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INTRODUZIONE

Trascrizione, parafrasi e riduzione

Il termine trascrizione, usato nella terminologia musicale con diverse accezioni,


può significare:

1. Destinazione di una composizione a mezzo fonico differente da quello per


il quale essa era stata originariamente concepita;

2. Decifrazione e redazione in scrittura corrente, cioè edizione moderna,


della produzione musicale anteriore al sec. XVIII, anticamente notata secondo le
varie semiografie neumatiche, mensurali o delle intavolature strumentali;

3. Stesura per iscritto di brani musicali preesistenti nella tradizione orale;

4. Atto puramente materiale del copista che riscrive un brano musicale.¹

Prendendo in considerazione la prima definizione possiamo individuare tre


procedimenti trascrittivi:

- Semplice trapianto di un brano dall’uno all’altro mezzo fonico;

- Adattamento del brano alla meccanica e al timbro del nuovo strumento;

- Atto traspositivo in cui trovano vita elementi originali, caratteristici della


personalità del trascrittore, tali da condurre a una vera e propria ricreazione del
modello.²

La trascrizione può nascere da mere esigenze scolastico-didattiche o finalità


divulgative; tuttavia non mancano casi, quelli che esaminerò nel mio lavoro, in
cui essa nasce per la volontà dell’autore di arricchire e perfezionare i propri
mezzi espressivi, o di tradurre ciò che, nell’opera originaria, si percepisce come
suscettibile di trasposizione ad altro ambiente sonoro, talvolta per esprimerlo in

1
forma più ricca e articolata, tal altra per darne un equivalente in altro contesto
sonoro.

Un caso singolare di trascrizione si verifica anche quando si vuole creare un


repertorio per strumenti o complessi che non hanno una ricca letteratura
autonoma: ciò avveniva già agli albori della musica strumentale in genere,
quando essa faceva proprie, ricalcandole, le forme di quella vocale. 3

Diversa dalla trascrizione è invece la parafrasi, definita come una modificazione,


amplificazione o elaborazione di un testo originale, e che in ambito musicale va
quindi intesa come l’elaborazione di un materiale preesistente; tale prassi venne
seguita da svariati compositori del XIV-XVI sec. soprattutto per ricavare nuove
potenzialità espressive e melodiche dal cantus firmus, applicandola sia alla
messa che alla musica organistica. Nel XIX sec. la parafrasi delineò soprattutto
un genere pianistico che prende dall’arrangiamento e dalla fantasia con caratteri
virtuosistici, spesso indicato con titoli quali Illustration, Reminiscence, Improptu
e che spesso attinge ai temi dell’opera teatrale. Tra i principali autori di spicco
del genere vi furono Liszt, Thalberg, Tausig e Rubinstejn.4

Un genere ancora diverso è quello della riduzione pianistica, al cui interno è


necessario distinguere quando essa interessa l’intero corpo di una formazione
esecutiva o soltanto una sua sezione. Nel primo caso si tratta di una Sinfonia,
un’Opera, un Oratorio o altro che, dall’orchestra o dal complesso vocale e
strumentale, viene “tradotta” al pianoforte; nel secondo è invece la parte
orchestrale di un concerto, di un’opera o di un’altra composizione che viene
trasferita sulla tastiera, mentre le parti rimanenti conservano l’originaria
destinazione. Fa parte di questo secondo caso, ad esempio, la riduzione per canto
e pianoforte di una composizione vocale con orchestra.

Esempi del primo caso sono, invece, le celebri riduzioni di Liszt da Berlioz e da
Wagner.5 Entrambe le modalità di riduzione, appena descritte, hanno valore

2
esclusivamente pratico e divulgativo: potremmo definirle «parziali» 6 perché,
anche se la “sintesi” pianistica della parte orchestrale fosse esaustiva, non
potrebbe sostituirsi all’orchestra nel rendere la complessità dei rapporti sonori e
timbrici che caratterizzano l’originale.

Una sorta di riduzione, per così dire «totale», può configurarsi quando la sintesi
dall’originale avviene in forme propriamente pianistiche. Esempi tra queste, le
riduzioni di F. Liszt da Berlioz e da Wagner, in cui, come afferma A. Casella,

[…] il pianismo lisztiano riesce pienamente a rendersi equivalente


della virtuosità e del colorismo orchestrale», grazie al fatto che «alle
figurazioni originali non eseguibili sulla tastiera, vengono sostituite
equivalenze essenzialmente pianistiche, mediante le quali il carattere
originale del modello viene conservato sempre e non di rado
irrobustito […]7

Dalle intavolature di brani vocali alle trascrizioni

La trascrizione nel Medioevo si verificava quando una o più parti di una


composizione polifonica vocale venivano suonate anziché cantate. Questa
consuetudine dipendeva dal fatto che l’esecuzione era facoltativa, cioè poteva
aver luogo con i mezzi lì per lì disponibili; e lo stesso procedimento della
distribuzione vocale o strumentale delle parti, costituiva una sorta di trascrizione.
Quindi in tale periodo la musica strumentale non è stata altro che un adattamento
della musica vocale agli strumenti atti alla polifonia, cioè una trascrizione.

Con la musica strumentale la trascrizione si afferma nel Rinascimento secondo


due direttrici fondamentali: la riduzione di una composizione polifonica vocale
per strumento polivoco (a pizzico o a tastiera), detta intavolatura, e quella che
mantiene al canto la voce superiore, raggruppando le altre
nell’accompagnamento strumentale. La caratteristica generale intrinseca delle

3
antiche intavolature è una impostazione grafica che imita le caratteristiche
“fisiche” dello strumento a cui si riferisce.

Nel Cinquecento la pratica dell’intavolatura dei pezzi vocali nasce come punto di
partenza nella creazione di un repertorio per gli strumenti, i quali, legati e
subordinati per secoli alla musica polifonica vocale, ne fanno propri le forme e lo
stile, svincolandosene progressivamente fino alla conquista di un linguaggio
autonomo e originale. Essa si sviluppa anche per rispondere a necessità
divulgative: non erano molti coloro che avevano la possibilità di ascoltare o
eseguire le numerose e complicate musiche vocali nella loro veste originale. Le
intavolature, quindi, erano utili ai dilettanti, i quali potevano intonare con la voce
la parte superiore e accompagnarsi con lo strumento oppure eseguire
esclusivamente su questo la composizione vocale. Grazie alle intavolature si
poterono diffondere, attraverso l’abile esecuzione dei musicisti, le composizioni
polifoniche in un più largo strato di ascoltatori. Detto ciò si comprende che
caratteristica della storia della musica strumentale, prima del Seicento, è da un
lato una fondamentale autonomia, dall’altro un costante riferimento alle forme
coeve della musica vocale. I primi esempi di esecuzione strumentale della musica
vocale li ritroviamo ne mottetti intavolati. La trascrizione di musica vocale in
intavolatura per strumenti a tastiera e l’ampliamento dell’originario testo
musicale mediante fioriture, restano un elemento fisso dell’esecuzione su
strumenti a tastiera e del relativo repertorio fino agli inizi del XVII sec. Questo
tipo di trascrizione talvolta fu parziale, come nella Frottola, la cui parte più acuta
si lasciava alla voce, mentre si raggruppavano le altre per uno strumento. Il
carattere di trascrizione era ancor più deciso quando nell'adattamento della
musica vocale s'introducevano diminuzioni, passaggi e fioriture diverse. Ad ogni
modo le differenze tra fioriture vocali e strumentali sono ben presenti, anche se
riguardano di più consuetudini interpretative che non radicali differenze di
formulazione. In generale sono tre i punti fermi da considerare:

4
1) le fioriture strumentali sono più estese di quelle vocali o, in altre parole,
una composizione è più idonea ad un’esecuzione strumentale che non ad una
vocale;

2) le fioriture strumentali fanno spesso uso di salti intervallari, più


frequentemente di quelle vocali;

3) rispetto a quelle vocali, le fioriture strumentali presentano, per lo più, una


struttura melodica ripetitiva, instaurano ripetizioni di formule e tendono a un
melodismo sequenziale. Ciò si può spiegare principalmente perché le fioriture
strumentali sono poco legate alla declamazione e alla rappresentazione di un
testo.

Si può facilmente dedurre che le versioni intavolate di opere vocali dei secoli
XIV-XVI rappresentano in molti casi musica strumentale “autentica”, nel senso
che tutti gli elementi specifici di uno stile strumentale vengono applicati agli
originali vocali, per cui le composizioni vocali risultano “strumentalizzate”.
D’altronde, dati questi presupposti, le intavolature ornate di composizioni vocali
offrivano anche indicazioni dell’esistenza di esecuzioni con ornamenti da parte
dei cantanti.8

5
NOTE

1. Cfr. F. BALLO, Interpretazione e trascrizione, in RaM 1936, p. 712.

2. Cfr. E. FRIELÄNDER, Wagner-Liszt und die Kunst der Klavierbearbeitung, s.e.,


Detmold 1922, p. 41.

3. Cfr., Dizionario della musica e dei musicisti, UTET, Il Lessico IV, p. 560.

4. Ibidem.

5. Cfr. L. Venza, Esercizi di stile. La contaminatio tra vocalità e strumento, Tesi di


Laurea, Conservatorio di Musica “A. Scontrino”, Trapani, A.A. 2012-2013, pp. 54-55.

6. Cfr. Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 569.

7. Cfr. A. CASELLA, Il pianoforte, ed. Ricordi, Milano 1936 (1974), p. 79.

8. Cfr. supra, L. Venza, op. cit., p. 60.

6
Cap. I LA TRASCRIZIONE - Storia ed evoluzione

Con la nascita del pianoforte, tra il XVII e il XVIII secolo, assistiamo al lento
declino del clavicembalo, per il quale si esaurisce la pratica della trascrizione
pressocché nella prima metà del Settecento.

I.I. La trascrizione in J. S. Bach.

Con concerti trascritti per tastiera da Johann Sebastian Bach ci si riferisce a due
raccolte di trascrizioni realizzate da Bach fra il 1713 e il 1717: una per strumento
a tastiera, catalogata come BWV 972-987 e l'altra per strumento a tastiera dotato
anche di pedaliera, catalogata BWV 592-597.

Le due raccolte, che insieme contengono ventidue concerti, sono basate su lavori
originali per orchestra di Antonio Vivaldi, Alessandro Marcello, Benedetto
Marcello, Georg Philipp Telemann e Giovanni Ernesto di Sassonia-Weimar. Di
alcuni concerti non si conosce la paternità dell'originale ma alcuni musicologi
avanzano i nomi di Giuseppe Torelli e Tomaso Albinoni.1

Per lungo tempo, basandosi sulla biografia bachiana scritta da Johann Nikolaus
Forkel2, i musicologi credettero che le trascrizioni per strumento a tastiera di
opere orchestrali di altri autori, realizzate da Johann Sebastian Bach, fossero meri
esercizi di studio sulla forma classica del concerto grosso all'italiana. Studi
recenti, invece, hanno evidenziato come la congettura espressa dal Forkel fosse
improbabile, in quanto il trentenne Bach aveva già avuto numerose occasioni per
conoscere e studiare le varie forme musicali, compresi i concerti italiani.

Il vero motivo che portò J. S. B. Bach a trascrivere numerose opere italiane


dell’epoca è attribuibile, come evidenziato da diversi musicologi, fra i quali Hans

7
Joachim Schultze, Alberto Basso, Peter Williams, Piero Buscaroli e Roland de
Candé, al grande interesse che la corte di Weimar, presso la quale Bach si
trovava a servizio negli anni un cui vennero realizzate le trascrizioni, aveva per la
musica italiana: il giovane principe Giovanni Ernesto di Sassonia-Weimar, nipote
del regnante Guglielmo Ernesto, era infatti molto attratto dagli autori italiani
all'epoca di moda (ad esempio Antonio Vivaldi, Benedetto Marcello e Giuseppe
Torelli), e si dilettava lui stesso a comporre concerti in stile italiano.3

Giovanni Ernesto, fra il 1711 e il 1713, andò a studiare presso l'Università di


Utrecht. Da lì il principe si sarebbe recato diverse volte ad Amsterdam e
Düsseldorf, importanti centri di attività musicale, per ascoltare concerti e per
acquistare nuovi spartiti. All'interno della Nieuwe Kerk di Amsterdam sentì
suonare l'organista Jan Jacob de Graaf, che era solito eseguire trascrizioni per
organo di concerti italiani originariamente scritti per orchestra, suscitando grandi
apprezzamenti. Completati gli studi, il principe era tornato a Weimar nel 1713,
portandosi dietro numerosi spartiti orchestrali di musica italiana, sia manoscritti
che stampati. Fra di essi c'erano L'Estro armonico e La stravaganza, due raccolte
di concerti di Antonio Vivaldi. In Germania, comunque, circolavano già da anni
numerosi manoscritti di maestri italiani come Arcangelo Corelli, Giuseppe
Torelli e Tomaso Albinoni. Inoltre, è possibile che alcuni concerti italiani fossero
stati importati dal violinista Johann Georg Pisendel4, che era stato a Weimar nel
1709 e che, nello stesso anno, aveva eseguito a Dresda musiche di Vivaldi.
Evidentemente entusiasta dell'esperienza olandese e speranzoso di poter ricreare
a corte le stesse atmosfere “italiane” che aveva ascoltato ad Amsterdam,
Giovanni Ernesto avrebbe, verosimilmente, chiesto a Johann Sebastian Bach e a
Johann Gottfried Walther, entrambi a servizio presso la corte di Weimar, di
trascrivere per strumento solista gli spartiti portati con sé dall’Italia. Non è noto
in che anno preciso vennero realizzate le trascrizioni ma, nondimeno, è possibile
collocarle fra il 1713 e il 1717.

8
Bach e Walther furono particolarmente attratti dallo schema del Concerto grosso
e realizzarono diverse trascrizioni manualiter e pedaliter, adattando gli originali
al clavicembalo o all'organo.5
I modelli preferiti da Bach nelle sue trascrizioni per clavicembalo e per organo
furono i concerti di A. Vivaldi, il cui gioco dei contrasti fra tutti e solo ben si
adattava alle due tastiere unite alla pedaliera dell’organo. Uno degli esempi più
citati è il Concerto n. 2 dell’op. VII (II libro) e, soprattutto, il lento movimento
centrale, la cui superiorità, rispetto all’originale, viene ottenuta tramite
l’inserimento, fra le due parti preesistenti, di una terza linea che Bach introduce
con l’intento di arricchire, in senso contrappuntistico, l’articolazione del
prototipo vivaldiano.6

Bach, salvo rare eccezioni, rinvigorisce certe ossature con nuovi contrappunti,
arricchisce l’ornamentazione, conferisce maggior rilievo a certi svolgimenti
armonici e, in diversi casi, arriva a connotare le sue trascrizioni in modo talmente
originale, dal conferir loro altro carattere espressivo.7

9
I.II. Le trascrizioni per pianoforte da Mozart a Liszt

Dopo Bach, la pratica della trascrizione per strumenti a tastiera diventò dominio
del pianoforte. I primi esempi interessanti, in questo campo, si devono a W. A.
Mozart con la Sonata K. 547a per pianoforte: il I e il III movimento di
quest’opera derivano dalla Sonata per violino e pianoforte K. 547; il Rondò
centrale, invece, deriva dalla Sonata K. 545 per pianoforte, trasportato in fa
magg.

Schubert e Mendelssohn, dopo Mozart, hanno fornito altri esempi di riduzione


pianistica di composizioni destinate ad altro strumento. R. Schumann ha trascritto
per pianoforte i 24 capricci per violino di Paganini, di cui 6 raccolti nei Studien
für das Pianoforte nach Capricen von Paganini 1832 op. 3 e rivolti ad uso
prevalentemente didattico; mentre le rimanenti trascrizioni, raccolte nelle Sechs
Konzert- Etüden komponiert nach Capricien von Paganini 1833 op. 10, destinati
all’esecuzione pubblica.8 Lo sforzo del trascrittore di adeguare i modelli,
rispettandoli il più possibile, alla natura e al meccanismo del pianoforte, si risolve
grazie alle finissime qualità del musicista che riesce a “trasportare” il virtuosismo
di Paganini,

[…]dall’arco alla tastiera con un senso rilevantissimo delle possibilità


foniche meccaniche timbriche del pianoforte e con una comprensione
acuta della natura di quella virtuosità sia agli effetti prettamente
strumentali che agli effetti della didattica tecnica […] 9

Nell’esempio riportato, nella pagina seguente, si nota come il motivo


paganiniano a) è stato interpretato al basso, mentre le armonie realizzate dalla
mano destra b) assumono un aspetto decisamente tematico. 10

a)

10
b)

Ad interessarsi alla trascrizione delle opere di Paganini fu anche Liszt che, nel
1851, pubblicò la versione definitiva della trascrizione per pianoforte dei sei
Grandes Études de Paganini. Sembra che sconvolgente sia stato per l’autore
l’ascolto di Paganini a Parigi nel 1831, a seguito del quale si impegnò per cercare
di esprimere in musica quella rivoluzione romantica, attraverso un materiale
musicale nuovo e, più in particolare, utilizzando in modo del tutto originale un
mezzo già ampiamente utilizzato: quello della rielaborazione virtuosistica. 11 Lo
stesso Schumann riconobbe i pregi della trascrizione degli studi di Paganini
realizzata da Liszt, sostenendo che Liszt

[…] non poteva provare la sua venerazione per il grande artista


defunto più splendidamente che mediante questa trascrizione così
accuratamente elaborata sin nei minimi particolari e che riflette così
fedelmente lo spirito dell’originale […] 12

Liszt realizzò anche delle trascrizioni di composizioni per organo di Bach, in


particolare Preludi e fughe. Queste, salvo piccole varianti, sono semplici
trasposizioni meccaniche, quasi letture al pianoforte dei testi bachiani, con la sola
eccezione dei raddoppi di ottave, alla mano sinistra, della parte originariamente
destinata alla pedaliera. Tuttavia testimoniano il profondo rispetto del trascrittore
verso Bach e una passione di divulgatore che troverà prosecuzione con Busoni
che, tramite una più completa espressione, avrebbe ricreato al pianoforte le
sonorità proprie dell’organo.

Risultano, invece, più interessanti le trascrizioni dei Lieder per canto e


pianoforte di Schubert. Le trascrizioni lisztiane dei Lieder di Schubert sono

11
abbastanza fedeli, talvolta sono comunque presenti degli elementi parafrasali,
come cadenze non presenti negli originali, o accompagnamenti rielaborati in
modo diverso.13

Nel suo primo periodo compositivo, Liszt compose un gruppo di Fantasie su temi
operistici famosi. In queste Fantasie spesso derivate da improvvisazioni al
pianoforte egli tendeva a produrre diversi effetti emotivi sugli ascoltatori
attraverso l’arte dell’improvvisazione praticata nei primi anni del XIX secolo.
Tale maestria non era meno sapiente delle improvvisazioni, retoricamente
strutturate, dei secoli immediatamente precedenti. Liszt riuscì, dunque, ad
estrarre gli elementi principali dalle opere ed a creare, da queste ultime, una
nuova opera d'arte, mostrando come il pianoforte fosse in grado di evocare, nel
contempo, sia le sonorità delle voci che i timbri orchestrali. Nell’attività della
parafrasi, Liszt si dedicò, oltre che alla trasposizione di temi tratti dalle opere
teatrali, anche a temi tratti da canzoni popolari e da musiche di diverso genere.

Pur riconoscendo il grande valore delle trascrizioni operate da Liszt, è necessario


menzionare la versione per orchestra delle Variazioni sopra un tema di J. Haydn,
realizzata da J. Brahms nel 1873 sull’originale per due pianoforti.

Già nell’enunciazione del tema il compositore riesce a conservare quel


particolare carattere che Haydn aveva dato al Corale di S. Antonio, tramite
l’impiego predominante degli oboi e dei fagotti. Tuttavia è nelle variazioni che
Brahms sfoggia una tecnica di orchestrazione progredita: nel rispetto fedele
dell’originale pianistico, «i motivi e i temi passano da uno strumento all’altro;
melodie prolungate sono ripartite fra i vari strumenti, di maniera che il filo
conduttore è portato in permanenza da una sezione dell’orchestra all’altra» 14.
Effetti e colori orchestrali sono sempre molto vari e vivaci; il crescendo
espressivo, in cui il lavoro si sviluppa, raggiunge il suo apice nel Finale. Qui
Brahms trasferisce all’orchestra uno spunto a dialogo fra i due pianoforti,

12
trasformando, nella stesura sinfonica, la semplice opposizione di registri della
versione primitiva, in forte contrasto di timbri, mediante lo scambio del motivo
tra legni, ottoni e archi.15

NOTE

13
1. Cfr. A. Basso, Frau Musika. La vita e le opere di J.S. Bach. vol. 1, Torino, EDT, 1979,
introduzione.

2. Cfr. supra, A. Basso, Frau Musika. La vita e le opere di J.S. Bach., op. cit.

3. Cfr. B. Lepido, Johann Sebastian Bach. I concerti per organo, Music Media, Milano,
2011, p. 53.

4. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 566.

5. Ibidem.

6. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit. p. 564.

7. Ibidem.

8. Cfr. R. Schumann, La musica romantica, Torino, 1950, ed. Einaudi, p.89.

9. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 565.

10. Ibidem.

11. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 572.

12. Cfr. R. Schumann, op.cit., p. 102.

13. Cfr.www.michelecampanella.org/oldsite/public/allegati/Le%20parafrasi%20di
%20Liszt.pdf.

14. Cfr. K. Geringer, Johannes Brahms, Leben und Schaffen eines deutschen Meister,
Vienna, 1935; trad. it. a cura di G. Gai e M. Zanon, Ricordi, Milano 1952, p. 147.

15. Ibidem.

Cap. II LA TRASCRIZIONE NEL ‘900

14
II.I La generazione ottanta e la trascrizione: Ottorino Respighi

Le tendenze musicali di inizio ‘900 in Europa posso essere sintetizzate in tre


grossi filoni: “i conservatori”, fedeli agli ideali romantici, seppure con le dovute
mutazioni ed evoluzioni causate dallo scontato procedere del tempo, movimento
che si sviluppò soprattutto in Francia grazie a Debussy e Ravel ed in Russia; “ i
progressisti” che trovarono la loro fortuna nella cosiddetta Scuola di Vienna con
Arnold Schönberg in testa; “i neo-classicisti” ovvero gli amanti dell’arte pre-
romantica tra i quali Igor Stravinskij fu il massimo esponente.

In Italia, in questo periodo, invece, fiorì la cosiddetta “Generazione degli anni


‘80”: l’insieme formato da cinque musicisti, nati intorno al 1880, che furono i
principali artefici di un autentico rinnovamento della musica italiana nei primi
decenni del Novecento. Franco Alfano, Alfredo Casella, Gian Francesco
Malipiero, Ildebrando Pizzetti e Ottorino Respighi erano i giovani musicisti che
facevano parte di questo nuovo movimento attivo nel proporre e accogliere nuovi
linguaggi musicali e nel partecipare originalmente al loro sviluppo. Costoro
erano rivolti al Presente e animati da una motivazione ben diversa da quella di
Sgambati e Martucci che, insieme ad altri, nella seconda metà dell’Ottocento,
avevano promosso una rinascita culturale che tenesse conto delle conquiste del
sinfonismo tedesco da Beethoven a Brahms. Alfredo Casella, uno dei maggiori
protagonisti di quella generazione, affermava:

[…]La creazione di uno stile moderno nostro è stato il problema


assillante della mia generazione. Quando questa generazione cominciò
a pensare, l'unica musica tipicamente italiana era quella operistica
ottocentesca e verista piccolo-borghese. Urgeva dunque scuotere a
tutti i costi questa idea angusta e antistorica e ricondurre i musicisti
prima e le masse più tardi a pensare che ben altre, più profonde, più
varie erano le fondamenta della nostra musica[…] 1.

15
Obiettivo della “Generazione dell’ottanta” era quindi la «sprovincializzazione»
della cultura musicale italiana dominata dal melodramma naturalista, per
reinserirla in un contesto europeo e conferirle nuova dignità. Per poter fare ciò
era necessario ritrovare antiche radici in un passato remoto in cui la musica
strumentale italiana aveva conosciuto una storia gloriosa. Se questo programma
di rinnovamento si profilava con chiarezza già all’epoca della Prima guerra
mondiale, esso si sviluppò propriamente nel ventennio fascista. L’ideologia
fascista, in un’Italia avviata a divenire potenza industriale fra le altre europee e
mondiali, poteva riconoscersi nell’istanza di rinnovamento dei nuovi compositori
italiani. L’omologia fu vista in modo lucidissimo da Casella che, del moto di
rinnovamento, fu il portabandiera e si adoperò per l’internazionalismo che,
nell’Italia del ventennio fascista, fu incarnato dal Festival di musica
contemporanea di Venezia (1930) o dalla fondazione del Maggio musicale
fiorentino (1933). Insieme con Malipiero e Labroca e con l’entusiastico appoggio
di D’Annunzio, Casella partecipò alla fondazione della Corporazione delle
nuove musiche (1923-28), che si sarebbe legata, in seguito, all’attività della
Società Internazionale di Musica Contemporanea. Si delineava così, anche in
Italia, il superamento di un rapporto diretto di condizionamento mercantile fra
produzione e consumo, fra opera e pubblico, attraverso la mediazione
dell’intervento dello Stato. La fuga dal provincialismo, ravvisato nel
melodramma, coincideva con l’abbandono di un’ottica condizionata dal vecchio
capitalismo concorrenziale per adottare quella del nuovo capitalismo statuale ed
assistenziale. Poiché la tradizione più vicina dell’Italietta liberale da un lato, del
melodramma provinciale dall’altro, non era cosa degna, ci si rifaceva all’antico
veramente glorioso, alla grande musica del passato remoto, dichiarata
autenticamente italiana.

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In realtà abito naturalistico e ideali modernistici non apparivano così separati e
contrapposti nella musica italiana della prima metà del secolo, quanto i
programmi innovatori potevano lasciar credere. Essi convissero, per un buon
quarantennio, condividendo volentieri motivi e caratteri, per lo più spiritualistici
(di stampo dannunziano o idealistico) e nazionalistici (d’ispirazione folclorica,
arcaica o neoclassica). Le distinzioni emergevano negli autori di punta ch’erano,
da una parte, i superstiti della «Giovane scuola» e del melodramma naturalista
(da Puccini a Zandonai, a Wolf-Ferrari) e, dall’altra, Alfano, Respighi, Pizzetti,
Casella, Malipiero. Purtuttavia ai compositori maggiori si accomunava una serie
di autori minori, difficilmente collocabili, che aderivano a questo o a quel
versante (Vincenzo Tommasini, Riccardo Pick-Mangiagalli, Adriano Lualdi,
Vito Frazzi, Ludovico Rocca).

