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INTRODUZIONE
Il pragmatismo è una filosofia specificamente americana sorta nei primi anni Settanta dell’Ottocento a Cambridge,
grazie ad alcuni giovani studiosi di formazione eterogenea, che diedero vita a un circolo ironicamente denominato
“Metaphysical Club”. Per certi aspetti i suoi primi svolgimenti rappresentano un modo di sentire e di pensare tipico
della civiltà americana, un pensiero vario e articolato sui diversi versanti della ricerca teorica che introduce l’era della
filosofia pubblica.
Il suo punto di snodo consisteva in una massima logico-metodologica, secondo la quale il significato di un’idea o
credenza coincide con i suoi possibili esiti pratici. La massima pragmatista era uno di quei gangli di pensiero così
potenti da innestare una serie di apprezzamenti, critiche, conseguenze e influenze che, a differenza di altre correnti
filosofiche, non hanno mai smesso di operare e di essere discussi. Forse, parte della vitalità del pensiero pragmatista
consiste proprio nella mancanza di una definizione univoca, nel suo funzionare più come un nucleo incandescente che
come una struttura cristallizzata.
* Arthur O. Lovejoy “tredici tipi di pragmatismo”
Decidere chi e che cosa inserire dentro la storia del pragmatismo è un modo per determinare la natura della sua utilità
e della sua influenza nella filosofia contemporanea.
Superato e abbandonato l’iniziale impianto logico peirceano, che viene giudicato ancora troppo legato a Kant e a una
visione della ragione come rappresentazione, il pragmatismo avrebbe preso con James e Dewey la strada di una decisa
versione naturalizzata e storicizzata che avrebbe fornito le basi per un pluralismo interpretativo e valoriale imperniato
sulla nozione di immaginazione in un mondo senza fondamenti. Così il pragmatismo avrebbe anticipato prima, e
realizzato poi, il dissolvimento dei problemi della filosofia neopositivista e il radicalismo ermeneutico, intravisti da
Heidegger.
L’interpretazione di Bernstein, riaffermata in recenti interviste, si incentra sulla convinzione che il pragmatismo si
definisca all’interno della svolta linguistica novecentesca anche se sottolinea l’importanza della concezione
pragmatista di esperienza per cercare di mostrare come essa produca una tensione positiva rispetto alle tematiche del
linguaggio.
Curiosamente, è sempre l’adesione al kantismo che viene considerata un tratto saliente, benché con valore opposto,
da Misak e Brandom, per i quali il pragmatismo è precursore della filosofia analitica in quanto dottrina epistemologica
che avrebbe proposto una versione allargata del verificazionismo e una visione storicizzata e naturalizzata della
normatività kantiana.
Ci sono, in fin dei conti, interpretazioni della storia del pragmatismo in cui Peirce non ha diritto di asilo e altre in cui
James fatica a entrare. Versioni nelle quali il pragmatismo è apprezzato in quanto legato a Hegel e altre in cui è seguito
in quanto espressione contemporanea del kantismo.
La conclusione di Rescher: “E’ quanto mai chiaro che il pragmatismo in generale comprende una serie alquanto
diversificata di dottrine e che se uno è un pragmatista deve scegliere fra di esse”.
All’origine del libro c’è la convinzione che il pragmatismo classico fosse portatore di un progetto comune. Oltre alla
massima pragmatica e al consequenzialismo che essa impone, all’accettazione dell’evoluzionismo come criterio, non
come dottrina, e all’anticartesianismo, ossa il rifiuto di accettare forme di conoscenza immediata di tipo intuitivo, vi
sono altri fattori largamente condivisi degni di nota. In particolare, vi è una profonda versione continuista del rapporto
tra realtà e conoscenza: la continuità matematica, lo spirito di comunità, il flusso di coscienza e la transizionalità,
l’esperienza, la temporalità, l’olismo cadono sotto questa definizione; inoltre, la considerazione di forme mediate di
conoscenza che impediscano le dicotomie teoriche e metodologiche: la semiotica, il feeling cognitivo, la conversazione
di gesti, la dinamica dell’errore (fallibilismo) sono tutti buoni esempi di questa caratteristica; infine, la profonda
incidenza dell’interesse umano, dell’estetica e dell’etica all’interno della logica.
Cenni biografici:
Nato a Boston il 25 maggio del1803, viene ammesso nel 1825 alla Harvard Divinity School (Chiesa umanitaria). Di
questa Chiesa egli era stato pastore dal 1829 al 1832, dimettendosi poi dopo una crisi spirituale profonda. I primi anni
Trenta furono per Emerson un periodo difficile anche sul piano personale a causa della morte, nel 1831, della sua
prima moglie. Il decennio successivo rappresenta la stagione più produttiva di Emerson. Vedono la luce in quegli anni
alcuni fondamentali scritti “programmatici”, tra questi:
- Nature
- The American Scholar
Le vicende biografiche di Emerson si intrecciano con quelle del “Transcendental Club” che egli contribuì a costituire
nel 1836 a Boston. Ciò che distingue l’atteggiamento di Emerson all’interno del movimento è l’impegno costruttivo,
votato non tanto alla critica sociale quanto alla ricerca di proposte in positivo circa le strade da percorrere. Quanto ai
contenuti, Emerson non esita a rinviare alle questioni ultime affrontando il nodo tematico centrale circa il posto e i
destini dell’uomo nell’ordine cosmico.
L’idea di fondo che si viene a costituire è quella di un tutto olistico nel quale materia e spirito, organico e inorganico
siano contenuti senza che le differenze e i contrasti siano annullati. Su questo punto Emerson spinge i trascendentalisti
a una polemica nei confronti dei circoli neohegeliani in America. Egli ritiene che il processo storico si alimenti proprio
dei giochi “creativi” di opposte polarità, vitali solo in quanto destinate a non venire assorbite in sintesi conciliatrici.
Idealismo, spiritualismo e misticismo non sempre pienamente identificabili, o conciliabili tra loro: religioni orientali e
religioni dei nativi, mitologie e poesia, diari intimi e racconti di viaggio, per citarne alcuni. Le suggestioni che
provengono da tante letture.
In “The Transcendentalist, lecture” (programmatica) del 1842, Emerson dichiara di aver tratto diretta ispirazione da
Kant, avendo maturato la convinzione che la vera fonte dell’antiscetticismo sia da ricercarsi nell’idealismo
trascendentale. Kant, sostiene Emerson, risponde alla “filosofia scettica” di Locke mostrano che esiste “una categoria
molto importante di idee, o di forme imperative, che non proviene dall’esperienza e attraverso le quali l’esperienza
viene acquisita”.
Lungo un cammino filosofico così costituito – dove il riferimento a Kant appare più di linguaggio che di contenuti –
assume particolare significato il ripiegare di Emerson su un’ispirazione di impronta stoico-romana. In “The Conduct of
Life” questo percorso può dirsi compiuto; l’ottimismo “cosmico” di Emerson si esercita in modo sempre più marcato
sul terreno dell’azione, espandendosi grazie a una sorta di fiduciosa aspettativa nei confronti della realizzazione delle
migliori “potenze” dell’uomo.
Le premesse radicalmente e criticamente democratiche del pensiero di Emerson esigono il preliminare riconoscimento
del pari valore di umanità di ogni singolo uomo. Ciò che Emerson auspica è una sorta di libera assunzione del dovere di
costruire la propria personalità potenziando su atteggiamenti che favoriscano relazioni solidali e responsabili. La
“fiducia in se stessi”, infatti, non rappresentava una mera esortazione al darsi da fare e certo non si esauriva nella
ricerca del successo personale. Ponendola come autentico principio etico, Emerson aveva voluto indicare nella buona
relazionalità con l’altro da sé la radice di ogni possibile avanzamento migliorativo delle condizioni umane, aprendo
quella pista che Dewey percorrerà fino in fondo.
Gli “Essays” di Emerson, pubblicati nel 1841 e nel 1844, trattengono una radicata e innovativa assunzione circa il
valore di universalità presente al fondo di ogni singola individualità umana, anche la più apparentemente
insignificante. In questo scritto il filosofo confuta la teoria dell’eroe di Carlyle, ravvisando la presenza di un fondo
potenziale di “genialità” in ogni personalità umana e incentivando la volontà a operare sulla scorta di questa fiducia.
Il senso dell’utilità non è di tipo immediatistico ma discende dal preliminare riconoscimento del valore del gesto
quotidiano e della dignità di ogni lavoro umano, anche il più umile. Emerson intende risvegliare la volontà personale
motivandola a un’assunzione responsabile del “dovere” inteso semplicemente come assolvimento dei propri compiti.
Non appare convincente la cesura che molta storiografia filosofica ha posto tra i pragmatisti ed Emerson; una cesura
che spesso è stata enfatizzata proprio in nome del rapporto privilegiato tra filosofia e scienza, sulla cui base i primi
costituirono la propria indagine filosofica. Emerson pone in stretta relazione esperienza etica ed esperienza estetica,
luoghi dell’azione normativa, insieme alla logica. Ben lontano dal considerare l’espressione poetica un limite al rigore
logico, Dewey difende Emerson dall’accusa di non essere un filosofo proprio su questo piano:
“Quando scrivono di mancanza di metodo, di assenza di continuità, di incoerenza logica, e con la vecchia storiella del
filo di perle allentato, catalogano Emerson come uno scrittore di massime e proverbi, un raccoglitore di vedute
brillanti
e di curiosi aforismi, i critici, a mio giudizio, mettono semplicemente per iscritto la propria incapacità di seguire una
logica che sia finemente elaborata”. [Dewey]
La logica emersoniana è poietica, e solo a una forma di logica così intesa può venire delegato il delicato compito di
rendere gli esseri umani compartecipi ai destini comuni. Un nuovo individualismo può costituirsi esclusivamente sulla
base di un nuovo modello di razionalità nel quale i produttivi rapporti tra ragione, sentimento e immaginazione
trovino piena ospitalità.
La cosiddetta “svolta psicoanalitica” ha sollecitato nuova attenzione nei confronti del problema delle origini della
filosofia americana e la discendenza del pragmatismo dalla fonte trascendentalista è stata fatta oggetto di ulteriori,
controverse indagini, di impianto sia storico-filosofico sia teorico.
METAPHYSICAL CLUB
“Fu nei primi anni Settanta, che un punto di noi giovanotti della Vecchia Cambridge, chiamandoci un po per ironia e un
po per sfida, “The Metaphysical Club” ci incontravamo, qualche volta nel mio studio, e qualcosa volta in quello di
William James”. [Peirce]
Se è vero che tra i membri del gruppo solo Peirce e James usarono il termine “pragmatismo” per elaborare quelle
prime intuizioni nate nel contesto del Club, lo stesso Peirce sembra in certi casi considerare il nucleo originario di
quell’indirizzo filosofico come il risultato di un’impresa collettiva cui tutti i membri del Club contribuirono, piuttosto
che il solitario conseguimento di un unico individuo.
Peirce riteneva cruciali, per la nascita del pragmatismo:
- in primo luogo, il pensiero del filosofo scozzese Alexander Bain, e in particolare la sua definizione di credenza intesa
come una prontezza all’azione, un’attitudine ad agire in un certo modo. Secondo Peirce il pragmatismo era “poco più
di un corollario di questa definizione”;
- in secondo luogo, insisteva sul ruolo fondamentale di Green nell’influenzare gli altri membri del Club con queste
idee, e per questo lo definiva il “nonno del pragmatismo”.
CHAUNCEY WRIGHT
Cenni biografici:
Tra le testimonianze che Peirce ci ha lasciato del Metaphysical Club, Chauncey Wright figura quasi sempre come un
personaggio centrale del gruppo, il “corifeo”, il “nostro maestro di boxe”.
Egli nacque in Massachusetts e fin da giovane sviluppò un grande interesse per le discipline scientifiche, esibendo doti
eccellenti in matematica. Terminata l’università, trovò un lavoro a Cambridge presso gli uffici del “Nautical Almanac”.
La sua abilità di calcolo gli permetteva di sbrigare il lavoro di un anno nel giro di tre mesi. La sua produzione
scientifico-filosofica si concentra tra gli anni Sessanta e Settanta.
Negli anni Settanta l’attenzione di Wright si concentrò sulla teoria dell’evoluzione darwiniana, che egli tentava di
conciliare con il suo utilitarismo in filosofia. Intorno al periodo del Metaphysical Club si collocano sia i saggi più
significativi che Wright scrisse in difesa della teoria di Darwin. Darwin stesso si mostrò molto interessato ai lavori di
Wright, intrattenendo con lui regolari rapporti epistolari.
Wright ebbe modo di incontrare di persona lo scienziato inglese e in quell’occasione emerse l’idea comune di costruire
una grandiosa scienza dell’uomo su basi evoluzionistiche, denominata “psicozoologia”. Essa purtroppo non fu mai
realizzata per via della prematura e improvvisa morte di Wright nel 1875.
In uno degli scritti più significativi degli anni Settante, “The Philosophy of Herbert Spencer”, Wright affiancava a una
critica serrata alla filosofia di Spencer anche un’originale analisi sulla logica della scienza in generale. In qualsiasi modo
le teorie scientifiche si originino, affermava, sia da un esame attento dei fatti empirici attraverso un metodo induttivo
consapevole, sia da qualsiasi altra fonte mentale, il loro valore “può solo essere attestato attraverso le conseguenze
che possiamo dedurre da esse e confermare attraverso la testimonianza certa dei sensi”.
All’epoca della pubblicazione di “The Origin of Species” (1859), Wright si dichiarò subito un seguace entusiasta della
teoria della “discendenza con modificazione” che studiò a fondo per oltre dieci anni. Nelle sue riflessioni sulla teoria
evolutiva, Wright:
- in primo luogo, insisteva sul fatto che quando Darwin si riferiva alle “variazioni casuali” non intendeva sostenere che
esse siano prodotte dal puro caso, ma semplicemente sottolineare la nostra ignoranza riguardo alle cause che le
producono, per via della presenta di un inestricabile intreccio di fattori;
- in secondo luogo, egli mostrava di aver compreso molto bene come il livello causale delle variazioni fosse del tutto
indipendente rispetto a quello adattivo-ambientale, legato alla funzione che una variazione eventualmente assume
per il vivente che ne è portatore.
Nella visione di Wright si nota una stretta analogia tra questa interpretazione della teoria darwiniana e il già citato
empirismo “pragmatico” riguardante le ipotesi della scienza. Proprio come queste ultime vengono accettate o ritenute
vere in base alle conseguenze che producono una volta testate dall’esperienza sensibile, anche le variazioni organiche
sono “selezionate” solo una volta vagliate dal principio di utilità, in relazione alle conseguenze prodotte sulla vita degli
organismi.
Wright arricchiva la sua visione evoluzionista con altri concetti:
- quello di “novità evolutiva”, secondo cui nei processi viventi novità imprevedibili possono sempre emergere da una
serie di condizioni che, prese individualmente, hanno caratteristiche qualitativamente differenti dal risultato della loro
combinazione;
- egli insisteva sull’importanza fondamentale del “principio degli usi”, ovvero di quel meccanismo evolutivo che oggi
viene chiamato “exaptation”, secondo cui ogni carattere o comportamento, originato in seguito a certe ragioni
evolutive, può sempre essere cooptato per svolgere nuove funzioni, e dunque, sviluppato in direzioni differenti
attraverso il processo selettivo.
Nella sua ricostruzione dell’origine dell’autocoscienza umana, la novità evolutiva per eccellenza, Wright accordava un
ruolo fondamentale alle cosiddette immagini rappresentative, ovvero a quegli elementi della mente che
“rappresentano” in fantasia gli oggetti e le loro relazioni. Tali immagini, nella concezione di Wright, non sono tuttavia
da considerarsi metafisicamente come una mera copia di sensazioni esterne, ma come “segni interiori di cose e di
eventi”.
Proprio la capacità umana di riconoscere e ricordare queste immagini-segno costituisce per Wright l’elemento chiave
per distinguere la mente umana da quella animale. Mentre nella mente animale tale immagine è subito dimenticata,
nell’uomo può diventare un oggetto di attenzione nella catena dei rimedi.
Nella concezione di Wright, la distinzione tra un “mondo” e un “sé” non è affatto già data a priori, ma è un effetto
dell’emergenza storico-evolutiva dell’autocoscienza. Wright, attraverso la teoria darwiniana, poteva superare il
dualismo metafisico di stampo cartesiano, considerando la distinzione tra un “soggetto” e un “oggetto” come il
risultato di un processo inferenziale e semiotico continuamente in via di costruzione. In partenza, quando un
fenomeno risulta ancora “non-attribuito” al mondo o al sé, scrive Wright, “soggetto e oggetto sono indistinguibili nella
coscienza”.
Wright distingueva lucidamente una teoria scientifica dell’evoluzione (Darwin), confinata all’ambito biologico e
psicologico, dall’idea di evoluzione, che invece tendeva a invadere ogni settore di studio e a trasformarsi in una
concezione cosmico-teleologica. Il processo evoluto, affermava Wright in polemica con Fiske e Spencer, non è per
nulla simile a un “poema epico”, con un inizio, una parte centrale e un finale, ma è il risultato di un complesso
intreccio causale imprevedibile. In generale, affermava lo studioso, i fenomeni naturali, compresi quelli cosmici, si
comportano come i processi che caratterizzano il tempo atmosferico, che, nonostante siano spiegabili attraverso
cause fisiche, rimangono per lo più imprevedibili per la loro complessità inestricabile.
Le idee di Holmes rivelano per molti aspetti uno spirito pragmatista, benché egli non si sia mai definito tale. Tra gli
amici del Metaphysical Club egli ammirava le idee di Wright e di Green. Il loro distacco dalla teologia e dalla metafisica
“aprioristica”, nell’approccio sia alle scienze naturali sia a quelle sociali, influenzarono fortemente Holmes, che
condivideva con loro l’interesse per gli empiristi britannici, l’impostazione naturalistica e la concezione etica di stampo
utilitaristica.
Nella sua opera “The Common Law” Holmes sosteneva che le leggi incorporano la storia dello sviluppo di una nazione
e, per comprendere che cosa siano, occorre sapere che cosa sono state e che cosa tendono a divenire. Allo scopo di
definire il diritto, la logica non è sufficiente, ma è solo uno strumento utile tra gli altri. Opponendosi a quella che in
giurisprudenza era la visione più autorevole in quel tempo, la concezione di John Austin, Holmes sosteneva che “la vita
del diritto non è stata la logica, ma l’esperienza”. Per Holmes un sistema giuridico non può plausibilmente essere
concepito come un sistema assiomatico da cui le corrette decisioni possono semplicemente essere dedotte, ma va
inteso come “un grande documento antropologico” un “esercizio nella morfologia e nella trasformazione delle idee
umane”.
Nonostante l’avversione per le filosofie di James e Peirce, in Holmes troviamo spesso un approccio molto simile a
quello dei due pragmatisti. Come ha notato Susan Haack, ad esempio, le idee di Holmes sull’evoluzione dei concetti
giuridici sono sorprendentemente simili a quelle di Peirce sulla crescita del significato in senso generale.
In “The Path of the Law”, Holmes afferma che “Le profezie di ciò che le corti effettivamente faranno, e nulla di più
pretenzioso, sono ciò che intendo per diritto”. Perciò, dichiarava, lo “Scopo del nostro studio è la predizione
dell’incidenza della forza pubblica tramite l’attività dei tribunali”. In tal senso, “un dover giuridico altro non è se non la
predizione che, se taluno compie o omette di compiere una data cosa, subirà una data condanna da parte di un
tribunale”.
Per cogliere il senso della sua teoria predittiva, precisava Holmes, si deve guardare il diritto dalla prospettiva di un
“cattivo soggetto”, indifferente a ciò che può essere moralmente giusto o sbagliato, e interessato solo alle
“conseguenze materiali” delle proprie azioni. Nelle riflessioni di Holmes, il neutralismo scientifico di Wright si
traduceva in un neutralismo giuridico che si opponeva a qualsiasi intrusione della metafisica e in particolare della
morale nel campo del diritto.
In campo morale, Holmes affermava con forza una posizione fallibilista, condividendo ancora una volta una posizione
tipica di tutto il movimento pragmatista.
Cenni biografici:
La vita di Peirce è significativa per la sua opera. Nato a Cambridge nel 1839 e figlio di un grande matematico della
Harvard University, Charles ebbe l’educazione necessaria per diventare un grande scienziato. Laureato in chimica, nel
1861 fu assunto per interessamento del padre dall’istituto di ricerca scientifica statunitense (Geodetic Survey).
Il giovane Peirce si distingueva per curiosità in ogni disciplina della conoscenza, potendo attingere a piene mani
dall’ambiente in rapida crescita della Cambridge dove si stavano raccogliendo le menti più brillanti degli Stati Uniti.
Peirce poté così essere un frequentatore e allievo di Emerson, il pensatore trascendentalista che da molti punti di vista
fondò e divulgò i primi studi filosofici originali negli Stati Uniti, di Agassiz, il grande biologo avversario di Darwin.
Charles era un esponente di quel gruppo che i contemporanei chiamavano “i bramini di Cambridge”, persone in grado
di influire sull’intero mondo culturale vivendo un po separati dal resto dei problemi, più assillanti e concreti, della vita
politica e sociale. In questo senso si spiega come mai Peirce, pur avendo vissuto durante la tragedia della guerra civile
americana, non ne faccia quasi mai menzione.
La morte del padre, avvenuta nel 1880, cambiò la sua vita in ogni senso. Innanzi tutto, la perdita della protezione
paterna unita allo scandalo del divorzio dalla prima moglie e al suo secondo improvviso matrimonio con Juliette, fecero
sì che per Peirce si chiudessero tutte le possibilità di entrare a insegnare in università. In secondo luogo, Peirce mal
utilizzò la ricca eredità paterna per acquistare un enorme possedimento nell’isolata Milford, senza riuscir mai a
completare la costruzione della villa di abitazione né tantomeno a trasformarlo in un’occasione di rendita.
Da tale stato lo sollevò parzialmente l’amico James, ormai celebre e affermato professore a Harvard, il quale lo aiutò
dapprima facendogli tenere alcuni corsi preso l’università e poi creando tra amici un piccolo fondo di sussistenza.
Questa seconda parte della vita di Peirce, oscura agli occhi del mondo intellettuale, risulta essere il suo periodo più
produttivo. Egli morì di tumore allo stomaco nell’aprile 1914 a Milford.
Dopo uno studio attento e appassionato di Kant e fortemente influenzato dall’ipotesi evoluzionistica che si era
propagata a partire dall’uscita di “The Origin od Species” nel 1859, il giovane Peirce si dedica a una revisione delle
categorie del pensatore tedesco che spieghi la genesi e la dinamica dell’umana rappresentazione della realtà,
attraverso la quale il molteplice è ricondotto all’unità del giudizio. I risultati esposti in “On a New List of Categories” da
un Peirce non ancora trentenne sono sorprendenti. Non c’è possibilità di conoscere altrimenti che per via semiotica,
ma tale rappresentazione è anche l’intera realtà, che non ha alcun residuo o riferimento a statiche essenze. L’esito è
simile a quello dell’idealismo, ma il percorso vuole essere analitico-scientifico, poggia su una base fenomenologica che
si evolve in rappresentazione ed evita ogni forma di dialettica.
Le categorie che Peirce individua attraverso un duplice processo induttivo e ipotetico servono a collegare il molteplice
indistinto dei fenomeni (It) alla proposizione che esprime la conoscenza (being) passando per una rappresentazione
qualitativa, una relazione tra elementi distinti.
La concezione della coincidenza fra realtà, conoscenza e rappresentazione implica il rifiuto di ogni forma di
“intuizione”, intesa come “salto” che la ragione dovrebbe compiere per raggiungere una realtà altrimenti
inconoscibile. Nella serie di scritti “anticartesiani” pubblicati tra il 1867 e il 1868, Peirce individua in Cartesio il suo
avversario polemico additandone il razionalismo che si appoggia dapprima a dati che si presumono intuitivi e poi si
svolge come una catena “che non è mai più forte del suo anello più debole”.
Negli anni successivi Peirce approfondisce la sua visione: le filosofie che mantengono una divisione tra conoscenza e
realtà – indipendentemente dal fatto che la realtà “vera” sia un’idea platonica, un puro dato o un noumeno – sono
definite “nominaliste”. Il nominalismo così definito rimarrà per sempre la concezione teoretica antitetica a quella del
pensatore americano. Questa peculiare accezione del termine deriva dalla contemporanea adesione al realismo
metafisico di Duns Scoto, che sarà il suo punto di riferimento.
Negli articoli degli anni 1877-78 “The Fixation of Belief” e “How to Make Our Ideas Clear”, egli stabilisce subito il nesso
fra realismo e metodo scientifico che si trova alla base del pragmatismo. I due celebri articoli mostrano innanzi tutto
che la ricerca non nasce da un dubbio teorico e ipotetico come quello proposto dal metodo cartesiano (paper doubt),
ma da un dubbio vivente e reale che sorge quando un fatto sorprendente sconfessa le nostre precedenti credenze
delle quali ci sentivamo soddisfatti e ci spinge a cercare una soluzione nuova (living doubt).
Il risultato ideale del metodo scientifico è una credenza approvata dalla comunità dei ricercatori così da non essere più
confutabile e dunque essere coincidente con la realtà.
La forma assoluta del processo, la verità assoluta, è ovviamente un limite ideale che resta però il termine di paragone
per giudicare i vari passi con i quali la ricerca si muove passando da credenze meno certe a credenze più certe e
resistenti alla verifica. Secondo una delle fonti di ispirazione principali dell’epoca – l’evoluzionismo – la verità è qui
vista in riferimento a un processo di evoluzione organico e Peirce si rifà al cammino delle scienze che, nella sua
opinione, consiste in un progressivo e (quasi) infinito affinamento della rappresentazione della realtà. La verità
apparirà in the long run.
La verifica pratica di un’idea non vuol dire né mera utilità né un semplice verificazionismo empirico.
Secondo Peirce, la formula pragmatica individua un livello di conoscenza nel significato più completo rispetto a quello
della familiarità dell’uso e a quello analitico delle definizioni. Non che questi due primi livelli vengano rifiutati, ma essi
devono essere completati da un modo più naturale e scientifico di conoscenza.
Con la morte del padre nel 1880 comincia un’epoca del tutto nuova del pensiero di Peirce. Gli ampliamenti, già
evidenti negli anni Ottanta, possono essere riassunti sotto tre capi:
- matematica del continuo
- logica dei relativi
- fenomenologia
Ristudiando le carte matematiche del padre, Peirce si rende conto di poter tradurre il proprio realismo in termini più
precisi attraverso la nozione di “continuità” che spesso era affiorata anche nei suoi scritti precedenti.
L’analisi della rappresentazione secondo Peirce coincide anche con una più compiuta analisi logica che non può
accontentarsi della logica classica di tipo aristotelico o stoico: occorre cercare di rappresentare la complessità delle
relazioni che i fenomeni presentano.
Anche i fenomeni dai quali ogni rappresentazione prende le mosse dovevano essere analizzati in modo più preciso e
conforme agli studi di semiotica già sviluppati. Da qui, le tre categorie:
- Primità: è la categoria che descrive un fenomeno che si riferisce solo a se stesso;
- Secondità: è la categoria dello scontro esterno che ogni fenomeno assume quando viene messo in relazione con
qualsiasi altro fenomeno;
- Terzità: è la mediazione. Quando la scienza è passata dalla descrizione qualitativa delle cause e degli effetti alla
misurazione quantitativa ha introdotto elementi “terzi”, mediazioni in grado di spiegare e misurare quelle che
altrimenti sarebbero state differenze insormontabili.
Queste rappresentano le relazioni fenomenologiche elementari a partire dalle quali ogni fenomeno può essere letto.
