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LE AUTRICI Se volessimo dividere il Novecento letterario italiano in più quadri storiografici, cercando

anche di includere le donne, il primo quadro parte dal 1861 (anno che segna la nascita del movimento
politico emancipazionista) e arriva alla prima guerra mondiale, che fa maturare la crisi del movimento, già
internamente diviso e ora schierato sui due fronti dell’interventismo e del pacifismo. Annarita Buttafuoco
ha analizzato questa fase storica e ha dimostrato come l’assenza, nel nuovo Stato, di una cultura moderna
che prevedesse il femminile come sua parte integrante, abbia inciso sulla coscienza stessa delle donne, che
hanno mutato il loro modo di pensare, di guardarsi e di considerare il proprio ruolo nella società. La cultura
italiana di fine 800, negli anni in cui tende ad assumere una dimensione nazionale, continua a riproporre il
modello unico della “donna madre”, marginalmente ridefinito, ma comunque centrale. L’emancipazionismo
e la ridefinizione dell’identità femminile che porta non ha potuto prescindere dal modello dominante, che a
sua volta ha rielaborato in una serie di figure, ognuna a confronto coi temi della maternità e del materno. I
due mutamenti che Buttafuoco individua sull’emancipazionismo italiano sono:
- l’uno, basato sul concetto di uguaglianza fra uomini e donne, che considerava la diff. sessuale
ininfluente agli occhi dello Stato
- l’altro, propugnatore del principio di equivalenza, tendeva a valorizzare nei diritti civili la specificità del
femminile.
Accanto alle politiche, maestre, insegnanti, professioniste, scrittrici, in assenza di un pensiero e di una linea
d’azione unica e definita, hanno trovato degli spazi: esse sono chiamate in causa dalla cultura
dell’emancipazionismo, che alla ridefinizione dell’identità intreccia il tema dell’istruzione femminile. Nella
prima fase della storia dell’Italia unita, le intellettuali attive si trovano tutte coinvolte in una rielaborazione
della propria identità sociale, che passa per il confronto col modello di “donna-madre” e la questione
dell’accesso alla cultura e alla pratica dei saperi.
La costruzione dell’identità nazionale promuove una cultura rinnovata a carattere nazionale, in parte rivolta
alle donne, in parte aperta all’intellettualità femminile. In questo quadro, anche per le donne la scrittura si
configura come la possibilità di uno status sociale e professionale a cui esse accedono in gran numero nel
ruolo di giornaliste, appendiciste, traduttrici, educatrici, poetesse e soprattutto narratrici.
Milano e Roma si configurano come le capitali culturali del nuovo Stato.
Milano, segnata da un’operosa borghesia progressista, culturalmente aperta al positivismo e centro
dell’emancipazionismo, si è affermata di fatto come centro promotore della presenza delle donne nella
produzione di una nuova cultura.
Roma, investita del progetto di contrapporsi a Milano come capitale della cultura dello Stivale ormai unito,
si configura a sua volta come laboratorio di una cultura moderna, sul piano politico, del costume e della
mondanità.
In questi decenni si possono rintracciare due generazioni di scrittrici:
1. La prima, nata attorno alla metà del secolo [Marchesa Colombi, Bruno Sperani, Emma, Neera,
Matilde Serao…]
2. La seconda, intorno agli anni 70 [Ada Negri, Grazia deledda, Sibilla Aleramo…].
Queste due generazioni avviano, parallelamente alla propria sperimentazione letteraria, quella riflessione
teorica su soggettività femminile e scrittura che, durante il 900, si definirà come costante cifra innovativa
delle scritture letterarie di donne.
Fra le scrittrici della prima generazione situate a Milano:
La Colombi offe una produzione letteraria in cui, nelle forme di un verismo minore, possono essere
individuate due tematiche costanti nel quadro della produzione lombarda, ossia gli interni di vita
familiare e coniugale e il tema della condizione femminile nel mondo del lavoro. Quest’ultimo tema
viene rielaborato in chiave naturalista e si traduce nella storia di una donna che si evolve, passando
dalla dimensione della passione e del sogno all’accettazione del proprio ruolo, seguendo
un’impostazione verista.
