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La filosofia del contraccolpo

L’illuminismo – l’attualità inattuale di una filosofia


La riflessione dura ormai da giorni ed è giunto il momento di lasciarla libera sul foglio – come ogni
pensiero è venuto da sé. Scrivo queste pagine, o almeno l’inizio, alle porte del Conservatorio, dopo
aver provato “Il tragico duale”, prima e forse ultima composizione da me scritta, composta per lei e
donatale, che ne sarà violino di spalla. La vedo ed è subito afasia; dunque, penso in un vortice di
colori, impossibile da esternare, mentre i nervi si sollecitano e l’intuizione si sprigiona soltanto nella
solitudine d’un foglio che sproloquia dopo le prove. Al di là della complessità del tema, delle
innumerevoli prospettive sotto cui lo si può osservare e altre varie difficoltà del caso, tutto si rende
tanto più difficile, a causa della natura stessa dell’intuizione, chiedo venia per il periodare complesso
o in una forma sin troppo articolata, ma è stata impresa ardua riordinare quella moltitudine di idee
che tuonarono nella mia mente tutte insieme – la riflessione inizia alla lettura del saggio di Kant e
della spiegazione; accelera per la produzione scritta con scadenza; culmina soltanto in fugaci
momenti, brevi lampi di luce, spesso scatenati da fattori incontrollabili. Particolarmente, la percezione
dell’Illuminismo come “filosofia del contraccolpo” sorge spontanea, mentre cercavo la partitura da
consegnare al Direttore tra le tasche della cartella. Ho cercato di annotarla quanto più dettagliatamente
possibile e con estrema avidità, senza riuscirci in fondo. Al che, da questi brevi attimi, presero piede
flussi di coscienza durante lunghe passeggiate e, ivi, talvolta bussò una nuova intuizione e così ancora
e ancora, fintantoché non maturò sia il tempo per lasciar tutto scorrere su carta, sia per mettervi il
punto di fine. Sicché, immediatamente, sorgono numerosi i quesiti cui ivi si vuol dar risposta: cos’è
l’Illuminismo? Kant ha ragione? Ora, che ne rimane del movimento dei Lumi? Per ironia della sorte,
a distanza di quasi una settimana, fra il suono di mille strumenti concludo questo saggio nello stesso
luogo in cui ha visto la luce.

1.
L’Illuminismo è una corrente filosofica che osannò la ragione snaturandola; che ridusse a
insignificante la volontà individuale; che si accanì indiscriminatamente e privo di misura contro la
società precedente, volgendo lo sguardo al suo abbattimento e successiva ricostruzione per prenderne
il controllo. A dirla tutta, è forse la corrente filosofica che maggiormente riecheggia delle note
storiche da cui è sorta: si tratta di un periodo prerivoluzionario, che, in quanto tale, permette al vento
di cambiamento di spirare assoluto, liberato dai vincoli di un antico e consolidato retaggio. Ora,
giacché l’Ancien regime si costituì come visione sociopolitica prevalentemente folle (non
rispondendo ad alcuna logica, al di là delle credenze religiose e consuetudinarie); giacché Locke
venne letto e forse profondamente compreso; e giacché la storia avanza identica a sé in un eterno
cerchio senza fine per forze contrastanti e contrarie, allora non deve stupire che la tematica preminente
dei philosophes sia stata la ragione, strumento liberatorio di una società ormai andata in malora,
scaduta. Da qui, discende la particolare attenzione per la politica e l’etica, nonché la quasi totale
assenza di riflessioni in ordine all’estetica. Era necessario un sapere pratico, applicabile, capace di
abbattere la società dalle fondamenta, ricostruirla da capo a piedi, riformando e superando elementi
ormai desueti e inconsistenti. Al che, il contraccolpo, che battezza questo scritto e colora
l’Illuminismo di luce nuova, è presto definito: l’abbattimento totale, tabula rasa, dell’organizzazione
sociale, quindi politica, fortemente gerarchica e verticale precedente, fu sì irruento che ispirò idee