Gli anni Novanta sono segnati innanzi tutto da un disegno cosmologico che unisce le categorie fenomenologiche, gli
studi sulla continuità e le dottrine evoluzionistiche. Nella serie di cinque articoli scritta per “The Monist” tra il 1890 e il
1892 Peirce comincia con l’attaccare l’impianto necessitarista della filosofia moderna, che ha nel positivismo il suo
fulcro. Un simile impianto, infatti, non considera mai il fatto che in qualsiasi campo scientifico i dati sono solo
statisticamente uniformi, mentre singolarmente essi mostrano sempre lievi divergenze, anche quando gli strumenti
siano perfetti e le leggi esplicative apparentemente stabilizzate. L’evoluzionismo entra in gioco come elemento terzo
in grado di spiegare come mai il caso abbia determinato delle leggi. L’evoluzione è intesa come la capacità di assumere
abiti d’azione, capacità facilmente osservabile nei fenomeni della crescita e dello sviluppo.
Le leggi si creano solo a un certo punto e hanno un dominio e una validità limitati perché esse sono parte di un
processo che l’acquisizione di abiti d’azione spiega meglio dell’uniformità legalistica. Per questo una filosofia
realmente scientifica deve essere “fallibilista”, ossia considerare sempre che la propria rappresentazione della realtà è
un tentativo di generalizzazione che è potenzialmente infinito.
Da qui nasce anche una cosmologia che Peirce enuclea alla fine di “The Architecture of Theories” (1890): in principio
era il caos, il nulla inteso come indistinzione assoluta in cui ci sono solo elementi di primità. Secondo la proprietà che il
realismo oggettivo peirceano ascrive alla mente, il primo elemento di vita di questa mente cosmica, ossia di questa
profusione di segni, sarà il feeling. Il puro nulla è un mondo di feelings indistinti. Da esso sorgerà l’evoluzione
attraverso abiti d’azione (terzità) e questi ultimi produrranno quelle uniformità che chiamiamo leggi di natura
(secondità). Del resto, la stessa materia in quest’ottica è parte del processo di regolarizzazione, è effete mind.
L’evoluzionismo che qui viene indicato come fattore costitutivo della realtà e corrispettivo delle relazioni continue non
è quello darwiniano – da Peirce condannato come una barbara legge di sopravvivenza del più forte – ma quello
lamarckiano che avviene attraverso l’acquisizione e la conservazione degli abiti d’azione.
Intorno al Novecento le sue ricerche si focalizzano soprattutto su tre temi: la continuità, una formalizzazione della
logica che egli chiamerà “grafi esistenziali”, la scoperta dell’importanza dell’etica e dell’estetica.
La “vera continuità” è riconosciuta come esistente ma la sua natura deve essere non metrica. Dal punto di vista
filosofico ciò significa che la realtà non può più coincidere con l’analitica della rappresentazione che Peirce aveva
sostenuto negli anni precedenti. In conformità a quanto sostenuto negli articoli cosmologici, la natura del reale in
evoluzione eccede l’analisi. Quest’ultima può dimostrare che c’è una realtà continua che si evolve ma non può
descriverla nei suoi stessi termini. E’ quella che riteniamo una definizione per assurdo del realismo metafisico
peirceano. Peirce, del tutto all’oscuro dei contemporanei studi di Frege, ne era particolarmente orgoglioso avendo
trovato il modo di congiungere nel “gesto” del disegnare diagrammi la rappresentazione mentale, il ragionamento
necessario e la verifica visibile.
Infine, la classificazione delle scienze mette in luce che la logica è a sua volta poggiata su tutte altre scienze normative,
l’estetica e l’etica, che andranno qui intese in senso gnoseologico e non come campi estrinseci alla logica.
La “grammatica speculativa” è lo studio dei tipi di segno che ogni logica deve utilizzare.
La definizione base è quella di segno:
“Per segno intendo qualsiasi cosa, reale o fittizia, che è capace di forma sensibile, applicabile a qualcosa d’altro da sé
che sia già noto, e che sia capace di essere interpretata in un altro segno, che io chiamo il suo Interpretante”.
Perché vi sia un segno occorre che vi sia un rapporto tra oggetto, representamen e un interpretante. Un oggetto è ciò
che è “altro” rispetto al representamen.
Ci sono due tipi di oggetto secondo Peirce: l’oggetto dinamico e l’oggetto immediato. Che cos’è l’oggetto dinamico?
“L’oggetto così com’è indipendentemente da ogni aspetto particolare, l’oggetto che vive relazioni tali che solo uno
studio illimitato e finale mostrerebbe”.
L’altra caratteristica dell’oggetto dinamico nella descrizione novecentesca della semiotica è di poter essere individuale
e, in effetti, il modo in cui si viene a conoscenza dell’oggetto dinamico è tramite esperienza, cioè tramite una
secondità.
L’oggetto immediato, invece, è “l’oggetto così come è riconosciuto nel segno e, quindi, un’idea”. L’oggetto immediato
è già un segno. Rimane, quindi, l’alterità propria di ogni oggetto, ma è l’alterità che il segno trova rispetto a se stesso
visto in un’altra ottica.
Peirce aveva provato diverse classificazioni dei segni. Le 15 categorie di base descrivono anche la progressiva crescita
del segno.
Più che sull’analiticità della divisone, però, è importante soffermarsi un’ultima volta sulla tricotomia tra icona, indice e
simbolo che Peirce considera essenziale per la trasmissione del significato. Come si è già visto, la connessione tra
l’oggetto dinamico e il representamen è individuata dalla triade icona, indice e simbolo, che rappresentano l’oggetto
rispettivamente per similarità, connessione diretta, interpretazione. L’interpretante è un segno che ci fa conoscere
qualcosa di nuovo. La differenza di funzione per cui Peirce divide il segno dall’interpretante è che il secondo viene
considerato dal punto di vista dell’avvenuto passaggio di significato contenuto nell’oggetto immediato, trasmesso in
una certa forma rappresentativa giudicata bella e praticabile. Peirce individua tre modi dell’interpretante:
- immediato
- dinamico
- logico o finale
INTERPRETANTE IMMEDIATO: è la qualità dell’impressione prodotta dall’oggetto attraverso il segno. Il segno suscita
sempre una certa impressione qualitativa, che esso sia un’icona, un indice o un simbolo. E’ il rendersi conto di trovarsi
di fronte a qualcosa che può essere interpretato come segno;
INTERPRETANTE DINAMICO: è qualsiasi interpretazione che una mente qualsiasi dà attualmente di un segno;
INTERPRETANTE LOGICO o FINALE: consiste nell’abito d’azione condizionale futuro che un certo oggetto può creare. In
questa condizionalità futura sta tutta la forza del pragmatismo: per capire un oggetto osserviamo il significato che esso
produrrebbe in determinate situazioni; l’insieme degli effetti sarà il suo significato. L’aspetto fondamentale è qui l’uso
del condizionale. Un segno comunicherà il proprio oggetto se e quando si presenteranno delle condizioni adeguate.
Peirce parla anche di “istinto razionale”. Questo fa parte di un più generale senso comune – egli definirà l’intera sua
teoria critical common sensism – che è il modo con cui l’umanità ha lentamente fatto evolvere le proprie credenze e
rappresentazioni della realtà ma soprattutto i propri modi di ragionare, che sono anch’essi in qualche maniera in
evoluzione.
In questo quadro emergono gli ultimi studi di Peirce per una definizione logica stringente della continuità del reale.
L’inizio delle credenze è vago, perché con questo termine Peirce identifica uno stato di possibilità nel quale non vale il
principio di contraddizione, mentre l’evoluzione finale delle credenze è la generalità, che coincide con la necessità
logica nella quale non vale il principio di terzo escluso.
Nella visione finale del dilemma sul continuo, esso appare come una regolarità, una continuità speciale che è la
condizione di possibilità della continuità generale. La continuità è dunque la legge di tutte le leggi perché in essa si
realizza una condizione (la regolarità) che fa sì che al suo interno possano sussistere singole parti senza per questo
interrompere il continuo. La continuità non è la mancanza di un’interruzione ma una coesione interna degli stessi
elementi. Tale “coesione interna” non è la semplice successione di fatti atomici, bensì un’unità ottenuta per essenza,
laddove l’essenza non è ancora stata “ab-stracta” dal singolo individuo.
La menzione del termine “essenza” desta qualche perplessità in chi abbia seguito l’evoluzione del pensiero di Peirce,
che non ha mai rinnegato l’antiessenzialismo iniziale. Tuttavia, gli ultimi studi sulla continuità, spesso oscuri e così
intersecati con la logica, mostrano il rafforzarsi della concezione realista e l’esigenza di un diverso tipo di metafisica
che possa tener conto della determinazione dell’universale nel particolare in un senso nuovo, dinamico ed evolutivo,
non fondazionalista in senso classico.
La “metodeutica” è lo studio dei metodi della ricerca, dell’esposizione e dell’applicazione della verità. In realtà, tale
definizione è piuttosto tarda all’interno dell’opera peirceana. La sua metodologia della ricerca: nasce da un fenomeno
sorprendente e da una considerazione estetica ed etica che presiedono al procedimento abduttivo, continua
attraverso una verifica deduttiva e termina con una verifica induttiva.
Data la difficoltà filologica, gran parte della ricezione è stata legata alla comprensione del quadro complessivo
dell’opera peirceana, di cui a lungo si è pensato che non si potesse trovare un filo sistematico. Le visioni più
dichiaratamente interpretative dell’opera di Peirce sono apparse dapprima fuori dai confini degli Stati Uniti. Già negli
anni Sessanta Apel e Habermas tentano un’applicazione della logica sociale peirceana alla logica della comunicazione.
Negli anni Settanta Umberto Eco utilizza l’impianto triadico della semiotica peirceana per la sua semiotica
interpretativa.
Per comodità si sono designate tre linee di ricezione di Peirce:
1) La prima – ben rappresentata da Tiercelin, Haack, Hookway, Misak – cerca di utilizzare il pragmatismo peirceano
come miglioramento e compimento storiografico e filosofico della filosofia analitica servendosi soprattutto del
realismo metafisico e della concezione di verità.
2) La seconda tendenza è quella che sottolinea il distacco da Kant a favore di Hegel, gli aspetti esistenzialisti,
ermeneutici, valorizzatori della tradizione e del ragionamento incarnato. Questa lettura mette Peirce in relazione tanto
ad autori classici dell’ermeneutica quanto al secondo Wittgenstein e alla psicoanalisi. [Calcaterra]
3) La terza tendenza, rappresenta da Zalamea e Maddalena, legge Peirce come iniziatore di una matematica e di una
logica nuove che si possono derivare dai suoi studi sulla continuità, sulle caratteristiche semiotiche dei grafi
esistenziali, sui tentativi di trovare una prova dell’innovativo ragionamento sintetico garantito dalla massima
pragmatica.
WILLIAM JAMES
Il protagonista eminente e l’innovatore riconosciuto della psicologia di fine Ottocento; il padre nobile – insieme a
Charles Peirce e John Dewey – del pragmatismo americano; il filosofo brillante che abbraccia l’ “empirismo radicale” e
la prospettiva di un “universo pluralistico”. William James non è identificabile con nessuna di queste definizioni per sé
prese, ma le unisce e le intreccia tra loro lungo un percorso intellettuale. Come ha sostenuto Francesca Bordogna, in
James la filosofia e la scienza disegnano un’inedita “geografia della conoscenza”, le cui diverse regioni egli riuscì ad
attraversare in svariate direzioni senza ancorarsi a un certo immobile, ma in vista di un progetto intellettuale volto a
trasformare la posizione del filosofo nella cultura statunitense a cavallo tra Ottocento e Novecento, delineando una
nuova immagine dell’uomo. “Principles of Psychology” nel 1890, le famose conferenze dell’inverso 1906-07, subito
raccolte in “Pragmatism: a New Name for Some Old Ways of Thinking”, fecero di lui una figura di primo piano della
cultura filosofica di quegli anni: letto e tradotto, elogiato e incompreso un po ovunque. Non meno significativa fu la
presenza di James nella cultura filosofica della vicina Francia, dove soprattutto l’amicizia e la convergenza intellettuale
con Bergson segnarono in profondità le vicende intellettuale del primo Novecento.
Tuttavia c’è da dire che, quella di James, fu una breve fortuna. Dopo la morte, avvenuta nell’agosto del 1910, la prosa
seducente delle sue opere non incontrò più né il favore dei proseliti, né l’ostilità degli avversari. In Europa uscì
sostanzialmente di scena con lo scoppio della Prima guerra mondiale, mentre negli Stati Uniti la sua eredità rimase
nettamente inferiore rispetto al capitale che egli aveva accumulato.
Cenni biografici:
La vita di un uomo si può ricostruire in molti modi; ma quella di un pensatore come James è difficile da raccontare. Chi
lo ha fatto nella maniera più documentata si è avvicinato come nessun altro all’idea limite della completezza.
Nasce a New York nel gennaio 1842. Lasciando, ben presto, da parte l’ambiente familiare, culturale e religioso in cui
egli crebbe fu influenzato da diversi aspetti come la frequentazione di casa James da parte di un personaggio eminente
come Emerson, gli studi tra Stati Uniti ed Europa, il trauma della Guerra di secessione. Nel suo diario, alla data del 30
aprile 1870 (“un giorno cruciale”), James annotava che la lettura delle pagine di Renouvier aveva posto fine a un
dilemma tormentoso e aggravato dalle sue crisi depressive: esiste la libertà o siamo soggetti a un rigido
determinismo? Renouvier aveva dato la risposta giusta: sì, siamo liberi e “il mio primo atto di libero arbitrio consisterà
nel credere nel libero arbitrio”.
Ma il tema della credenza era anche legato a un’altra esperienza a cui James andò incontro di lì a poco. A Harvard un
gruppo di studiosi animati da svariati interessi intrecciata periodicamente vivaci discussioni, dalla filosofia alla
psicologia, dal diritto alle teorie di Darwin. Vi prendevano parte Chauncey Wright, John Fiske, Francis E. Abbot e un
uomo geniale ma bizzarro come Peirce. Il trentenne James prese parte alle riunioni del Metaphysical Club e ne colse i
semi che daranno molti frutti più tardi.
Nel 1878 l’editore Holt di New York propose a James di scrivere un manuale di psicologia. James insegnava a Harvard
Fisiologia e Anatomia; soltanto nel 1879 diventerà professore di filosofia nell’università. Fondò inoltre il primo
laboratorio di psicologia sperimentale degli Stati Uniti.
“La psicologia – esordiva James – è la scienza della vita mentale, dei suoi fenomeni e delle sue condizioni”. L’insistenza
sulle “condizioni” non è un aspetto marginale: certamente la psicologia non può fare a meno del supporto della
fisiologia e, in specie, della fisiologia cerebrale; più in generale, non si dà modificazione mentale che non sia
accompagnata da un mutamento corporeo. Tuttavia, ciò che distingue i fenomeni mentali sono il perseguimento di
scopi futuri e la scelta dei mezzi per raggiungerli. James non parlava di “intenzionalità” come aveva fatto Brentano, ma
non gli sfuggiva che la specificità dei fenomeni psichici era il punto nevralgico da affrontare, non già ricorrendo a una
spiegazione genetica, quanto impegnandosi nella loro descrizione. Per preparare il terreno a una simile descrizione
James doveva rimuovere due ostacoli ingombranti.
1) Il primo era l’eredità dell’associazionismo psicologico, da Locke sino a Herbart, a cui James imputava l’errore di aver
immaginato entità “mitologiche” come gli atomi psichici o le idee che vanno e vengono nella mente combinandosi tra
loro;
2) Il secondo ostacolo era il pregiudizio nei confronti dell’introspezione, quasi che l’unico punto di vista per
considerare i fenomeni psichici fosse l’assunzione di un punto di vista esterno, come di un osservatore che assiste allo
spettacolo di quanto avviene nella mente.
La “fallacia dello psicologo” stava proprio qui: nel credere che si possa descrivere un fenomeno psichico stanco “fuori”
di esso, senza accorgersi che in tal modo si confonde il proprio stato psichico con quello che osserviamo,
“corrompendolo” inavvertitamente.
Quanto James si attenesse a questo quadro generale di riferimento lo mostravano le ampie analisi dedicate
all’attenzione, alla percezione, all’immaginazione, alle emozioni e alla volontà, al tempo e allo spazio. Egli raccoglieva
anche i risultati delle indagini condotte in precedenza e i frutti della sua consuetudine, per fare un esempio illustre,
con l’ottica fisiologica di von Helmholtz, che lo induceva a considerare la complessità della percezione spaziale
coinvolgendo i feelings che accompagnano le nostre sensazioni dello spazio o, meglio, dei diversi tipi di spazio.
Di qui James giungeva alla parte più originale dei Principles of Psychology. Il dovere dello psicologo è di aderire il più
possibile al pensiero che stiamo studiando e vivendo noi stessi: nel “brulicante continuum” della vita mentale mai un
pensiero è uguale a se stesso e mai una sensazione è separata da uno sfondo di altre sensazioni, come fosse
circondata da un “alone” che la sfuma verso altre sensazioni. In questo complesso intrecciarsi, in questo fluire vi sono
tuttavia battute di arresto: le “parti sostantive” che interrompono come nel volo di un uccello il suo movimento, per
poi cedere di nuove alle “parti transitive” il loro scorrere. Il linguaggio è appunto un arrestarsi provvisorio; ma la vita
mentale riprende il suo corso, tra le “frange” e gli “aloni” che circondano ciò che solo impropriamente può definirsi
parte di essa. Non solo le nostre sensazioni tendono verso qualcosa, selezionano e si proiettano in avanti sulla base
dell’attività della mente e dell’attenzione che innerva ogni suo atto. Questo non significa che si possa fare a meno
delle “concezioni”, ossia di qualcosa di “distinto e permanente” che resiste nel suo invariabile significato pur nel
variare del flusso delle sensazioni. Attenersi saldamente a questi nuclei di “materia pensabile” è irrinunciabile ed essi
addirittura possono “permanere in eterno”: una dichiarazione che potrebbe sembrare molto impegnativa per il James
psicologo, ma che ben accorda con la convinzione secondo la quale la mente dell’uomo non è un semplice registro di
quanto avviene, ma una sorta di selettore di ciò che esperisce.
La parola finale di James era dunque ben chiara: l’empirismo tradizionale ha fallito, anche se è vero che “le cause della
nostra struttura mentale sono indubbiamente naturali e connesse, come tutte le altre nostre caratteristiche, con
quelle della nostra struttura nervosa”. Alla fine, psicologia e filosofia sembravano darsi la mano per descrivere che
cosa sia la nostra coscienza.
Il capitolo finale dei Principles of Psychology potrebbe far pensare che là dove si conclude la strada dell’indagine
psicologica si apre per James quella della riflessione filosofica. Ma non è così. Nei lunghi anni in cui James si era
dedicato alla stesura del suo capolavoro, una nutrita quantità di saggi, interventi e recensioni attesta il
contemporaneo sviluppo di una prospettiva filosofica, certamente erede del Metaphysical Club.
Come per molti esponenti della sua generazione, e come per tutti i protagonisti degli incontri del cenacolo di Harvard,
all’ordine del giorno vi erano Darwin e l’evoluzione delle forme viventi, ma in misura non minore anche la critica
dell’evoluzionismo di Herbert Spencer: come dirà più tardi Peirce, “di tutti i ciarlatani ancora in vita lui è il peggiore”
(Peirce, James). James non lesinava le obiezioni al “ciarlatano” Spencer e alla sua descrizione del processo
dell’evoluzione della mente. Intanto era proprio la concezione della mente a dover essere messa in discussione,
tenendo conto di ciò che Spencer invece trascurava: la vita emotiva e volitiva, le inclinazioni morali, i gusti e i
sentimenti estetici. Ma il punto più importante era la riduzione spenceriana della mente a un puro adattamento alle
circostanze esterne, all’ambiente in cui essa deve sopravvivere e svilupparsi: in una parola, la riduzione alla sua pura
funzione di “rispecchiare” e di “registrare”. Al contrario, insisteva James, la mente non solo non si limita alla ricerca di
una “corrispondenza” con la realtà, bensì è costantemente animata dal perseguire determinati fini, dall’essere in tutto
e per tutto orientata teleologicamente.
Certamente, come sostiene Spencer, la mente deve pensare correttamente e in tal senso “corrispondere” alla realtà.
Ma questo è solo un truismo; per James l’aspetto cruciale consisteva invece nel riconoscere la “spontaneità” della
mente, la sua capacità di non limitarsi a riflettere passivamente l’esistente, assumendo piuttosto il ruolo di un “attore”
conoscitivo, di un “co-efficiente della verità”.
Anche perché avviato alla stesura dei Principles of Psychology, in questi anni James indirizzata sempre più la sua
attenzione verso la vita della mente, al di fuori delle prospettive poco allettanti dell’evoluzionismo di Spencer e dando
per acquisita la lettura non lamarckiana di Darwin allora sin troppo diffusa. Il testo che meglio documenta il percorso
filosofico di James a partire dalla fine degli anni Settanta è il saggio dedicato a The Sentiment of Rationality, già nel
titolo una sorta di provocazione se si pensa a quanto nella tradizione filosofica la ragione e il sentimento fossero
rimasti rigorosamente distinti. Ora la mente non è, per James, avulsa da sentimenti, passioni, intenzioni, aspettative
pratiche; e questo non è affatto alieno alla ragione, ma ne costituisce piuttosto il tessuto. La “passione” di semplificare
e di usare con parsimonia la nostra attrezzatura intellettuale; la convinzione che per classificare i fenomeni in vista
della loro conoscenza si debbano usare i concetti come “strumenti teleologici”; la constatazione che un sentimento di
soddisfazione accompagna la conoscenza come una specie di test della sua veridicità, mentre l’insoddisfazione ne
denuncia l’insufficienza.
Nelle pagine, composte nel 1879 e integrate nel 1882, per poi essere rifuse in The Will to Believe, si delinea un
passaggio cruciale dell’opera di James. L’eco del pragmatismo non “ufficializzato” del Metaphysical Club si incanalava
già tra gli argini che James verrà erigendo sul finire dell’Ottocento, tanto che lo scrutinio del sentimento della
razionalità induceva James a insistere sul tema delle conseguenze pratiche. Si trattava di formulare un precetto, in
base al quale nulla è più importante per qualcosa della relazione con le sue conseguenze future; e, più in generale, una
concezione filosofica deve soddisfare un “requisito pratico”: “almeno in via generale bandire l’incertezza dal futuro”.
James passava così a precisare in qual senso gli abiti acquisiti della razionalità umana fossero connessi alle aspettative
che essa suscita e ne rappresentassero “una parte fondamentale”. Ma ora per James non bastava mettere in chiaro
che “la conoscenza è incompleta sino a che non si scarica in un’azione”; occorreva anche attingere a una nozione
“enfaticamente” trasmessa dalla religione cristiana, e inspiegabilmente trascurata dai filosofi, per sostenere
legittimamente che “non possiamo affatto vivere o pensare senza un certo grado di fede”. Di più: le verità non
diventano vere sino a che la nostra fede non le rende tali e vi sono persino casi in cui è la fede a “creare la nostra
stessa verificazione”.
“Hai mai avuto un po' di copie di una mia lezione in California” – scriveva James a Peirce il 3 febbraio 1899. Il testo in
questione, intitolato Philosophical Conceptions and Practical Results, era rivolto ai membri dell’Unione filosofica di
Berkeley e rinviava sin dall’inizio alla massima pragmatica di Peirce. “Il principio del praticalismo o del pragmatismo”.
Secondo tale principio il significato di un nostro pensiero è determinato dalla condotta pratica che esso è in grado di
produrre, consentendo in tal modo di mettere fine a molte dispute filosofiche senza costrutto. Tuttavia, James
riteneva che il principio originariamente elaborato da Peirce richiedesse una formulazione “più ampia”.
In base al “praticalismo” o “pragmatismo” il vero significato del concetto di Dio va cercato nelle differenze che ne
derivano per la nostra esperienza e la nostra vita nel caso che il concetto di Dio sia vero. A essere in gioco, dunque,
non era più il problema del significato messo a fuoco dalla massima di Peirce, bensì il problema di come le credenze si
traducano nella vita pratica degli uomini in termini di conseguenze e di aspettative per il futuro.
La raccolta di saggi in questione (The Will to Believe and Other Essays in Popular Philosophy) mirava innanzi tutto a
“difendere la legittimità della fede religiosa”. Come tra le ipotesi scientifiche è la più vera quella che funziona meglio,
così si può dire delle ipotesi religiose; più specificamente la credenza e la volontà di credere in qualcosa non solo sono
influenzate dalla natura intellettuale dei singoli individui, ma coinvolgono anche motivi non esclusivamente razionali e
si misurano in base alle conseguenze che esse comportano. E’ la nostra natura “passionale” a far sì che si scelga una
cosa piuttosto di un’altra, che si compia un’opzione tra proposizioni diverse. Non vi è dubbio che vi sia una “tecnica”
per verificare le verità in cui crediamo; ma si tratta appunto di un “cosiddetto metodo”.
James si richiamava alla “forza del carattere” di Emerson per sottolineare che la fede in un fatto può aiutare a creare il
fatto stesso. Il celebre episodio dell’alpinista che riesce a saltare l’abisso perché crede fermamente di riuscire a farlo,
mentre sprofonderebbe se la sua volontà vacillasse, era qualcosa di più di un esempio. James intendeva dar forza a
una tesi non esente da ambiguità e dal rischio di accreditare un primato della volontà che travalicava i limiti del suo
pur asserito empirismo. Ma la vita è degna di essere vissuta solo se accettiamo il rischio e se crediamo che valga la
pena accettarlo.
L’abile conferenziere, che con la sua eloquenza catturava anche l’attenzione di un pubblico non specialistico,
concedeva spazio a un’eccessiva enfasi retorica e metteva in ombra il rigore dell’argomentazione. Per pratica James
intendeva l’insieme delle conseguenze che derivano per la nostra vita, la nostra visione del mondo e la nostra
responsabilità morale se si opta per l’indeterminismo anziché per il determinismo. E’ un mondo in cui è presente il
caso e dunque è possibile vivere non affidandosi a ciò che è già deciso in partenza, ma abbracciando il dominio della
possibilità. Un mondo, non si stancherà di ripetere James sino alla fine, che possiamo migliorare perché ci sono ancora
molte pagine da scrivere e nel quale non possiamo concederci “vacanze morali”:
Tutto questo non era molto congeniale a Peirce, impegnato su un fronte ben diverso con le sue categorie triadiche e
una complessa architettura metafisica sempre in rifacimento. Più tardi, Peirce non avrebbe esitato a far valere,
dissentendo da James, l’originario significato della massima pragmatica, che era semplicemente un metodo “per
accertare i significati di parole difficili o di concetto astratti”. Ma James andava oltre questo criterio di significato: per
lui il pragmatismo era diventato una dottrina vera e propria, secondo la quale “l’intero significato di un concetto si
esprime o in forma di condotta da seguire o di esperienza da aspettarsi”. Peirce aveva rimproverato a James di aver
spinto “il pragmatismo troppo avanti per i suoi gusti”. E aveva aggiunto: “il pragmatismo non risolve alcun problema
reale. Esso mostra solo che alcuni problemi non sono veri problemi”.
Se James da un lato manifestava le sue crescenti perplessità di fronte al sistema che Peirce veniva oscuramente
costruendo sullo “schema artificiale di tabulazione” della primità, della secondità e della terzità, troppo infarcito di
logica e di matematica per la sua mentalità a-logica.
James scava a fondo nei recessi della coscienza umana, dove alberga qualcosa che sfugge all’indagine psicologica
tradizionale e all’esperienza sensibile. Ed era consapevole, al tempo stesso, di quanto si dovesse andare al di là di ogni
razionalismo addentrandosi in una selva così fitta e in parte inesplorata. Ma non per questo veniva meno alle
convinzioni del filosofo pragmatista, che guarda alle conseguenze piuttosto che ai principi. “La verità è che nella sfera
religiosa e metafisica – sosteneva James – le ragioni articolate sono cogenti, per noi, solo quando le nostre sensazioni
inarticolate di realtà sono già state impressionate in favore della conclusione”. E aggiungeva, quasi a scanso di
equivoci: “La sicurezza istintiva è la cosa più profonda in noi, l’argomentazione è solo un’esibizione superficiale. Gli
istinti trascinano, l’intelligenza non fa che seguire”. Ma “The Varieties of Religious Experience” accreditò soprattutto
qualche connubio tra pragmatismo e fede religiosa che non sempre giovò alla comprensione dell’originalità del
pensiero filosofico di James, certamente non riducibile alla rivendicazione di andare oltre il sapere per far posto alla
fede.
