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PASOLINI

PASOLINI SUL NEO-SPERIMENTALISMO.

Pasolini sul neo sperimentalismo, post ermetismo  dice che ci sia bisogno di ordine e quindi ci dice che è più
conveniente suddividere nelle tre sezioni in cui circa si estende: Neo- espressionismo tout court di origine
psicologica, Neo- sperimentalismo influenzato dalla sopravvivenza ermetica novecentesca. E il neo
sperimentalismo che coincide coincidente con la sindrome stilistica della nuova Spuria, ricerca impegnata.
Pasolini dice che queste tre tendenze spesso si presentano mescolate. Ma appunto per questo la nuova
definizione può portare una luce evidenziante, se angolata con disinteresse sulla massa informe e oscura:
tanto che la produzione poetica di questi ultimi dieci anni finisce poi proprio col presentarsi dominata dal
segno, di una nuova esperimentazione, includente i segni, lisi, delle poetiche novecentesche precedenti, in
molti sensi svalutate. Un largo terreno franco, dunque, a fasce, in cui vengono a sovrapporsi, tingendosi a
vicenda, l’area ermetica e l’area neo-realistica.
Pasolini dice che quindi neo sperimentalismo non sia una definizione esatta per definire questi ultimi 10
anni di letteratura. Abbiamo visto come questo neo-sperimentalismo implichi un’accettazione degli istituti
stilistici precedenti: volontaria nei post- ermetici, involontaria nei neo-realisti: i primi operando su quegli
istituti una specie di adattamento alla novità e alla maggiore libertà della loro passione: i secondi adottando
quegli istituti per esprimere contenuti solo surrettiziamente nuovi, in quanto il tono, innografico, profetico,
fraternizzante ecc.
Al di là di questo sperimentalismo storicamente attuale, quale tradizione recente e persistente del
novecentismo (e a questo punto non temiamo più il tono programmatico e parenetico di chi enunci le
intenzioni del proprio lavoro) si presenta, con una violenza che trascende l’ambito letterario, la necessità di
un vero e proprio sperimentalismo, non solo graduale e intimo, sprofondato in un’esperienza interiore, non
solo tentato nei confronti di se stessi e della propria irrelata passione, ma della stessa nostra storia.
C’è stato un periodo di questa nostra storia in cui l’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica: il
che implicava passività sul fronte esterno e attività sul fronte interno. Ma è chiaro che non poteva trattarsi
che di una libertà illusoria, se, in realtà, l’involuzione antidemocratica fascista era effetto della stessa
decadenza dell’ideologia borghese, liberale e romantica, che aveva portato all’involuzione letteraria di una
ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria coscienza estetica. I/elusività, tipica via di
resistenza passiva alle coazioni della realtà, assumeva così le forme dell’assolutezza stilistica,
classicheggiante, per ipotassi, per grammaticalità esasperata, «ordinante dall’alto» fin nelle più esteriori
eormai convenzionali dilatazioni semantiche; e lo stesso può esser detto per le esperienze letterarie
oppositrici, che fanno capo al Pascoli pregrammaticale e realista di genere, il cui sforzo linguistico era un
allargamento lessicale meglio che un mutamento stilistico. [...] Nello «sperimentare» dunque, che
riconosciamo nostro (a differenziarci dall’attuale neo-sperimentalismo) persiste un momento
contraddittorio o negativo: ossia un atteggiamento indeciso, problematico e drammatico, coincidente con
quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede il continuo, doloroso sforzo del mantenersi
all’altezza di un’attualità non posseduta ideologicamente, come può essere per un cattolico, un comunista
o un liberale: e questo, poi, implica una certa gratuità di quello sperimentare, un certo eccesso, comunque:
l’attitudine sperimentalistica sopravvissuta. Ma vi incide anche un momento positivo, ossia l’identificazione
dello sperimentare con l’inventare: con l’annessa opposizione critica e ideologica agli istituti precedenti,
ossia un’operazione culturale idealmente precedente l’operazione poetica. [...] Lo sperimentalismo
stilistico, che non può non caratterizzarci, non ha nulla a che fare con lo sperimentalismo novecentesco –
inane e aprioristica ricerca di novità collaudate – ma, persistendo in esso quel tanto di filologico, di
scientifico o comunque cosciente, che la parallela ricerca «non poetica» comporta, esso presuppone una
lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito. La libertà di ricerca che esso richiede consiste
soprattutto nella coscienza che lo stile in quanto istituto e oggetto di vocazione, non è un «privilegio di
classe»: e che dunque, come ogni libertà, è senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, angosciante. Ci
difendiamo da ogni misticismo, e quindi anche da quello del coraggio in sé, del pensare stoico: ma
sappiamo che, alla fine, la serie delle esperimentazioni risulterà una strada d’amore – amore fisico e
sentimentale per i fenomeni del mondo, e amore intellettuale per il loro spirito: la storia; e che su questa
strada non potremo non essere sempre, «col sentimento, / al punto in cui il mondo si rinnova».
