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GÉRARD GENETTE

FIGURE III
DISCORSO DEL RACCONTO
Traduzione di Lina Zecchi
Giulio Einaudi editore
Titolo originale Figures III
© Editions du Seuil, 1972 Copyright © 1976 Giulio Einaudi editore s.p.a.

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Indice generale
FIGURE III........................................................................................................................................
Critica e poetica.................................................................................................................................
Poetica e storia...................................................................................................................................
La retorica ristretta.............................................................................................................................
Metonimia in Proust...........................................................................................................................
Discorso del racconto - Saggio di metodo.........................................................................................
Premessa........................................................................................................................................
Introduzione..................................................................................................................................
1. Ordine........................................................................................................................................
2. Durata........................................................................................................................................
3. Frequenza..................................................................................................................................
4. Modo.........................................................................................................................................
5. Voce...........................................................................................................................................
Postilla...............................................................................................................................................
Bibliografia........................................................................................................................................
1. Opere di Proust..........................................................................................................................
Per varianti o abbozzi della Recherche :.......................................................................................
Studi critici e teorici......................................................................................................................

Figure III di Genette si struttura in due parti ben distinte. La prima (comprendente i saggi
Critica e poetica, Poetica e storia, La retorica ristretta, Metonimia in Proust) sembra
volersi offrire come puntigliosa revisione di tutti i principati miti critici contemporanei. Fra questi
saggi Metonimia in Proust occupa però un'evidente posizione nodale: incentrata com'è sulla
nascita del racconto, introduce senza soluzione di continuità all'analisi (capillare ed' enciclopedica
insieme) affrontata nella seconda parte, basata sul discorso « narratologico» (Discorso del
racconto), saggio di metodo applicato proprio alla proustiana Recherche du temps perdu.
Metonimia in Proust termina quindi (e certo non solo tipograficamente) dove inizia Discorso
del racconto: dato che, per Genette, se è la metafora a ritrovare il tempo perduto, la metonimia
lo dinamizza, lo rianima e lo «rimette in movimento», lo restituisce a se stesso e alla sua vera
essenza, «che è la sua fuga e la sua ricerca. Solo a questo punto, e solo allora — per mezzo della
metafora, ma nella metonimia - ha inizio il racconto».
La seconda parte assume immediatamente su di sé — anzi, reclama imperiosamente - come
«esemplare» l'irrimediabile dualità insita nella sua stessa operazione, e cioè: se la specificità della
narrazione proustiana presa nel suo insieme è irriducibile, per cui ogni estrapolazione diventa
in questo caso errore di metodo, d'altro lato questa specificità non è affatto indecomponibile.
Analizzare la Recherche non significa quindi andare dall'universale al particolare, bensì
l'esatto contrario: dall'organismo composto, di elementi universali riuniti in una totalità singolare
(la narrazione proustiana, l'opera d'arte in genere) pervenire a quegli elementi estremamente
comuni, «figure e procedimenti di utilità pubblica e di circolazione corrente che chiamo anacronie,
iterativo, focalizzazioni, par allessi e simili». Utilizzando, con varie modifiche, la suddivisione
proposta da Todorov nelle Catégories du récit littéraire, Genette procede alla sua analisi
partendo dalla seguente griglia operativa: considerando ogni racconto come produzione linguistica
che assume su di sé la relazione di uno o vari avvenimenti, diventa (forse) legittimo trattarlo come
lo sviluppo, aberrante finché si vuole, dato a una forma verbale nel senso grammaticale del
termine, l'espansione di un verbo. I problemi d'analisi del discorso narrativo vengono perciò
organizzati e formulati secondo categorie derivate dalla grammatica del verbo, ridotte a tre classi
fondamentali di determinazioni: tempo (riferito alle relazioni temporali fra racconto e diegesi),
modo (modalità, cioè forme e gradi della «rappresentazione» narrativa), voce (come si trova
implicata nel racconto la situazione o istanza narrativa coi suoi due protagonisti, narratore e
destinatario reale o virtuale).
Genette ripercorre e saccheggia instancabilmente tutto il repertorio critico occidentale, da Platone
ai formalisti, da Aristotele a Barthes, Friedman, Jauss, Lubbock, Mailer, ecc. Ne risulta un
discorso sulla narratologia a sua volta sempre ai limiti della narratività (come capacità di creare e
organizzare un racconto), oscillante fra un esasperato tecnicismo che passa al vaglio di ingranaggi
sempre più perfezionati elementi sempre più impalpabili e una vertigine di straordinaria
inventività verbale, dove la proliferazione terminologica e nozionale è spesso urtante - per
ammissione dell'autore stesso — ma inevitabile, quando non diventi inaspettatamente rivelatrice.
LINA ZECCHI
FIGURE III

Dirà un altro:
- Scommetto che si tratta ancora di una figura. Il primo risponderà:
- Hai vinto. Dirà il secondo:
- Si, ma purtroppo solo sul piano simbolico. Il primo:
- No, nella realtà; simbolicamente, hai perso.
KAFKA

Critica e poetica

In Francia - alcuni anni fa - la coscienza letteraria sembrava sprofondare in un


processo involutivo dall'aspetto lievemente inquietante: polemiche fra storia
letteraria e «nouvelle critique»; oscuri contrasti, all'interno della stessa «nouvelle
critique», fra una vecchia e una nuova «nouvelle», esistenzialista e tematica la prima,
d'ispirazione formalista o strutturalista la seconda; proliferazione malsana di studi e
inchieste su tendenze, metodi, prospettive e vicoli ciechi della critica. Di scissione
in scissione, di riduzione in riduzione, gli studi letterari parevano ormai
eternamente votati a rivolgere sempre più su se stessi la loro ideale macchina da
presa, e a chiudersi in un rimuginare narcisistico, sterile e in fin dei conti
autodistruttivo, arrivando a realizzare il pronostico fatto da Valéry nel 1928: «Dove
va la critica? Verso la sua rovina, spero».Una situazione così spiacevole, tuttavia,
potrebbe essere pura apparenza. Qualsiasi riflessione un po' seria sulla critica,
effettivamente, porta con sé una riflessione sulla letteratura stessa: lo dimostra con
chiarezza, ad esempio, il percorso seguito da Proust nel suo Contre Sainte-Beuve. Una
critica può essere puramente empirica, primitiva, irriflessa, « selvaggia » : una
metacritica implica invece sempre una «certa idea» della letteratura, e questo
pensiero implicito è destinato a farsi esplicito in un tempo non molto lungo. E
vediamo ora come un fatto in un certo senso negativo può diventare, per noi,
relativamente positivo: da alcuni anni di speculazioni e di elucubrazioni della critica
potrebbe scaturire ciò che, da oltre un secolo, ci è mancato a tal punto da farci
perdere persino la coscienza di una simile mancanza; un'apparente impasse della
critica potrebbe cioè portare ad un rifiorire della teoria letteraria.
Si deve parlare proprio di rifiorire dato che - sotto il nome di poetica e di retorica
- la teoria dei «generi» e, in un contesto ancora più generale, la teoria del discorso,
risalgono com'è noto alla più remota antichità: da Aristotele a La Harpe si sono
mantenute entrambe, nel pensiero occidentale, fino all'avvento del Romanticismo.
Quest'ultimo, spostando l'attenzione dalle forme e dai generi verso gli «individui
creatori» ha sacrificato un tal tipo di riflessione generale a favore di una psicologia
dell'opera a cui, da Sainte-Beuve in poi, e attraverso tutti i suoi satelliti, si è sempre
attenuta quella che, oggi, si chiama critica. Che poi questa psicologia si armi (o si
alteri) in vario modo di prospettiva storica, o di psicanalisi (freudiana, junghiana,
bachelardiana e così via), o di sociologia (marxista o no), che si pieghi
maggiormente verso la persona dell'autore o verso quella del lettore (del critico
stesso), o che tenti ancora una volta di rinchiudersi nella problematica «
immanenza » dell'opera, simili variazioni d'accento non modificano mai in maniera
fondamentale la funzione essenziale della critica, che resta il mantenimento di un
dialogo fra un testo e una ψυχή conscia e/o inconscia, individuale e/o collettiva,
creativa e/o ricettiva.
Persino il progetto strutturalista poteva benissimo, in fin dei conti, introdurre in
questo quadro una pura e semplice sfumatura: almeno, limitandolo all'aspetto per
cui esso consisterebbe nello studiare «la struttura» (o le «strutture») di un'opera
considerata, un po' feticisticamente, un «oggetto» chiuso, compiuto, assoluto: e
quindi, inevitabilmente, nel motivare (fornendone una giustificazione con i
procedimenti dell'analisi strutturale) una simile chiusura e anche, al tempo stesso, la
decisione (forse arbitraria) o la circostanza (forse fortuita) che l'instaura;
dimenticando l'avvertimento di Valéry che fa dipendere «dalla stanchezza o dalla
superstizione» l'idea di opera compiuta. Da circa mezzo secolo, nel suo contrasto
con la storia letteraria, la critica moderna si è sforzata di separare le nozioni di opera
e di autore nel disegno tattico (comprensibilissimo) di opporre la prima al secondo,
responsabile di tanti eccessi e attività a volte oziose. Oggi cominciamo ad avvertire
come esse siano interrelate e come ogni forma di critica sia necessariamente
imprigionata nel circolo vizioso del loro reciproco rinvio.
Risulta anche evidente come il suo statuto di opera non esaurisca affatto la realtà
(e neppure la «letterarietà») del testo letterario. Cosa ancor più grave: l'opera (la sua
immanenza) presuppone una quantità di dati che la trascendono e riguardano il
campo della linguistica, della stilistica, della semiologia, dell'analisi del discorso,
della logica narrativa, della tematica dei generi e delle epoche, ecc. Ebbene, la
critica - in quanto tale - si trova nella scomoda situazione di non poter fare a meno
di simili dati, ma anche di non poterli dominare. Deve quindi ammettere la
necessità, con completa autonomia, di una disciplina che prenda su di sé le forme
di studio non legate alla singolarità di una certa opera: essa può essere solo una
teoria generale delle forme letterarie - diciamo pure una poetica.
Se poi una tale disciplina debba o no cercare di costituirsi come «scienza» della
letteratura, con le sgradevoli connotazioni che - in questo campo - l'impiego
affrettato del termine può comportare, è forse un problema secondario. È tuttavia
sicuro che solo una simile disciplina può pretenderlo, dato che, come tutti sanno
(ma come la nostra tradizione positivista, adoratrice dei «fatti» e indifferente alle
leggi sembra aver dimenticato da molto tempo), la sola «scienza» possibile è quella
del «generale». Piuttosto che di uno studio delle forme e dei generi nel senso inteso
dalla retorica e dalla poetica in epoca classica ( sempre portate, da Aristotele in poi,
a erigere a norma k tradizione e a canonizzare l'esperienza), si tratterebbe ora di
un'esplorazione dei diversi possibili del discorso, rispetto a cui le opere già scritte e le
forme già usate si rivelano come altrettanti casi particolari al di là dei quali si
profilano altre Combinazioni prevedibili, o deducibili. È una delle tante
interpretazioni possibili delle celebri formule di Roman Jakobson, che propongono
come oggetto agli studi letterari non la letteratura ma la letterarietà, non la poesia
ma la funzione poetica: in una visione ancora più generale, l'oggetto della teoria
sarebbe in tal caso non il solo reale, ma la totalità del virtuale letterario.
L'opposizione di una poetica aperta a quella chiusa dei classici mostra chiaramente
che non si tratta (come si potrebbe credere) di un ritorno al passato precritico,
bensì dell'esatto contrario. O la teoria letteraria sarà moderna, e legata alla
modernità della letteratura, o non sarà niente.
Presentando il suo programma d'insegnamento della poetica, Valéry dichiarava
con salutare insolenza (tutto sommato giustificata) che «lungi dal sostituirsi od
opporsi alla storia letteraria, l'oggetto di tale insegnamento sarebbe stato fornire
alla storia letteraria contemporaneamente un'introduzione, un senso e uno scopo».
Le relazioni fra poetica e critica potrebbero essere di tipo analogo, con questa
variante - fondamentale — che, mentre la poetica di Valéry non si aspettava quasi
niente, in cambio, dalla storia letteraria, qualificata da lui «vasta fumisteria», la
teoria letteraria ha invece molto da guadagnare dai lavori particolari della critica. Se
la storia letteraria non è affatto una «fumisteria», essa è tuttavia in maniera
evidente, come le tecniche psicologiche di decifrazione e messa a punto di un testo
(e in fondo molto di più), una disciplina annessa nello studio della letteratura, di cui
esplora esclusivamente gli aspetti marginali (biografia, ricerca delle fonti e degli
influssi, genesi e «fortuna» delle opere, ecc.). Ma la critica è, e resterà, un approccio
fondamentale, e si può presagire che l'avvenire degli studi letterari risieda
essenzialmente nel necessario interscambio fra critica e poetica - nella
consapevolezza e nell'esercizio della loro complementarità.

Poetica e storia
Alla cosiddetta «nouvelle critique» (detta anche critica «tematica» o «formalista»)
si rimprovera abitualmente l'indifferenza o il disprezzo nei confronti della storia, se
non addirittura la sua ideologia antistoricistica 1. Un rimprovero simile è trascurabile
se viene a sua volta formulato in nome di un'ideologia storicistica con implicazioni
che Lévi-Strauss inquadra con estrema chiarezza, quando vuole «identificare nella
storia un metodo a cui non corrisponde affatto un oggetto distinto e -
conseguentemente — rifiutare l'equivalenza fra le nozioni di storia e di umanità,
che si pretende di imporci con lo scopo inconfessato di fare della storia l'ultimo
rifugio di un umanesimo trascendentale» 2. Se invece questo rimprovero è
formulato da uno storico, lo si deve accettare con serietà proprio per il fatto che la
storia è una disciplina applicabile a qualunque oggetto, e quindi anche alla
letteratura. Appunto a questo proposito ricordo di aver risposto tre anni fa a
Jacques Roger come l'apparente rifiuto della storia fosse, almeno per la critica
cosiddetta «formalista», semplicemente una provvisoria interruzione, una
sospensione metodica; un tal tipo di critica (che dovrebbe senz'altro chiamarsi, più
giustamente, teoria delle forme letterarie - o, più concisamente, poetica) mi sembrava
destinato, forse più di qualsiasi altro, a trovare in futuro, sulla sua strada, la storia.
Ora vorrei tentare di dire in breve perché, e come.
In primo luogo, occorre operare una distinzione fra varie discipline, reali o
ipotetiche, troppo spesso confuse sotto il comune denominatore di storia letteraria
o di storia della letteratura. Lasciamo da parte (per non tornarci più) la « storia
della letteratura » praticata nei manuali a livello d'insegnamento secondario: si tratta
in realtà di una serie di monografie disposte in ordine cronologico. Che poi queste
monografie siano, in se stesse, buone o cattive, non ha affatto importanza nel
nostro caso: è lampante che neppure la migliore serie di monografie sarebbe in
grado di costituire una storia. Lanson — che, come tutti sanno, in gioventù ne
aveva scritta una - diceva più tardi che ce ne erano a sufficienza, e che non ce n'era
più bisogno. Sappiamo anche, però, che la sorgente non si è affatto prosciugata.
Evidentemente esse rispondono, bene o male, a una funzione didattica precisa e
per niente trascurabile, ma non di ordine essenzialmente storico.
Seconda specie da distinguere. Si tratta di quella che Lanson voleva e proponeva -
con ragione - di non chiamare storia della letteratura, bensì storia letteraria: «Per
affiancare questa Histoire de la littérature frangaise, cioè della produzione letteraria, di
cui possediamo già abbastanza esemplari, - diceva, — si potrebbe scrivere una
Histoire littéraire de la France e che ci manca, e che adesso è quasi impossibile tentare.
Intendo con ciò... il quadro della vita letteraria nella nazione, la storia della cultura
e dell'attività della folla oscura che leggeva, quanto quella degli illustri individui che
scrivevano»3. Si tratta chiaramente, in questo caso, di una storia delle circostanze,
delle condizioni e delle ripercussioni sociali del fatto letterario. Una simile «storia
letteraria» è in realtà un settore della storia sociale: in quanto tale, ha un'evidente
giustificazione. Unico difetto, ma grave: dopo che Lanson ne ha tracciato il
programma, essa non è riuscita a costituirsi su quelle basi. Quella chiamata oggi
storia letteraria è rimasta ancorata, con alcune eccezioni, alla cronaca individuale,
alla biografia degli autori, della loro famiglia, dei loro amici e conoscenti, per farla
breve: a un livello di storia aneddotica, cronachistica, che la storia generale ha
ripudiato e superato da oltre trentanni. Nello stesso tempo, è stata per lo più
abbandonata l'intenzione di scrivere una storia sociale: mentre Lanson pensava alla
storia letteraria di una certa nazione, adesso si pensa semplicemente a una storia
letteraria, il che dà all'aggettivo funzione e accento completamente diversi.
Ricordiamo come nel 1941 Lucien Febvre dovesse ancora deplorare che tale
programma non fosse mai stato realizzato: e lo faceva in un articolo non a torto
intitolato De Lanson à Mornet: un renoncement? Ne stralcio alcune frasi, che è utile
ricordare qui perché definiscono, con maggior esattezza di quelle di Lanson, cosa
dovrebbe essere la famosa storia «letteraria» presagita da quest'ultimo: «Una storia
storica della letteratura vuole (o vorrebbe) dire la storia di una letteratura in un
determinato periodo, considerata nei suoi rapporti con la vita sociale di quel
periodo [...]. Per scriverla, bisognerebbe ricostruire l'ambiente, chiedersi chi
scriveva e per chi; chi leggeva e perché; sapere la formazione ricevuta dagli
scrittori, in collegio o altrove, e, analogamente, la formazione dei lettori [...].
Bisognerebbe conoscere il successo ottenuto dagli uni o dagli altri, l'effettiva
estensione e la profondità di tale successo; bisognerebbe mettere in rapporto i
cambiamenti d'abitudine, di gusto, di scrittura e d'interesse degli scrittori con le
vicissitudini della politica, le trasformazioni della mentalità religiosa, le evoluzioni
della vita sociale, e i cambiamenti della moda artistica e del gusto, ecc.» 4. Ma si deve
anche ricordare che Roland Barthes, nel 1960, in un articolo intitolato Histoire ou
littérature5 reclamava ancora l'esecuzione di questo programma di Lucien Febvre, e
perciò, in ultima analisi, del programma di Lanson: dopo oltre mezzo secolo, il
programma non aveva fatto nemmeno un passo avanti. Ancor oggi ci si trova circa
allo stesso punto: ecco quindi la prima critica che si può fare nei confronti della
storia «letteraria». Ve ne è una seconda, di cui parleremo fra poco.
Terza specie da distinguere. Non riguarda più la storia delle circostanze,
individuali o sociali, della produzione e della «consumazione» letteraria, ma lo
studio delle opere stesse, considerate come documenti storici, che riflettono o
esprimono l'ideologia e la sensibilità particolari di un'epoca. Questo genere di
storia - per motivi che occorrerebbe determinare - si è realizzato molto meglio dei
precedenti, con cui si dovrebbe evitare di confonderlo. 6 Per limitarci a citare i
francesi, ricordiamo solo i lavori di Hazard, Bremond, Monglond, o più
recentemente quelli di Paul Bénichou sul classicismo. Si può far rientrare nella
stessa categoria, con i postulati specifici ben noti, la variante marxista della storia
delle idee, rappresentata - in Francia — da Lucien Goldmann, e forse, ai nostri
giorni, da quella che comincia a essere designata col nome di socio-critica. Un simile
tipo di storia ha, per lo meno, il merito di esistere. Mi sembra però che sollevi un
certo numero di obiezioni, o meglio che provochi una certa insoddisfazione.
La provoca in primo luogo per motivi attinenti alle difficoltà di una simile
interpretazione dei testi letterari, difficoltà a loro volta inerenti alla natura di tali
testi. La nozione classica di «riflesso», in questo campo, non è soddisfacente. Nel
presunto « riflesso» letterario vi sono fenomeni di rifrazione e distorsione
difficilissimi da controllare. Per esempio, ci si è chiesti se la letteratura presentasse
un'immagine al positivo oppure al negativo del pensiero di una epoca: domanda
estremamente imbarazzante e dai termini niente affatto chiari. Esistono poi
difficoltà relative alla topica dei generi, fenomeni d'inerzia propri della tradizione
letteraria, ecc., non sempre visibili e generalmente misconosciuti, sotto la comoda e
spesso pigra formula «non si tratta di un caso se, alla stessa epoca...»: cui fa seguito
l'osservazione di una qualunque analogia (a volte battezzata omologia per un vago
senso di pudore), discutibile come tutte le analogie, e che inoltre non si sa bene se
costituisca una soluzione o un problema, dato che poi tutto prosegue come se
quell'idea («non si tratta di un caso se...») dispensasse dal cercare seriamente di che
cosa si tratta, o in altre parole dal definire con precisione il rapporto di cui ci si
limita ad affermare l'esistenza. Molto spesso il rigore scientifico raccomanderebbe
in realtà di tenersi al di qua di una simile affermazione; possiamo osservare come il
Rabelais di Lucien Febvre, un'opera riuscita in questo tipo di critica, sia una
dimostrazione essenzialmente negativa.
Seconda obiezione: ammesso per un attimo che gli ostacoli precedenti siano
superati, questo genere di storia sarà fatalmente esterno alla letteratura stessa.
Esteriorità che non coincide affatto con quella della storia letteraria concepita da
Lanson: si tratta certo di prendere in considerazione la letteratura, però limitandosi
ad attraversarla, per cercare, al di là di essa, strutture mentali che la superano e,
ipoteticamente, la condizionano. Jacques Roger diceva apertamente a questo
proposito: « La storia delle idee non ha come oggetto principale la letteratura». 7
Rimane un'ultima specie. Il suo principale (e ultimo) oggetto sarebbe la
letteratura. Una teoria della letteratura in sé (non nelle sue circostanze esterne) e
per sé (non come documento storico): cioè considerata, per riprendere i termini
proposti da Michel Foucault in Archéologie du savoir, non più come documento, ma
come monumento. A questo punto si pone immediatamente una domanda: quale
potrebbe essere l'oggetto di una simile storia? Non mi pare che possa coincidere
con le opere letterarie stesse, per il seguente motivo: un'opera (intendendo con ciò
l'insieme della «produzione» di un autore, o, a fortiori, un'opera isolata, libro o
poema) è un oggetto troppo particolare, troppo puntuale per essere veramente
oggetto di storia. La storia di un'opera può essere la storia della sua genesi, della
sua elaborazione, come pure la storia di quella che chiamiamo, nel passaggio da
un'opera alla seguente, l'evoluzione di un « autore » nel corso della sua carriera
(descritta da René Girard come passaggio dallo «strutturale» al «tematico») 8.
Questo genere di ricerca appartiene chiaramente al campo della storia letteraria
biografica praticata attualmente, ne costituisce anzi uno degli aspetti critici più
positivi, ma non rientra nel tipo di storia che tento di definire. Può anche essere la
storia della fortuna immediata di un'opera, del suo successo o insuccesso, del suo
influsso, delle sue interpretazioni successive nel corso dei secoli. Tutto ciò rientra
in pieno nella storia letteraria sociale definita da Lanson e da Febvre: ma possiamo
osservare facilmente come ancora una volta non ci troviamo affatto nel campo da
me definito storia della letteratura presa in sé e per sé.
Se poi consideriamo le opere letterarie nel lor6 testo (e non nella loro genesi o
nella loro diffusione), dal punto di vista diacronico possiamo solo dire che si
succedono. A mio parere la storia - nella misura in cui supera il livello della cronaca
- non è una scienza delle successioni, ma delle trasformazioni: può avere per unico
oggetto delle realtà rispondenti alla duplice esigenza di permanenza e variazione.
L'opera stessa non risponde a questa duplice esigenza: ecco senz'altro perché essa
deve, in quanto tale, restare l'oggetto della critica. La critica (lo ha dimostrato
Barthes con grande abilità nel testo a cui facevo allusione poco fa)
fondamentalmente non è, né può esserlo, storica: infatti essa consiste sempre in un
rapporto diretto d'interpretazione, direi meglio d'imposizione del senso, fra il
critico e l'opera. Il rapporto è essenzialmente anacronico, nel senso forte (e, per lo
storico, redibitorio) del termine. Mi pare quindi che in letteratura l'oggetto storico
(cioè contemporaneamente permanente e variabile) non sia l'opera, bensì gli
elementi che la trascendono e costituiscono il gioco letterario: per comodità,
chiamiamoli le forme. Esempi: i codici retorici, le tecniche narrative, le strutture
poetiche, ecc. Esiste una storia delle forme letterarie, come di tutte le forme
estetiche e come di tutte le tecniche, per il semplice fatto che tali forme
permangono e si modificano attraverso i secoli. Sfortunatamente una simile storia
resta ancora una volta, per la maggior parte, da scrivere. Mi sembra che la sua
fondazione sarebbe uno dei compiti più urgenti oggi. È sbalorditivo che non esista
— almeno in campo francese - qualcosa come una storia della rima, o della
metafora, o della descrizione: e scelgo volutamente oggetti letterari triviali e
tradizionali.

È necessario porsi delle domande sui motivi di questa lacuna, o meglio carenza.
Sono molteplici: nel passato, il pregiudizio positivista secondo cui la storia doveva
occuparsi solo dei «fatti» (e conseguentemente trascurare tutto quanto avesse l'aria
di pericolose «astrazioni») è stato senz'altro il più determinante. Vorrei tuttavia
insistere su altre due ragioni, che oggi sono senza possibilità di discussione più
importanti. La prima è la seguente. Gli oggetti stessi della storia delle forme non
sono ancora abbastanza evidenziati da parte della «teoria» letteraria che, almeno in
Francia, è ancora ferma ai primi passi: cioè, la riscoperta e la ridefinizione delle
categorie formali ereditate da una antichissima tradizione prescientifica. Il ritardo
della storia riflette nel caso specifico il ritardo della teoria, dato che in gran parte
(contrariamente a un pregiudizio costante) la teoria, almeno in questo campo, deve
precedere la storia, poiché ne individua gli oggetti.Una seconda ragione, forse un
po' più grave, è questa: nell'analisi delle forme che si sta elaborando (o
rielaborando) oggi, regna ancora un altro pregiudizio, e cioè - per riprendere i
termini di Saussure - l'opposizione, addirittura l'incompatibilità fra studio
sincronico e diacronico. Si può teorizzare esclusivamente in una sincronia che di
fatto viene pensata, o per lo meno praticata, come un'acronia: troppo spesso si
teorizza sulle forme letterarie come se tali forme fossero enti non tanto trans-
storici (il che equivarrebbe precisamente a storici) quanto atemporali. La sola
eccezione degna di nota è costituita, come sappiamo, dai formalisti russi: essi
hanno sviluppato prestissimo la nozione chiamata evoluzione letteraria. In un testo
del 1927 Ejchenbaum, riassumendo la storia del movimento, scrive a proposito di
questa fase: «La teoria rivendicava il diritto di diventare storia». 9 Mi pare che una
simile esigenza implichi qualcosa di più di un diritto: una necessità che nasce dal
movimento stesso e dalle esigenze del lavoro teorico.
Citerò semplicemente, allo scopo d'illustrare tale necessità, l'esempio fornito da
una delle rare opere «teoriche» finora pubblicate in Francia, il libro di Jean Cohen
Structure du langage poétique. Cohen dimostra fra l'altro come, nella poesia francese
dal xvii al xx secolo, vi sia un aumento concomitante dell'agrammaticalità del verso
(cioè della non coincidenza fra pausa sintattica e pausa metrica) e di quella che egli
chiama la non pertinenza della predicazione, cioè principalmente lo scarto, nella
scelta degli epiteti, rispetto a una norma fornita dalla prosa scientifica «neutra»
della fine del xix secolo. Cohen, dopo aver dimostrato tale aumento, lo interpreta
immediatamente non come evoluzione storica, ma come «involuzione»: un
passaggio dal virtuale all'attuale, una progressiva realizzazione, da parte del
linguaggio poetico, di quanto costituiva da sempre la sua essenza nascosta. Tre
secoli di diacronia si trovano così travasati nell'atemporale: durante quei tre secoli
la poesia francese, anziché trasformarsi, avrebbe impiegato tutto quel tempo per
diventare ciò che essa (e con essa qualunque poesia) era virtualmente da sempre: a
ridursi, tramite successive purificazioni, alla sua essenza. Ora, se la curva elaborata
da Cohen viene un po' allungata verso il passato, possiamo osservare come, ad
esempio, la «percentuale di non-pertinenza» da lui considerata a livello zero nel xvii
secolo, era molto maggiore nel Rinascimento, e ancora di più in epoca barocca. La
curva perde allora la sua bella regolarità per cadere in un tracciato un po' più
complesso, apparentemente caotico, dallo svolgimento imprevedibile, per
l'esattezza il tracciato dell'empiricità storica. Si tratta certo di un riassunto molto
sommario della controversia10, ma forse sufficiente a illustrare la mia idea, cioè che,
a un certo punto dell'analisi formale, s'impone il passaggio alla diacronia. Il rifiuto
della diacronia, oppure la sua interpretazione in termini non storici, va a scapito
della teoria stessa.
Una simile storia delle forme letterarie, che si potrebbe chiamare storia della
letteratura per eccellenza, è chiaramente solo un programma che si aggiunge a molti
altri: potrebbe toccargli la sorte del programma di Lanson. Ammettiamo tuttavia,
per ipotesi ottimistica, che un giorno si realizzi, e terminiamo con due osservazioni
di pura anticipazione.
Prima osservazione: una volta costituitasi sul terreno di cui sopra, la storia della
letteratura incontrerà i problemi di metodo attualmente tipici della storia generale,
cioè in definitiva di una storia adulta. Per fare un esempio: i problemi della
periodizzazione, le differenze di ritmo a seconda dei settori e dei livelli, il gioco
complesso e difficile delle varianze e delle invarianze, lo stabilirsi di correlazioni, e
quindi, necessariamente, l'interscambio fra diacronico e sincronico, dato che
(ancora una volta i formalisti russi hanno il merito di mettere in evidenza questa
idea) l'evoluzione di un elemento del gioco letterario consiste nella modificazione
della sua funzione all'interno del sistema globale del gioco. Ejchenbaum scrive
d'altronde, nel passaggio immediatamente precedente alla frase da me citata poco
sopra, che i formalisti hanno incontrato la storia proprio nel momento del loro
passaggio dalla nozione di « procedimento» a quella di funzione. Un fatto simile,
ovviamente, non è tipico della storia della letteratura: significa semplicemente che,
nonostante una troppo diffusa opinione contraria, la sola vera storia è
strutturale.Seconda e ultima osservazione: una volta costituitasi nel modo suddetto
e allora soltanto, la storia della letteratura potrà porsi con serietà (e con qualche
possibilità di rispondere) il problema dei suoi rapporti con la storia generale, cioè
con l'insieme delle altre storie particolari. A questo proposito voglio solo ricordare
la dichiarazione, ora molto nota, di Jakobson a Tynjanov. Pur essendo del 1928,
non ha perduto nulla della sua attualità: «La storia della letteratura (o dell'arte), che
è legata alle altre serie storiche, è caratterizzata, al pari di ogni altra serie, da un
complesso insieme di leggi specifiche strutturali. Se queste leggi non vengono
messe in chiaro, è impossibile stabilire scientificamente la correlazione fra la serie
letteraria e le altre serie storiche».11

La retorica ristretta

G. C. Tre o quattro anni fa, riviste, articoli, saggi erano pieni del termine
metafora. La moda è cambiata. Metonimia sostituisce metafora.
J. L. B. Non credo che questa differenza porti un gran vantaggio.
G. C. Si capisce.
GEORGES CHARBONNIER, Entretiens avec Jorge Luis Borges.

L'anno 1969-70 è stato testimone della pubblicazione quasi simultanea di tre testi
dal volume ineguale, i cui titoli però presentano una consonanza estremamente
sintomatica. Si tratta della Rhétorique générale (intitolata inizialmente, come sappiamo,
Rhétorique généralisée) del gruppo di Liegi12; dell'articolo di Michel Deguy Pour une
théorie de la figure généralisée13; e di quello di Jacques Sojcher, La métaphore généralisée14.
Retorica-figura-metafora: sotto la copertura denegativa, o compensatoria, di una
generalizzazione pseudo-einsteiniana, ecco profilarsi nelle sue tappe principali il
percorso (approssimativamente) storico di una disciplina che, nel corso dei secoli,
non ha mai smesso di vedere restringersi (come la pelle di zigrino) il campo della
sua competenza, o almeno della sua azione. La Retorica di Aristotele non si
presentava certo come « generale » (meno ancora come « generalizzata»): lo era, e
lo era a tal punto che, nella vastità del suo campo d'indagine, una teoria delle figure
non meritava una menzione particolare; solo alcune pagine dedicate alla
similitudine e alla metafora, in un Libro (su tre) consacrato allo stile e alla
composizione, territorio esiguo, regione isolata, sperduta nell'immensità di un
Impero. Oggi, ci troviamo15 al punto di dover chiamare col termine di retorica
generale ciò che in realtà è un trattato sulle figure. se dobbiamo «generalizzare»
tanto, si tratta evidentemente della conseguenza di un'eccessiva restrizione: da
Corace ad oggi, la storia della retorica coincide con una restrizione generalizzata.
Fin dal primo medio evo, presumibilmente, comincia a sfaldarsi l'equilibrio
caratteristico dell'antica retorica, testimoniato dalle opere di Aristotele e, ancora di
più, da quelle di Quintiliano. In primo luogo l'equilibrio fra i generi (deliberativo,
giudiziario, epidittico) perché la morte delle istituzioni repubblicane (già Tacito vi
individuava una delle cause del declino dell'eloquenza) porta con sé la scomparsa
del genere deliberativo e anche, a quanto pare, dell'epidittico, legato alle grandi
circostanze della vita civica16: Marziano Capella, e poi Isidoro da Siviglia, prendono
atto di queste defezioni: rhetorica est bene dicendi scientia in civilibus quaestionibus 17. Poi
l'equilibrio fra le parti (inventio, dispositio, elocutio), dato che la retorica del trivium,
schiacciata fra grammatica e dialettica, si vede rapidamente confinata nello studio
dell'elocutio, degli ornamenti del discorso, colores rhetorici. L'epoca classica, e ancora di
più il XVIII secolo, particolarmente in Francia, ereditano tale situazione e
l'accentuano col privilegiare in continuazione, nei loro esempi, il corpus letterario
(e soprattutto poetico) sull'oratoria: Omero e Virgilio (e, molto presto, Racine)
soppiantano Demostene e Cicerone; la retorica tende a diventare, essenzialmente,
uno studio della lexis poetica.
Per vagliare minutamente e correggere questa carrellata oltremodo garibaldina 18
occorrerebbe una ricerca storica immensa, che supererebbe di molto le nostre
competenze: Roland Barthes, tuttavia, ne ha fornito lo schema in un seminario
tenuto all'Ecole pratique des Hautes Etudes 19. Qui si vorrebbe insistere
esclusivamente sulle ultime tappe di questo movimento - quelle cioè che segnano il
passaggio dalla retorica classica alla neoretorica moderna - e interrogarsi sul loro
significato.
La prima tappa è costituita dalla pubblicazione, nel 1730, del trattato Des Tropes di
Dumarsais. L'opera non pretende certo di esaurire tutto il campo della retorica:
inoltre il punto di vista adottato dal grammatico dell'Encyclopédie non è neppure
esattamente quello di un retorico, piuttosto di un linguista e precisamente di un
semantico (nel senso in cui Bréal userà questo termine più tardi). Lo dimostra con
chiarezza il sottotitolo: «...o dei differenti significati in cui si può usare una
medesima parola in una stessa lingua». La sua esistenza e il suo prestigio, tuttavia,
contribuiscono fortemente a situare come nucleo degli studi retorici non più la
teoria delle figure in senso lato, bensì, con una specificazione ulteriore, la teoria
delle figure di senso, e quindi a fare dell'opposizione fra senso proprio e figurato
(oggetto dei capitoli vi e VII della prima parte) il centro del pensiero retorico.
Ultima conseguenza: la retorica diventa un pensiero della figurazione, spirale del
figurato definito come l'altro del proprio, e del proprio definito come l'altro del
figurato - e resta prigioniera di questa meticolosa vertigine per un lungo periodo.
La migliore illustrazione dell'influsso che una simile riduzione tropologica esercita
sulla retorica francese è senz'altro costituita dall'opera di colui che, circa un secolo
dopo, s'illudeva di ricevere e contemporaneamente di liquidare l'eredità di
Dumarsais per mezzo di una Aufhebung intitolata in un primo tempo Commentane
raisonné des tropes (1818), in seguito Traité général des figures du discours (1821-27). Dal
punto di vista che ci interessa ora, il cambio della guardia operato da Fontanier nei
confronti di Dumarsais è di una notevole ambiguità: se da un lato Fontanier allarga
nuovamente il campo di studio all'insieme delle figure, tropi e non tropi, dall'altro
però tende a fare del tropo il modello di ogni figura, riprendendo con un rigore
accresciuto (con l'esclusione della catacresi, in quanto tropo non figura perché non
sostitutivo: ad esempio feuille de papier, dove feuille non sostituisce nessun proprio) il
criterio di sostituzione che regola l'attività tropologica, ed estendendolo alla totalità
del campo figurale (con la conseguente esclusione di certa « presunta figura di
pensiero» in quanto esprimerebbe solo e soltanto ciò che dice). Viene così
ulteriormente accentuata, col darle un fondamento di diritto, la restrizione
abbozzata in realtà dal suo predecessore. Dumarsais si limitava a proporre un
trattato dei tropi; Fontanier (tramite la sua adozione come manuale nella scuola
pubblica) impone un trattato delle figure, tropi e «altro dai tropi» (claudicazione
terminologica sufficientemente eloquente in se stessa) che ha si come oggetto tutte le
figure, ma come principio (criterio di ammissione e di esclusione) sotterraneo un
criterio puramente tropologico20.
Vediamo così il tropo insediarsi nel cuore paradigmatico di quella che è solo una
teoria delle figure ma che, a causa di una strana carenza lessicale apparentemente
universale, continuerà però a essere chiamata retorica 21: esempio notevole di
sineddoche generalizzante. A questo primo gesto di Fontanier se ne aggiunge poi
un secondo, tale da confermare il suo ruolo 22 di fondatore della retorica moderna,
o meglio della moderna idea di retorica: esso si basa sulla classificazione o, per
usare il linguaggio dell'epoca, sulla divisione dei tropi.
Dumarsais aveva stabilito una lista (un po' caotica, a volte ridondante) di diciotto
tropi, agevolmente riducibile eliminando i doppioni (ironia-antifrasi) o le
sottospecie (antonomasia, eufemismo, ipallage), e respingendo verso altre classi i
«pretesi tropi» come la metalessi, la perifrasi o l'onomatopea. Aveva però anche
abbozzato, in un capitolo speciale23 stranamente senza conseguenze sulla
disposizione del suo inventario, la possibilità di una «subordinazione dei tropi»,
cioè un'indicazione del «rango che dovevano occupare gli uni in rapporto agli
altri». Già Vossius proponeva una gerarchia simile, in cui tutti i tropi erano
riconducibili, «come le specie ai generi», a quattro fondamentali: la metafora, la
metonimia, la sineddoche e l'ironia. Dumarsais traccia un nuovo accostamento,
quello fra sineddoche e metonimia, riunite in quanto basate entrambe su una
relazione o connessione (con «dipendenza» nella sineddoche) non assimilabili né al
rapporto di somiglianza della metafora, né al rapporto di contrasto dell'ironia:
implicitamente, si trattava di subordinare la totalità dei tropi ai tre grandi principi
associativi di similitudine, contiguità e opposizione. Fontanier, da parte sua,
reintegra in tutta la sua funzione gerarchica la distinzione metonimia/sineddoche,
in compenso però esclude l'ironia, in quanto figura «d'espressione» (tropo in più
parole, dunque pseudo-tropo), e soprattutto non si accontenta di ricondurre tutti i
tropi ai tre generi fondamentali da lui lasciati sussistere. Egli ammette
esclusivamente quei tre generi: tutto il resto è confusione, tropi non-figure, figure
non-tropi, addirittura non-figure non-tropi. I soli tropi degni di tal nome sono
quindi (nell'ordine) la metonimia, la sineddoche e la metafora. Come è possibile
che abbiate già intuito, basta ora addizionare le due sottrazioni: l'eliminazione
dell'ironia da parte di Fontanier, l'avvicinamento fra metonimia e sineddoche da
parte di Dumarsais, per ottenere la coppia di figure esemplare, gli insostituibili
antagonisti della nostra retorica moderna: Metafora e Metonimia.
Questa ulteriore riduzione è ammessa, salvo errore, nella Vulgata del formalismo
russo, fin dall'epoca dello studio di Boris Ejchenbaum su Anna Achmatova, datato
1923, ivi compresa l'equivalenza metonimia = prosa, metafora = poesia. La si
ritrova con lo stesso valore nell'articolo di Jakobson sulla prosa di Pasternak nel
1955, e soprattutto nel suo testo del 1965 Deux aspects du langage et deux types
d'aphasie, dove la classica opposizione analogia/contiguità (che si basa sui significati
in relazione di sostituzione nella metafora e nella metonimia: l'oro e il grano, il
ferro e la spada) si vede confermata tramite una assimilazione forse temeraria alle
opposizioni propriamente linguistiche (basate su dei significanti) fra paradigma e
sintagma, equivalenza e successione.
L'episodio è troppo recente e troppo noto per insistervi ulteriormente. In
compenso può essere utile chiedersi quali ragioni siano state in grado di portare a
una riduzione così drastica proprio all'interno della sfera figurale. Abbiamo già
fatto osservare il progressivo slittamento dell'oggetto retorico dall'eloquenza alla
poesia24, già evidente nei classici: esso porta l'attenzione metaretorica a
concentrarsi preferibilmente sulle figure di maggior tenore semantico (figure di
significato in una sola parola) e, fra di esse, ancora di più sulle figure di semantismo
«sensibile»25 (rapporto spazio-temporale, rapporto d'analogia) escludendo tropi di
un semantismo considerato più intellettuale, come l'antifrasi, la litote o l'iperbole,
sempre più severamente eliminati dal campo poetico o, più in generale, dalla
funzione estetica del linguaggio. Un simile slittamento d'oggetto, evidentemente di
natura storica, contribuisce perciò a privilegiare le due relazioni di contiguità (e/o
d'inclusione) e di similarità. Ma si potrebbero facilmente scoprire altri movimenti
convergenti, come quello reperibile in Freud quando, in Totem e Tabù, tratta i
«principi dell'associazione». Mauss, nella sua Esquisse d'une théorie de la magic ( 1902 )
accettava come leggi d'associazione magica i tre principi associazionistici di
contiguità, similarità e contrasto o contrarietà. In Totem e Tabu (1912), Freud -
ripetendo in un campo diverso il gesto di Fontanier che escludeva l'ironia dalla lista
dei tropi - conserva come principi d'associazione solo i primi due (sottoposti
entrambi, d'altronde, al concetto «superiore» di contatto) dato che la similarità veniva
definita, fatto abbastanza ameno nel caso specifico, come un «contatto nel senso
figurato del termine»26.
L'avvicinamento fra sineddoche e metonimia era già indicato, come si è visto, da
Dumarsais: il concetto di « rapporto» era però nella sua opera sufficientemente
vasto (o duttile) per contenere sia le relazioni senza «dipendenza» (cioè senza
inclusione) che reggono la metonimia, sia i rapporti d'inclusione che definiscono la
sineddoche. La nozione di contiguità invece rivela o opera una scelta a favore della
«relazione senza dipendenza», quindi una riduzione unilaterale della sineddoche alla
metonimia, riduzione che d'altra parte si fa esplicita quando, per esempio, Jakobson
scrive: «Uspensky aveva un debole per la metonimia, specialmente per la
sineddoche»27. La giustificazione di un simile gesto è fornita, fra l'altro, da Mauss
nel testo già ricordato: «La forma più semplice (dell'associazione per contiguità), -
dice, — è l'identificazione della parte con il tutto»28.
Non è però sicuro che si possa legittimamente fare dell'inclusione, sia pure nelle
sue forme più vistosamente spaziali, un caso particolare della contiguità. Tale
riduzione trova senz'altro la sua origine in una confusione quasi inevitabile fra il
rapporto della parte col tutto, e il rapporto — sempre della medesima parte - con
le altre parti costitutive del tutto: se si preferisce, rapporto della parte col resto. La
vela non è contigua alla nave, ma è contigua all'albero e al pennone e, per
estensione, a tutto il resto della nave, a tutto ciò che, della nave, non è vela. La
maggioranza dei «casi dubbi» deriva da questa scelta sempre aperta, cioè di poter
prendere in considerazione sia il rapporto della parte col tutto, sia quello della
parte col resto: analogamente si procede nella relazione simbolica (nel suo antico
etymon), dove si può individuare, nello stesso tempo, una relazione di contiguità fra
le due metà complementari del sumbolon, e un rapporto d'inclusione di ognuna delle
due metà col tutto che esse costituiscono e ricostituiscono. Ogni emisimbolo, con
un identico movimento, chiama l'altro ed evoca il loro comune insieme.
Analogamente possiamo leggere ad libitum nella figura mediante attributo
(poniamo: «corona» per «monarca») una metonimia o una sineddoche, a seconda che
si consideri, ad esempio, la corona come semplicemente legata al monarca, oppure
come parte del monarca stesso, in virtù dell'implicito assioma: non vi è monarca
senza corona. È chiaro allora che, al limite, qualsiasi metonimia può convertirsi in
sineddoche, facendo appello all'insieme superiore, e qualsiasi sineddoche in
metonimia, ricorrendo alle relazioni fra parti costitutive. Il fatto che ogni figura-
ricorrenza si possa analizzare a scelta in due maniere, non implica certo che queste
due maniere ne costituiscono una sola, proprio come Archimede non è allo stesso
modo, contemporaneamente, principe e geometra, ma si capisce chiaramente come
questa duplice appartenenza possa favorire la confusione.
Resta evidentemente da spiegare perché mai questa confusione abbia pesato
influendo maggiormente in una direzione (cioè a profitto della metonimia)
piuttosto che nell'altra (la sineddoche). È possibile che, in questo caso, la nozione
pseudo-spaziale di contiguità abbia svolto un ruolo di catalizzatore proponendo un
modello di relazione più semplice e, al tempo stesso, più materiale di qualsiasi altro.
Ma bisogna ancora osservare che se tale nozione gioca a favore della metonimia,
ciò non avviene senza che si operi, proprio all'interno del campo di questa figura,
un'ulteriore riduzione: dato che molte delle relazioni coperte dalla metonimia
classica (l'effetto per la causa e il suo contrario, il segno per la cosa, lo strumento
per l'azione, il fisico per il morale, ecc.) non si lasciano ricondurre così facilmente -
se non per metafora - a un effetto di contatto o di prossimità spaziale. Che tipo di
«contiguità» potrebbero mai avere cuore e coraggio, cervello e intelligenza, visceri e
pietà? Ricondurre qualunque metonimia (e, a fortiori, qualunque sineddoche) a una
pura relazione spaziale, significa evidentemente limitare il gioco di tali figure al loro
semplice aspetto fisico o «sensibile»: e ancora una volta viene alla luce il privilegio
conquistato a poco a poco dal discorso poetico nel campo degli oggetti retorici,
come pure lo slittamento effettuato da questo stesso discorso, in epoca moderna,
verso le forme più materiali della figurazione.
Alia progressiva riduzione delle figure di « relazione » al solo modello della
metonimia spaziale, corrisponde nell'altro settore - quello delle figure di « similarità
» - una riduzione chiaramente simmetrica, che va qui a vantaggio della sola
metafora. Sappiamo effettivamente che il termine metafora tende sempre più a
coprire l'insieme del campo analogico: mentre l'ethos classico vedeva nella metafora
un paragone implicito29 la modernità sarebbe propensa a considerare il paragone
come una metafora esplicita o motivata. L'esempio più caratteristico di tale
impiego è chiaramente reperibile in Proust, che non ha mai smesso di chiamare
metafora, nella sua opera, quanto è - nella maggioranza dei casi — paragone puro.
Anche in questo caso, i moventi della riduzione vengono alla luce con sufficiente
chiarezza nella prospettiva di una figuratica centrata sul discorso poetico, o per lo
meno (come in Proust) su una poetica del discorso. Non ci troviamo più in
presenza di paragoni omerici, e la concentrazione semantica del tropo gli assicura
una superiorità estetica quasi evidente sulla forma estesa della figura. Mallarmé si
vantava di aver abolito dal suo lessico la parola «come». Se tuttavia il paragone
esplicito tende a disertare il campo poetico, osserviamo rapidamente che le cose
vanno un po' diversamente per l'insieme del discorso letterario, e ancora più
diversamente per la lingua parlata; soprattutto perché il paragone può riscattare la
mancanza d'intensità che lo caratterizza mediante un effetto di anomalia semantica
che la metafora non può affatto permettersi, a rischio di restare, in mancanza del
primo termine di paragone, totalmente inintelliggibile. Si tratta, in particolare,
dell'effetto chiamato da Jean Cohen la non-pertinenza 30. Tutti ricordano il verso di
Eluard «La terre est bleue comme une orange», oppure la serie ducassiana dei
«beau comme...»; pensiamo ugualmente all'inclinazione del linguaggio popolare
verso paragoni arbitrari («... comme la lune») o antifrastici («aimable comme une
porte de prison», «bronzé comme un cachet d'aspirine», «frisé comme un ceuf
dur»), o ridicolmente tirati per i capelli, come quelli che animano la dizione di un
Peter Cheyney, di un Sanantonio o di un Pierre Perret: «les cuisses ouvertes comme
le missel d'une dévote»31. Una teoria delle figure d'analogia troppo centrata sulla
forma metaforica si autocondanna a trascurare simili effetti, e alcuni
altri.Aggiungiamo infine che ridurre al «polo metaforico» tutte le figure d'analogia
non lede esclusivamente il paragone, ma numerose forme di figure la cui
differenza, fino ad oggi, non sembra essere stata presa in considerazione in
maniera esauriente. Metafora e paragone vengono generalmente messi in
opposizione in nome dell'assenza del primo termine di paragone nella prima
figura, e della sua presenza nella seconda. Non mi sembra che questi termini
chiariscano perfettamente l'opposizione: sintagmi del tipo pastore promontorio o sole
collo tagliato, contenenti sia il primo che il secondo termine di paragone, non sono
infatti considerati come un paragone, ma neppure, d'altronde, come una metafora,
e in fin dei conti la loro catalogazione viene lasciata in sospeso, in mancanza di
un'analisi più completa degli elementi costitutivi della figura d'analogia. Per
procedere correttamente, è necessario considerare non solo la presenza o l'assenza
del primo e del secondo termine di paragone («vehicle» e «tenor», nel lessico di Ri-
chards), ma anche il modalizzatore comparativo (come, simile a, somigliare, ecc.) e il
motivo («ground»)del paragone. Si osserva allora come ciò che generalmente
chiamiamo «paragone» possa prendere due forme sensibilmente diverse: paragone
immotivato (il mio amore è come una fiamma) e paragone motivato (il mio amore brucia
come una fiamma), necessariamente più limitato nella sua portata analogica, dal
momento che assume come motivazione un solo sema comune (calore) fra i vari
(luce, leggerezza, mobilità) che il paragone immotivato potrebbe, almeno, non
escludere. Vediamo quindi che la distinzione fra le due forme non è affatto inutile.
Risulta parimenti che il paragone canonico, nelle due specie, non deve comportare
soltanto il primo e il secondo termine di paragone, ma anche il modalizzatore,
senza il quale ci si troverà piuttosto di fronte a un'identificazione32, motivata o no, sia
del tipo il mio amore (è) una fiamma bruciante, o il mio amore bruciante (è) una fiamma
(«Voi siete il mio leone superbo e generoso»), sia del tipo il mio amore (è) una fiamma
(«Achille è un leone», «pastore promontorio» succitato). L'ellissi del primo termine
di paragone determinerà a sua volta due forme d'identificazione, una motivata, del
tipo la mia fiamma ardente, e l'altra immotivata, cioè la metafora propriamente detta:
la mia fiamma. La tabella a lato riconosce queste varie forme, oltre a quattro stati
ellittici meno canonici ma abbastanza ammissibili 33, paragoni motivati o no con
ellissi del secondo termine di paragone (il mio amore è bruciante come... o il mio amore e
come...) o del primo termine di paragone (... come una fiamma bruciante, o ... come una
fiamma): simili forme, in apparenza puramente ipotetiche, non si devono affatto
trascurare. Jean Cohen se ne è perfettamente reso conto: chi si ricorda, ad esempio,
del primo termine di paragone della serie dei «beau comme...» di Lautréamont,
dove la discordanza fra il motivo e il secondo termine di paragone è evidentemente
più importante dell'attribuzione del predicato totale al granduca di Virginia,
all'avvoltoio, allo scarabeo, a Mervyn o allo stesso Maldoror?
Questa tabella un po' sbrigativa 34 non ha altri scopi, tranne il render chiaro fino a
che punto la metafora sia solo una forma fra numerose altre, e come la sua
promozione al rango di figura d'analogia per eccellenza proceda da una specie di
violenza. Ma rimane da considerare un ultimo movimento di riduzione 35, tramite il
quale la stessa metafora, assorbendo il suo estremo avversario, è destinata a
diventare «tropo dei tropi» (Sojcher), «figura delle figure» (Deguy), il nucleo, il
cuore e, in ultima analisi, l'essenza e pressoché il tutto della retorica.

Abbiamo appena ricordato in che modo Proust battezzasse metafora qualsiasi


figura d'analogia: occorre tuttavia aggiungere che, con un lapsus estremamente
significativo, gli capita di estendere questa denominazione a ogni tipo di tropo,
perfino al più tipicamente metonimico come la locuzione «fare cattleya» (per fare
l'amore, utilizzando come accessorio, o almeno come pretesto, un mazzo di
cattleyas)36. Un po' oltre, tenterò di dimostrare come una gran quantità delle
«metafore» proustiane siano in realtà delle metonimie, o almeno metafore con base
metonimica. È tipico il fatto che né Proust, né la maggior parte dei critici se ne
siano resi conto, anche se tale confusione, o improprietà, deriva da una semplice
carenza terminologica: all'inizio del xx secolo, metafora è uno dei rari termini che
sopravvivono al grande naufragio della retorica, e una simile miracolosa
sopravvivenza non è, evidentemente, fortuita, e neppure priva di significato. In altri
casi l'alibi terminologico è meno accettabile, come quando Gérald Antoine chiama
metafora uno slogan pubblicitario quale Lei pesa dieci anni di troppo, dove è leggibile
abbastanza chiaramente la designazione della causa per l'effetto 37, oppure come
quando Jean Cohen vuole vedere nei Bleus angélus di Mallarmé solo una sinestesia
analogica38, del resto sappiamo come Lacan, un giorno, trovasse nel dizionario
Quillet un campione di metafora, secondo lui non « sospetto di essere selezionato»:
sa gerbe n'était point avare ni baineuse39.
In studiosi di retorica tanto scaltriti come quelli del gruppo di Liegi, troviamo
ancora un'inflazione della metafora che, evidentemente, non può derivare
dall'ignoranza né dalla superficialità: ecco perché il gruppo sceglie come sigla la
lettera μ, « iniziale della parola che designa, in greco, la più prestigiosa delle
metabole». Si dà il caso che la medesima iniziale, e non fortuitamente, si trovi
anche in metonimia, ma nessuna esitazione è possibile sull'identità della prestigiosa
metabola, soprattutto se ci si riferisce a un altro brano della Rhétorique générale dove
possiamo leggere come la metafora costituisca la «figura centrale di qualsiasi
retorica»40. Prestigiosa poteva sembrare un po' giovanile, ma illustrava un'opinione
comune41. Centrale, in compenso, deriva da un deliberato movimento di
valorizzazione, che ricorda irresistibilmente l'osservazione di Bachelard sulle
gerarchie animali di Buffon: « Il leone è il re degli animali perché, per un partigiano
dell'ordine, è opportuno che tutti gli esseri, si tratti anche di bestie, abbiano un
re»42. Analogamente, la metafora è indiscutibilmente la «figura centrale di qualsiasi
retorica» perché per ,la nostra mente, nella sua debolezza, è opportuno che tutte le
cose, si tratti anche di figure, abbiano un centro.
Così, in virtù di un centrocentrismo apparentemente universale e insopprimibile,
tende a installarsi nel cuore della retorica - o di quanto ne rimane - non più
l'opposizione polare metafora/metonimia, in cui poteva ancora insinuarsi un po'
d'aria e circolare qualche frammento di un grande gioco, bensì la sola metafora, raggelata
nella sua inutile regalità. « Se la poesia, - scrive Jacques Sojcher, - è uno spazio che
si apre nel linguaggio, se per suo tramite le parole tornano a parlare e il senso a
significare, ciò avviene perché fra la lingua usuale e la parola ritrovata esiste uno
spostamento di senso, la metafora. La metafora non è più, in una simile
prospettiva, una figura fra le altre, ma la figura, il tropo dei tropi»43.
Possiamo osservare in questo caso l'implicito ricorso alla prova etimologica,
secondo cui qualsiasi «spostamento di senso» è metafora. Occorre forse ricordare
come il medesimo argomento, se può valere qualche cosa, potrebbe valere
altrettanto bene per metonimia,, metalessi, ipallage, antonomasia e alcune altre ancora?
L'argomentazione di Michel Deguy è più imponente (anche facendo astrazione
dal genio poetico dell'autore) nell'articolo già citato (Pour une théorie de la figure
généralisée) che potrebbe anche, e con ragione, intitolarsi, a sua volta, Métaphore
généralisée: «Se si tratta di subordinare una delle specie a un genere, è la metafora —
o figura delle figure - a poter sostenere questo ruolo... Esiste un solo genere
supremo, quello della figura o metafora... Metafora e metonimia appartengono,
sotto la loro secondaria differenza, a una medesima dimensione — per la quale il
termine metaforicità può servire in generale» 44. Tale superiorità gerarchica tanto
vigorosamente affermata, Deguy la basa sull'idea che il sistema della tropologia
classico-moderna (Fontanier-Jakobson), nella stessa suddivisione operata fra le
figure, obbedisca a un modello percettivo spazializzato - contiguità, o prossimità, o
giustapposizione per la metonimia, intersezione per la sineddoche, somiglianza,
«che rinvia alla possibile sovrapposizione», per la metafora, — e,
conseguentemente, già metaforico.
Tale descrizione della suddivisione tropologica non è del tutto esatta, almeno in
quanto concerne l'epoca classica. Abbiamo già constatato come il concetto di
contiguità, utilizzato dai moderni, riducesse a un'unica modalità le diverse modalità
del rapporto metonimico, a cui lo stesso Fontanier lasciava un'estensione ben
maggiore sotto la prudente denominazione «tropi per corrispondenza». Lo schema
d'intersezione, a dire la verità, non ha mai definito la sineddoche in nessuna
tropologia, classica o moderna : si tratta in realtà di un'inclusione, o appartenenza
(Fontanier dice «connessione»), di tipo più logico che spaziale: l'inclusione di vela in
nave è spaziale, se vogliamo, ma in nessun modo quella di ferro in spada, o di uomo in
mortale. Se così fosse, gli studiosi di retorica non definirebbero la figura bere un
bicchiere come fanno costantemente, e cioè come metonimia del contenente, ma come
una sineddoche, considerando il vino « incluso » nel bicchiere: svista che non
hanno mai commesso. Analogamente, il rapporto di sovrapposizione verso cui
Deguy spinge il rapporto di somiglianza, in nome della retorica, non ha mai
definito la metafora; la scuola di Liegi l'analizza piuttosto, e con ragione, come
codominio parziale di semi, e quindi come intersezione logica: fra oro e grano, c'è un
sema comune dato dal colore, e la sostituzione di un significante con un altro nel
testo non significa in nessun caso sovrapposizione dei due significati, oppure, in
questa prospettiva, qualsiasi tropo risponderebbe a uno schema del genere.
Una tale deformazione, operata da Deguy sui concetti della tropologia per
mettere meglio in evidenza l'essenza metaforica, si manifesta anche nella sua analisi
della sillessi secondo Fontanier. Riprendendo l'esempio raciniano: «Un pére en
punissant, Madame, est toujours pére» 45 accusa Fontanier di considerare dapprima
come senso proprio la «proprietà di copulatore-genitore», poi come senso figurato
«tutto il resto della paternità, compresa una cosa tanto naturale46 come i sentimenti, il
cuore di un padre», e, un po' dopo, designa il sentimento paterno come se si
trattasse, nella mente di Fontanier, di un'aggiunta « metaforica »; e giustamente rifiuta
una semantica tanto grossolana. L'intoppo viene dal fatto che una simile semantica
non è affatto di Fontanier, per cui il secondo pere di «un pére est toujours pére»
non è minimamente un'aggiunta metaforica, ma l'esatto contrario, la riduzione per
sineddoche di un senso «primo» (per l'esattezza, quello del primo «pere» nella frase)
che in partenza è totale. Rileggiamo, effettivamente, il testo delle Figures du discours47:
«un padre, cioè chi possiede la qualità, il titolo di padre: senso proprio. È sempre un
padre, cioè, ha sempre, anche nei suoi rigori, il sentimento, il cuore di un padre, è
sempre buono e tenero come un padre: senso figurato, e all'incirca stesso tipo di
sineddoche di quello riportato sopra» — e riportiamoci, effettivamente, all'inizio
dell'articolo sulla «sillessi di sineddoche». Vi troviamo il seguente duplice esempio:
«La scimmia è sempre scimmia, e il lupo è sempre lupo», commentato in questi
termini: «Vuol dire che niente può cambiare la natura, le abitudini della scimmia e
del lupo, e che tali animali saranno sempre gli stessi, da quel punto di vista. La
scimmia e il lupo si trovano, in un primo tempo, presi per gli animali in questione,
e in tutta la possibile gamma di accezioni delle idee espresse dall'una e dall'altra
parola: senso proprio; e poi sono presi per le loro abitudini, per la loro natura: senso
figurato, e sineddoche del tutto per la parte». Il senso primo, secondo Fontanier, non è
quindi, in questa occasione, né per scimmia, né per lupo, né per padre, quel senso
ridotto alle proprietà biologiche che Deguy pretende di vedervi, ma al contrario, il
senso preso in tutta la possibile gamma di accezioni delle idee che esso esprime: in tal caso, è il
senso figurato a diventare una restrizione. L'amplificazione «metaforica» di cui
viene accusato Fontanier quindi non esiste affatto, e quando Deguy conclude: «la
polisemia viene per prima», non confuta minimamente la retorica, ma la ripete48.
Vediamo dunque che il carattere metaforico attribuito da Deguy alle definizioni
della retorica classica, e di conseguenza alla loro ripresa linguistica, viene un po'
forzato dalla sua lettura personale. Inoltre (e, forse, soprattutto) non è chiaro come
sia possibile invalidare le «divisioni» tropologiche e, in particolare, l'opposizione
metafora/metonimia, in nome del fatto che sono entrambe fondate... su una
metafora. Perché metafora? L'articolazione della lagnanza dà per scontato proprio
quanto la lagnanza mira a rifiutare. L'opposizione non può, contemporaneamente,
essere smantellata e rinviata a uno dei suoi termini: possiamo dire che le
suddivisioni della retorica sono oziose, e che tutte le figure ne costituiscono una
sola, ma a condizione di non chiamarla « metafora » invece di antanaclasi o
politote, con la conseguenza di rivelare inevitabilmente quanto chiamerò
semplicemente, senza nessuna intenzione polemica (visto che ognuno ha le sue)
un'idea preconcetta. A mio parere, il profondo desiderio di tutta una moderna
poetica è proprio quello di sopprimere le suddivisioni e, al tempo stesso, di stabilire
il regno assoluto - senza suddivisione - della metafora. Il resto è, forse, solo
motivazione.

Il secolare movimento di riduzione della retorica pare quindi sfociare in


un'assoluta valorizzazione della metafora, collegata all'idea di un'essenziale
metaforicità del linguaggio poetico - e del linguaggio in genere 49. Prima di porci
delle domande sul significato di quest'ultimo mutamento, non è forse inutile
osservare due caratteristiche del lessico derivanti senz'altro dalla medesima
tendenza, la cui azione, di rimando, non può fare a meno di rinforzarla. La prima è
costituita dall'uso spesso abusivo, nel nostro lessico critico, del termine immagine
per designare non solo le figure di somiglianza, ma ogni tipo di figura o di
anomalia semantica, mentre la parola connota quasi inevitabilmente, a causa della
sua origine, un effetto d'analogia, o addirittura di mimesi. Sappiamo, in particolare,
la fortuna incontrata dal termine in epoca surrealista, a un punto tale che il suo
uso, in genere, dispensa da qualsiasi aìtra designazione per i procedimenti propri
della scrittura surrealista e, in senso lato, della poesia moderna. Non è certo che
sintagmi come «j'entends les herbes de ton rire», o «les barques de tes yeux»
(Eluard), oppure l'indelebile «rosee à tète de chatte» (Breton 50 si lascino ridurre
senza difficoltà a un processo puramente metaforico; non è questo il luogo per
iniziare la loro analisi semantica, forse al di fuori degli strumenti lasciatici in eredità
dalla tradizione classica: osserviamo semplicemente come l'uso della parola
immagine funga, nel caso specifico, da schermo, se non da ostacolo, all'analisi, e
induca senza controllo a un'interpretazione metaforica forse erronea, e per lo
meno riduttiva.L'altro indizio convergente è (almeno in francese) lo spostamento
(a sua volta riduttivo) del senso della parola simbolo. Sappiamo come il greco
sumbolon designi in origine (l'abbiamo ricordato poco fa) un rapporto metonimico-
sineddochico fra le due parti, o di ognuna delle parti con l'insieme in un oggetto
tagliato in due per servire ulteriormente da segno di riconoscimento. Ma lasciamo
da parte l'etimologia, che tutti sono sempre inclini a invocare quando essa favorisce
le loro tesi personali: il fatto è che l'uso effettivo del termine nella lingua francese
mira a qualunque rapporto semiotico motivato (e anche, in matematica,
immotivato) - sia che la motivazione possa ricondursi a un ordine analogico, sia
che venga ricondotta a un ordine diverso, e lo indica chiaramente la seguente frase
di Marmontel citata da Littré: «La falce è il simbolo delle messi, la bilancia è il
simbolo della giustizia», dove il secondo esempio è evidentemente metaforico, e il
primo tipicamente metonimico. Ma questa varietà nell'uso in realtà non impedisce
affatto alla «coscienza linguistica comune» di definire il simbolo come un segno
analogico - come viene eloquentemente testimoniato dal suo sequestro compiuto
da parte del movimento simbolista, la cui estetica si fonda, come sappiamo,
sull'«analogia universale», e come viene espresso in totale pacatezza dal Dictionnaire
philosophique di Lalande (citato nel Petit Robert) quando definisce il simbolo nella
seguente maniera: «ciò che rappresenta un'altra cosa in virtù d'una somiglianza
analogica». Ancora una volta, dunque, l'analogia tende a mascherare - o a
sommergere - ogni tipo di relazione semantica.

Sarebbe facile (in tutte le accezioni della parola) interpretare in termini


d'ideologia, perfino di teologia, queste annessioni: sappiamo, per esempio, quanto
sia debitore a una tradizione contemporaneamente platonica e giudeo- cristiana il
tema baudelairiano della corrispondenza fra Terra e Cielo. Nella coppia
metafora/metonimia, è allettante ritrovare l'opposizione fra lo spirito di
trascendenza religiosa e lo spirito tutto terreno, votato all'immanenza di quaggiù.
Metonimia e Metafora sono le due sorelle del Vangelo: Marta, l'attiva, la donna di
casa, affacendata, che va e viene, passa, con lo straccio in mano, da un oggetto
all'altro, ecc., e Maria, la contemplativa, che «ha scelto la parte migliore» e andrà
dritta in Cielo. Orizzontale versus verticale. Potremmo in tal modo classificare gli
spiriti in «materialisti» (prosaici), quelli che - come Freud - privilegiano il « contatto
»51 e non vedono nella similitudine altro che il suo insipido riflesso, e «spiritualisti»
(poetici), portati al contrario a eludere il contatto, o almeno a sublimarlo in termini
d'analogia. Non spingeremo oltre il gioco di estrapolazioni manichee, le cui
posizioni terminali non riservano nessuna sorpresa. È indubbiamente meglio
prendere in esame, adesso, uno dei motivi psicologici - forse il più determinante -
di una simile valorizzazione dell'analogico.
Ogni tropo, per definizione, consiste in una sostituzione di termini, e
conseguentemente suggerisce un'equivalenza fra questi due termini, anche se il loro
rapporto non è affatto analogico: dire vela per nave significa fare della vela il
sostituto, dunque l'equivalente della nave. Ebbene, il rapporto semantico più vicino
all'equivalenza è, evidentemente, la similitudine, spontaneamente recepita come
una quasi-identità, anche se si tratta solo di una parziale somiglianza. Esiste quindi,
a quanto pare, una confusione quasi inevitabile, che si avrebbe la tentazione di
considerare « naturale», fra valere per ed essere come, nel cui nome ogni tropo può
passare per una metafora52. Qualsiasi semiotica razionale deve costituirsi reagendo
contro tale illusione apparentemente fondamentale, illusione simbolista che Bachelard
avrebbe potuto classificare nel novero di quegli ostacoli epistemologici che la
conoscenza oggettiva deve superare «psicanalizzandoli». La motivazione illusoria
del segno è, per eccellenza, la motivazione analogista, e saremmo tentati di dire che
il primo movimento dello spirito, di fronte a qualunque rapporto semantico, è
portato a considerarlo analogico, anche se è d'altra natura, e perfino se è
puramente «arbitrario», come succede per esempio, nella maggior parte dei casi,
nella semiosi linguistica. Ne deriva la spontanea fede nella somiglianza fra parole e
cose, illustrata dall'eterno cratilismo - che ha sempre avuto la funzione d'ideologia,
o di «teoria indigena» del linguaggio.
Per due secoli (il XVII e il XVIII ), e soprattutto in Francia, questa «naturale»
tendenza alla valorizzazione (e a volte alla sopravvalutazione) del rapporto
analogico è stata respinta - il che, indubbiamente, non era il modo giusto di
«psicanalizzarla» - dall'oggettivismo repressivo tipico dell'ethos classico, che
considerava a priori qualsiasi metafora come sospetta di «eccesso fantasmatico» e
teneva accuratamente ai margini l'immaginazione «simbolica» 53. Sappiamo come il
romanticismo e il simbolismo le abbiano ridato la libertà; ma il surrealismo, almeno
nella sua dottrina, è rimasto, per questo aspetto, più fedele di quanto generalmente
non si creda allo spirito del xix secolo, e la seguente dichiarazione di Breton lo
dimostra benissimo: «(Accanto alla metafora e al paragone) le altre "figure" che la
retorica persiste a enumerare sono assolutamente prive di interesse. Il solo a
interessarci è lo scatto analogico: possiamo agire sul motore del mondo soltanto
per il suo tramite»54. La preferenza si esprime qui senza giri viziosi, com'è suo
diritto: ma, nel caso specifico, è la motivazione a farci fermare - e, confessiamolo, a
infastidirci; poiché questa azione per analogia sul « motore del mondo» può
veramente avere solo un senso, e cioè: ritorno alla magia. È ovvio, almeno spero,
che ora non si propone alla poesia, e neppure alla poetica, di rinunciare all'uso o
alla teoria della metafora. È vero, in compenso, che una metaforica, una tropologia,
una teoria delle figure, non ci lasciano in pari con la retorica generale, e ancor
meno con quella «neoretorica» (se si preferisce) che ci manca (fra l'altro) per «agire
sul motore del mondo», e sarebbe una semiotica del discorso. Di tutti i discorsi55.
Cosi, una volta tanto, e solo in una certa misura, potremmo seguire l'ambiguo
consiglio del vecchio e giovane autore di Falstaff: «Torniamo all'antico, sarà un
progresso».

Metonimia in Proust

[L'assenza d'articolo davanti a Metonimia ha un senso che, forse, è opportuno dichiarare: si tratta esattamente di un nome
proprio, e vediamo immediatamente perché. Diciamo Metonimia in Proust come diremmo Polinnia in Tacito o Clio in
Pindaro, nella misura in cui una dea può sbagliare porta: semplice visita dunque, ma non senza seguito.]

Il rapporto metaforico, fondato sull'analogia, è in Proust tanto importante, tanto


palesemente nel cuore della sua teoria e della sua pratica estetiche, da condurci con
estrema naturalezza (com'è avvenuto allo stesso Proust) alla sopravvalutazione
della sua azione a detrimento di altre relazioni semantiche. A Stephen Ullmann, in
due capitoli (v e vi) del suo libro sullo Stile nel romanzo francese va senz'altro il merito
di aver notato per primo, all'interno del repertorio di «immagini» proustiane, la
presenza, accanto alle famose metafore, di trasposizioni tipicamente metonimiche:
quelle fondate, dice il critico, «sulla contiguità di due sensazioni, sulla loro
coesistenza nello stesso contesto mentale» 56; come esempio, egli cita delle ipallagi
quali « secchezza bruna dei capelli » per secchezza dei capelli bruni, o, più sottile,
«superficie azzurrina» per il silenzio che regna sotto il cielo della domenica a
Combray. Potremmo indubbiamente classificare nella stessa categoria altre
«immagini» notate da Ullmann, come la «freschezza dorata dei boschi», o ancora, il
celebre tintinnio «ovale e dorato» della campanella del giardino, dove le qualità
visive prestate a sensazioni tattili o uditive derivano evidentemente da un transfert
da causa a effetto57.
Le trasposizioni metonimiche restano però abbastanza rare nell'opera di
Proust, e soprattutto nessuna di esse è effettivamente recepita come tale dal lettore:
il tintinnio, indubbiamente, è ovale soltanto perché lo è la campanella, ma qui come
in altri casi la spiegazione non comporta la comprensione: qualunque sia la sua
origine, il predicato ovale e dorato si basa su tintinnio, e, mediante una confusione
quasi inevitabile, tale qualificazione viene interpretata non come un transfert, ma
come una «sinestesia»: lo «slittamento» metonimico non è solo «camuffato», ma
addirittura trasformato in predicazione metaforica. Così, invece di essere
antagoniste e incompatibili, metafora e metonimia si sostengono e s'interpretano, e
dare alla seconda il posto che le spetta non consisterà nel compilare una lista
concorrente in antagonismo a quella delle metafore, ma piuttosto nel mostrare la
presenza e l'azione delle relazioni di «coesistenza» proprio all'interno del rapporto
d'analogia: il ruolo della metonimia nella metafora.

