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CAPITOLO 1 – Sogno e musica nell’età di Dante, Petrarca e Boccaccio


La musica nella storia è sempre importante e cangiante in relazione all’epoca;
analizzando diverse discipline distaccandoci da quella musicale, possiamo giungere a
conoscere la sua importanza e il suo ruolo all’interno delle popolazioni. Si capirà
come la politica e la religione sono strettamente connesse alla musica che nel 300
passerà dall’essere una disciplina scienti?ca all’essere una musica pratica, suonata e
cantata.
- Paesaggio sonoro e paesaggio spirituale nella Commedia di Dante: tra
infermo e antipurgatorio
La stesura della commedia di Dante è da collocarsi intorno al 1309-21, l’accesso a
quest’ultima ci servirà per capire il mondo sonoro di quell’epoca. Leggendo la
Commedia, scorrono davanti ai nostri occhi tutti gli eventi politici, le tensioni
spirituali degli anni di Dante e dei protagonisti della sua opera, tra cui cantori, poeti
e musici anche se l’autore vuole distaccarsene tant’è che l’intera struttura è basata
sulla teologia; l’opera vuole, dunque essere una summa del sapere. In quest’opera, il
dato sonoro, come tutta l’opera stessa, va interpretato in senso allegorico: la stessa
assenza di suono, il silenzio che accompagna l’ingresso di Dante nell’Inferno
(interrotto solo dall’esclamazione del poeta “Miserere di me”), va considerato come
simbolo dello smarrimento del poeta; gli strumenti musicali citati lo sono solo in
quanto paragoni grotteschi (come il liuto accostato al ventre gon?o dell’idropico),
oppure come strumenti per dare segnali (campane, tamburi). [Canti come il
Miserere, fanno parte del repertorio liturgico cristiano: nelle cattedrali e nelle chiese
collegiate, il canto era aPdato alle scuole dei cantori (guidati da un cantor, si univano
un gruppo di cantori adulti e un coro di ragazzi, studiavano canto, dottrine e liturgie)
si trattava di canti solistici o corali, all’unisono, senza accompagnamento o
controcanto ed eseguito in “ritmo libero” detto canto “misurato” o “piano”.] Passando
al Purgatorio, l’ambiente cambia, arrivano le anime su una nave, cantando canti
ecclesiastici che richiamano la liberazione del popolo di Israele dalla prigionia in
Egitto. È il momento della commedia in cui risuonano nella maggioranza canti
liturgici come inni, salmi, antifone riconoscibili attraverso l’incipit del testo poetico.
Tra le anime Casella, amico di Dante, musico e cantore che allieta il poeta, con una
musica dolce che allevia le doglie: ci fa capire l’importanza della musica nella vita di
Dante. Il mondo della canzone è presente in maniera diversa lungo l’opera. Dante nei
suoi componimenti, come il Convivio e De vulgari eloquentia, tratta il rapporto tra
parola e melodia della composizione poetica e sull’uso della lingua volgare. La
canzone è composta dalla parte letteraria e da quella melodica, che pur essendo due
particelle distinte sono in stretta relazione. Dare più importanza alla particella
letteraria è una caratteristica italiana che fa eccezione nel panorama europeo. (il
riferimento era alla Scuola Siciliana che sarebbe stata orientata decisamente verso la
scrittura e la lettura, ma non verso il canto). Purtroppo, mancano testimonianze
dirette in merito, anche se l’assenza di una tradizione musicale scritta non è di per sé
decisiva per negare l’esistenza di un’esecuzione cantata delle poesie: infatti, tali
componimenti erano trasmessi anche a memoria. Recentemente però si è attenuta
questa tesi: gli autori italiani non erano cantori o musici, ma spesso aPdavano le loro
poesie a chi di professione aPnché trovassero delle melodie oppure adattavano i loro
versi a melodie preesistenti; lo stesso Boccaccio in “Vita di Dante” ci fa capire come
l’autore sia strettamente a\ezionato al mondo musicale. Nella Commedia, egli cita
diversi trovatori, tra cui soprattutto Arnaut Daniel, il quale declama un’intera strofa
in langue d’oc nel Purgatorio. Arnaut, che, nato “gentile”, si fece poi giullare,
lasciando gli studi e viaggiando di corte in corte per mostrare le proprie abilità

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artistiche, fu uno dei massimi rappresentanti della cosiddetta oda continua (senza
ripetizioni melodiche e senza cesure all’interno della strofa), che Dante stesso imitò e
considerò superiore alle comuni forme melodiche con ripetizioni. Il fatto che il poeta
parli, nella Commedia, dei trovatori indica che, dopo molte generazioni, la poesia
trobadorica, non solo ridotta a letteratura ma ancora cantata, restava viva.
- Paesaggio sonoro e paesaggio spirituale nella Commedia di Dante: tra
Purgatorio e Paradiso
Varcata la soglia del Purgatorio risuona il canto del Tedeum “in voce mista al dolce
suono” descritto come un canto le cui parole non si distinguono nitidamente. Il dolce
suono misto al canto potrebbe essere l’apertura della porta al purgatorio e poi si fa
riferimento agli “organi”, non sappiamo bene se si intende lo strumento a canne
oppure lo stesso intrecciarsi di voci. Un altro luogo “sonoro” è l’Eden: dipinto come
fosse la campagna ?orentina, quella dei poderi dell’infanzia di Dante, dei canti degli
uccelli e delle fronde che stormiscono una musica naturalis (il suono delle fronde
simile ad un “bordone”, nota 8ssa in sottofondo). Su questo sfondo compare Matelda,
che «cantando e scegliendo ?or da ?ore», riluce di letizia. Il suo canto è il salmo
Delectasti, di lode alla magni?cenza del Signore e del suo operato. Quando arriva alla
visione del Paradiso e delle “eterne rote”, queste catturano Dante per la «novità del
suono» prodotto dall’armonico girare del cielo; è la musica mundana: espressione con
cui la scienza di allora de?niva l’ordinato orbitare dei corpi celesti, tale movimento si
riteneva produrre suoni armoniosi non udibili sulla Terra. Quella che è forse una
corona di angeli che scende a cingere la Vergine è paragonata a una lira che risuona
con una dolcezza tale che qualsiasi suono terreno, al suo confronto, sembrerebbe un
tuono. Sono diversi i luoghi dell’ultima cantica in cui si è tentato di riconoscere
riferimenti alla polifonia (= canto a più voci): forse è polifonica l’immagine usata nel
IX cielo per la descrizione delle gerarchie angeliche che Dante sente “osannar di coro
in coro”. Nonostante l’importanza data dal poeta alla coralità come plurivocità
armoniosa e forse polifonia, l’ultima voce con cui si chiude la cantica è quella del
severo Bernardo di Chiaravalle che recita l’orazione «Vergine madre, ?glia del tuo
?glio», che più tardi sarebbe stata messa in musica da Giuseppe Verdi.
- La nuova arte della musica: Parigi
Probabilmente Dante acquisisce qualche conoscenza circa la polifonia, non ne la sua
Firenze, ma a Parigi nell’ambiente intellettuale dell’università; tuttavia, il Poeta non
aveva grandi conoscenze speci?che nell’ambito. Le speci?cità della disciplina
musicale si sviluppano proprio nel 300 nell’ambito universitario, soprattutto a Parigi.
La musica, tra le discipline scienti?che, era considerata la scienza delle relazioni
aritmetiche e quindi dell’armonia. [La chiave di lettura matematica dell’arte musicale
in Occidente risale a Pitagora di Samo, secondo cui l’unione armoniosa di due suoni
diversi – la consonanza – corrisponde ad una proporzione semplice tra quantità
ravvisabili negli oggetti che producono quei suoni: tali proporzioni semplici sono ½,
2/3, ¾. L’ultimo grande studioso romano dell’armonia musicale è stato Boezio. Nel
contesto carolingio vengono redatti i primi libri musicali europei, nei quali si usano
dei segni per ?ssare l’intonazione (semiogra?a musicale). I primi documenti sulla
polifonia risalgono a trattati di quest’epoca, anche se sono esempi basilari: canto
principale accompagnato da una seconda voce. I protagonisti della scrittura musicale
sono i monaci e gli scriptoria che hanno fatto sì che si di\ondesse laddove arrivasse
la Chiesa latina; ad essere decisive furono le direttive di Carlo Magno, secondo cui la
vita liturgica doveva essere organizzata in modo omogeneo e comune. Nei trattati gli
autori carolingi descrivono i suoni matematici “discreti” della teoria musicale, ossia

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suoni individualmente riconoscibili assegnando loro delle lettere speci?che;


descrivono anche le “mobili” intonazioni della pratica canora continue, non divise e
quindi non aritmetiche. Nasce con l’Europa carolingia la concezione di “suono
discreto come costituente minimo del canto” cui corrisponde un singolo segno
gra?co: la nota. Da qui si sviluppa la concezione della polifonia e l’apprezzamento
della consonanza come fattore estetico. (Il monaco Guido D’arezzo, creerà un punto
di equilibrio tra dettato teorico e prassi musicale, divulgando dei mezzi di
memorizzazione dei canti basati sulla teoria musicale, i nomi delle note in latino
sarebbero suoi – Ut,re,mi,fa,sol,la.) È quindi dal 13 secolo che abbiamo manoscritti
con una semiotica ritmica riconoscibile. Nella Scuola della cattedrale di Notre-Dame
si sviluppano dei segni legati a durate e valori distinti adatti ad indicare combinazioni
ritmiche diverse; è l’unico posto in cui si coltiva la polifonia a 4 voci (l’organum). La
scuola si sviluppa grazie a due musicisti: Leoninus e Perotinus, che scrivono le prime
composizioni polifoniche, chiamate “organum” e “discantus”. Poiché erano
composizioni a due o più voci, era necessario calcolare la durata dei suoni e fu così
che nacque la notazione “mensurale”. La cattedrale è simbolo sia religioso che
culturale della città, in quanto diviene il primo embrione della Università parigina
sotto il regno di Filippo Augusto (1100-200); si fondono così interessi della monarchia
e del clero; dunque, il repertorio includeva elaborazioni polifoniche di canti liturgici
di tradizione ma anche altri legati alla monarchia e eventi di vita civile e politica. È
nel 13 secolo che nascono i “mottetti” dove le varie linee di canto intonano testi
poetici diversi (anche se in principio con questo termine si indicavano nuovi testi su
polifonie preesistenti). Dal 1215 l’Università di Parigi si distacca dalla Cattedrale e ne
risente la tradizione polifonica che alla ?ne del 13 secolo non viene quasi più eseguita
nella cattedrale, ma le forme più complesse polifoniche si di\ondono in altri ambiti
come quello universitario. È nella forma compositiva del “mottetto” che convergono
tutte le varietà di tipi polifonici, di destinazioni e contesti, assimilando anche modi
ritmici e melodici appartenenti a danze o canto vernacolo o cortese, ampliando così
anche l’area geogra?ca di di\usione. Nella trascrizioni dei repertori di Notre-Dame
troviamo un sistema di trascrizione e quindi notazione ritmica: per trascrivere il
ritmo, lo si tratta in termini di durate dei suoni, questo comporta l’adeguamento di un
insieme di simboli per indicare per iscritto alcuni moduli ritmici – chiamati “modi”. I
singoli elementi ritmici della notazione di Notre-Dame sono modi ritmici ordinati a
formare sequenze cantate in serie più o meno lunghe, dette ordines. I simboli gra?ci
utilizzati erano chiamate “ligaturae” e “notae”. La distinzione tra durata “lunga e
breve” appare in pieno 13 secolo sempre in area francese, in seguito alla
speci?cazione di una durata minore alla breve e all’introduzione di segni per la
“semibreve”, pause e nuove ligaturae. Nella seconda metà del 13secolo, la notazione
venne rinnovata in ordine di una maggiore sistematicità: si de?niscono i concetti di
perfectio (ternarietà) e imperfectio (binarietà) e di propietas. Con Tommaso
D’Acquino si comincia a parlare di musica pratica, disciplina che si occupa del suono
secondo l’udito, si rioette sulle qualità estetiche della musica - bellezza attribuita
all’ascolto di un canto, armonia o consonanza come criterio di valore per la musica
pratica. All’inizio del 14 secolo viene riconosciuta un’ulteriore divisione delle durate:
la “minima” si cominciò a usare un diverso colore delle note (rosso e nero) per
indicare il cambiamento da perfectio a imperfectio, quest’ultima diventando così
un’alternativa ritmica consistente. Tutte queste innovazioni si riscontrano in un
manoscritto del primo Trecento, custodito alla Biblioteca Nazionale di Francia, e in
altri come l’Ars Nova del 1320 circa.
- Philippe De Vitry e il Romanzo di Fauvel

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De Vitry nasce nel 1291 vicino Parigi, abbiamo poche testimonianze sulla sua vita, ma
sappiamo che fu tra i primi ad usare la minima, e il cambio di colore da perfectio a
imperfectio usato nella versione musicale del romanzo di Fauvel. Quest’ultimo è un
lungo poema narrativo allegorico in versi francesi, che fa satira su vicende e
personaggi contemporanei (Filippo IV il Bello, re di Francia; il suo consigliere
Enguerrand; il papa Clemente V, “responsabile” della lunga cattività avignonese). Il
nome del protagonista, il cavallo Fauvel allude al colore del manto “sauro” ma anche
a caratteristiche come falso adulazione, avarizia, viltà, falsità, invidia, lascivia). Una
sua versione musicale è testimoniata da un manoscritto risalente al 1316-18. La
prima stesura del romanzo è attribuita a Gervais de Bus, ma la versione sul
manoscritto, ampliata di oltre 2.000 versi, sarebbe di un certo Chaillou de
Pesstain/Pesscain, per quanto concerne invece le interpolazioni musicali c’è il
contributo di Philippe. Il romanzo con inserti lirici non era una novità dell’epoca, ma
quello di Fauvel è particolare, perché il contenuto musicale rivela un’ambizione
enciclopedica, accoglie repertori diversi e non solo contemporanei. (de?nizione
dettagliata mottetti pag. 45) Diviso in due libri, il primo narra l’ascesa al potere del
cavallo Fauvel, assistito da Fortuna, e le lusinghe dei potenti; nel secondo libro, il
cavallo chiede Fortuna in sposa, ma, ri?utato, deve accontentarsi di prendere in
moglie Vanagloria: dalla loro unione nascono numerosi fauveux (sauri/falsi) che
contaminano la Francia e il resto del mondo. Le aggiunte fatte al poema si
concentrano nel II libro, dove si trovano diversi mottetti (riconducibili a De Vitry),
esempli?cazioni eccellenti dello stretto intreccio tra composizione musicale e
letteraria, idee, immaginario, cultura spirituale, etica e politica dell’epoca. (Fauvel al
momento del ri?uto da parte di Fortuna intona la linea canora “heu fortuna” nel
mottetto che si compone di altre due linee. Fauvel nel testo si paragona al
personaggio biblico Aman che per le proprie ambizioni ?nì al patibolo). La ?gura di
Fauvel rimanda al personaggio storio Enguerran de Marigny che da nobile, innalza
sempre di più il suo rango tra gli a\ari della corte francese, ma ?nendo in?ne
condannato a morte per cattiva gestione delle ?nanze sotto il regno dei Valois. Tre
mottetti riguardano Enguerrand e creando così una storia parallela alla narrazione
principale e il cui ordine cronologico sembra invertito rispetto al tempo delle vicende
di Fauvel. Il primo fa riferimento ad una banda di ladri e nel triplum ad una tribù che
per salire al potere sprofondò nell’indecenza (abbiamo un’illustrazione nella quale la
progenie di Fauvel e Vanagloria si immerge nella fontana della giovinezza, ma ciò che
ne sgorga è fango. In un terzo mottetto: il Gallo schernisce la Volpe poiché dopo aver
tormentato i Galli (francesi) grazie alla cecità del Leone regnante (il re di Francia,
adesso è caduta per i propri errori. La volpe la ritroviamo anche nell’ultima
composizione del Romanzo, nel mottetto aperto dall’incipit delle Metamorfosi, è in
realtà il precursore dell’Anticristo, il Dragone dell’Apocalisse che «vive ancora,
mutato in volpe», questo sarebbe un segno per la popolazione contemporanea, che
indica di svegliarsi dalla situazione di schiavitù. Il mottetto fa uso di una particolare
composizione musicale che organizza la durata e l’articolazione complessiva in base a
rigorose simmetrie matematiche de?nita – poi nel 900 - isoritmia = ritmo uguale
(questo tipo di costruzione accomuna gli ultimi due motetti). Questo tipo di
composizione musicale de?nisce quindi la struttura temporale. Prendiamo ad
esempio il tenore di “Garrit Gallus”: la melodia (color), è costituito da 36 suoni
ripetuti 2 volte, alla melodia viene poi applicata una sequenza ritmica (talea)
costituita da una serie di 12 durate e di 2 pause, questa scelta alla luce di una
approfondita analisi risulta coerente col senso allegorico del romanzo; nello stesso
motetto troviamo l’uso di note rosse – inversione ritmica alla quale anche è aPdato
un senso allegorico.

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- Le formes Jxes e la tradizione lirica cortese


La notazione usata nel Romanzo è la stessa per tutte le composizioni, le quali, quindi,
sono tutte notate mensuralmente, comprese le ballate (ballades) e i rondò (rondeaux)
a una voce sola. Queste forme liriche sono dette formes ?xes perché, nel corso del
Trecento, se ne sarebbe accentuata la ?ssazione come tipologie formali “de?nite” sia
metricamente che melodicamente. Emerge grazie alla semiogra?a la natura coreutica
di queste composizioni. La preferenza per forme danzanti, ritornellate e
musicalmente ripetitive si riscontra già nella tradizione cortese d’oil del XII secolo, in
ambienti e con tematiche poco elevati, tipico era il tema della “pastorella”, che
narrava l’incontro tra un cavaliere e una pastora mentre per i temi del “gran canto
cortese” si usava l’”oda continua”, forma melodica più alta. Nel 300 però, le forme
coreutiche vengono usate anche per temi più “nobili”. (un esempio di tematica alta
con articolazione ritmica complessa e tre sole strofe di testo è la ballade “Ay, amours,
tant me dure” del romanzo).
- Polifonia misurata e cappelle musicali
Nel 1300 l’opera letteraria e musicale di Philippe si intreccia con la vita politica
francese. Negli anni ‘30 scrive Le chapel de trois @eurs de lis, in occasione della
guerra crociata in terra santa promossa da Luigi di Borbone, apparendo
all’avanguardia nell’uso dell’isoritmia e di altri espedienti inerenti al ritmo, tra cui
l’hoquetus = tecnica assai di\usa che genera uno stretto intreccio poliritmico tra le
diverse linee di canto. Negli anni ‘40, Philippe – nominato capellanus commensalis
papae dal papa Clemente VI – scrive per il ponte?ce il mottetto Petre clemens /
Lugentium / Non est inventus, eseguito ad Avignone nelle feste natalizie del 1342,
per la visita di un’ambasceria che richiedeva il ritorno del papato a Roma e di ?ssare
il Giubileo del 1350. Avignone ebbe un ruolo importante negli sviluppi musicali
successivi, in particolare per l’istituzione di una cappella con speci?che mansioni
musicali, tra cui, anche l’esecuzione di polifonia misurata. Il termine “cappella”
indica un luogo in cui sono conservate delle reliquie sacre, il sovrano francese ne
aveva diverse nei suoi palazzo, Luigi IX volle creare una Santa Cappella accanto al
palazzo reale, nella quale alla sua morte, la sua stessa testa venne conservata, da
questo momento la cappella diviene un luogo di rappresentanza della santità della
corona francese. Con il trasferimento della sede papale ad Avignone, 1309, viene
edi?cato il palazzo dei papi: con il papa Benedetto XII e Clemente VI, nascerà una
cappella musicale specializzata a loro disposizione. Fu Clemente VI a inaugurare la
tradizione “franco-?amminga” delle cappelle papali, scegliendo cantori del Nord della
Francia e delle Fiandre. Tale tradizione sarebbe continuata anche dopo il ritorno del
papato a Roma (basti pensare alla Sistina e alla Giulia, più di un secolo dopo), dove
avrebbero prestato servizio cantori nordici. È questo l’ambiente del mottetto Petre
clemens / Lugentium / Non est inventus, dedicato proprio a Clemente VI. Un secondo
componimento polifonico a lui dedicato sembra essere il Gloria, un mottetto che
inizia con Clemens Deus artifex; forse a Clemente era dedicato anche un terzo canto,
un Kyrie politestuale a tre voci. Kyrie e Gloria sono canti ?ssi della Messa e occupano
quindi un post importante nella struttura liturgica. In particolare, il Kyrie compare,
oltre che nello stesso manoscritto del Gloria, anche in un’apertura del Codice di Apt,
compilato all’epoca dello scisma (1378- 1417) con repertorio polifonico della cappella
avignonese. Intonazioni polifoniche di parti della Messa non erano nuove nel XIV
secolo: il voluminoso manoscritto del monastero di Las Huelgas (oltre i Pirenei)
raccoglie canti polifonici dall’epoca di Notre-Dame ?no all’inizio del XIV secolo; si
tratta, però, di forme polifoniche “antiche”, meno elaborate ritmicamente e non
riferibili al mensuralismo avanzato come, invece, i canti del Codice di Apt. Il primo

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grande genere della “musica moderna” è quello della Messa, la più nota era quella di
Notre- Dame di Guillame de Machaut, importante personaggio per la musica ma
anche per la letteratura francese. Guillaume fu un ecclesiastico: nativo dello
Champagne, fu segretario prima di Giovanni I di Lussemburgo, re di Boemia, poi di
Bona di Lussemburgo, quindi del re di Navarra Carlo II il Malvagio e in?ne, dal 1357,
di Giovanni II il Buono re di Francia. Passò gli ultimi anni della sua vita presso la
Cattedrale di Reims. Egli applicò le forme più innovative di polifonia misurata a
mottetti, ballate e rondò, a composizioni in forma di “caccia” (in cui le voci si
inseguono dando l’impressione di una caccia) e alla Messa. A Guillaume sono ascritti
anche due romanzi con inserti musicali, opere da lui concepite e realizzate sia per la
parte letteraria che per quella musicale: il Remede de Fortune e il Voir dit. Di lui
resta famosa la de?nizione data della musica nel prologo alle sue opere: «La musica è
una scienza che vuol che si rida, si canti e si balli».
- Umanesimo e musica tra Francia e Italia
Ai primi anni ‘50 del Trecento risalgono due lettere che Petrarca scrisse a Philippe de
Vitry, divenuto, nel 1351, vescovo di Meaux. In esse, Philippe è descritto come un
?losofo appassionato della verità, senza riferimenti ai suoi trascorsi musicali. In un
altro scritto petrarchesco, un’ecloga pastorale in forma di dialogo tra il poeta e un
Gallus in cui si riconosce Philippe, il Toscano invita a considerare l’arte come un
talento naturale, dono degli dèi, e non un’abilità che si possa acquisire. In tal modo,
si sancisce la distanza tra i nuovi ideali umanistici di Petrarca e la cultura
“scienti?ca” da cui Philippe proviene, tra due modi diversi di intendere la stessa
poesia e la creazione artistica, compresi il canto e la musica: da un lato, quindi, il
lirismo trovadorico, dall’altro la matematica della polifonia misurata. Alla luce di ciò,
si comprende l’estraneità di Petrarca rispetto a polifonia e mensuralismo. Il poeta
aveva contatti con molti musici, giullari e cantori, e possedeva egli stesso un liuto,
che usava privatamente per accompagnarsi mentre intonava i suoi versi. Tra il 1353 e
il 1361, egli avviò la stesura del De remediis utriusque fortune, un trattato morale
con sezioni dedicate al canto, alla danza e ai loro e\etti. Recentemente, poi, è stato
attribuito a Petrarca un madrigale trilingue (italiano, latino, francese) per il quale
esistono ben due intonazioni polifoniche, quella di Bartolino da Padova e quella di
Nicolò da Perugia, attivi nella seconda metà del Trecento; ma potrebbero esistere
altri testi musicati dell’Aretino, ancora da portare alla luce. Nei suoi scritti, Petrarca
tesse le lodi di un’altra corte, quella di Napoli del pur francese re Roberto d’Angiò, al
quale il Toscano dedicò il suo poema incompiuto “Africa”. I documenti circa gli ultimi
anni del suo regno, lo dipingono parlando di vivacità negli ambienti di corte, con
musicisti provenienti dal territorio del reame così come da Germania e Toscana. A
testimoniare questo gioioso ambiente abbiamo Boccaccio, che stette a corte con
la sua famiglia durante la sua gioventù, tramandandoci degli scritti in cui si parlava
di “feste, danze e giochi della nobiltà napoletana”. Sarà lo stesso Boccaccio, più tardi
a parlarci in maniera meno benevola dello stesso ambiente della dinastia d’Angiò. Nel
Decameron all’inizio Boccaccio spiega le varie reazioni degli uomini alla peste: qui la
musica fa la sua comparsa e l’autore spiega che un gruppo di giovani (l’onesta
brigata) si allontana dalla peste (che nel 1348 arrivò a Firenze), rifugiandosi in un
luogo sereno, dove trascorre il tempo raccontando storie, cantando e ballando.
L’incontro della brigata avviene durante una liturgia nella Chiesa di Santa Maria
Novella (FI) appartenente ai domenicani. [nella “summa theologica” di Tommaso
D’Aquino, l’armonia sonora viene vista come elemento, una sorta di “temperanza”
che aiuterebbe al bene dell’uomo e della società. Sempre a Santa Maria Novella,
un’associazione di devoti laici che si riunivano per attività bene?che e di assistenza,

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includeva poesie devote vernacole intonate in forma di ballata; o ancora i francescani


che intonavano canti di cui purtroppo non ci è pervenuta la melodia.] Fiammetta, uno
dei personaggi del Decameron è una suonatrice di viola: la giornata di cui è
“signora”, la V, è chiusa dal canto dell’altro musicista del gruppo, Dioneo, liutista. Il
suono della viola di Fiammetta rappresenta l’ideale della temperanza domenicana, né
ammiccante né lascivo, ma sereno e contemplativo, mentre Dioneo propone canzoni
oscene alle quali la brigata si oppone e viene allora intonata una ballata sul potere
dell’amore; tutte le giornate si concludono con delle ballate ma di nessuna queste è
nota l’intonazione musicale (se mai ve n’è stata una).
- Polifonia e mensuralismo in Italia
Dalla seconda metà del 13 secolo, in Italia, dalla Francia, era arrivato il
mensuralismo avanzato attraverso ambienti di Università, ecclesiastici e cortesi, ma
col tempo la Penisola svilupperà una versione autonoma della teoria mensuralista e
un repertorio che si chiamerà “ars nova italiana” che si protrarrà ?no agli inizi del XV
sec. All’inizio del ‘400, si trovano in Italia trattati che enfatizzano l’italianità della
polifonia trecentesca italiana, che riguarda in particolare il piano del ritmo (= il
cosiddetto aer italicus, contrapposto all’aer gallicus). Noto esempio del mensuralismo
“all’italiana” è il Pomerium (1318 ca.) di Marchetto da Padova, dedicato a Roberto
d’Angiò, di cui Marchetto è al seguito. Il suo sistema sarà poi aggiornato con l’arrivo
in Italia delle innovazioni francesi dell’Ars nova, senza che però si perdano le
peculiari soluzioni ritmiche locali basate sul valore inalterabile della “breve”. Una
prima generazione di compositori mensuralisti si ha nelle corti del Nord (Milano,
Verona, Padova), dove prevalgono mottetti, cacce e soprattutto madrigali (formes
?xes con ritornello): di questi, l’autore più rappresentativo è Jacopo da Bologna,
polifonista consapevole dello stato dell’arte, come si capisce dai suoi frequenti
riferimenti a Philippe de Vitry e Marchetto. A Firenze, invece, dove non c’è corte,
polifonia e mensuralismo compaiono a opera di religiosi strettamente dipendenti da
comunità ecclesiastiche, come Gherardello da Firenze e Lorenzo Masini, autori anche
di ballate non polifoniche, madrigali e cacce (delle loro opere però abbiamo poche
testimonianze scritte, il ché ci fa dedurre che fossero improvvisate). Tra i manoscritti
italiani di polifonia di quest’epoca, il più noto è senz’altro il Codice Squarcialupi della
Biblioteca Medicea Laurenziana, realizzato all’inizio del XV secolo presso Santa
Maria degli Angeli a Firenze con ricche miniature e ritratti dei musicisti. Esso
raccoglie 354 opere dei maggiori compositori italiani di ballate, madrigali e cacce del
XIV secolo, tra i quali Francesco Landini. Divenuto cieco in gioventù a causa del
vaiolo, Landini apprese l’arte del canto presso la confraternita di cui il padre stesso
era membro, dove si praticava il canto della laude e si insegnava canto e musica.
Divenne un musicista eccellente, studiando strumenti a corde e organo. Nel 1365 lo
si trova registrato tra i cappellani di San Lorenzo, dove più tardi fu designato
familiaris perpetuus (= servitore a tempo indeterminato). Autore di scritti latini, mise
in musica versi di altri autori e suoi (ad es., il madrigale Mostrommi Amor già fra le
verdi fronde). Paragonato ad Omero per la sua cecità e il dolce canto, Landini fece
musica senza l’ausilio della lettura e della scrittura, basandosi solo sull’ascolto e la
memoria; suoi canti erano accompagnati dall’organo che lui stesso suonava. Morto
nel 1397, fu sepolto nella Basilica di San Lorenzo. Di lui restano circa 150
composizioni (ballate, madrigali, una caccia e un virelai francese (= una delle tre
forme ?sse simile al rondò). Si può dire che sia stato il primo grande compositore
della storia italiana. L’Ars Nova italiana non andò – come si è detto – oltre l’inizio del
XV secolo, quando nella polifonia si impose de?nitivamente il modello francese,
nonostante i tentativi di conservare delle peculiarità locali.

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CAPITOLO 2 – Musica e corti italiane nella prima età moderna


La corte fu un sistema di potere e di governo caratterizzato da forme, comportamenti
e riti intesi come manifestazione visibile dello Stato e del suo apparato. In quanto
espressione del potere, la corte era costituita da ambienti (palazzo urbano, villa
suburbana) e collettività (cortigiani, accademici, artisti) deputati all’attuazione del
potere principesco. Ambienti e persone erano regolati da norme di etichetta, nonché
da precise gerarchie di valenza socio-politica che rispecchiavano l’autorità del
signore stesso. La corte fu molto di\usa sul territorio italiano e favorì lo sviluppo di
svariate forme di produzione culturale (musica, pittura, letteratura, collezionismo,
arte culinaria): la musica, in particolare, fu, per i costumi e la cultura di corte, un
valore aggiunto.
- Musica come intrattenimento e svago
La corte che include nelle proprie manifestazioni un intrattenimento musicale e
coreutico contribuisce e vuole dare di se un’immagine sfarzosa di benessere e
prosperità, tant’è che tali immagini vengono fatte circolare tramite qualsivoglia tipo
di comunicazione proprio per “orgoglio”. Spesso di queste manifestazioni vengono
citate in opere letterarie di autori come Boccaccio e altri, nelle quali la musica
magari si trova come corredo di un sontuoso banchetto (le nozze di Francesco Sforza
e Bianca Maria Visconti a Milano 1441). Si riportano diverse testimonianze letterarie
di intrattenimenti musicali come consuetudini conviviali e ludiche delle corti
rinascimentali. [Giovanni Gherardi da Prato, Il paradiso degli Alberti, nomina anche
Francesco Landini che col suo organo deliziava i presenti nel giardino e il polifonista
Bartolino da Padova, ci troviamo in una situazione gioiosa, canti e balli sullo sfondo di
un banchetto.] [Pietro Bembo, Gli Asolani, la regina di Cipri, al castello ai piedi delle
Alpi, maritò una delle sue damigelle, una grande feste condita di canti e balli.
Durante questa festa due fanciulle, una col liuto e l’altra cantava. Allora la regina
avrebbe chiamato una delle sue damigelle per mostrare altrettanta bravura nel
cantare.]
- I professionisti della musica
Il carattere gioioso dell’uso della musica nella corta, non esclude la professionalità
dei musici, anzi erano presenti chiari rapporti di lavoro tra committenti e musici, il
possesso di artisti accreditati era anch’esso specchio del rango del signore. Spesso le
corti chiamavano però musici proveniente dal Nord Europa (a di\erenza delle arti
?gurative e plastiche che preferivano artisti autoctoni). Nel XIII secolo erano per lo
più musicisti provenzali, attirati dal grande guadagno in soldi ma anche in beni
materiali, addirittura beni immobili e proprietà terriere. Ad essi veniva dato il
compito di comporre brani celebrativi per scopo politico ed encomiastico, è una
prassi che comincia da meta 300 nelle corti Italiane settentrionali (Visconti a Milano,
Carrara a Padova) che durerà ?no al Barocco. La musica, dunque, non è più solo un
momento ludico, ma ha un ruolo di “musica di Stato”. [Le occasioni sono ad esempio,
l’elezione di ponte?ci, il completamento della cupola brunelleschiana di Santa Maria
del Fiore “Nuper rosarum oores” di Guillame Dufay.] Vari sono gli esempi di
composizioni in onore di personalità politiche, militari, religiose o signorili.
- Cappelle musicali di Stato: Napoli, Ferrara, Milano
Al 1476, risale, invece, uno scritto di Tinctoris, musicista e teorico, che ci ha lasciato
una preziosa panoramica sulle pratiche musicali del tempo (all’epoca, egli serviva alla
corte dei d’Aragona a Napoli): «I più cristiani tra i sovrani, volendo ampliare il culto

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divino (...), fondarono, con grandi spese, alcune cappelle, nelle quali hanno arruolato
molti cantori, perché innalzassero lodi gradevoli e decorose a Dio nostro, con voci
diverse ma non avverse tra loro. E poiché i cantori dei prìncipi, se questi sono dotati
della magnanimità che rende illustri gli uomini, vengono remunerati con onore, gloria
e ricchezza, ne consegue che molti si sono dedicati a questo genere di studi con
grande fervore. Perciò al giorno d’oggi le possibilità della nostra musica sono così
straordinariamente aumentate, che un’arte nuova pare sia nata». L’istituzione di
cappelle musicali e di organismi che si occupassero della musica in maniera
professionale e per porla al servizio dello stato e del signore, veniva sentito come un
dovere da quest’ultimo, a prescindere dal gusto, passione o competenza al riguardo.
L’istituzione di cappelle era avvenuta in Francia già un secolo prima: si ricordino, ad
esempio, quella di Carlo V (re dal 1364 al 1380) e quella papale ad Avignone
dell’antipapa Clemente VII (1378-1394), che era una delle più prestigiose, con 8
cantori-cappellani e 6 chierici esperti nel canto e impiegati solo nelle pratiche
musicali liturgiche. Si curava molto questo aspetto, perché la qualità della cappella
musicale era simbolo di prestigio e importanza della corte, dunque anche elemento di
competizione. In Italia le prime cappelle musicali furono istituite dagli Este a Ferrara,
dagli Aragonesi a Napoli e dagli Sforza a Milano che appunto erano in reciproca
competizione. Leonello d’Este dotò la propria cappella di un gruppo di cantori già
prima del 1444; l’anno successivo i cantori erano 9 ed era ritenuta «riccamente
dotata». Il suo successore Borso, anziché i cantori, favorì maggiormente gli
strumentisti, come il liutista Pietrobono dal Chitarrino, forse il più ammirato e
conteso del medio ‘400. I signori delle corti, infatti, facevano a gara per procacciarsi
musicisti di valore sia in Italia che all’estero. . Diversi musicisti, tra cui il già citato
Dufay, composero messe per i loro signori, sui temi della celebre chanson “L’homme
armé”, che simboleggiava il ruolo militare e religioso del sovrano rinascimentale.
Cappelle, cantori, musicisti e repertori seguivano il signore nei suoi spostamenti,
solennizzando, ad esempio, la liturgia quotidiana, decorando il protocollo degli eventi
diplomatici, completando, insomma, l’apparato della corte e dello Stato.
Eccezionalmente, i più grandi artisti, dilettavano il loro signore nel chiuso delle sue
camere private (come Pietrobono dal Chitarrino).
- Committenza “umanistica”: Urbino, Mantova, Ferrara
Durante l’Umanesimo, si ebbe un incremento della presenza della musica tra i diletti
privati delle élites. Ciò è particolarmente evidente nel triangolo Urbino-Mantova-
Ferrara. Quando Federico di Montefeltro divenne duca di Urbino (dopo la carriera
politica e militare) diede avvio a una serie di iniziative iconogra?che nel suo palazzo,
fra cui la realizzazione di un’allegoria della musica, parte di un ciclo pittorico andato
perduto, ma che culminava nell’identi?cazione di Federico col perfetto musico
(associando la musicalità al ruolo di saggio governante). Sotto Guidubaldo (?glio di
Federico), Castiglione stende Il cortegiano (1528), modello di etichetta e di
comportamento in cui si delinea l’immagine del gentiluomo elegante, colto, abile
danzatore e cantore/strumentista. Nel testo predilige il canto solo piuttosto che
l’esecuzione polifonica poiché più adatta alla comprensione del testo poetico. Isabella
d’Este fu ispiratrice e poi lettrice de Il cortegiano. Divenuta moglie di Francesco
Gonzaga, trapiantò a Mantova le sue tradizioni musicali; si circondò di musicisti e ne
indirizzò il lavoro secondo i propri gusti. Era personalmente dotatissima di qualità e
conoscenze musicali e intratteneva ospiti e intellettuali con il suo canto, la sua viola e
il suo liuto; suonava anche strumenti da tasto e un organo fu costruito appositamente
per lei (da Lorenzo di Pavia) con i tasti più stretti per le sue dita sottili. Isabella fu
pioniera della rinascita polifonica in Italia, si circondò di musicisti importanti

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indirizzandone il lavoro a suo gusto e incoraggiò il suo musico preferito, Bartolomeo


Tromboncino, a comporre musiche per i testi di Petrarca, chiedendo ai poeti di creare
versi adatti all’intonazione musicale. La sua cappella, non era più di rappresentanza,
era una cappella “umanistica”, nel senso che rioetteva le predilezioni culturali, gli
studi e le competenze del committente, e contribuì a delineare l’immagine pubblica di
Isabella (pur continuando a svolgere gli impieghi di “governo”). Nel 500 italiano, il
cortigiano sfoggiava l’élite del suo rango tanto con pregiate cavalcature, armature,
quanto con preziosi strumenti musicali, musicisti, e stampe di libri di musica sacra e
profana. Anche la stampa di libri di musica aveva un ruolo importante nella
competizione tra signori e semplici gentiluomini. Cristobal Morales e Giovanni da
Palestrina dedicarono preziosi libri rispettivamente ai papi Paolo III (1544) e Giulio III
(1554), sui cui frontespizi sono raPgurati gli stessi ponte?ci in atto di ricevere i libri
dai musicisti genuoessi davanti a loro. Nel 1599, Alfonso d’Este ?nanziò la
prestigiosa edizione della Musica Nova di Adrian Willaert (il musico da lui prediletto)
e già allora dovette ingaggiare una sorta di disputa per quelli che oggi chiamiamo
diritti di copyright, al ?ne di avocare a sé almeno per un decennio il merito di aver
reso pubblica quell’opera rara (comprendente 27 mottetti e 25 madrigali). Il duca di
Urbino Guidubaldo II rispose con la pubblicazione di due opere di Costanzo Porta,
una di mottetti e l’altra di madrigali.

- Musica per tutti: l’editoria musicale


La rivoluzione culturale indotta dall’invenzione della stampa coinvolse anche la
musica. Il libro a stampa sostituì la produzione e il commercio del manoscritto
passando dall’esclusività di biblioteche di eruditi e collezionisti, ad essere presente
nelle case di tutti, determinando la di\usione delle pratiche musicali e di repertori.
La storia della stampa musicale ebbe inizio nel 1501, quando Ottaviano Petrucci da
Fossombrone mise a punto nella propria bottega uno speci?co sistema di stampa per
la musica e produsse il primo libro di musica stampata, contenente composizioni
profane su testi francesi e latini dei più importanti polifonisti del momento. Il sistema
prevedeva l’impressione a torchio sul medesimo foglio, in tre diverse fasi, del rigo
musicale, delle note sul rigo e del testo sotto le note. Rispetto al manoscritto, seppur
di tecnica più complessa, permetteva un numero potenzialmente illimitato di copie ad
un prezzo inferiore. In un primo momento, i testi stampati avevano la qualità gra?ca
dei manoscritti (anche per competere con la bellezza gra?ca di questi), ma, negli anni
’20 del Cinquecento, Petrucci sostituì quel tipo di presentazione del testo musicale
sostituendolo con la stampa di libri-parte: fascicoli individuali per ciascuna delle parti
musicali coinvolte nella composizione polifonica. Questo manufatto era di certo
inferiore sul piano estetico rispetto al primo, ma di realizzazione più rapida. Un
ulteriore progresso, importato dalla Francia, fu l’impiego di caratteri mobili in
piombo (è un segmento di piombo che raPgura un frammento di pentagramma con
una nota di un preciso valore in una precisa posizione), come nei libri di parole, che
consentiva la stampa in un’unica impressione di musica e testo: qualità ancora
minore, ma esecuzione ancora più rapida ed economica. Il libro stampato di musica
era corredato da una lettera dedicatoria ?rmata da compositore e stampatore, anche
questo strumento di importanza sociale e nei rapporti musicista/committente.
- Il madrigale nell’età del petrarchismo
Il mercato cui si indirizzavano i prodotti degli stampatori nel 500 era costituito da tre
grandi ?loni: la polifonia vocale sacra (destinata alle istituzioni ecclesiastiche per le

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celebrazioni liturgiche che si dotavano di cappelle e cantori), la polifonia vocale


profana (madrigali, canzonette, villanelle; richieste per lo più da élites nobiliari,
cortigiane e col passare del tempo a più ampi strati alfabetizzati della popolazione) e
la musica strumentale (liutistica e tastieristica per i dilettanti che ammiravano i
grandi virtuosi). La polifonia profana è la parte più cospicua del mercato editoriale, in
particolar modo il madrigale: composizione a 4 o 6 voci (canto, alto, tenore e basso)
su testo profano in lingua italiana (autori come Petrarca, Tasso, Guarini, Ariosto,
Bembo ecc). Ad a\ermare questo tipo di repertorio contribuì un fenomeno socio-
culturale di tipo letterario cui venne associata la musica madrigalistica: il
petrarchismo. Il madrigale ha origini letterarie in quanto nasce dall’impulso, fornito
da Isabella d’Este o dagli ambienti accademici della Firenze Medicea, di intonare
testi in volgare illustre della tradizione italiana antica. La data di nascita uPciale è il
1530, anno di stampa del primo libro di musica su cui sia comparso il termine
madrigale; la sua di\usione è legata al petrarchismo: musicare Petrarca signi?cava
interpretare nuovamente il testo poetico, e associare al testo poetico l’esercizio
musicale. Inizialmente, il petrarchismo era stato semplicemente un’imitazione del
versi?care petrarchesco; solo successivamente se ne erano colte le implicazioni
culturali in grado di coinvolgere anche la musica in un processo di uni?cazione e
omologazione soprattutto linguistica. Il classicismo 500esco, pone Petrarca come
modello da riprodurre e sviluppare e l’intonazione musicale permette di interpretare
e commentare il testo, la lettura musicale del testo aiuterebbe a rendere pro?cuo il
ruolo di fenomeno di comunicazione di massa. Se prima il madrigale era destinato ad
esecutori professionisti e ascoltatori passivi, ora negli ambienti cortigiani e
accademici, ciascuno è protagonista. Nel periodo 1530-1630, il madrigale si sviluppò
stilisticamente ed esteticamente, monopolizzato da musicisti di origine francese o
?amminga e italiana. Monteverdi farà una divisione tra una fase stilistica primitiva,
chiamata “prima prattica”, nella quale la parte musicale era più una veste
ornamentale sonora che un’interpretazione della poesia. [trai cui autori Adrian
Willaert, Francesco Corteccia, Costanzo Festa] E una seconda fase “seconda prattica”
che usa le risorse della composizione polifonica per reinterpretare il testo. [il
“capo?la” fu Cipriano De Rore e altri come Pietro Vinci, Costanzo Porta, Vincenzo
Ru\o].

- Esempi di madrigali
L’esame di un oggetto musicale, come il madrigale, deve partire dal testo dal quale
nasce, ma ciò non signi?ca che nel corso dell’analisi non possa deviare in una diversa
interpretazione rispetto a quella dell’autore letterario. Ecco alcuni casi analizzati di
madrigale seguendo il topos della morte variamente declinato:

1) Il bianco e dolce cigno di J. Arcadelt a 4 voci. È un musicista di oltramontana,


formatosi in Francia ma che fece carriera in Italia 1538 divenne cantore nella
Cappella Sistina e magister puerorum nella Cappella Giulia. Il suo è un madrigale
tipico della prima stagione (prima prattica), un brano che ne 500 ebbe grande
successo e circolazione nel tessuto culturale dell’epoca. Il brano è posto in apertura
del “Primo libro” di Arcadelt; il testo è del letterato e religioso Guidiccioni.
Formalmente è un madrigale libero (libera alternanza di settenari ed endecasillabi),
molto di\uso nel ‘500. Il testo espone il tema della morte per amore (la morte è
metafora del raggiungimento dell’orgasmo) il cigno muore davvero, sconsolato ma
cantando, l’uomo piangente e beato: morte. Il musicista a\ronta il testo con un
elegante abito di note, senza forzare una rilettura psicologica/soggettiva; lo stile

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polifonico mira ad una piacevole e dolce melodia, con un’aggiunta di intrecci


contrappuntistici. La libertà di invenzione del musicista sta nella scelta dei soggetti,
nella disposizione dei timbri e agogiche (movimenti ascendenti della melodia) e nella
sottolineatura di singoli elementi del discorso poetico. [Il musicista ha la facoltà di
riformulare la sequenza dei versi per adattarla ad una fraseologia musicale, in gradi
di modi?care o enfatizzare il senso originario della lirica. ] In questo caso, Arcadelt
riformula il terzetto iniziale segmentandolo con di\erenti assetti timbrici e cesure
cadenzali. Tre versi sono ridotti a due; il primo è intonato a tre voci acute, il secondo
arricchito dall’aggiunta del basso e dalla ripetizione. I due soggetti, cigno e uomo,
musicalmente distinti e posti a confronto, il cigno sconsolato riceve una musicazione
scarna e statica, laddove la beatitudine dell’uomo è resa con un assetto a 4 voci e un
lungo canoro melisma (= gruppo di note di passaggio). [pag. 99 a 100 più
approfondito]
2) Cipriano De Rore, Ancor che col partire, 4 voci. De Rore, fu il più apprezzato
Madrigalista della sua generazione e Monteverdi lo ritenne l’inventore della “seconda
prattica”. Anch’egli di origine ?amminga, arriva in Italia nel 1533 e pubblica i propri
libri di madrigali nel 1542. Fu musico alla corte di Ferrara e dei dichi di Parma, i
Farnese oltre che avere la direzione del coro della Basilica di San Marco, Venezia.
Inizialmente pubblicato nel libro di un altro madrigalista, poi in?nite ristampe,
trascrizioni, imitazioni. Il testo è un madrigale libero, attribuito al marchese Alfonso
d’Avalos: il tema tratta l’amore, non in maniera erotica, ma assimilando la partenza al
dolore e il ritorno al piacere. Per rendere tali sentimenti usa i medesimi soggetti
(temi musicali) e i contrasti vengono aPdati al timbro. Per la partenza, primi 4 versi,
usa intonazione separata di voci acute e gravi, intonano in maniera sfalsata i versi
così da evocare la lontananza della partenza; riunisce poi le voci nel piacere del
ritorno.

3) Amor, fortuna e la mia mente schiva di Adrian Willaert, a quattro voci. Tratto
dalla raccolta Musica nova questo madrigale è una delle più prestigiose composizioni
musicali del ‘500. È composto da due parti, obbligate dalla segmentazione
morfologica e di senso del testo – due quartine e due terzine – la prima parte è la
fronte e la seconda la sirma. Nella prima parte, si ha un discorso musicale che,
dall’ambito tonale di partenza, va verso l’ambito della Dominante; nella seconda
parte, il percorso è inverso. Il sonetto petrarchesco qui messo in musica appartiene
alle rime in vita di Laura (prima parte del Canzoniere) e sviluppa il tema della
malinconia per la sua assenza/lontananza; dunque, la sostanza del sonetto è l’amore e
il dolore. L’intonazione di Willaert è sintetica: alla classicità del sonetto corrisponde la
classicità stilistica musicale – data la nobiltà dei concetti e l’austerità della forma del
sonetto, la musica è di grande sobrietà ed eleganza, si ricerca un progetto coeso,
uniforme, colto per cui sono evitati i melismi. Il madrigale in questione è, da un lato,
un esempio della “prima prattica” = stile compositivo mirante a rivestire un testo
poetico con una musica in sé armonicamente perfetta e non condizionata dal testo;
dall’altro, Willaert si esibisce in una raPnata forma di petrarchismo, dove il suono, il
numero e la variazione del testo poetico sono emulati nella disposizione del materiale
sonoro.
4) Mia benigna fortuna e ‘l viver lieto di Cipriano De Rore, a quattro voci. . Qui
di Petrarca si sceglie una sestina di soli endecasillabi. Rore, però, opta per le sole due
prime stanze e ne fa un madrigale diviso in due parti. L’intonazione di Rore è
altamente espressiva e in sintonia con la crudezza emotiva del tema trattato:
l’amarezza e il dolore per la morte di Laura. Rore organizza il percorso sonoro
muovendo, nella prima parte, dall’armonia di Tonica (in questo caso Re) verso il

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quarto grado (Sol), mentre, nella seconda, compie il percorso inverso con ?nale con
terza maggiore (FA#). Ciò che interessa al musicista è la densità emotiva della
seconda stanza, ricca di ripetizioni versali e di sottolineature espressive del testo: alla
gravitas petrarchesca corrisponde la gravitas dello stile musicale, ma in Rore si ha
una marcatura espressiva estremamente intensa del testo, grazie a espedienti
musicali come melodiche, timbriche, intervallari e armoniche.
5) Tirsi morir volea di Luca Marenzio, a cinque voci, da Il primo libro de
madrigali a cinque voci. Questo libro, dello stesso Marenzio, apre un decennio ricco
di prestigiose pubblicazioni e di esportazione del madrigale italiano all’estero; da
questo momento in poi al madrigalista vengono commissionati nuovi o recenti testi, a
volte composti proprio per essere musicati. Il Tirsi morir volea, evidenzia il binomio
amore carnale/morte, evidenziato tanto in poesia quanto in musica. Poeta di corte a
Ferrara, Guarini è l’autore del testo: incontro amoroso tra il pastore Tirsi e la sua
ninfa (sembra un anticipo del Pastor ?do). (Il testo è una madrigalessa: lungo
madrigale polimetro) Il fatto che l’ambiente sia pastorale permette di far trasparire
una fremente passione (i cortigiani si rispecchiavano ma senza “peccare” data la
trasposizione dei soggetti, non erano loro ad essere rappresentati, ma si rivedevano
in pastore e ninfa) – la parte più esplicita della narrazione è il discorso diretto, la
ninfa chiede all’amante di non morire prima che ella abbia raggiunto l’acme del
piacere sessuale. Marenzio, spezza il testo in tre parti ma il testo di Guarini è in due),
dando così una sua lettura drammatica dell’incontro. A) la prima parte introduce il
desiderio di Tirsi e la richiesta della ninfa. B) la seconda, quella eroticamente più
densa, l’intonazione musicale conferisce all’amplesso un realismo che da solo il testo
non avrebbe trasmesso; la musica è un gioco di “languori canori” dati con le lunghe
note dell’incipit, di mezze frasi sospirate e contrasti timbrici fra registri gravi e acuti
e improvvisi abbandoni timbrici; C) la terza commenta il caso dei fortunati amanti e
della loro ?ttizia morte con uno stile madrigalistico più convenzionale.

6) Giunto a La tomba di Jacques de Wert, 1581, a 5 voci. De Wert, originario delle


Fiandre, fu in Italia sin da giovanissimo. Fu al servizio dei Gonzaga ed ebbe strette
relazioni con Ferrara, grazie alle quali entrò in contatto con Tasso. Quest’ultimo,
insieme con Guarini, dominò la scena letteraria di ?ne ‘500. Le due ottave in
questione sono un esempio delle scelte tassesche di Wert. Le due ottave narrano la
visita di Tancredi alla tomba di Clorinda, che inconsapevolmente sotto le spoglie di un
suo avversario, uccise. Le due ottave, pur essendo inscindibili, vengono distinti in due
consecutivi madrigali da Wert. Lo stile musicale è prevalentemente declamatorio e
accordale: le voci intonano il testo in omofonica simultaneità. il compositore cerca di
dare intensità timbrica e fonica per tradurre la declamazione parlata, in una musicale
ma più espressiva cosicché la solennità dell’incedere dell’endecasillabo fossero
valorizzate e preservate. Ciò non signi?ca che questo è il modo di rappresentare
integralmente il testo, ci sono dei momenti in cui si ricorre al melisma canoro
realisticamente descrittivo, in parole musicabili come “sgorgando/rivo/pianto”. Wert
ha presente le peculiarità esecutive dei cantori della corte estense e in particolare
delle dame (costituenti il “concerto” della duchessa Margherita Gonzaga) che
condizionarono la composizione madrigalistica degli anni Ottanta, determinando
scelte di virtuosismo canoro soprattutto dei registri acuti. Qui inizierà il passaggio dal
dilettantismo ad agguerriti professionisti.
7) Sì ch’io vorrei morire di Claudio Monteverdi, a 5 voci. Monteverdi rappresenta
l’apice artistico della cultura madrigalistica della prima età moderna e l’autore che
rappresenta il passaggio dall’età della polifonia a quella della monodia accompagnata
dal basso continuo, l’opera in musica. Madrigalista e violinista, fu attivo alla corte dei

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Gonzaga dal 1599 al 1612; poi a Venezia dove si dedicò alla musica sacra in qualità di
maestro di cappella di San Marco; qui compone dei capolavori (Concerto. Settimo
libro di madrigali e Madrigali guerrieri et amorosi. Libro ottavo), in cui la tradizione
del madrigale polifonico, si fonde con le novità stilistiche della monodia
accompagnata e dell’interazione tra voci e strumenti. Si ch’io vorrei morire era
destinato originariamente ad Alfonso II d’este, ma venne pubblicato nel Quarto libro,
1603; il testo, madrigale libero, si deve e Maurizio Moro. L’erotismo ha una ?sicità
palpabile grazie all’uso del lessico molto chiaro (bacio, bocca, lingua, seno), più
metaforico e meno esplicito rimane il “morire” che rappresenta l’acme sognato. La
musica contiene invenzioni timbriche, ritmiche e di assetto polivoco seguenti un
percorso di sali-scendi delle voci da registri acuti ai gravi e viceversa; le voci “si
inseguono” su “ahi, cara e dolce lingua” con dissonanze pungenti, proprio come
l’amante sollecita l’amata perché gli inoigga le desiderate so\erenze. Il massimo
esempio di audacia e libertà è dato con la terza ripetizione del v. 8 in cui compare il
basso continuo sotto le due voci acute. Il v. 9 ripete poi l’incipit con enfatica risalita di
tutte le voci, il che conferisce al brano una compiutezza e una circolarità inedite per
il genere. La polifonia tocca in questo madrigale i limiti estremi delle proprie
potenzialità strutturali ed espressive, più che un esercizio di composizione polifonica
sembrano duetti, terzetti, incontri di voci soliste, capaci di esprimere forti emozioni.
8) Moro, lasso, al mio duolo di Carlo Gesualdo, a 5 voci. Gesualdo fu un nobile
dilettante di musica che fece comunque pubblicare i propri lavori pur nascondendosi
dietro l’anonimato imposto dalla condizione di aristocratico; la qualità della sua
musica deriva da pratica e studio esercitate con musici professionisti (Scipione Stella,
Pomponio Nella, Luzzasco Luzzaschi), e grazie alla possibilità che aveva, data la sua
posizione di nobile di alto rango, di s?dare regole e convenzioni a favore del proprio
gusto e sensibilità: appare sperimentale e audace soprattutto nella ricerca armonica.
Il testo, anonimo, è un breve madrigale libero (5 soli versi), sull’amore che può dare
tanto vita quanto morte. Come disse Alessandro Guarini, è un madrigale brevilineo,
aforistico e concettoso che pare trovato per la musica. È la brevità che favorisce
l’invenzione musicale (armonica, timbrica, varia disposizione della vocalità e la
riformulazione dell’assetto sintattico del testo). La vita in contrasto alla morte
comporta un contrasto timbrico e agogico: da registri gravi ad acuti, dagli accordi
con note lunghe alle semicrome. La conclusione del brano appare sintetica e
sbrigativa, se confrontata con la parte iniziale: ciò evidenzia che Gesualdo era
attratto dai contrasti psicologici che potevano generare i primi versi (“io
moro” /”vita”; “chi m’ancide”/”aita”). Dunque si può dire che alla prorompente
individualità di Gesualdo con i suoi colori accesi, si contrappone l’assetto polifonico
composto di Rore e Monteverdi.

