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IV

DIAGONALI
Collana del Dipartimento di Arti e Comunicazioni
dell’Università degli Studi di Palermo

Direttore
Michele Cometa
DIAGONALI
Collana del Dipartimento di Arti e Comunicazioni
dell’Università degli Studi di Palermo

1. Calabrese Rita (a cura di), Dopo la Shoah. Nuove identità ebraiche


nella letteratura, 2005, pp. 220.
2. Coglitore Roberta, Pietre Figurate. Forme del fantastico e mondo
minerale, 2004, pp. 228.
3. Di Piazza Elio, Corona Daniela, Romeo Marcella (a cura di), Ma-
schere dell’impero, 2005, pp. 260.
4. Coglitore Roberta (a cura di), Lo sguardo reciproco. Letteratura e
immagini tra Settecento e Novecento, 2007, pp. 326, ill.
5. Giannitrapani Mirella (a cura di), Transizioni. Paradigmi della lette-
ratura tardo-vittoriana e modernista, 2007, pp. 252.
Lo sguardo reciproco
Letteratura e immagini
tra Settecento e Novecento

a cura di
Roberta Coglitore

Edizioni ETS
www.edizioniets.com

© Copyright 2007
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com
www.edizioniets.com

Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN 978-884671731-3
GRADIENTI DI RECIPROCITÀ

Roberta Coglitore

Molteplici sono le modalità di incontro tra il mondo della lette-


ratura e quello delle immagini. Questo volume, articolato in tre se-
zioni – sopravvivenze, descrizioni, rappresentazioni – presenta alcu-
ne di queste “collaborazioni” nella letteratura europea degli ultimi
tre secoli. Senza per questo voler misconoscere l’importanza degli
altri rapporti che hanno legato i due ambiti – per esempio la crea-
zione di iconotesti e iconismi o l’invenzione di metafore assolute o
ancora la doppia produzione artistica nei casi di Doppelbegabung1 –
le declinazioni qui presentate possono essere ricondotte a tre diver-
si orientamenti interpretativi che legano la comparatistica letteraria
con gli studi di cultura visuale2.
Gli “sguardi” che attraversano diagonalmente tutti i saggi del
volume, si combinano in relazioni di volta in volta diverse, dando
luogo a prospettive differenti. Si tratta talora di sguardi rivolti nel-
la stessa direzione, mirati a costruire un comune patrimonio figu-
rativo tra letteratura e arte (sopravvivenze); talvolta si tratta di
sguardi in competizione, laddove un’espressione artistica cerca di
prevalere o di sostituirsi all’altra (descrizioni); o ancora di sguardi
che agiscono rivelando omologie di funzionamento tra i due media
(rappresentazioni).
Se la reciprocità è forse la relazione che meglio di ogni altra rie-
sce a definire la complessità del legame tra le due “arti sorelle”, e
più in generale tra la parola letteraria e il mondo multiforme delle
immagini, la sua assunzione come presupposto di base porta con

1 Per un completo esame delle possibilità di incontro tra i due ambiti si rimanda a
M. Cometa, Letteratura e arti figurative: un catalogo, in «Contemporanea», 3 (2005),
pp. 15-29.
2 Le tre modalità cui si fa riferimento vanno ricondotte alle opere di G. Didi-Hu-
berman e della scuola warburghiana, agli studi di P. Hamon sulle imageries letterarie,
quelli di J.A.W. Heffernan e di M. Krieger sulll’ékphrasis, e a quelle di J.-J. Wunenbur-
ger sull’immaginario.
8 Lo sguardo reciproco