Confrontiamo immediatamente due brani della Recherche du temps perdu. Il primo


appartiene al Du coté de chez Swann: il narratore contempla la pianura di Méséglise,
coperta fino all'orizzonte da campi di grano agitati dal vento; «verso destra, di là
dalle messi, si scorgevano i due campanili cesellati e rustici di Saint-André-des-
Champs, essi stessi affilati, scagliosi, imbricati d'alveoli, rabescati, biondeggianti e
Tonchiosi come due spighe». Il secondo si trova in Sodome et Gomorrhe, in occasione
del secondo soggiorno a Balbec; Marcel ha appena visitato con Albertine la chiesa
di Marcouville, e per anticipazione evoca quella di Saint-Mars-le-Vétu, dove
devono recarsi insieme il giorno dopo: «Saint-Mars, del quale, in quei giorni ardenti
in cui si pensava soltanto al bagno, i due antichi campanili d'un rosa salmone, dalle
tegole a losanga, lievemente pendenti e come palpitanti, parevano vecchi pesci
aguzzi, embricati di squame, spumeggianti e rossastri, che senza parer muoversi,
s'alzassero in un'acqua trasparente e azzurra»58.
Ecco due coppie di campanili chiaramente molto simili nelle loro caratteristiche
oggettive essenziali: la forma aguzza o affilata, il colore giallo-rosso, la superficie
rugosa, scagliosa o alveolata. Su tali dati palesemente identici, perché mai la
fantasia del narratore incide due paragoni completamente diversi, là fra i campanili
e le spighe, qui fra i (medesimi) campanili e dei pesci? La ragione di ciò è
abbastanza evidente, e d'altra parte, per il secondo esempio, è Proust stesso a
indicarlo con molta chiarezza in questo inciso di valore causale: «in quei giorni
ardenti in cui si pensava soltanto al bagno»; è il pensiero del bagno, la prossimità
(spaziale, temporale, psicologica) del mare a orientare verso un'interpretazione
acquatica il lavorio della fantasia metaforica. Nel testo di Swann, la spiegazione è
più discreta, ma ugualmente inequivocabile: «i due campanili... essi stessi affilati» 59; i
campanili di Saint-André, in questo caso, sono come due spighe fra le altre, ed è
l'ambiente circostante a suggerire la somiglianza. A suggerirla: cioè, non a crearla,
bensì a sceglierla e ad attualizzarla fra le varie virtualità analogiche contenute
nell'aspetto dei campanili; ma questa azione basta a illustrare l'influsso delle
relazioni di contiguità sull'attività del rapporto metaforico. Vediamo in un altro
punto (I, p. 184) la medesima chiesa di Saint-André apparire in mezzo al grano «
rustica e dorata come una macina»; il motivo cromatico è identico, ma, passando
dalla spiga alla macina, la forma differisce sensibilmente: l'essenziale, per Proust, è
l'assimilazione di Saint-André con l'«ambiente» rustico; spiga, macina, per lui è
accettabile tutto quanto serva a motivare l'accostamento. Un campanile aguzzo, giallo
e arabescato può quindi evocare fra l'altro, ma sempre ugualmente ad libitum,
l'immagine di una spiga matura (o di una macina) oppure quella di un pesce dorato.
Fra le due «similitudini virtuali», Proust sceglie in ogni occasione quella che meglio
si adatta alla situazione oppure (è la stessa cosa) al contesto: qualità terrosa di
Méséglise, essenza marina di Balbec. Un altro campanile (forse, lo stesso), quello di
Saint-Hilaire a Combray, presenta d'altra parte, per tre volte, un fenomeno di
mimetismo assolutamente paragonabile a quelli citati: «e in un nebbioso mattino
d'autunno, pareva che sopra il viola temporalesco dei vigneti, si elevasse una rovina
purpurea, del colore quasi della vite vergine»; e due pagine dopo: «Quando, dopo la
messa, entravamo a dire a Théodore di portare una focaccia più grossa del solito...
avevamo dinanzi il campanile, che, dorato e cotto anch'esso quasi una più grande
focaccia benedetta, con scaglie e stille grumose di sole, infiggeva la punta
acuminata nel cielo azzurro. E la sera, quando rientravo dalla passeggiata e pensavo
all'approssimarsi del momento in cui avrei dovuto dar la buona notte alla mamma
e lasciarla, era invece così dolce, nel cader del giorno, che pareva essere posato e
immerso come un cuscino di velluto cupo sul pallore del cielo che aveva ceduto
sotto la sua pressione, s'era dischiuso leggermente perché avesse posto e fluiva sui
suoi lembi60. Campanile-spiga (o chiesa-macina) nei campi aperti, campanile-pesce
al mare, campanile-porpora al di sopra dei vigneti, campanile-focaccia all'ora dei
pasticcini, campanile-cuscino al cader della notte, in Proust vi è, chiaramente, uno
schema stilistico ricorrente, quasi stereotipato, che potremmo chiamare topos del
campanile-camaleonte. Quasi subito dopo l'ultimo esempio, Proust menziona il caso -
paradossale - di una «città della Normandia vicino a Balbec » dove la guglia gotica
della chiesa si slancia, in prospettiva, al di sopra dei due palazzi del XVIII secolo:
essa ne «completa» la facciata, ma «in una materia così diversa, preziosa, anellata,
levigata e rosea, che è ben chiaro che non ne fa parte, se non come la dentata
guglia porporina d'una conchiglia, affusolata a forma di colonnetta e lustra di
smalto, fa parte di due bei sassi uniti, in mezzo a cui sia rimasta presa, sulla
spiaggia»61. Vediamo qui come anche la differenza si iscrive in un sistema di
somiglianze per contagio: il contrasto fra guglia e facciate è simile al contrasto fra
conchiglia e sassi, e l'omologia compensa e riscatta il contrasto. In una versione
anteriore62, la città normanna evocata adesso è Falaise, ed è il tetto unico di un
palazzo a incastrarsi fra le due guglie «come, su una spiaggia della Normandia, un
sasso fra due conchiglie traforate». Le variazioni dell'«oggetto» descritto sotto la
permanenza dello schema stilistico mostrano sufficientemente l'indifferenza nei
confronti del referente, e dunque l'irriducibile irrealismo della descrizione proustiana.
In tutti questi casi, la prossimità regge o cauziona la somiglianza; in tutti questi
esempi, la metafora trova il suo sostegno e la sua motivazione in una metonimia 63:
casi analoghi si verificano spessissimo in Proust, come se l'esattezza di un
accostamento analogico, e cioè il grado di somiglianza fra i due termini, fosse per
lui meno importante della sua autenticità 64, intendendo con ciò la fedeltà alle
relazioni di vicinanza spazio-temporale65; o meglio, come se la prima, a suo parere,
venisse garantita dalla seconda, dato che gli oggetti nel mondo tendono a
raggrupparsi per affinità, secondo il principio (a cui ha fatto già ricorso Jean
Ricardou a proposito delle sovrapposizioni metonimico-metaforiche in Edgar
Poe): chi si somiglia si unisce (è reciproco) 66. Analogamente alcuni cuochi si
ingegnano di assortire un certo piatto regionale con una salsa o un contorno
assolutamente autoctoni, e di accompagnarlo con un vino «locale», persuasi
dell'affinità, dell'armonia gustativa dei prodotti d'un medesimo paese d'origine.
Non è forse lo stesso rispetto del «contesto» a indurre Marcel, a Balbec, a « non
lasciar cadere lo sguardo sulla (nostra) tavola, fuorché i giorni in cui vi era
imbandito qualche vasto pesce», o ancora a desiderare di vedere quadri di Tiziano e
di Carpaccio esclusivamente a Venezia, nella loro cornice «naturale», e non
trapiantati in una sala del Louvre 67, o perfino a desiderare nei campi di Méséglise
solo una contadina dei dintorni, e sulla spiaggia di Balbec solo una ragazza figlia di
pescatori? «La passante invocata dal mio desiderio rappresentava per me non un
esemplare qualsiasi di un tipo universale: la donna, ma un prodotto necessario e
naturale di quel suolo... E fra la terra e gli esseri, non facevo distinzione. Avevo
desiderio d'una contadina di Méséglise o di Roussainville, d'una pescatrice di
Balbec, come avevo desiderio di Méséglise e di Balbec. Il piacere ch'esse mi
potevano dare mi sarebbe parso meno vero, non vi avrei più creduto, se ne avessi
modificato a modo mio le condizioni. Conoscere a Parigi una pescatrice di Balbec
o una contadina di Méséglise sarebbe stato come ricevere delle conchiglie che non
avessi vedute sulla spiaggia, una falce che non avessi trovato nei boschi, sottrarre al
piacere che m'avrebbe dato la donna tutti quelli di cui l'aveva avvolta la mia
fantasia. Ma vagabondare così per i boschi di Rous- sainville senza una contadina
da abbracciare significava ignorare il tesoro celato di quei boschi, la loro intima
bellezza. Quella fanciulla ch'io non mi raffiguravo che costellata di foglie, era lei
stessa per me come una pianta locale, d'una specie soltanto superiore alle altre, e
d'una struttura che permetteva meglio che in esse d'approssimarsi all'intimo sapore
del paese»68. Sorprendiamo qui, in un certo senso, la nascita dell'analogia nel
momento in cui essa si è appena liberata dalla prossimità assolutamente fisica che
l'origina: la giovane contadina è vista (immaginata) «costellata di foglie» prima di (e
per) diventare essa stessa «come una pianta». Nessun altro testo, indubbiamente,
illustra meglio quel feticismo del luogo denunciato poi dal narratore come un errore di
gioventù e un'« illusione da perdere», ma che però costituisce ugualmente,
senz'altro, un dato fondamentale della sensibilità proustiana: uno di quei dati
fondamentali contro i quali, esattamente, si edifica il suo pensiero nella fase estrema.
Un simile stato commisto di somiglianza e prossimità, niente può incarnarlo
meglio della relazione di parentela, e sappiamo con quale predilezione Proust ha
sfruttato tale situazione, avvicinando zia e nipote, sostituendo il figlio al padre e la
figlia alla madre, spingendo fino alla vertigine l'ambiguo piacere della confusione.
Saremmo tentati di dire che l'arte della descrizione consiste per lui nella scoperta,
fra gli oggetti del mondo, di simili somiglianze per autentica filiazione; osservate
con che compiacimento accoppia il ritratto e il modello, marine di Elstir di fronte
al paesaggio di Balbec, o sculture rustiche di Saint-André di fronte alla somiglianza
« certificata » dalla giustapposizione di una qualche giovane contadina di Méséglise
venuta a mettersi al riparo, replica vivente «e la cui presenza, pari a quella del
fogliame d'una parietaria che germogli presso al fogliame scolpito, sembrava
destinata a permettere, in un confronto con la natura, di giudicare della verità
dell'opera d'arte»69. Tale confronto di due esemplari identici trova, ovviamente, la
sua forma più pura e perfetta nello spettacolo sdoppiato dell'oggetto e del suo
riflesso, come viene organizzato da Proust con una messa in scena particolarmente
sofisticata al Grand Hotel di Balbec, le cui pareti sono state ricoperte, dalle cure
d'un provvidenziale tappezziere, di librerie con vetrine a specchio in cui si riflette
lo spettacolo cangiante del mare e del cielo, «svolgendo una teoria di marine chiare,
interrotte soltanto da montanti di mogano», sicché in certi momenti quelle vetrine
giustapposte, «che mostravano nuvole simili, ma in un'altra parte dell'orizzonte e
diversamente colorate dalla luce, parevano offrire come la ripetizione, cara a certi
pittori contemporanei, di un solo e medesimo effetto, preso sempre ad ore diverse,
ma che adesso, con l'immobilità dell'arte, potevano essere veduti tutti insieme in
una stanza, eseguiti a pastello e messi sotto vetro». Moltiplicazione del paesaggio
evidentemente euforica, non solo perché trasforma lo spettacolo naturale in un
effetto artistico, ma anche (e viceversa) perché in questo caso l'opera mimata si
trova, come le marine d'Elstir a cui fa eco, accordata col suo contesto: Proust
paragona la stanza di Balbec a «uno di quei dormitori modello che si suol
presentare nelle esposizioni di mobili modern style, dove sono adorni di opere d'arte
che si è supposto possano rallegrar gli occhi di chi vi dormirà, e alle quali si sono
date dei soggetti in rapporto al genere di luogo dove l'abitazione verrà a trovarsi» 70,
e il piacere dello spettacolo risiede precisamente in questa armoniosa relazione 71.
Gli esempi di metafore con base metonimica, o metafore diegetiche72 si
disperdono naturalmente nell'insieme della Recherche, e sarebbe fastidioso e inutile
darne un censimento esaustivo. Citiamo però, a scopo illustrativo, lo sguardo della
duchessa di Guermantes nella chiesa di Combray, «azzurro come un raggio di sole
che traversasse la vetrata di Gilberto il Malo» - mentre la vetrata in questione è
proprio quella che adorna la cappella dove si trova la duchessa in quel momento 73;
oppure la volta e lo sfondo degli affreschi di Giotto all'Arena di Padova, «cosi
turchini da far credere che la radiosa giornata abbia, anch'essa, oltrepassato la
soglia insieme al visitatore e sia venuta per un attimo a porre all'ombra e al fresco il
suo cielo puro, solo un poco più profondo, perché libero dalle dorature della luce,
come in quelle brevi pause che interrompono le più belle giornate, quando, pur
senza che sia comparsa nessuna nube, come se il sole un attimo avesse volto
altrove il suo sguardo, l'azzurro, ancora più dolce, si oscura» 74 (osserviamo qui,
come già avevamo avuto occasione di farlo nel succitato brano su Saint-André-des-
Champs, il procedimento raddoppiato, per inserimento di un secondo paragone
lievemente sfasato all'interno del primo 75; o anche, molto più complessa, la rete
d'analogie e di prossimità che si snoda in quest'altro brano della Fugitive, dove il
narratore evoca le sue visite al battistero di San Marco incompagnia della madre:
«Un'ora è giunta per me, che, se mi rammento del battistero, davanti alle acque del
Giordano dove san Giovanni immerge il Cristo, mentre la gondola ci aspettava
sulla Piazzetta, non mi è indifferente che in quella fresca penombra sia stata al mio
fianco una donna avvolta nel suo lutto col fervore rispettoso ed entusiasta della
donna anziana che si vede a Venezia nella Sant'Orsola di Carpaccio, e che quella
donna dalle guance rosse, dallo sguardo triste, nei suoi occhi neri, che nulla per me
potrà mai più fare uscire dalla lieve luce del santuario di San Marco, dove son certo
di ritrovarla perché vi ha il suo luogo eletto e immutabile come un mosaico, sia mia
madre»76: mosaico del battesimo, in «rapporto col luogo», dove il Giordano
presenta come un secondo battistero, a incastro, all'interno del primo; replica dei
flutti del Giordano costituita da quelli della laguna davanti alla Piazzetta, frescura
gelata che cade sui visitatori come acqua battesimale, donna in lutto simile a quella,
vicinissima, del quadro di Carpaccio, a sua volta immagine a incastro di Venezia
dentro Venezia77, immobilità ieratica dell'immagine materna, nel ricordo del «
santuario», come uno dei mosaici che gli stanno di fronte, e, proprio per questo
tramite, suggerimento di un'analogia fra la madre del narratore e quella di Cristo...
Ma l'esempio più spettacolare è costituito evidentemente da Sodome et Gomorrhe I,
da quel passo di trenta pagine tutto costruito sul parallelo fra la «congiunzione
Jupien-Charlus » e la fecondazione, per mezzo di un calabrone, dell'orchidea della
duchessa: parallelo accuratamente preparato, condotto, mantenuto, riattivato una
pagina dopo l'altra lungo tutto l'episodio (e il discorso di commento che l'episodio
ispira), e la cui funzione simbolica non smette, per così dire, d'alimentarsi alla
relazione di contiguità stabilitasi fra il cortile del palazzo Guermantes (unità di
luogo) nel momento in cui l'insetto e il barone vi fanno il loro ingresso
contemporaneamente (unità di tempo), ronzando all'unisono; non è quindi
sufficiente che il miracoloso incontro (o almeno considerato tale dall'eroe) dei due
omosessuali sia «come» il miracoloso incontro fra un'orchidea e un calabrone, che
Charlus entri «sibilando come un grosso calabrone», che sotto il suo sguardo Jupien
s'immobilizzi e si «radichi come una pianta», ecc.: bisogna anche che i due incontri si
verifichino «nello stesso istante», e nello stesso luogo, e in tal caso l'analogia appare
solo come una specie d'eli etto secondario, e forse illusorio, della concomitanza78 .In
questo sforzo di compone la coerenza di un luogo, grazie a griglie del genere,
oppure l'unità d'un clima, l'armonia di un'«ora», nella Recherche du temps perdu
sembrano esistere alcuni punti di concentrazione o di cristallizzazione più intensa,
corrispondenti a focolai d'irradiazione estetica. Sappiamo come certi personaggi
traggano il loro tema personale dalla consonanza che essi mantengono col loro
paesaggio ancestrale (Oriane col paese di Guer- mantes) o con la cornice della loro
prima apparizione (Al- bertine e il gruppo delle sue compagne che si stagliano in
controluce davanti al mare79, Saint-Loup nella sfavillante biondezza del sole
moltiplicata dai bagliori del suo monocolo svolazzante); e viceversa, la dominante
estetica di un personaggio può suscitare nella fantasticheria dell'eroe la immagine
di un luogo in armonia: così, il «colorito d'argento e di rosa» della signorina di
Stermaria (con cui si armonizza già il suo invariabile feltro grigio) suggerisce
romantiche passeggiate a due « nel crepuscolo dove rilucerebbero più dolcemente,
al di sopra dell'acqua resa cupa, i fiori rosa delle brughiere » 80. Ma è forse « intorno
alla signora Swann» (nelle ultime pagine di Swann e nella prima parte delle Jeunes
filles en fleurs che porta esattamente questo titolo) che si manifesta con la massima
insistenza (un'insistenza forse un po' troppo sensibile, e in ciò ben armonizzata
all'estetismo applicato e dimostrativo della nuova Odette) una simile
preoccupazione d'armonia cromatica: «fuochi aranciati», «combustione rossa»,
«fiamma rosa e bianca dei crisantemi nel crepuscolo di novembre»; «sinfonia in
bianco maggiore» dei mazzi di «palle di neve» e di pellicce d'ermellino, «che
parevano le ultime più persistenti tracce delle nevi invernali», nel periodo delle
ultime gelate d'aprile81; il tono su tono delle sue apparizioni al Bois, abito e
mantello malva, fiore d'iris, mazzolino di violette, largo ombrellino «della
medesima sfumatura» che le riversa come «il riflesso d'un pergolato di glicini»,
toilettes sempre «unite da un legame necessario alla stagione e all'ora» («i fiori del
suo flessibile cappello di paglia, i nastrini del suo vestito mi sembravano nascere
dal mese di maggio anche più naturalmente dei fiori dei giardini e dei boschi»), e
contemporaneamente andatura «tranquilla e pigra», studiata per indicare «la
vicinanza» dell'appartamento di cui « si sarebbe detto che portasse ancora intorno
a sé l'ombra intima e fresca » 82: serie di quadri monocromi83 dove si effettua,
mediante lo scambio mimetico di una regia «color del tempo», il matrimonio fra
esterno e interno, fra giardino e salotto, fra artificio e stagione; attorno alla signora
Swann, si cancellano tutti i contrasti, scompaiono tutte le opposizioni, svaniscono
tutte le pareti divisorie nell'euforia di uno spazio continuo.
Abbiamo già visto con quale procedimento, brutale e sottilmente artificioso
insieme (la collezione di «marine» disposta attorno alla camera dell'eroe dal riflesso
del paesaggio nelle vetrate della libreria), Proust assicuri a Balbec quest'armonia fra
esterno e interno. A dire la verità, il contagio del luogo era già sufficientemente
stabilito con la menzione dei muri verniciati a smalto e contenenti, «come le pareti
levigate d'una piscina dove l'acqua turchineggi, un'aria pura, azzurrina e salina» 84;
prima ancora di essere invasa dallo spettacolo moltiplicato del mare, la camera del
narratore è, per così dire, sostanzialmente resa marina dalla presenza di quelle
pareti lucide e come grondanti d'acqua. A questa camera piscina, destinata poi a
diventare cabina di nave85, fa riscontro una sala da pranzo acquario: «E la sera...
dalle sorgenti elettriche sgorgava a fiotti la luce nella grande sala da pranzo, la quale
diventava come un immenso e meraviglioso acquario dinanzi alle cui pareti di vetro
la popolazione operaia di Balbec, i pescatori e anche le famiglie piccolo-borghesi,
invisibili nell'ombra, si schiacciavano ai vetri per scorgere, lentamente oscillante fra
risucchi d'oro, la vita lussuosa di quelle persone, straordinaria per i poveri quanto
quella dei pesci o dei molluschi strani» 86. Notiamo qui, all'opposto di quanto
avviene nella Parigi della signora Swann, come la confusione fra interno ed esterno
non agisca più nei due sensi: a Balbec, il termine dominante della metafora è quasi
sempre il mare; rifulge dovunque, come dirà Proust a proposito dei quadri di
Elstir, la «forza dell'elemento marino» 87. È il mare, evidentemente, a dare ai due
episodi di Balbec, e particolarmente al primo, la loro « multiforme e potente unità
». Una rete continua di analogie, nel paesaggio « reale » come nella sua
rappresentazione pittorica, si sforza di «sopprimere qualunque demarcazione» fra il
mare e tutto ciò che lo frequenta e lo avvicina: i pesci, che esso contiene e nutre: «il
mare già freddo e azzurro come una triglia»88; il cielo che lo domina verticalmente
e si confonde con esso all'orizzonte: «m'era accaduto, grazie a un effetto di sole,...
di guardare con gioia una zona azzurra e fluida senza sapere se appartenesse al
mare o al cielo »89; il sole che lo rischiara, e che si compenetra della sua liquidità e
della sua frescura mentre, da parte sua, gli infonde la sua luce, «una luce umida,
olandese, nella quale si sentiva salire fino nel sole il freddo penetrante dell'acqua»,
fino a quella completa inversione cromatica dove il mare diventa giallo « come un
topazio... biondo e lattiginoso come birra» e il sole «verde come l'acqua d'una
piscina»90; e questa fluidità della luce marina, caratteristica comune, lo sappiamo,
dei luoghi normanni, olandesi e veneziani, è in Proust, come in un Van Goyen, un
Guardi, un Turner o un Monet, il più potente agente di unificazione del paesaggio:
è essa, ad esempio, a « trasfigurare » con la sua patina « bella come quella dei
secoli», la chiesa troppo nuova o troppo restaurata di Marcouville l'Orgueilleuse:
«Dietro ad essa, i grandi bassorilievi non apparivano che sotto uno strato fluido,
metà liquido e metà luminoso, la Madonna, sant'Elisabetta, san Gioacchino,
fluttuavano ancora nel risucchio impalpabile, quasi a secco, a fior d'acqua o a fior
di sole»91; la terra infine, e riguardo ad essa sappiamo come Elstir non smetta mai
di paragonarla «tacitamente e instancabilmente» al mare, usando per l'una (e
viceversa) solo «termini» derivati dal lessico dell'altra, e sfruttando
sistematicamente gli effetti di luce e gli artifici prospettici. Un po' oltre, Elstir
stesso designerà il modello veneziano di tali fantasmagorie: «Non si sapeva più
dove finiva la terra, dove incominciava l'acqua, che cosa era ancora il palazzo e che
cosa era già la nave»92; ma tale modello non è soltanto pittorico, ma è proprio la
realtà del paesaggio anfibio che s'impone al pittore proustiano davanti al porto di
Carquethuit, come s'impone d'altronde a Carpaccio, a Veronese, a Canaletto. E il
narratore potrà giustamente - al momento del secondo soggiorno a Balbec -
attribuire all'influsso del grande impressionista la sua tardiva percezione di tali
analogie, mare diventato «rurale», scie «polverose» di pescherecci simili a campanili
di chiese, barche che mietono la superficie «fangosa» dell'oceano 93, sappiamo in
realtà che molto prima di aver visto una tela di Elstir, gli è accaduto «di prendere
una parte più scura del mare per una costa lontana», e, il giorno seguente al suo
arrivo a Balbec, scopriva, dalla finestra della sua stanza, il mare simile a un
paesaggio montano, e anche molto tempo dopo si era raffigurato il campanile di
Balbec come una falaise battuta dai flutti 94. Attribuite a Elstir, oppure percepite
direttamente da Marcel, simili «metafore» visive, che dànno al paesaggio di Balbec
la sua specifica tonalità, illustrano alla perfezione la tendenza fondamentale della
scrittura e dell'immaginazione proustiane — « tecnica» e «visione» —
all'assimilazione per vicinanza, alla proiezione del rapporto analogico sulla
relazione di contiguità, che abbiamo già visto in azione nelle fantasticherie
toponimiche del giovane protagonista95.
Trarremo un ultimo esempio di queste assimilazioni, a volte speciose, da Du coté
de chez Swann: si tratta dell'evocazione delle caraffe tuffate nella Vivonne, «e che,
riempite dal fiume, nel quale sono chiuse a loro volta, "contenente" dai fianchi
trasparenti come acqua solidificata, e, in pari tempo, "contenuto" immerso in un
contenente più grande di cristallo liquido e scorrente, suscitavano l'immagine della
frescura in maniera più deliziosa e invitante di quanto non avrebbero fatto su una
tavola apparecchiata, non mostrandola che in fuga in quell'allitterazione perpetua
fra l'acqua senza consistenza dove le mani non potevano coglierla e il vetro senza
fluidità dove il palato non potrebbe goderne» 96. Vetro = acqua solidificata, acqua =
cristallo liquido e corrente, qui è mediante un artificio tipicamente barocco che le
sostanze in contatto scambiano i loro predicati per entrare in questa relazione di
«metafora reciproca»97, da Proust audacemente chiamata allitterazione: audacia
legittima, dato che si tratta proprio, come nella figura poetica, di una coincidenza
fra l'analogo e il contiguo; audacia rivelatrice, poiché la consonanza delle cose è qui
minuziosamente legata come quella delle parole in un verso, puro effetto testuale
culminante, precisamente, in quel liquido e trasparente sintagma autoillustrativo:
allitterazione perpetua. Proust, d'altra parte, si appoggia proprio sull'ambiguità di
questi fenomeni linguistici per motivare, mediante un legame puramente verbale, le
sue metafore non basate su una «reale» contiguità. Sappiamo, per esempio, come il
paragone fra la sala dell'Opéra e le profondità sottomarine, all'inizio di Guermantes,
risulti, in tutta la sua estensione, come agganciata a quella parola baignoire (vasca o
palco, cioè a sua volta metafora d'uso) che, col suo doppio significato, mette in
diretta comunicazione i due universi, e la cui semplice enunciazione, da parte di
una maschera, è sufficiente a scatenare immediatamente tutta la metamorfosi: «il
corridoio che gli indicarono, dopo aver pronunciato la parola "barcaccia", e nel
quale egli si avanzò, umido com'era e macchiato di salnitro, sembrava davvero
condurre a qualche grotta marina, al regno mitologico delle divinità delle acque » 98.
Ma la stessa lunghezza di tali effetti (sei pagine, in questo caso) e il modo in cui essi
si estendono contiguamente a un numero crescente di oggetti (dee acquatiche,
tritoni barbuti, ciottolo lucente, alga liscia, pareti da acquario, ecc.) finiscono per
dare al lettore l'illusione di una continuità, e quindi di una vicinanza, fra i termini di
paragone, mentre esiste soltanto una moltiplicazione dei loro punti d'analogia, e
una consistenza del testo che pare giustificarsi (confermarsi) con la sua stessa
proliferazione99. Si verrebbe forse a spiegare, in tal modo, la spiccata preferenza di
Proust per le metafore, o i paragoni, coerenti. Rarissimi, in lui, gli accostamenti
folgoranti suggeriti da una sola parola, a cui la retorica classica riserva
esclusivamente il termine metafora. È come se, per lui, la relazione d'analogia
dovesse sempre (benché, spesso, in maniera inconsapevole) rafforzarsi
appoggiandosi su un rapporto più oggettivo e sicuro: quello, cioè, mantenuto, nella
continuità dello spazio — spazio del mondo, spazio del testo - dalle cose vicine e
dalle parole collegate. È tuttavia un procedimento inverso a manifestarsi nella
capitale esperienza della memoria involontaria, che, come sappiamo, per Proust
costituisce il fondamento stesso del ricorso alla metafora, in virtù della semplice
equivalenza secondo cui la metafora sta all'arte come la reminiscenza sta alla vita,
accostamento di due sensazioni mediante il «miracolo di un'analogia» 100. In
apparenza nel meccanismo della reminiscenza si trova effettivamente solo
l'analogico puro, dato che essa riposa sull'identità di sensazioni provate a
grandissima distanza luna dall'altra, nel tempo e/o nello spazio. Fra la camera di
Léonie di una volta e l'appartamento parigino adesso, fra il battistero di San Marco
un tempo e il cortile di palazzo Guermantes oggi, un solo punto di contatto e di
comunicazione: il sapore della maddalenina inzuppata nell'infuso di tiglio, la
posizione del piede in equilibrio precario su selciati sconnessi. Dunque, niente di
più diverso dalle analogie suggerite da una prossimità spazio-temporale da noi
finora incontrate: la metafora è ora, apparentemente, scevra di qualsiasi metonimia.
Non lo rimarrà un istante di più. O meglio, non lo è mai stata, ed è solo un lavoro
d'analisi a posteriori che ci permette di affermare che la reminiscenza sia «iniziata»
con quanto l'analisi designa come la sua «causa». In realtà, l'esperienza reale non
comincia con la percezione di una identità di sensazione, ma con un sentimento di
«piacere», di «felicità» che appare in un primo momento «senza la nozione della sua
causa»101 (e sappiamo come, al momento di certe esperienze fallite, ad esempio
quella degli alberi di Hudimesnil, questa nozione resterà irrimediabilmente
nell'ombra). A partire da quel momento, le due esperienze esemplari divergono un
po' nel loro svolgimento: in Swann, il piacere resta senza specificazione fino a
quando la sensazione-origine non viene identificata: solo allora, ma
«immediatamente», essa si amplifica con tutta una serie di sensazioni connesse,
passando dalla tazza coll'infuso di tiglio alla camera, dalla camera alla casa, dalla
casa al villaggio e alla «regione» intera; nel Temps retrouvé, la «felicità» provata porta
in sé fin dall'inizio una specificazione sensoriale, delle «immagini evocate», azzurro
intenso, frescura, luce, che designano Venezia ancora prima che sia stata reperita la
sensazione comune; e analogamente avverrà per il ricordo della sosta in treno,
immediatamente fornito di attributi (odore di fumo, frescura boschiva) che
debordano largamente i limiti della collusione fra i due rumori; e ancora, per la
visione di Balbec (azzurro salino, gonfiato in mammelle bluastre) provocato dal
contatto ruvido col tovagliolo inamidato, e per quella (di Balbec la sera) provocata
dal rumore d'acqua in un canale. Vediamo dunque che la relazione metaforica non
è mai percepita per prima, e che addirittura, nella maggior parte dei casi, essa
compare solo alla fine dell'esperienza, come la chiave di un mistero recitato
interamente senza di lei.Ma, qualunque sia il momento in cui si manifesta il ruolo
di ciò che (poiché Proust stesso parla della «deflagrazione del ricordo») 102 ci
piacerebbe chiamare il detonatore analogico, l'essenziale ora è notare come questa
prima esplosione sia sempre accompagnata, necessariamente e immediatamente, da
una sorta di reazione a catena procedente non più per analogia, ma per contiguità,
cioè precisamente il momento in cui il contagio metonimico (o, per usare il
termine dello stesso Proust, l'irradiazione103) prende il posto dell'evocazione
metaforica. «L'interesse di Proust per le impressioni sensoriali, scrive Ullmann, non
si limitava alla loro qualità intrinseca e alle analogie da essa eventualmente
suggerite: era parimenti affascinato dalla loro capacità di evocare altre sensazioni e
l'insieme del contesto d'esperienza a cui esse erano associate. Ne deriva
l'importanza delle sensazioni nel processo della memoria involontaria». 104 La
maniera in cui il contesto d'esperienza chiamato Combray, Balbec o Venezia si
trova riportato all'esistenza a partire da un'infima sensazione, «gocciolina quasi
impalpabile» che sopporta senza cedimenti «l'edificio immenso del ricordo»,
conferma a sufficienza l'esattezza di tale osservazione. Aggiungiamo che lo stesso
Proust, benché dia l'impressione di limitarsi a trattenere esclusivamente il
momento metaforico dell'esperienza (forse perché è il solo momento a cui sa dare
un nome), insiste a varie riprese sull'importanza di questo allargamento per
contiguità. « In questo caso, come in tutti i precedenti, la sensazione comune aveva
cercato di ricreare intorno a sé il luogo antico... il luogo remoto generato intorno alla
sensazione comune... simili resurrezioni del passato... sono così totali, non solo da
obbligare i nostri occhi... ma da costringere le nostre narici... la nostra volontà... il
nostro intero essere». Un po' oltre, fa ritorno sull'argomento per ripetere che non
soltanto la vista del mare, ma l'odore della stanza, la velocità del vento, la voglia di
far colazione, l'incertezza fra varie passeggiate, tutto ciò (il che equivale a tutta
Balbec) è «legato alla sensazione del tovagliolo» (del tovagliolo inamidato), per
aggiungere inoltre, e in un modo ancor più prezioso per quanto ci proponiamo di
dimostrare, che «l'ineguaglianza dei due ciottoli aveva prolungato le immagini
disseccate e nude che avevo di Venezia e di San Marco, in tutti i sensi e in tutte le
dimensioni, ricollegando la piazza alla chiesa, l'imbarcadero alla piazza, il canale
all'imbarcadero e a tutto ciò che vedono gli occhi il mondo dei desideri visti
soltanto dallo spirito»105. Ricordiamo infine la maniera in cui i vari elementi della
cornice di Combray vengono ad « applicarsi» successivamente gli uni agli altri -
padiglione, casa, città, piazza, sentieri, parco, Vivonne, chiesa e brava gente 106. Se la
«gocciolina» iniziale della memoria involontaria è proprio dell'ordine della
metafora, l'«edificio» del ricordo è interamente metonimico. E, di sfuggita, esiste
un «miracolo» altrettanto grande nella seconda come nella prima, e occorre una
strana prevenzione «analogista» per essersi tanto stupiti sulla prima, e così poco
sulla seconda. Gettiamo quindi un po' di peso sull'altro piatto della bilancia: il vero
miracolo proustiano, non consiste nel fatto che una maddalenina inzuppata di tè
abbia il medesimo sapore di un'altra maddalenina inzuppata di tè, e ne risvegli il
ricordo; è piuttosto il fatto che la seconda « maddalena» risusciti insieme a sé una
stanza, una casa, un'intera città, e che tale luogo possa, per lo spazio di un secondo,
« scuotere la solidità» del luogo attuale, forzarne le porte e farne vacillare i mobili.
Ora, risulta che è proprio quel miracolo - torneremo immediatamente
sull'argomento - a fondare, diciamo meglio, a costituire l'«immenso edificio» del
racconto proustiano.

Può sembrare abusivo chiamare «metonimia», come per il gusto di una fittizia
simmetria, questa solidarietà di ricordi che non comporta nessun effetto di
sostituzione, e dunque non può, in nessun modo, rientrare nella categoria dei tropi
studiati dalla retorica. Sarebbe indubbiamente sufficiente rispondere che ad essere
in discussione ora è la natura del rapporto semantico, e non la forma della figura, e
ricordare come lo stesso Proust abbia fornito l'esempio di un simile abuso col
battezzare metafora una figura che in lui, nella maggior parte dei casi, coincide con
un paragone esplicito e senza sostituzione; cosicché gli effetti di contagio di cui
abbiamo parlato sono all'inarca l'equivalente, sull'asse della contiguità, di ciò che
sono le «metafore» proustiane sull'asse delle analogie — e quindi stanno alla
metonimia in senso stretto come le metafore proustiane stanno alla metafora
classica. Ma dobbiamo anche dire come l'evocazione per contiguità sia a volte
condotta da Proust ai limiti della sostituzione. Ullmann cita opportunamente una
frase di Swann : « Quella buia frescura della mia stanza... offriva alla mia fantasia la
visione totale dell'estate»107. La sensazione-segnale diventa abbastanza velocemente,
in Proust, una sorta d'equivalente del contesto a cui essa è associata, come la «
piccola frase di Vinteuil» è diventata per Swann e Odette « quasi l'inno nazionale
del loro amore»108: cioè il suo emblema. Dobbiamo osservare come gli esempi di
metafore «naturali» citati nel Temps retrouvé siano in realtà, tipicamente, delle
sostituzioni sineddochiche: «la stessa natura... non era anch'essa un principio d'arte,
essa che sovente non m'aveva consentito di conoscere la bellezza d'una cosa se
non in un'altra: l'ora del mezzodì a Combray nel suono delle sue campane, i mattini
di Doncières nei rantoli del nostro calorifero ad acqua? » 109. Infine, il fenomeno
dello slittamento metonimico, notissimo in psicanalisi, gioca a volte un ruolo
importante nella stessa tematica del racconto proustiano. Sappiamo come
l'ammirazione di Marcel per Bergotte giovi al suo amore per Gilberte, o come
questo stesso amore si riversi sui genitori della ragazzina, sul loro nome, la loro
casa, il loro quartiere; o ancora, come la passione per Odette, che abita in rue la
Perouse, faccia di Swann un cliente abituale dell'omonimo ristorante: qui dunque,
omonimia per metonimia. Tale è la «retorica» del desiderio. In Combray, in misura
anche più notevole, il tema sessuale si trova in origine legato a quello dell'alcool per
una semplice consecutio temporum: ogni volta che il nonno, con gran disperazione
della moglie, si lascia andare a bere del cognac, Marcel si rifugia nella «stanzettina
odorosa d'iris», luogo privilegiato dei suoi colpevoli piaceri; in seguito, il senso di
colpa sessuale cosciente del protagonista scompare, sostituito (mascherato) dal
senso di colpa relativo agli eccessi nell'alcool, motivati con la sua malattia ma tanto
dolorosi per la nonna, evidente sostituto (a sua volta metaforico-metonimico) della
madre: dolore e senso di colpa che sembrano completamente spropositati se non si
coglie il valore emblematico di quella «debolezza» 110.
In Proust esiste quindi una frequentissima collusione fra relazione metaforica e
relazione metonimica, sia che la prima venga ad aggiungersi alla seconda come una
specie d'interpretazione superdeterminante, sia che la seconda, nelle esperienze
della «memoria involontaria», dia il cambio alla prima per ampliarne l'effetto e la
portata. Situazione che, a mio parere, comporta due osservazioni, una delle quali si
situa a livello di microstrutture stilistiche, e l'altra a quello di macrostruttura
narrativa. Prima osservazione: Abbiamo appena ricordato come gli esempi citati
subito dopo la famosa frase in gloria della metafora illustrassero piuttosto il
principio metonimico. Ma occorre considerare ora più particolareggiatamente
questa medesima frase. «È possibile, scrive Proust, fare succedersi all'infinito in
una descrizione gli oggetti che figuravano nel luogo descritto, ma la verità
comincerà solo nel momento in cui l'autore prenderà due oggetti diversi, stabilirà
qual è il loro rapporto (analogo, nel mondo dell'arte, al rapporto unico della legge
causale nel mondo della scienza) e li chiuderà nelle maglie necessarie di un bello
stile; o addirittura quando, come fa la vita, accostando una qualità comune a due
sensazioni, ne sprigionerà l'essenza comune riunendo luna all'altra per sottrarle alle
contingenze del tempo, in una metafora». È ovvio che il rapporto da stabilire fra
«due oggetti diversi » è il rapporto d'analogia che libera la loro «essenza comune».
Meno evidente invece, ma quasi indispensabile alla coerenza dell'enunciato, è il
fatto che i due oggetti facciano parte della collezione degli oggetti che «figuravano»
(insieme) nel luogo da descrivere: in altre parole, che il rapporto metaforico si
stabilisca fra due termini già legati da una relazione di contiguità spazio-temporale.
Così (e solo così) si spiega che il «bello stile», cioè lo stile metaforico, sia qui
caratterizzato da un effetto di concatenazione e di necessità («maglie necessarie»).
La solidità indistruttibile della scrittura, di cui Proust pare cercare in questo caso la
formula magica («solo la metafora può dare una sorta d'eternità allo stile», dirà nel
suo articolo su Flaubert111), non può risultare dalla sola linea orizzontale stabilita
dalla traiettoria metonimica; ma non vediamo neppure come potrebbe sopperirvi il
solo legame verticale del rapporto metaforico. Solo l'intersezione dell'uno con
l'altro può sottrarre l'oggetto della descrizione, e la descrizione stessa, alle
«contingenze del tempo», cioè a qualunque contingenza; solo l'incrocio di una
trama metonimica e di una catena metaforica assicura la coerenza, la coesione
«necessaria» del testo. Metafora che ci è suggerita, per più della sua metà, da quella
usata da Proust: «anelli», maglie, punti, tessitura. Ma l'immagine a cui Proust ricorre
di preferenza è d'ordine più sostanziale: è il motivo della «fusione», dell' omogeneo. A
costituire la «bellezza assoluta» di certe pagine, secondo lui, è (bisogna ricordarlo)
«una specie di fusione, di unità trasparente, dove tutte le cose, perdendo il loro
primo aspetto di cose, sono venute ad allinearsi in una sorta di ordine, penetrate
dalla medesima luce, viste le une nelle altre, senza una sola parola che resti
all'esterno, che sia rimasta refrattaria a una tale assimilazione... Suppongo si tratti di
quella che chiamiamo la Patina d'autore». 112 Vediamo in questo caso, ancora una
volta, come la qualità dello stile dipenda da una « assimilazione » stabilita fra
oggetti copresenti, dalle «cose» che, per perdere il loro «primo aspetto di cose»,
cioè la loro contingenza e la loro dispersione, devono scambievolmente riflettersi e
assorbirsi, contemporaneamente «schierate le une a fianco delle altre» (contiguità) e
«viste le une nelle altre» (analogia). Se vogliamo — come propone Roman
Jakobson113 - caratterizzare il percorso metonimico come la dimensione
propriamente prosaica del discorso, e il discorso metaforico come la sua
dimensione poetica, dovremo considerare allora la scrittura proustiana come il
tentativo più estremo in direzione di questo stato misto, capace d'assumere e di
attivare in pieno due assi del linguaggio, che sarebbe derisorio chiamare « poema in
prosa » o « prosa poetica », e che costituirebbero, in assoluto e nel senso pieno del
termine, il Testo.
Seconda osservazione: Se misuriamo l'importanza del contagio metonimico nel
lavoro dell'immaginazione proustiana, e in particolare nell'esperienza della
memoria involontaria, siamo portati a spostare un po' l'inevitabile domanda a cui
fa eco Maurice Blanchot nel Livre à venir114: com'è passato Proust dal suo «progetto
originario», cioè scrivere un romanzo di momenti poetici, a quel racconto (quasi)
continuo costituito dalla Recherche du temps perdu Blanchot replicava
immmediatamente che l'essenza di tali istanti «non è quella di essere puntuali»; e
forse sappiamo ora, un po' meglio, il perché. In realtà, il progetto di Proust forse
non è mai stato quello di scrivere un libro fatto di collezioni di estasi poetiche. Jean
Santeuil è già tutta un'altra cosa, e anche la celebre pagina dove il narratore,
sostituendosi tanto imperiosamente al suo protagonista (e in questo movimento si
trova già tutta la Recherche), afferma d'aver scritto semplicemente «quando un
passato risuscitava improvvisamente in un odore, in una veduta che esso faceva
scintillare, e al di sopra di esso palpitava la fantasia, e quando questa gioia mi dava
l'ispirazione »115, anche questa pagina non ci autorizza a dare un giudizio del
genere: il passato «resuscitato» mediante un incontro di sensazioni non è
«puntuale» come l'incontro stesso, e può bastare una sola - e infima - reminiscenza
per scatenare, grazie all'irradiazione metonimica da cui è accompagnata, un
movimento di anamnesi d'incommensurabile ampiezza. Ebbene, si tratta
esattamente di quello che avviene nella Recherche du temps perdu.

Esiste effettivamente una frattura nettissima, nella prima parte di Swann


(«Combray»), fra il primo capitolo, quasi esclusivamente consacrato alla scena
originaria e ossessiva chiamata da Proust « il teatro e il dramma del mio coricarmi»,
scena rimasta a lungo nella memoria del narratore come il solo ricordo di Combray
mai sprofondato nell'oblio, scena immobile e in un certo senso «puntuale», in cui la
narrazione si chiude e si invischia quasi senza speranza di potersene mai liberare - e
il secondo capitolo, dove, a questa Combray verticale dell'ossessione ripetitiva e
della «fissazione» («lembo luminoso ritagliato in mezzo a tenebre indistinte» ridotto
al salottino dove viene ricevuto il signor Swann, alla scala «detestata», alla camera
dove Marcel attende disperatamente il bacio materno) si sostituisce finalmente, con
il suo spazio estensibile, le sue due « parti», le sue passeggiate alternate, la Combray
orizzontale della geografia infantile e del calendario familiare, punto di partenza ed
esca del vero movimento narrativo. Tale frattura (e cambiamento di registro e di
regime senza i quali il romanzo proustiano non avrebbe, semplicemente, luogo) è
evidentemente la «resurrezione» di Combray compiuta dalla memoria involontaria,
cioè, indissolubilmente, dal miracolo di un'analogia, e da quell'altro miracolo che fa
scaturire tutta un'infanzia — «città e giardini», spazio e tempo — e, al suo seguito,
«per associazione di ricordi», tutta una vita (e alcune altre) da una tazza di tè.
Questo paradossale effetto della reminiscenza, che è in pari tempo
immobilizzazione e impulso, brusca fermata, traumatico spalancarsi (sebbene
«delizioso») del tempo vissuto (è l'estasi metaforica) ed effusione immediatamente
insopprimibile e continua del tempo «ritrovato», cioè rivissuto (è il contagio
metonimico) era già indicato, e in maniera decisiva, in una frase che fa da epigrafe
a Jean Santeuil: «Posso chiamare romanzo questo libro? È meno di un romanzo, e
molto di più, l'essenza della mia vita, raccolta senza mescolarvi nulla, in quelle ore di
lacerazione in cui essa scorre via»116. Ferita del presente, effusione del passato, cioè
anche (poiché i «tempi» sono anche delle forme): sospensione del discorso e nascita
del racconto. Senza metafora, dice (all'incirca) Proust, niente veri ricordi; noi
aggiungiamo per lui (e per tutti): senza metonimia, niente concatenazione di
ricordi, niente storia, niente romanzo. Poiché è la metafora a ritrovare il tempo
perduto, ma è la metonimia a rianimarlo, e a rimetterlo in movimento: essa lo
restituisce a se stesso e alla sua vera «essenza», che è la sua fuga e la sua ricerca.
Solo a questo punto, e solo allora - per mezzo della metafora, ma nella metonimia
— ha inizio il racconto.

Discorso del racconto - Saggio di metodo

Premessa
Oggetto specifico di questo studio è il racconto in À la recherche du temps perdu.
Precisazione che richiama immediatamente due osservazioni d'importanza
ineguale. La prima verte sulla definizione del corpus: sappiamo tutti, oggi, come
l'opera suddetta, il cui testo canonico è stato stabilito fin dal 1954 con l'edizione
Clarac-Ferré, rappresenti solo l'ultima tappa di un'opera a cui Proust, per modo di
dire, ha lavorato tutta la vita, e le cui versioni anteriori si disperdono,
essenzialmente, fra Les Plaisirs et les Jours (1896), Pastiches et Mélanges (1919), le varie
raccolte o inediti postumi intitolati Chroniques (1927), Jean Santeuil (1952) e Contre
Sainte-Beuve (1954), e i circa ottanta cahiers giacenti (a partire dal 1962) nella sala dei
manoscritti della Bibliothèque Nationale di Parigi. Per tali motivi (cui si aggiunge la
forzata interruzione del 18 novembre 1922) la Recherche, più di qualsiasi altra opera,
non può assolutamente essere considerata come opera chiusa: è perciò sempre
legittimo, e a volte necessario, richiamarsi - come termine di confronto rispetto al
testo «definitivo» — all'una o all'altra delle sue varianti. Osservazione valida anche
per la tenuta del racconto: non si può disconoscere, ad esempio, quale prospettiva
e significato porti al sistema narrativo adottato nella Recherche la scoperta del testo
«in terza persona» di Jean Santeuil. Il nostro lavoro verterà quindi essenzialmente
sull'opera definitiva. non senza però tener conto, a volte, degli antecedenti
considerati non tanto per se stessi (non ha molto senso) ma per la luce ulteriore
che possono gettare.
La seconda osservazione concerne il metodo, o meglio il procedimento adottato
in questo saggio. Si è già potuto osservare che né il titolo né il sottotitolo del mio
studio fanno menzione di quanto ho appena definito come il suo oggetto
specifico. Non è civetteria e neppure deliberata inflazione del soggetto. Il fatto è
che spesso (in modo forse per alcuni esasperante) il racconto proustiano sembrerà
dimenticato a favore di considerazioni più generali: o meglio, come si usa dire oggi,
la critica cederà il passo alla «teoria letteraria», e più esattamente, nel nostro caso,
alla teoria del racconto o narratologia. Potrei giustificare e chiarire tale ambigua
situazione in due modi diversissimi: sia mettendo francamente (come è stato fatto
in altri casi) l'oggetto specifico in subordine alla teoria (in tal caso la Recherche
diventa qui solo un pretesto, serbatoio di esempi e luogo d'illustrazione per una
poetica narrativa in cui le sue caratteristiche specifiche sono destinate a perdersi
nella trascendenza delle «leggi del genere»); sia subordinando, al contrario, la
poetica alla critica, e facendo di concetti, classificazioni e procedimenti esposti qui
altrettanti strumenti ad hoc esclusivamente destinati a permettere una descrizione
più esatta o più precisa del racconto proustiano nella sua singolarità, la deviazione
«teorica» essendo a ogni occasione imposta dalle necessità di una messa a punto
metodologica.
Confesso la mia ripugnanza, o incapacità, nella scelta fra i due sistemi di difesa,
apparentemente incompatibili. Mi sembra impossibile trattare La recherche du temps
perdu come semplice esempio di cosa può essere il racconto in generale, o il
racconto nel romanzo, o il racconto in forma autobiografica, o Dio sa che altra
classe, specie o varietà: la specificità della narrazione proustiana presa nel suo
insieme è irriducibile, e qualsiasi estrapolazione diventa in questo caso un errore
metodologico: la Recherche illustra solo e soltanto se stessa. D'altro lato però tale
specificità non è indecomponibile, e ognuno degli aspetti messi in rilievo dall'analisi si
presta a qualche accostamento, paragone o effetto di prospettiva. Come qualsiasi
opera, come qualsiasi organismo, la Recherche è costituita da elementi universali, o
almeno transindividuali, che riunisce in una sintesi specifica, in una totalità
singolare. Analizzarla, non significa andare dal generale al particolare, bensì dal
particolare al generale: da quell'essere incomparabile che è la Recherche agli elementi
estremamente comuni, quali figure o procedimenti di utilità pubblica e di
circolazione corrente da me chiamati anacronie, iterativo, focalizzazioni, parallessi,
e simili. Propongo in questo caso, essenzialmente, un metodo d'analisi: devo quindi
riconoscere che cercando lo specifico trovo l'universale, che volendo mettere la
teoria al servizio della critica metto, mio malgrado, la critica al servizio della teoria.
È il paradosso tipico di qualsiasi poetica, e indubbiamente anche di qualsiasi
attività conoscitiva, sempre combattuta fra questi due insormontabili luoghi
comuni, cioè che esistono solo oggetti singolari, ma che la sola scienza possibile è
quella del generale; tuttavia sempre riconfortata, e come calamitata, da un'altra
verità un po' meno diffusa, che il generale sta nel cuore del singolare, e quindi -
contrariamente al pregiudizio comune — il conoscibile sta nel cuore del mistero.
Ma garantire una vertigine, o meglio uno strabismo metodologico, come
scientificità, non è forse senza impostura. Perorerò dunque in altro modo la stessa
causa: forse, la relazione vera fra l'aridità «teorica» e la minuzia critica ha qui la
funzione di alternanza ricreativa e di reciproca distrazione. Che il lettore vi possa
trovare, a sua volta, una specie di diversione periodica, come il malato d'insonnia
nel cambiare posizione: amant alterna Camenae.

Introduzione
Impieghiamo correntemente la parola racconto117 senza preoccuparci della sua
ambiguità, a volte senza percepirla, e alcune difficoltà della narratologia derivano
forse da una simile confusione. Se vogliamo cominciare a vederci più chiaro in
questo campo, mi sembra sia necessario discernere recisamente sotto il termine
racconto tre distinte nozioni.
Il primo senso di racconto — oggi il più evidente e il più centrale nell'uso comune
— designa l'enunciato narrativo, il discorso orale o scritto che assume la relazione
d'un avvenimento, o di una serie d'avvenimenti: così il discorso tenuto dall'eroe
Ulisse di fronte ai Feaci dal IX al XII canto dell'Odissea viene chiamato racconto
d'Ulisse, e analogamente i quattro canti stessi, cioè il segmento del testo omerico
che pretende di esserne la fedele trascrizione.
Il secondo senso di racconto, meno diffuso ma oggi corrente fra analisti e teorici
del contenuto narrativo, designa la successione di avvenimenti, reali o fittizi, che
formano l'oggetto di questo discorso, e le loro varie relazioni di concatenamento,
opposizione e ripetizione, ecc. ecc. «Analisi del racconto» significa allora studio
d'un insieme d'azioni e situazioni considerate in sé, fatta astrazione dal medium,
linguistico o no, che ce ne dà cognizione: in questo caso, le avventure vissute da
Ulisse dopo la caduta di Troia fino al suo arrivo presso Calipso. Il terzo senso di
racconto, apparentemente il più antico, designa ancora una volta un avvenimento:
non più però l'avvenimento narrato, bensì quello consistente nel fatto che
qualcuno racconta qualcosa: l'atto di narrare in sé stesso. Diremo così che i canti
dal IX al XII dell'Odissea sono consacrati al racconto di Ulisse, come diciamo che il
canto XXII è consacrato al massacro dei pretendenti: raccontare le proprie
avventure è un'azione, esattamente come massacrare i pretendenti della propria
moglie, e se pure è ovvio che l'esistenza di tali avventure (supponendo che le si
consideri, come Ulisse, reali) non dipende in nulla da questa azione, è parimenti
evidente, quanto al discorso narrativo, (racconto d'Ulisse, senso numero i ) che
esso ne dipende in tutto e per tutto, poiché ne è il prodotto, esattamente come
qualunque enunciato è il prodotto d'un atto d'enunciazione. Se invece
consideriamo Ulisse un bugiardo, e fittizie le avventure da lui narrate, l'importanza
dell'atto narrativo ne risulta accresciuta, poiché non soltanto da esso dipende
l'esistenza del discorso, ma anche la finzione d'esistenza delle azioni che esso
«riferisce». In modo analogo, evidentemente, si potrà parlare dell'atto narrativo di
Omero in persona, ogni volta che egli assume direttamente la relazione delle
avventure di Ulisse. Senza atto narrativo, quindi, non è possibile nessun enunciato,
e a volte persino nessun contenuto narrativo. È perciò sorprendente che la teoria
del racconto, finora, si sia scarsamente preoccupata dei problemi dell'enunciazione
narrativa, concentrando quasi tutta la sua attenzione sull'enunciato e sul suo
contenuto, come se il fatto che le avventure di Ulisse venissero narrate ora da
Omero, ora da Ulisse in persona, fosse un problema del tutto secondario.
Sappiamo tuttavia, e torneremo in seguito sull'argomento, che Platone, un tempo,
non aveva trovato il problema indegno della sua attenzione. Esattamente, o quasi,
come indicato dal titolo, il nostro studio verte essenzialmente sul racconto nel
senso più corrente, cioè sul discorso narrativo, che in letteratura (e in particolare
nel caso che ci interessa) si trova ad essere un testo narrativo. Ma, come vedremo,
l'analisi del discorso narrativo, dal mio punto di vista, implica costantemente, da un
lato, lo studio delle relazioni fra questo discorso e gli avvenimenti che esso riferisce
(senso 2 di racconto), d'altro lato quello delle relazioni fra il medesimo discorso e
l'atto che lo produce, nella realtà (Omero) o nella finzio ne (Ulisse): senso 3 del
racconto. Per evitare quindi qualunque confusione o difficoltà di linguaggio,
dobbiamo designare fin d'ora con termini univoci ognuno dei tre aspetti della
realtà narrativa. Propongo (senza insistere sulle ragioni, per altro evidenti, della
scelta di tali termini) di chiamare storia il significato o contenuto narrativo (anche se
tale contenuto può risultare all'occorrenza di debole intensità drammatica o tenore
evenemenziale), racconto propriamente detto il significante, enunciato, discorso o
testo narrativo stesso, e narrazione l'atto narrativo produttore e, per estensione,
l'insieme della situazione reale o fittizia in cui esso si colloca 118.
Oggetto di questo studio è dunque il racconto, nel senso ben delimitato da noi
ormai attribuito al termine. Ritengo evidente il fatto che, fra i tre livelli appena
distinti, quello relativo al discorso narrativo sia l'unico a offrirsi direttamente
all'analisi testuale, la quale a sua volta costituisce l'unico strumento di studio di cui
disponiamo nel campo del racconto letterario, e in particolare del racconto di
finzione. Volendo studiare in sé, poniamo, gli avvenimenti raccontati da Michelet
nella sua Histoire de France, potremmo fare ricorso a ogni tipo di documento esterno
all'opera e concernente la storia di Francia; volendo poi studiare la redazione in sé
dell'opera, potremmo utilizzare altri documenti, altrettanto esterni al testo di
Michelet, concernenti la sua vita e il suo lavoro durante gli anni che egli ha
consacrato al testo suddetto. Non è però una risorsa fruibile da parte di chi
s'interessi, da un lato, agli avvenimenti narrati dal racconto che costituisce La
recherche du temps perdu, e, d'altro lato, all'atto narrativo da cui essa deriva: nessun
documento esterno alla Recherche, e in particolare non certo una buona biografia di
Marcel Proust, se mai ne esistesse una119, potrebbe informarlo su tali avvenimenti o
su questo atto, dal momento che gli uni e gli altri sono entrambi fittizi e mettono in
scena non certo Marcel Proust, bensì il protagonista e il supposto narratore del suo
romanzo. Non posso certo negare, con ciò, che il contenuto narrativo della
Recherche per me non sia affatto senza rapporto con la vita del suo autore:
semplicemente, un simile rapporto non è di natura tale da poter utilizzare la
seconda per un'analisi rigorosa del primo (non più del contrario). In quanto poi
alla narrazione produttrice di questo racconto, l'atto di Marcel 120 che racconta la
sua vita passata, d'ora in poi si eviterà di confonderlo con l'atto di Proust che scrive
La recherche du temps perdu; torneremo in seguito sull'argomento, per ora basti
ricordare come le cinquecento ventuno pagine di Du coté de chez Swann
(nell'edizione Grasset) pubblicate nel novembre 1913 e redatte da Proust nel corso
di alcuni anni prima di questa data, nello stato attuale della finzione si devono
supporre scritte dal narratore parecchio tempo dopo la guerra. Quindi è il racconto
stesso, ed esclusivamente il racconto, a informarci - in questo caso — da un lato
sugli avvenimenti che riferisce, d'altro lato sull'attività che, presumibilmente, lo
produce: in altre parole, la nostra conoscenza degli uni e dell'altra può essere
esclusivamente di tipo indiretto, inevitabilmente mediato dal discorso del racconto,
in quanto gli uni sono l'oggetto stesso del discorso, mentre l'altra vi lascia delle
tracce, segnali o indizi reperibili e interpretabili, quali la presenza di un pronome
personale di prima persona denotante l'identità del personaggio e del narratore,
oppure quella di un verbo al passato denotante l'anteriorità dell'azione raccontata
sull'azione narrativa, senza pregiudizio di indicazioni più dirette e più esplicite.
Per noi, quindi, storia e narrazione esistono solo per l'intermediario del racconto.
Ma, viceversa, il racconto, il discorso narrativo può essere tale solo in quanto narra
una storia: in mancanza di ciò (come, poniamo, l'Etica di Spinoza) non sarebbe
narrativo; e in quanto è proferito da qualcuno: in mancanza di ciò (per esempio nel
caso di una collezione di documenti archeologici) esso non sarebbe, in sé, un
discorso. In quanto narrativo, esso vive del suo rapporto con la storia raccontata;
in quanto discorso, vive del suo rapporto con la narrazione che lo proferisce.
Per noi l'analisi del discorso narrativo sarà quindi, essenzialmente, lo studio delle
relazioni fra racconto e storia, fra racconto e narrazione, fra storia e narrazione (in
quanto entrambe si iscrivono nel discorso del racconto). Posizione che mi porta a
proporre un'ulteriore ripartizione del campo di studio. Come punto di partenza,
prenderò la suddivisione proposta nel 1966 da Tzvetan Todorov 121. Essa
classificava i problemi del racconto in tre categorie: quella del tempo, « in cui si
esprime il rapporto fra il tempo della storia e quello del discorso»; quella
dell'aspetto, «cioè il modo in cui la storia viene percepita dal narratore»; quella del
modo, cioè «il tipo di discorso utilizzato dal narratore». Adotto senza cambiamenti
la prima categoria, nella definizione appena citata, e illustrata da Todorov con
osservazioni sulle «deformazioni temporali», cioè le infedeltà all'ordine cronologico
degli avvenimenti, e sulle relazioni di concatenazione, alternanza o «incastro» fra le
diverse linee d'azione costitutive della storia; ma egli vi aggiungeva considerazioni
sul «tempo dell'enunciazione» e su quello della «percezione» narrative (da lui
assimilati ai tempi della scrittura e della lettura) che, a mio parere, superavano i limiti
della sua stessa definizione, e li riserverò a un altro ordine di problemi,
evidentemente connessi ai rapporti fra racconto e narrazione. La categoria
dell'aspetto122 concerneva principalmente i problemi del « punto di vista» narrativo,
e quella del modo123 riuniva i problemi di «distanza» trattati dalla critica americana
di tradizione jamesiana in termini di opposizione fra showing (rappresentazione,
nella terminologia di Todorov) e telling (narrazione), riaffioramento delle categorie
platoniche di mimesis (imitazione perfetta) e diegesis (racconto puro), i vari tipi di
rappresentazione di discorso del personaggio, i modi di presenza esplicita o
implicita del narratore e del lettore nel racconto. Come poco sopra, a proposito del
«tempo dell'enunciazione», credo necessario dissociare quest'ultima serie di
problemi, poiché mette in discussione l'atto di narrazione e i suoi protagonisti;
bisogna invece riunire tutto quanto resta fuori dalla ripartizione operata da
Todorov fra aspetto e modo in un'unica grande categoria, che possiamo definire
provvisoriamente quella delle modalità di rappresentazione o gradi di mimesi. La
ridistribuzione perviene quindi a una divisione sensibilmente diversa rispetto a
quella cui si ispira; la formulerò ora in sé, ricorrendo per la scelta dei termini a una
specie di metafora linguistica che si spera non si vorrà prendere troppo alla lettera.
Dato che qualsiasi racconto - anche uno tanto esteso e complesso come La
recherche du temps perdu124 — è una produzione linguistica che assume la relazione di
uno o più avvenimenti, riesce forse legittimo trattarlo come uno sviluppo
(mostruoso finché si vuole) dato a una forma verbale, nel senso grammaticale del
termine: l'espansione di un verbo. Io cammino, Pietro è venuto, a mio parere sono
forme minimali di racconto, e inversamente l'Odissea o la Recherche si limitano in
fondo ad amplificare (in senso retorico) enunciati quali Ulisse torna a Itaca oppure
Marcel diventa scrittore. Tale argomento ci autorizza forse a organizzare, o almeno a
formulare, i problemi d'analisi del discorso narrativo secondo categorie derivate
dalla grammatica del verbo, destinate a ridursi - nel nostro caso - a tre classi
fondamentali di determinazioni: quelle dipendenti dalle relazioni temporali fra
racconto e diegesi, da noi classificate nella categoria del tempo; quelle dipendenti
dalle modalità (forme e gradi) della «rappresentazione» narrativa, e quindi ai modi125
del racconto; e per finire quelle dipendenti dal modo in cui la narrazione stessa
(presa nel senso datole dalla nostra definizione) si trova implicata nel racconto, e
viene dunque a coincidere con la situazione o istanza 126 narrativa, e con essa i suoi
due protagonisti: il narratore e il suo destinatario reale o virtuale; si potrebbe avere
la tentazione di classificare questa terza determinazione come la «persona», ma mi
sembra preferibile - per ragioni destinate a chiarirsi un po' oltre - adottare il
termine dalle connotazioni psicologiche un po' (pochissimo, ahimè! ) meno
evidenti, a cui daremo un'estensione concettuale sensibilmente più vasta, rispetto a
cui la «persona» (facendo riferimento alla tradizionale opposizione fra racconto «in
prima persona» e «racconto in terza persona») costituisce solo un aspetto fra vari
altri: il termine è quello di voce, definita, ad esempio, da Vendryès, nel suo senso
grammaticale, nel seguente modo 127: «Aspetto dell'azione verbale nei suoi rapporti
col soggetto...» Ovviamente il soggetto di cui si tratta nel nostro caso è quello
dell'enunciato, mentre per quanto riguarda la voce designerà un rapporto col
soggetto (e, più generalmente, con l'istanza) dell'enunciazione: ancora una volta, si
tratta di termini presi a prestito, senza la pretesa di basarli su rigorose omologie 128.
Le tre classi proposte, come possiamo vedere, designano campi di studio e
determinano la disposizione dei capitoli seguenti 129, ma non coincidono affatto con
le categorie definite prima, designanti dei livelli di definizione del racconto. Al
contrario, le suddividono ulteriormente, in maniera complessa. Il tempo e il modo
intervengono entrambi a livello dei rapporti fra storia e racconto, mentre la voce
designa sia i rapporti fra narrazione e racconto, sia quelli fra narrazione e storia. Si deve
però evitare di fare un'ipostasi di questi termini, e di convertire in sostanza quanto,
di volta in volta, è solo un ordine di relazioni.

1. Ordine
Tempo del racconto?
«Il racconto è una sequenza doppiamente temporale...: vi è il tempo della cosa
raccontata e il tempo del racconto (tempo del significato e tempo del significante).
Dualità che non solo rende possibili tutte le distorsioni temporali più facilmente
rilevabili nei racconti (tre anni della vita del protagonista riassunti da un romanzo
in tre frasi, o in alcuni piani di un montaggio cinematografico "frequentativo",
ecc.); ma, in modo più fondamentale, essa ci invita anche a constatare che una delle
funzioni del racconto è di far fruttare un tempo in un altro tempo» 130.
La dualità temporale così intensamente accentuata in questo brano, e designata
dai teorici tedeschi mediante l'opposizione fra erzählte Zeit (tempo della storia) e
Erzählzeit131 (tempo del racconto), non è solo tipica del racconto cinematografico,
ma anche del racconto orale a tutti i suoi livelli d'elaborazione estetica, compreso
quel livello pienamente «letterario» costituito dalla recitazione epica o dalla
narrazione drammatica (racconto di Teramene...) È invece forse meno pertinente
in altre forme di espressione narrativa, come il fotoromanzo o i fumetti (o la
pittura, come la predella d'Urbino, o i ricami, come la tapisserie della regina Matilde)
che, pur costituendo delle sequenze d'immagini, ed esigendo quindi una lettura
successiva e diacronica, si prestano anche (anzi, invitano) a una specie di sguardo
globale sincronico - o, almeno, uno sguardo il cui percorso non sia più
obbligatoriamente guidato dalla successione delle immagini. Il racconto letterario
scritto, sotto questo aspetto, appartiene a uno statuto ancora più difficile da
limitare. Esattamente come il racconto orale o filmico, può essere «consumato» e
dunque attualizzato solo in un tempo costituito, evidentemente, dalla lettura, e se
anche la successione dei suoi elementi si può eludere mediante una lettura
capricciosa, ripetitiva o selettiva, tale operazione non si può neppure spingere fino
alla perfetta analessi. Si può proiettare un film a rovescio, immagine per immagine,
non si può leggere un testo (senza che esso smetta di essere tale) a rovescio, lettera
per lettera, e neppure parola per parola; perfino non sempre frase per frase. Il libro
è un po' più condizionato di quanto non lo si dica spesso oggi dalla famosa linearità
del significante linguistico, più facile da negare in teoria che da eliminare in pratica.
Non si tratta ora di identificare lo statuto del racconto scritto (letterario o no) con
quello del racconto orale: la sua temporalità è, in qualche modo, condizionale o
strumentale; prodotto, come qualsiasi cosa, nel tempo, esiste nello spazio, e il
tempo necessario per «consumarlo» è quello necessario a percorrerlo o ad attraversarlo,
come una strada o un campo. Il testo narrativo, come ogni altro testo, ha come
unica temporalità quella derivata, metonimicamente, dalla sua lettura.
Un simile stato di cose (lo vedremo in seguito) non è sempre senza effetto sul
nostro discorso, e a volte sarà necessario correggere (o tentare di correggere) le
conseguenze dello spostamento metonimico; ma in un primo tempo dobbiamo
accettarlo, poiché fa parte del gioco narrativo, e quindi prendere alla lettera la quasi
finzione dell'Erzählzeit, falso tempo che vale come uno vero, da noi trattato — col
margine di riserva e acquiescenza che tale operazione comporta - come uno pseudo-
tempo.
Una volta presa questa precauzione, studieremo le relazioni fra tempo della storia
e (pseudo) tempo del racconto secondo le loro tre determinazioni, a mio parere,
fondamentali: i rapporti fra l'ordine temporale di successione degli avvenimenti nella
diegesi e l'ordine pseudo-temporale della loro disposizione nel racconto, che
costituiranno l'oggetto di questo primo capitolo; i rapporti fra la durata variabile di
tali avvenimenti, o segmenti di radici, e la pseudo-durata (in realtà, lunghezza del
testo) della loro relazione nel racconto: rapporti, dunque, di velocità che
costituiranno l'oggetto del secondo capitolo; inline, rapporti di frequenza, cioè, per
attenerci qui a una formula ancora approssimativa, relazioni fra le capacità di
ripetizione della storia e quelle del racconto: relazioni a cui sarà consacrato il terzo
capitolo.
Anacronie.
Studiare l'ordine temporale di un racconto, significa operare un confronto fra
l'ordine di disposizione degli avvenimenti o segmenti temporali nel discorso
narrativo e l'ordine di successione che gli stessi avvenimenti o segmenti temporali
hanno nella storia, sia seguendo le esplicite indicazioni fornite dallo stesso
racconto, sia per quanto si può inferire da questo o quell'indizio indiretto.
Evidentemente questa ricostituzione non è sempre possibile, e diventa addirittura
oziosa per certe opere-limite come i romanzi di Robbe-Grillet, in cui il riferimento
temporale si trova a bella posta alterato. È altrettanto evidente come, nel racconto
classico, tale ricostituzione sia invece non solo — per la maggior parte dei casi -
possibile (poiché in questo tipo di racconto il discorso narrativo non inverte mai
l'ordine degli eventi senza dirlo), ma persino necessaria, proprio per la medesima
ragione: quando un segmento narrativo inizia con un'indicazione quale: «Tre mesi
prima, ecc. » si deve contemporaneamente tener conto sia del fatto che, nel
racconto, la scena viene dopo, sia del fatto che, nella diegesi, si suppone sia avvenuta
prima. Entrambi i fatti, o per meglio dire il loro reciproco rapporto (di contrasto, o
di discordanza) sono essenziali al testo narrativo: sopprimere il rapporto con
l'eliminare uno dei suoi termini, non significa affatto attenersi al testo, ma
semplicemente assassinarlo. Il reperimento e la misura di tali anacronie narrative
(come chiamerò in questo saggio le varie forme di discordanza fra l'ordine della
storia e quello del racconto) postulano implicitamente l'esistenza di una specie di
grado zero definibile come uno stato di perfetta coincidenza temporale fra
racconto e storia. Stato di riferimento più ipotetico che reale. Se il racconto
popolare sembra conformarsi abitualmente, almeno nelle sue grandi articolazioni,
all'ordine cronologico, la nostra tradizione letteraria (occidentale) si inaugura invece
con un effetto d'anacronia ben determinato, poiché fin dall'ottavo verso dell'Iliade il
narratore, dopo aver evocato la contesa fra Achille e Agamennone, punto di
partenza dichiarato del suo racconto (ἐξ οῦ δὴ τὰ πρῶτα), ritorna indietro di una
decina di giorni per esporne la causa in una quarantina circa di versi retrospettivi
(affronto a Crise - collera d'Apollo - peste). Sappiamo come l'inizio in medias res cui
segue un flash-back esplicativo diventi uno dei topoi formali del genere epico, e
anche fino a che punto lo stile del romanzo sia rimasto fedele, in questo artificio, a
quello del suo lontano antenato 132 arrivando in pieno xix secolo «realista»: per
convincersene, basti pensare a certi inizi balzachiani, come in César Birotteau o in
La duchesse de Langeais.
D'Arthez ne fa un principio ad uso e consumo di Lucien de Rubempré 133, e
Balzac in persona rimprovererà a Stendhal di non aver cominciato la Chartreuse
dall'episodio di Waterloo riducendo « tutto quanto la precede a un qualche
racconto fatto da Fabrice o su Fabrice durante la sua permanenza nel villaggio
fiammingo dove giace ferito»134. Per evitare quindi di cadere nel ridicolo, non
presentiamo l'anacronia come una rarità o un'invenzione moderna; essa costituisce
invece una delle risorse tradizionali della narrazione letteraria.
D'altronde, se consideriamo un po' più da vicino i primi versi dell'Iliade che
abbiamo appena ricordato, possiamo osservare come il loro movimento temporale
sia più complesso di quanto non abbia detto. Ecco i versi:

Canta, o dea, l'ira d'Achille Pelide,

rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei,

gettò in preda all'Ade molte vite gagliarde

d'eroi, ne fece il bottino dei cani,

di tutti gli uccelli - consiglio di Zeus si compiva -

da quando prima si divisero contendendo

l'Atride signore d'eroi e Achille glorioso.

Ma chi fra gli dèi li fece lottare in contesa?

Il figlio di Zeus e di Latona; egli, irato col re,

mala peste fe' nascer nel campo, la gente moriva,

perché Crise l'Atride trattò malamente, il sacerdote... 135

Cosi, il primo oggetto narrativo designato da Omero è l'ira d'Achille; il secondo, i


dolori degli Achei, che ne sono l'effettiva conseguenza; ma il terzo è la contesa fra
Achille e Agamennone, che, essendo la causa immediata, è perciò anteriore; poi,
continuando esplicitamente a risalire da una causa all'altra: la peste, causa della
contesa, e infine l'affronto a Crise, causa della peste. I cinque elementi costitutivi di
questo inizio, che chiamerò A, B, C, D e E secondo l'ordine d'apparizione nel
racconto, occupano rispettivamente, nella storia, le posizioni cronologiche 4, 3, 2 e
1: ne risulta la seguente formula, destinata a sintetizzare alla meno peggio i rapporti
di successione: A4-B5- C3-D2-E1. Ci troviamo abbastanza vicini a un movimento
di retrocessione regolare136.
Occorre adesso entrare più minutamente nell'analisi delle anacronie. Prendo da
Jean Santeuil un esempio abbastanza tipico. La situazione, che si ritroverà in varie
forme nella Recherche, è quella del futuro diventato presente, per niente simile
all'idea che, nel passato, ci si era fatti di esso. Jean, dopo vari anni, ritrova il palazzo
dove abita Marie Kossichef, da lui amata in passato, e confronta le sue impressioni
attuali con quelle che, un tempo, pensava di dover provare in quell'occasione:

A volte, nel passare davanti al palazzo, si ricordava i giorni di pioggia in cui portava la sua governante, in pellegrinaggio,
fino a quel luogo. Ma li ricordava senza la malinconia che, allora, pensava di dover assaporare un giorno nel sentimento di
non amarla più. Perché quella malinconia, a proiettarla così in anticipo sulla sua futura indifferenza era proprio l'amore. E
137
quell'amore non esisteva più.

L'analisi temporale di questo testo consiste dapprima nell'enumerare i segmenti


secondo i cambiamenti di posizione nel tempo della storia. Vi si possono reperire,
sommariamente, nove segmenti ripartiti su due posizioni temporali che
designeremo con 2 (adesso) e 1 (una volta), facendo astrazione qui dal loro carattere
iterativo («a volte»): segmento A su posizione 2 («A volte, nel passare davanti al
palazzo si ricordava»), B su posizione 1 («i giorni di pioggia in cui portava la sua
governante, in pellegrinaggio, fino a quel luogo»), C su posizione 2 (« Ma li
ricordava senza»), D su 1 («la malinconia che, allora, pensava»), E su 2 («di dover
assaporare un giorno nel sentimento di non amarla più»), F su 1 (« Perché quella
malinconia, a proiettarla così in anticipo»), G su 2 («sulla sua futura indifferenza»),
H su 1 («era proprio l'amore»), I su 2 («E quell'amore non esisteva più»). In questo
caso la formula delle posizioni temporali è dunque la seguente:
A2-B1-C2-D1-E2-F1-G2-H1-I2
cioè un perfetto zigzag.
Osserviamo incidentalmente che la difficoltà del testo deriva dal modo,
apparentemente sistematico, con cui Proust elimina qui tutti i punti di riferimento
temporali anche più elementari (una volta, adesso), a cui il lettore deve supplire
mentalmente per raccapezzarsi. Ma la semplice evidenziazione delle posizioni non
esaurisce l'analisi temporale, anche ridotta ai problemi di disposizione, e non
permette di determinare lo statuto delle anacronie: dobbiamo ancora definire le
relazioni che uniscono fra loro i segmenti.
Se consideriamo il segmento A come punto di partenza narrativo (e quindi in
posizione autonoma), il segmento B si definisce evidentemente come retrospettivo:
retrospe- zione qualificabile come soggettiva, in quanto assunta dal personaggio
stesso, il cui racconto si limita a riferirci i pensieri presenti («si ricordava...»); B è
dunque temporalmente subordinato ad A: si definisce come retrospettivo in
rapporto ad A. C procede da un semplice ritorno alla posizione iniziale, senza
subordinazione. D compie una - nuova retrospezione, ma, questa volta, assunta
direttamente dal racconto: apparentemente, è il narratore a menzionare l'assenza di
malinconia, anche se essa è osservata dal protagonista. Con E siamo riportati al
presente, ma in modo completamente diverso da C, dato che questa volta il
presente è considerato a partire dal passato, e «dal punto di vista» di questo
passato: non si tratta di un semplice ritorno al presente, ma di un 'anticipazione
(evidentemente soggettiva) del presente nel passato; E è quindi subordinato a D
come D lo è a C, mentre C è autonomo come A. F ci riporta alla posizione 1
passando sopra all'anticipazione E: semplice ritorno, ancora una volta, ma ritorno
a 1, cioè a una posizione subordinata. G è di nuovo un'anticipazione, ma oggettiva,
poiché il Jean di un tempo non prevedeva con esattezza la fine futura del suo
amore come indifferenza, ma come malinconia di non amare più. H, come F, è un
semplice ritorno a 1.1, infine, è (come C) semplice ritorno a 2, cioè al punto di
partenza.Il breve frammento offre in piccolo un campionario estremamente vario
delle diverse relazioni temporali possibili: retrospezioni soggettive e oggettive,
semplici ritorni a ognuna delle due posizioni. Dato che la distinzione fra anacronie
soggettive e oggettive non è d'ordine temporale, ma rientra in altre categorie che
ritroveremo nel capitolo del modo, ci limiteremo, per ora, a neutralizzarla; d'altra
parte, per evitare le connotazioni psicologiche legate all'uso di termini quali
«anticipazione» o «retrospezione», che evocano spontaneamente dei fenomeni
soggettivi, nel; la maggior parte dei casi le elimineremo a favore di due termini più
neutri: designando con prolessi qualsiasi manovra narrativa che consista nel
raccontare o evocare in anticipo un evento ulteriore, e con analessi qualsiasi
evocazione, a fatti compiuti, d'un evento anteriore al punto della storia in cui ci si
trova, e riservando il termine generale anacronia a tutte le forme di discordanza fra i
due ordini temporali non completamente riducibili, come vedremo, all'analessi e alla
prolessi.138
L'analisi dei rapporti sintattici fra i segmenti (subordinazione e coordinazione) ci
permette ora di sostituire alla nostra prima formula, che si limitava a mettere in
luce le posizioni, una seconda, che mette in risalto relazioni e incastri:
A2 [B1] C2 [D1 (E2) F1 (G2) H1] I2
Si vede ora chiaramente la differenza di statuto fra i segmenti A, C e I da una
parte, E e G dall'altra, che occupano tutti la stessa posizione temporale, ma non
allo stesso livello gerarchico. Si vede altrettanto chiaramente che i rapporti dinamici
(analessi e prolessi) si situano alle aperture di parentesi quadre o tonde, mentre le
chiusure corrispondono a semplici ritorni. Infine, si osserva che il segmento
considerato è perfettamente chiuso, dato che le posizioni di partenza sono
scrupolosamente reintegrate a ogni livello: vedremo che non sempre è così.
Ovviamente, le relazioni numeriche permettono di distinguere le analessi e le
prolessi, ma si può rendere ancora più esplicitamente la formula, ad esempio così:
Il frammento presenta il vantaggio (didattico) evidente di una struttura temporale
ridotta a due posizioni: si tratta di una situazione abbastanza rara, e prima di
lasciare il livello micronarrativo, trarremo da Sodome et Gomorrhe un testo molto più
complesso (anche se, come faremo noi, lo si riduce alle sue posizioni temporali più
vistose, trascurando alcune sfumature) che illustra bene l'ubiquità temporale
caratteristica del racconto proustiano. 139 Ci troviamo alla soirée dal principe di
Guermantes, Swann ha appena raccontato a Marcel la conversione del principe al
dreyfu- sismo, conversione in cui, con ingenua parzialità, vede una prova
d'intelligenza. Ecco come prosegue il discorso di Marcel (segno con una lettera
maiuscola l'inizio di ogni segmento distinto):
(A) Swann giudicava adesso indistintamente intelligenti quelli che erano della sua opinione, il suo vecchio amico il principe
di Guermantes e il mio compagno Bloch, (B) che fin allora egli aveva evitato (C) e che invece invitò a pranzo. (D) Swann
interessò molto a Bloch col raccontargli che il principe di Guermantes era dreyfusista. - Bisognerà chiedergli di firmare le
nostre liste per Picquart; un nome come il suo farà un effetto formidabile -. Ma Swann, nel quale la fede ardente
dell'israelita s'univa alla moderazione diplomatica dell'uomo di società, (E) di cui aveva troppo preso le abitudini (F) da
potersene liberare così tardivamente, rifiutò di autorizzare Bloch a inviare al principe, se pure come per iniziativa propria,
una circolare da firmare. - Non può farlo. Non bisogna chiedergli l'impossibile, - ripeteva Swann. - È un uomo
straordinario, che ha percorso migliaia di chilometri per giungere fino a noi. Ci può essere molto utile. Se firmasse la
vostra lista, non farebbe che compromettersi davanti a tutti i suoi, e avrebbe dei guai per causa nostra, forse si pentirebbe
delle sue confidenze e non vorrebbe più farne -. E c'è di più: Swann rifiutò anche la propria firma. Gli sembrava troppo
ebraica perché non facesse un'impressione cattiva. E poi, se approvava tutto quanto concerneva la revisione, non voleva
per nulla trovarsi immischiato alla campagna antimilitaristica. Portava, (G) cosa che non aveva mai fatta prima d'allora, la
decorazione (H) guadagnata come giovine soldato della milizia mobile, nel 1870, (I) e aggiunse al suo testamento un
codicillo per chiedere che, (J) contrariamente alle precedenti disposizioni, (K) fossero resi gli onori militari al suo grado di
cavaliere della Legion d'Onore. Il che raccolse attorno alla chiesa di Combray tutto uno squadrone di (L) quei cavalleggeri
sul cui avvenire Françoise un tempo piangeva, intravedendo (M) la possibilità d'una guerra. (N) In breve, Swann rifiutò di
firmare la circolare di Bloch, dimodoché, se agli occhi di molti passava per un dreyfusista arrabbiato, il mio compagno lo
giudicò tiepido, infetto di nazionalismo e «cocardier». (O) Swann mi lasciò senza stringermi la mano, per non esser
costretto a troppi saluti, ecc.

