Il discorso razzista, tra Otto e Novecento1, ha considerato il corpo come l’elemento centrale su cui
fondare molte delle argomentazioni, spiegazioni, esemplificazioni, volte a costituire un nucleo di
conoscenze con presunzione scientifica che avrebbe avuto poi fortissime implicazioni sulle condotte
individuali, collettive e istituzionali nei confronti delle razze altre2.
Analogie significative le troviamo con gli sviluppi del sessismo, laddove nel controllo della donna
non soltanto il corpo assume una valenza centrale in riferimento a norme, pratiche socio-culturali,
sessuali ecc.., ma anche una valenza di tipo (pseudo)scientifico, messa in luce da studi di carattere
anatomico e fisiologico tesi a rintracciare i segni naturali della sua debolezza e della sua
subalternità3.
In una prospettiva foucaultiana, potremmo dire che ci troviamo dinanzi a quel rapporto potere-
sapere per il quale entrambi si «implicano» reciprocamente, poiché «non esiste relazione di potere
1
Cfr. G. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, tr. it.: Laterza, Roma-Bari, 1985.
2
Utilizzo il termine razza nella sua accezione otto-novecentesca, pur non volendo con questo legittimare tale concetto,
oggi considerato privo di fondamento scientifico.
3
V. P. Babini , F. Minuz , A. Tagliavini, La donna nelle scienze dell'uomo. Immagine del femminile nella cultura
scientifica italiana di fine secolo, FrancoAngeli, Milano, 1989
1
senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di sapere che non supponga e costituisca
nello stesso tempo relazioni di potere»4. Presi separatamente, sessismo e razzismo ottocenteschi si
nutrono appunto di saperi che si vanno formalizzando entro distinti quadri di conoscenza di
carattere pseudoscientifico e che costruiscono un apparato ideologico ora informale e fluttuante
nell’immaginario collettivo, ora strutturato entro norme e pratiche sociali, che assumerano, in un
caso e nell’altro connotati specifici, differenti, che tuttavia hanno logiche comuni. Se è vero, ad
esempio, che il discorso sociale maschilista sostiene una relazione di dominio iscrivendola dentro
una matrice di tipo biologico che è a sua volta frutto di una costruzione sociale naturalizzata
(Bourdieu), lo stesso accade per la questione tra le differenze (gerarchizzate) tra razze, rispetto alla
quale tutto (anche ciò che oggi consideriamo caratteristica culturale) viene ricondotto al dato
biologico per eccellenza, la razza, principio ordinatore e classificatore dell’umanità.
D’accordo con Le Breton, la razza può essere considerata il fantasma di un corpo collettivo5 (2002,
p. 171), nel quale si trovano iscritte le biologie più che le storie, i determinismi più che le dinamiche
complesse, le nature più che le culture degli esseri umani. Le donne, ma anche i “folli”, i criminali,
così come i popoli primitivi6 sono oggetti privilegiati dello studio di certa antropologia e medicina
positivista (si pensi a Lombroso per tutti) volta a studiare, soppesare, sezionare le caratteristiche
fisiche alla ricerca di relazioni con i caratteri mentali e, nel caso della donna da un lato e delle razze
considerate inferiori dall’altro, di rintracciare la naturale disposizione ad essere collocate in precisi
ruoli sociali: la donna, che trova nuovi spazi di espressione delle sue potenzialità nei dinamismi che
accompagnano i processi di industrializzazione, va ridimensionata attraverso le “precisazioni”
(pseudo)scientifiche della sua naturale diversità e inferiorità rispetto all’uomo; i matti e i criminali
vanno separati dalla società normale per evitare forme di inquinamento sociale e biologico; le razze
inferiori trattate ora a distanza, secondo le logiche della separazione, ora sfruttate, non solo
economicamente, ma anche sessualmente, ora, secondo gli esiti più infausti del razzismo
novecentesco, liquidate attraverso passaggi diversi: riduzione a corpo, perdita dell’umanità,
annientamento.
