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L’Illuminismo rappresenta l’ideologia della borghesia capitalistica che non si riconosce più nelle vecchie
strutture politiche ed economiche dello Stato basato, nella maggior parte dei casi, nella monarchia “assoluta”,
giustificata dal “diritto divino”. A dare l’ultimo scossone a tale concezione fu la rivoluzione inglese, dove già
nel 1688 s’impose una monarchia costituzionale che limitava le prerogative del sovrano attraverso i Bill of
Rights ed inoltre dichiarava i diritti dei sudditi, che prendevano parte alle decisioni politiche. A questa
s’aggiunge la Rivoluzione industriale, che appunto dà vita a un sistema di produzione capitalistico, da cui
emergono due classi ben diverse da quelle che sinora avevano imposto la loro presenza sia sul piano sociale
che su quello culturale: alla figura dell’aristocratico o signore e a quella del contadino o villano, si
impongono ora le figure del proprietario della fabbrica, o altrimenti detto, capitalista, e l’operaio, appena
inurbato, sotto pressione per la durezza del lavoro, che costituirà, per ben due secoli, la figura del proletario,
sebbene tale situazione, almeno in questo primo periodo, avviene nella sola Inghilterra, ma, ben presto si
diffonderà nelle terre del Nord, come le Province Unite. Se ciò, come detto, si verifica principalmente
nell’Europa settentrionale, ben diversa è la situazione di quella cattolica del Sud che vede la Spagna e tutti i
suoi domini vivere in una situazione di profonda crisi. Di questa crisi se ne vantaggiò, sia pure in modo non
così propulsivo come in Gran Bretagna o Olanda, ma almeno già lontano dell’immobilismo scenografico
barocco, l’Italia che, dopo la pace d’Aquisgrana e la guerra di successione spagnola, vedrà la sostituzione
degli Asburgo agli spagnoli, nell’Italia del nord, ma la famiglia dei Borboni permane, sebbene in forma
autonoma rispetto alla madrepatria, nel sud. Si vedrà inoltre la cessazione dei piccoli ducati di Parma e
Piacenza, mentre i Savoia acquisteranno il titolo di monarchi dapprima nel 1713, con l’annessione della
Sicilia, e lo mantennero con lo scambio di quest’ultima con la Sardegna nel 1720. Eppure, nonostante gli
avvenimenti storici propendevano verso un’egemonia dell’Europa del Nord, sarà un paese continentale a far
sì che l’Illuminismo elaborerà valori universali che caratterizzeranno gran parte della storia contemporanea.
Infatti se l’Inghilterra riuscirà a dar vita ad un nuovissimo genere letterario (il romanzo) che tuttavia si
estenderà, fuori dai suoi confini con tutta la sua forza solo nel secolo successivo, sarà la Francia ad elaborare
una teoria filosofica che si pone come obiettivo una riforma radicale della società e, affinché essa avvenga, si
trasmetta al più largo numero di persone, rispetto ai tempi. Perché ciò avvenga è necessario non solo
abbattere steccati ideologici, ma anche religiosi, nazionali, etnici, in quanto tutti gli uomini sono
potenzialmente capaci di percepire la nuova filosofia. E per farla arrivar loro niente è più facile che tale
elaborazione, abbracciando tutto il sapere, venga divulgato in un’opera che tutto il sapere contenga,
l’Enciclopedia, o come dicevano loro, Encyclopédie, ovvero Dizionario ragionato delle arti, delle scienze e
dei mestieri. In tale opera venne ridisegnato tutto il sapere a partire dal fatto che ogni cosa (sia essa
intellettuale e quindi immateriale che manuale e quindi materiale) va lasciata all’indagine dell’uomo che, in
quanto dotato di ragione, può verificarne il vero significato o uso e quindi la sua più intima verità, così come
ci dice Diderot:
DIDEROT: ECLETTISMO
L’eclettico è un filosofo che, calpestando il pregiudizio, la tradizione, l’antichità, il consenso universale,
l’autorità, insomma tutto ciò che soggioga l’animo del volgo, osa pensare con la propria testa, risalire ai
princípi generali piú chiari, esaminarli, discuterli, astenendosi dall’ammettere alcunché senza la prova
dell’esperienza e della ragione; che, dopo aver vagliato tutte le filosofie in modo spregiudicato e
imparziale, osa farne una propria, privata e domestica; dico “una filosofia privata e domestica”, perché
l’eclettico ambisce non tanto a essere il precettore quanto il discepolo del genere umano, a riformare non
tanto gli altri quanto se stesso, non tanto a insegnare quanto a conoscere il vero. Seguendo sempre la
“ragione”, madre di ogni uomo e capace di allontanarlo dalle tenebre cui sinora è avvolto, il filosofo
non può che “criticare” (dando a questo termine il significato kantiano di “giudicare”) le religioni già
esistenti e inaugurandone una nuova per tutti gli uomini, come è il Deismo.
VOLTAIRE: DEISMO
Il teista è un uomo fermamente persuaso dell’esistenza d’un essere supremo tanto buono quanto potente,
che ha creato tutti gli esseri estesi, vegetanti, senzienti e riflettenti; che perpetua la loro specie, che punisce
senza crudeltà i delitti e ricompensa con bontà le azioni virtuose. Il teista ignora come Dio punisca,
favorisca e perdoni; perché non è così temerario da illudersi di conoscere come Dio agisca; egli sa che Dio
agisce e che è giusto. Le difficoltà contro la Provvidenza non scuotono minimamente la sua fede perché,
pur essendo indubbiamente grandi, non sono prove; egli si sottomette alla Provvidenza, benché non possa
scorgere di essa che qualche effetto particolare ed esteriore: tuttavia giudicando delle cose che non può
vedere mediante quelle che vede, egli argomenta che la Provvidenza operi sempre e in ogni luogo.
D’accordo su questo punto con il resto dell’Universo, egli si astiene tuttavia dall’aderire ad alcuna delle
sètte particolari, che sono tutte intimamente contraddittorie. La sua religione è la più antica e la più
diffusa; perché la semplice adorazione d’un Dio ha preceduto tutti i sistemi di questo mondo. Egli parla
una lingua che tutti i popoli possono intendere, benché per il resto non s’intendano affatto tra loro. (…)
Egli ritiene che la religione non consista né nelle dottrine d’una metafisica inintelligibile, né in vani
apparati, ma nell’adorazione e nella giustizia.
A leggere tali definizioni è evidente la carica rivoluzionaria attraverso cui gli illuministi vogliono trasformare
radicalmente la società. Infatti è proprio dal concetto di “deismo” (qui riportato come teismo dal greco theòs)
che derivano poi l’antistoricismo, che non vuol dire ignorare la storia precedente, ma rifondarla
completamente, negando i privilegi politici ed ecclesiastici determinati da motivazioni fideistiche, e
ricostruendo una società 2/45
alla cui guida ci fossero i filosofi illuministi, capaci, in quanto conoscitori delle “nuove scienze”, di
organizzare uno stato efficiente, sotto la guida della ragione. Ma se ciò può avvenire in tutti gli stati, in
quanto la diffusione delle idee illuministiche è alla portata di ogni uomo, ne conseguirà necessariamente il
terzo punto fondamentale di tale teoria che è il cosmopolitismo.
Tali idee avranno enorme influenza in tutta l’Europa, ma non dobbiamo dimenticare che esse nascono anche
dalla simpatia con cui gli intellettuali francesi osservano le vicende e la cultura inglese, che, se sinora era
arrivata all’apice culturale europeo nel periodo elisabettiano con il teatro di Shakespeare, ora si pone
all’avanguardia per una nuova forma di produzione e diffusione culturale, con il periodico e il romanzo. Tra i
periodici inglesi, larga diffusione ebbe lo Spectator di John Addison che, pur nella sua brevità (1711/1712) si
pone alla base, per le imitazioni che ebbe in tutta Europa, del giornalismo moderno. In esso s’immagina di
ritrovarsi in un club in cui, di volta in volta, delle persone più diverse (ma tutte provenienti dalla borghesia
come il commerciante, l’avvocato, il letterato o il militare, s’incontrano e dibattono problemi d’attualità, sotto
l’occhio vigile di un giornalista che li osserva (the spectator, appunto). Ma se il periodico poteva
rappresentare uno degli strumenti più efficaci per combattere il pregiudizio e fondare una nuova società,
doveva essere coadiuvato da nuovi strumenti, tra i quali dobbiamo ricordare il romanzo borghese, che vede
come opere protagoniste il Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719), la Pamela di Samuel Richardson
(1741), il Tom Jones di Henry Fieldin (1749) e I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1726).
Il Robinson Crusoe narra la storia di un uomo che a diciott’anni, contro il volere del padre che gli
prospetta una vita tranquilla e borghese, decide di mettersi in nave per cercare fortuna. Dopo varie
avventure si ritrova in Brasile e diventa un ricco agricoltore. In seguito lascia tutto al socio e si
imbarca per incrementare la sua ricchezza, facendosi mercante di schiavi. Ma la sua nave fa naufragio
ed egli è il solo sopravvissuto. I rottami della nave, nonché alcune suppellettili lì ritrovate, permettono
al nostro di costruirsi una capanna, quindi una piccola fortificazione; poi si fa coltivatore di un piccolo
campo e alleva qualche animale. Passano gli anni sempre uguali, finché scorge un’impronta umana che
gli fa sobbalzare il cuore di paura. Inoltratosi per meglio vedere, scorge dei cannibali che sono lì
sbarcati per un sacrificio umano. Tale rito si ripeterà qualche anno più tardi, ma egli riuscirà a
liberare la vittima e la terrà con sé col nome di Venerdì. Quindi, ancora successivamente, ambedue
liberano due prigionieri, tra cui un bianco. Nel frattempo giunge una nave, che ha subito un
ammutinamento. Liberati i tre ufficiali, Robinson, con i nuovi compagni ne prende possesso, e veleggia
verso Londra. Fermatosi a Lisbona scopre che è ricco, grazie agli affari del socio e decide quindi di
ripopolare l’isola su cui ha fatto naufragio, mandando lì coloni brasiliani.
Da tale testo prendiamo il brano in cui Robinson scopre di poter “organizzarsi” prelevando oggetti utili per la
sua “ricostruzione civile”:
Già dalla trama, nonché dal passo su riportato, capiamo che l’intento di Defoe, in questa alba di romanzo
borghese, non è tanto quella di presentarci, come in parte era avvenuto con il romanzo cortese spagnolo, una
storia che rappresentasse il tramonto di un’epoca (in quel caso della cavalleria), ma la nascita di una nuova
era, cioè quella borghese capitalista. Infatti Robinson non è solo il prototipo dell’avventura, esemplificata nel
topos narrativo del viaggio, ma dell’uomo faber che costruisce un mondo (un’unità produttiva) e per farlo sa
procurarsi e trasformare le materie prime (ciò che la nave gli offre) e quando tale processo si è sviluppato sa
sottomettere/educare i popoli barbari (Venerdì) e portare la civiltà in terre nuove sconosciute (colonizzazione
dell’isola). Egli pertanto rappresenta di contro la ricercatezza formale e un po’ vuota dell’aristocrazia, la
nascita del one man self made, cioè del moderno capitalista che non ha interiorità, ma soltanto il pragmatismo
del fare, che ancora non mostrerà il lato, se non in nuce, dello sfruttatore, come sarà invece illustrato, nei
primi dell’800 da Dickens.