Nella primavera del 1907 James pubblicava Pragmatism: A New Name for Some Old Ways of Thinking, in cui era
raccolto un ciclo di conferenze tenute a Boston e New York nell’inverno precedente. Per la verità, lo stesso James
avvertiva subito che il termine “pragmatismo” non gli piaceva più di tanto; ma ormai era troppo tardi per cambiarlo
vista la sua rapida diffusione. Piuttosto gli premeva sottolineare come tra il pragmatismo – inteso essenzialmente
come un metodo – e l’ “empirismo radicale” che egli stava elaborando non vi fosse “alcuna connessione logica”.
Il metodo pragmatista poteva essere utilizzato come un potente solvente per sciogliere antiche dispute metafisiche.
Esse, sosteneva James con una terminologia certo gradita ai futuri esponenti del Circolo di Vienna, “sprofondando nel
nonsenso” non appena si cerchi di individuare le loro conseguenze pratiche; ma questo implicava anche il lasciarsi alle
spalle “le soluzioni verbali, le cattive ragioni a priori, i principi inamovibili, i sistemi chiusi, i pretesi assoluti e le origini”.
James amava per questo citare un’efficace metafora proposta dal “Signor Papini”, che egli stimava particolarmente e
di cui elogiava tanto la chiarezza quanto l’audacia intellettuale nel promuovere una forma radicale di pragmatismo.
Per Papini il pragmatismo era come il corridoio di un Hotel, sul quale si affacciano diverse stanze: in una c’è qualcuno
che scrive un’opera atea, in un’altra si gettano le basi di una metafisica idealistica, più in là un uomo prega in
ginocchio; ma alla fine tutti devono percorrere il corridoio se vogliono entrare nelle rispettive camere o uscirne.
Nell’Hotel pragmatista si rappresentavano, insomma, le avventure della filosofia, costringendo le teorie a mostrare il
loro “valore in contanti”: un’incauta espressione che attirò a James la facile accusa di essere un tipico esponente della
mentalità yankee.
Le brillanti pagine di Pragmatism trovavano così il loro punto focale nella concezione della verità, che procurò a James
un’interminabile serie di obiezioni più o meno aggressive e un non meno nutrito elenco di fraintendimenti. La “verità
transatlantica” su cui ironizzerà Russell muoveva dalla convinzione che non vi fosse una verità eterna e immutabile,
bensì che la verità è l’insieme, il nome collettivo dei “processi di verificazione” grazie ai quali la verità ci procura
“soddisfazione” e si accorda con le verità precedenti. Un’idea verificata è un’idea che ci guida nell’esperienza, che si
rivela un utile strumento di azione, un punto di fuga verso il quale orientarci; ed è per questo che James sosteneva che
la verità non è, ma accade: “un’idea diventa vera, è resa vera dagli eventi”. Due passi cruciali:
1) METAFORICO: James si avventurava a definire la verità come “un sistema di credito”, in forza del quale nostre
credenze circolano come banconote;
2) AMBIGUO: James definiva la verità in termini di utilità vero è, in sostanza, ciò che è “appropriato” nel corso del
pensiero umano, così come lo è il giusto per quanto riguarda il comportamento. E aggiungeva: “appropriato sotto tutti
i rispetti, nel lungo periodo e nell’insieme naturalmente”.
Una volta riconosciuto che la scelta del nome “pragmatismo” era stata infelice perché evocava un primato dell’azione,
James:
- precisava come fosse un errore negare che il pragmatista potesse essere un realista epistemologico;
- reagiva fermamente a chi accusava il pragmatismo di ignorare l’interesse teoretico e, infine, rivendicava il “carattere
puramente epistemologico” della filosofia pragmatista contro ogni sua interpretazione attivistica o utilitarista.
Queste e altre precisioni rappresentavano il commento migliore che James potesse fare a se stesso; ma non si può
dire che i suoi critici si mostrassero disposti ad andare oltre alle pagine sulla verità del suo libro più letto e più conteso.
EMPIRISMO RADICALE un simile empirismo poteva essere qualificato, al tempo stesso, come radicale” perché
rifiutava – diversamente da altre forme di positivismo, di scientismo naturalistico – ogni tipo di monismo che
dogmaticamente pretendesse di inquadrare l’esperienza. E anche per questo, aggiungeva James, occorreva
considerare la differenza tra monismo e pluralismo come la più importante fra tutte le differenze possibili in filosofia.
Nel libro sul pragmatismo James aveva sostenuto che il pragmatismo non era una filosofia, ma solo un metodo. Per
quanto quella distinzione possa apparirci problematica, è certamente vero che l’empirismo radicale come autentica
posizione filosofica venne elaborato da James in alcuni saggi essenzialmente concentrati dal 1904. Nel primo di essi
James, un po' provocatoriamente si poneva la domanda “Does Consciousness Exist?”. Il punto di partenza era il
fenomenismo di Mach e la sua proposta di superare il dualismo tra fisico e psichico, considerandoli entrambi soltanto
come due modi differenti di riferirsi all’esperienza. E’ inutile, insomma, “grufolare sotto terra alla ricerca di cosa
effettua l’effetto”. Tuttavia, non solo l’esperienza è semplicemente “esperienza pura”, ma non è neppure plausibile
restare fermi alla tradizionale distinzione tra un soggetto esperiente e un oggetto esperito, tra la coscienza e il suo
contenuto. Certamente, esemplificava James, il fuoco può essere ciò che brucia o scotta una mano ed è differente dal
fuoco che noi abbiamo in mente quando pensiamo al fuoco; ma questo non significa che il fuoco non sia sempre lo
stesso o che la differenza sia tra due mondi distinti e contrapposti, tra il fisico e lo psichico. Nel linguaggio efficace ma
scevro di ogni tecnicismo di James, una simile prospettiva implicava che l’oggetto cosiddetto “esterno” può essere
preso temporaneamente in affitto, mentre in quanto contenuto mentale esso è disponibile gratuitamente e lo si può
tenere per tutto il tempo che si vuole.
Era questo il “monismo neutrale” di James, che avrebbe rappresentato uno dei termini autorevoli della discussione
novecentesca su mente e corpo soprattutto grazie alla mediazione di Russell, pronto a riconoscere nel 1921 la tesi
jamesiana come una “dottrina rivoluzionaria”. La “rivoluzione” di James comportava tuttavia anche un’altra
conseguenza. Se la coscienza “non esiste” come un mondo contrapposto ad essa, molti concetti monumentali della
filosofia vengono a cadere: in primis quello di Io trascendentale che per Kant dovrebbe unificare e accompagnare tutte
le mie rappresentazioni. L’esistenza di relazioni interne, ovvero di relazione tra le cose che comportano la
modificazione delle cose stesse in base alla natura della relazione è questo per James che significa concedere un
posto all’Assoluto, a un principio che priva di autonomia le parti dell’esperienza e le assoggetta al pensiero che le
pensa, degradandole a mera apparenza. Il principio dell’empirismo radicale era invece un altro: le relazioni si danno
nell’esperienza e vengono percepite o conosciute direttamente come tutte le altre parti dell’esperienza. “Le relazioni
che connettono le esperienze devono esse stesse essere delle relazioni esperite”.
La vita mentale non è altro che questo: sostituire l’ordine dei concetti con l’ordine dei percetti che proviene
originariamente dall’esperienza. La mappa dei concetti, come tutte le mappe, è solo una superficie: i suoi tratti sono
segni o simboli che appaiono come “pezzetti concreti” dell’esperienza vissuta.
In questo James divergeva tuttavia da Bergson e dalla sua “durata reale”. A fronte del flusso incessante della “durata”
che non conosce pause e che può essere colta solo tramite l’intuizione, James difendeva la possibilità di “crivellarla di
aggettivi e sostantivi e preposizioni e congiunzioni”. Su questa base James non cessava di interrogarsi su come si
dovesse intendere l’esperienza, restando in parte in sintonia proprio come Bergson. Rifiutato il monismo con le sue
implicazioni assolutistiche, demolite le vecchie cattedrali metafisiche costruite con la sostanza o i noumeni, occorreva
ribadire che se il mondo dell’esperienza è un mondo connesso da relazioni esterne esperibili, proprio per questo è un
mondo pluralistico. Qui l’empirismo radicale assumeva dunque una connotazione più ampia: si trattava della finitezza
di noi uomini e della finitezza di un mondo che nessuna forma omnicomprensiva potrà mai ridurre a un principio
assoluto “estraneo a noi”.
L’universo pluralistico rappresentava così, nell’ultimissima fase del pensiero di James, una sorta di grande quadro
all’interno del quale si svolgeva la polemica antintellettualistica, trovava posto l’empirismo radicale e non solo si
apriva all’uomo una visione religiosa, ma era garantita anche la possibilità che ogni singolo individuo facesse sentire la
propria voce. Come se non bastasse, era anche l’universo che ospitava la “terza vita” del “migliorismo”, fedele in
questo a quanto il metodo pragmatico aveva insegnato nello scegliere tra pensatori duri e pensatori dai piedi dolci.
Ma qui era in gioco qualcosa di più di una disputa filosofica. In Some Problems of Philosophy, nelle ultime pagine
scritte prima della fine improvvisa, James sottolineava che l’universo pluralistico era concepito sulla base di un’
“analogia sociale” vale a dire come un “pluralismo di poteri indipendenti”.
JOSIAH ROYCE
Nonostante il suo grande successo iniziale, in breve, la sua stella declinava, fino a ridursi a un flebile brillio, senza che
in Italia si percepisse mai una luce abbagliante. La sua stessa patria non è stata troppo generosa con lui. Oggi, tuttavia,
molti guardano a Royce come a un autore di elevato spessore, straordinariamente colto e brillante, versato in più
discipline. Due ragioni per cui essere definito un “pensatore pragmatista”:
- ineludibile: egli stesso si definiva tale in molti passaggi dei scuoi scritti;
- conclusiva: era stato Peirce, il fondatore della scuola, a indicare Royce come l’unico pensatore che potesse aspirare a
giusto titolo a essere definito pragmatista.
Cenni biografici:
William James e Royce vivevano a Cambridge, mentre Peirce abitava poco più in là.
Royce non apparteneva, però, alla Cambridge colta e ancora eminentemente europea. Era un uomo della frontiera,
essendo nato in un borgo minerario della California, nel 1855. Poco dopo si trasferì in Germania per studiare filosofia;
frequentò Wundt e Lotze e si immerse nei testi della speculazione tedesca.
I suoi primi lavori importanti sono “The Religious Aspect of Philosophy” e “The Spirit of Modern Philosophy”, che gli
valsero la cattedra. I suoi rapporti con Peirce, costanti e forieri di una lunga, reciproca influenza, condurranno a una
maggior attenzione verso i problemi di logica, in special modo verso i temi dell’infinità e della continuità.
Royce muore nel 1916. Tra i suoi allievi spiccano George Herbert Mead, Clarence Irving Lewis e John Boodin.
Nel 1903, nel suo discorso inaugurale all’incontro dell’American Philosophical Association, Royce ammette di essere
stato alcuni anni addietro un “puro pragmatista”, sulla scia prevalentemente di William James. D’accordo con James
Royce sottolinea l’uso delle idee come piani d’azione, la loro proiezioni nel futuro e l’attenzione cognitiva ai risultati
cui esse danno luogo;
D’accordo con Peirce Royce evidenza il ruolo del fine (purpose) all’interno del significato intellettuale.
Ma per Peirce e Royce il pragmatismo è un corollario del principio logico che prevede l’uso modale del condizionale
concernente tutti i futuri risultati concepibili del concetto, e non guarda solo alle sue conseguenze immediate e
percepibili dotate di “valore di cassa”.
Royce lotta a lungo contro questa versione “debole” del pragmatismo che attribuiva a James. E sostiene con forza che
o il pragmatismo è idealista nella sua essenza più profonda, o non è neppure da considerarsi un’ispirazione filosofica.
Dunque, se ammettiamo che “la ricerca della verità sia un’attività pratica, con un proposito etico, e che una pura
verità teoretica, tale che non possa guidare alcun processo attivo significativo, sia una totale assurdità”, se
consideriamo che sostenere una qualche verità significa esprimersi con un atto o incarnare l’idea in un gesto, allora
asseriamo un principio pragmatista, ma insieme, pure, un principio idealista, perché reputiamo questa nostra
credenza una verità eterna e non relativa, non soggetta agli accidenti della prassi. Pratico significa attivo, e attivo
significa costruttivo, ossia lavoro di costruzione potente-costituente che produce l’oggetto e, analogamente, le forme
dello stesso soggetto costituente. E’ chiaro allora che le distinzioni classiche della filosofia per Royce iniziano a tal
punto a trascolorare: per il pragmatista di stampo idealista l’eterno e il pratico vivono insieme, l’idea e l’operazione
che la forgia sono indisgiungibili, conoscere e fare hanno tratti comuni e, infine, la vita del soggetto è nella relazione
interna con il proprio oggetto. Scindere questa relazione significa non riuscire più ad agguantare le forme della vita,
ma lavorare con concetti morti, pietrificati, distinti nelle loro aride astrazioni.
La prassi, dunque, non è mai cieca: al contrario, essa è guidata da una volontà, da una creatività produttiva, da uno
scopo che la sorregge. E’ impegnata di teoria, di obbligazioni etiche. E la verità risponde ai bisogni profondi, a bisogni
morali e pragmatici al contempo.
Royce si muove come un pesce nella corrente dei “nuovi pragmatismi” come egli li definisce. Egli è convinto che ogni
conoscere abbia una finalità pratica e un’espressione pragmatica; che per chiunque ricerchi la verità, l’oggetto della
credenza sia anche l’oggetto della volontà di credere; che la verità sia posta dalle forze creative e interessate del
soggetto conoscente: “Io insisto con forza sul fatto che la conoscenza è azione, anche se essa non è mera azione”.
L’assolutismo va considerato un corollario anche del relativismo più spinto.
E’ molto originale, e certamente eloquente anche per le discussioni del nostro tempo, la critica che Royce rivolge al
pensiero evoluzionista: si è detto che per il pragmatista la verità e l’oggetto che le corrisponde sono un risultato. Ogni
evoluzionista è convinto in cuor suo che la verità dell’evoluzionismo sia dell’ordine dell’eterno, così come ogni
pragmatista che scrive che la realtà è in the making crede che proprio questo stesso dire sia invece ben stabile e
fondato. Enunciando la nostra fede pragmatista, è proprio un bisogno pratico quello che palesiamo: la volontà di
credere nell’evoluzione, nel dinamismo storico, nella centralità degli interessi, o in qualsiasi cosa possa essere ritenuta
oggi dal senso comune universalmente valida. La conoscenza aspira a farsi verità, e la verità ha fame di assoluto, fosse
anche nella forma della circolazione incessante e relativa di ogni transeunte verità.
Nessuno può dunque sottrarsi al desiderio dell’Eterno: lo dimostra anche il fatto che quando sostengo una tesi non è
me che voglio convincere, ma colui che ascolta, e nel dialogo intersoggettivo è proprio una verità assoluta quella che
sto perseguendo. L’Altro appare perciò come il mio più vero Sé, colui che invererà e sosterrà le mie credenze: non sarà
dunque un Io esterno, ma un “Sé costruttivo” che si intrama con il mio stesso Sé, “equivalente alla mia estensione e
alla mia più vasta espressione”.
In conclusione: il pragmatismo enfatizza giustamente il ruolo del giudizio come “risposta costruttiva ad una certa
situazione pratica, e non come copia di un oggetto esterno dato”, ma dimentica di notare che il bisogno più profondo
cui il giudizio risponde non è quello di essere “nostro” ma di essere vero. Tale desiderio di verità implica una comunità
di riferimento che tenga per vero ciò che noi crediamo e che si riunisca in un sé comune, immanente a ogni
particolarità e trascendente ogni finezza. Il bisogno dell’eterno è dunque uno dei nostri massimi bisogni pragmatici;
insieme, in ogni atto pratico transita la vita eterna della verità. Il pragmatismo dovrà dunque, se vuole crescere,
emanciparsi dal relativismo e dal pluralismo e farsi “pragmatismo assoluto”.
Nel 1913, scrivendo il sunto dei risultati dei propri studi logici per l’Encyclopedia of Philosophical Sciences, Royce
riasserisce la distinzione, cui questi studi l’avevano condotto, tra classi, relazioni e tipi di ordine. Riasserisce pure la
loro natura di costruzioni logiche, che però, perché la loro verità sia stabilita, devono apparire come dati, individuati
mediante la messa alla prova tramite modi di azione che ne verificano o falsificano le qualità. Questa “prospettiva
filosofica moderna molto citata” sostiene che ogni verità, inclusa dunque la verità logica, ha il proprio fondamento nel
fatto che le nostre ipotesi devono apparire coronate da successo, devono cioè rivelarsi ipotesi “che funzionano”. Lo
stesso dovrà dunque essere per le nostre suddivisioni logiche, come se si trattasse di verità proprie delle scienze
empiriche.
Ma Royce intende procedere oltre, verso una visione che egli stesso definisce “Pragmatismo Assoluto”.
In una parola: quando neghiamo l’esistenza delle classi, stiamo classificando; quando reputiamo insostenibile la
presenza di relazioni reali, mettiamo in opera un pensiero relazionale; in particolare, quando neghiamo la potenza
delle categorie di affermazione e negazione, stiamo affermando e insieme negando, ecc. In conclusione: alcune
costruzioni concettuali sono tali che lo stesso atto di liberarsi di esse implica logicamente la loro esistenza; le si devono
dunque considerare sia pragmaticamente, sia assolutamente. Assolutamente significa che quando entriamo in un
“gioco linguistico”, come direbbe Wittgenstein, non possiamo uscirne neppure se lo vogliamo e quella che pensiamo
di combattere si conferma per noi una verità indubitabile, incarnata nelle nostre stesse posture logiche e insieme
pratiche, indipendentemente perciò dall’alternanza del vero e del falso, del giustificato e dell’ingiustificato.
Anche Peirce era approdato a una teoria molto simile nei suoi scritti pragmaticisti nel 1905, ma certamente in Royce
l’accento metafisico si consolida. L’assolutezza non è un portato del senso comune, ma è dell’ordine della verità e del
fine razionale. Assoluto significa sciolto da ogni riferimento relativo a qualcosa di diverso da se stesso; significa che
non lo si può vedere in relazione a qualcosa che assoluto non è. La sostanza è causa sui, scriveva Spinoza, e i modi
sono modi della sostanza. Dunque, non dobbiamo pensare che l’Assoluto sia un contenitore, e che i modi e gli attributi
siano gli enti che lo riempiono. Piuttosto, la sostanza è l’assoluta indifferenza dei suoi attributi. Analogamente, mi
sembra, Royce dice che nel suo pragmatismo assoluto non vi è alcuna distinzione relativa tra pratico e ideale, tra
pratico ed eterno, tra pratico e teorico.
Royce sta cercando di pensare a un “Assoluto” che non sia un perno intorno al quale ruotano vari relativi: la pluralità
delle attività pragmatiche si affaccia su un piano che è il vivente, dinamico e trascolorante scorrere delle varie
prospettive che vi si aprono. Non è necessario scegliere tra assolutismo e relativismo: quando verifichiamo il “successo
pratico” delle nostre idee, quando le mettiamo in atto, non crediamo certo che esse siano mutevoli e relative, e le
esercitiamo in modo “assoluto, “perché le azioni una volta compiute sono irrevocabili e ciascuna di esse trova eco in
tutto l’universo”. Pragmatismo Assoluto è come dire relativismo assoluto, un relativismo cioè che non si ponga in
alternativa all’Assoluto, ma ne incorpori i modi per non rimpiangerne mai la stabilità. L’atto deve essere redento dalla
volontà, dal proposito ideale, dal fine razionale; ma la volontà non è tale se non si trauma in un’attività pratica, se non
crea un piano d’immanenza.
Nel corso dei suoi studi e della sua carriera Royce si dimostrò senza dubbio, com’egli stesso diceva, un “devoto
dell’Assoluto”. Ma verso la fine della vita, in seguito a più attente letture peirceane, la sua posizione si modifica
significativamente. Egli prende spunto dalla propria precedente convinzione che il plurale e universale that si presenti
sempre con un’intensità singolare e, viceversa, che ogni parte si figuri anche come l’intero: ma tale intero si emancipa
ora dai limiti dell’idea pura e diviene il corpo vivente e perpetuamente connesso delle interpretazioni collettive, della
cui carne ognuno di noi è costituito.
E’ questa l’ipotesi fondante l’ultima grande opera royceana dedicata alla “grande comunità”. L’Assoluto viene a
incarnarsi e a dinamizzarsi nella Comunità corale dell’Interpretazione che lega gli uomini tra loro all’interno del loro
gruppo di appartenenza. Royce ha in mente certamente il pensiero paolino sulla presenza della Chiesa di Cristo, ma,
innestato con la linfa della semiotica e della categoriologia di Peirce.
Scrive Peirce che Royce gli appare come un vero pragmatista perché allarga considerevolmente il termine fino a
comprendere l’idea che “ogni pensiero sia dotato di un significato che trascende il contenuto immediato, sicché è
assurdo parlare di un pensiero in se stesso, tanto quanto lo è parare di un marito in se stesso o di un figlio in se
stesso”. il pragmatismo è dunque da considerarsi anzitutto e in senso assoluto una teoria semiotica, sinechistica ed
ermeneutica, fondata sulla logica dei relativi.
Amando la mia comunità, io amo me stesso, me stesso negli altri, o in quell’Altro assoluto che è il mio relazionarmi agli
altri per un fine specifico. Un Altro che può essere identificato con il terzo di cui parla Peirce, un interpretante logico
finale che rappresenta la mediazione dell’interpretazione pubblica e comunitaria.
Oltre il mondo del concetto e del puro percetto, Royce individua dunque il campo dell’interpretazione, che delinea un
ambito sociale, costantemente mediato e riflesso, simbolico e pragmatico insieme, contro quelli che gli appaiono
sterili empirismi, e che attribuisce a James e al suo amico Bergson. Non la volontà di credere muove la conoscenza, ma
la volontà di interpretare, cioè di mediare, di tradurre a chi sta accanto i significati, di immergersi nella corrente che
procede di segno in segno, e di segno in adempimento pratico. L’importante è comprendere che ogni dualità va
abbattuta, e solo la razionalità triadica fondata sul per ha dignità teoretica. Royce disegna così le linee di un triangolo
segnico, in cui si stringono “l’interprete, la mente cui si rivolge e la mente da interpretare”.
Per Royce anche l’uomo “in sé” è una sterile astrazione. Non c’è più autonomia dell’Io in questa concezione: l’Io è in
quanto si appella a un Tu per un Noi; fuori da questo circolo semiotico e triadico non c’è identità individuale. L’uomo è
perciò da superarsi in una prospettiva “superumana”. Se, come insegnava già Peirce, l’uomo è un segno e si identifica
con la propria cerchia sociale, la comunità da pensarsi come una “persona di più alto livello”. La comunità rappresenta
dunque l’Assoluto in modo “interamente” relazionale. Si tratta di pensare a una realtà di genere semiotico che pone e
media i propri poli di riferimento: non c’è Io se non nel flusso della semiosi interpretativa e non c’è terzità
interpretante che non si incarni in un corpo individuale che riverbera la propria natura comunitaria. Il pensiero di
Royce è antindividualista e antiempirista: la sua è una peculiare filosofia immanentista dell’Assoluto, cioè del comune.
Il nucleo del significato pragmatico, come scrive anche Peirce, sulla scorta di Bain, è tutto qui: ciò in base a cui siamo
pronti ad agire. Ma Royce aggiunge: ciò in base a cui siamo pronti ad agire in comune, delineando un futuro
progettuale e dunque predisponendo un passato di memorie condivise.
La posizione di Royce doveva chiaramente risultare indigesta a James che infatti la guardò con sospetto, e a Dewey,
che con vigore reputò Royce del tutto estraneo al movimento pragmatista. Non a Peirce, che ne comprese e apprezzò
le motivazioni, che ben si mescolavano al suo ideal-realismo, al suo realismo scolastico o al suo idealismo oggettivo e
che scrisse però che Royce rimaneva “alla distanza di un capello” dal pragmaticismo. Ma Royce, come Peirce, pensava
che il pragmatismo non dovesse essere uno strumentalismo, fondato sulla nozione di expedient, ma dovesse ispirarsi
alla possibilità reale dell’inveramente di uno scopo razionale.
JOHN DEWEY
John Dewey è considerato a giusto titolo uno dei padri fondatori del pragmatismo americano, nonostante appartenga
a una generazione successiva rispetto a Peirce e James. Mentre gli interessi di questi ultimi si sono concentrati su un
determinato numero di ambiti disciplinari, le opere di Dewey spaziano attraverso l’intero campo della filosofia, anche
se con una netta prevalenza per la dimensione pratica.
Promotore di un approccio evolutivo e sperimentale alla logica e alla conoscenza, tra i fondatori della psicologia
funzionalista e comportamentale, capostipite della pedagogia sperimentale novecentesca, difensore strenuo di un
orientamento sperimentale nei confronti del conformismo sociale e politico, caposcuola riconosciuto di un approccio
deliberativo alla democrazia liberale.
Benché la ricezione italiana abbia, per ragioni storiche, enfatizzato in particolare la produzione pedagogica di Dewey,
negli ultimi due decenni la rinascita degli studi deweyani ha permesso di apprezzare in modo più adeguato l’originalità
dei suoi contributi nei campi della filosofia politica, dell’estetica e dell’epistemologia.
Cenni biografici:
John Dewey nasce nel Vermont il 20 ottobre 1859. Dopo aver completato un percorso di studi classici nella città natale,
nel 1882 Dewey si trasferisce alla John Hopkins University e frequenta uno dei primi corsi di Filosofia. Nel 1894 si
trasferisce alla University of Chicago, appena fondata. Qui concorre a creare il dipartimento di Pedagogia, di cui
assume la carica di direttore, che associa a quella di direttore del dipartimento di Filosofia. L’ultimo decennio del secolo
segna la progressiva presa di distanza dalle proprie origini neohegeliane e lo sviluppo, sotto l’influenza di James, di un
approccio maggiormente sperimentale alle scienze umane. Dal 1904 sposta l’insegnamento, le ricerche e l’impegno
sociopolitico alla Columbia University. Il primo decennio trascorso qui vede la pubblicazione dei principali scritti di
logica e di epistemologia, raccolti poi in due volumi “The Influence of Darwin on Philosophy and Other Essays in
Contemporary Thought” ed “Essays in Experimental Logic”. Nel decennio successivo vengono pubblicate alcune delle
opere più importanti di Dewey, in cui la sua concezione filosofica giunge a una formulazione complessiva e matura.
Con “Experience and Nature” Dewey realizza l’unica opera espressamente metafisica della propria carriera, in cui le
intuizioni evoluzionistiche, comportamentali e sperimentali sono alla base di una teoria naturalistica dell’esperienza
umana. Sempre dello stesso fecondo decennio è “The Public and Its Problems”, in cui le idee filosofiche deweyane sono
applicate alla ricostruzione di alcune categorie centrali della teoria politica. Nel 1929 vedrà la luce “The Quest for
Certainty” in cui trova attuazione in dettaglio la concezione naturalizzata della conoscenza che costituisce, assieme alla
“Logic” del 1938, il culmine teoretico della riflessione logica ed epistemologica dell’autore. Pubblicò in questo periodo
anche trattati di estetica.
