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IL ROMANTICISMO

1. QUADRO GENERALE
NASCITA E LIMITI CRONOLOGICI. Il Romanticismo fu un complesso movimento spirituale e culturale, che produsse un
profondo mutamento nelle lettere, nelle arti, nel pensiero e nel costume. Sorto sul finire del Settecento in Inghilterra, e, con più
matura consapevolezza in Germania, dove si legò alla filosofia dell’Idealismo, si estese progressivamente a tutta l’Europa.
 Il nome del movimento deriva dall’aggettivo romantic, che appare per la prima volta in Inghilterra sul finire del Seicento,
in connessione con la parola romance, che originariamente equivaleva a "francese antico", e, in seguito, a "narrazione
poetica in versi", e che assunse via via il significato di "cosa fantastica, irreale, simile a quelle che avvengono nei
romanzi" e quindi servì a definire sia una disposizione d’animo fantasiosa e sentimentale, sia i paesaggi solitari e
pittoreschi che la stimolavano. Infine, con la rivalutazione nostalgica del Medioevo alla fine del Settecento, assunse il
significato di "gotico, medioevale", contrapposto a "classico".
Il Romanticismo fu preparato dal mutamento progressivo della sensibilità e del gusto che si svolse nell’ambito stesso
dell’Illuminismo e del Sensismo e che prese il nome di Preromanticismo. Ma l’anno in cui si costituisce una "scuola" romantica,
che assume programmaticamente questo nome, varia da nazione a nazione.
 Come movimento letterario, pienamente consapevole di sé e polemicamente differenziato dalla cultura precedente, il
Romanticismo nasce in Germania. Esso è promosso da un gruppo di scrittori che si raccolgono attorno alla rivista
Athenaeum, che inizia le pubblicazioni nel 1798. Il centro è rappresentato dai fratelli Wilhelm e Friederich Schlegel, a cui
si unirono Novalis e Tieck.
 Anche per il Romanticismo inglese c'è una data d'inizio ufficiale: il 1798, quando fu pubblicato il programma aggiunto dai
poeti Samuel Taylor Coleridge e William Wordsworth alle loro Lyricals Ballads.
 Per il Romanticismo latino invece bisogna attendere più tardi: per l'Italia si considera primo manifesto della nuova scuola
la Lettera semiseria di Crisostomo di Giovanni Berchet, del 1816, mentre per la Francia la prefazione al Cromwell di
Victor Hugo, del 1827, contiene la sintesi più ricca e brillante delle nuove idee, che già circa un decennio prima avevano
cominciato a diffondersi nella nazione. Per tutto il Romanticismo latino sono date importanti quelle della pubblicazione di
De l'Allemagne di Madame de Stael (1813) e della traduzione del Corso di letteratura drammatica di Wilhelm Schlegel
(1814). E' attraverso questi due libri che furono conosciute le idee dei romantici tedeschi, anche se in forma incompleta.
Il movimento può dirsi concluso attorno alla metà dell’Ottocento, anche se molte sue istanze continuarono a incidere sui
movimenti letterari posteriori fino ai giorni nostri. Pensiamo all’amore, all’amore detto appunto “romantico”. Nelle epoche
precedenti quella romantica, l'amore non era un'esperienza personale che potesse condurre al matrimonio. Al contrario, il
matrimonio veniva contratto per convenienza e concluso sulla base di considerazioni sociali e economiche, ed era opinione
comune che il sentimento sarebbe nato in seguito. A partire dal XIX secolo, invece, il concetto dell'amore romantico si è diffuso
nel mondo occidentale. Oggi la maggior parte della gente è alla ricerca dell'“amore romantico”, della esperienza personale
d'amore che dovrebbe condurre al matrimonio e dunque alla felicità.

CHI E’ L’UOMO, PER I ROMANTICI? La natura umana è una declinazione particolare della natura. E’ sempre natura ma è
una natura particolare, capace di andare al di là dei limiti della natura stessa e diventare cultura, e ad essa conformarsi più di
quanto possano agire in noi le determinazioni genetiche, capace di andare al di là dei limiti della natura e diventare bontà,
generosità, oppure vigliaccheria, meschinità e generare un senso di malvagità, di stupidità che la natura non conosce. Dunque,
partendo dall’assunto che l’uomo è un essere di cultura più che un essere di natura, cos’è lo specifico del fenomeno umano?
 La ragione, come dicevano gli illuministi? Cioè la statura eretta, che ci ha permesso di liberare le mani, e il pollice
opponibile, che ci ha garantito l’utilizzo e la manipolazione degli oggetti, e lo sviluppo della neocorteccia, sede delle
funzioni cognitive superiori, che ci dona la capacità di capire, nel senso “freddo” del termine, capire nel senso di carpire il
segreto delle cose, di analizzare, smontare, aprire, talvolta anche squartare, sezionare o addirittura vivisezionare? Certo,
l’Illuminismo non diceva che lo specifico umano consistesse solo in questo (anche ma non solo): è anche intelligenza
“calda”, che vede in sintesi, che rimonta, che vede l’insieme, che dà un senso alle cose o che lo cerca e che magari
ricercandolo se lo inventa, ma inventandolo crea, e crea musica, e crea letteratura, e crea filosofia, arte, riti, simboli,
pensiero, spiritualità. L’intelligenza “fredda” genera conoscenza, l’intelligenza “calda” genera significato: le due
intelligenze non sono per niente uguali poiché noi possiamo avere una grandissima conoscenza del mondo, conoscere tutto
degli uomini e della natura ma non trovarvi alcun significato, che se ci pensate è proprio il problema del nostro tempo
avere una grandissima conoscenza tecnologica e scientifica ma non trovare significati sufficiente che giustifichino il
nostro essere al mondo.
 Per i romantici, invece, lo specifico umano non sta soltanto nell’intelligenza “fredda” e neppure in quella “calda”, ma nel
“cuore”, nell’impasto di spirito e materia, istinto e ragione; sta nell’io dotato di intelligenza, volontà, sentimento, passioni,
e da ciò reso unico e irripetibile; sta nell’abbraccio, nella capacità di generare vita, accoglienza, ospitalità, spazio, cura; sta
insomma nell’amore, e non solo nella dolcezza e bellezza e tormento con cui lo sperimentiamo talvolta, magari quando
siamo innamorati, ma anche nella disciplina che ci impone, nella responsabilità, nella fatica. E non solo, perché per il
Romanticismo lo specifico dell’umano, oltre a essere “cuore”, è anche spazio vuoto, caos, indeterminazione, insomma
libertà: perché la nostra ambiguità di specie, di cui dicevamo prima, dipende esattamente dal fatto che tra la mia
intelligenza analitica, la mia intelligenza sintetica, i miei sentimenti e affetti, e me stesso, nella mia interiorità, nella mia
coscienza, nel mio intimo, c’è uno spazio, e questo spazio di libertà, di autocoscienza, è quello che mi consente di
utilizzare l’intelligenza e i sentimenti in un modo, ad esempio al servizio del bene e della giustizia, oppure in un altro, al

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servizio del mio particolare interesse o addirittura al servizio del male per il piacere in sé dell’ingiustizia, per il gusto
sadico di vedere soffrire. Quindi lo specifico umano sta nel caos: caos non vuol dire primariamente disordine, ma spazio
vuoto, cavità, abisso, voragine, e questo spazio vuoto è l’indeterminazione che ci contraddistingue davvero come specie, la
libertà come tratto distintivo. L’esercizio della libertà che ci permette di determinarci come la più brutale e stupida tra tutte
le bestie oppure di sgravarci del peso dei nostri condizionamenti mortiferi e diventare apertura d’amore, esseri
compiutamente relazionali e consapevoli.

LO SPIRITUALISMO E L’INDIVIDUALISMO. Il Romanticismo nasce in opposizione ai motivi più astratti dell’ideologia


illuministica, della quale, però, conserva e approfondisce quelli più validi. L’Illuminismo aveva esaltato la ragione come facoltà
sovrana, cui tutte le altre dovevano essere rigorosamente subordinate, aveva rigettato le religioni tradizionali, sostituendo ad esse
un vago deismo o una concezione sensistica e materialistica della realtà. Il Romanticismo è, invece, pervaso da un’ansia religiosa
che, o si concreta nel ritorno alle fedi tradizionali o sfocia nell’immanentismo, cioè in una religione dell’umanità, fondata sul
culto dei valori spirituali più alti, che dirigono la storia, o in un mistico panteismo, che fa coincidere Dio col mondo e ne avverte
l’arcana presenza nella natura e nella storia; comunque, in un deciso spiritualismo.
Inoltre, pur accogliendo l’esaltazione illuministica della libera ragione umana, rivendica il valore del sentimento e della fantasia.
L’esaltazione romantica del sentimento significa esaltazione della libera individualità creatrice dell’uomo. A differenza della
ragione, che lo accomuna agli altri, il sentimento lo distingue come essere unico e irripetibile, legato alla natura, alla tradizione,
alla storia, ma da esse emergente con una propria libertà spirituale, una propria tensione verso l’infinito e una propria originalità
che se, a volte, lo pongono in contrasto drammatico con la società, rappresentano tuttavia la sua dignità autentica e la sua ragione
d’essere vera. Al centro della spiritualità romantica è sempre e comunque il sommo valore dell'io, il culto spinto sino al
narcisismo della personalità geniale, ribelle, eroica, in rotta con ogni norma o vincolo che in qualche modo la limiti, secondo un
modello protagonistico che si matura nel cosiddetto titanismo che, in forme diverse, esalta la carica individualistica dell'io nella
sua perpetua lotta contro la società o il fato. Al titanismo corrisponde l'atteggiamento antitetico e complementare del vittimismo,
del ripiegamento interiore, della voluptas dolendi, della rinuncia alla lotta, della clausura solitaria lontano dai mediocri.

LO STORICISMO E IL NAZIONALISMO. L’Illuminismo impegnato nelle lotte contro le decrepite istituzioni feudali che
intralciavano lo sviluppo della civiltà moderna, aveva rigettato polemicamente il Medioevo, e, in genere, il passato, concependolo
come un complesso di pregiudizi ed errori. Il Romanticismo sente invece la tradizione come elemento essenziale della vita dei
popoli. Nasce di qui la rivalutazione del Medioevo, considerato come l’età in cui si era formata la civiltà moderna, cristiana ed
europea, per molti aspetti opposta a quella classica. Questi concetti si fondano su quello che è forse l’aspetto più importante del
nuovo movimento: lo storicismo, che significa concezione organica della vita individuale e della storia come incessante divenire e
continuo progresso. Ogni momento di esse è irripetibile e necessario: il presente è la risultante di tutto il passato e reca in sé i
germi dell’avvenire, è un superamento del passato, che però ne accoglie, ne continua, ne integra l’esperienza più valida. Mentre
l’antica concezione della vita appariva statica, fondata sulla persistenza immutabile di certi valori, la nuova è dinamica, protesa
alla conquista di valori sempre più alti e complessi, in un processo che si svolge all’infinito. Nasce tuttavia di qui il senso
doloroso e drammatico della vita: vivere è continua tensione, travaglioso superamento di ogni precedente conquista, che esprime
un perenne anelito, sempre inappagato e sempre risorgente, dello spirito umano verso l’infinito.
L’Illuminismo oscillava fra due estremi: individuo e umanità, individualismo e cosmopolitismo. Nella sua reazione alle istituzioni
tradizionali e nel suo culto della ragione universale, esso aveva deprezzato le formazioni intermedie. La ragione è uguale in tutti
gli uomini e le differenze tra uomo e uomo e fra popolo e popolo sono delle incrostazioni contingenti, che devono scomparire per
lasciare emergere la comune natura umana. Perciò l'uomo della ragione non riconosce il valore dei vincoli che lo legano a un
paese, a una razza, a una tradizione: egli si sente cittadino del mondo. Il Romanticismo invece non poteva lasciar sussistere senza
una mediazione due termini così lontani e così in fondo divergenti come l'individuo e l'umanità. La mediazione fu trovata appunto
nel concetto di nazione. Ogni individuo nasce, non cittadino del mondo, ma cittadino di una patria, da cui riceve un'impronta
particolare attraverso la lingua, le istituzioni, la tradizione, la religione: egli vive in comunanza di ricordi e di aspirazioni con altri
uomini, che formano con lui come un unico organismo spirituale, il quale conserva in sé l'eredità ideale dei trapassati e la
tramanderà accresciuta ai futuri. Questo nazionalismo non ha però ancora gli aspetti materialistici e imperialistici che assumerà
più tardi, soprattutto nel XX secolo. Il nazionalismo non rinnega il cosmopolitismo, ma lo porta su di un altro piano. La prima
metà dell’Ottocento fu così caratterizzata dai movimenti di liberazione delle nazionalità oppresse e dall’ideale di una libera
associazione di popoli, ciascuno con la sua propria civiltà, la sua dignità e la sua indipendenza.

LA NATURA. Secondo la concezione illuministica la natura era regolata da un complesso di leggi e fenomeni che l'uomo poteva
comprendere grazie all'uso della ragione. In campo estetico venivano quindi ignorati tutti gli aspetti del reale che aprivano spiragli
su dimensioni ancora sconosciute e che, sfuggendo agli schemi razionali, per questo venivano ritenute inquietanti. Nell'estetica
neoclassica di Johann Joachim Winckelmann il bello si trova nella "nobile semplicità" e nella "quieta grandezza", esso è "come la
profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata sia la superficie".
Per i romantici, invece, la natura è sentita non piú come un insieme astratto di leggi meccaniche (secondo la ben nota immagine
dell'«orologio»), bensì come una realtà viva, animata, dinamica. Scrive il filosofo Friedrich Shelling: “Lo spirito è la natura
cosciente, la natura è lo spirito inconscio. Dio è in tutto e in me diventa autocoscienza”. Fondamentale è il rapporto fra l’io-e la
natura, caratterizzato da due atteggiamenti essenziali: se la natura è considerata come una metafora dello spirito divino, realtà
vivente protettiva e consolatrice alla stregua di una madre amorosa, prevarrà un sentimento euforico e ottimistico; se invece la
natura è sentita come una forza indifferente o addirittura avversa, matrigna, ne deriverà un'attitudine pessimistica, sino ai limiti
della angoscia esistenziale e del non-senso come fondamento dell’essere.

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Più spesso però si oscillerà tra una percezione e l’altra, così come, d’altra parte, accade a noi contemporanei, e come è accaduto
da sempre, a partire dalle origini del pensiero occidentale, a incominciare da Platone, il quale sosteneva che questo mondo nel
quale tutti viviamo non è la realtà primaria, ma solo una realtà secondaria e decaduta, paragonabile a una caverna con
funzione di carcere e con tanto di catene; per lo meno questa è la visione della Repubblica, mentre nel Timeo egli offre
una visione molto più ottimista del mondo, ne parla come di un dio («dio sensibile, grandissimo e ottimo, bellissimo e
perfettissimo»), generando così nell'insieme una di quelle antinomie che rendono la sua filosofia feconda e vera,
perché il mondo è sia l'una sia l'altra cosa, sia una caverna sia una divinità .
Ma anche nella tradizione ebraico/cristiana il giudizio su questo mondo oscilla tra il senso di una appartenenza armonica
ad un ordine superiore che lo governa con sapienza e grazia, come starebbero ad attestare queste poetiche parole di Gesù
riportate dal vangelo di Luca 6: «Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è
dimenticato da Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non
hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? Guardate
i gigli, come crescono: non filano, non tessono: eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come
uno di loro», e l’esperienza della estraneità ostile di una natura sottoposta a potenze nemiche, una natura dominata da Satana,
«principe di questo mondo» (Giovanni 12); ed è da questa amara constatazione che dalla bocca di Gesù escono parole ben diverse
nel tono e nel contenuto rispetto alle precedenti: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Giovanni 17) e
ancora: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Giovanni 12) e
per finire: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto
perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Giovanni 18), parole nelle quali sembra che Cristo ci
dica con forza che per salvarci dobbiamo sempre sentire la sostanziale estraneità della nostra essenza più intima all'attuale
condizione del mondo creato, e cioè a questo mondo, a questa rerum natura.
E, per ritornare al Romanticismo, questa antinomia, questo sentire il mondo come promessa e insieme come luogo ostile e freddo
è anche il nodo della poetica leopardiana. La bellezza è l'esperienza che innesca in Leopardi il cammino alla scoperta
dell'ampiezza del suo cuore e della sua esigenza di felicità, la bellezza in ogni forma in cui si manifesti: l'incanto della notte, delle
stelle, della luna; il rapimento stupefacente della musica; la grazia senza paragone della donna. Ma nello stesso tempo il poeta di
Recanati sperimentava anche che ciò che lui desiderava come essere umano, ciò a cui dava peso, tutto il mondo umano dei
significati e dei valori, non gli sembrava coerente né in sintonia con gran parte delle leggi della natura che sperimentiamo intorno
a noi e anche nel nostro corpo, che è poi la conclusione alla quale va dirigendosi anche la scienza contemporanea: più studiamo la
natura e ne conosciamo le leggi, sia nel macrocosmo che nel micro, più incontriamo la casualità e spesso la spietatezza degli
eventi della storia naturale, che dal Big Bang giunge fino alla nascita dell'uomo. Ed è proprio da questa amara constatazione che
deriva quell'angoscia primaria, che secondo Freud è radicata nel cuore di ogni persona, quel sentimento terrorizzante di essere
perduti e abbandonati in un cosmo che è di per sé un luogo ostile e freddo, senza sicurezza né protezione alcuna. È da questo stato
originario di gettatezza (la Geworfenheit di Heidegger) che l'uomo soffre e si interroga.
In ogni caso la natura per i romantici non sarà più la natura uniforme, pacata e geometrica dei classicisti. Ai paesaggi sereni,
armoniosi, piacevoli si preferiscono quelli irregolari, tempestosi, terribili. Nasce il gusto del contrasto, dell'orrore, dell'oscurità. Si
distingue dal «bello» il «sublime», ovvero tutto ciò che è in un certo senso affascinante e terribile insieme, e perciò la notte, nella
quale tutte le cose sembrano fondersi in mistica unità, la solitudine, il silenzio, gli spazi infiniti, la forza primigenia degli elementi
naturali, che possono essere ostili o benevoli. La rappresentazione della natura nell’arte classica e nell’arte romantica è dunque in
contrapposizione dialettica, esprime cioè quella antinomia di cui si diceva prima, ovvero la contraddittorietà del sentire umano e il
suo oscillare tra “ordine” e “disordine”. C’è qualcosa, nella natura, che ci rassicura, e qualcosa che ci tormenta. Ci rassicura un
prato verde, un cielo senza nuvole, ci turba la violenza di una tempesta. Ci placa la bellezza di una statua di Fidia, un tempio
greco, la Venere di Milo. Ci sgomenta l’uomo solo davanti alla immensità del mare o alla incertezza di un paesaggio inghiottito
dalla nebbia come nel quadro di Caspar David Friedrich. Due sentimenti eterni in perenne lotta: la ricerca della ratio e il fascino
del caos. Dentro questa lotta abita l’uomo. Cerchiamo regole, forme, canoni ma non cogliamo mai il reale funzionamento del
mondo: la vera forma di tutto ciò che è fuori di noi e dentro di noi è per gli uomini un eterno mistero. L’incapacità di risolvere
questo mistero ci terrorizza, ci costringe a oscillare tra la ricerca di un’armonia impossibile e l’abbandono al caos.

