Sei sulla pagina 1di 8

Alla Musa

 Metro: sonetto; schema delle rime: ABBA, ABAB; CDE, CDE. Versi endecasillabi.

Pur/ tu/ co/pia/ver/sa/vi al/ma/di /can/to A


su/ le/ mie/ lab/bra un / tem/po,/ ao/nia/Di/va, B
quando de' miei fiorenti anni fuggiva B
la stagion prima, e dietro erale intanto A

questa, che meco per la via del pianto A


scende di Lete ver la muta riva: B
non udito or t'invoco; ohimè! soltanto A
Una favilla del tuo spirto è viva. B

E tu fuggisti In compagnia dell'ore, C


o Dea! tu pur mi lasci alle pensose D
membranze, e del futuro al timor cieco. E

Però mi accorgo, e mel ridice Amore, C


che mal pónno sfogar rade, operose D
rime il dolor che deve albergar meco. E

Nel 1802 il Foscolo portava a termine l’Orazione a Bonaparte (datata Milano, 7

gennaio 1802) , pubblicava le Ultime lettere di Jacopo Ortis, raccoglieva gli otto

sonetti e la prima ode, spiegando un’attività di organizzazione del proprio lavoro

sotto l’impulso di una nuova volontà pratica che si era convertita, sul piano lirico,

nell’intimo che ben si avverte nei grandi sonetti e nell’ode milanese: processo

interiore in cui si distingue la linea foscoliana così alimentata dall’interno di vita e di

distacco, di impegno e di sguardo superiore. I grandi sonetti e l’ode rappresentano un

momento di altezza poetica e insieme di una nuova espressione personale del Foscolo
che ha superato il gusto del tumultuoso drammatico, in direzione romanzesca, le

forme più estreme di rotta armonia in corrispondenza all’angoscia ortisiana fermata in

concisione eloquente . La base dell’ode e dei sonetti ultimi è divenuta, nell’animo

foscoliano, una comune disposizione di contemplazione interiore sempre più

personale e aperta alle direzioni più profonde del tempo. Il sonetto Alla Musa si

incontra con le frasi iniziali dei Frammenti su Lucrezio: «Mi abbandonò prima degli

anni giovanili il dolce spirito delle muse, che prima mi iniziò alle lettere. Io era

appena tinto della lingua latina, e ignaro al tutto della toscana, quando venni di

Grecia in Italia...» e poi «Quei primi anni della mia gioventù sebbene circondati da

molte miserie furono come illuminati dalle Muse, e fu il mio ingegno come inaffiato

dalla poesia alla quale tutta l’anima mia si abbandonava... Ora... me ne distorna non

solo il sentirmi in cuore poche faville di quel primo fuoco... Ma poiché mi abbandonò

lo spirito delle Muse, non volli del tutto abbandonarle, e per la gratitudine ch’io devo

ai lor benefici, e per la soavità che hanno lasciato dentro di me» (Prose). Alla base

del sonetto, una situazione più immaginata che vera (l’inaridirsi della vena poetica in

confronto ad un’epoca di felice abbondanza d’ispirazione) lega il motivo

dell’insecuritas al tema deteriore che compromette tutto il sonetto con il richiamo

inopportuno di una mossa arcadica («e mel ridice Amore») e con una conclusione

cavillosa che rivela su tutto il sonetto una concezione fra il drammatico e il

melodrammatico, lontana dai tre sonetti contemporanei e risponde a un’esigenza


autobiografica. In questo sonetto si avverte, sotto l’apparenza di un abbandono

misurato ed ampio, di una musica serena e malinconica, una direzione poco sicura

rivelata dall’infelice finale, che ci riporta a forme più esterne e ingenuamente

ortisiane di cui sono testimonianza, oltre il petrarchistico «e mel ridice Amore»,

l’assolutezza esteriore di quel dolor che «deve albergar meco» e direttamente il

bisogno di uno “sfogo” del dolore. Nella parte più interessante del sonetto (le due

quartine e la prima terzina) un alternarsi di gruppi di versi chiari, aperti, luminosi, e

di altri più malinconici e cupi (lontani dalle forme ortisiane più estreme) tutti su di un

piano più sereno – malgrado il riverbero psicologico dell’ultima terzina – corrisponde

ad un essenziale passaggio replicato da passato nostalgico a presente in un’unica

atmosfera di leggero intenerimento rasserenato ed oscurato verso i due poli

dell’«allora» e dell’«ora», sull’unico slancio invocativo nostalgico: «Pur tu... E tu...

