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forma più ricca e articolata, tal altra per darne un equivalente in altro contesto
sonoro.
Esempi del primo caso sono, invece, le celebri riduzioni di Liszt da Berlioz e da
Wagner.5 Entrambe le modalità di riduzione, appena descritte, hanno valore
2
esclusivamente pratico e divulgativo: potremmo definirle «parziali» 6 perché,
anche se la “sintesi” pianistica della parte orchestrale fosse esaustiva, non
potrebbe sostituirsi all’orchestra nel rendere la complessità dei rapporti sonori e
timbrici che caratterizzano l’originale.
Una sorta di riduzione, per così dire «totale», può configurarsi quando la sintesi
dall’originale avviene in forme propriamente pianistiche. Esempi tra queste, le
riduzioni di F. Liszt da Berlioz e da Wagner, in cui, come afferma A. Casella,
3
antiche intavolature è una impostazione grafica che imita le caratteristiche
“fisiche” dello strumento a cui si riferisce.
Nel Cinquecento la pratica dell’intavolatura dei pezzi vocali nasce come punto di
partenza nella creazione di un repertorio per gli strumenti, i quali, legati e
subordinati per secoli alla musica polifonica vocale, ne fanno propri le forme e lo
stile, svincolandosene progressivamente fino alla conquista di un linguaggio
autonomo e originale. Essa si sviluppa anche per rispondere a necessità
divulgative: non erano molti coloro che avevano la possibilità di ascoltare o
eseguire le numerose e complicate musiche vocali nella loro veste originale. Le
intavolature, quindi, erano utili ai dilettanti, i quali potevano intonare con la voce
la parte superiore e accompagnarsi con lo strumento oppure eseguire
esclusivamente su questo la composizione vocale. Grazie alle intavolature si
poterono diffondere, attraverso l’abile esecuzione dei musicisti, le composizioni
polifoniche in un più largo strato di ascoltatori. Detto ciò si comprende che
caratteristica della storia della musica strumentale, prima del Seicento, è da un
lato una fondamentale autonomia, dall’altro un costante riferimento alle forme
coeve della musica vocale. I primi esempi di esecuzione strumentale della musica
vocale li ritroviamo ne mottetti intavolati. La trascrizione di musica vocale in
intavolatura per strumenti a tastiera e l’ampliamento dell’originario testo
musicale mediante fioriture, restano un elemento fisso dell’esecuzione su
strumenti a tastiera e del relativo repertorio fino agli inizi del XVII sec. Questo
tipo di trascrizione talvolta fu parziale, come nella Frottola, la cui parte più acuta
si lasciava alla voce, mentre si raggruppavano le altre per uno strumento. Il
carattere di trascrizione era ancor più deciso quando nell'adattamento della
musica vocale s'introducevano diminuzioni, passaggi e fioriture diverse. Ad ogni
modo le differenze tra fioriture vocali e strumentali sono ben presenti, anche se
riguardano di più consuetudini interpretative che non radicali differenze di
formulazione. In generale sono tre i punti fermi da considerare:
4
1) le fioriture strumentali sono più estese di quelle vocali o, in altre parole,
una composizione è più idonea ad un’esecuzione strumentale che non ad una
vocale;
Si può facilmente dedurre che le versioni intavolate di opere vocali dei secoli
XIV-XVI rappresentano in molti casi musica strumentale “autentica”, nel senso
che tutti gli elementi specifici di uno stile strumentale vengono applicati agli
originali vocali, per cui le composizioni vocali risultano “strumentalizzate”.
D’altronde, dati questi presupposti, le intavolature ornate di composizioni vocali
offrivano anche indicazioni dell’esistenza di esecuzioni con ornamenti da parte
dei cantanti.8
5
NOTE
3. Cfr., Dizionario della musica e dei musicisti, UTET, Il Lessico IV, p. 560.
4. Ibidem.
6
Cap. I LA TRASCRIZIONE - Storia ed evoluzione
Con la nascita del pianoforte, tra il XVII e il XVIII secolo, assistiamo al lento
declino del clavicembalo, per il quale si esaurisce la pratica della trascrizione
pressocché nella prima metà del Settecento.
Con concerti trascritti per tastiera da Johann Sebastian Bach ci si riferisce a due
raccolte di trascrizioni realizzate da Bach fra il 1713 e il 1717: una per strumento
a tastiera, catalogata come BWV 972-987 e l'altra per strumento a tastiera dotato
anche di pedaliera, catalogata BWV 592-597.
Le due raccolte, che insieme contengono ventidue concerti, sono basate su lavori
originali per orchestra di Antonio Vivaldi, Alessandro Marcello, Benedetto
Marcello, Georg Philipp Telemann e Giovanni Ernesto di Sassonia-Weimar. Di
alcuni concerti non si conosce la paternità dell'originale ma alcuni musicologi
avanzano i nomi di Giuseppe Torelli e Tomaso Albinoni.1
Per lungo tempo, basandosi sulla biografia bachiana scritta da Johann Nikolaus
Forkel2, i musicologi credettero che le trascrizioni per strumento a tastiera di
opere orchestrali di altri autori, realizzate da Johann Sebastian Bach, fossero meri
esercizi di studio sulla forma classica del concerto grosso all'italiana. Studi
recenti, invece, hanno evidenziato come la congettura espressa dal Forkel fosse
improbabile, in quanto il trentenne Bach aveva già avuto numerose occasioni per
conoscere e studiare le varie forme musicali, compresi i concerti italiani.
7
Joachim Schultze, Alberto Basso, Peter Williams, Piero Buscaroli e Roland de
Candé, al grande interesse che la corte di Weimar, presso la quale Bach si
trovava a servizio negli anni un cui vennero realizzate le trascrizioni, aveva per la
musica italiana: il giovane principe Giovanni Ernesto di Sassonia-Weimar, nipote
del regnante Guglielmo Ernesto, era infatti molto attratto dagli autori italiani
all'epoca di moda (ad esempio Antonio Vivaldi, Benedetto Marcello e Giuseppe
Torelli), e si dilettava lui stesso a comporre concerti in stile italiano.3
8
Bach e Walther furono particolarmente attratti dallo schema del Concerto grosso
e realizzarono diverse trascrizioni manualiter e pedaliter, adattando gli originali
al clavicembalo o all'organo.5
I modelli preferiti da Bach nelle sue trascrizioni per clavicembalo e per organo
furono i concerti di A. Vivaldi, il cui gioco dei contrasti fra tutti e solo ben si
adattava alle due tastiere unite alla pedaliera dell’organo. Uno degli esempi più
citati è il Concerto n. 2 dell’op. VII (II libro) e, soprattutto, il lento movimento
centrale, la cui superiorità, rispetto all’originale, viene ottenuta tramite
l’inserimento, fra le due parti preesistenti, di una terza linea che Bach introduce
con l’intento di arricchire, in senso contrappuntistico, l’articolazione del
prototipo vivaldiano.6
Bach, salvo rare eccezioni, rinvigorisce certe ossature con nuovi contrappunti,
arricchisce l’ornamentazione, conferisce maggior rilievo a certi svolgimenti
armonici e, in diversi casi, arriva a connotare le sue trascrizioni in modo talmente
originale, dal conferir loro altro carattere espressivo.7
9
I.II. Le trascrizioni per pianoforte da Mozart a Liszt
Dopo Bach, la pratica della trascrizione per strumenti a tastiera diventò dominio
del pianoforte. I primi esempi interessanti, in questo campo, si devono a W. A.
Mozart con la Sonata K. 547a per pianoforte: il I e il III movimento di
quest’opera derivano dalla Sonata per violino e pianoforte K. 547; il Rondò
centrale, invece, deriva dalla Sonata K. 545 per pianoforte, trasportato in fa
magg.
a)
10
b)
Ad interessarsi alla trascrizione delle opere di Paganini fu anche Liszt che, nel
1851, pubblicò la versione definitiva della trascrizione per pianoforte dei sei
Grandes Études de Paganini. Sembra che sconvolgente sia stato per l’autore
l’ascolto di Paganini a Parigi nel 1831, a seguito del quale si impegnò per cercare
di esprimere in musica quella rivoluzione romantica, attraverso un materiale
musicale nuovo e, più in particolare, utilizzando in modo del tutto originale un
mezzo già ampiamente utilizzato: quello della rielaborazione virtuosistica. 11 Lo
stesso Schumann riconobbe i pregi della trascrizione degli studi di Paganini
realizzata da Liszt, sostenendo che Liszt
11
abbastanza fedeli, talvolta sono comunque presenti degli elementi parafrasali,
come cadenze non presenti negli originali, o accompagnamenti rielaborati in
modo diverso.13
Nel suo primo periodo compositivo, Liszt compose un gruppo di Fantasie su temi
operistici famosi. In queste Fantasie spesso derivate da improvvisazioni al
pianoforte egli tendeva a produrre diversi effetti emotivi sugli ascoltatori
attraverso l’arte dell’improvvisazione praticata nei primi anni del XIX secolo.
Tale maestria non era meno sapiente delle improvvisazioni, retoricamente
strutturate, dei secoli immediatamente precedenti. Liszt riuscì, dunque, ad
estrarre gli elementi principali dalle opere ed a creare, da queste ultime, una
nuova opera d'arte, mostrando come il pianoforte fosse in grado di evocare, nel
contempo, sia le sonorità delle voci che i timbri orchestrali. Nell’attività della
parafrasi, Liszt si dedicò, oltre che alla trasposizione di temi tratti dalle opere
teatrali, anche a temi tratti da canzoni popolari e da musiche di diverso genere.
12
trasformando, nella stesura sinfonica, la semplice opposizione di registri della
versione primitiva, in forte contrasto di timbri, mediante lo scambio del motivo
tra legni, ottoni e archi.15
NOTE
13
1. Cfr. A. Basso, Frau Musika. La vita e le opere di J.S. Bach. vol. 1, Torino, EDT, 1979,
introduzione.
2. Cfr. supra, A. Basso, Frau Musika. La vita e le opere di J.S. Bach., op. cit.
3. Cfr. B. Lepido, Johann Sebastian Bach. I concerti per organo, Music Media, Milano,
2011, p. 53.
4. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 566.
5. Ibidem.
6. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit. p. 564.
7. Ibidem.
9. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 565.
10. Ibidem.
11. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 572.
13. Cfr.www.michelecampanella.org/oldsite/public/allegati/Le%20parafrasi%20di
%20Liszt.pdf.
14. Cfr. K. Geringer, Johannes Brahms, Leben und Schaffen eines deutschen Meister,
Vienna, 1935; trad. it. a cura di G. Gai e M. Zanon, Ricordi, Milano 1952, p. 147.
15. Ibidem.
14
II.I La generazione ottanta e la trascrizione: Ottorino Respighi
15
Obiettivo della “Generazione dell’ottanta” era quindi la «sprovincializzazione»
della cultura musicale italiana dominata dal melodramma naturalista, per
reinserirla in un contesto europeo e conferirle nuova dignità. Per poter fare ciò
era necessario ritrovare antiche radici in un passato remoto in cui la musica
strumentale italiana aveva conosciuto una storia gloriosa. Se questo programma
di rinnovamento si profilava con chiarezza già all’epoca della Prima guerra
mondiale, esso si sviluppò propriamente nel ventennio fascista. L’ideologia
fascista, in un’Italia avviata a divenire potenza industriale fra le altre europee e
mondiali, poteva riconoscersi nell’istanza di rinnovamento dei nuovi compositori
italiani. L’omologia fu vista in modo lucidissimo da Casella che, del moto di
rinnovamento, fu il portabandiera e si adoperò per l’internazionalismo che,
nell’Italia del ventennio fascista, fu incarnato dal Festival di musica
contemporanea di Venezia (1930) o dalla fondazione del Maggio musicale
fiorentino (1933). Insieme con Malipiero e Labroca e con l’entusiastico appoggio
di D’Annunzio, Casella partecipò alla fondazione della Corporazione delle
nuove musiche (1923-28), che si sarebbe legata, in seguito, all’attività della
Società Internazionale di Musica Contemporanea. Si delineava così, anche in
Italia, il superamento di un rapporto diretto di condizionamento mercantile fra
produzione e consumo, fra opera e pubblico, attraverso la mediazione
dell’intervento dello Stato. La fuga dal provincialismo, ravvisato nel
melodramma, coincideva con l’abbandono di un’ottica condizionata dal vecchio
capitalismo concorrenziale per adottare quella del nuovo capitalismo statuale ed
assistenziale. Poiché la tradizione più vicina dell’Italietta liberale da un lato, del
melodramma provinciale dall’altro, non era cosa degna, ci si rifaceva all’antico
veramente glorioso, alla grande musica del passato remoto, dichiarata
autenticamente italiana.