Se pensiamo al razzismo e al corpo della donna, in particolare della donna africana, risulta evidente
ed intuitivo come le due categorie di genere e razza7, quando si mescolano insieme, possano portare
in seno un duplice e potente, se non violento, processo di naturalizzazione delle differenze, nel
quale all’istintualità e, talvolta, all’animalità attribuite a certe razze – la “negra” in primis – si
aggiungono non semplicemente e non solamente i caratteri attribuiti alla femminilità (debolezza,
istintualità, scarsa o minore intelligenza, propensione ai ruoli domestici) ma anche erotismo,
pornografia e sottomissione a sfondo sessuale.
4
P. M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976, p. 31
5
D. Le Breton, Razzismi del corpo e odio sensoriale dell’altro, in L. Di Michele, L. Gaffuri, M. Nacci (a cura di),
Interpretare la differenza, Liguori, Napoli, 2002
6
V. P. Babini , F. Minuz , A. Tagliavini, Op. cit.
7
Cfr. G. Campani, Genere, etnia, classe. Migrazioni al femminile tra esclusione e identità, ETS, Pisa, 2000.
2
Emblematica è la storia di Saartjie Sarah Baartman (1789 –1815)8, nota nell’ Europa del XIX secolo
come Venere ottentotta, esibita in Inghilterra e in Francia come fenomeno da baraccone dal suo
“proprietario” bianco, prostituita e al tempo stesso osservata ed esaminata da diversi pittori e
anatomisti interessati alle sue caratteristiche fisiche: grosse natiche, labbra vaginali molto grandi,
statura piuttosto bassa. Da morta, Saartjie finirà nel museo di storia naturale a Parigi, mutilata, e il
suo corpo fornirà all'anatomista Georges Curvier, la base di una teoria sulla disuguaglianza delle
razze. La cinematografia ha recentemente raccontato la storia di Saartjie nel film del 2010 di A.
Kechiche, La venere nera, nel quale, attraverso la fedele ricostruzione storica e sociale, sono
rappresentate tutte le sfumature e le complessità del razzismo ottocentesco e delle sue derive
sessiste, inquadrando molto bene il rapporto tra senso comune, immaginario da un lato e discorso
scientifico dall’altro: nel contesto di un’Europa impegnata a costruire imperi, attratta dal fascino
dell’esotico, volta a rendere, anche attraverso il corpo, forte e vigorosa l’idea di nazione, trovano
spazio tanti materiali simbolici diversi, tra cui anche quello di venere nera, la donna africana che
pur suscitando disprezzo e scherno attiva nell’universo maschile evocazioni a sfondo sessuale, tinte
del più bieco sessismo e del più bieco razzismo. La donna, dunque, resa totalmente “corpo”,
interamente reificata, grazie al doppio legame genere-razza che attiva e giustifica qualunque
allusione, pensiero, comportamento.
Il colonialismo otto-novecentesco non soltanto diffonde un’idea nuova per l’immaginario razzista,
ma attiva direttamente relazioni e legami tra coloni e colonizzate, come il madamato, destinati ad
imporsi socialmente e a segnare tristemente tante esistenze9. La madama è la donna africana, spesso
figura “parallela” rispetto alla moglie lasciata in Italia, con cui si stabiliva, more uxorio, una
relazione orientata a fini sessuali e domestici.
Affermatosi nell’Africa Orientale Italiana sin dagli esordi dell’esperienza coloniale, in particolare
con la conquista dell’Eritrea (1885-1896), il madamato fu inizialmente incoraggiato soprattutto nei
confronti degli ufficiali al fine di prevenire le malattie veneree, altrimenti (attraverso la
frequentazione di bordelli) più facilmente contraibili10.
Un esempio per tutti ce lo offre Indro Montanelli, lo stesso che nel 1936 scriveva su "Civiltà
Fascista": «Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve»; in un’intervista rilasciata ad Enzo
Biagi11, dichiarava di aver comprato, nel 1935, Fatima, una bambina eritrea di 12 anni, da lui
8
Si veda S. Goodwin, Africa in Europe, Vol. 2: Interdipendencies, Relocations, and Globalization, Lexington,
Plymouth, 2009.
