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Giorgio Adamo

Elementi di acustica e
classificazione degli strumenti musicali

Introduzione

Gli strumenti musicali rappresentano un tipo di oggetti assai particolari, a più


dimensioni, ciascuna delle quali può rivestire un alto valore di testimonianza culturale. In
primo luogo, essi costituiscono un apparato tecnico per la produzione del suono, in un certo
senso una ‘macchina’ per mezzo della quale una determinata fonte di energia (in genere
meccanica) viene trasformata in energia acustica. In quanto tale, uno strumento musicale
costituisce una testimonianza del sapere tecnologico di una data cultura in una data epoca.
In secondo luogo, uno strumento musicale, sulla base delle proprie caratteristiche
strutturali, è in grado di produrre determinati suoni e non altri, e quindi ci informa
indirettamente sul tipo di suoni che nell’ambiente culturale in cui esso è nato si intendevano
produrre. Da questo punto di vista, uno strumento è il risultato del sapere musicale di una data
cultura in una data epoca, cioè della teoria, esplicita o implicita che fosse, in base alla quale
determinati suoni (in base a caratteristiche timbriche, di altezza, di intensità) venivano
selezionati, nel campo infinito dei suoni possibili, per produrre musica.
In terzo luogo, uno strumento musicale può contenere elementi, nella propria forma,
nella decorazione, etc., che non sono puramente riconducibili a un’asettica funzionalità
acustico-musicale, ma che rinviano a funzionalità, concezioni e significati estetico-culturali
più ampi e comunque extra-musicali. Quesx 2v 3to aspetto è assai importante, non solo
perché può dare allo strumento un valore autonomo come manufatto di per sé significativo, ad
esempio dal punto di vista della storia dell’arte (come nel caso delle raffigurazioni dipinte su
di una spinetta o delle decorazioni di un’arpa dell’età barocca), ma soprattutto, ed è quel che
più interessa dal punto di vista musicologico, ci informa sul rapporto tra la musica e il proprio
contesto culturale: lo stile e il contenuto iconografico delle raffigurazioni su di una spinetta,
per insistere ancora su questo esempio, possono darci utili indicazioni sull’ambiente e sulle
condizioni d’uso dello strumento, così come in altri casi la presenza di simboli e immagini
può informare su eventuali funzioni magico-religiose legate allo strumento e/o alla musica cui
era destinato, e via dicendo.
Infine, un quarto aspetto è rappresentato dalle indicazioni sull’ambito socio-culturale
di appartenenza dello strumento che i materiali stessi e la fattura possono fornirci: la pelle di
capra di una zampogna ci indica un ambito pastorale, l’uso del legno lavorato al tornio ci
mostra un livello di specializzazione artigiana della tecnica costruttiva, parti metalliche
possono rivelare l’utilizzo di tecniche industriali, etc.
L’esistenza di questi aspetti deve essere ben chiara a tutti coloro che si trovino ad
avere responsabilità nella tutela, conservazione e restauro di strumenti musicali. Soprattutto
dal punto di vista del restauro, è bene aver chiare le possibili implicazioni di un restauro
mirato a ripristinare la funzionalità di uno strumento musicale, in pratica a metterlo in
condizioni di essere suonato, e viceversa di un restauro volto al mantenimento delle
caratteristiche originarie di costruzione, dei materiali, etc., che anche in assenza di una
funzionalità effettiva possono rivestire, come abbiamo visto più sopra, un importante valore di
testimonianza storico-culturale, anche ai fini di una fruizione di tipo museale.
In questa sede si intende affrontare in particolare il primo tra gli aspetti più sopra
esaminati, fornendo una serie di informazioni di carattere introduttivo sul funzionamento e
sulle proprietà acustiche degli strumenti musicali.

Il mondo dei suoni

‘Suono’ è la reazione del nostro complesso sistema fisiologico e neurologico, dalla