16
In realtà abito naturalistico e ideali modernistici non apparivano così separati e
contrapposti nella musica italiana della prima metà del secolo, quanto i
programmi innovatori potevano lasciar credere. Essi convissero, per un buon
quarantennio, condividendo volentieri motivi e caratteri, per lo più spiritualistici
(di stampo dannunziano o idealistico) e nazionalistici (d’ispirazione folclorica,
arcaica o neoclassica). Le distinzioni emergevano negli autori di punta ch’erano,
da una parte, i superstiti della «Giovane scuola» e del melodramma naturalista
(da Puccini a Zandonai, a Wolf-Ferrari) e, dall’altra, Alfano, Respighi, Pizzetti,
Casella, Malipiero. Purtuttavia ai compositori maggiori si accomunava una serie
di autori minori, difficilmente collocabili, che aderivano a questo o a quel
versante (Vincenzo Tommasini, Riccardo Pick-Mangiagalli, Adriano Lualdi,
Vito Frazzi, Ludovico Rocca).
Franco Alfano (1875-1954) fu, tra i cinque, il più legato agli schemi tradizionali.
Dedicatosi inizialmente all’attività concertistica e alla critica musicale, sentì
presto l’esigenza di allargare le proprie esperienze musicali fuori dall’Italia,
volgendosi alla composizione. Il suo metodo compositivo venne influenzato, a
livello dell’orchestrazione, da Strauss e da Debussy, mentre cercò di mantenere il
passo con le correnti moderne rendendosi conto degli orizzonti verso cui doveva
guardare la nuova musica italiana nel momento del fatale declino della stagione
operistica. L’opera Resurrezione (1904), il suo primo successo, ne rivelò la
spiccata vocazione teatrale. Lo stile più personale di Alfano, frutto del connubio
di melodiosità e caratteri impressionisti, è in quello che è considerato il suo
lavoro migliore e fra i più rappresentativi del Novecento: La leggenda di
Sakùntala (1921; una nuova versione, con titolo Sakùntala, è del 1952). In campo
sinfonico, la padronanza della forma e una ricca orchestrazione qualificano la
Suite romantica e la Prima Sinfonia. Mentre la produzione cameristica è spesso
invasa da un’enfasi che va a sovrapporsi ai contenuti poetici, più spontanee sono
le liriche per canto e pianoforte.
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Fra i compositori italiani del primo Novecento che, nell’ambito del suddetto
rinnovamento, affrontarono la musica strumentale, Ottorino Respighi (1879
-1936) è senz’altro il più popolare. I due lavori più conosciuti e importanti di
Respighi sono Fontane di Roma e Pini di Roma. Nonostante la popolarità di
Respighi, la critica gli ha, da più parti, rimproverato d’essere rimasto, rispetto
agli altri della generazione dell’Ottanta, Alfano a parte, su posizioni retrò. La
maestria nel trattamento orchestrale, le sfumature timbriche e armoniche, la
sontuosità pittorica e canora dell’orchestra medesima, sono elementi che
Respighi seppe modellare derivandoli da Rimskij-Korsakov, dall’impressionismo
di Debussy, dal poema sinfonico di Strauss. La variopinta bellezza della sua
scrittura musicale fatta di «preziosa rarefazione, morbidezza e trasparenza del
suono da una parte, turgescenza fonica dall’altra» 3, fece sì che in Italia, dopo un
plurisecolare predominio del melodramma, si potesse parlare finalmente di
musica sinfonica. Respighi volse il suo interesse anche alle forme e ai contenuti
della musica del passato, interesse che portò a eccellenti risultati nel Quartetto
dorico per archi, nel Concerto gregoriano per violino e orchestra, in Vetrate di
Chiesa, nel Concerto misolidico per pianoforte e orchestra, nelle Antiche arie e
danze per liuto. Meno conosciuta è la sua produzione operistica che,
gradualmente, si andò assestando negli stilemi del neoclassicismo. Con le
Antiche danze ed arie per liuto (sec. XVI e XVII), nella trascrizione per
pianoforte fatta da Respighi nel 1919, cioè due anni dopo la versione pianistica di
Tre composizioni di Frescobaldi, l’amore per la divulgazione delle composizioni
del passato lo portò a rifarsi alle radici stesse della musica strumentale: opera
altamente meritoria, allora, per la diffusione culturale, quella di presentare pagine
per liuto in veste pianistica, arricchita di eleganti contrappunti e bene adattata alle
diverse risorse dello strumento a tastiera con raddoppi di parti e amplificazioni
armoniche. Il risultato di queste “integrazioni”, operate non solo per adeguare gli
antichi testi alle possibilità del nuovo mezzo fonico ma, soprattutto, per darne
una traduzione in modi moderni che maggiormente sarebbero stati graditi al
18
pubblico, condurrà tuttavia a una alterazione delle armonie originali e a un certo
appesantimento della genuina freschezza di quelle musiche.4
Oltre che per il pianoforte, Respighi trascrisse le danze antiche anche per
orchestra. Confrontando le due versioni trascritte dallo stesso autore si può notare
come le due stesure siano equivalenti; tuttavia l’orchestra rende meglio il sapore
arcaico delle composizioni, attraverso l’uso appropriato di certi strumenti e, in
particolare, di quelli a corde, con evidente tentativo di alludere, in certi casi, al
suono del liuto.
19
Altra importante trascrizione di Respighi è Neuf Études Tableaux per pianoforte
di Rachmaninov: lo stesso pianista russo avrebbe ammirato i prodigiosi effetti
della brillante orchestrazione, perfettamente aderente allo spirito del testo
originale.5
20
Attento, quindi, ai fenomeni del Presente ma tradizionalmente legato alla cultura
italiana, Pizzetti strutturò il suo linguaggio nello studio del canto gregoriano; il
suo stile fu severo e per nulla tendente a facili edonismi nell’uso coloristico degli
strumenti. Apprezzato e stimato, in vita, da uomini di cultura come D’Annunzio,
Papini, Prezzolini, Ungaretti, nonché dagli interpreti della sua musica quali
Toscanini, Gavazzeni, De Sabata, oggi la produzione di Pizzetti stenta a rientrare
nei circoli di consumo. Al di là di ogni valutazione critica o rivalutazione delle
sue composizioni non è possibile tralasciare l’importanza di Pizzetti nella storia
della cultura musicale, dove fu presente, oltre che come autore, come insegnante,
critico e direttore d’orchestra. Del suo teatro ricordiamo, tra gli altri, Fedra, La
figlia di Jorio, Debora e Jaele, Lo Straniero e il già citato Assassinio nella
cattedrale; delle musiche di scena, quelle per l’Agamennone di Eschilo e per Le
Trachinie di Sofocle; vari gruppi di Liriche, musica strumentale sinfonica e da
camera, musica per film (Scipione l’Africano, I promessi sposi, Il mulino del
Po).8
[…]La mia vita di artista è stata dura, ma anche molto bella. Per
lunghi anni ho goduto nella mia patria della più larga impopolarità,
della più cordiale antipatia e incomprensione. Fatto questo inevitabile,
perché - in un paese dove pullulavano i dilettanti e gli aficionados del
“bel canto” ultimo-ottocento, e dove il gusto imperante era quello di
una provincia rimasta per lunghi decenni estranea a quasi tutti i
maggiori problemi del grandioso processo rivoluzionario che aveva
agitato l’Europa da Weber a Debussy - un artista, incapace dì certi
compromessi, era fatalmente destinato ad essere aspramente
ostacolato dalla quasi totalità dei suoi conterranei. Vita dura dunque,
ma che rifarci tutta da capo con la medesima fede, qualora fosse
necessario[…]9
21
presentavano: dal tardo Romanticismo, all’Impressionismo, all’Espressionismo,
prendendone coscienza ma senza mai farsi coinvolgere completamente, nella
ricerca di un equilibrio superiore che doveva derivare dalla sensibilità personale e
dai caratteri propri della cultura e del gusto italiani.
Indubbiamente, l’esperienza che agì più profondamente e più a lungo sulla sua
emotività fu quella espressionistica di Schönberg, che l’avrebbe portato a lavori
alle soglie della dodecafonia come la Sonatina op. 28 per pianoforte. Con
Pupazzetti (per pianoforte a quattro mani e riscritta in due successive versioni,
per nove strumenti e per orchestra) si è parlato di «ironia lirica», che si riallaccia
alla Commedia dell’arte italiana. Difatti la posizione più ferma di Casella fu
quella di riscoprire e ripensare la tradizione italiana, quella più vera e reale,
ovvero del Seicento e Settecento strumentale. Comporrà quindi Scarlattiana, per
pianoforte e trentadue strumenti, in cui utilizzerà ottanta temi presi dalle sonate
di D. Scarlatti, e Paganiniana. La sua presenza di didatta va ricordata anche per
la revisione, tra l’altro, dell’opera omnia di Chopin, del Wohltemperierte Klavier
e delle Suites inglesi e Suites francesi di J. S. Bach, nonché di musiche di altri
autori fra cui Monteverdi, Vivaldi, Mozart etc.
22
Seicento. I caratteri tipici della sua arte si manifestano, più che nella tecnica,
nella poetica, cioè nella concezione stessa dell’opera musicale. Quest’ultima si
palesa nel ripudio dello sviluppo tematico distribuito lungo congegnati itinerari,
caro alla tradizione romantica e nell’appello, viceversa, a un’invenzione musicale
continua, alimentata da uno scaturire di idee incessantemente rinnovate; consiste,
analogamente, nella concezione di un teatro sintetico, non naturalistico, tutto
nutrito di culmini drammatici, dove musica e parole siano per se stesse
necessarie, evitando gli inutili recitativi di raccordo. 10 I caratteri stilistici della sua
musica non mutarono sostanzialmente neppure quando si avvicinò alla
dodecafonia. Come revisore di musiche del passato, curò lavori di B. Marcello,
Stradella, l’opera omnia di Monteverdi; inoltre curò la pubblicazione, ancora in
corso, delle opere strumentali di Vivaldi.
23
musicale tali opere trascendono l’assunto meramente divulgativo e didattico per
collocarsi come autentiche creazioni nella storia della letteratura pianistica.
Il punto di riferimento dal quale Busoni partì per definire e orientare la prassi
della trascrizione fu l’esempio di Bach. Egli stesso scriveva nel 1910 che «per
rialzare di colpo la natura della trascrizione a dignità d’arte basta fare il nome di
J.S. Bach. Egli fu uno dei trascrittori più fecondi di lavori propri e altrui e
precisamente nella sua qualità di organista. Da lui imparai a riconoscere una
verità: che una musica buona, grande, ‘universale’, resta la stessa qualunque sia il
mezzo attraverso cui si faccia sentire. Ma allo stesso tempo imparai anche una
seconda verità: che mezzi diversi hanno un linguaggio diverso (loro peculiare)
col quale comunicano questa musica in modo sempre un po' differente».12
I confini che delimitano l’area della trascrizione sono dunque fissati con estrema
precisione: da un lato l’identità della musica in se stessa; dall’altro la molteplicità
delle sue epifanie, ogni volta diverse e tanto più diverse quanto più mutino il
mezzo e il linguaggio specifico che le comunicano. Guide del trascrittore in
questo percorso debbono essere, di fronte alla libertà senza restrizioni, il rispetto
del gusto, il rigore dello stile, la logica della forma. Busoni, guardando a Bach e a
Liszt, avvertiva che la ragione storica della decadenza della trascrizione stava
24
proprio nella perdita di queste guide, ossia nella maldestra riduzione del modello
a copia sbiadita e informe, conseguenza di un divario qualitativo troppo netto fra
originale e trascrizione. L’atteggiamento di Busoni trascrittore radicalizza con
l’esempio questa decisa affermazione di principio. Egli scriveva:
25
reale la musica soltanto attraverso la sua riproduzione e ricreazione concreta,
frutto di una scelta i cui confini sono per definizione illimitati ma che
circoscrivono un vuoto colmabile soltanto artificialmente. Quella realtà
intangibile può essere soltanto trascritta, usando tutti i mezzi di cui il
compositore dispone per ridare qualcosa dell'essenza soprannaturale della
musica: compito al quale l'artista creatore si dedica con gioia, senza porsi leggi
precostituite, tutto provando e sperimentando nella certezza di costituire un
anello in una catena infinita di proposte e di definizioni. E quanto Busoni
riassume in un aforisma centrale del suo pensiero: «L’opera d'arte musicale
sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare.
È insieme dentro e fuori del tempo»15. Ossia irreale e reale insieme.
26
perfino in Liszt, e ancora di più in Chopin e Franck. Sul pianoforte moderno era
necessario disporre la musica sotto le dita in modo adeguato, usando armonie ora
strette ora piene e larghe, cogliendo il significato degli elementi compositivi e di
quelli virtuosistici, sfruttando tutte le possibilità di registro e di sonorità:
rendendo esplicito il senso implicito della “strumentazione”. In ciò Busoni,
coerentemente con la sua poetica, vedeva un campo aperto alla ricerca e alla
sperimentazione.16
27
di mettere in evidenza la sua bravura e il suo stile personale. Non si esaurisce
però in essa.
28
dell'equilibrio e della simmetria, avendo sempre presenti il senso dell'effetto
sonoro, le esigenze della comprensibilità e della chiarezza.