1
diametralmente contrarie, incapaci di salvare alcunché di tradizionale, verso una democratizzazione
orizzontale, complessiva e progressiva che toccò ogni aspetto dello scibile.
2.
Quantunque i fini siano stati nobili, quali la liberazione della società dai gangli nobiliari, la
costituzione d’uno Stato giusto, bilanciato e condivisibile e un’istruzione popolare ampiamente
diffusa, trasversale e proficua per il criticismo, (per dirla con Leonardo da Vinci) il moto dell’animo,
che i Lumi rappresentano, non fu certo dei più spontanei e sani, divorato dal rancore, alimentato da
anni di soprusi – in tal senso, Kant è una parziale eccezione, scampato all’odio, ma non al canto soave
della razionalità estrema e infinitamente applicata. Difatti, la situazione sociopolitica prussiana era
ben diversa da quella francese, meno oppressiva, inspirante aria fresca di riforma pacifica e
mantenitrice dell’ordine, pur modificandolo gradualmente – l’estro politico prima di Maria Teresa,
poi di suo figlio Giuseppe II, egoisticamente creò per autoconservazione del sovrano (si veda cosa
accadde, al contrario, ai sovrani di Francia). Per tornare al principio, i philosophes vennero alimentati
da avversione per l’ordine costituitosi, al di là della sua liceità: in prevalenza si mossero nell’ombra
per paura della censura, soffiando su un fuoco che si presterà ad interpretazione, spaccando la società
intera – da una parte i borghesi, dall’altra il popolo. Infatti, tale risonanza la si avverte nella
Rivoluzione francese, attraverso una classe borghese non avvelenata dall’odio per i nobili, ma per
ammirazione e amore del proprio nemico (la nobiltà) e volontà di affermare sé stessa, di
responsabilizzarsi; una classe che non chiedeva l’annullamento dell’ordinamento precedente, bensì il
mero accesso a quei privilegi che erano di esclusiva potestà nobiliare. Al contrario, il riscontro si può
osservare anche nei sans culottes, esasperati dalla fame, in cui il morbo dell’odio si sviluppò
esacerbandosi, tramutandoli in totalitari e fautori d’ogni genere di disordine e azione esecrabile – con
loro, con i loro politici, la Rivoluzione si tinse di rosso, rosso sangue. Benché queste due classi sociali
non sfiorarono la natura intima dell’Illuminismo, credo che già questo sia sufficiente per asserire che
la prima considerazione kantiana sia venuta meno: l’Illuminismo non è un concetto, ma una realtà
storica circoscritta, che, come tale, si ripeterà ove le premesse saranno le medesime, ma non
altrimenti.

3.
Dacché la nobiltà non si resse più per forza di fierezza di sé verso una volontà di affermazione precisa,
ma divenne spocchiosa, serrata nei vizi, quegli stessi vizi cui il popolo agognava, generando in esso
risentimento, allora accadde che tutto l’ordinamento sociale perse di significato, si svuotò di senso e,
pertanto, si trasfigurò da razionale, condivisibile e condiviso, a folle, irrazionale e discutibile. La
follia su cui ogni società si regge cambiò vesti, da creativa a distruttiva, ingiustificata. Ergo, avversi
a tal stato dell’arte, e volendo muovere contro una società siffatta, i Lumi dovettero imbracciare le
armi più accurate – il pensiero critico, la ragione, e dunque ripresero liberamente a pensare; libertà
azzoppata, tuttavia. Al che, poiché anni e anni di nobiltà e monarchia assolute avevano illuso la
stragrande maggioranza della popolazione, rendendola “dormiente”, usando impropriamente
un’espressione eraclitea, i Lumi si videro costretti a spingere oltre i limiti il concetto di ragione,
soppiantando l’antico Dio con un culto nuovo. Sotto queste lenti, “La libertà che guida il popolo” di
Delacroix sottende che la donna con la bandiera francese, dapprima libertà, altro non sia che la
ragione, conseguentemente coloro che la manovravano: i Lumi. Ecco l’illusione di una corrente
liberatrice e insieme tiranna, che, al pari dei borghesi, non voleva far altro che prendere il potere. La
società sognata non era libera, ma serva di altri valori, valori da loro sintetizzati e modificabili a

2
piacimento. La ragione, pertanto, non fu che la chiave d’apertura d’un progetto politico di ben più
ampio respiro.

