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12.

IL SEICENTO: LE MUSICHE MONODICHE E LA


“SECONDA PRATICA” DI MONTEVERDI
Sviluppo del gusto armonico

Negli ultimi decenni del secolo si ricorre sempre più frequentemente alla
registrazione scritta di ciò che si realizzava nella prassi esecutiva. Molto
diffusa era anche l’abitudine di accompagnare con l’organo le polifonie
liturgiche. Gli organisti erano soliti ridurre il numero delle parti vocali e
raddoppiare la linea melodica della parte più grave, da cui deducevano la
struttura armonica del brano.

Il procedimento di sostituire, adattare, ridurre un insieme polifonico per


voci singole accompagnate da uno o più strumenti, consentì lo sviluppo
del gusto armonico del linguaggio musicale. Si passò qui ad una
concezione più complessa della creazione musicale, in cui un ruolo
fondamentale è affidato alla dimensione verticale dei suoni.

Il concetto di “tonalità” e di “modalità”


Per una formulazione del concetto di tonalità bisognerà aspettare fino alla
prima metà del XVIII secolo, quando Jean-Philippe Rameau (1683-1764)
ne spiegherà la funzione sotto la definizione di “centre harmonique”. I
trattati del cinque-seicento non hanno formulato però alcuna teoria a
riguardo della modulazione, della progressione degli accordi e della
tonalità. L’unico quadro di riferimento del ‘500 sulla composizione vocale
è il sistema degli 8 modi (o toni) ecclesiastici

ereditati dal canto liturgico medievale. È da tenere presente che furono


relativamente pochi i compositori che scelsero di comprendere i loro
lavori polifonici entro uno dei modi ecclesiastici, anche perché erano
piuttosto
ambigui i criteri di classificazione delle modalità. Proprio per questo
motivo, non è possibile assegnare chiaramente un brano ad un unico
modo: anche per quei lavori che sembrano essere legati ad un
determinato modo, ci possono essere deviazioni e allontanamenti.

In una composizione polifonica rinascimentale, grande importanza


avevano i parametri spaziali effettivi, calcolati in base ai registri vocali (alti
e bassi) e alle loro possibili combinazioni ed estensioni.

Strumenti a pizzico, ad arco e a fiato


Un campo propizio alla nuova realtà armonica-tonale è quello della
musica strumentale d’insieme e del repertorio liutistico. Nel ‘500 si
praticavano diversi sistemi di intonazione e di temperamento: tra quelli
più in uso erano il “sistema naturale pitagorico” e il “sistema dei rapporti
semplici” (quello teorizzato da Zarlino). Tali sistemi creavano difficoltà
non indifferenti nell’esecuzione strumentale e rendevano anche
complessa la costruzione di strumenti a tastiera, poiché erano necessari
tasti diversi per i suoni naturali, per i suoni diesati e per quelli
bemollizzati.

Esistevano inoltre grandi difficoltà nella trasposizione delle melodie, dal


momento che gli intervalli compresi in un’ottava non si succedevano a
distanze costanti tra loro. Strumenti con intonazione mutevole, come il
liuto, la viola da gamba, il trombone, la tromba e il flauto, potevano
alterare l’altezza dei suoni mediante spostamenti nella posizione delle
dita. I liuti e le viole erano strumenti di comodo maneggio, dalle sonorità
chiare e delicate, che si adattavano per accompagnare le voci o per
adattarvi composizioni polifoniche vocali. I complessi di strumenti a fiato,
impiegati in larga misura nelle musiche da ballo, godettero di crescente
popolarità durante il ‘500 e il suonatori di tali strumenti vennero rivalutati
a livello sociale.
Monodia e basso continuo
La maniera compositiva delle monodia si collega alla pratica delle musiche
a voce sola, pratica molto diffusa fin dai primi anni del ‘500. La novità
delle stile monodico vocale di fine secolo sta nell’adozione di una maniera
di canto fondato sulla dizione sillabica e inteso a comunica all’ascoltatore
i più disparati sentimenti suggeriti dal testo poetico.

Un espediente tecnico legato al comporre monodico, concepito peraltro


per fornire alla voce solita un supporto armonico, è il “basso continuo” (o
“basso numerato”, “cifrato” o “figurato”). Sopra o sotto alcune note del
basso sono apposti dei numeri convenzionali che indicano le giuste

armonie da realizzare. Non è sempre possibile come avvenisse


effettivamente la pratica del basso continuo. Certo è che gli esecutori
dell’epoca avevano un’ottima dimestichezza con la tecnica di
realizzazione improvvisata. Tuttavia, al moderno esecutore, si richiede di
possedere un gran numero di conoscenze, oltre che le comuni capacità di
interpretazione e analisi.