29
pianoforte la forza, la pienezza e le cangianti sfumature dei multicolori registri
dell'organo. Libertà e rigore furono i termini di paragone con cui Busoni affrontò
i problemi più spinosi, da quello dei raddoppi, risolto vietando tassativamente
l’arpeggio ed elaborando invece una disposizione polifonica che ricreasse almeno
l’idea dei “ripieni” e delle “misture”, a quelli degli effetti di “registrazione” e
dell'impiego del pedale destro, ritenuto indispensabile, contro l'opinione dei
puristi, ogniqualvolta si suoni Bach al pianoforte. Aggiunte di vario tipo,
omissioni e libere elaborazioni, se inserite con naturalezza e per obiettiva
necessità, senza offendere il gusto e lo stile, sono espressamente contemplate;
ove una polifonia troppo intricata o una concezione del pezzo per due manuali
presentino all’esecuzione ostacoli insuperabili, si propone la via d'uscita della
trascrizione per due pianoforti. Di fatto, trascrivere per pianoforte le opere
organistiche di Bach significò per Busoni non solo trovare il modo di estendere
gli orizzonti tecnici ed espressivi dello strumento, ma anche racchiudere in
grande unità un'arte ai suoi occhi diversa per dimensioni, non per carattere e
forma.
Busoni diede la maggior prova della validità delle proprie tecniche trascrittive
con la redazione per pianoforte della Ciaccona per violino solo Bwv 1004 di
Bach, dove egli «fa sua la musica di Bach e la riesprime» 23, perché la potenzialità
armonica e contrappuntistica dell’originale violinistico viene da lui «intuita e
realizzata con tale penetrazione da dar luogo, come già vedemmo per Bach, a una
vera ricreazione indicativa della personalità del trascrittore quanto e più di
qualsiasi sua composizione originale».24 Solo in apparenza paradossale suona il
fatto che nel corso della sua vita ancora come trascrittore Busoni venisse criticato
e ostacolato nel modo più aspro: tanto innovatrici e radicali, rispetto alla moda
corrente, apparivano le sue teorie e le sue esperienze di trascrittore. Lo scarto tra
la forma originale e l’elaborazione concertistica per pianoforte risulta assai più
netto, ma la trascrizione segue anche qui leggi rigorose. Non è né una parafrasi
30
del testo bachiano né una fantasia, ma l’ideale prolungamento delle virtualità
stilistiche in esso latenti, amplificate e approfondite nel passaggio dal violino al
pianoforte: non intende dunque tradurre l’originale, ma ricomporlo su nuove,
autonome basi. In altri termini Busoni, pur servendosi di tutte le risorse anche
virtuosistiche del pianoforte, quando trascrive la Ciaccona compie un atto
eminentemente creativo: suo primo scopo è rendere evidenti e valorizzare
l'armonia e la polifonia implicite nel testo originario, nella cui sontuosa fioritura
melodica egli vede adombrato il modello di una melodia assoluta, portatrice
dell’idea e generatrice dell'armonia e della polifonia universali. Lo sforzo di
Busoni ricreatore mira così anzitutto a evidenziare le varianti armoniche, le
possibili trasformazioni e alterazioni cromatiche del basso ostinato di Ciaccona
pensato da Bach, e allo stesso tempo a sviluppare la polifonia dalla melodia;
utilizzando a questo fine procedimenti contrappuntistici e modelli di elaborazione
polifonica desunti dallo studio del modus componendi di Bach stesso e
dall'analisi degli esempi da lui lasciati in questo campo; integrandoli con
elementi compositivi nuovi, linguisticamente espansi, non presenti nell'originale
ma coerenti con il suo sviluppo sul pianoforte. Accentuando il carattere di
variazione continua di tutti i parametri della composizione, Busoni costruisce una
forma ciclica assai più complessa di quella bachiana, permeata di sottili
trasformazioni e derivazioni.25
31
conformata alla sensibilità di coloro cui era destinata; così che costoro potessero
coglierla per così dire nella sintesi di valori originali e valori aggiunti mediante la
trasformazione e la rielaborazione.
32
[…]Questa composizione richiede dal pianista la più raffinata
padronanza del tocco e del pedale, una interpretazione intima, quasi
improvvisata, “fluttuante”, una affettuosa immedesimazione nel suo
contenuto, poter essere interprete del quale - soltanto come trascrittore
- ascrive a suo artistico onore F.B[…]28
Nel tardo Ottocento, inizialmente in Francia e poi nel resto d’Europa, si iniziò a
prendere atto dell’inesorabile fallimento del Positivismo: la ricerca scientifica,
33
per quanto coronata da sfolgoranti successi come mai prima di allora, non poteva
giungere ad illuminare gli interrogativi più profondi dell’uomo e a dare un senso
alla vita e alla morte. Per di più, si avvertiva nettamente la spaccatura fra
l'ottimistica visione del mondo dettata all’incrollabile fede nel progresso
tecnologico e la concreta realtà economica, politica e sociale, lacerata da crisi e
ingiustizie profondissime e restia ad ogni cambiamento. Si aprì allora la fase
storica del Decadentismo, detta così dall'incipit di un sonetto di uno dei suoi più
celebri poeti, il francese Paul Verlaine: «Je suis l’Empire à la fin de la
décadence» («Io sono l’Impero alla fine della decadenza»). Fiorirono numerose
le correnti di pensiero irrazionali e misticheggianti, dedite anche all'esoterismo e
all’occultismo o alla ricerca di una religione alternativa a quella tradizionale (dai
Rosacroce, alla teosofia, all’antroposofia). Fu il movimento culturale francese del
Simbolismo ad incarnare queste tendenze di fondo all'interno di una produzione
artistica di altissimo livello. I simbolisti, riallacciandosi tra l’altro ad una celebre
poesia di Baudelaire (Correspondences, contenuta in Les Fleurs du mal, 1857),
ritenevano che la realtà visibile fosse intimamente collegata a quella invisibile,
essendone quasi uno specchio simbolico. L’unica via di conoscenza sarebbe
dunque quella intuitiva, realizzata attraverso il potere evocatorio dell’arte:
profumi, colori, suoni si rispondono, come sosteneva Baudelaire, rinviando a ciò
che non è percepibile
Comme de longs échos qui de loin se confondent Come le lunghe eco, che lontano si fondono
Dans une ténébreuse et profonde unité, in una tenebrosa e profonda unità
Vaste comme la nuit et comme la clarté, immensa come la notte e come il chiarore,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent. i profumi si accordano con i colori e i suoni.
II est des parfums frais comme des chairs d’enfants, Ci sono profumi freschi come carni di bimbi,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies, dolci come degli oboe, verdi come pascoli,
– Et d’autres, corrompus, riches et triomphants, – e altri, corrotti, ricchi e trionfanti,
Ayant l’expansion des choses infinies, che hanno l’espansione delle cose infinite,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens, come l’ambra, l’incenso, il benzoino e il muschio,
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens. che cantano i fervori dello spirito e dei sensi.
34
In campo musicale, nonostante Carmen e Boris Godunov (nonché, in una certa
misura, Traviata), il realismo positivista era rimasto un fenomeno abbastanza
marginale. Non era quello l'avversario da abbattere: chi si ergeva come
irrefutabile pietra di paragone - tanto per coloro che accettavano il suo verbo,
quanto per coloro che lo rifiutavano – rimaneva ancora Wagner, perfino molti
anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1883. L'influenza wagneriana fu così
potente da riverberarsi anche sul nascente Simbolismo francese.
Nel 1876 L’aprés-midi d’un faune di Mallarmé viene escluso dal terzo volume
del Parnasse. Nel 1884 Huysmans lancia il dandysmo, raffigurandosi nel Des
Esseintes di À rebours. Il percorso del protagonista diviene il paradigma di una
pulsione morbosa la cui smania di bellezza sovrumana è una condanna
all’autodistruzione. Nello stesso anno Verlaine canta «Sono l’impero alla fine
della decadenza […] Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!» e,
intanto, nei Poètes maudits (Poeti maledetti), dipinge se stesso, Rimbaud e
Mallarmé come adepti di un’estetica del degrado. Anche se Mallarmé continua a
impreziosire le veste classicista dei suoi versi alessandrini, la loro distanza dalle
altezze del Parnaso è abissale. Nel 1886 «Le Figaro» pubblica il manifesto
dell’«École symboliste» firmato da Jean Moréas, mentre due riviste, «Le
décadent» e «Le symboliste», battagliano fra loro secondo tradizione. Le
35
accomuna un medesimo nemico: il dispotico predominio di un naturalismo
volgare e populista. Alla fine, coscienza della disfatta e precipizio dei sensi
confluiscono nella certezza comune che ciò cui si mira è una bellezza metafisica,
nuova versione di quell’infinito, di quell’ultra-mondo che già aveva incatenato a
sé l’Idealismo romantico.
Tramite Duparc, Fauré, Debussy, e più tardi Ravel, dopo anni di familiarità con i
versi di Hugo, Lamartine, Gautier, Banville e molti altri, la lirica da camera sposa
la poesi a simbolista di Baudelaire, di Verlaine e infine di Mallarmé, coronando
così quello straordinario sodalizio che costituisce il cuore della musica francese a
cavallo dei due secoli. Nasce una nuova fusione fra musica e parola; alla base
c’è la poetica simbolista che enfatizza la connaturata musicalità del verso, ossia
quella qualità capace di rivelare la valenza simbolica della parola. Questo
innamoramento della sonorità pura, questo abbandonarsi alla «magia verbale»
assaporata nell’articolarsi del suono, implica la liberazione del verso e della
parola dalla prigione della logica prosaica e dalla schiavitù di dover significare
una realtà fatta di oggetti. Solo così la parola può svelarsi come veicolo, come
«bateau ivre» - battello ebbro di Verlaine – lanciato oltre la soglia della realtà
delle cose, nel mondo infinito e oscuro del simbolico in questo deragliamento dei
36
sensi, in questo lasciarsi risucchiare in una dimensione onirica svincolata da ogni
razionalità, la musica è compagna di viaggio della parola, ne è metafora sonora,
riverbero, profondità, tanto rivelatrice quanto capace di accrescerne il mistero. 30
Pittori e poeti di questo periodo innalzano la musica alla dignità di arte
organizzatrice dell’immaginazione. Mai la musica aveva, fino ad ora, annoverato
tanti difensori tra letterati e pittori. La venerazione che i simbolisti avevano per la
musica era in parte una reazione contro la mancanza di senso della generazione
precedente, in cui Delacroix, Gautier o Baudelaire rappresentano lodevoli
eccezioni. Il musicista più venerato dagli artisti simbolisti è Wagner; quello che
attraeva i poeti nell’arte wagneriana, era l’unione del verbo e del suono, il
simbolismo dei motivi musicali, e soprattutto il misticismo, al quale la loro
immaginazione era particolarmente sensibile. La concezione wagneriana dell’arte
e la sua filosofia erano all’origine del “simbolismo”. Così, entusiasmandosi per
Wagner, gli artisti pensavano più alla sua estetica che alle sue realizzazioni
musicali. L’atteggiamento critico di Mallarmé risaltava su questa adorazione di
sui il ristretto ambiente letterario che circondava Wagner era intriso. Senza
arrogarsi il diritto di giudicare la musica, Mallarmé non nascondeva il suo
imbarazzo di fronte all’estetica ed alla poetica di tali opere. Vedendone le lacune
e le debolezze, egli non riusciva a partecipare all’entusiasmo che esse
suscitavano nel suo ambiente.
37
NOTE
2. Cfr. www.rodoni.ch/malipiero/iesue.html.
3. Cfr. www.barbaralazotti.it/public/documenti1/IESU
4. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p.568.
5. Ibidem.
11. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 566.
12. Cfr. F. Busoni, Valore della trascrizione, in Lo sguardo lieto (Tutti gli scritti sulla
musica e le arti di Busoni), Il Saggiatore, Milano 1977, p. 218.
13. Ibidem.
15. Ibidem.
16. Ibidem.
17. Cfr. F. Busoni, Le edizioni delle opere per pianoforte di Liszt, in Lo sguardo lieto,
Il Saggiatore, Milano 1977, p. 38.
18. Cfr. F. Busoni, Valore della trascrizione, op. cit., Catalogo completo delle trascrizioni
38
busoniane in Appendice.
22. Cfr. F. Busoni, Le edizioni delle opere per pianoforte di Liszt, op. cit., p. 326.
25. Cfr. R. Caporali, Le trascrizioni pianistiche delle opere di Bach, in RaM, 1950.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
31. Cfr. G. Montecchi, Una storia della musica, artisti e pubblico, in Occidente dal
medioevo ai giorni nostri, Vol. I, ed. Superbur Saggi, Milano 1998, p. 573
39
CAP. III DEBUSSY
Non è un caso che Debussy si avvicinò al simbolismo; come tutti i grandi artisti,
egli si rifiutava di ripetere formule superate e si legava all’avanguardia del suo
tempo. L’apporto degli impressionisti fu duraturo, ma la loro estetica, già allora,
non soddisfaceva più nessuno. Essa aveva dato un potente impulso alle ricerche
in tutti i campi dell’arte, ma non aveva fornito la chiave universale che
permettesse di risolvere tutti i problemi che sorgevano. Il simbolismo
considerava l’arte come simbolo, un simbolo ambiguo e dinamico che unisce il
mondo delle idee al mondo delle cose. Solo facendo propria questa
40
consapevolezza era possibile comprendere l’opera d’arte ed integrarne i mezzi. Il
movimento simbolista era cominciato in poesia ed in musica, i suoi precursori
erano stati Baudelaire i Wagner. La poesia è più vicina alla musica di quanto non
lo sia la pittura e perciò fu dapprima la fonte d’ispirazione di Debussy; la pittura
lo su solo nella misura in cui voleva essere poesia, nella misura in cui si
rivolgeva a tutto l’uomo e non solo alla sua intelligenza o ai suoi sensi. La sua
arte comunque affonda le sue radici spirituali sia nell’impressionismo che nel
simbolismo.