membrana del timpano alla corteccia cerebrale, a una particolare condizione dell’ambiente
circostante. Considerato che il nostro ambiente è costituito dall’aria, questa particolare
condizione può essere definita come una perturbazione nella pressione dell’aria, vale a dire
una successione di stati di compressione e rarefazione delle molecole che costituiscono il
corpo gassoso in cui siamo immersi. Ciò significa che perché vi sia suono, da qualche parte
deve essersi messo in moto un meccanismo oscillatorio in grado di generare tali variazioni in
un determinato punto, da cui si sono propagate nell’ambiente circostante. Da un punto di vista
acustico, si può distinguere, nel generale fenomeno del suono (inglese: ‘sound’, tedesco:
‘Schall’), tra ‘suono’ (inglese: ‘tone’, tedesco: ‘Klang’), caratterizzato da variazione di
pressione periodica - vale a dire che si ripete uguale ad un certo intervallo di tempo -, e
‘rumore’, per il quale non è identificabile tale regolarità (un caso limite è rappresentato dallo
scoppio, nel quale si propaga un’unica violenta variazione di pressione). Occorre fare
attenzione a non confondere, come spesso si è fatto, questa distinzione, basata su
caratteristiche fisico-acustiche, con quella tra suoni musicali e suoni non musicali, che cambia
da cultura a cultura, da epoca a epoca. Ciò non solo perché in molti casi troviamo anche
rumori all’interno di quell’organizzazione dei suoni (qui intesi in senso generale) che
chiamiamo musica, ma anche perché, come vedremo più avanti, sono proprio le componenti
non periodiche (cioè di ‘rumore’), presenti nella generazione dei suoni periodici, che
attribuiscono a questi ultimi alcune caratteristiche assai rilevanti dal punto di vista musicale.
Un primo aspetto significativo di un suono periodico è la frequenza dell’oscillazione.
Considerata un’oscillazione come l’intero movimento compiuto da una determinata particella
(ad esempio una molecola dell’aria) per ritornare nella condizione di partenza da cui iniziare
una nuova oscillazione (si pensi anche al pendolo), tale oscillazione avrà una certa durata, o
periodo: la frequenza è data dal numero di periodi nell’unità di tempo. Un’oscillazione con
periodo di 1/100 di secondo, avrà una frequenza pari a 100 Hz (Hertz), essendo definita
l’unità di misura Hz come una oscillazione al secondo. L’orecchio umano è in grado di
percepire come suono oscillazioni con frequenza in un ambito da 20 a 20.000 Hz circa (in
realtà l’ambito è in genere più ristretto e soprattutto il limite superiore tende ad abbassarsi con
l’età fino anche a meno di 15.000 Hz). La frequenza di un suono è la principale responsabile
della percezione di altezza, quella caratteristica che ci fa distinguere i suoni in più acuti e più
gravi. E’ bene al riguardo sottolineare come la frequenza sia una caratteristica fisica,
misurabile strumentalmente, mentre l’altezza è una caratteristica psicoacustica, che si
determina nella percezione ed è rilevabile solo attraverso le reazioni dei soggetti percipienti.
Altra caratteristica di un suono è la sua intensità, che possiamo considerare come la
quantità di energia propagata in una data area (e misurabile in watt per metro quadro) o anche
come il valore della pressione (esercitata dall’onda sonora) rilevabile su una superficie (ad
esempio la membrana di un microfono) e misurata in pascal (1 Pa = 1 Newton/m2). Perché un
suono sia udibile deve avere una pressione di almeno 0,00002 Pa. Anche in questo caso,
all’intensità come grandezza fisica corrisponde un’intensità percepita, soggettiva. Per una
serie di motivi, e tenendo anche presente il nostro modo di percepire i rapporti di intensità, si
preferisce in genere usare una misura relativa e logaritmica per indicare il livello di pressione
sonora, e cioè il decibel (dB). In questo modo si può dire che un suono è un certo numero di
dB sopra o sotto il livello di pressione di un altro. Se definiamo con 0 dB il livello di
pressione misurata in 0,00002 Pa, avremo una gamma di valori, assai utile anche nel
linguaggio quotidiano (o ad esempio anche nella legislazione sull’inquinamento acustico), che
va dalla soglia minima di percezione fino alla soglia del dolore, collocabile intorno a 120 dB:
diviene così più comprensibile parlare di un livello sonoro di una normale conversazione
corrispondente a 65 dB, di un rumore di traffico di oltre 80 dB, o dei pericoli di una discoteca
in cui si possono superare i 100 dB. Analogamente, nelle registrazioni audio si esprime in dB
il rapporto segnale/rumore (S/N = signal/noise), vale a dire, ponendo a 0 dB il livello del
‘rumore’ di fondo (ad esempio il fruscio di un nastro) si afferma che un determinato sistema
di registrazione può offrire la possibilità di una gamma di segnali utili (dal ‘pianissimo’ al
‘fortissimo’) entro un certo numero di dB.
L’intensità di un suono, come grandezza fisica, dipende in primo luogo dalla
elongazione, vale a dire dall’ampiezza dell’allontanamento di una particella del corpo
vibrante originario (o, di conseguenza, dell’aria circostante) dalla sua posizione di riposo.
Intuitivamente, quanto più si allontana un punto di una corda tesa, agendo con un polpastrello
o con un plettro, dalla sua posizione di riposo, prima di lasciar vibrare liberamente la corda
stessa, tanto più ampia sarà l’oscillazione e di conseguenza tanto maggiore sarà l’intensità del
suono prodotto.
E’ da sottolineare, al riguardo, come, nel determinare l’intensità del suono che
raggiunge una ricevente (ad esempio l’orecchio di un ascoltatore), concorrano due fattori
fondamentali indipendenti dalle caratteristiche del suono alla sorgente: la distanza dalla
sorgente (in quanto l’intensità diminuisce proporzionalmente al quadrato della distanza) e le
caratteristiche dell’ambiente acustico (in quanto all’energia trasferita dall’onda diretta che
dalla sorgente raggiunge la ricevente, va sommata l’energia delle eventuali onde riflesse da
superfici incontrate dall’onda diretta nel suo espandersi in modo sferico verso tutte le
direzioni: ad esempio le pareti di un ambiente chiuso). Questi fattori sono molto importanti
dal punto di vista musicale, in quanto influiscono decisamente nel definirsi delle condizioni
d’uso degli strumenti musicali e nel rapporto musica/pubblico (strumenti destinati al chiuso o
all’aperto, definizione degli spazi teatrali, etc.).

