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KANT
1754: Pubblica una “Ricerca sulla causa della questione del mutamento
della terra nel suo movimento intorno all’asse” & un’altra intorno alla
questione “Se la terra invecchia”.
Pubblica, nello stesso anno; un’altra ricerca fisica, “De igne” & la dissertazione per la
libera docenza, nella quale si riconosce come principio supremo quello di identità.
1756: compaiono tre scritti di Kant sui “Terremoti”, uno sulla “Teoria dei
venti” & la “Monadologia Physica”.
1759: Appare un saggio sul “Movimento & la quiete” & lo scritto sull’
“Ottimismo”.
Nello stesso anno Kant pubblica una “Ricerca sul concetto delle grandezze
negative”, nella quale Kant cerca di utilizzare per la filosofia i concetti della matematica,
viene ribadita la distinzione tra il pensiero logico e quello della realtà.
1764: Le “Osservazioni sul sentimento del bello & del sublime” mirano
a distinguere dal punto di vista psicologico il sublime dal bello, perché il primo
commuove ed esalta, il secondo alletta e rapisce. Appare, poi, “La ricerca sulla
chiarezza dei principi della teologia naturale & della morale”.
In questo scritto la metafisica è definita una filosofia sui fondamenti delle nostre prime
conoscenze, poiché Kant è un deciso sostenitore dell’applicabilità del metodo matematico
alla filosofia.
Per ciò che riguarda la morale egli si sofferma a considerare soprattutto il concetto
dell’obbligazione .
Per Kant il bene si identifica con la NECESSITA’ morale & perciò la conoscenza non dice
nulla sulla sua natura, che è invece rivelata dal semplice “sentimento morale ”.
Kant comincia con lo stabilire : La Distinzione tra conoscenza sensibile & conoscenza
intellettuale:
La conoscenza SENSIBILE è dovuta alla ricettività (o passività) del soggetto;
Ha per oggetto il fenomeno, cioè la cosa come appare nella sua relazione al soggetto.
La conoscenza INTELLETTUALE è una facoltà del soggetto;
Ha per oggetto la cosa così come è essa, nella sua natura intelligibile, cioè come
noumeno*.
Noumeno: dal greco noumenon ”ciò che è pensato”; è l’oggetto intelligibile, contrapposto
all’oggetto della sensibilità.
QUINDI tempo & spazio sono intuizioni, ma intuizioni che precedono ogni conoscenza
sensibile & sono quindi indipendenti da essa, quindi PURE. Non sono REALTA’
OGGETTIVE, ma solo CONDIZIONI SOGGETTIVE & necessarie, alla mente umana,
per coordinare a sé tutti i dati sensibili.
In breve:
Negli studi giovanili di filosofia naturale, Kant familiarizza con la filosofia
naturalistica illuminista, ispirata da Newton. Questa filosofia, che idealizza la
descrizione dei fenomeni & che rinuncia ad ammettere cause & forze che trascendono
tale descrizione, spinge Kant al prospetto di una metafisica che si costituisse in base
agli stessi criteri limitativi. Le analisi degli empiristi inglesi, gli prospettano prima la
metafisica come SCIENZA LIMITATIVA e NEGATIVA, quindi come autocritica della
ragione.
DAL 1781 IN POI, IL PUNTO DI VISTA CRITICO VIENE ESTESO A TUTTO
IL MONDO.
La “critica” in senso kantiano non nascerebbe se non ci fossero, in ogni campo, dei termini
di validità da fissare. Per questo il Criticismo si configura come una filosofia del limite e
può essere definito un’ermeneutica della finitudine, cioè un’interpretazione dell’esistenza
volta a stabilire il carattere finito o condizionato delle possibilità esistenziali, che non sono
mai tali da definire l’onniscienza o l’onnipotenza dell’individuo.
Questa filosofia del finito, non equivale allo scetticismo , perché tracciare il limite di
un’esperienza significa nel contempo garantire, entro il limite, la sua validità. In tal
modo, il riconoscimento & l’accettazione del limite diviene la NORMA che dà
legittimità & fondamento alle varie facoltà umane.
Kant si propone di rinunciare ad ogni evasione dai limiti dell’uomo e deve questa rinuncia a
Hume che ha rotto il suo “sonno dogmatico”. Però ciò non equivale per lui alla rinuncia a
fondare la validità delle varie attività umane.
Il kantismo si inserisce nello specifico orizzonte storico del pensiero moderno, definito
dalla Rivoluzione scientifica, da un lato, e dalla crisi progressiva delle metafisiche
tradizionali, dall’altro.
Le tre opere maggiori di Kant, si riferiscono agli interrogativi principali del Criticismo,
ovvero:
Fondamenti del SAPERE (Critica della ragion pura);
Fondamenti della MORALE (Critica della ragion pratica);
Fondamenti dell’ESPERIENZA ESTETICA & SENTIMENTALE (Critica del
Giudizio).
Quindi il kantismo può essere considerato come la prosecuzione dell’empirismo inglese &
dell’Illuminismo, riconoscendo e segnando i limiti della ragione umana.
Il kantismo però, al contrario dell’empirismo, spinge più a fondo l’analisi critica e , più
che soffermarsi sulla descrizione dei meccanismi conoscitivi, etici e sentimentali, si
sforza di fissarne le condizioni di possibilità e i limiti di validità.
Si distingue dall’Illuminismo per una maggiore RADICALITA’ d’intenti. Kant, infatti,
porta dinanzi al tribunale della ragione, la ragione stessa, PER CHIARIRNE IN MODO
ESAURIENTE STRUTTURE & POSSIBILITA’.
Per Kant i limiti della ragione tendono a coincidere con quelli dell’uomo: volerli varcare
in nome di presunte capacità superiori alla ragione significa avventurarsi in sogni
arbitrari o fantastici.
Nel caso della matematica & della fisica, si tratta di giustificare una situazione
di fatto, chiarendo le condizioni che le rendono possibili.
Nel caso della metafisica si tratta di scoprire SE esistano veramente condizioni tali da
legittimare il suo porsi come scienza, o se essa sia inevitabilmente condannata alla non-
scientificità.
La “Critica della ragion pura” si apre con un’ipotesi gnoseologica di fondo, cioè:
Ogni nostra conoscenza comincia con l’ESPERIENZA, ma ciò non vuol dire che essa
derivi totalmente dall’esperienza. La nostra conoscenza empirica, infatti, potrebbe essere
un composto di quello che riceviamo mediante le impressioni & di ciò che la nostra
Facoltà Conoscitiva aggiunge da sé.Si arriva a dedurre l’esistenza di “
Giudizi Sintetici A Priori
Per Kant i giudizi fondamentali della scienza non sono né GIUDIZI ANALITICI A
PRIORI né GIUDIZI SINTETICI A POSTERIORI.
I GIUDIZI ANALITICI A PRIORI sono quelli che si enunciano senza dover ricorrere
all’esperienza, perché in essi il predicato non fa che esplicitare quanto è già implicitamente
contenuto nel soggetto (ad es.: “I corpi sono estesi”). Questi giudizi, pur essendo Universali
& Necessari, sono infecondi perché non ampliano il nostro preesistente patrimonio
conoscitivo.
Nella visione kantiana, quindi, la scienza risulta feconda sotto 2 punti di vista:
1. Da quello della MATERIA, cioè il contenuto, che le deriva dall’esperienza,
2. Da quello della FORMA che le deriva dai giudizi sintetici a priori, che ne
rappresentano i quadri concettuali di fondo.
QUINDI:
SCIENZA = esperienza + giudizi sintetici a priori
I giudizi sintetici a priori stanno anche alla base della metafisica, ad esempio: “Il mondo
deve avere un primo cominciamento.
LA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Kant si propone, poi, di spiegare la provenienza dei giudizi sintetici a priori; il problema è:
Egli elabora, dunque, una nuova teoria della conoscenza intesa come sintesi di materia &
forma.
Per MATERIA della conoscenza si intende la molteplicità caotica & mutevole delle
impressioni sensibili provenienti dall’esperienza elemento empirico o a posteriori
per FORMA si intende l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana
ordina, secondo determinati rapporti, tali impressioni elemento razionale o a priori.
Kant ritiene che la mente filtri attivamente i dati empirici attraverso forme che le sono
innate, comuni ad ogni soggetto pensante. La loro universalità deriva dal fatto che TUTTI
LE POSSIEDONO ED APPLICANO ALLO STESSO MODO.
(°°°)Kant è in un certo senso un innatista, anche se diversamente dalla tradizione. Egli
ritiene, infatti che i suoi schemi a priori non siano CIO’ che si conosce, ma ciò
ATTRAVERSO cui si conosce.
Ma se in noi esistono certe forme a priori universali & necessarie (SPAZIO, TEMPO & 12
CATEGORIE), resta spiegato perché si possano formulare dei giudizi sintetici a priori
intorno ad essa senza timore di essere smentiti dall’esperienza
Kant afferma, poi, che non e’ la mente che si modella passivamente sulla realtà,
ma la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo.
Vi è inoltre la distinzione tra fenomeno & cosa in sé:
A. Sensi;
B. Intelletto;
C. Ragione.
Estetica trascendentale
[studia la sensibilità e le sue forme a
priori di spazio & tempo, dimostrando
come su di essa si fondi la matematica]
Logica trascendentale
L’uso kantiano del termine “trascendentale” connette il concetto con quello di forma a
priori, che esprime una condizione che rende possibile la conoscenza della realtà
fenomenica. Il trascendentale NON coincide con l’a priori inteso come contrario di empiric.
Principale significato di TRASCENDENTALE:
Il significato del titolo dell’opera kantiana può essere interpretato come :la critica è della
ragione, in quanto argomento della critica è la ragione & nello stesso tempo in
quanto la ragione è colei che mette in atto la critica.
L’ESTETICA TRASCENDENTALE
Nell’Estetica Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori .
Egli considera la sensibilità “recettiva” perché NON GENERA i propri contenuti ma li
ACCOGLIE per intuizione, dalla realtà esterna o dall’esperienza interna.
Tuttavia La sensibilità non è solamente recettiva, ma attiva, perché organizza il materiale
delle sensazioni(intuizioni empiriche) attraverso lo spazio e il tempo, che sono le forme
a priori(intuizioni pure) della sensibilità.
Ma poiché è unicamente attraverso il senso interno che ci giungono i dati del senso esterno,
il tempo si configura anche come la forma del senso esterno, ovvero come la maniera
Universale attraverso cui concepiamo tutti gli oggetti. Per cui se non ogni cosa è nello
spazio, ad es. i sentimenti, ogni cosa si configura nel tempo.
Kant giustifica l’apriorità dello spazio & del tempo nell’esposizione metafisica & in quella
trascendentale:
Nell’esposizione metafisica Kant confuta :
La visione EMPIRISTICA che considerava spazio & tempo come nozioni tratte
dall’esperienza;
La visione OGGETTIVISTICA che considerava spazio & tempo come entità a sé stanti o
recipienti vuoti;
La visione CONCETTUALISTICA che considerava spazio & tempo come concetti
esprimenti i rapporti fra le cose.
Per quale motivo, allora, le matematiche, pur essendo una costruzione della nostra mente
valgono anche in natura?
Galileo aveva risposto che Dio, creando, geometrizza, postulando così una struttura
ontologica di tipo matematico. Kant, dichiarando la cosa in sé inconoscibile, non poteva
presupporre queste armonie prestabilite. Escludendo ogni garanzia di tipo metafisico o
teologico, egli afferma, invece, che le matematiche possono venire applicate agli oggetti
dell’esperienza fenomenica perché quest’ultima possiede già di per sé una configurazione
geometrica ed aritmetica.
L’ANALITICA TRASCENDENTALE
Un tipo di logica che presenta una fisionomia originale rispetto a quella della tradizione,
cioè ha come specifico oggetto di indagine l’ORIGINE, l’ESTENSIONE & la VALIDITA’
OGGETTIVA delle conoscenze a priori che sono proprie dell’intelletto & della ragione.
Sensibilità & intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza perché “Senza
sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato & senza intelletto nessun oggetto verrebbe
pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono ciechi”.
CHE COSA SONO I CONCETTI?
Kant sostiene che le intuizioni sono delle Affezioni, ossia qualcosa di passivo; I concetti
sono invece delle Funzioni, cioè operazioni attive che ordinano o unificano diverse
immagine sotto una comune.
I concetti si dividono in 2 categorie:
CONCETTI EMPIRICI, cioè ricavati dall’esperienza &
CONCETTI PURI, cioè presenti a priori nell’intelletto.
I concetti puri sono le categorie, i concetti basilari della mente che rappresentano le
supreme funzioni unificatrici dell’intelletto
Dopo aver formulato la tavola delle categorie, Kant deve giustificare la loro validità & il
loro uso, problema che egli denomina DEDUZIONE TARSCENDENTALE.
Analogamente, la "deduzione" delle categorie non consiste nella semplice prova che esse
sono adoperate, in linea di fatto, nella conoscenza scientifica; ma nella giustificazione che
quest'uso è legittimo e quindi anche nella determinazione dei limiti di quest'uso, cioè del
diritto della ragione ad impiegarle: diritto che, come tutti gli altri, è soggetto a restrizioni.
Tradotto concretamente nei termini gnoseologici della Critica, il problema della
deduzione suona perciò in questo modo:
perché le categorie, pur essendo forme soggettive della nostra mente, pretendono di
valere anche per gli oggetti?
Evidentemente una difficoltà di questo tipo nasce solo nell'ambito specifico della
gnoseologia kantiana. Infatti, se l'intelletto umano fosse un potere creatore, che producesse
esso stesso i suoi oggetti, o se fosse (come supponeva la tradizione) un organo passivo, che
si limitasse a riflettere specularmente gli oggetti, non nascerebbe mai il problema della
deduzione, ossia della corrispondenza ragione-realtà, in quanto sarebbe la mente a
determinare la natura, oppure la natura a determinare la mente. Il problema della deduzione
sorge per il fatto che Kant sostiene che gli oggetti ci vengono dati dall'esterno attraverso
un'impalcatura mentale precostituita di forme a priori. Da ciò l'interrogativo critico circa la
validità di tali forme rispetto agli oggetti.
"L'io penso" si configura dunque come "il principio supremo della conoscenza umana",
essendo la condizione o la possibilità della recezione dei dati, ovvero ciò cui deve sottostare
ogni realtà per poter entrare nel campo della nostra esperienza e divenire un oggetto-per noi.
La rilevanza di tale questione spiega perché gli studiosi odierni tendano a dare sempre più
importanza a questa sezione dell'Analitica, vedendo in essa "il segreto" o "la chiave di
volta" della Critica.
Kant risolve il problema affermando che: l'intelletto, non potendo agire direttamente sugli
oggetti della sensibilità, agisce indirettamente su di essi tramite il tempo, che è il medium
universale attraverso cui tutti gli oggetti sono percepiti .
In altre parole, se il tempo condiziona gli oggetti, l'intelletto, condizionando il tempo,
condizionerà gli oggetti.
Ciò avviene perché l'intelletto, attraverso quella facoltà che Kant chiama
"immaginazione produttiva", determina la rete del tempo secondo degli "schemi"
che corrispondono ognuno ad una delle categorie.
Gli schemi sono perciò le categorie calate nel tempo, ovvero le regole attraverso cui
l'intelletto condiziona il tempo secondo i propri concetti : “ chiamo schema di un concetto
la rappresentazione del procedimento generale mediante cui l'immaginazione appronta al
concetto stesso la sua immagine.
Di conseguenza, con questa teoria, Kant ha inteso dire che la mente non si limita a ricevere
tutta la realtà attraverso la dimensione tempo, ma riceve il tempo stesso in determinate
dimensioni, o schemi, che sono la traduzione, in chiave temporale, delle
categorie.
L'originalità della rivoluzione copernicana filosofica di Kant, appare cosi in tutta la sua
forza ed evidenza. Mal’originalità della rivoluzione copernicana del criticismo consiste
semplicemente nel fondare sul soggetto, anziché sull'oggetto, la validità del
sapere.
L'originalità della soluzione kantiana consiste anche soprattutto nell'intendere ilfondamento
del sapere in termini di possibilità e di limiti, cioè conformemente al modo d'essere di
quell'entepensante finito che èl'uomo.
Le idee di Kant a questo proposito sono nette ed inequivocabili: le categorie, essendola
facoltà logica di unificare il molteplice della sensibilità, funzionano solo in rapporto al
materiale che esseorganizzano. Considerate senza essere riempite di dati provenienti dal
senso esterno o interno, sono “vuote”.Questo fa si che esse risultino operanti solo in
relazione al fenomeno., intendendo per quest'ultimo l'oggettoproprio della conoscenza
umana, che è sempre sintesi di un elemento materiale e di uno formale. Di conseguenza,il
conoscere, per Kant, non può trascendere l’esperienza, poiché una conoscenza che non si
riferisca adun'esperienza possibile non è conoscenza, ma un pensiero vuoto.
La delimitazione della conoscenza al fenomeno, quindi alla scienza, rimanda alla nozione di
“cosa in sé”, ed è inconoscibile.
Kant ha sempre ribadito che la conoscenza umana è limitata al fenomeno, poiché la cosa in
sé, che egli denomina “noumeno”, non può divenire oggetto di un’esperienza possibile. Il
noumeno non è conoscibile ma essendo un concetto è solo pensabile. La cosa in sé, più che
essere una realtà, è per noi un concetto, un concetto limite che serve ad arginare le nostre
pretese conoscitive.