Questa dichiarazione di principi compare sulla Renvue Blanche nel 1901, quando
Debussy aveva trentanove anni e il Pelléas et Mélisande era ormai composto. Ma
erano concetti che da tempo egli andava mettendo in pratica e che aveva
enunciato anche in forme più brusche e aggressive, da ribelle contro le intoccabili
regole della tradizione scolastica, che, dentro e fuori le aule del Conservatorio, si
pretendeva fossero al di sopra di ogni possibile discussione. Per Debussy il vero
talento non poteva accettare senza discutere l’insegnamento ricevuto, poiché una
41
fiducia eccessiva nelle formule scolastiche porterebbe all’indebolimento
dell’immaginazione.
Nel 1885 Debussy si può definire Wagneriano. Anche se negli anni conservatorio
egli aveva manifestato, fra il tracotante e il burlesco, delle vedute sull’armonia
che davano molti punti alle più spericolate audacie wagneriane, è naturale che
Wagner rappresentasse per Debussy l’espressione più avanzata, più antiscolastica
e più antiborghese del linguaggio musicale. Un Wagner conosciuto, acquisito e
assimilato più leggendolo al pianoforte che non ascoltandolo a teatro in una
Parigi dove Wagner non era ancora molto eseguito.
42
Ancora Debussy scriverà in proposito dei personaggi di Wagner:
Non è un paradosso pensare che Debussy, in queste cinque melodie, non tanto
abbia preso le mosse da Baudelaire quanto da Wagner. Si potrebbe addirittura
affermare che Debussy, sul 1887, si sia trovato di fronte ad un problema di
linguaggio da risolvere, magari anche per estrinsecarlo e quindi liberarsene, -
crisi wagneriana – ed abbia cercato, e trovato, in Baudelaire l’appoggio poetico
più confacente.
43
Quello che soprattutto disgustava Debussy nel compositore tedesco era la
trasparenza del simbolismo. Privi di qualsiasi ambiguità, i simbolismi
(Leitmotiv) wagneriani erano per Debussy solo una traduzione di frasi verbali,
una distrazione intellettuali a buon mercato per un ascoltatore dai gusti un po’
difficili. Non obbligandolo ad uno sforzo di immaginazione, essi non gli
permettevano neppure di conoscere il valore di un’esperienza estetica di una
certa profondità.
[…]credere che le qualità proprie del genio di una razza siano, senza
danno, trasmissibili ad un’altra razza è un errore che ha falsato la
nostra musica abbastanza spesso, poiché noi adottiamo senza
diffidenza formule in cui non può entrare niente che sia francese […]
Io ho lasciato parlare la mia natura ed il mio temperamento. Ho
44
cercato soprattutto di ridiventare francese. I francesi dimenticano
troppo facilmente le qualità di fierezza e di eleganza che sono loro
proprie, per lasciarsi influenzare dalle lungaggini e dalle pesantezze
germaniche […] la musica francese è la chiarezza, l’eleganza, la
declamazione semplice e naturale; la musica francese vuole, prima di
tutto, far piacere […] il genio musicale della Francia è qualcosa come
la fantasia nella sensibilità[…]6
Il 1887 – l’anno del rientro a Parigi dopo il soggiorno romano – è stato l’anno dei
primi fondamentali incontri di Debussy con alcuni degli aspetti più autentici della
cultura del suo tempo: coi preraffaelliti, e dunque col simbolismo, nella
Damoiselle Elue; con la vivente e incombente presenza di Wagner nei Cinq
Poèmes de Baudelaire; e finalmente con la poesia di Verlaine nelle Ariettes
oubliées che egli compone appunto tra l’87 e l’88. È la stagione fortunata e
feconda che vede Debussy venticinquenne apparire bruscamente alla ribalta della
storia a dare la misura del suo genio e della qualità dei problemi musicali che si
ponevano al suo gusto e alla sua natura di compositore.
La poesia di Verlaine, per vero, fin da sei anni prima, cioè fin dal 1881, era stata
assunta da Debussy come un punto valido di riferimento per appoggiarvi ed
innestarvi quella nativa freschezza di linguaggio sonoro, quella sensibilità
45
immediata e quasi parlante delle immagini musicali che egli, dentro di sé, se pur
giovanissimo studente di conservatorio, intravvedeva. In altre parole, quel
complesso di attitudini spirituali e creative che, variamente atteggiate e
variamente applicate, rappresentano il nucleo inconfondibile e più autentico della
personalità debussiana. Quel complesso di attitudini che egli più tardi identificò
con lo spirito stesso della più genuina musicalità francese, della quale il più
schietto rappresentante, insieme a Couperin, a lui pareva essere Rameau.
I legami che univano Debussy al simbolismo sono visibili non solo nella scelta
delle poesie, ma anche nel modo in cui è trattato il testo, nell’invenzione
puramente musicale che si sviluppa sul canovaccio delle parole e che permette al
compositore di oltrepassare in cerchio della musica funzionale, con il suo
simbolismo logoro, per aprire alla musica nuove prospettive. Nel 1911 Debussy
pubblica un testo molto significativo sull’atteggiamento del compositore verso la
poesia:
46
dell’accompagnamento, il motivo di Mélisande; Pierrot, composta nel 1882, ma
pubblicata nel 1926, annuncia già l’umorismo pieno di finezza che troverà una
brillante espressione in Fantoches, Children’s Corner o Boite à joujoux.
Un’armonizzazione sottile in cui sono già presenti parallelismi di settima ed il
motivo dell’accompagnamento astutamente trasformato, annuncia il musicista di
Colloque sentimentale.
L’ispirazione nasce anche dai testi di Leconte de Lisle: La fille aux chevenux de
lin, la cui grazia primaverile resisterà a tutte le tempeste del cuore, per apparire di
nuovo, sebbene in forma completamente differente, nel celebre preludio per
pianoforte che porta lo stesso titolo. Grazie alla raccolta di melodie popolari di
Feliper Pedrell, il giovane Debussy è attratto dalla fine ironica con cui Alfred de
Musset dipinge le persone ed il paesaggio in Les contes d’Espagne et d’Italie. Di
qui gli venne l’idea di scrivere musica sul piccolo quadro satirico Madrid,
principesse de Espagnes. Sarà solo in Serenade interrompe che Debussy riuscirà
a congiungere, come Musset, l’ironia e l’andatura “iberica” della sua musica.
Debussy aveva subito ogni tipo d’influsso, ma ciò che colpisce sempre in lui, fin
dall’inizio ed in tutte le sue opere, è una straordinaria sensibilità alla parola, alla
sua sonorità ed al suo rapporto con la musica.
Nella sua musica vocale fin dalla giovinezza, un abisso lo separa dall’estetica del
romanticismo in declino. Debussy giungeva ai risultati più interessanti quando
47
doveva misurare le sue forze con la poesia di Baudelaire, di Verlaine o di
Mallarmé. È ai loro testi che egli ricorreva più volentieri, forse perché non
ponevano ostacoli alla sua immaginazione, lo lasciavano libero di completare con
la sua musica il significato delle parole, mai espresso fino in fondo.
Caratteristiche di questa composizione sono la melodia giovanile, l’opposizione
di una grande estensione della voce umana ad un’estensione ridotta ed anche un
principio di strutturazione degli accordi differente da quello tradizionale: i
rapporti delle funzioni restano totalmente in sospeso, sia in seguito alla
sovrapposizione di semitoni o di seconde su relazioni semplici, sia all’impiego di
modulazioni inattese, e molto espressive, e all’introduzione di successione di
accordi non funzionali. Debussy ammetteva il principio della sottomissione
assoluta della musica, ma unicamente ad una poesia che lasciasse alla sua
fantasia tutto lo spazio che voleva.
[…]Credo che non potrò mai rinchiudere la mia musica in uno stampo
troppo corretto. Non parlo della forma musicale, ma solo da un punto
di vista letterario. Preferirò sempre qualcosa dove, in qualche modo,
l’azione sia sacrificata all’espressione lungamente perseguita dei
sentimenti dell’anima. Mi sembra che in tal caso la musica possa
approfondire e raffinare i mezzi espressivi[…] 10
48
procedimenti che Debussy liberava progressivamente la musica dagli spesi strati
di simboli tradizionali e restituiva alla musica la sua ambiguità.
Davanti al poeta che monologava davanti ad amici e discepoli per tre ore
consecutive rendendo vivente, come nei suoi versi più belli e nelle sue prose più
illuminate, il suo sogno dell’onnipotenza del verbo, Debussy rimaneva per lo più
silenzioso. I mondi di questi due artisti non ebbero che qualche circoscritta zona
di contatto: anche se l’Après-midi d’un Faune fu suscitatore di una delle più belle
pagine di Debussy; anche se i versi di Mallarmé condussero il musicista a trovare
in se stesso una vena miracolosamente pura di musica e così nuova, nel mondo
dei suoni, da condensarsi in un’opera che si pone come una pietra miliare, come
un luminoso caposaldo nella storia dell’arte musicale. L’Après-midi d’un Faune
è l’opera centrale e fondamentale dell’avventura poetica di Mallarmé; è il poema
dove un perfetto equilibrio si attua fra il canto spiegato delle prime poesie e il
rigore chiuso delle poesie ermetiche intessute su di un enigmatico, irresistibile
fiammeggiare di immagini. È il poema della grande stagione creativa di
Mallarmé11 . Ed è quello che – in molti suoi tratti – lo accomuna, più d’ogni altra
sua opera, ai pittori del suo tempo: a Monet, a Manet, a Renoir, e anche a
Cézanne. Ma è quello anche dove il poeta esercita i suoi primi memorabili
interventi sul linguaggio.
49
Ritornando a ciò che di Mallarmé il musicista ha trasferito nella sua opera, ecco
la dichiarazione con la quale egli stesso ne accompagnò la prima esecuzione:
[…]Mallarmé vint chez moi, l’air fatidique et orné d’un plaid écossais.
Aprés avoir écouté, il resta silencieux pendant un long moment, et me
dit: “Je ne m’attendais pas à quelque chose de pareil! Cette musique
prolonge l’émotion de mon poème et en situe le décor plus
passionnément que la couleur”[…]13.
50
[…]Votre illustration ne présente de dissonance avec mon texte,
sinon qu’aller plus loin, vraiment, dans la nostalgie et dans la lumière,
avec finesse, avec malaise, avec richesse[…] 14
Vent’anni dopo l’Après-midi d’un Faune, nell’estate del 1913, Debussy per la
terza volta trova in Mallarmé un punto di applicazione per la propria fantasia
creatrice. Il libro di versi del poeta gli offre tre poesie per comporre la sua
penultima opera vocale, i Trois Poèmes de Mallarmé.
Gli anni trascorsi dal tempo dell’Après-midi a quest’estate del ’13 avevano visto
Debussy tentare e realizzare delle pagine musicali di grande tenuta sonora e di
evidente e scoperto impegno strutturale, anche se la materia aveva pur sempre
rispecchiato quella tavolozza di sonorità aeree e nitide, liquide e trasparenti che
egli scoprì nell’orchestra e sulla tastiera fin dai suoi primi capolavori, siano essi
per l’appunto l’Après-midi o i Notturni, le Ariettes oubliées o il Quartetto. Ma
proprio a ridosso di questo 1913 egli tenta anche e realizza alcune composizioni
la cui struttura sembra toccare il limite estremo dell’immaterialità: e ciò non tanto
in virtù di una riduzione del peso sonoro vero e proprio, quanto in virtù di una
sorta di corrodersi e svanire di certe connessioni del discorso musicale che oserei
assimilare a quel che era avvenuto nella più matura pratica espressiva di
Mallarmé.
Un primo accenno a quella che stava per essere la poesia dei Notturni e la sua
novità rispetto allo stesso Après-midi d’un Faune – che allora non era ancora
formato nella sua stesura definitiva – abbiamo visto delinearsi in germe tra il ’92
e il ’93 nelle Proses lyriques. A queste quattro melodie segue l’Après-midi, che è
51
un paesaggio; come Debussy aveva dichiarato, la sua musica non voleva essere
una sintesi del poema di Mallarmé, ma rappresentava il susseguirsi degli scenari
attraverso i quali si muovo i desideri e i sogni del fauno nella calura meridiana.
Un paesaggio cantato secondo il ritmo fastoso e splendido della musica verbale
dell’egloga, che, per quanto di nuovo potesse contenere, non tagliava, nel suo
periodare e nell’articolarsi delle sue immagini, tutti i ponti col passato.
