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I.

Kant (1724, Konisberg – 1805, Konisberg)


sulla sua tomba sarà scritto “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”).

L’epoca della critica

La filosofia kantiana presenta numerosi paradossi, soprattutto se letta alla luce della filosofia del suo tempo; moltissimi
pensieri della filosofia matura di Kant “che pure si appoggia su sé stessa ed esige una spiegazione indipendente”
(Cassirer) diventano meglio comprensibili se letti alla luce del confronto che Kant svolge con la filosofia del suo tempo;
è importante quella che Kant assumeva come “la propria relazione son la sua epoca”. La filosofia critica nasce in un
periodo di acuta autoconsapevolezza storica, diversa da quella di epoche precedenti. L’illuminismo, cui Kant ha dato
esplicitamente la sua adesione e di cui ha voluto elaborare una sua-propria versione, si è dato da sé questo nome
(Aufklarung nella Germania Kantiana) con questo, come ha osservato Foucault, situandosi nei riguardi del proprio
passato e del proprio avvenire e indicano le operazioni che deve effettuare all’interno del proprio presente.

Kant accentua questa comprensione di sé di un’epoca o di una sua importante componente.

Come? Collocando il proprio pensiero in una posizione cruciale al suo interno, in una prospettiva anche
soggettivamente epocale. Il progetto filosofico di Kant incarna un compito storico che egli ritiene essere quello che la
sua epoca propone, e al quale ha l’ambizione di dare la risposta più compiuta.

Prima che nuovi contenuti, nuove tesi filosofiche, al suo centro sta il RIPOSIZIONAMENTO DELLA RAGIONE (di
cui la filosofia è massima espressione) nei riguardi di tutte le altre istanze che pretendono di regolare la vita dell’uomo.

La critica, ovvero l’auto-analisi della ragione, dei suoi limiti e delle sue possibilità, è la condizione perché la ragione
stessa possa presentarsi, al suo cospetto prima di tutto, e legittimarsi quale autentica guida, capace di orientare l’intero
corso della cultura e della vita umana.

Così proclama la Prefazione alla I edizione del 1781 della Critica della ragion pura:

«La nostra epoca è la vera e propria epoca della critica, cui tutto deve sottomettersi; l’illuminismo, non a caso, è definito
come ‘l’uscita da uno stato di minorità di cui l’uomo stesso è responsabile’.

Quelle che solitamente vogliono sottrarsi alla critica sono la religione, a motivo della sua santità, la legislazione, a
motivo della sua maestà: ma così facendo, esse fanno sorgere contro sé stesse un legittimo sospetto e non possono più
rivendicare quel rispetto che la ragione concede soltanto a ciò che ha saputo resistere al suo esame libero e pubblico».

Si ridefinisce così il rapporto tra fondamentali potenze storiche: potere politico e autorità religiosa non sono ora
semplicemente subordinati ad altro: la loro autorità, o la loro pretesa al rispetto, in Kant, è condizionata, dipende
dall’esame svolto dalla ragione, da quella critica consistente nella valutazione del fondamento di tutte le affermazioni;
come abbiamo visto nella prefazione, questa valutazione deve essere libera e pubblica: sulla libertà della critica si basa
addirittura l’esistenza della ragione, la quale non ha alcuna autorità dittatoriale, ma il suo decreto altro non è che
l’accordo di liberi cittadini.

Il tribunale della ragione, al quale l’epoca che si riconosce nell’illuminismo vuole affidare ogni legittimità, è il gran
consiglio della ragione umana: la comunità degli esseri razionali a cui è affidato l’esame, svincolato da qualsiasi
autorità e aperto a ognuno, della legittimità di ogni affermazione.

Ma la condizione perché la ragione possa essere istanza di legittimazione è che essa si sottoponga in tutte le sue
imprese, alla critica!

Kant acquisisce la consapevolezza del ruolo cruciale che il lavoro filosofico poteva assumere nel contesto della sua
epoca, dunque, della funzione non solo intellettuale e culturale che l’assunzione del compito indicato dalla nozione di
CRITICA poteva assolvere.

Kant è consapevole che la ricerca filosofica non può, e non deve, essere confinata all’interno della sola conoscenza: io
stesso sono un ricercatore, scriveva in un appunto biografico. Avverto tuta la sete di conoscere, l’inquieto desiderio di
andare avanti. Ciò ha comportato un disprezzo per la plebe ignorante dato dalla convinzione che soltanto questo potesse
far onore all’umanità; lo studio di Rousseau ha corretto una tale convinzione. A una tale assunzione, quasi di principio,
si è sostituito un profondo rispetto per gli uomini.

Pur incentrato sui destini e sullo sviluppo della metafisica, il pensiero critico lega il ruolo di quest’ultima agli
interessi più profondi dell’uomo, e a una riorganizzazione complessiva della cultura che conduce a disegnare un
progetto di convivenza pacifica fra tutti i popoli, incentrato sulla libertà e fondato sulla ragione.

Il criticismo: Il modo di pensare del criticismo, è caratterizzato dalla massima di non assumere mai come vero
qualcosa se non dopo un completo esame dei principi; compito della critica è così inscindibilmente distruttivo e
costruttivo (de-costruttivo), poiché deve condurre alla distruzione di fondamenti apparenti per il tramite della ricerca di
fondamenti solidi; questo modo di pensare è il tratto distintivo dell’illuminismo, e segna un punto di non ritorno. Se
nell’acquisizione di conoscenze ogni epoca può superare le precedenti, in questo, difficilmente un’epoca futura potrà
superarci (scrive Kant); la consapevolezza critica, una volta raggiunta, non può più esser persa. La questione critica
diviene un’acquisizione permanente.

In Kant abbiamo l’idea di una ragione (universale, di cui partecipa l’intero genere umano) tutti gli individui
ne partecipano e, in virtù di questa partecipazione alla ragione come universale, il genere umano è destinato
alla libera convivenza degli uomini; sono soggetti universali come individui di questa specie (UN UNIVERSALE
RAZIONALE)
Questo è il grande modello che gli autori colgono in Kant; il modello è riferito a questa idea di ragione, idea
precisa!
Il compito di una rifondazione del sapere non è una novità, nel quadro della filosofia moderna (si pensi a Locke,
Cartesio) dunque, qual è la peculiarità di Kant? La peculiarità dell’analisi kantiana di ogni preteso sapere sta in una
operazione teorica che contribuirà a costituire la coscienza di sé anche di molti modi di pensare dei secoli successivi:
nella rottura di una apparente e fittizia uniformità dei discorsi umani, attraverso l’individuazione di forme diverse di
discorso, diversi tipi di affermazioni dotate di distinte forme di legittimità.

Conoscenze scientifiche, filosofiche, asserzioni morali, fedi religiose, valutazioni estetiche e prospettive politiche si
rivelano FORME DI UN DISCORSO CHE HANNO REGOLE E PRINCIPI DI LEGITTIMAZIONE DIVERSI.

Una volta ri-conosciuti, questi principi possono portare a modificare il senso dei discorsi che fondano, andando a
determinare l’ambito in cui ognuno di essi può conservare il senso che gli è proprio.

L confusione in ambito filosofico è data proprio dalla pretesa di una forma di discorso di invadere i confini delle altre; il
compito, avvertito da una intera epoca, di fare chiarezza su sé stessa e sull’intero orizzonte della cultura umana può
essere svolto, nell’interpretazione che Kant ne dà, cercando di comprendere la divaricazione dei diversi linguaggi; la
critica della ragione è critica del linguaggio, del logos. In primo luogo, quella tra la conoscenza scientifica affermatasi
secondo il modello della scienza fisico-matematica della natura e i diversi generi di discorso che orientano la vita,
dunque l’azione umana: la morale, l’arte, il diritto, la religione. Il problema di una loro “unificazione” si porrà poi in
modo diverso.

Kant prima di Kant

La svolta teorica che caratterizza il pensiero di Kant è segnata dalla sua opera più famosa, la critica della ragion pura,
con la rifondazione filosofica che essa propone ed in particolare con il suo esame critico della METAFISICA.

Ma Kant giunge a questo risultato dopo un percorso piuttosto lungo e travagliato, il periodo chiamato “precritico” in
quanto prelude allo sviluppo della filosofia critica, o criticismo, contrassegnata dalle sue opere più note (Critica della
ragion pura 1781, critica della ragion pratica ’88, critica della facoltà di giudizio ’90).

Kant si caratterizza, sin dalle prime opere, come un pensatore libero, che lavora nell’orizzonte di una prospettiva
prevalentemente Leibniziana, che veniva ripresa e reinterpretata in modi diversi nel momento della formazione di Kant
a Konisberg da autori come Wolff, Baumgarten.

La I opera di Kant, i pensieri sulla vera valutazione delle forze vive (1749) risale a quando Kant aveva 25 anni, iniziata
nel ’44 e apparsa nel ’46. È introdotta da una premessa retorica che pone in primo piano il primato dell’argomentazione
razionale su ogni autorità: la libertà di contraddire grandi uomini è vista come possibile e doverosa, contro un tempo in
cui in una tale impresa c’era molto da temere.

Nei Pensieri, Kant affronta una tematica che era oggetto di controversia, in particolare tra i cartesiani, i newtoniani e i
leibniziani: la misurazione della forza.

In quella che allora si chiamava filosofia naturale, si intrecciavano problematiche di fisica e considerazioni generali di
tipo metafisico; Kant cerca la conciliazione tra esigenze teoriche divergenti (suo stile di pensiero) assumendo una
posizione che difende l’impostazione leibniziana del problema, trasformandola e sviluppandola. Al di là del tema
discusso, traspare in questo scritto una attenzione rilevante per lo statuto della metafisica come disciplina, considerata
solo alle soglie di una conoscenza ben fondata.

La sua debolezza, sarebbe dovuta anche all’inclinazione dominante di coloro che cercano di ampliare la conoscenza
umana, i quali desiderano avere “una grande filosofia”; per Kant, però, sarebbe desiderabile che tale filosofia fosse
anche fondata (in Kant è centrale la questione del fondamento).

Nella trattazione della questione delle forze, emerge l’importanza che Kant attribuisce al problema di un metodo atto a
trovare e prevenire errori, al punto di indicare il metodo proposto in quelle pagine come la fonte principale dell’intero
trattato.

Kant si muove poi negli anni successivi tra numerosi interessi di tipo scientifico e riflessioni che investono la natura e la
possibilità della filosofia.

Dopo alcuni scritti di carattere scientifico, di astronomia e storia naturale (Storia generale della natura e del cielo)
pubblica una dissertazione in latino su temi di metafisica, la Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova
dilucidatio, e ancora scritti di tematica scientifica, ma anche un trattato latino di metafisica, la monadologia physica,
dove temi leibniziani vengono riletti e ripensati in riferimento alla fisica newtoniana.

Gli interessi di metafisica e le questioni più di principio sulla natura della conoscenza filosofica vengono in primo piano
nel corso degli anni ’60.

Lo scritto sull’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, 1763, contiene considerazioni che
travalicano il tema specifico, le quali preparano il terreno per la stesura de La critica della ragion pura.

L’inquietudine di Kant, nel momento in cui affronta uno dei temi più classici della metafisica, è espressa dall’immagine
di essa come “abisso senza fondo, oceano tenebroso” nel quale “bisogna condursi come chi, navigando in mare non
ancora solcato, non appena metta piede su una qualche terra, esamina il suo cammino e cerca se delle inavvertite
correnti marine non abbiamo deviato il suo corso”.

Questo procedere insicuro e quasi a tentoni non poteva essere considerato soddisfacente, e il problema di un “faro” che
orienti la navigazione (UN METODO) viene sempre più in primo piano, tanto che Kant cerca di rispondere con Lo
scritto Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, del 1764, al quesito della reale
accademia delle scienze di Berlino, posto lo stesso anno: se le verità metafisiche in generale, e in particolare i primi
principi della teologia naturale e della morale, siano suscettibili di dimostrazioni altrettanto chiare di quelli delle verità
geometrica.

Nonostante la convinzione, in Kant, che l’individuazione di un metodo appropriato alla filosofia potrà porre fine al
perpetuo oscillare di opinioni e correnti scolastiche, così come il metodo di Newton nelle scienze naturali ha
trasformato la sregolatezza delle ipotesi fisiche in un procedere sicuro, Kant si avvolge in paradossi, sostenendo che un
discorso sul metodo della metafisica non potrà essere a sua volta metafisico, altrimenti il suo giudizio sarà incerto tanto
quanto lo è stata la metafisica, e si propone di basarsi, per la strutturazione di un metodo, su dati certi dell’esperienza.

Il metodo che Kant delinea è quello di una FILOSOFIA INTESA COME PROGRESSIVA CHIARIFICAZIONE DI
CONCETTI GIA’ POSSEDUTI IN MODO OSCURO, ma un acquisizione importante è il rifiuto dell’analogia tra il
metodo filosofico e quello matematico.

