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Giuseppe Sarno

L'Anarchia
criticamente dedotta
dal sistema hegeliano

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TITOLO: L'anarchia criticamente dedotta dal sistema


hegeliano
AUTORE: Sarno, Giuseppe
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DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


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TRATTO DA: L' anarchia criticamente dedotta dal si-


stema hegeliano / Giuseppe Sarno ; ristampa di un
saggio del 1890 con prefazione di Benedetto Croce. -
Bari : Gius. Laterza e Figli, 1947. - 90 p. ; 21 cm.

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3
Indice generale

PREFAZIONE................................................................6
AD ENRICO PESSINA...............................................15
L'ANARCHIA..............................................................19
APPENDICE
DISCUSSIONE CON GIOVANNI BOVIO.................72
I.................................................................................72
II................................................................................76
INDICE.........................................................................81

4
GIUSEPPE SARNO

L'ANARCHIA
CRITICAMENTE DEDOTTA
DAL SISTEMA HEGELIANO

RISTAMPA DI UN SAGGIO DEL 1890


CON PREFAZIONE DI
BENEDETTO CROCE

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1947

5
PREFAZIONE

Scrivo molto volentieri qualche pagina intorno a que-


st'opuscolo, che ha la data del 1890 e può dirsi del tutto
dimenticato (se pur mai al suo tempo destò una qualsiasi
attenzione), perchè la lettura di esso ha toccato due cor-
de molto sensibili della mia anima: quella che vibra al
ricordo delle immagini del passato, e quella che scatta
vivace sempre che le si presenti un rapporto d'idee da
cogliere o da schiarire.
Giuseppe Sarno fu un avvocato napoletano, appassio-
nato di filosofia hegeliana, hegeliano di destra come di-
scepolo nell'Università napoletana di Augusto Vera, e
nondimeno, in politica, estremo tra gli estremi, anarchi-
co. Ma era di cuore buono, onesto, generoso, legato di
amicizia e di ossequio a personaggi delle più diverse
fedi, rispettando sempre nell'uomo l'uomo di merito,
quale che fossero i suoi concetti e il suo partito. Anche
in questo opuscolo la dedica è al suo maestro di diritto
penale, Enrico Pessina, senatore e tutt'altro che arri-
schiato in politica, che lo aveva difeso quando fu accu-

6
sato come anarchico; e poi vi si legge una deferente di-
scussione con l'antihegeliano e temperatissimo repubbli-
cano Giovanni Bovio; e, nel corso della trattazione, si
ricorre alla suprema autorità del Vera: in un altro suo
scritto con pari stima ed ossequio lo si ode disputare con
l'economista e autonomista meridionale Giacomo Sava-
rese, che non ammise mai l'unità d'Italia, per la quale il
Sarno aveva preso le armi nel 1860 e nel 1866. Così si
viveva nella Napoli della mia giovinezza, quando osser-
vavo nell'Università Antonio Tari, l'agnostico filosofo
dell'Innominabile, vibrante d'impeti giovanili per le ple-
bi oppresse, trattenersi in cordiale compagnia con l'uma-
nista e poeta latino abate Perrone, e consimili affratella-
menti coi quali venivano sempre collocati in disparte e
in alto il carattere morale e il valore intellettuale, dovun-
que si trovasse, e gli uomini degni venivano da tutti ri-
conosciuti, riveriti e amati, argomento di orgoglio e di
vanto per i loro concittadini. Non dirò che nei tempi no-
stri questo modo di sentire sia andato affatto perduto;
ma certamente è assai scemata, con la perduta tranquilli-
tà politica e sociale, la condizione che lo favoriva; e so-
prattutto quel che dà grave pensiero, e quasi un brivido
di orrore, è la tendenza crescente a contaminare, a fram-
mischiare, a schiacciare pensiero, poesia e morale con
imposte azioni di volontà politica, offendendo e ferendo
e mirando a distruggere le più delicate radici spirituali
della comune umanità.
«L ' A n a r c h i a c r i t i c a m e n t e d e d o t t a d a l s i -
s t e m a h e g e l i a n o » : il titolo è stato così formulato
7
da me, col determinare più particolarmente la nuda pa-
rola «Anarchia», che era nel frontespizio dell'originale.
Da quel sistema, e col negare dialetticamente la teoria
che esso porgeva dello Stato, e a questa ribellarsi, e al-
tresì respingere lo stato comunistico, rappresentato da
una ricca letteratura nell'ultimo ventennio e che già si
profilava negli stessi scolari della sinistra hegeliana, era
venuta fuori, nel 1845, l'impetuosa affermazione anar-
chica di Max Stirner, al secolo Gaspare Schmidt, Der
Einzige und sein Eigentum, della quale poco si era di-
scusso in Germania e nessuna eco era giunta nè in Italia
nè nella restante Europa: cosicchè il Sarno, come tutti
gli altri della sua scuola hegeliana, non ne sapeva nulla.
Tra il 1840 e il 1848 il sistema hegeliano era stato tirato
a diversi ed opposti sensi in quel praticizzamento e poli-
ticizzamento e decadimento della già poderosa e classi-
ca filosofia idealistica, a segno che, contemporaneamen-
te, i giovani Marx ed Engels (in chiara analogia con la
deduzione di lui) scoprivano che il vero erede di quella
filosofia era nientemeno che il comunismo e il proleta-
riato tedesco, chiamato al comunismo; laddove altri,
come il Ciezkowski, ne faceva erede il popolo polacco,
designato nuovo redentore del mondo, e altri escogita-
vano altri diritti di eredità. Il Sarno giunse per via sua
propria a quella critica deduzione dell'Anarchia dalla fi-
losofia dello Hegel; e non senza acume nè sodezza di ra-
ziocinio.
Il suo raziocinio, che bisogna riconoscere esatto, era
in breve il seguente. Lo «svolgimento» è, nello Hegel,
8
cosa affatto diversa dalla «evoluzione» (dal darvinismo
resa allora di moda), perchè è un processo in cui coinci-
dono svolgimento storico e svolgimento ideale o logico;
onde le sue forme non si susseguono in balía della con-
tingenza, ma si concatenano e sorgono, ciascuna al suo
posto ed ufficio, per logica necessità. Ciò premesso, se
il genere umano ha cominciato la sua storia con l'anar-
chia della vita selvaggia, e se per negazione di questa è
passata nel corso dei secoli attraverso le varie forme
dello Stato, oligarchico o feudale, monarchico assoluto,
monarchico temperato, arbitrariamente lo Hegel, sog-
giacendo ai suoi affetti di suddito prussiano, poneva
come termine e culmine dello svolgimento la monarchia
temperata, e propriamente quella che gli pareva raggiun-
gesse la perfezione e che era in atto in Prussia, perchè lo
Stato è una forma inadeguata alla pienezza dell'Idea,
contenendo insoluta la divisione e contradizione di do-
minatori e dominati, di governanti e governati, laddove
la forma piena vuole la piena unità, e lo svolgimento
storico, dopo essersi nutrito delle varie e consecutive
esperienze statali, deve mettere capo a un ritorno all'ini-
zio (negazione della negazione), all'Anarchia, ma resa
pura e armonica e razionale dopo la secolare e millena-
ria maturazione dell'esperienza statale, di cui serbava
nel superarli gli aspetti positivi. Il ritmo, che qui doveva
operare, era quello fondamentale di tesi, antitesi e sinte-
si; ma lo Hegel, contro la logica del suo sistema, si era
fermato a un momento dell'antitesi e non era passato,
come doveva, alla sintesi. Similmente il Marx e l'En-
9
gels, in quello stesso tempo, pensavano (e l'Engels do-
veva svolgere di poi questo pensiero in un libro specia-
le) che la storia, essendo cominciata col comunismo
(comunismo primitivo), che cedette il luogo all'antitesi
della lunga età di sfruttamento dei lavoratori – schiavitù,
servaggio, salariato, – doveva riattaccare la fine al prin-
cipio e passare nel regno della libertà mercè del nuovo
comunismo, forma razionale e ormai salda di quello
spontaneo e primitivo che era debole e povero e destina-
to perciò alle dure vicende educative della storia.
Ma se l'argomentazione del Sarno è da giudicarsi for-
malmente esatta, non perciò la sua tesi ne usciva dimo-
strata come vera, perchè esattezza non è verità, e una
deduzione che, poste che siano certe premesse, risulta
giustificata, cade quando le premesse stesse cadono o
vengono abbandonate per critica corrosione; o, se così
piace, potrà considerarsi anch'essa vera, ma solo in
quanto, come in questo caso, vien riferita a una partico-
lare situazione polemica, e qui allo Hegel del quale dà la
reductio ad absurdum di certi concetti, ma con ciò non
dimostra la validità dell'anarchismo e della sua necessità
storica. La critica dello Hegel, che quegli scolari ribelli
o riformatori degli anni antecedenti il 1848 non seppero
eseguire, perchè essi modificavano o variavano, secon-
do i varii loro gusti e tendenze, i particolari delle sue co-
struzioni ma ne accettavano le premesse, è stata data poi
col criticare la conversione che lo Hegel fece delle sue
categorie ideali in epoche storiche, e di conseguenza ri-
gettare l'artificiosa costruzione della storia come avente
10
il suo inizio in una categoria posta come età primitiva, e,
dopo l'intermedia odissea delle epoche di negazione e
insieme di avanzamento, il suo termine nella restaura-
zione e trasfigurazione dell'inizio stesso. La filosofia he-
geliana della storia, e anzi ogni filosofia della storia, o
soprastoria che si dica, è crollata dalle fondamenta, e
sotto le sue rovine ha trascinato non solo la deduzione
dell'Anarchia, che eseguiva a Napoli sessant'anni fa il
discepolo ortodosso dell'ortodosso Augusto Vera, ma
anche (e di ciò troppi stentano a persuadersi o hanno
fermo il proposito di non lasciarsi persuadere) un inci-
dente culturale assai più grosso, il famigerato materiali-
smo storico, che, «del colpo non accorto», se ne va bal-
danzosamente combattendo sebbene sia morto: morto
nel campo del pensiero al quale pur pretende di apparte-
nere. Come parola di battaglia, potrà restare o sopravvi-
vere per un tempo più o meno lungo, non essendogli ne-
cessario a tal fine di possedere un senso logico e bastan-
do l'efficacia dinamica del suono stesso, come bastò per
secoli ai cavalieri francesi nel muovere all'assalto il loro
«Montjoie» o a quel reggimento lombardo di cavalleria
che si segnalò nelle guerre napoleoniche il grido borbot-
tato: «Corpo della Madonna!», che un ignaro testimone
austriaco raccolse credendo che fosse il pio nome di
quel corpo di soldati.
Con tutto questo, e anzi proprio per questo, l'opuscolo
del Sarno merita una ristampa, sebbene il motivo che ha
indotto me a curarla non sia stato primariamente questa
ragione di studioso delle vicende delle idee, ma altro di
11
altra natura. Il buon Sarno morì poco più che cinquan-
tenne, nel 1896 (era avellinese, nato a Cesinali, e si era
dottorato nella Università napoletana in giurisprudenza
nel 1863); e la sua morte ebbe tra quanti lo conoscevano
compianto e rimpianto di memore affetto e simpatia.
Egli lasciava due figliuoli ancora fanciulli, che i suoi
maestri ed amici non abbandonarono; e uno dei due,
Antonio, dié presto prove di non comuni attitudini così
alla filosofia come alla poesia, e condusse vita irrepren-
sibile d'impiegato statale e di combattente nella prima
guerra mondiale, ma dolorosa per temperamento estuan-
te, che lo portò, in una crisi di tristezza, al suicidio. Il
minore fratello Giuseppe, al quale il ricordo del fratello
amatissimo è quotidiano compagno, si rivolse a me, po-
chi anni or sono, perchè scegliessi e raccogliessi un vo-
lume degli scritti lasciati da Antonio; il che io feci in un
libro dal titolo Pensiero e poesia (Bari, Laterza, 1943),
che è vivo documento del suo ingegno e dell'animo suo.
E ora, aggiungendo alla fraterna la filiale pietà, ha desi-
derato di onorare la memoria del padre, e mi ha richie-
sto di ripubblicare e far conoscere qualcuno degli scritti
che di lui avanzano a stampa.
Sono questi, a mia notizia: Il cattolicismo ed il secolo
XIX (Napoli, Stamperia della R. Università, 1869); Pen-
sieri su la questione sociale (ivi, tipogr. Marchesi,
1880); La Patria, conferenza tenuta all'Associazione dei
lavoratori «Pensiero ed azione» (ivi, tipogr. Eugenio,
1888); l'Anarchia (s.l.a., ma Napoli, 1890). E quantun-
que tutti essi, nonostante la forma letteraria assai trasan-
12
data, dimostrino serietà di pensiero e di propositi, io ho
scelto quest'ultimo, perchè, mentre mi offriva in iscorcio
una compiuta immagine dell'autore, mi dava occasione
d'illustrare un curioso documento della storia dello he-
gelismo italiano e napoletano.
Questa storia – mi sia lecita qui in fine una breve ma
non superflua digressione – non fu un freddo andazzo
universitario, ma, nata nei liberi studi e con partecipa-
zione di molti fervidi spiriti, rivisse in modo spontaneo
e originale le varie forme che già erano state vissute in
Germania trenta e quarant'anni innanzi, da quelle di reli-
giosa contemplazione che cercavano pace e beatificazio-
ne in una sfera superiore alla vita e alla storia, a quelle
di rivoluzionarismo politico e sociale e di millenarismo
laico, e alle teoreticamente immaginose, che, senza di-
staccarsi in modo radicale dal metodo del maestro, si ar-
gomentavano di cambiare o aggiungere categorie e di
pervenire a conclusioni speculative diverse dalle sue; e
tra le une e le altre erano le forme caute e critiche, che
procuravano di bene intendere il testo hegeliano, ma
non osavano o non sapevano oltrepassarlo; sicchè un
solo effettivo e consapevole oltrepassamento ci fu, ma
nel campo dell'estetica e della critica letteraria, per ope-
ra di Francesco de Sanctis, con implicite conseguenze
generali che si manifestarono solo più tardi in nuove
condizioni spirituali e in nuove menti. La più recente fi-
losofia italiana, quella della prima metà del nostro seco-
lo, non si fa a pieno storicamente chiara se non si tiene
conto di cotesti ormai lontani e nascosti precedenti stori-
13
ci, i quali spiegano, da una parte, la riapparizione che ci
fu in modernistiche vesti del tenace teologismo persi-
stente nello hegelismo, e, dall'altra, lo sforzo durato per
scoprirne gli addentellati logici e, respingendolo e sosti-
tuendolo, liberare e congiungere veramente il filosofare
con la vita e con la storia1.
Napoli, 1° dicembre 1946.
BENEDETTO CROCE.