9
G. Barrera, “Madamato”, in AA.VV., Dizionario del fascismo, vol. secondo, Einaudi, Torino 2005, p. 69
10
Ibidem
11
Intervista di Enzo Biagi a Indro Montanelli del 1982 nel programma RT-Era ieri, trasmesso da Rai 3 alle 23.45 del
13 ottobre 2008.
3
definita «un animalino docile», per la somma di 500 lire (comprensiva di un cavallo e di un fucile),
che lo avrebbe seguito per tutta la campagna d’Africa.
Dopo la sconfitta di Adua, tale forma di concubinaggio non viene più incoraggiata, ma resterà
tollerata almeno fino alla guerra di Etiopia (1935-1936), quando il fascismo, lungi dal condurre
un’operazione a difesa e tutela delle donne africane, preoccupato della integrità razziale del popolo
italiano, interviene attraverso norme di legge che vietano di fatto tali tipi di relazione. La conquista
dell’Etiopia porta in Africa circa 300.000 militari e decine di migliaia di civili intenzionati a far
fortuna: il madamato inizia a divenire non soltanto imbarazzante per il regime, ma anche una
preoccupazione di tipo eugenetico. Se il madamato è infatti il frutto di un’elaborazione di significati
e di pratiche sociali di natura sessuo-razzista che accompagnano l’esperienza coloniale già prima
del ventennio, il fascismo si scopre, ad un certo punto e non a caso a ridosso della pubblicazione del
Manifesto della razza e delle ben note leggi razziali del 1938, ostile a questo tipo di fenomeno, non
certo per ragioni etiche, ma soprattutto per motivazioni di tipo eugenetico – altro pericoloso rivolo
del razzismo biologico – e dunque ancora una volta razziste in senso stretto. Un doppio razzismo
dunque, potremmo dire, laddove si intravede una risposta di tipo razzista (il divieto di unioni
interraziali per motivi eugenetici), ad una pratica e a un costume già fortemente condizionati da
forme di razzismo di dominio. Il fascismo, cioè, non guarda di buon grado a queste unioni dalle
quali possono nascere, e di fatto nascono, nuovi individui, alimentando in questo modo l’idea della
inacettabilità dell’ibridazione tra razze superiori e inferiori. Non si ricorda mai abbastanza che le
leggi razziali del ’38 trovano un precedente nel 1937, con il RDL n.880 , che di fatto proibisce
relazioni di indole coniugale tra coloni e colonizzati12 e che apre la pista per un successivo
provvedimento (L. 2004 del 1939) che istituisce il reato di “lesione del prestigio di razza”13. Il
madamato viene quindi proibito e penalmente perseguito, anche se con scarsi esiti.
«Cos’era la ragazza se non un corpo preso lì?»: le rappresentazioni della donna africana nel
razzismo coloniale
«Se la storia della donna cammina accanto a quella, anch’essa dimenticata, dei “diversi”, è dunque necessario per
riscriverla, allargare il concetto di voce narrante, e considerare che accanto a quelle tradizionali si possono, si debbono
utilizzare anche fonti “altre”: alla storia d’archivio, si affianca anche quella orale, alla storia iconografica (attraverso la
pittura, la fotografia, il film, ecc.) si lega la storia sociale e/o quella dell’immaginario, condotte anche attraverso la
14
narrativa» .
12
E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003
13
Un successivo provvedimento del 1940 (L. 13 maggio n. 822 - Norme relative ai meticci) proibisce agli italiani di
riconoscere i figli avuti da africani e di contribuire al loro mantenimento. Cfr. G. Barrera, Patrilinearità, razza e
identità; l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934), in “Quaderni storici”, 109/a.
XXXVII, n. 1, aprile 2002.
