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1.

«La distanza è il contrario della


vicinanza»
 1  Kleine Geschichte der Photographie, GS II/1: 378 (OC IV: 485). La formulazione è ripetuta nel sagg (...)

 2  Sulla genesi del testo e delle sue versioni cfr., a c. di F. Desideri, la recente edizione Benjami (...)

 3  «La liberazione dell’oggetto dalla sua guaina» (OC IV: 486; VI: 276; VII: 306). Sull’aura come fod (...)

 4  L’aura di un oggetto sensibile è identificata nel saggio su Baudelaire con «l’esperienza che si de (...)

 5  «Avvertire l’aura di un fenomeno significa dotarlo della capacità di guardare» (OC VII: 410).

 6  «L’inavvicinabilità è una delle qualità principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua na (...)

 7  M 16a, 4 (OC IX: 499-500). Si veda anche la lettera ad Adorno del 9 dicembre 1938: «Il concetto di (...)

1«La distanza è il contrario della vicinanza»: con questo truismo, in una nota al § 4 del saggio sull’opera d’arte nella ultima versione del 1939, Benjamin
cristallizzava una polarità cruciale per la sua caratterizzazione della nozione di aura, che aveva fatto la sua comparsa qualche anno prima nella formula:
«Einmalige Erscheinung einer Ferne, so nah sie sein mag» («L’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina») 1. Presentata per
la prima volta in Piccola storia della fotografia (1931), e poi ripresa nelle varie versioni del saggio sull’opera d’arte (dal 1935 al 1939) 2, tale formulazione, se
confrontata con le altre determinazioni del concetto via via suggerite da Benjamin – aura come involucro, fodero, guaina 3; aura come esperienza storica
precipitata nell’oggetto4; aura come capacità dell’oggetto di restituire lo sguardo a chi lo osserva5 – si distingue per l’enfasi posta sul momento estesiologico
(la coppia “vicino/lontano”, fondamentale articolazione del corpo proprio in relazione all’oggetto cui si rapporta spazio-temporalmente) e sulle implicazioni di
quella che potremmo chiamare una pragmatica iconica: vi sono immagini che tengono a distanza l’osservatore, incutendogli rispetto; altre che invitano
l’osservatore ad approssimarsi fino all’esplorazione tattile. Le prime, cariche di valore cultuale (Kultwert)6, sono appunto le immagini auratiche, che si tengono
lontane per quanto io fisicamente mi avvicini; le seconde, sbilanciate verso il polo del valore espositivo (Ausstellungswert) si offrono, per antitesi, a
un’apprensione nella vicinanza, per quanto possano essere lontane. Una polarità che nella Passagenarbeit avrebbe trovato una icastica rappresentazione
nell’opposizione dialettica fra aura e traccia (Spur): «La traccia è l’apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano ciò che essa ha lasciato
dietro di sé. L’aura è l’apparizione di una lontananza, per quanto possa essere vicino ciò che essa suscita»7.

 8  OC VI: 301.

2Nel quadro di una riflessione, come quella benjaminiana, che punta a indagare in prospettiva storica la correlazione fra l’organizzazione corporeo-percettiva e
i media che di volta in volta la configurano (ivi compresa quella classe, particolare ma non esclusiva, di media che sono le opere d’arte), secondo quella
accezione estesiologica di “estetica” da Benjamin espressamente richiamata – «quella dottrina della percezione che presso i greci aveva il nome di
estetica»8 –, la coppia vicino/lontano rappresenta una delle possibilità più elementari della relazione del corpo con il mondo circostante, che proprio in virtù di
tale elementarità possono caricarsi a seconda dei contesti di significati culturalmente sempre più densi.

 9  Cfr. il § 4 nel dattiloscritto 1935-36; il § 3 nella versione francese e nel dattiloscritto 1936-3 (...)

 10  Su Riegl profetico cfr. Libri che sono rimasti attuali (OC III: 270).

 11  Si veda Riegl 1901; Wölfflin 1888 e 1915. La letteratura sui rapporti tra Benjamin e la Kunstwisse (...)

3Non è certo un caso che, nel medesimo paragrafo del saggio sull’opera d’arte in cui Benjamin espone la chiave di volta del suo programma di ricerca –
«L’epoca delle invasioni barbariche, durante la quale sorgono l’industria artistica tardo-romana e la “Genesi di Vienna”, possedeva non soltanto un’arte diversa
da quella antica, ma anche un’altra percezione» 9 –, vengano evocate alcune delle sue fonti più importanti per la messa a fuoco delle implicazioni
estesiologiche della diade vicino/lontano: gli storici della scuola di Vienna, Franz Wickhoff ma soprattutto il “profetico” Alois Riegl 10. A essi andrebbe aggiunto
anche il poco amato Heinrich Wölfflin, di cui Benjamin era stato allievo deluso a Monaco nel 1915, e che tuttavia avrebbe lasciato un segno significativo
nell’elaborazione di tali problematiche: tanto per Riegl quanto per Wölfflin, mutatis mutandis, ne va infatti della possibilità di descrivere due basilari tipologie
di immagini che, a prescindere dai loro contenuti iconografici, mostrano rispettivamente la tendenza a invitare l’osservatore ad approssimarsi all’immagine,
offrendo i propri contorni all’esplorazione aptica (l’egizio in Riegl) o lineare tattile (il Rinascimento in Wölfflin), o, al contrario, a tenere lo spettatore a distanza
affinché possa apprezzare i giochi chiaroscurali e le macchie cromatiche (il tardoromano impressionistico di Riegl, il Barocco pittorico di Wölfflin)11.