Sono molti gli autori che, a giusto titolo, hanno sottolineato l’importanza centrale del concetto di esperienza nel
pensiero di Dewey. Tutta la riflessione sviluppata dall’autore in campo psicologico sin dagli ultimi decenni del XIX
secolo è già orientata nella direzione di una comprensione della natura umana, del pensiero e della conoscenza volta a
superare i limiti dell’empirismo classico. In questo senso si può dire che la “nuova psicologia” deweyana cercava già il
proprio punto di partenza nell’esperienza vissuta, con tutta la sua complessità e articolazione interna, piuttosto che
nei dati sensoriali rivendicati dall’empirismo come base ultima della percezione e del pensiero. Stabilire il proprio
punto di partenza nell’esperienza, ovvero fare dell’esperienza un metodo, significherà per Dewey espandere in modo
radicale l’ambito della psicologia fino a farne una sorta di metodo universale per comprendere le diverse fasi
dell’esperienza umana nel loro sorgere.
Dewey attinse all’idea jamesiana del rapporto organico tra psichico e fisico per elaborare la teoria funzionalista della
relazione tra stimolo e risposta. Egli formula una critica radicale delle spiegazioni psicologiche fondate sul meccanismo
stimolo-risposta, argomentando che l’esperienza umana ha in realtà la forma di un “arco riflesso” nel quale l’individuo
risponde costantemente non a elementi predeterminati dell’ambiente ma alla propria percezione di essi. Il modello
dell’arco riflesso esplicita quello che sarà un tratto costante del pragmatismo deweyano, ovvero il primato della
relazione sugli elementi. L’esperienza denota in questo modo l’unità del rapporto tra l’individuo e l’ambiente in cui
egli si trova ad agire. Dewey interpreterà le nozioni centrali della propria psicologia, quali quelle di esperienza e
apprendimento, in chiave risolutamente naturalistica: l’apprendimento denota allora il movimento continuo che va da
una situazione di disequilibrio iniziale verso una situazione di maggiore stabilità, laddove l’equilibrio non si riferisce al
puro stato soggettivo dell’individuo, ma allo stato della sua relazione dinamica con l’ambiente.
Dewey osserva che “qualsiasi stimolo può essere organizzato praticamente in qualsiasi disposizione, secondo il modo
in cui esso interagisce con il proprio ambiente circostante”. La natura umana è dunque il prodotto di questa co-
determinazione reciproca tra una base “naturale” fatta di istinti e l’ambiente culturale che influenza la loro
espressione e, fatto decisivo, ne determina la trasformazione in abitudini. Dewey rifiuta l’idea di un determinismo
biologico, affermando che tutto ciò che di innato si trova nell’uomo costituisce in realtà un materiale plastico. E al
tempo stesso rivendica la natura risolutamente sociale di ogni psicologia, in quanto gli impulsi/istinti naturali
costituiscono delle forze solo parzialmente determinate, i cui effetti si dispiegano diversamente a seconda del modo in
cui essi vengono organizzati attraverso l’esperienza.
Si chiarisce così l’importanza assunta dalla nozione di abitudine nello schema esplicato deweyano, secondo modalità
peraltro comuni a tutti i pragmatisti: l’abitudine è infatti il “luogo” in cui esterno e interno, ambiente e organismo si
incontrano. Ogni abitudine è per Dewey un modo di interiorizzare l’ambiente esterno e, al tempo stesso, una maniera
di rendere stabili l’espressione degli impulsi. Si osservi come anche in questo caso la nozione di abitudine oltrepassi
l’ambito puramente psicologico o soggettivo per acquisire una fisionomia transazionale: l’abitudine è co-costruita
attraverso l’interazione dell’organismo umano con il suo ambiente, ambiente che nel caso dell’uomo è
contemporaneamente naturale e culturale.
Dewey non considera le abitudini come una struttura meramente passiva fondata sulla pura ripetizione delle stesse
azioni. In un modo che può forse sorprendere, egli sostiene che le abitudini sono modalità attive di interazione tra un
organismo umano e l’ambiente in cui si trova a vivere. L’abitudine “è una predisposizione acquisita di modi di risposta,
e non di particolari azioni”. In questo senso Dewey sottolinea che le abitudini possono essere intelligenti e dunque
flessibili, oppure rigide e per questo incapaci di assicurare l’adattamento tra organismo e ambiente.
Proprio in relazione a quest’ultimo argomento si spiega l’insistenza con cui Dewey ha sottolineato la centralità
dell’intelligenza come fatto critico nell’esperienza umana: l’intelligenza, infatti, non denota una semplice facoltà logica
di calcolo o inferenza, quanto piuttosto la capacità riflessiva con cui un organismo sovrintende alle sue relazioni con il
mondo, le quali sono in ultima istanza di natura pratica.
Malgrado l’estrema diversità di interessi e campi ai quali Dewey ha volto la propria attenzione, è possibile cogliere nel
suo pensiero, un elemento di continuità, le cui radici sono da ritrovare nell’interesse costante alle dimensioni tanto
epistemologiche quanto pratiche del pensiero umano. L’affermazione della natura ideale e nel contempo pratica
dell’intelligenza umana rappresenta un punto cruciale di questa prospettiva.
Il pragmatismo di Dewey, che l’autore declinerà attraverso una variegata terminologia, si caratterizza proprio per
l’attenzione portata alla dimensione sperimentale dell’esistenza umana, all’esame sistematico delle conseguenze nella
corretta impostazione del rapporto tra il soggetto agente e il contesto-ambiente nel quale egli si trova a vivere e agire.
In quest’ottica, la forma di razionalità sviluppata dalle scienze sperimentali a partire dal XVII secolo è intesa in quanto
forma sofisticata e complessa di interazione tra l’uomo e il suo ambiente. Dewey insisterà a più riprese sul fatto che la
“ricerca della certezza” che caratterizza la scienza deve essere compresa nel quadro della matrice sociale e naturale
che definisce l’essere umano a partire dal suo rapporto all’ambiente mediato dall’azione.
Il paradigma dell’indagine costituisce dunque il riferimento per modellizzare il pensare umano così come esso ha luogo
nei diversi ambiti dell’esperienza, dalle forme dell’agire ordinario sino alle forme più astratte del conoscere scientifico
e matematico. L’attività del pensiero in tutti questi ambiti, nonostante la diversità estrema dei suoi oggetti, può essere
caratterizzata a partire dal tratto comune restituito dal concetto di indagine: un’indagine è un percorso teorico-pratico
di esplorazione della realtà suscitato dal sorgere di un problema e orientato alla risoluzione dello stesso. Si possono
individuare al riguardo cinque fasi rintracciabili a tutti i livelli dell’esperienza umana:
1) la percezione ancora indeterminata che qualcosa non funziona all’interno di una soluzione;
2) la determinazione del problema;
3) la formulazione di un’ipotesi relativa a come il problema potrebbe essere superato;
4) l’esplorazione di diverse modalità di azione e la valutazione delle conseguenze relative a ciascuna di esse;
5) la determinazione del corso di azione da intraprendere.
Una caratteristica distintiva dell’epistemologia deweyana rispetto a quella di Peirce riguarda l’accentuazione
dell’aspetto pubblico del pensare, che viene dilatato dal piano semiotico-epistemologico a quello della costruzione dei
valori sociopolitici e dei mezzi per realizzarli. Analogamente a Peirce e James, Dewey insiste a dire che la funzione
dell’attività riflessiva è di guidare la condotta umana e, a dispetto delle teorie filosofiche che tendono a dissolvere la
questione della verità in uno pseudoproblema, egli continua a difendere la concreta consistenza della visuale
pragmatista per cui la verità di un’idea può essere riconosciuta e giustificata mediante i processi di controllo della sua
effettiva capacità di “facilitare il nostro commercio con i fatti”.
Si tratta di una concezione dell’oggettività calibrata, da un lato, sullo scarto del soggettivismo implicito nella nozione di
credenza, dall’altro, sull’abbandono della pretesa di ottenere una verità indipendente dalle pratiche dell’indagine
riflessiva, alla quale rimanda il termine “conoscenza”. Egli provvede innanzi tutto al radicamento all’interno della
pluralità delle pratiche sociali, vale a dire promuovere un atteggiamento culturale ben consapevole delle radici e della
valenza squisitamente umana e sociale delle conoscenze scientifiche.
Tale qualifica dell’intero apparato concettuale del soggetto conoscente viene estesa anche al piano etico e a quello
pedagogico, che Dewey concepisce in stretta continuità con il piano logico-conoscitivo.
L’etica deweyana rappresenta una variante di particolarismo etico: secondo l’autore, infatti, in ragione del forte
contestualismo che caratterizza il suo pensiero, compito dell’etica non è né la determinazione di supposte leggi morali
né la determinazione del contenuto di ciò che è obbligatorio. In diversi scritti, Dewey ha elaborato una teoria etica
basata sull’idea che obiettivo della filosofia morale non è l’articolazione di una teoria o definizione di che cosa siano i
valori, le norme, il bene o il giusto.
Per Dewey, e più in generale per il pragmatismo, la questione dei fondamenti dell’etica non si giova a livello del
rapporto gerarchico tra bene e giusto, come è avvenuto nella maggior parte delle filosofie morali. Al centro dell’etica
sta piuttosto la questione del rapporto tra le istanze individuali e quelle sociali. E’ a partire da questo assunto che
viene affermato il principio di un’etica situata, secondo il quale il compito della teoria etica è spiegare il conflitto e
l’incertezza in quanto caratteristiche costitutive di ogni interazione sociale. Questo punto di partenza conduce a
definire l’oggetto della teoria etica come un oggetto al tempo stesso teorico e pratico. La nozione di situazione
problematica costituisce, in etica come altrove, il punto di partenza metodologico di Dewey. La sua etica, è un’etica
della situazione, particolaristica, in quanto essa non mira alla determinazione di regole generali, quanto piuttosto
all’elaborazione di indicazioni, strumenti, linee guida che permettano agli agenti di confrontarsi in modo più efficace
con i conflitti di cui fanno esperienza nelle loro interazioni quotidiane.
In coerenza con questo impianto, viene posto un forte accento sulla dimensione deliberativa dell’esperienza morale:
l’etica si riferisce al fatto fondamentale dell’incertezza della vita umana e alla necessità che essa porta con sé di
prendere costantemente decisioni relative a come agire. L’etica ha quindi a che fare con scelte comparative tra
opzioni in competizione. E non sorprenderà scoprire che qui come altrove Dewey definirà il carattere razionale
dell’etica non a partire da una teoria sistematica del suo oggetto ma a partire dall’applicazione del metodo
dell’indagine. In che modo dunque l’etica trova le proprie condizioni di razionalità? Dewey sosterrà che ciò è possibile
grazie al ruolo dell’immaginazione, in quanto questa ci perette di esplorare nel pensiero la pluralità di alternative di
azione a noi accessibili, valutandone le diverse conseguenze, in un modo che ricorda da vicino gli esperimenti di
laboratorio.
Questo impianto si trova confermato anche nel quadro del pensiero pedagogico dell’autore. L’interesse di Dewey per
la pedagogia consta di almeno due aspetti distinti:
1) Da un lato, troviamo le questioni squisitamente pedagogiche e i relativi progetti concreti di riforma della scuola, che
egli propone sostenendo tesi progressiste riguardo alla necessità di integrare educazione generale e formazione
professionale oltre che impegnandosi in prima persona nella creazione di una scuola sperimentale e dando inizio a un
movimento pedagogico successivamente noto come “Dewey’s Schools” o “attivismo pedagogico”;
2) Dall’altro lato, troviamo l’interesse di Dewey per l’educazione che si carica di un significato maggiormente
speculativo, di cui renderà contro il volume “Democracy and Education”, definito da Dewey stesso “il libro che per
molti anni ha presentato la mia filosofia nel modo più completo”. In questo testo Dewey ricostruisce le nozioni di
democrazia e di filosofia a partire dalla centralità della dimensione trasformativa dell’esperienza umana, che trova
nell’educazione il momento di massima realizzazione. Dewey definirà la filosofia una “teoria generale dell’educazione”
intendendo con ciò che compito della filosofia è la massimizzazione dell’opportunità di apprendimento e
trasformazione a ogni livello della vita sociale e politica.
L’impatto dello strumentalismo nell’ambito pedagogico è stato ed è tuttora imponente, anche per via degli strumenti
didattici approntati.
Con il testo “How We Think”, egli mette in luce l’appello agli insegnanti ad assumersi il compito di “coltivare le
attitudini del pensiero riflessivo”. Questo testo mette a fuoco il criterio strumentalista per cui il pensiero riflessivo
costituisce la più ricca risorsa che l’essere umano possiede per far fronte ai problemi che man mano incontra nel corso
delle sue interazioni con il mondo fisico e umano circostanti. Pertanto la posta in gioco è la possibilità di sorpassare le
forme di comportamento più immediate ovvero di assumere un’attitudine a esercitare la riflessione indagando sui
tratti salienti delle circostante problematiche che si presentano, in modo tale da poterne non solo elaborare una
comprensione sufficientemente adeguata ma anche costruire un piano d’azione volto a risolvere al meglio.
La tensione tra individualità e socialità costituisce un fatto portante dell’idea deweyana di democrazia. L’unico punto
di sostanziale convergenza degli interventi critici al riguardo sta nell’escludere sia una derivazione diretta del pensiero
politico di Dewey dall’opera di Marx sia una sua inequivocabile presa di distanza dal marxismo, se non semplicemente
dall’organizzazione socioeconomica dell’Unione Sovietica. Allo stesso modo, va osservato che il “liberalismo radicale”
di cui Dewey si è fatto portavoce costituisce un tentativo di ripensamento profondo di tutta la matrice liberale a
partire dalla critica radicale del paradigma individualista da cui essa ha tratto origine.
Dewey impone a questa matrice un’inflessione sperimentalista che lo induce a porre in primo piano il primato delle
conseguenze sociali di ogni forma di teorizzazione sociopolitica. Ne consegue l’idea che la società si impone come il
banco di prova della validità delle pratiche sperimentali e discorsive che gli esseri umani intraprendono allo scopo di
risolvere i problemi che insorgono nel corso delle loro esperienze. Dewey, perciò, sottopone all’analisi critica l’uso
tradizionale delle categorie di individuo e società, adottando una visuale “contestualista” per cui esse risultato definite
come il prodotto delle circostanze sociali che marcano l’esistenza degli individui in un dato contesto storico-culturale.
Poiché per Dewey i rapporti sociali tendono a consolidarsi in strutture semantico-concettuali che ne riproducono le
forme sul piano simbolico, ne consegue che, prima di poter intraprendere un tentativo di trasformazione della realtà
sociale, occorre smontare e ricostruire quei concetti, giovandosi di uno sguardo attento alle nuove opportunità in tal
senso. Perciò il confine tra “individuale” e “società” non può mai essere definito in base a concezioni a priori di questi
due termini, poiché occorre piuttosto registrare come il significato individuale e sociale sia in continuo cambiamento
lungo l’intero corso della storia politico-culturale del mondo occidentale.
Nella concezione deweyana della società come organismo agisce l’influenza di Hegel: la società è Sittlichkeit, ethos, in
quanto complesso di costumi, norme, attitudini, sentimenti e aspirazioni, che caratterizzano la vita di un popolo.
D’altra parte, la ricostruzione di un concetto di individualità che possa far fronte con successo alla difficoltà del mondo
contemporaneo non può che fare appello a un’estensione e a un miglioramento del metodo di ricerca che Dewey
ritiene essere più autenticamente efficace: a quell’atteggiamento tecnico-scientifico che ha contribuito all’edificazione
del mondo contemporaneo.
La fiducia nel positivo valore sociopolitico del mondo scientifico fa sì che, per Dewey, il vero problema delle società
occidentali non stia nel dover prendere partito a favore del capitalismo oppure del socialismo, bensì nella scelta tra un
modo di ragionare prescientifico e un modo che invece sa mettere a frutto gli sviluppi delle scienze moderne.
Mettendo a punto la convinzione della necessità di provvedere a una vigilanza etica sugli sviluppi delle scienze, questi
tesi insistono sul rifiuto dei meccanismi di violenza e sopraffazione in cui le conoscenze scientifiche rischiano sempre
di convertirsi, sia sul piano strettamente politico sia su quello più genericamente culturale, dove i nuovi mezzi di
comunicazione di massa mostrano di imporre criteri e valori decisi dai poteri economico-finanziari. Il liberalismo
radicale deweyano punta invece sul carattere intersoggettivo della razionalità e sul valore sociale dell’intelligenza, che
appare disatteso nella società americana del tempo, proprio perché essa è rimasta ancorata all’idea che l’intelligenza
sia un possesso o un diritto individuale.
“Individualism Old and New” del 1930, rappresenta un grado particolare alto di consapevolezza e di originalità della
riflessione sul concetto di individualità che viene a saldarsi al punto cruciale della teoria della democrazia proposta dal
filosofo statunitense: all’affermazione che l’organizzazione democratica costituisca l’unico scenario sociale in cui è resa
possibile una vita veramente umana.
Si tratta di uno sviluppo del “vecchio individualismo” dei padri fondatori della democrazia americana, anziché
riadattarlo alle grandi risorse economiche e tecnologiche. I tratti specifici del “nuovo individualismo” dovevano restare
necessariamente imprecisati poiché il pragmatismo deweyano non sostiene alcun modello prefissato di individuo
umano. Anzi, esso suggerisce di evitare di domandarsi in che cosa consista o debba consistere l’essere umano.
Il forte richiamo alla responsabilità sociale dell’individuo è evidentemente un motivo di grande attualità nel nostro
tempo e ciò tanto più in quanto la concezione deweyana della democrazia prevede, come si è visto in precedenza, la
costruzione di abiti mentali sufficientemente adeguati alla metodologia della ricerca scientifica e alla ricezione critica
dei suoi risultati. Perciò si buon ben sostenere che Dewey offra solide basi per un’educazione alla cittadinanza, che
oggi rappresenta un problema molto urgente sia per via della forma multiculturale delle nostre società, sia per le
pesanti questioni etiche.
In “The Public and Its Problems” Dewey si interroga precisamente su ciò che la democrazia implica sia dal punto di
vista teorico sia dal punto di vista delle pratiche sociopolitiche che vi sono connaturate, vale a dire si domanda se essa
debba essere considerata un ideale morale oppure se debba essere trattata alla stregua di uno specifico sistema
politico, basato su un tipo particolare di regole e criteri di legittimazione del potere. La risposta di Dewey è chiara: la
democrazia non è riducibile a una forma di governo fra le altre, ma è innanzi tutto uno stile di vita, la cui attuazione
richiede un impegno incondizionato e costante, per molti versi analogo a quello usualmente riservato agli adepti di
una fede religiosa. Inoltre, secondo Dewey:
“il fine della democrazia è radicale. Lo è perché non è stato adeguatamente realizzato in nessun paese in nessun
tempo. E’ radicale perché richiede un grande cambiamento nelle istituzioni sociali, economiche, politiche e culturali
esistenti. Inoltre, non vi è niente di più radicale che l’insistenza sui metodi democratici quali mezzi per realizzare i
cambiamenti sociali”.
Nel suo libro “Art as Experience” pubblicato nel 1934, Dewey ha osservato che “l’arte è la prova vivente e concreta
che l’uomo è in grado di ripristinare in modo consapevole, quindi sul piano del significato, l’unione di significato,
bisogno, impulso e azione che è tipico di ogni creatura vivente. L’intervento della coscienza aggiunge l’elemento della
regolazione, il potere della selezione e di riorganizzazione”. E’ facile intuire da questa definizione quale sia la cifra
dell’estetica deweyana: lungi dal costituirsi, classicamente, come teoria dell’arte, essa non fa che estendere e
radicalizzare la teoria dell’esperienza. “Art as Experience” sarà il testo fondatore di un movimento di estetica
pragmatista destinato a un duraturo successo e in grado – grazie soprattutto all’opera di Joseph Margolis e Richard
Shusterman – di costituire una valida alternativa tanto all’estetica analitica quanto a quella postmoderna. Come dice il
titolo stesso dell’opera, e in accordo con un impianto metodologico che Dewey non cessa di dispiegare in ogni ambito
disciplinare, oggetto dell’estetica è il sorgere e prodursi di un tipo specifico di esperienza, esperienza che solo in parte
è legata alla fruizione di ciò che oggi chiamiamo opera d’arte. Per Dewey l’esperienza estetica è il vero universale, nel
senso che l’esperienza estetica denota una modalità esistenziale primaria, legata alla nostra dimensione di esseri
naturali, e solo successivamente riversata nell’atto di produzione e fruizione di opera d’arte. E’ dunque solo dalla
comprensione di che cosa sia un’esperienza estetica che potremo, in un passaggio successivo, volgerci a comprendere
che cosa sia l’opera d’arte e quale il suo significato.
Dewey ritiene di ritrovare la fonte dell’esperienza estetica in un fatto vitale primario, ovvero il piacere e senso di
completezza e realizzazione che suscita in noi l’esperienza dell’integrazione. Questo è per Dewey un fatto di primaria
importanza biologica: l’integrazione è infatti segno di un avvenuto controllo dell’organismo sulla propria situazione di
vita, e quindi condizione di sopravvivenza. L’esperienza estetica nasce dunque come “godimento”.
Dewey cercherà di dare forma concettuale a queste idee attraverso la distinzione tra il termine generico di
“esperienza” e la sua modalità qualificata in ciò che egli chiamerà “una esperienza”. L’esperienza è ciò che accade e
costituisce l’uomo nel suo vivere ordinario. Si tratta dunque di un termine descrittivo, in quanto in sé e per sé
l’esperienza non è né buona né cattiva, né autentica né alienata.
Ciò che fa di queste esperienze, in sé del tutto ordinarie, una esperienza, e dunque un momento qualificato in senso
estetico, è proprio questo senso di compimento, di completezza, di pienezza di significato. La teoria dell’arte che
Dewey trae da questa teoria dell’esperienza è dunque che l’arte costituisce una forma funzionale e istituzionalmente
organizzata volta a produrre esperienze di questo tipo.
Si comprende allora per quale ragione l’estetica occupi una posizione centrale nel quadro della produzione deweyana:
una volta ricondotta dal piano della teoria dell’arte a quello suo proprio della teoria dell’esperienza, l’estetica
deweyana mostra la propria interna connessione con le altre dimensioni del pensiero di questo autore: la politica,
l’etica, l’antropologia e l’epistemologia.
La questione principale alla quale Mead tentò di far fronte sin dai suoi primi lavori e che, come un fiume carsico,
attraversa tutti i suoi testi, concerneva la natura emergente della coscienza e il suo carattere organico e processuale.
La necessità di comprendere le condizioni del sorgere e del funzionamento del pensiero riflettente portò Mead a
elaborare nel corso del tempo e attraverso varie tappe una teoria “bio-sociale” della mente che indicava
nell’interazione con l’ambiente fisico e sociale la condizione di possibilità del sorgere della capacità riflettente propria
degli esseri umani. Partendo dal presupposto che gli organismi agiscono in riferimento a stimoli sensibili la cui
selezione si inserisce in un atto teleologico, Mead riconduceva la genesi della coscienza e dell’autocoscienza a due
elementi costitutivi:
- il processo percettivo-manipolatorio
- la comunicazione attraverso gesti linguistici
Riguardo al primo elemento, secondo Mead la capacità manipolatoria permette di intromettere nell’atto che si
dispiega tra il sorgere del bisogno e il suo soddisfacimento una fase intermedia che consente all’organismo di valutare
le differenti possibilità di azione nei confronti dell’oggetto di riferimento. Nello specifico, la fase manipolatoria si
inserisce all’interno di una relazione di condizionamento reciproco tra le fasi che caratterizzano l’atto:
1) la fase dell’impulso all’azione, che si radica nella predisposizione fisiologica dell’organismo a rispondere a un certo
stimolo sensibile;
2) la fase percettiva, in cui l’organismo riconosce a distanza un oggetto e coordina la percezione visiva attraverso
l’immaginazione sensoriale e le possibili azioni motorie rispetto allo stimolo sensibile;
3) la fase manipolatoria dell’oggetto, la più importante nel processo di emergenza della coscienza umana, poiché
tramite la manipolazione l’organismo si forma una coscienza percettiva completa dell’oggetto;
4) la fase consumatoria, in cui l’atto viene portato a termine e il bisogno soddisfatto.
La spiegazione della reazione percettivo-manipolatoria tra individuo e ambiente si inserisce nella più ampia relazione
triadica tra organismo, ambiente fisico e ambiente sociale che coinvolge la dinamica di interazione cooperativa tra
organismi, chiamando in causa il secondo elemento della teoria bio-sociale della mente: la comunicazione gestuale. Il
gesto viene infatti indicato da Mead, riprendendo ma modificando in parte la teoria wundtiana del linguaggio, come
l’espressione delle prime fasi dell’atto inibito, l’attitudine di un organismo ad agire in un certo modo in riferimento agli
altri organismi. La funzione del gesto comporta un aggiustamento reciproco delle risposte fra i partecipanti a uno
stesso atto sociale, cioè a una condotta che coinvolge più individui nell’organizzazione e interpretazione degli
atteggiamenti riferiti ad attività sociali. Questo processo di comprensione reciproca si radica su istinti primitivi che
presentano un carattere sociale innato alla base del sorgere di significati condivisi rispetto all’ambiente fisico e sociale
di riferimento.
Il sorgere della coscienza si rivela in tal modo connesso all’interiorizzazione da parte dell’organismo delle
conversazioni di gesti, ovvero delle risposte degli altri organismi e di se stesso ai propri gesti.
La capacità di interiorizzazione dei significati condivisi socialmente permette la costituzione dell’individuo come sé,
ovvero come soggetto autocosciente in grado di riflettere su se stesso, di oggettivarsi e di costituirsi come individuo
dotato di una propria identità.
La costituzione del sé è quindi possibile solo attraverso l’interiorizzazione delle regole di comunicazione e di condotta
sociale, cioè dell’insieme di risposte astratte nel corso del tempo che vanno a costituire quello che Mead ha indicato
con la nozione di altro generalizzato: il gruppo di regole di una comunità che dà all’individuo la sua unità in quanto sé.
E’ infatti assumendo l’atteggiamento del gruppo sociale di appartenenza nei confronti dell’attività sociale organizzata
che l’individuo “riesce a sviluppare un sé completo o a dominare quel particolare sé completo che ha sviluppato”.
Nell’assimilazione della struttura sociale, ruolo fondamentale riveste la fase ludica. Il gioco è infatti una delle prime
forme di interazione sociale in cui l’individuo entra in contatto con il mondo circostante e, da un punto di vista
pedagogico, uno dei punti di forza per stimolare lo sviluppo della capacità riflessiva dell’essere umano. Mead distingue
due stadi:
- il Play il “gioco libero”, in questo il bambino gioca a imitare gli altri soggetti sociali che lo circondano,
identificandosi fantasiosamente con i loro comportamenti e sollecitando in sé quella particolare risposta o tipo di
risposte;
- il Game il “gioco organizzato”, in questo il bambino impara ad assumere il ruolo di tutti gli altri giocatori con cui
interagisce e a coordinare spazio-temporalmente i ruoli degli altri soggetti collegati con il suo.
Verso la seconda metà degli anni Venti del Novecento Mead elaborò le linee guida di una teoria della conoscenza che
inseriva la teoria sociale del sé in una più ampia prospettiva filosofica all’interno della quale si intrecciavano realismo
epistemologico, relativismo fisico e “comportamentismo” sociale. Egli propose quindi un realismo pragmatista che
indicava nel contesto non ulteriormente problematizzabile all’interno del quale si sviluppa il processo conoscitivo la
condizione di possibilità dei giudizi di verità esperimenti la correlazione tra le relazioni degli elementi della realtà e le
cognizioni mentali dei vari soggetti che rispondono ad esse. Alla base di questo processo vi è una prospettiva che
indica la natura sociale della coscienza come punto di partenza e che indica quindi la possibilità di superare gli errori
della scienza attraverso una conoscenza che riesca a intrecciare le differenti prospettive da cui un fenomeno viene
osservato e conosciuto.
