopo le prime
cinque battute i “secoli passati” esigono una rievocazione “a cappella”
tanto impacciata da stendere secco Albrechtsberger. Alla fine di questo
primo numero, “Coro. Allegro non troppo”, compare una caricatura di quel
tema poi destinato ai fasti dell'“Inno alla gioia”, nella Nona Sinfonia. Nel
terzo numero, “Aria e Coro. Allegro”, un violino solista preannunzia il
“Benedictus” della Missa Solemnis, se la Missa Solemnis l'avesse scritta
Salieri. Unica gemma, nel quarto numero, “Recitativo, Cavatina e Coro.
Andante-Presto-Adagio”, la bellissima melodia in Sol maggiore del
soprano che impersona la Veggente impegnata a chiedere si dedichi a Dio
“la prima lacrima”, dove a significare il pianto sono, come al solito in
Beethoven, gli oboi. Chissà quanto sarà pesato, al Maestro, togliere da uno
dei suoi quadernoni di appunti lo splendido spunto per dare un po' di ali a
questo pterodattilo emerso da polverosi archivi di Cantorie...
Un momento altissimo e misconosciuto della musica vocale di Beethoven
è Calma di mare e viaggio felice in Re maggiore op. 112, per coro e
orchestra, su testo di Goethe. I versi tratti dall'Odissea che il Maestro volle
apporre in calce alla partitura fanno intendere la natura simbolica di questa
traversata marina. Il mare è lo Stige, e il viaggio, un imbarco per Citera,
isola della redenzione delle anime dal corpo. Così l'evocazione panica del
mare immoto, all'inizio, con un “pianissimo” degli archi su cui, alla terza
battuta, entrano le voci quasi scivolando sul velo limpido del cielo riflesso
sull'acqua: questo smateriarsi del materiale tematico evoca l'Ave Verum
Corpus K. 618 di Mozart. Su “fürterlich”, “spaventoso”, il manto astrale si
incrina in uno “sf”, “sforzato”, cui segue, su “ungeheuern”, “sterminato”,
un “crescendo”; finché l'orchestra non spalanca una voragine di suono che
compendia, quasi un simbolo, il significato di quel “sublime” che Kant
intese come percezione di qualcosa che non sappiamo dire, perché sovrasta
il nostro giudizio. In rari momenti della creazione beethoveniana il
terribile come luogo del bello rifulge con tratti così ben dosati. Splendido,
poi, come, nella seconda parte, quella che descrive la vista della costa e
l'attracco al molo, tutto si animi ai versi “Geschwinde! Geschwinde!”,
l'esortazione dei venti a soffiare più gagliardi; ed ecco: dopo una delle
“corone” meglio collocate di tutto Beethoven, lo “stretto” su “das Land”,
“terra”, più volte ripetuto, irradia ovunque il senso di un ritorno alla casa
natale, quel mondo ideale di matrice platonica che Beethoven tenne
sempre per culla della musica, da dove essa manda i suoi riflessi nella
natura delle cose terrene.
Stesso respiro mistico nel Canto elegiaco in Mi maggiore op. 118, scritto
per commemorare la moglie di Johann van Pasqualati, morta appena
ventiquattrenne. Per questa cerimonia intima, privata, Beethoven concepì
un organico di quartetto d'archi e quattro voci soliste. La ragazza era morta
di parto, e il Canto elegiaco trova una tinta di chiaroscuri, nella melodia
che gli archi costruiscono a Canone, ove spira il senso di una morte che è
anche nascita, una fine che è inizio di una nuova vita; allo stesso modo,
l'espandersi dell'idea iniziale in volute di canto già piene di quella
“melodia infinita” che anima l'ultimo Beethoven è un Inno alla natura dove
in ogni cosa serpeggia lo spirito vitale che sempre rimanendo identico,
eppure, si trasforma. Soliti “madrigalismi” beethoveniani ottenuti con
l'agogica”: il “forte” ripetuto due volte alla parola “Schmerz!”, “dolore”; i
due “sf”, “sforzando”, su “himmlichen”, “celestiale”. Non ci sono cesure,
se non queste: porte bronzee sul tempio del cielo, in simile sovrannaturale
festa di un'anima che esce dal cerchio del tempo per lasciare che un'altra
anima entri nella sua danza.
La Fantasia Corale in do minore op. 80 fu composta per coronare
l'Accademia data da Beethoven a proprio beneficio il 22 dicembre 1808, in
un programma che includeva Quinta e Sesta Sinfonia, Quarto Concerto
per pianoforte e parti della Messa op. 80. Sappiamo quali catastrofi
comportò questo ulteriore aggravio ad un programma già proibitivo, e che
Beethoven improvvisò l'assolo pianistico iniziale, perché non aveva fatto
in tempo a comporlo. La frenesia ritmica progressiva di questo brano nello
stile di una Toccata, dopo il preludio convenzionale e concepito secondo
una scrittura “a terrazze”, è, lo si è visto, l'unica testimonianza che
abbiamo, insieme alla Fantasia in sol minore op. 77 per pianoforte, del
Beethoven improvvisatore. Si tratta di un'impalcatura scenica buona ad
accogliere il motivo degli archi in “staccato”, sorta di spunto per una Fuga
mai scritta sul quale si distende un “gruppetto” lirico del pianoforte che sa
di Aria operistica rimasta sospesa sui righi di qualche quaderno. Segue un
rudimentale dialogo tra varianti dei due motivi subito interrotto dal
richiamo di corni e fiati, vero appello celeste alla concordia dei cuori. Il
testo, piuttosto scialbo, di Christoph Kuffner celebra l'arte quale religione
laica dell'agape tra gli uomini, secondo una visione esoterica che verrà
ripresa da Aleksandr Skrjabin nel Finale della sua Sinfonia n. 1 in Mi
maggiore op. 26. Si cita sempre l'analogia tra questo tema, concepito per
venire espanso e rinforzato con lieta esultanza fino alla perorazione
conclusiva, e quello dell'“Inno alla gioia”; in realtà, in entrambi i casi
l'origine remota sta nel Lied Seufzer eines Ungelieben und Gegenliebe, la
cui seconda parte, l'“amore ricambiato”, contrappeso ai “sospiri di un non
amato” evocati nella prima, è un vero feticcio melodico, lungo l'opera
beethoveniana. In un uomo dalla vita sentimentale devastata come
Beethoven la concordia di spirito tra i viventi doveva divenire la
sublimazione platonica di ciò che l'esistenza non gli sapeva dare: un vero
slancio propulsivo, questo, sulla via verso la Nona Sinfonia e, ancor più,
quella Missa Solemnis che dal cuore doveva, secondo le sue stesse parole,
“di nuovo tornare ai cuori”. La Fantasia ha un valore solo quale raro
momento pubblico, condiviso, lungo il processo creativo del Nostro, qui
osservato nei suoi meccanismi di elaborazione, piuttosto che nella levigata
compattezza della struttura definitiva. È, questo, un Beethoven
“esponenziale”, che si compiace di se stesso.
Tra le contraddizioni insolubili del carattere beethoveniano, la più
straordinaria è la sua devozione per Salieri, sotto la cui ferula si cimentò in
goffi esercizi di vocalità italiana sopportati dal Kapellmeister
absbur(berur)gico con rassegnata degnazione. Il tratto più umano del
Maestro è proprio la sua nostalgia per il successo popolare, che per lui
significava semplicemente il rendere felici le moltitudini, la dimensione
etica profonda del suo far musica. Questo spiega il suo rapporto
ambivalente col successo di Rossini a Vienna, al punto di introdurre, nella
seconda esecuzione della Nona Sinfonia, “Di tanti palpiti” dal Tancredi.
Insieme a questo monumento del Belcanto – che all'Orso di Bonn fu
sempre negato – nella sfortunata replica dell'obelisco sinfonico poi
destinato a venire sbrindellato dalla European Union s.r.l., onde farne il
proprio vessillo sonoro, compare il beethovenian Terzetto “Tremate empi,
tremate” in Si bemolle maggiore/Mi bemolle maggiore op. 116; il che è
come se Albert Einstein, nel discorso per il conferimento del Nobel, si
fosse messo a spiegare il Teorema di Pitagora. Relitto dei tempi quando
Beethoven aspirava a farsi compositore a stipendio fisso di Opere per i
teatri di corte, esercizio di uno studente capace di rendere ispido anche il
Parisotti, tormento melico del canoro “stilo antico”, il Terzetto, hanno
scoperto le talpe beethoveniane, mette in musica un passaggio dell'Arsace
di Giuseppe Sarti, il cui libretto è, a sua volta, un esercizio nello stile di
Pietro Metastasio. La musica si sviluppa come una catapulta sulla
concitata onda di marea iniziale degli archi fino all'entrata del “basso” su
salti forieri di malvagi intenti; quasi colui che, nell'Idomeneo di Mozart,
interpreta l'Oracolo di Nettuno, per l'Alzheimer si creda Pizarro. Segue un
“concertato” che sarebbe bello se al posto delle voci ci fosse un trio
d'archi, e il brano fosse una sinfonia; nel Finale, lo stile sinfonico prende il
sopravvento su continue varianti del motivo ripetuto dai cantanti (“ho
tollerato assai”; gli ascoltatori, anche...) i quali venendo, finalmente, messi
fuori gioco dall'orchestra, possono tornare a studiare il Belcanto
rossiniano.
Più interessante Ah perfido! Scena ed Aria per soprano e orchestra op. 65,
forse perché concepito per quella Josephine von Clary che allietò il
soggiorno praghese del compositore, ed era così bella da convertirlo al
mandolino, del quale era virtuosa. Prima di trasformarsi in una versione
renana dei gondolieri veneziani, Beethoven aveva già elaborato sotto la
guida di Salieri, come tesi di laurea in vocalismo operistico, questo brano
su testo tratto dall'Achille in Sciro del solito Metastasio dove, come si
conviene alle dissertazioni accademiche, il Nostro modula il carattere della
musica dalla furia iniziale alle lamentazioni, il pianto, la compassione
invocata agli astanti e la disperata remissione al fato delle ultime battute.
L'orchestra vibra secondo gli umori della protagonista, impegnata in una di
quelle sfuriate da barocca isteroide contro il fedifrago – al quale si
augurano sciagure e incidenti vari per poi, piegate dall'amore, rimangiarsi
il tutto domandando perdono di tante e tali escandescenze ormonali – la
cui prima cartella clinica porta il nome dell'Arianna monteverdiana. Poco
più di una curiosità, con quei suoi madrigalismi di riporto – il “pizzicato”
degli archi ad evocare le “lacrime”; i legni che doppiano la discesa della
voce ad esprimere la “pietà” degli astanti – l'op. 60 ha quel fascino delle
cose dove l'ornamento nasconde la povertà del manufatto, come certe
conchiglie decorate a polpi e tritoni di smalto; inoltre, ci fa capire fino a
che punto la Leonore di Fidelio sia nipotina della Euridice di Gluck.
Dopo la Missa Solemnis, e in una direzione del tutto opposta, Beethoven
dà alla musica vocale almeno un capolavoro, i Sechs Lieder von Gellert
op. 48. La scabra rocciosità della poesia, che sembra inscritta in un
frontone antico, permette al compositore una tecnica a bassorilievo dove il
pianoforte duplica la voce come una linea d'ombra. Poesia aforistica,
scavata da dolore strozzato, quella di Gellert, tale da permettere a
Beethoven una casistica ampia di simboli musicali: risuonar di “ottave”
come fanfare, un preludiare bachiano che è come lo sguardo sulle ferite da
un luogo dopo la morte. Ancora: un gioco di specchi, brevi incisi, tra voce
e pianoforte, quali ricordi che non se ne vanno, ma sono ormai echi così
soffusi da spegnersi su chiose serene. Emerge lo “stile Impero” di
Beethoven, il suo levigato, marmoreo neoclassicismo fatto di rovine e
calchi della Lirica antica. E veramente Vom Tode, inno alla morte tutto
costruito sul “piede” antico dello spondeo, ha una fissità che non è
neanche più musica, ma visione dell'aldilà. Per ritrovare un simile
straniante esito, Schubert dovrà incontrare Heine e il suo Doppelgänger: il
“Sosia”, ovvero, in Tedesco, “quello che doppia i passi”. Se si pone mente
a come, in quel tremendo Lied schubertiano, il pianoforte “doppia” il
procedere fisso, da automa, del cantante, risulterà ineluttabile la filiazione
di questo stile “a cono d'ombra” dall'ultimo brano dell'op. 48
beethoveniana, “Busslied”, dove il canto incide la figura ordinata del
Contrappunto iniziale fino a disperderla in iridescenti quartine che
evocano la follia.
Dopo avere inventato il Lied “epigrafico”, nell'altro capolavoro, An die
ferne Geliebte op. 98, Beethoven elabora il primo Kreis, il primo ciclo,
“cerchio”, di Lieder della storia, dando origine, così, al Lied “narrativo”.
Confessione autobiografica, ma anche mistica della natura vista come
madre consolatrice nel cui sguardo l'anima trova pace, questo “circuito”,
più che ciclo, ricorsivo di canti è diventato un simbolo, per Schumann, del
suo contrastato amore per Clara, e come tale viene citato nella sua
Fantasia in Do maggiore op. 17 per pianoforte e nella Sinfonia n. 2 in do
minore op. 61; per non parlare dei grandi cicli liederistici schumanniani,
Dichterliebe op. 48 e Frauenlieben und -leben op. 42, impensabili senza
l'ombra di questa “amata lontana”. L'intimismo diaristico permette a
Beethoven una Forma libera, trasversale, dove il rimuginare ossessivo del
ricordo si fa elaborazione di motivi tutti affini tra loro, e originati dalla
stessa cellula germinativa. L'innovazione più importante è il ruolo di
narratore del pianoforte, coscienza del protagonista, riflesso della sua gioia
passata, presentimento della sua desolazione futura e voce interiore nella
solitudine presente, sullo sfondo di una natura obnubilata dal dolore, vista
quasi da dietro un vetro opacizzato – il gioco sottile delle armonie
erratiche, per affinità remote; mai concluse, sfumate a velo l'una nell'altra
– come sempre appare ai malinconici. Il sesto Lied, vero postludio, con la
sua ripresa del tema del primo in una ciclica cappa di piombo che si chiude
sulla speranza, commiato della luce, ossessionerà di sé tutto il
Romanticismo.
NEI PALCHI. CONVERSAZIONI “DA CAMERA”.