1 Dello hegelismo nell'Italia meridionale, dove principalmente


ebbe vita, detti cenno in un mio saggio sulla vita letteraria in Na-
poli dal 1860 al 1900 (in Letteratura della Nuova Italia, quarta
edizione, Bari, Laterza, 1942, IV, 271-86).

14
AD ENRICO PESSINA

A Voi, mio illustre maestro, dedico questo lavoro,


perchè io sento prepotente il bisogno di dimostrarvi in
qualche maniera il mio affetto, e prepotente il desiderio
di rendervi pubbliche grazie per la nobile difesa fatta di
me.
Quelli che mi conoscono sanno ch'io non sono e non
potrò essere giammai un malfattore, che nell'animo mio
non cape, nè può capire odio contro chicchessia e che
io parlo
per ver dire
non per odio d'altrui, nè per disprezzo.

Ma la folla pensa o crede di pensare altrimenti, e non


pure qui in Italia, ma da per tutto un anarchista è fuori
la legge comune. Ebbene, a questa folla, Voi, militante
in altro campo, rispondeste da pari vostro: – No, che lo
spirito umano non si conquide nè si arresta, ma come
l'angelo dell'Alighieri

15
li rami schianta, abbatte e porta fori:
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere ed i pastori.

E Voi avete supremamente ragione, mio maestro, per-


chè si darà la cicuta a Socrate e Socrate diventa im-
mortale.
Vi ha qualcuno più oggi che ricordi i nomi dei giudici
ateniesi?
A Bruno fu elevata una statua, che egli meritava a
doppio titolo, nel luogo stesso ove venne bruciato vivo;
eppure il nome del tristo papa che lo dannava al rogo
non si rammenta che per maledirlo. E gli esempi po-
trebbero protrarsi all'infinito.
Questo solo universalmente è vero che, allorquando
l'idea nuova comincia a penetrare nella storia, non vi è
forza umana che possa respingerla indietro.
Il mondo pagano era ancora nel suo splendore e l'ul-
timo dei grandi poeti già presentiva nel suo spirito la
nuova idea. Non sono io che lo affermo, è l'Alighieri
che questo sostiene, e l'idea cristiana apparve sull'oriz-
zonte della storia, ed ebbe i suoi martiri e la sua luce
veramente divina. Che se, pure sta scritto, un giorno la
storia cancellerà il martirologio cristiano, San Paolo
sarà obliato, ma rimarrà eternamente vivo Paolo vaso
di elezione, sarà obliato Sant'Agostino, ma non il subli-
me autore De civitate Dei.
Ed è perciò – lo pensi o no la folla – che il nostro
ideale già conta i suoi nobili martiri: essi si chiamano

16
«nichilisti» a Pietroburgo, «anarchisti» a Chicago, «so-
cialisti» da per tutto, pronti a sacrificare la vita, l'ono-
re, la sostanza, gli affetti più intimi all'ideale della loro
mente.
È vero, noi oggi non segnaliamo tra le nostre fila
nomi di grandi ingegni, pietre miliari della umanità; ma
è forse detta sulla nostra dottrina l'ultima parola?
I martiri – si comprende – precedono gli scrittori, ed
il verbo novello fecondato del sangue dei primi, mercè
la dottrina dei secondi, diviene dottrina universale. Cia-
scuno secondo la sua peculiare attitudine si sforza di
contribuire nel limite del possibile all'edificio comune;
fino a che l'intelletto universale verrà, ed avrà il diritto
di esclamare: – Ecco, l'edificio è compiuto; esso non
crolla per soffiar di vento.
Ma io ho paura, o maestro, che voi non abbiate a
rimproverarmi: – A che queste vecchie reminiscenze
rettoriche?
Certamente, – rispondo subito, – siano pure remini-
scenze, siano pure rettoriche, esse rappresentano la ve-
rità.
E, se il mio spirito ubbidisce alla verità, chi me ne fa-
rebbe colpa?
Io penso, e in buona fede, che l'Anarchia sia l'ideale
politico della umanità. Potrò ingannarmi nei miei giu-
dizi, perchè questi sono miei, affatto individuali: ciò che
non potrà essere messo in dubbio si è che il pensiero
dell'Anarchia sia entrato nella storia e che combattendo

17
me, qualunque sia il valore del mio scritto, non si sarà
combattuta l'idea.
Che se poi questo mio scritto contenesse qualche
pensiero, che sarà utile forse ricordare, io ne sarei lieto,
meno per me che per voi, o mio maestro, giacchè io po-
trò dire a me stesso: – Oltre l'affetto, tu hai consacrato
al tuo difensore qualche cosa che i tuoi concittadini non
hanno stimato inutile.
Napoli, ottobre 1890.

G. SARNO

18
L'ANARCHIA

Il tema, che mi son proposto, è vecchio, ed anche al-


l'apparenza molto facile; e pure è uno dei più difficili
problemi che si presenta alla mente del sociologo.
È certo che tutti intendono il significato letterale della
parola «anarchia», ma pochi il suo valore scientifico; e,
tra questi pochi, pochissimi riconoscono essere l'anar-
chia la più alta forma di qualsiasi ordinamento sociale.
Che anzi (poichè ci è una manifesta contraddizione tra
la parola e la cosa, perchè società anarchica suona lo
stesso che dire società senza sistema) non si comprende
in qual modo possa conciliarsi l'ordine e il disordine, il
caos e il sistema.
D'altra parte, come concepire una società in balìa del
caos?
Non ha detto il filosofo, non ha lasciato scritto il poe-
ta che
Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è segno
che l'universo a Dio fa simigliante – ?

19
E c'è di più: l'anarchia per sè stessa non può essere
giammai concepita come forma politica, neppure nello
stato di possibilità (nel suo momento logico), perchè
essa rappresenta il caos, o, per essere più esatti, è l'im-
magine del caos; e questo è informe, giacchè, se potesse
prendere una forma, perciò appunto cesserebbe di esser
tale. Laonde, messa la questione nei termini di sopra ri-
feriti, non riesce ad intelletto umano il poter concepire
una società retta ad anarchia, senza cadere nell'assurdo e
nell'irrazionale.
Egli è vero che il filosofo ed il sociologo, nel cogliere
la verità intorno ai rapporti sociali, non debbono limitar-
si semplicemente alla ragione storica, perchè non tutta
la verità è contenuta nella storia dovendosi fare interve-
nire, insieme al passato e al presente, anche il futuro; ma
è vero bensì che questo futuro, prossimo o lontano che
sia, per potersi prevedere (almeno nello stato di astratta
possibilità) non deve uscire dai confini della ragione.
In altri termini, ciò che per lo storico o lo statista è
l'utopia dell'oggi, ben può essere concepito dal pensato-
re come la verità del domani.
Chi avrebbe infatti concepito, non dico altro, mezzo
secolo indietro, l'unità italiana, non come aspirazione,
ma come realtà storica?
Ebbene, l'utopia di ieri è la verità dei nostri tempi.
Il perchè del dissidio tra lo storico e il filosofo, intor-
no al concetto dell'unità italiana, si spiega, come si spie-
ga ancora la ragione per la quale questo magnanimo de-
siderio, per necessità di cose e virtù di uomini, sia stato
20
tradotto in realtà: ciò che non si spiega non è già l'avve-
rarsi dell'utopia, che è nell'ordine logico delle cose, ma
quello che non può esser concepito neppure come possi-
bile.
L'utopia di Platone, per esempio, sotto questo rispet-
to, è possibile, rientrando essa nell'ordine razionale; l'a-
narchia no, perchè sfugge a qualsiasi criterio, nè trova
fondamento nella storia. Ora tutto ciò importa che la
proposizione, la quale afferma, essere l'anarchia la più
alta forma di qualsiasi ordinamento sociale, sia sempli-
cemente un paradosso.
Voi, dunque, vedete fin da principio che il tema, il
quale appariva facile e piano, incomincia a diventare per
via difficile e intricato. La qual cosa, per altro, non ci
deve distogliere dalla risoluzione del problema, così im-
portante per sè stesso, e sul quale sento il dovere di ri-
chiamare tutta la vostra attenzione.
Da banda quindi le parole vuote, ed andiamo diritto
alla sostanza.
L'anarchia è una forma politica secondo ragione?
E, dato che la prima parte del quesito possa essere ri-
soluta in senso affermativo, rimane una seconda inchie-
sta a fare:
In qual modo la possibilità ideale passa nella sfera
della realtà o della storia?
In altri termini, quali sono i rapporti tra l'anarchia e le
diverse forme politiche che trovano riscontro nella sto-
ria?

21
Cominciando dalla prima parte del problema, voi ave-
te già notato che la più grande difficoltà da superare è la
contraddizione che involge in sè stesso il concetto del-
l'anarchia.
Io potrei liberarmi, è vero, di una così incomoda ob-
biezione, ed anche superarla, se appartenessi scientifica-
mente alla così detta scuola evoluzionistica, perchè nella
stessa guisa che Darwin fa derivare l'uomo dalla scim-
mia, mercè la selezione naturale, senza spiegare nè che
sia nè in che consista questa selezione naturale, potrei,
dal canto mio, mercè il principio della evoluzione e del-
la selezione, ricavare tra le diverse forme politiche quel-
la dell'anarchia.
Il processo logico in ambedue le ipotesi sarebbe iden-
tico, perchè ai destini umani presiederebbe sempre come
assoluto sovrano il caos, non essendovi alcuna intrinse-
ca ragione del principio e della fine delle cose.
Quale argomento si adduce, infatti, per dimostrare
che nel regno animale la evoluzione cominci dalla scim-
mia?
Quale ragione per dire che l'uomo sia l'ultima forma
di questa selezione naturale?
La scuola, alla quale appartengo, sostiene, invece, la
tesi opposta, perchè, dato che la evoluzione sia continua
ed eterna, il regno animale non potrà fermarsi alla spe-
cie «uomo», ma dovrà passare a altre forme, che noi non
solamente non conosciamo, ma non possiamo neanche
prevedere.

22
Per lo meno, ci si dovrà concedere che questa sia l'o-
pinione dei maggiorenti del sistema darwinistico. E poi-
chè nessuno sa donde cominci questa selezione, essendo
perfettamente arbitrario dire che l'uomo derivi dalla
scimmia, e nessuno al mondo potrà sapere dove andrà a
fermarsi questa benedetta selezione, di realmente certo
non vi sarebbe se non quello che abbiamo or ora accen-
nato: il caos.
Premessa questa dottrina, ripeto, non mi bisognerebbe
grande fatica a superare la obbiezione proposta, giacchè
l'anarchia sarebbe nell'ordine politico ciò che il caos è
nella scienza. L'una e l'altro mettono capo nell'indeter-
minato e perciò nell'arbitrario.
Ma io penso che questa scuola ormai abbia fatto il
suo tempo, non contenendo in sè alcun principio dal
quale parta nè il fine a cui dovrà pervenire, e per conse-
guenza non è dato ad essa risolvere nè questo nè alcun
altro problema scientifico. Io penso che sempre alla filo-
sofia speculativa sia d'uopo chiedere la soluzione del
quesito; e anzi, dirò di più, non alla filosofia in genere,
ma alla filosofia dell'Assoluto, alla filosofia sistematica,
alla filosofia hegeliana in una parola, che finora è rima-
sta insuperata nella scienza e nella storia del pensiero.
Voi comprenderete adunque, senza che io lo spieghi,
che l'obbiezione proposta, abbastanza importante per sè
medesima, prende da questo punto di vista proporzioni
colossali, giacchè devo, secondo il tema propostomi, e
in nome della filosofia hegeliana, sostenere l'Anarchia
contro lo Stato, cioè combattere colle armi del grande
23
pensatore quelle illazioni che furono il prodotto di lun-
ghi studi e del suo genio straordinario.
L'ardimento è grande, e forse superiore alle mie for-
ze; ma perchè mi si negherebbe la facoltà di tentare la
dimostrazione?
Lo scopo a cui miro è così grande, così nobile, così
generoso, così lontano dalle volgari e basse passioni,
che bene mi si potrà in nome della umanità sofferente
perdonare la grande immodestia.
Cosicchè, per tornare alla questione, noi assumiamo
che l'universo è un sistema, sia che lo si guardi nei di-
versi regni della natura, sia nel campo dello spirito.
Questa proposizione, messa qui, non ha bisogno di esse-
re dimostrata, essendo la dimostrazione già fatta dalla
filosofia hegeliana, in nome della quale io parlo. Tra la
natura e lo spirito, se è vero che l'universo è un sistema,
devono correre rapporti necessari; vale a dire che devo-
no essere quelli che devono essere, e non già accidenta-
li. Il che importa che l'universo è retto da leggi fisse; al-
trimenti le relazioni tra le cose, in mancanza di leggi
permanenti, diverrebbero puramente casuali, e quindi il
sistema andrebbe giù.
E che queste leggi fisse e determinate vi siano, non vi
è luogo a dubitare. Noi ne riscontriamo nei regni della
natura come nel regno dello spirito.
Che cosa è, infatti, la legge di gravitazione se non una
legge fissa e universale?
E non è universale forse la proposizione che afferma
l'uomo essere un animale ragionevole?
24
D'altro canto, come si potrebbe parlare di fisica, o di
scienze naturali in genere, senza una legge fondamenta-
le che ne costituisca, per dir così, l'alpha e l'omega, il
principio e la fine, che sia la ragione stessa della loro
esistenza?
La parola «scienza» medesima perderebbe tutto il va-
lore, se non si presupponesse un contenuto universale ed
assoluto, che la determini come tale.
Ciò premesso, noi sappiamo che l'universo è un siste-
ma, ed appunto perchè tale deve contenere tutti gli esse-
ri, l'uno e il molteplice, il finito e l'infinito, la natura e lo
spirito; e che i rapporti tra questi esseri, non possono es-
sere che sistematici, ossia assoluti, per due considera-
zioni, l'una delle quali abbiamo già manifestata, cioè che
l'idea del sistema implica il concetto di rapporti non ca-
suali, ma costanti; l'altra è che, essendo uno dei termini
l'Assoluto, questi rapporti non possono essere se non
della medesima natura.
Così, per uscire dal tema politico, l'idea di sociabilità
è un'idea assoluta, nel senso che i rapporti sociali sono
permanenti e imperituri, perchè non è possibile concepi-
re l'uomo fuori della vita sociale2.
Riconosciuti questi pensieri, e dato che i rapporti tra
gli esseri siano assoluti, si hanno gravi difficoltà da su-
perare nella filosofia e nella storia. La prima è che gli
esseri, concepiti nella loro idea, dovrebbero essere im-
2 L'ipotesi del Rousseau è puramente fantastica ed arbitraria:
non trova riscontro nella storia, nè viene confermata dalla ragio-
ne.

