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SUL RICONOSCIMENTO DELLA PSICANALISI

Giancarlo Ricci

Ad un paragrafo del saggio “L’inconscio”, nella Metapsicologia


(1915), Freud pone il titolo “Riconoscimento dell’inconscio”, in
tedesco Die Agnoszierung des Unbewussten. Agnoszierung è un termine
inconsueto nel testo freudiano. Un anno prima, nel saggio Falso
riconoscimento (Über Fausse Reconnaissance , 1914), utilizza la parola
francese reconnaissance. Altre volte, negli scritti successivi alla seconda
topica, Freud usa Anerkennung., termine che viene articolato e posto in
connessione con il funzionamento del diniego, con il disconoscimento
della castrazione, con la struttura della sconfessione e della scissione
dell’Io. L’accento è posto sulla paradossale coesistenza tra
riconoscimento e disconoscimento (Verleugnung ) nel caso della
perversione. Successivamente tale coesistenza è posta come una
caratteristica strutturale dell’Io e della sua Spaltung. La cosa, in realtà,
è più complessa in quanto, al di là del caso del feticismo e più in
generale della perversione, rimane da valutare nella clinica il livello
patologico del funzionamento del disconoscimento (misconoscimento,
sconfessione, rinnegamento).
Consideriamo per ora quella particolare forma di riconoscimento
che è l’Agnoszierung. La sua traduzione esatta sarebbe agnizione: é il
termine con cui Aristotele, nella Poetica, parlando della tragedia,
designa il riconoscimento improvviso e inatteso di un personaggio o di
una situazione. Indica, nello svolgimento della trama, il repentino
passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza, provocando un
radicale cambiamento dell’azione scenica. L’agnizione, secondo
Aristotele, è ciò che consente nel suo svolgimento la soluzione della
tragedia.
E’ interessante situare l’agnizione come un processo, come un
movimento temporale le cui premesse antecedono l’istante in cui essa
irrompe, istante che scaturisce come se si trattasse di un tempo per
concludere. Il silenzioso processo di questo movimento è quasi il
contrario della “svista” (Lacan), riguarda il funzionamento dello
scotoma (Freud) e, per molti aspetti, si attiene alla stessa logica del
Witz dove un effetto di verità inaspettatamente irrompe nella parola.
Annuncio di un’inattesa piega degli eventi, l’agnizione produce
una svolta, apre uno squarcio nella struttura narrativa, compone una
nuova tessitura. La sua effettualità evoca quella “fabbrica di pensiero”
che Freud individua nel lavoro onirico a proposito del quale cita un

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celebre passo del Faust : “La fabbrica del pensiero è come un telaio da
tessitore: un colpo alle calcole ed ecco mille fili che si muovono, le
spole volano in qua e in là, i fili scorrono invisibili, un colpo solo forma
mille combinazioni”. Questo “colpo solo” coincide con la legge del
significante, comporta la tessitura delle parole, instaura la sintassi con
le sue infinite combinazioni. L’ascolto analitico cerca di riconoscere le
logiche della tessitura del linguaggio, le aperture, come annotava
Lacan, in cui l’inconscio parla la propria lingua. Molto dipende,
appunto, se viene riconosciuta.
L’esemplificazione più forte dell’agnizione, per Aristotele, la
troviamo quando quest’ultima è abbinata alla figura della peripezia:
evento imprevisto che produce il “mutamento improvviso da una
condizione di cose nella condizione contraria”. L’esempio riportato da
Aristotele è l’episodio dell’Edipo Re quando il messo venuto da
Corinto pensa di “annunciare cosa gradita ad Edipo”, in realtà,
rivelandogli il segreto della sua nascita, “produce l’effetto contrario”.
E’ interessante infine ricordare che il termine latino agnitio (con
la stessa radice di agnizione) aveva un’accezione giuridica per indicare
il riconoscimento di un figlio legittimo, l’agnito appunto. Anche qui il
rimando, ancora una volta, è alla questione edipica. Nello svolgimento
della tragedia di Sofocle la premessa logica che fonda la condizione del
parricidio compiuto da Edipo è il mancato (e reciproco)
riconoscimento tra padre e figlio. Laio non riconosce Edipo e
viceversa. Non si tratta di lapsus o svista. Come avrebbero potuto
riconoscersi se non si sono mai conosciuti? E non si sono mai
conosciuti in quanto, parecchi anni prima Laio, obbedendo a una
profezia, aveva rinnegato (e conseguentemente abbandonato) Edipo.
E’ curioso osservare che il percorso del figlio, la sua ricerca di verità, è
costretto a fare un doppio giro: non si tratta solo di riconoscere il
“vero” padre ma di riconoscere il rinnegamento che questi ha attuato
verso il figlio.