Altro grande romanzo inglese di questo periodo è la Pamela di Samuel Richardson:
Pamela è camereriera presso la signora Davers. Alla morte della padrona lei rimane a svolgere il suo
compito per suo figlio, ma l’eccessiva premurosità con cui egli la tratta mette in guardia i suoi genitori,
che le rivolgono l’invito a porre molta attenzione alle gentilezze del conte. Queste si riveleranno
insidiose per lei sin dal momento in cui il conte comincia a nasconderle le lettere accusandola di
perdere tempo a scrivere. Un giorno rimasti soli, il conte la insidia apertamente e alle proteste di lei,
che minaccia di voler andar via, le dice che, se si era comportato così, lo avevo fatto solo per metterla
alla prova. Ma ella è risoluta, quindi al conte non rimane che accompagnarla dai genitori. Invece la
conduce presso una sua dimora di campagna. Pamela chiede quindi aiuto al cappellano del conte, ma
anche egli si mostrerà villano nei suoi confronti. Ormai non avendo più speranza nell’aiuto di altri,
medita il suicidio. Nel frattempo torna il conte e ricomincia a tentarla, ma tanto è la fatica psicologica
che deve affrontare la ragazza che sviene. Solo allora il conte si rende conto d’amarla e anche lei,
riavutasi, si rende conto dei veri suoi sentimenti. Quindi il romanzo si chiude con il matrimonio alla
presenza dei genitori di lei.
Da come si è visto nel brano riprodotto, il racconto è svolto da un io narrante dapprima sotto forma di lettera,
quindi, quando è rinchiusa in campagna da un diario. Ciò serve ad accentuare il pathos che emerge,
determinato dalla virtù della ragazza, che si evince da un linguaggio pronto e deciso a sottolineare la verità
della giustezza dei suoi atteggiamenti e dalle molestie del conte, rese ancora più esplicite da una espressione
violenta e sarcastica. Tuttavia, sebbene Pamela rappresenti, nell’immaginario collettivo delle lettrici di quel
periodo il topos della fanciulla perseguitata, essa in realtà appare come una one woman self made, che
contrappone al modello pragmatico maschile di Robinson per vincere le sua battaglia per l’affermazione di
sé, l’atteggiamento femminile di rispetto delle regole morali ambedue tipicamente borghesi. Infatti non è un
caso che la borghesia vinca sull’aristocrazia (il conte sposerà la ragazza), com’era nell’etica del tempo. Se
volessimo leggerla ora dovremmo sottolineare come Pamela rappresenti dunque la nuova classe sociale, ma
non l’individuo, come sarà in seguito, proprio perché oggi un atteggiamento di violenza sessuale non sarebbe
in nessun caso perdonato.
Se abbiamo incontrato sinora due degni rappresentanti della moderna etica borghese inglese, ci avviciniamo
ora a un terzo loro degno compagno, il giovane Tom Jones, le cui avventure ci sono narrate da Henry
Fielding:
Il romanzo narra la storia di Tom Jones, un trovatello scoperto misteriosamente una notte nel letto di
Mr. Allworthy, e da questi allevato amorevolmente come un figlio. A causa della sua leggerezza in
amore e dell’opera di diffamazione dei suoi nemici, tra cui i suoi tutori e soprattutto il cugino Blifil (il
cattivo della storia) che vuole sbarazzarsi di un rivale in amore (entrambi erano innamorati di Sophia,
la figlia di un vicino di Allworthy, Western), Tom cade in disgrazia presso il padre adottivo, che lo
caccia di casa. Messosi in viaggio con l’amico Partidge, si imbatte in numerose avventure, di cui molte
di tipo galante. A Londra intreccia una relazione amorosa con Lady Bellastone che, innamoratasi di
lui, finisce per mantenerlo. Sophia intanto, non sopportando più i maltrattamenti del padre che vuol
farle sposare Blifil, mentre lei è innamorata di Tom, fugge di casa con la sua cameriera e si rifugia a
Londra presso un parente. Trovatasi nei guai a causa delle trame di Lady Bellastone, che è gelosa di lei,
Sophia viene salvata dall’arrivo del padre. Intanto Tom finisce in seri pasticci, tanto che si ritrova
addirittura in prigione. Anche Allworthy e Blifil intanto raggiungono Londra. Tom viene salvato
all’ultimo momento e si scopre che è figlio della sorella di Allworthy. Nel frattempo Blifil viene
smascherato e la vicenda finisce con la riconciliazione di Allworthy e Tom da una parte, di Sophia e il
padre dall’altra, e con il perdono di Sophia a Tom per le sue infedeltà.
Il testo letto, nonché la trama del romanzo ci fanno apparire un nuovo personaggio nell’economia del
nascente romanzo inglese, quello che prende le mosse dal già diffuso, soprattutto in Spagna, personaggio
picaresco, cioè un ragazzo avventuriero ma soprattutto buono (al di là e al di sopra – almeno in questo caso –
dell’ideologia corrente). Così appare essere Tom Jones, protagonista eponimo del romanzo di Fielding: ma
quello che qui interessa è che, nel brano qui presentato, egli pur di salvare l’amico, nasconde la “totale”
verità al suo tutore (di contro, a ben pensarci, dell’integerrima Pamela di Richardson) e poi, nel prosieguo del
romanzo, si darà ad una certa libertà sessuale, scevra da ogni moralismo. Diciamo pure che Fielding in
quest’opera non solo mette in luce la vitalità del personaggio, ma anche la sua spregiudicatezza. E’ che
l’autore vuole mettere in ridicolo, come già ha fatto parodiando proprio Pamela di Richardson, scrivendo la
Shamela, con all’interno la parola vergogna, il perbenismo puritano che circolava allora in Gran Bretagna. Se
egli poté far ciò è perché, sin dall’inizio, il romanzo “moderno” non ha alcun codice di riferimento, né
autorità da rispettare, ma un campo dove qualsiasi autore può decidere di sperimentare la sua arte.
Così, ad esempio, fece Jonathan Swift, con il più importante e duraturo romanzo inglese di questo periodo, I
viaggi di Gulliver:
Quest’opera racconta la storia di Lemuel Gulliver, giovane medico di bordo su una nave mercantile.
Dapprima giunge, dopo un naufragio, nell’isola di Lilliput, dove gli abitanti sono uomini alti pochi
centimetri; poi visita Brobdingnag, dove viceversa gli abitanti sono uomini giganti e tutto ciò che li
circonda è proporzionato ad essi e Gulliver si sente come un piccolo vermiciattolo rispetto a loro.
Quindi nel suo girovagare s’imbatte nell’isola volante di Laputa, abitata da filosofi, storici ed
inventori; dopo giunge nell’isola di Glabdubdrib, dove vengono evocati gli spiriti dell’antichità. Per
ultimo Gulliver visita il paese degli Houyhnhnm, saggi cavalli che hanno come animali domestici gli
Yahoo, bestie dignitose dall’aspetto umano.
Che, contrariamente ai romanzi precedenti, qui lo Swift, usi la tecnica dello straniamento, già utilizzato, come
vedremo anche in seguito da Montesquieu nel suo Lettere persiane, è evidente: infatti si tratta di non
rappresentare la realtà nuda e cruda, così com’è (foss’anche idealizzata ma non “abbellita”) bensì di
straniarla, per poter accentuare l’atteggiamento critico verso ciò che si vuole sottolineare. Prendiamo proprio
l’esempio del brano proposto:
• La volontà di mostrare all’ospite gigante la bellezza dei palazzi reali in miniatura, e quindi come ridicoli
giocattoli, suscita la critica, proprio attraverso il contrasto che il lettore fa tra la descrizione e la realtà, verso
la ricca e vuota corte inglese;
• Allo stesso modo la descrizione dei rappresentanti dei “Tacchialti” e dei “Tacchibassi” nasconde, non così
velatamente la distinzione tra il partito degli Wighs e dei Tories e il pretesto della loro differenza ideologica.
Allo stesso modo coloro che portano ambedue i tacchi, denotano chi, nella realtà, cerca di barcamenarsi tra i
due contendenti, assicurandosi, così, il potere.
• Basare la lotta tra il regno di Lilliput e quello di Blefuscu basandosi sul modo di rompere l’uovo, e
individuare in questo un vero e proprio dogma che, infranto, porta alla guerra i due imperi, nasconde la ben
più cruda e feroce battaglia contro le guerre di religione.
E’ chiaro che quello che viene qui espresso è frutto dell’ideologia illuminata, che vede nella vacuità della
ricchezza, nel dibattere una politica vuota e nella religione, e di conseguenza nelle guerre di religione,
l’assurdità di vivere in modo non razionale. Questo, ad esempio, ci viene espresso nel capitolo dei cavalli
saggi che hanno come animali domestici gli uomini. Quasi fossimo, in quanto non obbedienti alla vita
secondo natura, come dirà lo stesso illuminista eterodosso Rousseau, inferiori agli animali.
Il romanzo inglese venne letto e grandemente apprezzato da quegli illuministi autori dell’Encyclopédie, che
videro in essi il mezzo culturale adatto ad aderire meglio alle cose per poi poterle cambiare secondo ragione,
proprio perché capaci d’allargare e quindi di parlare ad un numero assai più vasto di lettori. Anche loro
avevano tale obiettivo e, come già detto, volevano esplicarlo in modo maggiormente metodico e didascalico
attraverso la loro monumentale opera, ma non disdegnavano affatto l’utilizzo di periodici e gazzette per
propagandare il loro credo. Adottarono anche la forma romanzo, ma in modo diverso, oseremmo dire più
radicale, rispetto ai loro colleghi inglesi e questo per due motivi:
• La cultura francese, quale si era sviluppata in questo periodo, era fortemente ideologizzata: ciò portava,
spesso, a forzare la natura narrativa per voler “mostrare” una verità;
• A tale situazione portava proprio la condizione politico-sociale dei due paesi: se in Inghilterra il
parlamentarismo guidava il cambiamento, indirizzandolo verso un riformismo che doveva evitare la rottura
sociale, in Francia l’atteggiamento retrivo dell’aristocrazia e della corte nonché la predominanza
dell’agricoltura come strumento economico, rendevano più urgente il loro sforzo di mostrare l’incongruenza
della realtà francese, attraverso quelli che vengono definiti contes philosophique.