25
mutabili e riconosciuti come tali. Ora questa illazione è
combattuta dalla filosofia, perchè l'uno dei due termini
essendo il finito, o il molteplice, per ciò appunto è muta-
bile; è combattuta dalle scienze naturali, perchè la evo-
luzione degli esseri è una legge costante, che trova ri-
scontro nella realtà; è combattuta nello stesso campo po-
litico, e in quello della storia, perchè le diverse forme
politiche indicano fenomeni diversi, che non si possono
generalizzare in una forma unica.
La obbiezione, come ho detto, è grave ed importante;
ma non è nuova nella storia della filosofia.
Certamente, se da un lato si prendesse ad esaminare
l'uno dei due termini isolatamente, per esempio, il mol-
teplice; e dall'altro il secondo termine, l'assoluto, la ob-
biezione resterebbe inoppugnabile, perchè il primo per
sua natura dovrebbe mutar sempre e il secondo rimanere
eternamente immutabile.
Se non che questa è l'apparenza e l'illusione, non la
realtà, giacchè i due termini non possono essere spezzati
o divisi o isolati, ma devono essere studiati così come
sono, nei loro rapporti; ed è ciò che precisamente ha fat-
to la filosofia hegeliana, dimostrando che il molteplice
non è mutabile a segno da non contenere in sè un quid
d'immutabile, e, all'inverso, l'Assoluto non è un termine
fisso, e, per dir così, cristallizzato, da non potersi muo-
vere dalla sua sfera.
Se la cosa fosse nei termini proposti dalla obbiezione,
mancherebbe qualsiasi specie di rapporto tra il finito e
l'infinito, tra il molteplice e l'assoluto; e l'uno muterebbe
26
sempre senza posa, nel mentre che l'altro starebbe eter-
namente immobile e senza contatto con l'universo, rima-
nendo essi, per conseguenza, estranei tra loro.
La verità è che il finito è immobile nella sua mutabili-
tà e l'infinito è mutabile nella sua immutabilità.
A spiegare in una certa maniera il pensiero che vo si-
gnificando, mi permetto d'indicare qualche esempio.
Supponete di avere tra le mani una rosa: ebbene, que-
sto splendido fiore che nella sua forma finale apparisce
in una determinata guisa, non si manifesta all'alba della
sua esistenza, al modo stesso che nel pieno meriggio, o
quando avrà raggiunto il suo completo sviluppo. Dal
primo seme che s'introduce nella terra fino alla forma
ultima che prende il fiore di questo nome, io vi doman-
do: quante varietà di forme e di colori, quante trasfor-
mazioni non porta con sè?
E l'uomo medesimo non è soggetto agli stessi feno-
meni, alla medesima legge?
Dapprima è bambino, poi fanciullo, indi giovane,
adulto, vecchio.
Nell'uno e nell'altro esempio, come ciascuno può os-
servare, e nei diversi stadi del loro sviluppo la trasfor-
mazione è evidente. Se non che, questa metamorfosi
non è punto caotica, continua o casuale, ma è determi-
nata e concreta. Il seme della rosa, quali che siano le
evoluzioni che compie nei diversi momenti, non può
produrre come termine finale se non il fiore dello stesso
nome, e non il giacinto, non il garofano, nè un fiore di

27
alcun'altra specie: in modo che la sua realtà risponde
alla sua idea.
E così l'uomo non può avere evoluzioni diverse da
quelle indicate, nè mutarsi in altra specie. Ed è in questo
senso per l'appunto che i due termini, il mutabile e l'im-
mutabile, si compenetrano a vicenda; nel senso cioè che
l'evoluzione è una necessaria realtà, è un momento del-
l'idea, e come tale non può uscire dai confini dell'idea, a
cui deve rispondere in tutto e per tutto.
Riepilogando il nostro pensiero, se l'universo è un si-
stema, e se questo non può concepirsi senza riconoscere
la necessità di diverse sfere, le quali non possono oltre-
passare i confini della idea, la conseguenza che si dovrà
trarre è la seguente:
Che il concetto dell'evoluzione (e dico concetto per
chiarire il pensiero) si spiega precisamente per la diver-
sità delle sfere, ed essa deve essere sistematica, vale a
dire deve essere quello che deve essere, non caotica,
non casuale; e, di più, non deve superare il limite della
idea, oltre la quale non si ha se non l'assurdo e l'irrazio-
nale.
Premesse le quali considerazioni, secondo la dottrina
cui abbiamo accennato, l'idea di un ordinamento sociale
è per se stessa un'idea assoluta e concreta. Essa può,
anzi deve avere per sè ed in sè stessa evoluzioni; ma
queste non sono punto capricciose od arbitrarie, ma de-
vono rispondere al contenuto dell'idea e formare parte
sostanziale di essa. Cosicchè, data la conoscenza dell'i-
dea dell'ordinamento sociale, si può determinare a priori
28
il momento di cui esso fa parte e il momento a cui dovrà
necessariamente pervenire.
Una disamina parziale chiarirà meglio questo pensie-
ro.
L'idea di un ordinamento sociale suppone, come suoi
elementi essenziali, l'individualità e la società. Dato il
primo di essi, per necessità logica è uopo supporre il se-
condo; altrimenti nessuno dei due avrebbe ragione di es-
sere. E non solo, riconosciuto l'uno, occorre riconoscere
l'altro, ma i due termini, benchè entrambi necessari e in-
sieme congiunti, si trovano in contraddizione e cercano
di assorbirsi a vicenda.
Il ritmo dell'universo è la contraddizione, – ha lascia-
to scritto Hegel e prima di lui Eraclito: – la contraddi-
zione, senza la quale mancherebbe la possibilità di qual-
siasi movimento e di qualsiasi evoluzione.
Nel mondo morale la storia stessa mancherebbe di
contenuto e noi dovremmo ritornare alla filosofia india-
na, a quella dell'assoluta immobilità.
La contraddizione, infatti, tra l'individuo e la società
costituisce il loro momento di differenza e rappresenta
l'idea nello stato di evoluzione; il che significa che solo
mercè la contraddizione si rende possibile il passaggio
da una sfera all'altra, e diviene possibile per la nostra
tesi la storia degli ordinamenti sociali.
Se non che, la differenza è un momento dell'idea,
come abbiamo fatto notare, ma questo momento, questa
contraddizione debbono essere superati dalla e per l'i-
dea, perchè altrimenti verrebbe ad essere spezzata l'uni-
29
tà, il sistema, e, ciò che più importa, verrebbe a mancare
la scienza, la quale ha per base fondamentale l'unità.
Questo c'induce a conchiudere, in ordine alla nostra tesi,
che per la necessità stessa dell'idea che è l'unità concreta
e non astratta, occorre riconoscere una diversità di for-
me politiche e sociali, le quali passano le une nelle altre,
trasformandosi, senza essere assorbite o annullate; ma
nello stesso tempo tutte queste forme devono essere
contenute in una forma finale, che, negandole tutte, le
afferma tutte, superandole.
Ed ora, alla base di quanto abbiamo premesso, cer-
chiamo di scoprire lo svolgimento ideale dei diversi or-
dinamenti sociali. Vedremo poi, come riprova, nella se-
conda parte, che pubblicheremo in seguito, se la storia
corrisponde ai nostri pensamenti.
Abbiamo detto più innanzi che l'individuo e la società
costituiscono gli elementi indispensabili di qualsiasi or-
dinamento sociale, ed abbiamo soggiunto ancora che a
questi due elementi occorre un terzo: l'idea di rapporto:
– altrimenti i primi due sarebbero rimasti l'uno fuori del-
l'altro, e per conseguenza neppure concepibili. Ora que-
sto terzo elemento, questa idea di rapporto tra due termi-
ni, ad un tempo congiunti e contrari, è quello che contie-
ne il principio del differenziarsi, o, se si vuole, del de-
terminarsi sistematicamente.
Il modo poi come il movimento si propaga è dal
meno al più, dal vario all'uno, dalla sfera inferiore alla
superiore.

30
La ragione di questo processo sistematico sta in ciò
che l'idea, la quale crea per sè stessa la differenza, deve,
per raggiungere l'unità, superarla; vale a dire negarla
come differenza e contenere i termini contrari, come di-
versi momenti di sè stessa, i quali in conseguenza non
sono annullati, ma solamente negati come contrari ed af-
fermati come momenti necessari dell'idea. Il che impor-
ta che, dovendo l'idea concreta contenere tutti i diversi
momenti di sè stessa, per procedere sistematicamente
bisogna partire dal più astratto e semplice per giungere
al più complesso e determinato.
Riconosciuta la verità di questo procedimento, quale
dei due termini dati rappresenta il meno, il vario, la sfe-
ra inferiore?
Tra l'individuo e la società, che costituiscono due uni-
tà organiche, è chiaro che l'individuo è l'unità più sem-
plice e meno profonda della società, che è unità com-
plessa; ed è però che, sistematicamente, il primo movi-
mento politico sociale deve partire dal primo dei termini
dati, dall'individuo. Ma poichè l'individuo costituisce
per sè stesso una unità, così vi è una sfera inferiore allo
stesso individuo, che è rappresentata da alcuni individui;
ed ecco come la prima forma di governo è oligarchica.
Ma io ho dimostrato più innanzi che la tendenza di
questi due termini è di assorbirsi a vicenda; ed ecco
come il governo degli individui privilegiati o dei patres,
come li chiamerebbe Vico, concentra in sè tutte le fun-
zioni politiche e sociali.

31
I patres, infatti, essendo solo gli individui veramente
liberi, sono quelli che rappresentano il potere, e sono in-
vestiti dei diritti civili, una diramazione del potere poli-
tico. Gli altri componenti la società o sono riputati come
cose, gli schiavi, e più tardi considerati come liberti; o
sono stranieri o plebe; vale a dire, non pure non parteci-
pano alla vita pubblica ma nemmeno alla vita privata,
essendo il diritto civile in questo primo momento emi-
nente pubblico, al quale non possono partecipare se non
coloro che sono reputati personae, ed hanno la pienezza
dello stato (caput). Per conseguenza subiscono la dimi-
nutio capitis dapprima gli schiavi e relativamente poi i
liberti, maxima diminutio capitis; gli stranieri dopo, e
relativamente gli esquilini, a cui manca lo status civita-
tis; e infine, i plebei, ed anche gl'ingenui, che sono per
sè ma soggetti alla patria potestà, e ai quali manca lo
status familiae.
Questa differenza, così scolpita, tra i patres e gli altri
componenti il consorzio sociale genera la lotta, che è la
espressione della tendenza all'unità, richiedendo le clas-
si diseredate per l'appunto che il diritto dei patres diven-
ga unico e comune a tutti i cittadini.
È il secondo dei termini, la collettività, che entra in
funzione.
Siccome per altro questa collettività non è ancora or-
ganica, non avendo l'individuo ricevuto tutto lo svilup-
po, e non essendo divenuto persona, così lo stato oligar-
chico in questo primo periodo non è superato, sia che
venga riconosciuto come governo dei patres, sia come
32
governo repubblicano o della città. La sfera dei diritti ci-
vili e politici è in certa guisa allargata, partecipando alla
vita pubblica e cittadina un maggior numero d'individui
che non al tempo del governo dei patres; però le condi-
zioni generali rimangono le medesime, e il movimento
di differenza continua in tutta la sua estensione, vuoi
che si presenti con la forma di governo patrizio, vuoi
con quella repubblicana.
Come si concreta questa differenza nella storia degli
ordinamenti sociali e raggiunge una prima unità?
Con la monarchia.
La monarchia, infatti, supera il dissidio tra le diverse
classi sociali, livellandole tutte, e supera il dissidio tra i
cittadini e gli stranieri, giacchè innanzi al sovrano tutti
sono sudditi, siano patres, siano plebe, siano cittadini,
siano stranieri, e tutti sono obbligati ad ubbidire alle leg-
gi che emanano direttamente dal sovrano.
Sotto questo rispetto è stato detto, ed è vero, che il
governo di Cesare fu più largo e più liberale del governo
di Bruto. Il primo aveva innanzi alla sua mente non
Roma, ma il mondo conosciuto, non questa o quella pri-
vilegiata classe di cittadini, ma la massa; e per quanto il
mondo supera Roma e la massa dei cittadini supera la
classe, per tanto il pensiero di Cesare supera quello di
Bruto. Il vario passa nell'uno.
E qui si chiude il ciclo, perchè l'individuo ha percorso
tutta la scala ascendente, concentrando in sè tutti i diritti
e tutti i poteri, e negando, per conseguenza, il secondo
dei termini indispensabili, la collettività. Questa nega-
33
zione determina la lotta, e di nuovo crea la differenza:
lotta e differenza che il nostro Vico chiamerebbe «ritor-
no» o «ricorso». Invero, nel pensiero del Vico non ci è
che la legge del processo sistematico, che noi abbiamo
già esaminata; cioè che dal vario si passa all'uno, e que-
sta legge è continua, costante ed immanente. Per tutto il
resto il nostro grande filosofo s'inganna, perchè il vario
dell'antica civiltà non è il vario del medio evo o dell'e-
poca del «ricorso».
Nel primo movimento noi abbiamo il vario dell'indi-
viduo, cioè del primo dei termini, non il vario della col-
lettività, che è il secondo dei termini. La differenza tra il
primo e il secondo consiste in ciò che nel primo periodo
la potestà, privilegio di pochi, diviene privilegio di un
solo, del monarca: nel secondo, la potestà, che è assunta
dalle classi dirigenti o dagli ordini sociali, diviene de-
mocratica e universale.
Il movimento iniziale è e deve essere il medesimo,
per le ragioni sopra esposte: la materia mossa, per dir
così, è diversa, e quindi non vi è una legge di «ricorso»,
come pensa il Vico, ma una legge continua e progressi-
va che passa di sfera in sfera, seguendo lo stesso ordine
sistematico.
A spiegare questo pensiero, noi non abbiamo se non
da rivolgerci alla storia.
Ammettiamo per ipotesi ciò che sarà dimostrato per
fondamento di ragione, che la somma dei diritti stia nel-
la pienezza dello stato – status libertatis, status civitatis
e status familiae: – ebbene, come era considerato lo sta-
34
to di libertà nel periodo di «ricorso», secondo che affer-
ma il Vico?
Nel mondo antico lo stato di libertà è l'eccezione, non
la regola, il privilegio non il diritto. Gli uomini nascono
ingenui o schiavi, e questi, coll'andar del tempo, tutto al
più, potranno diventar liberti, giammai ingenui. Lo
schiavo, perchè tale, benchè uomo non è considerato
come persona, ma come cosa, e sopra di lui il padrone
ha il jus vitae et necis.
Nell'epoca della seconda barbarie l'uomo non è anco-
ra persona, ma non è più cosa; esso ha conquistato il di-
ritto alla sua integrità fisica, che nessuno al mondo può
conculcare.
L'integrità personale non è quindi più un privilegio
degl'ingenui, non dei molti, non dei cittadini di una de-
terminata città nè dei sudditi dipendenti da un sovrano
particolare; ma è una qualità essenziale ed inerente al-
l'uomo in qualunque stato egli si trovi. Quindi è, che lo
schiavo antico e il servo della gleba del medio evo sono
separati da un abisso. Il primo è sempre considerato
come cosa, il secondo innanzi tutto è una persona. Man-
ca perciò l'identità degli elementi per accertare la legge
di «ricorso» del grande filosofo napoletano.
Lo schiavo rappresenta la forma – per così dire – più
rudimentale della sfera individuo, il servo della gleba
della sfera collettività. Il passaggio dalla schiavitù alla
servitù è perciò un gran progresso. È il passaggio dal
particolare all'universale. Si riconosce, infatti, universal-
mente, che non questo o quello, nè una classe o un'altra,
35
nè il patrizio o il plebeo, nè il cittadino o lo straniero,
ma tutti gli uomini, che si trovano nell'orbe, hanno dirit-
to alla loro integrità fisica. E questo che riscontriamo al
principio della scala, o della sfera, si rinviene anche alla
sommità ed al vertice.
La potestà, come dicevamo, nella sfera individuo, è
concentrata tutta nei patrizi; nella sfera società passa ne-
gli ordini o in alcune classi sociali dirigenti. Così, nella
prima ipotesi, il sacerdozio, la milizia, il consolato sono
il privilegio assoluto dell'aristocrazia: nella seconda,
sono il privilegio degli ordini.
Vi è una casta sacerdotale, come una casta militare,
come vi sono altri ordini che si formano col tempo e col
progredire della civiltà. Si appartiene alla casta sacerdo-
tale non solo per diritto di nascita, ma eziandio per forza
d'intelletto e santità di costume; si appartiene alla casta
militare per le stesse ragioni considerate sotto l'aspetto
militare.
La differenza, come ciascuno potrà notare, di questo
passaggio è immensa, perchè al diritto divino subentra
in certa maniera il diritto umano.
Lo stato di libertà tuttavia in ambo i momenti, così
nella sfera dell'individuo come nella società, non è com-
pleto. Se è vero che il servo non rappresenta più l'antico
schiavo, e se è vero che l'ordine sacerdotale e militare
non rappresenta più il privilegio assoluto della nascita,
da ciò non segue tuttavia che il servo giuridicamente sia
considerato come persona, nè che la massa cittadina

