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Letteratura italiana contemporanea ed

ANALISI dei saggi dalla metà dell’800 alla fine del 900

I° lez.

la prof mette a confronto tre testi sulla parola “PIOVE”

e fa un confronto tra “LA PIOGGIA NEL PINETO”di d’Annunzio , “PIOVE” di


E.Montale, e poi con un canzone di un cantante dei giorni nostri che si
chiama “piove sulla pe” di Vinicio Capossela e poi con una poesia di Montale”
“Non chiedetemi la parola”. In questo percorso centrale è il cambiamento
dell’io poetico e del ruolo dell’intellettuale nella società italiana.

Iniziamo d D’Annunzio, che è uno dei maggiori esponenti insieme a Pascoli


del Decadentismo italiano, Siamo dopo la metà dell’800. In Italia siamo in una
Situazione particolare per la frammentazione regionale della cultura dopo
l’unità d’Italia Giungono dall’Europa le principali correnti dell’epoca spesso
rielaborate in modo personale, soprattutto il Simbolismo francese. Con l’unità
d’Italia cambiano molte cose e soprattutto al Sud ci saranno gravi problemi
derivanti dalle profonde differenze culturali e di lingua con il Nord che ne
rallenteranno l’integrazione.Tuto ciò crea una grave crisi nella figura
dell’intellettuale che si sente non più un privilegiato ma sull’orlo di un baratro
alla fine di un’epoca è come se davanti a lui si aprisse il nulla.

Arriviamo così al periodo del Decadentismo in Italia e Simbolismo in


Francia :questi due movimenti rappresenteranno una specie di spartiacque
tra il Romanticismo ed i movimenti delle avanguardie del primo 900, tipo il
Futurismo. Entrambi i movimenti( Decadentismo e Simbolismo) portano
all’estremo il filone simbolico del Romanticismo, mentre il Naturalismo in
Francia ed il Verismo di Verga in Italia portano all’estremo ed in modo
innovativo il filone realistico del Romanticismo( il Verismo convisse per tutti gli
anni 80 e spesso in modo polemico con Decadentismo e Simbolismo)

L’atteggiamento dell’intellettuale decadente e Simbolico è

-antirazionale,-esoterico -iperraffinato,-sensibile all’estetismo( ricerca di forme,


oggetti, cose, parole, rari e preziosi)
Proprio l’estetismo costituisce uno dei momenti essenziali e più caratteristici del
Decadentismo, per i decadenti tra i momenti privilegiati della conoscenza c’è l’arte,
l’artista è un sacerdote di un vero e proprio culto, un “veggente” capace di spingere lo
sguardo là dove l’uomo comune non vede nulla, capace di rivelare l’assoluto. Nei
decadenti c’è il culto religioso dell’arte, più di tutte la musica che sin un attimo ti
connette con le verità profonde delle cosQuesto culto religioso dell’arte dà origine al
fenomeno dell’ESTETISMO.
L’esteta è colui che ha come principio regolatore della sua vita non i valori morali
borghesi e cristiani, ma solo il bello e solo in base ad esso egli giudica la realtà, ciò
che è bello, raffinatissimo, diventa metro di paragone per tutti gli aspetti della vita ,
pubblici e privati. Il decadente, l’esteta, si pone al di là della morale comune al di
sopra della mediocrità degli altri uomini, lui è oltre, odia tutto ciò che reputa borghese
e mediocre , fonte di inutile noia .Arte e vita si confondono, la vita va vissuta
come un’opera d’arte. Il decadente va alla ricerca continua, estenuante, di
sensazioni rare e squisite, e si circonda di tutti gli oggetti più belli e preziosi, ricerca
nell’esoterico, cioè qulle dottrine e gli insegnamenti segreti, che non devono essere
divulgati perché destinati a pochi eletti. Il decadente e d esteta prova orrore per la
banalità e volgarità della gente comune sorda al Bello che è una vera e propria
religione.
Questo modo di vivere è propria ed esclusiva dell’artista che non avendo più un ruolo
specifico nella società si ripiega su se stesso nella continua ricerca del bello. Nella
sua forma estrema l’esteta ricerca il bello in sé svincolato da qualsiasi significato
storico o sociale, il bello per il bello, al di fuori di ogni morale borghese. Per l’esteta
la bellezza non si esprime solo con l’arte ma anche e soprattutto attraverso il suo
comportamento, il suo stile di vita, il suo abbigliamento le sue frequentazioni, i
luoghi che visita, elevandosi dalla massa per il suo gusto raffinatissimo fino ad
arrivare alla figura estrema del Dandy che fa dell’eleganza la sua regola di vita, con
una identificazione tra arte e vita, totale, e che sarà il carattere distintivo di illustri
artisti decadenti come Oscar Wilde e G. D’Annunzio. Veri e propri:DANDY:
nasce così il nuovo eroe decadente. L’eccentrico eroe- esteta, che coltiva passioni
straordinarie come quelle per gli oggetti esotici, per l’esoterismo, per l’oriente, e per
reperti dell’antichità unici di cui ama circondarsi in una ricerca sfrenata del bello,
dell’eleganza, dell’unicità che è propri dell’essere superiore che è l’intellettuale
decadente.
(Il concetto” dell’arte per l’arte” che non esprime altri valori né morali né civili ma
solo quelli dell’arte è presente anche a metà del’800, ma raggiungerà il suo
significato completo solo nei Decadenti)

OSCAR WILDE
si ispira a Karl Huysmans che afferma la necessità di “spezzare i limiti del romanzo”
“Il ritratto di D.Day” è il suo romanzo più famoso, qui attua i suggerimenti di K.H.,
rifiutando la descrizione delle vicende in modo Naturalistico, raccontando al
condizione dell’artista nella Londra Vittoriana asfissiata da perbenismi e ferree regole
sociali. Qui W. rivendica la totale autonomia dell’arte dalla morale, l’arte è fine a se
stessa e la sua bellezza è riservata a pochi eletti.
Wilde come Dorian è il perfetto Dandy, un esteta raffinato e stravagante. Sarà
imprigionato con l’accusa di omosessualità generando il mito dello scrittore
decadente come creatore di sandalo. L’idea del letterato-divo sarà impersonata
appieno in Italia da d’Annunzio.

Come nasce in Italia il DECADENTISMO


S'impone nel 1883 quando Paul Verlaine pubblicò sulla rivista “il gatto nero” il
sonetto “Languore” con questo incipit: “sono un‘Impero Romano alla fine della
decadenza”; per questi intellettuali i secoli della decadenza dell’Impero erano
idealmente simili agli ultimi decenni dell’ 800, in cui il poeta si trova sull’orlo di un
baratro privo di una sua identità e collocazione sociale in una società alla fine del suo
splendore in disfacimento ma di cui rimangono testimonianze grandiose e allo stesso
tempo tragiche un gusto prezioso, si identificano con l’atmosfera di stanchezza,
disfacimento , estenuazione spirituale dell’Impero Romano immerso nel vuoto e nella
noia, teso solo a raffinatissime quanto oziose esercitazioni letterarie.
Il sonetto di Verlaine, interpreta uno stato d’animo diffuso nella cultura del tempo, il
senso di disfacimento di una civiltà, l’idea di un imminente fine.
Queste idee sono proprie dei circoli d’avanguardia francese che si identificano nel
movimento dei Simbolisti. Si contrappongono alla mentalità borghese e benpensante
e ostentano atteggiamenti bohémien (mito di una vita irregolare, libera nelle soffitte
parigine, povero, ma circondato da arte e amore, molti di loro moriranno giovanissimi
,tra stenti, prostituzione, droga ed alcool).

Gli ideali dei Simbolisti francesi influenzeranno profondamente gli intellettuali


Italiani che incarneranno molti dei loro temi nel Decadentismo.
In Italia anche se gli intellettuali decadenti come D’Annunzio hanno caratteristiche
comuni, ognuno di loro le svilupperà in modo assolutamente personale, si pensi alle
enormi differenze tra Pascoli e D’Annunzio, per cui è impossibile parlare di un vero e
proprio movimento ma piuttosto di atmosfere decadenti.Vediamo i punti in comune
tra i nostri artisti decadenti spesso condivisi con i simbolisti .

1)contro la Borghesia: la classe sociale in ascesa nella società soprattutto grazie alle
grandi innovazioni industriali, legata al culto del lavoro e del profitto ed ad una
austerità dei costumi e decoro con morigeratezza dei costumi, dissimulazione di
istinti e passioni.

2)contro il Positivismo : è questa una filosofia molto in voga nell’800 che nasce da
una profonda convinzione che la realtà e tutti i suoi fenomeni siano governati da leggi
meccaniche, per cui c’è una estrema fiducia che la scienza possa svelare questi
meccanismi e permettere all’uomo di dominare così la natura con una conseguente
corrente ottimistica incoraggiata soprattutto dalle concomitanze scoperte nel mondo
della scienza e dell’industria con la Rivoluzione Industriale.
Per l’artista decadente invece la ragione e la scienza non possono dare la vera
conoscenza del reale, la cui essenza vera è al di là delle cose tangibili, è misteriosa
ed enigmatica, inconoscibile se non in modo a-razionale. Quindi l’inconoscibilità
del reale, dove tutto gli aspetti dell’essere sono legati tra loro da corrispondenze ed
analogie( sarà una delle caratteristica della poetica di Pascoli) che si scorgono in uno
stato di empatia irrazionale (raggiungibile con droga o alcool, stato di malattia,
insomma tutte le forme abnormi della coscienza, a cui i decadenti sono dediti).
Questa visione del reale era già stata postulata da Charles Baudelaire ne “i Fiori del
Male” considerato dai decadenti un vero e proprio manifesto.

3) identità tra io e il mondo, soggetto e oggetto. L'unione avviene sul piano


dell’inconscio: in questa zona oscura scompare l’individualità e si fonde con un Tutto
inconsapevole.La scoperta dell’inconscio è il nucleo più autentico del decadentismo,
E’ una zona che già i romantici avevano già in parte esplorato, pensiamo a Giacomo
Leopardi, ma è l’anima decadente che ci si avventura in toto attratta dal suo fascino
irresistibile.
Inoltre a fine 800 Freud darà una sistemata razionale e di impianto positivista a
questa zona del nostro io.

4) gli strumenti irrazionali del conoscere


se l’essenza stessa della realtà non può essere conosciuta attraverso la scienza e la
ragione va colta con gli stati abnormi della coscienza: pazzia , follia, nevrosi,
malattia, allucinazione, sogno incubo, alcool, l’estasi, la sregolatezza in ogni senso
come dice Rimbaud( poeta Simbolista francese) in una sua lettera, fino ad arrivare
al panismo(essere tutt’uno con la natura, come accade in d’Annunzio).

Contro tutto queste il Decadente rivendica la competenza irrazionale dell’opera


d’arte, l’esaltazione e la ricerca continua di sensazioni estreme ed uniche al di fuori
della norma sociale, emozioni uniche e raffinatissime, che solo il Poeta, il Vate era in
grado i provare, come se fosse un eletto che si erge al di sopra della mediocrità
borghese che tanto rinnega.

L’arte rifiuta di essere un veicolo per rappresentare la realtà politica e sociale


(prerogativa del Verismo e Naturalismo)e si chiude in una celebrazione di se stessa
priva di intenti pratici ed utilitaristici diventando così una poesia pura, senza scopi.

Oltre alla figura dell’Esteta ci sono altri temi e figure ricorrenti nelle varie opere
degli artisti decadenti.
TEMI:
-La malattia, la nevrosi è una costante che segna tutta la letteratura decadente,
metafora di una condizione storica di un momento di smarrimento e di crisi profonda
di angoscia per il crollo, avvertito dal decadente come prossimo, di tutto il mondo. La
malattia però è anche vista come condizione privilegiata segno di nobiltà e
distinzione di separazione dalla massa, strumento conoscitivo per eccellenza. Anche e
cose sono malate , il decadente ama ciò che è corrotto, impuro.
-La morte, è un tema dominante, ossessivo
-il disfacimento fisico
-gli stati abnormi della coscienza raggiunti con alcool e droga che ti permettono di
elevarti al di sopra della gente comune.
-La pazzia

FIGURE TIPICHE
-l’artista “maledetto”che profana tutti i valori e le convenzioni della società e che
sceglie deliberatamente il male, una vita misera, sregolata al vizio fino alla morte.
-Vitalismo e superomismo: all’interno dello stesso movimento al fascino di morte e
malattia per alcuni si contrappongono il vitalismo e superomismo come in
d’Annunzio.
il vitalismo è l’esaltazione della vita, senza limiti, senza norme morali, senza freni,
alla ricerca di un godimento “ebbro”dionisico.
il teorico del vitalismo è Nietzche, d’Annunzio l’ applica in alcuni dei suoi romanzi,
in cui il culto della “vita” è per d’Annunzio e alcuni Decadenti un modo per
esorcizzare l’attrazione morbosa per la morte, per cercare di sconfiggere un senso di
stanchezza e di esaurimento , per cui il vitalismo superomistico è l’altra faccia della
medaglia, del disfacimento e del sentimento autodistruttivo, tutto nel rifiuto
aristocratico della normalità borghese. L’atteggiamento antiborghese era già proprio
del Romanticismo ma ora è esasperato all’estremo.
-il fanciullino: rifiuto della condizione adulta al di fuori del caldo e protettivo “nido”
familiare. Il mito è tipico di Pascoli esprime l’esigenza a momenti anteriori alla vita
logica

- il mito del superuomo, in d’Annunzio nelle Vergini delle rocce, manipola


Nietzche. Per d’Annunzio è l’individuo superiore alla massa, forte e dominatore che
arriva a mete eroiche privo di dubbi e incertezze. Il superuomo ha il compito di
riportare l’Italia ai suo fast i Imperiali.

-il tema della donna fatale, dominatrice del maschio fragile e sottomesso, è crudele
ed ammaliatrice, impossibile sfuggire al suo fascino, succhia le energie vitali
dell’amante portandolo alla perdizione. E’ spesso presente nei romanzi e nelle opere
teatrali di d’Annunzio.

-L’inetto a vivere , è una tipica figura del Decadentismo usata da Fogazzaro nel
romanzo Malombra(Corrado Silla) e da Svevo in “una vita”(Alfonso Nitti) e
“Senilità” (Emilio Brentani) , la coscienza di Zeno, ed in personaggi di Pirandello.
L’inetto è escluso dalla vita intorno a lui a cui non sa partecipare per mancanza di
energia vitale per una sottile malattia che corrode la sua volontà, così si rifugia nelle
sue fantasie, che compensano una realtà frustante da cui è escluso. non vive, osserva
vivere, è un intellettuale che si studia continuamente bloccando ogni sua iniziativa , la
vita è lontana e irraggiungibile

sono tutte figure che popolano le poesie ed i romanzi di questi artisti, esaltandone il
valore simbolico, accompagnate da luoghi mitico-simbolici come la città di Bisanzio.
Esiste quindi un rapporto molto stretto tra Decadentismo e contesto storico, che sta
nel netto rifiuto della mediocrità borghese e la corrispondenza tra la ricerca
dell’eccezionale e la necessità di distinguersi dalla nascente società di massa.

IL LINGUAGGIO DECADENTE

Con il decadentismo si ha una totale frattura tra artista e pubblico di massa,


intellettuale e società, iniziata già con il Romanticismo.

1) poesia pura , e la parola musicale


2) la poesia dei decadenti è una poesia pura perché una poesia svincolata dai normali
significati ed in cui le parole, i suoni che evocano leggendole si caricano di
valenze e significati inconsueti ed oscuri, è una poesia d’elitè che può
comprendere solo un intellettuale che può cogliere le raffinate allusioni che
contiene,. Sono poesie oscure ed indecifrabili , che non hanno nessuno scopo
sociale, politico o di istruire; è la poesia per la poesia, l’arte per l’arte.
Se la poesia forma estrema dell’arte è un veicolo per rivelare il mistero e l’assoluto,
la parola poetica non può essere strumento di una comunicazione razionale, logica,
ma agendo su una zona più profonda ed oscura,(cioè l’inconscio)assume un valore
suggestivo ed evocativo. Così nel linguaggio poetico si assiste ad una vera
rivoluzione, la parola acquista un valore suggestivo e magico, alle immagini nitide si
sostituisce il vago, l’indefinito che evoca altri sensi e misteri. La parola non ha più un
significato di strumento comunicativo immediato ma diventa una formula magica che
svela l’ignoto.. Il poeta comunica con pochi eletti fino a casi in cui il poeta non parla
da altri che a se stesso, si tratta di un carattere aristocratico e raffinatissimo dell’arte
decadente che rifiuta di rivolgersi ad un pubblico borghese(d’Annunzio per fini
economici lo farà), mediocre e volgare. Il poeta si chiude nella torre della sua
suprema raffinatezza.Così nella poesia decadente cadono i nessi sintattici tradizionali.
La trasformazione della parola poetica in musica era già stata teorizzata nell’”Arte
poetica”di Paul Verlain , simbolista francese, considerato questo il manifesto del
Decadentismo.
Lo strumento linguistico più usato dai decadenti è la metafora espressione di una
visione simbolica del mondo dove ogni cosa rimandar altro, allude alla rete di
segrete relazioni che uniscono le cose in un sistema di analogie universali. In essa la
relazione tra le due parole non è sempre evidente

SIMBOLISMO francese
Come il Decadentismo muove dal Romanticismo S’impone nel 1886 con la
pubblicazione dell’articolo-manifesto”Il Simbolismo” di Jean Morèas su “Le
Figaro” ( i poeti più conosciuti: Flobeart, Mallarmè,, Verlaine..), il capostipite è
Charles Baudelaire.
Introduce una vera rivoluzione nel linguaggio poetico alla ricerca di una poesia
intensamente suggestiva ed evocativa.

Il movimento prosegue sulla linea tracciata da Baudelaire


I caratteri fondamentali del movimento sono:
1)-la fiducia nel valore evocativo e quasi magico-religioso della parola: può far
scoprire corrispondenze nascoste tra l’anima del poeta e del mondo
3) L’indefinito, l’impreciso , la musicalità che tolgono alla parola ogni concretezza
realistica

4) -scelta di un linguaggio vago ricco di polisemie e ambiguità, fonosimbolismo,


poesia pura(senza altro scopo)

5) l’immagine del poeta:


-da una parte è il rappresentante privilegiato dell’umanità, capace di scoprire realtà
nascoste agli uomini comuni
-dall’altra è un relitto dalla società perché incompreso dalla gente comune.

4)il rifiuto della realtà sia nella sua apparenza esteriore che nell’interpretazione del
positivismo

5)necessità di trovare forme inedite di espressione


-rottura della metrica canonica
- impiego del verso libero, cioè senza vincoli di fare le rime
- Queste innovazione furono vincenti più nella poesia che nella narrativa e nel teatro
francesi ma anche italiano .

IL SIMBOLISMO NELLA POESIA FRANCESE


come abbiamo già detto Boudelaire è il capostipite del simbolismo francese. Questi
poeti vengono apostrofati come “poeti maledetti” per indicare il loro modo di vivere
trasgressivo ed al di fuori di ogni valore morale dell’epoca.
Tra i più originali e trasgressivi di questo poeti c’è RIMBAUD
In una “Lettera”al’amico Demeny ci enunciala sua poetica:
-il poeta è un veggente: riesce a percepire l’essenza nascosta del reale ed è quasi
dotato. di capacità profetiche, può raggiungere l’ignoto (è questa una parola chiave
nella sua poetica ed è già presente nella famosissima poesia di Flobeaurt “le fleur du
mal”), attraverso lo sregalamento dei sensi con l’ebrezza che annulla i limiti della
realtà sensibile.
-Il poeta ruba il fuoco agli dei(come Prometeo), cioè ruba la realtà che si cela
dietro le cose, ne svela i misteri e li dà agli uomini svolgendo così una funzione
rivoluzionaria, allo stesso tempo però il poeta è “il grande maledetto” perché per
svolgere questa funzione sociale a favore dell’umanità (caratteristica questa che
manca nella maggior parte dei poeti decadenti italiani che attuano invece una poesia
pura) e divenire il Sommo Sapiente, deve abbandonare i valori e le convezioni sociali
e ciò lo rende maledetto e moderno.
-il poeta fa uso di analogie e metafore non controllate razionalmente, ma prodotte
dal pre-razionale. Così Rembaud tocca il grande territorio dell’inconscio che sarà
tipico di alcune avanguardie del 9000 come il Surrealismo .
Tra i poeti più intellettuali del simbolismo francese troviamo anche Mallarmè, i cui
temi saranno ripresi in Italia da Ungaretti ed Ermetici.
- la sua è al contrario di quello che dice Rimbaud, una poesia pura = una poesia
svincolata dai normali significati in cui le parole, i suoni si caricano di valenze e
significati inconsueti e d oscuri, è una poesia d’elitè che può comprendere solo un
intellettuale che può cogliere le raffinate allusioni che contiene, ciò spinge ad
interpretazioni personali. Sono spesso poesie oscure ed indecifrabili , che non
hanno nessuno scopo sociale, politico o di istruire; è la poesia per la poesia, l’arte
per l’arte, come in d’Annunzio),
- aspira alla perfezione formale e rielabora continuamente ciò che scrive,
- viene da una formazione di tipo classico o parnassiana che i rifà al movimento
francese del”Parnaso contemporaneo “ attivo negli anni 70 a Parigi(Parnaso è il
monte degli dei, quindi rimanda alla cultura greca),
- innesta nelle forme classiche temi più moderni: inquietudine e sensazione squisite
Quindi:La poesia per i poeti simbolisti deve essere:
A)raffinata allusione ai misteri che si nascondono dietro il reale
B)purezza della parola cioè svincolata da legami sintattici, inserita in contesti volti a
farne scaturire sensi nascosti
C)rottura delle forme metriche con l’uso del verso libera

Plaid prof.
Esempio di poesia Simbolista “Corrispondenze” di Baudelaire

Charles Baudelaire
nasce a Parigi nel 1821 da una ricca famiglia borghese
Vive una vita dissipata alla bohémien nel quartiere latino di Parigi
Muore d stesti e di sifilide nel 1867.
Si colloca al confine fra età Romantica e decadente, di cui anticipa temi e forme. Un
posto centrale nella sua opera è la grande metropoli con i suoi labirinti, la folla, i cieli
offuscati, le trasformazioni urbanistiche che cancellano le tracce del passato. Della
vita moderna egli coglie gli aspetti negativi, la solitudine che impedisce i rapporti
umani, i vizi, le disperazioni, la noia , la percezione della perdita del senso della vita,
diviene così il cantore del male (come indica il titolo della sua raccolta più famosa”I
fiori del male”), dei vizi, della corruzione, la sua è una poesia volutamente
provocatoria che mira ad urtare e scandalizzare il lettore smascherando i suoi vizi
nascosti sotto il perbenismo. Contemporaneamente c’è in lui un desiderio di purezza ,
di bellezza , di una natura innocente.
B. è interprete della nuova condizione dell’artista della sua esclusione dalla vita
attuale, della sua solitudine, della perdita del prestigio quasi sacrale di cui godeva .
Dal punto di vista formale anticipa soluzioni che saranno poi del Simbolisti francesi,
e dei Decadenti italiani sopratutto Pascoli, cioè è il teorico delle “corrispondenze”,
dei legami segreti che uniscono tutta la realtà in un’unità misteriosa che solo la parola
poetica sa svelare e solo il poeta interpretare, di conseguenza il suo linguaggio
poetico per rendere queste analogie diventa allusivo e magicamente evocatore. Dare
alla parola una funzione magicamente evocativa anticipa i poeti “veggenti” tesi a
decifrare la rete misteriosa di simboli che avvolge il reale, come Rimbaud, ed i
decadenti come Pascolo e d’Annunzio.

Corrispondenze di Baudelaire: analisi del testo

È un testo complesso che aiuta a capire la poesia simbolista


Il titolo rimanda ad una realtà più profonda che si può conoscere attraverso i simboli
che vediamo. Il linguaggio è giocato tutto sulle sinestesie, analogie, enjambements.
Baudelaire vuole raccontare le sensazioni olfattive, i profumi, gli odori, vaghe, ma
palpabili.
La sinestesia (è una figura retorica, in particolare un tipo di metafora che prevede
l'accostamento di due parole appartenenti a due sfere sensoriali diverse, «Il divino del
pian silenzio verde.»E’ una figura molto cara ai poeti decadente e simbolisti. Sono le
sinestesie che colgono i legami misteriosi che uniscono tutto il reale(una sensazione
può evocare altre sensazioni, un odore , un profumo evoca un ricordo , un oggetto)
L'analogia è il rapporto che la mente coglie fra due o più cose che hanno qualche
tratto comune.
E’ implicito che è il poeta ad avere la facoltà di decifrare questi simboli occulti,
grazie alla sua sensibilità privilegiata, alle sue prerogative di veggente, La poesia con
il suo linguaggio rivoluzionarie non deve più essere logica, ma agire a livello
profondo evocando queste analogie nascoste, per cui il suo linguaggio non è razionale
ma allusivo, evocatorio, una sorta di magia che mette in comunicazione con ciò che è
al di là delle apparenze. Queste convenzioni baudleriane aprono la strada alla
maggior parte delle poesia di fine 800 e inizio 900.
Enjambements : si tratta cioè di una figura retorica causata dall'interruzione del
verso, la quale induce un prolungamento del periodo logico oltre la pausa ritmica,
cioè il concetto è espresso dal poeta non in 1 verso ma in 2 interrotti da una pausa, ed
è molto usata da Pascoli.
I colori ed i suoni hanno suggestionato molto l’immaginario di Baudelaire.
Ecco perché è importante questa poesia che parla di corrispondenze tra i suoni, i
colori, e i profumi. A una sensazione olfattiva può corrispondere una componente
tattica, acustica, visiva, profumi verdi come praterie e quindi ecco che la sinestesia ha
la possibilità di trasformare i profumi in percezioni tattili, sonore, visive, unificando
in un linguaggio comune i vari dati dei sensi.

IL VERISMO
è la terza corrente presente nel panorama europeo ed Italiano di fine 800
Nasce dal Naturalismo francese di Emile Zolà, ed i Italia il rappresentante più
conosciuto è VERGA allievo di Luigi Capuana, altro grande verista fu Federico ed il
suo romanzo”I vicerè”.
I pincipi fondamentali del verismo sono:

1)impersonalità, l’autore si eclissa, si cala nella pelle dei personaggi, vede le cose con
i suoi occhi e le esprime con le loro parole, anche dialettali. A raccontare non è più in
narratore onnisciente che tutto sa di tutto il racconto e di tutti i suoi personaggi e che
descrive e raconta attraverso i suoi occhi, il suo livello culturale, il suo linguaggio e
livello culturale. Nei romanzi veristi è come se il racconto si scrivesse da sé, l’umore
non ci presenta i personaggi, questi si presentano da soli. Diceva Zolà padre del
Naturalismo che lo scrittore si comporta come uno scienziato che osserva l’evolvere
del suo esperimento.
La regressione nell’ambiente rappresentato-L’autore non interviene mai nel racconto,
non esprime mai opinioni o punti di vista chi racconta si pone l’interno dell’ambiente
e allo stesso livello dei personaggi di cui adotta il modo di pensare, sentire, parlare. Il
lettore deve essere posto faccia a faccia con i fatti e farsi da solo un’idea dei
personaggi e della storia. Il linguaggio del romanzo verista è chiaramente spoglio e
povero, pieno di modi di dire , paragoni, imprecazioni, proverbi anche se Verga non
usa mai direttamente il dialetto e se cita qualche parola dialettale la mette tra
virgolette.
3)Rappresentazione della realtà senza interventi esterni da perte dell’autore
Il principio dell’impersonalità è per Verga un modo per esprimere il suo insanabile
pessimismo verso l’uomo e la storia che ritiene immutabili con una lotta per la vita
come legge di natura (Darwinismo). Un meccanismo crudele per cui il più forte
schiaccia sempre il più debole poiché gli uomini sono mossi sempre dall’interesse
economico, come esprime ne “il ciclo dei vinti “ i cui romanzi più conosciuti son “I
Malavoglia e Mastro don Gesualdo”, dove ci afferma che ognuno resta sempre nella
classe sociale a cui appartiene ed anche la “fiumana del progresso” dopo l’Unità
d’Italia è un altro strumento di sopraffazione e disuguaglianza(I Malavoglia). Chi
tentala scalata sociale (mastro don Gesualdo) resta solo e non entra mai nella cerchia
delle classi sociali più alte che lo vedono sempre per quello che è un povero Mastro.

-Quale distinzione tra romanzi veristi e decadenti?slaid prof

■ Posizione del narratore: impersonale nei veristi; onnisciente o portatore di verità


anti-scientifiche nei secondi(vedi i saggi)

■ dal punto di vista ideologico: la denuncia sociale espressa attraverso la descrizione


della vicenda(verista) lascia il posto alla rivendicazione del ruolo eccezionale del
singolo all’interno di una società ormai massificata(decadente):nel superuomo
dannunziano agisce un’energia vitale che conduce alla ricerca del piacere e
all’azione eroica mentre nel Santo di Fogazzaro un tormento interiore che spinge
alla sublimazione mistica.
slaid prof.
Confronto tra la poesia di d’Annunzio e Montale

LA PIOGGIA DEL PINETO: ANALISI


La poesia è tratta da “Alcyone”, il terzo libro delle Laudi.
celebra la metamorfosi, nella quale l’essere umano diventa un tutt’uno con la natura.
(Panismo)
Il poeta immagina di trovarsi con la sua donna in una pineta e sono colti di sorpresa
dalla pioggia. Subito, da esteta, il poeta coglie le “parole nuove” che la vegetazione
gli comunica e non capta più parole umane. In mezzo a questi suoni e sotto la pioggia
i due, purificati dall’acqua che li bagna, si immergono progressivamente nella natura,
diventando con essa un tutt’uno. Il poeta ha cercato di riprodurre il linguaggio segreto
della natura che, in questa poesia, è la voce della pioggia, la musica che produce
cadendo sulla vegetazione. Da notare le frequenti figure di suono (alliterazioni,
assonanze …) che conferiscono alla poesia una grande musicalità.paragonabile al
walzer viennese La parola si trasforma in musica
Non è solo il ritmo dei versi ad evocare la musica. La stessa pioggia è concepita come
un concerto in cui si susseguono strumenti diversi. Le gocce producono un differente
suono cadendo sulle foglie delle diverse piante:.Interviene poi la voce solista della
cicala (la figlia dell’aria) e poi quella della rana (la figlia del fango), come i solisti di
un’orchestra.(Ricordiamo che per i decadenti la forma più alta di arte è proprio la
musica che in un baleno ti conduce ai segreti della realtà )La parola poetica
rivelatrice dell’essenza segreta del reale(tipica concezione decadente, solo il poeta
può scoprire le segrete corrispondente che si nascondono dietro i fenomeni della
realtà)In questo concerto naturale compaiono due sole figure umane: D’annunzio
ed Eleonora Duse, indicata con Ermione, figlia di Menelao, ed ElenaL’ultimo verso
di ogni strofa è costituito dal nome della donna a cui il poeta si rivolge: Ermione,
invitata dal poeta con i Taci, Ascolta a partecipare allusione panica con la natura.