Un’altra caratteristica, assai significativa dal punto di vista musicale, è rappresentata


dal cosiddetto timbro o qualità del suono, un aspetto decisamente soggettivo che si delinea
nella percezione a seguito di una operazione di sintesi qualitativa di fenomeni diversi operata
al livello cerebrale. E’ questo l’aspetto, assai difficile da descrivere, che ci fa distinguere uno
strumento da un altro, una voce da un’altra, tanto che la migliore definizione scientifica che se
ne è riusciti a dare è proprio "ciò che distingue due suoni aventi pari frequenza e intensità".
Tra i fenomeni fisici che sono alla base della percezione del timbro, grande importanza
assume il cosiddetto spettro delle frequenze che compongono il suono. Finora, parlando di
frequenza e intensità, potevamo riferirci a un ipotetico suono ‘puro’, cioè caratterizzato da
un’unica frequenza di vibrazione. E’ questo il suono caratterizzato da un semplice movimento
pendolare dell’oscillazione, e che può essere rappresentato graficamente, al pari del
movimento di un pendolo, attraverso una curva sinusoidale (definita matematicamente come
funzione del seno dell’angolo in un movimento circolare): empiricamente, è la curva che si
otterrebbe facendo scendere della sabbia dalla estremità di un pendolo su di un piano
sottostante fatto scorrere con moto costante.
In realtà, i suoni prodotti dagli strumenti musicali sono sempre suoni complessi, vale a
dire contengono al loro interno una serie di componenti, ciascuna delle quali può essere un
suono semplice, sinusoidale. Queste componenti sono dette i parziali (o frequenze parziali),
ovvero armonici (quando siano in rapporto armonico) del suono stesso. La prima frequenza
parziale è detta anche frequenza fondamentale. Le frequenze parziali sono dette armonici nel
caso - prevalente - in cui siano in rapporto multiplo rispetto alla fondamentale (quando, ad
esempio, su una fondamentale di 100 Hz si ha una serie di armonici a 200, 300, 400, 500.....
Hz). In questo caso si parla anche di spettro armonico, per indicare la configurazione degli
armonici presenti in un suono, ciascuno con una propria specifica intensità.
Ciò significa che in presenza di un suono complesso, una determinata particella
dell’aria sarà sottoposta a un’oscillazione che è la somma di una serie di oscillazioni semplici.
Per capire, intuitivamente, come oscillazioni semplici possano confluire in un’unica
oscillazione complessa, si può immaginare di muovere ritmicamente una mano, in su e in giù,
mettiamo alla frequenza di due oscillazioni al secondo, e contemporaneamente piegare le
ginocchia e rialzarsi al ritmo di un’oscillazione al secondo: il movimento della mano sarà la
somma delle due oscillazioni. Qualcuno particolarmente abile potrebbe provare a tracciare
una linea sul muro compiendo questi movimenti: il risultato sarebbe una curva complessa che
esprime esattamente, come la curva sinusoidale, l’andamento dell’oscillazione nel tempo.
Pensando a una situazione un po’ meno inconsueta, e cioè al movimento oscillatorio di una
corda tesa tra due punti, potremmo avere le seguenti oscillazioni semplici: l’oscillazione di
tutta la corda, con un ventre (punto di massima elongazione) a metà della corda stessa e i nodi
(punti non in oscillazione) agli estremi, con frequenza x; l’oscillazione di ciascuna delle due
metà della corda, con un ventre alla metà della metà, con frequenza 2x; l’oscillazione di
ciascuna terza parte della corda, con frequenza 3x; e via dicendo, in un processo teoricamente
infinito, in pratica limitato, ai fini della percezione acustico-musicale, sia dal limite superiore
delle frequenze udibili (più sopra esaminato), sia soprattutto dal fatto che mano a mano, nella
progressione degli armonici, diminuisce l’ampiezza dell’oscillazione, fino a rendere il suono
corrispondente percettivamente irrilevante. Un esperimento assai semplice per ‘isolare’ un
suono armonico, è quello di far vibrare una corda di una chitarra, quindi poggiare leggermente
il polpastrello esattamente alla metà della corda, creando un nodo laddove dovrebbe esserci
un ventre ed eliminando quindi la frequenza fondamentale dell’oscillazione: il suono che si
percepirà, di frequenza doppia e di altezza un’ottava più alta, non è altro che il secondo
armonico, o secondo parziale, del suono di partenza. A un terzo della corda, si otterrà il terzo
armonico, di frequenza tripla e di altezza una dodicesima (cioè un’ottava più una quinta)
sopra.