36
possa partecipare agli ordini privilegiati, i quali appunto
perciò sono chiamati «caste».
Perchè il servo divenga persona, è mestieri che non si
riconosca solamente la sua integrità fisica, ma la sua
completa libertà morale; è mestieri che gli siano ricono-
sciuti i diritti civili. Ora, fino a che questi diritti civili
costituiscono il privilegio di pochi o di una casta, il ser-
vo non diverrà mai persona; come quindi si procede per
ottenere l'intento?
Nella sfera dell'individuo, come abbiamo veduto, è il
monarca che abolisce il privilegio dei pochi o dei molti
o della casta, livellando tutti innanzi a sè. Il servo divie-
ne suddito; egli non è libero, non ha ancora conquistato
interamente la sua libertà morale, ma è divenuto già per-
sona.
Nella sfera della società il suddito diviene cittadino, e
lo stato di libertà è completo ed è pieno. Alla sovranità
dell'uno, individuo, subentra la sovranità collettiva, del
tutto.
E qui parrebbe essere risoluto il problema, almanco
per ciò che riguarda lo stato di libertà, giacchè, quando
da schiavo si diviene cittadino, non è concepibile un ul-
teriore passaggio.
Dal punto di vista storico dello stato dell'odierna ci-
viltà la proposizione appare vera; essa però non è tale
secondo le norme di ragione.
Dato il pensiero, che siamo venuti svolgendo, cioè
che l'idea di ordinamento sociale è appoggiata sopra i
due elementi descritti, in modo che l'uno non sia sover-
37
chiato dall'altro, ma che ambedue siano contemperati in
una unità concreta, segue che, poichè l'anarchia, unità
dell'individuo, costituisce un privilegio, perchè, affer-
mando sè stessa, nega la collettività, dall'altra parte la
sovranità popolare, la repubblica democratica, afferman-
do la collettività, nega l'individuo.
Liberté, egalité, fraternité, e sta bene; ma queste pa-
role o non dicono nulla, ed allora non giova parlarne, e
non si ha il trionfo del tutto contro l'uno; o devono esse-
re intese nel loro senso letterale, cioè assoluta libertà,
assoluta eguaglianza, assoluta fraternità, come assoluta
proporzione fra tutti; ed allora la massa assorbe l'indivi-
duo e lo nega.
La libertà dello stoico, di Archimede, di Bruno è for-
se la stessa libertà che intende il contadino?
E sono e possono essere considerati identicamente
uguali Galilei e un venditore di occhiali?
Dunque, così la monarchia come la repubblica demo-
cratica non raggiungono l'unità delle differenze.
La prima rappresenta l'uno che nega il tutto, la secon-
da il tutto che nega l'uno; e perciò nessuna delle due for-
me contiene l'unità e l'identità dell'uno e del tutto, che il
gran filosofo di Stuttgart chiama appunto l'unità delle
differenze.
E poichè l'unità è il bisogno incessante della natura,
dello spirito e del sistema, come si manifesta in questo
periodo la tendenza all'unità?
Con la monarchia temperata.

38
Nella monarchia temperata sono rappresentati infatti
l'uno e il tutto, l'individuo e la società. Ed è questo pre-
cisamente il pensiero di Hegel. Egli riconosce nell'indi-
viduo, nel sovrano l'unità, che è il bisogno assoluto del
sistema; e questo sovrano non deve intendersi come nel-
la monarchia feudale l'uno che assorbe e nega il tutto –
lo Stato sono io, – ma l'uno attuato, concreto che è al
vertice della piramide, in guisa tale che, mancando la pi-
ramide, mancherebbe il resto.
La ragione della sovranità di quest'uno sta nel concet-
to che la determinazione suprema, l'ultima parola, l'«io
voglio», non può spettare se non al Sovrano.
Ed Hegel soggiunge testualmente:
Qui non vuolsi significare che il sovrano possa operare arbitra-
riamente; egli per contrario, deve attenersi al concreto tenore dei
consigli, e quando la costituzione è ben fissata, niente altro gli ri-
mane da fare che scrivervi sotto il suo nome. Ma questo nome è
importante: esso è la sommità, di là dalla quale non si può andare.

Il grande scrittore conforta il suo pensiero con diluci-


dazioni storiche:
Si potrebbe oppormi la classica democrazia di Atene: ebbene –
egli dice – l'ultima parola in Atene non era del popolo: esso nelle
grandi decisioni dello stato ricorreva agli oracoli, come Socrate al
suo famoso demone, a qualche cosa cioè di esteriore, che potesse
tornare di vantaggio all'uomo. La coscienza in quell'età non si era
ancora sollevata all'astrazione dell'obbiettivo, non era giunta a tal
grado che su quello, che era da decidersi, fosse stato pronunziato:
un «io voglio». Un tale «io voglio» forma la differenza tra l'antico
mondo e il moderno.

39
Io provo repugnanza grande a combattere il maestro
di color che sanno, perchè, se l'intelletto è misura, in-
commensurabile è la distanza che intercede tra me che
scrivo e l'Ercole della scienza moderna. La mia audacia
tuttavia può essere giustificata solamente dal pensiero
che la scienza non ha nome, è universale, e più ancora
dal notare (che altrimenti mi sarei taciuto) che questa
teoria del maestro espressa nella Filosofia del diritto è
contraddizione delle sue medesime dottrine filosofiche,
massime dell'Enciclopedia. Sono persuaso, in effetti,
che, se Giorgio Federico Hegel non fosse vissuto nel-
l'ambiente germanico, il che costituisce una legge (leg-
ge, che volere o non volere, anche gli spiriti più elevati
sono costretti a subire), egli avrebbe politicamente se-
guita una via più conforme alle sue idee metafisiche.
Già, prima di tutto, l'esempio, riferito di sopra, della
democrazia ateniese non calza alla tesi che si sostiene.
Egli è vero infatti che nelle supreme decisioni i magi-
strati ateniesi, per convincere le masse e determinare il
voto, ricorrevano agli oracoli; ma questi oracoli rispon-
devano per l'appunto come volevano che avessero rispo-
sto coloro che erano preposti alla cosa pubblica. Dun-
que, l'ultima decisione, l'ultima parola, l'«io voglio»,
non era data dal caso, da una forza esteriore, ma era il
pensiero riposto e la determinazione presa dalla stessa
magistratura ateniese. Lo stesso demone di Socrate, il
buon genio, non è fuori di Socrate, ma vive in lui ed è
per lui, e risponde alla moderna «ispirazione», che può
essere buona o rea, creare gli eroi o i malfattori, ma che
40
non pertanto presiede a tutte le nostre azioni e può, anzi
deve, essere superata dalla ragione.
Ancora inesatta mi sembra la seconda proposizione:
che l'«io voglio» costituisca la differenza tra il mondo
antico e il moderno.
Che l'«io voglio» rappresenti invero la più alta affer-
mazione della coscienza è fuori dubbio. Ma di quale co-
scienza s'intende parlare? Certamente, della coscienza
individuale.
Ora, di sopra a questa coscienza è la coscienza uni-
versale. Sopra tutte le coscienze, poi, havvi la ragione.
Storicamente, invero, la parola «io voglio» è la forma
che assume la monarchia feudale: stat pro ratione vo-
luntas. Ma questa non rappresenta più la società moder-
na, ed alla frase «io voglio», sono state sostituite le al-
tre: «Così vuole la ragione, questo comanda la legge».
Ma, da banda queste osservazioni che il maestro me-
desimo chiamerebbe estrinseche e di poco rilievo: qual'è
la ragione, per cui, secondo la dottrina hegeliana, la mo-
narchia anche temperata non raggiunge il vertice del si-
stema, l'unità? e l'unità non solo, ma l'unità concreta?
Una prima, l'essenziale, è che un'unità concreta non
può essere determinata nella persona, nell'individuo.
Siffatta proposizione si ribella a tutta la metafisica hege-
liana.
E perchè le mie parole non tornino sgradite e non mi
si dica che io ho frainteso il pensiero hegeliano, mi si
permetta di riprodurre alcune pagine eloquenti ed incisi-

41
ve di uno tra i più grandi discepoli del filosofo di Stutt-
gart, di Augusto Vera, mio venerato maestro3.
Ma se egli è vero che la dottrina della creazione corrompa e
renda vana ogni metafisica, ciò è altrettanto vero, anzi più che
vero in ordine all'altra della personalità divina. La creazione e la
personalità divina sono due rappresentazioni affini che si genera-
no e si sostengono a vicenda. Il Dio creatore è una persona, un io
rinchiuso in sè che, un bel giorno, non si sa per quale ragione,
esce fuori di sè, crea; e dopo di aver creato ed essere uscito fuori
di sè, rimane, sostanzialmente parlando, rinchiuso in sè, quale era
prima del creare; e come non fosse uscito fuori di sè e non avesse
creato. Aggiungasi che questa dottrina, la quale, al pari di quella
della creazione, sembra fatta per esaltare la natura divina, in real-
tà la falsa e la degrada. E poichè la natura divina e l'umana sono
strettamente congiunte, anzi, in certo senso, sono una sola e me-
desima natura, una sola e medesima ragione, falsando l'una, si
falsa l'altra.
In altra parola, la dottrina della personalità divina ove taluni ri-
pongono l'apice, il perno intorno a cui si volge, a dir così, la vita
dell'universo, spezza nel fatto e sconvolge la natura, il nesso e
l'ordinamento delle cose.
Fa appena bisogno notare che qui si tratta della personalità nel
senso in cui la s'intende generalmente, senso, come si vedrà, inde-
terminato e arbitrario appunto perchè si fonda su un falso concet-
to della natura divina.
E primieramente, come sorge e si forma nella mente questo
concetto? E quali sono gli elementi donde si compone?
Si può vedere in qualche modo a primo sguardo che questo
non è un concetto speculativo, ma empirico; il che già dimostra
che non è adeguato alla natura divina.

3 Problema dell'Assoluto, parte II, XIV, sulla personalità divi-


na, p. 58.