PASOLINI Abiura dalla Trilogia della vita
Io penso che, prima, non si debba mai, in nessun caso, temere la strumentalizzazione da parte del potere
e della sua cultura. Bisogna comportarsi come se questa eventualità pericolosa non esistesse. Ciò che
conta è anzitutto la sincerità e la necessità di ciò che si deve dire. Non bisogna tradirla in nessun modo,
e tanto meno tacendo diplomaticamente per partito preso. Ma penso anche che, dopo, bisogna saper
rendersi conto di quanto si è stati strumentalizzati, eventualmente, dal potere integrante. E allora se la
propria sincerità o necessità sono state asservite o manipolate, io penso che si debba avere
addirittura il coraggio di abiurarvi. Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta.
Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e
del loro momento culminante, il sesso.
Tale sincerità e necessità hanno diverse giustificazioni storiche e ideologiche. Prima di tutto esse si
inseriscono in quella lotta per la democratizzazione del “diritto ad esprimersi” e per la liberalizzazione
sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni Cinquanta e
Sessanta. In secondo luogo, nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine
degli anni Sessanta – in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei “mass media” e quindi
della comunicazione di massa – l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con
l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali. Infine, la rappresentazione dell’eros, visto in un
ambito umano appena superato dalla storia, ma ancora fisicamente presente (a Napoli, nel Medio
Oriente) era qualcosa che affascinava me personalmente, in quanto singolo autore e uomo.
Ora tutto si è rovesciato. Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la
liberalizzazione sessuale è stata bruscamente superata e vanificata dalla decisione del potere
consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza.
Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere
consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.
Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della
degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione,
informe accidia.

II.
Però, a coloro che criticavano, dispiaciuti o sprezzanti, la Trilogia della vita, non venga in mente di
pensare che la mia abiura conduca ai loro “doveri”. La mia abiura conduce a qualcos’altro. Ho il terrore di
dirlo: e cerco prima di dirlo, com’è mio reale “dovere”, degli elementi ritardanti. Che sono:
a) L’intransgredibile dato di fatto che, se anche volessi continuare a fare film come quelli della Trilogia
della vita, non lo potrei: perché ormai odio i corpi e gli organi sessuali. Naturalmente parlo di questi
corpi, di questi organi sessuali. Cioè dei corpi dei nuovi giovani e ragazzi italiani, degli organi sessuali dei
nuovi giovani e ragazzi italiani. Mi si obietterà: “Tu per la verità non rappresentavi nella Trilogia corpi e
organi sessuali contemporanei, bensì quelli del passato”. È vero: ma per qualche anno mi è stato
possibile illudermi. Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato
che, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo. Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha
assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così,
vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente
svalutato. I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano
– che sono poi quelli che io proietto nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo
Mondo
– se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli
imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini,
dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo
del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.
b) I miei critici, addolorati o sprezzanti, mentre tutto questo succedeva, avevano dei cretini “doveri”,
come dicevo, da continuare a imporre: erano “doveri” vertenti la lotta per il progresso, il miglioramento,
la liberalizzazione, la tolleranza, il collettivismo ecc. ecc. Non si sono accorti che la degenerazione è
avvenuta proprio attraverso una falsificazione dei loro valori. Ed ora essi hanno l’aria di essere
soddisfatti! Di trovare che la società italiana è indubbiamente migliorata, cioè è divenuta più
democratica, più tollerante, più moderna ecc. Non si accorgono della valanga di delitti che sommerge
l’Italia: relegano questo fenomeno nella cronaca e ne rimuovono ogni valore. Non si accorgono che non
c’è alcuna soluzione di continuità tra coloro che sono tecnicamente criminali e coloro che non lo sono: e
che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa dei giovani. Non si
accorgono che in Italia c’è addirittura il coprifuoco, che la notte è deserta e sinistra come nei più neri
secoli del passato: ma questo non lo sperimentano, se ne stanno in casa (magari a gratificare di
modernità la propria coscienza con l’aiuto della televisione). Non si accorgono che la televisione, e forse
ancora peggio la scuola dell’obbligo, hanno degradato tutti i giovani e i ragazzi schizzinosi, complessati,
razzisti borghesucci di seconda serie: ma considerano ciò una spiacevole congiuntura, che certamente si
risolverà – quasi che un mutamento antropologico fosse irreversibile. Non si accorgono che la
liberalizzazione sessuale anziché dare leggerezza e felicità ai giovani e ai ragazzi, li ha resi infelici, chiusi, e
di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi: ma di ciò addirittura non
vogliono occuparsene, perché non gliene importa niente dei giovani e dei ragazzi.
c) Fuori dall’Italia, nei paesi “sviluppati” – specialmente in Francia – ormai i giochi sono fatti da un pezzo.
È un pezzo che il popolo antropologicamente nonesiste più. Per i borghesi francesi, il popolo è costituito
dai marocchini o dai greci, dai portoghesi o dai tunisini. I quali, poveretti, non hanno altro da fare che
assumere al più presto il comportamento dei borghesi francesi. E questo lo pensano sia gli intellettuali di
destra che gli intellettuali di sinistra, allo steso identico modo.

III.