PIOVE MONTALE: ANALISI


Attraverso questa poesia, proveniente da Satura II (1970), componimento dell’età
avanzata di Montale, il poeta demolisce e parodizza la Pioggia nel pineto
dannunziana. Non si tratta però di un semplice divertimento perché Montale vuole
anche mettere a confronto due tipi di poesie: quello altamente retorico, basato sulle
sensazioni e magniloquente di D’Annunzio e quello del presente, disilluso e
pessimista. Per Montale la pioggia è soltanto un monotono stillicidio che caratterizza
una vita noiosa, un mondo che appare vivere solo in superficie, senza profondità né
culturale, né emotiva. In Piove si nota la speranza irrealizzabile di scoprire l’anello
mancante della “catena” che è la natura. Ormai la vita è un affogare perché la sua
compagna, l’unica in grado di evadere dalla prigione, è morta Se d’Annunzio ci
descrive una pioggia reale che genera nell’uomo e nella donna una sensazione di
coinvolgimento panico con la natura e un’esperienza edonistica e sensista, Montale,
invece, moltiplica la presenza numerica dell’espressione «piove» ed elimina i verbi
che invitano ad ascoltare proprio come se non ci fosse nulla di positivo da udire e da
apprezzare. Montale non vuole tanto ricreare una situazione fisica o un’esperienza
sensoriale quanto comunicare con un linguaggio metaforico. La pioggia ha una valore
negativo, non genera sensazioni uditive piacevoli come il concerto dannunziano, non
cade dalle nubi, come sempre capita, ma si mescola all’initulità dello «sciopero
generale»(è una frase dell poesia) e delle altre attività umane. Che speranza ha allora
l’uomo?

Montale
“Non chiedeteci la parola”Slaid prof
questa poesia di Montale contenuta nella sua prima raccolta “Ossi di seppia” viene
associata dalla prof a d’annunzio ed altri poeti per indicare che c’è una differenza
abissale tra la concezione dell’io poetico di d’Annunzio e Montale.
Il poeta si rivolge ad un ipotetico interlocutore, con un generico “tu”,cioè il lettore
dei suoi versi, tuttavia per se stesso usa la prima persona plurale (noi) così coinvolge
nel discordo anche gli altri poeti e più in generale la poesia
Il testo diventa così un documento di poetica
Affema che la poesia , non è più in grado di portare ordine nel caos interiore
dell’uomo e lungi dall’essere una parola, unica, infallibile - può esprimersi solo in
negativo.
Quindi l’insufficienza della parola come strumento conoscitivo.
Il poeta è estraneo all’uomo conformista appagato ed integrato nel mondo in cui vive
che non si pone domande.
In questa poesia c’è la coscienza del «male di vivere» A differenza di Ungaretti e dei
Simbolisti, per i quali la poesia è il solo strumento per conoscere la realtà, per
Montale essa non può offrire aiuto alcuno all’uomo. può essere solo ricerca e mai
raggiungimento della verità, può rappresentare il dolore e il «male di vivere» ma non
fornire risposte sui “perché” della vita. Più in particolare, la poesia per Montale può
dare solo una sillaba storta e secca come un ramo, la ricerca di suoni aspri e ritmi
spezzati volutamente antimusicali Montale fa ricorso a questo tipo di linguaggio
proprio per indicare che la poesia non è più in grado di proporre messaggi positivi. La
parola piò essere cioè scabra ed essenz iale, dire solo ciò che non siamo e ciò che
non vogliamo.
La distanza con d’Annunzio è abissale, per il Vate la parola poetica è magica,
l’unica che ti conduce alla verità delle cose e la funzione del poeta è superiore agli
altri uomini essendo l’unico in grado di comprendere la parola e svelare i segreti della
realtà.
Si può constatare attraverso questa distanza un mutamento profondo del clima
culturale , l’affermarsi della dittatura fascista , che genera negli intellettuali formatisi
in una cultura liberale un senso di impotenza: essi rifiutano una realtà ripugnante alla
loro coscienza, ma l’unico mezzo per opporsi è isolarsi nella propri solitudine
La Poetica di Montale
Montale rappresenta una delle espressioni più alte della cultura del 900, capace di
interpretare in forma originale i problemi che travagliano l’uomo moderno:
-il disagio esistenziale di fronte ad una realtà che appare priva di senso
-il pessimismo nei confronti di una storia segnate dalle guerre dal male
-la polemica contro i processi di omologazione del pensiero delle abitudini nella
società di massa.
Montale esordisce nel 1925 con la raccolta “Ossi di seppia” Il titolo allude al tema
centrale della sua poetica, ossia l’aridità intesa come condizione esistenziale che si
concretizza in alcune immagini ricorrenti quella del paesaggio ligure, disseccato dal
sole e dalla salsedine, e quella allegorica del “muro”che imprigiona l’uomo senza
dargli via di scampo, il muro gli impedisce di sfuggire alla vita intesa come inutile
giostra delle ore troppo uguali, arida e inutile, al di là del muro l’uomo potrebbe
attingere ad una verità ultima e certa.Montale ricerca suoni aspri, toni e ritmi spenti,
volutamente antimusicali , ed il ricorso ad un lessico “antipoetico”con intrusione di
termini aulici in funzione ironica e straniante. Montale rifiuta il linguaggio analogico
della contemporanea poesia simbolista favore di “una poetica degli oggetti”incentrata
su cose umili, comuni, citate come “correlativi oggettivi”ossia equivalenti concreti di
concetti astratti o di stati d’animo del soggetto

LA POETICA DEL FANCIULLINO PASCOLI


Il saggio esce per la prima volta sulla rivista letteraria “il Marzocco” nel 1897
Il fanciullino è il testo in cui Pascoli esprime nel modo più ampio il proprio pensiero
sulla poesia.
Pascoli afferma, riprendendo un mito platonico che «È dentro noi un fanciullino che
non solo ha brividi che ha paura della morte, ma lacrime e tripudi suoi». È dunque
una voce nascosta nel profondo di ciascun uomo, che si pone in contatto con il
mondo attraverso l'immaginazione e la sensibilità (tipiche dei poeti). In tal modo,
scopre aspetti nuovi e misteriosi, che «sfuggono ai nostri sensi e alla nostra
ragione».L’idea centrale è che al poeta coincideva il fanciullino: un fanciullo che
vede le cose come per la prima volta con ingenuo stupore e meraviglia e che come un
nuovo Adamo, «mette il nome a tutto ciò che vede e sente», ovvero è in grado di
conoscere in modo autentico ciò che lo circonda, meglio di quanto possa fare l'uomo
adulto, col suo raziocinio. Infatti, continua Pascoli, «l'uomo dei nostri tempi sa più
che quello dei tempi scorsi, e, a mano a mano che si risale, molto più e sempre più. I
primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullo». Secondo
una prospettiva ancora Romantica , Pascoli stabilisce un’equazione tra la visione
infantile, fantastica e immaginosi e quella dei popoli primitivi : come fanciulli creano
fantasmi con la loro fantasia così i popoli primitivi immaginano il cielo popolato
dagli dei.
La voce interiore del fanciullino dà vita alla poesia, Il fanciullo, dice Pascoli “fa
umano l’amore perché lo accarezza come sorella”, ricorre in lui qui, il consueto
rifiuto pascoliniano per il sesso. Per il fanciullino che è in noi l’amore può solo essere
casto , come tra fratello e sorella (è il legame che lo univa alla sorella Mariù)In un
mondo in cui gli uomini si azzannano come belve, la fraternità è possibile solo tra
fanciulli.
Il fanciullo è in tutti noi che ne siamo portatori inconsapevoli . Il fanciullo ha un
modo immediato e intuitivo di conoscere che non ha bisogno di percorrere tutti i
passaggi della logica e porta di colpo nel cuore della verità segreta delle cose.
La poesia di Pascoli è una poesia pura, quindi che non deve proporsi uno scopo
morale o educativo; tuttavia egli afferma: «la poesia, in quanto è poesia, ha una
suprema utilità morale e sociale», può accomunare gli uomini accomunati dall’amaro
destina dell’essere mortale , che fa conoscere la bellezza anche in cose umili, Quanto
alla moralità e al messaggio sociale, Pascoli vede nella poesia una voce che, proprio
perché esprime una realtà profonda comune a tutti gli uomini, invita alla
comprensione reciproca e alla pacificazione: al di là delle differenze economiche e
culturali, tutti («operai, contadini, banchieri, professori») possono dialogare con la
voce dei "fanciullini" che si affacciano alle finestre delle loro anime. Il "fanciullino"
di cui parla Pascoli è dunque una metafora nella quale confluiscono il valore
conoscitivo, il linguaggio, la moralità della poesia
La funzione conoscitiva, come accennato sopra, si collega alla convinzione, tipica del
Decadentismo, che la realtà si riveli nella sua essenza profonda solo grazie
all’intuizione, a livello pre-razionale, e resti invece inafferrabile di fronte all'indagine
filosofica , scientifica e razionale.
Di conseguenza, il linguaggio della poesia scopre il mondo e ne illumina le
corrispondenze segrete (si ricordi il celebre sonetto Correspondances di Charles
Baudelaire). La poesia di Pascoli, in effetti, procede spesso in modo alogico,
mediante accostamenti e simboli che vanno al di là della visione consueta delle cose.
Pascoli rifiuta la separazione classica degli stili( alta per la tragedia e la poesia bassa
per i racconti), per lui la dignità poetica va scoperte nelle piccole ed umili cose non
solo in quelle sublimi ed aristocratica.
E’ una poetica delle piccole cose, dei fiori semplici, degli oggetti della vita
quotidiana soprattutto contadina , la realtà dei piccoli proprietari terrieri come era la
sua famiglia, l’unico mondo che per Pascoli rappresenta “il nido”, la casa, il tepore
familiare, la bava e dignitosa gente di campagna.
Pascoli prende così le distanze dalla contemporanea poesia di d’Annunzio, sontuosa e
preziosa nel suo estetismo superomistico, aulica, sublime.

slaid prof. L’ASSIUOLO di G. Pascoli.


pubblicata nel 1897 sulla rivista «Marzocco» e, successivamente, inclusa nella
quarta edizione di Myricae, nella sezione In campagna. L’intera raccolta deve il titolo
ad un verso delle Bucoliche del poeta latino Virgilio: «piacciono gli alberi e le umili
tamerici». Con questo titolo Pascoli vuole introdurci subito al tono semplice delle sue
liriche, alla quotidianità dei temi in esse affrontate. In Myricae viene raccontata la
vita agreste in tutte le sue sfaccettature, ma dietro ad ogni figura
bucolica(simbolismo) ritroviamo le inquietudini del poeta, il senso di precarietà
dell’esistenza e il dramma della morte.
L’assiuolo, che dà il titolo alla lirica, è un piccolo uccello notturno, simile al gufo
che emette un verso (chiù) che, nella tradizione popolare, viene associato alla
tristezza e alla morte. Il suo verso lugubre, in forma onomatopeica, scandisce la
poesia e si carica di significati simbolici.
.La poesia si svolge infatti in una campagna addormentata, notturna, in cui il poeta
fatica a scorgere la luna. Dal buio gli arriva alle orecchie un pianto triste e lontano, il
verso dell’assiuolo, Pascoli si interroga quindi sul mistero che incombe sul nostro
universo e sul destino dell'uomo, votato alla morte senza rimedio.
La lirica è caratterizzata dal fonosimbolismo: un procedimento linguistico tipico
in Pascoli, il quale ricerca gli effetti sonori nelle parole per trasmettere dei significati
ulteriori. Colpisce, in particolare, il ricorso alle parole onomatopeiche che
riproducono il suono associato alla cosa cui si fa riferimento.L’onomatopea con la
quale si concludono tutte le strofe (chiù) altro non è che il fonosimbolo della morte:
rappresenta il suono attraverso il quale i morti comunicano coi vivi. Seguendo il
richiamo del chiù l’io del poeta riesce a comunicare coi morti.
L'analogia è un’ altra figura retorica cara al poeta che consiste nell'accostamento e
nella comparazione, all'interno di un testo sia scritto sia orale, tra due o più parole
seguendo la loro somiglianza semantica (cioè parole simili tra loro per
significato).Anche la sinestesia è molto usata è una figura retorica, in particolare un
tipo di metafora ("metafora sinestetica"), che prevede l'accostamento di due parole
appartenenti a due sfere sensoriali diverse.

slaid prof Poeta minore del Decadentismo: Antonio Fogazzaro

ANTONIO FOGAZZARO (e la narrativa decadente in Italia)

Fogazzaro nasce a Vicenza nel 1842 in una famiglia della ricca e cattolica borghesia
Si laurea in legge ma è attratto dalla letteratura, dopo una crisi religiosa, torna alla
fede e cerca una conciliazione tra cattolicesimo e scienza, su questo tema terrà una
serie di conferenze in tutta Italia, si avvicina anche alle teorie evoluzionistiche e
aderisce al movimento del “modernismo” che cercava di conciliare il cristianesimo e
la modernità, quindi cerca senza successo di conciliare la cultura laica a quella
cattolica. Il movimento fu contrastato dalla Chiesa e alcuni dei sui romanzi saranno
condannati dalla Chiesa e messi all’Indice. Si avvicina alla letteratura tardoromantica
e alla scapigliatura milanese che è il movimento di rivolta antitradizionalista e
antiborghese che si richiamava alla tendenza della “boheme” francese.
Il suo successo come scrittore lo porterà a diventare senatore. Muore a Vicenza nel
1911 pochi mesi dopo l’uscita del suo ultimo romanzo “Leila”.
-Malombra, il primo romanzo di F. esce nel 1881 lo stesso anno dei Malavoglia di
Verga ma ne è abissalmente lontano. Pur non essendo una narrativa pienamente
decadente, inaugura la figura dell’inetto a vivere e della fame fatale, entrambi cari
agli scrittori decadenti. In Malombra lontano dallo studio scientifico della realtà
sociale tipica del romanzo naturalista o verista, predilige da un lato il mistero ed il
soprannaturale, dall’altro c’è l’indugio sui lati più oscuri della psiche(romanzo
psicologico). L'indagine psicologica mette a nudo i contrasti interiori dei protagonisti
Anche i romanzi successivi si addentrano nell’analisi dei complessi problemi interiori
di anime divise tra sensualità e il richiamo ad una più alta spiritualità religiosa(tema a
lui caro).
Negli anni successivi unisce la tematica Risorgimentale con la struttura del romanzo
sentimentale, senza però accostarsi a modelli veristi. Nasce così un famoso romanzo
-“Piccolo mondo antico” che vede protagonista due patrioti .
Nel romano “il Santo” gli elementi decadenti si fanno più netti tanto che il
protagonista può essere considerato l’equivalente cattolico degli eroi dannunziani.
Nel Santo, agisce un tormento interiore che spinge alla sublimazione mistica, nei
personaggi dannunziani invece agisce un’energia vitale che spinge alla ricerca del
piacere ed all’azione eroica, sia pure votata spesso all’annientamento.

slaid prof
CREPUSCOLARISMO
E’ nell’allontanamento ironico dal dannunzianesimo che si concentrano i tentativi dei
più giovani tra i poeti di inizio 900 poi raggruppati sotto l’etichetta di Crepuscolari
come Gozzano e Corazzini, estranei al divismo ed estetismo dannunziano, ed alle
avngurdie.

Temi:

-inutilità della poesia

-inettitudine del poeta

-banalità del vivere quotidiano

I temi sono svolti con l’uso di registri bassi e colloquiali ,ma non si può parlare di
avanguardia perché non c’è un violento e rivoluzionario attacco alla tradizione, visto
che i crepuscolari vivono in un rassegnato distacco dai decadenti e in una
malinconica accettazione della mediocrità borghese, senza propositi di cambiare
realtà.

Non è un vero e proprio movimento, dura una quindicina di anni ma tuttavia riesce a
liquidare alcuni presupposti dell’estetica decadente e a gettare le basi per un
rinnovamento del linguaggio poetico :

-Al vitalismo euforico di d’Annunzio i crepuscolari oppongono una visione del


mondo piccolo-borghese, piena di noia e malinconia: scenari provinciali, oggetti
poveri se non squallidi, dettagli umili ed inessenziali; linguaggio comune e banale
sono contrapposti agli scenari decadenti ed al linguaggio sublime e raffinato usati da
questi poeti.

-marginalità dell’intellettuale (contro la totale fiducia nella funzione sociale e civile


dell’arte e del poeta vate come guida): soggettività poetica debole e depressa(contro il
superomismo e il vitalismo)
-dietro il declassamento del poeta opera la lezione di Baudelaire: la modernità
borghese, legata ai valori capitalistici della produzione e del profitto, ha tolto
prestigio e funzione sociale al poeta, privandolo di ogni privilegio materiale e
spirituale l’artista che non si identifica più in figure di eroe o vate bensì in personaggi
deboli e marginali, infantili, lamentosi o clowneschi…

Con i crepuscolari per la prima volta il primato dell’arte si rovescia nel suo contrario:
in senso di colpa e in polemica antiletteraria.

Guido Gozzano Il maggiore tra i crepuscolari.(in un poesia recita”io mi vergogno di


essere un poeta”)

• superamento del modello dannunziano nella sua poesia come ne I colloqui. che
sembra un racconto più che una poesia, infatti il protagonista parla di sé come si fa
in una biografia reso scorrevole dalla tendenza a disporre il discorso in versi. Nella
poesia sono racchiuse tutta le tematiche crepuscolare, come gli Amori ancillari, con
cuoche e cameriere vs la fame fatal decadente, i grigi interni domestici (vs le ville
lussuose decadenti)… Il protagonista privo di autostima e si autodefinisce “un coso
con due gambe/ detto guidogozzano” per denunciare la menzogna della poesia
dannunziana.

• Gozzano si rivela maestro nel far cozzare linguisticamente l’aulico col prosaico:
racconta storie banali e squallide attraverso un repertorio verbale ricco che passa
dalla terminologia tecnica e spunti di conversazione mondana.

• metrica tradizionale, chiusa, quasi classica anche se con rime eccentriche ed


ironica ; sintassi spesso spezzata.

Altri crepuscolari minori sono: Corazzini, Moretti

Entrambi piccolo borghesi, anti accademici(anticarducci,pascoli,d0’annunzio),


attuano la poetica de-sublimante tipica dei crepuscolari, entrambi si ammalano
giovanissimi di tubercolosi .

Sergio Corazzini

In lui sono presenti i tipici temi crepuscolari aggravati dalla sua condizione di malato
di tubercolosi

L'attività letteraria , insieme alla religione costituisce l'unico conforto di un'esistenza


grigia e ignota.

Ama esprimersi attraverso metafore di malattie e sofferenze,“io non sono un poeta


ma un fanciullo che piange”,, pratica il verso libero e un linguaggio volutamente
banale come Gozzano, sempre per negare la magniloquenza dannunziana, infatti una
delle sue raccolte più importanti ha un titolo emblematico”Piccoli libro inutile” .(vedi
nei saggi)

slaid prof.

"Desolazione del povero poeta sentimentale” di Sergio Corazzini

contenuta nel Piccolo libro inutile; nei 55 versi del componimento, oltre al ritorno dei
temi crepuscolari, Corazzini sviluppa una personale riflessione sull'identità del
“poeta" che da vate e guida della nazione diventa un “piccolo fanciullo che piange”.
Il componimento si apre proprio su questa immagine, e sul correlato rifiuto
dell'etichetta di “poeta":

Il“Silenzio” è l’ unico mezzo con cui ricercare Dio, nella morte l'unica soluzione ai
propri patimenti. Lo stile, semplice e “basso",

Di difficile collocazione, tra Crepuscolarismo e Futurismo:Aldo Palazzeschi -


All’inizio nelle sue opere sono presenti alcuni temi crepuscolari che lasceranno quasi
subito il posto all’ironia e parodia dissacrante delle tematiche classiche, sovverte i
canoni tradizionali attraverso il gioco ,come fa in “ E lasciatemi divertire” e con
l’uso del verso libero, avvicinandosi così al Futurismo. Ma quasi subito si distacca
dal Futurismo, e si dichiara estraneo alla politica interventista dl Futurismo
favorevole all’ingresso dell’Italia in guerra, inoltre rifiuta anche una delle
caratteristiche tipiche del movimento e cioè la tecnica del paroliberismo (cioè parole
messe in libertà, come capitano sul foglio di carta).

Scrive il romanzo Le sorelle Materassi (1932) che mette in luce gli aspetti
paradossali e stranianti della vita della piccola borghesia italiana, Sicuramente è un’
artista “irregolare” e libero da definizioni a correnti, tendenze letterarie.

Analisi di “Chi sono?” Di Palazzeschi

compare per la prima volta nella raccolta Poemi del 1909 e costituisce un ottimo
identikit del profilo poetico di Palazzeschi, in cui il verso libero si fa lo strumento con
cui ribaltare l’immagine tradizionale del poeta per contrapporgli quella di un poeta-
giocoliere, un “saltimbanco” che, tuttavia, non toglie valore all’espressione poetica,
ancora in grado di “guardare nel cuore dell’uomo”.

In questa poesia cita oggetti quotidiani come la “penna”, la “tastiera”, la “lente”,


dimostrando una ricerca di qualcosa di concreto rispetto alla vuota astrattezza delle
convenzioni letterarie e della tradizione passata, che viene percepita come priva vero
valore comunicativo.

Tuttavia questa ricerca - che è innanzitutto la ricerca di un’identità - non è priva di


inquietudini o di drammi: il poeta-saltimbanco parla esplicitamente di “follia”
“malinconia”, “nostalgia”, termini che diventano le parole-chiave del
componimento.

Sul piano stilistico, è importante notare che l’atteggiamento libero e disimpegnato di


Palazzeschi si traduce in realtà in una struttura attentamente studiata e calibrata. La
poesia è composta da gruppi pressoché simmetrici di versi costruiti su un
meccanismo di botta e risposta (quasi un dialogo immaginario del “poeta” con se
stesso), scanditi dalla parola-rima “l’anima mia”. L’effetto è quella di una filastrocca
in versi liberi.

“Lasciatemi divertire” di Palazzeschi

Lasciatemi divertire, pubblicata nel 1910 nella raccolta L’incendiario, è uno dei testi
che, insieme con Chi sono? e La fontana malata, che meglio definisce l’identità
poetica di Aldo Palazzeschi. La poesia, dal sottotitolo Canzonetta, è una critica
tagliente, con le armi del riso, del paradosso e dell’ironia, contro la tradizione poetica
e il buon gusto del pubblico borghese. Palazzeschi, qui nella sua fase più futurista ,
deride i modelli passati, dalla funzione del “poeta-vate” alla maniera dannunziana
alle eccessive difficoltà stilistiche di chi scrive “in giapponese”, passando per chi si
spaccia per poeta senza aver nulla da dire. L’io poetico di Palazzeschi, invece, si
vuole solo divertire.

LE AVANGUARDIE (siamo all’inizio del 900 fino alla I Guerra Mondiale)

Espressionismo. Futurismo Surrealismo. Dadismo

Nel’Italia del primo 900, che pure continua a rimanere un pese sostanzialmente
agricolo, cominciano ad affermarsi le strutture di un’economia più moderna. Lo
sviluppo industriale del Nord porta al fenomeno dell’inurbamento, migliaia di
contadini del Sud lasciano le campagne sperando in una vita migliore nel Nord
soprattutto Torino(Fiat).Nasce un proletariato povero ed emarginato a cui si
accompagna la forte spinta all’emigrazione, anche se nel primo decennio del 900 un
miglioramento economico spinge l’Italia alla colonizzazione della Libia ma i
problemi interni restano gravi.
Questo periodo di rinnovata speranza è La Belle Epoque, dove Parigi resta la capitale
della cultura europea..Lo stile simbolo di quest’epoca è l’Art Neuveau chiamata
Liberty in Italia, dal nome di Arthur Liberty che vendeva gioielli e oggetti ornati con
disegni floreali con decorazioni esotiche e floreali su oggetti fruibili da aristocratici e
alta e media borghesia, superando così i limiti dell’ideologia decadente che
considerava l’opera d’arte solo per chi eletti.
La vera innovazione arriva all’inizio del XX sec. con le opere delle avanguardie
nelle quali spesso arte, musica e letteratura si fondono. Agli inizi del 900 in Germania
e Francia si svilupparono movimenti pittorici che puntavano alla deformazione dei
soggetti, della figura umana e all’uso di colori accesi e in contrasto. L’espressionismo
tedesco del gruppo “Il Ponte” si rifà al norvegese E. Munch, grande ammiratore di
Van Gogh e Gauguin. In pittura le tendenze dell’espressionismo furono superate da
cubismo con Picasso. Molti temi de cubismo si fusero con altri movimenti
d’avanguardia come il Futurismo, che grazie all’appoggio ,non senza contrasti, del
fascismo continuò con nuove ricerche stilistiche negli anni 20/30 del 900. In Russia si
sviluppò una variante di cubofuturismo lontano dall’esperienza di Marinetti ,
futurista, e al contrario attento ai valori della Rivoluzione comunista .

La nascita delle avanguardie


il termine è di derivazione militare ma da fine 800 inizio 900 designa alcune
tendenze letterarie ed artistiche che hanno come segno distintivo “ il rinnovamento”,
trasgressive verso la tradizione letteraria, e spesso coniugata con un interesse politico.

Futurismo, Dadismo, Surrealismo … vengono così definite avanguardie .


Questi gruppi si propongono compiti di rottura con il passato,

Lo slogan più rappresentativo è lanciato dal poeta americano Pound: Make it new.
Opera emblematica del rinnovamento è il dipinto di Picasso “la demoiselles de
Avignon” in cui un caposaldo della tecnica pittorica tradizionale, come la prospettiva,
risulta stravolto, il soggetto viene infatti rappresentato da più angolature
contemporaneamente.
In seguito, le avanguardie attaccheranno l’arte stessa in quanto istituzione, l’opera
d’arte diventa la vita comune, la quotidianietà, grigia e monotona. Si promuovono a
rango d’opera d’arte oggetti comuni, il bicchiere, la ciotola, con chiaro intento
provocatorio e dissacratori volto al pubblico borghese che le avanguardie vogliono
colpire per generare un effetto di straniamento ed indurlo a riflettere.
Nel 1917 Duchamp, del movimento Dadista, espone come scultura un orinatoio
capovolto intitolandola “La fontana”è il culmine della dissacrazione e della
provocazione.
Le avanguardie contestano l’intero sistema del mercato culturale accusato di aver
trasformato l’arte in merce che lusinga la pigrizia intellettuale del pubblico e blocca
l’artista in stereotipi
L’opra d’arte rifiuta il concetto del successo facile ed immediato, per cui l’arte deve
abbandonare i canoni tradizionale per divenire difficile, quasi illeggibile, deve
provocare , sconvolgere , stravolgere. Rivoluzione, rinnovamento dalla base della
tradizione letteraria.
Le avanguardie saranno a favore dell’intervento in guerra dell’Italia perché vedono in
essa(soprattutto i Futuristi) l’unico modo per ottenere un rinnovamento totale della
società.
Ricordiamo che queste tendenze eversive si collocano in un’epoca turbolenta: vari
movimenti politici e sociali che preparano la 1° guerra mondiale e la Rivoluzione
sovietica , poi i totalitarismi del dopoguerra

Contemporaneamente grandi rivoluzioni si verificano in altri campi, scienza ,


matematica, medicina, fisica..
Einstain, Freud, le analisi linguistiche di de Sussurre..
Nasce così l’esigenza in questi artisti di riunirsi in gruppi e darsi dei Manifesti

Le principali avanguardie
L’ESPRESSIONISMO

Più che un movimento è una tendenza stilistica, un modo di rappresentare l’arte,


soprattuto la pittura, che si oppone ai vincoli della tradizione e privilegia
“l’espressione” degli aspetti intimi ,interiori della realtà, a volte esprime la realtà così
come viene intuita dall’artista nel creare.
Partono dal Simbolismo ma eliminano i cardini dell’arte come la prospettiva in
pittura usano uno stile violento dai forti contrasti ispirato alle arti primitive prive di
codici o regole. Ricordiamo il pittore Matisse, o lo scrittore James Joyce.
I temi delle loro opere sono inconsueti, il brutto, l’osceno, la follia e in genere tutti gli
aspetti della realtà normalmente trascurati dalla letteratura .
Molto più compatto dell’espressionismo come movimento culturale fu invece il
Futurismo.

FUTURISMO

Nasce ufficialmente in Francia quando Filippo Tommaso Marinetti ne pubblico il


Manifesto Sulla rivista “le Figarò” il 20 febbraio 1909.
Il contatto con la cultura francese è determinante per la nascita di questa avanguardia
tutta proiettata in avanti, al futuro, e legata alla velocità ed alla civiltà della macchina
suo mito ed ossessione.
Le caratteristiche principali sono:
-una grande energia in tutto ciò che fanno, al limite con la violenza, delle avanguardie
il Futurismo è sicuramente il più rivoluzionario
-la volontà di distruzione anche fisica dei “parassiti” cioè coloro che legati al passato
erano contro l’innovazione
-la dissacrazione di qualsiasi valore artistico particolare.
si legge nel manifesto”noi vogliamo distruggere i musei, le accademie, le
biblioteche, distruzione della rima, del verso, della metrica, della sintassi e dei segni
di interpunzione
-azzerare tutta la civiltà per costruirne una nuova votata alla macchia, alla velocità, al
dinamismo, alla realtà industriale
-rifiuto di ogni forma di organizzazione politica o sindacale o femminista
- individualismo assoluto(un pò superomismo)
- adesione all’ideologia nazionalista e militaresca che celebra la guerra come “sola
igiene del mondo”
-disprezzano atteggiamenti spirituali e sentimentali verso le donne, o la psicologia,
per cui disprezzano la letteratura precedente specie quella Romantica.

NB: insieme agli scrittori futuristi operano anche i critici formalisti, che formularono
varie teorie per proporre una lettura dei testi letterari in quanto tali, indipendente dalla
biografia dell’autore o del contesto storico.

Le innovazioni formali
Il futurismo respinge l’impianto letterario logico di causa effetto, consequenziale
sostituendo all’impianto logico del pensiero l’analogia però non quella di Pascoli o
dei Simbolisti fondata sulla ricerca di significati impalpabili, spirituali, metafisici, ma
un’analogia che sappia assimilare realtà diverse tra di loro.

Il futurismo e l’Espressionismo in Italia

• Il futurismo: l’opposizione alla poetica dannunziana inaugurata ad inizio secolo dai


crepuscolari diventa sfida aperta alla tradizione ,si diffonde soprattutto in realtà
metropolitane (Milano, Firenze dove si pubblica la più importante rivista futurista
“Lacerba”) e mentre i crepuscolari criticano e basta i valori della modernità i
futuristi applicano una esaltazione della tecnica e della società industriale, vogliono
una poesia moderna che riproduca mimeticamente la velocità, l’energia,
l’irrazionalità .

• L’ntento al cambiamento nella poesia futurista si esprime con la tecnica del vero
libero e delle “parole in libertà” fino ai calligrammi, il poeta disegna un oggetto
collegato al tema principale della poesia. Per esempio, se nella poesia si parla di un
castello, le lettere del testo vengono scritte e disposte in modo da formare
l'immagine di un castello.

Due le riviste importanti in questo periodo per le avanguardie: “Lacerba”, futurista e


“La voce”*, espressionista.
Scrittori vociani o poeti del frammento

Si definiscono scrittori vociani quegli scrittori vicina alla rivista “La voce” , sono
scrittori di prosa ma anche di poesia e durante il primo Novecento vogliono
sperimentare un nuovo linguaggio ma senza quella violenza propria dei futuristi.

dei vociani, ricordiamo Rebora, e Camillo Sbarbaro, Dino Campana.

adottano il poema in prosa già adottato da Rimbaud, e Baudelaire, è una fusione tra
prosa e poesia “ poème en prose,”, ed il frammento lirico o Frammentismo ossia un
componimento breve e intenso , soggettivo che guarda all’interiorità, spesso sono
brandelli di discorso non legati secondo le normali regole grammaticali e sintattiche,
espressione di pensieri folgoranti.