14
S. Ulivieri, Educare al femminile, ETS, Pisa, 1995, p. 68
4
Nel nostro caso, negli esempi che riporteremo, la voce narrante è per lo più quella degli uomini, una
voce, e un punto di vista, che comunque, involontariamente, denunciano la condizione delle donne
nelle colonie, la commistione esotismo-erotismo, la violenza di genere mista alla violenza di razza.
E qui è evidente non solo la rilevanza dell’analisi storica per chiarire i termini del discorso, ma
anche quella della prospettiva pedagogica nel contribuire a chiarire quali mediazioni di tipo
educativo (formali e informali)15 si siano attivate per sedimentare nell’immaginario certi contenuti
sessuo-razzisti e per perpetrare forme di relazione che possiamo eufemisticamente definire
asimettriche, che vanno dalle forme più o meno soffuse di violenza domestica alle forme di
schiavitù sessuale, o ancora, allo stupro16. Gli strumenti per la produzione dell’immaginario
(cinema, fotografia, letteratura) sono tutti attivati in questa direzione. Per la fotografia, ci limitiamo
a ricordare alcuni studi che dimostrano come essa abbia fortemente veicolato tali rappresentazioni,
attraverso una reificazione della donna africana volta a inventare la sua piena disponibilità sessuale
e a legittimare i crimini sessuali. Tra foto private, che rasentano o assumono pienamente un valore
pornografico – «ragazze spogliate e fotografate (…) o colte di sorpresa mentre si lavano al fiume,
soldati che si fanno fotografare mentre toccano il seno nudo di donne incontrate per caso e via
dicendo»17– e foto ufficiali (ad esempio le cartoline, in cui si con-fondono esotismo ed erotismo), la
fotografia si afferma quale strumento di forte significazione18.
Nella letteratura coloniale, esotismo e immaginario erotico premono a piè sospinto sullo stereotipo
della venere nera. Anche in questo caso, il corpo è l’elemento base dal quale a grappolo si articola
tutto il discorso sessuo-razzista, i cui punti salienti rimandano, lo ricordiamo, alla naturalizzazione,
alla violenza di genere (nascosta in un linguaggio talvolta anche di tipo bonario e paternalistico),
alla reificazione del corpo femminile, alla doppia inferiorizzazione generata dalla diade genere-
razza.
Insomma, come vedremo negli esempi di seguito riportati, riferiti a momenti storici diversi del
colonialismo italiano, si arriva a rappresentare le donne dentro un linguaggio dalle tinte
“zoologiche” («gattine lascive», «cane fedele»), a presentarle, dunque, come pura corporeità e
istintività; esse provocano l’istinto maschile con le loro «movenze allettatrici», «mettono i brividi,
suscitando ignote e violente sensazioni». Il quale istinto maschile trova nell’idea di provocazione la
giustificazione e la legittimazione della violenza di genere., nonché autocompiacimento
maschile/maschilista (l’Italia, «ottima buongustaia»).
Agli esordi dell’esperienza coloniale, nel 1896, già troviamo una sovrapposizione (tanto subdola
quanto pericolosa negli esiti) tra esotismo ed erotismo:
15
Cfr. A. Vaccarelli, Istanze e principi di pedagogia razzista durante il fascismo, in “Nuovo Bollettino CIRSE”, 1-
2/2010; IDEM, Il nero, ovvero «l’uomo dell’attimo presente». Il discorso razzista nei testi scolastici del periodo
fascista, in G. Bandini (a cura di), Manuali, sussidi, didattica della geografia, Firenze University Press, Firenze, 2012.
16
N. Poidimani, “Faccetta nera”. I crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, in L. Borgomaneri (a
cura di), Crimini di guerra. Il mito del bravo italiano tra repressione del ribellismo e guerra ai civili nei territori
occupati, Guerini, Milano, 2006.