 12  OC VI: 276.

4Accogliendo e al contempo invertendo il movimento di filosofia della storia dell’arte dalla visione aptica da vicino a quella ottica a distanza indagato da Riegl e
Wölfflin, Benjamin descrive il complesso dei fenomeni artistici e più in generale mediatici della modernità (la poesia baudelairiana, l’arte dada, il kitsch, il
teatro brechtiano, i giornali, il cinema) come un passaggio dalla modalità auratica di contemplazione solitaria a distanza dell’oggetto impregnato di valore
cultuale alla modalità tattile, manipolatoria e ravvicinata della fruizione collettiva da parte delle masse: «Giorno per giorno si fa valere in modo sempre più
incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto, da una distanza il più possibile ravvicinata, nell’immagine, o meglio nella copia, nella riproduzione»12.

 13  GS VI: 83-87.


5Sarebbe tuttavia certamente riduttivo considerare la coppia vicino/lontano esclusivamente nelle implicazioni che concernono la filosofia benjaminiana
dell’arte. In Nähe und Ferne13, un frammento dedicato appunto alla coppia vicinanza-lontananza che appartiene a una serie di riflessioni sul “problema
psicofisico” risalenti agli anni Venti (dunque successivamente all’incontro con le teorie di Riegl e Wölfflin), Benjamin afferma che vicino e lontano condizionano
la configurazione complessiva e la vita stessa del corpo in maniera decisiva, similmente alle opposizioni alto-basso e destra-sinistra; ma, più intensamente di
queste, esse si fanno valere come “poli” nella sfera dell’eros e della sessualità, nonché nel dominio del sogno. Quanto in particolare alla vicinanza, Benjamin la
giudica un fattore ancor più sconosciuto della lontananza, un tipo di relazione che affonda le sue radici in epoche arcaiche dell’umanità. Forse, ipotizza, esiste
una connessione fra stoltezza e vicinanza: la prima riposa su una prossimità eccessiva e priva di spirito all’idea, la quale è però anche la cifra di una bellezza
duratura e non intermittente (è il binomio, volentieri sottolineato dal senso comune, di bello e stupido). Analogamente sussiste un rapporto, di proporzionalità
però inversa, fra vicinanza e libertà: l’uomo emancipato dal fato determina egli stesso l’ambito del vicino, più che lasciarsene condizionare. Egli non considera
con riguardo (Rücksicht) ciò che gli sta per accadere nell’imminenza del tempo prossimo futuro, piuttosto scruta (per esempio nelle stelle) con prudente
avvedutezza (Umsicht) la lontananza di un destino al quale si sottomette. Come è evidente, vicino e lontano come determinazioni spaziali vengono qui a
investire altresì la dimensione della temporalità, in quanto vicinanza del futuro prossimo e lontananza del futuro remoto: un’implicazione decisiva per il
Benjamin filosofo della storia e metabolizzatore sui generis della tradizione del messianismo ebraico.

 14  Si veda, nella raccolta del 1929, l’«inclinazione alla lontananza che si definisce amor platonico» (...)

6Vicinanza e lontananza – argomenta Benjamin sulla scorta dell’erotica esposta nel Simposio platonico – sono «tipo e fenomeno originario della connessione»
(Typus und Urphänomen der Bindung), e si precisano in relazione ai sessi: in particolare, per l’uomo la lontananza (esperita per esempio nella nostalgia) è il
principio in virtù del quale egli viene determinato, e la vicinanza quello per cui egli determina. Sarebbe perciò errato associare unilateralmente la vicinanza al
vincolo e la lontananza alla libertà: proprio il rapporto amoroso rivela il potere dell’incantesimo esercitato dall’amata lontana, e le potenze dissolutrici di ogni
legame che si dispiegano nell’eccessiva vicinanza fra gli amanti. La medesima costellazione di problemi avrebbe trovato di lì a poco un’espressione pubblica
nei brevi pezzi in prosa intitolati Ombre corte, usciti su rivista in due riprese nel 1929 e nel 193314.

2. La leggenda del pittore cinese


7Se la polarità vicino/lontano interessa trasversalmente tutta la riflessione di Benjamin, forse nessun altro momento del suo corpus riesce a restituire
l’oscillazione dei significati attribuiti a tale coppia categoriale tanto efficacemente quanto il commento alla leggenda del pittore cinese. L’aneddoto racconta di
un pittore della dinastia T’ang, Wu Tao-tzu (680-740) il quale, ricevuto dall’imperatore Xuan Zong l’incarico di realizzare una pittura di paesaggio su una
parete del palazzo, invitò il sovrano ad ammirare il dipinto da vicino. Al battito delle sue mani, una porta dipinta sul fianco di una montagna si spalancò, ed
entrambi scomparvero dentro il dipinto, per non fare mai più ritorno.

 15  Si vedano le riflessioni sul tema dello scomparire in Bloch 1923, poi confluite in Bloch 1930. Per (...)

8Il caso del pittore cinese (che aveva già attirato l’attenzione dell’amico Bloch negli anni Venti) 15 fa la sua comparsa in «La Comarehlen», un capitolo
di Infanzia berlinese intorno al millenovecento, i cui primi appunti preparatori risalgono all’autunno del 1932. Qui Benjamin ricorda quella leggenda che

 16  OC V: 359-360.

ha origine Cina e narra di un vecchio pittore che mostrò agli amici il suo quadro più recente. Vi era rappresentato un parco, e uno stretto sentiero che seguiva un corso
d’acqua e attraversava una radura, e questo sentiero sullo sfondo terminava davanti a una porticina che dava accesso a una casetta. Ma quando gli amici si voltarono verso
il pittore, questi era scomparso e dentro al quadro. Camminava sullo stretto sentiero verso la porta, si fermò davanti a essa, si voltò, sorrise e svanì nella fessura. Così
anch’io con le mie scodelline e i miei pennelli all’improvviso ero trasmutato nel quadro. Assomigliavo alla porcellana in cui facevo ingresso con una nube di colori 16.