Ritorniamo al “riconoscimento dell’inconscio”. Usando il


termine Agnoszierung Freud ha voluto segnalare, non solo come
uomo di scienza, la complessità dell’oggetto della ricerca psicanalitica
e del lavoro clinico. “Riconoscere” l’inconscio risulta paradossale e
rimane un effetto non calcolabile, prevedibile o finalizzabile.
Si aprono parecchie considerazioni. Molto velocemente: come
possiamo riconoscere l’inconscio che, se è tale, rimane strutturalmente
inconoscibile? In realtà l’inconscio freudiano non è situabile nel
registro della conoscenza. Infatti esclude ogni specularità,
rispecchiamento, reciprocità. Conscio e inconscio non sono contrari,

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ossia simmetrici. Un altro modo per dirlo: “L’Io non è padrone in casa
propria”.
L’ambito implicato dal termine Agnoszierung è fecondo di
implicazioni: riguarda l’accostamento tra il diritto (non a caso il
riconoscimento del figlio) e la struttura della tragedia nei suoi possibili
modi di approdare alla soluzione. E la soluzione, in un’accezione non
letteraria ma clinica, è quella cui fa riferimento il saggio freudiano
Falso riconoscimento quando, al termine del percorso analitico,
“riabilitando l’evento stesso (…) accade che il paziente dica: ”Ora ho la
sensazione di averlo sempre saputo”. Freud conclude: “A questo
punto il compito dell’analisi è finito”. La questione meriterebbe altre e
ulteriori considerazioni. Tra queste accenniamo alla distinzione tra
conoscenza e sapere: l’inconscio presuppone un sapere altro, non una
conoscenza impedita o nascosta. Ossia la pratica analitica non riguarda
la massima “conosci te stesso”, anzi esattamente il contrario: è il
“conoscere” troppo bene se stesso a risultare insopportabile e a
mettere in gioco una domanda d’analisi.
Tra le numerose pieghe e implicazioni del riconoscimento come
Agnoszierung ravvediamo il tema dello straniante: riguarda l’irruzione
di qualcosa di inatteso, di insocializzabile, di non partecipabile. In
definitiva è la soggettività a trovarsi inaspettatamente in gioco. Lo
straniante irrompe lì dove non era atteso, nel punto della massima
imprevedibilità. L’oggetto stesso non si lascia riconoscere. Il
perturbante è prossimo al tema dello specchio, del sosia, del doppio:
figure dell’Altro e dell’alterità. Nel saggio Il perturbante (1919) Freud
racconta una propria esperienza: “Ero seduto, solo, nello
scompartimento del vagone letto quando, per una scossa più violenta
del treno, la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore
piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in
testa, entrò nel mio scompartimento . (…) Mi accorsi subito, con
grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa
dallo specchio”.

Ulteriori considerazioni. La psicanalisi, nell’epoca delle


psicoterapie, si lascia riconoscere? La possiamo ancora riconoscere?
Come è riconoscibile? E per quale tratto? Come esiste, come viene
praticata, come viene trasmessa? Sono interrogativi con cui si
potrebbe ripercorrere, con uno sguardo storico, le vicende geopolitiche
e culturali della pratica inventata da Freud.
Sguardo, quello storico, essenziale: non può fare a meno di
attraversare i mutamenti sociali ed epocali, e dall’altra parte di
prendere atto che spesso l’esercizio della psicanalisi utilizza ancora,

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per alcuni aspetti, modalità burocratiche e gerarchiche che