Insomma, è ora di affrontare il problema: a cosa mi conduce l’abiura dalla Trilogia? Mi conduce
all’adattamento. Sto scrivendo queste pagine il 15 giugno 1975, giorno di elezioni. So che se anche –
com’è molto probabile – si avrà una vittoria delle sinistre, altro sarà il valore nominale del voto, altro il
suo valore reale. Il primo dimostrerà una unificazione dell’Italia modernizzata in senso positivo; il
secondo dimostrerà che l’Italia – al di fuori naturalmente dei tradizionali comunisti – è nel suo insieme
ormai un paese spoliticizzato, un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici. L’Italia cioè non sta
vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo
nominalmente. Tout va bien: non ci sono nel paese masse di giovani criminaloidi, o nevrotici, o
conformisti fino alla follia e alla più totale intolleranza, le notti sono sicure e serene, meravigliosamente
mediterranee, i rapimenti, le rapine, le esecuzioni capitali, i milioni di scippi e di furti riguardano le
pagine di cronaca dei giornali ecc. ecc. Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente
o attraverso la più inerte sdrammatizzazione. Ma devo ammettere che anche l’essersi accorti o l’aver
drammatizzato non preserva affatto dall’adattamento o dall’accettazione. Dunque io mi sto adattando
alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando
com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza
più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?).

Nel postumo “Petrolio” la chiave del delitto Pasolini, di Carla Benedetti

Quando fu ucciso, Pier Paolo Pasolini stava ultimando un romanzo assai singolare, sia per la forma che per i
contenuti. Lo aveva intitolato Petrolio, folgorato da questa parola mentre leggeva un articolo di giornale. Da
poco c’era stata la prima “crisi petrolifera” e l’oro nero, il Vello d’oro di oggi, per il quale si fanno guerre e
viaggi in Oriente, come quello che fece Giasone con gli Argonauti (l’associazione tra l’oggi e il mito è
in Petrolio), arroventava gli affari e la politica.
Enrico Mattei presidente dell’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi) era stato fatto morire in un finto incidente
aereo. Gli era succeduto Eugenio Cefis che di lì a poco si lanciò anche nel settore petrolchimico, scalando la
Montedison con fondi pubblici, e diventandone presidente. Molte altre morti misteriose funestavano il paese,
tra cui quella di Mauro de Mauro, giornalista dell’”Ora” di Palermo che aveva fatto indagini sull’omicidio di
Mattei. Nel frattempo scoppiavano bombe e divampava la “strategia della tensione”. Nasce allora anche la
famigerata loggia P2, con il suo programma spregiudicato e criminale di controllo del potere attraverso i
media e le stragi. Cefis ne era stato il fondatore.

“Petrolio” di Pier Paolo Pasolini. Copertina


Di tutto questo parla Petrolio, anche se in una forma altamente sperimentale che mischia elementi di
cronaca e forma allegorica. Parla dell’Eni, considerato non una semplice azienda statale ma “un topos del
potere”. Parla delle bombe, dei sicari, delle due fasi dello stragismo e dell’omicidio di Mattei, qui per la prima
volta attribuito non alle multinazionali del petrolio ma a una regia tutta italiana di cui proprio Cefis tiene le fila.
Vi compare infine Cefis stesso, chiamato Troya, con tutto il suo impero privato accumulato con fondi pubblici,
con tutte le sue aziende e relativi prestanomi. E inchiodato a tutte le sue responsabilità: nell’omicidio di
Mattei, nello stragismo e persino nel suo ambiguo passato partigiano. Egli è nel romanzo l’emblema della
«mutazione antropologica» della classe dirigente, cioè il passaggio da un potere di stampo clerico-fascista a
un nuovo potere, multinazionale, tollerante e criminale-mafioso. Per questo Pasolini dà molta importanza a
tre discorsi di Cefis, che tiene tra le carte di Petrolio e che intende inserire nel romanzo così come sono. Uno
in particolare, intitolato La mia patria si chiama multinazionale, secondo Pasolini, avrebbe raccontato in
modo palese ciò che stava succedendo in Italia, e di cui anche l’opposizione di sinistra stentava a rendersi
conto.
Ma Pasolini fu fermato prima di poter rendere pubblico questo suo insolito romanzo. Al momento della morte
ne aveva però già scritte 600 pagine e il disegno dell’opera era già tutto delineato, tanto che, una volta
pubblicato, è stato non solo letto e apprezzato, ma anche tradotto in molte lingue.
Ebbene, proprio questo romanzo, che molti oggi considerano uno dei capolavori del ’900, è stato sottratto ai
lettori per ben 17 anni. Prima di pubblicarlo si è aspettato quasi due decenni, un cambio di generazione.
Eppure già allora gli editori avrebbero fatto a gara per pubblicarlo. Si trattava di un inedito di Pasolini,
scrittore e cineasta notissimo in Italia e all’estero, per di più assassinato: e non in uno di quei paesi dove gli
intellettuali rischiano spesso la morte o la deportazione, ma in un paese moderno e democratico, a Roma, in
Europa! Perché tanto ritardo? Gli eredi hanno forse avuto paura? Di chi?
Ma ancora più incredibile è che questa opera, occultata per 17 anni, al momento della pubblicazione sia
stata anche amputata di una sua parte importante. Oltre a un capitolo di cui non si sa più niente,
intitolato Lampi sull’Eni, e di cui non rimane nel romanzo che il titolo e una pagina bianca, in tutte e tre le
edizioni a stampa di Petrolio mancano i discorsi di Cefis. Eppure essi erano accessibili ai curatori. Ancora
oggi sono conservati tra le carte di Pasolini al Gabinetto Vieusseux, dove Giovannetti e io li abbiamo trovati
per pubblicarli nel nostro libro Frocio e basta. Pasolini aveva persino indicato il punto esatto del romanzo in
cui andavano collocati: «Inserire i discorsi di Cefis: i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo
perfettamente simmetrico e esplicito». Perché nessuno dei curatori ha rispettato le indicazioni dell’autore?