 17  OC V: 474-475. Per la citazione cfr. Adorno 1933: 315.

9La leggenda viene positivamente associata al ridimensionamento micrologico del ruolo del soggetto anche in  Kierkegaard. La fine dell’idealismo filosofico,
recensione alla tesi di abilitazione di Adorno dedicata alla “costruzione dell’estetico” nel filosofo danese, pubblicata da Benjamin nel 1933: «È nel movimento
descritto in certe fiabe cinesi, per cui (il pittore) scompare nel quadro (dipinto da lui stesso), che egli [scil. Adorno] riconosce l’ultima parola di questa filosofia.
Il Sé viene “salvato in quanto scompare attraverso il rimpicciolimento”»17.

10Nel saggio sull’opera d’arte, al quale Benjamin comincia a lavorare intorno al mese di settembre del 1935, leggiamo per contro l’aneddoto così declinato:

 18  OC VI: 299-300 (cfr. anche l’appunto in VI: 308). L’aneddoto è presente in tutte le stesure del sa (...)

La distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda
[versenkt sich]; penetra nell’opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista della sua opera compiuta. La massa distratta, al contrario, fa sprofondare
l’opera d’arte dentro di sé [versenkt in sich]; la lambisce con il suo moto ondoso, la avvolge nei suoi flutti18.

11Nel giro di breve tempo (siamo sempre nella prima metà degli anni Trenta), il senso che Benjamin finisce per attribuire a questa leggenda subisce dunque
una significativa inversione nel passaggio da Infanzia berlinese al saggio sull’opera d’arte: se nel primo caso lo scomparire del pittore nel proprio quadro era
portato a esempio positivo di uno sprofondamento immedesimativo nell’immagine, di un’identificazione corporea (e quindi “tattile”) con le cose e i loro colori
che mette fuori gioco la tradizionale contrapposizione gnoseologica e ontologica di soggetto e oggetto (tema fra i più ricorrenti di quello scritto incentrato sulle
esperienze infantili, non a caso da Benjamin dedicato al figlio Stefan), nel secondo caso l’aneddoto viene preso come caso esemplare di sprofondamento
contemplativo (e quindi “ottico”) nell’opera tipico del modo tradizionale di fruire l’arte visiva, consistente nel raccogliersi e concentrarsi davanti a un quadro
per perdersi in esso; come tale, questa modalità fruitiva viene contrapposta all’atteggiamento delle masse distratte, che al contrario fanno tattilmente
sprofondare l’opera nel proprio grembo, riassorbendola in sé, e trasformando così profondamente lo stile della ricezione. O meglio, acutizzando nella
contemporaneità (come spettatori cinematografici) una relazione distratta che da sempre è stata caratteristica di un’esperienza fondamentale dell’essere
umano, quella nei confronti dell’architettura.

 19  Benjamin incontrò Balázs nel 1929, riportandone peraltro una pessima impressione: «Sentii subito c (...)

12Così facendo, Benjamin precede significativamente quei teorici del cinema che, come Béla Balázs e l’amico Siegfried Kracauer 19, avrebbero espressamente
fatto ricorso alla leggenda di Wu Tao-tzu per illustrare la natura della fruizione cinematografica. Non solo però li precede; si pone sul versante teoreticamente
opposto, nella misura in cui concepisce il film come un tipo di immagine in cui appunto quell’identificazione e quello sprofondamento  non possono compiersi,
poiché lo schermo non è la tela o la parete dipinta.
 20  Kracauer 1960: 260.

13Leggiamo il modo in cui Balázs e Kracauer declinano l’aneddoto e l’interpretazione che ne propongono. In Film: ritorno alla realtà fisica (1960) Kracauer
osserva che lo spettatore cinematografico è assorbito dalla scena proiettata sullo schermo, vi penetra, «muove quindi verso e dentro gli oggetti: assai simile in
questo al pittore cinese della leggenda che, bramando la pace del paesaggio da lui dipinto, vi entrò, muovendo verso le montagne lontane accennate dai tratti
del suo pennello, e vi scomparve per non ritornare mai più» 20. Più distesamente si era diffuso su tale tema Balázs nel suo Il film: evoluzione ed essenza di
un’arte nuova (1949), proponendo un interessante confronto fra pittura e cinema, e fra mentalità cinese, europea e americana:

 21  Balázs 1949: 55-56. Ricordiamo il profondo interesse che l’autore nutriva per le fiabe cinesi (Bal (...)

I cinesi antichi non consideravano i prodotti dell’arte come l’espressione di un altro mondo, inavvicinabile da parte degli uomini. Una delle loro leggende sulla pittura narra di
un vecchio pittore che dipinse uno splendido paesaggio. Si vedeva un sentiero che serpeggiava lungo una valle amena e scompariva dietro un’alta montagna. Il quadro
piacque tanto al pittore che questi, vinto da un ardente desiderio, entrò nel dipinto e percorse il sentiero che egli stesso aveva tracciato. Camminò a lungo, inoltrandosi
sempre più nel quadro sino a che scomparve dietro la montagna. E non fece più ritorno. […] Nell’ambiente culturale europeo non sarebbe mai potuta nascere una favola
come questa, né svilupparsi una simile mitologia dell’arte. L’europeo che contempla un’opera d’arte avverte come inaccessibile lo spazio compreso nei limiti della
composizione del quadro. Si tratta, l’abbiamo visto, del principio fondamentale della sua estetica. Nella testa di un americano di Hollywood, invece, queste strane storie
sarebbero potute nascere con estrema facilità. Le nuove forme d’arte cinematografica, che si svilupparono a Hollywood, dimostrano come quegli americani non osservassero
da lontano, e con profondo rispetto, il mondo interiore del film; dimostrano che essi non lo ritenevano affatto inaccessibile né pensavano fosse dotato di una dimensione
diversa da quella reale. Non per nulla essi inventarono l’arte che non conosce il concetto della composizione chiusa. L’arte cinematografica non soltanto rende superfluo il
“raccoglimento” dello spettatore dinanzi all’opera d’arte distante da sé, ma crea nello spettatore stesso l’illusione di trovarsi al centro dell’azione, nei luoghi che il film
rappresenta21.

