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FIGURE III
DISCORSO DEL RACCONTO
Traduzione di Lina Zecchi
Giulio Einaudi editore
Titolo originale Figures III
© Editions du Seuil, 1972 Copyright © 1976 Giulio Einaudi editore s.p.a.
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Indice generale
FIGURE III........................................................................................................................................
Critica e poetica.................................................................................................................................
Poetica e storia...................................................................................................................................
La retorica ristretta.............................................................................................................................
Metonimia in Proust...........................................................................................................................
Discorso del racconto - Saggio di metodo.........................................................................................
Premessa........................................................................................................................................
Introduzione..................................................................................................................................
1. Ordine........................................................................................................................................
2. Durata........................................................................................................................................
3. Frequenza..................................................................................................................................
4. Modo.........................................................................................................................................
5. Voce...........................................................................................................................................
Postilla...............................................................................................................................................
Bibliografia........................................................................................................................................
1. Opere di Proust..........................................................................................................................
Per varianti o abbozzi della Recherche :.......................................................................................
Studi critici e teorici......................................................................................................................
Figure III di Genette si struttura in due parti ben distinte. La prima (comprendente i saggi
Critica e poetica, Poetica e storia, La retorica ristretta, Metonimia in Proust) sembra
volersi offrire come puntigliosa revisione di tutti i principati miti critici contemporanei. Fra questi
saggi Metonimia in Proust occupa però un'evidente posizione nodale: incentrata com'è sulla
nascita del racconto, introduce senza soluzione di continuità all'analisi (capillare ed' enciclopedica
insieme) affrontata nella seconda parte, basata sul discorso « narratologico» (Discorso del
racconto), saggio di metodo applicato proprio alla proustiana Recherche du temps perdu.
Metonimia in Proust termina quindi (e certo non solo tipograficamente) dove inizia Discorso
del racconto: dato che, per Genette, se è la metafora a ritrovare il tempo perduto, la metonimia
lo dinamizza, lo rianima e lo «rimette in movimento», lo restituisce a se stesso e alla sua vera
essenza, «che è la sua fuga e la sua ricerca. Solo a questo punto, e solo allora — per mezzo della
metafora, ma nella metonimia - ha inizio il racconto».
La seconda parte assume immediatamente su di sé — anzi, reclama imperiosamente - come
«esemplare» l'irrimediabile dualità insita nella sua stessa operazione, e cioè: se la specificità della
narrazione proustiana presa nel suo insieme è irriducibile, per cui ogni estrapolazione diventa
in questo caso errore di metodo, d'altro lato questa specificità non è affatto indecomponibile.
Analizzare la Recherche non significa quindi andare dall'universale al particolare, bensì
l'esatto contrario: dall'organismo composto, di elementi universali riuniti in una totalità singolare
(la narrazione proustiana, l'opera d'arte in genere) pervenire a quegli elementi estremamente
comuni, «figure e procedimenti di utilità pubblica e di circolazione corrente che chiamo anacronie,
iterativo, focalizzazioni, par allessi e simili». Utilizzando, con varie modifiche, la suddivisione
proposta da Todorov nelle Catégories du récit littéraire, Genette procede alla sua analisi
partendo dalla seguente griglia operativa: considerando ogni racconto come produzione linguistica
che assume su di sé la relazione di uno o vari avvenimenti, diventa (forse) legittimo trattarlo come
lo sviluppo, aberrante finché si vuole, dato a una forma verbale nel senso grammaticale del
termine, l'espansione di un verbo. I problemi d'analisi del discorso narrativo vengono perciò
organizzati e formulati secondo categorie derivate dalla grammatica del verbo, ridotte a tre classi
fondamentali di determinazioni: tempo (riferito alle relazioni temporali fra racconto e diegesi),
modo (modalità, cioè forme e gradi della «rappresentazione» narrativa), voce (come si trova
implicata nel racconto la situazione o istanza narrativa coi suoi due protagonisti, narratore e
destinatario reale o virtuale).
Genette ripercorre e saccheggia instancabilmente tutto il repertorio critico occidentale, da Platone
ai formalisti, da Aristotele a Barthes, Friedman, Jauss, Lubbock, Mailer, ecc. Ne risulta un
discorso sulla narratologia a sua volta sempre ai limiti della narratività (come capacità di creare e
organizzare un racconto), oscillante fra un esasperato tecnicismo che passa al vaglio di ingranaggi
sempre più perfezionati elementi sempre più impalpabili e una vertigine di straordinaria
inventività verbale, dove la proliferazione terminologica e nozionale è spesso urtante - per
ammissione dell'autore stesso — ma inevitabile, quando non diventi inaspettatamente rivelatrice.
LINA ZECCHI
FIGURE III
Dirà un altro:
- Scommetto che si tratta ancora di una figura. Il primo risponderà:
- Hai vinto. Dirà il secondo:
- Si, ma purtroppo solo sul piano simbolico. Il primo:
- No, nella realtà; simbolicamente, hai perso.
KAFKA
Critica e poetica
Poetica e storia
Alla cosiddetta «nouvelle critique» (detta anche critica «tematica» o «formalista»)
si rimprovera abitualmente l'indifferenza o il disprezzo nei confronti della storia, se
non addirittura la sua ideologia antistoricistica 1. Un rimprovero simile è trascurabile
se viene a sua volta formulato in nome di un'ideologia storicistica con implicazioni
che Lévi-Strauss inquadra con estrema chiarezza, quando vuole «identificare nella
storia un metodo a cui non corrisponde affatto un oggetto distinto e -
conseguentemente — rifiutare l'equivalenza fra le nozioni di storia e di umanità,
che si pretende di imporci con lo scopo inconfessato di fare della storia l'ultimo
rifugio di un umanesimo trascendentale» 2. Se invece questo rimprovero è
formulato da uno storico, lo si deve accettare con serietà proprio per il fatto che la
storia è una disciplina applicabile a qualunque oggetto, e quindi anche alla
letteratura. Appunto a questo proposito ricordo di aver risposto tre anni fa a
Jacques Roger come l'apparente rifiuto della storia fosse, almeno per la critica
cosiddetta «formalista», semplicemente una provvisoria interruzione, una
sospensione metodica; un tal tipo di critica (che dovrebbe senz'altro chiamarsi, più
giustamente, teoria delle forme letterarie - o, più concisamente, poetica) mi sembrava
destinato, forse più di qualsiasi altro, a trovare in futuro, sulla sua strada, la storia.
Ora vorrei tentare di dire in breve perché, e come.
In primo luogo, occorre operare una distinzione fra varie discipline, reali o
ipotetiche, troppo spesso confuse sotto il comune denominatore di storia letteraria
o di storia della letteratura. Lasciamo da parte (per non tornarci più) la « storia
della letteratura » praticata nei manuali a livello d'insegnamento secondario: si tratta
in realtà di una serie di monografie disposte in ordine cronologico. Che poi queste
monografie siano, in se stesse, buone o cattive, non ha affatto importanza nel
nostro caso: è lampante che neppure la migliore serie di monografie sarebbe in
grado di costituire una storia. Lanson — che, come tutti sanno, in gioventù ne
aveva scritta una - diceva più tardi che ce ne erano a sufficienza, e che non ce n'era
più bisogno. Sappiamo anche, però, che la sorgente non si è affatto prosciugata.
Evidentemente esse rispondono, bene o male, a una funzione didattica precisa e
per niente trascurabile, ma non di ordine essenzialmente storico.
Seconda specie da distinguere. Si tratta di quella che Lanson voleva e proponeva -
con ragione - di non chiamare storia della letteratura, bensì storia letteraria: «Per
affiancare questa Histoire de la littérature frangaise, cioè della produzione letteraria, di
cui possediamo già abbastanza esemplari, - diceva, — si potrebbe scrivere una
Histoire littéraire de la France e che ci manca, e che adesso è quasi impossibile tentare.
Intendo con ciò... il quadro della vita letteraria nella nazione, la storia della cultura
e dell'attività della folla oscura che leggeva, quanto quella degli illustri individui che
scrivevano»3. Si tratta chiaramente, in questo caso, di una storia delle circostanze,
delle condizioni e delle ripercussioni sociali del fatto letterario. Una simile «storia
letteraria» è in realtà un settore della storia sociale: in quanto tale, ha un'evidente
giustificazione. Unico difetto, ma grave: dopo che Lanson ne ha tracciato il
programma, essa non è riuscita a costituirsi su quelle basi. Quella chiamata oggi
storia letteraria è rimasta ancorata, con alcune eccezioni, alla cronaca individuale,
alla biografia degli autori, della loro famiglia, dei loro amici e conoscenti, per farla
breve: a un livello di storia aneddotica, cronachistica, che la storia generale ha
ripudiato e superato da oltre trentanni. Nello stesso tempo, è stata per lo più
abbandonata l'intenzione di scrivere una storia sociale: mentre Lanson pensava alla
storia letteraria di una certa nazione, adesso si pensa semplicemente a una storia
letteraria, il che dà all'aggettivo funzione e accento completamente diversi.
Ricordiamo come nel 1941 Lucien Febvre dovesse ancora deplorare che tale
programma non fosse mai stato realizzato: e lo faceva in un articolo non a torto
intitolato De Lanson à Mornet: un renoncement? Ne stralcio alcune frasi, che è utile
ricordare qui perché definiscono, con maggior esattezza di quelle di Lanson, cosa
dovrebbe essere la famosa storia «letteraria» presagita da quest'ultimo: «Una storia
storica della letteratura vuole (o vorrebbe) dire la storia di una letteratura in un
determinato periodo, considerata nei suoi rapporti con la vita sociale di quel
periodo [...]. Per scriverla, bisognerebbe ricostruire l'ambiente, chiedersi chi
scriveva e per chi; chi leggeva e perché; sapere la formazione ricevuta dagli
scrittori, in collegio o altrove, e, analogamente, la formazione dei lettori [...].
Bisognerebbe conoscere il successo ottenuto dagli uni o dagli altri, l'effettiva
estensione e la profondità di tale successo; bisognerebbe mettere in rapporto i
cambiamenti d'abitudine, di gusto, di scrittura e d'interesse degli scrittori con le
vicissitudini della politica, le trasformazioni della mentalità religiosa, le evoluzioni
della vita sociale, e i cambiamenti della moda artistica e del gusto, ecc.» 4. Ma si deve
anche ricordare che Roland Barthes, nel 1960, in un articolo intitolato Histoire ou
littérature5 reclamava ancora l'esecuzione di questo programma di Lucien Febvre, e
perciò, in ultima analisi, del programma di Lanson: dopo oltre mezzo secolo, il
programma non aveva fatto nemmeno un passo avanti. Ancor oggi ci si trova circa
allo stesso punto: ecco quindi la prima critica che si può fare nei confronti della
storia «letteraria». Ve ne è una seconda, di cui parleremo fra poco.
Terza specie da distinguere. Non riguarda più la storia delle circostanze,
individuali o sociali, della produzione e della «consumazione» letteraria, ma lo
studio delle opere stesse, considerate come documenti storici, che riflettono o
esprimono l'ideologia e la sensibilità particolari di un'epoca. Questo genere di
storia - per motivi che occorrerebbe determinare - si è realizzato molto meglio dei
precedenti, con cui si dovrebbe evitare di confonderlo. 6 Per limitarci a citare i
francesi, ricordiamo solo i lavori di Hazard, Bremond, Monglond, o più
recentemente quelli di Paul Bénichou sul classicismo. Si può far rientrare nella
stessa categoria, con i postulati specifici ben noti, la variante marxista della storia
delle idee, rappresentata - in Francia — da Lucien Goldmann, e forse, ai nostri
giorni, da quella che comincia a essere designata col nome di socio-critica. Un simile
tipo di storia ha, per lo meno, il merito di esistere. Mi sembra però che sollevi un
certo numero di obiezioni, o meglio che provochi una certa insoddisfazione.
La provoca in primo luogo per motivi attinenti alle difficoltà di una simile
interpretazione dei testi letterari, difficoltà a loro volta inerenti alla natura di tali
testi. La nozione classica di «riflesso», in questo campo, non è soddisfacente. Nel
presunto « riflesso» letterario vi sono fenomeni di rifrazione e distorsione
difficilissimi da controllare. Per esempio, ci si è chiesti se la letteratura presentasse
un'immagine al positivo oppure al negativo del pensiero di una epoca: domanda
estremamente imbarazzante e dai termini niente affatto chiari. Esistono poi
difficoltà relative alla topica dei generi, fenomeni d'inerzia propri della tradizione
letteraria, ecc., non sempre visibili e generalmente misconosciuti, sotto la comoda e
spesso pigra formula «non si tratta di un caso se, alla stessa epoca...»: cui fa seguito
l'osservazione di una qualunque analogia (a volte battezzata omologia per un vago
senso di pudore), discutibile come tutte le analogie, e che inoltre non si sa bene se
costituisca una soluzione o un problema, dato che poi tutto prosegue come se
quell'idea («non si tratta di un caso se...») dispensasse dal cercare seriamente di che
cosa si tratta, o in altre parole dal definire con precisione il rapporto di cui ci si
limita ad affermare l'esistenza. Molto spesso il rigore scientifico raccomanderebbe
in realtà di tenersi al di qua di una simile affermazione; possiamo osservare come il
Rabelais di Lucien Febvre, un'opera riuscita in questo tipo di critica, sia una
dimostrazione essenzialmente negativa.
Seconda obiezione: ammesso per un attimo che gli ostacoli precedenti siano
superati, questo genere di storia sarà fatalmente esterno alla letteratura stessa.
Esteriorità che non coincide affatto con quella della storia letteraria concepita da
Lanson: si tratta certo di prendere in considerazione la letteratura, però limitandosi
ad attraversarla, per cercare, al di là di essa, strutture mentali che la superano e,
ipoteticamente, la condizionano. Jacques Roger diceva apertamente a questo
proposito: « La storia delle idee non ha come oggetto principale la letteratura». 7
Rimane un'ultima specie. Il suo principale (e ultimo) oggetto sarebbe la
letteratura. Una teoria della letteratura in sé (non nelle sue circostanze esterne) e
per sé (non come documento storico): cioè considerata, per riprendere i termini
proposti da Michel Foucault in Archéologie du savoir, non più come documento, ma
come monumento. A questo punto si pone immediatamente una domanda: quale
potrebbe essere l'oggetto di una simile storia? Non mi pare che possa coincidere
con le opere letterarie stesse, per il seguente motivo: un'opera (intendendo con ciò
l'insieme della «produzione» di un autore, o, a fortiori, un'opera isolata, libro o
poema) è un oggetto troppo particolare, troppo puntuale per essere veramente
oggetto di storia. La storia di un'opera può essere la storia della sua genesi, della
sua elaborazione, come pure la storia di quella che chiamiamo, nel passaggio da
un'opera alla seguente, l'evoluzione di un « autore » nel corso della sua carriera
(descritta da René Girard come passaggio dallo «strutturale» al «tematico») 8.
Questo genere di ricerca appartiene chiaramente al campo della storia letteraria
biografica praticata attualmente, ne costituisce anzi uno degli aspetti critici più
positivi, ma non rientra nel tipo di storia che tento di definire. Può anche essere la
storia della fortuna immediata di un'opera, del suo successo o insuccesso, del suo
influsso, delle sue interpretazioni successive nel corso dei secoli. Tutto ciò rientra
in pieno nella storia letteraria sociale definita da Lanson e da Febvre: ma possiamo
osservare facilmente come ancora una volta non ci troviamo affatto nel campo da
me definito storia della letteratura presa in sé e per sé.
Se poi consideriamo le opere letterarie nel lor6 testo (e non nella loro genesi o
nella loro diffusione), dal punto di vista diacronico possiamo solo dire che si
succedono. A mio parere la storia - nella misura in cui supera il livello della cronaca
- non è una scienza delle successioni, ma delle trasformazioni: può avere per unico
oggetto delle realtà rispondenti alla duplice esigenza di permanenza e variazione.
L'opera stessa non risponde a questa duplice esigenza: ecco senz'altro perché essa
deve, in quanto tale, restare l'oggetto della critica. La critica (lo ha dimostrato
Barthes con grande abilità nel testo a cui facevo allusione poco fa)
fondamentalmente non è, né può esserlo, storica: infatti essa consiste sempre in un
rapporto diretto d'interpretazione, direi meglio d'imposizione del senso, fra il
critico e l'opera. Il rapporto è essenzialmente anacronico, nel senso forte (e, per lo
storico, redibitorio) del termine. Mi pare quindi che in letteratura l'oggetto storico
(cioè contemporaneamente permanente e variabile) non sia l'opera, bensì gli
elementi che la trascendono e costituiscono il gioco letterario: per comodità,
chiamiamoli le forme. Esempi: i codici retorici, le tecniche narrative, le strutture
poetiche, ecc. Esiste una storia delle forme letterarie, come di tutte le forme
estetiche e come di tutte le tecniche, per il semplice fatto che tali forme
permangono e si modificano attraverso i secoli. Sfortunatamente una simile storia
resta ancora una volta, per la maggior parte, da scrivere. Mi sembra che la sua
fondazione sarebbe uno dei compiti più urgenti oggi. È sbalorditivo che non esista
— almeno in campo francese - qualcosa come una storia della rima, o della
metafora, o della descrizione: e scelgo volutamente oggetti letterari triviali e
tradizionali.
È necessario porsi delle domande sui motivi di questa lacuna, o meglio carenza.
Sono molteplici: nel passato, il pregiudizio positivista secondo cui la storia doveva
occuparsi solo dei «fatti» (e conseguentemente trascurare tutto quanto avesse l'aria
di pericolose «astrazioni») è stato senz'altro il più determinante. Vorrei tuttavia
insistere su altre due ragioni, che oggi sono senza possibilità di discussione più
importanti. La prima è la seguente. Gli oggetti stessi della storia delle forme non
sono ancora abbastanza evidenziati da parte della «teoria» letteraria che, almeno in
Francia, è ancora ferma ai primi passi: cioè, la riscoperta e la ridefinizione delle
categorie formali ereditate da una antichissima tradizione prescientifica. Il ritardo
della storia riflette nel caso specifico il ritardo della teoria, dato che in gran parte
(contrariamente a un pregiudizio costante) la teoria, almeno in questo campo, deve
precedere la storia, poiché ne individua gli oggetti.Una seconda ragione, forse un
po' più grave, è questa: nell'analisi delle forme che si sta elaborando (o
rielaborando) oggi, regna ancora un altro pregiudizio, e cioè - per riprendere i
termini di Saussure - l'opposizione, addirittura l'incompatibilità fra studio
sincronico e diacronico. Si può teorizzare esclusivamente in una sincronia che di
fatto viene pensata, o per lo meno praticata, come un'acronia: troppo spesso si
teorizza sulle forme letterarie come se tali forme fossero enti non tanto trans-
storici (il che equivarrebbe precisamente a storici) quanto atemporali. La sola
eccezione degna di nota è costituita, come sappiamo, dai formalisti russi: essi
hanno sviluppato prestissimo la nozione chiamata evoluzione letteraria. In un testo
del 1927 Ejchenbaum, riassumendo la storia del movimento, scrive a proposito di
questa fase: «La teoria rivendicava il diritto di diventare storia». 9 Mi pare che una
simile esigenza implichi qualcosa di più di un diritto: una necessità che nasce dal
movimento stesso e dalle esigenze del lavoro teorico.
Citerò semplicemente, allo scopo d'illustrare tale necessità, l'esempio fornito da
una delle rare opere «teoriche» finora pubblicate in Francia, il libro di Jean Cohen
Structure du langage poétique. Cohen dimostra fra l'altro come, nella poesia francese
dal xvii al xx secolo, vi sia un aumento concomitante dell'agrammaticalità del verso
(cioè della non coincidenza fra pausa sintattica e pausa metrica) e di quella che egli
chiama la non pertinenza della predicazione, cioè principalmente lo scarto, nella
scelta degli epiteti, rispetto a una norma fornita dalla prosa scientifica «neutra»
della fine del xix secolo. Cohen, dopo aver dimostrato tale aumento, lo interpreta
immediatamente non come evoluzione storica, ma come «involuzione»: un
passaggio dal virtuale all'attuale, una progressiva realizzazione, da parte del
linguaggio poetico, di quanto costituiva da sempre la sua essenza nascosta. Tre
secoli di diacronia si trovano così travasati nell'atemporale: durante quei tre secoli
la poesia francese, anziché trasformarsi, avrebbe impiegato tutto quel tempo per
diventare ciò che essa (e con essa qualunque poesia) era virtualmente da sempre: a
ridursi, tramite successive purificazioni, alla sua essenza. Ora, se la curva elaborata
da Cohen viene un po' allungata verso il passato, possiamo osservare come, ad
esempio, la «percentuale di non-pertinenza» da lui considerata a livello zero nel xvii
secolo, era molto maggiore nel Rinascimento, e ancora di più in epoca barocca. La
curva perde allora la sua bella regolarità per cadere in un tracciato un po' più
complesso, apparentemente caotico, dallo svolgimento imprevedibile, per
l'esattezza il tracciato dell'empiricità storica. Si tratta certo di un riassunto molto
sommario della controversia10, ma forse sufficiente a illustrare la mia idea, cioè che,
a un certo punto dell'analisi formale, s'impone il passaggio alla diacronia. Il rifiuto
della diacronia, oppure la sua interpretazione in termini non storici, va a scapito
della teoria stessa.
Una simile storia delle forme letterarie, che si potrebbe chiamare storia della
letteratura per eccellenza, è chiaramente solo un programma che si aggiunge a molti
altri: potrebbe toccargli la sorte del programma di Lanson. Ammettiamo tuttavia,
per ipotesi ottimistica, che un giorno si realizzi, e terminiamo con due osservazioni
di pura anticipazione.
Prima osservazione: una volta costituitasi sul terreno di cui sopra, la storia della
letteratura incontrerà i problemi di metodo attualmente tipici della storia generale,
cioè in definitiva di una storia adulta. Per fare un esempio: i problemi della
periodizzazione, le differenze di ritmo a seconda dei settori e dei livelli, il gioco
complesso e difficile delle varianze e delle invarianze, lo stabilirsi di correlazioni, e
quindi, necessariamente, l'interscambio fra diacronico e sincronico, dato che
(ancora una volta i formalisti russi hanno il merito di mettere in evidenza questa
idea) l'evoluzione di un elemento del gioco letterario consiste nella modificazione
della sua funzione all'interno del sistema globale del gioco. Ejchenbaum scrive
d'altronde, nel passaggio immediatamente precedente alla frase da me citata poco
sopra, che i formalisti hanno incontrato la storia proprio nel momento del loro
passaggio dalla nozione di « procedimento» a quella di funzione. Un fatto simile,
ovviamente, non è tipico della storia della letteratura: significa semplicemente che,
nonostante una troppo diffusa opinione contraria, la sola vera storia è
strutturale.Seconda e ultima osservazione: una volta costituitasi nel modo suddetto
e allora soltanto, la storia della letteratura potrà porsi con serietà (e con qualche
possibilità di rispondere) il problema dei suoi rapporti con la storia generale, cioè
con l'insieme delle altre storie particolari. A questo proposito voglio solo ricordare
la dichiarazione, ora molto nota, di Jakobson a Tynjanov. Pur essendo del 1928,
non ha perduto nulla della sua attualità: «La storia della letteratura (o dell'arte), che
è legata alle altre serie storiche, è caratterizzata, al pari di ogni altra serie, da un
complesso insieme di leggi specifiche strutturali. Se queste leggi non vengono
messe in chiaro, è impossibile stabilire scientificamente la correlazione fra la serie
letteraria e le altre serie storiche».11
La retorica ristretta
G. C. Tre o quattro anni fa, riviste, articoli, saggi erano pieni del termine
metafora. La moda è cambiata. Metonimia sostituisce metafora.
J. L. B. Non credo che questa differenza porti un gran vantaggio.
G. C. Si capisce.
GEORGES CHARBONNIER, Entretiens avec Jorge Luis Borges.
L'anno 1969-70 è stato testimone della pubblicazione quasi simultanea di tre testi
dal volume ineguale, i cui titoli però presentano una consonanza estremamente
sintomatica. Si tratta della Rhétorique générale (intitolata inizialmente, come sappiamo,
Rhétorique généralisée) del gruppo di Liegi12; dell'articolo di Michel Deguy Pour une
théorie de la figure généralisée13; e di quello di Jacques Sojcher, La métaphore généralisée14.
Retorica-figura-metafora: sotto la copertura denegativa, o compensatoria, di una
generalizzazione pseudo-einsteiniana, ecco profilarsi nelle sue tappe principali il
percorso (approssimativamente) storico di una disciplina che, nel corso dei secoli,
non ha mai smesso di vedere restringersi (come la pelle di zigrino) il campo della
sua competenza, o almeno della sua azione. La Retorica di Aristotele non si
presentava certo come « generale » (meno ancora come « generalizzata»): lo era, e
lo era a tal punto che, nella vastità del suo campo d'indagine, una teoria delle figure
non meritava una menzione particolare; solo alcune pagine dedicate alla
similitudine e alla metafora, in un Libro (su tre) consacrato allo stile e alla
composizione, territorio esiguo, regione isolata, sperduta nell'immensità di un
Impero. Oggi, ci troviamo15 al punto di dover chiamare col termine di retorica
generale ciò che in realtà è un trattato sulle figure. se dobbiamo «generalizzare»
tanto, si tratta evidentemente della conseguenza di un'eccessiva restrizione: da
Corace ad oggi, la storia della retorica coincide con una restrizione generalizzata.
Fin dal primo medio evo, presumibilmente, comincia a sfaldarsi l'equilibrio
caratteristico dell'antica retorica, testimoniato dalle opere di Aristotele e, ancora di
più, da quelle di Quintiliano. In primo luogo l'equilibrio fra i generi (deliberativo,
giudiziario, epidittico) perché la morte delle istituzioni repubblicane (già Tacito vi
individuava una delle cause del declino dell'eloquenza) porta con sé la scomparsa
del genere deliberativo e anche, a quanto pare, dell'epidittico, legato alle grandi
circostanze della vita civica16: Marziano Capella, e poi Isidoro da Siviglia, prendono
atto di queste defezioni: rhetorica est bene dicendi scientia in civilibus quaestionibus 17. Poi
l'equilibrio fra le parti (inventio, dispositio, elocutio), dato che la retorica del trivium,
schiacciata fra grammatica e dialettica, si vede rapidamente confinata nello studio
dell'elocutio, degli ornamenti del discorso, colores rhetorici. L'epoca classica, e ancora di
più il XVIII secolo, particolarmente in Francia, ereditano tale situazione e
l'accentuano col privilegiare in continuazione, nei loro esempi, il corpus letterario
(e soprattutto poetico) sull'oratoria: Omero e Virgilio (e, molto presto, Racine)
soppiantano Demostene e Cicerone; la retorica tende a diventare, essenzialmente,
uno studio della lexis poetica.
Per vagliare minutamente e correggere questa carrellata oltremodo garibaldina 18
occorrerebbe una ricerca storica immensa, che supererebbe di molto le nostre
competenze: Roland Barthes, tuttavia, ne ha fornito lo schema in un seminario
tenuto all'Ecole pratique des Hautes Etudes 19. Qui si vorrebbe insistere
esclusivamente sulle ultime tappe di questo movimento - quelle cioè che segnano il
passaggio dalla retorica classica alla neoretorica moderna - e interrogarsi sul loro
significato.
La prima tappa è costituita dalla pubblicazione, nel 1730, del trattato Des Tropes di
Dumarsais. L'opera non pretende certo di esaurire tutto il campo della retorica:
inoltre il punto di vista adottato dal grammatico dell'Encyclopédie non è neppure
esattamente quello di un retorico, piuttosto di un linguista e precisamente di un
semantico (nel senso in cui Bréal userà questo termine più tardi). Lo dimostra con
chiarezza il sottotitolo: «...o dei differenti significati in cui si può usare una
medesima parola in una stessa lingua». La sua esistenza e il suo prestigio, tuttavia,
contribuiscono fortemente a situare come nucleo degli studi retorici non più la
teoria delle figure in senso lato, bensì, con una specificazione ulteriore, la teoria
delle figure di senso, e quindi a fare dell'opposizione fra senso proprio e figurato
(oggetto dei capitoli vi e VII della prima parte) il centro del pensiero retorico.
Ultima conseguenza: la retorica diventa un pensiero della figurazione, spirale del
figurato definito come l'altro del proprio, e del proprio definito come l'altro del
figurato - e resta prigioniera di questa meticolosa vertigine per un lungo periodo.
La migliore illustrazione dell'influsso che una simile riduzione tropologica esercita
sulla retorica francese è senz'altro costituita dall'opera di colui che, circa un secolo
dopo, s'illudeva di ricevere e contemporaneamente di liquidare l'eredità di
Dumarsais per mezzo di una Aufhebung intitolata in un primo tempo Commentane
raisonné des tropes (1818), in seguito Traité général des figures du discours (1821-27). Dal
punto di vista che ci interessa ora, il cambio della guardia operato da Fontanier nei
confronti di Dumarsais è di una notevole ambiguità: se da un lato Fontanier allarga
nuovamente il campo di studio all'insieme delle figure, tropi e non tropi, dall'altro
però tende a fare del tropo il modello di ogni figura, riprendendo con un rigore
accresciuto (con l'esclusione della catacresi, in quanto tropo non figura perché non
sostitutivo: ad esempio feuille de papier, dove feuille non sostituisce nessun proprio) il
criterio di sostituzione che regola l'attività tropologica, ed estendendolo alla totalità
del campo figurale (con la conseguente esclusione di certa « presunta figura di
pensiero» in quanto esprimerebbe solo e soltanto ciò che dice). Viene così
ulteriormente accentuata, col darle un fondamento di diritto, la restrizione
abbozzata in realtà dal suo predecessore. Dumarsais si limitava a proporre un
trattato dei tropi; Fontanier (tramite la sua adozione come manuale nella scuola
pubblica) impone un trattato delle figure, tropi e «altro dai tropi» (claudicazione
terminologica sufficientemente eloquente in se stessa) che ha si come oggetto tutte le
figure, ma come principio (criterio di ammissione e di esclusione) sotterraneo un
criterio puramente tropologico20.
Vediamo così il tropo insediarsi nel cuore paradigmatico di quella che è solo una
teoria delle figure ma che, a causa di una strana carenza lessicale apparentemente
universale, continuerà però a essere chiamata retorica 21: esempio notevole di
sineddoche generalizzante. A questo primo gesto di Fontanier se ne aggiunge poi
un secondo, tale da confermare il suo ruolo 22 di fondatore della retorica moderna,
o meglio della moderna idea di retorica: esso si basa sulla classificazione o, per
usare il linguaggio dell'epoca, sulla divisione dei tropi.
Dumarsais aveva stabilito una lista (un po' caotica, a volte ridondante) di diciotto
tropi, agevolmente riducibile eliminando i doppioni (ironia-antifrasi) o le
sottospecie (antonomasia, eufemismo, ipallage), e respingendo verso altre classi i
«pretesi tropi» come la metalessi, la perifrasi o l'onomatopea. Aveva però anche
abbozzato, in un capitolo speciale23 stranamente senza conseguenze sulla
disposizione del suo inventario, la possibilità di una «subordinazione dei tropi»,
cioè un'indicazione del «rango che dovevano occupare gli uni in rapporto agli
altri». Già Vossius proponeva una gerarchia simile, in cui tutti i tropi erano
riconducibili, «come le specie ai generi», a quattro fondamentali: la metafora, la
metonimia, la sineddoche e l'ironia. Dumarsais traccia un nuovo accostamento,
quello fra sineddoche e metonimia, riunite in quanto basate entrambe su una
relazione o connessione (con «dipendenza» nella sineddoche) non assimilabili né al
rapporto di somiglianza della metafora, né al rapporto di contrasto dell'ironia:
implicitamente, si trattava di subordinare la totalità dei tropi ai tre grandi principi
associativi di similitudine, contiguità e opposizione. Fontanier, da parte sua,
reintegra in tutta la sua funzione gerarchica la distinzione metonimia/sineddoche,
in compenso però esclude l'ironia, in quanto figura «d'espressione» (tropo in più
parole, dunque pseudo-tropo), e soprattutto non si accontenta di ricondurre tutti i
tropi ai tre generi fondamentali da lui lasciati sussistere. Egli ammette
esclusivamente quei tre generi: tutto il resto è confusione, tropi non-figure, figure
non-tropi, addirittura non-figure non-tropi. I soli tropi degni di tal nome sono
quindi (nell'ordine) la metonimia, la sineddoche e la metafora. Come è possibile
che abbiate già intuito, basta ora addizionare le due sottrazioni: l'eliminazione
dell'ironia da parte di Fontanier, l'avvicinamento fra metonimia e sineddoche da
parte di Dumarsais, per ottenere la coppia di figure esemplare, gli insostituibili
antagonisti della nostra retorica moderna: Metafora e Metonimia.
Questa ulteriore riduzione è ammessa, salvo errore, nella Vulgata del formalismo
russo, fin dall'epoca dello studio di Boris Ejchenbaum su Anna Achmatova, datato
1923, ivi compresa l'equivalenza metonimia = prosa, metafora = poesia. La si
ritrova con lo stesso valore nell'articolo di Jakobson sulla prosa di Pasternak nel
1955, e soprattutto nel suo testo del 1965 Deux aspects du langage et deux types
d'aphasie, dove la classica opposizione analogia/contiguità (che si basa sui significati
in relazione di sostituzione nella metafora e nella metonimia: l'oro e il grano, il
ferro e la spada) si vede confermata tramite una assimilazione forse temeraria alle
opposizioni propriamente linguistiche (basate su dei significanti) fra paradigma e
sintagma, equivalenza e successione.
L'episodio è troppo recente e troppo noto per insistervi ulteriormente. In
compenso può essere utile chiedersi quali ragioni siano state in grado di portare a
una riduzione così drastica proprio all'interno della sfera figurale. Abbiamo già
fatto osservare il progressivo slittamento dell'oggetto retorico dall'eloquenza alla
poesia24, già evidente nei classici: esso porta l'attenzione metaretorica a
concentrarsi preferibilmente sulle figure di maggior tenore semantico (figure di
significato in una sola parola) e, fra di esse, ancora di più sulle figure di semantismo
«sensibile»25 (rapporto spazio-temporale, rapporto d'analogia) escludendo tropi di
un semantismo considerato più intellettuale, come l'antifrasi, la litote o l'iperbole,
sempre più severamente eliminati dal campo poetico o, più in generale, dalla
funzione estetica del linguaggio. Un simile slittamento d'oggetto, evidentemente di
natura storica, contribuisce perciò a privilegiare le due relazioni di contiguità (e/o
d'inclusione) e di similarità. Ma si potrebbero facilmente scoprire altri movimenti
convergenti, come quello reperibile in Freud quando, in Totem e Tabù, tratta i
«principi dell'associazione». Mauss, nella sua Esquisse d'une théorie de la magic ( 1902 )
accettava come leggi d'associazione magica i tre principi associazionistici di
contiguità, similarità e contrasto o contrarietà. In Totem e Tabu (1912), Freud -
ripetendo in un campo diverso il gesto di Fontanier che escludeva l'ironia dalla lista
dei tropi - conserva come principi d'associazione solo i primi due (sottoposti
entrambi, d'altronde, al concetto «superiore» di contatto) dato che la similarità veniva
definita, fatto abbastanza ameno nel caso specifico, come un «contatto nel senso
figurato del termine»26.
L'avvicinamento fra sineddoche e metonimia era già indicato, come si è visto, da
Dumarsais: il concetto di « rapporto» era però nella sua opera sufficientemente
vasto (o duttile) per contenere sia le relazioni senza «dipendenza» (cioè senza
inclusione) che reggono la metonimia, sia i rapporti d'inclusione che definiscono la
sineddoche. La nozione di contiguità invece rivela o opera una scelta a favore della
«relazione senza dipendenza», quindi una riduzione unilaterale della sineddoche alla
metonimia, riduzione che d'altra parte si fa esplicita quando, per esempio, Jakobson
scrive: «Uspensky aveva un debole per la metonimia, specialmente per la
sineddoche»27. La giustificazione di un simile gesto è fornita, fra l'altro, da Mauss
nel testo già ricordato: «La forma più semplice (dell'associazione per contiguità), -
dice, — è l'identificazione della parte con il tutto»28.
Non è però sicuro che si possa legittimamente fare dell'inclusione, sia pure nelle
sue forme più vistosamente spaziali, un caso particolare della contiguità. Tale
riduzione trova senz'altro la sua origine in una confusione quasi inevitabile fra il
rapporto della parte col tutto, e il rapporto — sempre della medesima parte - con
le altre parti costitutive del tutto: se si preferisce, rapporto della parte col resto. La
vela non è contigua alla nave, ma è contigua all'albero e al pennone e, per
estensione, a tutto il resto della nave, a tutto ciò che, della nave, non è vela. La
maggioranza dei «casi dubbi» deriva da questa scelta sempre aperta, cioè di poter
prendere in considerazione sia il rapporto della parte col tutto, sia quello della
parte col resto: analogamente si procede nella relazione simbolica (nel suo antico
etymon), dove si può individuare, nello stesso tempo, una relazione di contiguità fra
le due metà complementari del sumbolon, e un rapporto d'inclusione di ognuna delle
due metà col tutto che esse costituiscono e ricostituiscono. Ogni emisimbolo, con
un identico movimento, chiama l'altro ed evoca il loro comune insieme.
Analogamente possiamo leggere ad libitum nella figura mediante attributo
(poniamo: «corona» per «monarca») una metonimia o una sineddoche, a seconda che
si consideri, ad esempio, la corona come semplicemente legata al monarca, oppure
come parte del monarca stesso, in virtù dell'implicito assioma: non vi è monarca
senza corona. È chiaro allora che, al limite, qualsiasi metonimia può convertirsi in
sineddoche, facendo appello all'insieme superiore, e qualsiasi sineddoche in
metonimia, ricorrendo alle relazioni fra parti costitutive. Il fatto che ogni figura-
ricorrenza si possa analizzare a scelta in due maniere, non implica certo che queste
due maniere ne costituiscono una sola, proprio come Archimede non è allo stesso
modo, contemporaneamente, principe e geometra, ma si capisce chiaramente come
questa duplice appartenenza possa favorire la confusione.
Resta evidentemente da spiegare perché mai questa confusione abbia pesato
influendo maggiormente in una direzione (cioè a profitto della metonimia)
piuttosto che nell'altra (la sineddoche). È possibile che, in questo caso, la nozione
pseudo-spaziale di contiguità abbia svolto un ruolo di catalizzatore proponendo un
modello di relazione più semplice e, al tempo stesso, più materiale di qualsiasi altro.
Ma bisogna ancora osservare che se tale nozione gioca a favore della metonimia,
ciò non avviene senza che si operi, proprio all'interno del campo di questa figura,
un'ulteriore riduzione: dato che molte delle relazioni coperte dalla metonimia
classica (l'effetto per la causa e il suo contrario, il segno per la cosa, lo strumento
per l'azione, il fisico per il morale, ecc.) non si lasciano ricondurre così facilmente -
se non per metafora - a un effetto di contatto o di prossimità spaziale. Che tipo di
«contiguità» potrebbero mai avere cuore e coraggio, cervello e intelligenza, visceri e
pietà? Ricondurre qualunque metonimia (e, a fortiori, qualunque sineddoche) a una
pura relazione spaziale, significa evidentemente limitare il gioco di tali figure al loro
semplice aspetto fisico o «sensibile»: e ancora una volta viene alla luce il privilegio
conquistato a poco a poco dal discorso poetico nel campo degli oggetti retorici,
come pure lo slittamento effettuato da questo stesso discorso, in epoca moderna,
verso le forme più materiali della figurazione.
Alia progressiva riduzione delle figure di « relazione » al solo modello della
metonimia spaziale, corrisponde nell'altro settore - quello delle figure di « similarità
» - una riduzione chiaramente simmetrica, che va qui a vantaggio della sola
metafora. Sappiamo effettivamente che il termine metafora tende sempre più a
coprire l'insieme del campo analogico: mentre l'ethos classico vedeva nella metafora
un paragone implicito29 la modernità sarebbe propensa a considerare il paragone
come una metafora esplicita o motivata. L'esempio più caratteristico di tale
impiego è chiaramente reperibile in Proust, che non ha mai smesso di chiamare
metafora, nella sua opera, quanto è - nella maggioranza dei casi — paragone puro.
