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ANTROPOLOGIA
(M-DEA/01 – M-FIL/03 – L-ART/08)

monte ore 150 – CFU 6

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Cultura: origini e natura

Il termine cultura
Il termine cultura ha due significati fondamentali. Il primo, il più
antico, indica un processo di formazione individuale, fondato
sull'apprendimento di alcuni saperi, il cui scopo è lo sviluppo
equilibrato e completo della personalità umana.

Il secondo significato, formatosi tra il XVIII e il XIX secolo, indica


invece l'insieme dei modi di vivere, esprimersi e pensare che
caratterizzano un qualsiasi gruppo umano.

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Cultura: origini e natura

Il termine «cultura» viene dal latino colere, «coltivare», quindi


sarebbe «coltivazione della terra».

Dal momento che coltivare qualcosa significa sempre prendersene


cura, il termine colere veniva usato dai romani anche per indicare
l’atto di ornare il corpo o quello di venerare una divinità. È in questo
ambito di significati che prese forma il concetto antico di cultura.

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Cultura: origini e natura

Cicerone fu il primo a parlare di cultura animi ‒ alla lettera, di


"coltivazione dello spirito" ‒ come dell'obiettivo principale della
filosofia e, in generale, dell'educazione.

Come un terreno richiede una cura assidua per esplicare le proprie


potenzialità, cioè per dare frutti, così l'individuo deve coltivare il
proprio animo se vuole esprimere al meglio le proprie capacità.

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Cultura: origini e natura

La cultura classica

Come abbiamo detto, il termine latino cultura significava in primo


luogo coltivazione, tanto che Cicerone, per applicarlo all'uomo, doveva
aggiungere una specificazione (coltivazione dello spirito).

Per indicare la cultura come processo di formazione gli antichi


usavano altri termini: i Greci parlavano di paidèia (da pàis,
paidòs "ragazzo") e i Romani di humanitas (da homo "uomo").

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Cultura: origini e natura

Nonostante le parole fossero diverse, l'ideale educativo era tuttavia


lo stesso: per far sì che un ragazzo divenisse un uomo bisognava
coltivare il suo corpo con la ginnastica e il suo animo con la
letteratura, la retorica e la filosofia.

Le opere dei poeti, dei drammaturghi e degli storici lo avrebbero


ammaestrato sulle passioni degli uomini e sulle loro vicende; la
retorica lo avrebbe preparato alla vita politica, insegnandogli l'arte di
comunicare; la filosofia, infine, lo avrebbe introdotto alle forme più
alte del sapere.

Tale formazione era strettamente connessa con la vita sociale.

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Gli antichi erano infatti convinti che l'uomo fosse ‒ come diceva
Aristotele ‒ uno zoòn politikòn, un "animale politico", cioè
naturalmente socievole: sia nel senso che tende naturalmente a
vivere in società, sia nel senso che soltanto all'interno della società
può realizzare la sua vera natura.

L'ideale della cultura classica escludeva tutte le attività di tipo


utilitario e manuale perché le considerava indegne di un uomo libero,
e tutte quelle non dirette alla realizzazione terrena dell'uomo.

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La cultura, dunque, aveva pertanto un carattere aristocratico,


perché si rivolgeva agli uomini «superiori» che non avevano bisogno di
svolgere attività manuali e un carattere terreno, perché concentrava
l'attenzione dell'uomo su questo mondo.

Aveva, infine, anche un carattere contemplativo, perché vedeva


nella vita teoretica ‒ dedita alla ricerca disinteressata della sapienza
‒ il fine ultimo della cultura.

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La cultura dal Medioevo al Rinascimento

Il Medioevo conservò fondamentalmente il carattere aristocratico e


contemplativo dell'ideale classico, ma abbandonò quello terreno:
conformemente agli ideali cristiani di cui la società medievale era
intrisa, la vita terrena era concepita come preparazione alla vita
ultraterrena e quindi il processo di formazione dell'uomo era
finalizzato alla salvezza della sua anima.

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Le discipline vennero suddivise in arti del trivio (grammatica,


retorica, dialettica) e arti del quadrivio (aritmetica, geometria,
astronomia, musica): esse venivano insegnate nei chiostri e, a partire
dal XII secolo, nelle università.

Erano dette anche arti liberali, perché considerate le sole degne


di uomini liberi, e come tali distinte nettamente dalle arti servili, che
consistevano nell'esercizio di attività pratiche o manuali.