In matematica si comincia dalle definizioni e dal semplice, in metafisica dalla parte più difficile, da concetti
originariamente complessi; l’obiettivo può essere solo quello di ricercare ciò che si sa di certo circa questi concetti
posseduti, fondando le argomentazioni solo su questi dati sicuri, e proponendosi di acquisire attraverso l’analisi concetti
chiaramente e compiutamente intesi; queste le proposte metodologiche di Kant, che tuttavia non sono all’altezza della
problematica fondamentale in questiome, e di fatti non risultano essere sufficienti a corroborare la tesi secondo cui la
metafisica sarebbe capace di una certezza sufficiente a indurre la persuasione. Il problema di un metodo per la
filosofia e la metafisica, resta aperto e si acuisce negli anni a venire.

Due opere lo pongono esplicitamente al centro: Nel 1766 appare uno scritto I sogni di un visionario spiegati coi
sogni della metafisica, di intonazione satirica, nel quale Kant, da un lato confesssa che la metafisica è una scienza di
cui egli ha avuto in sorte di essere innamorato, e dall’altro la paragona alle visioni di Swedenborg, teologo svedese che
aveva narrato dei suoi contatti diretti con mondi mistici.

Il disagio verso la metafisica si è progressivamente acuito rispetto alla Indagine; in una lettera dello stesso anno al
filosofo e metafisico Moses Mendelssohn (il cui trattato aveva vinto il premio a cui Kant aveva partecipato) egli
confessa il proprio astio verso le “immaginarie conoscenze” metafisiche, considerando come estremamente dannoso
l’atto di prendere per vera “quella scienza sognata” i cui errori e la cui follia sarebbero accresciuti dai metodi in uso; al
contempo, riconosce il valore della metafisica, da cui dipenderebbe il “vero e duraturo bene del genere umano”.

In I sogni alla metafisica è riconosciuto solo il ruolo di scienza dei limiti della ragione umana, la quale consente di
conoscere e conservare i propri possedimenti (non si andare alla cieca in cerca di conquiste).

Una conoscenza filosofica convincente di entità metafisiche, come la natura spirituale dell’anima, può rivelarsi
impossibile, ma anche “non necessaria”. Le esigenze morali che nutrono tali conoscenze, nonché il desiderio di
acquisirle, possono essere soddisfatte da una saggezza che renda inutili i grandi apparati di dottrina.

Nonostante queste inquietudini di fondo, Kant sembra portare avanti la possibilità di sviluppare una metafisica in
senso tradizionale, intesa come conoscenza di enti sovrasensibili, con opportune correzioni e accortezze
metodologiche.

L’ultima correzione parziale alla metafisica è proposta nella dissertazione sulla forma e i principi del mondo sensibile e
di quello intelligibile, del 1770 (dopo la quale non pubblicò nulla per dieci anni) la quale si presenta come una “scienza
propedeutica a essa, che insegna il discrimine tra la conoscenza sensibile e quella intellettuale”.

Il problema del metodo è affrontato delineando una riformulazione radicale della teoria leibniziana della conoscenza ; i
principi della conoscenza sensibile vanno distinti da quelli che devono consentire di conoscere una cosa non come
oggetto dei sensi, ma come oggetto della conoscenza razionale PURA!

Nella conoscenza sensibile l’oggetto è conosciuto come appare, fenomeno è ciò che si manifesta, dal greco phainomai,
apparire, sulla base di forme di “coordinazione” rappresentate dallo spazio e dal tempo (le future categorie).

L’intelletto ha un uso reale, consente di conoscere l’oggetto quale esso è, in altre parole come noumeno, ciò che è
pensato, da noein, pensare.

Ritenendo che sia ancora del tutto ignorato un metodo conveniente alla natura propria della metafisica, Kant vorrebbe sì
svilupparlo, ma si limita a qualche indicazione, dichiarando di non avere i mezzi per discutere un argomento tanto
esteso ed elevato; rispetto all’idea che un uso dell’intelletto per la conoscenza delle cose in sé sia possibile, il compito
metodologico positivo, dunque, non viene risolto in quest’opera. Le indicazioni sono volte a dissolvere principi
ingannevoli, la cui origine è in una indebita trasposizione: principi validi per la conoscenza sensibile invadono il campo
delle cose dell’intelleto (invasione spazi saperi, confusione filosofia).

Si offre un metodo per PREVENIRE ERRORI nella ricerca metafisica; dunque, un’analisi di alcuni suoi problemi,
più che una fondazione positiva della sua possibilità (Sulla quale Kant rifletterà per molto tempo).

La critica della ragion pura e la metafisica

Dopo la dissertazione del 1770, Kant non scrive nulla per dieci anni; è il “decennio silenzioso” durante il quale nasce e
si sviluppa la Critica della ragion pura, e con essa l’idea di una nuova sistemazione della filosofia e del sapere in
generale.
Quell’argomento “tanto elevato ed esteso” che nella Dissertazione non veniva affrontato diviene ora oggetto di un
lavoro di scavo, che porta Kant ad analizzare la conoscenza in generale, così da distinguerne le forme, verificarne le
possibilità e cercare se tra esse vi fosse spazio per una conoscenza metafisica giustificabile.

Un lavoro così ambizioso diviene una visione d’insieme che non solo ridefinisce possibilità e compiti della filosofia, ma
prevede l’organizzazione dei sapere in una unità sistematica, che stabilisce il rapporto tra le diverse forme di sapere con
scopi e interessi umani. Kant non intende la filosofia come impresa esclusivamente conoscitiva!

Lo chiarisce nella parte conclusiva della I critica, chiarendo II concetti di filosofia, quello scolastico e quello
cosmico.

Scolastico: è il concetto di un sistema della conoscenza, ricercata solo come scienza, senza avere come fine nient’altro
che l’unità sistematica di tale sapere, dunque la completezza logica della conoscenza.

Cosmico: è sempre stato alla base del termine stesso FILOSOFIA, specialmente quando lo si è personificato,
raffigurandolo nel modello ideale del filosofo; entro quest’ottica la filosofia è la scienza dei fini essenziali della ragione
umana, e il filosofo è il legislatore della ragione umana (colui che fa le leggi).

Il concetto cosmico o COSMOPOLITICO della filosofia considera qualunque conoscenza in relazione agli interessi
essenziali dell’uomo inteso come cittadino del mondo.

Il principale tra questi è il bisogno di collegare ogni fine, specificamente settoriale, dell’agire e del conoscere, con un
fine ultimo, con quella che Kant definisce DESTINAZIONE DELL’UOMO.

In questa prospettiva, qualsiasi sapere può essere inteso come una tecnica, abilità relativa a fini arbitrari, e ha in quanto
tale valore condizionato – al fine cui serve-: ognuna di queste abilità ha il suo prezzo, come ogni altro lavoro, o merce.

La filosofia, riferendo ogni sapere agli interessi dell’uomo, acquisisce un valore INCONDIZIONATO, in quanto sapere
che è in grado di ORIENTARE tutti gli altri (conferire senso).

La filosofia così intesa risulta quasi un paradigma, un modello ideale, il quale proprio in virtù della sua idealità non
risulta mai acquisito.

Il concetto cosmico di filosofia è riferito al filosofo, inteso come figura ideale personificata, non alla filosofia come
scienza; per lo stesso motivo, Kant sostiene che la filosofia culmina nella saggezza, in qualcosa che riguarda l’azione
dell’uomo nel mondo, la sua dimensione morale – in senso esteso- che non si può tradurre in un sapere già acquisito,
fissato.

La scienza, che è conoscenza criticamente controllata, nei suoi diversi campi (compreso quello filosofico)- è la
premessa per una ragione che riesca a orientarsi, e presuppone un esame preliminare dei suoi limiti e delle sue
possibilità.

Kant ricapitola, concludendo la sua opera maggiore, il modo in cui concepisce questo rapporto tra le IV principali
dimensioni diverse della cultura umana: le scienze empiriche sono autonome nel loro ambito, ma il loro senso per gli
interessi dell’umanità è compreso dalla filosofia, la quale presuppone la critica come auto-esame della ragione; queste
III dimensioni, riassumibili nel termine scienza, rimandano alla saggezza da intendersi come capacità di riferire il
sapere alla ricerca dei fini ultimi.

Se “tutto ciò che possiamo chiamare filosofia consiste nella metafisica – divisa in M. della natura e dei costumi- e nella
preliminare critica della ragione, la filosofia riferisce tutto alla saggezza (capacità di riferire il sapere alla ricerca di fini
ultimi) ma attraverso la via della scienza, l’unica che una volta aperta non si chiude mai più e non permette di smarrirsi.

La matematica, la fisica, la conoscenza empirica dell’uomo, posseggono alto valore in quanto MEZZI, in vista di fini
contingenti, ma anche in vista di fini necessari ed essenziali all’umanità: in questo caso, però, solo con la mediazione di
una CONOSCENZA RAZIONALE che muova da semplici concetti, ovvero la metafisica.

L’interesse Kantiano nei riguardi della metafisica deriva dal ruolo che essa assumeva e può assumere
nell’organizzazione generale del sapere; è in gioco la dinamica, il modo di funzionare di un sistema di forme di sapere,
legato ai fini ultimi dell’uomo: il sistema culmina nella morale, espressione della autonomia dell’essere razionale.
Kant, nel riproporre la filosofia come metafisica, e la metafisica come compimento di ogni cultura della ragione umana,
non sta ripercorrendo strade già battute, ma sta proponendo un progetto filosofico del tutto nuovo.

La sua impresa è stata percepita dalla cultura del suo tempo come opera di distruzione, nel senso di de-costruzione
positiva, del sapere tradizionale; Mendelssohn parla del “Kant che tutto frantuma”. +La metafisica ha, come
speculazione, un valore limitato (di critica delle conoscenze) mentre acquista il suo senso positivo nell’ambito morale,
in relazione ai fini dell’agire umano (chiarisci).

La filosofia si configura come quel terreno peculiare sul quale ha luogo la lotta, tra filosofi, per la conquista del campo
semantico delle parole, e ciò è particolarmente evidente in Kant; persino la METAFISICA rinasce a nuova vita con
Kant.

PRIMA DI KANT: La metafisica è un edificio di conoscenze riguardanti enti soprasensibili, intelligibili.

CON KANT: La metafisica è una teoria della possibilità e dell’uso delle diverse forme di esperienza umana, e ne indica
le condizioni e il senso, senza pretendere di costruire un particolare sapere di oggetti non accessibili empiricamente.

La metafisica e la conoscenza

Quando nella parte finale della critica Kant riassume il quadro del sapere e il ruolo in esso ricoperto dalla metafisica, ha
già compiuto un lungo percorso di analisi, muovendo dalle perplessità che matura nel periodo precritico nei riguardi
dello statuto nella conoscenza metafisica sino alla I stesura della critica.

La crisi della metafisica era dovuta a molti fattori: il modello newtoniano di scienza della natura, che si presentava
come solido e affidabile; l’ontologia non sostanzialista sottesa all’inagine fisico-matematica della natura, che risolveva i
fenomeni in funzioni; le critiche empiristiche alla possibilità di una conoscenza di enti sovrasensibili; le sue difficoltà
interne, le “scene di discordia e scompiglio” offerte da dispute senza vincitori che “rotolano all’infinito il loro sasso di
Sisifo”. Tuttavia, non è possibile per Kant voler fingere indifferenza riguardo a tali indagini, giacché il loro oggetto non
può risultare indifferente alla natura umana.

La questione del metodo della metafisica resta centrale nella riflessione Kantiana.

La questione della possibilità della metafisica si sviluppa in una straordinaria avventura di smontaggio del meccanismo
della conoscenza.

La questione: è possibile una metafisica come scienza? Produce domande ulteriori. Se la scienza è un genere di
conoscenza, la I e fondamentale domanda diviene: è possibile una scienza in generale?

*domandarsi circa la possibilità di una conoscenza in generale.

La componente minima identificabile nella conoscenza è quella del CONCETTO, che non costituisce come tale una
conoscenza poiché è rappresentazione generale, la quale si può riferire a una pluralità di oggetti. Albero: può riferirsi a
tutti gli alberi.

Il concetto non dice nulla, da solo; è solo il predicato di un giudizio possibile.

L’unità minima della conoscenza è il giudizio, unione di due concetti, un soggetto e un predicato: A è B.

I concetti, sono in Kant esclusivamente rappresentazioni, ovvero strumenti del conoscere umano; non hanno – in
Leibniz sì- fondamento in una essenza delle cose.

Il legame tra Soggetto Predicato in un giudizio ha il suo fondamento nelle operazioni del pensiero stesso.

Se conoscere è giudicare – giudicare è dividere, analizzare- per arrivare a comprendere tipi diversi di conoscenza
bisogna considerare portata e senso di tipi diversi di giudizi; Kant formula una distinzione poi divenuta celebre, dopo di
lui; ma è rilevante sapere che essa è capace di provocare, quasi da sola, la questione decisiva circa la metafisica.
Se il giudizio è il rapporto di un predicato con il soggetto, la loro relazione può essere di due tipi:

O il predicato B appartiene al soggetto A come contenuto implicitamente in esso, oppure B si trova completamente al di
fuori di A, pur essendo in connessione con esso.

Nel primo caso abbiamo i giudizi analitici, nell’altro giudizi sintetici; i I sono esplicativi, gli altri estensivi.

Questa distinzione assume un ruolo centrale nella riflessione kantiana.