14Ricordiamo, fra «quegli americani» ai quali pensa Balázs, in primo luogo Buster Keaton e il suo formidabile  Sherlock Jr., uscito nel 1924. Nel film Keaton
interpreta un proiezionista innamorato di un’avvenente fanciulla, messo in cattiva luce da un rivale senza scrupoli, che lo fa ingiustamente accusare del furto
di un orologio di proprietà del padre di lei. Addormentandosi durante una proiezione, il proiezionista sogna di essere un detective, sale sul palco, entra nel film
che sta proiettando passando attraverso lo schermo (illusione creata allestendo una scena teatrale identica al set cinematografico), e si mette a interagire con
personaggi che appartengono alla sua vita reale. Risvegliandosi dopo una serie di spericolate avventure, il proiezionista scopre che la ragazza ha nel frattempo
identificato il vero responsabile del furto, viene scagionato e può finalmente prevalere sul rivale conquistando la fanciulla.

 22  Sulle implicazioni filmologiche e filosofiche dell’annullamento della barriera dello schermo cfr. (...)

 23  Cfr. Paul 2004.

 24  Il cinema stereoscopico offrirebbe «la possibilità di “attirare” lo spettatore, con un’intensità m (...)

15Acuta riflessione sulla natura specifica del montaggio cinematografico rispetto alla costruzione scenografica teatrale (il protagonista, una volta entrato nello
schermo, vive nel continuum spazio-temporale, ma lo spazio-tempo dell’ambiente nel quale si viene di volta in volta a trovare muta repentinamente in virtù
appunto del montaggio, creando effetti comici e gag a catena), Sherlock Jr. ci interessa qui come esempio precoce di attraversamento dello schermo e
obliterazione della soglia fra spazio della rappresentazione e spazio della realtà: una mossa “cinese”, secondo Balázs, poi variamente ripresa e implementata
dal cinema successivo: ricordiamo solo il tributo reso a Keaton da Woody Allen in  La rosa purpurea del Cairo, del 1985; qui lo schermo è addirittura
attraversato nelle due direzioni, tanto dalla spettatrice che penetra nel mondo finzionale quanto dall’attore che entra nel mondo reale 22 (ma già due anni
prima David Cronenberg aveva tematizzato l’andirivieni attraverso lo schermo televisivo in Videodrome). Gli sviluppi della tecnica cinematografica in direzione
del 3D23 potrebbero essere interpretati come un’ulteriore evoluzione di questa strategia, rivolta a realizzare quel sogno di cinema tridimensionale, in grado di
abbattere le barriere fra attore e spettatore, che negli anni Quaranta Ejzenštejn aveva battezzato stereokino 24.

 25  Alberti 1435: 46.

16Ma davvero, come sostiene Balázs, una tale mossa “cinese” non avrebbe mai potuto sfiorare la fantasia di un europeo? Davvero, come gli abbiamo sentito
dire, «l’europeo che contempla un’opera d’arte avverte come inaccessibile lo spazio compreso nei limiti della composizione del quadro»? Lasciando da parte le
sperimentazioni delle avanguardie (che pure Balázs, scrivendo queste parole nel 1949, ben conosceva), rivolgiamoci agli inizi della pittura stessa. Quegli inizi
che Plinio dichiarava incerti (De picturae initiis incerta: Nat. Hist. 35, 15), e che ebbero pertanto bisogno di un mito per determinarsi: un mito, quello di
Narciso, in cui ne va ab origine della trasgressione dei limiti fra realtà e rappresentazione. Così lo rievoca Alberti nel De pictura (II, 26): «Usai di dire tra i miei
amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già ove sia la pittura fiore d’ogni arte, ivi tutta
la storia di Narcisso viene a proposito. Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie del fonte?»25.

 26  Non a caso Cheng (1979: 15) li accomuna per questa loro simile sorte di sparizione oltre la soglia (...)

 27  In una lettera del gennaio 1936 a Gretel Karplus-Adorno Benjamin scrive: «Naturalmente conosco Ali (...)

17Nella versione del mito più conosciuta, immortalata da Ovidio nelle sue Metamorfosi (III, vv. 339-510), Narciso, dopo aver ripetutamente tentato invano di
afferrare l’immagine di cui si era perdutamente innamorato, si lascia deperire sulla riva. Ma in altre varianti si getta in acqua per unirsi all’immagine, e affoga.
Un destino, questo, che molti anni dopo avrebbe condotto alla morte anche il grande poeta cinese Li Po (701-762), pressoché coevo del nostro pittore:
leggenda vuole che sia annegato nel Fiume Azzurro, cercando di afferrare la luna riflessa nell’acqua 26. Si potrebbe obiettare che Narciso, morendo nel
tentativo di passare la soglia dell’immagine riflessa, dimostri appunto ab origine l’impossibilità di tale attraversamento. Ma sappiamo che la cultura occidentale
ha esplorato in lungo e in largo questa possibilità: basti pensare al passaggio oltre lo specchio in Through the Looking-Glass, and What Alice Found
There (1871) di Lewis Carroll e nel film Le sang d’un poète (1930) di Jean Cocteau, per non fare che due nomi (peraltro entrambi ben noti a Benjamin)27.