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La filosofia mantenne il suo ruolo predominante quale forma più


alta del sapere, ma venne intesa come preparazione alle verità
rivelate della religione e utilizzata per difendere queste ultime dalle
eresie: divenne cioè 'ancella della teologia'.

Soltanto a partire dal XIII secolo si cominciò a rivendicare, per la


filosofia, uno specifico e autonomo campo di indagine; ma essa
rimaneva comunque sottoposta alla suprema funzione direttiva della
religione.

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Con il Rinascimento la cultura si riappropriò del suo carattere


terreno: l'attenzione tornò a concentrarsi sull'uomo e sul mondo,
esaltando la libertà e la creatività del primo e l'armonia del secondo.

Il Rinascimento limitò anche il carattere contemplativo dell'ideale


classico, insistendo su quello attivo della sapienza umana, capace di
modificare il mondo e di ricreare, soprattutto nell'arte (pittura,
scultura, architettura), l'armonia che regna nell'Universo.

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L’Illuminismo

Con l'Illuminismo si segna una svolta, tentando finalmente di


superare il carattere aristocratico della cultura.

I pensatori illuministi, partendo dal riconoscimento


dell'eguaglianza degli uomini in quanto esseri dotati di ragione, erano
convinti che la cultura dovesse essere messa a disposizione di
chiunque volesse migliorare se stesso e far progredire la vita sociale.

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L'Enciclopedia diretta da Diderot e D'Alembert nasce proprio da


questa convinzione e ne rappresenta il migliore esempio.

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Essa si rivolge a un pubblico ampio, con un linguaggio chiaro e


semplice, offrendo il panorama completo delle conoscenze disponibili:
dai saperi tradizionali alla scienza moderna, senza trascurare quelle
arti meccaniche (illustrate attraverso splendide tavole) che
permettevano il progresso tecnico.

Il concetto di cultura acquisì in tal modo un significato


enciclopedico (dal greco en kỳklos paidèia "formazione circolare" e
quindi completa), ossia di conoscenza generale del sapere.

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Ma i filosofi dei Lumi, in particolare Voltaire, con il suo Saggio


sui costumi (1756), furono protagonisti di un'altra innovazione ancor
più importante: l'inclusione, nel concetto di cultura, dei costumi,
ossia delle usanze, dei modi di vivere e di pensare che caratterizzano
un popolo e contribuiscono alla sua civilizzazione.

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Dalla filosofia all’antropologia

Nella seconda metà del XVIII si compie un’ulteriore svolta decisiva


nella storia della nozione di cultura, rappresentata dal passaggio da
un significato soggettivo a un significato oggettivo della cultura.

Sulla strada già intrapresa da Voltaire proseguì il filosofo tedesco


Johann Gottfried Herder, che allargò i suoi orizzonti dai popoli
dell’Europa agli abitanti del resto del mondo.

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Egli osservò che anche gli abitanti della California e della Terra
del fuoco avevano imparato a fare e usare archi e frecce, avevano
linguaggio e concetti, esercizi e arti che hanno imparato come li hanno
imparati loro. Pertanto, anch’essi sono dotati di cultura, seppur
minima.

Herder sostenne anche che le diverse culture sono come le piante e


i fiori di un grande giardino, tra i quali non ha senso stabilire chi sia
più avanti e chi più indietro, giacché è proprio la loro diversità a fare
bello il giardino.

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Ed è questa la strada che seguiranno gli etnografi e gli antropologi


tedeschi dell'Ottocento, instancabili indagatori delle più svariate
forme di cultura: l'opera più rilevante di questa tradizione è la
monumentale Storia universale della cultura dell'umanità (1843-52)
di Gustav Klemm.

Propria da questa lettura, l’antropologo inglese Edward Burnett


Tylor diede la sua prima defini9zione di cultura in senso
antropologico.

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«La cultura, o civiltà» scrive Tylor in Cultura primitiva è


«quell'insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l'arte,
la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine
acquisita dall'uomo come membro di una società».

La cultura acquisì in tal modo un significato meramente


descrittivo, che nel corso del Novecento avrebbe subìto una lunga
elaborazione da parte di numerose discipline.

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Dalla cultura alle culture

In una prima fase gli antropologi, partendo dalla definizione di


Tylor, giunsero alla conclusione che tutti i popoli si evolvono seguendo
lo stesso processo, che va dalla cultura primitiva a una cultura
civilizzata; a differenziarli è soltanto la durata della permanenza
nelle varie tappe, la quale fa sì che abbiano un diverso grado di
sviluppo culturale.