Per tornare dunque al timbro, ciò che concorre a determinare questa particolare
percezione è il diverso grado di presenza degli armonici all’interno di un suono complesso. Se
noi andassimo cioè a fare un’analisi spettrografica di due suoni di uguale frequenza ed uguale
intensità, ma percepiti come diversi, troveremmo molto probabilmente che le componenti
superiori sono presenti (o assenti) in diversa misura. Per capire quanto sia importante questo
aspetto del suono, non solo a fini musicali, possiamo fare riferimento alla voce umana
(anch’esso, d’altra parte, strumento musicale a tutti gli effetti). I diversi suoni vocali, così
fondamentali per la struttura fonetica del linguaggio e quindi per la comunicazione, non sono
altro che suoni complessi caratterizzati da una particolare configurazione dello spettro
armonico: ogni vocale è caratterizzata dal fatto di avere alcune zone caratteristiche, chiamate
formanti, in cui le frequenze parziali risultano particolarmente ricche di energia. Questo
effetto è ottenuto modificando, attraverso l’articolazione (labbra, lingua, mandibola), le
proprietà di filtro del tratto vocale (il tratto che va dalla glottide, ove si produce il suono per
mezzo delle cosiddette corde vocali, all’apertura labiale). I suoni vocali sono infatti simili alla
sorgente, contenendo tutti una serie armonica di frequenze parziali caratterizzate da ampiezza
decrescente. Quando questo suono complesso passa attraverso il tratto vocale, a seconda
dell’articolazione e quindi delle modificate proprietà di risonanza del tratto vocale, alcune
frequenze parziali vengono esaltate, altre inibite. In altre parole, ciò che distingue una /a/ da
una /i/ o da una /o/, è il timbro, dovuto alla diversa configurazione dello spettro armonico.
Un altro fattore che caratterizza i suoni sono le caratteristiche di attacco, cioè di avvio
(onset) del moto vibratorio, e di chiusura, cioè di decadimento (decay), o smorzamento,
dell’oscillazione. Soprattutto l’attacco del suono riveste un’importanza decisiva nella
percezione. Dal punto di vista acustico, il modo in cui viene indotta la vibrazione è molto
importante non solo, come vedremo, per alcune conseguenze sulla configurazione dello
spettro nella successiva fase cosiddetta quasi-stazionaria, ma anche perché cambiano quelle
componenti di durata assai breve, chiamate transitori - in sostanza delle componenti di rumore
- che sono decisive ai fini del riconoscimento del suono di uno strumento. E’ stato infatti
possibile effettuare degli esperimenti basati sulla eliminazione di queste brevi porzioni
(frazioni di secondo) all’inizio dei suoni: avendo a disposizione una registrazione su nastro
magnetico di un determinato suono, basta tagliare un certo numero di centimetri del nastro
stesso rendendo così possibile l’ascolto della sola parte quasi-stazionaria. In queste condizioni
si hanno molte difficoltà a riconoscere gli strumenti. Questo ci fa capire come, al di là della
struttura di un dato strumento, il modo in cui il corpo vibrante viene eccitato rivesta una
grande importanza: una corda pizzicata, percossa o strofinata con un archetto, produce suoni
radicalmente diversi.

Prima di passare ad affrontare le varie tipologie di strumenti musicali, è necessario


dire qualcosa sul fenomeno della risonanza. Più sopra abbiamo accennato alle proprietà di
risonanza del tratto vocale, in base alle quali si opera una modificazione nello spettro del
suono proveniente dalla glottide. Ciò è legato al fatto che ogni corpo elastico, compreso l’aria
contenuta in una cavità, ha una propria frequenza di oscillazione naturale. Se in un dato
ambiente è presente un suono di una determinata frequenza, tutti i corpi presenti
nell’ambiente che possiedono quella determinata frequenza (o un suo multiplo) come propria
frequenza naturale di oscillazione, entreranno, come si suol dire, ‘in risonanza’. Nel tratto
vocale, se consideriamo le frequenze che compongono il suono alla sorgente, quelle che
coincidono o si avvicinano alle frequenze di risonanza dell’aria contenuta appunto nel tratto
vocale (in una data situazione articolatoria), saranno rinforzate, mentre le altre potranno, per
lo stesso principio, essere quasi cancellate. Basti pensare all’altalena: una piccola spintina, se
è ‘in fase’ con il movimento pendolare, ne aumenta progressivamente l’ampiezza, se è in
controfase, provoca l’effetto opposto. Per lo stesso motivo, si evita di far marciare a tempo un
battaglione di soldati nell’attraversamento di un ponte: se il passo entra in fase con la
frequenza di oscillazione naturale del ponte, ne può aumentare l’ampiezza fino a metterne a
rischio la stabilità. Questo meccanismo di ‘rinforzo’ delle oscillazioni, e quindi di rinforzo del
suono (nel caso di oscillazioni di frequenza udibile), è alla base della presenza di risonatori in
molti strumenti musicali.
Anche la frequenza di oscillazione di una corda tesa, o di una colonna d’aria
all’interno di uno strumento a fiato, non è altro che la sua propria frequenza di risonanza (non
a caso vi sono strumenti che prevedono corde ‘di risonanza’, che non vengono mai eccitate
direttamente).
Classificazione degli strumenti musicali