Con i tre Trii op. 1 per violino, violoncello e pianoforte, Beethoven porta a
Vienna il lavoro decennale svolto a Bonn. La lunga procedura di
condensazione del materiale conduce a un'opera dove l'influenza di Haydn,
Mozart e Clementi si accompagna ad un nuovo spirito di tensione
drammaturgica ispirato a Gluck. Questi esordi beethoveniani ci illuminano
sulle sue procedure compositive. Prima di tutto, la riduzione motivica delle
idee melodiche, le quali diventano cellule, campi di forze armoniche. Così
avviene nel “Presto” del Trio n. 2 in Sol maggiore, dove il violino si lancia
in un “moto perpetuo” atematico che il pianoforte distende in una scrittura
di “ottave” spezzate, secondo quel principio della variazione permanente
di ogni parametro, dalla ritmica alla tessitura, fino alle dinamiche, che sarà
sempre il sigillo del Maestro; oppure nelle due battute con cui inizia
l'“Allegro con brio” del Trio n. 3 in do minore, poi destinate a non venir
sviluppate, ma contrastate da idee secondarie, conseguenza dell'asimmetria
metrica su cui si distende il tema principale. Beethoven, fin dal principio,
ritiene l'Armonia un elemento strutturale al pari della melodia; unisce,
bachianamente, la dimensione orizzontale della musica e quella verticale,
pur operando sempre nelle quadrature della Forma-Sonata. Per esempio,
l'“Adagio cantabile”, nel Trio n. 1 in Mi bemolle maggiore, vede il
pianoforte prodursi in fioriture eccentriche rispetto all'assetto tonale,
mentre l'“Andante cantabile con Variazioni”, nel n. 3, si sviluppa
scardinando per “diminuzioni” e spostamenti ritmici la chiara
consequenzialità del tema, fino a creare effetti di apertura a mondi lontani.
I Finali sono costruiti su un terzo carattere idiomatico, dopo la riduzione
motivica e la variazione permanente: la tecnica delle cellule replicative.
Beethoven pone gli archi allo stesso livello di importanza del pianoforte,
che viene chiamato a reagire come alter ego, piuttosto che proporre le idee
principali. Il Trio n. 1 presenta un movimento iniziale, “Allegro”, costruito
sulle Terze della scala, lungo un'estensione di due “ottave”. Non è un tema,
è la riduzione di ogni possibile tema a una linea di tensione armonica che
richiede un lungo percorso di risoluzione. All'opposto, l'“Adagio
cantabile” è costruito come un Rondò, con la testa del tema orchestrata tra
gli strumenti secondo una specularità che crea continui rimandi, e la cui
complessità destò, alla prima esecuzione, una perplessa sorpresa. Il quarto
carattere idiomatico è lo sviluppo delle transizioni armoniche in sequenze
discorsive. Beethoven usa i ponti modulanti, le transizioni a regioni
lontane, come digressioni retoriche, deviazioni nel percorso durante le
quali affiorano i contorni di paesaggi bellissimi che rimangono
evanescenze. Il “Largo con espressione” del Trio n. 2, in particolare, sfocia
in una rastremazione eterea della prospettiva sonora che pare uno di quei
paesaggi collinari intravisti dietro una finestra, sullo sfondo del quadro,
così cari alla pittura rinascimentale. Come la polifonia sempre sottesa,
nascosta sotto l'invenzione melodica – nella quinta variazione
dell'“Andante cantabile con Variazioni”, nel Trio n. 3, il violino sviluppa
una vera Invenzione a due voci del tutto inedita nella musica da camera del
tempo – si faccia, nell'Op. 1, un laboratorio per deviazioni dall'asse
strutturale dell'Armonia classica, lo dimostra il Finale, “Prestissimo”,
dell'ultimo Trio: quello nel fatidico, per Beethoven, do minore. Qui la
riduzione motivica, brusca, corrucciata, dell'inizio si proietta in una
seconda idea che dapprima è concepita a contrasto, ma poi si libera in
esuberanze di continua sospensione dell'esito armonico. Già dalla sua
opera di esordio notiamo, in Beethoven, l'importanza della Coda, quasi
sezione a parte, e fine nella quale è insito un nuovo, virtuale, inizio.
Nei due Trii op. 70 osserviamo un aspetto determinante della pratica
compositiva beethoveniana: il suo estendere l'opposizione tra i due
Princìpi in Forma-Sonata alle macrostrutture della Forma. Non c'è dubbio,
infatti, che il Trio in Re maggiore op. 70 n. 1 sia il “Princìpio che si
oppone”, e l'altro, il n. 2 in Mi bemolle maggiore, il “Princìpio che
implora”. Il Trio n. 1 è non più in quattro, ma in tre movimenti. Beethoven
comincia a sperimentare la Forma “ad arco”, con i due movimenti estremi
pensati per compensazione speculare, e quello di mezzo a far da
intermezzo onirico. Il Trio n. 2 è in quattro movimenti, ma i due di mezzo,
“Allegretto” e “Allegretto ma non troppo” sono consequenziali, con il
secondo, una sorta di Walzer che modula su regioni lontane, a fare da
virtuale Sviluppo del primo. È come se questi due brani fossero un breve
Trio, incastonato nell'altro, in due movimenti, come l'umorosa e bizzarra
Sonata op. 54 per pianoforte. Nell'op. 70 Beethoven introduce la Forma
della Variazione all'interno degli schemi di danza ternari, un innesto che
negli ultimi Quartetti avrà esiti clamorosi. La tecnica di isolare un
materiale essenziale, un semplice rapporto di tensioni intervallari, come
nucleo germinativo, si potenzia. La osserviamo nel Finale, “Presto”, del
Trio n. 1: l'incipit, che il compositore riscrisse per pianoforte solo, mentre
la prima versione vedeva la presenza anche del violino; sicuramente, per
permettere una più ampia espansione polifonica del susseguente gioco
imitativo. Allo stesso modo, l'inizio del Trio n. 2 è affidato al violoncello
solo, linea nuda su cui gli altri strumenti edificano un discorso per
derivazioni progressive. Questa introduzione viene poi ripresa come ponte
tra primo e secondo tema, seguendo un quinto carattere idiomatico
beethoveniano, pienamente attivo, per la prima volta, nella Sonata op. 13
“Patetica” per pianoforte: lo “sguardo all'indietro”, verso l'Esposizione,
nel pieno dello Sviluppo, che scardina la logica “progressista” della
Forma-Sonata, facendone un relitto del morente Illuminismo. Beethoven
scava sempre di più nei processi analitici, fino a negare quasi l'effluvio del
canto. Il tema iniziale del Trio n. 1, l'“Allegro vivace e con brio”, è uno
schematico sistema di intervalli che via via si riducono a una scala ottenuta
per condensazione. Beethoven diventa l'architetto di un logos ideale la cui
cristallina perspicuità è ottenuta a spese del tempo, della Storia. Il carattere
idiomatico più innovativo che qui appare, però, è l'uso dell'elisione e del
silenzio. Il Trio n. 1, dopo un “Allegro vivace e con brio” dove compare
quella figura di un trocheo seguito da un giambo che si trova in pratica
ovunque nella musica di Beethoven, a significare il rintocco del destino, si
assesta su una melodia distesa del violoncello sotto la quale pulsa l'eco di
quel richiamo; poi viene un “Largo assai” la cui cellula germinativa è un
semplice “gruppetto” su armonie vuote, trilli e cesure progressive: abissi di
nulla che si aprono sul tempo. Un'ambiguità armonica incide l'intero
movimento creando un continuo gioco di echi e presenze, anche in virtù di
un'orchestrazione dove Beethoven osa come non mai prima una “melodia
di timbri” fatta di tessiture rarefatte e impalpabili. Al pari della “Marcia
funebre” nella Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”, il ricorso a materiali neutri, di
movimento senza direzione, respiro senza canto, creando il clima di un
incubo che, al suo inizio, si presenti nelle vesti ingannevoli di idillio, ha
fatto attribuire all'intero brano il nome di Trio “Degli spiriti”; e in effetti
sappiamo che in origine questo materiale era stato concepito per un coro
delle streghe da inserire in un Macbeth su testo di Collin.
Il celebre Trio in Si bemolle maggiore op. 97 “Arciduca” rappresenta per
molti aspetti un passo indietro. In primo luogo, il dialogo tra gli strumenti
non è paritario; il violino è in subordine, e la sua scrittura appare non
sempre brillante (stessa caratteristica del Triplo Concerto op. 56, destinato
alle dubbie doti pianistiche di Rodolfo...). Inoltre certe arditezze
armoniche, come, per esempio, nel primo movimento, “Allegro moderato”
– dove il “moderato” significa, come sempre in Beethoven, liberamente
“cantabile” – la Dominante a lungo disattesa, insieme a passaggi cromatici
e instabili come quello che precede la Ripresa, non sono giustificate da un
materiale tematico abbastanza compresso. L'effetto è quello di una
saturazione. Il tema disteso, ampio, con cui inizia il primo movimento
richiama per struttura quello con cui inizia il Quartetto op. 59 n. 1
“Rasumowskij”, ma in questo caso la seconda frase è ripetuta a mo' di
inciso e sfocia in un “gruppetto” che ne interrompe l'evoluzione. Il
secondo tema giunge dopo un passaggio arpeggiato pericolosamente simile
a una di quelle “rosalie”, la musica per ripetizione dello stesso motivetto
su gradi diversi della scala, per cui Beethoven sfotteva Diabelli. Lo
“Scherzo. Allegro” è un laboratorio di innesti stilistici. Beethoven
sovrappone al motivo ritmico di base un “fugato” cromatico che ne
sbilancia l'assetto, per poi sfociare in un Walzer da “musica d'uso” dove
vediamo già attivo il processo di incorporazione di materiali popolari, voce
spontanea delle cose terrene, che è il carattere idiomatico non solo della
Sinfonia n. 8 op. 93, ma anche di molti movimenti di danza negli ultimi
Quartetti. L'“Andante cantabile ma però con moto” – l'opposto di
“moderato”; qui, Beethoven vuole si avverta sempre una pulsazione di
base regolare – vive di una melodia per due semifrasi oppositive il cui
respiro è guastato da una necessità cadenzale, a compensarne la
frammentazione, che la fa apparire un grande poeta lirico affetto da
balbuzie. Le Variazioni sono condotte con rigore perfino eccessivo, e
funzionano perché livellano l'asimmetria del tema isolandone singoli
caratteri; in pratica, Beethoven rinuncia a quel suo peculiare carattere
idiomatico della riduzione motivica che abbiamo visto in azione fin dai
Trii op. 1. La Coda, stupenda, è un ricordo lontano soffuso di luce
crepuscolare. L'intero Trio ha una natura narrativa, umorale, densa di
nostalgie affioranti in una solitudine resa serena dai ricordi: un clima che
lo fa assomigliare alla Sonata per violino in Sol maggiore op. 96, dove il
tutto, però, si rapprende in una splendida innovazione formale. Ogni volta
che Beethoven vuole risolvere la propria contrattura motivica in distese di
canto, l'ordigno della sua fantasia si imbraga in lacci e suture che ne
stritolano il respiro. Lo abbiamo visto: è, questa, la sviante natura “etica”
del compositore; la sua esigenza di dare gioia attraverso la musica. L'unico
movimento davvero convincente mi pare il Finale, “Allegro moderato-
Presto”, con i suoi rimandi sia armonici sia motivici al primo movimento,
e la fusione efficace tra la Forma-Sonata e il Rondò. Sarà perché la sua
corsa verso l'esuberanza conclusiva è l'unico punto in cui Beethoven non si
preoccupa di smussare la limpidezza aproblematica della propria scrittura
“concertante”. Sono portato a credere che questo Finale sia stato concepito
come primo movimento, per poi venire usato come indifferente chiusa.
Le Sonate per violino e pianoforte sono “lineari” quanto i Trii sono
“prospettici”. La scrittura a due parti obbliga Beethoven a profilare il
materiale con un'essenzialità maggiore, più perentoria. La sua capacità
maggiormente spiccata, quella di trarre complesse derivazioni da idee
elementari, si fa, qui, fenomenale. Ne tento un'analisi che, sulla base di
pochi embrioni da laboratorio, vale per l'intera sua opera. Sarà qualcosa di
essenziale, come forse è necessario per brani tra i più apodottici di
Beethoven. Nella Sonata in La maggiore op. 12 n. 2, il tema del primo
movimento, “Allegro vivace”, nasce da una figura di due note arpeggiate
dal pianoforte. Nella Coda, questo cristallo tematico ricompare in un
dialogo tra i due strumenti che ne conferma la natura di motivo principale.
Una simile compressione tensiva sta anche alla base della Sonata in La
maggiore op. 47 “a Kreutzer”, dove il primo movimento, “Adagio
sostenuto-Presto” – “sostenuto”, in Beethoven, vuol dire articolato sui
tempi forti – è costruito su due note, Mi-Fa, l'inverso del Fa-Mi intorno a
cui ruota l'intero secondo movimento, “Andante con variazioni”. Questo
intervallo generativo appare al suo stato originario nel Finale, “Presto”,
per riduzione da un inciso di tre note, Do diesis-Re diesis-Mi, dove la
prima viene elisa nel corso rapinoso della diabolica tarantella. Questo
Finale, tuttavia, venne scritto come brano conclusivo della Sonata in La
maggiore op. 30 n. 1; dunque, la “Kreutzer”nasce come ripensamento
retrospettivo dei problemi formali che quella sonata – dove il melodizzare
disteso, mozartiano, veniva compresso dentro una tecnica dello Sviluppo
haydniana – aveva lasciato aperti. Beethoven non cerca più temi: cerca
campi di forza neutri che lo lascino libero di modulare liberamente su
regioni lontane. Anche la Sonata in do minore op. 30 n. 2 ha un incipit,
“Allegro con brio”, giocato su due note; questa volta intese come intervalli
tensivi, armonici, non embrioni tematici. Nella Sonata in Re maggiore op
102 n. 2 per violoncello e pianoforte, il motivo iniziale del primo
movimento, “Allegro con brio”, è un'inversione dell'incipit di questa stessa
sonata, un'analisi delle cui analogie con quello della Sonata op. 31 n. 1 per
pianoforte, “Allegro vivace”, ci porterebbe, adesso, troppo lontano.
Nell'“Andante più tosto Allegretto” della Sonata op. 12 n. 2 – sappiamo
che Beethoven usa la doppia indicazione di tempo quando vuole indicare
che un brano ha due sezioni contrastanti – compare una cellula ritmica che
ritroveremo, su ben più larga scala, nella Sinfonia n. 7 op. 92, come
generatrice dell'intera struttura. La Sonata in Re maggiore op. 12 n. 1,
inoltre, è una sorta di laboratorio del Quartetto op. 18 n. 3, così come la
n. 3 in Mi bemolle maggiore, l”Adagio con molta espressione” –
un'indicazione a pensare il tempo scavalcando le battute sulla base della
continuità lirica – ha tratti che richiamano il “Largo, con gran espressione”
– che significa, in pratica, “senza tempo” – della Sonata op. 7 per
pianoforte, nonché alcune figurazioni del Trio per archi in do minore op. 9
n. 3. Nella Sonata op. 12 n. 1, “Rondò. Allegro”, la Sonata op. 7 agisce
sulla struttura armonica, determinando un ultimo ritorno del tema un
semitono sopra la tonalità d'impianto. Chi ha pratica di Composizione sa
che la scrittura a due parti è una sorta di canovaccio d'impianto che
permette l'elaborazione di Forme complesse: tale fu, per Beethoven, il
lavoro sulle Sonate per violino e pianoforte. Dai brevi esempi che abbiamo
esaminato emerge il primo di quei meta-caratteri idiomatici – così li
definisco – da cui hanno origine, nel Maestro, tutti gli altri: “il pensiero
trasversale”. Beethoven ha composto sempre e solo la stessa opera: un
nucleo, un fulcro generativo dal quale si orientano, organico per organico,
sperimentazioni e correzioni continue, lungo un'evoluzione quasi
spontanea del materiale nato dal continuo scontro, dentro il suo animo, tra
rigore e libertà, volontà e destino, amore e mistica del silenzio. Beethoven,
nella musica, ha fatto del proprio dolore una forza della natura. Le Sonate
per violino e pianoforte sono preziose anche perché ci mostrano, allo stato
puro, un altro meta-carattere idiomatico del Maestro. Lo chiamo “la
progressione disattesa”. Beethoven fa delle Forme musicali ciò che fa dei
motivi: le disarticola, le riduce ad elementi che poi ricombina. Nel primo
movimento della Sonata in La minore op. 23, “Presto”, ci precipita,
all'inizio, nel bel mezzo dello Sviluppo. L'Esposizione di questa Forma-
Sonata è, come dire, implicita, disattesa. Il Finale, “Presto”, della Sonata
op. 47 “a Kreutzer” è un Rondò atematico, giocato su figure ricorsive. Per
evolversi, devono ricorrere ad una Invenzione a due voci che con la logica
classica del Rondò finale cozza clamorosamente. Il Contrappunto è
lineare, evolutivo; il Rondò, è ciclico. Tutto nasce da questa aporia
formale, gabbia dell'immaginario che diviene propulsione liberatoria. Nel
Finale della Sonata op. 12 n. 2, “Allegro piacevole” – dove quel
“piacevole” ha un valore derisorio, ed è un invito alle licenze agogiche più
bizzarre – abbiamo un Minuetto con Trio completo di riprese come si
deve, solo che la struttura del movimento è una Forma-Sonata incrinata da
un Rondò. Inevitabile la spoliazione tematica per erosione carsica. Il
celebre tema iniziale della Sonata in Fa maggiore op. 24 “La primavera”,
“Allegro” (si noti il sottotitolo da club calcistico giovanile, tra tutti gli
apocrifi beethoveniani, il più idiota), è già completo, privo di tensione
evolutiva. Pare la Ripresa sintetica di una Forma-Sonata, non certo una
Esposizione; infatti Beethoven, a contrasto, introduce una marcetta citrulla
che impedisce al canto di espandersi lungo i picchi e le vallate dello
Sviluppo. Oltretutto, quell'“Allegro” è un insulto sia che significhi “in
Forma-Sonata”, sia il tempo appropriato ad una melodia così peristaltica.
Nella più grande Sonata per violino di Beethoven, la op. 96, il sorriso fatto
di un velo ornamentale, sorta di burqa tematico, dello strumento ad arco,
cui risponde l'assenso marpione del pianoforte, è foriero di un viaggio
fluviale, nell'“Allegro moderato” – indicazione di tempo sempre indizio, in
Beethoven, di esperimenti formali – dove tutti i detriti, i motivi secondari,
le efflorescenze spontanee, divengono salda convergenza verso l'idea
formale. Se dobbiamo pensare a esiti simili di apparente spontaneità,
scissione per meglio saldare, sguardo in tralice, in tutto Beethoven, non
possiamo evocare che tre Sonate per piano, le opp. 78, 90 e 101: tutte
effusioni spontanee del sentimento. Sempre, il Beethoven innamorato è un
genio della “progressione disattesa”. Il terzo meta-carattere idiomatico è
“la scenografia della Forma”. Beethoven usa le convenzioni delle strutture
classiche per creare tensione, suggerire una drammaturgia sottesa. Per
esempio, l'inizio della Sonata op. 30 n. 2, con la sua evanescenza su di un
gioco di ornamenti non melodico, ma quasi improvvisativo, si apre
progressivamente in un canto disteso. È quella mistica beethoveniana del
“per aspera ad astra” secondo la quale si raggiunge il cielo solo passando
per le scabrosità del mondo terreno. Nel brano citato questo dischiudersi
lento dell'orizzonte ha un tono aurorale, come succede anche
nell'evoluzione del bellissimo “Adagio espressivo” della Sonata op. 96, il
suo tema di Corale; oppure nel lungo “pedale” armonico che intride di sé
l'ultima variazione, “Adagio”, del Finale, “Poco Allegretto” – indicazione
dove Beethoven prescrive un chiaro tempo di base su cui calcolare ogni
variante – o ancora, in quel “fugato” che, nello stesso brano, complica e
ramifica il ritorno del tema. Un secondo tono, dopo quello aurorale, in
questa “scenografia della Forma”, è quello torrenziale, quale emerge nel
primo movimento, “Adagio sostenuto-Presto”, della “Kreuzer”. Talvolta,
questo tono può non essere diretto, ma obliquo. L'innocente Finale,
“Rondò. Allegro non troppo”, della Sonata op. 24, col suo melodismo
ciclico e ricorsivo, quasi germinato in un cielo immune al tempo, è uno
spostamento drammaturgico dell'orizzonte, non una risoluzione della
Forma. L'ultimo meta-carattere idiomatico che emerge nelle Sonate per
violino lo si è già avvertito operare, sotterraneo, in tutto il nostro discorso.
Si tratta della “distorsione parodica”. Il tema destrutturato, gestibile solo
per sezioni, della Sonata op. 23, il “Presto”, elude a tal punto quello che
dovrebbe essere il comportamento di un primo soggetto di Forma-Sonata
da costringere il compositore a ripresentarlo – in versione, questa volta,
ortodossa, pienamente elaborata – prima della Ripresa. La Forma-Sonata,
qui, è il Barone di Münchhausen, che esce dalle sabbie mobili
aggrappandosi ai propri capelli. Anche il temino pieno di sussiego, di
inchini complimentosi, per poi elevarsi appena di un palmo e subito
afflosciarsi in uno sbadiglio, con tutta la ridda di Variazioni che lo
pungolano, lo sminuzzano con pizzichi di fate manco fosse un Falstaff
truccato da giovine amoroso, e infine lo lasciano con un palmo di naso alla
fine di una svenevole Coda, senza un degno congedo: anche l'“Andante
con Variazioni” della “Kreutzer” è una distorsione parodica, piuttosto
maligna, di Mozart. Dove questo ultimo carattere idiomatico celebra il
proprio trionfo è nel “Poco Allegretto” della Sonata op. 96, la stoffa del cui
tema viene dal repertorio del pecoreccio Singspiel danzante in voga nella
Vienna dei fatti ricchi dai Tempi Nuovi; cose come quelle di Wenzel
Müller e Weigl. Beethoven, nel far vedere che cosa si può trarre da simile
sbobba buona ai plebei, anticipa il se stesso delle Variazioni su un Walzer
di Diabelli op. 120.
Le Sonate per violoncello sono la punta estrema dello sperimentalismo
beethoveniano nella musica da camera, fatta eccezione per i Quartetti. La
possibilità di sfruttare l'estensione dello strumento ad arco, per la prima
volta usato in modo “antifonale”, grazie all'opposizione tra il registro
grave e quello acuto, crea un gioco polifonico inedito a quei tempi,
caposaldo per i futuri Schumann, Brahms, Dvořák, fino ad Edward Elgar.
Come la scrittura delle Sonate per violino deve molto a George
Bridgetower e Pierre Rode, quella delle Sonate per violoncello – fino ad
allora relegato nella funzione anodina del “basso” – nasce dall'interazione
tra Beethoven, Jean Louis Duport (certi passaggi delle Sonate op. 5 sono
del tutto simili agli esercizi tecnici pubblicati da quest'ultimo) e Joseph
Linke. Eppure, nonostante questa natura di lavori “confezionati su
misura”, le Sonate per violoncello sono alcune tra le opere dove Beethoven
apre di più gli scenari della musica contemporanea. Nell'“Andante-Allegro
Vivace” della Sonata in Do maggiore op. 102 n. 1 troviamo fin dalle prime
battute un carattere idiomatico proto-novecentesco, “la proiezione a
ragnatela”. L'imitazione tra i due strumenti non è solo motivica, ma anche
metrica: ogni frase dell'uno si ramifica nella risposta dell'altro,
condizionandone la progressione. Accanto a questa invenzione canonica
nelle macrostrutture, però, esiste anche un più sottile gioco di specchi nelle
microstrutture. Si direbbe che la pratica del Contrappunto ritorni, qui, alla
sua origine di “punctum contra punctum”, nota contro nota. La sensazione
di un tema fantasma che nasce da linee oblique tra le due parti richiama lo
stile delle Sonate e Partite per violino (in realtà chiamate, dal compositore,
semplicemente Sei Solo a violino senza Basso accompagnato) di J. S.
Bach. L'Armonia serve a suggerire un continuo, segreto movimento
evolutivo delle parti; ovvero, ritorna al libero gioco tensivo presente nelle
Symphoniae sacrae di Giovanni Gabrieli. Questo Beethoven distende la
propria influenza fino all'Elliot Carter del Quartetto n. 1 per archi (1951).
Carter definì “modulazione metrica” un simile procedere delle parti, quasi
fossero un unico organismo che si sviluppa per minime varianti della
stessa idea. Si capisce perché Beethoven abbia voluto introdurre la Sonata
op. 102 n. 1 con un movimento lento: non più un preludiare, come nelle
Sonate op. 5, ma la definizione di un campo di forze; un habitat biologico,
verrebbe da dire, per ciò che deve nascere. Il secondo carattere idiomatico,
in queste Sonate, è una conseguenza del primo. Lo potremmo definire
“attrazione bipolare”. Nasce dalla monomania della Poetica
beethoveniana, l'applicazione dei suoi due Princìpi ad ogni parametro della
pratica compositiva (è, questo, il “serialismo” di Beethoven). Così,
nell'“Adagio Sostenuto-Allegro” della Sonata in Fa maggiore op. 5 n. 1,
dopo l'introduzione, alla batt. 194 il violoncello si mette a ronzare su un
intervallo ripetuto nel registro grave che pian piano contagia il pianoforte,
bloccandolo su di un semitono in ritmo puntato che sfocia dentro un
paesaggio di incertezza armonica. Sembra una frenata davanti a un banco
di nebbia. Nel “Rondò. Allegro Vivace” della stessa sonata, a batt. 204, la
ripetizione ossessiva di un La bemolle che sfocia in un gioco di bicordi,
nel violoncello, fa del pianoforte una sorta di arpa celtica protesa verso il
nulla, ossessionata da quei bicordi, lievi come colonne di fumo, emanati
dal violoncello in uno “sfp”, “sforzato piano”, destinato poi a trionfare
nella Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”. Ovunque, in queste Sonate op. 5,
esordio beethoveniano nel genere, il pianoforte sfugge, in qualche modo,
allo strumento ad arco elaborando in tempo reale ogni spunto di lui, per
poi porsi in ascolto passivo delle sue meditazioni. Uno strumento,
insomma, è il “Princìpio che si oppone”; l'altro, il “Princìpio che implora”.
Nel Finale, “Allegro. Allegro Fugato” dell'ultima sonata, la più grande,
l'op. 102 n. 2, la Fuga conclusiva porta all'esasperazione questa dialettica
inconciliabile che sposta continuamente in avanti il punto di riposo,
disintegrando la regolarità intervallare del materiale tematico. Trilli e
“tremolo” annullano le stanghette delle battute, determinando la frattura tra
Forma e invenzione tematica che fa del Beethoven contrappuntista un
archeologo che discende nella cripta dove giace J. S. Bach. Quello del
Beethoven “bipolare”, è un Neoclassicismo contrappuntistico. Per una
strana convergenza tra la tecnica compositiva beethoveniana e la nostra,
che la analizza, questo terzo carattere idiomatico è esito del secondo. Una
simile consequenzialità, sarà un inevitabile effetto di quella “modulazione
metrica” di cui parlava Carter? Anche noi, qui, diveniamo “seriali”: ogni
parametro, ogni carattere idiomatico, ci appare evolversi in una
successione prestabilita insieme agli altri. Il carattere idiomatico di cui ora
ci occupiamo, il Contrappunto armonico, fa sì che nelle Sonate per
violoncello beethoveniane le funzioni dell'Armonia governino non più solo
l'opposizione tra i due temi della Forma-Sonata, ma l'intera struttura. È il
principio della Urlinie, la “linea originaria” – che mai compare nel brano,
ma lo regola dal profondo per le tensioni della sua occulta tettonica – tanto
in voga, complice questo Beethoven, nell'Idealismo tedesco post-
romantico. Nel già citato “Allegro. Allegro Fugato” che chiude l'op. 102
n. 2, Beethoven non utilizza la tensione tra due regioni armoniche, come
nello Stile Classico, ma l'opposizione tra la tendenza dell'Armonia alla
risoluzione e la propulsione disgregatrice del Contrappunto. Eleva la
dialettica illuminista della Forma-Sonata a emblema della lotta tra ragione
e caos; dove il caos nasce dalla ripresa di pratiche antiche, del primo
Barocco. Vuol significare, il Maestro, il ritorno dell'Europa ad una nuova
Controriforma, per opera delle forze destinate a schiacciare la rivoluzione
occulta degli Illuminati? Di certo, questo uso dello stile imitativo ha
qualcosa della “sprezzatura”, la dolorosa ferita dissonante nell'ordine delle
voci, monteverdiana. Nella Sonata op. 69, la più ambigua, col suo disteso
lirismo, per trovarci nella regione della Dominante dobbiamo aspettare
l'oasi del breve “Adagio cantabile”. Beethoven, con questo uso
dell'Armonia come itinerario alla concordia delle voci – un uso, dunque,
contrappuntistico – rende ambigua: “delirio”, perdita del senso, della
direzione, la bellezza erratica dell'“Allegro ma non tanto” iniziale. Del
resto, quando il Maestro scrive “non tanto”, vuol dire che ci stiamo per
addentrare in un ginepraio armonico... E veniamo al meta-carattere
idiomatico più avanzato del compositore, quello che anticipa la
dodecafonia e Anton Webern: “il tema come sequenza”. Ne troviamo un
esempio illuminante nell'“Allegro ma non tanto” della Sonata op. 69, dove
il violoncello solo enuncia un tema su di una Quinta, La-Mi, che poi
trapassa cromaticamente in un Fa diesis-Do diesis capace di riassumere nel
giro di un intervallo la struttura armonica dell'intero Sviluppo. La melodia,
qui, è anche la Urlinie del brano. Per Beethoven non si tratta più di
inventare un tema, ma di disegnare una linea curva, la melodia, intorno ad
un nucleo di tensioni armoniche. Delimitare il campo di forze è il modo,
metafisico, che ha di cantare. In maniera di certo più rudimentale, nella
Sonata in sol minore op. 5 n. 2, l'“Adagio sostenuto ed espressivo” – e
questi due “correttori” all'“Adagio” dovrebbero già farci capire quanto il
Maestro voglia che ci soffermiamo sulle tensioni armoniche – il preludiare
ad imitazione diretta tra i due strumenti, con un gioco di specchi tra le
parti, cristallizza in poche battute il divenire successivo della Forma.
L'ultimo meta-carattere idiomatico ci conduce fino al Béla Bartók del
Quartetto n. 4 per archi. È la “Forma ad arco”: ciò che io più amo, in
Beethoven, perché implica un continuo processo di rigenerazione. Può
essere di due tipi: strutturale ed armonica. La seconda, la più semplice, è
un “rivolto” del carattere idiomatico precedente, il Contrappunto
armonico. Nell'“Adagio cantabile” della Sonata op. 69 abbiamo visto
come la regione della Dominante domini la Forma fissandosi nel mezzo
come il pilastro di un cavalcavia. Beethoven, in questa dimensione
macrostrutturale, sta già preparandosi a quel Quartetto op. 131 nel quale i
vari movimenti si succedono senza soluzione di continuità. L'Armonia non
organizza più, con lui, la struttura dei movimenti; sono i movimenti a farsi
struttura dell'Armonia. Questa drammaturgia della Forma lo sospinge
sempre di più verso la musica “pura”, creata da nudi intervalli costruttivi.
La “Forma ad arco” strutturale compare con evidenza nel primo
movimento, “Andante-Allegro Vivace”, della Sonata op. 102 n. 1, dove la
sezione veloce è incorniciata da quella lenta, la quale riappare alla fine del
brano per traslarlo nel movimento finale. L'”Allegro Vivace”, non essendo
più una struttura lineare, progressiva, si avvita su se stesso in un cimento
contrappuntistico che potremmo definire “a combustione interna”,
cosicché la nitida purezza dell'“Andante”, al suo riapparire, ne risulta
trasfigurata. È la lezione del J. S. Bach delle Variazioni “Goldberg”, ma
con il lavorio delle permutazioni continue ridotto a un semplice miracolo
essenziale di riflessi interni alla Forma. Il Beethoven degli ultimi Quartetti
riprende l'idea di un tempo compresso come roccia lavica, l'eternità
simbolica del Barocco, e lo incastra quasi fosse un prisma dentro le
campate della Forma-Sonata, sulle quali questo “Allegro vivace” dell'op.
102 n. 1 è, contro ogni sua natura, costruito. C'è una sorta di umorismo
silenzioso dell'intelligenza, in siffatto satanico travisamento di ogni valore,
che è tutto Beethoven. Se lo si comprende, nel sublime “Adagio con molto
sentimento d'affetto” della Sonata op. 102 n. 2 – unico vero movimento
lento concepito da Beethoven per questo organico – quell'“affetto”
ritroverà la sua natura allusiva e arcaizzante: l'antica Retorica del Barocco
musicale, il rimpianto di una civiltà perduta.
Ora esamineremo alcuni luoghi della sua musica da camera dove
Beethoven non si è soffermato, pur passando in visita di cortesia ai
compositori del proprio tempo: quelli dello “stile galante”, tanto lontano
da lui che, nello “stile obbligato”, si diceva “nato”. Questa breve
passeggiata nel Beethoven giovanile è anche una sorta di suo diario
sentimentale, una raccolta di paesaggi interiori, luoghi dell'immaginario
prima della reclusione, più o meno volontaria, nella sordità e nell'intricata
polifonia del suo stile maturo. Troveremo, poi, anche due luoghi segreti,
sconosciuti ai più, e culla del Beethoven maturo. Il primo luogo che
visitiamo, potremmo definirlo “Il matrimonio dei due Princìpi”,
intendendo i dominatori della musica beethoveniana, i Prìncipi della
Dialettica: il “Princìpio che si oppone” e il “Princìpio che implora”. Il Trio
in Mi bemolle maggiore op. 3 per archi, che risale ai tempi di Bonn, serve
a Beethoven per fare avvertito l'eletto pubblico di come quella di non
scrivere più, nelle opere mature, per un effervescente violino solista con
accompagnamento, sia una scelta, non sterilità lirica. Tuttavia, ecco che
nell'“Andante” e nell'“Adagio” abbiamo due modi diversi di declinare lo
stesso “affetto” di tenerezza: uno mosso, contrastato da idee secondarie;
l'altro disteso, sereno, astratto in un perfetto altrove. Sono i due Prìncipi,
non ancora Princìpi, colti nella loro infanzia studiosa, prima
dell'investitura. Il considerare un materiale analogo da due differenti punti
di vista diventerà, poi, la leva segreta dell'ispirazione lodoviciana.
Un altro luogo ameno cui riserveremo solo uno sguardo è “Il giardino
segreto” di Beethoven: la Serenata in Re maggiore op. 8, sempre per trio
d'archi, dove il compositore si elegge maestro delle cerimonie agresti
componendo una musica nostalgica, sapida delle antiche Cassazioni da
eseguirsi all'aperto, tra i giochi d'acqua delle fontane e il sole che tramonta
tra i labirinti di siepi. Il lavoro è curioso, perché ne deduciamo a contrariis
la tecnica compositiva di Beethoven. Qui, egli dispiega le melodie oltre la
loro capacità di sutura, svelandone l'inconsistenza, piuttosto che
comprimerle, fissarle in intervalli significativi e, quindi, sovrapporle tra
loro. Come sempre quando è in vacanza, il Maestro si dedica a un brano
“alla Polacca”: l' “Allegretto”; così è anche nel Triplo Concerto op. 56 e
nella pianistica Polonaise in Do maggiore op. 89 scritta per la Zarina
durante il Congresso di Vienna. Anche Fëdor Dostoevskij, quando vuole
indulgere al grottesco, fa entrare in scena, nei suoi romanzi, i Polacchi (e
non è certo l'unico punto di contatto che il terribile profeta della Modernità
russo ha con il provinciale di Bonn; da cui l'astio di Lëv Tolstoj verso il
Nostro...). Che cosa poi abbiano fatto di male, a Beethoven, i Polacchi:
questo, non lo sappiamo... Nel terzo movimento della Serenata il Nostro ha
uno scatto dei suoi, e facendo slittare un “Adagio” lieve come una foglia
dentro l'ingranaggio di uno “Scherzo. Allegro molto” alquanto
effervescente, manda in grippaggio la macchina dei divertimenti
neoclassica.
Allungando il passo di qualche anno, ci inoltriamo in un vero Prater
viennese della musica, un luogo di piacevoli spassi, che chiameremo,
rossinianamente, “L'equivoco stravagante”, e dove si situa il Quintetto in
Do maggiore op. 29 per archi. C'è anche la ruota panoramica, composta da
un “Adagio molto espressivo” dove si gode una veduta dentro le stanze
mentali di Mozart – o forse è un maniaco che esaspera Mozart in ogni sua
movenza – e un “Presto” finale nel quale i repentini cambi di tempo, gli
sballottamenti ginnici di modulazioni scarabocchiate mentre
Albrechtsberger dormiva, e le imitazioni di salieriane Cabalette sono il
teppismo di un Beethoven che riempie di murales le avoriate pareti delle
casa di nonno Ludwig, Kapellmeister in Bonn.
Prima di entrare in un luogo speciale, l'ultimo visitato da Beethoven sulla
rotta per l'Iperurianio, vale le pena di disquisire un po' su che cosa sia un
capolavoro. Un capolavoro lo si può scrivere o per fondare uno stile
nuovo, o per liberarsi di uno stile vecchio, esaurendolo dall'interno. La
seconda maniera, che potremmo definire “del paradossale accademismo”,
giustifica tutto Stravinskij, da capo a fondo, ed è anche la chiave per capire
una musica, oggi, così stinta come il Settimino in Mi bemolle maggiore
op. 20 per archi e fiati di Beethoven. L'epoca del compositore è già
“critica”, obbligata a volgersi indietro e guardare la Storia, prima di
procedere in avanti. Beethoven vuole dimostrare ai propri contemporanei
che, se poi farà quel che farà, non è perché non sappia fare ciò che
comunemente si fa. Il Settimino sta a lui come le “nature morte”
adolescenziali stanno al Cubismo di Pablo Picasso. E qualcosa di cubista,
di stravinskiana “musica al quadrato”, c'è, nel motorismo insensato
dell'“Allegro con brio”, in quell'impalcatura di Minuetto senza più la
danza, solo il ritmo, che sogghigna nel “Tempo di Menuetto”, fino alla
Cadenza surrealista del primo violino nel “Presto” finale. Il Settimino op.
20 è un luogo di congedi: è “La cerimonia degli addii”.
Esiste un luogo, in questa periferia, museo delle cose perdute, dove
Beethoven custodisce il segreto del suo genio. È “L'Aleph”, quel posto
occulto nelle cose visibili dove Jorge Luis Borges, in un suo celebre
racconto, colloca la compresenza dell'intero universo. E davvero
Beethoven, in età matura, costruirà immense cattedrali fatte di Aleph:
motivi neutri, anonimi, ma densi, tesi, capaci di espandersi in tutte le
direzioni, in derive infinite. Un primo saggio di questa tecnica l'abbiamo
nei Trii op. 9 per archi; tre lavori dove ogni evento sonoro, anche se
minimo, ha conseguenze sull'intera Forma. Così, nel Trio in Sol maggiore
op. 9 n. 1, nel primo movimento l'“Adagio” iniziale viene utilizzato, alla
fine dell'“Allegro con brio”, come tunnel verso la Ripresa. Beethoven
scava già da adesso sotto la montagna della Forma-Sonata, facendone
cadere un po' di calcinacci. L'incipit quasi organistico del Trio in do
minore op. 9 n. 3, l'“Allegro con spirito” – dove “con spirito” si indica la
dinamica di “crescendo” fino a “fp”, “forte/piano”, delle prime tre battute;
è dunque, un'indicazione di dinamica ottenuta per via agogica, come
spesso Beethoven fa – parte con un rigoroso “basso” di Passacaglia che poi
si apre subito in un gioco imitativo di specchi. Abbiamo qui, in boccio,
quell'uso armonico del Contrappunto, quell'interazione tra struttura
verticale, i pilastri delle funzioni armoniche, e specularità delle parti
superiori: l'incessante lavorio evolutivo che spiega da solo l'intera opera
beethoveniana. Nel Finale del Trio op. 9 n. 3, “Presto”, un breve inciso
tratto dall'idea iniziale si protende sempre più nella Ripresa, disarticolando
le prevedibili simmetrie della Forma. Siamo vicini a quel carattere
idiomatico che abbiamo definito “proiezione a ragnatela”. Senza i Trii op.
9, “L'Aleph”, non si capisce tutto il Beethoven successivo. Che non
vengano quasi mai eseguiti rimane, per me, un mistero ancora più
profondo di quello del genio beethoveniano (forse perché i due ordini di
mistero andrebbero invertiti...).
Il rapporto di Beethoven con i virtuosi è di due tipi: o ne assorbe le
trascendenti qualità nella Forma, oppure quelle assorbono lui, e la Forma
sua. La Sonata in Fa maggiore op. 17 per corno e pianoforte, composta
mentre il cornista Giovanni Punto (il quale, nell'“originale”, di cognome
faceva Stech; e si capisce lo pseudonimo...) trafficava con la ferramenta
innovativa delle sue ritorte e cacciava la mano nel padiglione dello
strumento, per fare i semitoni: questa sonata dove il corno scolpisce litanie
funebri, danza, lega frasi, modula, e insomma fa qualsiasi cosa tranne
quanto ci si aspetterebbe da lui, appartiene al secondo tipo, ed è più Punto
che Beethoven; o meglio, un punto fermo di Beethoven su questo stile
“concertante”, senza il quale, va detto, non avremmo avuto i corni boschivi
di Weber (che a Beethoven, anche per colpa loro, pareva compositore fin
troppo elaborato, artificiale). Questo luogo visitato in fretta e furia, lo
chiameremo “Niente Stech, siamo Obbligati”.
Il prossimo luogo è “L'asilo delle verghe pedagogiche”. Dentro, ci
troviamo il Trio in Si bemolle maggiore op. 11 per clarinetto, violoncello e
pianoforte. L'“Allegro con brio” è scritto col regolo calcolatore, ma
comunque un regolo concesso in prestito da Gottfried Wilhelm Leibniz,
visto l'uso intelligente degli intervalli che vi viene fatto. L'“Adagio” mostra
che cosa sarebbe successo, a Beethoven, se il suo programma per la
costruzione motivica fosse funzionato con il comando “copia e incolla” in
automatico. Pochi temi combinano allo stesso modo l'esilità
dell'invenzione e l'artificiosità della sua elaborazione, con, in più, una sorta
di oscillazione autistica inedita, nel dinamico leone delle agogiche. Il tema
del Finale, “Allegretto con Variazioni”, è di quel Weigl di cui Beethoven si
farà beffe nella Sonata op. 96 per violino, e considerando come il tema gli
venisse imposto dall'editore Artaria, e quanto le Variazioni che il Maestro
ci costruisce sopra oscillino tra uno squadernamento da geometra e una
comicità che vorremmo consapevole, ma temiamo sia involontaria, ora
sappiamo perché.
Un luogo bello, pieno di creature ancora infanti, ma destinate a svilupparsi
in fisionomie interessanti, è l'Ottetto in Mi bemolle maggiore op. 103 per
due oboi, due clarinetti, due fagotti e due corni, che sta in alto nei numeri
di catalogo, ma è una scampagnata del ventenne Beethoven insieme ai suoi
amici dell'orchestra di corte bonnense. Questa volta, il Maestro fa scuola a
se stesso, senza accademici di torno. Nell'“Allegro” rimanda il suo futuro
docente Haydn a scuola da Nicola Porpora, mettendo in evidenza un tale
nesso tra l'Opera italiana e la Forma-Sonata absburgica da mandare in
estasi gli attuali revisionisti, ciarlatani e non, diffusi nel Belpaese.
Nell'“Andante”, diabolicamente, fa sentire come i suddetti operisti
dovrebbero sviluppare i temi delle loro Arie. Nel movimento successivo
spacca un po' di caviglie ai danzatori degli eterni Minuetti, che qui
scalpicciano in uno dei primi Scherzi, di nome e di fatto, beethoveniani. È
un momento importante: la prima volta in cui il Maestro fa costantemente
del ritmo un parametro costruttivo la Forma. Il Finale, “Presto”, ci fa
sentire che Beethoven non conosceva ancora Punto, e che costui aveva, a
Bonn, molte Stech a lui cugine. L'Ottetto è il “Panorama dalla camera da
letto”: un luogo di paesaggi che rimangono per sempre nella memoria.
Anche Beethoven ha il suo “Imbarco per Citera”: l'isola delle delizie,
agognato paradiso della Forma. Un simile luogo del manierismo estetico
alla Antoine Watteau ha due promontori.
Il Rondino in Mi bemolle maggiore W.o.O. 25, concepito per lo stesso
organico dell'Ottetto, è splendido per come, nel suo “Andante”, trasfigura
un semplice inciso di marcia in un solare Inno all'equilibrio tra le sue
diverse estroflessioni melodiche. Pare di vedere raggi di luce muoversi da
un corpo celeste per poi venirne subito riassorbiti. Siamo già nel
laboratorio della Sinfonia n. 7 op. 92, come dimostra anche il ripetuto
ricorso a “ten.”, “tenuto” (ve lo ricordate, l' “Allegretto” della Settima?). Il
secondo promontorio è la Serenata in Re maggiore op. 25 per flauto,
violino e viola, superba parodia del “concertato” barocco, e tra i primi
esempi beethoveniano di una musica “desultoria”: con l'accento metrico
perennemente spostato in avanti, e il motivo che gli corre dietro
sviluppandosi, senza accorgersene, in melodia.
Il Quintetto in Mi bemolle maggiore op. 16 per oboe, clarinetto, corno,
fagotto e pianoforte fu scritto da Beethoven come “menù a prezzo fisso”
da ammannire ai salotti viennesi. È un vero “take away” dei gusti di allora;
per lo più, va detto, in forma liofilizzata. Nel “Grave” iniziale Beethoven
riprende il preludiare accordante d'antan, facendo poi dell'“Allegro non
troppo” una sorta di Concerto per solista e orchestra in miniatura.
L'“Andante cantabile” mostra che cosa succede ai temi di Mozart quando
li si incastra nel dispositivo per lo sbobinamento strutturale ideato da
Haydn. Repertorio di “gesti”, il Quintetto, di spunti dialogici gestiti con
quella civiltà delle buone maniere, dell'educato conversare, che era la
musica da camera ai tempi in cui il virtuoso acclamato Ludwig van
Beethoven non era ancora stato salvato dalla sordità progressiva. Questo
luogo è il “Come eravamo” della vicenda creativa beethoveniana.
Anche nella musica per fiati di Beethoven esiste un luogo misterioso,
esoterico. In conseguenza dell'“Aleph” borgesiano, lo chiameremo “La
biblioteca di Babele”. Sono i tre Equali per quattro tromboni che
Beethoven compose per Franz Xaver Glöggl, Domkappelmeister nella
Cattedrale di Linz, ospite frequente del Maestro e suo psicoanalista in stile
“reservatus”, quando il farmacista linzese Johann van Beethoven lo
mandava fuori del “sistema temperato”. Il Graduale è un'arcaica Forma di
musica funebre, e Beethoven ne sviluppa il linguaggio incatenandolo su
progressioni del “basso obbligato” secondo misteriose Passacaglie, in una
liturgia del viaggio dell'animo per aspera ad astra. Si tratta di studi
altissimi sul recupero di procedure fiamminghe, un vero laboratorio per gli
ultimi Quartetti e, soprattutto, la Missa Solemnis. Il Terzo Equale esegue
una condensazione armonica, un passaggio radente su regioni tonali
lontane che spiega come mai proprio questi brani vennero destinati –
anche se solo i primi due, e trascritti per coro maschile – a solennizzare le
esequie terrene di Beethoven. Infine, è probabile che questa musica sia la
prima cosa che di Beethoven il giovane Bruckner, a Linz, abbia sentito. La
loro influenza sullo stile dell'ultimo grande sinfonista in senso classico è
incalcolabile.
LA RETROSCENA. MACCHINARI PER IL DRAMMA.