Qualcuno lo ha impedito?
E allora facciamo un esercizio di fantasia. Immaginiamo che Petrolio arrivi in libreria un anno o due dopo la
morte di Pasolini, quando ancora il suo brutale omicidio è fonte di sconcerto e oggetto di attenzione
mediatica. E immaginiamo che al centro vi siano i discorsi di Cefis, che in quel tempo è ancora l’uomo più
potente d’Italia. Cosa succederebbe? Il diciassettenne Pino Pelosi era stato da poco condannato “assieme a
ignoti”, poi, in secondo grado, da solo, come unico colpevole. Con Petrolio in libreria, e il nome di Cefis così
visibile, non sarebbe forse sorto spontaneo nella mente di molti un collegamento tra ciò che Pasolini andava
scrivendo e il suo l’omicidio? O almeno sarebbe sorto un dubbio: e se la rissa tra lo scrittore omosessuale e
il marchettaro minorenne, arrestato senza nemmeno una macchiolina di sangue sugli abiti dopo una
colluttazione tanto violenta, e che i giornali e la televisione avevano subito accreditata, non fosse che una
messa in scena per nascondere un altro tipo di delitto? Avrebbero detto ugualmente che Pasolini “se l’era
andata a cercare”? O, come hanno scritto per decenni anche tanti letterati, che Pasolini andava cercando la
morte ogni notte per le strade di Roma?
Agli inizi del 2016 Giulio Regeni è stato trovato cadavere al Cairo con addosso i segni inequivocabili della
tortura. Tanti si sono giustamente indignati contro le autorità egiziane che cercavano di nascondere la verità
su quella orrenda uccisione dietro la versione di comodo di un rapimento a scopo di lucro. Anche l’omicidio
di Pasolini ebbe da subito la sua versione di copertura, non meno piena di contraddizioni. Solo che a
differenza di quella che l’Egitto intendeva spacciare, a cui nessuno ha creduto in Italia, la versione ufficiale
dell’omicidio di Pasolini convinse allora quasi tutti e ha retto per decenni, complici – forse inconsapevoli ma
pur sempre complici – uomini di cultura e filologi del nostro Paese.
E ora vediamo come fu invece accolto Petrolio nel 1992, quando uscì per la prima volta e senza i discorsi di
Cefis. Dopo che ne fu anticipata sui giornali la parte più scabrosa, le dieci fellatio del Pratone della Casilina,
la maggioranza dei recensori si fissò sui soli aspetti sessuali del romanzo, omo- o sado-masochistici,
arrivando persino a definirlo un insieme di “sconcezze d’autore” che sarebbe stato meglio lasciare
impubblicate. Non una parola sull’Eni, sull’omicidio  di Mattei, sulla mutazione del potere, con buona pace di
Eugenio Cefis. Di solito si censurano le parti scabrose di un testo. In quel caso si sono invece censurate le
parti “politiche” con il risultato di far passare Petrolio per un libro “scabroso”

PASOLINI COMPIE 90 ANNI


in questo appronfondimento Carla de Banedetti si chiede cosa pasoliniavrebbe detto e pensato degli eventi
moderni che purtroppo non ha potuto vedere e poi si sofferma su Petrolio il suo romanzo incompiuto, che
sarebbe stato pubblicato postumo solo nel 1992, diciassette anni dopo la sua morte.
Un romanzo del quale la critica ha spesso enfatizzato l’aspetto erotico – la doppia vita di un ingegnere petrolchimico – mentre
il suo vero tema è il Potere. È un romanzo che cerca di rendere visibile il Potere in tutte le sue forme, attraverso “Visioni”
(come si legge in Petrolio: «Il potere è sempre, come si dice in Italia, machiavellico: cioè realistico. Esso esclude dalla sua
prassi tutto ciò che può venir ‘conosciuto’ attraverso Visioni» p. 461). Vi si parla del Nuovo potere che agisce sugli individui in
forme capillari, attraverso imposizione di modelli, e che raggiunge anche i loro corpi. Vi si parla della banalità del potere,
quella che agisce attraverso la «col-lusione» innocente (dove “innocente” sta per “nascosto alla coscienza”) degli individui,
degli intellettuali, persino dei letterati, nel loro desiderio di carriera. Vi si parla anche del potere delle trame, quelle destinate a
restare segrete. E anche di quello delle stragi. Si parla persino di una bomba fatta scoppiare alla stazione di Bologna («La
bomba è fatta scoppiare: un centinaio di persone muoiono, i loro cadaveri restano sparsi e ammucchiati in un mare di sangue
che inonda, tra brandelli di carne, banchine e binari. […] La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene
descritta come una “Visione”» pp. 542 e 546) – quasi una profezia di quella che davvero sarebbe scoppiata il 2 agosto 1980.
Si parla anche dell’Eni, che Pasolini non considera solo un’azienda ma «un topos del potere». E ovviamente della morte di
Mattei.