tu pur...», che lega saldamente la comparazione nella sua parte vitale. Questa parte

essenziale è legata dalla figura ormai foscoliana della Musa intimamente mitica – non

l’Italia del sonetto del 1798 – men bisognosa di elementi decorativi della prima ode,

accompagnata dal trasvolar leggero delle «Ore» in una visione di classicismo

romantico ormai così nuovo rispetto all’ornamentale più comune del tempo, come

nuovo ormai si presenta il “dramma” dei sonetti, persino troppo ridotto di fronte alla

sua funzione più intensa nei sonetti contemporanei, in un’invocazione che ha bisogno

di un “supporto” come l’ultima terzina per terminare in un appoggio più esplicito,


mentre la conclusione alta degli altri è in relazione alla loro ricchezza di storia intera.

Il motivo del rimpianto di un’epoca felice di ispirazione e di giovinezza («fiorenti

anni») e quello di un’ansiosa contemplazione del presente e del futuro (il «timor

cieco» è l’espressione più forte e pur necessaria a chiudere la serie di sentimenti

legata ai tre tempi della contemplazione interiore) si alternano con una fusione

sempre maggiore e un intensificarsi dello slancio nostalgico legato a quel ricordo e

del senso del presente che colora anche lo stesso passato della sua condizione

(«pensose» membranze ). Regna l’impressione di un organismo snello, spazioso,

continuo (sino al verso 11), senza il turgore dell’eloquenza drammatica superata e

inverata in uno slancio intimo: impressione che si precisa in una costatazione di

superiore dominio dei sentimenti e della tecnica che funziona in pieno impiego

poetico pur facendoci sentire echi di cultura letteraria, tracce del processo formativo

della sua poetica. Assumono grande importanza le osservazioni circa l’impiego di

mezzi tecnici, di suggerimenti offerti dai petrarchisti: non solo Petrarca e il

petrarchista romantico, Alfieri, ma i petrarchisti del ’500 e soprattutto Della Casa e

Galeazzo di Tarsia. Echi dellacasiani sono evidenti in questo sonetto ai versi 10-11:

tu pur mi lasci alle pensose membranze, e del futuro al timor cieco. Si tratta di

procedimenti poetici, di modi di costruzione del sonetto e di legame fra immagine e

musica a cui tanto il Foscolo guardava. Fra questi l’uso frequente degli enjambement

che, in questo sonetto, compare con maggiore originalità personale, in una funzione
generale di espressione complessa ed intima. Degna di nota è l’alternanza dei tempi

verbali: l’imperfetto nella prima quartina, con ripetizione della desinenza verbale –iva

in rima (Diva:fuggiva, vv. 2-3), con eco in versavi(v. 1, -avi è palindromo di -iva); il

presente nella seconda quartina, in cui campeggia il pronome questa (parte di vita) (v.

5) che si oppone alla stagion prima (v. 4), a sottolineare la divisione dell’esistenza di

Foscolo in due parti. La successione dei tempi verbali è significativa: all’imperfetto,

che indica azione reiterata nel passato (versavi, fuggiva), segue il tempo presente

(scende, t’invoco,è viva), a descrivere lo stato di affievolimento dell’ispirazione e di

disperata invocazione; il passato remoto indica la definitiva scomparsa della Musa (E

tu fuggisti, v. 9): il risultato è l’abbandono del poeta in un presente (lasci, v. 10) nel

quale egli appare stretto fra il pensieroso ricordo del passato e la paura del futuro.

L’espressione muta riva (v. 6) allude alla morte, ma anche al silenzio e quindi alla

morte della poesia. Il silenzio (muta riva) è l’antitesi dell’abbondanza della parola

(copia […] di canto). Il sostantivo Diva (v.2) è un sinonimo di dea ispiratrice, Musa.

