«La crisi della riproduzione artistica [...] si può
considerare come parte integrante di una crisi della percezione stessa — scriveva Walter Benjamin nel suo saggio su Baudelaire. — Ciò che rende insaziabile il piacere del bello, è l’immagine del mondo anteriore che Baudelaire dice velato dalle lacrime della nostalgia.» 1 Già nello scritto sull'Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica — la cui prima stesura è del ’35 — Benjamin aveva indicato nel Verfall der Aura i termini di una crisi colta nel suo significato positivo appunto in quanto radicalizzata fino alle sue estreme conseguenze. Positivo questo significato non solo perché in essa si riflette lo sfaldamento di quel soggetto umanistico-borghese a cui si richiama e su cui fa perno la ricezione individuale dell’opera d’arte, ma anche perché è attraverso questa crisi che si possono rintracciare le connotazioni di quel mutamento di funzioni dell’opera d’arte in generale alla luce delle quali viene opposta al fascismo una strategia di lotta sul terreno propriamente estetico. Queste connotazioni trovano nella corretta valutazione di due elementi tradizionalmente estranei al conchiuso universo estetico, la massa e la tecnica, il punto di riferimento necessario per rovesciare nella politicizzazione dell’estetico la fascistica esteticizzazione del politico. Ma la questione che mi propongo di mettere a fuoco in questa sede non riguarda tanto la teoria benjaminiana del cinema nella quale appunto l’oltrepassamento dell’aura e delle sue costellazioni (creatività e genialità, eternità e mistero) tutte inscritte nel suo valore cultuale (Kultwert), si realizza mercé la tematizzazione del valore espositivo (Austeilungswert) dell’opera d’arte e quindi del carattere tecnico-sperimentale dei suoi orocedimenti riproduttivi- costitutivi. Mi domando invece se al di là dell’immediata finalità politico-rivoluzionaria, nella quale va collocato il saggio benjaminiano sull’Opera d’arte, non sia da elaborare anche l’altra ipotesi, più coerente con la fisiognomica dialetticamente ambigua del pensiero di Benjamin, riguardante una teoria dell’aura che non si risolve puramente e semplicemente in una critica dell’aura, ma sia, per così dire, una metacritica nella quale proprio il momento distruttivo dell’aura coincide con quello sperimentale. Si tratta di verificare l’ipotesi che sottrae l’aura alla seduzione della Stimmung, al cerchio concluso dell'Erlebnis, alle costellazioni tipiche della soggettività per dislocarla sul terreno dell’esperienza (Erfahrung) e della «povertà» dell’esperienza, su quello — per usare termini benjaminiani — del «carattere distruttivo» e della «barbarie positiva». A mio parere la Zertrümmerung dell’aura non comporta eo ipso la sua scomparsa: o meglio: nel suo dissolversi l’aura lascia una zona d’ombra, il suo negativo, quello spectrum di un Erlebnis che si è andato dislocando nell’ottica della Erfahrung proprio per la perdita di un centro di gravità soggettivo, di una reductio ad unum in termini di soggettività. Su questa zona d’ombra configurata come un «estremo» lavora il pensiero dialettico. Nel saggio sull’Opera d’arte Benjamin intende l’aura non già come una proprietà delle cose, ma come un contenuto di coscienza visualizzato nel «medium della percezione» (im Medium der Wahrnehmung). Questo concetto viene illustrato sia riguardo agli oggetti storici che agli oggetti naturali. A quest’ultimo proposito Benjamin definisce l’aura: «einmalige Erscheinung einer Ferne, so nach sie sein mag»2 («apparizione irripetibile di una lontananza, per quanto vicina questa possa essere»). La definizione è chiarita ulteriormente in una nota: «Definire l’aura un’“apparizione irripetibile di una lontananza” altro non significa se non formulare, usando i termini delle categorie della percezione spazio-temporale, il valore cultuale dell’opera d’arte. La lontananza è il contrario della vicinanza. Ciò che è nella sua essenza [wesentlich] lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle proprietà principali della immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, “lontananza, per quanto vicina”. La vicinanza che si può strappare alla sua materia