Forme di raggruppamento degli strumenti in classi sono largamente in uso anche nel
linguaggio comune. Si parla di archi, di percussioni, di fiati, di ottoni, di legni etc. In realtà
queste classi non appartengono a classificazioni sistematiche, non utilizzano cioè il medesimo
principio di raggruppamento: a volte è il materiale di cui son fatti gli strumenti, a volte il
mezzo, o l’azione, con cui vengono messi in vibrazione, etc. A tutt’oggi, la classificazione
più coerente e rigorosa rimane la classificazione sistematica degli strumenti musicali proposta
da Curt Sachs ed Erich Moritz von Hornbostel nel 1914. Essi adottarono come principio
universale le caratteristiche dell’elemento vibrante che produce il suono, dando vita a quattro
classi principali: cordofoni, aerofoni, membranofoni e idiofoni, a seconda, appunto, che il
corpo vibrante sia una corda, l’aria, una membrana, ovvero, nel caso degli idiofoni, il corpo
stesso dello strumento (o una sua parte).

Nell’ambito dei cordofoni si distingue tra cordofoni semplici, o cetre, in cui lo


strumento consta di un semplice supporto delle corde, e l’eventuale presenza di risonatori si
può considerare accessoria rispetto alla struttura dello strumento, e cordofoni composti, in cui
la cassa di risonanza è unita in una struttura organica con il supporto delle corde.
Tra i cordofoni semplici, a seconda della forma del supporto delle corde, si
distinguono cetre a bastone (nel caso di bastone ricurvo abbiamo il cosiddetto ‘arco musicale’,
strumento assai diffuso e molto importante soprattutto in diverse culture musicali africane),
cetre tubolari (con le corde tese sulla superficie esterna; in questo caso il supporto, fornito di
cavità interna, è in grado di fungere anche da risonatore), cetre a zattera (più canne o bastoni
affiancati), cetre a conca, cetre a cornice, cetre a tavola. Un caso particolare di cetra a tavola è
quello in cui le corde sono tese su una tavola che costituisce in pratica il lato superiore di una
cassa di risonanza: appartengono a questa specie sia le varie cetre da tavolo, come il dulcimer,
il cimbalom ungherese, il santur, etc., sia i cordofoni a tastiera come il pianoforte o il
clavicembalo (che nonostante l’estrema complessità della struttura generale, soprattutto per
quanto riguarda il meccanismo di eccitazione della corda, appartengono a buon ragione ai
cordofoni ‘semplici’, dal punto di vista del rapporto risonatore-supporto delle corde).
Tra i cordofoni composti distinguiamo tre famiglie fondamentali: lire, arpe e liuti. La
lira, facilmente riconoscibile dal caratteristico giogo, presenta appunto una traversa sorretta da
due bracci, e le corde che corrono su un piano parallelo alla tavola armonica. Nelle arpe, il
supporto è disposto obliquamente rispetto alla tavola armonica (formando con essa un angolo
o un arco), e le corde corrono su un piano perpendicolare alla tavola armonica. I liuti sono
invece caratterizzati da un manico infisso o incastrato nella cassa di risonanza, con le corde
ancora una volta parallele alla tavola armonica. A questa famiglia, oltre al liuto propriamente
detto, appartengono la chitarra, il violino, e tutti i loro analoghi nelle varie culture.
Dal punto di vista acustico, ognuno di questi strumenti è in realtà costituito di un
insieme di elementi che influiscono sul suono prodotto, a cominciare ovviamente dai materiali
e dalle forme. Possiamo limitarci a sottolinearne qualcuno. Come già accennato più sopra, le
modalità di eccitazione della corda costituiscono un fattore estremamente importante,
influendo ad esempio sui transitori d’attacco e sulla configurazione dello spettro armonico: un
altro caso di conseguenze assai significative dovute a differenze in tale modalità di
eccitazione è presentato dal confronto tra clavicembalo e pianoforte. In tutti e due i casi si
tratta di sistemi estremamente raffinati. Nel clavicembalo, al premere del tasto si mette in
moto un salterello al quale è collegato un plettro, che salendo pizzica la corda, scavalcandola;
al rilascio del tasto, il salterello si riabbassa, il plettro, grazie a una rotazione del suo supporto,
riscavalca la corda a ritroso senza pizzicarla di nuovo, e uno smorzatore fissato al salterello
agisce sulla corda facendone cessare le vibrazioni. Come si può facilmente comprendere, a
questo meccanismo è legato un aspetto fondamentale del suono del clavicembalo, ossia
l’indipendenza della elongazione, e quindi dell’intensità del suono prodotto, dall’azione che si
esercita sul tasto: non vi può essere un piano e un forte. Ciò che invece sarà appunto possibile
nello strumento che tale caratteristica porta impressa nel nome, in cui la corda viene percossa
da un martelletto con un’intensità proporzionale all’azione esercitata sul tasto.
Un altro aspetto assai rilevante dal punto di vista acustico è il tipo di connessione tra le
corde e la cassa di risonanza. Ne è esempio il violino, in cui il sistema composto dal
ponticello, dall’anima (elemento ligneo che collega all’interno della cassa i due piani
armonici all’altezza di un piede del ponticello) e dalla catena (barra disposta
longitudinalmente sotto la tavola armonica), rappresenta un caso mirabile di perfetta
sovrapposizione tra funzioni strutturali (nel senso della statica dello strumento, del sostenere
le corde, etc.) e funzioni acustiche (nel senso di un’interconnessione dei moti vibratori delle
corde e dei piani armonici).