Kant, nel corso del suo ragionamento, indica l’esperienza talvolta in un senso, talvolta in
un altro:
L’esperienza come l’insieme delle intuizioni sensibili, ovvero il materiale e la fonte
della conoscenza sensibile prima di essere elaborato: Si riferisce a questa esperienza
quando afferma che le nostre forme pure, appunto, precedano l’esperienza
L’esperienza come totalità della conoscenza fenomenica, ovvero l’ordine unitario dei
dati sensibili ordinati dalle forme a priori della mente: Si riferisce a questa esperienza
quando parla di “esperienza in generale”
LA DIALETTICA TRASCENDENTALE
Kant ritiene che questo voler procedere oltre i dati esperienziali derivi dalla nostra innata
tendenza alla totalità e all’incondizionato.
In altre parole, la nostra ragione, mai paga del mondo fenomenico, che è il campo del
relativo, è irresistibilmente attratta verso il regno dell'assoluto e quindi verso una
spiegazione globale ed onnicomprensiva di ciò che esiste.
Spiegazione che fa leva sulle tre idee trascendentali che sono proprie della ragione.
Infatti, quest'ultima è costitutivamente portata ad unificare i dati del senso interno
mediante :
l'idea di anima, che è l'idea della totalità assoluta dei fenomeni interni, ad
unificare i dati del senso esterno
mediante l'idea di mondo, che è l'idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni;
infine, ad uni-ficare i dati interni ed esterni
mediante l'idea di Dio, inteso come totalità di tutte le totalità.
Per questo, i metafisici, secondo Kant, sono simili a quei navigatori degli oceani
burrascosi, che, non contenti della loro isola (cioè della terraferma del fenomeno e della
scienza) vogliono spingersi in alto mare con l'irrealizzabile speranza di trovare nuovi
insediamenti.
La Dialettica trascendentale vuol appunto essere lo studio critico e la denuncia impietosa
delle peripezie e dei naufragi della metafisica, cioè delle avventure e dei fallimenti del
pensiero quando procede oltre gli orizzonti dell'esperienza possibile, guidato da un' illusione
strutturale così forte, che non cessa neppure quando si rende conto che essa è tale.
Per dimostrare l’infondatezza della metafisica, Kant prende in considerazione le tre pretese
scienze che da sempre ne costituiscono l’ossatura:
la psicologia razionale, che studia l’anima,
la cosmologia razionale, che indaga sul mondo,
la teologia razionale, che specula su Dio.
La prova fisico-teologica fa leva sull’ordine, sulla finalità e sulla bellezza del mondo
per innalzarsi ad una Mente ordinatrice, identificata con un Dio creatore, perfetto ed
infinito. Essa parte dall’esperienza dell’ordine del mondo, ma pretende di elevarsi subito
all’idea di una causa ordinante trascendente, dimenticando che l’ordine della natura
potrebbe essere una conseguenza della natura stessa e delle sue leggi immanenti. Per
asserire a tale ordine non può scaturire dalla natura, è obbligata a concepire Dio non solo
come causa dell’ordine del mondo (architetto) ma anche come causa dell’essere stesso del
mondo (creatore). Ma essa può compiere tale operazione solo a patto di identificare la causa
ordinante con l’essere necessario creatore, ricadendo così nella prova cosmologica, la quale
ricade a sua volta nella prova ontologica. La prova fisico-teologica pretende di stabilire
l’esistenza di una causa infinita e perfetta, ritenuta proporzionata ad esso. Ma così
facendo, non si accorge che gli attributi che essa da al mondo sono indeterminati e
relativi a noi e quindi non autorizzano affatto a parare dall’infinito all’infinito,
sostenendo che causa di tutto è una causa infinta e perfetta.
Scienza deiconcetti puri, ovvero come una scienza che abbracciale conoscenze che possono
essere ottenuteindipendentemente dall’esperienza, sul fondamentodelle strutture razionali
della mente umana.
Di questa metafisica di nuovo tipo fanno parte,secondo Kant, sia una metafisica
della natura (chestudia i principi a priori della conoscenza dellanatura), sia una metafisica
dei costumi (che studia iprincipi a priori dell’azione morale).
LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
La ragion pratica è la ragione protesa all'azione e riguarda quindi la morale che studia le
leggi del comportamento umano.
La ragione non serve solo a dirigere la conoscenza, ma anche l’azione. Accanto alla ragione
teorica abbiamo quindi una ragione pratica.
Kant distingue tuttavia tra :
una ragione pura praticacioè che opera indipendentemente dall’esperienza e
dalla sensibilità
una ragione empirica pratica cioè che opera sulla base dell’esperienza e della
sensibilità.
Questa seconda critica non sarà però una “critica della ragione pura pratica” come la prima
era un “critica della ragione pura teoretica, poiché mentre la ragione teoretica ha bisogno di
essere criticata, cioè sottoposta ad esame, la ragione pratica non ha bisogno di essere
criticata nella sua parte pura, perché in questa essa si comporta in modo perfettamente
legittimo, obbedendo ad una legge appunto universale.
Invece nella sua parte non pura, cioè legata all’esperienza, la ragione pratica può darsi delle
massime, cioè delle forme d’azione, dipendenti appunto dall’esperienza e perciò non
legittimate dal punto di vista morale.
Tuttavia il fatto che la ragion pura pratica non debba venir criticata, ma semplicemente
illustrata nelle sue strutture e funzioni, non significa che essa sia priva di limiti, infatti, la
morale secondo Kant risulta profondamente segnata dalla “finitudine” dell’uomo e la
necessità di essere salvaguardata dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con
l’attività di un essere infinito.
non cerca di dimostrare l'esistenza, considerata certissima, della legge morale, ma soltanto
di esplicitarne le caratteristiche!
Kant ritiene infatti che la filosofia non debba "inventare" la morale, ma semplicemente
prendere atto della sua realtà e delucidarla nelle sue strutture.
La sicurezza di Kant circa l'esistenza di una legge morale assoluta proviene dal
ragionamento per cui o la morale è una chimera, in quanto l'uomo agisce in virtù delle sole
inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una
ragion pratica "pura", cioè capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la
condotta in modo stabile.Di conseguenza la tesi dell'assolutezza ed incondizionatezza della
morale implica, per Kant, due concetti di fondo strettamente legati fra di loro:
la libertà dell'agire.Infatti, essendo incondizionata, la morale implica la capacità
umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la
libertà si configuri come il primo presupposto - o "postulato", come Kant dirà in
seguito - della vita etica.
Attenzione: per Kant la morale è ab -soluta, cioè sciolta dai condizionamenti istintuali
non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto ad
essi. La morale si gioca infatti all'interno di una tensione bipolare fra ragione e sensibilità.
Se l'uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità ed impulso, è ovvio che essa non
esisterebbe, perché l'individuo agirebbe sempre per istinto. Viceversa, se l'uomo fosse pura
ragione, la morale perderebbe ugualmente di senso, in quanto l'individuo sarebbe sempre in
quella che Kant chiama "santità" etica, ovvero in una situazione di perfetta adeguazione alla
legge. Invece la bidimensionalità dell'essere umano fa sì che per Kant l'agire morale prenda
la forma severa del "dovere" e si concretizzi in una lotta permanente fra la ragione e gli
impulsi egoistici. Da ciò la natura finita, ossia limitata ed imperfetta, dell'uomo, che può
agire secondo la legge, ma anche contro la legge.
Invece la bidimensionalità dell'essere umano fa sì che per Kant l'agire morale prenda la
forma severa del "dovere" e si concretizzi in una lotta permanente fra la ragione e gli
impulsi egoistici. Da ciò la natura finita, ossia limitata ed imperfetta, dell'uomo, che può
agire secondo la legge, ma anche contro la legge
Analogamente alla Critica della ragion pura, anche la Critica della ragion pratica di divide in
due parti fondamentali :
C.d.R.Pratica.
1) Dottrina degli elementi 2)Dottrina del
metodo
[ tratta degli elementi della morale [tratta del modo in cui la legge può
E si divide in accedere all’animo umano (es.
educazione)]
Dialettica
[studia la sensibilità e le sue forme a
priori di spazio & tempo, dimostrando
come su di essa si fondi la matematica]
Analitica
Dialettica trascendentale
[ è l’esposizione della regola della [Affronta la parvenza morale, ovvero
verità (etica) ] l’antinomia connessa all’idea di sommo bene]
"massime"
"imperativi"
L'imperativo è una prescrizione con valore oggettivo ed universale, in quanto si pone nei
termini di un comando valido per chiunque
Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di fini ipoteticamente accettati ed
hanno la forma del "se ... devi" (ad esempio: se vuoi conseguire buoni risultati scolastici
devi impegnarti in modo costante). Questo tipo di imperativi si specificano a loro volta in
"regole”, che espongono le norme tecniche per raggiungere un determinato scopo (ad
esempio le varie procedure per divenire un buon medico), e in consigli della prudenza, che
forniscono i mezzi per ottenere ciò a cui tutti gli uomini per necessità tendono: il benessere
fisico ed esistenziale (ad esempio, i vari "manuali" della salute e della felicità).
Nella Fondazione della metafisica dei costumi e nella Critica della ragion pratica Kant
risponde che la ragione morale comanda se stessa, cioè l'esigenza della universalità, e
presenta tre formulazioni interconnesse dell'imperativo categorico.
1. La prima formula prescrive: "Agisci in modo che la massima della tua azione
possa sempre valere come principio di una legislazione universale". In altri termini,
quando agisci tieni sempre presente gli altri e ricordati che un comportamento risulta
morale solo se, e nella misura in cui, la sua massima appare universalizzabile. Ad
esempio, chi mente compie sempre un atto immorale, poiché qualora venisse
universalizzata la massima dell'inganno i rapporti umani diventerebbero impossibili.
Come si può notare, Kant esprime qui, in termini filosofici e generalizzati quella legge
di reciprocità che sta alla base dei vari codici morali del mondo e che nel Vangelo si
trova espresso secondo la nota massima "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse
fatto a te".
2. La seconda formula afferma: "Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua
persona, sia in quella di ogni altra, sempre anche come fine e mai semplicemente come
mezzo". In altri termini, rispetta la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di
strumentalizzare il prossimo o di ridurre te medesimo a oggetto del tuo egoismo e delle
tue abbruttenti passioni.
La terza formula prescrive: "Agisci in modo che la volontà, in virtù della sua massima,
possa considerare se stessa come universalmente legislatrice". Questa dichiarazione ripete,
in parte, la prima. Tuttavia, a differenza di essa, che puntualizza soprattutto la legge,
quest'ultima sottolinea particolarmente la volontà, chiarendo come il comando morale non
sia un imperativo esterno e schiavizzante, ma il frutto autonomo della volontà razionale, la
quale, essendo legge a se medesima, fa sì che noi, sottomettendoci ad essa, non facciamo
che obbedire a noi stessi, tant'è vero che nel "regno dei fini", precisa Kant, ognuno è suddito
e legislatore al tempo stesso.
Un'altra caratteristica strutturale dell'etica kantiana, che emerge chiaramente dalle tre
enunciazioni dell'imperativo categorico, è :
la formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo
fare ciò che facciamo.
Questo significa che l'imperativo etico non può risiedere in una casistica o manualistica
concreta di precetti, ma soltanto in una legge formale universale, la quale afferma
semplicemente: "quando agisci tieni presente gli altri e rispetta la dignità umana che è in te e
nel prossimo". Ovviamente secondo Kant, sta poi ad ognuno di noi "tradurre" in concreto,
nell'ambito delle varie situazioni esistenziali, sociali e storiche la parola della legge
Non bisogna mai dimenticare che le norme etiche concrete in cui si incarna di volta in volta
l'imperativo categorico risultano sempre fondate e mai fondanti nei suoi confronti, esistendo
solo in funzione di esso, che è ciò che le suscita e le giustifica. Di conseguenza "il vero
significato del formalismo kantiano non sta (come pure è stato detto) nell'affermazione di
una forma vuotata di ogni contenuto, ma nella scoperta della fonte perenne della moralità,
che alimenta i costumi morali dei popoli nel loro divenire storico, restando essa stessa
immune da ogni mutamento".
Da tutto ciò, che si è detto sinora, e quindi dalla incondizionatezza della legge, deriva anche
il disinteresse dell'imperativo etico, che costituisce un altro dei contrassegni della morale
kantiana. Infatti, se la legge ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile si ridurrebbe
ad un insieme di imperativi ipotetici e comprometterebbe, in primo luogo, la propria libertà,
in quanto non sarebbe più la volontà a dar la legge a se medesima, ma gli oggetti a dar la
legge alla volontà.
Il cuore della moralità kantiana risiede invece nel dovere-per-il dovere, ossia nello sforzo di
attuare la legge della ragione solo per ossequio ad essa, e non sotto la spinta di personali
inclinazioni o in vista di risultati che possono scaturirne. Di conseguenza, secondo la
Critica, della ragion pratica noi non dobbiamo agire per la felicità, ma solo per il dovere
Da ciò il "rigorismo" kantiano, che esclude, dal recinto dell'etica, emozioni e sentimenti,
che sviano la morale, oppure, quando collaborano con essa, ne inquinano la severa purezza.
Nell'etica di Kant, che risulta in polemica con ogni tipo di morale sentimentalistica, si
riconosce diritto di cittadinanza ad un unico sentimento: il rispetto per la legge.
Sentimento che risulta di una forza tale da far tacere tutti gli altri sentimenti egoistici e da
disporre l'individuo all'accoglimento della legge
Il dovere per il dovere nel rispetto della legge, ecco le uniche condizioni affinché vi
siano moralità e virtù e non si passi dalla moralità alla semplice legalità.
Infatti, secondo Kant, non basta che un'azione sia fatta esteriormente secondo la legge,
ovvero in modo conforme ad essa. La morale implica una partecipazione interiore,
altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure in forme più o meno
mascherate di autocompiacimento. Kant sostiene dunque che:
…. non è morale ciò che si fa, ma l'intenzione con cui lo si fa (= morale dell'intenzione)
essendo la "volontà buona", ovvero la convinta adesione della volontà alla legge, l'unica
cosa moralmente buona al mondo.
Le varie determinazioni della legge etica convergono in quella dell'autonomia, che tutte
le implica e riassume.
Il vero senso profondo dell'etica kantiana, e della sua sorta di "rivoluzione copernicana"
morale, consiste infatti nell'aver posto nell'uomo e nella sua ragione il
fondamento dell'etica, nello sforzo di salvaguardarne la piena libertà e
purezza.
Kant polemizza aspramente contro tutte le morali eteronome, cioè contro tutti quei sistemi
che pongono il fondamento del dovere in forze esterne all'uomo o alla sua ragione, facendo
scaturire la morale, anziché dalla pura "forma" dell'imperativo categorico, da quelli che egli
chiama moventi "materiali".
Ripensando la storia della filosofia, Kant ha racchiuso in una "tavola" apposita i diversi
moventi etici teorizzati dai filosofi.
Passando in rassegna le varie posizioni, Kant individua i limiti di ciascuna, che risiedono, in
generale, nel fatto di : non riuscire a preservare l'incondizionatezza della legge
morale e degli attributi in cui essa si concretizza.
Infatti:
se i moventi della morale risiedessero nell'educazione, nella società, nel piacere fisico o
nel sentimento della benevolenza, l'azione non sarebbe più libera ed universale, in quanto
tali realtà sarebbero fattori determinanti e mutevoli, ossia forze necessitanti e soggette al
cambiamento. Inoltre, tali motivi potrebbero al più spiegare in linea di fatto la presenza
della moralità in certi uomini o gruppi di uomini, ma non giustificherebbero il carattere
assolutamente obbligatorio della legge morale.
Ma in questo mondo virtù e felicità non sono congiunte, ma costituiscono l’antinomia etica
per eccellenza.
Kant afferma che: per uscire da tale antinomia bisogna postulare un mondo dell’aldilà in
cui possa realizzarsi ciò che sulla terra non può avvenire .
I postulati tipici di Kant sono :
L’immortalità dell’anima L’esistenza di Dio
sono quelle proposizioni teoretiche, o anche quelle esigenze interne della morale che
vengono ammesse per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che non possono
venir dimostrate.
Accanto ai due postulati religiosi Kant ne aggiunge un altro:
La libertà: Essa è la condizione stessa dell’etica: se c’è la morale c’è la libertà.
Ciò che Kant definisce “primato della ragion pratica” consiste nella prevalenza
dell’interesse pratico su quello teoretico e nel fatto che la ragione ammette proposizioni
che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico. I postulati kantiani non possono valere
come conoscenze. Non sono le verità religiose a fondare la morale, ma è la morale a
fondarle. Dio, per Kant, non sta all’inizio e alla base della vita morale, ma alla fine, come
completamento. L’uomo di Kant è colui che agisce seguendo il dovere per il dovere.
Nella prima Critica Kant ha affrontato il tema della conoscenza pervenendo alla
conclusione che la ragione umana è limitata dall’esperienza; l’intelletto
costituisce il mondo dell’esperienza unificando il molteplice dell’intuizione
sensibile sotto le categorie a priori.
Nella seconda Critica Kant affronta il tema della morale e disegna un mondo
della volontà in cui si può postulare la libertà, lasciando intendere che la
ragione possa orientare il comportamento umano in assoluta autonomia
Nella Critica del Giudizio Kant vorrebbe riuscire a conciliare i due mondi,
ovvero quello dell’esperienza caratterizzato dalla necessità, e quello della
morale caratterizzato dalla libertà.
Se nel primo mondo ad agire è la ragione e nel secondo è la volontà, Kant
concepisce una terza facoltà il sentimento che dovrebbe fungere da
mediatore fra i due mondi spiegando il passaggio dall’uno all’altro, pur
rispettandone l’autonomia.
Per Giudizio Kant intende la facoltà del giudicare; essa è diversa dai giudizi
cognitivi che esprimono proposizioni in cui avviene l’unione di due concetti:
soggetto e predicato.