Se si prende come esempio un concetto empirico di uso comune, albero, lo si può esplicitare nelle sue componenti –
NOTE- pianta costituita da tronco, rami, foglie. Il giudizio “tutti gli alberi sono piante” non fa che rendere esplicito il
predicato contenuto nel concetto; nel giudizio “tutti gli alberi sono combustibili” il predicato non è contenuto nel
concetto di albero, ma può esservi connesso.

Nel I caso: giudizi analitici, è il principio di identità a consentire di formulare il giudizio – Se A=BCD allora A=B: in
caso contrario affermerei sia che A=B, sia il suo contrario); nel II caso, giudizi sintetici, c’è bisogno di un altro
fondamento.

Tutto dipende dal concetto di partenza: se assumiamo la nozione cartesiana di corpo come ente esteso, tutti i corpi sono
estesi è analitico e tutti i corpi sono pesanti è sintetico; Kant non ha di mira un criterio per distinguere se un certo
giudizio è analitico o sintetico, gli interessa distinguere il principio in base al quale il giudizio viene formulato: il p.
logico di identità oppure un altro.

Il principio di identità consente di chiarire una conoscenza già posseduta; per acquisire conoscenza, accrescerla, bisogna
istituire connessioni prima non note.

Il campo e il ruolo della conoscenza analitica sono vasti, ma essa ha senso solo dove presuppone la possibilità di una
conoscenza sintetica (estensiva).

Questa distinzione tra i due modi di conoscere viene intrecciata con un’altra che riguarda due fonti possibili della
conoscenza: la distinzione tra una conoscenza a posteriori (rispetto all’esperienza) e una a priori (antecedente e
indipendente da essa).

La metafisica, al fine di essere REALE ACQUISIZIONE DI CONOSCENZA, dovrà contenere giudizi sintetici; tali
giudizi, essendo la metafisica scienza di ciò che oltrepassa l’esperienza, dovranno essere a priori.

La questione circa la possibilità della metafisica porta con sé quella su come sono possibili i giudizi sintetici a priori?
Più ampia, perché potrebbero esistere altre conoscenze indipendenti dall’esperienza e sintetiche.

Se si comprende come sono in genere possibili i giudizi sintetici indipendenti dall’esperienza, si può poi vedere se le
stesse condizioni sono rispettate nella metafisica: se, cioè, la metafisica come scienza è possibile.

La risposta di Kant sarà che la metafisica come ontologia, scienza dell’ente in generale, è possibile con una limitazione
all’oggetto dell’esperienza, mentre la metaphysica specialis, di enti determinati come Dio, anima e mondo (teologia,
psicologia e cosmologia) non è possibile come conoscenza, MA può esistere con carattere diverso. Emergerà una
metafisica in forme nuove, una trasformazione dell’ontolgia e una riformulazione della metafisica speciale.

Se l’analisi di forme di conoscenza a priori (per Kant sono scienze a priori la matematica e la fisica pura, cioè l’insieme
dei principi più generali della fisica) può dare indicazioni importanti, l’analisi della conoscenza a posteriori può dare
indicazioni su come si produca una conoscenza sintetica.

L’unione di concetti non esaurisce la natura della conoscenza umana; esiste un altro genere di rappresentazione,
L’INTUIZIONE, che differisce dal concetto in quanto non è GENERALE, ma SINGOLARE.

Il concetto si riferisce a una classe di cose aventi caratteristiche comuni (albero-alberi) attraverso tali caratteri
(alberi sono cose che hanno tronco, rami, foglie); l’intuizione si riferisce ad una singola cosa, immediatamente,
senza la MEDIAZIONE di caratteri comuni: percepisco questo albero.

Intuizioni e concetti fanno dunque riferimento a due fonti diverse della conoscenza: sensibilità e intelletto.

La sensibilità è facoltà passiva, riceve impressioni dai sensi.


L’intelletto è facoltà attiva, produce le sue rappresentazioni.

Ne deriva la seguente tesi: la conoscenza scaturisce soltanto dall’unione di queste due facoltà: senza sensibilità
nessun oggetto ci verrebbe dato, senza intelletto alcun oggetto verrebbe pensato.

I pensieri (Intelletto) senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti (Sensibilità) sono cieche.

Le due funzioni restano sempre distinte; l’intelletto non può intuire nulla, nulla possono pensare i sensi.

Solo dalla loro unione scaturisce conoscenza.

Nella tradizione filosofica precedente, tanto empirista quanto razionalista, le rappresentazioni erano viste ed inserite in
un orizzonte di continuità; esempio, nella filosofia leibniziana le rappresentazioni sensibili si distinguevano da quelle
intellettuali non per le opposizioni passività-spontaneità e singolarità-generalità ma per gradi di “definizione”: la
possibilità di distinguere in modo nitido (in quelle intellettuali) o di percepire in modo confuso (sensibili) le componenti
rappresentative interne (note).

Nel pensiero empirista, Hume, non vi è una separazione tra idee, immagini illanguidite, delle impressioni sensibili,
caratterizzate da un grado minore di vivacità.

Dunque, l’istituzione di una discontinuità tra le due forme rappresentative porrà a Kant il problema della loro
connessione, ma gli consentirà di affrontare in modo RADICALE la questione della possibilità della conoscenza.

Cosa congiunge soggetto e predicato in un giudizio sintetico?

Nell’ambito della conoscenza sintetica a posteriori è possibile fornire una risposta: l’esperienza che IO faccio
dell’oggetto, più precisamente l’intuizione sensibile empirica dell’oggetto.

Il concetto empirico si costruisce gradualmente; originariamente serve solo per indicare l’oggetto – come designazione-
per poi venir, man mano, arricchito dalle esperienze che vengono fatte.

Per scoprire la possibilità dei giudizi sintetici a posteriori, che escludono, anticipandola, il riferimento all’esperienza,
occorre addentrarsi nella peculiarità della conoscenza PURA, tenendo ferma la duplicità delle forme del conoscere
(Intelletto-sensibilità).

La critica deve verificare se esistono intuizioni e concetti puri, in grado di produrre conoscenze a priori –
sintetiche-.

Questo tipo di indagine sulla possibilità delle conoscenze a priori è indicato in modo peculiare da Kant: chiamo
trascendentale ogni conoscenza che si occupi non tanto di oggetti, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti,
nella misura in cui questo modo deve essere a priori; trascendentale è una conoscenza riguardante la possibilità di
una conoscenza a priori: una teoria della conoscenza a priori.

La filosofia trascendentale

Il nucleo “l’idea compiuta” della filosofia trascendentale è l’esame critico della ragione pura, anche se non coincide
tutto con esso: la critica procede solo fin dove è richiesto per poter giudicare in maniera completa la conoscenza
sistetica a priori, mentre la filosofia trascendentale dovrebbe contenere in modo completo le conoscenze sintetiche e
analitiche in questione. La filosofia trascendentale oltrepassa la critica in una metafisica dei costumi e una della natura.

Individuate due fonti della conoscenza (distinte) si tratta di comprendere se esse contengano principi che consentano
una conoscenza a priori; vanno sviluppate una scienza degli elementi a priori della sensibilità (estetica trascendentale,
l’uso del termine estetica – aisthesis- per indicare la scienza della conoscenza sensibile era una recente innovazione di
Baumgarten) e una scienza degli elementi a priori dell’intelletto (logica trascendentale).

La logica trascendentale si suddividerà in Analitica trascendentale, ovvero l’analisi degli elementi della conoscenza
pura, e una dialettica trascendentale, l’esame della conoscenza solo apparente e delle ragioni di tale parvenza.
Kant esclude la possibilità di una intuizione intellettuale, ma ciò non impedisce di individuare due intuizioni sensibili
ma PURE, ovvero scevre da componenti empiriche: spazio e tempo. Le rappresentazioni dello spazio e del tempo sono
r. di una singolarità, dunque intuizioni.

Kant ritiene che spazio e tempo non siano proprietà delle cose, bensì forme funzionali ad ordinare le rappresentazioni
sensibili. Se possono concepire cose fuori dello spazio e del tempo, non posso percepire cose fuori di essi – sono
condizioni di ciò che è dato alla sensibilità-. Non valgono per qualunque ente pensabile e sono ideali, non dati nelle
cose. Sono invece oggettivi in quanto le relazioni che istituiscono valgono necessariamente per gli oggetti che ci sono
dati, gli unici: quelli rappresentati nella sensibilità.

Da questa teoria scaturiscono conseguenze rilevanti circa la possibilità di conoscenze sintetiche a priori: lo spazio sta a
fondamento della geometria, che deve il suo carattere sintetico e la sua validità per le cose reali al riferimento ad una
intuizione a priori, la quale oltrepassa – come l’intuizione empirica- ciò che è contenuto nei concetti.

Il tempo come intuizione pura è una condizione per concepire il mutamento, alla base della teoria generale del
movimento, ed è condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale.

In analogia alla possibilità di conoscenze sintetiche a posteriori, che richiedono il riferimento a intuizioni empiriche, si
manifesta la possibilità di conoscenze SINTETICHE a priori, ed emerge la sua condizione insieme al suo limite: esse
possono valere SOLO per gli oggetti che si danno nello spazio e nel tempo, gli oggetti di un’esperienza sensibile.

Kant riprende la distinzione tra fenomeni e noumeni delineata nella dissertazione del 1770.

Gli enti rispetto ai quali è possibile una conoscenza sintetica a priori sono i fenomeni, ciò che si manifesta ad un
soggetto dotato di sensibilità, ed essa è possibile perché sono fenomeni.

Si trasformano campo e metodo dell’ontologia o metafisica generale: essa non si rivolge più agli enti in quanto tali, ma
solo ai fenomeni o enti del mondo fisico.

Ci si può, limitatamente alla sfera dell’esperienza possibile, chiedere a quali condizioni i fenomeni si manifestano a noi,
rilevando quali caratteri devono avere se devono essere a noi manifesti; l’intuizione da sola non dà conoscenza, dunque
dovrà essere indagato il ruolo dell’intelletto, e le condizioni intellettuali, non sensibili della manifestazione dei
fenomeni; l’intelletto non potrà fare altro a priori che anticipare la forma di una possibile esperienza in generale e,
poiché ciò che non è fenomeno non può essere oggetto di esperienza, l’intelletto non potrà oltrepassare i limiti della
sensibilità, limiti entro i quali – o confini- gli oggetti ci vengono dati.

Kant cerca di rendere comprensibile questa trasformazione del metodo dell’ontologia tramite un’analogia con la
rivoluzione copernicana: come Copernico ha cambiato il punto di vista, facendo ruotare la terra, immobile nel sistema
tolemaico, attorno al sole, così la filosofia trascendentale non deve muovere da pretese proprietà dell’ente, ma dal modo
in cui è possibile accedere all’ente, e cercare in esso i caratteri a priori di qualsiasi fenomeno in quanto tale.

Il punto metodologico di partenza non è l’oggetto, ma il soggetto, la sua rappresentazione; se finora si riteneva che la
conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti, Kant tenta di comprendere se non sia possibile adempiere meglio ai compiti
della metafisica (Dati i limiti di un tale procedere tradizionale, poiché i tentativi di stabilire qualcosa a priori sugli
oggetti mediante dei concetti, qualcosa con cui venisse estesa la nostra conoscenza, sono finiti in niente) ammettendo
che siano gli oggetti a doversi adeguare sulla nostra conoscenza.

Se si deve raggiungere la comprensione della possibilità di una conoscenza a priori, occorre stabilire come possano
valere per i fenomeni dei giudizi che siano sintetici e a priori, dunque dei CONCETTI PURI.

In che modo il pensiero (intelletto) può essere condizione dei fenomeni?

L’idea di base di Kant è che tra le operazioni dell’intelletto nei giudizi e la percezione sensibile vi sia unità di fondo:
la stessa funzione dell’intelletto che unifica delle rappresentazioni in un giudizio, è anche in grado di unificare le
rappresentazioni in una INTUIZIONE.

Al giudizio, come unione di concetti, corrisponde un’unificazione della molteplicità di dati che la percezione sensibile
ci presenta, e un’unificazione diversa a seconda della forma di unificazione pensata nel giudizio.
Le tipologie di giudizio possibili daranno luogo a operazioni diverse dell’intelletto in rapporto alla sensibilità. Kant
ritiene di poter identificare tutte le funzioni logiche di unificazione di concetti in una tavola completa dei giudizi, visti
come funzioni dell’unità delle nostre rappresentazioni, e di poter da essa ricavare una tavola di concetti puri
dell’intelletto o categorie.

Esse sono concetti di un oggetto in generale, per mezzo dei quali si considera l’intuizione di quell’oggetto in quanto
determinata rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare. Si tratta di modi di unificare ciò che ci si manifesta nei
fenomeni, regole per decifrare ciò che vediamo: per compitare i fenomeni, per poterli leggere come esperienza; queste
regole sono a priori, ma non sono idee innate, sono semplici regole per leggere l’esperienza, decodificarla, che non
riceviamo da essa, ma non sono nulla e non sussistono senza esperienza; i concetti puri sono originariamente acquisiti,
nascono con l’esperienza ma non da essa.

La conoscenza si rivela come un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e ciò che la nostra propria
facoltà conoscitiva – provocata da impressioni sensibili- apporta da sé.

Sono così possibili dei giudizi sintetici a priori in relazione agli oggetti di una possibile esperienza: si tratta di regole
presupposte prima di svolgere ogni esperienza, ma che consentono di svolgerla; i principi o proposizioni fondamentali
dell’intelletto puro.

