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Il folle silenzio di Michel Foucault e Franco Basaglia

Alessia Moneta, A. A. 2020/2021

§ Introduzione

Quando si tratta di follia, Michel Foucault e Franco Basaglia abitano le viscere di ogni discorso
possibile, e di ogni via di trattamento. Ognuno a modo suo. Non hanno lottato insieme, né nella teoria
né nella pratica, ma tra i due v’è una vicinanza talmente lampante ch’è difficile pensare che non si
siano mai toccati veramente, che non si siano uniti per cercare di rendere ancor più forti, se possibile,
le loro lotte. Eppure, è così. Hanno preso strade diverse; si può dire parallele. È su questa scia, del
resto, che Rovatti apre il saggio di Pierangelo Di Vittorio che tenta di pensare l’unione di questi due
uomini: Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base. Scrive: <<sappiamo, magari in modo
vago, che la Storia della follia di Foucault e la pratica anti-istituzionale di Basaglia […] si incontrano in
qualche parte, ma non sappiamo con precisione dove, come e perché>>.1 Si parla, in questa
introduzione, di una <<strana somiglianza>>, inafferrabili analogie, sfumati sentieri che sembrano
andare nella medesima direzione, ma che d’un tratto si diramano e giungono a porti tra loro distanti
(quantomeno a livello della superficie), segnando una lontananza quasi incomprensibile.

Ciò che resta, che si può affermare con certezza, è che v’è un solido punto comune: la volontà di non
imbrigliare la follia entro determinati confini. Sconfinare la follia. Liberarla dalle catene che la
delimitano, strette tra le mani dei folli che subiscono il processo di una fantomatica normalizzazione.
Foucault da una parte con la teoria, Basaglia – che strategicamente abbandona la teoria – con la
pratica. Parti spesso invertite, per cui non si può dire di Foucault che abbia operato ad un livello
meramente intellettuale, né che Basaglia non abbia mai preso le vesti dell’intellettuale. Il fatto è che
possiamo sicuramente individuare in Foucault la discriminante dello shock provocato dalla
pubblicazione, avvenuta nel 1961, di Storia della follia, mentre nello stesso anno Basaglia entrava in
manicomio a Gorizia in qualità di direttore e ne distruggeva fisicamente le fondamenta, dimostrando
la fallacia dell’istituzione manicomiale. Non per questo dobbiamo dimenticare ciò che ha scritto
Basaglia, da un lato testimonianza di un lavoro senza precedenti, dall’altro specchio di una mente
attiva, colta e riflesso di una mano dotata per la scrittura. Né dobbiamo dimenticare il tentativo di
Foucault di scendere in campo e partecipare – se non dare inizio – alle lotte, che l’ha portato a fondare

1Pier Aldo Rovatti, prefazione a Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base di Pierangelo Di Vittorio,
Verona, Ombre Corte Edizioni, 1999, p. 7.

1
il G.I.P. nel 1971. Una cosa è certa: non possiamo definirli con chiarezza, non possiamo dar loro un
ruolo preciso, perché essi stessi combattevano per distruggere i propri ruoli. Si inserivano nel clima
culturale del loro tempo senza aderirvi mai davvero. Foucault e Basaglia hanno fatto di testa loro, ed
è questo ciò che più di tutto li accomuna. Si sono slegati da tempo, spazio, concettualizzazioni, saperi
tecnici per ripartire da zero. Perché quello che vedevano intorno a loro non avrebbe condotto al
sentiero giusto. E allora se lo sono creati, quel sentiero, non senza errori di prospettiva, non senza
inciampare in intoppi, ostacoli, aporie, resistenze. Ma se ancora oggi, noi che ci approssimiamo alla
follia, sentiamo l’urgenza di ricorrere alle loro voci fuori dal coro, al loro spirito, è evidentemente
perché da quello spirito occorre attingere per pensare l’impossibile possibile. Cercheremo, nel
presente lavoro, di ricostruire il filo invisibile di un legame mancato per un soffio.