- Musica, spettacolo ed eventi dinastici: gli intermedi Jorentini. Il


Combattimento di Tancredi e Clorinda.
A cominciare da alcune rappresentazioni teatrali allestite a Bologna (1475) per le
nozze di Pepli – Rangoni, spettacoli con inserti musicali furono spesso usati per
solennizzare eventi di rilevante signi?cato dinastico. La musica si interpone tra gli
atti della rappresentazione teatrale, sono gli “intermedi” “apparenti” (con scena
d’azione) o non (solo esecuzione musicale). A questi inserti si comincia a dare sempre
più importanza come veicolo sontuoso di encomi, auspici, messaggi politici connessi
all’evento dinastico. Così come la danza, scenogra?a e la macchinistica, la musica
divenne la parte centrale di questi eventi. Tutto ciò fu realizzato in grande
soprattutto alla corte ducale dei Medici di Firenze per consolidare e simboleggiare
con questi spettacoli, il prestigio della loro casa assurta da poco a rango signorile (di

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provenienza mercantile): nel 1539 si celebrarono le nozze fra Cosimo I de’ Medici ed
Eleonora di Toledo: per l’occasione furono allestiti spettacoli teatrali con fastosi
intermedi allegorici e celebrativi; di questi eventi furono inoltre stampate, per la
prima volta, le musiche (composte appositamente). Tanto importante divenne la
musica e in generale lo spettacolo intermedio, da ridurre quasi a ruolo di cornice la
stessa rappresentazione teatrale. La musica degli intermedi rientra nella produzione
madrigalistica. Veri madrigali furono quelli di Verdelot composti per le commedie di
Machiavelli. Nel 1489, tra gli intermedi de La pellegrina (commedia commissionata
da Ferdinando I de' Medici a Girolamo Bargagli), il pezzo più impressionante fu il
madrigale “O fortunato giorno”, parole di Rinuccini e musica di Malvezzi: brano per
30 voci raddoppiate, divise in 7 cori e accompagnato da un assieme strumentale. Di
poco inferiore il contributo di Luca Marenzio sul testo “O ?glie di Piero”, sempre di
Rinuccini, a 18 voci accompagnate da arpa, lire, bassi di viola, liuti, un trombone, un
cornetto e un violino. Accanto a questo esempio di polifonia vocale e strumentale,
furono presentate anche composizioni monodiche con l’accompagnamento del basso
continuo, quest’ultima tipologia già saggiata da Monteverdi, che dopo un ventennio
dedicato alla composizione madrigalistica, sperimentò l’opera, il balletto e altri
generi. Un posto particolare occupa il “Combattimento fra Tancredi e Clorinda”, in
cui l’autore esplora la contrapposizione e il rispecchiamento fra amore e guerra. Qui
abbiamo il noto episodio tratto dalla Gerusalemme liberata di Tasso in cui Tancredi,
campione dell’esercito cristiano, uccide l’amata Clorinda (campione di quello
musulmano) in quanto incapace di riconoscerla in abiti soldateschi. Monteverdi mira
qui, ad uno stile concitato dividendo la semibreve in 16 semicrome – pone in musica
le ottave del Tasso descriventi il combattimento. Appare ancora oggi un lavoro di
incerta appartenenza di genere ma senza dubbio espressivo; egli selezionò le ottave
in cui viene narrato lo scontro tra i due prendendole da due diverse versioni, al ?ne di
trovare una materia verbale ePcace per esplicare queste due passioni contrarie:
guerra/preghiera e morte. Un passaggio del testo cui Monteverdi tiene molto, è
quello in cui si evidenzia lo scontrarsi dei guerrieri nella notte all’insaputa di tutti; in
questo caso concede all’esecutore di fare abbellimenti canori improvvisati.
Recuperando da 2 diverse versioni, risulta una terza versione mista e molto
personale; Monteverdi fa un’operazione consapevole di riscrittura perfettamente
rientrante nei canoni del petrarchismo. Partecipano: un soprano, due tenori e 4
strumenti ad arco; Agli esecutori di Tancredi e Clorinda, viene richiesta una
rappresentazione mimica, durante la narrazione, con occasionali interventi di canto
in caso di discorso diretto. Il narratore deve avere una pronuncia chiara e
ritmicamente precisa. Gli strumenti invece, devono descrivere musicalmente gli
eventi (imitare alcuni e\etti sonori descritti nel testo, come il galoppo di un cavallo o
il clangore delle armature durante lo scontro) a livello timbrico, ritmico e anche
rumoristico come il pizzicato. Lo stile concitato, dato dalla scansione del testo, del
ritmo con semicrome contrasta con lo stile molle della parte conclusiva del
Combattimento. L’invocazione di perdono e di battesimo di Clorinda (canto lirico in
cui alcune pause simboleggiano l’a\anno della moribonda), è sostenuta da archi che
compiono una “lunga arcata sola” per rendere il languore del momento. E nelle
semplicità si chiude con le parole di Clorinda. Quest’opera, pur inouenzando in modo
signi?cativo i musicisti dell’epoca, resta tuttavia unica nel suo genere: nonostante
questo, essa ha aperto la strada a una musica più espressiva e, soprattutto, ha
dimostrato che la musica è capace di descrivere la varietà dei sentimenti dell’animo
umano.
CAPITOLO 3 – VERSI, MACCHINE E CANTO: IL TEATRO IN MUSICA DEL
SEICENTO

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- Un secolo interconnesso
Per lungo tempo la storiogra?a musicale, basandosi su una concezione estetica
idealista, considerò il Seicento e l’opera barocca come un genere inferiore, in quanto
fortemente convenzionale e di consumo. Solo a partire dal ‘900, soprattutto dal
secondo dopoguerra, si iniziò a rivalutare il periodo, correggendo tale impostazione e
cercando di capire i ruoli sociali e istituzionali, le modalità produttive, norme
compositive e idee estetiche. Si è giunti così a due fasi di sviluppo del teatro in
musica, che rispecchiano due diverse modalità produttive: - una fase aulica e
mecenatesca (1600-1637) caratterizzata da una forte sperimentazione formale e
contiguità tra progetto festivo e spettacolo musicale (opera di corte); - fase
“veneziana” e poi panitaliana (1637 in poi), che corrisponde all’apertura dei teatri
pubblici a pagamento, merci?cazione dello spettacolo aulico e codi?cazione del
genere (nasce l’opera imprenditoriale). L’opera intesa come azione drammatica
interamente musicata nasce a Firenze (1600); l’opera intesa come “genere” nasce a
Venezia (1637). L’opera è, però, ?n da subito un qualcosa di cangiante. Studi recenti
hanno comprovato gli scambi di inouenze tra il polo della corte ed il polo
imprenditoriale, ma recenti studi dimostrano la notevole inouenza delle Accademie, o
ancora di tecniche e moduli drammatici provenienti dal coevo teatro di parole:
Commedia dell’Arte e della commedia aurea spagnola, la storia dell’opera secentesca
si è rivelata dunque estremamente vitale. L’opera grazie all’originale connubio di più
arti, si a\ermerà in pochi decenni in Italia e Europa e muterà poi nel 1690.
- In principio fu il recitativo
Inizio XVII sec. compare in Italia un nuovo genere drammatico che sorprende, a
quell’epoca, per i suoi tratti costitutivi originali: eloquio interamente cantato e la
commistione di più arti. L’opera, seppur pare apparire improvvisa sulla scena
musicale, nasce da una serie di eventi tra cui due principali: - l’a\ermazione, sul
?nire del Cinquecento, della monodia accompagnata e del canto espressivo, messi a
punto in circoli umanistici che lodavano il canto solistico dell’antica Grecia
(commedia e tragedia classiche si immaginavano cantate da cima a fondo) e la sua
purezza; - il teatro cinquecentesco, che faceva largo uso della musica in scena,
rendendo così fertile il terreno per la nascita dell’opera. Per quanto riguarda la
tragedia e commedia greca, i brani cantati erano inseriti in questi casi: -personaggi
rappresentati in atto di cantare, suonare o ballare (canto realistico); - inizio o ?ne
dramma (prologhi e commiati); - come commento all’azione dei personaggi (cori).
Musiche/danze/pantomime erano presenti anche negli intermedi erano usati anche
come marcatori di intervalli, di spazio o di tempo tra gli atti di tragedie e commedie -
infatti, allora non c’era il sipario, per cui il palco era sempre a vista. Un altro genere
che attirava l’attenzione era la tragicommedia pastorale ferrarese, che mescolava
toni tragici e comici, non aveva ?ni moraleggianti e svolgeva tematiche fantastiche e
bucoliche: paesaggi idillici dell’Arcadia, amori contrastati di pastori e ninfe, intrecci
magico-favolosi che conquistavano il pubblico cortigiano in cerca di un genere
raPnato di evasione. Tra i testi più noti, l’Aminta di Tasso e Il pastor 8do di Guarini.
A quest’ultimo si deve anche il trattato Compendio della poesia tragicomica, che,
insieme con il trattato di Angelo Ingegneri Della poesia rappresentativa e del modo di
rappresentare le favole sceniche, illuminano su questo genere di spettacolo.
Entrambi sostengono che le canoniche forme di commedia e tragedia sono entrate in
crisi: la commedia per l’invadenza degli intermedi e lo strapotere dei comici
mercenari, la tragedia perché eccessivamente costosa e triste; la pastorale invece
presentava molti vantaggi: possibilità di usare scenogra?e più economiche e di
sfruttare azioni che presentano un mi di elementi comici e tragici; si ritiene che il

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compito del teatro non debba più essere il messaggio morale bensì dilettare il
pubblico. Un altro importante tassello per la nascita dell’opera proviene dagli attori
professionisti, compagnie che oltre alle commedie all’improvviso realizzavano diversi
generi spettacolari, diversi?cando le tecniche in base alle esigenze del mercato;
questi comici erano richiesti nelle corti, in particolare Firenze e Mantova, dove
addirittura erano posti sotto la tutela dei principi, stipendiati come vere compagnie
ducali. Vincenzo Galilei, prende a modello l’arte dei comici per una nuova musica che
possa esprimere gli a\etti dell’uomo; si guardava al teatro parlato coevo come
serbatoio di soggetti moduli drammaturgici e pratiche sceniche, due saranno dunque
gli elementi fondamentali per la nascita de genere operistico: la forte attorialità
(ruolo centrale dell’interprete nell’economia dello spettacolo) e l’ampio uso dei
monologhi, non solo narrativi, ma anche quelli legati alle scene topiche del lamento,
che alternavano repentini cambi di emozione (invocazioni, rabbia, pentimento, ricordi
dolorosi…). Gli elementi base per la creazione dell’opera, che nascerà alla corte
medicea di Firenze, sono: il canto solistico, con la sua vocazione rappresentativa;
l’uso della musica in scena, in luoghi deputati al canto; il gusto per le scenogra?e
sontuose; l’uso frequente di soggetti irreali che rendano meno inverosimile il canto in
scena (mitologici/pastorali). Due ?gure importanti in questo processo furono: Emilio
de’ Cavalieri (nel 1588 viene nominato sovrintendente delle attività artistiche della
corte ferrarese, l’aristocratico romando che introducendo la tragicommedia
pastorale) che contribuisce a creare un contesto favorevole alle rappresentazioni
drammatiche interamente in musica; e Jacopo Corsi (altro favorito del granduca,
protettore delle arti, musicista dilettante) che in occasione delle nozze di Maria de
Medici con il re di Francia Enrico IV concorre alla produzione della prima vera opera
in musica “L’Euridice” di Rinuccini e Peri, più antica composizione di questo genere
di cui abbiamo testo e musiche. Il successo di questa prima rappresentazione
produsse un istantaneo fenomeno di emulazione, in primis a Roma, a Pisa, a Bologna
e a Mantova (qui, nel 1607, venne rappresentata L’Orfeo di Striggio jr. e Monteverdi),
dove tali spettacoli, destinati ad un pubblico scelto di invitati, sono allestiti solo in
occasione di eventi signi?cativi per le dinastie regnanti; proprio il carattere episodico
di queste prime rappresentazioni non permette ancora di parlare di genere: si tratta,
infatti, di spettacoli unici, costretti a coesistere simultaneamente con altri tipi di
intrattenimento e senza una completa autonomia estetica. Grazie alla pubblicazione
dei pur pochi libretti e delle partiture, cominciano a ?ssarsi delle tacite convenzioni,
prima di tutto il fatto che tutti i personaggi parlino in musica. Le prime
rappresentazioni hanno, infatti, varie caratteristiche comuni: - trame incentrate su
argomenti pastorali/mitologici (personaggi sovraumani dediti al canto o alla
poesia sono scelti in quanto ritenuti idonei per rendere più verosimile la presenza di
canto e musica continuata in scena); - azioni lineari prive di digressioni, come
prevedono le regole aristoteliche, l’azione si svolge in 12 o 24h, a tale scopo nei
dialoghi si precisano i momenti della giornata.; - prologo cantato da un
personaggio allegorico/ mitologico che omaggia il committente, dichiara gli
intenti dell’autore, introduce la vicenda che si sta per rappresentare; - i monologhi,
prevalgono sui dialoghi, servono per mandare avanti l’azione evitando di
“interrompere” l’unità di luogo, e per risaltare qualità attoriali e vocali
dell’interprete; - canto realistico (personaggi nell’attori di cantare, suonare o
ballare); - lieto Jne (dato che erano opere messe in scena per occasioni festive); -
uso di macchine spettacolari e cambi di scena (in base al budget e allo spazio
scenico disponibile). Il nuovo genere, dunque, è debitore, in parte, della pastorale
(per i soggetti di ambientazione bucolica o il lieto ?ne) e della tragedia (per i cori di
commento a ?ne atto, per il rispetto delle unità aristoteliche, per i repentini

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mutamenti di fortuna), anche se vengono evitate, della prima, le trame


particolarmente complesse, e, della seconda, l’unità di luogo; preferiscono inserire in
una cornice boschereccia, le divinità e i miti. Ma spostiamoci adesso alla
problematica del testo in relazione alla musica. Il tipo di testo più adatto è quello in
versi, in particolare endecasillabi e settenari sciolti (per le parti di comunicazione
ordinaria – dialoghi, monologhi) e i versi misurati, organizzati in strofe libere e con
un sistema 8sso di rime (per le parti del canto in sé). Questa distinzione la si
rispecchia anche nel canto – duplice stile di emissione e di assetto sonoro: - stile
recitativo -> (versi sciolti), è formato dalla melodia vocale e dall’accompagnamento
del basso continuo; come dice Peri nella prefazione dell’Euridice, la sua funzione è
“imitar col canto chi parla”, dunque il compositore deve tentare di riprodurre le
inoessioni della lingua parlata, il modo di recitare degli attori. I suoi caratteri: forte
sillabismo - al ?ne della comprensione del testo, ad ogni sillaba corrisponde una nota;
- punteggiatura del testo è resa con pause e cadenze; - uso limitato ed espressivo
delle colorature. Il recitativo non è uno stile di canto uniforme, bensì cambia a
seconda che debba imitare il parlare ordinario (melodia entro un ambito vocale
limitato) o esprimere uno stato d’animo alterato da un’intensa emozione (in tal caso,
la curva melodica perde la sua linearità e presenta salti melodici e improvvisi cambi
di ritmo). - stile cantabile -> (versi misurati), tipo di canto organizzato mediante
pezzi chiusi (detti arie o canzoni); - è modellato direttamente sui valori della
musica e contrassegnato da un deJnito proJlo melodico; - ha una scansione
ritmica regolare che sfrutta la periodicità del verso e della rima; - abbellimenti e
colorature; - basso continuo più mosso e incalzante; - la musica qui detta le
regole al testo: l’aria prende la mossa iniziale dal tono complessivo (lieto/triste) e
dalla struttura metrica del verso, per poi essere autonoma nella forma, nella struttura
ritmico- melodica. Nonostante delle linee caratteristiche generale, il lavoro nella
poetica e nelle strategie compositive, poi è diverso a seconda dell’autore; analizziamo
due delle più signi?cative opere d’inizio 600, (l’analisi consente di mettere a
confronto i diversi risultati che un compositore poteva ottenere partendo da un
medesimo soggetto):
L’Euridice di Rinuccini-Peri -> Rappresentata per la prima volta il 6 Ottobre 1600 a
Firenze, a Palazzo Pitti, per il matrimonio di Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia.
Le fonti dalle quali è tratto il soggetto (Ovidio, Metamorfosi; Virgilio, Georgiche IV,
Poliziano, Fabula di Orfeo) sono rimaneggiate, a partire dal lieto ?ne necessario per
un contesto festivo. Il prologo annuncia l’intento innovativo dell’opera di
abbandonare i toni foschi e tragici, al ?ne di narrare «più dolci a\etti». Dopo il
prologo, la linea narrativa è semplice e l’azione è divisa in 5 episodi: I) esultanza
iniziale per le nozze di Orfeo ed Euridice; II) annuncio tragico della morte di Euridice;
III) racconto della disperazione di Orfeo e sua decisione di scendere nell’oltretomba;
IV) missione di Orfeo nell’Ade, andata a buon ?ne grazie al suo magico canto; V)
celebrazione del ritorno dei due sposi, accolti gioiosamente da pastori e ninfe, che
inneggiano al potere dell’amore, capace di vincere anche la morte. I cinque pannelli
contengono le vicende della trama e le forme musicali; è lo stile recitativo (recitar
cantando, Peri) a tenere la struttura ma non genera monotonia grazie a: - la
oessibilità (acquista toni non ordinari, ma appassionati per cui il pro?lo ritmo-
melodico diventa il diagramma non delle parole ma degli a\etti); - numerosi pezzi
chiusi (7 cori, 2 arie, un madrigale, un rondò, oltre al prologo). L’assetto drammatico-
musicale risente dell’inouenza del teatro di parola come dimostra la centralità di
monologhi narrativi; le arie e i cori invece hanno ruolo di divertimento ricreativo o di
articolazione della forma. Dato il contesto politico- sociale in cui è nata, alcuni
studiosi hanno ipotizzato un sottotesto politico: in tal caso, l’opera andrebbe letta in

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chiave allegorica antispagnola e antipapale, come celebrazione di Corsi/Orfeo che, da


abile cortigiano, usa parola e canto per convincere il tiranno clemente
(Ferdinando/Plutone) a liberare la città di Firenze/Euridice dal giogo cattolico e
spagnolo, donandole nuova vita.
-L’Orfeo, Fu realizzata da Monteverdi e Striggio tenendo sicuramente presente il
modello dell’Euridice di Corsi. Composta in occasione di una seduta dell’Accademia
degli Invaghiti, fu rappresentata a Mantova, nel Palazzo Ducale, nel 1607. I due
autori si distanziano dalla favola pastorale, mantenendo un forte tono tragico. Nel
prologo, allegorico, intonato dalla Musica, è contenuto il nucleo concettuale del
dramma: la musica ha il potere di muovere l’animo umano facendo leva sul contrasto
di a\etti, ma ha anche un e\etto catartico, perché, entrando in sintonia con l’armonia
celeste, può puri?care l’animo promuovendone così la salvezza eterna. Lo stesso
prologo è accompagnato da un ritornello a 5 parti aPdato agli archi e che ritorna nei
momenti chiave del dramma. A di\erenza dell’Euridice: il taglio più che lirico è
drammatico, prevalgono le situazioni agite rispetto a quelle raccontate (il monologo
narrativo è solo quello della messaggera Silvia); Maggior spazio alla musica, si fa
uso più ampio di pezzi chiusi inseriti secondo il principio di verosimiglianza: canto
realistico o e\usioni gioiose/preghiere/invocazioni e anche brani strumentali come
la toccata inziale (per attirare l’attenzione degli spettatori), le sinfonie tra gli atti,
interludi strumentali tra i brani solistici e corali; il motivo di tali inserti, più che
ornamentale è scenico (per accompagnare entrate/uscite di personaggi) oppure
drammatico (evidenziare qualità dei protagonisti). A servizio della situazione
drammatica sono anche timbri strumentali e voci, con potenzialità evocative e
simboliche (i cori infernali sono madrigali a 5 voci accompagnati da ensembles di
strumenti dal timbro scuro come organo di legno, tromboni, bassi, contrabasso di
viola). L’architettura drammatico-musicale è divisa in 5 episodi: I) feste in onore
delle nozze di Orfeo e Euridice; II) morte di Euridice e compianto; III) incontro di
Orfeo con caronte e ingresso negli Inferi; IV) liberazione di Euridice, ma nuova
perdita della stessa per l’infrazione commessa da Orfeo; V) lamento di Orfeo e sua
ascesa al cielo con Apollo. Tuttavia, l’azione è divisa in due sequenze principali,
grazie anche a dei contrassegni sonori: Fase campestre (atto 1-2) e Fase infernale
(atto 3-4), in entrambe le fasi c’è uno schema che passa da una situazione stabile e
felice ad un evento catastro?co; solo nel 5 atto accadrà il contrario, portando al lieto
?ne con l’intervento di Apollo, padre di Orfeo. La distribuzione dei brani all’interno
dell’opera e anche degli atti, è simmetrica: - l’aria cantata da Orfeo “Possente spirto”
è al centro sia del 3 atto che dell’intera opera; - nel I atto i brani sono distribuiti
concentricamente attorno al madrigale monodico “Rosa del ciel” per evidenziare la
presentazione di Orfeo. Questa struttura evidenzia tanto l’importanza del brano
quanto lo stato di grazia dei due sposi. L’Orfeo è una sorta di viaggio all’interno della
psiche umana oltre ad essere un percorso di puri?cazione: infatti, passando
attraverso molteplici stadi e sperimentando la fallacia e la fragilità dei beni terreni, il
mitico cantore impara a distaccarsi dalle passioni umane per raggiungere l’armonia
celeste. E a raccontare tutto questo è la Musica, che è l’unica arte in grado di
rappresentare le passioni e di commuovere l’animo sia dei personaggi, sia degli
spettatori.

- Santi, diavoli e comini nella Roma barberiniana


Se a Roma, inizialmente, la produzione rimane di impronta mitologico-pastorale, dal
1623, con il papa ?orentino Urbano VIII e la sua politica nepotistica, si assiste a un
radicale cambiamento. Vengono portati a Roma i migliori musicisti (Landi, Mazzocchi,
Marazzoli, Rossi…), scenogra? (Bernini, Guitti) e le rappresentazioni assumono

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carattere regolare (ogni Carnevale), mentre si tende a utilizzare sempre i medesimi


cantanti, provenienti per lo più da contesti sacri. Altre novità riguardano la struttura
delle produzioni: il nuovo teatro barberiniano preferisce la storia dei santi e la
letteratura epica moderna (poemi di Tasso e Ariosto) con qualche incursione nella
commedia. Accanto ai personaggi seri vengono aPancati personaggi comici e di
basso rango, che aumentano le dimensioni dell’opera e lo spessore dell’intreccio (ora
con più linee d’azione). Si comincia a dare molta più importanza all’elemento visivo e
scenogra?co e il recitativo diviene più ouido e di rapida enunciazione. Per
comprendere queste novità radicali, occorre iniziare dall’originale contesto culturale
che caratterizza la Roma primo-secentesca. All’epoca, qui era forte l’inouenza dei
teatri delle accademie, luogo in cui si mescolavano saperi di artisti, uomini di cultura
e drammaturghi di diversa provenienza e grazie l mercato editoriale si di\ondono
opere di comici professionisti e spagnoli. In questo periodo l’area dello spettacolo
sacro non è frequentata solo da personaggi religiosi ma anche da comici dell’arte
(Andreini) e autori dilettanti (Cicognini) che vedono nei soggetti sacri la possibilità di
aggirare la censura e nobilitare l’arte del teatro. Jacopo Cicognini (drammaturgo,
attore, corago) in particolare, si fece portatore delle innovazioni del teatro sacro
?orentino: con i suoi drammi sacri, usava il tema biblico solo come pretesto per
creare intricate trame, in cui si potevano riconoscere espedienti tipici della
commedia (ad es., nel suo Martirio di Sant’Agata, all’azione principale “seria”,
imperniata sul martirio della Santa, si intrecciano episodi sia comici che sentimentali,
con personaggi tipici della Commedia dell’Arte, tra cui ruPani, meretrici e parassiti).
Cicognini portò in Italia anche l’inouenza di Lope de Vega, il quale sosteneva un
teatro che desse più importanza al testo spettacolare che a quello letterario, che
ibridasse i generi e che fosse più vicino ai gusti del pubblico. Un’altra importante
inouenza è quella della commedia ridicolosa, genere comico amatoriale che si
sviluppa a Roma e nello Stato Ponti?cio (primi del 600) e che mescola il teatro
regolare con elementi della Commedia dell’Arte (tuttavia, il testo scritto consentiva
alle autorità ecclesiastiche di controllarne preventivamente il contenuto). Composta
da autori-attori dilettanti e dediti ad altre professioni, la “ridicolosa” è un sottogenere
della commedia, praticata per puro svago degli autori-attori stessi e degli accademici
ai quali è presentata con successo. Possiamo dirla una forma di teatro di maschere
permessa dalla politica culturale della Chiesa, ostile ai comici mercenari, ma
favorevole a uno spettacolo di Zanni non a ?ne di lucro e circoscritta al periodo del
carnevale. Altre relazioni con l’opera romana sono col teatro sacro di seminari e
collegi gesuitici. Rospigliosi si forma al Seminario Romano dove insegnava Galluzzi.
Quest’ultimo opera una rilettura della Poetica di Aristotele di\erenziandosi da esso
nel punto dello spettacolo, se per Aristotele era un elemento quasi superouo per
Galluzzi era uno strumento di persuasione religiosa e politica – tali ?nalità aveva in
Spagna la comedia de santos, mix di tragico/ comico, sacro/profano con scopo
didattico. I testi delle opere in musica di Rospigliosi provengono proprio da questo
contesto: Sant’Alessio, San Bonifazio e Teodora. Crea con esse, un nuovo modo di
concepire un’opera agiogra?ca. L’esame di queste tre opere mostra caratteri comuni,
al di là del fatto che si usano fabulae di diverso tipo, per cui si va dalla linearità e
aderenza al testo agiogra?co del Sant’Alessio alla complicazione del tessuto
drammatico e alcune invenzioni del San Bonifazio. Vediamo le caratteristiche comuni
(oltre al fatto che sono suddivise in 3 atti e preceduti da un prologo), situazioni-tipo
legate alla materia agiogra?ca, come fossero tappe ?sse della vita del santo: - Fase
espositiva (atto I): presentazione personaggi, il santo/a rinuncia ai piaceri terreni;
sequenza enunciativa dell’antagonista (sia soprannaturale che un corrispettivo
terreno) - demonio e le sue ?gure allegoriche con elementi visivi spettacolari;

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- Fase centrale (atto II): sviluppo azione, tentazione alla costanza del santo da parte
del Demonio e soccorso dell’Angelo che predice la morte gloriosa (il tutto con
elementi e macchine scenogra?che); -
Scioglimento (atto III): il nunzio annuncia la morte del santo e ne spiega le
modalità; scena dell’apoteosi con macchina celeste e coro di giubilo.
I pezzi chiusi dei personaggi (santo, demonio, angelo) sono convenzionale tanto da
renderli simili a maschere devozionali (espediente per cristianizzare il carnevale
nell’ottica della Chiesa). I soliloqui dei personaggi sospendono l’azione per risaltare
lo spazio espressivo oltre che le abilità canore e performative degli interpreti. Dal
punto di vista formale possono essere o in recitativo o con refrains incorniciati o con
aria iniziale più recitativo e viceversa. Queste unità ?sse danno omogeneità alla
struttura, ma a seconda della loro combinazione conferiscono di\erenze/contrasti tra
le opere. Tuttavia, con la Teodora del 1635, Rospigliosi proietta il modello su scala
più ampia: aumentano e\etti spettacolari e personaggi, i santi diventano due e la
trama si in?ttisce, con due linee drammatiche distinte, di cui la prima è quella
derivata dalle fonti agiogra?che (Teodora viene rinchiusa in un bordello perché non
vuole abiurare alla sua fede, ma viene salvata da Didimo, che la fa fuggire travestita
da soldato; poi però ella tornerà indietro per il senso di colpa e a\ronterà il martirio),
mentre la seconda è inventata incentrata su una vicenda di amore e vendetta
spostando l’enfasi drammatica verso piacere terreni e peccato (Olibrio si innamora di
Teodora, si vendica di Didimo, perché l’ha fatta fuggire, inviandogli una falsa lettera
in cui si dice che Teodora ha abiurato alla sua fede). Nel San Bonifazio del 1638, i
santi diventano addirittura 3 e la trama è ancora più intricata. Addirittura, ci sono
alcuni personaggi chiaramente inouenzati dalla Commedia dell’Arte e che danno vita
a un intreccio indipendente. Rospigliosi, quindi, utilizza numerose fonti del panorama
culturale coevo, ricombinandole in un prodotto originale. La solida struttura
agiogra?ca gli consente, inoltre, di inserire elementi profani nella narrazione senza
incorrere in censure da parte dei suoi superiori. La drammaturgia di Rospigliosi,
combinatoria e nei suoi prodotti è chiara l’impronta del teatro gesuitico, che mira a
coinvolgere il pubblico con la suggestione di tutte le arti (musica, danza, recitazione,
arti ?gurative), ma anche del teatro dei comici professionisti e dilettanti, e di quelle
forme di spettacolarità che tenevano conto del gusto del pubblico oltre che della
purezza dottrinale. Grazie ai suoi drammi, lo spirito della commedia entra
de?nitivamente nel teatro in musica e, grazie alla breccia aperta nelle “mura
aristoteliche”, vi possono penetrare anche la commistione stilistica e le ?nalità
ricreative dello spettacolo.
- Trasgressioni carnevalesche all’uso di Venezia
Nel 1637, a Padova, una compagnia operistica romana, quella di Manelli e Ferrari,
rappresenta l’Ermiona. L’anno seguente, la stessa compagnia approda a Venezia,
dove, al San Cassiano (teatro per la Commedia dell’Arte) rappresenta l’Andromeda.
L’opera, di\usasi grazie alle compagnie di girovaghi, si stabilì a Venezia grazie alla
situazione vantaggiosa di cui qui godeva il teatro parlato (grazie all’esistenza di molte
famiglie facoltose, all’a€usso di forestieri per il Carnevale, da novembre a febbraio,
all’assenza di tassazione). L’opera in musica viene subito vista dai nobili come un
modo per emulare e forse superare il fasto delle corti del Nord. Così a partire dal
1636, le maggiori famiglie (Tron, Grimani, Giustiniani) iniziarono a ristrutturare
diversi teatri (inizialmente pensati per i Comici dell’Arte), e le compagnie di girovaghi
iniziarono a stabilirsi in teatri singoli o a operare in più d’uno (ad es., Francesco
Cavalli nel San Cassiano e Manelli-Ferrari nel Teatro dei Santi Giovanni e Paolo, ma
anche in altri). Rispetto alle corti del Centro-Nord, dove l’opera era uno spettacolo

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privato, concepito per il piacere del mecenate-?nanziatore e dei suoi invitati, a


Venezia l’opera è uno spettacolo pubblico, a pagamento, e si basa su tre categorie di
operatori: i proprietari dei teatri, che danno in gestione a un impresario la
produzione degli spettacoli; l’impresario, che può essere un singolo o una
compagnia di artisti, e gestisce l’impresa teatrale per una o più stagioni, investendo
denaro proprio e ricavando degli utili; gli artisti, che possono anche intervenire
personalmente nell’impresa, ma che presto diventano semplici professionisti
ingaggiati a contratto. Il librettista invece, pubblica il testo a sue spese e ricava gli
utili dalla vendita. Tutto ciò conduce a una rapida trasformazione del teatro d’opera a
vari livelli della sua struttura. L’obiettivo principale dell’impresario è quello di
attirare più pubblico possibile, per cui le produzioni devono essere continue e
regolari in modo da ammortizzare i grandi costi iniziali. Nascono le stagioni teatrali,
all’interno delle quali una stessa opera è ripetuta più volte (riduce i costi), ma in cui il
repertorio deve rinnovarsi continuamente per far tornare il pubblico a teatro. I
soggetti devono essere il più possibile vicini a ciò che il pubblico vuole, quindi si
sfruttano argomenti mitologici, pastorali, poemi cavallereschi, soggetti mutuati
dall’epica classica e dalla storia romana. Per quanto concerne la modalità di
costruzione del dramma, gli autori guardano soprattutto al teatro parlato
contemporaneo, specie alla Commedia dell’Arte e alla commedia aurea spagnola, da
cui riprendono la tecnica costruttiva e concreti spunti drammatici. Il risultato è un
sincretismo di fonti, moduli stilistici e formali, e pratiche sceniche. Nell’opera romana
in particolare si usa la commistione di registri (alto-basso, comico-serio) e un tipo di
drammaturgia combinatoria basata su moduli ?ssi (personaggi tipo, espedienti tipo,
scene tipo, pezzi chiusi tipo). Fin dagli anni ’40 si comincia a delineare una sorta di
produzione seriale le cui caratteristiche sono: - articolazione del dramma in prologo e
3 atti; - cambi di scena frequenti (2 a 4 ogni atto) con alternanza di luoghi naturali e
luoghi chiusi; - fabula con sistema ?sso di ruoli: personaggi terreni - 2 coppie di
innamorati di alto rango, circondato di 1 o più parti comiche di basso rango
(servi,nutrici,paggi); personaggi allegorici/soprannaturali che partecipano alle
vicende schierandosi dalla parte di uno dei personaggi; - svolgimento dell’azione in
base a blocchi di scene organizzate a livello tematico, con alcune scene “obbligate”
(scene d’amore, del lamento, della follia, del sonno,incantamento,lazzi e battute). La
di\erenza tra drammaturgia romana e veneziana è nella ?nalità: a Roma i personaggi
comici non intaccavano l’integrità morale dei personaggi “alti”, a Venezia il ?ne era
ricreativo, di trasgressione carnevalesca, quasi dissacrante (es. Achille in abiti da
donna nascosto tra fanciulle). Anche all’interno della stessa drammaturgia di Venezia
sono riscontrabili di\erenze tra i testi di accademici e quelli di semplici professionisti
del teatro. Con l’Accademia degli Incogniti, fondata nel 1630, si hanno delle novità.
L’attività letteraria viene esercitata a margine di professioni politiche o liberali.
Grazie al loro interesse per i generi meno tradizionali, vengono inseriti nell’opera in
musica tematiche politiche e patriottiche, oltre che rioessioni sui problemi letterari e
drammaturgici posti dal nuovo genere del teatro in musica, questo apporterà ai
libretti uno spessore culturale maggiore. Gli Incogniti scelgono tematiche politiche e
patriottiche per celebrare la grandezza politica e culturale di Venezia e l’ideologia
repubblicana, vista come la reincarnazione della repubblica romana (infatti, molti
soggetti sono tratti da Omero e Virgilio); dal punto di vista formale, invece, è
propugnato un superamento delle logiche aristoteliche, alla ricerca del diletto. Le
prefazioni, postfazioni o argomenti allegati ai loro libretti presentano le loro
rioessioni sui problemi letterari e drammaturgici i quali a\ermano la necessità di
superare i precetti aristotelici per andare incontro al diletto degli spettatori.
I librettisti invece, professionisti, sono uomini di teatro che cercano di adattare i versi

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alla musica e alla scena, i loro versi hanno ?ne ricreativo, soggetti mitologico-
pastorali o epico-romanzeschi; per qualità e continuità produttiva il librettista di
riferimento dell’opera veneziana anni ’40 è Giovanni Faustini. Se i professionisti si
interessano ad un puro gioco di coppie e diverse traversie, gli accademici manipolano
le convenzioni per ?ni ideologici. Uno dei drammi per musica del 600 di maggior
successo è il “Giasone” di Cicognini (?glio di Jacopo^) e Cavalli, andata in scena
al San Cassiano, 1649. Dal prologo e da vari punti dell’atto I, emerge la ricchezza
dei riferimenti mitologici anche se sono rivisitati: es. Giasone è assorto in vicende
amorose e soggiogato dai sensi piuttosto che dedito a grandi imprese; Medea non
corrisponde alla ?gura del mito (dove la regina, a\ascinata dall’eroe, gli si concede
solo dopo le nozze), concedendosi all’eroe in incognito per un intero anno; Isi?le, poi,
nelle fonti antiche non è così gelosa e ossessiva come nell’opera di Cicognini;I nomi e
il sistema di relazioni sono ripresi dalle fonti antiche ma mutano i caratteri e le
situazioni in cui si trovano. La fabula è infatti incentrata su due coppie di innamorati
(Egeo-Medea e Giasone-Isi?le), ma si ha poi la tipica “rotatoria”: Giasone, amato da
Isi?le, si innamora di Medea, che è amata da Egeo. Questo squilibrio mette in moto
l’azione, che si concluderà con il ripristino dell’equilibrio iniziale. Rispetto alle fonti,
vengono poi inseriti nell’opera diversi personaggi del tutto estranei al mito e
inventati da Cicognini: servi, nutrici, con?denti, dame di compagnia…, i quali servono
sia a demarcare le varie fasi drammatiche, sia all’inserimento di arie e pezzi chiusi a
loro destinati, sia al repentino cambio di registro del dramma (dal tragico dei
personaggi alti al triviale di quelli bassi). Questi inserti comici rendono il I atto
frammentato, perché diviso in 3 sequenze, inserendo scene di lamenti, invocazione,
duetto d’amore, 4 scene comiche e all’interno di queste scene altri pezzi chiusi;
questo tipo di struttura che evitava di proposito la continuità drammatica era idonea
all’assetto musicale. Anche nell’atto II, l’azione è frammentata in più episodi collocati
in luoghi diversi: Isi?le è nelle campagne di Ibero e medita vendetta contro Giasone;
Giasone è a Colco, ma parte per Corinto seguito da Medea, Egeo e Demo. Una
tempesta scatenata dagli dei provoca il naufragio di Giasone e dei suoi inseguitori:
l’imprevisto consente a tutti di incontrarsi nello stesso luogo (per la scena del
naufragio, Cicognini riprese sicuramente dal Burlador de Sevilla di Tirso da Molina,
dove il naufrago è Don Giovanni, in fuga da Napoli dopo aver violato la duchessa
Isabella). Dal naufragio in poi, il registro cambia e si fa comico, il mito diventa
commedia: dopo alcuni inserimenti comici e un duetto d’amore tra i due protagonisti,
si ha la sequenza in cui Giasone fa credere a Medea che Isi?le sia pazza (scena è
tratta probabilmente dalla Fuenza lastimosa di Lope de Vega. E ancora, ne La viuda
valenciana di de Vega si ha lo stesso tema della donna che si o\re a un uomo senza
rivelare la propria identità.) Dall’atto II e per buona parte del III, il mito antico si
trasforma in un dramma di onore e vendetta: Isi?le, abbandonata da Giasone, fa una
scenata con Medea presente; Giasone ?nge davanti a Medea che Isi?le sia pazza;
Medea, comunque ingelosita, ordina a Giasone di uccidere Isi?le; Medea resta vittima
della sua stessa trama e ora è lei a sentirsi ferita nell’onore; chiede a Egeo di
eliminare Giasone; l’omicidio è sventato da Isi?le che si getta su Egeo; scioglimento e
conclusione lieta. Nell’atto III sono numerose le interruzioni del ousso drammatico:
l’azione è addirittura frammentata in 12 sequenze da varie arie. In tal modo, il ritmo
resta frenetico ?no alla ?ne non permettendo lo spettatore confronti col mito o altre
fonti, assicurando così l’originalità dell’opera. Le opere veneziane presentano versi
sciolti per i recitativi e versi misurati (strofe) per le arie. ra le lunghe sequenze in
versi sciolti, si trovano spesso delle cavate = passaggi destinati a un tipo di canto
che momentaneamente abbandona il fare declamatorio e destrutturato dello stile
recitativo per assumere un andamento ritmicamente più regolare e maggiormente

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pregnante sul piano melodico. L’aria è invece riservata a situazioni particolari (tirate
comiche, preghiere…) ed è caratterizzata sul piano della versi?cazione, da un pro?lo
frastagliato e irregolare. Il recitativo, asimmetrico e irregolare, sfocia quasi
naturalmente nell’aria. Lo stile e le arie, tuttavia, sono condizionate dai caratteri dei
personaggi e dalle situazioni. Anche qui però ci sono delle convenzioni: duetto
d’amore – metro ternario, accompagnato da archi, il testo presenta ripetizioni ed
estensioni melismatiche, per dare l’e\etto di ampliamento del tempo come
conseguenza dell’estasi amorosa; scena – lamento – per i protagonisti, può
realizzarsi come un unico recitativo (con struttura multisezionale e contrasti di
melodia, armonia e ritmo a seconda degli stati d’animo), o come una sezione di
recitativo seguita o preceduta da una forma stro?ca o chiusa; scena comica -
(anch’essa solitamente composta da una sezione in recitativo e una in forma stro?ca)
presenta motivi ricorrenti, come la presenza di note ribattute e presenza di frasi
strumentali che permettono al cantante di compiere movimenti. Ovviamente le
soluzioni dei librettisti cambiano a seconda del compositore al quale sono destinati. I
due compositori più famosi sono Francesco Cavalli e Claudio Monteverdi. Il primo
compone, dal 1639 al 1666, uno o due drammi in musica per teatri veneziani, e
accetta commissioni da corti italiane ed estere; il secondo arriva al teatro
impresariale ultrasettantenne e si dice fosse molto esigente: voleva testi con una
grande varietà di a\etti e sentimenti contrastanti e, anche se ne era soddisfatto,
spesso li modi?cava. Provenendo dall’estrema ricerca di armonia del madrigale,
Monteverdi tendeva a vedere le forme poetiche in maniera autonoma rispetto a
quanto suggerito dal librettista, convertendo a piacimento pezzi di recitativo in pezzi
chiusi o ariosi. Cavalli, al contrario, rappresenta perfettamente le convenzioni che
contribuì a consolidare. Visto che la maggior parte di libretti e partiture non venivano
date alle stampe, ci sono rimaste solo una trentina di manoscritti di quest’epoca e i
due terzi sono di Cavalli (che aveva disposto per testamento la conservazione dei suoi
libretti), ma hanno subìto numerose manomissioni nel tempo. Questo perché le
partiture erano viste come oggetti destinati ad esaurirsi con la ?ne di uno spettacolo.

Forze espansive e centri di gravità


Nella forma dell’opera veneziana, il teatro in musica si di\onde in tutta Italia, dove
vengono costruiti teatri stabili a gestione impresariale per la loro rappresentazione (a
Torino il teatro di corte, a Roma il Teatro di Tordinona, a Napoli il San Bartolomeo
gestito dalla compagnia dei Febiarmonici); anche nei teatri di corte comincia a
penetrare la forma tipica dello spettacolo pubblico. La capacità dell’opera veneziana
di adattarsi a così numerosi e diversi contesti politici e sociali di\erenti sta nel suo
implicito sincretismo: l’organizzazione per moduli ?ssi e convenzionali fa sì che
l’aggiunta, la sottrazione o il mutamento di uno o più elementi non metta in pericolo
l’integrità e l’assetto generale della composizione. Cominciano a costruire edi?ci
appositi per il teatro in musica (struttura che rispecchia la gerarchia sociale,
palchetti per aristocrazia e la platea per forestieri e pubblico occasionale). Il
fenomeno operistico si di\onde tanto nelle città principali (Roma, Napoli, Palermo…)
quanto nelle più piccole sedi di provincia (Cremona, Lodi, Messina,Fano…) e anche
oltre la penisola, nel Nord Europa (Hannover, Innsbruck, Vienna, Monaco di Baviera,
e nelle capitali d’Inghilterra e Francia <- dove assume un particolare carattere
nazionalistico). A Parigi, in particolare, si di\use la volontà, sotto l’egida di Giulio
Mazzarino, di italianizzare la cultura a corte, per aumentare il proprio prestigio
personale. [Furono chiamati compositori e librettisti italiani, con la troupe dei
Febiarmonici prima fra tutti. Nel Carnevale del 1647, fu prodotto l’Orfeo di Buti e

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Rossi, che Mazzarino allestì senza badare a spese, assumendo i migliori cantanti
italiani dell’epoca e creando le scenogra?e ideate da Torelli (per ospitare le macchine
di Torelli, Mazzarino fece per?no abbattere i muri della sala del Palais Royal). Altri
tentativi di italianizzazione furono fatti nel ‘54 con il Xerxe di Minato e Cavalli e nel
1662 con L’Ercole amante di Buti e Cavalli; ma nel complesso il tentativo fallì.]
L’opera italiana non attecchì per due ragioni: politica – orgoglio nazionalista nei
confronti del tentativo di italianizzazione; artistica - l’inouenza del teatro tragico di
Corneille e Racine e dell’estetica razionalista. Quest’ultima portava ad una critica
delle principali caratteristiche dell’opera italiana (: inverosimiglianza del canto
dialogico, complessità degli intrighi delle trame, timbri innaturali degli evirati) e ad
opporre i loro ballet du cour e comédie – ballet. Grazie alla sua conoscenza dei gusti
della corte solo Lully (?orentino di nascita) riuscì a creare una nuova opera
nazionale: si insedia nel 1672 all’Academia d’Opera, grazie ai privilegi datigli da Luigi
XIV, poteva decidere chi potesse rappresentare opere musicali in Francia. La sua
tragedie en musique (ne scrisse 13, mescolando diversi generi – tragedia recitata,
ballet de cour, opera italiana – al servizio della glori?cazione di Luigi XIV. Le trame,
quando si scostano da imprese politiche e militari del sovrano, usano come allegoria
vicende mitologiche o cavalleresche per riferirsi sempre alle gesta del monarca) è un
dramma in musica, che segue le logiche aristoteliche e il criterio di verosimiglianza.
Non vi è una netta divaricazione tra recitativo e arie (le arie si distinguono solo per
la ripetizione di alcuni versi espressivi o per una più de?nita melodia). I
divertissements in musica servono a tener desta l’attenzione del pubblico con cori,
coreogra?e brani strumentali e macchine per e\etti scenici (una sorta di spettacolo
nello spettacolo in cui l’orchestra ha il ruolo di colorare l’atmosfera) ogni atto ne ha
almeno uno. Viene inserito anche il meccanismo dell’ouverture, seguita prima e,
spesso, anche dopo il prologo e divisa in due movimenti, uno in metro binario e in
ritmo puntato, lento e maestoso; l’altro in metro ternario e in stile fugato, più veloce.
Lully quindi crea un dualismo nell’opera molto forte (estetica del verosimile/estetica
del meraviglioso; recitativo/aria, dramma/ musica).

Alla scoperta di nuove geometrie drammatico – musicali


Mentre il teatro in musica si di\onde rapidamente all’estero, nella seconda metà del
secolo si registrano nella penisola importanti mutamenti, particolarmente avvertibili
a Venezia, epicentro dello spettacolo operistico. Qui si aggiungono tre nuovi teatri, il
San Salvatore (1661), il Sant’Angelo (1677) e il Sa Giovanni Grisostomo (1678), nei
quali, a ?ne secolo, risultano rappresentate ben 260 opere. Vengono alla ribalta nuovi
talenti: tra i librettisti, Minato, Noris, Beregani e Bussani; tra i compositori, Antonio
Cesti, Carlo Pallavicino, Carlo Francesco Pollarolo e altri. È questa l’epoca d’oro per
l’opera veneziana, che si accompagna all’aumentato prestigio della città (divenuta
crocevia diplomatico e centro di coordinamento degli a\ari militari della Lega Santa).
Motivo del successo teatrale è però anche la rivalità scatenatasi tra i teatri veneziani,
che conduce a una nuova strategia di mercato: si abbassano i prezzi dei biglietti,
aumentando gli incassi e creando un livello sociale del pubblico verso il basso. Per
contrastare tale tendenza nel 1678 nasce il S. Giovanni Grisostomo, alzando i prezzi
per ripristinare il decoro e distinzione sociale. Nascono nuovi soggetti: drammi con
intrecci tra elementi storici e altri inventati. Gli elementi storici son presi da diverse
epoche: dall’età ellenistica a quella romana (si ricordino, ad esempio, il Giulio Cesare
in Egitto di Bussani, L’Annibale in Capua di Beregani, Scipione Africano di Minato…)
a quella medievale (Attila di Noris, L’Odoacrei di Bonis, L’inganno regnante di
Corradi…). I protagonisti subiscono dei cambiamenti: passa dagli eroi e\emminati
all’uomo a tutto tondo, virile, condottiero coraggioso, che cede alle lusinghe amorose

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solo temporaneamente: sono molte, infatti, le opere in cui il protagonista, conquistati


dalla bellezza di una nemica, alla ?ne si ravvedono dalla loro temporanea debolezza
(L’Annibale in Capua di Beregani; Pompeo Magno di Minato). Questi eroi ben si
adattano al nuovo look marziale di Venezia, impegnata con la potenza turca e le sue
colonie orientali, con la guerra di Candia e l’impegno nella Lega Santa. Nell’ambito
delle tematiche storiche, soggetti che tratti dalle epoche monarchiche o imperiali, in
cui emerga chiaramente la ?gura del regnante magnanimo e giusto o quella del
monarca “occidentale” e cristiano, impegnato in una guerra di civiltà contro popoli
invasori, quasi sempre orientali. Siamo ora nella seconda metà del 600 e dal punto di
vista formale, aumenta il numero di arie (da 40 a70), ciò coincide con la maggiore
importanza che acquisisce il cantante così come anche i suoi compensi si elevano, e
anche la loro inouenza nei processi di creazione degli autori: chiedevano spesso di
aumentare le arie per la propria parte o di modi?care un cast vocale già selezionato
dall’impresario, perché reputato non consono al proprio rango. L’aumento delle arie
comporta un aumento delle trame/intrecci. Sulla base di questi mutamenti comincia a
declinare il genere operistico veneziano; i librettisti perdono il loro ruolo prestigioso,
di fronte all’avanzare di cantanti e compositori, ora devono seguire le esigenze di
musica e cantanti. , gli autori vanno in cerca di nuovi procedimenti compositivi,
tentando di formulare un diverso tipo di spettacolo in cui la musica è considerata non
più come un dato accessorio, ma come essenziale per la strutturazione delle scene e
l’organizzazione complessiva della materia drammatica. Piu che un declino è un
processo che condurrà, alla ?ne del secolo, a un cambio di paradigmi poetico-estetici.
Si creano le premesse per un nuovo assetto drammatico – musicale: l’intreccio
amoroso mette in gioco anche motivazioni politiche; i 4 personaggi principali mettono
in moto vicende di natura sia privata che pubblica; dei 2 uomini - uno è tiranno e
subordina l’interesse amoroso a quello politico – uno soggiogato dai sensi in conoitto
con i doveri del suo rango e vittima dell’intrigo del tiranno; le 2 donne – una bella e
virtuosa oggetto di mira del tiranno – l’altra seducente e scaltra mette in moto
l’azione e seduce per ottenere ciò che vuole. Nascono così nuove Jgure ibridate,
come il tiranno-amoroso o la regina civetta e intorno a loro i personaggi minori (servi,
nutrici, dame di compagnia etc.) perdono gran parte della loro verve bu\onesca:
partecipano passivamente alle vicende dei padroni e le loro scene sono sempre più
marginali. Data la centralità del discorso politico cambiano anche le arie, sono ora
microstrutture a sé stanti, che possono avere diverse funzioni: - di presentazione –
e`usioni liriche (espressione soggettiva di un sentimento) – arie di tipo
“assertivo” (esprimono decisione/comando) – arie d’azione (rilievo a gesti/eventi
scenici) – arie dialogate (un personaggio rivolge un’aria solistica ad un altro) –
invocazioni a divinità o prosopopee – arie sentenziose – tirate di
comparazione o metafora. Per non ostacolare il ?lo drammatico vengono eseguite
all’inizio (arie di sortita) o ?ne (arie di congedo) di una scena. Sul piano musicale il
recitativo ha meno spazio e si distingue nettamente dalle arie: con Pallavicino,
Pollarolo e altri, si instaura un regime binario, con il recitativo ridotto a un declamato
veloce e quasi formulaico, e l’aria che diventa il centro nevralgico della composizione.
Anche l’orchestra assume un diverso peso, svolgendo un’importante funzione, sia
nelle sinfonie introduttive, sia come elemento di varietà nell’avvicendarsi delle
numerose arie dell’opera. Di solito, essa anticipa con poche battute il motto dell’aria,
dopodiché il cantante prosegue accompagnato solo dal basso continuo (perlopiù
clavicembalo): è raro, infatti, che l’orchestra accompagni il canto per tutta la durata
dell’aria. La novità più eclatante è l’introduzione della tromba obbligata per le arie
guerriere, molto usate nel melodramma eroico del periodo (tali arie sono riservate a
personaggi regali o illustri condottieri per accompagnare operazioni militari sul

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palcoscenico o per connotare un atteggiamento bellicoso più metaforico che reale).


La scrittura vocale, a partire dagli anni ’70 comincia a cambiare, per i personaggi
guerrieri o più esuberanti, i compositori adottano una scrittura più virtuosistica (in
cui la voce del cantante gareggia con uno strumento, violino, cembalo o tromba): la
scrittura vocale diventa quindi, nelle mani del compositore, un mezzo per
caratterizzare meglio i personaggi e le situazioni in cui sono coinvolti. Verso la ?ne
del Seicento, un radicale cambiamento dell’opera è il tramonto, in Italia, dei
soggetti spagnoli (molto in voga precedentemente), al posto dei quali si a\erma la
moda del teatro francese (quello del tempo del Re Sole). Ciò provoca mutamenti nelle
modalità costruttive, perché i princìpi estetici su cui si basa la drammaturgia
francese sono diversi da quelli spagnoli. Essa, infatti, si basa sulla divisione dei
generi, la qualità letteraria del testo, il rispetto delle unità aristoteliche, la liaison des
scènes (= “concatenazione delle scene”: nell’andare e venire dei personaggi, almeno
uno deve rimanere in scena per garantire la continuità dell’azione). Questa nuova
tendenza si sviluppa in primis a Venezia, Firenze, Roma. Proprio nella città dei Papi,
nel 1690, ha luogo un evento fondamentale per il nuovo corso della cultura italiana:
la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia, gruppo di letterati che mira a liberare la
poesia e il teatro dal disordine “barocco” (= sregolatezza, arbitri, disimpegno
morale): l’opera in musica diventa uno dei principali bersagli polemici degli Arcadi,
che ne criticano gli intrecci inverosimili, la pratica dei generi misti e il predominio
della musica sul dramma. Ma, mentre per alcuni letterati (ad es., Antonio Muratori)
l’unica soluzione era la sparizione dell’opera, per altri (come il Gravina), l’opera
doveva essere semplicemente rinnovata, non abolendo la musica ma rigenerando i
testi: bastava dunque un poeta geniale che ripristinasse la purezza dello stile, desse
regolarità all’assetto drammatico e nuovi contenuti morali. Questo “genio” sarà
Pietro Metastasio.
CAPITOLO 4 – Senza parole. Strumenti e musica strumentale dall’Italia
all’Europa
La presenza della musica strumentale nella prima età moderna è determinata dal suo
“fascino sensoriale” dato dall’esecuzione meccanica del “virtuoso” o del gruppo
polistrumentale e un ascolto passivo. Il musicista da meccanico esecutore di
strumenti sarà riconosciuto autore di rango intellettuale.
Virtuosi di strumento a corte fra “conversazione” e ornamento
Tra i nomi più noti dell’epoca, si ricordano: - Francesco Landini, celebre organista,
ammirato anche perché cieco (come molti altri organisti di cui ci sono pervenute
testimonianze); - il liutista Pietrobono dal Chitarrino (detto Orpheus cristianus) fu
molto ammirato e conteso dalle corti italiane del 1400; Brandolini gli dedicò per?no
un Libellus de laudibus musicae et Petriboni (1473), nel quale il liutista è descritto
nell’atto del suonare e di stupire l’ascoltatore con la miracolosa agilità delle sue dita;
- il liutista Francesco Canova da Milano, di cui si scrisse che avrebbe potuto
scon?ggere chiunque in una gara musicale, proprio come Marsia aveva fatto con
Apollo; fu liutista dei papi Leone X, Clemente VII e Paolo III e si esibì anche davanti
all’imperatore Carlo V; - il cornettista Luigi Zenobi, al servizio di Massimiliano II e del
duca di Ferrara Alfonso II d’Este; per la sua bravura, ottenne il titolo di cavaliere; - il
violista Battista Siciliano, di cui si diceva fosse il più abile mai esistito; - e così via.
Nel Seicento, si impose il violino come strumento solistico principe e fu molto
ammirato fra i violinisti Arcangelo Corelli, apprezzato anche come direttore
d’orchestra (queste espressioni di ammirazione non riguardavano, invece, i cantori -
prima dell’avvento dell’opera - la cui abilità canora risultava subordinata alla

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veicolazione del testo letterario e dei suoi signi?cati). Strumenti e strumentisti nella
prima età moderna, come emerge dalla prassi di scambi di oggetti musicali ed
esecutori, ?nalizzato all’intrattenimento, indicano come questi rappresentassero per
le élites un bene prezioso da godere ed esibire come manufatto artistico.
Il liuto: esecutori, repertorio e impieghi
Come suonavano tali strumentisti? Di Pietrobono non abbiamo nulla: ne abbiamo
diverse descrizioni, ma nessuna nota scritta. Probabilmente, egli improvvisava e non
aveva quindi bisogno di annotare sulla carta le sue esibizioni. Dalle descrizioni che ci
restano, sappiamo che eseguiva variazioni e abbellimenti di melodie già esistenti, a
volte col sostegno di un secondo liuto. Queste e altre testimonianze, peraltro,
consentono di poter tracciare un quadro assai preciso del repertorio liutistico
dell’epoca. Dal novelliere Matteo Bandello, si apprende che, in tale repertorio, si
distinguevano due generi: la canzone e la ricercata (gli stessi generi esistevano già
30 anni prima, elaborazioni di celebri pezzi sacri e profani e ricercari). Le
elaborazioni di pezzi vocali sono importanti perché ci trasmettono la prima
testimonianza scritta della tecnica della diminuzione (vicina
all’improvvisazione), che consente all’esecutore di esibire le proprie capacità
virtuosistiche. I ricercari, invece, hanno carattere di preludio incerto, di avvio di
percorsi melodici poi animati da abbellimenti di natura idiomatica (in questa
fase, non hanno ancora la struttura imitativa e fugata che sarà propria di pezzi
strumentali così denominati dei decenni centrali del secolo). A partire dal primo
Cinquecento, si iniziano a di\ondere manuali didattici per l’apprendimento del
liuto, di\usosi anche fra i non professionisti. Uno dei primi è l’Intabulatura de lauto
di Dalza, che vuole essere una facile guida per padroneggiare lo strumento; ne
seguiranno poi molti altri, destinati a rispondere alla crescente domanda di una
società che incluse la pratica del liuto tra le proprie abitudini. Le stampe liutistiche
decollano sul mercato musicale a partire, dall’Intabolatura di Francesco da Milano,
con il quale la scrittura liutistica si emancipa da una certa ripetitiva formularità delle
diminuzioni presenti in precedenti intavolature e sfoggia una piena padronanza delle
tecniche del contrappunto e ?nezza di spunti ornamentali connessi con l’idioma
liutistico.
Le tastiere: esecutori, repertorio e impieghi
La musica per tastiera vanta una radicata tradizione anche fuori dall’Italia (Francia,
Spagna, Inghilterra, Germania). Nel nostro Paese si a\erma Marcantonio
Cavazzoni (1485-1569), che pubblica in Italia la prima intavolatura d’organo. Musico
della duchessa di Urbino Eleonora Gonzaga, egli fu una personalità rilevante sul
piano sociale, intellettuale e musicale. Nella sua intavolatura, esempli?cò le
caratteristiche stilistiche della musica per tastiera europea ?no all’epoca di Bach:
pezzi dal carattere improvvisativo e virtuosistici; trascrizioni di brani vocali liturgici;
rielaborazioni strumentali di noti brani di polifonia vocale profana. I brani sembrano
destinati sia all’organo che al cembalo, ma quelli di natura ecclesiastica prediligono
l’organo mentre quelli profani, il cembalo. A Cavazzoni seguì il ?glio Girolamo,
apprezzato tastierista impiegato, dopo gli anni ‘60 del Cinquecento, come organista
nella Chiesa di Santa Barbara a Mantova. Altri nomi importanti furono quelli di
Brumel e Luzzaschi, di cui poche musiche conobbero una circolazione manoscritta o
stampata. Più frequente fu la di\usione di composizioni di organisti in servizio stabile
presso importanti istituzioni ecclesiastiche, autori di stampe musicali che ne
divulgano il repertorio e ne consolidano la fama. Nel Regno di Napoli, istituzioni
ecclesiastiche e musico?li aristocratici favorirono lo sviluppo di una oorida stagione
cembalo-organistica (professionale e sperimentale). Il ?ammingo Jean de Macque

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sperimentò a Napoli arditezze armoniche e nuove forme. (la Toccata a modo di


trombette, imitante sull’organo formule sonore dello strumento a ?ato/ altri che
appaiono una s?da all’elaborazione dei temi). Scipione Stella, si impegnò nella
costruzione di sperimentali strumenti enarmonici come “tricembalo” o “pentaorgano”
che potessero superare le diPcoltà dell’accordatura naturale. Ancora a Napoli, si
avvia la costruzione di arpe a più ordini di corde – per questi nuovi strumenti
scrissero composizioni arti?ciose, con una fantasia bizzarra.
Girolamo Frescobaldi: protagonismo artistico e autonomia professionale.
Nell’opera di Frescobaldi, è riscontrabile una sintesi delle scuole organistiche
ferrarese e napoletana dell’epoca. Frescobaldi musicista dalla carriera irrequieta e
spregiudicata (è paragonato, per questo, a Caravaggio). Nella Ferrara appena
riacquistata dallo stato Ponti?cio, egli entra nella grazia della famiglia dei Bentivoglio
e del cardinale Aldobrandini (con il quale avrà un rapporto diPcile). Trasferitosi a
Roma in giovane età, frequentò l’Accademia di Santa Cecilia e fu organista a Santa
Maria in Trastevere e poi dal 1608 organista in San Pietro. Dopo una deludente e
breve parentesi presso il duca di Mantova, e terminata momentaneamente
l’esperienza romana, si trasferì nel 1628 a Firenze con la famiglia al servizio del
granduca Ferdinando De Medici. A Roma, nella chiesa di San Marcello, esegue
drammi sacri con un cospicuo e vario gruppo di strumenti. Come autore cura molto le
sue raccolte, summa della sua esperienza di organista ecclesiastico pensate anche
come testi didattici; la sua arte organistica come si evince dai suoi libri, è di tipo
virtuosistico e improvvisativo. La sua ?gura è fortemente individualista: nelle toccate
si occupa di separare “passi” (sezioni virtuosistiche) e “a\etti” (sezioni di carattere
lirico e contrappuntistico per riprodurre suggestioni melodico/armoniche della
musica vocale) così da poter essere selezionabili, rimescolabili, modi?cabili per dar
spazio a improvvisazioni, le sue pubblicazioni di Frescobaldi sono una sorta di
canovaccio suscettibile di in?nite reinvenzioni. Altre pubblicazioni invece come le
fantasie, i ricercari e i capricci non lasciano questa libertà anche se spesso gli
esecutori, data la complessità, erano portati a sempli?carli. Invece nelle composizioni
nel genere della variazione (partite) troviamo musiche spigliate, vicino
all’espressività della vocalità da camera che emula con la sua tastiera, essendo per
l’ambito di corte sono sensibili ai ritmi della danza e privi di sezioni virtuosistiche.