L’AMORE. L'amore è per i romantici un'esperienza fondamentale e per mezzo di esso hanno creduto di poter uscire da ogni
costrizione del quotidiano e vivere di una vita divina: “dopo quel bacio io son fatto divino”, scrive l’Ortis di Foscolo. Se i mistici
medievali descrivono l'unione con Dio con i termini dell'amore terreno, i nuovi mistici romantici esaltano i congiungimenti terreni
come forme dell'amore divino: nell'anima degli amanti deve esservi la divinità, che essi nel loro amplesso realmente sentono di
stringere tra le loro braccia. Così dice Novalis rivolgendosi estatico alla donna amata: «Ti adoro. Tu sei la santa che reca a Dio i
miei desideri, per cui Egli mi si manifesta, per cui Egli mi palesa la pienezza del suo amore». Un amore cosiffatto è chiaro che
difficilmente riuscirà a coincidere con un amore reale, per sua natura limitato. La illimitatezza delle sue aspirazioni rende l’amore
quasi impossibile sulla terra e allora esso si sublima, aldilà dei limiti terreni, nella morte, che ne è il risvolto simbiotico ineludibile
e perciò tragico. Come canta Leopardi in “Amore e morte”: «Quando novellamente / nasce nel cor profondo / un amoroso
affetto, / languido e stanco insiem con esso in petto / un desiderio di morir si sente: / come, non so: ma tale / d'amor vero e
possente è il primo effetto». Ecco allora gli amanti che vengono strappati l’uno all’altra dalla morte improvvisa per disgrazia o
malattia oppure dal suicidio: l'amore raggiunge la perfezione solo nella morte, come insegnano “I dolori del Giovane Werther” di
Goethe e “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo.

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LA POESIA. Il Romanticismo concepì la poesia come una delle più alte espressioni della vita dello spirito. Canone fondamentale
dell’estetica romantica è che la poesia è libera espressione del sentimento individuale. Furono, per questo, esaltate:
 la sincerità e la spontaneità creativa del genio, fuori d’ogni modello e d’ogni regola prestabilita;
 la poesia "primitiva" delle nazioni ancora fanciulle;
 la poesia "popolare", nata dall’«anima collettiva» del popolo, la voce attraverso cui la sua essenza si esprime.
Di qui il rifiuto, da parte dei romantici, di tutte le poetiche. Se la vita è continuo divenire, sempre nuovo e imprevedibile, tale
doveva essere anche l’arte, espressione del sentimento individuale nel quale la vita si riflette. Bisognava dunque abolire
l’imitazione e le regole desunte dai classici. Questi poeti, pur grandissimi, avevano espresso un momento della storia del mondo
diverso dalla civiltà europea e cristiana nata nel Medioevo. E inoltre la libertà creatrice individuale del genio non poteva tollerare
imposizioni, proprio perché la poesia doveva essere verità, cioè slancio verso l’infinito e intuizione sempre nuova e autentica del
mistero dell’essere. Questa concezione della poesia fu svolta dai romantici in due sensi. Da un lato portò allo scavo interiore, o al
protendersi dell’anima verso il sogno, la fiaba e un vago fantasticare che infrangesse i limiti della realtà contingente; dall’altro
condusse alla rappresentazione della realtà oggettiva e delle sue leggi, delle tradizioni e della vita del popolo, di cui il poeta si
sentì l’interprete e la coscienza. L’Ottocento fu quindi, contemporaneamente, il secolo della lirica come effusione dell’io
soggettivo (Leopardi) e del romanzo realistico (Manzoni); il poeta fu a volte mistico interprete e sacerdote dell’assoluto, a volte il
vate e la guida dei popoli, ispiratore e combattente nelle rivoluzioni nazionali.

2. LA POESIA OSSIANICA E SEPOLCRALE


JAMES MACPHERSON: I “CANTI DI OSSIAN”. Il gusto per il primitivo e il barbarico che caratterizza gran parte della
nuova sensibilità europea nei decenni che seguono la metà del secolo XVIII trovò nei Canti di Ossian la sua parola d'ordine e il
suo punto di riferimento. I frammenti del «Ciclo di Ossian» furono riscoperti e utilizzati con molta libertà dallo scozzese James
Macpherson (1736-1796). Questi poemetti in prosa lirica (in tutto 22) si riferiscono a un guerriero leggendario gaelico (cioè
dell'antica Scozia) di nome Ossian, nobile bardo (cioè poeta), la cui vita è collocata nel III d.C. Macpherson pubblicò dapprima
anonimo un volume di frammenti tradotti con il titolo “Canti di Ossian” (1760) e in seguito al successo altri due, questa volta
firmati quale traduttore. Nel 1773 infine veniva edita l'edizione complessiva dal titolo “The Poems of Ossian”. Tutte le edizioni
insistevano sull'autenticità dei testi tradotti, mentre in realtà la parte originale appartenente a Macpherson supera largamente i
frammenti filologicamente accertati. Cioè: Macpherson aveva raccolto ballate ossianiche gaeliche, ma le aveva adattate alla
sensibilità contemporanea modificando i personaggi originali e aveva introdotto una grande quantità del suo proprio materiale. Le
vicende narrate alternano momenti di guerra a episodi d'amore. In ogni caso dominano le virtù cavalleresche, un sentimento
intenso della natura, una malinconia profonda che mina ogni gesto o conquista, divenendo la cifra costante del racconto. I vari
amori infelici si collocano su sfondi naturali inquietanti: tempeste, solitudini marine o agresti, boschi misteriosi squassati dal
vento. I segni dell'uomo trasmettono il senso della vanità e della precarietà: città in rovina, tombe di ignoti . Creduto autentico il
testo, i lettori europei ne restarono affascinati, avvicinando Ossian a Omero e ritraducendo in molte altre altre lingue la presunta
traduzione inglese di Macpherson. Nel brano proposto la descrizione della notte appena arrivata costituisce un ottimo esempio del
carattere preromantico della poesia ossianesca: il mistero notturno, l'inquietudine del paesaggio naturale, la rievocazione del
passato e dei morti, l'esaltazione della poesia sono tutti motivi tipici della nuova sensibilità:

La discesa della notte


(James Macpherson, “The Poems of Ossian”, 1773)

Calano le nuvole notturne e si posano sul pendio selvatico del cupo monte irlandese Cromla. Le stelle sorgono sopra le onde di
Ulster e attraverso i vapori della nebbia mostrano le loro bianche luci. Il vento rumoreggia in lontananza. La pianura, dove
prima si è svolta la battaglia, è densa di morte, è muta e scura. L’armoniosa voce del buon cantore Ullino colpisce dolcemente le
nostre orecchie. Egli celebra i compagni della nostra gioventù, ora che, terminata la battaglia, ci riuniamo sulle erbose sponde
del lago, che sembra voglia cingerci in un abbraccio. Tutte le nebbiose cime del Cromla rispondono al suo canto, e le antiche
ombre degli eroi celebrati dal cantore vengono sulle veloci ali dei venti, e sono viste volgersi desiderose al suono delle gradite
lodi. Benedetto sia il tuo spirito in mezzo ai venti, Carilo, antico bardo, che ti manifesti insieme alle anime dei morti. Oh, magari
tu venissi spesso a me, la notte, quando io riposo da solo. Ma tu ci vieni, amico: talvolta odo la tua sapiente mano, che scorre
agile e leggera per l'arpa che sta appesa alla parete: ma perché non parli al mio dolore? perché non mi conforti? quando mi
sarà concesso di rivedere i miei cari? Tu taci e vai via; e il vento che ti accompagna mi fischia in mezzo ai capelli bianchi.

THOMAS GRAY: "ELEGIA SCRITTA IN UN CIMITERO DI CAMPAGNA". Collegato al gusto della poesia ossianica è
quello della poesia sepolcrale, fiorita in Inghilterra ad opera di Thomas Gray (1716-1771). A questo filone si ispirano anche I
Sepolcri di Ugo Foscolo. Gray è stato un poeta inglese, studioso dei classici e professore di storia all'Università di Cambridge. Il
componimento più celebre di Gray, “Elegia scritta in un cimitero di campagna”, composta nel 1751, è diventata un'importante
parte del patrimonio letterario inglese. Ancor oggi è una delle poesie più citate della lingua inglese. Il verso dell'elegia «i sentieri
di gloria non conducono che alla tomba» viene richiamato dal celebre regista Stanley Kubrick nel titolo del suo film "Orizzonti di
gloria". Riportiamo la prima parte dell'elegia, dedicata alle tombe degli umili in un cimitero campestre . L'inizio dell'elegia è di
tipico gusto preromantico. Elementi caratteristici sono: il morire del giorno, le tenebre che avvolgono le cose, creando
un'atmosfera malinconica che predispone alla meditazione sulla morte, il triste lamento del gufo dall'antica torre ammantata di
edera, la solitudine della notte. La parte centrale del componimento è invece un'esaltazione della vita oscura degli umili . In
polemica con la concezione classica ed eroica, che ritiene degno di ricordo solo ciò che è grande ed eccezionale, Gray rivendica il
valore di ciò che è umile, semplice, comune. Nei poveri contadini che giacciono nel cimitero campestre c'erano forse
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potenzialmente le doti di grandi uomini politici, condottieri, poeti. Solo la povertà ha impedito che queste doti venissero alla luce.
Questa esaltazione della vita umile ed oscura ha un significato storico importante. Riflette il formarsi di una concezione borghese,
nutrita di ispirazione cristiana, che si contrappone alla tradizionale concezione aristocratica del classicismo, sprezzante di ciò che
è umile, e anticipa tendenze che saranno ricorrenti nella successiva letteratura romantica, richiamando l’attenzione sull’oscuro
eroismo degli umili e aprendo così la strada a Wordsworth, a Manzoni, a Tolstoj. L’Elegia esercitò un’influenza notevole anche
sul Foscolo dei Sepolcri. Se in entrambi i testi Foscolo e Gray sottolineano come la morte eguagli le sorti degli umili e dei potenti
e celebrino quella che il poeta italiano definisce “celeste corrispondenza di amorosi sensi” garantita dal sepolcro, sono rilevanti
però anche alcune differenze. Innanzitutto, Foscolo celebra in successione il valore affettivo, politico e poetico della tomba,
mentre Gray, sin dai primi versi, si concentra solo sul piano affettivo, sull’elogio della gente comune, secondo una prospettiva che
considera negativamente la fama e il potere, in quanto realtà illusorie che non sopravvivono agli uomini. Diverso anche il punto di
approdo del loro ragionamento: se per Foscolo spetta alla poesia eternare il ricordo degli eroi (“E tu, onore di pianti, Ettore,
avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finchè il Sole risplenderà su le sciagure umane”), per Gray
fonte di consolazione è solo l’esistenza di Dio, che può vedere anche le vite più mediocri e modeste, che si concludono senza che
nessuno se ne accorga.

Elegia scritta in un cimitero di campagna


(Thomas Gray, 1 - 56)

I rintocchi della campana salutano il giorno che muore, l'armento si disperde muggendo per i pascoli, il contadino volge i passi
affaticati verso casa, e lascia il mondo alle tenebre e a me. Ora impallidisce la luce fioca del paesaggio e una quiete solenne
regna nell'aria. Si ode solo il ronzio di uno scarabeo che vola intorno e tintinnii sonnolenti che cullano gli ovili lontani. Dalla
torre ammantata d'edera, laggiù, il mesto gufo si lamenta, con la luna, di coloro che, vagando presso la sua segreta dimora,
disturbano il suo antico regno solitario.
Sotto quegli olmi dalla ruvida scorza e all'ombra dei tassi dove la zolla si gonfia in tumuli polverosi, steso, ciascuno, per sempre,
nella sua angusta cella, dorme, dei rudi antenati del villaggio. Mai più li desterà dal loro umile giaciglio il profumo della brezza
mattutina, il cinguettio della rondine dal nido di paglia, il canto acuto del gallo. Non brucerà più per loro la fiamma del focolare,
e la massaia non accudirà più alle faccende serali: né i bimbi correranno ad annunziare balbettando il ritorno del padre, né più
si arrampicheranno sulle sue ginocchia per contendersi il bacio. Spesso la messe si arrese alla loro falce, spesso il loro aratro
infranse le dure zolle: con quanta gaiezza spinsero i buoi aggiogati sui campi! Come si piegarono i tronchi sotto i loro colpi
vigorosi! Non lasciate che l'ambizione disprezzi la loro umile fatica, le loro gioie semplici e il loro destino oscuro; né lasciate
che la grandezza ascolti con sorriso altezzoso i brevi e semplici annali dei poveri. Un'ora inevitabile attende egualmente la
gloria dell’aristocratico, la potenza del potere, e quanto mai abbiano donato la bellezza e la ricchezza: i sentieri della gloria non
conducono che alla tomba.

UGO FOSCOLO: “I SEPOLCRI”. Foscolo (1778 – 1827) si accinse a scrivere “I sepolcri” (1806) all’indomani dell’editto di
Saint-Cloud (promulgato il 5 settembre 1806), con il quale veniva estesa alle province italiane una normativa già attiva in Francia
dal 1804. Essa vietava la sepoltura nei centri abitati, interrompendo l'uso corrente; e introduceva un controllo sulle iscrizioni
funerarie, che dovevano essere consone allo spirito della Rivoluzione francese, e pertanto non contenere, per esempio, riferimenti
a titoli nobiliari. In ogni caso le sepolture dovevano essere anonime, e la collocazione delle lapidi era relegata ai margini dei
cimiteri, lungo la cinta muraria interna. Foscolo, che pure condivideva molti dei presupposti culturali dai quali nascevano simili
provvedimenti, ne rifiutava però l'effetto di omologazione che ricadeva sui morti e sui valori del passato riconoscibili in essi. Ne
discusse con l’amico Ippolito Pindemonte, che attendeva allora a un suo poemetto, I cimiteri. In seguito a queste sollecitazioni e
alla diffusione della contemporanea poesia sepolcrale inglese, Foscolo compose i 295 versi de I sepolcri. Il genere a cui
appartengono I sepolcri è quello del carme, cioè una poesia dal tono solenne. Si possono però anche considerare un poemetto
filosofico oppure un’epistola in versi, giacché l’autore si rivolge direttamente all’amico Pindemonte.
La questione trattata riguarda il rapporto della ideologia e della morale laica e materialistica nata dall'Illuminismo con i grandi
temi tradizionalmente gestiti dalla religione. Il problema è quello del senso della morte e del rapporto tra i vivi e i morti. Come
riaffrontare un simile tema, una volta privati delle certezze garantite dalla fede religiosa nell'aldilà? Le possibilità erano due sole:
negare l'importanza del tema, con il rischio di dover negare la stessa dimensione materiale della vita umana; ridefinire da un
punto di vista inedito il valore della morte e dei riti che l'hanno storicamente accompagnata fin dalla nascita della civiltà.
Si trattava, scelta questa seconda strada, di riscrivere le coordinate di una antropologia laica che prendesse il posto di quella
cristiana fino ad allora dominante. Ed è questa la coraggiosa proposta dei Sepolcri, che affrontano alcuni temi oggi più che mai al
centro del dibattito antropologico laico (perdita della memoria storica, incomunicabilità tra generazioni, occultamento della
morte). All'origine dell’opera sta infatti il problema del superamento dell'angoscia di morte. Vi provvede l'illusione, che sofferma
l'uomo «al limitar di Dite», sia come «corrispondenza d'amorosi sensi», sia come eredità di valori e di ideali: per Foscolo gli
uomini possono morire senza eccessiva angoscia se sanno che ciò che amano è protetto dalla miseria e dall'oblio. Di qui
l’importanza, su cui si incardina l'opera, del rapporto tra passato e presente, del dialogo tra vivi e morti e quindi della memoria
storica. Forse oggi non possiamo condividere la concezione eroica e aristocratica della gloria foscoliana, quanto piuttosto fare
appello all'eredità collettiva di un progetto civile e politico. Ciò presuppone ugualmente la fiducia nella comunicabilità tra
generazioni diverse, lontane nello spazio e nel tempo che, affidata alla testimonianza del sepolcro e soprattutto alla poesia,
Foscolo riconosce a pochi virtuosi. Per questo il tema del tempo è così importante nella struttura del carme: nella discontinuità
storica - non c'è in Foscolo l'idea di un progresso lineare - il poeta ricerca, attraverso il confronto fra civiltà diverse, una continuità
ideale di valori da recuperare e in cui riconoscersi. II contenuto del carme si articola in base a una rigorosa impalcatura logica che
sorregge tutta la composizione.
5
Versi 1–90. Le tombe come vincolo d'affetti familiari e amicali. È evidente l'inutilità delle tombe, per chi ascolti la voce della
ragione, dal momento che il mondo è materia e la morte è totale disfacimento, annullamento anche dell'anima. Ma perché il
mortale dovrà rinnegare la persuasione del cuore, la feconda consolatrice "illusione' del sepolcro, che ingenera tra i morti e i vivi
una «celeste corrispondenza d'amorosi sensi»? Deprecabile è dunque l'editto di Saint-Cloud, che distrugge la pia religione del
sepolcro, cosicché le ossa del Parini giacciono forse nella fossa comune accanto alla testa insanguinata di un ladro. Offriamo dei
primi 40 versi, oltre al testo originale, anche la traduzione in lingua corrente.

La celeste corrispondenza di amorosi sensi Di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe


(Foscolo, I sepolcri, 1-40) E le estreme sembianze e le reliquie
Della terra e del ciel traveste il tempo.
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne Ma perchè pria del tempo a sè il mortale
Confortate di pianto è forse il sonno Invidierà l’illusion che spento
Della morte men duro? Ove più il Sole Pur lo sofferma al limitar di Dite?
Per me alla terra non fecondi questa Non vive ei forse anche sotterra, quando
Bella d’erbe famiglia e d’animali, Gli sarà muta l’armonia del giorno,
E quando vaghe di lusinghe innanzi Se può destarla con soavi cure
A me non danzeran le ore future, Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
Nè da te, dolce amico, udrò più il verso Corrispondenza d’amorosi sensi,
E la mesta armonia che lo governa, Celeste dote è negli umani; e spesso
Nè più nel cor mi parlerà lo spirto Per lei si vive con l’amico estinto
Delle vergini Muse e dell’Amore, E l’estinto con noi, se pia la terra
Unico spirto a mia vita raminga, Che lo raccolse infante e lo nutriva,
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso Nel suo grembo materno ultimo asilo
Che distingua le mie dalle infinite Porgendo, sacre le reliquie renda
Ossa che in terra e in mar semina morte? Dall’insultar de’ nembi e dal profano
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve E di fiori adorata arbore amica
Tutte cose l’obblio nella sua notte; Le ceneri di molli ombre consoli.
E una forza operosa le affatica

ll sonno eterno della morte è forse meno doloroso all'ombra dei cipressi e dentro le tombe consolate dal pianto dei vivi? Quando
il sole non fecondi più sulla terra ai miei occhi questa bella popolazione di piante e di animali, e quando davanti a me non
danzeranno le ore future, attraenti di belle promesse, né udrò più recitare da te, dolce amico Pin demonte, i tuoi versi e la
armonia malinconica che li ispira, né più mi parlerà nel cuore lo spirito della poesia e dell'amore, unico interesse nella mia vita
randagia, quale consolazione sarà per la vita finita una lapide sepolcrale che distingua le mie ossa dalle infinite ossa che la
morte sparge in terra e in mare? È proprio vero, Pindemonte! Anche la Speranza, ultima Dea, fugge le tombe, e la dimenticanza
circonda tutte le cose nella sua tenebra; e una forza operosa (è la forza inarrestabile della materia, padrona della condizione di
tutte le cose esistenti, compreso l’uomo: il materialismo di Foscolo è nutrito sia della cultura razionalistica settecentesca sia dal
modello classico lucreziano) le trasforma incessantemente di movimento in movimento, e il tempo tramuta sia l'uomo, sia le sue
tombe, sia le ultime tracce delle tombe, sia ciò che del suo corpo è stato risparmiato provvisoriamente dalla terra e dal cielo. Ma
perché l'uomo dovrebbe negare prima del tempo a sé l'illusione che una volta morto gli fa credere di fermarsi ancora sulle soglie
dell'oltretomba? Egli non vive forse anche sotto terra, quando sarà divenuta per lui impercettibile l'attrattiva della vita , se può
risvegliare la vita perduta nella mente dei suoi cari con nobili preoccupazioni? Questa corrispondenza di sentimenti amorosi è
divina, è una dote divina negli uomini; e grazie a essa spesso ci si illude di vivere con l'amico morto e che il morto viva con noi,
se la sacra terra che lo ha accolto neonato e lo ha nutrito, offrendogli l'ultimo albergo nel suo grembo materno, rende intoccabili
i suoi resti dalle offese degli agenti atmosferici e dal piede profanatore degli uomini volgari , e una pietra sepolcrale conservi il
nome, e un albero amico profumato di fiori consoli le ceneri del defunto con le sue ombre gradevoli.