DADISMO
Un’arte contro l’arte

Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916 per
opera del rumeno Tzara. La situazione storica in cui il movimento ha origine è quello
della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si rifugiano
in Svizzera a Zurigo per sfuggire alla guerra. Il loro esordio ufficiale viene fissato al 5
febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire. Alcuni di loro sono
tedeschi, altri rumeni,Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle
serate organizzate dai futuristi: in entrambe le avanguardie vi è l’intento di stupire
con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed
originale, ed entrambi i danno un "manifesto" quale momento di dichiarazione di
intenti.

A differenza dei Futuristi rifiutano di sentirsi organizzati come gruppo che deve
condividere gli stessi principi, e mentre futuristi, sono favorevoli alla guerra, ne sono
del tutto contrari i dadaisti. I contenuti principali del dadaismo. Innanzitutto la parola
Dada, che identificò il movimento, non significava assolutamente nulla, e già in ciò
vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento
razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato
come una clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di
rinnegare la razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e
tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte, provare
straniamento dando valore artistico ad oggetti di uso quotidiano per mettere in luce le
contraddizioni e le ipocrisie della società borghese. La distruzione dell’arte borghese
è assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul
piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da
essa.

il gruppo intende avvalersi di aspetti del linguaggio pre-razionale, istituendo evidenti


legami con la psicanalisi. -vuole demistificare la funzione stessa dell’arte nella
società borghese, proponendo opere effimere e perturbanti. (es. Duchamp)

Ben presto però le posizioni dei vari artisti dadaisti risultarono inconciliabili e il
movimento si esaurì sfociando nel Surrealismo.

SURREALISMO

Il surrealismo fu un movimento artistico d'avanguardia del Novecento nato come


evoluzione del dadaismo e che coinvolse tutte le arti, toccando anche letteratura e
cinema, nato negli anni 20 a Parigi; nel 1924 ne fu scritto il primo manifesto.[1Il
Surrealismo è un movimento letterario che nasce dalle nuove concezioni
dell’inconscio di Froid, si rivolge ad una realtà superiore, fatta di irrazionale e di
sogno e che vuole rivelare gli aspetti più profondi della psiche.

Il Surrealismo ebbe come principale teorico il poeta André Breton, che canalizzò la
vitalità distruttiva del dadaismo. Breton fu influenzato dalla lettura de
L'interpretazione dei sogni di Freud del 1900; dopo averlo letto arrivò alla
conclusione che fosse inaccettabile il fatto che il sogno e l'inconscio avessero avuto
così poco spazio nella civiltà moderna, e pensò quindi di fondare un nuovo
movimento artistico e letterario in cui essi avessero un ruolo fondamentale. L’apporto
della psicanalisi freudiana fu fondamentale per la scoperta della “sopra-realtà” che è
oggetto delle opere artistiche del movimento

Nacque così il surrealismo.

Il movimento propone un’analisi dell’inconscio grazie anche alla “scrittura


automatica” svincolata dai processi razionali.

La tecnica più importante del surrealismo fu l’” automatismo psichico” puro,


ovvero quel processo in cui l'inconscio, quella parte di noi che emerge durante i
sogni, emerge anche quando siamo svegli e ci permette di fare associazioni libere di
parole, pensieri e immagini senza freni inibitori e scopi preordinati. I surrealisti si
avvalevano di diverse tecniche per far in modo di attivare il loro inconscio, una di
queste è il cadavre exquis (cadavere squisito), tecnica basata sulla casualità e sulla
coralità, che prevede la collaborazione di più artisti: uno di essi comincia l'operazione
tracciando un disegno, una figura, che deve essere ignorata dagli altri, poi il foglio
deve essere passato a tutti i partecipanti, uno per uno, i quali a loro volta faranno una
figura, e così via.

Questa tecnica era utilizzata dai surrealisti anche in ambito poetico, ovvero
aggiungendo uno per uno una parola, ignorando lo scopo finale dei singoli.

Lo spagnolo Salvator Dalì introdusse nei sui quadri aspetti onirici-ossessivi e scarti
del consumismo.

slaid prof: Narrativa naturalista e decadente/Romanzo Sperimentale / D’avanguardia;


differenze

-Personaggi :si assiste ad una cambiamento radicale


Narratore
-Trama

Narrativa naturalista e decadente


PERSONAGGI
borghesi o proletari in cerca di un miglioramento sociale(Mastro don Gesualdo, i
Malavoglia..) oppure superuomini votati a sensazioni ed imprese sublimi(Andrea
Sperelli in il Piacere, oppure Le vergini delle rocce..) ,

NARRATORE

Può apparire onnisciente o scomparire fino all’impersonalità, mantenendo però


controllo sullo sviluppo della trama

TRAMA

Lineare

Romanzo Sperimentale / D’avanguardia

PERSONAGGI

INETTI a vivere, uomini incapaci di rispondere alle sfide della vita quotidiana(i
romanzi di Svevo e Pirandello) di una società industriale, di massa.
scavo della loro psicologia .

-Tipi di inetti:

malato : cioè un uomo che non per tare fisiche (come nel Naturalismo) o per
estenuazione da iper-raffinatezza(come nel Decadentismo), ma per nevrosi e disturbi
psicologici non riesce a condurre una vita normale

reietto uomo che viene evitato perché incapace di seguire le regole comuni del vivere
non per una ribellione romantico-decadente ma per pura inferiorità(come in Kafka)

l’artista, l’intellettuale che non riesce a creare la sua opera e rinvia continuamente
la conclusione per mancanza di ispirazione o motivazioni (come in Proust)

NARRATORE

È depotenziato, cioè privo di potere sullo svolgersi dell’opera, la storia pare


procedere senza un ordine preciso e senza un’organizzazione spazio-temporale; punti
di vista non univoci; spesso non si ha un finale risolutivo o senza finale. La
spiegazione della realtà non è più riconducibile a dati positivisti-naturalisti o spiegata
secondo le regole dell’estetismo decadente; è caotica; tanto esteriormente, come
nella città mostruose degli espressionisti, quanto interiormente, come nella
rappresentazione degli abissi dell’inconscio.

Trama

è scomposta, ridotta a frammenti non riducibili alla linearità dei romanzi dell’800 il
reale è più complesso di quanto sembri. I conflitti interpersonali base di molti
romanzi dell’800 ora sono soprattutto interiori, uno dei conflitti più rappresentati è
quello padre/ figlio in cui ci sono aspetti inconsci, collegabili alla sfera freudiana
della sessualità

slaid prof:“ EVOLUZIONE DI FORMA E STILE DELL POESIA DEL 900” per
rispondere a questa domanda la prof mette a confronto : Leopardi e Sbarbaro, la
poetica del fanciullino di Pascoli, Autoritratto, Piove di Montale e la pioggia nel
pineto , e “Non chiederci la parola” di Montale

Confronto tra
“Taci anima stanca di godere” di Sbarbaro(Vociano) e “A se stesso” di Leopardi

Taci anima….

In questa lirica il poeta stabilisce una sorta di colloquio interiore con la propria
anima, invitandola al silenzio. Ormai insensibile alle gioie e ai dolori l’anima è in
preda ad una stanchezza ad una ” rassegnazione disperata “.

Muta, non esprime più alcun sentimento, né per il passato né per il presente
futuro,non esprime ira né noia L’anima è pesante come il corpo e l’uso del verbo
“giacere” all’inizio del verso n 8, indica l’accasciamento dell’uomo ridotto da essere
inerte.

Una vita simile alla morte e dice Sbarbaro, non ci sarebbe da stupirsi se le funzioni
vitali si arrestassero e venissero meno.

Tuttavia l’esistenza continua, in una dimensione che è paradossalmente priva di vita,


il verbo “camminiamo” alla fine del verso 15 e poi ripetuto all’inizio del verso 16
indica la monotona ripetitività delle azioni quotidiane e soprattutto l’enorme sforzo
fatto per compierle; il paragone “come sonnambuli” riduce l’uomo ad una sorte di
essere inconsciente, che si limita a riprodurre i gesti meccanici di un automa(motivo
questo molto presente nella letteratura di inizio 900). A questo automatismo
corrisponde l’immobilità di un mondo irrigidito. Per rappresentare l’assenza di vita
che investe le cose fa ricorso alla tecnica della Tautologia(«E gli alberi son alberi, le
case / sono case,)che riduce il reale ad una copia di se stesso privo di significato e
valore.”

—Una tautologia (tauteo) è un'affermazione vera per esempio, l'affermazione "Tutti i


corvi sono neri, oppure c'è almeno un corvo che non lo è", è una tautologia, perché è
vera sia nel caso in cui i corvi siano neri, sia nel caso in cui non tutti lo siano.

La tautologia segna la fine del mito simbolista delle correspondances; questi versi
testimoniano «la perdita d’aureola del poeta; ormai cosa fra le cose, l’io non gode di
uno statuto privilegiato»

Alla fine della poesia ribadisce l‘estranietà dell’uomo dal mondo, immagine che si
cristallizza nella parola”deserto”.

L’”io”del verso conclusivo introduce un altro motivo della poesia di Sbarbaro , quello
dello “sguardo” che si rivolge sul poeta stesso, parte integrante di quel deserto

Negli “occhi asciutti” del poeta c’è l’atteggiamento distaccato di chi presa coscienza
di questa condizione negativa, non si abbandona ad inutili sentimentalismi,
considerando la prosecuzione della vita un dovere, difficile ed ingrato, ma da dover
compiere.
Sbarbaro trasmette la vertigine e la sensazione di solitudine della vita urbana e ne
evidenzia gli aspetti ripetitivi e senza significato – si pensi a Montale, infatti la
prof .include in questo confronto anche la sua poesia “non chiederci la parola”.

slaid della prof.

Pianissimo è la raccolta da cui è tratta la poesia di Sbarbaro

Taci o anima stanca di godere” usa un lessico dimesso e ci introduce all’anti-


futurismo

TRE TEMI

1) Il silenzio della voce poetica

(già definito nel poeta sonnmbulo di Palazeschi)

2) l’indifferenza e l’aridità del mondo

3) Lo sguardo al di là di se stesso: guardarsi dall’esterno: evolverà nel tema


pirandellliano dell’alienazione

In questa poesia Sbarbaro conserva echi dell’ispirazione introspettiva di un


Leopardi e di un Baudelaire; e pare, come loro, sporgersi sull’abisso per
contemplare con occhi asciutti se stesso e il grande deserto del mondo.

Confronto con “A se stesso” di Leopardi

Anche in questa poesia come in quella di Sbarbaro colpisce che i versi


seguono il movimento del pensiero di chi parla,. Il modello di questa forma di
scrittura è senz’altro di Leopardi. L’incipit in cui l’io del poeta (sia
Sbarbaro che Leopardi)si rivolge alla propria anima ,guarda in modo palese a
“A se stesso”. Lo stato d’animo di chi parla è di «rassegnazione
disperata»in entrambe le poesie ,il mondo circostante è un deserto, anche
questo coincide con i versi di Leopardi: Chi prende la parola lo fa per
osservare la mancanza di senso in ciò che lo circonda.

Poesia AUTORITRATTO a confronto Manzoni e Govoni (futurista)


Autoritratto di Govoni (quando la parola è immagine)

‘Parola’ e ‘immagine’ sono da sempre due realtà in simbiosi tra loro. Le parole
descrivono, raccontano, e la loro bellezza è in ciò che lasciano immaginare,
sanno creare delle vere e proprie scenografie, sensazioni, al punto che a
volte sembra che si facciano oggetto, che si possano toccare. Quando poi
una parola è scritta è dunque un insieme di segni grafici, in questo senso è
già un’immagine. L’uso delle parole come segni illustrativi ha avuto un grosso
sviluppo nel Novecento, quando i poeti futuristi, spinti anche dall’esigenza di
creare un nuovo linguaggio che si addicesse al nuovo spirito di una società
basata sull’immagine, sulla comunicazione visiva, iniziarono a sperimentare
parole disposte in figure. Proprio durante i primi decenni del Novecento,
infatti si sviluppa la cosiddetta poesia visiva.

Autoritratto di Corrado Govoni


Questo fenomeno si pone a metà strada tra letteratura e arte, tra pagina e
quadro, tra parola e immagine. Apollinaire, poeta francese, ci fornisce uno
dei primi esempi di tale ‘invenzione’ con il suo Calligramma dove le parole del
suo componimento ‘cadono’ come una pioggia irregolare e mossa dal vento;
poi un testo di Marinetti, scrittore futurista italiano, fino ad Autoritratto del
poeta Govoni: i versi disegnano un viso, gli occhi sono tutto ciò che
guardano, dunque sguardi come dei raggi, le orecchie “tamburi, imbuti”, la
bocca come “una macchina dattilografica delle parole, divano pallido dei
baci”;

Leggere delle poesie visive è impresa quanto mai impegnativa poiché


stimolano il lettore in vario modo dal momento che congiungono la lettura
delle parole, e i loro significato, contemporaneamente al ‘decifrare’ la loro
figurazione,La poesia diventa significante per come è scritta, non tanto per
cosa dice. Oggi che con i computer possiamo variare i caratteri
continuamente con pochi click ci sembra tutto semplice, ma certamente in
quegli anni dieci del Novecento, l’idea di una poesia che liberasse il
linguaggio dalla rima, del senso compiuto e della lettura unidirezionale,
costituivano una novità straordinaria.

SLAID prof

CONCLUDENDO

tra la fine dell'Ottocento e il primo ventennio del 900 si passa:


− dalla poesia con metrica e linguaggio consolidato al verso libero che
segue l'andamento del pensiero (anticipatore ne fu Leopardi,.)
− dall'io poetico “sicuro di sè” all'io poetico moderno, incerto, che non ha
verità da dare (anche qui Leopardi anticipa molti moderni)
− dalla certezza sul ruolo e la funzione della poesia alla perdita
dell'aureola (Baudelaire) che genera due atteggiamenti contrapposti sul
finire del secolo : quello del simbolismo di Pascoli che evolverà nelle
avanguardie e nel crepuscolarismo e quello di D'Annunzio che
mitizzerà l'estetismo e il ruolo del poeta come anima bella
− l’atteggiamento antidannunziano di Crepuscolarismo ed avanguardia
porta alla poesia contemporanea
− le avanguardie aprono alla mescolanza dei linguaggi e codici
(compreso quello visivo e iconografico che sarà poi tipico del pop)

Lez prof.

RACCONTI TRA 800 e 900 E : SICILIA COME METAFORA

Dal romanzo storico a quello sociale ed esistenziale

Verga, De Roberto, Pirandello, Scaiscia , Tomasi di Lampedusa- tutti siciliani

LA SICILIA LETTERARIA TRA REALTA’ E METAFORA.

Il 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, segna il compimento (o quasi) dell’unità
d’Italia. Ma la letteratura, unita nell’Italia divisa, diviene divisa una volta raggiunta
l’unificazione nazionale.

Infatti fino al 1861, anno dell’unità d’Italia, scrittori e poeti si fanno interpreti di un
desiderio comune: liberare l’Italia dallo straniere e renderla una .

Dopo il 1861 c’è una “secessione” letteraria.

La delusione per gli esiti del Risorgimento è diffusa ma è soprattutto il Sud – e, in


particolare, la Sicilia – a farsi portavoce di un diffuso malessere ed inaugura una ‘linea’
letteraria di opposizione rispetto all’Italia unita.

Verga, nel decennio più importante per la sua letteratura (quello compreso tra il 1880 e il
1889), sceglie di raccontare, per esempio, che cosa significhi l’Italia unita per le classi
sociali più povere della Sicilia. L’affermazione di una letteratura che, indaga e analizza le
realtà sociali, fa si che la Sicilia riprende vita attraverso le pagine di Verga , con I
Malavogoglia e di De Roberto con il romanzo I Viceré.

nel romanzo di Verga I personaggi de i Malavoglia continuano a far riferimento al Regno


delle Due Sicilie, come se niente fosse accaduto,Ma I Malavoglia raccontano anche in che
modo questa entità lontana e astratta che è lo Stato italiano fa sentire la sua presenza nel
profondo Sud: il passaggio dai Borboni al Regno d’Italia, infatti, è accompagnato
dall’imposizione di nuove tasse e dall’obbligo della leva (che porta il giovane ‘Ntoni lontano
dal suo scoglio). La fiumana del progresso travolge e distrugge la quotidianietà della
famiglia Malavoglia.

Una Sicilia dove l’immobilismo sociale fa da padrone dove si evidenza chiaramente la


visione pessimistica di Verga sull’umanità
Sullo sfondo di tali mutamenti sociali c’è dunque una Sicilia povera, quella di Nedda, la
sventurata raccoglitrice di olive- Nedda ,è un bozzetto scritto da Giovanni Verga narra la
storia di una povera ragazza Nedda, che per aiutare la madre ammalata e che in seguito
morirà, è costretta a vagare di fattoria in fattoria in cerca di occupazione, sostenuta
solamente dall'amore per Janu, contadino che lavora con lei, malato di febbre malarica, un
giorno cade dalla scala dell'albero e,muore lasciando Nedda in attesa di una bambina.
Anche la bimba, nata "rachitica e stenta"[2], presto morirà, essendo la madre incapace di
provvedere al suo sostentamento. La novella si conclude con le parole di Nedda che, dopo
aver adagiato sul letto della madre la povera creatura, "... cogli occhi asciutti e spalancati
fuor di misura. - Oh, benedetta voi, Vergine Santa! - esclamò - che mi avete tolto la mia
creatura per non farla soffrire come me!”Con questa novella Verga mette in luce la
cattiveria, l'aridità d'animo e l'incomprensione di coloro che vivono nell'agiatezza di soldi, a
confronta con l'umiltà, la timidezza e la rassegnazione delle sue creature umili . Nulla
cambia nei secoli. Verga ci disegna dunque una Sicilia che invano cerca di opporsi al
nuovo, come fa Padron ‘Ntoni, una Sicilia arsa e consumata dalla malaria, come risalta in
questa novelle..

Ma Verga, soprattutto, scrive nel 1882 una novella come Libertà, (da Novelle Rusticane
del 1883) dedicata ai fatti avvenuti realmente a Bronte nell’estate del 1860, quando la
popolazione, pensando di anticipare degnamente l’arrivo di Garibaldi da poco sbarcato in
Sicilia, si solleva contro i ricchi e uccide tutti coloro che considera degli oppressori, finché
un generale di Garibaldi (Nino Bixio) giunge nel paese siciliano, fucila i primi quattro
rivoltosi che gli capitano sotto tiro e imprigiona tutti gli altri responsabili della rivoluzione,
che finiranno la loro vita in carcere, lontani dalla libertà sognata e coincidente, per il popolo
siciliano, con un pezzo di terra da poter possedere e coltivare.

Se Verga, con Libertà, pur non assumendo un atteggiamento ‘partigiano’ né nei confronti
dei rivoltosi, né verso Bixio e i garibaldini, sceglie comunque di raccontare – e di
immortalare – una pagina meno esaltante di quella spedizione dei Mille entrata subito, fin
dal suo svolgersi, nella sfera del ‘mito’, è un altro scrittore siciliano, Federico De Roberto,
a pubblicare nel 1894 il primo romanzo politico dell’Italia unita, I Viceré, storia della
famiglia nobiliare degli Uzeda tra il 1855 e il 1882: una famiglia capace di tenere
saldamente in mano il proprio potere, sia prima dell’arrivo di Garibaldi in Sicilia (con il titolo
di Viceré ottenuto dalla corona di Spagna), sia dopo la nascita del Regno d’Italia (quando
sarà uno Uzeda – e non un autentico liberale – a divenire deputato). De Roberto, scrive,
con I Viceré, il romanzo del mancato cambiamento, della trasformazione apparente e della
sostanziale continuità; scrive un libro di forte polemica nei confronti degli esiti del
Risorgimento, i cui alti ideali vengono demoliti sarcasticamente dalla frase pronunciata dal
duca d’Oragua, l’Uzeda divenuto parlamentare: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli
affari nostri» (dissacrante rivisitazione – in chiave egoistica e familiare: una chiave, che i
fatti avrebbero rivelato assai realistica – delle parole di Massimo D’Azeglio: «Ora che
l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli italiani»); De Roberto, con I Viceré, scrive il romanzo
dell’immobilismo, della storia come «monotona ripetizione» («La storia è una monotona
ripetizione»: è ciò che Consalvo Uzeda spiega alla vecchia zia Ferdinanda nelle pagine
finali).
Una Sicilia reale, dunque, quella fotografata con arte insuperabile da Verga, così come
anche quella descritta da De Roberto ne I Viceré: puntando l’attenzione sul mondo
nobiliare dell’isola, lo scrittore ritrae impietosamente le abitudini dell’antica classe
detentrice del potere, prima e dopo l’Unità.

Vi è qualcosa in comune a Verga, a De Roberto e, più tardi, a Giuseppe Tomasi di


Lampedusa, autore de “Il Gattopardo”: il senso dell’immutabilità del destino e,
inscindibilmente, della condizione della Sicilia. Già abbiamo visto in Verga come egli
intenda inutile la lotta contro il fato: tutto, infatti, deve rimanere al suo posto, pena la
sconfitta. La frase finale del romanzo di De Roberto arriva più o meno alle stesse
conclusioni: "No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa".

Lo scrittore accoglie, dunque, il concetto dell’impossibilità che la realtà siciliana muti,


nel bene e nel male, nonostante il Risorgimento.

E come non ricordare a questo punto la celebre frase pronunciata da Tancredi ne Il


Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”?

Fu pubblicato nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore,

Il Gattopardo rappresenta un classico esempio di romanzo storico, ma anche


psicologico(ci mostra tutti i moti interiori del protagonista) e autobiografico, l’autore l’ha
scritto ispirandosi alla storia della sua famiglia: i Tomasi di Lampedusa. Il romanzo tratta
infatti il periodo storico del Risorgimento , in specie lo sbarco dei Mille con Garibaldi,
periodo storico che visse il bisnonno dell’autore, Giulio Fabrizio Tomasi che viene
chiamato nel romanzo principe Fabrizio Salina ed è il protagonista del racconto.

Il romanzo inizia con il racconto della recita del rosario a casa del principe di Salina, dove
egli vive con la moglie e sette figli. Egli è una persona distinta, molto affascinante ma
anche decadente per certi aspetti perché riflette proprio si disfacimento della nobiltà a
seguito dello sbarco dei mille in Sicilia. Egli guarda con disprezzo ai cambiamenti che
stanno avvenendo nell’Italia risorgimentale, al contrario di suo nipote Tancredi che invece
cavalca l’onda del successo garibaldino, cercando di convincere anche lo zio a farlo e ad
immischiarsi tra le file della nuova nobiltà, ma inutilmente.

Anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa si riallaccia al concetto della impossibilità, per la


Sicilia, di mutare, come se essa fosse una terra diversa dalle altre, dove tutto è
eternamente immobile, sospeso quasi in un tempo divino.

Al passato si rivolge l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che con "Il Gattopardo"
s’inserisce nel filone antirisorgimentale inaugurato da De Roberto e proseguito da
Pirandello ne "I vecchi e i giovani": egli, come si è già accennato precedentemente, rimane
ancorato all’idea di una Sicilia immutabile, inviolata dalla storia. Nulla meglio delle parole
del Principe di Salina, rivolte al piemontese che gli propone l’ingresso nel nuovo governo
italiano, può esplicare la sua idea di Sicilia e di "sicilianità": "Sono almeno venticinque
secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche ed eterogenee civiltà, tutte venute da
fuori, nessuna fatta da noi [...] Siamo molto stanchi, svuotati, spenti [...] Il sonno... un lungo
sonno: questo è ciò che i Siciliani vogliono. Ed essi odieranno sempre tutti quelli che
vorranno svegliarli, sia pure per portar loro i più meravigliosi doni [...] Da noi ogni
manifestazione, anche la più violenta, è un’aspirazione all’oblio, la nostra sensualità è
desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre è desiderio di morte, la nostra
pigrizia, la penetrante dolcezza dei nostri sorbetti desiderio di voluttuosa immobilità, cioè,
ancora di morte. [...] Voi avete ragione in tutto, tranne quando dite "I Siciliani certo
vorranno migliorare". Non vorranno migliorare, perché si considerano perfetti. La vanità in
loro è più forte della miseria."

La Sicilia, dunque, già in questi scrittori non è solo una realtà dove antichi privilegi nobiliari
si scontrano con la miseria nera della plebe ed il desiderio eterno di rivincita delle classi
subalterne, ma diviene metafora della sorte crudele e immutabile degli uomini.

Tutti gli autori siciliani risultano inoltre accomunati da un sentimento ora d’amore, ora
d’odio, ora di nostalgia verso la propria terra natale, tanto da poter parlare di una linea
"siciliana" della letteratura italiana.

Luigi Pirandello, pubblica : I vecchi e i giovani , violento atto di accusa contro lo Stato
unitario: ancora una volta, dalla Sicilia. È Caterina Laurentano (il personaggio più positivo
del romanzo, una donna che ha sofferto per gli ideali patriottici, che ha sposato un uomo
morto nelle battaglie garibaldine, il cui figlio – Roberto – è stato la più giovane “camicia
rossa”) a farsi portavoce della profonda delusione di un intero popolo. Al figlio che
vorrebbe candidarsi alle elezioni nelle file del partito che ha governato l’Italia, dice di no,
con fermezza e vigore ed è Caterina, che sintetizza in una sentenza di condanna senza
possibili appelli, ciò che è avvenuto in Italia tra il 1861 e il 1891: «Trenta e più anni di
malgoverno!».

Il 1894 è l’anno in cui Pirandello immagina di concludere le vicende narrate. Vicende che
raccontano di una capitale d’Italia imbrattata da una pioggia di fango (nel 1894, vale la
pena ricordarlo, esplode lo scandalo della Banca di Roma, con gli illeciti rapporti tra potere
politico e potere economico) e di uno Stato unitario che manda in Sicilia l’esercito per
reprimere nel sangue i moti dei “Fasci siciliani”. È anzi proprio durante uno scontro tra
esercito italiano e tumultuante popolazione siciliana che Mauro Mortara (personaggio che,
ne I vecchi e i giovani, incarna la fedeltà agli ideali garibaldini) rimane ucciso, nell’estremo
tentativo di fermate la violenza di quello Stato che anche lui, come molti altri siciliani, ha
contributo a far nascere, combattendo con il Generale in camicia rossa.

Ma non si conclude qui la storia letteraria dell’Italia unita vista da Sud. l Quarantotto come
Il Gattopardo è un racconto dedicato, ancora una volta, allo sbarco di Garibaldi in Sicilia e
ad un mancato cambiamento. Quando Sciascia racconta del barone Garziano che supera
indenne i moti del 1848 (come mastro don Gesualdo nel romanzo verghiano, capace di
«tenersi a galla» anche nelle tempeste politiche del ’21 e, appunto, del ’48) e lo descrive,
nel 1860, con la coccarda tricolore e pronto a stringere la mano a Garibaldi, narra la storia
di una terra senza rivoluzioni. Come scrive anche nel suo libro d’esordio, Storia di
Regalpetra al passaggio di Garibaldi senza che questo porti con sé le attese
trasformazioni sociali (Sciascia adopera un’immagine per raccontare questa realtà
sostanzialmente immobile: quella dell’organista che è cambiato ma che suona sempre la
stessa musica).
È così il Sud che produce i romanzi di opposizione al nuovo Stato italiano che ha
tradito le aspettative. Ed è il Sud che, anche dopo Sciascia e Tomasi di Lampedusa, ha
continuato a riprendere – in forme e con esiti diversi – questo stesso tema, argomento
anticanonico (finché era trattato da Verga, da De Roberto, anche da Pirandello) che ha
finito per farsi canone.

Il ritorno alla Sicilia inteso come ritorno alle proprie radici, ma anche come viaggio dentro
se stessi e dentro le leggi eterne del mondo è il tema centrale anche del romanzo di Elio
Vittorini "Conversazione in Sicilia". L’autore stesso avvisa in una nota finale al testo che "il
protagonista non è autobiografico e la Sicilia è solo per avventura Sicilia": ciò significa che
egli va oltre la realtà, pur descrivendola; i personaggi della sua terra diventano simbolo di
una qualità o di un’idea, così come la Sicilia rappresenta metaforicamente il mondo.

Si tratta del romanzo-manifesto dell’impegno etico e civile dell’autore (che fu fascista


“di sinistra”),Gli intellettuali, in quel difficile periodo che fu quello della Seconda Guerra
Mondiale, cercarono si diventare portavoci di un impegno etico e sociale, anche nella
realtà del dopoguerra, per dare voce agli oppressi e contrastare le ingiustizie. Così anche
Vittorini fece a pieno la sua parte e pertanto può definirsi scrittore neorealista.

Così fa Vittorini nel libro sebbene il messaggio rivoluzionario sia nascosto dietro un
linguaggio estremamente letterario, ispirato ai silenzi e alle ombre di una Sicilia insolita,
invernale e montagnosa. Vittorini, siciliano emigrato al nord, racconta la propria terra, di
cui riscopre le terribili condizioni di vita, e la trasforma in una metafora del mondo intero
e dell’esistenza collettiva.

La storia inizia quando Silvestro riceve una lettera da parte del padre, che lo informa di
aver lasciato la casa coniugale per vivere con un’altra donna. Questo evento scuote il
protagonista nel profondo, facendolo uscire da quell’inettitudine che si era creato e
spingendolo a tornare a casa dalla madre, in occasione dell’onomastico di lei.Il romanzo
segue così il viaggio che Silvestro compie dal Nord fino alla Sicilia, durante il quale egli
incontra una serie di personaggi molto particolari: il Gran Lombardo, un siciliano molto
forte che gli ricorda quanto sia importante impegnarsi attivamente per gli altri; due poliziotti
Senza Baffi e Con Baffi che disprezzano i passeggeri siciliani; un ragazzo malato e un
catanese.Quando il protagonista incontra finalmente la madre, inizia la rievocazione di tutti
i ricordi della sua infanzia e soprattutto degli affetti familiari.Nella terza parte del romanzo
“Conversazione in Sicilia“, Silvestro accompagna la madre, che è infermiera, a far visita a
tutti i malati dell’ospedale. Essi si trovano in una situazione di grande povertà e ricordano
al protagonista quanto il mondo sia “offeso” dalla miseria e dall’ingiustizia.
“La verità” è invece una novella di Luigi Pirandello scritta in lingua siciliana nel 1912,
contenuta nella raccolta Novelle per un anno.

La novella narra della vicenda di Saru Argentu, chiamato con il suo soprannome Tararà,
accusato di aver ucciso sua moglie per adulterio. Tararà è un povero garzone analfabeta
che più volte durante il processo suscita l'ironia della corte per la sua ignoranza e la sua
semplicità. Tararà è sottoposto a giudizio e alla fine confessa di aver ucciso la moglie
perché venne a sapere da un uomo che lei andava a letto con il cavalier Fiorìca. Nella sua
ingenuità di uomo semplice, Tararà spiega che non ha compiuto il delitto per il tradimento
in sé, che addirittura giustifica, bensì a causa dello scandalo voluto dalla moglie del
cavaliere che ha reso pubblico ciò che sarebbe dovuto rimanere confinato nelle mura
domestiche. Per questo, per salvaguardare l'onore suo e della famiglia, è stato costretto
ad assassinare la sua sposa con un'accetta. Inizialmente l'avvocato fa intendere a Tararà
che questo genere di cause sono benevoli per l'imputato poiché il delitto d'onore è
ammesso dal codice. Dopo la sua bizzarra e sincera confessione in aula, però, il giudice
condanna Tararà a tredici anni di reclusione

I Vicerè e I vecchi e i giovani hanno pagato la loro “inattualità”, la loro forza polemica, con
la lunga dimenticanza.