4.
Tuttavia, siccome di ragione si parla da quando la filosofia nacque, è opportuno intendersi sul
significato che gli Illuministi le attribuirono, a quali facoltà inerisca e la motivazione per cui prese tal
piega – per quanto concerne la motivazione, si rimanda ai paragrafi precedenti. Ebbene, come
accennato, finanche lo strumento principe dell’uomo venne portato alle sue estreme conseguenze,
inibendo la componente umana irrazionale, benché scrutabile dalla ragione, quasi se ne fosse
impauriti. Riassuntivamente, si prende in esame la definizione che Kant fornisce ne Critica alla
ragion pura, ove asserisce essere ragione “la facoltà attraverso la quale cerchiamo di spiegare la
totalità dei fenomeni esterni (mondo), di quelli interni (anima) e l’unione delle due totalità (Dio)”.
Ora, con buon spirito critico se ne legga il sottotesto: la scelta del verbo “cercare” dimostra
l’accanimento pervicace con cui gli Illuministi costruirono le rispettive filosofie, totalizzanti nelle
spiegazioni dell’ordine generale del mondo, dell’individuo, che si svuotò di ragion d’essere, o di Stato
– cosa, questa, che chiaramente non lasciò spazio alla sensibilità individuale, ai fisiologici disordini
sociali, o, ancora, alle ribellioni; onde per cui, più che di stato ideale, si dovrebbe parlare di stato
distopico, a proposito di quello descritto dai vari Montesquieu, Rousseau o Voltaire. Al che, in merito
all’abbattimento dell’individuo, il principale esponente promotore, seppur leggermente posteriore, fu
lo stesso Kant grazie al celeberrimo Imperativo categorico, per cui si spinse ad asservire la morale1,
lo Stato o il vivere civile alla Dea ragione. Quantomeno, giacché tutti questi tre aspetti nascono da
un’irrazionale paura2 viene a crearsi un’inevitabile contraddizione in termini (applicare il razionale
all’irrazionale), che immediatamente diviene sostanziale, poiché per tale contraddizione il singolo
sprofonda in uno stato di eterna lotta interna tra il richiamo di sé animale e quello esterno di razionale
in una dualità odierna o esplosiva (anarchici) o implosiva (suicidi). Sicché, ogni individuo perse di
significato in funzione di un ordine, o ordinamento giuridico, superiore – ivi, Hegel cercò di salvare
il salvabile, imponendo al singolo contentezza di tal appiattimento sullo Stato, cioè dell’uccisione di
sé stesso. Tale aspetto, insieme all’embrione dell’apparato tecnico, è il morbo che più resiste nella
nostra società – da una parte l’omologazione in forza della ragione comune, dall’altra l’omologazione
all’ordinamento superiore all’individuo, oggi riconosciuto negli apparati produttivi, economici e
finanziari. Seguendo alla lettera i precetti illuministi, ciascuno cessa di esistere al di fuori del ruolo
sociale che ricopre, con buona pace di senzatetto e meno fortunati.

5.
Alla luce di quanto scritto, si inizia ora a intravedere il vero volto dell’Illuminista: un filosofo che si
compiace del suo finto carattere di liberatore della società, salvo poi ardere per divenirne tiranno,
impaurito dai disordini e dalla moltitudine delle menti individuali. In ciò, Kant fu maestro,
richiedendo, come unico degno di rispetto, un impiego pubblico della ragione, volgarizzandola alla
mercé della sola logica formale, entro un linguaggio sì astruso, che soltanto addetti ai lavori erano in

1
Irrazionale per definizione, come dice bene Lucrezio nel De rerum natura, libro I.
2
Per la seconda e la terza, l’autore sposa la visione di Hobbes sullo stato di natura e sul principio da
cui muove la nascita dello Stato.

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grado di comprendere. Se non bastasse, si aprano le Critiche kantiane per avere conferma. Questa
contraddizione volle preservare in sé l’individualità di chi propone una riflessione pubblicamente,
senza permetterne la comprensione: le armi dei sillogismi, di ragionamenti articolati e astratti
rimasero ben appuntite. Al che, chiunque non rientrasse entro i ranghi della ragione, siffatta dai
philosophes, divenne quasi “ferino”, non umano, giacché l’uomo è essere razionale. Come facilmente
si può dedurre, qualora una riflessione ribaltasse il paradigma illuminista, ecco che lì si verifica
l’ostracismo verso di essa: la personalità, l’inventiva e la reale critica caddero, in virtù d’una ragione
postulata che incombesse sopra gli uomini per plagiarli.