Franco Alfano (1875-1954) fu, tra i cinque, il più legato agli schemi tradizionali.
Dedicatosi inizialmente all’attività concertistica e alla critica musicale, sentì
presto l’esigenza di allargare le proprie esperienze musicali fuori dall’Italia,
volgendosi alla composizione. Il suo metodo compositivo venne influenzato, a
livello dell’orchestrazione, da Strauss e da Debussy, mentre cercò di mantenere il
passo con le correnti moderne rendendosi conto degli orizzonti verso cui doveva
guardare la nuova musica italiana nel momento del fatale declino della stagione
operistica. L’opera Resurrezione (1904), il suo primo successo, ne rivelò la
spiccata vocazione teatrale. Lo stile più personale di Alfano, frutto del connubio
di melodiosità e caratteri impressionisti, è in quello che è considerato il suo
lavoro migliore e fra i più rappresentativi del Novecento: La leggenda di
Sakùntala (1921; una nuova versione, con titolo Sakùntala, è del 1952). In campo
sinfonico, la padronanza della forma e una ricca orchestrazione qualificano la
Suite romantica e la Prima Sinfonia. Mentre la produzione cameristica è spesso
invasa da un’enfasi che va a sovrapporsi ai contenuti poetici, più spontanee sono
le liriche per canto e pianoforte.

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Fra i compositori italiani del primo Novecento che, nell’ambito del suddetto
rinnovamento, affrontarono la musica strumentale, Ottorino Respighi (1879
-1936) è senz’altro il più popolare. I due lavori più conosciuti e importanti di
Respighi sono Fontane di Roma e Pini di Roma. Nonostante la popolarità di
Respighi, la critica gli ha, da più parti, rimproverato d’essere rimasto, rispetto
agli altri della generazione dell’Ottanta, Alfano a parte, su posizioni retrò. La
maestria nel trattamento orchestrale, le sfumature timbriche e armoniche, la
sontuosità pittorica e canora dell’orchestra medesima, sono elementi che
Respighi seppe modellare derivandoli da Rimskij-Korsakov, dall’impressionismo
di Debussy, dal poema sinfonico di Strauss. La variopinta bellezza della sua
scrittura musicale fatta di «preziosa rarefazione, morbidezza e trasparenza del
suono da una parte, turgescenza fonica dall’altra» 3, fece sì che in Italia, dopo un
plurisecolare predominio del melodramma, si potesse parlare finalmente di
musica sinfonica. Respighi volse il suo interesse anche alle forme e ai contenuti
della musica del passato, interesse che portò a eccellenti risultati nel Quartetto
dorico per archi, nel Concerto gregoriano per violino e orchestra, in Vetrate di
Chiesa, nel Concerto misolidico per pianoforte e orchestra, nelle Antiche arie e
danze per liuto. Meno conosciuta è la sua produzione operistica che,
gradualmente, si andò assestando negli stilemi del neoclassicismo. Con le
Antiche danze ed arie per liuto (sec. XVI e XVII), nella trascrizione per
pianoforte fatta da Respighi nel 1919, cioè due anni dopo la versione pianistica di
Tre composizioni di Frescobaldi, l’amore per la divulgazione delle composizioni
del passato lo portò a rifarsi alle radici stesse della musica strumentale: opera
altamente meritoria, allora, per la diffusione culturale, quella di presentare pagine
per liuto in veste pianistica, arricchita di eleganti contrappunti e bene adattata alle
diverse risorse dello strumento a tastiera con raddoppi di parti e amplificazioni
armoniche. Il risultato di queste “integrazioni”, operate non solo per adeguare gli
antichi testi alle possibilità del nuovo mezzo fonico ma, soprattutto, per darne
una traduzione in modi moderni che maggiormente sarebbero stati graditi al

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pubblico, condurrà tuttavia a una alterazione delle armonie originali e a un certo
appesantimento della genuina freschezza di quelle musiche.4

Oltre che per il pianoforte, Respighi trascrisse le danze antiche anche per
orchestra. Confrontando le due versioni trascritte dallo stesso autore si può notare
come le due stesure siano equivalenti; tuttavia l’orchestra rende meglio il sapore
arcaico delle composizioni, attraverso l’uso appropriato di certi strumenti e, in
particolare, di quelli a corde, con evidente tentativo di alludere, in certi casi, al
suono del liuto.

Respighi ha realizzato, inoltre, alcune magistrali orchestrazioni di musiche


bachiane. Trasferendo dall’organo al complesso sinfonico il Preludio e fuga in re
magg. (1920), la monumentale Passacaglia (1930) e tre Preludi corali (1931),
egli non voleva semplicemente portare su un piano più divulgativo quelle grandi
composizioni o farne una rievocazione erudita in nome del suo amore per il
passato ma darne, soprattutto, un’interpretazione che più si avvicinasse al gusto
moderno, ossia viva e attuale. Per questo si valse di tutta la propria perizia di
orchestratore, di quel particolare senso del chiaro-scuro orchestrale che, uniti al
gusto e alla fantasia, ricrearono in forma smagliante i giochi, gli effetti e i colori
della registrazione organistica. Tuttavia l’organo che nasce attraverso l’orchestra
di Respighi non è quello barocco, bachiano, bensì quello romantico, se non
addirittura moderno: è appunto qui che si verificherà l’avvicinamento delle
antiche musiche alla sensibilità novecentesca.

19
Altra importante trascrizione di Respighi è Neuf Études Tableaux per pianoforte
di Rachmaninov: lo stesso pianista russo avrebbe ammirato i prodigiosi effetti
della brillante orchestrazione, perfettamente aderente allo spirito del testo
originale.5

Ildebrando Pizzetti (1880-1968) è noto, tra le altre, per la composizione de


Assassinio nella cattedrale, opera tratta dall’omonimo lavoro di Thomas Stearns
Eliot, rappresentazione della morte di Thomas Becket, arcivescovo di
Canterbury, assassinato nel 1170 da quattro cavalieri inviati dal re Enrico II, che
non tollerava la sua intransigente fedeltà alla Chiesa. Con Assassinio nella
cattedrale infatti, uno dei suoi ultimi lavori, Pizzetti tramutò in senso di pace il
dramma della vita com’egli l’aveva intesa lungo l’arco nella sua esistenza.
L’espressione più alta di questo dramma deriva dalla concezione dell’Arte per
l’autore, arte che Pizzetti intendeva come un sacerdozio: vita e arte sono
accomunate nella sua musica sempre in senso drammatico.

I cinque musicisti della generazione dell’Ottanta non sono affatto accomunati da


unità di posizioni estetiche: è abbastanza evidente che la religiosità di Pizzetti, la
sua concezione della vita e il suo stile musicale condividono poco
«l'oggettivismo duro, spigoloso e spesso ironico» di Casella o «l’estrosa
invenzione continua, utopisticamente auspicante l’abolizione d’ogni sviluppo e
d’ogni deduzione sinfonica» di Malipiero 6. L'enunciato dello stile pizzettiano lo
troviamo nelle sue stesse parole:

[…]Noi giovani musicisti italiani riconosciamo il grande valore di


novità e di bellezza di molta musica francese modernissima [...] ma
ciò che abbiamo fatto, facciamo e faremo, lo abbiamo fatto, lo
facciamo e lo faremo il più possibile indipendentemente da quella
musica, senza voler trarre nulla da essa [...] Andremo sino in fondo
della ‘nostra anima’ e nell’animo di questi uomini qui intorno, che
sono uomini della ‘nostra’ terra. (1913)[…]7

20
Attento, quindi, ai fenomeni del Presente ma tradizionalmente legato alla cultura
italiana, Pizzetti strutturò il suo linguaggio nello studio del canto gregoriano; il
suo stile fu severo e per nulla tendente a facili edonismi nell’uso coloristico degli
strumenti. Apprezzato e stimato, in vita, da uomini di cultura come D’Annunzio,
Papini, Prezzolini, Ungaretti, nonché dagli interpreti della sua musica quali
Toscanini, Gavazzeni, De Sabata, oggi la produzione di Pizzetti stenta a rientrare
nei circoli di consumo. Al di là di ogni valutazione critica o rivalutazione delle
sue composizioni non è possibile tralasciare l’importanza di Pizzetti nella storia
della cultura musicale, dove fu presente, oltre che come autore, come insegnante,
critico e direttore d’orchestra. Del suo teatro ricordiamo, tra gli altri, Fedra, La
figlia di Jorio, Debora e Jaele, Lo Straniero e il già citato Assassinio nella
cattedrale; delle musiche di scena, quelle per l’Agamennone di Eschilo e per Le
Trachinie di Sofocle; vari gruppi di Liriche, musica strumentale sinfonica e da
camera, musica per film (Scipione l’Africano, I promessi sposi, Il mulino del
Po).8

L'esperienza musicale di Alfredo Casella (1883-1947) va valutata non solo


tramite la sua attività di compositore ma forse più per l’insegnamento che seppe
dare con la sua lezione civile e morale. Così scrisse in una sua lettera del 1943:

[…]La mia vita di artista è stata dura, ma anche molto bella. Per
lunghi anni ho goduto nella mia patria della più larga impopolarità,
della più cordiale antipatia e incomprensione. Fatto questo inevitabile,
perché - in un paese dove pullulavano i dilettanti e gli aficionados del
“bel canto” ultimo-ottocento, e dove il gusto imperante era quello di
una provincia rimasta per lunghi decenni estranea a quasi tutti i
maggiori problemi del grandioso processo rivoluzionario che aveva
agitato l’Europa da Weber a Debussy - un artista, incapace dì certi
compromessi, era fatalmente destinato ad essere aspramente
ostacolato dalla quasi totalità dei suoi conterranei. Vita dura dunque,
ma che rifarci tutta da capo con la medesima fede, qualora fosse
necessario[…]9

Il fondamento del suo procedere culturale e musicale fu quello di una continua


ricerca. Casella assimilò tutte le esperienze che a mano a mano gli si

21
presentavano: dal tardo Romanticismo, all’Impressionismo, all’Espressionismo,
prendendone coscienza ma senza mai farsi coinvolgere completamente, nella
ricerca di un equilibrio superiore che doveva derivare dalla sensibilità personale e
dai caratteri propri della cultura e del gusto italiani.
Indubbiamente, l’esperienza che agì più profondamente e più a lungo sulla sua
emotività fu quella espressionistica di Schönberg, che l’avrebbe portato a lavori
alle soglie della dodecafonia come la Sonatina op. 28 per pianoforte. Con
Pupazzetti (per pianoforte a quattro mani e riscritta in due successive versioni,
per nove strumenti e per orchestra) si è parlato di «ironia lirica», che si riallaccia
alla Commedia dell’arte italiana. Difatti la posizione più ferma di Casella fu
quella di riscoprire e ripensare la tradizione italiana, quella più vera e reale,
ovvero del Seicento e Settecento strumentale. Comporrà quindi Scarlattiana, per
pianoforte e trentadue strumenti, in cui utilizzerà ottanta temi presi dalle sonate
di D. Scarlatti, e Paganiniana. La sua presenza di didatta va ricordata anche per
la revisione, tra l’altro, dell’opera omnia di Chopin, del Wohltemperierte Klavier
e delle Suites inglesi e Suites francesi di J. S. Bach, nonché di musiche di altri
autori fra cui Monteverdi, Vivaldi, Mozart etc.

L’ultimo musicista della generazione dell’Ottanta, Gian Francesco Malipiero


(1882-1973) è considerato, nel complesso della sua personalità artistica, come il
più interessante esponente del gruppo. In lui sono comunque presenti le
caratteristiche comuni agli altri: attiva partecipazione al rinnovamento della
cultura musicale italiana del Novecento e coscienza della crisi di valori che
colpiva la società borghese, con la conseguente solitudine dell’uomo moderno.
Nel suo stile sono presenti i caratteri dell’Impressionismo francese soprattutto,
ma anche dell’Espressionismo, caratteri però che egli assorbirà, più che come
influenze tecniche, come substrato poetico poiché, in fondo, Malipiero tendeva al
rinnovamento musicale italiano ricollegandosi proprio all’antica tradizione
nazionale, al Canto gregoriano e alla civiltà musicale veneziana del Cinque e

22
Seicento. I caratteri tipici della sua arte si manifestano, più che nella tecnica,
nella poetica, cioè nella concezione stessa dell’opera musicale. Quest’ultima si
palesa nel ripudio dello sviluppo tematico distribuito lungo congegnati itinerari,
caro alla tradizione romantica e nell’appello, viceversa, a un’invenzione musicale
continua, alimentata da uno scaturire di idee incessantemente rinnovate; consiste,
analogamente, nella concezione di un teatro sintetico, non naturalistico, tutto
nutrito di culmini drammatici, dove musica e parole siano per se stesse
necessarie, evitando gli inutili recitativi di raccordo. 10 I caratteri stilistici della sua
musica non mutarono sostanzialmente neppure quando si avvicinò alla
dodecafonia. Come revisore di musiche del passato, curò lavori di B. Marcello,
Stradella, l’opera omnia di Monteverdi; inoltre curò la pubblicazione, ancora in
corso, delle opere strumentali di Vivaldi.

II.II. Busoni: la trascrizione come innovazione

In questo contesto storico-culturale, Ferruccio Busoni riuscì a dire qualcosa di


nuovo nel campo della trascrizione per pianoforte. Fu il primo a porsi il problema
di creare una scrittura pianistica adatta alla trascrizione della musica per organo,
sovvertendo una tradizione che, fino a quel momento, aveva costretto la musica
entro i limiti del pianismo ottocentesco. Busoni si chiese come poter rendere al
meglio le sonorità dell’organo con il pianoforte e nella prima appendice della sua
edizione del vol. I del Wohltemperiertes Klavier (Lipsia, 1894) riuscì a mostrare
le tecniche da lui individuate per raggiungere tale obiettivo: raddoppi, ingegnosi
disposizioni di accordi, pedalizzazione speciale, aggiunte, omissioni e variazioni,
dinamiche particolari. L’applicazione di questi principi portò Busoni a realizzare
trascrizioni che non sono semplici trapianti di un modello ma inedite opere di
trascrizione che introducono un pianismo «organistico». 11 Per il loro valore

23
musicale tali opere trascendono l’assunto meramente divulgativo e didattico per
collocarsi come autentiche creazioni nella storia della letteratura pianistica.

Circa un terzo dell’attività compositiva di Busoni è occupato da lavori di


trascrizione. Gli autori sui quali Busoni intervenne si collocano lungo l’intera
epoca della musica moderna: da Bach a Schoenberg, passando attraverso Mozart,
Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, Liszt, per citare solo i maggiori.
Sovente, ma non sempre, si tratta di elaborazioni o trascrizioni da concerto,
destinate, cioè, al fine pratico dell’esecuzione e della diffusione in concerto. A
questi lavori vanno aggiunte quelle composizioni originali di Busoni che, pur non
appartenendo a pieno titolo al campo della trascrizione, da esso sono chiaramente
influenzate e ne costituiscono per così dire il prolungamento.

Il punto di riferimento dal quale Busoni partì per definire e orientare la prassi
della trascrizione fu l’esempio di Bach. Egli stesso scriveva nel 1910 che «per
rialzare di colpo la natura della trascrizione a dignità d’arte basta fare il nome di
J.S. Bach. Egli fu uno dei trascrittori più fecondi di lavori propri e altrui e
precisamente nella sua qualità di organista. Da lui imparai a riconoscere una
verità: che una musica buona, grande, ‘universale’, resta la stessa qualunque sia il
mezzo attraverso cui si faccia sentire. Ma allo stesso tempo imparai anche una
seconda verità: che mezzi diversi hanno un linguaggio diverso (loro peculiare)
col quale comunicano questa musica in modo sempre un po' differente».12

I confini che delimitano l’area della trascrizione sono dunque fissati con estrema
precisione: da un lato l’identità della musica in se stessa; dall’altro la molteplicità
delle sue epifanie, ogni volta diverse e tanto più diverse quanto più mutino il
mezzo e il linguaggio specifico che le comunicano. Guide del trascrittore in
questo percorso debbono essere, di fronte alla libertà senza restrizioni, il rispetto
del gusto, il rigore dello stile, la logica della forma. Busoni, guardando a Bach e a
Liszt, avvertiva che la ragione storica della decadenza della trascrizione stava

24
proprio nella perdita di queste guide, ossia nella maldestra riduzione del modello
a copia sbiadita e informe, conseguenza di un divario qualitativo troppo netto fra
originale e trascrizione. L’atteggiamento di Busoni trascrittore radicalizza con
l’esempio questa decisa affermazione di principio. Egli scriveva:

[…]La frequente opposizione che ho sollevato con le mie


‘trascrizioni’ e l’opposizione che spesso critiche irragionevoli hanno
sollevato in me, mi hanno spinto a tentar di raggiungere la chiarezza
su questo punto. Ecco quanto ne penso in definitiva: ogni notazione è
già trascrizione di un’idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne
impadronisce, il pensiero perde la sua forma originale. L’intenzione di
fissare con la scrittura l’idea impone già la scelta di un ritmo e di una
tonalità. Forma e mezzo sonoro che il compositore deve scegliere
determinando sempre più la strada e i suoi confini. Per quanto
dell’indistruttibile carattere originario dell’idea qualcosa permanga,
tuttavia a partire dal momento della scelta questo carattere viene
ridotto e costretto a un tipo già classificato. L’idea diventa una sonata,
un concerto; e questo è già un adattamento dell’originale. Da questa
prima alla seconda trascrizione il passo è relativamente breve e senza
importanza. Pure, in generale, si fa un gran caso solo della seconda. E
nel far ciò non si avverte che la trascrizione non distrugge la versione
originale, e che quindi non si perde questa per colpa di quella[…] 13

Secondo Busoni, dunque, tutto in musica è trascrizione cioè «riduzione di un


pensiero più grande per uno strumento pratico»14, la creazione stessa è
trascrizione. Busoni sostiene che «anche l'esecuzione di un lavoro è una
trascrizione, e anche questa non potrà mai far sì che l'originale non esista – per
quanto libera ne sia l'esecuzione».15 Anche l’ascoltatore è in fondo un trascrittore:
giacché “trascrive” ciò che ascolta in base alle proprie facoltà ricettive, alla
propria psicologia, alla propria sensibilità e cultura.

Possiamo valutare le considerazioni di Busoni sulla trascrizione come esito di un


intreccio inestricabile di pessimismo e di ottimismo. Il pessimismo di Busoni
consiste nel riconoscere l’assoluta intangibilità e incomunicabilità dell’idea
musicale originale, dell’opera d’arte così come viene concepita nel mistero
ineffabile dell'intuizione creativa. L’originale esiste, ma non è afferrabile se non
nell’apparenza del suo doppio. Il suo ottimismo, invece, nel considerare viva e

25
reale la musica soltanto attraverso la sua riproduzione e ricreazione concreta,
frutto di una scelta i cui confini sono per definizione illimitati ma che
circoscrivono un vuoto colmabile soltanto artificialmente. Quella realtà
intangibile può essere soltanto trascritta, usando tutti i mezzi di cui il
compositore dispone per ridare qualcosa dell'essenza soprannaturale della
musica: compito al quale l'artista creatore si dedica con gioia, senza porsi leggi
precostituite, tutto provando e sperimentando nella certezza di costituire un
anello in una catena infinita di proposte e di definizioni. E quanto Busoni
riassume in un aforisma centrale del suo pensiero: «L’opera d'arte musicale
sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare.
È insieme dentro e fuori del tempo»15. Ossia irreale e reale insieme.

Nel suo lavoro di trascrittore, Busoni distingue diversi stadi. Chiama


Bearbeitungen (rielaborazioni) tutte quelle revisioni che adattando alla “lingua
del moderno pianoforte” opere genericamente destinate alla tastiera, oppure
specificamente al pianoforte; in queste le rielaborazioni interessano problemi
interpretativi (tempo, dinamica, agogica, diteggiatura, fraseggio, attacco del
suono e così via) e indicazioni sullo stile e sulla forma. Busoni nel caso in cui il
suo intervento trasformi o sviluppi sensibilmente l’originale, arrivando ad una
reinterpretazione del pezzo, denuncia con chiarezza la “libera rielaborazione da
concerto”.

Busoni, oltre che interessarsi alle musiche clavicembalistiche di Bach, volge il


proprio sguardo anche ad autori più vicini nel tempo, ed eminentemente
pianistici, come Chopin e Liszt, autori nei quali egli vedeva la possibilità di
ampliamenti e rimaneggiamenti della veste strumentale, e di conseguenza della
sostanza poetico-musicale, sempre allo scopo di trovare una stesura più piena,
non migliore, ma semplicemente più viva e adeguata alle risorse di un pianoforte
moderno arricchito nei mezzi e potenziato nell'espressione. Durante la sua opera
di revisione su questi autori Busoni aveva riscontrato inadeguatezze di scrittura

26
perfino in Liszt, e ancora di più in Chopin e Franck. Sul pianoforte moderno era
necessario disporre la musica sotto le dita in modo adeguato, usando armonie ora
strette ora piene e larghe, cogliendo il significato degli elementi compositivi e di
quelli virtuosistici, sfruttando tutte le possibilità di registro e di sonorità:
rendendo esplicito il senso implicito della “strumentazione”. In ciò Busoni,
coerentemente con la sua poetica, vedeva un campo aperto alla ricerca e alla
sperimentazione.16

Riserva invece il termine specifico di trascrizione (in tedesco Ubertragung: in


senso proprio “trascrizione”; ma anche “traduzione”) ai lavori che riproducono
sul pianoforte opere destinate ad altri strumenti: in primo luogo ancora bachiane,
ma anche di Mozart, Schubert, Schumann, eccetera. 17 Dal revisore, che ha
lasciato la sua più compiuta testimonianza nei due volumi del Clavicembalo ben
temperato, al trascrittore propriamente detto nulla muta nello spirito dell'attività
busoniana: essa semplicemente si radicalizza e diviene ancor più conseguente da
un lato nella ricerca di una realizzazione pianistica specifica (all’occorrenza
ampliata all'uso di due pianoforti), dall'altro nell'indagine dei princìpi costitutivi
della “dottrina del comporre”. Busoni considerava il pianoforte un mezzo dalle
possibilità tecniche pressoché illimitate; l'esemplare perfetto di tutti gli strumenti
a tastiera; ma anche “il principe degli strumenti”. Ciononostante esso rimaneva
un mezzo: le forme e i criteri della trascrizione dovevano ogni volta uniformarsi
e volgersi ai fini e ai compiti artistici fissati dal creatore-interprete. Possiamo
riassumere la sua opera di trascrittore, nei vari stadi in cui si realizza, in due
grandi filoni. Il primo, di ispirazione bachiana, è di tipo logico-architettonico; il
secondo, di ispirazione lisztiana, di tipo virtuosistico-rappresentativo. 18 L’uno
dunque è radicato in una concezione severa, austera, quasi ascetica del comporre;
l'altro scaturisce da una più marcata libertà fantastico-improvvisativa ed è
strettamente legato alla prassi concertistica, come occasione offerta all'interprete

27
di mettere in evidenza la sua bravura e il suo stile personale. Non si esaurisce
però in essa.

Definendo le trascrizioni nel senso virtuosistico «un accomodamento di idee


altrui alla personalità dell'esecutore»19, Busoni ne individua la matrice storica
nella figura ottocentesca del virtuoso, creata da Paganini, estesa al pianoforte da
Liszt e da lui tramandata attraverso la sua prodigiosa scuola. Egli scrive:

[…]I virtuosi precedenti alla penultima generazione suonavano in


verità soltanto opere proprie o trascritte da loro: suonavano quello che
si erano accomodati da sé e per sé, quello che 'faceva per loro', e
propriamente solo quel che erano in grado di suonare, sia riguardo alla
sensibilità che alla tecnica[…]20

Busoni raccoglie l'eredità di questa tradizione, ma risale direttamente al


capostipite, Liszt appunto, assimilando le sue conquiste e traducendo il suo
esempio in termini attuali sia dal punto di vista linguistico che tecnico-
espressivo. Basandosi sullo studio del “pensiero pianisticamente traformatorio”
di Liszt, egli può affermare che «la tecnica è al servizio dell'idea» 21; così Busoni
mira a costituire una vera e propria scienza della trascrizione virtuosistica,
sfruttandone i mezzi fino agli estremi limiti: l'estensione della tastiera, la tecnica
degli accordi, l'intreccio melodico e polifonico, l’intensificazione dei contrasti e
l'espressione patetica. Egli fa propria la libertà e la soggettività d'interpretazione
e dunque la licenza di modificare, riadattare, riscrivere passi introducendo anche
nuove sezioni di sviluppo, organiche al contesto. Sono queste le caratteristiche
principali di questo lato della sua produzione. La fantasia sbrigliata
dell'ornamentazione, la tecnica raffinata dell'arabesco sonoro, il rivestimento dei
nuclei melodici con figurazioni armoniche sempre cangianti, lo sfruttamento
totale delle risorse espressive del pianoforte, si sposano a un preciso rigore
formale e a una sapienza costruttiva che non rinuncia affatto all'ordine

28
dell'equilibrio e della simmetria, avendo sempre presenti il senso dell'effetto
sonoro, le esigenze della comprensibilità e della chiarezza.

A far da contrappeso al filone virtuosistico-rappresentativo, che per la


raffinatezza dei colori potremmo anche chiamare pittorico, ritroviamo quello che
definito logico-architettonico, di chiara ascendenza bachiana. Qui il discorso è
per così dire tutto rivolto all’interno, ad estrarre dalla logica immanente del
linguaggio compositivo tutte le possibili virtualità, al fine di renderle evidenti e
illuminanti nella stesura arricchita di una versione pianistica moderna e talvolta,
invece, riducendole all’essenza, in un processo “privativo” che aspira alla
purezza dell’astrazione, all’oggettività plastica del blocco spazio-temporale. 22 La
robustezza e insieme la flessibilità del tessuto contrappuntistico sono i dati
stilistici fondamentali di questa zona dell’attività di Busoni trascrittore: dati
artigianalmente assunti come garanzia di linguaggio positivo e con funzioni
innovatrici, tutt’altro che regressive. Sulla legittimità di trascrivere Bach sul
pianoforte, Busoni non nutrì mai dubbi, ma seppe distinguere, senza forzature né
cedimenti nei confronti dei presupposti estetici, i problemi storico-compositivi, e
provò a risolverli caso per caso.