Nella letteratura del Novecento la Sicilia, dunque, diviene simbolo delle proprie radici
attraverso cui si può arrivare a comprendere se stessi, ma resta anche una realtà amata
ed odiata allo stesso tempo, oggetto d’indagine storica o attuale.

LUIGI PIRANDELLO

Nasce a Gigenti(oggi Agrigento) nel 1867 da una famiglia borghese

Fu docente di italiano a Roma..

Subì un grave dissesto economico in seguito al quale la salute mentale della moglie
precipitò. Per lui la famiglia diventa una “trappola” che lo soffoca

Integra lo stipendio di professore con la pubblicazione di Novelle.

Passò da una vita agiata a quella di una di piccolo borghese(come Svevo), così anche
la società è una “trappola” che soffoca, con il suo rigore , i disagi economici,

Il rancore e l’insofferenza che ne derivano acuirono il suo rifiuto del meccanismo


sociale-alienante. In questa trappola l’uomo si dibatte invano.

POETICA
Alla base delle opere di P. c’è una concezione vitalistica, nel senso che la realtà è un
perpetuo movimento vitale, un eterno divenire, un flusso continuo, come un magma,
tutto ciò che si stacca da questo flusso e assume “forma” individuale si irrigidisce ed
inizia a morire.

Noi siamo parte dell’eterno fluire della vita ma tendiamo a cristallizzarci in forme
individuali.

La “forma” che noi diamo alla nostra personalità è fittizia e dipende da come gli altri
ci vedono, ad es. un individuo può creare di sé l’immagine dell’onesto lavoratore
padre di famiglia, mentre gli altri lo vedono come un ambizioso senza scrupoli.

Quindi noi crediamo di essere 1 per me stesso e per gli altri ma in realtà siamo
centomila dipende da come gli altri , ognuno di loro ci vede

Ognuno di queste “forme” è una maschera che noi ci imponiamo e che ci impone
la società. Sotto la maschera non c’è nessuno di definito ma solo un fluire in costante
trasformazione, con una frantumazione dell’io.

In questo fu influenzato dalle teorie dello psicologo Binet sulle alterazioni della
personalità ed era convinto che nell’uomo coesistevano più persone ignote a se
stesso, con una critica alla tradizione filosofica dell’identità persone dell’io.

L’io si disgrega, si smarrisce naufrago tutte le certezze.

Queste idee sono contestualizzate: il sistema monopolistico che annulla l’iniziativa


individuale e dissolve la persona in nome della produttività e massificazione dove il
singolo è solo una rotella della catena di montaggio privo di coscienza , gli sterminati
apparati burocratici annullano l’individuo in quanto tale , le grandi metropoli in cui
l’uomo smarrisce il legame con gli altri alienato nella folla anonima.

Non più l’uomo padrone del proprio destino, capace di farsi da solo , idee tipiche
della borghesia, dominatore del mondo, ma bloccato nella noiosa quotidianità.

La presa di coscienza della SCISSIONE DELL’IO porta nei personaggi di P.


smarrimento e dolore, l’avvertire di non essere nessuno, l’impossibilità di avere
un’identità provoca orrore, angoscia solitudine , ma soffre anche quando vive in
forme create dagli altri, dove si vede vivere , come sdoppiato mentre vede i gesti che
gli impone la sua maschera e che appaiono assurdi, con il rifiuto della vita sociale,
l’altra trappola del lavoro per un piccolo borghese, una vita misera con lavori
alienanti monotoni e frustranti ed un organizzazione gerarchica oppresiva, La società
è la negazione del movimento vitale.

Il reale è multiforme, polivate non esiste una prospettiva privilegiata da cui guardarla,
tutto è relativo al modo soggettivo di vedere le cose=RELATIVISMO
CONOSCITIVO. La sua è un’arte che scompone il reale , l’io si scinde , si frantuma.
Da questa Trappola non si esce e non c’è una via d’uscita storica, il pessimismo di
Pirandello è assoluta, senza alternative .

L’unica via di salvezza che dà ai suoi personaggi è la fuga nell’irrazionale,


l’immaginazione che trasporta altrove, oppure nella follia. strumento di contestazione
per eccellenza.

LA TRAPPOLA DELLA VITA SOCIALE I

In queste forme l’uomo si dibatte inutilmente in un carcere da cui non può liberarsi :
la crudeltà che domina i rapporti sociali nascosti dalle buone maniere . La società è
un enorme pupazzata , una costruzione fittizia che lo conduce ala morte mentre
continua a vivere .

Alla base c’è in Pirandello un rifiuto delle forme della vita sociale dei ruoli che essa
impone , c’è bisogno di autenticità, per cui nelle suo opere teatrali irride queste
maschere.

Il rifiuto della vita sociale fa si che nei suoi lavori ci sia una figura ricorrente: il
forestiere della vita, che ha capito il gioco e la fasullità della società e si isola, se ne
esclude, guarda vivere gli altri dall’alto della sua consapevolezza e guarda gli uomini
imprigionati dalla trappola con un atteggiamento “umoristico” di irrisione e pietà, è
questa quella che lui definisce la “filosofia da lontano”

La società a cui fa riferimento è quella post- bellica del governo Giolitti

La trappola per eccellenza che imprigiona l’uomo è la famiglia e la vita piccolo


borghese , separandolo dall’immediatezza della vita. L’altra trappola è
economica , il lavoro monotono e frustante del piccolo borghese.

Da questa trappola non si fugge. La critica feroce alle istituzioni resta puramente
negativa

Ne deriva una naturale incomunicabilità tra gli uomini che ne aumenta la solitudine.

Può essere definito Decadente?

Per il suo vitalismo irrazionalistico si.

Ma ricordiamo che alla base del Decadentismo c’è una fiducia in un ordine
misterioso tra le cose, una fitta rete di corrispondenze che unisce tutta la realtà .

Per P. la realtà si sfalda in tanti frammenti, come l’io, che non hanno alcun
significato.
L’umorismo del 1908

qui enuncia la sua concezione poetica.

Tratto caratterizzante dell’”umorismo” è il “sentimento del contrario” cioè le


implicazioni , tragiche o comiche, che stanno dietro ad un comportamento illogico

Se vedo una vecchia signora coi capelli tinti e tutta imbellettata avverto che è il
contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere.

Questo “avvertimento del contrario”è il comico.

Ma se interviene la riflessione e suggerisce che la signora soffre a prepararsi così lo


fa nell’illusione di trattenere l’amore del marito molto più giovane non posso più solo
ridere: dall’avvertimento del contrario il comico passa al sentimento del contrario
cioè l’umorismo. Tragico e comico vanno insieme. Se si toglie il ridicolo di una
persona , se ne individua anche il fondo dolente di umana sofferenza e lo guardi con
pietà, viceversa di fronte al serio o tragico non si può evitare di far emergere anche il
ridicolo

Il contrasto tra personaggio e persona => il personaggio rappresenta l’uomo che,


nella società, recita una parte (indossando, dunque, una maschera) perché non gli è
più possibile essere una “persona” completa e coerente.

Il fu Mattia Pascal

Pubblicato nel 1904 è la storia di un piccolo borghese intrappolato nella trappola


della famiglia insopportabile e della vita sociale e per un caso fortuito si trova
improvvisamente libero e padrone de sé, diviene economicamente autosufficiente
grazie da una vincita al gioco ed apprende di essere ufficialmente morto in quanto la
moglie e la suocere lo hanno riconosciuto in un cadavere affogato . Però invece di
approfittare della liberazione dalla forma senza più assumere maschere, si sforza di
costruirsi una un’identità nuova quella di Adriano . In cui resta insuperabile
l’attaccamento alla ita sociale alla trappola, poi soffre per la su falsa identità che lo
costringe all’esclusione dalla vita degli altri. Decide pertanto di rientrare nella sua
vecchia identità , tornando in famiglia ma scopre che la moglie si è risposato ed h un
figlio da un altro : non gli resta che adattarsi alla sua condizione di forestiere della
vita che contempla gli altri dall’esterno consapevole di non essere nessuno .
La realtà del protagonista è sconvolta dal caso in modo grottesco, umoristico, ma
c’è la sofferenza del protagonista sia quando è intrappolato nella vita sociale sia
quando ne è escluso. Scatta dunque il sentimento del contrario, tragico e comico
sono indissolubilmente congiunti

• Il romanzo presenta due premesse=> la seconda suggerisce che l’inizio del


relativismo moderno va rintracciato nella fine del sistema tolemaico: le scoperte di
Copernico, modificando il posto dell’uomo nell’universo, hanno cambiato tutto.Il
romanzo ha un impianto narrativo in terza persona da parte di un narratore
eterodiegetico esterno e superiore al pino narrativo perciò attendibile come nel
romanzo naturalista, il romanzo è raccontato dal protagonista in forma
retrospettiva. Affida ad un memoriale la sua esperienza inoltre racconto è
focalizzato non sull’io narratore che ha già vissuto le vicende e ne sa di più ma
sull’io narrato , sul personaggio mentre vive i fatti. Al punto di vista oggettivo della
narrativa naturalista si sostituisce un punto di vista soggettivo inattendibile e
inaffidabile che non dà una prospettiva certa sugli avvenimenti e contribuisce a
dare il senso di relatività del reale. non è solo la causalità a rompere l’oggettività
naturalistica dl fatto, ma anche la prospettiva soggettiva attraverso cui viene
presentato

Pirandello ha chiara l’impossibilità di scrivere un romano tradizionale in un ìetà che


ha visto crollare le certezze sul reale. In una prefazione metanarrativa in Mttia
narratore passa in rassegna i modelli di romanzo 800centeschie li scarta
ironicamente .

• Tensione del racconto a dimostrare la falsità delle convenzioni e l’impossibilità di


uscirne per seguire il proprio flusso vitale ,ormai sostituito nel suo ruolo di marito e
padre preferisce, anziché tornare nella “ forma” consueta, accettare il suo ruolo di
“personaggio” che guarda vivere gli altri: ormai non è più il Mattia pascal che si
gloriava di conoscere (nel 1° capitolo) sicuramente almeno il suo nome, ma il “fu”
Mattia Pascal, estraneo alle convenzioni e libero di ragionare sulla propria esistenza
fuori dello stato civile.

Altri romanzi:

I vecchi e i giovani • pubblicato nel 1913

l’impianto è quello del romanzo naturalistico e ricorda un pò I Vicerè. Nella forma


esteriore è un romanzo storico che rappresenta le vicende eoliche e sociali della
Sicilia e dell’Italia negli anni 1892-3 tra la rivolta dei Fasci siciliani guidata dai
socialisti e ripresa nel sangue e lo scandalo della Banca Romana che minacciava di
travolgere la classe dirigente del giovane StatoIl centro è una famigli aristocratica di
Gigenti i Laurentano, l’intreccio è nel confronto tra due generazioni: i vecchi che
hanno fatto l’Italia ma vedono i loro ideali Risorgimentali delusi dalla corruzione
politica presente; ed i giovani smarriti e incerti sulla direzione da imprimere aa loro
vita, e la loro azione si chiude nel fallimento. Il personaggio chiave è il vecchio
Cosmo Laurentano che rappresenta il filosofo da lontano che ha capito il gioco e
guarda la vita da un ‘infinita lontananza, Aisuoi occhi le passioni umane, gli ideali
patriottici , il socialismo sono pure e nobili illusioni ma comunque vane.Alla fine
quasi nulla cambia: umoristicamente, neanche la storia riesce ad uscire dalle sue
consuete forme (pessimismo storico). Quindi dietro all’apparente impianto
Naturalistico c’è l’umorismo di Pirandello, infatti i fatti non sono rappresentati
direttamente ma allontanati con voi procedimenti come l’adozione di punti di vista di
personaggi secondari .

Uno nessuno e centomila • Romanzo progettato a partire dal 1909 ma ultimato solo
nel 1925.

Si colega al FuMattia Pascal riportando al centro della vicenda la crisi dell’indentità


individuale. Moscarda, il protagonista scopre che gli altri hanno di lui un immagine
diversa da quella che egli si è creato per se stesso, scopre di non essere 1 ma
centomila nel riflesso della prospettiva degli altri, e quindi nessuno.Questo fa
saltare tutte le sue certezze lo porta ad una crisi sconvolgente, ha orrore delle forme
in cui lo chiudono gli altri e non vi si riconosce, ma ha anche orrore della solitudine
in cui piomba allo scoprire di non essere nessuno.

Allora decide di distruggere tutte queste immagini, in particolare dell’usuraio,(ha


ereditato una banca dal padre) per cercare di essere uno per tutti. Ricorre così ad una
serie di gesti folli come vendere la banca. Crea un ospizio per i poveri e si fa
ricoverare , estraniandosi dalla vita sociale, in questa scelta trova una soluzione alle
sue ossessioni rinunciando definitivamente ad ogni identità ed abbandonandosi
pienamente al puro fluire della vita.

Formalmente sembra un ininterrotto monologo, in metà del libro non vi è racconto ,


ma l’arrovellarsi ossessivo de protagonista , chiama in causa un interlocutore
immaginario.

Novelle per un anno • Vi si trovano i temi fondamentali dell’autore

• Risultano ben delineati vari filoni di novelle: comiche, umoristiche, drammatiche,


surreali… => viene proposta la sclerotizzazione (fissante) della vita quotidiana da
questa si esce, umoristicamente. A differenza delle raccolte classiche degli novella
rinascimentali non si riesce ad individuare un ordine preciso, determinato ,sembra
alludere alla visione del mondo di Pirandello, non ordinato ed armonico ,ma
disgregato in una miriade di aspetti precari e frantumati , il cui senso complessivo
sembra irraggiungibile.
TEaTRO

Rivoluzionario è il suo apporto, nel teatro dominavano i capisaldi del naturalismo


ossia la verosimiglianza nel rappresentare la vita borghese, la logica consequenzialità
degli eventi e la tendenza a proporre personaggi dalla psicologia coerente e unitaria.
Pur rappresentando la quotidianità borghese P. forza all’estremo i casi normali della
vita introducendo intrecci e personaggi che rasentano l’assurdo come in “sei
personaggi in cerca d’autore”

slaid prof

“La cattura” da Novelle per un anno. Pirandello

P. scrive moltissime novelle soprattutto ne primi 15 anni del 900 e dopo varie
pubblicazioni le raccoglie in 24 volumi dal titolo Novelle per un anno, senza un
ordine cronologico determinato e riflette la visione di P .del mondo non ordinato o
armonico ma disgregato in una miriade di forme precarie e frantumate, intrappolate in
ruoli sociali mortificanti.

Riassunto

La cattura (L. Pirandello), una novella tragicomica, ironica, assurda… che si svolge
nell’arco di due mesi e che, tra le altre cose, si concentra, in termini secolari, su una
persona catturata per un sequestro di persona ,don Vicè Guarnotta, è un padrone che
ha perso un figlio e vive una tragica vita in trappola in un matrimonio fallito che un
giorno viene rapito, ne risulteranno tante situazioni grottesche in cui i rapitori
diventano ammiratori del sequestrato, Il Guarnotta muore durante il sequestro di
morte naturale E i tre rapitori lo piansero, lo piansero, inginocchiati tutti e tre attorno
al cadavere, e pregarono Dio per lui e anche per loro. Poi lo seppellirono dentro la
grotta, in cui lo tenevano sequestrato e in cui stava giocando con i loro figli quando
morì.In seguito i cittadini di Agrigento, ignari degli eventi, raccontano storie della
misteriosa scomparsa di povero Guarnotta! Nessuno si era preoccupato per lui
compresa la moglie.I cittadini d’Agrigento presumono che il povero Guarnotta sia
morto. Ironicamente il mistero della sua scomparsa è indagato in modo superficiale.
In vita infatti il Guarnotta arriva ad accettare il suo destino: è ridotto credere che la
sua vita nella grotta è davvero migliore della sua vita ad Agrigento.Per tutta la vita, se
a qualcuno per caso avveniva di ricordare davanti a loro( i rapitori) il Guarnotta e la
sua scomparsa misteriosa:

– Un santo! – dicevano. – Oh! Andò certo diritto in paradiso con tutte le scarpe,
quello!

Perché il purgatorio erano certi d’averglielo dato loro là, su la montagna, in quello
grotta.
Pirandello ci rappresenta due aspetti dell’umanità, legati da un comune destino di
sofferenza: Guarnotta è un possidente, lacerato dalla perdita del figlio; che ogni
giorno parte sulla sua asinella per trascorrere la giornata al suo podere, guardando il
mare e ascoltando le voci della natura, degli uccelli del bosco, evadendo da una realtà
piena di noia, che non tollera. La cattura gli prospetta una vita nuova, e, per la prima
volta, viene ascoltato con stima da tre ignoranti che gli riconoscono la fortuna di
saper leggere e di conoscere molte cose, che loro ignorano. Ma poi anche quella vita
diventa piena di noia. Rappresentano due mondi che sono distanti per quel poco di
cultura che Guarnotta possiede, non tanto per le case e le terre; i tre finiscono con
l’invidiarlo, infatti, perché sa leggere e gli portano un libro, trovato chissà dove,
perché possa trascorrere meglio le sue giornate. Forse, non sanno neppure di
compiere il crimine di sequestro di persona e portano le loro famiglie perché possano
ammirare una persona diversa, come se le portassero al cinema o in pellegrinaggio ad
un santuario. Un critico potrebbe inserire la novella nel movimento naturalistico e
vederne un diffuso richiamo leopardiano; quello che conta è la commossa
partecipazione dell’autore alla condizione di sofferenza e di miseria dei suoi
conterranei.

• Leonardo Sciascia da maestro scrittore


Sciascia nasce nel 1921 in Sicilia, a Racalmuto,(dve sarà maestro elementare
giovaissimo per alcuni anni) in una famiglia di estrazione umile, gente abituata a
lavorare duro e che affonda le proprie radici nella zolfatara della zona.
Ambientazione che tornerà qualche decennio dopo nel racconto L’Antimonio (letto e
apprezzato anche da Pasolini), in cui Sciascia racconta la storia di un minatore
sopravvissuto a un’esplosione sul lavoro. Leonardo Sciascia è un giovane
insegnante , e studia a Caltanissetta, muore il 20 novembre del 1989

Leonardo Sciascia è uno dei più importanti autori italiani del Novecento. Nei
suoi libri, come "Il giorno della civetta" e "A ciascuno il suo", ha raccontato la
Sicilia e il dramma della mafia

Lascia romanzi, racconti, una vasta produzione saggistica ma, soprattutto, un


nuovo modo di intendere la narrativa di intrattenimento.

Con i suoi brevi romanzi, spesso catalogati in modo semplicistico come “gialli”,
denuncia le infiltrazioni mafiose nella società siciliana. Infiltrazioni che ne
permeano il tessuto fino a farlo marcire, e che si manifestano non in maniera
eclatante ma sottotraccia, nei discorsi e nei comportamenti apparentemente innocui
della gente “per bene”.

Sicilia (infanzia)

La Sicilia primo-novecentesca è una terra arcaica, lontana dai clamori della guerra
e legata a ritmi diversi dal resto della penisola. Impiegato nel Consorzio Agrario e
dunque maestro, Sciascia conduce una vita lenta, che si srotola tra la Sicilia e Roma
e tra matrimonio (quello con Maria Andronico, anche lei maestra, e madre delle sue
due figlie) e lutti (per il drammatico suicidio del fratello). E nel frattempo, Sciascia,
scrive: un’attività febbrile che comprende poesia, saggistica e narrativa breve e che
viene notata dai grandi intellettuali del tempo: Pasolini, appunto, ma anche Italo
Calvino.

Leonardo Sciascia: un uomo del Novecento

Leonardo Sciascia è un uomo profondamente radicato nel suo tempo e partecipa


attivamente alla discussione politica italiana, sia con l’attivismo sia, ovviamente, con
i suoi scritti. Sciascia, infatti, accompagna alla militanza nel Partito Comunista (per
cui ricopre anche la carica di consigliere), la riflessione intellettuale su diverse
questioni politiche e sociali: dall’indagine sulla sparizione – mai risolta – del fisico
Ettore Majorana, che sviluppa nel saggio La scomparsa di Majorana (Einaudi,
1975), all’inchiesta sull’omicidio di Aldo Moro, con il pamphlet L’affaire Moro
(Sellerio, 1978). E poi, ovviamente, la denuncia del sistema mafioso siciliano, che lo
scrittore articola in diversi romanzi assimilabili al genere poliziesco, e considerati – a
ragione – le sue opere più rilevanti.

Tra questi, il più celebre è sicuramente Il giorno della civetta (Einaudi, 1961). Frutto
di un complesso lavoro “di lima” per rendere il testo il più corto e incisivo possibile,
si ispira al reale omicidio di un sindacalista per mano di Cosa Nostra, senza farvi
tuttavia mai riferimento diretto. Protagonista è il capitano dei carabinieri Bellodi del
Nord venuto in Sicilia per indagare sui delitti di mafia, è un fautore della giustizia.

La realtà siciliana gli appare subito molto più complessa quasi incredibile per la
connivenza tra abusi , privilegi e legalità fascista.Rapporti di tipo feudale legano
ancora i sottoposti ai padroni questi legami si ripropongono nel campo politico dato
che a Roma ci sono amici che negano che esista la mafia e pronti a muoversi al
momento opportuno per bloccare le indagini , come fanno ora con lui anche se alla
fine del libro conferma la volontà di continuare”Mi ci romperò la testa”

Simile, per messaggio e impianto, è A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), dai toni più
marcatamente polizieschi, in cui un modesto professore di provincia indaga su un
doppio omicidio con un movente solo all’apparenza passionale, e cade nella trappola
di apparenti amici e nell’ultima battuta viene definito “cretini”.

In entrambi i romanzi la mentalità mafiosa non è espressa da singoli personaggi, ma


da tutto l’ambiente con cui i protagonisti si trovano a relazionarsi.

Quindi in questi brevi romani polizieschi , che dovrebbero risolversi positivamente a


conferma degli ideali di giustizia e chiarezza professati nella vita da Sciascia, quasi
mai giungono ad una soluzione positiva anzi spesso i ruoli cambiano
improvvisamente, colpevoli ed innocenti si confondono, perché la realtà storica
( italiana ma soprattutto siciliana) propone di continuo machiavellismi politici e
connessione tra potere istituzionale ed occulto

Altro oggetto della critica di Sciascia sono i rapporti ambigui tra le gerarchie
ecclesiastiche e il mondo della politica italiana. Un “magna magna”, come
potremmo definirlo ora, che Leonardo Sciascia inscena in un’opera breve ed
estremamente incisiva: Todo modo (Einaudi, 1974), il titolo rimanda ad una frase
degli “esercizi spirituali di Loyola fondatore dei Gesuiti.. “Ambientato in un eremo,
durante un ritiro a cui partecipano diversi notabili, la trama ruota anche questa volta
attorno a un delitto, e – come in “A ciascuno il suo” – dell’indagine si occupa un
protagonista estraneo al mondo della polizia, in questo caso un pittore.

Con finali ambigui, ma estremamente aderenti alla realtà italiana, molte tra le storie
di Sciascia sembrano pensate appositamente per il cinema. Non stupisce infatti, che
esistano diverse versioni cinematografiche Il legame di Sciascia con il cinema,
insomma, è molto forte, e come tutti gli scrittori che mettono piede a Roma finisce
anche per occuparsi di sceneggiatura.

slaid prof

Fenomenologia del “detective” di Sciascia

Quanto ai detective che lo scrittore crea in proprio, che agiscono nei suoi romanzi, è
possibile tracciarne una sintetica fenomenologia: pur non mancando qualche esempio
di investigatore dilettante, prevalgono i rappresentanti delle istituzioni, con l’idea che
in Italia non godano di fiducia e non possano arrivare ad assicurare i colpevoli alla
giustizia, non per incapacità, anzi, al contrario, perché, pur dotati di grande onestà e
rigore, di vera competenza, sono ridotti all’impotenza dai contesti in cui si trovano ad
agire.

Hanno alcuni caratteri comuni: sono uomini colti, di una cultura umanistica moderna
e critica, grandi lettori; piuttosto solitari, non sono circondati da una famiglia e
neppure sposati, quasi isolati all’interno dei gruppi sociali cui appartengono.
Si innesta uno degli elementi che valgono a convogliare nei polizieschi di Sciascia
l’istanza civile che si è visto caratterizzarli: i suoi detective rimangono estranei al
gruppo di appartenenza per i valori morali cui si attengono, non condivisi da quanti li
circondano. Non c’è contatto tra loro e il mondo in cui agiscono, soprattutto non c’è
comprensione. 

Per Sciascia il poliziesco si configura come il mezzo per suscitare la riflessione su un
sistema politico e sociale degradato, per condurre un’indagine filosofica il cui scopo è
quello di arrivare alla verità, di penetrare in profondità nell’animo umano.

slaid prof

Da queste premesse deriva l’originalità del suo ricorso al «giallo», che gli consente di
attingere, negli anni Sessanta, a una nuova forma di romanzo realista, un romanzo
d’inchiesta, che lascia spazio alla denuncia e alla riflessione morale; ed è un’inchiesta
che, per quanto animata da una forte esigenza di tipo razionale, non è destinata a
concludersi con la punizione del colpevole, pure individuato intelligentemente dai
suoi investigatori. Come ha indicato Sciascia stesso, nell’intervista a Padovani del
1979, il «“discorso” del romanzo poliziesco ,tende alla verità dei fatti e alla
denuncia del colpevole, anche se non sempre il colpevole si riesce a trovarlo. Si
potrebbe dire che ho introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco!».

slaid prof...il capitano Bellodi, ( de “il giorno della civetta”)la cui estraneità dal
contesto è marcata anche per la sua provenienza dal settentrione, per il suo passato di
impegno democratico, ha un compito molto più difficile dei suoi colleghi di carta,
non deve risolvere un enigma, sconfiggere un antagonista, ma lottare contro un
costume, un fatto sociale, l’omertà.

Il detective sciasciano è solo nella sua battaglia contro una rete sociale di delinquenti:
refrattario alla corruzione, è spinto da ideali etici, dal bisogno di trovare la verità e di
assicurare la giustizia; tutto ciò lo destina necessariamente alla sconfitta, al
fallimento. Alla fine, il lettore si trova di fronte a una doppia negatività, con
l’inversione da un lato dell’esito della lotta tra eroe e antagonista che, nel poliziesco,
tradizionalmente vede il primo vittorioso, e dall’altro, con il rovesciamento dell’esito
dell’indagine in rapporto all’affermarsi della giustizia. È quanto avviene anche con
Laurana in A ciascuno il suo (1966), in modo più articolato con Rogas nel
Contesto (1971), con il pittore in Todo modo (1974) e infine con i protagonisti di
Una storia semplice (1989).

Infatti, per Sciascia il poliziesco( genere a cui dedica molti racconti) si configura
come il mezzo per suscitare la riflessione su un sistema politico e sociale degradato,
per condurre un’indagine filosofica il cui scopo è quello di arrivare alla verità, di
penetrare in profondità nell’animo umano.

“Il lungo viaggio” è un racconto che Leonardo Sciascia inserì nella raccolta “Il
mare colore del vino”, opera che raccoglie testi pubblicati tra il 1959 e il 1972;
racconti che costituiscono una “summa”, un vero viaggio tra i temi più cari allo
scrittore: la mafia, la corruzione, gli abusi di potere..

“Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se
ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il
suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi”

Protagonista è un gruppo di siciliani provenienti da paesi interni, lontani dal mare, i


quali decidono di affrontare il lungo viaggio in mare per andare in America a far
fortuna. Pronti a partire, da una spiaggia deserta della Sicilia tra Gela e Licata per un
viaggio avventuroso che non promette alcuna certezza.

Per permettersi questo viaggio da irregolari hanno dovuto vendere tutti i loro averi
per pagare i traghettatori astuti ed imbroglioni affinché li portino nel nuovo mondo,
ad un nuova vita. Sorprendentemente il viaggio dura meno di quanto si aspettavano i
clandestini siciliani: dopo undici ore si vedono in lontananza le luci delle città che
appaiono ai viaggiatori come stelle scese al mare. Il signor Melfa, uno dei
traghettatori, lascia il gruppo di clandestini a terra che dovranno cercarsi da soli la
stazione di Trenton, ma quando chiederanno informazioni riceveranno risposte in
italiano ed insulti perché scambiati per ubriachi. Preso atto dell’imbroglio, si rendono
conto di essere sbarcati a Santa Croce Camarina. Il silenzio avvolse il gruppo e fu
rotto da uno a cui sovvennero ricordi legati a questo luogo.

“Il lungo viaggio” trattando del problema dell’emigrazione come dura necessità
evidenzia anche il fascino che l’America esercita sulle popolazioni meridionali.
Attraverso la descrizione realistica e amara delle condizioni degli emigranti
meridionali questo racconto offre una rappresentazione meno utopica del loro sogno
irrealizzato, ma nonostante la beffarda truffa, il finale fa spazio a un sorriso per la
situazione comica in cui vengono a trovarsi gli sventurati protagonisti.

L’impegno civile delle opere di Sciascia trova ancora una volta espressione in forme
di scrittura originali realizzate sempre con prosa chiara e basata su una concretezza
che poco concede al sentimento favorendo invece il momento dell’analisi oggettiva e
della denuncia. Il senso di miseria, precarietà e abbandono dei siciliani appare
evidente fin dall’inizio (“respiro di belva che era il mondo”); essi, in un viaggio della
speranza, sono umiliati e sminuiti della loro stessa considerazione personale.

Esaminando le condizioni della realtà siciliana, Sciascia, con la sua opera sempre
legata alla realtà contemporanea e basata sull’impegno civile, rappresenta il nodo
delle contraddizioni politiche e sociali dell’Italia contemporanea nel suo complesso.
Il racconto “Il lungo viaggio” propone un aspetto della drammatica realtà siciliana del
dopoguerra quando molti scelsero di emigrare per fuggire alla miseria inflitta dalla
Seconda guerra mondiale

La Sicilia di Sciascia è soprattutto terra di mafia, immutabile così come lo era per
Verga, per De Roberto, per Tomasi, eppure perennemente in lotta per affermare il
proprio Illuminismo: "Tutti i miei libri" - confessa lo scrittore - "in effetti ne fanno
uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che
viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della
ragione”,continuando l’eterna indagine su una Sicilia specchio del mondo e del
destino, immutabile isola dalle mille sfaccettature, a cui Sciascia si rivolgeva dicendo
"né con te né senza di te posso vivere”.

Le parrocchie di Regalpetra è un libro dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia,


pubblicato da Laterza nel 1956. Il nucleo intorno al quale, si struttura, è "Cronache
scolastiche”, che è il cuore del libro, pubblicato autonomamente nel 1955.

L’esperienza scolastica di Sciascia risale agli anni 40 ma come si vede dagli anni di
edizione dei due testi , “cronache scolastiche” è di molti anni dopo questa esperienza
, quando vengono ritrovati negli archivi della scuola i registri del maestro Sciascia, in
cui invece di annotare piccole cose come prevedeva la burocrazia, lui riversa,
pensieri, propositi, sensazioni, eventi successi a scuola, il suo stato d’animo, Infatti
come dice il nome, sono proprio una cronaca quotidiano di ciò che accadeva in
classe, un registro vero e proprio che sciascia fa pubblicare a sue spese nel 55. Su
questo nucleo tematico centrale, Sciascia aggiunge altre sue considerazioni sulla
situazione siciliana ed ecco che prende forma “Le Parrocchie di Regalpetra” che esce
nel 56, l’anno dopo.