42
Ed infatti i due elementi essenziali che lo compongono sono
l'io e l'infinito, l'ente perfetto, l'Assoluto, Dio. Io sono come per-
sona, e non sono che come persona. Dire io e dire persona vale lo
stesso. Onde recidere l'una, la persona, vale quanto recidere l'io, il
mio essere, cioè, e la mia esistenza. Ora io non sono io persona
che in quanto ente sostanzialmente indivisibile, atomo impenetra-
bile, che respinge ed esclude da sè ogni altra sostanza, ogni altro
ente, ogni altra esistenza. Questa è la prima mossa, la radice pri-
ma della teorica della personalità divina. Ma, si aggiunge, io non
sono io, e non posso affermarmi come tale, che in quanto scienza
e coscienza di me stesso, o coscienza di sè. Ogni cognizione, ogni
volere, ogni fenomeno interno o esterno, in quanto a me si riferi-
sce, presuppone l'io. E l'io che sa di volere, di sapere, ecc.
Quindi, io, personalità, coscienza, sono lo stesso. Come, me-
diante qual processo dell'io umano si sale al divino? Il processo è
noto, ed altro non è che un esempio, un'applicazione particolare
del processo generale per il quale si passa dal finito all'infinito.
Nell'io cosciente havvi tra gli altri fenomeni, o nozioni, o fatti di
coscienza, come si chiamano, l'Assoluto. Anche l'Assoluto de-
v'essere un io fornito di coscienza, una persona. La sola differen-
za che interverrà tra l'assoluto io e il mio sarà quella medesima
differenza che in altri rapporti interviene tra il finito e l'infinito.
Quindi la mia sarà una personalità finita, e la divina una persona-
lità infinita.
Io adunque non sono quel che sono, l'ente umano fornito di ra-
gione, che in quanto sono un io, e Iddio, a sua volta, non è quel
che è, l'ente assoluto, che in quanto egli è un io.
Si farà in primo luogo osservare che quando anche l'io, la per-
sonalità umana, fosse quale la vuole questa dottrina, non se ne
potrebbe affatto dedurre la personalità divina. Anzi è più probabi-
le che avvenga il contrario in Dio, appunto perchè Dio. Gli è
chiaro infatti che tutto questo ragionamento è una delle tante
µετάζασις εἰς ἄλλο γένος. Se taluno così ragionasse: Io sono mor-

43
tale, dunque Dio, o il principio della morte, la morte, è mortale,
ragionerebbe esattamente come colui che dalla personalità umana
inferisce la divina.
Ora se l'argomento non vale in un caso, per la medesima ragio-
ne non vale nell'altro. E se si rigetta l'uno, e non si rigetta, anzi si
crede valevole e razionale l'altro, ciò viene solo da questo, che
non si esamina e s'intende la questione come la si deve esaminare
ed intendere. Si dice, è vero, che la personalità divina non è del
tutto la stessa dell'umana, bensì una personalità infinita. Ma que-
sto è appunto il salto mortale che si vuole dissimulare, accoppian-
do all'io l'infinito. Di che infatti si tratta? Si tratta di sapere se
l'Assoluto in quanto Assoluto, è persona, si tratta, cioè, per dirla
di nuovo con Schelling, di affermare quel punto, «quel mistero
ascoso nell'Assoluto che è la radice di ogni realtà», e quindi della
realtà della natura concreta dell'Assoluto medesimo. Perocchè vi
ha in ogni ente questo mistero ascoso, quella natura specifica,
cioè, che lo fa quel che è, e fa quindi le varie parti, organi, funzio-
ni, attributi, di cui si compone. E lo stesso avviene nell'Assoluto,
e più nell'Assoluto che in ogni altro ente, perciò che è l'Assoluto.
Imperocchè se non vi fosse nell'Assoluto quel punto, quella ener-
gia specifica che genera, e generando connette e ordina le cose in
sè e fuori di sè, l'Assoluto non sarebbe e non potrebbe essere, e
quindi nulla sarebbe.
Dio non è, secondo Spinoza, nè intelletto nè volontà, ma la so-
stanza. L'intelletto e la volontà non sono che modi della sostanza.
E prima di Spinoza, Scoto Erigena aveva insegnato che «Iddio
ignora quel che è», intendendo con ciò che il sapere, avere, cioè,
coscienza di sè, è una determinazione limitata, o, egli dice, in lin-
guaggio scolastico, un quid della sua natura. E a tal proposito
rammenterò anche il famoso passo della Repubblica di Platone,
ove si dimostra che il bene è l'assoluto principio, e come tale su-
pera l'essenza e genera l'essenza e la cognizione.

44
Da ultimo, e per non dilungarmi più del necessario intorno al-
l'aspetto storico di questa questione, farò notare che il domma
fondamentale del cristianesimo implica questa dottrina. Perocchè,
nel mentre il cristianesimo insegna che Iddio è trino, insegna pur
anco che è spirito. Il che significa che vi sono differenze grandi
nella natura divina, e che Iddio è anzi tutto ed essenzialmente spi-
rito. Ora, domando io, l'Assoluto, in quanto Assoluto, che sia d'al-
tronde la sostanza, o il bene, o lo spirito, od altro, punto che verrà
esaminato in appresso, l'Assoluto è io, persona, coscienza? Da
quanto precede si può già desumere che per noi la risposta non
può essere che negativa.
E, per addentrarci nella quistione, ripigliamola al punto di par-
tenza, vale a dire all'io. L'io, dicesi, o la persona costituisce la mia
natura essenziale, in quanto è il centro di ogni mia attività interna
ed esterna. Io penso dunque sono, dice Cartesio. Se togliete da
questa proposizione l'io, cosa resterà? Un pensiero e un essere in-
determinati ed astratti, o, per dir meglio, nulla. Non è quindi al
pensiero o all'essere che appartiene il predominio, non sono essi
che formano quella natura, quella energia specifica che è in me, e
mi fa quel che sono, ma all'io.
Ora questo è l'empirismo. E, dicendo che questo è l'empirismo,
intendo dire che chi così ragiona, pigliando il fatto e argomentan-
dovi sopra in simil guisa, o non spiega nulla o dice il contrario di
quanto crede dire, ponendosi così fuori della scienza della verità,
e per ciò della realtà delle cose.
E attenendoci qui all'io umano, all'io finito, si farà
osservare dapprima che questa unità, questo centro di
ogni forza e di ogni fenomeno intorno ed attorno, in cui
si riverbera e si concentra in qualche modo l'universo,
se è una persona, è la persona più universale e meno in-
dividuale che esista e possa immaginarsi. E di fatti, quan-
do dico: Io sento, io immagino, io voglio, io penso, ovvero io sen-
to il caldo e il freddo, la luce e le tenebre, o io voglio il bene o il

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male, e io penso, per dirla in una parola, la natura e lo spirito, tut-
te queste cose sono nell'io, e l'io è in esso, anzi l'io e queste cose
sono lo stesso. E questo è l'universale, ove dell'io persona non si
ha, a dir così, che il nome. Perchè se togliete all'io queste deter-
minazioni, il sentire, il volere, il pensare ecc. – che cosa vi rima-
ne? L'«om, om, om», l'io immediato e vuoto, l'io = io, la prima
posizione dell'io di Fichte. L'io adunque non è vero io, io reale e
concreto che negando sè stesso, mediante, cioè, il non io. E se l'io
e la personalità sono lo stesso, l'io o uomo, e quindi anche in
quanto persona, dovrà negare sè stesso, la sua personalità egoisti-
ca, per raggiungere ed attuare il vero in generale, quel vero che è
nella natura. Imperocchè il vero è l'universale e non l'universale
astratto, ma concreto, l'universale che contiene il particolare e
l'individuale. Il che si ammette, quando si pone a principio, per
esempio, che l'uomo è un ente essenzialmente socievole. Perchè
qual altro significato può avere siffatta proposizione se non que-
sto: che la vera e intima essenza dell'uomo non sta nell'io, ma
nell'universale, nella legge, nello stato; e che lo stato
impartisce quella forma e quel contenuto razionali, sen-
za i quali l'io non sarebbe l'io umano, anzi non sarebbe.
Perocchè dire io, e io umano vale qui dire la stessa cosa:
E l'io umano, è l'io che è nella umanità e in tutto ciò che
l'umanità contiene.
Quindi fuori dello stato, della religione, dell'umanità, in una
parola, dell'universale l'io non sarebbe, perchè non si avrebbe ra-
gione perchè fosse. Si ponga mente inoltre che l'io, quale che sia
la sua natura, non è quello che è in quanto mio io, o l'io dell'indi-
viduo, dell'atomo indivisibile, ma quale principio universale di
tutti gl'io, sia lo si consideri in sè o nelle sue relazioni. Quindi se
io sento, voglio ecc.; e sento il dolore, il piacere ecc. Ciò non av-
viene perchè io sento e voglio in quanto tale individuo, in tal pun-
to del tempo e dello spazio, ma perchè è nella natura dell'io che io
e tutti gl'io simili al mio sentiamo e vogliamo. E questa è l'idea

46
dell'io, non l'idea astratta, ma concreta, l'idea nel sistema. Ora se
l'idea è la verità, e l'idea dell'io è la sua verità, ne segue
che, anche in quanto io, la mia natura, e la verità che in
essa è contenuta hanno la loro fonte nell'idea impersona-
le dell'io.
Ora se questi argomenti sono valevoli allorchè si tratta dell'en-
te umano e finito, lo saranno via maggiormente, allorchè si appli-
cano all'ente infinito.

E più innanzi lo stesso mio maestro si propone questa


obbiezione: – Ma gli avversari potrebbero parlare non
dell'io astratto, ma dell'io concreto, dell'io in quanto co-
scienza; – e soggiunge:
Ma primieramente si potrebbe domandare se di fatti l'io, la co-
scienza e la personalità sia una sola e stessa cosa. Si dice: per per-
sona, noi non intendiamo l'io, il sè stesso astratto, secondo lo
chiama Schelling, ma l'io concreto, l'io che ha fatto ritorno in sè e
che contiene il non io, l'altro di sè, e di più è il nesso dell'uno e
dell'altro. Ma questo si deve appunto dimostrare. Si deve dimo-
strare cioè, che la persona non è l'io astratto, bensì l'io concreto
quale qui viene definito. Perocchè se la persona non sta nell'io
astratto, nell'io che non è che l'io, cosa si farà di questo io il quale
è veramente sè stesso, e non altro che sè stesso? E perchè quest'io
non sarà la vera persona? Se si aggiunge, adunque, all'io il non-io
ed il loro rapporto, la ragione si è che coll'io, e con la persona non
si spiega nulla, nè l'io, nè la persona nè altro.

E qui l'illustre professore seguita a dimostrare come,


anche quando la personalità e la coscienza siano la stes-
sa cosa in ipotesi, l'Assoluto superi il contenuto della
coscienza; e chiude il capitolo, che io son dolente per la
necessità del mio lavoro di non avere potuto riprodurre

47
per intiero, con una sentenza di Hegel ed una saporitissi-
ma nota, delle quali non voglio defraudare i miei letto-
ri4.
Dopo la dimostrazione fatta dall'illustre scienziato, il
più genuino rappresentante delle teoriche del maestro, e
dopo le osservazioni contenute nella nota io non ho bi-
sogno di aggiungere che la sfera della coscienza supera
la persona e diventa impersonale.
Ma, oltre alla ragione indicata che è la più saliente, ve
ne ha ancora una seconda. L'individuo per sè stesso può
rappresentare una certa unità, e lo abbiamo veduto più
innanzi nella storia degli ordinamenti sociali; ma questa
4 La sentenza di Hegel è la seguente:
«Tutto è errore, pensiero oscuro, opinione, arbitrio, cosa pas-
seggiera. Solo la Idea è l'essere, la vita eterna, la verità che cono-
sce sè stessa, e l'universale ed intera verità».
La nota di Vera, sulla quale richiamo tutta l'attenzione, dice
così:
«Queste parole di Hegel esprimono il suo pensiero, il pensiero
essenziale, obbiettivo e intrinseco della sua dottrina. E mal si
comprende come ci siano taluni tra i suoi discepoli i quali, guar-
dando meno alla verità ed ai principii culminanti della
dottrina del maestro, che a certe circostanze e considera-
zioni estrinseche, e ad esigenze momentanee contingenti
e locali, abbiano voluto accollare ad Hegel la dottrina della per-
sonalità, o, come altri, per non usare la parola personalità, l'ha
chiamata, della subbiettività divina. Il pensiero di Hegel è chiaro;
e si trova espresso in modo sì esplicito e confermato da tanti e tali
passi, e più che da passi, dal significato, e, dirò così, dalla neces-
sità intrinseca del suo sistema, che non vi può essere il minimo
dubbio intorno a questo punto».