Tra tali “racconti filosofici, proprio per un discorso di continuità con quanto adesso detto su Swift, ci piace
cominciare con le Lettere persiane di Montesquieu:
Desideroso di conoscere il mondo, il persiano Usbek un grande dignitario, parte con un amico, Rica,
alla scoperta del mondo occidentale. Durante il loro viaggio scambiano con diversi amici delle lettere
per riferire loro le proprie impressioni sulla civiltà occidentale, sui costumi e sulla vita quotidiana di
Parigi e per ricevere notizie dalla Persia, in particolare dall’harem di Usbek, a Ispahan, dove regna il
disordine dopo la partenza del signore. Un terzo personaggio, Rhèdi, risponde loro da Venezia. Usbek
discute sulla popolazione della terra, sui benefici della civilizzazione, sul diritto delle genti, sullo spirito
di tolleranza, sulla decadenza dell’impero turco, sull’impossibilità della conoscenza della natura di Dio.
Rica, a sua volta, descrive scene di vita parigina: l’Opera e la Comèdie, la folla variopinta, la curiosità
dei parigini alla vista di questi stranieri, i capricci della moda. Rica e Usbek ci raccontano tutta la
storia della Francia dal 1711 al 1720, durante il regno di Luigi XIV e contemporaneamente vivono una
storia d’amore e di morte. Le mogli di Usbek, abbandonate a se stesse nell’harem, tradiscono il marito
e quest’ultimo, prima di rientrare in tutta fretta a Ispahan, ordina ai suoi eunuchi di uccidere le
infedeli. Prima di avvelenarsi, Roxane, la moglie più amata, confessa a Usbek il suo amore per un altro
uomo.
Come si può leggere anche qui, come nello scrittore di Gulliver, viene utilizzato il processo dello
straniamento: ma la novità dell’opera del nobile francese è che egli lo utilizza su ambedue i versanti: se infatti
il persiano Usbeck può vedere gli atteggiamenti straniati, e quindi assurdi, dei parigini, lo stesso autore,
“straniandolo” dalla sua terra, ci fa capire le assurdità delle sue leggi (o del mondo orientale), cui la morale
aveva chiuso in un serraglio sua moglie, controllata da feroci eunuchi. Ma ciò non basterà a rassicurare a lui
la fedeltà di Roxane, che anzi lo tradirà con un giovane che, inoltre, prima di essere sopraffatto, ucciderà
molti di loro, costringendo al suicidio anche il loro capo per l’incapacità di controllo. Alla fine Roxane, ormai
senza alcun motivo di vita, scrive a Usbeck:
Con questa lettera con cui si sottolinea l’innaturalità dell’amore, si vuole appunto evidenziare
l’atteggiamento moralistico e repressivo che ambedue le culture, una cattolica, l’altra musulmana, hanno su
questo sentimento. E’ la stessa Roxane a rivendicare tale diritto, dicendo “ho riformato le tue leggi su quelle
della natura”, affermando cioè il suo diritto di donna in un mondo “razionale” che la riconosce tale non in
virtù di divieti dovuti a dogmi assurdi, ma secondo le auree leggi naturali, obbedienti solo al ciclo vitale. Su
questo tema saranno poi incentrati romanzi come la Nouvelle Eloise di Rousseau o I dolori del giovani
Werther di Goëthe, che apriranno la strada a quello che, per semplificare, verrà definito preromanticismo.
Altro importantissimo genere romanzesco è quello del Candido di Voltaire, tipico esempio del conte
philosophique:
Candide, giovane ingenuo e candido, ha come maestro Pangloss, che vuole insegnargli la filosofia
leibniziana secondo cui lui vive “nel migliore dei mondi possibili”. Ma le cose si mettono male per il
giovane: infatti innamorato della figlia del signore che lo ospita, tale signorina Cunegonda, trasportato
da passione, la bacia; ma scoperto sul fatto, viene cacciato a pedate dal castello in cui abita. Qui
comincia una serie di avventure, che mostrano a Candido un’umanità disperata, dolente e annoiata,
che sembra contraddire proprio l’insegnamento di Pangloss. Addirittura rischia di essere lui stesso
impiccato, ma fugge e incontra Pangloss. I due raggiunti dalle guardie vengono per l’ennesima volta
catturati , ma fuggono di nuovo e s’imbarcano. Fortunosamente scampano a morte sicura, perché
erano stati catturati dall’Inquisizione, e infine rincontrano Cunegonda, anche lui reduce da infinite
avventure. Ma si è fatta ormai vecchia brutta e noiosa. Alla fine Candido incontra il filosofo pessimista
Martino, che, contro Pangloss che continua a ripetere, contro ogni evidenza, che il loro mondo è il
migliore dei mondi possibili, afferma che l’unico modo per essere felici è lavorare per alleviare le
sofferenze del male, e seguendolo Candido, insieme a tutti gli altri personaggi, coltiverà il suo giardino,
decretando che il miglioramento avverrà con fatica e dedizione, senza farsi eccessive illusioni.
Il romanzo filosofico di Voltaire è caratterizzato dalla volontà di portare avanti, attraverso le perizie di un
personaggio, Candido appunto, non tanto una teoria filosofica, quanto distruggere quella di un suo valido
precedente avversario filosofico come Leibniz: il protagonista della storia sembra tanto contraddire con tutto
ciò che gli capita, il detto del “migliore dei mondi possibili”, sembrando, invece, che tutto ciò in cui il nostro
ingenuo protagonista incappi, gli dimostri che lui si barcameni in “uno dei peggiori mondi possibili”. Ciò
non toglie l’ambiguità del finale: sembra infatti che il disinteresse epicureo verso ogni forma d’attivismo
politico sia da premiare. Ma come può un uomo impegnato come Voltaire chiudere il proprio romanzo con
questo messaggio? La critica, oggi, individua nella frase di Candido non un atteggiamento rinunciatario, ma
invece pragmatico, cioè il bisogno d’interessarsi di problemi pratici, piuttosto, come Leibniz, d’arrivare,
attraverso la logica, a dimostrare una verità metafisica.
Per concludere il nostro discorso è necessario non passare sotto silenzio la nascita del “libertinismo”; questo
trae la sua visione del mondo dal sensismo di Condillac, secondo cui tutte le idee hanno la loro origine
dall’esperienza sensibile e dalla loro rielaborazione meccanica: attraverso questo concetto si può arrivare
quindi alla completa materialità dell’anima (se provo dolore è perché l’anima, in quanto materia, lo prova) e
quindi ad una visione legata alla ricerca “materiale” del piacere. Se il massimo piacere è il piacere sessuale,
ecco che quello che guida gli individui, è la ricerca dello stesso: se poi esso prevede la sottomissione
dell’altro, è uno scotto che bisogna pagare. E’ su questa base che si collocano i romanzi di De Sade, come
educazione alla filosofia libertina, contro quella repressiva religiosa.
Anche in quest’opera, come nelle altre dell’Illuminismo, si vuole guidare l’uomo ad uscire dalle tenebre della
superstizione per condurlo alla luce della verità e del vivere naturale. Portata tale premessa alle estreme
conseguenze avremo la ricerca della piena libertà sessuale, negata da una religione bigotta (disgustante la
definisce lui) e da quelle comuni virtù (assurdi precetti insegnati da genitori imbecilli) che limitano la piena
esplicitazione vitale dell’individuo. In Italia l’Illuminismo rappresenta una forte volontà di
sprovincializzazione che fa sì che la cultura italiana si riaffacci con capacità sul più vasto panorama europeo.
I centri in cui la cultura illuminista ha la massima fioritura sono quelli dove, a livello storico, si sono
affermati i princìpi innovatori e cioè Napoli e Milano. A Napoli gli intellettuali collaborano con il re Carlo di
Borbone che, espellendo i gesuiti, limitando i privilegi della nobiltà, si era aperto alle nuove istanze
illuminate. I maggiori rappresentanti di tale illuminismo sono Antonio Genovesi, che è convinto che compito
delle lettere è quello di “giovare alle bisogna della vita umana”, tale impegno è ribadito in un brano
dell’opera Lettere accademiche, accolta con favore in Italia e all’estero:
in cui mostra l’incongruità con una penalità severa e la mancanza di una politica sociale, in quanto l’una
deriverebbe dall’altra; L’altra figura di spicco è quella di Gaetano Filangeri, che nell’opera Scienza della
legislazione delinea un modello compiuto di società, basandosi su leggi politiche, economiche, criminali,
sull’educazione e via discorrendo. Interessante discorso in cui si delinea un’educazione, quindi un processo di
scolarizzazione allargato che se non spinge per una “rivoluzione sociale”, tuttavia ribadisce la necessità di
legare, proprio attraverso una pedagogia civile, l’uomo alla propria patria.
L’altro centro fondamentale, anzi il più importante dell’illuminismo italiano è Milano, dove, grazie al clima
inaugurato da Maria Teresa e da suo figlio Giuseppe II, la circolazione delle idee si fa più intensa, e dove
l’aristocrazia lombarda vuole dar vita ad un intenso rinnovamento della sua classe. A tale scopo i conti Pietro
ed Alessandro Verri, riuniscono presso la propria residenza gli intellettuali più impegnati che riportano poi le
discussioni vivaci avvenute nella Società dei Pugni di cui si fa portavoce la rivista Il caffè (1764/1766).
IL CAFFE’
Cos’è questo Caffè? E’ un foglio di stampa, che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo
foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose indedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte
dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno scritti questi fogli? Con ogni stile, che non
annoi. E sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il
Pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno
dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il Pubblico non li legge, la nostra fatica
sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto
nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene che
possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini, divertendoli,
come già altrove fecero e Stele, e Swift, e Addison, e Pope ed altri. Ma perché chiamate questi fogli “il
Caffè”? Ve lo dirò ma andiamo a capo. Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e
Candia, mal soffrendo l’avvilimento, e la schiavitù, in cui i greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani
hanno conquistata quella Contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli esempi,
son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da
noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò
parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi
in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi ha aperta una bottega addobbata con
ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caffè, che merita il nome
veramente di Caffè: Caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’Aloe che chiunque lo prova,
quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plumbeo della terra, bisogna che per necessità si
risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si
respira un’aria sempre tepida, e profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni
parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega,
che vuol leggere, trova sempre i fogli di Novelle Politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa*, e quei di
Lugano, e vari altri; in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e
l’Estratto ella Letteratura Europea, e simili buone raccolte di Novelle interessanti, le quali fanno che gli
uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi, o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco
Europei; in essa bottega v’è di più un buon Atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove
Politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si
discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son
compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto
degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi i ordine vari, così li do alle stampe col titolo Il
Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè.