Kant identifica 12 forme di giudizio, dunque altrettante categorie, suddivise in IV gruppi: quantità, qualità, relazione e
modalità.

I principi che corrispondono ai primi gruppi di categorie sono che: tutte le intuizioni sono quantità estensive, e che in
tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una quantità intensiva, cioè un grado: i principi della
matematizzazione dei fenomeni.

Il principio corrisponde alle categorie della relazione (ovvero che l’esperienza è possibile soltanto mediante la
rappresentazione di una connessione necessaria delle rappresentazioni) si articola in III aspetti.

Vi saranno III principi legati alle categorie di relazione che prendono il nome di ANALOGIE DELL’ESPERIENZA:

1:In ogni cambiamento dei fenomeni, la sostanza permane e il quantum di essa nella natura non viene né accresciuto né
diminuito (PERMANENZA DELLA SOSTANZA).

2: Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa-effetto (causalità)

3: Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano tra loro in azione reciproca
universale (azione reciproca).

Le categorie della modalità non contribuiscono a prefigurare un oggetto in generale ma indicano solo diverse forme di
rapporto con il soggetto conoscente, che finiscono per caratterizzare l’oggetto di esperienza come possibile, reale o
necessario.

La limitazione della conoscenza a priori al campo dell’esperienza possibile poteva essere attacata sia dai sostenitori
della metafisica tradizionale sia da coloro che negavano in modo radicale la possibilità di una conoscenza a priori; Kant
affida il compito di dimostrare che siamo in possesso di conoscenze sintetiche a priori a una DEDUZIONE
TRASCENDENTALE delle categorie, a una legittimazione del loro possesso in quanto concetti puri, in cui si gioca il
destino della rivoluzione copernicana in filosofia;

in questa argomentazione, che Kant considerava la ricerca più importante esistente riguardo alla facoltà dell’intelletto –
ne scrisse anche un'altra versione per la II edizione della critica, del 1787- emerge il ruolo dell’IO.

Gli oggetti dell’esperienza, i fenomeni, non sono sostanze la cui natura è determinata da una essenza concettuale, ma
insiemi di relazioni regolate.

Se non vi è un’unità sostanziale nelle cose che fonda il presentarsi relazionale dei fenomeni – come con le monadi
leibniziane che fondano le manifestazioni fenomeniche dei corpi- la loro unità può essere garantita soltanto dalle regole
dell’atto di composizione. Delle relazioni non vi possono essere senza un soggetto che le riconosca; il semplice esser-
date delle cose, il loro presentarsi, non contiene alcuna unità, alcun collegamento. La sensibilità, in quanto tale, offre,
per Kant, un MOLTEPLICE senza UNITA’, una rapsodia di sensazioni. Qualunque unità dorge da un processo attivo,
dall’operazione di composizione da parte di un soggetto, della sua facoltà attiva:l’intelletto.

Il soggetto delle operazioni intellettuali, l’io penso o autocoscienza trascendentale o appercezione trascendentale, ha un
ruolo cruciale.

Le operazioni di composizione devono fondarsi su un punto isso, che fa da sostrato di tutti i pensieri, l’io quale funzione
di unificazione – non realtà psicologica-.

Per poter dimostrare la validità oggettiva delle categorie è necessario tener fermo l’assunto per il quale essa ha tanta
certezza quanto ne ha l’autocoscienza dell’atto io penso: le due cose si co-implicano.

Qualunque rappresentazione, anche l’intuizione, deve sottostare alle condizioni che le permettano di esistere insieme
alle altre in un'unica autocoscienza universale; tutte devono poter coesistere – ovvero essere unificate- in una
autocoscienza u.

Se da un lato le rappresentazioni non possono costituire conoscenza se non unificate in un identico IO che faccia da
sostrato, dall’altro l’io deve la sua identità alla sintesi delle rappresentazioni, regolata dalle categorie.

In definitiva, la validità delle categorie come condizioni cui deve sottostare ogni intuizione per essere conosciuta, ha la
stessa solidità dell’autocoscienza: non si può ammettere quest’ultima senza ammettere la validità delle forme a priori
dell’unificazione.

Smarrimento e trasfigurazione della metafisica

l’analisi della possibilità della conoscenza a priori non esaurisce l’autocritica della ragione. La scoperta di un campo
limitato in cui una conoscenza a priori è possibile, implica l’esclusione di una conoscenza a priori su altri tipi di oggetti,
quelli che nessuna esperienza possibile può includere.

I temi più classici della metafisica, che Kant trova praticata nel suo tempo – Dio, anima e mondo- non sono oggetto di
una conoscenza legittimabile.

È importante notare che anche qui, nella pars destruens dell’auto-esame della ragione, il percorso filosofico svolto da
Kant porta ad una serie di acquisizioni positive, a delinare un immagine della ragione diversa da quella di una semplice
facoltà di conoscenza di enti sovrasensibili, ma anche da quella di una capacità che giri a vuoto; il filo conduttore dato
dall’analisi delle forme logiche del giudicare porta a una distinzione tra aspetti della ragione in senso generico.

La facoltà dei concetti o delle regole , di formulare giudizi, è l’intelletto.

Quella di applicare i giudizi, di giudicare in senso pieno, è la facoltà di giudizio.

La capacità di inferire, cioè di collegare tra loro giudizi per ricavarne conoscenze, è la ragione.

La ragione deriva il particolare dall’universale: le inferenze della ragione sono chiamate sillogismi, derivazione di
conseguenze da una premessa che vale come principio generale.

Se si assume il punto di vista trascendentale, ovvero si considera in che misura questa facoltà possa dar luogo solo a
conoscenze a priori, ne risulta che una conoscenza scaturita dalla sola ragione è IMPOSSIBILE.

La ragione conserva una funzione relativa al conoscere; le conoscenze devono organizzarsi in unità, così come i
fenomeni vengono unificati dai concetti, e ciò comporta la ricerca di condizioni sempre più universali, che tendono a
principi non condizionati.

La ragione cerca l’incondizionato, la totalità delle condizioni; compito della ricerca è interpretare, senza cancellarla,
questa tendenza della ragione umana, stando attenti ad eliminare l’inganno nato da un malinteso; si può produrre
semplice conoscenza illusoria, parvenza, che ha come esito un conflitto della ragione con sé stessa che Kant chiama
dialettica. Ma è anche possibile individuare un esercizio corretto di questa facoltà, l’uso regolativo della ragione.
Le rappresentazioni proprie della ragione sono chiamate da Kant IDEE, concetti che esprimono una totalità delle
condizioni, che non può MAI essere oggetto dell’esperienza.

Le idee scaturiscono come rappresentazione di una unità incondizionata. Il problema è che quasi inevitabilmente
vengono intese come rappresentazioni di enti soprasensibili, come concetti di cose. Così intese generano malintesi,
conoscenze apparenti, in sé aporetiche: le idee di anima mondo e Dio (vedremo che hanno solo funzione normativa,
regolativa).

La dialettica trascendentale diviene l’analisi dei procedimenti concettuali che producono le idee come concetti illusori
nonché la dissoluzione delle aporie che ne conseguono, attraverso la nuova prospettiva offerta dalla distinzione tra
fenomeni e cose in sé.

I conflitti si dissolvono se si considera che le cose del mondo sono fenomeni, e per esse non possono valere condizioni
riferite dalla ragione alle cose in quanto tali, cioè in sé. È proprio l’aver trascurato questo fattore che ha generato le
vecchie metafisiche.

L’esito dei paralogismi della ragione, ragionamenti distorti e solo apparentemente concludenti che fanno del soggetto
dei pensieri una sostanza semplice, immortale- è la psicologia razionale.

L’idea di mondo come totalità incondizionata, oggetto della cosmologia razionale, non genera ragionamenti erronei ma
un’antitetica della ragione, il presentarsi di tesi contraddittorie che risultano entrambe indicibili: un dissidio interno
della ragione con sé stessa – antinomia- che si articola in IV conflitti, riguardanti l’esistenza o meno di un limite del
mondo nel tempo, nello spazio, di parti semplici nel mondo, di una causalità mediante libertà distinta da quella
meccanica, di un essere necessario nella serie delle cause.

Valore storico assume l’analisi dell’idea propria della teologia razionale, idea di una unità e condizione assoluta di tutti
gli enti pensabili corrisponde all’idea di un ens realisssimum, Dio, che contiene in sé tutte le realitates, le proprietà
positive delle cose.

Il malinteso consiste nello scambiare la presenza di un ideale (idea di una cosa singola) che ha la funzione di rendere
pensabile la necessaria determinazione delle cose, con l’esistenza di un ente; un modello ideale viene trasformato in un
oggetto reale.

Kant si spinge oltre l’analisi dell’uso distorto dell’idea: vi è anche un cammino naturale che intraprende ognu umana
ragione, consistente nel cercare, a partire dall’esperienza comune, un fondamento necessario senza il quale quel terreno
sprofonderebbe.

Questa pretesa si traduce in III forme di argomentazione filosofica:

la dimostrazione di una causa suprema a partire dall’esistenza del mondo fisico – prova fisico-teologica.

La dimostrazione dell’esistenza di un ente necessario a patire da qualunque esistenza – prova cosmologica-

La dimostrazione della necessaria esistenza di un ente realissimo in base al suo solo concetto – ontologica-.

Kant svolge un analisi di queste III prove, guardando con minore severità solo la I, alla quale pretende sia sottratto il
carattere di prova: bisogna abbandonare il linguaggio dogmatico di una argomentazione sprezzante, riportandolo al tono
di moderazione di una fede che basta a tranquillizzare.

Il senso filosofico e la portata della critica alla prova ontologica oltrepassano gli ambiti della disciplina della teologia
razionale. Tramite essa Kant presenta una ontologia radicalmente nuova rispetto a quella leibniziana, colpendo la
possibilità di un passaggio tra la dimensione dell’essenza (coincidente con la dimensione del possibile) e quella
dell’esistenza:

l’essere non è un predicato reale, e così il reale non contiene niente più del mero possibile: cento talleri reali non
contengono nulla più di cento talleri possibili. Ma nel mio stato patrimoniale c’è più nel caso di cento talleri reali che
nel mero concetto di essi – nella loro possibilità-.
Nella realtà, l’oggetto non è contenuto in modo analitico nel mio concetto, ma si aggiunge in modo sintetico al mio
concetto. Kant non distingue semplicemente tra concetto e realtà, ma afferma che sono in gioco II piani ontologici TRA
LORO IRRIDUCIBILI.

Intese nel loro senso regolativo come principi di orientamento per il procedere dell’intelletto, e non come fonti di
conoscenza, le idee conservano un uso indispensabile: producono unità nelle conoscenze dell’intelletto, spingendolo a
ricercare la maggiore unità ed estensione possibile.

Le linee direttive delle regole dell’intelletto convergono verso un unico punto, un focus imaginarius, che resta
irragiungibile ma funge da regola euristica.

La ragione può procedere come se: unificare i fenomeni psicologici come vi fosse una sostanza, proseguire nel regresso
empirico alla ricerca delle cause come se si potesse giungere ad una causa prima; ricercare qualcosa di necessario per
tutto ciò che è esistente, agire come se fosse possibile raggiungere una spiegazione completa del tutto.

Questa ricerca di unità produce un presupposto trascendentale: quello dell’unità sistematica della natura. La necessità di
cercare una tale unità si traduce in regole, delle massime “nascoste nei principi dei filosofi” come quella secondo cui i
principi non vanno moltiplicati senza necessità, presupponendo che vi sia in natura una unità delle proprietà
fondamentali, omogeneità dell’esperienza; o quella che prescrive all’intelletto di prestare attenzione alle specie, di
proseguire l’analisi delle differenze alla ricerca dell’eterogeneità.

E infine, deve venire presupposta anche l’affinità tra fenomeni, la possibilità di poterli collegare mediante una crescita
progressiva delle diversità.

Si pone un problema ulteriore rispetto a quello della concettualizzazione delle intuizioni attraverso le categorie, il
problema dell’esperienza come un tutto organizzato, come sistema, che i soli principi dell’intelletto non riescono a
dominare.

Ma nell’uso regolativo delle idee emerge anche il carattere teleologico, finalistico della ragione.

I concetti di totalità, pensati come regole orientative per il procedere dell’intelletto, danno luogo a scopi, indicano fini
che la conoscenza deve perseguire nel suo svolgersi.

Il riferirsi a scopi, ovvero avere una progettualità, è il tratto più proprio della ragione

Il compimento della ragione: la ragion pratica e la libertà

Il concetto più autentico di filosofia per Kant, quello di filosofia in senso cosmopolitico, concepiva la filosofia come un
sapere culminante nella saggezza.

La critica della metafisica non si risolve in un esito solo negativo, poiché finisce per liberare uno spazio per un discorso
razionale che non coincide con la conoscenza di enti sovrasensibili.

L’individuazione dell’esperienza possibile come unico campo della conoscenza limita le pretese di quel tipo di sapere
modellato sulla conoscenza delle cose sensibili, di esaurire ogni forma di ragionevolezza.

Il concetto di noumeno assume il senso di un concetto-limite, funzionale a circoscrivere la pretesa della sensibilità,
lasciando libero un diverso ambito discorsivo: quello del pensabile.