La musica di scena fu, per Beethoven, un modo per fare drammaturgia


senza le convenzioni dell'Opera. Lontano dalle Forme chiuse e i luoghi
comuni dei libretti, a contatto con la parola poetica, ma senza gli impacci
del Lied, Forma troppo compressa, troppo al servizio del testo, la sua
visione della musica come allegoria della vita, traduzione in simboli dei
caratteri umani, poté esprimersi in esperimenti di molto eccedenti le
convenzioni del genere. Nella musica di danza, o scenica, di Beethoven
troviamo episodi per arpa, assoli di corno di bassetto, e perfino un
Melodram con accompagnamento di glassarmonica. Decisivo
riconsiderare l'influsso di questo repertorio misconosciuto, ora che il teatro
di prosa ha divorziato dalla musica, sul Romanticismo. In Mendelssohn,
nelle Musiche di scena per il “Sogno di una notte di mezza estate”, il Lied
con coro “Bunte schlangen”, troviamo echi del secondo Lied di Klärchen,
“Freundvoll und leidvoll”, nell'Egmont, la cui musica di scena agisce
anche sullo Schumann dell'Oratorio Il Paradiso e la Peri, mentre su
Berlioz, la sua orchestra tinta di colori esotici, il “Coro dei Dervisci” e la
“Marcia turca” da Le rovine di Atene dovettero avere un effetto liberatorio.
Con le Ouverture di Beethoven, poi, ebbe inizio l'evoluzione verso il
Poema Sinfonico, stendardo della “musica dell'avvenire”. Dell'Ouverture
Coriolano si appropria Wagner, in un suo scritto, per tirare l'acqua dei
fiordi al mulino di Senta, la fanciulla sacrificale dell'Olandese volante.
“Beethoven ha cominciato ad aprire una via nuova. Con mano possente
egli ha abbattuto il primo albero di una foresta. L'arte, in seguito, seguì
quella via trovandola presto, dopo di lui, illuminata e spianata”: così scrive
Franz Liszt. In tutto questo, c'è poco di vero, e Beethoven, l'avesse letto, si
sarebbe messo a disboscare tutta la zona intorno a Raiding, luogo natale
dell'ungherese rodomonte della tastiera. L'estetica beethoveniana non è
ancora quella dei “pezzi caratteristici”, e ogni intenzione imitativa, ogni
musica “poetica”, traduzione sonora di vicende, risulta al Nostro così
emetica da portarlo, lo abbiamo visto, ad affiggere apposite didascalie
informative sulla partitura della Sinfonia n. 6 op. 68 “Pastorale”.
Beethoven rimane fedele a Kant e il suo “imperativo categorico”, e ciò che
illustra nella propria musica “narrativa” è il corso del tempo, e come esso
determina il destino delle coscienze.
Del Prometeo di Eschilo abbiamo fatto l'esergo dell'intera nostra
narrazione. Venendo alla musica che Beethoven dedica al Titano, l'unica
per danza dopo l'esperimento bonnense della Musik zu einem Ritterballet
W.o.O. 1, la “Musica per un balletto cavalleresco” – peraltro scippatagli
dal conte Waldstein, suo committente, che se ne attribuì la paternità – in
questo “Gli uomini di Prometeo”, poi censoriamente mutato in Le creature
di Prometeo, l'autoglorificazione degli Illuminati, l'abbondanza di
pantomime quali poi ne avrebbe osate solo il realismo socialista ad ogni
compleanno di Stalin, fa sì che Beethoven giochi sui timbri, la
diversificazione delle famiglie orchestrali, a rendere i vari strati della
materia, dalla mota ottusa all'Empireo dei Beati. Il balletto, in sé, è un, per
dirla alla William Hogarth, “La carriera di un massone” tradotto nell'unico
linguaggio che mandi i censori a casa con compresse di ghiaccio sulle
tempie, perché danzando non si possono mica dimostrare intenti
sediziosi... L'“Ouverture” “Adagio-Allegro molto con brio” – le cui prime
battute in molte esecuzioni attuali fanno sì ci si aspetti che da un momento
all'altro entri in scena Coriolano in tutù – è un omaggio al musicista
massone per eccellenza, Mozart, con un Corale iniziale dei legni che fa il
verso al Leporello di “O statua gentilissima”, nel Don Giovanni (viene a
proposito, visto che dopo entreranno in scena delle effigi umane in argilla)
e un “moto perpetuo” alla Nozze di Figaro, “Ouverture”, che viene
interrotto da un ciangottio dei legni ispirato al Finale, “Presto”, della
Sinfonia n. 38 “Praga” K. 504. Nell'Introduzione, “Allegro non troppo”,
c'è una “Tempesta” che Rossini, per farcela entrare in casa di don Bartolo,
nel Barbiere di Siviglia, sfonderà il tetto a cupola delle Cavatine (Le
creature di Prometeo è quella tipica partitura di un genio che al suo autore,
poi, sempre sembrò sciocca, e dunque permise ad altri di farcisi geni “a
parentesi quadra”, di riporto). Bello il momento, nel “Poco Adagio-Allegro
con brio”, quando Prometeo avvicina il fuoco alle figure di argilla, e quelle
prendono vita: tutto un trillare vivace che prelude alla polverizzazione del
tempo nelle sonate ultime per pianoforte. Nel Finale del primo atto,
“Allegro vivace”, un Minuetto che si incastra evolve in un “singhiozzo”
tratto dal vieto catalogo dei sinfonisti di Mannheim, a rendere la cosa,
volutamente o no, un po' parodistica. Nel secondo atto, la scena madre,
“Adagio-Andante quasi Allegretto”, dove tutti gli inquilini del Parnaso si
trasformano in docenti a contratto per insegnare alle creature prometeiche
le arti e le scienze, gli arpisti possono godersi di essere, per una volta,
Euterpe, nel mentre maledicono in cuor loro l'anorfico, nemico di Orfeo,
Orso di Bonn, che in orchestra mai più gli fece fare “dlin, dlin”,
compensandoli con delle Variazioni su un canto svizzero W.o.O. 64 dove la
parte del solista, essendo lacunosa, è fatta ad emmenthal. Scena del
doposcuola dagli Immortali a parte, i brani a futura memoria del balletto
sono due: un assolo del violoncello – è Apollo il quale, in vacanza a
Cremona, si è fatto modificare la lira – e la “Pastorale. Allegro”, dove
scopriamo che le terzine della Sinfonia n. 7 op. 92 sono un copyright
Orfeo&Euridice, della “Gluck s.r.l”., fabbricatrice, in Europa, di tutte le
Pastorali classiche. Sappiamo bene, e lo abbiamo descritto, perché
Beethoven non potesse dir di no a questa commissione; resta il fatto che il
meglio della partitura lo troviamo disciolto in terre non germaniche, fino a
Léo Delibes, Bizet e Pierre Lalo (ma anche il solito Berlioz, che dice di
amare tanto Beethoven, e poi lo va a pizzicare sempre in queste sue
scappatelle “extrasublimali”).
Con le Musiche di scena per “Egmont” di Goethe op. 84, la faccenda è ben
diversa. Si legge fino allo sfinimento di come Beethoven scrivesse a
Goethe per avere un suo giudizio su ciò che diceva di aver composto per
esclusivo amore suo, e di quanto indignato fosse con l'editore che tardava a
spedire la musica al Vate, dimostrando di non onorare l'altissimo poeta il
quale, poi, dell'Egmont musicato, se ne impipò altissimamente. O Goethe
insensibile alla musica; o povero musico, che sempre t'affidasti, come
cantori del sublime, a geni inaciditi dalla corte e dagli onori... In realtà, per
Goethe, Egmont era ciò che, per Beethoven, era il Settimino op. 20: una
persecuzione. A Goethe, il suo Egmont, non piaceva. Ne detestava l'isteria
Sturm e anche Drang, la ricerca del facile effetto. Detestava quella martire
svenevole di Klärchen che muore perché si innamora della morte probabile
dell'uomo che ama per la vita: Egmont, la cui esecuzione capitale,
avidamente da lui cercata, diventa allucinazione della vittoria allorquando,
nel carcere dove si è fatto cacciare con la violenza assoluta del martire di
professione, aspettando la morte gli appare l'anima vagula blandula di
Klärchen sua, avvelenatasi per lui (veleno sottratto all'uomo di lei
innamorato senza speranza, il quale è, così, l'unico nel dramma a non avere
la soddisfazione di ammazzarsi...). L'apollineo, neoclassico, Goethe delle
Ifigenie e del Faust “Parte Seconda” trovava l'intera sbobba piena di
spezie buone solo a occultarne il sapore di ormoni adolescenziali; ed ecco
che arriva Beethoven, e scrivendoci sopra quel po' po' di musica risuola il
dramma come fosse nuovo, così lo rimettono in scena. Fermarlo, non si
poteva; ma sdegnarsi, sì. Peccato, l'equivoco, perché le Musiche di scena
per “Egmont” di Goethe sono il capolavoro teatrale di Beethoven; ben al di
sopra, più pure e spontanee, di Fidelio. L'“Ouverture” è talmente nota che
serve a poco descriverla. Un particolare: le “strappate” dell'inizio non sono
presagi di morte, ma un Fandango spagnolo come lo poteva conoscere un
Renano. Simboleggiano l'alterigia degli invasori, e i direttori non
dovrebbero, dunque, sciabolarle come un samurai. Sappiamo che l'oboe
esprime, in Beethoven, il pianto umano: nell'Egmont, “Ouverture”, celebra
la propria apoteosi, prima che ritorni il richiamo di morte, “corona” con
“diminuendo”, dell'inizio, questa volta non più “forte”, ma “fortissimo”.
Meraviglioso come il Nostro usi una forcella “crescendo-diminuendo” su
una stessa nota, nella battuta precedente, a fermare il respiro fratto per
l'angoscia. Dopo una transizione su innocue scale discendenti e note
ribattute, una cellula ritmica ripetuta dei corni evoca, in lontananza,
l'oppressione persecutoria del Duca di Alba, mentre tutto rallenta
sinistramente; finché, su uno degli “stringendo” più formidabili mai uditi,
comincia la caccia frenetica al ribelle. In realtà, Beethoven prescrive sì un
passaggio da “pp”, “pianissimo”, a “sfp”, l'“eroico” “sforzato piano” della
Terza Sinfonia; di modificazioni del tempo, però, in partitura, non c'è
traccia. “They call it 'interpretation'”, diceva Stravinskij... Altro momento
meraviglioso: dopo un silenzio lunghissimo, la “corona” più interminabile
che esista, sèguito a quel grido dei violini, a batt. 278, che è il pugno di
Egmont levato al cielo – e anche la scure che pende sulla sua testa – c'è un
brevissimo Corale dei legni, in un inedito “ppp”, tre volte “piano”, che
evoca la trasfigurazione di Klärchen. Il resto della musica, dopo
l'“Ouverture”, è un tale capolavoro che la sua esecuzione in forma di
Melologo, con voce recitante, costituisce una delle esperienze più belle che
un beethoveniano possa fare (il che ne dimostra la coesione drammatica al
di fuori della poesia, dando, per inciso, ragione allo sdegno di Goethe). Le
vette sono il secondo Lied di Klärchen, “Freundvoll und leidvoll”,
“Andante con moto-Allegro vivace assai” – notate la richiesta
beethoveniana di una concitazione progressiva, ché questo vuol dire
“vivace assai”; qui, non nell'“Ouverture”... – il momento della sua
consacrazione a Egmont, con quel verso “Felice sola è quell'anima che
ama” dove si sente la dolorosa nostalgia del compositore verso il
coronamento di ogni vita che sempre a lui fu negato; perché la sua musica,
anche se su versi di un altro, è sempre autobiografia. Poche cose hanno la
luce iperurania, nella sua produzione, di questo Inno alla purezza. Altro
momento altissimo è quel diafano “Larghetto” che accompagna la morte di
Klärchen: una scrittura spoglia, rarefatta, che protenderà la sua influenza
fino al Mahler dell'“Adagietto” della Sinfonia n. 5, l'Edvard Grieg della
“Morte di Aase”, nelle Musiche di scena per “Peer Gynt” di Ibsen e, in
Inghilterra, molte cose di Ralph Vaughan Williams e Frederick Delius. Ma
la cosa più alta è il Melologo dove Egmont passa dall'elogio del sonno,
narcotico della morte, all'entusiasmo sbigottito: l'apparizione dello spirito
di Klärchen, fino alla consapevolezza di come la sua morte segni anche la
vittoria della propria causa. L'insurrezione esploderà, e le Fiandre saranno,
per la sua immolazione, libere. Da “Süsser Schlaft”, “Dolce sonno”, fino
alla fine, Beethoven raggiunge il vertice della propria musica per il teatro:
il simbolo stesso di quell'utopia dove la vittoria è nella fede incorruttibile
per gli ideali della giovinezza; unica immortalità, se intatta dall'esperienza
del male, possibile in vita.
L'appetito bulimico di Ouverture che prese Beethoven in occasione di
Fidelio ha a che fare con la dispepsia drammaturgica di quella sua unica
Opera, una sindrome metabolica delle parole in musica che ha comportato,
come complicazione, la nascita del Poema Sinfonico. Beethoven vive
l'esperienza dell'Opera con profonda frustrazione, e scarica sui suoi brani
sinfonici e sinfonico-corali: la “Marcia”, il “Melodram”, quella sorta di
Cantata che è il Finale, le introduzioni alle Arie di Leonore,
“Abscheulicher wo eilist du hin!” e di Florestan, “Gott, welch Dunkel
hier!”, la propria disillusione estetica. L'aspetto curioso della Ouverture
Leonore n. 3 è che ci rivela il processo compositivo di Beethoven –
derivazione motivica, condensazione tematica, transizioni su Armonie
lontane, a dilazionare il ritorno della Ripresa – più di tante opere non
destinate alla scena; e così ci rendiamo conto di quanto materiale, in
Fidelio, venga conservato dal compositore solo perché, altrimenti, non può
far precedere l'azione. L'“Ouverture” in Mi maggiore a Fidelio, quella
ufficiale, inizia con la tipica fanfara intervallare presa dalle Harmonie
rivoluzionarie e onnipresente nelle opéra à sauvetages di Grétry o Méhul.
La seconda sezione evoca il clima di esultanza del Finale, comprimendone
la solennità del ritmo di marcia in una sorta di segnale di vittoria alquanto
più profano. Segue una terza idea divisa in una danza sfrenata e un
accenno di idillio campestre anch'esso subito rifluente dentro la frenesia
generale. Viene il sospetto che Beethoven, dopo aver dovuto utilizzare per
Fidelio, alla “prima”, l'Ouverture de Le creature di Prometeo, abbia deciso
di cacciare dentro questo lever de rideau tutto il materiale che aveva
scartato dall'Opera. Ci sono la musica militare, il rincorrersi da Opera
buffa, “commedia del baggiano”, delle prime scene; la spinta propulsiva,
compressa, dell'orchestra, che incalza ovunque, ad indicare una violenza e
frustrazione cariche di echi e ricordi perché nate – e la cosa è quanto mai
beethoveniana – più dall'ossessione della felicità perduta che dalla
memoria presente; poi, nel Finale, tutto si sfrena nell'esultanza della
liberazione. Ouverture funzionale, quella a Fidelio, strutturata bene, ma
senza che il suo compositore si sia nemmeno posto il problema della
qualità dei temi. L'importanza della Ouverture in Do maggiore “Leonore n.
1” op. 138, se mai ne ha, sta nel suo farci capire che Beethoven, all'inizio,
voleva mantenere il clima da vaudeville, farsa degli equivoci en travesti,
per modulare con precisione la discesa progressiva nell'abisso della
crudeltà e l'ingiustizia. Questo esile brano dove la Forma tiene insieme
echi del Volkslied viennese e figure orchestrali guizzanti alla Carl Ditter
von Dittesdorf e Pleyel voleva, forse, essere una caricatura, a metà tra
divertita e furibonda, di quanto si faceva allora sulle scene viennesi. La
rivelazione della nuova drammaturgia beethoveniana ne sarebbe risultata,
poi, abbagliante. Alcuni direttori prediligono l'Ouverture in Do
maggiore“Leonore n. 2” op. 72 alla n. 3. Otto Klemperer ne fu un
avvocato formidabile, ma anche Scherchen non nascose la sua inclinazione
per questa versione più scabra, rocciosa, senza lusinghe, con le sue parti di
Forma-Sonata che come scivolando su zolle tettoniche si scontrano, si
scheggiano, si infiltrano l'una nell'altra; con la sua ripetizione di accordi
dissonanti, ad indicare che degradando nel Terrore la Rivoluzione Francese
ha introdotto la follia, il male, nell'ordine del logos a lei apprestato,
giardino della ragione, dagli Illuminati. L'orchestrazione di questa
ouverture è quanto di più audace abbia fatto Beethoven: siamo già alla
concezione del timbro come voce di un'allucinazione interiore che nessuno
ode tranne chi la subisce. L'intera vicenda sonora proviene dalla fossa buia
dentro cui giace Florestan, e verso la quale le tre Ouverture Leonore,
progressivamente, vanno. Fino a che, nelle prime battute della “Leonore n.
3”, ci sprofondiamo in modo ineluttabile. Geniale il modo in cui
Beethoven, nella prima battuta, fa prolungare l'accordo iniziale ai fiati, a
evocare la luce lontana che al sommo del pozzo scorge debolmente il
prigioniero. Fino a batt. 5 l'orchestra scende i gradini del carcere,
giungendo a un “pp”, “pianissimo”, su ogni nota del quale c'è una forcella
“crescendo-diminuendo”: è Florestano che dorme, e sogna Leonore; i
fagotti sono, infatti, drappeggi sonori di una luce allucinatoria. L'episodio
successivo è straordinario. Beethoven vi mette in scena il tempo: il tempo
come apriori kantiano, il tempo che si incide nella mente come un suono
bianco che ticchetta, indifferente a memorie e desideri. Naturalmente, a
condurre questa ossessione funebre sono le solite terzine beethoveniane
già responsabili, nella Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”, la “Marcia funebre”,
dei funerali napoleonici anzitempo. A batt. 27 comincia una descrizione
della violenza folle, lo schiacciare nella repressione clientelare le utopie di
uguaglianza fatale alla Rivoluzione Francese tradita dai suoi capi.
Beethoven usa le dissonanze non preparate, “innaturali”; gli accordi mal
disposti, l'orchestrazione a protuberanza come la facciata di certi palazzi
signorili, centri di potere, per evocare il contronatura della Legge, quando
diventi strumento di oppressione. La batt. 36 è il momento di gloria dei
direttori, che qui fanno un “rallentando” clamoroso fino alla “corona” sulla
terza nota. Hanno ragione. In pochi momenti della sua musica Beethoven
rivela come qui che la “corona”, in lui, è strutturale, un marcatore che
indica la fine di una sezione, e la libertà di tempo che tale giunto formale
sempre comporta (non si capisce, peraltro, perché questi direttori così
intelligenti non sospendano il tempo, allo stesso modo, nelle prime quattro
battute della Sinfonia n. 6 op. 68 “Pastorale”...). Va detto che poi,
nell'”Allegro” che segue, non è previsto nessuno “stringendo”; invece, il
pubblico non aspetta altro se non questo caracollare del temino evocante
l'Engel Leonore che passa dalla quasi inerzia fino alla sfrenatezza e
farebbe pensare, più che a una visione confortante, all'apparizione di una
succube, o una di quelle banshee, quei fantasmi femmina le quali, nelle
saghe celtiche, ti prendono l'anima. È l'“effetto Egmont”. Da questo “tema
dell'angelo trionfante” in poi l'ouverture diventa un Allegro di sinfonia; il
che, retrospettivamente, ci fa capire come la parte prima fosse il suo
Adagio introduttivo. Siamo nel mondo dell'Haydn londinese. L'“Allegro” è
bitematico, come si deve. Il “tema dell'angelo trionfante” introduce il
“tema dei giorni felici”; entrambi, sono la lotta nell'animo di Florestan tra
speranza e tentazione di abbandonarsi al nulla. E viene alla mente quella
volta quando, in vacanza dagli Erdödy, Beethoven sparì isolandosi in un
capanno, con l'intenzione di lasciarsi morire di fame. Ora che ha ridotto
l'intero Fidelio a un Allegro di Forma-Sonata, Beethoven è felice, e non si
rende conto di quanto abbia, in questo modo, creando il Poema Sinfonico,
dato vita a quei banshee maschi che provvederanno, la Forma-Sonata, ad
ucciderla... Nel “Presto” finale di questa “Leonore n. 3”, dove Beethoven
prescrive “due o tre violini”, e “crescendo poco a poco”, e invece udiamo
sempre un “mf”, “mezzoforte”, già a battuta tre, suonato da tutti i violini –
un gorgo in accelerazione progressiva, come fosse l'uragano Leonore che
si schianta sulle coste della Forma-Sonata, atollo protetto dell'Illuminismo
– in questo Finale così abusato dai “podisti” della direzione d'orchestra si
profila una replica del primo movimento, “Allegro con brio”,
dell'“Eroica”, la Coda. Il significato simbolico è lampante: Napoleone
tradisce la Rivoluzione Francese, ed essa diventa la discesa agli inferi della
civiltà occidentale. Beethoven non è mai stato così ortodosso, rispetto alla
propria concezione dell'Allegro di Forma-Sonata, come in questa
Ouverture Leonore n. 3. Ecco perché Fidelio, in scena, non poteva
funzionare. Che poi, così facendo, abbia reso la Forma-Sonata una
narrazione di ideologie, di ferite nei bastioni di una civiltà: questo, a Liszt
e Wagner, non parve vero.
Dell'Ouverture Coriolano non si può parlare. Sarebbe come parlare di un
fulmine, un evento atmosferico. È un trattato sinfonico sul suicidio.
Beethoven disossa la Forma-Sonata nei suoi due Princìpi antagonisti. Ne
mostra lo iato incolmabile tra Dovere e Morale, tra Destino e Amore, Etica
Civile e Devozione Filiale. Se mai il noumeno kantiano, il pensabile che
viene prima di ogni pensiero, è diventato fenomeno, “evento”: ebbene,
allora è successo qui. Rispetto a quello di Shakespeare, il Coriolano di
Heinrich Joseph von Collin è più avvocato di stesso. Discute l'aporia della
propria condizione umana, e quindi meglio si presta al gioco delle tensioni
sinfoniche. Di questo brano che con la sua minerale evidenza è, per certi
versi, la cosa più perfetta scritta dal Beethoven sinfonico, si può (si deve)
solo notare come rovesci l'Allegro di Forma-Sonata “napoleonico” che
abbiamo testé descritto. La Coda spolpa, prosciuga il dinamismo
traumatico, per scontri strutturali, dei due Princìpi, così come il suicidio è
disattivazione di ogni responsabilità morale, rifiuto della dialettica interna
all'umano esistere. Lo stesso inizio, “ff”, “fortissimo” (senza
“crescendo”...) con quel punto sulle note dell'incipit a martellare l'accordo
sulla seconda battuta, è l'opposto dinamico dell'inizio della Terza Sinfonia,
dove pure, sui primi due accordi, ci sono due punti. L'Ouverture comincia
in do minore e insiste, nella Coda, sulla nota Si, una Sensibile che risolve
con strazio supremo. Molti anni dopo Jean Sibelius, alla fine della sua
Sinfonia n. 7 in Do maggiore op. 105, memore di questo divino colpo
d'ingegno beethoveniano, userà lo stesso artificio armonico a significare la
fine della propria musica, e, con lei, dell'intera civiltà sinfonica
occidentale.
L'Ouverture Zur Namensfeier op. 115, concepita da Beethoven “per ogni
occasione o all'uso concertistico”, è una sorta di lavorazione di scarti della
Sinfonia n. 9 op. 125 (all'inizio, il Maestro prevedeva di introdurvi anche il
coro, e negli abbozzi compaiono due versi dell'“Inno alla gioia”) per trarne
combustibile da bruciare sull'altare della Fama. Il titolo allude
all'onomastico dell'Imperatore, ma nulla ha a che fare con l'ouverture, la
quale, a volerle fare la TAC, appare come uno strano incrocio tra fremiti
boschivi poi piovuti paro paro dentro il Weber del Franco cacciatore, nel
“Maestoso”, e un levare di sotto alla Forma-Sonata i suoi puntelli
strutturali che sa di primo e terzo movimento della Nona; non fosse che
qui Beethoven lascia evidenti i segni del gessetto sul cartone preparatorio.
Inoltre, la natura “motoria” del tema principale, nell'“Allegro assai vivace”
– che, in Beethoven, vuol dire sempre “stringendo” – fa intravedere già
l'orgia del desultorio “Molto Vivace”, nella sinfonia in molti sensi
terminale. Si direbbe che Beethoven, con questa arringa in forma di brano
sinfonico, abbia voluto dimostrare come mai non poteva prendere la via
atmosferica, evocativa, dei Romantici. Se è così, l'Ouverture Zur
Namensfeier (curioso il titolo italiano in voga fino a poco tempo fa, “Per
l'onomastico”; ci si aspetta che da un momento all'altro l'orchestra intoni
Perché è un bravo ragazzo...) è un attrezzo del laboratorio beethoveniano
esposto dall'autore vicino alle proprie opere compiute. Un'ouverture di
Marcel Duchamp, insomma.
Delle disastrate Musiche di scena per “Le rovine di Atene” op. 113, su di
un testo di Kotzebue che basterebbe di per sé a giustificare il suo
successivo assassinio, e su come di esse vadano salvati un mero paio di
“pezzi caratteristici” ante litteram, per il solo fatto di avere disseminato
figliolanze esotiche e incroci bastardi di stili in tutto il Romanticismo
sopravveniente, abbiamo già fatto lo scarso cenno che meritano in altro
luogo. Resta da dire della “Ouverture”, e delle musiche del dramma a loro
gemello, Re Stefano. L'“Ouverture” a Le rovine di Atene pare una visione
della Ouverture “Leonore n. 3” con il cannocchiale rovesciato. Anche qui,
infatti, abbiamo un “Andante con moto” introduttivo dove si
giustappongono uno scenario desolato, paesaggio della Grecia sotto il
dominio dei Turchi, e un convenzionale ritmo di marcia con aurora
concertante sul ritmo dei corni, nel vagheggiamento di una libertà che ha
la silhouette dell'Imperatore absburgico e illuminato, qui disegnato con i
tratti dell'ultimo Haydn (oh bella, ma costui, non se ne era scappato a
Londra?...). Segue Allegro in Forma-Sonata, questa volta non, come nella
“Leonore n. 3”, risolutorio e consequenziale, ma semmai lavorato al
maglio con tale violenza da finirne scheggiato, al punto che nella Coda i
ponti modulanti si rompono e perde il secondo tema. Come sempre gli
capita quando l'ispirazione non lo sorregge (ebbene sì, qualcuno dice
anche nel Finale della Nona Sinfonia) Beethoven, nei brani successivi de
Le rovine di Atene, fa ricorso ad un'orchestra gigantesca: quattro corni,
controfagotto, tre tromboni, triangolo, piatti, grancassa, soprano, coro, e
l'orchestra convenzionale al gran completo. Delle Musiche di scena per
“Re Stefano” op. 117 io salverei solo il “Maestoso”, indicato come
“Marcia spirituale”. È un brano dall'intimismo “con sordina” che
preannuncia l'ultimo Beethoven; forse perché vi si descrive l'imposizione
sulla testa, al Re cristianissimo, della corona inviatagli dal Papa, e
sappiamo come il movimento di certe corone su improbabili teste abbia
sconvolto dal profondo il napoleonico Ludwig... L'“Ouverture” è
importante per il suo carattere eccentrico di Rapsodia Ungherese
prelisztiana, con conseguenti ripercussioni sui vari Má Vlast smetaniani, i
Mazeppa S. 100 del rodomonte ungherese e folkloriche evocazioni
nazionalistiche varie, fino a Tamara di Milij Balakirev e Kikimora op. 63
del suo epigono Anatolij Liadov. L'irruzione dei temi ungheresi rende
difficile lo Sviluppo; del resto, ogni nazionalismo reca in sé qualcosa di
infantile, soprattutto quando è su commissione. In particolare affiora un
“Andante con moto” – “grazioso”, dice Beethoven – che solo la Czárda
abbastanza scortese che trionfante nella Coda vale a far tacere. Riaffiora
anche il solito Lied Seufzer eines Ungelieben und Gegenliebe, ad indicare
come tutto questo Beethoven di transizione non sia altro che un continuo
elaborare i problemi strutturali della Nona Sinfonia, poi neppure risolti
appieno. Resta curioso dover constatare quanto influsso abbia avuto sul
Romanticismo, per lo più, il Beethoven minore, quello montato su
impalcature d'accatto.
Le rovine di Atene, come sempre succede quando un genio, avendo fretta,
rende le sue incomprensibili innovazioni altrettanti effetti senza causa,
divennero popolari al punto che quando si trattò di inaugurare il nuovo
teatro nella Josephstadt, quartiere di Vienna, Beethoven (ricordate?) le
riciclò su un nuovo libretto dove al posto di Minerva che ricerca la sua
patria d'elezione, e la trova a Pest, c'è Tespi col suo carro dei commedianti.
A costui viene incontro, in qualità di influencer, Apollo, al quale non par
vero di linkarle il nuovo teatro di Josephstadt quale patria eletta di ogni
arte. Un simile adattamento del Kotzebue originale da parte di tale Carl
Meisl dimostra che quando si pensa di essere arrivati in fondo c'è sempre
qualcuno che comincia a scavare... La nuova Ouverture scritta per
l'occasione, però, è uno dei capolavori dell'ultimo Beethoven. Die Weihe
des Houses op. 124, tradotto con “La consacrazione della casa” – come se
alla festa di apertura impresario e orchestra si presentassero in pepli
bianchi mormorando formule incantatorie belliniane alla Lunar Biscroma,
quando, invece, Weihe significa solo “inaugurazione” – comincia con
alcune “strappate” che sembrano voler seppellire sotto la loro violenza la
convenzionalità della ouverture “prometeica”. Questa op. 124 è una
realizzazione, in quanto musica “pura”, di ciò cui la Nona Sinfonia aspira,
a mio parere, vanamente; allo stesso tempo, il suo essere un rito funebre
sulla civiltà degli Illuminati, osservata nella sua evoluzione storica, ci
permette di capire perché, con disperata lucidità, Beethoven, onde ritrovare
lo spirito dell'utopia, sia poi dovuto ricorrere a Schiller. Il “Maestoso e
sostenuto” osserva i cori degli adepti a Sarastro, nel Flauto magico, far
sacrifici a J. S. Bach. È la consonanza quale patto di mutuo sostegno tra i
viventi, simbolo musicale di quella associazione massonica Die Turm, “La
torre”, che Goethe inventò a guida occulta sulla via di Wilhelm Meister,
incarnazione dell'Artista. Segue il “Poco più vivace”, dove risuonano gli
antichi Stadtpfeifer come li ebbe in mente l'Händel londinese. Viene qui
esumata, e di nuovo sepolta, un'altra espressione della concordia cordis
illuminata: la lega borghese, urbana, tra i sodali delle Arti. Con genialità
umorale, Beethoven, ad esprimere la natura utopica, remota dal reale, del
suo sogno, introduce un passaggio praticamente ineseguibile per i fagotti.
Ora ci avviciniamo all'“Allegro con brio”, il “fugato”; prima, però, c'è un
“Meno mosso” suddiviso in una marcia solenne che sembra scritta per una
messa in scena dell'Oratorio Solomon, dello stesso Händel, nel teatro delle
marionette e, a batt. 66, uno squarcio lirico dove risplende il Finale ideale
della Nona, se il compositore avesse avuto il coraggio di svilupparne le
gelide, remote, notturne trasparenze. Ciò che segue è la più alta
espressione, in tutta la Storia della Musica, di quella gioia che nasce dalla
sospensione della Sorge: la “Cura” evocata da Goethe, nel Faust, come
demone dei demoni, e indagata da Heidegger quale rovello primario degli
umani. Solo il “Preludio all'Atto Primo” dei Maestri Cantori di Wagner
può starle alla pari: un altro brano sorto con i medesimi intendimenti, e al
crepuscolo, ugualmente, di uno stadio ulteriore nel decadimento di questa
stessa civiltà. Nonostante le apparenze, del Contrappunto antico, nella
Weihe des Houses, c'è solo la testa staccata dal busto, su cui spicca la
parrucca della Forma-Sonata en travesti. L'esito è esilarante, anche se è un
ridere per soli musicisti, ben lontano da quel messaggio umanitario che la
Nona, questa sinfonia che per viltà si fa adottare dalla Cantata dopo che si
è sposata con l'Oratorio, vuole imprimere in tutti i cuori. L'Ouverture La
consacrazione della casa riesce in tutto ciò in cui la Nona fallisce. Dalla
Sorge faustiana trapassiamo qui, per mera dinamica di Natura, alla
intuizione di un filosofo partorito dall'unica parentesi felice dell'Occidente,
nella lunga agonia postnapoleonica: Henri Bergson, il cui “Princìpio
dell'elan vital”, lo “slancio vitale”, racconta il senso di questa ouverture
più di tante impossibili analisi (non a caso, Bergson sta alla base anche di
tutto Marcel Proust, che considera la memoria, i relitti del passato, nella
stessa maniera di questo Beethoven estremo). Un solo dettaglio analitico:
Beethoven tratta Soggetto e Controsoggetto come i due temi dell'Allegro
di Forma-Sonata, poi comincia a lavorali secondo le regole della Fuga solo
nello Sviluppo, ottenendo una Forma-Sonata che funziona da
Controsoggetto strutturale del Soggetto, la Fuga.
Questo spostamento sull'intera struttura di tecniche fino ad allora concepite
per venire applicate ai soli temi fa di Beethoven, lo abbiamo visto, il padre
di tutte le Avanguardie storiche. È il Princìpio primario del suo comporre,
ciò che cerca per tutta la vita e trova, trionfalmente, nell'Età della
Trascendenza. È il “Princìpio di Proteo”.
FINALE. IL FRONTONE DEL TEATRO. PROTEO.

Il “Princìpio di Proteo” si manifesta secondo una dialettica, anch'essa


beethoveniana, tra il suo aspetto “fisiologico” e quello “biologico”.
Il primo ha a che fare con il suono “fisico”, il modo in cui si organizza nel
tempo. Nella sua Fisiologia, il “Princìpio di Proteo” regola un potente
carattere innovativo della musica di Beethoven: le dinamiche utilizzate
come agogica. Beethoven usa gli innumerevoli “sf”, “sforzando”, e
“cresc.”, “crescendo; gli “sfp”, “sforzato piano”; i “ten.”, “tenuto”; le
forcelle “crescendo-diminuendo” anche sulla stessa nota, per creare una
distorsione del tempo all'interno della Forma. Le dinamiche servono anche
a indicare la struttura: la ripartizione delle sezioni all'interno della Forma, e
i suoi climax, i punti culminanti.
In secondo luogo, il “Princìpio di Proteo”, nel suo aspetto “fisiologico”,
regola le strategie in base alle quali il Contrappunto interviene all'interno
dell'Armonia. Il Contrappunto serve, a Beethoven, per creare ponti tra
sezioni e Code molto estese, che diventano sezioni autonome. Serve a
introdurre idee secondarie che spesso si aggregano sotto forma di un terzo
tema, oppure di motivi derivativi che corrono parallelamente a quelli
principali, secondo una logica contrappuntistica e non armonica.
In terzo luogo, questo aspetto del “Princìpio di Proteo” in Beethoven serve
a regolare, all'opposto, la “modalità” (intesa anche come ricorso ai “modi”
antichi) onde l'Armonia interviene nel Contrappunto, creando sezioni di
Sviluppo, ricapitolazioni, riprese, sezioni di Divertimento: libere
invenzioni dove si eccede alla dialettica interna della Forma-Sonata e alla
contrapposizione materica dei due Princìpi beethoveniani, il “Princìpio che
si oppone” e il “Princìpio che implora”. Questa convergenza delle due
dimensioni, Armonia e Contrappunto, lungo una linea storica inaugurata
da J. S. Bach – e che Beethoven porta a perfezione e, insieme, nelle ultime
opere, saturazione – si ramifica in certa musica del Novecento: la “tecnica
a sviluppo seriale” di tutti i parametri secondo un ordine prestabilito.
La mediazione tra Beethoven e i compositori successivi al collasso dello
Stile Classico, ma seguaci del logos: la Seconda Scuola di Vienna,
Schönberg e i suoi seguaci, è Wagner, la sua concezione di una unendliche
Melodie. Wagner teorizza una melodia che continui a svilupparsi
liberamente, aggregando sempre nuovi materiali su una linea orizzontale
nella quale sono implicite sia le funzioni armoniche sia il lavorio
contrappuntistico. Su questa concezione wagneriana Schönberg innesta,
poi, la tecnica della Variazione permanente, per piccole cellule, di Brahms.
Nel suo aspetto “biologico”, il “Princìpio di Proteo” ha a che fare con il
rapporto tra Microcosmo e Macrocosmo. Nelle Forme musicali di
Beethoven esiste uno specchio di come la coscienza umana elabori la
realtà sotto forma sia sensoriale che concettuale. La visione che Kant ha
del noumeno, la “cosa pensata”, quale “artificio” del fenomeno, la “cosa
percepita”, rende la realtà uno stato allucinatorio, aprendo la strada all'arte
quale laboratorio del Vero. Beethoven intende la creazione della propria
opera un “imperativo categorico”, un dovere necessario a dotare siffatto
laboratorio di cinte murarie dentro le quali il caos confluisca liberamente
per poi, cozzando contro l'ultima barriera, venire ordinato, “pietrificato”,
in logos. Goethe, l'altro Nume tutelare beethoveniano, immagina Faust
intento a creare in laboratorio – insieme al suo allievo che fatalità vuole si
chiami Wagner – una copia artificiale, “di studio”, di se stesso:
l'homunculus. Il poeta, per metafora, descrive un Faust mago, perché
capace di emanare da sé un'immagine ideale della propria mente sotto
forma di opera d'arte, cristallizzare la propria percezione del reale in
strutture dotate di senso. Descrive, così facendo, il Beethoven alchimista.
Nella musica del Nostro vale la “Legge della Tabula smaragdina”: “Così
in alto come in basso”; Armonia e Contrappunto, infatti, vi si
compendiano in senso obliquo, trasversale, e in ogni battuta giace, in
potenza, l'intera struttura. Le strategie che il compositore adotta a questo
scopo sono la rarefazione dell'invenzione; la necessità della stessa; la
condensazione degli elementi dialettici; la progressione della Forma
secondo le stesse leggi che regolano gli organismi biologici. Le Forme
musicali di Beethoven sono strutture che vengono dotate di senso
attraverso la sintesi dei contrasti; così come avviene nella nostra mente
attraverso il dialogo dei due emisferi cerebrali, fisiologicamente e
biologicamente diversi e contrastanti tra loro: “Princìpio che si oppone”, il
sinistro; “Princìpio che implora”, il destro. Ma Beethoven, inglobando il
caos come elemento propulsore all'interno della Forma, supera Kant e
Goethe. Diventa un ponte verso la Dialettica di Georg Wilhelm Friedrich
Hegel e, infine, il suo collasso: la concezione romantica dello spirito in
quanto emanazione di leggi universali attraverso il lavorio dell'inconscio.
Lungo l'opera di Beethoven si snoda un tracciato che riassume l'intero –
ultimo, terminale – pensiero dell'Occidente, da Kant a Freud, il maestro
dell'Apocalisse. La sua musica è il tentativo più avanzato nella storia delle
arti moderne di far sopravvivere l'utopia illuministica: l'uomo al centro
dell'universo; a sua volta, sopravvivenza ultima della visione quasi
religiosa dell'individuo quale specchio tra Microcosmo e Macrocosmo che
animò Pico della Mirandola, l'homunculus dell'Umanesimo: quella visione
che animò la sostanza stessa del Rinascimento.
Nel suo essere perennemente cangiante, capace di ogni metamorfosi, ma
senza perdere la propria identità, Proteo è figura allegorica di tutta la
musica beethoveniana. È la modalità in cui il Maestro traduce – attraverso
l'Umanesimo rinascimentale, il logos illuministico e il suo collasso
successivo – il sinolo aristotelico, fusione di materia e Forma, corpo e
spirito, nell'unico laboratorio che ci sia possibile per frenare quella discesa
agli Inferi che stiamo, tutti, percorrendo.
SECONDA PARTE. COSMOLOGIE.