sé delle inevitabili conseguenze. L’intero sistema artistico-letterario


si basa su questa congerie di rapporti, insieme di collaborazione,
confronto e rivalità. Inoltre la supposta reciprocità non soltanto ha
sempre garantito nuova linfa alle singole arti ma ne ha anche per-
messo definizioni teoriche sempre più ampie e complesse. L’allar-
gamento dei confini di ciò che oggi chiamiamo letteratura, sia dal
punto di vista dei canoni sia da quello delle forme, e la pervasività
teorica della questione delle immagini, anche nella riflessione let-
teraria, ci costringe ad un discorso sulla testualità e sull’immagine
sempre più differenziato. Indicare quale letteratura e quali imma-
gini vengono di volta in volta convocate in questi sguardi reciproci
è lo scopo di questa premessa.
Il termine sopravvivenze, che dà il titolo alla prima sezione di
questo volume, porta in primo piano la questione del tempo
profondo delle immagini, il Nachleben der Antike, per dirla con
Aby Warburg. La letteratura e l’arte infatti recuperano i livelli
multipli di un tempo complesso che si sedimenta nel presente per
formare quel «popolo di fantasmi», come direbbe Georges Didi-
Huberman3, che costituisce l’essenza profonda della cultura te-
stuale e visuale di un’epoca.
Si tratta in sostanza di ricostruire le tappe di una continua ri-
scrittura del mito che ha permeato di sè insieme la letteratura e le
arti (come del resto anche le “scienze” e le forme del pensiero filo-
sofico). Come ci ha insegnato Kafka a proposito di Prometeo il
mito ha la forza di rimanere in vita anche quando le sue immagini
e le sue parole sono del tutto sbiadite o persino cancellate. Forti di
questa infinita e indistruttibile “resistenza” del discorso mitologi-
co, i primi tre saggi sono dedicati alle riscritture e alle risemantiz-
zazioni di concetti e di immagini che hanno determinato la lunga
durata del mito greco tra Settecento e Novecento.
I saggi di Michele Cometa, Elena Agazzi e Paolo D’Angelo stu-
diano rispettivamente una fase della storia iconografica del concetto
di Nemesi, della rappresentazione della morte in ambito neoclassico
e del mito di un Pigmalione “rovesciato” attraverso la ricostruzione
di alcuni temi capaci di attraversare letterature, arti e pensiero.
3 Cfr. G. Didi-Huberman, L’image survivante. Historie de l’art et temps des fantô-
mes selon Aby Warburg, Paris, Minuit, 2002 (trad. it. di A. Serra, L’immagine insepolta,
Torino, Bollati Boringhieri, 2006); Id., Images malgré tout, Paris, Minuit, 2003 (trad. it.
di D. Tarizzo, Immagini malgrado tutto, Milano, Cortina, 2005).
Gradienti di reciprocità 9

I materiali “letterari” che vengono utilizzati in questa prima se-


zione sono principalmente testi lirici, narrativi e teatrali, insieme a
resoconti di viaggio, trattati di estetica, di pittura, di scultura e di
architettura, poiché i tre autori insistono sull’osmosi tra specie te-
stuali spesso assai diverse all’interno di contesti culturali ben defi-
niti. Si tratta, come si può facilmente vedere, di un canone lettera-
rio allargato, incline a considerare, da un lato, la qualità artistica
delle riflessioni estetiche, poetologiche e filosofiche, e, dall’altro,
ad immaginare il testo letterario come il precipitato di questioni
culturali molto più ampie.
Sul fronte delle “immagini” invece questa prima sezione del vo-
lume fa riferimento a immagini sensibili (emblemi, sculture, dise-
gni, dipinti, bassorilievi, lapidi, monumenti funerari) – intese co-
me tracce che hanno permesso di ricostruire le iconografie di tali
“sopravvivenze” – ma allo stesso tempo anche a figure archetipi-
che, quelle “immagini mentali” che costituiscono le idee base dei
mitologemi dei quali si descrive l’evoluzione.
Attraverso la composizione di un atlante delle immagini, prima
herderiano e poi hölderliniano, Cometa ricostruisce le varie tappe
della formazione di una filosofia della storia come filosofia dell’av-
venire che ruota attorno alla figura di Nemesi-Adrastea. Ad una ri-
costruzione della concezione pagana della divinità e delle sue rise-
mantizzazioni cristiane Cometa approda grazie a un sapiente uso
di materiali che provengono dalla tradizione letteraria (filologica,
mitologica e poetica) e dalla tradizione iconografica (emblematica,
pittorica e scultorea).
Ad un’attenta analisi di simbologie, riti funerari, rappresentazio-
ni figurative, edilizia funeraria (mausolei, lapidi, tombe, iscrizioni)
in ambito neoclassico è dedicato il saggio di Elena Agazzi.
Winckelmann, Lessing, Herder, Goethe, Moritz, da un lato, e Pan-
nini e Canova, dall’altro, sono i protagonisti del rinnovamento pa-
gano e poi cristiano della figurazione della morte che trova in Italia,
e a Roma in particolare, la sua sede ideale, il luogo di una naturale
contaminazione tra religione, politica e arte. Lo scheletro, la farfal-
la, la fiaccola rovesciata, il papavero sono i simboli che illustrano in
architettura, pittura e scultura come anche nella letteratura classi-
co-romantica la differenza tra una concezione della morte idealiz-
zata come forma di immortalità estetica, a fronte di una morte de-
monizzata e rappresentata con terrore, tipica dell’estetica barocca.
10 Lo sguardo reciproco