Il giudicare di cui parla ora Kant è qualcosa di diverso: esso significa pensare il
particolare sotto un universale.
Il tema della terza Critica è il sentimento, inteso come facoltà intermedia fra intelletto
(posto a fondamento della conoscenza scientifica) e ragione (posta a fondamento della
morale): il sentimento è quella facoltà mediante cui l’uomo sperimenta nel reale quella
finalità che l’intelletto nega a livello fenomenico (il fenomeno è rigorosamente pre-
determinato dalla legge di causalità) e la ragione postula a livello noumenico.
I giudizi riflettenti sono riferiti ad una facoltà che è detta da Kant “facoltà del Giudizio”:
essi si dividono a loro volta in :
Estetici Teleologici.
Nel giudizio estetico la finalità della natura è vissuta a livello intuitivo (o immediato), nel
giudizio teleologico è filtrata attraverso la nozione di fine.
Il giudizio estetico è quello in forza del quale giudichiamo che un certo spettacolo naturale
riempie il nostro animo, ci appaga (il fine della natura è, in questo caso, vissuto come
accordo immediato con le esigenze di armonia e perfezione del Soggetto).
Il giudizio teleologico si ha quando intravediamo nell’ordine generale e particolare della
natura un fine (le cose sono quelle che sono in vista di uno scopo).
Il termine “estetico” è qui utilizzato nel senso corrente di ciò che attiene alla bellezza
sensibile, di contro all’uso che ne era fatto nella prima Critica, in cui il termine si riferiva
alla sensibilità in generale (si veda l’accezione “Estetica trascendentale”). Il bello cui Kant
si riferisce è, tuttavia, soprattutto il bello naturale e non quello artistico: l’arte stessa è
concepita come pura imitazione della natura.
All’interno della Critica del Giudizio estetico Kant distingue fra ciò che è bello (ciò che è
causa di un piacere definito estetico) e ciò che piace: la bellezza è oggettiva e universale, il
piacere è soggettivo e relativo.
Il giudizio per il quale una cosa è ritenuta bella ha determinati caratteri che lo qualificano:
disinteressato (una cosa non è bella in rapporto a nostri fini o scopi, ma è ritenuta
bella in se stessa),
è universale (ciò che è bello è bello per tutti), pone una cosa come bella in quanto
soddisfa determinati rapporti armonici.
Posto come esista un bello in sé, si tratta, per Kant, di introdurre la nozione di “piacevole”
(o “gradevole”), la quale serve a render conto di ciò che piace, ma non è ritenuto bello in
sé: il piacevole riguarda ciò che piace ai sensi nella sensazione ed è inevitabilmente
condizionato da un fattore soggettivo. Così, spesso, siamo attratti da un individuo dell’altro
sesso, il quale ci piace, ma non è ritenuto da noi bello.
IL Sublime
Il sublime è uno stato d’animo ambivalente, giocato sulla coppia d’opposti piacere-
dispiacere e impotenza-potenza.
Kant distingue due tipologie di sublime: matematico e dinamico.
Nel Giudizio Teleologico, la finalità della natura non è vissuta intuitivamente, ma pensata
attraverso la nozione di “”. Si postula un fine non soltanto rispetto agli enti particolari (ad
esempio, i singoli organismi viventi, che presentano un’organizzazione al loro interno ed un
coordinamento fra le parti concepito come finalizzato alla vita ed alla riproduzione), ma
rispetto alla natura ingenerale, la quale sarebbe stata organizzata da un’entità intelligente
(Dio) in vista di uno scopo.
Kant, tuttavia, come già detto, non attribuisce alcuna valenza conoscitiva ai giudizi
teleologici (l’esistenza di Dio non risulta in alcun modo verificabile poiché al di là di ogni
esperienza possibile), ma ne fa il portato di un’esigenza prettamente umana.
FICHTE
FICHTE è il primo pensatore idealista, anche se si muove ancora nella prospettiva
kantiana, infatti FICHTE sottolinea il carattere contraddittorio della cosa in sé, mettendola
in discussione, senza però concludere che la cosa in sé sia inesistente, non la cancella (anche
se è contraddittoria), ma il “toglimento” della cosa in sé viene rinviato all’infinito.
La filosofia di Fichte è contenuta nella “Dottrina della scienza” e il suo concetto centrale è
l’Io, scritto con I maiuscola perché, a differenza dell’io kantiano finito e limitato
dall’esperienza sensibile e dal noumeno (da ciò che è esterno all’io), l’Io di Fichte è un
principio non solo formale ma anche materiale della conoscenza, esso è quindi finito e
infinito perché viene meno la cosa in sé.
Con Fichte la filosofia torna ad essere la vera scienza.
Il compito della filosofia, per tutti gli idealisti, è costruire un sistema che comprenda tutto il
sapere, unendo i vari aspetti della realtà (materia, finito, infinito…), partendo dall'Io: tale
concezione sistematica della realtà è tipica degli idealisti (mentre l’opera di Kant si può
separare in parti: la “Critica della ragion pratica”, la “Critica della ragion pura”, la “Critica
del giudizio”…).
L’INFINITA’ DELL’IO
Kantismo
Kant aveva riconosciuto nell’Io penso il principio supremo di tutta la conoscenza . Per Kant
l’Io è finito perché limitato dalla cosa in sé ed è il principio formale del conoscere.
Idealismo
Per Fichte l’Io è infinito poiché tutto esiste nell’Io e per l’Io ed è il principio formale e
materiale a cui si deve la realtà stessa.
Fichte vuole costruire un sistema grazie al quale la filosofia , cessando i essere semplice
ricerca del sapere, divenga un sapere assoluto e perfetto.
Il concetto della Dottrina della scienza è quello di una scienza della scienza, cioè di un
sapere che metta in luce il principio su cui si fonda la validità di ogni scienza e che si fondi
sullo stesso principio.
Noi possiamo dire che una cosa esiste solo rapportandola alla nostra coscienza, cioè
facendone un essere-per-noi. La coscienza è tale solo in quanto coscienza di sé medesima,
cioè autocoscienza.
In pratica : L’essere per noi (l’oggetto) è possibile soltanto sotto la condizione della
coscienza (del soggetto) e questa soltanto sotto la condizione dell’autocoscienza.
La coscienza è il fondamento dell’essere, l’autocoscienza è il fondamento della coscienza.
Il primo principio della Dottrina della Scienza stabilisce quindi che L’IO PONE SE STESSO
chiarendo come il concetto di Io in generale si identifichi con quello di un’attività auto –
creatrice ed infinita.
Il secondo stabilisce che l’IO PONE IL NON – IO, ovvero che l’Io non solo pone se
stesso, ma oppone anche a se stesso qualcosa che, in quanto gli è opposto, e un non –
io (oggetto, mondo, natura). Il Non-Io è posto dall’Io ed è nell’Io.
Il terzo principio mostra come l’Io, avendo posto il Non-Io, si trova limitato da esso.
Con questo principio perveniamo alla situazione concreta del mondo, nel quale
abbiamo un molteplicità di io finito che sono limitati da non-io finiti. Fichte usa
l’aggettivo “divisibile” per denominare il molteplice e il finito: “L’IO OPPONE
NELL’IO ALL’IO DIVISIBILE UN NON-IO DIVISIBILE”.
Chiarificazioni
Da notare
I 3 principi non vanno interpretati in modo cronologico, ma logico poiché Fichte intende
dirci che :
l’Io risulta finito e infinito al tempo stesso:
- finito perché limitato dal Non-Io,
- infinito perché esiste solo in relazione all’Io e dentro l’Io
l’Io infinito o puro non è diverso dall’insieme degli io finiti nei quali si realizza
l’Io infinito è la meta ideale. Gli io finiti sono l’Io infinito in quanto tendono a
esserlo. Per l’uomo l’infinito è una missione; l’uomo è uno sforzo infinito verso al
libertà, cioè una lotta inesauribile contro il limite (natura esterna ed interna);
la missione non si conclude mai poiché se l’Io, la cui essenza è lo sforzo riuscisse ad
eliminare tutti i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere (la vita è lotta ed opposizione).
La perfezione sta nello sforzo infinito di auto perfezionamento.
tesi ---- Io
antitesi----- opposizione del non - Io
sintesi ------- determinazione reciproca fra Io e non Io
Fichte dopo aver affermato che Idealismo e Dogmatismo sono gli unici due sistemi
filosofici possibili, cerca di illustrare i motivi che spingono la scelta dell’uno o dell’altro.
Fiche sostiene che la filosofia non è una costruzione astratta, ma una riflessione
sull’esperienza che ha come scopo la messa in luce del fondamento dell’esperienza stessa.
Ora poiché nell’esperienza sono in gioco la cosa (L’oggetto) e l’Intelligenza ( l’Io o il
soggetto) la filosofia può assumere la forma del:
L’IDEALISMO che esalta la libertà del soggetto, e giunge alla Natura solo partendo
dallo Spirito: esso insegna come essere uomini sia sforzo e conquista.
IL DOGMATISMO realistico naturalistico materialistico deterministico che parte
dalla natura per arrivare allo Spirito;
La scelta tra le due Filosofie secondo Fichte dovrebbe essere una questione di inclinazione
personale, ovvero da una presa di posizione in campo etico.
Secondo Fichte:
al fiacco conviene trovar tutto pronto fuori di sé
il coraggioso invece libero preferisce lo sforzo.
È una “scelta di fondo”, ma comunque Fichte tenta, in tutti i modi di dimostrare che solo
l’idealismo spiega il mondo e che in ultima istanza il dogmatismo non spiega né lo Spirito
né la Natura.
Tuttavia questa dottrina genera un problema non certo irrilevante nell’economia del
sistema :
perché il non-io appare alla coscienza come qualcosa di sussistente per sé, anche se è
prodotto dall’io?
Come si spiega che l’io è causa di una realtà di cui non ha una conoscenza esplicita?
Se viene eliminata la consistenza autonoma del non-io, questo non rischia di trasformarsi
solo in un sogno?
LA DOTTRINA MORALE
Agire significa imporre al non – io la legge dell’Io, ossia foggiare noi stessi e il mondo alla
luce di liberi progetti razionali. Il carattere morale dell’agire consiste nel fatto che esso
assume la forma del “dovere”, ovvero di un imperativo volto a far trionfare lo spirito sulla
materia, sia mediante la sottomissione dei nostri impulsi alla ragione, sia tramite la
plasmazione della realtà esterna secondo il nostro volere.
Tutto ciò fornisce la spiegazione definitiva del perché l’Io abbia bisogno del non Io.
Spiegazione che possiamo globalmente sintetizzare dicendo che:
Per realizzare se stesso, l’Io, che è costituzionalmente libertà, deve agire ed agire
moralmente. Ma, come Kant aveva insegnato, non c’è attività morale la dove non c’è
sforzo, e non c’è sforzo la dove non c’è un ostacolo da vincere.
Tale ostacolo è la materia, l’impulso sensibile, il non . io. La posizione del non – io è quindi
la condizione indispensabile affinché l’Io si realizzi come attività morale.
Il dovere morale può essere realizzato dall’io finito solo insieme agli altri io finiti, poiché la
sollecitazione al dovere può venire solo da esseri al di fuori di sé a cui riconosco lo stesso
scopo della mia esistenza: la libertà. Così ogni io finito è costretto a porre dei limiti alla sua
libertà e ad agire in modo che l’umanità risulti sempre più libera.
Per realizzare questo scopo si richiede una mobilitazione di coloro che ne possiedono
consapevolezza: i dotti. Gli intellettuali non devono essere individui isolati, ma devono
essere persone pubbliche con responsabilità sociali: devono condurre gli uomini alla
coscienza dei loro bisogni e istruirli sui mezzi adatti per soddisfarli.
Il dotto deve essere l’uomo moralmente migliore del suo tempo . Il fine è il
perfezionamento morale di tutto l’uomo.
Il pensiero politico di Ficthe si svolge attraverso fasi evolutive diverse, sulle quali esercitano
il loro influsso le vicende storiche contemporanee.
Secondo l’intellettuale, il fine ultimo della vita comunitaria è la formazione di una società
perfetta, intesa come insieme di esseri liberi e ragionevoli. Lo Stato, a sua volta, è solo un
mezzo per la sua realizzazione, finalizzato al proprio annientamento in quanto “il
fine di ogni governo è rendere superfluo il governo”.
Lo Stato è anche un garante del diritto che, a differenza della moralità basata
anche sulla buona volontà, vale anche senza la buona volontà. Esso riguarda le azioni ed
implica una costrizione esterna e non interna. La sfera della libertà dell’io è dunque limitata
da quella del diritto (l’io è individuo).
L’individuo mantiene comunque tre diritti, fondamentali per garantire la sua possibilità di
agire nel mondo:
libertà
proprietà
conservazione
…… che soltanto lo Stato può assicurare, un solo individuo, infatti, non sarebbe sufficiente
.Lo Stato, dunque, non elimina il diritto naturale ma lo garantisce.
Ficthe sostiene, inoltre, che lo Stato non deve solo tutelare i diritti originari, ma deve
mantenere il benessere degli individui che lo compongono , affermando che nello Stato tutti
devono essere ugualmente subordinati al tutto sociale e parteciparvi con giustizia.
Ficthe si discosta dallo schema liberale per passare ad una forma di statalismo socialistico
(per la regolamentazione statale della vita pubblica) e autarchico (perché autosufficiente sul
piano economico).
Lo Stato ha, dunque, anche il compito di sorvegliare la produzione e distribuzione dei beni,
innanzitutto dividendo le classi e poi fissando un certo numero di appartenenti ad ogni
classe per distribuire meglio i beni.
- i diffusori della ricchezza materiale e spirituale, gli amministratori della vita socio-
politica, i difensori della ricchezza.
Ogni Stato, inoltre, secondo Ficthe deve pensare per sé, isolandosi dagli altri stati,
chiudendo il commercio al proprio interno. Questo per evitare gli scontri tra gli stati.
Per rendere effettive le leggi, lo Stato deve essere investito di alcuni poteri: potere di
polizia (impedisce la violazione del diritto), potere giudiziario (giudica se c’è stata una
violazione), potere penale (punisce la violazione).
L’insieme di questi tre poteri costituisce il governo o potere esecutivo. Il potere esecutivo
deve essere controllato da un eforato.
La filosofia di Ficthe si evolve in senso nazionalistico concretizzandosi nel “ Discorso
alla nazione tedesca”, uno dei documenti intellettuali più rilevanti della storia della
Germania moderna.
Il tema fondamentale dei discorsi è l’educazione. Ficthe ritiene necessaria una innovazione
pedagogica, che si estenda alla maggioranza del popolo e non solo ad una élite.
Tuttavia ben presto i Discorsi passano dal piano pedagogico a quello nazionalistico, in
quanto si afferma che solo il popolo tedesco risulta adatto a promuovere la “nuova
educazione”, in virtù della lingua tedesca. I tedeschi sono, infatti, gli unici ad aver
mantenuto la propria lingua e ad averla posta come espressione concreta della cultura del
popolo, mai contaminato da altre stirpi. I tedeschi sono la razza pura, il popolo per
eccellenza, il solo ormai in grado di trovare una perfetta corrispondenza tra pensiero e
azione, il solo capace di subordinare gli interessi individuali a quelli generali . Per questo i
tedeschi sono l' unico popolo nel vero senso della parola, inteso come unità sincronica degli
individui nella società nazionale e come unità diacronica delle generazioni nello sviluppo
storico. Pur essendo divisi in una miriade di Stati, i tedeschi sono una “ sola nazione”
culturalmente ed idealmente. Solamente essi, per quanto di fatto” in catene”, hanno il senso
della libertà dal momento che sono capaci di avere fede nell'illimitato, nell'infinito, nella
vita universale che é immagine di Dio.
La seconda fase del pensiero fichtiano consiste nel riconoscere l’Assoluto non più nell’Io
puro ma in Dio, eterno, immutabile e puro da ogni molteplicità e mutamento.
Tutto parte della polemica sull’ateismo, visto che Fichte riteneva che non c’era bisogno
della religione quando si comprende e si vive una tensione etica di libertà.
Fichte viene messo in difficoltà dalla polemica sull’ateismo e dall’ascesa di Schelling, così
rivede la sua posizione sull’Io che pone l’Io, trasformando il suo idealismo in senso
metafisico e religioso. L’Io puro non si identifica più con l’autocoscienza ma con l’assoluto
trascendente, Dio.
L’assoluto in sé è inaccessibile, la filosofia si muove dal sapere assoluto.
Nell’Introduzione alla Vita Beata si comprendo i legami con il Vangelo di Giovanni, perché
Fichte parla del Logos, il Sapere come espressione diretta di Dio e mediatore tra Dio ed il
mondo. Non solo il mondo va considerato come semplice fenomeno, ma anche il sapere è
fenomeno e la vocazione del filosofo è il compimento dell’azione morale e l’elevazione che
parte dal distacco dal mondo sensibile per giungere all’unione con Dio.
Le epoche sono degli orizzonti della conoscenza e nel confronto dialettico tra coscienza e
autocoscienza si acquisisce sempre maggiore conoscenza.
SCHELLING
Fino al 1804 ha scritto moltissimo, poi non ha fatto quasi più nulla. L’opera principale e
sistematica è Sistema dell’idealismo trascendentale del 1800. Per quel che riguarda l’ultima
fase, positiva, è tutto postumo.
Il principio che aveva assicurato il successo della filosofia di Fichte è quello dell’infinito :
infinita attività che spiega ad un tempo l’Io e il non –Io, lo spirito e la natura.