Anche in questo caso, i moventi della riduzione vengono alla luce con sufficiente
chiarezza nella prospettiva di una figuratica centrata sul discorso poetico, o per lo
meno (come in Proust) su una poetica del discorso. Non ci troviamo più in
presenza di paragoni omerici, e la concentrazione semantica del tropo gli assicura
una superiorità estetica quasi evidente sulla forma estesa della figura. Mallarmé si
vantava di aver abolito dal suo lessico la parola «come». Se tuttavia il paragone
esplicito tende a disertare il campo poetico, osserviamo rapidamente che le cose
vanno un po' diversamente per l'insieme del discorso letterario, e ancora più
diversamente per la lingua parlata; soprattutto perché il paragone può riscattare la
mancanza d'intensità che lo caratterizza mediante un effetto di anomalia semantica
che la metafora non può affatto permettersi, a rischio di restare, in mancanza del
primo termine di paragone, totalmente inintelliggibile. Si tratta, in particolare,
dell'effetto chiamato da Jean Cohen la non-pertinenza 30. Tutti ricordano il verso di
Eluard «La terre est bleue comme une orange», oppure la serie ducassiana dei
«beau comme...»; pensiamo ugualmente all'inclinazione del linguaggio popolare
verso paragoni arbitrari («... comme la lune») o antifrastici («aimable comme une
porte de prison», «bronzé comme un cachet d'aspirine», «frisé comme un ceuf
dur»), o ridicolmente tirati per i capelli, come quelli che animano la dizione di un
Peter Cheyney, di un Sanantonio o di un Pierre Perret: «les cuisses ouvertes comme
le missel d'une dévote»31. Una teoria delle figure d'analogia troppo centrata sulla
forma metaforica si autocondanna a trascurare simili effetti, e alcuni
altri.Aggiungiamo infine che ridurre al «polo metaforico» tutte le figure d'analogia
non lede esclusivamente il paragone, ma numerose forme di figure la cui
differenza, fino ad oggi, non sembra essere stata presa in considerazione in
maniera esauriente. Metafora e paragone vengono generalmente messi in
opposizione in nome dell'assenza del primo termine di paragone nella prima
figura, e della sua presenza nella seconda. Non mi sembra che questi termini
chiariscano perfettamente l'opposizione: sintagmi del tipo pastore promontorio o sole
collo tagliato, contenenti sia il primo che il secondo termine di paragone, non sono
infatti considerati come un paragone, ma neppure, d'altronde, come una metafora,
e in fin dei conti la loro catalogazione viene lasciata in sospeso, in mancanza di
un'analisi più completa degli elementi costitutivi della figura d'analogia. Per
procedere correttamente, è necessario considerare non solo la presenza o l'assenza
del primo e del secondo termine di paragone («vehicle» e «tenor», nel lessico di Ri-
chards), ma anche il modalizzatore comparativo (come, simile a, somigliare, ecc.) e il
motivo («ground»)del paragone. Si osserva allora come ciò che generalmente
chiamiamo «paragone» possa prendere due forme sensibilmente diverse: paragone
immotivato (il mio amore è come una fiamma) e paragone motivato (il mio amore brucia
come una fiamma), necessariamente più limitato nella sua portata analogica, dal
momento che assume come motivazione un solo sema comune (calore) fra i vari
(luce, leggerezza, mobilità) che il paragone immotivato potrebbe, almeno, non
escludere. Vediamo quindi che la distinzione fra le due forme non è affatto inutile.
Risulta parimenti che il paragone canonico, nelle due specie, non deve comportare
soltanto il primo e il secondo termine di paragone, ma anche il modalizzatore,
senza il quale ci si troverà piuttosto di fronte a un'identificazione32, motivata o no, sia
del tipo il mio amore (è) una fiamma bruciante, o il mio amore bruciante (è) una fiamma
(«Voi siete il mio leone superbo e generoso»), sia del tipo il mio amore (è) una fiamma
(«Achille è un leone», «pastore promontorio» succitato). L'ellissi del primo termine
di paragone determinerà a sua volta due forme d'identificazione, una motivata, del
tipo la mia fiamma ardente, e l'altra immotivata, cioè la metafora propriamente detta:
la mia fiamma. La tabella a lato riconosce queste varie forme, oltre a quattro stati
ellittici meno canonici ma abbastanza ammissibili 33, paragoni motivati o no con
ellissi del secondo termine di paragone (il mio amore è bruciante come... o il mio amore e
come...) o del primo termine di paragone (... come una fiamma bruciante, o ... come una
fiamma): simili forme, in apparenza puramente ipotetiche, non si devono affatto
trascurare. Jean Cohen se ne è perfettamente reso conto: chi si ricorda, ad esempio,
del primo termine di paragone della serie dei «beau comme...» di Lautréamont,
dove la discordanza fra il motivo e il secondo termine di paragone è evidentemente
più importante dell'attribuzione del predicato totale al granduca di Virginia,
all'avvoltoio, allo scarabeo, a Mervyn o allo stesso Maldoror?
Questa tabella un po' sbrigativa 34 non ha altri scopi, tranne il render chiaro fino a
che punto la metafora sia solo una forma fra numerose altre, e come la sua
promozione al rango di figura d'analogia per eccellenza proceda da una specie di
violenza. Ma rimane da considerare un ultimo movimento di riduzione 35, tramite il
quale la stessa metafora, assorbendo il suo estremo avversario, è destinata a
diventare «tropo dei tropi» (Sojcher), «figura delle figure» (Deguy), il nucleo, il
cuore e, in ultima analisi, l'essenza e pressoché il tutto della retorica.
Metonimia in Proust
[L'assenza d'articolo davanti a Metonimia ha un senso che, forse, è opportuno dichiarare: si tratta esattamente di un nome
proprio, e vediamo immediatamente perché. Diciamo Metonimia in Proust come diremmo Polinnia in Tacito o Clio in
Pindaro, nella misura in cui una dea può sbagliare porta: semplice visita dunque, ma non senza seguito.]
Può sembrare abusivo chiamare «metonimia», come per il gusto di una fittizia
simmetria, questa solidarietà di ricordi che non comporta nessun effetto di
sostituzione, e dunque non può, in nessun modo, rientrare nella categoria dei tropi
studiati dalla retorica. Sarebbe indubbiamente sufficiente rispondere che ad essere
in discussione ora è la natura del rapporto semantico, e non la forma della figura, e
ricordare come lo stesso Proust abbia fornito l'esempio di un simile abuso col
battezzare metafora una figura che in lui, nella maggior parte dei casi, coincide con
un paragone esplicito e senza sostituzione; cosicché gli effetti di contagio di cui
abbiamo parlato sono all'inarca l'equivalente, sull'asse della contiguità, di ciò che
sono le «metafore» proustiane sull'asse delle analogie — e quindi stanno alla
metonimia in senso stretto come le metafore proustiane stanno alla metafora
classica. Ma dobbiamo anche dire come l'evocazione per contiguità sia a volte
condotta da Proust ai limiti della sostituzione. Ullmann cita opportunamente una
frase di Swann : « Quella buia frescura della mia stanza... offriva alla mia fantasia la
visione totale dell'estate»107. La sensazione-segnale diventa abbastanza velocemente,
in Proust, una sorta d'equivalente del contesto a cui essa è associata, come la «
piccola frase di Vinteuil» è diventata per Swann e Odette « quasi l'inno nazionale
del loro amore»108: cioè il suo emblema. Dobbiamo osservare come gli esempi di
metafore «naturali» citati nel Temps retrouvé siano in realtà, tipicamente, delle
sostituzioni sineddochiche: «la stessa natura... non era anch'essa un principio d'arte,
essa che sovente non m'aveva consentito di conoscere la bellezza d'una cosa se
non in un'altra: l'ora del mezzodì a Combray nel suono delle sue campane, i mattini
di Doncières nei rantoli del nostro calorifero ad acqua? » 109. Infine, il fenomeno
dello slittamento metonimico, notissimo in psicanalisi, gioca a volte un ruolo
importante nella stessa tematica del racconto proustiano. Sappiamo come
l'ammirazione di Marcel per Bergotte giovi al suo amore per Gilberte, o come
questo stesso amore si riversi sui genitori della ragazzina, sul loro nome, la loro
casa, il loro quartiere; o ancora, come la passione per Odette, che abita in rue la
Perouse, faccia di Swann un cliente abituale dell'omonimo ristorante: qui dunque,
omonimia per metonimia. Tale è la «retorica» del desiderio. In Combray, in misura
anche più notevole, il tema sessuale si trova in origine legato a quello dell'alcool per
una semplice consecutio temporum: ogni volta che il nonno, con gran disperazione
della moglie, si lascia andare a bere del cognac, Marcel si rifugia nella «stanzettina
odorosa d'iris», luogo privilegiato dei suoi colpevoli piaceri; in seguito, il senso di
colpa sessuale cosciente del protagonista scompare, sostituito (mascherato) dal
senso di colpa relativo agli eccessi nell'alcool, motivati con la sua malattia ma tanto
dolorosi per la nonna, evidente sostituto (a sua volta metaforico-metonimico) della
madre: dolore e senso di colpa che sembrano completamente spropositati se non si
coglie il valore emblematico di quella «debolezza» 110.
In Proust esiste quindi una frequentissima collusione fra relazione metaforica e
relazione metonimica, sia che la prima venga ad aggiungersi alla seconda come una
specie d'interpretazione superdeterminante, sia che la seconda, nelle esperienze
della «memoria involontaria», dia il cambio alla prima per ampliarne l'effetto e la
portata. Situazione che, a mio parere, comporta due osservazioni, una delle quali si
situa a livello di microstrutture stilistiche, e l'altra a quello di macrostruttura
narrativa. Prima osservazione: Abbiamo appena ricordato come gli esempi citati
subito dopo la famosa frase in gloria della metafora illustrassero piuttosto il
principio metonimico. Ma occorre considerare ora più particolareggiatamente
questa medesima frase. «È possibile, scrive Proust, fare succedersi all'infinito in
una descrizione gli oggetti che figuravano nel luogo descritto, ma la verità
comincerà solo nel momento in cui l'autore prenderà due oggetti diversi, stabilirà
qual è il loro rapporto (analogo, nel mondo dell'arte, al rapporto unico della legge
causale nel mondo della scienza) e li chiuderà nelle maglie necessarie di un bello
stile; o addirittura quando, come fa la vita, accostando una qualità comune a due
sensazioni, ne sprigionerà l'essenza comune riunendo luna all'altra per sottrarle alle
contingenze del tempo, in una metafora». È ovvio che il rapporto da stabilire fra
«due oggetti diversi » è il rapporto d'analogia che libera la loro «essenza comune».
Meno evidente invece, ma quasi indispensabile alla coerenza dell'enunciato, è il
fatto che i due oggetti facciano parte della collezione degli oggetti che «figuravano»
(insieme) nel luogo da descrivere: in altre parole, che il rapporto metaforico si
stabilisca fra due termini già legati da una relazione di contiguità spazio-temporale.
Così (e solo così) si spiega che il «bello stile», cioè lo stile metaforico, sia qui
caratterizzato da un effetto di concatenazione e di necessità («maglie necessarie»).
La solidità indistruttibile della scrittura, di cui Proust pare cercare in questo caso la
formula magica («solo la metafora può dare una sorta d'eternità allo stile», dirà nel
suo articolo su Flaubert111), non può risultare dalla sola linea orizzontale stabilita
dalla traiettoria metonimica; ma non vediamo neppure come potrebbe sopperirvi il
solo legame verticale del rapporto metaforico. Solo l'intersezione dell'uno con
l'altro può sottrarre l'oggetto della descrizione, e la descrizione stessa, alle
«contingenze del tempo», cioè a qualunque contingenza; solo l'incrocio di una
trama metonimica e di una catena metaforica assicura la coerenza, la coesione
«necessaria» del testo. Metafora che ci è suggerita, per più della sua metà, da quella
usata da Proust: «anelli», maglie, punti, tessitura. Ma l'immagine a cui Proust ricorre
di preferenza è d'ordine più sostanziale: è il motivo della «fusione», dell' omogeneo. A
costituire la «bellezza assoluta» di certe pagine, secondo lui, è (bisogna ricordarlo)
«una specie di fusione, di unità trasparente, dove tutte le cose, perdendo il loro
primo aspetto di cose, sono venute ad allinearsi in una sorta di ordine, penetrate
dalla medesima luce, viste le une nelle altre, senza una sola parola che resti
all'esterno, che sia rimasta refrattaria a una tale assimilazione... Suppongo si tratti di
quella che chiamiamo la Patina d'autore». 112 Vediamo in questo caso, ancora una
volta, come la qualità dello stile dipenda da una « assimilazione » stabilita fra
oggetti copresenti, dalle «cose» che, per perdere il loro «primo aspetto di cose»,
cioè la loro contingenza e la loro dispersione, devono scambievolmente riflettersi e
assorbirsi, contemporaneamente «schierate le une a fianco delle altre» (contiguità) e
«viste le une nelle altre» (analogia). Se vogliamo — come propone Roman
Jakobson113 - caratterizzare il percorso metonimico come la dimensione
propriamente prosaica del discorso, e il discorso metaforico come la sua
dimensione poetica, dovremo considerare allora la scrittura proustiana come il
tentativo più estremo in direzione di questo stato misto, capace d'assumere e di
attivare in pieno due assi del linguaggio, che sarebbe derisorio chiamare « poema in
prosa » o « prosa poetica », e che costituirebbero, in assoluto e nel senso pieno del
termine, il Testo.
Seconda osservazione: Se misuriamo l'importanza del contagio metonimico nel
lavoro dell'immaginazione proustiana, e in particolare nell'esperienza della
memoria involontaria, siamo portati a spostare un po' l'inevitabile domanda a cui
fa eco Maurice Blanchot nel Livre à venir114: com'è passato Proust dal suo «progetto
originario», cioè scrivere un romanzo di momenti poetici, a quel racconto (quasi)
continuo costituito dalla Recherche du temps perdu Blanchot replicava
immmediatamente che l'essenza di tali istanti «non è quella di essere puntuali»; e
forse sappiamo ora, un po' meglio, il perché. In realtà, il progetto di Proust forse
non è mai stato quello di scrivere un libro fatto di collezioni di estasi poetiche. Jean
Santeuil è già tutta un'altra cosa, e anche la celebre pagina dove il narratore,
sostituendosi tanto imperiosamente al suo protagonista (e in questo movimento si
trova già tutta la Recherche), afferma d'aver scritto semplicemente «quando un
passato risuscitava improvvisamente in un odore, in una veduta che esso faceva
scintillare, e al di sopra di esso palpitava la fantasia, e quando questa gioia mi dava
l'ispirazione »115, anche questa pagina non ci autorizza a dare un giudizio del
genere: il passato «resuscitato» mediante un incontro di sensazioni non è
«puntuale» come l'incontro stesso, e può bastare una sola - e infima - reminiscenza
per scatenare, grazie all'irradiazione metonimica da cui è accompagnata, un
movimento di anamnesi d'incommensurabile ampiezza. Ebbene, si tratta
esattamente di quello che avviene nella Recherche du temps perdu.
Premessa
Oggetto specifico di questo studio è il racconto in À la recherche du temps perdu.
Precisazione che richiama immediatamente due osservazioni d'importanza
ineguale. La prima verte sulla definizione del corpus: sappiamo tutti, oggi, come
l'opera suddetta, il cui testo canonico è stato stabilito fin dal 1954 con l'edizione
Clarac-Ferré, rappresenti solo l'ultima tappa di un'opera a cui Proust, per modo di
dire, ha lavorato tutta la vita, e le cui versioni anteriori si disperdono,
essenzialmente, fra Les Plaisirs et les Jours (1896), Pastiches et Mélanges (1919), le varie
raccolte o inediti postumi intitolati Chroniques (1927), Jean Santeuil (1952) e Contre
Sainte-Beuve (1954), e i circa ottanta cahiers giacenti (a partire dal 1962) nella sala dei
manoscritti della Bibliothèque Nationale di Parigi. Per tali motivi (cui si aggiunge la
forzata interruzione del 18 novembre 1922) la Recherche, più di qualsiasi altra opera,
non può assolutamente essere considerata come opera chiusa: è perciò sempre
legittimo, e a volte necessario, richiamarsi - come termine di confronto rispetto al
testo «definitivo» — all'una o all'altra delle sue varianti. Osservazione valida anche
per la tenuta del racconto: non si può disconoscere, ad esempio, quale prospettiva
e significato porti al sistema narrativo adottato nella Recherche la scoperta del testo
«in terza persona» di Jean Santeuil. Il nostro lavoro verterà quindi essenzialmente
sull'opera definitiva. non senza però tener conto, a volte, degli antecedenti
considerati non tanto per se stessi (non ha molto senso) ma per la luce ulteriore
che possono gettare.
La seconda osservazione concerne il metodo, o meglio il procedimento adottato
in questo saggio. Si è già potuto osservare che né il titolo né il sottotitolo del mio
studio fanno menzione di quanto ho appena definito come il suo oggetto
specifico. Non è civetteria e neppure deliberata inflazione del soggetto. Il fatto è
che spesso (in modo forse per alcuni esasperante) il racconto proustiano sembrerà
dimenticato a favore di considerazioni più generali: o meglio, come si usa dire oggi,
la critica cederà il passo alla «teoria letteraria», e più esattamente, nel nostro caso,
alla teoria del racconto o narratologia. Potrei giustificare e chiarire tale ambigua
situazione in due modi diversissimi: sia mettendo francamente (come è stato fatto
in altri casi) l'oggetto specifico in subordine alla teoria (in tal caso la Recherche
diventa qui solo un pretesto, serbatoio di esempi e luogo d'illustrazione per una
poetica narrativa in cui le sue caratteristiche specifiche sono destinate a perdersi
nella trascendenza delle «leggi del genere»); sia subordinando, al contrario, la
poetica alla critica, e facendo di concetti, classificazioni e procedimenti esposti qui
altrettanti strumenti ad hoc esclusivamente destinati a permettere una descrizione
più esatta o più precisa del racconto proustiano nella sua singolarità, la deviazione
«teorica» essendo a ogni occasione imposta dalle necessità di una messa a punto
metodologica.
Confesso la mia ripugnanza, o incapacità, nella scelta fra i due sistemi di difesa,
apparentemente incompatibili. Mi sembra impossibile trattare La recherche du temps
perdu come semplice esempio di cosa può essere il racconto in generale, o il
racconto nel romanzo, o il racconto in forma autobiografica, o Dio sa che altra
classe, specie o varietà: la specificità della narrazione proustiana presa nel suo
insieme è irriducibile, e qualsiasi estrapolazione diventa in questo caso un errore
metodologico: la Recherche illustra solo e soltanto se stessa. D'altro lato però tale
specificità non è indecomponibile, e ognuno degli aspetti messi in rilievo dall'analisi si
presta a qualche accostamento, paragone o effetto di prospettiva. Come qualsiasi
opera, come qualsiasi organismo, la Recherche è costituita da elementi universali, o
almeno transindividuali, che riunisce in una sintesi specifica, in una totalità
singolare. Analizzarla, non significa andare dal generale al particolare, bensì dal
particolare al generale: da quell'essere incomparabile che è la Recherche agli elementi
estremamente comuni, quali figure o procedimenti di utilità pubblica e di
circolazione corrente da me chiamati anacronie, iterativo, focalizzazioni, parallessi,
e simili. Propongo in questo caso, essenzialmente, un metodo d'analisi: devo quindi
riconoscere che cercando lo specifico trovo l'universale, che volendo mettere la
teoria al servizio della critica metto, mio malgrado, la critica al servizio della teoria.
È il paradosso tipico di qualsiasi poetica, e indubbiamente anche di qualsiasi
attività conoscitiva, sempre combattuta fra questi due insormontabili luoghi
comuni, cioè che esistono solo oggetti singolari, ma che la sola scienza possibile è
quella del generale; tuttavia sempre riconfortata, e come calamitata, da un'altra
verità un po' meno diffusa, che il generale sta nel cuore del singolare, e quindi -
contrariamente al pregiudizio comune — il conoscibile sta nel cuore del mistero.
Ma garantire una vertigine, o meglio uno strabismo metodologico, come
scientificità, non è forse senza impostura. Perorerò dunque in altro modo la stessa
causa: forse, la relazione vera fra l'aridità «teorica» e la minuzia critica ha qui la
funzione di alternanza ricreativa e di reciproca distrazione. Che il lettore vi possa
trovare, a sua volta, una specie di diversione periodica, come il malato d'insonnia
nel cambiare posizione: amant alterna Camenae.
Introduzione
Impieghiamo correntemente la parola racconto117 senza preoccuparci della sua
ambiguità, a volte senza percepirla, e alcune difficoltà della narratologia derivano
forse da una simile confusione. Se vogliamo cominciare a vederci più chiaro in
questo campo, mi sembra sia necessario discernere recisamente sotto il termine
racconto tre distinte nozioni.
Il primo senso di racconto — oggi il più evidente e il più centrale nell'uso comune
— designa l'enunciato narrativo, il discorso orale o scritto che assume la relazione
d'un avvenimento, o di una serie d'avvenimenti: così il discorso tenuto dall'eroe
Ulisse di fronte ai Feaci dal IX al XII canto dell'Odissea viene chiamato racconto
d'Ulisse, e analogamente i quattro canti stessi, cioè il segmento del testo omerico
che pretende di esserne la fedele trascrizione.
Il secondo senso di racconto, meno diffuso ma oggi corrente fra analisti e teorici
del contenuto narrativo, designa la successione di avvenimenti, reali o fittizi, che
formano l'oggetto di questo discorso, e le loro varie relazioni di concatenamento,
opposizione e ripetizione, ecc. ecc. «Analisi del racconto» significa allora studio
d'un insieme d'azioni e situazioni considerate in sé, fatta astrazione dal medium,
linguistico o no, che ce ne dà cognizione: in questo caso, le avventure vissute da
Ulisse dopo la caduta di Troia fino al suo arrivo presso Calipso. Il terzo senso di
racconto, apparentemente il più antico, designa ancora una volta un avvenimento:
non più però l'avvenimento narrato, bensì quello consistente nel fatto che
qualcuno racconta qualcosa: l'atto di narrare in sé stesso. Diremo così che i canti
dal IX al XII dell'Odissea sono consacrati al racconto di Ulisse, come diciamo che il
canto XXII è consacrato al massacro dei pretendenti: raccontare le proprie
avventure è un'azione, esattamente come massacrare i pretendenti della propria
moglie, e se pure è ovvio che l'esistenza di tali avventure (supponendo che le si
consideri, come Ulisse, reali) non dipende in nulla da questa azione, è parimenti
evidente, quanto al discorso narrativo, (racconto d'Ulisse, senso numero i ) che
esso ne dipende in tutto e per tutto, poiché ne è il prodotto, esattamente come
qualunque enunciato è il prodotto d'un atto d'enunciazione. Se invece
consideriamo Ulisse un bugiardo, e fittizie le avventure da lui narrate, l'importanza
dell'atto narrativo ne risulta accresciuta, poiché non soltanto da esso dipende
l'esistenza del discorso, ma anche la finzione d'esistenza delle azioni che esso
«riferisce». In modo analogo, evidentemente, si potrà parlare dell'atto narrativo di
Omero in persona, ogni volta che egli assume direttamente la relazione delle
avventure di Ulisse. Senza atto narrativo, quindi, non è possibile nessun enunciato,
e a volte persino nessun contenuto narrativo. È perciò sorprendente che la teoria
del racconto, finora, si sia scarsamente preoccupata dei problemi dell'enunciazione
narrativa, concentrando quasi tutta la sua attenzione sull'enunciato e sul suo
contenuto, come se il fatto che le avventure di Ulisse venissero narrate ora da
Omero, ora da Ulisse in persona, fosse un problema del tutto secondario.
Sappiamo tuttavia, e torneremo in seguito sull'argomento, che Platone, un tempo,
non aveva trovato il problema indegno della sua attenzione. Esattamente, o quasi,
come indicato dal titolo, il nostro studio verte essenzialmente sul racconto nel
senso più corrente, cioè sul discorso narrativo, che in letteratura (e in particolare
nel caso che ci interessa) si trova ad essere un testo narrativo. Ma, come vedremo,
l'analisi del discorso narrativo, dal mio punto di vista, implica costantemente, da un
lato, lo studio delle relazioni fra questo discorso e gli avvenimenti che esso riferisce
(senso 2 di racconto), d'altro lato quello delle relazioni fra il medesimo discorso e
l'atto che lo produce, nella realtà (Omero) o nella finzio ne (Ulisse): senso 3 del
racconto. Per evitare quindi qualunque confusione o difficoltà di linguaggio,
dobbiamo designare fin d'ora con termini univoci ognuno dei tre aspetti della
realtà narrativa. Propongo (senza insistere sulle ragioni, per altro evidenti, della
scelta di tali termini) di chiamare storia il significato o contenuto narrativo (anche se
tale contenuto può risultare all'occorrenza di debole intensità drammatica o tenore
evenemenziale), racconto propriamente detto il significante, enunciato, discorso o
testo narrativo stesso, e narrazione l'atto narrativo produttore e, per estensione,
l'insieme della situazione reale o fittizia in cui esso si colloca 118.
Oggetto di questo studio è dunque il racconto, nel senso ben delimitato da noi
ormai attribuito al termine. Ritengo evidente il fatto che, fra i tre livelli appena
distinti, quello relativo al discorso narrativo sia l'unico a offrirsi direttamente
all'analisi testuale, la quale a sua volta costituisce l'unico strumento di studio di cui
disponiamo nel campo del racconto letterario, e in particolare del racconto di
finzione. Volendo studiare in sé, poniamo, gli avvenimenti raccontati da Michelet
nella sua Histoire de France, potremmo fare ricorso a ogni tipo di documento esterno
all'opera e concernente la storia di Francia; volendo poi studiare la redazione in sé
dell'opera, potremmo utilizzare altri documenti, altrettanto esterni al testo di
Michelet, concernenti la sua vita e il suo lavoro durante gli anni che egli ha
consacrato al testo suddetto. Non è però una risorsa fruibile da parte di chi
s'interessi, da un lato, agli avvenimenti narrati dal racconto che costituisce La
recherche du temps perdu, e, d'altro lato, all'atto narrativo da cui essa deriva: nessun
documento esterno alla Recherche, e in particolare non certo una buona biografia di
Marcel Proust, se mai ne esistesse una119, potrebbe informarlo su tali avvenimenti o
su questo atto, dal momento che gli uni e gli altri sono entrambi fittizi e mettono in
scena non certo Marcel Proust, bensì il protagonista e il supposto narratore del suo
romanzo. Non posso certo negare, con ciò, che il contenuto narrativo della
Recherche per me non sia affatto senza rapporto con la vita del suo autore:
semplicemente, un simile rapporto non è di natura tale da poter utilizzare la
seconda per un'analisi rigorosa del primo (non più del contrario). In quanto poi
alla narrazione produttrice di questo racconto, l'atto di Marcel 120 che racconta la
sua vita passata, d'ora in poi si eviterà di confonderlo con l'atto di Proust che scrive
La recherche du temps perdu; torneremo in seguito sull'argomento, per ora basti
ricordare come le cinquecento ventuno pagine di Du coté de chez Swann
(nell'edizione Grasset) pubblicate nel novembre 1913 e redatte da Proust nel corso
di alcuni anni prima di questa data, nello stato attuale della finzione si devono
supporre scritte dal narratore parecchio tempo dopo la guerra. Quindi è il racconto
stesso, ed esclusivamente il racconto, a informarci - in questo caso — da un lato
sugli avvenimenti che riferisce, d'altro lato sull'attività che, presumibilmente, lo
produce: in altre parole, la nostra conoscenza degli uni e dell'altra può essere
esclusivamente di tipo indiretto, inevitabilmente mediato dal discorso del racconto,
in quanto gli uni sono l'oggetto stesso del discorso, mentre l'altra vi lascia delle
tracce, segnali o indizi reperibili e interpretabili, quali la presenza di un pronome
personale di prima persona denotante l'identità del personaggio e del narratore,
oppure quella di un verbo al passato denotante l'anteriorità dell'azione raccontata
sull'azione narrativa, senza pregiudizio di indicazioni più dirette e più esplicite.
Per noi, quindi, storia e narrazione esistono solo per l'intermediario del racconto.
Ma, viceversa, il racconto, il discorso narrativo può essere tale solo in quanto narra
una storia: in mancanza di ciò (come, poniamo, l'Etica di Spinoza) non sarebbe
narrativo; e in quanto è proferito da qualcuno: in mancanza di ciò (per esempio nel
caso di una collezione di documenti archeologici) esso non sarebbe, in sé, un
discorso. In quanto narrativo, esso vive del suo rapporto con la storia raccontata;
in quanto discorso, vive del suo rapporto con la narrazione che lo proferisce.
Per noi l'analisi del discorso narrativo sarà quindi, essenzialmente, lo studio delle
relazioni fra racconto e storia, fra racconto e narrazione, fra storia e narrazione (in
quanto entrambe si iscrivono nel discorso del racconto). Posizione che mi porta a
proporre un'ulteriore ripartizione del campo di studio. Come punto di partenza,
prenderò la suddivisione proposta nel 1966 da Tzvetan Todorov 121. Essa
classificava i problemi del racconto in tre categorie: quella del tempo, « in cui si
esprime il rapporto fra il tempo della storia e quello del discorso»; quella
dell'aspetto, «cioè il modo in cui la storia viene percepita dal narratore»; quella del
modo, cioè «il tipo di discorso utilizzato dal narratore». Adotto senza cambiamenti
la prima categoria, nella definizione appena citata, e illustrata da Todorov con
osservazioni sulle «deformazioni temporali», cioè le infedeltà all'ordine cronologico
degli avvenimenti, e sulle relazioni di concatenazione, alternanza o «incastro» fra le
diverse linee d'azione costitutive della storia; ma egli vi aggiungeva considerazioni
sul «tempo dell'enunciazione» e su quello della «percezione» narrative (da lui
assimilati ai tempi della scrittura e della lettura) che, a mio parere, superavano i limiti
della sua stessa definizione, e li riserverò a un altro ordine di problemi,
evidentemente connessi ai rapporti fra racconto e narrazione. La categoria
dell'aspetto122 concerneva principalmente i problemi del « punto di vista» narrativo,
e quella del modo123 riuniva i problemi di «distanza» trattati dalla critica americana
di tradizione jamesiana in termini di opposizione fra showing (rappresentazione,
nella terminologia di Todorov) e telling (narrazione), riaffioramento delle categorie
platoniche di mimesis (imitazione perfetta) e diegesis (racconto puro), i vari tipi di
rappresentazione di discorso del personaggio, i modi di presenza esplicita o
implicita del narratore e del lettore nel racconto. Come poco sopra, a proposito del
«tempo dell'enunciazione», credo necessario dissociare quest'ultima serie di
problemi, poiché mette in discussione l'atto di narrazione e i suoi protagonisti;
bisogna invece riunire tutto quanto resta fuori dalla ripartizione operata da
Todorov fra aspetto e modo in un'unica grande categoria, che possiamo definire
provvisoriamente quella delle modalità di rappresentazione o gradi di mimesi. La
ridistribuzione perviene quindi a una divisione sensibilmente diversa rispetto a
quella cui si ispira; la formulerò ora in sé, ricorrendo per la scelta dei termini a una
specie di metafora linguistica che si spera non si vorrà prendere troppo alla lettera.
Dato che qualsiasi racconto - anche uno tanto esteso e complesso come La
recherche du temps perdu124 — è una produzione linguistica che assume la relazione di
uno o più avvenimenti, riesce forse legittimo trattarlo come uno sviluppo
(mostruoso finché si vuole) dato a una forma verbale, nel senso grammaticale del
termine: l'espansione di un verbo. Io cammino, Pietro è venuto, a mio parere sono
forme minimali di racconto, e inversamente l'Odissea o la Recherche si limitano in
fondo ad amplificare (in senso retorico) enunciati quali Ulisse torna a Itaca oppure
Marcel diventa scrittore. Tale argomento ci autorizza forse a organizzare, o almeno a
formulare, i problemi d'analisi del discorso narrativo secondo categorie derivate
dalla grammatica del verbo, destinate a ridursi - nel nostro caso - a tre classi
fondamentali di determinazioni: quelle dipendenti dalle relazioni temporali fra
racconto e diegesi, da noi classificate nella categoria del tempo; quelle dipendenti
dalle modalità (forme e gradi) della «rappresentazione» narrativa, e quindi ai modi125
del racconto; e per finire quelle dipendenti dal modo in cui la narrazione stessa
(presa nel senso datole dalla nostra definizione) si trova implicata nel racconto, e
viene dunque a coincidere con la situazione o istanza 126 narrativa, e con essa i suoi
due protagonisti: il narratore e il suo destinatario reale o virtuale; si potrebbe avere
la tentazione di classificare questa terza determinazione come la «persona», ma mi
sembra preferibile - per ragioni destinate a chiarirsi un po' oltre - adottare il
termine dalle connotazioni psicologiche un po' (pochissimo, ahimè! ) meno
evidenti, a cui daremo un'estensione concettuale sensibilmente più vasta, rispetto a
cui la «persona» (facendo riferimento alla tradizionale opposizione fra racconto «in
prima persona» e «racconto in terza persona») costituisce solo un aspetto fra vari
altri: il termine è quello di voce, definita, ad esempio, da Vendryès, nel suo senso
grammaticale, nel seguente modo 127: «Aspetto dell'azione verbale nei suoi rapporti
col soggetto...» Ovviamente il soggetto di cui si tratta nel nostro caso è quello
dell'enunciato, mentre per quanto riguarda la voce designerà un rapporto col
soggetto (e, più generalmente, con l'istanza) dell'enunciazione: ancora una volta, si
tratta di termini presi a prestito, senza la pretesa di basarli su rigorose omologie 128.
Le tre classi proposte, come possiamo vedere, designano campi di studio e
determinano la disposizione dei capitoli seguenti 129, ma non coincidono affatto con
le categorie definite prima, designanti dei livelli di definizione del racconto. Al
contrario, le suddividono ulteriormente, in maniera complessa. Il tempo e il modo
intervengono entrambi a livello dei rapporti fra storia e racconto, mentre la voce
designa sia i rapporti fra narrazione e racconto, sia quelli fra narrazione e storia. Si deve
però evitare di fare un'ipostasi di questi termini, e di convertire in sostanza quanto,
di volta in volta, è solo un ordine di relazioni.
1. Ordine
Tempo del racconto?
«Il racconto è una sequenza doppiamente temporale...: vi è il tempo della cosa
raccontata e il tempo del racconto (tempo del significato e tempo del significante).
Dualità che non solo rende possibili tutte le distorsioni temporali più facilmente
rilevabili nei racconti (tre anni della vita del protagonista riassunti da un romanzo
in tre frasi, o in alcuni piani di un montaggio cinematografico "frequentativo",
ecc.); ma, in modo più fondamentale, essa ci invita anche a constatare che una delle
funzioni del racconto è di far fruttare un tempo in un altro tempo» 130.
La dualità temporale così intensamente accentuata in questo brano, e designata
dai teorici tedeschi mediante l'opposizione fra erzählte Zeit (tempo della storia) e
Erzählzeit131 (tempo del racconto), non è solo tipica del racconto cinematografico,
ma anche del racconto orale a tutti i suoi livelli d'elaborazione estetica, compreso
quel livello pienamente «letterario» costituito dalla recitazione epica o dalla
narrazione drammatica (racconto di Teramene...) È invece forse meno pertinente
in altre forme di espressione narrativa, come il fotoromanzo o i fumetti (o la
pittura, come la predella d'Urbino, o i ricami, come la tapisserie della regina Matilde)
che, pur costituendo delle sequenze d'immagini, ed esigendo quindi una lettura
successiva e diacronica, si prestano anche (anzi, invitano) a una specie di sguardo
globale sincronico - o, almeno, uno sguardo il cui percorso non sia più
obbligatoriamente guidato dalla successione delle immagini. Il racconto letterario
scritto, sotto questo aspetto, appartiene a uno statuto ancora più difficile da
limitare. Esattamente come il racconto orale o filmico, può essere «consumato» e
dunque attualizzato solo in un tempo costituito, evidentemente, dalla lettura, e se
anche la successione dei suoi elementi si può eludere mediante una lettura
capricciosa, ripetitiva o selettiva, tale operazione non si può neppure spingere fino
alla perfetta analessi. Si può proiettare un film a rovescio, immagine per immagine,
non si può leggere un testo (senza che esso smetta di essere tale) a rovescio, lettera
per lettera, e neppure parola per parola; perfino non sempre frase per frase. Il libro
è un po' più condizionato di quanto non lo si dica spesso oggi dalla famosa linearità
del significante linguistico, più facile da negare in teoria che da eliminare in pratica.
Non si tratta ora di identificare lo statuto del racconto scritto (letterario o no) con
quello del racconto orale: la sua temporalità è, in qualche modo, condizionale o
strumentale; prodotto, come qualsiasi cosa, nel tempo, esiste nello spazio, e il
tempo necessario per «consumarlo» è quello necessario a percorrerlo o ad attraversarlo,
come una strada o un campo. Il testo narrativo, come ogni altro testo, ha come
unica temporalità quella derivata, metonimicamente, dalla sua lettura.
Un simile stato di cose (lo vedremo in seguito) non è sempre senza effetto sul
nostro discorso, e a volte sarà necessario correggere (o tentare di correggere) le
conseguenze dello spostamento metonimico; ma in un primo tempo dobbiamo
accettarlo, poiché fa parte del gioco narrativo, e quindi prendere alla lettera la quasi
finzione dell'Erzählzeit, falso tempo che vale come uno vero, da noi trattato — col
margine di riserva e acquiescenza che tale operazione comporta - come uno pseudo-
tempo.
Una volta presa questa precauzione, studieremo le relazioni fra tempo della storia
e (pseudo) tempo del racconto secondo le loro tre determinazioni, a mio parere,
fondamentali: i rapporti fra l'ordine temporale di successione degli avvenimenti nella
diegesi e l'ordine pseudo-temporale della loro disposizione nel racconto, che
costituiranno l'oggetto di questo primo capitolo; i rapporti fra la durata variabile di
tali avvenimenti, o segmenti di radici, e la pseudo-durata (in realtà, lunghezza del
testo) della loro relazione nel racconto: rapporti, dunque, di velocità che
costituiranno l'oggetto del secondo capitolo; inline, rapporti di frequenza, cioè, per
attenerci qui a una formula ancora approssimativa, relazioni fra le capacità di
ripetizione della storia e quelle del racconto: relazioni a cui sarà consacrato il terzo
capitolo.
Anacronie.
Studiare l'ordine temporale di un racconto, significa operare un confronto fra
l'ordine di disposizione degli avvenimenti o segmenti temporali nel discorso
narrativo e l'ordine di successione che gli stessi avvenimenti o segmenti temporali
hanno nella storia, sia seguendo le esplicite indicazioni fornite dallo stesso
racconto, sia per quanto si può inferire da questo o quell'indizio indiretto.