“Sonar con ogni sorta d’instrumenti”


Nella musica d’assieme (= compartecipazione di più esecutori a un’esecuzione
collegiale e alla creazione di un evento sonoro con caratteristiche estetiche e ?nalità
sociali diverse rispetto a quelle della musica liutistica o cembalo-organistica), usata
in ambiti cortesi e in contesti cerimoniali, manca invece l’individualismo dei
personaggi citati ?no ad ora. Negli strumenti, si fa una distinzione estetica e sociale:
tastiere (empiono l’animo di musicale dolcezza con le consonanze perfette) e
strumenti ad arco (soavissima e arti?ciosa) sono appropriati per un gentiluomo; sono,
invece, banditi quelli a percussione o a ?ato, soprattutto per le donne. L’uso di musica
d’assieme per occasioni conviviali era molto frequente e spesso attestato dalla pittura
contemporanea. [Papa Leone X era solito, ad es., allietare i suoi pasti con esecuzioni
di musiche strumentali (liuti e oauti); e il cardinale Ippolito d’Este faceva
accompagnare dalla musica i suoi numerosi banchetti.] La musica d’assieme nel
Cinquecento tarda ad avere un proprio repertorio autonomo: si eseguono polifonie
scritte in origine per le voci data la gradevolezza melodica e la verticalità dell’assetto
polifonico (madrigali, mottetti, chansons francesi) che si adattano all’assieme

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estemporaneo strumentale. Le esecuzioni polistrumentali di chansons sollecitano


l’avvio della composizione di originali canzoni per assiemi strumentali imitanti il
modello vocale. Questo nuovo repertorio è praticato a Brescia e nel Veneto e ha tra i
suoi massimi esponenti Fiorenzo Maschera: le sue canzoni sono identi?cate da titoli
(ad es., La Martinenga, L’Uggiera) che rinviano al nome di note famiglie bresciane o
venete, secondo una prassi che verrà ripresa da altri autori di canzoni del nord Italia
e che denota la destinazione domestica di questo repertorio.
Il violino e il suo repertorio
Brescia fu patria di liutai e notevole fu il suo apporto alla stagione del violinismo italiano. Il
violino vanta duttilità timbrica ed esecutiva, tanto da essere vicino alla vocalità solistica delle
nuove musiche del primo ‘600, il più ePcace nell’imitare gli “a\etti” e nell’emularne la
propensione verso gli abbellimenti virtuosistici. Nel 1617, il bresciano Biagio Marini associa il
moderno violinismo, di cui egli era un esponente a Venezia, alle prerogative espressive della
vocalità, pubblicando la raccolta A\etti musicali. Tuttavia, non è facile dare un senso ad un
brano interamente strumentale, se non risponde a speci?che esigenze funzionali o
autosuPcienti strategie formali. Per attirare l’attenzione dell’ascoltatore si mira a variazioni,
continue sorprese sia nelle sequenze di intere sezioni che come strategia compositiva del
singolo movimento; ma anche si mira a sollecitare la memoria dell’ascoltatore stabilendo nessi
percepibili tra le varie parti del materiale musicale. (Con la sollecitazione della memoria,
nell’ascolto della musica strumentale un elemento razionale integra la prevalente fruizione
sensuale del repertorio, mentre vengono progressivamente aPnate le potenzialità e
l’autonomia semantica del discorso strumentale). Il musicista bergamasco Giovanni Legrenzi
pubblicò a metà Seicento un libro in cui si espongono le caratteristiche del suo linguaggio
musicale: Primo libro di Sonate a due e a tre. Tali sonate sono costituite da un numero di
movimenti ridotto rispetto a quelle di musicisti della generazione precedente, ma ogni
movimento è più esteso ed elaborato. Lo stesso Legrenzi, nella lettera dedicatoria del suo
Primo libro, dice che, dopo essere stata apprezzata all’ascolto nelle riunioni accademiche
promosse dal dedicatario, può essere sottoposta all’esame della mente, presentando elementi
analizzabili razionalmente; egli vuole sottrarre questo repertorio a una fruizione distratta,
considerandolo degno di una recezione intellettuale quale quella sollecitata da un vero testo
capace di “imprimere argomenti”. Inoltre, l’insieme dei rapporti che Legrenzi stabilisce tra
elementi del linguaggio musicale e atteggiamenti intellettuali, psicologici o comportamentali
attesta che, intorno al 1655, era in atto un processo di semantizzazione del linguaggio
strumentale, i cui vocaboli e nessi sintattici non sono più percepiti come astratti fenomeni
acustici, ma come signi?canti decifrabili.

“Et in Arcadia ego”: il classicismo di Arcangelo Corelli

Dopo il predominio lombardo-veneto emergono Bologna e Roma come principali centri di


produzione, consumo e stampa di musica strumentale d’assieme (in particolare violinistica).
Bologna contese il primato nella stampa musicale a Venezia. A Roma la musica strumentale
violinistica e le iniziative editoriali furono legate alla committenza della regina Cristina di
Svezia, che scelse Roma come residenza dopo la rinuncia al trono di Svezia. Arcangelo Corelli,
originario della Romagna, percorre a Roma dal 1671 una carriera musicale prestigiosa, ?no a
diventare il musicista più rappresentativo della musica strumentale italiana. Fu il primo
strumentista ad essere considerato degno dell’ingresso in Arcadia e a raggiungere una
condizione economica paragonabile a quella di un gentiluomo di rango. L’ascesa di Corelli ha
inizio nel 1681 con la pubblicazione, presso Mutii, della sua opera I “Le dodici sonate a tre”,
prima stampa di musica strumentale prodotta da Mutii e sotto il patrocinio della regina
Cristina di Svezia: segnò l’avvio alla produzione in serie di questo repertorio: A questa
pubblicazione ne seguirono altre tre di Sonate a tre. Le composizioni nelle opere Corelliane di
numero dispari sono annoverate al genere “sonata da chiesa” mentre quelle di numero pari
alla “sonata da camera”. Ciò dipende dall’oggettiva diversità dei movimenti costituenti le
sonate delle opere dispari rispetto a quelle pari: le prime presentano movimenti astratti con
denominazione agogica (sonata, allegro, adagio…), mentre le altre sono costituite da

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movimenti identi?cati dai nomi di danze introdotti da un preludio e dalla struttura bipartita
con cesura interna e ritornello. Queste ultime non sono musiche per danza, ma danze
stilizzate in cui le formule metriche tipiche di alcuni balli, vengono riprese ed elaborate.
Piuttosto che parlare di sonate da chiesa o da camera è più corretto parlare di sonate in stile
da chiesa e stile da camera. Negli anni di Corelli, la musica strumentale aveva acquisito un
lessico e una grammatica tali da poter essere declinati in modi diversi. Anche in Corelli
ritroviamo scelte compositive e risorse tecniche contrastanti (lento-veloce, mesto-allegro,
forte-piano) che servivano a catturare l’attenzione del fruitore, con l’aggiunta ora
dell’alternanza stilistica ecclesiasticus/cubicularis (da camera). L’aria classicheggiante che
respirava nelle accademie romane si rioette nell’ordine e chiarezza dei suoi progetti
compositivi. A parte alcune eccezioni, l’ascoltatore delle sonate corelliane si aspetta un
complesso momento fugato dopo un lirico lento e introduttivo, e dopo una pausa lirica, un
vigoroso ?nale ternario con solido procedimento contrappuntistico. Nella Sonata n. 3
dell’opera I, ad es., si hanno 4 movimenti, i primi due in tempo binario, i secondi due in
tempo ternario. Nella parte binaria troviamo un Grave (duetto lirico di due violini con e\etto
di passaggio da dissonanza a consonanza), seguito da un Allegro. Nella parte ternaria
troviamo un Adagio (atematico, cantabile) e in?ne l’Allegro conclusivo (stile fugato applicato
alla spigliatezza ritmica con una fraseologia di andamento di danza). Nell’ultimo movimento di
questa sonata si chiarisca la classicità e maturità della composizione di Corelli: confeziona un
percorso tripartito (esposizione, sviluppo, ripresa). Alle quattro sonate a tre seguono l’opera
V di Sonate a violino solo e l’opera VI di concerti grossi:
- la prima rappresenta il culmine dell’arte violinistica di Corelli e contiene dodici sonate sia
nello stile da chiesa che da camera; non si può dire che egli abbia inventato, con questo
repertorio, qualcosa di nuovo: infatti, in molti casi egli mette solo più ePcacemente a frutto
preesistenti risorse dell’idioma violinistico, ad es. con la tecnica delle doppie corde, con cui
Corelli rende polifonico uno strumento essenzialmente monodico come il violino (le doppie
corde erano già state usate prima, ma in Corelli è nuova la capacità di conciliare l’invenzione
di passaggi fugati esteticamente soddisfacenti con le esigenze dello strumento relativamente
al problema dell’eseguibilità senza forzature della polifonia; -
l’altra opera, i dodici concerti grossi, vede Corelli imporsi anche come direttore di
numerose orchestre, collocandosi così ai primordi della storia della direzione d’orchestra. In
Campidoglio, nel 1702, diresse un’orchestra in occasione di una cerimonia civile: l’orchestra
era composta da 16 violini, 4 viole, 4 violoni, 5 contrabbassi, un liuto e 2 trombe. Altre volte le
sue orchestre furono meno numerose, ma con archi e oboi. Corelli stupiva per come dirigeva e
fu molto lodato per questo. I suoi concerti avvenivano non solo nel contrasto/alternanza fra
pochi e molti o fra soli e tutti, ma anche fra forte-piano, lento-veloce, acuto-grave. Questa
architettura della musica di Corelli permise alla musica strumentale di essere decifrata a
compreso dall’ascoltatore e di conseguenza di essere avvicinata alle altre arti razionali.

Dall’Italia all’Europa: l’autonomia stilistica della Francia

L’Italia tra 500 e 600 è stata la regione che ha dettato mode e gusti artistici, ma nell’Europa
musicale cominciano ad emergere espressioni artistiche autonome: in Francia, Spagna,
Germania, Inghilterra. Per quanto riguarda la Germania, ad es., essa assorbì l’inouenza della
musica italiana, la metabolizzò e poi la rigenerò grazie ad individualità artistiche originali (di
cui Bach costituì il massimo grado). L’Inghilterra, la più grande potenza del periodo in
esame, conobbe allora un forte sviluppo delle proprie pratiche strumentali, peraltro con poche
inouenze dal continente, come in ogni altra manifestazione culturale; il celebre manoscritto
cinquecentesco Fitzwilliam Virginal Book raccoglie poco meno di trecento brani (danze,
fantasie, trascrizioni da arie vocali, pezzi sacri) destinati al virginale = piccolo strumento a
tastiera e a corde pizzicate come il cembalo, di ampio uso nella buona società inglese per la
sua facilità di impiego e di collocazione (si usava poggiato su un tavolo o in grembo). Tali
pratiche e repertori sono importanti per il processo di formazione del gusto e della tradizione
musicale inglese fra 500 e 600 che culminerà con Henry Purcell. In Francia, l’organizzazione
politica e sociale prevedeva che ogni scelta culturale veniva imposta dalla corte; il gusto della
corte è stato inouenzato in più occasione da artisti italiani da Mazzarino a Lully. Tuttavia, nel
corso del 500 cominciano a delinearsi delle di\erenze stilistiche tra la musica italiana e quella

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francese. La chanson si distingue dal madrigale polifonico coevo per le caratteristiche


ritmiche e di tessitura polifonica che la rendevano facilmente adattabile a esecuzioni
strumentali; il gusto delle elites francesi propende per generi/repertori diversi da quelli
italiani: mentre in Italia fa successo l’Opera, in Francia i ballts de court, la musica
strumentale in Francia si arricchisce di danze per liuto, cembalo, archi e ?ati. Maurgars,
violinista francese, 1639 scrive di ciò che ha visto/sentito a Roma riconoscendo agli italiani
maggiore fantasia, creatività e spirito rispetto alla regolarità compositivo/esecutiva francese.
Dalle sue parole si evince la propensione francese per la danza e la regolarità ritmica rispetto
ad una duttilità e complessità della musica italiana. La natura coreutica della loro musica è
conseguenza dell’educazione di gentiluomo ma anche della componente metrica presente nel
rapporto testo-musica della chanson polifonica: e il restauro dell’accentuazione quantitativa
latina nella lirica moderna servì a creare uno stile musicale caratterizzato da una forte rigidità
ritmica e da una propensione naturale per la regolare scansione metrica esatta dalla musica
per danza -> le danze monopolizzano le stampe e i manoscritti di musica
strumentale/liutistica e cembalistica. Francois Couperin, fu un grande cembalista francese
di 6-700 oltre che insegnante di musica e cembalo degli aristocratici parigini (ai quali si
rivolgono per gusto/forme/contenuti le sue raccolte). Nelle sue 4 raccolte, mescola danze e
“pieces de caractere” – brani riferiti ad ambienti, ?gure, sentimenti o caratteri che il pezzo
cembalistico rappresenta con ironia, ?ne di penetrazione psicologica o ?ne descrittivo (come
se con la sua musica, partecipasse alle conversazioni frivole e su argomenti disparati dei
salotti e contribuisca con questi “ritratti musicali”. Se la musica cembalistica è un ricercato
“gioco di società”, la musica d’assieme è impiegata per occasioni rituali, protocollari o di
intrattenimento. La Grande Ecurie, formata da ?ati e percussioni, aveva incarichi di natura
militare diplomatica o caroselli equestri; gli strumentisti erano ben pagati dato che si trattava
di un apparato rappresentativo della corte reale (anche Lully scrisse musiche per loro). Data la
sua importanza, gli strumenti usati dalla Grande Écurie furono perfezionati nella costruzione;
ad es., venne messo a punto il moderno oboe, sviluppandolo dalla più antica dulciana, con
l’aggiunta di fori e chiavi. L’oboe gareggiava in agilità e ampiezza di registri con il violino e
questa fu una delle ragioni per cui il violinismo in Francia non ebbe grande seguito (altra
di\erenza rispetto all’Italia). [l’equivalente civico del complesso reale era “la Confrerie de
Saint-Julien-des-Menetriers”, forniva musica alla cittadinanza e aristocrazia in caso di feste o
mascherate - tra loro e i complessi di corte non correva buon sangue, tant’è che Couperin in
una suite per cembalo, derideva la decaduta professionalità dei confratelli musici ridotti ad
istrioni da circo]. Il minor sviluppo del violinismo nel paese d’oltralpe fece sì che le prime
sonates per violino di autori francesi, imitazioni dello stile italiano, apparissero in Francia solo
dal 1695. Couperin, che si mise alla prova sia nello stile francese sia in quello italiano,
riconobbe in Corelli il principale violinista dell’Italia del tempo, ma non disse mai che il nostro
stile fosse migliore del loro: semmai ne riconobbe la diversità. In Francia restò comunque più
di\usa la viola, strumento nel quale raggiunse l’eccellenza André Maugars e che fu
apprezzato dalla corte e dalla nobiltà francesi tanto da solo quanto in piccoli complessi da
camera.

Dall’Italia all’Europa: Antonio Vivaldi e lo stile italiano in Germania

Nel periodo in esame, la Germania era divisa, proprio come l’Italia, in regioni politicamente e
dinasticamente indipendenti. Per questo, l’inouenza italiana fu più forte nelle regioni
cattoliche del sud, piuttosto che al nord, dove invece fu intensa l’inouenza francese. Il
frazionamento territoriale tedesco favorì la creazione di cappelle musicali rispondenti a
diverse esigenze (civiche, di corte, d’intrattenimento privato, religiose): crebbe così la
domanda di professionismo musicale. Furono molti i musicisti italiani attivi in Germania, così
come quelli tedeschi inviati in Italia ad assimilare la musica italiana. Fra gli “esportatori”,
ricordiamo Padovano, Marini, Farina; fra gli “importatori”, spiccò l’organista Froberger –
quest’ultimo trasmise lo stile tastieristico italiano in Germania ma si interessò anche alla
musica francese assimilando lo stile e componendo suites per cembalo. Si manifesta così la
compresenza di stile italiano e francese nella sua (e di altri del Nord Europa) produzione per
tastiere, ?no a Bach che fuse i due stili in una sintesi personale. Tra i maggiori responsabili
dell’italianizzazione della musica germanica ci fu il veneziano Antonio Vivaldi. Egli insegnò

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dapprima violino alle “putte” dell’Ospedale della Pietà di Venezia (= istituzione che accoglieva
orfani e indigenti dando loro ricovero e un’istruzione, anche musicale), poi tentò la strada del
compositore d’opera e dell’impresario, ma questa attività gli causò perdite ?nanziarie che
cercò di recuperare componendo musica, soprattutto di concerti, che vendeva a turisti o
musicisti di passaggio a Venezia. Non ottenne mai impieghi stabili e non raggiunse fama
internazionale; morì a Vienna dove si era recato sperando di ottenere l’appoggio
dell’imperatore Carlo VI. [Vivaldi, come compositore di musica strumentale, non inventa
niente; nell’ambito della sonata per organico cameristico, si pone sulla scia di Corelli; nel
concerto solistico riprende i modelli di Torelli.] Inouenzò la produzione concertistica di tutta
Europa. Il suo concerto è in soli tre movimenti: veloce-lento-veloce. Raramente usa tecniche
complesse come il fugato o il contrappunto. Già questo lo di\erenzia da Corelli. Inoltre, in
Vivaldi non c’è integrazione/interazione tra un concertino e un concerto grosso, ma un solista
(o più d’uno) che si staglia da protagonista sull’accompagnamento di un’orchestra relegata a
un ruolo più marginale o ripetitivo. La struttura dei concerti di Vivaldi è “a ritornello” in cui si
alternano parti orchestrali introduttive e di raccordo, e parti solistiche aperte al virtuosismo.
Da ciò si deduce che il concerto vivaldiano è agevolmente scomponibile in sezioni distinte:
l’incipit è quasi sempre anche l’explicit del movimento; le riprese interne sono per lo più
abbreviate; il movimento centrale è di solito più semplice di quelli estremi, mentre quello
?nale (in tempo ternario) è più spigliato e complesso di quello iniziale (binario). Nel 1711,
Vivaldi pubblicò L’Estro armonico, con cui sperava di conquistare una fama nazionale. In
e\etti, questa fu una delle pubblicazioni più inouenti del Settecento e una delle opere
vivaldiane più riuscite. Le altre sue composizioni furono, infatti, più semplici per dimensioni,
semplicità di articolazione e invenzione delle sezioni interne. Proprio la struttura semplice
delle sue composizioni (per lo più per violini e archi, ma anche per violoncello, oboe, oauto
traverso, fagotto, liuto) permise a Vivaldi di produrre grandi quantità di concerti e di
smerciarli facilmente in forma manoscritta. Molti dei suoi concerti hanno titoli descrittivi
come i Concerti delle stagioni/Il cardellino / la notte / la caccia e così via; condivideva l’idea
che la musica potesse rappresentare realtà extramusicali (come Couperin ma lui rendeva
caratteri/atteggiamenti psicologici e giochi di società) associando fenomeni sonori a fenomeni
atmosferici. I suoi concerti vennero stampati ad Amsterdam dagli editori La Cène, i quali, con
una moderna tecnica di incisione su lastra di rame, garantivano maggiore esattezza e
leggibilità, sottraendo mercato ai veneziani. Lo scarso guadagno che gli veniva dall’aPdarsi
all’imprenditoria della stampa lo convinse, tuttavia, a proseguire personalmente la vendita.
Interesse e passione per la musica vivaldiana furono manifestati dai musicisti tedeschi: le sue
composizioni, infatti, si di\usero ovunque in Germania e furono accolte con entusiasmo e
ammirazione: tant’è vero che Vivaldi era più conosciuto in Germania che nel suo paese
d’origine.

La fusione degli stili nazionali: Johann Sebastian Bach

Bach, sommo esponente di musica tedesca (ebbe un ruolo fondamentale nel fondere insieme
alcuni tratti dello stile tedesco e di quello italiano per creare uno stile tedesco distinto); nasce
a Eisenach da una famiglia di musicisti che costituirà una delle sue fonti di formazione
insieme ad altre personalità musicali della sua città natìa. Si perfeziona come organista e
violinista nella Germania del Nord, dove prevaleva il gusto per lo stile francese ornamentato,
e ad Amburgo, dove dominava uno stile contrappuntistico tipico del Nord Europa. I suoi primi
incarichi furono come organista: da qui la sua produzione tastieristica giovanile, in cui
emergono stile italiano e francese appresi nel periodo di formazione e da composizioni
cembalistiche che rivelano l’a€usso sia di Frescobaldi (alternarsi di elementi
contrappuntistici e toccatistici nel Capriccio BWV993) che di Couperin (lo psicologismo del
Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo BWV992 anche se fa uso della
terminologia italiana come “arioso, adagiosissimo…”). Bach si distanzia, peraltro, dal
descrittivismo francese per applicare la teoria degli a\etti e delle relative ?gure musicali. Tale
teoria mira a ?ssare precise corrispondenze fra ?gure musicali e a\etti suscitati. Nel periodo
trascorso a Weimar, presso il duca Wilhelm Ernst di Sassonia (incarichi di Hoforganisti,
Cammermusicus e Concertmeister) a\ronta uno studio scienti?co delle opere francesi e
italiane, copiandone per intero alcune. L’interesse del principe Johann Ernst per Vivaldi lo

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fecero familiarizzare con la musica di quest’ultimo. Lasciata Weimar per dissapori con il duca
(1717), passa a Cothen con l’incarico di kapellmeister alla corte del principe Leopold di
Anhalt- Cothen, musico?lo che infondeva energia alla vita musicale della sua corte e città. r.
Qui l’attività di Bach compositore raggiunge l’apice. I sei anni a Cothen determinarono
complessivamente il corpus di musica strumentale più consistente di Bach. In questo periodo,
egli entrò in contatto con il margravio del Brandeburgo, Christian Ludwig, a cui dedicò i
celebri Concerti brandeburghesi. Qui produsse 6 concerti per diversi strumenti, 3 concerti per
violino le 6 suites per violoncello, 8 sonate per violino e cembalo e latro ancora. I concerti
Brandeburghesi sono concerti per diversi strumenti intesi come composizioni concertistiche
in cui ogni parte è eseguita da un solista. Una sintesi di concertismo francese alla Couperin (il
numero degli strumenti richiesti non eccede quello delle parti strumentali e quindi non
servono raddoppi) e di concertismo italiano (forma complessiva in tre movimenti del veloce-
lento-veloce). Rispetto all’italiano, però, si ha un arricchimento di elementi timbrici e
linguistici che ne aumentano la durata. In esso è presente un lungo passaggio solistico per
“cembalo concertato” in cui per la prima volta lo stile toccatistico e virtuosistico della tastiera
bachiana si manifestano entro la forma del concerto. Più apertamente italiani (vivaldiani nella
riproposta della struttura a ritornello) sono i concerti per violino e per altri strumenti solistici
realizzati nel periodo di Lipsia; mentre francesi sono le overtures per orchestra o le 6 suites
per violoncello solo. I due stili si confrontano in Sei solo a violino senza basso
accompagnato, capolavoro dell’arte violinistica ineguagliato di invenzione e tecnica fuse
nella scrittura solistica. [È costituito da 3 sonate con lo schema della sonata dello stile da
chiesa con 4 movimenti in ascendenza (lento introduttivo a carattere rapsodico/allegro fugato/
andante lirico/?nale allegro bipartito) e 3 partite che allineano forme di danza in sequenza.]
Possibile che fossero scritti per sé stesso o per Pisendel; la titolazione in italiano del
frontespizio dell’autografo fa pensare ad un’allusione ai “Sei solo” di Corelli che Bach
richiama e supera elaborandone una versione più audace e moderna. Bach si appropria delle
caratteristiche originarie italiane e francesi permeandole con la complessità polifonica,
costruttiva e concettuale del comporre germanico. A Lipsia, 1723 come Cantor nei servizi
liturgici e nella didattica presso la chiesa di S. Tommaso, continua con la musica concertistica
data la vivacità della vita musicale nella città; qui riprese molte delle musiche strumentali
composte a Cothen riadattandole ai bisogni nel periodo del Collegium musicum(complesso
strumentale fondato nel 1702 attivo in uno dei ca\è). Nella fase conclusiva della sua attività di
compositore rivitalizza alcune forme da lui trascurate in precedenza con l’esperienza
maturata: le Variazioni Goldberg lavoro in cui una semplice aria bipartita, viene rielaborata
ritmicamente e stilisticamente. L’arte della fuga, opera mitica per la sublime astrattezza del
pensiero contrappuntistico, per l’impiego del nome dell’autore a formare le note del terzo
soggetto della penultima fuga B A C H secondo la nomenclatura delle note tedesche: si b – la-
do- si diesis) immedesimazione ideale del musicista con la materia da lui stesso plasmata.
Bach o\re di se una dimensione stilisticamente retrospettiva e autoriale, portando a
compimento il processo di intelletualizzazione e semantizzazione della musica strumentale
avviatosi in Italia un secolo e mezzo prima.

Capitolo 5

Il sacro in musica. Da Palestrina a Bach

La musica sacra, forma d’arte colta e professionale, si sviluppa dal tardo Medioevo alla prima
età moderna, in parallelo al crescere del potere politico-economico o delle istituzioni deputate
all’amministrazione della vita religiosa che manifestano il loro splendore anche applicando
alla liturgia ecclesiastica il professionismo di compositori ed esecutori. Essendo la liturgia
?ssa, la musica sacra (messe,mottetti,innni,salmi), ha un ruolo meno autoriale e una
condizione stilistica più statica e ripetitiva, almeno ?no a quando la nascita di repertori
paralleli devozionali e spirituali, come l’oratorio, aprono alla contaminazione con stili
dell’ambito profano. Nonostante ciò, però anche con autori di grande livello – Bach,
Palestrina, Monteverdi – la musica sacra sarà sempre un “prodotto funzionale” con
potenzialità creative condizionate dalla sua destinazione.

Roma e Palestrina

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Nell’ambito della musica sacra del ‘500, Roma fu al centro delle produzioni. Fra le cappelle
musicali romane spiccava la Cappella Ponti?cia (o Sistina), cappella musicale privata del
Papa, costituita da cantori di altissima qualità di provenienza francese, ?amminga e spagnola.
Nel XVI secolo si crea una “scuola romana” che rimarrà per diverse generazioni; a ra\orzare
l’immagine di una scuola omogenea geogra?camente e stilisticamente connotata, contribuì la
nascita della Congregazione dei musici di Santa Cecilia, che disciplinava tutti gli eventi
musicali della città - ebbe una spiccata tendenza conservatrice. In realtà, quest’ultima dovette
confrontarsi con una realtà linguistico-musicale in pieno sviluppo: il risultato fu un repertorio
diviso fra conservazione stilistica e ibridazione a contatto con la modernità. Palestrina fu un
punto di riferimento e modello per tutti i compositori e musicisti d’Europa, Il suo successo
derivò soprattutto dalle strategie che seppe adottare per promuovere le sue opere. Il suo stile,
detto “osservato” (o “a cappella”, o “alla Palestrina”), è in realtà il prodotto di intera
generazione di compositori a lui coevi: , consiste nel sempli?care complessi procedimenti
compositivi franco-?amminghi in favore di una maggiore linearità della tessitura
contrappuntistica; a ciò si aggiungono elementi tipicamente italiani come la varietà armonica
e la cantabilità delle linee melodiche: ne deriva una polifonia composta, di grande eleganza
formale e morbidezza armonica, in cui si combinano tecnica e stile. Dal Kyrie I di una nota
composizione la “Missa Papae Marcelli” a sei voci, è possibile delineare le principali qualità
dello stile palestriniano: compostezza ed equilibrio nell’andamento delle linee melodiche;
discorso musicale che si sviluppa in un ousso continuo (la sezione ?nale di ogni episodio si
allaccia con l’inizio della seguente); eleganza della tessitura contrappuntistica grazie alla
disposizione accorta di consonanze e dissonanze (usando soluzioni stilistiche come imitazione
alternata da momenti di omofonia). Questi elementi sono riscontrabili anche in altri polifonisti
suoi coevi, dunque, lui fu colui che meglio seppe esprimerla piuttosto che il creatore, divenne
un modello linguistico-musicale di riferimento facendo una sintesi delle forme/tecniche/stili
che aveva conosciuto elaborandone un linguaggio musicale adatto a servire la Chiesa.
Durante la sua carriera ricopre incarichi di prestigio: maestro di cappella delle tre maggiori
basiliche; fece parte del Collegio dei cantori ponti?ci; membro fondatore della Congregazione
dei musici di Santa Cecilia; 1577, incarico da Gregorio XIII di revisionare il repertorio
gregoriano. (cura molto la confezione e presentazione gra?ca delle sue opere per accrescere
la sua reputazione di professionista musicale). Con messa polifonica, connessa alla
celebrazione, si intende in musica l’intonazione dell’insieme dei cinque canti dell’Ordinarium
Missae: Kyrie, Gloria, Credo Sancutus, Agnus Dei, che costituiscono la parte della liturgia
eucaristica. (La messa polifonica e il suo testo, sempre invariato, è il più musicato
considerando che quasi tutti i compositori dal 400 ad oggi hanno composto almeno una
messa, quindi da funzione liturgica si arricchirà di valenza artistica con grandi compositori
come Bach, Beethoven, Verdi.) Fu una palestra per i compositori, data la ?ssità dei testi,
questi si dovevano adoperare per sfruttare tecniche e stili e comporre in modo originale e
Palestrina in questo fu ammirevole, componendo un corpus di oltre cento messe, molto
diversi?cato. Alcune delle sue messe sono basate su cantus Hrmus gregoriano (= nome dato
al canto gregoriano nel tempo in cui, perduta l’originaria varietà ritmica, veniva eseguito con
andamento solenne e valori ritmici quasi tutti uguali): la “composizione su canto fermo” era
sostanzialmente una “addizione”, simile alla glossa aggiunta a un testo biblico o classico, con
un atteggiamento riverente di omaggio al modello - il cantus ?rmus di una composizione sacra
poteva essere tratto da un ambito liturgico/devozionale e anche profano. Tre messe di
Palestrina (tratte dal suo primo libro di messe), invece, sono missae ad imitationem o
“messe-parodia”, ossia costruita secondo la tecnica ?amminga dell’imitazione: un intero brano
polifonico preesistente viene riutilizzato come base per comporre uno o più canti della messa.
Nei suoi successivi 14 libri, si notano altre tecniche di composizione di questo genere: la
“messa-parafrasi” - anch’esse basate su canto fermo (inserito però nella tessitura
contrappuntistica e ripreso in imitazione in ognuna delle parti vocali). Altra tecnica è quella di
usare un soggetto libero che porta ad una composizione originale interamente (Missa Papae
Marcelli); comune a tutte le tecniche di Palestrina fu la variazione di un’idea suprema di stile
osservato, un modello costantemente imitato e perseguito che si realizza con l’imitazione al
discorso musicale anche attraverso la riproduzione di un modello preesistente che assorbito in
una nuova composizione ne diviene il punto di partenza). Oltre alle messe, Palestrina compose

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quasi 400 brani in forma di mottetto + altre centinaia di madrigali, lamentazioni, inni etc. Il
mottetto è un’altra forma tipica della polifonia sacra, destinata all’uso liturgico. Il termine
deriva dal francese mot (testo) e originariamente era una composizione polifonica a 2 voci.
Era quindi più breve della messa e poteva avere funzioni diverse a seconda del testo. Le
tecniche compositive erano le stesse della messa anche se si presta di più alla
sperimentazione compositiva. Nonostante la musica sacra più rappresentativa fosse quella
polifonica, nel ‘500 e nei due secoli successivi, la forma di canto più di\usa nelle chiese fu il
monodico liturgico conosciuto come canto gregoriano. Questo cantus planus (come si
trova chiamato nelle fonti cinquecentesche) è costituito da una singola linea melodica le cui
note (neumi) non hanno un valore determinato poiché il ritmo è determinato dal testo verbale.
Si venne a creare una grande e disordinata quantità di testi trasmessi oralmente che nel VIII
secolo furono selezionati e codi?cati per opera di Carlo Magno che volle creare il Sacro
Romano Impero puntando su un comune culto religioso per il suo vasto territorio, bandendo i
riti locali a favore del solo rito romano determinando il repertorio “canto franco-romano”
denominato, anche se impropriamente, “canto gregoriano”, così denominato perché si
credeva che fosse stato creato da Papa Gregorio Magno.

Riforma luterana, Riforma cattolica


Tra ‘500 e ‘600, la musica da chiesa conobbe degli sviluppi in seguito alla riforma di Lutero,
che prevedeva l’attiva partecipazione dei fedeli alle funzioni liturgiche. Da qui l’impiego del
tedesco al posto del latino e il canto come partecipazione attiva dei praticanti al culto
attraverso canti monodici molto semplici. Promossero l’uso di canti monodici dalla linea
melodica semplice per essere facilmente memorizzati e intonati dall’assemblea; le melodie
derivavano dal canto gregoriano, canzoni popolari o veniva create appositamente ma i testi
venivano da parafrasi di Vecchio/Nuovo testamento. Il corale è di norma in forma stro?ca per
cui alla stessa melodia si applicano diverse strofe del testo. Alla riforma luterana seguì la
Controriforma della Chiesa di Roma, che, per respingere le posizioni luterane, diede avvio al
Concilio di Trento, che vietò l’utilizzo di melodie improprie, di origine profana e impose che il
testo fosse comprensibile ai fedeli. Tuttavia, il Concilio non produsse e\etti signi?cativi nello
sviluppo del linguaggio musicale: lo stesso Palestrina continuò a comporre secondo il suo stile
anche dopo, così come continuò ad usare cantus ?rmi tratti anche dal repertorio profano. La
riforma cattolica, a parte le iniziative conservatrici, invitò anche a porre attenzione alla
didattica nella musica nei seminari e nei collegi tenuti soprattutto dai Gesuiti, così come nelle
istituzioni laiche e clericali: tra queste, ebbe un ruolo fondamentale la Congregazione
dell’Oratorio, fondato da Filippo Neri. In questo contesto nacque il genere che da esso prese il
nome, l’oratorio, detto anche historia sacra, (tipologia di mottetto o madrigale in forma di
dialogo, il cui scopo, oltre che devozionale, era di divulgare Bibbia e Vangelo nei testi musicati
e di intrattenere i fedeli in particolari momenti dell’anno liturgico), che, con il tempo da forma
polifonica, si avvicinò sempre più al coevo melodramma per l’utilizzo di forme dialogiche in
recitativo. L’oratorio in latino ebbe meno successo di quello in volgare (solitamente diviso in
due parti e tra i personaggi dialoganti c’era il narratore con il suolo di descrivere la vicenda e
raccordare gli episodi); si di\erenziò dall’opera in musica anche se ne condivideva forme e
stili, perché mancava di apparato scenico e il carattere non mercenario delle produzioni.

Dal rinascimento al barocco: diversiJcazione degli stili

Nei primi decenni del 600 ci furono mutamenti nel linguaggio musicale, la musica sacra si
trovò al centro tra tradizione e innovazione. Se nel 500 esisteva una sola pratica compositiva
“l’osservato” ora si de?niscono maniere esecutive e compositive diverse che possono
coesistere all’interno di una stessa composizione contribuendo alla nascita della nozione di
“stile”, che spesso si riscontra nei trattati teorici in cui si classi?cano le tipologie stilistico-
musicali in base al linguaggio compositivo, organico e ambiente di fruizione. I nuovi stili
compositivi nella musica sacra, accomunati dalla presenza del basso continuo (organo),
dissonanze, ?oriture e alterazioni. Si a\erma il principio del “concertato”: le diverse parti
che compongono la polifonia alternano organici variabili, sia vocali che strumentali (binario o
ternario). Si contrappone ad esso lo stile “pieno”: ogni parte vocale ha lo stesso peso nella
costruzione del brano e la tessitura polifonica è densa e compatta. Da ?ne 500 nascono due
diversi orientamenti per gli organici volcali e strumentali: da una aumenta il numero delle

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parti (policoralità) e dell’altra si riducono le parti vocali al di sotto di 4 unità. Queste ultime
sono denominate in vario modo: concertini alla moderna, sacri concerti, dialoghi, cantilene
ecc. e si di\ondono in breve tempo soprattutto nelle piccole cappelle, ?nora costrette a
cantare composizioni per un organico più vasto eliminando una o più parti vocali, con grave
pregiudizio per l’esecuzione. L’espressione più evoluta di questi concertini alla moderna può
essere il mottetto per voce sola, in cui spesso si alternano sezioni recitativo e arioso, analogo
alla cantata profana che dopo aver conquistato gli ambienti teatrali veniva assorbita nella
sfera sacra.

I centri di produzione di musica sacra in Italia: Roma, Venezia e Napoli

Dato il moltiplicarsi delle speci?cità stilistiche anche nella musica sacra, Roma si con?gura
come luogo di scontro tra tradizione e innovazione a causa delle autorità ecclesiastiche che
cercavano di arrestare le aperture alla musica moderna; tuttavia, soprattutto nelle piccole
cappelle queste indicazioni furono disattese, l’unico a mantenere una linea tradizionalista fu il
Collegio dei cantori ponti?ci. Ci fu chi ha cercato di fare nuove composizioni in stile osservato
ma ne risultò piuttosto una “tradizione inventata”. Ci furono dei compositori che continuarono
a coltivare lo stile osservato, ma si cimentarono anche con le tecniche moderne (Giorgio
Allegri, Matteo Simonelli, Giacomo Carissimi ecc.), Roma fu anche attrazione per molti
musicisti forestieri (dal sud o d’oltralpe) per studio, lavoro e per la varietà di stili e generi che
l’uso locale permetteva di praticare. Tra queste, la policoralità, o\riva la possibilità di
comporre qualcosa di monumentale grazie all’impiego di numerosi cori (oltre 100 cantori);
composizioni che ?orirono con l’espansione dell’arte barocca romana (Borromini, Bernini)
tanto che spesso sono messe in relazione. La basilica vaticana in occasione di festività
straordinarie (giorno di S. Pietro e Paolo) musiche sfarzose che potessero riempire gli
articolati spazi architettonici, i cori venivano dislocati in diversi punti a volte su palchi mobili
con un coro in eco sistemati in cima alla cupola – in concomitanza con il bisogno di
grandiosità della controriforma. Questo stile policorale denominato “stile grosso” o “barocco
colossale” trova i suoi maggiori esponenti in Orazio Benevoli e Giuseppe Pitoni. A Venezia, la
Repubblica approvò una propria autonomia da Roma e ciò si rispecchia nella polifonia
liturgica. L’istituzione musicale più importante fu la cappella ducale della basilica di S. Marco,
gloriosa dal 500 al 700 – la sua gestione passa da maestri ?amminghi (Willaert, De Rore) a
quelli italiani (Zarlino, Merulo, Andrea e Giovanni Gabrieli) la musica degli ultimi due è
l’emblema dello stile polifonico veneziano tra 5-600 diverso dalla tradizione polifonica
rinascimentale soprattutto romana. La polifonia veneziana usava formazioni a più cori
combinati con strumenti musicali (a Roma era vietato). Nel 1613 fu maestro di cappella a San
Marco Claudio Monteverdi, autore, tra le altre, di una raccolta dedicata a Paolo V nel
tentativo di ottenere una posizione a Roma; la raccolta contiene una Messa, i Vespri della
Beata Vergine, e alcuni “concerti sacri” concepiti per il culto mariano. Per la messa usa il
genere sacro polifonico, tipico dello stile osservato ma per le altre composizioni usa un
proprio stile moderno: unisce strumenti e voci creando passaggi di canto virtuosistico a voce
sola e giocando con timbri e espressività cromatiche degli organici. È nei brani propri del
Vespro che troviamo una sintesi del suo linguaggio compositivo, alterna elementi tipici
tradizionali a tecniche moderne: stile a cappella, falsobordone, canti fermi intonati in valori
lunghi che danno uno spettacolare e\etto sonoro. La musica sacra che Monteverdi compone
per Venezia si colloca nello stile pieno o concertato; previsto era spesso il basso continuo,
organici le cui voci variano da una a 8 con varie tipologie di strumenti. A Venezia oltre le
istituzioni ecclesiastiche, a produrre musica c’erano diverse confraternite, ospedali dove
erano ospitate le “putte” fanciulle orfane o povere alle quali si insegnava la musica; in questi
ultimi luoghi tra i maestri troviamo Vivaldi attivo all’Ospedale delle Pietà. [Vivaldi era noto per
opere sia liturgiche che non; lo stile della sua produzione sacra era connesso all’organico vocale e
strumentale: stile concertato, adottato con più solisti, orchestra e coro; arioso o recitativo, presenti nelle
composizioni con una sola voce solista; stile pieno, con il coro.] A Venezia si ricorda anche Benedetto
Marcello che, essendo di famiglia nobile, non fu attivo né negli ospedali né in cappelle
musicali; compose peraltro una raccolta (Estro poetico-armonico) in 8 tomi, dove mise in
musica – non destinati alla liturgia – i primi 50 salmi della Bibbia. Composti per un organico
da una a 4 voci con alternanze tra solisti e coro. L’opera ebbe ammiratori in tutta Europa, tra

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cui Rossini, Chopin e Verdi. Anche a Napoli (capitale di un viceregno sotto la dominazione
spagnola) ci fu nel ‘600 un incremento delle attività musicali. Qui ebbero un ruolo rilevante i 4
conservatori, l’equivalente degli ospedali veneziani, dove però si accoglievano poverelli e
orfani maschi: strumentisti, cantanti e compositori che di\usero la fama e stile della “scuola
napoletana” in Italia ed Europa furono Niccolò Piccini, Domenico Cimarosa ed altri
provenienti dal Mezzogiorno; ma giunsero anche forestieri e paradossalmente fu proprio ad
uno degli allievi di un conservatorio che si attribuì l’a\ermazione del mito della scuola
napoletana, Pergolesi. Nel corso del 600 anche altre città, musica sacra e relative istituzioni
furono ?orenti dopo la Riforma cattolica: a Bologna il Duomo di San Petronio vantava una
cappella musicale ricca di 36 cantori 10 strumentisti. In tutto il resto di Italia si intensi?ca
l’attività musicale e lo spostamento di musicisti contribuì alla di\usione di tecniche e musiche
diverse, così la musica sacra italiana alimentò l’economia delle stamperie veneziane, romane,
bolognesi, napoletane e si impose come modello in Europa.

Dall’Italia all’Europa

I rapporti tra la musica sacra italiana e quella delle altre regioni europee si sviluppa in due
“linee”: da una parte, gli Stati monarchici (Francia, Inghilterra) oppongono resistenza;
dall’altra, nei paesi frammentati territorialmente dal potere locale e religioso (Germania del
Sacro romano Impero), si realizza un’osmosi tra le musiche locali e quelle italiane. In Francia
e in Inghilterra, dunque, nella musica sacra di corte si sviluppa un apparato cerimoniale
autonomo, che si distacca dalla liturgia uPciale della Chiesa romana. Il culto viene oPciato
alla presenza del re con la cosiddetta messe basse solennelle: “messa bassa” perché
celebrata sottovoce, “solenne” perché caratterizzata da un apparato corale e strumentale
sfarzoso. La messe, la cui esecuzione è aPdata alla Chappelle du Roy, comprendeva in
successione tre composizioni: 1) il grand motet, concepito per l’organico completo della
cappella (dava solennità e sfarzo alle cerimonie reali, forma peculiare della musica sacra in
Francia che non c’entrava niente con la liturgia, piuttosto celebrava il potere monarca); 2) il
petit motet e 3) la prière pour le roi, le ultime due più brevi e dimesse per poche voci soliste e
in basso continuo. Fra i grandi compositori di grands motets ?gurano Du Mont, fra quelli in
servizio nella Cappella, e Lully, fra gli esterni. In Inghilterra, con l’instaurazione della
Repubblica di Cromwell, la musica fu bandita dalle chiese. La musica sacra tornò in auge con
la restaurazione di Carlo II Stuart, ma si avviò in direzioni diverse: - da una parte, il repertorio
polifonico a cappella fu ripreso e accresciuto: diverse raccolte di anthems (equivalente del
mottetto continentale) furono ristampate con l’aggiunta di composizioni più moderne; -
dall’altra, si attuò una riforma stilistica sul modello francese promossa da Carlo II, che costituì
una Royal Chapelle e sollecitò la produzione di un nuovo tipo di antheme con ?nalità
celebrative. L’autore di riferimento in questo ambito fu Henry Purcell, di cui restano 70
anthems. Si distinse, inoltre, il tedesco Händel che completò la propria formazione in Italia e
si trasferì in Gran Bretagna (1711) dove rimase tutta la vita. A di\erenza di Bach, che fonde le
diverse conoscenze in un proprio stile, Handel aPna le proprie abilità in loco nei diversi
generi connotati geogra?camente, per poi utilizzarle all’occorrenza nelle sue musiche. In
Inghilterra, ebbe successo per i suoi oratori in lingua inglese, che danno particolare rilievo
alle parti corali, le quali diventano rappresentazione della comunità stessa; i soggetti del
vecchio testamento si prestavano perfettamente a questa identi?cazione; è pensato per essere
eseguito in teatro, così come l’opera in musica. A di\erenza del melodramma, nell’oratorio
l’azione non è rappresentata, e la perdita dell’elemento spettacolare è compensata dalla
funzione predominante del coro, su cui ora si concentra l’attenzione dello spettatore; è
espressione del potere monarchico e popolo inglese attraverso le Sacre Scritture, non ha a
che vedere con funzioni liturgiche (Germania) o devozionali (Italia). Con Israel in Egypt
(1738), l’oratorio di Handel, assume la sua forma: venti cori, solo 7 arie e 4 recitativi; impiego
di stilemi italiani e ripresa di composizioni di altri autori. Tra i soggetti oltre l’antico
testamento abbiamo temi mitologici/allegorici e moraleggianti. e. L’oratorio più celebre di
Handel è il Messiah (rappresentazione della venuta di Cristo, della redenzione dell’uomo e
della funzione del cristianesimo nel mondo), che si caratterizza per l’assenza di dialoghi e
personaggi: la stessa presenza di Cristo è evitata; Sono invece giustapposti diversi brani tratti
dal Vangelo e dalle Lettere degli Apostoli, frammenti di profezie, lamentazioni, salmi

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combinati in modo che le vicende di Gesù siano lasciate sottintese, ma sempre evocate. In
Germania troviamo invece un amalgama della musica sacra italiana con quella luterana e
cattolica del territorio tedesco (molti artisti italiani trovano impiego al Nord, mentre diversi
tedeschi vengono in Italia per apprendere). Spesso vengono prediletti alcuni modelli stilistici
di origine veneta, come ricorre nella musica di Hassler e Schutz, allievi di Gabrieli. Schutz in
particolare, maestro di cappella a Dresda, fu autore di numerose composizioni mottettistiche e
padroneggiò tutti gli stili compositivi di epoche e culture diverse. Venuto a contatto con
Monteverdi a Venezia, ne adottò poi lo stile “concitato” in alcuni suoi lavori; altrove, invece,
adoperò lo stile alla Palestrina. L’inousso della musica italiana fu ovviamente più forte nelle
cappelle tedesche di confessione cattolica. Fu Bach l’autore che, sintetizzando le opzioni
stilistico-musicali, diede origine all’a\ermazione della musica tedesca che divenne guida e
modello d’Europa, scansando così l’Italia.

Johan Sebastian Bach

Bach compose la maggior parte della sua musica sacra nel periodo in cui fu a Lipsia, dove
ricoprì il ruolo di Cantor della chiesa di San Tommaso. Molta della produzione di questo
periodo è il frutto di una rielaborazione di composizioni precedenti, giovanili. Oltre alla
produzione in lingua tedesca, compone anche in latino (Magni8cat BWV 243/ Messa in Si
minore BV 232). A Lipsia, compose cantate per 5 annate liturgiche complete, e ne componeva
?n dal 1706, motivo per cui, un’analisi di questo genere è utile per capire l’evoluzione del suo
processo compositivo. Nelle sue cantate, troviamo tecniche e stili compositivi antichi e
moderni, con i quali veste di musiche concetti teologici e anche moderne scritture poetiche;
traspone il senso dei testi in musica con l’uso di ?gure retoriche musicali. Struttura:
alternanza di cori, arie, ariosi e recitativi, a volte preceduti da una sinfonia strumentale.
Fondamentale è la presenza del corale collocato agli estremi della composizione. Tra le
sezioni di corale si inseriscono due coppie di brani (ognuna costituita da recitativo e duetto),
in cui si lascia spazio al virtuosismo vocale e strumentale. (ascolto: Wachet auf, rufs uns
dieStimme BWM 140). Tra il pensiero musicale di Bach e il contenuto teologico perseguito
dalla sua musica c’era un legame molto stretto. Nella Passione secondo Matteo, questo
legame è evidente nell’assetto ritmico (ad es., la solennità del ritmo degli archi nel primo
corale è metafora del corteo di Vergini che avanzano verso lo sposo), nei toni (l’uso dei tre
bemolle in chiave è un richiamo alla simbologia trinitaria che pervade lo stesso corale), nella
melodia, nell’armonia, nei timbri, etc. Insomma, la musica bachiana è disseminata di
riferimenti al signi?cato del testo secondo quella teoria degli acetti che voleva ottenere una
partecipazione più consapevole del fedele-ascoltatore al servizio liturgico. La partecipazione
del fedele è ancor più sollecitata delle Passioni: immense cantate destinate alla liturgia del
Venerdì Santo. Delle cinque che Bach compose ce ne restano solo due: - la Passione secondo
Giovanni, che fu ripresa in altre 4 occasioni, nel corso delle quali Bach modi?cò di volta in
volta testo e musica; - la Passione secondo Matteo, di dimensioni più ampie e già citata. La
pratica di recitare il testo della Passione tratto dai 4 vangeli canonici si sviluppò nei secoli
portando questo genere a metà tra teatro e liturgia; è nel corso del 600 (con intro di arie e
recitativi provenienti dall’opera) che si delineano due forme di Passione: la Passione-oratorio,
di stampo devozionale, e la Passione oratoriale, di ambiente luterano e connessa alla pratica
liturgica. Entrambe le Passioni di Bach sono di stampo oratoriale: la parola del Vangelo è
espressa tramite recitativo del personaggio dell’evangelista ed è interpolata con altri testi di
invenzione poetica, destinati ad arie e cori dove la parola sacra viene commentata; poi
vengono aggiunte corali prese dal repertorio luterano per indicare la partecipazione del
fedele agli avvenimenti della Passione. Il testo in cui interviene lo stesso Bach, è di Picander, e
in musica viene espresso. Nell’ambito della produzione sacra di Bach un ruolo di rilievo ha la
Messa in Si minore, una delle sue poche composizioni in latino. I 25 numeri di cui sono
composti i 5 canti vennero composti in momenti diversi e con diverse ?nalità, e rappresentano
una sorta di antologia di tutti (o quasi) gli stili, i generi e le tecniche compositive conosciuti
dall’artista. Nonostante, come si è detto, le singole parti della Messa risalgano a momenti
diversi solo successivamente riuniti, l’opera mantiene un grande senso di coesione. Il suo
processo compositivo prevede l’utilizzo di musica preesistente adattata all’occasione secondo
la tecnica della parodia, pratica di\usa al tempo. Molte teorie de?niscono quest’opera come

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multifunzionale, può essere cioè considerata sia evangelico-luterana che cattolica (rivolta
insomma a tutti i cristiani). Sul piano musicale, ciò si rivela nell’integrazione di elementi
stilistici e formali diversi: crea un corpus compositum caratterizzato da un gioco di contrasti
ed equilibri – stile antico e moderno, polifonia e monodia, contrappunto e omofonia –
combinato in questa sorta di testamento musicale. Così questa esecuzione si poteva ripetere
più volte nel corso dell0anno e in un ambito territoriale e temporale non limitato. Dal secondo
700, la musica sacra perderà il suo profondo legame col rito per andare verso lo spettacolo
estetico e sonoro.