52
La razionalizzazione del tempo nella musica di Debussy merita una particolare
attenzione: l’armonia funzionale non dava l’opportunità di comprendere
veramente il ruolo essenziale del fattore tempo. Soltanto lo sviluppo della musica
più recente ha fatto prendere coscienza del fatto che il movimento determina in
larga misura la sonorità dell’opera, e poiché sono i rapporti di durata e di
intensità che governano il movimento, la nostra maniera di vedere il ruolo del
ritmo, del metro e dell’agogica si è fondamentalmente evoluta. La stessa
successione di suoni può creare valori differenti, a seconda dei cambiamenti della
concezione agogica. Dal rinascimento in poi la musica europea coltivava il
monocronismo, la misura di tempo secondo un’unità invariabile, mentre in
Debussy si incontra spesso la poliritmia.
Gli accordi paralleli, così frequenti nella sua musica, fanno vacillare il principio
tradizionale della condotta delle voci. Debussy ha cambiato il ruolo ed il
significato del fattore armonico: l’armonia funzionale prevedeva un ordine
immutabile, mentre il lui gli accordi e le aggregazioni hanno il carattere di
strutture polivalenti, le serie di suoni estranei o di note di passaggio che,
nell’armonia tradizionale avevano il valore di un elemento che smorzava le
funzioni, acquisiscono per Debussy quello di elementi d’integrazione formale.
Non si aveva coscienza del fatto che ogni accordo non ha necessariamente un
significato armonico. Un’analisi della musica di Debussy che trascuri i suoi
valori puramente sonori sarà parziale, incompleta e deformante, ma è dalla
53
tecnica sonora di Debussy che prendono inizio le idee e le ricerche di tutta la
musica successiva sino ad oggi.
Quasi tutta la musica di Debussy emerge dal silenzio, svanisce a momenti e nel
silenzio ricade; il compositore sembra ascoltare i misteri della vita, della morte,
del “soprasensibile”. Debussy coglie l’ultimo soffio della vita sulla soglia stessa
che separa l’essere dal non-essere.
Anche quando s’ispira alla natura, Debussy non si sforza mai di produrla e
traspone i suoi elementi solo per la gioia di ascoltarli in musica. Non è il quadro
che lo interessa, ma la percezione. L’illusione di istantaneità che Monet cercava
di realizzare, rendere i cambiamenti che intervengono alla superficie delle cose in
diverse ore del giorno, gli era estranea. La natura riveste nella sua musica un
ruolo secondario, è solo sogno.
I titoli che Debussy dà alle sue composizioni non posso indurre in errore. Era lo
spirito dell’epoca a suggerirgli il più delle volte dopo che la musica era stata
scritta. I titoli indicano la fonte d’ispirazione, la cosa originaria che ha dato il
primo impulso al compositore: un’immagine della natura, una poesia, una
vecchia leggenda, un personaggio della letteratura; ma l’ascoltatore ha la libertà
di cercare il significato nascosto dell’opera. Nell’avversione di Debussy per gli
sviluppi, nella sobrietà ascetica che egli imponeva alla sua invenzione melodica
si ravvisava un naturalismo sensualista, mentre, al contrario, il suo pensiero
musicale è agli antipodi di ogni illustrazione, dell’aneddoto, della musica a
programma o di qualsiasi asservimento alla natura.
54
dell’armonia funzionale, ma li allarga all’estremo, ed attraverso il suono puro,
libero da qualsiasi funzione rappresentativa, apre la vita al nuovo pensiero
musicale. Gli accordi dissonanti cessano allora di essere una transizione fra due
tonalità, non preparano più la risoluzione, si liberano, accedono all’uguaglianza,
e perciò ogni legge di gravitazione e d’interdipendenza si trova esclusa, tutto è
rimesso in questione, assume un carattere ambiguo, polivalente, mentre gli
accordi paralleli sono un passo evidente sulla vita del pensiero sonoriale.
NOTE
55
3. Cfr. S. Jakoncinski, Debussy, Impressionismo e Simbolismo, ed. Discanto, Firenze,
1980, p.
4. Ibidem.
6. Ibidem.
10. Cfr. E.Lockspeiser, Claude Debussy, ed. Fratelli Melita, Genova, 1990, p.
12. Cfr. AA.VV., L’APPRODO MUSICALE, Rivista Trimestrale di Musica, op. cit., p. 37.
13. Cfr. AA.VV., L’APPRODO MUSICALE, Rivista Trimestrale di Musica,op. cit., p.38.
14. Ibidem.
Cap. IV RAVEL
56
Tra le figure più rappresentative e significative nell’evoluzione dell’arte della
trascrizione sicuramente si colloca Maurice Ravel.
complesso della sua attività creativa. Le opere di Ravel per pianoforte, messe in
seguito in partitura dallo stesso autore, sembrano essere state concepite per
come autentiche e definitive creazioni, la cui sostanza musicale era tuttavia tale
Da una parte, dunque, vi è una realizzazione pianistica che allude, in certo senso,
57
secondo capolavoro; chitarre, nacchere, sonagli, ritrovano in orchestra
il germe della materia primordiale, lo scintillio dei loro timbri
nativi[…]1
Nel 1922 con la versione sinfonica dei Quadri di un’esposizione per pianoforte di
Musorgskij, egli toccò il vertice non tanto per l’abilità con cui riuscì a mettere in
atto tutte le risorse della tecnica orchestrale, quanto soprattutto perché, come
afferma Mantelli,
58
Se da una parte l’orchestrazione dei Quadri colpisce per la ricchezza degli effetti
e per l’impiego allora inconsueto o addirittura nuovo di certi strumenti, dall’altra
essa costituisce «un ripercorrimento ideale dell’originale pianistico […], quella
che in Musorgkij era incisiva caratterizzazione, creazione drammatica di
ambienti e personaggi, stagliati con pennellate crude e violente, in Ravel diviene
elemento vivido di colore, brillante tavolozza di impressioni, paesaggio sonoro». 4
Questa trascrizione ha fatto quasi dimenticare, per un certo tempo, l’originale di
Musorgskij ed è entrata nel repertorio sinfonico con le pagine più significative di
Ravel, raggiungendo vasta popolarità. Non si può non rilevare il gusto raffinato
che anima l’orchestra leggera e scintillante del Balletto dei pulcini (V quadro),
l’effetto della tromba in sordina, che sola poteva far sentire i deboli lamenti
dell’ebreo povero (VI quadro), e la scelta felice di destinare al sassofono
contralto la melodia del II quadro de Il vecchio castello.5
59
Ravel si trovò ad entrare nella vita artistica proprio quando l’avvento di Debussy
aveva trasformato completamente l’aspetto del mondo musicale, polarizzando e
riunendo in fascio tutti i sogni, le aspirazioni, i presentimenti e le ambizioni più o
meno incerte dei giovani musicisti de suo tempo. Così la carriera di Ravel fu per
molto tempo resa difficile dall’errata convinzione che egli non fosse altro che un
sottoprodotto, quanto si voglia luminoso e illustre, dell’arte debussiana. Diversi
musicologi e critici musicali affermano che tuttavia non avrebbe dovuto essere
così difficile distinguere la musica di Ravel da quella di Debussy.
Ravel si trovò ad entrare nella vita artistica proprio quando l’avvento di Debussy
aveva trasformato completamente l’aspetto del mondo musicale, polarizzando e
riunendo in fascio tutti i sogni, le aspirazioni, i presentimenti e le ambizioni più o
meno incerte dei giovani musicisti de suo tempo. Così la carriera di Ravel fu per
molto tempo resa difficile dall’errata convinzione che egli non fosse altro che un
sottoprodotto dell’arte debussiana. Ma una composizione minore, come Sainte
(1896), o una pagina senz’altro più importante, come la Habanera (1895), sono
già sufficientemente indicative del fatto, che più tardi avrà sempre nuove
conferme, che Ravel si muoveva, sin dai suoi primi saggi musicali, in una
dimensione di gusto nettamente diversa da quella in cui agiva ed avrebbe
continuato ad agire Debussy. Solo tra il 1892 e il 1893 Ravel subì il fascino
incondizionato dello stile debussiano, concependo una profonda ammirazione per
l’Après-midi d’un faune, eseguito per la prima volta il 23 dicembre 1894.
60
di Satie abbia agito oltre che al momento del suo primo esordio di compositore,
anche più tardi, in particolare con la scrittura estremamente semplificata di Ma
mère l’Oye, suite infantile per pianoforte a quattro mani, composta nel 1908. Non
è difficile infatti riconoscere una forte affinità con Gymnopedèpies per
pianoforte, composte da Satie nel 1888. Ravel si esprime in questa composizione
con un linguaggio meno schematico, con una semplicità sottile e raffinata, dopo
essere passato attraverso al virtuosismo pianistico di Jeux d’eau (1901), di
Miroirs (1905) e di Gaspard de la nuit (1908). Queste pagine musicali seguono
la composizione delle opere debussiane l’Après-midi d’un faune (1894), i
Notturni (1899) e il Pellèas et Mèlisande (1902), opere che avranno una
consistente incidenza sul successivo manifestarsi della personalità raveliana,
come provano Jeux d’eau, Shèhèrazade e la melodia per canto e pianoforte Les
grands vents venus d’outre-mer. Nonostante il fascino subito dalle suddette
composizioni debussiane, bisogna tenere ben presente che negli anni che vanno
dal 1895 al 1906 Ravel scrive delle pagine nelle quali pone nettamente le
premesse di quelli che saranno alcuni tratti fondamentali della sua personalità
artistica, in modo del tutto indipendente dall’esperienza stilistica debussiana.
61
affinità di relazione permette di approfondire e delineare come la fantasia dei due
musicisti operi secondo un modo nettamente diverso nell’uso e nell’esposizione
della materia sonora.
62
debussiana, si contrappone la nitida fermezza del segno sonoro di quella di
Ravel: la continuità della melodia che si sviluppa senza interruzioni lungo tutto lo
svolgimento del pezzo. Se quindi è attendibile ed ha un fondamento riferire il
gusto e la tecnica di molte composizioni di Debussy ad alcune espressioni
pittoriche dell’impressionismo, è però altrettanto evidente che non si può parlare
per Ravel di derivazione debussiana e di gusto impressionista. Non si può parlare
cioè di derivazione debussiana se non nel senso molto lato della naturale
incidenza su Ravel di una cultura dalla quale tuttavia egli si scopre sempre più
estraneo e a tratti addirittura antitetico.
Esiste un’opera nella quale Ravel ha ceduto, più che in nessun altra, al fascino
dell’ispirazione debussiana: Shèhèrazade. Questa forte influenza debussiana è
dichiarata dallo stesso Ravel nello Schizzo autobiografico del 1928. La vocalità
di questa composizione ha in sé i medesimi tratti della vocalità espressa da
Debussy nel declamato che caratterizza Pellèas et Mèlisande. Ravel aveva subito
così profondamente e intimamente il fascino del declamato vocale dell’opera di
Debussy (dell’anno precedente rispetto alla composizione di Shèhèrazade) che
aveva assistito a tutte le rappresentazioni del primo allestimento dell’opera.
Anche la sinfonia coreografica Daphnis et Chloè costituisce un tratto dell’eredità
debussiana, in quanto essa trasferisce in orchestra e nei termini di una vasta
struttura musicale, che doveva dar sostegno ad una complessa e articolata
vicenda coreografica, quel mondo di emozioni che in Jeux d’eau, in Miroirs, e in
63
Garpard de la nuit erano affidate alla tastiera del pianoforte, e cioè ad una
dimensione sonora ben più intima e ristretta.
Lungo tutto il corso dell’attività creatrice di Ravel si trovano alcune opere che
hanno un diretto riferimento ad espressioni musicali popolari: dall’Habanera del
64
1895, L’alborada del Gracioso, la Raspodie Espagnole, la rapsodia per violino
Tzigane, il Bolèro, fino ai tre poemi Don Quichotte à Dulcinèe del 1932. In
queste opere è particolarmente evidente ed esplicita la tendenza ad impiegare e
valorizzare strutture sonore definite con un segno preciso e tagliente che fanno
dello stile raveliano qualcosa di ben diverso da quello di Debussy. gli schemi
ritmici costanti e scanditi con evidenza, le melodie dalla linea netta e precisa e le
cadenze armoniche che sottolineano con estrema semplicità la dinamica di una
frase, danno al discorso musicale una determinatezza formale chiaramente
lontana dal gusto impressionista debussiano.
Bisogna subito chiarire che questa tendenza di Ravel a rifarsi a degli schemi
popolari non risponde affatto ad un’esigenza di trovare in essi un materiale
particolarmente fresco, genuino ed incorrotto, ma risponde invece alla sua
necessità musicale di inventare forme sonore strutturate con esattezza di segno.
Quanto v’è di schematizzato e di cristallizzato, nel suo immutato ripetersi, nella
musica popolare offre al musicista un certo numero di dati sui quali egli
costruisce il pezzo con una lucidità razionale.