Emma [Emma Ferretti Viola] affronta al stessa tematica relativa alla condizione femminile nelle classi
sociali subalterne, seguendo un’impostazione naturalistico-verista.
Bruno Sperani [pseudonimo di Beatrice Speraz] pubblica La fabbrica (1894), in cui Luisina, immigrata a
Milano per bisogno, con un figlio a carico e la madre all’ospizio, è la protagonista di una storia di
miseria, di lavoro, d’amore e di morte nella Milano dell’accumulazione capitalistica e della
speculazione edilizia. La Sperani, partecipe alle prospettive dell’emancipazionismo socialista, elabora i
temi della condizione femminile in quadri sociali articolati e complessi, quadri di vita operaia e
popolare. Questi sono percorsi dal personaggio di Luisina, sfruttato sia socialmente che sessualmente,
che, reso tra la sua soggettività interiore e le sue esperienze oggettive, chiude il romanzo con un gesto
definitivo di ribellione, uccidendo un uomo.
Neera [Anna Radius Zuccari], che è stata la scrittrice di maggior rilievo in questa generazione di
letterate lombarde. Perfettamente inserita nella vita culturale della città, Neera interessa sia come
autrice, sia come polemista, in quanto protagonista autorevole nella definizione della nuova identità
femminile. Cresciuta nella dimensione appartata di un appartamento borghese regolato da sole donne
(ossia le zie che sono subentrate alla morte precoce della madre), introversa e solitaria, Neera
costruisce, dopo le nozze con Adolfo Radius, un’immagine pubblica e un’attività intellettuale che dal
1875 arriva agli ultimi giorni di vita, dedicate alle pagine autobiografiche edite postume col titolo Una
giovinezza del secolo XIX. Neera, nel suo “ciclo della fanciulla”, racconta storie esemplari di donne
comuni: in Teresa parla di una zitella; in Lydia di una donna perduta; ne L’indomani della giovane
sposa Marta. In ogni vicenda il nodo centrale è dato dal dolore, esperienza che permette di acquisire
un’identità autonoma e lo scioglimento della vicenda. Se Lydia decide di togliersi la vita, Teresa e
Marta accettano la privazione d’amore e attestano la propria identità, l’una rasserenata, nella
vecchiaia, nella continuità del suo sentimento; l’altra appagata dalla maternità che si annuncia. In
entrambe le storie il dolore le trasforma da vittime in protagoniste del proprio destino.
Questo narrare, attraverso lo sguardo interiore di una donna, le vite quotidiane scavate nei risvolti segreti
delle dimensioni emotive, si confronta con la ridefinizione dell’identità femminile e la proposta di una
nuova figura sociale. Il modello femminile che Neera propone (pur denunciandone contraddittorietà e
costi) è rappresentato da una figura materna, filtrato dalla cultura positivista (la donna deve “imporre
all’uomo il dovere di continuare la specie”), nobilitato dalle sue funzioni di cura (dell’”alta missione della
donna in famiglia”), avvalorato dalla riflessione sull’amore, un vero e proprio sogno, fuori dalla realtà.
Mentre il dolore che segue sublima l’amore, la maternità si trasforma in una scelta d’amore, in un valore
ideale e insieme sociale.
