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Vitilio Masiello

[da] PIRANDELLO: L'IDENTITÀ NEGATA

Uno, nessuno, centomila


[in "Belfagor",
[in "Belfagor",
vol.49,
vol.49,
n.5, settembre
n.5, settembre
1994]1994]

La peculiarità strutturale e formale dell'ultimo romanzo di Pirandello


è tutta iscritta e implicata nel laborioso processo della sua elaborazione,
che si sviluppa - com'è noto - tra il 10 e il 25-26, nell'arco di un quindi
cennio decisivo per la storia intellettuale ed artistica di Pirandello: un ro
manzo talmente intrecciato a quella storia, talmente tributario di essa -
come hanno documentato gli studi di Costanzo, di Guglielminetti, della
Pestarino - da configurarsi come una sorta di assemblaggio, di sintesi e
di sistemazione di tutto il precedente travaglio teorico e letterario; un ro
manzo «testamentario» (per usare la formula di Pirandello richiamata re
centemente da Nino Borsellino), la cui novità e il cui valore starebbero,
più che nel suo impianto tematico, nell'originalità della struttura narrativa,
che porta a compimento la dissoluzione della forma-romanzo d'ascendenza
realistico-naturalistica già avviata col Fu Mattia Pascal e realizza senza resi
dui il nuovo modello di romanzo e di scrittura umoristici teorizzato nel
saggio sull'umorismo.
In realtà la tecnica del montaggio (o, per dirla col Macchia, del «plagio
da se stesso»), con cui il romanzo è costruito, e il suo consapevole configu
rarsi come un metaromanzo, un romanzo-saggio che realizza «la sintesi com
pleta» della produzione narrativa e teatrale di Pirandello (come l'autore di
chiarava in una intervista del '19), illuminandola dall'interno e innalzan
dola alla soglia della piena autoconsapevolezza critica; in realtà questo dato
di fatto insieme compositivo e strutturale non destituisce d'importanza, d'o
riginalità problematica e sostanziale, d'autonomo valore il romanzo: un ro
manzo dalla forte, persino prevaricante, tensione «filosofica», che forza dal
l'interno ed esautora le strutture narrative tradizionali fino alla messa in
mora della stessa consistenza diegetica, all'abrogazione virtuale della fabula
e dell'intreccio. Quella sintesi di cui parlava Pirandello, infatti, si costitui
sce intorno ad un asse, a un nodo particolare, che pertiene alle radici pri
marie della riflessione teorica e della problematica pirandelliana sulla crisi
dell'uomo contemporaneo; e comporta un approfondimento ed uno sposta
mento in avanti di quella riflessione, fino alla elaborazione di una vera e

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propria ontologia negativa dell'esistenza singolarmente in linea con le pr