Evidentemente questa ricostituzione non è sempre possibile, e diventa addirittura
oziosa per certe opere-limite come i romanzi di Robbe-Grillet, in cui il riferimento
temporale si trova a bella posta alterato. È altrettanto evidente come, nel racconto
classico, tale ricostituzione sia invece non solo — per la maggior parte dei casi -
possibile (poiché in questo tipo di racconto il discorso narrativo non inverte mai
l'ordine degli eventi senza dirlo), ma persino necessaria, proprio per la medesima
ragione: quando un segmento narrativo inizia con un'indicazione quale: «Tre mesi
prima, ecc. » si deve contemporaneamente tener conto sia del fatto che, nel
racconto, la scena viene dopo, sia del fatto che, nella diegesi, si suppone sia avvenuta
prima. Entrambi i fatti, o per meglio dire il loro reciproco rapporto (di contrasto, o
di discordanza) sono essenziali al testo narrativo: sopprimere il rapporto con
l'eliminare uno dei suoi termini, non significa affatto attenersi al testo, ma
semplicemente assassinarlo. Il reperimento e la misura di tali anacronie narrative
(come chiamerò in questo saggio le varie forme di discordanza fra l'ordine della
storia e quello del racconto) postulano implicitamente l'esistenza di una specie di
grado zero definibile come uno stato di perfetta coincidenza temporale fra
racconto e storia. Stato di riferimento più ipotetico che reale. Se il racconto
popolare sembra conformarsi abitualmente, almeno nelle sue grandi articolazioni,
all'ordine cronologico, la nostra tradizione letteraria (occidentale) si inaugura invece
con un effetto d'anacronia ben determinato, poiché fin dall'ottavo verso dell'Iliade il
narratore, dopo aver evocato la contesa fra Achille e Agamennone, punto di
partenza dichiarato del suo racconto (ἐξ οῦ δὴ τὰ πρῶτα), ritorna indietro di una
decina di giorni per esporne la causa in una quarantina circa di versi retrospettivi
(affronto a Crise - collera d'Apollo - peste). Sappiamo come l'inizio in medias res cui
segue un flash-back esplicativo diventi uno dei topoi formali del genere epico, e
anche fino a che punto lo stile del romanzo sia rimasto fedele, in questo artificio, a
quello del suo lontano antenato 132 arrivando in pieno xix secolo «realista»: per
convincersene, basti pensare a certi inizi balzachiani, come in César Birotteau o in
La duchesse de Langeais.
D'Arthez ne fa un principio ad uso e consumo di Lucien de Rubempré 133, e
Balzac in persona rimprovererà a Stendhal di non aver cominciato la Chartreuse
dall'episodio di Waterloo riducendo « tutto quanto la precede a un qualche
racconto fatto da Fabrice o su Fabrice durante la sua permanenza nel villaggio
fiammingo dove giace ferito»134. Per evitare quindi di cadere nel ridicolo, non
presentiamo l'anacronia come una rarità o un'invenzione moderna; essa costituisce
invece una delle risorse tradizionali della narrazione letteraria.
D'altronde, se consideriamo un po' più da vicino i primi versi dell'Iliade che
abbiamo appena ricordato, possiamo osservare come il loro movimento temporale
sia più complesso di quanto non abbia detto. Ecco i versi:
A volte, nel passare davanti al palazzo, si ricordava i giorni di pioggia in cui portava la sua governante, in pellegrinaggio,
fino a quel luogo. Ma li ricordava senza la malinconia che, allora, pensava di dover assaporare un giorno nel sentimento di
non amarla più. Perché quella malinconia, a proiettarla così in anticipo sulla sua futura indifferenza era proprio l'amore. E
137
quell'amore non esisteva più.
Portata, ampiezza.
Ho detto che il seguito della Recherche adottava, nelle sue grandi articolazioni, un
piano conforme all'ordine cronologico; questo piano d'insieme non esclude però
nei particolari la presenza di un gran numero d'anacronie: analessi e prolessi, ma
anche altre forme più complesse o più sottili, forse più specifiche del racconto
proustiano, ad ogni modo più distanti sia dalla cronologia «reale» che dalla
temporalità narrativa classica. Prima d'affrontare l'analisi di simili anacronie,
teniamo a precisare chiaramente che, in questo caso, si tratta esclusivamente
d'un'analisi temporale, e per giunta ridotta ai soli problemi di ordine, prescindendo,
per ora, dalla velocità e dalla frequenza, e a maggior ragione dalle caratteristiche di
modo e di voce che possono colpire le anacronie come qualsiasi altra specie di
segmenti narrativi. In particolare, verrà trascurata in questa analisi una distinzione
capitale che oppone le anacronie assunte direttamente dal racconto, e quindi allo
stesso livello narrativo di quanto le circonda (ad esempio, i versi 7-12 dell'Iliade o il
secondo capitolo di Cesar Birotteau), a quelle assunte da uno dei personaggi del
racconto primo, e proprio per questo situate a un livello narrativo secondo: ad
esempio, i canti IX-XII dell'Odissea (racconto d'Ulisse), o l'autobiografia di Raphael
de Valentin nella seconda parte della Peau de chagrin. Ritroveremo nel capitolo della
voce narrativa questo problema, non specifico delle anacronie, per quanto le
concerna ovviamente in sommo grado.
Un'anacronia, nel passato o nell'avvenire, può andare più o meno lontano dal «
momento presente», cioè dal momento della storia in cui il racconto si è interrotto
per farle posto: questa distanza temporale, la chiameremo portata dell'anacronia. A
sua volta, essa può coprire una durata di storia più o meno lunga: si tratta di
quanto chiameremo la sua ampiezza. Così, nel canto XIX dell'Odissea, quando
Omero rievoca le circostanze nelle quali, una volta, Ulisse adolescente ha ricevuto
la ferita di cui porta ancora la cicatrice quando Euriclea si accinge a lavargli i piedi,
l'analessi, che occupa i versi 394-466, ha una portata di varie decine d'anni e
un'ampiezza d'alcuni giorni. Definito in questo modo, lo statuto delle anacronie
sembra essere solo questione di più o di meno, una faccenda di misura di volta in
volta specifica, un lavoro di cronometro senza interesse teorico. È però possibile
(e, a mio parere, utile) ripartire le caratteristiche di portata e di ampiezza in maniera
discreta nei confronti di certi momenti pertinenti del racconto. Tale ripartizione si
applica in modo chiaramente identico alle due grandi classi di anacronie, ma per
comodità di esposizione e per evitare il rischio di un'eccessiva astrazione, in un
primo tempo opereremo esclusivamente sulle analessi, riservandoci d'ampliare in
seguito il procedimento.
Analessi.
Qualunque anacronia costituisce, rispetto al racconto in cui s'inserisce — su cui
s'innesta - un racconto secondo dal punto di vista temporale, subordinato al primo
in quella sorta di sintassi narrativa in cui ci siamo imbattuti fin dall'analisi
(precedentemente tentata) di un brevissimo frammento di Jean Santeuil.
Chiameremo d'ora in poi « racconto primo» il livello temporale di racconto rispetto
al quale un'anacronia si definisce come tale. È ovvio — l'abbiamo già verificato -
che gli incastri possono essere più complessi, e un'anacronia può a sua volta
figurare come «racconto primo» rispetto a un'ulteriore anacronia a lei subordinata;
e, più generalmente, rispetto a un'anacronia l'insieme del contesto può essere
considerato « racconto primo».
Il racconto della ferita d'Ulisse si basa su ..un episodio anteriore in modo
lampante al punto di partenza temporale del «racconto primo» dell'Odissea, anche
se, secondo questo principio, viene inglobato in tale nozione il racconto
retrospettivo di Ulisse ai Feaci, che risale sino alla caduta di Troia. Possiamo
definire esterna l'analessi la cui ampiezza globale resta esterna a quella del racconto
primo. Si potrà definire così, ad esempio, il secondo capitolo di César Birotteau la cui
storia (il titolo Les antécédents de César Birotteau lo indica chiaramente) precede il
dramma inaugurato dalla scena notturna del primo capitolo. Inversamente,
qualificheremo analessi interna il capitolo sesto di Madame Bovary, consacrato agli
anni di convento di Emma, evidentemente posteriori all'entrata di Charles al liceo,
punto di partenza del romanzo; oppure, l'inizio delle Souffrances de l'inventeur144, che
serve a informare il lettore, dopo il racconto delle avventure parigine di Lucien de
Rubempré, di quale fosse nello stesso periodo la vita di David Séchard a
Angouléme. Si possono anche concepire (e a volte le si incontrano) delle analessi
miste, per le quali il punto di portata è anteriore e il punto d'ampiezza posteriore
rispetto all'inizio del racconto primo: vedi la storia di des Grieux in Manon..Lescaut,
che risale a vari anni prima dell'incontro con l'Homme de Qualité, e prosegue sino
al momento del secondo incontro che è anche quello della narrazione.
Distinzione non tanto futile quanto può sembrarlo in un primo momento. Le
analessi esterne e le analessi interne (o miste, nella loro parte interna) si presentano
effettivamente all'analisi narrativa in modo completamente diverso, almeno su un
punto, a mio parere di capitale importanza. Le analessi esterne, proprio per il fatto
di essere esterne, non rischiano mai d'interferire col racconto primo: la loro
funzione è solo quella di completarlo, fornendo al lettore lumi su questo o quel «
precedente ». È il caso, evidentemente, di alcuni esempi già citati, e anche,
altrettanto tipicamente, quello di Un amour de Swann nella Recherche du temps perdu. Le
cose vanno in modo diverso per le analessi interne, il cui campo temporale è
compreso in quello del racconto primo, presentando un rischio evidente di
ridondanza o di collisione. Dobbiamo quindi considerare più da vicino questi
problemi d'interferenza.
In primissimo luogo escluderemo quelle analessi interne che propongo di
chiamare eterodiegetiche145, fondate cioè su una linea di storia, e perciò su un
contenuto diegetico diverso da quello (o da quelli) del racconto primo: siano esse
basate, espediente molto classico, su un personaggio appena introdotto, e sui cui
precedenti al narratore prema d'informarci, come fa Flaubert con Emma nel
capitolo citato poco prima; oppure su un personaggio che da un po' di tempo si
era perso di vista, vedi il caso di David all'inizio delle Souffrances de l'inventeur. Si
tratta, forse, delle funzioni più tradizionali dell'analessi, ed è evidente che, in questo
caso, la coincidenza temporale non comporta una vera interferenza narrativa: lo
stesso si può dire quando, all'ingresso del principe di Faffenheim nel salotto
Villeparisis, una digressione retrospettiva di alcune pagine spiega 146 le ragioni di
questa presenza, e cioè le peripezie della candidatura del principe all'Académie des
Sciences morales; o quando, ritrovando nella signorina di Forche ville Gilberte
Swann, Marcel si fa spiegare i motivi di un simile cambiamento di nome 147. Il
matrimonio di Swann, quello di Saint-Loup e del «piccolo Cambremer», la morte di
Bergotte148 arrivano in tal modo a raggiungere, a fatti compiuti, la linea principale
della storia - l'autobiografia di Marcel - senza disturbare minimamente il privilegio
del racconto primo.
Diversissima la situazione delle analessi interne omodiegetiche, cioè basate sulla
medesima linea d'azione del racconto principale. In questo caso il rischio
d'interferenza è evidente, e persino, apparentemente, inevitabile. Dobbiamo
effettivamente distinguere, ancora una volta, due categorie.
La prima (che chiamerò quella delle analessi completive o «rinvii») comprende i
segmenti retrospettivi che vengono a colmare, a posteriori, una lacuna anteriore del
racconto, il quale s'organizza così tramite omissioni provvisorie e riparazioni più o
meno tardive, secondo una logica narrativa parzialmente indipendente dal
trascorrere del tempo. Queste lacune anteriori possono essere pure e semplici
ellissi, cioè falle nella continuità temporale. Il soggiorno di Marcel a Parigi nel
1914, raccontato in occasione di un altro soggiorno, quello del 1916, viene a
colmare in parte l'ellissi di vari «lunghi anni» trascorsi dal protagonista in casa di
cura149; l'incontro con la Signora vestita di rosa nell'appartamento dello zio
Adolphe150 spalanca in pieno racconto combraysiano una porta sulla fisionomia
parigina dell'infanzia di Marcel, totalmente occultata, se si esclude questa
eccezione, fino alla terza parte di Swann. Proprio in simili lacune temporali occorre
(ipoteticamente) inserire alcuni episodi della vita di Marcel che ci sono noti solo
per brevi allusioni retrospettive: un viaggio con la nonna in Germania, anteriore al
primo viaggio a Balbec, un soggiorno sulle Alpi anteriore all'episodio di Donciè-
res, un viaggio in Olanda anteriore al pranzo dai Guermantes, o anche -
chiaramente più difficili da collocare, data la durata del servizio militare a
quell'epoca - gli anni di servizio militare evocati per inciso durante l'ultima
passeggiata con Charlus151. Esistono però alcune lacune d'altro tipo, d'ordine meno
strettamente temporale, consistenti non più nell'elidere un segmento diacronico,
ma nell'omettere un elemento costitutivo della situazione, in un periodo
teoricamente coperto dal racconto; per esempio, il fatto di raccontare la propria
infanzia occultando sistematicamente l'esistenza di un membro della famiglia (se si
considerasse la Recherche una vera e propria biografia, il fenomeno coinciderebbe
con l'atteggiamento di Proust nei confronti del fratello Robert). In un caso simile il
racconto non passa sopra a un momento (come nell'ellissi), passa a lato di un dato.
Genere d'ellissi laterale che chiameremo, conformemente all'etimologia e senza
eccessive deformazioni dell'uso retorico, una parallissi152. Come l'ellissi temporale, la
parallissi si presta benissimo, evidentemente, a «colmare» retrospettivamente. così
la morte di Swann, o più esattamente il suo effetto su Marcel (dato che, in sé,
questa morte potrebbe esser considerata esterna all'autobiografia del protagonista,
e quindi, nel caso specifico, ete- rodiegetica) non è stata raccontata al momento
giusto: però, in teoria, nessuna ellissi temporale può trovar posto fra l'ultima
apparizione di Swann (alla soirée Guermantes) e il giorno del concerto Charlus-
Verdurin in cui s'inserisce la notizia retrospettiva della sua morte 153. Dobbiamo
quindi supporre che tale evento, importantissimo nella vita affettiva di Marcel («la
morte di Swann a suo tempo mi aveva sconvolto») sia stato omesso lateralmente,
in parallissi. Esempio ancora più chiarificante: la fine della passione di Marcel per
la duchessa di Guermantes, grazie all'intervento quasi miracoloso della madre,
costituisce l'oggetto154 di un racconto retrospettivo senza data precisa («Un certo
giorno...»); ma dato che durante la scena si parla della nonna sofferente, dobbiamo,
evidentemente, inserirla prima del secondo capitolo di Guermantes II (p. 345); ma
anche, ovviamente, dopo la pagina 204, dove vediamo che Oriane non gli è ancora
«diventata indifferente»: caso in cui non è reperibile nessuna ellissi temporale. Il
caso più degno di nota, per quanto raramente sottolineato dai critici, è però quello
della misteriosa «cuginetta» che (lo veniamo a sapere quando Marcel dà a una
mezzana il canapè della zia Léonie) proprio sul medesimo canapè 155, gli ha fatto
conoscere «per la prima volta i piaceri dell'amore»; e questo, esattamente, a
Combray, e a una data abbastanza remota, poiché si precisa che la scena d'«
iniziazione »156 si è svolta a «un'ora in cui la zia Léonie era alzata», sapendo inoltre
che negli ultimi anni la zia Léonie non lasciava più la sua stanza 157. Tralasciamo il
probabile valore tematico di questa tardiva confessione, arrivando addirittura ad
ammettere che l'omissione dell'evento nel racconto di Combray dipenda da una pura
ellissi temporale: l'omissione del personaggio nel quadro familiare si può definire
soltanto come parallissi, e il suo valore di censura ne risulta forse ulteriormente
rafforzato. La cuginetta sul canapè sarà quindi per noi - ogni età ha i suoi piaceri -:
analessi su parallissi.
Prolessi.
L'anticipazione, o prolessi temporale, è evidentemente molto meno frequente
della figura opposta, almeno nella tradizione narrativa occidentale; per quanto tutte
e tre le grandi epopee antiche, l'Iliade, l'Odissea e l'Eneide, inizino con una sorta di
sommario anticipato che giustifica, in certa misura, la formula applicata da
Todorov al racconto omerico: «intrico di predestinazione» 207. La preoccupazione
della suspense narrativa tipica della concezione «classica» del romanzo (in senso
lato, ma il suo centro di gravità si trova piuttosto nel xix secolo) mal s'adatta a una
simile pratica, come d'altronde alla finzione tradizionale di un narratore che
apparentemente deve in qualche modo scoprire la storia nello stesso momento in
cui la racconta. Si troveranno così pochissime prolessi in autori quali Bal- zac,
Dickens o Tolstoj, anche se la pratica tradizionale dell'inizio in medias res (per non
dire, mi si perdoni, in ultimas res) ce ne dà a volte, come abbiamo visto, l'illusione:
un certo fardello di predestinazione pesa, ovviamente, sulla maggior parte del
racconto in Marion Lescaut (dove, ancor prima che des Grieux incominci la' sua
storia, sappiamo che essa termina con una deportazione), o a fortiori nella Morte di
Ivan Il'ic, che comincia con l'epilogo.
Il racconto « in prima persona » si presta meglio di qualunque altro
all'anticipazione, proprio per il fatto stesso del suo carattere retrospettivo
dichiarato, tale da autorizzare il narratore a delle allusioni al futuro, in particolare
alla sua presente situazione, che in un certo senso fanno parte integrante del suo
ruolo. Fin quasi dall'inizio di Robinson Crusoe, il protagonista può dirci come il
discorso fattogli dal padre per distoglierlo dalle avventure marittime fosse
«veramente profetico», benché sul momento non ne avesse avuto alcun sospetto, e
Rousseau non soltanto tiene ad attestare la sua innocenza passata fin dall'episodio
dei pettini, ma anche il vigore della sua indignazione retrospettiva: «Scrivendo
questo sento che il mio polso accelera ancora le pulsazioni». 208 Ciò non toglie che
La recherche du temps perdu faccia un uso della prolessi probabilmente senza
equivalenti in tutta la storia del racconto, anche in forma autobiografica, 209 e
rappresenti quindi un terreno privilegiato per lo studio di anacronie narrative di
questo tipo.
Distinguiamo senza fatica, anche qui, prolessi interne ed esterne. Il campo
temporale del racconto primo è chiaramente delimitato dall'ultima scena non
prolettica, ossia, per la Recherche (facendo rientrare nel «racconto primo» l'enorme
anacronia che si apre sugli Champs-Elysées per non richiudersi più), senza alcuna
esitazione possibile, dalla matinée Guermantes. Ora, si sa bene che un certo
numero di episodi della Recherche si situano a un punto della storia posteriore a
questa matinée210 (per la maggior parte vengono d'altronde raccontati come
digressioni nel corso della stessa scena): si tratterà quindi, per noi, di prolessi
esterne. La loro funzione più frequente è quella d'epilogo: servono a condurre
varie linee d'azione fino al loro termine logico, anche se tale termine è posteriore al
giorno in cui il protagonista decide di lasciare il mondo e di ritirarsi nella sua opera:
rapida allusione alla morte di Charlus, nuova allusione, ma più circostanziata nella
sua portata altamente simbolica, al matrimonio della signorina di Saint- Loup:
«Quella fanciulla, della quale il nome e il patrimonio eran tali da far si che sua
madre poteva sperare che sposasse un principe di casa reale, e coronasse così tutta
l'opera ascendente di Swann e della moglie, scelse invece più tardi per marito un
oscuro letterato, ché snobismi lei non ne aveva, facendo ridiscendere la propria
famiglia a un livello più basso di quello donde era partita» 211; ultima apparizione di
Odette «un po' inebetita», circa tre anni dopo la matinée Guermantes 212; futura
esperienza di scrittore di Marcel, con le sue angosce davanti alla morte e le abusive
conquiste della vita sociale, le prime reazioni dei lettori, i primi malintesi, ecc. 213. La
più tardiva di tali anticipazioni è quella, improvvisata proprio a questo scopo nel
1913, che chiude il Du coté de chez Swann : il quadro del Bois de Boulogne «oggi», in
antitesi con quello degli anni di adolescenza è evidentemente vicinissimo al
momento della narrazione, dato che quell'ultima passeggiata ha avuto luogo, a
detta di Marcel, «quest'anno», «una delle prime mattine del mese di novembre»,
ossia, teoricamente, meno di due mesi prima del momento della narrazione 214.
Ancora un passo, quindi, ed eccoci nel presente del narratore. Prolessi del genere,
frequentissime nella Recherche, sono quasi tutte riconducibili al succitato modello di
Rousseau: si tratta di testimonianze sull'intensità del ricordo attuale, che in qualche
modo vengono ad autenticare il racconto del passato. Per esempio, a proposito
d'Albertine: «Così,
ferma, con gli occhi brillanti sotto il suo polo, la rivedo ancora, profilata sullo
schermo creatole, nel fondo, dal mare...»; della chiesa di Combray: «E oggi ancora,
se in una grande città di provincia o in un quartiere di Parigi che conosco poco un
passante che m'ha indicato la via m'addita come punto di riferimento la torre d'un
ospedale o il campanile d'un convento, ecc...»; del battistero di San Marco: «Un'ora
è giunta per me che, se mi rammento del battistero...»; fine della soirée
Guermantes: « Rivedo ancora la scena dell'uscita da quella festa, rivedo, salvo che
non sbagli a situarlo su quelle scale, il principe di Sagan... » 215. E soprattutto,
ovviamente, a proposito della scena del coricarsi, la straziante attestazione già
commentata in Mimesis, che non si può fare a meno di citare per intero, perfetta
illustrazione di quanto Auerbach chiama l'«onnitemporalità simbolica» della
«coscienza reminiscente», ma anche perfetto esempio di fusione quasi miracolosa
fra avvenimento raccontato e istanza narrativa, in pari tempo tardiva (finale) e «
onnitemporale » :
Tanti anni sono passati da allora. Il muro delle scale, su cui vidi salire il riflesso della sua candela, non esiste più da un
pezzo. In me pure si sono distrutte molte cose che credevo dovessero durare sempre, e ne son sorte di nuove, generando
sofferenze e gioie nuove, che allora non avrei potuto prevedere, così come le antiche mi sono divenute diffìcili a
comprendere. Da molto tempo anche mio padre ha cessato di poter dire alla mamma: - Va col bambino -. La possibilità di
ore simili non rinascerà mai per me. Ma, da qualche tempo, ricomincio a percepire assai bene, se tendo l'orecchio, i
singhiozzi ch'ebbi la forza di trattenere davanti a mio padre, e che non scoppiarono se non quando mi ritrovai solo con la
mamma. In realtà, non sono mai cessati; e solo perché ora la vita tace più spesso intorno a me, io li sento di nuovo, come
quelle campane di convento che i frastuoni della città coprono così bene durante il giorno che si crederebbero ferme, ma
riprendono a suonare nel silenzio della sera 216.
Nella misura in cui rimettono in gioco l'istanza narrativa stessa, tali anticipazioni
al presente non costituiscono semplicemente dei fatti di temporalità narrativa, ma
anche dei fatti di voce: li ritroveremo in seguito esaminando questa categoria.
Le prolessi interne pongono lo stesso genere di problema delle analessi
corrispondenti: quello dell'interferenza, dell'eventuale doppia funzione fra il
racconto primo e quello assunto dal segmento prolettico. Ancora una volta,
verranno trascurate, in questo caso, le prolessi eterodiegetiche, per le quali (siano le
anticipazioni interne oppure esterne) 217 un rischio di tal genere non si presenta; per
le rimanenti prolessi, opereremo un'ulteriore distinzione fra quelle che vengono a
colmare anticipatamente una lacuna ulteriore (prolessi completive) e quelle che,
sempre in anticipo, rappresentano lo sdoppiamento, anche se piccolo, di un
segmento narrativo che verrà dopo (prolessi ripetitive).
Prolessi completive sono, per esempio, l'evocazione rapida in Combray, dei futuri
anni di collegio di Marcel; l'ultima scena fra il padre e Legrandin; l'evocazione (a
proposito della scena delle cattleya) del seguito dei rapporti erotici fra Swann e
Odette; le descrizioni anticipate del mutevole spettacolo del mare a Balbec;
l'annuncio, nel bel mezzo del primo ricevimento presso i Guermantes, della lunga
serie di ricevimenti simili, ecc. 218. Tutte anticipazioni che compensano future ellissi
o parallissi. La situazione dell'ultima scena di Guermantes (visita di Swann e Marcel
alla duchessa) è più sottile: essa è, come sappiamo 219, simmetricamente scambiata
con la prima scena di Sodome («congiunzione» Charlus-Jupien) a un punto tale che
dobbiamo considerare, nello stesso tempo, sia la prima scena come prolessi
destinata a colmare l'ellissi aperta, proprio a causa della sua anticipazione, fra
Sodome I e Sodome II, sia la seconda come analessi destinata a colmare l'ellissi aperta
nei Guermantes dal suo ritardo: incrociarsi di interpolazioni evidentemente motivato
dal desiderio del narratore di farla finita con l'aspetto propriamente mondano dei
Guermantes, prima di abbordare il «paesaggio morale» di Sodoma e Gomorra.
Si sarà forse osservata la presenza di prolessi iterative che, proprio come le
analessi dello stesso tipo, ci rimandano al problema della frequenza narrativa. Senza
trattare adesso questo problema in sé, osserverò semplicemente l'atteggiamento
caratteristico consistente, in occasione di una prima volta (primo bacio di Swann a
Odette, prima visione del mare a Balbec, prima sera all'Hotel di Doricières, primo
ricevimento dai Guermantes), nel prospettare in anticipo tutta la serie di casi a cui
essa darà origine. Vedremo nel capitolo seguente come le grandi scene tipiche della
Recherche si riferiscano in massima parte a un'iniziazione del genere («primi passi» di
Swann in casa Verdurin, di Marcel in casa della signora di Villeparisis, della
duchessa, della principessa), dato che il primo incontro è l'occasione migliore per
descrivere uno spettacolo o un ambiente, e può inoltre fungere da paradigma per i
seguenti. Le prolessi generalizzanti rendono in un certo senso esplicita questa
funzione paradigmatica, abbozzando una prospettiva sul la serie ulteriore: « finestra
a cui poi dovevo mettermi ogni mattina...» Sono quindi, come qualsiasi
anticipazione, un tratto di impazienza narrativa. Ma esse possiedono anche, mi
pare, un valore inverso, forse più specificamente proustiano, che mette in risalto
piuttosto un sentimento nostalgico per ciò che Vladimir Jankélévich ha chiamato
una volta la « primultimità » del primo momento, cioè il fatto che la prima volta,
proprio nella misura in cui si prova intensamente il suo valore inaugurale, è sempre
(già) contemporaneamente un'ultima volta — se non altro perché essa è
definitivamente l'ultima a essere stata la prima, e dopo di essa, fatalmente, comincia
il regno della ripetizione e dell'abitudine. Prima di baciare Odette per la prima
volta, Swann trattiene per un istante il suo viso «a qualche distanza fra le due
mani»: è, dice il narratore, per lasciare al suo pensiero il tempo di accorrere per
assistere alla realizzazione del sogno tanto a lungo accarezzato. C'è però anche un
altro motivo: «Forse anche Swann fissava su quel viso di Odette, non ancora
posseduta, non ancora neppure baciata da lui, ch'egli vedeva per l'ultima volta, lo
sguardo con cui, nel giorno della partenza, vorremmo portarci via il paese che
lasciamo per sempre». Possedere Odette, baciare Albertine per la prima volta,
significa vedere per l'ultima volta Odette non ancora posseduta, Albertine non
ancora baciata: a tal punto è vero che in Proust l'evento - qualunque evento -
rappresenta solo il passaggio, fuggitivo e irreparabile (in senso virgiliano), da
un'abitudine a un'altra.
Come le analessi dello stesso tipo, e per motivi altrettanto evidenti, le prolessi
ripetitive si trovano solo allo stato di brevi allusioni: riferiscono in anticipo un
evento che, al momento opportuno, verrà raccontato per esteso. Come le analessi
ripetitive hanno una funzione di richiamo nei confronti del destinatario del
racconto, le prolessi ripetitive ricoprono un ruolo di preannuncio, e le indicherò
anche con questo termine. La loro formula canonica è, in generale, «vedremo», e
«si vedrà in seguito», e il loro paradigma o prototipo, il seguente avvertimento a
proposito della scena sacrilega di Montjouvain: «Si vedrà più tardi come, per
tutt'altre ragioni, il ricordo di quell'impressione dovesse avere una parte importante
nella mia vita». Allusione, naturalmente, alla gelosia provocata in Marcel dalla
confessione (falsa) dei rapporti fra Albertine e la signorina Vinteuil 220. Il ruolo di
questi preannunci nell'organizzazione del racconto, e in quanto Barthes chiama la
sua tessitura, è abbastanza evidente, con l'attesa da essi creata nello spirito del
lettore. Attesa che può essere immediatamente dissolta, nel caso di un preannuncio
di piccolissima portata, o a breve scadenza, che per esempio, alla fine di un
capitolo, serve ad abbozzare l'argomento del capitolo seguente, iniziandolo, come
avviene in Madame Bovary221. La struttura più compatta della Recherche teoricamente
esclude un simile genere di effetti, ma chi ricorda la fine del capitolo II-4 di Bovary
(«Non sapeva che, sulla terrazza delle case, la pioggia fa dei laghi quando le
grondaie sono otturate, e sarebbe rimasta con questa opinione, quando ad un
tratto scopri una crepa nel muro») non avrà difficoltà a ritrovare questo modello di
presentazione metaforizzata nella frase d'apertura dell'ultima scena del Temps
retrouvé: « Ma a volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, giunge il
messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davan tutte sul nulla; e
nella sola per cui si può entrare, e che avremmo cercata invano cent'anni, urtiamo
inavvertitamente, ed essa s'apre»222.
Nella maggior parte dei casi però il preannuncio ha una portata ancora più vasta.
Sappiamo quanto Proust tenesse alla coesione e all'architettura della sua opera, e
come soffrisse nel vedere misconosciuti tanti effetti di simmetria a distanza e di
corrispondenze «telescopiche». La pubblicazione separata dei vari volumi poteva
solo aggravare il malinteso, ed è certo che i preannunci a lunga scadenza, come
nella scena di Montjouvain, dovevano servire ad attenuarlo fornendo una
provvisoria giustificazione a episodi la cui presenza poteva altrimenti sembrare
avventizia e gratuita. Ecco ancora altri casi analoghi, nell'ordine della loro
disposizione: «Quanto al professor Cottard, lo rivedremo, ed a lungo, molto più oltre,
in casa della "Padrona" nel castello della Raspelière»; «Vedremo come questa unica
ambizione mondana da lui nutrita per la moglie e per la figlia, fu proprio quella la
cui attuazione gli risultò interdetta, e da un veto così assoluto che egli mori senza
supporre che la duchessa potesse mai conoscerle. Vedremo parimenti che, invece, la
duchessa di Guermantes fece amicizia con Odette e Gilberte dopo la morte di
Swann » ; « Un dolore profondo com'era quello di mia madre io dovevo
conoscerlo un giorno, lo si vedrà nel seguito di questa narrazione»; «(Charlus) S'era
rimesso prima di ricadere più tardi nello stato in cui lo vedremo il giorno d'un
ricevimento dalla principessa di Guermantes»223.
Non dobbiamo confondere questi preannunci, espliciti per definizione, con
quelle che dobbiamo piuttosto chiamare esche224, semplici manovre preparatorie,
senza anticipazione, neppure allusiva, che solo più tardi troveranno il loro
significato, e derivano dall'arte tutta classica della «preparazione» (ad esempio, far
apparire fin dall'inizio un personaggio destinato a intervenire veramente solo
molto più tardi, come il marchese di la Mòle nel terzo capitolo di Le rouge et le noir).
Possiamo considerare come tali la prima apparizione di Charlus e di Gilberte a
Tansonville, di Odette come Signora in rosa, oppure la prima menzione della
signora di Villeparisis fin dalla ventesima pagina di Swann, o ancora la descrizione,
più palesemente funzionale, della scarpata di Montjouvain, «allo stesso livello del
salotto del secondo piano, a cinquanta centimetri dalla finestra», che prepara la
situazione di Marcel durante la scena della profanazione 225; o, con maggior ironia,
l'idea rimossa da Marcel di citare davanti al signor di Crécy quello che egli pensa sia
il vecchio « nome di battaglia » di Odette, che prepara la rivelazione ulteriore (da
parte di Charlus) dell'autenticità di quel nome, e della reale relazione fra i due
personaggi226. La differenza fra preannuncio ed esca è chiaramente percepibile nel
modo in cui Proust prepara, in tappe successive, l'entrata in scena di Albertine.
Prima menzione, nel corso di una conversazione in casa Swann: Albertine è
nominata in quanto nipote dei Bontemps, e giudicata con «uno strano modo di
fare» da parte di Gilberte: semplice esca; seconda menzione, nuova esca, da parte
della stessa signora Bontemps che qualifica sua nipote «sfacciata», «malignetta...
furba come una scimmia»: ha pubblicamente ricordato alla moglie di un ministro
che suo padre era uno sguattero; ritratto che verrà esplicitamente ricordato molto
più tardi, dopo la morte di Albertine, e designato come «seme trascurabile (che) si
sarebbe sviluppato e si sarebbe esteso un giorno sull'intera mia vita»; terza
menzione, vero preannuncio questa volta: «Ci fu una scenata a casa mia, perché
non accompagnai mio padre ad un pranzo ufficiale, al quale dovevano esserci i
Bontemps con la loro nipote Albertine, una ragazzetta, quasi ancora una bimba.
così i diversi periodi della nostra vita si accavallano gli uni sugli altri. A causa di ciò
che si ama e che un giorno ci sarà indifferente, si rifiuta con sdegno di vedere ciò
che oggi ci è indifferente, che domani ameremo, che forse, se avessimo consentito
a vederlo, si sarebbe potuto amar prima, ed avrebbe così abbreviato le nostre
sofferenze presenti, per sostituirle, è vero, con altre» 227. A differenza del
preannuncio, l'esca è perciò, in linea di massima, nel posto che occupa nel testo,
solo un «germe trascurabile», e addirittura impercettibile, il cui valore di germe sarà
riconosciuto solo in seguito, e in modo retrospettivo 228. Dobbiamo inoltre tener
conto dell'eventuale (o meglio variabile) competenza narrativa del lettore, nata
dall'abitudine, che permette di decifrare sempre più velocemente il codice narrativo
in generale, oppure quello tipico di un certo genere, di una certa opera, e di
identificare i germi fin dalla loro apparizione. Così, nessun lettore di Ivan Il'ič
(aiutato, è vero, dall'anticipazione del finale, e dal titolo stesso) può fare a meno di
identificare nella caduta di Ivan sulla spagnoletta della finestra lo strumento del
destino, l'esca dell'agonia. D'altronde è proprio su questa competenza che si basa
l'autore per ingannare il lettore, proponendogli a volte delle false esche, o inganni229
— ben noti agli amanti del genere poliziesco — tranne poi, una volta acquisita da
parte del lettore quella competenza di secondo grado che è l'abitudine a scoprire, e
quindi a smontare l'esca, il proporgli dei falsi inganni (che sono vere esche) e così
via. Sappiamo come il verosimile proustiano — fondato secondo le parole di Jean-
Pierre Richard, sulla «logica dell'incoerenza» 230 - giochi, in particolare per quanto
concerne l'omosessualità (e la sua sottile variante: l'eterosessualità), sul complesso
sistema di attese frustrate, di sospetti delusi, di sorprese previste (e in ultima analisi
tanto più sorprendenti proprio perché, pur essendo previste, nonostante ciò si
realizzano ugualmente) in virtù del principio valido per qualunque finalità, che « il
lavoro della causalità... finisce per produrre quasi tutti gli effetti possibili, e di
conseguenza anche quelli che si pensava lo fossero meno» 231: avvertimento agli
amatori di «leggi psicologiche» e di motivazioni realistiche.
Prima di lasciare l'argomento prolessi narrative, rimane ancora da dire una parola
sulla loro ampiezza, e sulla possibile distinzione operabile, anche qui, fra prolessi
parziali e complete, volendo accordare quest'ultima qualità alle prolessi che si
prolungano nel tempo della storia fino al- l'«agnizione» (per le prolessi interne)
oppure fino al momento narrativo stesso (per le prolessi esterne o miste): non ne
trovo esempi, e sembra in realtà che tutte le prolessi siano del tipo parziale,
interrotte spesso come sono state aperte: con decisione. Quelli che vengono
chiamati
segni di prolessi sono: «per anticipare gli avvenimenti, poiché solo ora ho finito la
mia lettera a Gilberte»; «per anticipare di alcune settimane sul racconto, che
riprenderemo subito dopo questa parentesi...»; «a voler anticipare un poco, giacché mi
trovo ancora a Tansonville... »; « diciamolo per anticipare, proprio il giorno dopo...»;
«Anticipo di alcuni anni...»232. Segni di fine di una prolessi e ritorno al racconto
principale: «Tornando indietro e a quella prima serata della principessa di
Guermantes...»; «Ma è ora di tornare al barone, che si avvicinava, con Brichot e con
me, verso la porta dei Verdurin...»; «Ma è necessario tornare indietro...»; «Ma, dopo
questa anticipazione, conviene tornare tre anni addietro, alla mattinata dalla principessa di
Guermantes...»233. Si vede che non sempre Proust indietreggia di fronte al peso
dell'esplicito.
L'importanza del racconto «anacronico» nella Recherche du temps perdu è legata
evidentemente al carattere retrospettivamente sintetico del racconto proustiano,
completamente presente a se stesso, in ogni momento, nello spirito del narratore
che — dal giorno in cui, in una sorta di estasi, ne ha avvertito il significato
unificante - non smette mai di reggerne contemporaneamente tutte le fila, di
coglierne al tempo stesso tutti i luoghi e tutti i momenti, fra i quali egli è
costantemente in grado di stabilire una molteplicità di relazioni «telescopiche»:
ubiquità spaziale, ma anche temporale, «onnitemporalità» perfettamente illustrata
dalla pagina del Temps retrouvé dove, davanti alla signorina di Saint-Loup, il
protagonista ricostruisce in un lampo la «rete di ricordi» concatenati in cui si è
trasformata la sua vita, e che è in procinto di diventare la trama della sua opera 234.
Ma le stesse nozioni di retrospezione o di anticipazione, su cui si basano come
«psicologia» le categorie dell'analessi e della prolessi, presuppongono una coscienza
temporale perfettamente chiara e delle relazioni senza ambiguità fra presente,
passato e avvenire. Solo per esigenze di esposizione, e a prezzo di una abusiva
schematizzazione, ho finora postulato che fosse sempre così. In realtà, la frequenza
stessa delle interpolazioni e il loro reciproco concatenamento ingarbugliano spesso
le cose in modo tale da farle restare senza soluzione per il « semplice» lettore, e
addirittura per l'analista più deciso. Per terminare il capitolo, prenderemo in
considerazione alcune di queste strutture ambigue, che ci portano al limite della
pura e semplice acronia.
Verso l'acronia.
Fin dalle nostre prime microanalisi, abbiamo incontrato esempi di acronie
complesse: prolessi di secondo grado nel segmento tratto da Sodome et Gomorrhe
(anticipazione della morte di Swann su anticipazione della sua colazione con
Bloch), ma anche analessi su prolessi (retrospezione da parte di Françoise proprio
sull'anticipazione dei funerali di Swann), o al contrario prolessi su analessi (ben due
volte, nel brano tratto da Jean Santeuil, richiami a progetti passati). Effetti simili di
secondo o terzo grado sono frequenti nella Recherche anche a livello delle grandi o
medie strutture narrative, perfino non tenendo conto dell'anacronia di primo grado
rappresentata dalla quasi totalità del racconto.