non elimina la lontananza che essa conserva dopo il suo apparire»3. Il lontano viene dunque «avvicinato», pur restando lontano. Pur restando inviolabilmente sigillato nella lontananza esso si fenomenizza (Erscheinung) come «vicino», ma proprio perché la modalità del suo apparire è einmalig, resta inattingibile. Il lontano in tanto è vicino, in quanto si manifesta. Appare come se cessasse di essere, in questo modo, lontano, ma questo modo irripetibile del suo apparire non fa altro che confermare la lontananza come lontananza. In realtà è il piacere della lontananza (come non ricordare la musiliana Fernliebe?) a costituire il proprio dell’aura nel suo riflettersi come Stimmung. L’avvicinarsi del lontano è un rimandare lontano la lontananza: per quanto essa possa sembrare abolita dal suo apparire, essa è sempre la più lontana delle lontananze. Sono state colte alcune oscillazioni nelle considerazioni benjaminiane sull’aura nel senso che una netta antitesi tra valore cultuale e valore espositivo, aura e ratio, così come si delinea nel saggio sull’Opera d’arte non sembra corrispondere pienamente ad una più articolata e fluida definizione dell’aura e del suo Verfall presente in altri luoghi degli scritti di Benjamin, tanto più che proprio questa contrapposizione comporterebbe l’oblio di «quel più, nel quale l’arte possiede la sua sola raison d’étre»4. In realtà queste oscillazioni si riconnettono precisamente a quel modificarsi della percezione che non si determina uno actu col modificarsi delle funzioni strutturali dell’opera d’arte, ma avviene per momenti, in un arco di determinazioni dialettiche. Si tratta, in altre parole, di un processo per il quale la distruzione dell’aura, il suo sgretolarsi, la sua Zertrümmerung non possono essere ricondotti ad un univoco ordine di grandezza. Benjamin parla di un’esperienza vissuta di choc. «Egli [Baudelaire] ha mostrato il prezzo a cui si acquista la sensazione della modernità: la dissoluzione dell’aura nell’“esperienza” dello choc [ «die Zertrümmerung der Aura im Chockerlebnis» ].» 5 Questo Erlebnis non è evidentemente più quello dell’aura, ma neppure del suo opposto: è solo l’Erlebnis del suo infrangersi, del disincantamento, e implica non già la passività di una Stimmung, bensì un intervento attivo, un accordo, un Einverständnis con questa distruzione. È un prezzo da pagare non tanto per introdurre la ratio nell’esperienza estetica, quanto per acquistare die Sensation der Moderne («la sensazione della modernità»)6. Del resto questo perdersi dell’aura all’estremo della sua parabola, questo svanire ultimo, questo struggente congedo in un attimo fuggevole viene catturato nelle prime fotografie: «Nell’attimo fuggevole di un volto umano si sprigiona per l’ultima volta l’aura dalle prime fotografie. È ciò che costituisce la loro bellezza carica di malinconia e inconfrontabile con qualsiasi altra»7. In questo passo l'Erlebnis del dissolversi dell’aura è fermato nella fotografia, ma proprio questa espressione fuggevole in cui l’aura effonde il suo incantesimo per l’ultima volta sembra dilatarne la suggestione fino a un cerchio estremo e indicibile di risonanze. La malinconica bellezza «inconfrontabile con qualsiasi altra» non era certo presente nella pace contemplativa dell’aura, ma lo è solo quando l’aura si sta estinguendo. È in questo momento che la sua labilità diventa quella stessa della bellezza e se v’è ancora un brivido dell’irripetibile, questo nasce dalla coscienza di una perdita irrevocabile, dalla magia di un tramonto che non potrà più essere goduto ma che proprio per questo è carico di una sconfinata seduzione. Ma cos’altro è questo momento se non quello di uno status disgregationis in cui lo spectrum dell’aura rivela le sue valenze negative? Ma v’è ancora un passo in cui la caduta dell’aura viene tematizzata in guisa particolare: qui essa è ricondotta al rapporto tra mémoire involontaire e dagherrotipia. «Se si scorge il contrassegno — scrive Benjamin nel suo saggio su Baudelaire — delle immagini che affiorano dalla mémoire involontaire nel fatto che possiedono un’aura, bisogna dire che la fotografia ha una parte decisiva nel fenomeno della “decadenza