blematiche teoriche delle grandi filosofie della crisi - da Schopenhauer
ad Heidegger - pur se al di fuori di un rapporto diretto.
Questo risultato si dà nel romanzo in forma di processo, lucidamente
allucinato, di disvelamento della negatività dell'essere in quanto essere-ne
mondo (in quanto, cioè, esistenza concreta definita dalle relazioni che i
trattiene col mondo), e si attua - con le procedure proprie dell'analitica
esistenziale - per la via dell'attraversamento critico dell'esperienza di sé
nel mondo e in rapporto al mondo: dell'esperienza, cioè, della deiezione
e della riflessione sui modi del suo istituirsi come evento necessitato. Neces
sitato, ma in apparenza non ineludibile.
Senonché, come vedremo, sarà proprio il progetto liberatore messo in
atto dal protagonista per attingere la possibilità di una vita non predetermi
nata (YEntwurf heideggeriano) a rivelare, senza residui, l'inconsistenza on
tologica dell'essere, la sua impossibilità d'esistere e di rappresentarsi come
unità e identità.
Tema centrale del romanzo è infatti - come dichiarava lo stesso Pi
randello in un'intervista rilasciata ali'«Epoca» il 5 luglio 1922 - la «scom
posizione della personalità»: l'analisi, con gli acidi corrosivi della scompo
sizione umoristica, della disintegrazione del sistema di relazioni che fonda
no l'unità e l'identità del soggetto nei suoi rapporti con se stesso e con
gli altri. Questo processo di scomposizione dell'io non rinvia però ad una
condizione «patologica», ad una sindrome schizoide, come pure s'è detto,
bensì ad una condizione «ontologica», pertinente allo statuto dell'essere
come essere-nel-mondo. Comunque sia di ciò, è certo la natura stessa del
tema a legittimare letture della vicenda rappresentata nel romanzo in chia
ve freudiana, binswangeriana o (come a me sembrerebbe più pertinente)
junghiana. Quella vicenda, infatti, incentrata sul tema del «doppio», del
rapporto con «l'Altro» (e con gli altri), sembra rinviare alla problematica
junghiana del «processo d'individuazione» e alla dialettica, che lo caratte
rizza, di «differenziazione» e di «integrazione», «mediante cui - cito
dall'introduzione di M. Trevi alla Psicologia dell'inconscio di Jung - l'Io
si sottrae progressivamente alla forza plasmatrice delle istanze collettive,
agenti sia al livello cosciente che a quello inconscio, e al contempo accetta
tali istanze come poli di riferimento per una relazione dinamica». Nel
caso di Vitangelo Moscarda questo processo appare bloccato alla sua fase
iniziale, che si configura -per dirla con Marie-Louise von Franz - come
«lacerazione della personalità» conseguente alla «coscienza dell'ombra» (alla
scoperta del fondo oscuro del Sé); appare, cioè, incentrato sul momento
della «differenziazione», della scissione, con la sospensione o la messa in
mora di quello dell'«integrazione».

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PIRANDELLO: L'IDENTITÀ NEGATA 521

Il punto di partenza del processo - aperto, mentre Vitangelo Moscarda


indugia sulla propria immagine allo specchio, dall'osservazione della mo
glie su un difetto di cui è inconsapevole: il naso storto - il punto di par
tenza del processo è rappresentato dalla scoperta sconvolgente dello scarto
che sussiste tra essere-perse ed essere-per-gli-altri («io non ero per gli altri
quel che finora, dentro di me, m'ero figurato di essere»). Si apre cosi una
incrinatura nella coscienza soggettiva dell'unità e identità dell'io, dal cui
approfondimento analitico si dirama a catena un sistema complesso di linee
derivate di frattura che approda, nel suo esito estremo, alla disintegrazione
della personalità. Intanto l'alterità dell'essere-per-gli-altri rispetto all'essere
per-sé, percepita originariamente nella forma di una scissione duale all'in
terno del rapporto di coppia, si rifrange - scomponendosi e moltiplican
dosi - nella innumerevole pluralità degli altri per i quali si è qualcosa
di diverso da ciò che soggettivamente si presumeva di essere. All'unico Mo
scarda della coscienza soggettiva illusa, subentrano i centomila Moscarda delle
percezioni sociali esterne dell'io; centomila: cioè nessuno.
La scomposizione e frantumazione della propria esseità nel prisma delle
rappresentazioni sociali (la dissoluzione, cioè, dell'essere-per-sé nell'essere
per-gli-altri) suscita, cosi, nella coscienza soggettiva, un dubbio sulla consi
stenza ontologica e sull'identità reale dell'io («Se per gli altri - si chiede
Vitangelo Moscarda - non ero quel che finora avevo creduto d'essere per
me, chi ero io?»).
La riflessione critica sulla propria identità - che il dubbio stimola ed
avvia - dischiude la prospettiva più inquietante e mette in luce la lacera
zione più profonda nella ricognizione dell'essere esperita da Vitangelo Mo
scarda. Quella riflessione, infatti, getta lo scandaglio nella scissione che se
gna, ontologicamente, lo statuto dell'essere in quanto essere-per-sé (l'unità
e l'identità dell'io) e le relazioni dell'io con se stesso e col mondo. L'imma
gine allo specchio - cui Vitangelo Moscarda ricorre in un capitolo fonda
mentale, il vn, del primo libro, per dar risposta al dubbio sul proprio essere
per-sé, assumendola come strumento di identificazione e di fondazione
dell'«ego» (secondo la dinamica psico-gnoseologica analizzata da Lacan in
un noto saggio) — l'immagine allo specchio si istituisce, viceversa, come
espressione della struttura diadica dell'io e rappresentazione dell'«ombra»,
del fondo oscuro del Sé, dell'«Altro» che ognuno si porta dentro; nella
prospettiva di Moscarda, come schermo alla conoscenza di sé (che non può
darsi se non nella forma alienata della propria immagine speculare, simula
cro di un Altro, estraneo e inconoscibile) e sanzione di una estraneità irri
ducibile di sé a se stesso.
Non si dà dunque, neanche soggettivamente, consistenza, unità ed iden
tità dell'essere come essere-per-sé. Nè si dà di esso autocoscienza autentica,
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522 VITILIO MASIELLO