48
unità si avvera nel negare nello stesso tempo il governo
dei patres e il governo della città, concentrandoli in sè
ambedue. Ora questo è appunto l'ufficio della monarchia
assoluta o feudale che ha il diritto di affermare: «lo Sta-
to sono io», e quindi l'«io voglio», ma non della monar-
chia temperata la quale si chiama così perchè raddoppia-
ta, perchè divisa e scissa, perchè rappresenta due poteri;
quello del sovrano e quello del popolo. Ed allora, ci si
dica, in grazia, dove è l'unità che è la base essenziale del
sistema?
E se a questo si aggiunga che Hegel manifesta espres-
samente che l'«io voglio» del monarca non debba essere
un «io voglio» arbitrario, ma l'«io voglio» che è il risul-
tato della volontà altrui e della costituzione, tanto che al
sovrano non rimanga altro a fare che a scrivervi sotto il
suo nome, io mi domando: qual'è la funzione di questo
sovrano, se non puramente negativa e formale?
Or questo concetto costituisce appunto l'antitesi asso-
luta del pensiero hegeliano; perocchè per il maestro l'i-
dea, la sovranità, lo Stato innanzi tutto e sovra tutto è
una energia, un'attività, e non un quid mortuum.
Ciò che apparisce più strano in questa affermazione
hegeliana (e che meriterebbe per sè stesso uno studio
speciale) si è l'esaminare perchè Kant, rappresentante
dell'idealismo subbiettivo, che comincia dall'io e torna
all'io, sostiene politicamente la repubblica, e viceversa il
filosofo idealista per eccellenza, che sottopone all'idea
l'io e il non-io, perviene alla monarchia. Evidentemente
Hegel subiva il corso storico del tempo, come accenna
49
Ahrens nel suo corso di filosofia del diritto, ed il suo
pensiero, rivolto esplicitamente alla metafisica, non lo
rese accorto che la sua filosofia dello Stato non rispon-
deva alle teoriche dell'Idea, e, ciò che è più, al sistema.
Se non che, a questo riguardo ci si potrebbe far notare
che l'idea di una monarchia temperata è una semplice
opinione dello scrittore, che egli non ha sollevato, nè ha
inteso sollevare a dogma scientifico. Ciò che costituisce
per lui una necessità assoluta è lo Stato, e siccome l'idea
dello Stato secondo Hegel risponde perfettamente al suo
pensiero sistematico, così tutte le obbiezioni proposte
perdono il loro valore.
L'osservazione è in parte vera, perchè Hegel, infatti,
nella Filosofia del diritto, alla domanda quale sia la for-
ma più perfetta dello Stato, risponde: «Questa domanda
è oziosa e stancante, perchè di essa non si può discutere
a priori, ma è uopo studiarla nella storia; ora, secondo
che insegna la storia, una forma di governo non si atta-
glia a tutti i popoli, i quali devono tener conto non della
forma di governo che sia astrattamente la migliore, ma
di quella che è più rispondente alla loro natura, alle loro
tradizioni, ed al loro graduale sviluppo».
E cita ad esempio la costituzione che Napoleone in-
tendeva elargire agli Spagnuoli e dice: «Benchè questa
costituzione fosse più ragionevole di quante precedente-
mente avessero avuto, gli Spagnuoli pure la rigettarono,
come qualche cosa di estraneo ad essi.»
E vi è ancora dell'altro. Si potrebbe dire: Voi vi vanta-
te di essere discepolo di Hegel, ma voi non avete nè
50
punto nè poco compreso il vostro maestro, giacchè la di-
visione dei poteri dello Stato è cosa affatto diversa da
ciò che siete venuto più su significando.
La sovranità, infatti, è una ed è la sovranità dello Sta-
to, e non è già divisa in due, come se da una parte ci fos-
se il potere del monarca e dall'altra il potere del popolo.
Certamente, nello Stato è necessaria ed assoluta la divi-
sione dei poteri, ma questa divisione non deve intender-
si in senso volgare, quasi che l'uno dei poteri fosse di li-
mite all'altro; essi invece rappresentano il naturale svi-
luppo dell'Idea, e costituiscono i diversi momenti della
stessa.
Potere di determinare e stabilire l'universale: potere
legislativo; riassunzione delle sfere particolari e dei sin-
goli casi all'universale: potere esecutivo; ultima decisio-
ne della volontà, in cui i differenti poteri sono portati ad
una individuale unità, che forma l'apice ed il principio
del tutto, potere del Principe.
Infine, lasciando da banda ancora questa divisione dei
poteri, che cosa è per Hegel, e più che per lui, per l'Idea
e per l'Idea sistematica, lo Stato?
Lo Stato è la sfera in cui la idea morale passa nella
realtà, e passa nella realtà perchè lo spirito morale si
manifesta e si appalesa come volontà, e come tale attua
ed esegue tutto ciò che conosce.
Questa idea dello Stato, che è la stessa volontà in atto,
esclude il pensiero che lo Stato possa essere la società o
la somma e il risultato delle volontà individuali, al dire
di Rousseau. Ciò importerebbe che esso avrebbe per
51
base l'arbitrio, nel mentre lo stato è la obbiettiva volon-
tà, e contiene perciò appunto in sè il divino, la necessità,
l'infinito. Arbitrario ed esteriore è puramente il concepi-
re come sostanzialità dello Stato la forza e le ricchezze,
le quali non sono che l'apparenza esterna. In una parola,
lo Stato è la ragione stessa che si realizza nella storia del
mondo.
E sta bene.
Io però mi permetto di osservare, prima di ogni altro,
che la opinione espressa dal maestro, che cioè la forma
di governo non può essere stabilita a priori, ma deve es-
sere studiata nella storia, è contraria alla sua dottrina. Di
vero, la forma, secondo il pensiero hegeliano, non è
qualche cosa di estrinseco e d'inessenziale, ma deve es-
sere quella che è, e, per di più, deve esattamente rispon-
dere allo svolgimento della Idea nei suoi vari momenti.
Certamente è nella storia che si manifestano le diver-
se forme di governo, perchè nella storia appariscono e
devono apparire; ma non si può dire che se esse si sono
manifestate in una certa maniera, bene potevano manife-
starsi in un'altra, perchè ciò è contrario al pensiero hege-
liano.
La evoluzione non si nega, nè è stata mai negata dalla
filosofia idealista; ma quello che costituisce la differen-
za specifica tra la nostra scuola e il darvinismo sta preci-
samente in ciò, che la prima riconosce la evoluzione, il
divenire, ma il divenire necessario, il divenire che ri-
sponde ai diversi momenti di una idea concreta, non
però la evoluzione caotica, continua, perenne, che non si
52
sa dove cominci, nè tanto meno dove andrà a finire. Ne-
gli esempi di sopra riportati abbiamo infatti notato che
la rosa, dal momento in cui viene gettato nella terra il
piccolo seme sino a che non raggiunga il suo massimo
sviluppo, subisce per via una quantità di trasformazioni;
ma queste trasformazioni sono quelle che rispondono e
convengono non solo per il contenuto, ma anche per la
forma, solamente alla rosa, e non già ad altro fiore quale
si sia. La conseguenza di tutto questo ragionamento è
che per la filosofia hegeliana mutano ad un tempo la
forma e il contenuto; e questo movimento costituisce ciò
che abbiamo chiamato sfera o momento dell'Idea, il
quale, per essere parte di un tutto determinato, a dir
così, deve essere quello che è, cioè la parte specifica di
questo tutto, e non un altro, una qualche cosa al tutto in-
differente.
La prova che così si è interpretato esattamente il pen-
siero hegeliano si ha in un altro punto dello insigne pen-
satore, nel quale egli sostiene che la monarchia costitu-
zionale è la forma più perfetta e necessaria dello Stato,
che ha raggiunto il più alto grado del suo sviluppo. Tut-
to questo importa che delle sue proposizioni la prima,
quella in cui si sostiene che la forma di governo è qual-
che cosa di estrinseco e d'inessenziale, non risponde alla
teorica del maestro, teorica che è manifestata nella se-
conda proposizione.
Rimane quindi da discutere e da esaminare la seconda
delle obiezioni, cioè, se, data la definizione dello Stato,
così come lo concepiva Hegel, la monarchia costituzio-
53
nale possa essere la forma che convenga, anzi che solo
convenga all'idea dello Stato. Or bene, io sono per la ne-
gativa così per le argomentazioni già espresse, che per
quelle che dirò.
E per vero, se per il pensiero del maestro, a differenza
della filosofia kantiana, la forma e il contenuto non sono
due cose distinte, come se la forma stesse di là e il con-
tenuto fosse di qua, ciò che comporterebbe spezzare l'i-
dea e dividerla; se la forma e il contenuto formano una
sola e medesima cosa, come, per esempio, l'anima e il
corpo, è chiaro che la monarchia costituzionale non è la
forma che possa assumere lo Stato nel maggior grado
del suo sviluppo. Il perchè lo abbiamo già indicato; ma
qui occorre ripeterlo e si traduce in questo pensiero: che
la monarchia costituzionale non raggiunge se non appa-
rentemente l'unità, restando in realtà i diversi poteri rap-
presentanti la monarchia costituzionale l'uno fuori del-
l'altro. Nè si dica che quando si parla di unità non s'in-
tende discorrere di unità astratta, ma di unità concreta,
nè che i diversi poteri della monarchia costituzionale
non siano in antitesi tra loro, ma che invece, rappresen-
tando i diversi momenti dell'idea dello Stato, ne costitui-
scano per l'appunto l'unità concreta, perchè questa affer-
mazione si ribella alla realtà. La esperienza, infatti, ha
dimostrato che nei paesi retti a monarchia costituzionale
corre un abisso tra il paese «reale» ed il paese «legale»;
il che importa che la divisione dei poteri non è quella
che deve essere, essendo la realtà fuori dell'idea, ed è
quindi una divisione arbitraria. E non solo la esperienza,
54
ma la stessa teorica del maestro chiarisce arbitraria que-
sta divisione, perchè dal punto di vista dell'Idea un mo-
mento di essa non vuol dire una quota parte del momen-
to, ossia un certo momento del momento dell'idea, nè
una quota parte della sfera, cioè una certa sfera della
sfera, ma tutto il momento, tutta la sfera. Ora il monarca
non rappresenta tutto l'individuo, o l'individuo in gene-
re, ma un solo individuo privilegiato, un certo momento
del momento. D'altra parte, il potere legislativo non rap-
presenta tutta la società, ma una certa sfera privilegiata
della sfera società, e per conseguenza la scienza nello
stesso modo che la esperienza prova che la divisione dei
poteri nella monarchia costituzionale è arbitraria, per cui
il paese «reale» non diverrà mai il paese «legale».
E, indipendentemente dal fin qui detto, vi sono altre
argomentazioni che combattono la forma della monar-
chia costituzionale secondo le teoriche hegeliane, prima
perchè la forma di un'idea concreta razionale, rappresen-
tante la più alta sfera dello Stato, non può essere deter-
minata da una persona, dovendo essere impersonale; e
poi perchè, se anche la personalità fosse possibile, la
monarchia costituzionale non corrisponderebbe all'idea
dello Stato concepita dal maestro. Di vero, se l'idea del-
lo Stato non è la somma nè il risultato delle volontà in-
dividuali, come asserisce il Rousseau, ma la volontà ob-
biettiva, lo spirito in quanto conosce e realizza ciò che
conosce, ne segue che non potendo l'individuo, presa
questa parola in senso generico, non potendo la società
tutta intera rappresentare in concreto l'idea dello Stato,
55
tanto meno possono rappresentarla il monarca ed il po-
tere legislativo, che dovrebbe essere la espressione del-
l'uno e dell'altra, appunto perchè la frazione, la parte è
minore del tutto, e ciò che si nega al tutto, che è il più,
non può essere concesso al meno.
Resta ora da esaminare la questione più grave, la que-
stione più importante, la questione cardinale che mag-
giormente interessa nella controversia, cioè l'idea dello
Stato.
Si dirà: – Innanzi all'idea dello Stato, così come la in-
tende il grande idealista, non ci sono scappatoie, non ci
sono critiche possibili estrinseche o intrinseche: bisogna
o fare atto di fede o rinnegare le idee del maestro, e per
conseguenza il sistema, perchè l'idea e il sistema son
quel che sono, e sopratutto unità. L'idea assoluta e l'as-
soluto sistema, come tali debbono negare perfino l'a-
stratta possibilità di altri sistemi, i quali in realtà non
sono, nè possono essere, se non momenti specifici e par-
ziali del sistema assoluto.
Sta bene. L'osservazione è giusta e rispondente all'in-
dole e al movimento del pensiero hegeliano. Se non che,
anche qui io sono obbligato a ripetere che non è l'Idea,
non è il sistema che io intendo combattere; che anzi, di-
scepolo convinto, io lo accetto in tutta la sua estensione.
Ciò che intendo combattere è l'applicazione che di esso
fa il maestro, perchè sono persuaso che questa applica-
zione si manifesta contraria alla metafisica hegeliana.
Che cosa è in fondo la definizione che Hegel dà dello
Stato, se non la medesima definizione del Diritto? Ciò è
56
tanto vero che Hegel dice promiscuamente «filosofia del
diritto», o pure «filosofia dello Stato»; il che significa
che per lui Stato e Diritto suonano la medesima cosa.
Ebbene, è di qui appunto che scaturisce l'errore, perchè
anche quando lo Stato idealmente fosse l'organo neces-
sario del Diritto, non sarebbe da confondere l'uno col-
l'altro, come non è da confondere, secondo la vecchia fi-
losofia, il corpo con l'anima. Egli è vero che non si può
concepire un'anima vivente, come si esprimerebbe il
maestro, senza il corpo rispettivo; ma è vero altresì che
tra l'anima e il corpo esiste una differenza, di guisa che
il confondere l'idea del Diritto con l'idea dello Stato non
solo importa negare la differenza tra l'anima e il corpo,
riconosciuta da tutta la filosofia, ma, ciò che è più, non
si spiega nemmeno lo spirito vivente che costituisce per
l'appunto l'unità della differenza.
Devo aggiungere inoltre che lo Stato non è, nè può
essere l'organo assoluto del Diritto, come il corpo per
l'anima, perchè, se così fosse, il Diritto nell'apparire, nel
manifestarsi, dovrebbe prendere necessariamente la for-
ma dello Stato, così come necessariamente l'anima nel-
l'apparire si manifesta mediante il corpo: ora ciò è stori-
camente inesatto, perchè nei primi nuclei sociali il Dirit-
to si appalesa (come deve appalesarsi secondo l'Idea)
nella intera classe sociale, e non nello Stato. Si mostrerà
in modo confuso, tanto che «per ficcar lo viso al fondo
io non vi discernea veruna cosa», come dice il poeta; si
mostrerà come in una selva, secondo la espressione del
Vico; si mostrerà puramente come forza fisica, nell'ap-
57
propriazione anche violenta, ma sempre legittima, delle
forze della natura; ma l'essenziale è che si mostri, per-
chè deve mostrarsi.
Ebbene, se nel modo come apparisce, non si riscontra
lo Stato, è chiaro che lo Stato non può essere la forma
assoluta del Diritto, cioè quella e non altra. Io compren-
do che la idea del Diritto, contenendo in sè diversi mo-
menti, può e deve avere diverse forme, ma il diverso
suppone già l'essere della forma.
Il corpo del bambino, per esempio, non è da assomi-
gliarsi a quello dell'uomo adulto; ma così il bambino
come l'uomo devono avere necessariamente l'organismo
corporeo.
Lo Stato, come abbiamo osservato, prende diverse
forme nella storia: per esempio, lo Stato oligarchico, lo
Stato feudale è tutt'altra cosa dallo Stato retto a repub-
blica democratica, o anche a monarchia temperata. Ma
in tutte queste diverse manifestazioni del Diritto, che as-
sumono la forma dello Stato, se noi scorgiamo differen-
ze specifiche, vi scorgiamo altresì l'idea comune che
unisce, cioè la ragione, la necessità della differenza. Ora
questa ragione manca nei primi nuclei sociali, ove tutto
è per tutto, l'uno e il molteplice, l'individuo e la società,
la famiglia e il comune, il diritto privato e il diritto pub-
blico (selva), e per conseguenza manca lo Stato. Ripeto
«manca lo Stato», ma non manca il diritto, ed è perciò
che io sostengo che lo Stato non è l'organo assoluto del
diritto.