dell’aura”. Ciò che nella dagherrotipia doveva essere sentito come inumano, e starei per dire micidiale, era lo sguardo rivolto (e per giunta a lungo) all’apparecchio, mentre l’apparecchio accoglie l’immagine dell’uomo senza restituirgli lo sguardo.»8 Quell’attesa che è presente nello sguardo di chi ancora non è guardato, ma vuole essere guardato a sua volta, è andata delusa. Il fallimento di quell’attesa è la morte dell’aura. «Avvertire l’aura di una cosa — notava ancora Benjamin — significa dotarla della capacità di guardare.»9 Ma non c’è rimando speculare, l’oggetto guardato è cieco, il mistero di uno sguardo che ritorna e ti riconosce è distrutto. Il mondo è fatto di cose che non guardano, che non ti guardano: sono occhi calcinati, pupille vuote come quelle che creavano l’orrenda vertigine del Chandos hofmannsthaliano. Purtuttavia chi guarda, aspetta ancora uno sguardo che incontri il suo: implora che la cecità veda e che il silenzio parli. Siamo ancora una volta nella zona spettrale dell’aura configurabile, in questo e negli altri passi citati, come un’impossibilità di conchiudere l'Erlebnis nella sua specularità, nel cerchio dell’aura, per cui esso gode di sé e della sua pienezza contemplativa. La rottura della circolarità implica la caduta di quel rimando che sospendeva l'Erscheinung del lontano alla sua irripetibilità. Lo sguardo che non ci viene più incontro da un mondo divenuto cieco, quello sguardo negato per sempre è lo choc disgregante la compattezza di un Erlebnis dominato dalla Einfühlung, cioè da quella compenetrazione simpatetica per cui il soggetto s’identifica nell’oggetto e viceversa. Vien meno anche quella durata — propria dell’opera d’arte auratica — in cui si risolve l’irripetibilità dell’apparizione: perché solo ciò che dura è irripetibile. L’autenticità dell’opera d’arte stava appunto in quel suo essere ricompresa nel contesto della tradizione — la sua durata — e al tempo stesso nel suo individuarsi hic et nunc in un evento che non potrà mai trasformarsi in una serie quantitativa di eventi. Ma tutti quei momenti che hanno accompagnato, per così dire, il declino dell’aura dislocandola a livelli sempre più bassi fino ad un ipotetico «grado zero», vale a dire la secolarizzazione del rituale fino alla dimensione di una «teologia negativa», quella dell’arte pura, e fino alla stessa desemantizzazione dei significati sono attraversati da un movimento distruttivo, quello stesso di cui Benjamin parlava nel suo saggio del ’31, Der destruktive Charakter. Il rarefarsi dell’«aura» si presenta come un processo sincrono alla accelerazione di questo movimento. La fenomenologia negativa dell’aura è appunto l’ombra che la sua distruzione lascia apparire. L’ombra non è ancora un tipo di «esponibilità» nuova dell’opera d’arte offerta dai mezzi di riproduzione tecnica, ma uno stato intermedio: gli antichi dèi non sono ancora del tutto scomparsi e i nuovi non sono ancora interamente rivelati. È una fase di passaggio in cui la fascinazione dell’aura è soltanto quella della sua ombra. Alla paradossale lontananza di un’apparizione «per quanto vicina questa possa essere» è subentrato il divergere di lontananza e vicinanza. L’inaccessibile lontananza sembra sprofondata nelle tenebre dell’indicibile o dell’afasia, mentre le cose hanno acquistato una vicinanza schiacciante e paurosa. È la «malattia» del Chandos hofmannsthaliano per il quale le parole sono coagulate in «occhi che mi fissavano e in cui io sono costretto a fissarmi a mia volta», «vortici» che «a guardarli mi danno le vertigini, che girano e girano senza posa e, traversatili, si giunge al vuoto». Quanto alla vicinanza delle cose, la loro è una unheimliche Nähe: «[...] come una volta avevo visto in una lente d’ingrandimento un lembo di pelle del mio dito mignolo, che somigliava a una pianura con solchi e caverne, così ora m’accadeva con gli uomini e i loro affari» 10. Quella lontananza che si rendeva «respirabile» 11 nell’aura, si trova ora come affondata nell’incalzante vicinanza di un’immagine divenuta impenetrabile, che non può essere articolata. Lontananza e vicinanza sono due segmenti spezzati. Per questo la contemplazione propria dell’aura nel suo carattere affermativo si è lacerata. A lacerarla è stata l’ebbrezza che come forma di una «illuminazione profana» comporta — come aveva scritto Benjamin nel saggio sul surrealismo (1929) — «il superamento vero, creatore dell’illuminazione religiosa» 12. Dunque il primo momento distruttivo dell’aura non coincide affatto con uno stato di impassibilità e di distacco razionali, bensì, all’opposto, con la straripante violenza di un’ebbrezza le cui forze «devono essere conquistate per la rivoluzione» 13. «La dialettica dell’ebbrezza — scrive Benjamin in questo stesso saggio — ha un carattere peculiare.» 