Non potevano del resto mancare questi ingredienti in un libro intitolato Petrolio, l’odierno Vello d’Oro, per il quale si fanno
guerre e viaggi in Oriente, come li fece Mattei, come un tempo li fece Giasone con gli Argonauti (altro tema del libro). Vi si
trova quindi – come scrive Gianni D’Elia nel suo Petrolio delle stragi – anche il «rapporto terribile tra economia e politica, le
bombe fasciste e di Stato, la struttura segreta delle società “brulicanti”, come i loro nomi, in beffardi acronimi».
Le fonti di Petrolio
L’introvabile libro di Steimetz è stato una delle fonti di Petrolio, da cui Pasolini riprende dati e notizie
relative all’Eni e a Cefis, e a volte anche intere frasi. Ma ad accorgersene non è stato un filologo bensì un
magistrato, il sostituto Procuratore pavese Vincenzo Calia, mentre stava svolgendo una nuova inchiesta
sull’omicidio di Mattei. L’aereo del presidente dell’Eni, in volo tra Catania e Milano, precipitò infatti la sera
del 27 ottobre 1962, nella campagna di Bascapè, presso Pavia. La procura di Pavia aveva già svolto anni
prima un’inchiesta su quella morte, che però si era conclusa con una sentenza di «non luogo a procedere,
perché i fatti non sussistono», avendo attribuito la caduta dell’aereo a un incidente, dovuto all’errore del
pilota Irnerio Bertuzzi (la prima inchiesta, condotta dal pm pavese Edgardo Santachiara, si era conclusa il 31
marzo 1966). Calia riapre l’inchiesta il 20 settembre 1994, sulla base di nuovi fatti, e la conclude il 20
febbraio 2003 con una Richiesta di archiviazione.
Calia legge Petrolio, titolo irresistibile per un magistrato immerso nell’indagine sulla morte del presidente
dell’Eni e vi trova una sorprendente coincidenza. Venticinque anni prima di lui, Pasolini era giunto alla
stessa ipotesi a cui lo stava ora portando la sua lunga indagine: Mattei fu eliminato da un’oscura regia
politico-istituzionale interna all’Italia, di cui Cefis teneva le fila. Ecco cosa scriveva Pasolini in uno schema
riassuntivo di Petrolio intitolato Storia del petrolio e retroscena: «In questo preciso momento storico (I°
BLOCCO POLITICO) Troya sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo
predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)
Calia legge Petrolio, titolo irresistibile per un magistrato immerso nell’indagine sulla morte del presidente
dell’Eni e vi trova una sorprendente coincidenza. Venticinque anni prima di lui, Pasolini era giunto alla
stessa ipotesi a cui lo stava ora portando la sua lunga indagine: Mattei fu eliminato da un’oscura regia
politico-istituzionale interna all’Italia, di cui Cefis teneva le fila. Ecco cosa scriveva Pasolini in uno schema
riassuntivo di Petrolio intitolato Storia del petrolio e retroscena: «In questo preciso momento storico (I°
BLOCCO POLITICO) Troya sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo
predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)» (Appunti 20-30. Storia del problema
del petrolio e retroscena, p. 118).
Calia commenta alcune pagine di Petrolio nella sua Richiesta di archiviazione. E per primo coglie le analogie
tra Questo è Cefise il romanzo di Pasolini, collegando tra loro i fili di questa intricata matassa. Fatica però a
reperire il libro di Steimetz. Non sa che una fotocopia si può trovare al Gabinetto Vieusseux di Firenze
(cartella V (Materiali Vari), proprio tra le carte di Pasolini, il quale a sua volta l’aveva ricevuta nel settembre
1974 da Elvio Fachinelli, psicoanalista e animatore della rivista “L’Erba Voglio”. Nella cartella dell’Archivio si
conserva anche la lettera di Fachinelli a Pasolini, datata 20 settembre 1974: «Caro Pasolini, le faccio avere
una conferenza di Cefis e una fotocopia del libro su di lui, ritirato. Forse le possono servire».
La “conferenza” di cui parla Fachinelli è il testo del discorso tenuto da Eugenio Cefis all’Accademia militare
di Modena il 23 febbraio 1972 (pubblicato sulla rivista “L’Erba Voglio”, n. 6). Pasolini si riproponeva di
inserirlo integralmente nel romanzo, a mo’ di cerniera «a dividere in due parti il romanzo in modo
perfettamente simmetrico e esplicito» (Appunti 20-30. Storia del problema del petrolio e retroscena,
in Petrolio, p. 118).