Kant lo esprime asserendo: ho dovuto mettere da parte il sapere per far posto alla fede; fede qui si identifica con una
modalità del ritener vero, dell’assenso (diversa dall’opinione e dal sapere) che si distingue dalla conoscenza vera e
propria, ma alla quale va accordata una certa legittimità; se non può esser oggetto di conoscenza, il “luogo-non luogo”
indicato dalla cosa in sé che la ragione speculativa ha dovuto “lasciar vuoto” può essere riempito da un discorso legato
alla dimensione del dover essere, proprio della ragion pratica che regola l’agire dell’uomo.

- I temi che rivestivano per la ragione un grande interesse risultano subordinati ad un domandare più
radicale: si riferiscono a uno scopo più remoto, a cosa si debba fare se la volontà è libera, se esiste un Dio
e se vi è un mondo futuro.
Lo scopo morale, da intendersi come possibilità concreta di rispondere alla domanda circa un principio ASSOLUTO
dell’azione, assorbe in sé e permette di rispondere alle altre domande.

La logica propria della domanda “cosa devo fare?” introduce una dimensione diversa da quella conoscitiva; le ragioni
che spingono a volere, gli stimoli sensibili, non possono mai per Kant produrre il dovere, ma solo un volere che è
lontano dall’esser necessario, ed è sempre condizionato.

Qual è la dimensione che si apre con la domanda circa il dovere?

La ragione non si arrende a un fondamento che sia dato solo empiricamente, e non segue l’ordine delle cose così come
esse si presentano nel fenomeno, ma si costruisce con piena spontaneità un proprio ordine secondo idee.

La ragione in ambito pratico ricerca un fondamento assoluto, e si pensa come in grado di agire in base a esso nel
mondo. Il problema di fondo della ragion pratica diviene allora: come è possibile che la ragione eserciti una causalità,
distinta da quella empirica? Come può la ragione auto-determinarsi e determinare l’azione?

All’analisi di questa questione, Kant dedica La fondazione della metafisica dei costumi del 1786 e la Critica della
ragion pratica, dell’88.

In modo analogo a come procedeva nell’analisi della conoscenza, individuando nel GIUDIZIO il suo elemento basilare,
e analizzandone le tipologie (sintetico a posteriori, sintetico a priori, analitico – sempre a priori) Kant cerca di
identificare gli elementi “primi” del discorso pratico. Le proposizioni normative, non conoscitive, sono chiamate regole
pratiche ed indicano un dover-essere.

Le regole pratiche, proposizioni normative che indicano un dover-essere, possono essere principi tecnico pratici o
prescrizioni, ovvero quelle regole che dicono come devo agire in rapporto a uno scopo arbitrario, che riguardano la
scelta di mezzi appropriati per un determinato fine.

Pur trattandosi di regole per l’azione, esse prevedono una valutazione strumentale di condizioni funzionali a produrre un
certo effetto: se io voglio costruire una casa, la scelta dei mezzi più appropriati per realizzare questo scopo è un aspetto
tecnico della ragione teoretica. Di fatti appartengono più propriamente alla ragione teoretica. Analogamente se voglio
perseguire uno scopo nella mia vita.

All’interno dei principi tecnico-pratici, a seconda se lo scopo sia arbitrario o dato dalla natura dell’uomo (es. la ricerca
della felicità) distinguiamo regole dell’abilità e consigli della prudenza. Questi ultimi sono detti consigli poiché il
contenuto in cui si ripone la felicità può variare.

Le regole pratiche possono essere anche principi pratico-morali (II).

Queste regole riguardano la scelta dei fini, non solo la valutazione dei mezzi.

I principi pratico morali si suddividono in II tipi:

massime e leggi.

Le massime sono principi che hanno solo valore soggettivo – mi propongo di trattare con gentilezza le persone-.

Le leggi sono principi che hanno valore oggettivo.

Individuare la legge, una legge, che orienta la libera azione umana è il problema centrale della morale.

Per una volontà santa, che sia in sé conforme alla ragione.

La regola non ha carattere di costrizione.

Per gli uomini, tuttavia, che non sono guidati solo dalla ragione, alcune regole pratiche assumono il senso di un
comando, cioè di un principio oggettivo costrittivo per una volontà; analizzando poi la struttura logico-linguistica dei
comandi, la loro formula emerge che essi contengono l’espressione di un dover essere.
A una proposizione che contenga il verbo dovere, inteso in tal senso, alla formula del comando, Kant, con una
innovazione terminologica che entrerà di diritto nella storia del pensiero morale, dà il nome di imperativo.

Gli imperativi sono le proposizioni che contengono un’espressione di dovere che non coincidono con una necessità
fisica, ma che indica piuttosto un compito, qualcosa da compiere.

Nella lingua di Kant questi due sensi di dovere sono espressi da due verbi modali diversi, mussen e sollen.

Gli imperativi si possono definire “formule per esprimere il rapporto di leggi oggettive del volere in generale con la
imperfezione soggettiva della volontà di questo o quell’essere razionale, per esempio della volontà umana.

Kant individua II tipi principali di imperativi; quello ipotetico, in cui il dovere è condizionato da un’ipotesi, uno scopo
di per sé non necessario – se vuoi laurearti, devi studiare e dare gli esami-.

Quello in cui il dovere non è sottoposto a condizioni, ma l’azione è presentata di per sé necessaria, l’imperativo
categorico.

Per Kant ne esiste soltanto uno, seppur esprimibile in diverse formulazioni.

Affermando la necessità di un’azione, un imperativo ne dà una valutazione: l’azione è vista come buona, o
relativamente a uno scopo, come mezzo per un fine (in un imperativo ipotetico) oppure come buona in sé,
incondizionatamente (categorico).

La valutazione scaturisce dalla forza prescrittiva delle regole dell’agire; si può notare come dai II tipi di imperativo
scaturiscano II sensi diversi di buono.

Ciò che è indicato come tale dall’ipotetico, è buono nel senso che è “funzionale” cioè adatto a produrre uno scopo (un
martello è buono se è adatto a piantare un chiodo). Se un’azione è buona, senza riferimento ad uno scopo, ha valore in
sé, non è oggetto di un esame tecnico.

L’imperativo categorico sembra aprire un orizzonte di discorso del tutto diverso, quello morale.

Cosa valutiamo quando stabiliamo la bontà morale (assoluta) e non l’efficacia di un’azione?

La proposizione da cui scaturisce la valutazione di bontà è quella che indica un dovere. Buona risulterà l’azione che
corrisponde a quel dovere.

Se è un dovere non raggirare le persone, sembrerà buona l’azione di un commerciante che non ricavi guadagno tramite
un trucco, ovvero truffando, magari vendendo merce scadente.

Ma se il commerciante agisce in modo corretto per proprio vantaggio, ad esempio per aumentare la cientela?

In questo caso l’azione non ci sembra morale, ricadendo in una valutazione condizionata da uno scopo: nella
valutazione di adeguatezza propria di un imperativo ipotetico.

Non basta che l’azione come tale corrisponda al dovere.

Kant distingue: un’azione conforme al dovere / un’azione compiuta per dovere.

Solo la II sembra aver titolo per una valutazione morale.

L’azione, pur conformandosi ad una regola, può essere motivata da altro, tendere ad altri fini.

La valutazione morale, per questo, non deve rivolgersi all’azione.

Per Kant c’è un solo oggetto cui può essere attribuito in senso morale e non tecnico l’attributo della bontà,
quest’oggetto è la volontà.

Anche qualità positive, virtù, non sono tali incondizionatamente ma solo se orientate ad una volontà buona.

La stessa felicità non sembra avere valore incondizionato, perché una felicità di qualcuno che non mostri una volontà
buona non è oggetto di apprezzamento morale.
Kant passa all’analisi della volontà buona, dunque alla sua descrizione perché appunto essa possa esser definita buona.

Kant esclude che una volontà sia buona per ciò che attua ed ottiene, poiché il risultato non è interamente nel potere della
volontà, e da un’azione malvagia può conseguire un risultato buono o viceversa, ed esclude che lo sia per la capacità di
attuare quello che si propone.

Neanche l’intenzione, lo scopo che si prefigge volontariamente chi agisce, è ciò che conta: l’animo umano non è
completamente trasparente a sé; dunque, è sempre possibile che il nostro auto-esame ci inganni e che un latente impulso
dell’amor di sé (egoismo) sia la vera causa dell’agire.

Ciò che viene giudicato è l’intero principio dell’agire, la regola pratica che la volontà da a sé, ossia: la massima del
volere.

È la massima della volontà, il principio che organizza e orienta una serie di azioni l’oggetto autentico della
valutazione morale.

Una massima può essere quella per cui mi ripropongo di non ingannare le persone, ad esempio; non ci chiediamo quale
sia il risultato dell’azione, cosa si pensava di ottenere, ma ALLA LUCE DI QUALE PRINCIPIO ESSA SI SIA
PRODOTTA E SE SIA VALIDO QUEL RPINCIPIO.

In base a quale criterio si valuta la massina? Il criterio che deve rendere necessaria un’azione non deve essere
condizionato da un fine ulteriore, questo è l’assunto di base per rispondere a questa domanda-guida.

Non può essere un imperativo ipotetico, né può scaturire da un’analisi del modo in cui gli uomini agiscono
(Antropologia empirica) perché ciò non porta con sé alcun dovere incondizionato.

L’ambito in cui il criterio della moralità è da ricercarsi è quello di una filosofia pura, o a priori: la metafisica dei
costumi.

La questione circa la possibilità di una metafisica dei costumi si pone in modo diverso da quello relativo alla possibilità
di una metafisica speculativa (Critica ragion pura); lì la ragione doveva mostrare di conoscere legittimamente a priori
qualcosa fuori di sé, ora la ragione deve mostrare di poter-essere principio dell’azione, di poter-essere pratica.

Deve dimostrare cioè che c’è un principio puro, solamente razionale da cui scaturiscono azioni, e nient’altro.

Abbiamo visto che gli imperativi ipotetici non sono in realtà parte di una ragione pratica. Se c’è un imperativo
non ipotetico, allora c’è ragion pratica, che esiste soltanto se è pura.

Kant dedica II opere a delineare la possibilità di una metafisica dei costumi, la Fondazione della metafisica dei
costumi e la critica della ragion pratica, con il medesimo obiettivo: quello di individuare un principio
ASSOLUTO del volere.

Le procedure sono diverse: la prima muove dalla conoscenza morale comune, per trovare in essa il principio da
chiare filosoficamente in una metafisica dei costumi.

La seconda parte dai principi scaturiti da un’analisi concettuale, per dimostrare la realtà, la capacità di
determinare la volontà di tali principi.

Entrambe lasciano lo spazio ad una vera e propria METAFISICA DEI COSTUMI, che appare nel 1797, che
determini un sistema dei doveri in relazione alla natura umana, sulla base del principio della moralità.

Kant che vuole fare: trovare una legge che valga incondizionatamente.

Per fare questo, è necessario considerare che essa non può riferirsi a nessun oggetto particolare da considerare
come desiderabile.

Se rappresentandosi un certo stato è possibile che si generi una certa volontà – di attuarlo, di renderlo concreto- la
relazione che si crea tra soggetto e oggetto è di “piacere” e dipende dalla natura particolare del soggetto, dunque non
può fondare una legge necessaria, ma può dar luogo a una massima soggettiva, quella di raggiungere la felicità: la
coscienza della piacevolezza della vita, che guida l’azione degli uomini. Il contenuto di felicità, tuttavia, dipende dai
desideri; dunque, può differenziarsi in base ai soggetti.
Se nessun oggetto del volere può essere fonte di un volere necessario, il principio deve essere di tipo FORMALE, non
cosa desiderare, ma COME: in quale forma!

La forma di una legge, tolto il suo contenuto, viene a consistere nella sua universalità, nel suo valere per chiunque.

È questa l’unica forma a fornire il principio pratico incondizionato.

Il criterio di valutazione delle massime è individuato: sarà buona quella massima, e la volontà che la assume, adatta a
qualificarsi come legge universale.

La formula dell’imperativo categorico è la seguente: agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere
sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale.

Kant parla di un fatto della ragione, di qualcosa che ci si impone di per sé stesso (in ciò sta la peculiare concezione della
libertà kantiana) con la perentorietà di un fatto.

Un essere razionale non si sente obbligato a riflettere sui fini della propria azione, se non è effettivamente obbligato a
seguire fino in fondo la propria razionalità, dunque guardando – teoreticamente- alla propria massima come ad una
legge, come se dovesse essere legge universale.

La legge morale è la struttura implicita nel ragionamento morale di ogni uomo; Kant non ritiene di aver “scoperto un
nuovo principio morale” ma di aver indicato una formula precisa di esso, che può costituire una guida perl a ragione
comune.

La peculiarità dell’etica kantiana consiste nell’aver delineato un principio che la ragion pratica trova in sé, senza
derivarlo da alcunché, né da una fede religiosa né da una conoscenza teoretica, dunque da un ordine del mondo cui
conformarsi.

In questo senso la ragione è LEGISLATRICE, e il modello del filosofo come legislatore della ragione umana trova qui
piena espressione.