17
Ivi., p. 39
18
Silvana Palma, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885/1910), in «Quaderni storici», 37 (1), 2002,
pp. 83-147. Cfr. anche G. Campassi, M. T. Sega, Uomo bianco e donna nera. L’immagine della donna nella fotografia
coloniale, in «Rivista di storia e critica fotografica», IV, 5, giugno-ottobre, 1983
5
«(...) mi si offriva spettacolo così gradito di donne graziose e belle, dai lineamenti fini e regolari, dal corpo complesso,
snello ed elegante e dalle movenze aggraziate ed attraenti. [...]. Se la loro bellezza, più che tale, è fine e piacente, gli
occhi ne completano il fascino. Larghi, morbidi, di un nero profondo, scintillanti, languidi talvolta e che sempre
rivelano l’intelligenza e trasporti passionati, mettono i brividi suscitando ignote e violente sensazioni»19.
Il carico erotico del corpo esclude qualsiasi discorso sull’”animo” femminile: le donne nere sono
animaletti aggraziati, provocanti, collocati in uno stato di natura più che di cultura. Cosi Rossotti,
nel 1920, dunque ancora in età liberale, scrive delle donne beduine:
«(...) le arabe possiedono quasi tutte un corpo dritto, snello, slanciato (…) Il loro incedere è naturale e quasi sempre
flessuoso da gattine lascive. Le loro anche ondeggiano leggermente e ritmicamente, come posanti su sensibili molle, e
vi lasciano, a mala pena, indurre la realtà di un corpo atto a spezzarsi sulle reni, a piegarsi in tutti i sensi, a contorcersi
in movenze allettatrici. (...)»20.
L’epoca fascista continua, almeno fino all’impresa di Adua, con gli stessi toni, che si caricano però
di un’ideologizzazione dei rapporti ben più marcata, dove la dialettica oppressore-oppressa assume
valenze che oltre ad essere di natura sessista e razzista sembrano anche rimandare ad una più forte
collocazione politico-ideologica-coloniale dei rapporti interindividuali, segnati da dominio e
sudditanza. Così scrive Mitrano Sani, in un celebre romanzo del 1933, Femina Somala, poi ritirato
dopo il 193821:
«Il capitano italiano nessuna tenerezza aveva per la femina sua, pure le sue parole volevano avere un senso
tranquillizzante. Perché? Cosa era la ragazza se non un corpo preso lì, da una tribù della sua giurisdizione, per placare
l'astinenza di quell'esilio volontario? Non erano egli il padrone ed ella la schiava ? [...]. L'anima occidentale di lui, usa a
riversare la propria tenerezza in un essere femminile, inconsciamente agiva con la bontà innata della sua razza italiana.
([...)22
Come una bestiola, accucciata in un angolo della camera che doveva divenire d'un altro [...] Elo, il viso nelle palme,
faceva pensare a quei cani fedeli che muoiono sulla fossa del padrone. [...] Andriani aveva tutto regolato per Elo [...] ora
se ne andava senza scrupoli, senza rimorsi, con la coscienza di aver ben ricambiato l'alleviamento alla dura astinenza
africana che Elo docilmente gli aveva procurato. Non poteva, però, scacciare il senso penoso pel distacco dalla
fanciulla, e non se ne vergognava [...] Che cosa doveva fare? Si può lasciare il proprio cane fedele senza una carezza?»
23
L’immagine della donna nera è divisa tra classificazioni asettiche, derisione, esotico fascino,
ammiccamento erotico. Tutto avviene attraverso il suo corpo, che rappresenta il termine ultimo
della reductio ad unum della sua ormai spenta soggettività (in quanto soggettività de-socializzata e
de-personalizzata): «Cosa era la ragazza se non un corpo preso lì?», abbiamo letto nel brano di
Mitrano Sani. Il corpo, dunque, diventa, ancora una volta, il fattore centrale dal quale partono e sul
19
L. Robetti-Bricchetti, Nell’Harar, Milano, Galli, 1896, pp. 47
20
A. Rossotti, Fra i beduini. Vita e riflessioni di prigionia araba. Roma: Ausonia, 1920, p. 122
21
G. Mitrano Sani, Femina somala, Libreria Detken e Rocholl, Napoli 1933. Si vedano anche. R. Bonavita, L'amore ai
tempi del razzismo. Discriminazioni di razza e di genere nela narrativa fascista, in A. Burgio (a cura di), Nel nome
della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945 , Bologna, Il Mulino, 1999; G. De Donato, V. Gazzola Stacchini
(a cura di), I best sellers del ventennio: il regime e il libro di massa, Editori Riuniti, Roma, 1991.