*cantone svizzero
Questo testo è fondamentale perché è rivelatore di alcuni concetti estremamente importanti per la nostra
cultura:
• Sin dall’incipit si dichiara che gli argomenti di cui parlerà il periodico saranno vari e ciò significa dare un
calcio alla nostra tradizione che aveva, sin dall’Umanesimo, diviso tra cultura alta e cultura bassa;
• la cultura è tale solo utile; il classicismo sarà bello, ma inutile (concetto suscitatore di molte polemiche,
anche fra i simpatizzanti illuministi, vedi Parini); • come espresso prima, se la cultura è utile, essa dovrà avere
uno stile che le permetta di parlare a tutti, e non solo agli intellettuali. Ora se la nostra lingua non permette,
in modo chiaro e limpido, l’esplicitazione di un concetto, nulla di strano se si usa un francesismo (concetto
che farà inorridire i puristi della lingua);
• la relazione fra cultura e mercato: l’opera avrà vita finché avrà mercato e lo avrà fintanto che il pubblico la
reputi “utile”;
• la non nascosta “filiazione” di questa esperienza da quella inglese (come abbiamo visto The Spectator di
Addison);
• da quest’ultimo deriva l’imitazione del clima, il club per Addison, il Caffè per Verri, in cui un mondo di
varia umanità può discorrere liberamente di ogni cosa e che il giornalista osserva e riporta.
L’opera più importante dell’illuminismo lombardo, capace di influenzare in modo profondo il pensiero
giuridico dell’intera Europa è certamente Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria:
LA PENA DI MORTE
Questa inutile prodigalità di supplizii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare
se la pena di morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto
che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la
sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno.
Esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia
voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio d’ucciderlo? Come mai nel minimo sagrificio della libertà di
ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutt’i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal
principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi? Ei doveva esserlo, se ha potuto dare altrui
questo diritto, o alla società intera. Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che
tale esser non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino; perché giudica necessaria o utile la
distruzione del suo essere: ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa
della umanità (…). Non è l’intenzione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma
l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma
replicate impressioni, che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale
sopra ogni essere che sente; e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni coll’aiuto di lei,
così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma
passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di
libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offeso, che è il
freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto, ritorno sopra di noi medesimi:
“Io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione, se commetterò simili misfatti”, è assai più
possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggono sempre in una oscura lontananza (…). La
pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte, e un oggetto di compassione mista di sdegno
per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l’animo degli spettatori, che non il salutare terrore
che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue, il sentimento dominante è l’ultimo,
perché è il solo. Il limite che fissare dovrebbe il legislatore al rigore delle pene, sembra consistere nel
sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un
supplizio più fatto per essi, che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi
d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier
possa la totale e perpetua perdita della propria libertà, per quanto avvantaggioso possa essere un delitto:
dunque l’intenzione della pena di schiavitù perpetua, sostituita alla pena di morte, ha ciò che basta per
rimuovere qualunque animo determinato.
L’opera del Beccaria (1738 / 1794), Dei delitti e delle pene, pubblicata nel 1764, ebbe una vasta eco in tutta
Europa, tanto da diventare l’opera illuminista più tradotta nell’intera Europa.
Il ragionamento del giurista lombardo parte da una semplice considerazione: qual è il diritto con cui si dà la
morte? Considerandolo come un “aggregato di volontà particolare” esso si oppone alla volontà generale che è
quella dello Stato, cui solo tocca il compito di punire. Essendo nella giurisdizione “vietata” la facoltà di
togliersi la vita, nonché quella di togliere la vita, può a sua volta uno stato “arrogarsi” tale diritto?
Razionalmente parlando, qual è l’utilità per uno stato, il torturare e quindi uccidere un uomo? Nessuno, esso
riguarda più il pubblico che assiste, l’emozione e l’orrore che produce più che la prevenzione (si sente qui
l’influenza del sensismo). Storicamente parlando il delitto non è mai “diminuito” uccidendo il colpevole.
Per Beccaria più efficace della morte è un’estensione della pena: la prima non è che la cessazione totale della
“possibile” libertà che lo stato infligge ad un colpevole; la seconda è un procrastinarsi di privazione di
porzioni di libertà che è certamente più efficace.
ARCADIA
L’Arcadia è un movimento letterario, nato nel 1690 e sviluppatosi intorno ad alcuni intellettuali che si
riuniscono in un’Accademia, con lo scopo deliberato di continuare quell’attività che essi svolgevano nella
casa di Cristina di Svezia, esule a Roma e convertitasi al cattolicesimo. Il nome deriva proprio da uno di
questi incontri, avvenuto a seguito della morte della sovrana e, sottolineando l’ambiente di estrema eleganza e
raffinatezza cui si dava luogo allo scambiarsi delle esperienze poetiche, un partecipante esclamò che tale
ambiente sembrava ricreare l’atmosfera bucolica, così descritta nell’opera del Sannazaro in pieno ‘400,
denominata, appunto Arcadia. Vedremo in seguito, richiamandosi alla poesia bucolica latina e greca e quindi
all’autore napoletano dell’Umanesimo, quale fosse l’intento e il clima culturale che tali intellettuali volevano
ricreare, ma è importante sottolineare che questo movimento rompe con la tradizione barocca dando vita a
qualcosa di nuovo, sebbene la loro novità sia ancora piuttosto timida.
Ma affinché ciò potesse avvenire era necessario che cambiassero le coordinate storiche e culturali dell’intera
Europa e che porteranno a considerare il nuovo secolo come l’età della ragione e delle rivoluzioni.
E’ il periodo in cui, terminato il disegno egemonico della Francia con Luigi XIV, si assiste a un equilibrio tra
le grandi potenze che porteranno ad una completa revisione dell’aspetto europeo con:
1. la guerra di successione spagnola: al suo termine con il trattato di Utrecht gli Asburgo d’Austria si
sostituiscono, quasi completamente, al potere spagnolo in Italia; inoltre la Spagna deve cedere i Paesi Bassi
(sempre all’Austria), mentre la Francia perde alcuni territori nella colonia americana a favore dell’Inghilterra;
2. la guerra di successione polacca, che, pur non determinando assetti completamente nuovi, ridimensionò il
potere asburgico (si pensi alla cessione della Lorena alla Francia)
3. la guerra di successione asburgica, che vide l’affermazione nel regno asburgico di Maria Teresa d’Austria,
il regno di Napoli affidato a Carlo di Borbone e un allargamento significativo dello Stato Sabaudo.
Tale concezione, forse ancora completamente dinastica dell’Europa, mostrava tuttavia le sue pieghe proprio
grazie alla concentrazione della ricchezza nelle mani di una borghesia capitalistica che a livello
manifatturiero , mercantile e coloniale, metteva a frutto le sue competenze ed il suo denaro per dar vita a
quelle prime forme di razionalizzazione del lavoro che porteranno l’Inghilterra a fondare, proprio in questo
secolo, la prima era industriale della storia.
Tale cambiamento avrà, sia come causa che come conseguenza, l’affermazione dell’illuminismo, nuova
corrente culturale (sbagliato definirla solo filosofica) che coinvolgerà l’intero scibile umano, mettendo a
frutto la grande esperienza del pensiero scientifico seicentesco ed applicandolo ad ogni forma del sapere.
Per tornare alla letteratura italiana si suole dire che il nostro Settecento si può dividere, più o meno in due
fasi: la prima, appunto dal 1690, anno di fondazione dell’Accademia dell’Arcadia, l’altra nel 1764 con la
pubblicazione del Caffè dei fratelli Verri, con la quale si dà vita ad una letteratura legata all’ideologia
illuminata dei philosophes d’oltralpe. L’Arcadia, propriamente detta, come si sa, prende riferimento dai testi
classici e dall’opera di Sannazzaro: già in quest’ultima vengono definiti i contorni entro i quali se ne
strutturano i temi: ambiente idealizzato, abitato da pastori lontani da ogni preoccupazione e affanno, vissuto
nell’ozio dell’esercizio poetico. I suoi componenti si danno nomi di antichi pastori, si riuniscono in un luogo
detto Bosco Parrasio; il presidente dell’Accademia è chiamato custode generale, e il simbolo che la
caratterizza è la zampogna del dio dei boschi Pan. Vengono istituiti anche specifici rituali: Gesù Bambino,
nato tra pastori, è il loro protettore e il loro statuto viene elaborato in latino arcaico. Tale modello avrà
larghissima diffusione sul territorio nazionale: vengono istituite sedi dell’Arcadia nelle città più importanti e
viene dato loro il nome di colonie.
Tale espansione avrà una duplice conseguenza:
1. omogeneizzazione del gusto e della cultura;
2. democratizzazione (tutti sono uguali di fronte alla poesia e all’arte) Il programma vero e proprio
dell’Arcadia è di netta opposizione al gusto barocco e una ripresa, attraverso un rinnovamento della poesia
italiana, alla ragionevolezza, naturalezza, semplicità d’espressione e limpidezza stilistica; essi infatti si
dichiarano i restauratori della poesia italiana (dopo la cosiddetta barbarie del secolo precedente) e cercano,
nella loro arte, una attenzione per la realtà e la verità in un linguaggio semplice e diretto, ma al contempo
limpido e preciso. Ciò li porta a rivalutare il classicismo che essi giudicano attraverso il concetto d’equilibrio
formale e morale. Gli esiti, tuttavia, non sono pienamente coerenti con le intenzioni: pur nell’esigenza di
evitare i cosiddetti eccessi barocchi, ne cadono in altri, come l’eccessiva leziosità e falsa leggerezza:
PAOLO ROLLI
SOLITARIO BOSCO OMBROSO
La poesia di Rolli ci mostrerà come gli arcadi non si tirano indietro di fronte ad alcune novità, soprattutto da
un punto di vista metrico: spesso cercano, infatti, l’effetto della musicalità in versi più brevi
dell’endecasillabo. Ce lo ricorda Wolfang Goethe che afferma di ricordare proprio questa canzonetta,
modulata dalla madre durante la sua infanzia.
Ma sarà proprio la musicabilità, che si trasformerà spesso in cantabilità a caratterizzare alcuni capolavori
della produzione dell’Arcadia, che nel melodramma di Pietro Metastasio raggiungerà e sarà apprezzato
nell’intera Europa.
CARLO GOLDONI
Carlo Goldoni nasce a Venezia, nel 1707, da padre medico. Sin dall’infanzia mostra una spiccata vocazione
per il teatro, giocando con un teatrino per burattini. A Perugia, dove il padre si è trasferito, recita per la prima
volta, vestendo le parti di una donna, nella commedia del Gigli, La sorellina di Don Pilone (1719), quindi,
l’anno successivo, si sposta a Rimini, dove studia svogliatamente filosofia. Nel 1721 raggiunge la madre a
Chioggia (vicino a Venezia), facendosi accompagnare da una compagnia di comici.