CAPITOLO 6 – L’Italia in Europa: Il Settecento operistico

Opera del 700: L’opera del Settecento resta un’arte “lontana” proprio per il suo carattere
ricco, diseguale e fondato sul continuo rinnovamento; occorre che l’ascoltatore moderno si
metta in cerca dei titoli che oggi non sono di grande di\usione, piuttosto di nicchia. L’opera
italiana – prodotto artistico della società delle corti in epoca moderna – bene?cia, nel 700
grazie alla sua adattabilità a scenari storici mutevoli, di ampia di\usione (tranne che in
Francia, fedele alla propria tradizione musicale e teatrale ?no a ‘800 inoltrato) nei teatri
iberici, anglosassoni, mitteleuropei, germanici e nordici, grazie a libretti d’opera con
traduzione a fronte. La visione di spettacoli operistici diviene parte dei tours che richiamano
in Italia viaggatori d’oltralpe (come Burney o Goethe) e talora riportano il loro commento
memorialistico su di essi. I libretti d’opera si di\ondono, e l’opera stessa diventa centro di
dibattito intellettuale nella critica letteraria italiana ed estera. I compositori italiani trovano
ospitalità in corti estere, e gli stranieri si vantano della propria formazione italiana come
vantaggio per la loro carriera europea. Lo spettacolo d’opera italiano fra ‘600 e ‘700
aveva bisogno di speci?che condizioni, prima fra tutte un teatro detto all’italiana, costituito
da platea, distinta dal palcoscenico, e palchetti divisi su più ordini; la luce delle candele
doveva illuminare il teatro per tutto lo spettacolo (infatti, allora, il pubblico in sala circolava e
interagiva, trasformando l’opera in un evento sociale, mentre l’oscurità dei moderni teatri ha
azzerato tali opzioni e “obbligato” a un ascolto totalizzante e continuativo, incompatibile con
le abitudini settecentesche). Nei teatri di corte i nobili garantivano spettacoli “ritagliati” sulla
classe nobiliare stessa: il sistema di valori messo in scena rispecchiava quello dei regnanti,
più o meno illuminati; inoltre, condividere una serata a teatro con i sovrani signi?cava
sottoscrivere la propria appartenenza a un ferreo sistema sociale. Tali condizioni, che non
potrebbero mai essere restaurate, giusti?cano, tuttavia, la lunghezza dei tre atti di un’opera
seria e i tagli oggi inferti a quegli stessi testi per adeguarli a quella che è, oggi, la serata
media a teatro. Vi erano poi casi di opere concepite per altri luoghi teatrali: sale private,
parchi, ridotti di palazzi aristocratici. È il caso del melodramma Olimpiade di Metastasio, dato
in prima a Vienna nel giardino della Favorita con scenogra?e del Bibiena (ambientazione non
casuale perché l’ambientazione e la sostanza dell’opera richiamano la cornice vegetale che
accolse l’evento). Oggi, niente impedisce di riprodurre l’Olimpiade in uno spazio chiuso, ma
occorre tener conto dei contesti produttivi originali se si vogliono intendere i lavori dell’epoca.
Lo spettacolo d’opera, nel suo complesso, era costituito non solo da opera, ma anche, spesso,
da intermezzi comici e da balli, collocati strategicamente negli intervalli tra gli atti (l’opera
la dimensione aulica e gli intermezzi quella ludica), per cui la serata diventava molto lunga:
d’altro canto, la lunga permanenza a teatro era resa accettabile dalla varietà dello spettacolo
o\erto; gli spettacoli, inoltre, erano replicati più volte, per cui si poteva tornare a vedere lo
spettacolo per vedere qualche particolare che si fosse eventualmente perso. Dal punto di
vista vocale, nel ‘700 l’opera comprendeva sia voci femminili (contralto e soprano), per
ruoli femminili o anche per giovani en travesti (con abiti di sesso opposto), da voci maschili
(basso e tenore), assegnate ai ruoli maschili di personaggi autorevoli, attempati, crudeli, e,
nel genere serio, da voci di castrato (sopranili e contraltili), attribuite a giovani eroi,
portatori di valori positivi quali sincerità e generosità; In alcuni casi ai cantori evirati erano
anche assegnate parti femminili en travesti: ciò accadde soprattutto nei teatri romani, dove,
per lunghi periodi, le donne non poterono esibirsi, e nel genere comico.(La voce di castrato si
otteneva mediante orchectomia, ossia l’asportazione dei testicoli in età prepuberale: ciò
impediva la muta della voce, senza peraltro ostacolare la crescita corporea.) Dai primi
dell’Ottocento, tale pratica fu fuori discussione, per cui oggi non possiamo conoscerne gli

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e\etti, ma solo immaginarli attraverso le fonti che riportano le impressioni degli spettatori:
non ci resta che ricorrere a surrogati: le voci femminili o quelle dei falsettisti (contraltisti o
sopranisti) = cantanti educati a ispessire il registro di falsetto al ?ne di emulare quello dei
castrati (o comunque l’immagine che ne conserviamo). Ad allontanarci ancora di più
dall’opera del ‘700 sono le questioni culturali: la formazione di nuovi stati nazionali
nell’Ottocento e il mutato gusto letterario hanno reso incerti e meno allettanti i pro?li degli
eroi e dei miti dell’antichità. Le vicende di Cesare, Alessandro, Adriano, Alceste, Antigone,
appaiono agli spettatori odierni vuote e astratte; appare molto più immediatamente
comprensibile l’opera bu\a, di ambientazione borghese e meno ambiziosa. Con questo,
peraltro, non si vuole arrivare a de?nire ormai fossile l’opera seria settecentesca, tant’è vero
che, da oltre 20 anni si è riacceso un certo interesse nei suoi confronti, non tanto da parte di
studiosi, quanto di produttori, registri e interpreti. Autori come Händel, Vivaldi, Pergolesi,
Jommelli, Hasse, Gluck, Cimarosa, Sarti o Paisiello tornano a parlare al grande pubblico.

Percorsi di compositori: Sulla di\usione dell’opera seria settecentesca inouiscono i gusti


delle divere piazze teatrali, i compositori e i cantanti di volta in volta disponibili. Il testo
verbale viene steso dal poeta di teatro autonomamente rispetto al compositore musicale, e
assume subito la forma di libretto ?nalizzato alla lettura anche durante lo spettacolo.
Raramente il testo veniva abbandonato del tutto dopo l’archiviazione dello spettacolo; più
spesso assurgeva ad una più elevata dignità letteraria e trovava posto in miscellanee teatrali,
oppure viveva di vita propria (e poteva poi essere ripreso, modi?cato o meno, da altro poeta
teatrale e presentato in altre sedi). I grandi divi del genere serio venivano scritturati
individualmente e potevano conservare qualche brano particolarmente riuscito da
interpretazioni precedenti, che venivano “calati a forza” in altre opere. Il compositore, nel
‘700, era ancora un semplice prestatore d’opera; non manifestava orientamenti politico-
dinastici che non derivassero dai vantaggi professionali; aveva certamente un suo pensiero e
degli ideali, ma non li palesava; non partecipava a dibattiti intellettuali e non manifestava la
propria visione del mondo. I compositori erano, insomma, ?gure diafane: attraversavano
l’Europa lasciando alla loro musica il compito di rappresentarli. Dai compositori più attivi in
questo genere appare evidente che il teatro musicale in lingua italiana del 700 è un
macrofenomeno sviluppato da autori di diverse fasi storiche con diversi linguaggi drammatici
che sicuramente non annulla l’opera italiana, ma almeno la trasforma: tra questi troviamo
Alessandro Scarlatti (1660-1725) e Giovanni Simone Mayr (1763-1845), si sono avuti alcuni
compositori riferibili genericamente al barocco (Vivaldi, Händel, Scarlatti), altri allo stile
preclassico “galante” di scuola napoletana (Sarro, Vinci, Leo, Pergolesi), altri ancora molto
eclettici (Bach, Sarti, Haydn, Mozart, Cimarosa). Peraltro, melodramma e composizione
musicale non potevano garantire da soli sicurezza economica, ma assicuravano solo
retribuzioni onori?che. Nessuno, quindi, era solo operista: molti compositori iniziavano come
strumentisti o cantanti, si a\ermavano come vicemaestri e poi come maestri da camera o di
cappella, e conservavano poi questi ruoli. C’erano poi delle piazze che o\rivano maggiori
garanzie di altre, come Roma e Venezia. Alcuni tentarono la strada della direzione teatrale o
dell’impresario (come Vivaldi). Insomma, l’operista settecentesco non fu una ?gura statica e
fu estranea a rapporti professionali duraturi. Alcuni riuscirono a limitare i propri spostamenti
(Vivaldi, ad es., operò principalmente a Venezia, Mantova o Verona; Haydn scrisse per lo più
nella reggia di Esterhaza); ma la maggior parte degli operisti si mossero ovunque sulla carta
geogra?ca, come Händel, che iniziò ad Amburgo, esordì a Firenze, si confermò a Roma e a
Venezia, fu poi ad Hannover e in?ne a Londra. Per i compositori c’erano dei centri di
attrazione: - Napoli, capitale mediterranea durante la reggenza asburgica e di quella
borbonica, che rappresentò un centro formativo d’eccellenza con i suoi conservatori e i suoi
teatri d’pera seria e anche comica (S. Bartolomeo, S. Carlo); - Roma, collocata nel cuore della
penisola, tappa obbligata per numerosi artisti diretti a Nord o attratti da corti cardinalizie o
nobili e mecenati in transito; - Venezia, (forte della sua stabilità e indipendenza politica), che,
al pari di Napoli, fu centro formativo d’eccellenza per i suoi ospedali; la sua Cappella di San
Marco, inoltre, esercitava un’attrazione fondamentale; Vienna, capitale dell’Impero, fu centro
elettivo dell’opera italiana. Presso la corte asburgica operarono grandi librettisti come Zeno e
Metastasio, sui cui testi si formarono generazioni di operisti e di cui si nutrì il teatro europeo.
Pochi, tuttavia, trovarono consacrazione a Vienna, che ebbe principalmente un ruolo

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propulsivo. Negli anni ’60 i libretti di Ranieri de’ Calzabigi per Gluck consolidarono gli inoussi
del teatro francese determinando la “riforma”: Vienna fu lo scenario del sodalizio Da Ponte-
Mozart, da cui scaturirono capolavori come Così fan tutte, Don Giovanni e Le nozze di Figaro.
L’opera italiana si insediò anche a Monaco, Dresda, Stoccarda, Berlino con risultati originali
dovuti al contemporaneo interesse per l’opera francese. Canali dinastici o politici resero poi
possibili collegamenti culturali anche a distanza (tra Firenze e Vienna, tra Praga e Vienna, tra
Vienna e Milano).

Percorsi di opere: La circolazione dei compositori permette reciproche inouenze e da la


possibilità ad autori italiani di cimentarsi con le orchestre evolute tedesche o accostarsi al
mondo teatrale francese. Per quanto riguarda le opere serie (dramma per musica), a
circolare furono soprattutto i libretti; la musica invece veniva riadattata al luogo, o aPdata
alla cura di altri compositori, o alcuni pezzi erano presi dai cantanti ed inseriti in altri
contesti. Della Didone abbandonata di Metastasio (1724) si registrano oltre 100 libretti,
stampati un po’ ovunque nell’Europa del ‘700. Tuttavia, non bisogna pensare che l’esistenza
di tutti questi libretti sia prova di un sistema organizzato: fra un libretto e il successivo non
esiste concatenazione. Poteva capitare che si replicassero in stagioni o luoghi diversi opere
nella loro forma originaria (raramente) o frammiste a musiche di altri compositori (più
spesso), ragion per cui si poteva riproporre a uno stesso pubblico un titolo che già conosceva
ma diverso nella musica e nel cast: da queste varianti dipendeva il successo o l’insuccesso
dello spettacolo. (in fondo, perché riproporre vecchie partiture se, con poca spesa, si potevano
musicare di nuovo gli stessi drammi assecondando il gusto del momento?). Il concetto
moderno di “opera di repertorio” non può quindi essere impiegato in questo caso, per la
rapidità con cui le partiture dell’opera seria apparivano e passavano di moda velocemente. A
molte opere, pur pregevolissime, non bastò la notorietà per sopravvivere: un caso per tutti è
quello dell’Olimpiade di Pergolesi, elogiata come una delle stelle più lucenti nel ?rmamento
dell’opera settecentesca, eppure destinata a essere incalzata, ben presto, da ulteriori novità.
Diverso fu il caso del genere comico, nelle sue varie accezioni (commedia per musica a
Napoli, burletta a Firenze, dramma giocoso a Venezia– opera bu\a). Qui, circolarono anche le
partiture e quindi il nome del compositore ?nì per prevalere su quello del librettista: ad es. la
Serva padrona era, per il pubblico di allora, prioritariamente di Pergolesi (su testo di
Federico). Tutto ciò – durevolezza, autorialità musicale, di\usione della musica del genere
comico – fu dovuto a vari fattori: minori aspirazioni letterarie del testo, l’essere i libretti
acconciati per la musica di un determinato compositore e commisurati alle speci?che della
compagnia di canto destinataria, interesse strettamente “recitazionale” delle dimensioni
vocale e strumentale (indirizzate non tanto a esaltare universali ideali di bellezza, quanto i
caratteri scenici e le movenze dei personaggi): quindi, se la partitura era adeguata per queste
?nalità, non serviva sostituirla/modi?carla.

Testi e paratesti dell’opera: La struttura del libretto d’opera italiano settecentesco


era altamente standardizzata a livello editoriale: esso, infatti, riportava informazioni più o
meno ampie su autori, interpreti e altre maestranze (talora anche i nomi dei ballerini e dei
singoli orchestrali). Negli ultimi decenni del secolo, esso raggiunse il più ampio numero di
pagine, per via dei diversi componimenti presenti in uno stesso spettacolo ipertro?co. A titolo
di esempio, il libretto di Mesenzio, re d’Etruria, di Casorri/Bianchi, dato a Napoli nel 1786: -
sul frontespizio vi erano titolo e genere dello spettacolo; di solito, seguiva il nome del
librettista del dramma (qui, in realtà, omesso); venivano poi occasione e luogo, stampatore e
anno di pubblicazione; - nelle pagine successive, trovavano posto la dedica all’impresario e ai
sovrani, quindi l’argomento, a volte indispensabile per la comprensione del dramma.
Seguivano le mutazioni (ossia i cambi di fondale e di scenogra?a); poi, i nomi e le quali?che di
scenografo, macchinista, costumista, corpo di ballo e, prima della descrizione del ballo,
l’indicazione dell’autore delle musiche. In particolare, nel libretto del Mesenzio viene
descritto, innanzi tutto, il “primo ballo eroico” (Ezio), il più importante dei due e diviso in 5
atti: la descrizione è presentata e ?rmata dal coreografo, Domenico Lefèvre, allora ?gura di
spicco nell’ambiente. Lo stesso svela in questo contesto l’origine del soggetto, ossia
l’omonimo dramma di Metastasio, che egli aveva potuto apprezzare a Firenze nel 1783. Il
dramma metastasiano è una certi?cazione di autorevolezza. - a pagina 21 del

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libretto del Mesenzio, viene descritto il secondo ballo, per consuetudine comico e meno
argomentato del primo. Collocato dopo il 2° atto dell’opera, è anche molto più breve dell’altro:
più che altro, essendo lo spettacolo – già durato molte ore – nella sua fase discendente, c’era
bisogno di qualche minuto di intrattenimento brillante e immediatamente intellegibile. La
fonte del 2° ballo è Le maréchal ferrant del francese Quétant (con musica di Philidor), ben
noto anche in Italia; - a pagina 22, viene riportato il cast dell’opera, a partire dalla celebre
soprano tedesca Francesca Lebrun nel ruolo di Ersilia; dal castrato Francesco Roncaglia
(Lauso); dal tenore Giacomo David (il sovrano, padre di Ersilia); - a piè di pagina, il nome del
compositore (in corsivo), in questo caso il cremonese Francesco Bianchi, di cui vengono
precisati alcuni titoli essenziali. A fronte, inizia il testo del dramma. L’opera, insomma, era
solo un tassello dello spettacolo, fondato sull’avvicendamento di generi diversi.

Testi e paratesti dell’opera: una partitura - L’opera italiana del ‘700 non raggiungeva
quasi mai la stampa, che era troppo costosa. Ci si avvaleva, quindi, di manoscritti. La
struttura del manoscritto operistico era più o meno la stessa dei libretti: il formato era
oblungo, la composizione fascicolata (tanti volumi quanti erano gli atti), la pentagrammatura
vergata a rastro dalla cartiera, la compilazione fatta a una o più mani. Sul frontespizio erano i
dati principali dell’opera (a volte ci si trovano anche dati apposti in seguito da bibliotecari e
archivisti) e, a seguire, la sinfonia introduttiva, il primo recitativo, la prima aria etc. Nella
partitura del Mesenzio napoletano si nota subito, nell’aria, la distribuzione degli strumenti in
partitura (allora diversa da oggi), con gli archi ripartiti ai due estremi della pagina musicale, i
?ati al centro, la parte del canto sopra a quella del basso. Saltano all’occhio anche le
principali strategie poeticodrammaturgiche: presenza di un ritornello orchestrale introduttivo
dove si anticipa ai violini il motivo del canto; elasticità della parola musicata; trattamento
musicale degli ottonari del testo (che genera ripetizioni di versi o frammenti di verso anche
fuori metrica).

La drammaturgia del genere serio: intreccio, peripezie, scrittura poetica e stesura


musicale- il testo verbale del poeta di teatro, è autonomo dal musicista, potrebbe
semplicemente essere recitato, questo fa del poeta di teatro il primo drammaturgo dell’opera;
il compositore teoricamente, essendo che rileva un testo e contenuti già realizzati, non lo è.
Però il pubblico, che spesso già conosce i testi, si reca a teatro per la musica ed in base a
quest’ultima da un proprio giudizio sul dramma. – “dramma per musica”. La composizione
sonora incide sulla drammaturgia complessiva, dando voce ai personaggi anche in relazione al
cast vocale, stabilisce il carattere drammatico dei brani, la durata, la forma e la eventuale
riformulazione del testo attraverso la musica. Al successo dello spettacolo contribuisce più la
musica che il testo. Il poeta di teatro nel 700 aveva presente i classici greci/latini, i poemi
epici, la tragedia francese del 600, prendeva soggetti anche dalla statuaria e dalla pittura.
1690, nasce l’Arcadia, e il poeta di teatro rigenera la scrittura abbandonando manierismi,
barocchismi passati – il melodramma ne esce sempli?cato nelle forme poetiche e lineare nelle
trame contenendo le peripezie secondarie; ripudiata la mescolanza di comico e tragico per
valorizzare vizi e virtù di antichi personaggi e limitata la dimensione erotica-sensuale
(del600). (L’impianto ?ssato da Metastasio, celebre quello dell’Olimpiade, manterrà validità
per molti decenni). La scelta del soggetto è la prima mossa e\ettuata dal poeta. Il genere
serio trova fondamento negli storici classici, nei tragici moderni (Corneille, Racine),
nell’epica di lingua italiana (Ariosto, Tasso). Dapprima prevalgono i soggetti storici, poi quelli
mitologici o tragici; in ogni caso il soggetto deve adattarsi alle circostanze politico-dinastiche,
ambientali (teatri di palazzo, di corte, pubblici) e stagionali (clima e ore di luce). I valori più
esaltati erano l’eroismo, la fedeltà al sovrano, la rinunzia a un amore illecito, il prevalere della
ragion di stato sull’interesse particolare. Nella stesura dell’Argomento si illustrano
antefatto, peripezie, non di rado epilogo. Possiamo prendere ad esempio l’Argomento
dell’Olimpiade di Metastasio alle cui fonti dichiarate (storiche: Erodoto e Pausania;
mitogra?che: Natalis Comis, al secolo Natale Conti, umanista e storico), va aggiunto il libretto
di Zeno Gl’inganni felici (1695), pur non citato espressamente nell’Argomento. Come si vede,
l’Argomento contiene una descrizione dettagliata dell’intreccio, inviluppando le diverse
peripezie e lasciando gradualmente aPorare i nodi drammatici. Gli elementi costitutivi sono:
1. un antefatto remoto → ci sono un re e due ?gli, un oracolo, un abbandono (grave colpa

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paterna), un ?glio disdisperso;


2. un antefatto recente → la ?glia Aristea è amata dal giovane Megacle, l’amore è
osteggiato dal padre di lei; Megacle fugge per dimenticare, è assalito dai pirati e salvato da
Licida, viene creduto ?glio del re di Creta, contrae un debito di sangue con l’amico;
3. un nuovo antefatto → Licida aveva amato Argene, ma il padre di lei aveva contrastato
questo amore; Licida era fuggito per dimenticare e si era rifugiato nelle campagne dell’Elide,
nei boschi presso Olimpia. Abbiamo qui la presenza di rapporti a\ettivi incrinati e dall’esito
incerto, ai quali seguono altri nodi drammatici: - altro antefatto e altra fuga per dimenticare, -
un problema pratico: Licida non ha alcuna abilità nei giochi (per cui opta per la frode sportiva
e fa gareggiare al posto suo l’amico). Il lettore attento coglie perfettamente il nodo principale
del dramma: Licida si innamora della donna dell’amico: amore vs amicizia. D’altra
parte, Licida ignora i trascorsi amorosi di Megacle: quindi non ci sono buoni e cattivi, ma
solo un destino bizzarro che gioca con le anime. L’Argomento lascia in sospeso alcune
domande: ad es., che cosa farà Licida, una volta appresi i trascorsi amorosi dell’amico?
Oppure quale sarà la reazione di Argene di fronte all’infedeltà dell’amante di un tempo?
Metastasio non svela latro della trama nell’Argomento, però anticipa l’epilogo (il ritrovamento
di Filinto), che, paradossalmente, incrementa l’interesse nel dramma. Che cosa ha a che fare,
infatti, con il gioco delle coppie? Il Filinto disperso è, in realtà, Licida, il quale non potrà
coronare il suo sogno d’amore, essendo Aristea sua sorella. Svelata la frode, Licida
viene perseguito da Clistene, ma alza il braccio contro colui che scoprirà essere suo padre.
Condannato a morte, verranno in suo soccorso Megacle e Argene, che intercederanno per lui
presso Clistene (amicizia e amore convergono). Clistene, scopertosi padre di Licida- Filinto,
sospende la pena ed espia così la grave colpa commessa anni prima con l’abbandono del ?glio.
Come si diceva, l’anticipazione dell’epilogo incrementa l’interesse del dramma: l’attenzione
dello spettatore è infatti rivolta allo svolgimento. Ciò spiega anche il perché il pubblico
vedesse e rivedesse più volte gli stessi drammi: musiche diverse e cast diverso potevano,
infatti, o\rire prospettive diverse su una stessa vicenda. Circa il lieto Jne, era l’esito
prevalente nel melodramma settecentesco, perché bilanciava le peripezie del dramma e
conseguiva al raggiunto dominio delle passioni. Il dispositivo metrico-poetico più
rappresentato nel dramma di tipo metastasiano è il recitativo: libera alternanza di
endecasillabi e settenari non vincolati da rime, né raccolti in strofe (versi sciolti). Non si tratta
di sezioni scarsamente musical: la parola poetica così declamata ne trae giovamento senza
dover ricorrere al semplice “parlato” impiegato in altre tradizioni teatrali; il registro vocale
dei diversi ruoli viene identi?cato subito garantendo riconoscibilità ai personaggi. Di recitativi
ce ne sono in ogni scena. Per lo più a ?ne scena sono collocate le arie (a solo, duetti, terzetti):
si parla, infatti, di arie d’entrata, perché il personaggio, una volta terminato il brano, se ne
entra in quinta. In Metastasio, le arie hanno per lo più la consistenza di due strofe isometriche
di parisillabi o imparisillabi (mentre nei predecessori, ?no a Zeno, c’era maggior varietà di
numero e tipologia di versi). Le arie, il cui numero di versi è decisamente inferiore a quello
dei recitativi, sono tuttavia la sostanza musicale-drammatica di ogni opera, dove il cantante
può sfoggiare la propria abilità ed emozionare il pubblico.→ ai recitativi è aPdata l’azione
fattuale, alle arie quella sentimentale. (ovviamente a parità di numero di versi l’aria avrà
durata maggiore del recitativo, una tirade:discorso ininterrotto, pregnante) nell’aria il
compositore esercita la propria originalità nel trattamento drammatico del canto, nell’uso
dell’orchestra che costruisce l’ambiente). A partire già dalla ?ne del Seicento, prevale la
forma musicale dell’aria col da capo (o pentapartita), caratterizzata dalla ripetizione con
articolazione diversa della prima strofa (A A’), dalla rapida e contrastante singola intonazione
della seconda (B), seguita dalla ripresa della prima parte (A A’), variata dal cantante di turno
(il “da capo”). Il fatto che per quel vastissimo repertorio di drammi e arie serie bastasse una
sola forma è prova del fatto che non era la forma ad essere oggetto d’interesse, ma la qualità
del canto. Il poeta, nella creazione di immagini poetiche e costrutti retorici indirizza l’estro
del musicista. L’assetto complessivo delle scene – le scene si succedono in sequenze
contraddistinte da un identico fondale; la successione delle scene di una sequenza prevede a
sua volta la rotazione di personaggi attorno ad uno che rimane in scena; le arie, quindi non
meno dei recitativi, a livello di ?nzione drammatica mantengono la ?nalità di trasmettere un
messaggio agli altri interlocutori in scena che ne assorbono i contenuti mettendoli a frutto

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nelle scene seguenti. Duetti e terzetti sono rari per via del meccanismo di uscita dei
personaggi e avvengono se un personaggio non rientra in quinta perché trattenuto da a\etti o
quesiti irrisolti. Nel momento in cui rimangono due personaggi in scena, si genera un
confronto drammatico e musicale: il compositore in questo caso può avvalorare la distanza fra
i due personaggi distribuendo materiale motivico di\erenziato o attenuare la distanza
lasciando trapelare aPnità tramite impiego di forme melodiche simili o rispondenti.

Drammaturgie alternative: Handel, Gluck- Dagli anni Trenta ai Sessanta, la


drammaturgia di Metastasio gode di predominio nei teatri italiani. Esistono però delle
drammaturgie alternative: il teatro di Zeno, ad esempio, più irrazionale, poeticamente
discontinuo, oppure quello di Händel. Zeno ebbe una propensione per il tetro e il funesto;
alcune sue opere, come l’Alessandro Severo o la Merope, ebbero una longevità pari a quella
dei soggetti di Metastasio. Alcuni teatri appositamente scelgono di conservare tradizioni tardo
600esce per delineare la loro identità rispetto a quelle di altri teatri coevi. Handel è tra coloro
che non assunsero Metastasio a modello; Händel frequentò i grandi centri italiani (Napoli,
Firenze, Roma…) e fu autore dell’Agrippina, che tratta di vizi e macchinazioni politiche, e del
Rinaldo. La prima fu rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1709; il Rinaldo, invece, di
carattere epico, segnò il suo esordio londinese (libretto di Giacomo Rossi, che rielaborò
episodi tasseschi della Gerusalemme liberata). Seguiranno oltre 40 altre opere, tutte per
Londra e che di rado giungeranno in Italia. Il corpus delle sue opere manifesta una linearità
interna; quando iniziò a spopolare il teatro di Metastasio, egli ne restò immune. La sua strada
prediletta fu quella favolistica (Orlando, Arianna, Alcina). Una delle sue ultime opere, Serse
(1738), è fra le più retrograde in quanto a scelte librettistiche: un testo già più volte
rimaneggiato di Nicolò Minato per Cavalli del 1654, a tratti oscuro, che fa da telaio per molte
situazioni e arie. Ad apertura di sipario, quando lo spettatore si attenderebbe un recitativo e
l’avvio di una peripezia, si ha invece una scena a solo con Serse, che declama la sua
gratitudine a un platano che gli dispensa ombra. C’è, quindi, in Händel, un pezzo di ‘600 che
si innesta nel ‘700, e che si spiega soprattutto con i gusti del pubblico inglese, poco avvezzo
all’opera italiana e più attratto da spettacoli concedenti alle dimensioni visive e sonore
maggiore libertà. A fronte di un gusto retrospettivo per lo spettacolo barocco, si ha invece un
assetto formale assolutamente primo-settecentesco, contraddistinto dalla forma dell’aria
col da capo e dalla prevalenza di arie a solo rispetto ai duetti (pure numericamente maggiori a
quelli presenti in Metastasio). [il pubblico inglese era incline a facili entusiasmi e rapide
cadute d’interesse]. Le costanti delle opere di Händel risultano quindi essere: 1.
Con?gurazione formale standard nei pezzi chiusi, 2. numerose arie, 3. impiego nelle arie di
uno strumentario di soli archi o anche di violino e basso, 4. uso di strumenti solisti sempre
drammaturgicamente orientato. Ogni aria ha una propria connotazione, per andamento e
ritmo, per l’uso del contrappunto (a volte assente) e per trattamento della voce. → l’aspetto
delle opere di Handel è disomogeneo (come i libretti) e fu questo l’elemento che rigenerò
l’interesse del pubblico. Il Rinaldo, opera giovanile, nella prima scena presenta tre arie con 3
diverse prospettive: - invocazione al rigore militare di Go\redo; - esortazione al coraggio di
Almirena diretta al promesso sposo Rinaldo; - reticenza amorosa di lui. Il dosaggio musicale è
cospicuo e satura la scena ben oltre il contenuto verbale; grazie alla vicinanza tonale delle
arie, data dal loro rapido accostamento, e grazie alle sonorità attrattive dell’orchestra, si
raPgurano i dubbi dell’eroe Rinaldo che vorrebbe sposarsi piuttosto che combattere – il
problema è delineato grazie al “sistema” delle arie piuttosto che non ai contenuti verbali dei
recitativi. L’accostamento, generale, di prospettive multiple spiazza l’ascoltatore.

Gluck - Gluck nasce e si a\erma come compositore metastasiano. Dopo il suo esordio a
Milano con l’Artaserse (1741), compose altre 15 opere nell’arco di un ventennio su testi di
Metastasio. La sua svolta fu determinata dall’incrocio professionale a Vienna col poeta Ranieri
de’ Calzabigi, anch’egli dai trascorsi metastasiani, ma determinato a dare una svolta al teatro
musicale. Con Orfeo ed Euridice e, soprattutto, con Alceste, si delinearono i tratti di una
nuova concezione operistica: 1) preferenza per soggetti greco-tragici e quindi maggiore
partecipazione del coro e dei corifei; 2) impiego preferenziale dei recitativi strumentati e
contenimento dei recitativi, a vantaggio di una maggiore continuità drammatica; 3) scrittura
vocale rispettosa del testo poetico, con conseguente limitazione di colorature; 4)

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partecipazione della danza all’azione e coinvolgimento dei massimi coreogra? dell’epoca


(Angiolini e Noverre). I modelli di tale assetto furono individuati nel genere concorrente della
tragédie-lyrique, lo spettacolo musicale auto-rappresentativo della monarchia francese tra
‘600 e ‘700. Molti in quegli anni si confrontarono con questa tendenza, ma solo Gluck e
Calzabigi ?ssarono su carta il loro intento originando la “riforma gluckiana” – anello di
congiunzione fra opera 700esca e concetto romantico di opera d’arte totale. Il legame sta
nella categoria del “tragico”. Le opere riformate di Gluck in Italia si di\usero a intermittenza,
fecero successo invece a Parigi dove si misero in scena adattamenti francesi delle sue opere
viennesi (come Orfeo ed Euridice), ma anche un lotto di opere gluckiane che ormai
conouivano nell’ambito della secolare tragédir-lyrique, francesi a tutti gli e\etti (ad es.,
Iphigénie en Aulide). Ciò che rende profondamente innovativo il teatro gluckiano è la
costruzione del testo drammatico. Abbandonato l’avvicendamento dei personaggi in scena
metastasiano, nelle opere gluckiane prevale una focalizzazione assoluta sull’azione principale.
Nell’Alceste non vi è intreccio da sbrogliare; la vicenda è essenziale: Admeto, re di Fera in
Tessaglia, morirà se qualcuno non si o\rirà al suo osto. Alceste si immola per il marito, è
risucchiata nell’Averno ma viene riportata in vita da Apollo in veste di deus ex machina. Ai 6
personaggi principali si aggiungono delle ?gure di contorno e popolo sotto forma di coro o
semplici ?guranti: una collettività sempre partecipe e solidale; l’e\etto massa proiettava sul
piano civile le vicende private dei protagonisti e questo faceva buon gioco anche
all’establishment imperiale. Un esempio della nuova con?gurazione drammatica gluckiana è
dato dal primo atto dell’Alceste, diviso in due soli atti. Le scene sono solo 7, ma di ampio
respiro per contenuti visivi e spettacolari. Alla regolarità di recitativi e arie di Metastasio,
subentra un disordine di scene mobilissime per contenuti musicali, ma statiche nello sviluppo
complessivo dell’azione principale e unica: tant’è vero che in questo primo atto l’azione NON
si sviluppa: si ha solo una contemplazione attonita del dolore; non succede nulla, perché non
vi è peripezia secondaria. Ciò non signi?ca che non ci sia azione musicale: infatti,
l’atteggiamento sentimentale viene tradotto in azione sonora. Rispetto a un dramma italiano,
che nello scorrimento del testo vive accelerazioni (recitativi) e rallentamenti (arie), qui
prevale una maggiore uniformità. Circa gli a`etti, alla multifocalità del dramma
metastasiano fa seguito la focalizzazione su un personaggio (Alceste è quasi sempre in scena).
La distanza che passa tra un dramma per musica e una tragedia per musica di tipo gluckiano
è proprio nella diversa caratura dei protagonisti e nella loro presenza scenica, a prescindere
dal lieto ?ne che caratterizza entrambi i generi. E tale statura non dipende più, come in
Metastasio, dal numero di pezzi chiusi (chi più ne ha più conta), ma dalla convergenza di tutto
sul nodo drammatico focale (qui Alceste e a sua sorte). Se nel 1° atto le arie sono poche (solo
2), vi è invece presente spesso il coro (in forma statica e dinamica) non di rado diviso in due
semicori dall’e\etto stereofonico. Nell’ultima scena dell’atto 1° si giunge per?no a tentare
qualcosa di inedito: la frammentazione del dolore in una miriade di voci indistinte, nella folla,
con un e\etto di caos e sconcerto: il risultato è una pagina di teatro potente e visionaria, con
un ritmo pulsante. Inoltre, in tutta la tragedia di Gluck aleggia la morte, inusuale nel teatro
metastasiano.

Drammaturgie del comico – nel corso della storia del teatro musicale, il comico varia ?no a
?ssarsi in tipologie teatrali proprie; serio e comico coesistevano dividendosi lo stesso
pubblico. Intermezzo e commedia per musica napoletana, maturano in ambienti elitari e colti;
il comico toscano, nell’ambiente accademico degli Infuocati (istituita nel 1648 a Firenze da
don Lorenzo de’ Medici, l’Accademia degli Infuocati fu il primo esempio di scuola e compagnia
stabile di teatro di prosa in città). Nel ‘700, l’elemento comico è con?nato alla chiusa degli
atti, aPdato a duetti di coppie specializzate (uso di dialetto, linguaggio popolaresco). Da lì,
l’ideazione dell’intermezzo, oggetto agile e minimale: due, tre o quattro personaggi e
suddivisione in due parti molto “corrosive”, data anche la loro collocazione all’interno di
un’opera seria e più autorevole. La costituzione di spettacoli integralmente comici fu
tradizione parallela e indipendente dagli intermezzi. Le commedie in tre atti del primo
trentennio del 700 si di\usero a Napoli/Roma/Italia Centro-Nord. A Napoli, si a\erma la
“commedia per mmuseca” (1720) – in napoletano, o sia toscano che napoletano (bilingue).
Il dialetto ebbe il sopravvento o fu impiegato come elemento di caratterizzazione individuale
o sociale; Goldoni, Veneziano, spesso storpia lingue estere o le inventa usando neologismi. In

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base al fattore linguistico si capisce la connotazione sociale e il ruolo dei personaggi, anche se
spesso diventa un gioco comico ?ne a sé stesso. In base all’occasione e al contesto, la
denominazione degli spettacoli varia – “dramma per musica” /” divertimento/dramma giocoso”
/” opera ini musica” /” commedia per musica” – tuttavia i contenuti sono spesso aPni. Usano
reperire materiale da fonti antecedenti svincolandole dall’obbligo serio, testi di narrativa,
oppure creare nuove vicende su situazioni generiche. Tratti tipici:

1 -L’ambientazione privilegia l’attualità (locale); contesti borghesi e i confronti tra classi. 2-


intreccio sempli?cato 3- aspirazioni materiali dei singoli sono il motore dell’azione; 4- il
risultato concreto prevale sull’a\etto, matrimoni per acquisizione di una dote; 5- inganni
tramite false professioni (tale tema della falsità spesso traspare anche dai titoli); 6- elementi
farseschi provenienti dalla Commedia dell’arte. Il librettista tiene conto dei ruoli per ?ssare
lo stile della scrittura poetica di recitativi e arie che risultano molto libere metricamente.
Infatti, le compagnie comiche erano costituite da attori di teatro, non da virtuosi del canto-
prevale la stesura musicale continuativa, strofa dopo strofa, con diversi cambi di tempo e
andamento a favore di una dinamica recitazione. Lo stile vocale tiene conto del ruolo e delle
peculiarità degli interpreti. Il dinamismo si ritrova anche nei concertati di apertura/chiusura
d’atto, quindi chiusura a più voci. Le sezioni sono decise dalla metrica, che suggerisce cambi
di tempo, andamento, armonia. Nonostante lo schema di versi e strofe, la realizzazione
musicale è imprevedibile: il compositore conferisce sostanza drammatica.

Sgretolamento di modelli e altri modelli- Se nel comico si manifestano nuovi scenari,


anche il dramma serie non è immobile e sempre uguale a sé stesso. Dagli anni ’60 del
Settecento, iniziano a di\ondersi forme d’aria più articolate (i rondò, arie multisezionali), e
scene più complesse (talora con la partecipazione del coro). Tali nuove istanze si rinvengono
sia in libretti di nuova stesura sia in drammi metastasiani modi?cati, sulla scia della
tradizione.

CAPITOLO 7 – GeograJa e pratiche del classicismo musicale

Un concetto polifunzionale – il concetto di classicismo in musica è estetico più che storico,


anche se la critica lo attribuisce ad un contesto geogra?co-culturale netto: musica viennese
tra ?ne 7 e primo 800. Col termine classico si allude ad equilibrio, esemplarità, ricercatezza,
chiarezza forma, e immediatezza espressiva – identi?cato anche in un macro-genere che
abbraccia oltre Haydn, Mozart e Beethoven, anche Bach, Chopin e Debussy. Le ambiguità
rendono piuttosto complesso l’inquadramento di questo modello critico. Tali criticità sono
sintetizzabili in cinque punti: 1)- Periodizzazione - l’estensione cronologica del classicismo
viennese non è mai stata unanimemente condivisa. Alcuni studiosi pongono quali estremi i
Quartetti op. 33 di Haydn (1781) e l’Ottava Sinfonia di Beethoven (1812); altri lo fanno partire
da Bach; altri ancora vi includono il già parzialmente romantico Schubert. In chiave di
periodizzazione, resta il problema della collocazione di Beethoven, i cui fondamenti
compositivi risultano di estetica classica ma ciò non vale per la con?gurazione complessiva
della sua produzione; – di solito l’emblema del classicismo si individua nella produzione
strumentale dei maggiori musicisti del periodo. Rimane quindi incerto che ruolo attribuire alla
produzione sacra o all’opera in musica dello stesso periodo, e in quale rapporto stiano gli
elementi dello stile classico con la tradizione dell’opera italiana. 2) Applicazione ai diversi
generi –È indubbio che la dimensione strumentale giochi un ruolo rilevante di cui non si può
non tenere conto anche in generi diversi dallo strumentale; ma è pur vero anche il contrario:
sia nell’opera bu\a che in quella seria si mettono a punto dei dispositivi linguistici e formali
che incidono anche sulla de?nizione dello stile classico propriamente strumentale; anche la
tragedie-lyrique francese ha fondamenti classici per i temi trattati (mitologici,grecotragici) e
la realizzazione scenica, ma non ha nulla in comune con il linguaggio classico musicale. Se tra
il classicismo teatrale, artistico e archeologico e le espressioni classiche musicali ci sono
diverse di\erenze (contenuti, linguaggio, contesti), invece l’opera bu\a italiana inouisce sul
linguaggio dei viennesi. 3)Applicazione ad altre culture musicali - il classicismo di Vienna
dialoga con altri scenari antecedenti o coevi, come lo strumentale italiano di primo e medio
‘700, il pianismo di Clementi (che inouenzò Beethoven per le ingegnose soluzioni tecniche), il
sinfonismo tedesco e le stagioni dei concerti a Londra, Parigi, Francoforte, Amburgo, Madrid;

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4) Autocoscienza e storiograJa – Contrariamente a quanto accadrà in epoca romantica, il


compositore settecentesco non prende parte a rioessioni estetiche o ?loso?che, e raramente
partecipa ai dibattiti. Non glielo consentono né la sua formazione (per lo più tecnica),
l’inquadramento sociale nella sfera delle maestranze professionali, distanti un libero esercizio
intellettuale, e i vincoli di dipendenza, che ne orientano pensiero e attività. In teoria,
l’accezione di “classico” non si usò per la produzione coeva, ma alcuni intellettuali romantici,
attorno al 1830, la tributarono a illustri campioni del passato musicale (come Haydn o
Mozart), di cui riconobbero il valore; 5) Rapporti con l’orizzonte culturale e JlosoJco –
qui la cosa va considerata da due lati: - la musica presente nella rioessione ?loso?ca, - l’e\etto
del pensiero illuminista sulla musica. Nel primo caso, il ?losofo illuminista (specialmente
Rousseau) si aggancia alle questioni musicali studiando le origini del canto, della parola, del
linguaggio. Tuttavia, mentre apprezza il canto, l’Illuminismo resta scettico sul valore
semantico della musica strumentale: sonate e sinfonie vengono ritenute mero intrattenimento
più che occasioni di godimento estetico o medium ?loso?co. Lo stesso Kant, che, parlando del
bello e dell’arte, fa cenno anche alla musica, ritiene che in essa l’elemento sensibile prevalga
su quello intellettuale, come a dire che può determinare piacevolezza, ma nulla di più; inoltre,
il ?losofo non è interessato agli usi sociali della musica (opportunità di aggregazione), anzi la
ritiene un’arte che obbliga a sentire anche chi non volesse ascoltare. Nel secondo caso,
invece, bisognerà considerare con prudenza l’eventualità che alcuni musicisti dell’epoca
attingessero a letture ?loso?che di un certo impegno; del resto, è impossibile dimostrarlo,
anche se alcuni autori di teatro (Voltaire e Diderot, ad esempio) svilupparono tematiche
sociali, politiche o antropologiche. A livello di contenuti, in Haydn e Mozart sono forti i nessi
con aspetti del pensiero illuminista, ad esempio con Kant, nella diPdenza verso la meta?sica.
E in Beethoven, la dimensione morale della sua arte dichiarata più volte da egli stesso, è
frutto anche di letture kantiane giovanili. Resta comunque diPcile tracciare demarcazioni
nette nell’orizzonte ?loso?co dell’arte. // Dunque, l’attribuzione di “classico” è più del
soggetto giudicante che del testo musicale, ma c’è da tener conto in ogni caso delle evidenti
peculiarità linguistiche e stilistiche di quartetti, sinfonie e oratori di Haydn, o concerti, sonate
e opere teatrali di Mozart.

Verso un nuovo linguaggio: cos’è un tema e cosa genera - La musica a cavallo tra Sei e
Settecento è ricca di motivi. Il conferimento di dialettica e discorsività ai motivi melodici sarà
uno degli elementi peculiari dello stile classico, che aggiungerà ai concetti di identità e di
ripetizione, quelli di elaborazione e contrapposizione: una “rivoluzione copernicana”, al cui
centro è posto l’uomo con le sue facoltà analitiche, socializzanti ed espressive.
L’allontanamento dai principi fondanti della scrittura barocca avviene in Germania a ridosso
della morte di Bach, ad opera dei suoi tre ?gli maggiori, Wilhelm Friedemann, Carl Philipp
Emanuel e Johann Christian, dotati ognuno di un linguaggio originale. Essi inouenzarono i
viennesi: dall’inventiva di Friedmann, Beethoven e Haydn appresero l’ePcacia espressiva di
un linguaggio asimmetrico, fatto di percorsi ingegnosi e bruschi mutamenti di umore;
Emanuel fece da modello (specie a Mozart) per la messa a punto di una cantabilità “levigata”
cioè impreziosita da abbellimenti gentili; Johann Christian, in?ne, spiana la strada al moderno
concetto di intrattenimento, a una musica da condividere con il pubblico. (il contrappunto
Bachiano viene accantonato per un “salto generazionale”). Le diverse “anime” del periodo
preclassico si possono cogliere già nel primo movimento (Allegro di molto) della
Sinfonia in Re di Carl Philipp Emanuel (1776): primo assolo ai violini in mezzoforte e
contemporaneo disegno angoloso ed esitante degli archi; pausa; secondo assolo in forte dei
violini e archi come sopra; pausa; terzo assolo dei violini in fortissimo, seguito da un
addensamento delle parti con una discesa verso il piano, e in?ne l’esplosione di tutti in
fortissimo. La discontinuità degli eventi sonori non consente di pre?gurarsi in anticipo lo
svolgimento del brano e mantiene vigile l’attenzione: un discorso lineare e frastagliato da
esitazioni, frasi e periodi che innescano collegamenti sintattici e funzioni retoriche aPni al
linguaggio verbale che contribuiscono a dare senso ed equilibrio al discorso musicale. Nella
musica del tardo ‘700, i motivi tendono a estendersi e a de?nirsi più nitidamente in caratteri
individuali, secondo una fraseologia regolare. Ciò è soprattutto evidente all’inizio di una
composizione, quando il compositore ?ssa gli “argomenti” principali della stessa.
Nell’Allegro con brio con cui Haydn iniziò la Sonata per pianoforte in Do maggiore, le

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prime 16 battute mostrano un accurato bilanciamento interno. C’è un parallelismo tra le


prime e le seconde 8 battute: la sostanza è uguale ad eccezione delle dinamiche e un più
denso accompagnamento in terzine nella 2 parte. La ripetizione, quindi, conferma il motivo e
attira l’attenzione con una sorta di crescendo. All’interno delle due frasi di 8 battute c’è una
precisa calibrazione: di 4 in 4 battute si ha l’e\etto domanda/risposta. I motivi si legano in
base a similitudine/alterità ?no alla ?ne che stabilisce il tema dell’intero componimento
musicale. Una volta dato il tema, altri temi si susseguono diversi?cati e poi vengono
rielaborati, modi?cati, o in relazione tra loro per tornare alla tonalità originaria,
probabilmente ?nendo con una ripetizione dei temi originali, e una “coda” in climax. Lo
schema illustrato, costituito da esposizione (e ritornello), sviluppo e ripresa, prende la
de?nizione di forma-sonata e risulta una delle strutture di più lunga durata nella storia delle
forme compositive (la si ritrova ancora ai primi del ‘900). In realtà, nel complesso, tale
schema non è neppure del tutto nuovo (nel 7/800 ci sono molte altre forme tripartite: l’aria col
da capo, il minuetto & trio, lo scherzo): ciò che rende la forma-sonata ben distinta è la
sua natura processuale: non si limita ad accostare gruppi tematici o sezioni di carattere
contrastante, ma di generare un percorso coeso e fortemente direzionato, dove, nella sezione
centrale, il compositore gode di ampia libertà nel rielaborare il materiale già esposto in vista
del recupero della Tonica e del primo tema (a inizio ripresa). Questo spiega la sua collocazione
iniziale e/o ?nale della forma-sonata in generi contraddistinti da più movimenti. Ricapitolando:
Le due caratteristiche fondamentali della struttura della forma-sonata sono la
contrapposizione, nell’ambito dell’esposizione, tra due aree tonali, A e B, rappresentate da
due gruppi tematici contrastanti, e il ritorno del gruppo tematico iniziale nella tonalità
d’impianto A all’inizio della ripresa, ritorno che segna il carattere “tripartito” della forma. La
sezione centrale è la sede di elaborazione del materiale tematico, che assume in genere il
carattere di un vero e proprio sviluppo. Ciò, tuttavia, non accade sempre: la sezione centrale
può, infatti, in alcuni casi, mantenere il carattere di un intermezzo divagante che, pur
impiegando spunti del materiale tematico esposto, non li elabora in maniera complessa: è
questa, ad esempio, una caratteristica frequente nei lavori di Mozart. Non si deve inoltre
dimenticare che esiste la possibilità di inserire nella sezione centrale materiale tematico
nuovo; ciò avviene talvolta anche nei lavori dei maestri più inclini ai procedimenti
d’elaborazione: si possono citare, come esempi, il primo movimento della Sinfonia “degli
addii” di Haydn e quello dell’Eroica di Beethoven.

La società dell’ascolto - Nel corso del ‘700 nascono e prosperano stagioni concertistiche
soprattutto a Londra e a Parigi, per un pubblico aristocratico o borghese che ascolta musica in
modo consapevole. Ora al concerto pubblico si va per ascoltare musica, diversamente dal
passato, in cui la musica era più un evento sociale con scopo liturgico/dinastico/urbano. Tra
spettatori e compositori si apre un canale comunicativo di reciproco ascolto. Come si evince
da una lettera di Mozart al padre Leopold, il pubblico partecipa all’esecuzione della
sinfonia con applausi a scena aperta; il compositore ascolta il pubblico e cerca di
prevedere le sue aspettative, collocando passi avvincenti in punti strategici per strappargli
l’applauso (studia i repertori soliti per distanziarsene e stupire). Nella sinfonia è l’orchestra
nel suo complesso a rendersi protagonista (oltre agli archi si fanno spazio a ottoni, legni e
percussioni): da qui la necessità di spazi di esecuzione ampi e di occasioni rilevanti anche sul
piano sociale. Nel concerto c’è il confronto tra solista/i e orchestra cui il pubblico assiste
come si assiste a uno spettacolo, le variabili del confronto (amichevole/drammatico) danno
vitalità al genere. [ascolto Mozart – Concerto x piano e orchestra n.22 in Mi b maggiore K482,
p. 377]. Se sinfonia e concerto acquistano senso alla presenza di un pubblico, la sonata per
pianoforte (o per pianoforte e altro strumento) è destinata a professionisti o dilettanti che la
eseguono solo per loro stessi: ciò apre la strada al cosiddetto intimismo, che
contraddistinguerà molta musica da salotto romantica, oppure, sul fronte opposto,
all’esibizione solistica del grande virtuoso (come Mozart e Beethoven). Il quartetto per
archi ha invece un assetto comunicativo intermedio, la sua fruizione può essere domestica,
ma il linguaggio adotta uno “stile di conversazione” e quindi può prevedere un piccolo
pubblico – il librettista Carpani, descrive proprio questa particolarità, nelle Haydine: descrive
l’ascolto del quartetto come assistere ad una conversazione tra persone vere, associando delle
caratteristiche ?siche e caratteriali ad ogni strumento ad esempio: primo violino – uomo di

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spirito ed amabile, mezza età, sosteneva il discorso; secondo violino – amico del primo; basso
– uomo sodo, dotto e sentenzioso; viola – matrona ciarliera, di grazia. Queste parole rioettono
l’Allegro moderato iniziale del Quartetto op. 77 n.1 in Sol maggiore di Haydn, il primo
violinino sceglie gli argomenti di conversazione, mentre il secondo segue gli argomenti del
primo. Gli altri due strumenti scandiscono il tempo. Il canale di comunicazione tra
compositore ed ascoltatore predilige il registro dell’ironia (humour), tratto peculiare dello
stile di Haydn, il quale lasciava sconcertati quanti si attendessero contenuti più spirituali. Il
Jnale del Quartetto op. 33 n.2, ad es., disattende le aspettative nella sua irrazionalità: le
ultime frasi sono interrotte da lunghe pause e il motivo conclusivo è uguale a quello iniziale,
tanto da essere scambiato per un ritornello. Ma nulla segue, così il pubblico sorride e scatta
l’applauso. o. Lo stesso pessimismo della Sinfonia degli Addii è “poco serio”, in quanto
riducibile a uno spiritoso gioco di corte; anche qui il ?nale sconcerta il pubblico: l’andamento
in Presto non conclude come dovrebbe secondo la prassi e instrada, invece, un ripetitivo e
inatteso movimento lento in maggiore, in cui, uno dopo l’altro, gli strumentisti si alzano e
abbandonano la sala, lasciando da soli due violini, che terminano il brano con esiguità di
mezzi e malinconia. [La capacità di dissolvere un contenuto nel codice che lo esprime è uno
dei tratti tipici del classicismo.] L’indole esperienziale della musica d’epoca classica trova
conferma nella programmazione di un concerto pubblico. Si prenda, ad es., il famoso
concerto mozartiano al Burgtheater di Vienna alla presenza di Giuseppe II. Rispetto alle
convenzioni odierne, lo spettacolo durò il triplo ed aveva un menù molto più assortito: musica
orchestrale si alternava a musica pianistica, solistica e a brani vocali d’opera. La
disomogeneità delle composizioni era un valore aggiunto, ?nalizzato ad arricchire l’esperienza
di ascolto. Il senso dei brani in sé diminuisce rispetto al valore dialettico che da il passaggio
da una all’altra composizione.

La professione del musicista- L’importanza crescente che il compositore dà al consenso del


pubblico nel secondo ‘700 va di pari passo con la sua condizione sociale in mutamento. I loro
rapporti con corti o istituzioni religiose sono più outtuanti di un tempo; ora i compositori
tendono ad assecondare i propri talenti e si sottomettono meno volentieri ai gusti di un unico
datore di lavoro. Lo scenario lavorativo dei compositori era quanto di più oessibile e incerto;
si poteva cercare stabilità alle dipendenze di qualche corte, oppure dedicarsi alle stagioni
concertistiche, che non sempre mantenevano le aspettative dei musicisti. Fu l’avvio
“zoppicante” della libera professione di musicista. Hummel non ebbe mai rapporti
istituzionali duraturi: assunto come maestro di cappella a Eisenstadt, fu licenziato per
inePcienza nel 1811, perché si dedicava più alla sua attività di pianista che alle cure della
cappella di corte; poiché lo stipendio ?sso lo allettava, riprovò a Stoccarda, ma 2 anni dopo si
licenziò per contrasti interni; approdato a Weimar, riesce a farsi riconoscere 3 mesi di
congedo all’anno per poter continuare a suonare in concerto. Muzio Clementi, padre del
pianismo romantico, aPancò all’attività di insegnante e concertista l’attività di editore e di
commerciante di pianoforti. E così tanti altri, perché suonare soltanto, non basta ancora. In
questo scenario in bilico fra vecchio e nuovo, si dibattono anche i due massimi artisti
dell’epoca, Mozart e Haydn, che giungono a reazioni diverse: - Haydn, proveniente da una
provincia della bassa Austria, compone soltanto. Si forma con Nicola Porpora, di scuola
napoletana, e raggiunge la svolta professionale nel 1761, quando viene reclutato come
vicemaestro di cappella da parte di Anton Esterhazy che aveva curato gli intrattenimenti
musicali della nobile famiglia ungherese che voleva ammodernare il repertorio secondo le
tendenze attuali. Partono così trent’anni di carriera presso le dimore dei principi, in cui ebbe
una graduale progressione. Divenuto maestro di cappella nel 1766 dopo la morte di Werner
comincia a comporre genere sacro, e dopo 10 anni fu investito del ruolo di organizzatore
teatrale delle stagioni estive organizzate a Esterhàza. Alla morte di Anton, il fratello di questi,
Nikolaus il Magni?co, garantì a Haydn una sicurezza ancora maggiore, orientandone la
produzione e forse anche lo stile. Con il tempo, Haydn sempli?cò la sua musica per
raggiungere un più alto numero di persone: alla varietà stilistica dei primi anni fa seguito un
pro?lo compositivo più stabile. Dal 1776 al 1783 l’opera sopravanza in Haydn la produzione
strumentale aPancando la produzione per il teatro locale delle marionette. Rimane da capire
come fece successo universale Haydn, dato che si è sempre mostrato produttivo ma ai ?ni
della corte. Le migliori occasioni per Haydn vennero dall’editoria eletta ad attività privata.

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Egli si inserì così nel oorido mercato di stampe non autorizzate di musica sua e altrui, di\use
soprattutto a Londra e Parigi. Molte composizioni strumentali nacquero su
sollecitazione di editori e furono da loro Jnanziate. Il compositore divenne un
imprenditore senza scrupoli, disposto a vendere abilmente la propria musica a editori di
diversa nazionalità, a procurare ad abbienti collezionisti copie di composizioni già in stampa
altrove, o a proporle su mercati come quello spagnolo, dove non esisteva ancora l’editoria
musicale. L’assenza di una normativa per il copyright è generalmente vista come un danno per
i compositori, ma Haydn seppe convertirla in vantaggio. La di\usione della sua musica rese
indolore il suo allontanamento dalla corte: grazie a una generosa pensione concessagli dal
successore di Nikolaus, egli temporeggiò in merito a proposte e inviti che gli giunsero da
Napoli e Bratislava; accettò, invece, di essere scritturato dal violinista (e organizzatore
musicale) Peter Salomon per i suoi concerti di Londra. I suoi guadagni complessivi per i due
tour fatti gli fruttarono circa venti anni di stipendio presso gli Esterhazy. Le dodici sinfonie
londinesi restano la massima espressione di quella sua fase produttiva e del classicismo
musicale in assoluto: un intero blocco sinfonico, omogeneo ma diversi?cato, concepito in anni
ravvicinati per uno stesso pubblico, col ?ne di rispecchiarne gusto ed indole – la forma
sinfonica ha 4 movimenti (il primo preceduto da un’ampia intro); l’orchestra ricca di ?ati e
archi, impiego di trombe e timpani anche in alcuni tempi lenti per accentuare la spettacolarità
sonora – si rispecchia l’atmosfera Londinese di quegli anni (sicura e ottimista). Per istituire un
canale di comunicazione, ogni sinfonia è dotata di propri contrassegni stilistici che le
permettono di farsi riconoscere dagli spettatori. Nella sinfonia più “assoluta” delle
Londinesi, n.95 in Do min c’è una transizione progressiva da Do min a Do mag: il
susseguirsi di tensioni e distensioni con l’avvicendamento di minore/maggiore; parte
dall’Allegro moderato iniziale, prosegue con l’Andante con variazione disteso, poi col
sorridente Minuetto ritorna il minore e giunge in maggiore al Finale. Haydn, inouenza la
prima generazione romantica non meno dell’opera italiana d’epoca rossiniana.