“Anche prima di me guardavano, ed era cieco guardare. Udivano suoni, e


non era sentire. Li vedevi, erano forme di sogni. La vita un esistere lento.
Un impasto opaco, senza disegno”.
(Eschilo, Prometeo incatenato)
PREMESSA

Il Lambdoma è una tavola pitagorica nella quale la successione degli


armonici viene posta in relazione alle strutture degli organismi biologici, le
frequenze cromatiche dei colori, l'organizzazione delle costellazioni e,
soprattutto, gli equilibri interni alla fisiologia umana. Si chiama così
perché la sua organizzazione in sequenze, “serie”, imita la forma della
lettera greca “lambda”. Il Lambdoma, dunque, è un tentativo di unificare
macrocosmo e microcosmo, universo e uomo, a partire dagli studi di
Pitagora sui rapporti intervallari che suddividono il “suono” originario
dell'universo. Nel corso del libro ho accennato all'interesse di Beethoven
per la cosmologia e le scienze naturali, da lui viste come prosecuzione di
quella Tradizione esoterica che ebbe nelle civiltà arcaiche e in quelle
orientali la sua espressione più sistematica. Per lui, la musica era una
rivelazione più alta di qualunque filosofia. Era, come per i Greci di
Pitagora, un modo per intervenire sull'ethos: il “comportamento”, la
qualità dell'esistere umano. Se Beethoven è il più vivo tra i compositori del
passato, la ragione è tutta qui. Chi lo ascolta sente – molto più che capire –
come in gioco ci sia un innalzamento del proprio livello di coscienza, un
affinamento del senso metafisico. Questa linea squisitamente umanistica
della composizione musicale ha origine, secondo me, in Monteverdi, la sua
“seconda prattica”, e corre spesso sotterranea, nascosta, fino a Skrjabin e
Olivier Messiaen. È ben lungi dall'essere una scuola; è, piuttosto, una
sensibilità mistica.
In questa ultima sezione del libro, così come i Greci classificavano la
musica in base al suo ethos, l'effetto sulla psiche, io articolerò alcuni
aspetti dell'opera beethoveniana secondo una “cosmologia degli affetti”
affine, credo, alla visione ultima che il Maestro aveva della propria
musica. Un compositore inglese del Novecento, Gustav Holst, ha creato
una Suite sinfonica, The planets op. 32, giocando sulle stesse equivalenze.
La nostra cultura materialista – il “Regno della Quantità”, la definiva René
Guénon – ha una fiera avversione per questo pensiero “analogico” che
agisce secondo categorie psichiche funzionali. Di fatto, Beethoven si è
interessato per tutta la vita del pensiero esoterico, e la sua musica può
venire riassunta nel sigillo di un codice cifrato dove corpo e spirito, Forma
e Idea, anima mundi e specchio della coscienza, aspirano ad essere
un'unita indivisibile e replicabile: la partitura. Non è certo la bellezza di
questa musica a sedurci ancora oggi (la musica di Beethoven non è, nel
senso classico, mai “bella”); né la sua verità (Beethoven mette in crisi le
sue verità nel momento stesso in cui le afferma); né la sua umanità (la
musica di Beethoven parla dell'Uomo; vale a dire, di nessun individuo):
ciò che rende Beethoven il compositore più popolare, il compositore, è la
sua onestà. Non esiste carattere morale più semplice di questo; eppure, per
arrivare a definire una simile onestà di Beethoven, noi, ora, saremo
costretti a percorrere per intero la scala gerarchica dei caratteri morali,
dell'ethos umano; così come nel Libro Primo ne abbiamo percorso il
pathos e, nella Topografia, il logos. “Non esistono puri fatti, ma solo
interpretazioni”, sostiene Nietzsche, il più beethoveniano dei filosofi.
Interpretare Beethoven significa porsi la questione del perché la musica
esiste, del perché è nata. Una questione pitagorica.
Il secolo appena trascorso è stato l'Età dell'Ermeneutica. L'Ermenutica
fonda le regole dell'interpretazione, ma lo fa partendo dalla irriducibile
alterità del testo, che viene sempre “precompreso” dall'interprete, incapace
di osservarne la nuda sostanza. Chiamare “cultura” una simile lente
deformante ci è costato l'attuale deriva globale verso un devastante futuro.
In questa ultima sezione intendo partire dalle ragioni interne, “affettive” –
e dunque, umorali – delle partiture beethoveniane, nella speranza di
deviare di una linea, un istante soltanto, ogni sequenza culturale indotta o
evolventesi per autopropulsione. È un gioco combinatorio tra stati della
psiche e suoi simboli cosmici. Un gioco che, credo, a Beethoven non
sarebbe dispiaciuto.
Il Cielo di Mercurio

Il carattere mercuriale consiste nella capricciosa mutevolezza, la


indefinibile e umbratile variabilità. È un'espressione dell'infanzia
irrequieta, sempre disposta a mettere alla prova, “saggiare” con mano la
resistenza dei materiali con cui sono fatte le cose. Il suo simbolo è il Puer
Aeternus, l'eterno fanciullo non mai integrato nei sistemi sociali e le loro
normative vigenti. Lungo la biografia di Beethoven abbiamo incontrato
molteplici aspetti di questo suo Sosia inquieto e trasgressivo, collaudatore
di linguaggi portati sempre al loro punto di rottura. Al Puer Aeternus una
cosa interessa finché non sia stata messa fuori uso la sua utilità. È il
distruttore di quegli stessi sistemi che con la sua pratica fonda e giustifica.
È da tutte le parti e in nessun posto. Non è “individuo”, e dunque mette
alla prova i propri interpreti, che nello sforzo di afferrarlo devono
rinunciare a qualsiasi discorso sull'autore dell'opera, ritornare alla nuda
essenzialità del testo, anonimo, oggettivo, ogni volta portatore di enigmi
diversi. L'aspetto mercuriale di Beethoven implica che non si conosca più,
in lui, l'autore della Terza o della Quinta Sinfonia – o di qualsivoglia tra le
Sonate, i Quartetti... – ma che ogni volta si consideri ciascuna partitura
come composta il giorno prima da uno sconosciuto, un'ombra apparsa da
una dimensione dello spirito inaccessibile, ed ivi subito riassorbita. La
consapevolezza del carattere mercuriale richiede una simbiosi medianica
con il testo e una ripulsa istintuale per l'autore suo. Lo stile dove questo
carattere si materializza in forma sistematica è l'umorismo.
Nella musica del Beethoven Puer Aeternus sussistono tutte le varie specie
di umorismo. Nelle Variazioni su un Walzer di Diabelli op. 120 questo
umorismo assume l'aspetto del wit. Il wit è, secondo il Cambridge
Dictionary, “the ability to use words in a clever and humorous way”: la
capacità di usare le parole in un modo “intelligente” e “umorale”; dove per
“intelligente” si intende una comprensione profonda della parola, e per
“umorale” la non significanza, la volatilità di questa comprensione.
L'umorista versato nel wit, insomma, sa tutto, e non usa niente di ciò che
sa. È il profeta della dissipazione intellettuale. Nelle “Diabelli” il temino
dell'editore poligrafo viennese implode, lancia schegge dei propri motivi a
raggiera, dando all'op. 120 la struttura di fiocchi di neve pioventi in
successione. Ogni Variazione potrebbe venire seguita da un'altra secondo
un ordine variabile, che Beethoven fissa nella momentanea struttura di
un'opera a stampa. C'è qualcosa di biologico nel modo in cui gli alleli
genetici del Walzer si combinano in una nuova versione di quella “doppia
elica”, DNA strutturale ove sono possibili infinite varianti non esplorate
dal suo autore, la cui valenza quale cifra dell'intera opera beethoveniana
abbiamo già, in altro luogo, osservato. L'op. 120 è un'opera utopica nello
stesso senso in cui lo sono i miti greci, dove una vicenda ovvia viene
variata e ricombinata con altre ovvie vicende, senza fine, in quella
macchina per interpretazioni che è la Tragedia antica. Parodia della
Tragedia, l'op. 120 è un wit anche per la sua intelligente, “clever”,
interpretazione del luogo comune per eccellenza, nella musica viennese: il
Walzer.
Tra le varie specie di quello stile della comprensione intelligente e inutile
che è l'umorismo, il limerick rappresenta una sorta di monstrum. Si tratta di
raccontini in una forma poetica di cinque versi organizzati secondo un
ferreo gioco di rime interne che creano un collasso di controsensi e
paradossi. Il Rondò a capriccio in Sol maggiore op. 129 per pianoforte,
Beethoven lo buttò giù sulla carta tra il 1795 e il 1798, e poi lo lasciò
incompiuto. Sul manoscritto c'è un curioso “all'ingharese”, mentre il
sottotitolo “Collera per un soldino perduto” non è di Beethoven. Gioco
ciclico di un tema che si ripete in modo scalare, ogni volta rendendo più
difficile, e infine, impossibile, il suo ritorno, il brano è un Rondò la cui
Forma ricorsiva fa esplodere il tema, forzando le suture oltre la loro
rigidità costitutiva. Il suo essere incompiuto è la riprova dell'infinito
protrarsi insito in questo scardinamento di ogni simmetria. Dunque, è un
limerick, perché in esso l'eccessivo ordine diventa anarchia;
l'incompiutezza, unica possibile Forma compiuta. L'ordine del limerick,
infatti, essendo sequenziale, “stocastico”, lo si può ripetere all'infinito.
La Sonata op. 106 “Hammerklavier” è un capolavoro di umorismo sadico,
da splatter della tastiera, a cominciare dal suo sottotitolo, che significa
Sonata “per il pianoforte”. La ritmica, che dovrebbe assicurare
l'articolazione esatta del tempo, viene, qui, sottoposta a un cimento di
permutazioni così sistematiche, progressive, da farsi pulviscolare,
indeterminata. Nello “Scherzo”, “Assai vivace”, la ripetizione ossessiva di
una croma puntata seguita da una semicroma – futuro simbolo romantico
del Wanderer, il Viandante sulla via del suo ritorno a un Altrove che è in
nessun posto – diventa un congegno che replica il proprio automatismo
senza finalità alcuna. Il carattere mercuriale vi assume un'evidenza
“minerale”; sembra davvero di vedere assemblarsi una sfera di mercurio
per aggregazione spontanea di ogni sua particella disseminata nella Forma.
Quando si assiste all'invasione delle terzine, fino al cadenzale
“Prestissimo” – dopo un passaggio di Terze discendenti che pare un
tintinnare di ossa spolpate dal ritmo furioso, dissoluzione di ogni struttura
– avvertiamo quanto sia macabro un simile dissipativo nonsense pianistico
del tardo Beethoven: la sua strategia anarchica per sfuggire alla Storia, ed
entrare nell'Età della Trascendenza.
Il nonsense è una frase compiuta che rispetta le regole grammaticali, ma
svuota la sua sintassi di ogni significato. “Frenando il triciclo/Mi chiede il
tricheco/Sai dirmi da amico/Dov'è che mi reco?”: in questo incipit di
sonetto tutto segue le regole, ma nulla è significante; allo stesso modo, lo
“Scherzo” della “Hammerklavier” è musica costruita secondo ogni
consuetudine formale, fraseologica e di simmetrie interne, ma il cui unico
significato sta nel mostrare come tutte queste regole non abbiano più, dopo
il Congresso di Vienna, la fine della civiltà degli Illuminati, significato
alcuno. La “Hammerkavier”, supremo nonsense musicale, sta a Beethoven
come le porte aperte in mezzo al cielo stanno a René Magritte.
Il “Molto vivace”, terzo movimento, della Sinfonia n. 9 op. 125, usa il
Canone per moltiplicare la testa ritmica di un tema; ossia, per scopi
opposti a quelli per i quali è nato il Canone. Si tratta di un calembour, un
cortocircuito nell'interpretazione di una parola, che in un particolare
contesto assume un significato diverso da quello ordinario. In Francese,
giocando sulla pronuncia, les nuits, “le notti”, può diventare l'ennui, “la
noia”, termine reso quasi sacro da Charles Baudelaire; donde infiniti
giochi linguistici possibili. Al principio del “Molto vivace” di cui ci stiamo
occupando esiste un gioco basato sulla pronuncia sbagliata. La frase
dell'incipit è di nove battute, ma le misure 2, 4-5, 7-8 sono vuote. Le pause
entrano nella struttura, la più ternaria possibile, di questo movimento in
tempo di tre quarti, determinando un'ambigua misura binaria destinata a
sconvolgere dall'interno la dinamica del brano. È come se un trapezista
stesse in equilibrio con una mano sola sul manubrio e nell'altra reggesse un
ombrello. Mercurio è un dio irriverente, e mai come qui Beethoven si
prende gioco dell'umorismo di Haydn, che giocava con le regole del
Classicismo creando labirinti di siepi, un ambiente protetto dalle alte mura
del logos. Chi conclude un ciclo storico non deve nessuna reverenza al
falso ordine dei Padri. Nel secondo movimento della Nona Sinfonia
Beethoven fa saltare dall'interno quel cosmo da lui stesso faticosamente
organizzato, dal caos originario, nell'iniziale “Adagio ma non troppo, un
poco maestoso”. A batt. 177, indicando “Ritmo di tre battute”, il
compositore risolve il calembour in una progressione idiomatica che
prepara l'annuncio di un nuovo mondo: il pianeta degli uomini, l'“Adagio
molto e cantabile”. Per dirla con Nietzsche, Beethoven, nel “Molto
vivace”, mostra “come si filosofa col martello”.
L'“Allegro molto”, Finale della Sinfonia n. 2 op. 36, comincia con una
sorta di scossa elettrica, una croma “in levare” che piove su un trillo
separato da una pausa di croma, rendendo vana qualsiasi proporzione
metrica. Non è il classico capitombolo nella pozzanghera del signore in
frac cui il portiere dell'albergo ha appena aperto la portiera della limousine,
ma, semmai, la risata del passante, con il furioso inseguimento che ne
consegue. Beethoven fa di questo movimento una soluzione galvanica
percorsa da correnti e moti involontari di corpi che sembravano inerti. Le
contratture nervose di queste figure musicali hanno qualcosa di umoristico
perché provengono da organismi elementari, non provvisti di organi di
senso. È come se le rane di Galvani si esibissero, in piscina, in un numero
di nuoto sincronizzato. Se provate a solfeggiare con gli accenti giusti la
frase dei violini primi che segue alla risata sfacciata iniziale, vi ritroverete
con un rictus tetanico. Beethoven sperimenta, tra il “levare” di batt. 3 e il
“battere” di batt. 7, uno tra i primi casi di quella sua mancata
corrispondenza tra grafia ed effetto sonoro che poi diventerà, nel tardo
stile, un vero esercizio di “puntilismo”. Così come in pittori quali Geogers
Seurat e Paul Signac vediamo, di lontano, figure laddove esiste solo
l'accostamento di punti di diverso colore, la frase musicale fissata da
Beethoven sulla carta non corrisponde a quel guizzo a serpentina che è il
suo effetto. L'esecuzione brucia l'energia del segno scritto, così come ogni
corpo vivente, per muoversi, deve consumare gli alimenti che lo nutrono.
È l'entropia di Beethoven: il suo essere testimone di una cultura scientifica
sempre più scettica sulle risposte; non per mancanza di spirito critico, ma
per eccesso dello stesso. Al tema del Finale, nella Seconda Sinfonia, per
levarsi in volo, manca una zampa, come alla gru del cuoco Chichibio, nella
facezia che Giovanni Boccaccio racconta, di lui, nel Decamerone.
Questo “Allegro molto” è una toscanissima facezia del Beethoven
mercuriale, se è vero che ogni facezia è la rivelazione dell'assurdo sotteso
alle nozioni comuni.
Il Cielo di Venere

Che l'eros sia una componente sublimata, nell'opera beethoveniana, lo


testimonia la natura imitativa, dialogica, della sua musica. Lo stile
“obbligato”, che il Maestro diceva una sua qualità innata, è erotico per il
suo richiedere sempre un contatto tra versioni diverse della stessa idea,
così come l'eros è il riconoscersi nel desiderio di un altro. La “Cavatina”
del Quartetto op. 130 è il tributo di Beethoven alla Venere Celeste. Il tema
che sorge dall'intreccio delle voci è il ricordo del volto umano disciolto nel
paesaggio del proprio amore. C'è il panteismo della Sinfonia n. 6 op. 68
“Pastorale”, ma riassunto in senso profano. L'episodio centrale,
“beklemmt”, “oppresso”, irruzione dell'alienata realtà all'interno della
reminiscenza ciclica, è stigmate di come l'amore esista solo nella sua
rievocazione, che non è ricordo: è un paesaggio interiore, è la sensazione
del ritorno ai luoghi che ne furono teatro. La sensazione che il tema
proceda all'indietro, a specchio, rende il brano inquietante proprio perché
sereno, indifferente al tempo per sempre sfuggito. Il senso di questo
cerchio del canto disteso lungo l'intera “Cavatina” è la natura interiore,
ideale, di ogni eros. L'unico elemento umano, l'eco di un sorriso, è il
“gruppetto” a batt. 34: sempre nudo sigillo, in tutto Beethoven, dell'umano,
in quanto fragilità della sua carne.
La Venere Ctonia, l'amore carnale, terreno, trova la sua voce in quel
dialogo tra due innamorati – “dolce” e “teneramente”, prescrive Beethoven
– che è il secondo movimento, “Nicht zu geschwind und sehr singbar
vorgetragen”, della Sonata op. 90 per pianoforte. L'opposizione tra
Beethoven e Schubert vi risalta icastica. La cantabilità dispiegata in questo
duetto di amorosi sensi non ha i connotati di una voce del passato. Non è,
come in Schubert, l'anatomia sonora di una perdita; è, piuttosto, una
qualità della luce. Beethoven trasfigura la scrittura barocca, quella
Invenzione a due voci che è premessa ad ogni imitazione canonica, in
prefigurazione del liederismo romantico. Il gioco degli occhi – riflessi di
una stasi melodica, un falso movimento delle parti splendido come lo
smeriglio di un cristallo – diventa uno scolastico, non scaltrito, esercizio di
scrittura speculare tra due sezioni di uno stesso periodo melodico. La
Venere Ctonia, per il compositore, è una forza regressiva, sempre identica
e ogni volta diversa nelle proprie manifestazioni. L'eros resta sempre se
stesso, elementare nesso fisico tra organismi, anche se a ognuno appare
esperienza unica e trasfigurante; allo stesso modo questo tema disteso,
ampio, appare tale solo in virtù dei suoi riflessi, le diramazioni che
distende tra le voci.
L'eros platonico ha di diverso, rispetto a Venere Celeste, il suo nutrirsi di
un feticcio, una combinazione ideale tra le diverse creature amate.
Nell'“Adagio ma non troppo e molto cantabile” del Quartetto op. 127
Beethoven costruisce, su di un tempo di dodici ottavi che è binario e
ternario allo stesso tempo, una redenzione simbolica a quelle prime cinque
battute che nella Sinfonia n. 5 op. 67 connotano la prigionia dell'uomo
nella natura ostile. Risplende, qui, la qualità intima all'eros beethoveniano:
la scrittura bustrofedica. Ogni voce, ogni linea tematica può essere letta
anche all'incontrario. Nell'eros platonico esiste solo il tempo del desiderio,
che, in quanto immune all'asse della causalità, non ha decadenze terrene.
Le Variazioni, in questo brano scritto dal “Padre amorevole” schilleriano
che abita “Sopra la volta delle stelle”, stanno al tema come la luce di astri
morti da milioni di anni, ma che ancora fingono verso di noi i loro riflessi.
Un altro connotato tecnico, “scritturale” quasi in senso biblico, dell'eros
beethoveniano è il suo trasformare la tecnica improvvisatoria, artigianale
in senso stretto, della Variazione in una strategia di allontanamento del
tema dalla gravitazione armonica: uno staccare l'ombra da terra che ha il
valore di una rivelazione mistica, una trasfigurazione platonica del
desiderio in metafisica conoscenza del Vero. Dare ai fantasmi la Forma di
un mondo sempre è, per il Maestro, stabilire nessi tra memorie lontane; in
questo senso, il suo rapporto con J. S. Bach e lo Stile Classico è una mappa
della propria progressiva ascesa nella sublimazione, la chiave di lettura del
suo eros platonico. Beethoven fonda, compatta e trasfigura le Forme avute
in eredità. Amandole nel ricordo delle sensazioni beate, le rende feticcio di
ogni possibile immaginario; donde la libertà con cui ne fonde caratteri che
la tradizione dichiarava incompatibili. Così la melodia distesa, infinita, che
fa da campata superiore a questo paesaggio di vallate immerse in luce
crepuscolare: l'”Adagio ma non troppo e molto cantabile” del Quartetto
op. 127, mette insieme la scrittura corale delle Antifone sacre con il fluire
ingenuo del Volkslied, senza che questa antinomia alteri la levigata
continuità del canto, non fosse che tra le quattro parti strumentali si respira
una lontananza incompatibile. Il Maestro usa le contraddizioni di stile per
raccontare una dimensione onirica dove il tempo fluisce come l'acqua del
fiume di Eraclito, nel quale non ci si può bagnare due volte.
Priapo è il Nume dell'amplesso, della fecondità. Ha una visione senza
tempo, immediata, della presa e del possesso. È un dio ignaro delle
identità, che per lui sono sinonimo di coscienza, e dunque ostacoli alla sua
furia generatrice. La fisicità della musica beethoveniana ha aspetti di
ruvida e sgarbata “sprezzatura” che la rendono oggetto di critiche da chi
teme la distruttività possibile in ogni slancio vitale. Verdi, come ormai
sappiamo, sostiene che Beethoven, nella Sinfonia n. 9 op. 125, “dispone
male le parti”. Stravinskij fece dell'avversione per Beethoven l'origine
stessa della propria Poetica musicale. Non eseguire Beethoven intitola,
Gianandrea Gavazzeni, un suo libro sulle incognite di ogni interpretazione
“autentica”. Il nodo è il concetto di “espressione”. La nuda materialità
delle cose ha un suono sordo, ostile, inumano. Essendo, però, l'unica verità
che ci è consentita, questo inumano eco del caos originario che ci avvolge
come slancio vitale, musica del corpo, è, in noi, la voce dell'eros priapeo.
La ritroviamo nel duetto “O namenlose Freude” che descrive, in Fidelio, il
ritrovarsi dopo lungo esilio di Leonore e Florestan. Non c'è nulla di
sentimentale in questo rabbioso prendersi, avventarsi con la rabbia del
desiderio a lungo negato. La scrittura per imitazione a parti ravvicinate
rende la qualità materica, animale, di questa sensazione, rapimento nato da
pure leggi biologiche. Priapo è un Nume demonico, perché confonde i
piani della coscienza umana. Fa del corpo, organo di senso, una condizione
dell'anima. Allo stesso modo, in Fidelio questa degradazione dell'ideale
libertario ecumenico, l'Illuminismo riformatore delle leggi, a raptus erotico
di fusione corporea è la vera pecca d'origine dell'Opera: il suo rovesciare
di segno l'eros platonico. Sempre, nella sua vicenda terrena, Beethoven
visse l'amore vissuto come degenerazione dell'Ideale. Fidelio, era il nadir
ad ogni sua percezione del Bello.
Sulla distinzione tra innamoramento e amore si gioca, in ognuno di noi, la
differenza tra felicità e frustrazione. Confondere la grammatica dei due
linguaggi è garanzia di un inappagamento che può farsi creativo solo a
condizione di una lucidità critica inconsueta. La musica è universale solo
perché, in tale qualità di autocoscienza, tutta si riassume. Solamente in un
luogo, altissimo, dell'opera beethoveniana risplende questo eros aurorale,
sorgivo, non ancora soggetto al lavorio sublimante del ricordo: l'“Adagio”
della Sinfonia n. 4 op. 60. Il pulsare di biscroma e semicroma, sotto la
linea del cantus firmus per gradi discendenti che dà al tema quella
connotazione arcaica, remota nel tempo, propria all'innamoramento,
esperienza che è la stessa in ogni sua permutazione; il sentimento di
apertura progressiva lungo la quale la melodia trae la propria fascinazione
dalle irregolarità ritmiche, evocazione di quel timore che è originario in
ogni perdita del Sé nello specchio dell'altro: ogni dettaglio di questo brano
chiuso in un ordine intangibile al tempo richiede una nuova definizione di
ordine. L'ordine, in questo “Adagio”, è l'eterno ripetersi dell'attimo, il
collasso delle identità individuali. La melodia procede senza tempi forti,
giocando sulle fratture interne di una linea che talvolta scompare alla vista,
e spesso sprofonda in cascate di riflessi, flussi di biscome in “sf”,
“sforzando”, donde emergono mani che si afferrano. Ed ecco il “fp”, “forte
piano”, sempre, in Beethoven, marcatore agogico del Fato che sospende la
sua stretta. L'elemento paradossale – come lo è l'innamoramento, obbligo
di Natura che a noi appare la libera scelta per definizione – di questa
scrittura aurorale beethoveniana è il suo essere dettagliata, meticolosa,
nell'articolazione ritmica; a parte un gioco ascensionale di terzine, non vi
appaiono figure irregolari, eppure l'effetto è quello di un respiro di canto
del tutto libero, aereo. Nell'eros, la dimensione aurorale è, per Beethoven,
uno stato di autocoscienza, di chiaroveggente intuizione del Vero. La
musica è fatta di tempo, e dunque isola gli esseri viventi anche quando li
allaccia nella stessa trascendenza. La ragnatela delle figure che avvolgono
il tema d'amore definisce una simile opposizione tra l'eros aurorale, che è
esigenza di un identico ripetersi dell'attimo, e il corso continuo delle cose,
con il suo naturale scinderle e ricomporle in un ordine che è, di
quell'attimo, eterna e momentanea variante. Ed ecco la ragione di
quell'isolare, nella prima battuta, la pulsazione del tempo, immune e
antecedente ad ogni umana emozione. Occulto dietro l'eros aurorale c'è
sempre Priapo, l'esigenza della natura a nascondere il vuoto procedere
della propria iterazione lungo la scala degli esseri viventi. Beethoven
impiegherà l'intera sua vicenda creativa, da questo “Adagio” alla
“Cavatina” del Quartetto op. 130, per rendere simile ingiustizia terrena
una legge metafisica. Il Cielo di Venere è, in lui, un luogo di forze
indomabili, ma che è d'obbligo invocare. Se, come dice Novalis, l'eros è il
principio che spinge la realtà organica a sempre più vaste unità, allora tutta
la musica di Beethoven è una pura espressione di eros.
Il Cielo di Marte

Il carattere marziale, nella musica di Beethoven, ha l'aspetto di una


riflessione sul passato, è il momento storicistico della sua ispirazione.
L'“Allegro” iniziale del Concerto n. 5 op. 73 “Imperatore” per pianoforte
non racconta l'incedere degli eventi, lo spasmo liberatorio degli Illuminati
dall'oppressione tirannica, ma ne celebra le esequie. La riduzione dell'idea
principale a un inciso ritmico indifferente alla Forma, e l'innestarsi sulla
sua progressione di un altro motivo, lirico, composto di una sequenza per
gradi discendenti, stroncano la fiducia in ogni possibile elaborazione. Il
movimento è regressivo, statico: un laboratorio sul fallimento dello slancio
rivoluzionario. Il pianoforte vi appare come un miles gloriosus, un
fantoccio in armatura da battaglia sotto il sole cocente del disinganno. Non
sorprende che dopo questa caricatura Beethoven abbia smesso di
interessarsi al Concerto per solista e orchestra. La parodia raggiunge il suo
culmine nell'esibizione di un vuoto tecnicismo virtuosistico dove già si
intravede il raggelante macchinario cerebrale del Positivismo. La stessa
Forma-Sonata, per eccesso di logos, ne risulta sventrata da false Riprese
che fanno del Rondò quell'ospite sconosciuto il cui progressivo rivelarsi è
fatale, come nel racconto La maschera della morte rossa di Edgard Allan
Poe. Il Marte di un simile strano brano dalla falsa esultanza – quando tutto
è perduto, non ha senso il patire – è quello della Chanson de geste, l'epica
dei Paladini scritta quando l'Europa del Sacro Romano Impero non era più
che nostalgico ricordo; allo stesso modo che nei suoi versi, nell'“Allegro”
dell'“Imperatore” la costruzione della Forma avviene per assonanze, non
per simmetrie. Beethoven commenta la fine dell'Età degli Illuminati, vi
scorge il termine dello Stile Classico, e scrollando le spalle disilluso mette
fine ad ogni suo tentativo di redimere il genere Concerto dalla sua naturale
degradazione. Fino a Brahms, lo stile Biedermeier ne scalzerà dall'interno
ogni proposito di ordine strutturale.
Il Concerto n. 1 op. 15 per pianoforte termina con un “Rondò. Allegro
scherzando” che procede per sussulti e scossoni, incrinando la propria
progressione con un'opposizione interna tra una figura ritmica in anacrusi
di due semicrome e due crome, dove lo “staccato” sopra i tempi forti rende
impossibile qualsiasi appoggio, e uno sferragliante “basso” che sembra il
cigolio di giunture di Domenico Alberti. È l'ingenua canzone di marcia di
un esercito i cui soldati hanno tutti una gamba più corta dell'altra. La
zoppia come diagnosi sulle battaglie “illuminate” per la liberazione
dell'Europa: una provocazione certo gradita all'aristocratico pubblico di un
giovane virtuoso itinerante del pianoforte. Quando l'orchestra riprende il
tema, una serie di “sf”, “sforzando”, asincroni tra archi e fiati, e incuneati
nei tempi forti del tactus, evocano un poco marziale Ländler in ritmo
ternario che fa assumere al tutto un tono da Opera dei Pupi. I soldati
sognano l'ozio di svaghi villerecci, finché la fanfara a batt. 35-39 non li
richiama all'ordine, provocando nel pianoforte un singulto di risa e di
smorfie in ritmo storto che scimmiotta il loro incerto incedere. Come
l'Opera dei Pupi è nata dall'insofferenza plebea verso il potere, il
Beethoven di questo Concerto fa del virtuosismo una caricatura del cattivo
gusto vigente in certi salotti internazionali. La sua superiorità tecnica è
fatta di fili mossi dal risentimento; i suoi temi diventano facce di legno
dipinte con il belletto della voga effimera. Lo stesso continuo gioco di
anacrusi è lo scuotimento per mano esterna di un'armatura posticcia: così
l'aristocrazia “illuminata” condanna i virtuosi erranti a superarsi l'un l'altro
in vuote prodezze. Non sorprende la protesta intimistica di Beethoven, il
Concerto n. 4 op. 58 per pianoforte, l'unico suo vero capolavoro, contro
ogni pubblica esigenza, nel genere.
Uno degli episodi più discussi della musica beethoveniana avviene
nell'“Allegro assai” della Missa Solemnis: l'“Agnus Dei”, dove i timpani
introducono un guizzante adunarsi bellicoso degli archi cui segue il
richiamo militare delle trombe, che si immaginano fuori scena, e
un'implorazione “ängstlich”, “con angoscia”, del “basso” che
“timidamente” invoca la misericordia divina. Il passaggio fa il paio con
quello, rovesciato di segno, dell'“Allegro assai vivace. Alla Marcia”, nel
Finale della Sinfonia n. 9 op. 125; anche qui, il teatro irrompe nelle
campate della musica “pura”, facendone tremare i pilastri. Questo
Beethoven che usa Marte come fosse un satellite di Giove, il logos fatto
misura del cosmo, è responsabile di tutte le paratie instabili tra Sinfonia e
Opera che movimenteranno le orchestre romantiche. Una sua espressione
ludica, disincantata, la si trova nell'“Allegro” del Triplo Concerto op. 56
per violino, violoncello e pianoforte. A batt. 114-117 una carica di
cavalleria orchestrale travolge le graziose evoluzioni dei solisti, che
Beethoven manda, da par suo, al diavolo del successo immediato. In questi
tre divergenti esempi spira lo stesso clima: un gioco delle maschere da
Commedia dell'Arte, perché basato sui luoghi comuni di uno stile e la loro
manipolazione maliziosa. Marte assume gli sbuffi sulle maniche e gli
speroni con teste di Moro del Capitan Spaventa, menando sconquasso sulle
tavole imbandite dello Stile Classico. Quella di Beethoven non è una
provocazione da poco. Gli costò, tra l'altro, la scomunica, a noi già nota,
che Adorno pronunciò contro la Missa Solemnis, la delusa disappetenza di
Thomas Mann verso il Finale della Nona Sinfonia e i ritocchi molteplici
che Schönberg apportò a questa stessa partitura, quando la diresse su di un
testo, oltretutto, già pesantemente ritoccato da Mahler. Quanto al Triplo
Concerto, è una messinscena fatta di gesti espressivi, canovacci riassunti
provvisoriamente in partitura: il Sosia musicale di ogni irriverente
Commedia dell'Arte mai recitata in un teatro di Corte.
Marte è anche sinonimo di apocalisse. Le sue schiere di armati contano
molti angeli, quando la collera divina decide di porre termine alla Storia.
Uno degli aspetti più interessanti della Poetica beethoveniana è il suo
considerare la dissoluzione uno degli esiti possibili in ogni lavorio sulla
Forma. Nella Sonata op. 57 “Appassionata” per pianoforte, alla fine
dell'“Allegro ma non troppo” giunge un “Presto” dove il gorgo
annichilatorio diventa l'unica conseguenza possibile della contrazione cui
Beethoven sottopone la struttura, sempre più inabile a contenere nelle sue
proporzioni ritmiche il collasso del tema in un inciso ossessivo. Pochi
passaggi sono al pari di questo accuse contro l'illusione razionalistica
infusa dagli Illuministi nelle coscienze europee. Beethoven vide in
Napoleone, il Marte di Voltaire, l'Armageddon della civiltà che lo aveva
cresciuto nella prospettiva di un'evoluzione radiosa. In questo “Presto” si
vendica, rabbioso, dell'inganno, facendone l'Armageddon di ogni Forma
classica: il luogo dove, secondo l'Apocalisse di Giovanni, vengono riuniti,
alla fine dei tempi, i Re della terra. Vi compaiono i parafernalia, i beni
ricevuti in comodato d'uso da altri, di ogni meditazione beethoveniana sul
Male: le terzine; gli “sf”, “sforzando”, asincroni; gli accordi arpeggiati
scritti per esteso, alla mano sinistra, con appoggiature irrisolte, a indicare
un movimento lubrico di termiti che scavano voragini sotto le volte del
tempio. La Cadenza finale è un paradosso, perché sigla lo scomparire della
musica in un buco nero del tempo: qualcosa di simile a ciò che ne farà
Schubert alla fine dell'orroroso suo Lied Erlkönig, “Il Re degli elfi”.
L'“Andante con moto” del Concerto n. 4 op. 58 per pianoforte è una
Moralità, un Combattimento di Anima e Corpo. Lo si è paragonato a Orfeo
che incatena le Furie al suo canto. L'orchestra scandisce un pietroso
incalzare gluckiano cui il pianoforte risponde con un Corale “molto
cantabile” dove risuona tutto un mondo di affetti che appaiono amabili, in
quanto irrelati al sordo incalzare del destino. La dicotomia scenografica di
questi due Princìpi drammaturgici dà al brano il carattere di una Sacra
Rappresentazione. Il luogo dove Beethoven apre gli scenari del futuro
arriva a batt. 55. Su uno smeriglio di trilli con pedale “due e poi tre corde”
il solista articola, alla mano sinistra, una serie di sestine cromatiche dove
l'eroe del Combattimento osserva l'Anima salire al cielo delle cose
compiute, mentre il Corpo continua per inerzia, dopo una “corona” che è
limite tra i mondi, il proprio cadenzare alla superflua risoluzione.
L'orchestra, quietata, risponde aprendo la sfera celeste su di un Fa che
sembra il protendersi di un abbraccio; allora l'Anima, risolvendo il Corale,
si congiunge con la luce originaria su di un'ascesa di terzine in capo alla
quale, il Fa, c'è una “corona”: il suo occhio che brilla, ora, nell'infinito.
Questo Marte fatto di accettazione del dolore e suo trasmutarsi in forza è il
nucleo segreto di tutto Beethoven, il suo stoico fare del tempo cieco la
nervatura necessaria, perché ineludibile, di ogni umano discorso. Nella
musica del Maestro non ci sono croci per ambizioni perdute. La musica,
per lui, è un Armageddon dove i suoni si spengono, e non c'è più guerra.
Ma per giungerci bisogna attraversare la lotta, purificare ogni passione. Per
questo le “corone” sono, in lui, così vitali. Stanno al posto di interi trapassi
metafisici non scritti, perché non significabili. Sono marcatori di infinito,
non certo pause “ad libitum”; e mai come in questo “Andante con moto”
Beethoven ne fatto un uso sublime. Quel “con moto” significa, in effetti,
“immaginando un tempo nelle note non scritte”, le note subliminali.
Il Cielo di Giove