Convinto il padre a lasciare filosofia s’iscrive a legge dapprima a Venezia e quindi a Pavia: ma da qui viene
cacciato per una feroce satira contro le donne della città. Infine si laureerà in legge ma a Padova nel 1731,
dopo la morte del padre, che significherà, per lui, assumersi le responsabilità della famiglia. Comincia a
lavorare a Chioggia presso la Cancelleria criminale, ma il suo amore per il teatro è tanto che riesce a
intervallare alla pratica giuridica anche l’attività di scrittore di melodrammi e d’intermezzi comici, nonché
quella di attore. Scappato da Venezia per una torbida storia d’amore, gira per alcune città settentrionali,
finché a Genova incontra Nicoletta Connio, che sarà per lui compagna di una vita, e l’impresario Imer, che lo
riconduce a Venezia. Per lui al teatro di San Samuele mette in scena nel 1738 il Momolo Cortesan in cui
comincia a mettere in atto la sua “riforma del teatro” scrivendo la parte del protagonista; tale riforma verrà di
lì a poco completata con La donna di garbo del 1742, interamente scritta. Si sposta per un quadriennio a Pisa,
oppresso da debiti, esercitando il mestiere di avvocato: ma nel 1748 incontra Girolamo Medebach che gli
propone di diventare il poeta comico della sua compagnia per il teatro Sant’Angelo e quindi di ritornare di
nuovo a Venezia. Coglie qui un primo grande successo con la Vedova scaltra e con la Putta onorata (1749)
in dialetto veneziano. Ma l’attività teatrale di Goldoni non procede in modo lineare, oltre all’alternanza tra
successi, come la Famiglia dell’antiquario ed clamorosi insuccessi come l’Erede fortunata, si aggiunge la
feroce polemica con l’abate Pietro Chiari (ora in forza al San Samuele). Per vincere la battaglia e la
concorrenza di ben tre teatri veneziani che si contendevano il favore del pubblico, Goldoni promette al suo di
pubblico di scrivere, entro l’anno, ben 16 commedie fra le quali meritano di essere ricordate La bottega del
caffè e Il bugiardo; ma nei due anni successivi, sempre per il Sant’Angelo scriverà La locandiera e La donna
vendicativa. Dal 1753 al 1762 lavora per il teatro San Luca di Francesco Vendramin, che gli offre un
contratto certamente più vantaggioso. Ma per Goldoni è un periodo più difficile: deve abituare il corpo di
attori a recitare commedie “regolari”, deve conquistarsi il favore di un pubblico più esigente e, non per
ultimo, deve far fronte alla guerra senza quartiere con Chiari (che al Sant’Angelo ha dato vita ad un teatro in
versi) e al Gozzi, che entusiasma il pubblico con commedie di carattere esotico. Si adatta anche lui con la
trilogia di Ircana (La sposa persiana; Ircana in Julfa; Ircana in Ispaan); tenta il teatro d’argomento storico,
ma la commedia forse più riuscita in questi primi anni al San Luca è la dialettale Il campiello (1756). Negli
anni in cui l’editore Pasquali annuncia la pubblicazione in volume delle sue commedie (1761), il nostro,
sempre per l’impresario Vendramin scrive alcune commedie che verranno annoverate tra i suoi capolavori: le
due dialettali I Rusteghi e le Baruffe chiozzotte e la trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura;
Le avventure della villeggiatura; Il ritorno dalla villeggiatura). Nonostante il riconoscimento degli illuministi
italiani tra cui il Verri e del francese Voltaire, le polemiche verso il suo teatro continuano e s’inaspriscono:
stanco e deluso anche per il rifiuto che il pubblico veneziano decreta per le sue ultime opere, va a Parigi dove
produce in francese il Bourru bienfaisant e in italiano Il ventaglio. A Parigi svolge le mansioni di maestro
d’italiano per le figlie di Luigi XVI e si trova suo malgrado coinvolto negli avvenimenti della Rivoluzione
Francese. Comincia a scrivere le sue memorie (Mèmoires) che conclude un anno prima della sua morte, nel
1793. E’ proprio a partire dalle Mèmoires che bisogna partire per capire la vocazione teatrale del nostro.
Dobbiamo ricordare che esse furono scritte in francese da un Goldoni ormai vecchio e disilluso; e sono
pertanto più che il vero e proprio frutto dei ricordi, l’idealizzazione degli stessi, vissuti con il rimpianto tipico
dei vecchi verso la loro giovinezza.
MONDO E TEATRO
(…) Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno, qualunque ei si sia, di miglior senso, col
mezzo di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive, o esemplari in questo genere de’ migliori
antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte
Nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettera de’ più venerabili e celebri Autori,
da’ quali, come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i
due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai d’essermi servito, furono il Mondo e il
Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion
fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi 17/45
argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane
passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’instruisce de’ vizi e de’
difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o
la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi co’ quali la Virtù a
codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in
qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto assolutamente necessario che si sappia da chi
vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io
lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le
passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il
maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendan grati agli occhi delicati de’ spettatori. Imparo
insomma dal Teatro a distinguere ciò che è più atto a far impressione sugli animi, a destar la meraviglia,
o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella
Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ‘l
ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo. Ho
appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia all’occasione delle mie stesse Commedie, il gusto
particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere diverso in ben molte cose da
quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute
in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio qualche critica, dalle quali non
ordinario applauso avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a
regolar talvolta il mio gusto su quello dell’universale, a cui deggio principalmente servire, senza darmi
pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti o difficili, i quali pretendono di dar legge al gusto
di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola
testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e
convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi.
L’intento del brano è decisamente didascalico: l’autore, infatti vuole mostrare cosa egli intenda con lo
scrivere una commedia, e lo fa sottolineando alcuni punti fondamentali:
• Mondo: con questo termine egli intende la realtà, l’osservazione diretta attraverso la quale il Goldoni
intende costruire i suoi caratteri.
• Teatro: l’osservazione della realtà deve entrare nel palcoscenico, farsi vita all’interno di esso, cogliendo gli
aspetti che possono essere utili agli spettatori, affinché possano, comunque, trarne una morale.
• Pubblico: l’autore di teatro non può prescindere dalla presenza del pubblico: qualsiasi riforma portata avanti
astrattamente è destinata al fallimento; Goldoni riforma il teatro proprio a partire dalle esigenze e dalle
risposte che gli spettatori mostrano ad ogni suo spettacolo.
E’ difficile poter seguire un percorso sull’opera goldoniana: le sue commedie rappresentano un mondo da
scandagliare nel suo insieme: infatti, a progressi sulla rappresentazione dei caratteri ci sono ritorni che si
richiamano alla commedia dell’arte. Si può semplicemente richiamare la produzione goldoniana attraverso
cinque fasi:
TRUFFALDINO CAMERIERE
Un cameriere, con un piatto, poi Truffaldino, poi Florindo, poi Beatrice, e altri camerieri. (Truffaldino, entrato
Florindo in camera, corre col piatto e lo porta a Beatrice)
Qui si mette in luce come la commedia dell’arte si basasse soprattutto sulle capacità dell’attore e la rapidità
della scena da cui partirà il vaudeville moderno: pur avendo scritto la parte, è chiaro che la comicità si basa
qui sul movimento, la gestualità, lo sparire e il ricomparire dalle quinte. Tuttavia Goldoni sembra conservare
il meglio della commedia dell’arte: se è vero che Truffaldino è il figlio diretto del teatro delle maschere, è
anche vero che l’ambiente è rappresentato con realismo e vivacità.
IL MARCHESE E IL CONTE
(Sala di locanda, il marchese di Forlipopoli ed il conte di Albafiorita)
MIRANDOLINA
MIRANDOLINA: Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure,
se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non
so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti
arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono
di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta si bruscamente? Questi è
il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere trattare con me. Non dico che
tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? E’ una cosa che mi muove la bile
terribilmente. E’ nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che
sappia fare. Ma la troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca.
Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e
non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia
debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho
bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di
nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature d’amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere,
abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che
abbia prodotto al mondo la bella madre natura.
Goldoni disegna col personaggio di Mirandolina un nuovo tipo di donna nel teatro comico italiano. Nella
commedia dell’arte, infatti, le donne erano relegate in ruoli secondari; non dimentichiamo poi il ruolo che la
“servetta” aveva in tal teatro; invece il nostro con Mirandolina rappresenta una donna borghese, che decide
del suo futuro, che sa gestire la sua vita e che, con le armi “femminili”, vuole vendicarsi di un mondo per lei
superato.
LE COMMEDIANTI E LA COMMEDIANTE
(Altra camera di locanda – Ortensia, Dejanira, Fabrizio.)
FABRIZIO: Che restino servite qui, illustrissime. Osservino quest’altra camera. Quella per dormire, e questa
per mangiare, per ricevere, per servirsene come comandano. ORTENSIA: Va bene, va bene. Siete voi
padrone, o cameriere.
FABRIZIO: Cameriere, ai comandi di V. S. illustrissima.
DEJANIRA: (Ci dà delle illustrissime). (piano a Ortensia, ridendo)
ORTENSIA: (Bisogna secondare il lazzo). Cameriere?
FABRIZIO: Illustrissima.
ORTENSIA: Dite al padrone che venga qui, voglio parlar con lui per il trattsunento. FABRIZIO: Verrà la
padrona; la servo subito. (Chi diamine saranno queste due signore così sole? All’aria, all’abito, paiono dame).
(da sè, e parte)
(…)
(Mirandolina e dette).
DEJANIRA: Madama, voi mi adulate. (ad Ortensia, con caricatura) ORTENSIA: Contessa, al vostro
merito si converrebbe assai più. (fa lo stesso) MIRANDOLINA: (Oh che dame cerimoniose!) (da sè, in
disparte)
DEJANIRA: (Oh quanto mi vien da ridere!)
ORTENSIA: Zitto: è qui la padrona. (piano a Dejanira)
MIRANDOLINA: M’inchino a queste dame. Ortensia. Buon giorno, quella giovane. DEJANIRA: Signora
padrona, vi riverisco. (a Mirandolina)
ORTENSIA: Ehi! (fa cenno a Dejanìra, che si sostenga)
MIRANDOLINA: Permetta ch’io le baci la mano. (ad Ortensia)
ORTENSIA: Siete obbligante. (le dà la mano Dejanìra. (Ride da sè.)
MIRANDOLINA: Anche ella, illustrissima. (chiede la mano a Dejanira) DEJANIRA: Eh, non importa …
ORTENSIA: Via, gradite le finezze di questa giovane. Datele la mano. MIRANDOLINA: La supplico.
DEJANIRA: Tenete. (le dà la mano, si volta, e ride)
MIRANDOLINA: Ride, illustrissima? Di che?
ORTENSIA: Che cara Contessa! Ride ancora di me. Ho detto uno sproposito, che l’ha fatta ridere.
MIRANDOLINA: (Io giuocherei che non sono dame. Se fossero dame, non sarebbero sole). (da sè)
ORTENSIA: Circa il trattamento, converrà poi discorrere, (a Mirandolina) MIRANDOLINA: Ma! Sono
sole? Non hanno cavalieri, non hanno servitori, non hanno nessuno?