Nella trascrizione di Bach dall'organo al pianoforte, per esempio, Busoni partì da


una duplice convinzione: la riproduzione sul pianoforte delle opere organistiche
di Bach era didatticamente necessaria per completare lo studio di lui, non solo
pianistico, ma anche musicale, l'altezza del pensiero musicale bachiano essendo
rispecchiata al massimo grado nelle opere per organo; inoltre, a prescindere dalla
differente natura degli strumenti, la scrittura e la tecnica avevano potenzialmente
le medesime radici, trattandosi in entrambi i casi di strumenti a tastiera “ben
temperati”; così che l'opera di trascrizione dall'organo al pianoforte era non
soltanto attuabile, ma offriva anche, salvi i debiti accorgimenti, arricchimenti
impensati al pianoforte moderno e alla stessa realizzazione organistica. Busoni a
tal fine inventò una scrittura rigorosa e insieme libera, tesa a rendere sul

29
pianoforte la forza, la pienezza e le cangianti sfumature dei multicolori registri
dell'organo. Libertà e rigore furono i termini di paragone con cui Busoni affrontò
i problemi più spinosi, da quello dei raddoppi, risolto vietando tassativamente
l’arpeggio ed elaborando invece una disposizione polifonica che ricreasse almeno
l’idea dei “ripieni” e delle “misture”, a quelli degli effetti di “registrazione” e
dell'impiego del pedale destro, ritenuto indispensabile, contro l'opinione dei
puristi, ogniqualvolta si suoni Bach al pianoforte. Aggiunte di vario tipo,
omissioni e libere elaborazioni, se inserite con naturalezza e per obiettiva
necessità, senza offendere il gusto e lo stile, sono espressamente contemplate;
ove una polifonia troppo intricata o una concezione del pezzo per due manuali
presentino all’esecuzione ostacoli insuperabili, si propone la via d'uscita della
trascrizione per due pianoforti. Di fatto, trascrivere per pianoforte le opere
organistiche di Bach significò per Busoni non solo trovare il modo di estendere
gli orizzonti tecnici ed espressivi dello strumento, ma anche racchiudere in
grande unità un'arte ai suoi occhi diversa per dimensioni, non per carattere e
forma.

Busoni diede la maggior prova della validità delle proprie tecniche trascrittive
con la redazione per pianoforte della Ciaccona per violino solo Bwv 1004 di
Bach, dove egli «fa sua la musica di Bach e la riesprime» 23, perché la potenzialità
armonica e contrappuntistica dell’originale violinistico viene da lui «intuita e
realizzata con tale penetrazione da dar luogo, come già vedemmo per Bach, a una
vera ricreazione indicativa della personalità del trascrittore quanto e più di
qualsiasi sua composizione originale».24 Solo in apparenza paradossale suona il
fatto che nel corso della sua vita ancora come trascrittore Busoni venisse criticato
e ostacolato nel modo più aspro: tanto innovatrici e radicali, rispetto alla moda
corrente, apparivano le sue teorie e le sue esperienze di trascrittore. Lo scarto tra
la forma originale e l’elaborazione concertistica per pianoforte risulta assai più
netto, ma la trascrizione segue anche qui leggi rigorose. Non è né una parafrasi

30
del testo bachiano né una fantasia, ma l’ideale prolungamento delle virtualità
stilistiche in esso latenti, amplificate e approfondite nel passaggio dal violino al
pianoforte: non intende dunque tradurre l’originale, ma ricomporlo su nuove,
autonome basi. In altri termini Busoni, pur servendosi di tutte le risorse anche
virtuosistiche del pianoforte, quando trascrive la Ciaccona compie un atto
eminentemente creativo: suo primo scopo è rendere evidenti e valorizzare
l'armonia e la polifonia implicite nel testo originario, nella cui sontuosa fioritura
melodica egli vede adombrato il modello di una melodia assoluta, portatrice
dell’idea e generatrice dell'armonia e della polifonia universali. Lo sforzo di
Busoni ricreatore mira così anzitutto a evidenziare le varianti armoniche, le
possibili trasformazioni e alterazioni cromatiche del basso ostinato di Ciaccona
pensato da Bach, e allo stesso tempo a sviluppare la polifonia dalla melodia;
utilizzando a questo fine procedimenti contrappuntistici e modelli di elaborazione
polifonica desunti dallo studio del modus componendi di Bach stesso e
dall'analisi degli esempi da lui lasciati in questo campo; integrandoli con
elementi compositivi nuovi, linguisticamente espansi, non presenti nell'originale
ma coerenti con il suo sviluppo sul pianoforte. Accentuando il carattere di
variazione continua di tutti i parametri della composizione, Busoni costruisce una
forma ciclica assai più complessa di quella bachiana, permeata di sottili
trasformazioni e derivazioni.25

L’allargamento e l’accrescimento dei mezzi di espressione in una interpretazione


della tradizione eminentemente attiva; l’idea della necessità di una
comunicazione fra artista e artista, fra opera d'arte e ascoltatore: sono queste le
forze trainanti del pensiero estetico busoniano quale si realizza nei lavori di
trascrizione. Essi trascendono i fini pratici del consumo, la moda corrente del
virtuosismo fine a se stesso, e mirano a problematizzare l'ascolto, a farlo più
cosciente, ma non a renderlo cerebrale o astratto. Anche per questo motivo
Busoni desiderava che la realizzazione fosse non soltanto completa, ma

31
conformata alla sensibilità di coloro cui era destinata; così che costoro potessero
coglierla per così dire nella sintesi di valori originali e valori aggiunti mediante la
trasformazione e la rielaborazione.

Rendere efficacemente comprensibili i contenuti musicali di una composizione


era per Busoni esigenza primaria, indefettibile. Fino a che punto fosse tale e a
quali conseguenze potesse condurre lo dimostra non soltanto, da un lato, la
trascrizione “totalizzante” e “progressiva” della Ciaccona di Bach, senza dubbio
il vertice del “pensiero pianisticamente trasformatorio” di Busoni, ma anche,
dall'estremo opposto, quella “riduttiva” e “regressiva” del secondo dei 3
Klavierstücke op. 11 di Schoenberg. 26 L’intento di Busoni, come ben riassume
Stuckenschmidt, è quello di «distribuire le nuove sonorità, accumulate da
Schöenberg in modo brusco e aggressivo, su maggiori superfici, per lasciare loro
del tempo e farle assaporare pianisticamente». 27 Busoni si era reso conto
dell'enorme importanza delle novità linguistiche introdotte da Schöenberg in
quegli anni, ma non ne condivideva la realizzazione, e in special modo mostrava
di non comprendere la necessità della scrittura pianistica schoenberghiana, di
proposito concentrata al massimo, ostica e irriducibile ai normali criteri di
comunicabilità. Volle perciò ritoccarla, scioglierla e mediarla in una versione più
piena e comprensibile, più adatta, secondo lui, alla dimensione concertistica. I
mutamenti apportati all’originale allo scopo di renderlo più pianistico e più
accessibile all'ascoltatore, finiscono per mettere in ombra l’idea originale, la
snaturano, togliendo forza e significato alla sua carica autenticamente
rivoluzionaria. In altri termini, si tratta di una trascrizione che, anziché
sviluppare, riduce e comprime l’ignoto al già noto: il rapporto tra forma originale
ed elaborazione appare disomogeneo, squilibrato, viziato all'origine, per quanto
Busoni agisca al suo interno con assoluta coerenza. Singolare suona poi la nota
che il trascrittore volle premessa al suo lavoro, quasi a premunirsi contro
l’astrattezza dell'esecuzione e del contenuto stesso dell’opera:

32
[…]Questa composizione richiede dal pianista la più raffinata
padronanza del tocco e del pedale, una interpretazione intima, quasi
improvvisata, “fluttuante”, una affettuosa immedesimazione nel suo
contenuto, poter essere interprete del quale - soltanto come trascrittore
- ascrive a suo artistico onore F.B[…]28

Benché la trascrizione da Schöenberg risalga al 1909 e sia un caso unico nella


produzione busoniana, è possibile individuare in essa un punto critico, quasi un
momento di rottura, un ripiegamento che si sarebbe radicalizzato negli ultimi
anni della vita di Busoni trovando eco negli scritti degli anni Venti. La chiusura
su posizioni apertamente conservatrici, per non dire reazionarie, è la conseguenza
di un mutamento di rotta. La brusca frattura di una continuità, sentita fino a quel
momento come intimamente necessaria ed essenziale per l'evoluzione della
musica, si rispecchia anche nella drastica riduzione dell'attività di trascrittore, nel
nostalgico ritorno a Mozart (le cadenze per i suoi Concerti, la nitida elaborazione
per due pianoforti della Fantasia per un organo meccanico K. 608 e quella
dell’Ouverture del Flauto magico), negli studi solitari, quasi privati, per
prefigurare, in astratta contemplazione di sé, un nuovo stile pianistico, così come
risulta negli ultimi esercizi della Klavierübung. 29 Sembra quasi che Busoni,
caduto preda di un cupo pessimismo circa le sorti della musica, abbandoni il
campo prima che sia troppo tardi, in tragico isolamento, non riconoscendosi più
in un'epoca le cui forme e i cui contenuti, idealmente, egli aveva contribuito in
forte misura a determinare. Questo pessimismo risolto in misticismo, in astratta
aspirazione all'incondizionato, che è poi il tono di fondo della tematica
dell’ultima opera incompiuta, Doktor Faust, può essere spiegato anche come una
perdita di fiducia nel valore della trascrizione, quale Busoni aveva inteso
affermare nel corso di quasi tutta la sua vita.

II.III La Francia fra XIX e XX secolo: il simbolismo e la musica

Nel tardo Ottocento, inizialmente in Francia e poi nel resto d’Europa, si iniziò a
prendere atto dell’inesorabile fallimento del Positivismo: la ricerca scientifica,

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per quanto coronata da sfolgoranti successi come mai prima di allora, non poteva
giungere ad illuminare gli interrogativi più profondi dell’uomo e a dare un senso
alla vita e alla morte. Per di più, si avvertiva nettamente la spaccatura fra
l'ottimistica visione del mondo dettata all’incrollabile fede nel progresso
tecnologico e la concreta realtà economica, politica e sociale, lacerata da crisi e
ingiustizie profondissime e restia ad ogni cambiamento. Si aprì allora la fase
storica del Decadentismo, detta così dall'incipit di un sonetto di uno dei suoi più
celebri poeti, il francese Paul Verlaine: «Je suis l’Empire à la fin de la
décadence» («Io sono l’Impero alla fine della decadenza»). Fiorirono numerose
le correnti di pensiero irrazionali e misticheggianti, dedite anche all'esoterismo e
all’occultismo o alla ricerca di una religione alternativa a quella tradizionale (dai
Rosacroce, alla teosofia, all’antroposofia). Fu il movimento culturale francese del
Simbolismo ad incarnare queste tendenze di fondo all'interno di una produzione
artistica di altissimo livello. I simbolisti, riallacciandosi tra l’altro ad una celebre
poesia di Baudelaire (Correspondences, contenuta in Les Fleurs du mal, 1857),
ritenevano che la realtà visibile fosse intimamente collegata a quella invisibile,
essendone quasi uno specchio simbolico. L’unica via di conoscenza sarebbe
dunque quella intuitiva, realizzata attraverso il potere evocatorio dell’arte:
profumi, colori, suoni si rispondono, come sosteneva Baudelaire, rinviando a ciò
che non è percepibile

La Nature estmodo misterioso


un temple e simbolico
où de vivants piliers a. La Natura è un tempio. Le sue colonne viventi
Laissent parfois sortir de confuses paroles; pronunciano talvolta parole incomprensibili.
L’homme y passe à travers des forêts de symboles L’uomo l’attraversa fra foreste di simboli
Qui l’observent avec des regards familiers. che osservano il suo incedere con sguardi familiari.

Comme de longs échos qui de loin se confondent Come le lunghe eco, che lontano si fondono
Dans une ténébreuse et profonde unité, in una tenebrosa e profonda unità
Vaste comme la nuit et comme la clarté, immensa come la notte e come il chiarore,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent. i profumi si accordano con i colori e i suoni.

II est des parfums frais comme des chairs d’enfants, Ci sono profumi freschi come carni di bimbi,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies, dolci come degli oboe, verdi come pascoli,
– Et d’autres, corrompus, riches et triomphants, – e altri, corrotti, ricchi e trionfanti,

Ayant l’expansion des choses infinies, che hanno l’espansione delle cose infinite,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens, come l’ambra, l’incenso, il benzoino e il muschio,
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens. che cantano i fervori dello spirito e dei sensi.

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In campo musicale, nonostante Carmen e Boris Godunov (nonché, in una certa
misura, Traviata), il realismo positivista era rimasto un fenomeno abbastanza
marginale. Non era quello l'avversario da abbattere: chi si ergeva come
irrefutabile pietra di paragone - tanto per coloro che accettavano il suo verbo,
quanto per coloro che lo rifiutavano – rimaneva ancora Wagner, perfino molti
anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1883. L'influenza wagneriana fu così
potente da riverberarsi anche sul nascente Simbolismo francese.

Oltre quanto appena descritto, ancora sembrava difficile e incompiuto il distacco


dal Romanticismo: il dibattito si erge sull’antitesi «contenuto versus forma»
ovvero «realtà versus linguaggio», dove taluni scelgono il primo e altri optano
per il secondo. Mediatore fra vita reale e strumento linguistico resta l’artista, la
cui coscienza alimenta altre risposte. Dietro la facciata del rinsavimento
razionalista e classicista, questa coscienza continua a rigurgitare angoscia, senso
di estraneità, ricerca affannosa, rancore antiplebeo. Il contenuto profondo del
Romanticismo, ossia il suo mettere in scena la creazione artistica come dramma o
tragedia dell’esistere e del sentire, è tutt’altro che rimosso.

Nel 1876 L’aprés-midi d’un faune di Mallarmé viene escluso dal terzo volume
del Parnasse. Nel 1884 Huysmans lancia il dandysmo, raffigurandosi nel Des
Esseintes di À rebours. Il percorso del protagonista diviene il paradigma di una
pulsione morbosa la cui smania di bellezza sovrumana è una condanna
all’autodistruzione. Nello stesso anno Verlaine canta «Sono l’impero alla fine
della decadenza […] Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!» e,
intanto, nei Poètes maudits (Poeti maledetti), dipinge se stesso, Rimbaud e
Mallarmé come adepti di un’estetica del degrado. Anche se Mallarmé continua a
impreziosire le veste classicista dei suoi versi alessandrini, la loro distanza dalle
altezze del Parnaso è abissale. Nel 1886 «Le Figaro» pubblica il manifesto
dell’«École symboliste» firmato da Jean Moréas, mentre due riviste, «Le
décadent» e «Le symboliste», battagliano fra loro secondo tradizione. Le

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accomuna un medesimo nemico: il dispotico predominio di un naturalismo
volgare e populista. Alla fine, coscienza della disfatta e precipizio dei sensi
confluiscono nella certezza comune che ciò cui si mira è una bellezza metafisica,
nuova versione di quell’infinito, di quell’ultra-mondo che già aveva incatenato a
sé l’Idealismo romantico.

Le modalità attraverso cui la coscienza letteraria e artistica di fine secolo non


solo si esprime, ma si insedia nel mondo musicale compenetrandosi a esso , sono
sottili e molteplici. Il terreno privilegiato per seguire questo processo è quello,
apparentemente marginale, della musica vocale da camera, la mélodie, che giocò
un ruolo chiave nella svolta della musica francese di fine secolo. I capolavori
della lirica da camera si concentrano alla fine del secolo con Henry Duparc
autore di una ventina di mélodie rimaste esemplari per la loro raffinatezza.
Magistrali sono anche i contributi di Gabriel Fauré, con raccolte quali Cinq
mélodies (1891) e La bonne chanson (1892-1894), le due serie di Fêtes galantes
(1891 e 1904), le Chansons de Bilitis (1897-1898).

Tramite Duparc, Fauré, Debussy, e più tardi Ravel, dopo anni di familiarità con i
versi di Hugo, Lamartine, Gautier, Banville e molti altri, la lirica da camera sposa
la poesi a simbolista di Baudelaire, di Verlaine e infine di Mallarmé, coronando
così quello straordinario sodalizio che costituisce il cuore della musica francese a
cavallo dei due secoli. Nasce una nuova fusione fra musica e parola; alla base
c’è la poetica simbolista che enfatizza la connaturata musicalità del verso, ossia
quella qualità capace di rivelare la valenza simbolica della parola. Questo
innamoramento della sonorità pura, questo abbandonarsi alla «magia verbale»
assaporata nell’articolarsi del suono, implica la liberazione del verso e della
parola dalla prigione della logica prosaica e dalla schiavitù di dover significare
una realtà fatta di oggetti. Solo così la parola può svelarsi come veicolo, come
«bateau ivre» - battello ebbro di Verlaine – lanciato oltre la soglia della realtà
delle cose, nel mondo infinito e oscuro del simbolico in questo deragliamento dei

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sensi, in questo lasciarsi risucchiare in una dimensione onirica svincolata da ogni
razionalità, la musica è compagna di viaggio della parola, ne è metafora sonora,
riverbero, profondità, tanto rivelatrice quanto capace di accrescerne il mistero. 30
Pittori e poeti di questo periodo innalzano la musica alla dignità di arte
organizzatrice dell’immaginazione. Mai la musica aveva, fino ad ora, annoverato
tanti difensori tra letterati e pittori. La venerazione che i simbolisti avevano per la
musica era in parte una reazione contro la mancanza di senso della generazione
precedente, in cui Delacroix, Gautier o Baudelaire rappresentano lodevoli
eccezioni. Il musicista più venerato dagli artisti simbolisti è Wagner; quello che
attraeva i poeti nell’arte wagneriana, era l’unione del verbo e del suono, il
simbolismo dei motivi musicali, e soprattutto il misticismo, al quale la loro
immaginazione era particolarmente sensibile. La concezione wagneriana dell’arte
e la sua filosofia erano all’origine del “simbolismo”. Così, entusiasmandosi per
Wagner, gli artisti pensavano più alla sua estetica che alle sue realizzazioni
musicali. L’atteggiamento critico di Mallarmé risaltava su questa adorazione di
sui il ristretto ambiente letterario che circondava Wagner era intriso. Senza
arrogarsi il diritto di giudicare la musica, Mallarmé non nascondeva il suo
imbarazzo di fronte all’estetica ed alla poetica di tali opere. Vedendone le lacune
e le debolezze, egli non riusciva a partecipare all’entusiasmo che esse
suscitavano nel suo ambiente.

L’ondata di ammirazione per Wagner sarebbe diminuita solo dopo la creazione di


Pelléas et Mélisande.

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NOTE

1. Cfr. A. Franco, Sollecitazioni culturali in Casella e Respighi, in Storia della musica,


volume IV: il Novecento, Garzanti 1968, p. 76.

2. Cfr. www.rodoni.ch/malipiero/iesue.html.

3. Cfr. www.barbaralazotti.it/public/documenti1/IESU

4. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p.568.

5. Ibidem.

6. Cfr. supra, nota 3.

7. Cfr. G. Gatti, Ildebrando Pizzetti, ed. Ricordi, 1954, p. 58.

8. Cfr. F. Sciannameo, Musiche per film di Ildebrando Pizzetti: i manoscritti autografi


di Scipione l’Africano, I promessi sposi, Il mulino del Po conservati presso
l’Università di Harvard, in Fonti musicali italiane, vol. 18 (2013), Questo articolo
documenta la genesi delle musiche composte da Pizzetti per i film Scipione
l’Africano (Carmine Gallone, 1937), I promessi sposi (Mario Comencini, 1942) e Il
mulino del Po (Alberto Lattuada, 1949) basandosi sulle partiture autografe custodite
presso la Harvard University e su alcuni scritti critici sulla musica per film di
Ildebrando Pizzetti e Fedele D’Amico. Delle tre partiture solo quella per Scipione è
completa mentre le altre risultano frammentarie e spesso allo stato di abbozzi di
lavoro.

9. Cfr. A. Casella, Il Pianoforte, ed. Ricordi, 1954, p. 103.

10. Cfr. supra, nota 3.

11. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 566.

12. Cfr. F. Busoni, Valore della trascrizione, in Lo sguardo lieto (Tutti gli scritti sulla
musica e le arti di Busoni), Il Saggiatore, Milano 1977, p. 218.

13. Ibidem.

14. Cfr. F. Busoni, op. cit., p. 219.

15. Ibidem.

16. Ibidem.

17. Cfr. F. Busoni, Le edizioni delle opere per pianoforte di Liszt, in Lo sguardo lieto,
Il Saggiatore, Milano 1977, p. 38.

18. Cfr. F. Busoni, Valore della trascrizione, op. cit., Catalogo completo delle trascrizioni

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busoniane in Appendice.

19. Cfr. S. Sablich, L' originale e il suo doppio: la trascrizione in Busoni, in


Musica/Realtà, A 4, n. 11 (1983), p.91.

20. Cfr. F. Busoni, Valore della trascrizione, op.cit., p. 218

21. Cfr. F. Busoni, Valore della trascrizione, op.cit., pp. 217-218.

22. Cfr. F. Busoni, Le edizioni delle opere per pianoforte di Liszt, op. cit., p. 326.

23. Cfr. S. Sablich, op. cit., p.95

24. Cfr. A. Mantelli, Compositore e trascrittore, La rassegna Musicale VII, 1934.

25. Cfr. R. Caporali, Le trascrizioni pianistiche delle opere di Bach, in RaM, 1950.

26. Cfr. S. Sablich, op.cit., p. 97

27. Ibidem.

28. Ibidem.

29. Cfr. A.Schoenberg, Klavierstücke op. 11 n. 2, Konzertmässige Interpretation von


F.B., Wien Universal Edition 1910. "Klaviersetzer", propriamente sta, come
specificato da Busoni stesso, per "colui che compone per il pianoforte".

30. Cfr. supra ,S. Sablich, op.cit., p. 98

31. Cfr. G. Montecchi, Una storia della musica, artisti e pubblico, in Occidente dal
medioevo ai giorni nostri, Vol. I, ed. Superbur Saggi, Milano 1998, p. 573

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CAP. III DEBUSSY

III.I Debussy e l’amore per le arti

L’esistenza di Debussy fu permeata di incertezze; egli era sempre stato


interessato dalle persone estranee al suo ambiente e dalle arti diverse dalla sua.
Tutto ciò che si allontanava dalla norma, dalla mediocrità, tutto ciò che sembrava
trasgredire le regole del gioco della vita e dell’arte, ciò che sovvertiva le
convenzioni e che fosse prossimo all’esotismo, all’ignoto e allo scandalo
suscitava la sua attenzione. Per la sua formazione intellettuale furono importanti i
suoi rapporti con la bohéme di scrittori e pittori, infatti, oltre alla musica, il suo
spirito era aperto alla poesia. Egli era partecipe della vita artistica parigina,
sempre più ricca al di fuori delle istituzioni ufficiali e delle accademie:
frequentava i circoli degli artisti come lo Chat noir, dove si tenevano i venerdì
letterari di un gruppo artistico nato su iniziativa di Goudeau, o i “martedì di
Mallarmé”, il Café Voltaire, la Librairie de l’Art Indépendent, tutti luoghi
d’incontro degli artisti dell’epoca che portano Debussy ad avvicinarsi al
simbolismo. Fra questi incontri quello più importante e significativo fu quello al
n. 89 di rue de Rome, al circolo dei “martedì di Mallarmé”: essere ammessi a
questo “prestigioso” circolo equivaleva ad ottenere dalle mani del padrone di
casa un titolo di nobiltà intellettuale.1

Non è un caso che Debussy si avvicinò al simbolismo; come tutti i grandi artisti,
egli si rifiutava di ripetere formule superate e si legava all’avanguardia del suo
tempo. L’apporto degli impressionisti fu duraturo, ma la loro estetica, già allora,
non soddisfaceva più nessuno. Essa aveva dato un potente impulso alle ricerche
in tutti i campi dell’arte, ma non aveva fornito la chiave universale che
permettesse di risolvere tutti i problemi che sorgevano. Il simbolismo
considerava l’arte come simbolo, un simbolo ambiguo e dinamico che unisce il
mondo delle idee al mondo delle cose. Solo facendo propria questa

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consapevolezza era possibile comprendere l’opera d’arte ed integrarne i mezzi. Il
movimento simbolista era cominciato in poesia ed in musica, i suoi precursori
erano stati Baudelaire i Wagner. La poesia è più vicina alla musica di quanto non
lo sia la pittura e perciò fu dapprima la fonte d’ispirazione di Debussy; la pittura
lo su solo nella misura in cui voleva essere poesia, nella misura in cui si
rivolgeva a tutto l’uomo e non solo alla sua intelligenza o ai suoi sensi. La sua
arte comunque affonda le sue radici spirituali sia nell’impressionismo che nel
simbolismo.

Debussy allorché ragionò di musica, per difendere i propri ideali di musicista e


per chiarirli a se stesso e agli altri, disse, in sintonia le ragioni e gli ideali dei
pittori e dei poeti suoi confratelli:

[…]Les musiciens n’écoutent que la musique écrite par des mains


adroites; jamais celle qui est inscrite dans la nature…Il faut chercher
la discipline dans la liberté et non dans le formules d’une philosophie
devenue caduque et bonne pour les faibles. N’écouter les conseils de
personne, sinon du vent qui passe et nous raconte l’histoire du
monde[…]2

[…]I musicisti ascoltano solo la musica scritta da mani esperte; mai


quello che è scritto nella natura ... Dobbiamo cercare la disciplina
nella libertà e non nelle formule di una filosofia diventata vuota e
buona per i deboli. Non ascoltare i consigli di nessuno, se non del
vento che passa e racconta la storia del mondo[…]

Questa dichiarazione di principi compare sulla Renvue Blanche nel 1901, quando
Debussy aveva trentanove anni e il Pelléas et Mélisande era ormai composto. Ma
erano concetti che da tempo egli andava mettendo in pratica e che aveva
enunciato anche in forme più brusche e aggressive, da ribelle contro le intoccabili
regole della tradizione scolastica, che, dentro e fuori le aule del Conservatorio, si
pretendeva fossero al di sopra di ogni possibile discussione. Per Debussy il vero
talento non poteva accettare senza discutere l’insegnamento ricevuto, poiché una

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fiducia eccessiva nelle formule scolastiche porterebbe all’indebolimento
dell’immaginazione.