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loro connessioni obbediscano alla legge tonale che stabilisce un rapporto di
convergenza della dissonanza verso la consonanza. L’accordo sembra allora
sprigionare un alone di suono che gli ristagna intorno, una zona di vibrazione che
è quella sorta di tessuto connettivo che consente ogni accostamento armonico
fuori dal regime tradizionale derivante dal rapporto di interdipendenza tra
dissonanza e la consonanza.
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debussismo che conduce agli accordi paralizzati nelle loro irrimediabili ed
insolubili dissonanze ed alla emancipazione della melodia come elemento
autonomo.
La verità è che fino al 1903, anno di composizione delle Estampes, Debussy non
si era particolarmente impegnato nelle composizioni per pianoforte. Per quanto
musicalmente belli, i tre pezzi che compongono la suite Pour le piano non
riflettono neppure da lontano la novità, la genialità e la freschezza d’invenzione
orchestrale dell’Après-mini d’un faune e dei tre Notturni. Solo qualche anno
dopo egli scopriva il proprio stile pianistico: nel 1903 appunto con le Estampes e
poi nel 1904 con Masques e Isle Joyeuse, e nel 1905 con la prima serie delle
Images.
67
Nel frattempo, cioè nel 1901, compaiono i Jeux d’eau, un pezzo per pianoforte
nel quale questo strumento sembra esprimersi per la prima volta con una voce
nuova, memore a tratti di Chopin e di Liszt, ma timbrata di liquide e trasparenti
sonorità quali dalla tastiera non erano mai state suscitate. In certo senso col
pianoforte di Jeux d’eau Ravel aveva scoperto un nuovo mondo sonoro.
Quando, dopo la comparsa del primo quaderno delle Images debussiane, taluno
eccedette nell’esaltare in Debussy il creatore di un nuovo pianismo, il
ritrosissimo Ravel fu indotto ad una rettifica che egli affidò ad una lettera
indirizzata il 5 febbraio 1906 a Pierre Lalo.
68
delle Images di Debussy, il quale però è solo esteriormente affine a quello di
Ravel, mentre nella sua stretta concretezza è autonomo e personalissimo e non è
altro, in realtà, che la conseguenza delle premesse stilistiche affidate all’orchestra
dell’Après-midi d’un faune e dei Notturni. Di queste due composizioni
orchestrali debussiane si potrebbe, d’altra parte, e per certi versi, considerare
tributario il gusto sonoro di Jeux d’eau.
Alcuni sghignazzarono, la sera del 12 gennaio 1907, quando, alla sala Erard, Jane
Bathori e Ravel arrivarono alla frase iniziale del Martin-Pêcher: «ça n’as pas
mordu ce soir».
Il degno Pierre Lalo coniò una battuta salace, affermando che si trattava di «café
conc’avec des neuvièmes»; Gaston Carraud fece il distaccato assicurando che,
dopo tutto, non erano in gioco le sorti della musica francese; lo stesso Jules
Renard, autore della raccolta di prose donde erano stati tratti i cinque episodi di
Histoires naturelles, si mostrò diffidente: registrò nel Journal il freddo rifiuto, che
egli aveva opposto a Thandée Natanson, di conoscere Ravel; e poi l’incontro col
compositore del quale annotò, pur senza gli abituali commenti mordaci, una
dichiarazione di estetica musicale.
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charrette e della ghigliottina. Dal canto suo, Debussy non si peritò di accusare
Ravel di artificio chimerico, di esibizionismo e di imbroglio, cercando di
influenzare, in privato, l’editore Durand e il critico Laloy; lodò, a denti stretti,
soltanto Le Cygne. Ma è comprensibile che non gli piacesse vedere il recitativo di
Pelléas et Mélisande abbassato al livello di animali da cortile.
Il precedente di Chambrier, che aveva messo in musica la Ballade des gros din-
dons e la Pastorele des cochons roses, non faceva che sottolineare la cocasserie,
in realtà accessoria, della raccolta di Ravel.
La prosa sembrava sconveniente nel genere della mélodie, dove Fauré aveva
raggiunto i verti del lirismo su testi aggiornatissimi della poesia francese; era
giustificata nell’opera di Debussy, per la sua destinazione al teatro e per le
vistose nuances adottate da Maeterlinck. Lo sole mélodidies importanti che
facevano eccezione erano Elégie di Berlionz e Elégie di Duparc, composte
rispettivamente nel 1830 e nel 1874, sullo stesso testo di prosa tradotto, di
Thomas Moore; ma rientrano ambedue nella varietà di mélodies improntata alla
scena drammatica secondo il modello inaugurato ai suoi tempi da Spontini; il
tono teatrale implicito nell’addio dell’eroe irlandese Robert Emmet, condannato a
morte, consentiva l’eccezione, che era d’altra parte relativa, in quanto Berlionz e
Duparc non aveva introdotto nella prosodia le radicali novità di Histoires
naturelles, limitandosi a una stroficità imposta alla prosa dagli usuali schemi del
recitativo operistico della melodia tradizionale.
70
l’esposizione classificatoria della Histoires naturelles di Buffon, e nell’aver
accolto il titolo preso dalla monumentale opera dell’illustre naturalista. Ciò
implicava una deliberata volontà distruttiva del canto che, convenzionalmente
alimentato dalla poesia, veniva in tal modo applicato all’oggettività scientifica
trasformata in metafisico pince-sans-rire.
Era ovvio che, dopo il vers blanc di Tristan Klingsor, Ravel fosse tentato, magari
per puro sperimentalismo, dalla prosa; date le complesse relazioni fra metrica e
prosodia nella vocalità francese, poteva anche trattarsi di una semplificazione.
Ma dal punto di vista più impegnativo, in tutta la sua lirica vocale si era
accentuata la tendenza a definire le immagini della poesia nelle parti
tradizionalmente riservate all’accompagnamento, piuttosto che nelle ormai esili
possibilità del canto. Il pianoforte, e al caso l’orchestra, erano stati duttili
strumenti per questa impresa che, rendendo trascurabile il rilievo strofico della
melodia intonata dalla voce, finiva per rendere superflua la presenza della rima e
della strofa, infine anche quella del verso.
71
la parte covale era ridotta ad enunciare immagini destinate ad essere sviluppate
dal pianoforte nella pienezza delle sue facoltà timbriche, armoniche e anche
melodiche. L’operazione, quasi compiuta in Schéhérazade, poteva passare in
avvertita per alcuni residui lirici e virtuosistici nell’intonazione e per il fascino
della partitura. Ma in Histoires naturelles la secca inversione di compiti fra i poli
della mélodie ebbe la dirompente semplicità di una logica che, tratte le debite
conseguenze dall’evoluzione di un genere musicale, ne trasforma profondamente
la natura.
Ravel oppose alla tradizione un realismo impeccabile: restituì alla parola la sua
qualità comune di mezzo di comunicazione o di funzione referente, secondo la
corrente definizione della linguistica. Ne consegnò la raffigurazione alla musica
pura attribuendole, come punto di partenza, il descrittivismo che era largamente
diffuso nella letteratura musicale ottocentesca, e che del resto era stato costante
nella tradizione francese, attraverso i secoli. Liszt e gli ordres di Couperin,
Berlionz e la polifonia rinascimentale, si pensi alla Battaglia di Marignano, di
Jannequin, erano al fondamento di questa piccola rivoluzione trazionalista,
commentata concisamente nella Esquisse autobiographique:
72
Ravel si collocava in un estremo punto di avanzamento per quanto possibile
consentito dalla sua fedeltà ai fondamenti naturali del sistema. Nello stesso
tempo, riduceva al minimo l’intervento della personalità creatrice, con l’illusione
di una perfetta oggettività, cancellando il lirismo dal luogo nel quale era stato
posto dalla tradizione.
Una volta delimitati i campi della parola e della musica, alla prima toccava
inserirsi come segnale semantico nel corso della composizione e favorire così la
relazione apparentemente immediata fra la materia letteraria e l’invenzione
musicale: tale fu anche il successivo caso delle prose di Bertrand anteposte ai tre
episosi di Gaspard de la nuit, nei quali testo venne espunto invece che
incastonato nella musica, come variante di uno stesso principio strutturale.
73
intima, in contraddizione con la volontà di far scomparire qualsiasi intrusione
psicologica nella struttura di Histoires naturelles. Manifestò le sue predilezioni
caratteristiche per l’antiquariato, nel riferimento a Buffon, autorevole
rappresentante del periodo tardo settecento e rivoluzionario, per il quale Ravel
ebbe ulteriori espressioni di omaggio nella scelta dei testi Parny per Chansons
Madécasses e nel canovaccio, da lui stesso progettato, per trasformare la versione
orchestrale di Valses nobels et sentimentales e il balletto Adélaide ou le Langage
de fleurs. Unì l’utile al dilettevole, ricorrendo ad autentici tic, dei quali sembrava
che il più sensibile fosse, per chi lo conosceva personalmente, l’aver riprodotto il
proprio modo di parlare nel recitativo di Histoires naturelles, compiendo un vero
autoritratto fonetico. Ma anche i suoi gusti musicali servirono a mediare la
rappresentazione degli animali: il grillo e la faraona rispondono ai richiami
adoperati comunemente dai clavicembalisti, il cucù e il chiocciare stilizzati, tanto
per citare esempi notissimi, da Daquin e da Rameau; il pavone, immaginato come
un vanitoso cortigiano del Re Sole, evoca il ritmo pomposo dell’éntre dei ballets
de cour secenteschi; il cigno corrisponde alla scorrevole e imperscrutabile
asimmetria delle ornamentazioni alla Chopin.
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armoniche e timbriche: la Forlane in Le Tombeau de Couperin, dieci anni dopo,
fu costruita nello stesso modo, ma non con la stessa vivacità suggerita dai gesti
inutili compiuto dal pavone nel genere del calco antiquario, Le Pavone è di gran
lunga l’esito migliore in confronto ai molti tentai da Ravel.
75
interrotto dal recitativo che forma la coda del pezzo: si scopre che l’etero animale
è un mangiatore di vermi, non un cacciatore di nuove, e che, frugando nel fango,
ingrassa come una volgare oca. L’interruzione del tono lirico è impiegata anche
in Le Grillon, ma nelle minime proporzioni richieste dalle dimensioni
dell’insetto: basta il verso onomatopeico a liquidare la melodia. In Le Cygne la
preparazione è più elaborata e la chiusura prosastica tocca al recitativo che imita
l’enfasi operistica: l’effetto mira ad una certa brutalità, necessaria a smitizzare
l’emblema della purezza, comunemente rappresentato, nel regno animale, anche
secondo Mallarmé dal cigno:
76
Gli spasmi della faraona riportano a una sfrenata tendenza combinatoria; le
citazioni clavicembalistiche si accalcano, si dipanano si accatastano nuovamente,
nel corso della scena esasperante e tumultuosa. In luogo della compassata
imitazione, consueta nella letteratura francese per clavicembalo, gli elementi
tradizionali appaiono scomposti, come sconvolti dall’intervento del forastico
galliforme, Numida meleagris, appropiandosi del bonario coccodè dedicato dal
Rameau all’innocente gallina. Il roteare di una sintassi in distruzione fa seguito al
suo estremo rapprendersi, nel Martin-Pêcheur. Histoires naturelles contengono,
come da abitudine, una dedica per episodio: nell’ordine, a Jane Bathori; a
Madeleine Piccard, a Misia Godebska, a Emile Engel, a Roger Ducasse.
In una lettera del settembre 1907 a Jeane-Aubry, Ravel scrisse che in Sur l’herbe,
come nelle Histoires naturelles, non si deve avere l’impressione del canto,
77
mentre la preziosità appare dal testo e dalla musica. Ed infatti, Sur l’herbe
manifesta la stessa concertazione di Histoires naturelles, resa più elegante e
rapida dalla combinazione di immagini eterogenee, suscitate dal tono svagato
della conversazione leziosa. Ma il dominio assoluto di un simile linguaggio
induce anche la reviviscenza del canto, ma attraverso il recupero del verso, della
rima, della strofa, mentre la condotta della voce e del pianoforte genera limpidi
equilibri, ai limiti dell’eufonia.
Ravel fu entusiasta della prima, che a suo giudizio avrebbe avuto, come avvenne
infatti la stessa portata storica di Pelléas et Mélisande; ma venne attratto in
maniera speciale dalla seconda, nella quale la voce era accompagnata da un
complesso cameristico formato dal pianoforte, dal quartetto d’archi e da quattro
strumenti a fiato, disposti in coppie di strumenti della stessa famiglia ma diversi
per taglio ed estensione: flauto e ottavino, clarinetto e clarinetto basso.
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Per Ravel, il complesso cameristico nella Mélodie rappresentava una novità, dato
che fino ad allora aveva adoperato la forma tradizionale della voce col
pianoforte, o con l’orchestra in Schéhérazade e nelle trascrizioni di Le noël des
jouets e di, se l’aveva già compiuta, Manteaude Fleurs.
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Soupir e di Placet futile, per conto di Debussy, al genero di Mallarmé, Edmond
Bonniot, ebbe un rifiuto, in quanto era stato preceduto da Ravel.