La fortuna di Neera e l’importanza che assume si fondano sull’ambiguità che attesta la sua figura
intellettuale in una zona di frontiera, tra spinte conservatrici e processi di rinnovamento. L’adesione ai
canoni del verismo si modifica per la modernità di un’attitudine introspettiva maturata nella propria
formazione e conservata come sguardo sulla realtà. L’immagine di donna che si compone, mentre conserva
il modello femminile ottocentesco della donna madre, al tempo stesso lo rinnova perché attiva il principio
della scelta individuale. In questo senso, la maternità come valore della specificità femminile è l’elemento
di convergenza tra le emancipazioniste e la Neera scrittrice. Assumendo come base il principio
dell’equivalenza fra donne e uomini (“ la femmina non è né superiore né inferiore al maschio; sono due parti
indistinte di un organismo indivisibile”), Neera si batte perché le une e gli altri si mantengano entro i confini
naturali dei propri ruoli. “La missione della donna” è “quella di procreare” e la sua “vita naturale fisiologica” è in
casa. Da questa posizione contraria al lavoro femminile, prende le fila anche la sua presa di posizione
contro l’istruzione delle donne: secondo Neera, la cultura non solo è inutile ai fini dell’educazione materna,
ma “spesso anche dannosa”. Su questo è intervenuta la Aleramo che, reso omaggio alla scrittrice, ne
controbatte le tesi, sostenendo che se della donna è la funzione educatrice, sarà allora favorita dalla cultura
e dalla “disciplina dell’intelletto”. Inoltre, la Aleramo tocca il nodo del diritto alla felicità, contrapposto al
dovere di sacrificio, fondato sulla “facoltà di pensare, agire, sperare.”
In quegli stessi anni a Roma troviamo Matilde Serao, giornalista e novellista che ha giocato un ruolo di
primo piano nel processo di modernizzazione della cultura nazionale. In lei, tuttavia, la scelta per sé di
un’emancipazione giocata tra cultura e lavoro non si traduce in una riflessione ideologica coerente. Se nella
sua attività giornalistica denuncia le condizioni di vita di sarte e tabacchine, con la stessa passione contrasta
la cultura delle emancipazioniste, l’istruzione femminile, il diritto di voto, il divorzio. In questa scissione, la
scrittura letteraria sembra conservare una coscienza più complessa. Negli anni romani della Serao, il
recupero memoriale dell’esperienza vissuta si traduce in un’”autobiografia indiretta”, ossia in terza
persona, proposta a cui fa da contrappunto il trittico della fanciulla della milanese Neera. Le due scrittrici,
d’altronde, seguono l’una l’attività dell’altra e intrattengono un rapporto di corrispondenza. Due
intellettuali che si raccontano entrambe come donne nuove, mentre ci raccontano l’impossibilità di ogni
reale emancipazione, in famiglia e al lavoro. Piuttosto, è nell’esperienza della maternità che si realizza
un’intermittente convergenza degli opposti: “ Dato che la maternità è la corona della vita [di una donna], gli
uomini facciano in modo che ogni donna abbia la sua parte.”
Il passaggio al 900 letterario si realizza con l’opera Una donna dell’Aleramo (1907). La Aleramo si distingue
per la singolarità della sua figura di donna e di intellettuale, da lei riproposta nel contesto di cultura
emancipazionista. Come altre scrittrici della 2° generazione, la Aleramo ha una formazione
prevalentemente da autodidatta e procede in contemporanea con le riflessioni e le iniziative del
movimento emancipazionista fra fine 800 e primo 900; la Aleramo segue questi dibattiti sulla ridefinizione
dell’identità femminile. Nel suo apprendistato fu senza dubbio determinante il primo soggiorno milanese.
In questo periodo, maturano in lei una diversa coscienza di sé e la scelta della scrittura come forma
espressiva attraverso cui darle immagine e valore. L’esito di questa evoluzione interiore è il romanzo Una
donna, che racconta la morte simbolica di Rina e la nascita di Sibilla, figura esemplare di donna, rigenerata
dalla parola poetica: lo confermano la generalità del titolo e l’adozione dello pseudonimo, atto a cancellare
per sempre dalla sua identità il nome del padre e del marito. Questa nuova nascita fa dilatare il senso della
vicenda narrata e la trasforma in una vicenda ideale ed esemplare. L’opera, a lungo discussa come
autobiografia, presenta (nel contesto del primo Novecento) una ricerca letteraria sperimentale e
innovativa. La doppia tensione nel testo, fra disposizione diacronica degli eventi e il percorso interiore
dell’io narrante, lo distanzia sia dal modello verista che dall’autobiografia, collocandosi nel filone di opere
che si misurano con la complessità dell’individuo. Perciò si può dire che la Aleramo apra il Novecento
letterario delle donne con un’opera che racconta la propria genesi come intreccio profondo di coscienza e
scrittura.