Mozart - ebbe una storia professionale diversa. Trascorse in viaggio buona parte della sua
infanzia, conoscendo il pubblico di mezza Europa, in qualità di virtuoso e compositore. Ben
presto, i suoi interessi si rivolsero all’opera (latitante, tra l’altro, a Salisburgo – la sua città
natia). Lo scambio di lettere con il padre Leopold registra come il giovane Mozart intendesse
costruire la propria dinamica carriera da musicista, mentre il padre lo avrebbe voluto come
sottoposto, con un salario che salvaguardasse il bilancio familiare; tentò così di arginare il
?glio collegando la professione del musicista alla ?gura del prestatore d’opera stipendiato. Il
1778 fu un anno di tiro alla fune tra Mozart e il padre. Quest’ultimo gli consiglia di
raggiungere Parigi, che ha penuria di compositori e o\re quindi maggiori possibilità di lavoro.
Una proposta per un posto da organista a Versailles è raccolta con entusiasmo da Leopold, ma
il ?glio non lo accetta. Mentre Mozart si trovava in Francia, Leopold riuscì a far assumere il
?glio come konzertmeister dall’arcivescovo di Salisburgo. Ma, quando, nel 1781 (dopo il
successo dell’Idomeno a Monaco), questi lo congedò, Mozart fu costretto così a lanciarsi nella
libera professione, e fu una svolta. Nel decennio viennese, Mozart provò sulla sua pelle le
incertezze del sistema produttivo, passando da accademie a opere teatrali, ?nendo per
accettare un incarico a corta “Imperial-regio Kammermusikus”, ?nalizzato a musica e danza
di intrattenimento (gran parte della sua produzione). Non ebbe grandi rapporti con l’editoria
anche perché il suo stile non risultò mai semplice da eseguire e talvolta da comprendere.
Così, se Haydn pubblicò in vita quasi tutte le sue sinfonie, Mozart ne pubblicò solo 4 sulle 41
totali, tra l’altro con scarso ritorno economico. Le opere viennesi di Mozart- Se non si
riesce a de?nire un genere preferito di Mozart, possiamo dire che li frequenta quasi tutti a
seconda delle opportunità: opera seria, dramma per musica, festa teatrale, Singspiel; all’opera
comica si dedicherà a Vienna grazie all’incrocio col librettista Da Ponte col quale inizia un
sodalizio (lavoro dialogato tra poeta e musicista) che porta a risultati duraturi ed inouenti: 3
capolavori contraddisti da un universo intellettuale comune e con medesimi temi (dialettica
tra libertà individuale e coscienza collettiva; rapporto ragione e sentimento; dialogo tra classi
sociali diverse in contrasto). Le tre opere - Le nozze di Figaro (1786), il Don Giovanni (1787) e
Così fan tutte (1789-1790) - si collocano in un sistema produttivo orbitante attorno alla corte
di Vienna, che non voleva più criteri di “rispecchiamento”, ma apertura al nuovo. LE NOZZE
DI FIGARO - Da Ponte godeva delle simpatie di Giuseppe II, che trovava noiosa l’opera seria;

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per questo, l’imperatore chiuse un occhio persino sui divieti da lui stesso formulati pur di
ascoltare in musica le Nozze di Figaro, tratta dalla commedia di Beaumarchais, il cui la
recitazione del secondo episodio era poc’anzi proibita a Vienna per contenuti eversivi: Da
Ponte, taglia alcune tirate taglienti vs aristocrazia senza mutare però contenuti ed intreccio. Il
tradizionale assetto del comico viene qui ampliJcato in un’opera di più ampio respiro: si
tratta di «un quasi nuovo genere di spettacolo». La struttura è in quattro atti, anziché due
o tre, e gli undici personaggi sono tutti utili alla condotta dell’azione; materiale verbale
cospicuo per densità e ricchezza di soluzioni formali a bene?cio della varietà musicale. La
messinscena: numerosi riferimenti materiali (porte che si aprono/chiudono, abiti scambiati,
chiavi, spille) come nella vita reale, prevalgono l’azione concreta e il confronto
interpersonale: anche azioni minimali, come la misurazione di una stanza o la dettatura di
una lettera diventano musica, abbandonando il recitativo. Le scene a solo, in cui l’azione
concreta rallenta, sono poche e memorabili: Figaro che minaccia vendetta, la Contessa che
rioette sulla sua solitudine di donna tradita, il Conte che mastica amaro contro i servi. - al
contrario, abbondano duetti e concertati. Si realizza con Da Ponte un ideale drammaturgico
che Mozart aveva già concepito con l’Idomeneo (il suo primo successo), quando gli sembrò
illogico che, mentre un personaggio cantava, gli altri si fermassero ad ascoltarlo (come spesso
accade nel serio): ecco, quindi, scene vorticose d’assieme, con spesso tutti i personaggi
coinvolti. Il tempo scenico scorre rapido e la scansione della parola è comunque
comprensibile, si recita con una certa ?sicità. Contenuti e personaggi sono riconducibili a
quelli di commedia e genere giocoso (servo/padrona) ma del tutto caratterizzati
individualmente. Tutti i personaggi sono “riabilitati”, aristocratici e plebei; non esistono buoni
o cattivi, e tutti sono, in qualche modo, vincenti e nello stesso tempo perdenti: il Conte viene
perdonato dalla Contessa per i suoi tradimenti, ma perde di credibilità davanti alla corte; la
Contessa perdona il coniuge, ma la grandezza del gesto è attenuata dalle motivazioni: infatti,
conscia che la sua bellezza sta s?orendo, preferisce accettare un “marito a mezzo servizio”
piuttosto che rimanere sola; Susanna è una servetta astuta, ma l’astuzia le viene meno nel
?nale, quando Figaro, avendola riconosciuta sotto gli abiti della Contessa, la fa ingelosire,
?ngendo di corteggiarla. Padroni e servitori ora si scontrano ora sodalizzano, ma in ogni caso
a\rontano insieme le incertezze della vita. Ogni personaggio delle Nozze a\ronta il futuro con
il bagaglio di un’esperienza che ha evidenziato i loro limiti, nell’epilogo (che appare compiuto
ma anche irrisolto, a causa di quello ius primae noctis, che non esistente nella realtà), al
Conte è consentito di congiungersi con Susanna la notte prima delle sue nozze con Figaro.
L’invenzione (un dispositivo comico) doveva probabilmente grati?care l’orgoglio illuministico
della corte. Quest’opera ebbe più successo a Praga che a Vienna. Fu proprio da Praga, infatti,
che giunse una seconda occasione per Mozart e Da Ponte, da cui derivò il
DON GIOVANNI OSSIA IL DISSOLUTO PUNITO (1787) - Rilegge in chiave libertina un
tema concepito in ambiente controriformistico come parabola morale per la ricorrenza dei
defunti. Successo fu strepitoso: Ho\mann giudicò la partitura dotata di un potere di
suggestione paragonabile alla sola Quinta di Beethoven, mentre Kierkegaard la accostò al
Faust di Goethe (tragedia dell’eros inappagabile). Più recentemente, molti critici hanno
considerato visionaria l’ibridazione tra tragico e bu\onesco del Don Giovanni, che per Mozart
e Da Ponte fu opera bu\a anche più di quanto non lo fossero le Nozze, ma fu anche occasione
di travalicare il genere virando verso altri orizzonti, ignoti a loro stessi. Tramite l’overture,
con i cosiddetti “accordi del Commendatore” (accordi di Re minore, che irrompono nel
dramma con una forza tellurica, annunciando la gravità dell’azione che sta per svolgersi –
note gravi prodotte da fagotti, viole, violoncelli e contrabbassi), Mozart preannuncia il destino
ineluttabile del protagonista (che alla ?ne morirà). Lo spettatore di certo sarà rimasto
sconcertato, davanti a un’ouverture così deviante dallo stile comico; l’atmosfera tragica trova
conferma nella prima scena dell’opera, dove il Commendatore, giunto in soccorso della ?glia
Anna che Don Giovanni travestito aveva tentato di insidiare, viene ucciso in duello. Questo
clima viene però spazzato subito via dalle imprese di Don Giovanni, compiute per sfuggire alla
disperata Donna Elvira a cui aveva promesso il matrimonio, e ai suoi numerosi accusatori:
l’accumulo di be\e, travestimenti, inganni rimpiazzano la tragicità della scena iniziale. Il
registro comico è garantito da Leporello, servo e partner di Don Giovanni, nonché dalla
coppia Masetto e Zerlina (neo-sposina che Don Giovanni tenta di sedurre). Il lato

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sentimentale è invece assegnato alla coppia seria Donna Anna/Don Ottavio. L’ina\errabilità
del protagonista rende necessario l’intervento della giustizia divina; Nella parte ?nale, la
statua del Commendatore prende vita e va a casa di Don Giovanni per invitarlo a cena (la
comparsa del convitato di pietra è sostenuta dalla musica già ascoltata nell’ouverture, che
viene nuovamente ad anticipare il destino di morte, stavolta di Don Giovanni); egli accetta,
impavido, stringendogli la mano. Chiuso nella stretta letale della statua, Don Giovanni non
vuole pentirsi. A quel punto, il Commendatore scompare in una nube, mentre demoni e diavoli
di fuoco vengono per condurre il libertino all’inferno con loro. Egli cerca inutilmente di
fuggire; dopo un’inutile resistenza viene inghiottito tra le ?amme dell’inferno.
Sopraggiungono tutti gli altri personaggi: Don Ottavio chiede a Donna Anna di sposarlo, ma
ella risponde che ha bisogno di tempo, prima che il suo cuore si rassereni; Masetto e Zerlina
vanno a cena dai loro amici; Donna Elvira, poiché l’unico amore della sua vita è sparito per
sempre, si ritira in convento; Leporello decide di cercare un padrone migliore. La scena si
chiude con i personaggi che si allontanano in direzioni diverse. L’ibridazione dei generi (con
un debordamento verso il fantastico) è evidente anche a livello musicale: ad es., il
Commendatore declama la sua sentenza («Parlo, ascolta, più tempo non ho») in modo lento e
solenne, Don Giovanni risponde con spavalderia («Parla, parla, ascoltando ti sto»), mentre
Leporello, nascosto sotto il tavolo, balbetta nel suo registro comico. L’epilogo dell’opera è
ulteriormente ambiguo, perché nessuno dei superstiti si è fatto giustizia e la giustizia divina
risulta be\arda per ognuno di loro, accordando a Don Giovanni la sua grandezza di eroe
negativo. Nella tradizione successiva del dramma, Mozart fa concludere l’opera con la morte
del protagonista, soluzione tragica più moderna, che fa credere che il tema di fondo dell’opera
sia la condanna del colpevole.
L’ultima opera dei due, Così fan tutte o sia la scuola degli amanti (1790), comprova
l’eclettismo del dramma giocoso, pur giunto al tramonto della sua pluridecennale tradizione.
Qui, Da Ponte preleva dal Furioso dell’Ariosto i nomi di alcuni personaggi e il tema della
scommessa sulla fedeltà femminile. Don Alfonso è personaggio centrale della vicenda,
misantropo e ?losofo che quasi non canta, aPdandosi quasi unicamente al recitativo. La sua
lucidità illuministica fa da contraltare all’illusione dei due giovani Guglielmo e Ferrando,
pronti a scommettere sulla fedeltà delle loro amanti, Fiordiligi e Dorabella. E’ la scommessa
su cui verte l’azione dell’opera: per vagliarne la fedeltà, essi fanno dunque ?nta di andare in
guerra per poi ripresentarsi alle fanciulle travestiti da soldati albanesi, in luoghi poco
caratterizzati e irrealistici. I personaggi sono solo 6: ai già citati si aggiunge Despina, la
cameriera delle fanciulle, che farà abbassare loro le resistenze, spingendole ad accettare il
corteggiamento dei due “soldati” (ma a parti invertite, cosicché ognuno dei due giovani ?nisce
per inoiggere l’infedeltà all’amico). Al successo ottenuto a Vienna, seguì una storia
rappresentativa fatta di perplessità (pareva impossibile che le due fanciulle non
riconoscessero i rispettivi ?danzati), in un mondo teatrale sempre più romantico e che
respingeva l’immoralità dell’opera. Al punto che si tentò per?no di aggiustare il tiro: infatti,
ad Amburgo, nel 1796, si ?nse che le fanciulle fossero al corrente ?n dall’inizio della burla,
all’insaputa dei due giovani. In tal modo si rese rassicurante la riconciliazione ?nale, mentre
in Mozart essa avveniva sulla base di una considerazione scettica, dopo aver scoperto
l’inganno: i due ragazzi sposino comunque le loro ?danzate infedeli, perché, d’altronde, se
loro hanno fatto questo che cosa potrebbero mai fare le altre donne? (non era vera misoginia,
ma un invito ad accettare una condizione imposta dalla natura, che riduce uomini e donne a
banderuole, soggette al vento delle passioni). L’Ottocento si allontanerà de?nitivamente da
quest’opera, che verrà rivalutata in chiave critica in tempi successivi. Riassumendo, la
trilogia di Mozart e Da Ponte è composta da opere dotate di una doppia natura, di dramma
e di commedia, lavori in cui l’ambivalenza è continua, esplicitata nei libretti o sottintesa nella
musica. Opere sfaccettate, così com’è la vita. E di fatto i protagonisti delle tre opere sono veri
e propri tipi umani: Figaro e Susanna, due giovani promessi sposi; Don Giovanni, un cavaliere
libertino e dissoluto che ha in Leporello un suo doppio; in?ne, Ferrando e Guglielmo, due
uPciali intenti a saggiare la fedeltà delle loro amate. Insomma, le tre opere sono un ritratto e
una sintesi della società settecentesca. L’esercizio del potere come espressione del sistema
cortigiano perde consistenza e credibilità, perché le passioni lo destabilizzano; l’ordinamento
civile resta fondato su equilibri ancora accettati, ma si è consapevoli della loro precarietà;

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matrimonio e famiglia sono più che mai contenitori vuoti e, di certo, non un porto sicuro;
l’accettazione delle regole collettive inizia ad essere vista come un limite per l’individuo o una
camicia di forza (Don Giovanni, ad es., si ribella a quelle regole, soccombe ma è libero). Nell’
800, quando il prevalere delle passioni individuali sulle norme sociali sarà più consapevole, si
avrà la tragedia lirica.
Gli oratori di Haydn - Rispetto all’opera in musica, che per sopravvivere deve godere di
successo presso un pubblico, l’oratorio ha una veste più conservativa ed erudita, derivata
dalle fonti bibliche, dunque, meno soggetto alle mode. Né Mozart né Haydn furono proli?ci
compositori di oratori. Haydn vi si dedicò solo sul ?nire della propria carriera, quasi una
riconversione accademica dopo i successi internazionali. Un esempio è dato dalla Musica
strumentale sopra le 7 ultime parole del nostro Redentore in croce, ossiano 7 sonate con
un’introduzione ed al 8ne un terremoto (1785) - L’impianto di base era per soli strumenti, dove
le sonate accompagnavano l’adorazione del vescovo davanti alla croce dopo la declamazione
del testo in latino. Il motivo iniziale di ogni brano riprende il ritmo delle parole latine appena
recitate; quindi, all’orchestra si aPda una funzione di ampli?cazione, come parafrasi del
testo. o. I due oratori originali di Haydn, La Creazione (1798) e Le Stagioni (1801)
trattano rispettivamente un argomento sacro e uno profano, e creano un dittico tra quelle che
sono le origini del tempo (con la creazione) e la ciclicità di esso con le stagioni. Il testo de La
Creazione è il risultato del miscuglio tra la Genesi, il Libro dei Salmi e Il Paradiso Perduto di
Milton, il tutto inserito in una dimensione epica. Il libretto era stato già confezionato in
inglese ai tempi di Händel e forse a lui sottoposto ma fu fondamentale anche l’esperienza
londinese di Haydn, che venne in contatto con il testo poetico The Creation of the World di
Thomas Linley attraverso Salomon. Intermediario fra il barocco händeliano e la musica
viennese di ?ne ‘700 fu Swieten, barone illuminista e diplomatico, musicista dilettante,
biblio?lo, che raccolse varie testimonianze della cultura musicale del passato riproponendola
agli autori viventi. Il suo lavoro nella Creazione consisté nel tradurre e ri?nire un testo già
pronto ed equilibrato: nell’universo appena creato non esiste dolore se non quello derivante
dalla caduta degli angeli, che evoca la dannazione eterna. Il lavoro termina prima della
tentazione di Eva e la cacciata dal paradiso (tema invece centrale nel poema di Milton). Tale
vicenda biblica, alla ?ne, sembra incarnare i valori spirituali, il tendere dell’uomo verso la
luce e il suo voler essere parte di un progetto universale (ideali anche della Massoneria, i
richiami alla quale sono numerosi). Haydn, cattolico osservante e massone, crea così un
lavoro multiplo e duraturo, che unisce canali sia cristiani che esoterici. La musica unisce ciò
che resta del barocco con lo stile classico e con alcuni spunti romantici. Dopo il successo della
Creazione, fu Swieten a proporre ad Haydn il novo soggetto, tratto dal poema britannico di
James Thomson The seasons (1730). La combinazione fra questi due oratori sembra un
disegno organico, nonostante le disuguaglianze fra i due. Ne Le stagioni, i personaggi
interagiscono col mondo attraverso gli spunti che esso o\re loro (meteo, albe e tramonti,
prodotti della terra propiziati da canti devozionali): in questo risiede anche la distanza
estetica fra Le Stagioni e la Sinfonia n.6 Pastorale di Beethoven, che comunque non sarebbe
concepibile senza l’oratorio haydniano. L’io lirico di Haydn (trasferito sui personaggi e
oggettivizzato) coincide, nella Pastorale, con l’autore stesso, che si ferma ad ammirare la
natura facendosene interprete. Questa distanza, comunque, si attenua considerando il
progetto complessivo delle Stagioni e la posizione del musicista rispetto al testo da musicare:
la successione dei contenuti musicali in relazione alle diverse stagioni non è neutra e
sequenziale: inizio primavera in apertura è drammatico, vuole riprodurre il gelo invernale che
si rifugia al polo e lascia giungere il tepore della nuova stagione (la conclusione dell’inverno, è
aPdata al doppio coro che guarda all’imminente primavera come rigenerazione della vita):
l’assetto circolare, che richiama la vita, guadagna così una prospettiva ?loso?ca. Mostra
elementi imitativi o pittoreschi, rendendolo un lavoro descrittivo. Descrittivismo e spiritualità,
però, non stanno più agli antipodi: in molti punti elementi più personali si uniscono e si
confondono con elementi naturalistici. L’unità di concezione tra Creazione e Stagioni è il
pensiero ?loso?co di fondo che porta il compositore ad avvicinarsi ad un’universalità artistica
e spirituale; Ciò richiama l’estetica del Sublime di Burke: il modo di intendere l’arte e le
categorie estetiche parte dalla semplice imitazione delle opere della natura immensa e bella:
le fonti del sublime sono l’in?nito, il magni?co.

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CAPITOLO 8 – Beethoven importante nel panorama musicale europeo dei primi 800, per
ragioni storiche- biogra?che; “genio” in quanto ricercatore dell’originalità in ogni sua opera,
concepisce la creazione come un percorso incessante di crescita, scoperta e trasformazione
tant’è che suoi tempi di composizione sono molto lunghi. Si pensi che l’opera Fidelio,
composta i 3 diverse versioni, avrà 4 diverse overture, co un processo creativo di 10 anni e
oltre. I suoi abbozzi hanno sempre a\ascinato i musicologi e musicisti, quantità imponente di
materiale preparatorio che mostrano la genesi della composizione, l’intreccio con altre opere
in contemporanea elaborazione; spesso ci sono ?no a 20 varianti di un singolo tema – il tema
dell’Ode alla Gioia, attraversò 100 diversi stadi di elaborazione. Con lui si intende il processo
di creazione, non solo estetico/funzionale ma anche come conoscenza e scoperta del mondo.
Molti critici coevi, cercano di sistematizzare in una formula le “fasi creative” nelle quali
collocare le sue opere - La suddivisione più nota è quella proposta da Wilhelm von Lenz, che
parla di tre stili: - fase giovanile dagli esordi al 1802; - fase della maturità (il periodo
“eroico”) ?no al 1816; - stile tardo, ultimo decennio di attività, quando lo stile si fa più
complesso e sottile, quasi esoterico. [Altri studiosi a\ermano che tale suddivisione sia
semplicistica, in quanto non tiene conto delle fasi di transizione presenti nell’evoluzione di
Beethoven: ad esempio, non terrebbe conto del gruppo di opere che va dalla Sonata op. 26
alle Sonate op. 30, estremamente sperimentali, né del “tono nuovo” assunto da Beethoven tra
il 1809 e il 1816 (ossia tra il Quartetto op. 74 e il ciclo liederistico op. 98), quando il
compositore si avvicinò alle caratteristiche del Romanticismo musicale nascente,
anticipandone molti aspetti.] Se prima di Beethoven la musica era “l’arte della piacevolezza”,
adesso Ho\mann nota nella V sinfonia che la musica strumentale, proprio per la sua
indeterminatezza, rinuncia ai sentimenti concettualmente determinabili per abbandonarsi
all’ine\abile; dunque, la musica strumentale arriva all’intuizione dell’assoluto, in?nito: una
forza dirompente che può smuovere e commuovere l’ascoltatore. Si deve dunque soprattutto a
Beethoven se la de?nizione di “musica”, in poco più di 30 anni, è mutata radicalmente.
La produzione e i generi musicali – sperimenta diversi generi anche se solo alcuni
interessano la sua vena sperimentale e innovativa; sceglie di unire le caratteristiche di più
generi alla ricerca di una nuova, monumentale e complessa espressione; Lo notiamo in una
Contraddanza, brano “d’occasione” intorno al 1800 che riutilizzerà poi come ?nale nel
Balletto Prometeo, poi tema delle Variazione per pianoforte op. 35 e in?ne tema del ?nale
dell’Eroica. Inoltre, Beethoven utilizza spesso forme e tecniche della musica operistica
all’interno delle sue composizioni strumentali, oppure riprende forme vocali e strumentali del
passato come la fuga o la canzona. Uno degli esempi più chiari di questo modo di comporre è
il Quartetto op. 130, che passa dalla forma-sonata allo scherzo, dalla danza popolare alla
tedesca alla cavatina operistica, oppure il Quartetto op. 131, con i suoi sette movimenti
senza soluzione di continuità che riuniscono fuga, danza, recitativo vocale, variazione, scherzo
fantastico, un Adagio lirico e poi un’unione fra rondò e forma-sonata. La ricerca di Beethoven
quindi si esplica anche in una sorta di sintesi storica, estetica e sociale. Il pianoforte era il
centro del suo “laboratorio compositivo”, non a caso la sua composizione pianistica è più
abbondante rispetto alla orchestrale; predilige l’esplorazione nella sonata per pianoforte
(32 ne compone, dal 1789 al 1822). Tutte le tappe più importanti del suo percorso artistico si
aprono con composizioni pianistiche e, allo stesso modo, tutti i periodi di crisi sono esplorati
soprattutto in lavori pianistici. Beethoven cercò sempre di migliorare e sviluppare questo
strumento, insistendo coi costruttori viennesi di pianoforti aPnché ne ampliassero la sonorità,
l’estensione e le caratteristiche. Tale sviluppo, a catena, esigeva che la musica prendesse in
considerazione tali novità. Con Beethoven inizia, quindi, il “secolo del pianoforte”, che
diventa protagonista indiscusso dell’800 musicale, prima in forma privata e poi pubblica.
Poche sonate beethoveniane furono eseguite pubblicamente, e fanno un po’ da spartiacque fra
quello che era lo spettacolo privato e la futura esecuzione pubblica. Poche sonate
beethoveniane furono eseguite pubblicamente, e fanno un po’ da spartiacque fra quello che
era lo spettacolo privato e la futura esecuzione pubblica. Le nove Sinfonie sono il pendant
“pubblico” delle sonate e ancora oggi sono il cuore del repertorio concertistico: innovativa fu
l’idea di alternare sinfonie a coppie, secondo temi e motivi contrastanti: la Quarta delicata e
vitale e l’Eroica monumentale, la drammatica Quinta e l’idilliaca Pastorale, la dirompente
Settima e la misteriosa Ottava. È importante, tra l’altro, che queste ultime sinfonie siano state

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composte proprio a due a due: la Quinta e la Sesta furono addirittura eseguite insieme per la
prima volta nel 1808, per mostrare le di\erenze tra due sinfonie “sorelle”. B. a\erma una
nuova concezione dell’opera musicale: i movimenti sono collegati tra loro secondo
un’innovazione di Beethoven per cui la sinfonia diventa un unicum organico da seguire nella
sua totalità e i cui collegamenti interni si rivelano progressivamente a chi ascolta. Alla base
della V e VI sinfonia ci sono due importanti concezioni 800esche: l’unità ciclica tra diversi
movimenti di un brano, attraverso la riapparizione degli stessi materiali tematici; la musica a
programma cioè la pittura musicale, descrive in successione stati
d’animo/paesaggi/condizioni atmosferiche. Altro elemento da evidenziare è l’ampliamento
progressivo dell’organico orchestrale durante la sua carriera: a cominciare dall’Eroica,
che presenta tre corni anziché i due soliti, Beethoven inizia a inserire strumenti e
combinazioni musicali nuovi, ?no ad arrivare alla Nona, dove aggiunge ad essi le voci (soli e
coro) e la batteria (triangolo, piatti, grancassa): molti anni dopo la morte di Beethoven,
Wagner disse che la Nona era stato il massimo del genere sinfonico, il tentativo di superare se
stesso. Sempre per la musica sinfonica, Beethoven compose anche numerose ouvertures e
sette concerti (5 per pianoforte, uno per violino/violoncello/pianoforte, e uno per violino). In
quanto a musica cameristica, accanto a sonate per violino e pianoforte, trii, quintetti e altre
formazioni, compose 17 quartetti per archi, la parte più intima dell’opera di Beethoven. [Dopo
Haydn, il quartetto era diventato un genere privato ed esoterico; Beethoven ci si avvicina
piano, pubblicando nel 1801 la raccolta dei Sei quartetti op.18, cui seguiranno altre raccolte a
piccoli gruppetti.] Circa la musica vocale, Beethoven ha lasciato meno opere dei suoi
predecessori e dei suoi contemporanei: alcuni Lieder, cantate, un’opera - il Fidelio - e brani
religiosi come la Missa Solemnis op. 123, che ebbe una gestazione lunghissima e che il
compositore considerò tra le sue opere meglio riuscite. Altro elemento della sua produzione
sono gli arrangiamenti di canti popolari: a partire dal 1810, ne scrive almeno 170 su
commissione di un visionario editore scozzese, George Thomson. Grazie al rapporto con la
musica popolare (scozzese e irlandese), Beethoven viene a contatto con la dicotomia
maggiore-minore e con sistema di organizzazione di suoni non legati alle tonalità
occidentali; come anche aspetti ritmici e si fraseggio insoliti. Dalle rioessioni sui canti
popolari scaturì senz’altro l’idea dell’ultimo Beethoven di voler abbracciare il mondo intero
attraverso la musica. Lo stesso Thompson commissionò a Beethoven una raccolta di «musica
vocale delle varie nazioni d’Europa», per cui il compositore scrisse arrangiamenti di canti
popolari scozzesi, irlandesi, gallesi, polacchi, ungheresi, russi, tedeschi, svizzeri, italiani (due
melodie veneziane), francesi, ucraini, danesi, svedesi, spagnoli etc.: una sorta di progetto
multiculturale ante litteram, forse il primo nella storia della nostra cultura.

Opera e biograJa- Ogni opera di Beethoven è stata in qualche modo analizzata collegandola
in parte anche alla sua biogra?a. L’analisi del rapporto tra opera e vita, in un certo senso,
nasce con Beethoven, che fu il primo compositore a concepire ogni lavoro come risposta a un
problema artistico, il primo a ad attraversare chiare fasi creative, a cambiare strada, a
prendere “nuove vie”, il primo a conoscere momenti di crisi, di stasi, di rioessione. La
musicologia ha cercato di collegare i lavori di Beethoven e le sue fasi alle svariate diPcoltà
della sua vita: diPcile rapporto con la famiglia, carattere de?nito spesso altezzoso, arrogante;
scelte di vita come il libero professionismo, ri?uta di stare al servizio di corti o signori, e poi la
sordità, che lo a€igge dagli ultimi anni del 700 ?no a renderlo sordo dal 1815. La
psicoanalisi, nei primi del ‘900, ha per?no ipotizzato che la Quinta, ossia la “lotta contro il
destino” sarebbe la lotta di Beethoven stesso contro le avversità, mentre la Nona, dove il
compositore esprime la volontà di “abbracciare il mondo intero”, rappresenterebbe la volontà
di trovare quell’a\etto che la famiglia non gli aveva dato. Pare che la sua musica risolvesse
conoitti che la vita del compositore lasciava, invece, aperti: in molte delle sue composizioni si
ha l’impressione di un conoitto progressivamente risolto. Il problema è che molte
interpretazioni autobiogra?che sono state accentuate a tal punto da provocare reazioni forti
da parte di altri compositori successivi: nella migliore delle ipotesi, questi rivendicarono il
carattere autonomo, “assoluto” della musica beethoveniana; nel peggiore dei casi invece, la
sua musica era ri?utata in blocco, come accadde da parte di Stravinskij. Un simile disgusto si
può capire solo analizzando nel dettaglio certi orientamenti della critica beethoveniana: x es.
Arnold Schering cercò di dimostrare come dietro ad ogni sua opera ci fosse un programma

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letterario ben de?nito e come molte di esse fossero ispirate a Shakespeare. In e\etti,
ascoltando la sua musica, si ha la sensazione che egli volesse farci arrivare un messaggio,
darci attraverso la musica un’immagine ideale del mondo, di mostrarci una via di
miglioramento non solo estetico, ma anche morale e sociale. Con la forma-sonata la musica
classica realizzava un’idea di mondo dove i conoitti venivano risolti e si arrivava ad un
equilibrio. Lo stile classico, insomma, è basato sulla convinzione che con i suoni si possa
rappresentare un mondo che raggiunge un vero equilibrio.

Il contesto e l’etica Beethoveniana- cresce in un ambiente illuminista e, studiando ?loso?a


a Bonn, entra in contatto con Rousseau e Kant. Ha un’iniziale adesione alla Rivoluzione
francese e una prima fase di ammirazione per Napoleone, ma il credo illuminista lo seguirà
per tutta la vita (l’Inno alla Gioia - appello alla solidarietà umana): anche con la Nona, scritta
negli anni Venti, quando gli ideali liberali erano molto attaccati alle monarchie restaurate
dopo il Congresso di Vienna, vuole trasmettere un messaggio utopico di fratellanza comune di
tutte le persone al mondo. La più illuminista delle sue opere è il Fidelio (il testo verbale
veicola i contenuti impedendone una lettura sbagliata): sembra mettere in scena una critica al
sistema carcerario settecentesco: Pizarro, il governatore della prigione, è uno dei personaggi
più malvagi creati da un compositore, e la sua crudeltà verso Florestan – tenuto rinchiuso in
una delle segrete più profonde – appare motivata solo dalla volontà di vendetta e non da un
motivo valido. Il credo illuministico, lo si riscontra bene soprattutto quando Florestan dirà “ho
detto la verità, e la mia ricompensa sono le catene”. Qui, il passaggio dal buio alla luce è sia
simbolico sia letterale, dato che il II atto si svolge per metà in prigione e per metà all’aperto.
Quest’opera appare un manifesto programmatico ed artistico dove sono evidenti le sue idee
liberali. Per quest’opera, si ispira all’opéra à sauvetage = genere di opera seria nata in
Francia che si conclude con il lieto ?ne, con un salvataggio all’ultimo secondo. In e\etti, molti
generi della musica rivoluzionaria francese (marce funebri e militari) sono stati considerati
d’ispirazione per il “secondo” Beethoven. Il segno rivoluzionario lo si riscontra nello stesso
tessuto musicale: segni militari, squilli di tromba, rulli di tamburo, usati come temi, o
interiezioni (si pensi all’inouenza sul pubblico, che vedeva inseriti elementi immediati ed
attuali) – Nel 1° movimento dell’Eroica anche se annunciato dai violoncelli, presenta poi
subito uno squillo, e il 2° è una grandiosa marcia funebre con potenti trombe e corni. Anche
nel 2° movimento della Quinta si ha una fanfara di ottoni di carattere militare. Il brano in
cui l’uso di elementi militareschi raggiunge il culmine è La Vittoria di Wellington op.91,
componimento celebrativo che ebbe grande successo, prevede anche l’uso di cannoni a salve,
marce e uso di temi patriottici come “God save the King”. In lui c’è l’idea di scrivere per i
posteri, aldilà delle realtà quotidiana e questo pensiero per le generazioni future, è una
novità assoluta – tale atteggiamento si manifesta dopo il Congresso di Vienna – apice della sua
fama europea coronato da due composizioni “d’occasione” “Vittoria di Wellington” e la
Cantata “Il momento glorioso”. Dopo il 1814, Beethoven a\rontò una crisi creativa che
durò ?no alla ?ne del 1817, periodo durante il quale scrisse poco e senza ambizioni; questo
fatto, per cui giunti all’apice della fama si entra in un periodo di stasi, è una novità: nessun
compositore prima di lui aveva mai smesso di comporre o si erano fermati a rioettere (dopo di
lui, invece, ciò capiterà spesso, a partire da Rossini, che, nel 1829, all’apice della fama, si
ritirò dalla vita musicale pubblica). La crisi di Beethoven è stata associata al crollo degli
ideali liberali e illuministici e al cambiamento dei gusti del pubblico viennese, ma anche a fatti
privati del compositore, come la morte del fratello e la lotta per l’aPdamento del nipote Karl.
Altri studiosi, peraltro, la rimandano semplicemente a un fatto musicale: l’obsolescenza della
forma sonata e dello stile eroico che coincidono con le prime avvisaglie del romanticismo.
Cambiò tutto quello che era stato il suo percorso ?no a quel momento per prendere una
“nuova via”, avvertendo il bisogno di andare avanti in modo diverso.
Il linguaggio – I) arriva a Vienna (1792) 1 anno dopo la morte di Mozart, il suo protettore a
Bonn, Waldstein, aveva scritto “sia lei ad accogliere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn”
– così nasce il mito della grande trinità viennese. Ma vediamo in che modo Beethoven avrà dei
punti di contatto/di\erenze con Mozart, partendo dagli incipit. Nel periodo giovanile, spesso
B. cita espressamente Mozart all’inizio delle sue composizioni (es. la sua Sonata op. 2 n 1
comincia citando il tema dell’ultimo movimento della Sinfonia n.40 K 550 di Mozart) –
altrettanto importante però è la distanza che B. cerca dal suo modello: La Sinfonia n. 40 K

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550 di Mozart, inizia con una frase simmetrica - proposta e risposta, tonica/dominante a cui
risponde dominante/tonica, in un periodo classico di 8 battute(4+4/2+2+2+).  . La Sonata
op. 2 n. 1 di B., comincia sì con 2 battute di Tonica e risposta di due Dominante, ma da subito
arriva la dinamicità con un processo di accumulo e accelerazione, tale processo fa salire la
temperatura espressiva, creando una potente linea di tensione. Tale caratteristica la si ritrova
spesso in B; esempio lampante è la V Sinfonia – inizia con 2 battute di Tonica che si
interrompono su una nota tenuta (ampia sospensione) / risponde con 3 battute di Dominante
anch’esse sospese e ancora più prolungate)/ proposta e risposta senza sospensioni tra Ton e
Dom e poi accelera l’alternanza improvvisamente; per ben 35 battute il brano continua
alternando Ton e Dom: tramite la sola alternanza di due accordi fondamentali del brano,
riesce a creare uno slancio e una formidabile tensione. La Prima Sinfonia di B. inserisce
ancora la citazione di M. in un processo di accelerazione e cumulo di tensione; vediamo la
strumentazione/divisione dell’orchestra in gruppi che si alternano e contrappongono:
orchestra divisa in 2 (archi e legni, ai quali ultimi si aggiungono corni, trombe e timpani),
tramite le battute alternate (4 archi, 2 legni/ 4 archi/2 legni e corni ecc..) gli elementi in gioco
vengono ravvicinati ?no a udire l’intera orchestra insieme in fortissimo per alcune battute. In
questi esempi ‘è una delle sue più potenti innovazioni: forma musicale come
trasformazione di elementi che si caricano progressivamente di tensione.
II) La novità del suo stile è la capacità di rimettere in gioco gli elementi del linguaggio
musicale classico (che ricevette da Haydn) – la sempli?cazione degli elementi che è essenziale
per realizzare lo stile drammatico, denso, monumentale caratteristico del periodo “eroico”.
L’oggetto principale della sempliJcazione è la melodia (cardine 700esco, in particolare
di M.). Molti musicisti, (data l’immediatezza, semplicità degli elementi del linguaggio) invece
di parlare di tema (motivo) alla base di una composizione, parlano di “gesto” – una scala,
movimento ascendente o discendente, arpeggio, ritmo, gruppo di note ripetuto – facile da
ricordare sin dal primo ascolto; è da questa estrema sinteticità che nasce la potenza
espressiva del suo linguaggio, creando poderosi accumuli di tensione con la conseguente
risoluzione che appaga l’ascoltatore. (il gesto più celebre è costituito dai “quattro colpi del
destino” nella V). Alla sempli?cazione della melodia corrisponde un arricchimento di altri
elementi – scompone il linguaggio nei suoi diversi parametri costitutivi considerandoli
sia separatamente che in reciproca interazione: rioette, analizza le caratteristiche ?siche
dei suoni (risonanze/durate/timbri/intensità). André Boucourechliev, nel suo saggio su
Beethoven, descrive la grande operazione del compositore: B. eredita un sistema – quello
dello “stile classico” la cui gerarchia interna è dominata dall’armonia (sistema tonale) e dalla
melodia (canto), seguite dagli altri elementi del linguaggio musicale ordinati in modo
decrescente a seconda delle durate (ritmo), delle intensità (forte, piano, mezzo forte), e dei
parametri secondari: registri (altezza di un suono: acuto, medio, grave), timbri e masse.
Che cosa fa di tale sistema? Nelle sue opere, tutti gli elementi considerati secondari ?no a
quel momento assumono un ruolo di primaria importanza. Ad es. lo spazio musicale
(estensione di registro) si presenta dirompente ?n dalle primissime composizioni di
Beethoven, dove pullulano i gesti espressivi drammatici destinati ad accentuare
nell’ascoltatore la sensazione di alto e basso, di pieno e di vuoto, di largo, di lungo, di
profondo. Nella maturità l’uso dello spazio si fa ancora più potente: l’inizio del Quinto
Concerto per pianoforte, l’intera orchestra attacca, fortissimo, su un singolo accordo; segue
quindi il pianoforte, che comincia nel registro grave, sale ?no all’acuto, scende ?no al registro
centrale e poi risale, e in?ne ridiscende ?no al nuovo accordo fortissimo dell’orchestra. A
questo punto, il pianista ripete, partendo ancora più dal basso e salendo ancora più in alto,
?no a ridiscendere al terzo accordo orchestrale: un memorabile inizio, fondato sulla
contrapposizione tra un’orchestra immobile e un pianoforte in continuo movimento
nello spazio. B. rioette anche sulle dimensioni complessive del brano, che tendono ad
ampliarsi sempre più: confrontando Beethoven con opere dello stesso genere di Haydn o
Mozart, si nota subito la di\erenza impressionante: il 1° movimento della Sonata op. 7 è lungo
362 battute, quello della Sonata op. 10 è 344 battute; la Sonata K 533 di Mozart (la sua sonata
più estesa) ha un 1° movimento di 239 battute. L’Eroica, poi, si estende per 691 battute, oltre
il doppio della più lunga tra le sinfonie di Mozart. Altri elementi - dinamica, timbro, massa,
articolazione ritmica – vengono portati alla ribalta tramite il contrasto, l’accostamento tra

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elementi di carattere opposto – piano/forte, vicino/lontano, lento/veloce. (vedi se vuoi l’es. Di


ouverture Coriolano op.62 – p. 438)
III) Uno degli aspetti più studiati del linguaggio musicale di Beethoven è la sua elaborazione
motivica: il modo in cui il compositore costruisce molte delle sue composizioni partendo
dall’elaborazione incessante di gruppi di 3, 4, 5 o più note che si presentano nelle forme più
disparate e assumono i più diversi signi?cati (si pensi alle famose 4 note con cui si apre la
Quinta, che vengono poi riproposte più volte nella Sinfonia nei modi più vari). È interessante
notare che, in un primo movimento di sinfonia o sonata classica la linea melodica principale
sia descritta come tema (non come melodia) e, quindi, come qualcosa da svolgere, costruire e
portare avanti: il tema è ben diverso dalla melodia, in quanto questa esige di essere
ascoltata per intero e non di essere frammentata e sviluppata in parti. La teoria ci
dice, che un tema deve essere costruito in modo tale da poter essere frammentato in motivi
- singoli elementi che il compositore sfrutta nell’elaborazione. Spesso i temi di B. non sono
particolarmente avvincenti ?n da subito, piuttosto è il processo che avvia a partire dal tema e
le trasformazioni a contare. I temi, scomposti, cambiano spesso funzione all’interno di
una stessa composizione, dando così l’idea di qualcosa che è costantemente in
divenire. È quindi fondamentale con questo compositore considerare in modo speci?co i
procedimenti di elaborazione motivica: il fatto che non solo nella Quinta (la funzione formale
di quelle 4 note cambia continuamente e con esse il signi?cato estetico del brano), ma in
moltissime opere beethoveniane sia possibile identi?care gruppi di note che permeano l’intero
tessuto musicale è senz’altro uno degli aspetti più rilevanti del suo linguaggio musicale.
L’elaborazione motivica è uno degli elementi chiave della ”forma come processo”. (tale tecnica
fu studiata a lungo da compositori successivi, come Listz, Schumann, Brahms e Wagner, per
svilupparla e applicarla alle proprie opere: la “variazione in sviluppo” di Brahms e la tecnica
del Leitmotiv di Wagner derivano appunto da questi studi). Per capire la ricchezza e
complessità del pensiero motivico di B. osserviamo l’elaborazione motivica del primo
movimento della sonata Les Adieux op.81°: scritta tra 1809/10 per la partenza dell’arciduca
Rodolfo, dopo il bombardamento e l’occupazione francese – dunque qui il motivo è arricchito
dal riferimento extramusicale. Il motivo base sono 3 note discendenti (sol-fa-mi b) che
aprono l’intro lenta e alle quali corrispondono le 3 sillabe della parola “addio”. Queste tre note
sono onnipresenti in tutte le parti del movimento ogni volta in forme e quindi funzioni
di\erenti; esse possono essere invertite (fa-sol-la b), ampliate, usate come accompagnamento.
Lo stesso secondo tema è una trasposizione alla Dominante: si tratta di una forma sonata
“monotematica” dove primo e secondo tema non contrastano, ma sono connessi. Un altro
procedimento tipico è la “riduzione del motivo”, da 3 a 2 note e poi 1 sola ripetuta. La
lunghissima coda mostra nuove possibilità: motivo presentato dapprima isolato, poi si divide
e si rincorre riecheggiando, evocando così l’e\etto dissonante dei campanili della città, come
se volessero partecipare anch’essi al dolore del musicista e salutare l’arciduca esiliato. I
signi?cati musicali ed extramusicali si compenetrano dando un ruolo essenziale
all’elaborazione motivica.
IV) La forma-sonata, ha un processo che prevede un cambiamento dei motivi e temi – si
parte da un’opposizione (contrasto nell’esposizione) e si giunge ad una sintesi. È questo
principio che interessa maggiormente a B. dato che dà importanza al concetto del movimento,
del divenire: il senso di trasformazione che si avverte passando da una tonalità ad un’altra, da
un tema ad un altro (solitamente contrastante). Il potenziale drammatico insito nella forma-
sonata è chiaro, e B. cogliendone tutte le possibilità, le utilizzò a fondo, soprattutto nel primo
decennio dell’Ottocento, quando la sua ricerca fu diretta a dare spettacolarità, monumentalità
e senso di risoluzione alla composizione. Realizzò due versioni dello stesso brano: le
Ouvertures Leonora n2 e 3, scritte per l’opera Fidelio, sono la prima non e la seconda in
forma-sonata. All’ascolto di entrambe si noterà che, nonostante siano basate sugli stessi
materiali, la seconda da un senso di risoluzione, di sfogo della tensione maggiore rispetto la
prima- i materiali ascoltati nella prima parte, ci appaiono quasi “riconciliati” tra loro, grazie al
senso di risoluzione implicito nella forma-sonata. Rispetto ai suoi predecessori, Beethoven fu
molto più attento all’approccio problematico alla costruzione del brano: ogni suo lavoro
è una risposta a un problema compositivo: possono esserci brani dove uno stesso tema viene
ripetuto più volte ad altezze e con strumentazione diverse (1° movimento dell’Eroica), e brani
dove è diPcile per?no stabilire con certezza quale sia il primo tema (l’inizio della Sonata op.

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31 n. 2): - nel primo caso, l’idea compositiva è quella della monumentalità, del progressivo
aumento di dimensioni, e del graduale disvelarsi delle possibilità sonore dell’orchestra; - nel
secondo caso, il compositore ricerca invece l’ambiguità, la continua trasformazione, il puro
“divenire” attraverso i suoni. Lo “stile tardo” - Le ultime opere di Beethoven, più o meno
dal 1817 alla morte, sono considerate una fase a sé, poiché il compositore rinnova
letteralmente le forme tradizionali. Carl Dahlhaus, analizzando questa fase, la de?nisce
anticipatoria e profetica, estranea alla realtà temporale cui appartiene. Queste ultime opere,
per quanto apprezzate (a volte addirittura venerate), non sono state oggetto di studio o di
imitazione per nessuno dei compositori immediatamente successivi; si dovrà attendere il ‘900
con Schoenberg e Webern per trovare un’inouenza diretta dei suoi ultimi Quartetti o delle
Variazioni Diabelli (variazioni per pianoforte scritte da B. tra il 1819 e il 1823 su un valzer
composto da Diabelli). Anzi, durante l’800, molte delle sue composizioni furono considerate
incomprensibili; alcuni arrivarono per?no a dire che la sordità avesse compromesso la sua
capacità percettiva. L’unicità di ogni singolo componimento rende diPcile sceglierne uno per
poter illustrare le caratteristiche dello “stile tardo” di B. Conviene quindi a\rontare un corpus
di opere relativamente omogenee tra di loro ed evidenziare di\erenze e punti di contatto: le
ultime 5 sonate per pianoforte (op. 101, 106, 109, 110, 111). Segnano l’inizio vero e proprio
del 3 stile. In 4 casi su 5, il movimento iniziale del brano è sintetico/compresso; la
contrazione non riguarda l’estensione delle sonate nel loro insieme, riguarda proprio la
forma-sonata, quella all’interno della quale B. aveva costruito la drammaticità del proprio
stile eroico. Ascoltando i capolavori tardi del compositore, una caratteristica rispetto alle
opere precedenti si mostra “in negativo”: mancano la forza dirompente e la tensione dello
stile eroico o il senso di movimento verso un punto risolutivo. Gli sviluppi, nelle ultime sonate,
si fanno molto brevi e sospesi; le transizioni si riducono molto, quasi ?no ad un gesto
essenziale; nessuna di queste composizioni si presenta sviluppata in quattro movimenti; si
riprendono in maniera profonda tecniche e forme tradizionali estranee alla sonata come la
fuga, la variazione e il contrappunto  comporta che i rapporti tra i singoli movimenti
diventano dinamici e i con?ni tra le parti costitutive della sonata sfumino. Cambia il rapporto
con spazio e tempo: se prima era un percorso drammatico rettilineo adesso è invece
circolare. Non c’è, in questo periodo, una composizione che non contenga almeno una
parte contrappuntistica e si moltiplica la presenza delle fughe. Ciò che attraeva B. di
queste tecniche compositive è il fatto che erano delle soluzioni alternative all’elaborazione
motivica: la coerenza del materiale è la stessa, ma ora viene meno quel senso di movimento
dinamico, di tensione e di trasformazione continua (in una parola, lo stile eroico) che aveva
contraddistinto le opere beethoveniane ?no al 1809 circa. Ciò non signi?ca che si perda la
drammaticità; piuttosto l’espressività è data dal contrasto tra le caratteristiche del
contrappunto in sé e le caratteristiche del suo linguaggio (armonia e senso di risoluzione
tonale). Altra tecnica che B. utilizza nel periodo tardo è la variazione, soprattutto negli
ultimi Quartetti. Questa tecnica è, in un certo senso, antitetica all’elaborazione motivica:
(nell’elaborazione motivica, la frammentazione di un tema in motivi dà all’ascoltatore la
sensazione di un’azione esercitata dal compositore nei confronti del materiale musicale, il
tempo procede quindi in modo lineare); - la variazione, invece, prende in considerazione
l’intero tema, presentandolo in maniera sempre diversa, è una rioessione sul materiale
musicale che implica l’arresto temporale. Infatti, molte delle forme di variazione composte,
cercano di contrastare la tendenza statica del principio di variazione, con accelerazioni
ritmiche progressive, forti contrasti, sospensioni, crescendo. La trasformazione del tema è
spesso talmente radicale da sembrare una nuova entità “imparentata” col tema, ma allo stesso
tempo autonoma. “33 oggetti diversi, illuminati da una stessa luce ”, così sono descritte le
Variazioni Diabelli di B.: sono delle variazioni che però non somigliano a nessun tipo di
variazione precedentemente composto prima; mostrano sì la solita sintesi e varietà, ma
l’intenzione del compositore è scrivere 33 brani totalmente diversi, che presentano e
rivedono ogni volta lo stesso schema di base, ovvero l’archetipo di Valzer ideato da
Diabelli. Dimostra al massimo la volontà di trovare tutte le possibilità di sviluppo di un
medesimo materiale: c’è, quindi, la fusione di generi diversi (marcia, minuetto, studio
virtuosistico, fuga, canone, scherzo etc.); a questa volontà di sintesi, si accompagna
l’intenzione di andare a riscoprire forme del passato e di recuperarle per trasformare la

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concezione della musica. Le variazioni sono una sorta di summa del pensiero musicale e come
tentativo di costruire un mondo non solo sonoro ma più vasto possibile.