22
G. Mitrano Sani, Op. cit., p. 29
23
Ivi, p. 163-164
6
quale si abbattono l’ideologia e le tante istanze e suggestioni del razzismo coloniale e del razzismo
di stato fascista.
Ma c’è di più. La donna africana diventa la metafora dell’Africa, la conquista sessuale diventa la
conquista coloniale. L’Africa e, nello specifico del testo che segue, la Somalia, “voluttuosamente”
sembrano attendere il loro conquistatore:
«(...) belle bellissime donne produce all’Italia, ottima buongustaia, la sterminata pianura della Somalia, voluttuosamente
distesa sotto il potente sole dell’Equatore»24.
Da un lato, “Faccetta nera” è di fatto un richiamo all’arruolamento. Scrive Flaiano nel 193525:
«Influenza delle canzonette sull’arruolamento coloniale. Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale»26.
Dall’altro lato, essa, però, diventa motivo di imbarazzo e preoccupazione a fronte dei nuovi
atteggiamenti del regime nei confronti dei rapporti colonizzatori-colonizzati27.
Scritta dapprima in romanesco, la prima versione in italiano viene poi rimaneggiata e purgata con
una versione che però non ottiene il gradimento del pubblico. Una rapida analisi del testo consente
di individuare alcuni punti nodali:
Se tu dall'altipiano guardi il mare,/Moretta che sei schiava fra gli schiavi,/Vedrai come in un sogno tante
navi/E un tricolore sventolar per te.
24
G. Zucca, Il paese di madreperla. Sette mesi in Somalia, Milano, tip. Terragni & Calegari, 1926, pp. 135
25
E. Flaiano, Aethiopia: appunti per una canzonetta, in IDEM, Tempo di uccidere, (1947), Rizzoli, Milano, 2013.
26
Ivi, p. 289.
27
Cfr. N. Poidimani, Op. cit.
7
La legge nostra è schiavitù d'amore,/il nostro motto è libertà e dovere,/vendicheremo noi camicie nere,/Gli eroi
caduti liberando te!
Ritornello
Faccetta nera, piccola abissina,/ti porteremo a Roma, liberata./Dal sole nostro tu sarai baciata,/Sarai in Camicia
Nera pure tu.
Ritornello
Faccetta nera,/Sarai Romana/La tua bandiera/Sarà sol quella italiana!/Noi marceremo/Insieme a te/E sfileremo
avanti/al Duce e avanti al Re
Tra esotismo, implicito erotismo, missione civilizzatrice, la donna africana diventa il simbolo stesso
dell’Africa, il suo spazio corporeo una metafora dello spazio geografico. A lei si concede addirittura
la possibilità di divenire “romana”. Come dire che “Faccetta nera” è rilevatrice di quel misto di
esotismo ed erotismo della tradizione coloniale fino a quel momento costruita (ora motivo di
imbarazzo per il regime) e formula un’immagine dell’italiano colonizzatore troppo bonaria (ma non
per questo meno razzista e meno sessista) rispetto ai nuovi standard fissati dalla nuova fase storica.
Tanto è vero che nella versione rivista e corretta, a “Faccetta nera” viene tolta la possibilità di
divenire “romana”:
«Faccetta nera il sogno s’è avverato/non sei più schiava e più non lo sarai/dal ciel d’Italia, libera, vedrai/il sol di Roma
splendere su te».