§ Intellettuali inattuali

Anni Cinquanta. Michel Foucault, brillante studente all’Ecole Normale Supérieure, si avvicina al
mondo psichiatrico. Approfondisce saperi e pratiche, fenomenologia e <<tecniche sperimentali>>,
sempre attento, in quanto giovane tormentato, a non essere confuso con i malati rinchiusi, ma ciò
non gli impedisce di mostrarsi molto critico verso le pratiche di “guarigione”, tant’è che <<in quegli
anni Foucault appare agli occhi di alcuni insegnanti “troppo teorico e piuttosto refrattario al
carattere sperimentale della psicologia”>>2.

1958. Franco Basaglia ottiene la libera docenza in psichiatria, ma l’ambiente accademico gli è ostile.
Anche lui, essendo inciampato negli studi fenomenologici che l’hanno condotto a sviluppare una
certa riluttanza per le pratiche in uso (elettroconvulsioni e contenzione, per fare due esempi),
appariva agli accademici cristallizzatori del sapere psichiatrico troppo teorico, troppo filosofo.
Insomma, metteva in discussione pratiche che non dovevano esser oggetto di dubbio; bisognava
applicarle, e basta.

Arrivano alla psichiatria percorrendo due strade differenti. Mentre Basaglia la abbraccia con gli studi
universitari, come uno dei rami possibili della medicina, Foucault sembra arrivarvi attraverso
un’esigenza biografica, come se volesse arrischiarsi a vedere cosa gli spetterebbe se – per disgrazia –
lui stesso fosse caduto nella trama di quell’universo, o – per usare parole sue – dall’altra parte
dell’acquario. Scrive a questo proposito Mario Colucci:

già negli anni della Scuola Normale, Foucault viene descritto come un personaggio eccentrico e
beffardo che attira l’attenzione dei suoi compagni con comportamenti indisponenti e oltraggiosi;
benché ammirato per la sua straordinaria lucidità e intelligenza, è destinato ben presto a una
solitudine feroce. […] Abusa di alcol, forse di droga, inizia un trattamento psicoanalitico

2 Mario Colucci, Il vetro dell’acquario. Michel Foucault e le istituzioni della psichiatria, in: “aut aut”, 285-286, 1998, pp. 69-85.

2
interrotto dopo poche settimane, medita di farsi ricoverare al “Sainte-Anne”, ma viene vivamente
sconsigliato da Althusser che vi era già passato, chiede infine aiuto al padre medico che lo
conduce da uno psichiatra molto conosciuto per un consulto. […] Il disagio si raddoppia:
un’origine individuale? Forse, ma ciò non toglie che questa spiegazione copra qualcosa. Un
fascino culturale? Indubbiamente, ma c’è il rischio che questo faccia perdere i confini tra ciò che
turba la propria vita e ciò che turba il proprio pensiero.3

Il 1961 è l’anno in cui l’opera di Foucault segna il suo destino di intellettuale. Il mondo della psichiatria
gli sarà precluso, avendo deluso i suoi precedenti collaboratori. Ey lo accuserà di essere uno
psichiatricida.4 Storia della follia lo porta allo scoperto, ma è il solo modo che conoscesse per salvarsi,
per non annegare, per restituire un senso al suo ruolo d’intellettuale. L’unico senso è superarsi,
mettere in crisi la propria identità, e accogliere le sfide poste dal suo maestro, il suo mentore:
Friedrich Nietzsche. Riporto un passaggio dal saggio di Di Vittorio che tenta di delineare i tratti di
tale eredità:

La filosofia di Foucault, come si vede già in Storia della follia, e come diventerà più chiaro in seguito,
è essenzialmente una <<filosofia storica>>, la quale procede e si enuncia come una genealogia: si
tratta in sostanza d’indagare da dove provengono e come emergono i discorsi e le pratiche che,
intrecciandosi, producono la cultura moderna. Partendo dall’ipotesi che le cose potrebbero nascere
dal loro contrario, un’indagine genealogica può scoprire, per esempio, che la scienza moderna che
si chiama psichiatria, la “verità” della follia che la psichiatria stessa produce, in quanto scienza
dell’anormale o del patologico (della malattia mentale), proviene da un’”esclusione” […] della
follia stessa.5

E aggiunge, citando Foucault da Nietzsche, la genealogia, la storia:

Seguire un’ipotesi genealogica significa <<mantenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è
propria: è ritrovare gli accidenti, le minime deviazioni – o al contrario i rovesciamenti completi –
gli errori, gli apprezzamenti sbagliati, i cattivi calcoli che hanno generato ciò che esiste e vale per
noi; è scoprire che alla radice di quel che conosciamo e di quel che siamo – non c’è la verità e
l’essere, ma l’esteriorità dell’accidente. È per questo che ogni origine della morale […] vale come
critica.>>6

Cosa significa questo, nello specifico ambito psichiatrico? Una delle risposte possibili coincide con
il far emergere il sapere storico minore, <<saperi locali come quelli dello psichiatrizzato o del

3 Ivi, pp. 74-75.


4 Ivi, p. 76.
5 Pierangelo Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Verona, Ombre Corte Edizioni, 1999,

pp. 25-26.
6 Ivi, p. 27, nota 8.

3
delinquente>>7. Occorre dunque ricorrere a quella che egli definisce una critica pratica, ossia ciò che Di
Vittorio riconosce come

il doppio gesto che divide l’ethos filosofico moderno. Nell’incrinatura o nell’increspatura di questo
doppio, i problemi e le domande del presente continuano a dilatarsi nel discorso, aprendo la sua
parentesi senza fondo e senza tenuta. Enunciando il discorso nei termini di una <<critica pratica>>
Foucault lascia che il discorso stesso sia ferito da un’interrogazione permanente sull’attualità
come questione. […] Il discorso sul nostro essere storico è un discorso critico perché si interroga
su e a partire dai limiti dell’essere storico. “Critico” rinvia dunque a “storico” e viceversa. Questo
significa che, dopo Kant, la critica diventa essenzialmente storica: un’interrogazione permanente,
dunque presente, sulle condizioni storiche e culturali che ci fanno essere ciò che siamo e
diveniamo.8

Dice Foucault, è necessario oltrepassare i limiti del nostro essere storico. E tutto questo come
coincide con Basaglia? Anche lo psichiatra veneziano arriva a dirci, a più riprese e largamente nelle
Conferenze brasiliane, che l’unica teoria possibile consiste nello scrivere una storia, indagare le radici,
nel suo caso, della follia e dell’istituzione manicomiale per superare le codificazioni che incatenano
le persone e il proprio tempo. Si tratta di scovare tra le linee della storia la menzogna del presente,
senza cedere a mistificazioni di qualsivoglia tipo. Far crollare il sistema dalle fondamenta, svelarne la
fallacia:

Una volta smascherata la finzione scientifica e la copertura ideologica, la psichiatria manicomiale


rivela il suo vero volto: essa è povertà. Il manicomio si omologa alla vita sociale di cui è un
laboratorio; caduta la mistificazione medica, il servizio si pauperizza e rende manifesta la sua vera
realtà, che è una realtà di miseria. […] Possiamo pronunciare al massimo il balbettio di
un’alternativa scientifica, cioè un tentativo minimo di discorso fondato sull’analisi storica,
economica, culturale, di quello che è il nostro mestiere da una parte, e su un’attenta analisi
politica delle tensioni e di quello che sta succedendo giorno per giorno, dall’altra.9