Negli aerofoni, l’elemento vibrante è, come si è detto, l’aria. Una prima distinzione
fondamentale è tra aerofoni liberi, in cui l’aria che vibra non è limitata dallo strumento (come
nell’armonica a bocca) e strumenti in cui a vibrare è una colonna d’aria contenuta entro una
cavità (come in tutti gli strumenti a fiato propriamente detti). In tutti i casi, un aspetto
fondamentale è costituito da come viene messa in vibrazione l’aria.
Il caso più semplice di aerofono libero è quello del rombo: facendo fendere l’aria
presente nell’ambiente da un pezzo di legno (legato ad una corda e fatto ruotare a una certa
velocità) si generano compressioni e rarefazioni che, raggiunta una determinata frequenza,
producono un’onda sonora. Un’altra possibilità è data dall’uso di ance libere, ciascuna delle
quali vibra alla propria frequenza naturale di oscillazione una volta che sia sollecitata da un
flusso d’aria, creando una analoga intermittenza (e quindi, ancora una volta, compressioni e
rarefazioni) in questo stesso flusso: è il caso dell’armonica a bocca, di organetti e
fisarmoniche, delle canne ad ancia dell’organo, del regale e dell’armonio (più conosciuto
forse anche in Italia come harmonium).
Più complesso si fa il discorso nel caso dei cosiddetti ‘strumenti a fiato’. Qui infatti si
distinguono due componenti che interagiscono tra loro: 1) il meccanismo in base al quale si
crea la turbolenza, 2) la colonna d’aria che entra in vibrazione e trasmette l’onda sonora al di
fuori dello strumento. A differenza degli aerofoni liberi, qui sono le proprietà di risonanza
della colonna d’aria che determinano la frequenza di vibrazione del meccanismo responsabile
dell’oscillazione. Mentre quindi, ad esempio, in un’armonica a bocca per ottenere suoni di
frequenza diversa vengono utilizzate ance diverse (ognuna con una propria frequenza
naturale), in un clarinettto l’ancia vibrerà a frequenze diverse a seconda del variare della
lunghezza della colonna d’aria interna al tubo (regolata attraverso l’apertura e chiusura di fori
lungo il tubo stesso). Data l’importanza di questa differenziazione, gli aerofoni sono stati di
recente suddivisi proprio in base all’utilizzo o meno di tale effetto di feedback (del risuonatore
sull’oscillatore), distinguendo appunto tra no-feedback instruments (tra i quali è stata inclusa
la voce) e feedback instruments (cfr. Sundberg 1991).
A proposito della determinazione della frequenza fondamentale in una colonna d’aria,
è bene qui ricordare che in un tubo chiuso alla estremità inferiore, la lunghezza d’onda della
fondamentale è il doppio che in un tubo aperto, e quindi la frequenza è la metà. Questo
principio è ad esempio utilizzato negli organi, per ottenere suoni molto gravi senza dover
allungare eccessivamente le canne.
Le ulteriori suddivisioni degli strumenti a fiato si basano sulla tipologia del
meccanismo oscillatore e sulla forma della colonna d’aria. Fermo restando l’effetto di
feedback sopra descritto come elemento che determina la frequenza di oscillazione, abbiamo
quindi:
- strumenti in cui l’oscillazione è prodotta dall’infrangersi di una corrente d’aria, a forma di
‘lamina’, sull’orlo tagliente di una fessura; in quel punto si creerà un conflitto tra le particelle
d’aria sospinte verso l’interno del tubo e quelle sospinte verso l’esterno: il risultato di tale
turbolenza, dato un determinato punto di equilibrio, sarà la successione di stati di
compressione e rarefazione all’interno del tubo. Questi strumenti possono essere o a
imboccatura diretta, come i flauti di Pan o i flauti traversi, in cui si ‘soffia’ direttamente
contro uno spigolo dell’apertura, ovvero a imboccatura indiretta, come nei flauti a bocca
zeppata, i cosiddetti ‘flauti dolci’, in cui si immette l’aria all’interno di un condotto
predisposto in modo tale da indirizzare un flusso d’aria di forma adatta contro un bordo
tagliente (o labium). In quest’ultima tipologia rientrano i registri labiali dell’organo;
- strumenti ad ancia, in cui l’oscillazione di una linguetta (semplice o doppia) funziona da
valvola che alternativamente apre e chiude l’accesso dell’aria al tubo, trasformando il flusso
continuo in una serie di impulsi che generano ancora una volta stati successivi di
compressione e rarefazione. Tra gli strumenti ad ancia, prevalgono generalmente il tipo
‘oboe’, ad ancia doppia e canna conica, e il tipo ‘clarinetto’, ad ancia semplice e canna
cilindrica. Le differenze nell’accoppiamento di queste caratteristiche sono notevoli dal punto
di vista acustico: basti qui dire che nel clarinetto l’unione di ancia semplice e tubo cilindrico
genera un comportamento acustico da ‘canna chiusa’, con effetti sia sulla determinazione
della fondamentale che sul timbro (prevalenza di armonici dispari, soprattutto nel registro
inferiore). Ciò non toglie, comunque, che vi siano strumenti ad ancia semplice e canna conica,
come il sassofono, o ad ancia doppia e canna cilindrica, come il cromorno;
- strumenti in cui sono le labbra di chi suona ad agire da oscillatore, in modo piuttosto
analogo a un’ancia doppia. In generale, possono venir definiti del tipo ‘trombe’, ma più
specificamente si distingue fra trombe vere e proprie, con canna cilindrica, e corni, con canna
conica. In entrambi i casi, una distinzione importante è fra strumenti a intonazione naturale, in
cui le altezze ottenibili sono quelle corrispondenti alle frequenze degli armonici naturali dello
strumento, in condizioni di non variabilità della colonna d’aria, e strumenti in cui attraverso
dispositivi vari, come fori, chiavi, pistoni o coulisse, diviene possibile modificare appunto la
lunghezza della colonna d’aria fino a ottenere strumenti cromatici. Un aspetto importante in
molti di questi strumenti è la terminazione a campana, di forme diverse, che ha un ruolo
fondamentale nel determinare le caratteristiche timbriche attraverso specifiche proprietà di
irradiazione, nell’ambiente circostante, delle componenti armoniche superiori.