Il pianeta dell'equilibrio cosmico, della compensazione di derive stellari; il


luogo del logos nella sua accezione originaria di “livella”, a compensare
oscillazioni: Giove, definisce soprattutto il carattere armonico della musica
beethoveniana. La tendenza a ritardare l'approdo alla Dominante;
quell'eluderla attraversando discese di Terze o affinità di Sesta dove
l'appoggiatura sulla Dominante ne attenua la centralità, il potere ordinativo
dentro le attrazioni gravitazionali tra i gradi della scala. Dietro a questa
direzione che resta salda pur nelle sue mille diramazioni secondarie, c'è la
struttura nascosta sotto ogni Forma, la massa tensiva di un'architettura
perfettamente bilanciata. C'è l'inerzia della Urlinie, la dorsale sottesa al
rilievo orografico, la geosinclinale della Forma affiorata alla luce, che sta
all'opera rivelata come Giove sta al gioco di attrazioni che tiene insieme il
sistema solare. La Grande Fuga op. 133, fissa al centro dei Quartetti opp.
132, 130 e 131, campo di forze magnetiche lungo le cui derive i motivi
comuni a questi brani si distendono, come limatura di ferro, secondo linee
in perenne movimento: questo più estremo tra tutti gli esperimenti
beethoveniani, energia gravitazionale allo stato puro è, in sé, un mondo a
parte. È Pangea, la Terra prima della deriva dei continenti, che da lei si
staccano secondo linee di frattura relative alle tensioni sbilanciate; allo
stesso modo da ogni sezione del brano – le tre Fughe, secondo una ogni
volta differente diversa regola contrappuntistica, più l'“Overtura” – si
proiettano, verso i tre quartetti gemellari, motivi destinati poi a dar
sostanza all'intera evoluzione interna della struttura loro. Nel Beethoven
lettore di Goethe domina il principio dell'entelechia nell'accezione
faustiana, secondo la quale nella ghianda è contenuta, in potenza, la
quercia. La deriva dei continenti, l'arco formale dei Quartetti opp. 132,
130 e 131, frange la Grande Fuga in riflessi di se stessa catturati dal
cristallo del tempo. Questo vertiginoso abisso vorticale vive
contemporaneamente in due dimensioni: un eterno presente, e
un'inarrestabile evoluzione. Nessuno può decidere se sia la sintesi del
Quartetti, o la loro analisi. Tutto sta a vedere se lo specchio analitico
prescelto sia curvo, o convesso.
La Grande Fuga ci presenta un Giove che attrae a sé la Terra, la Sonata op.
31 n. 1 per pianoforte è un laboratorio di attrazioni gravitazionali dove il
pianeta Dominante rende impossibile, con la potenza del suo influsso, il
distendersi strutturale del materiale melodico. La Terra ferma la propria
orbita e si irrigidisce lungo l'orbita fissa dell'Armonia gioviale. L'“Allegro
vivace” è tra i primi esempi, in Beethoven, di una struttura costruita
interamente sull'elusione di ogni risoluzione armonica. Nulla è più
semplice di questo movimento quasi campestre, percorso da echi di
paesaggi naturali, non fosse che un'alluvione ha reso i paesi ameni, nel
ricordo, un solo cumulo di detriti. La scrittura a specchio tra le due mani
riflette se stessa, perché procede lungo una successione meccanica di
passaggi atematici. Qui c'è qualcuno che parla, ma non si vede nessuno. La
Forma prende il posto del tema. Il Convitato di Pietra è invisibile, ma la
sua stretta cadenzale uccide ogni larvato tentativo di canto. Questo
“Allegro vivace” porta già a perfezione “il Princìpio della Dominante
elusa”: il connotato principale di ciò che, nella musica di Beethoven, è il
carattere di Giove. Le due frasi iniziali stanno in un rapporto di analogia
per Terza, non di deduzione. Il secondo tema è anch'esso in una regione
armonica analogica, al terzo grado superiore rispetto alla tonalità
d'impianto. Lavorare sulle relazioni di Terza significa creare un laboratorio
di tensioni e distensioni, forze attrattive e repulsivi vettori risultanti, degno
di un cosmologo intento a studiare l'effetto di una massa planetaria
dominante sopra i cerchi analogici di pianeti dalla gravitazione affine.
Nell'“Allegro vivace” della Sonata op. 31 n. 1, i due temi non appaiono in
opposizione dialettica, ma in parallasse stellare.
La Sinfonia n. 8 op. 93 è un enigma. Sembra un divertissement parodico,
pieno di calchi stilistici di epoche passate, a compensare l'atemporalità
ellenica della Sinfonia n. 7 op. 92. Il materiale tematico del suo primo
movimento, “Allegro vivace e con brio”, si distende per varianti minime
dell'idea iniziale. È uno dei più riusciti innesti beethoveniani della tecnica
della Variazione dentro le campiture della Forma-Sonata. Non c'è
evoluzione, in questo brano, ma un riapparire della figura ritmica
germinale con sempre maggiore evidenza, più sicura scansione. Le idee
secondarie sono solo satelliti, e servono a scandire il ritorno della luce.
Sono come le lune di Giove, le cui polveri generate dalla potenza
gravitazionale dell'astro ne vanno a costituire gli anelli della nebulosa. Non
esiste una vera cesura nella costruzione del primo tema, che caracolla per
iterazione di una sua figura ritmica secondaria lungo trentasei battute, fino
a formare una sua derivazione satellitare: una sequenza per gradi sfociante
a batt. 56 in una successione intervallare puntellata da “sf”, “sforzando”,
che sono più che mai non indicazioni dinamiche, ma puntelli strutturali. A
batt. 80 irrompe una fanfara, a rendere sospeso il gioco successivo di
entrate a Canone. La massa densa della Forma viene, qui, osservata da un
orizzonte lontano, una luna che si è staccata dalla sua curvatura e ora
procede per moto parallelo. Il movimento ha una Forma centripeta, e
raddensa la materia verso il “fff”, “più che fortissimo”, centrale, dove la
figura ritmica dell'inizio riappare avvolta nella nebulosa delle sue idee
secondarie. Usare il Canone per far regredire la tensione dello Sviluppo al
suo stato originario, invece che risolverlo in una progressione sintetica, è
trasgressione somma allo Stile Classico. Allo stesso modo Giove, pianeta
dalla massa in perfetto equilibrio, attrae gli altri corpi senza venirne
deviato.
Europa, una luna di Giove, è calcificata dal ghiaccio. Uno dei caratteri più
indefinibili, da un punto di vista estetico, della musica beethoveniana, è la
sua stasi dinamica. In superficie non succede niente. La Forma è
pietrificata; tuttavia, sotto la limpidezza dello strato superiore si muovono
correnti clastiche capaci di corromperne l'assetto. Beethoven sa esprimere
l'eco di vite che non ci sono più, stratificate come fossili nella roccia, ma le
cui orme sono ancora visibili nella pietra. L'“Adagio” iniziale della
Sinfonia n. 4 op. 60, l'abbiamo già osservato in altro contesto. Ora, di lui,
ci interessa quel suo aspetto di un'intera genesi riassunta in una quintina,
lungo la transizione all'“Allegro vivace”. Quel trasformare l'eternità di
attesa delle prime battute, dove un intervallo discendente crea un
crepuscolo bianco, in una frenesia pulsionale che si scatena nell'ampolla
alchemica di un Demiurgo, la coltura dentro una campana di vetro creata
da costui per saggiare la vitalità dei propri homunculi: nulla è più
artificioso del falso movimento che pervade l'“Allegro vivace”, il suo
avanzare su di uno strapuntino formale che, a chi lo abita, sembra il fulcro
del mondo irradiante riflessi. La Ripresa scorciata della sezione, a batt.
305, è un congedo. Il Demiurgo abbandona le proprie creature al loro
destino, lungo una strada alla fine della quale c'è l'immobilità dell'inizio:
quel Si bemolle raddoppiato su tutta l'orchestra che è la negazione di ogni
accordo, qualsiasi soluzione metafisica. La gravità di Giove calcifica
l'acqua, sulle sue lune; allo stesso modo Beethoven, nella Quarta Sinfonia,
evoca un intero mondo di creature dotate di una cieca vitalità inutile nella
propria esultanza. L'op. 60 è uno dei momenti culminanti nella nigredo
alchemica beethoveniana, il luogo dove la pulsazione della vita è
glaciazione di morte scaldata da un raggio effimero.
La Sinfonia n. 1 op. 21 viene vista come una tesi di laurea del Beethoven
novello viennese nello Stile Classico. L'abbiamo già scorsa, ma ora ci
interessa osservarla nell'orbita raggelante di Giove. Il suo secondo
movimento, “Andante cantabile con moto”, è all'insegna di un paradosso.
Si può “cantare” un Canone ridotto dalla sua rigidità al rintocco di un
pendolo matematico? Questo movimento, è la “regola della gravità”. Nulla
eccede allo scorciamento inventivo che procede dalla sua inesorabile
iterazione ritmica. Il tempo ternario viene compromesso dalla rovesciata
gerarchia tra “levare” e “battere”. Tutto va avanti per moto proprio, in virtù
di leggi fisiche alle quali l'uomo è estraneo. Beethoven tocca qui uno dei
luoghi più estremi della sua rivolta contro Mozart. Quale redenzione si può
dare a questo rintocco di pendoli caricati dal destino? La natura demonica
del meccanicismo haydniano vi diventa non più un gioco intellettuale, ma
una professione di fede. Lo “staccato” che chiude ogni motivo, ogni
cellula dell'organismo sinfonico, obbliga ad una stasi inerziale nel bel
mezzo di ogni battuta. Per liberarsi appieno di questa cupio dissolvi
illuministica Beethoven dovrà aspettare il “Molto vivace” della Sinfonia
n. 9 op. 125. La ragnatela del tempo avvolge il respiro del canto,
condannando alla resa ogni intento di trascendenza. Quando Beethoven
esprime amabilità, in agguato ci sono sempre forze oscure: quelle che
ispirarono il dottor Joseph-Ignace Guillotin a ideare uno strumento a
rimbalzo dotato di lama capace di assicurare ai condannati una morte
“indolore”. Alle batt. 75-84 troviamo una successione di “p”, “piano, “sf”,
“sforzando” e “sfp”, “sforzato piano”, in asincrono, a parti sfasate, dove il
tempo affonda la propria lama nelle carni di chi gli si è, ingenuamente,
affidato. L'orbita raggelante di Giove, la potenza della sua stasi, fanno di
questo movimento uno dei luoghi, in tutta la produzione beethoveniana,
dove, di più, ogni tentata redenzione è vano dibattersi.
Il Cielo di Saturno

Pianeta dell'atra bilis, portatore di pensieri corrucciati e maligni, Saturno è


il luogo del rimuginare ossessivo, il lutto non elaborato. La sua musica è
un'iterazione coatta di piccoli incisi, traumi che hanno disegnato crepe
nella coscienza. Le qualità di umor nero sono svariate: si va dallo stupore
catatonico alla maniacalità ansiosa, fino a giungere a quel flusso di
coscienza dove non si immagina più la propria vita futura, ma si viene
raccontati da quella passata. Il carattere saturnino della musica
beethoveniana appare quasi come luogo comune in quella sorta di
intermezzo erratico che apre il Finale del Quartetto op. 18 n.6 per archi,
“La malinconia”. “Questo pezzo si deve trattare colla più gran
delicatezza”, prescrive Beethoven in calce alla partitura. La
frammentazione del periodo melodico, inciso da doppi punti di valore e da
un cromatismo che è simbolo di un ruminare senza scopo, lampi di un
ricordo idealizzato, raggiunge il culmine dell'angoscia in una serie di
“gruppetti” che anticipano quelli, in “battere”, dei “bassi” al principio della
“Marcia Funebre”, nella Sinfonia n. 3 “Eroica” op. 55. Qui, però, la
sospensione del tactus non è ancora un simbolo del cuore angosciato, ma
un'eco dell'Haydn delle Sette ultime parole di Cristo sulla croce. Nel
periodo di sedici battute notiamo una forcella di “crescendo” sulla singola
nota che conclude la prima semifrase, nonché, nelle ultime quattro misure,
un affannoso gioco di contrasti dinamici improvvisi, un torcersi le mani e
fissare il cielo per poi, subito, volgere gli occhi a terra. Questa
inquietudine calma, che non è rassegnazione, ma consunzione del dolore, è
lo spleen di Beethoven, se con questo termine vogliamo indicare quella
noia insoddisfatta che nasce dal crollo di ogni illusione elevata da
Baudelaire a emblema stessa della propria poesia.
Una differente qualità del risentimento malinconico traspare dal Quartetto
op. 59 n. 1 per archi, l'“Adagio molto e mesto”. È, questo, il luogo della
rêverie beethoveniana. Tanto fantasticare ad occhi aperti è il “pedale”
armonico di diversi sentimenti, dalla rievocazione intenerita alla
prefigurazione di trionfi futuri, ma può anche assumere l'aspetto di una
rinuncia ad elaborare il trauma, un ripiegamento della coscienza su se
stessa, come a nascondere il capo sotto la corazza della memoria. La
struttura di un simile grande Lamento barocco quartettistico si fonda su di
un incunearsi della cellula tematica originaria in ogni possibile
elaborazione del tema, troncandone con un ansimo la sua esigenza di
respiro. La natura ricorsiva, senza direzione nel tempo, della rêverie
traumatica diventa, qui, un connotato dello stile. L'anacrusi del secondo
violino è un tratto geniale. Rende il tempo qualcosa che viene subìto,
piuttosto che agito; così è di ogni ricordo doloroso. La prima semifrase del
tema ha un'anomalia ritmica: due semicrome con punto di valore la
scorciano nell'esito, aprendo la ferita di una pausa nella levigatezza del suo
contorno. Beethoven comincia a pesare il senso dei vuoti, delle assenze,
quali componenti simbolici della sua vana ricerca di un senso. A batt. 23-
24 una sorta di risata evocata da, anche qui, “gruppetti” destabilizzanti
l'assetto della coscienza, la prospettiva sul reale, irrompe come il fantasma
di un raggio di luce. È un elemento estraneo, un ricordo che si vorrebbe
scacciare, se il flusso di coscienza non avesse proprie leggi incontrollabili.
La successione di biscrome del primo violino, a batt. 26-27, racconta il
fluire ottuso del tempo presente, e viene scheggiata, poi, quando il secondo
violino, memore della risata esacerbante la perdita subita, la riprende a
Canone con la viola. La rêverie è fatta di colori, odori e sensazioni tattili;
allo stesso modo, questo movimento che mulina intorno alla testa sciancata
di un tema sempre represso, ostruito nel proprio incedere, non ha più, della
Forma progressiva così cara all'ottimismo intellettualistico dello Stile
Classico, che i capitelli sbalzati dalle colonne.
Il “Largo e mesto”, nella Sonata op. 10 n. 3 per pianoforte, è stato
dichiarato da Beethoven stesso l'espressione di un animo malinconico.
Colpisce quel “mesto” apposto quasi fosse un'indicazione di tempo. Il
compositore temeva che la stasi del brano venisse interpretata come
indicatrice di profondità riflessiva, oppure che si volesse apporre un
connotato passionale a questa musica che sulle passioni sta stesa come un
velo d'olio sulla superficie dell'acqua. La declinazione della malinconia, il
carattere saturnino, è, qui, l'accidia: l'inerzia dell'animo, provato da troppi
soprassalti del sentimento. Nella Commedia di Dante, gli Accidiosi sono
condannati a correre intorno senza posa, gridandosi a vicenda esempi del
loro peccato mortale, e le conseguenze sue. In questo brano Beethoven, in
realtà, non partecipa di questa colpa malinconica, ma la analizza come
farebbe un musicista teologo. Il tema è composto di una frase sinuosa,
senza contrasti, che si sviluppa sui gradi congiunti di un'Armonia che la
incatena al suolo. Al “levare” di batt. 7 sorge un canto regressivo, che il
“cresc.”, “crescendo”, subito smorzato in “p”, “piano”, rende falso
movimento, sterile autocommiserazione. La progressiva frammentazione
pulviscolare del tema agisce in senso opposto ad analoghi luoghi
disseminati nello stile tardo. Acuisce l'incongruenza tra l'effusione del
sentimento e la realtà delle cose che, nelle sembianze di un banale “basso
albertino”, rintoccano tra le volte del mondo. Una simile operazione di
mimetismo moraleggiante, di lirica condanna, ha ancora l'aspetto
dell'Estetica illuminista, il distacco critico tra il creatore e i modelli
rappresentativi dell'opera sua.
L'“Introduzione” al secondo atto di Fidelio è uno dei momenti leggendari
della musica beethoveniana. Non è un preludio, ma la descrizione di
un'oppressione dell'anima, nonché di un'oscurità che preclude il respiro
stesso. Wagner se ne ricordò quando dovette evocare il drago Fafner, e
Grieg, insieme al “Larghetto” che narra la morte di Klärchen, nelle
Musiche di scena per “Peer Gynt” di Ibsen, descrivendo le esequie di
Aase. Questo grado supremo di malinconia catatonica, stuporosa, procede
mediante l'armamentario consueto del Beethoven funereo: improvvise
escursioni dinamiche, “gruppetti” non più abbellimenti, ma singulti
aritmici dentro il fluire del tema, terzine che si duplicano in sestine, spasmi
di gelo preannuncianti la condizione imminente dell'immobilità estrema.
Quando Florestan intona il suo Recitativo “Gott, welch Dunkel hier!”, noi
udiamo non musica, ma un richiamo dell'Oltretomba. Questo brano fatto di
gesti musicali, intenzioni espressive, più che di note, è quanto di più affine
alla Tragedia greca, la sua fusione tra suono e azione, parola e movimento
scenico, Beethoven abbia mai osato. Dentro simile plumbea atmosfera di
vapori tossici, questo Saturno luna nera della disperazione, abita un
personaggio, Florestan, che non distingue più tra l'orrore del suo carcere e
l'allucinata deriva della propria fantasia. Un certo romanticismo nemico
della figuratività pittorica, affine alla musica in quanto riflesso interiore,
impronunciabile, del mondo di fuori, ha origine qui. Florestan evoca lo
stupor malinconico, l'esito ultimo della deprivazione sensoriale, che è
autistico bozzolo creato filando feticci del ricordo. L'evocazione di
Leonore permette a Florestan di non impazzire, ma a costo della ragione.
Già a suo luogo abbiamo confutato, in Fidelio, ogni fondamento
drammaturgico; ed ora, il poterne trattare questo potente intermezzo
orchestrale come brano sinfonico conferma le nostre ipotesi. Lo stupor
malinconico di Florestan si riflette in quello di Beethoven, irrigidito dalla
consapevolezza del suo falso estetico.
In Viaggio sentimentale, Laurence Sterne inventa un alter ego letterario
che si chiama Yorick, come il buffone sul cui cranio Amleto, che gli era
amico da bambino, medita sull'effimero divenire degli uomini. La musica
tarda di Beethoven è talora affetta da una “sindrome di Yorick”: il
rovesciamento di segno tra commedia e tragedia, la divaricazione tra senso
e significato, sentimento e idea. Il Finale del Quartetto op. 135, “Grave ma
non troppo tratto”, lo abbiamo altrove accennato, è un Canone costruito su
una domanda e una risposta: “Muss es sein?”, “Es muss sein!”; “Deve
essere?”, “Sì, deve essere”. L'indicazione “Grave” prescrive
un'intonazione dialogica, con quella lieve esitazione tra domanda e risposta
che avviene tra persone rispettose; il “non troppo tratto” implica la
continuità dell'argomentazione, la quale distende in frasi musicali i due
simboli intervallari di ogni ossessivo ruminare che Beethoven ha voluto
apporre in testa al brano, quasi fossero il frontone del tempio di Delfi, con,
al posto di “Gnōthi seautón”, “Conosci te stesso”, la sentenza “Der schwer
gefasste Entschluss”, “La decisione presa con difficoltà”. Il brano è una
parodia del Contrappunto all'insegna dell'umor nero, l'insensato girare su
se stesso di ogni ragionamento analitico. Derivare conseguenze logiche da
eventi fortuiti – mostra, più che dire, il compositore – è come trarre gravi
sentenze filosofiche, “Essere o non essere”, baloccandosi a maneggiare il
teschio di un buffone. In nessun momento della propria attività creativa
Beethoven è arrivato ad un punto tale di nichilismo, tanto più estremo
perché celato nella messinscena di due filosofi che con “grave” sentenziare
disputano sulle finalità della Natura, intesa quale necessità che risolve se
stessa nel divenire delle cose. Si capisce perché Hegel, il maestro della
Dialettica, nutrisse verso la musica un misto di sospetto e scetticismo.
Come il Viaggio sentimentale di Sterne è una parodia del Grand tour, il
viaggio d'istruzione lungo le rotte della civiltà europea che i rampolli di
famiglie altolocate compivano allo scadere della maggiore età, questo
beethoveniano totem del Contrappunto con la testa ficcata nell'Armonia
stagnante è la maligna facezia di un malato terminale il quale, di fronte
agli amici intenti a dirgli del suo improvviso miglioramento, “vorrà dire
che morirò guarito”, risponda.
Il Cielo di Urano

Urano è il pianeta del distanziamento. Il suo carattere è l'elevazione


dell'individuo al di sopra e al di là di se stesso. L'influsso di Urano
determina l'abbandono del “carattere”, questa somma di influssi ambientali
che si stratificano nell'arco della vita. In questo senso, tutta l'evoluzione
artistica di Beethoven si svolge nel segno di Urano. Non per niente con il
termine “uranismo” si indicò l'avvento di un “terzo sesso” immune ai ruoli
che la natura ha imposto agli esseri viventi. La Forma-Sonata, costruita
sopra una opposizione dialettica tra “tema maschile” e “tema femminile”,
è dunque la prima vittima di Urano. In Beethoven, un esempio altissimo di
questa musica al di là sopra del desiderio, antidrammaturgica, è l'“Adagio
un poco mosso” del Concerto n. 5 op. 73 “Imperatore” per pianoforte.
L'“un poco mosso” indica la natura sospesa del tema, il suo non riposare
sull'esito delle semifrasi. C'è in tutta la sua linea un senso di progressione
ineluttabile che, però, non nasce da contrasti, ma da una logica ineluttabile
di disvelamento. Il tema si manifesta lungo il tempo della sua esposizione,
ma esiste già, come idea, prima di venire suonato. Credo che Beethoven
abbia voluto qui tradurre in musica l'apriori kantiano, l'intuizione del
filosofo secondo la quale noi non percepiamo la realtà, ma la formiamo
attraverso le categorie spaziotemporali della nostra coscienza. Se la realtà
è un'illusione, allora la musica serve per non tramutare questa illusione in
inganno. Il sognante improvvisare del pianoforte sulle derive del tema vale
come “voce recitante”, con i suoi trasalimenti ed umori, all'interno del
rigido processo di causa-effetto, traduzione in musica di ogni legge fisica,
che connota il fiorire della lunga melodia: la più perfetta, compiuta, che
Beethoven abbia mai concepito; e quindi, anche la più sterile, meno
soggetta a sviluppi. Ogni desiderio, inteso come progetto di un futuro
pianificabile, in questo “Adagio un poco mosso”, è sospeso.
La Sinfonia n. 1 op. 21 resta la meno cordiale, umana, delle sinfonie
beethoveniane. È un meccanismo a orologeria nel quale si viene costretti.
Il suo Finale, “Adagio-Allegro molto e vivace”, viaggia al di sopra del
tempo. Le prime sei battute dopo la “corona” iniziale, fino ad una seconda
“corona” sul “battere” dell'ultima misura, hanno tutti i tempi forti sulle
pause. Beethoven introduce il punto di valore su di una semicroma, poi, a
batt. 2, lo sposta sulla pausa, creando un sempre maggiore sbilanciamento
sul “levare” del motivo, fino a quando la “corona” a batt. 6 non riassume,
piuttosto che risolvere, un simile paradosso metrico. Non solo, ma
introducendo un gioco di terzine a batt. 4, il compositore ne incide la
prima con una pausa e connota la seconda con punti sopra ogni nota che
vanno intesi, come quasi sempre in Beethoven, “alla barocca”: non
“staccato”, ma scorciamenti. Anche le dinamiche concorrono a creare un
effetto di imbuto cosmico dentro il quale il tempo collassa. Dopo un “ff”,
“fortissimo”, sulla “corona” iniziale, Beethoven prescrive un “p”, “piano”,
improvviso, che viene increspato a batt. 3-4 da una forcella di “crescendo”
culminante, di nuovo, in un brusco “p” cui segue, sul “levare” prima della
seconda “corona”, un “pp”, “pianissimo”. Il tutto gli serve per rallentare le
terzine, le quali, essendo figure irregolari, non possono, però, subire
deformazioni agogiche. Questo è solo un esempio dell'uranismo di
Beethoven: il suo trascendere le leggi fisiche del mondo. La Prima
Sinfonia è tutta un laboratorio di questo suo frequente voler stare al di
sopra del tempo, in quel territorio dove le ombre delle esperienze non
hanno presa alcuna sulla coscienza. Il risultato è l'ambiguità metrica dopo
la “corona” di batt. 6, laddove l'“Allegro molto e vivace” normalizza il
tactus. L'attacco del tema, le sette semicrome – anch'esse, come la seconda
delle terzine precedenti, con un punto sopra ogni nota – seguite da due
crome, sono già “a tempo”, o risentono delle perturbazioni metriche
precedenti? Il Cappellaio Matto di Carrol non avrebbe saputo fare di
meglio. La Prima Sinfonia di Beethoven, è la sua “festa del non-
compleanno”.
L'uranismo è anche uno stare al di sopra dei conflitti, osservarli di lontano
con un cannocchiale rovesciato. Come abbiamo visto, il Beethoven
dell'Età della Trascendenza rifiuta la Dialettica, retaggio fallimentare
dell'Illuminismo. L'“Adagio ma non troppo e molto espressivo” del
Quartetto op. 131 per archi, dove già l'indicazione di tempo esprime una
disperata richiesta di curvature agogiche, è il fossile di un antico Ricercare.
Lo abbiamo intravisto in precedenza; ciò che di lui, ora, ci interessa, è il
suo mettere tra parentesi la natura polemica, oppositiva, della musica
concepita da Beethoven durante la sua Età della Lotta. Il pathos di quella
sua fase di idealismo redentore, qui, diventa il logos della rinuncia
ascetica. Non ci può essere dinamismo dove la quadratura metrica della
frase viene continuamente elusa. L'uranismo di questo brano consiste nel
suo stare al di sopra della dialettica, in un remoto altrove dove ogni
passione è spenta. L'innesto delle parti a Canone avviene lungo un loro
protendersi in avanti – la forcella di “crescendo” fino a “sf”, “sforzando”,
e quella di immediato “diminuendo” a “p”, “piano” – che sembra quel
breve vuoto, il silenzio di Dio, che nel Giudizio Universale di
Michelangelo, nella Cappella Sistina, impedisce al Creatore suo di
accogliere Adamo. Quel respiro interno alla testa dell'Invenzione
contrappuntistica è, allo stesso modo, il simbolo musicale del Male, che
l'elaborazione successiva si occupa di trascendere solo dopo averlo
inglobato. Il Beethoven sopravvissuto alla Sinfonia n. 9 op. 125, per
rendere, il caos, cosmo, non ha più bisogno di umana parola. Gli basta far
slittare l'Armonia su se stessa, a significare quel velo che l'arte fa cadere
dalle sembianze della realtà, rivelandone il vero volto. Rimango convinto
di come l'influsso delle filosofie orientali, nell'ultimo Beethoven, sia
determinante, e questo brano sospeso in una dimensione uraniana di
contrasti non estinti, ma come osservati dalla parte concava, nascosta,
della Forma, me lo conferma al di sopra di ogni argomentazione.
Il “Vivace, ma non troppo” della Sonata op. 109 per pianoforte è un caso
limite del “puntilismo” beethoveniano. Il Maestro prescrive “sempre
legato”, ma disarticola il tema tra le due mani, anchilosandolo in un ritmo
puntato che va contro la sua natura espansiva. Tra l'altro, secondo quel
“Princìpio della genesi centripeta” proprio all'ultimo Beethoven, il tema
annuncia già quello della Fuga culminante la successiva Sonata op. 110,
che sta alle ultime espressioni pianistiche, nel genere, del compositore
come la Grande Fuga op. 133 sta a quelli centrali tra i Quartetti tardi.
Questo Beethoven è al di sopra di ogni divenire. L'“Adagio espressivo”
che segue il preludio toccatistico iniziale dissolve da subito un Corale che
richiama il Bach delle Passioni in un polverio di passaggi aritmici
culminanti in un lungo “ri-tar-dan-do” capace di rendere la batt. 15 la
Cadenza in miniatura di un Concerto: il fantasma di un genere, da
Beethoven, ormai rifiutato, perché incapace di destabilizzare dall'interno i
pilastri dello Stile Classico, e del quale, ora, si celebrano le esequie. A
questo punto riprende il “Tempo I”, ma con la scrittura delle due parti a
specchio, invertite. Ricordate gli alchimisti? “Così in alto come in
basso”... L'uranismo al di sopra di ogni divenire assume, in uno stile tanto
vicino a quello degli antichi clavicembalisti, un sapore di serena rinuncia.
Non c'è inizio laddove non ci può essere fine. Questa Sonata trova il senso
del proprio incipit nell'“Arietta” della Sonata op. 111, le ultime tre battute,
dove Beethoven scolpisce nel silenzio gli intervalli germinativi, a ritroso,
degli ultimi tre suoi capolavori nel genere.
Il momento più alto di questo Beethoven “uranista” è la “Fuga. Allegro ma
non troppo” che culmina la Sonata op. 110 per pianoforte. Ritengo, anzi,
che si tratti dell'unico caso, insieme al Quartetto op. 131, in cui Beethoven
riesce completamente nel suo utopico tentativo di fondere il Contrappunto
antico e le Forme dello Stile Classico, dilatate per loro fusione nelle tre
sezioni della Forma-Sonata, attraverso un'Armonia ripensata per regioni di
affinità parallela, e non più secondo la gerarchia dei gradi della scala.
Nessuna Tonica, nessuna Dominante, ma soli gravitazionali intorno ai
quali orbitano, per attrazioni più e meno dirette, pianeti tonali in perpetua
rotazione. Questa Fuga dal Soggetto più bachiano immaginabile incorpora
dentro sé il “Klagender Gesang”, l'“Arioso dolente” – ma alla lettera,
“canto del lacrimoso risentimento” – precedente, per poi esplicitare quella
richiesta di riscatto, di giusta sublimazione del dolore, che è insita nella
sua dicitura tedesca. Beethoven lavora sulla “diminuzione”, stendendo
arcate di luce sempre più ampie, fino a che del torto che il tempo fa agli
uomini, tutti, non resta che un pulsare sommesso: non oblio, ma
disinganno ed estinzione nell'eterno ricominciamento del Tutto. Il “Meno
allegro” finale, con le sue interpunzioni “poi a poi più moto” – in Tedesco,
“nach und nach wieder geschwinder” – e “Tempo primo”, è la cronistoria
di un decollo verticale al di là del visibile accuratamente graduato da un
ingegnere del Sublime. Questa la più sublime tra tutte le sue Fughe è
l'aristotelico Motore Immobile del tardo stile beethoveniano: è, con Dante,
“La Gloria di Colui che tutto move”, e “Per l'Universo penetra e
risplende/In una parte più, e meno altrove”. Al centro delle tre ultime
sonate pianistiche Beethoven pone una simile quercia la cui ghianda stava
nascosta, Anima Mundi, nell'incipit della Sonata op. 109. L'orbita di Urano
è retrograda, opposta a quella degli altri pianeti del sistema solare. Il tardo
Beethoven trova nel Contrappunto per moto retrogrado la propria forza
aggregante i diversi corpi celesti che costituiscono il proprio Sistema della
Trascendenza.
Il Cielo di Nettuno