In questo caso abbiamo dunque distinto (ancora una volta in maniera


estremamente rozza e a titolo puramente dimostrativo) quindici segmenti narrativi,
ripartiti su nove posizioni temporali. In ordine cronologico, le posizioni sono le
seguenti: i ) la guerra del '70; 2) l'infanzia di Marcel a Combray; 3) prima della
soirée Guermantes; 4) la soirée Guermantes, situabile nel 1898; 5) l'invito di Bloch
(necessariamente posteriore alla soirée, da cui Bloch è assente); 6) il pranzo Swann-
Bloch; 7) la redazione del codicillo; 8) le esequie di Swann; 9) la guerra di cui
Françoise «intravvede la possibilità», che a rigor di termini non occupa posizioni
definite, dato che è puramente ipotetica, ma che, per semplificare le cose e situarla
nel tempo, si può identificare con la guerra 1914-18. La formula delle posizioni
sarà quindi la seguente:
A4-B3-C5-D6-E3-F6-G3-H1-I7-J3-K8-L2-M9-N6-O4
Se paragoniamo la struttura temporale di questo frammento a quella del
precedente, osserviamo, oltre al maggior numero di posizioni, una connessione
gerarchica molto più complessa, poiché, ad esempio, M dipende dalla grande
prolessi D-N. D'altra parte certe anacronie, come B e C, si giustappongono senza
esplicito ritorno alla posizione di base: si trovano quindi allo stesso livello di
subordinazione, e semplicemente coordinate fra loro. Infine, il passaggio da C5 a
D6 non costituisce una vera prolessi, dato che non si tornerà mai alla posizione 5 :
essa costituisce perciò una semplice ellissi del tempo trascorso fra 5 (l'invito) e 6 (il
pranzo); l'ellissi, o salto in avanti senza ritorno, non è, evidentemente,
un'anacronia, ma semplicemente un'accelerazione del racconto che studieremo nel
capitolo della durata: concerne si il tempo, ma non sotto l'aspetto dell'ordine, l'unico
a interessarci qui; non sottolineeremo quindi il passaggio da C a D con una
parentesi quadra, ma semplicemente con un trattino, che indicherà in questo caso
una pura successione. Ecco quindi la formula completa:
A4 [B3][Q5-D6 (E3) F6 (G3) (H1) (I7 < J3 >< K8 (L2 < M9 >) >) N6] O4
Ora lasceremo da parte il livello micronarrativo per considerare la struttura
temporale della Recherche presa nelle sue grandi articolazioni. È ovvio che un'analisi
a questo livello non può tener conto dei particolari che sono attinenti a un'altra
scala: prende quindi le mosse da una semplificazione fra le più rozze: passiamo qui
dalla microstruttura alla macrostruttura.
Il primo segmento temporale della Recherche, a cui sono consacrate le prime sei
pagine del libro, evoca un momento la cui precisa datazione è impossibile, situabile
però nella vita del protagonista140 abbastanza tardi, all'epoca in cui, coricandosi
presto e soffrendo d'insonnia, trascorreva gran parte delle sue notti a riportarsi alla
memoria il suo passato. Questo primo tempo, in ordine narrativo, è quindi ben
lontano dall'essere il primo tempo in ordine diegetico. Con un anticipo sul seguito
dell'analisi, diamogli fin d'ora la posizione 5 nella storia. Dunque: A5.
Il secondo segmento (pp. 9-43) è il racconto fatto dal narratore, ispirato
chiaramente dai ricordi del protagonista sofferente d'insonnia (che riveste qui la
parte chiamata da Marcel Muller141 soggetto intermediario), di un episodio
estremamente circoscritto ma molto importante della sua infanzia a Combray: la
famosa scena da lui definita come «il dramma del (suo) coricarsi», durante la quale
sua madre, a cui la visita di Swann aveva impedito di accordargliil rituale bacio
serale, finirà - «prima abdicazione» decisiva - per cedere alle sue insistenze e passare
la notte vicino a lui: B2.
Il terzo segmento (pp. 43-44) ci riporta brevissimamente alla posizione quella
delle insonnie: C5. Il quarto si situa presumibilmente all'interno di questo periodo,
poiché determina una modificazione nel contenuto delle insonnie 142: è l'episodio
della «maddalena» (pp. 44-48) durante il quale il protagonista si vede restituire tutta
una parte della sua infanzia («Di Combray, tutto ciò che non era il teatro e il
dramma del coricarmi») fino a quel momento rimasto sepolto (e conservato) in un
apparente oblio: D5'. Fa seguito poi un quinto segmento, secondo ritorno a
Combray, però molto più vasto del primo nella sua ampiezza temporale, poiché
questa volta ricopre (non senza ellissi) la totalità dell'infanzia a Combray. Combray
II (pp. 48-186) per noi sarà dunque E2', contemporaneo a B2, ma tale da superarlo
largamente, come C5 supera e include D5'.
Il sesto segmento (pp. 186-87) fa ritorno alla posizione ^ (insonnie): F5, dunque,
che funge da trampolino per una nuova analessi memoriale, la cui posizione è la
più arretrata di tutte nel tempo, in quanto anteriore alla nascita del protagonista:
Un amour de Swann (pp. 188-382), settimo segmento: G1.
Ottavo segmento, ritorno brevissimo (p. 383) alla posizione delle insonnie, quindi
H5, che apre una nuova analessi, fallita questa volta, ma la cui funzione di
preannuncio o di preparazione è evidente per il lettore attento: l'evocazione, in una
mezza pagina (sempre p. 383), della camera di Marcel a Balbec: nono segmento I4,
a cui si coordina immediatamente, questa volta senza ritorno percepibile alla sosta
obbligata delle insonnie, il racconto (anch'esso retrospettivo nei confronti del
punto di partenza) delle fantasticherie di viaggio fatte dall'eroe a Parigi, molti anni
prima del suo soggiorno a Balbec; il decimo segmento sarà dunque J3 :
adolescenza parigina, amori con Gilberte, frequentazione assidua della casa della
signora Swann, e poi, dopo un'ellissi, primo soggiorno a Balbec, ritorno a Parigi,
ingresso nell'ambiente dei Guermantes, ecc.: il movimento è ormai avviato, e, nelle
sue grandi articolazioni, il racconto diventa quasi regolare e conforme all'ordine
cronologico, a tal punto che, al livello di analisi a cui siamo ora, possiamo
considerare il segmento J3 estensibile a tutto il seguito (e alla fine) della Recherche.
La formula di questo inizio è perciò, secondo i simboli che abbiamo
precedentemente convenuto:
A5 [B2] C5 [D5'(E2')] F5 [G1] H5 [I4] [J3...
La recherche du temps perdu s'inaugura in tal modo con un vasto movimento
oscillatorio avanti e indietro a partire da una posizione-chiave, strategicamente
dominante; tale posizione è, evidentemente, la 5 (insonnie) con la sua variante 5'
(«maddalena»), posizioni del «soggetto intermediario», sia esso insonne o
miracolato dalla memoria involontaria, i cui ricordi dominano la totalità del
racconto, il che fornisce al punto 5-5' la funzione di una specie di tappa obbligata,
o — se non è troppo azzardato — di dispatching narrativo: per passare da Combray I
a Combray II, da Combray II a Un amour de Swann, da Un amour de Swann a Balbec,
bisogna tornare incessantemente a questa posizione, centrale benché eccentrica
(perché ulteriore), la cui oppressione si alleggerisce solo al passaggio da Balbec a
Parigi, benché quest'ultimo segmento (J3) sia a sua volta (in quanto coordinato al
precedente) subordinato all'attività memoriale del soggetto intermediario, e quindi
anch'esso analettico. La differenza - senz'altro capitale - fra questa analessi e tutte
le precedenti, sta nel fatto che essa rimane aperta, e la sua ampiezza si confonde
quasi completamente con la Recherche totale: ciò significa, fra l'altro, che essa
raggiungerà e supererà, senza dirlo e come senza avvedersene, il suo punto di
emissione memoriale, apparentemente inghiottito in una delle sue ellissi.
Torneremo in seguito su questa particolarità. Per ora ci limitiamo a sottolineare il
movimento a zigzag, questa balbuzie iniziale, e come iniziatica, o propiziatoria: 5-2-
5- 5'-2'-5-1-5-4-3..., a sua volta contenuta, come tutto il resto, nella cellula
embrionale delle prime sei pagine, che ci fanno vagare da una stanza all'altra e da
un'epoca all'altra, da Parigi a Combray, da Doncières a Balbec, da Venezia a
Tansonville. Non si tratta di marcia sul posto d'altronde, malgrado i suoi incessanti
ritorni, poiché per mezzo suo al Combray I puntuale fa seguito un Combray II più
vasto, un Amour de Swann più remoto ma dal movimento già irreversibile, un Nom
de pays: le Nom, infine, a partire dal quale il racconto prende definitivamente un
andamento sicuro e trova il suo funzionamento.
Simili inizi di complessa struttura, quasi mimassero l'inevitabile difficoltà dell'inizio
per esorcizzarla meglio, si ritrovano a quanto pare nella tradizione narrativa più
antica e più costante: abbiamo già osservato la partenza a ritroso dell'Iliade e
occorre ricordare a questo punto che durante tutta l'epoca classica alla
convenzione dell'esordio in medias res si è aggiunta o sovrapposta quella degli
incastri narrativi (X narra che Y narra che...) ancora funzionante in Jean Santeuil
(ritorneremo sull'argomento in seguito) e che lascia al narratore il tempo d'inserire
la sua voce. La caratteristica dell'esordio della Recherche è costituita, evidentemente,
dalla moltiplicazione delle istanze memoriali, e di conseguenza dalla moltiplicazione
degli inizi ognuno dei quali (tranne l'ultimo) può apparire come un prologo
introduttivo ad azione già avvenuta. Primo inizio (inizio in senso assoluto): «Per
molto tempo, mi son coricato presto la sera...» Secondo inizio (apparente inizio
dell'autobiografia) sei pagine dopo: «A Combray, tutti i giorni, sul termine del
pomeriggio...» Terzo inizio (entra in scena la memoria involontaria): « così per
molto tempo, quando, stando sveglio di notte, ripensavo a Combray...» Quarto
inizio (ripresa dopo la «maddalena», vero inizio dell'autobiografia), cinque pagine
dopo: «Combray, di lontano, a dieci miglia all'intorno...» Quinto inizio,
centoquaranta pagine dopo: ab ovo, amore di Swann (racconto esemplare se mai ce ne
furono, archetipo di tutti gli amori proustiani), nascite congiunte (e occultate) di
Marcel e Gilberte («Confesseremo, direbbe adesso Stendhal, che, seguendo
l'esempio di molti ponderosi autori, abbiamo iniziato la storia del nostro eroe un
anno prima della sua nascita» - ma Swann 143 non sta forse a Marcel, mutatis mutan-
dis e, spero, senza fraintendimenti, come il luogotenente Robert sta a Fabrice del
Dongo?) Quinto inizio, dunque: « Per far parte della "piccola tribù", del "piccolo
gruppo", del "piccolo clan" dei Verdurin...» Sesto inizio, centono- vantacinque
pagine dopo: «Fra le camere di cui più spesso rievocavo l'immagine nelle mie notti
insonni...», immediatamente seguito da un settimo e quindi, com'è doveroso,
ultimo inizio: «Ma niente era più dissimile anche da quel Balbec reale di quello che
avevo spesso sognato...» Questa volta, il movimento è lanciato: non si fermerà più.

Portata, ampiezza.
Ho detto che il seguito della Recherche adottava, nelle sue grandi articolazioni, un
piano conforme all'ordine cronologico; questo piano d'insieme non esclude però
nei particolari la presenza di un gran numero d'anacronie: analessi e prolessi, ma
anche altre forme più complesse o più sottili, forse più specifiche del racconto
proustiano, ad ogni modo più distanti sia dalla cronologia «reale» che dalla
temporalità narrativa classica. Prima d'affrontare l'analisi di simili anacronie,
teniamo a precisare chiaramente che, in questo caso, si tratta esclusivamente
d'un'analisi temporale, e per giunta ridotta ai soli problemi di ordine, prescindendo,
per ora, dalla velocità e dalla frequenza, e a maggior ragione dalle caratteristiche di
modo e di voce che possono colpire le anacronie come qualsiasi altra specie di
segmenti narrativi. In particolare, verrà trascurata in questa analisi una distinzione
capitale che oppone le anacronie assunte direttamente dal racconto, e quindi allo
stesso livello narrativo di quanto le circonda (ad esempio, i versi 7-12 dell'Iliade o il
secondo capitolo di Cesar Birotteau), a quelle assunte da uno dei personaggi del
racconto primo, e proprio per questo situate a un livello narrativo secondo: ad
esempio, i canti IX-XII dell'Odissea (racconto d'Ulisse), o l'autobiografia di Raphael
de Valentin nella seconda parte della Peau de chagrin. Ritroveremo nel capitolo della
voce narrativa questo problema, non specifico delle anacronie, per quanto le
concerna ovviamente in sommo grado.
Un'anacronia, nel passato o nell'avvenire, può andare più o meno lontano dal «
momento presente», cioè dal momento della storia in cui il racconto si è interrotto
per farle posto: questa distanza temporale, la chiameremo portata dell'anacronia. A
sua volta, essa può coprire una durata di storia più o meno lunga: si tratta di
quanto chiameremo la sua ampiezza. Così, nel canto XIX dell'Odissea, quando
Omero rievoca le circostanze nelle quali, una volta, Ulisse adolescente ha ricevuto
la ferita di cui porta ancora la cicatrice quando Euriclea si accinge a lavargli i piedi,
l'analessi, che occupa i versi 394-466, ha una portata di varie decine d'anni e
un'ampiezza d'alcuni giorni. Definito in questo modo, lo statuto delle anacronie
sembra essere solo questione di più o di meno, una faccenda di misura di volta in
volta specifica, un lavoro di cronometro senza interesse teorico. È però possibile
(e, a mio parere, utile) ripartire le caratteristiche di portata e di ampiezza in maniera
discreta nei confronti di certi momenti pertinenti del racconto. Tale ripartizione si
applica in modo chiaramente identico alle due grandi classi di anacronie, ma per
comodità di esposizione e per evitare il rischio di un'eccessiva astrazione, in un
primo tempo opereremo esclusivamente sulle analessi, riservandoci d'ampliare in
seguito il procedimento.

Analessi.
Qualunque anacronia costituisce, rispetto al racconto in cui s'inserisce — su cui
s'innesta - un racconto secondo dal punto di vista temporale, subordinato al primo
in quella sorta di sintassi narrativa in cui ci siamo imbattuti fin dall'analisi
(precedentemente tentata) di un brevissimo frammento di Jean Santeuil.
Chiameremo d'ora in poi « racconto primo» il livello temporale di racconto rispetto
al quale un'anacronia si definisce come tale. È ovvio — l'abbiamo già verificato -
che gli incastri possono essere più complessi, e un'anacronia può a sua volta
figurare come «racconto primo» rispetto a un'ulteriore anacronia a lei subordinata;
e, più generalmente, rispetto a un'anacronia l'insieme del contesto può essere
considerato « racconto primo».
Il racconto della ferita d'Ulisse si basa su ..un episodio anteriore in modo
lampante al punto di partenza temporale del «racconto primo» dell'Odissea, anche
se, secondo questo principio, viene inglobato in tale nozione il racconto
retrospettivo di Ulisse ai Feaci, che risale sino alla caduta di Troia. Possiamo
definire esterna l'analessi la cui ampiezza globale resta esterna a quella del racconto
primo. Si potrà definire così, ad esempio, il secondo capitolo di César Birotteau la cui
storia (il titolo Les antécédents de César Birotteau lo indica chiaramente) precede il
dramma inaugurato dalla scena notturna del primo capitolo. Inversamente,
qualificheremo analessi interna il capitolo sesto di Madame Bovary, consacrato agli
anni di convento di Emma, evidentemente posteriori all'entrata di Charles al liceo,
punto di partenza del romanzo; oppure, l'inizio delle Souffrances de l'inventeur144, che
serve a informare il lettore, dopo il racconto delle avventure parigine di Lucien de
Rubempré, di quale fosse nello stesso periodo la vita di David Séchard a
Angouléme. Si possono anche concepire (e a volte le si incontrano) delle analessi
miste, per le quali il punto di portata è anteriore e il punto d'ampiezza posteriore
rispetto all'inizio del racconto primo: vedi la storia di des Grieux in Manon..Lescaut,
che risale a vari anni prima dell'incontro con l'Homme de Qualité, e prosegue sino
al momento del secondo incontro che è anche quello della narrazione.
Distinzione non tanto futile quanto può sembrarlo in un primo momento. Le
analessi esterne e le analessi interne (o miste, nella loro parte interna) si presentano
effettivamente all'analisi narrativa in modo completamente diverso, almeno su un
punto, a mio parere di capitale importanza. Le analessi esterne, proprio per il fatto
di essere esterne, non rischiano mai d'interferire col racconto primo: la loro
funzione è solo quella di completarlo, fornendo al lettore lumi su questo o quel «
precedente ». È il caso, evidentemente, di alcuni esempi già citati, e anche,
altrettanto tipicamente, quello di Un amour de Swann nella Recherche du temps perdu. Le
cose vanno in modo diverso per le analessi interne, il cui campo temporale è
compreso in quello del racconto primo, presentando un rischio evidente di
ridondanza o di collisione. Dobbiamo quindi considerare più da vicino questi
problemi d'interferenza.
In primissimo luogo escluderemo quelle analessi interne che propongo di
chiamare eterodiegetiche145, fondate cioè su una linea di storia, e perciò su un
contenuto diegetico diverso da quello (o da quelli) del racconto primo: siano esse
basate, espediente molto classico, su un personaggio appena introdotto, e sui cui
precedenti al narratore prema d'informarci, come fa Flaubert con Emma nel
capitolo citato poco prima; oppure su un personaggio che da un po' di tempo si
era perso di vista, vedi il caso di David all'inizio delle Souffrances de l'inventeur. Si
tratta, forse, delle funzioni più tradizionali dell'analessi, ed è evidente che, in questo
caso, la coincidenza temporale non comporta una vera interferenza narrativa: lo
stesso si può dire quando, all'ingresso del principe di Faffenheim nel salotto
Villeparisis, una digressione retrospettiva di alcune pagine spiega 146 le ragioni di
questa presenza, e cioè le peripezie della candidatura del principe all'Académie des
Sciences morales; o quando, ritrovando nella signorina di Forche ville Gilberte
Swann, Marcel si fa spiegare i motivi di un simile cambiamento di nome 147. Il
matrimonio di Swann, quello di Saint-Loup e del «piccolo Cambremer», la morte di
Bergotte148 arrivano in tal modo a raggiungere, a fatti compiuti, la linea principale
della storia - l'autobiografia di Marcel - senza disturbare minimamente il privilegio
del racconto primo.
Diversissima la situazione delle analessi interne omodiegetiche, cioè basate sulla
medesima linea d'azione del racconto principale. In questo caso il rischio
d'interferenza è evidente, e persino, apparentemente, inevitabile. Dobbiamo
effettivamente distinguere, ancora una volta, due categorie.
La prima (che chiamerò quella delle analessi completive o «rinvii») comprende i
segmenti retrospettivi che vengono a colmare, a posteriori, una lacuna anteriore del
racconto, il quale s'organizza così tramite omissioni provvisorie e riparazioni più o
meno tardive, secondo una logica narrativa parzialmente indipendente dal
trascorrere del tempo. Queste lacune anteriori possono essere pure e semplici
ellissi, cioè falle nella continuità temporale. Il soggiorno di Marcel a Parigi nel
1914, raccontato in occasione di un altro soggiorno, quello del 1916, viene a
colmare in parte l'ellissi di vari «lunghi anni» trascorsi dal protagonista in casa di
cura149; l'incontro con la Signora vestita di rosa nell'appartamento dello zio
Adolphe150 spalanca in pieno racconto combraysiano una porta sulla fisionomia
parigina dell'infanzia di Marcel, totalmente occultata, se si esclude questa
eccezione, fino alla terza parte di Swann. Proprio in simili lacune temporali occorre
(ipoteticamente) inserire alcuni episodi della vita di Marcel che ci sono noti solo
per brevi allusioni retrospettive: un viaggio con la nonna in Germania, anteriore al
primo viaggio a Balbec, un soggiorno sulle Alpi anteriore all'episodio di Donciè-
res, un viaggio in Olanda anteriore al pranzo dai Guermantes, o anche -
chiaramente più difficili da collocare, data la durata del servizio militare a
quell'epoca - gli anni di servizio militare evocati per inciso durante l'ultima
passeggiata con Charlus151. Esistono però alcune lacune d'altro tipo, d'ordine meno
strettamente temporale, consistenti non più nell'elidere un segmento diacronico,
ma nell'omettere un elemento costitutivo della situazione, in un periodo
teoricamente coperto dal racconto; per esempio, il fatto di raccontare la propria
infanzia occultando sistematicamente l'esistenza di un membro della famiglia (se si
considerasse la Recherche una vera e propria biografia, il fenomeno coinciderebbe
con l'atteggiamento di Proust nei confronti del fratello Robert). In un caso simile il
racconto non passa sopra a un momento (come nell'ellissi), passa a lato di un dato.
Genere d'ellissi laterale che chiameremo, conformemente all'etimologia e senza
eccessive deformazioni dell'uso retorico, una parallissi152. Come l'ellissi temporale, la
parallissi si presta benissimo, evidentemente, a «colmare» retrospettivamente. così
la morte di Swann, o più esattamente il suo effetto su Marcel (dato che, in sé,
questa morte potrebbe esser considerata esterna all'autobiografia del protagonista,
e quindi, nel caso specifico, ete- rodiegetica) non è stata raccontata al momento
giusto: però, in teoria, nessuna ellissi temporale può trovar posto fra l'ultima
apparizione di Swann (alla soirée Guermantes) e il giorno del concerto Charlus-
Verdurin in cui s'inserisce la notizia retrospettiva della sua morte 153. Dobbiamo
quindi supporre che tale evento, importantissimo nella vita affettiva di Marcel («la
morte di Swann a suo tempo mi aveva sconvolto») sia stato omesso lateralmente,
in parallissi. Esempio ancora più chiarificante: la fine della passione di Marcel per
la duchessa di Guermantes, grazie all'intervento quasi miracoloso della madre,
costituisce l'oggetto154 di un racconto retrospettivo senza data precisa («Un certo
giorno...»); ma dato che durante la scena si parla della nonna sofferente, dobbiamo,
evidentemente, inserirla prima del secondo capitolo di Guermantes II (p. 345); ma
anche, ovviamente, dopo la pagina 204, dove vediamo che Oriane non gli è ancora
«diventata indifferente»: caso in cui non è reperibile nessuna ellissi temporale. Il
caso più degno di nota, per quanto raramente sottolineato dai critici, è però quello
della misteriosa «cuginetta» che (lo veniamo a sapere quando Marcel dà a una
mezzana il canapè della zia Léonie) proprio sul medesimo canapè 155, gli ha fatto
conoscere «per la prima volta i piaceri dell'amore»; e questo, esattamente, a
Combray, e a una data abbastanza remota, poiché si precisa che la scena d'«
iniziazione »156 si è svolta a «un'ora in cui la zia Léonie era alzata», sapendo inoltre
che negli ultimi anni la zia Léonie non lasciava più la sua stanza 157. Tralasciamo il
probabile valore tematico di questa tardiva confessione, arrivando addirittura ad
ammettere che l'omissione dell'evento nel racconto di Combray dipenda da una pura
ellissi temporale: l'omissione del personaggio nel quadro familiare si può definire
soltanto come parallissi, e il suo valore di censura ne risulta forse ulteriormente
rafforzato. La cuginetta sul canapè sarà quindi per noi - ogni età ha i suoi piaceri -:
analessi su parallissi.

Finora abbiamo considerato la localizzazione (retroattiva) delle analessi come se


si trattasse sempre di un avvenimento unico da inserire in un solo punto della
storia passata, ed eventualmente del racconto anteriore. Risulta però che certe
retrospezioni, per quanto consacrate a singoli eventi, possono rinviare a delle ellissi
iterative158, cioè basate non su una sola frazione del tempo trascorso, ma su varie
frazioni considerate simili e, in un modo o nell'altro, ripetitive: l'incontro con la
Signora vestita di rosa può così rinviare a un giorno qualsiasi del periodo invernale,
quando Marcel e i genitori vivevano a Parigi, in un qualsiasi anno anteriore alla
rottura con lo zio Adolphe; avvenimento unico, senz'altro, ma localizzabile,
secondo noi, nell'ordine della specie o della classe (un inverno) e non dell'individuo
(quel dato inverno). Lo stesso si verifica, a fortiori, quando l'episodio raccontato
tramite analessi è a sua volta di ordine iterativo. Così, nelle Jeunes filles en fleurs, il
giorno della prima apparizione della «piccola brigata » termina con un pranzo a
Rivebelle che non è il primo; per il narratore, il pranzo è l'occasione di un
flashback sulla serie precedente (redatto essenzialmente all'imperfetto iterativo) che
racconta in una sola volta tutti i pranzi precedenti 159: è chiaro che l'ellissi colmata
da questa retrospezione può, a sua volta, essere solo iterativa. Analogamente,
l'analessi che chiude le Jeunes filles en fieurs, ultimo sguardo su Balbec dopo il ritorno
a Parigi160, si basa sinteticamente su tutta la serie delle sieste che Marcel, su ordine
del medico, aveva dovuto fare, per tutta la durata del soggiorno, ogni mattina fino
a mezzogiorno, mentre le sue giovani amiche passeggiavano sulla diga piena di
sole, e il concerto mattutino esplodeva sotto le sue finestre: ancora una volta, in
questo caso, un'analessi iterativa viene a colmare un'ellissi iterativa - dando così a
questa parte della Recherche la possibilità di concludersi non sul grigiore di un triste
ritorno, ma sulla gloriosa corona — corona d'oro — di un inalterabile sole estivo.
Col secondo tipo d'analessi (interne) omodiegetiche, che chiameremo
esattamente analessi ripetitive, o «richiami», non possiamo più sfuggire alla
ridondanza, dato che in essa il racconto torna apertamente, esplicitamente a volte,
sui propri passi. È ovvio che queste analessi fungetiti da richiami possono
raramente raggiungere dimensioni testuali vastissime: si tratta piuttosto di allusioni
del racconto al proprio passato, che Lammert chiama Ruckgriffe, o retrocezioni.161 La
loro importanza nell'economia del racconto però, in Proust soprattutto, compensa
largamente la loro debole estensione narrativa.
Dobbiamo chiaramente classificare fra questi richiami le tre reminiscenze dovute
alla memoria involontaria durante la «mattinata» dai principi di Guermantes, che, al
contra- - rio dell'episodio della «maddalena», rinviano tutte a un momento
precedente del racconto: il soggiorno a Venezia, la sosta in treno davanti a un filare
di alberi, la prima mattina a Balbec, di fronte al mare 162. Si tratta di richiami allo
stato puro, volontariamente scelti o inventati per il loro carattere fortuito o banale;
contemporaneamente, però, viene abbozzato un confronto fra presente e passato:
confronto, una volta tanto, incoraggiante, dato che l'attimo della reminiscenza è
sempre euforico, anche se resuscita un passato in sé doloroso: «e io m'accorsi che
quanto mi sembrava ora così gradevole era il medesimo filare d'alberi che avevo
giudicato noioso da osservare e da descrivere»163. Si tratta, una volta di più, del
confronto fra due situazioni in pari tempo simili e diverse che, spesso, riesce a
motivare dei richiami in cui la memoria involontaria non ha nessun ruolo : caso
analogo per le parole del duca di Guermantes a proposito della principessa di
Parma, «Vi trova simpatico», che richiamano al protagonista - fornendo al
narratore l'occasione di ricordarcelo - quelle, identiche, della signora di Villeparisis
a proposito di un'altra «altezza», la principessa di Lussemburgo 164. In questo caso
l'accento viene messo sull'analogia; viene invece messo sull'opposizione quando
Saint-Loup presenta a Marcel la sua ninfa egeria Rachel, e Marcel riconosce in lei la
sgualdrinella di un tempo, «la stessa che, pochi anni prima [...] diceva alla mezzana:
"Allora, domani sera, se avete bisogno di me per qualcuno, mandatemi a
chiamare"»165 - frase che effettivamente riproduce quasi testualmente quella
pronunciata da « Rachel allor che Iddio » nelle Jeunes filles en fleurs166 : «Allora siamo
d'accordo, domani sera sono libera, se avete qualcuno non dimenticate di farmi
chiamare», essendo, per modo di dire, già prevista la variante dei Guermantes nei
seguenti termini : « Variava solo la forma della sua frase, dicendo: — Se avete
bisogno di me, — oppure — Se avete bisogno di qualcuno». Richiamo di una
precisione chiaramente ossessiva, che mette i due segmenti in comunicazione
diretta: ne deriva l'interpolazione nel secondo segmento del paragrafo sulla
condotta passata di Rachel, che sembra quasi strappato al testo del primo. Esempio
sorprendente di migrazione, o, se preferiamo, di disseminazione narrativa.
Ancora un confronto, nella Prisonnière167, fra la debolezza presente di Marcel nei
confronti di Albertine e il coraggio mostrato un tempo riguardo a Gilberte,
quando egli aveva «ancora abbastanza forza per rinunciare a lei»: ritorno su se
stesso, che conferisce retrospettivamente all'episodio passato un senso che,
all'epoca del suo effettivo svolgimento, non aveva ancora. La funzione più costante
dei richiami, nella Recherche, è effettivamente quella di venire a modificare, a fatti
compiuti, il significato degli eventi passati, sia col render significante quanto non lo
era, sia col rifiutare una prima interpretazione sostituendola con una nuova. La
prima modalità è indicata in modo estremamente preciso dal narratore stesso,
quando scrive a proposito dell'incidente dei fiori di siringa 168: «In quel momento
tutto ciò mi sembrò naturalissimo, tutt'al più un po' confuso, in ogni caso di
nessuna importanza », e ancora: « incidente, il cui crudele significato mi sfuggi
allora del tutto e mi si fece chiaro soltanto molto tempo dopo». Significato che sarà
rivelato da Andrée dopo la morte d'Albertine 169, caso d'interpretazione differita che
ci procura un esempio quasi perfetto di racconto doppio, prima dal punto di vista
(ingenuo) di Marcel, poi dal punto di vista (consapevole) di Albertine e di Andrée,
in cui la chiave finalmente fornita dissipa qualunque possibilità di «confusione».
Con ampiezza molto maggiore, il tardivo incontro con la signorina di Saint-
Loup170, figlia di Gilberte e di Robert, fornirà a Marcel l'occasione di una « ripresa»
generale dei principali episodi della sua esistenza, fino allora smarriti
nell'insignificanza della dispersione, e improvvisamente riuniti, resi significanti dal
fatto di essere tutti collegati fra loro, perché tutti collegati all'esistenza di quella
fanciulla nata Swann e Guermantes, nipote della Signora vestita di rosa, pronipote
di Charlus, evocatrice in pari tempo delle due «parti» di Combray, ma anche di
Balbec, degli Champs- Elysées, della Raspelière, di Oriane, di Legrandin, di Mo-
rel, di Jupien...; caso, contingenza, arbitrarietà improvvisamente aboliti, biografia
presa a un tratto nelle maglie di una struttura e nella coesione di un senso.
Principio della significazione differita o sospesa171 che gioca, evidentemente, in
pieno nel meccanismo dell'enigma, analizzato da Barthes in S/Z; tecnica di cui
un'opera tanto sofisticata come la Recherche fa un uso forse sorprendente per chi
mette un'opera simile agli antipodi del romanzo popolare - cosa in parte vera,
indubbiamente, per il suo significato e il suo valore estetico, ma non sempre per i
suoi procedimenti. C'è del « si trattava di Milady » anche nella Recherche, se non altro
nella forma umoristica del «si trattava del mio compagno Bloch» delle Jeunes filles en
fleurs, quando l'antisemita tonitruante esce dalla sua tenda 172. Il lettore deve
aspettare oltre mille pagine per venire a sapere, insieme al protagonista 173, se non
l'ha già indovinato da solo, l'identità della Signora vestita di rosa. Dopo la
pubblicazione del suo articolo sul «Figaro», Marcel riceve una lettera di felicitazioni
firmata Sanilon, scritta in uno stile popolaresco e piacevole: « fui costernato di non
poter scoprire chi mi avesse scritto»; saprà in seguito, e noi con lui, che si trattava
di Théodore, l'ex garzone di drogheria e chierichetto di Combray 174. Entrando nella
biblioteca del duca di Guermantes, incrocia un borghesuccio provinciale, timido e
consunto: era il duca di Bouillon! 175 Una donna alta gli fa delle avances per strada:
si tratterà della signora d'Orvilliers!176 Nel trenino della Raspelière una donnona
volgare, con l'aspetto da ruffiana, legge la «Revue des deux mondes»: si tratterà
della principessa Sherbatoff !177 Un po' dopo la morte di Albertine, una fanciulla
bionda intravista al Bois, poi per strada, gli lancia un'occhiata che l'infiamma:
ritrovatala nel salotto Guermantes, scoprirà che si tratta di Gilberte! 178.
Procedimento tanto frequente, esso costituisce contesto e norma a tal punto che,
per contrasto o scarto, si può a volte giocare sulla sua assenza o grado zero: nel
trenino della Raspelière, una splendida fanciulla dagli occhi neri, la pelle di
magnolia, modi spigliati, voce rapida, fresca e ridente: «Mi piacerebbe tanto
ritrovarla, - esclamai. - Tranquillizzatevi, ci si ritrova sempre, - rispose Albertine.
Nel caso particolare sbagliava; non ho mai ritrovato né identificato la bella fanciulla
dalla sigaretta»179.
In Proust, tuttavia, l'uso più tipico del richiamo resta quello per il cui tramite un
evento già a suo tempo dotato di un significato vede, a conti fatti, sostituirsi alla
prima interpretazione un'altra (non necessariamente migliore). Procedimento che,
chiaramente, è uno dei mezzi più efficaci per la circolazione del senso nel romanzo,
e di quel perpetuo «rovesciamento del prò in contro» caratteristico dell'esperienza
proustiana della verità. A Doncières, Saint- Loup, incontrando Marcel per strada,
apparentemente non lo riconosce e gli fa un freddo saluto militare: impariamo poi
che lo aveva riconosciuto ma non aveva voglia di fermarsi 180. A Balbec, la nonna
insiste con irritante futilità perché Saint-Loup la fotografi con il suo bel cappello :
si sapeva condannata e non voleva lasciare ai nipoti un ricordo in cui fosse
percepibile il suo aspetto malato 181. L'amica della signorina di Vinteuil, la
profanatrice di Montjouvain, si consacrava religiosamente, alla stessa epoca, alla
ricostituzione, nota per nota, delle indecifrabili minute del Settimino182, ecc. È nota
la lunga serie di rivelazioni e di confessioni attraverso la quale si scompone e si
ricompone l'immagine retrospettiva, o addirittura postuma, di Odette, di Gilberte,
di Albertine o di Saint-Loup: così, il giovanotto che una certa sera accompagnava
Gilberte ai Champs-Elysées «era Léa vestita da uomo» 183; fin dal giorno della
passeggiata in periferia e dello schiaffo al giornalista, Rachel era per Saint-Loup
solo uno « schermo», e fin dall'epoca di Balbec egli s'isolava col liftier del Grand
Hotel; l184a sera della cattleya, Odette usciva da casa di Forcheville 185; e tutta la serie
di tardive rettificazioni sui rapporti fra Albertine e Andrée, Morel, varie ragazze di
Balbec e altri luoghi186; ma, al contrario, con ironia ancora più crudele, la colpevole
relazione fra Albertine e l'amica della signorina di Vinteuil, la cui involontaria
confessione ha cristallizzato la passione di Marcel, era pura invenzione:
«Stupidamente ho creduto di rendermi interessante ai vostri occhi inventando
d'aver conosciuto bene le due ragazze»187: lo scopo è raggiunto, ma per altra via (la
gelosia, e non lo snobismo artistico), e con la conclusione che sappiamo.
Rivelazioni sulle abitudini erotiche dell'amico o della donna amata che sono
evidentemente di capitale importanza. Sarei tentato di trovare ancora più capitale,
— «capitalissima», per parlare il linguaggio proustiano - dato che intacca le stesse
basi della Weltanschauung del protagonista (l'universo di Combray, l'opposizione
delle due «parti», «giacimenti profondi del mio suolo mentale») 188, la serie delle
reinterpretazioni occasionate dalla tardiva permanenza a Tansonville, in cui
Gilberte di Saint-Loup ha un ruolo di medium involontaria. Ho già cercato altre
volte189 di mostrare l'importanza, su piani diversi, della «verifica» - in realtà, una
confutazione - fatta subire da Gilberte al sistema mentale di Marcel col rivelargli
non solo che le sorgenti della Vivonne, per lui «come qualcosa d'altrettanto
extraterrestre dell'ingresso dell'Inferno», erano «una specie di lavatoio quadrato,
dove gorgogliavano bolle d'aria» e basta, ma anche che Guermantes e Méséglise
non sono tanto lontani, tanto «inconciliabili» come egli aveva creduto, visto che
con una semplice passeggiata si può « andare a Guermantes prendendo per
Méséglise». L'altro versante di queste «nuove rivelazioni dell'essere» è la
stupefacente informazione che, all'epoca della scorciatoia di Tansonville e dei
biancospini in fiore, Gilberte era innamorata di lui, e il suo gesto insolente di allora
era in realtà una avance troppo esplicita 190. Marcel capisce dunque che non aveva
ancora capito nulla, e - verità suprema - «che la vera Gilberte, la vera Albertine,
erano forse quelle che al primo istante s'erano offerte nel loro sguardo, l'una
davanti alla siepe di biancospini rosa, l'altra sulla spiaggia », e in quel modo, per
incomprensione - per eccesso di ragionamento - le aveva « sbagliate » fin da quel
primo istante.Col gesto misconosciuto di Gilberte, si ricompone una volta di più
tutta la geografia profonda di Combray: Gilberte avrebbe voluto trascinare Marcel
con sé (e con altri monelli dei dintorni, fra cui Théodore e sua sorella - futura
cameriera della baronessa Putbus e simbolo della fascinazione erotica -) nelle
rovine del torrione di Roussainville-le-Pin: lo stesso torrione fallico, «confidente»
verticale all'orizzonte, dei piaceri solitari di Marcel nello stanzino odoroso di iris, e
delle sue frenesie vagabonde nella campagna di Méséglise191, che allora egli non
supponeva essere molto più di questo: luogo concreto cioè, offerto, accessibile e
misconosciuto, «nella realtà così vicino a me» 192, dei piaceri proibiti. Roussainville, e
per metonimia tutta la parte di Méséglise 193, equivale già alle Città della Pianura,
«terra promessa (e) maledetta»194. «Roussainville, all'interno delle cui mura non
sono mai penetrato»: che occasione mancata, che rimpianto! o forse, che
denegazione? si, come dice Bardèche 195, la geografia di Combray, apparentemente
tanto innocente, è «un paesaggio che, come molti altri, necessita di una
decifrazione». Decifrazione già in atto, con alcune altre, nel Temps retrouvé, che
procede da una sottile dialettica fra il racconto « innocente » e la sua «verifica»
retrospettiva: ecco, in parte, la funzione e l'importanza delle analessi proustiane.
Abbiamo osservato come la determinazione della portata permettesse di dividere in
due classi le analessi esterne e interne, a seconda che il loro punto di portata fosse
situato all'esterno o all'interno del campo temporale del racconto principale. La
classe mista, per altro poco densa di esempi, è in realtà determinata da una
caratteristica di ampiezza, poiché si tratta di analessi esterne che si prolungano fino
a raggiungere e a superare il punto di partenza del racconto primo. È ancora una
volta un fattore di ampiezza a guidare la distinzione cui ora accenneremo,
tornando — per confrontarli - sui due esempi già incontrati nell'Odissea.
Il primo è l'episodio della ferita di Ulisse. Come abbiamo già osservato, la sua
ampiezza è molto inferiore alla sua portata, molto inferiore anche alla distanza che
separa il momento della ferita dal punto di partenza dell'Odissea (la caduta di Troia):
dopo aver raccontato la caccia sul monte Parnaso, la lotta contro il cinghiale, la
ferita, la guarigione, il ritorno ad Itaca, il racconto interrompe di colpo la sua
digressione retrospettiva196 e, passando sopra ad alcuni decenni, fa ritorno alla
scena presente. Al flash-back fa dunque seguito un salto in avanti, cioè un'ellissi,
che lascia nell'ombra tutta una lunga frazione della vita dell'eroe: si tratta qui, in un
certo senso, di un'analessi puntuale, che racconta un momento del passato rimasto
isolato nella sua lontananza, ma senza cercare di riannodarlo al momento presente
coprendo un intermezzo non pertinente allo spirito dell'epopea, dato che
l'argomento dell'Odissea (come notava già Aristotele), non è la vita d'Ulisse, ma solo
il suo ritorno da Troia. Chiamo semplicemente analessi parziali questo genere di
retrospezioni terminanti in un'ellissi, senza raggiungere il racconto principale.
Il racconto d'Ulisse ai Feaci costituisce il secondo esempio. In questo caso Ulisse,
essendo invece risalito fino al momento in cui la Fama l'ha, in qualche modo, perso
di vista (cioè fino alla caduta di Troia), porta il suo racconto fino a raggiungere il
racconto primo, coprendo tutta la durata che va dalla caduta di Troia all'arrivo
presso Calipso: analessi completa, in questo caso, che arriva a ricongiungersi al
racconto primo, senza soluzione di continuità fra i due segmenti della storia.
È inutile indugiare ora sulle evidenti differenze fra i due tipi di analessi: il primo
serve esclusivamente a portare al lettore un'informazione isolata, necessaria alla
comprensione di un preciso elemento dell'azione, il secondo invece, legato alla
pratica dell'inizio in medias res, mira a recuperare la totalità del «precedente»
narrativo; costituisce in genere una parte importante del racconto, a volte
addirittura, come nella Duchesse de Langeais o nella Morte di Ivan Il'ič, ne rappresenta
la parte essenziale, mentre il racconto principale funge da epilogo anticipato.
Abbiamo finora preso in considerazione, sotto questo punto di vista, solo delle
analessi esterne, da noi decretate complete in quanto raggiungono il racconto
primo nel suo punto di partenza temporale. Ma anche un'analessi «mista» come il
racconto di des Grieux può definirsi completa in un senso tutto diverso, poiché,
come abbiamo già osservato, si ricongiunge non all'inizio del racconto primo, ma
al momento stesso (l'incontro a Calais) in cui il racconto si era interrotto per farle
posto: la sua ampiezza cioè è rigorosamente uguale alla sua portata, e il movimento
narrativo compie una perfetta andata e ritorno. Sempre in questo senso possiamo
parlare di analessi interne complete, come nelle Souffrances de l'inventeur, dove il
racconto retrospettivo è portato fino al momento in cui si riuniscono nuovamente
i destini di David e di Lucien.
Le analessi parziali, per definizione, non pongono problemi di suture o raccordi
narrativi: il racconto analettico s'interrompe palesemente su un'ellissi, e il racconto
primo riprende là dove si era interrotto, sia in maniera implicita e come se niente
l'avesse sospeso (vedi ad esempio l'Odissea: «Tal cicatrice l'amorosa vecchia
conobbe, brancicandola») sia in maniera esplicita, prendendo atto dell'interruzione
e, come piace a Balzac, sottolineando la funzione esplicativa già messa in evidenza
all'inizio dell'analessi col famoso «ecco perché», o con una qualsiasi delle sue
varianti. Il grande flash-back della Duchesse de Langeais, introdotto tramite una
formula delle più esplicite : « Ed ecco ora l'avventura che aveva determinato la
situazione rispettiva in cui si trovavano in quel momento i personaggi della scena»,
termina in maniera altrettanto dichiarata: «\ sentimenti dei due amanti, quando si
ritrovarono separati dalla griglia del parlatorio delle Carmelitane e sorvegliati da
una madre superiora, devono essere capiti in tutta la loro estensione, e la loro
violenza, risvegliata in entrambi, servirà senz'altro a spiegare l'epilogo di questa
avventura»197. Proust che, nel Contre Sainte-Beuve ha ironizzato suir«ecco perché»
balzachiano, pur non sdegnando d'imitarlo almeno una volta nella Recherche198, è a
sua volta capace di riattacchi del genere, come il seguente, dopo il racconto delle
trattative accademiche fra Faffenheim e Nor- pois: «Cosi il principe di Faffenheim
era stato indotto a recarsi a trovare la marchesa di Villeparisis » 199, o per lo meno
abbastanza esplicite perché la transizione risulti immediatamente percepibile : «
Adesso al mio secondo ritorno a Parigi...», oppure: «Pur rammemorandomi così la
visita di Saint-Loup...»200. Ma nella maggior parte dei casi, la ripresa è molto più
discreta: l'evocazione del matrimonio di Swann, provocata da una risposta di
Norpois durante un pranzo, è bruscamente interrotta da un ritorno alla
conversazione presente («Mi misi a parlare del conte di Parigi...») come, più oltre,
quella della morte dello stesso Swann, intercalata senza transizione fra due frasi di
Brichot: «Ma no, rispose Brichot...»201. A volte ha una forma così ellittica che si fa
un po' fatica a scoprire, a una prima lettura, il punto in cui si opera il salto
temporale: è il caso di quando, in casa Verdurin, l'ascolto della sonata di Vintemi
ricorda a Swann un ascolto anteriore, ma l'analessi, sebbene introdotta dal modulo
balzachiano sunnominato («Ecco perché»), termina invece con un semplice a capo
come unico segno di ritorno: «Poi, egli cessò di pensarci. | Ora, dalla signora
Verdurin, qualche minuto dopo che il piccolo pianista aveva cominciato a
suonare...» Caso analogo a quando, durante la matinée Villeparisis, l'arrivo della
signora Swann ricorda a Marcel una recente visita di Morel, e il racconto principale
si annoda all'analessi in modo particolarmente disinvolto: «Io, stringendogli la
mano, pensavo a Odette Swann, e mi dicevo con sorpresa, tanto quelle due
persone erano separate e diverse nei miei ricordi, che d'ora in avanti avrei dovuto
identificarla con la "Signora in rosa". Il signor di Charlus fu presto seduto a fianco
della moglie di Swann...»202.
Il carattere ellittico di tali riprese alla fine di un'analessi parziale, come vediamo,
per un lettore attento si limita a sottolineare per asindeto la rottura temporale. La
difficoltà delle analessi complete è inversa: non si basa sulla soluzione di continuità,
ma al contrario sulla necessaria sutura fra racconto analettico e racconto primo,
sutura che non può verificarsi senza sovrapposizioni, e quindi senza una apparente
goffaggine, a meno che il narratore non abbia l'abilità di far scaturire dal difetto
una specie di fascino ludico. Troviamo in César Birotteau un esempio di
accavallamento non assunto - forse non percepito dallo stesso romanziere. Il
secondo capitolo (analettico) termina nel seguente modo: «Pochi minuti dopo,
Constance e César russarono pacificamente»; il terzo comincia in questi termini:
«Nell'addormentarsi, César ebbe paura che sua moglie, il giorno dopo, gli facesse
alcune perentorie obiezioni, e s'impose d'alzarsi di primo mattino per risolvere
tutto » : osserviamo nella ripresa almeno un sospetto d'incoerenza. Il racconto è
più riuscito nelle Souffrances de l'inventeur, perché in questo caso il narratore ha
saputo trarre dalla stessa difficoltà un elemento decorativo. Ecco come si apre
l'analessi: «Mentre il venerabile ecclesiastico sale le scale di Angoulème, non è certo
inutile spiegare il groviglio d'interessi in cui era sul punto di mettere i piedi. Dopo
la partenza di Lucien, David Séchard...» Ecco ora come riprende il racconto primo,
più di cento pagine dopo: «Nel momento in cui il vecchio curato di Marsac saliva le
scale di Angoulème per andare a informare Eva della situazione in cui si trovava
suo fratello, David si trovava nascosto da undici giorni a due porte di distanza da
colei che il degno ecclesiastico aveva appena lasciato» 203. Gioco fra il tempo della
storia e quello della narrazione (raccontare le sventure di David « mentre » il curato
di Marsac sale le scale), che nel capitolo della voce ritroveremo a sé; si vede come
trasforma in mistificazione ironica ciò che era una schiavitù.
L'atteggiamento tipico del racconto proustiano sembra consistere invece, in
questo caso, nell'eludere il raccordo, sia dissimulando il termine dell'analessi in
quella specie di dispersione temporale procurata dal racconto iterativo (è il caso
delle due retrospezioni concernenti Gilberte nella Fugitive, una sulla sua adozione
da parte di Forcheville, l'altra sul suo matrimonio con Saint-Loup) 204, sia fingendo
di ignorare che il punto della storia dove termina l'analessi era già stato raggiunto
dal racconto: analogamente, in Combray, Marcel comincia menzionando
«l'interruzione e il commento che una volta furono portati da una visita di Swann,
alla lettura che stavo facendo del libro d'un autore del tutto nuovo per me,
Bergotte», poi torna indietro per raccontare la sua scoperta di quell'autore; sette
pagine dopo, riprendendo il filo del racconto, prosegue in questi termini, come se
non avesse già nominato Swann e segnalato la sua visita: «Una domenica, mentre
leggevo in giardino, fui disturbato da Swann che veniva a visitare i miei genitori. -
Che cosa leggete, si può guardare? Toh, Bergotte...» 205. Artificio, inavvertenza o
disinvoltura, il racconto evita in tal modo di riconoscere le proprie tracce. Ma
l'elisione più audace (anche se l'audacia fosse in questo caso pura trascuratezza)
consiste nel dimenticare il carattere analettico del segmento narrativo in cui ci si
trova, e nel prolungare il segmento in un certo senso all'infinito per se stesso, senza
preoccuparsi del punto in cui esso raggiunge il racconto primo. È quanto accade
nell'episodio, celebre per altri motivi, della morte della nonna. Si apre con un
evidente avvio d'analessi: «Salii in casa e trovai la nonna più sofferente. Da qualche
tempo, senza sapere bene che cosa aveva, si lamentava della sua salute...», poi il
racconto avviato così sul modulo retrospettivo prosegue in maniera continua fino
alla morte, senza che venga mai riconosciuto o segnalato il momento (tuttavia
necessariamente raggiunto e ampiamente superato) in cui Marcel, tornando da casa
della signora Villeparisis, aveva trovato sua nonna «più sofferente»: perciò senza
che noi possiamo mai situare in modo esatto la morte della nonna in rapporto alla
matinée Villeparisis, e neppure decidere dove finisce l'analessi e dove riprende il
racconto principale206. Analogamente avviene, ma su ben più vasta scala, per
l'analessi aperta a Noms de pays: le Pays, che, come abbiamo già osservato, prosegue
fino all'ultima riga della Recherche senza accennare, all'occasione, al momento delle
insonnie tardive, che fu invece la sua origine memoriale e quasi la sua matrice
narrativa: altra retrospezione più-che-completa, d'ampiezza molto superiore alla
sua portata, e che in un momento indeterminato del suo percorso si trasforma
segretamente in anticipazione. A modo suo - cioè senza dichiararlo, e
probabilmente senza neppure accorgersene — Proust scardina qui le norme
fondamentali della narrazione, anticipando Si procedimenti più inquietanti del
romanzo moderno.

Prolessi.
L'anticipazione, o prolessi temporale, è evidentemente molto meno frequente
della figura opposta, almeno nella tradizione narrativa occidentale; per quanto tutte
e tre le grandi epopee antiche, l'Iliade, l'Odissea e l'Eneide, inizino con una sorta di
sommario anticipato che giustifica, in certa misura, la formula applicata da
Todorov al racconto omerico: «intrico di predestinazione» 207. La preoccupazione
della suspense narrativa tipica della concezione «classica» del romanzo (in senso
lato, ma il suo centro di gravità si trova piuttosto nel xix secolo) mal s'adatta a una
simile pratica, come d'altronde alla finzione tradizionale di un narratore che
apparentemente deve in qualche modo scoprire la storia nello stesso momento in
cui la racconta. Si troveranno così pochissime prolessi in autori quali Bal- zac,
Dickens o Tolstoj, anche se la pratica tradizionale dell'inizio in medias res (per non
dire, mi si perdoni, in ultimas res) ce ne dà a volte, come abbiamo visto, l'illusione:
un certo fardello di predestinazione pesa, ovviamente, sulla maggior parte del
racconto in Marion Lescaut (dove, ancor prima che des Grieux incominci la' sua
storia, sappiamo che essa termina con una deportazione), o a fortiori nella Morte di
Ivan Il'ic, che comincia con l'epilogo.
Il racconto « in prima persona » si presta meglio di qualunque altro
all'anticipazione, proprio per il fatto stesso del suo carattere retrospettivo
dichiarato, tale da autorizzare il narratore a delle allusioni al futuro, in particolare
alla sua presente situazione, che in un certo senso fanno parte integrante del suo
ruolo. Fin quasi dall'inizio di Robinson Crusoe, il protagonista può dirci come il
discorso fattogli dal padre per distoglierlo dalle avventure marittime fosse
«veramente profetico», benché sul momento non ne avesse avuto alcun sospetto, e
Rousseau non soltanto tiene ad attestare la sua innocenza passata fin dall'episodio
dei pettini, ma anche il vigore della sua indignazione retrospettiva: «Scrivendo
questo sento che il mio polso accelera ancora le pulsazioni». 208 Ciò non toglie che
La recherche du temps perdu faccia un uso della prolessi probabilmente senza
equivalenti in tutta la storia del racconto, anche in forma autobiografica, 209 e
rappresenti quindi un terreno privilegiato per lo studio di anacronie narrative di
questo tipo.
Distinguiamo senza fatica, anche qui, prolessi interne ed esterne. Il campo
temporale del racconto primo è chiaramente delimitato dall'ultima scena non
prolettica, ossia, per la Recherche (facendo rientrare nel «racconto primo» l'enorme
anacronia che si apre sugli Champs-Elysées per non richiudersi più), senza alcuna
esitazione possibile, dalla matinée Guermantes. Ora, si sa bene che un certo
numero di episodi della Recherche si situano a un punto della storia posteriore a
questa matinée210 (per la maggior parte vengono d'altronde raccontati come
digressioni nel corso della stessa scena): si tratterà quindi, per noi, di prolessi
esterne. La loro funzione più frequente è quella d'epilogo: servono a condurre
varie linee d'azione fino al loro termine logico, anche se tale termine è posteriore al
giorno in cui il protagonista decide di lasciare il mondo e di ritirarsi nella sua opera:
rapida allusione alla morte di Charlus, nuova allusione, ma più circostanziata nella
sua portata altamente simbolica, al matrimonio della signorina di Saint- Loup:
«Quella fanciulla, della quale il nome e il patrimonio eran tali da far si che sua
madre poteva sperare che sposasse un principe di casa reale, e coronasse così tutta
l'opera ascendente di Swann e della moglie, scelse invece più tardi per marito un
oscuro letterato, ché snobismi lei non ne aveva, facendo ridiscendere la propria
famiglia a un livello più basso di quello donde era partita» 211; ultima apparizione di
Odette «un po' inebetita», circa tre anni dopo la matinée Guermantes 212; futura
esperienza di scrittore di Marcel, con le sue angosce davanti alla morte e le abusive
conquiste della vita sociale, le prime reazioni dei lettori, i primi malintesi, ecc. 213. La
più tardiva di tali anticipazioni è quella, improvvisata proprio a questo scopo nel
1913, che chiude il Du coté de chez Swann : il quadro del Bois de Boulogne «oggi», in
antitesi con quello degli anni di adolescenza è evidentemente vicinissimo al
momento della narrazione, dato che quell'ultima passeggiata ha avuto luogo, a
detta di Marcel, «quest'anno», «una delle prime mattine del mese di novembre»,
ossia, teoricamente, meno di due mesi prima del momento della narrazione 214.
Ancora un passo, quindi, ed eccoci nel presente del narratore. Prolessi del genere,
frequentissime nella Recherche, sono quasi tutte riconducibili al succitato modello di
Rousseau: si tratta di testimonianze sull'intensità del ricordo attuale, che in qualche
modo vengono ad autenticare il racconto del passato. Per esempio, a proposito
d'Albertine: «Così,
ferma, con gli occhi brillanti sotto il suo polo, la rivedo ancora, profilata sullo
schermo creatole, nel fondo, dal mare...»; della chiesa di Combray: «E oggi ancora,
se in una grande città di provincia o in un quartiere di Parigi che conosco poco un
passante che m'ha indicato la via m'addita come punto di riferimento la torre d'un
ospedale o il campanile d'un convento, ecc...»; del battistero di San Marco: «Un'ora
è giunta per me che, se mi rammento del battistero...»; fine della soirée
Guermantes: « Rivedo ancora la scena dell'uscita da quella festa, rivedo, salvo che
non sbagli a situarlo su quelle scale, il principe di Sagan... » 215. E soprattutto,
ovviamente, a proposito della scena del coricarsi, la straziante attestazione già
commentata in Mimesis, che non si può fare a meno di citare per intero, perfetta
illustrazione di quanto Auerbach chiama l'«onnitemporalità simbolica» della
«coscienza reminiscente», ma anche perfetto esempio di fusione quasi miracolosa
fra avvenimento raccontato e istanza narrativa, in pari tempo tardiva (finale) e «
onnitemporale » :

Tanti anni sono passati da allora. Il muro delle scale, su cui vidi salire il riflesso della sua candela, non esiste più da un
pezzo. In me pure si sono distrutte molte cose che credevo dovessero durare sempre, e ne son sorte di nuove, generando
sofferenze e gioie nuove, che allora non avrei potuto prevedere, così come le antiche mi sono divenute diffìcili a
comprendere. Da molto tempo anche mio padre ha cessato di poter dire alla mamma: - Va col bambino -. La possibilità di
ore simili non rinascerà mai per me. Ma, da qualche tempo, ricomincio a percepire assai bene, se tendo l'orecchio, i
singhiozzi ch'ebbi la forza di trattenere davanti a mio padre, e che non scoppiarono se non quando mi ritrovai solo con la
mamma. In realtà, non sono mai cessati; e solo perché ora la vita tace più spesso intorno a me, io li sento di nuovo, come
quelle campane di convento che i frastuoni della città coprono così bene durante il giorno che si crederebbero ferme, ma
riprendono a suonare nel silenzio della sera 216.

Nella misura in cui rimettono in gioco l'istanza narrativa stessa, tali anticipazioni
al presente non costituiscono semplicemente dei fatti di temporalità narrativa, ma
anche dei fatti di voce: li ritroveremo in seguito esaminando questa categoria.
Le prolessi interne pongono lo stesso genere di problema delle analessi
corrispondenti: quello dell'interferenza, dell'eventuale doppia funzione fra il
racconto primo e quello assunto dal segmento prolettico. Ancora una volta,
verranno trascurate, in questo caso, le prolessi eterodiegetiche, per le quali (siano le
anticipazioni interne oppure esterne) 217 un rischio di tal genere non si presenta; per
le rimanenti prolessi, opereremo un'ulteriore distinzione fra quelle che vengono a
colmare anticipatamente una lacuna ulteriore (prolessi completive) e quelle che,
sempre in anticipo, rappresentano lo sdoppiamento, anche se piccolo, di un
segmento narrativo che verrà dopo (prolessi ripetitive).
Prolessi completive sono, per esempio, l'evocazione rapida in Combray, dei futuri
anni di collegio di Marcel; l'ultima scena fra il padre e Legrandin; l'evocazione (a
proposito della scena delle cattleya) del seguito dei rapporti erotici fra Swann e
Odette; le descrizioni anticipate del mutevole spettacolo del mare a Balbec;
l'annuncio, nel bel mezzo del primo ricevimento presso i Guermantes, della lunga
serie di ricevimenti simili, ecc. 218. Tutte anticipazioni che compensano future ellissi
o parallissi. La situazione dell'ultima scena di Guermantes (visita di Swann e Marcel
alla duchessa) è più sottile: essa è, come sappiamo 219, simmetricamente scambiata
con la prima scena di Sodome («congiunzione» Charlus-Jupien) a un punto tale che
dobbiamo considerare, nello stesso tempo, sia la prima scena come prolessi
destinata a colmare l'ellissi aperta, proprio a causa della sua anticipazione, fra
Sodome I e Sodome II, sia la seconda come analessi destinata a colmare l'ellissi aperta
nei Guermantes dal suo ritardo: incrociarsi di interpolazioni evidentemente motivato
dal desiderio del narratore di farla finita con l'aspetto propriamente mondano dei
Guermantes, prima di abbordare il «paesaggio morale» di Sodoma e Gomorra.
Si sarà forse osservata la presenza di prolessi iterative che, proprio come le
analessi dello stesso tipo, ci rimandano al problema della frequenza narrativa. Senza
trattare adesso questo problema in sé, osserverò semplicemente l'atteggiamento
caratteristico consistente, in occasione di una prima volta (primo bacio di Swann a
Odette, prima visione del mare a Balbec, prima sera all'Hotel di Doricières, primo
ricevimento dai Guermantes), nel prospettare in anticipo tutta la serie di casi a cui
essa darà origine. Vedremo nel capitolo seguente come le grandi scene tipiche della
Recherche si riferiscano in massima parte a un'iniziazione del genere («primi passi» di
Swann in casa Verdurin, di Marcel in casa della signora di Villeparisis, della
duchessa, della principessa), dato che il primo incontro è l'occasione migliore per
descrivere uno spettacolo o un ambiente, e può inoltre fungere da paradigma per i
seguenti. Le prolessi generalizzanti rendono in un certo senso esplicita questa
funzione paradigmatica, abbozzando una prospettiva sul la serie ulteriore: « finestra
a cui poi dovevo mettermi ogni mattina...» Sono quindi, come qualsiasi
anticipazione, un tratto di impazienza narrativa. Ma esse possiedono anche, mi
pare, un valore inverso, forse più specificamente proustiano, che mette in risalto
piuttosto un sentimento nostalgico per ciò che Vladimir Jankélévich ha chiamato
una volta la « primultimità » del primo momento, cioè il fatto che la prima volta,
proprio nella misura in cui si prova intensamente il suo valore inaugurale, è sempre
(già) contemporaneamente un'ultima volta — se non altro perché essa è
definitivamente l'ultima a essere stata la prima, e dopo di essa, fatalmente, comincia
il regno della ripetizione e dell'abitudine. Prima di baciare Odette per la prima
volta, Swann trattiene per un istante il suo viso «a qualche distanza fra le due
mani»: è, dice il narratore, per lasciare al suo pensiero il tempo di accorrere per
assistere alla realizzazione del sogno tanto a lungo accarezzato. C'è però anche un
altro motivo: «Forse anche Swann fissava su quel viso di Odette, non ancora
posseduta, non ancora neppure baciata da lui, ch'egli vedeva per l'ultima volta, lo
sguardo con cui, nel giorno della partenza, vorremmo portarci via il paese che
lasciamo per sempre». Possedere Odette, baciare Albertine per la prima volta,
significa vedere per l'ultima volta Odette non ancora posseduta, Albertine non
ancora baciata: a tal punto è vero che in Proust l'evento - qualunque evento -
rappresenta solo il passaggio, fuggitivo e irreparabile (in senso virgiliano), da
un'abitudine a un'altra.
Come le analessi dello stesso tipo, e per motivi altrettanto evidenti, le prolessi
ripetitive si trovano solo allo stato di brevi allusioni: riferiscono in anticipo un
evento che, al momento opportuno, verrà raccontato per esteso. Come le analessi
ripetitive hanno una funzione di richiamo nei confronti del destinatario del
racconto, le prolessi ripetitive ricoprono un ruolo di preannuncio, e le indicherò
anche con questo termine. La loro formula canonica è, in generale, «vedremo», e
«si vedrà in seguito», e il loro paradigma o prototipo, il seguente avvertimento a
proposito della scena sacrilega di Montjouvain: «Si vedrà più tardi come, per
tutt'altre ragioni, il ricordo di quell'impressione dovesse avere una parte importante
nella mia vita». Allusione, naturalmente, alla gelosia provocata in Marcel dalla
confessione (falsa) dei rapporti fra Albertine e la signorina Vinteuil 220. Il ruolo di
questi preannunci nell'organizzazione del racconto, e in quanto Barthes chiama la
sua tessitura, è abbastanza evidente, con l'attesa da essi creata nello spirito del
lettore. Attesa che può essere immediatamente dissolta, nel caso di un preannuncio
di piccolissima portata, o a breve scadenza, che per esempio, alla fine di un
capitolo, serve ad abbozzare l'argomento del capitolo seguente, iniziandolo, come
avviene in Madame Bovary221. La struttura più compatta della Recherche teoricamente
esclude un simile genere di effetti, ma chi ricorda la fine del capitolo II-4 di Bovary
(«Non sapeva che, sulla terrazza delle case, la pioggia fa dei laghi quando le
grondaie sono otturate, e sarebbe rimasta con questa opinione, quando ad un
tratto scopri una crepa nel muro») non avrà difficoltà a ritrovare questo modello di
presentazione metaforizzata nella frase d'apertura dell'ultima scena del Temps
retrouvé: « Ma a volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, giunge il
messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davan tutte sul nulla; e
nella sola per cui si può entrare, e che avremmo cercata invano cent'anni, urtiamo
inavvertitamente, ed essa s'apre»222.
Nella maggior parte dei casi però il preannuncio ha una portata ancora più vasta.
Sappiamo quanto Proust tenesse alla coesione e all'architettura della sua opera, e
come soffrisse nel vedere misconosciuti tanti effetti di simmetria a distanza e di
corrispondenze «telescopiche». La pubblicazione separata dei vari volumi poteva
solo aggravare il malinteso, ed è certo che i preannunci a lunga scadenza, come
nella scena di Montjouvain, dovevano servire ad attenuarlo fornendo una
provvisoria giustificazione a episodi la cui presenza poteva altrimenti sembrare
avventizia e gratuita. Ecco ancora altri casi analoghi, nell'ordine della loro
disposizione: «Quanto al professor Cottard, lo rivedremo, ed a lungo, molto più oltre,
in casa della "Padrona" nel castello della Raspelière»; «Vedremo come questa unica
ambizione mondana da lui nutrita per la moglie e per la figlia, fu proprio quella la
cui attuazione gli risultò interdetta, e da un veto così assoluto che egli mori senza
supporre che la duchessa potesse mai conoscerle. Vedremo parimenti che, invece, la
duchessa di Guermantes fece amicizia con Odette e Gilberte dopo la morte di
Swann » ; « Un dolore profondo com'era quello di mia madre io dovevo
conoscerlo un giorno, lo si vedrà nel seguito di questa narrazione»; «(Charlus) S'era
rimesso prima di ricadere più tardi nello stato in cui lo vedremo il giorno d'un
ricevimento dalla principessa di Guermantes»223.
Non dobbiamo confondere questi preannunci, espliciti per definizione, con
quelle che dobbiamo piuttosto chiamare esche224, semplici manovre preparatorie,
senza anticipazione, neppure allusiva, che solo più tardi troveranno il loro
significato, e derivano dall'arte tutta classica della «preparazione» (ad esempio, far
apparire fin dall'inizio un personaggio destinato a intervenire veramente solo
molto più tardi, come il marchese di la Mòle nel terzo capitolo di Le rouge et le noir).
Possiamo considerare come tali la prima apparizione di Charlus e di Gilberte a
Tansonville, di Odette come Signora in rosa, oppure la prima menzione della
signora di Villeparisis fin dalla ventesima pagina di Swann, o ancora la descrizione,
più palesemente funzionale, della scarpata di Montjouvain, «allo stesso livello del
salotto del secondo piano, a cinquanta centimetri dalla finestra», che prepara la
situazione di Marcel durante la scena della profanazione 225; o, con maggior ironia,
l'idea rimossa da Marcel di citare davanti al signor di Crécy quello che egli pensa sia
il vecchio « nome di battaglia » di Odette, che prepara la rivelazione ulteriore (da
parte di Charlus) dell'autenticità di quel nome, e della reale relazione fra i due
personaggi226. La differenza fra preannuncio ed esca è chiaramente percepibile nel
modo in cui Proust prepara, in tappe successive, l'entrata in scena di Albertine.
Prima menzione, nel corso di una conversazione in casa Swann: Albertine è
nominata in quanto nipote dei Bontemps, e giudicata con «uno strano modo di
fare» da parte di Gilberte: semplice esca; seconda menzione, nuova esca, da parte
della stessa signora Bontemps che qualifica sua nipote «sfacciata», «malignetta...
furba come una scimmia»: ha pubblicamente ricordato alla moglie di un ministro
che suo padre era uno sguattero; ritratto che verrà esplicitamente ricordato molto
più tardi, dopo la morte di Albertine, e designato come «seme trascurabile (che) si
sarebbe sviluppato e si sarebbe esteso un giorno sull'intera mia vita»; terza
menzione, vero preannuncio questa volta: «Ci fu una scenata a casa mia, perché
non accompagnai mio padre ad un pranzo ufficiale, al quale dovevano esserci i
Bontemps con la loro nipote Albertine, una ragazzetta, quasi ancora una bimba.
così i diversi periodi della nostra vita si accavallano gli uni sugli altri. A causa di ciò
che si ama e che un giorno ci sarà indifferente, si rifiuta con sdegno di vedere ciò
che oggi ci è indifferente, che domani ameremo, che forse, se avessimo consentito
a vederlo, si sarebbe potuto amar prima, ed avrebbe così abbreviato le nostre
sofferenze presenti, per sostituirle, è vero, con altre» 227. A differenza del
preannuncio, l'esca è perciò, in linea di massima, nel posto che occupa nel testo,
solo un «germe trascurabile», e addirittura impercettibile, il cui valore di germe sarà
riconosciuto solo in seguito, e in modo retrospettivo 228. Dobbiamo inoltre tener
conto dell'eventuale (o meglio variabile) competenza narrativa del lettore, nata
dall'abitudine, che permette di decifrare sempre più velocemente il codice narrativo
in generale, oppure quello tipico di un certo genere, di una certa opera, e di
identificare i germi fin dalla loro apparizione. Così, nessun lettore di Ivan Il'ič
(aiutato, è vero, dall'anticipazione del finale, e dal titolo stesso) può fare a meno di
identificare nella caduta di Ivan sulla spagnoletta della finestra lo strumento del
destino, l'esca dell'agonia. D'altronde è proprio su questa competenza che si basa
l'autore per ingannare il lettore, proponendogli a volte delle false esche, o inganni229
— ben noti agli amanti del genere poliziesco — tranne poi, una volta acquisita da
parte del lettore quella competenza di secondo grado che è l'abitudine a scoprire, e
quindi a smontare l'esca, il proporgli dei falsi inganni (che sono vere esche) e così
via. Sappiamo come il verosimile proustiano — fondato secondo le parole di Jean-
Pierre Richard, sulla «logica dell'incoerenza» 230 - giochi, in particolare per quanto
concerne l'omosessualità (e la sua sottile variante: l'eterosessualità), sul complesso
sistema di attese frustrate, di sospetti delusi, di sorprese previste (e in ultima analisi
tanto più sorprendenti proprio perché, pur essendo previste, nonostante ciò si
realizzano ugualmente) in virtù del principio valido per qualunque finalità, che « il
lavoro della causalità... finisce per produrre quasi tutti gli effetti possibili, e di
conseguenza anche quelli che si pensava lo fossero meno» 231: avvertimento agli
amatori di «leggi psicologiche» e di motivazioni realistiche.
Prima di lasciare l'argomento prolessi narrative, rimane ancora da dire una parola
sulla loro ampiezza, e sulla possibile distinzione operabile, anche qui, fra prolessi
parziali e complete, volendo accordare quest'ultima qualità alle prolessi che si
prolungano nel tempo della storia fino al- l'«agnizione» (per le prolessi interne)
oppure fino al momento narrativo stesso (per le prolessi esterne o miste): non ne
trovo esempi, e sembra in realtà che tutte le prolessi siano del tipo parziale,
interrotte spesso come sono state aperte: con decisione. Quelli che vengono
chiamati
segni di prolessi sono: «per anticipare gli avvenimenti, poiché solo ora ho finito la
mia lettera a Gilberte»; «per anticipare di alcune settimane sul racconto, che
riprenderemo subito dopo questa parentesi...»; «a voler anticipare un poco, giacché mi
trovo ancora a Tansonville... »; « diciamolo per anticipare, proprio il giorno dopo...»;
«Anticipo di alcuni anni...»232. Segni di fine di una prolessi e ritorno al racconto
principale: «Tornando indietro e a quella prima serata della principessa di
Guermantes...»; «Ma è ora di tornare al barone, che si avvicinava, con Brichot e con
me, verso la porta dei Verdurin...»; «Ma è necessario tornare indietro...»; «Ma, dopo
questa anticipazione, conviene tornare tre anni addietro, alla mattinata dalla principessa di
Guermantes...»233. Si vede che non sempre Proust indietreggia di fronte al peso
dell'esplicito.
L'importanza del racconto «anacronico» nella Recherche du temps perdu è legata
evidentemente al carattere retrospettivamente sintetico del racconto proustiano,
completamente presente a se stesso, in ogni momento, nello spirito del narratore
che — dal giorno in cui, in una sorta di estasi, ne ha avvertito il significato
unificante - non smette mai di reggerne contemporaneamente tutte le fila, di
coglierne al tempo stesso tutti i luoghi e tutti i momenti, fra i quali egli è
costantemente in grado di stabilire una molteplicità di relazioni «telescopiche»:
ubiquità spaziale, ma anche temporale, «onnitemporalità» perfettamente illustrata
dalla pagina del Temps retrouvé dove, davanti alla signorina di Saint-Loup, il
protagonista ricostruisce in un lampo la «rete di ricordi» concatenati in cui si è
trasformata la sua vita, e che è in procinto di diventare la trama della sua opera 234.
Ma le stesse nozioni di retrospezione o di anticipazione, su cui si basano come
«psicologia» le categorie dell'analessi e della prolessi, presuppongono una coscienza
temporale perfettamente chiara e delle relazioni senza ambiguità fra presente,
passato e avvenire. Solo per esigenze di esposizione, e a prezzo di una abusiva
schematizzazione, ho finora postulato che fosse sempre così. In realtà, la frequenza
stessa delle interpolazioni e il loro reciproco concatenamento ingarbugliano spesso
le cose in modo tale da farle restare senza soluzione per il « semplice» lettore, e
addirittura per l'analista più deciso. Per terminare il capitolo, prenderemo in
considerazione alcune di queste strutture ambigue, che ci portano al limite della
pura e semplice acronia.

Verso l'acronia.
Fin dalle nostre prime microanalisi, abbiamo incontrato esempi di acronie
complesse: prolessi di secondo grado nel segmento tratto da Sodome et Gomorrhe
(anticipazione della morte di Swann su anticipazione della sua colazione con
Bloch), ma anche analessi su prolessi (retrospezione da parte di Françoise proprio
sull'anticipazione dei funerali di Swann), o al contrario prolessi su analessi (ben due
volte, nel brano tratto da Jean Santeuil, richiami a progetti passati). Effetti simili di
secondo o terzo grado sono frequenti nella Recherche anche a livello delle grandi o
medie strutture narrative, perfino non tenendo conto dell'anacronia di primo grado
rappresentata dalla quasi totalità del racconto.
La tipica situazione evocata nel frammento tratto da Jean Santeuil (ricordi di
anticipazione), nella Recherche si è dispersa nei due personaggi usciti per scissiparità
dal primitivo protagonista. Il ritorno sul matrimonio di Swann, nelle Jeunes filles,
comporta un'evocazione retrospettiva dei progetti d'ambizione mondana a favore
della figlia e della (futura) moglie: «Quando Swann, nelle sue ore di fantasticheria,
vedeva Odette diventata sua moglie, invariabilmente si raffigurava il momento in
cui l'avrebbe condotta, lei e soprattutto sua figlia, in casa della principessa di
Laumes, presto divenuta duchessa di Guermantes... si commuoveva quando
inventava, enunciando perfino le parole, tutto quello che la duchessa direbbe di lui
a Odette eOdette alla signora di Guermantes... Recitava a se stesso la scena della
presentazione con la stessa precisione negli immaginari particolari propria di chi
esamini come impiegherà, se mai gli dovesse capitare, una vincita di cui fissa
arbitrariamente l'entità»235. Questo «sogno a occhi aperti» è prolettico in quanto
fantasma nutrito da Swann prima del suo matrimonio, analettico in quanto viene
ricordato da Marcel dopo il matrimonio in questione, e i due movimenti si
compongono per annullarsi, inserendo così il fantasma in perfetta coincidenza con
la sua crudele confutazione da parte dei fatti, poiché ci troviamo di fronte uno
Swann sposato da vari anni con una Odette sempre indesiderabile per il salotto
Guermantes. È pur vero che, a sua volta, Swann ha sposato Odette quando non
l'amava più, e «quando l'essere che, in lui, aveva tanto desiderato e tanto disperato
di vivere tutta la sua vita con Odette, era morto». Ecco quindi a confronto, nella
loro ironica contraddizione, gli antichi progetti e le realtà presenti: progetto di
chiarire un giorno i misteriosi rapporti di Odette con Forcheville, sostituito da una
totale mancanza di curiosità: «In passato, mentre soffriva tanto, aveva giurato a se
stesso che, appena non amasse più Odette, e non temesse più di irritarla o di farle
credere che l'amava troppo, si sarebbe preso la soddisfazione di chiarire con lei, per
semplice amore della verità e come per la storia, se Forche- ville era o non era a
letto con lei il giorno ch'egli aveva suonato e bussato al vetro della finestra senza
che gli si aprisse, e lei poi aveva scritto a Forcheville che era stato un suo zio a
venirla a cercare. Ma il problema così interessante, che egli attendeva di poter
mettere in chiaro al termine della sua gelosia, aveva perduto ai suoi occhi ogni
interesse, quando aveva cessato di essere geloso». Progetto di manifestare un
giorno la sua indifferenza futura, sostituito dalla discrezione della vera indifferenza:
«Mentre in passato aveva fatto il giuramento, se mai cessasse d'amare colei che non
immaginava dovesse essere un giorno sua moglie, di manifestarle implacabilmente
la propria indifferenza, finalmente sincera, per vendicare il proprio orgoglio così a
lungo umiliato, a queste rappresaglie che poteva esercitare ormai senza rischi... a
queste rappresaglie Swann non ci teneva più; insieme all'amore era scomparso il
desiderio di mostrare ch'egli non provava più amore». Identico confronto,
attraverso il passato, fra il presente vissuto anticipatamente e il presente reale, in
Marcel finalmente «guarito» dalla passione per Gilberte: «Non sentivo più desiderio
di vederla, e neppure quel desiderio di farle vedere che non m'importava più di
vederla che ogni giorno, quando l'amavo, mi ripromettevo di mostrarle quando
non l'avessi più amata»; oppure, con un significato psicologico lievemente diverso,
quando lo stesso Marcel diventato il «gran favorito» di Gilberte e l'ospite abituale
del salotto Swann, si sforza invano di ritrovare, per misurare il progresso compiuto,
il sentimento da lui nutrito un tempo sull'inaccessibilità di quel «luogo
inconcepibile» - non senza prestare allo stesso Swann analoghi pensieri nei
confronti della sua vita con Odette, antico « paradiso insperato» inimmaginabile
senza turbamenti, diventato prosaica realtà senza fascino alcuno 236. Quanto si era
progettato non ha luogo, quanto non si osava sperare si realizza, ma nel momento
in cui non lo si desidera più: il presente, in entrambi i casi, viene a sovrapporsi al
futuro d'un tempo, a cui si sostituisce, confutazione retrospettiva di
un'anticipazione erronea.
Movimento inverso, richiamo anticipato, deviazione non più attraverso il passato
ma attraverso l'avvenire, ogni volta che il narratore espone in anticipo come verrà
in seguito informato, a fatti compiuti, di un avvenimento attuale (o del suo
significato): così quando, raccontando una scena fra i signori Verdurin, precisa che
gli verrà riferita da Cottard «alcuni anni dopo». Il movimento oscillatorio si
accelera nella seguente indicazione di Combray : «Molti anni più tardi,
apprendemmo che, se quell'estate avevamo mangiato asparagi tutti i giorni, era
perché il loro odore dava alla povera sguattera incaricata di mondarli delle crisi
d'asma d'una tale violenza che fini per essere costretta ad andarsene» 237. Diventa
quasi istantaneo in questa frase della Prisonnière: «Seppi che quel giorno era
avvenuta una morte che mi addolorò assai: quella di Bergotte», così ellittica, così
discretamente anomica che il lettore in un primo momento crede di leggere : «
Seppi quel giorno che era avvenuta...» 238. Identico andirivieni a zigzag allorché il
narratore introduce un evento presente, o anche passato, per il tramite anticipato
del ricordo che ne avrà più tardi, come abbiamo già visto nelle ultime pagine delle
Jeunes filles en fleurs, che ci riconducono alle prime settimane di Balbec passando
attraverso i futuri ricordi di Marcel a Parigi; analogamente, quando Marcel vende a
una mezzana il canapè della zia Léonie, impariamo che solo «molto più tardi» si
ricorderà di aver usufruito, molto tempo prima, di quel canapè con l'enigmatica
cugina di cui siamo a conoscenza: analessi su parallissi, dicevamo, ma ora è
necessario completare la formula aggiungendo: attraverso prolessi. Contorsioni
narrative senz'altro sufficienti ad attirare sull'ipotetica giovinetta lo sguardo
sospettoso, per quanto benevolo, dell'ermeneuta.
Altro effetto di doppia struttura: una prima anacronia può invertire, anzi inverte
necessariamente, il rapporto fra un'anacronia secondaria e l'ordine di disposizione
degli avvenimenti nel testo. Così, lo statuto analettico di Un amour de Swann fa in
modo che un'anticipazione (nel tempo della storia) possa rinviare a un
avvenimento già coperto dal racconto: quando il narratore paragona l'angoscia
vespertina di Swann privato di Odette a quella che egli stesso proverà «alcuni anni
dopo» le sere in cui sempre Swann verrà a pranzo a Combray, il preannuncio
diegetico costituisce per il lettore al tempo stesso un richiamo narrativo, poiché ha
già letto il racconto di questa scena circa duecentocinquanta pagine «prima»; per
ragione uguale e opposta, il riferimento all'angoscia di Swann, nel racconto di
Combray, costituisce per il lettore un preannuncio del futuro racconto di Un amour
de Swann239. La formula esplicita di tali doppie anacronie può quindi essere,
approssimativamente, simile alla seguente: «In seguito doveva accadere, come
abbiamo già visto...», o: «Era già successo, come vedremo in seguito...»
Preannuncio retrospettivo? Richiamo anticipatorio? Quando il dietro è davanti e il
davanti dietro, definire la direzione di marcia diventa impresa delicata.
È analogo il numero di anacronie complesse, analessi prolettiche e prolessi
analettiche, che sconvolgono un po' le nozioni rassicuranti di retrospezione e
anticipazione. Ricordiamo inoltre l'esistenza di analessi aperte, di cui non è
possibile localizzare il punto terminale, fatto che inevitabilmente trascina con sé
l'esistenza di segmenti narrativi temporalmente indefiniti. Ma nella Recherche si
trovano anche dei segmenti sprovvisti di qualsiasi riferimento temporale, che in
nessun modo si possono situare rispetto a quelli circostanti: per avere un caso del
genere, è sufficiente che essi non siano collegati a un altro avvenimento (che
obbligherebbe il racconto a definirli come anteriori o posteriori), ma al discorso di
commento (atemporale) che li accompagna - e sappiamo quanta parte esso prenda
nell'opera in questione. Nel corso di un ricevimento in casa Guermantes il
narratore evoca (a proposito della signora di Varembon, ostinata a imparentarlo
con l'ammiraglio Jurien de la Gravière, e quindi, per esteso, degli errori analoghi
tanto frequenti in società) l'equivoco fatto da un amico dei Guermantes che gli
raccomandava sua cugina, la signora di Chaussegros, a lui totalmente ignota:
possiamo supporre che l'aneddoto, implicante un certo avanzamento nella carriera
mondana di Marcel, sia posteriore al ricevimento dai Guermantes, ma niente ci
permette di affermarlo. Nelle Jeunes filles en fleurs, dopo la scena della mancata
presentazione ad Albertine, il narratore propone alcune riflessioni sulla soggettività
del sentimento amoroso, poi ne illustra la teoria con l'esempio di un professore di
disegno che aveva sempre ignorato il colore dei capelli di una sua amante, da lui
appassionatamente amata, e che gli aveva lasciato una figlia («non l'ho mai veduta
senza cappello»240). In questo caso, nessuna inferenza dal contenuto può aiutare
l'analista a definire lo statuto d'una anacronia priva di qualunque relazione
temporale, che siamo perciò obbligati a considerare come evento senza data e
senza età: come acronia.
Ora, non è solo un simile evento isolato a manifestare così la capacità, posseduta
dal racconto, di sciogliere la sua disposizione da qualunque dipendenza, anche alla
rovescia, nei confronti dell'ordine cronologico della storia che esso racconta.
Almeno in due punti, la Recherche presenta vere e proprie strutture acroniche. Alla fine
di Sodome, l'itinerario del «Transatlantique» e la successione delle sue fermate
(Doncières, Maineville, Grattevast, Herme- nonville) determinano una breve
sequenza narrativa241, il cui ordine di successione (disavventura di Morel al casino
di Maineville - incontro del signor de Crécy a Grattevast) non deve nulla al
rapporto temporale fra i due avvenimenti che la compongono, e deve tutto al fatto
(esso stesso, d'altra parte, diacronico, di una diacronia però non coincidente con
quella degli avvenimenti raccontati) che il trenino passi prima per Maineville e poi
per Grattevast, e che le stazioni evochino in quell'ordine, allo spirito del narratore,
degli aneddoti ad esse collegati242. Ma, come ha giustamente osservato J. P.
Houston nel suo studio sulle strutture temporali della Recherche243, tale disposizione
« geografica » si limita solo a ripetere e a rendere manifesta quella più implicita ma
più importante sotto ogni aspetto, delle ultime cinquanta pagine di Combray, dove la
sequenza narrativa è governata dall'opposizione parte di Méséglise / parte di
Guermantes, e dal crescente allontanamen- , to dei luoghi in rapporto alla casa
familiare durante una passeggiata atemporale e sintetica 244. La successione: prima
apparizione di Gilberte — addio ai biancospini — incontro di Swann e Vinteuil -
morte di Léonie - scena di profanazione a casa Vinteuil - apparizione della
duchessa in chiesa — veduta dei campanili di Martinville, una successione del
genere non ha alcun rapporto con l'ordine temporale degli avvenimenti che la
compongono, oppure solo un rapporto di parziale coincidenza. Essa dipende
essenzialmente dall'ubicazione dei luoghi (Tansonville - pianura di Méséglise -
Montjouvain - ritorno a Combray - parte di Guermantes), e quindi da una
temporalità completamente diversa: opposizione fra i giorni di passeggiata verso
Méséglise e i giorni di passeggiata verso Guermantes, e all'interno di ognuna delle
due serie, ordine approssimativo delle «tappe» della passeggiata. Per immaginare
che l'incontro con la duchessa o l'episodio dei campanili siano posteriori alla scena
di Montjouvain, bisogna confondere ingenuamente, come fanno i lettori frettolosi,
l'ordine sintagmatico del racconto e l'ordine temporale della storia. La verità è che
il narratore aveva le ragioni più evidenti per raggruppare insieme, a dispetto di
qualunque cronologia, degli avvenimenti in relazione di prossimità spaziale, di
identità di clima (le passeggiate a Méséglise avvengono sempre col brutto tempo,
quelle a Guermantes col bel tempo), o di parentela tematica (la zona di Méséglise
rappresenta il versante erotico-affettivo, quella di Guermantes il versante estetico
del mondo dell'infanzia), in modo tale da rendere manifesta, più e meglio di
chiunque l'aveva preceduto, la capacità di autonomia temporale del racconto245.
Ma sarebbe totalmente vano pretendere di trarre conclusioni definitive dalla sola
analisi delle anacronie, che si limitano a illustrare uno dei caratteri essenziali della
temporalità narrativa. È abbastanza evidente, ad esempio, come le distorsioni della
durata contribuiscano all'emancipazione di questa temporalità in misura uguale alle
trasgressioni dell'ordine cronologico. È su queste distorsioni che ci fermeremo ora.
2. Durata.
Anisocronie.
All'inizio del capitolo precedente ho ricordato con quali ostacoli si scontri, in
letteratura scritta, la nozione stessa di «tempo del racconto». Difficoltà che si fanno
sentire più pesantemente, è evidente, a proposito della durata, poiché i fenomeni di
ordine, o di frequenza, si lasciano trasporre senza rischio dal piano temporale della
storia al piano spaziale del testo: dire che un episodio A viene nella disposizione
sintagmatica di un testo narrativo « dopo » un episodio B, o che un avvenimento C
è raccontato «due volte» sono proposizioni il cui senso è ovvio, chiaramente
confrontabili ad altre asserzioni come «l'avvenimento A è anteriore all'avvenimento
B nel tempo della storia » oppure «l'avvenimento C si verifica una volta sola». Il
confronto fra i due piani è quindi, in questo caso, legittimo e pertinente.
Confrontare la « durata » di un racconto a quella della storia che esso narra, è
un'operazione più scabrosa .. per il semplice motivo che nessuno può misurare la
durata di un racconto. Quella che, istintivamente, viene definita così può essere
esclusivamente, abbiamo detto, il tempo necessario a leggerlo, ma è fin troppo
chiaro che i tempi di lettura variano a seconda delle singole esigenze, e, al contrario
di quanto avviene al cinema, o anche in musica, in questo caso niente ci permette
di fissare una velocità «normale» per l'esecuzione di una lettura.