14 La sua peculiarità sta appunto in quella distruzione del «mummificato ideale moralistico-umanistico di libertà del liberalismo»15 alla quale tendevano i surrealisti. Ma non è proprio l’aura a riflettere, nella compattezza del suo piano di civiltà, la progettualità universalizzante, le garanzie di totalità, le autoassicurazioni razionali del soggetto borghese? Non è essa la sedimentazione della Erlebniswelt propria di quello che Benjamin chiama Bildungshumanismus? L’autonomia dell’arte viene così rovesciata da quel vortice dell’ebbrezza da cui sono trascinati i portatori di una «barbarie positiva» i quali consacrano il luogo della loro esistenza avvenire attraverso la distruzione. È in questi Unmenschen che si delinea quel «reale umanismo» nel quale l’elemento fanciullesco (das Kindliche) e cannibalico (Menschenfresserische) s’incontrano. «Affinché il collettivo — afferma Benjamin — porti tratti umani, il singolo deve poter portare tratti disumani. L’umanità deve essere sacrificata sul piano dell’esistenza singola per poter venire in luce su quello dell’esistenza collettiva.» 16 Se è vero che propria del declino dell’aura è 'ambiguità, è altrettanto vero che Benjamin chiama «ambiguità» «l’apparizione per immagini della dialettica, la legge della dialettica allo stato di quiete» (die bildliche Erscheinung der Dialektik, das Gesetz der Dialektik im Stillstand 17). Ma potremmo dire che questa ambiguità è ancora del tutto connessa alla dialettica dell’ebbrezza, per la quale appunto si rende possibile, nel linguaggio, il ricupero di una «erotica relazione originaria tra vicino e lontano [...] come rima» 18. Al fondo del vortice, del movimento, cioè, dell’ebbrezza, in cui vicinanza e lontananza appaiono divaricate, si rivela una relazione dialettica che congela, per così dire, in un’immagine («dialettica allo stato di quiete») l’interscambia-bilità degli opposti. È la stessa trasparenza dell’umano nel «carattere distruttivo», quale viene dischiusa da un’«ottica dialettica» capace di cogliere, al fondo dell’ambiguità, l’eros: quello stesso che fa riconoscere l’impenetrabilità del quotidiano e il segno quotidiano dell’impenetrabile ”. Ma è appunto in questo modo che il declino dell’aura può essere visto come il profilarsi di una regione esposta all’illuminazione profana, dove si ha il rovesciamento dell'’Erlebnis nell'Erfahrung. Se l'Erlehnis appartiene all’auratico, l'Erfahrung appartiene al distruttivo; il primo è impregnato di durata, la seconda di povertà, «la povertà dei costruttori». Il carattere distruttivo ha questa necessaria povertà: «Il carattere distruttivo — scrive Benjamin — non vede nulla di durevole. Ma proprio per questo vede dappertutto delle vie» 20. La mancanza di Dauer equivale alla perdita della Einmaligkeit. Tutte le connotazioni del carattere distruttivo si riducono ad un’assenza di modelli. Esso ha di fronte a sé uno spazio vuoto che è appunto quello che ho chiamato la zona d’ombra dell'aura. Nota ancora Benjamin: «Ha [il carattere distruttivo] pochi bisogni e questo gli basterebbe: sapere cosa subentra al posto di ciò che è stato distrutto. In un primo momento, almeno per un attimo, lo spazio vuoto, il luogo dove stava la cosa, dove la vittima ha vissuto. Si troverà certamente qualcuno che lo usa, senza prenderne possesso». Questo spazio vuoto è la trasparenza del senza-possesso, la trasparenza del vetro. «Non per niente il vetro è un materiale così duro e liscio, a cui niente si attacca. Ma anche un materiale freddo e sobrio. Le cose di vetro non hanno aura. Il vetro è soprattutto