18Se dal confronto fra pittura e cinema ci spostiamo su quello fra cinema e teatro – seguendo il suggerimento di Buster Keaton, oltre che dello stesso
Benjamin, che vi dedica molte pagine del suo saggio sull’opera d’arte –, troviamo la questione dell’annullamento della barriera finzionale fra i capisaldi della
teoria della drammaturgia non aristotelica propugnata da Bertolt Brecht. Anche per lui la mossa dell’abbattimento della quarta parete, idealmente pensata a
chiudere lo spazio scenico isolandolo come spazio della rappresentazione rispetto allo spazio della platea, è una mossa (se non esclusivamente – pensiamo
alla parabasis del coro nella commedia attica antica –, almeno squisitamente) “cinese”. Nel saggio del 1936 Effetti di straniamento nell’arte scenica
cinese leggiamo:

 28  Brecht 1975/II: 104. Cfr. anche gli appunti Sul teatro cinese (1975/I: 219-222).
L’attore cinese non recita come se esistesse una quarta parete, oltre alle tre che lo circondano. Egli anzi sottolinea la sua consapevolezza di essere visto, e con ciò elimina
una delle illusioni tipiche della scena europea. Il pubblico non può più illudersi di assistere da spettatore invisibile a una vicenda che stia realmente accadendo. Una tecnica
particolarmente sviluppata del teatro europeo, quella intesa a mascherare il fatto che l’allestimento scenico sia in funzione della comodità di visione per il pubblico, diventa
per ciò stesso superflua. Allo stesso modo degli acrobati, gli attori scelgono apertamente quelle posizioni che li rendono meglio visibili al pubblico28.

 29  OC VII: 353. In una lettera dell’ottobre 1935 a M. Steffin Benjamin fa riferimento al testo tedesc (...)

 30  Dobbiamo tuttavia la nozione non a un inglese, bensì a Diderot, che nel suo Discours sur la poésie (...)

19Prima dell’originale tedesco (Verfremdungseffekte in der chinesischen Schauspielkunst), il saggio di Brecht era apparso in traduzione inglese, con il
titolo The Fourth Wall of China, sul numero XV/6 della rivista “Life and Letters To-day”, ed è in questa versione che Benjamin lo cita nello scritto Che cos’è il
teatro epico? 29, uscito anonimo su “Maß und Wert” nel 1939, senza tuttavia tematizzare la procedura di annullamento della quarta parete evocata dal titolo
inglese, e che nella terminologia teatrale anglosassone è appunto nota come “breaking the fourth wall”30.

 31  OC IV: 515-516.

20Sulla natura peculiare del teatro cinese si era già impegnato lo stesso Benjamin in  L’incendio del teatro di Canton, una conferenza radiofonica trasmessa il 5
novembre 1931 dal Berliner Rundfunk e il 3 febbraio 1932 dal Frankfurter Rundfunk: «Siccome a me interessa parlarvi di una cosa che vi permetta di
conoscere veramente a fondo i cinesi, per farlo non c’è forse cosa migliore del teatro. In questo caso penso non tanto agli spettacoli o agli attori […], quanto
piuttosto agli spettatori e allo spazio stesso: al teatro cinese, che non ha alcuna somiglianza con la nostra comune idea di teatro». In esso infatti «non
esistono apparati scenici», che devono essere mimati dagli attori; quanto al pubblico, «durante gli spettacoli si mangia e si beve, e in questo modo i cinesi
fanno facilmente a meno delle comodità e della solennità tipiche del nostro teatro occidentale» 31. Dunque un esempio paradigmatico di ricezione di massa
nella distrazione.

3. Immedesimazione e mimetismo
 32  Sulla figura della soglia in Benjamin cfr. Menninghaus 1986.

21Ricapitolando: nella prima metà degli anni Trenta, nel breve lasso di tempo che intercorre fra Infanzia berlinese e il saggio sull’opera d’arte, Benjamin
inverte la propria interpretazione della leggenda del pittore cinese. Da caso esemplare di figura della vicinanza, di positiva identificazione tattile fra autore e
opera e di annullamento della soglia 32 che separa soggetto e oggetto, io e mondo, l’aneddoto diventa un esempio paradigmatico di fruizione nel raccoglimento
contemplativo a distanza proprio dell’arte tradizionale impregnata di valore cultuale, fruizione superata dalle nuove forme di ricezione tattile e distratta tipiche
del cinema. Così facendo, Benjamin si pone agli antipodi rispetto a quei teorici del cinema (Balázs e Kracauer) che avrebbero fatto ricorso al medesimo
aneddoto per sottolineare il carattere proiettivo-identificativo della fruizione cinematografica: per questi la soglia dello schermo è carrabile, per Benjamin no.
Eppure Benjamin si schiera a favore di quegli autori che, come il suo amico Brecht, teorizzano e praticano l’attraversamento della soglia della
rappresentazione, la caduta del “quarto muro di Cina”.

 33  Sulla questione cfr. Gurisatti 2012.

 34  Nel saggio sulle Affinità elettive di Goethe Benjamin afferma che la «vera intuizione del bello» « (...)

 35  Si veda, in Sul concetto di storia, la tesi VII, che «si chiede con chi poi propriamente s’immedes (...)

 36  Cfr. l’appunto ironico G 16, 6 della Passagenarbeit: «Le esposizioni universali erano l’alta scuol (...)

 37  Adorno 1970: 327.

 38  Cfr. i testi raccolti in Una drammaturgia non aristotelica (1933-41), in Brecht 1975/I: 121-172.

 39  Si vedano gli Appunti Svendborg estate 1934 (OC VI: 178-186). In una lettera da Parigi del 21 magg (...)

22Perché, dunque, quel che va bene a teatro (annullare la barriera finzionale fra attore e pubblico) non va bene al cinema? La risposta potrebbe essere
cercata nell’atteggiamento negativo assunto da Benjamin nei confronti della nozione di empatia (Einfühlung)33, e in più occasioni da lui manifestato sia
nell’ambito della critica letteraria34, sia in quello della filosofia della storia 35 e della politica 36: un atteggiamento condiviso con gli amici Adorno e Brecht. Il
primo, ancora nella Teoria estetica, avrebbe polemizzato contro l’idea di ricezione come occasione di rivivere soggettivamente le emozioni espresse
dell’artista, esaltando per contro proprio «l’attimo in cui chi recepisce dimentica se stesso e scompare nell’opera» 37. Il secondo, come è noto, aveva fatto
della lotta all’immedesimazione empatica uno dei capisaldi della sua dottrina drammaturgica 38. Ricordiamo che tra la prima interpretazione della leggenda del
pittore cinese offerta da Benjamin in Infanzia berlinese e la seconda esposta nel saggio sull’opera d’arte si colloca – dal luglio al settembre del 1934 39 – il suo
primo soggiorno danese a Skovsbostrand presso Svendborg (vi sarebbe ritornato nel 1936 e nel 1938), ospite di Brecht.