III.II DEBUSSY vs WAGNER

Nel 1885 Debussy si può definire Wagneriano. Anche se negli anni conservatorio
egli aveva manifestato, fra il tracotante e il burlesco, delle vedute sull’armonia
che davano molti punti alle più spericolate audacie wagneriane, è naturale che
Wagner rappresentasse per Debussy l’espressione più avanzata, più antiscolastica
e più antiborghese del linguaggio musicale. Un Wagner conosciuto, acquisito e
assimilato più leggendolo al pianoforte che non ascoltandolo a teatro in una
Parigi dove Wagner non era ancora molto eseguito.

L’entusiasmo debussiano per la musica di Wagner attraversa la giovinezza e


culmina nel 1888 – anno successivo al suo rientro da Roma – quando si mette in
viaggio per Bayreuth dove ascolta il Parsifal e i Maestri Cantori: comincia a
vacillare invece nell’estate ’89, dopo il secondo viaggio a Bayreuth dove ascolta
il Tristano. Il 1889 segna il distacco da Wagner e l’inizio di quell’opposizione
aspra che Debussy non perderà occasione per proclamare. Un’avversione tuttavia
che aveva il suo fondamento in una divergenza di vedute sulla funzione dell’arte
in generale e sulla struttura del dramma in musica in specie. Secondo Debussy, il
sinfonismo introdotto da Wagner nell’opera non risolve il problema del dramma
musicale; inoltre, tale formula non evita la contraddizione:

[…]la musica ha un ritmo la cui forza segreta dirige lo sviluppo; i


moti dell’anima ne hanno un altro, più istintivamente generale e
sottomesso a molteplici avvenimenti. Dalla giustapposizione di questi
due ritmi nasce un perpetuo conflitto. Ciò non si compie nello stesso
tempo: o la musica si affanna a rincorrere un personaggio, o il
personaggio si siede su una nota, per permettere alla musica di
riacciuffarlo. […] l’applicazione della forma sinfonica ad un’azione
drammatica potrebbe certo arrivare ad uccidere la musica drammatica,
invece di servirla[…]3

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Ancora Debussy scriverà in proposito dei personaggi di Wagner:

[…]Pensate che non compaiano mai senza essere accompagnati dal


loro dannato Leitmotiv; ce ne sono perfino alcuni che lo cantano. Ciò
somiglia alla dolce follia di uno che, consegnandovi il suo biglietto da
visita, ve ne declami liricamente il contenuto […] e Wagner ha
esagerato questo procedimento fino alla caricatura […]. Pensate forse
che in una composizione una stessa emozione possa essere espressa
due volte? Bisogna non aver riflettuto, oppure è un effetto della
pigrizia. Non lasciatevi abbindolare dal cambiamento del ritmo o del
tono: ciò equivale, semplicemente, ad andare più oltre
nell’inganno[…]4

Il 1888 rappresenta dunque la massima punta della crisi wagneriana di Debussy.


La sua simpatia per il creatore di Siegfried, di Tristano e di Parsifal non significò
soltanto un’attrazione esteriore, un disinteressato fascino per un mondo musicale
che egli avrebbe potuto amare senza subirlo; ma costituì un aspetto della sua
avventura creativa al momento che questa veniva formandosi e ponendosi nei
suoi termini più autentici. Certi atteggiamenti linguistici di Wagner, del Wagner
soprattutto del Parsifal, affiorano a tratti lungo tutta l’opera di Debussy: dalla
Damoiselle Elue al Pelléas et Mélisande e al Martyre de Saint Sébastien.

L’incontro con la poesia di Baudelaire rappresenta il tradursi in musica del


momento culminante della crisi wagneriana di Debussy. Nei Cinq Poémes essa si
manifesta apertamente e in pari tempo vi si conclude; i riferimenti a Wagner
appariranno di qui innanzi filtrati e decantati, aspetti del linguaggio debussiano
che lasciano trasparire una luce proveniente dalle più pure pagine del Parsifal.

Non è un paradosso pensare che Debussy, in queste cinque melodie, non tanto
abbia preso le mosse da Baudelaire quanto da Wagner. Si potrebbe addirittura
affermare che Debussy, sul 1887, si sia trovato di fronte ad un problema di
linguaggio da risolvere, magari anche per estrinsecarlo e quindi liberarsene, -
crisi wagneriana – ed abbia cercato, e trovato, in Baudelaire l’appoggio poetico
più confacente.

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Quello che soprattutto disgustava Debussy nel compositore tedesco era la
trasparenza del simbolismo. Privi di qualsiasi ambiguità, i simbolismi
(Leitmotiv) wagneriani erano per Debussy solo una traduzione di frasi verbali,
una distrazione intellettuali a buon mercato per un ascoltatore dai gusti un po’
difficili. Non obbligandolo ad uno sforzo di immaginazione, essi non gli
permettevano neppure di conoscere il valore di un’esperienza estetica di una
certa profondità.

Per comprendere l’ideale debussiana della musica drammatica è importante


sottolineare quanto questo suo ideale si avvicini all’estetica di Mallarmé il quale
affermava in riferimento alla musica di Wagner:

[…]non sono tentato di imitare quello che ammiro in Wagner.


Concepisco una forma drammatica diversa: la musica in essa comincia
laddove la parola è impotente ad esprimere; la musica è fatta per
l’inesprimibile; vorrei che essa avesse l’aria di uscire dall’ombra e
che, a tratti, ci rientrasse; che fosse sempre discreta[…] 4

Debussy, in linea con concezione del dramma di Mallarmé, considererà il poeta


capace di scrivere un libretto d’opera conforme a queste esigenze colui che
«dicendo le cose a metà, mi permetterà di innestare il mio sogno sul suo; che
concepirà i personaggi la cui storia e la cui dimora non appartengono a nessun
tempo, a nessun luogo; che non imporrà, dispoticamente, la “scena da fare”, e mi
lascerà libero, in un punto o nell’altro, di avere più arte di lui, e di completare la
sua opera».5
Al fine di liberare i musicisti francesi dalla loro infatuazione per Wagner,
Debussy ricordò loro i gloriosi modelli del loro passato, non esitando a toccare la
corda del patriottismo:

[…]credere che le qualità proprie del genio di una razza siano, senza
danno, trasmissibili ad un’altra razza è un errore che ha falsato la
nostra musica abbastanza spesso, poiché noi adottiamo senza
diffidenza formule in cui non può entrare niente che sia francese […]
Io ho lasciato parlare la mia natura ed il mio temperamento. Ho

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cercato soprattutto di ridiventare francese. I francesi dimenticano
troppo facilmente le qualità di fierezza e di eleganza che sono loro
proprie, per lasciarsi influenzare dalle lungaggini e dalle pesantezze
germaniche […] la musica francese è la chiarezza, l’eleganza, la
declamazione semplice e naturale; la musica francese vuole, prima di
tutto, far piacere […] il genio musicale della Francia è qualcosa come
la fantasia nella sensibilità[…]6

Per Debussy non si tratta né di un’imitazione dei modelli del passato, né di un


ritorno alla musica antica. Quello che gli interessava era liberare l’arte
dall’egemonia germanica e spingerla su nuove vie. Così Debussy pensa ad una
nuova organizzazione del materiale sonoro:

[…]Già per Beethoven l’arte di sviluppare consiste in ripetizioni, in


incessanti riprese di motivi identici […]. E Wagner ha esagerato
questo procedimento quasi fino alla caricatura […]. Vorrei che si
arrivasse, arriverò ad una musica veramente libera dai motivi, o
formata da un solo motivo continuo, che niente interrompa e che non
ritorni mai su se stesso. Lo sviluppo non sarà più quell’amplificazione
materiale, quella retorica da professionista plasmato da eccellenti
lezioni, ma verrà preso in un’accezione più universale e, finalmente,
psichica[…]7

III.III La musica di Debussy e la poesia

Il 1887 – l’anno del rientro a Parigi dopo il soggiorno romano – è stato l’anno dei
primi fondamentali incontri di Debussy con alcuni degli aspetti più autentici della
cultura del suo tempo: coi preraffaelliti, e dunque col simbolismo, nella
Damoiselle Elue; con la vivente e incombente presenza di Wagner nei Cinq
Poèmes de Baudelaire; e finalmente con la poesia di Verlaine nelle Ariettes
oubliées che egli compone appunto tra l’87 e l’88. È la stagione fortunata e
feconda che vede Debussy venticinquenne apparire bruscamente alla ribalta della
storia a dare la misura del suo genio e della qualità dei problemi musicali che si
ponevano al suo gusto e alla sua natura di compositore.

La poesia di Verlaine, per vero, fin da sei anni prima, cioè fin dal 1881, era stata
assunta da Debussy come un punto valido di riferimento per appoggiarvi ed
innestarvi quella nativa freschezza di linguaggio sonoro, quella sensibilità

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immediata e quasi parlante delle immagini musicali che egli, dentro di sé, se pur
giovanissimo studente di conservatorio, intravvedeva. In altre parole, quel
complesso di attitudini spirituali e creative che, variamente atteggiate e
variamente applicate, rappresentano il nucleo inconfondibile e più autentico della
personalità debussiana. Quel complesso di attitudini che egli più tardi identificò
con lo spirito stesso della più genuina musicalità francese, della quale il più
schietto rappresentante, insieme a Couperin, a lui pareva essere Rameau.

[…]Couperin e Rameau, voilà de vrais Français… La musique


française, c’est la clarté, l’élégance, la déclamation simple et
naturelle[…]8

[…]Couperin e Rameau , questo è vero francese ... la musica francese,


è la chiarezza, l'eleganza, la declamazione semplice e naturale[…]

I legami che univano Debussy al simbolismo sono visibili non solo nella scelta
delle poesie, ma anche nel modo in cui è trattato il testo, nell’invenzione
puramente musicale che si sviluppa sul canovaccio delle parole e che permette al
compositore di oltrepassare in cerchio della musica funzionale, con il suo
simbolismo logoro, per aprire alla musica nuove prospettive. Nel 1911 Debussy
pubblica un testo molto significativo sull’atteggiamento del compositore verso la
poesia:

[…]I musicisti che non capiscono nulla di versi non dovrebbero


metterli in musica. I veri versi hanno un ritmo loro proprio. È molto
difficile seguire bene, “afferrare” i ritmi pur conservando
un’ispirazione. I versi classici hanno una vita propria, un “dinamismo
interno”[...]9

Il primo poeta che il giovane compositore amò fu Théodore de Banville, poiché,


univa con più freddezza la malinconia all’ironia e assecondava particolarmente la
“musica” dei suoi versi. Le melodie su parole di Banville, una decina, fanno parte
delle prime composizioni di Debussy. Fra queste, due meritano attenzione: Nuit
d’étoiles, pubblicata nel 1882 e in cui ritroviamo, nei primi cinque accordi

46
dell’accompagnamento, il motivo di Mélisande; Pierrot, composta nel 1882, ma
pubblicata nel 1926, annuncia già l’umorismo pieno di finezza che troverà una
brillante espressione in Fantoches, Children’s Corner o Boite à joujoux.
Un’armonizzazione sottile in cui sono già presenti parallelismi di settima ed il
motivo dell’accompagnamento astutamente trasformato, annuncia il musicista di
Colloque sentimentale.

L’ispirazione nasce anche dai testi di Leconte de Lisle: La fille aux chevenux de
lin, la cui grazia primaverile resisterà a tutte le tempeste del cuore, per apparire di
nuovo, sebbene in forma completamente differente, nel celebre preludio per
pianoforte che porta lo stesso titolo. Grazie alla raccolta di melodie popolari di
Feliper Pedrell, il giovane Debussy è attratto dalla fine ironica con cui Alfred de
Musset dipinge le persone ed il paesaggio in Les contes d’Espagne et d’Italie. Di
qui gli venne l’idea di scrivere musica sul piccolo quadro satirico Madrid,
principesse de Espagnes. Sarà solo in Serenade interrompe che Debussy riuscirà
a congiungere, come Musset, l’ironia e l’andatura “iberica” della sua musica.

Di notevole importanza sono anche le dieci melodie su parole di Paul Bourget,


scritte in circostanze e per ragioni diverse. Quasi tutti i versi di Bourget che
Debussy ha messo in musica raccontano ricordi malinconici di una felicità
passata. Già in Beau soir (1880 circa), sotto una melodia quasi “massenetiana”,
appaiono elementi che annunciano l’autore di Pelléas. La linea della melodia
segue il testo molto esattamente e fin dalle prime battute due tonalità
progrediscono parallelamente.

Debussy aveva subito ogni tipo d’influsso, ma ciò che colpisce sempre in lui, fin
dall’inizio ed in tutte le sue opere, è una straordinaria sensibilità alla parola, alla
sua sonorità ed al suo rapporto con la musica.

Nella sua musica vocale fin dalla giovinezza, un abisso lo separa dall’estetica del
romanticismo in declino. Debussy giungeva ai risultati più interessanti quando

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doveva misurare le sue forze con la poesia di Baudelaire, di Verlaine o di
Mallarmé. È ai loro testi che egli ricorreva più volentieri, forse perché non
ponevano ostacoli alla sua immaginazione, lo lasciavano libero di completare con
la sua musica il significato delle parole, mai espresso fino in fondo.
Caratteristiche di questa composizione sono la melodia giovanile, l’opposizione
di una grande estensione della voce umana ad un’estensione ridotta ed anche un
principio di strutturazione degli accordi differente da quello tradizionale: i
rapporti delle funzioni restano totalmente in sospeso, sia in seguito alla
sovrapposizione di semitoni o di seconde su relazioni semplici, sia all’impiego di
modulazioni inattese, e molto espressive, e all’introduzione di successione di
accordi non funzionali. Debussy ammetteva il principio della sottomissione
assoluta della musica, ma unicamente ad una poesia che lasciasse alla sua
fantasia tutto lo spazio che voleva.

[…]Credo che non potrò mai rinchiudere la mia musica in uno stampo
troppo corretto. Non parlo della forma musicale, ma solo da un punto
di vista letterario. Preferirò sempre qualcosa dove, in qualche modo,
l’azione sia sacrificata all’espressione lungamente perseguita dei
sentimenti dell’anima. Mi sembra che in tal caso la musica possa
approfondire e raffinare i mezzi espressivi[…] 10

È senz’altro nelle melodie composte sui testi di Baudelaire, che si compie la


svolta decisiva dell’opera di Debussy: il compositore si distacca dal passato
romantico e da Wagner, e rinnova la funzione ed il carattere dei mezzi antichi.
Queste melodie furono concepite sotto l’influsso di Baudelaire, wagneriano
entusiasta, ed anche sotto quello di Wagner stesso, all’epoca dei pellegrinaggi a
Bayreuth. Nel corso dei sedici lunghi mesi che separano la prima, La mort des
amants (XII, 1887), dall’ultima, Le jet d’eau (III, 1889), Debussy riesce a
liberarsi completamente dall’influenza di Wagner e ad opporgli la propria
estetica ed il proprio vocabolario musicale. Quello che gli interessa molto di più
che il lato sensibile dei fenomeni è associarli a pensieri e sentimenti. È con simili

48
procedimenti che Debussy liberava progressivamente la musica dagli spesi strati
di simboli tradizionali e restituiva alla musica la sua ambiguità.

Importante da ricordare ed approfondire è il rapporto che Debussy instaurò con


Mallarmè e con la sua arte. Il vero, primo incontro di Debussy con la poesia di
Mallarmé ha luogo allorquando si disegna nel suo spirito il proposito di comporre
una musica ispirata all’Aprè-midi d’un Faune, nel 1892. L’incontro di otto anni
prima, del 1884, rappresentato da una melodia composta su Apparition, poesia
giovanile di Mallarmé, è marginale. E Apparition annuncia piuttosto la
preraffaellita Damoiselle Elue; ma non fa punto presupporre gli accenti
nuovissimi dell’Après-midi.

Davanti al poeta che monologava davanti ad amici e discepoli per tre ore
consecutive rendendo vivente, come nei suoi versi più belli e nelle sue prose più
illuminate, il suo sogno dell’onnipotenza del verbo, Debussy rimaneva per lo più
silenzioso. I mondi di questi due artisti non ebbero che qualche circoscritta zona
di contatto: anche se l’Après-midi d’un Faune fu suscitatore di una delle più belle
pagine di Debussy; anche se i versi di Mallarmé condussero il musicista a trovare
in se stesso una vena miracolosamente pura di musica e così nuova, nel mondo
dei suoni, da condensarsi in un’opera che si pone come una pietra miliare, come
un luminoso caposaldo nella storia dell’arte musicale. L’Après-midi d’un Faune
è l’opera centrale e fondamentale dell’avventura poetica di Mallarmé; è il poema
dove un perfetto equilibrio si attua fra il canto spiegato delle prime poesie e il
rigore chiuso delle poesie ermetiche intessute su di un enigmatico, irresistibile
fiammeggiare di immagini. È il poema della grande stagione creativa di
Mallarmé11 . Ed è quello che – in molti suoi tratti – lo accomuna, più d’ogni altra
sua opera, ai pittori del suo tempo: a Monet, a Manet, a Renoir, e anche a
Cézanne. Ma è quello anche dove il poeta esercita i suoi primi memorabili
interventi sul linguaggio.

49
Ritornando a ciò che di Mallarmé il musicista ha trasferito nella sua opera, ecco
la dichiarazione con la quale egli stesso ne accompagnò la prima esecuzione:

[…]La musique de ce Prélude est une illustration très libre du beau


poème de Mallarmé. Elle ne prétend nullement à une synthése de
celui-ci. Ce sont plutôt les décors successifs à travers lesquels se
meuvent les désirs et les rêves du faune dans la chaleur de l’après-
midi. Puis, las de poursuivre la fuite peureuse des nymphes et des
naïades, il se laisse aller au sommeil enivrant, empli de songes enfin
réalisés, de possession totale dans l’universelle nature[…] 12

[…]La musica del Preludio è un esempio molto libero della splendida


poesia di Mallarmé. Non pretende di essere una sintesi di esso.
Piuttosto sono set successivi attraverso i quali si muovono i desideri e
i sogni della fauna selvatica nel calore del pomeriggi . Poi, stanco di
inseguire la fuga paurosa delle ninfe e delle naiadi, si lascia andare ad
un inebriante sonno pieno di sogni finalmente realizzati, di possesso
totale nella natura universale[…]

Le stesse cose, ma meglio formulate e più concisamente, le disse Mallarmé a


Debussy il giorno che questi gli fece ascoltare al pianoforte il suo lavoro. Le
riferisce egli stesso in una lettera scritta nel 1910 a G. Jean-Auby:

[…]Mallarmé vint chez moi, l’air fatidique et orné d’un plaid écossais.
Aprés avoir écouté, il resta silencieux pendant un long moment, et me
dit: “Je ne m’attendais pas à quelque chose de pareil! Cette musique
prolonge l’émotion de mon poème et en situe le décor plus
passionnément que la couleur”[…]13.

[…]Mallarmé è venuto da me, l'aria affaticata e ornata con un plaid


scozzese. Dopo aver ascoltato, è stato in silenzio per un lungo
momento, e ha detto: “Non mi aspettavo nulla di simile! Questa
musica prolunga l'emozione della mia poesia e situato in uno scenario
più appassionatamente di colore”[…]

Più tardi, probabilmente dopo la prima esecuzione cui assistette, Mallarmé


scrisse queste parole a Debussy:

50
[…]Votre illustration ne présente de dissonance avec mon texte,
sinon qu’aller plus loin, vraiment, dans la nostalgie et dans la lumière,
avec finesse, avec malaise, avec richesse[…] 14

[…]La tua illustrazione presenta dissonanza con il mio testo, se non


quella di andare avanti, in realtà, nella nostalgia e nella luce, con
finezza, con malessere, con ricchezza[…]

E qui il poeta disse davvero molto bene e sottolineò il tono appassionato e


sofferente che ha questa musica e che non sussiste, invece, nel poema.

Vent’anni dopo l’Après-midi d’un Faune, nell’estate del 1913, Debussy per la
terza volta trova in Mallarmé un punto di applicazione per la propria fantasia
creatrice. Il libro di versi del poeta gli offre tre poesie per comporre la sua
penultima opera vocale, i Trois Poèmes de Mallarmé.

Gli anni trascorsi dal tempo dell’Après-midi a quest’estate del ’13 avevano visto
Debussy tentare e realizzare delle pagine musicali di grande tenuta sonora e di
evidente e scoperto impegno strutturale, anche se la materia aveva pur sempre
rispecchiato quella tavolozza di sonorità aeree e nitide, liquide e trasparenti che
egli scoprì nell’orchestra e sulla tastiera fin dai suoi primi capolavori, siano essi
per l’appunto l’Après-midi o i Notturni, le Ariettes oubliées o il Quartetto. Ma
proprio a ridosso di questo 1913 egli tenta anche e realizza alcune composizioni
la cui struttura sembra toccare il limite estremo dell’immaterialità: e ciò non tanto
in virtù di una riduzione del peso sonoro vero e proprio, quanto in virtù di una
sorta di corrodersi e svanire di certe connessioni del discorso musicale che oserei
assimilare a quel che era avvenuto nella più matura pratica espressiva di
Mallarmé.

Un primo accenno a quella che stava per essere la poesia dei Notturni e la sua
novità rispetto allo stesso Après-midi d’un Faune – che allora non era ancora
formato nella sua stesura definitiva – abbiamo visto delinearsi in germe tra il ’92
e il ’93 nelle Proses lyriques. A queste quattro melodie segue l’Après-midi, che è

51
un paesaggio; come Debussy aveva dichiarato, la sua musica non voleva essere
una sintesi del poema di Mallarmé, ma rappresentava il susseguirsi degli scenari
attraverso i quali si muovo i desideri e i sogni del fauno nella calura meridiana.
Un paesaggio cantato secondo il ritmo fastoso e splendido della musica verbale
dell’egloga, che, per quanto di nuovo potesse contenere, non tagliava, nel suo
periodare e nell’articolarsi delle sue immagini, tutti i ponti col passato.

III.IV Innovazioni e tecniche sonore

Debussy è il primo compositore per il quale l’immagine sonora dell’opera


musicale è essenziale e per il quale essa è oggetto di cure particolari. È senz’altro
nel campo della tecnica sonora che egli compì la rivoluzione più profonda.

Parlando della sonorità reale dell’opera musicale si pongono due problemi:


quello della fonte del suono, cioè dei mezzi di esecuzione, e quello della maniera
in cui il compositore tratta il materiale sonoro. Debussy utilizza strumenti
tradizionali, ma riorganizza il materiale sonoro: fa cessare l’egemonia degli
ottoni, mette il più delle volte la sordina ai corni e alle trombe, dà la priorità ai
legni, usa volentieri l’arpa, la celesta, i gong, affida spesso parti importanti ai
pizzicati, tratta all’occorrenza voci umane come strumenti. Inoltre egli evita di
raddoppiare i timbri, sottolinea discretamente l’individualità dei gruppi
strumentali e, per poter sfruttare pienamente tutte le possibilità di uno strumento,
rifiuta il mito dei registri “naturali”.

Le diverse maniere di trattare il suono con l’aiuto della dinamica e


dell’articolazione derivano dalla tendenza ad allargare la sua scala dei valori
sonoro. Mentre nei romantici la forza del suono è quasi obbligatoriamente,
direttamente proporzionale al suo volume, in Debussy spesso accade il contrario.
Si dice dunque con ragione che Debussy ha “ridotto il dinamismo” della musica.

52
La razionalizzazione del tempo nella musica di Debussy merita una particolare
attenzione: l’armonia funzionale non dava l’opportunità di comprendere
veramente il ruolo essenziale del fattore tempo. Soltanto lo sviluppo della musica
più recente ha fatto prendere coscienza del fatto che il movimento determina in
larga misura la sonorità dell’opera, e poiché sono i rapporti di durata e di
intensità che governano il movimento, la nostra maniera di vedere il ruolo del
ritmo, del metro e dell’agogica si è fondamentalmente evoluta. La stessa
successione di suoni può creare valori differenti, a seconda dei cambiamenti della
concezione agogica. Dal rinascimento in poi la musica europea coltivava il
monocronismo, la misura di tempo secondo un’unità invariabile, mentre in
Debussy si incontra spesso la poliritmia.

I timbri selettivi determinano il movimento della linea melodica, ma essi possono


anche condurre alla disintegrazione dell’elemento lineare e creare strutture
orizzontali che non si possono condurre alle categorie dei fenomeni melodici nel
senso tradizionale del termine. Poiché a Debussy importava la sonorità degli
accordi e non il lo concatenamento secondo successioni prestabilite, egli separò
realmente la melodia dall’armonia.

Gli accordi paralleli, così frequenti nella sua musica, fanno vacillare il principio
tradizionale della condotta delle voci. Debussy ha cambiato il ruolo ed il
significato del fattore armonico: l’armonia funzionale prevedeva un ordine
immutabile, mentre il lui gli accordi e le aggregazioni hanno il carattere di
strutture polivalenti, le serie di suoni estranei o di note di passaggio che,
nell’armonia tradizionale avevano il valore di un elemento che smorzava le
funzioni, acquisiscono per Debussy quello di elementi d’integrazione formale.

Non si aveva coscienza del fatto che ogni accordo non ha necessariamente un
significato armonico. Un’analisi della musica di Debussy che trascuri i suoi
valori puramente sonori sarà parziale, incompleta e deformante, ma è dalla

53
tecnica sonora di Debussy che prendono inizio le idee e le ricerche di tutta la
musica successiva sino ad oggi.

Quasi tutta la musica di Debussy emerge dal silenzio, svanisce a momenti e nel
silenzio ricade; il compositore sembra ascoltare i misteri della vita, della morte,
del “soprasensibile”. Debussy coglie l’ultimo soffio della vita sulla soglia stessa
che separa l’essere dal non-essere.