Il punto di riferimento, o grado zero, che in materia di ordine era la coincidenza


fra successione diegetica e successione narrativa, e nel caso presente sarebbe la
rigorosa isocronia fra racconto e storia, adesso ci viene dunque a mancare, anche
se, come osserva Jean Ricardou, è vero che una scena di dialogo (supponendola
scevra di qualsiasi intervento del narratore e senza nessuna ellissi) ci fornisce «una
sorta di uguaglianza fra il segmento narrativo e il segmento di finzione» 246. Il corsivo
«sorta» è nostro, per insistere sul carattere non rigoroso, soprattutto non
rigorosamente temporale, di tale uguaglianza: tutto quanto si può dire di un simile
segmento narrativo (o drammatico) è che esso riferisce quel che è stato detto, nella
realtà o nella finzione, senza aggiungervi nulla; ma non rende la velocità a cui sono
state pronunciate le parole, né gli eventuali tempi morti della conversazione. Non
può quindi in nessun modo avere il ruolo di indicatore temporale, e quand'anche lo
avesse, le sue indicazioni non potrebbero servire a misurare la « durata di racconto
» dei segmenti di ritmo diverso circostanti. Nella scena dialogata si trova perciò
solo una specie di uguaglianza convenzionale fra tempo del racconto e tempo della
storia, e in questo senso verrà da noi utilizzata un po' oltre in una tipologia delle
forme tradizionali di durata narrativa, ma essa non può servirci da punto di
riferimento per un rigoroso confronto delle reali durate.
Occorre quindi rinunciare a misurare le variazioni di durata riferendosi a
un'inaccessibile, perché inverificabile, uguaglianza di durata fra racconto e storia.
Ma l'isocronia di un racconto si può anche definire, come ad esempio quella di un
pendolo, non più relativamente, mediante un confronto fra la sua durata e quella
della storia narrata, ma in una maniera, in un certo senso, assoluta e autonoma,
come costanza di velocità. Per velocità intendiamo il rapporto fra una misura
temporale e una misura spaziale ( tanti metri al secondo, tanti secondi al metro): la
velocità del racconto verrà definita mediante il rapporto fra una durata (quella della
storia) misurata in secondi, minuti, ore, giorni, mesi e anni, e una lunghezza (quella
del testo) misurata in righe e in pagine 247. Il nostro ipotetico grado zero di
riferimento, cioè il racconto isocrono, è quindi in tal caso un racconto dalla velocità
uguale, senza accelerazioni o rallentamenti, in cui il rapporto durata di storia /
lunghezza di racconto resti sempre costante. È senz'altro gratuito precisare che un
racconto del genere non esiste, e può esistere solo come esperimento di
laboratorio: a qualunque livello dell'elaborazione estetica ci si trovi, possiamo
immaginare con difficoltà l'esistenza di un racconto che non sia in grado di
ammettere nessuna variazione di velocità. Osservazione banale che ha già una certa
importanza: un racconto può fare a meno di anacronie, non può fare a meno di
anisocronie, o, se preferiamo (come è probabile) fare a meno di effetti di ritmo.
L'analisi particolareggiata di tali effetti sarebbe in pari tempo spossante, e
sprovvista di qualsiasi vero rigore, dato che il tempo diegetico non è indicato quasi
mai (e neppure inferibile) con la precisione teoricamente necessaria.
Nel nostro caso il presente studio trova perciò una certa pertinenza solo a livello
macroscopico, quello delle grandi unità narrative248, ammettendo che per ogni unità
la misura corrisponda solo a un'approssimazione statistica.
Se vogliamo redigere una tabella di tali variazioni della Recherche du temps perdu,
occorre anzitutto determinare che cosa vorremo considerare come grandi
articolazioni narrative, e poi disporre, per misurare il loro tempo di storia, di una
cronologia interna approssimativamente chiara e coerente. Se è abbastanza facile
elaborare il primo dato, non lo è altrettanto per il secondo. Per quanto riguarda le
articolazioni narrative, occorre dapprima osservare che esse non coincidono con le
apparenti divisioni dell'opera in parti e capitoli provvisti di titoli e numeri 249. Se
vogliamo adottare come criterio demarcativo la presenza di una rottura temporale
e/o spaziale importante, allora il taglio si stabilisce come segue, senza esitazioni
eccessive (ad alcune di queste unità fornisco titoli di mia invenzione, puramente
indicativi):
1. I, pp. 3-186, trascurando le analessi memoriali studiate nel precedente
capitolo, si tratta dell'unità consacrata all'infanzia a Combray, che ovviamente
chiameremo, come fa Proust, Combray.
2. Dopo una frattura temporale e spaziale, Un amour de Swann, I, pp. 188-
382.
3. Dopo una frattura temporale, l'unità consacrata all'adolescenza
parigina, dominata dagli amori con Gilberte e dalla scoperta dell'ambiente Swann,
che occupa la terza parte di Du coté de chez Swann (Noms de pays: le Nom) e la prima
delle Jeunes filles en fleurs (Autour de Madame Swann), I, pp. 383-641; la chiameremo
Gilberte.
4. Dopo una frattura temporale (due anni) e spaziale (passaggio da Parigi
a Balbec), l'episodio del primo soggiorno a Balbec, che corrisponde alla terza parte
delle Jeunes filles (Noms de pays: le Pays), I, pp. 642-955: Balbec I.
5. Dopo una frattura spaziale (ritorno a Parigi), consideriamo una sola e
unica unità tutto quanto separa i due soggiorni a Balbec, e si svolge quasi
totalmente a Parigi (eccezion fatta per il breve soggiorno a Doncières),
nell'ambiente dei Guermantes, quindi il Coté de Guermantes al completo e l'inizio di
Sodome et Gomorrhe, ossia il secondo volume fino a pagina 751: Guermantes.
6. Il secondo soggiorno a Balbec, dopo una nuova frattura spaziale, cioè
tutta la fine di Sodome et Gomorrhe e del secondo volume; unità che battezzeremo
Balbec II.
7. Dopo un nuovo spostamento (ritorno a Parigi), la storia del sequestro, della
fuga e della morte di Albertine, fino a pagina 623 del terzo volume, cioè tutta la
Prisonnière e la maggior parte della Fugitive, fino alla partenza per Venezia: Albertine.
8. pp. 623-75, il soggiorno a Venezia e viaggio di ritorno: Venise.
9. pp. 675-723, intermedia fra la Fugitive e il Temps retrouvé: il soggiorno a
Tansonville.
10. Dopo una frattura temporale (soggiorno in casa di cura) e spaziale
(ritorno a Parigi), pp. 723-854: La Guerre.
11. Dopo un'ultima frattura temporale (nuovo soggiorno in casa di cura)
l'ultima unità narrativa, cioè quella della Matinée Guermantes, pp. 854-1048250.
Per quanto concerne la cronologia, è un compito un po' delicato, poiché quella
della Recherche non è chiara e neppure coerente nei particolari. Non sta a noi
riprendere adesso una discussione molto vecchia, apparentemente insolubile, i cui
punti di forza sono rappresentati da tre articoli di Willy Hachez, dal libro di Hans
Robert Jauss e da quello di Georges Daniel, ai quali rimando per la discussione
particolareggiata251. Ricordiamo solo che i due ostacoli principali sono, da un lato,
l'impossibilità di ricollegare la cronologia esterna di Un amour de Swann (riferimenti
a fatti storici che obbligano a datare l'episodio negli anni intorno al 1882-84) alla
cronologia generale della Recherche (che riporta lo stesso episodio verso gli anni
1877- 1878)252, e d'altro lato la discordanza fra la cronologia esterna degli episodi
Balbec II e Albertine (riferimenti a fatti storici situati fra il 1906 e il 1913) e la
cronologia interna generale, che le riferisce fra il 1900 e il 1902 253.
Possiamo quindi stabilire una cronologia approssimativamente coerente solo a
condizione di eliminare queste due serie esterne, attenendoci alla serie principale i
cui due punti fondamentali di riferimento sono: autunno 1897- primavera 1899 per
Guermantes (a causa dell'affare Dreyfus), e ovviamente 1916 per la guerra. A partire
da questi due riferimenti, possiamo stabilire una serie quasi omogenea, però non
senza alcune parziali oscurità, derivate principalmente: a) dal carattere fluttuante
della cronologia di Combray e dal suo rapporto mal definito con quella di Gilberte, b)
dall'oscurità di quella di Gilberte, che non permette di determinare se trascorrono
uno o due anni fra i due «capodanno» citati 254, c) dalla durata indeterminata delle
due permanenze in casa di cura255. Mi staccherò da queste incertezze per stabilire
una cronologia puramente indicativa, dato che ci proponiamo esclusivamente di
farci un'idea globale dei grandi ritmi del racconto proustiano. La nostra ipotesi
cronologica, nei limiti di pertinenza così stabiliti, è perciò la seguente:
Un amour de Swann: 1877-78.
(nascita di Marcel e di Gilberte: 1878).
Combray: 1883-92.
Gilberte : 1893- primavera 1895.
Balbec I: estate 1897.
Guermantes: autunno 1897-estate 1899.
Balbec II: estate 1900.
Albertine: autunno 1900-inizio 1902.
Venise: primavera 1902.
Tansonville: 1903?
La Guerre: 1914 e 1916.
Matinée Guermantes: verso il 1925.
Secondo questa ipotesi, e alcuni altri dati temporali più minuti, le grandi
variazioni della velocità del racconto si stabiliscono all'incirca nel modo seguente:
Combray : 180 pagine per circa 10 anni.
Un amour de Swann: 200 pagine per 2 anni approssimativamente.
Gilberte: 160 pagine per circa 2 anni.
(A questo punto, ellissi di due anni).
Balbec I: 300 pagine per 3 o 4 mesi.
Guermantes: 750 pagine per 2 anni e mezzo. Ma occorre precisare che questa
sequenza contiene a sua volta variazioni notevolissime, dato che 110 pagine
narrano il ricevimento Villeparisis, che deve durare 2 0 3 ore, 150 pagine il pranzo,
all'incirca di eguale durata, dalla duchessa di Guermantes, e 100 pagine la soirée dalla
principessa: ossia, la metà circa della sequenza per meno di 10 ore di ricevimento
mondano.
Balbec II: 380 pagine per circa 6 mesi, 125 delle quali per una serata alla
Raspelière.
Albertine: 630 pagine per circa 18 mesi, 300 delle quali consacrate esclusivamente
a 2 giorni, e 135 alla sola serata musicale Charlus-Verdurin.
Venise: 35 pagine per alcune settimane.
(Ellissi indeterminata: almeno alcune settimane).
Tansonville: 40 pagine per «alcuni giorni». (Ellissi di circa 12 anni).
La Guerre: 130 pagine per alcune settimane, l'essenziale delle quali per una sola
serata (passeggiata a Parigi e la «casa» di Jupien). (Ellissi di «molti anni»).
Matinée Guermantes: 190 pagine per 2 o 3 ore.
Da questa nota estremamente sommaria si possono trarre, a mio parere, almeno
due conclusioni. In primissimo luogo l'ampiezza delle variazioni, che va da 190
pagine per 3 ore a 3 righe per 12 anni, ossia, molto approssimativamente, da una
pagina per un minuto a una pagina per un secolo. Poi, l'evoluzione interna del
racconto a mano a mano che esso procede verso la fine, evoluzione descrivibile
sostanzialmente dicendo come, da un lato, possiamo osservare il progressivo
rallentamento del racconto, per la crescente importanza di lunghissime scene che
coprono una piccolissima durata di storia; e d'altro lato, a compensare, in un certo
senso, questo rallentamento, una presenza sempre più massiccia delle ellissi: due
aspetti che possiamo agevolmente sintetizzare così: crescente discontinuità del racconto.
Il racconto proustiano tende a diventare sempre più discontinuo, sincopato,
costituito da enormi scene separate da immense lacune, e quindi ad allontanarsi
sempre più dall'ipotetica «norma» dell'isocronia narrativa. Ricordiamo che, in
questo caso, non si tratta affatto di una evoluzione nel tempo tale da poter rinviare
ad una trasformazione psicologica dell'autore, dato che la Recherche non è stata
scritta nell'ordine in cui essa è attualmente disposta. È vero invece che Proust, di
cui conosciamo la tendenza a gonfiare incessantemente il testo con aggiunte, ha
avuto più tempo per aumentare gli ultimi volumi anziché i primi; l'appesantimento
delle ultime scene fa quindi parte del ben noto squilibrio portato alla Recherche dalla
pausa nella pubblicazione imposta dalla guerra. Ma se le circostanze spiegano le
minute «farciture», non possono spiegare la composizione globale. Pare proprio
che Proust abbia voluto, e fin dall'inizio, questo ritmo sempre più contrastante, di
una massività e di una brutalità beethoveniane, in opposizione così viva alla fluidità
quasi inafferrabile delle prime parti, come per opporre la tessitura temporale degli
avvenimenti più remoti a quella dei più recenti; quasi la memoria del narratore, a
mano a mano che i fatti si avvicinano, diventasse al tempo stesso più selettiva e più
mostruosamente dilatante.
Un cambiamento di ritmo del genere può essere correttamente definito e
interpretato solo una volta messo in rapporto con altri trattamenti temporali che
studieremo nel seguente capitolo. Ma fin d'ora possiamo e dobbiamo considerare
più minutamente come si suddivide e si organizza in realtà la differenza (in teoria
infinita) delle velocità narrative. Teoricamente infatti, esiste una gradazione
continua che parte dalla velocità infinita delle ellissi, dove un segmento inesistente
di racconto corrisponde a una durata qualsiasi di storia, per arrivare alla lentezza
assoluta della pausa descrittiva, dove un segmento qualunque del discorso narrativo
corrisponde a una durata diegetica zero 256. In realtà, troviamo che la tradizione
narrativa, in particolare quella del romanzo, ha ridotto questa libertà, o per lo
meno l'ha ordinata operando una scelta fra tutte le possibilità, cioè i quattro
rapporti fondamentali divenuti, nel corso di un'evoluzione il cui studio in futuro
sarà di competenza della storia (che deve ancora nascere) della letteratura, le forme
canoniche del tempo del romanzo: un po' come la tradizione musicale classica aveva
distinto nell'infinità delle possibili velocità d'esecuzione alcuni movimenti canonici,
andante, allegro, presto, ecc., i cui rapporti di successione e d'alternanza hanno guidato
per circa due secoli strutture come quelle della sonata, della sinfonia e del concerto.
Le quattro forme fondamentali del movimento narrativo (d'ora in poi le
chiameremo i quattro movimenti narrativi) sono i due estremi che ho appena
evocato (ellissi e pausa descrittiva) e due intermedi: la scena, nella maggior parte dei
casi «dialogata», che, lo abbiamo già osservato, convenzionalmente realizza
l'uguaglianza di tempo fra racconto e storia, e quanto la critica anglosassone
chiama summary, termine senza equivalente preciso, che noi chiameremo racconto
sommario o, brevemente, sommario: forma dal movimento variabile (mentre le altre
tre possiedono un movimento, almeno in teoria, determinato) che copre, con una
grande elasticità di comportamento, tutto il campo compreso fra scena e ellissi. I
valori temporali dei quattro movimenti si potrebbero agevolmente schematizzare
nelle seguenti formule, dove TS designa il tempo della storia e TR lo pseudotempo,
o tempo convenzionale, del racconto:
pausa TR = n, TS = O. Quindi: TR ∞> TS257
scena TR = TS
sommario TR < TS
ellissi TR = O, TS = n. Quindi: TR <∞ TS.
La semplice lettura di questa tabella fa risaltare una asimmetria, cioè l'assenza di
una forma dal movimento variabile simmetrica al sommario, la cui formula ideale
sarebbe TR > TS: si tratterebbe, evidentemente, di una specie di scena al
rallentatore, e immediatamente pensiamo alle scene proustiane, che sembrano
spesso debordare alla lettura, e di molto, il tempo diegetico che si suppone esse
ricoprano. Ma, come vedremo, le grandi scene di romanzo sono, specialmente in
Proust, essenzialmente allungate da elementi extranarrativi, o interrotte da pause
descrittive, ma non esattamente a rallentatore. È ovvio, d'altronde, che il dialogo
puro non può mai essere rallentato. Resta la minuta narrazione di atti o di fatti
raccontati più lentamente di come siano stati compiuti o subiti: cosa senz'altro
realizzabile come esperimento deliberato258, ma non si tratta in questo caso di una
forma canonica, e neppure veramente realizzata nella tradizione letteraria: le forme
canoniche si riducono proprio, nella realtà, ai quattro movimenti elencati.

Sommario.
Ora, se prendiamo in considerazione sotto questo punto di vista il regime
narrativo della Recherche, la prima osservazione che s'impone è l'assenza quasi totale
del racconto sommario nella forma che gli fu propria in tutta la precedente storia
del romanzo, cioè la narrazione in alcuni paragrafi o in alcune pagine di vari giorni,
mesi o anni di esistenza, senza particolari di azioni o di parole. Borges ne cita un
esempio, tratto dal Don Chisciotte, a mio parere abbastanza tipico:

Infine, nel luogo e nell'occasione che gli erano offerti dall'assenza di Anselmo, gli parve di dover stringere ancora di più
l'assedio di quella fortezza, e quindi si rivolse all'amor proprio di lei, facendo l'esaltazione della sua bellezza, perché non
c'è nulla che faccia più presto arrendere e spianare le superbe torri della vanità delle belle donne, che la vanità stessa,
messa su una lingua adulatrice. Egli infatti, con ogni cura, minò la rocca della sua onestà, con tali colpi che se anche
Camilla fosse stata tutta di bronzo, sarebbe crollata al suolo. Con tale ardore, con tali segni di profonda sincerità Lotario
pianse, pregò, promise, adulò, insistette e finse, che mandò all'aria la riservatezza di Camilla e riuscì a trionfare di quel che
meno s'aspettava e che desiderava di più259.

«Capitoli come (questo), — commenta Borges, - formano la schiacciante


maggioranza della letteratura mondiale, e certo non la più spregevole». In questo
caso, d'altra parte, Borges pensa meno ai rapporti fra l'astrazione classica (reperibile
qui, malgrado le metafore, o forse a causa loro) e l'espressività «moderna». Se ci
interessa maggiormente l'opposizione fra scena e sommario 260, non possiamo
evidentemente sostenere che testi come questo «formano la schiacciante
maggioranza della letteratura mondiale», per la semplice ragione che la sinteticità
stessa del sommario gli conferisce quasi sempre un'inferiorità quantitativa evidente
rispetto ai capitoli descrittivi o drammatici, e perciò il sommario occupa
presumibilmente un posto ridotto nella totalità del corpus narrativo, anche classico.
È evidente invece che il sommario è rimasto, fino alla fine del xix secolo, la
transizione più comune fra due scene, lo «sfondo» su cui esse si stagliano, e quindi
il tessuto connettivo per eccellenza del racconto nel romanzo, il cui ritmo
fondamentale viene definito dall'alternanza del sommario e della scena. Dobbiamo
aggiungere come la maggioranza dei segmenti retrospettivi, in particolare in quelle
che abbiamo chiamato analessi complete, si ricolleghino a questo tipo di
narrazione; lo dimostra l'esempio tipico e mirabile del secondo capitolo di Birotteau
:

Un mezzadro dei dintorni di Chinon, tale Jacques Birotteau, sposò la cameriera di una signora presso cui egli si occupava
delle vigne; ebbe tre figli, con l'ultimo la moglie mori di parto, e il pover'uomo non le sopravvisse di molto. La padrona era
affezionata alla cameriera; fece educare assieme ai suoi figli il maggiore dei bambini del suo mezzadro, di nome Francois, e
lo mise in seminario. Ordinato prete, Francois Birotteau, durante la Rivoluzione, si nascose e condusse la vita errabonda
dei preti che non avevano prestato giuramento, braccati come bestie feroci, e ghigliottinati... 261.

Niente di simile in Proust. La riduzione del racconto in lui non passa mai
attraverso questo genere di accelerazioni, perfino nelle anacronie, che nella
Recherche costituiscono quasi sempre vere e proprie scene (anteriori o ulteriori) e
non delle sintetiche carrellate sul passato o sull'avvenire: essa deriva da un tipo di
sintesi completamente diverso, che studieremo più accuratamente sotto il nome di
racconto iterativo262, oppure spinge l'accelerazione fino ai limiti che separano il
racconto sommario dall'ellissi pura e semplice: è constatabile nella maniera con cui
sono riassunti gli anni di ritiro che precedono e seguono il ritorno di Marcel a
Parigi durante la guerra263. La confusione fra accelerazione ed ellissi è d'altronde
manifesta nel celebre commento consacrato da Proust a una pagina dell'Education
sentimentale: «E qui uno spazio bianco, un enorme spazio bianco 264, e senza l'ombra
d'una transizione265, mentre a un tratto la misura del tempo diviene pari ad anni, a
decenni, anziché a quarti d'ora [...] straordinario cambiamento di velocità, senza
preparazione»266. Ora, Proust ha appena presentato questo passaggio nei seguenti
termini: «A mio parere, la cosa più bella dell'Education sentimentale non è una frase,
ma uno spazio bianco», e proseguirà così: «(in Balzac) simili cambiamenti di tempo
hanno un carattere attivo o documentaristico...» Non sappiamo quindi se per lui è
mirabile in questo caso lo spazio bianco, cioè l'ellissi che separa i due capitoli, o il
cambiamento di velocità, cioè il racconto sommario delle prime righe del sesto
capitolo: la verità è che indubbiamente la distinzione gli interessa poco, tanto è
vero che quando si abbandona a una sorta di «tutto o nulla» narrativo, è in grado di
accelerare, secondo la sua stessa espressione, solo «follemente» 267, anche a rischio
(dedichiamo questa metafora meccanica ai mani dell'infelice Agostinelli) di
partire268.

Pausa.
Una seconda constatazione negativa concerne le pause descrittive. Proust passa
di solito per un romanziere prodigo in descrizioni, e senz'altro deve tale
reputazione a una conoscenza per lo più antologica della sua opera, in cui
inevitabilmente vengono isolati apparenti excursus come i biancospini di
Tansonville, le marine di Elstir, la fontana della principessa, ecc. I passaggi
descrittivi caratterizzati in realtà non sono, in confronto all'ampiezza dell'opera,
numerosissimi (non più d'una trentina) e neppure lunghissimi (la maggior parte
non supera le quattro pagine): proporzione probabilmente inferiore a quella
reperibile in certi romanzi di Balzac. D'altra parte, un gran numero di descrizioni
(senz'altro più d'un terzo) sono di tipo iterativo 269, cioè non si riferiscono a un
particolare momento della storia, ma a una serie di momenti analoghi, e di
conseguenza non possono in nessun modo contribuire a rallentare il racconto,
bensì hanno la funzione opposta: vedi la camera di Léonie, la chiesa di Combray, le
«marine» a Balbec, l'albergo di Doncières, il paesaggio di Venezia 270 altrettante
pagine ognuna delle quali sintetizza in un solo segmento il vario riproporsi dello
stesso spettacolo. Ma la cosa più importante è questa: anche quando l'oggetto
descritto è stato incontrato una volta sola (come gli alberi di Hudimesnil) 271,
oppure la descrizione riguarda solo una delle sue apparizioni (per lo più la prima,
come per la chiesa di Balbec, la fontana Guermantes, il mare alla Raspelière) 272,
questa descrizione non determina mai una pausa del racconto, una sospensione
della storia o, secondo il termine tradizionale, delibazione»: il racconto proustiano
effettivamente non si ferma mai su un oggetto o su uno spettacolo senza che
questa sosta corrisponda a una sosta contemplativa dello stesso protagonista
(Swann, in Un amour de Swann, Marcel un po' dappertutto nel resto del romanzo) e
quindi il brano descrittivo non esce mai dalla temporalità della storia.
Beninteso, questo trattamento della descrizione non costituisce di per sé
un'innovazione, e quando ad esempio, nell'Astrée273, il racconto descrive a lungo i
quadri esposti nella camera di Céladon al castello di Isoure, possiamo considerare
una simile descrizione come se essa accompagnasse in qualche modo lo sguardo di
Céladon che, al suo risveglio, scopre quei quadri. Ma sappiamo come il romanzo di
Balzac al contrario abbia fissato un canone descrittivo (d'altronde più conforme al
modello dell'ekphrasis epica)274 tipicamente extratemporale, in cui il narratore,
abbandonando il corso della storia (oppure, come nel Pére Goriot o nella Recherche de
l'absolu, prima di entrarvi) si incarica, in prima persona, ed esclusivamente per
informare il suo lettore, di descrivere uno spettacolo che a rigor di termini, a
questo punto della storia, nessuno guarda: come viene chiaramente mostrato, per
esempio, dalla frase che inaugura il quadro di palazzo Cormon nella Vieille fille:
«Adesso bisogna entrare presso colei verso la quale convergevano tanti interessi, e
da cui gli attori di questa scena dovevano incontrarsi tutti quanti la sera stessa...» 275.
Questa entrée è evidentemente di esclusiva competenza del narratore e del lettore,
che percorreranno la casa e il giardino mentre i veri « attori di questa scena »
continuano altrove a dedicarsi alle loro occupazioni, o meglio aspettano, per
riprenderle, il momento in cui il racconto mostri di voler tornare verso di loro per
restituirli alla vita276.
Stendhal, come sappiamo, si era sempre sottratto a questo canone polverizzando
le descrizioni e integrando quasi sistematicamente quel che di esse lasciava
sussistere alla prospettiva di azione - o di fantasticheria - dei suoi personaggi; ma la
posizione di Stendhal, qui come in altri casi, resta marginale e senza influsso
diretto. Volendo trovare nel romanzo moderno un modello o un precursore della
descrizione proustiana, dobbiamo pensare, con ragioni molto più solide, a
Flaubert. Non che il tipo balzachiano gli sia completamente estraneo : ne è
esempio il quadro di Yonville che apre la seconda parte di Bovary; ma nella
maggioranza dei casi, perfino nelle pagine descrittive di una certa ampiezza, il
movimento generale del testo277 è sottoposto all'atteggiamento o allo sguardo di
uno (o vari) personaggio/i e il suo svolgimento copre la durata di quel percorso
(scoperta della casa di Tostes da parte di Emma, passeggiata nel bosco di Frédéric
e Rosanette)278 o di quella immobile contemplazione (scena nel giardino di Tostes,
padiglione con i vetri colorati della Vaubyessard, vedute di Rouen) 279.
Il racconto proustiano sembra aver elevato a norma questo principio di
coincidenza. Sappiamo a quale abitudine tipica dello stesso autore rimandi una
simile capacità, da parte del protagonista, di immobilizzarsi per lunghi minuti
davanti a un oggetto (biancospini di Tansonville, stagno di Montjouvain, alberi di
Hudimesnil, meli in fiore, vedute del mare, ecc. ) il cui potere di fascinazione deriva
dalla presenza di un segreto non svelato, messaggio ancora indecifrabile ma
insistente, abbozzo e velata promessa della rivelazione finale. Tappe contemplative
del genere possiedono per lo più una durata che non corre nessun rischio di
eccedenza rispetto a quella della lettura (anche lentissima) del testo che le
«riferisce»: è il caso della galleria degli Elstir a casa del duca di Guermantes, la cui
evocazione occupa solo quattro pagine280; ma proprio a proposito della galleria,
Marcel si rende conto, solo a cose fatte, che essa lo ha trattenuto in
contemplazione per tre quarti d'ora, mentre il duca, sul punto di morire di fame,
faceva pazientare alcuni invitati rispettosi, fra cui la principessa di Parma. La
«descrizione» proustiana è in realtà, piuttosto che una descrizione dell'oggetto
contemplato, un racconto e un'analisi dell'attività percettiva del personaggio
contemplante, delle sue impressioni, scoperte progressive, cambiamenti di distanza
e di prospettiva, errori e correzioni, entusiasmi o delusioni, ecc. Contemplazione
davvero attivissima, e che contiene « tutta una storia». La descrizione proustiana
racconta proprio questa storia. Si rileggano ad esempio le pagine consacrate alle
marine di Elstir a Balbec281: si vedrà come vi si affollino non i termini che
definiscono cos'è la pittura di Elstir, bensì «le illusioni ottiche» che essa «ricrea», e
le impressioni ingannevoli che, di volta in volta, essa suscita e dissolve: sembrare,
apparire, dar l'impressione, come se, si sentiva, si sarebbe detto, si pensava, si capiva, si vedeva
riapparire, si correva fra i campi pieni di sole, ecc. L'attività estetica non è, nel caso
presente, molto riposante, aspetto che non deriva solo dalle «metafore» en trompe
l'œil del pittore impressionista. Ritroviamo l'identico lavoro della percezione,
l'identica lotta, o gioco, con le apparenze, davanti al minimo oggetto o paesaggio.
Ecco il giovanissimo) Marcel alle prese con la manciata di tiglio fatta seccare dalla
zia Léonie282: quasi un pittore, le foglie avevan l'aria delle cose più disparate, ma mille
piccoli particolari mi davano la gioia di capire che eran proprio steli di veri tigli,
riconoscevo, il lampo rosato mi mostrava che quei petali erano proprio quelli che,
ecc.: tutta una precoce educazione dell'arte di vedere, di andare oltre le apparenze
ingannevoli, di discernere le vere identità, che fornisce a questa descrizione,
d'altronde iterativa, una durata piena a livello di storia. Identico lavoro di
discernimento davanti alla fontana di Hubert Robert, di cui riproduco
integralmente la descrizione limitandomi a sottolineare i termini designanti la
durata dello spettacolo e l'attività del protagonista, mascherata qui da un pronome
impersonale falsamente generalizzante (è un po' il caso dell'«on» di Brichot) che
moltiplica la sua presenza senza abolirla:

In una radura contornata da begli alberi tra cui molti erano più antichi di esso, piantato in disparte, da lontano si scorgeva il
famoso zampillo, snello, immobile, solido, non offrente al soffio della brezza che il ricadere più lieve del suo pennacchio
pallido e fremente. Il secolo XVIII aveva purificato l'eleganza delle sue linee, ma, fissando lo stile dello zampillo, pareva ne
avesse fermato la vita; a quella distanza, provavamo l'impressione dell'arte più che non la sensazione dell'acqua. Perfino l'umida
nuvola che si addensava perennemente sulla sua vetta, conservava il carattere dell'epoca, come quelle che in cielo s'adunano
intorno al castello di Versailles. Ma, da presso, ci si rendeva conto come, pur rispettando, al pari delle pietre d'un antico
palazzo, il disegno tracciato in precedenza, fossero acque sempre nuove quelle che, slanciandosi obbedienti agli antichi ordini
dell'architetto, li adempivano proprio quando sembravano violarli, giacché solo i loro mille balzi sparsi potevano dare, a
distanza, l'impressione d'un unico slancio. E questo, in realtà, s'interrompeva non meno sovente di quanto non s'infrangesse
l'acqua ricadendo, mentre da lontano, mi era sembrato inflessibile, denso, d'una continuità senza lacune. Accostandoci un poco,
vedevamo che tale continuità, in apparenza tutta lineare, era assicurata, in ogni punto dell'ascesa dello zampillo, ovunque esso
avrebbe dovuto spezzarsi, dall'entrata in gioco, dalla ripresa laterale d'uno zampillo parallelo, che saliva più in alto del
primo ed era, a sua volta, a un'altezza maggiore ma ormai per lui stancante, ripreso da un terzo. Più vicino, gocciole senza
forza ricadevano dalla colonna d'acqua, scontrandosi al passaggio con le loro sorelle in ascesa, e a volte, lacerate, afferrate
in un risucchio dell'aria agitata da quello zampillio senza tregua, fluttuavano prima di riversarsi nella vasca. Con le loro
esitazioni, con il loro tragitto in senso inverso, esse turbavano, sfumandole col loro molle vapore, la linearità e la tensione di
quello stelo, sormontato da una nuvola oblunga di mille goccioline, ma in apparenza tinto d'un color bruno-dorato e
immutabile, che saliva, infrangibile, immobile, slanciato e rapido, a congiungersi con le nuvole in cielo. Per disgrazia,
bastava un colpo di vento a proiettarlo obliquamente sulla terra: a volte, anche un solo zampillo disobbediente mutava
rotta, e, se la folla incauta e contemplativa non si fosse tenuta a una rispettosa distanza, avrebbe rischiato di bagnarsi fino
alle ossa283.
Ritroviamo ancora una situazione analoga, molto più ampiamente sviluppata,
durante la matinée dai principi Guermantes, le cui prime trenta pagine, se non di
più284, si basano sull'attività di discernimento e di identificazione imposte al
protagonista dall'invecchiamento di un'intera « società». A prima vista sono trenta
pagine puramente descrittive: quadro del salotto Guermantes dopo dieci anni di
assenza. In realtà, si tratta piuttosto di un racconto: del come l'eroe, passando
dall'uno all'altro (o dagli uni agli altri) deve ogni volta fare lo sforzo — in qualche
caso infruttuoso - di riconoscere in quel vecchietto il duca di Chàtellerault, sotto la
barba il signor d'Argencourt, il principe d'Agrigento nobilitato dall'età, in un
vecchio colonnello il giovane conte di..., Bloch come Bloch padre, ecc., lasciando
percepire a ogni incontro «il lavoro spirituale che (lo) faceva esitare fra tre o
quattro persone», e l'altro «lavoro spirituale», ancora più sconvolgente, quello
dell'identificazione in sé: «Infatti, riconoscere qualcuno, o, più ancora, dopo non
essere riusciti a riconoscerlo, identificarlo, significa pensare sotto una sola
denominazione due cose contraddittorie, significa ammettere che, quel che era,
l'essere che ricordiamo, non esiste più e quel che c'è è un essere che non
conosciamo; significa dover penetrare un mistero quasi altrettanto sconcertante del
mistero della morte, di cui, del resto, esso è come la prefazione e l'annunciatore» 285.
Sostituzione dolorosa, come quella che, davanti alla chiesa di Balbec, si deve
operare dal reale all'immaginario: «il mio spirito si stupiva di vedere la statua che
mille volte aveva scolpito, ridotta ora alla sua propria apparenza di pietra, di cui
potevo misurare l'altezza», opera d'arte «metamorfosata, come la chiesa stessa, in
una vecchietta di pietra di cui potevo misurare l'altezza e contare le rughe» 286.
Sovrapposizione euforica, invece, quella offerta dal confronto fra il ricordo di
Combray e il paesaggio di Venezia, «impressioni analoghe... ma trasposte in un
mondo completamente diverso e più ricco» 287. Giustapposizione difficile infine,
quasi acrobatica, delle tessere di «paesaggio all'alba» scorte alternativamente dai due
opposti finestrini del vagone ferroviario fra Parigi e Balbec, che obbliga il
protagonista a «correre da un finestrino all'altro per avvicinare, per rintelare i
frammenti intermittenti e opposti del (suo) bel mattino scarlatto e versatile e
averne una veduta totale e un quadro continuo»288.
La contemplazione in Proust, come si vede, non è una folgorazione istantanea
(come la reminiscenza) e neppure un momento d'estasi passivo e riposante: è
un'attività intensa, intellettuale e spesso fisica, la cui descrizione, in ultima analisi, è
un racconto come un altro. S'impone quindi una conclusione: la descrizione, in
Proust, si riassorbe in narrazione e il secondo tipo canonico di movimento —
quello della pausa descrittiva - in lui non è reperibile, per l'evidente ragione che la
descrizione, nel suo caso, è tutto tranne una pausa del racconto.

Ellissi.
Assenza del racconto sommario, assenza della pausa descrittiva: nel quadro del
racconto proustiano sussistono quindi solo due dei movimenti tradizionali: la scena
e l'ellissi. Prima di considerare il regime temporale e la funzione della scena
proustiana, diciamo qualche parola sull'ellissi. In questo caso, è evidente, si tratta
dell'ellissi in senso proprio, o ellissi temporale, tralasciando le omissioni laterali, a cui
abbiamo riservato il nome di parallissi.
Dal punto di vista temporale, l'analisi dell'ellissi è riconducibile alla
considerazione del tempo di storia eliso, e il primo problema, in tal caso, è sapere
se questa durata è indicata (ellissi determinate) oppure no (ellissi indeterminate). Così,
fra la fine di Gilberte e l'inizio di Balbec, si inserisce un'ellissi di due anni chiaramente
determinata: «Ero giunto a un'indifferenza quasi completa nei confronti di
Gilberte, quando due anni più tardi partii con mia nonna per Balbec» 289;
ricordiamo al contrario come le due ellissi relative alla permanenza del
protagonista in casa di cura siano (quasi) ugualmente indeterminate («lunghi anni»,
«molti anni»), e la loro analisi si riduca a inferenze a volte difficili.
Dal punto di vista formale, verranno distinte:
a) Le ellissi esplicite come quelle appena citate, che procedono sia tramite
indicazione (determinata o no) del lasso di tempo da loro eliso, assimilabili perciò a
sommari rapidissimi, sul tipo « trascorsero molti anni»: è questa indicazione allora a
costituire l'ellissi in quanto segmento testuale, non completamente uguale a zero; sia
tramite elisione pura e semplice (grado zero del testo ellittico) con indicazione del
tempo trascorso alla ripresa del racconto: sul tipo «due anni dopo» citato poco fa;
forma, com'è chiaro, più rigorosamente ellittica, benché altrettanto esplicita e non
necessariamente più breve: ma il sentimento narrativo, della lacuna, è mimato dal
testo in maniera più analogica, più «iconica», nel senso dato da Peirce e da
Jakobson290. Entrambe le forme, d'altra parte, possono aggiungere all'indicazione
puramente temporale un'informazione di contenuto diegetico, sul genere: «
trascorsero alcuni anni di felicità» oppure: «dopo alcuni anni di felicità». Ellissi qualificate
che costituiscono una delle risorse della narrazione romanzesca: nella Chartreuse de
Parme Stendhal ce ne fornisce un esempio mirabile, dopo gli incontri notturni di
Fabrice e Clélia: «Qui, chiediamo il permesso di passare, senza dirne una sola parola,
su uno spazio di tre anni... Dopo quei tre anni di divina felicità...»291. Aggiungiamo
che la qualificazione negativa è una qualificazione come un'altra: è il caso di
Fielding, che si vanta con una certa esagerazione di essere il primo a variare il
ritmo del racconto e a elidere i tempi morti dell'azione 292, quando salta oltre dodici
anni della vita di Tom Jones arguendo che quel periodo «non offre (a suo parere)
nessun episodio degno di entrare nella sua storia » 293; sappiamo fino a che punto
Stendhal ammirasse e imitasse questa disinvoltura. Nella Recherche, le due ellissi che
inquadrano l'episodio della guerra costituiscono evidentemente delle ellissi
qualificate, dato che possiamo apprendere come Marcel abbia passato quegli anni
in una casa di cura, a curarsi senza guarire e senza scrivere. Ma è quasi analoga,
benché retrospettiva, quella che apre Balbec I, poiché dire «ero giunto a
un'indifferenza quasi completa nei confronti di Gilberte, quando due anni più
tardi...» equivale a dire «durante due anni, mi staccai a poco a poco da Gilberte».
b) Le ellissi implicite, cioè quelle la cui stessa presenza non è dichiarata nel testo,
inferibili da parte del lettore solo tramite qualche lacuna cronologica o soluzioni di
continuità narrativa. È il caso del tempo indeterminato che trascorre fra la fine
delle Jeunes filles en fleurs e l'inizio di Guermantes: sappiamo che Marcel è rientrato a
Parigi, dove ha ritrovato la sua «vecchia camera dal soffitto basso» 294; lo ritroviamo
in un nuovo appartamento annesso a palazzo Guermantes, il che suppone almeno
l'ellissi di qualche giorno e forse molto di più. Caso analogo, se non più
imbarazzante, per i mesi che seguono la morte della nonna 295. Ellissi che è
perfettamente muta: abbiamo lasciato la nonna sul suo letto funebre, molto
probabilmente all'inizio dell'estate, il racconto riprende nei seguenti termini:
«Benché fosse soltanto una domenica d'autunno...» L'ellissi è apparentemente
determinata grazie all'indicazione della data, ma in maniera estremamente
imprecisa, destinata poi a diventare piuttosto confusa 296; soprattutto è, e lo rimarrà,
non qualificata: non sapremo mai niente, neppure retrospettivamente, di quella che
è stata la vita dell'eroe durante quei pochi mesi. Si tratta forse del silenzio più
opaco di tutta la Recherche, reticenza che (se ricordiamo come la morte della nonna
adombri in gran parte quella della madre dell'autore) è tutt'altro che priva di
significato297.
c) La forma più implicita dell'ellissi è, infine, l'ellissi ipotetica che non è possibile
localizzare, e a volte inserire in un punto preciso, rivelata solo in un secondo tempo
da un'analessi simile a quelle già incontrate nel precedente capitolo 298: viaggi in
Germania, sulle Alpi, in Olanda, servizio militare: evidentemente ci troviamo ai
limiti della coerenza del racconto, il che equivale a trovarsi ai limiti della validità
dell'analessi temporale. Ma tracciare i limiti non è poi il compito più ozioso di un
metodo d'analisi; e, sia detto per inciso, lo studio di un'opera come La recherche du
temps perdu secondo i criteri del racconto tradizionale ha forse invece per
giustificazione fondamentale la possibilità di determinare con precisione i punti in
cui, deliberatamente o meno, quest'opera oltrepassa tali criteri.

Scena.
Se prendiamo in considerazione il fatto che le ellissi, qualunque sia il loro numero
e il loro potere d'elisione, rappresentano una parte del testo praticamente nulla,
dobbiamo giungere forzatamente alla seguente conclusione, cioè che la totalità del
testo narrativo proustiano può definirsi come scena, nel senso temporale in cui
definiamo qui questo termine, astraendo per ora dal carattere iterativo di alcune di
esse299. È quindi finita con la tradizionale alternanza sommario/scena, che, come
vedremo poi, è sostituita da un'altra alternanza. Dobbiamo però fin d'ora osservare
un cambiamento di funzione che modifica, comunque, il ruolo strutturale della
scena.
Nel tipico racconto romanzesco, come funzionava prima della Recherche,
l'opposizione di movimento fra scena particolareggiata e racconto sommario
rinviava sempre a una opposizione di contenuto fra drammatico e non drammatico
dove i tempi forti dell'azione coincidevano con i momenti più intensi, mentre i
tempi deboli venivano riassunti a grandi linee e come molto da lontano, secondo il
principio esposto da Fielding. Il ritmo vero del canone romanzesco, ancora
percepibilissimo in Bovary, è perciò l'alternanza di sommari non drammatici, con
funzione di attesa e di connessione, e di scene drammatiche il cui ruolo,
nell'azione, è decisivo300.
Possiamo ancora riconoscere uno statuto del genere in alcune scene della
Recherche, quali il «dramma del coricarsi», la profanazione di Montjouvain, la sera
delle cattleya, la grande ira di Charlus nei confronti di Marcel, la morte della nonna,
l'esclusione di Charlus, e naturalmente (benché in un caso simile si tratti di una «
azione» completamente interiore) la rivelazione finale 301, episodi che segnano tutti
delle tappe irreversibili nel compiersi di un destino. Ma è evidentissimo che tale
non è la funzione delle scene più lunghe e più tipicamente proustiane, cinque
enormi scene che occupano da sole quasi seicento pagine: la matinée Villeparisis, il
pranzo Guermantes, il ricevimento dalla principessa, la serata alla Raspelière, la
matinée dai principi di Guermantes302. Come abbiamo già osservato, ognuna di
queste scene ha un valore inaugurale: segna l'ingresso del protagonista in un nuovo
luogo (ambiente), e vale per tutta la serie (da essa inaugurata) di scene simili che
non verranno riferite: altri ricevimenti dalla signora di Villeparisis, e nella società
dei Guermantes, altri pranzi da Oriane, altri inviti dalla principessa, altre se-rate alla
Raspelière. Nessuna di tali riunioni mondane merita maggior attenzione delle altre
analoghe, che la seguono, e sono da essa rappresentate solo per il fatto che è la
prima della serie, e in quanto tale suscita una curiosità destinata, subito dopo, ad
essere a poco a poco smussata dall'abitudine 303. In questo caso non si tratta dunque
di scene drammatiche, ma piuttosto di scene tipiche, o esemplari, dove l'azione
(anche nell'accezione vastissima che si deve dare al termine all'interno dell'universo
proustiano) si cancella quasi completamente a favore della caratterizzazione
psicologica e sociale304.
Cambiamento di funzione che porta con sé una sensibilissima modificazione
nella tessitura temporale: al contrario della tradizione anteriore, che faceva della
scena un luogo di concentrazione drammatica, quasi totalmente svincolato dagli
impedimenti descrittivi o discorsivi, e ancor più dalle interferenze anacroniche, la
scena proustiana — J. P. Houston l'ha notato 305 - sostiene all'interno del romanzo
un ruolo di « focolaio temporale » o di polo magnetico per ogni tipo
d'informazione o di circostanze annesse: quasi sempre gonfia, per non dire
ingombra di digressioni d'ogni sorta, retrospezioni, anticipazioni, parentesi iterative
e descrittive, interventi didascalici del narratore, ecc., tutti destinati a raggruppare,
in una sillessi, intorno alla riunione/pretesto, un nodo di avvenimenti e di
considerazioni capaci di darle un valore pienamente paradigmatico. Una detrazione
estremamente approssimativa, basata sulle cinque grandi scene in oggetto, fa
risultare abbastanza chiaramente il peso relativo di questi elementi esterni alla
riunione raccontata, ma tematicamente essenziali a ciò che Proust chiamava la sua «
supernutrizione » : nella matinée Villeparisis, 34 pagine su 100; nel pranzo
Guermantes 63 su 130; nella serata Guermantes 25 su 90; nell'ultima matinée
Guermantes, per finire, dove le prime pagine sono occupate da una commistione
quasi indiscernibile fra monologo interiore del protagonista e discorso teorico del
narratore, mentre il resto è trattato (come vedremo poi) su un modo
essenzialmente iterativo, la proporzione si rovescia e sono i momenti propriamente
narrativi (appena 50 pagine su 180) a dare l'impressione di emergere da una specie
di magma descrittivo-discorsivo molto lontano dai criteri abituali della temporalità
« scenica » e addirittura da qualsiasi temporalità narrativa - come quelle briciole
melodiche percepibili nelle prime misure della Valse, attraverso una nebbia di ritmo
e d'armonia. Ma nel caso presente la nebulosa non è incoativa, come quella di
Ravel o delle prime pagine di Swann, bensì l'opposto: come se in quest'ultima scena
il racconto volesse, per finire, dissolversi progressivamente ed esibire l'immagine
deliberatamente confusa e sottilmente caotica della sua stessa sparizione.
Vediamo quindi che il racconto proustiano non lascia intatto nessun movimento
narrativo tradizionale, e l'insieme del sistema ritmico della narrazione romanzesca
si trova perciò ad essere profondamente alterato. Ma ci rimane da prendere in
considerazione un'ultima modificazione, senz'altro la più decisiva, le cui emergenze
e generalizzazioni sono destinate a dare alla temporalità narrativa della Recherche
una cadenza completamente nuova — un ritmo inaudito nel vero senso della
parola.

3. Frequenza

Singolativo-iterativo.
Quella a cui do il nome di frequenza narrativa - cioè, le relazioni di frequenza (o più
semplicemente di ripetizione), fra racconto e diegesi - è stata finora studiata
pochissimo dai critici e dai teorici del romanzo. Si tratta nondimeno di uno degli
aspetti fondamentali della temporalità narrativa (e d'altronde, al livello della lingua
comune, molto noto ai grammatici, precisamente nella categoria dell'aspetto).
Un evento non è solo in grado di prodursi: può anche riprodursi, o ripetersi: il
sole sorge tutti i giorni. L'identità di queste molteplici manifestazioni è, beninteso,
a rigor di termini contestabile: il «sole» che «sorge» ogni mattina non è esattamente
lo stesso da un giorno all'altro - proprio come il treno «Ginevra-Parigi delle 8,45»
caro a Ferdinand de Saussure non è composto, tutte le sere, dagli stessi vagoni
agganciati alla medesima locomotiva306. La «ripetizione» è in realtà una costruzione
dello spirito, che elimina da ogni ricorrenza tutto quanto le appartiene in esclusiva,
per limitarsi a conservare solo quel che essa ha in comune con tutte le altre
ricorrenze della medesima classe, il che è un'astrazione: il «sole», «la mattina»,
«sorgere». Cosa risaputa, che ricordo per precisare una volta per tutte come, nel
nostro caso, chiameremo «eventi identici», ovvero «ricorrenza del medesimo
evento» una serie di vari eventi simili fra loro, e considerati unicamente nella loro
somiglianza.
Simmetricamente, un enunciato narrativo non è soltanto prodotto, ma può
riprodursi, ripetersi una o più volte nel medesimo testo: niente mi proibisce di dire
o di scrivere: Ieri sera è venuto Pietro, ieri sera è venuto Pietro, ieri sera è venuto
Pietro. Anche in questo caso, identità e ripetizione costituiscono astrazioni, dato
che nessuna circostanza è materialmente (fonicamente o graficamente)
completamente identica alle altre (linguisticamente) per il semplice fatto che la loro
stessa compresenza, e successione, diversifica i tre enunciati in un primo, uno
successivo e un ultimo. Possiamo ancora, per questo, fare riferimento alle celebri
pagine del Cours de linguistique générale sul «problema delle identità». Si tratta, nel caso
presente, di assumere una nuova astrazione, e noi l'assumeremo.
Fra queste capacità di «ripetizione» degli eventi narrati (della storia) e degli
enunciati narrativi (del racconto) si stabilisce un sistema di relazioni che possiamo
a priori ricondurre a quattro tipi virtuali, per il semplice prodotto delle due
possibilità offerte dall'una e dall'altra parte: evento ripetuto oppure no, enunciato
ripetuto oppure no. Possiamo dire, molto schematicamente, che un racconto, di
qualsiasi tipo, può raccontare una volta sola quanto è avvenuto una volta sola, n
volte quanto è avvenuto n volte, n volte quanto è avvenuto una sola volta, una volta
quanto è avvenuto n volte. Cerchiamo di fermarci a studiare con più tranquillità
questi quattro tipi di rapporti di frequenza.
Raccontare una volta sola quanto e avvenuto una volta sola (ossia, se vogliamo
sintetizzare in una formula pseudomatematica : 1R/1S ). Prendiamo un enunciato
come : « Ieri mi sono coricato presto». Una forma simile di racconto, dove la
singolarità dell'enunciato narrativo corrisponde alla singolarità dell'evento narrato
è, evidentemente, di gran lunga la più sfruttata. A tal punto sfruttata, a tal punto
considerata «normale», che non ha nessun nome, almeno nella nostra lingua.
Tuttavia, per rendere ben chiaro che si tratta soltanto di una possibilità fra le altre,
propongo di dargliene uno: d'ora in poi lo chiamerò racconto singolativo —
neologismo (spero) trasparente, che ogni tanto risparmieremo, usando nella
medesima accezione tecnica l'aggettivo «singolare»: scena singolativa o
singolare.Raccontare n volte quanto è avvenuto n volte (nR/nS). Prendiamo l'enunciato:
«Lunedì mi sono coricato presto, martedì mi sono coricato presto, mercoledì mi
sono coricato presto, ecc.». Dal punto di vista che ci interessa qui, cioè dal punto di
vista delle relazioni di frequenza fra racconto e storia, si tratta di un tipo anaforico
che, in realtà, resta singolativo, e quindi riconducibile al precedente, poiché in esso
le ripetizioni del racconto si limitano a corrispondere (secondo una corrispondenza
che Jakobson qualificherebbe iconica) alle ripetizioni della storia. Il singolativo
quindi non si definisce mediante il numero di eventi di entrambe le parti, ma
mediante l'uguaglianza di questo numero307.
Raccontare n volte quanto è avvenuto una volta sola (nR/1S). Prendiamo un enunciato
come il seguente: « Ieri mi sono coricato presto, ieri mi sono coricato presto, ieri
mi sono coricato presto, ecc. » 308. Forma che può sembrare solo ipotetica, rampollo
informe dello spirito combinatorio, senza alcuna pertinenza letteraria. Ricordiamo
però che alcuni testi moderni si basano su questa capacità di ripetizione del
racconto: si pensi, per esempio, a un episodio ricorrente come la morte del
millepiedi in La Jalousie. Lo stesso episodio può, d'altra parte, essere raccontato
varie volte non solo con varianti stilistiche (in genere, in Robbe-Grillet, si verifica
un caso simile), ma anche con variazioni del «punto di vista», come in Rashomon o
in The Sound and the Fury309. Il romanzo epistolare del xvm secolo conosceva già
questo genere di confronti, e le anacronie «ripetitive» da noi incontrate nel 1
capitolo (preannunci, richiami) rientrano in questo tipo narrativo, da esse realizzato in
maniera più o meno fuggevole. Pensiamo anche (fatto non tanto estraneo alla
funzione letteraria come possiamo credere) come ai bambini faccia piacere se
raccontiamo varie volte — addirittura varie volte di seguito — la medesima storia,
o se rileggiamo loro il medesimo libro, gusto che non è affatto privilegio esclusivo
dell'infanzia: più avanti prenderemo in esame, in maniera abbastanza precisa, la
«scena del pranzo del sabato a Combray», che termina con un tipico esempio di
racconto rituale, dove le ricorrenze dell'enunciato non corrispondono a nessuna
ricorrenza di eventi, racconto ripetitivo.
Infine, raccontare una volta sola (o meglio: in una volta sola) quanto è avvenuto n volte
(R/nS). Torniamo al nostro secondo tipo, o singolativo anaforico: «Lunedì mi
sono coricato presto, martedì, ecc.». Quando nella storia si producono tali
fenomeni di ripetizione, è ovvio, il racconto non è affatto obbligato a riprodurli nel
suo discorso come se fosse incapace del minimo sforzo d'astrazione e di sintesi: in
realtà, salvo un voluto effetto stilistico, il racconto in questo caso (perfino il più
frusto) troverà una formulazione sillettica 310 come: «tutti i giorni» oppure «tutta la
settimana», o anche «tutti i giorni della settimana mi sono coricato presto».
Sappiamo tutti, per lo meno, quale variante di questo artificio inauguri La recherche
du temps perdu. Questo tipo di racconto, dove un'unica emissione narrativa assume
contemporaneamente311 varie manifestazioni dello stesso evento (cioè, ancora una
volta, vari eventi considerati nella loro analogia e basta) lo chiameremo racconto
iterativo. È questo un procedimento linguistico estremamente sfruttato, e
probabilmente universale, o quasi universale, nella varietà delle sue forme 312, molto
noto ai grammatici, che gli hanno dato un nome313. La sua applicazione letteraria,
in compenso, non sembra finora aver suscitato un'attenzione vivissima. Si tratta
tuttavia di una forma proprio tradizionale, di cui possiamo trovare esempi fin
dall'epopea omerica, e lungo tutto il corso della storia del romanzo classico e
moderno314.
Nel racconto classico però, e anche fino a Balzac, i segmenti iterativi sono quasi
sempre in stato di subordinazione funzionale nei confronti delle scene singolative,
cui essi forniscono una specie di cornice o di sfondo informativo, secondo un
modulo magnificamente illustrato, ad esempio, in Eugénie Grandet dal quadro
preliminare di vita quotidiana nella famiglia Grandet, con la sola funzione di
preparare l'inizio del racconto propriamente detto: «Nel 1819, sul far della sera, a
metà novembre, la Grande Nanon accese per la prima volta il fuoco...» 315. La
funzione classica del racconto iterativo è quindi abbastanza vicina a quella della
descrizione, con cui ha, d'altra parte, rapporti strettissimi: il «ritratto morale», per
esempio, che costituisce una varietà del genere descrittivo, procede spessissimo per
accumulazione di caratteri iterativi (vedi La Bruyère). Nel romanzo tradizionale il
racconto iterativo è, come la descrizione, al servizio del racconto «propriamente
detto», cioè il racconto singolativo. Il primo romanziere che abbia tentato di
emanciparlo da questa dipendenza funzionale è, chiaramente, Flaubert in Madame
Bovary, dove pagine come quelle che raccontano la vita di Emma in convento, a
Tostes (prima e dopo il ballo alla Vaubyessard), oppure i giovedì a Rouen con
Leon316, assumono un'ampiezza e un'autonomia completamente inusitate. Ma
nessuna opera romanzesca, apparentemente, ha mai fatto un uso dell'iterativo
paragonabile - per estensione testuale, per importanza tematica, per grado
d'elaborazione tecnica — a quello fatto da Proust nella Recherche du temps perdu.
Le prime tre grandi sezioni della Recherche, cioè Combray, Un amour de Swann e
Gilberte (Noms de pays: le Nom e Autour de Madame Swann) possono essere considerate
come essenzialmente iterative. A parte alcune scene singolative (d'altronde
drammaticamente importantissime, come la visita di Swann, l'incontro con la
Signora vestita di rosa, gli episodi Legrandin, la profanazione di Montjouvain,
l'apparizione della duchessa in chiesa e la passeggiata ai campanili di Martinville) il
testo di Combray racconta, all'imperfetto di ripetizione, non cosa è accaduto, ma
cosa accadeva regolarmente a Combray, ritualmente, tutti i giorni, o tutte le
domeniche, o tutti i sabati, ecc. Il racconto degli amori di Swann e Odette sarà
condotto ancora una volta, nella parte essenziale, su questo modulo dell'abitudine e
della ripetizione (eccezioni più vistose: le due serate dai Verdurin, la scena delle «
cattleya», il concerto Sainte-Euverte), come quello degli amori di Marcel e Gilberte
(scene singolative degne di nota: la Berma, il pranzo con Bergotte). Un calcolo
approssimativo (la precisione, in questo caso, non avrebbe nessuna pertinenza)
mette in evidenza qualcosa come 115 pagine iterative contro 70 singolative in
Combray, 91 contro 103 in Un amour de Swann, 145 contro 113 in Gilberte, ossia al-
l'incirca 350 contro 285 per l'insieme delle tre sezioni. La predominanza del
singolativo si stabilisce (o si ristabilisce, se pensiamo a quale fosse la proporzione nel
racconto tradizionale) 317 solo a partire dal primo soggiorno a Balbec. Ma si
possono notare, fino alla fine, numerosi segmenti iterativi, come le passeggiate a
Balbec con la signora di Villeparisis nelle Jeunes filles en fleurs, le manovre del
protagonista, all'inizio di Guermantes, per incontrare tutte le mattine la duchessa, i
quadri di Doncières, i viaggi nel trenino della Raspelière, la vita con Albertine a
Parigi, le passeggiate a Venezia318.
Occorre ancora osservare la presenza di passaggi iterativi all'interno di scene
singolari: così, all'inizio del pranzo dalla duchessa, la lunga parentesi consacrata allo
spirito dei Guermantes319. In tal caso, il campo temporale coperto dal segmento
iterativo oltrepassa chiaramente di gran lunga quello della scena in cui s'inserisce:
l'iterativo, in un certo senso, spalanca una finestra sulla durata esterna. Un simile
tipo di parentetiche, le qualificheremo perciò iterazioni generalizzanti, o iterazioni
esterne. Un altro tipo, molto meno classico, di passaggio all'iterativo durante una
scena singolare, consiste nel trattare la durata della scena stessa in maniera
parzialmente iterativa, con la conseguenza che, a partire da quel momento, essa
viene sintetizzata mediante una specie di classificazione paradigmatica degli
avvenimenti che la compongono. Il passaggio dell'incontro fra Charlus e Jupien,
quando vediamo il barone alzare «a tratti» gli occhi e gettare al farsettaio uno
sguardo attento, è un esempio limpidissimo di tale artificio, per quanto esercitato
su una durata necessariamente brevissima: « Ogni volta che il signor di Charlus
guardava Jupien, faceva in modo che lo sguardo fosse accompagnato da una
parola... Così, ogni due minuti, la medesima domanda pareva intensamente rivolta a
Jupien... » Il carattere iterativo dell'azione è confermato in questo caso
dall'indicazione di frequenza, di una precisione totalmente iperbolica 320. Nell'ultima
scena del Temps retrouvé troviamo nuovamente il medesimo effetto, su scala molto
più vasta, quasi costantemente trattato sul modulo iterativo: a dominare la
composizione del testo, non è tanto lo svolgimento diacronico del ricevimento
presso la principessa, nella successione degli eventi che lo colmano, ma piuttosto
l'enumerazione di un certo numero di classi di circostanze, ognuna delle quali
sintetizza vari eventi, dispersi in realtà nel corso dell'intera matinée: «In molti
(invitati), finivo per riconoscere... in pieno contrasto con costoro, ebbi la sorpresa
di conversare con uomini e donne che... Alcuni uomini zoppicavano... Certi volti...
sembravano borbottare la preghiera degli agonizzanti... Nelle donne, il candore dei
capelli... mi impressionava... Quanto ai vecchi... v'erano uomini, che sapevo
imparentati... Le donne troppo belle... o troppo brutte...Certi uomini, certe
donne... Anche in quegli stessi uomini... Più d'una persona... A volte... ma c'erano
altresì persone, ecc.»321. Chiamerò questo secondo tipo iterazione interna o
sintetizzante, nel senso che la sillessi iterativa, in questo caso, non si esercita su una
durata di tempo più vasta, bensì sulla durata della scena stessa.
La medesima scena può d'altronde contenere entrambi i tipi di sillessi: durante lo
stesso ricevimento Guermantes, Marcel evoca, con un'iterazione esterna, i rapporti
amorosi fra il duca e Odette: «Era sempre da lei... Passava le giornate e le serate
con Odette... le lasciava ricevere degli amici... ogni tanto... la "Signora vestita di
rosa" lo interrompeva con qualche frase insulsa... D'altronde, Odette ingannava il
signor di Guermantes...»322: l'iterativo, ovviamente, sintetizza qui vari anni di
rapporti fra Odette e Basin, e perciò una durata molto più vasta di quella del
ricevimento dai principi di Guermantes. Ma succede che i due tipi d'iterazione si
confondano a tal punto che il lettore non sia in grado di distinguerli, o di
sbrogliarli. Così, nella scena del pranzo dai Guermantes, incontriamo all'inizio di
pagina 534 una iterazione interna senza ambiguità: «Né potrei dirvi del resto
quante volte durante quella serata sentii le parole "cugino" e "cugina"». Ma la frase
seguente, sempre iterativa, può già fondarsi su una durata più vasta: «Da un lato, il
signor di Guermantes, quasi ad ogni nome che sentiva, esclamava: — È un cugino
d'Oriane! » Una terza frase ci riconduce forse alla durata scenica: «D'altra parte,
quelle stesse parole di "cugino" e "cugina" erano impiegate in un'intenzione affatto
diversa dall'ambasciatrice di Turchia, venuta dopo pranzo...» Ma il seguito ha un
carattere iterativo visibilmente esterno alla scena, dato che esso continua con una
specie di ritratto generale dell'ambasciatrice: «Rosa dall'ambizione mondana e
dotata di una reale intelligenza assimilatrice, essa imparava con la stessa facilità la
storia della ritirata dei Diecimila o la perversione sessuale degli uccelli... Ed era
inoltre una donna pericolosa da ascoltare... Essa era, a quel tempo, ancor poco
ricevuta...», cosicché, quando il racconto fa ritorno alla conversazione fra il duca e
l'ambasciatrice, non possiamo sapere se si tratta di quella conversazione (durante
quel pranzo) oppure di un'altra: «Sperava di aver l'aria assolutamente mondana
citando i nomi più grossi di quelle persone poco note che erano in amicizia con lei.
Subito il signor di Guermantes, credendo che si trattasse delle stesse persone che
cenavano spesso in casa sua, aveva un fremito gioioso, nel ritrovarsi in una terra
conosciuta, e lanciava il suo grido di raccolta: — Ma è un cugino d'Oriane! »
Analogamente, una pagina dopo, per il trattamento iterativo imposto da Proust alle
conversazioni genealogiche fra il duca e il signor di Beauserfeuil, che cancella ogni
demarcazione fra il primo pranzo dai Guermantes, oggetto della scena in
questione, e l'insieme della serie da esso inaugurata.
La stessa scena singolativa, in Proust, non è dunque scevra di una specie di
contaminazione da parte dell'iterativo. L'importanza di questo modo, o meglio di
questo aspetto narrativo, è maggiormente accentuata dalla presenza, estremamente
caratteristica, di quel che chiamerò lo pseudoiterativo, cioè scene presentate come
iterative (in particolare servendosi della redazione all'imperfetto), mentre la
ricchezza e la precisione dei particolari fanno in modo che nessun lettore possa
credere sul serio che esse si siano prodotte e riprodotte in quella maniera, varie
volte, senza nessuna variazione 323 : è il caso di certe lunghe conversazioni fra
Léonie e Françoise (tutte le domeniche a Combray), fra Swann e Odette, con la
signora di Villeparisis a Balbec, dalla signora Swann a Parigi, in tinello fra Françoise
e il « suo » domestico, oppure per la scena del calembour di Oriane, «Taquin le
Superbe»324. In tutti questi casi, e in alcuni altri, una scena singolativa è stata
convertita in scena iterativa come arbitrariamente, e senza nessuna modificazione,
se si eccettua l'uso dei tempi. Operazione in cui, evidentemente, è reperibile una
convenzione letteraria, vorrei dire una licenza narrativa, proprio come si dice licenza
poetica, il che suppone da parte del lettore una grande compiacenza, o per dirla
come Coleridge, una « sospensione volontaria dell'incredulità». Convenzione
peraltro antichissima: ne prendo un esempio a caso in Eugénie Grandet (dialogo fra
la signora Grandet e il marito, Garnier, pp. 205-6) e un altro in Lucien Leuwen
(conversazione fra Leuwen e Gauthier nel VII capitolo della I parte); ma
ugualmente reperibile in Cervantes: vedi il monologo del vecchio Carrizales nel
Geloso d'Estremadura 325 che, secondo quanto ci riferisce l'autore, è stato tenuto «non
una, ma cento volte», cosa interpretata - è ovvio - da qualsiasi lettore come
iperbole, non solo per l'indicazione del numero, ma anche per l'asserzione di stretta
identità fra numerosi soliloqui all'incirca simili, di cui quello in oggetto fornisce
una specie di campione; in breve, lo pseudoiterativo costituisce tipicamente nel
racconto classico una figura della retorica narrativa, che non esige di essere presa
alla lettera, ma esattamente il contrario: il racconto afferma letteralmente « questo
avveniva tutti i giorni » per fare capire figuratamente: «tutti i giorni avveniva
qualcosa del genere, dunque questo episodio ne è una realizzazione fra le altre».
È possibile, evidentemente, trattare così i vari esempi di pseudo-iterazione rilevati
in Proust326. Mi sembra tuttavia che la loro ampiezza, soprattutto se riferita
all'importanza (già osservata) dell'iterativo in generale, proibisca questa riduzione.
La convenzione dello pseudo-iterativo in Proust non funziona secondo il modulo
deliberato e puramente figurativo che gli è proprio nel racconto classico: nel
racconto proustiano esiste veramente una tendenza tipica, e spiccatissima,
all'inflazione dell'iterativo, che si deve prendere, in questo caso, nella sua
impossibile letteralità.
La prova migliore (per quanto paradossale) ci viene fornita dai tre o quattro
momenti d'inavvertenza in cui Proust si lascia sfuggire, nel mezzo di una scena
data come iterativa, un passato remoto necessariamente singolativo: «E per giunta
sarà proprio durante la mia colazione! aggiunse a mezza voce, rivolta a se stessa... Al
nome di Vigny (la signora di Villeparisis), si mise a ridere... La duchessa dev'essere
imparentata con tutta quella gente, disse Fran- goise...»327. Oppure, trasmette a una
scena iterativa una conseguenza singolare per definizione, come nella seguente
pagina delle Jeunes filles en fleurs dove impariamo per bocca della signora Cottard
che, a ogni «mercoledì» di Odette, il protagonista ha fatto « di colpo, di primo
acchito, la conquista della signora Verdurin», il che fa supporre, in questa azione,
una capacità di ripetizione e di rinnovamento completamente opposta alla sua
natura328. In simili apparenti distrazioni, possiamo certamente vedere le tracce di
una prima redazione singolativa, di cui Proust avrebbe dimenticato o trascurato di
convertire alcuni verbi; ma, a mio avviso, è più giusto leggere tali lapsus come
altrettanti segni che lo scrittore giunga, a volte, a «vivere» personalmente scene
simili con un'intensità così forte da fargli dimenticare la distinzione degli aspetti —
il che esclude, da parte sua, l'atteggiamento consapevole del romanziere classico in
grado di utilizzare con piena lucidità una figura di pura convenzione. Confusioni
simili, a mio parere, denotano piuttosto, in Proust, una specie di ebbrezza
dell'iterazione.
È allettante mettere una caratteristica del genere in rapporto con un presunto
carattere dominante della psicologia proustiana, ossia un senso vivissimo
dell'abitudine e della ripetizione, il sentimento dell'analogia fra i vari momenti. Il
carattere iterativo del racconto non è sempre basato (come in Combray) sull'aspetto
effettivamente ripetitivo e abitudinario di una vita provinciale e piccolo-borghese
come quella della zia Léonie: motivazione non valida per l'ambiente parigino, e
neppure per il soggiorno a Balbec e a Venezia. L'essere proustiano in realtà (e
contrariamente a quanto si è spesso portati a credere) è tanto poco sensibile
all'individualità dei momenti quanto lo è, invece, spontaneamente, all'individualità
dei luoghi. In Proust gli istanti hanno una forte tendenza a somigliarsi e a
confondersi, capacità che, evidentemente, è la condizione stessa dell'esperienza
della «memoria involontaria». L'opposizione fra « singolarismo » della sua
sensibilità spaziale e iterativismo della sua sensibilità temporale si osserva
chiaramente, per esempio, in una frase di Swann, dove parla del paesaggio di
Guermantes, paesaggio «di cui l'individualità a volte, la notte in sogno, m'afferra
con una forza quasi fantastica» 329: individualità del luogo, ricorrenza indeterminata,
quasi erratica («a volte») del momento. così anche la pagina della Prisonnière dove la
singolarità di una mattina reale si cancella a vantaggio della « mattina ideale » che
essa suscita e rappresenta: «... grazie al mio rifiuto di gustare quella mattinata con i
sensi, godevo in immaginazione di tutte le mattinate simili, passate o possibili, e
più precisamente di un certo tipo di mattinate... colmava il mio spirito di una realtà
permanente, comune a tutte le mattinate simili, e suscitava in me
un'allegrezza...»330.
Ma il puro fattore della ricorrenza non definisce affatto l'iterazione nella sua
forma più rigorosa, e, apparentemente, più soddisfacente per lo spirito - o più
tranquillizzante per la sensibilità proustiana: è anche necessaria la regolarità della
ripetizione, l'obbedienza a una legge di frequenza, che deve essere palesabile e
formulabile, e quindi prevedibile nei suoi effetti. Fin dal primo soggiorno a Balbec,
in un momento in cui non è ancora divenuto intimo della «piccola brigata», Marcel
oppone quelle ragazze, le cui abitudini gli sono ignote, alle piccole venditrici della
spiaggia, che conosce già abbastanza per sapere «dove, a che
ora si possono ritrovare». Le ragazze, invece, sono assenti «certi giorni»
apparentemente indeterminati:

Ignorando la causa della loro assenza, cercavo se questa era una cosa fissa, se non le si vedeva che ogni due giorni, o quando
faceva un dato tempo, o se ci fossero giorni in cui non le si vedeva mai. M'immaginavo in anticipo amico loro, dicendo: - Ma non
c'eravate quel giorno? - Ah si, era sabato, il sabato non veniamo mai perché... - Almeno fosse stato così semplice sapere che
il triste sabato è inutile accanirsi, che si potrebbe percorrere la spiaggia in tutti i sensi, sedersi davanti ad una pasticceria,
far finta di mangiare una pasta, entrare nel negozio di curiosità, aspettare l'ora del bagno, il concerto, l'arrivo della marea, il
tramonto del sole, la notte, senza vedere la piccola brigata desiderata! Ma il giorno fatale non ricorreva forse una volta alla
settimana; non cadeva forse necessariamente di sabato. Forse certe condizioni atmosferiche influivano su di esso, oppure gli
erano interamente estranee. Quante osservazioni pazienti, ma nient'affatto serene, bisogna raccogliere sui movimenti in
apparenza irregolari di quei mondi sconosciuti prima di poter essere sicuri che non ci si è lasciati ingannare da
coincidenze, che le nostre previsioni non si dimostreranno erronee, prima di stabilire le leggi certe, apprese a prezzo di
esperienze crudeli, di questa astronomia appassionata! 331.