6.
Sotto queste lenti, storicamente il più grande Illuminista, o suo attuatore, fu proprio Napoleone
Bonaparte: il suo impero unico, il desiderio di un popolo europeo unito e la volontà d’un unico sistema
di misure, corpus giuridico e costumi, permettono di ricostruirne il retropensiero che ne trainò
l’azione – quasi il motto fosse “andate e unificate!”. Così fece in Italia, ad esempio, o immaginò per
la Spagna. Quest’estremizzazione della ragione ha motivazioni ben chiare: dacché la giusta misura
aristotelica non può che generarsi per spontaneità, presupponendo un soggetto sereno e privo di
avversioni per il prossimo e giacché la filosofia dei Lumi si impose come capo-popolo, allora non
poté che scadere prima in una violentissima rivoluzione e, successivamente, in una violentissima
restaurazione, per quelle forze di contraccolpo del paragrafo 1.

7.
Delineata precisamente la motivazione per cui definire l’Illuminismo una condizione atemporale sia
una vera e propria illusione, si può passare al merito della questione, dividendo la risposta che il
filosofo tedesco offre in tre parti: 1) l’Illuminismo è fuoriuscita dell’uomo da una condizione
minoritaria che si autoimpone per inutilizzo di critica; 2) il motto dell’Illuminismo è sapere aude!; 3)
pertanto, l’Illuminismo è pungolo dei dormienti ed esige dai suoi seguaci spirito critico. In seguito,
se ne vedranno i risvolti nella società contemporanea, spiegando così il sottotitolo: “l’attualità
inattuale di una filosofia”.

8.
Piccola premessa: al di là della natura cattiva o buona dell’uomo, sia esso lupus o politico, l’essenza
stessa di uno Stato presuppone una cessione di libertà individuale che viene rimessa nelle mani di una
sovrastruttura innaturale, per la preservazione di un diritto di valore maggiore della libertà stessa –
per Hobbes, tale diritto è la pace, la tranquillità e per estensione l’utopia della prevedibilità del
divenire, poiché garantito da terzi; per Locke, invece, la proprietà privata e la vita. Appurato ciò, in
entrambi questi sistemi di pensiero politico, hobbesiano e lockiano, l’uomo mantiene un certo
gradiente di diritto all’autodeterminazione, quantomeno nei costumi e, ove ciò non accada, non gli
viene richiesto di accettarlo di buon grado, ma è il sovrano spietato che compie soprusi per la stabilità
generale, quella per cui il singolo ha ceduto sovranità. Inoltre, il sovrano è rovesciabile, purché si sia
macchiato di azioni esecrabili contro l’ordine sociale e la tutela dei diritti per cui siede sul trono. Ora,
in ambi i casi, la natura dello Stato non mina l’agire individuale, giacché il Sovrano detiene il potere

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per questioni di necessità e per le medesime questioni di necessità i sudditi o cittadini obbediscono.
Nel sistema illuminista, invece, si chiede che i cittadini obbediscano al potere non ob torto collo,
com’è fisiologico che sia, ma che amino l’ordinamento politico, dal momento che risponde a
ragionamenti e razionalità3; pertanto, con un’iperbole, se il sovrano, chiunque esso sia, dovesse agire
secondo ragione, ma contro gli interessi popolari, allora dovrebbe essere legittimato al mantenimento
del potere. La coincidenza tra interesse popolare e razionalità è una favola: il sovrano potrà pur vedere
il quadro d’insieme, ma il volgo risponde agli istinti e, storicamente, poco si cura della bontà delle
azioni di taluno o di talaltro. Dunque, il realismo dice no alla filosofia politica Illuminista.
Chiaramente, essendo lo Stato prodotto di un contratto, soprattutto un contratto generato sotto
costrizione dell’ordine naturale, se gli interessi di una parte vengono lesi dall’altra, la parte lesa non
solo deve, ma, quasi per sentimento di vendetta, vuole rifarsi del torto subito e, di conseguenza,
destituire il governante. In sintesi, non è l’idea di valore, di giustizia, di logica o raziocinio a muovere
il mondo, bensì la spietatezza scaturita dalla necessità, dalla fame, dalla cupidigia e volontà di
affermazione – cose, queste, che si ingigantiscono, all’aumentare del pericolo di sopravvivenza,
spianando la strada al principio di autoconservazione. A tal proposito, la Rivoluzione francese è
ancora una volta esempio: il re, almeno nella percezione popolare, arrecò danno alla cittadinanza
attraverso una serie di scelte che affamò il popolo; al che, non bastò la sua destituzione, ma ne fu
necessaria la decapitazione per ripagare del torto subito. Pertanto, svelata l’illusione, l’Illuminismo
gettò l’uomo in una condizione ancora più minoritaria, velando le atrocità del vivere sociale, che non
deriva da altro se non dal principio di autoconservazione, e tingendo il tutto con colori vivaci e allegri,
all’insegna della bontà umana.