Allo stesso tempo, la scelta della parola poetica come espressione di un’individualità in sé conclusa le
consente di incrinare il modello della donna-madre: “Se una madre non sopprimesse in sé la donna, un figlio
apprenderebbe dalla vita di lei un esempio di dignità?”. La radicalità del pensiero e la passione per la
scrittura (come forma di pensiero auto-affermativo) sono i due elementi che differenziano quest’opera da
altre ad essa coeve e la distanziano dalla cultura emancipazionista a cui essa appartiene.

Il secondo quadro storico-letterario del 900 si colloca fra la crisi del movimento emancipazionista e la
Resistenza, evento che registra una forte partecipazione femminile ai fatti politici e culturali. Sono gli anni
di formazione di una nuova generazione di scrittrici, come la Morante e la de Céspedes. In questa fase (che
sullo sfondo della politica culturale di regime, segna la ripresa della forma-romanzo), editoria, storiografia e
critica sembrano guardare soprattutto al passato, impegnandosi a selezionare e codificare un modello di
valore etico-sociale. Sono indicativi i lavori di Benedetto Croce alla letteratura da lui definita “femminile”.
Infatti, Croce aveva seguito e selezionato alcune autrici (fra cui la Serao e Neera), e ne aveva escluse altre,
fra cui anche la Aleramo. Croce definiva le opere delle donne “naturalmente” impoetiche, poiché segnate
dall’ispirazione diretta alla vita che le stesse autrici vivevano, e aveva individuato in Neera la figura
emergente nel quadro letterario femminile della nuova Italia (perché l’incompiutezza della sua forma si
compensava per il forte sentimento della morale con cui affrontava i temi dei suoi racconti).
Il profilo della nuova intellettualità femminile, secondo Croce, si consolida fra il ’19 (data della sua
prefazione a Una giovinezza del secolo XIX) e il ’42, edizione del volume Neera, da lui curato. In questi anni,
Croce preclude la propria attenzione alle voci del presente, difatti le sue Note sono dedicate per lo più ad
autrici già morte, o facenti parte di una fase già conclusa. In esse, il senso limitativo con cui Croce parla di
una letteratura che, laddove non si mantiene nei limiti di una narrativa sociale, può tradursi
nell’espressione impudica del sentimento come passione. La riproposta della figura di Neera corrisponde
alla costruzione definitiva di un ritratto e alla conferma di un modello. Il tratto più notevole nell’opera di
Neera è, secondo Croce, il suo “nobile pensiero”, esperto della passione e la sua capacità di diventare
“mercé del dolore, in quell’amore sugli amori che si chiama dovere”.
In quegli anni, la Aleramo propone una sorta di poetica contrapposta alle teorie crociane, che procede in
concomitanza con un progressivo svelamento di sé. La Aleramo riflette che, se tra uomo e donna esiste una
differenza, bisogna convincersi che essa “implichi una profonda diversità espressiva”.
Le scrittrici di questa generazione, lontane dal modello conservativo crociano, esterne alla politica del
fascismo, restie alla visceralità delle opere dell’Aleramo, si propongono piuttosto con opere che le
differenziano dalle generazioni a cavallo fra i due secoli. Le esperienze individuali portano alcune di esse
(come la de Céspedes) a essere itineranti e internazionali; quelle culturali le dispongono in un rapporto
diretto con le letterature europee; quelle politiche le portano oltre la fissità dei modelli. Ne consegue uno
sguardo incontaminato sul mondo, che si traduce in racconti di formazione assolutamente fuori dagli
schemi del genere letterario.
Ad esempio, nel 1938 Alba de Céspedes si afferma come scrittrice di largo successo con Nessuno torna
indietro, romanzo di formazione sul passaggio all’età adulta di otto giovani donne, da l’esperienza chiusa del
collegio al passaggio del ponte che porta alla città. Qui, l’itinerario di formazione dell’identità femminile
elude e contrasta la delineazione di un destino esemplare per proporsi come insieme di esperienze diverse
il cui senso profondo è filtrato, in uno scambio proficuo fra esteriorità e interiorità. Il tema stesso della
“scrittura proibita”, in quanto parola che svela la coscienza, si svela appieno nelle opere della fase matura
(come Quaderno proibito, 1952) e si dispone come tema fra gli altri, ognuno parte di un tutto che si declina
nella molteplicità dei possibili percorsi. In Nessuno torna indietro, Augusta, che non attraversa il ponte,
incarna la scrittura sterile, avulsa dall’esperienza della vita, che le fa scrivere un romanzo su un mondo “che
non oltrepassa il telaio davanti la finestra del collegio”.