Ho sottolineato in questo passaggio le tracce più evidenti di tale angosciata


ricerca di una legge di ricorrenza. Alcune di queste tracce (una volta alla settimana,
ogni due giorni, quando faceva un dato tempo) saranno ricordate in seguito. Osserviamo
per ora la più forte, in apparenza forse la più arbitraria: il sabato. Essa ci rimanda,
senza esitazioni possibili, a una pagina di Swann 332 dove si esprime già il carattere
specifico del sabato. A Combray, è il giorno in cui il pranzo viene anticipato di
un'ora, per lasciare a Françoise il tempo di andare al mercato di Roussainville nel
pomeriggio: «deroga ebdomadaria» alle abitudini, che a sua volta costituisce
un'abitudine di secondo grado, una di quelle variazioni che «ripetendosi sempre
identiche a intervalli regolari, non introduce in seno all'uniformità che una specie
di uniformità secondaria», a cui Léonie, e con lei tutta la famiglia, tiene «quanto alle
altre» — e tanto più perché «l'asimmetria» regolare del sabato, al contrario di quella
della domenica, è specifica e originale, esclusiva della famiglia del protagonista e
quasi incomprensibile alle altre. Ne deriva il carattere «civico», «nazionale»,
«sciovinista», «patriottico» dell'evento, e il clima rituale che lo aureola. Ma il fatto
più caratteristico di questo testo è, forse, l'idea (espressa dal narratore) che tale
abitudine, diventando « il tema favorito delle conversazioni, delle celie, dei racconti
esagerati a piacere... sarebbe stato un nucleo pronto per un ciclo leggendario, se
uno di noi avesse avuto vocazione epica»: passaggio classico dal rito al mito
esplicativo o illustrativo. Il lettore della Recherche sa benissimo chi, in quella famiglia,
ha «vocazione epica» e scriverà un giorno un «ciclo leggendario», ma, nel nostro
caso, è fondamentale il legame stabilito spontaneamente fra ispirazione narrativa e
avvenimento ripetitivo; ossia, in un certo senso, assenza di avvenimenti.
Assistiamo, in qualche modo, alla nascita di una vocazione, per l'esattezza quella
del racconto iterativo. Ma non è tutto: una volta è avvenuto che il rituale venisse
trasgredito (o forse varie volte, ma certamente non molte, e non tutti i sabati) in
maniera lieve da un « barbaro » che, interdetto nel trovare la famiglia a tavola così
presto, si senti rispondere dal pater familiaSy custode delle tradizioni familiari: «Ma
via, se è sabato!» Avvenimento irregolare, forse singolare, che si trova
immediatamente integrato all'abitudine in forma di racconto destinato a essere
religiosamente ripetuto da Françoise, a partire da quel momento, indubbiamente
tutti i sabati, fra la generale soddisfazione: «... e per accrescere il piacere che
provava, prolungava il dialogo, inventava la risposta del visitatore a cui quel
"sabato" nulla spiegava. E noi, ben lontani dal lagnarci delle sue aggiunte, non ne
eravamo ancora soddisfatti, e dicevamo: — Ma mi pareva che avesse detto anche
qualcos'altro. Era più lungo la prima volta che l'avete raccontato -. Perfino la prozia
lasciava il lavoro, levava la testa e guardava sopra l'occhialino». In realtà, è questa la
prima manifestazione del genio «epico». Al narratore rimane solo da trattare
quell'elemento da rituale sabbatico alla stregua degli altri, cioè sul modu-lo
iterativo, per iterativizzare (se mi è concesso) a sua volta l'elemento deviante,
secondo il processo irreversibile: avvenimento singolare - narrazione ripetitiva -
racconto iterativo (di questa narrazione). Marcel racconta (in) una volta sola come
Françoise raccontasse spesso un avvenimento che, senz'altro, era avvenuto una
volta sola: ovvero, come fare di un avvenimento unico l'oggetto di un racconto
iterativo333.
Determinazione, specificazione, estensione.
Ogni racconto iterativo è narrazione sintetica degli eventi prodotti e riprodotti
durante una serie iterativa composta da un certo numero di unità singolari. Sia data
la serie: le domeniche dell'estate 1890. Essa si compone di una dozzina di unità
reali. La serie è definita, in primo luogo, dai suoi limiti diacronici (fra fine giugno e
fine settembre 1890) e poi dal ritmo di ricorrenza delle sue unità costitutive: un
giorno su sette. Chiameremo determinazione il primo tratto distintivo, e specificazione il
secondo. Chiameremo infine estensione l'ampiezza diacronica di ogni unità
costitutiva: così, il racconto di una domenica di estate si basa su una durata
sintetica che potrebbe essere di ventiquattro ore, ma che può ridursi senza ulteriori
difficoltà a una decina di ore (come nel caso di Combray): dall'alba al tramonto.
Determinazione.
L'indicazione dei limiti diacronici di una serie può rimanere implicita, soprattutto
quando si tratta di una ricorrenza che si può considerare praticamente illimitata: se
dico «il sole sorge ogni mattina», sarà solo ridicolo voler precisare a che momento
esatto e fino a quando. Gli avvenimenti di competenza della narrazione in un
romanzo sono, a quanto pare, di una minore stabilità; ne consegue che, in genere,
al suo interno le serie sono determinate mediante l'indicazione del loro inizio e
della loro fine. Determinazione che, però, può tranquillamente rimanere indefinita,
come quando Proust scrive: «Da un certo anno in poi, non la vedemmo più sola (la
signorina Vinteuil)»334. A volte essa viene invece definita sia con una data assoluta:
«Quando la primavera si avvicinò... mi accadeva spesso di vedere (la signora Swann)
che riceveva gli ospiti impellicciata, ecc.» 335, sia (più spesso) con un riferimento a
un avvenimento singolare. Così, la rottura fra Swann e i Verdurin termina una serie
(incontri fra Swann e Odette presso i Verdurin) e contemporaneamente inaugura
un'altra serie (ostacoli frapposti dai Verdurin agli amori di Swann e Odette): «Allora
quel salotto che aveva riunito Swann e Odette divenne un ostacolo ai loro
convegni. Ella non gli diceva più come nei primi tempi del loro amore, ecc. » 336.
Specificazione.
Può essere a sua volta indefinita, cioè caratterizzata da un avverbio tipo: a volte,
certi giorni, spesso, ecc. Può essere, invece, definita, sia in maniera assoluta (è la
frequenza propriamente detta): tutti i giorni, tutte le domeniche, ecc., sia in maniera più
relativa e più irregolare, per quanto esprima una legge di concomitanza
strettissima, come quella che presiede alla scelta delle passeggiate a Combray, dalla
parte di Méséglise nei giorni di tempo incerto, dalla parte di Guermantes nei giorni di bel
tempo337. Definite o no, si tratta di specificazioni semplici, o meglio da me
presentate come tali. Esistono anche specificazioni complesse, dove si
sovrappongono due (o varie) leggi di ricorrenza, cosa sempre possibile dal
momento in cui delle unità iterative possono incastrarsi le une nelle altre: ossia, la
specificazione semplice tutti i mesi di maggio e la specificazione semplice tutti i sabati,
che si coniugano nella specificazione complessa: tutti i sabati del mese di maggio 338. E
sappiamo come tutte le specificazioni iterative di Combray (tutti i giorni, tutti i
sabati, tutte le domeniche, tutti i giorni di bel tempo o di cattivo tempo) siano a
loro volta dipendenti dalla superspecificazione: tutti gli anni fra Pasqua e ottobre - e
anche dalla determinazione: durante i miei anni d'infanzia. Possiamo, è evidente,
presentare delle definizioni molto più complesse, quali ad esempio: «tutte le ore dei
pomeriggi di domenica durante Testate quando non pioveva, nel periodo che va,
per me, dall'età di cinque anni fino all'età di quindici anni ». Si tratta, più o meno,
della legge di ricorrenza che regge il brano sul trascorrere delle ore durante le
letture in giardino339.

Estensione.
Un'unità iterativa può essere di durata così debole da non offrire alcun appiglio a
un'espansione narrativa: sia dato un enunciato quale: «tutte le sere mi corico
presto», oppure « tutte le mattine la sveglia suona alle sette». Si tratta in tal caso
d'iterazioni, in un certo senso, puntuali. Ma un'unità iterativa come notte d'insonnia o
domenica a Combray possiede al contrario un'ampiezza sufficiente per costituire
l'oggetto di un racconto sviluppato (nel testo della Recherche, rispettivamente sei e
sessanta pagine). I problemi specifici del racconto iterativo, quindi, compaiono
proprio in questo momento. Se in un racconto del genere volessimo effettivamente
prendere esclusivamente in considerazione i caratteri invarianti comuni a tutte le
unità della serie, saremmo condannati alla secchezza schematica di un uso del
tempo stereotipato, sul genere «coricarsi alle 9, un'ora di lettura, varie ore
d'insonnia, sonno all'alba», oppure «alzarsi alle 9, colazione alle 9 e mezza, messa
alle undici, pranzo all'una, lettura dalle due alle cinque, ecc.»: astrazione dovuta, è
chiaro, al carattere sintetico dell'iterativo, ma che non è in grado di soddisfare né il
narratore né il lettore. Allora, per «concretizzare» il racconto, intervengono i mezzi
di diversificazione (di variazione) offerti dalle determinazioni e specificazioni interne
della serie iterativa. Come abbiamo già osservato, un po' di sfuggita, la
determinazione non si limita effettivamente a segnare i confini esterni di una serie
iterativa: può ugualmente scandirne le tappe, e dividerla in sottoserie. Così, ho
affermato che la rottura fra Swann e i Verdurin poneva fine a una serie e ne
inaugurava un'altra; ma, passando all'unità superiore, potremmo dire altrettanto
bene che tale avvenimento singolare determina nella serie «incontro fra Swann e
Odette» due sottoserie: prima della rottura / dopo la rottura, ognuna delle quali
funziona come una variante dell'unità sintetica: incontri dai Verdurin / incontri
extra- Verdurin. In maniera ancora più esplicita, possiamo considerare come
determinazione interna l'interposizione - all'interno della serie delle domeniche
pomeriggio a Combray - dell'incontro con la Signora vestita di rosa presso lo zio
Adolphe340, incontro che avrà come conseguenza la discordia fra lo zio e i genitori
di Marcel, e la condanna della sua «stanza da riposo»; ne deriva la seguente
variazione semplice: prima della Signora vestita di rosa, gli orari di Marcel
comportano una sosta nella stanza dello zio; dopo la Signora vestita di rosa, il rito
sparisce e il ragazzo sale direttamente in camera sua 341. Analogamente, una visita di
Swann342 determinerà un cambiamento nell'oggetto (o, per lo meno, nello sfondo)
delle fantasticherie amorose di Marcel: prima di tale visita, esse si situavano su uno
sfondo di muro decorato con fiori violetti che pendevano a baldacchino sull'acqua;
dopo la visita, e la rivelazione, da parte di Swann, delle amichevoli relazioni fra
Gilberte e Bergotte, le fantasticherie si staglieranno su «uno sfondo completamente
diverso, davanti al portale d'una cattedrale gotica» (come quelle che Gilberte e
Bergotte visitano insieme). Ma precedentemente simili fantasmi erano già stati
modificati da un'informazione, dovuta al dottor Per- cepied, sui fiori e le acque del
parco Guermantes343: la regione erotico-fluviale si era identificata con Guermantes,
e la sua protagonista aveva assunto i lineamenti della duchessa. In questo caso
abbiamo dunque una serie iterativa: fantasticherie amorose, suddivisa, per mezzo di tre
avvenimenti singolari (lettura, informazione Percepied, informazione Swann) in
quattro segmenti determinati: prima della lettura, fra la lettura e Percepied, fra
Percepied e Swann, dopo Swann, che costituiscono altrettante varianti:
fantasticherie senza sfondo preciso / su sfondo fluviale / su sfondo identico,
assimilato a Guermantes e alla duchessa / su sfondo gotico, con Gilberte e
Bergotte. Serie che però si trova smembrata, nel testo di Combray, dal sistema delle
anacronie: il terzo segmento, la cui posizione cronologica è evidente, sarà
menzionato soltanto con un ritardo di ottanta pagine circa, in occasione delle
passeggiate dalla parte di Guermantes. L'analisi deve quindi ricostruire tale
posizione, a dispetto dell'ordine effettivo del testo, come una struttura sotterranea
e dissimulata344.
Si dovrebbe tuttavia evitare - partendo da questa nozione di determinazione
interna — di inferire con eccessiva precipitazione che l'interposizione di un singolo
evento ha sempre, come conseguenza, la formazione di una serie iterativa.
L'evento (lo vedremo in seguito) può semplicemente costituire un'illustrazione,
oppure un'eccezione senza seguito, che non porta con sé modificazione alcuna:
vedi l'episodio dei campanili di Martinville, dopo il quale l'eroe riprende, come se
nulla fosse («non ripensai mai a questa pagina») 345 la sua precedente abitudine di
compiere passeggiate indolenti e (in apparenza) senza nessun guadagno spirituale.
Fra gli episodi singolativi intercalati in un segmento iterativo, bisogna dunque
scindere quelli che possiedono una funzione determinativa da quelli che non la
possiedono.
Accanto a tali determinazioni interne definite, se ne trovano altre indefinite (sul
genere già accennato, «a partire da un certo anno...») Le passeggiate verso
Guermantes ce ne offrono un esempio, notevole per la concisione e l'apparente
confusione della sua scrittura: « Poi avvenne che dalla parte di Guermantes passai a
volte davanti a certi piccolirecinti umidi su cui rampicavano grappoli di fiori oscuri.
Mi fermavo, credendo di acquistare una nozione preziosa, poiché mi pareva,
ecc.»346. Si tratta proprio di una determinazione interna: a partire da una certa data,
le passeggiate lungo la riva della Vivonne comportano un elemento fino ad allora
mancante. La difficoltà del testo deriva in parte dalla paradossale presenza di un
iterativo al passato remoto («passai a volte»): paradossale, ma perfettamente
grammaticale, proprio come il passato prossimo iterativo della frase-incipit della
Recherche, che d'altronde, a sua volta, potrebbe tranquillamente scriversi al passato
remoto («Per molto tempo mi coricai presto»), ma non all'imperfetto, che non
possiede sufficiente autonomia sintattica per aprire un'iterazione.
Artificio che ritroviamo in un altro punto, identico, dopo una determinazione
definita: «Conosciuta quella vecchia strada, per cambiare ritornammo, a meno che non
l'avessimo presa all'andata, per un'altra strada che passava per i boschi di Chantepie
e di Canteloup»347.
Le varianti ottenute mediante determinazione interna sono ancora (fatto su cui
insisto) di ordine iterativo: esistono varie fantasticherie su sfondo gotico, come ne
esistono varie su sfondo fluviale; ma la relazione da esse conservata è di ordine
diacronico, e quindi singolativo, come l'avvenimento che le separa: una sottoserie
viene dopo l'altra. La determinazione interna procede dunque mediante sezioni
singolative all'interno di una serie iterativa. La specificazione interna, invece, è un
procedimento di diversificazione puramente iterativo, dato che esso consiste
semplicemente nel suddividere la ricorrenza per ottenere due varianti in relazione
(necessariamente iterativa) d'alternanza. In questo modo, la specificazione tutti i
giorni si può suddividere in due metà non più successive (come in tutti i giorni
prima/dopo un certo avvenimento), ma alternate, nella sottospecificazione un giorno su
due. Una forma (a dire il vero meno rigorosa) di questa norma l'abbiamo già trovata
a proposito dell'opposizione bel tempo / cattivo tempo, che articola la regola di
ricorrenza delle passeggiate a Combray (apparentemente, tutti i pome- riggi tranne la
domenica). Sappiamo come una parte notevole del testo di Combray sia composta
secondo questa specificazione interna, che regge l'alternanza passeggiate verso
Méséglise / passeggiate verso Guermantes: «la nostra abitudine di non andare mai da
entrambe le parti in uno stesso giorno, in una sola passeggiata, ma una volta dalla
parte di Méséglise, una volta dalla parte di Guermantes» 348. Alternanza nella
temporalità della storia, che la disposizione del racconto (come abbiamo già
osservato) si guarda bene dal rispettare 349, consacrando una sezione (da p. 134 a p.
165) alla parte di Méséglise, e poi un'altra (da p. 165 a p. 183) alla parte di
Guermantes350. In tal modo, la totalità di Combray II (dopo la deviazione della
«maddalena») si trova all'incirca composta secondo le seguenti specificazioni
iterative: 1) tutte le domeniche pp. 48-134 (con la parentesi tutti i sabati, pp. 110-15); 2)
tutti i giorni (della settimana) di tempo incerto, pp. 135-65; 3 ) tutti i giorni di bel tempo,
pp. 165-83351.
Nel caso in questione si trattava di una specificazione definita. Troviamo altre
manifestazioni di un simile procedimento nella Recherche, però mai sfruttate tanto
sistematicamente352. Nella maggior parte dei casi, effettivamente, il racconto
iterativo si articola in specificazioni indefinite sul tipo ora/ora, che autorizza un
sistema di variazioni estremamente elastico e una diversificazione molto spinta
senza tuttavia uscire mai dal modulo iterativo. Così, le angosce letterarie dell'eroe
durante le sue passeggiate a Guermantes, si dividono in due classi (a volte... ma altre
volte) a seconda che egli si conforti sul suo avvenire, contando sul miracoloso
intervento paterno, o invece si veda disperatamente solo di fronte al «nulla del suo
pensiero»353. Le variazioni delle passeggiate a Méséglise, in funzione delle
gradazioni di «cattivo tempo», occupano, o meglio generano un testo di tre
pagine354 composto secondo il seguente sistema: spesso (tempo minaccioso) / altre
volte (acquazzone durante la passeggiata, riparo nei boschi di Roussainville) / spesso
anche (riparo sotto al portico di Saint-André-des-Champs) / a volte (tempo così
brutto da dover far ritorno a casa). Sistema d'altronde un po' più complesso di
quanto non lo faccia vedere questa enumerazione parallela al testo, poiché le
varianti 2 e 3 sono in realtà sottoclassi di una medesima classe: acquazzone. La vera
struttura è quindi:
1. Tempo minaccioso ma senza acquazzone.
2. Acquazzone:
a) riparo nei boschi,
b) riparo sotto al portico.
3. Tempo definitivamente cattivo355
Ma l'esempio più tipico di costruzione di un testo sulle sole risorse della
specificazione interna, è senz'altro il ritratto di Albertine che si trova verso la fine
delle Jeunes filles en fleurs. Il suo tema è costituito, come sappiamo, dalla varietà della
fisionomia di Albertine, simbolo del carattere instabile e inafferrabile della
fanciulla, «essere di fuga» per antonomasia. Ma per quanto sia poliedrica, e
benché Proust usi l'espressione « ognuna di quelle Albertine», la descrizione tratta
«ogni» variante non come un individuo, ma come un tipo, una classe di
determinate manifestazioni: certi giorni / altri giorni / altre volte / a volte / spesso / di
solito / accadeva / a volte anche...: come una collezione di volti, il ritratto è un
repertorio di locuzioni frequentative:
Accadeva ad Albertine come alle sue amiche. Certi giorni, sottile, con una carnagione grigia, con un'aria imbronciata, con
una trasparenza violetta che le scendeva obliquamente nel fondo degli occhi come vediamo a volte nel mare, sembrava
provasse la tristezza di un'esule. Altri giorni, il suo viso più liscio invischiava i desideri sulla sua superficie tersa e impediva
di andare oltre; salvo che, a un tratto, non la vedessi di fianco, perché le sue gote opache come bianca cera alla superficie
erano rosee in trasparenza: il che dava una gran voglia di baciarle, di raggiungere quella colorazione diversa che sfuggiva.
Altre volte la felicità bagnava quelle gote con un chiarore così mobile che la pelle, divenuta fluida e vaga, lasciava passare
come degli sguardi sottostanti che la facevano apparire di un altro colore, ma non di un'altra materia che gli occhi; a volte,
senza pensarci, quando si guardava il suo viso cosparso di piccoli punti bruni e in cui galleggiavano soltanto due macchie
più azzurre, era come se si guardasse un uovo di cardellino, spesso come un'agata opalina lavorata e polita in due luoghi
soltanto, dove, in mezzo alla pietra bruna, lucevano come le ali trasparenti di una farfalla azzurra gli occhi in cui la carne si
fa specchio, dandoci l'illusione di lasciarci, più che nelle altre parti del corpo, accostare all'anima. Ma, di solito, ella era anche
più colorita, e quindi più animata; a volte, rosea nel suo viso bianco, era solo la punta del naso, fine come quello di una
gattina sorniona con cui veniva voglia di giocare; a volte le gote erano così lisce che lo sguardo scivolava, come su quello di
una miniatura, sullo smalto rosa che il coperchio socchiuso e sovrapposto dei capelli neri faceva apparire ancora più
delicato, più interiore; accadeva che il colorito delle sue gote prendesse il rosa violaceo del ciclamino, a volte anche, quand'era
congestionata o febbricitante, e dando allora l'idea di un organismo malato che abbassava il mio desiderio a qualcosa di
più sensuale e faceva esprimere al suo sguardo qualcosa di perverso e di malsano, la porpora cupa di certe rose di un rosso
quasi nero; e ognuna di queste Albertine era diversa com'è diversa ognuna delle apparizioni della ballerina di cui mutano i
colori, la forma; il carattere, secondo i giochi infinitamente variati di un proiettore luminoso 356.

I due mezzi, determinazione e specificazione, possono, è ovvio, agire


contemporaneamente in un medesimo segmento. Cosa che si verifica in maniera
chiarissima, ed estremamente riuscita, nel paragrafo che apre la sezione di Combray
consacrata alle «due parti», che evoca anticipatamente i ritorni dalla passeggiata:

Rientravamo sempre presto dalle nostre passeggiate, per poter fare una visita alla zia Léonie prima di cena. All'inizio della
stagione che le giornate sono brevi, quando si arrivava nella rue du Saint-Esprit, c'erano ancora un barbaglio del tramonto
sui vetri della casa e una fascia purpurea all'estremità dei boschi del Calvario, che si rifletteva più lontano nello stagno, e
quel rosseggiare, accompagnato spesso da un freddo assai pungente, s'associava nel mio pensiero al rosseggiare del fuoco su
cui arrostiva il pollo che avrebbe sostituito per me, al piacere poetico dato dalla passeggiata, il piacere della ghiottoneria,
del caldo e del riposo. D'estate, invece, quando rientravamo, il sole non tramontava ancora; e la sua luce, durante la nostra
visita, abbassandosi e toccando la finestra, veniva trattenuta fra le ampie tende e i cordoni, suddivisa, ramificata, filtrata, e,
incrostando il legno di cedro del canterano di piccoli frammenti d'oro, illuminava di sbieco la stanza con la delicatezza che
ha nei sottoboschi. Ma v'erano giorni assai rari, in cui al nostro rientrare il canterano aveva perduto da molto tempo le sue
momentanee incrostazioni, e, quando si arrivava nella rue du Saint-Esprit, non v'eran più riflessi del tramonto posati sui
vetri, e lo stagno ai piedi del Calvario aveva perso la sua fiamma, a volte già tinto d'opale ed un lungo raggio di luna, che
sempre più s'allargava e s'incrinava in tutte le crespe dell'acqua, lo traversava intero 357.

La prima frase pone in questo caso un principio iterativo assoluto: «Rientravamo


sempre presto», e al suo interno si apre una diversificazione mediante
determinazione interna: primavera/estate358, che regge le due frasi se-
guenti; infine, una specificazione interna, che sembra basata
contemporaneamente su entrambe le precedenti sezioni, e introduce una terza
variante eccezionale (ma non singolativa): vi eran giorni assai rari (si tratta, a quanto
pare, dei giorni di passeggiata verso Guermantes). Il sistema iterativo completo si
articola dunque secondo il seguente schema, che lascia trasparire, sotto la
continuità apparentemente compatta del testo, una struttura gerarchica più
complessa e più concatenata:

(Si troverà forse, e con piena ragione, che una simile schematizzazione non rende
affatto la «bellezza» di questa pagina. Ma non è neppure nelle sue intenzioni.
L'analisi, nel nostro caso, non si situa al livello di quelle che, in termini chomskiani,
potremmo chiamare le «strutture di superficie», o, in termini hielmslevo-
greimassiani, «la manifestazione» stilistica, bensì al livello delle strutture temporali «
immanenti » che dànno al testo l'ossatura e le basi - senza le quali esso non
esisterebbe (poiché nel caso presente, senza il sistema di determinazioni e
specificazioni ricostruito ora, esso si ridurrebbe necessariamente, e piattamente,
alla sola prima frase). E, come al solito, l'analisi dei basamenti rivela, sotto la calma
orizzontalità dei sintagmi successivi, il sistema accidentato delle scelte e delle
relazioni paradigmatiche. Se essa si propone come oggetto di chiarire le condizioni
di esistenza (di produzione) del testo, lo fa dunque non (come si dice spesso)
riducendo il complesso al semplice, ma al contrario facendo venire alla luce le
complessità nascoste che costituiscono il segreto della semplicità).

Il tema «impressionistico» delle variazioni, a seconda del momento e della


stagione, della luce e quindi della fisionomia stessa del luogo 359 — tema di ciò che
Proust chiama il « paesaggio accidentato delle ore » - regge inoltre le descrizioni
iterative del mare a Balbec, e in particolar modo quella da pagina 802 a pagina 806
delle Jeunes filles en fleurs: «Man mano che la stagione avanzava, mutava il quadro che
vi trovavo nella finestra. Prima era pieno giorno... Presto le giornate si
accorciarono... Qualche settimana più tardi, quando salivo in camera, il sole era già
tramontato. Simile a quello che vedevo a Combray sopra il Calvario, quando
tornavo dalla passeggiata e mi preparavo a scendere prima di pranzo in cucina, una
striscia di cielo rosso sopra il mare...» A questa prima serie di variazioni per
determinazione, ne succede un'altra, per specificazione: « Ero da ogni parte
circondato dalle immagini del mare. Ma assai spesso erano, invero, soltanto
immagini... Una volta era un'esposizione di stampe giapponesi... Provavo maggior
piacere le sere in cui una nave... A volte l'oceano... Un altro giorno il mare... E a volte...»
Motivo identico due pagine dopo, a proposito degli arrivi a Rive- belle, e ancora
più vicino alla redazione combraysiana, per quanto essa, nella fattispecie, non
venga ricordata: «Le prime volte, quando vi arrivavamo, il sole era appena
tramontato, ma era ancora chiaro... Più tardi, era già notte quando discendevamo di
carrozza...» A Parigi, nella Prisonnière360, il modulo di variazione sarà piuttosto
d'ordine uditivo: sono le sfumature mattutine del suono delle campane o dei
rumori in strada ad avvertire Marcel, ancora sepolto sotto le coperte, del tempo che
fa. Rimane costante la sensibilità straordinaria alle variazioni del clima, l'attenzione
quasi maniacale di Marcel (ereditata, metaforicamente, dal padre) ai movimenti del
barometro interiore, e, per quanto ci interessa ora, il legame tanto tipico e così
fertile fra cronologico e metereologico, sviluppato fino alle sue estreme
conseguenze dall'ambiguità del tempo francese, intendo con ciò la parola francese
«temps» (time/wea- ther): ambiguità già sfruttata dal titolo magnificamente
premonitore di una sezione dei Plaisirs et les Jours: «Fantasticherie color del Tempo ». Il
ritorno delle ore, dei giorni, delle stagioni, la costante circolarità del movimento
cosmico, resta il motivo più costante e in pari tempo il simbolo più giusto di
quanto desidererei chiamare l'iterativismo proustiano. Le risorse della diversificazione
iterativa in senso proprio sono queste (determinazione e specificazione interna).
Quando esse sono esaurite, restano ancora due risorse che hanno come
caratteristica comune il fatto di porre il singolativo al servizio dell'iterativo. La
prima risorsa la conosciamo già, si tratta della convenzione dello pseudoiterativo.
La seconda non è una figura: consiste nell'invocare - in maniera del tutto letteraria
e scoperta - un avvenimento singolare, sia come illustrazione e conferma di una
serie iterativa (ecco come...) sia invece come eccezione alla regola appena stabilita (una
volta però...) Il seguente brano delle Jeunes filles en fleurs esemplifica la prima funzione:
«A volte (è la legge iterativa) una gentile premura dell'una o dell'altra risvegliava in
me ampie vibrazioni che allontanavano per un po' il desiderio delle altre. così un
giorno che Albertine... (è l'illustrazione singolare)»361. L'episodio dei campanili a
Martinville, chiaramente presentato come deroga all'abitudine, costituisce un
esempio della seconda: di solito, una volta tornato dalle sue passeggiate, Marcel
dimenticava le impressioni provate, e non tentava di decifrarne il significato; «una
volta però»362, si spinge oltre e redige immediatamente il passo descrittivo che
costituisce la sua prima opera e il segno della sua vocazione. Ancora più esplicito,
nel suo carattere di eccezionalità, l'incidente dei fiori di siringa nella Prisonnière, che
inizia nel modo seguente : « Tra quei giorni nei quali mi attardai dalla duchessa, ne
metterò a parte uno, che fu contrassegnato da un piccolo incidente...», dopo di che il
racconto iterativo riprende così: « In generale, e fuorché in questo solo caso, tutto
procedeva normalmente quando tornavo dalla visita della duchessa» 363. In questo
modo, tramite il gioco degli «un giorno», «una volta», ecc., il singolativo si trova a
sua volta integrato, in un certo senso, all'iterativo, ridotto a servirlo e a illustrarlo,
positivamente o negativamente, sia col rispettare il suo codice, sia col trasgredirlo,
il che costituisce un'altra maniera di manifestarlo.

Diacronia interna e diacronia esterna.


Finora, abbiamo preso in esame l'unità iterativa come racchiusa senza nessuna
interferenza nella propria durata sintetica, mentre la diacronia reale (singolativa per
definizione) interveniva esclusivamente per segnare i limiti della serie costitutiva
(determinazione) o per diversificare il contenuto dell'unità costituita
(determinazione interna), senza inciderla veramente col passare del tempo, senza
farla invecchiare: in un certo senso, il prima e il dopo per noi erano soltanto due
varianti dello stesso tema. Un'unità iterativa come: notte d'insonnia, costituita a
partire da una serie che si prolunga per vari anni può, effettivamente, essere
tranquillamente raccontata solo nella sua successività, dalla sera alla mattina, senza
fare assolutamente intervenire il trascorrere della «durata esterna», cioè dei giorni e
degli anni che separano la prima notte d'insonnia dall'ultima: la tipica notte
d'insonnia resterà uguale a se stessa dall'inizio alla fine della serie, variando senza
evolversi. È quanto avviene in realtà nelle prime pagine di Swann, dove le sole
indicazioni temporali sono sia del tipo iterativo-alternativo (specificazioni interne):
a volte, oppure, qualche volta, spesso, ora... ora, sia consacrate alla durata interna della
notte sintetica il cui svolgimento guida la progressione del testo: non appena spenta la
mia candela... mezz'ora dopo... poi... immediatamente... a poco apoco... poi... senza che nulla
ci segnali come il passare degli anni modifichi tale svolgimento in una parte
qualsiasi.
Ma il racconto iterativo può prendere in considerazione altrettanto bene la
diacronia reale, tramite il gioco delle determinazioni interne, e integrarlo alla sua
progressione temporale: raccontare, per esempio, l'unità domenica a Combray, o
passeggiate nei dintorni di Combray, tenendo conto delle modificazioni portate al suo
svolgimento dal tempo trascorso (una decina d'anni circa) durante la serie reale
delle settimane passate a Combray: modificazioni non più considerate come
variazioni intercambiabili, ma come trasformazioni irreversibili: morti (Léonie,
Vintemi), rapporti interrotti (Adolphe), maturazione e invecchiamento del
protagonista: nuovi interessi (Bergotte), nuove conoscenze (Bloch, Gilberte, la
duchessa di Guermantes), esperienze decisive (scoperta della sessualità), scene
traumatizzanti («prima abdicazione», profanazione di Montjouvain). Si pone, allora,
inevitabilmente, il problema dei rapporti fra la diacronia interna (quella della unità
sintetica) e la diacronia esterna (quella della serie reale), e delle loro eventuali
interferenze. Fatto che si verifica, effettivamente, in Combray I I, e J. P. Houston ha
potuto sostenere che in esso il racconto progrediva contemporaneamente lungo le
tre durate del giorno, della stagione e degli anni 364. Anche se le cose non sono
affatto tanto nette e sistematiche, è pur vero che nella sezione dedicata alla
domenica il mattino si situa a Pasqua e il pomeriggio e la sera nel periodo
dell'Ascensione, e le occupazioni di Marcel al mattino sembrano quelle di un
bambino, nel pomeriggio invece quelle di un adolescente. In modo ancora più
preciso, le due passeggiate, in particolare la passeggiata verso Méséglise, prendono
in considerazione, nella successione dei loro episodi singolari o abituali, il
trascorrere dei mesi nel corso dell'anno (lillà e biancospini in fiore a Tansonville,
piogge autunnali a Roussainville), e degli anni nella vita del protagonista, fanciullo
giovanissimo a Tansonville, adolescente in preda al desiderio a Méséglise, mentre
l'ultima scena è esplicitamente ancora più tardiva 365. Abbiamo già osservato la
frattura diacronica introdotta nelle passeggiate di Guermantes dall'apparizione
della duchessa in chiesa. Si tratta dunque di altrettanti casi in cui Proust arriva a
trattare, grazie a un'abile disposizione degli episodi, le diacronie interne ed esterne
in maniera approssimativamente parallela, senza uscire scopertamente dal tempo
frequentativo preso come base del suo racconto. Analogamente, gli amori di
Swann e Odette, di Marcel e Gilberte, in un certo senso si evolveranno per stadi
iterativi, contrassegnati da un uso estremamente tipico di quei fin da allora, da allora,
adesso366, in grado di trattare un'intera storia non come concatenazione di
avvenimenti legata da un rapporto di causalità, bensì come successione di situazioni
che si sostituiscono incessantemente le une alle altre senza comunicazione
possibile. L'iterativo, nel caso specifico, è quindi, piuttosto che il modo
dell'abitudine, il modo (l'aspetto) temporale di quella specie di perpetuo oblio,
d'incapacità costituzionale del protagonista proustiano (Swann sempre, Marcel
prima della rivelazione) a percepire la continuità della vita, e cioè la relazione fra un
«tempo» e un altro. Quando Gilberte, di cui Marcel è divenuto il compagno
inseparabile e il «grande favorito», gli fa vedere quali progressi vi siano stati nella
loro amicizia, a partire dall'epoca dei giochi a barriera ai Champs-Elysées, egli non
solo è incapace di ricostituire in se stesso una situazione ora passata, e quindi
annullata, ma è addirittura incapace di misurare tale distanza, esattamente come,
dopo, lo sarà di capire come mai ha potuto amare Gilberte, e d'immaginare il
tempo in cui non l'avrebbe più amata tanto diverso da quello che sarebbe stato in
realtà: «... (ella) parlava d' un mutamento che certo ero obbligato a constatare
dall'esterno, ma che non possedevo interiormente, perché si componeva di due
stati che non potevo, senza che cessassero di essere distinti l'uno dall'altro, pensare
insieme»367. Pensare due momenti distinti contemporaneamente, per l'essere
proustiano significa quasi sempre identificarli e confonderli: bizzarra equazione eh
e la legge stessa dell'iterativo.
Alternanza, transizioni.
È quindi come se, nel racconto proustiano, si sostituisse la forma sintetica di
narrazione costituita, nel romanzo classico, dal racconto sommario (assente, come
ricordiamo, dalla Recherche) con l'altra forma sintetica costituita dall'iterativo: sintesi,
non più per accelerazione, ma per assimilazione e astrazione. Anche il ritmo del
racconto, nella Recherche, non è più fondamentalmente basato sull'alternanza del
sommario e della scena (come nel racconto classico), ma su un'altra alternanza,
quella dell'iterativo e del singolativo.
Nella maggior parte dei casi, è un'alternanza che riveste un sistema di
subordinazioni funzionali tali da potere e dovere essere rivelate dall'analisi;
abbiamo già incontrato i loro due tipi fondamentali di rapporto: il segmento
iterativo, con funzione descrittiva o esplicativa, subordinato a (e generalmente
inserito in) una scena singolativa (esempio, lo spirito dei Guermantes nel pranzo da
Oriane), e la scena singolativa con funzione illustrativa subordinata a uno sviluppo
iterativo (esempio, i campanili di Martin- ville, nella serie delle passeggiate a
Guermantes). Ma esistono strutture più complesse, quando ad esempio un
aneddoto singolare viene a illustrare uno svolgimento iterativo, a sua volta
subordinato a una scena singolativa: così il ricevimento dalla principessa
Mathilde368, che illustra lo spirito dei Guermantes; oppure, al contrario, quando una
scena singolativa subordinata a un segmento iterativo richiama a sua volta una
parentesi iterativa: è quanto avviene per l'episodio dell'incontro con la Signora
vestita di rosa, raccontato (come abbiamo già osservato) per i suoi effetti indiretti
sulle domeniche del protagonista a Combray, episodio che si apre su uno sviluppo
dedicato alla passione giovanile di Marcel per il teatro e le attrici, sviluppo
necessario a spiegare la sua visita inopinata allo zio Adolphe 369.
A volte tuttavia accade che il rapporto sfugga a qualunque analisi, e perfino a
qualunque definizione, poiché il racconto passa da un aspetto all'altro senza
preoccuparsi minimamente delle loro reciproche funzioni e, pare, senza percepirle.
Robert Vigneron370 trova effetti simili nella terza parte di Swann e credeva di poter
attribuire ciò che gli sembrava «un'inestricabile confusione» a frettolosi rimpasti
imposti dall'edizione separata del primo volume dell'edizione Grasset: per inserire
alla fine del volume (cioè di Du coté de chez Swann) il brillante pezzo sul Bois de
Boulogne «oggi», e legarlo alla meno peggio a quanto precede, Proust avrebbe
dovuto modificare in modo notevolissimo l'ordine dei vari episodi situati
nell'edizione Grasset da pagina 482 a pagina 51 1 3 7 1 . Ma simili interpolazioni
avrebbero portato con sé diverse difficoltà cronologiche, che Proust avrebbe
potuto rivelare solo mediante un «camuffamento» temporale, il cui mezzo
grossolano e maldestro sarebbe l'imperfetto (iterativo): «Per dissimulare questa
confusione cronologica e psicologica, l'autore si sforza di camuffare da azioni
ripetute azioni uniche, e confonde subdolamente i verbi con una mano
d'imperfetto. Sventuratamente, non solo la singolarità di certe azioni rende
incredibile la ripetizione abituale, ma inoltre, a momenti, dei passati remoti tenaci
sfuggono alla mano di calce e rivelano l'artificio». Forte di tale spiegazione,
Vigneron arrivava al punto di ricostituire, in via ipotetica, il «primitivo ordine» del
testo così infelicemente sconvolto.
Ricostruzione delle più aleatorie, spiegazione delle più fragili: abbiamo già trovato
numerosi esempi di pseudo-iterativo (dato che si tratta proprio di questo) e di
passati remoti aberranti in parti della Recherche che non hanno affatto risentito della
forzata interruzione del 19 13, e quelli rilevabili alla fine di Swann non sono i più
sorprendenti.
Consideriamo un po' più da vicino uno dei passaggi incriminati da Vigneron: si
tratta delle pagine 486-89 dell'edizione Grasset 372. Vi si narra di quei giorni
invernali in cui i Champs-Elysées sono coperti di neve, ma un inatteso raggio di
sole fa andare nel pomeriggio Marcel e Françoise in una passeggiata improvvisata,
senza speranza di incontrare Gilberte. Come osserva Vigneron, con linguaggio
diverso, il primo paragrafo («E perfino in quei giorni...») è iterativo, i suoi verbi si
trovano all'imperfetto di ripetizione. «Nel paragrafo seguente, — scrive Vigneron,
— ("Françoise aveva troppo freddo..."), gli imperfetti e i passati remoti si
susseguono senza motivo apparente, come se l'autore, incapace di adottare
definitivamente un punto di vista piuttosto che un altro, avesse lasciato incompiute
le sue trasposizioni temporali». Per permettere al lettore di giudicare il caso, citerò
ora il paragrafo come si trova nell'edizione del 19 13:
Françoise aveva troppo freddo per star ferma; ci spingemmo fino al Ponte della Concordia, a veder la Senna imprigionata, a
cui tutti e perfino i bambini s'accostavano senza timore come a un'immensa balena arenata, senza difesa, e che sarà squartata
fra poco. Tornammo ai Champs-Elysées ; io languivo di dolore tra i cavalli di legno immobili e il prato bianco caduto in
prigionia nel reticolato nero dei viali dov'era stata rimossa la neve, sopra il quale la statua aveva in mano uno zampillo di
ghiaccio aggiunto quasi a spiegazione del suo gesto. Perfino la vecchia signora, dopo aver ripiegato i suoi «Débats», chiese
l'ora a una bambinaia che passava e che ringraziò dicendo: - Come siete cortese! - poi, pregando il guardiano di dire ai suoi
nipotini che tornassero perché lei aveva freddo, soggiunse: - Sarete mille volte buono. Davvero, ne sono confusa! - D'un
tratto l'aria si lacerò-, fra il teatrino delle marionette e il circo, all'orizzonte rifiorito, sul cielo dischiuso, avevo scorto, come un
segno favoloso, la piuma azzurra della signorina. E già Gilberte correva a tutta velocità verso di me, sfavillante e rossa sotto
un berretto di pelo di forma quadrata, animata dal freddo, dal ritardo e dalla voglia di giocare; un po' prima di avermi
raggiunto, si lasciò scivolare sul ghiaccio e, sia per meglio tenersi in equilibrio, sia perché le pareva più grazioso, o per imitare
il portamento di una patinatrice, ella avanzava sorridendo con le braccia aperte, quasi vi avesse voluto accogliermi. - Brava,
brava! benissimo, direi come voi che è una cosa chic, una cosa audace, se non fossi d'un altro tempo, del tempo dell'antico
regime, - esclamò la vecchia signora, prendendo la parola in nome dei Champs- Elysées silenziosi per ringraziare Gilberte
d'esser venuta senza lasciarsi intimidire dal tempo. - Siete come me, fedele nonostante tutto ai nostri vecchi Champs-
Elysées; siamo due donne intrepide. Se vi dicessi che li amo, anche così! Questa neve, voi riderete di me, mi ricorda
l'ermellino! - E la vecchia signora si mise a ridere.

Ammettiamo che, in questa «versione», il testo corrisponde abbastanza


esattamente alla severa descrizione datane da Vigneron: le forme iterative e
singolative si aggrovigliano in modo tale da lasciare l'aspetto verbale in una totale
indecisione. Ambiguità che però non giustifica affatto l'ipotesi esplicativa di una «
trasposizione temporale incompiuta». Arrivo addirittura, da parte mia, a
discernervi almeno un'apparenza del contrario.
Se effettivamente esaminiamo con maggior attenzione le forme verbali
sottolineate nel testo in esame, constatiamo che tutti gli imperfetti (tranne uno) si
possono interpretare come imperfetti di concomitanza, tali da lasciare definire
come singolativa la totalità del testo, dato che i verbi d'azione in senso proprio
sono tutti (tranne uno) al passato remoto: ci spingemmo, la vecchia signora chiese,
ringraziò, soggiunse, Gilberte si lasciò scivolare, la vecchia signora esclamò, si mise a
ridere. «Tranne uno», dicevo: si tratta, evidentemente, di «D'un tratto l'aria si
lacerava»; è proprio la presenza dell'avverbio «d'un tratto» a impedire la lettura di
questo imperfetto come durativo, obbligandoci quindi a interpretarlo come
iterativo. Costituisce l'unica, irreducibile stonatura 373 in un contesto interpretato
come singolativo, ed è perciò il solo ad introdurre nel testo «l'inestricabile
confusione» di cui parla Vigneron. Ora, nell'edizione del 19 17, troviamo la
correzione della forma suddetta nella direzione attesa: «l'aria si lacerò». Correzione,
a mio parere, sufficiente a togliere dalla «confusione» il paragrafo, facendolo
passare totalmente all'aspetto temporale del singolativo. La descrizione di Vigneron
non è quindi applicabile al testo definitivo di Swann, l'ultimo apparso mentre
l'autore era in vita; quanto poi a spiegare il testo con una « trasposizione
incompiut a» dal singolativo all'iterativo, quest'unica correzione, come possiamo
vedere, va in direzione esattamente opposta: Proust, invece di «finire» di «passare»
una mano di calce - nel 191 7 — su un testo che nel 191 3 avrebbe
sconsideratamente lasciato troppo gremito di passati remoti, fa passare 374 al
singolativo la sola forma innegabilmente iterativa della pagina considerata.
L'interpretazione di Vigneron, già fragile, diventa allora insostenibile.
Mi affretto a precisare che, in questo momento, viene presa di mira soltanto la
spiegazione circostanziale inutilmente cercata da Vigneron per le confusioni nel
finale di Swann, come se invece tutto il rimanente racconto proustiano fosse un
modello di coerenza e di chiarezza. Lo stesso critico ha tuttavia giustamente
osservato, in un altro momento375, l'unità affatto retrospettiva imposta da Proust a
materiali «eterocliti», qualificando l'intera Recherche come «un vestito d'Arlecchino i
cui svariati pezzi, per quanto la stoffa sia ricca, ed essi stessi siano stati avvicinati,
ritagliati, adattati e cuciti con tanta perizia, tradiscono ancora, con le differenze di
tessitura e di colore, le loro origini diverse». 376 Fatto innegabile, e la pubblicazione
ulteriore delle varie «prime versioni» finora - e, molto probabilmente, anche in
futuro - ha soltanto confermato questa intuizione. Vi è un aspetto di «collage», o
meglio di «patchwork» nella Recherche, e la sua unità in quanto racconto (proprio
come, secondo lo stesso Proust, nel caso della Comédie humaine o della Tetralogia) è
un'unità retrospettiva, rivendicata tanto più aspramente proprio perché tardiva e
laboriosamente costruita con materiali di provenienza ed epoche varie. Proust,
come sappiamo, lungi dal considerarla «illusoria» (Vigneron), giudicava un simile
tipo di unità «non fittizio, forse anche più reale per il fatto stesso di esser ulteriore,
di esser nato da un momento d'entusiasmo in cui viene scoperto fra pezzi che
hanno il solo compito di congiungersi, unità che ignorava se stessa, dunque vitale e
non logica, che non ha bandito la varietà, né raggelato l'esecuzione» 377. Possiamo
soltanto, a mio parere, dargli fondamentalmente ragione, aggiungendo però, forse,
che in questo caso egli sottovaluta la difficoltà provata a volte, da parte dei vari
«pezzi», nell'«unirsi insieme». L'episodio (fra i tanti) degli Champs- Elysées,
secondo le norme della tradizione classica, reca proprio la traccia di questa
difficoltà, piuttosto di quella di una pubblicazione frettolosa. Ce ne potremo
convincere accostando al brano in esame le sue due precedenti versioni: quella di
Jean Santeuil, puramente singolativa, e quella del Contre Sainte-Beuve, completamente
iterativa378. Proust, al momento di costruire la versione finale mediante sutura, può
aver esitato nella scelta e, consapevolmente o meno, aver risolto, in definitiva, di
non operare nessuna scelta.
Ad ogni modo, l'ipotesi di lettura più pertinente rimane che il passo si componga
di un inizio iterativo (il primo paragrafo), di un seguito singolativo (il secondo
paragrafo, che abbiamo appena esaminato, e il terzo, il cui aspetto è senza
ambiguità di sorta): costruzione banale, se lo statuto temporale del singolativo, in
confronto al precedente iterativo, fosse indicato, almeno con una locuzione del
tipo «una volta», in grado d'isolarlo nella serie a cui esso appartiene 379. Ma non è
affatto così: il racconto passa senza metterci in guardia da un'abitudine a un
avvenimento singolare come se, invece di situare in qualche modo l'avvenimento
all'interno dell'abitudine o in rapporto ad essa, l'abitudine stessa potesse diventare,
se non essere in pari tempo, un avvenimento singolo - fatto di per sé inconcepibile,
che designa, nel testo proustiano così com'è, un luogo d'irriducibile irrealismo. Ne
esistono altri, dello stesso genere. Così, alla fine di Sodome et Gomorrhe, il racconto
dei viaggi del signor di Charlus nel trenino della Raspeliè- re e dei suoi rapporti
con gli altri fedeli comincia con un iterativo specificato con estrema precisione:
«Regolarmente, tre volte la settimana...», poi ristretto con una determinazione
interna: «le primissime volte...», per proseguire, durante tre pagine, con un
singolativo indeterminato: «(Cottard) disse per malizia, ecc.»380. In questo caso,
come vediamo, sarebbe sufficiente correggere il plurale iterativo «le primissime
volte» in un singolare («la primissima volta») perché tutto rientrasse nell'ordine. Ma se
qualcuno si attentasse a prendere una direzione del genere, troverebbe un po' più
di difficoltà per «Taquin le Superbe», iterativo da pagina 464 a pagina 466, ma che
diventa bruscamente singolativo in fondo a quest'ultima pagina e fino al termine
dell'episodio. E ancora di più col racconto del pranzo a Rivebelle, nelle Jeunes filles
en fleurs381, che è inestricabilmente, e in pari tempo, un pranzo sintetico raccontato
all'imperfetto («Le prime volte, quando vi arrivavamo...»), e un pranzo singolare
narrato al passato remoto («notai uno di quei camerieri... una giovane donna bionda
mi guardò, ecc. ») per noi databile con precisione, dato che si tratta della sera della
prima apparizione delle fanciulle, ma non situabile - mediante una qualche
indicazione temporale - nei confronti della serie a cui appartiene, in cui esso ci dà
l'impressione - abbastanza sconcertante - di fluttuare.
Nella maggior parte dei casi, per la verità, simili punti di tangenza (senza
rapporto temporale assegnabile) fra iterativo e singolativo, si trovano, più o meno
deliberatamente, dissimulati dall'interposizione di segmenti neutri, aspettualmente
indeterminati, la cui funzione - osserva Houston - pare sia quella d'impedire al
lettore di rendersi conto del cambiamento d'aspetto 382. I segmenti neutri possono
essere di tre tipi : siano dati degli excursus discorsivi al presente: ne troviamo, per
esempio, uno abbastanza lungo nella transizione fra l'inizio iterativo e il
proseguimento singolativo nella Prisonnière383; mezzo che appartiene,
evidentemente, a uno statuto extranarrativo. Per il secondo tipo le cose procedono
diversamente: esso è (osserva Houston) il dialogo (eventualmente ridotto anche a
una sola replica) senza verbo dichiarativo384; esempio citato da Houston, la
conversazione fra Marcel e la duchessa sull'abito indossato da quest'ultima al
pranzo Sainte-Euverte385. Il dialogo del genus abruptum è, per definizione, senza
determinazione d'aspetto, dato che è privo di verbi. Il terzo tipo è più sottile,
poiché il segmento neutro, in realtà, consiste in un segmento misto, o, più
esattamente, ambiguo; consiste nell'interporre, fra iterativo e singolativo, degli
imperfetti il cui valore aspettuale resta indeterminato. Eccone un esempio, tratto da
Un amour de Swann386: in un primo tempo ci troviamo nel singolativo; Odette chiede
un giorno a Swann del denaro per andare, senza di lui, a Bayreuth con i Verdurin;
«di lui, ella non diceva parola, era sottinteso che la loro presenza escludeva la sua
(imperfetti descrittivi singoiativi). Allora quella risposta terribile di cui aveva stabilito
ogni parola il giorno prima senza osar sperare di servirsene mai (trapassato
prossimo ambiguo), aveva la gioia di fargliela portare, ecc. (imperfetto iterativo)».
Trasformazione anche più efficace nella sua concisione, il ritorno all'iterativo che
chiude l'episodio singolativo degli alberi di Hudimesnil, nelle Jeunes filles en fleurs387:
« E quando la carrozza svoltò e io volsi loro la schiena e cessai di vederli, mentre la
signora di Villeparisis mi domandava perché avessi quell'aria trasognata, ero triste
come se avessi perduto un amico, come se fossi morto io stesso, avessi rinnegato
un morto e disconosciuto un dio (imperfetti singoiativi). Bisognava pensare al
ritorno (imperfetto ambiguo). La signora di Villeparisis... diceva al cocchiere di
prendere la vecchia strada per Balbec... (imperfetto iterativo)». La transizione tratta
da Un amour de Swann è invece più lenta, ma di un'abilità straordinaria nel
mantenere per una ventina di righe la sua indecisione:

Ma ella vide che i suoi occhi restavano fissi sulle cose che non sapeva e su quel passato del loro amore, monotono e dolce
nella sua memoria perché vago, e lacerato ora come da una ferita da quell'attimo nell'isola del Bois de Boulo- gne, al chiaro
di luna, dopo la cena dalla principessa dei Laumes. Ma egli era così avvezzo a trovare la vita interessante - ad ammirare le
scoperte curiose che vi si posson fare - che, pur soffrendo al punto di credere di non poter a lungo sopportare simile
dolore, si diceva: « l a v i t a è davvero stupefacente e serba delle belle sorprese; insomma, il vizio è cosa più diffusa di
quanto si creda. Ecco una donna in cui avevo fiducia, che ha l'aria così semplice, così onesta, che in ogni caso, se pure
leggera, sembrava normalissima e sana nei gusti: in seguito a una denuncia inverosimile, la interrogo, e il poco che mi
confessa rivela assai più di quanto si fosse potuto supporre». Ma non poteva limitarsi a queste considerazioni disinteressate.
Cercava di pesare con esattezza il valore di quel che ella gli aveva raccontato, per sapere se doveva concluderne che simili cose
ella le aveva fatte sovente, che si sarebbero rinnovate. Si ripeteva le sue parole: «Vedevo bene dove voleva arrivare», «Due o tre
volte», «Frottole! » ma esse non riapparivano inermi nella sua memoria: ciascuna teneva un coltello e gli vibrava un nuovo
colpo. Per molto tempo, come un infermo non si può trattenere dal tentare ogni minuto il movimento che gli fa male, si
ripeteva quelle parole... 388

Vediamo come la trasformazione sia veramente acquisita senza possibilità di


equivoci solo a partire da «Per molto tempo», che assegna all'imperfetto «si ripeteva
le sue parole» un valore chiaramente iterativo, destinato a rimanere tale anche in
seguito. A proposito di una transizione simile, ma più sviluppata (supera le sei
pagine) — e, per la verità, meno pura, poiché essa comporta anche vari paragrafi di
riflessioni al presente da parte del narratore e un breve monologo interiore del
protagonista - cioè quella che separa e collega, nella Prisonnière, il racconto di un
giorno parigino «ideale» al resoconto di un certo giorno reale di febbraio 389, J. P.
Houston evoca, con piena ragione, «quelle partiture wagneriane dove la tonalità si
modifica costantemente, senza nessun rapporto con l'armatura della chiave» 390.
Effettivamente, Proust ha saputo sfruttare con grande finezza armonica le capacità
di modulazione implicita nell'ambiguità dell'imperfetto francese, come se avesse
voluto, prima di citarlo esplicitamente a proposito di Vinteuil, realizzare quasi un
equivalente poetico del cromatismo di Tristano.
Una simile costruzione, si capisce, non può essere il semplice risultato di
contingenze materiali. Anche se si deve tener conto (e in modo considerevole)
delle circostanze esterne, rimane tuttavia da tener presente, in Proust (in
azione nelle pagine di cui ci occupiamo ora, ma l'abbiamo già riscontrato in altri
punti) una specie di sorda volontà, forse a malapena cosciente, di liberare dalla loro
funzione drammatica le forme della temporalità narrativa, e di lasciarle agire
liberamente; cioè, come egli stesso dice a proposito di Flaubert, di metterle in
musica391.

Il gioco col Tempo.


Rimane da fare un discorso generale sulla categoria del tempo narrativo, sia
riguardo alla struttura globale della Recherche, sia riguardo al posto occupato da tale
opera nell'evoluzione delle forme del romanzo. Abbiamo potuto constatare più
d'una volta, in effetti, la stretta solidarietà, nella realtà dell'opera, dei vari fenomeni
che abbiamo dovuto separare per motivi d'esposizione. Così, nel racconto
tradizionale, l'analessi (attinente all'ordine) prende di solito la forma del racconto
sommario (attinente alla durata o alla velocità), e il sommario ricorre di preferenza
ai servizi dell'iterativo (attinente alla frequenza); la descrizione è quasi sempre
puntuale, durativa e iterativa nello stesso tempo, senza mai negarsi abbozzi di
movimento diacronico: abbiamo visto come, in Proust, tale tendenza vada fino a
riassorbire il descrittivo nel narrativo; esistono forme frequentative dell'ellissi (è il
caso di tutti gli inverni parigini di Marcel all'epoca di Combray); la sillessi iterativa
non è solo attinente alla frequenza: riguarda anche l'ordine (poiché, col sintetizzare
eventi «simili», essa abolisce la loro successione) e la durata (poiché essa elimina,
contemporaneamente, i loro intervalli); potremmo allungare ancora la lista.
Possiamo dunque caratterizzare la tenuta temporale di un racconto esclusivamente
col prendere in considerazione, contemporaneamente, tutti i rapporti che esso
stabilisce fra la propria temporalità e quella della storia da esso raccontata.Nel
capitolo dell'ordine, abbiamo osservato come le grandi anacronie della Recherche si
situino tutte all'inizio dell'opera, e principalmente in Du coté de chez Swann, dove (lo
abbiamo visto) il racconto ha una partenza difficile, quasi esitante, e interrotta da
andirivieni incessanti fra la posizione memoriale del «soggetto intermediario» e
varie posizioni diegetiche, a volte raddoppiate (Combray I e Combray II) prima di
siglare, a Balbec, una specie di accordo generale con la successione cronologica.
Non possiamo fare a meno di avvicinare questo problema di ordine a uno di
frequenza altrettanto caratterizzato, e cioè il predominio dell'iterativo nella
medesima sezione del testo. I segmenti narrativi iniziali sono, in sostanza, degli
stadi iterativi: infanzia a Combray, amore di Swann, Gilberte, che si presentano alla
mente del soggetto intermediario - e, per suo tramite, al narratore — come
altrettanti momenti quasi immobili dove il passare del tempo è dissimulato sotto le
apparenze della ripetizione. L'anacronia dei ricordi («volontari» o meno) e il loro
carattere statico vanno, evidentemente, di pari passo, per il fatto che entrambi
derivano dal lavoro della memoria, in grado di ridurre periodi (diacronici) a epoche
(sincroniche), e gli eventi a quadri - epoche e quadri che essa dispone in un ordine
che non è il loro, ma il suo. L'attività memoriale del soggetto intermediario è perciò
un fattore (vorrei dire un mezzo) d'emancipazione del racconto nei confronti della
temporalità die- getica, sui due piani collegati dell'anacronismo semplice e
dell'iterazione (anacronismo un po' più complesso). A partire da Balbec, invece, e
soprattutto da Guermantes, sono restaurati, nello stesso tempo, l'ordine cronologico
e il predominio del singolativo (legato, è ovvio, al progressivo cancellarsi
dell'istanza memoriale, e quindi all'emancipazione, in questo caso, della storia, che
riprende il sopravvento sul racconto)392. Una restaurazione del genere ci riporta su
vie, apparentemente, più tradizionali, e si può preferire la sottile «confusione»
temporale di Swann all'ordine giudizioso della serie Balbec-Guermantes-Sodome. Ma, a
questo punto, sopravvengono, come un cambio della guardia, le distorsioni della
durata che (tramite ellissi enormi, scene mostruose) esercitano un'attività
deformante su una temporalità apparentemente ristabilita nei suoi diritti e nelle sue
norme. Questa deformazione non è più quella del soggetto intermediario, bensì
quella diretta del narratore, desideroso, nella sua impazienza e angoscia crescenti,
sia di caricare, come Noè con l'arca, fino al limite della deflagrazione, sia di saltare
all'agnizione (poiché di agnizione si tratta) che gli darà finalmente esistenza,
legittimando il suo discorso: arriviamo cioè qui a una temporalità differente, che
non è più quella del racconto e tuttavia, in ultima analisi, la regge: è la temporalità
della narrazione stessa. La ritroveremo in seguito393.
Simili interpolazioni, distorsioni e condensazioni temporali 394, Proust — almeno
quando ne prende coscienza (ad esempio, pare non essersi mai reso conto
dell'importanza assunta, in lui, dal racconto iterativo) - le giustifica costantemente
(secondo una tradizione già antica e certo non destinata a estinguersi con lui) con
una motivazione realistica, invocando di volta in volta l'impegno di raccontare le
cose, sia come sono state «vissute» in un determinato momento, sia come esse
vengono riportate alla memoria in seguito, a fatti compiuti. L'anacronismo del
racconto è così, via via, ora quello della stessa esistenza 395, ora quello del ricordo,
sottoposto a leggi diverse dalle leggi del tempo 396. Analogamente, le variazioni di
tempo (in senso musicale) coincidono ora con il carattere della «vita» 397, ora con
l'opera della memoria, o meglio dell'oblio398.
Contraddizioni e compiacimenti che ci distoglierebbero, se fosse necessario,
dall'accordare eccessiva fiducia a queste razionalizzazioni retrospettive di cui i
grandi artisti non sono mai avari (addirittura, proporzionalmente al loro genio, cioè
al progredire della loro pratica su qualunque teoria, compresa la loro). Compito
dell'analizzatore non è accontentarsene; e neppure ignorarle; è piuttosto, una volta
«messo allo scoperto» il procedimento, vedere in che modo la motivazione
invocata assume nell'opera la funzione di un medium estetico. E così vorremmo
dire, seguendo le formulazioni del primo Sklovskji, che in Proust, per esempio, la
«reminiscenza» è al servizio della metafora e non viceversa; che l'amnesia selettiva
del soggetto intermediario la troviamo proprio perché il racconto dell'infanzia si
apra sul «dramma del coricarsi»; che il « tran- tran» di Combray serve a scatenare la
scala mobile degli imperfetti iterativi; che il protagonista fa due permanenze in casa
di cura, onde fornire al narratore due belle ellissi; che la « maddalenina » ha buone
spalle, e lo stesso Proust l'ha affermato chiaramente almeno una volta: «Per non
parlare ora del valore che trovo a quei ricordi inconsci su cui appoggio, nell'ultimo
volume della mia opera, tutta la mia teoria dell'arte, e, per limitarmi al punto di
vista della composizione, dovevo semplicemente passare da un piano a un altro
piano, usando non un fatto, ma quanto avevo trovato più puro, più prezioso come
giuntura: cioè un fenomeno di memoria. Aprite i Mémoires d'outre-tombe, oppure le
Filles du feu di Gérard de Nerval. Vedrete come i due grandi scrittori che ci si diletta
- soprattutto il secondo - a impoverire e a disseccare con una interpretazione
puramente formale, conobbero alla perfezione questo procedimento di brusca
transizione»399. La memoria involontaria, estasi dell'«atemporale», contemplazione
dell'eternità? Forse. Ma anche, quando ci limitiamo al «punto di vista della
composizione», giuntura preziosa, e procedimento di transizione. E gusteremo di sfuggita,
in questa confessione di artefice400, lo strano atto di contrizione sugli « scrittori che
ci si diletta a impoverire e a disseccare con una interpretazione puramente
formale». Ecco un proiettile boomerang, ma non è stato ancora mostrato in che
modo l'interpretazione « puramente formale » impoverisca e dissecchi. O meglio,
lo stesso Proust ha provato il contrario, dimostrando, per esempio, su Flaubert,
come un certo impiego del «passato remoto, del passato prossimo, del participio
presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, abbia rinnovato la nostra visione
delle cose esattamente come Kant, con le sue Categorie, le teorie della Conoscenza
e della Realtà del mondo esterno» 401. In altre parole, e per parodiare la sua stessa
formula, che la visione può essere anche una questione di stile, e di tecnica.
Sappiamo con quale ambiguità, in apparenza insostenibile, il protagonista
proustiano si voti alla ricerca e all'«adorazione», insieme, dell'«extratemporale» e del
«tempo allo stato puro»; come egli pretenda di essere, contemporaneamente (e con
lui la sua futura opera), «fuori del tempo » e « nel Tempo ». Qualunque sia la chiave
di questo mistero ontologico, vediamo forse meglio adesso come tale finalità
contraddittoria funzioni e si concreti nell'opera di Proust: interpolazioni,
distorsioni, condensazioni, il romanzo proustiano è senz'altro, come ostenta, un
romanzo del Tempo perduto e ritrovato, ma è anche, forse in maniera più sorda,
un romanzo del Tempo dominato, avvinto, stregato, segretamente sovvertito, o
meglio: pervertito. Come si può non parlare, a proposito di questo romanzo (come
fa il suo autore a proposito del sogno), e forse non senza una riposta intenzione di
confronto, del « gioco formidabile che esso fa col Tempo? » 402.
4. Modo
Modi del racconto?
Se la categoria grammaticale del tempo si applica in modo evidente alla tenuta del
discorso narrativo, quella del modo, a priori, può sembrare ora priva di pertinenza:
partendo dall'idea che la funzione del racconto non sia dare un ordine, formulare
un augurio, enunciare una condizione, ecc., ma semplicemente narrare una storia,
quindi «riferire» dei fatti (reali o fittizi), il suo modo unico, o almeno caratteristico,
può esser soltanto, a rigor di logica, l'indicativo, e con ciò è già detto tutto
sull'argomento, se si eccettua il soffermarsi un po' più del dovuto sulla metafora
linguistica.Senza voler negare l'estensione (e dunque la distorsione) metaforica, a
una simile obiezione si può rispondere che non solo esiste una differenza fra
affermare, ordinare, augurare, ecc., ma esistono anche differenti gradi
nell'affermazione, e simili differenze si esprimono correntemente con variazioni
modali: vedi l'infinito e il congiuntivo nel discorso diretto latino, o il condizionale
francese che caratterizza l'informazione non confermata. Littré pensa
evidentemente a una funzione del genere quando definisce il senso grammaticale
del modo : « nome dato alle diverse forme del verbo usate per affermare più o meno
la cosa di cui si tratta, e per esprimere... i diversi punti di vista da cui si considera
l'esistenza o l'azione»: definizione abbastanza aperta, che, nel caso specifico, ci è
preziosissima. Possiamo effettivamente narrare più o meno quel che narriamo, e
narrarlo secondo vari punti di vista; la nostra categoria del modo narrativo si riferisce
precisamente a una ]simile capacità, e alle modalità del suo esercizio: la
«rappresentazione», o più esattamente l'informazione narrativa, ha i suoi gradi; il
racconto può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o
meno diretta, e sembrare così (per riprendere una metafora spaziale corrente e
pratica, a condizione di non prenderla alla lettera) a più o meno grande distanza da
quel che esso racconta; può anche scegliere di dosare l'informazione che esso
fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro uniforme, ma a seconda delle
capacità di conoscenza di questa o quella parte beneficiaria della storia
(personaggio o gruppo di personaggi), di cui adotterà (o fingerà d'adottare) quello
che generalmente è chiamato la « visione » o il « punto di vista», dando allora
l'impressione di adottare una prospettiva di un tipo o di un altro nei confronti della
storia (per continuare la metafora spaziale). «Distanza» e «prospettiva»,
provvisoriamente chiamate e definite così, sono le due modalità essenziali della
regolazione dell'informazione narrativa, costituita dal modo, esattamente come la mia
visione di un quadro dipende, per la precisione, dal-, la distanza che mi separa da
esso, e per l'estensione, dalla mia posizione nei confronti di un eventuale ostacolo
parziale che gli faccia più o meno da schermo.

Distanza.
Problema che, a quanto pare, è stato affrontato per la prima volta da Platone nel
III libro della Repubblica403. Platone, come sappiamo, oppone due modi narrativi, a
seconda che il poeta «parli a suo nome, senza cercare di farci credere che sia un
altro a parlare» (procedimento chiamato da Platone racconto puro)404, o che, al
contrario, «si sforzi in tutti i modi di darci l'illusione che non è Omero a parlare»,
bensì un qualche personaggio, se si tratta di parole pronunciate: è quel che Platone
chiama imitazione in senso proprio, o mimesi. E per far comprendere l'esatta
differenza, arriva fino a riscrivere in forma di diegesi la fine della scena fra Crise e gli
Achei (trattata, da Omero, in forma di mimesi, cioè in forma di discorso diretto, alla
maniera drammatica). La scena dialogata diretta diventa allora un racconto mediato
dal narratore, in cui le.«battute » dei personaggi si dissolvono per condensarsi in
discorso indiretto. Discorso indiretto e condensazione: ritroveremo fra poco questi
due caratteri distintivi del « racconto puro » che si oppone alla rappresentazione «
mimetica » derivata dal teatro. Sappiamo che una simile opposizione, un po'
neutralizzata da Aristotele (che fa del racconto puro e della rappresentazione
diretta due varietà della mimesi)405 e (forse proprio per questo motivo?) trascurata
dalla tradizione classica, poco attenta comunque ai problemi del discorso narrativo,
è bruscamente resuscitata nella teoria del romanzo, negli Stati Uniti e in Inghilterra,
a cavallo fra il xix e il xx secolo, con Henry James e i suoi discepoli, mediante l'uso
dei termini - appena trasposti - showing (mostrare) vs. telling (narrare), diventati ben
presto nella vulgata narrativa anglosassone l'Ormuzd e l'Ahriman dell'estetica sul
romanzo406. Da questo punto di vista normativo, Wayne Booth ha criticato in
modo decisivo tale valorizzazione neoaristotelica del mimetico lungo tutta la sua
Rhetoric of Fiction407. Dal nostro punto di vista, puramente analitico, è necessario
aggiungere (anche l'argomentazione di Booth d'altronde non manca di rilevarlo
all'occasione) che la nozione stessa di showing, come quella di imitazione o di
rappresentazione narrativa (e anche di più, a causa del suo carattere scopertamente
visivo) è assolutamente illusoria: nessun racconto, al contrario della
rappresentazione drammatica, può «mostrare» o «imitare» la storia che narra. Può
solo raccontarla in modo particolareggiato, preciso, «vivo», e dare così una
maggiore o minore impressione di mimesi, e cioè la sola mimesi narrativa possibile,
per la ragione unica e sufficiente che la narrazione, orale o scritta, è un fatto di
linguaggio, e il linguaggio significa senza imitare.
A meno che, ovviamente, l'oggetto significato (narrato) non sia a sua volta
linguaggio. Abbiamo potuto osservare poco fa, richiamandoci alla definizione
platonica di mimesi, la clausola apparentemente sbrigativa: «se si tratta di parole
pronunciate». Che accade dunque quando si tratta d'altro: non di parole, ma di fatti
e azioni mute? Come funziona allora la mimesi, e in che modo il narratore ci
fornirà «l'illusione di non essere lui a parlare»? (Non dico il poeta, o l'autore: che il
racconto sia assunto direttamente da Omero o da Ulisse, significa semplicemente
spostare il problema). Come fare (letteralmente) in modo che l'oggetto narrativo,
come pretende Lubbock, «si racconti datolo» senza che nessuno debba parlare per
lui? È un problema a cui Platone evita accuratamente di rispondere, se addirittura
non evita di porselo, quasi il suo esercizio di riscrittura si fondasse esclusivamente
su parole, limitandosi a opporre, come la diegesi alla mimesi, un dialogo in stile
indiretto a un dialogo in stile diretto. Il fatto è che la mimesi verbale può essere
solo mimesi del verbo. Per il resto, abbiamo e possiamo avere soltanto vari gradi di
diegesi. Dobbiamo quindi operare, a questo punto, una distinzione fra racconto di
avvenimenti e «racconto di parole».

Racconto di avvenimenti.
L'«imitazione» di cui Platone ci propone una traduzione in termini di « racconto
puro » comporta esclusivamente un breve segmento non dialogato. Eccolo prima
nella sua versione originale: «Disse così, tremò il vecchio, obbedì al comando, e si
avviò in silenzio lungo la riva del mare urlante; ma poi, venuto in disparte, molto il
vegliardo pregò il sire Apollo, che partorì Latona bella chioma » 408. Eccolo adesso
nella riscrittura operata da Platone : « Allora il vecchio, udito questo, impaurito se
ne andò via in silenzio : ma come fu lontano dal campo innalzò molte preghiere ad
Apollo»409.
La differenza più evidente si trova, scopertamente, nella lunghezza (nei testi
originali greci, 18 parole rispetto a 30): Platone ottiene questa condensazione
eliminando delle informazioni ridondanti («disse», «obbedì», «che partorì Latona»)
ma anche delle informazioni circostanziali e «pittoresche»: «bella chioma» e,
soprattutto, «lungo la riva del mare urlante». La riva del mare urlante, particolare
senza alcuna utilità funzionale nella storia, è, in modo estremamente tipico,
malgrado il carattere stereotipato della formula (che ricorre varie volte nell'Iliade e
nell'Odissea), e al di là delle enormi differenze di scrittura fra P«epopea» omerica e il
romanzo realista, quel che Barthes definisce un effetto di reale410. La spiaggia sonora
serve solo a far capire che il racconto la menziona esclusivamente perché è là, e il
narratore, abdicando alla sua funzione di scelta e di direzione del racconto, si lascia
governare dalla «realtà», per la semplice presenza di quanto si trova in quel
determinato punto ed esige di essere «mostrato». Particolare inutile e contingente,
è il medium per eccellenza dell'illusione referenziale, e perciò dell'effetto mimetico: è
un connotatore di mimesi. Così Platone, con mano infallibile, lo sopprime dalla sua
traduzione come elemento incompatibile col racconto puro.
Il racconto di avvenimenti, tuttavia (qualunque modo esso adotti) è pur sempre
racconto, cioè trascrizione del (supposto) non-verbale in verbale: la sua mimesi è
quindi sempre una mimesi illusoria, che dipende, come qualsiasi illusione, da un
rapporto eminentemente variabile fra l'emittente e il ricevente. È ovvio, per
esempio, che lo stesso testo possa essere captato da un determinato lettore come
intensamente mimetico, e da un altro come un resoconto di scarsissima
«espressività». In questo caso svolge un ruolo decisivo l'evoluzione storica: il
pubblico in epoca classica, probabilmente, così sensibile alla «figurazione»
raciniana, trovava nella scrittura di un d'Urfé o di un Fénelon un grado di mimesi
molto superiore a quello che vi troviamo noi; ma senz'altro avrebbe trovato nelle
ricchissime e circostanziate descrizioni del romanzo naturalista solo una
proliferazione confusa e una « fuligginosa accozzaglia», e quindi si sarebbe lasciato
sfuggire la sua funzione mimetica. Si deve tener conto di questo rapporto variabile
a seconda degli individui, dei gruppi e delle epoche, e che dunque non dipende
esclusivamente dal testo narrativo.
I fattori mimetici testuali in senso stretto a mio parere sono riconducibili ai due
dati già presenti in modo implicito nelle osservazioni di Platone: la quantità
d'informazione narrativa (racconto più sviluppato, o più particolareggiato) e l'assenza
(o presenza minima) dell'informatore, cioè del narratore. «Mostrare», può
equivalere soltanto a un certo modo di narrare, modo che consiste nel dire il più
possibile, e, in pari tempo, nel dire questo più il meno possibile: «fingere, - dice
Platone, - che non sia il poeta a parlare » — cioè, far dimenticare che è il narratore
a raccontare. Ne derivano i due seguenti precetti cardinali dello showing: il
predominio jamesiano della scena (racconto particolareggiato) e la trasparenza
(pseudo) flaubertiana del narratore (esempio canonico: Hemingway, The Killers, o
Hills like White Elephants). Precetti cardinali, e soprattutto precetti collegati: fingere di
mostrare, significa fingere di tacere, e in definitiva si dovrà dunque contrassegnare
l'opposizione del diegetico e del mimetico con una formula di questo tipo:
informazione + informatore = implicante che la quantità d'informazione e la presenza
dell'informatore sono inversamente proporzionali, dato che la mimesi si definisce
mediante un massimo d'informazione e un minimo d'informatore, e la diegesi
mediante il rapporto inverso. Come possiamo vedere immediatamente, è una
definizione che ci rimanda, da un lato, a una determinazione temporale: la velocità
narrativa, poiché è ovvio che la quantità d'informazione sta in rapporto
inversamente .proporzionale alla velocità del racconto, in maniera rilevantissima; e,
d'altro lato, ci rimanda a un fatto di voce: il grado di presenza dell'istanza narrativa.
Il modo, in questo caso, è solo la risultante di caratteri che non sono propriamente
suoi, e quindi non dobbiamo indugiare oltre su tale problema - tranne per
osservare immediatamente questo fatto: che La recherche du temps perdu costituisce,
da sola, un paradosso - o una smentita - assolutamente inassimilabile per la
«norma» mimetica di cui abbiamo appena svolta la formula implicita. Il racconto
proustiano, effettivamente (come abbiamo visto nel secondo capitolo) consiste
quasi esclusivamente di «scene» (singolative o iterative) cioè della forma narrativa
più ricca d'informazione, e dunque più «mimetica». Ma, d'altra parte, come
potremo vedere più minutamente nel capitolo seguente (ma come la lettura, anche
la più innocente, riesce a mostrare con sufficiente evidenza), la presenza del
narratore è in esso costante, e di un'intensità completamente contraria alla regola
«flaubertiana». Presenza del narratore come fonte, che garantisce e organizza il
racconto, in quanto analizzatore e commentatore, in quanto stilista («scrittore»
nella terminologia di Marcel Muller) e, in particolare — lo sappiamo bene - in
quanto produttore di « metafore ». Proust sarebbe quindi contemporaneamente,
come Balzac, come Dickens, come Dostoevskij, ma in maniera ancora più evidente
e perciò più paradossale, all'estremo limite dello showing e all'estremo limite del
telling (e anche un po' oltre, nel suo discorso a volte così scevro di qualunque
preoccupazione di una storia da raccontare, che sarebbe forse opportuno
chiamarlo semplicemente, nella stessa lingua, talking). Fatto notissimo e
indimostrabile al tempo stesso, senza un'analisi esaustiva del testo. Mi accontenterò
ora, per semplice esemplificazione, di fare appello una volta di più alla scena del
coricarsi a Combray, già citata nel primo capitolo 411. Niente è più intenso di quella
visione del padre, «grande nella sua camicia da notte bianca sotto il casimir indiano
rosa e violetto che s'annodava intorno alla testa», col candeliere in mano, il
fantastico riflesso sul muro della scala, e quei singhiozzi infantili tanto a lungo
repressi che scoppiano solo quando Marcel si ritrova con la madre. Ma,
contemporaneamente, niente è più esplicitamente mediato, garantito come ricordo, e
ricordo antichissimo e recentissimo insieme, di nuovo percepibile dopo anni
d'oblio ora che « la vita tace più spesso» attorno a un narratore alle soglie della
morte. Non si può dire che in questo caso il narratore lasci che la storia si racconti
da sola, ma sarebbe anche troppo poco dire che la racconta senza nessuna
preoccupazione di annullarsi di fronte ad essa: non è della storia che si tratta, bensì
della sua «immagine», della sua traccia in una memoria. Ma questa traccia così
tardiva, così lontana, così indiretta, è anche la presenza stessa. In una simile
intensità mediata si trova un paradosso, che, in modo evidentissimo, è tale solo per le
norme della teoria mimetica: una trasgressione decisiva, un rifiuto puro e semplice
- e in atto - della millenaria opposizione fra diegesi e mimesi.
Sappiamo che, per i partigiani postjamesiani del romanzo mimetico (e per lo
stesso James) la migliore forma narrativa è quella chiamata da Norman Friedman «
storia raccontata da un personaggio, ma in terza persona» (formula imprecisa che
designa chiaramente il racconto focalizzato di vista circoscritto, raccontato cioè da
un narratore che, pur non essendo uno dei personaggi, ne adotta però il punto di
vista). In tal modo, continua Friedman riassumendo Lubbock, «il lettore percepisce
l'azione filtrata attraverso la coscienza di un determinato personaggio, ma la
percepisce direttamente, esattamente nel modo in cui essa arriva a colpire quella
coscienza, evitando la distanza inevitabilmente connessa alla narrazione
retrospettiva in prima persona»412. La recherche du temps perdu, narrazione
doppiamente, a volte triplicemente retrospettiva, non evita, come sappiamo, questa
distanza; fa esattamente il contrario: la mantiene e la coltiva. Ma il miracolo del
racconto proustiano (come quello delle Confessions di Rousseau, a cui dobbiamo
avvicinarlo ancora una volta) è che questa distanza temporale fra storia e istanza
narrativa non porta con sé nessuna distanza modale fra storia e racconto: nessuna
perdita, nessun afEevolimento dell'illusione mimetica. Mediazione estrema, e in
pari tempo estrema immediatezza. L'estasi della reminiscenza, fra l'altro, può anche
essere simbolo di questo.

Racconto di parole.
Se l'«imitazione» verbale di fatti non verbali è solo utopia o illusione, il «racconto
di parole» può sembrare al contrario condannato a priori a quel tipo di imitazione
assoluta a proposito del quale Socrate dimostra a Cratilo che se veramente essa
presiedesse alla formazione delle parole, farebbe del linguaggio una duplicazione
del mondo: «Tutto sarebbe duplice, senza poter più distinguere dov'è l'oggetto
stesso e dov'è il nome». Quando, nell'ultima pagina di Sodome et Gomorrhe, Marcel
dichiara a sua madre: «È assolutamente necessario che io sposi Albertine», fra
l'enunciato pronunciato nel testo e la frase ovviamente pronunciata dal
protagonista, la sola differenza esistente è quella dovuta al passaggio dall'orale allo
scritto. Il narratore non racconta la frase del protagonista, possiamo a stento dire
che la imita: la ricopia, e in tal senso non si può parlare qui di racconto.Tuttavia, è
proprio quello che fa Platone quando si immagina cosa sarebbe divenuto il dialogo
fra Crise e Agamennone se Omero lo avesse riferito «non come se egli fosse
divenuto Crise (e Agamennone), ma come se fosse sempre rimasto Omero».
Poiché aggiunge subito: «Non vi sarebbe più nessuna imitazione, ma racconto
puro». Vale la pena di tornare ancora una volta su questo bizzarro rewriting, anche
se la traduzione se ne lascia sfuggire alcune sfumature. Accontentiamoci d'un solo
frammento, costituito dalla risposta di Agamennone alle suppliche di Crise. Ecco il
discorso originale dell'Iliade:

Mai te colga, vecchio, presso le navi concave, non adesso a indugiare, non in futuro a tornare, che non dovesse servirti più
nulla lo scettro, la benda del dio! Io non la libererò: prima la coglierà vecchiaia nella mia casa, in Argo, lontano dalla patria,
mentre va e viene al telaio e accorre al mio letto. Ma vattene, non m'irritare, perché sano e salvo tu parta 413.

Ecco cosa diventa adesso in Platone:


Agamennone montò in collera e gli ordinò d'andarsene subito, e di non tornare mai più, che lo scettro del dio e le bende
non sarebbero state utile difesa: prima di rendergli la figlia, ella, insieme a lui, in Argo sarebbe invecchiata; gli comandò
d'andarsene e di non irritarlo, se voleva tornare a casa sano e salvo 414.