il nemico del segreto. È anche il nemico del possesso.»21 La zona d’ombra dell’aura è la zona della povertà, del non-possesso, dell’impossibilità di possesso. Uno spazio in cui non esistono tracce, in cui non è possibile lasciare tracce. Benjamin ricorderebbe a questo punto il Verwisch die Spuren brechtiano, gli spazi senz’aura creati da Scheerbart con il suo vetro e dal Bauhaus con il suo acciaio. Il rapporto con lo straniamente è evidente: lo Chockerlebnis con cui si cancellano le tracce dell’aura ancora persistenti nei moderni è analogo all’effetto di choc che è proprio dello straniamento brechtiano. Il mercante dell’ottone che vuole comprare a peso — come dirà Brecht nel suo Messingkauf — gli strumenti musicali, produce uno choc in cui si aspetta di fargli ascoltare della buona musica. La Verfremdung sta appunto alla Einfühlung come il concetto di Erfahrung a quello di Erlebnis. Non a caso Benjamin riconduce alla gestualità il teatro epico (Das epische Theater ist gestisch22): infatti l’interruzione dell’azione mediante il gesto equivale alla rottura dell’aura attraverso lo choc della fotografia. Mentre l’aura spegne la coscienza e trasferisce il flusso vitale fuori di essa, nell’incantesimo della durata- irripetibilità e quindi al di qua del gesto, «il carattere ritardante dell’interruzione», la semantica del gesto che spezza l’azione, trasferisce questo flusso nella coscienza, costruisce l’esperienza critica di un evento non semplicemente vissuto, ma esposto, indicato, citato, commentato. L’approdo del momento distruttivo si precisa dunque nei termini di un’esperienza del «dialettico» la cui condizione di base in tanto comporta l’oltrepassamento dell’estetica dell’aura e quindi il riconoscimento di un modificarsi della percezione dovuto alla presenza di nuovi fattori storico- sociali, le masse e la tecnica, in quanto esprime altresì una reale liquidazione di quella cultura che proprio per l’assenza del momento distruttivo, anche se «accresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell’umanità», non riesce a dare a quest’ultima «la forza di scuoterseli di dosso e farli suoi» 23. La morte dell’arte inerisce, secondo Vattimo, alla sua essenza non eterna, ma certo, com’egli dice, «vigente nella nostra costellazione storico-ontologica». Ancora una volta Vattimo dà al problema una risposta da par suo. Ma questa risposta presuppone il problema della morte dell’arte presentato in guisa antinomical da un lato l’arte senz’aura, l’arte riproducibile (esteticizzazione dell’arte di massa) e politicizzata, dall’altro l’arte come pratica della negazione, come testimonianza di un mondo disumano con cui non è possibile più alcuna forma superiore di conciliazione. Ma sono veramente questi i termini dell’antinomia in cui consiste la morte dell’arte? Secondo me c’è una preoccupazione eccessiva, in Vattimo, di liquidare le antinomie della totalità (una totalità buona: Marcuse; una totalità cattiva: Adorno) semplicemente mettendole a confronto con una realtà storica attuale che sembra confutare l’una e l’altra dal momento che l’irriducibilità delle differenze, dei valori specifici sia dell’arte come negazione che dell’«arte di massa», non consentirebbe una perfetta coincidenza degli schemi teorici con le fluttuazioni empiriche tutt’altro che irrelate e univoche. Credo che si dovrebbe tentare almeno di reinterpretare i termini di quest’antinomia in un’ottica diversa: quella, per esempio, del valore d’uso. Benjamin come Brecht si domanda: a che cosa serve l’opera d'arte? Non mi pare che questa domanda debba di per sé implicare una chiusura del senso dell’arte nel circolo della totalità, sia pure quella, in ipotesi, utopico-rivoluzionaria. Valore d’uso può significare considerare l’opera d’arte nella sua adattabilità o meno non solo all’orizzonte del Potere, ma anche agli appaiati produttivi funzionali alla logica del Potere. È possibile una Umfunktionierung di questi apparati e quindi una distruzione delle basi materiali dell’ideologia già nel modo con cui si concepisce il fatto estetico? Tutto questo non equivale certo a instaurare una cultura di massa manipolata dal potere, dal momento che ci si muove, almeno