Il pensiero di Mead, noto prevalentemente attraverso le opere postume composte in base a scelte editoriali spesso
arbitrarie, ha pagato da un lato la maggiore notorietà del pensiero dell’amico e collega Dewey, dall’altro il superficiale
accostamento della sua psicologia sociale al comportamentismo di matrice watsoniana. La ricezione europea del
pensiero di Mead trova la sua prima testimonianza in Arnold Gehlen, il quale intrecciando la concezione antidualistica
della mente di Mead e i risultati delle ricerche biologiche ed etnologiche del tempo ha dato corpo a un’interpretazione
filosofica antidualista della natura umana intesa come totalità organica attiva e progettuale.
Interessanti sono, in ambito neuroscientifico e di teorie della mente e del linguaggio, le diverse prospettive sviluppate
recentemente proprio a partire da alcune intuizioni e idee meadiane.
CHARLES MORRIS
Cenni biografici:
Nato a Denver, nel 1901, Charles Morris si laureò in scienze nel 1922, dopo aver compiuto studi di biologia, psicologia,
filosofia e ingegneria. Negli anni del dottorato all’Università di Chicago, seguendo le tracce del maestro George Mead,
discusse una tesi nel 1925 su “Symbolism and Reality”. Dopo il dottorato si trasferì alla Rice University, dove insegnò
fino al 1931. In questo periodo pubblicò “The Concept of the Symbol” in cui formulava una prima definizione di simbolo
che cercava di mediare tra i due estremi del comportamentismo e del mentalismo.
Fu però dopo il 1931, quando tornò all’Università di Chicago, che Morris iniziò a mostrare una maggiore sistematicità
del proprio percorso di indagine. Nel 1932 diede alle stampe “Six Theories of Mind”, una panoramica delle diverse
teorie della mente in cui evidente è l’influenza della teoria della mente sociale di Mead e di Dewey, oltre che del
realismo critico di Santayana e della concezione whiteheaddiana della filosofia come metodo di “generalizzazione
descrittiva”.
Morris impostava una teoria semiotica dell’estetica, intrecciando a questioni semiotiche elementi di assiologia
comportamentista. Del 1946 è la sua opera principale di semiotica, “Signs, Language, and Behavior”, in cui viene
ulteriormente sviluppato, con alcuni cambiamenti soprattutto terminologici, quanto contenuto nei “Foundations of the
Theory of Signs”. Dopo l’opera del 1946 Morris si concentrò sulla dimensione assiologica del comportamento umano,
pubblicato “The Open Self”.
L’opera di Morris può essere considerata un tentativo di unire l’approccio pragmatista alle scienze naturali e umane
con il rigore formalistico della matematica e delle scienze fisiche prese a modello dal positivismo logico. Suo scopo era
quello di dare vita a un sistema filosofico empiricamente fondato, costituito da una semiotica generale, una
cosmologia e una teoria dei valori. Denominato inizialmente “empirismo scientifico”, tale sistema doveva essere
composto sia da proposizioni “verificate dall’osservazione degli oggetti o tipi di oggetti significativi” sia da proposizioni
riguardanti i fattori razionalistici, cosmologici o pragmatici che si mostravano “parte integrante del metodo o edificio
scientifico”. Tale teoria dei segni non doveva però ridursi a una teoria fisicalista del linguaggio. Sebbene, infatti, Morris
condividesse con Carnap e Neurath l’idea di una scienza unitaria, non accettava il loro riduzionismo fisicalista che, a
suo parere, non riusciva a superare i limiti del soggettivismo individualistico proprio dell’empirismo classico, offrendo il
fianco da una parte alla deriva solipsistica, dall’altra alla critica scettica. Il pragmatismo offriva invece una base solida
su cui radicare l’elaborazione di una teoria dei segni che salvaguardasse il progetto di una scienza unificata da un
riduzionismo linguistico che la deriva scolastica di un’analisi logica diretta a un ristretto gruppo di significati avrebbe
potuto incentivare.
Come alternativa Morris proponeva perciò una semiotica comportamentistica, frutto dell’unione del progetto
peirceano di una teoria generale del significato e della logica come semiotica generale con la psicologia sociale di
matrice meadiana.
In “Foundations of the Theory of Signs” Morris tracciò le line guida della sua semiotica, presentata in maniera più
estesa e con alcuni cambiamenti terminologici, in “Signs, Language and Behavior”. Alla base della sua teoria vi era una
definizione di “segno” che si rifaceva alla teoria del gesto di Mead e al comportamentismo di Hull e Tolamn. Essa
recitava:
“Se qualcosa, A, è uno stimolo preparatorio che, in assenza degli oggetti stimolatori che inizino le sequenze di risposte
in una certa famiglia di comportamenti, concorrendo certe condizioni, dà origine in qualche organismo a una
disposizione a rispondere con sequenze di risposte di questa famiglia di comportamenti, allora A è un segno”.
In questa definizione sono presenti quattro nozioni fondamentali:
1) lo stimolo preparatorio cioè lo stimolo che condiziona la risposta che si dà a qualche altro stimolo;
2) la risposta intesa come l’attività fisica dell’organismo;
3) la disposizione a rispondere a uno stimolo, che indica “lo stato di un organismo in un dato momento, tale che,
concorrendo certe altre condizioni supplementari, la risposta abbia luogo”.
4) la famiglia di comportamenti cioè la serie di sequenze di attività che conducono agli oggetti finali. Sulla base di
questa definizione Morris distingueva tre tipi di relazioni dei segni che danno vita a tre dimensioni del significato
strettamente interrelate l’una all’altra:
- la dimensione esistenziale (relazione del segno con l’oggetto)
- la dimensione pragmatica (relazione del segno con le persone)
- la dimensione formale (la relazione sintattica tra simboli)
Le tre dimensioni di significato rendono merito della nota tripartizione morrisiana della semiotica in:
- sintattica: si occupa dell’esame dei segni e delle relazioni tra veicoli segnici, quindi del rapporto tra sintassi logica e
semiotica;
- semantica: si occupa delle regole per l’uso dei veicoli segnici con i designata;
- pragmatica: riguarda le regole che indicano in quali condizioni dell’interprete un veicolo segnico è un segno, la
disposizione dell’interprete a usare un veicolo segnico in certe circostanze e di aspettativa che le cose stiano in un
certo modo quando il segno viene usato.
Il processo semiosico si mostra costituito da cinque fattori strettamente intrecciati tra loro:
- veicolo segnico, che agisce come segno;
- il designatum, che indica ciò a cui il segno si riferisce;
- il denotatum, che indica un tipo di oggetto con proprietà di cui l’interprete si rende conto grazie alla presenza del
veicolo segnico, il primo è l’oggetto di riferimento reale;
- l’interpretante, ovvero l’effetto che il segno ha sull’interprete.
La teoria dei valori fu il secondo obiettivo del programma di Morris. In linea con la prospettiva pragmatista, egli
considerava in relazione con le preferenze comportamentali e di azione e non come entità assolute e indipendenti.
Riprendendo la tesi meadiana sull’oggettiva realtà delle prospettive, elaborò una teoria dei valori che, attraverso la
loro inclusione nella teoria generale del comportamento, evitata di ricadere nel dibattito sulla natura soggettiva o
oggettiva dei valori.
Tanto in “Varieties of Human Value” quanto in “Signification and Significance” Morris non definiva il termine “valore”
in base a criteri definiti ma distingueva tre modi di intendere la nozione di valore in base ai differenti contesti in cui
essa viene usata. In riferimento alle disposizioni preferenziali degli organismi rispetto a un oggetto, il termine va a
indicare dei valori operativi; in riferimento a un comportamento ideale, cioè a una preferenza per un oggetto o
situazione, significati simbolicamente attraverso un’anticipazione o previsione del risultato di un dato
comportamento, si parla invece di valori concepiti; il terzo uso del termine “valore” fa riferimento a ciò che è
desiderabile rispetto all’oggetto, indifferentemente da quello che è in concreto preferito o concepito come preferibile
dal soggetto. In quest’ultimo caso si parla di valori oggettuali.
In linea con questa idea dello studio del comportamento di scelta in riferimento ai fattori condizionanti, in Varieties
Morris connetteva le varie categorie e dimensioni valoriali con le differenti fasi della teoria dell’atto di Mead. In
particolare, egli legava tre dimensioni primarie di valore – la dipendenza, il dominio e il distacco – alle tre fasi principali
dell’atto. Nella fase percettiva si esprime la caratteristica del distacco, in cui non vi è ancora il coinvolgimento totale
dell’organismo, il quale si trova in questa fase alla ricerca di segni che gli permettano di orientarsi; nella fase
manipolatoria, invece, l’organismo domina l’oggetto attraverso la manipolazione, mentre nella fase consumatoria
l’organismo si mostra dipendente dall’oggetto che soddisfa l’impulso.
L’opera di Morris ha dovuto far fronte all’affermarsi nelle università statunitensi della corrente analitica che
considerava il suo approccio ibrido alle questioni linguistiche poco “tecnico” e poco scientifico rispetto al rigore
argomentativo richiesto. Per tale motivo la ricezione della sua semiotica è stata nel tempo molto contrastata. In
particolare c’è chi ha rintracciato nella sua posizione un approccio metafisico-biologista e chi ha interpretato il suo
comportamento in termini riduzionisti.
Cenni biografici:
Clarence Lewis nasce in Massachusetts nel 1883 e compie i suoi studi universitari ad Havard, dove ottiene il dottorato
in filosofia con una tesi sul ruolo dell’intuizione nella conoscenza. Come annota nella sua autobiografia, questo lavoro,
condotto sotto la guida di Josiah Royce, conteneva i primi passi verso il “pragmatismo concettuale”. Lewis cominciò a
interessarsi alle critiche di James e Dewey al concetto assolutista di verità, tuttavia scoprì una “sorprendente affinità”
del proprio orientamento filosofico piuttosto con Peirce, attraverso il quale giunse infine a un’appropriazione creativa
di Kant.
Nel 1920 Lewis fu richiamato a Harvard, dove insegnò fino al 1953. Nonostante le aperte critiche alle soluzioni
neohegeliane offerte da Royce alle questioni epistemologiche, Lewis ne prese in prestito l’efficace espressione
“categorial ways of acting” per presentare in un saggio del 1923, “A Pragmatic Conception of the A Priori”, la propria
rivisitazione del trascendentalismo kantiano. I punti chiave di questo testo, ulteriormente sviluppati in “The Pragmatic
Element of Knowledge” uscito nel 1926, confluiranno nell’opera del 1929, “Mind and the World-Order”, in cui il
“pagmatismo concettuale” lewsiano troverà la sua espressione più compiuta. Dagli anni Trenta ai Quaranta del secolo
scorso, Lewis precisò l’intreccio tra epistemologia, filosofia del linguaggio e teoria del valore in “An Analysis of
Knowledge and Valuation”.
I lavori di Lewis nel campo della logica matematica sono di solito considerati la parte meno importante della sua
eredità filosofica. In effetti, i due aspetti salienti di questi lavori hanno avuto scarsa risonanza nei successivi sviluppi
della logica. Ciononostante, tali lavori, da un lato, rappresentano un passaggio non secondario del dibattito
novecentesco sui rapporti tra logica e matematica; dall’altro, formano la base dei problemi epistemologici e della
versione pragmatica dell’a priori messi successivamente in campo dal filosofo statunitense. In particolare, Lewis
contestava il principio di “implicazione materiale” sul quale Russell aveva costruito il suo sistema di calcolo
proposizionale, presentandolo come paradigma dell’inferenza deduttiva. Secondo Lewis, assumere esclusivamente
quel criterio comporta che il falso possa implicare il vero, giacché si tratta di ammettere che la proposizione “p implica
q” non sia valida solo quando p è vero e q è falso, mentre sarebbe vera in tutti gli altri casi, compreso quello in cui
l’antecedente è conosciuto come falso e il conseguente come vero. Lewis ritiene che la logica vada considerata
epistemologia formale nel senso aristotelico dell’espressione, come organon della conoscenza dimostrativa, e
concorda con la tesi logicista di Frege e Russell, sottoscritta anche dagli empiristi logici, ai quali egli guardò
inizialmente inizialmente con grande favore: la matematica è una branca della logica, le sue proposizioni sono
tautologiche, analitiche e non sintetiche a priori, come aveva sostenuto Kant.
Benché l’attacco di Lewis al criterio russelliano di implicazione materiale sia certo la parte più controversa del suo
lavoro nel campo della logica, è da notare che esso rispecchia la sua avversione per la metafisica monista su cui quel
criterio gli sembra poggiato, per via della nozione di verità necessaria cui esso è correlato. Infatti, il rifiuto del
monismo sarà costitutivo della concezione lewisiana dell’a priori. Molti anni dopo, in “Symbolic Logic”, Lewis discuteva
insieme a Langford le logiche polivalenti.
Lewis nel 1923 pubblica “A Pragmatic Conception of the A Priori”. Il concetto dell’a priori indica due perenni problemi
della filosofia: il ruolo giocato dalla mente nella conoscenza e la possibilità di “verità necessarie” ovvero di conoscenze
“indipendenti dall’esperienza”. Le difficoltà della concezione sono dovute, a mio avviso, a un duplice errore:
- qualsiasi a priori è necessario, ma noi abbiamo frainteso la relazione delle verità necessarie con la mente;
- l’a priori è indipendente dall’esperienza, ma noi abbiamo equivocato la sua relazione con i fatti empirici.
E’ l’esperienza data che la mente deve accettare, volente o nolente. L’a priori rappresenta un atteggiamento in certo
senso liberamente assunto, una stipulazione della stessa mente, che si sarebbe potuto fare in qualche altro modo se
ciò fosse stato più adatto alle nostre inclinazioni o ai nostri bisogni. E l’a priori è indipendente dall’esperienza non
perché prescrive la forma cui i dati sensoriali devono adattarsi, oppure perché anticipa una qualche armonia
prestabilita tra l’esperienza e la mente, bensì proprio perché non prescrive nulla all’esperienza.
In altre parole, l’a priori “non anticipa il dato, bensì il nostro atteggiamento nei suoi confronti”, atteggiamento la cui
validità si misura pragmaticamente, cioè in rapporto alla funzione regolativa che le proposizioni a priori svolgono nei
processi del ragionamento e alla loro capacità di affrontare la complessità dei dati empirici. Così, per Lewis “i criteri
ultimi delle leggi della logica sono pragmatici” e la necessità dei principi a priori non richiede “né un accordo
universale né una totale continuità storica”.
Lewis riafferma costantemente l’idea pragmatista della funzione critica della filosofia e precisa che essa deve
consistere nel chiarimento delle categorie e dei criteri che adottiamo per interpretare l’esperienza, difendendo così
anche la possibilità di realizzare nel campo filosofico progressi analoghi a quelli conseguiti nel campo delle teorie
logiche. La filosofia è “studio dell’a priori” e il suo metodo è riflessivo: deve occuparsi dei modi che “già possediamo
per valutare i fatti dell’esperienza” e per costruire le nostre credenze, dei concetti che sono comuni alle conoscenze
scientifiche e a quelle pratico-morali, deve cercare di esplicitarli e analizzarne la funzione nell’ambito delle nostre
operazioni di ordinamento della datità.
L’imponente ricorso di Lewis al concetto di esperienza ha dato adito a una nutrita tendenza a etichettare la sua
epistemologia come una forma di fondazionalismo empirista, che avrebbe segnato un passo indietro rispetto a quel
grande rifiuto del “mito del dato” sul quale si sono incontrati filoni anche molto diversi della filosofia del Novecento e
che aveva trovato nei pragmatismi classici espressioni particolarmente incisive e originali. Sta di fatto che la nozione di
dato sensoriale è costitutiva della sua epistemologia e, soprattutto, vi sono molti passaggi in cui egli sostiene la priorità
del dato in quanto oggetto di percezione sensoriale immediate.
Sennonché, la familiarità di Lewis con il pensiero di James e di Peirce è tutt’altro che secondaria nella costruzione della
sua filosofia e, in ogni caso, le ambiguità del suo uso dei termini given e giveness non dovrebbero far perdere di vista
la “struttura triadica” della sua teoria della conoscenza ovvero l’affermazione che i processi conoscitivi comprendono
tre fattori:
- il dato
- il concetto
- l’interpretazione (del primo mediante il concetto)
In questo quadro, infatti, il dato sensoriale non può mai costituire di per sé una conoscenza, ma è semplicemente una
zona di partenza dei processi conoscitivi.
Che la definizione dei tre fattori della conoscenza sia un tentativo di mettere a frutto la lezione di Peirce,
particolarmente la sua teoria triadica del significato e la nozione di generals, si può evincere già dal citato saggio “A
Pragmatic Conception of the A Priori” ma soprattutto da “The Pragmatic Element of Knowledge” del 1926. In
particolare, in questo scritto Lewis prospetta il legame tra interpretazione e aspetto pragmatico della conoscenza
come un elemento discriminante della propria posizione tanto dall’idealismo quanto dai “mistici” e dai sostenitori
della “percezione pura” a la Bergson. Inoltre, va notata l’incidenza del pragmatismo di James sulla concezione
lewisiana del given, che si può riscontrare nello scarto tra linguaggio ed esperienza sensibile segnalato nello scritto del
1926.
La tesi di Lewis è che i giudizi di valore riguardano l’intera area del normativo, comprese le determinazioni logiche di
coerenza e cogenza nonché le definizioni della verità. Certamente i giudizi morali o gli asserti sul “bene” non devono
essere confusi con quelli su ciò che è normativamente “giusto” o valido in campo scientifico, ma ciò non autorizza a
intenderli come espressioni puramente emotive. Al contrario, occorre ricondurre tali tipi di giudizio alla capacità
umana di autocontrollo, cioè sganciarli dai fattori più immediati e riconoscere che sono “oggettivi”. Sulla questione del
rapporto tra giudizi di fatto e giudizi di valore Lewis non raggiunge mai un’intensa con i suoi interlocutori
neopositivisti. Del resto, il suo dissenso si estendeva al campo della metafisica, investendo il fiscalismo che – secondo
il filosofo americano – essi avevano impropriamente sovrapposto sulle particolari forme di empirismo e di metodo
analitico su cui si era sviluppata la prima fase del Circolo di Vienna.
Dopo gli anni Cinquanta del secolo scorso, il pragmatismo concettuale si rivolge quasi esclusivamente alle questioni di
filosofia pratica, ma anche in questo campo è all’opera quel “metodo riflessivo” che, nelle pagine iniziali di “Mind and
World-Order”, era stato invocato per la ricerca filosofica come una sorta di antidoto all’usuale contrapposizione di
razionalismo ed empirismo.
Il metodo riflessivo è empirico e analitico, in quanto riconosce l’esperienza in generale come il punto di partenza
(datum) della filosofia. Ma non è empirico nel senso di credere che questa esperienza coincida con i dati sensibili che
sarebbero semplicemente esibiti al pensiero. E neppure è analitico nel senso di supporre che l’esperienza sia completa
e già in atto. Riconosce così che i principi ricercati sono in qualche senso a priori, è razionalistico. Non è razionalistico
tuttavia nel senso di ritenere il pensiero un letto di Procuste in cui l’esperienza è costretta, o come un dato iniziale che
possa essere assunto, o le cui conclusioni possono sussistere prescindendo dall’esperienza sensibile. E neppure ritiene
che “il pensiero razionale dell’uomo” sia un qualcosa di completamente identico e di innato in tutti gli esseri umani
oppure un’entità trascendente che avrebbe le stesse identiche categorie e gli stessi modelli di intelligibilità anche se si
trovasse in un altro mondo sensibile.
Lewis può essere considerato l’ultimo dei pragmatisti classici.
II. DIFFUSIONE DEL PRAGMATISMO
I PRAGMATISTI EUROPEI
Il pragmatismo europeo è legato ai giri di conferenze tenuti da William James in Europa nei primi anni del Novecento,
in particolare nella sua celebre partecipazione al convegno di psicologia di Roma del 1905.
La definizione degli appartenenti al gruppo dei pragmatisti europei non è molto chiara. Ne fanno parte i celebri
pragmatisti italiani – Papini, Prezzolini, Vailati, Calderoni – ideatori della linea pragmatista del “Leonardo” la rivista
fondata da Papini e Prezzolini.
Qual è la nota determinante dei pragmatisti europei? Innanzi tutto la chiave critica nei confronti di idealismo e
positivismo, ma anche di Kant come antesignano di entrambi. Inoltre, i pragmatisti europei sottolineano da subito il
valore della verifica sperimentale implicita nella massima pragmatica e vi aggiungono spesso un tono esistenzialista e
un’applicazione a discipline diverse della logica e della scienza, che oltreoceano saranno sviluppate con sistematicità
solo da Dewey.
James parla di “coraggio”. Il coraggio di unire davvero teoria e pratica può essere considerato la cifra distintiva dei
pragmatisti europei, il loro miraggio e la causa della loro rapida scomparsa in un mondo eccessivamente polarizzato
tra intellettualismo razionalista e prassi violenta, che si sarebbe trovato di lì a poco nella tragedia della Prima guerra
mondiale.
GIOVANNI PAPINI
Giovanni Papini in “Un uomo finito” descrive i primi anni della sua vita come inquieti e dominati da una grande
solitudine. Il cruccio del giovane fiorentino era l’essere dominato da un desiderio di conoscenza totale, di possesso
totale, che era inevitabilmente disatteso dalla realtà banale in cui si trovava a vivere.
L’entusiasmo del loro pensiero dà vita al progetto del “Leonardo”. La rivista nacque dal bisogno di rivolta e
cambiamento, come espressione della loro stessa giovinezza. Eppure, al di là dei toni provocatori, Papini espresse
istanze che appartenevano pienamente al pragmatismo e il suo interesse per i pensatori contemporanei, con i quali
intrattenne rapporti personali e intesi, fu autentico. Dietro il rifiuto della logica si nascondeva infatti l’esigenza di una
filosofia viva, profonda e non ridotta a mero esercizio intellettuale. In particolare, si accusava la scienza positivista di
voler rinchiudere il reale in categorie statiche e anguste.
Egli desidera che la filosofia “sia una cosa viva, vissuta, eccitatrice di vita! Vogliamo che torni alle cose, che torni allo
spirito, che sia personale, vivace, fantastica, creatrice. Vogliamo che faccia vedere le idee, non che ce le distenda
innanzi come cadaveri impagliati”. Queste affermazioni richiamano fortemente ciò che negli stessi anni scrivevano
pensatori come William James e Henri Bergson.
Con James il rapporto fu ancora più stretto. Papini lo conobbe durante il V Congresso internazionale di psicologia,
tenutosi a Roma il 30 aprile 1905 e al quale il “Leonardo” dedicò quasi un intero numero, riportando integralmente
l’intervento di James. Successivamente il filosofo americano incontrò nuovamente i pragmatisti italiani durante un
viaggio in Italia e dedicò loro un articolo sul “Journal of Philosophy”.
Vale la pena riportare il tipo di obiezione che Papini sollevava nei confronti di Kant. Oltre che rispecchiare
l’antikantismo, una delle note perennemente dominanti nel pragmatismo, tale discorso fa intravedere le capacità
dialettiche del filosofo fiorentino. Papini dedica un capitolo a Kant, analizzandolo polemicamente come uomo, come
moralista e come teorico della conoscenza. Tralasciando qui i primi due aspetti per ragioni di spazio, dal punto di vista
teoretico ritroviamo in Papini la critica alla cosa in sé, accomunata questa volta a quella epistemologica all’a priori.
Secondo Papini la teoresi kantiana impone un a priori che è inconoscibile e inspiegabile. Inconoscibile perché, se l’a
priori è sempre parte della conoscenza, come faremo a conoscerlo per via analitica, separandolo da ciò con cui sempre
si presenta congiunto?
La stessa strategia si applica al noumeno: come fa Kant a nominare ciò che non dovrebbe nemmeno essere
conoscibile? E se lo conosce, come è avvenuta questa conoscenza?
Più interessante e innovativa la critica al legame tra necessità e a priori. I giudizi analitici sono davvero necessari?
Papini distingue due sensi del termine “necessario”. Se per necessario s’intende “ciò che non può avvenire altrimenti”,
allora tutto ciò che è già accaduto è necessario ma non è a priori. E se per necessario s’intende ciò di cui “non si può
affermare il contrario senza assurdità”, come per la matematica, allora “necessità” significa solo un tipo di legame
dovuto alla convenzionalità delle definizioni: la definizione implica il concetto che, se si modificasse, cadrebbe al di là
di essa e, solo in questo senso, sarebbe “assurdo”.
L’antintellettualismo è il primo indizio che lega Papini a Bergson e a James, ma vi è un secondo tema, che fu caro al
pensatore fiorentino e rappresentò un nodo centrale del pragmatismo americano: il tema dell’azione. James ritiene
che il significato di un concetto si esprima interamente in una condotta da seguire o in un’esperienza che dobbiamo
aspettarci, quindi si potrebbe dire che il concetto stesso coincide con “ciò che sono pronto a fare”.
Queste affermazioni affascinano Paini, che vede nel tema dell’agire la chiave di volta per la nuova filosofia “viva” che
intende fondare. L’interesse per l’azione negli scritti di Papini non si limita a essere l’approfondimento della dinamica
conoscitiva e della nozione di significato, ma diventa un programma il cui scopo ultimo è il superamento dei limiti
dell’individuo e il possesso del reale.
Con la disillusione dell’occultismo finisce anche la fase pragmatista di Papini, il cui percorso proseguirà toccando vari
lidi stilistici, politici e ideali, incluse l’accettazione del fascismo e la conversione al cattolicesimo. Tuttavia, non smise
mai di pensare a quell’unità tra teoria e azione che aveva imparato e professato da pragmatista, tanto che quando
scrive la vita di Gesù e i racconti sui personaggi minori del Nuovo Testamento, scrive di un Gesù e di un vangelo
pragmatista.
GIUSEPPE PREZZOLINI
Giuseppe Prezzolini segue l’avventura filosofica del suo più carismatico amico, anche se, fin dall’inizio, sembra dare
un’inclinazione sofistica all’idealismo papiniano. Lo pseudonimo Giuliano il Sofista è ben scelto: Prezzolini sfrutta una
delle possibilità intrinseche del pragmatismo, che non a caso sarà ripresa anni dopo da Umberto Eco, anch’egli studio
di Peirce.
In verità, il primo spunto filosofico nel senso di una teoria della menzogna venne non dal pragmatismo ma da Bergson.
La sottolineatura bergsoniana degli errori razionalisti nello spazializzare il tempo e nel costringere la memoria alla
materia divenne per Prezzolini la chiave di volta per una totale disarticolazione dei due ambiti, per una condanna dello
scientismo, e alle volte della scienza, più forte di quella di Papini, che invece avrebbe voluto usarla per una battaglia
comune.
Già dai primi numeri del “Leonardo” egli critica aspramente il considerare la conoscenza essenzialmente logica
cosicché in fondo l’essere umano si muova sempre per motivi razionali facendo capo ultimamente al medesimo
sistema logico.
E’ su queste basi e con queste influenze che avviene per Prezzolini l’incontro con il pragmatismo. In un certo senso, il
legame di Prezzolini con il pragmatismo è il più debole del gruppo e, fatalmente, doveva esplodere la discussione con
chi considerava la teoria che veniva d’oltreoceano un approfondimento o un miglioramento – ma non una rivoluzione
– della filosofia tradizionale e, persino, del positivismo.
Calderoni pretendeva distinguere due tipi di pragmatismo, quello derivato da James e legato alla volontà di credere, e
quello che invece si ispirava alla massima pragmatica di Peirce intesa in senso scientifico. La prima versione, secondo
Calderoni, finiva con il far coincidere la verità con ciò che si crede, ampliando e contraffacendo le intenzioni originarie
della massima pragmatica.
La diatriba terminò con un articolo di Papini che riconosceva tre tipi di pragmatismo, secondo un ampliamento che lo
stesso Calderoni aveva permesso in una delle sue repliche. C’è un pragmatismo che è molto vicino al positivismo, al
quale fornisce una giustificazione per un metodo di verificazione. Un altro che è connesso con la verità di credere e
che cerca di far valere le implicazioni della massima su ogni piano.
Il commento di Prezzolini andava nello stesso senso quando diceva che in fondo tutti i tipi di pragmatismo volevano
unire pensiero e azione, e che riconoscevano l’impatto e l’importanza dei bisogni pratici.