CAPITOLO 9 – L’opera italiana nel primo 800

I teatri - Nei decenni iniziali del’800, il melodramma rimase il genere più importante sia della
musica che del teatro. Persero invece posizioni la musica vocale da camera e quella da chiesa.
In Italia, si riteneva quale genere più prestigioso l’opera in musica, che, godette
dell’attenzione di pubblico e commentatori; il fatto che il melodramma fosse un’invenzione
italiana e che continuasse ad avere di\usione all’estero, ne faceva l’espressione principe della
cultura nazionale. Nel ‘700, l’architettura teatrale aveva avuto un’importante ?oritura nella
penisola, con l’a\ermazione della sala detta “all’italiana”. Si ricordano, in questo senso, il San
Carlo di Napoli (1737), il Teatro alla Scala di Milano (1778), La Fenice a Venezia (1792); ma fu
nei primi anni dell’800 che si ebbe una vera e propria esplosione nella costruzione di nuovi
teatri. L’impulso iniziale si veri?cò nel periodo francese, anni compresi tra l’arrivo di
Napoleone in Italia (1796) e la sua scon?tta a Waterloo (1815). Fu con la presenza francese in
Italia, che si promosse il teatro come luogo di formazione di una nuova coscienza civile
in coloro che, da sudditi (nell’Antico Regime), erano ora divenuti cittadini. Tra i numerosissimi
teatri inaugurati in quel periodo, si ricordano il Teatro Municipale di Ferrara (1798), il Teatro
Nuovo di Trieste (1801), il Teatro Contavalli di Bologna (1810), Il Teatro Re a Milano (1811).
La smania di costruire nuovi teatri non cessò con il passaggio alla fase della Restaurazione,
anzi aumentò, per favorire una forma di sociabilità ormai radicata nel tessuto sociale e
culturale della penisola e ritenuta meno pericolosa di altre forme di aggregazione sociale
(salotto intellettuale; circolo). Tuttavia, la distribuzione sul territorio dei nuovi teatri era
disomogenea. Non ne furono costruiti, nei centri laziali, sardi e appartenenti al Regno di
Napoli (tranne Sicilia e Puglia). La massima concentrazione di teatri era dunque al
Nord, mentre al Sud ve n’erano davvero pochi. Altra di\erenza era che i maggiori teatri
commissionavano direttamente opere ai compositori più famosi (la Fenice, la Scala, il San
Carlo), mentre altri le replicavano in un secondo momento. Il sistema produttivo e
l’impresario- le rappresentazioni operistiche erano raggruppate nelle cosiddette stagioni, la
più importante era quella di carnevale e di primavera, di giugno/luglio in occasione di ?ere
agricole o commerciali, o di autunno. La ?gura principale del sistema produttivo
melodrammatico era l’impresario: prendeva in appalto il teatro dai proprietari
organizzandone la produzione delle stagioni in collaborazione di una rappresentanza degli
stessi proprietari. Bisognava mettere sotto contratto un compositore, un librettista e una
compagnia adatta alle opere scelte (solitamente librettisti e compositori aspettavano di
conoscere i ruoli principali per iniziare a scrivere). Il numero di rappresentazioni dipendeva
dall’apprezzamento del pubblico (se ?schiavano, la sostituivano) e lo stesso con i cantanti; se
al contrario faceva successo veniva replicate più volte. Tra gli impresari più celebri del primo
800 - Barbaja, che operò a Napoli, a Milano e a Vienna; iniziò come concessionario dei
giochi d’azzardo praticato nel ridotto della Scala (il gioco d’azzardo, era una forma di
intrattenimento nei teatri italiani dell’800, fonte di notevoli introiti per l’impresario); -
Alessandro Lanara, legato alla Pergola di Firenze e Bartolomeo Merelli alla Scala di Milano;
- Bartolomeo Merelli, che fu impresario della Scala dal 1836 al 1850, ma che gestì le
stagioni in anche in altri teatri della penisola, nonché a Vienna.
I cantanti e le categorie vocali- solitamente i cantanti erano scritturati per due opere
diverse all’interno della stessa stagione. – il librettista spesso doveva scrivere in base ai punti
di forze/debolezza dell’interprete: voce, sensibilità drammatica, età e ?sicità. Nel primo 800,
si andava all’opera per sentire e vedere i cantanti, adulati o aggressivamente disapprovati; nel
giudicarli gli spettatori davano attenzione a recitazione, vocalità e alla gestualità. I tre
cantanti che si impongono all’attenzione sono: Isabella Colbran – soprano spagnolo, famosa
per le parti regali “incute a tutti un rispetto involontario” (Stendhal); primadonna al San Carlo
di Napoli dal 1811 al 1822, legata sentimentalmente prima a Barbaja poi a Rossini (per la
quale scrisse Elisabetta regina d’Inghilterra, Zelmira, Semiramide). Abile nel canto ?orito
(eseguire molte note veloci su una sola sillaba di testo). Giuditta Pasta – “la cantante delle
passioni” per le sue doti di attrice e i suoi gesti trasmissivi; era un soprano (oggi mezzo-
soprano); alcune opere scritte per lei: Anna Bolena, Donizzetti; La sonnambula, Norma,

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Beatrice di Tenda, Bellini (la diversità drammatica e vocale dei ruoli ci fa capire la sua
poliedricità). Giovanni Battista Rubini – tenore, legato alle opere di Bellini (Gualtiero nel
Pirata; Arturo nei Puritani); famoso per il suo timbro dolcissimo e capacità di eseguire parti
acute con eleganza e morbidezza, parti che esprimevano dolore lacerante per un amore
infelice – guadagnando l’empatia emotiva del pubblico soprattutto femminile. Fino a quel
momento, la tradizione melodrammatica italiana era stata dominata dai soprani, ma nel giro
di poco tempo fu data maggiore considerazione ai tenori, mentre i castrati sparirono dai
palcoscenici. All’inizio le parti di protagonista maschile furono aPdate a donne en travesti,
uso anch’esso che tramontò in fretta e i tenori divennero i protagonisti della maggior parte
delle opere italiane; questo perché essi incarnavano meglio la nuova, moderna concezione
dell’ideale di maschilità. Altri cambiamenti si riscontrano “fuori dai teatri”, nella società
attraverso l’editoria musicale e la critica sulla stampa periodica. L’editoria - Nei primi due
secoli di storia dell’opera italiana, il genere si era di\uso fuori dai teatri prima di tutto
attraverso il libretto a stampa. Ma, nel 700, aver accesso alla musica d’opera importava più
che altro ai compositori, ai cantanti e agli strumentisti dell’orchestra. Nell’800, invece si iniziò
a mettere in vendita la musica stampata: all’inizio si trattava solo dei pezzi più famosi (arie
solistiche/duetti) in formato di spartito per canto e pianoforte; poi con gli anni 20 si di\usero
gli spartiti completi. Questo fenomeno è legato alla di\usione del pianoforte come strumento
principe dell’attività musicale privata o semi-privata, strumento che non poteva mancare nei
salotti degli aristocratici, che da dilettanti, intrattenevano gli ospiti. Saper suonare il
pianoforte, infatti, era un segno di distinzione culturale, ricchezza materiale ed emotiva.
Molte ragazze di buona famiglia sapevano anche cantare e quindi gli spartiti d’opera
andavano incontro al desiderio di “portarsi a casa” opere viste in teatro. Poi si di\use il diletto
con strumenti come violino, violoncello, oauto, questo portò a creare delle riduzioni per questi
strumenti. Il protagonista assoluto della di\usione della musica operistica fu, nel primo 800,
Giovanni Ricordi (la cui casa editrice esiste tuttora). Dapprima violinista, iniziò l’attività di
copista a Milano nel 1803; nel 1808, divenne editore di musica, ?no a diventare, nel 1811,
stampatore uPciale del conservatorio della sua città. Nel 1825, acquistò l’intero archivio
musicale della Scala. Egli metteva in commercio sia composizioni famose, come La gazza
ladra di Rossini (pubblicata dapprima in parti singole, poi, nel 1823, completa), sia
composizioni strumentali basate sulle melodie più popolari delle opere più famose. Grazie ad
accordi con teatri ed editori di altre città, la ditta Ricordi si a\ermò in tutta Italia. Nel 1842,
Ricordi decise di ampliare il proprio ambito editoriale e fondò la «Gazzetta musicale di
Milano», che uscì settimanalmente ?no ai primi anni del Novecento.
La critica - Milano fu, nell’‘800, uno dei centri più importanti sia per la produzione e il
consumo operistico, sia per la stampa periodica. Sul ?nire del ‘700, si potevano leggere
notizie operistiche in giornali generalisti (come il «Corriere milanese»), ma l’attenzione era
rivolta quasi del tutto alla rappresentazione, mentre di parole e musica non si discuteva. Al
massimo, circolavano frasi come «la musica è piaciuta» o «l’opera fu applaudita
grandemente». Nel 1804, nascono due periodici che riservano notevole attenzione al
melodramma: il «Giornale italiano» e il «Corriere delle dame». Il primo, trisettimanale, è
l’organo uPciale del governo, mentre il secondo, pubblicato ogni 5 giorni, si rivolge a un
pubblico femminile. Nei due giornali le recensioni, più lunghe, a\rontano anche parole e
musica delle opere: ad es. circa La vendemmia di Gazzaniga, si parla di “melodia dentro i
limiti della proporzione, di musica che tende all’imitazione della natura, di cori collocati con
saggia parsimonia”. Nasce sempre nel primo 800 la stampa specializzata. Milano fu
nuovamente al primo posto: i suoi giornali teatrali, tra cui «Teatri», il «Corriere dei teatri» e
«Il Figaro», si occupavano principalmente, ma non solo, di melodramma; anche libretto e
partitura erano sottoposti a disamina attenta e dettagliata. Negli anni 1840, nacquero altre
testate, come la «Gazzetta musicale di Milano» di Ricordi, vere e proprie riviste musicali, che,
accanto alle recensioni, includevano articoli di storia, teoria e analisi.
Il repertorio – emerge nel primo ‘800, altra importante innovazione del periodo. Già verso la
?ne del ‘700, alcune opere, specie comiche, erano circolate ovunque nella penisola,
collezionando talora anche più di 100 allestimenti, ma la ripresa dello stesso titolo nella
stessa città era ancora molto rara. Vi si arrivò, solo nel nuovo secolo e il fenomeno fu legato
al successo delle opere di Rossini tra il 1810 e il 1823. La prima opera ad essere

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rappresentata con regolarità e frequenza fu, infatti, il Barbiere di Siviglia. Nei centri di
provincia, dove spesso il melodramma si rappresentava in un solo teatro, il repertorio prese
piede più tardi rispetto alle grandi città come Milano, Venezia, Roma e Napoli; a metà secolo il
fenomeno si era radicato in modo de?nitivo. Tra le conseguenze, le cosiddette opere di
ripiego (pronte ad essere messe in scena in fretta per sostituire un’opera non piaciuta al
pubblico), e l’evoluzione profonda dell’idea di autorialità. Il
compositore - Fino alla ?ne del ‘700, autore di un’opera era considerato in primo luogo il
librettista, mentre il compositore rivestiva di note il dramma. Il termine librettista allora non
esisteva, si parlava di poeta (in quel periodo, il poeta per eccellenza era Metastasio, i cui
drammi furono messi in musica da più compositori). Il termine librettista emerse solo all’inizio
dell’‘800, all’inizio ebbe il signi?cato dispregiativo di “poetastro”, “colui che mette insieme
versi sgraziati”. L’evoluzione della parola è segno del mutamento dei rapporti di forza nel
processo creativo dell’opera: nel ‘700, il poeta scriveva un libretto per un’occasione speci?ca,
senza quasi mai consultar il compositore dando per scontato che, se il testo fosse piaciuto,
sarebbe stato messo in musica da altri compositori; a partire dalla ?ne del ‘700, il librettista
iniziò invece a lavorare con il compositore alla stesura del testo diventando così sempre più
rari i casi in cui il libretto veniva riutilizzato da altri compositori. Tale cambiamento è legato
al dominio che le opere di Rossini ebbero sui palcoscenici italiani. Negli anni 30 dell’800
più del 40% dei titoli rappresentati erano di Rossini; fu proprio con lui che il compositore fu
considerato l’autore dell’opus melodrammatico, responsabile estetico principeò  la
centralità del compositore sarà una delle principali caratteristiche d’opera. Oltre a Rossini, si
possono ricordare, dello stesso periodo, Donizetti e Bellini. Tutti e tre impararono l’arte
della composizione in contesti sia pubblici che privati. Rossini e Bellini erano ?gli di musicisti,
mentre Donizetti manifestò ?n da piccolo una predisposizione per la musica, per cui fu
mandato a studiare alla scuola di musica di Bergamo, aperta dal compositore Mayr (x ragazzi
di modesta condizione). Il successo arrise a tutti e tre molto presto in piazze teatrali di
primissimo piano, come Venezia, Milano, Roma e Napoli. Tutti e tre, composero opere per i
vari teatri italiani, anche se Rossini e Bellini furono particolarmente legati il primo a Napoli e
il secondo a Milano. Donizetti, invece, pur avendo risieduto a Napoli parecchi anni, lavorò
soprattutto per Milano, Firenze e Venezia. In?ne, tutti e tre svolsero la parte ?nale della loro
carriera prevalentemente all’estero, specie a Parigi (Donizetti anche a Vienna): del resto
Parigi fu, per tutto l’800, il centro più importante per l’opera italiana fuori dell’Italia, e polo
d’attrazione per i compositori italiani d’opera (in primis Verdi). Il librettista –
Come si è visto, il “poeta” fu ad un certo punto declassato a “librettista”, ma il suo apporto
alla nascita della composizione restò senza dubbio fondamentale. Il più famoso librettista
italiano di primo ‘800 fu Felice Romani, (legato alla Scala dal 1813, sia per dei contratti con
impresari per la fornitura di un certo n° di libretti l’anno, sia come autore indipendente) che
scrisse quasi tutti i libretti di Rossini per Milano. Il musicista con cui però stabilì maggiore
intesa fu Bellini, peer il quale scrisse 7 opere, tra cui Il pirata, La sonnambula, Norma e La
straniera. Collaborò anche con Donizetti per alcuni dei suoi capolavori, quali Anna Bolena,
L’elisir d’amore e Lucrezia Borgia. Ammirato come drammaturgo, abile nel creare i
meccanismi teatrali coinvolgenti e per la bellezza dei versi, eleganti ed armoniosi, coi quali
evocava immagini indimenticabili. (alcuni incipit di arie divennero notissimi e lo sono tutt’ora,
“Casta Diva, che inargenti queste sacre piante”,Norma). A collaborare con Donizetti fu anche
Cammarano, che scrisse Lucia di Lammermoor, Pia de’ Tolomei, Maria de Rudenz ed altre.
Egli disse che nei testi voleva amore e amor violento: non a caso, i suoi libretti di abbondano
di amore violento, ambientazioni cupe, inauditi soprusi, dolori lancinanti. Diventerà
collaboratore di Verdi e dal 1834 alla sua morte (1852) fu “poeta e concertatore” a Napoli:
non solo scrisse libretti di opere nuove da rappresentarsi al San Carlo, ma operò anche come
direttore di scena (coordinava i movimenti in palcoscenico, si assicurava che ogni oggetto
fosse al suo posto, una sorta di regista futuro). Lo scenografo - Alle scenogra?e, si
dà grande importanza: dovevano coinvolgere emotivamente lo spettatore, contribuire a creare
un mondo immaginario in cui il pubblico doveva immergersi, dimenticando la realtà
quotidiana; non un godimento solo estetico, ma anche psicologico ed emotivo. Lo scenografo
più noto dell’epoca fu Sanquirico, dal 1817 al 1832 fu responsabile unico delle scene alla
Scala di Milano. La sua attività fu impressionante, con decine e decine di titoli al suo attivo:

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realizzò le ambientazioni più diverse, dall’antichità romana al Medioevo, dall’Italia a Babilonia


(Semiramide), dall’Inghilterra cinquecentesca (Anna Bolena), ai villaggi della Svizzera (La
sonnambula). La sua fama fu dovuta anche alla pubblicazione (sia dell’editore Stucchi che di
Ricordi) di immagini delle sue scene ritenute più belle per gli allestimenti operistici milanesi.
Egli stesso pubblica la Raccolta di varie Decorazioni sceniche inventate ed eseguite per il
Teatro alla Scala e nei decenni successivi, molti scenogra? trassero ispirazione da queste
immagini. I generi – temi, ambientazioni e personaggi, declinavano
in modo speci?co a seconda del genere: oggi potremmo dire “opera seria/bu\a/semiseria”, ma
un tempo nei libretti le de?nizioni erano varie: - Genere serio: melodramma eroico, dramma
serio per musica, melodramma, melodramma tragico , tragedia lirica, dramma tragico; -
Genere comico: dramma giocoso per musica, dramma bu\o per musica, dramma comico,
melodramma giocoso, dramma giocoso; - Genere semiserio: dramma semiserio,
melodramma semiserio, melodramma. Tuttavia, l’esistenza dei tre generi era usata anche a
quel tempo ed aveva anche una gerarchia: opera seria, bu\a (più praticata), semiseria (meno
praticata). L’appartenenza di genere di ogni opera era solitamente chiara a tutti; ma c’erano
delle incertezze nell’individuare il genere semiserio ad es. alcune opere semiserie venivano
de?nite melodramma come molte opere serie; o alcune opere (come La Cenerentola di
Rossini), per le quali era dubbio se de?nirle semiserie o comiche. Nell’opera seria si a\erma il
?nale tragico (Tancredi, nato con un ?nale lieto, fu modi?cato da Rossini soluzione che non
incontrò il favore del pubblico, per cui si tornò al ?nale lieto. O ancora caso dell’Otello che,
alla prima napoletana (1816) ?niva ovviamente con l’omicidio-suicidio di Desdemona e Otello,
mentre tra anni dopo a Roma, Otello credeva alla fedeltà della moglie e i due cantavano un
duetto di riconciliazione) e diminuiscono le ambientazioni del mondo antico dando spazio a
quelle medievali, rinascimentali rispondenti al gusto romantico per il gotico, l’orrido, il fosco;
dunque, l’opera sera non era mai ambientata in presente o passato recente  l’opera bu\a
invece era sempre nel presente, e quella semiseria poteva svolgersi in diversi tempi. Tuttavia,
l’ambientazione storica era temperata dall’ambientazione geogra?ca spesso generica:
campagna, montagna, lande remote. Le forme- le forme sono quasi del tutto simili
tra i generi atti (2 o 3) composti dai numeri (arie, duetti, terzetti, cori). Le arie, pezzi
solistici, hanno nomi speci?ci – cavatina aria di uscita in scena, presentazione di un
personaggio. Molte opere sono anticipate da un pezzo solo strumentale – la sinfonia, che per
Rossini ha solo funzione di segnalare l’inizio dello spettacolo, ma più tardi assumerà una
valenza anche emotiva preparando lo spettatore al clima in cui avverrà il tutto. La sinfonia è
seguita da un “introduzione” cui partecipano coro e alcuni personaggi. Il numero più esteso
è alla ?ne del primo atto/ ?ne del secondo se l’opera è in 3 atti ed è detto “Jnale centrale”,
dove i personaggi principali e il coro si trovano in scena in un momento cruciale dell’azione
dove la trama raggiunge il massimo della complicazione narrativa ed intensità emotiva. Col
corso del tempo, i numeri diminuiscono di quantità (opera bu\a ne ha sempre avuti di meno)
ma aumentano di dimensioni. Ogni numero è articolato in sezioni/movimenti, che
possono essere dinamici – contenere azione e dialogo tra personaggi – o statici, dove si
esplicitano le emozioni. Tempo della rappresentazione (durata e\ettiva dell’esecuzione) e
tempo rappresentato (interno all’azione) non coincidono, anzi c’è una forte di\erenza fra i
due tempi. La struttura base de numeri musicali è “la solita forma” ovvero il principio di
alternanza di movimenti cinetici (c) e statici (s) - (che nell’aria consiste in SCS e nei
duetti in CSCS, mentre nei pezzi d’assieme, intro ?nali e ?nali centrali è meno coinciso). Altro
importante principio è l’andamento dell’ultimo movimento: dev’essere più veloce di quelli che
vengono prima, per creare un e\etto di accelerazione che faccia aumentare la tensione
musicale e drammatica; tale dinamica mira a strappare l’applauso. Le arie sono i numeri che
hanno minor numero di movimenti (3 o2); il ?nale centrale, quello che ne ha di più (da 7/8
movimenti). I numeri totali di un’opera vanno diminuendo, perché tolgono le arie indipendenti
ai personaggi secondari e perché vengono inglobati in numeri adiacenti. Costruzione dei
singoli movimenti  i movimenti cinetici, rispetto a quelli statici, hanno forme meno
prevedibili e aderenti all’azione scenica e al dialogo. Un esempio di movimento statico è la
forma lirica, che ritroviamo, ad es. nel prologo della Lucrezia Borgia di Donizetti – il
Larghetto cantabile, unico movimento statico della protagonista  il movimento è articolato
in 2 strofe, separate da una specie di breve tempo di mezzo. La strofa è fatta di 8 versi

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strutturati come 4 unità di due versi ciascuno; questo testo, musicato da Donizetti, diventa in
4 sezioni di 4 battute ciascuna (A, A’, B, A’’). A- esposizione idea musicale; A’- ripetizione
variata; B- introduzione materiale diverso; A’’ – seconda ripresa diversamente variata. La
forma lirica fu la soluzione strutturale più frequente per movimenti statici di arie e duetti per
decenni, e probabilmente trova la sua discendenza nella song americana del primo 900 e in
pezzi rock e pop della seconda metà del secolo. I temi- Nel primo ‘800, l’opera bu`a mette
in scena amori contrastati da conoitti di generazione e/o di classe, cioè un tema tipico della
commedia occidentale da Menandro e Plauto in poi, e (Cambiale di matrimonio) anche
incontri tra personaggi europei ed esotici (L’italiana in Algeri, Il turco in Italia). Il suo
prestigio diminuì con il passare dei decenni, tant’è che le opere bu\e furono relegate ai teatri
delle città più piccole e dei borghi. L’opera semiseria (es. La gazza ladra, La sonnambula)
mette in scena una visione ingenua e ottimista dei rapporti umani, con un tono più realistico e
sentimentale rispetto all’opera bu\a (anche se non vi mancano momenti comici). L’opera
seria (Tancredi, Otello) fu quella che acquistò un predominio estetico e numerico. La pazzia,
specialmente femminile, è tema ricorrente. Le donne impazziscono perché schiacciate da
strutture sociali e pressioni psicologiche. Gli uomini sono, di solito, più razionali, ma anch’essi
sono scon?tti dalla vita. Altri temi sono l’amore tragico e tormentato, e la morte. La visione
del mondo che emerge dalle opere serie è di un pessimismo assoluto, che non appartiene però
a Rossini, il quale sviluppa, almeno in parte, l’idea ancora positiva, illuministica, delle
possibilità date agli esseri umani sulla terra. Se però guardiamo ai modi in cui queste idee di
mondo e della vita sono realizzate, le conclusioni si invertono: infatti, in Rossini il ricorso
sistematico alla ripetizione a tutti i livelli del discorso musicale causò un sabotaggio della
funzione signi?cante della parola, ad es. facendo cantare ai personaggi la loro tristezza su
allegri ritmi di valzer. Donizetti e Bellini cercarono invece di far combaciare più strettamente
testo verbale e musica e mostrando ?ducia nella capacità della musica di penetrare nell’animo
degli spettatori e commuoverli.

CAPITOLO 10 – Musica non operistica nell’800- Concetti - “Musica romantica”: il


problema storiograJco

Secondo i principi romantici (individualismo, originalità, progressismo, nazionalismo), è


diPcile ridurre gli autori ad una comune cornice poiché ognuno ha dei tratti eccezionali, ogni
generazione vuole distinguersi dalle precedenti e ogni nazione vuole una propria storia
culturale. Tuttavia, coesiste con il principio di continuità della storia: e qui la contraddizione –
ogni nuova composizione vuole essere originale, ma vive in una dimensione storica che la lega
passato e futuro. Lo storico coevo Humboldt risolve ponendo le idee al centro della storia,
piuttosto che accadimenti oggettivi, grandi idee portate avanti da grandi individualità. Ma
raccontare la musica romantica per opere, autori e stili non è semplice e la storiogra?a
recente ha moltiplicato le prospettive aggiungendo delle “pratiche” di psicologia collettiva,
comportamenti collettivi, e ponendo come oggetto d’indagine anche le costruzioni identitarie
di gruppo, genere, classe; si impegna anche a cercare la storia di ?gure non protagoniste, che
però hanno contribuito a fare la storia e a trasmetterla: esecutori, editori, critici, il pubblico, i
maestri di pianoforte a domicilio. Si possono dunque individuare due tipi di storiogra?e
musicali: - monodimensionale, fatta di autori, opere, stili e tecniche; - pluridimensionale,
fatta di pratiche sociali, comportamenti e basata su diversi punti di vista. Passando dall’una
all’altra prospettiva, la lettura dell’800 è stata molto più profonda e incisiva. perché l’apertura
pluridimensionale contrasta con i princìpi di quel secolo: individualismo (convinzione che
grandi idee e uomini facciano la storia) e storicismo. La distinzione tra i due diversi di
indagine è la selezione dei “fatti rilevanti” per raccontare la storia – più che di musica
romantica si parla di musica dell’800 ampliando così il sistema musicale di questo periodo ad
altri “attori” e principi rilevanti. Si possono riassumere così alcune delle tendenze che
attraversano tutto il secolo:
1. Democratizzazione della cultura e della musica ?no al 1850, mentre dal 1860, al
contrario, si va verso una nuova elitarizzazione della musica strumentale d’arte; aumenta la
produzione di musica di consumo (café-chantant, operetta, festival popolari);
2. Di`usione della cultura del concerto pubblico, che si amplia in direzioni diverse
(concerto popolare, concerto storico);

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3. Distinzione del campo concettuale “musica” in più livelli estetici, culturali e tecnici;
4. Commercializzazione vs autonomizzazione della musica: diventa musica d’arte solo
quella che non è commercializzabile e viceversa (musica commerciale);
5. Professionalizzazione della musica e divisione del lavoro musicale: diminuiscono le
esibizioni dei dilettanti, aumentano quelle dei professionisti della musica;
contemporaneamente, aumentano le bande cittadine e nascono nuove professioni legate alla
musica; 6. Storicismo idealista
volto al progresso nella prima metà del secolo; inversione di tendenza nella seconda metà,
con concezione della storia come recupero del passato in quanto tale, con i suoi valori;
7. A`ermazione della mentalità storicistica nella pratica e teoria musicale: formazione
di un repertorio storico: repertorio di autori e opere “classiche”, da ammirare ma da non
imitare. C’è una distinzione tra le culture nazionali: l’Italia
è occupata con il melodramma; la Germania con la musica strumentale; la Francia con la
relazione tra musica e società, il mercato, la stampa etc.
Il “concetto moderno” di storia e il suo superamento - Secondo Adolf Bernhard Marx
l’unità della storia è garantita dalla ?gura di Beethoven, come vertice dello sviluppo storico, e
su questa centralità trasferisce nella storia della musica i fondamenti dello storicismo
idealistico (unità e unicità, grandi idee e grandi individualità). Secondo Koselleek, la storia è
un concetto moderno, formatosi tra la Riv. Francese e il positivismo (1790-1830), che
corrisponde al periodo in cui la storiogra?a colloca la musica romantica e tardoromantica, da
Schubert a Mahler. Aggiunge lo studioso, la percezione del presente come un “movimento
tra un passato e un futuro” - questo percepirsi come “movimento” sarebbe una caratteristica
della borghesia colta mediottocentesca. Si aggiunge al movimento, anche il “principio di
unicità” ogni esperienza storica nell’età romantica è concepita come unicum irripetibile che
modi?ca l’esistente: in arte, ciò implica che un’opera, se è tale, modi?ca l’intero canone, non
essendo alcuna opera uguale alle altre; la conseguenza è un rallentamento della
produzione dei compositori romantici rispetto a quelli del ‘700. L’800 ha prodotto moltissima
musica, che non è entrata nel canone perché non rispondeva ai principi di unicità e di
movimento, e si rivolgeva invece al consumo immediato, una produzione per l’oggi. Dopo il
1850, lo scenario cambia e il “nuovo concetto di storia” viene superato. Il fallimento delle
illusioni del ’48 provoca un vuoto in un’intera generazione che trova massima espressione
musicale con Brahms. Dai programmi musicali di Brahms, emerge la volontà di ?ssare la
tradizione come eterno presente – il 70% dei suoi programmi è costituito da musiche di autori
non più vivi- lui vuole mostrare la propria origine, piuttosto che il progresso. Il principio non è
più il progresso ma il valore estetico sovratemporale; l’originalità non cancella più l’origine
anzi, il legame con l’origine sostituisce l’originalità! Il 1850, è uno spartiacque nella mentalità
che divide il romanticismo dal neoromanticismo musicale; la nuova mentalità – legata agli
eventi politici – è conservatorismo, antiliberalismo e nazionalismo che prende piede a
discapito del “liberalismo classico”; aumenta anche l’egemonia delle grandi istituzioni
sinfoniche di Vienna/Berlino/Lipsia/Milano/Parigi che ?ssano “dall’alto” un repertorio,
delimitato – una crescente distinzione tra i livelli (musica d’arte/consumo) che fa sparire
l’unicità della musica; abbiamo ora un universo musicale diviso in molti aggettivi.
Musica con aggettivi - Si hanno così una musica romantica, classica, assoluta, a
programma, poetica, ideale, ?loso?ca, ?listea, nazionale, popolare, leggera etc. Il bisogno di
distinguere i livelli musicali è conseguente all’aumento del numero di ascoltatori, esecutori e
compositori, il che implica una grande quantità di esigenze e di o\erta. Alcune rioessioni (di
Hanslick e Marx), nel 1854 dividono nettamente il campo fra musica d’arte e no: la musica
d’arte è quella buona, di contenuto spirituale, che sviluppa il bene morale, e che perciò si
distingue da quella di livello inferiore. Marx dice la musica “cattiva”, senza valore storico
viene distinta in base al livello (virtuosismo, descrittivismo inferiore) e all’uso (consumo
privato, moda, puro guadagno  sminuisce il valore dell’arte); Hanslick distingue musica
d’arte e non con parametri interni alla musica: il “ritmo in grande” (simmetrie e ordine) è il
tratto distintivo della musica d’arte. Musica romantica
L’aggettivo “romantica” ha un campo semantico diviso in 3 fasi storiche: poesia romantica:
1780-1830, Circolo di Jena, Hölderin, Heidelberg, Heine; musica romantica: 1830-1849,
nascita del concerto solistico e orchestrale, prime composizioni a programma, nuove riviste

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musicali; neoromanticismo musicale: 1850-1900. La storiogra?a mono- o pluridimensionale,


che pur vedono in maniera diversa le qualità della musica romantica, ritengono entrambe
che essa imponga un ascolto non distratto, esclusivo, assorto. Secondo Hegel, l’arte classica
è la perfetta unione di contenuto ideale e di manifestazione formale; nell’arte simbolica,
l’unità di idea e di forma sensibile è imperfetta (il contenuto ideale esercita violenza sulla
forma ancora imperfetta, generando il sublime); nell’arte romantica, in?ne, il contenuto
spirituale non si esaurisce nella forma esteriore, per cui un’opera d’arte è «aperta all’eterna
continuazione». Le arti romantiche sono caratterizzate da “irruzione del contenuto” a
discapito della forma, per cui esse non sono oggettivamente perfette e concluse: tale
indeterminatezza è massima nella musica, perché in essa la forma «passa sempre oltre il
contenuto». Riassumendo, il concetto di musica romantica viene distinto da ogni altro campo
di attività musicale per: distinzione cronologica (1830-1850, musica romantica; 1850-1900
musica neoromantica); atteggiamento d’ascolto che impone (impegnato, non solo
sensoriale); opposizione anticlassica; opposizione alla crescente musica di consumo
(musica dell’oggi vs musica della storia); signiJcati estetici (attribuiti dalla ?loso?a); livello
stilistico.
La musica assoluta - Il concetto di musica assoluta si sviluppa in ambito germanico e
nasconde due accezioni distinte, quasi opposte: - è assoluta quella musica che nasce libera
nelle forme e nei contenuti dal rapporto con il testo poetico o con altri vincoli descrittivi o
drammaturgici (la musica assoluta ha solo valore in sé); - la musica assoluta non è
imitazione di fenomeni, ma «apparenza sensibile di idee assolute» → è una forma di
conoscenza suprema, perché il suo contenuto non è attingibile alla realtà fenomenica. Il
sintagma musica assoluta fu introdotto da Wagner nella recensione alla Nona Sinfonia
beethoveniana, in merito alla quale chiarì che «la musica assoluta è un ostacolo alla
realizzazione dell’opera d’arte totale perché, separata dalle parole, la musica autonoma-
strumentale è vuota di senso: secondo Wagner, B. avrebbe commesso un errore con le prime
otto sinfonie, errore emendato con la Nona grazie all’unione musica-parola. Nel 1861, però,
Wagner rivede le sue posizioni e perviene a una posizione assolutista, considerando la musica
come autosuvciente. Questo tipo di musica deve, tuttavia, combattere contro: - l’inouenza
del nuovo mercato, gestito con tecniche imprenditoriali; - l’incidenza del nuovo consumatore
di musica anche a un basso livello; - l’incidenza del positivismo nei vari aspetti della vita e del
realismo nelle altre arti; - nazionalismi e ideologie. Il trionfo della musica assoluta dopo il
1850 è una risposta a questi avversari. Emerge, dunque, che l’avversario della musica
assoluta non è la musica a programma: i due indirizzi, infatti, stanno dalla stessa parte
nell’opposizione alle tendenze socio-culturali più commerciali.
Musiche “non assolute” - La musica a programma o programmatica: il prodotto più
rappresentativo di questo genere di musica è il poema sinfonico, termine e genere inaugurati
da Franz Liszt nel 1849, quando abbandona l’attività sistematica di pianista concertista per
ritirarsi a Weimar. La concezione della musica a programma parte dalla convinzione che la
struttura musicale si possa comunicare meglio fornendo all’ascolto una traccia narrativa o
una serie di analogie pittorico-visuali. L’idea di base del poema sinfonico è che la musica abbia
un contenuto spirituale manifestato attraverso la struttura della composizione, mentre il
programma è solo una delle possibili tracce che consentono la verbalizzazione di ciò che è
realizzato a livello sonoro. Nel primo decennio di attività della rivista «Neue Zeirschrift für
Musik» (fondata da Schumann e Leipzig), si fece uso di diversi aggettivi musicali, per lo più
svalutativi: Kapellmeistermusik, (musica di maestro di cappella), Trivialmusik (musica
triviale:semplice, super?ciale), e musica poetica. Questi aggettivi permettono di focalizzare
meglio il concetto di musica assoluta. La musica ben scritta secondo le regole o secondo la
funzione occasionale è screditata come musica da maestro di cappella, perché risponde a
principi non assoluti ma pratici (la regola, l’uso); ed è triviale la produzione che non richiede
un ascolto attento, assorto e impegnato, ma super?ciale e dilettevole (per questo la
Trivialmusik non è assoluta, non è autonoma, ma è funzionale al successo commerciale, al
gusto del momento (moda), ad un uditorio distratto. Musica con
sostantivi - Oltre agli aggettivi, anche i sostantivi sono entrati nel discorso musicale. Ironia,
humor, witz (estro), riwessione - Ancor oggi vige il luogo comune che il romantico sia
innanzitutto esaltazione incontrollata; invece, per la maggior parte degli artisti romantici vale

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il discorso opposto. Ironia, humor e witz sono atteggiamenti di autocontrollo che favoriscono
la rioessione. L’ironia romantica non indica lo scherzoso, ma è uno strumento di
autoconsapevolezza dell’artista → witz istintivo e ironia rioessiva vanno a congiungersi nella
creazione artistica. L’ironia romantica è un principio generale, e la si può pensare come un
insieme che interseca quello dell’umorismo, ma che non si sovrappone totalmente ad esso.
Avremo ironia in una composizione musicale quando quel che ascoltiamo andrà inteso non
come la reale intenzione espressiva dell’autore, ma come il suo contrario: un’atmosfera
solenne che nasconde in realtà un senso giocoso; viceversa, una scrittura leggera e divertita a
mascherare un senso grave e drammatico. Aforisma e frammento -
Schlegel è il teorico del frammentismo romantico e sperimenta un modo di esporre il pensiero
per illuminazioni, tessere di un mosaico: è quello che lui chiama sistema di frammenti. Dopo il
1830, la poetica del frammentismo trova applicazione anche nella musica, con le raccolte di
pezzi brevi: anche se già B. aveva lasciato qualche pezzo breve (le Bagatelle), ma è il
romanticismo che fa dell’aforisma una delle sue forme principali. Frammento e
aforisma sono solo apparentemente sinonimi: l’aforisma è un’illuminazione che in sé contiene
una verità intuita e immediatamente espressa, è la negazione del pensiero sistematico. - il
frammento è ciò che resta di un intero e in sé non contiene nulla di compiuto, il frammento
necessita di legarsi ad altri pezzi. Schumann, Chopin e Liszt scrissero diverse raccolte di pezzi
brevi. Il brutto e il grottesco – I concetti di brutto e grottesco furono introdotti nella musica
da Hugo nel secolo romantico; tali categorie hanno poi avuto una di\usione sovranazionale,
arrivando anche a Verdi (ad esempio nel Rigoletto). Il brutto e il grottesco entrano anche nella
musica non teatrale, strumentale e liederistica. Schumann usa il grottesco per creare un
contrasto umoristico con le parti più sognanti. L’origine del grottesco è letterario-
?loso?ca; oltre a Hugo, il “genio grottesco” è Shakespeare; Ho\mann inventò il personaggio
grottesco del musicista Kreisler, protagonista di diversi suoi racconti che quando si esibiva al
pianoforte portava i suoi spettatori alla commozione più alta, per chiudere poi in modo
stridente il pianoforte o attaccare un pezzo volgare di musica da ballo: ed ecco il contrasto, il
grottesco e il brutto provocato da questo ostentato annullamento di bellezza ideale -
l’ironia che Schumann tradusse per primo nelle sue composizioni. Interesse-interessante;
carattere-caratteristico; complessità-impegno - Schlegel a\erma che il principio dell’arte
moderna non è il bello ma l’interessante. L’arte romantica è sempre incompiuta, perché
sollecita l’interesse e la partecipazione dell’ascoltatore. Il caratteristico è una categoria
individualizzante, ogni pezzo ha il suo carattere e non segue norme o stili di genere; il “pezzo
di carattere” è l’esito più diretto. In?ne, per il “neoclassico” di Brahms, categorie valide sono
non il caratteristico, ma l’interessante e il complesso: esso, infatti, richiede molto impegno
da parte dell’ascoltatore, perché, senza impegno, l’arte di Brahms non può essere
adeguatamente compresa. Forma e stile
- Con tutti questi principi estetici, l’artista si trova davanti a due grandi problemi: forma, e
stile. Ogni composizione deve avere la propria forma: per questo Schumann disse di
“giocare con le forme” quando mescolò forma-sonata e tecnica della variazione, rondò e fuga,
etc. Le stesse forme-sonata sono tutte diverse fra loro: ad es. quelle di Schumann e quelle di
Mahler sono assolutamente incomparabili, sono degli unica; lo stesso vale per i rondò
narrativi di Liszt e di Chopin etc. Ancor più incisivo è il problema dello stile personale.
Prima, con stile si intendeva lo stile di genere (da chiesa, del minuetto etc.) Con il
romanticismo, la situazione si capovolge: non esiste uno stile romantico, ma invece con stile ci
si riferisce all’impronta distintiva di ciascun autore: ogni nota, ogni battuta, ogni frase
deve avere un’impronta distintiva. Il bund (circolo); der begrenzte
Kreis (la cerchia chiusa) e il resto del mondo musicale – Schumann porta avanti l’idea di
una musica che si opponga al presente, attraverso il gruppo d’avanguardia che lui chiama
Davidsbund (Lega dei fratelli di Davide). L’idea che esista una musica non destinata all’intera
umanità, ma a una cerchia eletta per naturale predisposizione è tipica della cultura tedesca. Il
Bund schumanniano è un’espressione della borghesia colta sassone, con concerti per un
pubblico medio assai limitato; anche Liszt, a Weimar e a Roma, lavora solo in circoli ristretti,
per lo più con musicisti professionisti; Wagner, quando termina il suo Tristan, pensa che
l’opera sia ineseguibile e che la apprenderanno solo in pochi; Mahler, poi, non pensa di
comporre per un pubblico che lo acclama come direttore, ma per un tempo futuro che verrà

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molto dopo la sua morte. Nel frattempo, il mondo musicale produce “altra” musica, che
non ha nessuno dei caratteri di grottesco, umoristico, caratteristico, interessante, originale
visti ?nora. È una musica non di stile, che vuole essere per tutti e non solo per una cerchia
limitata. Si può dire che, nel loro insieme, queste partiture costituiscano la colonna sonora
della quotidianità del secolo romantico. Si trattava di musica per il consumo, di quel preciso
momento, a quella attualità, musica che è stata “ammutolita” dai grandi capolavori dello
stesso periodo. Se la grande musica ha portato avanti la storia della musica, quella per il
consumo serve a ricostruire la storia delle mentalità attorno alla musica. Oggi, risuonando
quelle musiche, le sentiamo obsolete, perché erano per il loro tempo e quindi erano altri i
princìpi informavano quelle composizioni. Profondità. FilosoJa della musica – Gli
ultimi sostantivi che ritroviamo nella musica romantica sono “profondità” e “JlosoJa della
musica”. Il superamento della dimensione super?ciale, in favore della profondità, attingibile
solo dall’intelletto è un altro principio dell’arte romantica. L’essenza dell’arte è al di là del
fenomeno, quindi va compresa con facoltà conoscitive e strumenti interpretativi
nuovi: da una parte, nasce la critica poetizzante alla Berlioz o alla Schumann, la nuova
ermeneutica musicale (ermeneutica: disciplina secondo cui la conoscenza delle verità
oggettive è sostituita dalla conoscenza come interpretazione); dall’altra, nasce la moderna
analisi musicale, con Bernhard Marx e altri. Musica da interpretare (ermeneutica) e musica
da studiare (analisi) sono i due nuovi approcci alla musica “profonda”, quella che richiede di
andare oltre il fenomeno, oltre l’apparenza, oltre la forma. L’ultimo sostantivo: “JlosoJa della
musica”. La nuova estetica romantica è basata sul riJuto del principio di imitazione:
l’arte non ritrae questo mondo, ma parla di altri contenuti, porta a manifestazione il mondo
delle idee. Per questo, nella gerarchia delle arti, la musica strumentale passa dall’ultimo posto
che occupava nel ‘700, al primo: ciò accade proprio in virtù del principio secondo cui l’arte
romantica in generale non è copia del vero fenomenico, ma creazione di verità, strumento di
conoscenza dell’idea. Così, nell’‘800, si parla – più che di estetica della musica – di ?loso?a
della musica, perché i ?loso? assegnano alla musica una funzione determinante, costruendo
spesso i loro sistemi attorno ad essa.
Comportamenti – Il marketplace nella età del concerto - Il rapporto fra musica e società
muta con lo sviluppo demogra?co del primo ‘800, legato all’a\ermazione delle classi medio-
borghesi. Inizia la pratica del concerto pubblico a pagamento, la cosiddetta età del concerto,
in cui vi è un grande giro di a\ari legato alla commercializzazione della musica. Si tratta di
una delle grandi contraddizioni del secolo romantico, che da una parte promuove la musica
assoluta e dall’altra commercializza quello stesso oggetto. La cultura del concerto fu creata
dalle classi medie acculturate, quelle che stanno rapidamente sostituendo l’aristocrazia come
principale committente e fruitore di musica; una categoria che non è omogenea che crea una
struttura commerciale volta al guadagno, una mentalità progressista, imprenditoriale ed
individualista. Si possono distinguere tre tipologie organizzative: - istituzione Jssa, cioè
società concertistica guidata da professionisti, - concerti a beneJcio, ossia organizzati
direttamente dal musicista spesso rischiando in proprio (questo tipo di concerto è praticato
?nché vige la prassi che l’esecutore sia anche compositore, e presenti, quindi, musiche
proprie; diverrà via via marginale a partire dagli anni ’60 dell’Ottocento, quando iniziano a
distinguersi le professioni musicali) - concerti organizzati da associazioni amatoriali (in
Italia, questi concerti erano la prassi delle vecchie accademie ?larmoniche nobiliari, ma
l’attività rallenterà sempre di più nel corso del secolo). Dopo metà del secolo si sviluppano il
“concerto popolare” e il “concerto storico”, caratterizzati dal repertorio e dall’uditorio a cui si
rivolgono: - il concerto popolare, che si caratterizza per un prezzo del biglietto ridotto e per
un repertorio che comprende sinfonismo storico di repertorio (Beethoven, Mendelssohn),
sinfonismo più leggero e attualità anche di grande impegno (Brahms); - nel concerto storico,
l’esecutore interpreta musiche dei “classici” passati, a discapito delle novità. Il prototipo
nasce a Parigi (es. i Concerts Habeneck, quasi del tutto dedicati a Beethoven), ma raggiunge
l’acme a Vienna, dove si a\erma l’idea di “programma storico” di concerto, a partire dal
paradigma canonico “Bach e Beethoven”. Esistono poi occasioni di ascolto consumistico
(come le sale da ballo a Vienna o i Promenade Concerts a Londra), organizzate da direttori
d’orchestra che scelgono il libero mercato e riuniscono in luoghi non convenzionali orchestre
non sovvenzionate dallo Stato. È la conferma che il secondo ‘800 pose ?ne al cosiddetto

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mecenatismo aristocratico e aprì quella dei musical businessmen, attenti alle classi medie e
lavoratrici: fu un passaggio storico fondamentale, sia per le conseguenze sul piano
dell’imprenditoria culturale e sia per il conseguente e\etto di marginalizzazione della musica
contemporanea. La reazione dei compositori a tutto questo è la creazione di circuiti riservati
di alta ambizione culturale: torna il Bund (gruppo) di iniziati, situazioni riservate per
l’esecuzione di musiche nuove (pubblico specializzato), in alternativa alle grandi istituzioni
concertistiche.
Attività concertistica I (concerto sinfonico) – A metà dell’800, alcune grandi orchestre
europee gestite da organi istituzionalizzati hanno determinato la selezione del repertorio di
capolavori da rieseguire. Si è così imposto il canone sinfonico ancora oggi conosciuto;
questa restrizione del canone sul concetto di classico – a scapito delle nuove
composizioni – determina una sorta di egemonia culturale imposta da poche istituzioni
concertistiche con sede nelle grandi capitali europee, con crescente limitazione e uniformità
di repertorio (80% di esecuzioni di compositori morti). Il concerto sinfonico si a\erma dopo
la metà del secolo ed è gestito con una mentalità tipica da middle classes, con doppia
tendenza al “professionale” e al “commerciale”. Il concerto orchestrale diviene il “concerto
sinfonico” moderno: non più orchestra alternata a brani solistici, ma un programma di musica
orchestrale comprendente una sola sezione solistica. Nasce il concetto di orchestra
sinfonica: aumenta il numero degli strumenti d’orchestra, da 50/60 arriverà al doppio nel
900; migliora anche la tecnica di costruzione degli strumenti (nascono: sax e tube
wagneriane). Attività concertistica III (il recital solistico e il concerto
cameristico) - Nel 1828 a Parigi con Liszt, Paganini e Thalberg nasce il concerto virtuosistico
che si basa su un rapporto di fascinazione e potere fra musicista e uditore. Listz è l’iniziatore
del moderno recital per pianoforte, dei “soliloqui musicali”, presentandosi da solo come
“uomo-orchestra” e identi?candosi con la ?gura del concertista imprenditore a\ermato nel
nuovo mercato delle professioni. Il successo di questa ?gura fa leva anche sulla componente
visuale, la presenza ?sica e una gestualità persino teatrale: la ?gura del grande
pianista/violinista era identi?cata con le qualità di “violenza” e “virilità”. Questo comportava
una “femminilizzazione” dell’uditorio. Quello che voleva Liszt con il suo atteggiamento era
tanto porre lo strumento come mezzo di “conoscenza suprema” e allo stesso tempo come
oggetto col quale attrarre grandi folle e capitali. Il concerto storico, invece, resta una pratica
puramente intellettuale: il pubblico è costituito per lo più da accigliati maschi di mezz’età,
alto-borghesi, e le esecuzioni sono pratiche essenzialmente intellettuali.
L’editoria, i lettori, la democratizzazione e la specializzazione - Dopo gli anni di maggior
benessere, 1830 e 70, gli editori arrivano a numeri altissimi di nuove pubblicazioni: ad es. la
«Revue et Gazette musicale» di Parigi e la «Gazzetta musicale di Milano» in Italia: l’editore
guadagna vendendo musiche di cui oggi non resta traccia se non nei cataloghi: ad es. le
avanguardie scapigliate che fanno scandalo nei teatri o le musiche del “bizzarro” Schumann.
Ci sono poi pubblicazioni divulgative o popolari, rivolte a un pubblico domestico, spesso
femminile: non stupisce, quindi, che le caratteristiche della musica per il mercato siano quelle
attribuite socialmente alla donna: semplicità, immediatezza emotiva, spontaneità. Nello stesso
tempo, ci si rivolge soprattutto al pubblico femminile perché chi suona in casa è
prevalentemente la donna. La pubblicistica: il critico, il giornalista
specializzato - Un nuovo mestiere della musica è quello del critico specializzato, ha
qualcosa di seducente e di soggiogante. Il tono della critica medio-ottocentesca è retorico,
formale e polemico, il che espone il giornalista a dispute, ?no a generare duelli: per questo, il
giornalismo esclude le donne, cosa singolare dato che il destinatario principale è proprio
l’universo femminile. In questo secolo le testate portano la ?rma, il nome del giornalista, che
diventa tanto importante quanto il soggetto della recensione nell’orientare le attese del
pubblico. Nella Parigi borghese, la stampa specializzata ha particolare espansione nel 1833-
34, quando Luigi Filippo consente, per poi abolirla nuovamente nel ‘35, la libertà di stampa.
Nascono in questo periodo numerosi giornali musicali, sia di natura ibrida che più
settorializzati, compaiono: - periodici che, anziché trattare dell’attualità musicale, pongono
al centro la musica del passato; - riviste “musicologiche” che studiano
professionalmente la musica sotto i proJli storiograJco, JlosoJco, analitico e Jlologico.
La professione del musicista: arte e mestiere – Lo strumentista si formava nelle scuole

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musicali con corsi di studio, il modello innovativo inaugurato dal Conservatoire parigino: corsi
che preparano alla professione – un metodo che mira a fornire strumentisti per le bande e
orchestre nazionali. Proliferano i metodi ovvero libri che insegnano l’esecuzione strumentale
(prima era diretta maestro-allievo). Paganini, il più grande violinista italiano, è autodidatta.
Anche Liszt, Thalberg e Chopin crescono come autodidatti, e sentono poi il bisogno di formare
allievi e istituire scuole. Chopin, ad es. si mantenne addirittura insegnando ma sempre alla
vecchia maniera - privatamente e ad allievi di estrazione sociale alta; Liszt, invece, fondò vere
e proprie scuole. Molti dei compositori cercano la propria strada fuori dalla scuola,
formandosi come autodidatti o con un percorso non accademico (data la nuova estetica
dell’arte creatrice non più imitatrice dei vecchi modelli); ma, dopo la metà del secolo, si avvia
un processo di regolarizzazione degli studi. Lo stesso Verdi era convinto che tornando
all’antico (dal punto di vista della didattica), si sarebbe tornati al progresso. L’idea di
Conservatorio secondo il modello parigino si di\onde alquanto tardi: la scuola musicale si
stabilizzerà solo nell’età borghese, con la formazione degli Stati nazionali; nasce l’idea di una
formazione musicale statalizzata, l’idea di “scuola nazionale” (stile violinistico tedesco,
stile canto italiano…) e allo stesso tempo emerge la consapevolezza della composizione
nazionalisticamente connotata (Verdi, Wagner). La formazione del
musicista - Il modello formativo moderno è ancora quello del Conservatoire de Parigi 1795,
che nasce dallo spirito democratico post-rivoluzionario: il musicista è un cittadino che
assume una funzione sociale precisa e il ruolo del Conservatoire è di fornire personale ai
teatri della capitale e creare docenti che espandano il modello centrale su tutto il territorio
francese; esami pubblici periodici per gli allievi e i maestri devono scrivere i metodi – si deve
rendere conto pubblicamente dei risultati dell’investimento statale – non prepara a formare
individualità ma a una professione organica. Il modello viene replicato a Milano e Bruxelles,
tra le materie insegnate nei conservatori entrano anche la storia e l’estetica della musica:
ciò indica un interesse per il recupero del passato, che sostituisce il concetto “progressivo” di
storia della precedente generazione romantica.
Arti e mestieri musicali - L’800 vede anche ?gure professionali minori, come il maestro
delle Jlarmoniche di provincia (bande): doveva insegnare ogni strumento (per lo più a
?ato); basi della grammatica musicale, dirigere la banda locale: svolgendo questa professione,
si mantennero anche nomi importanti come Ponchielli e Mascagni. Nelle grandi metropoli si
di\onde, invece, la ?gura del maestro di musica privato, già presente nelle case
aristocratiche di ancien régime, che ora si rivolge alle famiglie delle classi medie. Il
direttore d’orchestra- La ?gura del direttore d’orchestra è tipicamente ottocentesca: in
parte romantica, giacché, data la sacralità dell’estetica musicale romantica, egli rappresenta
il “sacerdote musicale” dell’autore e il suo abito nero rimanda appunto a una vocazione
spirituale; in parte legata al nuovo culto borghese dell’individualità. A lungo la direzione
non ebbe una didattica, essendo considerata una vocazione. Era anche il solo ruolo musicale
in cui non c’era alcuna donna, neppure a livello amatoriale. La moderna arte direttoriale ha
almeno tre aspetti radicati nella cultura ottocentesca: il rapporto con il compositore nel
cercare di interpretarne le intenzioni; il rapporto con l’orchestra e l’autorevolezza verso i
professori d’orchestra; il rapporto con il pubblico e la capacità di colpire anche visualmente.
Habeneck rappresenta il prototipo del direttore d’orchestra, mentre a Verdi le recensioni
attribuirono una qualità quasi magnetica (“elettrizzante”) e una compostezza “autorevole ?no
alla tirannia”. Un nuovo modo di comporre – cambia
anche il percorso che porta all’opera ?nita, non ci sono modelli, forme o ispirazione, lo stesso
creatore all’inizio non sa dove porterà la sua ricerca Ciò genera un modo di comporre a
strati, l’opera si crea in fasi progressive, attraverso tentativi. È quello che gli storici
de?niscono processo creativo, che produce una quantità in?nita di schizzi (concept sketches),
abbozzi (continuity drafts), materiali preparatori. Non tutti gli autori conservavano queste
bozze: Brahms, le distruggeva, perché nella sua estetica di forma perfetta non potevano
sopravvivere fasi provvisorie; Chopin, invece, realizzava anche versioni multiple della stessa
opera, per poterla vendere contemporaneamente a più editori di nazioni diverse – delle
“varianti d’autore” - non importa la forma, ma la sostanza che sta nell’idea; Liszt, poi,
sembrava girare intorno ad alcune composizioni, rivedendole per tutta la vita: anche in questo
caso abbiamo delle versioni multiple della stessa opera, principio che pare contrastare con

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l’unicità dell’opera, ma che invece lo ra\orza: va considerata l’intenzione dell’autore nel


comunicare un ideale unico. La musica per il consumo invece diPcilmente aveva bisogno di
schizzi, i pezzi erano fatti per un consumo immediato. Composizioni- Il sistema dei
generi – i generi centrali sono la composizione sinfonica, l’oratorio, il teatro musicale, la
musica da camera; quelli che invece rientrano nel concetto di “musica applicata” (lavori
celebrativi, di consumo, serenate) vengono in questo periodo svalorizzati. I due generi che più
si evolvono in questo secolo sono il lied romantico e la musica per pianoforte, che spesso
vengono raccolti in cicli. Questa distinzione fra forma organica (sonata, sinfonia) e forma
episodica (lied, musica per pianoforte) è il parallelo musicale della distinzione in ?loso?a tra il
pensiero sistematico-dialettico di Hegel e quello del “sistema di frammenti” di Schlegel. Il
lied romantico - si estende dal ‘700 al ‘900; è una lirica per voce e pianoforte su testo
prevalentemente tedesco, quasi sempre di grandi poeti. È Schumann ad investire il genere del
lied di un’importanza pari alla sonata o alla sinfonia e ne indica i fondamenti: - abbandono
della semplicità del ‘700; - importanza della parte pianistica; - scelta di testi poetici di valore; -
sviluppo del Lied nella direzione della musica assoluta. Schumann darà a questo genere
grande importanza, 5 sono gli aspetti principali del lied moderno che Schubert poi
trasmetterà al successivo 800: - scelta dei massimi poeti (Goethe, Schiller); -
declamazione intonata, più vicina alla recitazione per l’attenzione data al testo (si distingue
tra Lieder stro8ci, in cui la stessa melodia intona tutte le strofe simmetriche della poesia, e
Lieder composti continuativamente, in cui immagine del testo riceve una musica ad hoc, e
quindi sempre diversa; impiego di “motivi” assegnati al pianoforte la cui importanza era
pari a quella del canto, lo strumento da “concreto oggetto sonoro”, diventa “oggetto mentale”
perché esprime la psiche del soggetto rappresentato ma anche dell’autore.; qualità
dell’espressione soggettiva, espressione lirica del compositore; - realizzazione di grandi
cicli di Lieder. [Soggettivismo e declamazione si riconoscono nel Lied Der Doppelganger di
Schubert, immagine di un’ossessione che annulla gli impulsi vitali: la declamazione è appena
intonata, ?ssa sulla stessa nota; la ?ssità è resa ancora più chiara dal basso ostinato, che
ricorda il procedimento della passacaglia (= ripetizione seriale di una stessa linea o sequenza
armonica). Quando l’io lirico si rivolge al suo doppio, il procedimento di passacaglia viene
rotto dal cromatismo di armonie discendenti. L’io lirico però non trova più la sua strada e il
lied termina con una tonalità ambigua (una crisi di identità che rioette la disillusione di
un’intera generazione nella Vienna restaurata).] Schumann, nella sua attività giornalistica,
non parla mai dei Lieder di Schubert, perché considera questo genere profondamente
radicato nella cultura tedesca. Il Lied tedesco si di\erenzia da quello viennese per - un più
incisivo intervento sui testi poetici; - un diverso ruolo del pianoforte, che può dilungarsi in
preludi, interludi e postludi. Nel Myrthen op. 25 n. 9, su testo di Goethe, Schumann modi?ca il
testo poetico per svilupparne musicalmente i contenuti. Il testo originale è bipartito (due
quartine ripetute): l’io lirico celebra la fedeltà dell’amore nei primi 8 versi, mentre gli altri 8
sono il dialogo con il proprio cuore. Schumann genera una ciclicità non prevista da Goethe,
ripetendo la quartina iniziale al termine: in tal modo, il compositore assegna un’importanza
centrale all’amore tenace di colei che resta al ?anco dell’amato. Il Lied risale all’anno del
matrimonio tanto atteso da Schumann, che realizza questo contenuto autobiogra?co
attraverso due livelli: - la struttura armonica, in cui le tre strofe melodiche terminano con
cadenza sospesa, tranne l’ultima che giunge a cadenza perfetta quando nel testo si raggiunge
la meta tanto attesa; - il tema ricorrente che, dopo sei apparizioni, torna come elemento di
chiusura nella coda pianistica, che spesso in Schumann contiene il signi?cato del lied. Qui
riporta l’immagine della sua amata. Il lied romantico è proseguito con Brahms, Liszt, Wagner,
Wolf, ognuno con mezzi e stili propri. In pieno Novecento, hanno composto Lieder Mahler e
Strauss. La musica per pianoforte –
rappresenta il secolo romantico, la di\usione era dovuta alla sua doppia natura intima-privata
e di strumento pubblico-esibizionistico da concerto. Nella musica pianistica d’arte dell’800
possiamo rintracciare: - da un lato, forme che rimandano alla tradizione della sonata; -
dall’altro, pezzi brevi che rimandano al frammento romantico (teorizzato da Schlegel): in
questo caso, i titoli dei pezzi possono identi?carne il carattere (Scherzo, Improvviso) oppure
avere un titolo evocativo-descrittivo (dove per carattere si intende l’interessante anche che
sia grottesco o spaventoso). Una via di mezzo è il pezzo di dimensioni medie in un

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movimento unico: ballate, fantasie, poemi pianistici. Durano circa 15 minuti e sono a metà
tra certi principi della sonata (opposizione di 2 temi o di aree tonali) e il pezzo di carattere
(frammento descrittivo, disegno narrativo, temi particolari). Due esempi sono la Prima Ballata
op. 23 di Chopin e il poema pianistico di Lizst La Vallée d’Obermann. I cicli sono uniti da temi
musicali ricorrenti, riferimenti letterari oppure da criteri più astratti. Nel secondo 800,
Brahms inserisce delle novità - intermezzi, Capricci, Rapsodie - modi?cando così il genere ed
elevandolo verso forme musicali più ambiziose, dal virtuosismo esteriore alla profondità
compositiva. Il ruolo centrale nell’età romantica è del pianoforte sia per la sua qualità
evocativa di “altri mondi” che per la rappresentazione della genialità individuale ma anche
per il suo linguaggio medio che lo colloca nel quotidiano, al centro della mentalità
neoborghese non progressista ma di “nuovo passato”. Ci sono quindi diversi livelli estetici e
stilistici: virtuosismo – come attività di superamento dei limiti materiali, verso la
rappresentazione dell’ideale (Lizst con i suoi molteplici livelli sonori, che generano l’illusione
di profondità e mistero); sperimentalismo - la ricerca di vie nuove che superino il limite
dell’udibile, ma in altre direzioni. Tra gli sperimentatori, Brahms, nelle sue Ballate giovanili,
inserì progressioni di armonie con note aggiunte, ideando una tecnica che impiegò ?no ai suoi
lavori tardi; pianoforte domestico – impegno descrittivo, evocativo con particolari di
raPnatezza armonica e timbrica, la di\erenza piuttosto che nello stile è nell’intenzione –
musica a misura di relazione sociale; via di mezzo tra colloquiale e sperimentale - è il
livello di brani come Momenti musicali di Schubert o le Romanze senza parole di
Mendelssohn, che compongono musica non adatta alle nuove grandi sale da concerto, che non
è pensata per colpire un uditorio né per ricavarne grandi entrate. L’obiettivo è piuttosto un
consumo individuale, intimo, ma che richiede comunque un grande impegno intellettuale.
Fryderyk Chopin – il più rappresentativo testimone romantico - senza ostare alcun
atteggiamento, né di virilità né di avanguardia o ironia – la sua musica rappresenta uno dei
più signi?cativi fenomeni di rinnovamento linguistico per la sua evidenza espressiva. Fra i
generi che egli pratica, il valzer sembra essere il più consumistico, ma siamo distanti dalla
sua funzione d’uso originaria, la danza, siamo nel campo della musica assoluta grazie al
carattere di grigia introversione e il pedale di La (nota grave ripetuta attraverso l’intera
frase). Chopin ha particolare interesse per il timbro assoluto, per la sonorità svincolata
dalla funzione sintattica, per l’espressione immediata e non grammaticalizzata. La sua
armonia, spesso avvicinata impropriamente a quella di Bellini, è piuttosto caratterizzata dalle
risonanze più proprie del pianoforte: essa unisce i registri grave e medio, con largo
impiego del pedale di risonanza, e diventa, così, profonda e immediatamente riconoscibile.
Grazie al suo essere strumento autosuPciente e adeguato a molteplici usi, il pianoforte ha
attratto gli interessi più diversi, dalla musica per largo consumo, alle sperimentazioni
stilistiche. Tra gli sperimentatori, possiamo ricordare l’americano Gottschalk, riconosciuto
come progenitore del pianoforte jazz. Circa la musica di consumo, invece, si può citare
Prudent, “star” di metà secolo di fama internazionale. Viveva nella Parigi borghese e la sua
sterminata produzione non nascose mai l’intento del mercato, della vendita immediata: nelle
sue composizioni, nulla va oltre la prevedibilità e l’immediata comprensibilità; la sua scrittura
pianistica rivela tratti chopiniani e lisztiani, ma manca della loro sonorità essendo prevedibile
e, alla lunga, stucchevole. La musica da camera – genere fatto più per chi suona che
per chi ascolta, una sorta di conversazione tra persone. Con la musica da camera, e
soprattutto con il quartetto d’archi, si può dire che dalla “cultura del concerto” si passa al
“concerto come cultura”. Brahms a Vienna è il maggior esponente della musica cameristica
privata e borghese ?no agli anni ’90 dell’800. Tuttavia, non bisogna a\ermare con troppa
semplicità che la musica da camera sia espressione della nuova borghesia: infatti, da un lato,
la musica cameristica risponde sì alle esigenze culturali della borghesia colta (perché è
un’arte “liberale”: attività intellettuale non ?nalizzata al guadagno), ma, dall’altro, è in netta
opposizione alle esigenze economiche di quella stessa mentalità borghese → la musica da
camera è, al tempo stesso, borghese e antiborghese. I due caratteri fondativi della
composizione cameristica sono dimensione privata e conservatorismo e questo vale
soprattutto per il quartetto d’archi, ma quando nell’ensemble c’è il pianoforte, tutto è più
“concertante” pubblico e sinfonico. Ancora diversa è la musica per il duo violino/violoncello e
pianoforte: il repertorio si divide in sonate in forma classica e pezzi solistici: la paternità del

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pezzo da concerto virtuosistico va a Paganini. Circa Brahms, la sua musica cameristica è


rappresentativa della corrente conservatrice, opposta a Wagner e Liszt, che la considerano
antiquata e non in grado di creare progresso. Schumann la ritiene un genere meno soggettivo
rispetto al pianoforte solo, per cui scompare il frammentismo pianistico estroso e bizzarro e si
fanno spazio costruzioni più solide, di maggiore ampiezza e con una strumentazione di
concezione quasi sinfonica. Il Quintetto o\re soluzioni diverse, come il cosiddetto impianto
ciclico, che Schumann impiega in tutte le sue sinfonie: esso consiste nel dedurre un tema da
un altro precedente, legando poi a questa derivazione altre parti dell’organismo complessivo.
Brahms renderà poi più sistematica questa tecnica, che verrà chiamata da Schönberg
variazione-sviluppo e che consisterà nel derivare da un minimo segmento un’ampia sezione
o anche un intero movimento. La musica
sinfonica - Dahlhaus de?nisce la sinfonia dopo Beethoven «un problema storiogra?co» per la
presenza di quel monumentale modello; la composizione sinfonica post-Beethoven si può
suddividere in tre momenti: I) Sinfonia romantica strettamente intesa (Schumann, Berlioz),
1830-1850; II) Poema sinfonico e musica a programma (Liszt, Strauss), 1850-1900; III)
Seconda ?oritura della sinfonia (Brahms, Mahler), 1875-1900. La sinfonia romantica -
L’imperativo è andare oltre Beethoven, da venerare, ma da non imitare. Un esempio si ritrova
nel movimento iniziale della Prima Sinfonia di Schumann op.38 in Si ♭ maggiore: introduzione
lenta, poi l’Allegro con i due canonici temi contrastanti; ?n qui tutto nella norma; ma, nella
ricapitolazione dei temi, il primo tema risuona nella sua forma dell’introduzione lenta,
fortissimo e maestoso, non piano e rapido come nell’avvio dell’Allegro. Ci si chiede, quindi, se
il tema principale fosse quello dell’introduzione. Il fortissimo, però, si interrompe di colpo e
riprende in piano il tema dell’Allegro. Qui il rinnovamento della prassi romantica è
intenzionalmente contradditorio e ambiguo. Altre due “nuove norme” della sinfonia romantica
di Schumann sono l’impianto ciclico e l’uso di citazioni che alludono al vissuto
soggettivo dell’autore. La sinfonia, dunque, non è più monumentale ed oggettiva, ma
“autobiogra?a in suoni”. Altrettanto rappresentativo del «problema sinfonia» è la Symphonie
fantastique di Berlioz - lavoro a metà tra sinfonia e musica a programma, si trovano 3
elementi notevoli: - ciclicità del materiale motivico, (stesso impianto ciclico presente in
Schumann),un unico tema conduttore passa attraverso numerose variazioni; - lunghezza del
tema, che Berlioz chiama idée ?xe ( identità riconoscibile) e sua continua frammentazione
motivica, a di\erenza dei temi di sinfonia di solito sintetici, lui ne scrive uno lungo e poi ne
estrae dei piccoli segmenti (motivi) su cui realizza il lavoro di continua variazione; - la
sinfonia diventa una narrazione in prima persona, “autobiogra?a in suoni” o come disse
Fink “una storia sviluppata drammaticamente che rappresenta uno stato mentale condiviso da
un ampio gruppo”. Il poema sinfonico e la musica a programma - La prima
fase post-beethoveniana si conclude con la Quarta Sinfonia di Mendelssohn (1851) e la Quarta
Sinfonia di Schumann (1853). Nella storia del sinfonismo romantico si cambia orientamento
col poema sinfonico. Negli anni in cui Liszt risiede a Weimar (1848-60) ne compone 12, che
dirige nel teatro di corte davanti ad un’élite d’avanguardia, proponendo musica
contemporanea. Al contrario di Brahms il cui pubblico a Vienna è di classe medio-alta legata
al canone dei grandi classici, i quali costituiscono la percentuale più alta delle sua
programmazioni. Liszt scrive che il “progresso bloccato” del sinfonismo può ripartire solo
con la “soluzione poetica” – la musica non- programmatica sarebbe vuota, quella di formalisti
che ripetono formule ortodosse creando una stasi estetica e opponendosi al progresso. La
musica programmatica, che coincide con i principi neo-tedeschi, determina la propria forma
dal processo dei temi in base al soggetto della narrazione, dai sentimenti. Anche sull’uditorio
Liszt ha qualcosa da dire: il pubblico ha bisogno di signi?cati concreti e bisogna quindi
condurlo a seguire le “nuove forme” della modernità. Per esempli?care la tecnica costruttiva
di Liszt, ci si può rivolgere al poema sinfonico Tasso. Lamento e trionfo: qui, quasi 20
minuti di musica scaturiscono da un solo motivo d’origine. È una tecnica di deduzione
motivica, non del tutto diversa dalla variazione-sviluppo di Brahms, ma due cose la
distinguono: - Liszt collega i temi iniziali a riferimenti intertestuali, attribuendo a
ciascun tema un diverso livello di signi?cato (stato d’animo/contenuto); - non concepisce il
discorso musicale con frasi/periodi e sezioni, ma la linea complessiva come narrazione,
una “prosa musicale”: la consecutio tra le sezioni è pensata in termini narrativi e non formali.