Varcando la soglia del manicomio, tutta la teoria cade. Non regge più nulla, tutto si rivela una
menzogna, il disinganno è così forte per il giovane direttore del manicomio di Gorizia, che nemmeno
la fenomenologia è più sufficiente a rendere giustizia ai giustiziati dal sistema psichiatrico. Basaglia
radicalizza l’approccio fenomenologico mettendo tra parentesi esso stesso, per andare a scavare nei
meandri della storia e portare in superficie la maschera del discorso che nei secoli ha prodotto schiere
di esclusi. Rifiuta qualsiasi tipo di discorso per lasciare libera di affiorare la realtà di colui che viene
chiamato dalla società dei buoni e dei sani “malato mentale”. Lascia parlare i folli piuttosto (emerge

7 Ivi, p. 29.
8 Ivi, p. 35.
9 Franco Basaglia, Scritti, Milano, Il Saggiatore, 2017, pp. 908-913.

4
così il sapere minore). La fenomenologia non è altro che uno strumento privilegiato per malati
privilegiati. Bisogna lavorare sull’esclusione, capire in quali condizioni si è prodotta, e – nel frattempo
– trovare soluzioni pratiche per ribaltare la condizione di chi ne subisce gli effetti, per includere gli
esclusi. E questo esige un lavoro non indifferente di critica del proprio tempo, del proprio ruolo, della
narrazione storica. Rifiutare tutto. Non sentirsi mai appagati, non approdare mai ad un punto;
<<continuare a mantenere aperte le contraddizioni tanto sul piano specifico quanto su quello
generale>>10, al modo che Foucault ha ereditato da Nietzsche. E così segnare il proprio destino, che è
quello di non essere più definibile, approdando con certezza solo alla distruzione del soggetto della
conoscenza psichiatrica.

Da parte degli psichiatri di Gorizia c’è la consapevolezza che non si possa e non si debba
continuare ad aderire alla storia che la psichiatria ha raccontato di sé, e che anzi sia venuto il
momento di problematizzare la storia della verità che la psichiatria ha prodotto e continua a
produrre. Evidentemente, questo sguardo diagonale sulla storia della psichiatria non sarebbe
pensabile senza l’urto prodotto dalla Storia della follia, della genealogia foucaultiana della
psichiatria…11

Li accomuna il lavoro genealogico, ma non possiamo dire che Basaglia abbia intrapreso la strada
genealogica perché il caso ha voluto che si ritrovasse tra le mani Storia della follia. Se di entrambi, è
possibile dire che hanno accolto questo metodo, dobbiamo tuttavia precisare che la loro esperienza
genealogica si costruisce su terreni differenti:

Genealogia è ovviamente il lavoro erudito del filosofo storico; ma genealogia è anche il lavoro
pratico dello sperimentatore storico, il lavoro delle lotte in cui riemergono i saperi locali della
gente. In altri termini, la genealogia è sia il contenuto storico di una lotta, sia il sapere storico,
erudito di tale lotta. […] Va comunque sottolineato il fatto che il movimento antiistituzionale si
è dimostrato, in se stesso ed effettivamente, genealogico. Basti pensare a tutti i crolli storici che
vengono a prodursi, l’uno dentro l’altro, nel corso della sua esperienza. Crolla la pretesa del
discorso scientifico, crolla la figura del medico, crolla l’umanità dell’istituzione […]. Non si tratta,
dunque, di ritrovare nel passato l’origine e la verità del presente (per esempio dell’istituzione e
della scienza psichiatriche quali si presentano nel XX secolo), bensì di rischiare la distruzione
del mito fondatore, al tempo stesso istituzionale e scientifico, che il presente continua ad imporre
al passato, per trarne di nuovo ed ogni volta una garanzia ed una legittimità assolute.12

10 Pierangelo Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Verona, Ombre Corte Edizioni, 1999,
p. 66.
11 Ivi, pp. 67-68.
12 Ivi, pp. 88-89.