Nonostante le comuni sintonie, Pasolini e Fachinelli non si conobbero mai di persona. Lo riferisce Riccardo
Antoniani: «A partire dal gennaio del ’74, Fachinelli scrisse diverse volte a Pasolini. Anche in virtù di quel
comune muovere «da un’estrema sinistra non ancora definita e certo ancora non facilmente definibile» in
cui si inseriva il discorso sulle pratiche non-autoritarie da lui condotto fino allora insieme a Lea Melandri
sull’“Erba Voglio”. Fu in questa rivista che venne pubblicato il celebre discorso La mia patria si chiama
multinazionale tenuto da Eugenio Cefis all’Accademia militare di Modena nel 1972. Che con quelle parole
rivolte a un pubblico di militari, in quell’accademia dove una volta fu cadetto, Cefis lasciasse presagire «un
tintinnio di sciabole», come sostenne il Generale Folde alla commissione Anslemi, è fuori dubbio. In
sostanza veniva invocata una riforma costituzionale orientata a un presidenzialismo autoritario, per cui di
fatto si sarebbe precluso al Pci qualsiasi aspettativa di governo: il golpe bianco. Come e dove Fachinelli
riuscisse a procurasi i discorsi, anche quelli non pronunciati, dell’allora presidente della Montedison rimane
ancora un mistero. Fatto sta che tentò di coinvolgere Pasolini nel progetto di un libro di “pronto intervento”
su Cefis e il Nuovo Potere a cui il poeta avrebbe dovuto contribuire analizzando e recensendo alcuni di
questi testi. Fu così che Pasolini entrò in possesso dei tre discorsi di Cefis e di una fotocopia del libro di
Giorgio Steimetz Questo è Cefis».
Petrolio non è scritto come lo sono normalmente i romanzi. Non c’è un narratore che racconta una storia,
ma un autore che costruisce man mano il progetto di un romanzo da farsi, accumulando una serie di
“Appunti”. Ed è in questa forma che Pasolini pensava di pubblicarlo. Egli aveva del resto già sperimentato
questa peculiare forma-progetto in opere cinematografiche come Appunti per un film sull’India e Appunti
per un’Orestiade africana. E anche nella Divina Mimesis, data alle stampe poco prima della morte (che si
finge l’edizione di un manoscritto ritrovato, il cui autore è morto, «ucciso a colpi di bastone, a Palermo,
l’anno scorso» (La divina Mimesis, Einaudi 1975, p. 61). Questa struttura gli consente una grande libertà di
scrittura e la possibilità di inserire, in fasi successive, materiali eterogenei, anche non letterari, presi dalla
cronaca o da altro.
Ma una domenica pomeriggio, sopra una bancarella di testi usati, la fortuna incontra Calia, e Calia il libro.
Finalmente ne può fare una comparazione con Petrolio – funzionale alle sue indagini – e ne espone i
risultati in una nota a margine della Richiesta di archiviazione (nota 1290, p. 416).
Anche Pier Paolo Pasolini (ucciso a Ostia il 2 novembre 1975) aveva dunque avanzato in Petrolio sospetti
sulla morte di Mattei, alludendo a responsabilità di Cefis. Pur nella frammentaria stesura del romanzo
incompiuto tali allusioni sono chiaramente rintracciabili. Il personaggio chiamato Troya non può che
mascherare Eugenio Cefis («Aldo Troya, vice presidente dell’Eni, è destinato a diventare uno dei personaggi
chiave della nostra storia» (Appunto 20. Carlo – come in un romanzo di Sterne – lasciato nell’atto di andare
a un Ricevimento, p.90), mentre Bonocore è lo stesso Mattei. La descrizione che Pasolini fa di Troya è del
resto non solo inequivocabile, ma anche tale da rivelare la fonte usata: si tratta appunto di Questo è
Cefis: «Lui, Troya, è un uomo sui cinquant’anni […]. La prima cosa che colpisce in lui è il sorriso. […] un
sorriso di complicità, quasi ammiccante: è decisamente un sorriso colpevole. Con esso Troya pare voler dire
a chi lo guarda che lui lo sa bene che chi lo guarda lo considera un uomo abbietto e ambizioso, capace di
tutto […] Il linguaggio con cui egli si esprimeva era la sua attività, perciò io, per interpretarlo, dovrei essere
un mercialista oltre che un detective. Mi sono arrangiato, ed ecco cosa sono venuto a sapere.[…] Troya
emigrato a Milano nel 1943, fu colto non inaspettatamente impreparato alle proprie scelte, a quanto pare,
dalla fine del fascismo e dall’inizio della Resistenza. Partecipò infatti alla Resistenza […]. Il capo di quella
formazione partigiana era l’attuale presidente dell’Eni, Ernesto Bonocore. […] le madri: una certa Pinetta
Sprìngolo di Sacile, per Troya, e una certa Rosa Bonali, di Bescapè per Bonocore. […] La cosa che vorrei
sottolineare è la seguente: Troya nella formazione partigiana era secondo. E la cosa pareva gli si addicesse
magnificamente fin da allora. […]. Sarebbe troppo lungo, e per me, poi, impossibile, seguire tutta la lenta
storia (due decenni) di questa accumulazione e di questa espansione. Mi limiterò dunque a dare un
panorama, […]. Dunque, Troya è attualmente vicepresidente dell’Eni. Ma questa non è che una posizione
ufficiale, premessa per un ulteriore balzo in avanti dovuto non tanto a una volontà ambiziosa quanto
all’accumularsi oggettivo e massiccio delle forze guidate da tale volontà. La vera potenza di Troya è per ora
nel suo impero privato, se queste distinzioni sono possibili. Troya ha da sempre coerentemente agito sotto
il segno del Misto. Dunque non c’è mia reale soluzione di continuità tra ciò che è suo e ciò che è pubblico
[…] L’altro fondamento primo dell’impero di Troya era la Società Immobiliari e Partecipazioni (?), intestata a
Amelia Gervasoni [….] sorella della moglie di Troya» (Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya,
pp. 94-98).