Nei membranofoni, come si è detto, è una membrana, tesa su di una qualche struttura
che per lo più funziona da risonatore, a costituire il corpo vibrante. Appartiene a questa classe
il variegato mondo dei ‘tamburi’. Tra questi va annoverato il caso alquanto particolare del
cosiddetto ‘tamburo di terra’, ottenuto stendendo una membrana, ad esempio una pelle, sopra
una cavità del terreno. I tamburi si distinguono in base al meccanismo con cui viene messa in
vibrazione la membrana e per la loro forma. In base al primo criterio, si hanno, oltre ai
tamburi percossi, tamburi a frizione e tamburi a pizzico.
Nei tamburi a frizione, la membrana è collegata con un’asta o una corda: sfregando
queste, si inducono oscillazioni longitudinali - ossia nel senso dell’oggetto sfregato - che
attraverso il punto di contatto si trasformano in oscillazioni trasversali della membrana. Nel
cupa-cupa della Basilicata o nel putipù campano, ad esempio, un bastone, fissato al centro
della membrana, viene sfregato con una pezza umida o direttamente con la mano.
Nei tamburi a pizzico, la struttura è leggermente più complessa, perché anche la corda
collegata alla membrana deve essere tesa e quindi avere un punto distante dalla membrana cui
agganciarsi: pizzicando la corda si possono così indurre indirettamente vibrazioni sulla
membrana, attraverso le oscillazioni longitudinali della corda stessa (è il caso di alcuni
strumenti diffusi in India).
I più consueti tamburi a percussione si distinguono, in base alla forma, nel modo
seguente:
- tamburi tubolari, che a loro volta possono essere cilindrici, a barile, conici, a clessidra o a
calice;
- tamburi a cornice, ad esempio il tamburello; in questo caso la funzione di risonatore della
struttura su cui è tesa la membrana è spesso pressoché inesistente;
- tamburi a paiolo, con cassa di forma più o meno emisferica; è questo il caso dei timpani
dell’orchestra sinfonica.
I tamburi tubolari e a cornice possono a volte avere due pelli.
Un aspetto importante, nei tamburi, è la modalità con cui la pelle è fissata sulla
struttura di sostegno, considerato che può essere incollata, inchiodata, fissata con pioli,
tramite un cerchio, o con lacci. In quest’ultimo caso, diffuso in molte culture, le tecniche di
allacciatura possono essere assai varie e complesse.
Ai membranofoni appartengono i mirliton, strumenti in cui la membrana è messa in
vibrazione dalla voce umana, come nel kazoo, di cui erano diffusi qualche tempo fa anche in
Italia molti esemplari in plastica, che consentivano a tutti di sentire la propria voce
trasformata in una sonorità da ‘strumento’ musicale.