[…]Mi sono servito, molto spontaneamente del resto, di un mezzo che


mi sembra abbastanza raro, cioè del silenzio, come di fattore
espressivo e forse come il solo modo di far risaltare le emozioni di una
frase[…]15

Anche quando s’ispira alla natura, Debussy non si sforza mai di produrla e
traspone i suoi elementi solo per la gioia di ascoltarli in musica. Non è il quadro
che lo interessa, ma la percezione. L’illusione di istantaneità che Monet cercava
di realizzare, rendere i cambiamenti che intervengono alla superficie delle cose in
diverse ore del giorno, gli era estranea. La natura riveste nella sua musica un
ruolo secondario, è solo sogno.

I titoli che Debussy dà alle sue composizioni non posso indurre in errore. Era lo
spirito dell’epoca a suggerirgli il più delle volte dopo che la musica era stata
scritta. I titoli indicano la fonte d’ispirazione, la cosa originaria che ha dato il
primo impulso al compositore: un’immagine della natura, una poesia, una
vecchia leggenda, un personaggio della letteratura; ma l’ascoltatore ha la libertà
di cercare il significato nascosto dell’opera. Nell’avversione di Debussy per gli
sviluppi, nella sobrietà ascetica che egli imponeva alla sua invenzione melodica
si ravvisava un naturalismo sensualista, mentre, al contrario, il suo pensiero
musicale è agli antipodi di ogni illustrazione, dell’aneddoto, della musica a
programma o di qualsiasi asservimento alla natura.

Al fine di non rompere il legame della tradizione e conservare il contatto con i


suoi ascoltatori, Debussy si sforza si rimanere nei limiti della tonalità e

54
dell’armonia funzionale, ma li allarga all’estremo, ed attraverso il suono puro,
libero da qualsiasi funzione rappresentativa, apre la vita al nuovo pensiero
musicale. Gli accordi dissonanti cessano allora di essere una transizione fra due
tonalità, non preparano più la risoluzione, si liberano, accedono all’uguaglianza,
e perciò ogni legge di gravitazione e d’interdipendenza si trova esclusa, tutto è
rimesso in questione, assume un carattere ambiguo, polivalente, mentre gli
accordi paralleli sono un passo evidente sulla vita del pensiero sonoriale.

Fidandosi del suo istinto, Debussy infrangeva le regole consacrate, istituiva un


nuovo linguaggio musicale ed un nuovo simbolismo. Questo linguaggio
permetteva di volgersi verso uno spazio più vasto, liberato dalle schiavitù del
sistema tradizionale. La vera musica non si rivolge a quello che nell’uomo c’è di
individuale, ma a quello che c’è in lui di più profondo.

NOTE

1. Cfr. A. Savona, Claude Debussy Sinestesie, Tesi di Laurea, Conservatorio di Musica


“A. Scontrino”, Trapani, A.A. 2013/2014, p. 33.

2. Cfr. C. Debussy, Monsieur Croche antidilettante, Parigi, 1926, pp. 19-21.

55
3. Cfr. S. Jakoncinski, Debussy, Impressionismo e Simbolismo, ed. Discanto, Firenze,
1980, p.

4. Ibidem.

5. Cfr. S. Jakoncinski, Debussy, Impressionismo e Simbolismo, op. cit, p.

6. Ibidem.

7. Cfr. S. Jakoncinski, Debussy, Impressionismo e Simbolismo, op. cit., p.

8. Cfr. S. Jakoncinski, Debussy, Impressionismo e Simbolismo, op. cit., p.

9. Cfr. AA.VV., L’APPRODO MUSICALE, Rivista Trimestrale di Musica, a cura di A.


Mantelli, Roma, ed. ERI, N. 7-8, anno II, Luglio-Dicembre 1959, p. 32.

10. Cfr. E.Lockspeiser, Claude Debussy, ed. Fratelli Melita, Genova, 1990, p.

11. Cfr. E.Lockspeiser, Claude Debussy, op. cit., p.

12. Cfr. AA.VV., L’APPRODO MUSICALE, Rivista Trimestrale di Musica, op. cit., p. 37.

13. Cfr. AA.VV., L’APPRODO MUSICALE, Rivista Trimestrale di Musica,op. cit., p.38.

14. Ibidem.

15. Cfr. E.Lockspeiser, Claude Debussy,op. cit., p.

Cap. IV RAVEL

IV.I La trascrizione in Ravel

56
Tra le figure più rappresentative e significative nell’evoluzione dell’arte della
trascrizione sicuramente si colloca Maurice Ravel.

La trascrizione in Ravel diviene addirittura un fatto integrante e necessario nel

complesso della sua attività creativa. Le opere di Ravel per pianoforte, messe in

seguito in partitura dallo stesso autore, sembrano essere state concepite per

orchestrazione, in virtù della gamma pressoché illimitata di effetti coloristici, di

gradazioni di tocco, di sfumature che presentano. Ma tali opere pianistiche non si

devono considerare alla stregua di “modelli” o di realizzazioni provvisorie e

occasionali di idee da destinarsi successivamente a altro mezzo fonico, bensì

come autentiche e definitive creazioni, la cui sostanza musicale era tuttavia tale

da prestarsi spontaneamente alla versione orchestrale.

Da una parte, dunque, vi è una realizzazione pianistica che allude, in certo senso,

i timbri dell’orchestra, o, quasi, un’orchestrazione allo stato potenziale; dall’altra

un compositore sensibile, strumentatore abile e colorito.

Nascono così le stupende versioni orchestrali che si affiancano a quelle originarie


per pianoforte: creazioni, le une e le altre, di uguale valore estetico, strettamente
legate eppure indipendenti. È significativo, al riguardo, quanto ha scritto H.
Jourdan-Morhange di Alborada del Gracioso, pagina celebre del repertorio
sinfonico, il cui equivalente per pianoforte risale alla raccolta Miroirs (1905):

[…]Nella tecnica pianistica di Alborada de Gracioso, Ravel si è


dilettato a creare un complesso tale di sonorità che, ancora una volta,
l’orchestrazione composta qualche anno dopo presenta tutti gli aspetti
dogmatici di un lavoro originale. Oserei dire che l’orchestrazione
supera, in brio, la versione primitiva. Certamente si tratta di un

57
secondo capolavoro; chitarre, nacchere, sonagli, ritrovano in orchestra
il germe della materia primordiale, lo scintillio dei loro timbri
nativi[…]1

Particolarmente interessanti, fra le altre versioni orchestrali raveliane di opere


proprie, sono quella di alcuni brani della suite Le tombeau de Couperin, attuata
con estrema semplicità e con sicura sensibilità timbrica, e quella di Ma mère
l’oye, nella quale si trova anche uno dei primi importanti “assolo” del
controfagotto, cui Ravel affida il motivo rauco ed aspro della “Bête”.2

Strumentatore abile e raffinato, Ravel confermò le sue straordinarie doti di


trascrittore anche con versioni orchestrali di composizioni di Chopin, Schumann,
Chabrier, Musorgskij, Debussy e Satie.

Dal Menuet pompeaux di Chambrier, che vuol ironizzare enfaticamente un tema


di danza, egli ricavò, per esempio, una partitura che riesce ad accentuare
maggiormente il tono tronfio e presuntuoso dell’opera originale.

Nel 1922 con la versione sinfonica dei Quadri di un’esposizione per pianoforte di
Musorgskij, egli toccò il vertice non tanto per l’abilità con cui riuscì a mettere in
atto tutte le risorse della tecnica orchestrale, quanto soprattutto perché, come
afferma Mantelli,

[…]pur restando fedelissimo alla materialità delle note e delle armonie


del testo originale, Ravel le ha risentite attraverso la propria sensibilità
timbrica e ha impresso nella sua trascrizione il sigillo del proprio stile
di musicista. Di musicista, e non solo di espertissimo
strumentatore[…]3

58
Se da una parte l’orchestrazione dei Quadri colpisce per la ricchezza degli effetti
e per l’impiego allora inconsueto o addirittura nuovo di certi strumenti, dall’altra
essa costituisce «un ripercorrimento ideale dell’originale pianistico […], quella
che in Musorgkij era incisiva caratterizzazione, creazione drammatica di
ambienti e personaggi, stagliati con pennellate crude e violente, in Ravel diviene
elemento vivido di colore, brillante tavolozza di impressioni, paesaggio sonoro». 4
Questa trascrizione ha fatto quasi dimenticare, per un certo tempo, l’originale di
Musorgskij ed è entrata nel repertorio sinfonico con le pagine più significative di
Ravel, raggiungendo vasta popolarità. Non si può non rilevare il gusto raffinato
che anima l’orchestra leggera e scintillante del Balletto dei pulcini (V quadro),
l’effetto della tromba in sordina, che sola poteva far sentire i deboli lamenti
dell’ebreo povero (VI quadro), e la scelta felice di destinare al sassofono
contralto la melodia del II quadro de Il vecchio castello.5

59
Ravel si trovò ad entrare nella vita artistica proprio quando l’avvento di Debussy
aveva trasformato completamente l’aspetto del mondo musicale, polarizzando e
riunendo in fascio tutti i sogni, le aspirazioni, i presentimenti e le ambizioni più o
meno incerte dei giovani musicisti de suo tempo. Così la carriera di Ravel fu per
molto tempo resa difficile dall’errata convinzione che egli non fosse altro che un
sottoprodotto, quanto si voglia luminoso e illustre, dell’arte debussiana. Diversi
musicologi e critici musicali affermano che tuttavia non avrebbe dovuto essere
così difficile distinguere la musica di Ravel da quella di Debussy.

IV.II Ravel e Debussy

Ravel si trovò ad entrare nella vita artistica proprio quando l’avvento di Debussy
aveva trasformato completamente l’aspetto del mondo musicale, polarizzando e
riunendo in fascio tutti i sogni, le aspirazioni, i presentimenti e le ambizioni più o
meno incerte dei giovani musicisti de suo tempo. Così la carriera di Ravel fu per
molto tempo resa difficile dall’errata convinzione che egli non fosse altro che un
sottoprodotto dell’arte debussiana. Ma una composizione minore, come Sainte
(1896), o una pagina senz’altro più importante, come la Habanera (1895), sono
già sufficientemente indicative del fatto, che più tardi avrà sempre nuove
conferme, che Ravel si muoveva, sin dai suoi primi saggi musicali, in una
dimensione di gusto nettamente diversa da quella in cui agiva ed avrebbe
continuato ad agire Debussy. Solo tra il 1892 e il 1893 Ravel subì il fascino
incondizionato dello stile debussiano, concependo una profonda ammirazione per
l’Après-midi d’un faune, eseguito per la prima volta il 23 dicembre 1894.

A dispetto delle congetture sopracitate i primi influssi musicali ad agire su Ravel


furono gli stimoli provenienti da Satie e Chabrier. La crudezza incisiva e
popolaresca del segno sonoro di Chabrier lo attraeva tanto quanto le legnosità
ingenue, burlesche ed eroiche di Satie. È interessante osservare come la lezione

60
di Satie abbia agito oltre che al momento del suo primo esordio di compositore,
anche più tardi, in particolare con la scrittura estremamente semplificata di Ma
mère l’Oye, suite infantile per pianoforte a quattro mani, composta nel 1908. Non
è difficile infatti riconoscere una forte affinità con Gymnopedèpies per
pianoforte, composte da Satie nel 1888. Ravel si esprime in questa composizione
con un linguaggio meno schematico, con una semplicità sottile e raffinata, dopo
essere passato attraverso al virtuosismo pianistico di Jeux d’eau (1901), di
Miroirs (1905) e di Gaspard de la nuit (1908). Queste pagine musicali seguono
la composizione delle opere debussiane l’Après-midi d’un faune (1894), i
Notturni (1899) e il Pellèas et Mèlisande (1902), opere che avranno una
consistente incidenza sul successivo manifestarsi della personalità raveliana,
come provano Jeux d’eau, Shèhèrazade e la melodia per canto e pianoforte Les
grands vents venus d’outre-mer. Nonostante il fascino subito dalle suddette
composizioni debussiane, bisogna tenere ben presente che negli anni che vanno
dal 1895 al 1906 Ravel scrive delle pagine nelle quali pone nettamente le
premesse di quelli che saranno alcuni tratti fondamentali della sua personalità
artistica, in modo del tutto indipendente dall’esperienza stilistica debussiana.

L’orientamento stilistico di Ravel si delinea prima ancora che compaia l’Après-


midi d’un faune (1894), la prima grande composizione di Debussy e dove questi
per la prima volta si esprime e si manifesta nella sua incredibile genialità. Grazie
a quest’opera è facile comprendere come, di fronte alla natura, di fronte alla
visione paesistica, Ravel si comporti in modo nettamente diverso da Debussy nei
confronti dei soggetti e delle composizioni, nonostante l’espressione di questo
interesse comune. Un’attenta osservazione e analisi di queste differenze favorisce
senza dubbio l’esclusione assoluta di Ravel dall’impropria identificazione con
l’impressionismo. L’opera pianistica di Debussy e quella di Ravel consente di
mettere a confronto alcune composizioni aventi nella loro ispirazione paesistica e
figurativa una certa affinità di relazione. Una più accurata analisi di questa

61
affinità di relazione permette di approfondire e delineare come la fantasia dei due
musicisti operi secondo un modo nettamente diverso nell’uso e nell’esposizione
della materia sonora.

Si pensi a Jeux d’eau, a Une barque sur l’Océan, a Ondine di Ravel; e, di


Debussy, a Reflets dans l’eau e al preludio che pure si intitola Ondine; oppure
alla Vallée des cloches di Ravel e per contro a Cloches à travers les feuilles di
Debussy. V’è senza dubbio sia nell’uno che nell’altro un comune interesse visivo
e acustico. Un interesse, tuttavia, che in Ravel è limitato a un certo numero di
opere e al primo periodo della sua attività che può considerarsi chiuso con le tre
grandi pagine pianistiche di Gaspard de la nuit (1908) e con l’affresco sinfonico
Daphnis e Chloé (1909-1912).

Prendiamo ad esempio due celebri pagine ispirate alla mobilità lucida,


trasparente e colorata dell’acqua: Ondine appartenente al secondo fascicolo dei
Preludi di Debussy e Ondine appartenente ai tre pezzi per pianoforte intitolati
Gaspard de la nuit di Ravel. In Debussy gli elementi musicali si ordinano e si
compongono in una mobile fluttuazione di immagini quasi indeterminate,
macchie sonore altalenanti tra evidenza e trasparenza. In Ravel, invece,
ritroviamo un insieme di segni sonori circoscritti con una voluta determinazione
e precisazione melodica di cui non si perde mai il filo e che ne costituisce il
contorno fermo e nitido.

Ondine di Debussy è tra le composizioni di questo compositore che più hanno


spinto a parlare di un impressionismo debussiano; proprio perché sembra che
sulla tastiera del pianoforte il musicista abbia creato delle immagini sonore che
richiamano alla memoria le opere di Monet, una sequenza di immagini che si
susseguono con un incredibile gioco di luci e trasparenze suscitate dai movimenti
capricciosi dell’acqua. A questa irrazionale ed inafferrabile successione di
immagini evanescenti, suggerite da sfuggenti frammenti di melodie dell’Ondine

62
debussiana, si contrappone la nitida fermezza del segno sonoro di quella di
Ravel: la continuità della melodia che si sviluppa senza interruzioni lungo tutto lo
svolgimento del pezzo. Se quindi è attendibile ed ha un fondamento riferire il
gusto e la tecnica di molte composizioni di Debussy ad alcune espressioni
pittoriche dell’impressionismo, è però altrettanto evidente che non si può parlare
per Ravel di derivazione debussiana e di gusto impressionista. Non si può parlare
cioè di derivazione debussiana se non nel senso molto lato della naturale
incidenza su Ravel di una cultura dalla quale tuttavia egli si scopre sempre più
estraneo e a tratti addirittura antitetico.

In Debussy gli elementi musicali si ordinano e si compongono in una mobile


fluttuazione d’immagini appena determinate, quasi macchie sonore ora isolate,
ora l’una sfrangiata nell’altra in un delicato trascolorare di trasparenze. In Ravel
un insieme di segni sonori circoscritti con una volta e quasi razionale
precisazione melodica di cui non si perde mai il filo e che ne costituisce il
contorno fermo e nitido.

Esiste un’opera nella quale Ravel ha ceduto, più che in nessun altra, al fascino
dell’ispirazione debussiana: Shèhèrazade. Questa forte influenza debussiana è
dichiarata dallo stesso Ravel nello Schizzo autobiografico del 1928. La vocalità
di questa composizione ha in sé i medesimi tratti della vocalità espressa da
Debussy nel declamato che caratterizza Pellèas et Mèlisande. Ravel aveva subito
così profondamente e intimamente il fascino del declamato vocale dell’opera di
Debussy (dell’anno precedente rispetto alla composizione di Shèhèrazade) che
aveva assistito a tutte le rappresentazioni del primo allestimento dell’opera.
Anche la sinfonia coreografica Daphnis et Chloè costituisce un tratto dell’eredità
debussiana, in quanto essa trasferisce in orchestra e nei termini di una vasta
struttura musicale, che doveva dar sostegno ad una complessa e articolata
vicenda coreografica, quel mondo di emozioni che in Jeux d’eau, in Miroirs, e in

63
Garpard de la nuit erano affidate alla tastiera del pianoforte, e cioè ad una
dimensione sonora ben più intima e ristretta.

Esiste ancora un altro punto di incontro tra Debussy e Ravel: la poesia di


Mallarmé. Debussy compose infatti Soupir, Placet futile e Eventail; e Ravel
Soupir, Placet futile e Surgi de la croupre et du bond. I due fascicoli consentono
uno studio comparativo accurato utile a determinare, attraverso la percezione
affettiva e della scrittura musicale, che cosa unisca e che cosa distingua i due
grandi musicisti francesi. Un’altra opera lega Ravel al poeta francese, Trois
poèmes de Mallarmé. I pezzi furono composti nel 1913 e segnano il passaggio
all’orientamento verso un linguaggio sonoro più semplice e diretto di quello
praticato nelle composizioni anteriori al 1910. Nel 1913 Ravel si era recato a
Clares sul lago Lemeano per lavorare insieme a Stravinskij all’orchestrazione
delle parti di Kovancina lasciate allo stato di abbozzo da Mussorgskij: lavoro che
i due musicisti eseguivano per conto dei balletti russi di Diaghilev. Stravinskij
aveva da poco terminato la Sacre du printemps e stava lavorando ad una piccola
composizione per voce, due flauti, due clarinetti, pianoforte e quartetto d’archi: le
Trois poèsie de la lyrique japonaise. Secondo le dichiarazioni di Stravinskij,
l’ascolto di queste sue liriche giapponesi, suggerì a Ravel la composizione di
qualcosa di analogo in organico, scrittura e tessitura sonora. Così come Ravel era
suggestionato da Stravinskij, questo a sua volta era suggestionato dal Pierrot
lunaire di Schönberg che aveva sentito qualche mese prima a Berlino. A questo
punto diventa comprensibile come Ravel, suggestionato dai risultati timbrici
raggiunti da Schönberg nel Pierrot lunaire e dalla raffinatezza di scrittura delle
Trois poèsie de la lyrique japonaise, abbai elaborato queste tre pagine di musica
preziose, ma considerate un po’ ai margini di quella che si può pensare fosse
allora la sua più autentica vocazione creativa.

Lungo tutto il corso dell’attività creatrice di Ravel si trovano alcune opere che
hanno un diretto riferimento ad espressioni musicali popolari: dall’Habanera del

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1895, L’alborada del Gracioso, la Raspodie Espagnole, la rapsodia per violino
Tzigane, il Bolèro, fino ai tre poemi Don Quichotte à Dulcinèe del 1932. In
queste opere è particolarmente evidente ed esplicita la tendenza ad impiegare e
valorizzare strutture sonore definite con un segno preciso e tagliente che fanno
dello stile raveliano qualcosa di ben diverso da quello di Debussy. gli schemi
ritmici costanti e scanditi con evidenza, le melodie dalla linea netta e precisa e le
cadenze armoniche che sottolineano con estrema semplicità la dinamica di una
frase, danno al discorso musicale una determinatezza formale chiaramente
lontana dal gusto impressionista debussiano.

Bisogna subito chiarire che questa tendenza di Ravel a rifarsi a degli schemi
popolari non risponde affatto ad un’esigenza di trovare in essi un materiale
particolarmente fresco, genuino ed incorrotto, ma risponde invece alla sua
necessità musicale di inventare forme sonore strutturate con esattezza di segno.
Quanto v’è di schematizzato e di cristallizzato, nel suo immutato ripetersi, nella
musica popolare offre al musicista un certo numero di dati sui quali egli
costruisce il pezzo con una lucidità razionale.

Sottolineata ed affermata con esplicita chiarezza la diversità che distingue questi


due musicisti, non si può comunque negare che Debussy sia stato un antecedente
determinante per Ravel. Uno degli aspetti fondamentali della rivoluzione
debussiana era consistito nell’affermare l’indipendenza e l’autonomia degli
accordi dissonanti, cioè la non obbligatorietà di una loro immediata o mediata
risoluzione in accordi consonanti. Ciò significava mettere in forse i principii
dell’armonia tonale per cui gli accordi dissonanti costituiscono delle
aggregazioni sonore instabili, tendenti ad essere seguite da aggregazioni sonore
stabili, cioè da accordi consonanti. Il linguaggio armonico debussiano è
essenzialmente caratterizzato da un larghissimo impiego di accordi che non
hanno la loro soluzione tradizionale. Da che consegue il senso, tipico in questa
musica, di una oscillante indeterminatezza: gli accordi si susseguono senza che lo

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loro connessioni obbediscano alla legge tonale che stabilisce un rapporto di
convergenza della dissonanza verso la consonanza. L’accordo sembra allora
sprigionare un alone di suono che gli ristagna intorno, una zona di vibrazione che
è quella sorta di tessuto connettivo che consente ogni accostamento armonico
fuori dal regime tradizionale derivante dal rapporto di interdipendenza tra
dissonanza e la consonanza.

Ravel fa sua l’acquisizione debussiana dell’autonomia della dissonanza, ma per


farne un uso quasi opposto. Mentre le dissonanze di Debussy sono morbide,
alonate, quelle di Ravel sono dure, taglienti e secche; non possiedono alcuna
forza espansiva, non sono valori armonici instabili cui è negata una soluzione, ma
sono valori armonici statici che non possono e non devono avere una soluzione.

Se l’armonia di Debussy può dirsi allusiva, quella di Ravel è esatta e nitida,


seccamente definita. Ravel non possiede quella sensibilità estremamente
vibratile, quella recettività sensibile che è caratteristica di Debussy e che dona
alla sua scrittura una mirabile compiutezza poetica ed evocativa. Ravel tende a
prendere le mosse da premesse di ordine formale, a preordinarsi uno schema
costruttivo, con lo stesso svolgersi dell’ispirazione: nasce e si sviluppa con una
spontaneità vegetale; a volte si scorgono simmetrie e corrispondenze tra gli
episodi, a volte lo sviluppo è puramente fantastico.

La volontà costruttiva di Ravel si risolve inoltre nel gusto per il particolare


prezioso e raffinato; egli è finissimo cesellatore, imperterrito artigiano della
battuta. Anche qui ci troviamo di fronte ad una conseguenza dell’estetica e della
pratica debussiana che Ravel porta a conclusioni totalmente autonome e originali,
indipendenti da quel che può esserne stata la fonte. Mentre il musicista lavora a
raffinare una sonorità scopre il valore plastico degli accordi; egli rompe con le
sonorità evanescenti e impressioniste di Debussy e si avvia per la strada della
dissonanza dura, chiusa in se stessa, senza via di uscita. È la reazione al

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debussismo che conduce agli accordi paralizzati nelle loro irrimediabili ed
insolubili dissonanze ed alla emancipazione della melodia come elemento
autonomo.

Per Debussy la poesia e l’anticonformismo sono gli elementi indicativi ed


estremamente tipici del suo carattere di uomo ed insieme del significato
rivoluzionario della sua musica. Ravel, invece, è ormai al di là di questo
momento di rottura del quale Debussy era stato elemento determinante e
protagonista incomparabile.

IV.III Jeux D’eau

Nel mettere a confronto le personalità compositive di Ravel e Debussy risulta


necessario esporre il «caso» sollevato da Jeux d’eau. Con questa pagina,
composta nel 1901, Ravel si trovò involontariamente a tagliare la strada allo
svolgimento dello stile pianistico di Debussy. Debussy, dopo aver scritto
l’Après-midi d’un faune, i tre Notturni e Pelléas et Mélisande, si trova al vertice
della propria maturità artistica, e viene additato come tributario, quanto alla
scrittura pianistica, di Maurice Ravel.

La verità è che fino al 1903, anno di composizione delle Estampes, Debussy non
si era particolarmente impegnato nelle composizioni per pianoforte. Per quanto
musicalmente belli, i tre pezzi che compongono la suite Pour le piano non
riflettono neppure da lontano la novità, la genialità e la freschezza d’invenzione
orchestrale dell’Après-mini d’un faune e dei tre Notturni. Solo qualche anno
dopo egli scopriva il proprio stile pianistico: nel 1903 appunto con le Estampes e
poi nel 1904 con Masques e Isle Joyeuse, e nel 1905 con la prima serie delle
Images.

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Nel frattempo, cioè nel 1901, compaiono i Jeux d’eau, un pezzo per pianoforte
nel quale questo strumento sembra esprimersi per la prima volta con una voce
nuova, memore a tratti di Chopin e di Liszt, ma timbrata di liquide e trasparenti
sonorità quali dalla tastiera non erano mai state suscitate. In certo senso col
pianoforte di Jeux d’eau Ravel aveva scoperto un nuovo mondo sonoro.

Quando, dopo la comparsa del primo quaderno delle Images debussiane, taluno
eccedette nell’esaltare in Debussy il creatore di un nuovo pianismo, il
ritrosissimo Ravel fu indotto ad una rettifica che egli affidò ad una lettera
indirizzata il 5 febbraio 1906 a Pierre Lalo.