ORTENSIA: Il Barone mio marito …
DEJANIRA: (Ride forte.)
MIRANDOLINA: Perchè ride, signora? (a Dejanira)
ORTENSIA: Via, perchè ridete?
DEJANIRA: Rido del Barone di vostro marito.
ORTENSIA: Sì, è un cavaliere giocoso: dice sempre delle barzellette; verrà quanto prima col conte Orazio,
marito della Contessina.
23/45
DEJANIRA: (Fa forza per trattenersi da ridere.)
MIRANDOLINA: La fa ridere anche il signor Conte? (a Dejanira)
ORTENSIA: Ma via, Contessina, tenetevi un poco nel vostro decoro. MIRANDOLINA: Signore mie,
favoriscano in grazia. Siamo sole, nessuno ci sente. Questa contea, questa baronia, sarebbe mai …
ORTENSIA: Che cosa vorreste voi dire? Mettereste in dubbio la nostra nobiltà? MIRANDOLINA: Perdoni,
illustrissima, non si riscaldi, perchè farà ridere la signora Contessa.
DEJANIRA: Eh via, che serve?
ORTENSIA: Contessa, Contessa! (minacciandola)
MIRANDOLINA: Io so che cosa voleva dire, illustrissima, (a Dejanira) DEJANIRA: Se l’indovinate, vi
stimo assai.
MIRANDOLINA: Voleva dire: Che serve che fingiamo d’esser due dame, se siamo due pedine? Ah! non è
vero?
DEJANIRA: E che sì che ci conoscete? (a Mirandolina)
ORTENSIA: Che brava commediante! Non è buona da sostenere un carattere. DEJANIRA: Fuori di scena io
non so fingere.
MIRANDOLINA: Brava, signora Baronessa; mi piace il di lei spirito. Lodo la sua franchezza.
ORTENSIA: Qualche volta mi prendo un poco di spasso.
MIRANDOLINA: Ed io amo infinitamente le persone di spirito. Servitevi pure nella mia locanda, che siete
padrone; ma vi prego bene, se mi capitassero persone di rango, cedermi quest’apparrtamento, ch’io vi darò
dei camerini assai comodi.
DEJANIRA: Sì, volentieri.
ORTENSIA: Ma io, quando spendo il mio denaro, intendo volere esser servita come una dama, e in questo
appartamento ci sono, e non me ne anderò.
MIRANDOLINA: Via, signora Baronessa, sia buona … Oh! Ecco un cavaliere che è alloggiato in questa
locanda. Quando vede donne, sempre si caccia avanti. ORTENSIA: È ricco?
MIRANDOLINA: Io non so i fatti suoi.
Sembra che l’intervento di questi due personaggi all’interno della commedia sia quasi di contorno e che abbia
in sé quello di riaffermare i “caratteri dei protagonisti” (nella parte non riportata vediamo come ad esse
accorrono il conte ed il marchese, mentre il cavaliere le tratta con disprezzo). Tuttavia esse rappresentano
qualcosa in più. In primo luogo esse “fingono” di essere, esattamente come un qualsiasi attore finge una
parte. Per meglio dire esse recitano la parte di gran dame, ma tale recita è talmente goffa e non veritiera che è
soltanto il vecchio mondo, abituato ad una recitazione sopra le righe, a non accorgersi del loro inganno.
Mirandolina è un’attrice più scaltra: lei sa “fingere” con i suoi “spasimanti”, riesce a rivestire la parte della
donna un po’ civettuola, quando serve, (non per niente suscita la gelosia di Fabrizio), ma sa anche
smascherare una recitazione pedestre. Per questo, in questo caso si è parlato di metateatro: è come se Goldoni
abbia voluto mettere in contrapposizione la vecchia commedia dell’arte con la sua commedia di carattere.
MIRANDOLINA E IL CAVALIERE
(Mirandolina colla biancheria e il cavaliere di Ripafratta)
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MIRANDOLINA: (entrando con qualche soggezione) Permette, illustrissimo? CAVALIERE: (con
asprezza) Che cosa volete?
MIRANDOLINA: (s’avanza un poco) Ecco qui della biancheria migliore. CAVALIERE: (accenna il
tavolino) Bene. Mettetela lì.
MIRANDOLINA: La supplico almeno di degnarsi vedere se è di suo genio. CAVALIERE: Che roba è?
MIRANDOLINA: (s’avanza ancor di più) Le lenzuola sono di Rensa. CAVALIERE: Rensa?
MIRANDOLINA: Sì signore, dieci paoli al braccio. Osservi.
CAVALIERE: Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato.
MIRANDOLINA: Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno
conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei. CAVALIERE: “Per esser
lei!” Solito complimento.
MIRANDOLINA: Osservi il servizio di tavola.
CAVALIERE: Oh! queste tele di Fiandra, quando si lavano perdono assai. Non vi è bisogno che le
insudiciate per me.
MIRANDOLINA: Per un cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette
ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima. CAVALIERE: (da sé) Non si può però negare, che costei
sia una donna obbligante. MIRANDOLINA: (da sé) Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le
donne. CAVALIERE: Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è
bisogno che v’incomodiate per questo.
MIRANDOLINA: Oh, io non m’incomodo mai, quando servo cavaliere di sì alto merito. CAVALIERE:
Bene, bene, non occorr’altro. (da sé) Costei vorrebbe adularmi. Donne, tutte così!
MIRANDOLINA: La metterò nell’arcova.
CAVALIERE: (con serietà) Sì, dove volete.
MIRANDOLINA: (da sé; va a riporre la biancheria) Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente.
CAVALIERE: (da sé) I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano.
MIRANDOLINA: (ritornando senza la biancheria) A pranzo, che cosa comanda? CAVALIERE: Mangerò
quello che vi sarà.
MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell’altra, lo dica al cameriere.
CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere.
MIRANDOLINA: Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazienza che abbiamo noi altre
donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto
col conte e col marchese.
MIRANDOLINA: Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e
pretendono poi di voler fare all’amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro
ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a
bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza.
CAVALIERE: Brava! Mi piace la vostra sincerità.
MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di buono, che la sincerità.
CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere.
MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli
spasimati per me, se mai ho dato loro un segno d’affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si
potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché 25/45
il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come
abborrisco anche le donne, che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche
annetto; non son bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché
stimo infinitamente la mia libertà.
CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un gran tesoro.
MIRANDOLINA: E tanti la perdono scioccamente.
CAVALIERE: So ben io quel che faccio. Alla larga.
MIRANDOLINA: Ha moglie V.S. illustrissima?
CAVALIERE: Il cielo me ne liberi. Non voglio donne.
MIRANDOLINA: Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore… Basta, a me non tocca a dirne
male.
CAVALIERE: Voi siete per altro la prima donna, ch’io senta parlar così. MIRANDOLINA: Le dirò: noi
altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini che hanno paura
del nostro sesso.
CAVALIERE: (da sé) E’ curiosa costei.
MIRANDOLINA: Con permissione di V.S. illustrissima (finge voler partire) CAVALIERE: Avete premura
di partire?
MIRANDOLINA: Non vorrei esserle importuna.
CAVALIERE: No, mi fate piacere; mi divertite.
MIRANDOLINA: Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto
allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono… Se la m’intende, e’ mi fanno i
cascamorti.
CAVALIERE: Questo accade, perché avete buona maniera.
MIRANDOLINA: (con una riverenza) Troppa bontà, illustrissimo.
CAVALIERE: Ed essi s’innamorano.
MIRANDOLINA: Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna! CAVALIERE: Questa io non
l’ho mai potuta capire.
MIRANDOLINA: Bella fortezza! Bella virilità!
CAVALIERE: Debolezze! Miserie umane!
MIRANDOLINA: Questo è il vero pensare degli uomini. Signor cavaliere, mi porga la mano.
CAVALIERE: Perché volete ch’io vi porga la mano?
MIRANDOLINA: Favorisca; si degni; osservi, sono pulita.
CAVALIERE: Ecco la mano.
MIRANDOLINA: Questa è la prima volta, che ho l’onore d’aver per la mano un uomo, che pensa
veramente da uomo.
CAVALIERE: (ritira la mano) Via, basta così.
MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que’ due signori sguaiati, avrebbe tosto
creduto ch’io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice libertà, per tutto
l’oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia,
senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, mi comandi
con autorità, e avrò per lei quell’attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo.
CAVALIERE: Per qual motivo avete tanta parzialità per me?
MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso
trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità
di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate.
CAVALIERE: (da sé) Che diavolo ha costei di stravagante, ch’io non capisco. MIRANDOLINA: (da sé) Il
satiro si anderà a poco a poco addomesticando. CAVALIERE: Orsù, se avete da badare alle vostre cose,
non restate per me. 26/45
MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad attendere alle vicende di casa. Queste sono i miei amori, i miei
passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere. CAVALIERE: Bene… Se qualche volta
verrete anche voi, vi vedrò volentieri. MIRANDOLINA: Io veramente non vado mai nelle camere dei
forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta.
CAVALIERE: Da me… Perché?
MIRANDOLINA: Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo. CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s’innamorano. (da sé) Mi
caschi il naso, se avanti domani non l’innamoro. (parte)
(il cavaliere solo)
CAVALIERE: Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero
farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un so che di
estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più
tosto con questa che con un’altra. Ma per far all’amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi,
pazzi quelli che s’innamorano delle donne. (parte)
La pagina qui presentata è un capolavoro nel cogliere la psicologia femminile: Mirandolina riesce a colpire
l’antagonista nei sui punti deboli, facendolo a poco a poco cadere. E’ la femminilità offesa che si vendica, ma
è anche la descrizione della nuova donna nella società dinamica del Settecento, la versante femminile
dell’ideologia “borghese” che l’illuminismo stava diffondendo. Eppure anche lei presenta, pur nella sua
estrema capacità, anzi si potrebbe dire grazie ad essa, alcune caratteristiche che ne fanno un personaggio
assolutamente ambiguo: ama essere corteggiata, grazie a questo riceve – e non rifiuta mai – doni; tratta con
durezza Fabrizio, il suo cameriere, di cui ha bisogno per essere protetta in caso di difficoltà, ma di cui si
servirà per sistemare la sua vita. Infatti, proprio nel momento in cui il cavaliere dichiarerà il suo amore,
annuncerà il matrimonio con lui. In tal modo Goldoni chiuderà il cerchio: rispetterà le differenze di classe,
ma la classe emergente merita tutto il rispetto del nostro autore.