GIOVANNI VAILATI
Giovanni Vailati era il più anziano del gruppo dei pragmatisti italiani e l’unico che avesse una propria statua scientifica
precedente e indipendente dal pragmatismo. Era stato collaborato di Peano nell’estensione del Formulario e aveva
tenuto corsi universitari di Storia della meccanica presso l’Università di Torino prima di abbandonare l’idea della
carriera accademia e dedicarsi all’insegnamento nei licei. Vailati aveva posizioni filosofiche che erano per loro conto
antesignane del pragmatismo. Nelle sue prolusioni ai corsi universitari aveva mostrato che la distinzione teoria/pratica
non reggeva all’esame attento dell’esperienza scientifica. La parte immaginativa e teorica gioca un ruolo importante,
consiste la possibilità di un maggior adeguamento della teoria alla verità, considerata come verifica delle premesse
nelle conseguenze. E nella verifica aveva un ruolo decisivo l’esperimento, inteso come compimento cruciale delle
teorie, mentre il tipo di ragionamento in cui esso si inseriva rimaneva quello deduttivo. A proposito di deduzione,
Vailati apprezzava la capacità della logica matematica che si stata formando, e a cui aveva collaborato con Peano, di
poter simbolizzare i procedimenti, mettendo in luce la comune appartenenza di molti contenuti a un medesimo
schema formale.
MARIO CALDERONI
Il filosofo ferrarese rappresenta l’aspetto più vicino al neopostitivismo del quartetto del “Leonardo”. Discepolo di
Vailati, Calderoni sembra esporre e sviluppare alcune idee vailatiane, forse persino con più puntiglio del maestro.
Innanzi tutto, le idee sul pragmatismo. Si è visto che Calderoni è il protagonista della schermaglia sul significato del
pragmatismo. In quest’ultima identifica se stesso con un pragmatismo scientifico vicino al positivismo, per poi lasciar
spazio in un articolo successivo a una forma mista, la terza, che cerca di applicare la scientificità della massima
pragmatica ad altri ambiti.
Per Calderoni è dunque chiaro che il pragmatismo è una regola per la chiarificazione del significato dei termini che
introduce un verificazionismo simile a quello che sarà proposto successivamente dai neopositivisti.
Emergono dalla sua riflessione un particolare valore e una descrizione peculiare dell’esperimento. Calderoni, infatti,
richiama la sottolineatura pragmatista sull’esigenza che l’esperimento sia un’operazione abituale dove si portino in
luce le conseguenze particolari secondo lo scopo o la credenza. Lo sperimentalismo non agisce dunque “solo nella
soluzione delle questioni ma anche nella scelta delle questioni da trattarsi”. Come si è detto, ciò significa che è
sperimentando che si capisce, senza però poter fissare limiti e saturazione ai significati concepibili e ai tipi di
esperimento. L’azione sperimentale non è solo terreno di verifica, ma è anche parte della comprensione e della
conoscenza stesse. Sono affermazioni che vanno nella direzione di un paradigma diverso della razionalità umana e che
trovano forse nella logica deweyana l’espressione teoretica più interessante.
Egli non accede al positivismo, ritenendo che la responsabilità personale sia effettivamente rinvenibile attraverso
l’applicazione della massima pragmatica. Un atto sarà da considerarsi volontario quando è capace di provocare, e non
solo di aspettarsi, certe sensazioni. La teoria generale rimane dunque quella liberale della responsabilità, mediata però
da un contestualismo che esprime l’ambito di realizzazione dei comportamenti. L’esternalismo è anche la chiave per
comprendere il suo scritto sulle “Disarmonie economiche e disarmonie morali”. Se si considera l’etica non come lo
studio delle norme universali buone, ma come l’analisi della condotta umana nelle sue scelte e l’individuazione di
alcune metodologie per trovare norme universalizzabili, se non universali, si capirà come sia possibile il paragone fra
gli studi funzionali in economia e quelli in etica.
Fin dai primi lavori di logica e filosofia della logica, Quine si mostra estremamente diffidente nei confronti di presunte
verità incontrovertibili isolate dalle nostre pratiche, persino delle verità garantite per mera convenzione all’interno del
linguaggio, come le verità logiche e le verità analitiche, e dell’idea che le nozioni e le espressioni che usiamo nei nostri
sistemi teorici rispecchino entità già pronte nel mondo e non, piuttosto, entità introdotte sulla base dei nostri bisogni,
teorici e soprattutto pratici.
Critica alle verità logiche risale già ai suoi primissimi lavori e si sovrappone al ripensamento critico del
neoempirismo. L’idea che Quine rigetta è che sia possibile offrire una fondazione della matematica riducendo le sue
verità a verità più fondamentali espresse in termini puramente logici. Anche ammettendo che vi siano verità logiche
primitive, puramente convenzionali, da cui riteniamo sia possibile derivare le verità della matematica, come è
possibile derivarle? L’idea è che non ha molto senso isolare presunte verità puramente linguistiche, che si suppongono
indipendenti dagli usi e dai saperi accumulati, senza fare riferimento alle nostre pratiche del mondo. Il problema non
era, ovviamente, del logicismo in quanto tale, bensì del suo carattere fondazionale.
Critica alle verità analitiche è ancora più audace e finisce per mettere in questione la legittimità della stessa
distinzione tra enunciati analitici ed enunciati sintetici. La distinzione viene definita da Quine il primo dei “due dogmi
dell’empirismo”: con “empirismo” egli intende il neoempirismo del Circolo di Vienna, che si fonderebbe su due
“metafisici articoli di fede”. La confutazione di tali dogmi, dichiara Quine, comporta un ravvicinamento al pragmatismo
e un appannamento della distinzione tra metafisica e scienza naturale. La dicotomia analitico/sintetico implicava,
infatti, l’assunzione che il nostro sapere o è sintetico ed è oggetto di indagine delle scienze particolari, o è analitico ed
è oggetto di indagine della logica e della matematica, entrambe intese come complesse costruzioni tautologiche.
Le verità analitiche differiscono rispetto alle verità logiche perché non sono tali soltanto in virtù della loro “struttura
formale” cioè in virtù di quelle che vengono definite particelle logiche, bensì in virtù dei significati. Un enunciato come
“lo scapolo è un uomo non sposato” non ha la “struttura” di una verità logica come “lo scapolo è scapolo”, bensì
quella di un enunciato come “lo scapolo è un uomo felice” ma, a differenza di quest’ultimo, si ritiene che sia vero a
priori, cioè indipendentemente da qualunque conferma empirica. L’idea di Quine, in sintesi, è che non è possibile
discriminare componente linguistica e componente fattuale delle nostre asserzioni per due ordini di motivi:
1) i nostri significati linguistici sono stratificazioni degli usi dei parlanti competenti all’interno di una certa comunità
linguistica e in questo senso non sono affatto completamente a priori;
2) la stessa articolazione dell’esperienza in fatti e oggetti è debitrice nei confronti della struttura linguistico-
concettuale e in questo senso non è affatto completamente a posteriori.
La stessa distinzione tra a priori ed empirico comincia a vacillare e a dissolversi, per lo meno come distinzione tra
enunciati. Così come è difficile rintracciare enunciati semplicemente analitici, la critica al secondo dogma ci mette in
guardia nei confronti di presunti enunciati semplicemente empirici. Il riduzionismo radicale, tipico del neopositivismo,
assume la possibilità di tradurre ogni enunciato dotato di significato in un enunciato vero o falso sull’esperienza
immediata. In mancanza della possibilità di tale riduzione all’esperienza immediata, che consentiva di verificare o
confutare un enunciato grazie a un esperimento cruciale, l’enunciato veniva dichiarato privo di senso. Per Quine a
essere priva di senso è piuttosto l’idea stessa di un esperimento cruciale, di un esperimento definitivo che possa
confermare o confutare un enunciato isolato dal sistema di cui fa parte.
La concezione che fa da sfondo alla critica ai due dogmi dell’empirismo è che la nostra conoscenza andrebbe vista non
come lo specchio di una realtà già data, bensì come un edificio che abbiamo faticosamente costruito pezzo per pezzo e
che tocca l’esperienza lungo i suoi margini. Un’altra metafora cara a Quine è la conoscenza come un campo di forza il
cui punto limite è l’esperienza. Una perturbazione del campo, che si mostra con un disaccordo tra l’esperienza e la
nostra conoscenza, impone un qualche intervento ma l’esperienza non ci dice come intervenire. Nessuna delle
esperienze particolari è collegata ad asserzioni particolari all’interno del campo, se non indirettamente, attraverso
considerazioni di equilibrio che riguardano il campo nel suo insieme. Tale concezione è nota con il nome di “olismo”.
Nessun enunciato è di principio immune da revisione, neppure le leggi logiche e le verità analitiche, solitamente
collocate al riparo nell’area più centrale, e protetta, del sistema. In modo speculare, gli enunciati periferici a maggior
rischio di riesame possono sempre essere trasferiti in aree più protette, sulla base di considerazioni pragmatiche.
L’olismo, che finisce per mettere in discussione anche la nozione stessa di corpo o oggetto fisico, inteso come entità
indipendente dalle nostre pratiche linguistiche e cognitive, si salda all’opzione comportamentista di Quine, che è alla
base del suo rifiuto delle entità mentali. In “Word and Object”, Quine offre una ricostruzione congetturale dell’intera
nostra scienza su base esclusivamente comportamentistica. Il comportamentismo, strettamente legato alla tesi di
James e di Dewey, rigettava qualsiasi appello a un ipotetico teatro interiore e risolveva ogni indagine sulla “mente” in
un’indagine sul comportamento manifesto degli individui all’interno di una comunità. A partire dalla stimolazione
sensibile, assunta come unica datità di partenza, Quine ricostruisce l’apprendimento, l’organizzazione dell’esperienza
in un mondo di cose e la stessa costruzione del sapere mediante formazione di habitus, sulla base di meccanismi di
condizionamento.
All’interno di questa ricostruzione viene esposta la tesi dell’indeterminatezza della traduzione grazie a un celebre
esperimento mentale: il caso della “traduzione radicale”. Si immagini un linguista costretto a interpretare un
linguaggio completamente sconosciuto sulla base del solo comportamento manifesto dei parlanti. Quello che il
linguista riesce a raggiungere è, al massimo, una classe di coppie di stimolazioni e assensi-dissensi. L’esperimento
mentale serve a Quine per mostrare l’impossibilità di escogitare un manuale univoco di traduzione di una lingua
remota, impossibilità che condanna il linguista.
Questa indeterminatezza riguarda ciascuno di noi perché il linguista riporta l’indeterminatezza in casa propria: anche
nell’interpretare il linguaggio del nostro vicino di casa e persino il nostro stesso linguaggio, non abbiamo più alcuna
possibilità di ricorrere a un punto fisso rappresentato da un mondo indipendente di cose e da un mondo indipendente
di entità mentali.
La concezione filosofica che offre il quadro concettuale per l’olismo e il comportamentismo è il naturalismo, cioè
l’assunzione per cui la filosofia opera in continuità con l’indagine scientifica e ne differisce per generalità e non per
metodo.
Il percorso filosofico di Quine sembra così intrinsecamente collegato agli sviluppi neopragmatisti di autori come
Davidson e Sellars che c’è chi ha rintracciato nella sua proposta teorica l’inaugurazione di una sorta di movimento
definito neopragmatismo. Le affinità tra Quine e Sellars sono profonde, soprattutto per l’opposizione al
fondazionalismo cartesiano, anche se i percorsi non sono necessariamente complementari e forse queste stesse
affinità non possono essere piegate fino a farne dei filosofi antianalitici.
WILFRID SELLARS
Cenni biografici:
Nasce ad Ann Arbor, nel Michigan, il 20 maggio del 1912. Comincia i suoi studi in Europa e poi si sposta ad Harvard
dove ha modo di seguire i corsi di Quine e Carnap. Durante la guerra, Sellars è di stanza in Rhode Island, arruolato
nella divisione antisommergibili della marina. Riprende l’insegnamento nel 1946, spostandosi anche a Pittsburgh,
proprio qui lascia un’impronta indelebile. Muore nel 1989.
Nella sua opera più nota, “Empiricism and the Philosophy of Mind”, Sellars si pone lungo una linea di pensiero che
affonda le sue radici in Kant, poiché intende produrre una descrizione della natura umana da un lato legata alla realtà
naturale e, dall’altro, protesa a comprendere il mondo grazie all’applicazione di facoltà concettuali. Su tali basi, lo
scopo del saggio è l’attacco al “mito del dato”. La critica alla datità, però, non concerne “la differenza tra inferire un
certo fatto e vederlo”, ma è rivolta al termine “dato” inteso nella sua accezione epistemologica, unico possibile punto
di avvio per sviluppare una “critica generale che ha di mira l’intero quadro teorico della datità”.
Tale quadro possiede il primo e più evidente nucleo di criticità nelle teorie del dato sensoriale: in esse la categoria
epistemologica di dato viene introdotta “per spiegare l’idea che la conoscenza empirica ha come proprio fondamento
la conoscenza non inferenziale di dati di fatto”. Questa affermazione testimonia che l’attacco al mito del dato
costituisce essenzialmente un attacco al fondazionalismo cartesiano. L’idea alla base dell’epistemologia di Cartesio è
infatti, per Sellars, proprio quella alla quale fanno riferimento le teorie del dato sensoriale, cioè la convinzione che la
nostra capacità di strutturare inferenze, e quindi di possedere conoscenze di natura proposizionale, deve fondarsi su
qualcosa che possiamo conoscere in modo immediato.
Sellars parla di argomento del “regresso fondazionale”: la rete di inferenze, per poter dar luogo a un’autentica
conoscenza, deve fondarsi su un principio estraneo alla medesima catena inferenziale. Per ogni catena di
giustificazioni è necessario supporre l’esistenza di una credenza che è giustificata senza che debba venire giustificata
ricorrendo a un’altra credenza. In base a questo principio, è stata introdotta l’idea di sense datum, ovvero di un
primitivo puro dato dell’esperienza in grado di soddisfare la conoscenza immediata.
Il fondazionalismo diviene così il principale bersagli critico di Sellars, in quanto non è in grado di rendere conto di come
“la conoscenza che qualcosa è così e così” ovvero il sussumere particolari sotto universali, “implichi l’apprendimento,
la formazione di concetti e persino l’uso di simboli”.
Questa convinzione spinge Sellars ad assumere il pragmatismo linguistico in una versione radicale: per il pensatore
statunitense, infatti, la comprensione dei concetti può avvenire solo attraverso la prassi linguistica. Al fine di
dimostrare questa asserzione, Sellars prende in esame il modo di apprendere il linguaggio da parte dei bambini e ne
conclude che, in opposizione al modello agostiniano, se è pur vero che in taluni casi gli infanti apprendono i nomi o le
caratteristiche degli oggetti ripetendo le parole pronunciate dagli adulti, è altrettanto vero che un tale meccanismo di
emulazione non è in alcun modo classificabile come episodio conoscitivo e può costituire la base di una catena
inferenziale. Il bambino diviene protagonista di un evento conoscitivo solo quando entra nello spazio del dare e
chiedere ragioni; quando è in grado di impegnarsi nei riguardi di un’affermazione. La differenza tra l’infante che ripete
meccanicamente il nome di un oggetto mentre lo indica e il bambino più grande che afferma che quell’oggetto si
chiama in un certo modo è da riscontrarsi nel fatto che quest’ultimo, sulla base delle proprie esperienze pregresse, è
consapevole della sua affidabilità ed è quindi entrato in un orizzonte normativo.
Sellars sferra dunque un duro colpo al fondazionalismo, tanto nelle versioni legate all’empirismo, quanto soprattutto
in quelle connesse al cristianesimo, tutte impantanate in qualche modo nelle sabbie del mito del dato poiché
convergono nello spiegare il linguaggio sulla base dell’intenzionalità del pensiero. Sellars crede l’esatto contrario: è la
direzionalità del pensiero che può essere compresa, esclusivamente in termini semantici, poiché la dimensione
teorico-semantica è prioritaria rispetto a quella non inferenziale.
Lo smascheramento del mito del dato comporta il riconoscimento che il soggetto opera nella dimensione pragmatica,
ovvero all’interno di quello spazio delle ragioni dove vigono le regole del confronto pubblico e del render conto. La
definizione di tale orizzonte epistemico-inferenziale, che per Sellars costituisce la dimensione specifica dell’essere
umano, rappresenta il compito ultimo della filosofia, la quale ha così lo scopo di “comprendere come le cose, nel
senso più ampio possibile del termine, stiano insieme, nel senso più ampio possibile del termine”.
Se però una simile definizione di filosofia rimane sul piano puramente astratto, si può concretizzarla facendo
riferimento alla metafora della visione stereoscopica: come nella vista convergono in un quadro organico e coeso le
immagini provenienti da due occhi, così la filosofia deve fondere, in una concettualità coerente, quelle che Sellars
denomina l’immagine manifesta e l’immagine scientifica dell’uomo.
L’immagine scientifica seppure è “metodologicamente dipendente dal mondo del senso comune elaborato” si
presenta comunque come un’immagine completa, pretendendo di “definire una cornice concettuale che costituisca
l’intera verità”. Se quindi scaturisce da uno sviluppo conoscitivo e da un salto metodologico interno all’immagine
manifesta, l’immagine scientifica si pone comunque su una posizione di rivalità rispetto a essa, considerando se stessa
come un incremento della prima, un suo perfezionamento.
Il ricordo al microcosmo teorico della fisica quantistica è invece parte della strategia e del modello di razionalità tipico
dell’immagine scientifica, che richiede quindi un’ontologia più raffinata e complessa. Le divergente ontologiche non
implicano però un’insanabile irriducibilità tra le due immagini; seppure, per Sellars, la possibilità che l’immagine
scientifica fagociti quella manifesta è addirittura un rischio epocale. C’è in gioco la natura stessa dell’umanità:
l’immagine manifesta infatti, che corrisponde in ultima istanza alla dimensione del senso comune, è la modalità
primaria attraverso la quale l’uomo comprende se stesso in quanto uomo-nel-mondo e cancellarla equivarrebbe a
disumanizzare l’essere umano, a renderlo qualcosa di diverso da ciò che è.
Il compito assegnato all’impresa del pensiero, realizzare l’immagine stereoscopica, se risulta quindi di primo acchito
titanico, mostra invece la sua inevitabilità se si guarda nel cuore stesso della teoresi sellarsiana. La spiegazione del
mondo fornita dalla scienza è di certo reale, ma seppure fornisce la misura del mondo, non dice nulla riguardo alla
dimensione intenzionale dell’uomo.
Il pragmatismo di Sellars costituisce quindi l’opzione teorica che permette di restituire uno spazio ben preciso alla
ricerca filosofica. Quest’ultima, infatti, consente di tratteggiare una visione d’insieme dell’uomo, avendo la capacità di
elevarsi al di sopra tanto della concettualizzazione di tipo scientifico-naturalistica, che non può spingersi fino a
comprendere la dimensione normativa dell’orizzonte condiviso, quanto di quella legata al senso comune.
Per comprendere in pieno tale relazione dialettica tra scienza e senso comune è necessario fare riferimento a Kant. Il
realismo scientifico che propone il filosofo americano non deve abolire gli oggetti indicati dal linguaggio naturale, ma
considerare che il “mondo dell’esperienza quotidiana è un mondo fenomenico nel senso kantiano, che esiste
esclusivamente nelle modalità proprie dei contenuti di effettive rappresentazioni concettuali”.
La dimensione della persona, che dischiude l’orizzonte delle credenze e delle esigenze praticamente orientate nella
collettività, costituisce un’integrazione all’immagine scientifica. La persona è quindi non esauribile nella mera
descrizione, costituendo il nucleo intimo della soggettività che, in virtù della sua appartenenza alla realtà pratica, è del
tutto irriducibile a quella ontologica. Su questo si innesta una visione del linguaggio che, sulla base di tali presupposti
pragmatisti, critica il modello rappresentazionalista. Con il linguaggio, infatti, non ci limitiamo a “descrivere e spiegare”
ma lo utilizziamo per esprimere la sfaccettata moltitudine delle nostre intenzioni e dei nostri sentimenti.
DONALD DAVIDSON
Secondo Davidson il rifiuto del fondazionalismo ha la sua matrice nel rigetto della dicotomia kantiana tra analitico e
sintetico, la quale si base sul “dualismo tra schema e contenuto”, ovvero su quella distinzione tra “un sistema
organizzante e un qualcosa che attende d’essere organizzato”, che costituisce “un dogma dell’empirismo”. Più
precisamente si tratta del “terzo dogma” che è anche “l’ultimo, perché se lo abbandoniamo non saprei dire se rimanga
qualcosa di specifico da poter chiamare empirismo”.
La strategia che Davidson propone, per superare la dicotomia schema/contenuto, si fonda sull’identificazione tra
schema concettuale e linguaggio. Secondo tale identificazione, il linguaggio costituisce un modo per organizzare
l’esperienza, un sistema di categorie che informa i dati percettivi. Di conseguenza, la questione inerente all’esistenza
di molteplici schemi concettuali, diversi da uomo a uomo, converge nell’interrogativo circa l’esistenza di lingue
intraducibili.
L’argomentazione di Davidson rivolta a smantellare il terzo dogma dell’empirismo finisce per incentrarsi sul rifiuto
dell’idea stessa dell’intraducibilità assoluta. Le motivazioni di tale rifiuto derivano essenzialmente dall’idea che “punti
di vista diversi possono essere sensati, ma soltanto se vi è un sistema di coordinate comune nel quale disporli”.
Pertanto, anche solo per possedere la consapevolezza dell’esistenza di due lingue tra loro incommensurabili, è
necessario fare riferimento a uno schema comune, un substrato di fondo dall’interno del quale poter cogliere le
distinzioni.
Il paradosso legato al concetto di intraducibilità assoluta, che Davidson evidenzia, genera così un cortocircuito alla
radice del dualismo schema/contenuto; non abbiamo alcun appiglio per sospettare che un’attività costituisca un
comportamento verbale, e sia dunque un’attività linguistica, se non è possibile interpretare questa medesima attività
nella nostra lingua e, dunque, tramite le nostre categorie organizzative. Catalogare, dunque, un’attività come
linguaggio significa inevitabilmente interpretarla, entrare in connessione con essa, porsi su un terreno comune. L’idea
dell’orizzonte comune rende insostenibile l’intraducibilità assoluta e, se il concetto di intraducibilità assoluta non è
intelligibile, allora non è possibile desumere da questo l’esistenza di differenti schemi concettuali.
Emerge una ben precisa concezione del linguaggio, ovvero l’idea che quest’ultimo sia sempre in stretta correlazione
con l’esperienza, che costituisca, in qualche modo, il frutto di abiti empirici sedimentari. E’ proprio il contenuto
empirico delle proposizioni, infatti, quella base comune alla quale fare riferimento nel processo di traduzione e
interpretazione da una lingua a un’altra. Il costante riferimento all’esperienza, che contraddistingue ogni prassi
linguistica, è quindi, in ultima istanza, il criterio che rende insensata l’idea dell’intraducibilità assoluta.
Davidson si interroga, a questo punto, sulla possibilità che esista un’intraducibilità parziale e che sia questa a costituire
una ragione sufficiente per giustificare l’esistenza di schemi concettuali differenti. Tale opzione è smentita tuttavia dal
principio di carità. Quest’ultimo dà infatti conto di tutte quelle convezioni, tacitamente stipulate fra gli interlocutori,
grazie alle quali è possibile tanto l’intesa che il disaccordo.
Nel processo di traduzione/interpretazione e, più in generale, nella comunicazione, i significati sono strettamente
legati alle credenze e, proprio in virtù di una tale visione olistica, Davidson può assegnare al principio di carità il ruolo
di condizione di possibilità del processo stesso. La carità consiste allora nel considerare le credenze espresse dal
parlante come tendenzialmente giuste.
Il suo obiettivo è quello di individuare una teoria del significato in grado di fornire “una descrizione coerente del
comportamento dei parlanti e di ciò che i parlanti e i loro interpreti conoscono e che permette loro di comunicare”.
Non è la struttura logico-formale del linguaggio quella che una teoria deve perciò restituirci, ma l’indicazione delle
condizioni della comunicazione e, conseguentemente, la rappresentazione del suo concreto, fattuale realizzarsi.
Davidson realizza questo compito dando per presupposta la nozione di verità. E’ infatti la verità il “concetto primitivo e
centrale” e il significato può essere colto solo presupponendola.
Il principio di carità assume così il ruolo di fondamento della teoria davidsoniana del significato: ipotizzando come
accettabile il maggior numero possibile di credenze dell’interlocutore, si possiede infatti un riferimento sulla base del
quale assegnare il significato ai termini che egli utilizza. Quanto detto riguardo al principio di carità conduce
inevitabilmente alla constatazione che nemmeno l’intraducibilità parziale è in grado di fornire sostegno all’idea di
schema concettuale. In questo modo viene cancellata anche l’ultima possibilità di salvare il terzo dogma
dell’empirismo e l’idea di verità relativa. Abbandonando il dualismo tra schema e realtà, non è più sostenibile, difatti,
la concezione secondo cui la verità è relativa a uno schema, a una categoria o un sistema culturale.
Al di là dei risvolti etici connessi all’epistemologia di Davidson, la principale conseguenza del rifiuto del terzo dogma
dell’empirismo è la critica al fondazionalismo rappresentazionalista. Tale critica, come ha evidenziato Rorty, si basa
proprio sul nuovo modo di intendere il linguaggio una volta abbandonato il dualismo schema concettuale/realtà:
questo infatti, non è più un “tertium quid” tra la mente e il mondo, ma diviene parte “del comportamento degli esseri
umani”. Il linguaggio non può essere uno strumento di rappresentazione della realtà, non può fungere da apparato di
raffigurazione dei fatti. E ciò avviene poiché, come sancito dalla critica al terzo dogma, non esiste un’entità descrivibile
come un fatto bruto, un contenuto certo, distinto dalla mente e dai suoi schemi e categorie. Cancellare il dualismo tra
schema concettuale e contenuto equivale a eliminare qualsivoglia frattura radicale tra mente e mondo e, di
conseguenza, a negare la possibilità di percepire dei primitivi puri, dei dati asettici.
La mente, per il filosofo, non è un’entità isolata chiusa in sé e rivolta esclusivamente alla contemplazione dei propri
contenuti in quanto, come vuole il suo “monismo anomalo” ogni pensiero, in quanto già da sempre interpretato, è
suscettibile dell’interpretazione altrui. Ciò vuol dire che, oltre alla conoscenza diretta di noi stessi, dei pensieri che ci
caratterizzano, delle nostre volontà e sensazioni, noi siamo anche in grado di interpretare che cosa sentono e pensano
gli altri. Si tratta della capacità di interpretare l’altro che ci consente di evitare il rischio del solipsismo o della perdita
del mondo. L’oggettività “è la conseguenza di una triangolazione che richiede due creature. Ognuna di queste
interagisce con un oggetto, ma ciò che dà a ciascuna il concetto di come le cose stanno oggettivamente è la linea di
base formata, tra le creature, dal linguaggio”.
Il rapporto triangolare tra due soggetti e il mondo a loro comune diviene così la condizione e gli altri stati mentali
costituiscono condizioni in cui nessuno può trovarsi “senza avere il concetto di verità intersoggettiva” e quest’ultimo è
un concetto che non si può possedere senza condividere “con altri un mondo e una visione del mondo”. La verità,
pragmatisticamente, viene concepita come esprimibile attraverso concetti comprensibili in uno schema condiviso
pubblicamente su base linguistica. In altri termini, la consapevolezza dell’esistenza di un mondo, con i suoi stati di cose
indipendenti rispetto alle menti dei soggetti che in esso abitano, si fonda sul raffronto comunicativo tra quei medesimi
attori e sul loro comune riferirsi all’ambiente che li circonda.