Nel pensiero di sé che sottende all’immaginario poetico e la ricerca letteraria di queste scrittrici si può
misurare l’originalità che domina le strutture, le tematiche e lo stile delle loro opere. La possibilità di porsi
come coscienza critica nei confronti della civiltà consente a queste donne un percorso di emancipazione
intellettuale decisamente innovativo. Figlie dell’emancipazionismo di primo 900 e della guerra (evento che
già di per sé dissesta la rigidità dei ruoli familiari), emancipate, spesso perché nate in famiglie colte e
progressiste, queste donne sembrano eludere l’identificazione con qualsiasi modello femminile, per
proporsi come figure di pensiero e scrittura, oltre il modello incarnato da Neera e in contrasto con le teorie
crociane. Queste scrittrici preferiscono porsi in esplicita opposizione a ogni idea di appartenenza, sia
all’emancipazionismo che al neo-femminismo, come parte indifferenziata di una generazione di scrittori.
Questa generazione di scrittrici si forma nella passione e nell’esercizio della scrittura letteraria, vissuta
come mestiere ed elezione di uno spazio indiscusso di libertà individuale. Aderenti alla ricerca letteraria che
tornava all’idea di romanzo come racconto di una realtà, queste autrici danno forma poetica alla
molteplicità di un reale che attiene alla specificità delle loro esperienze. Sempre senza identificarsi, senza
enfasi di protagonismo, in loro, alla precarietà delle incertezze si accompagna l’antica pretesa delle donne
di rigenerare il mondo. La loro precarietà si svela proprio in questo: nella visione del mondo di questi
intellettuali, si configura diversamente la coscienza della crisi e dei suoi risvolti nella percezione di sé. In
essi, alla frantumazione dell’identità subentrano la molteplicità e la variabilità degli aspetti di ogni singola
individualità; l’opposizione binaria natura/storia; lo sguardo curioso di una soggettività giovane e dinamica
si sovrappone all’impotenza dell’intellettuale dinanzi a una realtà che lo sovrasta. Le opere di formazione di
queste scrittrici mostrano la presenza di alcune costanti che, pur evidenziando i tratti di una nuova
generazione, incrinano la tenuta del quadro storiografico, e insieme confermano l’ideologia della
codificazione crociana.

Il terzo quadro storiografico si apre fra ’43-’44, protraendosi fino alla seconda metà degli anni Sessanta,
quando il neo-femminismo rimette in gioco i tratti dell’individualità femminile. In questa fase, le donne
vedono attuarsi alcuni degli obiettivi propri dell’emancipazionismo (quasi diritto al voto, allo studio, al
lavoro) e le premesse emerse dalle opere di formazione delle stesse scrittrici si confermano nei loro testi
maturi. Accanto agli elementi di continuità, quelli innovativi, che consentono di individuare una nuova
stagione letteraria sono: l’elaborazione narrativa del tema che riflette sul nesso identità-scrittura e l’avvio di
una ricerca letteraria che si confronta con la tradizione del romanzo storico e con la storia stessa.
La guerra e la Resistenza sembrano configurarsi come parte di una memoria storica che le contiene e le
attraversa, senza tuttavia sedimentarsi in una tematica definita. Pur nell’urgenza di un evento recente,
l’oggettività della storia sfuma nei racconti delle autrici (Aleramo, de Céspedes,…), sullo sfondo della loro
memoria, in un pensiero di sé in cui il grande tema sotteso al loro narrare è in realtà la scrittura stessa,
considerata in sé e per sé (origine del testo) e come luogo di espressione della propria individualità. Dunque
il nodo della scrittura (nucleo generatore di forme letterarie che danno forma alla memoria e al pensiero di
sé nella storia) come espressione di una soggettività che si svela, determina la specificità dei contenuti e le
modalità con cui le tematiche si dispiegano in un racconto. La stessa predominanza di motivi connessi a
vissuti femminili è l’esito di un punto di vista sulla storia che, non solo comprende in essa le donne come
protagoniste, ma in più pretende di raffigurarle nell’interezza della loro esistenza – senza cesura fra
l’oggettività del vissuto e la soggettività della sfera emotiva.