Abbiamo ora, affiancate, due possibili realizzazioni del discorso d'un


personaggio, che classificheremo provvisoriamente in modo molto approssimativo:
in Omero, un discorso «imitato», cioè riferito (nella finzione) come si presume sia
stato pronunciato dal personaggio; in Platone, un discorso narrativizzato, cioè
trattato come un evento fra tanti e assunto come tale dal narratore stesso: il
discorso di Agamennone diventa in esso un atto, ed esteriormente niente ci fa
distinguere quel che deriva dalla risposta attribuita da Omero al suo eroe («gli
ordinò d'andarsene subito») e quanto deriva dai versi narrativi precedenti («montò
in collera»): in altre parole, quanto nell'originale era parola, e quanto invece era
gesto, atteggiamento, stato d'animo. La riduzione del discorso al puro avvenimento
potrebbe senz'altro esser spinta anche oltre, per esempio scrivendo unicamente:
«Agamennone rifiutò e mandò via Crise». In tal caso, ci troveremmo di fronte alla
forma pura del discorso narrativizzato. Nel testo di Platone, l'impegno di
conservare maggiori particolari ha turbato questa purezza, coll'introduzione di
elementi di un grado in qualche modo intermedio, scritto in stile indiretto più o
meno strettamente subordinato («prima di rendergli la figlia, ella, insieme a lui, in
Argo... »; «ché lo scettro del dio e le bende non sarebbero state utile difesa») a cui
riserviamo la denominazione di discorso trasposto. Si tratta di una tripartizione
applicabile con uguale risultato sia al «discorso interiore», sia alle parole
effettivamente pronunciate, ma la distinzione non è sempre pertinente quando si
tratta di un soliloquio: consideriamo ad esempio il seguente monologo (interiore o
effettivo?) di Julien Sorel che riceve la dichiarazione d'amore da parte di Mathilde,
monologo punteggiato da «si disse Julien», «gridò», «aggiunse», per cui sarebbe
operazione vana chiedersi se bisogna prenderlo alla lettera 415; la convenzione del
romanzo (forse nel caso specifico veridica) è che i pensieri e i sentimenti sono solo
discorsi, tranne quando il narratore si accinge a ridurli a fatti, raccontandoli come
tali.
Distingueremo quindi tre stati del discorso (pronunciato effettivamente, oppure
«interiore») di un personaggio, facendo riferimento al nostro attuale oggetto, cioè
alla «distanza» narrativa.
1. Il discorso narrativizzato, o raccontato, è evidentemente lo stato più distante, e in
generale, come abbiamo appena constatato, il più riduttivo: supponiamo che il
protagonista della Recherche, invece di riprodurre il suo dialogo con la madre, alla
fine di Sodome si limitasse a scrivere: «Informai mia madre della mia decisione di
sposare Albertine». Se poi non si trattasse più delle sue parole, bensì dei suoi
«pensieri», l'enunciato potrebbe essere ancora più breve e più vicino
all'avvenimento puro: «Decisi di sposare Albertine». Il racconto del contrasto
interiore che porta a tale decisione, condotto dal narratore in prima persona, può
invece svolgersi molto a lungo, nella forma tradizionalmente designata col termine
analisi, che possiamo considerare un racconto di pensieri, ossia discorso interiore
narrativizzato.
2. Il discorso trasposto, in stile indiretto: «Dissi a mia madre che era assolutamente
necessario che sposassi Albertine» (discorso pronunciato), «Pensai che per me era
assolutamente necessario sposare Albertine» (discorso interiore). Benché
leggermente più mimetica del discorso raccontato e, in teoria, capace di essere
esaustiva, si tratta di una forma che non offre al lettore nessuna garanzia, e
soprattutto nessun sentimento di fedeltà letterale alle parole «realmente»
pronunciate: la presenza del narratore è ancora troppo sensibile nella sintassi stessa
della sua frase, perché il discorso s'imponga con l'autonomia documentaria di una
citazione. Ammettiamo, per così dire, in anticipo che il narratore non si limiti a
trasporre le parole in proposizioni subordinate, ma che le condensi, le integri al
suo discorso, e dunque le interpreti nel suo stile personale, come Françoise quando
trasmette i saluti della signora di Villeparisis416.
Le cose vanno ben diversamente con la variante nota in francese col nome di
«style indirect libre», dove l'economia della subordinazione autorizza una maggiore
estensione del discorso, e quindi un inizio di emancipazione, malgrado le
trasposizioni temporali. Ma la differenza essenziale è costituita dall'assenza del
verbo dichiarativo, che può portar con sé (salvo indicazioni fornite dal contesto)
una doppia confusione. In primissimo luogo, confusione fra discorso pronunciato
e discorso interiore : in un enunciato quale: «Andai a trovare mia madre: era
assolutamente necessario che sposassi Albertine», la seconda proposizione può
tradurre altrettanto bene i pensieri di Marcel che si reca da sua madre, come pure le
parole che egli le dice. Inoltre, e soprattutto, confusione fra discorso (pronunciato
o interiore) del personaggio e quello del narratore. Marguerite Lips 417 ne cita degli
esempi sorprendenti, e sappiamo gli straordinari vantaggi che Flaubert trae da una
simile ambiguità: essa gli permette di far parlare al suo stesso discorso (senza
comprometterlo, ma anche senza scagionarlo affatto) l'idioma insieme nauseante e
affascinante costituito dal linguaggio dell'altro.
3. La forma più «mimetica» è, evidentemente, quella rifiutata da Platone, dove il
narratore finge di cedere letteralmente la parola al suo personaggio : « Dissi a mia
madre (o: pensai): è assolutamente necessario che io sposi Albertine». Questo
discorso riferito, di tipo drammatico, è adottato, fin dai tempi di Omero, dal genere
narrativo «misto»418 cioè dall'epopea — e poi dalla sua continuazione, il romanzo,
come forma fondamentale del dialogo (e del monologo), e la difesa operata da
Platone nei confronti del genere narrativo puro porterà conseguenze tanto più
irrisorie, in quanto Aristotele, con l'autorità e il successo ben noti, non tarderà
invece a sostenere la superiorità del mimetico puro. Non dobbiamo sottovalutare
l'influsso esercitato per secoli e secoli, sull'evoluzione dei generi narrativi, dal
privilegio accordato in larghissima misura alla dizione drammatica. Privilegio che
non si traduce soltanto nella canonizzazione della tragedia come genere supremo
in tutta la tradizione classica, ma anche, in maniera più sottile e molto oltre il
classicismo, in quella specie di tutela esercitata da parte del modello drammatico
sul genere narrativo, tutela resa benissimo dall'uso della parola « scena » per
designare la forma fondamentale della narrazione nel romanzo. Fino alla fine del
xix secolo, la scena del romanzo viene concepita, abbastanza miseramente, come
una pallida copia della scena drammatica: mimesi al quadrato, imitazione di
un'imitazione.
Fatto curioso: una delle grandi vie d'emancipazione del romanzo moderno
consisterà nello spingere all'estremo, o meglio al limite, questa mimesi del discorso,
cancellando le ultime tracce dell'istanza narrativa e dando immediatamente la
parola al personaggio. Immaginiamo un racconto che inizi (senza virgolette) con
una frase del genere: «È assolutamente necessario che io sposi Albertine...» e
continui così, fino all'ultima pagina, secondo l'ordine dei pensieri, delle percezioni
e delle azioni compiute o subite dal protagonista. « Il lettore viene (verrebbe)
immesso fin dalle prime righe nel pensiero del personaggio principale, ed è lo
svolgimento ininterrotto di tale pensiero, sostituendosi completamente alla forma
usuale del racconto, ad informarci di quanto avviene al personaggio o di quel che
egli fa». Si sarà riconosciuta, in queste parole, la descrizione fatta da Joyce dei
Lauriers sont coupés d'Edouard Dujardin419, cioè la definizione più giusta di quanto è
stato goffamente battezzato «monologo interiore», ma che sarebbe meglio
chiamare discorso immediato : dato che l'essenziale, come non è sfuggito a Joyce, non
è tanto il fatto che sia interiore, ma che sia immediatamente emancipato («fin dalle
prime righe») da qualsiasi tutela narrativa, che cioè esso occupi, fin dall'inizio
dell'azione, il primo piano sulla « scena »420.
Sappiamo quale è stata, qual è tutt'ora (da Joyce, a Beckett, a Nathalie Sarraute) la
posterità di quello strano libricino, e che rivoluzione sia stata operata da tale nuova
forma nella storia del romanzo del xx secolo 421. Non rientra nelle nostre intenzioni
insistervi ora, ma semplicemente osservare il rapporto, per lo più misconosciuto,
fra il discorso immediato e il discorso «riferito», che, dal punto di vista formale, si
distinguono esclusivamente per la presenza o l'assenza di un'introduzione
dichiarativa. Il monologo, e lo dimostra quello di Molly Bloom in Ulysses, oppure le
tre prime parti di The Sound and the Fury (monologhi successivi di Benjy, Quentin e
Jason), il monologo, dicevo, non ha affatto bisogno di essere esteso all'intera opera
per essere recepito come « immediato » : qualunque siala sua estensione, è
sufficiente che esso si presenti da solo, senza il tramite di un'istanza narrativa
ridotta al silenzio, e di cui esso finisce per assumere la funzione. Vediamo adesso la
differenza capitale fra monologo immediato e stile indiretto libero, a volte
ingiustamente confusi fra loro, oppure impropriamente accostati: nel discorso
indiretto libero il narratore assume il discorso del personaggio, o, se preferiamo, il
personaggio parla con la voce del narratore, e le due istanze vengono allora confuse;
nel discorso immediato il narratore si cancella e il personaggio si -sostituisce a lui.
Nel caso di un monologo isolato, tale cioè da non occupare la totalità del racconto,
come in Joyce o in Faulkner, l'istanza narrativa è mantenuta (però come in
disparte) dal contesto: tutti i capitoli che precedono l'ultimo, in Ulysses, oppure la
quarta parte di The Sound and the Fury, quando il monologo si confonde con la
totalità del racconto, come nei Lauriers, in Martereau o in Fugue, l'istanza superiore si
annulla, e ci ritroviamo davanti un racconto al presente in «prima persona». Eccoci
al limite dei problemi della voce. Per ora non spingiamoci oltre, e torniamo a Proust.
Se si esclude una prevenzione deliberata (è il caso di Platone che, nel riscrivere
Omero, rifiuta qualunque discorso riferito) le varie forme che abbiamo distinto dal
punto di vista teorico, nella pratica dei testi non sono ovviamente separate in
maniera altrettanto decisa: ragion per cui abbiamo già avuto occasione di osservare,
nel testo proposto da Platone (o per lo meno nella sua traduzione) uno slittamento
quasi impercettibile dal discorso raccontato al discorso trasposto, e dallo stile
indiretto allo stile indiretto libero.. Connessione che ritroviamo identica, ad
esempio, nella seguente pagina di Un amour de Swann, dove il narratore caratterizza
in un primo tempo dal proprio punto di vista i sentimenti di Swann quando viene
ricevuto da Odette, e confronta le sue angosce abituali alla situazione presente:
«Allora... tutte le idee terribili e tumultuanti che si faceva su Odette svanivano, si
ricongiungevano al corpo incantevole che Swann aveva dinanzi»; poi, introdotta dalla
locuzione « Lo prendeva il brusco sospetto...», ecco tutta una serie di pensieri del
personaggio riferiti in stile indiretto: «...che quell'ora trascorsa da Odette, sotto la
lampada, fosse solo un'ora fittizia... Che se egli non fosse stato là, ella avrebbe
spinto verso Forcheville la stessa poltrona... che il mondo abitato da Odette non
fosse l'altro mondo pauroso e sovrannaturale dove egli passava il tempo a situarla e
che esisteva forse soltanto nella sua fantasia, ma l'universo reale, ecc.»; poi Marcel
presta la sua voce, in stile indiretto libero (con le trasposizioni grammaticali che
esso implica) al discorso interiore dello stesso Swann: «Ah! se il destino gli avesse
concesso di abitare con Odette e se la casa di lei fosse la sua; se chiedendo al servo
quel che c'era per colazione, avesse appreso in risposta il menu di Odette; se, quando
Odette al mattino voleva andare a passeggio sul viale del Bois de Boulogne, il suo
dovere di buon marito l'avesse costretto ad accompagnarla, pur senza voglia
d'uscire... allora tutte le vacuità della sua vita che gli riuscivano così tristi, anche le più
familiari, venendo invece al tempo stesso a far parte della vita di Odette, avrebbero
assunto... una sorta di sovrabbondante dolcezza, e di densità misteriosa!»; poi,
dopo questa specie di clima mimetico, il testo fa ritorno allo stile indiretto
subordinato: «Tuttavia, egli aveva il dubbio che quel che tanto rimpiangeva era una
calma, una pace, che non sarebbero state un'atmosfera favorevole al suo amore... si
diceva che, quando fosse guarito, quel che faceva Odette gli sarebbe stato
indifferente», per tornare finalmente al modo iniziale del discorso narrativizzato («
temeva come la morte una simile guarigione»), che gli permette di proseguire
insensibilmente col racconto di avvenimenti: «Dopo quella serata tranquilla, i
sospetti di Swann erano calmi; egli benediceva Odette e l'indomani, fin dal mattino
le faceva mandare i più bei gioielli, ecc.» 422.
Simili gradazioni, o sottili combinazioni di stile indiretto e discorso raccontato,
non devono far sottovalutare l'uso caratteristico del discorso interiore riferito fatto
nel racconto proustiano. Che si tratti di Marcel o di Swann, il protagonista
proustiano (soprattutto nei suoi momenti di viva emozione) articola di preferenza i
suoi pensieri come un vero e proprio monologo, animato da una retorica
tipicamente teatrale. Ecco Swann in collera: «Però sono troppo stupido, - si diceva,
- pago col mio denaro il piacere degli altri. In tutti i modi lei farà bene a stare
attenta a non esagerare, perché potrei anche non darle più nulla. In ogni caso,
rinunciamo provvisoriamente alle gentilezze supplementari! Pensare che non più
tardi di ieri, poiché diceva di aver voglia di assistere alla stagione di Bayreuth, ho
avuto l'imbecillità di proporle di prendere in affìtto nei dintorni uno dei bei castelli
del re di Baviera per lei e per me. Del resto, non era poi molto contenta, non ha
detto né si né no: speriamo che rifiuti. Gran dio! Sentire Wagner per quindici giorni
con lei che gliene importa come a un pesce d'una mela, sarebbe allegro!» 423. O
Marcel, che cerca di rassicurarsi dopo la partenza di Albertine: «Tutto ciò, - mi
dicevo, - non vuol dir nulla, è anche meglio di quanto pensassi. Siccome non lo
pensa affatto, me l'ha scritto evidentemente per menare un colpo grosso e
mettermi paura. Bisogna provvedere alla cosa più urgente: che cioè Albertine sia di
ritorno questa sera. È triste pensare che i Bontemps siano gente marcia, che si
servono della nipote per estorcermi denaro. Ma che cosa importa? ecc.». 424 Capita
inoltre, per lo meno a Swann, di parlare «da solo ad alta voce», e per di più in
mezzo alla strada, quando torna furibondo a casa sua dopo essersi fatto eliminare
dalla gita a Chatou:
Che allegria fetida! - diceva atteggiando la bocca a una espressione di disgusto così forte che aveva egli stesso la sensazione
muscolare della sua smorfia fin nel collo contratto sotto il colletto della camicia... Vivo a troppe migliaia di metri
d'altitudine sopra i bassifondi in cui sciagottano e squittiscono chiacchiericci così sporchi, perché mi possano imbrattare le
celie di una Verdurin, - esclamò, rialzando il capo, raddrizzando fieramente all'indietro la persona... Aveva lasciato da un
pezzo i viali del Bois, ed era quasi giunto a casa, e non aveva ancora sfogato il dolore e l'impeto d'insincerità la cui
ebbrezza gli veniva versata di minuto in minuto, con crescente profusione, dall'accento falso, dall'artificiosa sonorità della sua voce,
mentre continuava a perorare nel silenzio della notte....425

Vediamo, in questo caso, che il suono della voce e l'intonazione artificiosa fanno
parte del pensiero, o meglio lo rivelano passando oltre le enfatiche denegazioni
della malafede:

E, senza dubbio, la voce di Swann era più chiaroveggente di lui, quando si rifiutava di proferire quelle parole piene di
disgusto per l'ambiente Verdurin, e di gioia d'averla fatta finita con esso, diversamente che in un tono fittizio e come
fossero state scelte piuttosto per appagare la sua collera che per esprimere il suo pensiero. Questo, difatti, mentr'egli
s'abbandonava a quelle invettive, senza che se ne rendesse conto, era assorto probabilmente in un oggetto affatto
diverso...:

oggetto, più che diverso addirittura diametralmente opposto ai discorsi sdegnosi


che si tiene Swann, e cioè quello di rientrare, a qualunque costo, nelle grazie dei
Verdurin e di farsi invitare al pranzo di Chatou. La duplicità del discorso interiore è
spessissimo di questo tipo, e niente può rivelarla meglio di tali monologhi insinceri
proferiti ad alta voce, quasi una scena, una «commedia» che si reati per se stessi. Il
«pensiero» è si un discorso, ma questo discorso, «obliquo» e mendace come tutti gli
altri, è, in pari tempo, generalmente infedele alla «verità sentita», che nessun
monologo interiore può rendere, e il romanziere deve risolversi a lasciarla
trasparire attraverso i camuffamenti della malafede, che costituiscono la
«coscienza» stessa. È quanto viene enunciato abbastanza bene nella seguente
pagina del Temps retrouvé, subito dopo la notissima formula: «il dovere e il compito
d'uno scrittore sono quelli di un traduttore » :
Ora, se quando si tratta, ad esempio, del linguaggio inesatto dell'amor proprio, il raddrizzamento dell'obliquo discorso interiore
(che va allontanandosi sempre più dalla impressione prima e centrale), finché non coincida con la retta che sarebbe dovuta
muovere dall'impressione, è un'impresa malagevole cui rilutta la nostra pigrizia, vi sono altri casi, - quando si tratta
dell'amore, per esempio, - in cui quello stesso raddrizzamento diventa doloroso. Tutte le nostre simulate indifferenze, tutto
il nostro sdegno per le sue menzogne così naturali, così simili a quelle cui ricorriamo anche noi, insomma, tutto ciò che
noi non abbiamo cessato, ogniqualvolta ci sentivamo infelici o traditi, non solo di ripetere alla persona amata ma,
aspettando di vederla, di dire senza fine a noi stessi, qualche volta ad alta voce nel silenzio della nostra stanza turbato da qualche:
«No, quel modo di fare è proprio intollerabile», oppure: «Ho voluto vederti un'ultima volta e non ti nascondo che ciò mi
addolora » ; ricondurre tutte queste cose alla verità realmente sofferta dalla quale si sono tanto allontanate, significa abolire
ciò che più ci stava a cuore, ciò che aveva costituito, a tu per tu con noi stessi, durante febbrili progetti di lettere o di altri
passi, il nostro appassionato colloquio con noi stessi426.

Sappiamo d'altra parte che Proust (da cui forse ci si sarebbe aspettato qualche
passo in questa direzione, dato che egli si trova cronologicamente situato fra
Dujardin e Joyce) non presenta quasi nulla, nella sua opera, di avvicinabile al «
monologo interiore » sul tipo dei Lauriers e dell'Ulysses427. Sarebbe completamente
erroneo qualificare in questo senso la pagina al presente («bevo un secondo sorso
in cui non trovo nulla di più che nel primo, ecc.») che si intercala nell'episodio della
«maddalena»428, e la cui tenuta narrativa ricorda molto di più il presente narrativo v
dell'esperienza filosofica, quale lo troviamo in Descartes o in Bergson: il supposto
soliloquio dell'eroe è assunto in questo caso, in modo decisissimo, dal narratore per
evi-
Menti fini dimostrativi, e niente è più lontano dallo spi- : rito del monologo
interiore moderno, che racchiude il personaggio nella soggettività di un « vissuto »
senza trascendenza e comunicazione. La sola occasione, nella Recberche, in cui
compaiono la forma e lo spirito del monologo immediato è quella messa in rilievo
da J. P. Houston429, che giustamente la qualifica una « vera e propria rarità in
Proust»; si trova a pagina 84 della Prisonnière. Ma Houston si limita a citare le prime
righe di questo passaggio, che, nonostante tutta la loro animazione, derivano forse
dallo stile indiretto libero; sono invece le righe seguenti che, tralasciando qualsiasi
trasposizione temporale, costituiscono il vero hapax joyciano della Recherche. Ecco il
passaggio nella sua totalità: metto in corsivo le poche frasi dove il monologo
immediato è incontestabile:
Da quei concerti mattutini a Balbec non era passato molto tempo. Eppure, in quel periodo abbastanza vicino, di Albertine
m'importava ben poco! Anzi, i primissimi giorni, non sapevo nemmeno che era a Balbec. Da chi l'avevo saputo? Ah! si, da
Aimé. C'era un magnifico sole, come oggi. Bravo Aimé! Era contento di rivedermi. Ma non ha nessuna simpatia per Albertine:
non tutti possono volerle bene. Si, fu lui a dirmi che era a Balbec. Come lo sapeva? Ah! si, l'aveva incontrata, e le aveva trovato un
fare sconveniente...430.

Il trattamento proustiano del discorso interiore è quindi, in definitiva, molto


classico, ma per ragioni che non lo sono affatto, con una ripugnanza evidentissima
- e per alcuni paradossale — nei confronti di quanto viene chiamato da Dujardin il
«tout-venant» mentale, il «pensiero allo stato embrionale», tradotto da un flusso
infraverbale ridotto al «minimo sintassiale » : niente è più estraneo alla psicologia
proustiana dell'utopia di un monologo interiore autentico, la cui non
organizzazione incoativa garantirebbe trasparenza e fedeltà ai sommovimenti più
profondi della «corrente di coscienza» — o d'inconscio.
La sola apparente eccezione è data dalla frase finale del sogno di Marcel a
Balbec431, «Pure, sai che vivrò sempre con lei, cervo, cervo, Francis Jammes,
forchetta» — in contrasto col carattere perfettamente articolato delle parole
scambiate fino a quel momento nel sogno 432. Ma se l'osserviamo un po' più
minutamente, questo stesso contrasto ha un senso estremamente preciso: subito
dopo questa frase di palese incoerenza, il narratore aggiunge: «ma già avevo
riattraversato il fiume dai meandri tenebrosi, già ero risalito alla superficie, dove
s'apre il mondo dei vivi: quindi, se ripetevo ancora: Francis Jammes, cervo, cervo,
la successione di queste parole non mi offriva più il significato limpido e la logica
ch'esse esprimevano con tanta immediatezza per me un attimo prima, e che non
sapevo più ricordare. Non capivo neppure più perché il senso della parola Aiace,
pronunciata proprio allora da mio padre, fosse stato subito: "Bada, non prender
freddo", senz'alcuna incertezza». Il che equivale a dire che la sequenza
infralinguistica cervo, Francis Jammes, forchetta non è affatto data come esempio del
linguaggio onirico, ma come testimonianza di rottura e incomprensione, al
risveglio, fra quel linguaggio e la coscienza allo stato di veglia. Nello spazio del
sogno, tutto è chiaro e naturale: è un fatto che si traduce in discorsi di una perfetta
coerenza linguistica. È nel momento del risveglio, nel momento cioè in cui questo
universo coerente cede il posto ad un altro (dalla logica diversa), che perde la sua
trasparenza quanto era «limpido» e «logico». Analogamente, quando il dormiente,
nelle prime pagine di Swann, esce dal suo primo sonno, il tema del suo sogno
(essere una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e di Carlo V) «comincia a
diventargli inintelligibile, come dopo la metempsicosi i ricordi di un'esistenza
anteriore»433. L'afflusso infralinguistico non è dunque mai, in Proust, il discorso di
un'ipotetica profondità alogica (anche nel caso del sogno), ma solo il mezzo di
raffigurare, mediante una specie di malinteso transitorio e liminare, il divorzio fra
due logiche, entrambe altrettanto articolate.
In quanto al discorso «esterno» - ossia, la tenuta di ciò che viene tradizionalmente
chiamato «dialogo», anche se impegna più di due personaggi - sappiamo come
Proust in questo caso si distolga completamente dall'uso flauber- tiano dello stile
indiretto libero - Marguerite Lips 434 ne ha messo in luce due o tre esempi, che
restano però eccezionali. Una simile ambigua trasfusione dei discorsi, una tale
confusione di voci è profondamente estranea alla sua dizione, che si ricollega qui
molto di più al modello balzachiano, caratterizzato dal predominio del discorso
riferito, e di quello chiamato dallo stesso Proust il « linguaggio oggettività», cioè
l'autonomia di linguaggio accordata ai personaggi, o, almeno, ad alcuni di essi:
«Balzac, avendo mantenuto, per certi aspetti, uno stile non organizzato, si potrebbe
credere non abbia cercato di oggettivare il linguaggio dei suoi personaggi, oppure,
quando lo ha fatto oggettivo, che non abbia potuto trattenersi dal far notare, ad
ogni momento, cosa aveva di particolare. Ebbene, è esattamente il contrario. Lo
stesso uomo che sciorina ingenuamente le sue idee storiche, artistiche, ecc.,
nasconde i disegni più profondi, e, senza intervenire, lascia parlare la verità della
pittura del linguaggio dei suoi personaggi, con una tale finezza che essa può
passare inosservata, e senza cercare minimamente di segnalarla. Quando fa parlare
la bella signora Roguin che, parigina per lo spirito, è per Tours la moglie del
prefetto della provincia, tutte le battute che costei fa sulla casa dei Rogron sono sue,
e non di Balzac! »435. Autonomia che a volte è stata messa in discussione, e
giudicata da Malraux, tanto per fare un esempio, «estremamente relativa» 436. È
senz'altro eccessivo dire, come fa Gaétan Picon (a cui risponde Malraux) che
«Balzac cerca di dare a ogni personaggio una voce personale», se voce personale
significa stile proprio e individuale. Le «parole di carattere» sono tali (come in
Molière) per il senso più che per lo stile, e le dizioni più caratterizzate (accento
tedesco di Nucingen o di Schmucke, oppure gergo portinaio di mamma Cibot) più
che stili personali, sono linguaggi di gruppo. Resta l'evidente sforzo di
caratterizzazione, e, idioletto o socioletto, la parlata dei personaggi ne risulta molto
«oggettivata», con una spiccata differenziazione fra discorso del narratore e
discorso dei personaggi, e dunque con un effetto mimetico probabilmente più
intenso che in qualunque altro precedente romanziere.
Proust, da parte sua, spingerà molto oltre l'effetto e il semplice fatto che egli ne
abbia osservato e un po' esagerato la presenza in Balzac dimostra chiaramente,
come tutte le distorsioni critiche del genere, quale fosse il suo parere in proposito.
Innegabilmente nessuno, né prima né dopo di lui, e, per quanto ne so in nessuna
lingua, ha mai caricato fino a questo punto l'« oggettivazione » e, in questo caso,
l'individuazione dello stile dei personaggi. Ho toccato di sfuggita, altre volte,
questo argomento437 il cui studio esauriente esigerebbe un'analisi stilistica
comparata dei discorsi di Charlus, di Norpois, di Françoise, ecc., non senza
inevitabili riferimenti alla «psicologia» di tali personaggi - e un confronto fra la
tecnica di simili immaginari (o almeno parzialmente immaginari) pastiches e quella
dei reali pastiches dell'Affaire Lemoine e vari altri. Non è questo, adesso, il nostro
assunto. Ci basti ricordare l'importanza del fatto, ma anche la sua ineguale
dispersione. Sarebbe eccessivo e sommario, in effetti, dire che tutti i personaggi di
Proust hanno un idioletto, e tutti con uguale costanza e intensità. La verità è che
quasi tutti, più o meno, presentano a un certo punto un qualche tratto erratico di
linguaggio, costruzione erronea o dialettale, o socialmente tipizzata, acquisizione o
espressione caratteristica, gaffe, sproposito o lapsus rivelatore, ecc.; a questo stadio
minimale del rapporto connotativo col linguaggio, possiamo dire che nessuno di
essi vi sfugge, ad esclusione forse dello stesso protagonista, che d'altronde parla
pochissimo in quanto tale, e il cui ruolo qui è piuttosto quello di osservare,
apprendere e decifrare. A un secondo livello, si trovano i personaggi caratterizzati
da un tratto linguistico ricorrente, che appartiene loro come un tic o una sigla,
personale e/o di stato sociale: anglicismi di Odette, improprietà di Basin, pseudo-
omerismi scolastici di Bloch, arcaismi di Saniette, liaisons scorrette di Françoise o
del direttore di Balbec, calembours e provincialismi di Oriane, gergo da cenacolo in
Saint-Loup, stile Sévigné della madre e della nonna del protagonista, difetti di
pronuncia della principessa Sherbatoff, Bréauté, Faffenheim, ecc. È il caso in cui
Proust si trova più vicino al modello balzachiano, ed è proprio una pratica del
genere ad essere stata in seguito la più imitata 438. Il livello superiore è costituito
dallo stile in senso proprio439, specifico e costante insieme, come lo troviamo in
Brichot (pedanteria e familiarismi da professore demagogo), in Norpois (truismi
ufficiosi e perifrasi diplomatiche), in Jupien (purezza classica), in Legrandin (stile
decadente), e soprattutto in Charlus (retorica furibonda). Il discorso «stilizzato»
costituisce una forma estrema di mimesi di discorso, dove l'autore « imita» il suo
personaggio non solo nel tenore dei suoi discorsi, ma addirittura in una letteralità
iperbolica tipica del pastiche, sempre un po' più idiolettico rispetto al testo autentico,
proprio come P«imitazione» è sempre una caricatura, per accumulazione e
accentuazione dei tratti specifici. Così, Legrandin o Charlus dànno sempre
l'impressione di imitarsi, e, in definitiva, di farsi da soli una caricatura. L'effetto
mimetico si trova dunque in questo caso al suo apice, o, più esattamente, al suo
limite: nel punto esatto in cui l'esasperazione del «realismo» confina coli'irrealismo
puro. L'infallibile nonna del narratore dice giustamente che Legrandin parla «un
po' troppo come un libro stampato» 440: in senso ancora più lato, è un rischio che
pesa su qualunque mimesi di linguaggio troppo perfetta, che finisce per annullarsi
nella circolarità di un rapporto al quadrato, già notato da Platone: Legrandin parla
come Legrandin, cioè come Proust che imita Legrandin, e il discorso, in ultima
analisi, rinvia al testo che lo «cita», cioè, in realtà, che lo costituisce.
Circolarità che spiega forse come un procedimento di «caratterizzazione» tanto
efficace quale l'autonomia stilistica non arrivi, in Proust, alla costituzione di
personaggi sostanziali e determinati nel senso realistico del termine. Sappiamo fino a
che punto i personaggi proustiani restino, o meglio diventino, nel susseguirsi delle
pagine, sempre più indefinibili, inafferrabili, «esseri di fuga», e la ragione
fondamentale di un fatto simile (e anche quella più accuratamente dosata da parte
dell'autore) sta nell'incoerenza del loro comportamento. Ma la coerenza iperbolica
del loro linguaggio, invece di compensare una simile evanescenza psicologica,
spessissimo non fa altro che accentuarla e aggravarla: un Legrandin, un Norpois,
anche un Charlus, non sfuggono affatto alla sorte esemplare delle comparse come
il direttore di Balbec, Celeste Albaret o il domestico Périgot Joseph: confondersi
cioè col loro linguaggio, al punto di ridursi ad esso. La più forte esistenza verbale
coincide qui col segno e l'inizio di una sparizione. Al limite dell'«oggettivazione»
stilistica, il personaggio proustiano trova questa forma, eminentemente simbolica,
della morte: abolirsi nel proprio discorso.

Prospettiva.
Quella che chiamiamo per ora, metaforicamente, prospettiva narrativa - cioè il
secondo modo di regolazione dell'informazione che deriva dalla scelta (effettiva o
mancante) di un «punto di vista» restrittivo — risulta essere, fra tutti i problemi
concernenti la tecnica narrativa, quello studiato con maggiore frequenza fin dalla
fine del xix secolo, con risultati critici incontestabili, come i capitoli di Percy
Lubbock su Balzac, Flaubert, Tolstoj o James, oppure quello di Georges Blin sulle
«restrizioni di campo» in Stendhal441. Tuttavia, la maggior parte dei lavori teorici su
questo argomento (che sono, essenzialmente delle classificazioni) soffrono, a mio
parere, di una fastidiosa confusione fra quanto chiamo qui modo e voce, cioè fra la
domanda qual è il personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa?, e la
domanda, completamente diversa: chi è il narratore? - o, per parlare più
sinteticamente, fra la domanda chi vede? e la domanda chi parla?. Torneremo in
seguito su tale distinzione apparentemente evidente, ma quasi universalmente
misconosciuta: Cleanth Brooks e Robert Penn Warren 442 proponevano così nel
1943, sotto il termine di focolaio narrativo («focus of narration»), esplicitamente (e
molto felicemente) proposto come equivalente del «punto di vista», una tipologia a
quattro termini che riassumo (traduco) nella tabella a pagina seguente.
Ora appare evidente che solo la frontiera verticale concerne il «punto di vista»
(interno o esterno), mentre quella orizzontale riguarda la voce (identità del
narratore), senza nessuna reale differenza di punto di vista fra 1 e 4 (diciamo:
Adolphe e Armance) e fra 2 e 3 (Watson che racconta Sherlock Holmes, e Agatha
Christie che racconta Hercule Poirot). Nel 1955 F. K. Stanzel distingue tre tipi di
«situazioni narrative» nel romanzo443: l'Auktoriale Erzählsituation, cioè quella
dell'autore «onnisciente» (genere: Tom Jones), l'Ich Erzählsituation dove il narratore è
uno dei personaggi (genere: Moby Dick), e la personale Erzählsituation, racconto in
«terza persona» secondo il punto di vista di un personaggio (genere: The
Ambassadors). Anche in questo caso, la differenza fra la seconda e la terza situazione
non è di «punto di vista» (mentre invece la prima si definisce secondo un criterio
simile), dato che Ishmael e Strether occupano in realtà la stessa posizione focale
nei due racconti, con un'unica differenza, che nell'uno è il personaggio focale
stesso ad essere narratore, e nell'altro un «autore» assente dalla storia. Lo stesso
anno, Norman Friedman444 presenta, da parte sua, una classificazione molto più
complessa in otto termini: due tipi di narrazione «onnisciente», con o senza
«intrusioni d'autore» (Fielding o Thomas Hardy), due tipi di narrazione «in prima
persona», io-testimone (Conrad) o io-eroe (Dickens, Great Expectations), due tipi di
narrazione «onnisciente selettiva», cioè con uso del punto di vista limitato, sia
«multiplo» (Virginia Woolf, To the Lighthouse), sia unico (Joyce, Portrait of the Artist),
infine due tipi di narrazione puramente oggettiva, ma il secondo tipo è ipotetico e,
d'altra parte, maldistinto dal primo: il «modo drammatico» (Hemingway, Hills like
White Elephants) e la «macchina fotografica», pura, e semplice registrazione, senza
selezione e organizzazione. Risulta evidentissimo che il terzo e il quarto tipo
(Conrad e Dickens) si distinguono dagli altri solo in quanto racconti « in prima
persona», e la differenza fra i primi due (intrusioni d'autore o no) è, ancora una
volta, un fatto di voce, concernente il narratore e non il punto di vista. Ricordiamo
che Friedman descrive il suo sesto tipo (Portrait of the Artist) come « storia
raccontata da un personaggio ma in terza persona», formula che testimonia una
confusione evidente fra il personaggio focale (che James chiamava il «riflettore») e
il narratore. Identica assimilazione, chiaramente involontaria, in Wayne Booth, che
nel 1961 intitola Distance and Point of view 445 un saggio consacrato in realtà a
problemi di voce (distinzione fra l'autore implicito, il narratore rappresentato o non
rappresentato, degno o indegno di fiducia), come d'altra parte egli stesso dichiara
esplicitamente col proporre una «classificazione più ricca della varietà delle voci
dell'autore». «Strether, — dice ancora Booth, - "narra" in gran parte la propria
storia, anche se viene sempre indicato in terza persona»: il suo statuto verrebbe
dunque a coincidere con quello di Cesare nel De bello gallico? Possiamo vedere a
quali difficoltà porti la confusione fra modo e voce. Bertil Romberg 446 riprende
infine, nel 1962, la tipologia di Stanzel, da lui completata mediante l'aggiunta di un
quarto tipo: il racconto oggettivo di stile behaviourista (il settimo tipo di
Friedman); ne deriva la seguente quadripartizione: 1 ) racconto con autore
onnisciente, 2) racconto con punto di vista, 3) racconto oggettivo, 4) racconto in
prima persona - dove il quarto tipo è chiaramente discordante col principio di
classificazione dei primi tre. Borges avrebbe senz'altro introdotto a questo punto
una quinta classe, tipicamente cinese, quella dei racconti scritti con un pennello
sottilissimo.È certamente legittimo progettare una tipologia delle « situazioni
narrative » che tenga conto dei dati di modo e di voce contemporaneamente; ma
non è affatto giusto, invece, presentare una simile classificazione unicamente sotto
la categoria del «punto di vista», né redigere una lista dove le due determinazioni si
fanno concorrenza sulla base di un'evidente confusione. È perciò opportuno,
adesso, considerare esclusivamente le determinazioni puramente modali, cioè
quelle concernenti quanto viene comunemente chiamato il «punto di vista», ossia,
secondo Jean Pouillon e Tzvetan Todorov, la «visione» o l'«aspetto» 447. Una volta
ammessa una riduzione del genere, si stabilisce senza grande difficoltà l'accordo su
una tipologia a tre termini, il primo dei quali corrisponde al racconto chiamato,
dalla critica anglosassone, «racconto con narratore onnisciente», e, da Pouillon
«retrovisione», simboleggiato, da parte di Todorov, mediante la formula Narratore
> Personaggio (in cui cioè il narratore ne sa di più del personaggio, o meglio ne dice
più di quanto ne sappia uno qualunque dei personaggi); nel secondo, Narratore =
Personaggio (il narratore dice solo quello che sa il personaggio in questione): è il
racconto, secondo Lubbock, con «punto di vista», secondo Blin con «campo
ristretto», e secondo Pouillon, si chiama «visione con»; nel terzo, Narratore <
Personaggio (il narratore ne dice meno di quatìto ne sappia il personaggio): si tratta
del racconto «oggettivo» o «behaviourista», chiamato da Pouillon «visione
dall'esterno». Per evitare il carattere troppo specificamente visivo dei termini
visione, campo, e punto di vista, riprendo ora il termine un po' più astratto
focalizzazione448, corrispondente, d'altra parte, all'espressione di Brooks e Warren:
«focus of narration»449.
Focalizzazioni.
Ribattezzeremo dunque il primo tipo, rappresentato in genere dal racconto
classico, racconto non-focalizzato, o a focalizzazione zero. Il secondo sarà il racconto a
focalizzazione interna, sia essa fissa (esempio canonico: The Ambassadors, dove tutto
passa attraverso Strether, o, meglio ancora, What Maisie knew, dove non
abbandoniamo quasi mai il punto di vista della ragazzina, la cui « restrizione di
campo» è particolarmente spettacolare in quella storia di adulti, il cui significato le
sfugge), variabile (come in Madame Bovary, dove il personaggio focale è in un primo
tempo Charles, poi Emma, poi ancora Charles 450, o, in maniera molto più rapida e
inafferrabile, in Stendhal), o multiplo, come nei romanzi epistolari, dove lo stesso
avvenimento può essere evocato varie volte a seconda del punto di vista di
numerosi personaggi corrispondenti451; sappiamo come il poema narrativo di
Robert Browning, The Ring and the Book (che racconta un caso criminale visto
successivamente dall'assassino, dalle vittime, dalla difesa, dall'accusa, ecc.) abbia
costituito per vari anni l'esempio canonico di questo tipo di racconto 452 prima di
essere sostituito dal film Rashomon. Il terzo tipo, per noi, sarà il racconto a
focalizzazione esterna, reso popolare, nel periodo fra le due guerre, dai romanzi di
Dashiel Hammet, dove il protagonista agisce davanti a noi senza che siamo mai
ammessi a conoscere i suoi pensieri o i suoi sentimenti, e da certe novelle di
Hemingway, come The Killers o, meglio ancora, Hills like White Elephants, dove la
discrezione viene spinta ai limiti dell'indovinello. Si tratta però di un tipo narrativo
che non dobbiamo limitare a un investimento letterario del genere: Michel
Raimond osserva giustamente453 che nel romanzo d'intreccio o d'avventura, «dove
l'interesse nasce proprio dal fatto che c'è un mistero», l'autore «non ci rivela
immediatamente tutto quello che sa», e in realtà molti romanzi d'avventura, da
Walter Scott a Jules Verne, passando per Alexandre Dumas, trattano le loro prime
pagine mediante focalizzazione esterna: basta pensare a come Phileas Fogg è, in un
primo tempo, visto dall'esterno, con lo sguardo sospettoso dei suoi contemporanei,
e come il suo mistero inumano venga mantenuto fino all'episodio destinato a
rivelare la sua generosità. Ma tanti romanzi «seri» dell'Ottocento praticano questo
tipo di introito enigmatico: vedi, in Balzac, la Peau de chagrin o l'Envers de l'histoire
contemporaine, e perfino il Cousin Ponsy dove il protagonista viene lungamente
descritto e seguito come uno sconosciuto dall'identità problematica. Anche altri
motivi possono giustificare il ricorso a tale atteggiamento narrativo, come ragioni
di convenienza (o meglio gioco di civetteria con la sconvenienza) per la scena della
carrozza in Bovary, interamente raccontata dal punto di vista di un testimone
esterno e innocente.
L'ultimo esempio dimostra benissimo come la focalizzazione non resti
necessariamente costante per tutta la durata di un racconto, e come la
focalizzazione interna variabile, formula già molto elastica, non sia applicabile alla
totalità di Bovary : non solo la scena della carrozza è con focalizzazione esterna, ma
abbiamo già avuto occasione di dire come il quadro di Yonville che inaugura la
seconda parte non sia molto più focalizzato della maggior parte delle descrizioni
balzachiane454. La formula di focalizzazione non coinvolge quindi sempre un'opera
intera, ma piuttosto un segmento narrativo determinato, che può essere
brevissimo455. La distinzione fra i diversi punti di vista, d'altra parte, non è sempre
tanto precisa come ci potrebbe far credere la semplice considerazione dei tipi puri.
Una focalizzazione esterna nei confronti di un personaggio può a volte lasciarsi
definire con altrettanta ragione come focalizzazione interna su un altro
personaggio: la focalizzazione esterna su Phileas Fogg è anche focalizzazione
interna su Passepartout affascinato dal suo nuovo padrone, e la pura e semplice
ragione per cui ci si attiene al primo termine è la qualità di eroe di Phileas, che
riduce Passepartout al ruolo di testimone; e una simile ambivalenza (o reversibilità)
è altrettanto sensibile quando il testimone non è personificato, ma resta un
osservatore impersonale e fluttuante, come all'inizio della Peau de chagrin.
Analogamente, la demarcazione fra focalizzazione variabile e non-focalizzazione, è
a volte difficilissima da stabilire, dato che il racconto non focalizzato può
spessissimo esser analizzato come un racconto con innumerevoli focalizzazioni ad
libitum, secondo il principio chi più può meno può (non bisogna dimenticare che la
focalizzazione è essenzialmente, secondo le parole di Blin, una restrizione); e
tuttavia, nessuno può confondere, su questo problema, la maniera di Fielding con
quella di Stendhal o di Flaubert456.
Dobbiamo anche osservare come ciò che chiamiamo focalizzazione interna sia
raramente applicato in maniera rigorosissima. Il principio stesso di questo modo
narrativo, effettivamente, implica con estremo rigore che il personaggio focale non
venga mai descritto, e neppure designato dall'esterno e che i suoi pensieri o le sue
percezioni non vengano mai analizzate oggettivamente dal narratore. Non esiste
dunque focalizzazione interna nel senso stretto della parola in un enunciato come
quello in cui Stendhal ci dice cosa e pensa Fabrice del Dongo : « Senza esitazione,
sebbene sul punto di morire dal disgusto, Fabrice si gettò da cavallo e prese la
mano del cadavere che scosse energicamente; poi rimase come annientato; sentiva
che non avrebbe avuto la forza di risalire a cavallo. Era soprattutto quell'occhio
spalancato a fargli orrore». La focalizzazione, in compenso, è perfetta nel brano
seguente, che si accontenta di descrivere quel che vede il protagonista: «Una
pallottola, penetrata a lato del naso, era uscita dalla tempia opposta, e sfigurava in
modo orrendo quel cadavere: era rimasto con un occhio spalancato» 457. Jean
Pouillon rileva perfettamente questo paradosso quando scrive che, nella «visione
con», il personaggio è visto «non nella sua interiorità, poiché bisognerebbe che noi
ne potessimo uscire all'esterno, mentre invece ne siamo assorbiti, bensì
nell'immagine che egli si fa degli altri, in un certo senso in trasparenza in questa
immagine. In conclusione, lo possiamo cogliere come cogliamo noi stessi, nella
nostra coscienza immediata delle cose, dei nostri atteggiamenti nei confronti di
quello che ci circonda e non in noi stessi. Di conseguenza, possiamo dire per
finire: la visione in immagine degli altri non è una conseguenza della visione " con
" del personaggio centrale, è questa stessa visione "con"» 458. La focalizzazione
interna si realizza pienamente solo nel racconto con «monologo interiore», oppure
nell'opera limite costituita dalla Jalousie di Robbe-Grillet459, dove il personaggio
centrale si riduce assolutamente alla - e si deduce rigorosamente dalla - sua
posizione focale. Prenderemo dunque questo termine nella sua accezione
necessariamente meno rigorosa: il suo criterio minimale è stato messo in evidenza
da Roland Barthes nella sua definizione di ciò che egli chiama il modo personale del
racconto460. Criterio che coincide con la possibilità di riscrivere il segmento
narrativo preso in esame in prima persona (se non è già scritto così) senza che tale
operazione porti con sé «nessun'altra alterazione del discorso, tranne il
cambiamento in sé dei pronomi grammaticali»: così, una frase come «James Bond
vide un uomo di una cinquantina d'anni, dall'aria ancora giovanile, ecc.» è
traducibile in prima persona («vidi, ecc.») e, per noi, deriva dalla focalizzazione
interna. Invece, una frase come «il tintinnio contro lo specchio parve dare a Bond
una brusca ispirazione» è intraducibile in prima persona senza incongruità
semantica evidente461. È un tipico caso di focalizzazione esterna, a causa
dell'evidente ignoranza, da parte dell'autore, nei confronti dei reali pensieri del
protagonista. Ma la comodità di questo criterio puramente pratico non deve aiutare
a confondere le due istanze della focalizzazione e della narrazione che restano
distinte anche nel racconto «in prima persona», cioè quando le due istanze sono
assunte dalla stessa persona (salvo nel racconto al presente, in forma di monologo
interiore). Quando Marcel scrive: «Scorsi un uomo sulla quarantina, molto alto e
piuttosto grosso, dai baffi nerissimi e che, battendosi nervosamente una giannetta
sui pantaloni, fissava su di me due occhi dilatati dall'attenzione» 462, fra l'adolescente
di Balbec (il protagonista) che scorge uno sconosciuto, e l'uomo maturo (il
narratore) che racconta la stessa storia varie decine d'anni più tardi, e sa benissimo
che lo sconosciuto era Charlus (e tutto ciò che significa il suo atteggiamento),
l'identità di persona non deve mascherare la diversa funzione e - cosa per noi
particolarmente interessante ora - d'informazione. Il narratore « sa» quasi sempre
più del protagonista, anche se il protagonista è lui stesso, e quindi la focalizzazione
sul protagonista è per il narratore una restrizione di campo altrettanto artificiale in
prima persona che in terza persona. Ritroveremo fra poco tale problema decisivo a
proposito della prospettiva narrativa in Proust, ma dobbiamo ancora definire due
nozioni indispensabili per questo studio.

Alterazioni.
Le variazioni di « punto di vista » che si producono lungo un racconto, possono
essere analizzate come cambiamenti di focalizzazione, simili a quelli già riscontrati
in Madame Bovary : parleremo allora di focalizzazione variabile, di coscienza con
parziali riduzioni di campo, ecc. Si tratta di una posizione narrativa perfettamente
sostenibile, e la norma di coerenza eretta a punto d'onore della critica
postjamesiana è evidentemente arbitraria. Lubbock esige che il romanziere sia «
fedele a una qualche posizione, e rispetti il principio che ha adottato», ma perché
mai questo principio non potrebbe essere la libertà assoluta e l'incoerenza?
Forster463 e Booth hanno pure dimostrato la vanità delle regole pseudo-jamesiane,
e chi prende sul serio, oggi, le osservazioni fatte da Sartre a Mauriac 464?
Un cambiamento di focalizzazione, tuttavia, soprattutto se isolato in un contesto
coerente, si può anche analizzare come infrazione momentanea al codice che
determina tale contesto, senza mettere però in discussione l'esistenza del codice
stesso, esattamente come, in una partitura classica, un momentaneo cambiamento
di tonalità, o perfino una dissonanza ricorrente, si definiscono modulazioni o
alterazioni senza che venga contestata la tonalità generale. Giocando sul doppio
significato del termine modo, che ci rinvia contemporaneamente alla grammatica e
alla musica, chiamerò quindi, in generale, alterazioni le infrazioni isolate, quando la
coerenza globale resti però abbastanza forte perché rimanga pertinente la nozione
di modo dominante. I due tipi ammissibili di alterazione consistono o nel dare
meno informazioni di quanto non sia, in teoria, necessario, oppure nel darne più di
quanto non sia, in teoria, autorizzato dal codice di focalizzazione che determina
l'insieme. Il primo tipo, in retorica, ha un nome preciso che abbiamo già incontrato
a proposito delle anacronie completive465: si tratta dell'omissione laterale o parallissi.
Il secondo non ha ancora un nome; lo battezzeremo pa- rallessi, dato che, in questo
caso, non si tratta più di lasciare (-lissi, da leipo) un'informazione che si dovrebbe
prendere (e dare), ma al contrario di prendere (-lessi, da lambano) e dare
un'informazione che si dovrebbe lasciare da parte.
Nel codice della focalizzazione interna, il tipo classico della parallissi,
ricordiamolo, è rappresentato dall'omissione di un'azione o pensiero importante
del protagonista focale, azione tale da non poter essere ignorata né dal
protagonista né dal narratore, ma che il narratore sceglie di dissimulare al lettore.
Conosciamo l'uso che Stendhal ha fatto di questa figura 466, e Jean Pouillon evoca
giustamente un fatto del genere a proposito della sua «visione con», il cui
inconveniente principale, a suo parere, sta nel fatto che il personaggio, in tale tipo
di racconto, è troppo conosciuto in anticipo, e non riserva nessuna sorpresa —
cosicché ne deriva, come rimedio, l'omissione volontaria, a suo giudizio goffa.
Esempio lampante: la dissimulazione, da parte di Stendhal, in Armance, attraverso
tanti pseudomonologhi del protagonista, del suo pensiero centrale, che
evidentemente non lo può abbandonare nemmeno un secondo: la sua impotenza
sessuale. Un simile sotterfugio, dice Pouillon, sarebbe normale se Octave fosse
visto dal di fuori, «ma Stendhal non resta all'esterno, fa delle analisi psicologiche, e
diventa allora assurdo nasconderci quanto Octave deve, a sua volta, sapere
benissimo; se è triste, ne sa perfettamente la causa, e non può sentire questa
tristezza senza pensarci; Stendhal dovrebbe perciò informarcene. Sfortunatamente,
non lo fa; ottiene allora un effetto di sorpresa quando il lettore ha capito, ma lo
scopo principale di un personaggio di romanzo non è quello di essere un rebus» 467.
Analisi che presuppone risolto, lo vediamo, un problema non completamente
risolto, dato che l'impotenza di Octave non è esattamente un dato del testo; ma in
questo caso non ha una grande importanza: accettiamo l'esempio con la sua
ipotesi. Essa comporta inoltre degli apprezzamenti che mi guarderò bene dal fare
miei. Ma essa ha, tuttavia, il merito di descrivere bene il fenomeno - che, beninteso,
non costituisce un'esclusività stendha- liana. Barthes, a proposito di quella che
chiama «mescolanza dei sistemi », cita a giusta ragione il « trucco » di Aga- tha
Christie che consiste nel focalizzare un racconto come The murder of Roger Ackroyd
sull'assassino, omettendo dai suoi «pensieri» il semplice ricordo dell'assassinio; e
sappiamo come il romanzo giallo più classico, per quanto in genere focalizzato sul
detective investigatore, ci nasconda il più delle volte una parte delle sue scoperte e
induzioni fino alla rivelazione finale468.
L'alterazione opposta, l'eccesso di informazione o parallessi, può consistere in
un'incursione nella coscienza di un personaggio durante un racconto generalmente
condotto in focalizzazione esterna: all'inizio di Peau de chagrin, possiamo
considerare parallessi enunciati come «il giovane non capì la sua rovina...» o «assunse
l'aria d'un inglese»469, contrastanti in maniera nettissima col principio di visione
esterna adottata fino a quel momento, e che iniziano un passaggio graduale alla
focalizzazione interna. Analogamente, in focalizzazione interna si può trattare di
una informazione incidentale sui pensieri d'un personaggio diverso dal
personaggio focale, o su uno spettacolo che costui non può vedere.
Qualificheremo secondo questo criterio la pagina di Maisie dedicata ad alcuni
pensieri di mrs Farange che Maisie non può sapere: « Si avvicinava il giorno, ed ella
lo sapeva, in cui avrebbe provato maggior piacere a mettere Maisie contro suo
padre piuttosto che a strappargliela» 470.
Ultima osservazione generale, prima di tornare al racconto proustiano: non si
devono confondere l'informazione data da un racconto focalizzato e l'interpretazione
che il lettore è chiamato a dare (o che dà senza esserne stato richiesto). Abbiamo
spesso osservato che Maisie vede o sente cose che non capisce, decifrabili però
senza sforzo da parte del lettore. Gli occhi di Charlus «dilatati dall'attenzione»,
mentre fissa Marcel a Balbec, possono essere per il lettore scaltrito un segnale, che
invece sfugge completamente al protagonista, come tutto il comportamento del
barone nei suoi confronti fino a Sodome I. Bertil Romberg471 analizza il caso d'un
romanzo di J. P. Marquand, H. M. Pulham, Esquire, dove il narratore, un marito
fiducioso, assiste ad alcune scene fra sua moglie e un amico, e le riferisce senza
pensarne male: il loro significato però non può sfuggire neppure al lettore meno
sottile. L'eccesso d'informazione implicita sull'informazione esplicita è alla base di
tutto il gioco di quelli che Barthes chiama gli indizi, gioco che funziona altrettanto
bene in focalizzazione esterna: in Hills like White Elephants, Hemingway riferisce la
conversazione fra i suoi due personaggi astenendosi dal- l'interpretarla; è come se il
narratore, analogamente al protagonista di Marquand, non capisse ciò che
racconta: il che non impedisce affatto al lettore d'interpretarlo in modo conforme
alle intenzioni dell'autore, come ogni volta che un romanziere scrive « senti un
sudore freddo scorrergli per la schiena» e noi, senza esitazioni, traduciamo: «ebbe
paura». Il racconto dice sempre meno di quanto sa, ma spesso fa anche sapere più
di quanto non dica.

Polimodalità.
Ripetiamolo ancora una volta: l'uso della «prima persona», altrimenti detto
identità di persona fra narratore e protagonista 472, non implica affatto una
focalizzazione del racconto sul protagonista. Anzi, è esattamente l'opposto: il
narratore di tipo «autobiografico», si tratti di una biografia reale o fittizia, è più «
spontaneamente » autorizzato a parlare a proprio nome del narratore d'un
racconto «in terza persona», per il fatto stesso della sua identità con il protagonista.
Tristram Shandy commette un'indiscrezione più lieve, nel mischiare al racconto
della sua «vita» passata l'esposizione delle sue «opinioni» (e quindi delle sue
conoscenze) attuali, di quanto non faccia, da parte sua, Fielding nel mischiare
l'esposizione delle sue opinioni al racconto della vita di Tom Jones. Il racconto
impersonale tende dunque alla focalizzazione interna per la semplice inclinazione
(se d'inclinazione si tratta) della discrezione e del rispetto per quella che Sartre
chiamerebbe la « libertà » — cioè l'ignoranza - dei suoi personaggi. Il narratore
autobiografico non ha nessun motivo del genere per imporsi il silenzio, non
avendo nessun dovere di discrezione nei confronti di se stesso. La sola
focalizzazione da rispettare, per lui, si definisce rispetto alla sua informazione
presente di narratore, e non rispetto alla sua informazione passata di
protagonista473. Se lo desidera, può scegliere questa seconda forma di
focalizzazione, ma non è affatto obbligato a farlo, e si potrebbe anche considerare
questa scelta, quando si produce, una parallissi, poiché il narratore, per attenersi
alle informazioni possedute dal protagonista al momento dell'azione, deve
sopprimere tutte quelle che egli ha ottenuto in seguito, spesso di capitale
importanza.
Evidentemente Proust (ne abbiamo già incontrato un esempio) si è imposto in
larghissima misura una simile iperbolica restrizione, e il modo narrativo della
Recherche è spessissimo la focalizzazione interna sul protagonista 474. È il «punto di
vista del protagonista», in genere, a dirigere il racconto, con le sue riduzioni di
campo, le sue momentanee lacune, e anche quanto il narratore considera fra sé e sé
come errori di gioventù, ingenuità, «illusioni da perdere». Proust ha insistito, in una
celebre lettera indirizzata a Jacques Rivière, sulla sua cura nel dissimulare il fondo
del suo pensiero (identificato qui con quello di Marcel-narratore) fino al momento
della rivelazione finale. Il pensiero apparente delle ultime pagine di Swann (a
proposito delle quali, tuttavia, occorre ricordare che si riferiscono in teoria a
un'esperienza assolutamente recente) è, lo afferma con forza, «il contrario della mia
conclusione. Essa costituisce una tappa, dall'apparenza soggettiva e dilettantesca,
verso la più obiettiva e credibile delle conclusioni. Se ne inducessimo che il mio
pensiero è un disincantato scetticismo, sarebbe esattamente come se uno
spettatore, avendo visto alla fine del primo atto del Parsifal che questo personaggio
non capisce nulla della cerimonia e viene scacciato da Gurnemanz, supponesse che
Wagner avesse voluto spiegare come la semplicità di cuore non »porti a nulla».
Analogamente, l'esperienza della «maddalena» (tuttavia, a sua volta, recente) è
riferita in Swann, ma senza spiegazioni, poiché la ragione profonda del piacere della
reminiscenza non viene svelata: «lo spiegherò solo alla fine del terzo volume». Per
il momento, bisogna rispettare l'ignoranza del protagonista, dosare l'evoluzione del
suo pensiero, il lento lavoro della vocazione. «Ma questa evoluzione di un pensiero,
non ho voluto analizzarla astrattamente, bensì ricrearla, farla vivere. Sono dunque
obbligato a dipingere gli errori, senza credere necessario dire che, a mio parere, si
tratta di errori; peggio per me se il lettore crede che io li ritenga verità. Il secondo
volume accentuerà il malinteso. Spero che l'ultimo arrivi a dissiparlo» 475. Sappiamo
che non è stato completamente dissipato: è il rischio evidente della focalizzazione,
da cui Stendhal fingeva di garantirsi con note a piè di pagina: «si tratta dell'opinione
del protagonista, che è folle e si correggerà».
Proust ha compiuto, evidentemente, il massimo sforzo di dosaggio della
focalizzazione per quanto riguarda l'essenziale, cioè l'esperienza della memoria
involontaria e della vocazione letteraria ad essa riallacciata, proibendosi qualsiasi
indicazione prematura, qualsiasi incoraggiamento indiscreto. Le «prove»
dell'incapacità di scrivere e dell'inguaribile dilettantismo di Marcel, come del suo
crescente disgusto per la letteratura, non smettono di accumularsi fino alla
spettacolare peripezia del cortile di palazzo Guermantes - tanto più spettacolare in
quanto la suspense è stata lungamente dosata da una focalizzazione rigorosissima
su questo argomento. Ma il principio del nonintervento verte anche su moltissimi
altri argomenti, per esempio l'omosessualità che, malgrado la scena premonitrice di
Montjouvain, resterà, sia per il lettore che per il protagonista, un continente cento
volte incontrato e mai riconosciuto fino alle prime pagine di Sodome.
L'investimento più consistente di questo principio narrativo è indubbiamente il
modo in cui vengono trattate le relazioni amorose del protagonista, e anche di quel
protagonista di secondo grado costituito da Swann in Un amour de Swann. La
focalizzazione interna ritrova allora la funzione psicologica fornitale dall'Abbé
Prévost in Manon Lescaut: l'adozione sistematica del «punto di vista» di uno dei
protagonisti permette di lasciare in un'oscurità quasi totale i sentimenti dell'altro,
costruendogli in tal modo, senza molta fatica, una personalità misteriosa e
ambigua, proprio quella personalità per cui Proust inventerà la denominazione
«essere di fuga». A ogni stadio della loro passione, noi non sappiamo, sulla «verità»
di una Odette, di una Gilberte o di una Albertine, niente di più di Swann o di
Marcel, e la più efficace illustrazione della «soggettività» essenziale dell'amore
secondo Proust è fornita proprio dalla perpetua evanescenza del suo oggetto:
l'essere di fuga è, per definizione, l'essere amato 476. Non riprendiamo ora la lista
(già ricordata a proposito delle analessi con funzione correttiva) degli episodi
(primo incontro con Gilberte, falsa confessione d'Albertine, incidente dei fiori di
siringa, ecc.) il cui vero significato sarà scoperto dal protagonista solo molto più
tardi, e, col protagonista, anche dal lettore. A tali ignoranze o malintesi provvisori,
dobbiamo aggiungere alcuni punti di definitiva opacità, dove la prospettiva del
protagonista e quella del narratore coincidono: così, noi non sapremo mai quali
sono stati i veri sentimenti di Odette per Swann e di Albertine per Marcel. Una
pagina delle Jeunes filles en fleurs illustra benissimo l'atteggiamento in un certo senso
interrogativo del racconto di fronte a quegli esseri impenetrabili, quando Marcel,
congedato da Albertine, si chiede per quali motivi la fanciulla ha potuto rifiutargli
un bacio dopo una serie di avances tanto chiare:

... il suo contegno in quella scena, io non riuscivo a spiegarmelo. Per quel che concerne l'ipotesi di una virtù assoluta
(l'ipotesi cui avevo dapprima attribuito la violenza con cui Albertine aveva rifiutato di lasciarsi baciare e prendere da me e
che non era, del resto, per nulla indispensabile al mio concetto della bontà, della profonda onestà della mia amica), non
cessavo di rimaneggiarla. Era un'ipotesi talmente contraria a quella che avevo costruito il primo giorno in cui avevo visto
Albertine! Poi, tanti atti diversi, tutti di gentilezza per me (una gentilezza carezzevole, a volte inquieta, preoccupata, gelosa
della mia predilezione per Andrée), avvolgevano da ogni parte il gesto aspro con cui, per sfuggirmi, aveva tirato il
campanello. Perché allora mi aveva chiesto di andare a passare la sera accanto al suo letto? Perché parlava sempre il
linguaggio della tenerezza? Su che riposa il desiderio di vedere un amico, di temere che vi preferisca la vostra amica, di
cercare di fargli piacere, di dirgli romanticamente che gli altri non sapranno che egli ha passato la sera con voi, se gli
rifiutate un piacere così semplice, e se non è un piacere per voi? Non potevo credere che veramente la virtù di Albertine
andasse fino a quel punto, e giungevo a domandarmi se la sua violenza non avesse avuto una ragione di civetteria, per
esempio un odore sgradevole che avesse creduto di avere su di sé e per cui avesse temuto di spiacermi, o di pusillanimità,
se, per esempio, nella sua ignoranza della realtà dell'amore, credesse che il mio stato di debolezza nervosa potesse avere
qualcosa di contagioso attraverso il bacio.477

Tali squarci sulla psicologia di personaggi diversi dal protagonista si devono


interpretare ancora una volta come indizi di focalizzazione, che il racconto si
sforza di praticare in forma più o meno ipotetica, come quando Marcel indovina o
congettura il pensiero del suo interlocutore dall'espressione del suo viso: «Vidi
dagli occhi di Cottard, preoccupati come se egli avesse paura di perdere il treno,
che si chiedeva se non si fosse lasciato andare alla sua dolcezza naturale. Cercava di
ricordarsi se aveva pensato a mettersi una maschera di freddezza, come uno cerca
uno specchio per guardare se non si è dimenticato di farsi il nodo alla cravatta. Nel
dubbio, e per ristabilire in ogni caso l'equilibrio, rispose sgarbatamente» 478. A
partire da Spitzer479 è stata spesso notata la frequenza delle locuzioni modalizzanti
che permettono (forse, senz'altro, come se, parere, sembrare) al narratore di dire
ipocritamente quel che non avrebbe potuto affermare senza uscire dalla
focalizzazione interna, tecnica considerata (non a torto) da Marcel Muller come
«alibi del romanziere»480 che impone la sua verità sotto uno schermo un po'
ipocrita al di là di tutte le incertezze del protagonista, e forse anche del narratore:
poiché ancora una volta, in questo caso, l'ignoranza è, in un certo senso, condivisa,
o più esattamente l'ambiguità del testo non ci permette di decidere se il «forse» è
un effetto di stile indiretto, e dunque se l'esitazione da esso denotata riguarda solo
il protagonista. Bisogna inoltre osservare che il carattere molteplice di tali ipotesi
attenua fortemente la loro funzione di parallessi inconfessata, accentuando invece
il loro ruolo di indicatori di focalizzazione. Quando il racconto ci propone tre
spiegazioni, introdotte da tre «forse», a scelta, della brutalità con cui Charlus
risponde alla signora di Gallardon481, o quando il silenzio del liftier di Balbec è
riferito a otto cause possibili senza una preferenziale 482, noi in realtà non riceviamo
un'informazione maggiore di quando Marcel si chiede davanti a noi i motivi del
rifiuto d'Albertine. E, nel caso attuale, non possiamo affatto seguire Muller che
rimprovera a Proust di sostituire « al segreto di ogni essere una serie di piccoli
segreti»483, coll'imposizione dell'idea che il vero motivo si trovi sempre,
necessariamente, fra quelli da lui enumerati, e quindi che « il comportamento di un
personaggio sia sempre giustificabile tramite una spiegazione razionale»: la
molteplicità delle ipotesi contraddittorie suggerisce molto di più l'insolubilità del
problema, e almeno l'incapacità di risolverlo da parte del narratore.
Abbiamo già osservato484 il carattere fortemente soggettivo delle descrizioni
proustiane, sempre legate a un'attività percettiva del protagonista. Le descrizioni
proustiane sono rigorosamente focalizzate : la loro durata non soltanto non supera
mai quella della contemplazione reale, ma addirittura il loro contenuto non supera
mai quello effettivamente percepito dal contemplatore. Non vogliamo tornare
sull'argomento, d'altronde notissimo485, e ricordiamo solo l'importanza simbolica,
nella Recherche, delle scene dove il protagonista sorprende per un caso spesso
miracoloso uno spettacolo di cui percepisce solo una parte, e il cui racconto
rispetta scrupolosamente la restrizione visiva e uditiva: Swann davanti alla finestra
da lui scambiata per quella di Odette, senza poter vedere nulla fra le «griglie delle
imposte», ma solo sentire «nel silenzio della notte il mormorio di una
conversazione»486; Marcel a Montjouvain, che assiste dalla finestra alla scena fra le
due ragazze, ma non può distinguere lo sguardo della signorina Vinteuil e neppure
sentire ciò che la sua amica le sussurra all'orecchio, e per lui lo spettacolo avrà
termine quando ella verrà, «con un'aria stanca, goffa, affaccendata, onesta e
malinconica», a chiudere le imposte della finestra487; ancora Marcel, che spia
dall'alto della scala, e poi dal negozio vicino, la «congiunzione» di Charlus e di
Jupien, la cui seconda parte si ridurrà per lui a una percezione puramente uditiva 488;
sempre Marcel, che sorprende la flagellazione di Charlus nell'albergo di Jupien,
attraverso un «occhio di bue laterale» 489. Si insiste generalmente, e giustamente,
sull'inverosimiglianza di tali situazioni490, e sulla deformazione nascosta fatta subire
al principio del punto di vista; ma occorrerebbe, in primo luogo, riconoscere che si
trova in esse, come in ogni frode, un riconoscimento e una conferma impliciti del
codice: quelle acrobatiche indiscrezioni, con le loro riduzioni di campo tanto
marcate, testimoniano soprattutto la difficoltà provata dal protagonista nel
soddisfare la sua curiosità, penetrando nell'altrui esistenza. Esse devono quindi, a
buon diritto, essere messe sul conto della focalizzazione interna. Come abbiamo
già avuto occasione d'osservare, il rispetto di questo codice giunge a volte fino alla
forma di iper-riduzione di campo costituita dalla parallissi: ce ne hanno fornito
alcuni esempi la fine della passione di Marcel per la duchessa, l'episodio della
cuginetta a Combray, la morte di Swann. L'esistenza di tali parallissi, è vero, ci è
nota solo tramite la loro rivelazione fatta dal narratore in un secondo tempo, e
dunque tramite un intervento che, a sua volta, sarebbe di competenza della
parallissi se si considerasse la focalizzazione sul protagonista come
obbligatoriamente imposta dalla forma autobiografica. Ma abbiamo già visto che
non è affatto così; si tratta di un'idea diffusissima derivante esclusivamente da una
confusione fra le due istanze. La sola focalizzazione logicamente implicata dal
racconto « in prima persona » è la focalizzazione sul narratore, e vedremo come
questo secondo modo narrativo coesista col primo all'interno della Recherche.
Un'evidente manifestazione di questa nuova prospettiva è costituita dai preannunci,
incontrati nel capitolo dell'ordine: quando, a proposito della scena di Montjouvain,
si dice che essa eserciterà in seguito un influsso decisivo sulla vita del protagonista,
si tratta di un avvertimento che non può riguardare il protagonista, bensì il
narratore, come, più genericamente, tutte le forme di prolessi, sempre eccedenti
(escludendo un intervento del soprannaturale, come nei sogni profetici) le capacità
di conoscenza del protagonista. E proprio per anticipazione procedono le
informazioni complementari introdotte da locuzioni sul tipo di: ho appreso fin
da...491, derivate dall'esperienza ulteriore del protagonista, in altre parole
dall'esperienza del narratore. Non è giusto mettere tali interventi sul conto del
narratore «onnisciente»492: essi rappresentano semplicemente la parte del narratore
autobiografico nell'esposizione di fatti ancora ignoti al protagonista, fatti però la
cui menzione, secondo il narratore, non è necessario sia rimandata fino al
momento in cui il protagonista ne prenda effettiva conoscenza. Fra l'informazione
del protagonista e l'onniscienza del romanziere, vi è l'informazione del narratore,
che ne dispone a suo piacimento, e la tiene in serbo solo quando ne vede un
motivo preciso. Il critico può contestare l'opportunità di questi complementi
d'informazione, ma non la loro legittimità o la loro verosimiglianza in un racconto
di forma autobiografica.
Si deve inoltre ammettere che ciò non vale solo per le prolessi d'informazione
esplicite e dichiarate. Marcel Muller osserva a sua volta che una formula quale
«ignoravo me citate nel precedente paragrafo, e per alcune altre, dove chiaramente
Proust dimentica o trascura la finzione del narratore autobiografico e la
focalizzazione da essa implicata, e, a maggior ragione, la focalizzazione sul
protagonista che ne costituisce la forma iperbolica, per trattare il suo racconto su
un terzo modo, cioè, chiaramente, la focalizzazione-zero, ossia l'onniscienza del
romanziere classico. Cosa impossibile (osserviamolo, visto che se ne presenta
l'occasione) se la Recherche fosse, come alcuni pretendono ancora di poter capire,
una vera autobiografia. Ne derivano quelle scene, immagino scandalose per i
puristi del «punto di vista», dove io e gli altri sono trattati sullo stesso metro, come
se il narratore avesse esattamente lo stesso rapporto con una Cambremer, un
Basin, un Bréauté, e con il suo proprio «io» passato: «la signora di Cambremer si
ricordava di aver sentito dire a Swann... / Quanto a me, il pensiero delle due
cugine... / La signora di Cambremer cercava di distinguere... / Quanto a me, non
avevo il minimo dubbio...»: un testo simile è chiaramente costruito sull'antitesi fra i
pensieri della signora di Cambremer e quelli di Marcel, come se esistesse, da
qualche parte, un punto da cui il mio pensiero e quello degli altri potesse apparire
simmetricamente: è il colmo della spersonalizzazione, che sconvolge un po'
l'immagine del famoso soggettivismo proustiano. Ne deriva anche la scena di
Montjouvain, di cui abbiamo già osservato la rigorosissima focalizzazione (su
Marcel) per quanto concerne le azioni visibili e udibili, ma che in compenso, per i
pensieri e i sentimenti, è interamente focalizzata sulla signorina Vinteuil 493: «ella
senti... pensò... si giudicò indiscreta, e la sensibilità del suo cuore se ne inquietò...
finse... indovinò... capi, ecc.». In questo caso è come se il testimone non potesse
affatto vedere e sentire tutto, ma in compenso indovinasse tutti i pensieri. La verità
è però, evidentemente, l'esistenza qui di due codici concorrenti, funzionanti su due
piani della realtà e che si oppongono senza incontrarsi.
Questa doppia focalizzazione494 risponde certamente, nel caso in questione,
all'antitesi che organizza tutta la pagina (come il personaggio globale della
signorina Vinteuil, «timida vergine» e «rozzo soldataccio»), fra l'immoralità brutale
delle azioni (percepite dal protagonista-testimone) e l'estrema delicatezza dei
sentimenti, rivelabili solo da parte di un narratore onnisciente, in grado di vedere,
come Dio in persona, al di là dei comportamenti e di sondare istinto e volontà 495.
Ma tale coesistenza a malapena immaginabile può servire da simbolo all'insieme
della pratica narrativa in Proust, che fa leva senza scrupoli, e quasi senza farvi
attenzione, contemporaneamente sui tre modi della focalizzazione, passando a
piacere dalla coscienza del suo protagonista a quella del suo narratore, e giungendo
fino ad abitare, di volta in volta, in quella dei suoi personaggi più disparati. Una
simile triplice posizione narrativa non ha possibilità di confronti con la triplice
onniscenza del romanzo classico, poiché non solo essa sfida (come rimproverava
Sartre a Mauriac) le condizioni dell'illusione realista: essa trasgredisce una «legge
dello spirito» che pretende sia impossibile trovarsi, in pari tempo, all'interno e
all'esterno. Per riallacciarsi alla metafora musicale precedentemente impiegata,
saremmo tentati di dire che fra un sistema tonale (o modale) nei confronti del
quale tutte le infrazioni (parallissi e parallessi) si lasciano definire come alterazioni,
e un sistema atonale (amodale?) dove nessun codice prevale e dove diventa caduca
la nozione stessa d'infrazione, la Recherche illustrerebbe uno stadio intermedio: stato
plurale, paragonabile al sistema politonale (polimodale) inaugurato per qualche
tempo, e proprio nel medesimo anno (1913), dalla Sagra della Primavera. Spero che
non si vorrà prendere l'accostamento troppo alla lettera 496, ci auguriamo per lo
meno che serva a mettere in luce questo tratto tipico, e abbastanza sconvolgente,
del racconto proustiano, che ci piacerebbe chiamare la sua polimodalità.
Tale posizione, indubbiamente ambigua, o meglio complessa e deliberatamente
anomica, non caratterizza solo — ricordiamolo nel concludere il presente capitolo
- il sistema di focalizzazione, ma tutta la pratica modale della Recherche: paradossale
coesistenza della più grande intensità mimetica e di una presenza del narratore
teoricamente contraria a qualunque mimesi romanzesca, al livello del racconto
d'azione; predominio del discorso indiretto, aggravato dall'autonomia stilistica dei
personaggi, cioè il colmo della mimesi dialogica, ma che finisce per assorbire i
personaggi in un immenso gioco verbale, pieno di gratuità letteraria, antitesi del
realismo; concorrenza, infine, di focalizzazioni teoricamente incompatibili, che
sconvolge tutta la logica della rappresentazione narrativa. Questo sovvertimento
del modo, l'abbiamo visto a varie riprese legato all'attività, o meglio alla presenza
del narratore stesso; all'intervento perturbatore della fonte narrativa - della
narrazione nel racconto. È quest'ultima istanza — quella della voce - che dobbiamo
prendere in considerazione adesso per se stessa, dopo averla involontariamente
incontrata tante altre volte.

5. Voce
L'istanza narrativa.

«Per molto tempo mi son coricato presto»: un enunciato simile, ovviamente, non
si lascia decifrare - come, poniamo, «L'acqua bolle a 100°» oppure «La somma degli
angoli di un triangolo è sempre uguale a 180°» — senza che venga preso in
considerazione chi lo enuncia, e in quale situazione egli lo enunci; io è identificabile
solo in rapporto a questo enunciatore, e il passato compiuto delibazione»
raccontata è tale solo in rapporto al momento in cui egli la racconta. Per riprendere
i termini notissimi di Benveniste, la storia qui non si realizza senza una parte di
discorso, e non risulta troppo difficile provare che, praticamente, ci si trova quasi
sempre di fronte a casi analoghi 497. Anche il racconto storico sul genere
«Napoleone morì a Sant'Elena», implica, in quanto preterito, un'anteriorità della
storia rispetto alla narrazione, e non sono poi tanto sicuro che il presente di
«L'acqua bolle a 1oo°» (racconto iterativo) sia così atemporale come sembra. Ciò
non toglie che l'importanza o la pertinenza di tali implicazioni sia
fondamentalmente variabile, e tale variabilità possa giustificare o imporre
distinzioni e opposizioni dal valore, per lo meno, operativo. Quando leggo
Gambara o Le chef-d'oeuvre inconnu, m'interesso a una storia, e m'importa poco sapere
chi, dove e quando la racconta; se leggo Facino Cane, non posso mai trascurare la
presenza del narratore nella storia da lui raccontata; se si tratta della Maison
Nucingen, l'autore s'incarica personalmente di attirare la mia attenzione sulla
persona del conversatore Bixiou e sul gruppo di ascoltatori a cui si rivolge; se si
tratta dell'Auberge rouge, seguirò senz'altro (con maggiore attenzione di quella con
cui non segua il prevedibile svolgimento della storia raccontata da Hermann) le
reazioni di un ascoltatore chiamato Taillefer, poiché il racconto si svolge su due
piani, e proprio nel secondo - quello dove si racconta - sta l'aspetto più appassionante
del dramma.
Ecco il genere di incidenze che siamo in procinto di prendere in esame nella
categoria della voce: «aspetto, dice Vendryès, dell'azione verbale considerata nei suoi
rapporti col soggetto» - soggetto che, in questo caso, non è solo chi compie o
subisce l'azione, ma anche chi (si tratti del medesimo oppure d'un altro) la riferisce,
ed eventualmente tutti coloro che partecipano, anche passivamente, a tale attività
narrativa. Sappiamo come la linguistica abbia impiegato del tempo per iniziare a
render conto di quella che Benveniste chiama soggettività nel linguaggio498, cioè a
passare dall'analisi degli enunciati a quella dei rapporti fra tali enunciati e la loro
istanza produttrice — quella che viene chiamata, oggi, la loro enunciazione. La
poetica prova, a quanto pare, una difficoltà affine nell'abbordare l'istanza
produttrice del discorso narrativo, istanza a cui abbiamo riservato il termine,
parallelo, di narrazione. Tale difficoltà si fa notare soprattutto per una sorta di
esitazione, senz'altro inconsapevole, nel riconoscere e rispettare l'autonomia di tale
istanza, o anche, semplicemente, la sua specificità: da un lato, come abbiamo già
osservato, si riducono i problemi dell'enunciazione narrativa a quelli del «punto di
vista»; dall'altro, si identifica l'istanza narrativa con l'istanza di «scrittura», il
narratore con l'autore, e il destinatario del racconto col lettore dell'opera 499.
Confusione forse reale nel caso di un racconto storico o di una vera autobiografia,
ma non quando si tratta di un racconto di finzione, dove il narratore ricopre a sua
volta un ruolo fittizio (anche nel caso in cui tale ruolo venga direttamente assunto
dall'autore) e dove la situazione narrativa immaginata può essere molto diversa
dall'atto di scrittura (o dal dettato) che ad essa fa riferimento: non è l'abate Prévost
a raccontare gli amori di Manon-e des Grieux, e neppure il marchese di
Renoncourt, presunto autore dei Mémoires d'un homme de qualità, bensì lo stesso des
Grieux, in un racconto orale dove «io» può designare solo lui, e dove «qui» e
«adesso» rinviano alle circostanze spazio-temporali di tale narrazione, e
nient'affatto a quelle della redazione di Manon Lescaut da parte del suo vero autore.
E anche i riferimenti di Tristram Shandy alla situazione di scrittura mirano all'atto
(fittizio) di Tris tram e non a quello (reale) di Sterne; ma, in maniera più sottile e
più radicale insieme, il narratore del Pére Goriot non coincide con Balzac, anche se
esprime qua e là le opinioni di quest'ultimo, poiché il narratore-autore è qualcuno
che «conosce» la pensione Vauquer, la sua padrona e i suoi pensionanti, mentre
Balzac, da parte sua, si limita a immaginarli: e in questo senso, certo, la situazione
narrativa di un racconto di finzione non può mai ricondursi a una situazione di
scrittura.Ci rimane dunque da prendere in considerazione proprio l'istanza
narrativa, lungo le tracce da essa lasciate — che si suppone essa abbia lasciate - nel
discorso narrativo che si suppone essa abbia prodotto. Ma, ovviamente, tale istanza
non resta necessariamente identica e invariabile durante una medesima opera
narrativa: l'essenziale di Manon Lescaut viene raccontato da des Grieux, ma alcune
pagine spettano al signor di Renoncourt; inversamente, l'essenziale dell'Odissea
viene raccontato da Omero, ma i canti dal IX al XII spettano a Ulisse: e il romanzo
barocco, le Mille e una notte, Lord Jim ci hanno abituato a situazioni narrative molto
più complesse500. L'analisi narrati va deve evidentemente assumersi lo studio di
simili modificazioni - di simili permanenze: poiché se è degno di nota che le
avventure di Ulisse siano raccontate da due narratori diversi, a rigor di logica è
altrettanto degno di nota che gli amori di Swann e quelli di Marcel siano raccontati
dallo stesso narratore.
Una situazione narrativa, come qualsiasi altra situazione, è un insieme complesso
in cui l'analisi, o semplicemente la descrizione, può operare una distinzione solo
lacerando un tessuto di relazioni strette fra l'atto narrativo, i suoi protagonisti, le
sue determinazioni spazio-temporali, il suo rapporto con le altre situazioni
narrative implicate nello stesso racconto, ecc. Le necessità dell'esposizione ci
obbligano a questa inevitabile violenza per il semplice fatto che il discorso critico,
come qualunque altro discorso, non sarebbe in grado di dire tutto in una volta.
Prenderemo dunque successivamente in considerazione, anche in questo caso,
elementi di definizione il cui reale funzionamento è invece simultaneo,
riconducendoli essenzialmen- teìalle categorie del tempo della narrazione, del livello
narrativo e della persona, cioè alle relazioni fra narratore - ed eventualmente il suo o i
suoi narratario(i)501 - e la storia da lui raccontata.