9.
Ora, si può iniziare a parlare del sapere aude, un’altra illusione e pregio di cui si fregiarono gli
Illuministi e che Kant sintetizzò. Si traduce, poeticamente, con “abbiate il coraggio di sapere!”:
parrebbe una sciocchezza se osservato con superficialità, ma è un’esortazione dalla forza
straordinaria. Preso di per sé, senza contestualizzazione, tale enunciato contiene il potere di liberare
effettivamente l’umanità, sognando che ciò sia possibile e che in realtà, la condizione di ignoranza
non sia connaturata all’essere umano. Ebbene, premesso che la liberazione dell’umanità
dall’ignoranza è utopica di per sé, giacché conoscere porta una sofferenza estrema, se quella viene
professata dai philosophes risulta ancora più paradossale. Difatti, come anticipato, lo spirito che
animò gli Illuministi non fu autentico, né spontaneo o sincero, bensì avvelenato da rancore e
risentimento, e parallelamente volto alla presa del potere: solo loro ebbero il coraggio di sapere,
senonché ripudiarono la vera conoscenza. Aver avuto insufficiente coraggio di sapere, cosa che
appare una piccolezza, si concreta nella ragione per come la si è descritta sopra: infatti, se da una
parte Sofocle ben comprese che conoscere le cose per come stanno, cioè prive di senso se non per
quello che noi stessi attribuiamo loro, lo stesso non si può dire per i Lumi. Questi, sconcertati dai
disordini della natura umana, dal suo carattere istintuale e fin troppo umano, rabbrividirono – si
costruì così una dottrina politica cieca nella genealogia della figura statale (paragrafo 8), che
parcellizzò i poteri per timore di un’eccessiva dirompenza della natura umana nelle decisioni del
potere4; sul fronte etico, la tolleranza si snaturò dal carattere utilitaristico attribuitole da Locke – cioè

3
Rousseau
4
Montesquieu

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per un senso di finitezza della ragione umana – verso una correttezza morale a priori5, tutta da
dimostrare, e, insieme ad essa e come più volte ripreso, l’agire dell’individuo venne limitato
spasmodicamente. Dissero: “si vive secondo ragione. Noi Lumi siamo la ragione. Dunque, noi filosofi
dettiamo legge”. Ci si renda conto della smania di controllo da cui vennero trainati.

10.
Infine, si approda al terzo punto: l’esercizio del pensiero critico. Il criticismo non può che essere
dominato da una serie di fattori prettamente individuali, somma di esperienze di vita, letture o
sensazioni afferenti al singolo e a nessun altro. Nel mio caso, è chiaro che questo saggio sia frutto
della stratificazione di esperienze, nella loro piccolezza rispetto ad una vita ancora da consumarsi, di
influenza di pensieri da cui ora sono ammaliato, ma non in una posizione statica, quanto di continuo
dinamismo: al che, non è da escludersi che fra molto o poco tempo, la mia opinione sia totalmente
mutata sull’argomento. Se, invece, si dovesse prendere per appurato il paradigma illuminista d’una
ragione regolata da norme ben precise, per cui l’analisi critica del reale porterebbe tutte e tutti alle
medesime premesse, allora nessuno potrebbe svincolarsi dai rapporti stringenti fra premesse e
conclusioni della logica formale: dalla stessa angolazione nessuno può scorgere altri particolari
rispetto ad altri – di nuovo omologazione, di nuovo snaturamento dell’individuo, ripudio verso di
esso, di nuovo uccisione della pluralità! Con buona ironia, se il mondo illuminista avesse avuto
completamente spazio nel reale, allora Voltaire si sarebbe potuto risparmiare la fatica di scrivere il
suo Trattato sulla tolleranza, per mancanza stessa di diversità da tollerare. Non finisce qui: ove
sinceramente il sapere vuole essere democratico, anche la forma dev’esserlo per permetterne la
comprensione. Questo è chiaro: se ci si trova in un’occasione di svago con un gruppo ristretto di amici
e si chiacchiera di facezie, inevitabilmente si adopera un linguaggio adatto; parimenti, in situazioni
formali ci si serve di un periodare che ne sia all’altezza. Ebbene, quantunque ci si sforzi, è impossibile
annoverare uno scritto kantiano o di un’Illuminista all’interno degli scritti per iniziare qualcuno allo
studio della filosofia – personalmente, leggendo il Discorso sull’origine della disuguaglianza di
Rousseau, oltre che per la densità di concetti, mi sono ritrovato costretto a leggere a voce alta o a
dover tornare su determinati passaggi, oppure insieme ambe le cose. Sicché, non solo nella sostanza,
ma anche nella forma, gli Illuministi si trincerarono in paroloni, complicazioni stilistiche e similia
che niente hanno a che fare con una democratizzazione del sapere a vantaggio delle classi sociali
meno istruite.