L’assunzione di una prospettiva fluida, in grado di transitare tra realtà interiore ed esteriore, modifica il
concetto di storia e influisce sul modo di narrarla. La storia viene allontanata del passato, ma attualizzata
dalla coscienza dell’autrice e narrata nei riflessi dei percorsi quotidiani dei personaggi. Il referente storico è
reso, in ognuno di questi romanzi, con un’attenzione minuta al dato oggettivo che lo identifica subito nella
sua realtà; un’attenzione che nella resa oggettiva dei quadri storici, del costume, della lingua, si estende,
nella ricostruzione sul lungo periodo, alla registrazione delle contraddizioni sociali, delle discriminazioni
sessuali, dei conflitti generazionali e politici.
Nel 48, la de Céspedes commenta Il discorso sulle donne, pezzo dove Natalia Ginzburg riconduceva la
difficoltà delle donne a essere attive nella storia alla malinconia che le vincola a un incessante pensiero di
sé, impedendo loro di condividere il proprio immaginario, creando un “gran pozzo oscuro” dell’interiorità.
La de Céspedes riprende la metafora del pozzo per svelare tutti i contenuti di un’esperienza che tocca “le
più profonde radici del nostro essere umano”. Scrive di identificare in questi “pozzi” una fonte di forza,
perché “nel riaffiorare” si portano in sé “esperienze tali che permettono di comprendere tutto quello che gli
uomini non comprenderanno mai”. Ella nomina anche le “sublimi verità dell’amore” tra le esperienze
essenziali dell’individualità femminile; queste verità svelano, all’origine di quell’incessante pensiero di sé,
una nostalgia che si traduce nel “sogno d’amore”, desiderio di complementarietà e interezza. La pretesa di
narrare come parte delle esperienze quotidiane e della storia, quella memoria del corpo che è velata dal
pudore o sublimata nella rarefazione della parola poetica, prende forma nel tema della passione d’amore,
che ha consentito un’interpretazione dei testi disorientata, e perciò ha portato a un’emarginazione, sotto
l’etichetta crociana di “letteratura femminile”. La Banti e perfino la Aleramo hanno sottolineato come, il
fatto di essere autrici, impedisse loro di ottenere un qualsiasi vero riconoscimento.
L’urgenza di dare visibilità a quel sogno di fusionalità e interezza rafforza il nesso che vincola la scrittura alla
coscienza di un’identità che torna alle origini della vita e ne connota lo stile. Questo stile, che si fonda
sull’ascolto di sé e dà forma nei testi al proprio pensiero, viene assunto come tema centrale del narrato e si
propone in tutte le sue valenze in alcune opere, fra cui Quaderno proibito della de Céspedes.
In Quaderno proibito (1952), romanzo costituito in forma di diario (le date scandiscono la scrittura - dal 26
novembre del ’50, al 27 maggio ’51 - e collocano il pensiero di Valeria negli anni 50), l’adozione di una
scrittura del privato, di per sé connessa al tempo quotidiano, ottiene un doppio esito:
 Riconduce la memoria di sé dall’interiorità alla storia
 Contrasta l’andamento diacronico del racconto.
Attraverso un gioco di tempi verbali (il passato, che rappresenta il vissuto; il presente, tempo di coscienza e
scrittura; il condizionale, che indica il conflitto fra desiderio e norma; il futuro, tempo della rinuncia), il
romanzo riflette su scrittura e vita e ricostruisce lo sviluppo, nel tempo quotidiano, di una coscienza di sé, e
di una conoscenza del mondo, che la scrittura alimenta e avvalora (ed è perciò “proibita”).