Tempo della narrazione.


Con una dissimetria le cui ragioni profonde ci sfuggono, ma che è iscritta nelle
strutture stesse della lingua (o, per lo meno, delle grandi «lingue di civiltà» della
cultura occidentale), posso benissimo raccontare una storia senza precisare il luogo
in cui si svolge, e se questo luogo sia più o meno vicino a quello in cui la racconto,
mentre mi è quasi impossibile non situarla nel tempo rispetto al mio atto narrativo,
poiché devo necessariamente raccontarla a un tempo del presente, del passato o
del futuro502. Ne deriva forse il fatto che le determinazioni temporali dell'istanza
narrativa sono chiaramente più importanti delle sue determinazioni spaziali. Ad
eccezione delle narrazioni di secondo grado, la cui cornice è generalmente indicata
dal contesto diegetico (Ulisse davanti ai Feaci, l'ostessa di Jacques le Fataliste nel
suo albergo), il luogo narrativo viene specificato molto raramente e, per così dire,
non è mai pertinente503: sappiamo all'incirca dove Proust ha scritto La recherche du
temps perdu, ma ignoriamo dove si suppone che Marcel abbia prodotto il racconto
della sua vita, e non pensiamo minimamente di preoccuparcene. In compenso, ci
interessa molto sapere, per esempio, quanto tempo trascorra fra la prima scena
della Recherche (il «dramma del coricarsi») e il momento in cui essa viene evocata nei
seguenti termini: «Tanti anni sono passati da allora. Il muro delle scale, su cui vidi
salire il riflesso della sua candela non esiste più da un pezzo, ecc.»; poiché questa
distanza temporale e quel che la riempie e la anima, è adesso un elemento capitale
del significato del racconto.
La principale determinazione temporale dell'istanza narrativa è evidentemente la
sua posizione relativa nei confronti della storia. Sembra elementare che la
narrazione possa essere soltanto posteriore a quanto essa racconta, ma tale
evidenza, da vari secoli, viene smentita dall'esistenza del racconto «predittivo» 504
nelle sue diverse forme (profetico, apocalittico, oracolare, astrologico,
chiromantico, cartomantico, oniromantico, ecc.), la cui origine si perde nella notte
dei tempi - e, almeno a partire dai Lauriers sont coupés, dalla pratica del racconto al
presente. Dobbiamo considerare anche come la narrazione al passato possa in un
certo senso frammentarsi per inserirsi fra i vari momenti della storia come una
specie di reportage più o meno immediato 505: pratica corrente nella corrispondenza
o nel diario intimi, e quindi nel romanzo epistolare o nel racconto in forma di
diario ( Wuthering Heights, Journal d'un curé de campagne). Dal semplice punto di vista
della posizione temporale, bisognerebbe dunque distinguere quattro tipi di
narrazione: ulteriore ( posizione classica del racconto al passato, senz'altro di gran
lunga la più frequente); anteriore (racconto predittivo, generalmente al futuro, come
il sogno di Jocabel nel Moyse sauvé); simultaneo (racconto al presente contemporaneo
all'azione) e intercalato (fra i momenti dell'azione).
L'ultimo tipo è a priori il più complesso, poiché si tratta di una narrazione dalle
varie istanze, e in esso storia e narrazione possono aggrovigliarsi in modo tale che
la seconda agisca sulla prima: è quanto avviene in particolare nel romanzo
epistolare con numerosi corrispondenti506 dove, come sappiamo, la lettera è in pari
tempo medium del racconto e elemento dell'intreccio 507. Può anche essere il più
delicato, ossia il più ribelle all'analisi, quando la forma del diario s'allarga per
culminare in una specie di monologo a fatti compiuti, con una posizione temporale
indeterminata, o addirittura incoerente: i lettori attenti dell'Etranger non hanno
potuto fare a meno d'imbattersi in tali incertezze che costituiscono una delle
audacie, in questo caso forse involontaria, del racconto 508. Infine, la grandissima
vicinanza fra storia e narrazione produce in questo caso, il più delle volte, un
effetto sottilissimo di frizione (se mi è concesso dirlo) fra il lieve sfasamento
temporale del racconto di avvenimenti («Ecco cosa mi è successo oggi») e la
simultaneità assoluta nell'esposizione dei pensieri e dei sentimenti («Ecco cosa ne
penso stasera»). Il diario e la confidenza epistolare legano costantemente ciò che in
linguaggio radiofonico si chiama «collegamento diretto» e «trasmissione differita»,
cioè il quasi monologo interiore e il resoconto dopo lo svolgimento dei fatti. In tal
caso il narratore, pur essendo sempre il protagonista, è anche già, in pari tempo, un
«altro»509: gli avvenimenti della giornata appartengono ormai al passato e il «punto
di vista» può essersi modificato in seguito; i sentimenti della sera o del giorno dopo
sono completamente nel presente, e la focalizzazione sul narratore è qui,
contemporaneamente, focalizzazione sul protagonista. Cécile Volanges scrive alla
signora di Merteuil per raccontarle come è stata sedotta la notte precedente da
Valmont, e confidarle i suoi rimorsi; la scena di seduzione è passata, e con essa il
turbamento che Cécile non prova più e non è neppure più in grado di capirlo; resta
la vergogna, e una sorta di stupore coincidente, in pari tempo, con la scoperta di se
stessi e col non capirsi: «La cosa di cui mi rimprovero massimamente, e della quale
devo parlarvi, è che temo di non essermi difesa come avrei potuto. Non so come
dire: certo, non voglio bene al signor di Valmont, anzi; e c'eran momenti in cui era
come se gli volessi bene, ecc.»510. La Cécile di ieri, vicinissima e già lontana, è vista
e detta dalla Cécile di oggi. Abbiamo allora due eroine successive, e (solo) la
seconda di esse è (anche) narratrice, e impone il suo punto di vista, coincidente
con quello, appena impercettibilmente sfasato per fare dissonanza, di subito dopo il
fatto 511. Sappiamo come, da Pamela a Obermann, il romanzo del XVIII secolo abbia
sfruttato tale situazione narrativa propizia ai più sottili e «provocanti» contrappunti:
quella della minima distanza temporale. Il terzo tipo, al contrario (narrazione
simultanea), è teoricamente il più semplice, poiché la coincidenza rigorosa fra
storia e narrazione elimina qualunque tipo d'interferenza e di gioco temporale.
Dobbiamo tuttavia osservare come la confusione delle istanze possa in questo caso
funzionare in due opposte direzioni, a seconda che si accentui la storia oppure il
discorso narrativo. Un racconto al presente di tipo behaviourista e puramente
evenemenziale può sembrare il colmo dell'oggettività, poiché l'ultima traccia
dell'enunciazione ancora sussistente nel racconto stile Hemingway - il segno di
distanza temporale fra storia e narrazione che comporta inevitabilmente l'uso del
preterito — scompare in una trasparenza totale del racconto, il quale consuma fino
in fondo il suo annullamento a vantaggio della storia: le opere del Nouveau roman
francese sono state generalmente interpretate così, e in particolare i primi romanzi
di Robbe-Grillet512: «letteratura oggettiva», «école du regard», denominazioni che
traducono benissimo il sentimento di assoluta transitività della narrazione, favorita
dall'uso corrente del presente. Ma se l'accento invece si appoggia sulla narrazione
stessa, come nei racconti con «monologo interiore», la coincidenza va a vantaggio
del discorso, ed è allora l'azione a dar l'impressione di ridursi allo stato di semplice
presente e, in ultima analisi, di annullarsi: effetto già sensibile in Dujardin, ma che
non smette di accentuarsi in un Beckett, in un Claude Simon, in un Roger Laporte.
È come se l'uso del presente, avvicinando le istanze, producesse come effetto la
rottura del loro equilibrio e permettesse a tutto il racconto, a seconda del più lieve
spostamento d'accento, di ondeggiare ora dal lato della storia, ora dal lato della
narrazione, cioè del discorso: e la facilità con cui il romanzo francese degli ultimi
tempi è passato da un estremo all'altro, illustra forse tale ambivalenza e
reversibilità513.
Il secondo tipo (narrazione anteriore) ha finora usufruito d'un investimento
letterario molto inferiore agli altri tipi, e sappiamo come perfino i romanzi
d'anticipazione, da Wells a Bradbury, per quanto appartenenti in pieno al genere
profetico, quasi sempre postdatino la loro istanza narrativa, implicitamente
posteriore alla loro storia - fatto che illustra chiaramente l'autonomia di questa
istanza fittizia rispetto al momento della scrittura reale. Il racconto predittivo
compare nel corpus letterario a livello esclusivamente secondario: per esempio, nel
Moyse sauvé di Saint-Amant, il racconto profetico di Aaron (VI parte) oppure il
lungo sogno premonitore (IV, V e VI parte) di Jocabel, entrambi relativi al futuro
di Mosè514. La caratteristica comune di tali racconti è costituita evidentemente dal
fatto che sono predittivi rispetto alla loro istanza narrativa immediata (Aaron,
sogno di Jocabel) ma non rispetto all'ultima istanza (l'autore implicito di Moyse
sauvé, d'altronde esplicitamente identificato con Saint-Amant): esempi palesi di
predizione a fatti già svolti. La narrazione ulteriore (primo tipo) è quella che
presiede alla stragrande maggioranza dei racconti attualmente prodotti. L'uso di un
tempo passato è sufficiente a designarla come tale, senza tuttavia indicare la
distanza temporale che separa il momento della narrazione dal momento della
storia515. Nel racconto classico in «terza persona», tale distanza resta generalmente
come indeterminata, e il problema senza pertinenza, dato che il preterito mette in
luce una specie di passato senza età 516 : la storia può essere datata, come avviene il
più delle volte in Balzac, senza che la narrazione lo sia 517. Può avvenire però che
una relativa contemporaneità dell'azione venga rivelata dall'uso del presente, sia
all'inizio (Tom Jones518 e Pére Goriot519), sia alla fine (Eugénie Grandet520 e Madame
Bovary521). Gli efletti più pregnanti di convergenza finale giocano sul fatto che la
stessa durata della storia diminuisce progressivamente la distanza dal momento
della narrazione. Ma la loro forza deriva dall'inattesa rivelazione di un'isotopia
temporale (e quindi, fino a un certo punto, diegetica) fino ad allora mascherata - o,
nel caso di Bovary, dimenticata da tempo — fra la storia e il suo narratore. Isotopia,
al contrario, evidente fin dall'inizio nel racconto in «prima persona», dove il
narratore è presentato fin dalle prime righe come personaggio della storia, e dove
la convergenza finale è quasi di regola522, secondo un modo il cui paradigma può
esserci fornito dall'ultimo paragrafo di Robinson Crusoe: « Infine, ben deciso a non
spossarmi ulteriormente, mi sto preparando a un viaggio più lungo di tutti questi,
avendo passato settantadue anni di una vita d'infinita varietà avendo imparato
abbastanza a conoscere il pregio del riposo e la felicità che si ottiene terminando in
pace i propri giorni»523. Nessun effetto drammatico in questo caso, a meno che la
situazione finale non sia à sua volta un'agnizione violenta, come in Double Indemnity,
dove il protagonista scrive l'ultima riga del suo racconto-confessione prima di
lasciarsi scivolare con la sua complice nell'Oceano, dove uno squalo li attende:
«Non ho sentito aprirsi la porta della cabina, ma ella è al mio fianco, mentre scrivo.
La sento. È spuntata la luna».
Affinché la storia venga a raggiungere in questo modo la narrazione, occorre,
ovviamente, che la durata della seconda non superi quella della prima. Conosciamo
la buffonesca aporia di Tristram: essendo riuscito a raccontare, in un anno di
scrittura, soltanto il suo primo giorno di vita, egli constata che ha accumulato un
ritardo di trecentosessantaquattro giorni, cioè ha indietreggiato più che avanzare, e,
vivendo trecentosessantaquattro volte più velocemente di quanto non scriva, ne
consegue che più scrive, più gli resta da scrivere e, in poche parole, la sua impresa è
disperata524. Ragionamento che non fa una grinza, e le cui premesse non sono
affatto assurde. Raccontare prende un certo tempo (la vita di Sherazade è appesa a
quest'unico filo) e quando un romanziere mette in scena una narrazione orale di
secondo grado, raramente fa a meno di tenerne conto: avvengono moltissime cose
nell'albergo mentre l'ostessa di Jacques racconta la storia del marchese des Arcis, e la
prima parte di Manon Lescaut termina sulla seguente osservazione, che cioè il
cavaliere ha impiegato più di un'ora a raccontare, e ha un gran bisogno di mangiare
per «avere un po' di riposo». Abbiamo motivo di pensare che Prévost, da parte sua,
abbia impiegato molto più di un'ora a scrivere queste quasi cento pagine, e
sappiamo per esempio che sono occorsi cinque anni a Flaubert per scrivere
Madame Bovary. Tuttavia, e, in ultima analisi, in modo abbastanza curioso, la
narrazione fittizia di tale racconto, come in quasi tutti i romanzi del mondo,
escluso Tristram Shandy, non ha, a quanto si suppone, durata alcuna, o, più
esattamente, è come se il problema della sua durata non avesse alcuna pertinenza:
una delle finzioni della narrazione letteraria (forse la più forte, dato che passa in un
certo senso inosservata) è reperibile nel fatto che si tratta di un atto istantaneo,
senza dimensione temporale. A volte viene datato, ma non viene mai misurato:
sappiamo che Homais ha ricevuto da poco la Legion d'Onore nel momento in cui
il narratore scrive l'ultima frase, ma non cosa accadeva mentre scriveva la prima;
sappiamo anche che si tratta di una domanda assurda: si suppone che niente separi
questi due momenti dell'istanza narrativa, tranne lo spazio atemporale del racconto
come testo. Al contrario della narrazione simultanea o intercalata, che vive della
sua durata e dei rapporti fra questa durata e quella della storia, la narrazione
ulteriore vive del seguente paradosso: cioè, essa possiede sia una posizione
temporale (rispetto alla storia passata) sia un'essenza atemporale, in quanto è priva
di una sua propria durata 525. Come la reminiscenza proustiana, essa è estasi, «durata
d'un lampo», miracolosa sincope, «minuto liberato dall'ordine del tempo».
L'istanza narrativa della Recherche corrisponde evidentemente all'ultimo tipo:
sappiamo come Proust abbia trascorso oltre dieci anni a scrivere il suo romanzo,
ma l'atto narrativo di Marcel non porta nessun segno di durata, né di divisione: è
istantaneo. Il presente del narratore, reperibile quasi in ogni pagina frammisto ai
vari passati del protagonista, è un momento unico e senza progressione. Marcel
Muller ha creduto di trovare in Germaine Brée l'ipotesi d'una duplice istanza
narrativa: prima e dopo la rivelazione finale, ma è un'ipotesi senza alcuna base, e, a
dir la verità, vedo in Germaine Brée solo un uso abusivo (benché corrente) del
termine «narratore» per protagonista, il che ha forse indotto Muller in errore su
questo problema526. Riguardo ai sentimenti espressi nelle ultime pagine di Swann
che, come sappiamo, non corrispondono alla convinzione finale del narratore,
Muller stesso527 dimostra benissimo che non provano in niente l'esistenza di
un'istanza narrativa anteriore alla rivelazione: la lettera a Jacques Rivière
precedentemente citata528, dimostra invece come Proust in questo caso si sia
preoccupato di accordare il discorso del narratore con gli «errori» del protagonista,
e quindi di attribuirgli un'opinione non identificabile con la sua opinione, per
evitare di rivelare troppo in fretta i propri pensieri. Anche il racconto fatto da
Marcel sui suoi inizi di scrittore dopo il ricevimento Guermantes (reclusione, primi
abbozzi, prime reazioni dei lettori) pur tenendo decisamente conto della durata di
scrittura (« In quanto a me, ben altra cosa io dovevo scrivere, molto più lunga, e
per di più di una persona. Lunga da scrivere! Il giorno, tutt'al più, avrei potuto
tentar di dormire. Avrei lavorato solo la notte. Ma mi sarebbero state necessarie
molte notti, forse cento, forse mille») 529 e dell'angoscia della morte che verrà a
interromperla, anche questo racconto non contraddice affatto la fittizia istantaneità
della sua narrazione: poiché il libro che Marcel inizia a scrivere allora nella storia
non si confonde giuridicamente con quello che Marcel ha appena finito di scrivere
come racconto - e cioè con la Recherche stessa. Il libro fittizio, oggetto di racconto, è,
come qualsiasi libro, « lungo da scrivere». Ma il libro reale, il libro-racconto, non
conosce la sua stessa «lunghezza»: esso abolisce la propria durata.
Il presente della narrazione proustiana corrisponde — dal 1909 al 1922-a vari
«presenti» di scrittura, e sappiamo come quasi un terzo (fra cui proprio le ultime
pagine) fosse stato scritto fin dal 1913. Il momento fittizio della narrazione si è
dunque di fatto spostato durante la reale redazione: oggi non è più quello che era
nel 1913, nel momento in cui Proust credeva di aver terminato la sua opera per
l'editore Grasset. Così, le distanze temporali che aveva in mente - e voleva
esprimere - quando, per esempio, scriveva a proposito della scena del coricarsi, «
tanti anni son passati da allora », o a proposito della resurrezione di Combray
mediante la « maddalena », « sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze
attraversate» - ebbene, tali distanze sono aumentate di oltre dieci anni per il
semplice fatto dell'allungarsi del tempo della storia: il significato di queste frasi non
è più lo stesso. Ne derivano certe contraddizioni irriducibili, come la seguente:
l'oggi del narratore è chiaramente, per noi, posteriore alla guerra, ma la «Parigi oggi
» delle ultime pagine di Swann rimane nelle sue determinazioni storiche (nel suo
contesto referenziale) una Parigi anteguerra, quale era stata vista e descritta a suo
tempo. Il significato romanzesco (momento della narrazione) è diventato più o meno
1925, ma il referente storico, corrispondente al momento della scrittura, non l'ha
seguito e continua a dire: 1913. L'analisi narrativa deve registrare tali spostamenti -
e le discordanze che ne possono derivare - come effetti della genesi reale
dell'opera; ma essa, in fin dei conti, non può considerare l'istanza narrativa se non
come si offre nell'ultimo stato del testo, come un momento unico e senza durata,
situato necessariamente vari anni dopo l'ultima «scena», quindi nel dopoguerra, e
perfino, l'abbiamo visto530, dopo la morte di Marcel Proust. Paradosso che,
ricordiamolo, non è affatto tale: Marcel non è Proust, e niente l'obbliga a morire
con lui. È invece un obbligo considerare che Marcel passa «molti anni», dopo il
1916, in una casa di cura; questo fatto inserisce necessariamente il suo ritorno a
Parigi e la matinée dai principi Guermantes, come minimo, nel 1921, e l'incontro
con Odette «svanita» nel 1923531. Se ne possono trarre le dovute conseguenze.
Tra questo momento narrativo unico e i diversi momenti della storia, la distanza è
necessariamente variabile. Se sono trascorsi «tanti anni» dalla scena del coricarsi a
Combray, è tuttavia «da poco» che il narratore ricomincia a percepire i suoi
singhiozzi infantili, e la distanza che lo separa dalla matinée Guermantes è
evidentemente inferiore a quella che lo separa dal suo primo arrivo a Balbec. Il
sistema della lingua e l'uso uniforme del passato non permettono che questo
progressivo accorciamento lasci una traccia nel tessuto stesso del discorso
narrativo; abbiamo però visto come Proust fosse riuscito, fino a un certo punto, a
farlo sentire con modificazioni nel regime temporale del racconto: progressiva
sparizione dell'iterativo, dilatazione delle scene singolative, crescente discontinuità,
accentuazione del ritmo — come se il tempo della storia tendesse a dilatarsi e a
singolarizzarsi sempre più avvicinandosi alla sua fine, che coincide anche con la sua
fonte.
Ci potremmo immaginare, data la pratica corrente nella narrazione autobiografica
(l'abbiamo già osservato), di vedere l'eroe condotto dal racconto fino al punto dove
lo aspetta il suo narratore, perché finalmente le due ipostasi si raggiungano e si
confondano. A volte, un po' frettolosamente, si è avuto la pretesa di trovare una
simile conclusione532. In realtà, come dimostra benissimo Marcel Muller, «fra il
giorno del ricevimento dalla principessa e quello in cui il Narratore racconta tale
ricevimento, si stende una vera e propria era che mantiene fra Protagonista e
Narratore un intervallo insuperabile: le forme verbali nella conclusione del Temps
retrouvé sono tutte al passato»533. Il narratore conduce esattamente la storia del suo
protagonista - la sua storia — fino al punto in cui, come dice Jean Rousset, «il
protagonista diventerà il narratore»534 - o, come preferirei dire io, comincia a diventare
il narratore, poi- che entra effettivamente nel suo lavoro di scrittura. Muller scrive
che « se il Protagonista raggiunge il Narratore lo fa come in un asintoto: la distanza
che li separa tende allo zero, ma non si annullerà mai». Tuttavia l'immagine
connota un gioco sterniano sulle due durate che in realtà in Proust non si trova: vi
è semplicemente l'arresto del racconto al punto in cui il protagonista ha trovato la
verità e il significato della sua vita, e quindi dove si completa la « storia di una
vocazione » e cioè, dobbiamo rammentarlo, l'oggetto dichiarato del racconto
proustiano. Il resto (il cui esito ci è già noto tramite il romanzo stesso che termina
qui) non appartiene più alla «vocazione», ma al lavoro che ne deriva e deve dunque
essere soltanto abbozzato. L'argomento della Recherche è proprio « Marcel diventa
scrittore», non «Marcel scrittore»: la Recherche resta un romanzo di formazione, e
vorrebbe dire falsarne le intenzioni e soprattutto forzarne il significato vedere in
esso un «romanzo del romanziere», come nei Faux Monnayeurs; si tratta del
romanzo del futuro romanziere. «Il seguito (diceva Hegel proprio a proposito del
Bildungsroman) non ha più nulla di romanzesco... »; Proust probabilmente avrebbe
volentieri applicato la formula al suo racconto: il romanzesco è la ricerca, la
recherche che termina in una scoperta (la rivelazione), non l'uso che si farà poi della
scoperta. La scoperta finale della verità, il tardivo incontro della vocazione, come la
felicità degli amanti riuniti, può essere soltanto un'agnizione, non una tappa: per
questo aspetto, l'argomento della Recherche è proprio un argomento tradizionale. Il
racconto deve perciò interrompersi prima che il protagonista abbia raggiunto il
narratore, non è concepibile che essi scrivano insieme la parola Fine. L'ultima frase
del secondo, si trova quando - è il fatto che - il primo riesce finalmente a scrivere la
sua prima frase. La distanza tra la fine della storia e il momento della narrazione,
equivale dunque al tempo necessario al protagonista per scrivere questo libro, che
non coincide affatto con quello a sua volta rivelatoci dal narratore, nella durata
d'un lampo.

Livelli narrativi.
Quando des Grieux, giunto alla fine del suo racconto, dichiara che ha appena
fatto vela da Nouvelle-Orléans a Havre-de-Gràce, poi da Havre a Calais, per
ritrovare suo fratello che lo attende a qualche lega da li, la distanza temporale (e
spaziale) che fino a quel momento separava l'azione raccontata dall'atto narrativo si
rimpicciolisce progressivamente fino a ridursi a zero: il racconto è arrivàto all'oc et
nunc, la storia ha raggiunto la narrazione. Sussiste però, fra gli ultimi episodi degli
amori del cavaliere e la sala del Lion d'or con i suoi occupanti, fra cui lo stesso
cavaliere e il suo ospite (sala dove egli racconta i suoi amori, dopo aver pranzato, al
marchese di Renoncourt) una distanza che non è né nel tempo, né nello spazio, ma
nella differenza fra le relazioni che entrambi mantengono col racconto di des
Grieux. Relazioni che è possibile distinguere in maniera rozza e forzatamente
inadeguata dicendo che gli uni sono all'interno (del racconto, ovviamente) e gli altri
all'esterno. Più che una distanza, li separa una specie di soglia figurata dalla stessa
narrazione, una differenza di livello. Il Lion d'or, il marchese, il cavaliere in veste di
narratore sono per noi in un certo racconto, che non è il racconto di des Grieux,
bensì quello del marchese, ovvero i Mémoires d'un homme de qualità; il ritorno dalla
Louisiana, il viaggio da Havre a Calais, il cavaliere in veste di protagonista si
trovano in un altro racconto, in questo caso il racconto di des Grieux, racconto
contenuto nel primo, non soltanto nel senso che il primo lo inquadra con un
preambolo e una conclusione (d'altronde assente qui), ma nel senso che il
narratore del secondo è già un personaggio del primo, e l'atto di narrazione che lo
produce è un avvenimento raccontato nel primo.
Definiremo la differenza di livello dicendo che ogni avvenimento raccontato da un
racconto si trova a un livello dietetico immediatamente superiore a quello dove si situa l'atto
narrativo produttore di tale racconto. La redazione, da parte del signor di Renoncourt,
dei suoi fittizi Mémoires è un atto (letterario) compiuto a un primo livello, che
chiameremo extradiegetico\ gli avvenimenti raccontati nei Mémoires (fra cui l'atto
narrativo di des Grieux) sono all'interno di questo primo racconto, dunque li
qualificheremo diegetici o intradiegetici; gli avvenimenti raccontati nel racconto di des
Grieux, racconto di secondo grado, saranno chiamati metadiegetici535. Analogamente,
il signor di Renoncourt, in quanto «autore» dei Mémoires è extradie- getico: si
rivolge, anche se persona fittizia, al pubblico reale, proprio come Rousseau o
Michelet; lo stesso marchese in quanto protagonista degli stessi Mémoires è
diegetico, o intradiegetico; e con lui des Grieux narratore all'albergo del Lion d'or,
come d'altra parte Manon vista dal marchese in occasione del primo incontro a
Pacy; ma des Grieux eroe del suo stesso racconto, e Manon eroina, e suo fratello, e
le comparse, sono metadiegetici, termini che designano non degli esseri, ma delle
situazioni relative e delle funzioni536.
L'istanza narrativa di un racconto primo è dunque, per definizione, extradiegetica,
come l'istanza narrativa di un racconto secondo (metadiegetico) è per definizione
diege- tica, ecc. Insistiamo sul fatto che il carattere eventualmente fittizio
dell'istanza primaria non modifica questa situazione più di quanto non lo faccia il
carattere eventualmente «reale» delle istanze seguenti: il signor de Renoncourt non
è un «personaggio» in un racconto assunto dall'abate Prévost, bensì Fautore fittizio
dei Mémoires (di cui sappiamo d'altra parte che è Prévost il vero autore) proprio
come Robinson Crusoe è Fautore fittizio del romanzo di Defoe che porta il suo
nome: e subito dopo, ognuno di essi diventa personaggio all'interno del suo stesso
racconto. Né Prévost né Defoe rientrano nell'ambito del nostro problema, che
verte (ricordiamolo una volta di più) sull'istanza narrativa, e non sull'istanza
letteraria. Il signor di Renoncourt e Crusoe sono narratori-autori, e come tali
situati allo stesso livello narrativo del loro pubblico, e cioè voi ed io. Non è però
questo il caso di des Grieux, che non si rivolge mai a noi, ma soltanto al paziente
marchese; e inversamente, anche se il medesimo marchese avesse incontrato a
Calais un personaggio reale, poniamo Sterne in viaggio, questo personaggio non
sarebbe risultato meno diegetico, per quanto reale - esattamente come Richelieu in
Dumas, Napoleone in Balzac, o la principessa Mathii- de in Proust. In breve, non
si deve confondere il carattere diegetico (o addirittura metadiegetico) con la
finzione: Parigi e Balbec si trovano allo stesso livello, benché una città sia reale e
l'altra fittizia, e noi ci troviamo a essere tutti i giorni oggetto di racconto, se non
protagonisti di romanzo.
Ma qualsiasi narrazione extradiegetica non è necessariamente assunta come opera
letteraria e il suo protagonista non è sempre un narratore-autore in grado di
rivolgersi, come il marchese di Renoncourt, a un pubblico qualificato come tale 537.
Un romanzo in forma di diario intimo, come il Journal d'un cure de campagne o la
Symphonie Pastorale, non mirano teoricamente a nessun pubblico, e perfino a nessun
lettore, e analogamente fanno i romanzi epistolari, sia che comportino un unico
corrispondente, come Pamela, Werther e Obermann (qualificati spesso come diari
camuffati da corrispondenza)538, o parecchi corrispondenti, come la Nouvelle Héloise
o le Liaisons Dangereuses: Bernanos, Gide, Richardson, Goethe, Senancour,
Rousseau o Laclos si presentano qui come semplici «editori», ma gli autori fittizi di
tali diari intimi o di quelle lettere «raccolte e pubblicate da...» non si considerano,
evidentemente (a differenza di Renoncourt, di Crusoe o di Gil Blas) come «autori».
Fatto ancora più notevole: la narrazione extradiegetica non è assunta
obbligatoriamente come narrazione scritta. Niente ci obbliga a credere che
Mersault o Malone abbiano scritto il testo da noi letto come un loro monologo
interiore, ed è ovvio che il testo dei Lauriers sont coupés può esser soltanto un «flusso
di coscienza» - non scritto, e neppure parlato — misteriosamente captato e
trascritto da Dujardin. La caratteristica del discorso immediato è l'esclusione di
qualsiasi determinazione di forma dell'istanza narrativa da esso costituita.
All'opposto, qualunque narrazione intradiegetica non produce necessariamente
un racconto orale, come quella di des Grieux: essa può consistere in un testo
scritto, come il memoriale senza destinatario redatto da Adolphe, o perfino in un
testo letterario fittizio, opera nell'opera, come la «storia» del Curioso impertinente
scoperta dal curato di Don Chisciotte in un baule, oppure la novella L'Ambi- tieux par
amour, pubblicata dal protagonista di Albert Savarus in una rivista fittizia, autore
intradiegetico di un'opera metadiegetica. Ma il racconto secondo può a sua volta
non essere né scritto né orale, e offrirsi, scopertamente o no, come un racconto
interiore: così il sogno di Jocabel nel Moyse sauvé, oppure, secondo una tecnica più
frequente e meno soprannaturale, qualsiasi tipo di ricordo riportato alla memoria
(in sogno oppure no) da un personaggio: è la maniera in cui interviene, nel
secondo capitolo di Sylvie (sappiamo fino a che punto Proust sia stato colpito da
questo particolare) l'episodio («ricordo per metà sognato») del canto d'Adrienne:
«Ritornai a letto e non potei più trovarvi riposo. Sprofondato in una
semisonnolenza, tutta la mia giovinezza ripassava nei miei ricordi... Mi
rappresentavo un castello dell'epoca d'Enrico IV, ecc.» 539. Può, per finire, esser
assunto da una rappresentazione non-verbale (il più delle volte visiva) convertita in
racconto dal narratore, con la sua descrizione di questa sorta di documento
iconografico (il dipinto che rappresenta Arianna abbandonata nelle Noces de Thétis
et de Pélée, o l'arazzo del diluvio nel Moyse sauvé) o, più raramente, facendolo
descrivere da un personaggio, come i quadri della vita di Giuseppe commentati da
Amram sempre nel Moyse sauvé.

Il racconto metadiegetico.
Il racconto di secondo grado è una forma che risale alle origini stesse della
narrazione epica, poiché i canti che vanno dal IX al XII, nell'Odissea (come
sappiamo) sono consacrati al racconto fatto da Ulisse davanti all'assemblea dei
Feaci. Passando per Virgilio, Ariosto, Tasso, il procedimento (d'altronde,
conosciamo anche il suo enorme investimento all'interno delle Mille e una notte)
entra in epoca barocca nella tradizione del romanzo, e un'opera quale PAstrée, per
esempio, si compone in massima parte di racconti procurati da questo o quel
personaggio. L'uso è mantenuto lungo il xvin secolo, malgrado la concorrenza di
nuove forme come il romanzo epistolare; è visibilissimo in Manon Lescaut, o in Tris
tram Shandy, o in Jacques le Fataliste, e perfino l'avvento del realismo non gli
impedisce di sopravvivere in Balzac (La maison Nucingen, Autre étude de femme,
l'Auberge rouge, Sarrasine, La peau de chagrin) e in Fromentin (Dominique); possiamo
anche osservare una certa esacerbazione del topos in Barbey, o in Wuthering Heights
(racconto di Isabella a Nelly, riferito da Nelly a Lockwood, annotato da Lockwood
nel suo diario) e soprattutto in Lord Jim, dove l'incastro arriva ai limiti della comune
intelligibilità. Lo studio storico e formale di tale procedimento andrebbe molto
oltre la nostra intenzione, ma è almeno necessario, per proseguire, distinguere ora
le principali relazioni che possono unire il racconto metadiegetico al racconto
primo in cui esso si inserisce.
Il primo tipo è una causalità diretta fra gli avvenimenti della metadiegesi e quelli
della diegesi, che conferisce al racconto secondo una funzione esplicativa. Si tratta
dell'«ecco perché» balzachiano, ma assunto in questo caso da un personaggio, sia
che la storia da lui raccontata riguardi un altro (Sar rasine), o, nella maggioranza dei
casi, se stesso (Ulisse, des Grieux, Dominique). Racconti che rispondono tutti
quanti, esplicitamente o no, a una domanda sul tipo «Quali avvenimenti hanno
portato alla presente situazione? » Il più delle volte, la curiosità dell'uditorio
intradiegetico è un puro pretesto per rispondere a quella del lettore, come nelle
scene di esposizione dei fatti, nel teatro classico, e il racconto metadiegetico una
semplice variante dell'analessi esplicativa. Ne derivano certe discordanze fra la
funzione posticcia e la funzione reale - generalmente risolte a vantaggio della
seconda: così, al XII canto dell' Odissea, Ulisse interrompe il suo racconto all'arrivo
presso Calipso, benché la maggior parte del suo uditorio ne ignori il seguito: i\
pretesto è costituito dal fatto che lo ha già raccontato sommariamente, il giorno
prima, ad Alcinoo e ad Are te (canto VII); la vera ragione è, evidentemente, il fatto
che il lettore lo conosce minutamente per il racconto diretto del canto V: «Quando
la storia è nota, — dice Ulisse, - detesto ripeterla»: ripugnanza che coincide, in
primo luogo, con quella dello stesso poeta.
Il secondo tipo consiste in una relazione puramente tematica, che non implica
dunque nessuna continuità spazio- temporale fra metadiegesi e diegesi : relazione
di contrasto (infelicità d'Arianna abbandonata, in mezzo alle nozze gioiose di Te ti)
o d'analogia (come quando, nel Moyse sauvé, Jocabel esita a eseguire l'ordine divino e
Amram le racconta la storia del sacrificio d'Abramo). La famosa struttura a scatola
cinese, tanto apprezzata dal «nouveau roman» degli anni '60, è evidentemente una
forma estrema di un simile rapporto analogico, spinto fino ai limiti dell'identità. La
relazione tematica può d'altronde esercitare un influsso sulla situazione diegetica,
quando viene percepita dall'uditorio: il racconto di Amram ha come effetto
immediato (e del resto anche come scopo) di riuscire a convincere Jocabel, è un
exemplum con funzione persuasiva. Sappiamo come veri e propri generi, quali la
parabola e l'apologo (la favola) riposino su tale azione mo- nitiva dell'analogia: di
fronte alla plebe in rivolta, Menenio Agrippa racconta la storia dello Stomaco e le
altre parti del corpo ; poi, aggiunge Tito Livio, «dimostrando fino a che punto la
sedizione intestina del corpo era simile alla rivolta della plebe contro il Senato, riuscì
a convincerli»540. Troveremo in Proust un'illustrazione meno curativa di questa virtù
dell'esempio.
Il terzo tipo non comporta nessuna esplicita relazione fra i due livelli di storia: si
tratta dell'atto di narrazione stesso che adempie una funzione nella diegesi,
indipendentemente dal contenuto metadiegetico: funzione di distrazione, per
esempio, e/o di ostruzionismo. L'esempio più illustre lo si ritrova, a colpo sicuro,
nelle Mille e una notte, dove Sherazade respinge la morte a colpi di racconto,
qualunque racconto (purché interessi al Sultano). Possiamo osservare che, dal
primo al terzo tipo, l'importanza dell'istanza narrativa non fa che aumentare. Nel
primo, la relazione (di concatenazione) è diretta, non passa attraverso il racconto, e
potrebbe tranquillamente farne a meno : che Ulisse lo racconti o no, solo la
tempesta lo ha gettato alle rive dei Feaci, quindi la sola trasformazione introdotta
dal suo racconto è d'ordine puramente conoscitivo. Nel secondo, la relazione è
indiretta, rigorosamente mediata dal racconto, che è indispensabile alla
concatenazione: l'avventura delle parti del corpo e dello stomaco calma la plebe a
patto che Menenio la racconti. Nel terzo, la relazione esiste soltanto fra l'atto
narrativo e la situazione presente, il contenuto metadiegetico non interessa (quasi)
più del messaggio biblico in piena azione di flibuster alla tribuna del Congresso.
Relazione che conferma ulteriormente, se fosse necessario, il seguente fatto: la
narrazione è un atto come qualsiasi altro.

Metalessi.
Il passaggio da un livello all'altro può teoricamente esser garantito esclusivamente
dalla narrazione, atto che consiste precisamente nell'introdurre in una situazione,
per mezzo di un discorso, la conoscenza di un'altra situazione. Qualunque altra
forma di passaggio è, se non sempre impossibile, almeno sempre trasgressiva.
Cortàzar racconta a un certo punto541 la storia di un uomo assassinato da uno dei
personaggi del romanzo che sta leggendo: si tratta di una forma inversa (ed
estrema) della figura narrativa chiamata dai classici metalessi dell'autore, consistente
nel fingere che il poeta « operi egli stesso gli effetti che canta » 542, come quando si
dice che Virgilio « fa morire » Didone nel canto IV dell'Eneide, o quando Diderot,
in maniera più equivoca, scrive in Jacques le Fataliste: «Chi mi potrebbe impedire di
far sposare il Padrone e di renderlo becco?» oppure, rivolgendosi al lettore, «se vi fa
piacere, rimettiamo la contadina in groppa dietro alla sua guida, lasciamoli andare e
torniamo ai nostri due viaggiatori» 543. Sterne spingeva la cosa fino a sollecitare
l'intervento del lettore, pregato di chiudere la porta o di aiutare il signor Shandy a
tornare a letto, ma il principio è lo stesso: ogni intrusione del narratore o del
narratario extradiegetico nell'universo diegetico (o di personaggi diegetici in un
universo metadiegetico, ecc.) o il contrario, come in Cortàzar, produce un effetto
di bizzarria, sia buffonesca (quando la si presenta, come in Sterne o in Diderot, sul
tono faceto) sia fantastica.
Estenderemo a tutte queste trasgressioni il termine metalessi narrativa544. Alcune di
esse, banali e innocenti come quelle della retorica classica, giocano sulla doppia
temporalità della storia e della narrazione; così Balzac, in un passaggio già citato
delle Illusions perdues: «Mentre il venerabile ecclesiastico sale le scale di Angoulème,
non è inutile spiegare...», come se la narrazione fosse contemporanea alla storia e
dovesse colmare i suoi tempi morti. È su un modello simile, estremamente diffuso,
che Proust scrive per esempio: «non ho più il tempo, prima della mia partenza per
Balbec, d'iniziare pitture della società... » oppure «ma qui m'accontento, man mano che
il tortiglione si ferma e il ferroviere grida Doncières, Grattevast, Maineville, ecc., d'annotare
quel che mi faceva rievocare la piccola spiaggia o la guarnigione», o ancora: « ma è
ora di tornare al barone, che si avvicina in...»545. Sappiamo che i giochi temporali di
Sterne sono un po' più arditi, cioè un po' più letterali, come quando le digressioni di
Tristram narratore (extradiegetico) obbligano suo padre (nella diegesi) a prolungare
la siesta di oltre un'ora546, ma ancora una volta il principio è identico547. In un certo
senso, il pirandellismo dei Sei personaggi in cerca d'autore o di Questa sera si recita a
soggetto, dove gli stessi attori sono di volta in volta protagonisti e commedianti, è
solo una vasta estensione della metalessi, come tutto ciò che ne deriva, ad esempio,
nel teatro di Genet, e come i cambiamenti di livello del racconto in Robbe-Grillet:
personaggi fuggiti da un quadro, da un libro, da un ritaglio di stampa, da una
fotografia, da un sogno, da un ricordo, da un'illusione, ecc., tutti questi giochi
manifestano con l'intensità dei loro effetti l'importanza del limite che essi
s'ingegnano di superare a scapito della verosimiglianza, coincidente proprio con la
narrazione (o la rappresentazione) stessa: frontiera mobile ma sacra fra due mondi:
quello dove si racconta, quello che si racconta. Ne deriva l'inquietudine segnalata
così giustamente da Borges: «Simili invenzioni suggeriscono che se i personaggi di
una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori,
possiamo essere dei personaggi fittizi»548. La metalessi più sconvolgente si trova
proprio in questa ipotesi inaccettabile e insistente, che l'extradiegetico è forse
sempre diegetico, e che il narratore e i suoi narratari, cioè voi ed io, apparteniamo
forse anche a qualche racconto.
Una figura meno audace, ma riallacciabile alla metalessi, consiste nel raccontare
come diegetico, allo stesso livello narrativo del contesto, quanto è stato però
presentato (oppure si lascia facilmente decifrare) come essenzialmente
metadiegetico, o, se si preferisce, metadiegetico alla fonte: come se il marchese di
Renoncourt, dopo aver riconosciuto che ha saputo dallo stesso des Grieux la storia
dei suoi amori (o anche dopo aver lasciato parlare il cavaliere per qualche pagina)
riprendesse la parola per raccontare direttamente la storia, senza più «fingere»,
direbbe Platone, «di esser divenuto des Grieux». L'archetipo di tale procedimento
si trova senz'altro nel Teeteto che, come sappiamo, consiste in una conversazione fra
Socrate, Teodoro e Teeteto riferita dallo stesso Socrate a Euclide, che la riferisce a
Terpsione. Ma, dice Euclide, per evitare « l'intralcio di formule intercalate nel
discorso, quando per esempio Socrate dice parlando di se stesso: "e io dissi",
oppure: "per me, io risposi", e parlando del suo interlocutore: "fu d'accordo"
oppure "non fu d'accordo", l'incontro è stato redatto in forma di dialogo diretto
fra Socrate e i suoi interlocutori»549. Le forme di narrazione dove il cambio
metadiegetico, menzionato o no, si trova immediatamente soppiantato a vantaggio
del narratore primo, fatto che, in qualche modo, provoca l'economia di uno (o più)
livello narrativo, tali forme le chiameremo metadiegetico ridotto (sottinteso: al livello
diegetico), o pseudo- die getico.
A dire la verità, la riduzione non è sempre evidente, o più esattamente la
differenza fra metadiegetico e pseudo-diegetico non è sempre percepibile nel testo
letterario narrativo, il quale (al contrario del testo cinematografico) non dispone di
elementi capaci di rivelare il carattere me- tadiegetico di un segmento 550, ad
eccezione del cambiamento di persona: se il signor di Renoncourt prendesse il
posto di des Grieux per raccontare le avventure di quest'ultimo, la sostituzione si
segnalerebbe immediatamente nel passaggio dall'io all'egli; ma quando il
protagonista di Sylvie narra in sogno un momento della sua giovinezza, niente ci
permette di decidere se il racconto è allora racconto di quel sogno oppure,
direttamente e al di là dell'istanza onirica, racconto di quel momento.
Da «Jean Santeuil» alla «Recherche», ossia il trionfo dello pseudo-diegetico.
Dopo quest'ultima svolta, ci sarà facile caratterizzare la scelta narrativa operata,
deliberatamente o no, da parte di Proust nella Recherche du temps perdu. In primo
luogo occorre però ricordare quale fosse stata la scelta operata nella prima grande
opera narrativa di Proust, o, più esattamente, nella prima versione della Recherche,
cioè Jean Santeuil. L'istanza narrativa, all'interno di tale opera, risulta sdoppiata: il
narratore extradiegetico, che non porta nessun nome (ma è una prima ipostasi del
protagonista, e lo vediamo in situazioni in seguito attribuite a Marcel), è stato in
vacanza con un amico nella baia di Concarneau; i due giovani fanno amicizia con
uno scrittore chiamato C. (seconda ipostasi del protagonista) che inizia, dietro loro
richiesta, a leggere ogni sera le pagine di un romanzo in corso di stesura (scritte
durante il giorno). Le letture frammentarie non vengono trascritte, ma, alcuni anni
più tardi, dopo la morte di C., il narratore, che dispone non si sa come di una copia
del romanzo, si decide a pubblicarlo: si tratta di Jean Santeuil, il cui protagonista è,
chiaramente, un terzo abbozzo di Marcel. Questa struttura disunita è
passabilmente arcaicizzante, con le due seguenti sfumature (rispetto alla tradizione
rappresentata da Manon Lescaut): che il narratore intradiegetico non racconta in
questo caso la sua storia, e che il racconto non è orale, bensì scritto, e addirittura
letterario, poiché si tratta di un romanzo. Torneremo in seguito sulla prima
differenza, che riguarda il problema della «persona», ma occorre insistere ora sulla
seconda, che testimonia, a un'epoca in cui tali procedimenti non sono affatto in
auge, una certa timidezza di fronte alla scrittura di un romanzo e l'evidente bisogno
di una «distanza» nei confronti di questa biografia di Jean - molto più vicina della
Recherche all'autobiografia. Lo sdoppiamento narrativo è ulteriormente aggravato
dal carattere letterario e, fatto più notevole ancora, «fittizio» (poiché si tratta di un
romanzo) del racconto metadiegetico.
Da questa prima tappa di Proust dobbiamo dedurre che egli non ignorava la
pratica del racconto « a incastri», e ne aveva subito la tentazione. D'altra parte,
allude a tale procedimento in una pagina della Fugitive: «I romanzieri pretendono
spesso, nella loro introduzione, di aver incontrato, viaggiando, in un certo paese,
qualcuno che ha loro raccontato la vita di qualche altra persona. Lasciano allora la
parola a questo amico di viaggio, e il racconto di costui è appunto il loro romanzo.
Così la vita di Fabrice del Dongo fu raccontata a Stendhal da un canonico di
Padova. Quando amiamo, cioè quando l'esistenza di un'altra persona ci sembra
misteriosa, come vorremmo trovare un narratore così ben informato! E certo esso
esiste. Noi stessi, non raccontiamo forse senza passione alcuna, la vita di questa o
quella donna a uno dei nostri amici, o a un estraneo che nulla sa dei suoi amori e ci
ascolta con curiosità?»551. Vediamo come l'osservazione non concerna soltanto la
creazione letteraria, ma si estenda all'attività narrativa più corrente, quale si può
esercitare, fra l'altro, nell'esistenza di Marcel: questi racconti fatti da X a Y a
proposito di Z formano il tessuto della nostra «esperienza», una gran parte della
quale è d'ordine narrativo.
Tali antecedenti e questa allusione danno ancor più risalto al carattere dominante
della narrazione nella Recherche, cioè all'eliminazione quasi sistematica del racconto
metadiegetico. In primo luogo, la finzione del manoscritto raccolto scompare a
vantaggio d'una narrazione diretta dove il protagonista-narratore presenta
scopertamente il suo racconto come opera letteraria, assumendo quindi il ruolo
d'autore (fittizio), come Gii Blas o Robinson, a contatto immediato col pubblico.
Ne deriva l'uso del termine «questo libro» o «quest'opera» 552 per designare il suo
racconto; i plurali accademici553; le apostrofi al lettore554; e persino lo pseudo-
dialogo faceto alla maniera di Sterne e Diderot: «Tutto questo, dirà il lettore, non ci
dice niente su... Molto increscioso, difatti, signor lettore. E più triste di quel che
crediate... - Insomma, la signora d'Arpajon vi presentò al principe? - No, ma tacete
e lasciatemi continuare il mio racconto»555. Il romanziere fittizio di Jean Santeuil non
si prendeva simili libertà, e la differenza serve a commisurare il progresso
compiuto nell'emancipazione del narratore. Poi, le inserzioni metadiegetiche sono
quasi completamente assenti dalla Recherche: a questo titolo, possiamo citare
unicamente il racconto fatto da Swann a Marcel sulla sua conversazione col
principe di Guermantes convertito al dreyfusismo 556, i resoconti di Aimé sulla
passata condotta di Albertine557, e soprattutto il racconto attribuito ai Goncourt di
un pranzo dai Verdurin558. Noteremo d'altra parte che in questi tre casi l'istanza
narrativa è messa in risalto e fa a gara, come importanza, con l'elemento riferito: la
parzialità ingenua di Swann interessa a Marcel molto più della conversazione del
principe; lo stile scritto di Aimé, con le sue parentesi e virgolette invertite, è un
immaginario pastiche; e lo pseudo-Goncourt, pasti-che reale, sta qui come pagina di
letteratura e testimonia sulla vanità delle lettere, molto più che come documento
sul salotto Verdurin; per questi diversi motivi, non era possibile ridurre tali racconti
metadiegetici, cioè farli assumere direttamente dal narratore.
In tutto il resto del romanzo, in compenso, la pratica costante del racconto nella
Recherche è quel che abbiamo battezzato lo pseudodiegetico, cioè un racconto
originariamente secondo, ma immediatamente ricondotto al livello primo e assunto
direttamente, qualunque sia la sua fonte, dal protagonista-narratore. La maggior
parte delle analessi osservate nel primo capitolo derivano sia da ricordi rimemorati
dal protagonista, e dunque da una specie di racconto interiore alla maniera di Nerval,
sia da resoconti che gli sono stati fatti da una terza persona. Risultano del primo
tipo, per esempio, le ultime pagine delle Jeunes filles en fleurs, che rievocano le mattine
soleggiate di Balbec, ma attraverso il ricordo conservatone dal protagonista tornato
a Parigi: «Ciò che rividi quasi immancabilmente, quando pensai a Balbec, furono i
momenti in cui ogni mattina, durante la buona stagione...»; dopo di che,
l'evocazione dimentica il pretesto memoriale e si sviluppa per sé, in racconto
diretto, fino all'ultima riga, cosicché molti lettori non osservano la svolta spazio-
temporale che l'aveva originata, e credono a un semplice flash-back isodiegetico,
senza cambiamento di livello narrativo; oppure il ritorno al 1914, durante la
permanenza a Parigi nel 1916, introdotto dalla seguente frase: «Stavo pensando che
da un pezzo non avevo più veduto nessuna delle persone menzionate in
quest'opera. Nel 1914...» 559: segue un racconto diretto del primo ritorno, come se
non si trattasse di un ricordo evocato durante il secondo, o come se tale ricordo
fosse soltanto un pretesto narrativo, ciò che Proust chiama a ragione
«procedimento di transizione»; alcune pagine dopo, il passaggio consacrato alla
visita di Saint-Loup560 termina con la seguente frase, rivelante, alla fine, la sua fonte
memoriale : « Pur rammemorandomi così la visita di Saint-Loup...» Ma occorre
ricordare soprattutto che Combray I è una fantasticheria da insonnia, che Combray II
è un « ricordo involontario» provocato dal sapore della «maddalenina», e che tutto
quel che segue, a cominciare da Un amour de Swann, è nuovamente un'evocazione
dell'insonne : tutta la Recherche è in realtà una vasta analessi pseu- dodiegetica
intitolata ai ricordi del « soggetto intermediario», immediatamente rivendicati e
assunti come racconto dal narratore finale.
Sono di competenza del secondo tipo tutti quegli episodi, evocati nel capitolo
precedente a proposito dei problemi di focalizzazione, che avvengono fuori dalla
presenza del protagonista, e di cui il narratore ha quindi potuto esser informato
soltanto mediante un racconto intermediario.: vedi, le circostanze del matrimonio di
Swann, le trattative fra Norpois e Faffenheim, la morte di Bergotte, il
comportamento di Gilberte dopo la morte di Swann, il mancato ricevimento dalla
Berma561: come abbiamo visto, la fonte di tali informazioni è ora dichiarata, ora
implicita, ma, ad ogni modo, Marcel incorpora gelosamente al suo racconto quanto
gli proviene da Cottard, da Norpois, dalla duchessa, o da Dio sa chi, come se non
tollerasse di lasciare a un altro una parte anche minima del suo privilegio narrativo.
Il caso più tipico, e ovviamente più importante, è quello di Un amour de Swann. In
linea di principio si tratta di un episodio doppiamente metadiegetico, poiché, in
primissimo luogo, i suoi particolari sono stati riferiti a Marcel da un narratore (e in
un momento) non determinato, e poi perché Marcel si riporta alla memoria tali
particolari durante certe notti d'insonnia; ricordi di racconti anteriori, dunque, a
partire dai quali, ancora una volta, il narratore extradiegetico raccoglie tutta la
puntata e racconta a suo nome tutta quella storia avvenuta prima della sua nascita,
non senza introdurvi sottili tracce della sua esistenza ulteriore 562, che equivalgono
quasi a una firma e impediscono allettore di dimenticarlo troppo a lungo:
bell'esempio di egocentrismo narrativo. Proust aveva gustato in Jean Santeuil i
desueti piaceri del metadiegetico, ora invece è come se avesse giurato a se stesso di
non riattingervi più, e di riservarsi (o di riservare al suo portaparola) la totalità della
funzione narrativa. Un amour de Swann raccontato dallo stesso Swann avrebbe
compromesso tale unità d'istanza, e il monopolio del protagonista. Swann, ex
ipostasi di Marcel563, deve essere ormai, nell'economia definitiva della Recherche, solo
un precursore infelice e imperfetto: non ha quindi diritto alla «parola», cioè al
racconto — e meno ancora (vi torneremo in seguito) al discorso che lo porta,
l'accompagna e gli fornisce significato. Ecco perché Marcel e soltanto Marcel deve
in ultima istanza, e a dispetto di tutte le altre, raccontare questa avventura non sua.
Non è sua, però la prefigura, come sappiamo tutti, e in un certo senso la
determina. Ritroviamo ora l'influsso indiretto, analizzato precedentemente, di certi
racconti metadiegetici: l'amore di Swann per Odette non ha, teoricamente, nessuna
incidenza diretta sul destino di Marcel564, e per questo la norma classica lo
giudicherebbe indubbiamente puramente episodico; ma la sua incidenza indiretta,
cioè l'influsso esercitato dalla conoscenza di esso, assunta da Marcel mediante un
racconto, è in compenso considerevole, ed è lo stesso Marcel a testimoniarlo nella
seguente pagina di Sodome:

Pensavo allora a tutto quello che avevo saputo dell'amore di Swann per Odette, del modo come egli era stato ingannato
per tutta la sua vita. In fondo, a volerci pensare, l'ipotesi che mi fece costruire a poco a poco tutto il carattere di Albertine
e interpretare dolorosamente ogni attimo d'una vita che non potevo controllare per intero, fu il ricordo, l'idea fìssa del
carattere della signora Swann, quale mi era stato descritto. Tali racconti contribuirono a far si che, in avvenire, la mia fantasia
giocasse a supporre che Albertine avrebbe potuto, invece d'essere una buona fanciulla, aver la medesima immoralità, la
medesima facoltà d'inganno d'una vecchia sgualdrina, e ch'io pensassi a tutte le sofferenze che m'aspettavano in tal caso se
mai l'avessi amata565.

Tali racconti contribuirono...: è a causa del racconto di un amore di Swann che Marcel
potrà effettivamente immaginare un giorno un'Albertine simile a Odette: infedele,
viziosa, inaccessibile, e di conseguenza invaghirsi di lei. Il seguito lo sappiamo.
Potenza del racconto...
Non dimentichiamo, dopo tutto, che se Edipo può fare quel che ciascuno
(dicono) si limita a desiderare, ciò avviene perché un oracolo ha narrato in anticipo
che un giorno avrebbe ucciso il padre e sposato la madre: senza oracolo, niente
esilio, dunque niente incognito, dunque niente parricidio, dunque niente incesto.
L'oracolo d'Edipo re è uji racconto metadiegetico al futuro, la cui semplice
enunciazione disinnescherà la « macchina infernale » capace di realizzarlo. Non è
una profezia a realizzarsi, è una trappola in forma di racconto, e che « cattura ». Si,
potenza (e inganno) del racconto. Esistono racconti che fanno vivere (She- razade),
esistono racconti che uccidono. Non si può giudicare bene Un amour de Swann se
non si capisce come questo amore sia uno strumento del Destino.

Persona.
Si è potuto osservare come, finora, abbiamo usato i termini « racconto in prima -
o in terza — persona » solo accompagnati da virgolette di protesta. Tali locuzioni
correnti, a mio parere, sono effettivamente inadeguate in quanto mettono l'accento
della variazione sull'elemento in realtà invariante della situazione narrativa, cioè la
presenza, implicita o esplicita, della «persona» del narratore, il quale, all'interno del
suo racconto, può esistere solo (come qualunque soggetto dell'enunciazione in un
enunciato) in «prima persona» — esclusa l'enallage di convenzio-ne, come nei
Commentarli di Cesare: e precisamente, l'accento messo sulla «persona» lascia
credere che la scelta — puramente grammaticale e retorica - del narratore sia
costantemente dello stesso ordine di quella di Cesare, che decide di scrivere le sue
memorie in una persona piuttosto che in un'altra. Sappiamo benissimo come il
problema non stia qui. La scelta del romanziere non si verifica fra due forme
grammaticali, ma fra due atteggiamenti narrativi (le forme grammaticali ne sono
quindi solo la meccanica conseguenza): far raccontare la storia da uno dei
«personaggi»566 o da un narratore estraneo alla storia stessa. La presenza di verbi in
prima persona in un testo narrativo può quindi rinviare a due situazioni
diversissime, confuse dalla grammatica ma necessariamente distinguibili da parte
dell'analisi narrativa: la designazione del narratore in quanto tale da parte di se
stesso, come quando Virgilio scrive «Arma virumque cano...», e l'identità di persona
fra il narratore e uno dei personaggi della storia, come quando Crusoe scrive:
«Nacqui a York nel 1632...» Il termine «racconto in prima persona» si riferisce, è
scontato, solo alla seconda situazione ed è una disimmetria che conferma la sua
improprietà. Dato che il narratore può, ad ogni momento, intervenire come tale nel
racconto, qualunque narrazione è, per definizione, virtualmente fatta in prima
persona (anche se fosse al plurale di maestà, come quando Stendhal scrive:
«Confesseremo... che abbiamo iniziato la storia del nostro eroe...») Il vero problema è
sapere se il narratore ha o no l'occasione di usare la prima persona per designare
uno dei suoi personaggi. Distingueremo perciò ora due tipi di racconto: il primo con
narratore assente dalla storia raccontata (esempio: Omero nell'Iliade, o Flaubert
nell'Education sentimentale), e il secondo con narratore presente come personaggio
nella storia raccontata (esempio: Gil Blas, o Wuthering Heights).
Per evidenti ragioni chiamo il primo tipo etero diegetico, e il secondo omodiegetico.
Ma senz'altro gli esempi scelti fanno già risaltare una asimmetria nello statuto dei
due tipi: Omero e Flaubert sono ambedue totalmente, e quindi sono ugualmente,
assenti dai due racconti in questione; ma possiamo dire, in compenso, che Gii Blas
e Lockwood non hanno una uguale presenza nei loro rispettivi racconti : Gii Blas è
incontestabilmente l'eroe della storia da lui raccontata, Lockwood
incontestabilmente non lo è (e troveremo facilmente esempi di «presenza» ancora
più debole: vi tornerò immediatamente). L'assenza è assoluta, ma la presenza ha le
sue gradazioni. Sarà dunque necessario, per lo meno, distinguere due varietà
all'interno del tipo omodiegetico: una, dove il narratore è il protagonista del suo
racconto (Gil Blas), l'altra, dove si limita a sostenere un ruolo secondario,
coincidente, per così dire sempre, con un ruolo d'osservatore e di testimone:
Lockwood, già citato, il narratore anonimo di Louis Lambert, Ismahel in Moby Dick,
Marlow in Lord Jim, Carraway nel Great Gatsby, Zeit- blom nel Doktor Faustus -
senza dimenticare il più illustre e tipico, il trasparente (ma indiscreto) dottor
Watson di Conan Doyle567. È come se il narratore non potesse essere nel suo
racconto una comune comparsa: può essere solo vedette, o semplice spettatore. Alla
prima varietà, riserviamo il termine (che s'impone) di autodiegetico: rappresenta, in
un certo senso, il grado forte dell'omodiegetico.
Il rapporto fra narratore e storia, definito in questi termini, è teoricamente
invariabile: anche quando Gil Blas o Watson si cancellano momentaneamente
come personaggi, sappiamo che essi appartengono all'universo diegetico del
racconto, e prima o poi riappariranno. Perciò il lettore riceve immancabilmente
come infrazione a una norma esplicita (almeno quando lo percepisce) il passaggio
da uno statuto all'altro: così la sparizione (discreta) del narratore- testimone iniziale
del Rouge o di Bovary, oppure quella(più clamorosa) del narratore di Lamiel, che esce
scopertamente dalla diegesi «per diventare letterato. Così, benevolo lettore, addio,
non sentirete più parlare di me» 568. Trasgressione ancora più forte, il cambiamento
di persona grammaticale per designare il medesimo personaggio: così, Autre étude
de femme, dove Bianchon passa improvvisamente dall'«io» all'«egli» 569, come se
abbandonasse di colpo il ruolo di narratore; così, in Jean Santeuil, il protagonista
passa, al contrario, dall'«egli» all'«io»570. Nel campo del romanzo classico, e ancora
in Proust, tali effetti derivano evidentemente da una sorta di patologia narrativa,
spiegabile con rimaneggiamenti frettolosi e stati d'incompiutezza del testo: ma
sappiamo come il romanzo contemporaneo abbia superato tale limite, e altri
ancora, e non esita a stabilire fra narratore e personaggio) un rapporto variabile o
fluttuante, vertigine pronominale accordata con una logica più libera, e con una
idea più complessa della «personalità». Le forme più spinte di tale emancipazione 571
non sono fórse le più percepibili, per il fatto che gli attributi classici del
«personaggio» — nome proprio, «carattere» fisico e morale - sono scomparsi, e
con essi i punti di riferimento della circolazione grammaticale. Borges ci offre
indubbiamente l'esempio più spettacolare di questa trasgressione - proprio perché
essa si iscrive, nel caso in questione, in un sistema narrativo perfettamente
tradizionale che accentua il contrasto — nel racconto intitolato la Forma della
spada572, dove il protagonista comincia col raccontare la sua infame avventura
identificandosi con la vittima, prima di confessare di essere in realtà l'«altro», il vile
delatore trattato fino ad allora, col debito disprezzo, in « terza persona ». Il
commento « ideologico » di tale procedimento narrativo è fornito dallo stesso
Moon: «Quel che un uomo fa, è come se lo facessero tutti gli uomini...
Io sono gli altri, qualunque uomo è tutti gli uomini». Il fantastico di Borges,
emblematico in questo di tutta la letteratura moderna, è senza accezione di persona.
Non pretendo di trascinare in questa direzione la narrazione proustiana, benché il
processo di disintegrazione del «personaggio» si trovi in essa largamente (e
notoriamente) realizzato. La Recherche è, fondamentalmente, un racconto
autodiegetico, dove il protagonista-narratore non cede mai (per così dire) a
nessuno il privilegio della funzione narrativa. In questo caso, non è tanto basilare la
presenza di una simile forma affatto tradizionale, ma, in primo luogo, la
conversione di cui è la risultante, e, in secondo luogo, le difficoltà da essa
incontrate in un romanzo del genere.
«Autobiografia camuffata»: in genere, sembra estremamente naturale e come
scontato che la Recherche sia un racconto in forma autobiografica scritto in « prima
persona». Naturalezza d'ingannevole evidenza, poiché il piano iniziale di Proust
(come sospettava Germaine Brée fin dal 1948, e come fu poi confermato dalla
pubblicazione di Jean Santeuil) lasciava a questa decisione narrativa solo un posto
liminare. Jean Santeuil, dobbiamo ricordarlo, ha una forma deliberatamente
eterodiegetica. Deviazione che impedisce quindi di considerare la forma narrativa
della Recherche collie prolungamento diretto di un discorso autenticamente
personale, le cui discordanze nei confronti della vita reale di Marcel Proust
costituirebbero solo scarti secondari. «Il racconto in prima persona, — scrive
giustamente Germaine Brée, - è frutto di una cosciente scelta estetica, e non il
segno della confidenza diretta, della confessione, dell'autobiografia» 573. Fare
raccontare la vita di Marcel allo stesso Marcel, dopo aver fatto raccontare la vita di
«Jean» allo scrittore C., deriva effettivamente da una scelta narrativa visibile e
perciò significativa esattamente come quella di Defoe per Robinson Crusoe o di
Lesage per Gil Blas — e anche di più, a causa della deviazione. Ma, inoltre, non si
può fare a meno di osservare come tale conversione dall'eterodiegetico
all'autodiegetico accompagni,e completi, l'altra conversione, già osservata, dal
metadiegetico al diegetico (o pseudodiegetico). Da Santeuil alla Recherche, il
protagonista poteva passare dall'«egli» all'«io», senza che sparisse la stratificazione
delle istanze narrative: bastava che il romanzo di C. fosse autobiografico, o almeno,
semplicemente, di forma autodiegetica. Viceversa, la doppia istanza poteva ridursi
senza modificare il rapporto fra protagonista e narratore: era sufficiente
sopprimere il preambolo e cominciare con qualcosa di simile: «Per molto tempo
Marcel si era coricato presto...» Dobbiamo perciò considerare nel suo pieno
significato la doppia conversione costituita dal passaggio dal sistema narrativo di
Jean Santeuil a quello della Recherche.
Se lo statuto del narratore, in ogni racconto, viene definito in pari tempo
mediante il suo livello narrativo (extra- o intradiegetico) e mediante il suo rapporto
con la storia (etero- o omodiegetico), possiamo raffigurare i quattro tipi
fondamentali con una tabella a doppia entrata: i ) extra- die getico-eterodiegetico,
paradigma: Omero, narratore di primo grado che racconta una storia da cui è
assente; 2) extradiegetico-omodiegetico, paradigma, Gii Blas, narratore di primo grado
che racconta la sua storia; 3) intra- diegetico-eterodiegetico, paradigma: Sherazade,
narratrice di secondo grado che racconta storie da cui è in genere assente; 4)
intradiegetico-omodiegetico, paradigma: Ulisse nei canti IX-XI dell'Odissea, narratore di
secondo grado che racconta la sua storia. In questo sistema, il narratore (secondo)
della quasi totalità del racconto di Santeuil, il romanziere fittizio C., viene inserito
nella stessa casella di Sherazade come intra-eterodiegetico, e il narratore (unico)
della Recherche nella casella diametralmente (diagonalmente) opposta (qualunque
disposizione venga data alle entrate) di Gil Blas, come extra-omodiegetico.

Si tratta in questo caso di un rovesciamento assoluto, poiché si passa da una


situazione caratterizzata dalla completa dissociazione delle istanze (primo narratore
- autore extradiegetico: «io» — secondo narratore, romanziere intradiegetico : « C.
» — protagonista metadiegetico : « Jean » ) alla situazione inversa, caratterizzata
dalla riunione delle tre istanze in una sola «persona»: il protagonista-narratore-
autore Marcel. Il significato più evidente di tale ribaltamento è l'assunzione tardiva,
e deliberata, della forma dell'autobiografia diretta, che si deve immediatamente
accostare al fatto, apparentemente contraddittorio, che il contenuto narrativo della
Recherche è meno direttamente autobiografico di quello di Jean Santeuil574: come se
Proust avesse dovuto, in un primo tempo, vincere una certa aderenza con se stesso,
distaccarsi da se stesso per conquistare il diritto di dire «io», o meglio - più
esattamente - di far dire «io» a quel protagonista che non è più perfettamente
coincidente con se stesso, ma non è neppure completamente un'altra persona. La
conquista dell'«io» non è dunque qui ritorno a sé, e presenza di sé, installazione
nella comodità della «soggettività» 575, ma l'esatto contrario: l'esperienza difficile
d'un rapporto con se stesso vissuto come (lieve) distanza e decentramento,
rapporto simboleggiato a meraviglia da questa più che discreta semi-omonimia,
quasi-accidentale, fra protagonista-narratore e firmatario 576.
Una simile spiegazione, lo vediamo, rende soprattutto edotti sul passaggio
dall'eterodiegetico all'autodiegetico, e lascia un po' in sottordine la soppressione del
livello metadiegetico. La brutale condensazione delle istanze era forse già iniziata
nelle pagine di Jean Santeuil dove l'«io» del narratore (ma quale?) si sostituiva
ali'«egli» del protagonista: effetto d'impazienza, indubbiamente, ma non tanto
impazienza d'«esprimersi» o di «narrarsi» togliendosi la maschera della finzione
romanzesca; fastidio, piuttosto, di fronte agli ostacoli, o alle sottigliezze, opposti da
parte della dissociazione delle istanze alla tenuta del discorso — che, già in Santeuil,
non è solo un discorso narrativo. Niente è più imbarazzante, indubbiamente, per
un narratore tanto desideroso d'accompagnare la sua «storia» con quella sorta di
commento perpetuo che ne è la profonda giustificazione, del fatto di dover
cambiare incessantemente «voce», di raccontare le esperienze del protagonista «in
terza persona» e di commentarle poi a suo nome, tramite un'intrusione
costantemente reiterata e sempre discordante: ne deriva la tentazione di saltare
l'ostacolo, e di rivendicare (e, in fin dei conti, d'annettere) l'esperienza stessa, come
nella pagina dove il narratore, dopo aver raccontato le «impressioni ritrovate» da
Jean quando il paesaggio del lago di Ginevra gli ricorda il mare a Beg Meil,
prosegue con le sue personali reminiscenze, e la decisione di limitarsi a scrivere
solo «quando un passato risuscitava improvvisamente in un odore, in una visione
che faceva esplodere la fantasia, e sopra a cui essa palpitava, e quando questa gioia
mi forniva l'ispirazione» 577. Vediamo che adesso non si tratta più d'inavvertenza: si
tratta della visione narrativa globale di Jean Santeuil che si rivela inadeguata, e finisce
per cedere alle necessità e alle istanze più profonde del discorso. Tali «incidenti»
prefigurano, in pari tempo, il fallimento, o meglio il prossimo abbandono di
Santeuil, e la sua ripresa ulteriore nella voce tipica della Re- cherche, quella della
narrazione autodiegetica diretta.
Ma, come abbiamo visto nel capitolo del modo, tale nuova angolazione non è
priva di difficoltà, poiché allora si deve integrare a un racconto di forma
autobiografica tutta una cronaca sociale che supera spesso il campo delle
conoscenze dirette del protagonista, e che addirittura, a volte, come nel caso di Un
amour de Swann, s'inserisce solo con un certo sforzo in quelle del narratore. B. G.
Rodgers578 ha chiaramente dimostrato come, in realtà, il romanzo proustiano riesca
solo a fatica a conciliare due istanze contraddittorie: quella di un discorso teorico
onnipresente, che non s'accontenta affatto della narrazione «oggettiva» classica, e
esige che l'esperienza del protagonista si confonda col passato del narratore, il
quale potrà così commentarla senza apparente intrusione (di qui l'adozione finale
di una narrazione autodiegetica diretta in cui possano confondersi e unirsi le voci
del protagonista, del narratore e dell'autore rivolto verso un pubblico, a insegnare e
a convincere) - e quella di un contenuto narrativo vastissimo, debordante di gran
lunga l'esperienza interiore del protagonista, e che esige a tratti un narratore quasi «
onnisciente » : ne derivano gli intralci e le pluralità di focalizzazione, da noi già
incontrati.
La scelta narrativa di Jean Santeuil era indubbiamente insostenibile, e il suo
abbandono ci appare, retrospettivamente, «giustificato»; quella della Recherche si
adatta meglio alle necessità del discorso proustiano, ma non è certamente di una
coerenza perfetta. In realtà, il progetto proustiano non poteva esser pienamente
soddisfatto né dall'una né dall'altra: né dall'«oggettività», troppo distante, del
racconto eterodiegetico, che teneva il discorso del narratore separato dall'«azione»,
e quindi dall'esperienza del protagonista, né dalla « soggettività» del racconto
autodiegetico, troppo personale, e come troppo limitata, per abbracciare senza
inverosimiglianza un contenuto narrativo che oltrepassa di gran lunga tale
esperienza. Si tratta qui, dobbiamo precisarlo, dell'esperienza fittizia del protagonista,
che Proust ha voluto, per motivi ben noti, più ristretta rispetto alla sua personale:
in un certo senso, nella Recherche, niente eccede l'esperienza di Proust, ma tutto ciò
che ha creduto necessario attribuire a Swann,a Bergotte, a Saint-Loup, a Charlus,
alla signorina Vinteuil, a Legrandin, e a moltissimi altri ancora, eccede chiaramente
l'esperienza di Marcel: deliberata «dispersione» del materiale autobiografico,
responsabile quindi di certe difficoltà narrative. Così, - tanto per far ritorno alle
due parallessi più flagranti - possiamo trovare strano che Marcel abbia avuto
notizia degli ultimi pensieri di Bergotte, ma non che Proust vi possa accedere,
poiché le ha «vissute» lui stesso un certo giorno di maggio, nel 1921, al Jeu de
Paume; analogamente, possiamo stupirci che Marcel legga tanto bene negli
ambigui sentimenti della signorina Vinteuil a Montjouvain, ma molto meno, penso,
del fatto che Proust sia stato in grado di attribuirglieli. Sono tutti elementi, assieme
a molti altri, che provengono da Proust, e non spingeremo il disprezzo per il «
referente » fino a fingere d'ignorarlo; ma sappiamo benissimo che di tutto ciò egli
ha voluto liberarsi, col liberarne il suo protagonista. Quello che dunque gli occorre
è, al tempo stesso, un narratore «onnisciente» capace di dominare un'esperienza
morale ormai oggettivata, e un narratore autodiegetico capace di assumere
personalmente, di autenticare e di chiarire col proprio commento l'esperienza
spirituale che dà senso a tutto il resto e che rimane privilegio specifico del
protagonista. Ne deriva la paradossale situazione (per alcuni scandalosa) di una
narrazione in «prima persona» e tuttavia, a momenti, onnisciente. Anche in questo
caso, la Recherche attacca le convenzioni più saldamente radicate della narrazione
romanzesca senza volerlo, forse senza saperlo, e per ragioni inerenti alla natura
profonda, e profondamente contraddittoria, del suo progetto: cosicché, non fa
soltanto vacillare le «forme» tradizionali del romanzo, ma — vibrazione più
nascosta, e dunque più decisiva - la logica stessa del suo discorso.

Protagonista-narratore.
Come in ogni racconto in forma autobiografica 579, i due attanti chiamati da
Spitzer Erzählendes Ich (io narrante) e Erzähltes Ich (io narrato), nella Recherche
risultano separati da una differenza d'età e d'esperienza tali da autorizzare il primo
a trattare il secondo con una sorta d'ironica o condiscendente superiorità,
sensibilissima, ad esempio, nella scena della mancata presentazione di Marcel ad
Albertine, oppure in quella del bacio rifiutato 580. Ma la caratteristica della Recherche,
ciò che la distingue, in questo caso, da quasi tutte le altre autobiografie, reali o
fittizie, sta nel seguente fatto: a questa differenza essenzialmente variabile, e che
fatalmente diminuisce man mano che il protagonista prosegue nel suo «
apprendistato» della vita, viene ad aggiungersi una differenza più radicale e come
assoluta, irriducibile a un semplice « progresso » : quella determinata dalla
rivelazione finale, dall'esperienza decisiva della memoria involontaria e della
vocazione estetica. La Recherche, a questo punto, si separa dalla tradizione del
Bildungsroman per avvicinarsi a certe forme della letteratura religiosa, come le
Confessioni di sant'Agostino: non solo il narratore ne sa (e in maniera tutta empirica)
più del protagonista; egli sa in assoluto, conosce la Verità — una verità a cui il
protagonista non s'avvicina con un movimento progressivo e continuo, ma che al
contrario, e malgrado i presagi e i preannunci da cui si fa precedere qua e là, si
abbatte su di lui nel momento in cui egli se ne trova, in un certo senso, più che mai
lontano: « Abbiamo bussato a tutte le porte che dànno sul nulla, e contro la sola da
dove si può entrare e che per cent'anni avremmo cercato invano, urtiamo senza
saperlo, ed essa si apre».
Tale particolarità della Recherche porta con sé una conseguenza decisiva per i
rapporti fra il discorso del protagonista e quello del narratore. I due discorsi,
effettivamente, fino a quel momento si erano giustapposti, intrecciati, ma, a parte
due o tre eccezioni581, mai completamente confusi: la voce dell'errore e della
tribolazione non poteva identificarsi con quella della conoscenza e della saggezza:
la voce di Parsifal con quella di Gurnemanz. Invece, a partire dall'ultima rivelazione
(per tornare al termine applicato da Proust a Sodome I), le due voci possono
fondersi, e confondersi, oppure darsi il cambio in un medesimo discorso, poiché,
ormai, l'«io pensavo » del protagonista può scriversi «io capivo», «notavo», «intuivo»,
«sentivo», «sapevo», «avevo la netta percezione», «mi resi conto», «ero già arrivato a
questa conclusione», «capii», ecc.582, cioè coincidere con l'«io so» del narratore. Ne
consegue l'improvvisa proliferazione del discorso indiretto, e la sua alternanza col
discorso presentè del narratore, senza opposizione né contrasto. Come abbiamo
già osservato, il protagonista del ricevimento non s'identifica ancora, in atto, col
narratore finale, poiché l'opera scritta dal secondo, per il primo è ancora da venire;
ma, nel «pensiero», cioè nella parola, le due istanze si raggiungono già, poiché esse
si dividono la medesima verità, che ora può scivolare senza rettificazione, come
senza scosse, da un discorso all'altro, da un tempo (l'imperfetto del protagonista)
all'altro (il presente del narratore): come mostra benissimo quest'ultima frase così
flessibile, così libera — Auerbach direbbe così onnitemporale — illustrazione perfetta
del suo assunto: « Se almeno essa mi fosse stata lasciata abbastanza a lungo per poter
condurre a compimento la mia opera, non avrei mancato, anzitutto, di descrivervi gli
uomini (anche se questo avrebbe potuto farli somigliare a esseri mostruosi) come
occupanti un posto ben altrimenti considerevole, accanto a quello così angusto
riservato loro nello spazio: un posto, al contrario, prolungato a dismisura - poiché
essi toccano simultaneamente, giganti immersi negli anni, età così lontane luna
dall'altra, fra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi - nel Tempo».

Funzioni del narratore.