58
Intorno alla necessità del dividersi, dello scindersi io
non discuto; perchè il differenziarsi è una legge sistema-
tica, non intendendo la quale, non si potrebbe intendere
neppure il sistema: tanto più che qualsiasi filosofia, e
massime tra tutte la filosofia dell'Assoluto, ha sempre
sostenuto non essere possibile il concepire un sistema
che non sappia superare la differenza e non raggiunga
l'unità. Ora lo Stato non può, non potrà giammai rag-
giungere l'unità del Diritto, perchè lo Stato significherà
sempre differenza: e per conseguenza, superandosi la
differenza, lo Stato viene a scomparire, perchè manca la
ragione della sua esistenza, e quindi manca la sua fun-
zione di fatto.
Dal fin qui detto risulta che più rispondente alla for-
mola hegeliana è il seguente movimento:
1) La «selva» di Vico, unità astratta e indeterminata,
cioè l'uno e il più, l'individuo e la società, la famiglia e
lo stato insieme confusi;
2) Il determinarsi di ciascuno di questi elementi in al-
trettanti istituti giuridici, che svolgendosi si differenzia-
no: Stato;
3) L'unità concreta del particolare e dell'universale,
della volontà subiettiva e della volontà obiettiva: Anar-
chia.
Che lo Stato, infatti, non costituisca, nè possa giam-
mai costituire l'unità delle differenze, oltre che la scien-
za, lo dimostra il fatto che dentro lo Stato non sono
comprese tutte le diverse sfere sociali, nè tutti gli indivi-
dui facenti parte della società sono in esso incorporati.
59
Così, per esempio, vi sono sfere sociali che difettano
onninamente di diritti politici, e di alcuni tra i più im-
portanti diritti civili, come vi sono individui che difetta-
no di Stato.
Di qui la frase comune: Ecco un uomo o degli uomini
senza Stato. – La quale frase vuol significare che vi
sono degli uomini a cui mancano i rapporti di famiglia: i
figli naturali, gl'incestuosi, gli adulterini, nonchè i mezzi
di svolgere sia la loro personalità fisica, sia la morale:
proprietà, arte, mestiere, professione. Il che importa che
lo Stato non rappresenta la totalità del diritto, nè l'armo-
nia delle diverse sfere, giacchè vi sono classi – sfere –,
che vivono fuori l'armonia sociale, ed uomini senza Sta-
to.
E poichè non è dato concepire l'unità del diritto, rico-
noscendo sfere – classi sociali, – che non possono eser-
citarlo, ed uomini senza Stato; così quest'organismo, ri-
peto, non rappresenta e non potrà rappresentare giam-
mai l'unità del Diritto, e tanto meno l'unità delle diffe-
renze.
Ed eccoci così pervenuti alla parte positiva del pro-
blema, cioè perchè l'Anarchia e non lo Stato sia appunto
la forma che prende il Diritto nel suo ultimo ed assoluto
svolgimento.
Per intendere questa proposizione nel suo più alto si-
gnificato, e perchè sia dimostrata in tutta la sua estensio-
ne, occorre fare un passo indietro e ricordare ciò che
Hegel chiama i diversi momenti dell'Idea: ed è necessa-
rio altresì tener presenti che questi diversi momenti non
60
sono fuori di essa, quasi staccati, ma sono in essa conte-
nuti, di guisa che il punto di partenza s'identifica col
punto di arrivo; il che vuol dire che l'idea descrive un
cerchio raggirandosi intorno a sè stessa.
A chiarire questo pensiero, io non ho se non da ripro-
durre l'esempio più volte in queste pagine riportato.
Nell'idea della rosa, qual è il punto di partenza? Il
seme che si mette nella terra. E quale è il punto di arri-
vo? La rosa che ha raggiunto il massimo grado del suo
sviluppo. Or bene, io dico che il punto di partenza s'i-
dentifica col punto di arrivo, perchè il seme della rosa
contiene in sè l'astratta potenzialità di essa, in tutte le
sue possibili evoluzioni, e la rosa che ha raggiunto il
massimo grado del suo sviluppo è la realizzazione idea-
le di tutte le evoluzioni avvenute. Di tal che il primo
momento, il seme, costituisce l'unità astratta della rosa,
ciò che è possibile divenire, e l'ultimo, l'unità concreta,
cioè la rosa divenuta. Ora il possibile divenuto reale co-
stituisce tutta e intera la realtà, vale a dire l'idea nei suoi
diversi momenti, ed ecco come il punto di partenza s'i-
dentifica col punto di arrivo, così essendo fusi insieme
(mi si passi la frase) il possibile ed il reale.
A me non resta, dunque, per il tema che discuto se
non di fare l'applicazione della teorica esposta.
Ebbene, quale è il primo momento, l'unità astratta, il
seme, per dir così, dell'idea dell'ordinamento sociale?
L'Anarchia.
E perchè l'Anarchia?

61
Perchè essa contiene l'uno e il più, individuo e socie-
tà, il diritto pubblico e il diritto privato, la proprietà in-
dividuale e la proprietà collettiva; vale a dire gli ele-
menti assoluti, o, se si vuole, ideali di qualsiasi ordina-
mento sociale nello stato di astratta possibilità, cioè sen-
za alcuna determinazione di sorta. Questa mancanza di
determinazione o di specificazione sopprime idealmente
ogni e qualunque differenza, in modo che l'uno è nel più
ed il più nell'uno senz'ordine e senza armonia; ed ecco
l'Anarchia.
Con questo nome, infatti, il nostro Vico, ed anche au-
tori più recenti, non che illustri viaggiatori, indicano i
primi nuclei sociali nello stato selvaggio.
Dall'Anarchia, come è stato dimostrato fin qui, si pas-
sa al movimento di differenza, cioè alla determinazione,
o, in altri termini, all'evoluzione degli elementi ideali,
col processo che siamo venuti svolgendo, nel quale pri-
ma appare l'individuo e poi la società, l'uno di fronte al-
l'altra. Questo processo di determinazione, e per conse-
guenza di differenza, costituisce lo Stato che in siffatto
momento è realmente l'organo del Diritto, il quale si ap-
palesa prima come persona, poi come famiglia, indi
come comune, e infine come nazione.
Allorchè l'individuo ha raggiunto interamente la sua
personalità giuridica e la società per altro verso ha supe-
rato il limite della famiglia, del comune, dello Stato, si
ritorna all'Anarchia, essendo le leggi che riconoscono il
particolare, l'individuo, identiche a quelle che ricono-
scono il generale, la società; ed essendo, di più, le une e
62
le altre, leggi fisse ed universali, non solo perchè con-
tengono in sè il particolare e il generale, ma perchè ri-
spondono ai principii universali della scienza.
Ma bisogna intendere chiaramente il nostro pensiero.
Qui l'individuo nel suo terzo svolgimento non è più
astrazione, ma una realtà concreta, cioè non è solo giuri-
dicamente atto a divenir persona, ma è già divenuto per-
sona; nè la società è atta a divenir famiglia, comune, na-
zione, ma è divenuta umanità o mondo delle nazioni. E
si chiama Anarchia, non già perchè tutto è in tutto nello
stato di disordine e di confusione, senza distinzione di
parti; ma perchè in tutto all'opposto v'è il massimo ordi-
ne, l'ordine supremo, in cui le parti sono contenute nel
tutto come necessario momento di esso, e per cui le leg-
gi che regolano le une sono identiche a quelle che rego-
lano l'altro, e quindi non dipendono nè possono dipen-
dere dall'arbitrio del legislatore o dello Stato o di un go-
verno qualsiasi per quanto si voglia civile, ma rappre-
sentano la volontà obbiettiva, che appare nella storia e
apparendo si esplica così come si deve esplicare, cioè
congiungendo l'individuo e la società in guisa che i di-
ritti e i doveri dell'uno non si differenzino, ma siano i di-
ritti e i doveri dell'altra.
Io suppongo che già coloro i quali mi hanno seguito
fin qui in buona fede, abbiano inteso tutto il mio pensie-
ro intorno al valore di questa parola «Anarchia», che
tanta paura mette negli uomini incoscienti; ma perchè
non si dica che io affermi teoricamente senza dimostra-
re, mi si permetta, come ultima prova, un breve esame
63
che toglie ogni dubbio e chiarisce in modo evidente la
dottrina, che ritiene l'Anarchia forma unitaria degli ordi-
namenti sociali.
Supponiamo infatti che lo Stato, così come fu conce-
pito dal diritto romano, costituisca il complesso dei di-
ritti singoli e sociali; e voi avrete che lo status libertatis,
che è il privilegio di una casta, termina per essere, attra-
verso la storia, lo Stato universale.
Difatti, gl'individui non si dividono più in liberi e ser-
vi o in cittadini ed estranei, ma tutti gli uomini sono li-
beri. Ciò premesso, si comprende la necessità di una
legge e l'intervento dello Stato, allorchè una differenza
esiste e bisogna farla rispettare; ma, sparita la differen-
za, c'è mestieri di una sanzione legislativa per affermare
il principio?
La prova che non occorre questa sanzione sta in ciò
che oggi non vi è statuto nei paesi civili, che affermi:
«l'uomo è un essere libero», perchè questo pensiero è
penetrato nella coscienza universale ed è riconosciuto, e
di conseguenza riesce affatto inutile l'intervento del po-
tere esecutivo.
Ma si dirà: – Dunque tutti gli uomini sono liberi allo
stesso modo? E non sarebbe questa un'eguaglianza
astratta? Sopprimendo la differenza, non avete soppres-
so una condizione essenziale delle cose, che voi medesi-
mo avete riconosciuta?
No, la libertà del contadino, non è la stessa libertà
come la intende lo storico o l'uomo di studio.

64
La differenza sotto questo punto di vista non è punto
soppressa, ma non ci è bisogno dell'intervento di una
forza esteriore per affermare questo principio, giacchè il
contadino nella sua sfera intende la libertà se non in rap-
porto a sè stesso ed alle sue condizioni. Il limite quindi
alla sua libertà non gli è imposto da alcuno, ma trova
fondamento nella sua educazione.
Ed ecco perchè la definizione di Kant del diritto è
sbagliata; perchè è una definizione astratta, non concre-
ta5.
Ciò che abbiamo affermato intorno allo status liber-
tatis, si riproduce per lo status civitatis.
Lo straniero è il «nemico» nell'antica civiltà, come
tale considerato nelle leggi. Con le debite modifiche, e
sempre nell'ordine delle idee già svolte, lo straniero ri-
mane «nemico» altresì nel medio evo. Si può dire che
non sia ancora scorso un secolo da che è stato abolito
nei codici civili il diritto di albinaggio. Ed ora?
Ora nelle principali legislazioni lo straniero è equipa-
rato in tutto e per tutto ai cittadini nei diritti civili.
Il passaggio, come è facile osservare, è incommensu-
rabile.
Ciò che rende ancora lo straniero in condizioni ine-
guali di fronte al cittadino sono i diritti politici. Ebbene,
5 Al contadino non potrà venire mai in pensiero, per esempio,
di formare una biblioteca o un museo di quadri; tanto meno egli
spenderà i suoi quattrini per compera di istrumenti scientifici.
Che se avvenisse il contrario, questo fatto solo lo farebbe uscire
dalla sua sfera e penetrare in un'altra più elevata.

65
superate l'idea di nazionalità, fate che il cittadino come
lo straniero godano i medesimi diritti siano civili siano
politici; ed allora cesserà la ragione di una sanzione le-
gislativa in rapporto agli stranieri, e quindi la necessità
dell'intervento dello Stato.
E si passa così allo status familiae.
La famiglia, incontrovertibilmente, è fondata sull'a-
more.
Questo amore può significare puramente e semplice-
mente una soddisfazione del senso; può essere un senti-
mento, e può divenire perfino intelletto, così come lo in-
tendeva il nostro Alighieri, quando cantava
Donne che avete intelletto di amore.

La differenza dell'amore in tutte le sue evoluzioni è


certamente notevole; esso, peraltro, non cambia, nè può
cambiar natura per la ragione sistematica che sarebbe
qui inutile riprodurre. Ora, se tutto ciò è esatto, e se è
vero che l'amore deve presiedere ai destini delle fami-
glie, non è già nell'uomo, ma nella donna, che s'incentra
il sentimento più puro, più universale, e più delicato.
Anzi la differenza specifica tra l'uno e l'altro sesso è
riposta precisamente in questo pensiero che l'ideale più
alto per la donna è il sentimento, come l'ideale più alto
per l'uomo è la ragione; e quindi è la donna, non l'uomo
che deve essere costituita alla testa della famiglia.
Il concetto del diritto romano: Pater is est quem iux-
tae nuptiae demonstrant, è un concetto politico, non
giuridico, tanto meno filosofico: esso rappresenta una

66
fictio iuris, che non trova riscontro nella realtà e nelle
leggi universali della natura e della ragione.
Orbene, basta che la famiglia rientri nell'ordine natu-
rale, e che a capo di essa sia messa colei che idealmente
è chiamata a rappresentarla, perchè qualsiasi differenza
sia superata.
Il Pater is est quem iuxtae nuptiae demonstrant con-
tiene in sè questa principale differenza, cioè che i fi-
gliuoli si distinguono in legittimi ed illegittimi, e questi
ultimi sono costretti a subire una seconda e una terza
classificazione; ma allorchè è la madre che dà il nome ai
suoi figliuoli la differenza è tolta, giacchè innanzi alla
madre tutti i figli sono legittimi, perchè tutti sono il frut-
to del suo ventre, e perciò le leggi della natura s'identifi-
cano con la legge logica e con la legge morale, essendo
altamente immorale punire i figliuoli della colpa dei
loro genitori.
Il sistema della proprietà subisce lo stesso ordine e la
medesima evoluzione.
La proprietà dapprima è comune (Anarchia); passa
poscia ad essere individuale, seguendo l'ordine e lo svi-
luppo dello stato (Caput); diviene da ultimo collettiva
(suum cuique tribuere): a ciascuno cioè nell'ordine della
sfera.
Comprendo che il problema qui lasciato intravedere è
semplicemente accennato e dovrebbe essere dimostrato;
ma, senza dire che la questione è stata trattata da me in

67
altro lavoro6, esso nel tema presente prende un posto su-
bordinato. Ciò che importa qui sapere è che con l'aboli-
zione della proprietà individuale la differenza sparisce, e
con essa il diritto di successione, e quindi la possibilità
stessa del codice; laonde il sistema rimane inalterato.
Un ultimo ed importante quesito rimarrebbe a risol-
versi per la trattazione del tema, quesito che per sè stes-
so è uno dei più difficili problemi odierni e che si tradu-
ce in queste parole: – Data l'abolizione dello Stato, chi
provvederà in sua vece alla punizione del delitto?
Se il delitto fosse una forma passeggera che, nel dive-
nire della storia, potesse sparire, la controversia sarebbe
bella e risoluta; ma poichè il male è nell'ordine delle
cose e rappresenta una parte essenziale nell'economia
dell'universo, il delitto può essere attenuato, ma non può
giammai scomparire.
Il problema, come ho detto, è importante e molto dif-
ficile, e merita perciò stesso una trattazione speciale; ma
qui è da far notare che il problema è posto male.
Concediamo infatti che il delitto, per quanto attenua-
to, non potrà sparire dalla storia, essendo il male nell'or-
dine delle cose umane; ma appunto perchè comprendia-
mo e concediamo questo, bisognerebbe fare la seconda
dimostrazione; che cioè, dato il delitto, la punizione sia
l'altro dei termini necessari per la reintegrazione del di-
ritto.

6 Pensieri sulla questione sociale. (Napoli, tip. Marchese,


1880).