5
È questo ciò che sopra tutto rende Basaglia e Foucault più vicini di quanto loro stessi potessero
pensare, che è ciò che li proietta automaticamente al di fuori del loro tempo, non aderendo mai
davvero a nessun movimento (nonostante abbiano vissuto un’epoca in cui si assisteva a una
proliferazione di movimenti di protesta), che per loro avrebbe significato sostituire ad un’ideologia
un’altra, magari anche affascinante, ma pur sempre limitante rispetto a quella che è la realtà delle
cose al di sotto delle ideologie. Tutto ciò fa di loro due personalità inattuali:

Inattuale, per Foucault, significa enunciare un discorso sul presente a partire dal presente, un
discorso che si interroghi sui limiti del nostro essere storico come questione della nostra attualità.
L’inattualità è il pegno paradossale di un’interrogazione sull’attualità.13

§ Follia e silenzio

La partita si gioca attorno alla follia, e quindi attorno alla norma esclusiva, escludente, che traccia
una linea di separazione tra l’uomo e l’uomo deviato, anormale, costretto al silenzio da una storia che
ne ha strozzato la voce, favorendo invece coloro i quali hanno assunto il controllo della norma
sorvegliando i folli, i malati, i poveri; tutto ciò che potrebbe arrecare disordine nella società ben
ordinata. Follia non è solo malattia mentale, ma è anche male morale, incommensurabile dai
dispositivi scientifici, dal discorso della psichiatria, <<una follia trasparente e incolore che esiste e
circola surrettiziamente nell’anima del folle>>.14 La storia della psichiatria è la storia degli psichiatri,
concludono tanto Foucault quanto Basaglia, non è storia dei folli, della malattia, ma è la storia
dell’invenzione della malattia, dei medici che l’hanno costruita, dei carcerieri che hanno trovato via
via nuovi carcerati da prelevare dalle strade. <<Il linguaggio della psichiatria, che è monologo della
ragione sopra la follia, non ha potuto stabilirsi se non sopra tale silenzio>> 15; psicologia e psichiatria
si sono potute costruire a partire da questo silenzio, dall’occultamento. Non esiste, in Foucault, un
tentativo inedito di dare corpo alla follia; della follia non si definisce niente, e l’intento dell’opera si
limita ad essere l’archeologia di questo silenzio. Basaglia: <<Non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o
niente. È una condizione umana. In noi la follia è presente come lo è la ragione […]. Quando qualcuno
è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato>> 16. Cosa deduciamo?
Niente di chiaro. O forse la questione è talmente semplice da sembrarci inaccettabile. Non si sa cosa
sia la follia, dice lo psichiatra, mentre il filosofo ci dice che ciò che si può dire della follia è solamente
un balbettio sulle linee di un silenzio durato secoli, che risulta difficile delineare con un linguaggio
razionale. Niente nozioni. Niente sostituzioni. Distruggere le fondamenta. Abbattere il muro,

13 Ivi, p. 90.
14 Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, BUR Rizzoli, 2016, p. 720.
15 Ivi, p. 42.
16 Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018, p. 34.

6
squarciare tale silenzio. Una cosa, però, sembra emergere con decisione. Follia non coincide con
malattia. Basaglia ci dice chiaramente che il folle (l’uomo; insomma, il miserabile, il rifiutato), si
ammala quando entra in manicomio. Quindi, il manicomio, l’ospedale psichiatrico, è iatrogeno. Allora
dobbiamo ammettere che follia e malattia mentale non sono la stessa cosa. Che il folle non è malato.
Ma sappiamo cos’è la malattia, se esistono malattie di cui i medici stessi non hanno saputo dire nulla
se non che si tratta di qualcosa che è un male morale, dai contorni molto sfumati, dato che non c’è
traccia nel folle della sua follia? Non se ne esce. Foucault aveva un maestro, molto meno esplicito di
Nietzsche, ma da lui imparò – con ogni probabilità – a distinguere nettamente follia e malattia
mentale, e si chiama Antonin Artaud (un folle):