Questo tipo di filosofia ovviamente ebbe subito un grande entusiasmo poiché al contrario la
filosofia di Kant è una filosofia del finito.
Schelling vuole unire le due infinità con a capo un Assoluto che non sia né il soggetto né
l’oggetto, perché deve essere il fondamento di entrambi.
… Tuttavia con questa riflessione egli ben presto capisce che la sola attività del soggetto
(l’Io di Ficthe) non può creare il mondo Naturale e che un principio puramente oggettivo (la
sostanza di Spinoza) non potrebbe spiegare l’origine dell’intelligenza e dell’Io.
Criticando entrambi, dichiara che il principio supremo deve essere un Assoluto che sia
contemporaneamente soggetto e oggetto, ragione e natura, cioè che sia l’unità , l’identità o
l’indifferenza di entrambi.
Inoltre, mentre Ficthe si rivolgeva alla Natura solo come teatro dell’azione morale ,
Schelling la considera vivente, razionale, con un valore grandissimo in sé
stessa.
Il riconoscimento del valore autonomo della Natura e la tesi dell’Assoluto unione di Natura
e spirito conducono Schelling ad ammettere due possibili direzioni della ricerca filosofica :
la filosofia della Natura, che mostra come lo spirito si risolva nella Natura;
la filosofia trascendentale, chemostra come lo spirito si risolva nella Natura.
In questo modo dunque un’indagine diretta alla Natura arriva allo spirito e viceversa.
Infatti, argomenta Schelling, dal punto di vista della sua terza via fra meccanicismo e
finalismo tradizionale, sebbene in natura esista una connessione preordinata fra parte e tutto,
mezzo e fine, tale connessione non è prima conosciuta da una mente e poi realizzata nelle
cose, come accade nel caso delle produzioni artificiali o del Dio-Architetto.
Ora, parlare in termini di "organizzazione" e di "scopo" significa ammettere che la natura
obbedisce ad un "concetto", ovvero ad una "programmazione intelligente".
Da ciò l’idea di uno "Spirito" o di una entità spirituale inconscia immanente nella Natura
a titolo di "forza" organizzatrice e vivificatrice dei fenomeni o forza che Schelling,
rifacendosi agli antichi, denomina anche con il termine di "Anima del mondo", precisando
che la natura costituisce un Tutto vivente, ovvero un immenso organismo in cui ogni cosa,
compresa la sfera inorganica, risulta dotata di vita.
Essendo spirito, sia pure inconscio, la Natura presenta gli stessi caratteri di fondo che Fichte
aveva attribuito all’Io. Essa è infatti un’attività spontanea e creatrice, che esplica se stessa
in una serie infinita di creature. E come l’Io fichtiano non poteva realizzare se stesso se non
a patto di dualizzarsi in soggetto ed oggetto, così la Natura schellinghiana non può fare a
meno di polarizzarsi in due principi di base: l’attrazione e la repulsione.
Se la lotta fra le due forze opposte si considera nei rispetti del prodotto, sono possibili tre
casi:
che le forze siano in equilibrio e si hanno allora i corpi non viventi;
che l’equilibrio venga rotto e sia ristabilito, e si ha allora il fenomeno chimico
che l’equilibrio non venga ristabilito e che la lotta delle forze sia permanente, e si ha
allora la vita.
Secondo Schelling, le tre manifestazioni universali della Natura, nelle quali si concretizza la
polarità attrazione-repulsione, sono
il magnetismo, esprime la coesione grazie alla quale le varie parti dell’universo
gravitano le une verso le altre.
l’elettricità esprime quella polarità dialettica che fa del mondo la sede di
un’opposizione di forze di segno contrari.
il chimismoesprime quella incessante metamorfosi dei corpi che fa dell’universo una
grande fucina in cui si fabbricano per sintesi le più svariate realtà.
A queste tre forze corrispondono, nel mondo organico, la sensibilità, l’irritabilità (che è la
proprietà di reagire agli stimoli del mondo esterno) e la riproduzione.
Con l’intento di ricostruire unitariamente la storia della natura, Schelling articola la storia
dell’universo in tre diverse "potenze" o livelli di sviluppo, sottolineando come in ognuna
di esse operino le tre sopraccitate forze del magnetismo, dell’elettricità e del chimismo.
1.
La prima potenza è rappresentata dal mondo inorganico;
2. la seconda dalla luce, in cui la Natura si fa visibile a se stessa,
3. la terza dal mondo organico, nel quale, con la sensibilità, abbiamo il preannuncio
aurorale dell’autocoscienza.
L’IDEALISMO TRASCENDENTALE
Nel 1800 Schelling scrive il “Sistema dell’idealismo trascendentale”. In tale opera egli si
propone di delineare quella filosofia dello spirito che, nei piani del sistema, avrebbe dovuto
costituire la controparte della filosofia della natura.
Tracciando una sorta di storia filosofica dell’Io, volta a mostrare come il soggetto giunga
progressivamente a prendere coscienza in sé come attività produttrice e come intelligenza
che determina se medesima, Schelling distingue 3 epoche o fasi di sviluppo dell’IO:
La filosofia della storia di Schelling parte dal presupposto che essendo unico il principio
che agisce sia nella natura, sia nella storia, anche in quest’ultima debba ritrovarsi quella
connessione di attività consapevole e inconsapevole che si è rintracciata nella natura.
Inoltre il vero poeta della storia, l’Assoluto o Dio, non è indipendente dal suo dramma :
attraverso la libera azione degli uomini egli stesso si attua e si rivela, sicché gli uomini sono
collaboratori di tutta l’opera e inventori della parte speciale che recitano.
In particolare, la rivelazione storica dell’Assoluto avviene in 3 periodi:
Il primo periodo è quello in cui ciò che è dominante, ancora come destino, cioè
come forza totalmente cieca, distrugge freddamente e inconsciamente anche le cose
più grandi e magnifiche; a questo periodo della storia, che possiamo chiamare il
periodo tragico, appartiene il tramonto dello splendore e delle meraviglie del
mondo antico, la caduta di quei grandi imperi dei quali ci è rimasto a stento il
ricordo, e la cui grandezza possiamo argomentare solo dalle loro rovine, il tramonto
dell’umanità più nobile che sia mai fiorita, e il cui ritorno sulla terra è solo un eterno
desiderio.
Il secondo periodo della storia è quello in cui ciò che nel primo appariva come
destino, cioè come forza del tutto cieca, si rivela come natura, e l’oscura legge che in
quello dominava appare mutata almeno in una manifesta legge naturale, che
costringe la libertà e l’indomato arbitrio a servire ad un piano della natura, e così a
poco a poco introduce nella storia almeno una legalità meccanica. Questo periodo
sembra cominciare dall’espansione della grande repubblica romana, a partire dalla
quale il più sfrenato arbitrio, che si manifesta nell’universale brama di conquista e di
assoggettamento, legando per la prima volta in generale i popoli fra di loro, e
portando in mutuo contatto quanto di costumi e di leggi, di arti e di scienze s’era sino
allora conservato solo separatamente fra i singoli popoli, inconsciamente e persino
contro la sua volontà fu costretto a servire ad un piano della natura, che nella sua
compiuta evoluzione deve produrre la lega generale dei popoli e lo stato universale.
Tutti gli avvenimenti che cadono in questo periodo sono dunque anche da
considerarsi come semplici risultati naturali, allo stesso modo che la caduta
dell’impero romano non ha né un lato tragico né un lato morale, ma fu necessaria
secondo leggi naturali, e fu propriamente soltanto un tributo pagato alla natura.
Il terzo periodo della storia sarà quello in cui ciò che nei periodi precedenti
appariva come destino e come natura si svilupperà e si rivelerà come provvidenza, sì
che anche quanto sembrava mera opera del destino o della natura era già il principio
di una provvidenza rivelantesi in maniera incompleta.
Quando comincerà questo periodo non sappiamo dirlo. Ma se questo periodo sarà,
allora sarà anche Dio.
Nella filosofia teoretica e pratica Spirito e Natura, Conscio e Incoscio si configurano come
due poli distinti, separati da una divaricazione originaria, che è quella tra soggetto ed
oggetto. La storia, a sua volta, non fa che rimandare al futuro l’armonia fra i termini in
gioco.
Secondo Schelling l’unica maniera per risolvere questo nodo è di rintracciare un’attività
nella quale si armonizzano completamente spirito e natura, ovvero un’attività nella quale si
manifesta immediatamente ciò che nella storia si va attuando progressivamente.
L’attività che compie tale miracolo è : L’ARTE
Inserendosi nel quadro dell’estetismo romantico Schelling ritiene che : L’arte si configuri
come l’organo di rivelazione dell’Assoluto nei suoi caratteri di infinità, consapevolezza e
inconsapevolezza al tempo stesso.
Infatti nella creazione estetica l’artista risulta in preda ad una forza inconsapevole, che lo
ispira e lo entusiasma, facendo si che la sua opera si presenti come sintesi di un momento
inconscio o spontaneo ( L’ispirazione) e di un momento conscio e meditato ( l’ispirazione
cosciente).
Inoltre il “genio” concretizza la sua vocazione formativa in forme finite le quali essendo
rivelazione dell’infinitezza dell’ispirazione hanno mille significati che il poeta stesso non
riesce a penetrare pienamente, e che sono suscettibili di una lettura senza fine.
L’intero fenomeno dell’arte rappresenta quindi la migliore chiave per intendere la struttura
dell’Assoluto come sintesi differenziata di natura e spirito.
L’arte è per il filosofo quanto vi ha più in alto, poiché essa gli apre quasi il santuario, dove
in eterna ed originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia
è separato
Con la sua dottrina di Schelling l’arte viene ad assumere per la prima volta nella storia della
filosofia un significato universale e totale.
Kant aveva visto nell’arte un atteggiamento possibile dell’uomo di fronte alla natura.
Schiller la forma originaria e suprema dell’uomo
Schelling vede in essa la vita stessa dell’Assoluto e la radice di ogni realtà. L’esaltazione
romantica del valore dell’arte trova quindi, in Schelling, la sua più significativa espressione
filosofica.
Per questo motivo l’idealismo di Schelling oltre che oggettivo per l’importanza attribuita
alla natura, è anche denominato estetico.
Il periodo dell'attività schellinghiana che va dal 1801 al 1805 é solitamente indicato come
'filosofia dell'identità' .
In realtà, non si tratta di una fase completamente nuova nello sviluppo del suo pensiero,
quanto piuttosto l'esplicitazione di un punto di vista implicitamente già insito nel suo
pensiero precedente. Il tema fondamentale della filosofia di Schelling era sempre stato
quello dell'unità tra natura e spirito.
Fino al 1801 però a questa unità egli tentava di giungere partendo dai due termini opposti,
che dovevano essere congiunti: così gli scritti tra il 1797 e il 1800 (relativi alla filosofia
della natura) partivano dal mondo naturale per reperire in esso la struttura dello spirito,
mentre il Sistema dell'idealismo trascendentale del 1800 partiva dal soggetto per giungere
all'oggetto. Con la filosofia dell'identità, il cui 'manifesto' é l' Esposizione del mio sistema
filosofico del 1801, Schelling intende invece ' partire direttamente dall'unità
assoluta per derivare da essa l'opposizione '.
La filosofia della natura e l'idealismo trascendentale appaiono come due prospettive
unilaterali, che vanno riconsiderate dal punto di vista della totalità e restituite alla loro giusta
collocazione all'interno del sistema. Il fondamento dell'intera realtà é ora ricercato nell'
Assoluto , concepito come identità indifferenziata (o anche 'uni-totalità') di soggetto e
oggetto, di spirito e natura, di conscio e inconscio . L'Assoluto non é nessuno di questi
termini opposti, ma é la radice comune che precede la loro successiva separazione. La
scissione degli opposti e la conseguente distinzione dell'uni-totalità in una pluralità di
manifestazioni specifiche, non appartiene al piano della realtà e del sapere assoluti, ma
solamente a quello dell' apparenza. E' questa concezione dell' Assoluto come indifferenza
(cioè assenza di differenziazione) che Hegel criticherà nella Prefazione alla Fenomenologia
dello spirito del 1807 con la celebre immagine della ' notte in cui tutte le vacche sono nere
' : secondo l'ex-compagno di Tubinga il concetto schellinghiano di unità assoluta,
eliminando ogni differenziazione sostanziale tra gli opposti, esclude la possibilità di
interpretazione dialettica e impedisce di caratterizzare la specificità delle diverse realtà
all'interno del sistema. Anche se la filosofia dell'identità non presenta soluzioni di continuità
rispetto al precedente pensiero di Schelling, i problemi che essa pone sono diversi. La
difficoltà fondamentale non é più quella di rinvenire lo spirito nella natura o, viceversa,
l'oggetto nel soggetto. Essa consiste, piuttosto, nello spiegare come la 'differenza' possa
nascere dall' 'indifferenza'. Se la realtà é essenzialmente uni-totalità, priva di differenziazioni
interne, come si può arrivare alla distinzione di una molteplicità di esseri? Come si passa
dall'Assoluto all'opposizione tra soggetto e oggetto, spirito e natura, conscio e inconscio?
Non certo tramite un passaggio graduale, di tipo emanativo, dal momento che Schelling
insiste sul fatto che tra l'Assoluto e il finito non c'é forma alcuna di omogeneità: se quello é
l'essere, questo é non-essere, irrealtà, nulla. Per rispondere a questa domanda, nello scritto
Filosofia e religione del 1804 Schelling introduce il concetto di 'salto' o anche, in termini
più religiosi, di 'caduta'. Ma questa nozione segna lo spostamento del suo pensiero
dall'ambito dell'idealismo speculativo a quello di una filosofia a sfondo religioso, in cui
hanno sempre più peso suggestioni mistiche e irrazionalistiche .
IL FINITO COME CADUTA E LA TEORIA DEL “DIO CHE DIVIENE”
Gli scritti principali della nuova fase del pensiero schellinghiano, quella cosiddetta
“teosofica” o della “filosofia della libertà”, sono “ Filosofia e religione” e “Le
Ricerche filosofiche sull’esistenza della libertà umana”.
La prima opera, che riprende il nucleo di questioni sollevate da Bruno, afferma decisamente
che dall’infinito al finito e dall’Assoluto al relativo non vi può essere passaggio, ma solo
rottura,salto e caduta.
Ma come si spiega la caduta?
Schelling afferma che essa deriva dalla libertà umana, che operando il male, provoca il
distacco del finito dall’Assoluto, attraverso un cosmico processo che contempla una caduta
e una redenzione.
Tuttavia in questo modo Scheling non fa altro che presupporre già l’esistenza del finito,
della libertà e del male, ossia di ciò che vorrebbe spiegare.
A questo punto in Schelling sorgono tre importanti interrogativi di fondo:
DA DOVE DERIVANO IL:
Il primo, pensando Dio come un Atto puro, e quindi come una perfezione statica, non
riesce a spiegare perché l’Assoluto, essendo originariamente perfetto, possa dar vita
all’imperfetto, ossia perché dall’unità e dalla pace divina sgorghi un mondo
molteplice e in divenire.
L’emanazionismo neoplatonico, a sua volta, non fa che ripetere gli stessi
inconvenienti del creazionismo.
Anche il panteismo classico non riesce a spiegare né il salto dall’infinito al finito, né
l’esistenza del male, che esso è costretto a ridurre ad apparenza.
Di conseguenza Schelling ritiene di dover imboccare una sorta di terza via al di là del
teismo e del panteismo, che, pur non dissolvendo Dio nel mondo sia in grado di mostrare
come Dio non sarebbe tale senza il mondo.
Nell’opera “Ricerche …” egli elabora la cosiddetta “Teoria del Dio che diviene”.
Secondo tale concezione, Dio non è una perfezione statica e già tutta realizzata ( perché in
tal caso non si riuscirebbe a spiegare l’esistenza del finito e del male), ma una realtà in
divenire che ospita in se medesima una serie dialettica di contrari che danno luogo ad un
processo cosmico in cui si ha un progressivo trionfo del positivo sul negativo.
Dunque come in noi esiste da un lato un volere inconscio e irrazionale, e dall’altro un
volere permeato di ragione, così, in Dio, vi è un fondo abissale inconsapevole, un oscura
brama o desiderio d’essere dal’altro una ragione consapevole.
LA FILOSOFIA POSITIVA
Egli intende per "filosofia negativa" quella fino a questo momento professata, ossia la
speculazione intorno al "che cosa universale", vale a dire intorno all'essenza delle cose.
Per "filosofia positiva" egli intende invece la filosofia che concerne la esistenza effettiva
delle cose. La prima concerne la possibilità logica delle cose, la seconda la loro esistenza
reale.
Con questa distinzione egli non intende negare la prima forma di filosofia, ma far valere la
necessità di una integrazione sostanziale della medesima.
La filosofia negativa è costruita per intero sulla ragione, quella positiva sulla
religione e sulla rivelazione, oltre che sulla ragione.
È evidente che la rivelazione per eccellenza è quella su cui è fondata la religione
cristiana. Schelling, però, estende il concetto di rivelazione a tutte le religioni
storiche, comprese quelle politeistiche. Anzi egli intende in generale l'arco
storico delle religioni come una sorta di "rivelazione progressiva di Dio".
Si comprende, quindi, come il nostro filosofo abbia fatto oggetto di attente
analisi sia la mitologia pagana, sia la Bibbia.
È importante, ancora, rilevare che il Dio di cui questa filosofia positiva si occupa è ormai il
Dio-persona che crea il mondo, si rivela e redime l'uomo dalla caduta: è, insomma, il Dio
considerato in quella concretezza religiosa che le filosofie moderne non hanno quasi mai
considerato quale oggetto specifico della propria riflessione. E, infine, è da notare come, in
questa fase, Schelling, mettendo in rilievo il motivo dell'esistenza non deducibile
dall'essenza, anticipi motivi "esistenzialistici" che Kierkegaard coglierà immediatamente e
porterà in primo piano.