La locandiera, non solo rappresenta uno dei punti più alti del teatro goldoniano, ma anche una certa fiducia
nella classe borghese, qui rappresentata dall’imprenditrice Mirandolina. A ben guardare ad essere sconfitta è
proprio l’aristocrazia, qui articolata in due figure ben disegnate, quella del conte (borghese arricchito che,
comprato il titolo nobiliare ne ha assunto atteggiamenti e ricchezza) e quella del marchese (antica aristoctazia
cui il benessere economico è andato perduto, così come è andata perduta la sua forza propulsiva per la città
lagunare). Rimane il cavaliere, il misogino, forse il nobile “maggiormente normale” – d’altra parte la sua
figura è ripresa da un personaggio reale, conosciuto da Goldoni – la cui normalità, tuttavia, si colora di
prepotenza, il signore cui tutto è dovuto, quando è richiesto a chi è socialmente inferiore. La “vendetta” di
Mirandolina è la vendetta appunto della borghesia, fattiva, intraprendente, capace di guardare al suo, di
contro ad un mondo ormai al tramonto, fatto dio cortesia affettata o di indisponenza.
Di fronte a una sempre maggiore concorrenza, e a una certa stanchezza che il suo teatro sembra mostrare,
Goldoni deve cercare di recuperare il successo entrando nel terreno stesso dei suoi avversari. Infatti costoro,
per avere successo, cercavano sempre più di uscire da un “realismo” piccolo borghese, mostrando scenari
esotici e capaci di far sognare. E’ il momento che anche Goldoni scrive Il filosofo inglese o La sposa
persiana. Eppure in questi testi troviamo una perfetta adesione dell’autore all’ideologia illuminista. Tuttavia
la non riuscita di tali commedie sta proprio nella preminenza dell’ideologia sulla scrittura teatrale. Nascono
anche alcuni personaggi che cominciano a mostrare un certo ripiegamento goldoniano, come Il vecchio
bizzarro o La donna bizzarra. Ma tuttavia il capolavoro di questa fase sembra essere Il Campiello, commedia
realista, dove si mostra una piazza veneziana e donne intente a presentare ragazze di marito.
Quarta fase (1759-1762)
E’ il periodo dei capolavori di Goldoni. Si ricordano tra questi I rusteghi, storie di quattro vecchi brontoloni
che saranno sconfitti dalla vitalità della gioventù, o La trilogia della villeggiatura, dove il nostro mette in
scena il cambiamento sociale avvenuto nel ripiegamento economico della città lagunare.
La trilogia della villeggiatura (chiamata così in età contemporanea) è composta da tre commedie: La smania
della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura.
Filippo con la figlia Giacinta e Leonardo con la sorella Vittoria si preparano a partire per la
villeggiatura. Innamorato di Giacinta, Leonardo spera di poter viaggiare nella sua carrozza, ma
Filippo ha già invitato Guglielmo, altro spasimante della ragazza. Gelosie e ripicche stanno per
compromettere le vacanze, quando il vecchio Fulgenzio appiana i contrasti e Leonardo si fidanza con
Giacinta. La vicenda si complica ne Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura.
Giacinta scopre di amare Guglielmo e la sua storia patetica s’intreccia con quella comica della vecchia
zia Sabina, incapricciatasi di Ferdinando, un pettegolo scroccone. Intanto Leonardo va in rovina per
debiti e la ragazza, impietosita, decide di salvarlo, sposandolo e portando la sua dote: partiranno
insieme per Genova, mentre Guglielmo sarà consolato dall’affetto di Vittoria.
FILIPPO E FULGENZIO
Tratto dalla prima delle commedie della villeggiatura, mostra due tipologie di uomini proprietari di ville
(villeggiare, andare in villa, trascorrere del tempo nella residenza campagnola). Fulgenzio ha con la
campagna un rapporto di tipo economico, vi si reca per la semina del grano, per il raccolto e la vendemmia,
potremo, con una parola sola, dire che il suo rapporto con la campagna è di tipo economico; Filippo viceversa
è colui che in campagna segue “più o meno i lavori”, le piace la compagnia, si accompagna con la figlia per
farla divertire, invita ed è invitato ai piaceri della mensa. Se il primo, potremo dire, segue un’etica
“tradizionale” del possedere terreni, il secondo rovescia tale etica e l’andare in campagna diventa distintivo di
un modo di fare a cui un tempo la nobiltà e ora la ricca
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borghesia non poteva fare a meno, e se per farlo si prendono denari in prestito, non importa: l’importante è
“farsi vedere”.
L’ABITO DELL’INVIDIA
Pagina magistrale di Goldoni che, al di là del suo significato metaforico, mostra una grandissima capacità nel
mostrare:
1. la descrizione di una società completamente votata all’apparire;
2. Il destino femminile teso soltanto al matrimonio; “mariage” in francese significa appunto “matrimonio”;
per le ragazze di buona famiglia il destino è quello di diventare mogli e madri, ma per far ciò è necessario
“apparire”, per far in modo che, foss’anche con un abito alla moda, si possa mostrare le possibilità
economiche di una futura sposa;
3. La capacità delle due donne di “dirsi” e non “dirsi” attraverso un dialogo estremamente fitto in cui valgono
di più gli a parte che le parole pronunciate; è evidente che l’importante “non detto” sveli l’incredibile
ipocrisia che sottende l’intero brano.
Anche qui, ma con maggior forza, si vuole sottolineare l’involuzione di quella borghesia che per
scimmiottare la nobiltà gioca sul suo stesso campo, cercando di confrontarsi con lo stato sociale più elevato
con mezzi quali la moda, cioè con quell’apparenza di cui abbiamo parlato prima. Ma in questa commedia tale
involuzione è mostrata proprio nel finale quando nel gioco delle coppie Giacinto sposerà chi non ama. E’ la
fine dell’idillio e dell’illusione goldoniana verso quella classe che ancora negli anni ’50 mostrava la sua forza
e dopo 10 anni, chiusa in se stessa, sanciva la fine della sua forza propulsiva (è corretto sottolineare che qui
Goldoni vuole rimarcare il fallimento di una borghesia che più che trovare una via propria di affermazione
sociale, imita la vuota e ormai superata nobiltà).
E’ evidente allora che l’unica speranza d’autenticità Goldoni l’affidi al popolo: è del ’62 la messa in scena de
Le baruffe chiozzotte in cui non c’è una vera e propria trama, ma racconta il continuo “baruffare”, litigare
appunto, di due famiglie di pescatori. Sembra che l’autore voglia sottolineare come questo prendersi a parole
appartenga più ad un rituale quotidiano che ad un vero e proprio litigio, e cerca di sottolinearlo usando
appunto il dialetto veneziano, che si piega, grazie a lui, ad un suono armonioso, uscendo dal bozzettismo e
portandolo a dignità d’arte.
Il brano rappresenta bene come il teatro goldoniano fosse intimamente legato alla sua città: Venezia; e non
soltanto per l’uso della lingua, ma perché qui veramente il mondo si fa teatro; qui il suo progetto si realizza
mirabilmente.
Quinta fase (1762-1793)
E’ il periodo francese di Goldoni, chiamato a Parigi come direttore della Comédie italienne specializzata in
scenari legati alla vecchia produzione. Infatti il pubblico francese non riesce ad apprezzare le novità
goldoniane, che sembra si allontanino dalla specificità e dalla fantasia del nostro teatro. Pertanto deve tornare
a fare produzioni anteriori alla riforma. Per il matrimonio di Maria Antonietta con Luigi XVI scrive Le
bourru bienfaisant (1771), intitolata in italiano Il burbero benefico, commedia sentimentale in cui il nostro
sembra trovare un po’ di serenità. Ma l’opera certamente più importante di questo periodo non è teatrale ma i
Memoires, con cui rievoca, con vivacità la sua vita e la sua vocazione teatrale.
GIUSEPPE PARINI
Giuseppe Parini è forse il poeta che meglio interpreta il ‘700 italiano: inizia la sua produzione poetica come
arcade, si avvicina alle idee illuministiche senza arrivare al radicalismo francese e mantiene per la sua intera
produzione poetica una venerazione per la forma classica.
Cenni biografici Nasce Bosisio, nella Brianza, nel 1729, ultimo di dieci figli, da una famiglia di modeste
condizioni (il padre era commerciante di seta). Iniziato agli studi presumibilmente dai parroci del paese, li
proseguì a Milano, presso una prozia, la quale gli garantì una rendita annua a patto che il nipote prendesse gli
ordini sacerdotali. Dopo una non brillantissima carriera scolastica pubblica il suo primo libro di poesie
Alcune poesie di Ripano Eupilino (nome di derivazione arcadica, tratto dall’anagramma del suo cognome –
Parino – e dal nome latino del lago presso il suo paese – Eupili). Questo libro gli diede fama immediata e gli
permise d’entrare nella prestigiosa Accademia dei Trasformati. Qui trovò un ambiente aperto ai problemi,
incline al dibattito su temi di varia natura e presto all’interno di essa raggiunse gradi di prestigio.
Nel 1754, ordinato sacerdote, entrò come precettore al servizio del duca Serbelloni, dove rimase per ben otto
anni, allontanandosi dopo aver avuto un diverbio con la duchessa. Questi anni furono fondamentali per
Parini: per lui, nato in ristrettezze economiche il mondo dell’aristocrazia lombarda gli sembrava pieno di
fascino, dove regnavano la gentilezza e le belle maniere; ma riuscì anche a vedervi un mondo dove imperava
la noia, il senso di vuoto e dove tutta quella bella coreografia sembrava ricoprire la nullità della classe
aristocratica ormai avviluppata intorno a gesti esteriori e riti codificati. In questi anni inizia la produzione
delle Odi, (tra le più famose di questo periodo La vita rustica e La salubrità dell’aria) che lo occuperà per
tutta la vita: esse non apparterranno a pubblicazioni regolari, ma verranno diffuse separatamente. Intanto
approfondisce il suo legame con le idee d’oltralpe: suggestionato dalle letture del Rousseau e di Voltaire,
Parini nel 1757 pubblica il Dialogo sopra la nobiltà. Sempre nello stesso anno inizia l’importantissimo
Discorso sopra la poesia, in cui chiarisce la sua poetica e il ruolo che egli affida alla letteratura.
A seguito del licenziamento della Serbelloni, inizia il servizio presso il conte Giuseppe Maria Imbonati, come
precettore di suo figlio Carlo. Per lui egli pubblica l’ode L’educazione. E’ del 1763 l’uscita, anonima, de Il
Mattino, prima parte del poema Il Giorno. Del 1765 è il Mezzogiorno, mentre Il Vespro e La Notte usciranno
postume. Quando Maria Teresa inizia un rapporto di collaborazione con gli intellettuali milanesi, Parini
diventa poeta ufficiale del Regio Ducale Teatro del conte Firmian, plenipotenziario dell’imperatrice. Il conte
offre a lui incarichi prestigiosi, come la direzione della Gazzetta di Milano e il ruolo di docente di Belle
Lettere presso le scuole Palatine istituite da Maria Teresa, poi Regio Ginnasio di Brera. Alla morte di Maria
Teresa gli succede Giuseppe II. Parini, come molti intellettuali milanesi, non condivide le riforme radicali del
nuovo sovrano. Deluso, si allontana progressivamente da quell’impegno civile che aveva caratterizzato la
sua opera precedente. Allo scoppio della Rivoluzione Francese, Parini mostra subito interesse per le idee di
libertà, tanto da destare sospetti da parte degli Austriaci. All’arrivo di Napoleone a Milano, Parini, insieme a
Pietro Verri, entra a far parte della nuova Municipalità, interessandosi della Pubblica Istruzione; ma solo
dopo tre mesi se ne allontana (o viene allontanato) per il suo moderatismo e per la sua difesa verso il
cattolicesimo. Ormai vecchio e malato, egli riduce al minimo i suoi impegni sia civili che letterari.