Il discorso razionale trova il suo apice nella possibilità di auto-legislazione legata all’agire umano, che implica il
concetto di libertà.

La volontà razionale, o ragion pratica (sono lo stesso) deve essere libera, indipendente da impulsi sensibili (libertà
negativa, cioè libera-da) e libera di determinare la propria legge (legislazione autonoma, libertà positiva).

Dal momento che questo concetto non trova spazio nel mondo sensibile, si ripresenta un problema metafisico.

La soluzione, tuttavia, non sta in un’affermazione “diretta” ovvero in una tesi teoretica sulla libertà. La libertà (entro
l’orizzonte etico-pratico) non è conoscibile, ma deve essere ammessa come idea, come presupposto dell’agire razionale.

Una volta ammesso che l’essere razionale che riconosce la legge morale non può agire se non sotto l’idea della libertà –
presupponendosi e pensandosi libero- ciò equivale a dire che “è per ciò stesso libero dal punto di vista pratico, ovvero
per esso valgono tutte le leggi che sono inseparabilmente connesse con la libertà proprio come se la sua volontà fosse
spiegata come libera anche in sé, e in modo valido per la filosofia teoretica”.

Nessuna conoscenza viene raggiunta, ma nella prospettiva dell’agire morale, non c’è differenza con ciò che avverrebbe
se tale idea fosse effettivamente conosciuta (Essendo formale):

è dunque la coscienza della legge morale a costringerci a pensarci come se fossimo liberi.

La libertà è dunque la condizione della legge morale (essa non avrebbe senso se non fossimo liberi, e scaturisce dalla
stessa libertà) la coscienza della legge morale è la condizione per la coscienza di essere liberi: la libertà è la ratio
essendi della legge morale, la ragione che la fa essere; se non fossimo liberi non potrebbe esistere neppure l’autonomia
della volontà; la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà (la ragione che la fa conoscere).

Kant riformula il senso in cui un mondo intelligibile può essere in gioco: non più come regno di cose soprasensibili, ma
come punto di vista (vedi Fichte).
L’agente razionale deve assumersi come membro di esso, perché a ciò “lo costringe, suo malgrado, l’idea della libertà”:
il mondo intelligibile viene a coincidere con la necessità di una prospettiva valida per tutti, che la stessa ragione
propone! L’individuazione del principio della moralità come principio DI UN USO NON CONOSCITIVO DELLA
RAGIONE, lascia aperto un problema, quello del rapporto tra la moralità delle azioni – che per Kant rende un uomo
degno di essere felice- e il corso del mondo.

È possibile pensare un sommo bene, ossia unione di virtù e felicità?

L’azione conforme al dovere è spesso in contrasto con la felicità personale, presentando il controsenso del
realizzarsi un dovere razionale in un mondo irrazionale. Come agisce Kant di fronte a questo dissidio?

Provando a ricomporlo -esso si presenta nella dialettica naturale in cui la ragione tenta di ingannare sé stessa proprio
perché avverte questo contrasto – attraverso LA DOTTRINA DEI POSTULATI DELLA RAGION PRATICA.

I postulati: sono proposizioni teoretiche ammissibili soltanto da un punto di vista pratico, per orientare l’azione
dell’uomo nel mondo, ma non sono conoscenze teoretiche; non dogmi, quanto piuttosto supposizioni funzionali a dare
contenuto – realtà oggettiva- a concetti che resterebbero vuoti; acquisiscono uso pratico che consiste nel consentire di
vivere come se fossero veri, di pensare come possibile una riconciliazione tra la virtù e il corso del mondo

Consentono di seguire la legge morale, di osservare i suoi precetti senza dissidio della ragione. I postulati “autorizzano
concetti” come quelli di anima e Dio, i quali non divengono strumenti di conoscenza quanto Possibilità che rendono
sensato l’ordine dell’azione. Si profila il primato della ragion pratica su quella teoretica; la ragione, nel suo uso pratico,
può trovare un uso legittimo anche fuori ciò che la ragione speculativa può conoscere, mentre quest’ultima non può
rigettare ciò che la ragione pratica può stabilire.

I concetti di libertà, immortalità dell’anima ed esistenza di Dio, possono conservare un senso solo rinunciando ad essere
conoscenze.

I vecchi dogmi della metafisica speciale (teologia, cosmologia e psicologia) divengono lo sfondo di orientamento di
una razionalità pratica che deve realizzare nel mondo la legge morale incondizionata: la possibilità del sommo
bene diviene condizione per la promozione di esso.

La ragion pratica può ammettere ciò che la ragione teoretica aveva indicato come inconoscibile: è proprio qui che la
riformulazione kantiana della metafisica trova compimento.

L’immortalità dell’anima: consente di pensare in una vita futura la coincidenza tra l’esser compiutamente degni della
felicità – in un perfezionamento infinito- e la felicità effettiva.

L’esistenza di Dio – autore morale del mondo- consente di pensare la natura, mondo in cui “accadono” le azioni umane,
come compatibile con la moralità.

SOLO se intese come postulati pratici, ovvero PRINCIPI DI ORIENTAMENTO E SENSO DELL’AZIONE- queste
idee sono liberate dall’antropomorfismo e dalla superstizione, da pretese conoscenze sia empiriche che soprasensibili. Il
discorso morale solo così rende possibile una religione puramente razionale.

I contenuti della religione, epurati da quanto sarebbe uso “cieco” di concetti incontrollati, vengono fatti dipendere dalla
moralità; per Kant è la morale che fonda la fede.

La fede è definita come massima del ritener vero, ovvero una modalità dell’assenso che richiede una scelta, una libera
determinazione del nostro giudizio priva del carattere vincolante del sapere teoretico.

Nello scritto su I progressi della metafisica, dirà che si tratta di un libero assumere, un credo che non consente alcun
imperativo e nessuna dimostrazione della verità di tali proposizioni, ma solo di agire come se sapessimo che questi
oggetti sono reali; la prospettiva di una religione nei limiti della sola ragione sarà sviluppata nell’opera (omonima)
del 1973.

Sviluppi della filosofia critica: la facoltà di giudizio


Con il primato della ragion pratica e il recupero dei temi della metafisica speciale, sembra realizzarsi quell’unità
sistematica che per Kant era condizione di una scienza, e in particolar modo della filosofia.

Quando scrive la critica della ragion pratica, Kant è convinto che il concetto di libertà, con la sua connessione con un
principio assoluto (quello della legge morale e le sue conseguenze nei postulati di una pura fede razionale pratica) possa
consentire il compimento e l’unificazione del sistema filosofico, dell’edificio di un sistema della ragion pura, del quale
esso rappresenta la chiave di volta.

Il percorso filosofico degli anni successivi, conduce però Kant a un ripensamento del modo in cui il sistema critico si
era configurato, che trova nuova definizione nella Critica della facoltà di giudizio, III opera critica (1790)

Quest’opera ha, più di tutte, lasciato un segno nella cultura intellettuale del suo tempo, tanto da divenire l’espressione
dei più profondi problemi effettivi della formazione spirituale del XVIII e dell’inizio del XIX.

Nasce da un intreccio di problematiche la cui “unione” sotto un’unica cifra costituisce un primo e importante atto
teorico.

Con la risposta alla domanda “Cosa devo fare?” si era definito lo scopo ultimo della ragione e, con esso, ciò che
interessa l’uomo cosmopolita.

Il primato della ragion pratica consente di pensare insieme – nella distinzione tra ciò che è conoscenza e ciò che non lo
è- natura e libertà.

Dopo la pubblicazione dell’opera (CRPR) restavano aperti diversi problemi:

Il principale era quello di una effettiva mediazione tra natura e libertà, che la sola possibilità del sommo bene non
garantiva in modo adeguato. Tra i due domini vi è un immenso abisso, e tuttavia la libertà deve realizzare nella natura,
nel mondo sensibile, gli scopi che si pone.

Le leggi della natura devono essere pensate in modo che si accordino almeno con la possibilità degli scopi da realizzare
in essa mediante la libertà.

I postulati della ragion pratica – A, M, D) pur garantendo la possibilità dell’armonia tra la moralità e gli esiti del corso
del mondo, non fondavano un accordo tra la legalità naturale e la libertà, tra i diversi modi di pensare costituiti da un
lato dal riconoscimento di cause meccaniche, dall’altro dalla libera posizione dei fini;

Il complesso rapporto meccanicismo-finalismo che la tradizione aveva lasciato in eredità a Kant non sembrava
affrontato. L’esistenza di una natura di enti organizzati, gli organismi, che manifestano un rapporto tra parti e tutto
funzionale, in cui ogni parte risulta comprensibile solo in rapporto alle altre, sembrava sfuggire a una spiegazione
interamente meccanicistica.

C’era dunque il problema della concettualizzazione, dell’applicazione della logica alla natura.

A questi problemi – che ripropongono questioni interne alle II critiche precedenti- si era aggiunto un problema
apparentemente eterogeneo cui Kant aveva rivolto la sua attenzione: Il bello nella natura e nelle opere d’arte; il giudizio
sulla bellezza era tradizionalmente pensato – nell’orizzonte leibniziano- in riferimento al concetto di perfezione, di
rispondenza ad un fine.

Kant finisce per ritenere che il rapporto di un tale giudizio, il giudizio di gusto, con i fini, sia più complesso. Il giudizio
sul bello sfugge alla dimensione concettuale, manifestandosi in un sentimento di piacere, ma conserva un carattere
tipico di tale dimensione, poiché pretende di valere universalmente, per ogni giudicante. È questa problematica che
costituisce un primo impulso per la revisione del sistema della ragion pura: il lavoro su una critica del gusto, diviene
occasione per la scoperta di un nuovo tipo di principio a priori, e per la nuova articolazione della filosofia in III parti –
non più II- ovvero: filosofia teoretica, teologia e filosofia pratica, tripartizione che diviene una tripartizione della critica.

L’individuazione, già presente nella I critica, di III facoltà di conoscenza – intelletto, facoltà di giudizio, ragione-
assume un nuovo senso.
La stesura della “critica del gusto” diviene occasione per trattare in un orizzonte unitario problemi che le prime II
critiche avevano lasciato aperti, trasformandosi nella critica della facoltà o capacità di giudizio, la cui funzione verrà
estesa.

Ciò che determina l’inclusione – entro un unico orizzonte- di problemi con origine diversa, è la percezione che essi
siano riconducibili a una cifra comune, l’utilizzo – in modi diversi- del concetto di conformità a scopi in rapporto alla
natura e agli oggetti sensibili.

La legittimità dell’uso di concetti di finalità all’interno della natura diviene il denominatore comune nonché il problema
centrale.

Dal momento che intelletto e ragione speculativa si rivolgono alla natura e la ragion pratica fa uso del concetto di
finalità, sembra presentarsi con la facoltà di giudizio una dimensione di mediazione, quasi di passaggio, tra questi due
domini.

Analizzando il problema del gusto, Kant riconosce tre facoltà dell’animo, distinte e irriducibili:

conoscitiva, di desiderare, il sentimento di piacere e dispiacere.

La dimensione superiore della prima – dotata di principi a priori- è l’intelletto; della seconda la ragione.

Il punto di partenza della terza critica è l’istituzione, o scoperta, di un nesso tra il sentimento di piacere e la terza delle
facoltà superiori di conoscere, la facoltà di giudizio – applicare regole a casi concreti-dati.

Con l’ipotesi che anch’essa abbia un suo principio a priori, come intelletto e ragione.

La critica di giudizio si presenta come completamento della critica della ragione, senza determinare un nuovo campo di
oggetti.

Nella critica della ragion pura, la facoltà di giudizio veniva indicata come talento particolare, che può solo essere
esercitato ma non insegnato, consistendo nella capacità di sussumere sotto regole, cioè distinguere se qualcosa casa o
meno sotto una data regola. Questa facoltà viene ora ri-pensata: se la facoltà di giudizio in genere è la facoltà di pensare
il particolare come compreso sotto l’universale, quando si parte dall’universale (LA REGOLA) è in gioco la facoltà
determinante di giudizio, ma se si parte dal particolare – per il quale l’universale va trovato- a operare è la facoltà
riflettente di giudizio; sarà proprio quest’attività riflettente a essere al centro della III critica.

La ricerca di un universale non dato ha bisogno di principi che indicano come cercarlo, principi di orientamento non a
posteriori poiché devono rendere possibile l’esperienza, in qualche modo anticiparla.

La critica del gusto è stata motore verso la realizzazione di una critica della facoltà di giudizio, anche perché nella
ricerca di un principio per questa facoltà quei giudizi che Kant chiama estetici – di gusto- e che riguardano il bello e il
sublime nella natura e nell’arte, hanno assunto ruolo particolare.

Per quanto un giudizio di gusto non conduca mai a una conoscenza concettuale, ma solo a un sentimento di piacere, il
suo elevare una pretesa alla universalità, fa pensare a un possibile fondamento in un principio universale a priori;
inoltre, l’assenza di un concetto nel giudizio di gusto esclude che la sua universalità sia riconducibile all’intelletto o alla
ragione, e porta a ipotizzare la presenza di un principio proprio solo della facoltà di giudizio. La portata del principio
che emergerà sarà tale da oltrepassare l’ambito estetico: la capacità teleologica di giudizio sarà riconosciuta come
contenuta in una stessa facoltà e basata sullo stesso principio. Questo giustificherà l’unione in una sola opera della
critica del giudizio estetica e la critica della facoltà di giudizio teleologica.