[…]ous vous étendez assez longuement sur une écriture pianistique


assez spéciale dont cou attribuez l’invention à debussy. Or, les Jeux
d’eau ont paru au commencement de 1902, alors qu’il n’xistait de
debussy quel es troi pièces Pour le piano, oeuvres pour lesquelles je
n’ai pas besoin de vous dire mon admiration passionnée, mais qui au
point de vue pianistique, n’apportent rien de bien neuf[…] 6

[…]Voi avete atteso a lungo una scrittura pianistica molto speciale la


cui invenzione attribuire a Debussy . Tuttavia, Les jeux d’eau sono
apparsi all'inizio del 1902 , mentre di Debussy non esistevano che tre
pezzi per pianoforte, lavoro per il quale non ho bisogno di dirvi la mia
ammirazione appassionata, ma che, in termini pianistici, non portano
nulla di nuovo[…]

A parte il fatto che in questo incidente si era inserito del malanimo, è


comprensibile che coloro che seguivano di anno in anno l’attività dei due
compositori potessero allora cadere in questi errori di prospettiva. Se appare un
non senso ignorare l’esistenza della scrittura pianistica di Juex d’eau , rasenta
davvero l’incredibile un’affermazione come questa di Pierre Lalo, che nelle
Histoires naturelles fosse continuamente presente l’eco caratteristica della musica
di Debussy.7 Oggi simili questioni di priorità non hanno alcun senso. Rimane il
fatto, tuttavia non documentabile, che la novità del pianismo di Juex d’eau possa
avere, in modo indiretto, determinato il nuovo pianismo delle Estampes e poi

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delle Images di Debussy, il quale però è solo esteriormente affine a quello di
Ravel, mentre nella sua stretta concretezza è autonomo e personalissimo e non è
altro, in realtà, che la conseguenza delle premesse stilistiche affidate all’orchestra
dell’Après-midi d’un faune e dei Notturni. Di queste due composizioni
orchestrali debussiane si potrebbe, d’altra parte, e per certi versi, considerare
tributario il gusto sonoro di Jeux d’eau.

IV.IV Histoires Naturelles

Alcuni sghignazzarono, la sera del 12 gennaio 1907, quando, alla sala Erard, Jane
Bathori e Ravel arrivarono alla frase iniziale del Martin-Pêcher: «ça n’as pas
mordu ce soir».

Il degno Pierre Lalo coniò una battuta salace, affermando che si trattava di «café
conc’avec des neuvièmes»; Gaston Carraud fece il distaccato assicurando che,
dopo tutto, non erano in gioco le sorti della musica francese; lo stesso Jules
Renard, autore della raccolta di prose donde erano stati tratti i cinque episodi di
Histoires naturelles, si mostrò diffidente: registrò nel Journal il freddo rifiuto, che
egli aveva opposto a Thandée Natanson, di conoscere Ravel; e poi l’incontro col
compositore del quale annotò, pur senza gli abituali commenti mordaci, una
dichiarazione di estetica musicale.

Naturalmente, inorridirono i professori della Schola Cantorum, essendo rimasti


soli a far la guardia alla tradizione, dopo che Fauré aveva provveduto a
svecchiare il Conservatorio col persuasivo metodo delle dimissioni forzate per i
dissidenti, meritandosi dai retrivi la definizione di Robespierre, smanioso della

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charrette e della ghigliottina. Dal canto suo, Debussy non si peritò di accusare
Ravel di artificio chimerico, di esibizionismo e di imbroglio, cercando di
influenzare, in privato, l’editore Durand e il critico Laloy; lodò, a denti stretti,
soltanto Le Cygne. Ma è comprensibile che non gli piacesse vedere il recitativo di
Pelléas et Mélisande abbassato al livello di animali da cortile.

Il precedente di Chambrier, che aveva messo in musica la Ballade des gros din-
dons e la Pastorele des cochons roses, non faceva che sottolineare la cocasserie,
in realtà accessoria, della raccolta di Ravel.

Lo scandalo nacque da una circostanza innocente, benché inconsueta in Francia:


il testo di Histoires naturelles era in prosa invece che nei versi prescritti dalla
consuetudine; inoltre, la prosodia musicale seguiva le leggi della lingua parlata e,
al pari delle canzonette, rispettava la e muta e le elisioni.

La prosa sembrava sconveniente nel genere della mélodie, dove Fauré aveva
raggiunto i verti del lirismo su testi aggiornatissimi della poesia francese; era
giustificata nell’opera di Debussy, per la sua destinazione al teatro e per le
vistose nuances adottate da Maeterlinck. Lo sole mélodidies importanti che
facevano eccezione erano Elégie di Berlionz e Elégie di Duparc, composte
rispettivamente nel 1830 e nel 1874, sullo stesso testo di prosa tradotto, di
Thomas Moore; ma rientrano ambedue nella varietà di mélodies improntata alla
scena drammatica secondo il modello inaugurato ai suoi tempi da Spontini; il
tono teatrale implicito nell’addio dell’eroe irlandese Robert Emmet, condannato a
morte, consentiva l’eccezione, che era d’altra parte relativa, in quanto Berlionz e
Duparc non aveva introdotto nella prosodia le radicali novità di Histoires
naturelles, limitandosi a una stroficità imposta alla prosa dagli usuali schemi del
recitativo operistico della melodia tradizionale.

La provocazione grave, da parte di Ravel, consisteva nell’aver scelto non soltanto


la prosa, ma proprio il linguaggio disadorno col quale Renard aveva imitato

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l’esposizione classificatoria della Histoires naturelles di Buffon, e nell’aver
accolto il titolo preso dalla monumentale opera dell’illustre naturalista. Ciò
implicava una deliberata volontà distruttiva del canto che, convenzionalmente
alimentato dalla poesia, veniva in tal modo applicato all’oggettività scientifica
trasformata in metafisico pince-sans-rire.

La decisione di Ravel appare logica e per nulla irriverente, se si considera la


natura delle sue mélodies precedenti a quella, in particolare, di Schéhérazade.

Era ovvio che, dopo il vers blanc di Tristan Klingsor, Ravel fosse tentato, magari
per puro sperimentalismo, dalla prosa; date le complesse relazioni fra metrica e
prosodia nella vocalità francese, poteva anche trattarsi di una semplificazione.
Ma dal punto di vista più impegnativo, in tutta la sua lirica vocale si era
accentuata la tendenza a definire le immagini della poesia nelle parti
tradizionalmente riservate all’accompagnamento, piuttosto che nelle ormai esili
possibilità del canto. Il pianoforte, e al caso l’orchestra, erano stati duttili
strumenti per questa impresa che, rendendo trascurabile il rilievo strofico della
melodia intonata dalla voce, finiva per rendere superflua la presenza della rima e
della strofa, infine anche quella del verso.

Al di fuori dell’opera di Ravel, questa tendenza affiora, ad esempio, nella grande


importanza del pianoforte nelle mélodies di Fauré, benché vi manchi la
contestuale equivalenza della musica con la poesia che compare già nel primo
saggio raveliano, Balade de la Reine morte d’aimer, e che prosegue
ininterrottamente tanto nei casi di melodia strofica (Sainte, Epigrammes de
Clément Marot) quanto nei casi, più frequenti, di intonazione del recitativo.
Fauré riproduceva il clima della poesia, mentre Ravel ne ricercava,
concretamente, le metafore, per calarle al vivo nella musica.

Histoires naturelles rappresentano il decisivo ribaltamento delle convenzioni, in


quanto vi era sottratta al canto la funzione di interpretare il significato del testo, e

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la parte covale era ridotta ad enunciare immagini destinate ad essere sviluppate
dal pianoforte nella pienezza delle sue facoltà timbriche, armoniche e anche
melodiche. L’operazione, quasi compiuta in Schéhérazade, poteva passare in
avvertita per alcuni residui lirici e virtuosistici nell’intonazione e per il fascino
della partitura. Ma in Histoires naturelles la secca inversione di compiti fra i poli
della mélodie ebbe la dirompente semplicità di una logica che, tratte le debite
conseguenze dall’evoluzione di un genere musicale, ne trasforma profondamente
la natura.

Ravel oppose alla tradizione un realismo impeccabile: restituì alla parola la sua
qualità comune di mezzo di comunicazione o di funzione referente, secondo la
corrente definizione della linguistica. Ne consegnò la raffigurazione alla musica
pura attribuendole, come punto di partenza, il descrittivismo che era largamente
diffuso nella letteratura musicale ottocentesca, e che del resto era stato costante
nella tradizione francese, attraverso i secoli. Liszt e gli ordres di Couperin,
Berlionz e la polifonia rinascimentale, si pensi alla Battaglia di Marignano, di
Jannequin, erano al fondamento di questa piccola rivoluzione trazionalista,
commentata concisamente nella Esquisse autobiographique:

[…]il linguaggio diretto e chiaro, la poesia profonda e nascosta dei


brani di Jules Renard mi attraevano da tempo. Il testo in sé mi
imponeva una declamazione particolare strettamente legata alle
inflessioni del linguaggio quotidiano[…]8

La duplice mutazione, sottaciuta nella Esuisse, modificava l’assetto della mélodie


e le relazioni consuete fra parola e musica; ma servì anche ad altri scopi: liberarsi
dal canto nella sua accezione ottocentesca, impraticabile per il suo stesso
esaurirsi nel Novecento; recuperare l’autonomia della forma musicale
sciogliendola dagli schemi correnti, e anche da qualsiasi schema che non fosse il
frammento; integrare rigorosamente l’immagine extramusicale nel linguaggio
della musica mediante una spersonalizzazione del dato psicologico, rappresentato
dal canto.

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Ravel si collocava in un estremo punto di avanzamento per quanto possibile
consentito dalla sua fedeltà ai fondamenti naturali del sistema. Nello stesso
tempo, riduceva al minimo l’intervento della personalità creatrice, con l’illusione
di una perfetta oggettività, cancellando il lirismo dal luogo nel quale era stato
posto dalla tradizione.

Una volta delimitati i campi della parola e della musica, alla prima toccava
inserirsi come segnale semantico nel corso della composizione e favorire così la
relazione apparentemente immediata fra la materia letteraria e l’invenzione
musicale: tale fu anche il successivo caso delle prose di Bertrand anteposte ai tre
episosi di Gaspard de la nuit, nei quali testo venne espunto invece che
incastonato nella musica, come variante di uno stesso principio strutturale.

La presenza del recitativo, in Histoires naturelles, impose la mobilità delle


immagini musicali, per tener dietro alla rapidità con la quale procede la
narrazione: si generò così un andamento frammentario che già si era delineato in
Asie!, e che risolveva la crisi della forma musicale, specie nella composizione
pianistica, in seguito alle tensioni raggiunte in Miroirs. Gli aforismi, rispetto ad
Asie!, di fecero più concentrati e circoscritti all’ambito sonoro del pianoforte. In
un discorso ellittico, Ravel poté sfruttare la natura realistica, quasi onomatopeica,
delle idee musicali integrandole fra loro in repentine contaminazioni indotte dal
racconto. L’incrociarsi di rapporti a tal punto complessi di tradusse in una
penetrante esplorazione timbrica, attraverso acuminate fratture della sintassi
musicale, provocate da una quasi automatica realizzazione dell’assunto letterario
lasciato allo stato di comunicazione, per i minimi livelli melodici consentiti al
recitativo.

L’automatismo è però illusorio. Fra il significato dei testi di renard e la loro


attuazione musicale, Ravel insinuò associazioni di idee che collegano materie
altrimenti incompatibili e che, straordinariamente, appartennero alla sua vita

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intima, in contraddizione con la volontà di far scomparire qualsiasi intrusione
psicologica nella struttura di Histoires naturelles. Manifestò le sue predilezioni
caratteristiche per l’antiquariato, nel riferimento a Buffon, autorevole
rappresentante del periodo tardo settecento e rivoluzionario, per il quale Ravel
ebbe ulteriori espressioni di omaggio nella scelta dei testi Parny per Chansons
Madécasses e nel canovaccio, da lui stesso progettato, per trasformare la versione
orchestrale di Valses nobels et sentimentales e il balletto Adélaide ou le Langage
de fleurs. Unì l’utile al dilettevole, ricorrendo ad autentici tic, dei quali sembrava
che il più sensibile fosse, per chi lo conosceva personalmente, l’aver riprodotto il
proprio modo di parlare nel recitativo di Histoires naturelles, compiendo un vero
autoritratto fonetico. Ma anche i suoi gusti musicali servirono a mediare la
rappresentazione degli animali: il grillo e la faraona rispondono ai richiami
adoperati comunemente dai clavicembalisti, il cucù e il chiocciare stilizzati, tanto
per citare esempi notissimi, da Daquin e da Rameau; il pavone, immaginato come
un vanitoso cortigiano del Re Sole, evoca il ritmo pomposo dell’éntre dei ballets
de cour secenteschi; il cigno corrisponde alla scorrevole e imperscrutabile
asimmetria delle ornamentazioni alla Chopin.

La brillante riuscita di simili citazioni, però, scompare nell’episodio


fondamentale della raccolta, per dar luogo a una discesa in regioni insondabili. E
nel Martin-Pêcheur si manifesta una vertiginosa impassibilità, nella quale
davvero la personalità creatrice si perde in ciò che si può definire letteralmente
ineffabile, vale a dire non esprimibile attraverso la razionalizzazione del
linguaggio. L’ionia antropomorfia del pavone assume la figurazione retorica del
ritmo puntato, interrotto dalle onomatopee: il portamento di voce al grido,
«Léon», che introduce una divertente ambiguità nella classificazione
dell’animale; il glissando pianistico che riproduce la ruota formata dalla coda; la
rituale cadenza, Avec majesté, piena di sussiego. La figurazione è però decisiva
nella struttura dell’episodio, nel quale l’ostinato esperisce le più remote zone

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armoniche e timbriche: la Forlane in Le Tombeau de Couperin, dieci anni dopo,
fu costruita nello stesso modo, ma non con la stessa vivacità suggerita dai gesti
inutili compiuto dal pavone nel genere del calco antiquario, Le Pavone è di gran
lunga l’esito migliore in confronto ai molti tentai da Ravel.

La struttura per frammenti è più sensibile in Le Grillon. Nella prima parte, il


trotterellare del grillo in arrivo è riprodotto dall’ostinato di semicrome in quartine
e dal verso del cucù; il suo affaccendarsi nell’assetto della tana implica il
sovrapporsi di una piccola melodia alla quartina iniziale, interrotta da
abbellimenti onomatopeici (altro riferimento ai clavecinistes); nella terza parte, il
grillo compie i gesti abitudinari di chi si prepara al riposo, e tende l’orecchio agli
inconsueti rumori notturni: è il momento nel quale si concentrano e si
contaminano le quartine, gli abbellimenti e il verso del cucù, in un episodio di
straordinaria sottigliezza timbrica, sottolineata dalle pause imposte del recitativo.
Infine, lo spettacolo della campagna, dove i pioppi si stagliano come dita che
indicano la luna(Musset l’aveva immaginata ironicamente come il punto di una i
sul campanile), dà luogo a una coda nella quale il canto accenna un’intonazione
tradizionale di mélodie, bruscamente decapitata dal prosastico verso del cucù.

Le Cygne concede di più al canto, ma ha anche l’avvio di uno studio pianistico


sui contrasti fra il ritmo irregolare della mano destra e quello binario della
sinistra, nel quale si allude al cigno che scorre sull’acqua. L’arpeggio di sette
note, alla mano destra, si divarica in zone timbriche più ampie e, attraverso la
figura di nove note, raggiunge la regolarità di otto divise in due gruppi; enuclea
una melodia, mentre il cigno immerge e ritira il niveo collo dall’acqua, in cerca
di nuvole. Il moto si arresta, quando il cigno rimane interdetto dalla sua
incapacità di cogliere i riflessi di nuvole nell’acqua e la media riaffiora
trasformandosi in un’iterazione cromatica che, scomparso il ritmo irregolare e
mobile, si aggira su se stessa con ossessiva simmetria. La ripresa propone ancora,
come all’inizio, l’immagine del cigno, ma l’accento lirico è bruscamente

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interrotto dal recitativo che forma la coda del pezzo: si scopre che l’etero animale
è un mangiatore di vermi, non un cacciatore di nuove, e che, frugando nel fango,
ingrassa come una volgare oca. L’interruzione del tono lirico è impiegata anche
in Le Grillon, ma nelle minime proporzioni richieste dalle dimensioni
dell’insetto: basta il verso onomatopeico a liquidare la melodia. In Le Cygne la
preparazione è più elaborata e la chiusura prosastica tocca al recitativo che imita
l’enfasi operistica: l’effetto mira ad una certa brutalità, necessaria a smitizzare
l’emblema della purezza, comunemente rappresentato, nel regno animale, anche
secondo Mallarmé dal cigno:

[…]Un cygne d’autrefois se souvient que c’est lui magnifique mais


qui sans espoir se délivre[…]

Il fascino misterioso del Martine-Pêcheur ricorda quello dell’albatro di


Baudelaire, e ne ha lo stesso senso del sovrannaturale. L’episodio è il culmine
delle Histoires naturelles: il movente realistico dell’invenzione musicale non
sussiste più, la gravità del recitativo equivale perfettamente alla densità delle
armonie e dei timbri che formano il tema fondamentale del pezzo, colato in un
solo blocco, invece che formato dalla successione e dall’integrazione di temi. I
procedimenti adoperati nell’intera raccolta subiscono qui una smentita, in quanto
l’inflessione delle parole genera nel suo complesso una melodia, non di tipo
tradizionale, ma scaturita dalla fonazione nei suoi aggregati più segreti; le
sequenze di accordi, per converso, tracciano un recitativo inarticolato, fortemente
attratto dall’intonazione vocale. La scissione rigorosamente tracciata tra parola e
musica negli altri episodi di Histoires naturelles, è cancellata: la contaminazione
di figure musicali, negli altri casi attuata soltanto nel tessuto musicale, passa
attraverso i due linguaggi, togliendo loro il significato razionale espresso dalle
usuali articolazioni.

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Gli spasmi della faraona riportano a una sfrenata tendenza combinatoria; le
citazioni clavicembalistiche si accalcano, si dipanano si accatastano nuovamente,
nel corso della scena esasperante e tumultuosa. In luogo della compassata
imitazione, consueta nella letteratura francese per clavicembalo, gli elementi
tradizionali appaiono scomposti, come sconvolti dall’intervento del forastico
galliforme, Numida meleagris, appropiandosi del bonario coccodè dedicato dal
Rameau all’innocente gallina. Il roteare di una sintassi in distruzione fa seguito al
suo estremo rapprendersi, nel Martin-Pêcheur. Histoires naturelles contengono,
come da abitudine, una dedica per episodio: nell’ordine, a Jane Bathori; a
Madeleine Piccard, a Misia Godebska, a Emile Engel, a Roger Ducasse.

IV.V Sur L’herbe

Il 12 dicembre 1907, quasi un anno dopo lo scandalo dell’ Histoires naturellea,


Jane Bathori e l’autore presentarono Sur l’herbe nella sala della Société Français
de Photographie.

La preziosità del pastiche settecentesco, tratto dalle Fêtes galantes di Verlaine,


provocò Ravel a comporre un piccolo capolavoro. Tra il minuetto, il fox trot e il
valzer, si registrarono minime oscillazioni ritmiche nell’alternativa del tempo
binario e ternario, con suddivisioni sempre ternarie ode creare la massima fluidità
nell’intonazione dei versi.

Un piccolo tema serva di ritornello; il portamento di voce sottolinea la lasciva


ammirazione per la nuca della Camargo, più squisita alla luna; le note musicali,
distrattamente citate nel testo, sono esattamente intonate dal canto; gli accenti
della prosodia risultano leggermente eccentrici rispetto alla metrica e,
culminando nell’enfasi sulla prima sillaba «étoile», suonano pieni di affettazione.

In una lettera del settembre 1907 a Jeane-Aubry, Ravel scrisse che in Sur l’herbe,
come nelle Histoires naturelles, non si deve avere l’impressione del canto,

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mentre la preziosità appare dal testo e dalla musica. Ed infatti, Sur l’herbe
manifesta la stessa concertazione di Histoires naturelles, resa più elegante e
rapida dalla combinazione di immagini eterogenee, suscitate dal tono svagato
della conversazione leziosa. Ma il dominio assoluto di un simile linguaggio
induce anche la reviviscenza del canto, ma attraverso il recupero del verso, della
rima, della strofa, mentre la condotta della voce e del pianoforte genera limpidi
equilibri, ai limiti dell’eufonia.

Le asperità di Hisoires naturelles hanno subito radicali trasformazioni, nelle


quali si preannuncia il clima di Trois poèmes de Stéphane Mallarmé. Nei
successivi cinque anni, salvo le armonizzazioni di canti popolari, Ravel non
compose altre mélodies: ma il passaggio da Verlaine a Mallarmé, a parte
l’affinità di Sur l’harbe con Placet futile, corrispose ad una logica precisa.

IV.VI Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé

Nel marzo e nell’aprile 1913, a Clarens, Stravinskij e Ravel lavorarono alla


riorchestrazione di Khovanščina, su commissione di Djagilev. Durante la
collaborazione, il frutto della quale è tutt’ora irreperibile, Stravinskij mostrò a
Ravel le partiture di Le sacre du printemps e di Trois Poésies de la lyrique
japonaise.

Ravel fu entusiasta della prima, che a suo giudizio avrebbe avuto, come avvenne
infatti la stessa portata storica di Pelléas et Mélisande; ma venne attratto in
maniera speciale dalla seconda, nella quale la voce era accompagnata da un
complesso cameristico formato dal pianoforte, dal quartetto d’archi e da quattro
strumenti a fiato, disposti in coppie di strumenti della stessa famiglia ma diversi
per taglio ed estensione: flauto e ottavino, clarinetto e clarinetto basso.

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Per Ravel, il complesso cameristico nella Mélodie rappresentava una novità, dato
che fino ad allora aveva adoperato la forma tradizionale della voce col
pianoforte, o con l’orchestra in Schéhérazade e nelle trascrizioni di Le noël des
jouets e di, se l’aveva già compiuta, Manteaude Fleurs.

Stravinskij spiegò che l’organico di Trois poésies de la lyrique japonaise


derivava da quello di Pierrot lunair; pochi mesi prima Schoenberg gli aveva fatto
leggere, a Berlino, la propria partitura che venne così resa nota, di seconda mano,
a Ravel; essa comprendeva la Sprechstimme, il pianoforte, il violino con
l’alternativa della viola, il violoncello, il flauto con l’alternativa dell’ottavino, il
clarinetto e il clarinetto basso.

Ravel, suggestionato dalla narrazione e dalla partitura di Stravinskij compì


subito,a Clarens, il primo dei Trois poèmes de Stéphane Mallarmé, Soupir, e
adoperò col canto lo stesso organico di Trois poésies de la lyrique japonaise, ma
con le coppie pari di flauti e di clarinetti, in luogo delle coppie dispari di ottavino
e di flauto, di clarinetto e di clarinetto basso. Soupir reca la dedica a Stravinskij.
Il secondo episodio, Placet futile, dedicato a Florent Schmitt, venne terminato nel
maggio 1913 a Parigi, e preve una breve apparizione dell’ottavino in alternativa
al secondo flauto. Surgi de la croupe et du bond ripete esattamente l’organico
stravinskiano; porta la data dell’agosto 1913, da Saint-Jean-de-Luz, e la dedica a
Erik Satie.

Prima che Trois poèmes de Stéphane Mallarmé venissero eseguiti da Jane


Bathori e dal complesso diretto da Désiré-Emile Inghelbrecht, il 14 gennaio 1914
in un concerto della Société Musicale Indépendante, l’autore si trovò in una
circostanza abbastanza imbarazzante: Debussy aveva composto un ciclo analogo
di tre Mélodies, per voce e pianoforte su testo di Mallarmé, ed aveva scelto gli
stessi primi due poèmes, mentre il terzo era differente, Eventail. Ravel e Debussy
erano ignari l’uno dell’altro, ma quando l’editore Jaques Durand chiese i diritti di

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Soupir e di Placet futile, per conto di Debussy, al genero di Mallarmé, Edmond
Bonniot, ebbe un rifiuto, in quanto era stato preceduto da Ravel.

La questione si presentava delicata, dati i freddi rapporti che intercorrevano fra i


due compositori, in seguito al fatto che Ravel aveva sottoscritto una colletta a
favore della prima moglie di Debussy, partecipando a un’iniziativa considerata
da Debussy come un’indebita intromissione del Milieu nella sua vita privata;
inoltre, le polemiche della critica e la conseguente precisazione di Ravel sulla
primogenitura, per così dire, del proprio stile pianistico su quello del collega, non
aveva contribuito a migliorare la situazione. Ravel, opportunamente, concesse a
Debussy il diritto di adoperare i Poèmes di Mallarmé, e Durand pubblicò
entrambi i lavori.

Trois poèmes de Stéphane Mallarmé si trovò così ad un incrocio di coincidenze


in parte volute e in parte involontarie.

Dei possibili paragoni, Boulez ha fatto giustizia, e a ragione, affermando che


l’analogia con Pierrot lunaire e con Troi poèmes de la lyrique japoinaise è
puramente nominalistica. E Debussy affermò giustamente, quanto all’identica
scelta dei poèmes di Mallarmé, che si era trattato di un «fenomeno di
autosuggestione da comunicare all’Accademia Di Medicina»: non appaiono
infatti quelle relazioni che, in altri casi, esistono fra i due musicisti e che hanno
consentito il noto esercizio critico del raffronto. Né il riferimento a Pierrot
lunaire, nell’Esquisse autobiographique, autorizza a sopravvalutare l’influsso di
Schoenberg, che affiora in qualche sospensione della tonalità nel corso dei Trois
poèmes de Stéphane Mallarmé, ma non va al di là di un rapporto del tutto
esteriore, si direbbe grammaticale, anche se Ravel ne aveva potuto controllare
l’importanza e ne parlava con cognizione diretta, quando, nel 1928, dettò
l’Esquisse a Roland-Manuel: in quell’epoca aveva ascoltato di persona Pierrot
lunaire.

80
Fra tutte le filiazioni possibili di Trois poèmes de Stéphane Mallarmé, quella
essenziale discende dai versi del poeta che, caso unico nelle mélodies di Ravel, è
citato nel titolo; e non tanto perché gli appartengono i poèmes, quanto perché il
suo nome rappresentava l’emblema di una poetica: le opere di Mallarmé,
testimonia Viñes, erano un Livre de chevet del giovane Ravel.

Nell’Esquisse autobiographique, parlando di Trois poèmes, Ravel affermò di


aver voluto trasporre «particolarmente la preziosità ricca di profondità tipica di
Mallarmé».