 40  «Ciò che viene tolto di mezzo nell’opera drammatica di Brecht è la catarsi aristotelica, la scaric (...)

23Detto in breve, quel che a teatro impedisce la possibilità dell’immedesimazione empatica fra pubblico e attori (e cioè il fatto che, rompendo la quarta
parete, l’attore si rivolga al proprio pubblico esplicitando il carattere di finzione della rappresentazione)40 diventa, al cinema, il dispositivo che al contrario
promuove quella stessa immedesimazione, permettendo allo spettatore di accedere al mondo finzionale dell’attore, e all’attore di incarnarsi nel mondo reale
dello spettatore. E va pertanto evitato.

 41  Sulle difficoltà, tipiche della rappresentazione teatrale, di distinguere da un lato attore e pers (...)
24La ragione profonda di tale antitesi risiede nella natura radicalmente differente della recitazione teatrale rispetto alla recitazione cinematografica; una
differenza sulla quale Benjamin nel saggio sull’opera d’arte si è ampiamente diffuso, sottolineando che, se la prestazione dell’attore teatrale avviene ogni volta
di fronte a un pubblico casuale presente in platea in carne e ossa41, quella dell’attore cinematografico consiste in un test di fronte a un’apparecchiatura che lo
misura e a una commissione di esperti (il regista, l’operatore, il tecnico del suono e quello delle luci, il produttore ecc.). In più:

 42  OC VI: 287-288.

L’attore che agisce sul palcoscenico, si cala in una parte. All’attore cinematografico, invece, ciò è spesso negato. La sua prestazione non è mai unitaria, è bensì composta di
numerose singole prestazioni. Accanto alle considerazioni casuali attinenti l’affitto degli studi, la disponibilità dei partner, la scenografia ecc., a scomporre la recitazione
dell’attore in una serie di episodi montabili sono le necessità elementari del macchinario42.

25È noto, e non occorre ribadirlo, come Benjamin abbia in vario modo positivamente evidenziato il nuovo “spazio di gioco” (Spielraum) che si viene a creare
grazie a questa trasformazione della recitazione promossa dallo sviluppo delle tecnologie mediali. Quel che qui ci preme piuttosto verificare è se, così facendo,
egli abbia davvero preso compiutamente congedo dal controverso e problematico paradigma dell’Einfühlung contro il quale si è ripetutamente scagliato. Al di
là delle sue dichiarazioni programmatiche anti-empatiche, Benjamin ha in realtà fatto ampiamente uso di argomentazioni tratte dalla tradizione delle teorie
dell’Einfühlung. Un caso emblematico riguarda proprio una delle caratterizzazioni della nozione di aura, che troviamo esposta nel saggio del 1939 Su alcuni
motivi in Baudelaire. La fotografia è qui giudicata capace di promuovere la decadenza dell’aura in quanto l’obiettivo della macchina è inumano, incapace di
restituire lo sguardo a colui che lo osserva:

 43  OC VII: 410.

Nello sguardo è implicita l’attesa di essere ricambiato da ciò a cui si offre. Se questa attesa […] viene soddisfatta, lo sguardo ottiene, nella sua pienezza, l’esperienza
dell’aura. […] L’esperienza dell’aura riposa quindi sul trasferimento [Übertragung] di una forma di reazione normale nella società umana al rapporto dell’inanimato o della
natura con l’uomo. Chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l’aura di un fenomeno significa dotarlo [belehnen] della capacità di guardare 43.

 44  Ibidem. Commenta Habermas: «Il fenomeno auratico può verificarsi solo nel rapporto intersoggettivo (...)

 45  Cfr. Pinotti 2011 (spec. la Parte seconda).

26Il tópos del guardante-guardato – ricordiamo che, come abbiamo visto in Infanzia berlinese, anche il nostro pittore cinese, una volta diventato egli stesso
immagine nel suo stesso dipinto, «si voltò, sorrise», restituendo quindi lo sguardo a chi da fuori lo guardava, «e svanì» – era già dei romantici. Qui nel saggio
su Baudelaire Benjamin lo corrobora infatti con riferimenti a Novalis, oltre che a Proust e Valéry, e nella stessa pagina lo vincola – tramite un’autocitazione dal
saggio sull’opera d’arte nella sua versione francese – alla caratterizzazione dell’aura che abbiamo già incontrato all’inizio, come apparizione di una lontananza
e immagine cultuale. Una nota precisa che la dotazione della capacità di guardare è «una scaturigine della poesia. Quando l’uomo, l’animale o un oggetto
inanimato, dotato di questa capacità dal poeta, alza lo sguardo, egli è attratto lontano» 44. Dotare l’inanimato di una capacità propria dell’animato, trattare
l’oggetto come se fosse soggetto, e intrattenere così con esso una relazione intersoggettiva, è un classico procedimento esplorato dalle teorie dell’ Einfühlung,
variamente formulato nei termini di animazione, umanizzazione, trasferimento, trasposizione, proiezione45.

27Ma intendere l’animazione dell’inanimato come “dotazione”, “prestito” (Belehnung) significa evidentemente assumere quel genitivo come oggettivo:
l’inanimato è preliminarmente concepito come appunto privo di anima, e questa gli è conferita dal soggetto, che ne detiene il monopolio, tramite un processo
proiettivo, un transfert. Questa opzione, che Benjamin abbraccia nel Baudelaire, contrasta radicalmente con l’idea di animazione dell’inanimato nel senso del
genitivo soggettivo: in questa declinazione, l’inanimato (il mondo delle cose) non è concepito come tale, ma al contrario come in sé animato, capace di
espressione e autonomamente dotato di un carattere proprio.