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La sinfonia neoclassica: Brahms, Hanslick e il primato della musica assoluta: Brahms


compone per un pubblico diverso – i frequentatori dei “concerti in abbonamento” del
Musikverein di Vienna, esponenti di quella borghesia colta educati al canone sinfonico storico,
con conoscenze approfondite di musica da camera. La “variazione – sviluppo” della musica da
camera, diviene ora la principale costruzione del discorso nel genere sinfonico. La deduzione
logica dell’intero organismo musicale da un semplice motivo è stata letta come la proiezione
della morale del lavoro, il principio della nuova borghesia imprenditoriale germanica. D’altro
lato, tale tecnica della variazione-sviluppo non si discosta molto da quanto visto in Liszt, solo
che in quest’ultimo manca ogni principio etico-sociale. Quindi, la di\erenza sostanziale tra la
corrente bramhs-hanslick e quella della musica a programma liszt e neotedesca è proprio la
situazione culturale e sociale. Altro aspetto della composizione sinfonica di Brahms, derivato
dalla cameristica, è l’elaborazione di schemi metrici comuni. Un indirizzo ancora diverso della
sinfonia neoclassica è rappresentato dalle sei Sinfonie di Cajkovskij, compositore che si
inserisce nella cornice culturale del decadentismo. In lui, la conclusione della sinfonia non è
un punto di arrivo, ma un ritorno all’inizio, al tema principale del movimento: ciò è
espressione del ripiegamento sulle memorie e del ri?uto del futuro, che accomuna la cultura
decadente di ?ne secolo. La musica sinfonico-corale: oratorio, cantata, messa e
mottetto: l’800 si riconosceva principalmente in generi come oratorio profano, cantata
drammatica, ballata corale e ode corale. Capiamo come l’oratorio era centrale nell’estetica
musicale romantica: i destinatari sono una comunità allargata riunita per particolari
occasioni solenni; il fatto che siano di argomento spirituale implica un carattere
universalistico; nell’oratorio- cantata convergono stile sacro e profano, pubblico e privato,
civile e religioso, sinfonico e corale – è un genere trasversale. Se opera e sinfonia sono
espressione di cultura nazionale, il campo sinfonico – vocale (messa, oratorio…) è espressione
cosmopolita e sovranazionale. Il miglior esempio di genere misto tra opera e oratorio fu Il
Paradiso e la Peri di Schumann, eseguito, in 10 anni, in più di 50 città. Si tratta di un
oratorio profano che però a\ronta i massimi temi della spiritualità e risponde all’unione di
arte e religione, principio spesso ripetuto da Liszt e Wagner. Dopo questo, Schumann compose
Scene dal Faust di Goethe, al quale lavorò una decina d’anni: è uno dei lavori più complessi
dell’arte musicale romantica, e mostra l’intento di a\rontare i grandi testi della letteratura
per o\rirne un’interpretazione a un pubblico allargato, quello multiclassista dell’oratorio.
Dietro quest’opera sta la convinzione tutta romantica che il linguaggio musicale possa dire
molto di più di quello verbale. CAPITOLO 11 – Verdi
e Wagner: secondo ‘800 L’arco biogra?co di Verdi (1813-1901) e Wagner (1813-1883)
abbraccia i maggiori rivolgimenti dell’Europa ottocentesca (Restaurazione, liberalismo
borghese, nascita degli Stati-nazione, imperialismo). Nonostante l’altissima produzione di
opere per tutto il secolo, si a\erma precocemente l’idea che i due riassumano al meglio la loro
epoca. Verdi è considerato un rappresentante nazionale e Wagner avrebbe contribuito alla
Germania dell’arte monumentale dell’800 per l’infelicità, il dolore che celava la sua arte –
caratteristica che emerge anche nei personaggi di Verdi. Ciò non toglie che Wagner abbia
partecipato ai movimenti democratici 1848/49 di Dresda, e che Verdi concepisca il
melodramma come strumento di formazione civile per la nazione italiana; tuttavia, per
entrambi il pessimismo andrà accentuandosi dopo il fallimento dei moti del ’48 e si
chiuderanno al dialogo con la società. La loro inattualità ed estraneità al loro tempo si vede
anche dal rapporto con i loro rispettivi Paesi, che emergono dal processo di formazione delle
nazioni. Ciò che li distingue dai compositori antecedenti è la presa di coscienza sul piano
politico: come Verdi è deluso dalla nuova Italia post-cavouriana, Wagner lo è dall’a\arismo
prussiano e dal pragmatismo imperialista del cancelliere Bismark.
Arte nazionale? Le loro opinioni patriottiche/nazionalistiche inouenzano solo in parte la
produzione artistica; dunque è erroneo usare “Verdi risorgimentale” o “Wagner nazionalista”
come criterio interpretativo della loro produzione artistica. Occorre individuare se e quali
elementi distintivi esistano nelle loro opere che giusti?chino la de?nizione di arte nazionale.
Ma qui sorgono i problemi: - l’armonia cromatica di Wagner non è a\atto simbolo del
germanesimo, altri prima di lui ne avevano fatto uso; - a Verdi è stato attribuito il ruolo di
rappresentante del carattere nazionale per la qualità della sua melodia, ma è diPcile stabilire
in cosa esattamente consista questa italianità. Inoltre, se il materiale musicale non è

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caratterizzato nazionalmente, meno ancora lo sono i soggetti che Verdi sceglie per le sue
opere, attingendo da una cultura cosmopolita (Hugo, Byron, Schiller, Shakespeare). Il
carattere nazionale dei due non è una qualità tecnico-formale, o una questione di soggetti: ha
valenza sul piano della storia, in quanto rappresentativi di una mentalità. Il
sistema produttivo in Italia – nel 1871, un censimento registra oltre la di\usione di edi?ci
teatrali, quella di corpi bandistici e scuole musicali sovvenzionate dai municipi – dunque un
aumento della di\usione del consumo musicale. Dagli anni ’60 dell’800, iniziano la loro
attività diverse società di concerti pubblici, con l’obbiettivo di divulgare ed ampliare l’uditorio.
Qui abbiamo una delle tante contraddizioni della Nuova Italia, perché, nonostante il contesto
musicale sia tanto vivace, nella scuola statale obbligatoria, istituita nei primi anni dell’Unità, i
programmi ministeriali escludono la musica dall’insegnamento. Nel 1867, poi, lo Stato taglia
le sovvenzioni ai teatri e molti sono così costretti a chiudere. Emerge così la centralità di
pochi teatri (Scala, San Carlo, Fenice, l’Apollo di Roma, il Regio di Torino) e l’attenzione
ricade solo su poche grandi opere. Il fenomeno aumenta la percezione del “capolavoro” a
scapito della produzione continua precedente. Il repertorio si restringe e non si scrive più per
il piccolo teatro. I “Napoleoni degli impresari” e il
loro tramonto – “Napoleoni “è l’epiteto usato per indicare i tre impresari teatrali che più
incisero nella gestione teatrale italiana dagli anni ‘20 ai ’50 dell’800: Barbaja, Alessandro
Lanari e Bartolomeo Merelli. Diversamente dal più vecchio Barbaja, i due più giovani
investono grandi capitali propri con un alto rischio di impresa parzialmente protetto dalla
crescente partecipazione dello Stato. I teatri tedeschi continuano invece ad essere gestiti non
da imprese ma da intendenti (funzionari di governo - concezione del teatro come attività di
una corte). Solo negli anni ’80, i teatri saranno concepiti come un’industria, ma allora la loro
vita ?nanziaria sarà gestita dall’editore, non più dall’impresario. Se Barbaja entra solo
marginalmente nelle scelte di Rossini/Donizetti, Lanari e Merelli inouenzano le scelte dei loro
autori, in base alle proprie strategie commerciali. Lanari, impresario della Pergola, assegna
grande rilievo alla componente visuale della messinscena. Il suo maggiore concorrente è
Merelli, appaltatore della Scala e del teatro di corte viennese, che, per distinguersi dal primo
e per seguire le direttive del governo di Vienna, punta a realizzare al suo primo appalto
scaligero la più grande orchestra d’Europa. Infatti, quando Verdi compone Nabucodonosor
per Merelli, richiede “tutto il mondo strumentale”, quando scrive per Lanari riserva
attenzione maggiore alla componente visuale ad es. il Macbeth per la Pergola prevede l’uso
della “fantasmagoria” – complesso scenico per realizzare l’elemento fantastico.
Quest’attenzione agli aspetti materiali e commerciali è assente in Wagner, in cui è nullo il
rapporto con gli impresari. Le sue idee sono quasi sempre realizzate in teatri di corte
(Weimar, Monaco) grazie alle sovvenzioni garantite da Ludwig II di Baviera, ?no alla
costruzione di un teatro riservato solo ai suoi drammi. La gestione dei teatri - nel 1842, vige
ancora il sistema dell’età rossiniana. Nelle grandi città, come Roma, Milano, Torino e Napoli,
il governo sovvenziona due teatri, uno maggiore e l’altro minore, e la frequenza assidua di
rappresentazioni indica come l’opera sia un bene di consumo quotidiano. Le stagioni dei
grandi teatri erano tre: -Carnevale/Quaresima (26 dicembre-?ne marzo), - di Primavera (dopo
Pasqua- luglio), - di Autunno (agosto-30 novembre). Negli altri momenti dell’anno, l’opera si
sposta nei teatri minori. In tutto, nei 2 teatri di una città, si contano circa 200
rappresentazioni l’anno; ogni anno, dovevano essere presentate 3-4 opere nuove,
commissionate a compositori di primo piano (opere d’obbligo). Verdi debutta in questo
sistema, nel quale un compositore a\ermato produce, due-tre opere l’anno, ma con lui, il
ritmo produttivo rallenta, tanto che, dal 1860 al 1900, scrive solo cinque nuove opere.
L’impresa era costretta a un iter preciso: da un anno all’altro avviava le trattative con i
cantanti; nel frattempo, l’impresario proponeva il contratto ai compositori circa un anno
prima della première. Dopo la scelta dei cantanti, si sceglieva l’argomento del libretto. Già su
questa fase preliminare della creazione, Verdi voleva imporre dei mutamenti – per l’Ernani,
ad es., ottenne che la primadonna Sophia Loewe non concludesse con la “solita” aria solistica,
ma in un terzetto. Verdi fu il primo compositore in Italia a entrare personalmente in tutti gli
ambiti della produzione operistica (artistici ed economici, dalla scrittura del libretto alla
scelta dei cantanti). La sua carriera fu disseminata di tensioni e cause legali per la tutela delle
sue creazioni, ?no al riconoscimento del diritto d’autore, che lo vede fra i ?rmatari del primo

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progetto del 1865, divenuto poi legge nel 1882. Anche Wagner combatté una stessa battaglia,
muovendosi però con atteggiamento diverso, a Dresda cresce la sua inso\erenza verso gli
aggiustamenti richiesti dalle necessità performative arrivando alla costruzione dell’apposito
teatro di Bayreuth, gestito non da impresari, ma da adepti e sul quale avrà pieno controllo.
Dagli anni ’60, in Italia inizia un processo di riduzione d’autonomia gestionale
dell’impresario; le funzioni artistiche vengono delegate ad altre ?gure e dopo l’unità sarà
l’editore il vero centro dell’attività produttiva. I nuovi “napoleoni” sono ora Giulio
Ricordi, Giovannina Lucca ed Edoardo Sonzogno, sono lo a creare l’industria teatrale italiana,
che si sviluppa nel più generale processo di industrializzazione della sinistra storica, a partire
dal 1876. Ognuno di questi editori pubblica un periodico specializzato che serve a promuovere
il repertorio e contribuisce a creare una classe di lettori più esperti di cose musicali e
giornalisti specializzati. Intorno a tali riviste si crea una nuova sociabilità del teatro musicale,
sociabilità che è invece estranea a Wagner, che, nel corso dell’esilio a Zurigo dal 1849 al 1861,
è sempre più estraneo al mondo. Se in Italia/Francia, si è a\ermata l’industria teatrale,
Bayreuth è estraneo alla produzione di guadagno, non ci sono stagioni organizzate, ma un solo
festival annuale riservato alle opere wagneriane. Dalla parte dei
musicisti – Repertorio e nuove opere - Intorno alla metà dell’800, giungono a maturazione
alcuni processi iniziati decenni prima, come l’idea di autorialità, il diritto di proprietà
intellettuale e l’evoluzione della drammaturgia musicale. Vi sono delle di\erenze in base agli
Stati, se in Francia le sorti di quello che poteva divenire un pezzo di repertorio dipendevano
dall’opera di Parigi, in Italia, la situazione è più complessa: 1867, con la prima crisi economica
del nuovo regno d’Italia, molti teatri subiscono tagli delle sovvenzioni da parte dello Stato: ciò
contribuisce a indirizzare l’attenzione del pubblico su pochi grandi titoli; il teatro musicale
non è più concepito come consumo, ma come opera d’arte, il che porta alla formazione di un
gusto storico, e alla consapevolezza che alcuni titoli sono più importanti di altri, non solo
perché godibili, ma perché hanno contenuti morali, sociali e politici di maggiore impegno.
Emerge anche la nuova ?gura dell’interprete unico, che deve rivelare le intenzioni dell’autore:
il direttore d’orchestra. Il teatro tedesco si di\erenzia da quello italiano per quattro aspetti: -
la gestione dei teatri è pubblica e quindi sottoposta a un funzionario di corte (intendente); - il
sistema del teatro a repertorio si sviluppa precocemente, con titoli ripetuti ciclicamente e
compagnie stabili; - il teatro spesso condotto da un musicista (compositore o direttore
d’orchestra); - c’è il bisogno ricorrente di creare un repertorio autonomo in lingua e dotato di
uno stile riconoscibile, che lo contrapponga all’opera italiana e francese. In Italia, dal 1848
alla ?ne del secolo, sono poche le opere italiane non di Verdi che si ?ssano nel repertorio -
qualche nuovo titolo entra in repertorio con gli anni ’70, con la nuova “opera-ballo” (es., il
Me8stofele di Boito). Fino agli anni ’70, comunque, i 4 autori maggiori sono Rossini, Bellini,
Donizetti e Verdi – il n° delle repliche di un titolo non era stabilito a priori, ma dipendeva dal
gradimento del pubblico. Dopo la proclamazione di Roma capitale (1871), si registra
un’apertura verso il repertorio internazionale; quell’anno va per la prima volta in scena a
Bologna un’opera di Wagner, compare di nuovo Mozart. Diviene una specie di lotta tra editori:
Ricordi sostiene il teatro francese, Giovannina Lucca acquisisce i diritti per le opere di
Wagner in Italia ecc. Tuttavia, questo fenomeno, porta a restringere il repertorio: si a\erma il
concetto di teatro come museo ideale di “capolavori” (anche il concetto di “stagione” viene
soppiantato da quello di repertorio storico, di cui è depositario l’editore, non più l’impresario).
«Che una volontà sola domini tutto: la mia» - Nel secondo 800, il conetto di autorialità
assume signi?cati diversi. Verdi, una volta raggiunta l’autorevolezza necessaria, crede ci
debba essere una sola volontà creatrice che subordini le altre individualità esecutrici, l’opera
come unità coerente all’ispirazione dell’autore (“…conviene che gli artisti cantino non a modo
loro, ma al mio”). Anche Wagner, negli stessi anni, vuole penetrare l’intera compagine di
artisti esecutori, farli diventare un gruppo regolato dalla volontà di una sola personalità, la
sua: ciò signi?ca che gli esecutori (musicisti, attori, cantanti, illuminotecnica) devono
subordinare sé stessi al creatore dell’opera. Sia Verdi che Wagner sentono dunque l’esigenza
di avere una supervisione unica sulle proprie opere, ciò che verrà chiamata nel ‘900 regia a
concertazione stilistica. I due, anzi, estremizzano questo concetto, Wagner costruendo il
teatro di Bayreuth, e Verdi facendo apportare alcune modi?che costruttive alla Scala (ad es.
abbassamento dell’orchestra sotto il livello della platea). Il direttore d’orchestra -

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detto “concertatore- direttore” - riassume gli aspetti della mentalità borghese e le nuove
esigenze della drammaturgia musicale – rappresenta la professione, la cultura e il rilievo
sociale attribuito alla musica. A lui spetta la scelta dei titoli del repertorio e lui è l’unico
interprete delle intenzioni dell’autore, dunque da lui dipende l’aspetto performativo. Rispetto
a Francia e Germania, dove questa ?gura c’è dai primi decenni dell’800, in Italia arriva nel
1868, il primo è Alberto Mazzucato. Tuttavia, la separazione delle competenze fra creatore e
interprete genera spesso inconvenienti: spesso Wagner accusa i direttori di averlo frainteso;
così come Verdi si lamenta con Ricordi del Mariani. Con questa ?gura, l’autore rimane fuori
dal teatro, al cui interno il centro è il concertatore-direttore. Anche nell’iconogra?a
pubblicitaria, se prima in rilievo c’erano i cantanti, ora troviamo ad esempio la star Mariani al
centro. «O le opere pei cantanti; o i cantanti per le opere» - Il nuovo concetto di
autorialità e l’emergere del direttore unico riducono la prisca libertà esecutiva dei cantanti.
All’inizio, Verdi scrive in base alla vocalità dei suoi esecutori (che a volte gli spiegano per
lettera le proprie caratteristiche), per cui si hanno ruoli tagliati su misura per quei cantanti.
Anche Wagner, in un primo tempo, si comporta in modo simile e, a volte, modi?ca alcuni punti
della sua scrittura musicale per andare incontro ai singoli cantanti. Col tempo, però, entrambi
gli autori tengono sempre meno in considerazione i cantanti: scrivere opere per i cantanti è il
passato; la moderna intenzione, che antepone l’integrità dell’opera agli esecutori, è quella di
trovare cantanti per quelle opere. Dall’ideazione alla messinscena - I
percorsi che Verdi e Wagner seguono dalla prima idea alla messinscena sono molto diversi:
Wagner scrive da sé i libretti, compone senza contatti con i cantanti e porta in scena le opere
in teatri a lui subordinati; Verdi invece segue una prassi diversa: - la stesura del libretto
passa per tre fasi: scelta del soggetto, stesura del programma, versi?cazione. Dopo la scelta
del soggetto, che sta solo a lui, la scrittura del libretto avviene sotto la sua supervisione, ma
non scrive mai i propri libretti. Verdi, infatti, acquista il libretto, pagando il poeta con un
contratto privato. Così rimane proprietario della poesia, per poterla eventualmente modi?care
e trarne un pro?tto economico; - cantanti dotati di elevate qualità attoriali - ripete la
necessità di “naturalezza” che non signi?ca una diminuzione di interesse per l’esecuzione
vocale. Egli non apprezza cantanti che eseguono variazioni estemporanee, giudicate fuori
moda e stilisticamente inadeguate alla sua idea di canto-recitazione; addirittura arriva a
ri?utare, per il promo Macbeth a Firenze, il soprano Tadolini, ritenuta troppo bella per voce e
?gura per impersonare il personaggio violento che egli aveva in mente; - acquisisce potere
decisionale anche sula messinscena; dagli anni ’60, con Ricordi, si dedica alla creazione di
manuali per la messinscena delle opere, che forniscono indicazioni su costumi, attrezzeria,
movimenti delle masse corali, gestualità, espressioni del volto dei protagonisti ed e\etti di
luce. Wagner nel preparare il festival di Bayreuth mostra uguale autorità in messinscena,
attorialità e illuminotecnica; infatti, entrambi si collocano all’inizio del processo della moderna
regia teatrale. Drammaturgie e musiche - Il Gesamtkunstwerk di Wagner e
quello di Verdi - Il termine è coniato da Wagner e signi?ca letteralmente “opera d’arte
totale” ed è un fondamentale elemento di convergenza tra Wagner e Verdi. Il primo amava
teorizzare, il secondo era uno spirito pratico; tuttavia, anche Verdi ha una sua idea di
Gesamtkunstwerk: per entrambi, nell’opera d’arte non è la musica né la parola a venire
prima: il dramma, l’azione e l’e\etto derivano invece dall’integrazione dei tre sistemi poetico,
visivo e musicale (“azione” non si intende solo un atto concreto, agito sulla scena, ma anche
un semplice mutamento emotivo/psicologico). Tra i due autori c’è una di\erenza sostanziale
circa le idee di teatro e di Gesamtkunstwerk: - per Verdi il conoitto drammatico è dato dalla
contrapposizione tra aspirazione degli individui e realtà circostante, tra bene privato e
interesse collettivo, libertà individuale e sistema morale/politico; - per Wagner, il conoitto
drammatico non è né storico, né sociale, ma è dentro l’uomo, cioè è antropologico: è nella
volontà di rinuncia alle attrazioni dei sensi e di allontanamento dai conoitti del mondo. Non a
caso, la forma a sezioni chiuse di Verdi e del melodramma italiano risponde a una concezione
del conoitto reale, concreto fra entità ed idee, mentre la forma continua di Wagner risponde
all’assenza di questa contrapposizione; egli non porta in scena i “contrasti” musicali, i colpi di
scena, ma realizza quell’arte della transizione graduale in cui i conoitti sono sostituiti anche
musicalmente da una omogeneità del percorso dei Leitmotive.
Forma del dramma, forme musicali - Per quanto riguarda la forma del dramma, Verdi è

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legato alla forma chiusa, mentre Wagner a quella aperta: - nella forma chiusa, l’azione è
consequenziale, il tempo rettilineo e gli eventi ordinati in relazione causale (es., Ernani); -
nella forma aperta l’azione è frammentaria e svolta in un tempo discontinuo (es., Ring). Per
forma si intende altresì la conformazione della singola sequenza drammatica, della scena
(ossia il “numero chiuso” nel melodramma italiano). Verdi conserva ?no all’Aida la solita
forma, la cui struttura risponde ad una basilare divisione dell’azione in due sezioni tematiche
principali che disegnano il percorso dalla rioessione alla decisione conclusiva; ogni numero
viene realizzato, già da librettista e compositore, con tale dinamica; già nel progettare i
contenuti, si deve dividere l’azione in sequenze motivate logicamente; così facendo Verdi
tende via via a sciogliere i numeri nella continuità d’azione. Lo stesso vale per arie solistiche e
duetti le cui principali sezioni sono cantabile e cabaletta, distinte per melodia, tonalità,
situazione psicologica e andamento. Spesso il cantabile è più lento e la cabaletta conclusiva
più rapida (Verdi lo capovolge per una maggiore verità drammatica). Le due parti sono
inframezzate da una sezione intermedia che si di\erenzia da queste 2 perché non ha la
stessa loro espressione lirico-soggettiva, musicalmente è denotata da materiale meno
melodico, spesso declamato su poche note. Questo “materiale di mezzo” contiene spesso un
colpo di scena (personaggio che irrompe, decisione che capovolge le intenzioni del
personaggio che canta, qualcuno che irrompe). Verdi andrà via via aumentando sia il
segmento inziale “d’attacco” (condizione del conoitto drammatico nel duetto, aria preceduta
da un’ampia sezione iniziale in forma dialogata), sia il materiale “di mezzo”. Le grandi scene
d’assieme sono strutturate in 4 fasi, ma, anziché di “cantabile”, si parla di “largo
concertato” seguito da “stretta Jnale” (anziché “cabaletta”) resta quindi simile la dinamica
psicologica. Un esempio di scontro di due visioni del mondo nelle opere verdiane è
rintracciabile nel II atto della Traviata, fra Violetta e Germont, e nel Don Carlo, tra Filippo II e
il grande inquisitore: - il primo viene deJnito duetto nella partitura, in quanto conserva
architettura musicale, versi?cazione metrica e percorso psicologico emotivo della tradizione
italiana. Le parti melodiche, cantabile e cabaletta, segnalano il momento in cui i conoitti degli
interlocutori giungono ad un punto di incontro; - il secondo viene deJnito scena e non
duetto, in quanto si sviluppa per segmenti più brevi e frammentari, seguendo passo dopo
passo lo scontro fra i due bassi. Il senso della scena è la denuncia del potere assoluto e
conservatore esercitato dalla chiesa mediante l’esercizio del terrore. Verdi pone al pubblico il
problema dell’immobilità imposta forzatamente da quel potere e così, in musica, non si
veri?ca una reale azione. La tipica forma lirica (architettura della melodia all’interno delle
due sezioni) può avere una variante, che si de?nisce Barform, spesso usata da Verdi: Consiste
in una struttura tripartita, con due segmenti brevi e isometrici seguiti da uno più lungo,
solitamente emotivamente caricato. Anche Wagner segue un’evoluzione delle forme chiuse
verso la forma continua della melodia in?nita. Ma gli storici wagneriani hanno chiarito come
anche nelle opere più mature (es., Ring o Parsifal) il declamato continuo nasconda sezioni di
maggiore formalizzazione. In queste sezioni ricorre spesso alla forma ad arco (A B A’) e ancor
più la Barform (A A’ B), lo stesso schema di Verdi. Anche Wagner segue un’evoluzione delle
forme chiuse verso la forma continua della melodia in?nita. In entrambi gli autori, la forma
della scena è inouenzata dall’irruzione di segnali sonori realistici, come l’uso del corno in
Ernani (Verdi) e in Tristan (Wagner): - nel primo caso, Verdi lo utilizza come segnale per
Ernani di togliersi la vita, secondo un accordo stretto precedentemente; così, sia il
protagonista che l’uditorio sono riportati indietro nel tempo e quest’ultimo viene gettato nello
stesso spazio sonoro del protagonista; - nel Tristan di Wagner invece, Isolde con Brangane sta
aspettando l’amato Tristan nel giardino del re Marke, suo sposo, fuori per la caccia. I corni dei
cacciatori sono prima ascoltati in lontananza dallo spettatore, ma subito dopo il suono entra
nella psiche di Isolde, e così non è più suono della realtà ma viene percepito dallo spettatore
?ltrato attraverso la psiche di Isolde, i suoi desideri e le sue pulsioni. Quindi, l’ascoltatore non
vive qui lo stesso spazio ?sico del personaggio, ma quello psicologico. Altrettanto signi?cativo
è il modo che i due autori hanno di rappresentare la reazione dei personaggi agli eventi
esteriori: La Desdemona di Verdi, ad es. ha un presentimento indotto da un colpo di vento,
colpo di scena che dà l’avvio alla cabaletta. Si tratta di una sola frase, suPciente però a
segnalare il mutato stato d’animo di Desdemona. Wagner nel Tristan non porta in scena
eventi: l’unico evento è l’entrata in scena di Marke, che sorprende Isolde e Tristan, ma la

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reazione non si concretizza ?sicamente, non compiono alcun atto e la loro psiche sembra
tornare al mondo del sogno. La realtà fenomenica non entra nel mondo interiore e il ritorno
alla realtà avviene per “transizioni lente e graduali” (il contrario del “colpo di scena”).
Concezioni e sviluppi. Verdi e Wagner a confronto-
Verdi, elementi della sua pratica compositiva e della drammaturgia musicale di Verdi: -
Concisione, brevità, tempo accelerato – È costante in Verdi la riduzione dell’azione ai suoi
punti essenziali e del libretto alle sole parole necessarie. No ai recitativi troppo lunghi:
possono essere adatti a un libro o a un dramma recitato, ma in un dramma cantato «fan
ridere»; - Parola scenica - La ricerca di concisione è alla base di quella che Verdi chiama
parola scenica (parola che scolpisce una situazione), declamata con chiarezza e dopo la quale
nulla nell’animo dei personaggi sarà più lo stesso, come il celebre «non so più re, ma Dio» nel
Nabucodonosor, a cui segue il fulmine vendicatore che toglie la ragione al protagonista; -
Dinamizzazione del numero chiuso – In Verdi, la forma del numero chiuso è forzata dalla
drammaturgia del conoitto - opposizione tra caratteri e tra sistemi di valori – processo teso a
dare continuità all’azione. (es. il III atto dell’Aida è concepito come un’unica sequenza
drammatica, e in Otello il ousso dell’azione procede quasi senza interruzione. La
dinamizzazione dei numeri chiusi sarà completa con Falstac); - Abbozzi - Quando Verdi scrive
di aver “composto” un’opera, non signi?ca che l’opera sia davvero conclusa in sé, ma che ah
in testa l’intero dramma, ed ha ?ssato su carta degli abbozzi, appunti molto sintetici, una
sorta di traccia che comprende l’intero sviluppo dell’azione; ne restano di Luisa Miller, del
Rigoletto, della Traviata; - Tinta – carattere e quadro psicologico che informa un’opera, è
l’atmosfera che fa da sfondo a una vicenda; esempi di “tinta” sono l’atmosfera di corruzione
cortigiana in Rigoletto e l’ambiente borghese demi-monde della Traviata; la tinta, tuttavia,
non deve essere unitaria, monotona: per ottenere l’e\etto teatrale, la varietà è infatti
preferibile ad una tinta uniforme, severa e grave; - Estetica del brutto e del grottesco –
Emerge la mescolanza di generi, o meglio, di livelli stilistici: tragico, sublime, grottesco,
comico, spettacolare. L’uso del brutto e grottesco ha 2 piani nel melodramma: brutto morale o
?sico che diviene oggetto di compassione o di repulsione; si coglie, in questo, l’inouenza di
Victor Hugo; - Spazi – alternanza e contrapposizione fra spazi limitati e grandi spazi, fra
dimensioni intime e scene di massa; - Coro - In Verdi il coro svolge soprattutto una funzione
rigenerante del melodramma, (mentre Wagner, dopo il 1850, insegue il suo sogno di
restaurare l’antica tragedia greca, lasciando però il compito di commentare l’azione),Verdi
aPda ai cori una funzione drammatica addirittura protagonistica (celebre il coro della patria
oppressa in Macbeth); - Verdi l’italiano - è innegabile che le opere di Verdi siano collegate
alla storia nazionale, vediamo alcuni dei principali problemi relativi al cosiddetto “Verdi
politico”: a. Il “problema della patria”: Nabucodonosor contiene il più celebre coro della
storia dell’opera, il coro degli Ebrei in cattività Va Pensiero, considerato colonna sonora del
risorgimento italiano, ma questo signi?cato non era nelle intenzioni dell’autore. Si tratta di
una preghiera, un coro di prostrazione dei deportati che subito dopo inizieranno il processo di
rinascita. È strano, dunque, che simbolo del risorgimento sia diventato proprio il coro di
massima prostrazione in un’opera di pace universale; Ernani, ha un chiaro riferimento non
solo agli ideali patriottici ma anche all’attualità politica: il messaggio politico dell’opera
potrebbe risiedere nell’antagonismo fra un codice morale anacronistico, legato a vecchi
pregiudizi di casta, e le leggi del cuore di Ernani, nobile decaduto diventato bandito per
ribellione. Nello scontro fra i due codici morali, quello dei giovani è destinato a soccombere
tra la compassione dell’uditorio; Verdi si schiera dalla parte della giovane Italia ribelle e senza
speranze; Attila, molti manuali parlano di un duetto “patriottico” fra il barbaro Attila e il
magister belli romano Ezio (che pronuncia la frase Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me);
tuttavia, estraendo una frase dal dramma, se ne fraintende il messaggio, che è esattamente
opposto: Ezio, infatti, propone all’unno un tradimento, che Attila ri?uta, impartendo al romano
anche una lezione di etica di governo (Dove l’eroe più valido è traditor, spergiuro / ivi è
perduto il popolo) → Ezio non è certo un eroe del patriottismo! B. Il problema
della morale individuale - dopo il 1849, sembra evitare soggetti di impegno politico, per
concentrarsi su soggetti più intimi, sui drammi degli individui. Un ballo in maschera ha
un’ePcace sovrapposizione di più registri, ironico, grottesco, amoroso, tragico. Eppure,
proprio in quest’opera abbiamo un legame con vicende politiche-risorgimentali, così come in

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Vespri siciliani. In entrambe le opere, infatti, raPgura dei congiurati che tramano per
rovesciare il potere costituito, ma, mentre nei congiurati dei Vespri si può cogliere la ?gura
del cospiratore segreto mazziniano, in Un ballo in maschera (1859) – scritta dopo che Manin
fondò la Società Nazionale (1856) per dicondere il consenso attorno a Vittorio Emanuele II,
Manin accusa Mazzini della fallimentare teoria del pugnale prendendo le distanze dalla
strategia della cospirazione segreta – i congiurati cantano e scherzano, per loro tutto è
oggetto di scherno (raPgurazione negativa e irridente dei mazziniani); il messaggio è che la
congiura segreta porta a tragici errori. Non si conosce la relazione di Verdi con la Società
Nazionale di Manin, ma il librettista del Ballo, l’avvocato Somma, era stato nel 1849
“segretario di Presidenza” della Repubblica di San Marco, il cui presidente era appunto
Manin. A questo punto, è anche più chiaro perché nei giorni della première del Ballo si siano
avute, sui muri di Roma, le prime apparizioni dell’acronimo “W V.E.R.D.I.” = W Vittorio
Emanuele Re D’Italia. C. Il problema dello stato – Le opere successive all’unità hanno temi
politici complessi e scottanti: Don Carlos e Aida sono due denunce dell’inouenza della Chiesa
sulla vita civile dello Stato. Nel Don Carlos i due duetti fra Filippo II e il Marchese di Posa e
fra Filippo II e il Grande Inquisitore rappresentano la voce del conservatorismo e del potere
della Chiesa che si scontra con il liberalismo, che ?nisce col soccombere. Anche in Aida, la
casta sacerdotale e il suo ponte?ce Ram?s detengono poteri politici assoluti e si
contrappongono ad un “popolo vinto e straziato”, deportato e privato dei diritti fondamentali.
Pure il potere dei sacerdoti resta del tutto estraneo agli eventi e alle so\erenze degli
individui. Verdi vuole dunque, indicare un doppio errore politico: la concentrazione dei poteri
nelle stesse mani e l’antiliberale esercizio di un potere autoreferenziale e distaccato dalle
sorti degli individui. In Otello, Otello e Desdemona muoiono senza un motivo ideale, non per
denunciare un’ingiustizia (come Ernani) né per una grande idea di futura paci?cazione (come
il Marchese di Posa): muoiono perché «l’uomo è solo vittima di inganno», tutto è bugiardo,
incerto. Con questo ?nale, non si può più pensare a un Verdi risorgimentale: il messaggio
della sua ultima tragedia nega che questo processo abbia portato a risultati positivi;
contrariamente a quanto sperava la generazione verdiana, l’uomo è rimasto «frutto di iniqua
sorte». Così Verdi per primo ha sentito il fallimento del processo risorgimentale e il suo Otello
ne è simbolo, un uomo decadente che ha perso la capacità di comprendere il mondo: la
versi?cazione non più simmetricamente coincisa, l’armonia cromatica diventano simbolo della
psiche dell’uomo indebolita. – Wagner - attraversa tre periodi: quello dei
grands-opéras, (inouenzati dal modello francese di Meyerbeer), quello delle opere romantiche
e quello dei drammi musicali. Scrive saggi teorici, e le domande a cui cerca risposta sono
principalmente due: qual è l’oggetto profondo del dramma musicale? Qual è il mezzo
comunicativo più adatto a quest’oggetto? Vediamo il sistema dell’opera d’arte totale: -
puramente umano – l’oggetto dell’azione rappresentata è il profondo sentimento umano,
un’azione interiore che si sviluppa al di là di eventi e gesti scenici, che non implica una
comprensione razionale/rioessiva dello spettatore. - sogno – a di\erenza del sogno dei
personaggi verdiani, che soccombe allo scontro con la realtà, i personaggi wagneriani trovano
nel sogno la loro dimensione esistenziale, è lo stato che apre la realtà del “puramente umano”,
che fa scoprire una nuova connessione dei fenomeni del mondo (proprio come i sogni). L’idea
del sogno più vero del reale gli viene da Calderon de la Barca, ma lo assimila bene con gli
scritti di Schopenhauer. – mito – al ?ne di realizzare l’atmosfera onirica, usa soggetti della
mitologia nordica, o leggende popolari; così, si svincola dalla rappresentazione realistica degli
eventi e riesce a manifestare i motivi interni dell’azione, dell’anima. – profondità – tale
concetto, mette in secondo piano la forma sensibile che coglierebbe solo la super?cie dei
fenomeni – ciò che interessa a Wagner, sono gli intrecci motivici e polifonici, è nel linguaggio
musicale che si collocano i “motivi interni”. – melodia inJnita – è la “forma della musica” -
sola arte che rappresenta le idee e non i fenomeni (Schopenhauer) – per melodia in?nita non
si intende un qualcosa di continuo, ma il tornare continuo dei leitmotive e il superamento di
ogni forma chiusa, un intreccio incessante dei motivi dell’azione, qualità tecnica e
drammaturgica assieme. – Leitmotiv – il termine è di Hans von Wolzogen, primo direttore del
suo teatro; la tecnica risale alle sue prime produzioni, prima della sua teoria e se ne trova
anticipazione nella tecnica delle idee ?xe di Berlioz. I leitmotive che siano strumentali o
vocali, hanno un’ampia area di signi?cati che possono modi?carsi nel corso del dramma per

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trasformazioni o perché associati ad altri; Nel Tristan abbiamo un motivo che si presenta in
tre collocazioni: la prima volta compare nel preludio, con carattere di angoscia, poi si
ripresenta nel primo incontro fra Isolde e Tristan con un carattere teso e violento (come
amore convertito in odio), e in?ne si ritrova (con le note in senso capovolto) nel monologo
?nale di Marke, quando egli scopre il tradimento e il capovolgimento coincide con il modo
opposto con cui Marke guarda Tristan rispetto a Isolde. – Corrente dei motivi – nel Tristan,
la tecnica della corrente di motivi diventa omogenea e si può notare l’intera evoluzione della
corrente motivica: i leitmotive che incontriamo nell’Oro del Reno hanno dei chiari signi?cati,
ma quando questi tornano nel Crepuscolo, sono carichi di signi?cati molteplici e ne
acquistano continuamente dall’intreccio con altri. Il motivo è di solito breve e predisposto a
collegarsi anche con altri in “minime transizioni”. – Sonoro silenzio – come il dialogo è lo
strumento principe per esporre un conoitto nel dramma classico, all’opposto il silenzio sonoro
è lo strumento espressivo della forma aperta del dramma epico-mitologico wagneriano.
“Sonoro silenzio” è «la messa in musica dell’ammutolimento provocato dall’urto d’una
situazione tragica». – Assenza di dialogo – i duetti, più che sviluppare un vero dialogo,
sembrano piuttosto monologhi a due – non c’ reale confronto – conoitto tra i personaggi (al
contrario di Verdi, che dialogizza anche l’aria solistica). – Arte della minima transizione,
Wagner miniaturista - la locuzione “minima transizione” si riferisce al fatto che Wagner
aborriva tutto ciò che era “colpo di scena” e preferiva a questi moti bruschi e repentini l’«arte
della transizione sottile» e graduale. La de?nizione miniaturista, invece, fu coniata da
Nietzsche e indica come le grandi sequenze wagneriane siano in realtà formate da minimi
frammenti, quasi un mosaico; - Sistema armonico, cromatismo Jno alle soglie
dell’atonalità -la liberazione del discorso armonico dalle periodiche cadenze tonali è
necessario a tutto ciò che si è ?nora esposto. Il cosiddetto Tristan-Akkord che risuona
all’inizio del Tristan è un aggregato armonico di quattro suoni che non ha una netta direzione
tonale e ricorre in?nite volte ?no a risolversi nel Si maggiore. Questo approdo rimandato
rappresenta l’annegamento nell’inconsapevolezza di sé; - Orchestra – funzione analoga al
coro tragico; l’orchestra espone i motivi dell’azione oltre a commentarla, compartecipa:
amplia il numero di musicisti e inserisce strumenti particolari. – Testo poetico – subordina la
parola alla musica, scrive lui i libretti; la drammaturgia non è più in rime e metrica” ma deve
seguire la mobilità del “sentimento puramente umano”. Realizza un vero e proprio
capovolgimento dell’impostazione tradizionale del libretto: alla rima sostituisce l’allitterazione
consonantica della radice semantica della parola, lo Stabreim: realizza catene di parole
collegate per lessema (unità linguistica), alludendo a legami altrimenti insospettabili tra suoni
verbali e concetti; elimina la ripetizione di parole o versi, lo stesso concetto viene quindi
ripetuto con parole sempre nuove spostando l’attenzione su aspetti diversi. – Gestualità e
attorialità – gestualità minimizzata, azione ?sica marginale a favore della realizzazione del
“profondo sentimento” (a dicerenza di Verdi e Donizzetti che, anzi, componevano una musica
che fosse esplicitamente connessa ad azioni 8siche). Questo è il pensiero di Wagner da anni
50 a 60, nel 70, il drammaturgo imposta un’ulteriore evoluzione teorica, nel saggio Beethoven
arriva il capovolgimento: la musica assoluta, prima condannata, diventa l’unica possibile,
teorizza la totale subordinazione della poesia alla musica e la sostanziale autonomia di
quest’ultima. Nella conclusione del saggio, si legge che la musica porta il poeta alla
redenzione, il compositore è un ventriloquo che parla attraverso l’orchestra e le voci dei
cantanti.
CAPITOLO 12 – Fin de siècle: nuovi indirizzi nell’opera internazionale- Concetti e
discorsi – gli anni dal 1870 al 1914, sono segnati da tendenze collettive che inouenzano ogni
aspetto della vita sociale e artistica, come i nazionalismi, la nascita delle questioni sociali, le
teorie psicoanalitiche che lasciano un segno nelle arti e nella musica – un fenomeno
caratterizzante del periodo è la formazione di nuovi ceti sociali inouenti in politica e nella
cultura: il grande ceto borghese del medio 800 si frammenta in diverse categorie e aumenta il
ceto medio, questo comporta la formazione di un nuovo gusto sia nel consumo che nelle
espressioni con più elevate aspirazioni artistiche. Vengono costruiti nuovi teatri in cui le
barriere sociali sono meno rigide, la piccola borghesia diviene inouente nelle scelte dei
musicisti, editori, impresari, agenti teatrali: si privilegia l’elemento spettacolare e l’enfasi
vocale virando verso uno stile “verista”. Il mercato italiano si accosterà al grand-opéra, alle

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opere-ballo. I grandi editori (orientano il successo, prendendo parte alla redazione di libretti e
note di regia) saranno le ?gure di riferimento in un campo che ormai garantisce grandi
guadagni; oltre Ricordi e Lucca anche Sonzogno, Choudens, Heugel. Le opere europee
dilagheranno in America, a New York, venne inaugurato il Metropolitan Opera Company, con
il Faust di Gounod, interamente cantato in italiano. Emergono, in questo periodo, 4 ambiti di
mentalità trasversali nelle maggiori nazioni europee. Le varie componenti: - nazionalistica; -
sociale: implica frammentazione della società e l’adattamento degli artisti alla varietà dei
relativi gusti, la rappresentazione dello scontro tra le classi (commedia- borghese) , il ruolo
della donna in una società avviata al cambiamento; - l’esotismo: rappresentazione
dell’opposizione fra Europa e resto del mondo – la rappresentazione dell’altro ha duplice
funzione, da può rivelare aspetti della civiltà europea, dall’altro può essere un mezzo per
esorcizzare paure e diPdenze tipiche dell’Europa borghese; psicoanalitica: nuovo e di\uso
interesse per i processi mentali preconsci e anomali (Freud). Nazionalismi,
Wagnerismo culturale e di costume – i lavori di Wagner inouenzarono tutta l’Europa, e
oltre, del secondo 800; il suo teatro venne decodi?cato a seconda dei contesti culturali dando
luogo ai “wagnerismi”. In Italia e Francia, l’impronta di Wagner nel contesto della professione
del musicista, più che nei soggetti, stava nell’imitazione di alcuni elementi di grammatica e
sintassi musicale, l’armonia cromatica, la teoria dell’opera d’arte totale, la necessità dei
compositori di scrivere il testo letterario. Gli e\etti nel contesto culturale e nel costume
sociale (ad es. il Festival di Bayreuth, diviene una meta necessaria per chi volesse dotarsi di
una cultura “moderna”). A quest’immagine universale si oppone quella di modello del
nazionalismo musicale germanico: se Nietzsche lo critica per eccesso di arti?ci e nascosta
politicizzazione dell’arte, altri ne fanno un modello positivo di confronto. È impossibile parlare
di wagnerismo come fenomeno unitario, ognuno anche all’interno della stessa nazione ha un
suo Wagner; es. in Francia, lascia il segno nella scrittura orchestrale, in alcune scelte
drammaturgiche (caratteri/situazioni), nell’uso dei leitmotive, nelle azioni
antirealistiche/sospese. In Italia, si vede nella scrittura orchestrale dei sinfonisti, ma anche
nei drammi musicali di Catalani oppure Puccini che usa i leitmotive seppur con un diverso
impiego. I wagnerismi nazionali sono l’espressione sul piano della cultura, del dominio
germanico di cui il teatro musicale diventa testimonianza. Rispetto agli italiani, i musicisti
francesi, prediligono la ricerca di e\etti orchestrali innovativi considerando l’orchestra come
?nalizzata a scopi drammatici. La Francia dal grand-opéra all’Ars Gallica. Il caso
Massenet – la mentalità del wagnerismo si scontra con il revanscismo nazionalista, le vicende
teatrali e narrative, sono d’attualità, il melodramma ha soggetti strettamente francesi e
antiwagneriani – il manifesto di questa tendenza, è l’opera Louise di Charpentier, che
tematizza l’attenzione francese per i bassifondi e per i problemi della nuova società, ma è
signi?cativo che nella sintassi musicale sia evidente l’inouenza wagneriane. L’operista
maggiore di quella generazione fu Massenet. Vediamo a situazione in Francia dell’800:
grand-opéra – grandi scene d’assieme (tableaux), sontuosi balletti, colpi di scena – opéra-
comique – con i dialoghi parlati. Dal 1860, si di\onde il drame-lyrique – con soggetti moderni
e ispirati al concetto di sensibilité - che si impone con il Faust di Gounod. I con?ni tra questi
generi si fecero sempre più sottili, lasciano isolato il genere dell’operetta che si distinse per:
brevi, carattere leggero e giocoso in più atti, alternanza tra musica e dialoghi, danze di gran
moda, can can, polka, e il gran ballo ?nale. (tra i compositori più famosi, O\enbach). Gounod
- sceglie con cura i soggetti, il Faust, opera di maggior successo, si distingue per la raPnata
strumentazione, successioni armoniche con settime e none, melodie intrise di erotismo e la
capacità inedita di modellare la musica sulla metrica della lingua francese – la frase musicale
viene sviluppata in modo da non distorcere il signi?cato delle parole. La musica dell’800
francese, prendeva spunto dal sinfonismo e dai trattati di Berlioz in cui illustrava le
potenzialità di ogni singolo strumento d’orchestra; teorizza anche la “sinfonia drammatica”:
brano solo strumentale, ricco di signi?cati di natura extramusicale (musica a programma).
Berlioz, diventa un simbolo del nazionalismo musicale; in reazione agli eventi bellici, dopo la
scon?tta di Sedan venne fondata a Parigi la Société nationale de musique con l’obiettivo di
imporre l’Ars Gallica – simbolo di rivincita verso i tedeschi. L’obiettivo della società era
rivendicare la superiorità della Francia vs Prussia e promuovere la loro musica strumentale. Il
promotore fu Camille Saint–Saens, compositore di poemi sinfonici, concerti per paino e

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violoncello e musica da camera, altri soci furono Franck, Fauré noto per le mélodies
“romanze” per canto e piano, che fecero successo nel 1850 come laboratorio di
sperimentazioni compositive, anche grazie a Massenet. Massenet, si trova in un periodo in
cui vige la contrapposizione tra nazionalismo francese e mentalità internazionale “deutsche
Bewegung” ed è una ?gura importante per capire questo periodo. Riesce ad adattare la
propria produzione ai gusti del pubblico, alle esigenze commerciali, nei soggetti non segue
una linea retta, ma cambia interpretando la nuova società multiclassista. Nel contesto dell’ars
gallica, rimane fuori da forti posizioni ideologiche tant’è che una delle sue opere più note è il
“germanico” Werther, tratta dal romanzo epistolare di Goethe, è un’opera che delinea il
tragico conoitto tra sentimenti di un giovane romantico e le regole della morale sociale
tedesca a ?ne 700; il compositore lavorò con calma all’opera dal 1880 al 1887 e una volta
sottoposta alla direzione dell’Opéra-Comique, fu giudicata priva di interesse poiché priva di
trionfo nazionalistico e spoglia (i personaggi di Goethe vivevano una forte dimensione
interiore, per cui la si evitavano i maestosi tableaux, solo nel 1891, la partitura venne
stampata ed eseguita a Vienna con reazioni positive come quelle di Brahms. La riduzione dal
romanzo al libretto: il problema fu come rendere teatrale un’azione attraverso le lettere, ma
senza perdere la profondità d’introspezione del testo d Goethe. Il libretto salva i nodi
fondamentali dell’azione distribuendoli nelle convenzioni operistiche (suspense, colpi di scena
ecc.). ma come rappresentare il colpo di pistola alla ?ne del romanzo con cui Werther si
uccide? Durante il preludio al IV atto, Werther si ferisce a morte ma la scena si farà ma dietro
le quinte; inoltre, nell’atto ?nale, per rendere più decorosa la ?ne di Werther lo si assolve per
il suicidio, grazie all’ammissione dell’amore nutrito da Charlotte. Il canto di Natale, intonato
dai bambini del paese che si sente all’inizio dolce e spensierato, suonando ora nel ?nale
appare crudele e indi\erente alla tragedia. Il preludio del I atto, presenta due temi di
Werther: straziato e drammatico – melodico e sognante che tornano anche nel preludio del III
e IV atto dove però il primo tema prenderà più spazio per la morte del giovane che trattiene il
suo dolore in sé e l’orchestra non spettacolarizza la so\erenza. Anche la Charlotte di
Massenet si di\erenzia: nel romanzo non traspare se ama, ?gura candida e nobile; in
Massenet è più moderna coinvolgente, ama e confessa ma si ritrae per paura del giudizio
della società. Per capire la cultura francese come espressione di nazionalismo, guardiamo
“Manon” di Massenet a confronto con “Manon Lescaut” di Puccini. In Massenet, abbiamo
legami con il nazionalismo: confronto tra spiritualità e laicità, carnalità esplicita, che fa parte
della laicizzazione della Francia; Puccini non inserisce nulla relativo alla cultura nazionale. Le
opere traggono spunto da un romanzo di Prévost. La prima di Massenet, ebbe luogo all’Opéra-
Comique di Parigi,1884, quella di Puccini 1893 al Teatro Regio di Torino. Di\erenze 
Puccini, tiene pochi personaggi e si focalizza sui loro processi emozionali a di\erenza di
Massenet che pone attenzione (come nel romanzo) sul problema sociale collettivo. In Puccini
la protagonista è Manon, in Massenet Des Grieux. Puccini, usa una narrazione discontinua,
Massenet conserva la scena del cruciale e blasfemo riavvicinamento tra Manon e Des Grieux,
implicazione religiosa importante in Prévost e anche nella Parigi elle 3° Repubblica. Elementi
simili  non si fa cenno nel titolo al personaggio di Des Grieux, non compare l’amico Tiberge,
non si parla dei diversi tradimenti di Manon ma solo di uno. Se Massenet sceglie tale
soggetto per la drammaturgia in quanto rioesso dell’orgoglio nazionalistico; Puccini invece
era interessato alla vicenda emotiva adatta alla sensibilità della nuova borghesia italiana, ai
concetti di ricchezza per tutti e ricerca di emozioni e divertimento. Altri volti del
nazionalismo musicale: la Russia e il resto d’Europa – in Russia, nell’800 prese forza
l’idea di una tradizione musicale autoctona, autori russi e lingua russa; Glinka fu uno dei primi
grandi musicisti nazionali, per soggetti e aspetto musicale. Il contesto storico: Nicola II,
alimenta il malcontento che sfocia in diversi scioperi, in un clima che tendeva all’apertura
verso l’Europa centro-occidentale ma allo stesso tempo voleva preservare e identi?care le
proprie radici, d’altra parte la Russia si alleava con la Francia vs Germania. I musicisti si
trovarono ad un bivio: continuare l’apertura con l’Occidente o difendere tradizioni nazionali. A
S. Pietroburgo si a\erma il Gruppo dei Cinque: Musorgkij, Borodin, Cezar Cui, Balakirev e
Korsakov con l’obiettivo di rinnovare la musica russa recuperando leggende, letteratura e
poesia tipici per creare uno stile nazionale riconoscibile  ciò prevedeva uso della lingua
russa e conseguente metrica nel melodramma, uso di armonia e strumentazione russa. Si