intenzionalmente, nella direzione opposta, vale a dire non in quella di una «esteticizzazione della vita sociale» (Vattimo), ma di una politicizzazione dell’estetico. Tuttavia Vattimo potrebbe rispondermi che anche questa direzione è senza sfondo c naturalmente Adorno potrebbe fornirgli non una, ma molte buone ragioni di scetticismo. La questione resta pur sempre quella di accettare o no un valore d’uso dell’arte in alternativa a un suo valore contemplativo («cultuale» sia pure fino al limite estremo della secolarizzazione). Fissare i termini di questo valore d’uso è indubbiamente problematico: rischia di restringere ad un programma d’azione determinata, ad uno statuto politico rivoluzionario quello sterminato campo di possibilità in cui si esercita sperimentalmente, senza fissarlo in definizioni progettuali, il valore d’uso dell’arte. Ma d’altro canto ancorare ad un’ontologia dell’arte di stampo heideggeriano, come fa Vattimo, la permanenza del tramonto (non è questo un implicito richiamo al nascondimento heideggeriano dell’essere?), significa retrocedere al valore contemplativo-cultuale, sia pure con la problematicità e i salti di tensione aporetica dell’avanguardia. Io credo che non dobbiamo temere di lasciare il nostro discorso privo d’indicazioni positive e quindi di sottrarre anche il valore d’uso dell’opera d’arte ai suoi codici umanistico-razionali. Questo valore d’uso potrebbe benissimo avere qualcosa a che fare con il carattere paradossale dell’esperienza estetica e quindi con la paradossale ambiguità del suo simultaneo porsi all’interno e all’esterno di questo valore d’uso. Fondamentale mi pare, a questo riguardo, il discorso di Benjamin sul declino dell’aura. Questo declino, questo Verfall der Aura, non comprende tanto in sé la degradazione della comunicazione estetica a fenomeno di costruzione del «consenso sociale», — come direbbe Vattimo, — quanto piuttosto il sintomo di una decentralizzazione irreversibile del significato, vale a dire una distruzione di un’autonomia del significato (e quindi dell’«ideologia» estetica) riconducibile ai codici umanistici della soggettività e del valore. La caduta dell’aura è quindi solo la figura ex negativo della possibilità costitutiva di un’esperienza in cui le connotazioni trascendentali della esteticità sono rovesciate e a cui appartengono precisamente le antinomie che sembrano negare quest’esperienza alla sua radice. Anche il valore d’uso, quindi, che sembra cancellare l’estetico, diventa paradossalmente una sua segnatura. La cosiddetta morte dell’arte riguarda dunque la morte di un’esperienza auratica dell’arte e il tramite per l’esperibilità di un valore d’uso senza valore. Se si modificano le modalità di percezione di un’esperienza, si modifica anche il suo carattere costitutivo. La perdita dell’aura ci fa intendere che non v’è nulla di costitutivo dell’esperienza estetica al di fuori del suo valore d’uso, a cui manca ogni carattere di finalità e d’esemplarità, nel senso che non si definisce in un telos e neppure aspira a porsi semplicemente come condanna o giustificazione metafisica dell’esistente. Le totalità non sono più praticabili e in questo Vattimo ha ragione. Ma è praticabile lo spazio della morte dell’arte, lo spazio lasciato libero da questa morte, uno spazio disumano-distruttivo aperto dal dissolversi dell’aura, la zona d’ombra dell’aura. In questo senso la morte dell’aura equivale allo stato alchemico della nigredo necessario alla trasmutazione ermetica: solo che la direzione a cui tende il trapasso non può essere preordinata in termini di statuto estetico o di normatività metaestetica (filosofica, sociologica ecc). Ciò è dovuto al fatto che l’esperienza estetica già nel suo destrutturarsi come aura si pone in rapporto ad un eterno «altrove» di cui esistono solo figure, funzioni, cifre, proiezioni: essa è il metalinguaggio paradossale di questo altrove. Questo altrove non può essere cercato né nel mondo di ieri né in quello di domani e neppure nel novum incomprensibile di una trasformazione assoluta dell’esistente. Questo altrove è solo uno strato più profondo del presente dove si cela l’originario rapporto erotico — come direbbe