Nella conferenza sulla musica contemporanea, tenuta al Rice Institute di Huston,


fornì un’opinione meno concisa su Mallarmé:

[…]Visioni illimitate, tuttavia di segno preciso, circoscritte in un


mistero di fosche astrazioni - un’arte dove gli elementi sono così
intimamente connessi, che non è possibile analizzarne il significato,
ma soltanto intuirlo[…]

Appare, in queste frasi, la dialettica fra il «segno preciso» e le «visioni


illimitate», cui Ravel aspirava, appunto, nella sua musica; la concretezza delle
immagini, talvolta radicata nell’onomatopea e nella citazione di figure musicali
consacrate dalla tradizione, ne è infatti un aspetto costante, ed è, comunque sia, il
presupposto di trasfigurazioni metafisiche, sul tipo del Martin-Pêcheur, di Le
Gibet, di Valses Nobles et sentimentales.

Nel 1913, scegliendo la poesia di Mallarmé, Ravel si sentiva in grado di


affrontare esplicitamente i nessi più intimi della poetica cui, fino ad allora, si era
tacitamente conformato. La scelta significava una aperta adesione all’estetica
corrente: l’autonomia dell’arte, riassunta nella celebre formula di Baudelaire,
«La Poésie n’a d’autre but qu’elle même»; la sua purezza e sacralità, in quanto
ricerca della Beautè in ragioni iperuranie, create dal sogno e dall’immaginazione.
Ma significava soprattutto l’esercizio della perfezione, secondo la legge del
calcolo enunciata da Poe nella Filosofia della Composizione che, nella traduzione

81
di Baudelaire, Genèse d’un Poème, era condivisa dai poeti del secondo 800
francese, fino a Mallarmé e a Valéry. Le facoltà combinatorie indicate da Poe
erano le stesse predilette da Ravel nell’invenzione musicale, e destinate a
stabilire connessioni non riconoscibili mediate l’analisi, ma soltanto per via
intuitiva.

Nei Trois poèmes de Stéphane Mallarmé il senso dei testi è meticolosamente


riprodotto non soltanto nell’interpretazione letterale, ma anche nelle metafore e
nelle immagini, attraverso il canto, le sue mutazioni, i suoi rapporti con lo
strumentale, che investono gli episodi e determinano l’intera composizione.

Ravel confermò il rilievo melodico del canto, recuperato in Sur l’herbe, dopo
l’esperimento sterilizzante di histoires naturelles: il ritorno alla metrica e alla
rima, nella scelta nei testi, corrisponde alla ripresa della melodia strofica e delle
relative inflessioni prosodiche, che a loro volta influiscono sulla condotta della
partitura e, perfino, sulla grafia del ritmo.

Tuttavia, le mutazioni di Histoires naturelles si riflettono nei Trois poèmes de


Stéphane Mallarmé: il canto, strettamente connesso con suggerimenti letterari,
conserva la sua decisiva importanza; ma anche se riacquista i contorni della
melodia, perduti in Histoires naturelles, è ugualmente sottoposto a varianti di
natura semantica. In soupir è in gran parte dominante, come in una mèlodie
tradizionale, ed assume anzi nella prima parte un profilo spiegato quale non si
incontra nelle composizioni precedenti di Ravel; in placet futile penetra nel
tessuto polifonico, alla pari con gli strumenti; in Surgi de la croupe et du bond si
rapprende in una totale estraneità, rispetto al complesso cameristico; ma in tutti i
casi suscita correlazioni armoniche e timbriche in un sistema di mutevoli
gerarchie.

82
Le immagini principali di Soupir consistono nella metafora ascendente della
prima strofa che si conclude alla parola Azur, e nella descrizione dell’autunno,
alla seconda strofa.

NOTE

1. Cfr. H. Jourdan-Morhange, Ravel et nous, Parigi, 1945, trad. Ital., Milano, 1960.

2. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 573.

3. Cfr. supra, A. Mantelli, Compositore e trascrittore, p. 156

4. Cfr. C. Marinelli, La trascrizione come opera d’arte, in RaM, 1956, p.

5. Cfr. supra, op. cit., Dizionario della musica e dei musicisti, p. 573.

6. Cfr. P. Lalo, Maurice Ravel et le Debussysme, in “Le Temps”, 19 marzo 1907.

7. Ibidem.

8. Cfr. C. Casini, Maurice Ravel, ed. studio tesi, Pordenone, 1992, p. 87.

83
CAP. V LES NOCTURNES

Les Nocturnes, composti da Claude Debussy tra il Dicembre 1897 e il dicembre


del 1899, sono trittico sinfonico per coro femminile e orchestra. La prima
esecuzione dell’opera completa risale al 27 ottobre del 1901, a Parigi presso il
Cocerts Lamoreux. Le tre parti di cui è composta l’opera sono rispettivamente:
Nuages, in tempo moderato, nella tonalità di si minore, con un organico di 2
flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, timpani, arpa, archi;
Fêtes, in tempo animato e molto ritmato, nella tonalità di fa minore, con un
organico di 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, 3
trombe, 3 tromboni, basso tuba, 2 arpe, timpani, piatti, tamburo militare, archi;
Sirènes, in tempo moderatamente animato, nella tonalità di si maggiore, con un
organico di 3 flauti, oboe, corno inglese, clarinetto, 3 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 2
arpe, archi.

Sui Nocturnes Debussy scrisse questo testo di presentazione: «Il titolo Nocturnes
vuole assumere qui un significato più generale e soprattutto più decorativo. Non

84
si tratta dunque della forma abituale del Notturno, ma di tutto ciò che la parola
contiene di impressioni e di luci particolari. Nuages: è l'aspetto immutabile del
cielo con la lenta e malinconica processione delle nuvole, che termina in una
grigia agonia dolcemente tinta di bianco. Fétes: è il movimento, il ritmo danzante
dell'atmosfera con bagliori di luce improvvisa, è anche l'episodio di un corteo
(visione abbagliante e chimerica) che passa attraverso la festa e vi si confonde;
ma il fondo rimane, ostinato, ed è sempre la festa con la sua mescolanza di
musica, di polvere luminosa, che partecipa a un ritmo totale. Sirènes: è il mare e
il suo ritmo innumerevole, poi, tra le onde argentate di luna, si ode, ride e passa il
canto misterioso delle sirene». Il titolo dunque ha un significato non tradizionale,
e vuole evocare «impressioni e luci particolari»: non si allude più ad alcuna
«azione», nemmeno a quella incerta, sospesa fra sogno e realtà, delle voluttuose
fantasie del fauno. All'ascoltatore non viene proposto né un «programma» né un
riferimento formale noto: si suggerisce una dimensione senza luogo e senza
tempo, in una luce incerta come quella del crepuscolo.

Per Debussy era il primo passo verso una decisiva rivoluzione delle relazioni
estetiche; i Nocturnes sfuggono a ogni tentativo di classificazione, e segnano un
primo turbolento scossone al codice comunicativo maturato alla fine dell’800. Le
reazioni dei primi fruitori testimoniano la recezione di un’opera
straordinariamente complessa, in bilico tra l’adesione alle convenzioni trasmesse
dal repertorio precedente e il rovesciamento dell’orizzonte d’attesa dei
contemporanei. Gli anni sono quelli in cui Debussy faceva le prime riflessioni
estetiche circa la fruizione della musica; fu proprio intorno al 1901 che i suoi
scritti cominciarono a manifestare l’esigenza di forgiare un tipo di ascolto
immaginativo libero.
I Nocturnes costituiscono un inevitabile punto di partenza per riflettere sulla
fruizione della musica di Debussy. Essi sono i lavori che hanno accompagnato la
prima maturazione delle idee estetiche di un compositore proiettato nel 900: la

85
loro scrittura dimostra una consapevolezza ancora più solida a livello
compositivo che a livello teorico. È per tanto nella loro posizione originale
rispetto al panorama musicale contemporaneo che si può leggere un primo
significativo tentativo di abbattere le categorie fruitive tramandate dall’800.

I Nocturnes si affacciarono sul panorama musicale di inizio 900 in due riprese:


la prima volta il 9 dicembre 1900, quando ai Concerts Lamoureux vennero
presentati i primi due titoli della raccolta, Nuages e Fêtes; la seconda volta il 27
ottobre 1901, quando sempre ai Concerts Lamoureux fu eseguita la versione
integrale, completa di Sirènes.

Debussy stava pensando ad un modo per rivoluzionare il suono dell’orchestra,


ma in seguito avrebbe abbandonato questo proposito; si sarebbe reso conto di
quanto fosse ancora inesplorato il terreno dell’orchestrazione tradizionale.

In una lettera indirizzata a Lerolle, del 1894, Debussy aveva definito Nocturnes i
suoi tre brani per violino ed orchestra, lasciando scoperto un nesso evidente con
la prima stesura dell’opera. La sua immaginazione era stata stimolata
dall’ambientazione crepuscolare, da quei movimenti impercettibili della luce che
trasformano in pochi istanti il giorno nella notte.

È possibile affermare che l’ambientazione di Sirènes sia stata ispirata dal poema
di Charles Swinburne, intitolato Nocturnes (1876), il quale dipinge su uno sfondo
marino il sentimento d’amore provato da una sirena. Debussy infatti aveva
grande ammirazione nei confronti di Swinburne.

Accanto a Swinburne sono molti altri i riferimenti che si potrebbero citare a


proposito dell’origine dei Nocturnes: alcuni ascoltatori dei primi del 900 vi
individuarono un rimando pittorico evidente alla serie degli omonimi quadri di
James Whistler, che Debussy aveva personalmente conosciuto da Mallarmè.
Alfred Bruneau, nella recensione alla prima esecuzione integrale dei Nocturnes

86
pubblicata su “Le Figaro” del 28 ottobre del 1901, scrisse: «Tableaux qui
évoquent des souvenir des étranges, délicats et vibrants Nocturnes de Whistler,
d’une poésie profondamente troublante »1.

«Quadri che evocano ricordi degli strani, delicati e vibranti Notturni di Whistler,
di una poesia profondamente conturbante».

Debussy molti anni dopo, nel 1909, in un’intervista, rispose così a questo tipo di
accostamenti che la sua musica suscitava nei contemporanei: «Sono Stato
chiamato il “Whistler della musica”. Hanno anche definito il mio amico
Maeterlinck lo “Shakespeare belga”. La gente ama questi nomi pomposi. Ciò non
ha impedito a Nordau di chiamare Maeterlink un degenerato, né a diversi critici
di considerarmi un visionario, o un “apostolo del bizzarro e dell’esibizionismo”.
Per ciò che mi concerne, io posso solamente dirvi che la mia prima ambizione in
musica, è di portarla a rappresentare il più vicino possibile la vita stessa »2.

Le parole di Debussy non sembrano interessate al confronto con Whistler, non


possiamo tuttavia evitare di considerare un’influenza plausibile che potrebbe aver
avuto un peso non indifferente sulla genesi concettuale dei Nocturnes e forse
sullo stesso proposito di svolgere “une étude dans le Gris” 3, dichiarato
apertamente nella lettera a Ysaÿe del 22 settembre 1894.

Nel 1894 però la genesi dei Nocturnes era arrivata solo a superare la seconda
tappa. Occorrevano ancora molte riflessioni per arrivare alla versione definitiva
dell’opera. Il 7 novembre 1896 Ysaÿe venne rassicurato da Debussy sulla
situazione dei Nocturnes per violino e orchestra; ma di fatto Debussy parlava da
quattro anni di un’opera in fase di rifinitura, senza riuscire mai a poterne
annunciare la definitiva conclusione. Fu così che anche il progetto con Ysaÿe
sfumò nel nulla, certamente per alcuni contrasti tra il compositorie ed il
violinista, ma forse anche per una sostanziale insoddisfazione di Debussy,

87
incapace di presentare al pubblico un’opera che non riusciva a sentire
perfettamente allineata al proprio pensiero estetico.

La lettera Pierre Louÿs del 27 marzo 1898 suona quasi come la confessione
disillusa di un compositore pienamente consapevole di non avere ancora
raggiunto la maturità artistica: «I Tre Nocturnes si sono imbevuti della mia vita, e
sono stati pieni di speranza, poi pieni di sconforto e infine, pieni di vuoto!
D'altronde non ho mai potuto fare niente, tutte le volte che mi è successo
qualcosa nella vita; e credo che sia questo che fa la superiorità del ricordo: da
quello si possono trattenere valide emozioni».4

Debussy sentiva di non avere ancora maturato quel necessario distacco dall’opera
d’arte che gli appariva come una categoria fondamentale delle relazioni estetiche.
Era consapevole di non avere ancora imparato a usare il ricordo come filtro
ineliminabile per evitare il coinvolgimento nell’opera d’arte; sentiva il rischio
legato all’imposizione di vincoli emotivi troppo solidi all’attenzione
dell’ascoltatore. Per questo i Nocturnes dovevano ancora restare chiusi in un
cassetto, in attesa della piena maturazione artistica del loro compositore.

Quattro mesi dopo, il 14 luglio 1898, Debussy annunciava all’editore Hartmann


di aver concluso l’opera a eccezione della strumentazione. 5 Ma ancora a
settembre dell’anno successivo la partitura non era giunta a destinazione: la
parola fine sui Nocturnes era destinata a scivolare ancora di un paio di mesi, e il
definitivo completamento dell’orchestrazione avvenne solo nel dicembre del
1899. Per la prima esecuzione, quella del 9 dicembre 1900, Debussy dovette
rinunciare a Sirènes per l’assenza di un coro femminile. La prima ufficiale deve
quindi essere considerata quella del 27 ottobre 1901, data in cui i Nocturnes
vennero presentati completi di un programma descrittivo stilato dallo stesso
Debussy: «Il titolo Nocturnes vuole dipingere qui un senso più generale e
soprattutto più decorativo. Non si tratta quindi della forma abituale del Notturno,

88
ma di tutto ciò che questa parola contiene in termini di impressioni e di luci
speciali. Nuages: è l’aspetto immutabile del cielo con la marcia lenta e
malinconica delle nuvole, che approdano a un’agonia grigia, dolcemente tinta di
bianco. Fêtes: è il movimento, il ritmo danzante dell’atmosfera con esplosioni di
luce brusca, è anche l’episodio di un corteo (visione abbagliante e chimerica) che
passa attraverso la festa e la sua mescolanza di musica, di polvere luminosa che
partecipa a un ritmo incalcolabile, poi, attraverso le onde argentate di luna, si
sente, ride e passa il canto misterioso delle sirene».6

Tale nota descrittiva in realtà non era altro che la trascrizione poetica di una serie
di impressioni che lo stesso Debussy aveva già confessato qualche tempo prima
all’amico avvocato Paul Poujaud:

«Nuages: su quel ponte, vista di nuvole portate da un vento di tempesta;


passaggio sulla Senna di un battello, la cui sirena è evocata dal breve tema
cromatico del corno inglese. Fêtes: memoria di antichi festeggiamenti popolari al
Bois de Boulogne, illuminato e invaso dalla folla; il trio di trombe con sordina
corrisponde al ricordo della musica della guardia repubblicana che suona la
ritirata».7

Debussy, pur avendo già maturato a livello teorico, ma soprattutto compositivo,


alcune linee fondanti della sua estetica della fruizione, cadde nella tentazione di
fornire una guida all’ascolto.
Offrendo al suo pubblico un programma descrittivo, rischiava di compromettere
proprio quelle categorie che qualche anno dopo avrebbe ritenuto essenziali. Il
programma dei Nocturnes quindi potrebbe essere considerato una prova utile
per individuare in Debussy una consapevolezza estetica non ancora perfettamente
matura, ma nello stesso tempo anche una concessione alle consuetudini del
tempo, un tentativo di attenuare l’impatto di una rivoluzione massiccia. Innanzi

89
tutto Debussy tiene a sottolineare la funzione del titolo: “Un sens plus général et
surtout plus decoratif”.

Paul Dukas mise in evidenza il simbolismo accentuato dei Nocturnes,


dichiarandosi incapace di cogliere i significati sottesi alle analogie della partitura:

«Il significato ultimo del brano resta ancora simbolico […] questo Notturno […]
traduce l’analogia con l’analogia alla maniera di una musica i cui elementi,
armonie, ritmi […] sembrano volatilizzati nell’etere del simbolo e come ridotti a
uno stato imponderabile».8

Altri critici videro nella mancanza di un nesso lampante tra titoli e musica uno
spunto per indagare i rapporti tra i Nocturnes e le categorie della musica assoluta;
Luc Marnold dedicò diversi articoli su “Le Courier Musical” a cercare di
analizzare i tre brani come parti di una sinfonia in tre movimenti. I riferimenti
extramusicali proposti dall’opera non gli sembravano abbastanza significativi da
poter essere presi in considerazione:

«Il programma dei Nocturnes o un altro completamente diverso potranno servire


come pretesto per le combinazioni sonore. Queste saranno sempre diverse,
sempre più complesse. Poco a poco, la loro associazione iniziale al sentimento o
all’oggetto interpretato si rivela meno intima; il rapporto tra questo e quelle meno
evidente; l’interpretazione arbitraria».9

Anche Pierre de Bréville vedeva nei Nocturnes l’espressione di una musica


assoluta, sostanzialmente priva di riferimenti extramusicali:

«Il fatto è che si tratta di musica pura (indefinibile), concepita al di fuori di ogni
realtà, esclusivamente nel sogno, attraverso i movimenti architettonici che Dio fa
con i vapori, le meravigliose costruzioni dell’impalpabile […] la musica è per
Debussy l’arte dell’inesprimibile che canta non appena cade la parola
impotente».10

90
Addirittura Vincent d’Indy non riusciva a trovare una categoria nella quale
inquadrare il lavoro di Debussy, rifiutandosi di individuare affinità sia con la
musica a programma sia con la musica assoluta:

«Sonata? Assolutamente no! Malgrado gli sforzi di Marnold per farli entrare a
suo di pugni in questa sagoma. Suite? Nemmeno. Poema sinfonico? Nonostante i
titoli Nuages, Sirènes, Fêtes… denominazioni molto vaghe, nessun programma
letterario, nessuna spiegazione di ordine drammatico autorizza gli scarti di
tonalità e le escursioni tematiche piacevoli ma non coordinate di questi tre brani.
È dunque fantasia bella e buona, poiché non si può rigettare queste opere per
cattiva fattura… Sono artistiche, esistono, dunque devono essere classificate da
noi, dove? Nella fantasia, non vedo altro spazio».11

La musica dei Nocturnes quindi si impone in maniera indecifrabile all’attenzione


dei contemporanei. Nonostante la presenza di alcuni riferimenti extramusicali
espliciti (la nota illustrativa, i titoli), il pubblico dei primi del 900 rilevò una forte
distanza tra musica e programma: una tendenza fruitiva che attesta una nuova
concezione dei rapporti tra compositore e destinatario dell’opera d’arte.

Debussy chiedeva al suo ascoltatore di esercitare una funzione liberamente


immaginativa nei confronti della musica. Gli ascoltatori più sensibili riuscirono
ad avvertire questa esigenza estetica, leggendo nei Nocturnes uno stimolo a
reagire in maniera diversa.

Nelle parole di Jacques Rivière, ad esempio, se ne posso cogliere alcuni segni


evidenti:

«Al limite di quest’arte finirebbe per assomigliare al delicato simbolismo dei


paesaggi giapponesi: composizione di alcune linee molto preziose, tra le quali si
ricordano alcuni colori in maniera attenuata. Ma se io voglio provare

91
quell’immagine, bisogna fare uno sforzo; la sensazione non nasce più in me al
primo colpo; non posso che ritrovarla».12

Altre recensioni documentano una sensibilità altrettanto raffinata. Alfred


Bruneau lodò proprio la libertà immaginativa stimolata dall’ascolto di Nuages:

«In uno, intitolato Nuages, passano i vapori cangianti che, sul cielo misterioso,
prendono le forme diverse che la nostra immaginazione crea».13

Ma non è solo l’atteggiamento attivo e immaginativo ad emergere dalle


riflessioni di alcuni fruitori particolarmente sensibili. Dalla lettura di alcune
reazioni dichiaratamente riferite all’atmosfera del sogno inconsapevole si
possono rilevare i legami esistenti tra il concetto di immaginazione nella lettura
di Debussy e la sfera dell’inconscio: Jean Huré definì i Nocturnes “pages de
rêve”14; il critico de la Vie Parisienne parlò di “èblouissement d’un rêve trop
beau”15; Paul Dukas vi rilevò l’impressione sfuggente di una festa ambientata in
un sogno:

«Forse il signor Debussy non ha cercato questo effetto, ma la sua musica produce
l’impressione rara di una festa in un sogno, tanto le sue ricche esplosioni sono
sapientemente smorzate, tanto il suo ritmo di addolcisce nella lontananza della
prospettiva sonora».16

E anche Charles Joli su “Le Figaro” accennò a una suggestione molto simile:

«Il signor Debussy ci ha provato che si poteva sviluppare delle armonie […] voi
lo seguite sempre rapiti, fino al momento in cui, fermandosi l’orchestra, tutto
svanisce come in un sogno. »

Le impressioni descritte da Dukas, Joli, Huré e alcuni altri alludono ad


un’atmosfera onirica, regolata da movimenti inconsapevoli della immaginazione:

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un atteggiamento fruitivo molto vicino all’identikit emerso dagli scritti di
Debussy.

Era questa la reazione nuova che Debussy chiedeva al pubblico dei primi del 900.
Naturalmente furono pochi i critici in grado di godere di questa nuova
potenzialità musicale. Ma la comune difficoltà nell’individuare un rapporto
chiaro tra titoli, programma e musica, prova il tentativo da parte di Debussy di
sollecitare reazioni estranee alle consuetudini fruitive del tempo.

V. I Nuages

Barraqué definisce Nuages un “prélude en demi-teinte”, da ammirare per le sue


evanescenti apparizioni tematiche e per la sua adesione rigorosa alla forma
ternaria del Lied. Nessun accenno ai rapporti con il programma; nessun
riferimento alle immagini riprodotte dal materiale melodico.

Goléa si spinge ad affermare di non vedere nessuna rottura con le forme del
passato. La sua analisi evita di soffermarsi sulle connotazione extramusicali della
partitura, per privilegiare la discussione dell’aspetto timbrico: una considerazione
che lo spinge a paragonare l’opera di Debussy al terzo (Farben) dei cinque pezzi
per orchestra op. 16 di Arnold Schönberg, quella straordinaria pagina
sperimentale che sottopone un solo accordo a mutazioni timbriche in continuo
divenire.

Goubault, non discostandosi dagli altri musicologi, si sofferma sulla rigorosa


definizione degli aspetti formali, trascurando le ragioni del programma. Ancora
una volta Nuages viene trattato come una pagina di musica assoluta: un brano da
leggere senza tenere in considerazione la presenza di titolo e programma.

93
Ma è davvero questo l’atteggiamento fruitivo che Debussy voleva sviluppare
attraverso il suo linguaggio musicale?

In Nuages, come in Fêtes, non sono assenti richiami ad un universo semantico


inequivocabile. Alcuni aspetti della partitura alludono chiaramente a contenuti
extra musicali. L’immagine che siamo costretti a cercare da subito è quella
indicata dal titolo. Occorre però individuare alcune categorie tradizionalmente
associate a questo riferimento naturalistico.

Schubert nel suo repertorio liederistico ha lasciato numerose pennellate di stampo


paesaggistico. Questi momenti non rappresentano mai il fine della sua riflessione
estetica, ma un mezzo per esprimere i sentimenti dell’individuo immerso nella
complessità del mondo naturale. Sono comunque elementi piuttosto evidenti,
destinati a calamitare l’attenzione dell’ascoltatore.

In Nuages non c'è davvero più traccia di percorsi che conducano da un punto ad
un altro secondo una logica discorsiva, che «tendano» a un punto d'arrivo o a un
culmine. In un tempo musicale che si definisce con un significato nuovo la forma
appare costruita, per così dire, con il movimento di superfici sonore dai colori
cangianti, dalle mutevoli sfumature timbrico-armoniche. La tripartizione che si
coglie anche a un semplice primo ascolto non ha nulla a che vedere né con uno
schema esposizione-sviluppo-ripresa né con altri tipi di forme legate alla
successione ABA'. Nuages inizia con un andamento quieto e uniforme
(singolarmente affine a quello delle prime battute di una lirica di Mussorgskij, la
terza del ciclo Senza sole): sonorità grigie e vuote sono evocate da clarinetti e
fagotti con un andamento ostinato che si interrompe quando per la prima volta il
corno inglese intona il tema principale, che non conoscerà mai sviluppo, e
riapparirà ogni volta quasi identico a se stesso, oggetto solo di piccole, ma
raffinatissime varianti.

94
Lo svolgimento della prima parte di Nuages dovrebbe essere descritto seguendo
momento per momento il succedersi delle intuizioni timbriche, delle
combinazioni strumentali, delle armonie, il trascolorare delle superfici sonore, il
mutare della luce. Solo con molta approssimazione si potrebbe paragonare a uno
sviluppo la sezione che inizia alla battuta 32. Dopo 63 battute il flauto e l'arpa
all'unisono introducono un nuovo tema. Il tempo diviene «un peu animé», ma
l'andamento fondamentale resta lo stesso e l'effetto non è quello del contrasto
segnato dalla sezione centrale di un pezzo tripartito: ci troviamo di fronte
semplicemente a un nuovo episodio, a nuovi colori, ad altre luci. E così quando
riascoltiamo il tema del corno inglese, questo ritorno non produce l'effetto di una
ripresa (che sarebbe comunque troppo breve e frammentata). Il frammentario
ritorno di diversi elementi, quasi disfatti in un lento trascolorare, evoca il
riapparire dell'ombra, il dissolversi in un tempo sospeso, così che il movimento
circolare del pezzo sembra aprirsi a suggerire una prosecuzione infinita.

V. II Fêtes

Dalla discussione delle reazioni ai Nocturnes, documentate precedentemente, è


emersa con estrema evidenza la difficoltà di cogliere un contatto solido tra titoli e
musica.

La spiegazione più intuitiva che si potrebbe dare a questa tendenza è l’assenza di


riferimenti extramusicali espliciti, con conseguente prevalenza delle categorie
della musica assoluta su quelle della musica a programma.