Al ritorno degli Austriaci, nel 1799, Parini non viene allontanato per aver collaborato con i Francesi. Ma
ormai la malattia lo mina nel fisico, tanto da condurlo alla morte nello stesso anno.
La poetica
La poetica pariniana è contenuta, oltre che nel Discorso sopra la poesia, nelle lezioni universitarie e in opere
poetiche come Alla Musa.
UTILITA’ DELLA POESIA
Se si dovesse chiedere se la poesia sia utile o meno, io risponderei che certo non è necessaria come il
pane, né utile come l’asino e il bue; ma, con tutto ciò, se bene utilizzata, può essere d’un grande
vantaggio per la società. E. sebbene io creda che compito del poeta non sia di essere utile in modo
diretto, ma di procurare piacere, tuttavia sono convinto che il poeta possa, volendolo, essere molto
utile. Infatti tutto ciò che ci reca un onesto piacere, è per noi di assoluto vantaggio. Tralascio il fatto che
tutto ciò che ci reca un onesto piacere si può veramente affermare che sia per noi vantaggioso; poiché,
essendo certo che è utile ciò che contribuisce a rendere felice l’uomo, a ragione si possono definire utili
tutte quelle arti che contribuiscono a renderci felici con procurarci piacere in alcuni momenti della
nostra vita. […] E’ certo che la poesia, eccitando in noi le passioni, può riuscire a farci sentire disgusto
per il vizio, mostrandocene la turpitudine, e a farci amare la virtù, imitandone la bellezza. […] La
poesia che consiste nel perfezionamento formale, nell’eleganza dell’espressione, nell’armonia del verso
è come un palazzo alto e regale, che ci può meravigliare, ma non emozionare. Al contrario la poesia
che ci tocca e ci commuove, è un grazioso panorama della campagna, che ci allaga e ci inonda il petto.
E’ una pagina importante, che ci offre la possibilità di capire che cosa e quale compito il Parini affidasse alla
poesia. In primo luogo al “meraviglioso” barocco e al “diletto” morale arcade, sostituisce l’“utilità”
illuminista. Tuttavia l’“utilità”, non dev’essere “diretta”, altrimenti cesserebbe il piacere. Quest’ultimo è dato
dalla bellezza, che se vuota e fine a se stessa “desta la meraviglia”, che, non emozionando, non può insegnare
ciò che è “turpitudine” e “virtù”; ma se privo di bellezza (come un bel prato fiorito) non risponderebbe al
bisogno dell’uomo, e quindi non avrebbe alcuna funzione.
Quest’opera, appartiene al periodo giovanile del Parini, infatti fu scritta tra le Poesie di Ripano Eupilino e la
stesura de Il Giorno. Pur inserendosi in un filone già ben sviluppato nel corso del Settecento, quello della
critica nobiliare, esso se ne distanzia per l’impianto quasi teatrale del dialogo e per la forza stringente del
ragionamento. In questa operetta si mostra come le idee sull’uguaglianza illuminista passi, in Parini,
attraverso un processo di rieducazione “nobiliare”, anche in vista di quello che sarà l’impegno del poeta,
quello di educare. Infatti per lui non si tratta, come per i più combattivi autori del Caffè, di creare un vero e
proprio ceto borghese, capace di rinnovare lo stato, cancellando le vecchie “feudalità”; egli crede che tale
rinnovamento sia compito della nobiltà:
• Una forte borghesia minerebbe in profondità le strutture sociali (e morali) dello stato;
• Il predominio dell’agricoltura e quindi dei proprietari terrieri, il cui compito è quello di modernizzare il
modo di produzione, lascerebbe intatta la struttura sociale e, come è tradizione, si baserebbe su quei principi
che sono alla base dell’educazione cattolica.
Odi
Anche le Odi risentono di quell’impegno civile, pur se mitigato da una concezione classica della
versificazione, ben in linea con le idee espresse nelle opere poetiche. Esse, 19 in tutto, furono composte in un
lungo periodo di tempo, dal 1757 al 1795 e sono testimonianza della temperie culturale che il nostro autore
attraversa.
Esse, proprio perché non rappresentano un opera pensata in un momento della vita, ma testimonianza sia
delle idee maturate dal poeta milanese sia dalle influenze che la temperie culturale gli offriva, sogliono essere
divise in tre momenti:
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• 1757 – 1796: odi dal carattere illuminista che risente dell’ideologica fisiocratica; di questo periodo
riportiamo la celeberrima La salubrità dell’aria (1759):
LA SALUBRITA’ DELL’ARIA
In quest’ode è palese la polemica contro la cattiva amministrazione cittadina che permette la presenza di
acque stagnanti per la produzione di riso intorno alla città e per la scarsa attenzione all’igiene pubblica. E’
evidente che tale argomento avvicina lo scrittore alle contemporanee battaglie del combattivo periodico
Caffè. Tuttavia c’è qualcosa che lo allontana e fa di quest’ode un tratto tipico della concezione poetica
pariniana: l’esaltazione della campagna, di contro alla città, è ancora pervasa da elementi idillici, edulcorati,
di derivazione arcadica; lo stile è fortemente ricercato, con una costruzione del verso fortemente ipotattica
con inversione degli elementi sintattici, richiami alla cultura classica, ma anche alla concretezza nominale,
secondo il sensismo “polmon capace”. Ma ancora più fondamentale è la chiusa dell’ode in cui afferma,
orgogliosamente, di scrivere poesia su argomenti “sconosciuti” letterariamente parlando, cioè riguardanti il
“vivere civile”, ma tale scelta può riguardare il tema poetico e non la forma, altrimenti la poesia cesserebbe di
essere tale.
• Nel secondo periodo, che copre gli anni tra il 1777 ed il 1785, le odi presentano un aspetto maggiormente
civile, come appare, appunto l’autobiografica e famosa ode La caduta (1785):
LA CADUTA
Su un tessuto fortemente classicheggiante, il Parini, come spesso nella sua poesia, gioca sulla
contrapposizione dell’innocenza del bambino che prima “ride” di fronte alla caduta, per poi commuoversi per
le ferite del poeta. Il poeta racconta un episodio autobiografico, una caduta sul selciato dovuta alle malcerte
gambe (era malato di artrite) e l’accorrere misericordioso di un passante. A questa prima descrizione ne segue
una seconda determinata dalla lunga perorazione del soccorritore, che muta tuttavia diventando da colui che
aiuta a risollevare il poeta a colui che lo vorrebbe “gettare” in terra con l’adulazione e la falsità intellettuale.
A questo rovesciamento corrisponde l’altrettanto ribaltamento dell’uomo in terra che invece sa elevarsi
moralmente sulla meschinità, insegnando, termine fondamentale nella poetica pariniana, la moralità che si
traduce, nel poeta stesso, in onestà intellettuale.
• Fra gli anni compresi tra il 1787 ed il 1795 cominciano a prevalere odi dal carattere intimistico, in cui
appare la crisi dell’illuminismo ed il sorgere di tematiche già neoclassiche, come ci testimonia l’ode Alla
Musa (1795):
ALLA MUSA
E’ questa una delle ultime odi del Parini e nasce come omaggio poetico verso un suo alunno, Febo D’Adda,
che stava per diventare padre. Non manca in quest’ode il sentimento morale che ha contraddistinto la fase
illuminista di Parini; tuttavia sono notevoli le differenze con un testo come La salubrità dell’aria:
• Non emerge qui un tema “prettamente civile”, ma un fatto privato; • E’ protagonista qui la poesia, che si
presenta nella sua forma “adorna” e classica; • Prevale, rispetto al sensismo, la ricerca di parole vaghe,
incorporee e prese dalla tradizione;
• Pervade l’ode la ricerca della armonia del dettato, che vuole rendere il tutto estremamente etereo;
• La consapevolezza dell’essere lui il cantore dell’armonia del canto poetico. E’ che Parini, ormai deluso dalla
piega cui l’Illuminismo ha condotto la storia, cerchi altri approdi poetici che la temperie culturale dell’epoca
stava già elaborando: il neoclassicismo.
Il Giorno
Questo passaggio dai valori illuministici ad una visione maggiormente neoclassica, armonica, della poesia, è
riscontrabile anche nell’opera maggiore del Parini: Il Giorno. Quest’opera consta di quattro parti: Il Mattino,
Il Mezzogiorno, Il Vespro e La Notte: e se i primi due sono informati dallo spirito de La vita rustica, gli ultimi
risentono del clima de Alla Musa, e furono pubblicati postumi all’inizio dell’800. E’ un poemetto in
endecasillabi sciolti, metro usato per le opere didascaliche; anche il Giorno lo è: infatti Parini s’immagina
precettore di un “giovin signore” e l’accompagna nei riti e nelle occupazioni proprie dei quattro momenti
della giornata. In sostanza deve “educare” questo giovane aristocratico a ben figurare nella vuota società alla
quale appartiene.
Tuttavia l’opera ha una funzione morale e satirica in quanto il suo vero oggetto è la vita frivola e vuota
dell’aristocrazia. E’ un’opera incompiuta, in quanto manca di una stesura definitiva. Dapprima il poeta lavora
contemporaneamente a due poemetti: il Mattino e il Mezzogiorno che vengono pubblicati nel 1763 e nel
1765; quindi comincia a progettare la Sera, senza concluderla. Più tardi pensa di riunire tutto il materiale in
un unico testo: dalla Sera derivano due parti il Vespro e la Notte, che tuttavia non vedranno la luce durante la
sua vita, ma saranno pubblicate, incompiute, postume. La continua revisione che dell’opera fa il poeta ci
porta a diverse edizioni del Giorno, in cui si riflettono i cambiamenti politici e poetici dell’autore. Il modo
con cui Parini conduce la narrazione è detto “antifrastico”: infatti esiste un narratore che ha una duplice
faccia: da una parte egli “educa” il giovin signore ai piaceri della vita, dall’altra polemizza contro quel
sistema di vita. Per meglio dire il lettore è invitato a leggere sempre il contrario di ciò che è contenuto nel
dettato. Il registro è pertanto l’ironia che sottende tutta l’opera.
Esempio di ciò è l’incipit:
LA VERGINE CUCCIA