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Fra tutte le filiazioni possibili di Trois poèmes de Stéphane Mallarmé, quella
essenziale discende dai versi del poeta che, caso unico nelle mélodies di Ravel, è
citato nel titolo; e non tanto perché gli appartengono i poèmes, quanto perché il
suo nome rappresentava l’emblema di una poetica: le opere di Mallarmé,
testimonia Viñes, erano un Livre de chevet del giovane Ravel.
81
di Baudelaire, Genèse d’un Poème, era condivisa dai poeti del secondo 800
francese, fino a Mallarmé e a Valéry. Le facoltà combinatorie indicate da Poe
erano le stesse predilette da Ravel nell’invenzione musicale, e destinate a
stabilire connessioni non riconoscibili mediate l’analisi, ma soltanto per via
intuitiva.
Ravel confermò il rilievo melodico del canto, recuperato in Sur l’herbe, dopo
l’esperimento sterilizzante di histoires naturelles: il ritorno alla metrica e alla
rima, nella scelta nei testi, corrisponde alla ripresa della melodia strofica e delle
relative inflessioni prosodiche, che a loro volta influiscono sulla condotta della
partitura e, perfino, sulla grafia del ritmo.
82
Le immagini principali di Soupir consistono nella metafora ascendente della
prima strofa che si conclude alla parola Azur, e nella descrizione dell’autunno,
alla seconda strofa.
NOTE
1. Cfr. H. Jourdan-Morhange, Ravel et nous, Parigi, 1945, trad. Ital., Milano, 1960.
2. Cfr. supra, Dizionario della musica e dei musicisti, op. cit., p. 573.
5. Cfr. supra, op. cit., Dizionario della musica e dei musicisti, p. 573.
7. Ibidem.
8. Cfr. C. Casini, Maurice Ravel, ed. studio tesi, Pordenone, 1992, p. 87.
83
CAP. V LES NOCTURNES
Sui Nocturnes Debussy scrisse questo testo di presentazione: «Il titolo Nocturnes
vuole assumere qui un significato più generale e soprattutto più decorativo. Non
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si tratta dunque della forma abituale del Notturno, ma di tutto ciò che la parola
contiene di impressioni e di luci particolari. Nuages: è l'aspetto immutabile del
cielo con la lenta e malinconica processione delle nuvole, che termina in una
grigia agonia dolcemente tinta di bianco. Fétes: è il movimento, il ritmo danzante
dell'atmosfera con bagliori di luce improvvisa, è anche l'episodio di un corteo
(visione abbagliante e chimerica) che passa attraverso la festa e vi si confonde;
ma il fondo rimane, ostinato, ed è sempre la festa con la sua mescolanza di
musica, di polvere luminosa, che partecipa a un ritmo totale. Sirènes: è il mare e
il suo ritmo innumerevole, poi, tra le onde argentate di luna, si ode, ride e passa il
canto misterioso delle sirene». Il titolo dunque ha un significato non tradizionale,
e vuole evocare «impressioni e luci particolari»: non si allude più ad alcuna
«azione», nemmeno a quella incerta, sospesa fra sogno e realtà, delle voluttuose
fantasie del fauno. All'ascoltatore non viene proposto né un «programma» né un
riferimento formale noto: si suggerisce una dimensione senza luogo e senza
tempo, in una luce incerta come quella del crepuscolo.
Per Debussy era il primo passo verso una decisiva rivoluzione delle relazioni
estetiche; i Nocturnes sfuggono a ogni tentativo di classificazione, e segnano un
primo turbolento scossone al codice comunicativo maturato alla fine dell’800. Le
reazioni dei primi fruitori testimoniano la recezione di un’opera
straordinariamente complessa, in bilico tra l’adesione alle convenzioni trasmesse
dal repertorio precedente e il rovesciamento dell’orizzonte d’attesa dei
contemporanei. Gli anni sono quelli in cui Debussy faceva le prime riflessioni
estetiche circa la fruizione della musica; fu proprio intorno al 1901 che i suoi
scritti cominciarono a manifestare l’esigenza di forgiare un tipo di ascolto
immaginativo libero.
I Nocturnes costituiscono un inevitabile punto di partenza per riflettere sulla
fruizione della musica di Debussy. Essi sono i lavori che hanno accompagnato la
prima maturazione delle idee estetiche di un compositore proiettato nel 900: la
85
loro scrittura dimostra una consapevolezza ancora più solida a livello
compositivo che a livello teorico. È per tanto nella loro posizione originale
rispetto al panorama musicale contemporaneo che si può leggere un primo
significativo tentativo di abbattere le categorie fruitive tramandate dall’800.
In una lettera indirizzata a Lerolle, del 1894, Debussy aveva definito Nocturnes i
suoi tre brani per violino ed orchestra, lasciando scoperto un nesso evidente con
la prima stesura dell’opera. La sua immaginazione era stata stimolata
dall’ambientazione crepuscolare, da quei movimenti impercettibili della luce che
trasformano in pochi istanti il giorno nella notte.
È possibile affermare che l’ambientazione di Sirènes sia stata ispirata dal poema
di Charles Swinburne, intitolato Nocturnes (1876), il quale dipinge su uno sfondo
marino il sentimento d’amore provato da una sirena. Debussy infatti aveva
grande ammirazione nei confronti di Swinburne.
86
pubblicata su “Le Figaro” del 28 ottobre del 1901, scrisse: «Tableaux qui
évoquent des souvenir des étranges, délicats et vibrants Nocturnes de Whistler,
d’une poésie profondamente troublante »1.
«Quadri che evocano ricordi degli strani, delicati e vibranti Notturni di Whistler,
di una poesia profondamente conturbante».
Debussy molti anni dopo, nel 1909, in un’intervista, rispose così a questo tipo di
accostamenti che la sua musica suscitava nei contemporanei: «Sono Stato
chiamato il “Whistler della musica”. Hanno anche definito il mio amico
Maeterlinck lo “Shakespeare belga”. La gente ama questi nomi pomposi. Ciò non
ha impedito a Nordau di chiamare Maeterlink un degenerato, né a diversi critici
di considerarmi un visionario, o un “apostolo del bizzarro e dell’esibizionismo”.
Per ciò che mi concerne, io posso solamente dirvi che la mia prima ambizione in
musica, è di portarla a rappresentare il più vicino possibile la vita stessa »2.
Nel 1894 però la genesi dei Nocturnes era arrivata solo a superare la seconda
tappa. Occorrevano ancora molte riflessioni per arrivare alla versione definitiva
dell’opera. Il 7 novembre 1896 Ysaÿe venne rassicurato da Debussy sulla
situazione dei Nocturnes per violino e orchestra; ma di fatto Debussy parlava da
quattro anni di un’opera in fase di rifinitura, senza riuscire mai a poterne
annunciare la definitiva conclusione. Fu così che anche il progetto con Ysaÿe
sfumò nel nulla, certamente per alcuni contrasti tra il compositorie ed il
violinista, ma forse anche per una sostanziale insoddisfazione di Debussy,
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incapace di presentare al pubblico un’opera che non riusciva a sentire
perfettamente allineata al proprio pensiero estetico.
La lettera Pierre Louÿs del 27 marzo 1898 suona quasi come la confessione
disillusa di un compositore pienamente consapevole di non avere ancora
raggiunto la maturità artistica: «I Tre Nocturnes si sono imbevuti della mia vita, e
sono stati pieni di speranza, poi pieni di sconforto e infine, pieni di vuoto!
D'altronde non ho mai potuto fare niente, tutte le volte che mi è successo
qualcosa nella vita; e credo che sia questo che fa la superiorità del ricordo: da
quello si possono trattenere valide emozioni».4
Debussy sentiva di non avere ancora maturato quel necessario distacco dall’opera
d’arte che gli appariva come una categoria fondamentale delle relazioni estetiche.
Era consapevole di non avere ancora imparato a usare il ricordo come filtro
ineliminabile per evitare il coinvolgimento nell’opera d’arte; sentiva il rischio
legato all’imposizione di vincoli emotivi troppo solidi all’attenzione
dell’ascoltatore. Per questo i Nocturnes dovevano ancora restare chiusi in un
cassetto, in attesa della piena maturazione artistica del loro compositore.
88
ma di tutto ciò che questa parola contiene in termini di impressioni e di luci
speciali. Nuages: è l’aspetto immutabile del cielo con la marcia lenta e
malinconica delle nuvole, che approdano a un’agonia grigia, dolcemente tinta di
bianco. Fêtes: è il movimento, il ritmo danzante dell’atmosfera con esplosioni di
luce brusca, è anche l’episodio di un corteo (visione abbagliante e chimerica) che
passa attraverso la festa e la sua mescolanza di musica, di polvere luminosa che
partecipa a un ritmo incalcolabile, poi, attraverso le onde argentate di luna, si
sente, ride e passa il canto misterioso delle sirene».6
Tale nota descrittiva in realtà non era altro che la trascrizione poetica di una serie
di impressioni che lo stesso Debussy aveva già confessato qualche tempo prima
all’amico avvocato Paul Poujaud:
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tutto Debussy tiene a sottolineare la funzione del titolo: “Un sens plus général et
surtout plus decoratif”.
«Il significato ultimo del brano resta ancora simbolico […] questo Notturno […]
traduce l’analogia con l’analogia alla maniera di una musica i cui elementi,
armonie, ritmi […] sembrano volatilizzati nell’etere del simbolo e come ridotti a
uno stato imponderabile».8
Altri critici videro nella mancanza di un nesso lampante tra titoli e musica uno
spunto per indagare i rapporti tra i Nocturnes e le categorie della musica assoluta;
Luc Marnold dedicò diversi articoli su “Le Courier Musical” a cercare di
analizzare i tre brani come parti di una sinfonia in tre movimenti. I riferimenti
extramusicali proposti dall’opera non gli sembravano abbastanza significativi da
poter essere presi in considerazione:
«Il fatto è che si tratta di musica pura (indefinibile), concepita al di fuori di ogni
realtà, esclusivamente nel sogno, attraverso i movimenti architettonici che Dio fa
con i vapori, le meravigliose costruzioni dell’impalpabile […] la musica è per
Debussy l’arte dell’inesprimibile che canta non appena cade la parola
impotente».10
90
Addirittura Vincent d’Indy non riusciva a trovare una categoria nella quale
inquadrare il lavoro di Debussy, rifiutandosi di individuare affinità sia con la
musica a programma sia con la musica assoluta:
«Sonata? Assolutamente no! Malgrado gli sforzi di Marnold per farli entrare a
suo di pugni in questa sagoma. Suite? Nemmeno. Poema sinfonico? Nonostante i
titoli Nuages, Sirènes, Fêtes… denominazioni molto vaghe, nessun programma
letterario, nessuna spiegazione di ordine drammatico autorizza gli scarti di
tonalità e le escursioni tematiche piacevoli ma non coordinate di questi tre brani.
È dunque fantasia bella e buona, poiché non si può rigettare queste opere per
cattiva fattura… Sono artistiche, esistono, dunque devono essere classificate da
noi, dove? Nella fantasia, non vedo altro spazio».11
91
quell’immagine, bisogna fare uno sforzo; la sensazione non nasce più in me al
primo colpo; non posso che ritrovarla».12
«In uno, intitolato Nuages, passano i vapori cangianti che, sul cielo misterioso,
prendono le forme diverse che la nostra immaginazione crea».13
«Forse il signor Debussy non ha cercato questo effetto, ma la sua musica produce
l’impressione rara di una festa in un sogno, tanto le sue ricche esplosioni sono
sapientemente smorzate, tanto il suo ritmo di addolcisce nella lontananza della
prospettiva sonora».16
E anche Charles Joli su “Le Figaro” accennò a una suggestione molto simile:
«Il signor Debussy ci ha provato che si poteva sviluppare delle armonie […] voi
lo seguite sempre rapiti, fino al momento in cui, fermandosi l’orchestra, tutto
svanisce come in un sogno. »
92
un atteggiamento fruitivo molto vicino all’identikit emerso dagli scritti di
Debussy.
Era questa la reazione nuova che Debussy chiedeva al pubblico dei primi del 900.
Naturalmente furono pochi i critici in grado di godere di questa nuova
potenzialità musicale. Ma la comune difficoltà nell’individuare un rapporto
chiaro tra titoli, programma e musica, prova il tentativo da parte di Debussy di
sollecitare reazioni estranee alle consuetudini fruitive del tempo.
V. I Nuages
Goléa si spinge ad affermare di non vedere nessuna rottura con le forme del
passato. La sua analisi evita di soffermarsi sulle connotazione extramusicali della
partitura, per privilegiare la discussione dell’aspetto timbrico: una considerazione
che lo spinge a paragonare l’opera di Debussy al terzo (Farben) dei cinque pezzi
per orchestra op. 16 di Arnold Schönberg, quella straordinaria pagina
sperimentale che sottopone un solo accordo a mutazioni timbriche in continuo
divenire.
93
Ma è davvero questo l’atteggiamento fruitivo che Debussy voleva sviluppare
attraverso il suo linguaggio musicale?