Nell’introduzione alla III critica, dove il principio generale della facoltà di giudizio viene identificato e legittimato come
trascendentale, viene ricondotto ad un tempo a una problematica ulteriore, quella relativa alla molteplicità delle leggi
empiriche.

L’organizzazione della natura potrebbe - pur conforme alle leggi dell’intelletto - non consentire una unificazione
progressiva, il ri-comprendere leggi empiriche in leggi man mano superiori o la stessa organizzazione di fenomeni in
classi, la formazione di concetti.
Il principio di orientamento di cui la facoltà di giudizio fa uso, si rivela essere uno speciale concetto a priori, il concetto
di conformità a scopi: la natura viene pensata come se fosse stata progettata per essere conosciuta da noi; con questo
non si attribuiscono realmente scopi alla natura, il meccanicismo resta l’unico principio di conoscenza, ma si riflette su
essa – si ricercano leggi- presupponendo l’unità delle leggi empiriche che consente di conoscerla.

La facoltà di giudizio regola sé stessa, il proprio modo di considerare la natura e procedere nella ricerca.

Il principio trascendentale della facoltà di giudizio è quello di una conformità a scopi soggettiva – relativa al nostro
intelletto- e formale: stabilisce che i fenomeni si presentano come se fossero organizzati in favore della nostra facoltà
conoscitiva, senza che lo scopo stesso sia conoscibile.

A essa vengono ricondotte le massime – di eterogeneità, omogeneità e affinità dei fenomeni- che la CRPURA traeva
dall’uso regolativo delle idee.

APPROFONDISCI.

L’opera dedicata alla «facoltà di giudizio», inteso, a differenza di quello determinante (scientifico), come giudizio
«riflettente», che sorge dall’esigenza di ammettere un ordinamento intrinsecamente finalistico nella natura,
collocandosi, nel soggetto trascendentale, fra la necessità dell’intelletto (fenomenico) e la libertà della ragione
(noumenica). 

Il bello e il sublime

L’individuazione di un principio generale della facoltà di giudizio è la chiave per affrontare i problemi, particolari, del
gusto e della teologia naturale.

Al primo è sottesa l’ipotesi di un legame tra la facoltà di giudizio e il sentimento di piacere e dispiacere.

Il concetto di conformità a scopi o finalità, rende possibile stabilire questo nesso: se ogni soddisfazione di un bisogno è
legata al sentimento di piacere, in esperienze come quelle del bello nella natura e nell’arte, in cui questo sentimento è
avvertito come universale, questo legame assume forma particolare; la natura non concettuale di tali esperienze rende
complesso affrontare la critica del gusto.

Dal momento che il giudizio di gusto si realizza riferendo la rappresentazione dell’oggetto al sentimento di piacere, può
esser detto un giudizio estetico (diverso da quello delineato nell’Estetica trascendentale): il suo principio di
determinazione è soggettivo e sentimentale.

Non è legato a un piacere per l’esistenza dell’oggetto, dunque per l’uso che potrei farne, ma a un piacere per la sua
rappresentazione.

Il bello è rappresentato come oggetto di un compiacimento universale

Il giudizio di gusto si basa sulla forma della conformità a scopi di un oggetto (nell’arte del modo di rappresentarlo).

Lo scopo percepito nell’oggetto è indeterminato, la sua conformità a scopi è rappresentata senza uno scopo (la materia
di un nesso finale): l’oggetto si presenta come se avesse uno scopo, né noto, né dato – e si distingue dalla perfezione.

Solo la forma dell’oggetto – figura- ciò che nella cosa bella può essere oggetto di un processo di riflessione del
soggetto, è tema del giudizio di gusto.

Infine, il bello è rappresentato come oggetto di un compiacimento necessario.

La necessità è soggettiva, non è passibile di dimostrazione; il giudizio del bello presuppone però che ognuno debba
giudicare in un certo modo, dunque l’idea di un senso comune, l’esigenza della ragione di produrre concordanza nel
modo di sentire.

Quando si giudica del bello ci si sente membri di una comunità ideale concorde non solo nella dimensione concettuale,
della quale si fa garante la ragione, ma soprattutto in quella del sentimento.
Il bello è un piacere disinteressato; ciò che piace senza concetti, senza rappresentazione di scopi o necessità oggettiva,
ma in modo universale, sulla base di una conformità a scopi, in relazione alla forma sensibile dell’oggetto,
nell’orizzonte di un reale accordo intersoggettivo.

Il bello è pensato nella sua autonomia dalla ragione e dalla morale; cos’è che mette in relazione il presupposto della
conformità tra soggetto-mondo, o della conformità a scopi del mondo per il soggetto, e l’esperienza del bello?

Idea di Kant: quell’accordo, che la facoltà di giudizio presuppone, nel giudizio sul bello venga avvertito attraverso il
sentimento del piacere.

Il singolo oggetto della natura si presenta attraverso il sentimento estetico come in accordo con la nostra facoltà di
giudizio; questo sentimento rivela la condizione soggettiva-formale di un giudizio in genere, che consiste NON in un
accorto tra un determinato concetto e l’intuizione che gli corrisponde, ma tra la facoltà dei concetti – INTELLETTO- e
quella delle intuizioni -IMMAGINAZIONE, ovvero in uno scambio tra le due facoltà non finalizzato alla conoscenza;
per Kant un processo non finalizzato, quasi disinteressato, è gioco: il piacere per il bello è coscienza del libero gioco tra
immaginazione e intelletto, ed è questo che lo rende un piacere universalmente comunicabile.

La funzione riflettente della facoltà di giudizio è legata qui a un processo che metta in connessione la dimensione
concreta delle intuizioni e quella indeterminata e molteplice dei concetti, secondo una proporzione armonica che
consenta comunanza tra chi giudica.

Il giudizio sul bello è giudizio estetico o di riflessione, un movimento – dialettico- tra universalità e singolarità che si
manifesta solo in un sentimento.

Caratteristica della teoria estetica kantiana è la centralità che in essa assume l’esperienza del bello nella natura; il bello,
nei prodotti dell’uomo, esprime il medesimo accordo tra immaginazione e intelletto, ma attraverso l’intervento della
capacità creativa umana consistente nel genio.

Nel genio, la natura nel soggetto dà la regola all’arte, istituendo nuove regole, non prescrizioni formulabili
esplicitamente. La teoria del genio non fa dell’arte una dimensione in sé conchiusa; il genio si manifesta come aperta
capacità di espressione di idee estetiche, rappresentazioni dell’immaginazione alle quali nessun concetto risulta
adeguato, che veicolano nella sensibilità le idee propriamente dette, le rappresentazioni della ragione che si riferiscono a
una dimensione sovrasensibile!

La ragione nelle idee va oltre sensibilità e conoscenza, nell’arte si crea un processo che oltrepassa ogni significato
determinato, ma a causa della ricchezza simbolica della sensibilità, non catturabile in concetti definiti.

Così, la ragione “pensa” in una rappresentazione sensibile ciò che non può esser costretto in parole.

Viene così pensato in una idea estetica molto di indicibile, ovvero più di quanto possa esser detto. L’arte svolge un ruolo
di espansione e vivificazione dei processi di pensiero, facendo rappresentare – in uno scambio tra sensibilità e concetti
indeterminati- una dimensione più ampia: una quantità di rappresentazioni imparentate che fanno pensare più di quanto
si possa esprimere mediante parole, e aprono la vista in un campo di rappresentazioni imparentate, a perdita d’occhio.

La teoria dell’esperienza estetica nel pensiero estetico del Settecento non poteva esaurirsi in quella del giudizio di gusto
sul bello. Aveva assunto un ruolo di rilievo il concetto di sublime, funzionale a caratterizzare esperienze nelle quali
attrattiva e piacevolezza sono poste in relazione con altri aspetti, apparentemente antitetici: l’orrido, il dolore, la
sofferenza, il terribile.

Si trattava dell’esito di una vicenda culturale iniziata, a metà Cinquecento, con la scoperta di un testo greco del I secolo
d.C. Del sublime, tradotto in francese nella I metà del 1600 e ripreso da Joseph Addison sulla sua rivista The Spectator;
Addison userà per la prima volta la distinzione bello-sublime, poi al centro della ricerca filosofica sull’origine delle idee
del sublime e del bello di Burke, termine di riferimento rilevante per Kant.

Il sublime veniva legato a un lato oscuro, ma anche ad un particolare pathos, che si poteva manifestare nella fruizione
delle opere d’arte o di spettacoli della natura, grandiosi e minacciosi.

In Burle era connesso con tutto ciò che è smisurato, terribile, infinito; lo spazio dedicato da Kant al sublime non è
dovuto solo all’esigenza di completare una teoria estetica, ma al fatto che il sentimento del sublime è, anch’esso,
ricondotto all’operato della facoltà di giudizio, e inteso come prodotto di un giudizio estetico di riflessione; nella teoria
kantiana, il sublime si rivolge a oggetto di tipo diverso rispetto al bello.

Se il sentimento del bello riguarda la forma degli oggetti, consistente nella LIMITAZIONE, il sublime riguarda ciò che
si presenta come illimitato.

Il bello produce un piacere, il piacere del sublime include in sé un dispiacere, oltre a contenere ammirazione e rispetto.

La differenza più radicale tra i due sta nel fatto che, pur occasionato da oggetti naturali, il sublime si riferisce a una
sublimità che non è degli oggetti, ma è da ricercarsi nell’animo.

La conformità a scopi, avvertita dalla facoltà di giudizio, è quella di una disposizione d’animo, non dell’oggetto
naturale.

Il sublime “funziona” attraverso un gioco di rimandi che coinvolge l’immaginazione non in rapporto all’intelletto, ma
alla ragione. Alcuni spettacoli, l’oceano in tempesta, vulcani in eruzione, la vista delle piramidi, sollecitano
l’immaginazione manifestandone l’inadeguatezza.

Un oggetto grandissimo finisce per alludere, data l’impossibilità dell’immaginazione, ad abbracciarlo in un unico atto, a
una infinità rispetto alla quale l’immaginazione è impossibilitata, inadeguata. Proprio questa inadeguatezza –
fallimento- provoca un sentimento spiacevole, ma rivela nell’animo la presenza della dimensione della totalità; è così
che si rivela una destinazione superiore a ogni sensibilità, e una finalità che prevale sul fallimento dell’immaginazione.

Il sublime può essere messo in moto non solo dalla limitatezza, ma anche dalla potenza sovrastante l’oggetto naturale;
qui ad essere sovrastata è la facoltà di desiderare.

Questo tipo di sublime, detto dinamico, rivela – a condizione che la minaccia non sia reale- una capacità di resistenza di
tutt’altra specie, costituita dalla nostra libertà, che ci eleva al di sopra di tutto ciò che è sensibile. Il sublime mostra un
nesso intrinseco con la moralità, poiché il sentimento in cui consiste è analogo al sentimento del rispetto per la legge
morale, l’unico sentimento prodotto dalla ragione e non dalla sensibilità, che costituiva il movente più profondo per la
volontà razionale.

Anche il bello conserva un legame con la moralità, pur costituendo un ambito autonomo: il sentimento del bello può
essere simbolo della moralità, poiché il suo “piacere disinteressato” rispetto al sensibile, la libertà conforme a leggi
dell’immaginazione in gioco, l’universalità che manifesta, la consapevolezza di una elevazione al disopra della
semplice ricettività, fanno sì che alluda alla disposizione d’animo propria della moralità.

L’organismo e la teleologia: NATURA E CULTURA.

L’ambito estetico è cruciale nella critica della facoltà di giudizio, ma la peculiarità della III critica kantiana sta
nel trattare alla luce di un unico principio, ambiti apparentemente distinti.

La questione della teologia naturale, della presenza di fini o fini apparenti in natura, costituiva una difficoltà rilevante
per la concezione meccanicistica della natura.

Le leggi meccaniche sono da un lato ineludibili, dall’altro non consentono la piena comprensione del mondo organico.

Il concetto di conformità a scopi può essere applicato in sensi diversi a oggetti naturali. Se alcuni oggetti della natura
vengono considerati l’un l’altro come mezzi a scopi, si ha una conformità a scopi relativa o esterna.

Una conformità a scopi interna si ha quando una determinato oggetto della natura – uno scopo naturale- non risulta
pensabile se non in base ad un rapporto finale (oggi diremmo funzionale) tra le sue parti e il tutto.

In un organismo – oltre al fatto che la natura delle parti non risulta essere concepibile senza presupporre il loro ruolo
all’interno di una totalità, del tutto (da intendersi come loro causa finale)- ogni parte è causa efficiente della produzione
delle altre: lo scopo naturale si auto-organizza, cosa che non avviene in un meccanismo.

La conformità esterna, l’idea che la natura possa essere un sistema di scopi, non ha per Kant vero valore all’interno
della natura.
È la conformità a scopi INTERNI a costituire il vero problema: gli esseri organizzati sono gli unici, in natura, che non
possono essere pensati se non come scopi, e danno realtà oggettiva al concetto di uno scopo che non sia pratico, ma
della natura stessa.