L’opera principale cioè Le Parrocchie, è divisa in parti a seconda dell'argomento


trattato.E’ la cronaca sulla vita di un paese qualunque della Sicilia: in realtà,
Regalpetra non esiste, ma prende nome da una fusione tra Racalmuto, borgo natio
dell’autore , e il libro di Nino Savarese intitolato Fatti di Petra .

Regalpetra è una realtà la cui economia si basa sull'estrazione dal sottosuolo (sale,
zolfo): ciò, come dice l'autore stesso, limita la presenza della mafia, ed allo stesso
tempo la presenza di miniere fa sì che sia nutrita la schiera degli arricchiti e sottile
quella dei ‘galantuomini'. L'autore prende le mosse del racconto con una breve storia
del paese a partire dal 1622, simile a tante altre storie di paesi siciliani: il suo
denominatore comune è la sopraffazione del popolo ai soprusi dei proprietari
terrieri.La narrazione storica si sofferma particolarmente sul periodo del regime
fascista .Vengono descritte le manovre politiche, le campagne elettorali di missini,
comunisti, democristiani, liberali e così via; spezzoni del libro sono dedicati alle
riunioni del circolo dei “galantuomini", di cui Sciascia maestro fa parte, la nobiltà
terriera che decade, mentre cresce la borghesia dei nuovi arricchiti

A Racalmuto Sciascia va a scuola da piccolo e qui ha il primo incarico come maestro


elementare,, nella miseria più nera dei suoi alunni senza scarpe neanche in inverno e
senza libri nel più totale isolamento dalla realtà, ricordiamo che il cuore del racconto
è proprio la cronaca della vita nel paese, in particolare la scuola, ben ripresi in
”Cronache scolastiche” per mostrare quali siano le condizioni in cui le classi povere
versavano: la scarsa paga vale a malapena per il sostentamento, ed il pericolo di
morte sul lavoro è alto per i lavoratori, soprattutto salinari e zolfatari, che sono i
protagonisti dell’opera. L’idea dello sciopero è lontanissima da questa povera gente
alcuni non sanno neanche cosa sia, come nota Sciascia quando ne parla in classe con i
suoi alunni.

L’istruzione, sarebbe, quindi, uno dei pochi modi per provare a cambiare la
situazione: ma se la popolazione non nutre grande fiducia nella penna, è inutile, il
lavoro del maestro è frustante, non essendoci da un lato una presenza dello stato o del
Ministero dell’istruzione, dall’altro un totale disinteresse per la scuola a cui i proletari
mandano i figli solo perché con l’Unità d’Italia, così come c’è l’obbligo della leva
militare, c’è anche l’obbligo di andare a scuola, ma molti di questi bambini usciti da
scuola vanno a lavorare , i loro genitori sono lontanissimo dal comprendere
l’importanza dell’istruzione come arma di ricatto sociale. Al centro di questa
deludente realtà sta il povero maestro , sfiduciato come confessa di essere lo steso
Sciacsia che diventa così un cattivo maestro demotivato che come dice Sciascia,
passa tra i banchi per non addormentarsi.I programmi ministeriali sono del tutto
inadeguati alla realtà del Sud e ancor di più fanno perdere ogni determinazione in
quella che viene detta la 'missione' dell’insegnante. E’ chiaro, dice Sciascia che se la
mentalità cambiasse e con essa le condizioni della scuola del Sud la scuola potrebbe
dare un contributo, ma probabilmente solo modesto, vista la realtà storica della
Sicilia. Ma, dice Sciascia” Educare e istruire è indubbiamente compito più facile in
una società non così economicamente minorata” Nel tentativo di fare qualcosa per
migliorare la situazione il maestro Sciascia riesce a convincere i genitori dei suoi
alunni a contribuire all’acquisto dei sussidiari con mille lire, che però corrispondono
a 3 giorni di lavoro, ma una volta acquistati con sgomento si accorge di quanto siano
inadeguati allo studio in una realtà come quella in cui vivono. Sciascia continua
scagliandosi con una critica amara contro la legge dell'obbligo scolastico, che è come
la leva un obbligo di uno Stato che non sa essere giusto, che impone una legge, senza
prima combattere l’ atavica miseria che ne impedisce non solo l'applicazione, ma la
stessa accettabilità da parte dei genitori. La denuncia di Sciascia è in perfetta linea
con quella di Verga: lo stato repubblicano, per i cittadini di Racalmuto, non è poi
tanto diverso da quello postunitario dei pescatori di Aci Trezza. Tutte queste cose il
maestro le annotava nel registro di classe, come ricorda anche Antonio di Gado, in
un articolo sul libro,, Il Maestro Leonardo Sciascia alla battaglia di Regalpetra,
apparso sul giornale “La Sicilia”, o come commenta Cavallaro in occasione del
ritrovamento dei registri di classe di Sciascia e ci introduce magistralmente al tema
delle “cronache scolastiche “ di Sciascia e a quel rapporto fra maestro-scrittore e
maestro-personaggio che si cercherà di indagare.

Nel 2007 esce la biografia di Sciascia intitolata Il maestro di Regalpetra. Vita di


Leonardo Sciascia di Matteo Collura: il quale, nelle presentazioni del volume,
scriveva: Perché Sciascia è diventato lo scrittore che sappiamo? E qual è stata la
mossa iniziale? Ho scritto questo libro per rintracciare i punti eminenti della vita di
un uomo tra i più colti e raffinati di questo secolo, formatosi - e questo ha dello
straordinario - nell'angolo più povero dell'Italia più povera, violenta e dimenticata.
Vero è che nella Sicilia di Sciascia erano già nati Pirandello, Quasimodo, Brancati e
Vittorini, ma è altrettanto vero che Leonardo Sciascia, contrariamente a loro, non si è
mai allontanato dalla terra d'origine (mai per più di un mese di seguito), e anzi ne ha
fatto punto d'osservazione ideale, addirittura una Sicilia come metafora del mondo.

Nell'indagine della sua Sicilia,, egli “oscilla costantemente tra due poli, l’invenzione
narrativa e la riflessione critica, perché ritiene che la letteratura abbia valore nella
misura in cui conosce e razionalizza gli aspetti più caratteristici della realtà” le
Parrocchie di Regalpetra e al loro interno le Cronache scolastiche rappresentano
certamente un punto di origine di estremo interesse.

Ricordiamo che Sicilia come metafora è anche il titolo di un intervista a Padovano in cui
parlando di questo libro, Sciascia dice:Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un
paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla
libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. E aggiunge:Tutti i miei libri in effetti ne
fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e
che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di
coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati.

Sciascia non è uno scrittore “militante” di un partito politico, è un intellettuale


trentacinquenne consapevole del suo impegno, che ha voce e stile forte. In tutta
l’opera, la potenza della letteratura come strumento di interpretazione e denuncia
della realtà viene esaltata;. Quella di Sciascia è una letteratura che riproduce la verità
e che al tempo stesso la produce, cioè la reinventa attraverso la tensione della lingua e
della scrittura letteraria.

Rispetto a Verga di Vita dei Campi e de I Malavoglia vediamo che Verga è già
riemerso da quel mondo che narra, ne è molto lontano, e può assumerlo come
condizione eterna e immutabile; Sciascia al contrario è ai suoi inizi di scrittura, e,
come vedremo, quel mondo se lo sente ancora vicinissimo, suscita in lui un’ansia
divorante di riscatto umano. E' il mondo del maestro elementare.

slaid prof : se Cronache scolastica è un registro scolastico vero e proprio in che


tempi verbali lo scrive Sciacsia?

Nell’incipit usa i verbi al presente (Si avvicina l’estate… )per marcare la


contemporaneità tra l’evento ed il racconto, tra tempo della storia e tempo
della narrazione. Ma subito dopo dice (Nel turno pomeridiano, in questo mese
di maggio, )dilata così oltre la collocazione spazio- temporale: conduce oltre
quell'istante e oltre quel luogo, ci sposta al pomeriggio nel mese di maggio, e
ci dice che in questo mese il sonno è una grave insidia.” A casa non dormirei
di certo, starei a leggere qualche libro, a scrivere un articolo o lettere agli
amici.”L’io narrante è il maestro cioè Sciascia. Ma ad un certo punto sul
registro si legge“Non amo la scuola”: con questa affermazione l'autore
Sciascia prende le distanze dal suo personaggio, il maestro, che fa questa
affermazione, e poi “mi aggiro tra i banchi a vincere il sonno”, dice il maestro ,
e questa frase pare la negazione stessa della funzione di maestro, che si
annoia e non si sente a suo agio. Ma se indaghiamo a fondo, il passo
propone

una conclusione ancora più amara: ciò che si afferma, infatti, è vero solo
qui , “in un remoto paese della Sicilia”, quello che costringe un maestro a
sentirsi nei panni “dello zolfataro”.“Non nego però che in altri luoghi e in
diverse condizioni un po' di soddisfazione potrei cavarla” . A “non negare”
non è il personaggio-maestro ma l'autore, è lo Sciascia interessato alla storia
e ai destini presenti e futuri della sua terra, che si è allontanato dal suo
personaggio/maestro.

Il tempo presente con cui conduce il racconto restituisce con chiarezza il


senso di un tempo fermo, in cui il presente riproduce il passato e anche il
futuro consiste nell’inesorabile ripetersi del presente

E così quel presente che si snoda per tutto l'incipit si rivela per quello che
probabilmente è davvero: il tempo del “mondo commentato” cioè quello
che commenta il maestro rispetto ai tempi del “mondo narrato” cioè quello
di Sciascia(in cui usa il passato remoto, l'imperfetto, il condizionale).

Ricordiamo che il tempo della storia è il tempo reale in cui si svolgono i fatti
narrati e può quindi essere definito come il tempo della fabula.Il tempo del
racconto, invece, è lo spazio dedicato all’interno di un testo alla narrazione
dei fatti e può essere quindi definito come il tempo dell’intreccio.

Vediamo allora come procede, nelle "Cronache scolastiche", il tempo della


narrazione. Il testo, l'abbiamo visto, inizia a fine anno; e vi tornerà alla fine.
Ma la progressione del testo è solo apparentemente temporale, è tutto
concentrato nei pensieri del maestro in un pomeriggio di Maggio.

Autore, narratore e personaggio

In questo libro le tre figure sono racchiuse in Sciascia maestro e scrittore di


una realtà tanto dolorosa quanto immutabile.E’ come se lui fosse scisso in
due metà, ne deriva una condizione di disagio esistenziale e morale, di chi
vive la duplice condizione del maestro e dell’uomo di cultura: e l’autore si
colloca su un bordo tra le due, documentando dall’esterno tutto l’assurdo che
si vive all’interno. Ma la prima condizione, quella di maestro, non può non
incidere sulla seconda e renderla problematica. A volte il passaggio lungo il
“bordo” avviene all’interno della stessa pagina e da autore diventa
personaggio che dice “Se io mi abituerò a questa quotidiana anatomia di
miseria, avrò perduto quel sentimento, speranza e altro, che credo sia in me
la parte migliore.”A credere di essere pronto ad “abituarsi” è il maestro/
protagonista/personaggio, ma a reagire, dopo poche righe, è lo scrittore, che
testimonia angustiato l’oscurità che si cela dietro ogni adattamento.”perdere
la parte migliore di sé.

“L’uomo colto, un uomo nutrito di libri e poesia, sente di stare dalla parte dei
disgraziati, riconosce le ragioni dei padri che non mandano i figli a scuola, di
fronte a loro va in crisi nelle sue certezze e come intellettuale sente una
responsabilità, una colpa”.

L'io giudicante finisce con l'essere a tutti gli effetti quello dell’autore e non del
personaggio/maestro o dei diversi personaggi-narratori in cui si identifica.

Per parlare della Sicilia, Sciascia di volta in volta calato nei panni di un
diverso personaggio-osservatore, ad es. nella giornata trascorsa per
festeggiare il Natale narrano i ragazzi, talvolta omettendolo dalla ricostruzione
storica, altre volte inserendolo al suo interno come personaggio strumentale
alla raccolta di dati e delle informazioni.

La distanza narrativa che Sciascia pone tra sé e i fatti, sottraendosi quasi del
tutto alla loro rappresentazione , allontana la mimesis (Mimesi ha il
significato generico di "imitazione", "riproduzione"; "rappresentazione
teatrale”).fino a dilatarla oltre i confini spazio temporali (ma soprattutto
stilistici) della storia, dovuta alla necessità di prendere le distanze per
osservare e porsi nell'ottica di chi spiega e giudica la storia della sua terra,
mentre il suo personaggio-maestro, proprio per questo si rifiuta di giudicare e
punire i suoi allievi che sa incolpevoli.

Quella raccontata è una scuola che non risponde in alcun modo ai bisogni
reali dei suoi destinatari, che a Racalmuto sono bisogni materiali, come la
mensa, di cui si descrive il rancio disgustoso, e nemmeno destinato a tutti. Il
tono è da denuncia, e pesante. L’accusa del letterato Sciascia, che cercava di
redimere la realtà con la propria opera, nasce dalla consapevolezza che in
certi luoghi la realtà è irredimibile. E l’idea della letteratura come“colpo di
penna che si fa colpo di spada” per imporre una forma diversa alla vita, si
traduce in inquietudine.

lo scrittore contemporaneo Siascia non è il modello dell’intellettuale detentore


di una sicurezza, c’è l’inquietudine che si genera nell’incontro tra i due disagi
- quello del maestro e quello dell’uomo di cultura - e che emerge nella
conclusione delle Cronache, terribilmente lucida. Qui il racconto accomuna
tutti, intellettuali, maestri e scolari, in un senso di insicurezza radicale, che si
traduce nella paura irrazionale di essere ricondannati alla zolfara. “è tutto
troppo fragile, gente del mio sangue può tornare nella miseria, tornare a
vedere nei figli la sofferenza e il rancore. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo,
sempre, per tutti, ci sarà questo nodo di paura. “

Dopo le Parrocchie: lo sguardo della verità

Sciascia lascia la scuola nell’autunno del 1957 per andare a Roma dove
viene distaccato al Ministero della Pubblica Istruzione. Da quel momento non
insegnerà più in un’aula scolastica: ma vivere a Roma non gli piaceva; si
trasferisce a Caltanissetta. Egli, come Pier Paolo Pasolini, di cui è amico,
rappresenta in Italia il modello di intellettuale eretico. Liberi di pensare e di
agire, Pasolini e Sciascia hanno in comune il candore e nel contempo il
senso “religioso” della verità con cui approcciano la storia e le cronache
d’Italia, il racconto delle sue meschinità e magagne politiche.

I due “maestri”, lontani dalla scuola reale, diventano maestri di pensiero. Ma


mentre Pasolini tornerà alla sua vocazione pedagogica occupandosi di scuola
e di maestri anche da regista e narratore, la via scelta da Sciascia è
combattere con la letteratura, il Potere che lo occuperà negli anni 60 e 70
(pensiamo a Todo Modo, all’Affare Moro), e che accompagnerà anche, in una
sorta di controstoria dell’Italia civile, la linea dei romanzi gialli di
ambientazione contemporanea, aperta da Il giorno della civetta nel 1961.
Sciascia decide di scrivere romanzi polizieschi per narrare delitti di mafia, il
che costituisce una novità di non poco conto non solo nel genere delle
detective stories, ma anche nella letteratura e nella storia della società
italiana (si pensi che l’istituzione della Commissione antimafia in Italia risale
solo al 1963).

( Sciascia: Io concepisco la letteratura come una buona azione.”)

LETTERATURA E INDUSTRIA, il lavoro in alcuni romanzi italiani del 900

Italo Calvino, l’avventura di due sposi.


“Un racconto neorealista, (Movimento letterario, artistico e cinematografico
affermatosi in Italia nel secondo dopoguerra che, richiamandosi ai princìpi del
realismo, rappresenta fatti e aspetti sociali della vita con forte impronta realistica )
narra della storia di due giovani sposi, ambientata in una metropoli industrializzata.
Due operai che, per tirare avanti, lavorano di notte lui e di giorno lei. S’incrociano
per pochi minuti, la mattina e a tarda sera, dandosi il cambio nel loro talamo nuziale.
Per colmare l’assenza del coniuge, entrambi dormono nello stesso lato del letto. Negli
incavi che conservano il calore e l’odore della persona amata. Una piccola perla di
Calvino, intessuta di gesti delicati ed attenzioni reciproche, che non dovrebbero mai
mancare in una coppia di sposi.”

Il racconto evidenzia i problemi posti dai ritmi del lavoro di fabbrica: orari lunghi e
stressanti determinano una minore possibilità di godersi l’intimità della famiglia. Si
nota come il peso del lavoro nella vita quotidiana sia diventato notevole, e il tenore di
vita rimane però ancora piuttosto basso. Riguardo ai ruoli all’interno della famiglia, si
nota come la donna acquisisca una posizione di parità dalla sua condizione di
lavoratrice, che spinge ad una nuova organizzazione della vita familiare e ad un’equa
divisione del lavoro domestico.

L’ambiente operaio delle fabbriche e l’ambiente esterno della città, delle botteghe,
della fermata del tram non è rappresentato, ma ricostruito e immaginato tramite i
pensieri dei protagonisti.
Questo racconto presenta elementi che si richiamano alla poetica neorealista, anche
se la prospettiva della narrazione è ormai molto lontana .
La vita esterna dei due sposi non è infatti rappresentata attraverso la narrazione degli
eventi che essi vivono durante la giornata ma è raccontata indirettamente tramite i
pensieri, le allusioni, le percezioni dei due protagonisti.

Adriano Olivetti, All’inaugurazione della Olivetti di Pozzuoli, Adriano


pronunciava questo discorso:Può l’industria darsi dei fini?Si trovano questi
solo nell’indice dei profitti ? c’è una vocazione nella vita di fabbrica?

Olivetti nasce ad Ivrea nel 1901 Dopo la laurea in ingegneria chimica e dopo
una permanenza di sei mesi negli Stati Uniti entra nella Olivetti, fondata dal
padre, come operaio. Di quella esperienza ne farà tesoro e, più avanti,
affermerà che non sia possibile dirigere un’azienda se non si conosce la
giornata di un operaio.

Nel 1953 apre uno stabilimento innovativo, rivoluzionario nell’attenzione per


gli operai, a Pozzuoli in un’area campana con grossi problemi economici,
offrendo non solo salari maggiori alla media locale, ma altresì fornendo
assistenza e istruzione anche ai figli dei dipendenti. Nel Sud d’Italia povero
ed arretrato di allora questo risulta essere uno stimolo in più che spinge i
lavoratori a lavorare con estremo impegno e a far raggiungere
all’insediamento risultati superiori agli altri stabilimenti.Olivetti immaginò e
cercò di realizzare un modello d'impresa inedito, per capacità di innovare e di
essere qualcosa di più che un luogo di lavoro.gli ambienti pensati
dall’ingegner Olivetti avevano come elemento costruttivo predominante il
vetro, per consentire il passaggio della luce, per far si che i lavoratori non si
sentissero alienati dal paesaggio e mantenessero il rapporto con la natura ed
il radicamento al territorio. Sì perché Adriano Olivetti costruiva fabbriche che
non imbruttissero il paesaggio e l’uomo, non solo luoghi di lavoro atti alla
produzione.La biblioteca aziendale Olivetti era a disposizione dei dipendenti
in qualsiasi momento della giornata, anche durante l’orario di lavoro.Nella
mensa si organizzavano spettacoli teatrali con importanti compagnie
teatrali.Dice in un suo discorso “l’uomo che vive la lunga giornata nell’officina
non sigilla la sua umanità nella tuta di lavoro ”.Per evitare lo spopolamento
delle campagne, ai numerosi dipendenti del circondario di Ivrea, proprietari di
piccoli appezzamenti di terreno, l’azienda forniva prestiti agevolati al fine di
permettere a questi di continuare anche, al di fuori della fabbrica, l’attività
agricola concedendo ferie nei periodi in cui i cicli dei raccolti richiedevano la
presenza di chi, in precedenza, era stato solo un piccolo
agricoltore.L’obbiettivo era inoltre, far si che le persone non si trasferissero in
massa nel centro di Ivrea, facilitando la nascita di quartieri dormitorio, come
ormai stava succedendo nella vicina Torino.Particolare attenzione veniva
prestata alle madri lavoratrici. L’Olivetti fu la prima azienda in Italia a
riconoscere, quando non era ancora previsto dalla legge, un congedo di
maternità di 9 mesi e mezzo con una retribuzione pari all’80% di quella
normale.Un’innovazione rivoluzionaria non facilmente comprensibile
oggi.Inoltre vennero costruiti asili nido nelle vicinanze delle fabbriche così da
agevolare il rientro femminile al lavoro ritenendolo un servizio dovuto, prima
ancora che venisse richiesto dalle lotte sindacali. In quegli anni infatti non
esisteva conflittualità sindacale.Le madri, poi, potevano usufruire della
consulenza pediatrica e di tutte le cure (dentista, oculista e varie altre
assistenze specifiche) necessarie al bambino durante la sua crescita.I servizi
sociali che la Olivetti forniva miravano a colmare le carenze del sistema
pubblico e ad anticiparne i tempi. Si differenziavano da quelli offerti da altre
grandi industrie italiane perché coprivano tutto l’arco della vita del dipendente
e dei suoi familiari e, soprattutto, per la loro qualità ed apertura a tutta la
comunità locale.Non erano concepiti come una “concessione del padrone”
ma come un diritto del lavoratore per responsabilità sociale d’impresa.

Nel 1956 l’Olivetti riduce l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali a parità


di salario, così anticipando di numerosi anni, quello che poi, a livello
nazionale, verrà raggiunto con i contratti collettivi di lavoro.

L'unico imprenditore davvero democratico e innovativo che seppe coniugare


impegno intellettuale, etica e cultura industriale in un periodo come quello
degli anni '50 e '60 in cui i rapporti di lavoro si caratterizzavano per una forte
compressione dei diritti dei lavoratori.

La mente geniale e visionaria di uno dei più grandi uomini nati in Italia nel
novecento, che realizzò la sintesi creativa tra la cultura tecnico-scientifica e
quella umanistica, si spense il 27 febbraio 1960, improvvisamente, durante
un viaggio in treno da Milano a Losanna.

Ottiero Ottieri da Donnarumma all’assalto


Nel 1953, da poco assunto all'Olivetti con l'incarico di selezionatore del
personale, Ottieri, si ammala di una meningite improvvisa e per quattro mesi
resta ricoverato in clinica Una volta guarito, Adriano Olivetti , dopo avere
pagato ugualmente lo stipendio ad Ottieri, gli propone di riprendere il lavoro di
selezionatore in un clima migliore di quello di Ivrea o di Milano, e cioè nella
sede della nuova fabbrica di Pozzuoli.

Ottieri si trasferisce allora con tutta la famiglia a Pozzuoli e in questo contesto


sociale diverso, e nel 1959, ispirato proprio dall'esperienza come
selezionatore del personale della Olivetti a Pozzuoli, esce Donnarumma
all'assalto, il suo libro più celebre, pubblicato da Bompiani. Il titolo,
Donnarumma all'assalto, s'ispira a una vicenda interna al romanzo: un
disoccupato senza qualifiche disposto a tutto pur di avere un posto nella
luminosa fabbrica aperta al Sud dall'Olivetti. Ottieri coglie tra i primi la
drammaticità del contrasto tra il progresso tecnico e materiale e l'arretratezza
culturale del meridione d'Italia. Invero però la discussione interna è molto più
che una semplice critica della dicotomia Nord-Sud, anzi Ottieri valuta gli
operai del Sud uguali nell'operosità a quelli del Nord, ma nella sua trama
convivono - accanto a racconti biografici - anche molti spunti saggistici di
natura sociologica ed esistenziale,

Donnarumma all'assalto è così anche un romanzo autobiografico. Infatti


nel romanzo sono anhe registrate le osservazioni di uno psicologo
selezionatore del personale, assunto presso un nuovo stabilimento nel
Mezzogiorno di una grande industria italiana. Il periodo storico è quello degli
ultimi anni cinquanta, in pieno boom economico del secondo dopoguerra.

Ottieri durante il suo incarico si rende conto di una grande contraddizione:


nonostante i buoni propositi iniziali, la nuova fabbrica si trova comunque in
necessità di dover discriminare tra chi è adatto a lavorare e chi no; il
selezionatore si sente quindi a disagio, poiché tra le sue mani passa la
decisione del destino di poche famiglie che si salveranno e di molte altre che
andranno in rovina.

Il personaggio di Donnarumma, che suggerisce il titolo del romanzo, incarna


l'essenza del lavoratore del Sud, interessato semplicemente a fornire la sua
manodopera in cambio di una paga e che non concepisce le lunghe trafile
burocratiche e i test attitudinali, tipici dell'industria del Nord,«Che domanda e
domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna
domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere.»

Donnarumma pretende di lavorare per diritto naturale, per il solo fatto di


essere vivo, non perché abbia particolari attitudini o abilità e, vedendo violato
questo suo diritto, si sente attaccato e reagisce violentemente, minacciando
di picchiare lo psicologo e il direttore. Si ha quindi lo scontro tra la fredda e
rigorosa selezione scientifica del personale, dettata dalla base capitalistica di
ogni impresa, e la problematica del garantire a tutti un impiego.

Nel romanzo, l'episodio di Donnarumma è incorniciato da un suicidio appena


compiuto per disperazione e dal rifiuto di far intervenire la polizia dopo la
minaccia di Donnarumma - tutti episodi lontani e ben distanti dall'ottimismo
olivettiano. Riaffiora inoltre, nell'atteggiamento di Donnarumma, la diffidenza
che la civiltà contadina ha da sempre nutrito verso la parola scritta,
ritenendola un inganno ordito dal potere contro gli analfabeti o i meno colti.

Paolo Volponi, Il primo giorno di fabbrica (da Memoriale, 1962)

Con Olivetti, Paolo Volponi collaborò nell'azienda di Ivrea per poi passare alla
Fiat come responsabile dei rapporti tra fabbrica e città, posizione questa che
occupò per brevissimo tempo dopo l'adesione al Pci(Partito Comunista
Italiana). Volponi era un intellettuale che non ha mai rifiutato la realtà
industriale, da quel mondo proveniva e in quella realtà occupò posizioni di
rilievo, ma proprio perché ne conosceva a fondo le dinamiche si impegnò per
tutta la vita per una autentica riforma dei rapporti di lavoro individuando
nell'industria un'importante realtà che aveva il dovere di non essere solo al
servizio dell'interesse privato. Era un riformatore che aveva intuito prima degli
altri che l'industria, se viene lasciata libera di scorrazzare, non si interesserà
mai del bene comune e penserà solo al proprio profitto.

MEMORIALE

"Memoriale" è un romanzo che venne pubblicato per la prima volta in Italia


nel 1962 ed è un'opera che si inserisce nel dibattito tra letteratura ed industria
di cui Volponi fu uno dei maggiori attori. Si tratta di una narrazione in cui è
molto forte l'impostazione sociologica e che potrebbe essere inquadrata
nell'ambito del genere saggistico che si è occupato della realtà moderna della
fabbrica.

Protagonista del racconto è una singolare figura di contadino marchigiano,


tale Albino Saluggia, che diventa operaio e che deve fronteggiare una realtà
diversa da quella della campagna in cui era cresciuto.

Volponi nel romanzo descrive, ad esempio, la situazione del lavoro in fabbrica


passando attraverso l'esperienza di Saluggia che vuole passare di qualifica
per cambiare reparto. Ma nella mente di Saluggia incomincia a serpeggiare il
rifiuto del lavoro in fabbrica e gli stessi pezzi che doveva lavorare diventano
un incubo che gli creano uno stato di ansia; ecco come si esprime:

"Così tutto diventava più pesante e anche la macchina era un peso che
dovevo portare. I pezzi da fresare poi, tutt'insieme nella cassetta, davano
subito un senso di spavento e dopo di fastidio. Quanti erano: ognuno uguale
all'altro, irriconoscibili; quale sarebbe stato il primo e quale l'ultimo perché?
Quante volte avrei dovuto fare avanti ed indietro, innestarli, avviare il motore,
chinarmi, soffiare, rimetterli a posto?".

Quelle di Saluggia sono le domande che si fanno molti operai che vanno
avanti per tutta la giornata tra pezzi da fare e catena di montaggio; Volponi
pone quindi il problema del lavoro che sfugge al controllo dell'uomo, il lavoro
non diventa più un mezzo di realizzazione ma serve solo per avere una
paga.

La descrizione dei gesti, delle smorfie, delle labbra strette, dei muscoli tirati è
l'esatta fotografia dei comportamenti che assume l'operaio che lavora in una
fabbrica in cui egli stesso diventa un pezzo della fabbrica mentre i suoi
pensieri ossessivi corrono nella sua testa minuto dopo minuto in un circolo
vizioso che si ripete sempre eguale a se stesso ad ogni turno lavorativo.

IL PUNTO DI VISTA

Il punto di vista del lettore può essere diverso da quello dell'operaio


paranoico che ha nella sua testa dei pensieri sempre più ossessivi, ma
bisogna immedesimarsi nelle problematiche del lavoro in fabbrica dove la
percezione del tempo è diversa da quella che si avverte fuori, nella vita di tutti
i giorni. Ma questa percezione del tempo per l'operaio si dilata anche fuori
della fabbrica: prima del turno di lavoro, quando incontra i compagni, quando
pende il treno o l'auto e quando si ferma a prendere un caffè parlando
sempre delle stesse cose fino al momento in cui si mette la tuta di lavoro
nello spogliatoio davanti ad un armadietto in cui ripone le stesse cose, tutti i
giorni..... per anni.

Ma cosa c'entra allora la letteratura con l'industria? Ecco cosa disse Volponi
quando incontrò nel 1990 gli studenti della "Pantera": "Cosa c'entra la
letteratura con questo? C'entra secondo me moltissimo, perché se uno crede
che la letteratura sia un'attività politica, cioè di intervento, di modificazione
della realtà, di progetto, di ricerca, d'ampliamento dell'area culturale in termini
linguistici e in termini anche psicologici, allora si capisce come la letteratura
vada messa a confronto anche con l'industria e con i problemi dell'industria".

Parole che dovrebbero fare riflettere anche chi si occupa di organizzazione


dell'attività lavorativa in fabbrica, se non c'è soddisfazione quando si lavora
non ci può essere una società serena e pacificata, ma solo laceranti conflitti.
E' bene ricordarlo.

Luciano Bianciardi , da La vita agra (1962)

Il romanzo di successo di Bianciardi ed è ampiamente autobiografico.

Nato a Grosseto nel 1922, Luciano Bianciardi si laurea in filosofia a Pisa. Si


impiega come bibliotecario e professore di liceo. Emigrato a Milano, si
guadagna da vivere facendo il redattore, il giornalista, il traduttore e lo
sceneggiatore. Muore a Milano nel 1971.

Bianciardi è un irregolare della letteratura italiana, un anarchico individualista


difficilmente inquadrabile in gruppi o correnti artistiche. La vita agra è il suo
romanzo più famoso e riuscito. Il romanzo racconta l'altra faccia del miracolo
economico. È la storia di una nevrosi, di una ribellione alle richieste di una
società spietata e crudele, narrata con uno stile di scrittura unico, corrosivo e
rabbioso.

Il protagonista e l’io narrante de La vita agra è una sorta di alter ego dello
scrittore.

un giovane intellettuale originario di Grosseto giunge a Milano, con l’intento di


vendicare in modo violento un incidente sul lavoro, che è costato la vita a
quarantatré minatori. Egli vuol far saltare in aria il grattacielo della ditta che
ha diretto gli scavi nella miniera di provincia, mettendo a rischio i lavoratori,
per aumentare la produttività degli impianti.