che non sia consapevolezza angosciosa della sua inconsistenza ontologic


della sua indeterminatezza, della sua indefinibiiità. La coscienza e l'esser
appaiono divaricati; o - che è lo stesso - connessi da un rapporto di ne
gazione: in un capovolgimento, solo apparentemente paradossale, del «
gito» cartesiano («cogito, ergo non sum»). La coscienza dell'essere, inso
ma, si dà solo in negativo: come non essere, mancanza, assenza; o come
sentimento di solitudine: di estraneità di sé al mondo e del mondo a s
ma soprattutto di sé a se stesso (è la sindrome dello «straniero»); un'est
neità che alimenta una sensazione «d'incertezza angosciosa» fino allo sm
rimento di sé, alla perdita dell'«intimità della propria coscienza».

La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibil
con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorano,
che del tutto voi ignoriate, cosi che la vostra volontà e il vostro sentimento
restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni afferm
zione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudi
è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia nè voce, e do
dunque l'estraneo siete voi. (p. 784).

Alla disintegrazione del soggetto nel suo essere-per-sé - scisso e frant


mato nelle rappresentazioni multiple del suo essere-per-gli-altri - cor
sponde specularmente l'inconsistenza e la relativizzazione-vanificazione della
realtà esterna (dell'universo di cose e di eventi che ci circonda), soprattutto
sotto il profilo assiologico. La realtà non ha significato e valore in sé, m
solo in quanto la coscienza soggettiva gliene attribuisca uno. Non si dà du
que un valore in sé delle cose, ma solo un precario valore per noi.

Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, - dice Vitangelo Moscarda -
ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse
e uguali, immutabili. Non c'è. C'è in me e per me una realtà mia: quell
che io mi dò; una realtà vostra, in voi e per voi: quella che voi vi date .
(pp. 769-770).

Questa condizione di precarietà strutturale dell'essere, se per un vers


ha consistenza ontologica, per l'altro ha implicazioni e rilevanza storic
sociali: chiama in causa il rapporto soggetto-oggetto, io-mondo e ineris
ai modi di essere - integralmente reificati - della società e civiltà uman
soprattutto nel presente: alla portata alienante di un universo artificial
di «un mondo costruito-.

case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anc
perché non ci si vive più cosi per vivere, come queste piante, senza saper di
vivere; bensì per qualche cosa che non c'è e che vi mettiamo noi; per qualche

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PIRANDELLO: L'IDENTITÀ NEGATA 523

cosa che dia senso e valore alla vita [...]» un mondo «dove tutto è finto e
meccanico, riduzione e costruzione: un altro mondo nel mondo: mondo mani
fatturato, combinato, congegnato; mondo d'artificio, di stortura, d'adattamento,
di finzione, di vanità; mondo che ha senso e valore soltanto per l'uomo che
ne è l'artefice (pp. 774 e 776).