Attualmente, sogliamo impiegare il sostantivo diva come sinonimo di attrice teatrale

o cinematografica, che ha acquisito grande notorietà. Apriamo una piccola

digressione sulla “ rima semantica” tra i sostantivi canto(v.1) e pianto (v. 5) … Nel

primo verso, Foscolo sottolinea l’importanza della Musa, fonte ispiratrice per la

composizione della sua poesia. Si avverte un senso di gioia, ma soprattutto di

nostalgia. Da un’attenta lettura del quinto verso, emerge il senso di angoscia e dolore
che regna nell’animo del povero Ugo: la Musa lo sta abbandonando. Siamo di fronte

a due sentimenti contrastanti che, però, appartengono al campo semantico dell’animo

umano.

Nel corso della propria vita, istintivamente o razionalmente, l’uomo è proteso verso

l’infinito. Non si rassegna alla prospettiva di una breve parabola su questa terra e

aspira a consegnare se stesso e la propria opera all’eternità. La poesia eternatrice è un

tratto peculiare nella poetica foscoliana. Il poeta vuole sottrarsi allo scorrere

inesorabile del tempo e al suo potere distruttivo. Superare le barriere anguste della

condizione umana per avvicinarsi all’immortalità è un traguardo che si raggiunge

solo attraverso un’arte che abbia, come canone distintivo, la “bellezza ideale” delle

statue greche che hanno sfidato il tempo, rendendo eterno il messaggio di cui sono

portatrici. Foscolo si fa portavoce di questa eco che viene dal passato: la nascita in

terra ellenica lo aveva segnato profondamente … Il nostro caro poeta si ricollega ad

Orazio, che pronunciò una celebre frase: “ Ho compiuto un’opera memorabile, più

durevole del bronzo, più elevata della regale mole delle piramidi”. La consapevolezza

di aver creato qualcosa di grande lo portò ad affermare con sicurezza “Non tutto di

me morrà, la mia più grande parte non scenderà a Libitinia e crescerò di gloria

sempre nuova” (Carmina, III). Il verso «Non omnis moriar» rimane eterno. Nessuna

traduzione potrà mai rendergli giustizia, perché in quell’affermazione di immortalità

è contenuto un concetto che consacra anche l’autore. La Bellezza idealizzata da


Winkelmann, calma e nobile, è l’ideale che dal passato va recuperato, perseguito nel

presente e consegnato alla dimensione eterna. Foscolo celebra nelle Odi la “bellezza

muliebre che (…) viene eternata dal canto dei poeti, che a quelle creature danno

l’immortalità delle dee” (N.Mineo). La poesia ha il fine sublime di strappare alla

corrosione del tempo i personaggi che la ispirano: i vincitori e i vinti restano vivi nel

ricordo, testimoni del loro ruolo nella storia. Nel Carme dei Sepolcri, possiamo

scorgere l’apoteosi della poesia come mezzo di immortalità. La quarta e ultima

sezione (vv. 213-295) è dedicata al potere della poesia e alle Muse che, ispirandola e

divenendo custodi dei sepolcri, li animano di un canto che vince di mille secoli il

silenzio (v. 234). Il Foscolo si serve del mito classico per introdurre la sua riflessione

sulla poesia eternatrice. Si riferisce prima alle vicende di Aiace, poi a quelle della

famiglia di Priamo, distrutta dalla guerra. Emerge un parallelismo: se la tomba

garantisce, con la sua concretezza materiale, il ricordo dei defunti, la poesia si fa

testimone di una forma di memoria ancor più elevata e duratura. Negli ultimi versi

Dei Sepolcri, possiamo cogliere il richiamo all’origine stessa del tema della poesia

eternatrice: le sventure dei mortali, le sofferenze della guerra ma, sopra a tutto ciò, il

canto di un vate sacro. “ L’originalità di Foscolo sta dunque nella funzione e nel

messaggio che la poesia invoca per sé: la missione civilizzatrice rende operativa la

lezione dei Sepolcri, rimettendola in vita in una società sorda al richiamo delle urne

dei forti. E’ proprio nel periodo di decadenza nel quale Foscolo si trova costretto a
vivere che la poesia assume un valore irrinunciabile, unico esempio possibile di

riscatto umano e civile” (P.Cataldi)

Potrebbero piacerti anche