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Già sul finire del XIX secolo, tuttavia, l'antropologo tedesco Franz
Boas, che lavorava negli Stati Uniti, accusò gli evoluzionisti di aver
costruito una "storia immaginaria", basata su semplici (e a volte
ingannevoli) somiglianze tra culture diverse.

Secondo Boas, le culture primitive dovevano essere studiate nella


loro particolarità, cercando di individuarne gli abiti sociali, cioè le
attività svolte dagli individui, e i prodotti di tali attività, ossia
la cultura materiale.

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Boas sostenne, inoltre, che ogni cultura deve le sue caratteristiche


non a cause extra-culturali ‒ come la collocazione geografica, le
connotazioni biologiche o psicologiche dei suoi membri,
l'organizzazione economica ‒ ma alla sua storia culturale precedente e
al contatto con altre culture (contatto dovuto alle migrazioni,
attraverso le quali le culture si sono diffuse).

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Portato alle sue estreme conseguenze, il principio dell'individualità


delle culture condusse al relativismo culturale, ossia alla
concezione secondo la quale tutte le culture hanno il medesimo valore
e quindi non ha senso metterle a confronto per esprimere giudizi di
valore.

Nella seconda metà del Novecento, tuttavia, alcuni antropologi


hanno ripreso le tesi evoluzioniste, sostenendo che un'analisi
comparata delle diverse culture rivela la presenza di alcune
caratteristiche comuni e permette, quindi, di individuare fasi di
sviluppo universali.

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Tali fasi si ritrovano in due importanti rivoluzioni tecnologiche:


quella agricola ‒ che segnò il passaggio dalle attività di raccolta,
caccia e pesca alla coltivazione dei campi e all'allevamento del
bestiame ‒ e quella urbana, che segnò il passaggio dalla vita di
villaggio a quella di città.

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L’etologia

Come si è detto, il concetto di cultura, nel corso dei secoli, si è


progressivamente dilatato, sino ad assumere un significato diverso da
quello originario.

Per un lunghissimo periodo la cultura ha coinciso con un insieme


di saperi altamente qualificati, il cui scopo era formare l'uomo in
quanto tale.

A partire dal XVIII sono stati inclusi anche i concetti di costumi.

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Da qui, a partire dal XIX secolo, gli antropologi hanno cominciato a


considerare la cultura come l’insieme delle capacità e delle attività
che gli uomini sviluppano grazie all'apprendimento.

Secondo questa prospettiva, è cultura tutto ciò che non è natura.

Ma anche questa nuova definizione è stata messa in discussione.

Nella seconda metà del Novecento, infatti, gli etologi, cioè gli
studiosi del comportamento animale, hanno dimostrato che molte
specie animali sono capaci di apprendere alcuni comportamenti e di
trasmetterli ai propri discendenti.

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Inoltre anche gli animali hanno sistemi di comunicazione, seppure


diversi da quelli umani. In tal modo, come l'antropologia aveva esteso
il concetto di cultura dai popoli 'civilizzati' ai popoli primitivi,
parlando di 'culture primitive', l'etologia ha esteso tale concetto al
mondo animale, sostenendo l'esistenza di 'culture animali'.

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Cultura e civiltà nella storiografia

Una concezione della cultura che ebbe una profonda influenza nel
corso del Novecento fu quella del pensatore tedesco Oswald
Spengler, secondo il quale le culture sono come organismi
biologici.

Ogni cultura, come ogni essere vivente, ha il suo patrimonio


biologico particolare, in virtù del quale produrrà un proprio mondo
simbolico, del tutto diverso da quello delle altre culture (il che rende
impossibile la reciproca comprensione); e ogni cultura, come ogni
essere vivente, è destinata a morire.

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Quando lo slancio creativo di una cultura si esaurisce, allora inizia


il suo declino, che corrisponde alla fase della civilizzazione, dove
predomina il sapere tecnico-scientifico.

Cultura e civilizzazione rappresentano per Spengler due fasi


diverse nel ciclo vitale di un popolo: la civilizzazione (Zivilisation) non
è altro che l'ultimo stadio di una cultura (Kultur).

E la civiltà occidentale si trova esattamente in questa fase: non a


caso la sua opera si intitola Il tramonto dell'Occidente (1918-22).