La semiosi infinita di Peirce trova una nuova formulazione all’interno della metafora davidsoniana della triangolazione,
e approda a una visione della mente, anticartesiana e creativa, secondo la quale la relazione epistemica con il mondo
non può essere compresa muovendo da evidenze interiori indubitabili, irrimediabilmente scisse dall’ambiente
esterno. L’idealismo, il riduzionismo, lo scetticismo e tutto ciò che è derivato dall’empirismo e dalla sua
assolutizzazione degli oggetti mentali, non rendono conto infatti di come le credenze che governano la vita dell’uomo,
lungi dall’esaurirsi sul piano puramente soggettivo, pretendono di “rappresentare qualcosa di oggettivo”.
Davidson è del tutto immerso nella tradizione del pragmatismo; nella misura in cui attacca la scissione moderna tra
soggetto e oggetto, derivante dalla concezione cartesiana della mente. Le tre forme di conoscenza sono
dialetticamente interrelate in un rapporto di reciproca dipendenza, in una correlazione olistica nella quale soltanto la
simultanea presenza di ciascuno dei tre elementi può condurre alla verità. Sebbene il pensiero non possa che essere,
in ultima istanza, un possesso di concetti soggettivi, lo spazio in cui questi ultimi sono collocati è eminentemente
pubblico, poiché si tratta dell’ambiente comune al quale quegli stessi pensieri sono chiamati a rispondere. In tal modo,
seppure è salvaguardata la possibilità dell’errore, è scongiurato il rischio del grande inganno scettico, poiché è il
comune riferimento al background intersoggettivo, rappresentato dal mondo, a costituire la condizione fondante la
prassi linguistica e comunicativa.
Apel concepisce la soggettività delle scienze naturali e storico-sociali come comunicazione intersoggettiva fra i
portatori di interessi etico-conoscitivi e non come soggettività monista, solipsista, la cui oggettività coincide con la
legge formale della natura. Tale trasformazione della filosofia moderna implica l'assunzione di ciò che Apel stesso
denomina la “radicalità” della concezione peirceana della semiotica e del suo triplice rimando:
1) alla materialità dei segni
2) all’effettività e imprescindibilità di un mondo reale
3) di un interprete reale.
Il rimando alla materialità dei segni garantisce l’ancoraggio del linguaggio dei “simboli” convenzionali alla concretezza
della situazione. Il segno materiale può avere, però, funzione rappresentativa per una coscienza, solo se si dà un
mondo reale per principio conoscibile.
Con questa convinzione Apel abbraccia pienamente la critica di Peirce alla teoria kantiana della cosa in sé e della sua
sola pensabilità. La distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé dimenticherebbe che la conoscenza,
semioticamente intesa, si estende tanto quanto si estendono le ipotesi significative della comunità degli scienziati. In
questo senso anche la supposizione dell’inconoscibilità della cosa in sé è un’ipotesi con una pretesa di verità,
un’ipotesi però destinata a fallire perché autocontraddittoria: se tutti i nostri concetti sono ottenuti per astrazione e
combinazione di cognizioni emerse per la prima volta in giudizi d’esperienza, scrive Peirce, non ci può esser alcun
concetto dell’assolutamente inconoscibile, dato che nulla del genere accade nell’esperienza.
Il rimando del segno a un mondo reale implica così il superamento della distinzione fenomeno/noumeno a favore
della distinzione fra ciò che è conoscibile in the long run e ciò che è di volta in volta conosciuto. Apel interpreta la
critica semiotica al noumeno kantiano come espressione del fallibilismo e convenzionalismo critici, ma non scettici
proprio perché il carattere provvisorio della “validità di tutte le conoscenze umane” si accompagna sempre alla piena
fiducia nella capacità autocorrettiva della mente.
La realtà dell’interprete trova così adeguata espressione nell’idea di “una comunità che non ha confini definitivi e
possiede la facoltà di una crescita definitiva della conoscenza”. Questa asserzione di Apel, solo apparentemente
semplice, coinvolge per lo meno due ambiti concettuali del pragmatismo di Peirce, tentandone al tempo stesso una
correzione, volta ad allargare il concetto di comunità degli scienziati a tutti i soggetti portatori di interessi. Due nuclei
concettuali peirceani:
1) IL TEMA DEL CONTINUUM CHE SI PRESENTA IN PEIRCE COME UNA FONTE DI COSTANTE INTERESSE E TRAVAGLIO
TEORETICO:
Il rapporto con il concetto di continuo implica un sofferto movimento di avvicinamento e allontanamento dalla
concezione kantiana della continuità. Sono state distinte sei, cinque e quattro fasi nelle riflessioni sul continuo in
Peirce, ma il nucleo teoretico del tornare e ritornare sull’argomento sembra essere il rapporto fra continuità e
divisibilità delle parti. Nel momento in cui la continuità deve dar conto della natura processuale della conoscenza,
realizzabile solo nel concatenamento infinito di cognizioni, essa ingloba in sé anche l’idea della divisibilità all’infinito
delle parti. L’interconnessione di continuità e divisibilità è espressa da Kant nella “Critica della ragione pura”,
asserendo che in una quantità continua nessuna parte è la più piccola possibile.
Piuttosto che arrivare a una definizione certa di continuo, nello scritto del 1904, egli vuole sancire la non perfetta
sinonimia fra continuità e divisibilità infinita. Frantumare sempre di più i granelli di sabbia renderà solo la sabbia più
fine, non riunirà i granelli in una continuità interrotta. Detto in altri termini: l’infinita divisibilità, ad esempio, dei
razionali frazionali non dimostra affatto che nella serie non vi siano spazi vuoti e pertanto cesure della continuità.
Reale non è più solo ciò che ho di fronte e che non posso modificare o ciò che si rivelerà vero nel futuro grazie alla
conoscenza e allo studio della comunità universale dei ricercatori. Reale è ora il composto continuo di tre fattori:
- la necessità del futuro (dominato dalla legge)
- la brutalità dei fatti (fondamentale per la formazione stessa della verità)
- la pura possibilità (dominio del passato a partire dal quale si creano congetture per il futuro).
2) LE CATEGORIE PRAGMATISTE DI PRIMITA’, SECONDITA’ E TERZITA’:
Le categorie di primità, secondità e terzità possono confrontarci nell’indagine sul realismo cognitivo-semiotico di Apel.
PRIMITA’ = il livello più semplice e immediato del processo percettivo-cognitivo; essa indica pure qualità possibili non
ancora attualizzate. Ad esempio la rossità, ossia una qualità assoluta, positiva, ancora indipendente dal processo
percettivo. La qualità in se stessa non possiede né vividezza né debolezza, quindi non può essere in sé coscienza.
Infatti in se stessa è una pura possibilità. La coscienza deve essere più o meno desta altrimenti non ha alcun essere. La
possibilità, che è il modo d’essere della primità, invece è l’embrione dell’essere. Non è un nulla. Non è esistenza.
SECONDITA’ = esprime un concetto “duro” e “brutale” di realtà, ossia i “fatti bruti” cui si collega l’esperienza della
duplicità. Il fatto bruta implica sempre la duplice e al tempo stesso unitaria esperienza di resistenza e di sforzo. In essa
prende forma la coscienza di azione e reazione tra un ego e un non-ego, la sua espressione autentica si ha nella
“volizione” cosciente in cui si fa esperienza necessaria dell’urto con il mondo. La secondità si dà solo nell’attualità e
può essere considerata esistenza.
TERZITA’ = consiste nella formazione di un abito e ha a che vedere con la legge, la quale indica quel tipo di regolarità
cui si conforma il futuro infinito. La sfera del pensiero non si identifica con quella del soggetto e si lega da un lato alla
processualità dei contenuti scientifici e dall’altro al divenire della comunità degli scienziati, sfociando in un
interessante realismo cognitivo-semiotico, fondamentale per le riflessioni apeliane sulla comunità reale di
comunicazione dei parlanti.
La relazione tra possibilità, brutalità fattuale e necessità futura, messa in campo per dar conto del processo infinito e
continuo della conoscibilità del reale, si è arricchita delle tre nuove categorie appena indicate, le quali hanno come
correlato soggettivo il processo infinito di conoscenza della comunità reale degli scienziati cui Apel non solo ha voluto
dare un’interpretazione allargata, ma anche una fondazione trascendentale che valichi l’ambito della appercezione
pura.
Avendo già indicato come Apel sostituisca l’espressione “comunità degli scienziati” con quella di “comunità dei
parlanti” non rimane ora che introdurre il concetto di a priori dell’argomentazione. Nell’a priori dell’argomentazione è
presente la pretesa di giustificare “non solo tutte le affermazioni della scienza, ma al di là di questo tutte le pretese
umane”. L’istanza universalistica, che così emerge, viene estesa anche alle pretese virtuali dell’umanità, ossia a tutti i
potenziali bisogni di tutti gli esseri umani e rimandata al principio pragmatista dell’autoarresa o autolimitazione.
Ciò che abbiamo descritto finora riguarda il passaggio dalla comunità reale degli argomentanti alla comunità
trascendentale di comunicazione, il cui grado intermedio è rappresentato dalla “comunità quasi-trascendentale”. Essa
esprime quell’orizzonte di senso storico, formato dalla tradizione, in cui ogni soggetto della comunità reale si trova a
operare e comunicare.
Il principio di inaggirabilità della comunità ideale di comunicazione si basa sul seguente presupposto: chi asserisce o
metto in dubbio qualcosa si richiama comunque, e non può non farlo, a quanto egli non può più mettere in dubbio,
dovendovi ricorrere nell’atto stesso del suo argomentare, qualunque sia il contenuto della sua argomentazione. Apel
paragona l’inaggirabilità della fondazione ultimo-riflessiva delle argomentazioni reali al Faktum della ragione puro-
pratica kantiana, dandole così una connotazione etico-cognitiva che accompagnerà tutto l’arco del suo pensiero.
JURGEN HABERMAS
Habermas nasce a Dusseldorf il 18 giugno 1929. Entra prestissimo nella Gioventù hitleriana e combatte per la difesa
del fronte occidentale. Solo dopo il processo di Norimberga prende nettamente le distanze dal sistema politico nazista.
Studia filosofia all’Università. Il movente filosofico costante di Habermas è la domanda circa la modernità e la post-
modernità del pensiero. Se vuole essere postmoderna, la filosofia deve assolvere al compito, solo apparentemente
modesto, di “interprete rivolto al mondo della vita”. Come è possibile riaprire le sfere della scienza, della morale e
dell’arte, che ora si sono separate e irrigidite, quali culture di esperti, e ricollegarle, senza ledere la razionalità che è
loro propria, all’impoverita tradizione del mondo della vita, in modo tale che i momenti separati della ragione si
trovino insieme in un nuovo equilibrio nella prassi comunicativa quotidiana? Per rispondere positivamente a questa
domanda Habermas si affida all’ermeneutica da un lato e al pragmatismo dall’altro, perché “capaci di conferire
autorità epistemica alla comunità di coloro che cooperano e parlano fra di loro”.
Habermas cerca fin dai suoi primi scritti di rispondere criticamente al principio apeliano della fondazione ultima della
comunità ideale della comunicazione non negando un rapporto fra comunità reale e comunità ideale, bensì cercando
criteri operativi e non fondativo-riflessivi per la comunità dei parlanti. La fondazione dell’etica del discorso non
rinuncia, così, a principi di universalizzazione o all’uso di contraddizioni performative. La fiducia antiscettica nella
ragione pragmatico-procedurale Habermas la manterrà fino ai suoi studi maturi in cui elabora la nozione di
detrascendentalizzazione. Essa svolge il compito, mai definitivo, di mettere in relazione opposti inizialmente e
apparentemente inconciliabili.
DETRASCENDETALIZZAZIONE = acquisire un’ottica procedurale capace di cogliere i momenti ideativi nella fattualità e i
momenti operativi, fattuali nell’ideazione. Implica anche garantire al fattuale, di qualunque ordine e grado, elementi di
controfattualità, ossia prospettive idealizzanti in grado di rinviare “oltre i limiti delle situazioni effettive” per cui “le
idee pratico-sociali della ragione sono sia trascendenti le pratiche costitutive di forme di vita, sia in esse immanenti.
Partendo dalla centralità del linguaggio e dalla convinzione che tutti gli atti linguistici (a prescindere dalla loro forza
illocutoria) generino relazioni interpersonali, Habermas elabora la teoria della comunicazione in una comunità reale di
parlanti e quella del suo rapporto con la comunità ideale, individuando nella stessa comunità reale un telos cognitivo
contraddistinto da quattro momenti (a cui corrispondono altrettante istanze di validità):
- comprensione comprensibilità
- intesa rigore
- conoscenza condivisa verità
- fiducia reciproca sincerità
La teoria habermasiana sceglie la strada “consensualista” che conduce al criterio dell’argomento migliore,
rappresentato da una ragione plausibile ad faciendam fidem, dunque dal rapporto strettissimo fra rigore, sincerità e
verità.
L’interesse per la dimensione sociale e comunitaria non deriva a Habermas solo dalle teorie cognitive dei pragmatisti
già citati o dalla sua giovanile rivisitazione del materialismo storico, ma anche dalla sua sensibilità verso le riflessioni di
Mead. L’uomo, nel complesso dei suoi bisogni, impulsi e aspirazioni, è un essere razionale solo perché è un essere
sociale. La “situazione ideale di comunicazione” si limita a fornire le prove del consenso, essa è il luogo nel quale
l’intesa si può basare su un consenso motivato razionalmente. Il carattere razionale del consenso, allora, non si fonda
più su un principio formale, autoriflessivo, ma sulla condivisione della prova razionale, denominata “cogenza libera da
cogenze” e connessa alla riuscita dell’argomento migliore, quindi alla vittoria di un criterio non ultimo-fondativo, bensì
maieutico-consensuale.
Per Habermas la fondatezza razionale dell’argomento migliore consiste nel sottoporre al giudizio degli altri, allo spazio
pubblico della ragione, la “massima migliore”, unendo così l’universalismo sociale di Mead allo spirito pluralista e
intersoggettivo della sana ragione umana illuminista, quella che Kant nella Logica e nell’Antropologia pragmatica
definisce il “mondo allargato di pensare”.
La psicologia sociale di Mead appare a Habermas un affidabile punto di riferimento in primo luogo per rafforzare la sua
distanza dalla durezza di un certo comportamentismo nel dar conto della teoria dei significati di un’azione. E’ la
capacità di interazione sociale a stare alla base della formazione dell’identità semantica di un’azione. “Noi ci vediamo,
più o meno consciamente, nello stesso modo in cui ci vedono gli altri. Inconsciamente ci rivolgiamo a noi stessi come
gli altri si rivolgono a noi; noi raccogliamo i dialetti con cui entriamo in contatto nello stesso modo in cui il passero
assume la nota del canarino”. Con queste parole Mead sottolinea il gioco di anticipazioni reciproche fra i diversi
componenti di una stessa società e fa di tale tessuto intersoggettivo il luogo principe della formazione del sé
autocosciente. E’ proprio in questo tessuto comunitario che Habermas cerca un principio di universalizzazione
dell’agire etico la socialità fornisce l’universalità dei giudizi etici.
Universalismo e teoria sociale dei desideri (interessi pratici) devono andare insieme e questo implica una radicale
trasformazione dell’imperativo categorico e della sua universalità. Per Kant la prima massima dell’imperativo
categorico deve cercare una conformità alla legge universale dell’esistenza di una singola azione, verificandone
soltanto la non contraddittorietà qualora sia elevata a massima universale. L’interpretazione che ne dà Habermas
esclude invece proprio la visione “monologica” della massima categorica che vede come attori principali il singolo e
l’universalità normativa. Non è più l’individuo isolato che cerca di elevarsi all’universalità della sua massima, ma è la
massima stessa che diviene oggetto di una condivisione cooperativa in cui i desideri vengono formulati e riformulati.
Le riflessioni di Habermas partono dalla critica a quelle teorie che fanno risalire la formazione del consenso sulla
normatività di una regola a un elemento non cognitivo, ossia all’autonomia della volontà. In questo caso la forma
dell’argomentazione deve scongiurare l’intervento di estranei sulle scelte normative. Una teoria che si fonda
sull’autonomia delle singole volontà riconduce la scelta normativa a una specifica concezione del potere il cui ideale
consiste nel distribuire eguali beni e opportunità ai partecipanti alla comunità, a garanzia della loro non influenzabilità.
La teoria cognitiva della morale non può rimandare a un concetto allocativo della giustizia in cui i membri della
comunità sono pari nella misura in cui si vedono assegnato il pari potere di far valere autonomamente i loro interessi
particolari. Una giusta teoria della morale deve piuttosto riferirsi a un ideale cognitivo che ancora una volta unisca
l’utilitarismo al kantismo.
ALEX HONNETH
Honneth nasce a Essen nel 1949. Dopo gli studi a Berlino, è stato collaboratore di Habermas. Nel paradigma
honnethiamo del riconoscimento s’intrecciano radici storico-teoriche individuabili nello Hegel jenese, nella psicologia
sociale di Mead e nell’idea habermasiana del riconoscimento come conflitto morale, accettata da Honneth nonostante
la sua diffidenza nei confronti della teoria esclusivamente comunicativo-linguistica dell’ingiustizia o verso il maturo
avvicinarsi di Habermas alle teorie sistemiche di Luhmann.
La psicologia sociale di Mead, scrive Honneth, “mostra analogie con l’opera giovanile di Hegel: anch’essa cerca di fare
della lotta per il riconoscimento il punto di riferimento per una costruzione teorica volta a spiegare lo sviluppo morale
della società”. L’unione tra formazione del “Sé” ed etica comunitaria rappresenta quella comunicazione del sottosuolo
fra idealismo tedesco e pragmatismo, già prontamente registrata da James.
Il modello di reciproco riconoscimento, elaborato da Honneth, riguarda tre aspetti della stima e del rispetto di sé:
- la fiducia di poter disporre del proprio corpo;
- la stima di sé come persona capace di intendere e volere;
- la stima di sé come soggetto in grado di sviluppare le proprie capacità e i propri saperi in una comunità solidale.
Queste tre forme di riconoscimento sono guadagnate tramite il superamento dialettico di un negativo espresso
rispettivamente dalla violenza fisica, dalla negazione di diritti a particolari persone e infine dalla negazione del valore
sociale a singoli o a gruppi.
Per Honneth, interprete di Hegel, l’amore è, così, il seme da cui scaturiscono le forme più complesse della società
civile e dello Stato.
Dal riconoscimento amoroso si passa alla lotta per il riconoscimento giuridico. Il superamento della negazione di diritti
individuali è colto nella possibilità di incrementare un principio etico-giuridico fondamentale: l’egualitarismo. Per
arrivare a una società egualitaria bisogna innanzi tutto favorire il riconoscimento del singolo in ciò che Mead ha
chiamato “l’altro generalizzato”; è solo la comunità, o il gruppo sociale organizzato a dare all’individuo la sua unicità in
quanto sé. Sentendosi riconosciuto nella propria unicità e insostituibilità da un’alterità generalizzata, l’individuo è poi
in grado di anticipare e far valere per sé e per ogni altro regole e comportamenti generalizzati e condivisi, sviluppando
una coscienza morale basata sulla consapevolezza della parità di fronte alle regole.
La terza forma di umiliazione del sé è l’umiliazione del valore sociale dei singoli o di interi gruppi, l’umiliazione del loro
onore, del loro status o della loro dignità. Questo genere di umiliati e disprezzati non può vedere riconosciute
socialmente le capacità sviluppate nel corso della loro vita. Mentre l’unicità dei soggetti riconosciuta dal principio
giuridico dell’egualitarismo è un’unicità ancora generale, astratta, legata alla parità di diritti e doveri, il riconoscimento
della dignità dei gruppi o dei singoli riguarda le loro unicità.
Il rimedio al disprezzo delle diversità e varietà socioculturali è l’approvazione solidale di stili di vita alternativi.
L’individuo nella sua specificità culturale e biografica troverebbe nel riconoscimento solidale dell’altro (della comunità)
l’incoraggiamento alla propria unicità e alla realizzazione delle potenzialità di tale unicità. A questo punto l’altro
generalizzato deve fornire un’approvazione intersoggettiva non di natura giuridica, ma esistenziale: è la propria vita
nella sua specificità a dover diventare irrinunciabile per l’altro nel rapporto di riconoscimento basato sulla solidarietà.
Il Sé deve diventare non solo portatore di diritti equamente riconosciuti, ma anche essere capace di sviluppare la
propria specificità.
L’obiettivo di questa fenomenologia etico-sociale del sé è costruire una teoria di vita etica capace di riconciliare da un
lato l’esigenza hegeliana di un’integrazione sociale fondata su valori universalmente condivisi e dall’altro l’istanza
kantiana dell’autonomia o della libertà concepita sul modello dell’autolegislazione della ragione pratica.
Figura controversa, dal punto di vista politico Hook passa quindi dal sostegno al marxismo ad attività apertamente
anticomuniste, per affiancare infine su molti fronti i conservatori; tuttavia, rivendica sempre la coerenza di una visione
democratica radicata nell’applicazione del metodo sperimentale alla soluzione dei conflitti.
Coniugando la prospettiva comunista con il pragmatismo, nei primi studi vede in Marx una sorta di “deweyano di
sinistra” che applica il metodo scientifico ai cambiamenti sociali e che sceglie di non limitare il pensiero alla teoria ma
di collegarlo strettamente all’azione. Altri aspetti del marxismo, come il materialismo storico, la concezione della
dialettica, la spinta utopistica, gli appaiono meno plausibili perché non soggetti a verifica empirica. La verificabilità
delle ipotesi scientifiche, così come delle ipotesi democratiche, è infatti per Hook un criterio guida costante anche per
il giudizio storico.
Negli anni Sessanta e Settanta Hook si avvicina ai conservatori, preoccupato per la situazione nei campus universitari,
in cui, sostiene, si tende a discutere più in base a slogan politici che in base ad argomentazioni, esperimenti e prove.
Anche quando entra in sintonia con i conservatori, Hook mantiene però una forte indipendenza, tanto che continua a
definirsi social democrat. Il suo umanismo laico, unito all’ottica naturalista e sperimentale, gli impedisce infatti di
accettare l’idea che ci sia un declino culturale associato all’abbandono delle fondazioni religiose e metafisiche, e le
porta viceversa a osteggiare le interferenze religiose nella filosofia così come nella vita politica, difendendo al tempo
stesso la libertà religiosa.
Sul piano epistemologico, il pensiero di Hook si caratterizza per la sottolineatura di alcuni tratti della tradizione
pragmatista, ancorati nell’approccio deweyano al naturalismo. Secondo Hook, il metodo pragmatista implica una
metafisica, per quanto minimale e non fondazionalista, che è doveroso esplicitare. E’ questo il suo obiettivo in “The
Metaphysic of Pragmatism”. Se lo strumento, concetto chiave del pragmatismo, ha un effettivo ruolo trasformativo,
significa che opera in un mondo indipendente, che presenta lacune e potenzialità. Le forme che il pensiero assume più
di frequente per riorganizzare in modo efficace ciò che ha attorno, forme che hanno una natura normativa, risultano
allo stesso tempo descrittive.
Secondo Hook, il compito del filosofo ha natura morale e riguarda la formulazione di una concezione dell’uomo che lo
renda consapevole di come la sua libertà dipenda da un ordine naturale, senza che questo ordine naturale lo
determini completamente. Hook collega così il naturalismo all’idea che la conoscenza umana sia uno strumento
trasformativo dell’ambiente naturale. La conoscenza e la verità secondo questa visione non sono da intendersi come
corrispondenza con una realtà già data, né come coerenza di un sistema di credenze; anzi, proprio in virtù del loro
carattere strumentale, esse permettono di dar conto del motivo per cui conoscere è importante nell’ambito delle
attività umane, il motivo per cui, cioè, la verità consente di ottenere risultati migliori rispetto alla falsità, favorendo
predizioni corrette sull’ambiente.
La centralità della conoscenza e il suo ruolo trasformativo implicano un’attenzione particolare all’educazione, che in
Hook significa, da un lato, con Education for Modern Man, concepire la classe come comunità di ricerca, con la
conseguente enfasi su un metodo di apprendimento basato sulla formulazione e la verifica di ipotesi empiriche;
dall’altro, soprattutto negli anni successivi, impegnarsi costantemente perché la vita accademica rimanga libera da
autoritarismi di qualsiasi tipo, provengano essi da ambienti religiosi o da azioni politiche e propagandistiche
mascherate da attività di ricerca.
L’ottica naturalista non si limita, né in Dewey né in Hook, all’ambito delle scienze fisiche e naturali, ma si estende ai
campi propri dell’etica, delle scienze sociali e della vita politica, dove le virtù del metodo scientifico trovano altri
fruttuosi ambiti di applicazione. In particolare, il naturalismo, di Dewey, difeso da Hook si concentra sull’idea che il
bene si definisca con riferimento a proprietà naturali legate alla desiderabilità. Ciò che è desiderabile corrisponde a ciò
che dovrebbe essere desiderato, considerata una serie di fattori relativi all’oggettività delle cose, alla natura umana e
al rapporto mezzi-fini; si tratta di giudicare ipotesi empiriche in base alle loro conseguenze nei termini della
realizzabilità di certi fini. Il naturalismo etico si oppone così a diverse visioni predominanti: alla tesi della necessità di
una fondazione non naturale per l’etica, all’atteggiamento esistenzialista sull’autenticità e la responsabilità
dell’individuo, all’impostazione neopositivista per cui le affermazioni etiche sono semplicemente espressioni di
emotività o di attitudini. Il naturalismo difeso da Hook viceversa sostiene che si può tener ferma la credenza
nell’oggettività dei valori, senza per questo affermare che ci debba essere per forza un accordo tra valori conflittuali,
anzi riconoscendo l’esistenza di differenze rilevanti; l’unico imperativo è la disponibilità a discutere secondo regole
condivise.
La democrazia, in questa ottica, è fondata sulla condivisione di regole, e non di contenuti o dottrine. Le regole che
rendono possibile il vivere democratico sono quelle che fanno sì che un governo si regga sul libero consenso dei
governati: l’assenza di ostacoli per una corretta registrazione del consenso, compresa l’assenza di differenze
economiche eccessive; la libertà nell’educazione e nella stampa; la partecipazione effettiva dei governati nella vita
politica; la possibilità di decisioni rapide nelle situazioni di crisi; un intelligente scetticismo verso la leadership. Perché
possano svolgere questa funzione, le regole del gioco devono però essere sottratte al campo della disputa.
Il modo di vivere democratico, per come lo intende Hook, è in sostanza una proposta epistemologica che richiede un
impegno verso una procedura, non verso una teoria metafisica. Se c’è una differenza tra il metodo scientifico applicato
alle scienze naturali e il metodo scientifico applicato all’ambito sociale e politico, per Hook è che la tendenza alla
convergenza, che caratterizza l’attività degli scienziati, non necessariamente è presente nel confronto sociale e
politico, dove invece l’elemento del conflitto gioca un ruolo cruciale.
L’approccio pragmatico alla libertà ben si coniuga con la visione di Hook del ruolo dell’individuo nella storia: non
completamente determinato, non completamente libero, l’individuo ha la possibilità di incidere in modo significativo
in particolari momenti critici, imprimendo agli eventi storici una direzione che, senza il suo intervento, essi non
avrebbero seguito. Quando l’individuo, spinto da volontà e intelligenza, agisce efficacemente in questi contesti, è un
autentico eroe nella storia.
MORTON WHITE
White nasce a New York nel 1917. Ottiene grandi risultati con una tesi sulla probabilità in Peirce e successivamente il
dottorato con una tesi che esamina i temi principali del primo Dewey. Insegna principalmente alla Columbia, passando
poi alla University of Pennsylvania. Qui tra i colleghi ha Goodman e Putnam. Nel 1948 è alla Harvard University, dove
in pochi anni da assistente diventa professore e infine capo del dipartimento di Filosofia.
La vita di Morton White si interseca più volte con quella di Sidney Hook, senza tuttavia che tra i due si stabiliscano
collaborazioni significative. Hook è già un filosofo affermato al City College di New York quanto White vi approda come
studente; White a 23 anni, nel 1940, recensisce in modo non del tutto positivo il John Dewey di Hook, il quale reagisce
lamentandosi del fatto che la recensione sia stata affidata a “un semplice ragazzo”.