Nel volume c’è la scoperta che l’incontro con la storia può realizzarsi nei gesti e nei pensieri della vita
quotidiana (“Imparare a comprendere le cose minime che accadono tutti i giorni è forse imparare a
comprendere davvero il significato più riposto della vita” scrive Valeria), per cui il “gran pozzo
dell’interiorità” si rivela luogo e misura della conoscenza. La parzialità come misura dell’impatto tra
soggettività e storia è dunque l’attitudine mentale che connota il pensiero di sé nell’intellettualità
femminile e ne informa lo stile e la ricerca letteraria.
In seguito, negli anni Ottanta, la de Céspedes ritorna alla memoria delle proprie origini e della propria vita
familiare a Cuba e scrive Con gran amor, con cui si chiude il terzo quadro storiografico del Novecento.
L’opera (un lavoro su memoria, storia, scrittura, che dagli anni Settanta si prolunga fino alla fine dei
Novanta) visualizza, anche nella sua incompiutezza (termina con la morte dell’autrice), tutti i percorsi di
questa generazione di scrittrici:
 Spessore della ricerca
 Intelligenza della vita
 Raffinatezza del mestiere
 Pretesa (prima) e fatica (poi) di tenere insieme, nella pagina letteraria, la nostalgia dell’armonia
originaria e la discontinuità dell’esperienza della storia.
La passione di narrare la storia come memoria di sé, che si fa bisogno di testimoniare e interpretare la
vicenda umana, è il dato forte di continuità fra questa generazione di scrittrici e quella successiva, che
introduce al quadro storiografico che chiude il Novecento e accompagna il passaggio al nuovo millennio.
Troppo ravvicinato per essere definito storiograficamente, questo quadro presenta linee di tendenza che
possono essere poste come ipotesi di lettura. Un quadro che ha visto la ricerca letteraria delle donne
intrecciarsi alla riflessione e alla pratica politica del femminismo. Quest’ultimo, alle sue origini si pone come
elemento di discontinuità nella storia, come spazio reale di libertà ed espressione di sé, i cui effetti
incideranno sia sugli immaginari delle donne, sia sulle chiavi di lettura/interpretazione dei testi letterari. Il
tema della storia sta all’origine della ricerca letteraria di varie autrici, fra cui la Bianchini, e in seguito la
Maraini, e tante altre. Ad esso, si accosta il tema della raffigurazione dell’identità femminile, costante nella
produzione delle più giovani. Si modifica invece l’attitudine con cui queste scrittrici hanno elaborato la
propria figura intellettuale, riportata a un’identità sessualmente connotata. Lo conferma l’assenza della
centralità del tema della “scrittura proibita”, a cui sembra corrispondere una produzione parallela dedicata
a ricostruire e documentare la presenza delle donne nella storia del pensiero, della cultura, della scrittura.
La frattura segnata nelle forme di rappresentazione dell’io e della storia da una soggettività femminile che
si proposta nella ricomposizione di identità di genere, ha compiuto un passaggio che:
- da un lato, ha segnato gli immaginari poetici delle scrittrici,
- dall’altro ha ridefinito l’ottica nell’interpretazione dei loro testi.
Dopo la prima fase, l’identità sessuata dei soggetti (di scrittura e lettura) ha consentito di mettere in atto
una strategia interpretativa dei testi attenta alle specificità di tutte le forme espressive, alla diversità delle
esperienze; ha consentito di ripensare alla storia del 900 come a un insieme di storie che ricompongono gli
andamenti di tutta la vicenda umana.
Sul piano della lettura, dunque, l’applicazione di un’ottica interpretativa di genere ha aperto la possibilità
di vedere un Novecento diverso da quello raccontato dalla storiografia letteraria “ufficiale”.
L’interpretazione contestuale di un archivio letterario reintegrato può rimodellare, quadro per quadro,
l’andamento del discorso storiografico. Perché le scritture delle donne possano entrare nella trasmissione
della parola poetica del nostro 900, è necessario che si formi una capacità di lettura, oggi ancora rara, più
colta, curiosa e disponibile all’ascolto di sé in rapporto all’altro o all’altra.

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