Nettuno, pianeta del dio acqueo. Mutevole, percorso da venti e correnti, è


il luogo dei conflitti, le contrapposizioni di forze. Beethoven vive la parte
mediana della sua vita creativa, l'Età della Lotta, all'insegna del suo
carattere materico, fisico, per poi sublimarne le tensioni nei cristalli
formali dello stile tardo, come fiamma sotto alabastro. Tuttavia, questo
carattere “nettuniano”, conflittuale in un senso organico, della sua musica,
non va individuato tanto nell'architettura ben bilanciata della Forma-
Sonata, dove le tensioni vengono organizzate dal logos di Giove in sistemi
che si compensano tra di loro, quanto nei momenti quando Beethoven
evoca i dinamismi sfrenati della vita che si rinnova, conflitti che eccedono
i destini individuali per accampare la propria legge sullo stesso ordine
cosmico.
Nella Sinfonia n. 6 op. 68 “Pastorale”, il quarto movimento, “Gewitter.
Sturm”, è la rappresentazione di un temporale che degenera in tempesta,
per poi dileguarsi con la velocità con cui è arrivato. Beethoven trascrive
per suoni, senza alcuna mediazione intellettuale, il conflitto tra gli
elementi, culminandolo in un'entrata dei tromboni su timpani, corni e
trombe che sfonda la prospettiva dell'orchestra, proiettandola come un
vortice dentro l'animo spaventato dell'ascoltatore. Lo scontro materico non
risolto, Nettuno che agita i vortici, vive di accordi di Settima “diminuita”
che passeranno poi tali e quali nell'“Ouverture” dell'Olandese volante
wagneriano. Senza il colpo di genio delle quintine ai violoncelli
contrapposte a successioni di quattro crome nei contrabbassi, immagine
sonora delle fronde che si piegano in pose contorte, non avremmo avuto
non solo l'incipit di La Valchiria, sempre di Wagner, ma neanche il quarto
movimento, “Sehr langsam. Misterioso”, della Sinfonia n. 3 di Mahler,
dove il lento scivolamento, nei “bassi”, di quintine e settimine l'una
sull'altra è questa tempesta beethoveniana vista da pianeti lontanissimi, in
uno spazio dove ogni movimento è raggelato dai ghiacci: una tempesta
rivissuta in un sogno traumatico. In questo quarto movimento della
“Pastorale”, poi, il timbro si smarca dal suo ruolo di servente dell'idea
musicale e diventa, in se stesso, significato; con quali esiti per la musica
romantica, ed in specie Berlioz, è facile immaginarlo...
Nel Finale della Sonata op. 106 “Hammerklavier” per pianoforte, il
conflitto si sposta dalla dimensione materica, superficiale, a quella delle
faglie profonde sottese al divenire terrestre. Si tratta di uno scontro tra la
gravità, che è stasi, e l'eterna metamorfosi della materia musicale, qui
pulsante come un feto in progressiva evoluzione verso gli organismi
superiori. L'interesse di Beethoven per la biologia, e l'embriologia in
particolare, connota anche la Forma di questa vertiginosa massa d'urto
sonora. La trasformazione, attraverso passaggi lungo gli esseri inferiori,
dell'ovulo fecondato fino alla condizione dell'umana coscienza viene
riprodotta, in questo “Allegro risoluto”, in un continuo gioco di specchi tra
le parti che determina condensazione progressiva, fugace apparizione e
rapido dissolvimento di un Corale che riemerge sempre più solenne, per
venire, poi, progressivamente disciolto dall'incalzare della corrente. Così
nell'Odissea, il livre de chevet di Beethoven, Nettuno, infuriato, spinge alla
deriva Ulisse, prototipo di ogni logos che vince il caos abbandonandosi ad
esso, per non frangere nella tempesta la carena della propria ragione. Il
tema beethoveniano, nobile e ampio, galleggia, allo stesso modo, sui flutti
delle biscrome, tentando di sporgere sempre più in fuori il canto, a
contrastare la gravità del ritmo, il suo scandire ogni misura con
indefettibile tactus. Alla fine, la reiterazione dei trilli pian piano scardina
l'asse gravitazionale, e sul “Poco Adagio” di batt. 381 il Corale cadenza
verso la propria risoluzione: il “Tempo I” che, a batt. 384, segna la
redenzione, sulle ali trillanti dell'Armonia riconciliata, del flusso
tormentoso di biscrome in un gioco di onde che sono riflessi di luce.
La Sonata op. 13 “Patetica” per pianoforte definisce, nel “Grave-Allegro
di molto e con brio”, un'altra qualità del carattere nettuniano, nella musica
di Beethoven: il conflitto tra un relitto del passato, la memoria del vissuto,
e il flusso vitale che tutto sospinge in avanti, esigendo l'oblio. Questo
scontro tra due modalità opposte del dinamismo, contraddizione allo
sguardo in avanti, fiducioso nella sintesi progressiva dei contrasti, che
contraddistingue il razionalismo della Forma-Sonata, crea, a batt. 133
dell'“Allegro di molto e con brio”, una brusca frattura nello Sviluppo: uno
sguardo all'indietro – “Rückblick”, lo chiamerebbe il Brahms della Sonata
in fa minore n. 3 op. 5 per pianoforte – nel quale cova già la disillusione
del compositore verso ogni utopia dell'Età dei Lumi. Gli accordi in ritmo
puntato del “Grave” sono tracce mnestiche dello Sturm und Drang, di
quelle Sonate “Prussiane” di Carl Philip Emanuel Bach sulle quali
Beethoven si era formato da ragazzo. Il relitto dello stile diventa simbolo
di quel relitto della memoria che è un'esperienza traumatica non risolta. È
questo storicismo, il citare musica di epoche passate per evocare
prospettive del vissuto, stati di coscienza, a fare di Beethoven il primo
compositore “contemporaneo”. Lo slancio vitale che si sfrena
nell'irruzione dell'“Allegro di molto e con brio” viene esaltato dal “levare”
sull'ultima battuta del “Grave”, una “corona” su nota puntata che sembra il
lampo negli occhi di uno scalatore che abbia mancato la presa sulla roccia.
Sull'incedere di un “basso” che non cambia per quindici battute, corrente
marina gonfiata dai venti di Nettuno, comincia un viaggio fatto di pura
pulsazione ritmica, tactus che redime ogni memoria, finché il rintocco di
campane funebri scandito all'inizio, nel “Grave”, non raggela il mare
fecondo in palude di Stige; allora gli accordi in ritmo puntato diventano il
canto delle Parche. In questo luogo dell'opera beethoveniana, come in
quell'“Andante con moto” del Concerto n. 4 op. 58 per pianoforte che è
stato definito il canto di Orfeo che ammansisce le Furie, il Beethoven
lettore di Omero e della Tragedia attica regge la mano che scrive al
Beethoven Tondichter, “poeta dei suoni”.
Quando si pensa alle Variazioni su un Walzer di Diabelli op. 120, la
categoria del conflitto viene spontanea alla mente. Il conflitto è prima di
tutto, per così dire, organolettico: quello tra la domestica ovvietà del tema
e le elucubrazioni in mondi lontanissimi che Beethoven ne trae. C'è poi un
conflitto fisiologico: quello tra la natura interminabile delle varianti
possibili secondo il “sistema dei prismi” beethoveniano e il “Tempo di
Menuetto. Moderato” (“ma non tirarsi indietro” aggiunge sornione
Beethoven) che pone alla serie di Variazioni un sigillo per anticlimax, da
“opera aperta”. Il luogo dell'op. 120 che ci interessa, qui, visitare, è la
Variazione XXXI, “Largo, molto espressivo”. Il “nettunismo” delle
“Diabelli”, il loro vivere di una continua tensione tra stile e idea, struttura
ed espressione, simbolo e segno, trova in questo panopticon dell'intera
Forma, riassunta in una visione di scorcio, retrospettiva, il proprio
coronamento. Il conflitto che vediamo all'opera agisce contro lo stesso
tardo Beethoven, ed è quello tra lo sviluppo tematico e il divenire
dell'Armonia. Come nel liberty, l'ornamento, qui, avvolge l'elaborazione
del tema al modo in cui un rampicante fa con l'albero secolare. Le forme
cangianti, le varianti continue, impediscono la percezione di qualunque
semifrase. Siamo in una melodia infinita avvolgentesi su se stessa a partire
da una settimina in anacrusi che la sospende nel nulla. L'Armonia, invece,
si arrocca su formule barocche da pedaliera d'organo che hanno un
compito ineludibile: impedire al brano di uscire da quella “sezione
d'aurea” che costituisce il codice segreto dell'op. 120. Il conflitto tra le
efflorescenze del tema, il suo sviluppo “non mensurale”, e il divenire quasi
pedante, alla Albrechtsberger, dell'Armonia, congela il canto, lo contrae in
efflorescenze rigogliose, ma sterili. È, questo, l'eterno conflitto tra il mare
dell'inconscio e le rocce nude del tempo che, trattenendolo nelle cose, gli
fanno da bacino.
Il Finale della Sinfonia n. 7 op. 92, “Allegro con brio”, ci conduce
all'ultimo conflitto generato, in Beethoven, dal carattere di Nettuno: quello
tra Forma aperta e Forma ciclica. Le prime quattro battute, la seconda e la
quarta delle quali sono costituite da pause, rappresentano una specie di
prova generale per il “Molto vivace” della Sinfonia n. 9 op. 125. Il “moto
perpetuo” che segue si snoda su un periodo di otto battute la cui
proporzionalità mozartiana stride con le irregolarità dinamiche che
sbilanciano le frasi in sussulti asincroni. Le crome degli archi, sul “levare”,
hanno uno “sf”, “sforzando”, su cui innesta, sul quarto tempo della battuta,
un altro “sf” che si sovrappone a quello fino a sciancarlo, contrarlo in una
sorta di ritmica contrattura nervosa. Contemporaneamente i “bassi”
tengono una nota con legatura a cavallo di battuta, anch'essa in “sf”, che si
esaurisce sulla croma che i primi violini eseguono in “staccato” – il punto
sopra la nota, questa volta, indica solo un'articolazione – sul tempo forte di
ogni battuta. Il tempo di due quarti dell'indicazione iniziale si suddivide,
così, di quattro in quattro battute, in un tempo ternario più uno binario: un
tactus “in cinque” che sostiene il ritmo giambico dei legni. Questa
articolazione senza possibili punti di riposo del materiale tematico
presuppone una Forma aperta, perché rende impossibile qualsiasi
Sviluppo; invece, il Rondò entra ed esce dai giunti del brano come
un'ossessione proibita che non si riesce a scacciare. L'esito è un corrugarsi
del periodo musicale, quasi le sue otto battute fossero, in realtà, nove, e
l'ultima fosse stata sovrapposta alle prime. Beethoven utilizza questo
scorciamento anche nella Sinfonia n. 5 op. 67, un passaggio dello Sviluppo
nell'“Allegro con brio” (e Brahms se ne ricorderà nell'“Allegro non troppo”
della Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98) tuttavia, in questo Finale della
Settima Sinfonia è la Forma stessa che viene compressa al punto da
collassare su se stessa, invece di estendersi verso il proprio naturale esito.
È il momento, per Beethoven, della partenza verso la deriva che lo porterà
fuori dalle secche dello Stile Classico. E lì lo aspetta Nettuno per
trascinarlo nei propri gorghi fino alla foce dello stile tardo: l'Età della
Trascendenza.
Finale. Le stelle dopo Plutone.

L'influsso di Beethoven sui compositori del Diciannovesimo secolo è di


due ordini: espressivo e linguistico. La prima categoria è squisitamente
etica. Dopo Beethoven, il compositore diventa “poeta dei suoni”. Porta
nella musica il proprio vissuto, che spesso è di rottura o di risentito sprezzo
nei confronti della società entro la quale si muove. Con Beethoven nasce la
figura dell'artista in quanto sismografo della violenza sociale, il male di
esistere. Questa qualità espressiva del lascito beethoveniano viene
veicolata dalle Ouverture “a tema”; dall'aspetto simbolico della scrittura
armonica, la sua dialettica di lotta e progressiva affermazione, presente in
molte delle sinfonie; dalla fusione tra musica d'uso, fanfare rivoluzionarie,
convenzioni della nuova Opéra à sauvetage: tutto quel teatro
dell'immaginario dove l'impurità dello stile diventa stigmate della
scissione tra la coscienza dell'eroe, il Titano in guerra con le mortificanti
liturgie del reale, e il mondo delle cose certe, le convenzioni umane.
La seconda categoria: l'influsso linguistico, segna l'affermarsi, in musica,
dello storicismo. Dopo Beethoven, nessun compositore si può permettere
di non essere anche memoria del passato, archivio nostalgico di una
perfezione tra stile ed idea vagheggiata come irraggiungibile. Secondo la
ben nota distinzione di Schiller, la musica, dopo Beethoven, di “ingenua”,
diventa “sentimentale”. I codici dello Stile Classico restano, ma come
relitti di civiltà travolte da catastrofi ambientali. Sulle loro rovine si
incidono i segni del dramma presente. I richiami strutturali interni; il
lavorio del Contrappunto a distendere sezioni modulanti tra Armonie
lontane; il timbro impiegato come teatro dell'anima e, infine, l'uso di
motivi caratterizzanti come “motti”, figure sonore simboleggianti l'autore
nel suo cammino attraverso la narrazione sinfonica, oppure come sigilli di
una Forma ciclica sempre più trionfante sulla consequenzialità logica del
pensiero illuministico: tutti questi aspetti del cosiddetto Romanticismo
musicale, senza Beethoven, sarebbero impensabili.
In Mendelssohn, siffatti elementi propulsivi vengono rinterzati nella
disperata difesa di un formalismo classicista tradotto nelle linee di un
paesaggio interiore. In questo senso, Mendelssohn fonde il Beethoven
delle Ouverture “a tema” con quello delle Sinfonie “epiche”. Il ricorso al
“tema-motto” può assumere un aspetto icastico, per semplice iterazione –
nella Sinfonia n. 2 in Si bemolle maggiore op. 52 “Lobgesang”, per
esempio, il motto ripetuto funziona a mo' di frontone del tempio – oppure,
attraverso il gioco delle sue varianti, un aspetto ricorsivo, da snodo
strutturale, come nella Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 “Scozzese” o nella
Sinfonia n. 5 in re minore op. 107 “La Riforma”. Mendelssohn considera
Beethoven il profeta di una, ai suoi tempi ancora impensabile, Forma
ciclica. L'idea che ogni Sinfonia sia una narrazione romanzesca per figure
sonore che agiscono quali, sulla scena, i personaggi di un dramma, è la
visione rassodante di un Classicismo al suo crepuscolo, alla Lessing, che il
compositore berlinese tenta laboriosamente di rendere tradizione contro la
nuova scuola romanica, la “musica dell'avvenire”.
Schumann, ammiratore di Mendelssohn al punto di chiamarlo, nelle sue
recensioni, “Felice Meritis”, interpreta le innovazioni beethoveniane in un
modo diametralmente opposto. Usa il tema-motto disciogliendolo, per così
dire, nella Forma: sezionandolo secondo le sue cellule motiviche, sfruttate
quali pilastri nell'articolarsi delle singole sezioni. Nella Sinfonia n. 2 in Do
maggiore op. 61 troviamo interrelazioni funzionali, sviluppi tematici e
figure-ponte – le tre qualità schumanniane del tema-motto – tra primo
movimento e Finale. La stessa cosa avviene nella Sinfonia n. 3 in Mi
bemolle maggiore op. 97 “Renana”, mentre nella Sinfonia n. 4 in re
minore op. 120 la Forma ciclica si avvita su se stessa annullando ogni
progressione nell'eterno ritorno dell'identico. Si tratta di uno stadio
terminale nella dissoluzione formale del Classicismo e, al contempo, in
quella psichica, ormai imminente, del suo creatore. La visione che
Schumann ha della Forma è panteistica: come Beethoven osserva il Dio
disciolto nella Sua Creazione, così Schumann contempla il tema-motto
farsi sangue e nervi dell'intera campitura sinfonica; presente ovunque, e in
nessun luogo uguale a se stesso.
Berlioz, di Beethoven, assimila in primo luogo la drammaturgia del
contrasto scenico, ottenuto attraverso l'irruzione nel linguaggio sinfonico
di materiali impuri, estranei. Questi materiali, che Beethoven usa come
citazioni, echi ambientali e tracce mnestiche, Berlioz li organizza in due
categorie: le voci di dentro e gli echi del mondo di fuori. Nella Sinfonia
drammatica op. 17 “Romeo e Giulietta” osserviamo queste due tipologie
di “musica per distanziamento” interagire in modo quasi contrappuntistico,
a segnare la dimensione utopica e ideale dell'amore adolescente, mentre
nella Grande sinfonia funebre e trionfale op. 15 lo sfondamento dello
spazio, il paesaggio sociale della Fama quale monstrum di dissonanze e
sovrapposizioni di feticci, identità posticce, assume una natura quasi
grottesca che sarebbe impensabile senza la beethoveniana Vittoria di
Wellington op. 91. Anche l'affrancamento dell'imitazione tra le voci
orchestrali da qualsiasi regola di gravitazione armonica è un portato di
Beethoven che Berlioz spinge, nella Sinfonia “Fantastica” op. 14, alle
estreme conseguenze.
Il Wort-Ton-Drama wagneriano nasce dall'incontro del giovane
compositore sassone, a Parigi, con la Sinfonia n. 9 op. 125 diretta da
Habeneck. Wagner, poi, rimase segnato anche dalle Ouverture Leonore n.
3 op. 72b e Coriolano op. 62: le più vicine alla sua idea di un linguaggio
sinfonico che funzioni per contrasti metamorfici di uno stesso materiale
poi destinato, alla fine, a integrarsi in una “melodia infinita” latrice, a sua
volte, di nuove, infinite metamorfosi. Senza il terzo movimento della Nona
beethoveniana, o il linguaggio per minime variazioni oblique, trasversali,
di uno stesso materiale, trionfante negli ultimi Quartetti di Beethoven,
sarebbe impensabile la tecnica del Leitmotiv, nonché la strutturazione
dell'intero Ring des Nibelungen secondo i codici formali di una sinfonia
beethoveniana.
Come notò acutamente Schönberg nel suo saggio Brahms il progressivo, la
distinzione tra la “musica dell'avvenire” di Wagner e Liszt e il
neoaccademismo classicista di Brahms era di una natura più ideologica che
effettiva. La tecnica di Brahms procede per asimmetrie, per dinamiche
usate al fine di ottenere curvature metriche, sfasature tra linee interne;
attraverso un'identificazione tra le due dimensioni, verticale e orizzontale,
di Armonia e Contrappunto; mediante un ricorso a temi-motto affidati a
strumenti dalla vocazione “drammaturgica” (i corni a evocare profili
montani; i legni, Corali devoti o voce degli affetti....). La segnatura
tematica a cavallo di battuta, con uno sviluppo tematico a sezione aurea,
dove ogni frase ha nella sua coda la testa di una propria derivazione
tematica: questa idea di una “melodia infinita” diventa, in Brahms, “Forma
infinita”, opera aperta nelle sembianze ingannevoli di un'organizzazione
per stilemi classici. Se Wagner sviluppa in senso orizzontale il Princìpio
dei Princìpi beethoveniano: la variazione permanente di ogni parametro,
Brahms, quello stesso principio, lo sviluppa in senso trasversale, secondo
il “punctum contra punctum”, nota contro nota, dell'antica polifonia.
Scavare ulteriormente dentro la natura ambigua di simili filiazioni
beethoveniane nella musica del Diciannovesimo secolo significherebbe
mettere in discussione l'esistenza stessa di una musica romantica, nonché
ogni distinzione aprioristica tra musica sinfonica e operismo tedesco.
La musica del Novecento porterà alle estreme conseguenze questo
paradosso della massima libertà che scaturisce dal massimo rigore; fino a
consumare in tanto cristallina evidenza se stessa ed ogni possibile musica
futura. La fine della civiltà musicale dell'Occidente sta già negli ultimi
Quartetti beethoveniani, le fluttuazioni erratiche della loro polifonia. Con
Beethoven, il mondo interiore di ogni artista trova nel mondo esterno le
figure di una sua personale mitologia dell'esistere. In lui, il tempo del
pensiero e quello della sensibilità si fondono nel flusso dell'essere. La
musica in lui è, parafrasando Heidegger, un “venire gettati nel tempo”; ma
un tempo riassunto nelle dinamiche secondo le quali la coscienza
interpreta la realtà. In questo aspetto Beethoven è, e sempre sarà, un nostro
contemporaneo, non perché la sua musica ci parli della nostra condizione
umana, ma perché traduce l'umano in un linguaggio sovrapersonale,
dinamico, universale. Il Maestro attraversa il caos di se stesso, in quanto
individuo, per indicare a tutti noi un ordine cosmico che ci permetta di
restare, all'interno dei suoi orizzonti protetti, individui dotati di un senso.
Ogni stato di coscienza, anche la follia, diventa, in lui, struttura musicale.
Per questo la sua vicenda biografica è parte integrante, necessaria, di
quella artistica e, allo stesso tempo, Beethoven, una propria esistenza, in
un certo senso, non l'ebbe mai. La sua ascetica della rinuncia rende
bellezza, ordine musicale, la verità secondo la quale soltanto chi perde
tutto guadagna se stesso. Soltanto in fondo all'abisso giace la chiave d'oro
che apre ogni porta.
CODA BEETHOVENIANA1. PROMETEO LIBERATO.

“Il fatto che in un'opera d'arte venga sperimentata una verità non
raggiungibile per nessun'altra via è ciò che costituisce il significato
filosofico dell'arte, il quale si fa valere contro ogni capziosa
argomentazione”.
(Hans Georg Gadamer)