HEGEL
1. Finito e infinito
Con la prima tesi Hegel intende affermare che la realtà non è un insieme di sostanze
autonome, ma un organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte o manifestazione.
Tale organismo coincide con l’Assoluto e con l’Infinito, mentre i vari enti del mondo,
essendo manifestazioni di lui, coincidono con l’infinito.
Ciò che noi chiamiamo finito è solo un’espressione parziale dell’infinito, di conseguenza il
finito come tale non esiste.
Come la parte può esistere in connessione con il tutto così il finito esiste unicamente
nell’infinito e in virtù dell’infinito.
Il finito in quanto è reale non è tale ma è lo stesso infinito.
L’hegelismo è una teoria che vede nel mondo (il finito) la realizzazione di Dio (l’infinito)
2. Ragione e realtà
Il soggetto spirituale infinito che sta alla base della realtà è denominato da Hegel con il
termine d’Idea o Ragione, o meglio, di ragione o realtà.
Con “ciò che è razionale è reale…”: Hegel intende affermare che la razionalità non è pura
identità, astrazione, schema ma la forma stessa di ciò che esiste poiché la ragione
governa il mondo e lo costituisce.
“… e ciò che è reale e razionale”: Hegel intende affermare che la realtà non è una
materia caotica ma il dispiegarsi di una struttura razionale (idea o ragione) che si
manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo consapevole nell’uomo.
Da qualsiasi punto di vista guardiamo il mondo, secondo Hegel troviamo una rete di
connessioni necessarie e di passaggi obbligati che costituiscono l’articolazione vivente
dell’unica Idea (o Ragione).
Secondo uno schema della filosofia romantica, Hegel ritiene che la realtà costituisca una
totalità processuale necessaria, formata da una serie ascendente di momenti o gradi che
rappresentano il risultato di quelli precedenti ed il presupposto di quelli seguenti.
Idea: Hegel con questo termine intende l’Assoluto concepito come Ragione, in altre parole
come unità dialettica di pensiero ed essere, ragione e realtà, infinito e finito.
Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi attraverso i 3 momenti dell’:
Idea in sé, (tesi)
dell’Idea fuori di se (antitesi)
dell’idea che ritorna in sé (sintesi)
L’idea, “in sé e per sé”, secondo un noto paragone teologico di Hegel, è assimilabile a Dio,
in termini meno equivocanti all’ossatura “logico - razionale” della realtà.
L’idea ”fuori di se” è la natura, cioè l’alienazione dell’idea nella realtà “spazio -
temporale” del mondo.
L’idea “che ritorna in sé” è lo spirito, cioè l’idea che dopo essersi fatta natura torna
presso di se nell’uomo.
LA DIALETTICA
Hegel e Kant.
Hegel e i Romantici.
Il dissenso di Hegel nei riguardi dei Romantici verte principalmente su due punti:
Hegel e Fichte.
Lo critica in quanto questo concepisce l’Assoluto in modo ”a-dialettico”, vale a dire come
un’unità statica da cui deriva in modo inspiegabile la molteplicità e la differenziazione delle
cose.
“La notte dove tutte le pecore sono nere”, è il paragone in cui Hegel vuole indicare che
l’Assoluto di Schelling è un’unità astratta che è incapace di dar ragione della molteplicità
delle cose.
La Coscienza
L’autocoscienza
Con l’autocoscienza l’attenzione si sposta dall’oggetto al soggetto nei suoi rapporti con gli
altri, ossia tra autocoscienze. Si ha una divisione in 3 parti:
La Ragione
LA LOGICA
Per Kant le categorie sono funzioni pure a Per Hegel sono al tempo stesso,
priori dell’intelletto (Funzioni mentali) che determinazioni del pensiero e della
valgono soltanto in riferimento al fenomeno realtà in sé.
Per meglio evidenziare il suo modo di intendere il rapporto pensiero – essere, concetto ‐
realtàHegel nell’Enciclopedia fa una rassegna delle principali posizioni del pensiero logico
rispetto all’oggettività:
. Procedere ingenuo;
2. Empirismo;
La prima posizione quella del procedere ingenuo si ha quando si crede che da una
parte vi sia il pensiero e dall’altra le cose e che il pensiero, mediante la riflessione
possa conoscere “ciò che gli oggetti veramente sono”.
Questa è la posizione della “vecchia metafisica dogmatica”, la quale considerava le
“determinazioni del pensiero come le determinazioni fondamentali delle cose”
La terza posizione è quella della Filosofia della fede, a cui Hegel attribuisce il
merito di porre l’esigenza di saltare (contro ogni scetticismo) dal pensiero all’essere,
ma il demerito di ritenere che ciò sia possibile solo con il sentimento o la fede.
In alternativa Hegel fa valere l’esigenza di un pensiero che non sia astrattamente
separato dalle cose, ma si identifichi con l’essenza stesse del reale e sia oggetto di un
sapere razionale e speculativo.
Giunti fin qui è evidente che la logica (lo studio del pensiero) e la metafisica (lo studio
dell’essere) per Hegel sono la stessa cosa.
Infatti nella Logica confluiscono non solo gran parte della tradizione logica greca e
moderna, ma anche la tradizione metafisico - teologica dell’Occidente.
L’hegelismo diventa quindi un antikantismo in quanto: “ un popolo senza metafisica è
come un tempio senza altare”.
Essa procederà mostrando come dai concetti piùpoveri ed astratti ( essere, nulla e divenire)
si giunga, sotto l’assillo di una ragione dialetticaai concetti più ricchi e concreti( qualità,
quantità e misura) finoaquelconcettoditutti i concetti o categoria di tutte le categorie
che è l’idea
Essere Determinato
Qualità
ESSERE
Essere Per sé
Misura
(Tesi)
Il punto di partenza della logica è il concetto più vuoto ed astratto, quello dell’essere,
dell’essere assolutamente indeterminato, privo di ogni possibile contenuto. In questa
astrazione l’essere è identico al nulla; il concetto di questa identità è il divenire, che gli
antichi già definivano come passaggio dal nulla all’essere. L’essere e il nulla sono
l’opposto dell’essere determinato. (Antitesi)
L’essere determinato viene richiamato e posto in luce dall’opposizione essere – nulla –
divenire .
L’essere determinato è tale in virtù della qualità (T) che lo specifica e lo rende finito, della
quantità (A) e in fine della misura (S), la quale determina la quantità della qualità. Tutte
queste categorie considerano l’essere nel suo isolamento, cioè fuori da ogni relazione.
La logica dell’essenza
(Antitesi triade generale)
ESSENZA
(Il pensiero nella sua fenomeno
mediazione)
realtà in atto
meccanismo
CONCETTOOggetto chimismo
(il concetto torna a sé come
Totalità)teleologia
Il conoscere
L’idea La vita
L’idea assoluta
Così determinato e arricchito dalla riflessione su sé, l’essere diventa concetto: che non è
più il concetto dell’intelletto, diviso dalla realtà e opposto ad essa, ma il concetto della
ragione, cioè “lo spirito vivente della realtà”.
L’ultima categoria della logica è l’idea.“L’idea può essere concepita come ragione(questo
è il proprio significato filosofico di ragione); inoltre come il soggetto - oggetto, come
l’unità dell’ideale e del reale, del finito e dell’infinito, dell’anima e del corpo.”(Panlogismo)
L’idea è così la totalità della realtà in tutta la ricchezza delle sue determinazioni e
relazioni interiori.
Nella sua forma immediata l’idea è la vita, cioè un’anima realizzata in un corpo;
Nella sua forma mediata è il conoscere nel quale il soggetto e l’oggetto appaiono
distinti (perché il conoscere si riferisce sempre a questa realtà diversa da sé) e
tuttavia uniti(perché esso si riferisce sempre a questa realtà).
Al di là della vita e del conoscere e come loro unità, c’è l’idea assoluta, cioè l’idea
che si riconosce nel sistema totale della logicità.
L’idea assoluta è l’identità dell’idea teoretica e dell’idea pratica ed è vita che ha superato
ogni immediatezza e ogni finitudine.“Tutto il resto è errore, torbidezza, opinione,
sforzo, arbitrio e caducità.”L’idea nella sua forma assoluta non è altro che la logica stessa,
nella totalità e nell’unità di tutte le sue determinazioni.
LA FILOSOFIA DELLA NATURA
La filosofia della Natura è quella considerazione teorica e cioè pensante della natura che ha
come oggetto di studio l’idea nella sua estrinsecazione spazio temporale.
La meccanica considera l’esteriorità che è l’essenza propria della natura, o nella sua
astrazione (spazio e tempo) o nel suo isolamento ( materia e movimento) o nella sua
libertà di movimento( meccanica assoluta)
La seconda grande divisione della filosofia della Natura, la fisica, comprende la
fisica dell’individualità universale cioè degli elementi della materia, la fisica
dell’individualità particolare, cioè delle proprietà fondamentali della materia e la
fisica dell’individualità totale, cioè delle proprietà magnetiche, elettriche e chimiche
della materia.
La terza divisione, fisica organica, comprende la naturageologica, la natura vegetale
e l’organismo vegetale.
Hegel definisce la “filosofia dello spirito” come la conoscenza più alta e difficile, questa è
lo studio dell’idea, che dopo essersi estraniata da se sparisce come natura (cioè come
esteriorità), per farsi soggettività e libertà (auto - creazione ed auto-produzione).
Lo sviluppo dello spirito avviene attraverso tre momenti:
Lo Spirito Soggettivo,
Lo Spirito Oggettivo,
Lo Spirito Assoluto.
Anche lo spirito procede per gradi; nello spirito ciascun grado è compreso ed irrisolto nel
grado superiore, che a sua volta è già presente nel grado inferiore.
(es. individuo non esiste accanto alla società ma è ricompreso nella società che a sua volta è
presente nell’individuo.)
Lo spirito soggettivo
Lo spirito oggettivo
Questa volontà si libera nella sfera dello spirito oggettivo, in cui lo Spirito si manifesta in
istituzioni sociali concrete, in altre parole in quell’insieme di determinazioni sovra-
individuali che Hegel raccoglie sotto il concetto di diritto in senso lato.
I momenti dello spirito oggettivo sono tre :
il diritto astratto,
la moralità,
l’eticità.
a) la famiglia:
b) la società civile:
b) lo Stato:
Lo Spirito Assoluto
Lo Spirito Assoluto è il momento in cui l’idea giunge alla piena coscienza della propria
infinità e della propria assolutezza.
L’arte rappresenta il primo gradino attraverso cui lo spirito acquista coscienza di sé
medesimo, in quanto tramite essa, l’uomo acquista consapevolezza di sé o di situazioni che
lo riguardano mediante forme sensibili.
Nell’arte lo spirito vive in modo immediato ed intuitivo quella fusione tra soggetto e
oggetto, spirito e natura che la filosofia idealistica teorizza concettualmente.
Hegel idealizza l’arte in tre momenti:
l’arte simbolica: tipica dei popoli orientali, caratterizzata dallo squilibrio fra
contenuto e forma, in altre parole dall’incapacità di esprimere un massaggio
spirituale secondo forme sensibili adeguate.
Quest’incapacità è il ricorso al simbolo.
l’arte classica: è un armonico equilibrio fra contenuto spirituale e forma
sensibile, fatto mediante la figura umana.
l’arte romantica :è nuovo squilibrio, poiché acquista la conoscenza che
qualsiasi forma sensibile è insufficiente ad esprimere la spiritualità interiore,
preferendo così svolgersi nella filosofia o fare dell’arte una parte della filosofia.
È una sovrabbondanza di messaggi spirituali.
La filosofia è l’ espressione più adeguata del sapere assoluto poiché in essa l’ assoluto viene
compreso a differenza della religione in cui vi sono i dogmi che non vengono compresi nella
filosofia
All’interno della filosofia della storia contenuta in Lineamenti di filosofia dei diritto, Hegel
afferma che apparentemente la storia è un insieme di fatti privi di razionalità; questo però
è solo per una coscienza finita; in verità la Storia è un corso ordinato e razionale guidato
dello Spirito che è la Ragione e che è stato interpretato dai Romantici come uno Spirito
divino-provvidenziale (si pensi alla Provvidenza di Manzoni).
La coscienza deve saper cogliere il fine e i mezzi della Storia: il fine della storia è che lo
Spirito giunga a capire la sua natura Assoluta che deve essere vissuta all’interno delle
istituzioni e dei popoli per giungere così alla massima libertà. Per fare ciò, lo Spirito si
serve degli eroi e delle loro passioni, i quali credendo di perseguire le proprie
ambizioni, in verità no sono altro che gli strumenti della Storia per attuare i propri fini. Lo
Spirito si serve anche della guerra, chiamata l’Astuzia della Ragione, in quanto essa
mantiene vivo il movimento dialettico della Storia: come “il movimento dei venti preserva il
mare dalla putredine” così la guerra tiene in continuo movimento i popoli.
SCHOPENHAUER (1788-1861)
Di Platone lo attrae la dottrina delle “idee”, intese come forme eterne sottratte alla
fragilità dolorosa del nostro mondo
Per Kant il fenomeno è la realtà, l’unica realtà accessibile alla mente umana; e
il noumeno è un concetto-limite che serve da pro-memoria critico per
ricordarci i limiti della conoscenza.
Sulle orme del criticismo, anche Schopenhauer ritiene che la nostra mente, o più
esattamente il nostro si-stema nervoso e cerebrale, risultino corredati di una serie di forme
a priori. Tuttavia, a differenza di Kant, Schopenhauer ammette solo tre forme a priori:
spazio, tempo e casualità. Quest’ultima è l’unica categoria, in quanto tutte le altre
sono riconducibili ad essa.
Poiché Schopenhauer paragona le forme a priori a dei vetri sfaccettati attraverso cui la
visione delle cose si deforma, egli considera che la vita è “sogno”, cioè una sorta di
“incantesimo”, che fa di essa qualcosa di simile agli stati onirici. Andando
alla ricerca di precedenti illustri di questa intuizione, Schopenhauer cita i filosofi Veda,
Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare, Calderon de la Barca. Ma al di là del sogno esiste
la realtà vera, sulla quale il filosofo che è nell’uomo, non può fare a meno di interrogarsi.
Infatti, sostiene Schopenhauer, l’uomo è un “animale metafisico”, che, a differenza
degli altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e ad interrogarsi
sull’essenza ultima della vita. Ciò avviene proporzionalmente alla sua intelligenza.
Ed è proprio questa esperienza di base che permette all’uomo di rompere il velo del
fenomeno e di afferrare la cosa in sé. Più che intelletto o conoscenza, noi siamo vita e
volontà di vivere, e il nostro stesso corpo non è che la manifestazione esteriore dell’insieme
delle nostre brame interiori. E l’intero mondo fenomenico non è altro che la maniera
attraverso cui la volontà si manifesta o si rende visibile a se stessa nella rappresentazione
spazio-temporale.
Fondandosi sul principio di analogia, Schopenhauer afferma che la volontà di vivere non è
soltanto la radice noumenica dell’uomo, ma anche l’essenza segreta di tutte le cose, ossia
la cosa in sé dell’universo, finalmente svelata.
Miliardi di essere (vegetali, animali, umani) non vivono che per vivere e continuare a
vivere. È questa, secondo Schopenhauer, l’unica crudele verità sul mondo, anche se gli
uomini hanno cercato di “mascherare” la sua terribile evidenza postulando un Dio cui
sarebbe finalizzata e in cui troverebbe un “senso” la loro vita. Ma Dio, nell’universo
doloroso di Schopenhauer, non può esistere e l’unico Assoluto è la Volontà stessa.
IL PESSIMISMO
E poiché nell’uomo la Volontà è più cosciente, egli risulta il più bisognoso e mancante degli
esseri, e destinato a non trovare mai un “appagamento” definitivo; tuttavia per un desiderio
che viene appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti. Anzi, la stessa soddisfazione
finale è solo apparente: il desiderio appagato da luogo a un desiderio nuovo. Nessun
oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole.
Ciò che gli uomini chiamano godimento (fisico) e gioia (psichica) è una cessazione del
dolore, ossia lo scarico da uno stato precedente di tensione . La stessa cosa non vale per il
dolore, che non può essere ridotto, poiché un individuo può sperimentare una catena di
dolori, senza che questi siano preceduti da altrettanti piaceri. Di conseguenza, mentre il
dolore è un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata del dolore,
che vive unicamente a spese di esso.
Accanto al dolore e al piacere, si trova la noia, la quale subentra quando viene meno il
desiderio o le preoccupazioni. Ciò che distingue i casi e le situazioni umane è solo il diverso
modo o le diverse forme in cui esso si manifesta.
Poiché la Volontà di vivere si manifesta in tutte le cose sotto forma di un vero e proprio
desiderio inappagato cosmico, il dolore non riguarda soltanto l’uomo, ma ogni
creatura.Tutto soffre. E se l’uomo soffre di più rispetto alle altre creature, è perché egli,
avendo maggiore consapevolezza, è destinato a sentire in modo più accentuato la spinta
della volontà, e a patire maggiormente l’insoddisfazione del desiderio e le offese dei mali.
In tal modo, Schopenhauer arriva ad una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di
tutta la storia del pensiero, ritenendo che il male non sia solo nel mondo, ma nel Principio
stesso da cui esso dipende.