L'anarchico protagonista della vicenda intanto campa facendo lavori precari e


sottopagati nella cosiddetta industria culturale: principalmente il redattore e il
traduttore. Vive a stretto contatto con la boheme milanese, "pittori capelluti,
ragazze dai piedi sporchi, fotografi affamati

In seguito, il protagonista abbandona i suoi piani terroristici, trova una


sistemazione lavorativa e viene coinvolto in un’appassionata storia d’amore,
malgrado egli abbia già una moglie e una figlia che risiedono in provincia.
Questa stessa nuova vita di coppia sembra, alla fine del libro, venire
progressivamente minacciata e spenta dalla dura routine lavorativa, a cui è
sottoposto.

Milano, negli anni Cinquanta, è la capitale del neocapitalismo italiano. È una


città compressa da un'opprimente cupola di nebbia fuligginosa, dove tutti
vanno di fretta: i lavoratori pendolari e gli operai che arrivano

"ogni mattina alle sei coi treni del sonno [...]battaglioni di gente grigia, con gli
occhi gonfi, in marcia a spalla verso il tram, che li scarica dall'altro capo della
città dove sono le fabbriche".

La fretta, la velocità con cui si vive e si consumano esistenza e rapporti


umani è dettata dalla brama di denaro, dalla smania di far soldi Nessuno
conosce più nessuno, né i vicini, né coloro con cui tutte le mattine si compie il
tragitto in tram.

Accanto all'agricoltura e all'industria, cominciano intanto a a svilupparsi le


professioni del terziario, dove, almeno all'interno delle nuove organizzazioni,
per farsi valere, più che la produttività oggettiva, "occorrono doti e attitudini di
tipo politico" e relazionale. Bisogna entrare nel giro giusto, saper conquistare
e conservare il potere, spesso ricorrendo a mezzucci e colpi bassi.

La vita si consuma tra affanni e difficoltà, i licenziamenti inattesi, le bollette, le


rate, l'affitto, le cambiali, le tasse, gli imprevisti, il denaro per comprare
alimenti e vestiti, libri, giornali, sigarette, i soldi da mandare a casa alla
moglie, gli oggetti preziosi impegnati al monte dei pegni, il costo di medici e
medicine in caso di malattia.

il protagonista vagheggia un ritorno utopistico ed ingenuo ad una specie di


stato di natura, a un'economia basata sul dono, col lavoro ridotto quasi a
zero, nutrendosi dei frutti della terra, con a disposizione tanto tempo libero da
dedicare al canto, alla conversazione, all'amicizia e all'amore.
La vita agra è una denuncia dell'alienazione prodotta dal boom economico
italiano. È il racconto della brusca trasformazione di una società contadina in
una società industriale moderna. Un romanzo che anticipa molti aspetti
controversi dell'Italia contemporanea. Un libro sorprendentemente profetico e
attuale.

Aderente all'esperienza umana raccontata nel romanzo, una vicenda


disperata, grottesca e beffarda, è la lingua adoperata da Bianciardi, un
pastiche, prossimo al parlato, che mescola il dialetto con lemmi aulici e gerghi
di varia origine.

Lez . N. Plaid prof

LA DISSOCIAZIONE DELL’IO

Pirandello - Scissione dell'io, persona e personaggio

Il contrasto tra “vita” (ciò che siamo) e “forma” (ciò che sembriamo) genera la
crisi d’identità e la dissociazione dell’Io. Costretto a vivere nella “forma”,
l’individuo, secondo la concezione pirandelliana, non è più una persona
intesa come unità intellettuale, morale e psicologica, ma è un personaggio
ridotto a maschera, che recita il ruolo impostogli dalle convenzioni sociali o
dai propri ideali. La disintegrazione fisica e spirituale dei personaggio si
riassume nella teoria della triplicità esistenziale:

1.come il personaggio vede se stesso;

2.come il personaggio è visto dagli altri;

3.come il personaggio crede di essere visto dagli altri.

Nella società l'unico modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della
maschera .

La maschera li fa "personaggi" e non li rivela come "persone". Così è


impossibile la conoscenza di noi stessi, e sono impossibili rapporti autentici
tra gli individui. Si possono stabilire con gli altri, soltanto rapporti mediati da
atteggiamenti esteriori, dalle forme delle maschere, dai modelli dei ruoli che
ciascuno è costretto ad assumere per poter vivere e operare in società, e che
la società impone. l'esistenza è come un "palcoscenico" sul quale ognuno di
noi recita la sua parte di personaggio/maschera, Solo la follia dà al
personaggio la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire
se stessi. Ma questi sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili, perché
il legame con le norme della società è troppo forte.

La Crisi dell’Io ne “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo

Svèvo, Italo. - Pseudonimo dello scrittore Ettore Schmitz (Trieste 1861 -


Motta di Livenza 1928). La sua figura è profondamente diversa da quella del
letterato italiano tradizionale. Formatosi a Trieste , la città che insieme alla
sua donna, e sua figlia, amerà sopra ogni cosa, amico di scrittori francesi
inglesi è ritenuto uno dei principali esponenti della cultura mitteleuropea ( che
rievoca ambienti e cultura della cultura asburgica ormai al tramonto)

La sua fisionomia sociale non coincide con quella della maggior parte degli
autori italiani, la cui attività principale è quella dell’intellettuale ma corrisponde
a quella del borghese che coltiva gli interessi letterari a margine del lavoro
impiegatizio a cui è declassato dopo il fallimento dell’impresa del padre e per
varie vicende personali . In questo buio periodo, in cui lavora in banca, cerca
un ‘evasione nella lettura raggiungendo una vasta cultura ma da autodidatta.Il
lavoro da impiegato era per lui arido ed opprimente( la sua esperienza si
trova trascritta in quella di Alfonso Nitti protagonista del suo primo romanzo
“Una vita”).

Il salto di classe avviene con il matrimonio con Livia di cui si innamora e che
è molto ricca, abbandona il lavoro da impiegato ed entra nella ditta dei
suoceri.
il matrimonio segna anche una svolta fondamentale nella persona di Svevo:
l’inetto , l’insicuro poteva ora essere una solida figura di marito e padre .

I numerosi viaggi di lavoro in Europa lo portano a contatto con vari intellettuali


fuori da Trieste e lontano dal suo mondo borghese.

Il suo secondo romanzo”Senilità” è un insuccesso, questo ed i gravosi


impegni di lavoro lo portano ad abbandonare la letteratura, che riprenderà
dopo il 1910 anno in cui incontra la psicanalisi, è questo un momento
fondamentale per lui. Il cognato gli presenta un dottore allievo di Freud, le cui
teorie erano in consonanza con le sue esigenze più profonde. Importante
anche la sua amicizia con James Joyce.

Durante la Prima guerra mondiale la fabbrica fu requisita dagli Asburgo e


libero da impegni si dedicò alla scrittura de “ La coscienza di Zeno” che
pubblica nel 1923, senza risultati, invia il testo all’amico Joyce ed in Francia è
un successo. Solo in Italia rimane intorno a lui un’atmosfera di diffidenza,
tranne che in Montale che ne riconosce la grandezza.nel 1928 ebbe un
incidente e morì.

Centrale nella poetica di Svevo è la figura dell’inetto, spesso autobiografica,


affiancato molto spesso da un antagonista che è l’opposto dell’inetto.

Elabora una concezione pessimistica sul rapporto uomo e realtà: l’uomo non
è libero, poiché e sue scelte sono determinate da condizioni indipendenti
dalla volontà riconducibili al contesto storico ed all’assetto sociale. Lo
influenzano oltre alla psicanalisi, Shopenauer, Freud, anche il Naturalismo ed
il realismo da cui ricava la maniera impietosa di rappresentare la mentalità
piccolo borghese, i gesti ripetitivi, inutili, ossessivi in ambiente di lavoro.

I° romanzo: Una vita

Alfonso Nitti è un giovane con velleità letterarie costretto dopo la morte del ,
padre a lavorare come impiegato di banca. Egli tenta la scalata sociale,
secondo la tipica mentalità piccolo borghese, intrecciando una relazione con
la figlia del suo datore di lavoro ma perso da un’inspiegabile paura alla vigilia
del matrimonio si uccide, il suicidio è l’unica via di scampo all’odio ed al
disprezzo che lo circondano.

Alfonso inaugura la figura dell’inetto, il cui l’io è scisso tra sogni da


megalomane ed incapacità a realizzarli, questa condizione psicologica,
questa scissione tra ciò che vorrebbe e ciò che non è dilaniano l’anima
dell’inetto a vivere. Svevo in questo romanzo e nei successivi, Senilità e La
coscienza di Zeno, non si limita arbitrare questa condizione psicologica, ma
ne individua le radici sociali nel mondo della solida borghesia triestina che
riconosce come valori il profitto, la produttività, l’energia nella lotta per
l’affermazione di sé, schiacciando chiunque si riveli diverso.

Storia aggiunta per “una vita”non la ha Monica

Alfonso sceglie il suicidio per annullare completamente una volontà di


continuare l’esistenza nonostante la sua negatività; Alfonso rinuncia alla sfida
con la società e la natura , collocandosi dalla parte dei soccombenti, che non
riescono ad imporre le proprie ragioni e la propria visione del mondo in un
contesto de “lotta per la vita” come diceva Darwin.

Gli eventi che fanno precipitare la decisione di Alfonso: anche se alfonso è


l’amante della ragazza non si sente in grado di affrontare tutti i rischi che la
relazione comporta e si rifugia dalla madre morente.Questo ed una grave
malattia lo allontanano da Annette e dalla banca dove Alfonso torna senza
riuscire a reinserirsi. Viene a sapere del fidanzamento della ragazza con un
altro, il deciso e brillante Macario, il suo antagonista. Si scontra con il fratello
della ragazza che lo sfida a duello, dopo aver pensato di scrivere una lettera
chiarificatrice alla ragazza, decide di non farlo, e sentendosi più che mai
incapace alla vita, si suicida rinunciando ad ogni forma di lotta.

Influenzano la stesura del romanzo, le teorie di Darwin che influenzeranno


molto la cultura del 900 compreso Verga. C’è anche l’influenza del romanzo
realista- psicologico francese come il rosso ed il nero di Stendhal con un
intreccio simile.

II° romanzo. Senilità

Emilio Brentani ha caratteri simili ad Alfonso Nitti. In gioventù ha scritto un


romanzo poi più nulla, vive un’esistenza grigia ed è un impiegato. Ha
un’avventura con Angiolina di cui si innamora trasfigurandola in una creatura
angelica. Muore la sorella che lo accudiva come una madre ed Angiolina lo
tradisce. Emilio si chiude in se stesso rassegnandosi da una
esistenza”senile” e priva di emozioni.

In senilità la descrizione dell’ambiente sociale è meno rilevante che in Una


vita, la narrazione si concentra di più sull’analisi psicologica del protagonista,
un inetto che ha paura di vivere e si costruisce un guscio protettivo fatto di
rinunce. Emilio incarna l’intellettuale piccolo borghese incapace di affrontare il
mondo fuori dal nido domestico, le maschere con cui occulta la propria
debolezza , lo hanno fatto illudere di essere un uomo esperto che educa una
ragazza ingenua.

Cose aggiunte per Senilità

Angiolina si innamora dell’antagonista cioè Stefano artista mediocre ma abile


don Giovanni . Di lui è anche innamorata Amalia, la sorella di Emilio che
lasciata da lui si ammala di polmonite e muore.

Contrapposizione tra: Emilio ed Amalia, i sognatori, ed Angiolina e Stefano, i


realisti, sono loro a possedere la giovinezza cioè quella spinta che ti fa
interpretare positivamente la vita, a seguire le passioni senza pensarci su e
senza i blocchi legati all’educazione.

Il discorso indiretto libero usato da Svevo permettono al lettore i


immedesimarsi e comprendere inganni ed autoinganni cui il protagonista va
incontro nella sua ostinata idealizzazione della figura di Angoilina, con l’unico
effetto di perderla.

III° romanzo

A 25 anni di distanza da Senilità scrive “la coscienza di Zeno”, qui


abbandona il modulo tradizionale del narratore esterno per affidare il racconto
alla voce del protagonista Zeno Corsini,che ripercorre la propria vita in una
sorta di memoriale con funzione terapeutica seguendo il consiglio dello
psicoanalista. Originale ed innovativo è anche il trattamento del tempo: le
vicende raggruppate per nuclei tematici non sono narrate in ordine
cronologico lineare ma seguono il tempo della memoria con continue
oscillazione avanti indietro. Il protagonista è un inetto un pò diverso viene da
una buona famiglia borghese per cui non è la sua fisionomia sociale ma
quella psicologica ad impedirgli di integrarsi in quel sistema di vita sano
normale cui sembra aspirare con tutte le sue forze. Malato di nevrosiZeno è
portato a mentire costantemente a se stesso nello sforzo di nascondere le
ragioni dei sui gesti e le vere pulsioni del suo animo. La sua è dunque una
falsa coscienza , contorta e mascherata.

Cose aggiunte a Zeno


Cambia radicalmente a scrittura: il romanzo è in prima persona e non in
terza.

Inoltre è essenziale l’ottica umoristica essenziale per interpretare l’intera


vicenda: attraverso l’artificio della “Prefazione”, il lettore viene a sapere che il
testo della “novella” come la chiama Svevo, è in realtà un’autobiografia scritta
dal paziente Zeno Corsini, sottopostosi a cura di psicanalisi(Scriva! Scriva!
Vedrà come arriverà a vedersi dentro” ingiunge a Zeno il dottor S.)Ma dal
momento che lui ha deciso di interrompere la cura sul più bello, lo stesso
dottor S. che firma la prefazione, pubblica quelle memorie per vendetta
segnalando che il suo paziente non è affatto guarito che i suoi appunti sono
un cumulo di “verità e bugie”.

Dunque Zeno appare fin dall’inizio un narratore inattendibile, burlato dal suo
medico: una situazione di per sé grottesca-umoristica. Ma l’umorismo è nelle
stesse vicende divise in Preambolo, la morte di mio padre, la moglie e
l’amante, storia di un’associazione commerciale, Psico-analisi, con una
successione cronologica stravolta.

Trama: apparentemente semplice.Zeno appartiene ad una famiglia di


commercianti di Trieste e da vecchio decide di curarsi delle sue malattie che
attribuisce ad un carattere nevrotico cioè malati legate più che a cause
organiche a cause psicologiche. Così va in psicoanalisi.

I ricordi che vorrebbe riferire in modo ordinato, scritto, al dottor S. si affollano


intorno a dei temi principali che sono quelli che danno i titoli ai vari capitoli, e
vengono continuamente corretti con aggiunte, rifessioni, digressioni,: la
linearità temporale è pura illusione mentre i fatti subiscono la deformazione
voluta dal protagonista-narratore.

Emblematico il I° cap. : il fumo.Zeno vuole smettere di fumare da sempre e si


impone il rituale dell’”ultima sigaretta”, salvo poi addurre scuse e pretesti per
riprendere a fumare.

Questo tratto si ritrova in tutto il libro.

Ogni volta che Zeno sembra assolutamente convinto di operare per


raggiungere uno scopo , magari uno di quelli che le convinzioni borghesi gli
imporrebbero , si accorge di deviare , di prendere direzioni impreviste, di
desiderare sempre qualcos’altro , per non doversi collocare in una posizione
stabile e definita.

Si tratta di un tipico procedimento umoristico, presente anche negli altri


capitoli come è il caso del matrimonio. Zeno si innamora di Ada la più bella
delle figlie del ricco signor Malfenti: Ada gli preferisce il bello e raffinato
Guida. Dopo il rifiuto Zeno fa la proposta ad augusto meno bella e non
amata ma che lo accetta per quello che è. Qui si rilevano i tratti più umoristici
o comici di Zeno da alcuni paragonato a Charlot,, che celano però un animo
inquieto.

Insomma Zeno non è il solito inetto o malato o un nevrotico.Questi aspetti


sono sicuramente presenti nelle continue manifestazioni di incapacità a
svolgere un compito o nelle scuse che si crea per giustificare alcuni suoi atti
incomprensibili.Emblematico l’episodio del funerale del marito di Ada che
apparentemente Zeno tratta da amico ma forse odiato a livello inconscio;
quando Guido muore, si suicidio per un dissesto economico, Zeno che ha
sempre svolto a sua attività in ufficio in modo contraddittorio si butta a
capofitto nel lavoro e con grande abilità ripara al dissesto provocato d Guido,
tuttavia dimenticando l’ora del funerale e seguendo poi il corteo di uno
sconosciuto.

Zeno (e Svevo) vorrebbe capire perché le contraddittorie vicende umane


giungono ad una conclusione spesso diversa da quella prevista. La teoria
attraverso cui Zeno/Svevo tenta di spiegare la complessità della vita non è
più il darwinismo dei primi romanzi: essa è suggerita da Zeno in riferimento
ad una malattia di Ada “ il morbo di Basedow” (un ipertiroidismo che
accentua il metabolismo e si associa a dimagrimento) che implica un
consumo della forza vitale, mentre al capo opposto della catena biologica
stanno gli organismi poveri. Non si ha quindi equilibrio tra tra forti e deboli
come vuole Darwin. L’umanità è in vario modo malato.

Questa è la conclusione del romanzo. Ormai anziano la guerra tra Austria e


Italia, Zeno si trova separato da moglie e figli. Rimasto solo sembra essere
un perfetto commerciante di successo: Ma il finale riporta in primo piano le
sue idee sul genere umano, intimamente malato e Zeno immagina che un
giorno un uomo più ammalato degli altri si porterà con un ordigno al centro
della Terra con un esplosione totale.” e la Terra tornerà alla forma di nebulosa
ed errerà ne cieli priva di parassiti e malattie.
“La guerra” La poesia Italiana del 900 ed il suo grido di dolore contro la guerra.

Giuseppe Ungaretti - il dolore della guerra

Giuseppe Ungaretti nacque l'8 febbraio 1888 ad Alessandra d' Egitto da genitori
toscani. E’ una delle voci più importanti della poesia del 900.

Nel 1912 si reca a Parigi, dove frequenta gli ambienti dell' avanguardia, scrivendo
versi anche in francese e conoscendo alcuni fra i maggiori artisti e scrittori dell'epoca.

Egli interpreta il bisogno di rinnovamento che permea la cultura d’inizio secolo


elaborando una poetica originalissima che costituisce un punto di riferimento
essenziale per le esperienze successive e in particolare per quella ermetica.

Allo scoppio del primo conflitto mondiale il poeta, fervido interventista, si arruola e
combatte sul Carso e poi sul fronte francese; è durante questa nuova tragica
esperienza che scrive le sue più celebri opere sotto forma di diario poetico, dalle quali
emerge il crudo e indescrivibile dolore provocato dalla guerra.

Sono poesie, ognuna con data e luogo come in un diario, e raccolte nei volumi “Il
porto sepolto”del 1916 e poi in” Allegria dei naufraghi” del 1919. La componente
autobiografica è intesa come “confessione” che trasfigura i singoli episodi che
asumono un valore universale.

L'esperienza della guerra rivela al poeta la povertà dell'uomo, la sua fragilità e


solitudine, ma anche la sua spontaneità e il potente attaccamento alla vita ritrovato
nel dolore. L'esistenza è un dono precario ma anche prezioso. In guerra il poeta si è
sottratto ad ogni vanità e orgoglio; nella distruzione e nella morte ha però riscoperto il
bisogno di una vita pura, innocente, spontanea, primitiva. Ha acquisito un sentimento
di profonda compassione per ogni soldato coinvolto nell'assurda logica della guerra:
ha maturato, per questo, un profondo senso di fraterna solidarietà.

Nasce una concezione della letteratura che ha un compito privilegiato , quasi


religioso, di cogliere e svelare il senso nascosto della vita che solo il poeta sa cogliere
e portare alla luce per donarlo all’umanità, come dice nella Poesia “Il porto sepolto”
Usa come mezzo espressivo l’analogia che mette in contatto, in un baleno ,immagini
lontane, apparentemente slegate tra di loro, facendo vedere l’invisibile nel visibile. La
parola poetica l’unica forma di conoscenza possibile assume il valore di una
improvvisa e folgorante illuminazione .Rifiuta ogni forma metrica tradizionale:
Scarnifica il verso ridotto alla sua funzione essenziale, i versi sono liberi e brevi per
dare massimo risalto alla singola parola Crea un ritmo totalmente libero, dove il titolo
è parte integrante del testo(M’illumino D’immenso).

Veglia


“Un’intera nottata buttato vicino ad un compagno massacrato con la sua bocca
digrignata volta al plenilunio con la gestione delle sue mani penetra nel mio silenzio

ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”

E’ una poesia scritta al fronte fatta da due strofe. Nella prima il discorso
poetico insiste in modo implacabile sulla crudezza della situazione

Gli è accanto un compagno con cui ha condiviso freddo, ansie, pericoli e


paure, ormai senza vita, la bocca digrignata le mani gonfie e livide Sono
mani, che penetrano nel "silenzio" del poeta, nei suoi pensieri di uomo che,
proprio attraverso la contemplazione della morte, scopre di amare
intensamente la vita. In contrasto con quelle immagini così dolorose, il poeta
sente trionfare la vita sulla morte e si sente capace di scrivere poesie
d’amore per gli altri.

Spoglia di ogni retorica e di ogni forma i eroismo, la guerra si rivela in tutta la


sua crudeltà. Il senso di orrore ribadito dall’uso ricorrente dei participi passati

(buttato, massacrato, nottata,) potenzia l’effetto la parola “congestione”,


gonfie, riferita alle mani del soldato morto, che penetrano il silenzio dove si
cela la fonte dell’esistenza adesso lacerata, offesa.

San Martino del Carso

Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro



Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto

Ma nel cuore nessuna croce manca è il mio cuore il paese più straziato

L’immagine di un paese distrutto dalla guerra, San Martino del Carso, è per il
poeta l’equivalente delle distruzioni che sono rinchiuse nel suo cuore,
causate dalla dolorosa perdita di tanti amici, conoscenti e soldati. Il poeta
trova nelle immagini del paese di San Martino una corrispondenza con
quanto egli prova nei confronti dell’uomo, disumanizzato dalla guerra. La
lirica, essenziale e commovente è tutta costruita su di rispondenze e di
contrapposizioni sentimentali, ma anche verbali: di San Martino resta qualche
brandello di muro,(Il termine brandello si riferisce normalmente alla carne e
non al muro, qui deve accentuare la similitudine tra il paese distrutto e l’anima
distrutta del poeta), dei morti cari allo scrittore non resta nulla; Ma nel suo
cuore nessuna croce manca, sarà il ricordo , la memoria dei soprvvisuti, a
mantenere in vita i caduti.

San Martino è un paese straziato, mail cuore di Ungaretti lo è anche di più.

In poche parole concentra concetti importanti.

Non gridate più è una lirica di Giuseppe Ungaretti contenuta nella sezione
“I ricordi” della raccolta "Il dolore."

Motivo dominante il dolore che da individuale, per la morte del figlio e del
fratello, si apre verso gli altri on un passaggio dal registro personale al
registro della storia.

Composta nel 1945, è stata scritta ispirandosi a un fatto di cronaca, ovvero la


notizia del bombardamento del cimitero monumentale del Verano a
Roma in data 19 luglio 1943. La tematica centrale è quella della violenza di
una guerra che non si ferma nemmeno davanti ai morti.

Il linguaggio è più accessibile rispetto a quello del Porto sepolto

La forza degli imperativi di cui è piena la poesia, non è quella del comando
ma quello di una preghiera che invita gli uomini salvare la loro stesa umanità,
riscoprendo la solidarietà e la pietà.

Bisogna superare gli odi e le divisioni di parte che anche nel dopoguerra
insanguinano la vita politica e civile italiana affinché il sacrificio dei caduti non sia
inutile.

Ben diversa è la lezione che i morti possono trasmettere e riguardano la possibilità


stesa di salvare la vita. Ma bisogna raccogliersi in silenzio per poter ascoltare il
sussurro dei morti che è impercettibile. Il grido invece è segno di barbarie che penetra
nella storia in una follia senza fine.

ad esso si contrappone la muta presenza dei morti, come un ultimo messaggio di chi
può ancora testimoniare in favore della dignità dell’uomo.

Come Ungaretti, Clemente Rebora è soldato sul Carso nel 1915. La sua
esperienza durerà poco, perché sarà presto riformato in seguito ad
un’esplosione ravvicinata. Nella poesia «Viatico» Rebora racconta forse la
vicenda più tragica che sia mai stata descritta riguardo alla Grande Guerra:
un soldato ferito è rimasto senza gambe, nella terra di nessuno. Tre soldati
corrono in suo soccorso per portarlo in salvo e muoiono sotto il fuoco nemico.
Ora il soldato non potrà che morire, lontano dall’abbraccio fraterno, in silenzio
per evitare che altri diano la vita per lui. Il poeta scrive:

In una lettera del 1925 in relazione ai suoi versi di guerra Rebora rivela che
«quel tempo fu» per lui «un soccombere sotto la croce E da allora cominciò»
la sua conversione. La conversione vera e propria al cattolicesimo avviene
nel 1929, fatto curioso perché in quello stesso periodo matura anche la
conversione di Giuseppe Ungaretti. Ricevuta la prima comunione e poi la
cresima, nel 1931 Rebora diventa novizio e nel 1936 è nominato sacerdote.

Quasimodo e il dolore della guerra

Poeta Siciliano, massimo esponente dell’Ermetismo.

Per gli ermetici “la poesia è vita”, intesa come la realtà più intima e raccolta
dell’uomo, lontana da pose esteriori(d’Annunzio), la letteratura è la strada più
completa per conoscere noi stessi.La letteratura si identifica cn l’io più
profondo dell’uomo. La poesia vive del rapporto esclusivo dell’individuo con
se stesso al di fuori di qualsiasi legame e della collettività. La poesia ermetica
è una poesia pura sottratta a qualsiasi condizionamenti e d’elitè, individuale,
in cui la parola esprime l’inesprimibile(come diceva Ungaretti)

Se è fonte di conoscenza di se stessi è anche fonte privilegiata per arrivare


al senso della vita, è una forma di conoscenza superiore che assume un
valore iniziatico e religioso.

Usano molto l’analogia come Ungaretti .

La poesia ermetica di Quasimodo nasce dal bisogno di concretezza, per


sfociare, con l’esperienza della II Guerra Mondiale, nella fase neorealista.

Alle fronde dei salici


.

-È una poesia, questa, di forte impegno civile, dal punto di vista stilistico, il
verso si allunga e diventa più lineare, discorsivo e narrativo, i temi si
ampliano e il tono di denuncia, segue un messaggio più facilmente
accessibile e comunicativo rispetto alla fase dell’ermetismo ormai
abbandonato .

-L’io lirico diventa un noi , dimensione corale e non privata, come invece
vediamo nelle poesie di Q. precedentemente.

-Sono evocate le tragiche immagini della guerra, il canto del poeta è muto (“e
come potevamo noi cantare “..) lamento, impotente di fronte al dolore.

-E’ dunque una riflessione sulla poesia: davanti alla catastrofe della guerra i
poeti appendono le cetre( “alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre
cetre erano appese”) , i poeti smettono di cantare (a differenza di Ungaretti)
davanti alle atrocità della guerra.

-Dice Q. (il piede straniero era sul nostro cuore, come potevamo cantare)non
fa riferimenti espliciti al fascismo.

La poesia è pervasa da un sentimento di commozione religiosa, ricordiamo


che il I ° verso ricorda un salmo che esprime il lamento del popolo ebreo in
esilio in Babilonia.

PADRE E FIGLIO/PERCORSO TEMATICO NELLA POESIA TA 800 E 900

Cecco Angioletti

S'ì fossi foco…

Se io fossi fuoco, brucerei il mondo; se fossi vento, gli manderei una


tempesta; se fossi acqua, lo annegherei; se fossi Dio, lo farei sprofondare; se
fossi il papa, allora sarei felice, perché metterei nei guai tutti i cristiani; se
fossi l’imperatore, lo farei senz’altro: taglierei la testa a tutti quelli che mi
stanno intorno. Se fossi la morte, andrei da mio padre; se fossi la vita, non
starei insieme a lui: lo stesso farei con mia madre. Se fossi Cecco, come in
effetti sono e sono sempre stato, prenderei le donne giovani e belle e lascerei
agli altri le vecchie e brutte.
Il genere letterario cui appartiene il sonetto “S’i’ fosse foco" è quello della
cosiddetta “poesia comico-parodica”, che discende dalla tradizione goliardica
medievale e si pone in contrasto con la linea poetica
dominante(Cante,Petrarca), impiegando uno stile basso per trattare
argomenti quotidiani: l’intento è rovesciare le convenzioni per creare comicità
e parodiare abilmente i generi elevati.

In particolare, la corrente realistica a cui fa capo Cecco Angiolieri tende a


porsi in uno spirito di contrapposizione nei confronti del dolce stilnovo,
rovesciando i tòpoi propri della raffinatissima corrente a cui fanno capo – tra i
più noti – Dante Alighieri, Guido Cavalcanti e Guido Guinizzelli.

Dunque, il tono dissacratorio e volutamente provocatorio del


componimento S’i’ fosse foco non è da interpretare letteralmente, come uno
sfogo estemporaneo contro Dio, il mondo e la propria famiglia, bensì va
inteso come un raffinatissimo gioco letterario, sorretto da una forma stilistica
estremamente elaborata: le ripetute anafore, oltre a facilitare la
memorizzazione, creano, infatti, una studiata struttura simmetrica, che
determina un tono ossessivo di continua ripetizione dello stesso tema della
distruzione, presentato in forme totalmente iperboliche. Proprio le continue
iperboli fanno intuire che nulla di quanto viene detto deve essere preso sul
serio. Dal momento che il sonetto vuole essere una presa in giro e un
rovesciamento parodico dei generi “seri” ed “ufficiali”, ovviamente Cecco
Angiolieri presuppone che il lettore conosca questi ultimi, per poterne
apprezzare la parodia. Ad esempio, la struttura del sonetto richiama in modo
antifrastico quella del plazer di origine provenzale: mentre lì erano elencate
una serie di cose piacevoli, qui, invece, i desideri elencati sono irrealistici e
volutamente catastrofici.

Con una forte anticlimax,, è una figura retorica che consiste in un elenco di
termini o locuzioni con susseguirsi intensità negativa, si parte dalla menzione
dei quattro elementi da cui ha avuto tradizionalmente origine il cosmo (fuoco,
acqua, vento, Dio), per passare alle due potenze che reggono il mondo
medievale (papa e imperatore), fino ad arrivare alla famiglia del poeta (padre
e madre), per concludere, poi, con la menzione del poeta stesso al verso 12
(s’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui..). Il tono parodico è inoltre palesato
dall’evidente abbassamento del tono nell’ultima terzina, burlesca e divertita:
mentre prima prevalgono gli eccessi e le immagini iperboliche, ora il poeta si
presenta qual è veramente ed espone bonariamente la sua filosofia di vita,
basata sul conseguimento immediato di un godimento tutto terreno: se non
può essere né fuoco, né vento, né papa, né morte e vita, allora vorrebbe
almeno prendere per sé le donne più affascinanti e lasciare agli altri quelle
brutte e poco desiderabili.

d’Annunzio

Tu, madre che da i tristi occhi preganti

Madre è colei che dà la vita, colei che partorendoci ci fa entrare nel


mondo e ci permette di esistere. È un ponte, un tramite tra noi e la
nostra vita futura. È colei che rende possibile la nostra sopravvivenza.
L'autore esprime il forte dolore causato dalla perdita della madre. La
perdita di un genitore è tra quelle che più generano sofferenza,
disorientamento, nostalgia, confusione e angoscia.