Questa modificazione finale impegna dunque in modo sensibilissimo una delle
funzioni essenziali del narratore proustiano. Può sembrare strano, a prima vista,
attribuire a un narratore un ruolo che non sia la narrazione in senso proprio, ossia
il fatto di narrare la storia, ma sappiamo benissimo che in realtà il discorso del
narratore, romanzesco o no, può assumere altre funzioni. Vale forse la pena di
percorrerle rapidamente per poter apprezzare meglio, sotto questo aspetto, la
specificità della narrazione proustiana. A mio parere, queste funzioni si possono
distribuire (un po' come le funzioni del linguaggio per Jakobson) 583 a seconda dei
diversi aspetti del racconto (in senso lato) a cui esse si riferiscono.
Il primo di tali aspetti è formato, evidentemente, dalla storia, e la funzione ad essa
riferita è la funzione propriamente narrativa, da cui nessun narratore può allontanarsi
senza perdere contemporaneamente la sua qualità di narratore, e a cui può
benissimo tentare — come hanno fatto certi romanzieri americani - di ridurre il
suo ruolo. Il secondo è il testo narrativo, a cui il narratore può far riferimento in un
discorso in un certo senso metalinguistico (in questo caso, metanarrativo) per
metterne in risalto le articolazioni, le connessioni, le interrelazioni, in breve,
l'organizzazione interna: tali «organizzatori» del discorso 584, chiamati da Georges
Blin «indicazioni di regia»585, derivano da una seconda funzione che possiamo
chiamare funzione di regia.
Il terzo aspetto è la situazione narrativa stessa, i cui due protagonisti sono il
narratario, presente, assente o virtuale, e il narratore stesso. All'orientazione verso il
narrata- rio, alla preoccupazione di stabilire o mantenere un contatto col narratario,
un dialogo perfino (reale, come nella Maison Nucingen, o fittizio, come in Tristram
Shandy) corrisponde una funzione che ricorda in pari tempo le funzioni «fatica»
(verifica del contatto) e «conativa» (azione sul destinatario) di Jakobson. Questi
narratori di tipo shandyano, sempre rivolti verso il loro pubblico e spesso più
interessati al rapporto mantenuto con esso che al loro stesso racconto, Rodgers li
chiama «raccontatori»586. Un tempo, si sarebbe preferito chiamarli «conversatori», e
forse dobbiamo chiamare la funzione che essi tendono a privilegiare funzione di
comunicazione ; sappiamo l'importanza assunta da tale funzione nel romanzo
epistolare, e in special modo forse nelle forme chiamate da Jean Rousset «monodie
epistolari», come, evidentemente, le Lettres portugaises, dove la presenza assente del
destinatario diventa l'elemento dominante del discorso.
L'orientazione del narratore verso se stesso, infine, determina una funzione con
omologie spiccatissime nei confronti di quella chiamata da Jakobson, un po'
impropriamente, «funzione emotiva»: è la funzione che informa sulla parte presa
dal narratore, in quanto tale, alla storia da lui narrata, cioè sul rapporto fra
narratore e storia: rapporto affettivo, certo, ma anche morale o intellettuale, e che
può prendere la forma di una semplice testimonianza, come quando il narratore
indica la fonte da cui deriva la sua informazione, o il grado di precisione dei suoi
ricordi personali, o i sentimenti risvegliati in lui da un certo episodio 587; abbiamo, in
questo caso, qualcosa che potrebbe essere chiamato funzione testimoniale, o di
attestazione. Ma gli interventi (diretti o indiretti) del narratore nei confronti della
storia possono prendere anche la forma più didattica di un commento autorizzato
dall'azione: in tal caso viene affermata la funzione che si potrebbe chiamare
funzione ideologica del narratore588, e sappiamo come Balzac, ad esempio, abbia
sviluppato questa forma di discorso esplicativo e giustificativo, nel suo caso (come
in tanti altri casi) veicolo della motivazione realistica.
Tale ripartizione in cinque funzioni non si deve certo prendere con uno spirito
eccessivamente rigido: nessuna di queste categorie è pura e senza connivenza con
altre, nessuna (a parte la prima) è indispensabile, e in pari tempo nessuna, per
quanta attenzione vi si possa fare, è completamente evitabile. Si tratta piuttosto, in
questo caso, d'un problema d'accento e di peso relativo: tutti sanno che Bal- zac
«interviene» più di Flaubert nel suo racconto, che Fielding si rivolge al lettore più
spesso di Mme de la Fayette, che le « indicazioni di regia » sono più indiscrete in
Fenimore Cooper589 o in Thomas Mann590 che in Hemingway, ecc., ma non si può
pretendere di trarne qualche ingombrante tipologia.
E neppure torneremo sulle varie manifestazioni, già trovate prima, delle funzioni
extranarrative del narratore proustiano: frasi rivolte al lettore, organizzazione del
racconto mediante preannunci e richiami, indicazioni di fonti, attestazioni
memoriali. Adesso ci rimane solo da sottolineare la situazione di quasi monopolio
del narratore nei confronti di quella da noi battezzata la funzione ideologica, e il
carattere deliberato (non obbligatorio) di tale monopolio. In effetti, fra tutte le
funzioni extranarrative, è la sola a non spettare necessariamente al narratore.
Sappiamo quanti grandi romanzieri ideologici, come Dostoevskij, Tolstoj, Thomas
Mann, Broch, Malraux si siano preoccupati di trasferire su alcuni dei loro
personaggi il compito di commento e di discorso didattico - fino a trasformare
alcune scene dei Demoni o della Montagna incantata o dell'Espoir in veri colloqui teorici.
Niente di simile in Proust che, a parte Marcel, non si è attribuito nessun portavoce.
Uno Swann, un Saint-Loup, uno Charlus, malgrado tutta la loro intelligenza, sono
oggetti d'osservazione, non organi di verità, e neppure veri interlocutori (sappiamo
d'altra parte cosa pensa Marcel delle virtù intellettuali della conversazione e
dell'amicizia): i loro errori, il loro lato ridicolo, i loro fallimenti e la loro decadenza
sono più istruttivi delle loro opinioni. Anche le figure della creazione artistica come
Bergotte, Vinteuil o Elstir non intervengono, per così dire, come detentori di un
discorso teorico autorizzato: Vinteuil è muto, Bergotte reticente o futile, e la
meditazione sulla loro opera spetta a Marcel 591, Elstir comincia, simbolicamente,
con le buffonate da imbrattatele di Biche, e i discorsi da lui tenuti a Balbec
interessano meno dell' insegnamento silenzioso delle sue tele. La conversazione
intellettuale è un genere chiaramente contrario al gusto proustiano. Sappiamo il
disprezzo ispiratogli da tu tri quelli che «pensano», come, a suo parere, l'Hugo dei
primi poemi, «invece d'accontentarsi, come la natura, di far pensare» 592. Tutta
l'umanità, da Bergotte a Françoise, e da Charlus alla signora Sazerat, sta davanti a
lui come una «natura», incaricata di provocare il pensiero, non di esprimerlo. Caso
limite di solipsismo intellettuale. In fin dei conti, e a modo suo, Marcel è un
autodidatta.
Ne consegue che nessuno, se non, a volte, il protagonista nelle condizioni
suddette, può e deve contestare al narratore il suo privilegio di commento
ideologico: ne deriva la notissima proliferazione di quel discorso «d'autore», o
«autoriale», per prendere a prestito dai critici di lingua tedesca il termine indicante,
in pari tempo» la presento dell'autore (reale o fittizio) e l'autorità sovrana di tale
presenza nella sua opera. L'importanza quantitativa e qualitativa di questo discorso
psicologico, storico, estetico, metafisico è tale, malgrado le denegazioni 593, che
possiamo senz'altro attribuirgli la responsabilità — e, in un certo senso, il merito -
della più forte scossa data in quest'opera, e con quest'opera, all'equilibrio
tradizionale della forma romanzesca: se La recherche du temps perdu viene da tutti
ricevuta come se non fosse più «solo un romanzo», come l'opera che, al suo livello,
chiude la storia del genere (dei generi) e inaugura, con alcune altre, lo spazio senza
limiti e come indeterminato della letteratura moderna, lo deve, evidentemente, - e,
ancora una volta, a dispetto delle « intenzioni dell'autore » e per effetto di un
movimento tanto più irresistibile in quanto involontario — a questa invasione della
storia da parte del commento, del romanzo da parte del saggio, del racconto da
parte del suo stesso discorso.
Il narratario.
Un simile imperialismo teorico, una simile certezza di verità, potrebbero indurre
a pensare che il ruolo del destinatario è qui puramente passivo, e si limita a ricevere
un messaggio da prendere o lasciare, a «consumare» a posteriori un'opera compiuta
lontano da lui e senza di lui. Niente sarebbe più contrario alle convinzioni di
Proust, alla sua personale esperienza della lettura, e alle più forti esigenze della sua
opera.
Prima di prendere in considerazione quest'ultima dimensione dell'istanza
narrativa proustiana, occorre dire una parola più in generale sul personaggio che
abbiamo chiamato il narratario, e la cui funzione nel racconto sembra tanto
variabile. Come il narratore, il narratario è uno degli elementi della situazione
narrativa, e s'inserisce al medesimo livello diegetico; cioè, non si confonde a priori
col lettore (anche virtuale) più di quanto il narratore non si confonda
necessariamente con l'autore.
A narratore intradiegetico, narratario intradiegetico, e il racconto di des Grieux o
Bixiou non si rivolge al lettore di Manon Lescaut o della Maison Nucingen, ma invece
al solo signor di Renoncourt, ai soli Finot, Couture e Blon- det, che designano
semplicemente le tracce di «seconda persona» eventualmente presenti nel testo,
proprio come in un romanzo epistolare si trovano tracce che possono
esclusivamente designare il corrispondente epistolare. Noi, lettori, non possiamo
identificarci con quei narratari fittizi più di quanto quei narratori intradiegetici non
possano rivolgersi a noi, e neppure supporre la nostra esistenza 594. Analogamente,
non possiamo né interrompere Bixiou né scrivere alla signora di Tourvel.
Il narratore extradiegetico, al contrario, può solo mirare a un narratario
extradiegetico, che si confonde in tal caso col lettore virtuale, e con cui si può
identificare ogni reale lettore. Questo lettore virtuale è teoricamente indefinito,
sebbene a Balzac capiti di rivolgersi in particolare ora al lettore di provincia, ora al
lettore parigino, e Sterne lo chiami ora signora, ora signor critico. Il narratore
extradiegetico può anche simulare, come Mersault, di non rivolgersi a nessuno, ma
tale atteggiamento abbastanza diffuso nel romanzo contemporaneo non ha,
evidentemente, nessun potere contro il fatto che un racconto, come qualsiasi
discorso, si rivolge necessariamente a qualcuno, e contiene sempre, anche in
negativo, un richiamo al destinatario. E se l'esistenza di un narratario intradiegetico
ha come effetto di mantenerci a distanza coll'interporre questo narratario fra noi e
il narratore, come Finot, Couture e Blondet si frappongono fra Bixiou e
l'indiscreto ascoltatore (a cui non era destinato il racconto) dall'altra parte della
parete (ma, come dice Bixiou, «c'è sempre gente, vicino»), l'istanza ricevente è più
trasparente, la sua evocazione, all'interno del racconto, più silenziosa, e
l'identificazione, o sostituzione, di ogni lettore reale a questa istanza virtuale si
trova resa più facile, o, per meglio dire, più irresistibile.
La Recherche, nonostante alcuni rari ed estremamente inutili appelli diretti ai lettori,
stabilisce con essi proprio un rapporto di questo tipo. Ogni lettore sa di essere il
narratario virtuale, e quanto ansiosamente atteso, di questo racconto vorticoso che
ha bisogno, indubbiamente più di qualsiasi altro, di sfuggire alla chiusura del
«messaggio finale» per esistere nella sua propria verità, e alla limitazione della
compiutezza narrativa per riprendere senza fine il movimento circolare che lo
rimanda dall'opera alla vocazione che essa racconta, e dalla vocazione all'opera che
essa suscita, e così eternamente.
Come palesano i termini stessi della famosa lettera a Rivière 595, il dogmatismo e la
costruzione dell'opera proustiana non eliminano un incessante ricorso al lettore,
incaricato d'intuirli prima della loro esplicitazione, ma anche, una volta rivelati,
d'interpretarli e reinserirli nel movimento che, in pari tempo, li genera e li trascina
via. Proust non poteva esentarsi dalla regola enunciata nel Temps retrouvé, che dà al
lettore il diritto di tradurre nelle sue parole l'universo dell'opera per « dare poi a
quel che legge tutto il suo significato universale»: per quante apparenti infedeltà
possa commettere, «il lettore ha bisogno di leggere in un determinato modo per
leggere in modo a lui comprensibile; l'autore non deve offendersi, anzi, deve
lasciare la massima libertà al lettore», poiché l'opera è, in ultima analisi, secondo lo
stesso Proust, solo uno strumento ottico offerto dall'autore al lettore per aiutarlo a
leggere in se stesso. «Lo scrittore dice "mio caro lettore" soltanto per un'abitudine
contratta dal linguaggio ipocrita delle prefazioni e delle dediche. In realtà, ogni
lettore, quando legge, è soltanto lettore di se stesso» 596.
Ecco lo statuto vertiginoso del narratario proustiano: invitato, non come
Nathanael, a «gettar via» quel libro, bensì a riscriverlo, totalmente infedele e
miracolosamente esatto, come Pierre Ménard che inventa il Don Chisciotte una
parola dopo l'altra. Tutti comprendono il senso della favola, passata da Proust a
Borges e da Borges a Proust, e perfettamente illustrata dalle stanze contigue della
Maison Nucingen: il vero autore del racconto non è soltanto chi lo racconta, ma
anche, e a volte maggiormente, chi lo ascolta. E non coincide, necessariamente,
con la persona a cui ci si rivolge: «ce sempre gente, vicino».

Postilla
Per concludere senza inutili ricapitolazioni, alcune parole di autocritica o, se si
preferisce, d'apologia. Le categorie e i procedimenti proposti qui non sono certo
senza difetto ai miei occhi: come spesso succede, si trattava di scegliere fra vari
inconvenienti. In un campo abbandonato di solito all'intuizione e all'empirismo, la
proliferazione nozionale e terminologica può senz'altro avere irritato più d'uno, e
certo non mi aspetto che la «posterità» accetti una quantità eccessiva di queste
proposte. Si tratta di un arsenale destinato, come qualsiasi altro, a trovarsi
inevitabilmente sorpassato fra alcuni anni, e tanto più rapidamente quanto più
verrà preso seriamente, cioè discusso, sperimentato, revisionato con l'uso. Una
delle caratteristiche di quello che possiamo chiamare lo sforzo scientifico è il sapersi
fondamentalmente caduco e votato al deperimento: segno di completa negatività,
certo, e considerazione abbastanza malinconica per lo spirito «letterario», sempre
portato a godere in anticipo di una gloria postuma; ma se il critico può sognare
un'opera di secondo grado, lo studioso di poetica invece sa benissimo di lavorare
nel — diciamo piuttosto al - l'effimero, operaio disoccupato in anticipo. Penso
quindi che tutta questa tecnologia, indubbiamente barbara per gli amanti delle Belle
Lettere - prolessi, analessi, iterativi, focalizzazioni, parallessi, metadiegetico, ecc. —
domani apparirà come strumento fra i più rozzi, e andrà a raggiungere altri
imballaggi perduti fra gli scarti della poetica: come unico voto augurale, speriamo
solo che ci vada dopo aver avuto una qualche transitoria utilità. Già inquieto per i
progressi della polluzione intellettuale, Occam vietava l'invenzione senza necessità
degli esseri creati dalla ragione, diremmo oggi: degli oggetti teorici. Sarei
contrariato d'aver contravvenuto a questo principio, ma mi sembra per lo meno
che alcune forme letterarie designate e definite nel mio saggio possano a loro volta
provocare future ricerche, appena sfiorate nel presente lavoro, per ovvie ragioni.
Spero quindi di aver fornito alla teoria letteraria, e alla storia della letteratura, alcuni
oggetti di studio indubbiamente minori, ma un po' più affinati rispetto alle entità
tradizionali, come il «romanzo» o la «poesia».
L'applicazione specifica di tali categorie e procedimenti alla Recherche du temps
perdu era forse ancor più urtante, e non posso negare che il mio assunto possa
essere definito esattamente dal rovesciamento della seguente dichiarazione liminare
di un recente ed eccellente studio sull'arte del romanzo in Proust, dichiarazione che
sicuramente riunisce sotto il suo vessillo, di primo acchito, l'unanimità di tutta la
gente dotata di buon senso: «Non abbiamo voluto imporre all'opera di Proust delle
categorie ad essa esterne, un'idea generale del romanzo, o della maniera in cui va
studiato un romanzo; non è un trattato sul romanzo, con esempi tratti dalla
Recherche, sono concetti nati dall'opera, che permettono di leggere Proust come
quest'ultimo ha letto Balzac o Flaubert. L'unica possibile teoria della letteratura sta
nella critica del fatto singolo» 597.
Non possiamo affatto sostenere che i concetti da noi utilizzati siano nati
esclusivamente «dall'opera», e una simile descrizione del romanzo proustiano non
può affatto passare per conforme all'idea che se ne faceva lo stesso Proust. Una
simile distanza fra la teoria indigena e il metodo critico può sembrare irragionevole,
come tutti gli anacronismi. A mio parere, tuttavia, non bisogna affidarsi ciecamente
all'estetica esplicita di uno scrittore anche quando si tratti di un critico geniale
come l'autore del Contre Sainte-Beuve. La coscienza estetica di un artista, quando è
grande, non è mai, per così dire, al livello della sua pratica: è un fatto che
costituisce solo una manifestazione di quel che veniva simboleggiato da Hegel col
volo tardivo dell'uccello sacro a Minerva. Non abbiamo a disposizione neppure
una centesima parte del genio di Proust, ma abbiamo su di lui il vantaggio seguente
(più o meno, quello dell'asino vivo sul leone morto), di leggerlo partendo
precisamente da ciò che egli ha contribuito a far nascere — la letteratura moderna,
tanto in debito nei suoi confronti - e dunque di percepire con chiarezza all'interno
della sua opera ciò che esisteva solo allo stato embrionale - tanto più che nella
maggior parte dei casi la trasgressione delle norme, l'invenzione estetica, come
abbiamo visto, in lui sono involontarie e perfino inconsapevoli: il suo progetto
aveva basi diverse, e questo spregiatore dell'avanguardia è quasi sempre
rivoluzionario suo malgrado (vorrei dire che, nel caso specifico, è il miglior modo
di esserlo, se non avessi il vago sospetto che si tratti dell'unico). Per ripeterlo
ancora una volta, e dopo tanti altri, leggiamo il passato alla luce del presente:
Proust non leggeva forse allo stesso modo Balzac e Flaubert, e crediamo
veramente che i suoi concetti critici fossero «nati da» La Comédie humaine o
dall"Education sentimentale?
Analogamente, forse, quella sorta di esplorazione (in senso ottico) imposta, nel
nostro caso, alla Recherche ci ha permesso, a quanto spero, di far venire alla luce, in
essa, sotto una nuova prospettiva, dei tratti spesso misconosciuti dallo stesso
Proust e, finora, dalla critica proustiana (l'importanza del racconto iterativo, per
esempio, o dello pseudodiegetico), oppure la più esatta caratterizzazione dei
lineamenti già reperiti, come le anacronie o le focalizzazioni multiple. La «griglia»
tanto screditata non è uno strumento d'incarcerazione, di potatura castrante o di
richiamo all'ordine: è un procedimento di scoperta, e un mezzo di descrizione.

Ciò non significa - forse ve ne siete già resi conto - che chi la utilizza si proibisca
qualsiasi preferenza e valutazione estetica, perfino qualsiasi pregiudizio. Dovrebbe
essere risultato evidente come, in questo confronto fra racconto proustiano e
sistema generale dei possibili narrativi, la curiosità e la predilezione dell'analista si
dirigessero regolarmente verso gli aspetti più deviatiti del primo, trasgressioni
specifiche o esche per una futura evoluzione. Tale sistematica valorizzazione
dell'originalità e dell'innovazione ha forse qualcosa di ingenuo, in fin dei conti di
ancora romantico, ma nessuno, attualmente, vi può completamente sfuggire.
Roland Barthes ne fornisce una giustificazione estremamente convincente in
S/Z598 «Perché mai lo scrivibile (ciò che può esser scritto oggi) è il nostro valore?
Perché la posta del lavoro letterario (della letteratura come lavoro) è il fare del
lettore non più un consumatore, ma un produttore del testo». La preferenza per
quel che in Proust non è solo «leggibile» (classico) ma «scrivibile» (traduzione
grossolana: moderno) esprime forse il desiderio del critico, e anche dello studioso di
poetica, di sostenere, a contatto coi punti esteticamente «sovversivi» del testo, un
ruolo oscuramente più attivo di quello del semplice osservatore e analista. Il
lettore, in questo caso, crede di partecipare, e forse, col semplice atto di
riconoscere - o meglio, di mettere in luce caratteri inventati dall'opera, spesso
all'insaputa del suo autore — partecipa effettivamente e, in misura minima
(minima, ma decisiva) contribuisce alla creazione. Contributo, o addirittura
intervento, che erano (come desideriamo ancora ricordare) non solo legittimi, ma
qualcosa di più ancora, agli occhi di Proust. Lo studioso di poetica, a sua volta, è
pure lui «lettore di se stesso», e scoprire (ce lo dice anche la scienza moderna) è
sempre un po' inventare.

Un altro partito preso, all'occasione partito respinto, spiegherà forse perché


questa conclusione non è tale - voglio dire: perché non si troverà una «sintesi»
finale dove vengano a raggiungersi e a giustificarsi a vicenda tutti gli elementi tipici
del racconto proustiano messi in risalto nel corso di questo studio. Allorché simili
convergenze o correlazioni si manifestavano in modo irrecusabile (vedi quelle fra
sparizione del racconto sommario e emergenza del racconto iterativo, oppure fra
eliminazione del metadiege- tico e polimodalità) non abbiamo evitato di
riconoscerle e metterle in risalto. Ma mi sembrerebbe increscioso cercare a tutti i
costi T«unità», e, con ciò, forzare la coerenza dell'opera — il che costituisce, lo
sappiamo, una delle più forti tentazioni della critica, una delle più banali (per non
dire delle più volgari) e anche una delle più facili da soddisfare, dato che esige solo
un po' di retorica interpretativa.
Ora, se non possiamo negare a Proust la volontà di coerenza e lo sforzo
costruttivo, è altrettanto innegabile, nella sua opera, la resistenza della materia e la
parte d'incontrollato — forse, d'incontrollabile. Abbiamo già osservato il carattere
retroattivo, qui come in Balzac o in Wagner, di un'unità tardivamente conquistata su
un materiale eterogeneo e originariamente non concertato. Altrettanto evidente la
parte d'incompiutezza, dovuta al lavoro in un certo senso supplementare apportato
all'opera dal rinvio accidentale del 19 14. La recherche du temps perdu è stata
senz'altro, almeno nella mente di Proust, un'opera «compiuta»: è avvenuto nel
19 13; e la perfetta composizione ternaria di quel periodo (Du coté de chez Swann,
Coté de Guermantes, Temps retrouvé) a modo suo, ne fa fede. Ma sappiamo cosa è
accaduto di quel progetto, e nessuno può pretendere che la struttura attuale della
Recherche sia l'effetto di qualcosa di diverso dalle circostanze: una causa attiva, la
guerra, una causa negativa, la morte. Certo, non vi è nulla di più facile della
giustificazione del caso e della «dimostrazione» che la Recherche ha finalmente
trovato, il 18 novembre 19Z2, il perfetto equilibrio e l'esatta proporzione che fino
ad allora le mancavano, ma è proprio questa facilità che noi ora rifiutiamo. Se la
Recherche è stata un giorno portata a compimento, oggi non lo è più, e il modo in
cui essa ha ammesso la straordinaria amplificazione ulteriore prova forse come una
simile provvisoria compiutezza fosse solo, come qualsiasi compiutezza, una
illusione retrospettiva. Bisogna restituire l'opera alla sua incompiutezza, al brivido
dell'indefinito, al respiro del- l'imperfetto. La Recherche non è un oggetto chiuso: essa
non è un oggetto.
Anche in questo caso, indubbiamente, la pratica (involontaria) di Proust supera la
sua teoria e il suo piano di lavoro — diciamo, per lo meno, che essa risponde
meglio al nostro desiderio. L'armonioso trittico del 191 3 ha raddoppiato la sua
estensione, ma da una sola parte, dato che la prima anta rimane, per forza,
conforme al piano primitivo. Tale squilibrio, o decentramento, ci piace in quanto
tale e nella sua mancanza di premeditazione, e noi eviteremo accuratamente di
motivarlo col «fornire la spiegazione» di una inesistente chiusura e di un'illusoria
costruzione, riducendo abusivamente quella chiamata da Proust, in altra occasione,
la «contingenza del racconto»599. Le «leggi» del racconto proustiano sono, come lo
stesso racconto, parziali, difettose, forse aleatorie: leggi consuetudinarie e
completamente empiriche, che non si devono inserire per ipostasi in un Canone. Il
codice, nel caso presente, come il messaggio, ha le sue lacune, e le sue sorprese.

Ma un simile rifiuto di motivazione è indubbiamente, a modo suo, una


motivazione. Non si sfugge alla pressione del significato: l'universo semiotico ha
orrore del vuoto; e nominare la contingenza, significa assegnarle già una funzione,
imporle un senso. Anche - o soprattutto - quando tace, il critico dice sempre
troppo. Forse, la cosa migliore sarebbe, come fa il racconto proustiano, non
«finire» mai, cioè, in un certo senso, non cominciare mai.

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1Comunicazione alla decade di Cerisy-la-Salle su « l'enseignement de la littérature»,
luglio 1969. Testo corretto.
2 La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, p. 347.
3Programme d'études sur l'histoire provinciale de la vie littéraire en France, febbraio 1903, in
Essais de méthode, de critique et d'histoire littéraire, raccolti e presentati da H. Peyre,
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4 Littérature et vie sociale. De Lanson à Daniel Mornet: un renoncement?, in «Annales
d'histoire sociale», in, 1941, in Combats pour l'histoire, pp. 263-68.
5 «Annales ESC», maggio-giugno 1960, ripreso in Sur Racine, Seuil, Paris 1963, pp.
147-67.
6 Fra gli altri motivi, certo anche perché la lettura ideologica dei testi rimane più
alla portata dei « letterati » rispetto al genere di ricerca socio- storica
programmata da Lanson e Febvre. È sintomatico che uno dei rari lavori
rispondenti a questo programma sia stato diretto da uno storico (F. FURET, Livre
et société au xviiie siècle, 2 voll., Mouton, Paris 1965-70).
7 Les chemins actuels de la critique, Plon, Paris 1967, p. 355.
8 À propos de Jean-Paul Sartre: Rupture et création littéraire, ibid., pp. 393-411.

9 La théorie de la méthode formelle, 1925, in Théorie de la littérature, Seuil, Paris 1966, p.


66 [trad. it. a cura di Gian Luigi Bravo, La teoria del «metodo formale», in I formalisti
russi, a cura di Tzvetan Todorov, prefazione di Roman Jakobson, Einaudi, Torino
1968].
10 Cfr. Langage poétique, poétique du langage, in Figures II, Seuil, Paris 1969, pp. 123-33
[trad. it. a cura di Franca Madonia, Linguaggio poetico, poetica del linguaggio, in Figure
II, Einaudi, Torino 1972, pp. 93-120].
11 Les problèmes des études littéraires et linguistiques, in Théorie de la littérature, p. 138
[trad. it. a cura di Vittorio Strada, Problemi di studio della letteratura e del linguaggio, in
I formalisti russi, p. 148].
12 Larousse, Paris 1970.
13 «Critique», ottobre 1969.
14 «Revue internationale de philosophie», XXIII, n. 87, f. I.
15 Non si tratta di un plurale di modestia, secondo le regole della figura chiamata
comunicazione. Il rimprovero (se di rimprovero si può parlare) è rivolto in
questo caso anche a chi lo formula, che inoltre, nell'attuale relativo abuso della
nozione di figura, farebbe una certa fatica a considerarsi completamente
innocente. La critica sarà quindi nel nostro caso una forma nascosta (e comoda)
di autocritica.
16 Dialogus de oratoribus, XXXVI-XXXVII.
17 CURTIUS, Littérature européenne, p. 94.
18 A. Kibédi Varga (Rhétorique et Littérature, Didier, Paris 1970, pp. 16-17) mette in
discussione il fatto che la retorica francese classica sia, come abbiamo sostenuto
prima, «soprattutto una retorica dell'elocutio». L'insieme del suo libro dimostra
effettivamente l'interesse da parte di certi retorici dei secoli XVII e XVIII verso le
tecniche di argomentazione e di composizione. Si tratta d'accento e di
proporzioni relative, e anche di scelta nei riferimenti: Varga si appoggia a Barry,
Legras, Crevier, io a Lamy, Dumarsais, Fontanier. Si dovrebbe fare lo spoglio
sistematico, ad esempio, delle centinaia di titoli riuniti da P. Kuentz («xvii e siècle»,
raccontarne una sola per tutte le altre, il che equivale a un uso paradigmatico del
racconto singolativo: «Racconto uno di quei pranzi, che può dare un'idea degli
altri» (III, p. 1006).
312 Così, la forma «iterativa» o «frequentativa» del verbo inglese, o l'imperfetto
iterativo francese.
313 In concorrenza, dunque, con «frequentativo».
314 Citiamo, tuttavia, l'articolo di J. P. Houston, già menzionato, e quello di
WOLFGANG RAIBLE, Linguistik und Literaturkritik, in «Linguistik und Didaktik», n. 8,
1971.
315 Garnier, p. 34.
316 I-VI, I-VII, I-IX, III-v.
317 Sarebbe necessaria una statistica colossale per stabilire questa proporzione in
maniera precisa; ma è probabile che la parte dell'iterativo non raggiungerebbe (e
sarebbe un'approssimazione per eccesso) la percentuale del 10 per cento.
318 I, pp. 704-23; II, pp. .58-69, 96-100, 1034-112; III, pp. 9-81, 623-30.
319 II, pp. 438-83.
320 II, p. 605. Senza indicazione di frequenza, ma in maniera altrettanto iperbolica,
cfr. II, p. 157: mentre Saint-Loup è andato a cercare Rachel, Marcel fa due passi
davanti ai giardini; durante questi pochi minuti, «se alzavo il capo, vedevo
talvolta qualche ragazza alle finestre».
321 III, pp. 936-76.
322 III, pp. 1015-20.
323 Cfr. HOUSTON, Temporal patterns, p. 39.
324 I, pp. 100-9, 243, 721-23, 596-99; II, pp. 22-26, 464-67.
325 In Novelle esemplari, trad. it. di Renata Nordio, Einaudi, Torino 1943, pp. 158-92.
326 Cfr. PIERRE GUIRAUD, Essais de styltstique, Klincksieck, Paris 1971, p. 142.
327 I, pp. 57, 722; II, p. 22. Un altro passato remoto dissonante («Sono sicura...
disse mollemente mia zia») si trova nell'edizione Clarac-Ferré (I, p. 104), come
nell'edizione NRF del 1917, ma l'originale (Grasset, Paris 1913, p. 128) dava la
forma corretta: «diceva». Variante che sembra essere sfuggita a Clarac-Ferré, che
non la segnalano. La correzione del 1917 è difficilmente spiegabile, ma il
principio della lectio difficilior la accoglie proprio a causa della sua stessa
improbabilità.
328 I, p. 608.
329 I, p. 185 (il corsivo è nostro).
330 III, p. 26. Che tali «identità» costituiscano una costruzione dello spirito, è un
fatto, evidentemente, non ignoto a Proust; poco oltre egli scrive (p. 82): «Ogni
giorno era per me un paese differente», e, a proposito del mare a Balbec:
«Ognuno di quei mari non restava mai più di un giorno. Il giorno dopo ce n'era
un altro, che a volte gli somigliava. Ma non vidi mai due volte lo stesso» (I, p.
70.5. Ma «due volte» significa forse, qui, « due volte di seguito »).
331 1 , p. 831.
332 I, pp. 110 – 11.
333 In una versione anteriore (Contre Sainte-Beuve, ed. Fallois, pp.. 106-7) - versione
che, osserviamolo per inciso, si situa a Parigi, e dove la causa dell'asimmetria non
è quindi il mercato di Roussainville, ma una lezione che il padre del protagonista
dà all'inizio del pomeriggio - la commemorazione dell'incidente non è solo
narrativa; è un rituale mimetico che consiste nel provocare «la scena» (cioè la sua
ripetizione) invitando «apposta» dei barbari.
334 I, p. 147.
335 I, p. 634.
336 I, p. 289.
337 I, pp. 150 e 165.
338 I, p. 112.
339 I , pp. 87-88.
340 I, pp. 72-80.
341 I, p. 80.
342 I, pp. 90-100.
343 I, p. 172.
344 Un'altra serie, d'altronde vicinissima, quella delle fantasticherie d'ambizione
letteraria, subisce una modificazione dello stesso ordine dopo l'apparizione della
duchessa in chiesa: «Dopo quel giorno, nelle passeggiate nella parte di
Guermantes, mi parve ancor più doloroso di prima il non aver disposizione alle
lettere» (I, p. 178).
345 I, p. 182.
346 I, p. 172.
347 I , p. 720.
348 I, p. 135. Il termine alternanza, e l'espressione reperibile in Proust, una volta
verso Méséglise, una volta verso Guermantes, non devono fare credere a una
successione regolare, come se, supponiamo, a Combray facesse necessariamente
bel tempo un giorno su due; in realtà, pare che le passeggiate verso Guermantes
siano molto più rare (vedi I, p. 133).
349 I, p. 120.
350 Si tratta in realtà di una specificazione a tre termini (giorni di bel tempo / di
tempo incerto / di cattivo tempo) dove il terzo termine non porta con sé
nessuna dilatazione narrativa: «Se il tempo era cattivo fin dal mattino, i miei
rinunciavano alla passeggiata e non uscivamo» (I, p. 153).
351 La composizione di Combray I, se mettiamo da parte l'inizio memoriale (da p. 3 a
p. 9) e la transizione della «maddalena» (da p. 43 a p. 48), è retta dalla successione
di un segmento iterativo (tutte le sere, pp. 9-21) e di un segmento singolativo (la
sera della visita di Swann, pp. 21-43).
352 Così, le visite domenicali di Eulalie ora con, ora senza il curato di Combray (I,
p. 108).
353 I, pp. 173-74.
354 I , pp. 150-53.
355 Un altro complesso sistema di articolazioni interne è costituito dagli incontri (e
non-incontri) con Gilberte ai Champs-Elysées, articolati così (I, pp. 395-96):
1.giorni di presenza di Gilberte
2.giorni d'assenza
a)preannunciata
-perché deve studiare
-perché deve uscire
b)non preannunciata
c)non preannunciata ma prevedibile (brutto tempo).
356 I, pp. 946-47 (il corsivo è nostro).
357 I, p. 133.
358 Determinazione a sua volta iterativa, dato che essa si ripete tutti gli anni.
L'opposizione primavera/estate, pura determinazione su scala di un solo anno,
diventa perciò, se si abbraccia la totalità del tempo combraysiano, un misto di
determinazione e di specificazione.
359 «La diversità d'illuminazione modifica l'orientamento di un luogo... proprio
come farebbe un tragitto lungamente e effettivamente percorso in viaggio» (I, p.
672).
360 III, pp. 9, 82, 116.
361 I, p. 911. Esiterei invece a definire tali i tre episodi che illustrano i «progressi» di
Marcel nei confronti di Gilberte («un giorno», dono della biglia d'agata, «un'altra
volta» dono dell'opuscolo di Bergotte, «un giorno anche»: «Mi potete chiamare
Gilberte», I, pp. 402-3), perché questi tre «esempi» esauriscono forse la serie,
come le «tre tappe» dei progressi dell'oblio dopo la morte d'Albertine (III, pp.
339-623). Il che equivale a un singolativo anaforico.
362 I, p. 180.
363 III, pp. 54-33.
364 Temporal patterns, p. 38.
365 «Alcuni anni più tardi» (I, p. 159).
366 «Adesso, tutte le sere...» (I, p. 234); «Per contro era adesso inevitabile...» (p. 235);
«Adesso (la sua gelosia) aveva di che nutrirsi e Swann avrebbe potuto cominciare
a tormentarsi ogni giorno...» (p. 283); «I genitori di Gilberte, che per tanto
tempo mi avevano impedito di vederla, adesso...» (p. 503); «Ora, ogni volta che
dovevo scrivere a Gilberte...» (p. 633). Lasciamo al computer la responsabilità di
completare la lista per l'intera Recherche; eccone ancora tre manifestazioni
molto vicine: «Era già notte ormai quando cambiavo il tepore dell'albergo... con
il vagone sul quale salivo con Albertine...» (II, p. 1036); «Fra gli assidui... era
adesso da vari mesi il signor di Charlus...» (p. 1037); «Adesso senza che se ne
rendessero conto, proprio a causa di quel vizio lo consideravano più intelligente
degli altri» (p. 1040).
367 I , p. 538.
368 II, pp. 468-69.
369 I, pp. 72-75.
370 Structure de Swann: prétentions et défaillances, in «Modern Philology», agosto 1946.
371 Pleiade, pp. 394-417.
372 Pleiade, pp. 397-99.
373 A dire la verità, possiamo esitare anche di fronte a «tornavamo ai Champs-
Elysées», riducibile con un certo sforzo a un imperfetto di concomitanza, dato
che gli avvenimenti teoricamente ad esso contemporanei sono, in realtà, un po'
posteriori («la vecchia signora chiese l'ora, ecc.»). Ma il contagio del contesto è
forse sufficiente a spiegare la sua presenza.
374 Forse non Proust personalmente: facendo riferimento a una lettera del 1919,
Clarac e Ferré scrivono: «Pare quindi che Proust non abbia sorvegliato la nuova
edizione di Swann uscita nel 1917» (I, p. xxi). Incertezza che tuttavia non toglie
alla correzione tutta la sua autorità, dato che, fra l'altro, essa viene adottata dagli
stessi Clarac e Ferré. Proust, d'altronde, non può essere totalmente estraneo alle
varianti del 1917: deve essere stato lui a guidare le correzioni, spostando
Combray dalla regione di Beauce alla Champagne, per le note ragioni.
375 Structure de Swann: Combray ou le cercle parfait, in «Modern Philology», agosto 1947.
376 Srtucture de Swann: Balzac, Wagner et Proust, in « French Review », maggio 1946.
377 III, p. 161. Cfr. Contre Sainte-Beuve, Pleiade, p. 274: «Questa parte dei suoi grandi
cicli (si tratta di Balzac) si è trovata unita alla totalità dell'opera solo in seguito.
Che importanza ha? L'Incantesimo del Venerdì Santo è un pezzo scritto da
Wagner prima di pensare a Parsifal: egli ve lo introdusse dopo. Ma le aggiunte,
queste bellezze di riporto, i nuovi rapporti individuati bruscamente dal genio fra
parti separate della sua opera che si congiungono, vivono e non potrebbero
separarsi più, non costituiscono forse le sue più belle intuizioni? »
378 Jean Santeuil, Pleiade, pp. 250-52; Contre Sainte-Beuve, ed. Fallois, p. III.
379 Il terzo paragrafo, poi, porta un'indicazione del genere: «Il primo di questi
giorni...» (Vigneron la qualifica «raccordo faticoso», ma in Proust è abituale: vedi
all'albergo di Doncières, I, p. 98, dove «il primo giorno» aggiunge un'indicazione
singolativa a un abbozzo di quadro iterativo). Un'indicazione simile, però, non
può valere retroattivamente per il secondo, anzi, non fa che aggravarne, per
contrasto, l'indeterminazione.
380 II, pp. 1037-40.
381 I, pp. 802-22.
382 Temporal patterns, p. 35.
383 III, pp. 82-83.
384 È la figura chiamata abruption dal Fontanier: «Figura con la quale si eliminano le
transizioni d'uso fra le parti d'un dialogo, o prima d'un discorso diretto, per
render più animata e interessante la loro esposizione» (Les Figures du discours, pp.
342-43).
385 III, p. 37. Il segmento singolativo, introdotto in questo momento, si conclude
più oltre (p. 43) con un nuovo dialogo abruptum.
386 I, p. 301.
387 I, p. 719.
388 I pp. 366-67.
389 III, pp. 81-88.
390 Temporal patterns, p. 37.
391 «In (Balzac) i cambiamenti di tempo hanno un carattere attivo o documentario.
Flaubert, per primo, li sbarazza dal parassitismo degli aneddoti e dalle scorie
della storia. Per primo, egli li mette in musica » (Chroniques, Plèiade, p. 595).
392 È come se, effettivamente, il racconto - preso fra quel che narra (la storia) e
quel che lo narra (la narrazione, guidata qui dalla memoria) - non avesse altra
scelta fra il predominio della prima (coincidente col racconto classico) e quello
della seconda (coincidente col racconto moderno) che si inaugura con Proust; è
un punto su cui torneremo nel capitolo della voce.
393 Cap. v. Si può deplorare che i problemi della temporalità vengano così
smembrati, ma qualsiasi altra distribuzione avrebbe come conseguenza la
sottovalutazione dell'importanza e della specificità dell'istanza narrativa. Quando
si tratta di «composizione», si può solo scegliere fra inconvenienti diversi.
394 Nel caso presente, le tre forme indicano, evidentemente, i tre grandi tipi di
«deformazione» temporale, a seconda che essi concernano l'ordine, la durata o la
frequenza. La sillessi iterativa condensa vari eventi in un unico racconto;
l'alternanza scene/ellissi distorce la durata; per finire, ricordiamo che è stato lo
stesso Proust a chiamare « interpolazioni » le anacronie da lui ammirate in
Balzac: «Indicare bene in Balzac... l'interpolazione dei tempi (La duchesse de
Langeais, Sarrazine), come per un terreno dove si trovino mescolate le lave di
epoche diverse» (Contre Sainte-Beuve, Plèiade, p. 289).
395 « Spesso, durante una (stagione), c'imbattiamo in un giorno d'un'altra che s'è
smarrito, e che ci fa vivere in questa... situando, più presto o più tardi rispetto al
tempo suo, quel foglietto staccato da un altro capitolo, nel calendario interpolato
della Felicità» (I, pp. 386-87); «cosi i diversi periodi della nostra vita si
accavallano gli uni sugli altri» (I, p. 626); «... la nostra vita è così poco
cronologica, tanti anacronismi interferiscono nella serie dei suoi giorni» (I, p.
642).
396 «La nostra memoria, di solito, non ci presenta i nostri ricordi nella loro
successione cronologica, ma come un riflesso dove l'ordine delle parti è
capovolto» (I, p. 378).
397 «Nella nostra vita i giorni non sono uguali. Per percorrere i giorni, le nature un
po' nervose, com'era la mia, dispongono, come le automobili, di "velocità"
diverse. Vi sono giorni montuosi e disagevoli la cui salita richiede un tempo
infinito, e giorni in pendio che possiam discendere di gran carriera cantando» (I,
pp. 390-91); «Il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico; le passioni che
proviamo lo dilatano, quelle che ispiriamo lo restringono, e l'abitudine lo colma»
(I, p. 612).
398 «L'oblio non manca di alterare profondamente l'idea del tempo. Avvengono
errori ottici nel tempo come nello spazio... Quell'oblio di tante cose... la sua
interpolazione, frammentaria, irregolare, in mezzo alla mia memoria...
sconvolgeva, sfasava il mio sentimento delle distanze nel tempo, là ristrette, qui
allungate, e faceva si che io mi credessi talvolta molto più lontano, talvolta molto
più vicino alle cose di quel che non fossi in realtà» (III, pp. .593-94). Si tratta
sempre, nel caso presente, del tempo così com'è vissuto o ricordato
«soggettivamente», con le «illusioni ottiche di cui è fatta la nostra prima visione»
(I, p. 838), e di cui anche Proust, come Elstir, vorrebbe essere l'interprete fedele.
Ma lo vediamo anche giustificare le sue ellissi, per esempio, con l'impegno di
rendere percettibile al lettore una fuga del tempo che la vita, di solito, ci toglie, e
fli cui abbiamo solo una conoscenza libresca: «Teoricamente si sa che la terra
gira, ma di fatto non ce ne accorgiamo; il suolo su cui camminiamo sembra
immobile e viviamo tranquilli. Lo stesso accade per il Tempo nella vita. E, per
rendere sensibile la sua fuga, i romanzieri sono costretti, accelerando follemente
i battiti della lancetta, di far valicare al lettore dieci, venti, trent'anni in due
minuti...» (I, p. 482). Vediamo come la motivazione realistica si ammanti
indifferentemente di soggettivismo e di oggettività scientifica: ora deformo per
mostrare le cose come vengono illusoriamente vissute, ora deformo per
mostrare le cose come realmente sono, e come ci vengono nascoste dal vissuto.
399 Contre Sainte-Beuve, Pleiade, p. 599.
400 Proust parla dell'«esultanza dell'artefice» a proposito di Wagner (III, p. 161).
401 Contre Sainte-Beuve, Pleiade, p. 586.
402 III, p. 912. Insistiamo rapidamente sul verbo usato in questo caso: «fare un
gioco (e non giocare) col Tempo», non significa solo giocare con esso, ma anche
fare del Tempo un gioco. Un gioco «formidabile» però. Cioè, anche, pericoloso.
(Vista la funzione specifica che Genette attribuisce nel contesto della sua analisi
al termine « jeu», ci scostiamo su questo punto dalla versione fornita dal
traduttore italiano, «gara»).
403 Da 392C a 395. Cfr. Figures II, pp. 50-56 [trad. it. pp. 24-29].
404 La traduzione comunemente usata di haplé diegesis è « semplice racconto», a
mio parere un po' superficiale. Haplé diegesis equivale al racconto non mischiato
(in PLATONE 397B, si dice: akraton) a elementi mimetici: dunque puro.
405 Poetica 1448a.
406 Cfr. LUBBOCK, The Craft of Fiction. Per Lubbock, «l'arte della finzione comincia
solo quando il romanziere considera la sua storia un oggetto da mostrare, da
esibire in modo tale che esso si racconti da solo».
407 WAYNE c. BOOTH, The Rhetoric of Fiction, University of Chicago Press, 1961.
Osserviamo che, paradossalmente, Booth appartiene alla scuola neoaristotelica
dei «Chicago critics».
408 Iliade, I, vv. 33-36, trad. di Rosa Calzacchi Onesti, Einaudi, Torino 1963.
409 Repubblica, a cura di Francesco Adorno, Utet, Torino 1953.
410 «Communications», 11, pp. 84-89.
411 p. 118.
412 Point of View in Fiction, in «PMLA», 1955, ripreso in STEVICK, The Theory of the
Novel, p. 113. La pretesa debolezza del racconto autobiografico è descritta con
maggior precisione da A. A. Mendilow: «Contrariamente a quel che si potrebbe
credere, il romanzo in prima persona arriva raramente a dare l'illusione della
presenza e dell'immediatezza. Invece di facilitare l'identificazione del lettore col
protagonista, tende ad apparire lontano nel tempo. L'essenza di un romanzo del
genere è di essere retrospettivo, di stabilire una distanza temporale riconosciuta
fra il tempo della storia (quello dei fatti che si sono realizzati) e il tempo reale del
narratore, il momento cioè in cui quest'ultimo racconta tali avvenimenti: Esiste
una differenza capitale, fra un racconto che parte dal passato per procedere in
avanti, come nel romanzo in terza persona, e un racconto che parte dal presente
e si dirige indietro, verso il passato, come nel romanzo in prima persona. Nel
primo, abbiamo l'illusione che l'azione si stia svolgendo; nel secondo, l'azione
viene captata come già avvenuta» (Time and the Novel, London 1952, pp. 106-7).
413 I, vv. 26-32.
414 393e.
415 Garnier, p. 301. Analogamente, Mathilde, impegnata a disegnare sul suo album,
«gridò con trasporto...» (p. 355). Julien si spinge fino al «riflettere» con accento
guascone: «Qui ci scapita l'onore (honur), si disse» (p. 333).
416 «Ha detto: Salutateli tanto tanto» (I, p. 697). Il paradosso qui è dato dal fatto che
la traduzione si spaccia per una citazione letterale, accentuata da un'imitazione
della voce. Ma se Françoise si fosse accontentata di un «Mi ha detto di salutarvi
tanto», sarebbe rimasta nella norma del discorso indiretto.
417 Le style indirect libre, Paris 1926, pp. 57 sgg.
418 Misto di diegesi e mimesi in senso platonico.
419 Riferita da Valéry Larbaud, prefazione nell'edizione 10/18, p. 8. Questa
conversazione si verificò nel 1920 o poco dopo. Ricordiamo che il romanzo è
del 1887.
420 Lo stesso Dujardin insiste su un criterio stilistico costituito, a suo parere, dal
carattere necessariamente informe del monologo interiore: «discorso senza
ascoltatore e non pronunciato, mediante il quale un personaggio esprime il suo
pensiero più recondito, più vicino all'inconscio, prisma di qualsiasi
organizzazione logica, cioè in forma embrionale, con frasi dirette ridotte al
minimo sotto l'aspetto sintattico, in modo di dare l'impressione del casuale» (Le
monologue intérieur, Paris 1931, p. 59). Il legame fra il carattere intimo del
pensiero e la sua mancanza di logica e di articolazione è in questo caso,
ovviamente, un pregiudizio legato all'epoca. Il monologo di Molly Bloom
risponde abbastanza a una descrizione simile, ma quelli dei personaggi di
Beckett sono, al contrario, iperlogici e raziocinanti.
421 Cfr. a questo proposito L. E. BOWLING, What is the stream of consciousness technique?,
in «PMLA», 1950; R. HUMPHREY, Stream of Consciousness in the modern Novel, Berkeley
19.54; MELVIN FRIEDMAN, Stream of Consciousness: a Study in literary Method, New
Haven 1955.
422 I, pp. 298-300.
423 I, pp. 300-1; monologo che, d'altronde, è pseudoiterativo.
424 III, pp. 421-22.
425 I, pp. 286-87 (il corsivo è nostro).
426 III, pp. 890-91 (il corsivo è nostro).
427 Per questo argomento, cfr. MICHEL RAIMOND, La crise du roman, Paris 1966, pp.
277-82, che esamina l'opinione espressa nel 1925 da Robert Kemp su un Proust
che pratica il monologo interiore e conclude, come Dujardin, negativamente:
«Tali prospettive sembrano a volte condurlo sulle frontiere del monologo
interiore, ma egli non le supera mai, e per lo più se ne allontana».
428 I, pp. 43-46.
429 Temporal patterns, p. 37.
430 III, p. 84.
431 II, p. 762.
432 Come in quello di Swann, I, pp. 378-81.
433 I, p. 3 (il corsivo è nostro).
434 Quello dei menus di Françoise, I, p. 71: «Una sogliola, perché la pescivendola
gliene aveva garantito la freschezza; un tacchino, perché ne aveva visto uno bello
al mercato di Roussainville-le-Pin, ecc. » dove il carattere citazionale non è molto
sottolineato, salvo in «del castrato arrosto, perché l'aria aperta fa un vuoto e per
le sette c'era bene il tempo di mandarlo giù» (Lips, p. 46), e anche questo, più
evidente a causa dell'interiezione: «salivamo in fretta dalla zia Léonie per
rassicurarla e mostrarle che, diversamente da quanto ella già immaginava, non ci
era capitato niente, ma che eravamo andati "dalla parte di Guermantes"; e,
diamine, quando facevamo quella passeggiata, la zia lo sapeva bene che non si
poteva mai esser sicuri dell'ora del ritorno» (I, p. 133; Lips, p. 99). Eccone un
altro, la cui fonte del discorso (ancora Fran^oise) si segnala in maniera crescente:
«Era tutta sossopra perché era scoppiata una scena terribile fra quel tal servitore
e il portiere spione. La duchessa, nella sua bontà, aveva dovuto intervenire,
ristabilire una sorta di pace e perdonare al servitore: perché lei era buona, e in
casa sua sarebbe stato "l'ideale", se non avesse dato retta alle "storie"» (II, p.
307). Vediamo che Proust non osa assumere senza virgolette il lessico della
donna di servizio: segno di gran timidezza nell'uso dello stile indiretto libero.
435 Contre Sainte-Beuve, p. 272.
436 GAÉTAN PICON, Malraux par lui-méme, Paris 1953, p. 40.
437 Figures II, pp. 223-94 [trad. it. pp. 1.57-224]. Cfr. TADIÉ, Proust et le roman, cap. vi.
438 Se non altro da Malraux, che non ha trascurato di dare dei tics di linguaggio ad
alcuni dei suoi protagonisti (elisioni di Katow, « caro mio » di Clappique, «Nong»
di Chen, «concretamente» di Pradas, mania delle definizioni in Garcia, ecc.).
439 Ciò non significa che l'idioletto sia in questi casi sprovvisto di ogni valore tipico:
Brichot parla da professore della Sorbona, Norpois da diplomatico.
440 I, p. 68
441 Stendhal et les problèmes du roman, Paris 1954, II parte. Per una bibliografia teorica
dell'argomento, cfr. F. VAN ROSSUM, Point de vue ou perspective narrative, in «Poétique»,
n. 4. Con un'angolazione storica, R. STANG, The Theory of the Novel in England
1850-1870, cap. III; e RAIMOND, La crise du roman, IV parte.
442 Understanding Fiction, New York 1943.
443 Die typischen Erzählsituationen in Roman, Wien-Stuttgart 1955.
444 Point of View in fiction.
445 Distance and Point of view, in Essays in Criticism, 1961, trad. franc., in
«Poétique», n. 4.
446 Studies in the narrative Technique of the First-person Novel, Lund 1962.
447 J. POUILLON, TEMPS ET ROMAN, PARIS 1946; TODOROV, LES CATÉGORIES DU RÉCIT
LITTÉRAIRE.
448 Già utilizzata in Figures II, p. 191 [trad. it. p. 154], a proposito del racconto
stendhaliano.
449 Si può accostare tale tripartizione alla classificazione a quattro termini proposta
da Boris Uspenskij (Poetika Kompozicij, Moskva 1970) per il «livello psicologico»
della sua teoria generale del «punto di vista» (vedi la «messa a punto» e i
documenti presentati da T. Todorov in «Poétique», n. 9. febbraio 1972). Uspenskij
distingue, all'interno del racconto con punto di vista, due tipi diversi, a seconda
che il punto di vista sia costante (fisso su un'unico personaggio) oppure no: si
tratta di quella che propongo di chiamare focalizzazione interna fissa o variabile,
ma, a mio parere, sono soltanto sottoclassi.
450 Cfr. sull'argomento LUBBOCK, The Craft of Fiction, cap. vi, e JEAN ROUSSET, Madame
Bovary ou le Livre sur rien, in Forme et Signification, Paris 1962 [trad. it. Forma e
Significato, Torino 1976].
451 Cfr. ROUSSET, Le Roman par lettres, in Forme et Signification, p. 86.
452 Cfr. RAIMOND, La crise du roman, pp. 313-14. Proust si è interessato a questo libro:
cfr. TADIÉ, Proust et le roman, p. 52.
453 La crise du roman, p. 300.
454 p. 150.
455 Cfr. R. DEBRAY, Du mode narratif dans les «Trots Contes», in «Littérature», maggio
1971.
456 La posizione di Balzac è più complessa. Spesso vi è la tentazione di vedere nel
racconto balzachiano il tipo stesso del racconto con narratore onnisciente, ma
vuol dire trascurare la parte della focalizzazione esterna, che ho appena
menzionato come procedimento d'apertura; e anche situazioni più sottili, come
nelle prime pagine di Une doublé famille, dove il racconto si focalizza ora su
Camille e sulla madre, ora sul signor di Gran- ville - e ognuna di tali
focalizzazioni interne serve a isolare l'altro personaggio (o gruppo) nella sua
misteriosa esteriorità: rincorrersi di curiosità che possono solo ravvivare quella
del lettore.
457 Chartreuse, Garnier, p. 38.
458 Temps et Roman, p. 79.
459 Oppure, al cinema, The Lady in the Lake di Robert Montgomery, dove la
macchina da presa sostituisce il protagonista.
460 Introduction à l'analyse structurale des récits, in «Communications», 8, p. 20.
461 Proust mette in risalto questa frase del Lys dans la vallèe, dicendo giustamente
che essa se la cava come può: «Discesi nella prateria per andare a rivedere l'Indre
con le sue isole, la valle e i suoi versanti, di cui sembrai un appassionato
ammiratore» (Contre Sainte-Beuve, Pleiade, pp. 270-71).
462 I, p. 751
463 Aspects of the Novel, London 1927.
464 M. Francois Mauriac et la liberté (1939), in Situations, I.
465 p. 100.
466 Cfr. Figures II, pp. 183-83 [trad. it. pp. 146-48].
467 Temps et Roman, p. 90.
468 Altra parallissi caratterizzata, in Michel Strogoff : a partire dal vi capitolo della II
parte, Jules Verne ci nasconde quel che l'eroe sa benissimo, e cioè che non è
stato affatto accecato dalla sciabola incandescente di Ogareff.
469 Garnier, p. 10.
470 Traduzione nostra.
471 Studies in the narrative Technique, p. 119.
472 Oppure (come vedremo nel seguente capitolo) di un personaggio-testimone sul
tipo di Watson.
473 Tale distinzione, beninteso, è pertinente esclusivamente al racconto
autobiografico di forma classica, dove la narrazione è abbastanza posteriore agli
avvenimenti perché l'informazione del narratore differisca notevolmente da
quella del protagonista. Quando la narrazione è contemporanea alla storia
(monologo interiore, diario, corrispondenza) la focalizzazione interna sul
narratore si riconduce a una focalizzazione sul protagonista. J. Rousset lo
dimostra chiaramente per il romanzo epistolare (Forme et Signification, p. 70).
Torneremo sull'argomento nel capitolo seguente.
474 Sappiamo che egli s'interessava alla tecnica jamesiana del punto di vista, e
specialmente in Maisie (W. BERRY, Hommage à Marcel Proust, in « NRF », p. 73).
475 7 febbraio 1914, Choix Kolb, pp. 197-99.
476 Sull'ignoranza di Marcel riguardo ad Albertine, cfr. TADIÉ, Proust et le roman, pp.
40-42.
477 I, pp. 940-41.
478 I, p. 498. Cfr. una scena analoga con Norpois, I, pp. 478-79.
479 Zum Stil Marcel Proust, in Stilstudien (1928), Etudes de style, Paris 1970. pp. 453-55.
480 Voix narratives, p. 129.
481 II, p. 653.
482 «Egli non rispose, fosse stupore per le mie parole, attenzione al suo lavoro,
obbedienza all'etichetta, durezza d'udito, rispetto del luogo, timore del pericolo,
pigrizia di mente o consegna del direttore» (I, p. 665).
483 p. 128.
484 pp. 135-38.
485 Sul «prospettivismo» della descrizione proustiana, cfr. M. RAIMOND, La crise du
roman, pp. 338-43.
486 I, pp. 272-73.
487 I, pp. 159-63.
488 II, pp. 609-10.
489 III, p. 815.
490 A cominciare dallo stesso Proust, evidentemente preoccupato, in questo caso, di
prevenire la critica (e di sviare i sospetti): « Infatti, le cose di questo genere a cui
assistetti ebbero sempre, nella loro cornice, il carattere più inverosimile e
imprudente, come se tali rivelazioni non dovessero essere che la ricompensa
d'un atto pieno di rischi, benché parzialmente clandestino» (II, p. 608).
491 I, p. 193; II, pp. 475, 579, 1009; III, pp. 182, 326, 864, ecc. Il caso delle
informazioni sul tipo mi avevano raccontato che... (come per Un amour de Swann) è
diverso: si tratta di un modo della conoscenza (per sentito dire) del protagonista.
492 È quanto ha giustamente osservato M. MULLER: «lasciamo ovviamente da parte il
caso, molto frequente, in cui il Narratore anticipa quanto, in quel punto, è
ancora l'avvenire del protagonista, attingendo a quanto è invece il suo passato di
Narratore. Non si tratta affatto, in casi simili, dell'onniscienza del Romanziere»
(p. 110).
493 Ad eccezione di una frase (p. 163) focalizzata sulla sua amica e con la riserva di
un «senz'altro» e di un «forse» (p. 161 e p. 162)
494 B. G. RODGERS, Proust's Narrative Techniques, p. 108, parla di questa « doppia
visione» a proposito della concorrenza fra il protagonista «soggettivo» e il
narratore «oggettivo».
495 Sugli aspetti tecnici e psicologici della scena, vedi l'eccellente commento di
Muller, pp. 148-53, che, in particolare, mostra benissimo come la madre e la
nonna del protagonista si trovino indirettamente ma strettamente implicate in
questo atto di « sadismo » filiale i cui echi personali sono immensi in Proust, e
necessariamente accostabili, è chiaro, alla Confession d'une jeune fille nei Plaisirs et les
Jours, e ai Sentiments filiaux d'un parricide.
496 Sappiamo (PAINTER, II, pp. 422-23) che razza di fiasco fu l'incontro organizzato
nel 1922 fra Proust e Stravinsky (e Joyce). D'altra parte, potremmo anche
avvicinare senza fatica la pratica narrativa proustiana alle visioni molteplici e
sovrapposte sintetizzate, sempre nella medesima epoca, dalla rappresentazione
cubista. Le righe della prefazione ai Propos d'un peintre si riferiscono forse a un
ritratto del genere: «il meraviglioso Picasso, che ha precisamente concentrato
tutti i lineamenti di Cocteau in un'immagine d'una rigidezza tanto nobile» (Contre
Sainte-Beuve, Pleiade, p. 580)?
497 Sull'argomento, cfr. Figures II, pp. 61-69 [trad. it. pp. 34-41].
498 Problèmes de linguistique générale, Paris 1966, pp. 258-66.
499 Confronta TODOROV, in «Communications», n. 8, pp. 146-47.
500 Sulle Mille e una notte, cfr. TODOROV, Les hommes-récits, in Poétique de la prose, Paris
1971: «Il record (d'incastro narrativo) sembra tenuto dall'esempio offerto dalla
storia del baule sanguinante. Infatti in esso Sherazade racconta che il sarto
racconta che un barbiere racconta che suo fratello racconta che... L'ultima storia
è una storia di quinto grado» (p. 83). Ma il termine incastro non rende giustizia
al fatto, precisamente, che ognuna di tali storie si trova a un « grado » superiore a
quello della precedente, dato che il suo narratore è un personaggio di
quest'ultima; poiché possiamo «incastrare» anche dei racconti dello stesso livello,
mediante semplice digressione, senza cambiamenti d'istanza narrativa: vedi le
parentesi di Jacques nel Fataliste.
501 Chiamerò così il destinatario del racconto, sul modello dell'opposizione
proposta da A. J. GREIMAS fra destinatore e destinatario (Sémantique strutturale, Paris
1966, p. 177).
502 Certi usi del presente connotano chiaramente l'indeterminazione temporale (e la
non-simultaneità fra storia e narrazione), ma sembrano curiosamente riservati a
forme particolarissime di racconto («storie amene», indovinelli, problemi o
esperimenti scientifici, riassunto di trama) e senza importante investimento
letterario. Il caso del «presente narrativo» con valore di preterito è ancora
diverso.
503 Potrebbe esserlo, ma per ragioni non esattamente d'ordine spaziale: che un
racconto in prima persona sia prodotto in prigione, su un letto d'ospedale o in
una clinica psichiatrica, può costituire un elemento decisivo di preannuncio o
d'agnizione.
504 Derivo il termine da TODOROV, Grammaire du Décaméron, s' Gravenhage 1969, p.
48, per designare qualsiasi tipo di racconto dove la narrazione precede la storia.
505 Il reportage radiofonico o televisivo è evidentemente la forma più immediata di
questo tipo di racconto, dove la narrazione segue l'azione così da essere
considerata in pratica come simultanea, e ne deriva l'uso del presente. Troviamo
una curiosa utilizzazione letteraria del racconto simultaneo nel xxix capitolo di
Ivanhoe, dove Rebecca racconta a Ivanhoe ferito la battaglia che avviene ai piedi
del castello, da lei seguita attraverso la finestra.
506 Sulla tipologia dei romanzi epistolari a seconda del numero dei corrispondenti,
cfr. JEAN ROUSSET, Une forme littéraire: le roman par lettres, in Forme et Signification, e
ROMBERG, Studies in the narrative technique, pp. 51 sgg.
507 Così, nelle Liaisons dangereuses, quando la signora di Volanges scopre nel
secretaire della figlia le lettere di Danceny; scoperta le cui conseguenze sono
descritte a Danceny nella lettera 62, tipicamente «performativa». Cfr. TODOROV,
Littérature et Signification, pp. 44-46.
508 Cfr. B. T. FITCH, Narrateur et Narraticin dans « L'Etranger » d'Albert Camus, Paris
(1960), 1968, in particolare pp. 12-26.
509 Ma esistono anche forme differite della narrazione diaristica: è il caso del
«primo quaderno» della Symphonie Pastorale, o del complesso contrappunto
dell'Emploi du temps.
510 Lettera 97.
511 Paragonatela alla lettera 48, scritta da Valmont alla Tourvel, nel letto di Emilie,
«in collegamento diretto» e, se ci è permesso, in piena azione.
512 Tutti scritti al presente, se si esclude Le Voyeur, il cui sistema temporale, come
sappiamo, è più complesso.
513 Illustrazione ancora più sorprendente, La Jalousie, che può esser letta, ad
libitum, sul modo oggettivistico in assenza di qualsiasi geloso, o invece come
puro monologo interiore di un marito in atto di spiare la moglie e
d'immaginarne le avventure. Sappiamo che tale opera, pubblicata nel 1939, ha
segnato una sorta di cerniera.
514 Cfr. Figures II, pp. 210-11.
515 Escluso il passato prossimo, che in francese connota una relativa prossimità: « Il
perfetto stabilisce un legame vivente fra l'evento passato e il presente, dove trova
posto la sua evocazione. È il tempo di chi riferisce i fatti come testimone, come
partecipante; è perciò il tempo destinato anche ad esser scelto da chiunque
voglia far riecheggiare fino a noi il fatto riferito e ricollegarlo al nostro presente»
(BENVENISTE, Problèmes, p. 244). Sappiamo fino a che punto l'Etranger sia debitore
all'uso di tale tempo.
516 Kate Hamburger (Die Logik der Dichtung, Stuttgart 1957) si è spinta fino a
denegare al «preterito epico» qualsiasi valore temporale. In una simile posizione
estremistica e contestatissima si trova una certa dose di verità iperbolica.
517 Stendhal invece ama datare, come si sa, e più esattamente antidatare, per motivi
di prudenza politica, l'istanza narrativa dei suoi romanzi: Le Rouge (scritto nel
1829-30) viene datato 1827, La Chartreuse (scritta nel 1839) viene datata 1830.
518 «Nella parte occidentale dell'Inghilterra chiamata contea di Somer- set, viveva
un tempo, e forse vive ancora, un gentiluomo di nome All- worthy... »
519 «La signora Vauquer, nata Conflans, è un'anziana signora che, da quarantanni,
tiene a Parigi una pensione borghese...»
520 « Il suo viso è bianco, riposato e calmo, la sua voce è dolce e raccolta, le sue
maniere sono semplici, ecc.».
521 «(Il signor Homais) si fa una clientela enorme; le autorità gli usano riguardi e
l'opinione pubblica lo protegge. È stato da poco insignito della Legion
d'Onore». Ricordiamo che le prime pagine («Stavamo nell'aula di studio, ecc.»)
indicano già come il narratore sia contemporaneo, e addirittura compagno di
studi, del protagonista.
522 Il picaresco spagnolo sembra costituire una notevole eccezione a questa
«regola»; almeno Lazarillo, che termina in sospeso («Era il tempo della mia
prosperità, e mi trovavo al culmine di ogni buona sorte»). Guzman e il Buscon
fanno altrettanto, promettendo tuttavia « un seguito e una fine » che non
verranno mai.
523 Oppure la fine di Gil Blas, resa su un modo più ironico: «Sono passati tre anni
da tali avvenimenti, amico lettore, e io trascorro una vita deliziosa con persone
tanto care. Per colmo di soddisfazione, al cielo è piaciuto accordarmi due figli, la
cui educazione diventerà per me il divertimento dei miei vecchi giorni, e dei
quali devotamente credo di essere il padre».
524 Libro IV, cap. 13.
525 Le indicazioni temporali sul genere «abbiamo già detto», «vedremo più tardi»,
ecc., non fanno in realtà riferimento alla temporalità della narrazione, ma allo
spazio del testo abbiamo detto un po' sopra, vedremo un po' oltre...) e alla
temporalità di lettura.
526 MULLER, p. 45; G. BRÉE, Du temps perdu au temps retrouvé, Paris 1969,pp. 38-40.
527 p. 46.
528 p. 247.
529 III, p. 1043.
530 p. 140.
531 Episodio che avviene (p. 951) «a meno di tre anni» - dunque a più di due anni -
di distanza dalla «matinée» Guermantes.
532 In particolare Louis-Martin Chauffier: «Come nelle memorie, chi tiene la penna
e chi vediamo vivere, distinti nel tempo, tendono a raggiungersi; tendono verso
il giorno in cui il progredire del protagonista in azione perviene al tavolo dove il
narratore, ormai senza intervallo e senza memoria, lo invita a sedersi vicino a lui
per scrivere insieme la parola: Fine» (Proust ou le doublé Je de quatre personnes, in
«Confluences», 1943, citato in BERSANI, Les critiques de notre temps et Proust, Paris
1971, p. .56).
533 pp. 49-50- Ricordiamo però come certe anticipazioni (per esempio, l'ultimo
incontro con Odette) coprano una parte di questa «era».
534 Forme et Signification, p. 144.
535 Termini già proposti in Figures II, p. 202. Il prefisso meta- connota
evidentemente, nel caso presente, come in «metalinguaggio», il passaggio al
grado secondario: il metaracconto è un racconto nel racconto, la meta- , diegesi
è l'universo di tale racconto, proprio come la diegesi designa (secondo un uso
attualmente diffuso) l'universo del racconto primo. Dobbiamo tuttavia
ammettere che il termine funziona inversamente al suo modello linguistico: il
metalinguaggio è un linguaggio in cui si parla di un altro linguaggio, il
metaracconto dovrebbe essere il racconto primo al cui interno se ne racconta un
secondo. Ma è risultato più opportuno, a mio giudizio, riservare al primo grado
la designazione più semplice e più corrente, e quindi ribaltare la prospettiva
d'incastro. L'eventuale terzo grado, beninteso, sarà un metametaracconto, con la
sua metametadiegesi, ecc.
536 Lo stesso personaggio, d'altronde, può assumere due funzioni narrative
identiche (parallele) a livelli diversi: così, in Sarrasine, il narratore extradiegetico
diventa a sua volta narratore intradiegetico quando narra alla sua compagna la
storia della Zambinella. Egli dunque ci narra che narra questa storia, di cui
oltretutto non è neppure il protagonista: situazione esattamente inversa a quella
(molto più usuale) di Manon, dove il narratore primo diventa a livello secondo
l'ascoltatore di un altro personaggio che narra la sua storia. La situazione di
doppio narratore, a quanto ne so, si trova esclusivamente in Sarrasine.
537 Cfr. l'Avis de l'Auteur pubblicato all'inizio di Manon Lescaut.
538 Sussiste però una sensibile differenza fra tali «monodie epistolari», come dice
Rousset, e un diario intimo: cioè, l'esistenza di un destinatario (anche se muto), e
le sue tracce nel testo.
539 Abbiamo quindi, in tal caso, un'analessi metadiegetica; evidentemente, questo
non vale per tutte le analessi. Così, nella stessa Sylvie, la retrospezione dei capitoli
v e vi viene assunta dallo stesso narratore, e non procurata dalla memoria del
protagonista: «Mentre la carrozza sale i pendii, ricostruiamo i ricordi del tempo
in cui vi venivo tanto spesso». L'analessi è qui puramente diegetica - o, se
preferiamo sottolineare più chiaramente l'uguale livello narrativo, isodiegetica. (Il
commento di Proust è nel Contre Sainte-Beuve, Plèiade, p. 235, e nella Recherche,
III, p. 919).
540 Ab urbe condita libri, II, cap. xxxii.
541 Continuidad de los Parques, in Final del juego.
542 FONTANIER, Commentaire des Tropes, p. 116. Moyse sauvé ispira a Boileau (Art poétique,
I, vv. 25-26, questa metalessi senza indulgenza: Et (Saint-Amant) poursuivant
Moïse au travers des déserts | Court avec Pharaon se noyer dans les mers [E (Saint-Amant)
inseguendo Mosè attraverso i deserti I corre ad annegarsi in mare con Faraone].
543 Garnier, pp. 495 e 497
544 Metalessi qui fa sistema con prolessi, analessi, sillessi e par allessi, col significato
specifico di: «prendere (narrare) cambiando livello».
545 II, pp. 742, 1076; III, p. 216. O anche, II, p. 1011: «Per ora diciamo
semplicemente - mentre Albertine mi aspetta... »
546 III, cap. 38 e IV, cap. 2.
547 Devo la lontana rivelazione del gioco metalettico a questo lapsus, forse
volontario, di un professore di storia: «Studieremo ora il Secondo Impero dal
colpo di stato fino alle vacanze di Pasqua».
548 Altre inquisizioni.
549 143c.
550 Come lo sfocamento, la ripresa al rallentatore, la voce fuori campo, il passaggio
dal colore al bianco e nero o il contrario, ecc. D'altra parte si sarebbero potute
stabilire regole analoghe anche in letteratura (corsivo, grassetto, ecc.).
551 III, p.251.
552 «La vocazione segreta di cui quest'opera è la storia» (II, p. 397); «Le proporzioni
di quest'opera...» (II, p. 642); «questo libro dove non c'è un solo fatto che non sia
fittizio... » (III, p. 846).
553 «Crediamo che il signor di Charlus...» (II, p. 1010).
554 «Preveniamo il lettore... » (III, p. 40); «Prima di far ritorno alla bottega di Jupien,
all'autore preme dichiarare che sarebbe ben triste se il lettore si
adombrasse...»(III, p. 46).
555 II, pp. 651-52.
556 II, pp. 703-12.
557 III, pp. 315-16, 524-23.
558 III, pp. 709-17.
559 III, p. 737.
560 III, pp. 756-62.
561 I, pp. 467-71; II, pp. 257-63; III, pp. 182-88, 374-82, 995-98.
562 « Io mi sono spesso fatto raccontare molti anni dopo, quando cominciai a
interessarmi al suo carattere a causa delle somiglianze che per tanti altri aspetti
esso offriva col mio...» (p. 193); «Egli non aveva, come io ebbi a Combray nella
mia infanzia...» (p. 295); «come dovevo esserlo io stesso» (p. 297); «Mio nonno»
(p. 194, p. 310); «mio zio» (pp. 311- 312), ecc.
563 In Jean Santeuil, i due personaggi sembrano confusi; e anche in certi abbozzi dei
Cahiers. Cfr. per esempio MAUROIS, À la recherche de Marcel Proust, p. 153.
564 Se non si vuol contare come tale l'esistenza stessa di Gilberte, « frutto» di
quest'amore.
565 II, p. 804.
566 Il termine è usato qui in mancanza di un altro più neutro, o più estensivo, che
non connoterebbe a sproposito, come «personaggio», la qualità di essere
«umano» dell'agente narrativo, mentre nulla impedisce nella finzione di affidare
tale ruolo a un animale (Mémoires d'un âne), oppure a un oggetto «inanimato»
(non so se si devono mettere in quest'ultima categoria i successivi narratori dei
Bijoux indiscrets...)
567 II racconto con narratore testimone collettivo costituisce una variante di
questo tipo: l'equipaggio del Nigger of the Narcissus, gli abitanti della cittadina in
A Rose for Emily. Ricordiamo le prime pagine di Bovary, scritte su un modo simile.
568 Divan, 1948, p. 43. Il caso opposto, apparizione brusca di un io auto- diegetico
in un racconto eterodiegetico, sembra più rara. I «credo» sten- dhaliani (Leuwen,
p. 117, Chartreuse, p. 67) possono rimanere attributi del narratore in quanto tale.
569 Skira, pp. 73-77.
570 Plèiade, p. 319.
571 Cfr., per esempio, JEAN BAUDRY, Personnes, Seuil, Paris 1967.
572 Finzioni, Einaudi, Torino 1967, pp. 107-12.
573 Du temps perdu au temps retrouvé, p. 27.
574 Cfr. TADIÉ, Proust et le roman, pp. 20-23.
575 Il famoso «soggettivismo» proustiano è soltanto un'assicurazione sulla
soggettività. E Proust in persona non poteva far a meno di irritarsi delle
conclusioni troppo facili che venivano tratte dalla sua scelta narrativa: «Siccome
ho avuto la disgrazia di cominciare il mio libro con un "io", e non potrò più
cambiare, allora sono soggettivo in aeternum. Se avessi invece cominciato
"Roger Mauclair abitava in un villino", sarei stato classificato "oggettivo"» (a J.
Boulanger, 30 novembre 1921, Correspondance générale, III, 278).
576 Su tale controversa questione, cfr. M. SUZUKI, Le «je» proustien, in «BSAMP», n. 9
(1959), H. WATERS, The Narrator, not Marcel, in «French Review», febbraio 1960 e
MÜLLER, Erzählzeit und Erzählte Zeit, pp. 12 e 164-63. Sappiamo che le due sole
circostanze in cui troviamo il nome, nella Recherche, sono tardive (III, pp. 73 e
137), e che la prima non va senza qualche riserva. Ma, a mio parere, non è
sufficiente a farla respingere. Se dovessimo contestare tutto quel che è stato
detto una volta sola... D'altra parte chiamare Marcel il protagonista, non significa
affatto, evidentemente, identificarlo con Proust; ma tale coincidenza parziale e
fragile è eminentemente simbolica.
577 Pleiade, p. 401.
578 Proust's narrative Techniques, pp. 120-41.
579 Si tratta dell'autobiografia classica, con narrazione ulteriore, e non del
monologo interiore al presente.
580 I, pp. 855-56 e 933-34.
581 Costituite, per la maggior parte, da momenti di meditazione estetica, a
proposito di Elstir (II, pp. 419-22), di Wagner (III, pp. 158-62), o di Vinteuil (III,
pp. 252-58), dove il protagonista presente quel che gli verrà confermato dalla
rivelazione finale. Gomorrhe I, che in un certo senso costituisce una prima scena
di rivelazione, presenta a sua volta dei caratteri di coincidenza dei discorsi, ma il
narratore si preoccupa, almeno una volta, di correggere un errore del
protagonista (II, pp. 630-31). Eccezione inversa, le ultime pagine di Swann, dove
è il narratore a fingere di condividere il punto di vista del personaggio.
582 III, pp. 869-99.
583 Essais de linguistique generale, pp. 213-20.
584 R. BARTHES, Le discours de l'histoire, in «Information sur les sciences sociales», agosto
1967, p. 66.
585 Regiebemerkungen, in Stendhal et les problèmes du roman, p. 222.
586 Proust's narrative Techniques, p. 55.
587 «Scrivendo questo sento che il mio polso torna ad accelerare le pulsazioni;
questi momenti mi saranno sempre presenti, anche se vivessi mille anni»
(ROUSSEAU, Confessions, Pleiade). Ma la testimonianza del narratore può basarsi
anche su avvenimenti contemporanei all'atto di narrazione, e senza rapporto con
la storia da lui narrata: vedi le pagine del Doktor Faustus sulla guerra che infuria
mentre Zeitblom redige le sue memorie su Leverkühn.
588 Essa non coincide esattamente con quella dell'autore: i giudizi di des Grieux
non impegnano a priori l'abate Prévost e quelli del narratore fittizio di Leuwen o
della Chartreuse non impegnano affatto Henry Beyle.
589 «Per evitare di dare al nostro racconto un'estensione che potrebbe stancare il
lettore, lo preghiamo di figurarsi che sia trascorsa una settimana dalla scena che
termina il precedente capitolo e gli avvenimenti, per riferire i quali noi ci
proponiamo di riprendere in questo il filo della storia»: « Il corso della nostra
narrazione si ferma un minuto apposta per darci il tempo di risalire alle cause le
cui conseguenze avevano portato con sé la singolare avventura di cui abbiamo
appena fatto il resoconto. Non daremo a questa digressione...» (La prateria, capp.
VII, xv).
590 «Il precedente capitolo era gonfio oltre misura, faccio bene a iniziarne un
altro...»; «Il capitolo che si è appena chiuso ora, a sua volta, a mio parere è
troppo gonfio...»; «Non guardo indietro e mi proibisco di contare il numero dei
fogli accumulati fra i numeri romani precedenti e quelli che ho appena finito di
tracciare...» (Doktor Faustus, capp. IV, V, IX).
591 Non a Swann, neppure per quel che riguarda la sonata: «Era la felicità, quella
che la piccola frase di Vinteuil aveva proposto a Swann, il quale aveva avuto
torto di confonderla col piacere amoroso e non aveva saputo trovarla nella
creazione artistica...» (III, p. 877).
592 II, p. 54 9.
593 «Donde, per lo scrittore, la grossolana tentazione di scrivere opere
intellettualistiche. Grave mancanza di finezza. Un'opera che contenga teorie è come
un oggetto su cui ti sia lasciato il cartellino del prezzo» (III. p. 882). Il lettore della
Recherche non sa forse quel che gli costa?
594 Un caso particolare è rappresentato dall'opera letteraria metadiegetica, sul tipo
del Geloso impertinente o di Jean Santeuil, che può eventualmente mirare a un
lettore, ma un lettore, in linea di massima, a sua volta fittizio.
595 «Finalmente trovo un lettore che intuisce il mio libro come opera dogmatica e
come costruzione! » (Choix Kolb, p. 197).
596 III, p. 911.
597 TADIÉ, Proust et le roman, p. 14.
598 p. 10.
599 Jean Santeuil, Pleiade, p. 314.

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