1 Dove ritornano sviluppati i temi principali del libro che è due libri
1. “Senza forza, senza energia, non c'è né virtù né felicità”. “La forza è la
morale di coloro che si distinguono dagli altri. Ed è anche la mia”.
Napoleone Bonaparte e Beethoven: le due frasi sono quasi indistinguibili.
Due parvenu, due uomini di nascita oscura destinati a crearsi il proprio
destino con le loro stesse mani. “La felicità? È il massimo sviluppo delle
mie facoltà”, afferma Napoleone con beethoveniana icasticità. La ferita
all'orgoglio, il risentimento sociale, spinsero il tenente francese a farsi
“Imperatore secondo lo statuto della Repubblica”, un paradosso a tal punto
comico che il fatto di non averlo sentito per tale spinse l'Europa
all'autodistruzione. Giustizia chiama violenza? in musica, dunque, la
violenza è una forma di giustizia... Così, allo stesso modo, Beethoven
compone all'interno delle convenzioni musicali che si trova ad ereditare: la
Forma-Sonata, il cosiddetto Stile Classico, ma solo per poterle incrinare
con le spinte telluriche delle sue trasgressioni; farle implodere, per meglio
demolirle. In entrambi questi eroi dell'azione – uno nel tempo, l'altro nella
trascendenza da esso – agisce una disciplina dei modelli costruita con
rigore quasi scientifico. Entrambi, fin dal principio, studiano il mestiere
dei tempi nuovi, l'arte di diventare geni. L'ideale delle virtù eroiche è, per
entrambi, Plutarco, l'autore de Le vite parallele. “Plutarco mi ha insegnato
la via della rassegnazione”, dice Beethoven quando la sordità lo costringe
“a soli ventott'anni, a diventare filosofo”. Tiene il busto di Bruto, il
tirannicida, sulla scrivania dove compone. La biografia di Bruto, in
Plutarco, è per lui un ideale di moralità. Dice di Napoleone: “È un peccato
che io non capisca l'arte della guerra così come capisco quella della
musica. Lo conquisterei”. La guerra, dunque, gli pare un'arte...
L'arte comune a Beethoven e Napoleone, quella che li rende i due simboli
dei Tempi Nuovi nel cui tramonto sopravviviamo, è l'arte di rendersi
padroni del proprio destino. La prospettive dell'esistenza umana sono
cambiate. La Rivoluzione Francese ha “gettato l'uomo nel tempo”.
Rendendolo libero, gli ha dato la responsabilità terribile del proprio
successo. Nel 1788, la Costituzione di un nuovo paese si apre con “ogni
individuo ha diritto alla felicità”: un diritto nel quale si cela, meccanismo
di alienazione, anche un dovere. Napoleone e Beethoven, i parvenu,
devono inventarsi una nobiltà del cuore. Quando si scopre che il prefisso
“van” non è indizio di origini nobiliari, Beethoven si tocca la fronte e il
cuore, “la mia nobiltà è qui, e qui”, proclamando. “Principe, ciò che voi
siete, lo siete per nascita; ciò che io sono, lo sono per merito mio”. E a
ribadire, in altra occasione: “Prìncipi ce ne sono e ce ne saranno a migliaia,
di Beethoven ce n'è uno solo”. Parole entrate nella leggenda, dove
sarebbero dovute restare. Beethoven si trovava, allora, a Gräz, ospite del
principe Lichnowsky. Napoleone era padrone di Vienna. Al principe,
doveva tutto. Si rifiutò di suonare per alcuni ufficiali francesi, ospiti di
passaggio. Lichnowsky minacciò di rinchiuderlo nelle segrete del castello.
Vennero quasi alle mani. Beethoven fuggì nella notte, sotto la pioggia. Al
ritorno a casa diede un tal manrovescio al busto di marmo del suo
protettore da schiantarlo a terra in pezzi. A riprova dell'evento, lo abbiamo
accennato altrove, il manoscritto della Sonata op. 57 cosiddetta (non da
Beethoven) “Appassionata”, cosparso di macchie d'inchiostro disciolto
dall'acqua. È la Sacra Sindone dei Tempi Nuovi...
Beethoven vedeva Napoleone come un tiranno e un invasore. Alla sua
morte, quando la Restaurazione e Metternich avranno fatto di Vienna una
galera a cielo aperto, finirà per ricredersi. Anche lui aveva le proprie spie
personali. Le si poteva incontrare in un tavolino accanto a quello dove il
sordo strillava le sue contumelie sulla casa regnante. “Napoleone, prima,
non lo potevo soffrire, ora la penso in tutt'altro modo”. Un simbolo dei
Tempi Nuovi, ormai quasi morente, contempla la morte dell'altro. E
comprende, troppo tardi, che l'utopia del parvenu còrso, un'Europa Unita
dai diritti del suo nuovo Codice Civile, è la stessa da lui resa Inno nella
Nona Sinfonia. Anche Beethoven, nel sovvertire le regole della sua arte,
era un tiranno. Quando gli fanno notare alcune, proibitissime dai trattati,
Quinte “parallele”, che pensano essergli sfuggite, “ebbene, io le permetto”,
risponde. Qualcosa di simile fa Napoleone quando, a Nôtre-Dame, davanti
al Papa venuto per consacrarlo Imperatore, si mette da solo la corona sulla
testa. Per colpa di quella corona, ci rimise la dedica della Sinfonia Eroica.
Così la musica cominciò a sublimare gli ideali traditi dalla storia, e
dunque, fatalmente, a divorziare dal mondo reale. Napoleone si era
proclamato “Imperatore secondo lo statuto della Repubblica”, a suo dire,
per rendere realtà il sogno di una pace universale. Beethoven voleva fare
della musica una pratica di virtù spirituali. Il loro conflitto rese la musica
una dimostrazione di come la realtà e le virtù spirituali siano incompatibili.
Questa scissione tra Reale e Ideale ha, nella biografia di Beethoven,
conseguenze pesanti, e tuttora non risolte. La biografia di Beethoven e
quella di Napoleone procedono su derive opposte. Le fonti dirette sul
parvenu còrso sono inoppugnabili; quelle sul compositore renano, dubbie e
aneddotiche. La sua vita divenne mito lui ancora vivente, com'era
inevitabile in un artista cui si deve il divorzio tra arte e storia. Frasi come
le sopra citate, sull'aristocrazia del genio rispetto a quella della sorte:
l'intera relazione tra Beethoven e Lichnowsky, è più una favola bella che
una cronaca. La sordità diede a Beethoven il privilegio di non dover far i
conti con questa dialettica inconciliabile tra mondo e visione interiore. Se
la coccolò, la sordità, alimentandola a secchiate d'acqua gelida sulla testa
che facevano crollare calcinacci sui piani inferiori delle oltre trenta case
viennesi che dovette, anche per questo motivo, cambiare. “Fai in modo che
la tua sordità non sia più un segreto. Persino nell'arte”, scrisse. L'infermità
cronica, ben altrimenti che invalidante, diventava una nuova prospettiva
interiore. Per Napoleone, insidiato da un'ulcera duodenale poi destinata a
evolversi in cancro allo stomaco, fu l'opposto. Non potendo guidare i suoi
eserciti negli scontri finali, il destino lo sconfisse. “Voglio afferrare il
Destino alla gola; non riuscirà certo a piegarmi e ad abbattermi
completamente”: Beethoven, musicista, e quindi, da ora, artefice di un
mondo ideale, sa che non sta assumendo pose da antico eroe, ma
pianificando il proprio esilio dalla realtà.
2. La Rivoluzione Francese spodestò il Sacro dagli altari. La forza
creatrice dell'universo, ora, è la Ragione. Robespierre istituisce il culto
dell'Essere Supremo. Non è Dio. È l'Armonia della natura quale si riflette
nella Ragione, della quale l'intelligenza umana è un raggio visibile.
Un'emanazione. Un armonico musicale. “Sopra la volta delle stelle, deve
abitare un Padre amorevole”, dice Schiller, che Beethoven musica. È
quel“cielo stellato sopra di me” che Beethoven cita da Kant, costellandolo
di punti esclamativi. Schiller ci dice che le stelle nascondono il Padre. Ne
fanno traspirare solo l'emanazione, che è musica. Armonici. Beethoven
studia testi di Astronomia, di Fisica della natura. Osserva il cielo stellato
col telescopio. Legge la Storia universale della natura e teoria del cielo di
Kant. Di Christoph Christian Sturm, Riflessioni sulle opere di Dio nel
regno della Natura e della Provvidenza. Scrive, nella Lettera all'Immortale
Amata, “quando mi considero in rapporto all'universo, che sono io, che
cosa è, colui che è chiamato il più grande! Eppure, proprio in questo sta, il
divino dell'uomo”. Studia le energie naturali, fino a cercare nel galvanismo
una cura per la sordità. Ristabilito l'equilibrio naturale tra tensioni interiori
e forze fisiche, il male se ne andrà, pensa. Il dott. Schmidt, medico che
oggi diremmo “olistico”, medita di curare la sordità di Beethoven con
l'elettricità. Morirà per averne assorbita troppa durante uno dei suoi
esperimenti.
“Napoleone ha cercato la virtù e, non riuscendo a trovarla, ha ottenuto la
potenza”: Goethe ci dice che Napoleone è un musicista mancato. La storia
è azione, non emanazione. Beethoven ne è consapevole fin dai tempi della
Sinfonia Eroica, dove il “tema di Prometeo”, nel Finale, non risolve, ma
rende inutile l'avvento di Napoleone. Prometeo è mito, non storia. È
emanazione della volta stellata. Sconfitti gli altari, dopo la Rivoluzione
Francese, il Sacro si rifugia negli artisti. Anche gli eroi della storia sono
artisti. Ma per essere tali, devono venire sconfitti. Gli eroi della Tragedia
greca peccavano di smodata ambizione, arrogante collasso del limite: la
“hybris”. Questo, li perdeva.
Beethoven amava Eschilo. Napoleone trascorreva l'esilio a Sant'Elena
leggendo l'Edipo re. Entrambi sono i figli di una nuova visione del mondo.
La natura è il riflesso di un mondo superiore che l'uomo deve, con la forza
della ragione, ridurre a regola interpretabile. Lo può fare solo se si
abbandona all'intuizione. Napoleone disse che a sconfiggere gli Absburgo
era stata la loro mania di pianificare tutto prima della battaglia; lui si
affidava ad intuizioni fulminee e imprevedibili, nate dal suo dono di
sentire le energie operanti tra gli schieramenti nemici. Beethoven rivela al
suo giovane ammiratore, Schlösser: “Lei mi chiederà donde io tragga le
mie idee. Non posso dirlo con sicurezza. Esse vengono non chiamate,
direttamente o indirettamente. Potrei afferrarle con le mani nella libera
natura, nei boschi, durante le passeggiate”. È, questo, il Beethoven che
cammina per ore, fin dai tempi di Bonn, nella natura, e si spoglia, e annoda
a un bastone sulla spalla giacca e, talvolta, calzoni, per poi scandalizzare le
contadine che lo incontrano. Il Beethoven che, vestito come un vagabondo,
di notte, vagando per Vienna, si scorda di se stesso, e la polizia lo scorge
osservare fisso una casa, e lo arresta. Il Beethoven di Rousseau, e prima
ancora, di Spinoza. Del pensiero magico, ovvero della scienza alle sue
origini. Il devoto a una forza misteriosa immanente alla natura e fluida
nella mente umana, che l'eroe e l'artista, ciascuno nel proprio mondo,
traggono alla luce. Perché la fanno diventare luce. Napoleone: “L'uomo
non è altro che un essere più perfezionato del cane o dell'albero. La pianta
è il primo anello nella catena della quale l'uomo è l'ultimo”. Goethe, ne La
metamorfosi delle piante, aveva detto la stessa cosa. Nella ghianda è
contenuta, in potenza, la quercia. La sua manifestazione, è solo questione
di tempo. Una questione di musica: l'arte di trascendere il tempo in una
sostanza visibile alla Ragione e da lei malleabile. Goethe era la sintesi
perfetta di Napoleone e Beethoven. Napoleone incontrò Goethe, e gli disse
“vous êtes un homme”; il che voleva dire: una creatura compiuta,
realizzata. Beethoven incontrò Goethe, e non si capirono. Anche in questo,
tra Napoleone e Beethoven, un opposto destino. L'antinomia tra il parvenu
còrso e quello renano, tra l'eroe del tempo vissuto e quello del tempo
pensato, non permetteva altrimenti. La Waterloo di Beethoven – e di tutti i
Tempi Nuovi, i nostri – fu la sua mancata intesa con Goethe. Goethe aveva
iniziato la sua storia di poeta facendo suicidare il giovane Werther. Poi
capì, e riassorbendo in sé l'equilibrio classico, la scienza empirica, il
pensiero ermetico e, nel Divano occidentale-orientale – libro ben noto a
Beethoven – l'eros metafisico del poeta persiano Hāfez, liberò Prometeo
dagli artigli dell'aquila. Incontrò un Beethoven ferito, in piena Età della
Lotta. Non potevano capirsi. La sordità aveva costretto Beethoven fuori
dalla sua prima età, l'Età dell'Integrazione. Raggiungerà solo negli ultimi
anni una sua mistica del cosmo a Goethe affine. E sarà l'ultima sua età,
quella della Trascendenza. I due più grandi maestri dei Tempi Nuovi, a
Teplitz, si incontrarono troppo presto.
“Un'aquila guardava il sole. Era così, e non lo posso dimenticare”.
Beethoven chiede a Therese von Brunsvik di mandarle un suo disegno,
siffatto, che lo ossessionava. “Il mio regno è nell'aria: i miei suoni
turbinano sovente come il vento”. Beethoven sognava un'aquila fissa al
sole, e pensava di essere Prometeo. Goethe, a Teplitz, capì che quella
personalità del tutto sfrenata, ingovernabile: Beethoven, lì a Teplitz, era
quell'aquila, la carnefice del Titano legato sulla rupe della storia.
3. La ternarietà della parabola compositiva beethoveniana è uno di quei
dogmi la cui ricusazione costa la scomunica. La si deve a Wilhelm von
Lenz, autore di un libro, Beethoven et ses trois styles, che dalla sua
pubblicazione, nel 1852, a San Pietroburgo (in territorio protetto, fuori
dalla Germania) fa da capro espiatorio alla pigrizia degli storici della
musica. Si dà dunque per scontato che esistano tre Beethoven. Se volete
far prima, partite da quello di mezzo: dalla Sinfonia n. 3 op. 55 “Eroica”
alla Sinfonia n. 8 op. 93 (con la tara di Fidelio) e ritagliate gli altri due
sullo sfondo, come si fa per un selfie popolato di intrusi. Vincent d'Indy,
compositore di un Poème des rivages trasparente come l'esiziale
antisemitismo che, di lui, appare nel suo Beethoven (1913), trasforma, da
buon cattolico integralista, la ternarietà in una Trinità: “Imitazione”,
“Transizione”, “Riflessione”, nessuna delle cui “persone” ha senso alcuno.
Il Beethoven giovanile, il “Gran Mogol” che Haydn, suo maestro, quasi
teme per i trapassi in nera ipocondria; “lo Spagnolo” venuto da Bonn,
butterato dal vaiolo e con la fessura sul mento, il collo quasi sprofondato
nelle spalle, gli occhi piccoli, grigioverdi, e accesi di emozioni troppo
rapide per poter venire fissate: questo Beethoven degli esordi viennesi
proclama di non avere imparato nulla da Haydn, e quando il “Papà” dello
Stile Classico, ora aureolato della fama londinese, gli consiglia di non
pubblicare il terzo dei Trii op. 1, quello in do minore, sospetta che sia per
gelosia, e voglia di tarpargli le ali al primo volo. Questo Beethoven che
chiede ad Eleonore von Breuning, a titolo di riconciliazione (e non
sappiamo da cosa) “un maglione di pelo di lepre lavorato dalle Sue mani”,
perché quello che lei gli ha regalato a Bonn “la moda l'ha messo così fuori
moda che posso soltanto conservarlo nell'armadio” (un caso di feticismo
erotico sostitutivo?); che prende lezioni di ballo e impara a cavalcare,
corteggiato dagli aristocratici più vicini alla corte che ci siano nell'intero
impero dell'aquila a due teste: questo Beethoven degli esordi parodia,
irride, canzona, mette in burletta e fa la caricatura, oppure esaspera i
modelli più o meno amati in un tenero melodismo da rituale della
memoria, un rimpianto della “civiltà delle buone maniere”, come la
definisce Norbert Elias. Tutto questo: ma imitare, no. I suoi anni giovanili,
a Vienna, sono l'Età dell'Integrazione.
Quanto alla “Transizione” di d'Indy, si tratterebbe di una categoria di stile
che accorpa tutti i capolavori davvero popolari del Nostro, essendo notorio
come davanti alle cose più alte, le ultime, di Beethoven, si sosti per lo più
come al cospetto della Sacra Sindone, dalla visita alla quale si torna con
un'espressione diversa che se si fosse contemplata la Gioconda. Direi
piuttosto che il Beethoven compiuto, forte di uno stile stabile, duttile ad
ogni scopo espressivo, sia proprio quello della “Transizione” da d'Indy
presunta... Somma alterigia del genio fu proprio il mettere in crisi, negli
ultimi anni, l'efficacia di un mondo simbolico così vittoriosamente, e con
tanta fatica, raggiunto. Un mondo con una sua semantica riconoscibile, a
costo di una certa ossessività pronta a diventare, nei momenti meno
ispirati, anche parodia di se stessa (ebbene sì: ci metto l'“Allegro con brio”
del Concerto n. 3 op. 37 per pianoforte...). Sul terzo stile di d'Indy, poi, la
“Riflessione”, sono del tutto perplesso. Non si vede quale evoluzione
riflessiva sia possibile, in una transizione; forse che il passo si distende, e
gli scalini diventano pianerottoli? Sarebbe, la riflessione, una sorta di
inerzia senile? Nel d'Indy del Poème des rivages, senz'altro; ma in
Beethoven...
Ascesa, ascesi, superamento di sé: sulla tripartita sostanza, che è una, ma
trina, di Beethoven, pesa la triciclicità della dialettica di Hegel, laboratorio
mentale ai Reich tedeschi. La sequenza Tesi-Antitesi-Sintesi poi svaporata
in quella Esposizione-Sviluppo-Ripresa che ogni studente della Forma-
Sonata recita come un mantra da esame obliabile già il giorno dopo. Dopo
la Rivoluzione Francese i triangoli amorosi dell'aristocrazia diventano,
nella borghesia studiosa, schemi di pensiero equilateri da schiantarci
dentro ogni possibile scissione schizofrenica; fino ad Io, Es e Super-Io, il
“triciclo” freudiano. Ma era poi, il Beethoven della Transizione presunta,
dialettico? Un compositore intento a tirare fuori mostri strutturali da brevi
motivi, scale e arpeggi, “ritardi” armonici, “pedali”, ovvero note tenute al
“basso” che non vanno né su né giù, di quale evoluzione progressiva è mai
capace? Sarebbe come dire che un chimico, quando butta nel precipitato
quel granello di sabbia intorno a cui si aggregherà il cristallo, ha riassunto
tra due dita l'intero big-bang... Beethoven non è un filosofo umanista: è un
recettore di forze materiali. In lui, la materia, pensa. Il caos si fa ordine,
ma prima gode un bel po' a razzolare libero per lungo tratto tra gli interstizi
dei mondi possibili. Solo Beethoven poteva osare un materiale così
insignificante come quello esposto nell'“Allegro con brio” della Sinfonia
Eroica, e renderlo, per pura fiducia nella sua evoluzione materica,
germinativo. Solo Beethoven è capace di rendere il big-bang, al principio
della Nona Sinfonia, un argomento musicale. I buchi neri, son forse
questione di dialettica hegeliana? E questo disordine materico viene creato
e, infine, risolto (tranne quando, nell'Età che io chiamo “della
Trascendenza”, risolto non viene più) ogni volta in modo diverso. Per
questo, i “tre stili” non reggono. Le mie tre età: Età dell'Integrazione, Età
della Lotta, Età della Trascendenza, invece? Ma almeno, esse sono
ripartizioni di eventi, organizzazioni di oggetti musicali, non “stili”.
Parlare di stili, in Beethoven, è come parlare di geologia davanti al
Partenone, perché è fatto di pietre. Lo stile è la parte documentabile, e
quindi transeunte, di un'opera. L'unico che abbia esposto con efficacia lo
stile di Beethoven è Alex, il protagonista del romanzo A clockwork orange
di Anthony Burgess (più noto come Arancia meccanica, in dubbia versione
italiana, per via dell'omonimo film di Stanley Kubrick). In quel romanzo,
in quel film, lo stile di Beethoven porta alla transizione tra un crimine e
l'altro. Alex, a quanto pare, non aveva la pazienza di ascoltare Beethoven
fino alla fine... I Finali di Beethoven, almeno nella presunta fase della
“Transizione”, sono l'emergere alla luce degli uomini, schiavi del Tempo.
La redenzione dal male, però, non è uno stile. Volete definirla una
religione? ne possiamo discutere. Io preferisco il termine “mito”. Il mito di
Prometeo, che dona il fuoco agli uomini, è il mito di Beethoven; per
questo ne abbiamo fatto la struttura sottesa al nostro discorso.
4. Salvatore Viganò fu il Wagner del balletto. Lo rese una vicenda
emblematica, un teatro pantomimico, un simbolo di quel linguaggio del
corpo che fisiologi illuministi come d'Holbach e Mesmer, sui due opposti
fronti della visionarietà scientifica e della ciarlataneria, stavano indagando
a correzione del fallibile idioma umano. Il ballerino era figlio della sorella
di Luigi Boccherini. Durante una serie di spettacoli a Madrid, anche allo
scopo di incontrare il celebre zio, si era innamorato di Maria Medina, che
stava a lui come la statua di Afrodite sta a Pigmalione. Viganò prendeva la
musica come guida di azioni allegoriche. Pensava il corpo fosse il tempio
di forze divine.
L'incarico che diede al giovane renano di musicare un “rituale” su
Prometeo, artefice dell'umana intelligenza, dunque, non fu una zona
d'ombra nella biografia del Prometeo di Bonn, spiegabile solo con il suo
desiderio di farsi una posizione a Vienna. Partitura centrale nella parabola
del primo Beethoven, Le creature di Prometeo viene abitualmente ignorato
dalla cucina del sublime sorta sul corpaccione pentagrammatico del Vate
sordo. Invece, ogni discorso su Beethoven deve partire da qui, da questa
allegoria del destino umano reso movimento, respiro, pulsazione del tempo
nel corpo: danza. In non dissimile maniera Stravinskij, giunto a Parigi,
ritenne di fare teatro musicale non subendo i riempitivi di un libretto
operistico – il vintage musicale per ricicli in formule narrative di quanto,
nei Classici, era pura geometria di suoni – e scelse il balletto. Il balletto,
per Beethoven come per Stravinskij, è una drammaturgia senza testo.
Significato di gesti, senza l'equivoco delle parole. Già a Bonn il Nostro
aveva sfogato (ricordate?) la propria smania di raccontare coi suoni
scrivendo per il conte Waldstein, appena aggregato nell'Ordine Teutonico,
una Musica per un balletto cavalleresco analoga a quei tableaux-vivants,
quadri fatti con persone vere, che rappresentavano il gioco di società
preferito dei fatti ricchi dai Tempi Nuovi. La partitura apre il suo catalogo
non ufficiale, i W.o.O., “opere senza numero d'opera”: opere che non sono
Opere, perché non vengono catalogate tra quelle. Non sono opere minori.
Beethoven acconsentì alla stampa di trascrizioni e arrangiamenti non suoi,
per svariati organici, di lavori importanti, e simili zeppe entrarono a
inquinare il mare magnum del catalogo ufficiale beethoveniano, “la
rassegna degli Eroi”, fino a renderne perigliosa, in alcuni tratti, la
balneabilità. La Musica per un balletto cavalleresco W.o.O. 1 venne
annunciata come opera di Waldstein. Il Beethoven di Bonn voleva fare il
pianista, non pensava di poter fare il compositore... Le Creature di
Prometeo, lo abbiamo visto, doveva chiamarsi “Gli uomini di Prometeo”.
La censura non gradì l'esondazione dal mito. Di creature abbonda il
Parnaso, ma gli uomini camminano sulla terra, che è retta da sovrani, Zar e
ministeri. Gli uomini non possono essere Allegorie, sennò sfuggono di
mano.
L'Allegoria era diventata, nel periodo rivoluzionario, la maniera più spicca
per trasmettere ideali politici e sociali. Nella cultura illuministica
sopravvivono parecchie tracce del Rinascimento: l'epoca delle Imprese,
figure allegoriche che i condottieri neopagani, liberi da ogni soggezione
alla croce, impiegavano a rappresentare il proprio carattere e destino. Ne
Gli uomini di Prometeo questa iconografia ieratica si fondeva con il
misticismo razionalistico della Massoneria, il suo culto del fuoco e della
luce. Gli studi di Ottica, cui Goethe aveva contribuito con la Teoria dei
colori, dimostravano che la luce è solo una percezione sensoriale umana,
un canovaccio che il cervello riempie di figure dai contorni immaginari.
Gli uomini creano la luce perché dalla luce sono stati creati: il fuoco di
Prometeo. Beethoven conosceva bene il mito del Titano incatenato alla
roccia. Eschilo, a lui così caro, nel Prometeo incatenato, ne fa un martire
della conoscenza. La Civiltà dei Lumi identificò nel libero pensatore,
punito da Zeus, e ritratto dal poeta tragico col pugno levato contro il dio, a
profetare la sua fine, l'Impresa di ogni vittima del fanatismo, da Tommaso
Moro, Giordano Bruno e Tommaso Campanella fino ai profeti dei Tempi
Nuovi: Helvétius, Voltaire, Rousseau, Diderot... Nella Cantata per la
morte di Giuseppe II, primo capolavoro di un Beethoven ventenne, sta
scritto: “Un mostro, Fanatismo il suo nome, emerse dalle profondità
dell'Inferno”. Il meccanicismo organico preparava il trionfo della Chimica
e la Fisica sperimentale; anche gli esseri umani, dunque, da automi,
partecipavano al movimento incessabile e vuoto, la “forza che tutto
affatica”, della natura. Attraverso il genio visionario di Viganò, Beethoven
comprese che la musica poteva studiare questa forza oscura, insensata – ed
essa sola, ovunque, presente – come le scienze esatte ne osservavano i suoi
effetti nella materia bruta. Tutto il reale andava ricondotto ai suoi riflessi
nello specchio della mente umana.
Viganò immaginò una vicenda esoterica. Prometeo infonde in automi privi
di anima la potenza vivificante dell'Armonia, e chiede ad Apollo di
convocare poeti e musici del mito, nonché le Muse stesse, ad educarne lo
spirito. Le loro arti renderanno il meccanicismo sensoriale degli automi:
gli uomini, espressioni di un ordine superiore. Infine Pan e Bacco – gli dèi
minori, quelli dei sensi – li inizieranno alla danza universale di eros. Zeus
è Re solo perché ha sconfitto Chronos, suo padre. Prometeo vuole liberare
Chronos, il Tempo, dalla sua fissità che nega la morte, perché con il negare
la morte la Chiesa aveva eretto il rogo su cui immolare Giordano Bruno, il
Prometeo che si fece martire per testimoniare mille e mille altri roghi.
Beethoven non è il più grande compositore della storia. Johann Sebastian
Bach gli è superiore. Mozart gli è superiore. Wagner ha dischiuso mondi
infinitamente più lontani e iridescenti. Claude Debussy è più musicista di
Beethoven fin dalla Suite bergamasque. Beethoven non è solo un
musicista: è Prometeo che, osservando ogni giorno la morte negli occhi
dell'aquila, la rende un evento vano. Beethoven ha introdotto nella musica
occidentale il vuoto, il silenzio di ogni lotta qualora se ne consideri l'esito
naturale. La “Marcia funebre” dell'“Eroica”, piuttosto che venire
composta, è uno studio su come Chronos decompone ogni creatura, se solo
gli si permette di agire.
“Ci siamo: qui, all'orizzonte del mondo, su questo spiazzo, ultima costa
della Scizia. Disumani, vuoti silenzi”. Così si apre il Prometeo incatenato
di Eschilo, e sembra descrivere le ultime battute della “Marcia funebre”
beethoveniana. Sono i “sovrumani silenzi” dell'Infinito di Giacomo
Leopardi. Il Prometeo di Eschilo è una figura fusa nella roccia: un'Impresa
non allegorica, perché creatura viva. L'Illuminismo è una scoperta del vero
a spese del bello; della coscienza a spese della felicità. Beethoven è il
primo intellettuale dei Tempi Nuovi a saperlo, e non averne paura. Per
questo Prometeo gli è così caro, tanto da sfidare Chronos e fissarlo in una
linea del “basso”. Nel Finale de Le creature di Prometeo compare un tema
di danza imprigionato su un “basso ostinato”, Allegoria della roccia su cui
Prometeo giace incatenato. Beethoven, pare, lo trovò per caso, rovesciando
la parte del violoncello in un Quintetto di Steibelt, il re del “tremolo”, che
lo aveva sfidato in uno di quei duelli tra improvvisatori dei quali
l'aristocrazia viennese si compiaceva come, il popolino, dei combattimenti
tra galli. Può darsi sia una storia apocrifa, ma che Beethoven lasciasse
trovare a Chronos, al caso, le idee germinative, lo dimostra l'intera sua
opera: per esempio, la canzone croata che apre la Sinfonia n. 6 op. 68
“Pastorale”, oppure l'Inno religioso su cui è costruito il “Trio” dello
“Scherzo”, nella Sinfonia n. 7 op. 92. La stessa “Marcia funebre”
dell'“Eroica” è fortemente imparentata con quella dell'Achille di
Ferdinando Paër, e una simile redenzione delle marce militari, gli Inni
rivoluzionari della musica francese e il linguaggio modale delle molte
canzoni scozzesi, gallesi – o anche polacche, tirolesi, veneziane – da lui
armonizzate, potrebbe essere oggetto di un ponderoso studio. A noi, qui,
interessa solo stabilire di che cosa queste parodie sono Impresa,
raffigurazione allegorica. Ovvero, del Tempo. Sono Impresa di Chronos.
Beethoven utilizzò il tema finale delle Creature, dapprima, in una
Contraddanza, la n. 7 W.o.O. 14, scritta nel 1795 per la festa di Carnevale
nella Redoutensaal, a Vienna. Non era un riconoscimento da poco. L'unico
incarico fisso di Mozart a corte fu proprio la fornitura di simile musica
festiva. Successivamente, sullo stesso tema viene costruita l'intera op. 35,
Quindici variazioni con una Fuga che Beethoven stesso, proponendole per
l'edizione a stampa, definisce concepite secondo uno stile completamente
nuovo. Si tratta di una Impresa; come lo è il tema dell'“Inno alla gioia”,
che attraversa l'intera vicenda compositiva beethoveniana. Il Tempo gioca
a ribadire destini, ma le voci lungo le quali essi si sviluppano attraversano
l'intera gamma delle emozioni umane: delle creature che il Tempo, come
Prometeo, ha tratto alla vita. Così la coscienza di essere vivi: la danza, la
luce della natura, l'amore; tutto il divenire del creato, fattosi voce di
individui, suoni tratti alla realtà, nega momentaneamente l'insignificanza
del Tempo, e in quel “momentaneamente” sta l'essenza stessa della musica,
l'eredità che Prometeo le ha confidato.
Cominciando la propria avventura di sinfonista Beethoven riprende, nella
Sinfonia n. 1 op. 21, “Andante cantabile con moto”, uno spunto melodico
della Sinfonia n. 40 K. 550 di Mozart, però lo incastra dentro una scrittura
a Canone che ha la fissità con cui le creature di Prometeo si destano alla
vita. Vuole evocare un diverso livello di coscienza, una svolta epocale.
L'illusione dell'Illuminismo: che studiare le forze della natura sia un
esorcismo della Ragione, ha ceduto il passo al senso del Tempo
onnipossente. Chronos, ora, ha vinto. Occorre un nuovo Prometeo che
insegni agli uomini le arti necessarie a soggiogare il Tempo. L'indagine
sulle risorse disponibili alla lotta sarà, per il Maestro, l'Età della
Integrazione: la prima. Poi viene l'Età della Lotta con Chronos. Sarà vinta
da Beethoven solo con la Settima Sinfonia. Dopo la Settima, dunque, si
apre l'Età della Trascendenza, quando Prometeo viene liberato dalla rupe,
ma scopre che le sue creature sono tornate automi: esseri di pietra sordi ad
ogni suono. La chiaroveggenza è la più amara delle solitudini. “Socrate e
Gesù sono i miei modelli”, dice l'ultimo Beethoven, non più ostile, ma
indifferente al divenire del tempo, che lui ha trasformato, dal fiume di
Eraclito dove non ci si può bagnare due volte, a cerchio in perenne orbita
su se stesso. Nelle ultime sue opere non c'è evoluzione, ma solo moto
apparente. La loro Impresa è l'uroboro: il serpente che si mangia la coda,
simbolo di eternità, luogo nella cui fine è anche ogni inizio.
Sulla propria scrivania, Beethoven conservava sotto vetro queste
inscrizioni attinte ai misteri dell'antico Egitto: “Io sono colui che è. Io sono
tutto ciò che è, che è stato e che sarà. Nessun mortale ha sollevato il mio
velo”. E poi: “Egli è l'unico, da se stesso generato, e a questo unico tutte le
cose devono la loro esistenza”. Sono una dichiarazione di Poetica per gli
ultimi Quartetti. Nel suo Diario compare, trascritta, questa sentenza tratta
dal Bhagavadgītā: “Sii laborioso, compi il tuo dovere, abbandona
qualsiasi preoccupazione circa l'esito delle tue azioni e considera identico
qualsiasi avvenimento, che ti arrechi il bene come il male. Questa
equanimità è detta Yoga”. È un oracolo per la vita nel tempo di Chronos.
Una filosofia della rinuncia che spiega la sostituzione, su pressioni esterne,
della Grande fuga op. 133, come Finale, nel Quartetto op. 130.
Combattere perché non succedesse, ormai, a Beethoven non interessava
più. Gli dèi, nei miti antichi, non sono saggi, sono indifferenti.
5. Il ballettò di Viganò non fu il primo incontro di Beethoven con gli
automi, queste Imprese dell'Umanesimo ucciso progressivamente per
opera di un Faust tecnologo. Dal Golem di Rabbi Löw ai robot
protagonisti nel dramma R.U.R. di Karel Čapek (robota è, infatti, parola
cèca), fino alla Olympia di Hoffmann, la modernità cerca il segreto
dell'immortalità negli ingranaggi della vita. Il primo incontro di Beethoven
con gli automi è legato alla donna che, se non amò di più, vi fu comunque
legato più a lungo, otto anni, e che gli diede una figlia, Minona (“Anonim”
letto al contrario) mai riconosciuta: Josephine von Brunsvik. Studi recenti
l'hanno spodestata (ma non del tutto) dal trono di Immortale Amata, però
non c'è dubbio che con suo marito, il conte Joseph von Deym von Střítež,
Beethoven giocò quella partita tra privilegi di casta e virtù dello spirito che
lo vide sempre perdente.
Il conte Deym è uno di quei personaggi che ogni biografo benedice nel
nome di Casanova, Lorenzo da Ponte e quanti libertini meno folgorati dal
galvanismo nelle zone erogene produsse l'Età dei Lumi. Intanto non si
chiamava Deym, ma Müller; qualcosa come l'italiano Rossi. Aveva
cambiato nome in Olanda, dove, giovane ufficiale, si era rifugiato dopo
avere ucciso un commilitone in duello. Nel frattempo, a Ercolano,
venivano fuori colate di statue grecoromane, neanche le avesse eruttate il
Vesuvio, tutte bianche immacolate com'erano, sicché per merito loro
Antonio Canova risparmiò tutta la vita sui colori. Müller, ora Deym,
ricevette dalla regina di Napoli e Sicilia, Maria Carolina d'Absburgo, la
sorella dell'Imperatore, la licenza di farne calchi in gesso. A quel tempo la
mania di portarsi a casa copie di quei relitti così trendy di culture
leggendarie – magari provviste, queste, di testa e regolari arti – contagiava
tutti i fatti ricchi dai Tempi Nuovi. Si edificavano perfino musei che erano,
quindi, copie di musei altri, edificio compreso. Müller, dotato di più senso
pratico, guidò il “clonatore” Deym, e quando i due, che poi erano uno,
tornò/arono a Vienna, aveva/no con sé un metaforico calco, in gesso, della
mitica cornucopia. Il museo viennese di Deym ostentava copie dei grandi
capolavori scoperti ad Ercolano, ma in più c'era una sezione di ritratti in
cera di illustri personaggi, tutte maschere ricalcate al naturale da quella
faccia di bronzo del presunto conte, nonché, attrazione massima, un'intera
galleria di ordigni meccanici culminante in complicati, sferraglianti
“automati” semoventi. Quando, nel 1790, il feldmaresciallo Ernst Gideon
von Laudon – il quale, riconquistando Belgrado, cominciò il processo che
rese i Balcani quella specie di assemblea condominiale permanente che
sempre poi furono – morì, al Deym venne in mente di costruire un bel
tempietto funebre con tanto di Allegoria dell'Austria con Marte pensoso
raccolto sul feretro. A cuspide del tutto “un orologio il cui pendolo
rappresenta un sole in pierre de strasse che, specialmente di notte, produce
oscillando il più eccellente effetto. Ogni ora risuona un'appropriata musica
funebre scritta dal celebre Capellmeister Mozart che dura otto minuti”:
così la Wiener Zeitung, e si tratta dell'Adagio e Allegro per un organo a
cilindri K. 594, cui si aggiunsero (Deym pagava bene, perché i soldi glieli
prestava quel filibustiere di Müller) i K. 608 e 616. Beethoven contribuì
all'infernale ordigno nel 1799, un anno prima del Prometeo, con i Fünf
Stücke für die Flötenhur, che sarebbe quell'orologio posto sopra il Marte
corrucciato, a rintronargli, ora dopo ora, il bronzeo cimiero.
Successivamente (von, sic) Deym ideò una macchina da scrivere e una
sorta di antenato del gioco “Il piccolo chirurgo”, solo che qui il modello
pieno di sensori era una donna incinta illustrante l'intero processo della
vita, dal concepimento allo sviluppo dell'ovulo; fino a quando, festante,
partoriva. Fu fatto ciambellano, e nel 1798 costruì un palazzo all'altezza
delle sue due, una per ogni identità, vanaglorie.
Questo incrocio tra Leonardo da Vinci e il prof. Baltasar dei cartoni
animati jugoslavi veleggiava sulla cinquantina quando, il 29 giugno 1799,
sposò Josephine von Brunsvik, che, l'abbiamo visto, qualcuno ancora
identifica per l'Immortale Amata di Beethoven, e che fu, se non quella,
senz'altro la Immorale Concupita. Il Palazzo delle Arti, come venne
pomposamente chiamato, in breve aspirò tanto di quel denaro che a sentire
la musica di Beethoven per l'“orologio a flauti” c'era ad ogni ora un
creditore diverso. I devoti del Nostro sogghignano malignamente, ma forse
non sanno che la Josephine, come tante Silvie dagli occhi “splendenti e
fuggitivi”, sapeva ben distinguere tra Venere Ctonia e Venere Celeste, e
mentre il suo calco in gesso giaceva con lo specialista Deym, il suo corpo
era con Beethoven...
A noi, di tutta questa pochade alla Georges Feydeau, interessa l'ossessivo
interesse del compositore per i suoni riprodotti: la meccanica delle
emozioni, Impresa della modernità straniante. Fu sempre così. Anche il
suo rapporto con il pianoforte, uno strumento “somigliante a un'arpa”,
“imperfetto”, e che, per lui, sempre sarebbe rimasto tale. Lo strumento su
cui odiava suonare, preferendolo come confidente di improvvisazioni
ondivaghe verso mondi estremi, e pur di non rimanere confinato al quale, a
costo di divenire, da virtuoso che era, compositore – il primo vero e
proprio della storia – benedisse in segreto, in cuor suo, la sordità. Il
pianoforte era lo strumento del quale spezzava con furia percussiva le
corde, e che gli amici trovavano, in casa sua, perennemente scordato:
soprattutto quel prezioso Érard ricevuto in dono e presto usato come
cassapanca per ogni oggetto trovato sparso per casa. Lo strumento dentro
cui versava, con un gesto secco, mentre componeva, interi calamai: anche
il pianoforte, la croce dove suo padre lo teneva inchiodato, bambino, come
Prometeo alla rupe, fin oltre la mezzanotte, fu sempre, per Beethoven, “un
automate”.
E ad un automate: il Panarmonicon di Mälzel – una sorta di Roland
campionatore di suoni con, invece dei microchip, la meccanica di una
vaporiera – Beethoven dovette anche l'unico successo pieno della sua
carriera, La vittoria di Wellington alla battaglia di Vitoria op. 91, un brano
così orrendo da doversi sospettare in chi lo scrisse un feroce intento
parodistico verso il pubblico filisteo (ora va quasi di moda parlarne bene;
la madre degli snob è sempre incinta). In realtà Mälzel, l'orchestrazione di
quel jingle da videogioco Super Mario Bros., non se l'aspettava, e contava
di trasportare il Panarmonicon in Inghilterra per trasformarlo in una slot
machine incantata. Aveva ragione lui, ma Beethoven, quando quegli varcò
la Manica, gli fece causa lo stesso. La vendetta dello one man band fu
efferata, come sempre lo sono le vendette nate per metastasi dei buoni
propositi. Si tratta di quegli infernali cornetti acustici: a cremagliera, a
balconcino, a fioriera, a schiacciapatate per purea, ad innaffiatoio, che il
meccanico ordì a funestare vieppiù quella sordità che dal 1818 divenne,
nel Maestro, presuntamente completa. Il “presuntamente” è un doveroso
omaggio a Smart, che asserisce di avere conversato con lui, in data ben
successiva, senza alcuna difficoltà. Pare anche che Beethoven, a nemesi
storica dell'“orologio a flauti” deymiano, udisse perfettamente, in quegli
ultimi anni del suo passaggio terreno, anche il carillon che segnava le ore
nella sua taverna preferita, e che eseguiva un brano di Cherubini.
Comunque sia, la sordità totale, vera o simulata che fosse, permise al
Maestro di non dover sentire l'infernale ticchettio dell'ultima trovata
maelzeliana: il “metronomo”, al quale si deve l'essere, il suo nome, il più
infamato dagli studenti di musica in età prepubere. Sul metronomo, ultimo
automata da lui incontrato in vita prima dei bizzarri strumenti terapeutici a
lui recati sul letto di morte dai dottori Wawruch e Malfatti, Beethoven
aveva le idee chiare: non serve a chi ha una percezione innata del tempo,
ed è inutile per tutti gli altri. Insomma, non lo poteva soffrire. La sua
vendetta su questo Mälzel-Chronos della musica fu clamorosa; vale a dire,
in suoni. L'Ottava Sinfonia presenta, nell'“Allegro scherzando”,
l'orchestrazione di un Canone burlesco sul motivo “ta-ta-tà; ta-ta-tà; ta-ta-
tà, lieber Mälzel” improvvisato una sera di bisboccia a scherno del
meccanico metronomico, e nel quale la satira dell'automatismo stupidevole
si fa raffinato distacco dalle passioni. L'episodio è riferito da Schindler, e
quindi ha buone probabilità di non essere vero, ma qui non si parla del
Beethoven storico; invece, di un compositore sordo in visita a Prometeo
incatenato, nell'atto di insegnare al Titano i suoni per far danzare la sua
aquila (l'immagine è di Nietzsche; prendetevela con lui, ma andategli
molto vicino, perché è quasi cieco...). Successivamente, nello “Scherzo”,
che tale non si chiama, della Nona Sinfonia, Beethoven doveva ritrovare il
ritmo originario della natura: il tempo di un Prometeo danzante sfuggito al
supplizio dell'aquila. Un tempo demoniaco, inumano, nel quale la biologia
dell'esistere si redime da qualsiasi illuministica violenza ad orologeria.
Beethoven giunse a concludere un'età dove la fiducia nel flusso del tempo
in quanto sommo bene: la fede ireneica nel progresso dell'umanità, stava
subendo un deciso taglio ad opera della ghigliottina, per poi venire
definitivamente dissanguata dagli imbrogli di quell'apocalisse in forma
somatica che si chiamò Napoleone Bonaparte. Goethe, che la vide prima di
tutti, dell'apocalisse aveva una gran paura, e si rinchiuse nella corte di
Weimar a fare il Cortegiano di Baldassarre Castiglione in un Rinascimento
di gesso teutonico che sembrava fabbricato a Disneyworld; Beethoven,
l'apocalisse, la attraversò per intero e ne riuscì dentro uno di quegli
universi dei quali i Beati non possono esprimere che una vaga
luminescenza. Per questo la sua vicenda di uomo e creatore è una
“leggenda aurea”, e va, dunque, narrata usando codici simbolici.
I poeti tragici greci scrivevano trilogie basate sulla progressione dialettica
Colpa-Espiazione-Catarsi. Era la Forma-Sonata della narrazione mitica.
Nel segno di questo triplice respiro del mito è proceduta, auspice
Prometeo, anche la mia narrazione dell'esistenza beethoveniana, riflesso
– e non viceversa – di quella progressione dialettica Età dell'Integrazione-
Età della Lotta-Età della Trascendenza che ha scandito il racconto della
sua vita interiore.
BEETHOVEN. I SACRI TESTI. UN'ESEGESI.

IL PENTATEUCO

Raccoglie “i cinque libri della Legge”: testimonianze sul campo e referti


del Sommo medesimo che hanno attraversato indenni il setaccio dei secoli
(con una importante eccezione, per la quale v. I Vangeli apocrifi). Come
sempre accade con i semidei oggetti di culto in vita, i luoghi della
autoconfessione beethoveniana sono stati divulgati per ultimi. In Italia,
poi, in modo proditorio e affetto dalla “sindrome di Google Translator”,
come vedremo.

S. BRANDENBURG (a cura di), Ludwig van Beethoven. Epistolario, 6


voll, Skira, Milano, 1999-2008.
Beethoven ha scritto lettere ad amici, patroni, sovrani, mecenati e
soprattutto (tante) ad editori. Col tempo, queste ultime hanno preso il
sopravvento, e definiscono con esattezza il margine di ciarlataneria
sdoganabile in un genio. Le lettere di Beethoven sono affette (o
impreziosite, a scelta) da “barbarismi”, “solecismi” e “idiotismi” (così li
definiva il mio insegnante di Linguistica, col risultato che era lui a
sembrarmi idiota). Soprattutto, Beethoven indulge a giochi di parole tipici
dei geni musicali, e che per un traduttore sono, se è musicista, un orzaiolo
sotto un occhio; se non lo è, il seppuku rituale di Rashomon. Luigi della
Croce, in questa integralissima versione italiana, è esemplare, encomiabile
e decorabile con medaglie varie al valore.