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La concezione di Spengler fu ripresa dallo storico inglese Arnold


Joseph Toynbee, il quale sostenne che ogni civiltà ‒ ossia ogni
società complessa che ha superato il livello dell'umanità primitiva ‒
passa attraverso quattro fasi: nascita, crescita, crollo e disgregazione.

Ma questo ciclo, per Toynbee, non ha un andamento 'fatale', perché


dipende dalla capacità degli uomini di reagire alle sfide interne o
esterne.

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Una civiltà sorge quando un gruppo umano, rompendo la 'crosta


della tradizione' propria della cultura primitiva, risponde con successo
a una sfida postagli dall'ambiente o dal contatto con altri gruppi: di
qui inizia il suo sviluppo, che proseguirà sin quando tale gruppo saprà
fronteggiare le sfide che l'ambiente e la storia gli propongono.

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La cultura nella sociologia

Anche la sociologia contemporanea ha cercato di definire il


concetto di cultura, in alcuni casi ponendolo in relazione con quello di
civiltà.

Secondo il sociologo tedesco Alfred Weber, per esempio, cultura e


civiltà sono processi paralleli: la prima comprende le manifestazioni
creative e i valori di una società e si esprime in forme individuali; la
seconda, invece, coincide con il progresso tecnico-scientifico ed è
comune a varie società.

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Secondo il sociologo americano Talcott Parsons, invece, la cultura è


un sistema simbolico che ha come scopo essenziale la socializzazione
degli individui, ossia il loro inserimento all'interno del gruppo sociale.

Anche il sociologo francese Émile Durkheim aveva sottolineato


tale funzione. Partendo da una definizione più ampia di cultura ‒
come insieme dei modi di pensare, sentire e agire appresi e condivisi
da molte persone ‒ Durkheim aveva sostenuto che essa permette la
costituzione degli individui in una collettività.

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Tali collettività possono avere ambiti territoriali diversi: per


esempio, in un unico contesto globale, come quello di una cultura
nazionale, può esistere una molteplicità di collettività parziali,
chiamate subculture, come le culture regionali, quelle etniche, la
cultura dei giovani e così via.

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La cultura nella psicoanalisi

Il problema dell'origine della cultura è stato affrontato anche dal


padre della psicoanalisi, Sigmund Freud. Egli ha sostenuto che lo
sviluppo psicologico del singolo e lo sviluppo culturale della specie
umana seguirebbero lo stesso processo, all'inizio del quale si
troverebbe il conflitto con la figura paterna (da lui
chiamato complesso di Edipo).

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Freud parte dall'ipotesi dell'orda primitiva: al suo interno il padre


esercitava un dominio assoluto, che includeva il monopolio sessuale di
tutte le donne.

I figli, uccidendo e mangiando il padre, mettono fine a tale


dominio, ma sono assaliti da un terribile senso di colpa, che li conduce
a fondare l'organizzazione sociale sul tabù dell'incesto.

Lo stesso processo, in modo simbolico, avviene secondo Freud a


livello individuale: ogni bambino prova verso il padre un sentimento
ambivalente, di odio e ammirazione al tempo stesso, perché vede in
lui un rivale più forte nella lotta per l'amore della madre.

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L'uccisione del padre simboleggia la liberazione dalla sua autorità,


mentre il pasto totemico simboleggia l'interiorizzazione della
medesima autorità (il divenire adulti); l'esito finale, anche in questo
caso, è la repressione di una parte degli istinti sessuali.

Freud, in seguito, generalizzò le sue conclusioni, elaborando una


teoria dello sviluppo culturale. Il principio del piacere spinge gli
individui a soddisfare in modo non regolato tutti i propri impulsi
sessuali; ma un simile comportamento rende impossibile la nascita di
qualsiasi forma di vita sociale.

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Ogni società poggia quindi sul principio di realtà, ossia sul


riconoscimento che non tutti i nostri desideri possono essere
soddisfatti; ed è proprio la repressione parziale degli istinti sessuali
che permette di liberare l'energia psichica necessaria per raggiungere
obiettivi più complessi, di tipo sociale e culturale.

Se per un verso la repressione degli istinti sessuali è dunque


necessaria, per un altro l'eccesso di repressione può provocare la
disgregazione della vita sociale: indebolisce infatti l'Eros e mette in
libertà impulsi aggressivi e distruttivi.

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