Il lessico su cui si fonda la partitura di Fêtes può smentire facilmente questa


prima ipotesi. Il tema ai clarinetti e al corno inglese che genera la composizione
non esprime nessuna frattura esplicita con la tradizione francese dei temi di festa:

95
Il movimento ritmico per terzine sottolinea un andamento danzante scherzoso.
Debussy utilizza l’indicazione 4/4, per garantirsi la possibilità di mettere a stretto
contatto tempi semplici e tempi composti, ma in realtà scrive tutta la parte
iniziale in 12/8. La scelta non è certo casuale, visto che da sempre sono i tempi
composti quelli che in musica dipingono i movimenti di danza popolare. Debussy
non si allontana dallo stilema ritmico offerto dalla tradizione e imposta tutta la
sezione introduttiva di Fêtes su un tema saltellante in tempo composto.

I suoni del suo corteo non manifestano lineamenti stridenti rispetto all’immagine
musicale offerta dalla tradizione.

Debussy sceglie di realizzare l’impressione della lontananza attraverso l’uso


della sordina; le partiture di Mahler e Strauss invece prevedono la dislocazione
di un gruppo strumentale di ottoni al di fuori della sala da concerto. Ma la scelta
di Debussy è legittimata da un riferimento extra musicale altrettanto evidente:
l’avvicinamento progressivo del suono. La sezione centrale di Fêtes delinea così
un percorso netto, che dal pianissimo giunge al fortissimo, raffigurando a livello
sonoro, l’immagine di una banda in continuo e regolare avvicinamento.

Anche le percussioni aiutano a sottolineare questa situazione, ribattendo con


regolarità il ritmo che definisce la melodia degli ottoni. Man mano il loro
intervento prende forma sino ad arrivare ad esplodere nelle battute finali
dell’episodio, dove si sommano in maniera fragorosa i timbri dei timpani, dei
piatti e addirittura del tamburo militare, lo strumento più efficace per esprimere il
riferimento a un corteo militare:

96
Debussy in sostanza non disdegnava affatto l’utilizzo di elementi lessicali
espliciti, di strutture musicali dotate di connotazioni semantiche precise. Fêtes
asseconda il percorso delineato dal programma, proponendo riferimenti extra
musicali evidenti, allineati alla tradizione e difficilmente fraintendibili.

Ma la descrizione di queste caratteristiche, a contatto con la lettura delle prime


reazioni dei contemporanei ci obbliga a chiederci perché molti dei primi fruitori
non riuscirono a cogliere legami evidenti tra musica e titoli.

La risposta più scontata che si potrebbe dare è la prevalenza delle categorie della
musica assoluta rispetto a quelle della musica a programma.

Molti dei primi fruitori celebrarono soprattutto l’aspetto formale e puramente


musicale dei Nocturnes, confessando una decisa inettitudine a seguire il percorso
tracciato dal programma. E per tutto il 900 è stata proprio la forma uno degli
aspetti più indagati dalla letteratura musicologica dedicata ai Nocturnes.

Fêtes presenta una tripartizione nettamente riconoscibile, fondata su una


molteplicità di elementi, su una mobilità e una varietà lontane dalla sospesa
stupefazione di Nuages. In un flusso continuo, in un ritmo incalzante, in un
discorso mobilmente frammentato si collegano elementi tematici diversi,
suggerendo uno spazio musicale segnato quasi da continui mutamenti di
direzione, uno svolgimento non lineare. Tutto appare irreale e la visione suscita
l'impressione di essere ora vicinissima, ora lontana, in un arcano gioco di

97
subitanei mutamenti (di tempo, di dinamica, di situazioni timbriche). Ne potremo
indicare soltanto alcuni aspetti.

Su un nervoso ostinato ritmico corno inglese e clarinetti presentano il tema


principale della prima parte, con carattere di farandola; ma subito le trombe
anticipano per un istante, in ritmo diverso, la fanfara della sezione centrale. Poco
oltre un appello degli ottoni segna una prima cesura.

Si profila un nuovo ostinato ritmico «un poco più animato» (con l'alternanza di
15/8 e 9/8); ritorna il tema di farandola; poi si profila un secondo tema all'oboe e
la sua prosecuzione sopra un intenso controcanto degli archi dà vita a una
complessa sovrapposizione di ritmi e metri. Questa sezione si conclude
bruscamente al culmine di un crescendo. Nella parte centrale la «visione
abbagliante e chimerica» del corteo è introdotta da una fanfara che man mano
sembra avvicinarsi (mentre cresce anche la densità, con la sovrapposizione del
tema di fanfara a quello di farandola) per giungere al culmine e dissolversi d'un
tratto nella «ripresa», profondamente trasformata, che inizia con il tema di
farandola. Una coda dai colori più tenui si immerge nel silenzio tra brevi,
frammentati echi, sempre più lontani.
Uno studio approfondito quale quello di Elke Lang-Becker rileva in Fêtes un
equilibrio formale basato sullo schema Scherzo - Trio - Scherzo da Capo.

Schema della forma di Fêtes secondo Elke Lang-Becker17

Scherzo
A Batt. 1-26
Tema V (batt. 3)
B Batt. 27-115
Temi VI (batt. 27), VII (batt. 50), VIII (batt. 70)
Trio
C Batt. 116-173
Temi IX (batt. 124), IX’ (batt. 132), IX” (batt. 148)
Scherzo

98
A’ Batt. 174-207
Tema V’ (batt. 174), tema secondario (batt. 190)
B’ Batt. 208-279
Temi VI (batt. 208), VI’ (batt. 214), VII’ (batt. 224), IX’ (batt. 236)
Coda
Batt. 252-260

Elke Lang-Becker tiene a sottolineare la condivisione di materiale tematico tra i


vari brani che compongono i Nocturnes, individuando in questa scelta un
atteggiamento dettato da una logica puramente musicale e priva di giustificazioni
extra musicali.

Senza dubbio la struttura formale di Fêtes propone uno schema A-B-A’, che
sembra tracciato a priori esattamente come avviene durante le fasi di
progettazione della musica assoluta.
Quello che occorre chiedersi è se sia davvero la forma l’aspetto tradizionalmente
distintivo della musica assoluta francese. I primi fruitori furono incapaci di
cogliere il contenuto extra musicale dei Nocturnes perché l’equilibrio formale
non consentiva loro di leggere l’opera secondo le tradizionali categorie della
musica a programma? Ossia: per la cultura musicale di inizio 900 la presenza di
un programma escludeva l’elaborazione di un progetto formale solido?

In Francia l’interpretazione della musica a programma aveva sempre seguito un


orientamento diverso. Anche a livello compositivo, fin dalle origini, l’esistenza
di un programma non aveva compromesso il mantenimento di un progetto
formale. Il primo movimento della Symphonie fantastique ad esempio, fin dalla
prima recensione di Schumann ha suscitato confronti con le logiche della forma
sonata. Oggi possiamo rilevare la sottile dialettica tra la funzione formale
dell’Idée fixe e la sua subordinazione alle strategie del fantastico. 18 Restano
comunque presenti nella Symphonie fantastique una serie di equilibri che

99
consentono all’analista di speculare ampiamente sui rapporti con la struttura
sonatistica.

Nel secondo 800 la cultura musicale francese non si allontanò da questa


direzione. Si osservi lo schema formale di Les Éolides di César Franck (1877) ed
España di Emmanuel Chabrier (1890), due poemi sinfonici che ebbero una
notevole diffusione presso il pubblico di fine 800:

Les Éolides

A Batt. 1-230
Introduzione (batt. 1-79)
Tema I (batt. 79 sgg.), tema II (batt. 171 sgg.)
B Batt. 231-384
Sviluppo tema I (batt. 230-332)
Sviluppo tema II (batt. 333- 383)
A’ Batt. 384-538
Ripresa tema I (batt. 385 sgg.)
Ripresa tema II (batt. 487 sgg.)
Coda Batt. 539- fine

España

A batt. 1-199
Introduzione (batt. 1-29)
Tema I (batt. 30 sgg.), tema II (batt. 114 sgg.)
B batt. 200-272
Sviluppo temi I/II
A’ batt 273- 400

100
Ripresa tema I (batt. 273 sgg.)
Ripresa tema II (batt. 327 sgg.)
Coda batt. 401-fine

Una rapida occhiata è sufficiente per capire che si tratta di composizioni ancorate
a una solida tradizione formale: la struttura è la stessa in entrambi i casi (A- B-
A’) e lo schema esprime una chiara esigenza di inquadrare in maniera geometrica
ed equilibrata il progetto compositivo.
A questo proposito Vincent d’Indy, nel suo Cours de composition musicale,
chiosa in maniera illuminante l’analisi di Jour d’été à la montagne, indicando
nelle strutture formali alcuni indispensabili “points de repère” da non trascurare
per nessuna ragione. D’Indy era stato allievo di Franck al Conservatorio di
Parigi: il suo modo di intendere e insegnare la musica era figlio della generazione
che lo aveva preceduto. Da qualche decennio i francesi andavano predicando di
non compromettere la chiarezza formale per assecondare le esigenze extra
musicali del programma. Tutto il repertorio pittoresco di fine 800 era stato
influenzato da questo assunto. Nel 1901 quindi non c’era motivo di sconvolgersi
difronte al nitido equilibrio formale dei Nocturnes di Debussy. La forma, per la
cultura musicale francese di fine 800, non era affatto una categoria distintiva
della musica assoluta: furono sicuramente altri i motivi che non consentirono a
molti ascoltatori il contenuto extra musicale dei Nocturnes.

In Fêtes la prima esposizione in fa minore presenta un’inflessione dorica ed è


accompagnata da un movimento ritmico molto marcato dei violini.

101
La sua prima apparizione è brevissima e si chiude a battuta 8 nella stesa tonalità.

Ma già la seconda esposizione avvia un procedimento di corrosione che lo rende


da subito irriconoscibile. Il tema viene riproposto ai fagotti e ai violoncelli su una
scala esatonale, che assume un colore completamente diverso da quello della
prima esposizione. Da un ambito armonico che scorreva tra fa minore e re
bemolle si passa a una successione di accordi derivati dalla successione esatonale
utilizzata nel tema: l’armonia si allontana in maniera improvvisa, raggiungendo
un’area molto distante da quella percorsa nelle prime battute del brano. Anche il
linguaggio si fa decisamente più dissonante grazie ad una nutrita successione di
seconde maggiori nelle parti più acute (flauti, oboi, clarinetti).

È il finale a giocare sulla sensibilità dell’ascolto rimettendo in discussione tutti i


contenuti dichiarati negli episodi precedenti. I legami tra musica e programma si
fanno così tenui da stimolare reazioni completamente diverse; l’articolo
pubblicato su “La vie parisienne” descrive una situazione molto lontana, fatta di
suoni sinistri, di crepuscoli inquietanti:

[…]Ottoni soffocati, che gemono in un’area di ronda scialba; cortei


brulicanti, fruscii di pendagli, cetre chiacchierone, fughe in volo
all’angolo del bosco bluastro, grazie piegate di melodie in fuga,
inseguite invano, di pizzichii nel vento … poi la calma dell’aria
quando tutto è fuggito, i vapori in scie immobili dalle punte dei
giunchi febbricitanti, la sera che sogna, la sera tinta di luna e di uccelli
in volo[…]19

102
Un quadro assolutamente in antitesi sia con quello della rivisitazione arcaizzante
sia con quello della festa chimerica. E anche Paul Dukas descrisse una situazione
molto particolare, difficilmente paragonabile alle altre:

[…]Sarebbe impossibile citare un altro episodio sinfonico in cui il


compositore sia arrivato a produrre una simile impressione di scintillio
vertiginoso, un tale rumore di folla, intervallato da fanfare, senza un
urto di sonorità, senza una discordanza di timbri[…] 20

Nelle parole di Dukas si legge una violenza sonora sconosciuta alle altre
raffigurazione immaginative. Benché tutto si stemperi nell’imprecisione di un
sogno, nelle orecchie di Dukas resta impresso il tono rumoroso della sezione
centrale, l’invadenza dinamica dell’orchestrazione associata al passaggio del
corteo marziale.

Non mancano poi alcune descrizioni che alludono a un movimento squisitamente


atmosferico, che sembra assolutamente disinteressato alla presenza dell’uomo.
Gaston Carraud parlò di “Marche triomphale des clartés d’argent fendant la
tarantelle des petits nuages fous”21; mentre Daniel Chennevière ammirò la
gioiosa atmosfera danzante dei ritmi inventati da Debussy:

«Oh, la gioia sorridente di queste ronde leggere e graziose che sono


come ondeggiamenti di spirito in un cielo di sogno, deliziosamente
blu».22

Ogni descrizione ha una fisionomia particolare: si passa dal clima tetro della
recensione pubblicata su “La Vie parisienne” alla gioia solare delle impressioni
rilevate da Chennevière e Dukas; dalle impressioni aeree provate dal cronista de
“Republique Francaise” all’immagine rarefatte descritte da Jean d’Udine.

Questi fenomeni fruitivi, assieme alle difficoltà di allineare titoli e musica, sono
una diretta conseguenza dei procedimenti tecnici. Debussy voleva rivoluzionare i
rapporti estetici tra compositore ed ascoltatore: Fêtes testimonia una parziale
maturazione di queste intenzioni. Restano alcuni vincoli forti come la nota
illustrativa e alcuni riferimenti extra musicali inequivocabili; i procedimenti

103
compositivi adottati parlano già una lingua matura, tendono a sgretolare invece
che confermare con la finalità di stimolare l’immaginazione dell’ascoltatore
senza imporle alcuna direzione prestabilita.

V. III Sirènes

In Sirènes è di nuovo presente una forma tripartita, ma tanto modificata da


riuscire più difficilmente riconoscibile. C'è un coro femminile, che evoca, senza
testo, la seduzione del canto delle sirene, la seduzione stessa del mare.

Fin dalla prima battuta dell'introduzione i corni propongono una brevissima


cellula in ritmo giambico, che funge da elemento unificatore. Il primo tema
appare al corno inglese, genera un ostinato mentre le voci cantano una delle loro
idee più intense (una seducente melopea, legata al primo tema da rapporti di
affinità) e in seguito si trasforma in chiave danzante. Nella sezione centrale, «un
poco più lento» le voci intonano una languida trasformazione rallentata del primo
tema (mentre la melopea vocale che già conosciamo passa agli strumenti): il
clima espressivo diviene quindi più caldo e appassionato, e si placa sul ritorno
della melopea vocale.

Gradualmente si ritorna al tempo iniziale e senza cesure nette inizia la terza


sezione, una sorta di ripresa. Le voci proseguono il loro seducente «canto di
sirene», poi ritorna il languido disegno della sezione centrale e solo dopo una
ventina di battute riappare il primo tema, per avviare lo spegnersi del pezzo in
echi lontani.

104
NOTE

1. Cfr. “Le Figaro”, 28 ottobre 1901.

2. Cfr. C. Debussy, Monsieur Croche et autres écrits, Gallimard 1887, p.293.

3. Cfr. C. Debussy, Correspondance 1872-1918, p. 222.

4. Cfr. C. Debussy, Correspondance 1884-1918, p.131.

5. Cfr. C. Debussy, Correspondance 1884-1918, p.135

6. Cfr. L.Vallas, Claude Debussy et son temps, Paris, Albin Michel, 1958, p. 205.

7. Ibidem.

8. Cfr. «La Reveu hebdomadaire», 2 Febbraio 1901, pp. 274-275.

105
9. Cfr. «Le Courrier musical», 1 Maggio 1902, p. 133.

10. Cfr. «Le Mercure de France», riportato in L. Vallas, op. cit., p. 213.

11. Cfr. V. d’Indy, Cours de Composition musicale, p. 211

12. Cfr. J. Rivière, Étude, Paris, Gallimard, 1944, pp. 133-134

13. Cfr. “Le Figaro”, 28 ottobre 1901.

14. Cfr. “Le Monde musical”, 30 Novembre 1904, p.314.

15. Cfr. “La Vie parisienne”, 15 Dicembre 1900, p.705.

16. Cfr. “Le Figaro”, 26 Ottobre 1901.

17. Cfr. E. Lang-Becker, Debussy: Nocturnes, München, Fink 1982, pp. 20-21

18. Cfr. L.Cosso, Le strategie del fanstico, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2002, pp. 80-95.

19. Cfr. “La Vie parisienne”, 15 Dicembre 1900.

20. Cfr. “La Reveu hebdomadaire”, 2 Febbraio 1901, pp. 274-277.

21. Cfr. “La Liberté” 29 Ottobre 1901

22. Cfr. D. Chennevière, Claude Debussy et son œuvre, Paris, Durand 1913, p. 34.

APPENDICE

Le composizioni, le trascrizioni e le revisioni di Ravel, alla morte dell’autore,


erano divise in due sezioni precise: gli inediti e le pubblicazioni. Si ha motivo di
distinguere nettamente i due settori, perché Ravel pubblicò ciò che aveva
approvato e lasciò inedito ciò che considerava rifiutato o superfluo. Le edizioni
postume sono quindi da considerare “inediti”, utili per la cognizione di Ravel, ma
non appartenenti al “catalogo” della sua opera, così come egli lo aveva
attentamente predisposto.

106
Composizioni pubblicate

(Le date si riferiscono alla pubblicazione)

Pianoforte

1898 Menuet antique


1900 Pavane pour une Infante défunte
1902 Jeux d’eau
1905 Sonatine
1906 Miroirs
1909 Gaspard de la nuit
1910 Menuet sur le nom d’Haydn
1911 Valses nobles et sentimentales
1913 Prélude
1914 A la manière de
1918 Le tombeau de Couperin
1931 Concerto per la mano sinistra
1932 Concerto per pianoforte e orchestra

Pianoforte a quattro mani

1910 Ma Mère l’Oye


1919 Frontispice

Mélodies

1900 Epigrammes de Clément Marot


1904 Schéhérazade (voce e pf.; 1914, voce e orch.)
1906 Manteau de fleurs
Cinq mélodies populaires grecques
1907 Sainte
Les grands vents venus d’outre-mer
Histoires naturelles
Sur l’herbe
1909 Vocalise-étude
1911 Chants populaires
1914 Noël des jouets

107
Trois poèmes de Stéphane Mallarmè
1915 Deux Mélodies hébraïques
1916 Trois chansons pour choeur mixte sans accompagnement
1924 Ronsard à son âme
1926 Chansons madécasses
1927 Rêves
1934 Don Quichotte à Dulcinée

Musica da camera

1904 Quatuor per archi


1906 Introduction et allegro per arpa, flauto, clarinetto e quartetto d’archi
1915 Trio per violino, violoncello e pianoforte
1922 Sonate per violino e violoncello
Berceuse sur le nom de Gabriel Fauré per violino e pianoforte
1924 Tzigane per violino e pianoforte (o piano-luthéal)
1927 Sonate per violino e pianoforte

Orchestra

1908 Rhapsodie espagnole


1911 Daphnis et Chloé
1912 Ma Mère l’Oye (balletto)
1913 Daphnis et Chloé (balletto)
Daphnis et Chloé (suite n.2)
1921 La Valse
1929 Fanfare (per il balletto L’Eventail de Jeanne)
Boléro

Teatro musicale

1908 L’Heure espagnole (spartito; 1911, partitura)


1925 L’Enfant et les sortilèges (spartito e partitura)

Trascrizioni

108
1909 Trois Nocturnes di Debussy (trascr. per due pianoforti)
1910 Daphnis et Chloé (trascr. per pianoforte)
Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy (trascr. per pianoforte a
quattro mani)
1912 Ma Mère l’Oye (trascr. per orchestra)
Valses nobles et sentimentales (Adélaïde ou le langage des fleurs; trascr.
per orchestra)
1916 Trois chansons pour choeur mixte (trascr. voce e pf.)
1920 La Valse (trascr. per pf. e per due pf.)
1923 Sarabande di Debussy (trascr. per orch.)
Danse da Tarantelle styrienne di Debussy (trascr. per orch.)
1924 Tzigane (trascr. per violino e orch.)
1929 Les Tableaux d’une exposition di Musorgskij (trascr. per orch.)
Boléro (trascr. per pf. e per pf. a quattro mani)
1937 Concerto per la mano sinistra (trascr. per pf. della parte orchestrale)
Menuet pompeux di Chabrier (trascr. per orch.)

Edizioni
Mendelssohn: Opere complete per pianoforte e per pianoforte e orchestra

Inediti
(Le date si riferiscono, anche presuntivamente, alla composizione o all’edizione
postuma).
Pianoforte

Movimento di sonata (dopo 1887; perduto)

Variazioni su un tema di Grieg (dopo 1887)


Archivio Mme Alexandre Taverne
Variazioni su un tema di Schumann (dopo 1887)
Archivio Mme Alexandre Taverne

109
Sérénade grotesque (circa 1892-1894; ed. 1975)

Valse (1898?)
Archivio Mme Alexandre Taverne

Fuga (1899; perduta)

Fuga (1900)
Bibliothèque Nationale di Parigi

Fuga (31maggio 1900)


Archivio Manuel Rosenthal (Arbie Orenstein)

Prélude et fugue (gennaio 1901; perduti)


Fuga (maggio 1901)
Bibliothèque Nationale di Parigi

Fuga ( primavera 1902)


Bibliothèque Nationale di Parigi

Fuga (1903)
Bibliothèque Nationale di Parigi

Menuet (1904)
Bibliothèque Nationale di Parigi

Fuga (maggio 1905)


Bibliothèque Nationale di Parigi

Zaspiak-Bat per pf. e orch. (estate 1913-estate 1914; abbozzi)


Archivio Mme Alexandre Taverne

Due pianoforti

Habanera (novembre 1895; ed. 1975 col titolo Sites auriculaires)


Entre cloches (dicembre 1897; ed. 1975 col titolo Sites auriculaires)

Musica da camera

Sonata per pianoforte e violino (aprile 1897; ed. 1975)

110
Mélodies

Ballade de la Reine morte d’aimer (circa 1893; ed. 1975)


Un grand sommeil noir (6 agosto 1895; ed. 1973)
Chanson du rouet (2 giugno 1898; ed. 1975)
Si morne! (novembre 1898; ed 1975)
A vous, oiseaux des plaines (febbraio 1904; perduta)
Chanson du pâtre épirote (febbraio 1904; perduta)
Mon Mouchoir, hélas, est perdu (febbraio 1904, perduta)

Chanson écossaise, (febbraio 1909?; abbozzo; ed. ricostruita 1975)


Tripatos (inizio 1909; ed. 1938)

Cantate per soli, coro e orchestra; pezzi per coro

Callerhoé, cantata (gennaio 1900; perduta)

Les Bayadères, per soprano, coro misto e orch. (maggio 1900)


Bibliothèque Nationale di Parigi

Tout est lumière, per soprano, coro misto e orch. (maggio 1901)
Bibliothèque Nationale di Parigi

Myrrha, cantata per soprano, baritono e orch. (giugno 1901; ed. 1975)

Semiramis, cantata (gennaio 1902; perduta)


La nuit, per soprano, coro misto e orch. (primavera 1902)
Bibliothèque Nationale di Parigi

Alcyone, per soprano, contralto tenore e orchestra (giugno 1902; ed. 1975)

Matinée de Provence, per soprano, coro misto e orch. (primavera 1903)


Bibliothèque Nationale di Parigi

Alyssa, per soprano, tenore, baritono e orch. (giugno 1903; ed. 1975)

L’Aurore, per tenore, coro misto e orch. (maggio 1905)


Bibliothèque Nationale di Parigi

Orchestra

111
Schéhérazade (novembre 1898; partitura e trascr. per due pf., ed. 1975)

Trascrizioni

La jeunesse d’Hercule di Saint-Saëns (ante 1888; trascr. per pf.)


Bibliothèque Nationale di Parigi

Margot la Rouge, opera di Frederick Delius (rid. per canto e pianoforte; ed.
1905?)

Antar, suite di musche di scena da Antar, Mlada e liriche di Rimskij-Korsakov e


da Le Désert di Félicien David (fine 1909; manoscritto parziale di Maurice
Ravel)
Archivi Editions Alphonse Leduc

Prélude du Fils des Etoiles di Erik Satie (fine 1910-inizio 1911; trascr. per orch.;
perduto)

Kovanščina di Musorgskij (rielaborazione, in collaborazione con Igor Stravinskij,


della partitura nell’edizione Rimskij-Korsakov; marzo-giugno 1913; perduta)

Les Sylphides da Notturni, Studi; Valzer di Chopin (primavera 1914; trascr. per
orch.; perduta, salvo la prima pagina)
Pierpont Morgan Library, New York

Carnaval di Schumann (trascr. per orch.; 1914; ed. parziale 1975)

Frammenti e progetti

La parade (balletto; per pianoforte; 1896?)


Bibliothèque Nationale di Parigi

Olympia (opera; soggetto da L’uomo di sabbia di E.T.A. Hoffman; fine 1898-


inizio 1899;perduta)

La Cloche engloutie (opera; dall’omonimo dramma di Gerhart Hauptmann;


1906-1912; 15 pagine per canto e pf.)
Bibliothèque Nationale di Parigi

112
Saint François d’Assise (balletto?; perduto)

Morgiane (oratorio?-balletto?; dalle Mille e una notte; abbozzi)

Esistono abbozzi in tre diversi archivi:

A) Archivio Mme Alexandre Taverne

- Esercizi scolastici (30 pagine)


- Orchestrazione di sonate di Beethoven (5 pagine)
- Le ciel est par-dessus les toitsI, mélodie su testo di Verlaine (4 pagine)
- Sur l’eau, mélodie su testo Verlaine (1 pagina)
- Preludio a Intérieur di Maeterlinck (1 pagina)
- Les Patineuses, mélodie (1 pagina)
- Suite pour deux pianos (22 pagine; manca la parte del primo
pianoforte)
- Orchestrazione dello Studio op. 10 n.11 di Chopin (1 pagina)
- Abbozzo di sviluppo per un trio (1 pagina)
- Trascrizione della Forlane di Couperin (2 pagine)
- Mazurka (1 pagina)
- Barcarolle (1 pagina)
- Abbozzo di orchestrazione per Enfantines di Musorgskij (1 pagina)
- Orchestrazione di Rondeña da Iberia di Albéñiz (8 pagine)

B) Raccolta Georges Van Parys (PIerpont Morgan Library)

- Fugato (1 pagina)
- Farfadets (1 pagina)
- La Nonne maudite (1 pagina)

C) Raccolta Arbie Orestein

- Esercizi di scuola (3 pagine)


- Trascrizione per pf. di Coriolano si Beethoven (1 pagina)

113

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