E. ANDERSON (a cura di), Le lettere di Beethoven, ILTE, Torino, 1968.


Questa Anderson pubblicò una raccolta di lettere beethoveniane tradotte in
Inglese. La ILTE ebbe l'idea di fare tradurre il tutto dall'Inglese all'Italiano.
Dunque, fino a poco fa, l'unica raccolta di lettere beethoveniane
disponibile nel Belpaese era un subappalto linguistico dove il potente
umorale linguaggio dell'Orso di Bonn veniva filtrato attraverso l'idioma
linfatico del Commonwealth. I risultati sono tali da rendere doverosa la
Brexit.

L. v. BEETHOVEN, Konversationshefte, 11 voll, Deutscher Verlag für


Musik, Breitkopf & Härtel, Lipsia, Wiesbaden, 1972-2001.
La DDR disponeva di molta forza-lavoro a prezzo fuori listino; donde la
decrittazione degli infernali Quaderni di conversazione beethoveniani, che
senza un lavoro di curatela sembrano il monologo di uno schizofrenico
naufragato su di un'isola deserta. Qui vengono riportati correttamente
anno, circostanza, riferimenti all'attualità e note con storie di persone
comuni e meno comuni. Ci vuole la pazienza di un Giobbe germanista che
magari in Germania abbia pure lavorato da corriere, vista la mostruosa
proliferazione di abbreviazioni, ma la conoscenza del vero Beethoven
passa di qui.

G. SCHÜNEMANN (a cura di), Beethoven. I quaderni di conversazione,


ILTE, Torino, 1968.
Raccolta dei Quaderni maturata durante il delirio hitleriano “Gott mit
uns”. Al curatore venne probabilmente dato diritto di vita e di morte sui
propri scrivani; fatto sta che questa edizione è di incredibile erudizione,
ricchezza di apparati e competenza filologica. Dopo di che, si arresta al
Quaderno XXXVII, avendo avuto, nel frattempo, il suo committente,
problemi di sindrome suicidaria compensativa. La versione italiana è del
tutto all'altezza di quella originale. Se siete fascisti nostalgici, non omettete
di definire questa crestomazia “la splendida editio princeps”.

F. WEGELER/F. RIES, Beethoven. Appunti biografici dal vivo, Moretti &


Vitali, Bergamo, 1993. Questo lavoro scritto col cuore in mano ha un
valore soprattutto per quanto riguarda l'infanzia e le prime esperienze del
genio renano. In realtà, è fatto più di interviste e referti di seconda o terza
mano che di osservazioni dal vivo. I due autori conoscevano troppo da
vicino Beethoven per non avere paura di quanto ne pensavano...

G. v. BREUNING, Aus dem Schwarzspanierhause. Erinnerungen an


Ludwig van Beethoven, Olms, Hildesheim, 2018.
Splendido diario nostalgico di un'infanzia dove l'Io narrante parla di sé e
del proprio mondo perduto almeno quanto del suo illustre interlocutore.
Breuning, anziano, luminare della Medicina, dimostra di avere mantenuto
quella capacità di osservare ogni cosa per la prima volta che hanno solo i
bambini.

A. THAYER/E. FORBES, The life of Beethoven, 2 voll, Princeton


University Press, Princeton, 1967.
Ovvero, l'emicrania del filologo. Diplomatico di mestiere, Alexander
Thayer dedicò tutta la vita a raccogliere materiale per un libro su
Beethoven che poi, in sostanza, non scrisse, terrorizzato da quanto del
Titano filantropo che voleva i Milioni abbracciati nel bacio del mondo
intero stava frattanto scoprendo. Gliene venne un'emicrania strategica
invalidante. Dopo la sua morte, la mostruosa mole di documenti e
testimonianze che aveva raccolto finì in mano a un curatore fallimentare
tedesco e uno inglese. La discendenza germanica diede origine a un
monumento in cinque volumi curato e integrato da Hermann Deiters e,
dopo la sua morte (è risaputo che occuparsi di Thayer porta sfortuna) da
Hugo Riemann. Negli USA, il manoscrittone finì nelle mani di Edward
Krehbiel, per poi venire trattato dalle mani di chirurgo plastico di Elliot
Forbes, il quale lo “lardellò” con innesti epidermici presi dalla versione
tedesca. Il risultato è un polpettone indigeribile ma imprescindibile che
rende la devozione a Beethoven qualcosa di paragonabile a ciò che spinse
San Girolamo, nel deserto, a nutrirsi di locuste.

L'ANTICO TESTAMENTO
(in ordine sparso di lettura)

A. B. MARX, Ludwig van Beethoven. Leben und Schaffen, 2 voll.,


Schumann, Berlin, 1902.
Erede dell'Idealismo tedesco, con la sua smania di risolvere ogni problema
dopo averne dimostrato la irresolubile complessità, Marx intreccia le
ragioni della vita e quelle dell'opera rendendo le prime causa necessaria e
sufficiente della seconda. Un libro per molti versi ancora insuperato.

V. WILDER, Beethoven, Fasquelle, Paris, 1903.


Un libro che ha il pregio di sintetizzare lunghe analisi tecniche in poche
righe. La qual cosa, purtroppo, se applicata alla biografia, diventa
qualunquismo acritico.

V. D'INDY, Beethoven, Laurens, Paris, 1913.


Il grande compositore e didatta, alfiere della “Schola cantorum” e della
ripresa di una Tradizione che nel suo caso si sposa orrendamente con
derive antisemite, era (ahimè) un fine beethoveniano. Leggete il suo libro
cancellando con un pennarello il nome dell'autore.

G. SCHMIDT, L. v. Beethoven, Nove Muse, Catania, 1970.


Libro affetto da neopositivismo, ma proprio per questo ricco di
informazioni anodine che possono, talora colpevolmente, venire piegate ai
più vari scopi.
F. GRILLPARZER, Beethoven, SE, Milano, 1995.
Il poeta è stato il più grande drammaturgo non musicato da Beethoven. Lui
non se ne adonta e dedica al Nume alcune luminose pagine di memorie
autobiografiche, qui integrate da lacerti dei Quaderni di conversazione e
da quell'elogio funebre durante la scrittura del quale il suo autore venne
sopraffatto dalla commozione, col risultato che la sua seconda parte è
illeggibile, e la prima, meravigliosa.

R. ROLLAND, Vita di Beethoven, Passigli, Bagno a Ripoli, 2015.


Il Premio Nobel cui si deve un'opera in più volumi (oggi insostenibile) su
Beethoven, nonché il romanzo seriale Jean Christophe, pure ispirato a
Ludwig suo, dà il meglio in questo ritrattino morale che è come una
maschera di cera presa dal volto vivo.

A. CASELLA, Beethoven intimo, Sansoni, Firenze, 1945.


Centone di lettere tenute insieme da saggetti densi e dove non c'è un filo di
grasso. Le traduzioni beethoveniane di Casella sono le più vicine al
curioso stile letterario dell'autore loro che si possa immaginare.

R. WAGNER, Scritti su Beethoven, Manzoni, Merone, 2018.


Il gioiello del libro è il racconto Una visita a Beethoven, che rivela al
contempo l'adorazione richardiana per il Bonnense e la sua avversione per
gli inglesi. Seguono prefazioni e note di sala dove si parla della Ouverture
Coriolano come cartone preparatorio al Wort-Ton-Drama, della Nona
Sinfonia come annuncio del Ring, di Wagner come annuncio di ogni
impostura storiografica, ecc.

E. BUENZOD, Pouvoirs de Beethoven, Editions Corrêa, Paris, 1936.


Un libro geniale, perché nella sua introduzione si dice che scrivendo di
Beethoven è impossibile sfuggire alla retorica, e poi, nel resto del libro, si
dimostra quanto fosse vero ciò che si era detto nell'introduzione...

G. E. MOTTINI, Beethoven, Bietti, Milano, 1940.


Importante perché fa capire qual era il posto riservato a Beethoven
nell'Italia a gagliardetti e passo d'oca appena entrata in guerra: meno di
cento pagine scritte come una guida turistica per dislessici.

W. RIEZLER, Beethoven, Rusconi, Milano, 1977.


L'istitutore che il celebre archeologo Adolf Furtwängler scelse per
l'educazione domestica del figlio Wilhelm, il futuro direttore d'orchestra,
era un filologo convertitosi alla musica in età matura. Il suo saggio rimane
la via maestra per capire l'ethos profondo della musica beethoveniana, non
senza riferimenti alla cultura idealistica romantica dove si riesce a far
sembrare semplici concetti di spaventosa complessità.

A. de HEVESY, Vita amorosa di Beethoven, Ghibli, Milano, 2015.


Uno strano libro che sembra raccontato, più che scritto, da certi tizi quali
se ne incontrano sui treni: quelli informati su ogni gossip succoso e inutile
relativo ai divi del momento. Il traduttore ce ne mette del suo, a far
sembrare il tutto la grammatica di una neolingua.

M. HÜRLIMANN (a cura di), Lettere e colloqui di Beethoven, Longanesi,


Milano, 1950.
Antologia dal glorioso passato, e tuttora bene organizzata per argomenti e
rubriche. Rimane la migliore nella ricca casistica di repertori
beethoveniani per conversazioni a tema in società.

N. DI FEDE (a cura di), Scritti e conversazioni di Beethoven, Cappelli,


Bologna, 1962.
Più disorganica della precedente, ma comunque con aperture su materiali
che nelle antologie contemporanee di referti lodoviciani non compaiono
affatto.

M. CHOP, Le nove sinfonie di Beethoven, Mondadori, Milano, 1953.


Il Baedeker dell'ascoltatore che pensa una partitura sia la piantina della
metropolitana. Chop ne ha pubblicato uno ancora più efferato sul Ring di
Wagner. Serve a chi pensa che quando hai individuato i temi di una
sinfonia, la struttura non serve.

A. BREUERS, Beethoven. Catalogo storico-critico di tutte le opere, Bardi,


Roma, 1950.
Un bric-à-brac vintage di tutto il beethovenabile possibile ai suoi tempi. Si
tratta di un'opera compilativa, utile a chi voglia dare l'illusione di sapere
ciò che non sa. Nessuna linea interpretativa, nessun pensiero aggregante.
Le opere (ora) W.o.O. sono ammucchiate in ordine numerico progressivo,
e non di composizione, come soldati di trincea.
E. LUDWIG, Beethoven, Hutchinson, London, 1945.
Titanismo, stile fiammeggiante, sbalzi aggettivali michelangioleschi.
L'autore si fece chiamare “Ludwig” di cognome come omaggio
lodoviciano. Logico che nello sbalzare il monumento al Nume suo perda la
trebisonda.

E. LUDWIG, Napoleone, Rizzoli, Milano, 1999.


Stesso discorso del libro precedente, non fosse che il suo soggetto, questa
volta, all'autore sta sommamente antipatico.

W. FURTWÄNGLER, Suono e parola, Fògola, Torino, 1977.


In proposito basterà dire che l'autore è l'unico direttore d'orchestra il cui
stile letterario sia all'altezza delle doti musicali. I saggi su Beethoven sono
il punto di partenza obbligato per ogni ricognizione ulteriore.

I. MAHAIM, Naissance et renaissance des derniers quatuors, 2 voll.,


Desclée, De Brouwer, Paris, 1964.
Monumentale atto d'amore di un celebre cardiologo. La sua lettura
integrale rischia, per il vero, di procurare extrasistole, ma il lavoro di
ricerca e documentazione è semplicemente spaventoso. L'opera ha il
merito di dimostrare in modo inconfutabile come la Grande Fuga op. 133
sia, e debba restare, l'unico Finale possibile del Quartetto op. 130.

IL NUOVO TESTAMENTO
(in (dis)ordine (an)alfabetico)

Q. PRINCIPE, I Quartetti per archi di Beethoven, Jaca Book, Milano,


2014.
In questo saggio del più grande scrittore (anche) di musica che abbiamo in
Italia il linguaggio esoterico degli ultimi Quartetti viene raccontato dal di
dentro le segrete ragioni dell'officina creativa beethoveniana.

J. KERMAN, The Beethoven Quartets, Norton, New York, 1967.


Libro estremamente tecnico, incline a risolvere tutto in analisi battuta per
battuta che risultano gravemente lesive di quell'autonomia individuale
dell'opera d'arte che è un criterio di bellezza.

G. ABRAHAM (a cura di), L'età di Beethoven, Feltrinelli, Milano, 1984.


Libro improntato a criteri storicistici utili per scoprire le influenze francesi
e operistiche sulle “impurità” musicali beethoveniane. Il resto è improntato
alla famigerata chiarezza anglosassone, e dunque tedioso come il cielo di
Londra.

L. LOCKWOOD, Beethoven. The music and the life, Norton, New York,
2005.
Analisi interessante per gli aspetti filologici e le rivelazioni sugli abbozzi
beethoveniani. Le trattazioni della vita e del genio del compositore nel suo
complesso sono spesso cattedratiche, non avvincenti.

G. PESTELLI (a cura di), Beethoven, Il Mulino, Bologna, 1988.


Raccolta di saggi di vari autori, fondamentale per conoscere le ultime
ricerche sui manoscritti, i processi creativi e il rapporto tra Beethoven e i
suoi interpreti.

A. POGGI/E. VALLORA, Beethoven. Signori, il catalogo è questo,


Einaudi, Torino, 1995.
Tutto Beethoven “minuto per minuto”, con una minuzia che rende
minutaglia l'apporto (quasi mai) di nuove idee.

M. SOLOMON, Su Beethoven, Einaudi, Torino, 1997.


Saggi sui sogni di Beethoven, sulla Immortale Amata, sul lavorio psichico
inerente ogni progettazione e realizzazione dei beethoveniani capolavori.
Scrittura brillante, schema narrativo da spy story.

R. WALLACE, Hearing Beethoven, University of Chicago Press, Chicago,


2018.
L'autore ha studiato la sordità di Beethoven da un punto di vista clinico,
nelle sue conseguenze sulle composizioni, a partire da un'analoga sventura
occorsa alla moglie, musicista. Il libro è straordinario per come illumina il
paradosso beethoveniano onde il massimo handicap possibile a un
musicista sia diventato, in lui, virtù principale del proprio genio creativo.

G. BIETTI, Ascoltare Beethoven, Laterza, Roma-Bari, 2016.


Racconto vivace, ben strutturato, sui caratteri dell'uomo e del musicista
Beethoven, prendendo intelligentemente in esame alcuni modelli,
parametri di studio dai quali dedurre ogni elemento dello stile.

U. MORALE, Introduzione a Beethoven, Bruno Mondadori, Milano, 1999.


Ottimo inquadramento storico, culturale e filosofico del problema
Beethoven.

L. LOCKWOOD, Le Sinfonie di Beethoven, EDT, Torino, 2016.


Relazione di un filologo sui problemi critici di abbozzi e manoscritti. Di
lettura ostica per chi non conosca già piuttosto bene le composizioni.

E. STERBA/R. STERBA, Beethoven and his nepewh, Pantheon, New


York, 1954.
Fiction sulle presunte pulsioni sado-omo-psicosociopatiche del Beethoven
zio poco amorevole. Gli autori si definiscono psicoanalisti di scuola
freudiana; il che è come se la mitica mela caduta in testa a Newton, la si
definisse sua discepola. Qualora Freud avesse insegnato queste cose,
l'Uomo dei Lupi, il suo paziente più celebre, sarebbe finito sbranato da
quelli, misteriosamente materializzatasi.

D. ARNOLD/N. FORTUNE, The Beethoven Companion, Faber & Faber,


1973.
Straordinario regesto beethoveniano di tutto lo scibile scioglibile in pillole
di pronta somministrazione critica. Necessario; anzi, inevitabile.

G. PESTELLI, L'età di Mozart e di Beethoven, EDT, Torino, 2016.


Della serie a fasi alterne di volumetti di Storia della Musica a cura della
Associazione Italiana di Musicologia, di certo il più brillante e meglio
scritto. Efficace e movimentata la ricostruzione dell'epoca, resa con
viscontiana veridicità “scenografica”.

P. BUSCAROLI, Beethoven, Rizzoli, Milano, 2004.


Più di mille pagine di appunti, materiali, intuizioni folgoranti e non; il tutto
sparso per un libro poi divenuto tale perché lo si è chiuso in una copertina.
Fondamentale come introduzione a questo mio libro che è due libri, visto
che vi sostengo opinioni diametralmente opposte. Tuttavia l'ho letto tre
volte, perché Buscaroli è uno scrittore talmente padrone dello stile e
magnetico per eloquenza antica che è impossibile sottrarsi al suo fascino.

M. COOPER, Beethoven. L'ultimo decennio 1817-1827, ERI, Torino,


1979.
Bella indagine, scritta da un vero narratore, del collasso in interiore
homine che segna, di pari passo allo sfacelo fisico, l'ultima altissima
stagione beethoveniana. In appendice una cartella clinica del bronchitico e
cirrotico cronico che rimane la più brillante del genere (il referto
dell'autopsia è di uno splatter da B movie).

M. BRION, La vita quotidiana a Vienna al tempo di Mozart e Schubert,


BUR, Rizzoli, Milano, 1960.
Straordinaria ed esilarante la ricostruzione del clima da nani maghi e
ballerine del Congresso di Vienna.

M. SOLOMON, L'ultimo Beethoven, Carocci, Roma, 2010.


Il più ampio e complesso dei libri dedicati a Beethoven dal più complicato
e grande dei suoi esegeti. Si passa dal problema della Massoneria a
Beethoven e il paesaggio romantico, per poi sfociare in un'analisi della
Settima Sinfonia nelle sue relazioni con i “piedi” della poesia greca che è
una di quelle folgorazioni capaci di porre fine a qualsiasi ricerca ulteriore.
Dovete leggerlo: “Muss es sein?”, “Es muss sein!”.

M. SOLOMON, Beethoven, Marsilio, Venezia, 1996.


Beethoven sul lettino di uno psicanalista che ha preventivamente fatto
ricoverare i colleghi Sterba in un asilo per alienati. Un libro di infinita
sapienza letteraria, analitica, critica. La parte musicale è un tantino
sacrificata, ma chi desidera stare per un po' con Beethoven come ci uscisse
a passeggio si rivolga senza indugio a uno dei pochi veri scrittori tra coloro
dei quali qui si tratta.

A. GAUTHIER, Ludwig van Beethoven, SUGARCo Edizioni, Milano,


1978.
Esile volumetto che riesce in poco spazio a condensare un ritratto
psicologico e un discorso sulla musica beethoveniana che altri non
riescono a concludere in più di mille pagine. Non faccio nomi. Il mistero si
infittisce...

R. MARTIN, I capelli di Beethoven, Piemme, Casale Monferrato, 2001.


Questo è un libro davvero singolare. Vi si narra l'odissea di una ciocca dei
capelli beethoveniani che un giovane musicista ebbe in dono da Ferdinand
Hiller, presente all'inumazione del Maestro, e di come essa finisse nelle
mani di un ebreo norvegese poi deportato dai nazisti; finché, dopo infinite
peripezie, non la ritroviamo nelle mani di una equipe di biologi i quali,
analizzandola, formulano una diagnosi inconsueta: Beethoven è morto per
intossicazione da piombo.

J. KERMAN/A. TYSON, Beethoven, Giunti-Ricordi, Firenze-Milano,


1986.
Breve, smilzo, essenziale: cioè, generico, profilo.

H. C. ROBBINS LANDON, Beethoven. La sua vita e il suo mondo in


immagini e documenti d'epoca, Rusconi, Milano, 1997.
Album di ricordi, fotografie, lettere e testimonianze; il tutto affastellato in
una pressoché totale assenza di strumenti critici e giudizi interpretativi.
Sembra di stare alle mostre di Vincent van Gogh, dove ci si va perché van
Gogh è vissuto male e morto male, e dunque è nostro fratello.

S. CAPPELLETTO, Beethoven, Newton Compton, Roma, 1980.


La versione italiana di Kerman/Tyson, ma senza Kerman/Tyson; da cui la
qualità cristallina del discorso e la densità, pur in breve spazio, delle
analisi critiche.

P. RATTALINO, Celeste e infernale. Beethoven e la musica nel Congresso


di Vienna, Laterza, Bari, 2015.
Rattalino è un narratore sapido, ironico e magistrale nel rendere il clima di
un'epoca. Qui riprende i vecchi romanzi epistolari del Settecento,
disegnando una società di arruffoni impostori che sembra uscita dalla
penna di Casanova.

G. CARLI BALLOLA, Beethoven, Accademia, Milano, 1977.


È il libro che, adolescente, ha fatto da Galeotto alla mia ora
quarantacinquennale tresca col Sommo. Io lo adoro, e mi sia concesso di
non discuterne qui.

M. PORZIO (a cura di), Ludwig van Beethoven. Autobiografia di un genio,


Piano B Edizioni, Prato, 2018.
Niente di nuovo. Alcune traduzioni un po' troppo ammodernate. Per lo più,
raccolta di fonti secondarie (non che ci sia qualcosa di male: basta
saperlo).

C. DALHAUS, Beethoven e il suo tempo, EDT, Torino, 1990.


Siamo nella cerchia dura e pura dei Talebani analitici tedeschi, pronti ad
aggrapparsi a qualsiasi “ritardo” sulla Sopradominante pur di non cascare a
capofitto in paludi ideologiche magari romantico-mitiche-neonazi. La
lettura di questo libro è piacevole e utile quanto quella delle temperature
massime e minime nell'emisfero australe, se abiti a Cantù.

L. MAGNANI, Le due verità di Beethoven, Nuova Alfa Editoriale,


Bologna, 1980.
Magnani è sempre oracolare ed epico. Traccia segni esoterici sulla fronte
dei suoi lettori iniziati. Se uno non è tra gli Eletti, è Magnani a rischiare di
essere “iniziato” e mai finito.

M. BORTOLOTTO, Introduzione al Lied romantico, Adelphi, Milano,


1984.
Un Bortolotto meno Libro tibetano dei morti del solito. Quasi discorsivo,
talvolta.

P. RATTALINO, Il Concerto per pianoforte e orchestra, Giunti-Ricordi,


Firenze-Milano, 1998.
Una raccolta di schede utili scritte con mano leggera da un autore sempre
nemico della retorica e dell'accademismo.

C. ROSEN, Le forme sonata, EDT, Torino, 2011.


Un libro uscito in prima edizione decenni fa, e che nei Conservatori
italiani fa uscire di testa da decenni i docenti che non ce lo trovano, e
quelli che ci trovano i docenti usciti di testa perché non ce lo trovano. Un
classico, se ce n'è uno.

C. ROSEN, Lo stile classico, Adelphi, Milano, 2013.


Il titolo non vi inganni: quando Rosen è apodittico, vuol dire che ciurla nel
manico. Dopo pagine e pagine di analisi, finiamo per non sapere più, 'sto
stile classico, che diamine sia; il che è proprio ciò che Rosen voleva.

C. ROSEN, Le Sonate per pianoforte di Beethoven, Astrolabio, Roma,


2008.
Esito di una serie di seminari, il libro è importante soprattutto per la prima
sezione, dove spiega come si decodificano le indicazioni dinamiche e
agogiche di Beethoven, e che influsso ha avuto l'evoluzione dei pianoforti
dell'epoca sulla sua scrittura per tastiera.
P. RATTALINO, Storia del pianoforte, Il Saggiatore, Milano, 1982.
I capitoli sul sonatismo di Beethoven sono pieni di intuizioni e notizie
tecniche esposte con la consueta brillantezza.

L. MAGNANI, Il nipote di Beethoven, Einaudi, Torino, 1972.


Incursione del grande erudito nei territori dell'amore efebico, con
insistenze su frequentazioni “pasoliniane” del povero Karl per lo meno
dubbie, e molta narratività che sarebbe morbosa se non fosse al limite
dell'autoparodia.

L. MAGNANI, Beethoven nei suoi quaderni di conversazione, Einaudi,


Torino, 1975.
Straordinaria raccolta antologica, ordinata per temi e soggetti, di passaggi
presi e “disossati” da quel gran bouillabaisse dagli ingredienti dubbi che
sono i Quaderni beeethoveniani. Indispensabile.

L. MAGNANI, Beethoven lettore di Omero, Einaudi, Torino, 1984.


Bellissima antologia di passaggi dei poemi omerici sottolineati da
Beethoven e commentati da Magnani con una competenza per il mondo
classico utile a rivelare quanto decisivo esso sia per la Poetica del
compositore.

L. MAGNANI, Goethe, Beethoven e il demonico, Einaudi, Torino, 1976.


Libro che fissa i limiti delle affinità elettive tra il poeta e il compositore, e
di entrambi verso l'attrazione romantica per il limite.

J. M. O' SHEA, Musica e medicina. Profili medici di grandi compositori,


EDT, Torino, 1991.
Il capitolo su Beethoven è una anamnesi di sintomi e manifestazioni
patologiche nitida come quella di una clinica svizzera. Si resta stupefatti di
come un uomo in quelle condizioni abbia potuto scrivere ciò che ha scritto.

H. SACHS, La Nona di Beethoven, Garzanti, Milano, 2011.


Libro informativo, un po' burocratico nel suo mettere insieme i risultati di
una indagine condotta con asettica puntigliosità da dottorato di ricerca.
Tant'è: la tanto celebrata “chiarezza anglosassone” spesso è tale perché
immune a qualsiasi idea interpretativa.
G. STANLEY/J. CROSS (a cura di), The Cambridge Companion to
Beethoven, Cambridge University Press, Cambridge, 2000.
Compagno all'altro Companion, ma questa volta più affine ad una
schedatura erudita, salvataggio di dati in backup alla fine di
un'archiviazione informatica.

G. PESTELLI, Il genio di Beethoven. Viaggio attraverso le nove Sinfonie,


Donzelli, Roma, 2016.
Non sempre limpido nella scelta del percorso critico, il libro è comunque
una narrazione condotta con mano briosa e immune ad un certo “Walhalla
aggettivale” comune agli esegeti beethoveniani nostri connazionali.

P. RATTALINO, Le Sonate per pianoforte di Beethoven, Il Lavoro


Editoriale, Ancona-Bologna, 1989.
Il numero di righe minimo per sapere un numero di cose minuscolo sulle
Sonate beethoveniane, per poi tracciarci sopra una riga.

J. F. GREEN, Il nuovo catalogo Hess delle opere di Beethoven, Zecchini,


Varese, 2006.
Ormai di Beethoven si sono editati anche certi Canoni su margini di lettere
e fogli volanti per decifrare i quali ci è voluto Jean-François Champollion,
quello della Stele di Rosetta. Il libro di Green commenta in modo
stringente i torsi e le opere sprofondate nei cassetti della Storia che Hess
ha reintegrato dentro l'alveo della produttività beethoveniana.
Un'affascinante discesa archeologica in tesori dimenticati.

L. DELLA CROCE, Ludwig van Beethoven. Le nove Sinfonie e le altre


opere per orchestra, Studio Tesi, Pordenone, 1990.
Un testo documentatissimo, minuzioso, analitico. L'unico difetto è che
nella sua esigenza di un'obiettività sovrapersonale fa sembrare questi
capolavori un po' troppo varianti di una stessa Urwerk originaria.

A. BRENDEL, Über Musik, Piper, München, 2005.


Un capolavoro che ci viene da uno dei pochissimi pianisti in grado di far
correre le dita sulla tastiera di un computer con gli stessi esiti che su quella
di un pianoforte. I capitoli sull'umorismo beethoveniano e sulle “Diabelli”
sono forse gli esiti più alti tra la saggistica sul Nostro, monumentale come
quella sull'ebraico Talmud.
M. BASILE, Beethoven, Edizioni Futura, Firenze, 1980.
Libro “onesto”, nello stesso senso in cui Otello definisce Jago.

N. RESCIGNO, Beethoven, Fabbri, Milano, 1978.


Concepita come opera di pura divulgazione, tiene fede al suo proposito ma
senza inesattezze, banalità o luoghi comuni.

H. GOLDSCHMIDT, Beethoven. Werkeinführungen, Reclam, Leipzig,


1975.
Il principe dei musicologi “demoproletari” DDR ci pone di fronte alla più
limpida, densa, avvincente introduzione possibile alle opere di Beethoven.
Il libro è nato dalle note di copertina per l'integrale discografica
beethoveniana varata dalla etichetta di Stato Eterna. Da me scovato presso
un rigattiere berlinese che sembrava uscito dalla penna di Dickens, questo
libretto tascabile mi si è dimostrato di un peso specifico possibile solo
all'antimateria cosmica.

H. GOLDSCHMIDT/K. H. KÖHLER/K. NIEMANN (a cura di), Bericht


über den internationalen Beethoven-Kongress, 10-12 Dezember 1970,
Berlin Est, Deutscher Verlag für Musik, Leipzig, 1978.
Atti di un convegno. Giacevano per terra presso lo stesso rigattiere
berlinese. In competizione con la Germania Ovest intenta, nella Bonn
natale annessa ai suoi confini, in magnificazioni beethoveniane per il suo
genetliaco, la DDR risponde con una micidiale schidionata di ingegni
buoni alla casistica più gesuitica. Si tratta della raccolta di saggi più
importante mai uscita su Beethoven. Nella DDR sopravviveva ancora
quella scuola filologica tedesca che, nell'Ottocento, ha reso l'indagine sui
testi il referto autoptico dell'intera Europa al suo tramonto.

I VANGELI APOCRIFI

In questa sezione raccolgo quante opere narrative, divagazioni, mitologie,


sono fiorite sul mito di Beethoven senza incorrere, è il caso di dire,
platealmente, nel reato di “lesa maestralità” così frequente nei loro
corrispettivi filmici. Hollywood, infatti, non ha risparmiato il rude Orso di
Bonn, così “lacrimogenico”, tra sordità, solitudine e proclami di amore
universale. La sindrome filmo-larmoyant oscilla tra l'innocuo cagnone
sanbernardo di nome Beethoven (con replica in Beethoven II) a stucchevoli
versioni alla Senza famiglia di Hector Malot nelle quali l'Amata Immortale
(titolo del film) è proprio la Regina della Notte, bella impossibile e quindi
puttana e depredata del figliolo proprio, così impara. La vetta
dell'esecrabile la si raggiunge in Io e Beethoven, dove una certa Anna
Holz, versione transgender del violinista sommelier Karl, mima per il
Grande Sordo, nascosta nell'orchestra, i gesti direttoriali necessari a
condurre a buon fine la Nona Sinfonia; col che il regista dimostra di
intendere e, quel che è peggio, divulgare, la direzione d'orchestra presa al
suo contrario. Memorabile la scena dove il Maestro si denuda davanti alla
Holz e danza una coribantica Grande Fuga con mesmerico vibrare di
trippe dionisiache. Con certi chiari di luna filmici e non pianistici, le
mostruosità letterarie appaiono (con una torrenziale eccezione) veniali
alquanto.

R. DUBILLARD, Beethoven nei campi di barbabietole, Ricordi, Milano,


1996.
Pièce teatrale dove uno scassato quartetto d'archi si reca in una Casa del
Popolo a indottrinare i tedescodemocratici nelle ritorte contrappuntistiche
del Maestro loro. Fatale l'apparire del fantasma lodoviciano nel bel mezzo
delle prove. Una sorta di Aspettando Sol-Dot con venature di un
catastrofismo ridanciano alla Federico Fellini.

R. ADVANI, Beethoven tra le vacche, Marsilio, Venezia, 1994.


Romanzo di un indiano che scrive in Inglese ma è rimasto in India per non
dover fare l'inglese. Vi si narra una storia di vacche sacre perplesse di
fronte a un bramino laico innamorato del Concerto “Imperatore”. La
temperatura è tropicale, l'umorismo è vegano, e il gioco dei paradossi,
fulminante.

A. ZIGNANI, L'orecchio interiore. La scandalosa purezza di Beethoven,


Guaraldi, Rimini, 2000.
Un mio vecchio romanzo sull'ultimo anno di Beethoven. Oggi smusserei
certe ventate molieriane sui medici curanti, con tanto di Grottesche
terapeutiche degne di Francisco Goya. Al Beethoven morente faccio avere
un'allucinazione dove avanza una ghigliottina montata sul bilanciere di un
metronomo. Non ho ancora deciso se è stato l'esito di un colpo di genio o
di un trauma cranico.

G. PITTÈRI, Beethoven. Il gigante della musica, Mursia, Milano, 1971.


Romanzo per ragazzi. Ben documentato, scritto con stile accattivante,
senza retorica, e improntato a una freschezza anche un poco ingenua della
quale oggi si sente la mancanza.

J. SUCKET, The last master. The trilogy, 3 voll., World of books, London,
2000.
Tremendo mattone di pagg. 1500 (millecinquecento) diviso in tre libri.
Quel “The trilogy” evoca oscuramente Il signore degli anelli, e in effetti le
somiglianze tra Beethoven e Smigol, in questo affresco scrostato scritto in
uno stile rigido come una torta sbrisolona (Beethoven a ogni poco
“nodded”, “annuì”, e le descrizioni fisiche fanno apparire Liala una figlia
illegittima di Gustave Flaubert) pieno di pertichini narrativi e dove il
Maestro ci sente ben oltre i limiti biograficamente ammissibili, non si
fermano al lato fisico. Beethoven sarà anche stato un borderline, ma non
era un bambino di cinque anni. I titoli dei volumi, “Passion and Anger”,
“Passion and Pain”, “Passion and Glory”, ché tanto valeva ci mettessero
la & commerciale (ditta “Beethoven & Prometeo, fornitori di Sublimi fai
da te”) la dicono lunga.

A. SCHINDLER, Biographie von Ludwig van Beethoven, 2 voll., Nabu


Press, Charleston, 2011.
Ecco il romanzo più fantasioso di tutti. È la biografia risentita e stizzosa
dello Sminatore, cui stanno in uggia tutti coloro che sostano in prossimità
del Nume suo. Siccome ha provveduto di persona a bruciare ogni
testimonianza storica, il fatto che sia un ballista di professione (lui, però,
sul biglietto da visita portava stampato, per professione, “amico di
Beethoven”) diventa un atto di fede.

N. B. Perlustrare il Beethoven diffuso sul web sarebbe come ripetere la


circumnavigazione di Ferdinando Magellano su di un pedalò. Citerò
soltanto il sito www.beethovenautentico.com, perché è un inesauribile El
Dorado di aggiornamenti e approfondimenti critico-testuali indispensabili
e spesso inediti.

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