Versi 91–150. Le sepolture nei tempi e il loro culto come inizio della civiltà. E’ stabilito un nesso inscindibile tra civiltà e cura dei
morti, secondo il quale da religione, matrimoni e funerali incominciò l’umanità. Questo fatto non significa però che esista un
unico modo per onorare i defunti. A dimostrare la varietà storica degli usi, Foscolo adduce esempi contrapposti: da una parte è
esecrato il modello cattolico medievale e controriformistico, che presenta la morte in modo angoscioso; dall'altra è idealizzato il
modello antico delle civiltà classiche, capace di un rituale rasserenante e affettuoso. Anche in Inghilterra si è ancora capaci di
rappresentare in modo sereno il mondo dedicato ai morti, costruendo per loro dei camposanti che assomigliano a giardini.

Versi 151–212. Funzione politica e civile delle tombe: Santa Croce e Maratona. Agli spiriti magnanimi «l'urne de' forti» ispirano
azioni generose. Quando il poeta visitò Santa Croce, sacrario dei grandi della patria (Machiavelli, Michelangelo, Galilei) disse
«beata» Firenze, non solo per la bellezza naturale, non solo per i natali concessi a Dante e la lingua a Petrarca, ma soprattutto
perché custodiva «in un tempio accolte» le glorie ormai tramontate d'Italia. Da luoghi come questi gli italiani trarranno
ispirazione ad agire, e a queste tombe venne spesso Vittorio Alfieri, combattuto fra speranza e angoscia per le sorti della patria.
Infatti «da quella religiosa pace un Nume parla»: il nume della patria, quello stesso che alimentò contro i Persiani invasori
l'eroismo dei Greci a Maratona, dove Atene consacrò poi le tombe ai suoi eroi. Offriamo dei versi 151-188, oltre al testo
originale, anche la traduzione in lingua corrente:

6
Le tombe di Santa Croce Di luce limpidissima i tuoi colli
(Foscolo, I sepolcri, 151-188) Per vendemmia festanti, e le convalli
Popolate di case e d’oliveti
A egregie cose il forte animo accendono Mille di fiori al ciel mandano incensi:
L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella E tu prima, Firenze, udivi il carme
E santa fanno al peregrin la terra Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
Che le ricetta. Io quando il monumento E tu i cari parenti e l’idioma
Vidi ove posa il corpo di quel grande Desti a quel dolce di Calliope labbro,
Che, temprando lo scettro a’ regnatori, Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela D’un velo candidissimo adornando,
Di che lagrime grondi e di che sangue; Rendea nel grembo a Venere Celeste;
E l’arca di colui che nuovo Olimpo Ma più beata che in un tempio accolte
Alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide Serbi l’Itale glorie, uniche forse
Sotto l’etereo padiglion rotarsi Da che le mal vietate Alpi e l’alterna
Più Mondi, e il Sole irradiarli immoto, Onnipotenza delle umane sorti,
Onde all’Anglo che tanta ala vi stese Armi e sostanze t’invadeano, ed are
Sgombrò primo le vie del firmamento: E patria, e, tranne la memoria, tutto.
Te beata, gridai, per le felici Che ove speme di gloria agli animosi
Aure pregne di vita, e pe’ lavacri Intelletti rifulga ed all’Italia,
Che da’ suoi gioghi a te versa Apennino! Quindi trarrem gli auspici.
Lieta dell’aer tuo veste la Luna

7
Le tombe dei grandi stimolano a nobili imprese gli animi grandi, o Pindemonte; e rendono al giudizio del forestiero bella e santa
la terra che le contiene. lo quando vidi la chiesa di Santa Croce a Firenze dove riposa il corpo di quel grande (Machiavelli) che,
fingendo di insegnare ai potenti le tecniche del potere, ne sfronda la gloria, e svela alle genti di quali lagrime e di quale sangue
grondi il potere (l’interpretazione del “Principe” di Machiavelli come opera rivolta ai popoli per smascherare l’orrore del potere
tirannico risale al Cinquecento ma fu diffusa nel secondo Settecento soprattutto da Rousseau, che la rappresentò quale opera
repubblicana); e la tomba di colui (Michelangelo) che in Roma innalzò agli dei un nuovo Olimpo (la cupola di San Pietro); e la
tomba di colui (Galileo) che vide ruotare vari pianeti sotto la volta celeste, e il sole irraggiarli stando immobile, così che aprì per
primo le vie del firmamento all'inglese (Newton), che poi vi avanzò profondamente; gridai "beata te" Firenze, per l'aria felice e
piena di vita e per i fiumi e i ruscelli che l'Appennino fa scorrere verso di te dalle sue montagne! La luna, lieta della tua aria,
ricopre di luce limpidissima i tuoi colli, festanti per la vendemmia; e le valli circostanti , popolate di case e di oliveti, mandano
verso il cielo mille profumi di fiori. Tu, Firenze, inoltre, hai udito per prima il poema che consolò l'ira (sia perché Dante,
componendo il poema, si poteva vendicare dei propri nemici assicurando loro infamia eterna, sia perché si compiaceva di
collaborare alla necessaria opera di riforma morale e civile) al ghibellino (in quanto sostenitore dei diritti politici dell’Impero; ma
in realtà Dante era di famiglia guelfa) esule (Dante), e tu hai dato i cari genitori e la lingua a quella dolce voce (Petrarca) di
Calliope (è propriamente la musa della poesia epica ma qui rappresenta la poesia in generale), che adornando di un velo
candidissimo di purezza l'amore, il quale era nudo in Grecia e era nudo in Roma, lo restituì in braccio a Venere celeste, lo
spiritualizzò (Venere celeste rappresentava l’aspetto spirituale dell’amore; ma non si può escludere che si alluda qui alla Vergine
Maria, alla quale la canzone conclusiva del Canzoniere petrarchesco dedica l’intera vicenda dell’amore profano per Laura). Ma sei
più beata ancora, tu che raccolte nell’unica chiesa di Santa Croce conservi le glorie italiane (le tombe dei grandi uomini), forse
le uniche rimaste da quando le Alpi indifese e la onnipotenza delle alterne sorti umane, ti hanno sottratto le armi e le ricchezze e
tutto il resto, tranne la memoria. E perciò, qualora torni a brillare speranza di gloria agli ingegni coraggiosi e all’Italia, da qui
(da Santa Croce), prenderemo ispirazione.

Versi 212–295. La funzione della poesia. La parte conclusiva è introdotta ancora da un esempio tratto dal mondo classico:
secondo una leggenda, il mare stesso avrebbe deposto sulla tomba del valoroso Aiace le armi di Achille che Ulisse aveva ottenuto
in eredità con l'inganno, spingendo Aiace al suicidio. Ciò serve a riflettere sul valore morale della morte, che compensa le
ingiustizie della vita, riconoscendo i meriti dei virtuosi e garantendo loro la gloria meritata. Ma perché ciò possa avvenire è
necessario che qualcuno si dedichi a onorare la memoria dei grandi che lo meritano; è cioè necessario che qualcuno garantisca il
senso della continuità storica e garantisca la durata della memoria nel tempo. Se le tombe sono un simbolo di civiltà in quanto
segni di continuità e di durata, ora il discorso si allarga all'intera struttura della civiltà. Una funzione centrale è assegnata alla
poesia, il cui compito è appunto quello di celebrare le virtù presenti e antiche e di conservarne il ricordo anche dopo che i segni
materiali da esse lasciati sono stati dispersi dal tempo. Da questo punto di vista, dunque, la poesia ha la medesima funzione delle
tombe, ma si rivela capace di esercitarla al di là dei limiti di esse. Come esempio di questa concezione, Foscolo introduce di
nuovo un riferimento al mondo classico, che riguarda le vicende di Troia, vinta e distrutta dai Greci e però divenuta eterna nel
ricordo delle generazioni umane successive, fino al presente, grazie alla poesia di Omero, che ha narrato le vicende della guerra e
della distruzione. Il valore di questo episodio è accresciuto dal fatto che Omero, greco, ha dato il giusto riconoscimento al valore
dei troiani sconfitti, confermando il carattere di moralità insito nella poesia e arrivando a fare di Ettore, il più sfortunato e
generoso degli eroi troiani, un modello immortale di lealtà e di virtù. Su di esso gli uomini piangeranno «finché il sole risplenderà
su le sciagure umane».

3. IL ROMANZO GOTICO
CARATTERI GENERALI. Il romanzo gotico nacque in Inghilterra grazie a Horace Walpole (1717-1797), Il castello di Otranto
(1764). II genere, che ebbe grande diffusione e che è all'origine del moderno horror, si caratterizzava:
 per le vicende ambientate in un medioevo di maniera, tutto castelli, conventi, cripte, cavalieri e frati, storicamente
inattendibile, ma ricco di suggestioni fantastiche, che anticipava in qualche modo la rivalutazione dell'epoca che sarà propria
del Romanticismo;
 per le vicende ricche di avventure e di colpi di scena, con sentimenti forti e protagonisti nettamente divisi tra buoni (fanciulle
perseguitate, contadini dal cuore d'oro, eroi senza macchia e senza paura) e cattivi (cavalieri prepotenti, frati perversi, mostri,
fantasmi).
Si tratta di caratteristiche che diventeranno proprie della letteratura d'intrattenimento dell'epoca romantica. Basti pensare agli
inglesi Ann Radcliffe: L'Italiano o il confessionale dei penitenti neri (1797), Matthew Gregory Lewis: Il monaco (1796) e Mary
Shelley: Frankenstein (1818); ai tedeschi Adalbert von Chamisso: La meravigliosa storia di Peter Schlemil (1813) e Ernst
Theodor Amadeus Hoffmann: Gli elisir del diavolo (1815); allo statunitense Edgar Allan Poe: Gordon Pym (1838). Una nuova
fortuna del genere si registra alla fine del secolo, in pieno Positivismo: Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mister Hyde (1886)
dell’inglese Robert Louis Stevenson e il celeberrimo Dracula (1897) dell’irlandese Bram Stoker.
I temi, l'ambiente, i personaggi dicono - immediatamente - che gli autori del romanzo gotico reagiscono al razionalismo
settecentesco e al suo ottimismo utopico, all'incolore quotidiano della razionalità borghese. Rispondono al secolo dei lumi (che
non vuole che fredda ragione) con l'immaginazione, con la messa in scena di storie irreali, soprannaturali, terrificanti, quasi a
voler esprimere (e nello stesso tempo esorcizzare) le lacerazioni interne, i turbamenti, le angosce generate nel corpo sociale e nelle
coscienze dalla Rivoluzione francese, dalle esperienze scioccanti della nuova realtà industriale che ben presto comincia a mostrare
la sua faccia negativa e inquietante: quella della miseria, della violenza, dell'alienazione. Fantasmi, spettri, vampiri, demoni -
l'altra faccia della serena razionalità umana e del "romanzo borghese" del Settecento - divengono proiezioni inquietanti delle paure
e dell'orrore spesso suscitati dal mondo contemporaneo. La struttura labirintica del castello o del monastero (delineata nel caotico
susseguirsi di scale tortuose, corridoi segreti, passaggi sotterranei) diventa anche proiezione simbolica degli universi immaginari,
dei desideri, dei terrori e degli incubi delle potenze misteriose dell'inconscio dell'uomo, il regno della confusione dei sentimenti e
della contraddizione degli istinti, l'inferno dove si sfugge all'ordine armonico e rassicurante della ragione.

HORACE WALPOLE: “IL CASTELLO DI OTRANTO”. «Volete che vi confessi quale fu l'origine di questo romanzo?»,
domandava Horace Walpole in una lettera ad un amico nel marzo 1763. «Un mattino al principio di giugno dell'altr'anno mi
svegliai da un sogno, di cui tutto quel che potei ricordare era che io mi credevo in un antico castello e che sulla più alta
balaustrata di una grande scala io vidi una gigantesca mano coperta da un'armatura. La sera mi misi a scrivere, senza la minima
idea di quel che intendevo dire o riferire». Dunque sono i sogni, le fantasie, gli incubi notturni, le visioni che permettono a
Walpole di scrivere Il castello d'Otranto (1764). La vicenda, ambientata in un'Italia feudale tra il XII e il XIII secolo, ha inizio con
la strana morte di Corrado, schiacciato e fatto letteralmente a pezzi da un elmo gigantesco caduto non si sa da dove, alla vigilia
delle sue nozze con Isabella. Corrado è figlio del principe di Otranto, il tirannico Manfredo, nipote di un usurpatore che aveva
assassinato Alfonso, il sovrano legittimo, e che vive sotto l'incubo di un'antica profezia secondo la quale «il castello e la signoria
di Otranto sarebbero venuti a mancare alla presente famiglia qualora il vero possessore fosse divenuto troppo grosso per
abitarvi». Dopo la morte di Corrado, affinché la sua stirpe non si estingua, Manfredo decide di ripudiare la sterile moglie Ippolita
per sposare Isabella. Costei fugge nei sotterranei del castello aiutata da Teodoro, un giovane contadino che ha una strana
rassomiglianza col ritratto di Alfonso. Teodoro, accusato da Manfredo di essere complice e causa della fuga della fanciulla, viene
gettato in prigione, ma è liberato da Matilda, sorella del defunto Corrado. Una notte Manfredo sorprende Teodoro a colloquio con
una donna e, credendo sia Isabella che lo tradisce, la uccide; ma quella donna è sua figlia Matilda. Tuoni terribili scuotono il
castello sin dalle fondamenta e i servi sono terrorizzati da improvvise apparizioni. E' l'immenso e possente fantasma di Alfonso
che sconquassa il castello e ne fa crollare fragorosamente le mura (realizzando così la profezia). Manfredo, sconvolto, si decide a
rivelare di essere un usurpatore. L'erede legittimo della dinastia d'Otranto è Teodoro che rientra in possesso del suo dominio e
sposa Isabella. Manfredo, pentito, e la moglie si ritirano in un monastero. L'ordine infranto viene ristabilito.
Il castello d'Otranto è il prototipo del romanzo gotico e presenta, in abbondanza, tutti gli elementi tipici del genere: l'ambiente
italiano (nell'immaginario inglese l'Italia è terra esotica e pittoresca, paese di pugnali e veleni ove dominano cupe vicende e
crudeli delitti); il trasferimento nel passato (un medioevo di favola e di maniera); lo scenario inquietante (tutta la storia si svolge
dentro il castello coi suoi corridoi segreti, una rete labirintica di passaggi sotterranei); eventi soprannaturali, prodigi inaspettati e
inspiegabili (l'elmo gigantesco che schiaccia sotto di sé come in una bara il giovane Corrado, il fantasma che esce da un quadro
appeso alla parete, la statua sanguinante di Alfonso, la visione finale dello spettro di Alfonso che giganteggia sulle rovine del
castello); l’eroe del male (Manfredo) snaturato, demoniaco, dannato; la vittima perseguitata (Isabella) pura e innocente; l’eroe del
bene (Teodoro) leale, bello, generoso, senza macchia e senza paura, che si mette al servizio della fanciulla in pericolo e tutto sfida
per la sua salvezza.

La fuga di Isabella
(Horace Walpole, Il castello di Otranto, capitolo I)

Poiché era già sera, il servo che conduceva Isabella portava una torcia innanzi a lei. Quando giunsero da Manfredo, che
camminava impaziente per la galleria, costui trasalì e disse irosamente al servo: - Porta via quella luce, e vattene. - Poi,
chiudendo violentemente la porta, si buttò su una panca contro il muro e comandò a Isabella di sedersi accanto a lui. Ella obbedì
tremando.
- Ho mandato a chiamarvi, mia cara. – disse, poi si arrestò, con aria estremamente confusa.
- Signore...
- Sì, vi ho fatto chiamare per una questione di grande importanza, - riprese: - Asciugate le vostre lacrime, Isabella: voi avete
perduto il vostro sposo. Sì, destino crudele!, e io ho perso la speranza della mia stirpe: ma Corrado non era degno della vostra
bellezza.
- Come, signore, - disse Isabella; - non vorrete sospettare che non nutrissi i sentimenti che dovevo: la devozione e l'affetto che
avrei conservato sempre?
- Non pensate più a lui, - la interruppe Manfredo, - era un ragazzo debole, malaticcio; e forse il cielo lo ha rapito perché io non
dovessi affidare l'onore del mio casato a così deboli fondamenta: la discendenza di Manfredo richiede numerosi sostegni, e la mia
folle tenerezza per quel ragazzo ha accecato la mia prudenza, ma è meglio così. Io spero, tra pochi anni, di aver motivo di gioire
della morte di Corrado.
Le parole non possono descrivere lo stupore di Isabella: dapprima temette che il dolore avesse sconvolto la mente di Manfredo; il
suo secondo pensiero le suggerì che quello strano discorso avesse lo scopo di prenderla in trappola: temeva che Manfredo avesse
intuito la sua indifferenza verso il figlio, e in seguito a questa supposizione, rispose:
- Mio buon signore, non abbiate dubbi sulla mia tenerezza; il mio cuore avrebbe seguito la mia mano. Corrado avrebbe occupato
ogni mio affetto; e, in qualsiasi modo il destino vorrà disporre di me, avrò sempre cara la sua memoria e considererò Vostra
Altezza e la virtuosa Ippolita come miei genitori.
- Maledizione a Ippolita! - gridò Manfredo. - Dimenticatela fin da questo momento, come faccio io. In breve, Isabella, voi avete
perduto un marito immeritevole delle vostre grazie... se ne disporrà meglio ora, e, invece di un ragazzo malaticcio, voi avrete un
marito nel fiore degli anni, che saprà apprezzare le vostre bellezze e che potrà confidare in una numerosa discendenza.
- Ahimè, signore, - rispose Isabella, - la mia mente è troppo dolorosamente occupata dalla catastrofe che ha appena colpito la
vostra famiglia per poter pensare a un altro matrimonio. Se mai mio padre ritornerà ed esprimerà ancora una volta il suo
desiderio, obbedirò, come feci quando acconsentii a concedere la mia mano a vostro figlio; ma, sino al suo ritorno, permettetemi
di restare sotto questo tetto ospitale e di impiegare le mie tristi ore alleviando la pena vostra, di Ippolita e di Matilda.
- Vi ho già una volta espresso il desiderio, - l'interruppe Manfredo pieno di collera, - che non nominiate quella donna: da questo
momento lei dev'essere un'estranea per voi, come lo deve essere per me: in breve, Isabella, poiché non posso darvi mio figlio, vi
offro me stesso.
- Cielo! - gridò Isabella, destandosi dall'errore, - che sento? Voi, signore; voi, mio suocero, il padre di Corrado, il marito della
virtuosa e dolce Ippolita!
- Vi dico che Ippolita non è più mia moglie; la ripudio da questo momento. Troppo a lungo sono stato maledetto dalla sua
sterilità: il mio destino dipende dall'aver figli, e stanotte stessa confido di dare un nuovo avvio alle mie speranze.
Con queste parole egli afferrò la mano gelata di Isabella che era mezzo morta di paura e d'orrore; ella gridò allontanandosi d'un
balzo. Manfredo si alzo per inseguirla quando la luna, che ormai appariva alta e splendente sull'edificio dirimpetto, gli rivelò alla
vista le penne del fatale elmo che aveva ucciso Corrado e che si levavano all'altezza delle finestre ondeggiando tempestosamente
innanzi e indietro accompagnate da un rumore cupo e vibrante: Isabella, preso coraggio da tale situazione, lei che nulla temeva
quanto il seguito della dichiarazione di Manfredo, gridò:
- Guardate, signore: vedete, anche il cielo si dichiara avverso alle vostre empie intenzioni.
- Né il cielo né l'inferno potranno impedire che si realizzino i miei propositi, - ribatté Manfredo, di nuovo avanzando per afferrare
la principessa. In quell'istante il ritratto del suo avo, appeso proprio sopra il loro sedile, emise un profondo sospiro e sollevò il
petto. Isabella, che volgeva le spalle al quadro, non vide il movimento né donde provenisse il rumore, ma sobbalzò e disse:
- Ascoltate, signore, che è mai questo rumore? - e contemporaneamente si precipitò alla porta.
Manfredo, incerto tra la fuga di Isabella e incapace di distogliere gli occhi dal quadro che cominciava a muoversi, aveva
nonostante tutto, avanzato qualche passo dietro di lei, sempre volto all'indietro verso il ritratto, quando vide che la figura dipinta
abbandonava la tavola, e discendeva sul pavimento in atteggiamento grave e malinconico.
- Sogno? - gridò Manfredo - o persino i demoni sono in lega contro di me? Parla, spettro infernale; oppure, se tu sei il mio avo,
perché tu pure vuoi cospirare contro il tuo sventurato erede, che paga troppo a caro prezzo per me?
Prima che potesse terminare la frase, lo spettro sospirò di nuovo e fece cenno a Manfredo di seguirlo.
- Guidami! - gridò Manfredo: - ti seguirò sino agli abissi della perdizione.
Lo spettro camminò con andatura calma ma sconsolata sino in fondo alla galleria, e svoltò in una stanza sulla destra. Manfredo
lo seguiva a breve distanza pieno di ansietà e di orrore, ma risoluto. Mentre stava per entrare nella camera, la porta venne
sbattuta violentemente da una mano invisibile; il principe, ritrovando coraggio in questo indugio, avrebbe voluto spalancare a
forza la porta col piede, ma trovò che resisteva ai suoi più energici sforzi.
- Poiché l'inferno non vuol soddisfare la mia curiosità, - disse Manfredo, - userò i mezzi umani in mio potere per salvare la mia
stirpe: Isabella non mi sfuggirà.
La fanciulla, la cui risolutezza aveva ceduto al terrore quando aveva abbandonato Manfredo, continuò la fuga sino in fondo alla
scala principale. Là si fermò, non sapendo ove dirigere i passi, né come sfuggire alla violenza del principe. Si risovvenne di un
passaggio sotterraneo che conduceva dalle grotte del castello alla chiesa di san Nicola: se fosse riuscita ad arrivare all'altare
prima di venire raggiunta, sapeva che nemmeno la violenza di Manfredo avrebbe osato profanare la santità del luogo. Ella decise
che, in mancanza d'altro mezzo di liberazione, si sarebbe rinchiusa per sempre tra le sante vergini, il cui convento era attiguo
alla cattedrale. Così risoltasi, afferrò una lampada che ardeva ai piedi della scala e si affrettò verso il passaggio segreto, ma la
parte inferiore del castello era scavata in un molteplice intrico di chiostri sotterranei e non era agevole per una persona in simili
condizioni di ansietà trovare la porta che si apriva sulla galleria segreta. In quei sotterranei regnava uno spaventoso silenzio,
interrotto solo da una folata di vento che di quando in quando faceva sbattere, via via che le oltrepassava, le porte, le quali,
stridendo sui cardini rugginosi, emettevano un suono riecheggiante attraverso quel lungo labirinto di oscurità.