Ecco il dubbio di Artaud che diventerà certezza storica per Foucault: la psichiatria non è un
rimedio alla malattia mentale ma è la sua inventrice. Maladie mentale e folie, i due usano anche gli
stessi termini, non sono la stessa cosa; la prima un’invenzione della psichiatria, la seconda
qualcosa di diverso, comunque indefinibile, avvicinabile solo obliquamente per scongiurare il
pericolo, parlandone, di “misurare – ancora – lo spirito”.17

Lorenzo Chiesa fa qui riferimento alla Lettera ai primari dei manicomi, che sicuramente anche Basaglia
conosceva, come dimostra la citazione che ne fa nel suo scritto La distruzione dell’ospedale psichiatrico
come luogo di istituzionalizzazione. Non potendo darsi un discorso chiaro sulla follia, essa diviene
malattia mentale, <<non più follia, ma malattia mentale, trionfo del linguaggio della psichiatria sul
sepolcro vuoto di quella verità remota che il tempo della ragione ha cacciato fuori dal tempo degli
uomini>>18, e ancora:

Per Foucault la storia è chiara, la malattia mentale oggi è ciò che dice la follia, permette di
pronunciarla nella sintassi del logos, offre una rappresentazione all’irrappresentabile: malattia
mentale invece di follia. Ma non al posto della follia. La malattia mentale, pur nell’estenuante
catalogo dei suoi segni, non dice tutta la follia, anzi non dice proprio la follia, la manca del tutto.19

Unica cosa che rimane, il silenzio. Non un silenzio vuoto, non immobilismo, ma un silenzio che
consenta ai diseredati, condannati, tacciati, di prendere parola, facendo emergere così un discorso
senza precise linee guida, ma che restituisca al folle la dignità d’esser uomo, ‘ché essere ridotti a
silenzio è un po’ come essere condannati a morte. Difficile, per Foucault, mantenere il proprio
pubblico abito intellettuale, così come per Basaglia diviene faticoso farsi riconoscere come tecnico
del sapere psichiatrico legittimato ad usare le vesti della direzione del manicomio che vuole
annientare. Foucault si imbatte in numerose contestazioni, cercando di non imporre la propria voce

17 Lorenzo Chiesa, La lucida sragione. Artaud e Foucault, in: “aut aut”, 285-286, 1998, p. 211.
18 Mario Colucci, Il vetro dell’acquario. Michel Foucault e le istituzioni della psichiatria, in: “aut aut”, 285-286, 1998, p. 70.
19 Ivi, p. 71.

7
sulle altre per dare al proprio lavoro teorico la vitalità che ha cercato di restituire la follia stessa,
mentre lo psichiatra finisce innumerevoli volte al banco degli imputati in tribunale. Non cedono. Il
ruolo di Basaglia è più delicato, dal punto di vista della credibilità. Perdere credibilità, per lui,
significa essere ridotto lui stesso a silenzio, essere imprigionato nell’istituzione. Basaglia deve
convincere, per lui gli esclusi hanno un nome, un volto, ed è per quelle persone e la loro sofferenza
che combatte, non può rinunciare, non può sparire, non può permettersi un ritiro dalla scena come
poté fare invece Foucault. Ma ciò a cui non cede è la tentazione di costruire teorie che perderebbero
la loro validità al confronto con la realtà, e che sottrarrebbero, ancora una volta, movimento al libero
fluire della voce dei folli, l’unica cosa vera.