Benjamin — tra ciò che è stato dimenticato e ciò di cui la stessa speranza è inconcepibile. Vattimo propone con molta sottigliezza di sostituire al termine «morte» dell’arte il termine «tramonto». Ritengo che pensi alla parola tedesca Untergang che si richiama semanticamente al suo opposto Aufgang. Ma alla luce di quanto ho detto credo che il termine forse più appropriato potrebbe essere Vergehen: la morte dell’arte è in realtà il Vergehen, il trapassare dell’aura, un trascorrere che è proprio di tutte le cose effimere. Tuttavia l’arte, che è una di queste cose, afferra in questo trapassare, in questo suo porsi come ciò che trapassa e che muore senza morire (ma muore sempre) l’insopprimibilità delle sue postulazioni immanenti e delle sue proposizioni antinomiche, la sua esigenza di far valere l’impossibile come suo valore d’uso. Si potrebbe comprendere di qui come il carattere affermativo dell’opera d’arte sia fatto di negazioni e come anche la stessa testimonianza del dolore sia solo la maschera di un desiderio inconsumabile di felicità. La morte dell’arte o meglio il suo trapassare, per cui ogni declino o caduta dell’aura genera altre figure, è solo un modo indiretto per sottolineare la costitutiva paradossalità di un’esperienza che nella sua gratuità ci lega a una responsabilità immensa non verso i mondi iperurani, ma verso la nostra realtà storica, e che nel suo «qui» e «ora» rimanda insistentemente a un «altrove», ad un eterno, sconfinato «altrove».
* Comunicazione tenuta al seminario Situazioni e intenzioni della
ricerca estetica oggi in Italia, Istituto Antonio Battìi, Reggio Emilia, 16-17 novembre 1979. 1 W. Benjamin, Baudelaire a Parigi, in Angelus Novus, trad. it. di R. Solmi, Torino, 1962, p. 120. 2 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (d'ora innanzi K.Z.t.R.), in Gesammelte Schriften, 6 vv., a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhauser, Frankfurt a.M., 1972 sgg., 1-2, p. 479. 3 Ivi, p. 480, n. 7; W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Torino, 1966, p. 49, n. 8 (si cita questa traduzione con qualche ritocco). 4 R. Tiedemann, Studien zur Philosophie Walter Benjamins, Frankfurt a.M„ 1973, pp. 117418. 5 W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, in G.S., 1-2, p. 653; W. Benjamin, Baudelaire e Parigi cit., 126. 6 Über einige Motive bei Baudelaire, cit., ivi; Baudelaire a Parigi cit., ivi. 7 W. Benjamin, L’opera d’arte, cit., p. 28; K.Z. t. R., p.23. 8 Baudelaire a Parigi, cit., p. 120. 9 Ibidem. 10 H. V. Hofmannsthal, Ein Brief, in Gesammelte Werke, Prosa II, Frankfurt a.M., 1959, p. 13; La lettera di Lord Chandos, in Viaggi e saggi, trad. it. di L. Traverso, Firenze, 1958, pp. 45-46. 11 «Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa — ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo», L’opera d’arte, cit., p. 25. 12 W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei, in Avanguardia e rivoluzione, trad. it. di A. Marietti, Torino, 1973, p. 13. La traduzione italiana a causa della mancanza della virgola è quanto mai equivoca: il testo tedesco è peraltro chiarissimo: «Die wahre, schöpferische Überwindung religiöser Erleuchtung [...]», Der Surrealismus, in G.S., II-1, p. 197. 13 Il surrealismo, cit., p. 23. 14 Ivi, p. 15. 15 Ivi, p. 22. 16 W. Benjamin, G.S., 11-3, p. 1102. Cfr. il commento di B. Lindner a questo passo: Technische Reproduzierbarkeit und Ruiturindustrie Benjamins «Positives Barbarentum im Kontext», in Links hatte noch alles sich zu enträtseln... Walter Benjamin im Kontext, a cura di Burkhardt Lindner, Frankfurt a.M., 1978, p. 197. 17 W. Benjamin, Schriften, 2 vv., a cura di Th. W. Adorno e G. Adorno, Frankfurt a.M., 1955, I, p. 418. 18 W. Benjamin, Illuminationen, Frankfurt a.M., 1961, p. 402. 19 Il surrealismo, oit., ρ. 23. 20 W. Benjamin, Il carattere distruttivo, trad. it. di Piera Di Segni, in Metaphorein, 3 (1978), p. 11. 21 W. Benjamin, Esperienza e povertà, ivi, pp. 14-15 (trad. it. di F. Desideri). 22 W. Benjamin, Versuche über Brecht, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt a.M., 1971, p. 9. 23 W. Benjamin, Eduard Fuchs, Il collezionista e lo storico, in 1,'opere d'arte, cit., p. 92.