MARY SHELLEY: “FRANKENSTEIN”. Nata a Londra nel 1797, era figlia di William Godwin, filosofo di idee anarchico-
comuniste, e di Mary Wollstonecraft, autrice di opere femministe, che morì nel darla alla luce. Era una fanciulla ardita, imperiosa,
di brillante intelligenza. A sedici anni incontrò Percy Shelley e fuggì con lui, sposandolo nel 1816, quando la prima moglie del
poeta si uccise. Seguì Shelley in Italia, in una vita disordinata, funestata da vari lutti. Quando Shelley morì in mare, si trovò
vedova a 25 anni, senza risorse, e si gettò nel lavoro scrivendo numerosi romanzi e opere di varia natura. Mori nel 1851 di tumore
al cervello. Scorrendo la vicenda umana di Mary Shelley non si trovano gioie durature: dalla nascita alla maternità, fino all'amore
per il suo compagno e sposo sembra ripetersi sempre un identico modello di catastrofe che conduce da un attimo di felicità al
precipizio del dramma. Bimba cresciuta nell'idealizzazione di una madre cui aveva di fatto tolto la vita nascendo, adolescente
entrata nel mondo di una sessualità subito associata a maternità luttuose (le morirono due figli), emarginata per ragioni sociali e
politiche, a venticinque anni infine vedova, dopo il naufragio del marito, fa della scrittura il mezzo di sostentamento suo e
dell'unico figlio rimastole.
L'opera più famosa di Mary Shelley è il romanzo Frankenstein o il moderno Prometeo, che fu concepito nel 1816 sul lago di
Ginevra, dove Mary, il marito e Byron trascorrevano l'estate, e fu pubblicato nel 1817. Appartiene al genere "gotico", che aveva
goduto di larga fortuna in Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento. Ma, a ben vedere, il romanzo “fa paura” non perchè
racconta di un mostro terribile e omicida ma perché, più sottilmente, sprofonda il lettore nei labirinti della solitudine esistenziale
di ogni creatura. La solitudine di Walton, l'esploratore; quella del giovane Victor Frankenstein, lo studioso scienziato; quella della
creatura orribilmente assemblata; e quella della stessa scrittrice, Mary Shelley. Mentre quella della scrittrice è una solitudine che
genera mostri, la singolarità del mostro (colui che è stato generato dalla solitudine) genera ostilità e avversione che mantengono il
mostro in solitudine, alimentando così la sua mostruosità. Dunque la solitudine è generatrice di mostri. Nella solitudine siamo a tu
per tu con noi stessi, con le parti buone e cattive. Singolarmente, però, in solitudine non tendiamo a valorizzare i nostri lati
positivi; emergono invece quelli negativi. Naturalmente, non si sta parlando di una solitudine del momento, di quella pausa che
dedichiamo a noi stessi per riordinare le idee, sia chiaro, si sta parlando di una solitudine protratta nel tempo, quella che diviene
stato dell'anima e condanna. Sembrerebbe infatti che solo l'intervento dell'altro sia in grado di tirar fuori, di educere le qualità
migliori in noi; e sempre l'altro può alimentare, edere, in noi l'amore.
Ecco la trama. Frankenstein è un giovane scienziato ginevrino che costruisce così una creatura umana con pezzi di cadaveri, ma è
atterrito dalla mostruosità della sua creazione. Il mostro fugge e si macchia di orribili delitti, uccidendo il fratellino di
Frankenstein e facendo cadere la colpa sulla governante, che viene giustiziata. Durante un'escursione sul monte Bianco,
Frankenstein incontra il mostro, che si è rifugiato sulle vette inaccessibili, e che gli racconta la sua storia. In lui vi era una nativa
bontà e gentilezza, un bisogno di amore e comunione con gli uomini; ma gli uomini lo avevano respinto e perseguitato, terrorizzati
dalla sua mostruosità. L'infelicità l'aveva così reso malvagio, generando il lui il desiderio di vendicarsi del suo creatore, che non si
era curato di lui. Chiede perciò allo scienziato di creargli una compagna, che lo ami e divida con lui la sua solitudine. Frankenstein
promette, e si ritira a lavorare, ma poi, inorridito dalla prospettiva di una progenie di mostri che possa giungere a popolare la terra,
non mantiene fede all'impegno. Il mostro si vendica uccidendo il più caro amico e la moglie dello scienziato, la sera stessa delle
nozze. Frankenstein gli dà la caccia nei luoghi più remoti e selvaggi, sino ai ghiacci dell'Artico. Ma qui, sfinito, muore, dopo aver
raccontato la sua storia al capitano della nave che l'ha raccolto. Il mostro, ormai pago della sua vendetta, ricompare, esternando
sulla bara del suo creatore la sua infelicità e disperazione, e si dilegua nelle tenebre, in cerca dell'autodistruzione. Nel passo,
Frankenstein racconta la sua storia al capitano della nave che lo ha raccolto fra i ghiacci dell’Artico.

La scienza trasgressiva che genera mostri


(Mary Shelley, Frankenstein, capitoli III e IV)

Era una cupa notte di novembre quando vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un'ansia che assomigliava all'angoscia,
raccolsi attorno a me gli strumenti atti ad infondere la scintilla di vita nell'essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era quasi
l'una del mattino; la pioggia batteva monotona contro le imposte e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando,
alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica, e un moto convulso le agitò le
membra. Come descrivere le mie emozioni dinanzi a questa catastrofe, o come dare un'idea dell'infelice che, con cura e pena
infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra erano proporzionate, ed avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero
belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi
capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più
orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo, in cui
erano collocati, con la sua pelle grinzosa e con le sue labbra nere e diritte. I casi della vita non sono così mutevoli come i
sentimenti della natura umana.
Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo mi ero negato
riposo e salute. Avevo desiderato il successo con un ardore che trascendeva ogni moderazione; ma ora che vi ero giunto, la
bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore era pieno di un orrore e di un disgusto indicibili. Incapace di sopportare la vista
dell'essere che avevo creato, mi precipitai fuori del laboratorio e passeggiai a lungo su e giù per la mia camera da letto, senza
decidermi a prender sonno. Alla fine la stanchezza subentrò al tumulto che prima mi aveva scosso, e mi gettai sul letto, vestito
com'ero, sforzandomi di trovare qualche istante d'oblio. Invano: dormii, sì, ma il mio sonno fu disturbato dagli incubi più
spaventosi. Mi pareva di vedere la mia fidanzata Elisabetta che, nel fiore della salute, passeggiava per le strade di Ingolstad. La
abbracciavo con gioiosa sorpresa, ma le labbra, che le sfioravo nel primo bacio, assumevano il pallore livido della morte, i suoi
lineamenti mutavano, ed ecco che io stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario ne ricopriva le forme, ed io
potevo vedere i vermi che strisciavano sotto i lembi della stoffa. Inorridito, mi scossi dal sonno; un sudore gelido mi copriva la
fronte, i denti mi battevano, tremavo convulso in tutte le membra; poi, al chiarore incerto e giallo della luna che filtrava
attraverso le imposte, scorsi lo sciagurato, il miserabile mostro che io avevo creato. Sollevò le cortine del letto, ed i suoi occhi, se
occhi possono chiamarsi, si fissarono su di me.
Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre una smorfia gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io
non lo sentii; aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi, ma fuggii e mi precipitai giù per le scale. Mi rifugiai nel
cortile della casa dove abitavo, e lì rimasi per il resto della notte, camminando in su e in giù agitatissimo, tendendo ansiosamente
l'orecchio e sussultando di paura ad ogni rumore, quasi esso mi annunciasse l'avvicinarsi dell'essere demoniaco cui così
follemente avevo dato la vita. Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all'orrore di quel volto! Una mummia ritornata a vita
non avrebbe potuto essere più spaventosa. Lo avevo osservato quando era incompiuto: era già brutto allora; ma quando muscoli
e giunture erano stati resi capaci di moto, era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.

Il romanzo della Shelley è molto importante, poiché dà una rappresentazione simbolica di "qualcosa" che doveva essere radicato
profondamente nella civiltà europea, tant'è vero che il mostro di Frankenstein è entrato a far parte dell'immaginario collettivo ed è
stato continuamente ripreso in seguito, sino ai giorni nostri, anche dal cinema. Molteplici sono le interpretazioni date all’opera, e
ognuna non esclude affatto le altre, anzi, può essere complementare ad esse: un simbolo è sempre denso di più significati
compresenti; ed il romanzo della Shelley è appunto di grande densità.
 L’opera può essere intesa come condanna della scienza trasgressiva, che viola i limiti segnati per la conoscenza umana e si
configura come colpa "satanica", come smisurato peccato d'orgoglio simile a quello originario di Lucifero, che perciò non
può che attirare maledizione e sventura. Lo studioso, trascinato dal suo folle orgoglio scientifico, sfida Dio, sostituendosi a lui
e attribuendo all'uomo le prerogative della creazione della vita. Di qui il sottotitolo del romanzo, che allude a Prometeo, il
titano che nella mitologia greca aveva forgiato gli uomini colla creta, violando un divieto degli dei. Questa visione negativa
della scienza si spiega se collocata in un'età in cui le scoperte scientifiche avevano partorito il "mostro" dell'industrialismo e
della macchina, che distruggeva tutto un mondo del passato, generando smarrimento, miseria materiale e sofferenza.
 Il mostro di Frankenstein può anche essere letto come metafora della classe operaia creata dall'industrialismo, che viene
sentita con paura come una forza ostile che minaccia l'assetto vigente. In un'altra chiave ancora, la creatura disperata e
distruttiva può essere pensata come metafora delle illusioni "prometeiche" della Rivoluzione francese, che aspirava a creare
l'uomo nuovo e che aveva finito per partorire i "mostri" del terrore giacobino. In una prospettiva teologica, poi, come non
vedere nel legame deludente e fallimentare tra creatore e creatura la frustrazione dell’essere umano nei confronti di un dio
lontano e distratto, che non sa prendersi cura di ciò che ha creato e che anzi lo espone alla solitudine e alla sofferenza?
 Ancora, il mostro può essere interpretato come l'obiettivazione del male che è nello scienziato stesso, dei suoi impulsi
inconsciamente distruttivi verso le persone care. Infatti la creatura, ormai fuori controllo, causa la morte del fratello,
dell'amico, della moglie e quella di Frankenstein stesso; lo scienziato è costantemente ossessionato dal rimorso per tutto ciò,
ed asserisce di esser lui il vero responsabile, il vero assassino. La creazione della vita da parte di Frankenstein sarebbe allora
una manifestazione mascherata e rovesciata di questo suo impulso di dare la morte; il mostro, in altri termini, sarebbe il suo
"doppio". In tal senso, il romanzo appare denso di anticipazioni psicoanalitiche, e precorre un altro testo capitale e
famosissimo, come Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson, in cui parimenti uno
scienziato trasgressore con i suoi esperimenti trova il modo di far emergere l'altra personalità che è in lui, quella malvagia,
che prende corpo in un suo "doppio" omicida.

4. IL ROMANZO EPISTOLARE
CARATTERI GENERALI. Il romanzo epistolare è una forma narrativa che ha avuto larga diffusione nel Settecento,
sopravvivendo ancora per parte dell’Ottocento. Tra i più famosi romanzi epistolari vi sono: Lettere persiane (1721) di
Montesquieu; Clarissa (1748) di Samuel Richardson; Giulia o la nuova Eloisa (1761) di Jean-Jacques Rousseau; I dolori del
giovane Werther (1774) di Goethe; Le relazioni pericolose (1781) di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos; Ultime
lettere di Jacopo Ortis (1798) di Ugo Foscolo; Frankenstein ovvero il moderno prometeo (1818) di Mary Shelley; Dracula (1897)
di Bram Stoker. Caratteristiche comuni a tutte le forme del romanzo epistolare sono:
 I narratori sono i personaggi stessi: non vi è la voce di un anonimo narratore onnisciente che presenti sistematicamente i fatti
dall'esterno e dall'alto.
 La narrazione è di fatto al presente: i personaggi raccontano le loro vicende o descrivono i propri sentimenti nel momento in
cui li vivono, a caldo; il futuro è ancora sconosciuto, del tutto aperto.
Da ciò scaturiscono conseguenze importanti. Il lettore vive l'azione nel momento in cui la vive il personaggio: non c'è quel "senno
di poi", quel distacco critico consentito dalla narrazione di eventi passati, già conclusi. Ciò dà maggior immediatezza drammatica
e consente di seguire nel suo farsi l'oscillare dello stato d'animo del personaggio, la linea a volte tortuosa dei suoi processi interiori
tutt’altro che ordinati in sistemi logici e razionali.

JOHANN WOLFGANG GOETHE: “I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER”. Pubblicato nel 1774, narra la vicenda del
protagonista attraverso le lettere scritte da quest'ultimo all'amico Wilhelm. È il primo romanzo epistolare in cui tutte le lettere
sono scritte dal medesimo personaggio; esse sono presentate ai lettori da Wilhelm, che le ha raccolte dopo la morte dell'amico.
Werther è un giovane di agiata famiglia borghese, dalle grandi capacità intellettuali, letterarie e artistiche, pieno di slanci
passionali e accensioni sentimentali. Lasciata la sua città dopo una triste vicenda amorosa e ritiratosi in campagna, è conquistato
dalla semplicità patriarcale della vita contadina e si immerge nella contemplazione estatica della natura, vivendo in comunione
con essa un'esperienza quasi religiosa anche se si tratta di una religiosità non certo tradizionale quanto piuttosto di tipo panteistico,
che cioè identifica la divinità con il tutto e la vede presente in ogni cosa:

La natura e Dio
(J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, lettera del 10 maggio)

Una meravigliosa serenità, simile a questo dolce mattino primaverile, mi è scesa nell’anima, ed io ne godo con tutto il cuore.
Sono solo e mi consolo della mia vita in questo paesaggio che è creato apposta per anime come la mia. Sono così felice, mio caro,
così pienamente assorbito dal sentimento di questa esistenza tranquilla, che la mia arte ne soffre. Ora non vorrei assolutamente
disegnare, nemmeno una linea, eppure non sono mai stato un pittore così grande come in simili momenti . Quando la bella valle
effonde intorno a me i suoi vapori ed il sole alto investe l'impenetrabile tenebra di questo bosco e solo qua e là qualche raggio
riesce a penetrare nell'interno del sacrario, ed io mi stendo nell'erba alta lungo il ruscello scrosciante e, così vicino alla terra,
mille strane erbette mi si mostrano nella loro realtà; quando sento vicino al mio cuore il brulichio del piccolo mondo in mezzo
agli steli, le numerose incomprensibili figure dei bruchi, dei moscerini, e sento insieme la presenza dell'Onnipotente che ci ha
creati secondo la Sua immagine, l'alito del Supremo Amore che ci porta e ci sostiene in un'eterna delizia, oh amico mio! una
vertigine passa davanti ai miei occhi e l'universo ed il cielo riposano interamente nella mia anima come la figura dell'amata - ed
allora sento spesso un'ansia e penso: oh, se tu potessi esprimere tutto questo, se potessi trasportare sulla carta quello che vive
con tanta pienezza, con tanto calore in te, in modo da farne lo specchio della tua anima, come la tua anima è lo specchio
dell'infinità di Dio! Ma non resisto a tanto e mi do per vinto davanti alla meravigliosa potenza di queste immagini.