4. Cineserie
 46  OC I: 240. Sull’estetica del colore in Benjamin cfr. Caygill 1998; Brüggemann 2007.

 47  Dottrina della similitudine e Sulla facoltà mimetica (OC V: 438-443, 522-524). Sul tema benjaminia (...)

 48  OC II: 435-436.

28È a questa seconda declinazione dell’animazione nel senso del genitivo soggettivo che vanno ricondotti tutti quei momenti – numerosissimi nel suo  corpus –
in cui Benjamin esplora le possibilità di annullamento dei confini fra soggetto e oggetto, io e mondo, uomo e cose: dal dialogo filosofico giovanile  L’arcobaleno,
risalente al 1915 («Non ero una che guardava, ero solo sguardo. E quello che vedevo non erano cose, Georg, erano solo colori. E io stessa ero colore in questo
paesaggio»)46, agli scritti del 1933 sul mimetismo 47, passando per le osservazioni sviluppate negli anni Venti intorno alle esperienze infantili, che sarebbero
poi state rielaborate in senso autobiografico nelle stesure di Infanzia berlinese, dove abbiamo trovato commentata in senso immedesimativo-empatico la
leggenda del pittore cinese. Ricordiamo in particolare il capitolo «Bambino nascosto» di Strada a senso unico, in cui è descritta l’esperienza magico-mimetica
dell’assimilazione: «Il bambino che sta dietro le tende diviene a sua volta qualcosa di bianco e svolazzante, un fantasma. Il tavolo della sala da pranzo sotto il
quale s’è rannicchiato fa di lui l’idolo ligneo del tempio, dove le gambe intagliate sono le quattro colonne. E dietro una porta è anche lui porta» 48. E ancora lo
scritto coevo Sguardo sul libro per l’infanzia (1926), dedicato alla sua stessa collezione di libri illustrati per bambini, in cui la relazione identificativa con il
mondo delle immagini propria del bambino, che si insinua oltre la parete illusoria (Trugwand) della pagina colorata, viene espressamente caratterizzata come
una mossa “cinese”:

 49  OC II: 478. Sulla collezione cfr. Daube 1987; Benjamin 1981.

Per il fanciullo che parla con le immagini, non sono le cose a uscire dalle pagine: è lui stesso che contemplandole s’insinua in loro, come una nuvola che si sazi dello
splendore colorato del mondo delle figure. Egli realizza davanti al suo libro illustrato l’arte dei Perfetti del Taoismo; padroneggia, infatti, la parete illusoria della superficie,
calcando fra tessuti colorati e tramezzi variopinti una scena dove vive la fiaba. Hoa, il cinese “colorare a china”, è lo stesso che kua, “appendere”: si appendono cinque colori
alle cose. “Farben anlegen” [applicare i colori], dice la lingua tedesca49.

 50  Benjamin ricorda «una serie di ventiquattro stampe che mostravano in maschera [vermummt] – se così (...)
 51  OC V: 359-60.

29Il Vermummen (mascheramento, camuffamento, travestimento), procedimento pervasivamente impiegato nella letteratura per l’infanzia – per esempio
quando si ricorre alla personificazione delle lettere dell’alfabeto per l’apprendimento dell’abicì 50 –, ritorna nei ricordi autobiografici dello stesso Benjamin
proprio a proposito della pittura a china (inchiostro cinese) sulla porcellana anch’essa di Cina (China-Porzellan) – dunque ancora una mossa “cinese” – da lui
praticata da bambino: «Era quando disegnavo a china. I colori che allora mescolavo, mi coloravano. Prima ancora di applicarli al disegno, essi mascheravano
[vermummten] me»51.

 52  OC II: 414.

 53  OC III: 93-96.

30In altri luoghi dell’opera benjaminiana il momento della mimicry, del mimetismo, viene intimamente associato a una mossa “cinese”. Nel capitolo
«Cineserie» di Strada a senso unico viene lodata l’arte del ricopiare i testi in quanto, solo assoggettandosi passivamente allo scritto che riproduce, il lettore
otterrà l’obbedienza del testo. E quest’arte è squisitamente cinese: «La pratica cinese del ricopiare i libri era perciò garanzia incomparabile di cultura
letteraria, e la trascrizione una chiave per penetrare gli enigmi della Cina» 52. Il libro esce nel 1928, e nello stesso anno, pubblicata su “Die literarische Welt”,
si registra una curiosa intervista rilasciata a Benjamin da Anne May Wong, la prima star cinematografica americana di origini cinesi (nata nella Chinatown di
San Francisco), che l’autore significativamente sottotitola «Una chinoiserie dal vecchio Westen»53. Qui Benjamin lamenta che l’industria cinematografica
americana ha fatto brutale violenza all’arte cinese (e mongola) della mimica.

 54  OC II: 440.

 55  OC IV: 340.

 56  «Chinesische Höflichkeit ist eine mimetische: in den andern hineinkriechen» (Ms 674: 6; GS II/3: 1 (...)

 57  Scholem 1975: 62.

31Di Karl Kraus – ancora in Strada a senso unico definito «idolo cinese dal ghigno rabbioso»54 – Benjamin sottolinea nel grande saggio del 1931 a lui dedicato
la «perfezione cinese» nella mimetizzazione dell’odio in cortesia e della cortesia in odio 55. In un appunto sempre dedicato a Kraus precisa che «la cortesia
cinese è una cortesia mimetica: entrare strisciando nell’altro» 56 (e ricordiamo che per Scholem lo stesso Benjamin «in fatto di cortesia cinese rappresentava
per me un esempio insuperabile»57).