Negli idiofoni è il corpo stesso dello strumento a produrre il suono, grazie alla propria
durezza ed elasticità. I materiali possono essere vari, prevalentemente legno e metallo. E’ la
modalità con cui viene indotta la vibrazione ad assumere qui importanza primaria. In base a
tale criterio gli idiofoni si suddividono in idiofoni a percussione, a raschiamento, a pizzico, a
frizione.
Gli idiofoni a percussione, che rappresentano la categoria più ampia, si dividono a loro
volta nel modo seguente:
- a percussione reciproca, o a concussione, quando vi sono due elementi, a forma di bastone,
tavoletta, oppure vascolari, che vengono battuti uno contro l’altro; è il caso delle castagnette,
dei cimbali, dei crotali dell’antica Grecia;
- a percussione diretta, quando lo strumento viene colpito con un oggetto di per sé non
produttore di suono, come la mano o un mazzuolo, oppure viene esso stesso usato per colpire
qualcosa di per sé non sonoro, come il corpo del suonatore o il terreno. Rientra qui l’infinita
gamma dei tamburi di legno (come i tamburi a fessura), degli idiofoni a barre (xilofoni,
metallofoni, litofoni), dei gong (in cui le vibrazioni sono massime al centro), delle campane
(in cui le vibrazioni sono massime ai bordi) sia con battaglio che percosse dall’esterno;
- a percussione indiretta, o a scuotimento, quando il suonatore non compie un gesto
direttamente percussivo, bensì la percussione si verifica come conseguenza di movimenti di
altro genere. Sono questi i vari tipi di sonaglio, che possono essere ad esempio costituiti da un
recipiente riempito di elementi che urtano contro le pareti (come i sonagli di zucca pieni di
semi), oppure da elementi sospesi che cozzano tra loro e/o con la struttura che li sostiene
(come nell’antico sistro). Un sonaglio a cornice particolarmente raffinato è il giavanese
angklung, in cui il suono è prodotto da due o più canne di bambu, differentemente intonate,
sospese verticalmente e oscillanti entro solchi intagliati in una canna di bambu orizzontale.
Negli idiofoni a raschiamento la vibrazione è prodotta facendo passare una bacchetta o
una lamina su un corpo dentellato: è il caso della washboard, ovvero la tavola per lavare i
panni, raschiata con una bacchetta, e di tanti strumenti appositamente predisposti,
prevalentemente a forma di bastone, di legno o di osso; talvolta possono essere usati con
risonatore, semplicemente poggiandoli su un recipiente cavo, a meno che non siano essi stessi
ricavati su un corpo che possa assolvere a tale funzione (gusci, zucche, etc.). Sono considerate
idiofoni a raschiamento anche le raganelle.
Tra gli idiofoni a pizzico, grande importanza rivestono i lamellofoni africani, spesso
chiamati ancora in modo generico ed erroneamente con il termine di ‘sansa’ o
‘zanza’ (specifico solo di alcune culture), nei quali una serie di lamelle, in genere di metallo,
sono fissate su una tavola o una piccola cassa (con funzioni di risonanza), di legno, che possa
facilmente essere tenuta nelle mani e consentire di pizzicare le lamelle con i pollici. Vanno qui
inoltre annoverate le ‘scatole musicali’ (musical box), strumento meccanico in cui lamelle di
varia lunghezza sono disposte come denti di un pettine di metallo, e pizzicate dalle punte
sporgenti disposte su un cilindro rotante.
Un particolare problema pone la classificazione dello scacciapensieri, considerato fino
a poco tempo fa come un idiofono a pizzico con lamella singola. Recenti ricerche hanno
dimostrato come si possa invece considerare, quale elemento vibrante, la turbolenza d’aria
che si genera nel passaggio della lamella oscillante attraverso le due componenti fisse,
appartenenti alla struttura portante, che vengono strette tra i denti: da ciò è stato proposto di
ritenere lo scacciapensieri un aerofono.
Negli idiofoni a frizione, infine, le vibrazioni si ottengono tramite sfregamento,
ottenuto direttamente con le dita delle mani, o indirettamente, con mezzi appositi. Oltre ad
alcuni strumenti piuttosto semplici, prevalentemente di legno, di osso, o di pietra, vi
appartengono alcuni complessi ed elaborati esempi, come la Glasharmonica, realizzata a metà
del settecento, in cui tramite una tastiera si comanda lo sfregamento di scodelle di vetro
ruotanti, di diverse dimensioni e intonazione.

Riferimenti bibliografici di carattere generale

Gli strumenti musicali di ogni epoca e di ogni paese, a cura del Diagram Group, Milano 1977,
(ed. or. 1976).

Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, s.v. Acustica Musicale, in
«Il Lessico», vol. I, Torino 1983; Strumenti musicali (Classificazione), in «Il Lessico»,
vol. IV, Torino 1985.

Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, Milano 1980 (ed. or. New York 1940).

André Schaeffner, Origine degli strumenti musicali, Palermo 1978 (ed. or. Paris 1968).

Johann Sundberg, The Science of Musical Sounds, San Diego & al. 1991.

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