Ili fatto che alla Natura interessi solo la sopravvivenza della specie trova una sua
manifestazione emblematica nell’amore, fenomeno che Schopenhauer ritiene basilare per
l’individuo, e di cui la filosofia deve occuparsi. Infatti l’amore è uno dei più forti stimoli
dell’esistenza. Il fine dell’amore, o lo scopo per cui esso è voluto dalla Natura, è solo
l’accoppiamento. Ma se dietro il fascino di un bel volto c’è, in verità, un nascosto
desiderio sessuale, vuol dire che l’individuo è lo zimbello della Natura proprio là dove crede
di realizzare maggiormente il proprio godimento e la propria personalità. Manifestazione
dell’essenza biologica dell’amore è il caso-limite della mantide femmina, che divora il
maschio dopo l’unione sessuale, o la triste costatazione che la donna, dopo avere adempiuto
alla procreazione e all’allevamento dei figli, perde bellezza e attrattive. Ma se l’amore è uno
strumento per continuare la specie, non c’è amore senza sessualità.
Ed è per queste ragioni che l’amore viene inconsapevolmente avvertito come “peccato” e
“vergogna”.
Da quanto si è detto emerge che la vita è dolore. Si potrebbe pensare che il sistema di
Schopenhauer mette capo ad una “filosofia del suicidio universale”. Invece Schopenhauer
rifiuta e condanna il suicidio per due motivi di fondo:
1. il suicidio non è negazione della volontà, ma atto di forte affermazione della volontà
stessa
2. il suicidio sopprime l’individuo, ossia una manifestazione fenomenica della Volontà di
vivere, la-sciando intatta la cosa in sé
Di conseguenza, la vera risposta al dolore del mondo non consiste nell’eliminazione, tramite
il suicidio, di una o più vite, ma nella liberazione dalla stessa Volontà di vivere.
Dalla presa di coscienza del dolore e dal disinganno di fronte alle illusioni dell’esistere,
nascono le varie “tappe” della liberazione. Schopenhauer articola l’iter salvifico in tre
momenti essenziali: l’arte, la morale e l’ascesi.
KIERKEGAARD
L’esistenza è lo specifico modo di essere dell’uomo nel mondo. Quindi una prima
caratteristica del pensiero di Kierkegaard è cercare di ricondurre la comprensione dell’
intera esistenza dell’uomo alla categoria della possibilitàmettendo in luce l’aspetto
negativo e paralizzante della possibilità cometale.
L’esistenza umana si configura come un insieme di possibilitàche pongono l’uomo,
ognisingolo uomo, di fronte a una scelta.
Tutta l’esistenza umana si risolve nelloscegliere fra diversepossibilità, che rappresentano
le varie alternative verso cui l’uomo può dirigere la propria vita .Secondo Kierkegaard, il
configurarsi della vita come una serie di possibilità non costituisce peròuna ricchezza
dell’esperienza umana ma, al contrario, un’ evidente manifestazione della limitatezzadel suo
essere.L’uomo infatti, di fronte alla scelta, prova un senso di
angosciain quanto non può sapere come lecose sarebbero andate se avesse scelto la
possibilità che egli ha escluso. Egli sa che la possibilità dalui scelta può avere un esito
positivo, ma anche un carattere decisamente negativo; può, in altreparole, condurre alla
realizzazione di sé ma anche al proprio annientamento. D’altra parte, ilrisolvere
positivamente una scelta non implica la salvezza poiché, immediatamente dopo,
l’uomodovrà affrontarne un’altra. L’esito negativo ha un potere di condizionamento
nettamente
superiore rispetto all’esito positivo: implica infatti l’assoluta sconfitta, il fallimento e,
proprio per questo, pone il soggetto in una condizione paralizzante.
SECONDO KIERKEGAARD ESISTERE SIGNIFICA SCEGLIERE.
Infatti, la scelta non è una semplicemanifestazione della personalità, ma costituiscela
personalitàstessa, che sceglie vivendo o vivescegliendo. In altri termini,l’individuo non è
quel che è, ma ciò che sceglie di essere. Tant’è veroche persino la rinuncia alla scelta è una
scelta, sia pure un tipo di scelta per causa della quale l’uomo rinuncia a farsi valere come io.
L’esistenza quindi si configura come una continua scelta erivela la continua possibilità,
per l’uomo, dell’annientamento. Una seconda caratteristica del pensiero di
Kierkegaard è il suo sforzo di chiarire le possibilità fondamentaliche si offrono all’uomo,
gli stadi o i momenti della vita che costituiscono le alternativedell’esistenza, tra le quali
l’uomo generalmente è portato a scegliere.Una terza caratteristica del suo pensiero è il
tema della fede. Soltanto nel cristianesimo egli vedeun’ancora di salvezza: l’aiuto
soprannaturale della fede viene visto come un modo per ridurrenell’uomo l’angoscia e la
disperazione che costituiscono strutturalmente l’esistenza
In Hegel c’è dunque l’incapacità di cogliere l’infinita differenza qualitativa che separa il
finito dall’infinito e quindi l’uomo da Dio
L’ANGOSCIA
DISPERAZIONE E FEDE
Se l'angoscia è la condizione in cui l'uomo è posto dal possibile che si riferisce al mondo, la
disperazione è la condizione in cui l'uomo è posto dal possibile che si riferisce alla sua
stessa interiorità, all'io.
L'io non è rapporto, ma ritorno su di sé del rapporto. L'io può volere come non voler essere
se steso. Se vuole essere se stesso, poiché è finito e insufficiente a se stesso, non giungerà
mai al riposo. Se non vuole essere se stesso cercherà di rompere il proprio rapporto con sé,
che gli è costitutivo, urterà anche qui contro un'impossibilità fondamentale. Ecco la malattia
mortale, la disperazione di colui che vive la morte dell'io! Di colui che è murato vivo nella
sua situazione.
Ma in Dio tutto è possibile, e se la disperazione è peccato, la fede è l'eliminazione totale
della disperazione. L'uomo pur orientandosi verso di sé e volendo esser se stesso, non si
illude sull'autosufficienza dell'io, ma riconosce la sua dipendenza da Dio.
Ecco la fiducia in Dio che porta, però, oltre la ragione, nel paradosso, nello scandalo della
ragione, nell'impensabile: la fede è il capovolgimento paradossale
dell'esistenza.
La storia non è teofania , cioè, come pensava Hegel, una rivelazione o autorealizzazione
dell’Assoluto , il rapporto Dio-uomo non si realizza nella storia ma nell'attimo: l'uomo
non è nella verità (come voleva Socrate che quindi non era maestro ma solo maieuta).
L'uomo è nella non-verità, nel peccato e il maestro è il salvatore, colui che fa nascere
l'uomo nuovo capace di accogliere nell'istante la verità di Dio.
Ecco l'unica definizione di uomo: non-Dio, peccato. È la differenza assoluta.
L'istante è l'inserzione paradossale dell'eterno nel tempo, di Dio nella storia: la rivelazione
non può accadere che nell'istante.
Feuerbach afferma che non è Dio (l’astratto) ad avere creato l’uomo (il concreto),
ma l’uomo ad aver creato Dio. Infatti Dio è nient’altro che la proiezione illusoria di
qualità umane, in particolare di quelle “perfezioni” caratteristiche della nostra specie che
sono la ragione, la volontà e il cuore. In altri termini, il divino è nient’altro che l’umano in
generale. La religione costituisce “la prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo”. Tant’è
vero che essa “precede sempre la filosofia, nella storia dell’umanità così come nella storia
dei singoli individui. La religione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio
essere, l’ uomo oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò il progresso storico delle
religioni consiste nel considerare in un secondo tempo come soggettivo e umano ciò che le
prime religioni consideravano oggettivo e adoravano come dio”.
Rimane da vedere in concreto come nasca, nell’uomo, l’idea di Dio. A questo
proposito Feuerbach si è variamente espresso.
Talora egli tende a porre l’origine dell’idea di Dio nel fatto che l’uomo, a differenza
dell’animale, ha coscienza di se stesso non solo come individuo, ma anche come specie. Ora
come specie si sente infinito e onnipotente. Da ciò la figura di Dio, il quale è nient’altro che
una personificazione immaginaria delle qualità della specie.
Altre volte, Feuerbach, tende a scorgere l’origine dell’idea di Dio nell’opposizione umana
tra volere e potere. Opposizione che porta l’individuo a costruirsi una divinità in cui tutti i
suoi desideri appaiono realizzati.
Altre volte ha visto la genesi primordiale dell’idea di Dio nel sentimento di dipendenza che
l’uomo prova di fronte alla natura. Sentimento che ha spinto l’uomo ad adorare quelle cose
senza le quali egli non potrebbe esistere: la luce, l’aria, l’acqua e la terra
L’alienazione e l’ateismo
Qualunque sia l’origine della religione, è certo che costituisce una forma di alienazione,
intendendo con questo termine quello stato patologico per cui l’uomo “scindendosi”,
proietta fuori di se una Potenza superiore (Dio) alla quale si sottomette . Ma se la
religione è il frutto di un’oggettivazione alienata ed alienante, l’ateismo si configura non
solo come un atto di onestà filosofica, ma anche come un vero e proprio dovere morale.
Detto altrimenti, ciò che nella religione è soggetto deve ridiventare predicato. Quindi non
più: Dio (soggetto) è sapienza, volontà e amore (predicato), ma, al contrario, la sapienza, la
volontà e l’amore umano (soggetto) sono divini (predicato). Di conseguenza, il compito
della vera filosofia non è più quello di porre il finito nell’infinito (ossia di risolvere l’uomo
in Dio) ma quello di porre l’infinito nel finito (ossia risolvere Dio nell’uomo).
LA CRITICA AD HEGEL
UMANISMO E FILANTROPISMO
La nuova filosofia delineata da Feuerbach nell’ultima fase del suo pensiero, ha la forma di
un umanismo naturalistico.
Umanismo: poiché fa dell’uomo l’oggetto e lo scopo del discorso filosofico.
Naturalistico: perché fa della Natura la realtà primaria da cui tutto dipende,
compreso l’uomo.
Nucleo di questo Umanismo Naturalistico è il rifiuto di considerare l’individuo come
astratta spiritualità o razionalità e la concezione dell’uomo come essere che vive, che
soffre, che gioisce e che avverte una serie di “bisogni” dai quali si sente dipendente . Un
essere “di carne e di sangue”ma che risulta condizionato dal corpo e dalla sensibilità.
sensibilità che per Feuerbach non si riduce ad un atteggiamento puramente conoscitivo, ma
che presenta una valenza pratica, come dimostra il suo legame con l’amore, ossia con quella
passione fondamentale che fa tutt’uno con la vita. Passione che ha il potere di aprirci verso
il mondo. Ammettere che l’uomo è bisogno, sensibilità e amore, equivale nello stesso tempo
ad ammettere la necessità degli altri, ossia il fatto che l’io non può stare senza il tu. Da ciò il
“comunismo” filosofico di Feuerbach, ossia la dottrina dell’essenza sociale dell’uomo.
La messa in luce dei condizionamenti naturali fa sì che in Feuerbach assuma dignità etica e
politica la teoria degli alimenti. Da ciò la tesi paradossale secondo cui “l’uomo è ciò che
mangia”. Tesi che non implica una forma di materialismo volgare, ma che esprime
piuttosto una lucida consapevolezza:
1. dell’unità psico-fisica dell’individuo
2. del fatto che se si vogliono migliorare le condizioni spirituali di un popolo bisogna
innanzitutto mi-gliorare le sue condizioni materiali
MARX
Il primo contrassegno del pensiero di Marx è il suo porsi come : Analisi globale
della società e della storia, in grado di investire l’intero assetto strutturale e
sovrastrutturale del capitalismo, ossia il mondo borghese nella molteplicità delle sue
espressioni.
Un secondo contrassegno del marxismo è: il suo legame con la prassi, in altre
parole la tendenza a fornire un’interpretazione dell’uomo e del suo mondo che sia anche
impegno di trasformazione rivoluzionaria. Marx ha perseguito per tutta la vita l’ideale
d’unione fra teoria e prassi. L’ideale di tradurre in atto quell’incontro tra realtà e razionalità
che Hegel aveva solo pensato e che Marx si propone invece di attuare con la prassi,
mediante l’edificazione di una nuova società.
Le influenze culturali che stanno alla base del marxismo sono
essenzialmente tre:
la filosofia classica tedesca da Hegel a Feuerbach;
l’economia politica borghese;
il pensiero socialista.
Marx procede criticamente oltre i loro risultati, mettendo capo ad una
nuova visione del mondo.
Il primo testo in cui Marx si misura con il maestro è la Critica della filosofia hegeliana del
diritto pubblico. Possiamo distinguere nell’opera un momento più propriamente filosofico-
metodologico e un momento più specificatamente storico-politico. Invece di limitarsi a
costatare, ad esempio, che in certi ordinamenti storici esiste la monarchia, Hegel afferma
che lo Stato presuppone per forza una sovranità, la quale s’incarna necessariamente nel
monarca, che è la sovranità statale personificata. Inoltre, poiché ciò che è necessario è anche
razionale, egli deduce la piena “logicità” della monarchia, identificandola con la razionalità
politica in atto.
Marx definisce questo procedimento “misticismo logico”, poiché in virtù di esso le
istituzioni, anziché comparire per ciò che di fatto sono, finiscono per essere “allegorie” o
personificazioni di una realtà spirituale che se ne sta occultamente dietro di loro: è il
risultato del capovolgimento idealistico fra soggetto e predicato, concreto ed astratto.
L’idealismo fa dunque del concreto la manifestazione dell’astratto. Marx oppone
polemicamente il metodo trasformativo, che consiste nel ricapovolgere ciò che
l’idealismo ha capovolto, ossia nel riconoscere di nuovo ciò che è
veramente soggetto e veramente predicato.
Il metodo mistico di Hegel è anche conservatore sul piano politico, poiché porta a
“canonizzare” la realtà esistente, ossia a “razionalizzare” i dati di fatto, trasformandoli in
manifestazioni razionali e necessarie dello Spirito. Per cui l’esito del giustificazionismo
speculativo di Hegel è un Giustificazionismo politico, che, facendo la corte ai fatti, conduce
all’accettazione delle istituzioni statali vigenti, puntellando ideologicamente la reazione.
I meriti: la DIALETTICA, ossia la concezione generale della realtà come totalità
storico-processuale, costituita di elementi concatenati fra loro e mossa dalle opposizioni.
Marx sottolinea soprattutto quest’ultimo aspetto, però gli muove l’appunto di aver giocato
troppo sulle opposizioni “concettuali”, anziché su quelle “reali” e di aver cercato troppo
facile mediazione e sintesi fra gli opposti, dimenticando che nella realtà fra gli opposti non
c’è sintesi, ma solo lotta o esclusione.
Mentre nella polis greca l’individuo si trovava in un’"unità sostanziale” con la comunità di
cui faceva parte, e non conosceva antitesi fra sfera individuale e sfera sociale, nel mondo
modernol’uomo è costretto a vivere come due vite: una in “terra” come borghese, in altre
parole nell’ambito dell’egoismo e degli interessi particolari della società civile, e l’altra “in
cielo” come “cittadino", ovvero nella sfera superiore dello Stato e dell’interesse comune.
Tuttavia il “cielo” dello Stato, secondo Marx, è puramente illusorio, poiché la sua
pretesa di porsi come universale che media gli interessi particolari della società, è
verificabilmente falsa. Anziché essere lo Stato che imbriglia la società civile,
“innalzandola” al bene comune, è piuttosto la società civile che imbriglia lo Stato ,
“innalzandolo” a semplice strumento degli interessi particolari delle classi più forti. Lo Stato
non fa che riflettere e sanzionare gli interessi particolari dei gruppi e delle classi. La civiltà
moderna rappresenta la società dell’egoismo e delle particolarità “reali” e della
fratellanza e delle universalità “illusorie”.
Secondo Marx la falsa universalità dello Stato deriva dunque dal tipo di società che si è
formata nel mondo moderno. Marx scorge i tratti essenziali della civiltà moderna
nell’”individualismo” e nell’”atomismo”, ossia nella separazione del singolo dal tessuto
comunitario. Lo Stato post-rivoluzionario legalizza questa situazione, riconoscendo, quali
diritti dell’uomo, la libertà individuale e la proprietà privata, esso non è altro che la
proiezione politica di una società strutturalmente a-sociale o contro-sociale.Egli rifiuta in
blocco la civiltà liberale, compreso il principio della rappresentanza, che presuppone già per
definizione la scissione fra individuo e stato, e quello della libertà individuale, espressione
dell’atomismo borghese.
LA CRITICA DELL’ECONOMIABORGHESE
Marx usa la struttura formale del meccanismo dell’alienazione come una condizione
patologica di scissione, di dipendenza e di auto estraniazione . Per Feuerbach è
prevalentemente coscienziale, derivante da un’errata interpretazione di sé, per Marx essa
diviene un fatto reale, di natura socio-economica, in quanto s’identifica con la condizione
storica del salariato nell’ambito della società capitalistica.
L’alienazione dell’operaio viene descritta da Marx sotto 4 aspetti
fondamentali, strettamente connessi tra di loro.
Il lavoratore è alienato rispetto alla sua stessa essenza o genere. Infatti
prerogativa dell’uomo nei confronti dell’animale è il lavoro libero, creativo e
universale, mentre nella società capitalistica è costretto ad un lavoro forzato,
ripetitivo e unilaterale.
Il lavoratore è alienato rispetto al prossimo, perché l’altro, per lui, è soprattutto il
capitalista, ossia un individuo che lo tratta come un mezzo e lo espropria del frutto
del suo lavoro, facendo sì che il suo rapporto con lui, e con l’umanità in genere, sia
per forza conflittuale.
Il lavoratore è alienato rispetto la sua stessa attività, la quale prende la forma di
un lavoro forzato, in cui egli è strumento di fini estranei.