 58  OC IV: 176.

 59  OC IV:179.

 60  OC IX: 512. Si vedano riferimenti all’arte e alle leggende cinesi anche in G 8, 1 e F, 1 (OC IX: 1 (...)

32Nello stesso anno, nel saggio Bert Brecht, due personaggi – il signor Keuner di Brecht e Monsieur Teste di Valéry – sono accostati in quanto «entrambi
hanno tratti cinesi. Entrambi sono infinitamente scaltriti, infinitamente discreti, infinitamente gentili, infinitamente vecchi, infinitamente capaci di adattarsi» 58,
dunque di ambientarsi, una forma di adeguamento mimetico. Nel medesimo scritto si apprezza la letteratura cinese in quanto fondata sulla citazione e su
quello che in Occidente verrebbe definito plagio: «Lo studio delle grandi letterature canoniche, soprattutto di quella cinese, gli ha mostrato che il principale
requisito che la parola scritta deve avere è quello di essere citabile. Per inciso va notato come vengano qui gettate le basi di una teoria del plagio che ben
presto lascerà i burloni senza fiato»59. Se pensiamo al ruolo fondativo della citazione nella costruzione del Passagenwerk – «Questo lavoro deve sviluppare al
massimo grado l’arte di citare senza virgolette» (N 1, 10) 60 – , potremmo dire che l’ultimo incompiuto titanico lavoro di Benjamin è stato nel suo complesso
una imponente mossa “cinese”.

 61  OC IV: 449-455.

33Il 1931 è un anno particolarmente cinese per Benjamin: ricordiamo la conferenza radiofonica trasmessa il 3 luglio 1931 dal Südwestdeutscher Rundfunk di
Francoforte, e dedicata a una recensione del volume di scritti postumi di Kafka Durante la costruzione della muraglia cinese, uscito in quello stesso anno,
l’incipit è un commento al racconto Il messaggio dell’imperatore, tratto da una leggenda cinese61. Dello stesso anno è la già citata conferenza
radiofonica L’incendio del teatro di Canton, in cui Benjamin sottolinea la grande duttilità mimetica della pantomima cinese:

 62  OC IV: 516.

L’attore deve fare non soltanto la sua parte, ma simulare anche gli scenari. Come faccia, cercherò di spiegarvelo ora. Se per esempio deve varcare una soglia, attraversare
una porta che però di fatto non esiste, allora alza lievemente il piede come se dovesse scavalcare un ostacolo. Invece un passo lento, fatto alzando il piede, significa che sta
salendo per una scala. Se si tratta di un generale che debba inerpicarsi su una collina per osservare la battaglia, allora l’attore che lo rappresenta si arrampica su di una
sedia62.

 63  OC VII: 7.

34Ma l’interesse per la cultura cinese si sarebbe protratto fino alla fine: del 1938 è lo scritto Dipinti cinesi alla Bibliothèque Nationale (recensione a una mostra
di opere cinesi provenienti dalla collezione di Jean-Pierre Dubosc, pubblicata in francese sulla rivista “Europe”), in cui Benjamin si interessa delle differenze fra
cultura figurativa occidentale e cinese, in particolare per quel che concerne il rapporto fra parola e immagine, basato su una particolare modalità di mimetismo
calligrafico: «Benché i segni abbiano un legame e una forma fissati sulla carta, la moltitudine delle “somiglianze” che essi racchiudono li mette in moto. Quelle
somiglianze virtuali che si trovano espresse sotto ogni tratto di pennello formano uno specchio in cui si riflette il pensiero in questa atmosfera di somiglianza o
di risonanza»63. A presentargli tale collezione Dubosc era stato Georges Salles, conservatore per l’arte asiatica del museo del Louvre, che l’aveva da poco
acquisita. E, come si è già detto, l’ultimo testo pubblicato in vita da Benjamin è proprio una recensione dedicata a Salles e al suo libro Le regard (sotto forma
di lettera all’amica Adrienne Monnier, per la rivista da lei diretta “Gazette des Amis des Livres”).

 64  OC IX: 534 e 532.

 65  K 1, 3 (OC IX: 433). Ricordiamo che nel Verzeichnis der gelesenen Schriften (GS VII/1: 439) ai nr (...)

35Davvero complessa, dunque, la sindrome cinese di Benjamin, persino ossimorica: essa si manifesta, nella parabola della sua riflessione, ogni qualvolta egli
avverta la necessità di sottolineare il polo del vicino, il momento immedesimativo, assimilativo, identificativo. Ma emerge anche là dove il bisogno è antitetico,
e accentua il polo del lontano, il momento dello straniamento e della distanziazione. Sappiamo, dagli appunti della sezione N della  Passagenarbeit, che
Benjamin qualificava come “dialettica” un’immagine capace di potenza sintetica, in grado di esprimere la compresenza conflittuale dei poli – «dove la tensione
tra gli opposti dialettici è al massimo» (N 10a, 3) – senza tuttavia pervenire ad alcuna superiore conciliazione: «L’immagine dialettica è quella forma
dell’oggetto storico che soddisfa le esigenze che Goethe pone per l’oggetto di un’analisi: mostrare una vera sintesi. Essa è il fenomeno originario della storia»
(N 9a, 4)64. In tal senso massimamente dialettica è l’immagine che ci viene offerta dalla leggenda del pittore cinese: capace, come abbiamo visto, di
comunicarci al tempo stesso il più compiuto sprofondamento tattile immedesimativo e la più distanziante contemplazione cultuale dell’opera auratica.
Benjamin ha esplicitato, nella prima metà degli anni Trenta, in due testi differenti – Infanzia berlinese e il saggio sull’opera d’arte – quel che la leggenda tiene
insieme. In essa si fa «un’esperienza assolutamente unica della dialettica», quella che si può sperimentare in genere nelle novelle e favole cinesi, nelle quali
Benjamin ha ravvisato «un’espressione altamente pregnante» di un modo del «capovolgimento dialettico straordinariamente composito»65.

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