Pasolini elenca una lunga serie di società tra loro collegate, amministrate da persone riconducibili al vice
presidente dell’Eni. Come scopre Calia, si tratta di alcune delle società elencate da Giorgio Steimetz
in Questo è Cefis: i cui nomi sono stati sostituiti da Pasolini con altri, ma assonanti. Ad esempio, alla
“Immobiliari e Partecipazioni” di Pasolini, corrisponde la In.Im.Par. (Iniziative Partecipazioni Immobiliari) di
Steimetz. Alla “Spiritcasauno” e “Spiritcasadieci” di Pasolini, che devono il nome «al fatto che
presentemente Carlo Troya abitava in via di Santo Spirito, a Milano» (Calia), corrispondono, nella realtà, la
Chioscasauno e Chioscasadieci, così chiamate perché Eugenio Cefis abitava in via Chiossetto a Milano.
Steimetz cita la Ge.Da., poi Pro.De. (Profili Demografici s.p.a.), Da.Ma. (Data Management s.p.a.) e System-
Italia (la stessa società che aveva assunto la figlia del contadino Mario Ronchi di Bascapé), e Pasolini le
elenca con acronimi assonanti: «Un anno dopo la “Am.Da.” viene incorporata dalla “Li.De.” (Lineamenti
Demografici Spa), con oggetto “stampa e spedizione di lettere e corrispondenze, formazione di schedari
ecc.”. […] Qualcosa insomma, tecnicamente, come un piccolo Sid […]. Poi la ‘Li.De.’ si trasferisce (appunto)
a Roma […]. E la società prende il nome di “Da.Off.”, Data Office Spa. Ma per poco, perché ben presto […] la
società si richiama di nuovo “Am.Da.”. E a questo punto […] la società ampliandosi, espandendosi, prende il
definitivo nome di “Pattern italiana”[…]» (Appunto 22c. Il cosiddetto impero dei Troya: la ramificazione più
importante del fratello Quirino, p. 104).
E così con le altre società, immobiliari, petrolifere, metanifere, finanziarie, del legno, della plastica. della
pubblicità, televisive, ecc.
Tutto questo viene notato da Calia, dando così una preziosa indicazione anche per la ricerca critica e
filologica sulle fonti di Petrolio. Una più accurata comparazione tra i due testi è stata poi condotta da Silvia
De Laude, che ne fornisce con grande precisione i risultati nelle Note all’edizione di Petrolio del 2005, da lei
curata (pp. 595-615). La studiosa mostra che Pasolini riprende quasi testualmente da Questo è Cefis «ampi
estratti nella sezione su Aldo Troya e il suo “impero”
ANALOGIE E DIFFERENZE
Pasolini così lo riscrive in Petrolio:
Per esempio, edito dalla Nuova Editoriale Italiana Spa, usciva a Milano nuovo “Avvenire”, nato dalla fusione
tra il quotidiano cattolico bolognese e l’omonimo quotidiano lombardo. L’Eni aveva una particolare
predilezione per questo giornale, che non si limitava a pregi pubblicitari. Gli stipendi dei redattori e dei
collaboratori vennero talmente aumentati da suscitare l’invidia del “Corriere della Sera”; vennero
aumentate le pagine, le rubriche, i servizi, ecc. Si ingaggiarono addirittura dei giornalisti del “Corriere” – per
esempio il viceredattore capo dei servizi sportivi – insieme ai redattori dell’Ansa e di “Panorama”; per non
parlare di altri personaggi più eccentrici, come per esempio l’ex direttore di “Ciao Big”, l’ex direttore del
mensile per uomini soli “Kent”, l’ex direttore di “Sì” (figliazione di “Abc”) e l’ex redattore capo di “Abc”
stesso (Appunto 20. Carlo – come in un romanzo di Sterne – lasciato nell’atto di andare a un
Ricevimento, p. 90)
Di alcuni personaggi cambiano i nomi: il presidente della Nuova Editoriale Italiana s.p.a Giuseppe Restelli
in Petrolio è Ettore Zolla; al suo vice Angelo Morandi, Pasolini dà per nome Guido Casalegno. Ancora
da Questo è Cefis:
Essendo infatti il Presidente Mattei preso dalle sue mille attività sino al punto di non trovare nemmeno il
tempo di firmare montagne di corrispondenza ordinaria e limitandosi a porre il sigillo autografo sulle
missive di un certo impegno, il Morandi funzionava da negro per la firma, siglando per esteso, con
imitazione quasi perfetta dell’originale di Mattei e con fedeltà anastatica ammirevole, il corriere di poco
conto, anche magari riferito alla posta di quell’Ente (non di Stato) che il Presidente proteggeva e di cui si
occupa pienamente, oggi, lo stesso Cefis.