Questo universo artificiale, segnato da un sempre più accentuato distac


co dalla natura («ci vorrebbe un po' più d'intesa fra l'uomo e la natura»
dice Vitangelo Moscarda) in termini che richiamano il finale della quasi
coeva Coscienza di Zeno e che rinviano - per essere intesi nella loro valen
za epocale - alle problematiche del freudiano Disagio della civiltà (pub
blicato però, si ricordi, tre anni più tardi); questo universo artificiale -
dicevo - è, esso, il luogo dell'inautentico, lo spazio in cui si esplica e
si consuma necessariamente la disintegrazione e la perdita d'identità dell'io
in quanto formazione sociale («piazza» non «castello», secondo l'incisiva
immagine del Fu Mattia Pascal), in quanto cioè coscienza di sé che si costi
tuisce in relazione agli altri, differenziandosi, ma insieme integrando nel
proprio essere elementi rilevanti della cultura collettiva conscia e inconscia.
«Vive nell'anima nostra - aveva scritto nell'Umorismo - l'anima della
razza o della collettività di cui siamo parte; e la pressione dell'altrui modo
di sentire e di operare è risentita da noi inconsciamente: e come dominano
nel mondo sociale la simulazione e la dissimulazione [...] cosi simuliamo
e dissimuliamo con noi medesimi, sdoppiandoci e spesso anche moltipli
candoci» (p. 149).
La perdita di sostanzialità dell'io e l'avvio del processo di disintegrazio
ne conseguono ad un sistema di relazioni alienate, nel quale la consistenza
stessa dell'io e le forme della sua identificazione si risolvono nelle immagini
e rappresentazioni multiple che di esso si danno nella vita associata, secon
do l'ottica degli altri. Più in generale, l'essere delle cose consiste nei modi
della loro percezione sociale: esser è essere visti.

Nessuno dubita di quel che vede — dice Moscarda - e va ciascuno tra


le cose, sicuro ch'esse appaiono agli altri quali sono per lui [...]. Io ho perdu
to, perduto per sempre la realtà mia e quella di tutte le cose negli occhi degli
altri [...]. Appena mi tocco mi manco. Perché sotto il mio stesso tatto suppon
go la realtà che gli altri mi danno e che io non so nè potrò mai sapere (p. 842).

E subito dopo:

dovetti riconoscere che nei miei occhi non c'era veramente una vista per me,
da poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri [...];
e che dunque i miei occhi per sé, fuori di questa vista degli altri, non avrebbe
ro più saputo veramente quello che vedevano (p. 844).

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524 vrniio MASIELLO

È l'occhio degli altri, dunque, e il gioco di specchi del vedere


ser visti, che fonda la realtà mondana dell'essere nella dimension
della vita sociale (o, più propriamente, della heideggeriana anonimia

Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in n


tà di ciò che vediamo - conclude Moscarda - i nostri occhi non s
quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce; perché questa che
la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi .

E l'inganno del mondo come rappresentazione, che sancisce n


scienza sociale l'irrilevanza ontologica e l'inattingibilità gnoseol
l'essere come essere-per-se". Ma è proprio la consapevolezza critica di
inganno che consente a Moscarda di attingere - ancora una volt
gerianamente, per la via di una «angoscia segreta e inconfessab
un disperato sentimento di solitudine - di attingere la verità de
oltre la vista degli altri, epifanicamente, nella forma dell'assenza e d

Mi corse per la schiena il brivido d'un ricordo lontano: di quand'e


zo, che andando sopra pensiero per la campagna m'ero visto a un tra
rito, fuori di ogni traccia, in una remota solitudine tetra di sole e a
lo sgomento che ne avevo avuto e che allora non avevo saputo chiarir
questo: l'orrore di qualche cosa che da un momento all'altro potesse s
a me solo, fuori della vista degli altri (p. 884).

È la situazione, ed il tema, dell'osso montaliano «Forse un mat


dando ...» (già da altri richiamato). Ma a cogliere in termini ine
a cosa si riferisca l'«orrore» di una improvvisa rivelazione che si dà -
della vista degli altri» - nell'atmosfera attonita e sospesa di una s
funerea, «tetra di sole», abbacinata (come dichiara l'ossimoro) da
sità della luce rivelatrice, a cogliere a quale verità si riferisca que
re», ci soccorre un passo celebre dell' Umorismo:

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l'anima nostra si spo


tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più
ti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in sé stessa la vita, quasi in un
arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, c
in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalm
cepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori delle forme d
ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell'esistenza quotidian
sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva
e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile
riosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti
gini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varc
del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, com

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PIRANDELLO: L'IDENTITÀ NEGATA 525

sto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse
negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacqui
star la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni,
di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l'innanzi, al modo solito.
Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento
solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che
sono un nostro inganno per vivere e che sotto c'è qualcos'altro, a cui l'uomo
non può affacciarsi, se non a costo di morire o d'impazzire (pp. 152-153).