11.
Quantunque la luce di cui l’Illuminismo splende è senz’altro tetra, questa distende la mano secca e
algida in due aree, a cascata le altre: 1) l’aspetto economico, laissez faire in primis, cui si aggiunge il
ruolo dell’apparato tecnico occidentale; 2) l’ambito giuridico – sociologico, nella codificazione
normativa all’insegna del giusnaturalismo e nella costruzione dell’illusione d’una società orizzontale
ed equa. Brevemente, ne possiamo osservare i rapporti di causalità e interconnessione. Tutto nasce
dalla volontà di sovvertire le gerarchie, abbattendo le disuguaglianze, ma allo stesso tempo
promuovendo l’indipendenza del singolo. Al che, nasce il giusnaturalismo alla maniera Illuminista,
che ineluttabile ammansì anche lo spirito dell’uomo alla lotta per i propri diritti, supponendo quasi

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Voltaire

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che il tiranno di turno, non riconoscendone la totalità, stesse compiendo una qualche sorta di sopruso
e sevizia. Ora, chiaramente, come al leone non si può imputare di star cacciare le gazzelle, al tiranno
(o governo in qualsiasi forma) non si può imputare il rafforzamento del proprio potere. Quantomeno,
si dice alle gazzelle di correre più veloci, e dunque al popolo di scuotere la seggiola del sovrano – in
entrambi i casi, è sempre chi si trova in posizione minoritaria a doversi innalzare, mai il contrario.
Quelle che, in tal senso, dev’essere evitato con vigore è il ripiegamento e la sofferenza per la lotta,
che, anzi, trovi spazio in ciascuno e venga allevata con massimo rispetto e cura. Dal giusnaturalismo,
si generò il laissez faire, poiché questo, per esistere, richiede quell’uguaglianza teorica predicata dal
giusnaturalismo: se tutti sono uguali e posseggono gli stessi diritti, nessuno disturbi chi si adopera.
Tuttavia, dacché ciò genera disordine e ribaltamento fra potere politico e potere economico, allorché
la situazione sfuggì di mano, ivi si ricorse alla codificazione ordinata e ordinaria delle norme, ovvero
alla manifestazione della debolezza del potere politico dinnanzi a quello economico. L’economia
primeggia sempre sulla politica perché tocca le corde scoperte del vivere comune, le corde della vita,
del cibo, delle medicine e di tutti i beni necessari per l’autoconservazione. Al che, l’economia copiò
dalla politica e anch’essa si codificò: si diede la massima per eccellenza, il postulato d’ogni sistema
produttivo, che recita pressappoco così “massimi risultati, con il minore degli sforzi!”, esasperando
la già precaria condizione umana che con le nuove tecnologie e sviluppi tecnici perse valore in un
vortice incontrovertibile. Al giorno d’oggi, gli uomini creano tecnologie che provocheranno loro
sofferenze su ogni fronte: da quello sociale a quello politico, da quello economico a quello sanitario
e via di seguito. Di seguito, illustrati i rapporti tra i vari ambiti e le rispettive ramificazioni, si trova
la spiegazione dettagliata d’ogni fenomeno.