Ungaretti

La madre

La lirica, datata 1930, appartiene alla raccolta Sentimento del tempo. Essa
segna l’abbandono del tema della guerra e un ritorno a meditazioni
esistenziali di carattere più generale con un recupero del verso tradizionale,
di una sintassi più complessa e della punteggiatura, abbandonata nella
raccolta “Allegria dei naufraghi”.

Nel componimento il poeta affronta il tema della propria morte e immagina il


giorno in cui la sua anima si troverà al cospetto di Dio per essere giudicato.

In questa stupenda poesia di Ungaretti viene espresso, con sobrietà , il


dramma intimo e sofferto di una madre che aspetta il figlio alle soglie
dell`eternità per vederlo redento dalla sua preghiera. Al centro della poesia è
prorompente la figura della madre, umile e forte, che evidenzia un amore e
sentimenti che superano i limiti della morte . La madre morta diviene, nella
visione di Ungaretti, un simbolo, un’esaltazione dell’amore materno, che
conduce per mano il figlio morto davanti al Signore, per fargli ottenere la
salvezza, gettandosi in ginocchio davanti a Lui, pregando con tutte le proprie
forze e invocando il perdono di ogni peccato. E solo quando Dio glielo avrà
accordato, rivolgerà lo sguardo agli occhi del proprio figlio.
Pasolini

Supplica a mia madre

Susanna Colussi, madre di Pasolini, era originaria di Casarsa, nel Friuli. La


sua famiglia era di antica origine contadina. Il sentimento filiale di Pasolini
per sua madre è stato sempre intensissimo.

Nel 1950 Pasolini e sua madre si trasferiscono a Roma. Per lui fu durissimo
trovare lavoro, la madre iniziò a fare la domestica, per aiutarlo. Arriva
secondo, a un concorso di poesia dialettale, nella cui giuria era presente
Eduardo De Filippo. Le amicizie pian piano si allargarono e arrivò anche lo
stipendio fisso: ventisettemila lire al mese, per l’insegnamento presso un
istituto privato di Ciampino. Pasolini potè così cambiare casa e fu in grado di
mantenere anche la mamma che, infatti, smise di andare a servizio. In
seguito arrivò il successo letterario, il cinema. Quando girò nel 1964 Il
Vangelo secondo Matteo fece interpretare alla mamma il ruolo di Maria.

Scrive Enzo Siciliano: “Questa scelta fu un gesto dichiarativo d’amore per lei,
ma segna anche l’esplicarsi di un cristianesimo arcaico, quasi inattingibile
dalla ragione: interpretare la figura di Maria di Nazareth come madre ‘unica’,
identificabile soltanto nella propria madre.”

La poesia “Supplica a mia madre” fu scritta da Pier Paolo Pasolini nel1962 La


madre ebbe un enorme importanza nella vita psicologica ed esistenziale del
poeta; anzi la poesia è la spiegazione, in forma poetica, del dramma interiore
del poeta La madre è parte in causa del suo comportamento sociale e il
poeta spiega nell’opera, ovviamente tra le righe, la genesi psicogena del suo
comportamento omosessuale.

L’amore per la madre è un vincolo che lo stringe fin dall’infanzia. Pur nella
consapevolezza che si tratta di una passione morbosa ed esasperante, il
nostro autore ne avverte l’inevitabile necessità.

La madre è l’unica donna che lo conosce nelle pieghe più profonde e


contraddittorie del suo animo. Un sentimento che resta senza soluzione, un
cordone che non si recide.

L’amore che ha per sua madre è l’ostacolo maggiore alla completa


realizzazione della sua vita sentimentale, è l’origine del senso di
inadeguatezza che avverte nell’accettare la propria omosessualità. Tuttavia,
la solitudine non è assenza di desiderio, anzi. Pasolini vorrebbe dei rapporti
carnali, materialmente vivi. Eppure, l’assolutezza dell’amore per la madre
impedisce il suo appagamento amoroso.

Ecco che la poesia non è solo l’ammissione, prima alla sua coscienza e poi a
tutto il mondo, dell’ineluttabilità di questo amore, ma è soprattutto una
supplica, un disperato appello alla donna affinché non lo lasci andare mai
completamente, perché gli rimanga accanto, lo accompagni in una primavera
eterna. Struggentemente autentici, questi versi riportano alla mente il ricordo
di un intellettuale irreversibilmente tormentato. Ci consegnano la confessione
più intima di un uomo che ha fatto della sua vita un esempio, un dipinto
originale e senza tempo.

Pasolini

Uno scritto corsaro(cioè contro corrente): contro i capelli lunghi

Il primo degli scritti corsari è dedicato a quello che, in apparenza, è un


fenomeno di costume: i capelli lunghi portati dai giovani maschi a partire dagli
anni Sessanta. Pasolini se ne occupa, interessato com’è da sempre al corpo
ed al suo linguaggio e perché il diffondersi e poi l’imporsi della moda dei
capelli lunghi è uno di quei fenomeni in grado di dirci del senso del
cambiamento. La ristrutturazione del potere passa, assai prima che per le
ideologie, per la modificazione dei corpi di cui esse sono insieme causa ed
effetto.

Agli inizi, nei primissimi anni sessanta, all’epoca dei Beatles e dei Rolling
Stones, il linguaggio dei capelloni esprimeva soprattutto la contestazione al
mondo borghese:.

Ma col tempo la moda dei capelli lunghi si è estesa ed ora, negli anni
Settanta, i capelli lunghi «dicono, le “cose” della televisione e delle reclames
dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane
che non abbia i capelli lunghi».

Da segnale di progresso e contestatorio, i capelli lunghi si sono fatti col


tempo segnale di regresso e di omologazione. Quei capelli lunghi sono
divenuti simbolo di qualcos’altro, di una condanna astiosa e indiscriminata
contro i loro padri. Padri che pure vanno certamente contestati, ma il
linguaggio del corpo di quei giovani capelloni ha alzato contro di essi «una
barriera insormontabile» che ha finito con l’isolarli, «impedendo loro, coi loro
padri, un rapporto dialettico.

I giovani dovrebbero dunque tagliarsi i capelli? Chieder loro di farlo, non ha


senso, ma dovranno esser loro stessi ad accorgersene, liberandosi dalla loro
ansia colpevole di attenersi all’ordine dell’orda, alla nuova Legge del Potere
che ha soppiantato in loro, inconsciamente, quella dei Padri

Gatto

A mio padre

ALFONSO GATTO nasce a Salerno nel 1909 e vive attivamente il clima


culturale fiorentino DEL’ERMETISMO attraverso la rivista letteraria "Campo
di Marte". In seguito, pur non allontanandosi dalla originaria esperienza
poetica, inserisce nella sua lirica un forte impegno sociale.

In questa Poesia è rappresentato il padre in un ritratto che ne mette in


evidenza i caratteri della personalità : la sua figura appare nitida nella
memoria, come guida sicura nel difficile cammino della vita. Se il padre fosse
ancora vivo, il poeta potrebbe confidargli i propri dolori e le proprie speranze,
come faceva un tempo, e riscoprire il vero significato del sorriso e del pianto,
della bellezza della vita, della continua ricerca di verità che la caratterizza. Ma
nessuna morte potrà mai togliere al poeta gli insegnamenti che il padre gli ha
lasciato e i sogni di libertà che, nel "buio" di alcuni momenti dell'esistenza e
nelle difficoltà, riescono ancora a trasmettergli serenità e sicurezza.

Sbarbaro

Padre se anche tu non fossi mio padre

Questa lirica, insieme alla poesia Al padre, di Salvatore Quasimodo,


rappresenta una delle più felici liriche d’ispirazione paterna del nostro ‘900.
Fa parte della raccolta di poesie Pianissimo.

E’ un atto d’amore nei riguardi del padre a cui il figlio poeta dedica versi
intensi ed accorati. Da questa lirica di memoria emerge l’immagine di un
uomo ricco di umanità e sensibilità che potrebbe essere amato anche al di là
del fatto di essere il padre. Gli episodi dell’infanzia che raccontano, con
nostalgia e rimpianto, di quest’uomo dalle qualità umane di sensibilità e
gentilezza, sono ricchi di suggestione ma non scadono mai in eccessi
patetici.
In apparenza può sembrare di essere fuori dal mondo poetico usuale di
Sbarbaro, dove predomina l’aridità, l’angoscia per la condizione dell’uomo
solo. In realtà questi sentimenti rimangono sullo sfondo di questa lirica.

Salvatore Quasimodo

Al padre

Scritta in occasione dei 90 anni del padre, esalta anche la bellezza della
terra siciliana e racconta la tragedia del 28 dicembre 1908, quando Messina
fu distrutta dal terremoto e maremoto.

In questo contesto drammatico, emerge la figura del padre: “La tua pazienza /
triste, delicata, ci rubò la paura, / fu lezione di giorni uniti alla morte”. Il padre
che, al compimento dei suoi novant’anni, viene nobilitato dal figlio ponendogli
idealmente sul capo una corona regale, una mitria pontificale simbolo di
altissima dignità, insieme all’omaggio più riverente conservato nella cultura
isolana: “Baciamu li mani”.

Saba

Quando nacqui, mia madre piangeva

Quello fra il padre e la madre di Saba non fu un matrimonio felice, anzi non
fu neppure un matrimonio, per così dire, o meglio da esso non ebbe origine
una famiglia, poiché il padre, abbandonò la moglie ancora prima della nascita
del figlio. Rachele, sola, con l’aiuto dei suoi parenti e in particolare di una zia,
si fece carico della crescita e dell’educazione di Umberto. Sentendo
doppiamente la responsabilità che aveva nei suoi confronti lo crebbe in clima
di austera severità, incapace di esprimere il suo affetto, che pure era
profondo e sincero, libero dalla sofferenza e dal risentimento per
l’abbandono del marito.Saba in questo componimento mette in relazione la
sua situazione personale (madre – padre) in un contesto più ampio che è
quello della sua cara e confortevole città e delle sue origini religiose.
Alla tristezza della prima situazione si oppone la bellezza di Trieste e del suo
« mercato aperto “

ma anche la solidarietà della comunità ebraica che allieva la sofferenza dei


suoi cari

Caproni

Preghiera

Giorgio Caproni nasce nel 1912 a Livorno A dieci anni si trasferisce con la
famiglia a Genova, che diventerà la sua “patria” adottiva e poetica. Qui
svolge studi irregolari che lo portano, grazie anche alla sua passione per i
classici, la filosofia e la più recente poesia italiana (Ungaretti, Montale e
Sbarbaro), a conseguire nel 1935 il diploma magistrale. Nel 1939 si
trasferisce a Roma. Durante la Seconda Guerra Mondiale combatte sul fronte
occidentale, ma all’indomani dell’8 settembre si dà alla macchia per farsi
partigiano in Valtrebbia, sull’Appennino Ligure. Dopo la guerra continua a
vivere nella capitale, dove fa il maestro elementare. Con la propria famiglia,
composta dalla moglie Rina e da due figli, vive in ristrettezze economiche,
ben poco alleviate dalla collaborazione a diverse riviste (in particolare «La
Nazione», dove prende il posto di Giuseppe De Robertis come critico
letterario) e dall’eccellente lavoro di traduttore, specialmente dal francese
Muore a Roma nel 1990, dopo aver raggiunto un meritato riconoscimento
pubblico, in Italia come all’estero.La poesia di Giorgio Caproni si caratterizza
per l’immediata comunicatività e per la tipica musicalità che sa unire ironia e
malinconia; caratteri questi che ricollegano Caproni allo stile di un poeta a lui
caro come Umberto Saba e che lo distinguono nettamente nel panorama
italiano degli anni Venti e Trenta, dove prevalgono gli Ermetici, e anche in
quello degli anni Sessanta e Settanta, dominati dalla poesia difficile e
“decostruita” della neoavanguardia del Gruppo 63. Il carattere anti-
intellettualistico proprio di Caproni e dei suoi versi poggia sulla ferma
convinzione che solo facendosi comprendere la parola poetica possa
trasformarsi in vero strumento di azione e di conoscenza, caricandosi delle
tensioni e delle contraddizioni del suo tempo

La breve poesia è tratta dalla raccolta Il seme del piangere del 1959, dedicata
alla madre Anna Picchi, morta qualche tempo prima. L’autore, ispirandosi ad
una ballata del Trecento, immagina che la sua anima personificata vada alla
ricerca della madre, Anna Picchi, da poco morta.

La poesia si presenta come una sorta di biografia immaginaria in cui il poeta
rievoca la madre ancora giovinetta, quando egli non era ancora nato,
servendosi di racconti e fotografie di famiglia. Il poeta prega la sua anima di
recarsi a Livorno, e di cercarla , e sapere se, per caso, “è ancora viva tra i
vivi”.

L’anima forse riuscirà dove lui ha fallito poiché meglio ricorda la descrizione e
i particolari dell’abbigliamento della donna. Il linguaggio della poesia sembra
solo apparentemente semplice ed ingenuo, ma in realtà è denso di una
raffinatezze metriche e timbriche. La sintassi si presenta molto articolata e
ricca di inversioni. Il ritmo risulta movimentato e vario; sapiente è il gioco delle
rime baciate ed alternate (in alcuni versi sostituite da assonanze) che
conferiscono al testo una musicalità lieve; infine sono presenti raffinati effetti
fonici e frequenti allitterazioni, cioè ripetizioni di suoni in parole vicine.

La figura retorica che lega molti versi della poesia è l’enjambement, cioè
l’eliminazione della pausa alla fine di un verso, la cui ultima parola è in stretto
legame sintattico con la prima del successivo, in modo da conferire alla lirica
una cadenza pacata, ma dinamica e colloquiale. La figura della madre viene
espressa dal figlio poeta attraverso “la camicetta”, “il rubino / di sangue”, il
“serpentino d’oro”, il “petto” anelante.

Mario Luzi

mia madre, mia eterna margherita

Mario Luzi occupa un posto particolare nella famiglia dei cosiddetti ermetici e, si può
dire che costituisca il culmine dell'ermetismo fiorentino.

In questa poesia Luzi esprime Le emozioni sofferte per la morte della madre (1959)
Mia madre, mia eterna margherita/ che piangi e mi sorridi/ viva ora più di prima,/ …/
è un altro il segno/ a cui dovrò tenere fronte, segno/che ferisce, passa da parte a parte

La poesia è scritta nel 1965 (fa parte della raccolta“Dal fondo delle campagne”),qui
l’immagine familiare della madre rappresenta per Luzi il punto fisso di speranza e di
paragone a cui il poeta può rivolgersi, quando l’angoscia del passare del tempo è
vinta dalla certezza di una eternità. Si tratta di un’eternità dove il cammino verso la
verità è guidato dal contatto spirituale con i propri morti.
Figura centrale nella sua esistenza e nella produzione poetica, è la madre, che gli è
stata altresì ispiratrice del senso religioso della vita

La realtà umile e povera della campagna materna viene affrontata con autentica
volontà di identificazione, non solo per i valori religiosi, ma anche per le qualità
umane che essa preserva

Montagne e paesi antichissimi della Toscana e dell’Umbria fanno da sfondo ad una


lettura scarnificata e intensa della realtà contadina minacciata nella sua autenticità
dalle tentazioni del moderno.

slaid prof poesie a confronto

La prima poesia è “Profezia”

“Profezia” conosciuta come “Alì dagli occhi azzurri” è una poesia di Pier
Paolo Pasolini considerata una dei componimenti poetici e profetici tra i più
importanti del nostro tempo.

Scritta, probabilmente, nel 1962 e pubblicata nel volume “Poesia in forma di


rosa” l’opera è stata, per stessa ammissione del poeta, il frutto di una
conversazione tra Pasolini e il suo amico Sartre.

Molte sono le interpretazioni.Soprattutto da quando esiste la Rete, ma


anche da prima, la famosa poesia di Pier Paolo Pasolini Profezia, viene
citata per dimostrare che fin dal lontano 1962, il grande poeta e regista
italiano aveva previsto l’arrivo in Europa dell’orda di migranti provenienti
dall’Africa. In effetti, ad una prima lettura le parole di Pasolini sono
sorprendenti, tenuto conto che nei primi anni Sessanta erano ancora gli
italiani che migravano all’estero, e non certo i coloni africani. Il terzo
mondo sbarcherà nel primo mondo ed egli fu l’unico in tempi non
sospetti ad avere questo “fiuto sociologico”la forma esteriore della
poesia, che è lunga, molto complessa, e non a caso scritta a forma di
croce, nel senso che gioca con la lunghezza dei versi ottenendo la
forma di una croce, nelle parole di Pasolini emerge la consapevolezza di
un incontro/scontro tra civiltà, e che da questo incontro/scontro si palesa
l’antico passato anche del mondo occidentale, che in qualche modo si
ritrova e si rispecchia. Non è nemmeno un caso, credo, che la forma
della poesia sia quella della croce, indicante sofferenza, ma anche
redenzione; patimento, ma anche rivelazione. E la forma della croce (a
cui abbiamo rinunciato qui per motivi di format), viene ripetuta tre volte,
come la tesi, l’antitesi e la sintesi di hegeliana memoria. Ma gli ultimi
versi sono quelli che svelano la speranza di Pasolini: “andranno su
come zingari verso nord-ovest con le bandiere di Trotzky al
vento”.Pasolini ci dice che la rivoluzione verrà dagli emigrati del terzo
mondo che andranno a nord ovest (e dunque in Francia, in Inghilterra, in
America) portando il cambiamento. E Pasolini non scelse Lenin, o
Gramsci (patriotici), ma Trotzky, cioè l’uomo che aveva teorizzato la
rivoluzione globale.I migranti, invece, si stanno rivelando ancora più
consumisti e individualisti di noi. Non mostrano alcuna coscienza di
classe, nè quella padronanza del lavoro che – sempre Hegel –
intendeva come strumento di emancipazione e di liberazione dei servi. I
migranti, in Francia, in Inghilterra o altrove, se fanno una rivolta la fanno
per rubare le scorte da un magazzino di tablet. La rivoluzione si sta
mostrando non solo lontana, ma ancora per molto tempo “cosa nostra”.

DOMANDE DELLA PROF:


TESTO 1( sempre la poesia Profesia però cambiamo la disposizione della forma
in cui è stata scritta )

Es.N1 qui la scriviamo con le stesse parole ma come se fosse un romanzo


scritto con una struttura narrativa come ci apparirebbe se APRISSIMO UNA
PAGINA DI UN QUALSIASI ROMANZO

Alì dagli Occhi Azzurri, uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi.
Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche
varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio nelle carte gialle
del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno, come da malandrini a malandrini: “Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il
pane e formaggio!” Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a
Marsiglia, nelle Città della Malavita.

TESTO 2( questa è l’immagine della struttura originale, a croce, della posta di


Pasolini)

Alì dagli Occhi Azzurri, uno dei tanti figli di figli,

scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi.

Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri,

sulle barche varate nei Regni della Fame.


Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio,

nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua..

Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni,

vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane.

Subito i Calabresi diranno,

come da malandrini a malandrini:

“Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!”

Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli,

e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia,

nelle Città della Malavita.

Che differenza noti tra 1 e 2? La forma.

TESTO 3
Alì dagli Occhi Azzurri


uno dei tanti figli di figli,


scenderà da Algeri, su navi

a vela e a remi. Saranno


con lui migliaia di uomini


coi corpicini e gli occhi

di poveri cani dei padri


sulle barche varate nei Regni della Fame.

Porteranno con sè i bambini,

e il pane e il formaggio, nelle carte gialle

del Lunedì di Pasqua.

Porteranno le nonne e gli asini,

sulle triremi rubate ai porti coloniali.

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,

a milioni, vestiti di stracci

asiatici, e di camicie americane.

Subito i Calabresi diranno,


come da malandrini a malandrini:

” Ecco i vecchi fratelli,

coi figli e il pane e formaggio!”

Da Crotone o Palmi saliranno

a Napoli, e da lì a Barcellona,

a Salonicco e a Marsiglia,

nelle Città della Malavita.

Che differenza noti tra 2 e 3? che effetti noti? :che non compare più la
struttura a croce ed ancora una volta cambia il ritmo con cui leggiamo e sono
falsate le pause. A che serve la differenza tra pause ritmiche e pause
sintattiche? serve a capire il senso della poesia, a dare il giusto ritmo in cui si
deve leggere come intendeva l’autore, lento, veloce, incalzante.…
Alcune parole risultano in evidenza?
1 varate: partite.
2 nelle carte gialle... Pasqua: in carte simili a quelle che si usano per il picnic del Lunedì di Pasqua
(ricorrenza che è usanza festeggiare con una gita in campagna).
3 triremi... coloniali: navi (triremi) rimediate in qualche modo (rubate) nei porti di paesi che in
passato sono stati col- piti da sfruttamento coloniale da parte dei popoli occidentali.
4 vestiti... americane: vestiti con abiti malridotti e a loro – che provengono dalla città africana di
Algeri – estranei: i poveri vestiti di foggia straniera sono un altro segnale della perdita di identità
che subisce chi, per miseria, è costretto ad abbandonare la propria terra.
5 malandrini: gente di malaffare.

ed ora osserva che succede se sostituisco le parole....


Alì dagli Occhi Azzurri Alì, arabo dagli occhi azzurri


 uno dei tanti nipoti di famiglie numerose


uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi

scenderà da Algeri, su navi 

di vario tipo. Saranno

a vela e a remi. Saranno 

con lui migliaia di uomini

con lui migliaia di uomini 

con il corpo magro e gli occhi

coi corpicini e gli occhi

di cani bastonati come quelli dei (loro) padri

di poveri cani dei padri 



sulle barche messe in acqua nelle terre affamate.

sulle barche varate nei Regni della Fame.

Porteranno con sè i bambini,

Porteranno con sè i bambini,

e il pane e il formaggio, nelle carte da salumiere

e il pane e il formaggio, nelle carte


gialle
usate durante la Pasquetta.

del Lunedì di Pasqua.


Porteranno le nonne e gli asini,

Porteranno le nonne e gli asini,


sulle barche rubate ai porti coloniali.

sulle triremi rubate ai porti coloniali.


….....................

…........... (Profezia, 1962)


Che differenza noti tra 3 e 4?

dunque :

importanza del suono (ritmo metrico)


importanza del senso (ritmo semantico)
rapporto tra suono e senso
rapporto tra parole scelte e contenuto (aspetto fonico, ritmico, semantico)

Lezione della prof

IL TESTO LETTERARIO

CHE COSA RENDE UN TESTO LETTERARIO

Un testo è un insieme di istruzioni che formano un'unità di significato.

Un testo ha una funzione comunicativa cioè: trasmettere un messaggio. Un


Un testo usa la lingua letteraria, e non quotidiana.

IL segno linguistico= significante più significato


Il significante è lil segno grafico e come si pronuncia

Il significato è il concetto mentale dell'oggetto .

Per Roman Jakobson la comunicazione verbale necessita di:

un mittente

un messaggio

un destinatario

un contesto

un canale di comunicazione

una lingua comune a mittente e destinatario,

Delle funzioni del linguaggio, fatica, emotiva ecc..le più importanti ai fini della
letteratura sono

la funzione denotativa connotativa:

La funzione denotazione o oggettiva indica vero significato della parola La


funzione connotativi o soggettiva, indica il significato che noi diamo a quella
parola in classe alla nostra cultura, esperienza..

E’ quindi chiaro che quando leggiamo un testo letterario più che la funzione
denotava, è la funzione connotativi che ci trasmette il senso di ciò che l’artista
ci vuole dire.Questo significato investe non solo la parola ma anche il ritmo, la
sintassi con cui il testo è scritto.Questo fa sì che ognuno di noi può riceverne
un’emozione diversa , personale, e fa sì che il testo sia leggibile come nuovo
in qualsiasi epoca, con interpretazioni diverse per le diverse sensibilità di
quell’epoca .

Jakobson parla di una terza funzione quella poetica presente in opere


complesse che richiedono la decodificazione del messaggio da parte del
lettore, per questo la funzione poetica è tipica della poesia .

slaid prof:
Il messaggio può cambiare completamente se cambiamo le parole e quindi i
suoni della frase

Es. della Prof:

Nel mezzo del cammin di nostra vita ——se sostituiamo “cammin” metafora
di tragitto, percorso, con un’altra parola che succede?

Cammin è bisillabo con consonanti nasali quindi ha anche un significato


fonico, cambiando la parola con una di egual significato, ma con diverse
lettere il verso cambia completamente, perde la musicalità ,non c’ è più la
successione delle nasali, e così perde la perfezione che lo caratterizza.

“ nel mezzo del percorso di nostra vita”

Ipersegno = indica Il fatto che in letteratura le parole trasmettano


informazioni anche attraverso un insieme complesso di suono, ritmo,
disposizione particolare ecc.

segno “iconico”, = cioè di un segno che è anche immagine,

Slaid prof:

IL testo LETTERARIO COME SISTEMA

nel testo letterario le parole, i ritmi, la metrica come abbiamo visto non è mai
casuale. Ci sono delle regole più o meno rigide che gli scrittori seguono.

La letteratura è come un sistema secondario costruito sul sistema primario


che è la nostra lingua .

Per decodificare la poesia e la letteratura è necessario essere lettori


competenti.

Lez 6 della Prof:

RACCONTARE ,LINEE DI ANALISI

Slaid prof. Gli ingredienti del narrare: trama, personaggi, tempo, spazio,
narratore, punto di vista
.

la trama è un’idea che si svolge nel tempo e nello spazio attraverso le azioni
dei personaggi ,i dialoghi ..«Le storie fondamentali di ogni tempo sono due,
Cenerentola e Pollicino: Perchè? il fascino delle donne e il coraggio degli
uomini» dice Francis Scott Fitzgerald.

il testo narrativo può essere un romanzo, una favola, una fiaba, una novella o
un mito.

-Il romanzo è un tipo di narrazione di una certa lunghezza, che si concentra


sulle vicende del protagonista e attorno ad esso ruotano altri personaggi.

-La favola ha come protagonisti degli animali con delle caratteristiche umane
(per esempio dei comportamenti, il parlare) o degli esseri umani. Spesso si
conclude con un insegnamento di tipo morale.

-La fiaba di solito è più lunga della favola, è caratterizzata da colpi di scena e
da ambientazioni di fantasia. I personaggi sono anch'essi fantastici: fate,
gnomi, folletti, maghi, principi valorosi e principesse.

-La novella può avere vari tipi di generi (storico, comico, pauroso, ...) ed è più
breve di un romanzo.

-Il mito, infine, di solito è un tipo di narrazione che si riferisce alle origini del
mondo, della stirpe umana, ad una battaglia leggendaria con personaggi
eroici.

Il tempo

Si distingue : Il tempo della storia e il tempo della narrazione(o ordine


del racconto)

Il tempo della storia è il tempo reale nel quale si svolge la vicenda

Il tempo della narrazione è lil modo in cui i fatti narrati si susseguono


all'interno di un racconto.

Se viene rispettato l'ordine cronologico si parla di fabula se invece si adotta


un ordine artificiale iniziando la storia dal momento che si ritiene più idoneo si
parla di intreccio.
Per quanto concerne la durata dei fatti l'autore, può allungare o diminuire il
tempo reale di un evento, così la durata degli eventi narrati non coincide
quasi mai con la durata reale,

Per alterare il tempo reale lo scrittore ricorre ad alcuni espedienti narrativi:


l'ellissi, il sommario, la pausa.

L'ellisse prevede l'omissione di una serie di avvenimenti es,Cinque anni


dopo...".

Il sommario riassumere in poche righe più fatti di una particolare durata .

La pausa dilata il tempo della narrazione rispetto al tempo reale con


riflessioni dei personaggi o descrizioni degli stessi o di ambienti.

L'ellissi e il sommario danno al testo un ritmo veloce, mentre la pausa dà un


ritmo lento.

L'analessi,o flashback), racconta qualcosa avvenuta nel passato

la prolessi, è un’anticipazione di eventi futuri

Lo spazio.

I luoghi, reali, realistici o fantastici, o simbolici(la selva oscura di Dante) fanno


da sfondo alla storia e possono

assumere un valore simbolico o evocare uno stato d’animo del personaggio

NB IL RACCONTO MODERNO NASCE QUANDO IL TEMPO ( C’ERA UNA


V O LTA ) E L O S PA Z I O ( … . u n r e g n o … ) D I V E N TA N O R E A L I E
DETERMINATI(slaid prof)

Il personaggio

In una storia è più importante la situazione o il personaggio? Dipende:

1) Ipotesi di funzionalità di Todrov: prevale la trama sui personaggi

2) Bachtin :prevale il personaggio sulla situazione storico-sociale

3) Muir: dipende dal tipo di testi


il personaggio può essere di invenzione, storico o autobiografico

Distinguiamo:

Il protagonista: è il personaggio centrale della storia,

L'antagonista: è il nemico del protagonista,

L'aiutante: è, in generale, un personaggio che aiuta il protagonista,

L'oppositore: è il personaggio che si oppone alle azioni del protagonista:

es.Cenerentola è il protagonista. L'antagonista è la matrigna che non la fa


uscire di casa, l'aiutante è la fata e gli oppositori che in questo caso sono più
di uno sono le sorellastre.

il narratore è La voce che racconta

-Narratore eterodiegetico, è un narratore esterno

-Narratore omodiegetico è un narratore interno,

che a sua volta, può essere, in base a cosa racconta:

autodiegetico, quando riporta fatti inerenti a sé stesso (definito anche io


narrante, tipo Il fu Mattia Pascal)),

allodiegetico, quando racconta fatti relativi ad altri personaggi.(quindi è un


semplice testimone)

in base al livello narrativo è:

extra-diegetico se è un narratore di I grado cioè è lui che racconta la storia o


intra-diegetico se è un narratore di II grado quindi c’è un racconto nel
racconto.
Punto di vista

Il punto di vista, o focalizzazione, costituisce la prospettiva da cui si


raccontano i fatti. Può essere di diversi tipi:

-zero (il narratore è onnisciente, ne sa più dei personaggi)

-esterna (il narratore ne sa meno dei personaggi);

-interna (il narratore ne sa quanto i personaggi)

Se il narratore rielabora quanto gli è stato detto da un altro personaggio, si


parla di:

• narratore di primo grado, cioè è lui che comunica con il lettore ciò che
ha rielaborato la storia;

• narratore di secondo grado, cioè racconta la persona che ha


comunicato la vicenda a quello di primo grado;

Per esempio, nei I promessi sposi, il narratore di primo grado afferma di aver
trovato un manoscritto di un anonimo, il quale è il narratore di secondo grado.

forme del discorso narrativo

(rapporto tra racconto puro e mimesi)

-discorso narrativizzato il narratore fa un riassunto delle parole dei


personaggi e non lascia loro spazio per esprimersi autonomamente.

- Discorso indiretto: il narratore riporta a modo suo le parole e i pensieri


dei personaggi . E' in terza persona, preceduto da un verbo dichiarativo

- Discorso indiretto libero: il personaggio si infiltra nella voce del narratore,


molto usato da Verga, per far parlare il personaggi con le sue parole ed il
suo modo d dire. Il narratore parla in terza persona, senza verbo
dichiarativo e senza le virgolette

Discorso diretto: in prima persona con verbo dichiarativo e. Virgolette

Discorso indiretto libero in prima persona, con virgolette e senza verbo


dichiarativo es . Ciao.

Lez. prof. (credo sia una esercitazione fatta in classe per cui non la devi
studiare)

Scheda di Analisi guidata del Testo Narrativo

Titolo

• indicazione del titolo preciso dell'opera ( specifica se è all'interno di una


raccolta di testi, se l'hai letto in una edizione particolare,ecc...)