Questo - della latenza ontologica e della insondabilità gnoseologica


dell'essere-per-sé, e viceversa del suo costituirsi fenomenico, entro il sistema
di relazioni della vita associata, dal punto di vista degli altri, come essere
per-gli-altri - è tema centrale e ricorrente nella narrativa e nella dramma
turgia di Pirandello, ulteriormente scavato e sviluppato nelle sue implica
zioni tragiche nei grandi drammi del '21-'23, a ridosso della elaborazione
finale del romanzo. Si pensi, per tutti, a[l'Enrico IV, dove esso campeggia
intrecciato all'altro della pazzia, intesa non già come fenomeno patologico,
ma come segnacolo dei confini della ragione, espressione del suo scacco,
ma insieme come sfida e forma del suo trascendimento.

Guai - esclama Enrico IV - se vi affondaste come me a considerare que


sta cosa orribile che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro,
e gli guardate gli occhi - come io guardavo un giorno certi occhi — potete
figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare:
chi vi entra, non sarete mai voi col vostro mondo dentro, come lo vedete e
lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell'altro nel suo mondo impenetrabi
le vi vede e vi tocca ... (p. 92).

Ma esiste un varco, una via di fuga da questa destituzione dell'io, da


questa condizione deietta dell'essere? Nell'intervista - già citata - con
cessa ali'«Epoca» il 5 luglio del '22, Pirandello affidava al romanzo di im
minente pubblicazione la testimonianza del «lato positivo del suo pensie
ro» (ed è questo presunto messaggio positivo — che invertirebbe, ove si
desse davvero, la prospettiva e la logica profonda dell'analitica esistenziale
di Pirandello - l'aspetto più controverso del romanzo). Certo una via di
fuga - che ha il carattere di una anabasi, di una regressione e le valenze
di un rito sacrificale - nel romanzo si prospetta; ma essa si sviluppa in
negativo: come processo di distruzione, negazione, rifiuto. E alla fine del
percorso essa ribadisce - nella forma apparentemente elusiva del salto uto
pico, ma in realtà dell'autoesclusione dal mondo sociale - il radicalismo
pessimistico che presiede (per confessione dell'autore) alla genesi e all'origi
nario progetto del romanzo. L'io deietto, destituito d'identità propria, franto
e alienato nelle rappresentazioni multiple che di esso propone, nell'univer

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526 VITILIO MASIELLO

so sociale, l'occhio degli altri, può tentare un recupero d'identità solo att
verso la negazione e la distruzione di quelle rappresentazioni nelle qua
il proprio essere socialmente si identifica e costituisce.
E poiché quelle rappresentazioni hanno natura e consistenza sociale,
formano cioè sul terreno delle relazioni fondamentali che l'io intrattiene
col mondo in cui è immerso, la loro distruzione chiama in causa e coinvol
ge il sistema di relazioni che le fonda. La messa in questione e la negazione
delle rappresentazioni sociali dell'io deietto si converte insomma, immedia
tamente, in negazione e rifiuto dell'ordine sociale che le ha prodotte: delle
sue strutture fondamentali, del suo sistema di valori, dei suoi modelli esi
stenziali e comportamentali.
Strumento fondamentale e «strada maestra» per quest'opera di distru
zione, la pazzia, che si istituisce, in modo del tutto esplicito, come inusita
ta potenzialità gnoseologica, ossia coscienza lucida e conseguente della con
dizione scissa e alienata dell'essere, in virtù della propria alterità rispetto
alle certezze banali del senso comune che si ammanta di assennatezza: in
uno scambio di ruoli e inversione di valori tra follia e ragionevolezza (bor
ghese), che da Dostoevskij a Nietzsche a Svevo a Musil (per indicare solo
alcuni picchi rappresentativi del diagramma) contrassegnano un'epoca della
letteratura europea.

Seguitavo a camminare [...] con perfetta coscienza su la strada maestra del


la pazzia - dice Moscarda nell'accingersi a trafugare a se stesso i documenti
per la cessione della casa - ch'era la strada appunto della mia realtà, quale
mi si era ormai lucidissimamente aperta davanti, con tutte le immagini di me,
vive, specchiate e procedenti meco.
Ma io ero pazzo perché ne avevo appunto questa precisa e specchiante co
scienza; voi che pur camminate per questa medesima strada senza volervene
accorgere, voi siete savii ... (p. 820).