12.
In principio fu lo stato di natura. L’uomo disse sicurezza e sicurezza fu, ma al prezzo d’una
limitazione della libertà: nacque lo Stato. Così visse per millenni, finché l’ormai animale domestico
in cui s’era trasformato, indebolitosi al punto da non riuscire a convivere con questa sofferenza ed
estenuato da anni di lotte civili, si volle rendere felice e, quasi per scherzo, pronunciò le seguenti
parole: “ognuno nasce con dei diritti ad esso connaturati; la lotta non è più necessaria. Basta conflitti,
d’ora in poi solo pace!”. I risvolti furono catastrofici: tutti persero di vigore, ogni cosa si assestò di
conseguenza e nessuno fu più fiero di sé. L’arte morì di fame: nessun conflitto d’animo la nutriva e
rinacque solo in seguito, quando l’individuo, abbandonato l’esterno, tornò a scrutare i meandri della
propria psiche. Lo spirito di cacciatore si affievolì e così, da miccia pronta ad esplodere, la conquista
dei diritti si bagnò e non riuscì più. I partiti politici odierni, legati a questa visione e per una serie di
fattori economici, non costituiscono alcuna matrice di innovazione ideologica, ancorati, chi più chi
meno, a temi di cui si parla da secoli (difatti, mi è impossibile comprendere l’entusiasmo per
l’elezione a segretario d’un partito una figura nuova, con idee più radicali nell’area di appartenenza,
senza essere angosciati del fatto che tutto scemerà in semplici chiacchiere, giacché il piano della
politica s’è spostato dal conflitto per una costante minaccia a quanto costruito, verso un gigantesco
strumento di posizionamento di amici e parenti, per cui non si ha più la minima vergogna). La natura
è conflitto in costante movimento, è sotto gli occhi di tutti. Con il giusnaturalismo illuminista l’uomo,
un animale figlio della natura, uccide sua madre e si vanta del sangue che ha sulle mani. I diritti vanno
conquistati, messi su chiare norme, che prevedano pene (e si sottolinea il carattere punitivo e non
riabilitativo per la lesione d’un diritto altrui) chiare e distinte, inamovibili e veloci. Lo spirito d’un
popolo acquisti fierezza all’interno di sé stesso per le conquiste civili fatte e rinascerà ogni giorno
con un nuovo obiettivo – nulla lo fermerà più.

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13.
Issato il giusnaturalismo a principio cardine della dottrina giuridica, si creò un abnorme gioco di
prestigio, d’una società salda, serena, quasi arrivata; quest’uguaglianza non solo aprì le porte al
liberalismo economico, al privato come soluzione ma distese anche il tappeto rosso di riverenza del
laissez faire. Difatti, se tutti sono uguali, posti sullo stesso piano, il merito perde di valore e
ciascheduno è autorizzato a far ciò che crede, incurante dell’ordine statale generale: l’economia si
slega dal controllo dello stato in questo frangente, ovvero quando diviene affare privato che, come
tale, al pari d’una lite domestica o l’acquisto di un nuovo mobile per la cucina, non vuole essere reso
pubblico. Di qui, il baratro! Infatti, essendo lo stato retto da una questione di necessità, dalla
prerogativa di assicurare la vita dell’individuo, fornendogli acqua, pane e viveri vari, dacché perse le
manopole dell’economia reale, subitaneamente si svuotò anch’esso di significato. Così, la più grande
creazione illuminista, quella dello stato, per mano degli stessi illuministi muore. Ognuno per sé, senza
che nessuno sorvegli, avverta o sia capace di intervenire scrutando in lontananza un precipizio.

14.
Almeno per una faccenda di tradizione ultramillenaria, lo Stato come comunità che si riconosce in
valori comuni, entro un determinato confine, doveva sopravvivere. Se la giurisprudenza e l’economia
si muovono su piani paralleli inconciliabili e su basi empiriche e induttive, lo Stato urla di dolore:
“troppo disordine!”. Minacciato dall’avanzare del privato economico, che ne recita la controparte, si
vide costretto a serrare e rinvigorire i propri strumenti d’esercizio del potere – dalla struttura induttiva
giuridica medievale, in grado di rispondere efficacemente alle esigenze che via via venivano
presentandosi, passò alla codificazione maniacale delle norme che persero slancio attuativo.
Involontariamente si azzoppò con le sue stesse mani, provocando una frattura tra mondo reale
(estremamente rapido e pragmatico) e mondo teorico (estremamente lento e idealista). L’apparato
politico riuscì nella codificazione, o meglio, partorì questo scherzo di natura, grazie alle idee
Illuministe per cui lo Stato (coincidente con la ragione) governa, esiste e sussiste, non per necessità
ma per giustizia. Ertamente è fuor di dubbio che un legislatore unificatore e unico a livello centrale
sia più ordinato e potente di tanti piccoli territoriali, quindi diviene più ragionevole.