Autore

• notizie essenziali sull'autore del testo, se possibile con maggiore riferimento


al periodo e alle implicazioni relative all'opera che hai letto

Casa Editrice, anno di pubblicazione

• (indica la casa editrice della traduzione in italiano e l’anno della prima


edizione – non delle ristampe – e, dove possibile, l’anno di pubblicazione
dell’opera in lingua originale)

Genere

• raccolta di testi, racconto, romanzo (psicologico, storico, d’avventura, di


fantascienza, fantastico, di formazione, ad enigma/giallo/poliziesco,
umoristico, fiume)

Fasi essenziali della vicenda

• (situazione iniziale, esordio, svolgimento, spannung, scioglimento,


conclusione) sintesi della vicenda narrata, che contenga tutti gli avvenimenti
principali, senza soffermarsi troppo sui particolari

Personaggi
ruoli e funzioni dei personaggi; presentazione (diretta, indiretta, mista);
caratterizzazione (fisica, psicologica, sociale, ideologica)

Spazio

• In quali luoghi si svolge la vicenda? La rappresentazione dello spazio è


ricca di dettagli e funzionale alla rappresentazione ralistica della vicenda,
oppure i luoghi sono un semplice sfondo? Sono luoghi aperti o chiusi?
Acquistano una valenza simbolica? Le caratteristiche psicologiche dei
personaggi sono amplificate e proiettate nei luoghi descritti (es. pioggia che
purifica, notte che angoscia, lago che riposa, ecc...)?

Tempo

• In quale periodo storico si inseriscono i fatti narrati? In quale arco di tempo


si svolge la vicenda (dieci anni, due mesi, un giorno, ecc...)? Prevalgono i
tempi lenti (pause, riflessioni, digressioni, ecc...), le scene in cui l'azione
scorre sotto i nostri occhi con la stessa velocità con cui stiamo leggendo il
testo, oppure i fatti scorrono rapidamente, con riassunti ed ellissi temporali?
Vi è corrispondenza tra fabula e intreccio? Ci sono analessi (flashback,
ricordi) o prolessi (anticipazioni)?

Narratore

• Il narratore è onnisciente o racconta i fatti come uno spettatore esterno,


oppure è un personaggio, se non addirittura il protagonista della vicenda?

Focalizzazione

• il punto di vista è zero (narratore onnisciente-palese), esterno o interno


(fisso, variabile, multiplo)?

Tecniche di rappresentazione delle parole e dei pensieri dei personaggi

• Prevale il discorso diretto, o quello indiretto? È presente il discorso indiretto


libero? Se si, che effetto produce? Ci sono monologhi interiori o flussi di
coscienza?

Registro linguistico

Il lessico è familiare/semplice/immediato/gergale/ricercato/elevato/ poetico/


evocativo/ aderente alla condizione socio-culturale dei personaggi.

La sintassi è
prevalentemente paratattica (coordinazione) o ipotattica (subordinazione)

Lez prof.

LA COMUNICAZIONE LETTERARIA

Ogni testo letterario ci “parla”, cioè comunica con i suoi destinatari. Ciò
avviene a più livelli :

A) intra-testualità (ci parla con i temi, la forma, lo stile ,interni del testo)

B) inter-testualità (puoi fare un collegamento da un testo agli altri testi

C) extra- testualità (puoi comprendere il testo collegandolo al con-testo)

Il testo ci parla anche cose che NON sono DENTRO di esso in modo
esplicito

-quando facciamo l’analisi del testo letterario.....

- scegliamo un testo
- -ne definiamo il genere
- - ne analizziamo le singole componenti, ritmica, metrica, simbolica..
- lo colleghiamo ad altri testi con cui esso è in relazione pluridiscorsiva (per
una sorta di “patto di lettura” tra autore e lettore, il testo letterario richiama,
allude, cita e sta al lettore riconoscere l’intertesto)

- lo interpretiamo, attribuendovi dei significati (il testo letterario non “spiattella”


mai tutti i suoi significati!) che ci consentano il RI-USO

LE OPERAZIONI CHE ESEGUIAMO SONO :

1) analisi interna (lingua/stile/ temi)


2) contestualizzazione (tempo/ autore)

3) intertestualità (letteratura e altre arti)

4)interpretazione (ri-uso)

Lez prof LEGGERE è un suo intervento al comune di napoli

-Identità linguistica e identità letteraria -

Quando le lingue d'Italia diventano lingua degli italiani

Viaggio attraverso a 150 anni di testi letterari e non 1861/2011

Lavoro di Annamaria Palmieri Assessore alla pubblica istruzione del Comune


di Napoli

Il Principe di Metternich (1847)

“L’Italia è un’espressione geografica”

Giosuè Carducci (1871)

“L’Italia è espressione letteraria e poetica”

-Manzoni e la questione della lingua

Esplose dopo l’unità d’Italia

La Commissione incaricata a risolvere la questione fu voluta da Emilio


Broglio (Ministro Pubblica Istruzione tra il 1867 e il 1869) ed aveva l’incarico
di

« ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e


rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della “buona
lingua e della buona pronunzia” »

Ne fecero parte, per la sezione milanese: Alessandro Manzoni, Ruggero


Bonghi, Giulio Carcano

Le proposte di Alessandro Manzoni (1863) sono:

strumento principe ... unNovo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso
di Firenze (1870)

per la sua diffusione :


-insegnanti di Toscana o “educati in Toscana” per le scuole primarie di tutta
Italia; mentre esclusivamente toscani per le cattedre delle scuole magistrali e
normali;

- sussidi da assegnarsi ai Comuni che “hanno maestri nati od educati in


Toscana”;

- conferenze tenute dai maestri e maestre di Toscana nelle varie provincie per
“intrattenere”/istruire i maestri e le maestre non toscani delle scuole primarie
in letture di libri classici e moderni;

- persone competenti da inviare presso gli uffici amministrativi per rivedere


scritte, avvisi, insegne da esporre in pubblico e anche le notizie diffuse dagli
“uffici regi e municipali”

-abbecedari catechismi e libri di lettura “scritti o almeno riveduti da Toscani”

- premi agli studenti meritevoli, consistenti in “un’annata scolastica in Firenze


per farci la pratica in una delle migliore scuole primarie”

La risposta di Graziadio Isaia Ascoli (1873)

« Si tratta di un interesse nazionale, grande e pratico; di utilità pubblica


dinanzi al quale tace ogni diritto di conservazione per qualsiasi monumento
dei tempi. Si tratta di dare all’Italia una lingua, poiché ancora non l’ha; e una
lingua nazionale deve coincidere con l’idioma parlato dagli abitatnti di quel
dato municipio che per questo capo viene a farsi principe,, dell’intiera
nazione»

Ma la soluzione manzoniana non risolve il problema...

« scarsa densità della cultura e eccessiva preoccupazione della forma »

La situazione linguistica reale è:

All’atto dell’unità il 90 % della popolazione meridionale era di fatto analfabeta


e la media nazionale era del 75% (dalla Storia Linguistica dell’ Italia unita di
Tullio De Mauro)

Nessuna dunque delle condizioni ritenute necessarie da Manzoni risultava


praticabile

se non si fossero portati almeno gli italiani a scuola e fatti gli insegnanti.

Dai... briganti al deputato e critico letterario

Il generale dei briganti Carmine Crocco, detto Donatello (1861)


Carmine Crocco, detto Donatello o Donatelli, è stato uno dei più noti
briganti italiani all’epoca del Risorgimento. Nato in Basilicata a Rionero in
Vulture nel 1830, morì in Toscana a Portoferraio agli inizi del Novecento a
75 anni.

Fu il capo delle bande del Vulture-Melfese, ma il suo potere si estese anche


in Capitanata e in Irpinia. Da bracciante agricolo divenne dapprima militare
borbonico, poi si diede alla macchia e combatté per Giuseppe Garibaldi. Fino
a diventare comandante di un esercito di duemila uomini e protagonista della
guerriglia antisabauda.

Crocco era ritenuto un abile e temuto fuorilegge, tant’è che su di lui pendeva
una taglia di ben 20mila lire. Si guadagnò gli appellativi di “Generale dei
Briganti”, "Napoleone dei Briganti" oppure “Generalissimo".

Sul suo conto ci sono pareri contrastanti. Per alcuni resta soltanto un ladro e
un assassino, per altri un eroe popolare. Quando veniva trasferito da una
struttura carceraria all’altra, la gente accorreva numerosa per poterlo
osservare da vicino

scritto del signore don. Rocco Vassalle

io vi precodi mandare una cena per le stese priciloro e vi preco di ma- ndare
una somma di docatecente conta mandate vinti pocce di risorio e un pocco di
minimizzano

nonate mandate queste agi adamoacria questa notte.

E vi abrugiame fate preste

Traduzione

Signore don Rocco Vasalle. Io vi prego di mandare una cena per lo stesso
priciloro (porgitore della lettera?) e vi prego di mandare una somma di ducati
500 conta (ti). Mandate 20 bocce di rosolio e ubn poco di munizioni. Non
altro.

mandate queste agi (?) a - da - mo (da ora) a cria (a domani) Altrimenti (E) vi
abrugiamo (incendiamo). Fate presto.

Viva Iddio - Viva il re Francesco II

Si fa ordine a tutti coloro del ceto basso e rialisti, che nel venire la forza costà
non si ammovessero dalle loro case, che poi dovessimoprentere qualche
equivoco.Nulla le dica.

firmato Crocco
Il brigante Michele Di Gè (1867)

Chiamato per il servizio militare nel 1863, disertò e lavorò come pastore a
Lavello. Si diede al brigantaggio agli inizi del 1866, dopo aver incontrato altri
due disertori ed entrò nella banda di Giacomo Parri e Carmine Meula. Come
brigante dimostrò di avere un'indole pietosa, poiché una volta evitò l'uccisione
di un ricco possidente che si era rifiutato di pagare la somma richiesta dalla
sua banda.

Dopo una latitanza di circa otto mesi, si costituì alle autorità l'8 dicembre
1866. Processato a Salerno nel 1869 e condannato al carcere a vita, fu
imprigionato ad Ancona, dove ebbe un furioso litigio con un altro detenuto
che lo aveva offeso, definendolo "brigante come tutti i napoletani". Uscito di
prigione nel 1893, ritornò al proprio paese natio e riprese a lavorare
onestamente. Scrisse tra il 1910 e il 1911 la sua biografia, stampata dalla
Tipografia Insabato di Melfi, con il nome Vita di Michele di Gè (1911).

“allora mi domandò se sapeva leggere e scrivere io gli disse di no, subito mi


disse Di Gè vi voglio bene, vi impare io a leggere e scrivere, che un giorno vi
serverà, veramente fu parola sanda, di fatto lui prende il Bea [l’abbecedario] e
mi ingomingia a fare la scuola, veramende io allora avveva una menda fina,
ed amigliorava giorni per giorni.

Da un discorso parlamentare di Francesco De Sanctis (1878)

«Noi altri italiani questa questione di educare il bambino, il giovinetto, la


prendiamo un po’ per ischerzo, non vi mettiamo tutta la serietà, non sentiamo
che in quel fanciullo, che noi educhiamo, gittiamo il seme del brigante o
dell’eroe. E’ lì, sul principio, che noi dobbiamo curare l’educazione; e la
Camera, quantunque preoccupata di cose gravi come le costruzioni
ferroviarie, come il macinato, come i trattati di commercio, io credo che non
vorrà rifiutare la sua attenzione a questa questione... »

Da Francesco De Sanctis, La giovinezza (1883/1889)

Unità d'Italia e unificazione della lingua

Ora bisogna ... fare gli italiani


Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani”.

Questa famosa frase associata dai più a Massimo D’Azeglio, sta a


significare che per quanto l’Italia geograficamente e politicamente nel 1861
risulti unita, in essa regneranno sempre culture, tradizioni e lingue (dialetti)
diversi tra loro.

Nonostante si tratti di una frase espressa un secolo e mezzo fa, non è del
tutto estranea dal contesto attuale. Basti pensare alle rivalità che sono ancora
presenti nel nostro paese tra Nord e Sud.

L’Unità d’Italia fu un traguardo complesso da raggiungere.

Pasquale Villari/1 (1872) La scuola e la questione sociale

«Si credette insomma risolvere il problema col dire: abbiamo fatto l’Italia, ora
bisogna fare gl’Italiani, ed è questo l’ufficio delle scuole . Ma son frasi che
contengono un’assai piccola parte di vero, perché in sostanza l’Italia è
composta d’Italiani, e poco o punto può differire da essi; [...]. Le scuole
s’aprirono a migliaia, ed ora si leva già un lamento generale che grida: gli
analfabeti non diminuiscono, gli scolari non profittano punto, la scienza non si
ridesta; abbiamo le scuole e mancano i professori; la questione è sempre
questione di uomini. Sicché a fare gl’Italiani ci vogliono le scuole, ed a fare le
scuole ci vogliono gl’Italiani. Siamo dunque in un circolo vizioso?»

Pasquale Villari/2 (1872)

«Che volete che faccia dell’alfabeto colui a cui mancano l’aria e la luce, che
vive nell’umido e nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella
pubblica strada tutto il giorno? Non otterrete mai nulla. E se un giorno vi
riuscisse d’insegnare a leggere ed a scrivere a quella moltitudine, lasciandola
nelle condizioni in cui si trova, voi apparecchiereste una delle più tremende
rivoluzioni sociali

Edmondo De Amicis, Cuore (1886)


« Cinque ore di lezione al giorno, poi un’ora di ginnastica, poi altre due ore di
scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiar di scappata e sfiatarsi dalla
mattina alla sera: s’è rovinata la salute .»

E’ una frase di Enrico uno dei protagonisti del libro che va a trovare il suo
maestro che si è ammalato per il troppo lavoro.

Il romanzo di un maestro (1890)

Dal libro cuore il capitolo si intitola “la miseria”tema centrale la fame, anche la
maestra dalla penna rossa che vive in condizioni disagiate per accudire il
vecchio padre raccoglie ciò che trova. Il maestro un giorno la vede più bianca
del solito:

«Vedendola un giorno più scolorita del solito, e come stanca, il maestro


sospettò ch’ella avesse già cominciato a privarsi d’una parte del necessario
per non privar di nulla il vecchio malato, e con quest’idea si presentò la sera
al cancello del terrazzino, fremente di pietà, a offrirle ancora una volta tutto
l’aver suo, e a supplicarla che accettasse. Ma la maestra gli rispose che
s’ingannava, ch’ essa poteva ancora aspettare...» «... I parenti mandavano i
ragazzi a scuola quando loro faceva comodo [....]. Ed era giustizia [.....].
Pareva un’odiosa prepotenza quella di togliere a un cittadino anche la
innocente libertà d’essere un asino ... »

Edmondo De Amicis, Ricordi d’infanzia e di scuola (1901)

«Si sentivan parlare tutti i dialetti, dal valdostano al siciliano. C’eran figliuoli di
generali, di marchesi, di duchi, di bottegai, di impiegati, di piccoli proprietari di
campagna; dei ricconi vestiti da damerini che buttavano i cavurrini dalla
finestra; dei poveracci, vestiti come operai, a cui mancava il soldo per il
sigaro; e diversissimi per grado e per cultura, poiché qualcuno aveva fatto il
corso per liceale, altri poco più che le scuole elementari; il che metteva il
povero professor di lettere nella condizione di un pastore che dovesse
mandare avanti insieme dei cavalli, delle capre e delle tartarughe...

Pochi studiavano. Ma ce n’era bisogno? La frase consacrata era: dare il


sangue alla patria, non si diceva mica il cervello; e di sangue tutti n’avevano
d’ avanzo. »

Siamo alle porte della I guerra mondiale

Lettere di emigranti

oh! Quanto deve essere stato bello il giorno in cui il popolo ebreo passato il
mar Rosso cantava inni di grazia a Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù
del faraone!

Vardate bene che la Merica non sono come Litalia


La Merica al tempo dogi non è più la Mericha, qui la fortuna ormai e smarita

(Sante Paparoto, 1889)

carisimifrateliavengnoconcueste poche rigne di pregarvi di andare in comune


di pregarne il secretario di pregharlo che mefese le carte pervinire in
nitagliaperché ò tutti i miei figli amalati (...) cusì pure mie morta mia figlia
Caterina cusì pure mi resta Antonio Bartolo Giovanni Luigi Angela Maria,
sono tutti puteiamalati molto, eanche iomistrovo con poca salute. cusìpregho
il sighorsecretario di una carità di farmi le carte de venire a casa
gratoitoperchemitrovosolegrandemezerie

(Antonio Basso, 1889)

(Felice Sartor, 1885) (Giovanni Polese,1888

La separazione fra scuola e vita e la retorica del moschetto(fucile)

Ora bisogna ... fare la patria in armi

La Grande guerra

Gli uomini arruolati nell’esercito italiano tra il 1915 e il 1918 furono poco meno
di 6 milioni, circa 1/6 della popolazione dei maschi totale, più della metà dei
maschi attivi

... per essi spesso anche analfabeti, molti contadini, lo scrivere diventa parte
integrante di quella esperienza della modernità che la guerra significò
drammaticamente, ma che contribuì a rinsaldare con lo scambio linguistico e
umano il senso identitario della nazione.

I morti furono 600.000 il 14% dei combattenti, le lettere e cartoline inoltrate in


4 anni e mezzo dal fronte furono 4 miliardi (andrebbero aggiunte anche le
lettere scritte in italiano dai soldati trentini arruolati con l’esercito austriaco)

L’ossessione epistolare

“ora mi ritrovo con un po’ di scorte di carta e cartoline, non c’è più quella
carestia come nei giorni passati (Francesco Ferrari da Brescia)

... molte volte si trova privi di mezzi cioè mancha perfino le carta che è la
cosa più

utile per dar nota ai suoi cari se al mondo si vive (Pietro Novaglio, Lombardia)
scusa del mio maliscrito che il zaino mi serve per tavola e dunque non posso

iscrivere bene che forse non capirai neanche tanto (Nicola Righetti,
lombardo, lettera del 29 marzo 1916: morirà il giorno dopo)

Gli raccomando quando mi scrive di scrivermi un pochettino più chiaro


altrimenti non la capisco bene. Mi scuserà del mio malscritto e del
disincomodo che gli do a

lui (Francesco Noci, da Manerbio, al prete del paese che probabilmente


faceva da tramite per la scrittura)

Caratteristiche delle lettere dal fronte ...ovvero, l’italiano “popolare”

riproduzione della catena parlata nella segmentazione

uso scorretto dell’espediente ortografico dell’h. assente o incerta


distinzione tra maiuscole e minuscole che polivalente

difficoltà a rendere alcuni fonemi

scempiamenti e raddoppiamenti spesso fonosintattici

Da un “tema” di italiano

L’amicizia per me a ancora un valore perche stai in compagnia con gli amici,
esistono anche veri amici e amiche cioè che sono quelle amicizie che ti puoi
fidare l’un l’ altro e confidare ti possono anche difendere su cose molto brutte,
puoi giocare con loro e si può giocare a tante cose come ad esempio: a
calcio, pallavolo, e molte altre cose.

(stralcio da un tema dell’esame di stato ITIS Emilia Romagna in Serianni,


Scritti sui banchi)

Irriducibilità scritto/parlato: un problema tutto “italiano”

Luigi Meneghello, Libera nos a malo (1963)

«Questo libro è scritto dall’interno di un mondo dove si parla una lingua che
non si scrive, che poi è la sola lingua che conosco bene»

«Bisognerebbe dirlo alla gente, fin che c’è ancora tempo, che l’italiano non è
una lingua parlata»
« Non c’è passaggio in Italia tra come impariamo a parlare e a vivere e come
poi impariamo a scrivere (...) Vorrei far splendere quella sgrammaticata
grammatica »

Luigi Meneghello, Fiori italiani

«Con la cultura scolastica urbana, infatti, si entrava nel mondo dello sbaglio.
In paese non c’erano sbagli seri, se non in quanto scrivere è sempre mettersi
a rischio di sbagliare, ma si trattava in generale di sbagli meccanici, di
ortografia. Qui lo sbaglio era il centro stesso del sistema »

“in quell’anno l’insegnamento medio fu impartito in teoria a circa un decimo


della gioventù vicentina di leva: ma se tanto mi dà tanto, in realtà forse a un
ragazzo su sessanta, più probabilmente a uno su cento. Non c’è che dire: il
lenzuolo unitario destinato a rivestire la Mente degli Italiani era grande come
il fazzoletto di una bambola. Di questo stato di cose S. non avvertì mai
l’assurdità. Era parte dello statuto della cultura che essa venisse esposta
come la Sindone, non trattata come un servizio pubblico. La cultura vive,
splende e minaccia per conto suo: in senso stretto non c’entra con la gente.”

Luigi Meneghello, Fiori italiani / segue

«Fuori c’era un sistema culturale completamente diverso da quello scolastico


e vasto come il mare. La gente non solo viveva, ma utilizzava un suo sistema
di forme culturali molto vigorose e tuttavia – così sembrava a S. – prive del
mordente ultimo delle cose che incidono sulla mente ...»

«... il ruolo delle canzoni e canzonette era davvero speciale. L’assurdità delle
parole aveva una potenza incisiva e una forza interclassista con cui la lirica
aulica di quei tempi non può veramente competere (...) Penso sempre notte e
dì / quel visìn dall’espressiòn fatàl / che nel cuore mi colpì / sorridendo dal
giornàl. Non reciderlo forbice»

« La cultura extra scolastica aveva una sua potenza : sarebbe assurdo


pensare che Zorro, pur così diverso nello stile, avrebbe perso con
Sarpedonte (...) La differenza era questa, che a scuola c’era sempre la
mediazione della lingua letteraria. Anche Tarzan stava in un libro (un ciclo
come quelli omerici, ma il vero Tarzan è in un libro solo); però era un libro per
modo di dire, una forma della vita, non della cultura. Invece Corradino di
Svevia, benché insulso, appartiene di diritto alla cultura»

... come apparte- neva invece alla “vera” cultura .... una poesia così...

Lettura

Gabriele D’Annunzio, da Elettra, Canti dell’amore e della gloria, II (1903)


Il pastore d’Amulio dal galèro

di pel lupigno, Fàustolo che scorse

il pico verde e quel seguendo accorse al loco lupercale umido e nero,

indi prese i Gemelli, uno leggero, l’altro più grave, e nudi ambo li porse a
Larenzia mammosa, non s’accorse che in un pesava il peso dell’impero.

Il peso dell’impero e del delitto necessario facea grave il fratello di Remo,


sacro all’augurale volo.

Ei diede al mondo l’Urbe e al cuore invitto del Guerriero insegnò come sia
bello

con un sogno di gloria restar solo.

Dalle pantomime di regime alla tragedia della guerra

L‘italianizzazione forzata e la lingua dei liberatori

«Basta con gli usi e costumi dell'Italia umbertina, con le ridicole


scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra
tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di
Londra, o d'America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare a
noi, come guardarono a Roma o all'Italia del Rinascimento... Basta con gli
abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le
parole ostrogote.»

(Il costume da “Il Popolo d'Italia” del 10 luglio 1938)

alimentari

brioche /brioscia - champagne/ sciampagna croissant / cornetto - cyclostile/


ciclostilo

dessert/ fin di pasto - menù/ lista stop/ alt - toast/ pantosto bar/ mescita sport

autogoal / autorete - bob/ guidoslitta; bookmaker / allibratore - hockey / disco


su ghiaccio

dribbling / scarto, scavalco - raid (aereo) /transvolata; sprint / scatto - tour/


giro

grafie
alcool/ àlcole - bidet/ bidè - bleu/ blu - casinò/ casino; cognac/ cògnac -
mansarde (mansarda)/ soffitta; marron / colore marrone - marron glacé/
marrone candito; seltz/ selz - wafer / vafer - walzer/ valzer toponimi

Sterzig = Vipiteno - Salbrertrand = Salabertano - Courmayeur = Cormaiore -


Morgex= Valdigna d'Aosta - Illirska Bistrica = Bisterza, poi Villa del Nevos –

Pivka = San Pietro del Carso Adelsberg – ora Postojna – in Postumia Grotte.

e...

cognomi

Vodopivec in Bevilacqua Russovich in Russo

Krizman in Crismani

József Violak, noto anche col nome italianizzato Giuseppe Viola (Komárom,
10 giugno 1896 – Bologna, 18 agosto 1949), è stato un calciatore e
allenatore di calcio ungherese, centromediano della Juventus negli anni '20 e
allenatore di numerose squadre italiane per il successivo ventennio.

Il suo cognome venne italianizzato per volere delle gerarchie fasciste alla
concessione della residenza e del passaporto italiano. Per molti anni si è
creduto fosse effettivamente italiano avendo tolto la k dal suo cognome.

Ma l’italiano si espandeva con altri mezzi....

E si modificava...

Il boom economico fra produzione e consumo

La nascita dell’italiano medio

I principali fenomeni

Urbanizzazione e migrazioni dal sud al nord 1962: la scuola media unica

e soprattutto...la radio, il cinema, la TV

Da Italo Calvino , L’antilingua

Lettura

"Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello
scantinato per eseguire l'avviamento dell'impianto termico, dichiara d'essere
casualmente incorso nel ritrovamento di un quantitativo di prodotti vinicoli,
situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del
combustibile, e di aver effettuato l'asportazione di uno dei detti articoli
nell'intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a
conoscenza dell'avvenuta effrazione dell'esercizio soprastante”.

Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai


automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente
con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua
inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli
d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano
pensano nell’antilingua.

Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il «terrore


semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso
un significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone» fossero parole oscene,
come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi.
Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a
una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o
vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. Abbiamo una linea esilissima,
composta da nomi legati da preposizioni, da una copula o da pochi verbi
svuotati della loto forza, come ben dice Pietro Citati che di questo fenomeno
ha dato un’efficace descrizione.

Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per


le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: «io parlo di queste cose per
caso, ma la mia «funzione» è ben più in alto delle cose che dico e che faccio,
la mia «funzione» è più in alto di tutto, anche di me stesso ».

La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto


con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un
rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale
che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non
sa dire ho «fatto», ma deve dire «ho effettuato» – la lingua viene uccisa.

Se il linguaggio «tecnologico» di cui ha scritto Pasolini (cioè pienamente


comunicativo, strumentale, omologatore degli usi diversi) si innesta sulla
lingua, non potrà che arricchirla, eliminarne irrazionalità e pesantezze, darle
nuove possibilità {dapprincipio solo comunicative, ma che creeranno, come è
sempre successo, una propria area di espressività); se si innesta
sull’antilingua, ne subirà immediatamente il contagio mortale, e anche i
termini «tecnologici» si tingeranno del colore del nulla.

L’italiano finalmente è nato, – ha detto in sostanza Pasolini, – ma io non lo


amo perché è «tecnologico».

L’italiano da un pezzo sta morendo, – dico io, – e sopravviverà soltanto se


riuscirà a diventare una lingua strumentalmente moderna; ma non è affatto
detto che, al punto in cui è, riesca ancora a farcela.
Il problema non si pone in modo diverso per il linguaggio della cultura e per
quello del lavoro pratico. Nella cultura, se lingua «tecnologica» è quella che
aderisce a un sistema rigoroso, – di una disciplina scientifica o d’una scuola
di ricerca – se cioè è conquista di nuove categorie lessicali, ordine più preciso
in quelle già esistenti, strutturazione ne più funzionale del pensiero attraverso
la frase, ben venga, e ci liberi i di tanta nostra fraseologia generica. Ma se è
una nuova provvista di sostantivi astratti da gettare in pasto all’antilingua, il
fenomeno non è positivo né nuovo, e la strumentalità tecnologica vi entra
solo per finta.

Ma il giusto approccio al problema mi pare debba avvenire al livello dell’uso


parlato, della vita pratica quotidiana. Quando porto l’auto in un’officina per un
guasto, e cerco di spiegare al meccanico che «quel coso che porta al coso mi
pare che faccia uno scherzo sul coso», il meccanico che fino a quel momento
ha parlato in dialetto guarda dentro il cofano e spiega con un lessico
estremamente preciso e costruendo frasi d’una funzionale economia
sintattica, tutto quello che sta succedendo al mio motore.

In tutta Italia ogni pezzo della macchina ha un nome e un nome solo, (fatto
nuovo rispetto alla molteplicità regionale dei linguaggi agricoli; meno nuovo
rispetto a vari lessici artigiani), ogni operazione ha il suo verbo, ogni
valutazione il suo aggettivo. Se questa è la lingua tecnologica, allora io credo,
io ho fiducia nella lingua tecnologica.

Mi si può obiettare che il linguaggio – diciamo così. – tecnico-meccanico è


solo una terminologia; lessico, non lingua. Rispondo: più la lingua si modella
sulle attività pratiche, più diventa omogenea sotto tutti gli aspetti, non solo,
ma pure acquista «stile».

Finché l’italiano è rimasto una lingua letteraria, non professionale, nei dialetti
(quelli toscani compresi, s’intende) esisteva una ricchezza lessicale, una
capacità di nominare e descrivere i campi e le case, gli attrezzi e le
operazioni dell’agricoltura e dei mestieri che la lingua non possedeva.

La ragione della prolungata vitalità dei dialetti in Italia è stata questa. Ora
questa fase è superata da un pezzo: il mondo che abbiamo davanti, – case e
strade e macchinari e aziende e studi, e anche molta dell’agricoltura
moderna, – è venuto su con nomi non dialettali, nomi dell’italiano, o costruiti
su modelli dell’italiano, oppure d’una interlingua scientifico-tecnico-industriale,
e vengono adoperati e pensati in strutture logiche italiane o interlinguistiche.
Sarà sempre di più questa lingua operativa a decidere le sorti generali della
lingua …

Il dato fondamentale è questo: gli sviluppi dell’italiano oggi nascono dai suoi
rapporti non con i dialetti ma con le lingue straniere.
COMMENTO

L’articolo di Italo Calvino pubblicato nel 1965 sul quotidiano “Il Giorno”, in cui
parla dell’antilingua, cioè di un italiano surreale che avrebbe contagiato la
lingua italiana quotidiana, la cui sostanza è semplice e chiara. Nonostante
siano passati più di 20 anni, le parole che leggiamo sono molto attuali e ci
fanno riflettere sulla sorte non solo della lingua italiana, ma di tante altre
lingue che si confrontano ogni giorno con i forestierismi e con la tendenza
che molti settori e “intellettuali” hanno di complicare una lingua semplice.

Come parlano gli italiani oggi?

Esiste un continuum linguistico che va da lingua altamente informale e


popolare a lingua molto formale e dotta.

Ai due estremi:

dialettofoni monolingui o esclusivi-> persone che affermano di parlare "solo


o prevalentemente in dialetto" anche nelle relazioni con estranei. Essi
posseggono una competenza dell'italiano insufficiente o nulla.

italofoni monolingui o esclusivi -> individui che hanno adottato l'italiano in


tutte quante le situazioni comunicative, anche quelle più informali e familiari.

In mezzo un continuum di varietà: i comportamenti linguistici degli italiani si


differenziano per il livello di istruzione, l’età e il luogo in cui si vive, la
situazione comunicativa. Diversa è infatti la vitalità del dialetto passando da
un’area geografica a un’altra. Esso appare meno diffuso nell’Italia del Nord-
Ovest, mentre è assai vitale nell’Italia del Nord-Est e nell’Italia meridionale. Ai
dialetti si è sostituita spesso una koinè regionale.

Tendenze contemporanee:

Il GRADO ZERO della lingua letteraria

«Fra le disgrazie tante

che mi son capitate,

ahi quella d’esser nato

nella “terra di Dante”.»

Giorgio Caproni, Ahimè

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