La tipica situazione evocata nel frammento tratto da Jean Santeuil (ricordi di
anticipazione), nella Recherche si è dispersa nei due personaggi usciti per scissiparità
dal primitivo protagonista. Il ritorno sul matrimonio di Swann, nelle Jeunes filles,
comporta un'evocazione retrospettiva dei progetti d'ambizione mondana a favore
della figlia e della (futura) moglie: «Quando Swann, nelle sue ore di fantasticheria,
vedeva Odette diventata sua moglie, invariabilmente si raffigurava il momento in
cui l'avrebbe condotta, lei e soprattutto sua figlia, in casa della principessa di
Laumes, presto divenuta duchessa di Guermantes... si commuoveva quando
inventava, enunciando perfino le parole, tutto quello che la duchessa direbbe di lui
a Odette eOdette alla signora di Guermantes... Recitava a se stesso la scena della
presentazione con la stessa precisione negli immaginari particolari propria di chi
esamini come impiegherà, se mai gli dovesse capitare, una vincita di cui fissa
arbitrariamente l'entità»235. Questo «sogno a occhi aperti» è prolettico in quanto
fantasma nutrito da Swann prima del suo matrimonio, analettico in quanto viene
ricordato da Marcel dopo il matrimonio in questione, e i due movimenti si
compongono per annullarsi, inserendo così il fantasma in perfetta coincidenza con
la sua crudele confutazione da parte dei fatti, poiché ci troviamo di fronte uno
Swann sposato da vari anni con una Odette sempre indesiderabile per il salotto
Guermantes. È pur vero che, a sua volta, Swann ha sposato Odette quando non
l'amava più, e «quando l'essere che, in lui, aveva tanto desiderato e tanto disperato
di vivere tutta la sua vita con Odette, era morto». Ecco quindi a confronto, nella
loro ironica contraddizione, gli antichi progetti e le realtà presenti: progetto di
chiarire un giorno i misteriosi rapporti di Odette con Forcheville, sostituito da una
totale mancanza di curiosità: «In passato, mentre soffriva tanto, aveva giurato a se
stesso che, appena non amasse più Odette, e non temesse più di irritarla o di farle
credere che l'amava troppo, si sarebbe preso la soddisfazione di chiarire con lei, per
semplice amore della verità e come per la storia, se Forche- ville era o non era a
letto con lei il giorno ch'egli aveva suonato e bussato al vetro della finestra senza
che gli si aprisse, e lei poi aveva scritto a Forcheville che era stato un suo zio a
venirla a cercare. Ma il problema così interessante, che egli attendeva di poter
mettere in chiaro al termine della sua gelosia, aveva perduto ai suoi occhi ogni
interesse, quando aveva cessato di essere geloso». Progetto di manifestare un
giorno la sua indifferenza futura, sostituito dalla discrezione della vera indifferenza:
«Mentre in passato aveva fatto il giuramento, se mai cessasse d'amare colei che non
immaginava dovesse essere un giorno sua moglie, di manifestarle implacabilmente
la propria indifferenza, finalmente sincera, per vendicare il proprio orgoglio così a
lungo umiliato, a queste rappresaglie che poteva esercitare ormai senza rischi... a
queste rappresaglie Swann non ci teneva più; insieme all'amore era scomparso il
desiderio di mostrare ch'egli non provava più amore». Identico confronto,
attraverso il passato, fra il presente vissuto anticipatamente e il presente reale, in
Marcel finalmente «guarito» dalla passione per Gilberte: «Non sentivo più desiderio
di vederla, e neppure quel desiderio di farle vedere che non m'importava più di
vederla che ogni giorno, quando l'amavo, mi ripromettevo di mostrarle quando
non l'avessi più amata»; oppure, con un significato psicologico lievemente diverso,
quando lo stesso Marcel diventato il «gran favorito» di Gilberte e l'ospite abituale
del salotto Swann, si sforza invano di ritrovare, per misurare il progresso compiuto,
il sentimento da lui nutrito un tempo sull'inaccessibilità di quel «luogo
inconcepibile» - non senza prestare allo stesso Swann analoghi pensieri nei
confronti della sua vita con Odette, antico « paradiso insperato» inimmaginabile
senza turbamenti, diventato prosaica realtà senza fascino alcuno 236. Quanto si era
progettato non ha luogo, quanto non si osava sperare si realizza, ma nel momento
in cui non lo si desidera più: il presente, in entrambi i casi, viene a sovrapporsi al
futuro d'un tempo, a cui si sostituisce, confutazione retrospettiva di
un'anticipazione erronea.
Movimento inverso, richiamo anticipato, deviazione non più attraverso il passato
ma attraverso l'avvenire, ogni volta che il narratore espone in anticipo come verrà
in seguito informato, a fatti compiuti, di un avvenimento attuale (o del suo
significato): così quando, raccontando una scena fra i signori Verdurin, precisa che
gli verrà riferita da Cottard «alcuni anni dopo». Il movimento oscillatorio si
accelera nella seguente indicazione di Combray : «Molti anni più tardi,
apprendemmo che, se quell'estate avevamo mangiato asparagi tutti i giorni, era
perché il loro odore dava alla povera sguattera incaricata di mondarli delle crisi
d'asma d'una tale violenza che fini per essere costretta ad andarsene» 237. Diventa
quasi istantaneo in questa frase della Prisonnière: «Seppi che quel giorno era
avvenuta una morte che mi addolorò assai: quella di Bergotte», così ellittica, così
discretamente anomica che il lettore in un primo momento crede di leggere : «
Seppi quel giorno che era avvenuta...» 238. Identico andirivieni a zigzag allorché il
narratore introduce un evento presente, o anche passato, per il tramite anticipato
del ricordo che ne avrà più tardi, come abbiamo già visto nelle ultime pagine delle
Jeunes filles en fleurs, che ci riconducono alle prime settimane di Balbec passando
attraverso i futuri ricordi di Marcel a Parigi; analogamente, quando Marcel vende a
una mezzana il canapè della zia Léonie, impariamo che solo «molto più tardi» si
ricorderà di aver usufruito, molto tempo prima, di quel canapè con l'enigmatica
cugina di cui siamo a conoscenza: analessi su parallissi, dicevamo, ma ora è
necessario completare la formula aggiungendo: attraverso prolessi. Contorsioni
narrative senz'altro sufficienti ad attirare sull'ipotetica giovinetta lo sguardo
sospettoso, per quanto benevolo, dell'ermeneuta.
Altro effetto di doppia struttura: una prima anacronia può invertire, anzi inverte
necessariamente, il rapporto fra un'anacronia secondaria e l'ordine di disposizione
degli avvenimenti nel testo. Così, lo statuto analettico di Un amour de Swann fa in
modo che un'anticipazione (nel tempo della storia) possa rinviare a un
avvenimento già coperto dal racconto: quando il narratore paragona l'angoscia
vespertina di Swann privato di Odette a quella che egli stesso proverà «alcuni anni
dopo» le sere in cui sempre Swann verrà a pranzo a Combray, il preannuncio
diegetico costituisce per il lettore al tempo stesso un richiamo narrativo, poiché ha
già letto il racconto di questa scena circa duecentocinquanta pagine «prima»; per
ragione uguale e opposta, il riferimento all'angoscia di Swann, nel racconto di
Combray, costituisce per il lettore un preannuncio del futuro racconto di Un amour
de Swann239. La formula esplicita di tali doppie anacronie può quindi essere,
approssimativamente, simile alla seguente: «In seguito doveva accadere, come
abbiamo già visto...», o: «Era già successo, come vedremo in seguito...»
Preannuncio retrospettivo? Richiamo anticipatorio? Quando il dietro è davanti e il
davanti dietro, definire la direzione di marcia diventa impresa delicata.
È analogo il numero di anacronie complesse, analessi prolettiche e prolessi
analettiche, che sconvolgono un po' le nozioni rassicuranti di retrospezione e
anticipazione. Ricordiamo inoltre l'esistenza di analessi aperte, di cui non è
possibile localizzare il punto terminale, fatto che inevitabilmente trascina con sé
l'esistenza di segmenti narrativi temporalmente indefiniti. Ma nella Recherche si
trovano anche dei segmenti sprovvisti di qualsiasi riferimento temporale, che in
nessun modo si possono situare rispetto a quelli circostanti: per avere un caso del
genere, è sufficiente che essi non siano collegati a un altro avvenimento (che
obbligherebbe il racconto a definirli come anteriori o posteriori), ma al discorso di
commento (atemporale) che li accompagna - e sappiamo quanta parte esso prenda
nell'opera in questione. Nel corso di un ricevimento in casa Guermantes il
narratore evoca (a proposito della signora di Varembon, ostinata a imparentarlo
con l'ammiraglio Jurien de la Gravière, e quindi, per esteso, degli errori analoghi
tanto frequenti in società) l'equivoco fatto da un amico dei Guermantes che gli
raccomandava sua cugina, la signora di Chaussegros, a lui totalmente ignota:
possiamo supporre che l'aneddoto, implicante un certo avanzamento nella carriera
mondana di Marcel, sia posteriore al ricevimento dai Guermantes, ma niente ci
permette di affermarlo. Nelle Jeunes filles en fleurs, dopo la scena della mancata
presentazione ad Albertine, il narratore propone alcune riflessioni sulla soggettività
del sentimento amoroso, poi ne illustra la teoria con l'esempio di un professore di
disegno che aveva sempre ignorato il colore dei capelli di una sua amante, da lui
appassionatamente amata, e che gli aveva lasciato una figlia («non l'ho mai veduta
senza cappello»240). In questo caso, nessuna inferenza dal contenuto può aiutare
l'analista a definire lo statuto d'una anacronia priva di qualunque relazione
temporale, che siamo perciò obbligati a considerare come evento senza data e
senza età: come acronia.
Ora, non è solo un simile evento isolato a manifestare così la capacità, posseduta
dal racconto, di sciogliere la sua disposizione da qualunque dipendenza, anche alla
rovescia, nei confronti dell'ordine cronologico della storia che esso racconta.
Almeno in due punti, la Recherche presenta vere e proprie strutture acroniche. Alla fine
di Sodome, l'itinerario del «Transatlantique» e la successione delle sue fermate
(Doncières, Maineville, Grattevast, Herme- nonville) determinano una breve
sequenza narrativa241, il cui ordine di successione (disavventura di Morel al casino
di Maineville - incontro del signor de Crécy a Grattevast) non deve nulla al
rapporto temporale fra i due avvenimenti che la compongono, e deve tutto al fatto
(esso stesso, d'altra parte, diacronico, di una diacronia però non coincidente con
quella degli avvenimenti raccontati) che il trenino passi prima per Maineville e poi
per Grattevast, e che le stazioni evochino in quell'ordine, allo spirito del narratore,
degli aneddoti ad esse collegati242. Ma, come ha giustamente osservato J. P.
Houston nel suo studio sulle strutture temporali della Recherche243, tale disposizione
« geografica » si limita solo a ripetere e a rendere manifesta quella più implicita ma
più importante sotto ogni aspetto, delle ultime cinquanta pagine di Combray, dove la
sequenza narrativa è governata dall'opposizione parte di Méséglise / parte di
Guermantes, e dal crescente allontanamen- , to dei luoghi in rapporto alla casa
familiare durante una passeggiata atemporale e sintetica 244. La successione: prima
apparizione di Gilberte — addio ai biancospini — incontro di Swann e Vinteuil -
morte di Léonie - scena di profanazione a casa Vinteuil - apparizione della
duchessa in chiesa — veduta dei campanili di Martinville, una successione del
genere non ha alcun rapporto con l'ordine temporale degli avvenimenti che la
compongono, oppure solo un rapporto di parziale coincidenza. Essa dipende
essenzialmente dall'ubicazione dei luoghi (Tansonville - pianura di Méséglise -
Montjouvain - ritorno a Combray - parte di Guermantes), e quindi da una
temporalità completamente diversa: opposizione fra i giorni di passeggiata verso
Méséglise e i giorni di passeggiata verso Guermantes, e all'interno di ognuna delle
due serie, ordine approssimativo delle «tappe» della passeggiata. Per immaginare
che l'incontro con la duchessa o l'episodio dei campanili siano posteriori alla scena
di Montjouvain, bisogna confondere ingenuamente, come fanno i lettori frettolosi,
l'ordine sintagmatico del racconto e l'ordine temporale della storia. La verità è che
il narratore aveva le ragioni più evidenti per raggruppare insieme, a dispetto di
qualunque cronologia, degli avvenimenti in relazione di prossimità spaziale, di
identità di clima (le passeggiate a Méséglise avvengono sempre col brutto tempo,
quelle a Guermantes col bel tempo), o di parentela tematica (la zona di Méséglise
rappresenta il versante erotico-affettivo, quella di Guermantes il versante estetico
del mondo dell'infanzia), in modo tale da rendere manifesta, più e meglio di
chiunque l'aveva preceduto, la capacità di autonomia temporale del racconto245.
Ma sarebbe totalmente vano pretendere di trarre conclusioni definitive dalla sola
analisi delle anacronie, che si limitano a illustrare uno dei caratteri essenziali della
temporalità narrativa. È abbastanza evidente, ad esempio, come le distorsioni della
durata contribuiscano all'emancipazione di questa temporalità in misura uguale alle
trasgressioni dell'ordine cronologico. È su queste distorsioni che ci fermeremo ora.
2. Durata.
Anisocronie.
All'inizio del capitolo precedente ho ricordato con quali ostacoli si scontri, in
letteratura scritta, la nozione stessa di «tempo del racconto». Difficoltà che si fanno
sentire più pesantemente, è evidente, a proposito della durata, poiché i fenomeni di
ordine, o di frequenza, si lasciano trasporre senza rischio dal piano temporale della
storia al piano spaziale del testo: dire che un episodio A viene nella disposizione
sintagmatica di un testo narrativo « dopo » un episodio B, o che un avvenimento C
è raccontato «due volte» sono proposizioni il cui senso è ovvio, chiaramente
confrontabili ad altre asserzioni come «l'avvenimento A è anteriore all'avvenimento
B nel tempo della storia » oppure «l'avvenimento C si verifica una volta sola». Il
confronto fra i due piani è quindi, in questo caso, legittimo e pertinente.
Confrontare la « durata » di un racconto a quella della storia che esso narra, è
un'operazione più scabrosa .. per il semplice motivo che nessuno può misurare la
durata di un racconto. Quella che, istintivamente, viene definita così può essere
esclusivamente, abbiamo detto, il tempo necessario a leggerlo, ma è fin troppo
chiaro che i tempi di lettura variano a seconda delle singole esigenze, e, al contrario
di quanto avviene al cinema, o anche in musica, in questo caso niente ci permette
di fissare una velocità «normale» per l'esecuzione di una lettura.
Sommario.
Ora, se prendiamo in considerazione sotto questo punto di vista il regime
narrativo della Recherche, la prima osservazione che s'impone è l'assenza quasi totale
del racconto sommario nella forma che gli fu propria in tutta la precedente storia
del romanzo, cioè la narrazione in alcuni paragrafi o in alcune pagine di vari giorni,
mesi o anni di esistenza, senza particolari di azioni o di parole. Borges ne cita un
esempio, tratto dal Don Chisciotte, a mio parere abbastanza tipico:
Infine, nel luogo e nell'occasione che gli erano offerti dall'assenza di Anselmo, gli parve di dover stringere ancora di più
l'assedio di quella fortezza, e quindi si rivolse all'amor proprio di lei, facendo l'esaltazione della sua bellezza, perché non
c'è nulla che faccia più presto arrendere e spianare le superbe torri della vanità delle belle donne, che la vanità stessa,
messa su una lingua adulatrice. Egli infatti, con ogni cura, minò la rocca della sua onestà, con tali colpi che se anche
Camilla fosse stata tutta di bronzo, sarebbe crollata al suolo. Con tale ardore, con tali segni di profonda sincerità Lotario
pianse, pregò, promise, adulò, insistette e finse, che mandò all'aria la riservatezza di Camilla e riuscì a trionfare di quel che
meno s'aspettava e che desiderava di più259.
Un mezzadro dei dintorni di Chinon, tale Jacques Birotteau, sposò la cameriera di una signora presso cui egli si occupava
delle vigne; ebbe tre figli, con l'ultimo la moglie mori di parto, e il pover'uomo non le sopravvisse di molto. La padrona era
affezionata alla cameriera; fece educare assieme ai suoi figli il maggiore dei bambini del suo mezzadro, di nome Francois, e
lo mise in seminario. Ordinato prete, Francois Birotteau, durante la Rivoluzione, si nascose e condusse la vita errabonda
dei preti che non avevano prestato giuramento, braccati come bestie feroci, e ghigliottinati... 261.
Niente di simile in Proust. La riduzione del racconto in lui non passa mai
attraverso questo genere di accelerazioni, perfino nelle anacronie, che nella
Recherche costituiscono quasi sempre vere e proprie scene (anteriori o ulteriori) e
non delle sintetiche carrellate sul passato o sull'avvenire: essa deriva da un tipo di
sintesi completamente diverso, che studieremo più accuratamente sotto il nome di
racconto iterativo262, oppure spinge l'accelerazione fino ai limiti che separano il
racconto sommario dall'ellissi pura e semplice: è constatabile nella maniera con cui
sono riassunti gli anni di ritiro che precedono e seguono il ritorno di Marcel a
Parigi durante la guerra263. La confusione fra accelerazione ed ellissi è d'altronde
manifesta nel celebre commento consacrato da Proust a una pagina dell'Education
sentimentale: «E qui uno spazio bianco, un enorme spazio bianco 264, e senza l'ombra
d'una transizione265, mentre a un tratto la misura del tempo diviene pari ad anni, a
decenni, anziché a quarti d'ora [...] straordinario cambiamento di velocità, senza
preparazione»266. Ora, Proust ha appena presentato questo passaggio nei seguenti
termini: «A mio parere, la cosa più bella dell'Education sentimentale non è una frase,
ma uno spazio bianco», e proseguirà così: «(in Balzac) simili cambiamenti di tempo
hanno un carattere attivo o documentaristico...» Non sappiamo quindi se per lui è
mirabile in questo caso lo spazio bianco, cioè l'ellissi che separa i due capitoli, o il
cambiamento di velocità, cioè il racconto sommario delle prime righe del sesto
capitolo: la verità è che indubbiamente la distinzione gli interessa poco, tanto è
vero che quando si abbandona a una sorta di «tutto o nulla» narrativo, è in grado di
accelerare, secondo la sua stessa espressione, solo «follemente» 267, anche a rischio
(dedichiamo questa metafora meccanica ai mani dell'infelice Agostinelli) di
partire268.
Pausa.
Una seconda constatazione negativa concerne le pause descrittive. Proust passa
di solito per un romanziere prodigo in descrizioni, e senz'altro deve tale
reputazione a una conoscenza per lo più antologica della sua opera, in cui
inevitabilmente vengono isolati apparenti excursus come i biancospini di
Tansonville, le marine di Elstir, la fontana della principessa, ecc. I passaggi
descrittivi caratterizzati in realtà non sono, in confronto all'ampiezza dell'opera,
numerosissimi (non più d'una trentina) e neppure lunghissimi (la maggior parte
non supera le quattro pagine): proporzione probabilmente inferiore a quella
reperibile in certi romanzi di Balzac. D'altra parte, un gran numero di descrizioni
(senz'altro più d'un terzo) sono di tipo iterativo 269, cioè non si riferiscono a un
particolare momento della storia, ma a una serie di momenti analoghi, e di
conseguenza non possono in nessun modo contribuire a rallentare il racconto,
bensì hanno la funzione opposta: vedi la camera di Léonie, la chiesa di Combray, le
«marine» a Balbec, l'albergo di Doncières, il paesaggio di Venezia 270 altrettante
pagine ognuna delle quali sintetizza in un solo segmento il vario riproporsi dello
stesso spettacolo. Ma la cosa più importante è questa: anche quando l'oggetto
descritto è stato incontrato una volta sola (come gli alberi di Hudimesnil) 271,
oppure la descrizione riguarda solo una delle sue apparizioni (per lo più la prima,
come per la chiesa di Balbec, la fontana Guermantes, il mare alla Raspelière) 272,
questa descrizione non determina mai una pausa del racconto, una sospensione
della storia o, secondo il termine tradizionale, delibazione»: il racconto proustiano
effettivamente non si ferma mai su un oggetto o su uno spettacolo senza che
questa sosta corrisponda a una sosta contemplativa dello stesso protagonista
(Swann, in Un amour de Swann, Marcel un po' dappertutto nel resto del romanzo) e
quindi il brano descrittivo non esce mai dalla temporalità della storia.
Beninteso, questo trattamento della descrizione non costituisce di per sé
un'innovazione, e quando ad esempio, nell'Astrée273, il racconto descrive a lungo i
quadri esposti nella camera di Céladon al castello di Isoure, possiamo considerare
una simile descrizione come se essa accompagnasse in qualche modo lo sguardo di
Céladon che, al suo risveglio, scopre quei quadri. Ma sappiamo come il romanzo di
Balzac al contrario abbia fissato un canone descrittivo (d'altronde più conforme al
modello dell'ekphrasis epica)274 tipicamente extratemporale, in cui il narratore,
abbandonando il corso della storia (oppure, come nel Pére Goriot o nella Recherche de
l'absolu, prima di entrarvi) si incarica, in prima persona, ed esclusivamente per
informare il suo lettore, di descrivere uno spettacolo che a rigor di termini, a
questo punto della storia, nessuno guarda: come viene chiaramente mostrato, per
esempio, dalla frase che inaugura il quadro di palazzo Cormon nella Vieille fille:
«Adesso bisogna entrare presso colei verso la quale convergevano tanti interessi, e
da cui gli attori di questa scena dovevano incontrarsi tutti quanti la sera stessa...» 275.
Questa entrée è evidentemente di esclusiva competenza del narratore e del lettore,
che percorreranno la casa e il giardino mentre i veri « attori di questa scena »
continuano altrove a dedicarsi alle loro occupazioni, o meglio aspettano, per
riprenderle, il momento in cui il racconto mostri di voler tornare verso di loro per
restituirli alla vita276.
Stendhal, come sappiamo, si era sempre sottratto a questo canone polverizzando
le descrizioni e integrando quasi sistematicamente quel che di esse lasciava
sussistere alla prospettiva di azione - o di fantasticheria - dei suoi personaggi; ma la
posizione di Stendhal, qui come in altri casi, resta marginale e senza influsso
diretto. Volendo trovare nel romanzo moderno un modello o un precursore della
descrizione proustiana, dobbiamo pensare, con ragioni molto più solide, a
Flaubert. Non che il tipo balzachiano gli sia completamente estraneo : ne è
esempio il quadro di Yonville che apre la seconda parte di Bovary; ma nella
maggioranza dei casi, perfino nelle pagine descrittive di una certa ampiezza, il
movimento generale del testo277 è sottoposto all'atteggiamento o allo sguardo di
uno (o vari) personaggio/i e il suo svolgimento copre la durata di quel percorso
(scoperta della casa di Tostes da parte di Emma, passeggiata nel bosco di Frédéric
e Rosanette)278 o di quella immobile contemplazione (scena nel giardino di Tostes,
padiglione con i vetri colorati della Vaubyessard, vedute di Rouen) 279.
Il racconto proustiano sembra aver elevato a norma questo principio di
coincidenza. Sappiamo a quale abitudine tipica dello stesso autore rimandi una
simile capacità, da parte del protagonista, di immobilizzarsi per lunghi minuti
davanti a un oggetto (biancospini di Tansonville, stagno di Montjouvain, alberi di
Hudimesnil, meli in fiore, vedute del mare, ecc. ) il cui potere di fascinazione deriva
dalla presenza di un segreto non svelato, messaggio ancora indecifrabile ma
insistente, abbozzo e velata promessa della rivelazione finale. Tappe contemplative
del genere possiedono per lo più una durata che non corre nessun rischio di
eccedenza rispetto a quella della lettura (anche lentissima) del testo che le
«riferisce»: è il caso della galleria degli Elstir a casa del duca di Guermantes, la cui
evocazione occupa solo quattro pagine280; ma proprio a proposito della galleria,
Marcel si rende conto, solo a cose fatte, che essa lo ha trattenuto in
contemplazione per tre quarti d'ora, mentre il duca, sul punto di morire di fame,
faceva pazientare alcuni invitati rispettosi, fra cui la principessa di Parma. La
«descrizione» proustiana è in realtà, piuttosto che una descrizione dell'oggetto
contemplato, un racconto e un'analisi dell'attività percettiva del personaggio
contemplante, delle sue impressioni, scoperte progressive, cambiamenti di distanza
e di prospettiva, errori e correzioni, entusiasmi o delusioni, ecc. Contemplazione
davvero attivissima, e che contiene « tutta una storia». La descrizione proustiana
racconta proprio questa storia. Si rileggano ad esempio le pagine consacrate alle
marine di Elstir a Balbec281: si vedrà come vi si affollino non i termini che
definiscono cos'è la pittura di Elstir, bensì «le illusioni ottiche» che essa «ricrea», e
le impressioni ingannevoli che, di volta in volta, essa suscita e dissolve: sembrare,
apparire, dar l'impressione, come se, si sentiva, si sarebbe detto, si pensava, si capiva, si vedeva
riapparire, si correva fra i campi pieni di sole, ecc. L'attività estetica non è, nel caso
presente, molto riposante, aspetto che non deriva solo dalle «metafore» en trompe
l'œil del pittore impressionista. Ritroviamo l'identico lavoro della percezione,
l'identica lotta, o gioco, con le apparenze, davanti al minimo oggetto o paesaggio.
Ecco il giovanissimo) Marcel alle prese con la manciata di tiglio fatta seccare dalla
zia Léonie282: quasi un pittore, le foglie avevan l'aria delle cose più disparate, ma mille
piccoli particolari mi davano la gioia di capire che eran proprio steli di veri tigli,
riconoscevo, il lampo rosato mi mostrava che quei petali erano proprio quelli che,
ecc.: tutta una precoce educazione dell'arte di vedere, di andare oltre le apparenze
ingannevoli, di discernere le vere identità, che fornisce a questa descrizione,
d'altronde iterativa, una durata piena a livello di storia. Identico lavoro di
discernimento davanti alla fontana di Hubert Robert, di cui riproduco
integralmente la descrizione limitandomi a sottolineare i termini designanti la
durata dello spettacolo e l'attività del protagonista, mascherata qui da un pronome
impersonale falsamente generalizzante (è un po' il caso dell'«on» di Brichot) che
moltiplica la sua presenza senza abolirla:
In una radura contornata da begli alberi tra cui molti erano più antichi di esso, piantato in disparte, da lontano si scorgeva il
famoso zampillo, snello, immobile, solido, non offrente al soffio della brezza che il ricadere più lieve del suo pennacchio
pallido e fremente. Il secolo XVIII aveva purificato l'eleganza delle sue linee, ma, fissando lo stile dello zampillo, pareva ne
avesse fermato la vita; a quella distanza, provavamo l'impressione dell'arte più che non la sensazione dell'acqua. Perfino l'umida
nuvola che si addensava perennemente sulla sua vetta, conservava il carattere dell'epoca, come quelle che in cielo s'adunano
intorno al castello di Versailles. Ma, da presso, ci si rendeva conto come, pur rispettando, al pari delle pietre d'un antico
palazzo, il disegno tracciato in precedenza, fossero acque sempre nuove quelle che, slanciandosi obbedienti agli antichi ordini
dell'architetto, li adempivano proprio quando sembravano violarli, giacché solo i loro mille balzi sparsi potevano dare, a
distanza, l'impressione d'un unico slancio. E questo, in realtà, s'interrompeva non meno sovente di quanto non s'infrangesse
l'acqua ricadendo, mentre da lontano, mi era sembrato inflessibile, denso, d'una continuità senza lacune. Accostandoci un poco,
vedevamo che tale continuità, in apparenza tutta lineare, era assicurata, in ogni punto dell'ascesa dello zampillo, ovunque esso
avrebbe dovuto spezzarsi, dall'entrata in gioco, dalla ripresa laterale d'uno zampillo parallelo, che saliva più in alto del
primo ed era, a sua volta, a un'altezza maggiore ma ormai per lui stancante, ripreso da un terzo. Più vicino, gocciole senza
forza ricadevano dalla colonna d'acqua, scontrandosi al passaggio con le loro sorelle in ascesa, e a volte, lacerate, afferrate
in un risucchio dell'aria agitata da quello zampillio senza tregua, fluttuavano prima di riversarsi nella vasca. Con le loro
esitazioni, con il loro tragitto in senso inverso, esse turbavano, sfumandole col loro molle vapore, la linearità e la tensione di
quello stelo, sormontato da una nuvola oblunga di mille goccioline, ma in apparenza tinto d'un color bruno-dorato e
immutabile, che saliva, infrangibile, immobile, slanciato e rapido, a congiungersi con le nuvole in cielo. Per disgrazia,
bastava un colpo di vento a proiettarlo obliquamente sulla terra: a volte, anche un solo zampillo disobbediente mutava
rotta, e, se la folla incauta e contemplativa non si fosse tenuta a una rispettosa distanza, avrebbe rischiato di bagnarsi fino
alle ossa283.
Ritroviamo ancora una situazione analoga, molto più ampiamente sviluppata,
durante la matinée dai principi Guermantes, le cui prime trenta pagine, se non di
più284, si basano sull'attività di discernimento e di identificazione imposte al
protagonista dall'invecchiamento di un'intera « società». A prima vista sono trenta
pagine puramente descrittive: quadro del salotto Guermantes dopo dieci anni di
assenza. In realtà, si tratta piuttosto di un racconto: del come l'eroe, passando
dall'uno all'altro (o dagli uni agli altri) deve ogni volta fare lo sforzo — in qualche
caso infruttuoso - di riconoscere in quel vecchietto il duca di Chàtellerault, sotto la
barba il signor d'Argencourt, il principe d'Agrigento nobilitato dall'età, in un
vecchio colonnello il giovane conte di..., Bloch come Bloch padre, ecc., lasciando
percepire a ogni incontro «il lavoro spirituale che (lo) faceva esitare fra tre o
quattro persone», e l'altro «lavoro spirituale», ancora più sconvolgente, quello
dell'identificazione in sé: «Infatti, riconoscere qualcuno, o, più ancora, dopo non
essere riusciti a riconoscerlo, identificarlo, significa pensare sotto una sola
denominazione due cose contraddittorie, significa ammettere che, quel che era,
l'essere che ricordiamo, non esiste più e quel che c'è è un essere che non
conosciamo; significa dover penetrare un mistero quasi altrettanto sconcertante del
mistero della morte, di cui, del resto, esso è come la prefazione e l'annunciatore» 285.
Sostituzione dolorosa, come quella che, davanti alla chiesa di Balbec, si deve
operare dal reale all'immaginario: «il mio spirito si stupiva di vedere la statua che
mille volte aveva scolpito, ridotta ora alla sua propria apparenza di pietra, di cui
potevo misurare l'altezza», opera d'arte «metamorfosata, come la chiesa stessa, in
una vecchietta di pietra di cui potevo misurare l'altezza e contare le rughe» 286.
Sovrapposizione euforica, invece, quella offerta dal confronto fra il ricordo di
Combray e il paesaggio di Venezia, «impressioni analoghe... ma trasposte in un
mondo completamente diverso e più ricco» 287. Giustapposizione difficile infine,
quasi acrobatica, delle tessere di «paesaggio all'alba» scorte alternativamente dai due
opposti finestrini del vagone ferroviario fra Parigi e Balbec, che obbliga il
protagonista a «correre da un finestrino all'altro per avvicinare, per rintelare i
frammenti intermittenti e opposti del (suo) bel mattino scarlatto e versatile e
averne una veduta totale e un quadro continuo»288.
La contemplazione in Proust, come si vede, non è una folgorazione istantanea
(come la reminiscenza) e neppure un momento d'estasi passivo e riposante: è
un'attività intensa, intellettuale e spesso fisica, la cui descrizione, in ultima analisi, è
un racconto come un altro. S'impone quindi una conclusione: la descrizione, in
Proust, si riassorbe in narrazione e il secondo tipo canonico di movimento —
quello della pausa descrittiva - in lui non è reperibile, per l'evidente ragione che la
descrizione, nel suo caso, è tutto tranne una pausa del racconto.
Ellissi.
Assenza del racconto sommario, assenza della pausa descrittiva: nel quadro del
racconto proustiano sussistono quindi solo due dei movimenti tradizionali: la scena
e l'ellissi. Prima di considerare il regime temporale e la funzione della scena
proustiana, diciamo qualche parola sull'ellissi. In questo caso, è evidente, si tratta
dell'ellissi in senso proprio, o ellissi temporale, tralasciando le omissioni laterali, a cui
abbiamo riservato il nome di parallissi.
Dal punto di vista temporale, l'analisi dell'ellissi è riconducibile alla
considerazione del tempo di storia eliso, e il primo problema, in tal caso, è sapere
se questa durata è indicata (ellissi determinate) oppure no (ellissi indeterminate). Così,
fra la fine di Gilberte e l'inizio di Balbec, si inserisce un'ellissi di due anni chiaramente
determinata: «Ero giunto a un'indifferenza quasi completa nei confronti di
Gilberte, quando due anni più tardi partii con mia nonna per Balbec» 289;
ricordiamo al contrario come le due ellissi relative alla permanenza del
protagonista in casa di cura siano (quasi) ugualmente indeterminate («lunghi anni»,
«molti anni»), e la loro analisi si riduca a inferenze a volte difficili.
Dal punto di vista formale, verranno distinte:
a) Le ellissi esplicite come quelle appena citate, che procedono sia tramite
indicazione (determinata o no) del lasso di tempo da loro eliso, assimilabili perciò a
sommari rapidissimi, sul tipo « trascorsero molti anni»: è questa indicazione allora a
costituire l'ellissi in quanto segmento testuale, non completamente uguale a zero; sia
tramite elisione pura e semplice (grado zero del testo ellittico) con indicazione del
tempo trascorso alla ripresa del racconto: sul tipo «due anni dopo» citato poco fa;
forma, com'è chiaro, più rigorosamente ellittica, benché altrettanto esplicita e non
necessariamente più breve: ma il sentimento narrativo, della lacuna, è mimato dal
testo in maniera più analogica, più «iconica», nel senso dato da Peirce e da
Jakobson290. Entrambe le forme, d'altra parte, possono aggiungere all'indicazione
puramente temporale un'informazione di contenuto diegetico, sul genere: «
trascorsero alcuni anni di felicità» oppure: «dopo alcuni anni di felicità». Ellissi qualificate
che costituiscono una delle risorse della narrazione romanzesca: nella Chartreuse de
Parme Stendhal ce ne fornisce un esempio mirabile, dopo gli incontri notturni di
Fabrice e Clélia: «Qui, chiediamo il permesso di passare, senza dirne una sola parola,
su uno spazio di tre anni... Dopo quei tre anni di divina felicità...»291. Aggiungiamo
che la qualificazione negativa è una qualificazione come un'altra: è il caso di
Fielding, che si vanta con una certa esagerazione di essere il primo a variare il
ritmo del racconto e a elidere i tempi morti dell'azione 292, quando salta oltre dodici
anni della vita di Tom Jones arguendo che quel periodo «non offre (a suo parere)
nessun episodio degno di entrare nella sua storia » 293; sappiamo fino a che punto
Stendhal ammirasse e imitasse questa disinvoltura. Nella Recherche, le due ellissi che
inquadrano l'episodio della guerra costituiscono evidentemente delle ellissi
qualificate, dato che possiamo apprendere come Marcel abbia passato quegli anni
in una casa di cura, a curarsi senza guarire e senza scrivere. Ma è quasi analoga,
benché retrospettiva, quella che apre Balbec I, poiché dire «ero giunto a
un'indifferenza quasi completa nei confronti di Gilberte, quando due anni più
tardi...» equivale a dire «durante due anni, mi staccai a poco a poco da Gilberte».
b) Le ellissi implicite, cioè quelle la cui stessa presenza non è dichiarata nel testo,
inferibili da parte del lettore solo tramite qualche lacuna cronologica o soluzioni di
continuità narrativa. È il caso del tempo indeterminato che trascorre fra la fine
delle Jeunes filles en fleurs e l'inizio di Guermantes: sappiamo che Marcel è rientrato a
Parigi, dove ha ritrovato la sua «vecchia camera dal soffitto basso» 294; lo ritroviamo
in un nuovo appartamento annesso a palazzo Guermantes, il che suppone almeno
l'ellissi di qualche giorno e forse molto di più. Caso analogo, se non più
imbarazzante, per i mesi che seguono la morte della nonna 295. Ellissi che è
perfettamente muta: abbiamo lasciato la nonna sul suo letto funebre, molto
probabilmente all'inizio dell'estate, il racconto riprende nei seguenti termini:
«Benché fosse soltanto una domenica d'autunno...» L'ellissi è apparentemente
determinata grazie all'indicazione della data, ma in maniera estremamente
imprecisa, destinata poi a diventare piuttosto confusa 296; soprattutto è, e lo rimarrà,
non qualificata: non sapremo mai niente, neppure retrospettivamente, di quella che
è stata la vita dell'eroe durante quei pochi mesi. Si tratta forse del silenzio più
opaco di tutta la Recherche, reticenza che (se ricordiamo come la morte della nonna
adombri in gran parte quella della madre dell'autore) è tutt'altro che priva di
significato297.
c) La forma più implicita dell'ellissi è, infine, l'ellissi ipotetica che non è possibile
localizzare, e a volte inserire in un punto preciso, rivelata solo in un secondo tempo
da un'analessi simile a quelle già incontrate nel precedente capitolo 298: viaggi in
Germania, sulle Alpi, in Olanda, servizio militare: evidentemente ci troviamo ai
limiti della coerenza del racconto, il che equivale a trovarsi ai limiti della validità
dell'analessi temporale. Ma tracciare i limiti non è poi il compito più ozioso di un
metodo d'analisi; e, sia detto per inciso, lo studio di un'opera come La recherche du
temps perdu secondo i criteri del racconto tradizionale ha forse invece per
giustificazione fondamentale la possibilità di determinare con precisione i punti in
cui, deliberatamente o meno, quest'opera oltrepassa tali criteri.
Scena.
Se prendiamo in considerazione il fatto che le ellissi, qualunque sia il loro numero
e il loro potere d'elisione, rappresentano una parte del testo praticamente nulla,
dobbiamo giungere forzatamente alla seguente conclusione, cioè che la totalità del
testo narrativo proustiano può definirsi come scena, nel senso temporale in cui
definiamo qui questo termine, astraendo per ora dal carattere iterativo di alcune di
esse299. È quindi finita con la tradizionale alternanza sommario/scena, che, come
vedremo poi, è sostituita da un'altra alternanza. Dobbiamo però fin d'ora osservare
un cambiamento di funzione che modifica, comunque, il ruolo strutturale della
scena.
Nel tipico racconto romanzesco, come funzionava prima della Recherche,
l'opposizione di movimento fra scena particolareggiata e racconto sommario
rinviava sempre a una opposizione di contenuto fra drammatico e non drammatico
dove i tempi forti dell'azione coincidevano con i momenti più intensi, mentre i
tempi deboli venivano riassunti a grandi linee e come molto da lontano, secondo il
principio esposto da Fielding. Il ritmo vero del canone romanzesco, ancora
percepibilissimo in Bovary, è perciò l'alternanza di sommari non drammatici, con
funzione di attesa e di connessione, e di scene drammatiche il cui ruolo,
nell'azione, è decisivo300.
Possiamo ancora riconoscere uno statuto del genere in alcune scene della
Recherche, quali il «dramma del coricarsi», la profanazione di Montjouvain, la sera
delle cattleya, la grande ira di Charlus nei confronti di Marcel, la morte della nonna,
l'esclusione di Charlus, e naturalmente (benché in un caso simile si tratti di una «
azione» completamente interiore) la rivelazione finale 301, episodi che segnano tutti
delle tappe irreversibili nel compiersi di un destino. Ma è evidentissimo che tale
non è la funzione delle scene più lunghe e più tipicamente proustiane, cinque
enormi scene che occupano da sole quasi seicento pagine: la matinée Villeparisis, il
pranzo Guermantes, il ricevimento dalla principessa, la serata alla Raspelière, la
matinée dai principi di Guermantes302. Come abbiamo già osservato, ognuna di
queste scene ha un valore inaugurale: segna l'ingresso del protagonista in un nuovo
luogo (ambiente), e vale per tutta la serie (da essa inaugurata) di scene simili che
non verranno riferite: altri ricevimenti dalla signora di Villeparisis, e nella società
dei Guermantes, altri pranzi da Oriane, altri inviti dalla principessa, altre se-rate alla
Raspelière. Nessuna di tali riunioni mondane merita maggior attenzione delle altre
analoghe, che la seguono, e sono da essa rappresentate solo per il fatto che è la
prima della serie, e in quanto tale suscita una curiosità destinata, subito dopo, ad
essere a poco a poco smussata dall'abitudine 303. In questo caso non si tratta dunque
di scene drammatiche, ma piuttosto di scene tipiche, o esemplari, dove l'azione
(anche nell'accezione vastissima che si deve dare al termine all'interno dell'universo
proustiano) si cancella quasi completamente a favore della caratterizzazione
psicologica e sociale304.