Kant non intende ripristinare una questione metafisica all’interno della scienza naturale.

L’attribuzione di scopi a enti naturali viene reinterpretata come un semplice filo conduttore della ricerca: si considera la
natura come se la conformità a scopi fosse intenzionale, ma non si attribuisce alla materia un intento nel significato
proprio della parola.

Il concetto di conformità a scopo vale come principio euristico, principio della facoltà riflettente di giudizio con
funzione regolativa. Si consente così un tipo di indagine diversa da quella secondo leggi meccaniche, utilizzando una
lontana analogia con la causalità in gioco nell’uso tecnico della ragione, nella produzione di artefatti.

Si ha così una regola secondo la quale certi prodotti della natura possono essere indagati, nonché la possibilità di
ammettere la massima secondo cui niente è gratuito (tutto ha una funzione) in una creatura organica.

Quest’ultima affermazione non va ad introdurre una contraddizione tra principio meccanicistico e teleologico: il
secondo va inteso correttamente non come un principio oggettivo per la facoltà determinante di giudizio – che
comporterebbe una determinazione a priori della natura dell’oggetto- ma, per la facoltà riflettente di giudizio.

L’analisi della ragione nel suo uso teleologico svolta nella III critica, la scoperta di un principio a priori specifico per la
facoltà di giudizio, consentono a Kant di pensare il quadro generale della teleologia della ragione umana che costituiva
l’orizzonte della filosofia: seppur con la reinterpretazione euristica 1 della finalità, che salva la legittimità del
meccanismo ed evita l’intromissione di aspetti metafisici nella ricerca naturale, l’analisi della facoltà riflettente di
giudizio rende possibile un discorso finalistico che non riguarda solo le azioni umane, ma il mondo naturale in quanto
tale: instaurando un nuovo rapporto con l’orizzonte del soprasensibile.

Lasciato vuoto, ma libero dalla ragione teoretica, occupato dalla ragion pratica con l’idea della libertà, ora questo spazio
è pensabile come contenente una causa dell’organizzazione finalistica della natura, anche se questa causa resta
inconoscibile e ogni nesso finale conserva il valore di ipotesi (euristico).

Nel 1784 nello scritto Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Kant aveva affermato un progetto
nascosto della natura, tale da promuovere uno stato favorevole per lo sviluppo delle disposizioni originarie del genere
umano.

Ora è scettico verso ogni finalità naturale esterna, che possa rendere l’uomo “oggettivo signore della natura” né riprende
quella che chiamava una “ giustificazione della natura, o meglio della provvidenza”; cosa fa? Recupera in modo nuovo
un ruolo particolare dell’uomo in un sistema teleologico della natura.

L’UOMO

Se si deve cercarne uno scopo ultimo, l’uomo è un ragionevole candidato non perché verso di lui convergano fini della
natura, ma perché è l’unico che può concepire scopi. La produzione della cultura, intesa come capacità di porsi scopi,
può essere vista come scopo ultimo della natura.

PERCHE’ L’UOMO?

La natura è sottratta a una concezione genuinamente finalistica: peste, carestia, gelo e inondazioni, insieme ai mali che
l’uomo escogita da sé, come il grande male della guerra, mostrano che la natura è ben lungi dal favorire la felicità
dell’uomo; né per un favore della natura nei suoi confronti può essere pensato come scopo, ma in quanto è dotato della
capacità di porre fini consapevoli, che potrebbe rendere l’atto di fare finalità disperse un sistema.

1
Nel linguaggio scient., detto di ipotesi che viene assunta precipuamente come idea direttrice nella ricerca dei fatti, e del metodo
stesso di ricerca così condotta: mezzo e., in senso lato, mezzo di ricerca.
Il suo ruolo – uomo- privilegiato all’interno della natura non è un fatto, ma è dato dalla possibilità di una posizione di
scopi che oltrepassa la natura stessa; l’uomo è scopo ultimo solo in modo condizionato alla sua capacità di conferire
senso al resto, di stabilire uno scopo finale.

La facoltà di giudizio riflettente rende pensabili scopi naturali in genere, e con questo uno sfondo di finalità possibile,
nel quale può e deve inserirsi l’azione consapevole dell’uomo, orientata alla posizione di fini oggettivi tramite la libertà,
diversi da quelli dati dalla natura, rispetto ai quali l’intelletto è solo uno strumento.

Kant vedeva con favore le posizioni finalistiche anche in teologia, a patto che non si traducessero in affermazioni
dogmatiche.

Ogni sapere ha un valore solo strumentale. In questo, Kant non considera lo sviluppo delle tecniche e delle conoscenze
di per sé un fattore positivo, quanto piuttosto lo vede fondato sull’ineguaglianza degli uomini; ricordiamo la riflessione
kantiana sull’insocievole socievolezza degli uomini, sulla tendenza – propria degli uomini- a unirsi in società ma a
sviluppare al contempo conflitti; già nel saggio Idea di una storia universale, Kant asseriva che “l’uomo dovrà sostenere
durissimi mali sotto l’ingannevole apparenza del benessere esteriore”, la splendida miseria, come la definiva lui; proprio
quest’ultima è stata un mezzo per la promozione dello sviluppo della cultura. Ma è necessario muovere da qui, per
passare ad una organizzazione politica conforme ai fini dell’uomo, e soprattutto alla libertà.

Kant come procede in questa direzione? Pone delle condizioni formali perché la natura possa giungere a quello che
sembra essere il suo “scopo ultimo”: una organizzazione delle libertà, che riguarda la sola relazione esterna tra uomini –
il DIRITTO- ma che deve realizzarsi per consentire le libere posizioni di fini che possono promuovere la destinazione
finale dell’uomo.

Il passaggio tra conformità ai fini della natura e finalità libera dell’uomo richiede un processo storico-politico che deve
istituire la società politica e un tutto cosmopolitico, ovvero una convivenza pacifica degli individui nello stato e tra gli
stati in una organizzazione SOVRANAZIONALE.

Diritto e pace perpetua (sfera politica)

La Critica della facoltà di giudizio doveva anche mostrare la possibilità di un passaggio tra il modo di pensare relativo
alla natura e quello relativo alla libertà, rendendo concepibile una finalità riguardante la natura, dunque la possibilità
dello scopo finale, in quale può divenire effettivo solo nella natura e in accordo con le sue leggi.

La mediazione tra libertà e natura risulta essere l’azione dell’uomo nel mondo per promuovere gli scopi morali.

A questo aspetto ineriscono La metafisica dei costumi (1797) e L’antropologia dal punto di vista pragmatico (1798); in
quest’ultima opera trovano espressione le lezioni di antropologia che Kant aveva tenuto per molti anni, contribuendo
alla fondazione di questa disciplina, e che costituivano una sorta di estensione dello studio empirico dell’uomo (proprio
del dominio della psicologia empirica) che però veniva inteso nell’antropologia come conoscenza che indagava
(pragmatica per questo) ciò che l’uomo, in quanto libero, fa o può fare si sé, ovvero una conoscenza dell’uomo come
cittadino del mondo, finalizzata a permettere di operare nel mondo in rapporto ad altri uomini.

L’antropologia pragmatica comprendeva, accanto all’analisi delle facoltà dell’animo, questioni come il carattere di un
popolo, un sesso, una razza, la specie umana come tale, il carattere destinale dell’umanità, la sua-propria destinazione,
esaminate in relazione al progettarsi dell’uomo quale libero, e fine ultimo di sé stesso.

L’agire nel mondo in rapporto ad altri uomini, AGIRE POLITICO, era emerso come esito della teleologia della III
critica.

La costruzione critica di Kant si era costruita nel riconoscimento della necessità del diritto – statale e internazionale-
quale condizione necessaria per il perseguimento di quesgli scopi che la ragione, nella sua forma più alta – morale-
indica in modo universale (lo scopo prima attribuito a un occulto piano della natura).

La critica della ragione, ripensando conoscenza, metafisica, morale, religione, progetta l’intervento della ragione nella
storia degli uomini.
La stessa “pacifica felicità del popolo” che non può essere come tale un fine della natura, o della ragion pratica, diviene
condizione richiesta dalla ragione stessa perché possa liberamente porre i suoi scopi finali.

In modo analogo, se la felicità non è uno scopo morale per l’uomo, la promozione della felicità altrui viene
riconosciuta, nella dottrina delle virtù (Metafisica dei costumi) come dovere fondamentale, accanto al perfezionamento
di sé.

Kant, entusiasta spettatore della rivoluzione francese, dedica molte opere alla costruzione di una visione della storia e di
una teoria del diritto: l’idea di una storia, Sopra il detto comune “questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la
pratica” gli elementi metafisici della dottrina del diritto e della metafisica dei costumi, il progetto filosofico per la pace
perpetua (1795) in cui propone e indica le tappe necessarie per la costruzione di un organismo sovranazionale, una
federazione di stati atta a garantire la pace tra le nazioni, sotto l’idea di un’unità tra morale e diritto.

La filosofia pensata secondo il suo significato “cosmico” prende una direzione cosmopolitica in un senso più specifico e
letterale.

La sua premessa sta nella fondazione di una società civile, uno stato.

La filosofia kantiana del diritto cerca di legittimare come idea necessaria una costituzione improntata alla massima
libertà umana, secondo la promulgazione di leggi in base alle quali la libertà di ciascuno possa coesistere con quella
degli altri.

Cerca di offrire una fondazione razionale pura che legittimi il diritto, non come arbitrio ma come qualcosa di
riconoscibile e giustificabile dalla ragione degli uomini, capace di indicare quale azione o legge sia giusta.

Scopo dello stato non è la felicità, ma quello di garantire il diritto del cittadino e soprattutto la libertà esterna, ovvero la
libertà di agire indipendentemente da costrizioni altrui; la legittimazione del diritto sta in un principio di universalità-
reciprocità analogo a quello dell’imperativo etico: il diritto è l’insieme delle condizioni che garantiscono l’accordo
dell’arbitrio dell’uno con quello dell’altro secondo una legge universale della libertà.

La possibilità di coercizione ne deriva poiché consente di rimuovere ciò che si presenta come ostacolo alla libertà
esterna di qualcuno-

Compiti e ambiti del diritto sono distinti da quelli della morale, e riguardano solo il rapporto esterno tra persone, nella
misura in cui le azioni si influenzano reciprocamente.

Tuttavia, l’esistenza del diritto ha una funzione morale; Kant concepisce – sviluppando le dottrine contrattualistiche- il
superamento dello stato di natura (inteso come idea) come atto non dettato da interessi – paura, felicità- ma comandato
dalla ragione; nel Saggio sul detto comune, leggiamo: l’istituzione del diritto degli uomini sotto leggi coercitive
pubbliche, è una unione che è fine in sé stessa, un dovere primo e incondizionato, un fine che è in sé dovere. Così vuole
la ragione, la ragione pura legislatrice a priori.

Il contratto originario è un’idea della ragione che ha la forza di obbligare ogni legislatore a fare leggi come se fossero
scaturite dalla volontà unita di un intero popolo.

Una fondazione razionale del diritto si traduce in un principio di critica verso istituzioni di diritto positivo 2: legittimata e
giusta può essere solo quella istituzione giuridica conforme al principio generale del diritto, che consenta la convivenza
regolata delle libertà.

Al contempo, questa fondazione consente di attribuire all’uomo diritti che gli spettano prima di ogni istituzione di
diritto positivo, i diritti umani che per Kant si riassumono in un solo diritto innato, originario che appartiene ad ogni
uomo in forza della sua umanità: la libertà (comparabile a quella di chiunque altro) come indipendenza dall’arbitrio
costrittivo di ogni altro, che comporta che “nessuno mi può costringere a esser felice a modo suo”.

Sulla ragione è fondata anche la II delle condizioni individuate nella III critica perché l’uomo possa svilupparsi quale
ente capace di assumere fini incondizionati: il progredire da una fondazione del diritto come istituzione di stati al tutto

2
 il diritto vigente in un determinato ambito politico-territoriale e spazio di tempo, creato ed imposto da uno
Stato sovrano mediante norme giuridiche e volto a regolamentare il comportamento dei propri cittadini.
cosmopolitico, ossia alla fondazione di un diritto dei popoli; gli stati, analogamente a quanto accade per gli individui,
dovrebbero dar vita a una federazione di popoli.

Kant non si nasconde, ma analizza da vicino le difficoltà che questa trasposizione dell’idea di contratto sociale a livello
internazionale comporta, tra cui i rischi di dispotismo, che sconsigliano l’istituzione di uno stato mondiale e consigliano
una federazione.

Tuttavia, Kant delinea il suo progetto di pace perpetua, che su essa dovrebbe fondarsi, non senza realismo: se è il
principio del diritto a obbligare “gli dei della terra” ad assumere che un simile “stato universale dei popoli sia possibile”
e a procedere in modo che ne sia favorita la costruzione, dall’altro potranno essere gli stessi conflitti, il loro costo, il
moltiplicarsi delle distruzioni, a far sì che un progetto di convivenza pacifica risulti realizzabile; ci sono, insieme, un
dovere e una speranza di realizzare un diritto internazionale, dirà Kant concludendo “Sulla pace perpetua”: quest’ultima
è non un’idea vuota, ma un vero e proprio compito che, risolto progressivamente, si fa sempre più vicino alla sua meta.

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