E’ in effetti Dewey a rappresentare una delle influenze più significative anche per lo sviluppo del pensiero di White,
come egli stesso afferma nel prologo di A Philosophy of Culture e altrove. Nonostante Dewey si sia già ritirato
dall’insegnamento quando White studia alla Columbia, la sua presenza è ancora rilevante. I due si incontrano quando
White sta elaborando la tesi di dottorato e rimangono poi in contatto epistolare. Diversi aspetti del pensiero
deweyano sono enfatizzati nelle opere di White: il suo elogio dell’intelligenza creativa; il concetto di adattamento
dell’individuo all’ambiente; l’approccio naturalistico sull’arte e sull’etica, che riflette la spinta antidualista pur senza
riuscire, secondo White, a trarne tutte le conseguenze.
Insieme a Dewey è James, secondo White, ad aver preparato la via verso un allargamento progressivo dell’ambito di
interesse della filosofia, a partire dal modo in cui questi include i sentimenti di natura mistica e religiosa, al pari delle
evidenze che provengono dai cinque sensi, nell’alveo dell’esperienza. Questa propensione viene ulteriormente
sviluppata quando James parla della conoscenza nei termini di un insieme composito che cresce e cambia con
gradualità. E’ l’olismo che qui viene prospettato che fa parlare White di monismo metodologico.
Una delle spinte che White assorbe dalla lezione pragmatista è la scelta di esaminare il concreto sviluppo delle idee
nel loro ambiente, scelta che si interseca con i suoi interessi storici, paralleli a quelli filosofici. White oltre che filosofo,
infatti, è storico delle idee, ed è proprio quando permette a queste sue due “anime” di cooperare che riesce a
esprimere il meglio. Così come i filosofi non dovrebbero essere ciechi al contesto storico in cui si sviluppano i concetti,
infatti, gli storici, specie quando si occupano di storia delle idee, per White, dovrebbero essere in grado di penetrare
filosoficamente le idee di cui parlano, dovrebbero essere dunque analisti delle idee oltre che annalisti, compilatori
degli annali. Lo storicismo è, insieme all’organicismo culturale, una delle caratteristiche di quella rivolta contro il
formalismo che ha caratterizzato lo sviluppo del pensiero americano a partire dalla fine del XIX secolo e al quale White
sente di riagganciarsi con pieno diritto.
L’idea fondamentale di White è che l’analiticità si basa sul concetto di sinonimia, ma a sua volta questo concetto ha
bisogno di una definizione che, se si intende evitare la circolarità, deve avere natura empirica. Così, se
tradizionalmente si distingue “Tutti gli uomini sono animali razionali” da “Tutti gli uomini sono bipedi implumi”
attribuendo analiticità alla prima proposizione ma non alla seconda, lo si fa in base al fatto che “animale razionale” è
sinonimo di “uomo”. Tuttavia, la sinonimia stessa non si può definire ricorrendo di nuovo al concetto di sinonimia:
occorre un termine coestensivo che non faccia perno su un sinonimo di “sinonimo”. Se esistesse un criterio per
distinguere analitico e sintetico, tale distinzione sarebbe una questione di gradualità.
White non si ferma a questa forma di antidualismo: se la logica come la scienza risponde all’esperienza, lo stesso fa
l’etica, perché i sentimenti e gli obblighi morali fanno parte proprio come le sensazioni del flusso esperienziale. Questo
significa anche che essi esercitano una loro forza coercitiva, a tal punto che, in presenza di un’esperienza che richiede
una modifica del nostro insieme complessivo di conoscenze e convinzioni, è possibile non solo tener fermi i principi
logici e le credenze descrittive, modificando le convinzioni etiche, ma anche tener ferme le convinzioni etiche,
modificando ora le credenze descrittive, ora, anche se raramente, i principi logici.
White sfida Quine sul terreno dell’olismo, che Quine stesso ha contribuito a rivitalizzare, e lo invita ad abbandonare un
ultimo dualismo, quello tra empirico ed etico, o tra descrittivo e normativo. In questo quadro, inoltre, White non solo
riconosce, ma anche rivendica la natura normativa in quanto “legislativa” dell’epistemologia e della filosofia stessa. E’
solo in questo modo che la filosofia può sfuggire alla trappola delle definizioni. Lo stesso approccio del pragmatismo
olistico si situa, per White, nel campo della normatività: stabilendo che tutto deve rispondere all’esperienza, prescrive
un compito per la filosofia, il compito di occuparsi di ciò che White chiama “istituzioni culturali”.
Più che a una comunanza di temi è proprio a questo comune sentire che si deve guardare per cogliere le linee di
continuità che avvicinano filosofi tanto diversi come Rescher, Margolis, Bernstein e McDermott. Nati tutti nell’intorno
della Grande crisi del 1929, hanno però intrapreso percorsi filosofici molto diversi, interessandosi chi alle scienze
sociali (Bernstein), chi alla critica della cultura (McDermott), chi a problemi di estetica e teoria della soggettività
(Margolis), chi all’epistemologia e alla logica (Rescher).
Questa diversità di interessi ha influito profondamente sul modo in cui ognuno di loro si è avvicinato al pragmatismo:
nei loro testi aspetti diversi della tradizione pragmatista vengono rivitalizzati e proposti come possibili vie d’uscita
dalle difficoltà incontrate dalla filosofia contemporanea nei suoi vari ambiti di indagine.
RICHARD BERNSTEIN
Nato a New York nel 1932 da famiglia ebrea, ha compiuto i suoi studi prima all’Università di Chicago e poi alla
Columbia University, e infine ha conseguito il dottorato a Yale nel 1958. La filosofia di Dewey rappresentò il tema della
sua tesi di dottorato e l’oggetto delle sue prime pubblicazioni. Nel 1960 diede alle stampe una selezione di testi
deweyani con il titolo di “On Experience, Nature, and Freedom: Representative Selections” a cui fede seguito un
volume interamente dedicato al grande filosofo americano.
E’ con “Praxis and Action”, pubblicato nel 1971, che Bernstein raggiunge la propria maturità teoretica e mise per la
prima volta in mostra la complessità di prospettive e la finezza di analisi che ne hanno contraddistinto i lavori più
recenti. In quel testo Bernstein non si accontentava più di studiare singoli aspetti o singole figure del pensiero
pragmatista, ma si propone un obiettivo più ambizioso. Scopo del lavoro, infatti, era di situare il pragmatismo
all’interno del più ampio movimento posthegeliano di valorizzazione dei concetti di azioni e di praxis.
Era quella della continuità di tematiche fra tradizioni diversi e all’apparenza incompatibili un’intuizione che consentiva
a Bernstein non solo di tratteggiare il profilo di una costellazione concettuale entro cui pensare i problemi della
filosofia contemporanea, ma ance di rivitalizzare la tradizione pragmatista dall’interno, riscoprendone gli aspetti
ancora filosoficamente validi. Attraverso l’analisi delle teorie dell’azione di Peirce e di Dewey, Bernstein mostrava
come i pragmatisti classici avessero individuato alcuni dispositivi teorici che potevano essere utilizzati per corregge e
integrare gli approcci esistenzialisti, marxisti e analitici.
In questo modo, osservava Bernstein, si poteva evitare il rischio di ricadere nel dogmatismo e nel settarismo. Il
richiamo alla società dell’agire umano poneva inoltre degli argini sia all’individualismo solipsistico proprio
dell’esistenzialismo sia alla specializzazione della ricerca filosofica perseguita da certi settori della filosofia analitica. In
entrambi i casi, infatti, richiamando l’attenzione sul fatto che l’uomo crea le situazioni esistenziali che si trova a
fronteggiare, il pragmatismo indicava nella società l’orizzonte intrascendibile della condotta umana e nell’azione
guidata dal pensiero l’unico strumento affidabile per produrre un adattamento intelligenze e creativo all’ambiente
circostante.
Bernstein non si illudeva di aver portato a termine in quell’opera l’unificazione delle tendenze più vitali del pensiero
contemporaneo sotto l’insegna della filosofia della praxis. Al contrario, era ben cosciente di come Praxis and Action
costituisse soltanto l’inizio di un percorso che già in quel momento concepiva come arduo, collettivo e, per questo
motivo, intrinsecamente pluralista. Non è un caso dunque che sia proprio il richiamo alla ricerca di una continuità fra
tradizioni diverse e all’apparenza incompatibili che Bernstein rivendica.
Se è vero che in “The Pragmatic Turn” Bernstein ribadisce nuovamente l’importanza di una koiné pragmatista per
superare la dicotomia tra filosofia analitica e filosofica continentale, il giudizio sul pragmatismo e sulla portata della
sua riscoperta in chiave contemporanea si fa più complesso e, in ultima analisi, più sfumato. Innanzi tutto Bernstein
rifiuta con decisione ogni tentativo di ricondurre le diverse forse di pragmatismo contemporaneo alle versioni
classiche elaborate da Peirce, James, Mead e Dewey. Agli occhi di Bernstein ciò che è significativo del pragmatismo
americano non è tanto una pretesa unità di temi e argomenti, ma piuttosto il fatto che, per primo, esso abbia
enunciato problemi su cui gran parte della riflessione filosofica del Novecento ha finito per convergere.
Per indicare questo aspetto del pensiero contemporaneo Bernstein si serve dell’espressione centennio pragmatico. A
partire da Hegel la filosofia contemporanea ha cercato di liberarsi dall’ansia cartesiana che le era connaturata, ovvero
dal desiderio di trovare un fondamento stabile a partire dal quale giustificare tutta la conoscenza umana. Colui che per
primo ha formulato con chiarezza il rifiuto di questo progetto fondazionale è stato Peirce. Nei cosiddetti “scritti
anticartesiani” si trovano infatti espresse non soltanto l’idea della natura fallibile e sociale del pensiero, ma anche la
critica più rigorosa al principio che stava alla base di quel progetto, vale a dire la tesi secondo cui le verità ultime sono
conosciute attraverso un atto di intuizione.
Così facendo, Peirce ha inaugurato quel passaggio dalla filosofia del soggetto a un modello intersoggettivo di
comprensione dell’azione e della razionalità umana che ha nella svolta linguistica il suo orizzonte di senso. Soltanto
all’interno di questo quadro concettuale il pragmatismo classico rivela le proprie potenzialità teoriche. Il concetto
jamesiano di pluralismo morale, la nozione deweyana di democrazia, la teoria peirceana della percezione, le nozioni
pragmatiste di oggettività e verità; tutte queste intuizioni possiedono ancora oggi rilevanza e meritano pertanto di
essere preservate nel discorso filosofico.
E’ esemplare la valutazione che Bernstein formula della concezione deweyana della democrazia. E’ senz’altro vero che
la democrazia radicale deweyana rappresenta una via media fra il comunitarismo e il liberalismo e, in quanto tale, un
significativo passo in avanti nel campo della filosofia politica. La tesi secondo cui l’individuo non sarebbe un dato ma
un obiettivo da realizzare apre le porte al riconoscimento della centralità delle pratiche sociali per la costituzione
dell’individualità, senza però per questo escludere la possibilità di fare ricorso al linguaggio del liberalismo per
articolare le istanze progressiste ed emancipatrici di cui il soggetto e la comunità si fanno portavoce. Tuttavia
Bernstein mette in guardia dal pensare che la teoria deweyana della democrazia possa essere qualcosa di più di
un’indicazione di una via da seguire. Troppo indeterminata nei contenuti e troppo ingenua nella sua sottovalutazione
della componente istituzionale dei governi democratici, quando è messa alla prova nel tentativo di elaborare soluzioni
concrete per i problemi delle democrazie contemporanee quella teoria rivela tutta la sua inadeguatezza.
Se il pragmatismo classico è dunque una fonte di suggestioni filosofiche, un insieme di indicazioni di vie da imboccare,
queste vie vanno però percorse con mezzi diversi da quelli che i pragmatisti avevano elaborato. E Bernstein ha qui in
mente gli strumenti concettuali della filosofia analitica e postanalitica, degli eredi della teoria critica, dei teorici del
postmodernismo. Detto altrimenti, “The Pragmatic Turn” suggerisce di gettare via la scala dopo averla usata per
accedere a un punto privilegiato di osservazione. Nel momento in cui prendiamo finalmente consapevolezza del fatto
che l’ultimo centennio è stato un centennio pragmatista dobbiamo anche ammettere che non il pragmatismo ma altre
tradizioni più vitali si devono far carico di portare avanti il discoro filosofico della contemporaneità.
JOHN MCDERMOTT
Nato come Bernstein a New York nel 1932, studio a Brooklyn e successivamente all’Università gesuitica di Fordhanm.
Studioso e storico del pragmatismo classico, all’attività di curatore delle opere di William James, John Dewey e Josiah
Royce, McDermott ha affiancato un percorso originale di riflessione teorica che ha come oggetto privilegiato la
definizione della natura e degli obiettivi di un’attività filosofica genuinamente americana. Tratto distintivo del
pragmatismo esistenzialista di McDermott è una peculiare attenzione metafilosofica che si propone di esprimere in
termini finalmente compiuti la specificità di una particolare visione del mondo.
Non c’è bisogno di notare come l’insistenza sul significato culturale della filosofia ponga McDermott in aperto
contrasto con la professionalizzazione del lavoro filosofico che ha preso piede a partire dall’immediato secondo
dopoguerra e che ha coinciso in gran parte con l’affermazione del paradigma analitico.
E’ proprio il concetto americano di esperienza che nelle analisi che McDermott dedica alla cultura statunitense assurge
a cifra di un intero stile di pensiero. Com’è noto, esperienza in questo senso non ha un significato epistemologico: è
una nozione che mira a portare alla luce la complessità delle relazioni che l’uomo intrattiene con il mondo e a
evidenziarne gli aspetti di pericolosità e contingenza.
Sarebbe sbagliato credere che in McDermott la rivendicazione dell’americanità della propria filosofia si accompagni a
un atteggiamento di superiorità nei confronti delle altre culture e tradizioni filosofiche. Appartenere a una cultura,
sfruttarne le risorse concettuali, condividerne le difficoltà e i problemi è semplicemente un fatto che deve essere come
punto di partenza.
“Primitivismo riflessivo” è la categoria con cui McDermott identifica questo atteggiamento spirituale. E’
l’atteggiamento di chi ha dovuto abbandonare la propria cultura per reimmergersi nel corso degli eventi al fine di
ricostruire le categorie concettuali con cui interpretare il mondo. La tensione fra l’esperienza e il linguaggio in cui
quell’esperienza è formulata è dunque costitutiva del pensiero americano. Il nostro, sottolinea McDermott, è un
mondo copernicano in cui è ormai evidente che i valori che devono guidare la condotta umana non sono dati una volta
per tutte, ma sono un prodotto dell’attività creatrice degli uomini. Il passaggio dal mondo aristotelico-tolemaico a
quello copernicano ha infatti significato l’abbandono della pretesa metafisica dell’uomo di essere il centro del mondo
e, di conseguenza, ha inaugurato la svolta costruttivista della filosofia moderna.
Uno dei meriti principali del pragmatismo americano è stato proprio quello di aver mostrato che gli oggetti che
compongono il nostro mondo non sono che insiemi di relazioni, modi di risposta divenuti abituali e, per questo,
sufficientemente stabili da produrre l’oggettività della nostra esperienza. Così facendo, i pragmatisti classici hanno
contribuito a sollevare una volta per tutte il velo della datità, dissolvendo ogni pretesa di assolutezza e staticità
dell’esperienza. Il mondo deve essere costruito in risposta alle pressioni esercitate dall’ambiente scegliendo fra tutte
proprio quelle relazioni che sembrano più importanti per un adattamento proficuo alle condizioni esterne. Anzi, il
nostro mondo è queste relazioni.
Questa conclusione semantica si fonda poi su una tesi più propriamente metafisica, ovvero l’idea per cui l’universo
non si compone di sostanze statiche ma di una molteplicità di processi relativamente indipendenti uno dall’altro e in
continua trasformazione. Processualismo, temporalità e pluralismo sono i tre vettori a partire dai quali si articolano
una genuina ontologia della possibilità e una concezione del mondo non gerarchica. E’ soltanto perché il mondo è una
serie di eventi sempre nuovi e sempre mutevoli che l’intervento umano può risultare efficace. Anche in McDermott,
così come in Dewey e in Emerson, il soggettivismo implicito in un approccio costruttivista viene stemperato dal
richiamo alle strutture metafisiche che fanno da sfondo all’attività creatrice dell’uomo e lo supportano.
La filosofia di McDermott si rivela dunque profondamente pragmatista nel suo insistere sull’importanza dell’attività
umana. Ed è altrettanto pragmatista nel suo rifiuto di ogni forma di quietismo ottimista, quasi che il successo delle
azioni umane dovesse essere assicurato da una più profonda garanzia metafisica. Non esiste alcuna garanzia di
successo; ogni attività può sempre fallire e mancare il bersaglio.
JOSEPH MARGOLIS
Nato in New Jersey nel 1924 e dunque più vecchio di 8 anni rispetto a Bernstein e McDermott, Margolis appartiene
però a una fase successiva del processo di riscoperta e di valorizzazione della tradizione pragmatista. Nonostante
avesse compiuto i suoi studi alla Columbia University in un periodo in cui questa era ancora un avamposto del
pensiero pragmatista e fosse entrato quindi fin dall’inizio in contatto con il pragmatismo nella sua versione deweyana,
è infatti soltanto a partire dagli anni Ottanta che Margolis cominciò a prendere chiara coscienza delle potenzialità
teoriche di quell’approccio.
Dopo aver inseguito la svolta analitica negli anni immediatamente successivi il conseguimento del dottorato, Margolis
si era ben presto reso conto della necessità di arricchire il proprio bagaglio concettuale. La strumentazione analitica
non era infatti sufficiente per elaborare una teoria della cultura che potesse fare da sfondo alla concezione praticista e
storicista dell’essere umano che Margolis aveva in mente. Egli si accorse che avrebbe potuto fare un ulteriore passo e
integrare temi pragmatisti all’interno di un quadro concettuale che aveva fatto propri, rielaborandoli, i tratti più vitali
tanto della filosofia analitica quanto della filosofia continentale.
Al conseguimento di questo obiettivo erano rivolti sia “Pragmatism without Foundations”, pubblicato originariamente
nel 1986, sia soprattutto la quadrilogia pragmatista la cui composizione ha impegnato Margolis per quasi un
ventennio.
Il punto di partenza delle riflessioni di Margolis era per certi aspetti obbligato. Il dibattito fra Putnam e Rorty aveva
imposto all’attenzione di tutta la comunità filosofica il tema del relativismo, considerato la pietra dello scandalo di ogni
filosofia realmente rigorosa. Ma se il punto di partenza era obbligato, l’approccio adottato da Margolis si
contraddistingueva per un carattere di profonda originalità. Gli stessi Putnam e Rorty, osserva Margolis, non sono stati
in grado di capire che il relativismo avrebbe potuto rappresentare una rispettabile opzione filosofica se soltanto si
fosse rinunciato a formularlo nei termini di una relazione a un determinato schema concettuale.
Il nucleo teorico del relativismo, ciò che del relativismo merita di essere preservato nonostante tutti i fraintendimenti
e le incomprensioni che ne hanno offuscato il significato filosofico, è precisamente il riconoscimento del legame
indissolubile che unisce soggetto e oggetto: “Non esiste alcuna distinzione epistemica di principio fra un mondo reale
indipendente e il mondo in cui facciamo esperienza e che affermiamo di conoscere”.
Secondo Margolis, la tradizione pragmatista ha infatti al suo interno le potenzialità necessarie per portare a termine la
critica del realismo metafisico avviata da Kant e da Hegel e, così facendo, articolare in modo finalmente soddisfacente
la tesi costruttiva dell’inseparabilità di soggetto e oggetto. “Vantaggio pragmatista” è l’espressione che Margolis usa
per riferirsi a questo aspetto del pragmatismo. La tesi di Margolis è che il pragmatismo si trovi in una posizione di
vantaggio rispetto alla filosofia continentale e analitica perché, a differenza di quelle, esso muove da un’impostazione
corretta del problema del naturalismo e della naturalizzazione delle capacità cognitive umane.
Troppo spesso, osserva Margolis, la filosofia continentale ha confuso il naturalismo con i vari progetti di
naturalizzazione elaborati dai filosofi analitici negli ultimi cinquant’anni.
Il naturalismo pragmatista che Margolis cerca di delineare nelle sue opere ha origine dall’incontro fra temi
posthegeliani e temi postdarwiniani. Bisogna, scrive egli, “darwinizzare Hegel e hegelianizzare Darwin” ovvero
utilizzare gli strumenti concettuali messi a disposizione dall’evoluzionismo darwiniano per riformulare alcune tesi
hegeliane in un linguaggio che non sconti più il peso di questi presupposti metafisici da cui Hegel non era mai riuscito a
emanciparsi.
Questo non soltanto libera la filosofia hegeliana dalle sue ipoteche metafisiche, ma getta altresì le basi di un
naturalismo relativista, costruttivista e storicista. In altre parole, un naturalismo genuinamente pragmatista che non
riconosce alcuna dimensione cognitiva privilegiata da cui dedurre leggi trascendentali di costituzione dell’esperienza;
che non ammette alcuna realtà stabile al di sotto del flusso di eventi sempre diversi e irripetibili; che sostituisce una
metafisica della sostanza con una metafisica del flusso e del mutamento; che riconosce il carattere artificiale di tutti i
concetti umani, compreso quello di sé.
Fra i pragmatisti classici è stato Dewey ad aver percorso questo cammino fino in fondo, abbandonando ogni
riferimento all’Io trascendentale kantiano a favore di un naturalismo che riconosce soltanto gli esseri umani nella loro
concretezza come possibile soggetti di conoscenza. Così facendo è riuscito a tradurre in termini non metafisici il
concetto kantiano di esperienza: ha mantenuto ferma l’idea di una simbiosi di soggetto e oggetto, ma fondandola non
più su un’epistemologia di stampo coscienzialista, bensì sulle “condizioni animali e non cognitive”.
Sulla continuità fra naturale e simbolico si fonda, secondo Margolis, la possibilità di ripensare dalle fondamenta il
compito e i contenuti di un’antropologia filosofica pragmatista. Il compito della filosofia pragmatista è di articolare in
forme sempre più ricche l’idea che il sé sia un prodotto ibrido, frutto di una doppia evoluzione naturale e culturale. Va
ripensata, in altri termini, la singolare convergenza di naturalismo e costruttivismo. Da questo punto di vista il
vantaggio pragmatista a cui Margolis fa riferimento si rivela essere non tanto un dato di fatto, un risultato già
raggiunto, ma un compito che si rinnova continuamente. I pragmatisti classici avevano impostato il problema
correttamente ma, siccome non avevano compreso il ruolo della storicità nella costituzione dell’umano, si erano
soffermati ad analizzare le sole condizioni biologiche dell’agire umano.
NICHOLAS RESCHER
Nato in Germania a Hagen nel 1928 e trasferitosi con la famiglia negli Stati Uniti all’età di 10 anni, Rescher è una figura
eccezionale all’interno del panorama filosofico contemporaneo. Studioso di profonda culturale e di vastissimi
interessi, nel corso della sua lunghissima carriera ha dedicato libri e articoli a pressoché ogni ambito della filosofia:
dalla stria della filosofia alla filosofia della scienza, dalla logica all’epistemologia, dall’etica alla metafisica. Senza
dimenticare ovviamente il pragmatismo, di cui Rescher è stato uno dei più influenti sostenitori fin dai primi anni
Settanta.
La riscoperta da parte di Rescher della tradizione pragmatista si inserisce all’interno di un quadro concettuale volto a
ripensare in profondità l’eredità teorica dell’idealismo tedesco.
L’idealismo pragmatico di Rescher è dunque a tutti gli effetti una filosofia della praxis che si contraddistingue per il
tentativo di stemperare le tentazioni praticiste attraverso il recupero di una nozione normativamente forte di scopo.
Ogni azione umana è intrinsecamente orientata a uno scopo ed è proprio questo riferimento a un fine che determina i
criteri di valutazione degli strumenti impiegati per raggiungerlo. Non è quindi sufficiente che un’azione o credenza
produca risultati positivi per essere buona, giusta o vero: è infatti necessario che quell’azione o quella credenza
produca tali effetti in un modo tale da soddisfare le restrizioni normative imposte dallo scopo che le governa. Non è, in
altri termini, il risultato ciò che conta, ma i processi attraverso cui questo risultato è raggiunto.
Per sottolineare questa differenza di prospettive Rescher introduce la distinzione fra pragmatismo metodologico e
pragmatismo sostanziale. Mentre nel primo caso il criterio dell’utilità di applica alle singole tesi di volta in volta prese
in considerazione, nel secondo caso l’attenzione è spostata sui metodi generali di verificazione della conoscenza
empirica. Ed è chiaro che avere successo non può essere un fatto secondario o, tanto meno, insignificante per un
metodo di indagine.
Il problema a cui il pragmatismo è chiamato a dare una risposta è quello di definire i rapporti fra la dimensione
soggettiva e il piano oggettivo all’interno della conoscenza o, per usare le parole di Rescher, di rintracciare
un’adeguata mediazione fra theoria e praxis, teoria e pratica. E nel caso di Rescher è chiara la predilezione per un
modello peirceano di spiegazione di tali rapporti: a differenza della linea postmoderna e decostruttivista del
pragmatismo che da James giunge fino a Rorty, Peirce ha sempre tenuto ferma l’istanza realista presenta nella
massima pragmatica. Nessun pragmatista può accettare l’idea di una conoscenza dal punto di vista di Dio. Ma ciò non
significa che i valori risiedano nel punto di vista di chi li osserva: che un ponte stia in piedi o crolli non dipende dagli
interessi di chi lo ha costruito, ma dalla struttura causale del mondo. Il che vuol dire, conclude Rescher, che in ogni
attività finalizzata allo scopo le questioni di successo o fallimento sono interamente oggettive.
Una tale oggettività deve ovviamente essere spiegata. E per fare questo, Rescher ricorre all’idea di evoluzione. La
ragione per cui i nostri metodi cognitivi sono ritenuti in grado di darci un’immagine affidabile del mondo è perché si
sono evoluti sotto la pressione causale di quel mondo che mirano a raffigurare. Gli esseri umani sono organismi
naturali che nel corso della storia hanno selezionato quegli strumenti che si sono rivelati efficaci nel produrre un
adattamento vantaggioso con l’ambiente.
In ultima analisi è la considerazione di queste costanti biologiche ciò che consente di pervenire a una giustificazione
pragmatica della nostra dotazione cognitiva. Anche in Rescher, dunque, il pragmatismo si declina nella forma di
un’antropologia filosofica che è naturalista ma non riduzionista. Come ogni coerente forma di antiriduzionismo, anche
il pragmatismo di Rescher riconosce dunque una pluralità di livelli di realtà indipendenti e governati da leggi proprie.
L’uomo vive in un mondo che gli offre alternative, alcune delle quali sono razionalmente superiori alle altre e, in
quanto tali, richiedono una valutazione razionale. Lo scopo di un pragmatismo maturo è di fornire una spiegazione
della nozione di giustificazione razionale, ovvero, in altri termini, dar conto all’autonomia del razionale e del normativo
rispetto alla dimensione passionale.
La distinzione che Rescher introduce per affrontare questo problema è quella fra desideri e preferenze, da un lato, e
valori, dall’altro. mentre i desideri costituiscono motivi dell’azione, soltanto i valori rappresentano delle buone ragioni
per l’agire. a differenza dei primi, infatti, questi ultimi sono inseriti all’interno di una rete concettuale che consente di
dare ragione alle nostre scelte valutative. Contro la concezione humeana della ragione secondo cui la valutazione
razionale si limiti all’accertamento dei rapporti ipotetici fra un’azione e le sue conseguenze, Rescher ribadisce quindi
l’importanza di una concezione sostanzialistica della razionalità. La razionalità strumentale non esaurisce mai in se
stessa il compito di discutere i fini e di scegliere quelli che sono razionalmente appropriati.