Cambiamento di funzione che porta con sé una sensibilissima modificazione
nella tessitura temporale: al contrario della tradizione anteriore, che faceva della
scena un luogo di concentrazione drammatica, quasi totalmente svincolato dagli
impedimenti descrittivi o discorsivi, e ancor più dalle interferenze anacroniche, la
scena proustiana — J. P. Houston l'ha notato 305 - sostiene all'interno del romanzo
un ruolo di « focolaio temporale » o di polo magnetico per ogni tipo
d'informazione o di circostanze annesse: quasi sempre gonfia, per non dire
ingombra di digressioni d'ogni sorta, retrospezioni, anticipazioni, parentesi iterative
e descrittive, interventi didascalici del narratore, ecc., tutti destinati a raggruppare,
in una sillessi, intorno alla riunione/pretesto, un nodo di avvenimenti e di
considerazioni capaci di darle un valore pienamente paradigmatico. Una detrazione
estremamente approssimativa, basata sulle cinque grandi scene in oggetto, fa
risultare abbastanza chiaramente il peso relativo di questi elementi esterni alla
riunione raccontata, ma tematicamente essenziali a ciò che Proust chiamava la sua «
supernutrizione » : nella matinée Villeparisis, 34 pagine su 100; nel pranzo
Guermantes 63 su 130; nella serata Guermantes 25 su 90; nell'ultima matinée
Guermantes, per finire, dove le prime pagine sono occupate da una commistione
quasi indiscernibile fra monologo interiore del protagonista e discorso teorico del
narratore, mentre il resto è trattato (come vedremo poi) su un modo
essenzialmente iterativo, la proporzione si rovescia e sono i momenti propriamente
narrativi (appena 50 pagine su 180) a dare l'impressione di emergere da una specie
di magma descrittivo-discorsivo molto lontano dai criteri abituali della temporalità
« scenica » e addirittura da qualsiasi temporalità narrativa - come quelle briciole
melodiche percepibili nelle prime misure della Valse, attraverso una nebbia di ritmo
e d'armonia. Ma nel caso presente la nebulosa non è incoativa, come quella di
Ravel o delle prime pagine di Swann, bensì l'opposto: come se in quest'ultima scena
il racconto volesse, per finire, dissolversi progressivamente ed esibire l'immagine
deliberatamente confusa e sottilmente caotica della sua stessa sparizione.
Vediamo quindi che il racconto proustiano non lascia intatto nessun movimento
narrativo tradizionale, e l'insieme del sistema ritmico della narrazione romanzesca
si trova perciò ad essere profondamente alterato. Ma ci rimane da prendere in
considerazione un'ultima modificazione, senz'altro la più decisiva, le cui emergenze
e generalizzazioni sono destinate a dare alla temporalità narrativa della Recherche
una cadenza completamente nuova — un ritmo inaudito nel vero senso della
parola.
3. Frequenza
Singolativo-iterativo.
Quella a cui do il nome di frequenza narrativa - cioè, le relazioni di frequenza (o più
semplicemente di ripetizione), fra racconto e diegesi - è stata finora studiata
pochissimo dai critici e dai teorici del romanzo. Si tratta nondimeno di uno degli
aspetti fondamentali della temporalità narrativa (e d'altronde, al livello della lingua
comune, molto noto ai grammatici, precisamente nella categoria dell'aspetto).
Un evento non è solo in grado di prodursi: può anche riprodursi, o ripetersi: il
sole sorge tutti i giorni. L'identità di queste molteplici manifestazioni è, beninteso,
a rigor di termini contestabile: il «sole» che «sorge» ogni mattina non è esattamente
lo stesso da un giorno all'altro - proprio come il treno «Ginevra-Parigi delle 8,45»
caro a Ferdinand de Saussure non è composto, tutte le sere, dagli stessi vagoni
agganciati alla medesima locomotiva306. La «ripetizione» è in realtà una costruzione
dello spirito, che elimina da ogni ricorrenza tutto quanto le appartiene in esclusiva,
per limitarsi a conservare solo quel che essa ha in comune con tutte le altre
ricorrenze della medesima classe, il che è un'astrazione: il «sole», «la mattina»,
«sorgere». Cosa risaputa, che ricordo per precisare una volta per tutte come, nel
nostro caso, chiameremo «eventi identici», ovvero «ricorrenza del medesimo
evento» una serie di vari eventi simili fra loro, e considerati unicamente nella loro
somiglianza.
Simmetricamente, un enunciato narrativo non è soltanto prodotto, ma può
riprodursi, ripetersi una o più volte nel medesimo testo: niente mi proibisce di dire
o di scrivere: Ieri sera è venuto Pietro, ieri sera è venuto Pietro, ieri sera è venuto
Pietro. Anche in questo caso, identità e ripetizione costituiscono astrazioni, dato
che nessuna circostanza è materialmente (fonicamente o graficamente)
completamente identica alle altre (linguisticamente) per il semplice fatto che la loro
stessa compresenza, e successione, diversifica i tre enunciati in un primo, uno
successivo e un ultimo. Possiamo ancora, per questo, fare riferimento alle celebri
pagine del Cours de linguistique générale sul «problema delle identità». Si tratta, nel caso
presente, di assumere una nuova astrazione, e noi l'assumeremo.
Fra queste capacità di «ripetizione» degli eventi narrati (della storia) e degli
enunciati narrativi (del racconto) si stabilisce un sistema di relazioni che possiamo
a priori ricondurre a quattro tipi virtuali, per il semplice prodotto delle due
possibilità offerte dall'una e dall'altra parte: evento ripetuto oppure no, enunciato
ripetuto oppure no. Possiamo dire, molto schematicamente, che un racconto, di
qualsiasi tipo, può raccontare una volta sola quanto è avvenuto una volta sola, n
volte quanto è avvenuto n volte, n volte quanto è avvenuto una sola volta, una volta
quanto è avvenuto n volte. Cerchiamo di fermarci a studiare con più tranquillità
questi quattro tipi di rapporti di frequenza.
Raccontare una volta sola quanto e avvenuto una volta sola (ossia, se vogliamo
sintetizzare in una formula pseudomatematica : 1R/1S ). Prendiamo un enunciato
come : « Ieri mi sono coricato presto». Una forma simile di racconto, dove la
singolarità dell'enunciato narrativo corrisponde alla singolarità dell'evento narrato
è, evidentemente, di gran lunga la più sfruttata. A tal punto sfruttata, a tal punto
considerata «normale», che non ha nessun nome, almeno nella nostra lingua.
Tuttavia, per rendere ben chiaro che si tratta soltanto di una possibilità fra le altre,
propongo di dargliene uno: d'ora in poi lo chiamerò racconto singolativo —
neologismo (spero) trasparente, che ogni tanto risparmieremo, usando nella
medesima accezione tecnica l'aggettivo «singolare»: scena singolativa o
singolare.Raccontare n volte quanto è avvenuto n volte (nR/nS). Prendiamo l'enunciato:
«Lunedì mi sono coricato presto, martedì mi sono coricato presto, mercoledì mi
sono coricato presto, ecc.». Dal punto di vista che ci interessa qui, cioè dal punto di
vista delle relazioni di frequenza fra racconto e storia, si tratta di un tipo anaforico
che, in realtà, resta singolativo, e quindi riconducibile al precedente, poiché in esso
le ripetizioni del racconto si limitano a corrispondere (secondo una corrispondenza
che Jakobson qualificherebbe iconica) alle ripetizioni della storia. Il singolativo
quindi non si definisce mediante il numero di eventi di entrambe le parti, ma
mediante l'uguaglianza di questo numero307.
Raccontare n volte quanto è avvenuto una volta sola (nR/1S). Prendiamo un enunciato
come il seguente: « Ieri mi sono coricato presto, ieri mi sono coricato presto, ieri
mi sono coricato presto, ecc. » 308. Forma che può sembrare solo ipotetica, rampollo
informe dello spirito combinatorio, senza alcuna pertinenza letteraria. Ricordiamo
però che alcuni testi moderni si basano su questa capacità di ripetizione del
racconto: si pensi, per esempio, a un episodio ricorrente come la morte del
millepiedi in La Jalousie. Lo stesso episodio può, d'altra parte, essere raccontato
varie volte non solo con varianti stilistiche (in genere, in Robbe-Grillet, si verifica
un caso simile), ma anche con variazioni del «punto di vista», come in Rashomon o
in The Sound and the Fury309. Il romanzo epistolare del xvm secolo conosceva già
questo genere di confronti, e le anacronie «ripetitive» da noi incontrate nel 1
capitolo (preannunci, richiami) rientrano in questo tipo narrativo, da esse realizzato in
maniera più o meno fuggevole. Pensiamo anche (fatto non tanto estraneo alla
funzione letteraria come possiamo credere) come ai bambini faccia piacere se
raccontiamo varie volte — addirittura varie volte di seguito — la medesima storia,
o se rileggiamo loro il medesimo libro, gusto che non è affatto privilegio esclusivo
dell'infanzia: più avanti prenderemo in esame, in maniera abbastanza precisa, la
«scena del pranzo del sabato a Combray», che termina con un tipico esempio di
racconto rituale, dove le ricorrenze dell'enunciato non corrispondono a nessuna
ricorrenza di eventi, racconto ripetitivo.
Infine, raccontare una volta sola (o meglio: in una volta sola) quanto è avvenuto n volte
(R/nS). Torniamo al nostro secondo tipo, o singolativo anaforico: «Lunedì mi
sono coricato presto, martedì, ecc.». Quando nella storia si producono tali
fenomeni di ripetizione, è ovvio, il racconto non è affatto obbligato a riprodurli nel
suo discorso come se fosse incapace del minimo sforzo d'astrazione e di sintesi: in
realtà, salvo un voluto effetto stilistico, il racconto in questo caso (perfino il più
frusto) troverà una formulazione sillettica 310 come: «tutti i giorni» oppure «tutta la
settimana», o anche «tutti i giorni della settimana mi sono coricato presto».
Sappiamo tutti, per lo meno, quale variante di questo artificio inauguri La recherche
du temps perdu. Questo tipo di racconto, dove un'unica emissione narrativa assume
contemporaneamente311 varie manifestazioni dello stesso evento (cioè, ancora una
volta, vari eventi considerati nella loro analogia e basta) lo chiameremo racconto
iterativo. È questo un procedimento linguistico estremamente sfruttato, e
probabilmente universale, o quasi universale, nella varietà delle sue forme 312, molto
noto ai grammatici, che gli hanno dato un nome313. La sua applicazione letteraria,
in compenso, non sembra finora aver suscitato un'attenzione vivissima. Si tratta
tuttavia di una forma proprio tradizionale, di cui possiamo trovare esempi fin
dall'epopea omerica, e lungo tutto il corso della storia del romanzo classico e
moderno314.
Nel racconto classico però, e anche fino a Balzac, i segmenti iterativi sono quasi
sempre in stato di subordinazione funzionale nei confronti delle scene singolative,
cui essi forniscono una specie di cornice o di sfondo informativo, secondo un
modulo magnificamente illustrato, ad esempio, in Eugénie Grandet dal quadro
preliminare di vita quotidiana nella famiglia Grandet, con la sola funzione di
preparare l'inizio del racconto propriamente detto: «Nel 1819, sul far della sera, a
metà novembre, la Grande Nanon accese per la prima volta il fuoco...» 315. La
funzione classica del racconto iterativo è quindi abbastanza vicina a quella della
descrizione, con cui ha, d'altra parte, rapporti strettissimi: il «ritratto morale», per
esempio, che costituisce una varietà del genere descrittivo, procede spessissimo per
accumulazione di caratteri iterativi (vedi La Bruyère). Nel romanzo tradizionale il
racconto iterativo è, come la descrizione, al servizio del racconto «propriamente
detto», cioè il racconto singolativo. Il primo romanziere che abbia tentato di
emanciparlo da questa dipendenza funzionale è, chiaramente, Flaubert in Madame
Bovary, dove pagine come quelle che raccontano la vita di Emma in convento, a
Tostes (prima e dopo il ballo alla Vaubyessard), oppure i giovedì a Rouen con
Leon316, assumono un'ampiezza e un'autonomia completamente inusitate. Ma
nessuna opera romanzesca, apparentemente, ha mai fatto un uso dell'iterativo
paragonabile - per estensione testuale, per importanza tematica, per grado
d'elaborazione tecnica — a quello fatto da Proust nella Recherche du temps perdu.
Le prime tre grandi sezioni della Recherche, cioè Combray, Un amour de Swann e
Gilberte (Noms de pays: le Nom e Autour de Madame Swann) possono essere considerate
come essenzialmente iterative. A parte alcune scene singolative (d'altronde
drammaticamente importantissime, come la visita di Swann, l'incontro con la
Signora vestita di rosa, gli episodi Legrandin, la profanazione di Montjouvain,
l'apparizione della duchessa in chiesa e la passeggiata ai campanili di Martinville) il
testo di Combray racconta, all'imperfetto di ripetizione, non cosa è accaduto, ma
cosa accadeva regolarmente a Combray, ritualmente, tutti i giorni, o tutte le
domeniche, o tutti i sabati, ecc. Il racconto degli amori di Swann e Odette sarà
condotto ancora una volta, nella parte essenziale, su questo modulo dell'abitudine e
della ripetizione (eccezioni più vistose: le due serate dai Verdurin, la scena delle «
cattleya», il concerto Sainte-Euverte), come quello degli amori di Marcel e Gilberte
(scene singolative degne di nota: la Berma, il pranzo con Bergotte). Un calcolo
approssimativo (la precisione, in questo caso, non avrebbe nessuna pertinenza)
mette in evidenza qualcosa come 115 pagine iterative contro 70 singolative in
Combray, 91 contro 103 in Un amour de Swann, 145 contro 113 in Gilberte, ossia al-
l'incirca 350 contro 285 per l'insieme delle tre sezioni. La predominanza del
singolativo si stabilisce (o si ristabilisce, se pensiamo a quale fosse la proporzione nel
racconto tradizionale) 317 solo a partire dal primo soggiorno a Balbec. Ma si
possono notare, fino alla fine, numerosi segmenti iterativi, come le passeggiate a
Balbec con la signora di Villeparisis nelle Jeunes filles en fleurs, le manovre del
protagonista, all'inizio di Guermantes, per incontrare tutte le mattine la duchessa, i
quadri di Doncières, i viaggi nel trenino della Raspelière, la vita con Albertine a
Parigi, le passeggiate a Venezia318.
Occorre ancora osservare la presenza di passaggi iterativi all'interno di scene
singolari: così, all'inizio del pranzo dalla duchessa, la lunga parentesi consacrata allo
spirito dei Guermantes319. In tal caso, il campo temporale coperto dal segmento
iterativo oltrepassa chiaramente di gran lunga quello della scena in cui s'inserisce:
l'iterativo, in un certo senso, spalanca una finestra sulla durata esterna. Un simile
tipo di parentetiche, le qualificheremo perciò iterazioni generalizzanti, o iterazioni
esterne. Un altro tipo, molto meno classico, di passaggio all'iterativo durante una
scena singolare, consiste nel trattare la durata della scena stessa in maniera
parzialmente iterativa, con la conseguenza che, a partire da quel momento, essa
viene sintetizzata mediante una specie di classificazione paradigmatica degli
avvenimenti che la compongono. Il passaggio dell'incontro fra Charlus e Jupien,
quando vediamo il barone alzare «a tratti» gli occhi e gettare al farsettaio uno
sguardo attento, è un esempio limpidissimo di tale artificio, per quanto esercitato
su una durata necessariamente brevissima: « Ogni volta che il signor di Charlus
guardava Jupien, faceva in modo che lo sguardo fosse accompagnato da una
parola... Così, ogni due minuti, la medesima domanda pareva intensamente rivolta a
Jupien... » Il carattere iterativo dell'azione è confermato in questo caso
dall'indicazione di frequenza, di una precisione totalmente iperbolica 320. Nell'ultima
scena del Temps retrouvé troviamo nuovamente il medesimo effetto, su scala molto
più vasta, quasi costantemente trattato sul modulo iterativo: a dominare la
composizione del testo, non è tanto lo svolgimento diacronico del ricevimento
presso la principessa, nella successione degli eventi che lo colmano, ma piuttosto
l'enumerazione di un certo numero di classi di circostanze, ognuna delle quali
sintetizza vari eventi, dispersi in realtà nel corso dell'intera matinée: «In molti
(invitati), finivo per riconoscere... in pieno contrasto con costoro, ebbi la sorpresa
di conversare con uomini e donne che... Alcuni uomini zoppicavano... Certi volti...
sembravano borbottare la preghiera degli agonizzanti... Nelle donne, il candore dei
capelli... mi impressionava... Quanto ai vecchi... v'erano uomini, che sapevo
imparentati... Le donne troppo belle... o troppo brutte...Certi uomini, certe
donne... Anche in quegli stessi uomini... Più d'una persona... A volte... ma c'erano
altresì persone, ecc.»321. Chiamerò questo secondo tipo iterazione interna o
sintetizzante, nel senso che la sillessi iterativa, in questo caso, non si esercita su una
durata di tempo più vasta, bensì sulla durata della scena stessa.
La medesima scena può d'altronde contenere entrambi i tipi di sillessi: durante lo
stesso ricevimento Guermantes, Marcel evoca, con un'iterazione esterna, i rapporti
amorosi fra il duca e Odette: «Era sempre da lei... Passava le giornate e le serate
con Odette... le lasciava ricevere degli amici... ogni tanto... la "Signora vestita di
rosa" lo interrompeva con qualche frase insulsa... D'altronde, Odette ingannava il
signor di Guermantes...»322: l'iterativo, ovviamente, sintetizza qui vari anni di
rapporti fra Odette e Basin, e perciò una durata molto più vasta di quella del
ricevimento dai principi di Guermantes. Ma succede che i due tipi d'iterazione si
confondano a tal punto che il lettore non sia in grado di distinguerli, o di
sbrogliarli. Così, nella scena del pranzo dai Guermantes, incontriamo all'inizio di
pagina 534 una iterazione interna senza ambiguità: «Né potrei dirvi del resto
quante volte durante quella serata sentii le parole "cugino" e "cugina"». Ma la frase
seguente, sempre iterativa, può già fondarsi su una durata più vasta: «Da un lato, il
signor di Guermantes, quasi ad ogni nome che sentiva, esclamava: — È un cugino
d'Oriane! » Una terza frase ci riconduce forse alla durata scenica: «D'altra parte,
quelle stesse parole di "cugino" e "cugina" erano impiegate in un'intenzione affatto
diversa dall'ambasciatrice di Turchia, venuta dopo pranzo...» Ma il seguito ha un
carattere iterativo visibilmente esterno alla scena, dato che esso continua con una
specie di ritratto generale dell'ambasciatrice: «Rosa dall'ambizione mondana e
dotata di una reale intelligenza assimilatrice, essa imparava con la stessa facilità la
storia della ritirata dei Diecimila o la perversione sessuale degli uccelli... Ed era
inoltre una donna pericolosa da ascoltare... Essa era, a quel tempo, ancor poco
ricevuta...», cosicché, quando il racconto fa ritorno alla conversazione fra il duca e
l'ambasciatrice, non possiamo sapere se si tratta di quella conversazione (durante
quel pranzo) oppure di un'altra: «Sperava di aver l'aria assolutamente mondana
citando i nomi più grossi di quelle persone poco note che erano in amicizia con lei.
Subito il signor di Guermantes, credendo che si trattasse delle stesse persone che
cenavano spesso in casa sua, aveva un fremito gioioso, nel ritrovarsi in una terra
conosciuta, e lanciava il suo grido di raccolta: — Ma è un cugino d'Oriane! »
Analogamente, una pagina dopo, per il trattamento iterativo imposto da Proust alle
conversazioni genealogiche fra il duca e il signor di Beauserfeuil, che cancella ogni
demarcazione fra il primo pranzo dai Guermantes, oggetto della scena in
questione, e l'insieme della serie da esso inaugurata.
La stessa scena singolativa, in Proust, non è dunque scevra di una specie di
contaminazione da parte dell'iterativo. L'importanza di questo modo, o meglio di
questo aspetto narrativo, è maggiormente accentuata dalla presenza, estremamente
caratteristica, di quel che chiamerò lo pseudoiterativo, cioè scene presentate come
iterative (in particolare servendosi della redazione all'imperfetto), mentre la
ricchezza e la precisione dei particolari fanno in modo che nessun lettore possa
credere sul serio che esse si siano prodotte e riprodotte in quella maniera, varie
volte, senza nessuna variazione 323 : è il caso di certe lunghe conversazioni fra
Léonie e Françoise (tutte le domeniche a Combray), fra Swann e Odette, con la
signora di Villeparisis a Balbec, dalla signora Swann a Parigi, in tinello fra Françoise
e il « suo » domestico, oppure per la scena del calembour di Oriane, «Taquin le
Superbe»324. In tutti questi casi, e in alcuni altri, una scena singolativa è stata
convertita in scena iterativa come arbitrariamente, e senza nessuna modificazione,
se si eccettua l'uso dei tempi. Operazione in cui, evidentemente, è reperibile una
convenzione letteraria, vorrei dire una licenza narrativa, proprio come si dice licenza
poetica, il che suppone da parte del lettore una grande compiacenza, o per dirla
come Coleridge, una « sospensione volontaria dell'incredulità». Convenzione
peraltro antichissima: ne prendo un esempio a caso in Eugénie Grandet (dialogo fra
la signora Grandet e il marito, Garnier, pp. 205-6) e un altro in Lucien Leuwen
(conversazione fra Leuwen e Gauthier nel VII capitolo della I parte); ma
ugualmente reperibile in Cervantes: vedi il monologo del vecchio Carrizales nel
Geloso d'Estremadura 325 che, secondo quanto ci riferisce l'autore, è stato tenuto «non
una, ma cento volte», cosa interpretata - è ovvio - da qualsiasi lettore come
iperbole, non solo per l'indicazione del numero, ma anche per l'asserzione di stretta
identità fra numerosi soliloqui all'incirca simili, di cui quello in oggetto fornisce
una specie di campione; in breve, lo pseudoiterativo costituisce tipicamente nel
racconto classico una figura della retorica narrativa, che non esige di essere presa
alla lettera, ma esattamente il contrario: il racconto afferma letteralmente « questo
avveniva tutti i giorni » per fare capire figuratamente: «tutti i giorni avveniva
qualcosa del genere, dunque questo episodio ne è una realizzazione fra le altre».
È possibile, evidentemente, trattare così i vari esempi di pseudo-iterazione rilevati
in Proust326. Mi sembra tuttavia che la loro ampiezza, soprattutto se riferita
all'importanza (già osservata) dell'iterativo in generale, proibisca questa riduzione.
La convenzione dello pseudo-iterativo in Proust non funziona secondo il modulo
deliberato e puramente figurativo che gli è proprio nel racconto classico: nel
racconto proustiano esiste veramente una tendenza tipica, e spiccatissima,
all'inflazione dell'iterativo, che si deve prendere, in questo caso, nella sua
impossibile letteralità.
La prova migliore (per quanto paradossale) ci viene fornita dai tre o quattro
momenti d'inavvertenza in cui Proust si lascia sfuggire, nel mezzo di una scena
data come iterativa, un passato remoto necessariamente singolativo: «E per giunta
sarà proprio durante la mia colazione! aggiunse a mezza voce, rivolta a se stessa... Al
nome di Vigny (la signora di Villeparisis), si mise a ridere... La duchessa dev'essere
imparentata con tutta quella gente, disse Fran- goise...»327. Oppure, trasmette a una
scena iterativa una conseguenza singolare per definizione, come nella seguente
pagina delle Jeunes filles en fleurs dove impariamo per bocca della signora Cottard
che, a ogni «mercoledì» di Odette, il protagonista ha fatto « di colpo, di primo
acchito, la conquista della signora Verdurin», il che fa supporre, in questa azione,
una capacità di ripetizione e di rinnovamento completamente opposta alla sua
natura328. In simili apparenti distrazioni, possiamo certamente vedere le tracce di
una prima redazione singolativa, di cui Proust avrebbe dimenticato o trascurato di
convertire alcuni verbi; ma, a mio avviso, è più giusto leggere tali lapsus come
altrettanti segni che lo scrittore giunga, a volte, a «vivere» personalmente scene
simili con un'intensità così forte da fargli dimenticare la distinzione degli aspetti —
il che esclude, da parte sua, l'atteggiamento consapevole del romanziere classico in
grado di utilizzare con piena lucidità una figura di pura convenzione. Confusioni
simili, a mio parere, denotano piuttosto, in Proust, una specie di ebbrezza
dell'iterazione.
È allettante mettere una caratteristica del genere in rapporto con un presunto
carattere dominante della psicologia proustiana, ossia un senso vivissimo
dell'abitudine e della ripetizione, il sentimento dell'analogia fra i vari momenti. Il
carattere iterativo del racconto non è sempre basato (come in Combray) sull'aspetto
effettivamente ripetitivo e abitudinario di una vita provinciale e piccolo-borghese
come quella della zia Léonie: motivazione non valida per l'ambiente parigino, e
neppure per il soggiorno a Balbec e a Venezia. L'essere proustiano in realtà (e
contrariamente a quanto si è spesso portati a credere) è tanto poco sensibile
all'individualità dei momenti quanto lo è, invece, spontaneamente, all'individualità
dei luoghi. In Proust gli istanti hanno una forte tendenza a somigliarsi e a
confondersi, capacità che, evidentemente, è la condizione stessa dell'esperienza
della «memoria involontaria». L'opposizione fra « singolarismo » della sua
sensibilità spaziale e iterativismo della sua sensibilità temporale si osserva
chiaramente, per esempio, in una frase di Swann, dove parla del paesaggio di
Guermantes, paesaggio «di cui l'individualità a volte, la notte in sogno, m'afferra
con una forza quasi fantastica» 329: individualità del luogo, ricorrenza indeterminata,
quasi erratica («a volte») del momento. così anche la pagina della Prisonnière dove la
singolarità di una mattina reale si cancella a vantaggio della « mattina ideale » che
essa suscita e rappresenta: «... grazie al mio rifiuto di gustare quella mattinata con i
sensi, godevo in immaginazione di tutte le mattinate simili, passate o possibili, e
più precisamente di un certo tipo di mattinate... colmava il mio spirito di una realtà
permanente, comune a tutte le mattinate simili, e suscitava in me
un'allegrezza...»330.
Ma il puro fattore della ricorrenza non definisce affatto l'iterazione nella sua
forma più rigorosa, e, apparentemente, più soddisfacente per lo spirito - o più
tranquillizzante per la sensibilità proustiana: è anche necessaria la regolarità della
ripetizione, l'obbedienza a una legge di frequenza, che deve essere palesabile e
formulabile, e quindi prevedibile nei suoi effetti. Fin dal primo soggiorno a Balbec,
in un momento in cui non è ancora divenuto intimo della «piccola brigata», Marcel
oppone quelle ragazze, le cui abitudini gli sono ignote, alle piccole venditrici della
spiaggia, che conosce già abbastanza per sapere «dove, a che
ora si possono ritrovare». Le ragazze, invece, sono assenti «certi giorni»
apparentemente indeterminati:
Ignorando la causa della loro assenza, cercavo se questa era una cosa fissa, se non le si vedeva che ogni due giorni, o quando
faceva un dato tempo, o se ci fossero giorni in cui non le si vedeva mai. M'immaginavo in anticipo amico loro, dicendo: - Ma non
c'eravate quel giorno? - Ah si, era sabato, il sabato non veniamo mai perché... - Almeno fosse stato così semplice sapere che
il triste sabato è inutile accanirsi, che si potrebbe percorrere la spiaggia in tutti i sensi, sedersi davanti ad una pasticceria,
far finta di mangiare una pasta, entrare nel negozio di curiosità, aspettare l'ora del bagno, il concerto, l'arrivo della marea, il
tramonto del sole, la notte, senza vedere la piccola brigata desiderata! Ma il giorno fatale non ricorreva forse una volta alla
settimana; non cadeva forse necessariamente di sabato. Forse certe condizioni atmosferiche influivano su di esso, oppure gli
erano interamente estranee. Quante osservazioni pazienti, ma nient'affatto serene, bisogna raccogliere sui movimenti in
apparenza irregolari di quei mondi sconosciuti prima di poter essere sicuri che non ci si è lasciati ingannare da
coincidenze, che le nostre previsioni non si dimostreranno erronee, prima di stabilire le leggi certe, apprese a prezzo di
esperienze crudeli, di questa astronomia appassionata! 331.
Estensione.
Un'unità iterativa può essere di durata così debole da non offrire alcun appiglio a
un'espansione narrativa: sia dato un enunciato quale: «tutte le sere mi corico
presto», oppure « tutte le mattine la sveglia suona alle sette». Si tratta in tal caso
d'iterazioni, in un certo senso, puntuali. Ma un'unità iterativa come notte d'insonnia o
domenica a Combray possiede al contrario un'ampiezza sufficiente per costituire
l'oggetto di un racconto sviluppato (nel testo della Recherche, rispettivamente sei e
sessanta pagine). I problemi specifici del racconto iterativo, quindi, compaiono
proprio in questo momento. Se in un racconto del genere volessimo effettivamente
prendere esclusivamente in considerazione i caratteri invarianti comuni a tutte le
unità della serie, saremmo condannati alla secchezza schematica di un uso del
tempo stereotipato, sul genere «coricarsi alle 9, un'ora di lettura, varie ore
d'insonnia, sonno all'alba», oppure «alzarsi alle 9, colazione alle 9 e mezza, messa
alle undici, pranzo all'una, lettura dalle due alle cinque, ecc.»: astrazione dovuta, è
chiaro, al carattere sintetico dell'iterativo, ma che non è in grado di soddisfare né il
narratore né il lettore. Allora, per «concretizzare» il racconto, intervengono i mezzi
di diversificazione (di variazione) offerti dalle determinazioni e specificazioni interne
della serie iterativa. Come abbiamo già osservato, un po' di sfuggita, la
determinazione non si limita effettivamente a segnare i confini esterni di una serie
iterativa: può ugualmente scandirne le tappe, e dividerla in sottoserie. Così, ho
affermato che la rottura fra Swann e i Verdurin poneva fine a una serie e ne
inaugurava un'altra; ma, passando all'unità superiore, potremmo dire altrettanto
bene che tale avvenimento singolare determina nella serie «incontro fra Swann e
Odette» due sottoserie: prima della rottura / dopo la rottura, ognuna delle quali
funziona come una variante dell'unità sintetica: incontri dai Verdurin / incontri
extra- Verdurin. In maniera ancora più esplicita, possiamo considerare come
determinazione interna l'interposizione - all'interno della serie delle domeniche
pomeriggio a Combray - dell'incontro con la Signora vestita di rosa presso lo zio
Adolphe340, incontro che avrà come conseguenza la discordia fra lo zio e i genitori
di Marcel, e la condanna della sua «stanza da riposo»; ne deriva la seguente
variazione semplice: prima della Signora vestita di rosa, gli orari di Marcel
comportano una sosta nella stanza dello zio; dopo la Signora vestita di rosa, il rito
sparisce e il ragazzo sale direttamente in camera sua 341. Analogamente, una visita di
Swann342 determinerà un cambiamento nell'oggetto (o, per lo meno, nello sfondo)
delle fantasticherie amorose di Marcel: prima di tale visita, esse si situavano su uno
sfondo di muro decorato con fiori violetti che pendevano a baldacchino sull'acqua;
dopo la visita, e la rivelazione, da parte di Swann, delle amichevoli relazioni fra
Gilberte e Bergotte, le fantasticherie si staglieranno su «uno sfondo completamente
diverso, davanti al portale d'una cattedrale gotica» (come quelle che Gilberte e
Bergotte visitano insieme). Ma precedentemente simili fantasmi erano già stati
modificati da un'informazione, dovuta al dottor Per- cepied, sui fiori e le acque del
parco Guermantes343: la regione erotico-fluviale si era identificata con Guermantes,
e la sua protagonista aveva assunto i lineamenti della duchessa. In questo caso
abbiamo dunque una serie iterativa: fantasticherie amorose, suddivisa, per mezzo di tre
avvenimenti singolari (lettura, informazione Percepied, informazione Swann) in
quattro segmenti determinati: prima della lettura, fra la lettura e Percepied, fra
Percepied e Swann, dopo Swann, che costituiscono altrettante varianti:
fantasticherie senza sfondo preciso / su sfondo fluviale / su sfondo identico,
assimilato a Guermantes e alla duchessa / su sfondo gotico, con Gilberte e
Bergotte. Serie che però si trova smembrata, nel testo di Combray, dal sistema delle
anacronie: il terzo segmento, la cui posizione cronologica è evidente, sarà
menzionato soltanto con un ritardo di ottanta pagine circa, in occasione delle
passeggiate dalla parte di Guermantes. L'analisi deve quindi ricostruire tale
posizione, a dispetto dell'ordine effettivo del testo, come una struttura sotterranea
e dissimulata344.
Si dovrebbe tuttavia evitare - partendo da questa nozione di determinazione
interna — di inferire con eccessiva precipitazione che l'interposizione di un singolo
evento ha sempre, come conseguenza, la formazione di una serie iterativa.
L'evento (lo vedremo in seguito) può semplicemente costituire un'illustrazione,
oppure un'eccezione senza seguito, che non porta con sé modificazione alcuna:
vedi l'episodio dei campanili di Martinville, dopo il quale l'eroe riprende, come se
nulla fosse («non ripensai mai a questa pagina») 345 la sua precedente abitudine di
compiere passeggiate indolenti e (in apparenza) senza nessun guadagno spirituale.
Fra gli episodi singolativi intercalati in un segmento iterativo, bisogna dunque
scindere quelli che possiedono una funzione determinativa da quelli che non la
possiedono.
Accanto a tali determinazioni interne definite, se ne trovano altre indefinite (sul
genere già accennato, «a partire da un certo anno...») Le passeggiate verso
Guermantes ce ne offrono un esempio, notevole per la concisione e l'apparente
confusione della sua scrittura: « Poi avvenne che dalla parte di Guermantes passai a
volte davanti a certi piccolirecinti umidi su cui rampicavano grappoli di fiori oscuri.
Mi fermavo, credendo di acquistare una nozione preziosa, poiché mi pareva,
ecc.»346. Si tratta proprio di una determinazione interna: a partire da una certa data,
le passeggiate lungo la riva della Vivonne comportano un elemento fino ad allora
mancante. La difficoltà del testo deriva in parte dalla paradossale presenza di un
iterativo al passato remoto («passai a volte»): paradossale, ma perfettamente
grammaticale, proprio come il passato prossimo iterativo della frase-incipit della
Recherche, che d'altronde, a sua volta, potrebbe tranquillamente scriversi al passato
remoto («Per molto tempo mi coricai presto»), ma non all'imperfetto, che non
possiede sufficiente autonomia sintattica per aprire un'iterazione.
Artificio che ritroviamo in un altro punto, identico, dopo una determinazione
definita: «Conosciuta quella vecchia strada, per cambiare ritornammo, a meno che non
l'avessimo presa all'andata, per un'altra strada che passava per i boschi di Chantepie
e di Canteloup»347.
Le varianti ottenute mediante determinazione interna sono ancora (fatto su cui
insisto) di ordine iterativo: esistono varie fantasticherie su sfondo gotico, come ne
esistono varie su sfondo fluviale; ma la relazione da esse conservata è di ordine
diacronico, e quindi singolativo, come l'avvenimento che le separa: una sottoserie
viene dopo l'altra. La determinazione interna procede dunque mediante sezioni
singolative all'interno di una serie iterativa. La specificazione interna, invece, è un
procedimento di diversificazione puramente iterativo, dato che esso consiste
semplicemente nel suddividere la ricorrenza per ottenere due varianti in relazione
(necessariamente iterativa) d'alternanza. In questo modo, la specificazione tutti i
giorni si può suddividere in due metà non più successive (come in tutti i giorni
prima/dopo un certo avvenimento), ma alternate, nella sottospecificazione un giorno su
due. Una forma (a dire il vero meno rigorosa) di questa norma l'abbiamo già trovata
a proposito dell'opposizione bel tempo / cattivo tempo, che articola la regola di
ricorrenza delle passeggiate a Combray (apparentemente, tutti i pome- riggi tranne la
domenica). Sappiamo come una parte notevole del testo di Combray sia composta
secondo questa specificazione interna, che regge l'alternanza passeggiate verso
Méséglise / passeggiate verso Guermantes: «la nostra abitudine di non andare mai da
entrambe le parti in uno stesso giorno, in una sola passeggiata, ma una volta dalla
parte di Méséglise, una volta dalla parte di Guermantes» 348. Alternanza nella
temporalità della storia, che la disposizione del racconto (come abbiamo già
osservato) si guarda bene dal rispettare 349, consacrando una sezione (da p. 134 a p.
165) alla parte di Méséglise, e poi un'altra (da p. 165 a p. 183) alla parte di
Guermantes350. In tal modo, la totalità di Combray II (dopo la deviazione della
«maddalena») si trova all'incirca composta secondo le seguenti specificazioni
iterative: 1) tutte le domeniche pp. 48-134 (con la parentesi tutti i sabati, pp. 110-15); 2)
tutti i giorni (della settimana) di tempo incerto, pp. 135-65; 3 ) tutti i giorni di bel tempo,
pp. 165-83351.
Nel caso in questione si trattava di una specificazione definita. Troviamo altre
manifestazioni di un simile procedimento nella Recherche, però mai sfruttate tanto
sistematicamente352. Nella maggior parte dei casi, effettivamente, il racconto
iterativo si articola in specificazioni indefinite sul tipo ora/ora, che autorizza un
sistema di variazioni estremamente elastico e una diversificazione molto spinta
senza tuttavia uscire mai dal modulo iterativo. Così, le angosce letterarie dell'eroe
durante le sue passeggiate a Guermantes, si dividono in due classi (a volte... ma altre
volte) a seconda che egli si conforti sul suo avvenire, contando sul miracoloso
intervento paterno, o invece si veda disperatamente solo di fronte al «nulla del suo
pensiero»353. Le variazioni delle passeggiate a Méséglise, in funzione delle
gradazioni di «cattivo tempo», occupano, o meglio generano un testo di tre
pagine354 composto secondo il seguente sistema: spesso (tempo minaccioso) / altre
volte (acquazzone durante la passeggiata, riparo nei boschi di Roussainville) / spesso
anche (riparo sotto al portico di Saint-André-des-Champs) / a volte (tempo così
brutto da dover far ritorno a casa). Sistema d'altronde un po' più complesso di
quanto non lo faccia vedere questa enumerazione parallela al testo, poiché le
varianti 2 e 3 sono in realtà sottoclassi di una medesima classe: acquazzone. La vera
struttura è quindi:
1. Tempo minaccioso ma senza acquazzone.
2. Acquazzone:
a) riparo nei boschi,
b) riparo sotto al portico.
3. Tempo definitivamente cattivo355
Ma l'esempio più tipico di costruzione di un testo sulle sole risorse della
specificazione interna, è senz'altro il ritratto di Albertine che si trova verso la fine
delle Jeunes filles en fleurs. Il suo tema è costituito, come sappiamo, dalla varietà della
fisionomia di Albertine, simbolo del carattere instabile e inafferrabile della
fanciulla, «essere di fuga» per antonomasia. Ma per quanto sia poliedrica, e
benché Proust usi l'espressione « ognuna di quelle Albertine», la descrizione tratta
«ogni» variante non come un individuo, ma come un tipo, una classe di
determinate manifestazioni: certi giorni / altri giorni / altre volte / a volte / spesso / di
solito / accadeva / a volte anche...: come una collezione di volti, il ritratto è un
repertorio di locuzioni frequentative:
Accadeva ad Albertine come alle sue amiche. Certi giorni, sottile, con una carnagione grigia, con un'aria imbronciata, con
una trasparenza violetta che le scendeva obliquamente nel fondo degli occhi come vediamo a volte nel mare, sembrava
provasse la tristezza di un'esule. Altri giorni, il suo viso più liscio invischiava i desideri sulla sua superficie tersa e impediva
di andare oltre; salvo che, a un tratto, non la vedessi di fianco, perché le sue gote opache come bianca cera alla superficie
erano rosee in trasparenza: il che dava una gran voglia di baciarle, di raggiungere quella colorazione diversa che sfuggiva.