Il lavoratore è alienato rispetto al prodotto della sua stessa attività, in quanto
egli, in virtù della sua forza-lavoro, produce un oggetto, che non gli appartiene e che
si costituisce come una potenza dominatrice nei suoi confronti.
La causa del meccanismo globale di alienazione, la quale fa sì che l’operaio sia ridotto a
strumento per produrre una ricchezza che non gli appartiene, risiede dunque nella proprietà
privata dei mezzi di produzione, in virtù della quale il possessore della fabbrica può
utilizzare il lavoro di una certa categoria di individui per accrescere la propria ricchezza. La
disalienazione dell’uomo s’identifica con il superamento del regime della
proprietà privata e con l’avvento del comunismo. La storia si configura come il
luogo della perdita e della riconquista, da parte dell’uomo della propria essenza e il
comunismo diviene la soluzione dell’enigma della storia.
La teoria di Hegel non ha niente a che fare coll’alienazione e la disalienazione effettiva,
essendo piuttosto lo specchio mistificato di essa. Ma se l’alienazione economica è un fatto
reale, che sta alla base di tutte le altre alienazioni, l’unico modo per abbatterla è l’atto
reale e non puramente pensato, della rivoluzione e dell’instaurazione del socialismo.
Struttura E Sovrastruttura
Per forze produttive Marx intende tutti gli elementi necessari al processo di
produzione, ossia fondamentalmente:
gli uomini che producono (=forza-lavoro)
i mezzi
le conoscenze tecniche e scientifiche.
Per rapporti di produzione intende i rapporti che s’instaurano fra gli uomini nel corso
della produzione e che regolano il possesso e l’impiego dei mezzi di lavoro , nonché la
ripartizione di ciò che tramite essi si produce. I rapporti di produzione trovano la loro
espressione giuridica nei rapporti di proprietà.
Forze produttive e rapporti di produzione costituiscono, nella loro
globalità, il modo di produzione di un certo periodo.
La base economica costituisce la struttura, ovvero le scheletro economico della società,
intesa come organismo complessivo. Rispetto alla totalità sociale la struttura rappresenta il
piedistallo concreto su cui si eleva una sovra struttura giuridico –politico-culturale.
Il termine sovrastruttura secondo il materialismo storico rappresenta i rapporti
giuridici, le forze politiche, le dottrine etiche, artistiche religiose e filosofiche che non
devono essere intese come delle realtà a sé stanti, ma come delle espressioni più o meno
dirette dei rapporti che definiscono la struttura di una certa società storica.
È la struttura economica che determina le leggi, lo Stato, le religioni, le filosofie
(=materialismo storico). Il materialismo è il convincimento secondo cui le vere forze
motrici della storia non sono di natura spirituale, come pensavano per lo più i filosofi
precedenti, bensì di natura socio-economica.
Nell’ambito della critica marxista il rapporto struttura- sovrastruttura è
stato oggetto di molteplici e talora discordanti interpretazioni. Senza entrare
in merito a tali discussioni è bene osservare che:
il termine sovrastruttura intende sottolineare la dipendenza dei fenomeni politici e
culturali dalla base economica, ma non intende ridurre questi ultimi a qualcosa di
superfluo o di poco importante;
per indicare il rapporto fra struttura e sovrastruttura Marx fa uso di due termini:
determinare e condizionare. La loro portata concettuale è diversa, poiché
determinare denota un rapporto più stretto ed immediato, mentre condizionare
allude ad un rapporto più lato e indiretto;
Marx non nega che le idee possano influire sugli avvenimenti storici, anche se ciò,
dal suo punto di vista, può accadere soltanto perché le idee esprimono già determinati
mutamenti di struttura.
Marx ritiene che ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive tendano a
corrispondere determinati rapporti di produzione e proprietà.
Ideologi perché tali filosofi vivono una falsa coscienza, poiché non si rendono conto che
le idee, in quanto rispecchiano le relazioni materiali degli uomini, non hanno un’esistenza
autonoma.
Gli ideologi finiscono :
per sopravvalutare la funzione delle idee e degli intellettuali, viste, le une come le
forze trainanti degli avvenimenti, e concepiti, gli altri, come i fabbricanti della storia;
per presentare le proprie idee come universalmente e sovratemporalmente valide;
per credere che tutto il negativo del mondo risieda nelle idee sbagliate che gli
individui si fanno circa se medesimi e che l’emancipazione umana consista nel
sostituire a idee false idee vere;
per fornire un quadro inevitabilmente deformante del reale.
Le vere forze motrici della storia non sono le idee, bensì le strutture economico-sociali, le
idee non hanno mai un valore universale e sovratemporale, in quanto rispecchiano sempre
determinati interessi e rapporti storici fra gli uomini, la vera alienazione non risiede nelle
idee, ma nelle situazioni sociali concrete in cui gli uomini si trovano a vivere, perciò la vera
disalienazione è un problema pratico-sociale, risolvibile sul piano strutturale della
rivoluzione, inoltre il sapere effettivo può essere solo un sapere aderente al reale.
Il Manifesto del partito comunista, nel quale Marx si propone di esporre gli scopi e i metodi
dell’azione rivoluzionaria, rappresenta una stringata analisi della concezione
marxista del mondo.
l’analisi della funzione storica della borghesia;
il concetto della storia come lotta di classe ed il rapporto fra proletari e comunisti;
la critica dei socialismi non scientifici.
Nella prima parte del Manifesto Marx descrive la vicenda storica della borghesia. La
borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione e
tutto l’insieme dei rapporti sociali. Di conseguenza, la borghesia appare una classe
costituzionalmente dinamica, che ha dissolto non solo le vecchie condizioni di vita, ma
anche idee e credenze tradizionali.
Assomiglia allo stregone chenon è più in grado di dominare le potenze che
ha evocato, infatti, le moderne forze produttive si rivoltano contro i vecchi rapporti di
proprietà, ancora privatistici e sottomessi alla logica del profitto personale, generando delle
crisi terribili, che mettono in forse l’esistenza stessa del capitalismo: Tanto che il
proletariato, classe oppressa della società borghese, non può fare a meno di mettere in opera
una dura lotta di classe, volta al superamento del capitalismo e delle sue forme istituzionali
e ideologiche. Il concetto della storia come lotta di classe è uno dei più significativi del
Manifesto. Marx pone come motore dello sviluppo sociale la dialettica tra due forze
produttive e i rapporti di produzione e individua come soggetto autentico della storia, la
lotta fra le classi.
Marx insiste sull’internazionalismo della lotta proletaria.
L’intento di Comte è la costruzione di una filosofia della storia che si trasforma, nella
seconda fase della sua vita, in una sua divinizzazione della stessa. Considera la scienza
positiva come l’unico modo per risolvere tutti i problemi dell’uomo: nella scienza egli
vede la rigenerazione totale dell’uomo, l’infinito rivelato.
Il punto di partenza di tutta la filosofia di Comte è la legge dei tre stati, che egli
dichiara di aver ricavato da considerazioni storiche e dall’osservazione dello sviluppo
S F
dell’uomo.
Secondo questa legge, ogni branca della conoscenza umana passa attraverso tre stati:stato
C I
teologico, stato metafisico o astratto e stato scientifico o positivo.
1)
S I
Lo stato teologico è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana. In
E I
esso lo spirito ricerca la natura intima degli esseri e considera i fenomeni che incontra
lungo il cammino come prodotti da agenti soprannaturali. In questo modo spiega tutte le
N Canomalie dell’universo.
2) Lo stato metafisicoè uno stato di transizione, praticamente solo una
AZ
modificazione del precedente: gli agenti soprannaturali sono in realtà forze astratte che
generano tutti i fenomeni. Trovare il senso di questi vuol dire assegnare ognuno alla forza
E che l’ha generato. I
A N
3) Lo stato positivoè lo stato definitivo dell’intelligenza. In esso lo spirito si rende
conto dell’impossibilità di arrivare alla conoscenza assoluta e smette di cercare l’origine e
OS il destino dell’universo. Indaga però sulle leggi che lo regolano.
RComte
T secondo la sequenza storica in cui hanno raggiunto lo stadio positivo e attraverso una
classificazione sistematica che va dal semplice al complesso, riesce a trovare un sistema di
RG idee generali; quindi partendo dai fenomeni più semplici e generali e arrivando a quelli più
complessi riesce a produrre una gerarchia in cui le varie scienze entrano nella fase
A A “positiva” avendo quindi per oggetto la coordinazione dei fatti osservati.
NT
T I
EC
“Scienza, donde previsione;previsione donde azione”. Con queste parole il filosofo afferma
che la scienza ha come scopo lo studio delle leggi le quali servono a
prevedere i fenomeni e ad agire su di essi.
Matematica, logica e psicologia non fanno parte della classificazione delle scienze.
Questo perché:
La matematica è alla base di tutte le altre scienze tanto da essere il primo sapere ad
entrare nello stadio positivo. Ha quindi le caratteristiche della
a priorità.
La logica viene esclusa in quanto essa non è generale ed astratta, quindi non ha le
caratteristiche del semplice e del generale, e come tale è utilizzata da ogni branca del
sapere.
La psicologia viene esclusa perchè non è una scienza. Il filosofo infatti ritiene che
l’osservazione interiore sia impossibile poiché i fenomeni intellettuali non possono
essere osservati dal soggetto stesso che li produce.
La sociologia è la scienza suprema in quanto tutte le altre scienze sono subordinate ad
essa. Questa deve determinare le leggi della società e quindi va a configurarsi come una
“fisica sociale” che si divide in:
Statica che studia l’ordine e il rapporto delle parti della società.
Dinamica che studia il progresso della società.
La sociologia deve portare alla “sociocrazia” ovvero a quel regime sociologico analogo
alla teocrazia, ovvero basato sulla religione. Lo stato moderno viene considerato come un
“interregno anarchico”.
Il concetto principale della tesi di Comte è quello di “umanità” esaltata così tanto da
sostituire l’idea di Dio come “grande essere” formato dall’insieme degli esseri
presenti,passati e futuri che concorrono a perfezionare l’ordine universale. L’umanità quindi
non è altro che tradizione divinizzata che comprende elementi oggettivi e soggettivi, naturali
e spirituali, che costituiscono l’uomo.
La morale del positivismo si fonda sull’altruismo e sulla massima “Vivere per gli altri” la
quale deve prevalere sull’egoismo.
STUART MILL
Stuart Mill fu un precoce ammiratore del Bentham e un discepolo del Comte.
Scrisse un Sistema di logica induttiva e deduttiva (1843), L’utilitarismo (1863), ecc.
Mill, partendo dal principio che l’associazione è il fenomeno fondamentale che spiega tutti i
fenomeni della nostra vita psichica, afferma che il mondo esterno non è che una semplice
possibilità di sensazioni associate le une alle altre, e l’io un semplice gruppo di stati di
coscienza, per cui ogni distinzione fra il mondo e l’io, fra la materia e lo spirito, è
puramente artificiale, e tutto si riduce, in ultima analisi, a fenomeni di coscienza.
Anche l’induzione non deve essere intesa come un processo logico che dal particolare va
all’universale, ma dal particolare al particolare, mediante le leggi dell’associazione
psicologica.
Mill, nella morale, continua l’utilitarismo del Bentham, ma mentre questi considerava come
movente dell’azione un sentimento egoistico (Mill definisce la morale di Bentham “degna
soltanto di porci”!), egli afferma che bisogna badare non soltanto alla quantità del piacere,
ma anche alla qualità (“Val meglio essere un Socrate malcontento che un porco
rimpinzato”), e che il movente dell’azione, per la constatata coincidenza dell’utilità nostra
con l’utilità altrui, si è trasformato da un primitivo egoismo in un sentimento altruistico e
disinteressato.
LA TEORIA DELL’EVOLUZIONE
Spencer elabora una teoria generale del progresso umano che unisce
l’evoluzionismo darwiniano ad una sociologia organicista che guarda a Comte. Da
quest’ultimo riprende e rilancia la distinzione metodologica tra statica e dinamica sociale
sottolinea i rapporti tra le parti ed il tutto in ogni sistema sociale. Partendo dalla premessa
organicista, Spencer cerca, con un approccio genuinamente positivista, una teoria
dell’evoluzione valida sia per il mondo naturale che per il mondo sociale:
l'evoluzione è il processo durante il quale elementi disomogenei e separati entrano in
reciproca dipendenza e la nuova struttura che si forma è sempre più complessa di quella
precedente. Ogni sviluppo è caratterizzato da un movimento che procede da un’omogeneità
indefinita ad un’eterogeneità definita. Facile individuare analogie tra l'organismo biologico
e l'organismo sociale. Il mutare della struttura corporea con il passare del tempo e
l'interdipendenza delle parti anatomiche e degli organi viene comparata ai concetti di
divisione del lavoro e di crescita economica. Spencer non si limita all’osservazione e
prescrive alcuni principi necessari a garantire una evoluzione costante degli organismi: il
diritto di libera associazione per ogni categoria sociale, la politica rappresentativa della
volontà dei cittadini, la tutela delle individualità, il liberismo economico e la cooperazione
volontaria.
Herbert Spencer non mancò di partecipare al dibattito filosofico e politico del suo tempo
criticando il socialismo e affermando l'uguale diritto a tutti gli uomini all'uso della terra Su
quest’ultimo punto cominciò ad imbastire un discorso sulla riconciliazione dell'uomo verso
sé stesso (risolvendo gli evidenti conflitti sociali) e verso il proprio ambiente
(preconizzando futuri ecologismi).
In definitiva il contributo principale di Spencer alla storia della sociologia è quello di aver
rilanciato l’approccio organicista e positivista di Comte stimolando nel
contempo lo sviluppo di ricerche interdisciplinari. Nei suoi "Primi principi"
(1862), la sua opera fondamentale, propone un sistema di filosofia generale che più tardi
applicherà alla vastità delle discipline del sapere, in particolare quelle dal filosofo
considerate più interessanti all’epoca: la biologia, la psicologia, l’etica e, appunto, la
sociologia. Spencer avvicina di fatto le scienze umane a quelle naturali, cosa che è alla base
dei futuri sviluppi della sociologia.
NIETZSCHE
CARATTERISCHICHE DEL PENSIERO E DELLA SCRITTURA DI
NIETZSCHE
Il pensiero di Nietzsche viene suddiviso in 3 fasi, le quali non vanno intese come tappe
singole e contrapposte tra di loro, ma il mutuare del suo pensiero, in continuo divenire:
Scritti giovanili del pensiero wagneriano - schophenauriano : la
nascita della tragedia , le Quattro considerazioni inattuali
Scritti intermedi del periodo illuministico
Scritti del meriggio o di Zarathusta
Scritti degli ultimi anni o del tramonto
IL PERIODO GIOVANILE
Nel’ “La nascita della tragedia” Nietzsche si basa sulla distinzione tra APOLLINEO o
DIOSIACO, i quali sono opposti e stanno alla base dello spirito e della tragedia greca.
L’Apollineo sorge dalla tensione verso la forma perfetta, che si realizza attraverso
la scultura l’architettura
Il Diosiaco è la forza dell’istinto , il quale rappresenta l’eccesso e il furore , e si
realizza attraverso la musica e la poesia lirica, generando la passione, emozione. In
un primo periodo, l’impulso apollineo e quello dionisiaco convivevano separati e
opposti, successivamente trovarono la loro sintesi all’interno della tragedia. Infatti, il
dramma tragico diviene tale solo quando Dionisio è rappresentato da una sequenza
di immagini che trasformano in mondo di ideale compiutezza e bellezza il vissuto
tragico di un eroe
Tale armonia venne meno, quando si iniziò a prevalere l’apollineo sul dionisiaco ,
attraverso il genere di tragedia inaugurata da Euripide, dove si racconta il quotidiano
senza più ricorrere al fantastico, e cerca di inviare un insegnamento di vita su copia di
Socrate. La decadenza della tragedia serve come analisi della decadenza della società
occidentale, che trova il proprio simbolo nella contrapposizione tra spirito dionisiaco e
spirito socratico.
Attraverso l’esaltazione dello spirito apollineo e diosiniaco, possiamo risalire al rapporto
esistente tra Nietzsche e Schopenhauer . Nietzsche da quest’ultimo ereditò la concezione del
mondo ereditato dal dolore, rispetto a cui l’esistenza umana , priva di un senso trascendente
che sappia darne una spiegazione , è solo un istante. Tuttavia alla soluzione di Schopenhauer
Nietzsche contrappone una coraggiosa accettazione del dolore (come quella degli
eroi della tragedia greca).
Il mondo è per il filosofo una sorta di gioco estetico e tragico, costituito dalla continua
lotta tra gli opposti primordiali. L’essenza della vita , però, viene compresa a pieno dall’arte
, per tale ragione noi ritroviamo nella sua opera l’esaltazione della tragedia, la quale sfocia
nell’ideale di una rinascita della cultura tragica incentrata sull’arte e sulla musica ,
concentrata in Wagner.
IL PERIODO ILLUMINISTICO
Con l opera Umano troppo umano Nietzsche da inizio ad un nuoco periodo definito
periodo illuministico . Questo periodo è caratterizzato dal distacco da Wagner e da
Schopenhauer, considerandoanch’ essi espressione della decadenza occidentale. Cosi
criticando le formule metafisiche di Schopenhauer e le tendenze artistiche di Wagner,
sostiene che lo strumento per arrivare all’ essere non siano più lametafisica e l arte, bensì la
scienza, che sottopone a giudizio proprio la metafisica, la religione e l arte. In questo
modo, il redentore della cultura non sarà più l artista o il genio, ma il filosofo educato alla
scienza. Questo periodo si chiama illuministico, non perché è ispirato all’ illuminismo
settecentesco, caratterizzato da una fiducia completa nella scienza .