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ispirano alla musica popolare russa, a quella sacra e anche alla produzione letteraria di
Puskin che rispecchia i problemi della Russai del primo 800: diPcoltà di un grande complesso
statale, intuizione della condizione esistenziale dell’uomo superouo. Musorgskij musicò il
dramma romantico Boris Godunov e inserì la canzone popolare Slava. Se Mus. vuole musicare
l’anima del popolo russo Cajkovski è a metà tra musica russa e tradizione occidentale, sarà
celebre per la composizione di musica per balletto supportando il coreografo Petipa (maestro
del balletto imperiale di S. Pietroburgo) ma compone anche musica da camera, 6 sinfonie e
alcune opere, tra esse Eugenij Onegin dal romanzo di Puskin. Data la fama del romanzo, C.
imposta l’opera come una serie di episodi della vita del protagonista. Ambientata nella
campagna di S. Pietroburgo, 1820, la prima scena del 3° atto si svolge nel palazzo di una città
e si succedono una polonaise e una danza scozzese (europeizzazione della nobiltà russa). Uno
dei tratti peculiari della sua musica è l’alternanza tra momenti di tormento e altri di tenerezza
e nostalgia. Piuttosto che emblema del romanticismo nazionale è un compositore europeo-
cosmopolita, usa forme chiuse e frammenta il ousso drammatico (vs Verdi/Wagner).
Boemia/Moravia/Norvegia furono incubatrici di scuola nazionali. Aspetti sociali:
naturalismo e verismo in musica – come cambia la musica in base alla nuova società:
passioni incontrollabili, personaggi appartenenti agli strati più bassi della popolazione,
tradimenti e uccisioni in scena segnano l’inizio del naturalismo e verismo sia nella
rappresentazione del rapporto tra classi che nel rapporto tra rappresentazione e spettatori. il
verismo italiano giunge al melodramma dopo i successi dei romanzi di Verga mentre in
Francia il maggior esponente fu Zola secondo cui la natura umana va indagata con gli stessi
metodi delle scienze naturali. Negli anni ’70, ?oriscono libretti di argomento
naturalista/verista tra cui Carmen, di Bizet  l’opera tratta da una novella di Mérimée, in
forma di opera-comique, va in scena al Theatre dell’Opéra-Comique di Parigi nel 1875 e fu un
successo di critica e pubblico. Durante le prove i librettisti cercarono di inserire tagli e
modi?che per limitare l’eccessivo realismo e la gestualità sensuale/violenta ostentata dai
cantanti. Dal punto di vista musicale: strumentazione semplice, timbri puri, vitalistici, ben
distinti; forme chiuse, preferenza ad una musica “oggettiva” - come il narratore naturalista di
Zola – intendiamo una musica colta dalla realtà, non composta dal musicista, “l’opera
sembrerà essersi fatta a sé”. Le sezioni più popolari sono: l’habanera di Carmen (danza lenta
cubana); la seguedille (danza spagnola antica in ternario); l’aria stro?ca di Escamillo dove si
accosta la corrida al presagio di morte.  questi momenti hanno armonie non complesse, con
forme ritmico/melodiche ripetitive inquanto esplicitazione di atteggiamenti psichici non inclini
alla rioessione/introspezione. L’armonia dell’habanera – imperniata su un accompagnamento
ritmico di violoncello, tipico della danza, ripetuto per tutta la durata del brano,
all’accompagnamento viene aggiunta una linea melodica cromaticamente discendente dal
carattere triviale, quest’ultimo inerente al tipo di amore declamato da Carmen, libero e di
poco spessore – sintetizza a livello musicale la banalità e l’egoismo dei rapporti umani.
Carmen canta canzoni, perché oltre a mostrare la sensualità, non ha nulla da dire, Carmen è
la denuncia della materialità dell’individuo, della banalizzazione della donna dal p.d.v. della
società – tale pensiero si esprime con la messa in mostra della ?sicità piuttosto che del
sentimento romantico, incarnato invece da Don José nella sua celebre romanza, caratterizzata
da una maggior ricchezza del canto. Nel progetto drammaturgico di Bizet, l’esotismo
spagnolo è una maschera per denunciare peculiarità e manchevolezze dell’uomo moderno
occidentale, la società borghese (che reprime e al tempo stesso desidera) è posta davanti a sé
attraverso la lente esotica. In Itali invece, i motivi dell’a\ermazione del verismo musicale
fotografano una propria condizione: nuova scuola di compositori “Giovane Scuola Italiana”
(Mascagni, Puccini, Leoncavallo); crisi del melodramma e ricerca di nuove soluzioni
linguistiche; l’estetica coeva che ricercava nuovi soggetti veristi. Per Amintore Galli, direttore
della casa editrice Sonzogno, Carmen era il perfetto mix tra dramma universale e colore
locale (musica); nel 1888 questa casa editrice, bandì un concorso per opere in un solo atto e
vinse Cavalleria rusticana di Mascagni, col quale salgono sul palco operistico vicende di
umili personaggi coevi, con l’uso di stornelli e canti dialettali. Le caratteristiche dell’opera
verista italiana: ambientazione bassa e contemporanea; contesto che inouisce sul destino;
stilizzazione della parola; impiego del parlato e urlo; presenza massiccia di musiche di scena;
echi dell’esotismo di derivazione francese; storie con passioni tormentate, povertà e miseria

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morale. Il verismo italiano, nonostante il naturalismo francese, fu di ispirazione per molti


compositori francesi. Mascagni raggiunse la fama con Cavalleria rusticana, (sua prima opera,
che porta in tournée in Europa e negli USA), tratta da una novella di Verga, il libretto di
Menasci e Tozzetti, la prima avvenne al Costanzi di Roma, 1890; fu un successo ma Verga fece
loro causa per l’appropriazione del suo lavoro, ottenendo 25% degli utili della
rappresentazione. Tutti i personaggi sono vittime o carne?ci in una spirale di autodistruzione.
Santuzza ha una funzione centrale e Gnà Nunzia diviene Mamma Lucia. Si perde l’aspetto
colare della novella e la dialettalità, ma emergono i singoli: rappresentano il popolo degli
strati bassi visto con la lente delle classi sociali medie. Politica e
religione nella dialettica tra classi: Tosca (1900) - la produzione di Puccini si estende per
un lungo arco di tempo, con Bohème si rivolge alla vita quotidiana degli anni 30 del’800:
tratta da un romanzo di Murger, libretto di Giacosa e Illica, narra le vicende di 4 artisti, tra
cui Marcello e Rodolfo, rispettivamente innamorati della vicina di casa Mimì e Musetta. Mimì
morirà malata nell’ultimo atto ma il signi?cato del dramma è il logoramento esistenziale
imposto dalla vita delle moderne metropoli europee su colore che non sono attrezzati a
fronteggiarlo; mancanza di forza di reazione è de personaggi più commoventi ai quali Puccini
si sente vicino; Mimì divine il personaggio simbolico che sia nel linguaggio musicale che nel
vocabolario usa riferimenti al freddo (reale/simbolico-irrisolvibile so\erenza esistenziale) e al
calore sognato. Tosca,1900 – si a\erma una nuova tipologia di vocalità, il procedere
dell’azione scenica si avvicina allo scorrere del tempo reale, l’azione si interrompe solo in rari
momenti in cui c’è un urgenza/esplosione di stati psichici come l’aria di Tosca “Vissi d’arte” -
ricordi straniati, personalità al limite dello sdoppiamento sono qui in massima evidenza. Ci
sono aspetti politici legati a quelli religiosi, la condizione tragica femminile che non ha libertà
di scelta e azione. Rosselli, ha sottolineato l’aspetto sociale e politico, tra potere e spiritualità:
il Sagrestano, l’inserimento della processione e del Te Deum, l’ambientazione della Roma
papale durante la Prima Repubblica romana (1800), sono scelte che portano Girardi a
sostenere che l’opera sia incentrata sulla religione. Il potenziale opprimente si ottiene
intrecciando il potere religioso a quello politico nel personaggio di Scarpia – forza della fede
imposta e forza del regime di polizia. Il progetto annunciato dalla “Gazzetta musicale di
Milano” di Ricordi traeva spunto dal dramma di Sardou, ma Ricordi non riteneva che quel
dramma fosse adatto alla musicazione. La prima, al teatro Costanzi di Roma, ci fu un dibattito
tra tradizione e modernità: i coevi criticarono le innovazioni della sintassi musicale e
armonica – brusche modulazioni, frequenti sincopi; ma si apprezzò la varia strumentazione; è
un’opera d’azione con ambiente sommario, motivi numerosi e stringati. Capiamo i
procedimenti compositivi e le loro funzioni drammaturgiche: inizio del primo atto –
magistrale esposizione di tutti i caratteri dell’opera; le prime due battute già evocano la
presenza incombente di Scarpia dal quale fugge Angelotti (unico in scena); il motivo di
Scarpia, è solo strumentale spesso impiegato come ossessione nella mente degli altri
personaggi, la sua prima esposizione apre l’opera conferendogli un’atmosfera sinistra
(Scarpia presenta il potere politico/religioso totalitario); questo motivo è seguito dal “motivo
Angelotti”, i due si intrecceranno tra loro per tutta la prima scena. La tensione sinistra si
scioglie appena Angelotti si nasconde. Entra il Sagrestano, personaggio comico che canta
l’Angelus, Cavaradossi entra e i due temi, amore e comico, si rincorrono; mentre Cavaradossi
scopre l’opera e l’orchestra introduce il motivo di Tosca – in pochi minuti, emergono due piani
d’azione, quello che vediamo e ciò che ascoltiamo e questo intreccio fornisce in poco tempo le
chiavi necessarie alla comprensione del dramma. Poi l’aria di Cavaradossi “recondita
armonia”, intercalata dai borbottii del Sagrestano; viene evocata alla ?ne Tosca. Parte ?nale
del II atto, è caratterizzata dall’incombenza di Scarpia che ricatta Tosca – se lei si concede lui
salva Cavaradossi dalla fucilazione – dopo la tentata violenza, arriva la prima dilatazione lirica
“vissi d’arte, vissi d’amore” il tempo si arresta perché Tosca non vede per alcun futuro. Il
brano ha carattere introspettivo, esclude un confronto col mondo esterno e lo si vede dal testo
in “prima persona”, astratto dialogo con Dio, scettico ed ingenuo. Melodia semplice e
accompagnamento accordale scarno, allude ad uno stato di trance, monologo interiore. Ma
poco dopo l’azione riprende impetuosa ?no all’assassinio di Scarpia accoltellato da Tosca
stessa e la tensione s’acquieta. In chiusura d’atto abbiamo il motivo di Scarpia, ma in
pianissimo; diventa il simbolo di un forte sistema di potere, tanto da non arrestarsi nemmeno

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con la morte. I motivi caratterizzanti, in Puccini, sono oggetti psichici che identi?cano i
personaggi, e le loro oppressioni/ossessioni mentali, e allo stesso tempo li sovrastano. La
modernità, il naturalismo teatrale di Zola, le scoperte della psicoanalisi si riscontrano in Tosca
nel tempo dell’azione coincide con il tempo reale e negli oggetti psichici come sostanza del
dramma. Tabarro, è il dramma più esplicito, pervaso da carnalità e violenza, si avvicina molto
al naturalismo a teatro di Zola, per la messa in scena della parte più bassa della scala sociale:
alcolizzati, emarginati, diseredati – emerge anche un naturalismo fonico: sirene di
rimorchiatori, clacson, canzoni di scaricatori, che formano l’ambiente scenico che a sua volta
determina il destino degli individui. Esotismo e orientalismo – l’esotismo è una categoria
estetica e culturale tipica della 8n de siècle, in cui il repertorio operistico trova stimoli e
suggestioni per il rinnovamento del linguaggio musicale e per il piacere borghese di evasione,
sarà con Debussy che questi soggetti saranno davvero materia di ricerca. Tali soggetti furono
il pretesto per ampliare la grandiosità scenica dei grands-opéras o per mascherare la critica
alla borghesia. Questo gusto si riscontra soprattutto in Francia; nel 1870 con l’emergere della
potenza militare ed economica giapponese sulla scena mondiale, le relazioni europee con
l’oriente e le terre d’oltremare, cambiano la rappresentazione mentale collettiva
dell’orientalismo – sarà l’aprirsi ad una nuova natura, data la stanchezza del grigiore
borghese. Tra ?ne 800 e inizio 900 l’orientalismo non è più ?ne alla conoscenza di altre civiltà
ma alla loro assimilazione, cosa che giusti?cherebbe l’espansione coloniale e lo sfruttamento.
In questo atteggiamento – europeizzazione, elevazione dell’oriente – le arti/musica hanno
svolto una funzione determinante sul piano della psicologia collettiva che informa lo scontro
tra civiltà. Tale mentalità è ben rappresentata in Madama Butteroy di Puccini. Il
“giapponismo” parte dall’esposizione universale del 1867 e raggiunge il culmine nel 1900; il
fascino del Giappone entra nell’interesse dell’arte occidentale; in Italia nelle arti ?gurative si
riscontra in Fontanesi, Bucci, Chini ?no ad estendersi alla letteratura e al teatro: il best seller
Madame Chrysanthème di Loti, (da cui si trarrà M. Butter@y), descriveva il matrimonio
giapponese di un uPciale di marina con una geisha: un accordo commerciale tant’è che
l’ultima immagine è della sposa che conta i soldi dell’a\are. Confronto tra Les Pecheurs des
perles di Bizet e Madama Butter@y due opere esotiche, diverse per mentalità. In Bizet,
l’esotismo è uno sfondo prevalentemente pittorico, coloristico non è una componente
essenziale alla comprensione dell’opera - la dimensione esotica è ornamentale non c’è una
tragedia legata allo scontro tra civiltà. La tragicità del conoitto civile – per motivi politico-
imperialisti e culturali – emerge invece con Puccini abbiamo un’opposizione tra civiltà e fa sì
che lo spettatore europeo assuma il p.d.v. dell’altro: la protagonista, di altra civiltà, appare
vittima ed è una sorta di accusa alla civiltà europea con i suoi principi/obblighi
comportamentali che portano ad una distruzione dell’Io profondo. Il tragico disagio freudiano
sta nella protagonista – Cio-Cio-San – non abituata alle sovrastrutture civili eurocentriche. Il
moderno senso del tragico è chiaro: incontro tra componente orientalista e componente
psicoanalitica, acuito dall’onda di nazionalismo aggressivo. Il portatore di tale disagio
(pulsioni naturali vs imposizioni del super-io che impone il matrimonio endogeno) è il militare
americano Pinkerton (il suo lavoro fa di lui un monumento al super- io opposto alla pulsione
emotiva); la vittima non può invece controllare le sue pulsioni perché non è abituata farlo
nella sua civiltà, lì non sono moderate dalla dimensione sociale (in tale situazione l’Io non può
che annullarsi col suicidio). Dato che il pubblico è posto dalla parte dell’altra, si risolve con
un’accusa al sistema occidentale del quale allo stesso tempo viene rappresentata potenza e
superiorità. Qui l’orientalismo ha una chiara funzione contenutistica e non ornamentale.
Psicologia e psicoanalisi – le teorie di Freud e dei suoi allievi (Jung e Adler), ebbero grande
di\usione tra la ?ne 800/ primi 900, come abbiamo visto l’inouenza che ha avuto in Puccini
con M.B.. Dopo quest’opera, ci sono altri aspetti riconducibili alla psicanalisi in Puccini ma
senza disagi provenienti da esotismi  Il Tabarro, porta in scena gli scaricatori della Senna
della Parigi coeva e questo permette a Puccini di rappresentare un diverso livello di disagio
mentale. Giorgietta, giovane madre ha da poco perso il ?glio, non contiene la pulsione e di
notte si intrattiene sullo stesso barcone del marito (+ vecchio) con un giovane scaricatore al
loro servizio, Luigi. Luigi, non ha ancora radicate le norme del Super-Io ed è debole per
reagire, l’unica via di fuga è il regresso nei ricordi (adolescenza serena) o la proiezione nel
futuro impossibile (uccisione del marito, fenomeno di protesta virile). I due si autocondannano

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ripetendo di continuo il loro atto sapendo che li porterà ad una catastrofe – la routine di Freud
come rifugio psicotico. Tale routine si esplicita anche in musica con ripetizioni continue,
strutture circolari. Michele, marito di Giorgetta ?nirà per sorprenderli e sgozzare il ragazzo
(denuncia sociale vs un sistema economico che condanna le classi subalterne ed emarginate a
una inciviltà, impossibilità di realizzarsi e obbligo di rimanere in condizioni insopportabili).
L’opera è quindi un intreccio di psicanalisi individuale e struttura sociale collettiva con il
risalto del dislivello tra personalità individuale e persona sociale. Legami anche col
naturalismo francese dato dalla “scienti?cità” della reazione di Michele, inevitabile data la
situazione esistenziale degradata. In chiave psicoanalitica possiamo leggere anche al
Trittico: Suor Angelica porta in scena un dissidio interiore. Angelica decide di suicidarsi per
poi pentirsene quando è troppo tardi; vive reclusa, suora di clausura per volere della famiglia,
data la maternità fuori dal matrimonio – dopo 7 anni una zia le annuncia la morte del ?glio e
lei precipita in un collasso mentale e quindi il suicidio. Azione in un tempo statico e spazio
claustrofobico del convento. Girardi ci dice che l’opera può intendersi come un’allucinazione
materializzata sulla scena; dunque, lo spettatore vedrebbe il dramma tramite la percezione
della protagonista. Anche qua il trauma è dato dallo scontro tra pulsioni e norme sociali: le
viene negata la maternità ma l’istinto biologico le consente di sopravvivere sapendo che il
?glio cresce; tuttavia, l’irruzione della zia con la notizia fa entrare il mondo esterno nel suo
rifugio e la vitalità di Angelica tenuta “viva” solo dalla traslazione di essa nella ?gura del
?glio, viene recisa e lascia solo la possibilità di annullamento di sé. Importante quindi, il
ri?uto della realtà, il rifugio in una dimensione sognata o nel ricordo, tragica
materializzazione del rimosso. Anche qui la musica è coerente alle sindromi psicotiche.
Lettura psicanalitica di Turandot, tratta da una ?aba teatrale di Gozzi, ambientata in Cina,
rimasta incompiuta per la morte di Puccini. Il tema: scontro tra donna e uomo, trasposto in
una ?aba e quindi in maniera simbolica. La Turandot pare angosciata da un qualcosa che le ha
provocato una psicosi vs l’universo maschile; la sua crudeltà nasconderebbe un’ansia
materna. Il Principe di Persia, condannato a morte per aver perso le prove a cui si era
sottoposto per ottenerla, rappresenterebbe l’a€izione dei bimbi mai nati. Colui che sarebbe
riuscito a vincere, avrebbe liberato Turandot dai suoi a\anni e così anche il popolo di Pechino,
succube dall’ossessione di morte della principessa terrorizzata dal contatto con uomini.

CAPITOLO 13 – Verso una “nuova” musica. La nascita delle avanguardie musicali


all’alba del 900.

In quegli anni si a\erma l’idea moderna di autore la cui creazione artistica è autonoma per il
carattere di alcune musiche connesso col tentativo di sviluppare nuovi linguaggi alternativi a
quello tonale. Possiamo individuare in Salome, di Strauss, un punto dal quale partire per
ricostruire la storia della musica di inizio 900; la première, a Dresda, attirò i più importanti
compositori europei per la voce che avesse creato un’opera musicalmente originale e
drammaticamente sconcertante. Col 900 giungeva al culmine l’ideologia
culturale/politica/economica (fondata sull’esaltazione della produzione industriale, del
capitalismo votato alla corsa agli armamenti, trionfo dell’imperialismo aggressivo e
intollerante), pensiero egemonico che nelle arti si esprimeva attraverso il gusto per il
grandioso, l’esotico, il colossale; era, però, un mondo che stava andando incontro ad una crisi
data anche dall’illusione imperiale. Salome, un’opera “nuova” - della storia della
principessa giudaica Salome che danzando per il patrigno pretese come ricompensa la testa
di G. Battista, secolo il Vangelo di Matteo, era stata più volte rappresentata ma omettendo le
parti più scandalose. Strauss, decidendo di realizzare una versione moderna, prende spunto
dall’omonimo romanzo di Wilde e non sol abolisce il libretto ma mette in musica quasi
interamente il testo di Wilde – creando il primo esempio di Literaturoper. Le prime note del
clarinetto seguono una scala ascendente divisa in Do# e Sol mag. - L’incipit vede
un’opposizione di 2 sfere tonali ed armoniche contrastanti, con le quali l’ascoltatore viene
immerso in un ambiente inquieto, dove emerge la principessa nella cui mente vi sono gli
elementi inconciliabili della società romana/cristiana/ebraica e lei ne incarna le
contraddizioni; allo stesso incarna tempo l’esasperazione degli spiriti di ?ne 800. La prima
parte: confronto tra eroina e il profeta Jochanaan (Battista); lei simbolo di sensualità volubile
tenterà di sedurlo, lui simbolo della rettitudine ascetica si sottrae scagliandole una

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maledizione  segue un intermezzo orchestrale d’e\etto, giocato sull’opposizione tra temi e


tonalità (caratterizzano S. e J.), che crea l’ambiguità tra fascino di lei e purezza di lui. La coda
consta della deformazione del primo tema di S. (del clarinetto), ora dato al controfagotto che
lo espone in un clima sinistro e di rabbia repressa e alla ?ne dell’assolo i ?ati intonano una
frase derivata dal grido d’amore di S. che esprime voglia di vendetta. Erode, il tetrarca,
incarna la nevrosi moderna, uomo diviso tra desideri sensuali e vita etica, allucinazioni
sognanti e fredda normalità – la sua musica è un mix di stili/umori, mutevoli e sovrapposti
(frammenti di valzer/dissonanze/fremiti sospesi/timbri con contorni sfumati). Momento
centrale: il re convince la ?gliastra a ballare la Danza dei sette veli per Erode (sulle note
stranianti orientaleggianti che presagiscono macabri sviluppi della scena); dopo aver danzato
Salome chiede la testa del profeta - struttura semplice ripetuta per sette volte, così da dare
l’e\etto di ossessione – una nota ribattuta seguita da un salto di minore che accresce la
tensione perché la 8g. musicale non 8nisce mai in magg. Erode, terrorizzato tenta di farle
cambiare idea, ma lei ri?uta ed il boia si prepara a decapitare J. – la musica: sordo rullio di
grancassa e lamenti di contrabbasso, dopo l’orchestra completa con un climax ?no al
momento in cui viene presentata la testa di J. su un piatto a S.; adesso Strauss, usa semplici
accordi di riempimento per mettere l’attenzione sui sentimenti di S. che canta “il mistero
dell’amore è più grande del mistero della morte”. Erode, inorridisce per ciò che la sua stessa
brama incestuosa ha provocato, e subentra un suono – ottoni gravi e legni con il motivo
dell’incipit ma concentrato in un unico oscuro accordo che risulta straniante per l’aggiunta di
un’alterazione. S. bacia la testa e 2 accordi fondono in una dissonanza le sette note. Erode
ordina di ucciderla e l’orchestra tenta di ristabilire l’ordine con un ?nale in tonalità di Do
min., ma al contempo aumenta lo scompiglio di ottoni, legni e timpani e termina con 8 rapide
battute di “rumore”, scelta inusuale per l’epoca. Il “Grazer Tagespot” dirà che mai si era visto
qualcosa di tanto satanico ed artistico; fu un successo, Mahler lo de?nì uno dei massimi
capolavori dell’epoca. Con la Turandot di Puccini, si sarebbe conclusa l’opera italiana;
Strauss, tra i pochi che attraversa le due guerre, alla sua morte la guerra fredda. Le ombre
di Wagner, Strauss: 23 anni dopo la morte di Wagner la sua inouenza si sentiva anche negli
altri ambiti artistici anche se i ultranazionalisti tedeschi lo consideravano una sorta di profeta
privato, fu un punto di riferimento/ispirazione per molte generazioni di intellettuali e artisti.
In Puccini l’inousso W. sta nel modo in cui le melodie riescono ad emergere dal tessuto
orchestrale e i motivi evolvono organicamente da una scena all’altra (anche se Wagner in
Ring, trasforma gli dèi in persone comuni e in Bohème Puccini fa il contrario con i bohemiens,
da un segnale di rinnovamento auspicato da Nietzsche in un libello antiwagneriano). Nel
1871 la Germania era emersa come grande potenza, si di\ondeva l’idea di un Europa
desiderosa di costruire una Mitteleuropa teutonica per rimettere in riga i popoli “inferiori” e i
nazionalismi, al trono c’era Guglielmo II che guardava l’Inghilterra imperiale come modello.
Le spinte al rinnovamento, ?ne 8000, riguardano quasi tutte le arti. Ad es. il romanzo realista
francese  Vallès con storie in cui si risalta la miseria morale e materiale dei sobborghi
parigini; Zola, con il ciclo Rougon-Macquart sulla realtà sociale del tempo. In musica 
Puccini/Bizet con la Carmen, soggetto crudo, realistico e popolarmente connotato; Satie con le
Gymnopédies, oasi di moderna immobilità; Debussy esplorava nuovi linguaggi musicando
Baudelaire e Verlaine. Il processo di decostruzione musicale vedeva in primo piano i
compositori francesi, contro la dominante cultura tedesca. (Già Wagner nel 1850 diceva che
prevedeva una morte dell’arte moderna, di volersi liberare dal vizio di adagiarsi sul passato,
dalla preoccupazione della sopravvivenza e immortalità e piuttosto creare opere per l’epoca
attuale.) Strauss, visse all’ombra di W., studiandone gli espedienti armonici e immaginandolo
tramite i racconti del padre oltre che assistendo alle esecuzioni inaugurali di alcune sue
opere. Sarà Ritter ad aiutarlo nella scrittura del Don Juan e ad indirizzarlo verso il teatro. In
Guntram, si occupa del libretto, con un epilogo in cui il protagonista si allontana dal giudizio
dell’ordine, dall’amata e dal Dio cristiano; cercava un’alternativa al progetto utopico di W. e la
trova nella propensione all’individualismo anarchico, tutte le forme di religione organizzata
imprigionavano l’individuo con l’illusione della moralità/legalità e dovere; compone poemi
sinfonici improntati al descrittivismo che cominciano con dichiarazioni eroiche e ?niscono nel
silenzio; il conoitto tra individuo e collettività è un tema che schiude le porte al tragico nuovo
secolo in cui morte silenzio e buio sono i principali cardini delle vicende umane. Celebre sarà

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l’incipit di Also sprach Zarathustra, in cui speci?ca che si tratta di una libera trasposizione
musicale ispirata a Nietzsche e per un grande organico d’orchestra. [Il sonoro trae la potenza
dalle leggi naturali del suono: se si pizzica una corda di Do basso, e poi lo si rifà tenendola premuta nel
punto mediano, si ottiene il Do subito superiore – la distanza tra i due suoni darà un intervallo di ottava.
Strauss usa questi intervalli all’inizio, in un accordo in Do magg.; l’accordo sorge su un grave brusio e
sovrappone con le trombe Do, Sol, Do, Mi, Mib.] Il riferimento è al tramonto che diventa alba e
viceversa/alternarsi di luce e buio ma anche dolore della vita che inizia e ?nisce – il momento
di apertura si chiude con un crescendo dell’orchestra scolpito dai timpani sul vuoto armonico,
poi il silenzio, solo un Do suonato dall’organo lungo una battuta a dare distanza tra alba e
tramonto. Gli stridori dell’intro, si smorzano convertendosi in una timbrica rarefatta; il Jnale
struggente e meditativo, musicalmente ricapitola il materiale tematico trasformandolo e si
chiude con una sospensione, una soluzione politonale che sovrappone Si magg. e Do magg.
come a simboleggiare il contrasto uomo vs natura contrastando l’idea di Nietzsche del ciclo
vitale. L’Elektra, Dresda, 1909, la rovina della casa di Agamennone vista tramite il linguaggio
Freudiano, musica si spinge sull’atonalità, violenza espressionista e cromatismo esasperato.
Sarà il suo culmine, poi darà uno sguardo indietro, non di ritirata, ma retrospettivo. Un
complesso di nostalgia e satira sarà Ariadne auf Naxos 1912 - un compositore serioso tenta di
scrivere una grandiosa opera mentre gli attori della commedia dell’arte seminano scompiglio attorno a
lui. Fu un’occasione per testare le potenzialità di riformulare strategie drammatiche e musicali
desuete, evidenziare elementi del linguaggio operistico di 7-800; un po’ per far emergere il
suo lato mozartiano e reprimere quello wagneriano. In quest’epoca avanguardistica, Strauss
non fu un rivoluzionario, fu un “non nuovo ma quasi nuovo”, proprio il grande successo
pubblico ed economico e lo status di grande compositore tedesco, lo collocano a distanza dai
musicisti impegnati nella battaglia culturale, il cui percorso fu di scissione da pubblico e
istituzioni musicali (Debussy, Schonberg). La crisi del linguaggio tonale – le cause della
guerra, vanno ricercate anche nelle parole di quelle generazioni d’intellettuali ed artisti che
avendo acclamato le cause espansionistiche avviarono le nuove generazioni ad un percorso
fatale. Nel clima di militarismo e imperialismo proliferava il ri?uto della società, la coscienza
della crisi del rapporto artista- mondo, la fuga dal reale e dal presente, un disagio che colpirà
per decenni la generazione di giovani artisti e intellettuali e anche musicisti  questi processi
di emarginazione e sradicamento nell’Europa di 8-900, sono le avanguardie. La sostanza
della crisi che separò musica e pubblico sta nel linguaggio: la ricerca di un vocabolario nuovo
prescindeva dalla comprensione del pubblico non pronto, questo porta ad un isolamento e ad
un’assenza di riconoscimento; dunque, si arriva ad una ricerca interiore libera, solitaria,
dirompente e so\erta ma sincera. Kandinskij, nel saggio Lo spirituale nell’arte,1909, cercava
una necessità interiore capace dare un’espressione artistica rinunciando alla bellezza
convenzionale dato il contesto storico; lui insieme a Schonberg e Matisse si spinsero nella
totale libertà di mezzi e forme espressive per esprimere il loro mondo interiore. Molti
musicisti erano consci della precarietà del secolo e si rivolsero all’utopia del futuro contro il
tradizionalismo del pubblico. Si creano correnti antidemocratiche, i valori progressisti delle
rivoluzioni si andavano perdendo e si insinuavano ideologie antiscientiste, razziste 
portarono gli artisti fuori dal consorzio sociale, questi crearono un linguaggio lontano dalla
nascente società di massa con la volontà di mostrare una profondità di pensiero. Nella musica
gran parte del pubblico tentò di rifugiarsi nei tranquilli repertori tradizionali; tuttavia, i
giovani compositori, tra cui Debussy, avrebbero voluto invece scuotere questa tendenza.
Mahler, tra vecchio e nuovo mondo - la sua musica fu una delle più alte espressioni del
momento, fastoso e ambiguo. Nasce a Iglau (Vienna), inizia a dirigere operette nel 1880 in
una stazione termale estiva e poi nei teatri d’Eu. Centrale; 1897, divenne direttore del Wiener
Staatsoper: ingaggia il pittore Roller per allestimenti del repertorio operistico, codi?ca il
cerimoniale dell’opera concertistica – costringe gli spettatori in ritardo ad aspettare nel
ridotto e abbrevia la durata degli applausi. Come compositore, invece ebbe una carriera
travagliata: le sue sinfonie, accolte con applausi/?schi/indi\erenza, erano composizioni
monumentali che non rispondevano ai criteri in voga, elementi sonori de?niti triviali e
semplicisti. Tuttavia, questo modo di comporre attesta la sua capacità coniugare più piani
stilistici, elementi realistici e di invenzione, creando una musica poliedrica. Le sinfonie
esprimevano uno spessore tragico inerente all’animo dell’uomo dell’epoca; l’estetica incarava
contraddizioni che, invece di esplodere, si reggono su una linea sottile di tensione e fragilità.

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A di\erenza delle sinfonie n.2-3-4, in cui usa la voce, quelle n. 6-5-7- tornano alla sola
strumentalità. La sinfonia n°6 evoca un mondo di simboli e allusioni, una lotta che estingue
la carica ideale e positiva dell’umanesimo beethoveniano  realizza tale e\etto usando un
tradizionale/simmetrico impianto sinfonico in 4 tempi (Allegro energico, scherzo, andante
moderato, ?nale/allegro moderato), stabilendo collegamenti armonici e tematici – questo
ricorso alla forma tradizionale viene usato per controllare entro un rigoroso schema, l’energia
e le violente emozioni veicolate. Mahler sparge lungo la sinfonia, simboli che suggeriscono i
signi?cati sottesi, sono ?gure dalla forte individualità che irrompono nello scorrere di
ritmi/temi/armonie e timbri. Primo es. di questo procedimento compositivo: l’incipit – il
materiale è sovrabbondante sin dall’inizio, il primo tema irrompe con energia in 4/4, una
marcia; staccati di violoncelli e contrabbassi, rullate di tamburi incedono ?no a scontrarsi con
un muro di ottoni. Questo fremito vigoroso iniziale si raggela presto con un accordo di tonalità
maggiore in fortissimo espresso da trombe e oboi, che poi si trasforma in minore diminuendo
al pianissimo – isolando questa ?gura nella burrasca iniziale, fa richiamo a ciò che illude
l’uomo, ?gura che tornerà in altri punti nodali senza trasformazione, come segnale
d’ambiguità irriducibile. Secondo es.: uso di strumenti inusuali per una composizione
orchestrale: xilofono, nacchere, frusta, martello, campane tubolari, campanacci di mucche –
che oltre al senso simbolico, contribuiscono a creare un timbro magmatico, a comunicare
disincanto, disagio, malinconia, a trasmettere una visione da sogno, un’emozione viva. Terzo
es.: colpi di martello e accordo ?nale che vibrano nel corso dell’ultimo movimento:
un’introduzione dei materiali fondamentali del ?nale che rivela i legami con i movimenti
precedenti. // Stanco della mai entusiastica accoglienza per le sue opere, si dimette dal ruolo
di direttore e annuncia di trasferirsi in USA, ma quando si recò alla stazione per partire, una
folla con Schonberg e alcuni suoi allievi, si riunì per rendergli omaggio. Si recò alla
Metropolitan Opera House di N.Y. dove molti compositori si rifugiarono dal nazismo. La vita
operistica degli Stati Uniti, si divideva tra tradizione francese, italiana e tedesca. Per i ricchi
la musica classica era un piacere da coltivare come il collezionismo di opere d’arte europee;
per il mondo dell’intrattenimento, erano parte dei “divertimenti”; le nuove tecnologie,
portarono la musica a coloro che non l’avevano mai ascoltata dal vivo – nuovo modello di
giradischi Victor (fonografo inserito in un mobile di legno, coniugante esigenze d’arredamento
e sonore). Gli USA irrompevano sulla scena mondiale con un oorido apparato economico e
un’apertura a scambi e trasporti liberi, volevano di\ondere la modernità capitalistica e
democratica. Seppur con i paradossi che includeva, in quell’epoca negli USA, era possibile
vedere un futuro: l’elettri?cazione della musica portò la musica classica alle masse
di\ondendo anche i generi popolari; favoriti anche dai nuovi media, furoreggiano i pezzi di
ragtime, balli sincopati dal suono brillante (rispetto all’e\etto metallico che i registratori
davano alle orchestre sinfoniche); ciò che mancava loro era una tradizione musicale
autoctona, signi?cante e autonoma: arrivarono però i maestri della nuova avanguardia e il
jazz, capace di tramutare la povertà delle risorse data agli artisti di colore, in ricchezza
sonora. 1900: Parigi, Debussy, l’arte dell’inesprimibile – in
Europa, si manifestavano le avanguardie, anche se in musica mancava la comunanza di ideali
e manifesti infuocati, molti compositori aderirono a quel comune sentire: l’estinzione della
?ducia dell’età moderna nell’artista come guida capace di rivelare verità profonde. Le forme
canonizzate, ormai svuotate della loro essenza ed imposte dalla società, aumentavano il
desiderio di rottura tra gli artisti – volevano prendere dal passato ciò che poteva servire al
presente. Parigi fu il centro delle avanguardie, con Baudelaire (prototipo di artista
antagonista alla società per comportamento e scelta di temi e stili per le sue opere),
Mallarmé, Verlaine con le sue marionette inanimate ecc., la città dell’impressionismo di
Renoir, Monet; fu il centro di massonerie e sette che esplorano le regioni occulte; ospitò
l’Esposizione Universale del 1889, rivelando suoni e visioni esotiche che inouiranno sugli
artisti. Debussy, ?glio della piccola borghesia parigina, studia al Conservatorio di Parigi; farà
esperienza della musica orientale ascoltando un gamelan all’Esposizione U.: orchestra di
strumenti musicali indonesiani, con scale essenziali e ipnotiche, fatte di 5 note. Inserendo così
l’esotismo nel cuore della musica, modelli folklorici, Debussy, ruppe col dominio
dell’architettura tonale, creando associazioni sonore legate a dimensioni sonore ?nora
subalterne come quella timbrica – l’interazione si basa su risonanze, respiri, silenzi e

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imprevedibilità. Questa nuova estetica la troviamo già nell’incipit del poema sinfonico
“Prélude a l’apres- midi d’un faune”, 1894, (un fauno che svegliatosi da un sonno
pomeridiano, ricorda di aver rapito due ninfe il giorno prima alle pendici dell’Etna). La frase
iniziale del poema, manca di sostegno armonico, si basa su una successione cromatica
derivante da un intervallo di tritono Do#-Sol, che poi ricade su ambigui accordi di settima e
su una scansione ritmica che da uno straniante senza di spazialità. Non troviamo linee che
creano una logica chiaramente determinata, piuttosto il suo scopo è costruire
aperture/rami?cazioni colorate, non è detto che un singolo istante sonoro debba partecipare
ad un disegno più ampio che esalti la forma, è la forma che pone accento su ogni singolo
istante. Ricca tessitura timbrica; senza marcare la ?sionomia, ogni episodio sfuma nell’altro;
le componenti armoniche, melodiche, ritmiche, timbriche, assumono relazioni inedite, pur
mantenendosi l’equilibrio del poema e una lirica sognante. Pelléas et Mélisande, intimo
dramma per musica sul testo del simbolista Maeterlinck, che però decise di non adattarlo ma
mantenere l’originale obbligandosi a inventare un modello originale di declamato lirico per
rispettare la prosodia del testo  ne risulta un’intonazione quasi parlante, ricca di sfumature
espressive. La vicenda (nobile Golaud, marito di Mélisande, uccide per gelosia suo fratellastro Pelléas,
che ama riamato la donna) è immersa in un clima simbolista, atmosfera rarefatta. Usa il sistema
W. dei motivi conduttori ma dando il ruolo di raccordo psicologico e architettonico alla sola
orchestra, le voci non fanno i propri i temi (a di\. di W.); la ricchezza timbrica e il trattamento
delle linee vocali invece sembrano richiamare Musorgskij. Su una base armonica innovativa e
sospesa, l’orchestra deve unire le brevi scene anche se il testo rinuncia all’unità di tempo,
distribuendo l’azione in una regione indeterminata del sogno. Lo sviluppo delle situazioni
narrative e musicali è dato dalla giustapposizione di momenti emozionali isolati (non arie e
pezzi chiusi), i 5 atti dell’opera, sono vari episodi che colgono alcuni momenti della vicenda,
collegati da interludi  è una vicenda immobile, più che la trama, si assiste a creazione di
atmosfere, a personaggi inclini a parlare con sé stessi – “la partitura porta l’ascoltatore in un
ambiente liquido dal quale emergono le psicologie individuali per poi farle sommergerle”. La
tecnica: usa scale pentatoniche ed esatonali, modi antichi, dissonanze per evidenziare
l’atmosfera di struggimento e vaneggiamento. Realizza poi “La Mer”, schizzo sinfonico, col
tema centrale delle acque, nel quale priva l’armonia e la melodia delle tradizionali funzioni
dialettiche e costruttive. Fu composta quando era lontano dal mare, e questo sta a signi?care
che la partitura non ha scopo descrittivo ma è un’architettura sonora timbrica si realizza
grazie al potere dell’evocazione. Rapporto tra struttura formale e signi?cato percettivo
traccia una lunga campata unitaria all’interno della quale dispiega una sequenza di impasti
sonori e ritmici che impediscono uno sviluppo tematico unitario. “l’atmosfera serena è
continuamente turbata” dalla velocità che muta di continuo e altera il disegno del fraseggio 
Debussy vuole raPgurare non l’oggettività della natura, bensì la percezione intima che l’uomo
ha di fronte alla natura, le vibrazioni, le inquietudini che lo attraversano. Secondo Debussy,
l’incontro con l’altro avrebbe colto la vera essenza del reale, invece di fermarsi, come gli
accademismi, solo al dato apparente. Satie, tra ricerca e provocazione – Satie è un
compositore bizzarro e sarcastico; le sue intuizioni hanno valore profetico, come la “musica
d’arredamento”, priva di intenti estetici, destinata a migliorare i rapporti sociali. L’intenzione
dissacratoria del percorso intellettuale e artistico si evidenzia anche nei titoli delle
composizioni nonsense e provocatori - ma soprattutto nella sostanza della musica si trova la
sua originalità. La prima delle Gymnopédies, serie di 3 pezzi x pianoforte, pubblicati nel
1888: il titolo richiama le feste dell’antica Grecia con giovani danzatori; un ¾ costante, lento e
doloroso, assume le tipiche movenze di un valzer lento. Dal punto di vista formale, abbiamo
due parti da 39 battute ciascuna; la seconda parte è una ripetizione quasi completa della
prima dalla quale si distanzia solo per le ultime 7 battute. L’opera segue un principio di
“economia”: ridotta gamma di elementi non sottoposti ad alcuno sviluppo o elaborazione.
Ritmo costante, regolarità dell’articolazione fraseologica permeano la prima parte del pezzo
che sembrerebbe suggerire una musica fedele ai criteri della tradizione tonale ma tale
immagine è disattesa dall’esperienza d’ascolto che da una sensazione di ambiguità e
sospensione. La sezione iniziale della prima parte comincia con 2 accordi che si ripetono
alternandosi per 16 battute, la mancata risoluzione dei due accordi fa si che siano percepite
come due sonorità isolate, senza un rapporto di causa-e\etto; la lunga iterazione di questi

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accordi determina una sorta di sospensione del tempo musicale, l’ascoltatore si trova in un
continuum che pare senza meta ?nale. La seconda sezione della prima parte ha uno sfondo
armonico incerto, con una serie di pro?li melodici ampi e distesi, si crea un contrasto tra la
cantabilità delle melodie e l’ambiguità del sostegno che acuisce l’atmosfera enigmatica. Satie,
invece di farlo scorrere, mette in equilibrio precario il ousso musicale mettendo in crisi il
rapporto di attese e risoluzioni che c’era tra musica e ascoltatore. Lui sarà protagonista e
anche compositore della musica del ?lm manifesto del cinema dadaista, Entracte di Rene
Clair: fotogrammi di una pantomima a ralenti con due signori che saltellano e chiacchierano, i
due sono Picabia e Satie: “non c’è nulla se non il desiderio di scoppiare a ridere”. Scandalo
viennese: Schoenberg e i suoi allievi: Berg e Webern – A Vienna, le avanguardie,
espressionismo, non bastarono a spezzare la fede nei valori della tradizione che i musicisti
viennesi non deridevano, pur adottando una nuova lingua musicale. Schoenberg e i suoi allievi
volevano soluzioni drastiche che però mantenessero un segno di continuità col passato, ma le
loro elaborazioni creative ?nirono per dissolvere i principi della musica colta occidentale. La
musica di S. e allievi, pare investita da angoscia e perdita di orientamento, un sentimento
però, controllato, contenuto in precise pagine musicali che porterà ad un sistema alternativo
al tonale: la dodecafonia. Tali tecniche portarono ad un distacco col pubblico: per
diseducazione ad un nuovo alfabeto sonoro; disinteresse verso novità; essenza di un
linguaggio nato per negare la funzione di lingua musicale. Alcune delle sue opere, vennero
?schiate e derise. La sua formazione musicale fu atipica: impara vari strumenti da
autodidatta, dirige un coro di operai metallurgici orchestrando operette e scrivendo canzoni
sentimentali; nel 1904, pubblica un annuncio di ricerca di allievi in composizione, molti
risposero, tra cui Webern e Berg. Negli anni giovanili, si mostra immerso nella vita che lo
circonda anche se già emergono tratti di alterità: in Kammersymphonie op.9 prescinde da
una traccia letteraria e abbandona la grande orchestra; conduce la ricerca su brevi cellule
melodiche e frammenta la tonalità usando un piccolo ensemble di 15 strumenti dalle sonorità
aspre, ruvide. Nel 1909, entra in un periodo di creatività frenetica, scrivendo opere che
risentono dal punto di vista emozionale, dell’Espressionismo e da quello formale sono
accomunate dalla costruzione fuori dalla tonalità per rispondere al tentativo di esprimere
nuove pulsioni individuali – l’energia sonora si può manifestare solo attraverso una forma non
data, autonoma. Erwartung, monologo di una donna che incespica in una foresta in cerca
dell’amante perduto si presenta come paradigma dell’espressionismo musicale: per le velate
trame del libretto, l’apparente caos dello sviluppo musicale, la diPcoltà di inserire l’opera in
un preciso genere, ampi intervalli melodici danno alla linea vocale l’apparenza di un gra?co
della febbre. Se il tema del desiderio femminile che trova sbocco solo nella follia/morte è già
stato visto, la sintesi che fa di testo, musica e scena è totalmente nuova. Sospensione delle
coordinate spazio-temporali, paesaggio simbolico, profondo scavo nella psicologia del
personaggio, opposizione tra io isolato e resto del mondo (sarà di spunto a nuove forme di
teatro di Piscator/Brecht). La vicenda procede d’immagine in immagine, per paure,
allucinazioni. Il libretto si articola in 4 scene, con durata e peso diversi: le prime 3 nei pressi
di una ?tta foresta e l’ultima in una strada nei pressi di una casa terminando con l’alba. La
donna attende l’amato e si pone domande che fanno emergere: amore, gelosia, rabbia,
rassegnazione e disperazione davanti alla scoperta del cadavere dell’uomo. L’unica cosa
chiara, è il tentativo di un inconscio di scrutare sé stesso e dominare il destino. La musica
cerca di trascrivere il processo della donna che cammina nella sua stessa psiche, ma non è un
processo descrittivo: le sonorità delicate sono per l’ambiente, le linee melodiche vocali
portano a galla l’inconscio con diversi modi d’emissione (declamato lirico/parlato arioso). Il
senso dell’opera non segue una linea ma è dato dalla strati?cazione di diversi elementi
sovrapposti. La musica non ha elementi predominanti e altri di riempimento ma è in continua
reinvenzione e variazione per evocare lo stato mentale e mischiare reale e immaginario,
mondo e io, spingendo l’ascoltatore a chiedersi quando gli eventi sono narrazione e quando
fantasia. Succede a quest’opera, il Pierrot lunaire, con forme libere e altre tradizionali; qui
la novità sta nel personaggio ironico, tragicomico, che si fa portatore di malessere e
disincanto. Uso della voce femminile per esplorare zone nuove; il canto cerca di aderire alla
parte strumentale: dopo aver intonato la nota deve svincolare sul parlato sfumando,
riapparendo (Sprechgesang). Lui si attribuisce un ruolo quasi politico parla di emancipazione

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della dissonanza, liberazione dei suoni, introduce l’atonalità e nuovi accordi, stava
proponendo nuovo valore al posto del precedente e non aggiungendo un nuovo al vecchio.
Arriva ad elaborare la Dodecafonia: nuovo sistema di composizione, 12 suoni della scala
cromatica temperata sono in relazione l’uno con l’altro senza che i loro rapporti siano riferibili
ad una nota fondamentale. La successione ordinata di note prende il nome di “serie”: le serie
vanno a costituire l’ossatura melodica del brano, l’armonia risulta nella sovrapposizione
verticale di diverse forme della serie. Il suo percorso, dapprima individuale, divenne
movimento quando gli allievi decisero di prendere la sua strada ampliandola. Musorgskij -
Sacre du Printemps, di Stravinskij – gli elementi dello scandalo c’erano tutti e infatti fu
polemica, ma si accorsero presto che il linguaggio non era del tutto insolito data la presenza
di canti popolari, accordi ordinari sovrapposti a dissonanze, ritmi e sincopi trascinanti,
dunque fu un successo. Stravinskij nasce vicino S. Pietroburgo e dopo aver studiato
giurisprudenza divenne pupillo di Korsakov, parte del Gruppo dei Cinque (creatori della scuola
nazionale russa), gruppo che ispirò Prokof’ev, e Stravinskij. La nuova scuola mette l’accento
sui caratteri originari della musica russa, canti e danze popolari, cercavano di rinvigorire il
paese, si schierarono contro le invadenze delle concezioni cosmopolite della vita musicale
russa, ma non furono presi in considerazione dalla società mondana di S. Pietroburgo e
nemmeno dai colleghi più famosi russi dell’epoca. DiPcoltà ci furono con Musorgskij per il
carattere implacabile e anche con Cajkovskij per il suo ideale di bello assoluto. Cajkovksij,
riteneva M. senza competenze tecniche e ?ero della sua ignoranza, seppur qualcosa talvolta
usciva dalle sue idee, non era certo una lingua bella, ma insolita. Del gruppo invece dirà che si
distinguono per una spaventosa presunzione, grandi talenti dai quali non emergerà mai nulla
di serio. Musorgskij. criticava Caj. per le eccessive lusinghe al pubblico; lo accusava di usare
l’arte per ?ni personali. Il motto di Mus. era “con baldo ardimento, avanti, verso nuove rive”;
cercò di riformare l’opera proclamando che la musica drammatica deve trovarsi in pieno
accordo col libretto; preferenza per soggetti tratti dai drammi di grandi poeti nazionali;
impiego di cori, pezzi d’assieme per rappresentare il popolo e intervenire attivamente
nell’azione. Il carattere di ogni personaggio doveva distinguersi in virtù di un pro?lo musicale
appropriato: la voce doveva avere risalto a di\erenza dell’orchestra che era un sussidio.
L’unica sua opera completa fu Boris Godunov, tratta dall’omonima tragedia di Puskin,
racconta uno dei periodi più bui della storia russa. L’opera era stata bocciata per l’importanza
del personaggio femminile e la poca melodia; poi su pressione dei compagni ritornò sul lavoro
inserendo “l’atto polacco” – basato sulle ?gure dell’Impostore e della consorte, rielabora
alcune scene, tra cui il ?nale che se prima ?niva con la morte del protagonista, ora ?nisce con
una rivolta popolare col canto struggente dell’Innocente. L’opera fu nuovamente respinta, ma
venne rappresentata nel 1874 divenendo stabile nel repertorio bolscevico. Tuttavia,
l’attenzione per le masse, la distanza dai gusti elitari, un gusto sonoro anticonvenzionale,
erano ancora irrealizzabili in una terra governata dallo zar Alessandro II. Le sacre
du Printemps: Parigi, 29 maggio 1913 - tra le opere di Stravinskij di successo più
duraturo e inouente, l’idea nasce nel 1910 mentre lavorava al balletto l’Uccello di Fuoco:
l’immagine di un rito in cui si da in sacri?cio una giovane ragazza alla divinità sperando che
ciò permetta il ritorno della primavera. Novità nella partitura la ritmica straordinariamente
ricca, forte e complessa con una perfetta fusione di mitologia e folklore, simmetria e
asimmetria, pulsione vitale e istinto di morta, dinamicità e staticità. Divisa in 2 grandi quadri:
l’Adorazione alla terra e il Sacri8cio. Il I quadro grande gioia regna sulla terra, gli uomini si
abbandonano alla danza secondo il rituale per interrogare l’avvenire e prendere parte alla
glori?cazione della Primavera; II quadro  si acclama colei designata ad essere sacri?cata
agli Dèi, gli avi testimoni e i saggi completano il sacri?cio. Vediamo la musica: L’adorazione
della terra si apre con un assolo di un fagotto, basato su una melodia popolare lituana (il
materiale popolare viene deformato con variazioni di metro, accenti, intervalli – vuole creare
una musica astratta per stabilire un nuovo ordine tra uomo e tempo; tra tempo ancestrale e
tempo presente, tempo rituale e musicale). L’atmosfera è sin dal principio, arcaica e statica, il
balletto infatti non è la rappresentazione di una storia, ma il rito stesso. Caratteri dell’opera
che emergono dall’intro: motivi composti da frasi brevi, elementari ma capaci di mutare; ritmo
ostinato; dissonanze che coesistono con centri tonali; crescente tensione in alternanza a zone
di quiete. Il tratto peculiare della Sagra è la presenza di brevi motivi coincisi, di ?gure

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mostrate e non sviluppate. La religiosità non sta nel soggetto, ma sopra di esso: è l’angoscia,
terrore che la musica esprime nei ritmi ostinati, nelle pulsazioni implacabili, espressione del
corpo ma non dell’interiorità. Il ritmo, sostituisce le funzioni motivico-armoniche, e diventa
l’elemento centrale: ricorre ai contrasti per dare continuità al discorso musicale (alla ?ne
della I parte al Corteo del saggio che culmina con un’atmosfera magica e rarefatta, si
contrappone la Danza della terra, momento di estrema forza, caos primordiale). SacriHcio
si apre con un’intro caratterizzata da archi e legni, tra cui si insinua un tema “lirico” cui
segue una struggente ed ipnotica sezione per poi cambiare bruscamente alla sezione
Glori8cazione dell’eletta con una brusca accelerazione con violenti colpi di tamburo; più
avanti nella Danza dell’eletta, il furore ritmico non lascerà dubbi sul carattere “barbarico” del
sacri?cio. Le sacre, sconvolse il pubblico che non riuscì a comprendere né i suoni né la
coreogra?a – in contrasto con l’accademia, en dedans, corpi curvi, il corpo obbediva alle leggi
del movimento. Dunque, mentre Schonberg era alla ricerca ricercava nell’inconscio,
Stravinskij cercava la memoria dell’umanità per liberarne tratti ?ssi e archetipici; entrambi
furono poli d’attrazione della modernità musicale, ma Schoenberg traccia la strada
dell’emancipazione, della complicazione, addensamento di forme melodiche e armoniche che
sfocia in atonalità e dodecafonia; Stravinskij favorisce un riorno a strutture modali guidate
dall’autonomo sviluppo di ritmo e timbro.

Béla Bartok, Maurice Ravel: realtà, modernità, folklore – anche Bartok, Ravel e altri, si
rivolsero a canti popolari e folklorici per rinnovare la composizione; tale tendenza può essere
un tentativo di una nuova generazione nata in paese non ancora industrializzati, di
reinventare la modernità sulle tradizioni popolari e liberarsi dal dominio tedesco. Inouì anche
l’a\ermazione dell’esotismo Estremo oriente e Africa. La pubblicazione delle prime raccolte di
canzoni folkloriche, scoperta di altre civiltà, le possibilità o\erte dal supporto di registrazione
audio e il naturalismo, favorirono la spinta “realista”. Bartok, si trasferisce a Budapest a 18
anni per studiare all’Accademia Reale della Musica, si comincia a dedicare allo studio e
registrazione della musica popolare ungherese; usa il materiale popolare e lo sottopone ad un
processo di trasformazione, si sottrae al potere del nazionalismo etnico, trovando verità
musicali in diversi luoghi; Ungheria/Slovacchia/Romania/Bulgaria ecc. Le 14 Bagatelle op.6,
1908, sono la prima tappa importante nella de?nizione del suo percorso compositivo; le
Bagatelle, allargano le possibilità di organizzazione sonora oltre le categorie del sistema
tonale, compiendo ricerche sulla tradizione popolare ungherese e limitrofa ma anche dalla
coeva musica francese. La politonalità e la polimodalità che Bartok adotta, e attraverso cui
giustappone due aree tonali senza che l’una prevalga sull’altra è un elemento di modernità.
Durante un viaggio in Arica riesce a raccogliere delle registrazioni su cilindro che furono la
base per nuove idee compositive, ancora oggi importanti per la musicologia. Ravel – caso
particolare tra i realisti, attinge a materiale folklorico di diversa provenienza: Spagnola, basa,
corsa, greca. Aveva sensibilità per i piccoli dettagli del fraseggio, sebbene considerato un
compositore francese, fu espressione di un’arte meticcia. In una serie di lavori per pianoforte
del primo 900, comincia a rivoluzionare il linguaggio musicale: Jeux d’eau, ?n dall’incipit,
enuncia una nuova idea di consonanza: accordo consonante ingloba due suoni da sempre visti
come dissonanti; melodia e accompagnamento diventano due linee ouide; l’ornamento e non il
soggetto è al centro della ricerca, per la capacità evocativa. Con la I guerra, si trova ad essere
autista di autocarri dietro la linea del fronte francese nella battaglia di Verdun; la terribile
esperienza si riscopre nel ciclo per pianoforte, Le tombeau de Couperin, che Ravel scrive
durante il periodo bellico inserendo, come omaggio agli amici morti, movimenti tipici del
barocco francese (fuga, minuetto, preludio). In quegli stessi anni, l’infanzia di Stravinskij
venne cancellata dalla deposizione dello zar, la rivoluzione del 1917, inouendo sulla sua
attività compositiva. Esule in Svizzera, con lo scrittore Ramuz, scrisse uno spettacolo per il
teatro delle marionette, ma pochi mesi prima dell’esecuzione, i tedeschi bombardarono Parigi;
il lunedì dopo muore Debussy. La città che a inizio 900 si contendeva con Vienna il ruolo di
capitale della musica europea avrebbe vissuto negli anni Venti un periodo di particolare
fermento  i balletti russi scandalizzarono la città mettendo in scena Parade Diagilev, aveva
coinvolto Satie, Cocteau, Picasso, Apollinaire, in una storia che riguardava il presente – come
può una forma artistica vecchia come musica o balletto classico, attirare pubblico nell’era del
cinematografo e del grammofono? Così la trama è incentrata sulle nuove preferenze del

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pubblico verso le manifestazioni di bassa cultura. Cocteau dirà di volere una musica di tutti i
giorni, una musica costruita per poterci abitare come una casa.

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