Nel villaggio conosce Lotte, figlia del podestà, anima delicata e sensibile, e se ne innamora. Lotte però è già fidanzata con un altro
giovane, Albert, che è l'esatta antitesi di Werther, in quanto è saggio, equilibrato, posato, razionale in tutti i suoi comportamenti.
Werther, durante l'assenza di Albert, vive un periodo di innocente, smemorata felicità accanto a Lotte. Ma quando Albert ritorna,
nonostante l'amicizia che stringe con lui, non riesce a sopportare l'idea che Lotte lo ami e sia destinata a sposarlo. Cominciano così
i suoi tormenti interiori, tanto insostenibili da spingerlo ad allontanarsi e a trovare un impiego in un'altra città, alle dipendenze di
un ambasciatore. Ma per Werther è impossibile adattarsi all'ambiente meschino della corte, dominato da ottusi pregiudizi di casta
e rigide convenzioni, e il conflitto lo costringe a ritornare ben presto da Lotte. Questa si è ormai sposata felicemente con Albert.
Werther matura allora il proposito del suicidio. Leggendo a Lotte la propria traduzione dei Canti di Ossian, in una scena dominata
dalla commozione, capisce che anche Lotte condivide il suo sentimento; però la donna ama sinceramente il marito e, pur straziata,
lo respinge, rifiutando ogni prospettiva di adulterio. Disperato, Werther si fa prestare la pistola di Albert (è Lotte stessa a
consegnarla al servo, anche se ha l'oscuro presentimento dell'uso a cui dovrà servire) e con essa si uccide.
Il romanzo ebbe una straordinaria diffusione nell'Europa di fine Settecento, suscitando entusiasmi incredibili nei giovani (molti si
identificarono talmente con l'eroe goethiano da arrivare al suicidio) e generando numerosi imitatori sul piano letterario (tra i quali
Foscolo). Un simile successo ci avverte che con il suo romanzo Goethe aveva toccato una corda profonda nella coscienza
dell'epoca, mettendo a fuoco un problema particolarmente sentito dalle giovani generazioni colte. È indispensabile perciò cercare
di capire quale fosse questo nodo problematico. Può sembrare che il dramma di Werther sia esclusivamente sentimentale, privato:
in realtà l'amore infelice del giovane assume un significato più profondo.
L'amore impossibile per una donna già destinata al matrimonio con un altro è il modo concreto in cui si manifesta una crisi
sociale, l'impossibilità da parte del giovane intellettuale di inserirsi nel contesto della società. Pur essendo borghese di nascita
Werther non può identificarsi con la sua classe perché, in quanto artista, è portatore di valori antagonistici, inconciliabili con essa:
il culto della bellezza disinteressata, lo slancio passionale che respinge ogni calcolo, ogni misura razionale, ritenuta arida e
mortificante.
Nella lettera del 26 maggio il conflitto è ben illustrato con un esempio: “Un giovane cuore si è interamente attaccato ad una
ragazza, passa tutte le ore della giornata con lei, dissipa tutte le sue forze, tutti i suoi averi, solo per poterle mostrare in ogni
istante che egli le appartiene completamente. Ed ecco che arriva un gretto borghese, un uomo rivestito di qualche pubblico
ufficio, e gli dice: - Mio bel signorino! Amare è umano, solo che lei deve amare umanamente! Distribuisca il suo tempo: parte lo
dedichi al lavoro, e le ore di ricreazione alla sua ragazza. Faccia un conto esatto di quello che possiede, e con quello che le
rimane dopo essersi procurato il necessario, non le proibisco certamente di farle un regalo, solo non troppo spesso, se mai per la
sua nascita o per il suo onomastico. - Se il giovane obbedirà, diverrà certamente un uomo utile, e consiglierei a qualunque
principe di dargli un posto in un Consiglio; solo che il suo amore sarà finito e, se è un artista, sarà finita la sua arte”.
A questo conflitto con la classe di provenienza se ne affianca poi un altro, quello con l'aristocrazia, che nella Germania di fine
Settecento è ancora la classe egemone, nonostante il peso economico, sociale e culturale ormai assunto dalla borghesia delle
professioni, delle attività produttive, dei commerci. Anche la nobiltà, in nome di vecchi pregiudizi di casta, respinge il borghese
Werther. Pertanto nell'impossibilità di inserirsi in alcuna delle classi che dominano la scena sociale, Werther si trova
completamente sradicato, escluso dalla società (per questo si trova così bene tra gli umili, contadini e artigiani).
Proprio perché è un intellettuale e un artista, Werther è un essere diverso dalla norma, eccezionale, per un verso superiore, perché
dotato di intelligenza più alta e di sensibilità infinitamente più acuta, ma per altri versi inferiore al resto della società proprio per
gli stessi motivi, che lo rendono inadatto alla vita pratica, alla prosaica realtà quotidiana. L'intelligenza e la sensibilità sono il suo
privilegio ma anche la sua condanna. Per questa sua irriducibile diversità non può amare normalmente, sposarsi, diventare buon
padre di famiglia e posato e rispettato cittadino. Il matrimonio, nella cultura borghese di quest'età, è il segno per eccellenza
dell'avvenuta maturazione del giovane, del suo equilibrato e utile inserimento nella società . L'esclusione dall'amore felice e dal
matrimonio diviene allora metafora di un più generale sradicamento sociale ed esistenziale . Col Werther si affaccia in piena
evidenza nella letteratura europea un tema di sconvolgente novità, la tragedia tutta moderna dell'artista, ignota alle epoche
precedenti: una tragedia che è la conseguenza dell'ascesa e dell'affermazione sempre più decisa, già all'interno della società
dell'ancien régime, della classe borghese, che per la sua stessa natura nega i valori artistici del bello e tende ad emarginare l'artista
come essere improduttivo e parassitario e a ridurre l'arte a una merce tra le altre sul mercato.
Nei confronti del suo eroe (che ha tratti innegabilmente autobiografici) Goethe assume un atteggiamento complesso e
problematico: guarda con indubbia ammirazione le sue qualità intellettuali e la sua ricchezza interiore, ma non celebra
l'esaltazione incondizionata dell’eroe né lo propone come modello esemplare di comportamento. Il suo è piuttosto lo sguardo
critico di chi ha attraversato esperienze simili ma ne è ormai uscito e può contemplarle con sereno distacco. Se Werther è la
vittima di avverse circostanze storiche, la sua reazione agli occhi dello scrittore è sbagliata, rivela un eccesso di passionalità, che è
segno di immaturità e di scarso senso di responsabilità, deriva da un esasperato egocentrismo che ignora gli altri: si pensi a quanto
il comportamento di Werther faccia soffrire Lotte, Albert, l'amico Wilhelm, e come il suo suicidio lasci un segno indelebile in
tutte queste persone che lo amano.
Nel passo che proponiamo si fronteggiano Albert e Werther, due personaggi antitetici, ciascuno emblematico di una certa
collocazione sociale e ideologica. Albert è il borghese, l'uomo normale, solido, razionale, positivo, anche se limitato; Werther è
l'artista, l'uomo eccezionale, il genio, tutto fantasia e cuore, insofferente delle convenzioni sociali, delle idee correnti, delle norme
accettate. Emerge dunque in piena luce il conflitto dell'artista borghese con la sua classe. La borghesia ha come valore supremo la
razionalità e condanna come pazzia o ebbrezza tutto ciò che esce dalla norma. Nella forza irrazionale del sentimento vede
qualcosa di eversivo, di pericoloso per l'assetto morale e sociale vigente. L’artista, al contrario, esalta la forza della passione e vi
scorge una manifestazione di grandezza d'animo e di nobiltà spirituale, che si oppone al gretto buon senso borghese; e proprio
dalla forza del sentimento ritiene che nasca l'arte, la poesia, che quindi gli appare incompatibile con il sistema dei valori borghesi .
L'oggetto della discussione è il suicidio. Si capisce di qui come il pensiero della morte nasca in Werther non appena si profila la
figura di Albert fra lui e Lotte. Per Albert, che ragiona in obbedienza al senso comune, il suicidio è segno di debolezza,
l'ammissione dell'incapacità di sopportare una vita tormentata. E ha ragione. Ma la sua ragione manca di slancio, vitalità, passione.
Per Werther il suicidio, lungi dall'essere manifestazione di debolezza, testimonia la forza dell'uomo oppresso dall'infelicità della
vita, che uccidendosi trova l'unico modo per ribellarsi a quel giogo insopportabile, come il popolo che insorge contro il tiranno, o
chi lotta contro il fuoco o contro numerosi nemici. Il presupposto è che la vita è male, oppressione, inevitabile scontro con forze
ostili e schiaccianti. Per questo il suicidio, in quanto rifiuto e rivolta, è manifestazione di una grandezza d'animo titanica.
L’artista e il borghese
(J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto)

Albert è un uomo così scrupoloso! Quando crede di aver detto qualche cosa di precipitato, di generico, di approssimativo, non
cessa più di limitare, di modificare, di aggiungere, di levare, finché di tutto quello che ha detto non rimane più nulla. Ed anche
durante il nostro discorso non finiva più di chiacchierare: io già non lo stavo più ad ascoltare, stavo dietro ai grilli che avevo per
la testa e con un gesto impetuoso d'un tratto mi piantai la bocca della pistola sulla fronte, sopra l'occhio destro. - Ma no! - disse
Albert tirandomi giù la pistola, - che fai? - Se non è carica, - dissi io. - Non importa, perché fai così? - rispose spazientito. - Non
riesco a capire come un uomo possa essere così insensato da uccidersi; il solo pensiero mi fa andare in bestia.
- Chi sa perché voialtri uomini, - esclamai, - quando parlate di una cosa dovete subito dire: questo è insensato, questo è accorto,
questo è bene, questo è male! Che vuol dire? Forse che con ciò avete penetrato gli intimi motivi di un'azione? Potete sviluppare
con chiarezza le cause per cui è avvenuta; perché è dovuta avvenire? Se lo aveste fatto, non sareste così pronti a sputare le vostre
sentenze.
- Mi concederai, - rispose Alberto, - che certe azioni rimangono colpevoli qualunque sia il motivo per cui sono state compiute.
Scossi le spalle dandogli ragione. - Eppure, mio caro, - continuai, - anche qui ci sono le eccezioni. È vero, il furto è un delitto; ma
l'uomo che ruba per salvare se stesso ed i suoi da un'imminente morte di fame, merita d'essere punito o compatito? Chi osa
scagliare la prima pietra contro il marito che in un momento giustificato di ira sacrifica la moglie infedele ed il suo indegno
seduttore? Contro la fanciulla che in un'ora piena di ardore si perde nelle irresistibili gioie dell'amore? Persino la nostra legge, i
più frigidi pedanti, si commuovono e perdonano.
- Ma questo è un caso tutto diverso, - rispose Alberto, - perché un uomo che si lascia trasportare dalle sue passioni, perde ogni
facoltà di giudizio e viene considerato come un ubriaco, come un pazzo.
- Oh gente ragionevole! - esclamai sorridendo. - Passione! Ebbrezza! Pazzia! State lì tutti tranquilli, indifferenti, voialtri uomini
morali! Biasimate colui che beve, esecrate colui che ha perduto il senno, passate per la vostra strada come lo scriba e ringraziate
Iddio come il fariseo che non vi ha fatti simili a costoro. Sono stato ubriaco più di una volta, le mie passioni non sono mai state
molto lontane dalla pazzia, eppure non me ne pento: poiché nel mio piccolo sono riuscito a comprendere che tutti gli uomini
straordinari i quali hanno compiuto qualche cosa di grande, qualche cosa che varcava i limiti delle nostre normali possibilità,
sono sempre stati diffamati come ubriachi e come pazzi. Ed anche nella vita quotidiana, è una cosa insopportabile sentir gridare
dietro a chiunque abbia compiuto un'azione anche solo relativamente ardita, nobile ed inconsueta: quell'uomo è ubriaco,
quell'uomo è pazzo! Vergognatevi, gente sobria! Vergognatevi, gente saggia!
- Questi sono i tuoi soliti grilli, - disse Alberto, - tu esageri sempre, ed almeno qui mi sembra che tu abbia torto, poiché consideri
il suicidio, che e l'argomento di cui si parlava, come una grande azione: mentre invece non lo si può giudicare niente altro che
una debolezza. Senza dubbio e più facile morire che sopportare coraggiosamente una vita tormentata.
Stavo per interrompere il discorso: giacché non c'è nulla che mi faccia perdere la calma come vedere venire avanti uno con un
luogo comune insignificante, quando io parlo con il cuore in mano. Tuttavia mi rimisi subito perchè quella frase l'avevo già
sentita spesso e spesso m'aveva fatto arrabbiare, e gli ribattei con una certa vivacità: - Tu la chiami debolezza? Ti prego, non
lasciarti ingannare dalle apparenze. Un popolo che languisce sotto il giogo insopportabile di un tiranno, merita d'essere
chiamato debole se alla fine insorge e infrange le sue catene? Un uomo, che per lo spavento di vedere il fuoco distruggere la sua
casa, sente tutte le proprie forze moltiplicarsi e con facilità trasporta pesi che in condizioni normali potrebbe appena sollevare;
uno che per il furore d'essere stato offeso combatte contro sei nemici e li vince, può essere chiamato debole? E, mio caro, se un
eccesso fisico viene considerato come una forza, perché non lo sarà anche l'eccesso dei sentimenti?
Alberto mi guardo e disse: - Non te ne avere a male, ma gli esempi che hai citato mi pare che siano completamente fuori posto.
- Può essere, - dissi. - Mi è già stato spesso rimproverato che le mie associazioni d'idee raggiungono talvolta il delirio.

UGO FOSCOLO: “LE ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS”. L’Ortis è un romanzo epistolare del 1802 e narra le
vicende di Jacopo, un giovane patriota che, dopo la cessione di Venezia all'Austria col Trattato di Campoformio del 1797, si
rifugia sui colli Euganei per sfuggire alle persecuzioni. Qui s'innamora di Teresa, ma il suo è un amore impossibile, perché la
giovane è già promessa ad Odoardo, che è l'esatta antitesi di Jacopo, uomo gretto e prosaico, freddo e razionale, tanto quanto
l'eroe è impetuoso e appassionato. La disperazione amorosa e politica spinge Jacopo ad un pellegrinaggio per l'Italia (a Firenze,
dove visita le tombe di Santa Croce; a Milano, dove ha un incontro col Parini; ai confini con la Francia, a Ventimiglia, dove
medita sulla storia come trionfo della natura ferina dell'uomo). La notizia del matrimonio di Teresa lo riporta nel Veneto: rivede
ancora una volta la fanciulla amata, la bacia, si reca a visitare la madre, poi si uccide. Rimane di lui un carteggio (compreso tra
l’11 ottobre 1797 e il 25 marzo 1799) con l'amico Lorenzo Alderani, che quest'ultimo, nella finzione narrativa, afferma di essersi
deciso a pubblicare «per erigere un monumento alla virtù sconosciuta».

LA PATRIA, L’INTELLETTUALE E IL POPOLO. La patria è tema sacro per Foscolo come per il suo alter ego Ortis, trattato
con intonazione religiosa fin dall'attacco dell'opera, nella primissima lettera scritta l’11 ottobre 1797, in cui si annuncia,
riecheggiando le ultime parole di Cristo in croce, che «iI sacrificio della patria nostra è consumato». Ogni sforzo per riscattare il
sacrificio della patria contrasta però con la sfiducia nell'azione delle masse e con l’atteggiamento di aristocratico distacco e
sospetto dell’autore nei confronti del popolo: «Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall'intento,
dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l'onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o
atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre» (lettera del 4 dicembre 1798). Foscolo infatti è un progressista sul piano politico,
in quanto anticipatore del nazionalismo risorgimentale, ma non sul piano sociale e culturale, poichè estraneo ai fermenti
democratici che avevano animato alcune correnti illuministiche e che saranno alla base del nostro Romanticismo.
La delusione nei confronti dell'azione popolare si dilata però fino a riversarsi sulla quasi totalità del corpo sociale: non solo il
popolo inteso come "quarto stato" («l'universalità che serve») ma la società tutta (la borghesia, il patriziato), protesa al benessere
materiale, appare indifferente, se non ostile, all'intellettuale che vorrebbe richiamarla ai valori ideali e alla necessità della lotta e
del sacrificio: «In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l'universalità che serve; e i molti
che brigano. Noi [gli intellettuali] non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire;
noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come quei cani senza padrone ai quali non toccano né tozzi né percosse. (…)
Tu mi esalti sempre il mio ingegno; sai tu quanto io valgo? né più né meno di ciò che vale la mia entrata» (lettera del 4 dicembre
1798). È già presente, in passi come questo, quel conflitto tra l’intellettuale e la società che caratterizzerà l’epoca romantica e l’età
decadente dell’Italia post-unitaria.

IL SENSO DELLA STORIA E IL MECCANISMO DELLA NATURA. Nell’Ortis converge una strozzatura della cultura
illuministica. E’ venuta meno ogni fiducia positiva nei valori civili e nella storia. E’ come se gli ideali stessi della rivoluzione
francese, nei quali sembravano convergere i succhi più vitali del secolo dei lumi, fossero già inariditi e superati. La storia è vissuta
quale trionfo della forza e quale mancanza di disegno e di finalità, cioè come territorio dominato dal caso e dall'irrazionalità,
sottratta alla volontà dell'uomo, ridotta a elemento di un meccanismo naturale spietato.

La lettera da Ventimiglia
(Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, lettera del 19 e 20 febbraio 1799)

Pare che gli uomini siano artefici delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall'ordine universale, e il genere umano serve
orgogliosamente e ciecamente il destino. Noi argomentiamo sugli eventi di pochi secoli: che sono essi nell'immenso spazio del
tempo? Come le stagioni della nostra vita normale, paiono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e
necessari effetti del tutto. L'universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i
cadaveri dell'altra. Io guardando da queste Alpi l'Italia piango e fremo, e invoco contro gli invasori vendetta; ma la mia voce si
perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati, quando i Romani rapivano il mondo, cercavano oltre i mari e i deserti
nuovi imperi da devastare, manomettevano le divinità dei vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando
più dove insanguinare le lor spade, le ritorcevano contro le proprie stesse viscere. (…) Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi
sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quelle che pagavano prima vilmente il tributo, lo imporranno un
giorno col ferro e col fuoco. La Terra è una foresta di belve. La fame, i diluvi e la peste sono nei provvedimenti della Natura,
come la sterilità di un campo che prepara l'abbondanza per l'anno successivo: e chi sa? forse anche le sciagure di questo
globo apparecchiano la prosperità di un altro. Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla
sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbero imporla se per regnare non
l'avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola
del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze
del giusto, finché un'altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d'ora in ora alcuni più arditi
mortali; prima derisi come frenetici, e sovente, come malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch'essi
credono lor propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte
deificati. Questa è la razza degli eroi, dei capi-sette, e dei fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità dei
volghi si stimano saliti tanto in alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell'orologio. Quando una rivoluzione nel globo è
matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno dei loro teschi sgabello al trono di chi la compie. E
perché l'umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premi
futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi dei conquistatori: e opprimono le genti con le
passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare.

LE ILLUSIONI. La lettera che segue appartiene a uno dei rari momenti di esaltazione amorosa: in uno scenario naturale
splendido Jacopo ha baciato Teresa e si sente pervaso dalla bellezza e dall’armonia; ma una bellezza ancora maggiore – l’idea
assoluta di Bellezza (si noti la maiuscola in Beltà) – è nella sua immaginazione. La mente è capace di concepire la perfezione
delle idee, dei concetti che impara a conoscere attraverso l’imperfetta realtà delle cose. La lettera è divisa in due parti.
 Nella prima parte del testo il tema centrale riguarda i prodigi compiuti dall'amore, cui viene attribuito il potere di rendere
gioioso e compassionevole l'uomo, stupendo e ridente il paesaggio, e di fare apparire la bellezza ovunque. Seguono alcune
considerazioni più riflessive: le arti e la poesia, che permettono all'uomo di esprimere la bellezza, sono considerate "figlie"
dell'amore, e la voce narrante afferma che senza amore non ci sarebbero né la pietà né i legami fra gli uomini: non
esisterebbe, anzi, neppure la vita, e il mondo diventerebbe selvaggio e inospitale.
 L'ultima parte della lettera esprime un conflitto interno all'Ortis. La ragione, personificata da un filosofo (ovviamente
illuminista), ritiene "illusioni", cioè sogni che non reggono a un'analisi razionale, i sentimenti d'amore: ma a questa obiezione
un'altra parte della personalità risponde che tutto è sogno (gli antichi si illudevano coi loro miti e le loro fantasie, ma erano
felici) e che inoltre, senza queste illusioni e senza profondi sentimenti del cuore, la vita non avrebbe senso. La conclusione del
brano approda a una concezione decisamente romantica, apertamente contrapposta alle tesi illuministiche: il cuore e la
fantasia sono, infatti, ritenuti più importanti della ragione.