15.
Senza troppe approssimazioni si può infine discutere in merito alla partecipazione dell’Illuminismo
all’apparato tecnico così come Heidegger e suoi studenti lo definiscono. Il filosofo novecentesco
tedesco scrive: “La tecnica non lascia nemmeno essere l’uomo che, come ogni altro ente nel mondo,
è individuato e ordinato dal dispositivo, dal meccanismo, dalla griglia a rete del procedere tecnico.
Nella modernità l’agire dell’uomo non ha più scopo”. Come si vede, i princìpi che l’Illuminismo
dischiude sono gli stessi: insignificanza dell’uomo se non rispetto ad un apparato ordinato,
estremamente razionale che risponde ad uno scopo o ad un fine. La razionalità spinta alle estreme
conseguenze ripone soventemente la propria speranza nelle capacità dell’uomo come totalità ordinata,
nei prodotti dell’uomo e, in ultima istanza, nella scienza pratica, la tecnica. Come testimoniato

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dall’importanza dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, questa si concretizza in un compendio
spropositato di conoscenze pratiche, tecniche per l’appunto. Lo sviluppo dell’uomo come essere
individuale, in qualità insieme di numerosissime sfaccettature viene meno, soccombendo all’uomo
come mero passante sacrificabile per un fine di più lunghe vedute, che, però, è sintetizzato dall’uomo
stesso. L’uomo soccombe per l’uomo quando si parla di apparato tecnico. Ora, non è tutto: al pari
dell’Illuminismo, nemmeno la tecnica ha volto – non è previsto un esponente da cui gli altri dipesero
per lo sviluppo del pensiero o dell’apparato, bensì, ogni cosa si sviluppa portando dietro di sé gli altri
in un evolversi senza faccia. L’apparato tecnico, quindi, si auto-deresponsabilizza e, allo stesso
tempo, deresponsabilizza coloro che vi partecipano: accadde ciò nel nazismo, nella misura in cui
nessun generale (salvo alcuni per motivazioni dubbie e vaghe) si pentì, poiché non riconobbe alcuna
responsabilità; ciò avverrebbe anche nel caso di attuazione stringente della società intesa
dall’Illuminismo, una società che ripone tutte le sue speranze presso la Dea Ragione, ente metafisico,
quindi non imputabile di alcunché. Sicché, come s’è visto, sia i sudditi o cittadini che siano, sia il
sovrano o governo potranno mai essere messi sotto processo per una determinata azione o eventuali
conseguenze, fintantoché si riconosca il fondamento sociale nella Razionalità.

16.
In estrema rapidità, si tenterà di offrire possibili rimedi. Anzitutto, recuperare, come sta lentamente
accadendo, quella sfera individuale/irrazionale di ciascuno – cosa che presuppone e corrobora una
sempre maggiore responsabilizzazione dei singoli, offrendo loro occasioni di libero sfogo della follia
in ambiti creativi, distruttori degli schemi costituiti. Ciò, insieme, vuole anche una riabilitazione
dell’arte al pari della scienza in ordine al progresso dell’umanità, cessando di relegarla nello stanzino
dell’insignificanza. Ancora, la dottrina giuridica deve smettere di essere tale e riposizionarsi come
giurisprudenza, dismettendo l’“ipse dixit” legislativo e riabbracciando la discrezionalità del
magistrato giudicante (ritorna il tema della responsabilizzazione). Inoltre, lo Stato recuperi sovranità
davanti alle comunità internazionali, rivendicando l’essenza di cellula costituente dello scacchiere
politico globale, qualunque esso sia e indipendentemente dal suo potenziale economico. Infine e
sommamente, si riprendano in mano i manuali di storia e filosofia, leggendoli disillusi e con sospetto,
per spiegare realmente urbi et orbi che dietro ogni diritto v’è sempre stata e ci sarà una guerra di
civiltà, un conflitto interminabile se non con la morte dell’ex classe sociale dominante e l’alba d’una
nuova, destinata incontrovertibilmente ad essere rovesciata a sua volta in un circolo senza fine. Solo
così, solo se la cultura acquisirà nuovamente valore, sarà in grado di salvarci dal suicidio collettivo
che il mondo vede compiersi quotidianamente – sicuramente, non l’ennesima esasperazione
dell’illusione razionale.

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