Credo che questa innegabile difficoltà a fare teoria non possa essere compresa se non la si
considera anche, e indissociabilmente, come un rifiuto – strategico e non assoluto – della teoria
stessa. Rifiuto da parte di Foucault di rimpatriare, dopo il viaggio genealogico della filosofia
storica, in un nuovo discorso filosofico globale, unitario, totalizzante sul potere. Rifiuto da parte
di Basaglia di rimpatriare, dopo l’avventura genealogica della lotta antiistituzionale, in un nuovo
discorso psichiatrico. […] Il problema è che sia Foucault che Basaglia, quando rifiutano di fare
teoria, rifiutano di cedere alla tentazione che questi diavoli di vocine non si stancano di
suggerirgli: la tentazione di scrivere la parola fine suii loro movimenti genealogici. Non desiderate
più…20

§ Conclusione
La lontananza di Foucault e Basaglia è comprensibile proprio alla luce di questa necessità di silenzio,
e proprio perché forzato. Si guardavano a distanza, sospendendo il giudizio. Troviamo degli
apprezzamenti reciproci – Basaglia ha spesso citato Foucault – Foucault ha espresso la sua
ammirazione per l’esperienza basagliana, come riporta Colucci:

Però, dice Foucault, un’esperienza forse si salva, un nome merita rispetto, l’esperienza italiana di
Gorizia, Franco Basaglia. La sua comunità terapeutica sembra diversa dalle altre, vuole restituire
dignità politica all’internato: <<Basaglia ha tentato in Italia delle esperienze di questo tipo: riuniva
i malati, i medici e il personale ospedaliero. Non si trattava affatto di rifare un socio-dramma
durante il quale ognuno avrebbe fatto uscire i suoi fantasmi e riprodotto la scena primitiva, ma di
porre questo interrogativo: le vittime del manicomio avvieranno una lotta politica contro la
struttura sociale che li denuncia come pazzi?>>21

Affascinato da Basaglia, quel coraggioso uomo di scienza che scavalca il discorso scientifico per
giungere all’uomo e ai suoi bisogni, che si affranca dall’illusione di avere un ruolo specifico, di poter

20 Pierangelo Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Verona, Ombre Corte Edizioni, 1999,
pp. 165-166.
21 Mario Colucci, Il vetro dell’acquario. Michel Foucault e le istituzioni della psichiatria, in: “aut aut”, 285-286, 1998, p. 80.

8
egli stesso, con il suo sapere, rispondere ai bisogni dei miserabili, privati di tutto dalla società, e
ridotti a larve in manicomio. Rifiuto di umanizzare il manicomio, rifiuto del modello della comunità
terapeutica. Foucault è geloso, come spiega ampiamente Di Vittorio, di questa genealogia pratica
ch’egli non è riuscito a raggiungere, troppo imbrigliato nelle carte. Vede in Basaglia il volto pratico
delle sue teorie, si stupisce e meraviglia che la sua Storia della follia, così mal accolta nell’ambiente
accademico, abbia avuto una qualche utilità nel legittimare la distruzione dell’istituzione
manicomiale, per coloro che hanno avuto il coraggio di farlo. Entrambi restano fermi nelle proprie
lotte, senza la pretesa di imbracciare un’arma che non è la propria, se non a tratti, ma sempre
rimanendo a cavallo della linea, non sconfinando mai nel ridicolo tentativo di essere chi non potevano
essere. Foucault sa che ha molto da dire, anche sotto la forma del silenzio strategico, come Basaglia
sa che ha tanto da fare, resistendo così alla tentazione della mano che scivola sul foglio. Si guardano,
si aiutano, ma non si camminano incontro. Unica cosa che li unisce, la follia, la folle lotta del denso
silenzio che reclama il diritto ad essere riconosciuto, tra le vuote grida del potere.

9
§ Bibliografia

Basaglia F., Conferenze brasiliane, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018.

Basaglia F., Scritti, Milano, Il Saggiatore, 2017.

Chiesa L., La lucida sragione. Artaud e Foucault, in: “aut aut”, 285-286, 1998.

Colucci M., Il vetro dell’acquario. Michel Foucault e le istituzioni della psichiatria, in: “aut aut”, 285-286, 1998.

Di Vittorio P., Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Verona, Ombre Corte
Edizioni, 1999.

Rovatti P. A., prefazione a Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base di Pierangelo Di
Vittorio, Verona, Ombre Corte Edizioni, 1999.

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