appartengono a un’epoca ormai trascorsa. L’interrogativo rimane
aperto, fin dai tempi di Freud: quale psicanalisi?
Cercando ad ogni costo di adeguarsi ai nuovi tempi, la
psicanalisi rischia di allontanarsi dalla sua impronta originaria a
favore di un tecnicismo della psiche che si specializza in differenti
ambiti. Come si configura in quest’alba del millennio l’orizzonte della
psicanalisi in Italia e in Europa? L’impressione è che ci sia un ritorno,
convalidato da circostanze istituzionali e sociali, ad una situazione
preanalitica mentre a livello culturale prevale l’idea che la civiltà si è
lasciata alle spalle la psicanalisi. O più radicalmente che la nostra
epoca si sia lasciata alle spalle la civiltà.
L’impronta originaria della psicanalisi è innanzitutto etica, ancor
prima che clinica o relativa al pragmatismo della tecnica. Su questi
argomenti il lavoro di Elisabeth Roudinesco Perché la psicanalisi?
(Editori Riuniti, 2000) rimane uno dei contributi recenti storicamente
più precisi, anche se focalizzato principalmente sulla situazione della
psicanalisi francese.
Di sicuro, in poco più di un decennio, la Legge Ossicini ha
costituito il contributo più nefasto (ma non l’unico) che ha confinato la
psicanalisi in una terra di nessuno. Pur non nominata direttamente
dalla Legge, la psicanalisi viene fatta rientrare nelle sue linee guida
giuridiche, con tutte le implicazioni sociali, istituzionali, burocratiche.
La mossa iniziale è stata quella di equipararla alla psicoterapia,
pertanto di assimilarla a una pratica medicalistica. Tra le implicazioni
c’è quella secondo cui la soggettività viene ridotta a comportamento o
a una funzionalità esente da “disturbi”.
Tutto ciò ci ha interrogato, e ancor più oggi ci interroga, sul
duplice registro lungo cui si muove il diritto. Il primo riguarda la
procedura simbolica e la coerenza di precisi dispositivi logici. La
pratica della psicanalisi, per alcuni aspetti, sfugge o comunque fa
eccezione, rispetto ad altre pratiche. Sfugge, non perché non voglia o
non possa confrontarsi con un impianto normativo, ma in quanto
l’oggetto della sua pratica, il lavoro dell’inconscio, la soggettività, gli
effetti di verità si situano strutturalmente lungo una frontiera che non
è oggettivabile. Per parodiare quello che ha contraddistinto una
stagione culturale, diciamo che la psicanalisi non è verificabile,
dimostrabile o falsificabile. E’ Altro perché l’inconscio è
strutturalmente Altro. Eppure c’è testimonianza…
Il secondo aspetto del diritto è più complesso del precedente:
riguarda quella legge simbolica che si situa originariamente al centro
dell’esistenza del soggetto. Tale legge, in un’esperienza analitica, può

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essere considerata come un lavoro sulla soggettività. Lavoro che si


svolge lungo un tortuoso percorso che cerca di ripristinare una
giustizia (dell’inconscio) che si è persa o è venuta meno. O che è stata
barattata con il miraggio di qualche tornaconto.
Queste riflessioni ci conducono direttamente alla struttura del
sintomo e al suo funzionamento. Nell’accezione freudiana, il sintomo è
tutt’altro che un disturbo: occorre saperlo ascoltare e lasciarlo operare
per ritrovarlo come risorsa, come una delle formazioni dell’inconscio
più interessanti.
“L’ostacolo – scrive Vladimir Jankélevitch - è allo stesso tempo
impedimento e strumento”. In effetti il sintomo è una formazione
dell’inconscio, non dell’Io: tutto ciò che l’Io può riconoscere del proprio
sintomo appartiene al registro della rappresentazione. Rimane
implicato il tema della memoria, della soggettività e del lavoro di
guarigione che oltrepassa l’intento terapeutico perché non si ferma a
un ripristino dello status quo ante.
Tra le finalità dell’associazione Nodi Freudiani c’è quella di far
sì che la psicanalisi possa farsi “riconoscere” nella nostra epoca:
reinventarla come esperienza di verità che si effettua nel lavoro
clinico, praticarla come gesto che promuove il lavoro di civiltà.
Riconoscere il lavoro dell’inconscio e la sua intelligenza pone l’accento
sull’identificazione dell’analista più che sulla sua identità. Significante
quest’ultimo, non a caso sempre più usurato dall’aggettivazione:
identità professionale, sociale, culturale, etnica, ecc.
La posizione dell’analista è ben più impegnativa, complessa -
“impossibile” diceva Freud - rispetto al modello professionale che si è
affermato in questi anni. E il riferimento di Nodi Freudiani alle teorie
di Freud o di Lacan costituisce non un atteggiamento dottrinario o
storicistico, quanto la punta etica con cui si è cercato di scalfire,
evocando l’originarietà e l’autenticità di un gesto fondativo, i muri
delle appartenenze e delle scolastiche.

[Intervento a "Nodi Freudiani", Milano, marzo 2004]

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