Altre volte la felicità bagnava quelle gote con un chiarore così mobile che la pelle, divenuta fluida e vaga, lasciava passare
come degli sguardi sottostanti che la facevano apparire di un altro colore, ma non di un'altra materia che gli occhi; a volte,
senza pensarci, quando si guardava il suo viso cosparso di piccoli punti bruni e in cui galleggiavano soltanto due macchie
più azzurre, era come se si guardasse un uovo di cardellino, spesso come un'agata opalina lavorata e polita in due luoghi
soltanto, dove, in mezzo alla pietra bruna, lucevano come le ali trasparenti di una farfalla azzurra gli occhi in cui la carne si
fa specchio, dandoci l'illusione di lasciarci, più che nelle altre parti del corpo, accostare all'anima. Ma, di solito, ella era anche
più colorita, e quindi più animata; a volte, rosea nel suo viso bianco, era solo la punta del naso, fine come quello di una
gattina sorniona con cui veniva voglia di giocare; a volte le gote erano così lisce che lo sguardo scivolava, come su quello di
una miniatura, sullo smalto rosa che il coperchio socchiuso e sovrapposto dei capelli neri faceva apparire ancora più
delicato, più interiore; accadeva che il colorito delle sue gote prendesse il rosa violaceo del ciclamino, a volte anche, quand'era
congestionata o febbricitante, e dando allora l'idea di un organismo malato che abbassava il mio desiderio a qualcosa di
più sensuale e faceva esprimere al suo sguardo qualcosa di perverso e di malsano, la porpora cupa di certe rose di un rosso
quasi nero; e ognuna di queste Albertine era diversa com'è diversa ognuna delle apparizioni della ballerina di cui mutano i
colori, la forma; il carattere, secondo i giochi infinitamente variati di un proiettore luminoso 356.
Rientravamo sempre presto dalle nostre passeggiate, per poter fare una visita alla zia Léonie prima di cena. All'inizio della
stagione che le giornate sono brevi, quando si arrivava nella rue du Saint-Esprit, c'erano ancora un barbaglio del tramonto
sui vetri della casa e una fascia purpurea all'estremità dei boschi del Calvario, che si rifletteva più lontano nello stagno, e
quel rosseggiare, accompagnato spesso da un freddo assai pungente, s'associava nel mio pensiero al rosseggiare del fuoco su
cui arrostiva il pollo che avrebbe sostituito per me, al piacere poetico dato dalla passeggiata, il piacere della ghiottoneria,
del caldo e del riposo. D'estate, invece, quando rientravamo, il sole non tramontava ancora; e la sua luce, durante la nostra
visita, abbassandosi e toccando la finestra, veniva trattenuta fra le ampie tende e i cordoni, suddivisa, ramificata, filtrata, e,
incrostando il legno di cedro del canterano di piccoli frammenti d'oro, illuminava di sbieco la stanza con la delicatezza che
ha nei sottoboschi. Ma v'erano giorni assai rari, in cui al nostro rientrare il canterano aveva perduto da molto tempo le sue
momentanee incrostazioni, e, quando si arrivava nella rue du Saint-Esprit, non v'eran più riflessi del tramonto posati sui
vetri, e lo stagno ai piedi del Calvario aveva perso la sua fiamma, a volte già tinto d'opale ed un lungo raggio di luna, che
sempre più s'allargava e s'incrinava in tutte le crespe dell'acqua, lo traversava intero 357.
(Si troverà forse, e con piena ragione, che una simile schematizzazione non rende
affatto la «bellezza» di questa pagina. Ma non è neppure nelle sue intenzioni.
L'analisi, nel nostro caso, non si situa al livello di quelle che, in termini chomskiani,
potremmo chiamare le «strutture di superficie», o, in termini hielmslevo-
greimassiani, «la manifestazione» stilistica, bensì al livello delle strutture temporali «
immanenti » che dànno al testo l'ossatura e le basi - senza le quali esso non
esisterebbe (poiché nel caso presente, senza il sistema di determinazioni e
specificazioni ricostruito ora, esso si ridurrebbe necessariamente, e piattamente,
alla sola prima frase). E, come al solito, l'analisi dei basamenti rivela, sotto la calma
orizzontalità dei sintagmi successivi, il sistema accidentato delle scelte e delle
relazioni paradigmatiche. Se essa si propone come oggetto di chiarire le condizioni
di esistenza (di produzione) del testo, lo fa dunque non (come si dice spesso)
riducendo il complesso al semplice, ma al contrario facendo venire alla luce le
complessità nascoste che costituiscono il segreto della semplicità).
Ma ella vide che i suoi occhi restavano fissi sulle cose che non sapeva e su quel passato del loro amore, monotono e dolce
nella sua memoria perché vago, e lacerato ora come da una ferita da quell'attimo nell'isola del Bois de Boulo- gne, al chiaro
di luna, dopo la cena dalla principessa dei Laumes. Ma egli era così avvezzo a trovare la vita interessante - ad ammirare le
scoperte curiose che vi si posson fare - che, pur soffrendo al punto di credere di non poter a lungo sopportare simile
dolore, si diceva: « l a v i t a è davvero stupefacente e serba delle belle sorprese; insomma, il vizio è cosa più diffusa di
quanto si creda. Ecco una donna in cui avevo fiducia, che ha l'aria così semplice, così onesta, che in ogni caso, se pure
leggera, sembrava normalissima e sana nei gusti: in seguito a una denuncia inverosimile, la interrogo, e il poco che mi
confessa rivela assai più di quanto si fosse potuto supporre». Ma non poteva limitarsi a queste considerazioni disinteressate.
Cercava di pesare con esattezza il valore di quel che ella gli aveva raccontato, per sapere se doveva concluderne che simili cose
ella le aveva fatte sovente, che si sarebbero rinnovate. Si ripeteva le sue parole: «Vedevo bene dove voleva arrivare», «Due o tre
volte», «Frottole! » ma esse non riapparivano inermi nella sua memoria: ciascuna teneva un coltello e gli vibrava un nuovo
colpo. Per molto tempo, come un infermo non si può trattenere dal tentare ogni minuto il movimento che gli fa male, si
ripeteva quelle parole... 388
Distanza.
Problema che, a quanto pare, è stato affrontato per la prima volta da Platone nel
III libro della Repubblica403. Platone, come sappiamo, oppone due modi narrativi, a
seconda che il poeta «parli a suo nome, senza cercare di farci credere che sia un
altro a parlare» (procedimento chiamato da Platone racconto puro)404, o che, al
contrario, «si sforzi in tutti i modi di darci l'illusione che non è Omero a parlare»,
bensì un qualche personaggio, se si tratta di parole pronunciate: è quel che Platone
chiama imitazione in senso proprio, o mimesi. E per far comprendere l'esatta
differenza, arriva fino a riscrivere in forma di diegesi la fine della scena fra Crise e gli
Achei (trattata, da Omero, in forma di mimesi, cioè in forma di discorso diretto, alla
maniera drammatica). La scena dialogata diretta diventa allora un racconto mediato
dal narratore, in cui le.«battute » dei personaggi si dissolvono per condensarsi in
discorso indiretto. Discorso indiretto e condensazione: ritroveremo fra poco questi
due caratteri distintivi del « racconto puro » che si oppone alla rappresentazione «
mimetica » derivata dal teatro. Sappiamo che una simile opposizione, un po'
neutralizzata da Aristotele (che fa del racconto puro e della rappresentazione
diretta due varietà della mimesi)405 e (forse proprio per questo motivo?) trascurata
dalla tradizione classica, poco attenta comunque ai problemi del discorso narrativo,
è bruscamente resuscitata nella teoria del romanzo, negli Stati Uniti e in Inghilterra,
a cavallo fra il xix e il xx secolo, con Henry James e i suoi discepoli, mediante l'uso
dei termini - appena trasposti - showing (mostrare) vs. telling (narrare), diventati ben
presto nella vulgata narrativa anglosassone l'Ormuzd e l'Ahriman dell'estetica sul
romanzo406. Da questo punto di vista normativo, Wayne Booth ha criticato in
modo decisivo tale valorizzazione neoaristotelica del mimetico lungo tutta la sua
Rhetoric of Fiction407. Dal nostro punto di vista, puramente analitico, è necessario
aggiungere (anche l'argomentazione di Booth d'altronde non manca di rilevarlo
all'occasione) che la nozione stessa di showing, come quella di imitazione o di
rappresentazione narrativa (e anche di più, a causa del suo carattere scopertamente
visivo) è assolutamente illusoria: nessun racconto, al contrario della
rappresentazione drammatica, può «mostrare» o «imitare» la storia che narra. Può
solo raccontarla in modo particolareggiato, preciso, «vivo», e dare così una
maggiore o minore impressione di mimesi, e cioè la sola mimesi narrativa possibile,
per la ragione unica e sufficiente che la narrazione, orale o scritta, è un fatto di
linguaggio, e il linguaggio significa senza imitare.
A meno che, ovviamente, l'oggetto significato (narrato) non sia a sua volta
linguaggio. Abbiamo potuto osservare poco fa, richiamandoci alla definizione
platonica di mimesi, la clausola apparentemente sbrigativa: «se si tratta di parole
pronunciate». Che accade dunque quando si tratta d'altro: non di parole, ma di fatti
e azioni mute? Come funziona allora la mimesi, e in che modo il narratore ci
fornirà «l'illusione di non essere lui a parlare»? (Non dico il poeta, o l'autore: che il
racconto sia assunto direttamente da Omero o da Ulisse, significa semplicemente
spostare il problema). Come fare (letteralmente) in modo che l'oggetto narrativo,
come pretende Lubbock, «si racconti datolo» senza che nessuno debba parlare per
lui? È un problema a cui Platone evita accuratamente di rispondere, se addirittura
non evita di porselo, quasi il suo esercizio di riscrittura si fondasse esclusivamente
su parole, limitandosi a opporre, come la diegesi alla mimesi, un dialogo in stile
indiretto a un dialogo in stile diretto. Il fatto è che la mimesi verbale può essere
solo mimesi del verbo. Per il resto, abbiamo e possiamo avere soltanto vari gradi di
diegesi. Dobbiamo quindi operare, a questo punto, una distinzione fra racconto di
avvenimenti e «racconto di parole».
Racconto di avvenimenti.
L'«imitazione» di cui Platone ci propone una traduzione in termini di « racconto
puro » comporta esclusivamente un breve segmento non dialogato. Eccolo prima
nella sua versione originale: «Disse così, tremò il vecchio, obbedì al comando, e si
avviò in silenzio lungo la riva del mare urlante; ma poi, venuto in disparte, molto il
vegliardo pregò il sire Apollo, che partorì Latona bella chioma » 408. Eccolo adesso
nella riscrittura operata da Platone : « Allora il vecchio, udito questo, impaurito se
ne andò via in silenzio : ma come fu lontano dal campo innalzò molte preghiere ad
Apollo»409.
La differenza più evidente si trova, scopertamente, nella lunghezza (nei testi
originali greci, 18 parole rispetto a 30): Platone ottiene questa condensazione
eliminando delle informazioni ridondanti («disse», «obbedì», «che partorì Latona»)
ma anche delle informazioni circostanziali e «pittoresche»: «bella chioma» e,
soprattutto, «lungo la riva del mare urlante». La riva del mare urlante, particolare
senza alcuna utilità funzionale nella storia, è, in modo estremamente tipico,
malgrado il carattere stereotipato della formula (che ricorre varie volte nell'Iliade e
nell'Odissea), e al di là delle enormi differenze di scrittura fra P«epopea» omerica e il
romanzo realista, quel che Barthes definisce un effetto di reale410. La spiaggia sonora
serve solo a far capire che il racconto la menziona esclusivamente perché è là, e il
narratore, abdicando alla sua funzione di scelta e di direzione del racconto, si lascia
governare dalla «realtà», per la semplice presenza di quanto si trova in quel
determinato punto ed esige di essere «mostrato». Particolare inutile e contingente,
è il medium per eccellenza dell'illusione referenziale, e perciò dell'effetto mimetico: è
un connotatore di mimesi. Così Platone, con mano infallibile, lo sopprime dalla sua
traduzione come elemento incompatibile col racconto puro.
Il racconto di avvenimenti, tuttavia (qualunque modo esso adotti) è pur sempre
racconto, cioè trascrizione del (supposto) non-verbale in verbale: la sua mimesi è
quindi sempre una mimesi illusoria, che dipende, come qualsiasi illusione, da un
rapporto eminentemente variabile fra l'emittente e il ricevente. È ovvio, per
esempio, che lo stesso testo possa essere captato da un determinato lettore come
intensamente mimetico, e da un altro come un resoconto di scarsissima
«espressività». In questo caso svolge un ruolo decisivo l'evoluzione storica: il
pubblico in epoca classica, probabilmente, così sensibile alla «figurazione»
raciniana, trovava nella scrittura di un d'Urfé o di un Fénelon un grado di mimesi
molto superiore a quello che vi troviamo noi; ma senz'altro avrebbe trovato nelle
ricchissime e circostanziate descrizioni del romanzo naturalista solo una
proliferazione confusa e una « fuligginosa accozzaglia», e quindi si sarebbe lasciato
sfuggire la sua funzione mimetica. Si deve tener conto di questo rapporto variabile
a seconda degli individui, dei gruppi e delle epoche, e che dunque non dipende
esclusivamente dal testo narrativo.
I fattori mimetici testuali in senso stretto a mio parere sono riconducibili ai due
dati già presenti in modo implicito nelle osservazioni di Platone: la quantità
d'informazione narrativa (racconto più sviluppato, o più particolareggiato) e l'assenza
(o presenza minima) dell'informatore, cioè del narratore. «Mostrare», può
equivalere soltanto a un certo modo di narrare, modo che consiste nel dire il più
possibile, e, in pari tempo, nel dire questo più il meno possibile: «fingere, - dice
Platone, - che non sia il poeta a parlare » — cioè, far dimenticare che è il narratore
a raccontare. Ne derivano i due seguenti precetti cardinali dello showing: il
predominio jamesiano della scena (racconto particolareggiato) e la trasparenza
(pseudo) flaubertiana del narratore (esempio canonico: Hemingway, The Killers, o
Hills like White Elephants). Precetti cardinali, e soprattutto precetti collegati: fingere di
mostrare, significa fingere di tacere, e in definitiva si dovrà dunque contrassegnare
l'opposizione del diegetico e del mimetico con una formula di questo tipo:
informazione + informatore = implicante che la quantità d'informazione e la presenza
dell'informatore sono inversamente proporzionali, dato che la mimesi si definisce
mediante un massimo d'informazione e un minimo d'informatore, e la diegesi
mediante il rapporto inverso. Come possiamo vedere immediatamente, è una
definizione che ci rimanda, da un lato, a una determinazione temporale: la velocità
narrativa, poiché è ovvio che la quantità d'informazione sta in rapporto
inversamente .proporzionale alla velocità del racconto, in maniera rilevantissima; e,
d'altro lato, ci rimanda a un fatto di voce: il grado di presenza dell'istanza narrativa.
Il modo, in questo caso, è solo la risultante di caratteri che non sono propriamente
suoi, e quindi non dobbiamo indugiare oltre su tale problema - tranne per
osservare immediatamente questo fatto: che La recherche du temps perdu costituisce,
da sola, un paradosso - o una smentita - assolutamente inassimilabile per la
«norma» mimetica di cui abbiamo appena svolta la formula implicita. Il racconto
proustiano, effettivamente (come abbiamo visto nel secondo capitolo) consiste
quasi esclusivamente di «scene» (singolative o iterative) cioè della forma narrativa
più ricca d'informazione, e dunque più «mimetica». Ma, d'altra parte, come
potremo vedere più minutamente nel capitolo seguente (ma come la lettura, anche
la più innocente, riesce a mostrare con sufficiente evidenza), la presenza del
narratore è in esso costante, e di un'intensità completamente contraria alla regola
«flaubertiana». Presenza del narratore come fonte, che garantisce e organizza il
racconto, in quanto analizzatore e commentatore, in quanto stilista («scrittore»
nella terminologia di Marcel Muller) e, in particolare — lo sappiamo bene - in
quanto produttore di « metafore ». Proust sarebbe quindi contemporaneamente,
come Balzac, come Dickens, come Dostoevskij, ma in maniera ancora più evidente
e perciò più paradossale, all'estremo limite dello showing e all'estremo limite del
telling (e anche un po' oltre, nel suo discorso a volte così scevro di qualunque
preoccupazione di una storia da raccontare, che sarebbe forse opportuno
chiamarlo semplicemente, nella stessa lingua, talking). Fatto notissimo e
indimostrabile al tempo stesso, senza un'analisi esaustiva del testo. Mi accontenterò
ora, per semplice esemplificazione, di fare appello una volta di più alla scena del
coricarsi a Combray, già citata nel primo capitolo 411. Niente è più intenso di quella
visione del padre, «grande nella sua camicia da notte bianca sotto il casimir indiano
rosa e violetto che s'annodava intorno alla testa», col candeliere in mano, il
fantastico riflesso sul muro della scala, e quei singhiozzi infantili tanto a lungo
repressi che scoppiano solo quando Marcel si ritrova con la madre. Ma,
contemporaneamente, niente è più esplicitamente mediato, garantito come ricordo, e
ricordo antichissimo e recentissimo insieme, di nuovo percepibile dopo anni
d'oblio ora che « la vita tace più spesso» attorno a un narratore alle soglie della
morte. Non si può dire che in questo caso il narratore lasci che la storia si racconti
da sola, ma sarebbe anche troppo poco dire che la racconta senza nessuna
preoccupazione di annullarsi di fronte ad essa: non è della storia che si tratta, bensì
della sua «immagine», della sua traccia in una memoria. Ma questa traccia così
tardiva, così lontana, così indiretta, è anche la presenza stessa. In una simile
intensità mediata si trova un paradosso, che, in modo evidentissimo, è tale solo per le
norme della teoria mimetica: una trasgressione decisiva, un rifiuto puro e semplice
- e in atto - della millenaria opposizione fra diegesi e mimesi.
Sappiamo che, per i partigiani postjamesiani del romanzo mimetico (e per lo
stesso James) la migliore forma narrativa è quella chiamata da Norman Friedman «
storia raccontata da un personaggio, ma in terza persona» (formula imprecisa che
designa chiaramente il racconto focalizzato di vista circoscritto, raccontato cioè da
un narratore che, pur non essendo uno dei personaggi, ne adotta però il punto di
vista). In tal modo, continua Friedman riassumendo Lubbock, «il lettore percepisce
l'azione filtrata attraverso la coscienza di un determinato personaggio, ma la
percepisce direttamente, esattamente nel modo in cui essa arriva a colpire quella
coscienza, evitando la distanza inevitabilmente connessa alla narrazione
retrospettiva in prima persona»412. La recherche du temps perdu, narrazione
doppiamente, a volte triplicemente retrospettiva, non evita, come sappiamo, questa
distanza; fa esattamente il contrario: la mantiene e la coltiva. Ma il miracolo del
racconto proustiano (come quello delle Confessions di Rousseau, a cui dobbiamo
avvicinarlo ancora una volta) è che questa distanza temporale fra storia e istanza
narrativa non porta con sé nessuna distanza modale fra storia e racconto: nessuna
perdita, nessun afEevolimento dell'illusione mimetica. Mediazione estrema, e in
pari tempo estrema immediatezza. L'estasi della reminiscenza, fra l'altro, può anche
essere simbolo di questo.
Racconto di parole.
Se l'«imitazione» verbale di fatti non verbali è solo utopia o illusione, il «racconto
di parole» può sembrare al contrario condannato a priori a quel tipo di imitazione
assoluta a proposito del quale Socrate dimostra a Cratilo che se veramente essa
presiedesse alla formazione delle parole, farebbe del linguaggio una duplicazione
del mondo: «Tutto sarebbe duplice, senza poter più distinguere dov'è l'oggetto
stesso e dov'è il nome». Quando, nell'ultima pagina di Sodome et Gomorrhe, Marcel
dichiara a sua madre: «È assolutamente necessario che io sposi Albertine», fra
l'enunciato pronunciato nel testo e la frase ovviamente pronunciata dal
protagonista, la sola differenza esistente è quella dovuta al passaggio dall'orale allo
scritto. Il narratore non racconta la frase del protagonista, possiamo a stento dire
che la imita: la ricopia, e in tal senso non si può parlare qui di racconto.Tuttavia, è
proprio quello che fa Platone quando si immagina cosa sarebbe divenuto il dialogo
fra Crise e Agamennone se Omero lo avesse riferito «non come se egli fosse
divenuto Crise (e Agamennone), ma come se fosse sempre rimasto Omero».
Poiché aggiunge subito: «Non vi sarebbe più nessuna imitazione, ma racconto
puro». Vale la pena di tornare ancora una volta su questo bizzarro rewriting, anche
se la traduzione se ne lascia sfuggire alcune sfumature. Accontentiamoci d'un solo
frammento, costituito dalla risposta di Agamennone alle suppliche di Crise. Ecco il
discorso originale dell'Iliade:
Mai te colga, vecchio, presso le navi concave, non adesso a indugiare, non in futuro a tornare, che non dovesse servirti più
nulla lo scettro, la benda del dio! Io non la libererò: prima la coglierà vecchiaia nella mia casa, in Argo, lontano dalla patria,
mentre va e viene al telaio e accorre al mio letto. Ma vattene, non m'irritare, perché sano e salvo tu parta 413.
Vediamo, in questo caso, che il suono della voce e l'intonazione artificiosa fanno
parte del pensiero, o meglio lo rivelano passando oltre le enfatiche denegazioni
della malafede:
E, senza dubbio, la voce di Swann era più chiaroveggente di lui, quando si rifiutava di proferire quelle parole piene di
disgusto per l'ambiente Verdurin, e di gioia d'averla fatta finita con esso, diversamente che in un tono fittizio e come
fossero state scelte piuttosto per appagare la sua collera che per esprimere il suo pensiero. Questo, difatti, mentr'egli
s'abbandonava a quelle invettive, senza che se ne rendesse conto, era assorto probabilmente in un oggetto affatto
diverso...:
Sappiamo d'altra parte che Proust (da cui forse ci si sarebbe aspettato qualche
passo in questa direzione, dato che egli si trova cronologicamente situato fra
Dujardin e Joyce) non presenta quasi nulla, nella sua opera, di avvicinabile al «
monologo interiore » sul tipo dei Lauriers e dell'Ulysses427. Sarebbe completamente
erroneo qualificare in questo senso la pagina al presente («bevo un secondo sorso
in cui non trovo nulla di più che nel primo, ecc.») che si intercala nell'episodio della
«maddalena»428, e la cui tenuta narrativa ricorda molto di più il presente narrativo v
dell'esperienza filosofica, quale lo troviamo in Descartes o in Bergson: il supposto
soliloquio dell'eroe è assunto in questo caso, in modo decisissimo, dal narratore per
evi-
Menti fini dimostrativi, e niente è più lontano dallo spi- : rito del monologo
interiore moderno, che racchiude il personaggio nella soggettività di un « vissuto »
senza trascendenza e comunicazione. La sola occasione, nella Recberche, in cui
compaiono la forma e lo spirito del monologo immediato è quella messa in rilievo
da J. P. Houston429, che giustamente la qualifica una « vera e propria rarità in
Proust»; si trova a pagina 84 della Prisonnière. Ma Houston si limita a citare le prime
righe di questo passaggio, che, nonostante tutta la loro animazione, derivano forse
dallo stile indiretto libero; sono invece le righe seguenti che, tralasciando qualsiasi
trasposizione temporale, costituiscono il vero hapax joyciano della Recherche. Ecco il
passaggio nella sua totalità: metto in corsivo le poche frasi dove il monologo
immediato è incontestabile:
Da quei concerti mattutini a Balbec non era passato molto tempo. Eppure, in quel periodo abbastanza vicino, di Albertine
m'importava ben poco! Anzi, i primissimi giorni, non sapevo nemmeno che era a Balbec. Da chi l'avevo saputo? Ah! si, da
Aimé. C'era un magnifico sole, come oggi. Bravo Aimé! Era contento di rivedermi. Ma non ha nessuna simpatia per Albertine:
non tutti possono volerle bene. Si, fu lui a dirmi che era a Balbec. Come lo sapeva? Ah! si, l'aveva incontrata, e le aveva trovato un
fare sconveniente...430.
Prospettiva.
Quella che chiamiamo per ora, metaforicamente, prospettiva narrativa - cioè il
secondo modo di regolazione dell'informazione che deriva dalla scelta (effettiva o
mancante) di un «punto di vista» restrittivo — risulta essere, fra tutti i problemi
concernenti la tecnica narrativa, quello studiato con maggiore frequenza fin dalla
fine del xix secolo, con risultati critici incontestabili, come i capitoli di Percy
Lubbock su Balzac, Flaubert, Tolstoj o James, oppure quello di Georges Blin sulle
«restrizioni di campo» in Stendhal441. Tuttavia, la maggior parte dei lavori teorici su
questo argomento (che sono, essenzialmente delle classificazioni) soffrono, a mio
parere, di una fastidiosa confusione fra quanto chiamo qui modo e voce, cioè fra la
domanda qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa?, e la
domanda, completamente diversa: chi è il narratore? - o, per parlare più
sinteticamente, fra la domanda chi vede? e la domanda chi parla?. Torneremo in
seguito su tale distinzione apparentemente evidente, ma quasi universalmente
misconosciuta: Cleanth Brooks e Robert Penn Warren 442 proponevano così nel
1943, sotto il termine di focolaio narrativo («focus of narration»), esplicitamente (e
molto felicemente) proposto come equivalente del «punto di vista», una tipologia a
quattro termini che riassumo (traduco) nella tabella a pagina seguente.
Ora appare evidente che solo la frontiera verticale concerne il «punto di vista»
(interno o esterno), mentre quella orizzontale riguarda la voce (identità del
narratore), senza nessuna reale differenza di punto di vista fra 1 e 4 (diciamo:
Adolphe e Armance) e fra 2 e 3 (Watson che racconta Sherlock Holmes, e Agatha
Christie che racconta Hercule Poirot). Nel 1955 F. K. Stanzel distingue tre tipi di
«situazioni narrative» nel romanzo443: l'Auktoriale Erzählsituation, cioè quella
dell'autore «onnisciente» (genere: Tom Jones), l'Ich Erzählsituation dove il narratore è
uno dei personaggi (genere: Moby Dick), e la personale Erzählsituation, racconto in
«terza persona» secondo il punto di vista di un personaggio (genere: The
Ambassadors). Anche in questo caso, la differenza fra la seconda e la terza situazione
non è di «punto di vista» (mentre invece la prima si definisce secondo un criterio
simile), dato che Ishmael e Strether occupano in realtà la stessa posizione focale
nei due racconti, con un'unica differenza, che nell'uno è il personaggio focale
stesso ad essere narratore, e nell'altro un «autore» assente dalla storia. Lo stesso
anno, Norman Friedman444 presenta, da parte sua, una classificazione molto più
complessa in otto termini: due tipi di narrazione «onnisciente», con o senza
«intrusioni d'autore» (Fielding o Thomas Hardy), due tipi di narrazione «in prima
persona», io-testimone (Conrad) o io-eroe (Dickens, Great Expectations), due tipi di
narrazione «onnisciente selettiva», cioè con uso del punto di vista limitato, sia
«multiplo» (Virginia Woolf, To the Lighthouse), sia unico (Joyce, Portrait of the Artist),
infine due tipi di narrazione puramente oggettiva, ma il secondo tipo è ipotetico e,
d'altra parte, maldistinto dal primo: il «modo drammatico» (Hemingway, Hills like
White Elephants) e la «macchina fotografica», pura, e semplice registrazione, senza
selezione e organizzazione. Risulta evidentissimo che il terzo e il quarto tipo
(Conrad e Dickens) si distinguono dagli altri solo in quanto racconti « in prima
persona», e la differenza fra i primi due (intrusioni d'autore o no) è, ancora una
volta, un fatto di voce, concernente il narratore e non il punto di vista. Ricordiamo
che Friedman descrive il suo sesto tipo (Portrait of the Artist) come « storia
raccontata da un personaggio ma in terza persona», formula che testimonia una
confusione evidente fra il personaggio focale (che James chiamava il «riflettore») e
il narratore. Identica assimilazione, chiaramente involontaria, in Wayne Booth, che
nel 1961 intitola Distance and Point of view 445 un saggio consacrato in realtà a
problemi di voce (distinzione fra l'autore implicito, il narratore rappresentato o non
rappresentato, degno o indegno di fiducia), come d'altra parte egli stesso dichiara
esplicitamente col proporre una «classificazione più ricca della varietà delle voci
dell'autore». «Strether, — dice ancora Booth, - "narra" in gran parte la propria
storia, anche se viene sempre indicato in terza persona»: il suo statuto verrebbe
dunque a coincidere con quello di Cesare nel De bello gallico? Possiamo vedere a
quali difficoltà porti la confusione fra modo e voce. Bertil Romberg 446 riprende
infine, nel 1962, la tipologia di Stanzel, da lui completata mediante l'aggiunta di un
quarto tipo: il racconto oggettivo di stile behaviourista (il settimo tipo di
Friedman); ne deriva la seguente quadripartizione: 1 ) racconto con autore
onnisciente, 2) racconto con punto di vista, 3) racconto oggettivo, 4) racconto in
prima persona - dove il quarto tipo è chiaramente discordante col principio di
classificazione dei primi tre. Borges avrebbe senz'altro introdotto a questo punto
una quinta classe, tipicamente cinese, quella dei racconti scritti con un pennello
sottilissimo.È certamente legittimo progettare una tipologia delle « situazioni
narrative » che tenga conto dei dati di modo e di voce contemporaneamente; ma
non è affatto giusto, invece, presentare una simile classificazione unicamente sotto
la categoria del «punto di vista», né redigere una lista dove le due determinazioni si
fanno concorrenza sulla base di un'evidente confusione. È perciò opportuno,
adesso, considerare esclusivamente le determinazioni puramente modali, cioè
quelle concernenti quanto viene comunemente chiamato il «punto di vista», ossia,
secondo Jean Pouillon e Tzvetan Todorov, la «visione» o l'«aspetto» 447. Una volta
ammessa una riduzione del genere, si stabilisce senza grande difficoltà l'accordo su
una tipologia a tre termini, il primo dei quali corrisponde al racconto chiamato,
dalla critica anglosassone, «racconto con narratore onnisciente», e, da Pouillon
«retrovisione», simboleggiato, da parte di Todorov, mediante la formula Narratore
> Personaggio (in cui cioè il narratore ne sa di più del personaggio, o meglio ne dice
più di quanto ne sappia uno qualunque dei personaggi); nel secondo, Narratore =
Personaggio (il narratore dice solo quello che sa il personaggio in questione): è il
racconto, secondo Lubbock, con «punto di vista», secondo Blin con «campo
ristretto», e secondo Pouillon, si chiama «visione con»; nel terzo, Narratore <
Personaggio (il narratore ne dice meno di quatìto ne sappia il personaggio): si tratta
del racconto «oggettivo» o «behaviourista», chiamato da Pouillon «visione
dall'esterno». Per evitare il carattere troppo specificamente visivo dei termini
visione, campo, e punto di vista, riprendo ora il termine un po' più astratto
focalizzazione448, corrispondente, d'altra parte, all'espressione di Brooks e Warren:
«focus of narration»449.
Focalizzazioni.
Ribattezzeremo dunque il primo tipo, rappresentato in genere dal racconto
classico, racconto non-focalizzato, o a focalizzazione zero. Il secondo sarà il racconto a
focalizzazione interna, sia essa fissa (esempio canonico: The Ambassadors, dove tutto
passa attraverso Strether, o, meglio ancora, What Maisie knew, dove non
abbandoniamo quasi mai il punto di vista della ragazzina, la cui « restrizione di
campo» è particolarmente spettacolare in quella storia di adulti, il cui significato le
sfugge), variabile (come in Madame Bovary, dove il personaggio focale è in un primo
tempo Charles, poi Emma, poi ancora Charles 450, o, in maniera molto più rapida e
inafferrabile, in Stendhal), o multiplo, come nei romanzi epistolari, dove lo stesso
avvenimento può essere evocato varie volte a seconda del punto di vista di
numerosi personaggi corrispondenti451; sappiamo come il poema narrativo di
Robert Browning, The Ring and the Book (che racconta un caso criminale visto
successivamente dall'assassino, dalle vittime, dalla difesa, dall'accusa, ecc.) abbia
costituito per vari anni l'esempio canonico di questo tipo di racconto 452 prima di
essere sostituito dal film Rashomon. Il terzo tipo, per noi, sarà il racconto a
focalizzazione esterna, reso popolare, nel periodo fra le due guerre, dai romanzi di
Dashiel Hammet, dove il protagonista agisce davanti a noi senza che siamo mai
ammessi a conoscere i suoi pensieri o i suoi sentimenti, e da certe novelle di
Hemingway, come The Killers o, meglio ancora, Hills like White Elephants, dove la
discrezione viene spinta ai limiti dell'indovinello. Si tratta però di un tipo narrativo
che non dobbiamo limitare a un investimento letterario del genere: Michel
Raimond osserva giustamente453 che nel romanzo d'intreccio o d'avventura, «dove
l'interesse nasce proprio dal fatto che c'è un mistero», l'autore «non ci rivela
immediatamente tutto quello che sa», e in realtà molti romanzi d'avventura, da
Walter Scott a Jules Verne, passando per Alexandre Dumas, trattano le loro prime
pagine mediante focalizzazione esterna: basta pensare a come Phileas Fogg è, in un
primo tempo, visto dall'esterno, con lo sguardo sospettoso dei suoi contemporanei,
e come il suo mistero inumano venga mantenuto fino all'episodio destinato a
rivelare la sua generosità. Ma tanti romanzi «seri» dell'Ottocento praticano questo
tipo di introito enigmatico: vedi, in Balzac, la Peau de chagrin o l'Envers de l'histoire
contemporaine, e perfino il Cousin Ponsy dove il protagonista viene lungamente
descritto e seguito come uno sconosciuto dall'identità problematica. Anche altri
motivi possono giustificare il ricorso a tale atteggiamento narrativo, come ragioni
di convenienza (o meglio gioco di civetteria con la sconvenienza) per la scena della
carrozza in Bovary, interamente raccontata dal punto di vista di un testimone
esterno e innocente.
L'ultimo esempio dimostra benissimo come la focalizzazione non resti
necessariamente costante per tutta la durata di un racconto, e come la
focalizzazione interna variabile, formula già molto elastica, non sia applicabile alla
totalità di Bovary : non solo la scena della carrozza è con focalizzazione esterna, ma
abbiamo già avuto occasione di dire come il quadro di Yonville che inaugura la
seconda parte non sia molto più focalizzato della maggior parte delle descrizioni
balzachiane454. La formula di focalizzazione non coinvolge quindi sempre un'opera
intera, ma piuttosto un segmento narrativo determinato, che può essere
brevissimo455. La distinzione fra i diversi punti di vista, d'altra parte, non è sempre
tanto precisa come ci potrebbe far credere la semplice considerazione dei tipi puri.
Una focalizzazione esterna nei confronti di un personaggio può a volte lasciarsi
definire con altrettanta ragione come focalizzazione interna su un altro
personaggio: la focalizzazione esterna su Phileas Fogg è anche focalizzazione
interna su Passepartout affascinato dal suo nuovo padrone, e la pura e semplice
ragione per cui ci si attiene al primo termine è la qualità di eroe di Phileas, che
riduce Passepartout al ruolo di testimone; e una simile ambivalenza (o reversibilità)
è altrettanto sensibile quando il testimone non è personificato, ma resta un
osservatore impersonale e fluttuante, come all'inizio della Peau de chagrin.
Analogamente, la demarcazione fra focalizzazione variabile e non-focalizzazione, è
a volte difficilissima da stabilire, dato che il racconto non focalizzato può
spessissimo esser analizzato come un racconto con innumerevoli focalizzazioni ad
libitum, secondo il principio chi più può meno può (non bisogna dimenticare che la
focalizzazione è essenzialmente, secondo le parole di Blin, una restrizione); e
tuttavia, nessuno può confondere, su questo problema, la maniera di Fielding con
quella di Stendhal o di Flaubert456.
Dobbiamo anche osservare come ciò che chiamiamo focalizzazione interna sia
raramente applicato in maniera rigorosissima. Il principio stesso di questo modo
narrativo, effettivamente, implica con estremo rigore che il personaggio focale non
venga mai descritto, e neppure designato dall'esterno e che i suoi pensieri o le sue
percezioni non vengano mai analizzate oggettivamente dal narratore. Non esiste
dunque focalizzazione interna nel senso stretto della parola in un enunciato come
quello in cui Stendhal ci dice cosa e pensa Fabrice del Dongo : « Senza esitazione,
sebbene sul punto di morire dal disgusto, Fabrice si gettò da cavallo e prese la
mano del cadavere che scosse energicamente; poi rimase come annientato; sentiva
che non avrebbe avuto la forza di risalire a cavallo. Era soprattutto quell'occhio
spalancato a fargli orrore». La focalizzazione, in compenso, è perfetta nel brano
seguente, che si accontenta di descrivere quel che vede il protagonista: «Una
pallottola, penetrata a lato del naso, era uscita dalla tempia opposta, e sfigurava in
modo orrendo quel cadavere: era rimasto con un occhio spalancato» 457. Jean
Pouillon rileva perfettamente questo paradosso quando scrive che, nella «visione
con», il personaggio è visto «non nella sua interiorità, poiché bisognerebbe che noi
ne potessimo uscire all'esterno, mentre invece ne siamo assorbiti, bensì
nell'immagine che egli si fa degli altri, in un certo senso in trasparenza in questa
immagine. In conclusione, lo possiamo cogliere come cogliamo noi stessi, nella
nostra coscienza immediata delle cose, dei nostri atteggiamenti nei confronti di
quello che ci circonda e non in noi stessi. Di conseguenza, possiamo dire per
finire: la visione in immagine degli altri non è una conseguenza della visione " con
" del personaggio centrale, è questa stessa visione "con"» 458. La focalizzazione
interna si realizza pienamente solo nel racconto con «monologo interiore», oppure
nell'opera limite costituita dalla Jalousie di Robbe-Grillet459, dove il personaggio
centrale si riduce assolutamente alla - e si deduce rigorosamente dalla - sua
posizione focale. Prenderemo dunque questo termine nella sua accezione
necessariamente meno rigorosa: il suo criterio minimale è stato messo in evidenza
da Roland Barthes nella sua definizione di ciò che egli chiama il modo personale del
racconto460. Criterio che coincide con la possibilità di riscrivere il segmento
narrativo preso in esame in prima persona (se non è già scritto così) senza che tale
operazione porti con sé «nessun'altra alterazione del discorso, tranne il
cambiamento in sé dei pronomi grammaticali»: così, una frase come «James Bond
vide un uomo di una cinquantina d'anni, dall'aria ancora giovanile, ecc.» è
traducibile in prima persona («vidi, ecc.») e, per noi, deriva dalla focalizzazione
interna. Invece, una frase come «il tintinnio contro lo specchio parve dare a Bond
una brusca ispirazione» è intraducibile in prima persona senza incongruità
semantica evidente461. È un tipico caso di focalizzazione esterna, a causa
dell'evidente ignoranza, da parte dell'autore, nei confronti dei reali pensieri del
protagonista. Ma la comodità di questo criterio puramente pratico non deve aiutare
a confondere le due istanze della focalizzazione e della narrazione che restano
distinte anche nel racconto «in prima persona», cioè quando le due istanze sono
assunte dalla stessa persona (salvo nel racconto al presente, in forma di monologo
interiore). Quando Marcel scrive: «Scorsi un uomo sulla quarantina, molto alto e
piuttosto grosso, dai baffi nerissimi e che, battendosi nervosamente una giannetta
sui pantaloni, fissava su di me due occhi dilatati dall'attenzione» 462, fra l'adolescente
di Balbec (il protagonista) che scorge uno sconosciuto, e l'uomo maturo (il
narratore) che racconta la stessa storia varie decine d'anni più tardi, e sa benissimo
che lo sconosciuto era Charlus (e tutto ciò che significa il suo atteggiamento),
l'identità di persona non deve mascherare la diversa funzione e - cosa per noi
particolarmente interessante ora - d'informazione. Il narratore « sa» quasi sempre
più del protagonista, anche se il protagonista è lui stesso, e quindi la focalizzazione
sul protagonista è per il narratore una restrizione di campo altrettanto artificiale in
prima persona che in terza persona. Ritroveremo fra poco tale problema decisivo a
proposito della prospettiva narrativa in Proust, ma dobbiamo ancora definire due
nozioni indispensabili per questo studio.