Le musiche a voce sola


La ricerca di nuovi modi di espressione musicale culminò nel repertorio di
musiche a voce sola in stile monodico. Composto appositamente per il
cantante professionista, il canto monodico fu dapprima prerogativa di
pochi circoli aristocratici per poi diffondersi negli ambienti cittadini e
diventare un genere editoriale di largo consumo.

• a Firenze lavorano Giulio Caccini (1551-1618) e la figlia Francesca (1587-


1640);

• a Mantova sono chiamati Francesco Rasi (1574-1620) e Adriana Basile


(1580-1640);

• a Piacenza, Roma, Modena, Firenze molto apprezzato è il nobile


cantantecompositore Sigismondo d’India (1582-1629).
La monodia accompagnata fu concepita per essere presentata ad un
pubblico di ascoltatori, ai quali il cantante solista doveva trasmettere, con
particolare intensità espressiva, le diverse tensioni emotive e affettive
racchiuse nel testo poetico. L’intento dell’interprete era anche quello

di proiettare nell’immaginazione dell’ascoltatore una scena o una


situazione drammatica posta su un palcoscenico. Tale stile monodico,
denominato “recitativo” o anche “recitar cantando”, richiede infatti una
nuova maniera espressiva di cantare, basata sull’elasticità agogica e
sull’uso di abbellimento e fioriture vocali.

L’importanza storica delle musiche a voce sola sta nell’aver posto


l’attenzione del compositore verso le parti estreme (l’una acuta e l’altra
grave): l’enfasi compositiva, dunque, è rivolta verso un’unica parte
melodica sostenuta da una linea armonica. Tale tendenza andò
affermandosi sempre più nel corso del ‘600 e costituirà la regola anche
per la musica strumentale del periodo “barocco”.

Claudio Monteverdi (1567-1643) e la “seconda pratica”


La figura di Monteverdi occupa una posizione di rilievo nel panorama
musicale dei primi decenni del XVII secolo. Le sue opere racchiudono da
una parte le esperienze stilistiche maturate negli ultimi decenni del ‘500,
mentre dall’altra introduce una ricca gamma di nuovi mezzi espressivi,
stilistici e formali, prima di allora sconosciuti. Dopo aver studiato a
Cremona, Monteverdi svolse i primi anni della sua carriera presso la corte

dei Gonzaga a Mantova, dove scrisse i primi cinque libri di madrigali e


parte del Libro sesto. Questi lavori vengono inseriti nel filone delle
musiche polifoniche di fine ‘500, basate sullo stretto legame tra immagini
poetiche e musicali, destinate all’intrattenimento di corte. Nei madrigali
scritti invece durante il periodo veneziano, Monteverdi di dedica alla
piena ricerca delle nuove risorse offerte dalla monodia da camera e dallo
stile recitativo, sfruttando le voci
solistiche e il complesso strumentale. Il linguaggio del madrigale
raggiunge così una ricchezza di mezzi espressivi, stilistici e formali mai
raggiunta prima di allora. Monteverdi, inoltre, dimostrò una notevole
conoscenza letteraria nella scelta dei testi poetici:

ha prediletto prima il Tasso, poi Guarini e Giambattista Marino.

L’intenzione di Monteverdi è quella di elaborare, coordinare e articolare il


discorso musicale, in cui l’organizzazione gioca un ruolo di primaria
importanza. Il brano è disposto così in sezioni, frasi e periodi musicali che
si collegano, scombinano, ripetono e alternano secondo una logica
interna che esalta e potenzia i contenuti espressivi della poesia.

La ricerca di nuovi mezzi espressivi si rivela in pieno nel Libro ottavo.


Secondo Monteverdi, le tre principali passioni dell’animo sono “Ira,
Temperanza, & Humiltà o supplicatione” (hanno le loro radici nella
filosofia platonica). Questi corrispondono in musica ai generi “concitato,
molle & temperato”; pertanto, la musica deve essere in grado di suscitare
negli ascoltatori tali stati d’animo contrastanti. Per tradurre in musica gli
affetti iracondi e guerreschi Monteverdi ricorre a molteplici espedienti
stilistici, primo fra tutti la frenetica ripercussione di note o accordi affidata
ad un corpo di strumenti.

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