La religione delle illusioni


(Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, lettera del 15 maggio 1798)

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gaio, il mio cuore più compassionevole.
Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che
mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il
mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei
nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento
degli animali generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le
voci e co’ pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui
sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del
quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e
il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie
sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. O Lorenzo! sto spesso sdraiato su la riva del
lago dei cinque fonti: mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che alitando sommuovono l'erba e allegrano i fiori.
Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi vedo dinanzi le Ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor
compagnia le Muse e l'Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti
sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le Naiadi, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo. - Or non
è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni dei baci delle immortali divinità del cielo; che sacrificavano alla
Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità sulle imperfezioni dell'uomo, e che trovavano il Bello ed il
Vero accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi
spaventa ancor più) nella rigida e noiosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le
mie mani, e lo caccerò come un servo infedele.

IL SUICIDIO. “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualsiasi amore, ci rivela nella nostra
nudità, miseria, inermità, nulla”. Sono parole di un grande scrittore morto suicida, Cesare Pavese, e sono adatte per accostarci al
finale del romanzo, in cui Ortis, voce potente e imperfetta, confida le illimitate speranze e illimitate disperazioni della sua
gioventù. Alla fine, fieramente disilluso della vittoria, vince morendo, assomigliando molto a Catone uticense, a cui si accenna
nella ultimissima lettera, suicida per la libertà, custode del Purgatorio dantesco. Ma libertà da che cosa? Libertà dalle illusioni,
libertà dall’obbligo di essere determinati a vivere nell’infelicità, libertà dal meccanicismo naturale. Si compie nella morte, dunque,
quel processo di disillusione continua che ha significato per Jacopo avanzare nelle esperienze della vita facendo propria la nullità
del tutto. L’approdo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis è il pessimismo cosmico, si potrebbe dire, in riferimento alle riflessioni
che farà in seguito Leopardi. L’ultima illusione a cadere è proprio Teresa ed è lì che il suicidio si prospetta con insistenza.
Sembrerebbe solo un suicidio per amore. Ma il nulla in cui lo precipita questa disillusione è la verità, anzi per dirla
leopardianamente, l’arido vero. E dunque ecco Ortis rivolgersi sdegnoso alla Natura, non diversamente dal Leopardi di A Silvia o
del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: «O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e
gl'insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì
che il mortale non cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi, perché poi darci
questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di
ristorarle. Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli
uomini?». Quest’ultima domanda è il segno, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, di una delusione totale nei confronti
dell’umanità, del suo progresso: Ortis non riesce a risollevarsi da questa delusione, e si uccide, e il suo suicidio vorrebbe essere
inteso non come gesto di viltà ma come protesta contro i mali sociali, simbolo di lotta, testimonianza ed incitamento alla libertà.
Lo è davvero? O è soltanto una particolare forma di inettitudine e debolezza? A sopravvivere malgrado tutto ci riesce, invece,
l’autore: Foscolo, con orgoglio, si affida al valore della memoria (è importante il tema della tomba) e all’arma più potente che
l’uomo ha contro l’oblio: la poesia. Per questo nel finale del carme Dei Sepolcri l’ultima immagine, con forza profetica, spetta a
Omero, allegoria di tutti i poeti, che racconterà - ascoltando il sussurro delle tombe - la storia di Ettore, l’infelice eroe dell’Iliade,
ormai reso eterno dalla poesia, almeno fintanto che esisterà l’uomo sulla terra.

5. LA TRAGEDIA
JOHANN WOLFGANG GOETHE: “FAUST”. Goethe (1749 – 1832) incominciò a lavorare al Faust fin dal 1772 per poi
protrarre l’opera fino al 1832, anno della morte. L’opera si ispira ad una leggenda apparsa per la prima volta in un libro di
leggende popolari del 1587, a sua volta ispirato ad un personaggio storico, Georg Faust, oscura figura di mago vissuto nella
Germania del primo Cinquecento. Nel Libro popolare Faust stringe un patto col diavolo per aver accesso ai segreti della natura, ed
è visto negativamente, in una prospettiva luterana ortodossa, come esempio della superbia peccaminosa dell'uomo che non sa stare
entro i limiti della conoscenza segnati da Dio. Il libro ebbe largo successo e numerose ristampe, subendo in seguito vari
rifacimenti, sino al Settecento. La figura ispirò anche il drammaturgo elisabettiano Christopher Marlowe (1564-1593), che nel
1592 compose la Tragica storia della vita e della morte del dottor Faustus: in essa Faust stringe un patto col diavolo per
raggiungere una conoscenza illimitata del mondo, che ne garantisca anche il possesso assoluto; risalta così nella tragedia la
grandezza dell'uomo, anche se deviata verso il male. Nel Settecento, Faust è ripreso dal razionalista Gotthold Ephraim Lessing,
che volge in positivo, illuministicamente, la sete illimitata di sapere del personaggio, e ne prospetta la salvazione finale. La
leggenda di Faust entrò persino nel repertorio del teatro dei burattini, grazie al quale, a quanto pare, fu conosciuta originariamente
da Goethe.
L'opera ha forma drammatica (Goethe stesso la indica come «tragedia») e vi è premesso un prologo in Cielo, in cui Dio consente a
Mefistofele di tentare Faust, sicuro che egli si salverà comunque. La prima parte (pubblicata nel 1808) si apre nello studio del
dottor Faust, che esprime la sua stanchezza e il suo disprezzo per la vuota scienza medievale di cui ha nutrito tutta la sua vita.
Vorrebbe un rapporto immediato con la natura, un accesso diretto ai suoi segreti. Evoca allora lo Spirito della Terra (la forza che
genera tutte le cose), ma questi lo respinge. La sconfitta induce Faust al pensiero del suicidio, ma il suono delle campane e i canti
del mattino di Pasqua lo distolgono dal proposito, riconciliandolo con la vita. Esce per ritrovare il contatto con il mondo, ma al
rientro nello studio viene seguito da un cane nero che in seguito si trasforma in un cavaliere dal piede equino: è il diavolo
Mefistofele. Con lui Faust fa una scommessa: Mefistofele gli farà attraversare tutte le esperienze della vita ed egli gli concederà
l'anima se mai arriverà ad appagarsi anche solo di un istante di godimento. La tragedia rappresenta l'impossibilità, per Faust, di
placare la sua irrequieta tensione, che lo induce a non appagarsi mai, ad auto-superarsi continuamente, spinto da un ansia di
ricerca (il concetto chiave dell'opera è lo streben, il “cercare”) destinata a rimanere senza corrispondenza e compimento in
qualsivoglia proprietà, luogo, persona o condizione. Quando viene l'ora della morte di Faust, Mefistofele e i diavoli, che vogliono
la sua anima, vengono però sconfitti dagli angeli. L'anima viene portata nelle sfere celesti, mentre gli angeli cantano: «Colui che
sempre si è nella ricerca affaticato, noi lo possiamo redimere!».
Faust esprime la sua insoddisfazione della vita: è pieno di desideri, ma è impotente a realizzarli nell'azione. Mefistofele gli
promette di guidarlo attraverso la vita, nel vasto mondo, fuori dalla solitudine sterile dello studio. Faust sa di voler l'impossibile e
che Mefistofele, «povero diavolo», non glielo può offrire. Per questo accetta di scommettere la propria anima, perché sa che non
sarà mai appagato nella sua ricerca, che non riuscirà mai a dire all'attimo fuggente: «Arrestati! sei bello!». Come si vede nella
scena che proponiamo, in Faust c'è un'aspirazione alla totalità, a congiungersi con l'infinito, vivendo tutte le esperienze, bene e
male, godimento e dolore, e dilatando il suo io sino ai confini dell'umanità. È una tensione sempre inappagata, ma «solo
attraverso l'attività l'uomo si afferma». Il motivo antico del "patto col diavolo" assume dunque in Goethe un senso profondamente
nuovo. Nella leggenda originaria di Faust, che vende l'anima al diavolo per conoscere i segreti della natura, si espri meva il timore
della scienza, che veniva sentita, da una prospettiva arcaica, ancora medievale, come negativa e demoniaca, perché distruggeva il
sistema concettuale del vecchio mondo, e con questo anche il suo assetto materiale. Uno stato d'animo analogo viene a prodursi
nella cultura romantica del primo Ottocento: anche dinanzi alle grandiose e travolgenti trasformazioni dell'industrialismo la
scienza viene vista con paura, come qualcosa di demoniaco. Un esempio significativo è la figura dello scienziato Frankenstein di
Mary Shelley, che con la sua ricerca scientifica supera i limiti consentiti all'uomo e dà vita ad un mostro distruttore. Frankenstein
è quindi un personaggio "faustiano" nel senso arcaico, originario. Il Faust di Goethe veicola tutt'altra visione: è la celebrazione
dell'attivismo incessante, che non si ferma mai su nessun risultato raggiunto. Lungi dall'esprimere gli oscuri timori suscitati
dall'affermarsi dello spirito moderno e dalla sua forza trasgressiva e trasformatrice, ne costituisce l'esaltazione: non si dimentichi
che, nel suo attivismo, Faust tenta anche imprese colonizzatrici e industriali.

La scommessa col diavolo.


(Goethe, Faust, parte prima)

FAUST: Bussano? Avanti! Chi sarà mai questo nuovo seccatore?


MEFISTOFELE: Sono io.
FAUST: Avanti!
MEFISTOFELE: Devi dirlo tre volte.
FAUST: E dunque: avanti!
MEFISTOFELE: Così mi piaci. Spero che c'intenderemo. Per scacciare le tue paturnie eccomi qui vestito da nobile cavaliere:
abito rosso orlato d'oro, mantelletto di raso pesante, sul berretto piuma di gallo, al fianco lunga spada affilata; e tu spicciati a
vestirti allo stesso modo; dopo di che libero e senza impicci saprai finalmente che cosa sia vivere.
FAUST: Sotto qualunque veste sentirò la pena della mia angusta esistenza. Troppo vecchio per trastullarmi, troppo giovane per
saper vivere senza desideri, che mai può darmi il mondo? Rinunciare devi, rinunciare! ecco l'eterno ritornello che suona
all'orecchio d'ogni uomo, che ogni ora, durante tutta la vita, ci ricanta con rauca voce. Di sgomento è pieno ogni mio risveglio e
mi vien da piangere al sorgere d'ogni nuovo giorno che nel suo corso non appagherà uno solo dei miei desideri, non uno! anzi
con l'assidua critica turberà l'attesa d'ogni gioia e con le mille smorfie della vita sociale incepperà l'opera dell'ardente mio
cuore. Quando poi cala la notte, tremante mi stendo sul giaciglio, ché anche lì non trovo riposo: selvaggi incubi mi cacceranno
dal sonno. Il Demone che abita nel mio petto può bensì scatenarmi in seno il tumulto, ma, padrone delle mie forze, è poi incapace
di volgerle all'azione. E così la vita m'è di peso, desiderata la morte e odiosa l'esistenza.
MEFISTOFELE: Eppure la morte non è mai ospite del tutto gradita.
FAUST: Beato colui cui essa cinge di lauri le tempie sanguinanti nel fulgore della vittoria, colui che dopo una danza turbinosa
essa coglie tra le braccia della sua fanciulla. Oh, fossi anch'io nell'estasi piombato al suolo esanime dinnanzi alla forza di quello
spirito sovrano, lo Spirito della Terra, l’Anima che pervade il mondo e gli dà entusiasmo e vita!
MEFISTOFELE: Eppure tu prima non vuotasti la coppa di veleno, non cedesti al pensiero del suicidio.
FAUST: Solo perchè il dolce suono delle campane mi strappò a quel terribile vortice, e col ricordo dei tempi sereni illuse ciò che
in me restava dei miei sentimenti puerili. Ma io maledico tutto ciò che chiude l'anima in una rete di seduzioni e di miraggi, e a
forza di illusioni e lusinghe la trattiene in questa tragica spelonca! Maledetta anzitutto l'alta opinione in cui l'anima esalta se
stessa! Maledetto l'abbaglio dell'apparenza che s'impone ai nostri sensi! Maledetto tutto ciò che nei sogni mendaci ci finge la
gloria e l'immortalità! Maledetto ciò che ci tenta come possesso: la donna, i figli, i servi, le terre! Maledetto Mammona, sia che
coi suoi tesori ci sproni ad azioni ardite, sia che ci prepari le molli piume per gli indolenti piaceri! Maledetto il succo balsamico
dell'uva, come il supremo dono dell'amore! Maledetta la speranza, maledetta la fede, e, anzitutto, maledetta la sopportazione!
MEFISTOFELE: Verso il vasto mondo, allora! Via da questa solitudine, dove sensi e umori ristagnano e vogliono allettarti.
Finiscila di trastullarti colla tua malinconia; come un avvoltoio ti rode alle fonti della vita; mentre anche la più modesta
compagnia ti farà sentire d'essere uomo tra gli uomini. Se vorrai avviarti attraverso la vita sotto la mia scorta, m'impegno a
mettermi subito a tuo servizio. Son tuo compagno, e, se ti va, son tuo servo e schiavo umilissimo.
FAUST: E in cambio che ti debbo dare?
MEFISTOFELE: Eh, per questo c'è tempo.
FAUST: No, no! Il diavolo è un egoista, e non è facile che compia ciò che giova altrui per amor di Dio. Dimmi chiaro e tondo le
tue condizioni.
MEFISTOFELE: lo quaggiù m'impegno a servirti, a obbedire a ogni tuo cenno, senza requie né indugio; quando ci ritroveremo
lassù mi renderai la pariglia.
FAUST: Di lassù poco mi importa. Da questa terra zampillano le mie gioie, e questo è il sole che rischiara le mie pene; se un dì
avverrà ch’io me ne sciolga, ebbene, avvenga ciò che vuole e può. Non voglio saperne se in un'altra vita ancor si odi e si ami, se
in quelle remote sfere ci sia un disopra e un disotto.
MEFISTOFELE: Se la pensi così l'affare e senza rischi. Impegnati; presto sperimenterai con gioia le mie arti. Ti darò ciò che un
uomo non vide mai.
FAUST: E che cosa vuoi tu darmi, povero diavolo? Lo spirito d'un uomo nella sua sublime ricerca poté mai essere compreso da
un par tuo? Però, se mai verrà il momento in cui io, appagato, mi adagi sul letto del riposo, la sia subito finita per me! Se
lusingandomi potrai mai così illudermi che io mi compiaccia di me stesso, se coi godimenti potrai così ingannarmi, allora sia
quello il mio ultimo giorno! Ecco la scommessa che t'offro.
MEFISTOFELE: Accettata!
FAUST: Ecco la mano. Se mai dirò all'attimo fuggente: “Arrestati! sei bello!”, tu potrai mettermi in ceppi: sarò disposto a
perire; e allora la campana suoni pure a morto, sarai esentato dal tuo servizio, si fermerà il pendolo, cadrà la lancetta, il tempo
sarà concluso per me.
MEFISTOFELE: Pensaci bene! Non me ne scorderò più, dopo!
FAUST: Non hai davvero da temere ch'io rompa il patto! Tender tutte le mie forze è proprio ciò a cui m'impegno. Il Grande
Spirito della Terra mi ha respinto, la Natura mi è rimasta sbarrata. Spezzato si è il filo del pensiero e da un pezzo la scienza mi
nausea. Negli abissi del senso si sazino le nostre ardenti passioni! Si alternino pure gioia e dolore, fortune e insuccessi; solo
attraverso l'attività l'uomo si afferma. Non si tratta per me del piacere. Io mi voto alla vertigine, al godimento che confina col
dolore, all'amore e all’odio, al dissidio che alla fine è ristoro. Questa mia anima non deve mai più chiudersi a nessuna
sofferenza; voglio accogliere in me le gioie destinate all'intera umanità; voglio abbracciare col mio spirito le sue vette ed i suoi
abissi; ammucchiar nel mio petto tutto il suo bene e tutto il suo male, aspirare all’infinito in cui si toccano tutti i contrari e così
dilatare il mio io sino ai confini del suo io; per poi, com'essa, alla fine, naufragare.

VITTORIO ALFIERI: “MIRRA”. Vittorio Alfieri (1749-1803) è un autore che si muove tra Neoclassicismo e
Preromanticismo. Elementi neoclassici delle sue opere sono per esempio il rispetto delle unità aristoteliche nelle tragedie e la
scelta di argomenti tratti dal mito, dalla storia classica o dalla Bibbia. Elementi preromantici sono l'amore per il paesaggio naturale
selvaggio e tempestoso, la presenza di forti sentimenti, spesso dichiaratamente irrazionali, temi come il conflitto tra libertà e
tirannide. Il corpus del teatro alfieriano consta di sei commedie e di diciannove tragedie, ed è a queste ultime che viene
riconosciuta un'importanza centrale. I capolavori teatrali di Alfieri sono il Saul (1782) e la Mirra (1786).
Il soggetto della Mirra è tratto dal racconto dell'amore di Mirra per il padre Ciniro, narrato da Ovidio (Metamorfosi X, 298-518).
La tragedia altera però la conclusione del mito, rinunciando al consumarsi della passione e dunque alla violazione effettiva del
tabù dell'incesto, e rinunciando ovviamente alla trasformazione di Mirra nell'albero profumato che porta il suo nome. La trama è
questa. La giovane Mirra, figlia del re di Creta Ciniro, vive in una disperazione profonda e inspiegabile, che invano l'affetto
incondizionato dei famigliari tenta di penetrare e di vincere. Lo stesso spettatore non ha dati sufficienti a capire la ragione di essa
fino alle battute conclusive della tragedia. Attorno a Mirra si stringe la premura della fida nutrice Euriclea, del promesso sposo (da
lei stessa scelto) Pereo, e naturalmente della madre Cecri e - terribile per la giovane - dell'amoroso padre Ciniro. I fatti
rappresentati nell'opera riguardano il giorno delle nozze infine fissate tra Mirra e Pereo. Testimoni dell'abbattimento della
giovane, sia Pereo che i genitori sarebbero disposti a rinviarle o sospenderle, certi che Mirra non ne sia felice; ma è lei stessa a
insistere per il loro compimento, nella speranza che la loro celebrazione e il successivo allontanamento dalla famiglia possano
aiutarla. Al dunque, le nozze sono interrotte dal prorompere dell'angoscia di Mirra, che giunge nel delirio a rivolgere un netto
avventarsi sulla spada di lui, uccidendosi. Ella muore disperata, nella consapevolezza di essersi macchiata di una non riscattabile
infamia; e mentre tanto il padre quanto la madre, nel frattempo accorsa, non osano avvicinarsi a lei.
Il motivo tragico del conflitto nasce tutto all'interno della protagonista. Questa cerca a lungo di reprimere una parte di sé percepita
come colpevole e socialmente inaccettabile, resiste ai continui interrogatori dei famigliari, che cercano amorevolmente di capire
per aiutarla, e sembra quasi voler resistere perfino alla coscienza stessa della propria condizione, nascondendo anche a sé
medesima la passione. È evidente che una simile vicenda configura l'incupirsi dell'ideologia dell'autore: non è più possibile
contare su un soggetto unitario e coerente, in nome del quale combattere contro l'ingiustizia, come invece accadeva nelle opere
precedenti. La contrapposizione tra tirannia e libertà, che stava alla base dell'universo alfieriano, implicava un soggetto forte,
eroico, capace di collocarsi su uno dei due estremi del contrasto. Ora ad apparire minato è proprio l'individuo, in preda a
lacerazioni interiori e a irregolarità morali che lo rendono debole e lo escludono dalla società. Mirra non possiede più se stessa,
scopre che esiste qualche cosa in lei che parla contro di lei. II personaggio comincia a scoprirsi come personaggio scisso,
nevrotico. Alfieri ci porta sino a conoscere ciò che oggi è il cosiddetto inconscio, come negazione di tutti i rapporti
istituzionalizzati a livello di cultura e a livello dl società civile: il «barbarico», ciò che precede la cultura e che è all'interno degli
stessi individui. Ciò è evidente quando Mirra si trova di fronte alla madre, non la riconosce più come madre e non lo può dire, la
sente soltanto come amante che combatte con lei per lo stesso uomo in una specie di scontro edipico freudiano. Alfieri sa bene di
essere arrivato ad un vertice che è al di là del linguaggio normale della morale e si affretta a dire, nel commento alla tragedia, che
tuttavia bisognerebbe toccare ogni tanto questo che egli chiama «nascosissimo, ma naturalissimo e terribile tasto del cuore
umano». L'Alfieri si rende conto che ci sono delle forze oscure, che la notte è dentro all'uomo, che distruzioni operano al suo
interno; egli stesso ci dà la chiave, in questo caso, con parole che non hanno poi neanche bisogno di essere molto rammodernate:
«nascosissimo», «naturalissimo» e «terribile» dicono in tre battute ciò che è veramente in gioco.
Proponiamo le battute finali del quinto e ultimo atto. Il padre Ciniro, se finora ha mostrato a Mirra solamente la propria dolcezza,
stabilisce di mostrarsi ora a lei adirato pur di spingerla a confessare le cause dell'inaudito comportamento. In effetti il colloquio
sortisce l'effetto sperato e infine Mirra fa balenare una implicita confessione. Subito pentita, s'impossessa della spada paterna e si
uccide. Tanto Ciniro quanto la madre Cecri, subito accorsa e informata dell'accaduto, sono combattuti tra l'orrore e i sentimenti
genitoriali; e però si allontanano infine dalla morente, che spira disperata tra le braccia della nutrice Euriclea.