Alterazioni.
Le variazioni di « punto di vista » che si producono lungo un racconto, possono
essere analizzate come cambiamenti di focalizzazione, simili a quelli già riscontrati
in Madame Bovary : parleremo allora di focalizzazione variabile, di coscienza con
parziali riduzioni di campo, ecc. Si tratta di una posizione narrativa perfettamente
sostenibile, e la norma di coerenza eretta a punto d'onore della critica
postjamesiana è evidentemente arbitraria. Lubbock esige che il romanziere sia «
fedele a una qualche posizione, e rispetti il principio che ha adottato», ma perché
mai questo principio non potrebbe essere la libertà assoluta e l'incoerenza?
Forster463 e Booth hanno pure dimostrato la vanità delle regole pseudo-jamesiane,
e chi prende sul serio, oggi, le osservazioni fatte da Sartre a Mauriac 464?
Un cambiamento di focalizzazione, tuttavia, soprattutto se isolato in un contesto
coerente, si può anche analizzare come infrazione momentanea al codice che
determina tale contesto, senza mettere però in discussione l'esistenza del codice
stesso, esattamente come, in una partitura classica, un momentaneo cambiamento
di tonalità, o perfino una dissonanza ricorrente, si definiscono modulazioni o
alterazioni senza che venga contestata la tonalità generale. Giocando sul doppio
significato del termine modo, che ci rinvia contemporaneamente alla grammatica e
alla musica, chiamerò quindi, in generale, alterazioni le infrazioni isolate, quando la
coerenza globale resti però abbastanza forte perché rimanga pertinente la nozione
di modo dominante. I due tipi ammissibili di alterazione consistono o nel dare
meno informazioni di quanto non sia, in teoria, necessario, oppure nel darne più di
quanto non sia, in teoria, autorizzato dal codice di focalizzazione che determina
l'insieme. Il primo tipo, in retorica, ha un nome preciso che abbiamo già incontrato
a proposito delle anacronie completive465: si tratta dell'omissione laterale o parallissi.
Il secondo non ha ancora un nome; lo battezzeremo pa- rallessi, dato che, in questo
caso, non si tratta più di lasciare (-lissi, da leipo) un'informazione che si dovrebbe
prendere (e dare), ma al contrario di prendere (-lessi, da lambano) e dare
un'informazione che si dovrebbe lasciare da parte.
Nel codice della focalizzazione interna, il tipo classico della parallissi,
ricordiamolo, è rappresentato dall'omissione di un'azione o pensiero importante
del protagonista focale, azione tale da non poter essere ignorata né dal
protagonista né dal narratore, ma che il narratore sceglie di dissimulare al lettore.
Conosciamo l'uso che Stendhal ha fatto di questa figura 466, e Jean Pouillon evoca
giustamente un fatto del genere a proposito della sua «visione con», il cui
inconveniente principale, a suo parere, sta nel fatto che il personaggio, in tale tipo
di racconto, è troppo conosciuto in anticipo, e non riserva nessuna sorpresa —
cosicché ne deriva, come rimedio, l'omissione volontaria, a suo giudizio goffa.
Esempio lampante: la dissimulazione, da parte di Stendhal, in Armance, attraverso
tanti pseudomonologhi del protagonista, del suo pensiero centrale, che
evidentemente non lo può abbandonare nemmeno un secondo: la sua impotenza
sessuale. Un simile sotterfugio, dice Pouillon, sarebbe normale se Octave fosse
visto dal di fuori, «ma Stendhal non resta all'esterno, fa delle analisi psicologiche, e
diventa allora assurdo nasconderci quanto Octave deve, a sua volta, sapere
benissimo; se è triste, ne sa perfettamente la causa, e non può sentire questa
tristezza senza pensarci; Stendhal dovrebbe perciò informarcene. Sfortunatamente,
non lo fa; ottiene allora un effetto di sorpresa quando il lettore ha capito, ma lo
scopo principale di un personaggio di romanzo non è quello di essere un rebus» 467.
Analisi che presuppone risolto, lo vediamo, un problema non completamente
risolto, dato che l'impotenza di Octave non è esattamente un dato del testo; ma in
questo caso non ha una grande importanza: accettiamo l'esempio con la sua
ipotesi. Essa comporta inoltre degli apprezzamenti che mi guarderò bene dal fare
miei. Ma essa ha, tuttavia, il merito di descrivere bene il fenomeno - che, beninteso,
non costituisce un'esclusività stendha- liana. Barthes, a proposito di quella che
chiama «mescolanza dei sistemi », cita a giusta ragione il « trucco » di Aga- tha
Christie che consiste nel focalizzare un racconto come The murder of Roger Ackroyd
sull'assassino, omettendo dai suoi «pensieri» il semplice ricordo dell'assassinio; e
sappiamo come il romanzo giallo più classico, per quanto in genere focalizzato sul
detective investigatore, ci nasconda il più delle volte una parte delle sue scoperte e
induzioni fino alla rivelazione finale468.
L'alterazione opposta, l'eccesso di informazione o parallessi, può consistere in
un'incursione nella coscienza di un personaggio durante un racconto generalmente
condotto in focalizzazione esterna: all'inizio di Peau de chagrin, possiamo
considerare parallessi enunciati come «il giovane non capì la sua rovina...» o «assunse
l'aria d'un inglese»469, contrastanti in maniera nettissima col principio di visione
esterna adottata fino a quel momento, e che iniziano un passaggio graduale alla
focalizzazione interna. Analogamente, in focalizzazione interna si può trattare di
una informazione incidentale sui pensieri d'un personaggio diverso dal
personaggio focale, o su uno spettacolo che costui non può vedere.
Qualificheremo secondo questo criterio la pagina di Maisie dedicata ad alcuni
pensieri di mrs Farange che Maisie non può sapere: « Si avvicinava il giorno, ed ella
lo sapeva, in cui avrebbe provato maggior piacere a mettere Maisie contro suo
padre piuttosto che a strappargliela» 470.
Ultima osservazione generale, prima di tornare al racconto proustiano: non si
devono confondere l'informazione data da un racconto focalizzato e l'interpretazione
che il lettore è chiamato a dare (o che dà senza esserne stato richiesto). Abbiamo
spesso osservato che Maisie vede o sente cose che non capisce, decifrabili però
senza sforzo da parte del lettore. Gli occhi di Charlus «dilatati dall'attenzione»,
mentre fissa Marcel a Balbec, possono essere per il lettore scaltrito un segnale, che
invece sfugge completamente al protagonista, come tutto il comportamento del
barone nei suoi confronti fino a Sodome I. Bertil Romberg471 analizza il caso d'un
romanzo di J. P. Marquand, H. M. Pulham, Esquire, dove il narratore, un marito
fiducioso, assiste ad alcune scene fra sua moglie e un amico, e le riferisce senza
pensarne male: il loro significato però non può sfuggire neppure al lettore meno
sottile. L'eccesso d'informazione implicita sull'informazione esplicita è alla base di
tutto il gioco di quelli che Barthes chiama gli indizi, gioco che funziona altrettanto
bene in focalizzazione esterna: in Hills like White Elephants, Hemingway riferisce la
conversazione fra i suoi due personaggi astenendosi dal- l'interpretarla; è come se il
narratore, analogamente al protagonista di Marquand, non capisse ciò che
racconta: il che non impedisce affatto al lettore d'interpretarlo in modo conforme
alle intenzioni dell'autore, come ogni volta che un romanziere scrive « senti un
sudore freddo scorrergli per la schiena» e noi, senza esitazioni, traduciamo: «ebbe
paura». Il racconto dice sempre meno di quanto sa, ma spesso fa anche sapere più
di quanto non dica.
Polimodalità.
Ripetiamolo ancora una volta: l'uso della «prima persona», altrimenti detto
identità di persona fra narratore e protagonista 472, non implica affatto una
focalizzazione del racconto sul protagonista. Anzi, è esattamente l'opposto: il
narratore di tipo «autobiografico», si tratti di una biografia reale o fittizia, è più «
spontaneamente » autorizzato a parlare a proprio nome del narratore d'un
racconto «in terza persona», per il fatto stesso della sua identità con il protagonista.
Tristram Shandy commette un'indiscrezione più lieve, nel mischiare al racconto
della sua «vita» passata l'esposizione delle sue «opinioni» (e quindi delle sue
conoscenze) attuali, di quanto non faccia, da parte sua, Fielding nel mischiare
l'esposizione delle sue opinioni al racconto della vita di Tom Jones. Il racconto
impersonale tende dunque alla focalizzazione interna per la semplice inclinazione
(se d'inclinazione si tratta) della discrezione e del rispetto per quella che Sartre
chiamerebbe la « libertà » — cioè l'ignoranza - dei suoi personaggi. Il narratore
autobiografico non ha nessun motivo del genere per imporsi il silenzio, non
avendo nessun dovere di discrezione nei confronti di se stesso. La sola
focalizzazione da rispettare, per lui, si definisce rispetto alla sua informazione
presente di narratore, e non rispetto alla sua informazione passata di
protagonista473. Se lo desidera, può scegliere questa seconda forma di
focalizzazione, ma non è affatto obbligato a farlo, e si potrebbe anche considerare
questa scelta, quando si produce, una parallissi, poiché il narratore, per attenersi
alle informazioni possedute dal protagonista al momento dell'azione, deve
sopprimere tutte quelle che egli ha ottenuto in seguito, spesso di capitale
importanza.
Evidentemente Proust (ne abbiamo già incontrato un esempio) si è imposto in
larghissima misura una simile iperbolica restrizione, e il modo narrativo della
Recherche è spessissimo la focalizzazione interna sul protagonista 474. È il «punto di
vista del protagonista», in genere, a dirigere il racconto, con le sue riduzioni di
campo, le sue momentanee lacune, e anche quanto il narratore considera fra sé e sé
come errori di gioventù, ingenuità, «illusioni da perdere». Proust ha insistito, in una
celebre lettera indirizzata a Jacques Rivière, sulla sua cura nel dissimulare il fondo
del suo pensiero (identificato qui con quello di Marcel-narratore) fino al momento
della rivelazione finale. Il pensiero apparente delle ultime pagine di Swann (a
proposito delle quali, tuttavia, occorre ricordare che si riferiscono in teoria a
un'esperienza assolutamente recente) è, lo afferma con forza, «il contrario della mia
conclusione. Essa costituisce una tappa, dall'apparenza soggettiva e dilettantesca,
verso la più obiettiva e credibile delle conclusioni. Se ne inducessimo che il mio
pensiero è un disincantato scetticismo, sarebbe esattamente come se uno
spettatore, avendo visto alla fine del primo atto del Parsifal che questo personaggio
non capisce nulla della cerimonia e viene scacciato da Gurnemanz, supponesse che
Wagner avesse voluto spiegare come la semplicità di cuore non »porti a nulla».
Analogamente, l'esperienza della «maddalena» (tuttavia, a sua volta, recente) è
riferita in Swann, ma senza spiegazioni, poiché la ragione profonda del piacere della
reminiscenza non viene svelata: «lo spiegherò solo alla fine del terzo volume». Per
il momento, bisogna rispettare l'ignoranza del protagonista, dosare l'evoluzione del
suo pensiero, il lento lavoro della vocazione. «Ma questa evoluzione di un pensiero,
non ho voluto analizzarla astrattamente, bensì ricrearla, farla vivere. Sono dunque
obbligato a dipingere gli errori, senza credere necessario dire che, a mio parere, si
tratta di errori; peggio per me se il lettore crede che io li ritenga verità. Il secondo
volume accentuerà il malinteso. Spero che l'ultimo arrivi a dissiparlo» 475. Sappiamo
che non è stato completamente dissipato: è il rischio evidente della focalizzazione,
da cui Stendhal fingeva di garantirsi con note a piè di pagina: «si tratta dell'opinione
del protagonista, che è folle e si correggerà».
Proust ha compiuto, evidentemente, il massimo sforzo di dosaggio della
focalizzazione per quanto riguarda l'essenziale, cioè l'esperienza della memoria
involontaria e della vocazione letteraria ad essa riallacciata, proibendosi qualsiasi
indicazione prematura, qualsiasi incoraggiamento indiscreto. Le «prove»
dell'incapacità di scrivere e dell'inguaribile dilettantismo di Marcel, come del suo
crescente disgusto per la letteratura, non smettono di accumularsi fino alla
spettacolare peripezia del cortile di palazzo Guermantes - tanto più spettacolare in
quanto la suspense è stata lungamente dosata da una focalizzazione rigorosissima
su questo argomento. Ma il principio del nonintervento verte anche su moltissimi
altri argomenti, per esempio l'omosessualità che, malgrado la scena premonitrice di
Montjouvain, resterà, sia per il lettore che per il protagonista, un continente cento
volte incontrato e mai riconosciuto fino alle prime pagine di Sodome.
L'investimento più consistente di questo principio narrativo è indubbiamente il
modo in cui vengono trattate le relazioni amorose del protagonista, e anche di quel
protagonista di secondo grado costituito da Swann in Un amour de Swann. La
focalizzazione interna ritrova allora la funzione psicologica fornitale dall'Abbé
Prévost in Manon Lescaut: l'adozione sistematica del «punto di vista» di uno dei
protagonisti permette di lasciare in un'oscurità quasi totale i sentimenti dell'altro,
costruendogli in tal modo, senza molta fatica, una personalità misteriosa e
ambigua, proprio quella personalità per cui Proust inventerà la denominazione
«essere di fuga». A ogni stadio della loro passione, noi non sappiamo, sulla «verità»
di una Odette, di una Gilberte o di una Albertine, niente di più di Swann o di
Marcel, e la più efficace illustrazione della «soggettività» essenziale dell'amore
secondo Proust è fornita proprio dalla perpetua evanescenza del suo oggetto:
l'essere di fuga è, per definizione, l'essere amato 476. Non riprendiamo ora la lista
(già ricordata a proposito delle analessi con funzione correttiva) degli episodi
(primo incontro con Gilberte, falsa confessione d'Albertine, incidente dei fiori di
siringa, ecc.) il cui vero significato sarà scoperto dal protagonista solo molto più
tardi, e, col protagonista, anche dal lettore. A tali ignoranze o malintesi provvisori,
dobbiamo aggiungere alcuni punti di definitiva opacità, dove la prospettiva del
protagonista e quella del narratore coincidono: così, noi non sapremo mai quali
sono stati i veri sentimenti di Odette per Swann e di Albertine per Marcel. Una
pagina delle Jeunes filles en fleurs illustra benissimo l'atteggiamento in un certo senso
interrogativo del racconto di fronte a quegli esseri impenetrabili, quando Marcel,
congedato da Albertine, si chiede per quali motivi la fanciulla ha potuto rifiutargli
un bacio dopo una serie di avances tanto chiare:
... il suo contegno in quella scena, io non riuscivo a spiegarmelo. Per quel che concerne l'ipotesi di una virtù assoluta
(l'ipotesi cui avevo dapprima attribuito la violenza con cui Albertine aveva rifiutato di lasciarsi baciare e prendere da me e
che non era, del resto, per nulla indispensabile al mio concetto della bontà, della profonda onestà della mia amica), non
cessavo di rimaneggiarla. Era un'ipotesi talmente contraria a quella che avevo costruito il primo giorno in cui avevo visto
Albertine! Poi, tanti atti diversi, tutti di gentilezza per me (una gentilezza carezzevole, a volte inquieta, preoccupata, gelosa
della mia predilezione per Andrée), avvolgevano da ogni parte il gesto aspro con cui, per sfuggirmi, aveva tirato il
campanello. Perché allora mi aveva chiesto di andare a passare la sera accanto al suo letto? Perché parlava sempre il
linguaggio della tenerezza? Su che riposa il desiderio di vedere un amico, di temere che vi preferisca la vostra amica, di
cercare di fargli piacere, di dirgli romanticamente che gli altri non sapranno che egli ha passato la sera con voi, se gli
rifiutate un piacere così semplice, e se non è un piacere per voi? Non potevo credere che veramente la virtù di Albertine
andasse fino a quel punto, e giungevo a domandarmi se la sua violenza non avesse avuto una ragione di civetteria, per
esempio un odore sgradevole che avesse creduto di avere su di sé e per cui avesse temuto di spiacermi, o di pusillanimità,
se, per esempio, nella sua ignoranza della realtà dell'amore, credesse che il mio stato di debolezza nervosa potesse avere
qualcosa di contagioso attraverso il bacio.477
5. Voce
L'istanza narrativa.
«Per molto tempo mi son coricato presto»: un enunciato simile, ovviamente, non
si lascia decifrare - come, poniamo, «L'acqua bolle a 100°» oppure «La somma degli
angoli di un triangolo è sempre uguale a 180°» — senza che venga preso in
considerazione chi lo enuncia, e in quale situazione egli lo enunci; io è identificabile
solo in rapporto a questo enunciatore, e il passato compiuto delibazione»
raccontata è tale solo in rapporto al momento in cui egli la racconta. Per riprendere
i termini notissimi di Benveniste, la storia qui non si realizza senza una parte di
discorso, e non risulta troppo difficile provare che, praticamente, ci si trova quasi
sempre di fronte a casi analoghi 497. Anche il racconto storico sul genere
«Napoleone morì a Sant'Elena», implica, in quanto preterito, un'anteriorità della
storia rispetto alla narrazione, e non sono poi tanto sicuro che il presente di
«L'acqua bolle a 1oo°» (racconto iterativo) sia così atemporale come sembra. Ciò
non toglie che l'importanza o la pertinenza di tali implicazioni sia
fondamentalmente variabile, e tale variabilità possa giustificare o imporre
distinzioni e opposizioni dal valore, per lo meno, operativo. Quando leggo
Gambara o Le chef-d'oeuvre inconnu, m'interesso a una storia, e m'importa poco sapere
chi, dove e quando la racconta; se leggo Facino Cane, non posso mai trascurare la
presenza del narratore nella storia da lui raccontata; se si tratta della Maison
Nucingen, l'autore s'incarica personalmente di attirare la mia attenzione sulla
persona del conversatore Bixiou e sul gruppo di ascoltatori a cui si rivolge; se si
tratta dell'Auberge rouge, seguirò senz'altro (con maggiore attenzione di quella con
cui non segua il prevedibile svolgimento della storia raccontata da Hermann) le
reazioni di un ascoltatore chiamato Taillefer, poiché il racconto si svolge su due
piani, e proprio nel secondo - quello dove si racconta - sta l'aspetto più appassionante
del dramma.
Ecco il genere di incidenze che siamo in procinto di prendere in esame nella
categoria della voce: «aspetto, dice Vendryès, dell'azione verbale considerata nei suoi
rapporti col soggetto» - soggetto che, in questo caso, non è solo chi compie o
subisce l'azione, ma anche chi (si tratti del medesimo oppure d'un altro) la riferisce,
ed eventualmente tutti coloro che partecipano, anche passivamente, a tale attività
narrativa. Sappiamo come la linguistica abbia impiegato del tempo per iniziare a
render conto di quella che Benveniste chiama soggettività nel linguaggio498, cioè a
passare dall'analisi degli enunciati a quella dei rapporti fra tali enunciati e la loro
istanza produttrice — quella che viene chiamata, oggi, la loro enunciazione. La
poetica prova, a quanto pare, una difficoltà affine nell'abbordare l'istanza
produttrice del discorso narrativo, istanza a cui abbiamo riservato il termine,
parallelo, di narrazione. Tale difficoltà si fa notare soprattutto per una sorta di
esitazione, senz'altro inconsapevole, nel riconoscere e rispettare l'autonomia di tale
istanza, o anche, semplicemente, la sua specificità: da un lato, come abbiamo già
osservato, si riducono i problemi dell'enunciazione narrativa a quelli del «punto di
vista»; dall'altro, si identifica l'istanza narrativa con l'istanza di «scrittura», il
narratore con l'autore, e il destinatario del racconto col lettore dell'opera 499.
Confusione forse reale nel caso di un racconto storico o di una vera autobiografia,
ma non quando si tratta di un racconto di finzione, dove il narratore ricopre a sua
volta un ruolo fittizio (anche nel caso in cui tale ruolo venga direttamente assunto
dall'autore) e dove la situazione narrativa immaginata può essere molto diversa
dall'atto di scrittura (o dal dettato) che ad essa fa riferimento: non è l'abate Prévost
a raccontare gli amori di Manon-e des Grieux, e neppure il marchese di
Renoncourt, presunto autore dei Mémoires d'un homme de qualità, bensì lo stesso des
Grieux, in un racconto orale dove «io» può designare solo lui, e dove «qui» e
«adesso» rinviano alle circostanze spazio-temporali di tale narrazione, e
nient'affatto a quelle della redazione di Manon Lescaut da parte del suo vero autore.
E anche i riferimenti di Tristram Shandy alla situazione di scrittura mirano all'atto
(fittizio) di Tris tram e non a quello (reale) di Sterne; ma, in maniera più sottile e
più radicale insieme, il narratore del Pére Goriot non coincide con Balzac, anche se
esprime qua e là le opinioni di quest'ultimo, poiché il narratore-autore è qualcuno
che «conosce» la pensione Vauquer, la sua padrona e i suoi pensionanti, mentre
Balzac, da parte sua, si limita a immaginarli: e in questo senso, certo, la situazione
narrativa di un racconto di finzione non può mai ricondursi a una situazione di
scrittura.Ci rimane dunque da prendere in considerazione proprio l'istanza
narrativa, lungo le tracce da essa lasciate — che si suppone essa abbia lasciate - nel
discorso narrativo che si suppone essa abbia prodotto. Ma, ovviamente, tale istanza
non resta necessariamente identica e invariabile durante una medesima opera
narrativa: l'essenziale di Manon Lescaut viene raccontato da des Grieux, ma alcune
pagine spettano al signor di Renoncourt; inversamente, l'essenziale dell'Odissea
viene raccontato da Omero, ma i canti dal IX al XII spettano a Ulisse: e il romanzo
barocco, le Mille e una notte, Lord Jim ci hanno abituato a situazioni narrative molto
più complesse500. L'analisi narrati va deve evidentemente assumersi lo studio di
simili modificazioni - di simili permanenze: poiché se è degno di nota che le
avventure di Ulisse siano raccontate da due narratori diversi, a rigor di logica è
altrettanto degno di nota che gli amori di Swann e quelli di Marcel siano raccontati
dallo stesso narratore.
Una situazione narrativa, come qualsiasi altra situazione, è un insieme complesso
in cui l'analisi, o semplicemente la descrizione, può operare una distinzione solo
lacerando un tessuto di relazioni strette fra l'atto narrativo, i suoi protagonisti, le
sue determinazioni spazio-temporali, il suo rapporto con le altre situazioni
narrative implicate nello stesso racconto, ecc. Le necessità dell'esposizione ci
obbligano a questa inevitabile violenza per il semplice fatto che il discorso critico,
come qualunque altro discorso, non sarebbe in grado di dire tutto in una volta.
Prenderemo dunque successivamente in considerazione, anche in questo caso,
elementi di definizione il cui reale funzionamento è invece simultaneo,
riconducendoli essenzialmen- teìalle categorie del tempo della narrazione, del livello
narrativo e della persona, cioè alle relazioni fra narratore - ed eventualmente il suo o i
suoi narratario(i)501 - e la storia da lui raccontata.
Livelli narrativi.
Quando des Grieux, giunto alla fine del suo racconto, dichiara che ha appena
fatto vela da Nouvelle-Orléans a Havre-de-Gràce, poi da Havre a Calais, per
ritrovare suo fratello che lo attende a qualche lega da li, la distanza temporale (e
spaziale) che fino a quel momento separava l'azione raccontata dall'atto narrativo si
rimpicciolisce progressivamente fino a ridursi a zero: il racconto è arrivàto all'oc et
nunc, la storia ha raggiunto la narrazione. Sussiste però, fra gli ultimi episodi degli
amori del cavaliere e la sala del Lion d'or con i suoi occupanti, fra cui lo stesso
cavaliere e il suo ospite (sala dove egli racconta i suoi amori, dopo aver pranzato, al
marchese di Renoncourt) una distanza che non è né nel tempo, né nello spazio, ma
nella differenza fra le relazioni che entrambi mantengono col racconto di des
Grieux. Relazioni che è possibile distinguere in maniera rozza e forzatamente
inadeguata dicendo che gli uni sono all'interno (del racconto, ovviamente) e gli altri
all'esterno. Più che una distanza, li separa una specie di soglia figurata dalla stessa
narrazione, una differenza di livello. Il Lion d'or, il marchese, il cavaliere in veste di
narratore sono per noi in un certo racconto, che non è il racconto di des Grieux,
bensì quello del marchese, ovvero i Mémoires d'un homme de qualità; il ritorno dalla
Louisiana, il viaggio da Havre a Calais, il cavaliere in veste di protagonista si
trovano in un altro racconto, in questo caso il racconto di des Grieux, racconto
contenuto nel primo, non soltanto nel senso che il primo lo inquadra con un
preambolo e una conclusione (d'altronde assente qui), ma nel senso che il
narratore del secondo è già un personaggio del primo, e l'atto di narrazione che lo
produce è un avvenimento raccontato nel primo.
Definiremo la differenza di livello dicendo che ogni avvenimento raccontato da un
racconto si trova a un livello dietetico immediatamente superiore a quello dove si situa l'atto
narrativo produttore di tale racconto. La redazione, da parte del signor di Renoncourt,
dei suoi fittizi Mémoires è un atto (letterario) compiuto a un primo livello, che
chiameremo extradiegetico\ gli avvenimenti raccontati nei Mémoires (fra cui l'atto
narrativo di des Grieux) sono all'interno di questo primo racconto, dunque li
qualificheremo diegetici o intradiegetici; gli avvenimenti raccontati nel racconto di des
Grieux, racconto di secondo grado, saranno chiamati metadiegetici535. Analogamente,
il signor di Renoncourt, in quanto «autore» dei Mémoires è extradie- getico: si
rivolge, anche se persona fittizia, al pubblico reale, proprio come Rousseau o
Michelet; lo stesso marchese in quanto protagonista degli stessi Mémoires è
diegetico, o intradiegetico; e con lui des Grieux narratore all'albergo del Lion d'or,
come d'altra parte Manon vista dal marchese in occasione del primo incontro a
Pacy; ma des Grieux eroe del suo stesso racconto, e Manon eroina, e suo fratello, e
le comparse, sono metadiegetici, termini che designano non degli esseri, ma delle
situazioni relative e delle funzioni536.
L'istanza narrativa di un racconto primo è dunque, per definizione, extradiegetica,
come l'istanza narrativa di un racconto secondo (metadiegetico) è per definizione
diege- tica, ecc. Insistiamo sul fatto che il carattere eventualmente fittizio
dell'istanza primaria non modifica questa situazione più di quanto non lo faccia il
carattere eventualmente «reale» delle istanze seguenti: il signor de Renoncourt non
è un «personaggio» in un racconto assunto dall'abate Prévost, bensì Fautore fittizio
dei Mémoires (di cui sappiamo d'altra parte che è Prévost il vero autore) proprio
come Robinson Crusoe è Fautore fittizio del romanzo di Defoe che porta il suo
nome: e subito dopo, ognuno di essi diventa personaggio all'interno del suo stesso
racconto. Né Prévost né Defoe rientrano nell'ambito del nostro problema, che
verte (ricordiamolo una volta di più) sull'istanza narrativa, e non sull'istanza
letteraria. Il signor di Renoncourt e Crusoe sono narratori-autori, e come tali
situati allo stesso livello narrativo del loro pubblico, e cioè voi ed io. Non è però
questo il caso di des Grieux, che non si rivolge mai a noi, ma soltanto al paziente
marchese; e inversamente, anche se il medesimo marchese avesse incontrato a
Calais un personaggio reale, poniamo Sterne in viaggio, questo personaggio non
sarebbe risultato meno diegetico, per quanto reale - esattamente come Richelieu in
Dumas, Napoleone in Balzac, o la principessa Mathii- de in Proust. In breve, non
si deve confondere il carattere diegetico (o addirittura metadiegetico) con la
finzione: Parigi e Balbec si trovano allo stesso livello, benché una città sia reale e
l'altra fittizia, e noi ci troviamo a essere tutti i giorni oggetto di racconto, se non
protagonisti di romanzo.
Ma qualsiasi narrazione extradiegetica non è necessariamente assunta come opera
letteraria e il suo protagonista non è sempre un narratore-autore in grado di
rivolgersi, come il marchese di Renoncourt, a un pubblico qualificato come tale 537.
Un romanzo in forma di diario intimo, come il Journal d'un cure de campagne o la
Symphonie Pastorale, non mirano teoricamente a nessun pubblico, e perfino a nessun
lettore, e analogamente fanno i romanzi epistolari, sia che comportino un unico
corrispondente, come Pamela, Werther e Obermann (qualificati spesso come diari
camuffati da corrispondenza)538, o parecchi corrispondenti, come la Nouvelle Héloise
o le Liaisons Dangereuses: Bernanos, Gide, Richardson, Goethe, Senancour,
Rousseau o Laclos si presentano qui come semplici «editori», ma gli autori fittizi di
tali diari intimi o di quelle lettere «raccolte e pubblicate da...» non si considerano,
evidentemente (a differenza di Renoncourt, di Crusoe o di Gil Blas) come «autori».
Fatto ancora più notevole: la narrazione extradiegetica non è assunta
obbligatoriamente come narrazione scritta. Niente ci obbliga a credere che
Mersault o Malone abbiano scritto il testo da noi letto come un loro monologo
interiore, ed è ovvio che il testo dei Lauriers sont coupés può esser soltanto un «flusso
di coscienza» - non scritto, e neppure parlato — misteriosamente captato e
trascritto da Dujardin. La caratteristica del discorso immediato è l'esclusione di
qualsiasi determinazione di forma dell'istanza narrativa da esso costituita.
All'opposto, qualunque narrazione intradiegetica non produce necessariamente
un racconto orale, come quella di des Grieux: essa può consistere in un testo
scritto, come il memoriale senza destinatario redatto da Adolphe, o perfino in un
testo letterario fittizio, opera nell'opera, come la «storia» del Curioso impertinente
scoperta dal curato di Don Chisciotte in un baule, oppure la novella L'Ambi- tieux par
amour, pubblicata dal protagonista di Albert Savarus in una rivista fittizia, autore
intradiegetico di un'opera metadiegetica. Ma il racconto secondo può a sua volta
non essere né scritto né orale, e offrirsi, scopertamente o no, come un racconto
interiore: così il sogno di Jocabel nel Moyse sauvé, oppure, secondo una tecnica più
frequente e meno soprannaturale, qualsiasi tipo di ricordo riportato alla memoria
(in sogno oppure no) da un personaggio: è la maniera in cui interviene, nel
secondo capitolo di Sylvie (sappiamo fino a che punto Proust sia stato colpito da
questo particolare) l'episodio («ricordo per metà sognato») del canto d'Adrienne:
«Ritornai a letto e non potei più trovarvi riposo. Sprofondato in una
semisonnolenza, tutta la mia giovinezza ripassava nei miei ricordi... Mi
rappresentavo un castello dell'epoca d'Enrico IV, ecc.» 539. Può, per finire, esser
assunto da una rappresentazione non-verbale (il più delle volte visiva) convertita in
racconto dal narratore, con la sua descrizione di questa sorta di documento
iconografico (il dipinto che rappresenta Arianna abbandonata nelle Noces de Thétis
et de Pélée, o l'arazzo del diluvio nel Moyse sauvé) o, più raramente, facendolo
descrivere da un personaggio, come i quadri della vita di Giuseppe commentati da
Amram sempre nel Moyse sauvé.
Il racconto metadiegetico.
Il racconto di secondo grado è una forma che risale alle origini stesse della
narrazione epica, poiché i canti che vanno dal IX al XII, nell'Odissea (come
sappiamo) sono consacrati al racconto fatto da Ulisse davanti all'assemblea dei
Feaci. Passando per Virgilio, Ariosto, Tasso, il procedimento (d'altronde,
conosciamo anche il suo enorme investimento all'interno delle Mille e una notte)
entra in epoca barocca nella tradizione del romanzo, e un'opera quale PAstrée, per
esempio, si compone in massima parte di racconti procurati da questo o quel
personaggio. L'uso è mantenuto lungo il xvin secolo, malgrado la concorrenza di
nuove forme come il romanzo epistolare; è visibilissimo in Manon Lescaut, o in Tris
tram Shandy, o in Jacques le Fataliste, e perfino l'avvento del realismo non gli
impedisce di sopravvivere in Balzac (La maison Nucingen, Autre étude de femme,
l'Auberge rouge, Sarrasine, La peau de chagrin) e in Fromentin (Dominique); possiamo
anche osservare una certa esacerbazione del topos in Barbey, o in Wuthering Heights
(racconto di Isabella a Nelly, riferito da Nelly a Lockwood, annotato da Lockwood
nel suo diario) e soprattutto in Lord Jim, dove l'incastro arriva ai limiti della comune
intelligibilità. Lo studio storico e formale di tale procedimento andrebbe molto
oltre la nostra intenzione, ma è almeno necessario, per proseguire, distinguere ora
le principali relazioni che possono unire il racconto metadiegetico al racconto
primo in cui esso si inserisce.
Il primo tipo è una causalità diretta fra gli avvenimenti della metadiegesi e quelli
della diegesi, che conferisce al racconto secondo una funzione esplicativa. Si tratta
dell'«ecco perché» balzachiano, ma assunto in questo caso da un personaggio, sia
che la storia da lui raccontata riguardi un altro (Sar rasine), o, nella maggioranza dei
casi, se stesso (Ulisse, des Grieux, Dominique). Racconti che rispondono tutti
quanti, esplicitamente o no, a una domanda sul tipo «Quali avvenimenti hanno
portato alla presente situazione? » Il più delle volte, la curiosità dell'uditorio
intradiegetico è un puro pretesto per rispondere a quella del lettore, come nelle
scene di esposizione dei fatti, nel teatro classico, e il racconto metadiegetico una
semplice variante dell'analessi esplicativa. Ne derivano certe discordanze fra la
funzione posticcia e la funzione reale - generalmente risolte a vantaggio della
seconda: così, al XII canto dell' Odissea, Ulisse interrompe il suo racconto all'arrivo
presso Calipso, benché la maggior parte del suo uditorio ne ignori il seguito: i\
pretesto è costituito dal fatto che lo ha già raccontato sommariamente, il giorno
prima, ad Alcinoo e ad Are te (canto VII); la vera ragione è, evidentemente, il fatto
che il lettore lo conosce minutamente per il racconto diretto del canto V: «Quando
la storia è nota, — dice Ulisse, - detesto ripeterla»: ripugnanza che coincide, in
primo luogo, con quella dello stesso poeta.
Il secondo tipo consiste in una relazione puramente tematica, che non implica
dunque nessuna continuità spazio- temporale fra metadiegesi e diegesi : relazione
di contrasto (infelicità d'Arianna abbandonata, in mezzo alle nozze gioiose di Te ti)
o d'analogia (come quando, nel Moyse sauvé, Jocabel esita a eseguire l'ordine divino e
Amram le racconta la storia del sacrificio d'Abramo). La famosa struttura a scatola
cinese, tanto apprezzata dal «nouveau roman» degli anni '60, è evidentemente una
forma estrema di un simile rapporto analogico, spinto fino ai limiti dell'identità. La
relazione tematica può d'altronde esercitare un influsso sulla situazione diegetica,
quando viene percepita dall'uditorio: il racconto di Amram ha come effetto
immediato (e del resto anche come scopo) di riuscire a convincere Jocabel, è un
exemplum con funzione persuasiva. Sappiamo come veri e propri generi, quali la
parabola e l'apologo (la favola) riposino su tale azione mo- nitiva dell'analogia: di
fronte alla plebe in rivolta, Menenio Agrippa racconta la storia dello Stomaco e le
altre parti del corpo ; poi, aggiunge Tito Livio, «dimostrando fino a che punto la
sedizione intestina del corpo era simile alla rivolta della plebe contro il Senato, riuscì
a convincerli»540. Troveremo in Proust un'illustrazione meno curativa di questa virtù
dell'esempio.
Il terzo tipo non comporta nessuna esplicita relazione fra i due livelli di storia: si
tratta dell'atto di narrazione stesso che adempie una funzione nella diegesi,
indipendentemente dal contenuto metadiegetico: funzione di distrazione, per
esempio, e/o di ostruzionismo. L'esempio più illustre lo si ritrova, a colpo sicuro,
nelle Mille e una notte, dove Sherazade respinge la morte a colpi di racconto,
qualunque racconto (purché interessi al Sultano). Possiamo osservare che, dal
primo al terzo tipo, l'importanza dell'istanza narrativa non fa che aumentare. Nel
primo, la relazione (di concatenazione) è diretta, non passa attraverso il racconto, e
potrebbe tranquillamente farne a meno : che Ulisse lo racconti o no, solo la
tempesta lo ha gettato alle rive dei Feaci, quindi la sola trasformazione introdotta
dal suo racconto è d'ordine puramente conoscitivo. Nel secondo, la relazione è
indiretta, rigorosamente mediata dal racconto, che è indispensabile alla
concatenazione: l'avventura delle parti del corpo e dello stomaco calma la plebe a
patto che Menenio la racconti. Nel terzo, la relazione esiste soltanto fra l'atto
narrativo e la situazione presente, il contenuto metadiegetico non interessa (quasi)
più del messaggio biblico in piena azione di flibuster alla tribuna del Congresso.
Relazione che conferma ulteriormente, se fosse necessario, il seguente fatto: la
narrazione è un atto come qualsiasi altro.
Metalessi.
Il passaggio da un livello all'altro può teoricamente esser garantito esclusivamente
dalla narrazione, atto che consiste precisamente nell'introdurre in una situazione,
per mezzo di un discorso, la conoscenza di un'altra situazione. Qualunque altra
forma di passaggio è, se non sempre impossibile, almeno sempre trasgressiva.
Cortàzar racconta a un certo punto541 la storia di un uomo assassinato da uno dei
personaggi del romanzo che sta leggendo: si tratta di una forma inversa (ed
estrema) della figura narrativa chiamata dai classici metalessi dell'autore, consistente
nel fingere che il poeta « operi egli stesso gli effetti che canta » 542, come quando si
dice che Virgilio « fa morire » Didone nel canto IV dell'Eneide, o quando Diderot,
in maniera più equivoca, scrive in Jacques le Fataliste: «Chi mi potrebbe impedire di
far sposare il Padrone e di renderlo becco?» oppure, rivolgendosi al lettore, «se vi fa
piacere, rimettiamo la contadina in groppa dietro alla sua guida, lasciamoli andare e
torniamo ai nostri due viaggiatori» 543. Sterne spingeva la cosa fino a sollecitare
l'intervento del lettore, pregato di chiudere la porta o di aiutare il signor Shandy a
tornare a letto, ma il principio è lo stesso: ogni intrusione del narratore o del
narratario extradiegetico nell'universo diegetico (o di personaggi diegetici in un
universo metadiegetico, ecc.) o il contrario, come in Cortàzar, produce un effetto
di bizzarria, sia buffonesca (quando la si presenta, come in Sterne o in Diderot, sul
tono faceto) sia fantastica.