Così in Petrolio:
Il presidente Enrico Bonocore era intatti talmente preso dal vortice delle sue attività – fondatrici,
appartenenti al tempo mitico – da non trovare il tempo nemmeno di porre la sua firma sotto le centinaia di
lettere di corrispondenza ordinaria (per le lettere più importanti usava un sigillo autografo): era quindi
Casalegno – ripeto, uomo sostanzialmente onesto – a firmare il corriere ordinario per Enrico Bonocore:
siglando per esteso, con ammirevole imitazione della firma originale del Capo. In conseguenza di tale sua
sconfinata pazienza manuale, Guido Casalegno, occupava presentemente la carica che abbiamo detto: oltre
a essere Dirigente Amministrativo della Snam, e Direttore della Divisione Segisa, controllando così
amministrativamente e finanziariamente il “Giorno”; ed era entrato a fare parte della piccola fluttuante
oligarchia del cosiddetto impero dei Troya. (Appunto 20. Carlo – come in un romanzo di Sterne – lasciato
nell’atto di andare a un Ricevimento, p. 100)
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Con ironia, Steimetz titola un suo paragrafo Il nababbo degli investimenti a vuoto, sulla moltitudine di
infruttuosi investimenti Eni nel Sudan, in Somalia o nel Golfo Persico:
Nel ’58 l’Eni investe in Marocco dai 12 ai 15 miliardi con la Somip, ma si sa come vanno queste cose.
Pazienza, di oro nero nemmeno l’ombra. Nel Sudan (1959), altri pozzi inghiottono miliardi e non regalano
un barile di petrolio. Dopo l’intermezzo libico, dieci miliardi in Somalia cinque milioni al giorno circa per
azionare le sonde senza conclusioni migliori. Finalmente il Golfo Persico, con lo Scarabeo, la piattaforma
galleggiante dell’Eni, e il petrolio si trova; profitto iniziale subito annullato dalle contemporanee, inutili
trivellazioni nel massiccio montuoso dello Zagros, un anno di lavoro a quota 3350.
Pasolini così lo riscrive nell’Appunto 54 (Il viaggio reale nel Medio Oriente):
L’Eni aveva investito in Marocco dai 12 ai 15 miliardi: ma non vi si era trovato neanche una goccia di
petrolio. E ciò precedentemente al viaggio del nostro ingegnere. Nel viaggio in questione, le cose, appunto,
non erano andate molto meglio. Nel Sudan […] un altro buon numero di miliardi e anche qui neanche una
goccia di petrolio. In Eritrea furono investiti precisamente dieci miliardi – cinque milioni al giorno per
azionare le sonde – senza il minimo risultato positivo. Nel Golfo Persico invece il petrolio – novello Vello
d’Oro secondo il nostro idioletto – fu trovato: entrò così trionfalmente in questione lo ‘Scarabeo’, la famosa
piattaforma galleggiante dell’Eni. Disgraziatamente però, esattamente nello stesso periodo, tutto ciò che
venne guadagnato nel Golfo Persico, andò perduto nel massiccio montuoso dello Zagros: un inutile anno di
trivellazioni a quota 3350. (Appunto 54. Il viaggio reale nel Medio Oriente, p. 199)
Petrolio avanza dentro a una stratificazione di esibite citazioni. Addirittura clamorosa, nell’Appunto 129, la
ripresa della festa narrata da Fëdor Dostoevskij nei Demoni, libro in cui Pasolini si specchia e specchia
l’Italia dei primi anni Settanta («No, io parlo – come dice Dostoevskij, e come io non oserei dire – delle
‘mezze calzette’»). Il riuso di materiali preesistenti, con riprese che non di rado sono alla lettera è insieme il
risultato di un lavoro di documentazione e un’esigenza estetica. Per De Laude, così come per Calia, sono
«poche, nel ritratto di Aldo Troya, le varianti rispetto al libro di Steimetz»; cambia il luogo di nascita: Sacile,
in provincia di Pordenone, invece di Cividale («ma di Udine quando egli era nato», scrive Pasolini (Appunto
22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, in Petrolio, Oscar Mondadori, p. 104). Scrive Steimetz:
Eugenio Cefis […] conta 50 anni […] non teme le Cassandre dei tumori, è un patito delle Marlboro che offre
con larghezza all’interlocutore, non potendo né sapendo sacrificargli un sorriso per la quasi totale assenza
di comunicativa. […] Cefis allora intensifica la propria verve ipnotica, giungendo sino al risolino allettante,
astuzia sottile del proletario furbo […] Il barone del metano compresso, così come si mostra schivo davanti
alle telecamere e ai paparazzi, così com’è allergico ad apparire in pubblico […] Colleziona con devozione (e
profitto) gli ex-voto, investimento d’arte tra i più intelligenti. Trova conforto e relax nella Citroën Ds 21
intestata alla segretaria.
Pasolini:
Lui, Troya è un uomo sui cinquant’anni, ma ne dimostra meno. La prima cosa che colpisce in lui è il sorriso.
Colpisce, prima di tutto, perché si sente subito che è un sorriso divenuto stereotipo. […] Troya, cioè,
sorridendo furbescamente, voleva far sapere ininterrottamente, senza soluzione di continuità, e a tutti che
lui era furbo. […] Non amava assolutamente nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura
del suo potere, restare nell’ombra, e infatti ci restava […] Si sapeva che girava con una macchina, una
Citroën verde, non intestata nemmeno a lui (che dunque non era possessore nemmeno di una modesta
Citroën); e si sapeva anche che faceva raccolta di oggetti in ceramica bianca (cosa che dava l’aria di piccoli
cimiteri a certi tavolini, non certo pezzi rari d’antiquariato, della sua casa e anche del suo ufficio). (Appunto
22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, pp. 94-96)
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