Ma la pazzia è anche potenziale trasgressivo, valore eversivo: negazione


delle opinioni e dei comportamenti correnti, rifiuto dei modelli codificati
e socialmente autorizzati del vivere, contestazione delle forme entro cui vie
ne «pre-ordinata» la vita, deroga della norma: atto insomma di libertà tra
sgressiva che infrange l'ordine dato del mondo.
Genuflettendosi dinanzi a Firbo (al quale poco prima aveva ricordato
la pazzia della moglie, affermando che gli conveniva tenerla chiusa in ma
nicomio), a chiarimento di quel gesto di autoumiliazione e della sua reale
destinazione, Moscarda esplode in una invettiva che ripete, nella sua se
quenza, un'analoga scena dell 'Enrico IV:

- Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci? dovresti star cosi!
Ed io, e lui, e tutti quanti, davanti ai così detti pazzi, così!

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PIRANDELLO: L'IDENTITÀ NEGATA 527

Balzai in piedi friggendo. I due [Quantorzo e Firbo, i due amministratori


della banca di Moscarda] si guardarono negli occhi spaventati. L'uno domandò
all'altro:
- Ma che dice?
- Parole nuove! - gridai - Volete ascoltarle? Andate, andate là, dove
li tenete chiusi: andate, andate a sentirli parlare! Li tenete chiusi perché così
vi conviene! (p. 826).

Tale natura e portata eversiva ha la pazzia di Vitangelo Moscarda: il


cui esperimento di decostruzione della propria immagine sociale (quella del
l'usuraio) passa attraverso la revisione critica e la negazione delle forme isti
tuzionali e dei meccanismi attraverso cui si produce l'alienazione sociale
dell'io: lo stato civile («Non aveva mica un nome per sé il mio spirito,
ne uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro [...] Ma per gli altri
io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome [...]. Ero
invece, fuori, nel loro mondo, uno - staccato - che si chiamava Moscar
da» p. 56) e, prima ancora, la nascita, la famiglia, la storia e il ruolo della
famiglia nel paese: gli anelli insomma di una catena di relazioni che lega
e fissa indissolubilmente l'irriducibile originalità dell'individuo alla ipoteca
della continuità del sangue e dei ruoli sociali, e ne dissolve l'identità speci
fica in quella del gruppo.
In questa catena di relazioni e di condizionamenti soffocanti, su cui
si sviluppa la riflessione critica di Vitangelo Moscarda, emerge, come anello
primario da spezzare, la figura del padre, oggetto di una rappresentazione
diffidente, ostile, su cui grava lo sgomento dell'assimilazione genetica e l'an
goscia dell'identificazione morale. E, questo, un passaggio decisivo dell'im
pianto problematico del romanzo: un punto di radicamento storico-sociale
(di immersione nella socialità e nella storia) dell'analitica esistenziale che
sembrava esaurirsi, nel romanzo, verticalmente, a livello ontologico; il pun
to in cui l'ontologia negativa dell'esistenza, che il romanzo elabora, s'arti
cola visibilmente in una ricognizione dell'essere come essere-nel-mondo, qui
ed ora. Il disconoscimento e il rifiuto della figura del padre, allora, al di
là delle ovvie implicazioni e motivazioni freudiane, implica per Vitangelo
Moscarda (come del resto per il suo confratello Zeno) il rifiuto e la condan
na della realtà sociale che il padre incarna e delle forme di vita, dei modelli
di comportamento, dei codici di valori, che la strutturano.
[...]
L'evocazione e la repentina materializzazione del fantasma paterno
(«M'appare. Alto, grasso, calvo») ne fissa l'immagine non già in termini
di fedeltà fisionomica naturalistico-mimetica, ma impressionisticamente, per
tratti rappresentativi di un modo d'essere e di rapportarsi agli altri, al mon
do, alle cose: i gelidi occhi azzurrini, nei quali brilla un sorriso malizioso
misto di ambigua tenerezza e di derisione nei confronti del figlio; e le ma

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