Il suicidio di Mirra
(Alfieri, Mirra, atto V)

MIRRA: O Morte, Morte, cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda sempre sarai?
CINIRO: Deh! figlia, acqueta alquanto l'animo: se non vuoi sdegnato contra te piú vedermi, io giá nol sono piú quasi omai;
purché tu a me favelli. Parlami deh! come a fratello. Anch'io conobbi amor per prova: il nome…
MIRRA: Oh cielo!... Amo, sí; poiché a dirtelo mi sforzi; io disperatamente amo, ed indarno. Ma, qual ne sia l'oggetto, né tu mai,
né persona il saprá: lo ignora egli stesso... ed a me quasi io 'l niego.
CINIRO: Ed io saperlo e deggio, e voglio. Né puoi essere crudele nei tuoi stessi confronti senza esserlo contemporaneamente in
misura maggiore nei confronti dei tuoi genitori, che adorano solo te. Parla. Già, di crucciato padre, vedi ch'io torno e supplice e
piangente: morir non puoi, senza pur trarci in tomba. Qual ch'ei sia colui ch'ami, io 'l vo' far tuo. Stolto orgoglio di re strappar
non puote il vero amor di padre dal mio petto. Il tuo amor, la tua destra mano, il regno mio, cangiar ben ponno ogni persona
umile in alta e grande: e, ancor che umil, son certo, che indegno al tutto esser non può l'uom ch'ami. Te ne scongiuro, parla: io ti
vo' salva, ad ogni costo mio.
MIRRA: Salva?... Che pensi?... Questo stesso tuo dir mia morte affretta... Lascia, deh! lascia, per pietà, ch'io tosto da te... per
sempre... il piè... ritragga...
CINIRO: O figlia unica amata; oh! che di' tu? Deh! vieni fra le paterne braccia. Oh cielo! in atto di forsennata or mi respingi? Il
padre dunque abborrisci? e di sí vile fiamma ardi, che temi?
MIRRA: Ah! non è vile;... è iniqua la mia fiamma; né mai...
CINIRO: Che parli? iniqua, ove primiero il genitor tuo stesso non la condanna, ella non fia: svelamela.
MIRRA: Raccapricciar d'orror vedresti il padre, se la sapesse... Ciniro...
CINIRO: Che ascolto!
MIRRA: Che dico?... ahi lassa!... non so quel ch'io dica... Non provo amor... Non creder, no... Deh! lascia, te ne scongiuro per
l'ultima volta, lasciami il piè ritrarre.
CINIRO: Ingrata: omai col disperarmi co' tuoi modi, e farti del mio dolore gioco, omai per sempre perduto hai tu l'amor del
padre.
MIRRA: Oh dura, fera orribil minaccia!... Or, nel mio estremo sospir, che giá si appressa,... alle tante altre furie mie l'odio crudo
aggiungerassi del genitor?... Da te morire io lungi?... Oh madre mia felice!... almen concesso a lei sarà... di morire... al tuo
fianco...
CINIRO: Che vuoi tu dirmi?... Oh! qual terribil lampo, da questi accenti!... Empia, tu forse?...
MIRRA: Oh cielo! che dissi io mai?... Me misera!... Ove sono? Ove mi ascondo?... Ove morir? Ma il brando tuo mi varrà...
CINIRO: Figlia... Oh! che festi? il ferro...
MIRRA: Ecco,... or... tel rendo... Almen la destra io ratta ebbi al par che la lingua.
CINIRO: Io... di spavento,... e d'orror pieno, e d'ira,... e di pietade, immobil resto.
MIRRA: Oh Ciniro!... Mi vedi... presso al morire... io vendicarti... seppi... e punir me... Tu stesso, a viva forza, l'orrido arcano...
dal cor... mi strappasti... ma, poiché sol colla mia vita... egli esce... dal labro mio... men rea... mi moro...
CINIRO: Oh giorno! Oh delitto!... Oh dolore! A chi il mio pianto?...
MIRRA: Deh! piú non pianger;... ch'io nol merito... Ah! sfuggi mia vista infame... e a Cecri... ognor... nascondi...
CINIRO: Padre infelice!... E ad ingoiarmi il suolo non si spalanca?... Alla morente iniqua donna appressarmi io non ardisco...
eppure, abbandonar la svenata mia figlia non posso... (Entrano la madre Cecri e la nutrice Euriclea)
CECRI: Al suon d'un mortal pianto...
CINIRO: Oh cielo! Non t'inoltrar...
CECRI: Presso alla figlia...
MIRRA: Oh voce!
EURICLEA: Ahi vista! Nel suo sangue a terra giace Mirra?
CECRI: La figlia?
CINIRO: Arretrati...
CECRI: Svenata!... Come? da chi?... Vederla vo'...
CINIRO: Ti arretra... Inorridisci... Vieni... Ella... trafitta, di propria man, s'è col mio brando...
CECRI: E lasci cosí tua figlia?... Ah! la vogl'io...
CINIRO: Piú figlia non c'è costei. D'infame orrendo amore ardeva ella per... Ciniro...
CECRI: Che ascolto? Oh delitto!...
CINIRO: Deh! vieni: andiam, ten priego, a morir d'onta e di dolore altrove.
CECRI: Empia... Oh mia figlia!...
CINIRO: Ah! vieni...
CECRI: Ahi sventurata!... Né piú abbracciarla io mai. (Si allontanano. Rimangono sole Mirra ed Euridice)
MIRRA: Quand'io... tel... chiesi... darmi... allora... Euriclea, dovevi il ferro... io moriva... innocente;... empia... ora... muoio…

6. LA LIRICA VISIONARIA E MISTICA MITTELEUROPEA


NOVALIS: “INNI ALLA NOTTE”. Per i romantici tedeschi, poeti metafisici o mistici, la realtà quotidiana ha ben poco valore.
Al di là delle apparenze è la realtà vera: quando esse svaniscono coi loro contorni definiti, coi loro limiti precisi, allora comincia a
mostrarsi il volto dell'assoluto. Secondo Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis (1772-1801), la poesia vede l'invisibile,
rappresenta il non rappresentabile, l'ineffabile. Il poeta è un veggente, un profeta, quando scrive è come in estasi, rapito fuori dai
sensi, «incomprensibile a lui stesso». La parola poetica ha perciò una funzione non descrittiva o rappresentativa, ma evocativa e
magica: non è un «segno» di cose e di concetti, ma simbolo di realtà ultrasensibili, scongiuro ed incantamento che ha il potere di
evocare gli spiriti nascosti: «Ogni parola è una parola di evocazione. A seconda dello spirito che chiama, uno spirito appare». Il
Classicismo illuministico poneva come supremo ideale la perfetta chiarezza, la geometrica evidenza che elimina ogni residuo di
oscuro e di indeterminato: l'arte del poeta romantico mitteleuropeo appare invece immersa costantemente in un'atmosfera di
mistero. Mistero è il mondo, mistero è la nostra anima: il poeta è il sacerdote e il rivelatore di questo mistero.
A ventidue anni Novalis conobbe una giovane di quattordici anni, Sophie Kuhn, destinata a morire di tisi tre anni dopo, della
quale si innamorò. Da questa esperienza della morte nacquero gli Inni alla Notte, in prosa mista a versi, pubblicati nel 1800 su
“Athenaeum". Negli Inni la notte è accogliente e benevole; prefigurazione della morte, diventa la via aperta per il mondo
dell'infinito, dell'eterno, dell'immutabile: ossia per la vita vera. Il giorno simboleggia il relativo, l'apparente; la notte l'assoluto, il
reale; il giorno la luce, l’irrequietudine e il travaglio; la notte l’oscurità, il silenzio, la pace infinita: «chi stette lassù su quelle
cuspidi, agli estremi confini della vita, e spinse di là gli sguardi verso la Terra Promessa, verso i soggiorni della Notte, non
tornerà più invero al travagliato mondo; alle contrade ove abita la luce, irrequietudine perenne». La notte novalisiana è una notte
mistica, simbolo di appagamento totale, di evasione assoluta dai limiti; perciò essa si confonde con la morte, fuga dai regni
tempestosi del Giorno, approdo alle sponde del Cielo, ritorno dall'esilio alla casa paterna:

Primo inno alla notte


(Novalis, Inni alla notte)

Quale vivente, dotato di senso, fra tutte le magiche parvenze dello spazio che si dilata intorno a lui, non ama la più gioiosa, la
luce - con i suoi colori, i suoi raggi e onde; la sua mite onnipresenza di giorno che risveglia? Come l'anima più intima della vita,
il mondo immane delle costellazioni senza quiete la respira, e nuota danzando nel suo flutto azzurro - la respira la pietra
scintillante, in eterno riposo, la pianta sensitiva che sugge, e il multiforme animale istintivo - ma sopra tutti lo splendido intruso,
l’uomo, con gli occhi colmi di sensi, il passo leggero, le labbra dolcemente socchiuse, ricche di suoni. Come una sovrana della
natura terrena, essa chiama ogni forza a metamorfosi innumeri, annoda e scioglie alleanze infinite, avvolge la sua immagine
celeste intorno a ogni creatura terrestre. La sua sola presenza rivela l'incanto dei reami del mondo.
Ma ora, lasciata la luce, mi volgo alla sacra, ineffabile, misteriosa notte. Lontano giace il mondo - sepolto nel baratro di una
tomba - squallida e solitaria la sua dimora. Nelle corde del petto spira profonda malinconia. In gocce di rugiada voglio
inabissarmi e rimescolarmi alla cenere. Lontananze della memoria, desideri della giovinezza, sogni dell'infanzia, brevi gioie e
vane speranze dell'intera esistenza vengono in grigie vesti, come nebbie dopo il tramonto del sole. In altri spazi la luce ha
piantato le sue tende gioiose. Non tornerà mai dai suoi figli, che l'attendono in ansia con la fede degli innocenti?
Che cosa d'improvviso sgorga così carico di presagi sotto il cuore, e inghiotte l'aura tenue della malinconia? Anche tu provi
piacere in noi, oscura notte? Che cosa tieni sotto il tuo manto, che con forza invisibile mi tocca l'anima? Delizioso balsamo stilla
dalla tua mano, dal fascio di papaveri. Le ali grevi dell'animo tu innalzi. Ci sentiamo pervasi da una forza oscura, ineffabile - un
volto severo vedo con lieto spavento, che si piega su di me devoto e soave, e sotto i riccioli che senza fine s'intrecciano, mostra la
cara giovinezza della madre1. Come misera e puerile mi sembra ora la luce - come grato e benedetto il commiato del giorno. Solo

1
La notte assume il volto di una giovane donna che si china su di lui. E’ forse il volto della fidanzata, Sophie Kuhn, che Novalis conobbe
quando la ragazza aveva 14 anni (e il poeta 22) e che era destinata a morire di tisi a 17 (Novalis morì della stessa malattia a 29). Oppure quello
della giovane madre che si chinava su di lui nella culla. Può anche essere che le due immagini femminili in realtà si confondano.
per questo quindi, perché la notte discosta da te i tuoi fedeli, tu seminasti per l'immensità dello spazio le sfere splendenti per
annunciare la tua onnipotenza - il tuo ritorno - nei tempi della tua assenza.
Più celesti di quelle stelle scintillanti ci sembrano gli occhi infiniti che la notte dischiude in noi. Così lontano non vedono le più
lontane di quelle schiere innumerevoli di stelle - senza bisogno di luce penetrano i nostri occhi gli abissi di un'anima amante - il
che colma uno spazio più alto di piacere indicibile. Premio della notte regina del mondo, della eccelsa annunciatrice di mondi
sacri, custode di amore beato - a me lei ti manda - amata soave - caro sole della notte, - ora veglio - perché sono Tuo e Mio - tu
mi hai rivelato che la notte è vita - mi hai fatto uomo - consuma con ardore spettrale il mio corpo, così che io mi congiunga
etereo più intimamente con te e la notte nuziale duri in eterno.

SAMUELE TAYLOR COLERIDGE: “LA BALLATA DEL VECCHIO MARINAIO”. Rappresenta il contributo più
significativo di Samuele Taylor Coleridge (1772-1834) alle Lyrical Ballads, pubblicate nel 1798 in collaborazione con William
Wordsworth, la cui celebre Preface è considerata il manifesto del Romanticismo inglese. La forma metrica del testo è quella della
ballata, una tipologia poetica che racconta una storia, spesso piuttosto lunga, caratterizzata da un ritmo che la rende anche
cantabile. E’ divisa in sei sezioni, che seguono le tappe del viaggio del vecchio marinaio e della sua maledizione 2. Il principale
tema della Ballata è lo studio psicologico della colpa e conseguente espiazione. Da qui hanno avuto origine interpretazioni di
carattere religioso, che vedono nell’uccisione dell’albatro una sorta di peccato contro Natura (benevola e terribile) e quindi contro
Dio. Per questo motivo il Marinaio per raggiungere la salvezza, ovvero il ritorno al proprio paese, deve passare dal fuoco del
Purgatorio. Il momento di svolta della vicenda ha luogo nella quarta parte del poema, quando l’acqua del mare brucia di un
“orribile rosso” e un serpente marino striscia attorno alla nave. Improvvisamente il Marinaio benedice queste creature orrende,
che sono tuttavia parte della creazione divina. In questo momento l’incantesimo si interrompe, l’albatro cade dal suo collo e
finisce in mare (la discesa in mare è equivalente alla ascesa al cielo di Cristo). Più nel dettaglio.
 L'albatro è la santità della natura e ne rappresenta la forza salvifica, forza che si manifesta tanto sul piano materiale e naturale
(l’albatro accompagna la nave e segna la rotta gusta) quanto su quello spirituale e soprannaturale (l’albatro appeso al collo del
marinaio al posto della croce è il simbolo della divinità sacrificata).
 Il marinaio è invece il simbolo della misteriosa e insensata propensione dell'uomo al male (uccide l’uccello senza un motivo,
per il solo gusto di farlo, pur nella consapevolezza che la sua morte procurerà a sé e ai suoi compagni terribili conseguenze).
In termini di evoluzione spirituale il marinaio attraversa tre tappe di sviluppo fondamentali.
 La prima tappa è quella segnata da una percezione logica e razionale (in senso utilitaristico ed egoistico) del mondo, che
potremmo definire la tappa della coscienza ordinaria, ego-centrata, che si compiace del servizio di guida che l’albatro sta
svolgendo e che solo per questo lo apprezza.
 La seconda tappa vede il passaggio ad un piano più oscuro e profondo (la dimensione dell'inconscio con le sue pulsioni di
aggressività e di autodistruzione) caratterizzato da un agire illogico, irrazionale, pulsionale, sostanzialmente folle e violento e
che ha nell’uccisione dell’animale il suo culmine.
 L’attraversamento di questo stadio e l’approdo alla terza tappa non è facile (comporta infatti una “Morte-in-vita”) ma alla fine
il marinaio si accorge di poter pregare, si accorge di aver acquisito nuovi occhi per poter vedere la bellezza della creazione,
una nuova sensibilità capace di sentire la dignità intrinseca di ogni creatura: è giunto al terzo stadio di coscienza, stadio
spirituale in cui è possibile vedere e sentire gli angeli, cioè fuor di metafora riconnettersi alla propria natura divina:

Il Marinaio uccide l’albatro


(Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, I, II)

E così seguitò a dire quel vecchio, il Marinaio dall’occhio brillante: "Ed ecco che sopraggiunse la burrasca, e fu tirannica e
forte: ci colpì con le sue irresistibili ali, e, insistente, ci cacciò verso sud. Ad alberi piegati, a bassa prora, come chi ha inseguito
con urli e colpi e pur rincorre ancora l’ombra del suo nemico, a capo chino la nave correva veloce, la tempesta ruggiva forte, e ci
spingeva sempre piú verso sud. E poi vennero insieme la nebbia e la neve; e si fece un freddo terribile: e ghiacci, alti come
l’albero maestro, ci galleggiavano attorno, verdi come smeraldo. E attraverso il turbine delle valanghe, le rupi nevose
mandavano sinistri bagliori: non si vedeva più forma umana o animale, il ghiaccio era dappertutto. Il ghiaccio era qui, il
ghiaccio era là, il ghiaccio era tutto all’intorno: scricchiolava e muggiva, ruggiva ed urlava, come i rumori che si sentono
quando si sviene. Alla fine un albatro passò per aria, venne attraverso la nebbia; come fosse stato un’anima cristiana, lo
salutammo nel nome di Dio. Mangiò del cibo che non aveva mai provato, e volava attorno a noi. Il ghiaccio a un tratto si ruppe
con un tuono, il pilota potè passare in mezzo a un varco. E un buon vento del sud ci soffiò alle spalle, l’Albatro ci seguiva; e ogni
2
In sintesi la trama della ballata, divisa per sezioni, è la seguente. Parte 1. Un vecchio marinaio incontra tre ospiti che si stanno recando a un
matrimonio e ne ferma uno per narrargli la propria storia. Gli racconta di come la nave su cui si trovava, una volta superato l’Equatore, fu
condotta dalle tempeste ad incagliarsi tra i ghiacci del Polo Sud. Improvvisamente, attraverso la nebbia, arriva un uccello bianco, un albatro,
salutato dalla ciurma come portatore di fortuna. Il Marinaio però uccide l’uccello senza alcuna ragione. Parte 2. Da questo momento un
maleficio cade sulla nave, che viene spinta oltre l’Equatore e poi rimane ferma nella bonaccia. L’equipaggio della nave, prima consenziente in
maniera ambigua, ora accusa apertamente il Marinaio per il suo delitto, apponendogli al collo il cadavere dell’albatro. Parte 3. I marinai iniziano
a patire la sete quando improvvisamente appare un’altra nave: è una nave fantasma condotta dalla Morte e dalla Morte-in-vita, che si giocano a
dadi le vite dei marinai. La Morte vince i compagni del Marinaio, che quindi muoiono uno dopo l’altro, mentre la Morte-in-vita vince il
Marinaio, che è quindi l’unico a sopravvivere. Parte 4. Il vecchio marinaio è perseguitato dal ricordo dei compagni morti e vede agitarsi nel mare
degli enormi serpenti marini, dei quali ammira la bellezza terribile. Poiché il Marinaio è ormai pentito del suo errore, l’albatro si stacca dal suo
collo e precipita in mare. Parte 5. L’incantesimo malvagio è rotto, come simboleggiato dalla pioggia benefica e salvatrice che scende sulla nave e
dal ritorno in vita dei compagni. Davanti agli occhi del Marinaio compaiono degli angeli, che emettono voci incomprensibili e conducono la
nave a una velocità incredibile verso la terra natale del marinaio. Parte 6. Giunta a destinazione, la nave affonda, mentre il Marinaio salta sulla
scialuppa di un eremita, al quale il Marinaio chiede di confessarsi. Egli può così trovare la pace. Il suo compito ora è quello di girare per il
mondo e narrare la propria vicenda, per insegnare agli uomini, attraverso l’esempio, ad amare e rispettare le creature di Dio.
giorno veniva a mangiare e giocare, chiamato e salutato allegramente dai marinai. Tra la nebbia o le nuvole, sull’albero o sulle
vele, si appollaiò per nove sere di seguito; mentre la notte, attraverso una bianca foschia, splendeva nel chiarore lunare".
"Che Dio ti salvi, o Marinaio, dal demonio che ti tormenta! Perché hai quello sguardo?"
"Con la mia balestra, io avevo ammazzato l’albatro! Il sole ora si levava da destra: si levava dal mare, circonfuso e quasi
nascosto fra la nebbia, e si rituffava nel mare a sinistra. E il buon vento di sud spirava ancora dietro a noi, ma nessun vago
uccella lo seguiva, e in nessun giorno riapparve per cibo o per trastullo al grido dei marinari. Oh, io avevo commesso un’azione
infernale, e doveva portare a tutti disgrazia; perchè, tutti lo affermavano, io avevo ucciso l’uccello che faceva soffiare la brezza.
Ah, disgraziato, dicevano, ha ammazzato l’uccello che faceva spirare il buon vento. Né fosco né rosso, ma sfolgorante come la
faccia di Dio, si levò il sole gloriosamente. Allora tutti asserirono che io avevo ucciso l’uccello che portava i vapori e le nebbie. È
bene, dissero, è bene ammazzare simili uccelli, che apportano i vapori e le nebbie. La buona brezza soffiava, la bianca spuma
scorreva, il solco era libero: eravamo i primi che comparissero in quel mare silenzioso. A un tratto, il vento cessò, e caddero le
vele; fu una desolazione ineffabile: si parlava soltanto per rompere il silenzio del mare. Solitario in un soffocante cielo di rame, il
sole sanguigno, non più grande della luna, si vedeva a mezzogiorno pender diritto sull’albero maestro. Per giorni e giorni di
seguito, restammo come impietriti, non un alito, non un moto; inerti come una nave dipinta sopra un oceano dipinto. Acqua,
acqua da tutte le parti; e l’intavolato della nave si contraeva per l’eccessivo calore; acqua, acqua da tutte le parti; e non una
goccia da bere! E ogni lingua, per l’estrema sete, era seccata fino alla radice; non si poteva più articolare parola, quasi fossimo
soffocati dalla fuliggine. Ohimè! che sguardi terribili mi gettavano, giovani e vecchi! In luogo di croce, mi fu appeso al collo
l’albatro che avevo ucciso”.