La scienza , infatti, s’intende il metodo di pensiero, con il quale l’uomo può distogliersi da
determinati errori
Questo metodo di pensiero è storico – genealogico, in quanto compie un indagine , ma allo
stesso tempo non si crede all’esistenza di realtà immutabili e statiche, anche che ogni realtà
sia l’esito di un processo da ricostruire. I termini principali del metodo storico –
genealogico sono lo spirito libero e la filosofia del mattino. Il filosofo s’identifica con lo
spirito libero che attraverso l’uso della gaia scienza distrugge i valori assoluti e le
tradizioni fasulle del passato , diventando libero come un viandante , il quale si avvia a un
nuovo mattino , la cui vita viene intesa come un libero gioco e sperimentazione , priva
di valori assoluti da seguire e certezza su come conformarsi . secondo Nietzsche gli errori
maggiori della nostra mente son o la metafisica e la morale.
Come per Schopenhauer, per il quale l ateismo era qualcosa di dato; per Nietzsche, l ateismo
è la realtà stessa, poiché è la stessa essenza malefica e caotica del mondo che mette in
discussione l esistenza di Dio.
All’ origine di questa identità trascendente vi è la paura dell’ uomo di fronte all’ essenza
dell’ essere.
Nella Gaia Scienza, una tra le opere più importanti per la comprensione del pensiero
nietzschiano, vi è l aforisma che pone fine alle illusione della metafisica: Dio è morto ,
meglio definito nel racconto dell’ uomo folle
Egli racconta che, durante il mattino, un uomo folle accese una lanterna e si diresse verso
il mercato, dove domandò alle persone dove fosse Dio. Queste, essendo atee, si presero
gioco del povero uomo e lo derisero. Così l uomo indignatosi, disse che Dio era morto e
condanno tutti loro della sua uccisione. In questo modo, loro si provocarono la loro stessa
infelicità, poiché, come disse l uomo, da quando morì Dio: ci fu più freddo, la luce del
mattino si affievolì e tutta l umanità si condannò a un continuò pellegrinare , che non
possiede alcun senso. Gli uomini commiserò l errore più grande, che si sarebbe ripercorso
anche le generazioni future. Detto ciò, tacque e getto a terra la lanterna rompendola, la
folla rimase ammutolita e stupita. Concluse dicendo che la sua ora non era ancora arrivata
e che era giunto troppo presto, in quanto la folla non poteva ancora capire l errore
commesso, c era bisogno di maggior tempo. Si racconta ancora, che dopo questo episodio,
nella stessa mattina l uomo folle abbia visitato delle chiese, definendole le fosse e i
sepolcri di Dio e per tal ragione venne cacciato.
Questo racconto, come il mito della caverna di Platone, contiene una ricca simbologia
filosofica:
Uomo folle rappresenta il filosofo profeta, mentre gli uomini che lo deridono per le
sue parole
rappresentano l ateismo ottimistico e superficiale ottocentesco, i cui seguaci sembrano
impassibili davanti al messaggio e agli effetti della morte di Dio.
Le difficoltà che gli uomini incontrano dopo la morte di Dio rappresentano lo
smarrimento, provocato dalla distruzione di quei valori assoluti e certezze, che
avevano edificato gli stessi uomini.
Il fatto che l uomo folle fosse giunto troppo presto indica che l umanità non è
completamente consapevole della morte di Dio, ma solo con il passare del tempo se
ne potrà rendere conto.
Le chiese, le quali vengono definite nel racconto come fosse e sepolcri di Dio,
rappresentano la crisi della religione.
Nietzsche ritiene che la morte di Dio rappresenti un trauma solo per l uomo, il quale è
incapace di vivere senza di esso, ma da ciò si avrà l avvento del superuomo, ossia colui
capace di progettare liberamente la propria esistenza senza subordinare la propria
esistenza a una struttura metafisica data. Il superuomo, infatti, lascia dietro di sé la morte di
Dio e il suo trauma, per proiettarsi davanti a sé, alla libertà, con la quale potrà costruire la
propria vita. Nietzsche non sostiene realmente la non esistenza di Dio, ma semplicemente
che nella cultura del suo tempo, dove si è affermato l idealismo e il positivismo, è una
cultura che non lascia spazio a Dio, per cui è assente. Molti studiosi, peròsostengono che
Nietzsche intenda il mondo come caos dionisiaco e solo in questa realtà, dove non c è nulla
di già dato, abbia senso il superuomo. L ateismo per Nietzsche è radicale, in quanto non
contesta solo l esistenza di Dio ma anche di ogni suo ipotetico surrogato, poiché è ben
consapevole che gli uomini, abbattute le antiche divinità, tendono inevitabilmente a
costruirne delle altre, non riuscendo a vivere senza nessun punto di
riferimento. Infatti, in Cosi parlò Zarathustra, egli racconta che gli uomini iniziarono ad
elogiare un asino, dopo che furono distrutte tutte le divinità. L asino rappresenta il simbolo
con il quale gli uomini colmarono il vuoto lasciato da Dio, e molto probabilmente allude
alle varie forme di ateismo ottimistico ottocentesco, nelle quali il vecchio Dio veniva
sostituito da altri elementi, come ad esempio la scienza.
IL PERIODO DI ZARATHUSTA
Con l opera intitolata Cosi parlò Zarathustra si ebbe l inizio del terzo periodo della
filosofia nietzschiana, caratterizzato dall’eliminazione della scissione dualistica della
realtà, divisione tra mondo apparente e mondo reale, e l individuazione delle due
possibilità esistenziali, in seguito alla morte di Dio: l ultimo uomo e il superuomo.
Nietzsche usa la figura di Zarathustra come portavoce delle sue idee, poiché in un passo di
Ecce homo viene interpretato come il primo teorizzatore della morale e del dualismo, di
conseguenza, essendo stato il primo a tradurre la morale in termini metafisici, deve essere il
primo ad accorgersi di questo errore. Quest’opera rappresenta una rivoluzione anche in
campo stilistico, in quanto non è scritta in forma di saggio, bensì è una sorta di poema in
prosa, caratterizzato dall’ uso di un tono profetico, di forti immagini, di metafore, di
parabole e costruito attorno ad una cornice: la vita di Zarathustra:
Zarathustra all’ età di 30 anni (stessa età in cui Gesù di Nazareth inizia il suo insegnamento)
si ritira per 10 anni in meditazione, quindi si reca tra gli uomini a portare il suo
insegnamento, ma questi non sono ancora pronti. Zarathustra ritorna una seconda volta,
ma non rivela il suo insegnamento più segreto e profondo, l eterno ritorno dell uguale.
Tornerà la terza volta,e annuncerà finalmente l eterno ritorno. Nell’ ultima parte,
Zarathustra si trova tra gli uomini che vivono nel vuoto di dio (nichilisti), festeggia con loro
e partecipa a una cena con loro, ma poi supera anche loro e all’ arrivo di un leone e di una
colomba li abbandona, assieme alla sua caverna.
Il superuomo
Il Superuomo è un concetto filosofico, di cui Nietzsche si serve per esprimere un modello di
uomo in cui si concretizzano le idee maggiori del suo pensiero: l uomo che supera il
trauma provocato dalla morte di Dio, che accetta la tragicità della vita e la concezione
dionisiaca di questa, che si emancipa dalla morale, che accetta l eterno ritorno dell
uguale, che esercita la volontà di potenza, che possiede una visione multi- prospettica
della vita e che supera il nichilismo. Il superuomo è un nuovo tipo di uomo che si proietta
verso il futuro, poiché non è riducibile a nessun modello del passato. La parola tedesca con
cui Nietzsche esprime tale concetto è Ubermensh, che ci da una piena coscienza
della differenza tra uomo e superuomo: il prefisso UBER non indica un uomo potenziato,
ma un uomo oltre l uomo. Per ciò, il superuomo rappresenta un nuovo tipo di uomo, mai
prima esistito che va aldilà di ogni tipo antropologico dato, capace di creare nuovi valori e
di rapportarsi in maniera nuova alla realtà. Secondo l accettazione della vita dionisiaca, l
uomo essendo nato in terra è fatto per vivere in terra, dunque non esiste una vita
ultraterrena. La piena coscienza di ciò appartiene di fatto solo al superuomo. Nel primo
discorso di Zarathustra, intitolato Delle tre metamorfosi , troviamo la genesi e il senso del
superuomo , spiegati attraverso un processo di metamorfosi, che porta lo spirito da
cammello a leone e poi a fanciullo.
L’eterno ritorno
Tutto ciò viene spiegato nel discorso intitolato La visione e l enigma . Zarathustra racconta di
un difficoltoso sentiero di montagna (= difficoltà dell innalzarsi del pensiero), il quale lo
percorreva assieme ad un nano, giungendo in una porta dove vi era
scritto la parola attimo (=
presente) e dinanzi alla quali si univano due sentieri che proseguivano all infinito. Il primo
portava all indietro (= passato) e il secondo portava in avanti (= futuro). Cosi Zarathustra si
rivolse al nano domandandogli se le vie saranno in continua contrapposizione, ma il nano
rispondendo alla domanda velocemente alludendo alla circolarità del tempo, Zarathustra
rimprovera il nano e espone in breve la teoria dell’ eterno ritorno.
Improvvisamente cambia la scena, Zarathustra ha una visione e assiste a una scena
raccapricciante. Vide un pastore che si arrotolava in terra e dalla bocca penzolava un serpente
nero. Zarathustra cercò di aiutarlo tirando inutilmente il serpente verso l esterno, che durante
la notte gli era strisciato all interno della bocca mordendogliela, fino a quando consigliò al
pastore di mordere e cosi fece. Poco più lontano, il pastore sputo la testa del serpente
trasformandosi .
L’ULTIMO NIETZSCHE
Le opere dell’ ultimo periodo nietzschiano sono caratterizzate dalla critica verso la
morale e il cristianesimo. Nietzsche si propone di abolire completamente le credenze
dominanti, per dar avvio a un nuovo pensiero, finalizzato alla creazione del superuomo.
Secondo la teoria dell’ accettazione della vita nietzschiana, il filosofo si contrappone alla
morale e alla religione, considerandole come due forme di conoscenze attraverso le quali l
uomo si è posto contro la vita.
Il filosofo considera la morale come uno strumento di dominio delle masse: essa consiste
nel stabilire alcuni valori presentati come universali, ma che in realtà sono astratti e
repressivi. Il problema è che si è sempre discusso di valori morali e mai della morale in
quanto tale, dunque occorre mettere in discussione la morale stessa. Cosi intraprende un
analisi genealogica della morale, al fine di svelarne l origine psicologica.
Nietzsche ritiene che i valori trascendentali della morale sono la proiezione di determinate
tendenze umane, come ad esempio la voce della coscienza, la quale non è la voce di Dio,
ma bensì la voce delle autorità sociali da cui siamo stati educati e che continuano a vivere in
noi, ossia lo strumento attraverso cui un gruppo dominante esercita il proprio potere sugli
altri uomini. I valori emanati della morale non sonoentità trascendentali ed oggettive, ma
possiedono un origine storica e psicologica. Nel mondo classico, la morale era l
espressione di un aristocrazia cavalleresca, per quanto tale propagava valori vitali (forza,
salute, fierezza, gioia), detta morale dei signori, sostituita poi con i valori emanati dal
cristianesimo, distampo antivitale (disinteresse, abnegazione, sacrificio di sé, etc.), detta
morale degli schiavi. Tale cambiamento si avviata la decadenza della società
occidentale. Ciò è accaduto in quanto la morale dei signori comprendeva non solo l etica
guerriera (virtù del corpo), ma anche quella dei sacerdoti (virtù dello spirito). L etica dello
spirito si fonda però sul rifiuto del corpo e della dimensione terrena, subordinando i
valori terreni ai valori spirituali. Tutto ciò produce un sentimento di invidia e di volontà di
rivalsa della casta sacerdotale nei confronti di quella guerriera, cosicché elaborarono una
tavola di valori antitetica a quella guerriera. Il rovesciamento dei valori si compie attraverso
il popolo ebreo, definito da Nietzsche il popolo sacerdotale per eccellenza. Il cristianesimo
fa propria la morale degli schiavi e ne rende possibile la partecipazione alle masse. Questa
si configura allora come una religione che è il frutto del risentimento dell’ uomo nei
confronti della vita: l uomo respingendo i suoi istinti vitali primari si reso malato e represso,
tormentato inoltre dalla nozione di peccato, che genera in questo dei sensi di colpa, tutto ciò
produce un sentimento di rifiuto verso la vita e di invidia nei confronti del prossimo
(risentimento). Con ciò però Nietzsche non vuole andare contro la figura di Gesù, ma con i
suoi seguaci.
Per questo motivo, Nietzsche si propone la creazione di un nuovo tipo di
civiltà, caratterizzata da un
trasvalutazione dei valori e dalla figura del filosofo come guida. La trasvalutazione dei
valori non rappresenta un semplice rifiuto dei valori antivitali, ma un nuovo modo di
rapportarsi ai valori, i quali diventano la libera proiezione dell’ individuo. Ora la
dimensione dell’ esistenza umana è quella terrena, mentre quella spirituale dell’ anima è
menzogna. Il filosofo deve essere per la società un dominatore e un legislatore, stabilendo la
meta dell’ uomo.
La volontà di potenza
Potenza e vita La volontà di potenza è l intima essenza dell’ essere , ovvero il carattere
fondamentale di ogni cosa di ciò che esiste, in questo modo si identifica con la vita stessa.
La molla fondamentale della vita è la spinta dell’ auto-affermarsi, che porta l uomo ad
esplorare ogni campo. Questo continuo espandersi della vita trova la sua piena espressione
nel superuomo, il quale supera l uomo del passato e continuamente se stesso (auto
potenziamento). Il superuomo, quindi, progetta la propria vita senza seguire nessun piano
prestabilito (auto creazione).
Potenza e creatività Secondo la concezione della vita come auto creazione, l arte, essendo
intesa come forza creatrice, rappresenta la forma suprema della vita. L artista diviene, allora,
una prima forma dell’ oltreuomo. L essenza creativa della volontà di potenza si esprime
attraverso la creazione di valori, i quali rappresentano la proiezione della vita e condizioni
del suo esercizio. La volontà di potenza raggiunge il proprio culmine con l accettazione dell’
eterno ritorno, cioè quando il superuomo si libera dal peso del passato, che spinge l uomo a
sopprimere la propria creatività.
Il problema del nichilismo costituisce uno dei punti fondamentali del pensiero nietzschiano
e sorge quando viene annunciata la morte di Dio: gli uomini, distrutte le loro certezze, non
credono più in nulla. Nietzsche per nichilismo intendeva un comportamento di fuga e di
disgusto nei confronti del mondo, incarnato nel platonismo e cristianesimo, oppure l
atteggiamento, che possedeva l uomo moderno e contemporaneo, il quale non credendo più
nei valori supremi di Dio, di fronte all’ essere provando uno sgomento del vuoto e
del nulla.
Nietzsche si definisce il primo nichilista per eccellenza in Europa, che però avendolo
vissuto fino in fondo, si ritiene al di sopra di questo, quindi di averlo superamento. Ciò è
collegarsi al fatto che l uomo si è costruito delle realtà trascendenti e dei fini assoluti, ma
successivamente, avendo compreso la loro inesistenza e che l essere non è né uno, né vero,
né buono, è piombato nel nichilismo. Quindi più l uomo si è illuso, più sarà rimasto deluso e
proverà un terribile senso di vuoto. L equivoco del nichilismo consiste nell’ affermare che il
mondo privo di quei valori assoluti metafisici non abbia senso. I significati non esistono
come strutture metafisiche già date, ma come prodotti della volontà di potenza, attraverso la
quale il superuomo affronta il caos dell’ essere e gli impone il proprio fine. Nietzsche è un
nichilista radicale (in quanto nega l esistenza di valori intriseci alle cose), ma lo è a tal punto
da superarlo, poiché egli considera il nichilismo solo come uno stadio intermedio, attraverso
il quale l uomo si prepara all’ esercizio della volontà di potenza.
Nietzsche analizza affondo il concetto del nichilismo, tant’ è che distingue al suo interno
una distinzione:
NICHILISMO INCOMPLETO vengono distrutti i vecchi valori ma quelli nuovi
possiedono la stessa fisionomia di quelli precedenti, cioè si crede ancora in qualcosa:
si sente ancora il bisogno di verità . Le forme del nichilismo in completo sono lo
storicismo, positivismo, nazionalismo, anarchismo e socialismo.
NICHILISMO COMPLETO considerato come il nichilismo vero e proprio, si
distingue poi in :
nichilismo passivo rappresenta il declino e regresso della
potenza dello spirito, poiché l uomo prende atto del declino dei valori e rimane nel nulla;
mentre il
nichilismo attivo:rappresenta la crescita della potenza dello spirito, in quanto l uomo
trova la forza di distruggere le antiche fedi. Il nichilismo attivo diviene classico
quando, partendo dal presupposto di superamento di esso stesso e dell’ esercizio della
volontà di potenza, si passa dal momento distruttivo a quello creativo: l uomo rendendosi
conto che i valori non sono ontologicamente dati li inventa egli stesso.
Per Nietzsche, vivere senza nessuna certezza metafisica non significa distruggere ogni
norma, ma semplicemente preparare l uomo affinché possa essere lui stesso creatore di
valori e di significati, prendendosi il rischio e la fatica di dare un senso al caos del mondo,
in seguito alla morte delle antiche certezze metafisiche: ecco il significato ultimo del
superamento del nichilismo.