68
Ora questa dimostrazione, a parer mio, nessuno l'ha
fatta e nessuno la potrà mai fare.
È vero che il pensiero della reintegrazione del diritto
mediante la pena è pensiero di Hegel, il quale appunto
afferma che la pena costituisce questa reintegrazione,
perchè è l'unità del delitto commesso e della legge vio-
lata; ma col dovuto rispetto all'insigne maestro io debbo
osservare che questa sua particolare concezione è pura-
mente formale ed astratta, e non risolve nè può risolvere
obbiettivamente il problema.
È puramente formale, giacchè tra la sostanza e il fon-
damento del delitto, e tra la sostanza e il fondamento
della pena, manca qualsiasi rapporto necessario: è
astratta, perchè alla proposizione che afferma: «Al male
del delitto io oppongo il male della pena», obbietto e
sono in diritto di obbiettare: – Ma la natura del male del
delitto è la stessa natura del male della pena? E non es-
sendo della stessa natura, come si regola e si può regola-
re la proporzione tra questi due mali?
Indipendentemente da ciò, dato che il male sia neces-
sario per la economia dell'universo, esso può essere atte-
nuato, ma giammai sparire, così come può essere atte-
nuato, ma giammai scomparire il male fisico o corporeo,
per dirla col linguaggio dell'antica filosofia. Ora tra que-
sti due mali, benchè si scorga a prima vista una differen-
za, pure il rapporto non solo deve essere possibile, ma è
necessario per la identità della loro natura. E come per il
male fisico, per il male corporeo la scienza medica non
è indirizzata ad altro che a trovar le leggi preventive di
69
esso, l'igiene, così per combattere il male morale ed at-
tenuarlo si deve seguire lo stesso metodo. Il che vuol
dire che attenuare il male, prevenirlo, limitarlo nei suoi
stretti confini, non è il compito dello Stato, ma della
scienza, dei progrediti costumi, della civiltà; ed il nuovo
movimento scientifico del diritto penale è precisamente
nei sensi che è stato da noi accennato.
Ripeto: il quesito, grave, importante meriterebbe per
sè stesso una trattazione speciale, e forse esso sarà il
tema di un mio nuovo lavoro. Qui doveva dire solamen-
te quanto era sufficiente per dimostrare che il concetto
dello Stato non è assoluto, e che gli ordinamenti sociali
nella loro evoluzione storica lo oltrepassano e giungono
all'Anarchia.
La qual cosa mi dà diritto a conchiudere che io ho
idealmente dimostrato quello che era da dimostrarsi; es-
sere cioè l'Anarchia la più alta forma di qualsiasi ordina-
mento sociale e non una gratuita asserzione. Invano per-
ciò i nostri avversari col sorriso sulle labbra ci chiamano
anarchisti, come se dicessero malfattori o matti.
Gli sciocchi, coloro che non hanno l'abitudine di pen-
sare, i menestrelli dello Stato troveranno nel loro spirito
sempre una lepidezza o un'insolenza contro l'Anarchia;
ma quelli che sono andati a scuola, quelli che studiano e
lavorano, coloro infine che non si determinano a parlare
di un problema prima di averlo studiato, sono costretti
ad affermare l'alta concezione scientifica della parola
«Anarchia»: la quale oggi forse potrà sembrare ancora

70
un'utopia, ma è destinata fatalmente ad essere l'avvenire
dell'umanità.

71
APPENDICE
DISCUSSIONE CON GIOVANNI BOVIO.

I
Napoli, 16 ottobre 1890.
Mio egregio amico
Questa lettera arrivi di ciò testimonianza agli anarchi-
ci: che, come Voi, in nome della metafisica hegeliana
giungete all'Anarchia, io in nome della filosofia naturale
credo discutibile la tesi. Innanzi alle grandi utopie il vol-
go pratico può sorridere; la filosofia non può: essa le
produce.
Non era già da sprezzare l'utopia anarchica quando
era visione di qualche solitario, e molto meno oggi, fat-
tasi partito e scuola.
Ai socialisti di metodo positivo Voi avete voluto dire:
– Se mi giudicate retrivo rispetto al sistema, io vi entro
innanzi nelle conclusioni: molti di voi si fermano innan-

72
zi allo Stato; io passo oltre. E se taluno, per la parola
scritta di Hegel, fu statolatra, io, per la parola intesa,
sono anarchico.
Il fenomeno è degno di considerazione, appunto per
questo, che nella terra classica delle utopie Voi afferma-
te la più larga di tutte – l'Anarchia, – non dietro le remi-
niscenze di qualche Solariano, ma sulle orme di un filo-
sofo tedesco, devoto alla monarchia temperata.
Esaminiamo. Voi, sbrigatovi di Darwin in due parole,
«perchè egli non spiega nè che sia nè in che consista la
selezione naturale», e però, stimando esaurita una filo-
sofia appena cominciata, vi piantate, come l'Apollo
omerico, nel centro del sistema hegeliano, e di là libera-
te una freccia di ferro dorato piuttosto contro il maestro
che contro l'avversario.
La somma del vostro discorso è questa: «Se le cose
tornano al loro punto iniziale traducendo in unità con-
creta quella che in principio fu unità astratta, la società
umana che cominciò anarchica, finirà anarchica. L'anar-
chia originaria fu confusione di parti e l'anarchia finale
sarà armonia, tale essendo la differenza tra l'unità poten-
ziale e l'unità concreta».
Questo è il discorso: il resto è illustrazione, dove non
è ornamento.
L'obiezione che movete contro voi stesso è una sola:
«Com'è concepibile la fine dello Stato, se rappresenta il
diritto?».

73
E rispondete: «Il diritto sì, ma un momento del dirit-
to, non tutto: il diritto nasce prima dello Stato e gli so-
pravviverà».
Liberatovi di questa obiezione, restate padrone del
campo.
Permettete che per un istante io vi turbi nel vostro do-
minio.
Osservo che voi accettate la mia teorica sul diritto pu-
nitivo. Or quella teorica è collegata con la dottrina che
io svolgo dello Stato. Se dunque la definizione dello
Stato fosse quella da me dedotta e non l'altra di Hegel,
le vostre conclusioni anarchiche sarebbero compromes-
se. In genere: voi avete confutato una dottrina, non ogni
dottrina dello Stato, e facendo un altro cincischio sul bu-
sto del maestro, non avete demolito il piedistallo dello
Stato. Perciò la vostra confutazione, campata nel siste-
ma assoluto, riesce, per questo appunto, troppo relativa.
Appresso: voi non dite nè che è l'Anarchia, nè a tra-
verso quale evoluzione degli Stati presenti vi si possa
giungere. Scavate un baratro e lo chiamate «armonia». È
una parola, non è un sistema, nè accenna un metodo.
Armonia di quali parti? Attraverso quali altri momenti e
gradi? Per quali vicende de' grandi e dei piccoli Stati
presenti? Una parola così vasta, così piena di paure e di
equivoci, non doveva restare indeterminata, o abbando-
nata a presupposti.
Conchiudendo: vi ha dottrine dello Stato a base etico-
politica ed a base dinamica. Voi potete avere rimossa
una delle prime dottrine, ma quelle della seconda specie,
74
che considerano la funzione dello Stato in attenuazione
continua, avrebbero forse agevolato le conclusioni della
vostra tesi. Per questa via mi riuscì per la terza edizione
della mia Filosofia del Diritto aggiungere un capitolo
intorno all'Anarchia e suoi limiti.
Quanto alla forma, dove mi appare troppo negletta mi
porge modo di ricordare a voi, animo aperto alle più
fuggevoli vibrazioni dell'arte, quel monito antico, che
dove la filosofia giunge alle grandi utopie, ivi diventa
grande poesia.
Dunque? Pare che proprio io, amico vostro, vi abbia
messo i denti
là 've 'l cervel si aggiunge con là nuca.

E pure vi lodo per molte ragioni. Vi lodo per aver voi


trattato l'assunto fuori de' luoghi comuni, desumendolo
dalla più riposta metafisica, a guisa di quel Cavalcante
che tra le arche di Santa Reparata andava nella morte
spiando la vita. Vi lodo per la finezza degli argomenti e
per l'ardire onde voi, al pari lontano da superbia e da
servitù, vi allogate contro i positivisti e contro il mae-
stro. Vi lodo, sopra tutto, per questo fenomeno insolito,
che voi, dopo tanti anni di vita forense, non solo serbate
il culto della Filosofia, ma proprio di quella che fu l'I-
dealismo assoluto.
E ciò mi spiega la purità dei vostri costumi e la dispo-
sizione a tollerare qualunque danno per amore del Vero.
Vivete sano ed esempio onorato a chi vien dopo di
voi.

75
Vostro
GIOVANNI BOVIO.

All'egregio Avvocato Giuseppe Sarno


P. S. – Mi perviene, mentre conchiudo, la notizia che
avete posto mano ad una seconda parte in cui determi-
nate il concetto dell'Anarchia. Leggerò e tornerò a scri-
vere.

II

Illustre Professore,
Voi sapete il rispetto grandissimo che io ho per il vo-
stro ingegno eminente, e la devozione illimitata per la
vostra persona, ed intenderete come la vostra lettera del
16 ottobre mi sia riuscita gradita, benchè mi abbiate
messi i denti
là 've 'l cervel si aggiunge con là nuca.

E per tutto ciò che riguarda me stesso io accetto in-


condizionatamente le vostre osservazioni, perchè, venu-
temi da voi, mi onorano e m'innalzano; meno le lodi che
sono il risultato della vostra anima gentile e dell'amici-
zia che provate per me. Però ci è qualche cosa nelle vo-
stre osservazioni che non riguardano me, ma il sistema
che professo, e questa qualche cosa io non posso far
passare sotto silenzio, prima perchè ciò suonerebbe da

76
parte mia mancanza di rispetto alla dottrina che io ho in-
teso di esplicare, e poi perchè, leggendo la vostra lettera,
senza alcuna nota da parte mia, il lettore del mio scritto
potrebbe dire: – Ma se voi stesso, come autore, accettate
la critica del prof. Bovio, a che procurarci la noia di leg-
gervi? Tutto al più, a volere essere gentili, la vostra Anar-
chia diventa una questione puramente accademica –.
E così, senz'altro preambolo, entro in argomento.
Voi mi dite, per esempio, in un punto, che io, in due
parole sbrigatomi del sistema darvinista, una filosofia,
appena cominciata, mi pianto come l'Apollo omerico nel
centro del sistema hegeliano, ecc.
Vi chiedo mille scuse, o professore, perchè questa os-
servazione non è esatta. Io non ho avuto mai la preten-
sione di combattere in due parole un sistema, ma ho vo-
luto significare invece che a me riusciva più facile giun-
gere all'Anarchia, giovandomi del darvinismo, che non
del sistema hegeliano. Del resto, onorando professore, la
critica della evoluzione trasformista è fatta con successo
non da me, che valgo molto poco, ma da ingegni eletti, i
quali hanno scritto dei libri per confutare il darvinismo.
A me basta l'accennarvi il Vera in Italia, il Perrer in
Francia, il Virchow in Germania, ed in certa guisa anche
lo Spencer nel Regno Unito.
Che sia poi il darvinismo una filosofia appena comin-
ciata, lo credo anche io; ma quando un naturalista del
valore di Virchow la combatte, io hegeliano, voi lo com-
prenderete, non posso che compiacermene.
E passo oltre.
77
Voi dite in un altro punto che io abbia confutato una
sola, ma non ogni dottrina dello Stato, e che, ciò essen-
do, le mie conclusioni anarchiche superino le premesse;
giacchè, anche caduta la teorica hegeliana, resterebbe
sempre lo Stato, quello concepito da voi, per esempio.
Ed anche qui vi devo chiedere mille scuse, perchè io
non ho pensato di combattere un momento solo lo Stato
secondo lo intendeva Hegel; anzi mi sono affrettato a di-
chiarare che ciò che egli indica col nome di Stato, io
chiamo Anarchia. Quello che mi sono sforzato a com-
battere per contrario è lo Stato «in sè e per sè», cioè la
teorica dello Stato. Forse sarò riuscito oscuro nella ma-
nifestazione del mio pensiero; ma ciò non toglie che
questo, e non altro era il mio scopo. Ad ogni modo, per
tagliar corto alla controversia, permettetemi che io mi
riassuma, chiarendo il mio concetto.
Io mi sono proposto, per giungere all'intento, questa
domanda cardinale: – È vero, sì o no, che l'unità è il bi-
sogno assoluto della natura e dello spirito?
E se neanche voi potreste rispondere negativamente,
perchè io chiamo unità quel che voi con parola greca in-
dicate come «monismo», ne segue che lo Stato in gene-
re, e non questa e quella dottrina, in nessun caso potrà
giammai rappresentare l'unità del diritto.
Concepitelo come meglio vi piacerà, dategli la forma
che più stimate opportuna, classificatelo come volete, e
lo Stato sarà sempre quello che si è manifestato nella
storia, cioè differenza, sia che venga rappresentato dai

78
pochi, da un solo o da tutti, perchè appunto in queste
rappresentanze è contenuta l'idea del privilegio.
Osservate ancora che io non determino, nè spiego che
cosa fosse l'anarchia, perchè chiamarla «Armonia», tout
court, non s'intende definirla, e tanto meno poi si po-
trebbe sopra una sola parola fondare un sistema.
Veramente, se la cosa stesse così, voi avrete perfetta-
mente ragione; ma qui è bene chiarire un equivoco.
Io penso come Vico, come Hegel, e forse anche come
Voi, che, oltre al processo storico, vi sia un processo
ideale delle cose. Se quindi la vostra obbiezione riflette
il movimento storico dell'Anarchia, io non ho altro da ri-
spondere se non che il processo storico costituisce per
appunto la seconda parte del mio lavoro, ed io non pote-
va far nascere il figliuolo prima del padre; che se poi ri-
flettesse il corso ideale, io credo che tutto il mio scritto,
dalla prima all'ultima parola non s'occupi di altro, se
non di questo processo ideale, cioè come dal vario si
passi all'uno e dall'unità semplice si pervenga all'unità
complessa e concreta; e, applicando questa teoria agli
ordinamenti sociali, noi troviamo dapprima la determi-
nazione dell'individuo e poscia quella della collettività,
l'uno di fronte all'altra, e poi, come determinazione fina-
le, l'uno che con l'altra s'identifica. E questo movimento
ultimo io ho chiamato «Anarchia» o unità delle differen-
ze o armonia delle parti, e perciò neppure per questo
lato mi si può addebitare colpa veruna.
Avrei tante altre cose da dire in mia difesa; ma penso
che sia meglio lasciarne la cura al lettore.
79
Ed intanto abbiatevi i miei ringraziamenti anche per
la promessa di una futura risposta, e credetemi sempre
Vostro devotissimo
G. SARNO.

80
INDICE

Prefazione di B. Croce
Lettera ad Enrico Pessina
L'Anarchia
Discussione con Giovanni Bovio

81

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