Estenderemo a tutte queste trasgressioni il termine metalessi narrativa544. Alcune di
esse, banali e innocenti come quelle della retorica classica, giocano sulla doppia
temporalità della storia e della narrazione; così Balzac, in un passaggio già citato
delle Illusions perdues: «Mentre il venerabile ecclesiastico sale le scale di Angoulème,
non è inutile spiegare...», come se la narrazione fosse contemporanea alla storia e
dovesse colmare i suoi tempi morti. È su un modello simile, estremamente diffuso,
che Proust scrive per esempio: «non ho più il tempo, prima della mia partenza per
Balbec, d'iniziare pitture della società... » oppure «ma qui m'accontento, man mano che
il tortiglione si ferma e il ferroviere grida Doncières, Grattevast, Maineville, ecc., d'annotare
quel che mi faceva rievocare la piccola spiaggia o la guarnigione», o ancora: « ma è
ora di tornare al barone, che si avvicina in...»545. Sappiamo che i giochi temporali di
Sterne sono un po' più arditi, cioè un po' più letterali, come quando le digressioni di
Tristram narratore (extradiegetico) obbligano suo padre (nella diegesi) a prolungare
la siesta di oltre un'ora546, ma ancora una volta il principio è identico547. In un certo
senso, il pirandellismo dei Sei personaggi in cerca d'autore o di Questa sera si recita a
soggetto, dove gli stessi attori sono di volta in volta protagonisti e commedianti, è
solo una vasta estensione della metalessi, come tutto ciò che ne deriva, ad esempio,
nel teatro di Genet, e come i cambiamenti di livello del racconto in Robbe-Grillet:
personaggi fuggiti da un quadro, da un libro, da un ritaglio di stampa, da una
fotografia, da un sogno, da un ricordo, da un'illusione, ecc., tutti questi giochi
manifestano con l'intensità dei loro effetti l'importanza del limite che essi
s'ingegnano di superare a scapito della verosimiglianza, coincidente proprio con la
narrazione (o la rappresentazione) stessa: frontiera mobile ma sacra fra due mondi:
quello dove si racconta, quello che si racconta. Ne deriva l'inquietudine segnalata
così giustamente da Borges: «Simili invenzioni suggeriscono che se i personaggi di
una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori,
possiamo essere dei personaggi fittizi»548. La metalessi più sconvolgente si trova
proprio in questa ipotesi inaccettabile e insistente, che l'extradiegetico è forse
sempre diegetico, e che il narratore e i suoi narratari, cioè voi ed io, apparteniamo
forse anche a qualche racconto.
Una figura meno audace, ma riallacciabile alla metalessi, consiste nel raccontare
come diegetico, allo stesso livello narrativo del contesto, quanto è stato però
presentato (oppure si lascia facilmente decifrare) come essenzialmente
metadiegetico, o, se si preferisce, metadiegetico alla fonte: come se il marchese di
Renoncourt, dopo aver riconosciuto che ha saputo dallo stesso des Grieux la storia
dei suoi amori (o anche dopo aver lasciato parlare il cavaliere per qualche pagina)
riprendesse la parola per raccontare direttamente la storia, senza più «fingere»,
direbbe Platone, «di esser divenuto des Grieux». L'archetipo di tale procedimento
si trova senz'altro nel Teeteto che, come sappiamo, consiste in una conversazione fra
Socrate, Teodoro e Teeteto riferita dallo stesso Socrate a Euclide, che la riferisce a
Terpsione. Ma, dice Euclide, per evitare « l'intralcio di formule intercalate nel
discorso, quando per esempio Socrate dice parlando di se stesso: "e io dissi",
oppure: "per me, io risposi", e parlando del suo interlocutore: "fu d'accordo"
oppure "non fu d'accordo", l'incontro è stato redatto in forma di dialogo diretto
fra Socrate e i suoi interlocutori»549. Le forme di narrazione dove il cambio
metadiegetico, menzionato o no, si trova immediatamente soppiantato a vantaggio
del narratore primo, fatto che, in qualche modo, provoca l'economia di uno (o più)
livello narrativo, tali forme le chiameremo metadiegetico ridotto (sottinteso: al livello
diegetico), o pseudo- die getico.
A dire la verità, la riduzione non è sempre evidente, o più esattamente la
differenza fra metadiegetico e pseudo-diegetico non è sempre percepibile nel testo
letterario narrativo, il quale (al contrario del testo cinematografico) non dispone di
elementi capaci di rivelare il carattere me- tadiegetico di un segmento 550, ad
eccezione del cambiamento di persona: se il signor di Renoncourt prendesse il
posto di des Grieux per raccontare le avventure di quest'ultimo, la sostituzione si
segnalerebbe immediatamente nel passaggio dall'io all'egli; ma quando il
protagonista di Sylvie narra in sogno un momento della sua giovinezza, niente ci
permette di decidere se il racconto è allora racconto di quel sogno oppure,
direttamente e al di là dell'istanza onirica, racconto di quel momento.
Da «Jean Santeuil» alla «Recherche», ossia il trionfo dello pseudo-diegetico.
Dopo quest'ultima svolta, ci sarà facile caratterizzare la scelta narrativa operata,
deliberatamente o no, da parte di Proust nella Recherche du temps perdu. In primo
luogo occorre però ricordare quale fosse stata la scelta operata nella prima grande
opera narrativa di Proust, o, più esattamente, nella prima versione della Recherche,
cioè Jean Santeuil. L'istanza narrativa, all'interno di tale opera, risulta sdoppiata: il
narratore extradiegetico, che non porta nessun nome (ma è una prima ipostasi del
protagonista, e lo vediamo in situazioni in seguito attribuite a Marcel), è stato in
vacanza con un amico nella baia di Concarneau; i due giovani fanno amicizia con
uno scrittore chiamato C. (seconda ipostasi del protagonista) che inizia, dietro loro
richiesta, a leggere ogni sera le pagine di un romanzo in corso di stesura (scritte
durante il giorno). Le letture frammentarie non vengono trascritte, ma, alcuni anni
più tardi, dopo la morte di C., il narratore, che dispone non si sa come di una copia
del romanzo, si decide a pubblicarlo: si tratta di Jean Santeuil, il cui protagonista è,
chiaramente, un terzo abbozzo di Marcel. Questa struttura disunita è
passabilmente arcaicizzante, con le due seguenti sfumature (rispetto alla tradizione
rappresentata da Manon Lescaut): che il narratore intradiegetico non racconta in
questo caso la sua storia, e che il racconto non è orale, bensì scritto, e addirittura
letterario, poiché si tratta di un romanzo. Torneremo in seguito sulla prima
differenza, che riguarda il problema della «persona», ma occorre insistere ora sulla
seconda, che testimonia, a un'epoca in cui tali procedimenti non sono affatto in
auge, una certa timidezza di fronte alla scrittura di un romanzo e l'evidente bisogno
di una «distanza» nei confronti di questa biografia di Jean - molto più vicina della
Recherche all'autobiografia. Lo sdoppiamento narrativo è ulteriormente aggravato
dal carattere letterario e, fatto più notevole ancora, «fittizio» (poiché si tratta di un
romanzo) del racconto metadiegetico.
Da questa prima tappa di Proust dobbiamo dedurre che egli non ignorava la
pratica del racconto « a incastri», e ne aveva subito la tentazione. D'altra parte,
allude a tale procedimento in una pagina della Fugitive: «I romanzieri pretendono
spesso, nella loro introduzione, di aver incontrato, viaggiando, in un certo paese,
qualcuno che ha loro raccontato la vita di qualche altra persona. Lasciano allora la
parola a questo amico di viaggio, e il racconto di costui è appunto il loro romanzo.
Così la vita di Fabrice del Dongo fu raccontata a Stendhal da un canonico di
Padova. Quando amiamo, cioè quando l'esistenza di un'altra persona ci sembra
misteriosa, come vorremmo trovare un narratore così ben informato! E certo esso
esiste. Noi stessi, non raccontiamo forse senza passione alcuna, la vita di questa o
quella donna a uno dei nostri amici, o a un estraneo che nulla sa dei suoi amori e ci
ascolta con curiosità?»551. Vediamo come l'osservazione non concerna soltanto la
creazione letteraria, ma si estenda all'attività narrativa più corrente, quale si può
esercitare, fra l'altro, nell'esistenza di Marcel: questi racconti fatti da X a Y a
proposito di Z formano il tessuto della nostra «esperienza», una gran parte della
quale è d'ordine narrativo.
Tali antecedenti e questa allusione danno ancor più risalto al carattere dominante
della narrazione nella Recherche, cioè all'eliminazione quasi sistematica del racconto
metadiegetico. In primo luogo, la finzione del manoscritto raccolto scompare a
vantaggio d'una narrazione diretta dove il protagonista-narratore presenta
scopertamente il suo racconto come opera letteraria, assumendo quindi il ruolo
d'autore (fittizio), come Gii Blas o Robinson, a contatto immediato col pubblico.
Ne deriva l'uso del termine «questo libro» o «quest'opera» 552 per designare il suo
racconto; i plurali accademici553; le apostrofi al lettore554; e persino lo pseudo-
dialogo faceto alla maniera di Sterne e Diderot: «Tutto questo, dirà il lettore, non ci
dice niente su... Molto increscioso, difatti, signor lettore. E più triste di quel che
crediate... - Insomma, la signora d'Arpajon vi presentò al principe? - No, ma tacete
e lasciatemi continuare il mio racconto»555. Il romanziere fittizio di Jean Santeuil non
si prendeva simili libertà, e la differenza serve a commisurare il progresso
compiuto nell'emancipazione del narratore. Poi, le inserzioni metadiegetiche sono
quasi completamente assenti dalla Recherche: a questo titolo, possiamo citare
unicamente il racconto fatto da Swann a Marcel sulla sua conversazione col
principe di Guermantes convertito al dreyfusismo 556, i resoconti di Aimé sulla
passata condotta di Albertine557, e soprattutto il racconto attribuito ai Goncourt di
un pranzo dai Verdurin558. Noteremo d'altra parte che in questi tre casi l'istanza
narrativa è messa in risalto e fa a gara, come importanza, con l'elemento riferito: la
parzialità ingenua di Swann interessa a Marcel molto più della conversazione del
principe; lo stile scritto di Aimé, con le sue parentesi e virgolette invertite, è un
immaginario pastiche; e lo pseudo-Goncourt, pasti-che reale, sta qui come pagina di
letteratura e testimonia sulla vanità delle lettere, molto più che come documento
sul salotto Verdurin; per questi diversi motivi, non era possibile ridurre tali racconti
metadiegetici, cioè farli assumere direttamente dal narratore.
In tutto il resto del romanzo, in compenso, la pratica costante del racconto nella
Recherche è quel che abbiamo battezzato lo pseudodiegetico, cioè un racconto
originariamente secondo, ma immediatamente ricondotto al livello primo e assunto
direttamente, qualunque sia la sua fonte, dal protagonista-narratore. La maggior
parte delle analessi osservate nel primo capitolo derivano sia da ricordi rimemorati
dal protagonista, e dunque da una specie di racconto interiore alla maniera di Nerval,
sia da resoconti che gli sono stati fatti da una terza persona. Risultano del primo
tipo, per esempio, le ultime pagine delle Jeunes filles en fleurs, che rievocano le mattine
soleggiate di Balbec, ma attraverso il ricordo conservatone dal protagonista tornato
a Parigi: «Ciò che rividi quasi immancabilmente, quando pensai a Balbec, furono i
momenti in cui ogni mattina, durante la buona stagione...»; dopo di che,
l'evocazione dimentica il pretesto memoriale e si sviluppa per sé, in racconto
diretto, fino all'ultima riga, cosicché molti lettori non osservano la svolta spazio-
temporale che l'aveva originata, e credono a un semplice flash-back isodiegetico,
senza cambiamento di livello narrativo; oppure il ritorno al 1914, durante la
permanenza a Parigi nel 1916, introdotto dalla seguente frase: «Stavo pensando che
da un pezzo non avevo più veduto nessuna delle persone menzionate in
quest'opera. Nel 1914...» 559: segue un racconto diretto del primo ritorno, come se
non si trattasse di un ricordo evocato durante il secondo, o come se tale ricordo
fosse soltanto un pretesto narrativo, ciò che Proust chiama a ragione
«procedimento di transizione»; alcune pagine dopo, il passaggio consacrato alla
visita di Saint-Loup560 termina con la seguente frase, rivelante, alla fine, la sua fonte
memoriale : « Pur rammemorandomi così la visita di Saint-Loup...» Ma occorre
ricordare soprattutto che Combray I è una fantasticheria da insonnia, che Combray II
è un « ricordo involontario» provocato dal sapore della «maddalenina», e che tutto
quel che segue, a cominciare da Un amour de Swann, è nuovamente un'evocazione
dell'insonne : tutta la Recherche è in realtà una vasta analessi pseu- dodiegetica
intitolata ai ricordi del « soggetto intermediario», immediatamente rivendicati e
assunti come racconto dal narratore finale.
Sono di competenza del secondo tipo tutti quegli episodi, evocati nel capitolo
precedente a proposito dei problemi di focalizzazione, che avvengono fuori dalla
presenza del protagonista, e di cui il narratore ha quindi potuto esser informato
soltanto mediante un racconto intermediario.: vedi, le circostanze del matrimonio di
Swann, le trattative fra Norpois e Faffenheim, la morte di Bergotte, il
comportamento di Gilberte dopo la morte di Swann, il mancato ricevimento dalla
Berma561: come abbiamo visto, la fonte di tali informazioni è ora dichiarata, ora
implicita, ma, ad ogni modo, Marcel incorpora gelosamente al suo racconto quanto
gli proviene da Cottard, da Norpois, dalla duchessa, o da Dio sa chi, come se non
tollerasse di lasciare a un altro una parte anche minima del suo privilegio narrativo.
Il caso più tipico, e ovviamente più importante, è quello di Un amour de Swann. In
linea di principio si tratta di un episodio doppiamente metadiegetico, poiché, in
primissimo luogo, i suoi particolari sono stati riferiti a Marcel da un narratore (e in
un momento) non determinato, e poi perché Marcel si riporta alla memoria tali
particolari durante certe notti d'insonnia; ricordi di racconti anteriori, dunque, a
partire dai quali, ancora una volta, il narratore extradiegetico raccoglie tutta la
puntata e racconta a suo nome tutta quella storia avvenuta prima della sua nascita,
non senza introdurvi sottili tracce della sua esistenza ulteriore 562, che equivalgono
quasi a una firma e impediscono allettore di dimenticarlo troppo a lungo:
bell'esempio di egocentrismo narrativo. Proust aveva gustato in Jean Santeuil i
desueti piaceri del metadiegetico, ora invece è come se avesse giurato a se stesso di
non riattingervi più, e di riservarsi (o di riservare al suo portaparola) la totalità della
funzione narrativa. Un amour de Swann raccontato dallo stesso Swann avrebbe
compromesso tale unità d'istanza, e il monopolio del protagonista. Swann, ex
ipostasi di Marcel563, deve essere ormai, nell'economia definitiva della Recherche, solo
un precursore infelice e imperfetto: non ha quindi diritto alla «parola», cioè al
racconto — e meno ancora (vi torneremo in seguito) al discorso che lo porta,
l'accompagna e gli fornisce significato. Ecco perché Marcel e soltanto Marcel deve
in ultima istanza, e a dispetto di tutte le altre, raccontare questa avventura non sua.
Non è sua, però la prefigura, come sappiamo tutti, e in un certo senso la
determina. Ritroviamo ora l'influsso indiretto, analizzato precedentemente, di certi
racconti metadiegetici: l'amore di Swann per Odette non ha, teoricamente, nessuna
incidenza diretta sul destino di Marcel564, e per questo la norma classica lo
giudicherebbe indubbiamente puramente episodico; ma la sua incidenza indiretta,
cioè l'influsso esercitato dalla conoscenza di esso, assunta da Marcel mediante un
racconto, è in compenso considerevole, ed è lo stesso Marcel a testimoniarlo nella
seguente pagina di Sodome:
Pensavo allora a tutto quello che avevo saputo dell'amore di Swann per Odette, del modo come egli era stato ingannato
per tutta la sua vita. In fondo, a volerci pensare, l'ipotesi che mi fece costruire a poco a poco tutto il carattere di Albertine
e interpretare dolorosamente ogni attimo d'una vita che non potevo controllare per intero, fu il ricordo, l'idea fìssa del
carattere della signora Swann, quale mi era stato descritto. Tali racconti contribuirono a far si che, in avvenire, la mia fantasia
giocasse a supporre che Albertine avrebbe potuto, invece d'essere una buona fanciulla, aver la medesima immoralità, la
medesima facoltà d'inganno d'una vecchia sgualdrina, e ch'io pensassi a tutte le sofferenze che m'aspettavano in tal caso se
mai l'avessi amata565.
Tali racconti contribuirono...: è a causa del racconto di un amore di Swann che Marcel
potrà effettivamente immaginare un giorno un'Albertine simile a Odette: infedele,
viziosa, inaccessibile, e di conseguenza invaghirsi di lei. Il seguito lo sappiamo.
Potenza del racconto...
Non dimentichiamo, dopo tutto, che se Edipo può fare quel che ciascuno
(dicono) si limita a desiderare, ciò avviene perché un oracolo ha narrato in anticipo
che un giorno avrebbe ucciso il padre e sposato la madre: senza oracolo, niente
esilio, dunque niente incognito, dunque niente parricidio, dunque niente incesto.
L'oracolo d'Edipo re è uji racconto metadiegetico al futuro, la cui semplice
enunciazione disinnescherà la « macchina infernale » capace di realizzarlo. Non è
una profezia a realizzarsi, è una trappola in forma di racconto, e che « cattura ». Si,
potenza (e inganno) del racconto. Esistono racconti che fanno vivere (She- razade),
esistono racconti che uccidono. Non si può giudicare bene Un amour de Swann se
non si capisce come questo amore sia uno strumento del Destino.
Persona.
Si è potuto osservare come, finora, abbiamo usato i termini « racconto in prima -
o in terza — persona » solo accompagnati da virgolette di protesta. Tali locuzioni
correnti, a mio parere, sono effettivamente inadeguate in quanto mettono l'accento
della variazione sull'elemento in realtà invariante della situazione narrativa, cioè la
presenza, implicita o esplicita, della «persona» del narratore, il quale, all'interno del
suo racconto, può esistere solo (come qualunque soggetto dell'enunciazione in un
enunciato) in «prima persona» — esclusa l'enallage di convenzio-ne, come nei
Commentarli di Cesare: e precisamente, l'accento messo sulla «persona» lascia
credere che la scelta — puramente grammaticale e retorica - del narratore sia
costantemente dello stesso ordine di quella di Cesare, che decide di scrivere le sue
memorie in una persona piuttosto che in un'altra. Sappiamo benissimo come il
problema non stia qui. La scelta del romanziere non si verifica fra due forme
grammaticali, ma fra due atteggiamenti narrativi (le forme grammaticali ne sono
quindi solo la meccanica conseguenza): far raccontare la storia da uno dei
«personaggi»566 o da un narratore estraneo alla storia stessa. La presenza di verbi in
prima persona in un testo narrativo può quindi rinviare a due situazioni
diversissime, confuse dalla grammatica ma necessariamente distinguibili da parte
dell'analisi narrativa: la designazione del narratore in quanto tale da parte di se
stesso, come quando Virgilio scrive «Arma virumque cano...», e l'identità di persona
fra il narratore e uno dei personaggi della storia, come quando Crusoe scrive:
«Nacqui a York nel 1632...» Il termine «racconto in prima persona» si riferisce, è
scontato, solo alla seconda situazione ed è una disimmetria che conferma la sua
improprietà. Dato che il narratore può, ad ogni momento, intervenire come tale nel
racconto, qualunque narrazione è, per definizione, virtualmente fatta in prima
persona (anche se fosse al plurale di maestà, come quando Stendhal scrive:
«Confesseremo... che abbiamo iniziato la storia del nostro eroe...») Il vero problema è
sapere se il narratore ha o no l'occasione di usare la prima persona per designare
uno dei suoi personaggi. Distingueremo perciò ora due tipi di racconto: il primo con
narratore assente dalla storia raccontata (esempio: Omero nell'Iliade, o Flaubert
nell'Education sentimentale), e il secondo con narratore presente come personaggio
nella storia raccontata (esempio: Gil Blas, o Wuthering Heights).
Per evidenti ragioni chiamo il primo tipo etero diegetico, e il secondo omodiegetico.
Ma senz'altro gli esempi scelti fanno già risaltare una asimmetria nello statuto dei
due tipi: Omero e Flaubert sono ambedue totalmente, e quindi sono ugualmente,
assenti dai due racconti in questione; ma possiamo dire, in compenso, che Gii Blas
e Lockwood non hanno una uguale presenza nei loro rispettivi racconti : Gii Blas è
incontestabilmente l'eroe della storia da lui raccontata, Lockwood
incontestabilmente non lo è (e troveremo facilmente esempi di «presenza» ancora
più debole: vi tornerò immediatamente). L'assenza è assoluta, ma la presenza ha le
sue gradazioni. Sarà dunque necessario, per lo meno, distinguere due varietà
all'interno del tipo omodiegetico: una, dove il narratore è il protagonista del suo
racconto (Gil Blas), l'altra, dove si limita a sostenere un ruolo secondario,
coincidente, per così dire sempre, con un ruolo d'osservatore e di testimone:
Lockwood, già citato, il narratore anonimo di Louis Lambert, Ismahel in Moby Dick,
Marlow in Lord Jim, Carraway nel Great Gatsby, Zeit- blom nel Doktor Faustus -
senza dimenticare il più illustre e tipico, il trasparente (ma indiscreto) dottor
Watson di Conan Doyle567. È come se il narratore non potesse essere nel suo
racconto una comune comparsa: può essere solo vedette, o semplice spettatore. Alla
prima varietà, riserviamo il termine (che s'impone) di autodiegetico: rappresenta, in
un certo senso, il grado forte dell'omodiegetico.
Il rapporto fra narratore e storia, definito in questi termini, è teoricamente
invariabile: anche quando Gil Blas o Watson si cancellano momentaneamente
come personaggi, sappiamo che essi appartengono all'universo diegetico del
racconto, e prima o poi riappariranno. Perciò il lettore riceve immancabilmente
come infrazione a una norma esplicita (almeno quando lo percepisce) il passaggio
da uno statuto all'altro: così la sparizione (discreta) del narratore- testimone iniziale
del Rouge o di Bovary, oppure quella(più clamorosa) del narratore di Lamiel, che esce
scopertamente dalla diegesi «per diventare letterato. Così, benevolo lettore, addio,
non sentirete più parlare di me» 568. Trasgressione ancora più forte, il cambiamento
di persona grammaticale per designare il medesimo personaggio: così, Autre étude
de femme, dove Bianchon passa improvvisamente dall'«io» all'«egli» 569, come se
abbandonasse di colpo il ruolo di narratore; così, in Jean Santeuil, il protagonista
passa, al contrario, dall'«egli» all'«io»570. Nel campo del romanzo classico, e ancora
in Proust, tali effetti derivano evidentemente da una sorta di patologia narrativa,
spiegabile con rimaneggiamenti frettolosi e stati d'incompiutezza del testo: ma
sappiamo come il romanzo contemporaneo abbia superato tale limite, e altri
ancora, e non esita a stabilire fra narratore e personaggio) un rapporto variabile o
fluttuante, vertigine pronominale accordata con una logica più libera, e con una
idea più complessa della «personalità». Le forme più spinte di tale emancipazione 571
non sono fórse le più percepibili, per il fatto che gli attributi classici del
«personaggio» — nome proprio, «carattere» fisico e morale - sono scomparsi, e
con essi i punti di riferimento della circolazione grammaticale. Borges ci offre
indubbiamente l'esempio più spettacolare di questa trasgressione - proprio perché
essa si iscrive, nel caso in questione, in un sistema narrativo perfettamente
tradizionale che accentua il contrasto — nel racconto intitolato la Forma della
spada572, dove il protagonista comincia col raccontare la sua infame avventura
identificandosi con la vittima, prima di confessare di essere in realtà l'«altro», il vile
delatore trattato fino ad allora, col debito disprezzo, in « terza persona ». Il
commento « ideologico » di tale procedimento narrativo è fornito dallo stesso
Moon: «Quel che un uomo fa, è come se lo facessero tutti gli uomini...
Io sono gli altri, qualunque uomo è tutti gli uomini». Il fantastico di Borges,
emblematico in questo di tutta la letteratura moderna, è senza accezione di persona.
Non pretendo di trascinare in questa direzione la narrazione proustiana, benché il
processo di disintegrazione del «personaggio» si trovi in essa largamente (e
notoriamente) realizzato. La Recherche è, fondamentalmente, un racconto
autodiegetico, dove il protagonista-narratore non cede mai (per così dire) a
nessuno il privilegio della funzione narrativa. In questo caso, non è tanto basilare la
presenza di una simile forma affatto tradizionale, ma, in primo luogo, la
conversione di cui è la risultante, e, in secondo luogo, le difficoltà da essa
incontrate in un romanzo del genere.
«Autobiografia camuffata»: in genere, sembra estremamente naturale e come
scontato che la Recherche sia un racconto in forma autobiografica scritto in « prima
persona». Naturalezza d'ingannevole evidenza, poiché il piano iniziale di Proust
(come sospettava Germaine Brée fin dal 1948, e come fu poi confermato dalla
pubblicazione di Jean Santeuil) lasciava a questa decisione narrativa solo un posto
liminare. Jean Santeuil, dobbiamo ricordarlo, ha una forma deliberatamente
eterodiegetica. Deviazione che impedisce quindi di considerare la forma narrativa
della Recherche collie prolungamento diretto di un discorso autenticamente
personale, le cui discordanze nei confronti della vita reale di Marcel Proust
costituirebbero solo scarti secondari. «Il racconto in prima persona, — scrive
giustamente Germaine Brée, - è frutto di una cosciente scelta estetica, e non il
segno della confidenza diretta, della confessione, dell'autobiografia» 573. Fare
raccontare la vita di Marcel allo stesso Marcel, dopo aver fatto raccontare la vita di
«Jean» allo scrittore C., deriva effettivamente da una scelta narrativa visibile e
perciò significativa esattamente come quella di Defoe per Robinson Crusoe o di
Lesage per Gil Blas — e anche di più, a causa della deviazione. Ma, inoltre, non si
può fare a meno di osservare come tale conversione dall'eterodiegetico
all'autodiegetico accompagni,e completi, l'altra conversione, già osservata, dal
metadiegetico al diegetico (o pseudodiegetico). Da Santeuil alla Recherche, il
protagonista poteva passare dall'«egli» all'«io», senza che sparisse la stratificazione
delle istanze narrative: bastava che il romanzo di C. fosse autobiografico, o almeno,
semplicemente, di forma autodiegetica. Viceversa, la doppia istanza poteva ridursi
senza modificare il rapporto fra protagonista e narratore: era sufficiente
sopprimere il preambolo e cominciare con qualcosa di simile: «Per molto tempo
Marcel si era coricato presto...» Dobbiamo perciò considerare nel suo pieno
significato la doppia conversione costituita dal passaggio dal sistema narrativo di
Jean Santeuil a quello della Recherche.
Se lo statuto del narratore, in ogni racconto, viene definito in pari tempo
mediante il suo livello narrativo (extra- o intradiegetico) e mediante il suo rapporto
con la storia (etero- o omodiegetico), possiamo raffigurare i quattro tipi
fondamentali con una tabella a doppia entrata: i ) extra- die getico-eterodiegetico,
paradigma: Omero, narratore di primo grado che racconta una storia da cui è
assente; 2) extradiegetico-omodiegetico, paradigma, Gii Blas, narratore di primo grado
che racconta la sua storia; 3) intra- diegetico-eterodiegetico, paradigma: Sherazade,
narratrice di secondo grado che racconta storie da cui è in genere assente; 4)
intradiegetico-omodiegetico, paradigma: Ulisse nei canti IX-XI dell'Odissea, narratore di
secondo grado che racconta la sua storia. In questo sistema, il narratore (secondo)
della quasi totalità del racconto di Santeuil, il romanziere fittizio C., viene inserito
nella stessa casella di Sherazade come intra-eterodiegetico, e il narratore (unico)
della Recherche nella casella diametralmente (diagonalmente) opposta (qualunque
disposizione venga data alle entrate) di Gil Blas, come extra-omodiegetico.
Protagonista-narratore.
Come in ogni racconto in forma autobiografica 579, i due attanti chiamati da
Spitzer Erzählendes Ich (io narrante) e Erzähltes Ich (io narrato), nella Recherche
risultano separati da una differenza d'età e d'esperienza tali da autorizzare il primo
a trattare il secondo con una sorta d'ironica o condiscendente superiorità,
sensibilissima, ad esempio, nella scena della mancata presentazione di Marcel ad
Albertine, oppure in quella del bacio rifiutato 580. Ma la caratteristica della Recherche,
ciò che la distingue, in questo caso, da quasi tutte le altre autobiografie, reali o
fittizie, sta nel seguente fatto: a questa differenza essenzialmente variabile, e che
fatalmente diminuisce man mano che il protagonista prosegue nel suo «
apprendistato» della vita, viene ad aggiungersi una differenza più radicale e come
assoluta, irriducibile a un semplice « progresso » : quella determinata dalla
rivelazione finale, dall'esperienza decisiva della memoria involontaria e della
vocazione estetica. La Recherche, a questo punto, si separa dalla tradizione del
Bildungsroman per avvicinarsi a certe forme della letteratura religiosa, come le
Confessioni di sant'Agostino: non solo il narratore ne sa (e in maniera tutta empirica)
più del protagonista; egli sa in assoluto, conosce la Verità — una verità a cui il
protagonista non s'avvicina con un movimento progressivo e continuo, ma che al
contrario, e malgrado i presagi e i preannunci da cui si fa precedere qua e là, si
abbatte su di lui nel momento in cui egli se ne trova, in un certo senso, più che mai
lontano: « Abbiamo bussato a tutte le porte che dànno sul nulla, e contro la sola da
dove si può entrare e che per cent'anni avremmo cercato invano, urtiamo senza
saperlo, ed essa si apre».
Tale particolarità della Recherche porta con sé una conseguenza decisiva per i
rapporti fra il discorso del protagonista e quello del narratore. I due discorsi,
effettivamente, fino a quel momento si erano giustapposti, intrecciati, ma, a parte
due o tre eccezioni581, mai completamente confusi: la voce dell'errore e della
tribolazione non poteva identificarsi con quella della conoscenza e della saggezza:
la voce di Parsifal con quella di Gurnemanz. Invece, a partire dall'ultima rivelazione
(per tornare al termine applicato da Proust a Sodome I), le due voci possono
fondersi, e confondersi, oppure darsi il cambio in un medesimo discorso, poiché,
ormai, l'«io pensavo » del protagonista può scriversi «io capivo», «notavo», «intuivo»,
«sentivo», «sapevo», «avevo la netta percezione», «mi resi conto», «ero già arrivato a
questa conclusione», «capii», ecc.582, cioè coincidere con l'«io so» del narratore. Ne
consegue l'improvvisa proliferazione del discorso indiretto, e la sua alternanza col
discorso presentè del narratore, senza opposizione né contrasto. Come abbiamo
già osservato, il protagonista del ricevimento non s'identifica ancora, in atto, col
narratore finale, poiché l'opera scritta dal secondo, per il primo è ancora da venire;
ma, nel «pensiero», cioè nella parola, le due istanze si raggiungono già, poiché esse
si dividono la medesima verità, che ora può scivolare senza rettificazione, come
senza scosse, da un discorso all'altro, da un tempo (l'imperfetto del protagonista)
all'altro (il presente del narratore): come mostra benissimo quest'ultima frase così
flessibile, così libera — Auerbach direbbe così onnitemporale — illustrazione perfetta
del suo assunto: « Se almeno essa mi fosse stata lasciata abbastanza a lungo per poter
condurre a compimento la mia opera, non avrei mancato, anzitutto, di descrivervi gli
uomini (anche se questo avrebbe potuto farli somigliare a esseri mostruosi) come
occupanti un posto ben altrimenti considerevole, accanto a quello così angusto
riservato loro nello spazio: un posto, al contrario, prolungato a dismisura - poiché
essi toccano simultaneamente, giganti immersi negli anni, età così lontane luna
dall'altra, fra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi - nel Tempo».
Postilla
Per concludere senza inutili ricapitolazioni, alcune parole di autocritica o, se si
preferisce, d'apologia. Le categorie e i procedimenti proposti qui non sono certo
senza difetto ai miei occhi: come spesso succede, si trattava di scegliere fra vari
inconvenienti. In un campo abbandonato di solito all'intuizione e all'empirismo, la
proliferazione nozionale e terminologica può senz'altro avere irritato più d'uno, e
certo non mi aspetto che la «posterità» accetti una quantità eccessiva di queste
proposte. Si tratta di un arsenale destinato, come qualsiasi altro, a trovarsi
inevitabilmente sorpassato fra alcuni anni, e tanto più rapidamente quanto più
verrà preso seriamente, cioè discusso, sperimentato, revisionato con l'uso. Una
delle caratteristiche di quello che possiamo chiamare lo sforzo scientifico è il sapersi
fondamentalmente caduco e votato al deperimento: segno di completa negatività,
certo, e considerazione abbastanza malinconica per lo spirito «letterario», sempre
portato a godere in anticipo di una gloria postuma; ma se il critico può sognare
un'opera di secondo grado, lo studioso di poetica invece sa benissimo di lavorare
nel — diciamo piuttosto al - l'effimero, operaio disoccupato in anticipo. Penso
quindi che tutta questa tecnologia, indubbiamente barbara per gli amanti delle Belle
Lettere - prolessi, analessi, iterativi, focalizzazioni, parallessi, metadiegetico, ecc. —
domani apparirà come strumento fra i più rozzi, e andrà a raggiungere altri
imballaggi perduti fra gli scarti della poetica: come unico voto augurale, speriamo
solo che ci vada dopo aver avuto una qualche transitoria utilità. Già inquieto per i
progressi della polluzione intellettuale, Occam vietava l'invenzione senza necessità
degli esseri creati dalla ragione, diremmo oggi: degli oggetti teorici. Sarei
contrariato d'aver contravvenuto a questo principio, ma mi sembra per lo meno
che alcune forme letterarie designate e definite nel mio saggio possano a loro volta
provocare future ricerche, appena sfiorate nel presente lavoro, per ovvie ragioni.
Spero quindi di aver fornito alla teoria letteraria, e alla storia della letteratura, alcuni
oggetti di studio indubbiamente minori, ma un po' più affinati rispetto alle entità
tradizionali, come il «romanzo» o la «poesia».
L'applicazione specifica di tali categorie e procedimenti alla Recherche du temps
perdu era forse ancor più urtante, e non posso negare che il mio assunto possa
essere definito esattamente dal rovesciamento della seguente dichiarazione liminare
di un recente ed eccellente studio sull'arte del romanzo in Proust, dichiarazione che
sicuramente riunisce sotto il suo vessillo, di primo acchito, l'unanimità di tutta la
gente dotata di buon senso: «Non abbiamo voluto imporre all'opera di Proust delle
categorie ad essa esterne, un'idea generale del romanzo, o della maniera in cui va
studiato un romanzo; non è un trattato sul romanzo, con esempi tratti dalla
Recherche, sono concetti nati dall'opera, che permettono di leggere Proust come
quest'ultimo ha letto Balzac o Flaubert. L'unica possibile teoria della letteratura sta
nella critica del fatto singolo» 597.
Non possiamo affatto sostenere che i concetti da noi utilizzati siano nati
esclusivamente «dall'opera», e una simile descrizione del romanzo proustiano non
può affatto passare per conforme all'idea che se ne faceva lo stesso Proust. Una
simile distanza fra la teoria indigena e il metodo critico può sembrare irragionevole,
come tutti gli anacronismi. A mio parere, tuttavia, non bisogna affidarsi ciecamente
all'estetica esplicita di uno scrittore anche quando si tratti di un critico geniale
come l'autore del Contre Sainte-Beuve. La coscienza estetica di un artista, quando è
grande, non è mai, per così dire, al livello della sua pratica: è un fatto che
costituisce solo una manifestazione di quel che veniva simboleggiato da Hegel col
volo tardivo dell'uccello sacro a Minerva. Non abbiamo a disposizione neppure
una centesima parte del genio di Proust, ma abbiamo su di lui il vantaggio seguente
(più o meno, quello dell'asino vivo sul leone morto), di leggerlo partendo
precisamente da ciò che egli ha contribuito a far nascere — la letteratura moderna,
tanto in debito nei suoi confronti - e dunque di percepire con chiarezza all'interno
della sua opera ciò che esisteva solo allo stato embrionale - tanto più che nella
maggior parte dei casi la trasgressione delle norme, l'invenzione estetica, come
abbiamo visto, in lui sono involontarie e perfino inconsapevoli: il suo progetto
aveva basi diverse, e questo spregiatore dell'avanguardia è quasi sempre
rivoluzionario suo malgrado (vorrei dire che, nel caso specifico, è il miglior modo
di esserlo, se non avessi il vago sospetto che si tratti dell'unico). Per ripeterlo
ancora una volta, e dopo tanti altri, leggiamo il passato alla luce del presente:
Proust non leggeva forse allo stesso modo Balzac e Flaubert, e crediamo
veramente che i suoi concetti critici fossero «nati da» La Comédie humaine o
dall"Education sentimentale?
Analogamente, forse, quella sorta di esplorazione (in senso ottico) imposta, nel
nostro caso, alla Recherche ci ha permesso, a quanto spero, di far venire alla luce, in
essa, sotto una nuova prospettiva, dei tratti spesso misconosciuti dallo stesso
Proust e, finora, dalla critica proustiana (l'importanza del racconto iterativo, per
esempio, o dello pseudodiegetico), oppure la più esatta caratterizzazione dei
lineamenti già reperiti, come le anacronie o le focalizzazioni multiple. La «griglia»
tanto screditata non è uno strumento d'incarcerazione, di potatura castrante o di
richiamo all'ordine: è un procedimento di scoperta, e un mezzo di descrizione.
Ciò non significa - forse ve ne siete già resi conto - che chi la utilizza si proibisca
qualsiasi preferenza e valutazione estetica, perfino qualsiasi pregiudizio. Dovrebbe
essere risultato evidente come, in questo confronto fra racconto proustiano e
sistema generale dei possibili narrativi, la curiosità e la predilezione dell'analista si
dirigessero regolarmente verso gli aspetti più deviatiti del primo, trasgressioni
specifiche o esche per una futura evoluzione. Tale sistematica valorizzazione
dell'originalità e dell'innovazione ha forse qualcosa di ingenuo, in fin dei conti di
ancora romantico, ma nessuno, attualmente, vi può completamente sfuggire.
Roland Barthes ne fornisce una giustificazione estremamente convincente in
S/Z598 «Perché mai lo scrivibile (ciò che può esser scritto oggi) è il nostro valore?
Perché la posta del lavoro letterario (della letteratura come lavoro) è il fare del
lettore non più un consumatore, ma un produttore del testo». La preferenza per
quel che in Proust non è solo «leggibile» (classico) ma «scrivibile» (traduzione
grossolana: moderno) esprime forse il desiderio del critico, e anche dello studioso di
poetica, di sostenere, a contatto coi punti esteticamente «sovversivi» del testo, un
ruolo oscuramente più attivo di quello del semplice osservatore e analista. Il
lettore, in questo caso, crede di partecipare, e forse, col semplice atto di
riconoscere - o meglio, di mettere in luce caratteri inventati dall'opera, spesso
all'insaputa del suo autore — partecipa effettivamente e, in misura minima
(minima, ma decisiva) contribuisce alla creazione. Contributo, o addirittura
intervento, che erano (come desideriamo ancora ricordare) non solo legittimi, ma
qualcosa di più ancora, agli occhi di Proust. Lo studioso di poetica, a sua volta, è
pure lui «lettore di se stesso», e scoprire (ce lo dice anche la scienza moderna) è
sempre un po' inventare.
Bibliografia
1. Opere di Proust.
À la recherche du temps perdu, texte établi par Pierre Clarac et André Ferré,
«Pleiade», Gallimard, Paris, tomo I novembre 1955; tomo II gennaio 1956; tomo
III maggio 1956 [trad. it. a cura di Paolo Serini e altri, Alla ricerca del tempo perduto,
Einaudi, Torino 1963, 7 voll.].
Jean Santeuil, precede des Plaisirs et les Jours, texte établi par Pierre Clarac et Yves
Sandre, «Pleiade», Gallimard, Paris 1971 [trad. it. di Franco Fortini, Einaudi, Torino
1953].
Contre Sainte-Beuve, précédé de Pasticbes et Mélanges et suivi de Essais et Articles, texte
établi par Pierre Clarac et Yves Sandre, «Plèiade», Gallimard, Paris 1971 [trad. it. di
Paolo Serini e Mariolina Bertini con un saggio introduttivo di Francesco Orlando,
Contro Sainte-Beuve, Einaudi, Torino 1974].
Correspondance generale, Plon, Paris 1930-36.
Choix de lettres, présenté par Philip Kolb, ivi, 1965.