“Faccetta bianca”28 diventa allora la risposta del regime, una canzone che non troverà successo di
pubblico, ma che denota le posizioni di difesa del prestigio di razza dietro la retorica sentimentale e
ideologica e un disprezzo razziale (“ingentilito” dal complessivo tono rivolto alla donna italiana):
«Faccetta bianca i baci che m’hai dati/nella trincea mi tornano alla mente/in mezzo a tanti visi affumicati/è il tuo visino
più del sol splendente,/quasi in contrasto a quelle facce nere/ è fiamma e luce pel tuo bersagliere!»
Il salto del razzismo di stato dunque tenta di creare una rottura con la precedente esperienza del
razzismo coloniale che aveva montato, a partire dall’esotismo, una rappresentazione
erotico/pornografica della donna africana, che, ora, viene invece codificata entro sfere di significato
che sono pur sempre derive (estremizzate) di quelle stesse rappresentazioni e che, però, mirano ad
esiti diversi: totale segregazione razziale e prevenzione del meticciato.
Così scrive P. Monelli su la “La Gazzetta del popolo” del 13 giugno 1936, in un articolo intitolato
non a caso “Donne e buoi dei paesi tuoi: la fine di « Faccetta nera »:
«Prenderei l'autore delle parole della canzone « Faccetta nera » e l'obbligherei a vivere due o tre settimane, che dico?,
due o tre giorni, e giuraddio che basterebbero due o tre ore, in una capanna abissina con una faccetta nera. Con una di
queste abissine, galla o amhara o sciangalla o scioana, gli lascio il piacere della scelta, tutte sudicie di un sudiciume
29
antico, che dormono su quattro pelli a terra o accoccolate in un angolo della capanna, il viso fra le ginocchia (…)» .
28
Si veda: B. M. Carcangiu, T. Negash, L'Africa orientale italiana nel dibattito storico contemporaneo, Carocci, Roma,
2007.
29
Cit. in N. Poidimani, Op. cit., p. 45.
8
Il corpo della donna nera – diremmo meglio la donna nera come corpo – sotto le forme e le
rappresentazioni che i media sociali ed educativi, le attribuiscono, attira le attenzioni
dell’immaginario e del regime all’interno di un atteggiamento non chiaro, ora di ammiccamento e di
incontenibile sessismo, ora di preoccupazione e di allerta. Non dimentichiamo che l’uso stesso del
corpo femminile, questa volta della donna italiana, come è stato chiarito da R. Frasca in più
occasioni30, diviene il bersaglio per un progetto pedagogico e ideologico in cui l’educazione fisica e
lo sport possono essere visti al contempo come fine e mezzo per l’interiorizzazione e
l’esteriorizzazione dei valori fascisti, nonché, come strumenti per il progetto eugenetico di
miglioramento della razza.
Conclusioni
La rapida analisi storico-educativa del problema affrontato apre alla prospettiva pedagogica
(interculturale e di genere) nuove piste di riflessione e di azione. In un rapporto di continuità con il
passato, infatti, il termine Venere nera è ancora oggi largamente utilizzato. Con esso i media
internazionali hanno ad esempio contribuito a creare l’immagine della top model Naomi Campbel.
Ma, tra ambiguità mai risolte, strutture profonde dell’immaginario razzista-sessista, troviamo a fare
da contraltare a Naomi le tante Veneri nere da marciapiede, le prostitute africane, le vittime, anche
bambine, del turismo sessuale, le dannate della terra di un mondo per se stesso dannato, quello della
prostituzione, marginali tra le marginali31, il cui corpo rappresenta per molti uomini uno sfogo
all’istintività maschile, una trasgressione che per essere tale non può che contemplare al tempo
stesso disprezzo e attrazione sensoriale.
30
R. Frasca, E il duce le volle sportive, Pàtron, Bologna, 1983; IDEM, Il corpo e la sua arte, Momenti e paradigmi di
storia delle attività motorie, da Omero a P. de Coubertin, Unicopli, Milano, 2006.
31
S. Ulivieri, (a cura di), L’educazione e marginali. Storia, teorie, luoghi e tipologie dell’emarginazione, La Nuova
Italia, Firenze, 1997.
9