7. LA LETTERATURA “IMPEGNATA” LATINA


HUGO E IL “GROTTESCO”. La concezione “tedesca” del poeta mago e incantatore, mediatore fra il mondo del relativo e
quello dell'assoluto, che tanta suggestione eserciterà sui decadenti, è meno familiare al Romanticismo latino. Qui l'immagine
dominante è quella del poeta come educatore e guida del popolo nella sua lotta per la libertà, la civilizzazione e l'indipendenza
(Hugo, Foscolo, Manzoni). Questo ruolo politico e sociale finisce per trasformare il letterato in un oratore, legato a determinati
compiti pratici e contingenti, piuttosto che impegnato nel raggiungimento della Verità di cui la Bellezza è manifestazione
sensibile. Victor Hugo (1802-1885) a soli venticinque anni si affermò come il caposcuola del Romanticismo francese con la
prefazione al dramma storico Cromwell. Hugo è appunto il poeta romantico latino, impegnato nella battaglia culturale e civile,
propugnatore di idealità democratiche e umanitarie, che si pone nei confronti dei contemporanei come guida e come vate. In un
passo della Prefazione al Cromwell, qui proposto, Hugo, riprendendo una tesi del Corso di letteratura drammatica dl Schlegel3,
individua nel Cristianesimo la discriminante tra mondo classico e civiltà moderna e rifiuta polemicamente i principi basilari del
Classicismo: l'identificazione dell'arte con il bello, definito da canoni precisi, eterni ed immutabili; la separazione degli stili, che
vieta di mescolare tragico e comico, sublime e prosaico; il principio di selezione, che esclude rigorosamente dall'arte ciò che non è
abbastanza nobile e degno. Al contrario, l'età moderna vuole ammettere anche il brutto e il deforme al regno dell'arte, per dare una
rappresentazione non manchevole della realtà. Bello e brutto, tragedia e commedia, sublime e prosaico hanno il diritto di
coesistere nella stessa opera: è questo il grottesco, visto da Hugo come il tratto distintivo dell'arte moderna.

Il “grottesco” come tratto distintivo dell'arte moderna


(Hugo, dalla Prefazione a “Cromwell”)

Ecco dunque il Cristianesimo, una religione nuova, una società nuova: su questa duplice base, vedremo svilupparsi una poesia
nuova. Fino allora la musa puramente epica degli antichi non aveva studiato la natura che sotto un unico aspetto, escludendo
senza pietà dall'arte pressoché tutto quello che, nel mondo sottoposto alla sua imitazione, non si accordava con un tipo
determinato di bello. Tipo sulle prime magnifico, ma, come sempre accade di quanto è sistematico, fattosi negli ultimi tempi falso,
meschino e convenzionale. Il Cristianesimo conduce la poesia alla verità. Con esso la musa moderna vedrà le cose sotto un
aspetto più elevato e più ampio. Sentirà che tutto nella creazione non è umanamente bello, che il brutto vi esiste accanto al bello,
il deforme accanto al grazioso, il prosaico sul rovescio del sublime, il male col bene, l'ombra con la luce; si chiederà se la
ragione limitata e relativa dell'artista debba averla vinta sulla ragione infinita, assoluta del creatore; se è dell'uomo il correggere
Dio; se una natura mutilata diverrà per questo più bella; se l'arte ha il diritto di scindere, per così dire, l'uomo, la vita, la
creazione; se ogni cosa camminerà meglio quando sia stata privata dei suoi muscoli e della sua carica vitale; se finalmente sia il
vero mezzo di essere armoniosi l'essere incompleti. È allora che, fisso l'occhio su avvenimenti tutt'assieme ridicoli e formidabili, e
sotto l'influsso di quello spirito di malinconia cristiana e di critica filosofica cui accennavamo or ora, la poesia compirà un
grande passo, un passo decisivo, un passo che, pari allo scossone di un terremoto, muterà tutta la faccia del mondo intellettuale.
Si metterà a fare come la natura, a mischiare cioè nelle sue creazioni, senza tuttavia confonderle, ombra e luce, prosaico e
sublime: in altri termini, corpo ed anima, bestia e intelletto: perché il punto di partenza della religione è sempre anche il punto di

3
Secondo Wilhelm Schlegel (1767-1845), la visione greca era caratterizzata dall'armonia e dalla pienezza; ciò derivava però da un limite, la
sensualità della religione pagana, che prometteva solo beni temporali ed in cui l'idea di immortalità era vaga, passando in secondo piano rispetto
alla vita terrena. In confronto a questa pienezza, l'anima moderna è caratterizzata da una lacerazione, da un senso doloroso di mancanza. Tale
intima frattura è un prodotto del Cristianesimo, che ha introdotto il senso del distacco irrimediabile da una totalità originaria. La poesia moderna,
romantica, nasce dunque per Schlegel dallo spirito del Cristianesimo, ed è caratterizzata dalla nostalgia della pienezza perduta dall'uomo col suo
distacco dal Creatore, da una tensione verso l'assoluto e la totalità. Da questa tensione mai appagata vengono fatti discendere da Schlegel anche
gli aspetti formali della poesia moderna: il suo carattere di perpetua incompiutezza, di imperfezione, lontana dall'armonica perfezione formale
dell'arte classica.
partenza della poesia. Tutte le cose si tengono per mano. Ecco dunque un principio estraneo all'antichità, un tipo nuovo
introdotto nella poesia. Questo tipo è il grottesco.

MANZONI E LO STORICISMO ROMANTICO. Nel Romanticismo tedesco al centro è sempre l'Io: la libera manifestazione e
il libero sviluppo della personalità individuale valgono come ideale morale. Perciò anche i sogni e le fantasie più eccezionali dello
scrittore hanno diritto di manifestarsi nella sua arte. Invece nel Romanticismo latino, e in particolare in Italia, prevale l'esigenza
della concretezza, l'amore per la verità vivente, non astratta. Fra le ragioni principali di questo indirizzo è una diversa concezione
della morale, che Manzoni (1775-1883) contribuì più di ogni altro ad imporre. Manzoni pensa sempre l'individuo, quindi anche
l'artista, nel suo rapporto con gli altri uomini, nella sua responsabilità sociale, e ritiene che le invenzioni e le immaginazioni
puramente personali, senza fondamento nella realtà, vadano escluse dall'arte, perché non hanno funzione educativa: «il falso può
bensì trastullar la mente, ma non arricchirla né elevarla». Perciò «la poesia deve proporsi per oggetto il vero, come unica
sorgente d'un diletto nobile e durevole». Se egli difende il Romanticismo è appunto perché lo interpreta come rappresentazione
del reale alla luce di un'ispirazione cristiana, e non già come quel «non so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine
sistematico, una ricerca stravagante, una abiura in termini del senso comune», che intendevano i mitteleuropei. Il Manzoni ha
un'estrema diffidenza verso le invenzioni dei romanzieri e dei poeti, perché l'«inventato» coincide per lui col «falso». Per
assicurare quindi all'arte la maggior garanzia possibile di verità, vuole che essa abbia a fondamento fatti storici, e, naturalmente,
che si preoccupi di rappresentare questi fatti col massimo di fedeltà e di precisione. Ma «verità» non può significare, e non
significò nemmeno per il Manzoni, soltanto riproduzione precisa di fatti avvenuti. Significa anche rappresentazione dell'uomo
nella complessità delle sue dinamiche interiori. Di qui quella riduzione dei personaggi alle proporzioni della realtà, la creazione
dei caratteri al posto dei tipi, la incarnazione degli ideali in figure viventi con tutte le sfumature e le contraddizioni degli esseri
umani:

Storia e invenzione poetica


(Manzoni, dalla Lettre a M. Chauvet)

Ma, si potrà forse dire, se si toglie al poeta ciò che lo distingue dallo storico, il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta?
Che cosa gli resta? la poesia; sì, la poesia. Perché, in definitiva, che cosa ci dà la storia? degli avvenimenti, che, per così dire,
non sono noti che dall'esterno; ciò che gli uomini hanno compiuto: ma ciò che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno
accompagnato le loro deliberazioni e i loro progetti, i loro successi e i loro infortuni; i discorsi con cui hanno fatto o cercato di far
prevalere le loro passioni e le loro volontà su altre passioni e su altre volontà, con i quali hanno espresso la loro collera, riversato
la loro tristezza, con i quali, in una parola, hanno rivelato la loro individualità: tutto ciò è quasi totalmente passato sotto silenzio
dalla storia; e tutto ciò è il dominio della poesia. Sarebbe vano temere che essa manchi di occasioni di creare, nel senso più
serio, e forse il solo serio di tale parola! Ogni segreto dell'animo umano si svela, tutto ciò che fa i grandi avvenimenti, tutto
ciò che caratterizza i grandi destini, si scopre alle immaginazioni dotate d'una forza di simpatia sufficiente. Tutto ciò che la
volontà umana ha di forte o di misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta lo può indovinare; o, per
meglio dire, coglierlo, afferrarlo e renderlo.

8. IL ROMANTICISMO IN ITALIA
LA POLEMICA CLASSICISTI - ROMANTICI. Alla nascita in Italia di un movimento letterario romantico con un programma
esplicito di rinnovamento si può assegnare una data precisa: il 1816. Nel gennaio di quell'anno l’intellettuale francese Madame de
Stael pubblicò sul periodico letterario dei classicisti, la Biblioteca italiana, un articolo (Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni),
nel quale invitava gli italiani a conoscere e tradurre le letterature straniere come mezzo per rinnovare la propria. I letterati italiani
si divisero in due schiere: quelli che difendevano con maggiore o minore intransigenza la fedeltà alla tradizione e consideravano
l'invito della Stael come un incitamento a tradire la patria, e coloro che, invece, vedevano nell'allargamento delle cognizioni, nella
conoscenza di espressioni di pensiero e d'arte degli altri popoli la possibilità di rinsanguare e di risollevare una cultura ormai
esausta e decaduta. Tra le prime manifestazioni programmatiche e polemiche di questi ultimi troviamo la Lettera semiseria di
Crisostomo al suo figliolo, di Giovanni Berchet (dicembre 1816), tradizionalmente considerata come il «manifesto» ufficiale del
nostro Romanticismo. Il passo che presentiamo offre alcuni punti essenziali della nuova nozione romantica di letteratura, nonché
del programma culturale del movimento romantico lombardo:
 la poesia deve scaturire dalla «fantasia» e dal «cuore», non è solo l'esercizio di un'abilità tecnica e retorica, come per il
classicismo accademico; deve cioè dar voce a qualcosa di intimo e profondo, di autenticamente sentito: solo così potrà
interessare e commuovere i lettori;
 la poesia deve esprimere lo spirito nazionale, la fisionomia caratteristica della cultura di un popolo, per questo Berchet offre
come esempio la traduzione delle ballate di Burger, che si collegano alla tradizione popolare germanica: si coglie qui la
polemica: a) contro il cosmopolitismo tipico della cultura illuministica, che trascurava le caratteristiche storiche della cultura
nazionale; b) contro il classicismo, che si ispirava solo alla cultura classica, cioè ad un patrimonio inaridito dall'imitazione
pedantesca, e per questo ormai estraneo alla coscienza moderna.
Viene da Berchet individuato il nuovo pubblico a cui è rivolta questa nuova letteratura: essa non deve più indirizzarsi alla casta
chiusa e ristretta dei letterati, come la letteratura classicistica, ma ad un pubblico più vasto, il «popolo». Per «popolo» Berchet non
intende la plebe, gli «Ottentotti», misera e ignorante, e per questo incapace di cogliere il messaggio poetico; da escludere è anche
l'aristocrazia colta, i «Parigini», inaridita dall'eccessivo esercizio dell'intelligenza e troppo cosmopolita. Il nuovo pubblico sarà
allora da identificare con le classi medie, le sole che hanno «fantasia» e «cuore», indispensabili per intendere la poesia e lo spirito
nazionale. Il discorso di Berchet indica con grande chiarezza come la letteratura romantica debba rivolgersi alla borghesia, la
nuova classe che si va formando in Italia, attraverso il processo risorgimentale e il moderno sviluppo economico, e debba
interpretarne gli interessi, i gusti, le aspirazioni:

Ottentotti, Parigini e Popolo


(Giovanni Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo)

L'autore, che si cela dietro lo pseudonimo di Grisostomo ("bocca d'oro" in greco), finge di scrivere al proprio figlio in collegio dandogli una serie
di consigli letterari, il che è occasione per un'esaltazione della nuova letteratura romantica. Poi, alla fine, finge di aver scherzato, ed esorta il
figlio a seguire fedelmente le regole classicistiche, che espone facendone la parodia. Per questa ironica ritrattazione finale la lettera è definita nel
titolo «semiseria».

Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ci fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla Poesia.
Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva; non è che una corda che risponde con simpatiche
oscillazioni al tocco della prima. (…) Il poeta sbalza fuori dalle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto
esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarne alto e sentito applauso, se
questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque
universale, non è in tutti gli uomini egualmente squisita. Lo stupido Ottentotto4, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i
campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stenderglisi sopra
il capo, e s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra il fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti, dei
quali domandare alla propria memoria l’immagine, per i quali il cuore gli batta di desiderio. Perciò alla inerzia della fantasia e
del cuore fa seguito in lui l’inattività della tendenza poetica. Per lo contrario un Parigino5 agiato ed ingentilito da tutto il lusso
di quella gran capitale, grazie alla quale è pervenuto a tanta civilizzazione, è passato attraverso una folla immensa di oggetti,
attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le
apparenze esterne delle cose non lo lusingano, gli effetti di esse non lo commuovono piú, perché ripetuti tante volte. E per
togliersi di dosso la noia, è costretto a cercare delle cose le cause, servendosi della mente 6. Questa sua mente investigativa cresce
necessariamente in vigoria, da che l’anima a suo vantaggio spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla
fantasia ed al cuore, cresce in sottigliezze per gli sforzi frequenti ai quali la meditazione la costringe. E il Parigino di cui io parlo,
anche senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini, o per dirla a modo del Vico, diventa filosofo 7. (…) Ma la
stupidità dell’Ottentotto è separata dalla leziosaggine del Parigino fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di
civilizzazione che piú o meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che piú si trovino oggi in questa
disposizione poetica, mi sembra che andrei a cercarli in una parte della Germania. A consolazione dei poeti, in ogni terra,
ovunque è coltura intellettuale, esistono uomini capaci di sentire poesia. Ve n’ha in copia ora maggiore ora minore, ma tuttavia
sufficiente sempre. Ma è necessario conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Però il poeta non si accorgerà mai della
loro esistenza, se per trovarli visita le ultime casipole della plebe affamata, e di là salta subito nelle botteghe da caffè, ne’
gabinetti delle Aspasie o nelle corti dei Principi, e nulla piú 8. Ad ogni tratto egli rischierà, di scambiare la sua patria, ora
credendola il Capo di Buona Speranza, ora il Cortile del Palais-Royal. E dell’indole dei suoi concittadini egli non saprà mai
niente. Che se il poeta considera che la sua nazione non la compongono quei duecento che gli stanno intorno nelle feste o nei
banchetti; se egli ha mente a questo, che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono, e sentono le
passioni tutte, senza avere un palco riservato a loro nome nei teatri, può essere che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte;
può essere che egli venga accostandosi ad altri pensieri ed a piú vaste intenzioni.
Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa (l’italiana anch’essa, né piú né meno) sono formate da tre classi
d’individui: l’una di Ottentotti; l’una di Parigini; e l’una, per ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti,
non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia mantengono attitudine alle emozioni. A
questi tutti io do nome di popolo. Della prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi 9, non occorre far parole. La
seconda, che racchiude in sé quei pochi, i quali escono dalla sensibilità comune in modo da perdere ogni impronta nazionale,
deve certo essere rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. (…) La gente che il poeta cerca, i suoi veri lettori
stanno a milioni nella terza classe. E questa, credo io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa deve farsi intendere, a
questa deve studiar di piacere, s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte. Ed ecco come la sola vera poesia
sia la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già detto; e salva sempre la discrezione ragionevole con cui questa regola
vuole essere interpretata.

4
Ottentotto: degli Ottentotti, popolazione sudafricana, parlarono per primi gli Olandesi, che li presentarono come uomini particolarmente rozzi
e primitivi.
5
Parigino: agli antipodi dell’Ottentotto sta il Parigino, citato come esempio per antonomasia di eccesso di civilizzazione.
6
Servendosi della mente: facendo ricorso alla ragione. Il Parigino non apprende attraverso sentimento e intuizione, ma solo attraverso la
ragione.
7
Diventa filosofo: Berchet si richiama al pensiero di Vico secondo cui un abuso di raziocinio può causare un inaridimento di sentimento e
fantasia e quindi affievolire l’ispirazione poetica.
8
Ma il poeta… nulla più: il poeta non troverà il suo pubblico se lo cercherà nei tuguri della gente affamata o all’opposto nei Caffe letterari
(ritrovo di intellettuali), nei salotti delle cortigiane o nelle corti dei principi. Aspasia era una colta cortigiana dei tempi di Pericle, nell’Atene del
V secolo a.C.
9
Balordi calzati e scalzi: stolti, ricchi o poveri che siano.

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