In Nuages non c'è davvero più traccia di percorsi che conducano da un punto ad
un altro secondo una logica discorsiva, che «tendano» a un punto d'arrivo o a un
culmine. In un tempo musicale che si definisce con un significato nuovo la forma
appare costruita, per così dire, con il movimento di superfici sonore dai colori
cangianti, dalle mutevoli sfumature timbrico-armoniche. La tripartizione che si
coglie anche a un semplice primo ascolto non ha nulla a che vedere né con uno
schema esposizione-sviluppo-ripresa né con altri tipi di forme legate alla
successione ABA'. Nuages inizia con un andamento quieto e uniforme
(singolarmente affine a quello delle prime battute di una lirica di Mussorgskij, la
terza del ciclo Senza sole): sonorità grigie e vuote sono evocate da clarinetti e
fagotti con un andamento ostinato che si interrompe quando per la prima volta il
corno inglese intona il tema principale, che non conoscerà mai sviluppo, e
riapparirà ogni volta quasi identico a se stesso, oggetto solo di piccole, ma
raffinatissime varianti.
94
Lo svolgimento della prima parte di Nuages dovrebbe essere descritto seguendo
momento per momento il succedersi delle intuizioni timbriche, delle
combinazioni strumentali, delle armonie, il trascolorare delle superfici sonore, il
mutare della luce. Solo con molta approssimazione si potrebbe paragonare a uno
sviluppo la sezione che inizia alla battuta 32. Dopo 63 battute il flauto e l'arpa
all'unisono introducono un nuovo tema. Il tempo diviene «un peu animé», ma
l'andamento fondamentale resta lo stesso e l'effetto non è quello del contrasto
segnato dalla sezione centrale di un pezzo tripartito: ci troviamo di fronte
semplicemente a un nuovo episodio, a nuovi colori, ad altre luci. E così quando
riascoltiamo il tema del corno inglese, questo ritorno non produce l'effetto di una
ripresa (che sarebbe comunque troppo breve e frammentata). Il frammentario
ritorno di diversi elementi, quasi disfatti in un lento trascolorare, evoca il
riapparire dell'ombra, il dissolversi in un tempo sospeso, così che il movimento
circolare del pezzo sembra aprirsi a suggerire una prosecuzione infinita.
V. II Fêtes
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Il movimento ritmico per terzine sottolinea un andamento danzante scherzoso.
Debussy utilizza l’indicazione 4/4, per garantirsi la possibilità di mettere a stretto
contatto tempi semplici e tempi composti, ma in realtà scrive tutta la parte
iniziale in 12/8. La scelta non è certo casuale, visto che da sempre sono i tempi
composti quelli che in musica dipingono i movimenti di danza popolare. Debussy
non si allontana dallo stilema ritmico offerto dalla tradizione e imposta tutta la
sezione introduttiva di Fêtes su un tema saltellante in tempo composto.
I suoni del suo corteo non manifestano lineamenti stridenti rispetto all’immagine
musicale offerta dalla tradizione.
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Debussy in sostanza non disdegnava affatto l’utilizzo di elementi lessicali
espliciti, di strutture musicali dotate di connotazioni semantiche precise. Fêtes
asseconda il percorso delineato dal programma, proponendo riferimenti extra
musicali evidenti, allineati alla tradizione e difficilmente fraintendibili.
La risposta più scontata che si potrebbe dare è la prevalenza delle categorie della
musica assoluta rispetto a quelle della musica a programma.
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subitanei mutamenti (di tempo, di dinamica, di situazioni timbriche). Ne potremo
indicare soltanto alcuni aspetti.
Si profila un nuovo ostinato ritmico «un poco più animato» (con l'alternanza di
15/8 e 9/8); ritorna il tema di farandola; poi si profila un secondo tema all'oboe e
la sua prosecuzione sopra un intenso controcanto degli archi dà vita a una
complessa sovrapposizione di ritmi e metri. Questa sezione si conclude
bruscamente al culmine di un crescendo. Nella parte centrale la «visione
abbagliante e chimerica» del corteo è introdotta da una fanfara che man mano
sembra avvicinarsi (mentre cresce anche la densità, con la sovrapposizione del
tema di fanfara a quello di farandola) per giungere al culmine e dissolversi d'un
tratto nella «ripresa», profondamente trasformata, che inizia con il tema di
farandola. Una coda dai colori più tenui si immerge nel silenzio tra brevi,
frammentati echi, sempre più lontani.
Uno studio approfondito quale quello di Elke Lang-Becker rileva in Fêtes un
equilibrio formale basato sullo schema Scherzo - Trio - Scherzo da Capo.
Scherzo
A Batt. 1-26
Tema V (batt. 3)
B Batt. 27-115
Temi VI (batt. 27), VII (batt. 50), VIII (batt. 70)
Trio
C Batt. 116-173
Temi IX (batt. 124), IX’ (batt. 132), IX” (batt. 148)
Scherzo
98
A’ Batt. 174-207
Tema V’ (batt. 174), tema secondario (batt. 190)
B’ Batt. 208-279
Temi VI (batt. 208), VI’ (batt. 214), VII’ (batt. 224), IX’ (batt. 236)
Coda
Batt. 252-260
Senza dubbio la struttura formale di Fêtes propone uno schema A-B-A’, che
sembra tracciato a priori esattamente come avviene durante le fasi di
progettazione della musica assoluta.
Quello che occorre chiedersi è se sia davvero la forma l’aspetto tradizionalmente
distintivo della musica assoluta francese. I primi fruitori furono incapaci di
cogliere il contenuto extra musicale dei Nocturnes perché l’equilibrio formale
non consentiva loro di leggere l’opera secondo le tradizionali categorie della
musica a programma? Ossia: per la cultura musicale di inizio 900 la presenza di
un programma escludeva l’elaborazione di un progetto formale solido?
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consentono all’analista di speculare ampiamente sui rapporti con la struttura
sonatistica.
Les Éolides
A Batt. 1-230
Introduzione (batt. 1-79)
Tema I (batt. 79 sgg.), tema II (batt. 171 sgg.)
B Batt. 231-384
Sviluppo tema I (batt. 230-332)
Sviluppo tema II (batt. 333- 383)
A’ Batt. 384-538
Ripresa tema I (batt. 385 sgg.)
Ripresa tema II (batt. 487 sgg.)
Coda Batt. 539- fine
España
A batt. 1-199
Introduzione (batt. 1-29)
Tema I (batt. 30 sgg.), tema II (batt. 114 sgg.)
B batt. 200-272
Sviluppo temi I/II
A’ batt 273- 400
100
Ripresa tema I (batt. 273 sgg.)
Ripresa tema II (batt. 327 sgg.)
Coda batt. 401-fine
Una rapida occhiata è sufficiente per capire che si tratta di composizioni ancorate
a una solida tradizione formale: la struttura è la stessa in entrambi i casi (A- B-
A’) e lo schema esprime una chiara esigenza di inquadrare in maniera geometrica
ed equilibrata il progetto compositivo.
A questo proposito Vincent d’Indy, nel suo Cours de composition musicale,
chiosa in maniera illuminante l’analisi di Jour d’été à la montagne, indicando
nelle strutture formali alcuni indispensabili “points de repère” da non trascurare
per nessuna ragione. D’Indy era stato allievo di Franck al Conservatorio di
Parigi: il suo modo di intendere e insegnare la musica era figlio della generazione
che lo aveva preceduto. Da qualche decennio i francesi andavano predicando di
non compromettere la chiarezza formale per assecondare le esigenze extra
musicali del programma. Tutto il repertorio pittoresco di fine 800 era stato
influenzato da questo assunto. Nel 1901 quindi non c’era motivo di sconvolgersi
difronte al nitido equilibrio formale dei Nocturnes di Debussy. La forma, per la
cultura musicale francese di fine 800, non era affatto una categoria distintiva
della musica assoluta: furono sicuramente altri i motivi che non consentirono a
molti ascoltatori il contenuto extra musicale dei Nocturnes.
101
La sua prima apparizione è brevissima e si chiude a battuta 8 nella stesa tonalità.
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Un quadro assolutamente in antitesi sia con quello della rivisitazione arcaizzante
sia con quello della festa chimerica. E anche Paul Dukas descrisse una situazione
molto particolare, difficilmente paragonabile alle altre:
Nelle parole di Dukas si legge una violenza sonora sconosciuta alle altre
raffigurazione immaginative. Benché tutto si stemperi nell’imprecisione di un
sogno, nelle orecchie di Dukas resta impresso il tono rumoroso della sezione
centrale, l’invadenza dinamica dell’orchestrazione associata al passaggio del
corteo marziale.
Ogni descrizione ha una fisionomia particolare: si passa dal clima tetro della
recensione pubblicata su “La Vie parisienne” alla gioia solare delle impressioni
rilevate da Chennevière e Dukas; dalle impressioni aeree provate dal cronista de
“Republique Francaise” all’immagine rarefatte descritte da Jean d’Udine.
Questi fenomeni fruitivi, assieme alle difficoltà di allineare titoli e musica, sono
una diretta conseguenza dei procedimenti tecnici. Debussy voleva rivoluzionare i
rapporti estetici tra compositore ed ascoltatore: Fêtes testimonia una parziale
maturazione di queste intenzioni. Restano alcuni vincoli forti come la nota
illustrativa e alcuni riferimenti extra musicali inequivocabili; i procedimenti
103
compositivi adottati parlano già una lingua matura, tendono a sgretolare invece
che confermare con la finalità di stimolare l’immaginazione dell’ascoltatore
senza imporle alcuna direzione prestabilita.
V. III Sirènes
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NOTE
6. Cfr. L.Vallas, Claude Debussy et son temps, Paris, Albin Michel, 1958, p. 205.
7. Ibidem.
105
9. Cfr. «Le Courrier musical», 1 Maggio 1902, p. 133.
10. Cfr. «Le Mercure de France», riportato in L. Vallas, op. cit., p. 213.
17. Cfr. E. Lang-Becker, Debussy: Nocturnes, München, Fink 1982, pp. 20-21
18. Cfr. L.Cosso, Le strategie del fanstico, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2002, pp. 80-95.
22. Cfr. D. Chennevière, Claude Debussy et son œuvre, Paris, Durand 1913, p. 34.
APPENDICE
106
Composizioni pubblicate
Pianoforte
Mélodies
107
Trois poèmes de Stéphane Mallarmè
1915 Deux Mélodies hébraïques
1916 Trois chansons pour choeur mixte sans accompagnement
1924 Ronsard à son âme
1926 Chansons madécasses
1927 Rêves
1934 Don Quichotte à Dulcinée
Musica da camera
Orchestra
Teatro musicale
Trascrizioni
108
1909 Trois Nocturnes di Debussy (trascr. per due pianoforti)
1910 Daphnis et Chloé (trascr. per pianoforte)
Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy (trascr. per pianoforte a
quattro mani)
1912 Ma Mère l’Oye (trascr. per orchestra)
Valses nobles et sentimentales (Adélaïde ou le langage des fleurs; trascr.
per orchestra)
1916 Trois chansons pour choeur mixte (trascr. voce e pf.)
1920 La Valse (trascr. per pf. e per due pf.)
1923 Sarabande di Debussy (trascr. per orch.)
Danse da Tarantelle styrienne di Debussy (trascr. per orch.)
1924 Tzigane (trascr. per violino e orch.)
1929 Les Tableaux d’une exposition di Musorgskij (trascr. per orch.)
Boléro (trascr. per pf. e per pf. a quattro mani)
1937 Concerto per la mano sinistra (trascr. per pf. della parte orchestrale)
Menuet pompeux di Chabrier (trascr. per orch.)
Edizioni
Mendelssohn: Opere complete per pianoforte e per pianoforte e orchestra
Inediti
(Le date si riferiscono, anche presuntivamente, alla composizione o all’edizione
postuma).
Pianoforte
109
Sérénade grotesque (circa 1892-1894; ed. 1975)
Valse (1898?)
Archivio Mme Alexandre Taverne
Fuga (1900)
Bibliothèque Nationale di Parigi
Fuga (1903)
Bibliothèque Nationale di Parigi
Menuet (1904)
Bibliothèque Nationale di Parigi
Due pianoforti
Musica da camera
110
Mélodies
Tout est lumière, per soprano, coro misto e orch. (maggio 1901)
Bibliothèque Nationale di Parigi
Myrrha, cantata per soprano, baritono e orch. (giugno 1901; ed. 1975)
Alcyone, per soprano, contralto tenore e orchestra (giugno 1902; ed. 1975)
Alyssa, per soprano, tenore, baritono e orch. (giugno 1903; ed. 1975)
Orchestra
111
Schéhérazade (novembre 1898; partitura e trascr. per due pf., ed. 1975)
Trascrizioni
Margot la Rouge, opera di Frederick Delius (rid. per canto e pianoforte; ed.
1905?)
Prélude du Fils des Etoiles di Erik Satie (fine 1910-inizio 1911; trascr. per orch.;
perduto)
Les Sylphides da Notturni, Studi; Valzer di Chopin (primavera 1914; trascr. per
orch.; perduta, salvo la prima pagina)
Pierpont Morgan Library, New York
Frammenti e progetti
112
Saint François d’Assise (balletto?; perduto)
- Fugato (1 pagina)
- Farfadets (1 pagina)
- La Nonne maudite (1 pagina)
113