Paolo D’Angelo studia le sopravvivenze di una variante del mi-


to greco di Pigmalione. Non si tratta però di ricostruire la tradizio-
ne letteraria che riguarda l’amore del noto scultore per Galatea, la
“statua che si anima”, ma di analizzare i testi teatrali e narrativi
che trattano le triangolazioni tra scultori, modelle e amanti, varian-
te del mito particolarmente frequentata tra Ottocento e Novecen-
to. I rapporti che si creano tra le muse ispiratrici e gli artisti sono
spesso intrecciati con gli amori ideali e reali che esse talvolta ani-
mano o talaltra contrastano. Il piano dell’arte si confonde con
quello della vita, provocando un “rovesciamento” del mito di Pig-
malione. Una passione spesso invocata ma difficilmente vissuta si
intromette nella sensuale o sublimata relazione tra scultore e scul-
tura. Le inutili richieste di amore di Irene a Rubek nel testo teatra-
le di Ibsen, la rivalità tra l’amore della modella Gioconda Dianti e
quello della moglie Silvia nella tragedia di D’Annunzio, come an-
che il confronto messo in atto da Pirandello tra una modella, la
Tuda, e la statua che ad essa è stata ispirata, una Diana, celano
concezioni estetiche che regolano i rapporti tra la vita reale e l’ar-
te, la passione e la morte, e che in forme diverse lasciano presagire
il moderno “disinteresse” della fruizione estetica.
Nella seconda sezione del volume sono invece raccolte le descri-
zioni letterarie dell’arte figurativa per eccellenza, la pittura. In
questo caso la letteratura trasforma in linguaggio verbale ciò che è
già sotto ai nostri occhi. Attraverso la forma poetica o uno stile al-
to di scrittura si cerca di rappresentare l’effetto estetico, la “vivi-
dezza” e la forza espressiva di un’immagine d’arte.
Inizialmente riconosciuta come artificio della retorica antica,
l’ékphrasis ha acquisito nei secoli una sua valenza particolare nel
discorso storico, filosofico e morale, fino a diventare all’interno
della prosa letteraria il campo dove mettere alla prova la rivalità
tra le due arti. Un’ampia trattatistica pittorica, insieme a un’altret-
tanto estesa teoria della letteratura, ha dimostrato nei secoli quan-
to le due arti sorelle fossero sostenute da un’esigenza di traduzio-
ne intermediale.
Da momento privilegiato e isolabile all’interno del discorso lette-
rario, la descrizione ha però finito per indicare, come ci ha insegna-
to Philippe Hamon4, una forte componente del romanzo realista
4 Cfr. P. Hamon, La Description littéraire. De l’antiquité à Roland Barthes: une
Gradienti di reciprocità 11

del XIX secolo. La deriva descrittiva dei testi novecenteschi, intesa


come la «coscienza lessicografica della finzione» ed espressa gene-
ralmente come elenco infinito di parole, dimostra soltanto l’inade-
guatezza del mezzo linguistico rispetto all’immagine e di conseguen-
za l’impossibilità di restituire fino in fondo la complessità del reale.
Accanto alla scrittura della trattatistica pittorica e degli storici
dell’arte la scrittura letteraria (narrativa, lirica, epistolari, saggi) –
come negli studi qui presentati – ha sperimentato forme di descri-
zione che entrano in competizione con le capacità espressive
dell’“arte sorella”.
I saggi di Federica Mazzara, Roberta Ascarelli e di chi scrive so-
no dedicati alla rappresentazione verbale delle immagini, anzi di
capolavori della pittura: la Proserpina di Dante Gabriel Rossetti, il
Concerto campestre di Giorgione e la Melencolia I di Dürer. A tra-
scrivere in parole le figure, i colori, le ottiche e le rappresentazioni
dei celebri dipinti sono altrettanti noti scrittori: lo stesso Rossetti,
Hugo von Hofmannsthal e Roger Caillois.
L’ékphrasis mimetica in questi casi è un meccanismo di riprodu-
zione intermediale che, oltre a celebrare i fasti dell’arte sorella, allo
stesso tempo mostra le potenzialità della parola poetica. E non a ca-
so si parla di poesia perché è soltanto essa che riesce ad avvicinarsi
al mistero che si cela nelle immagini dell’arte. La poesia è «ciò che
dà a ciascuno, nello spazio di un secondo, la percezione di un enig-
ma di cui [il poeta come l’artista] presume, con assoluto candore, di
essere il solo a possederne la chiave»5. Come le immagini dell’arte
anche la poesia cerca di svelare il mistero dell’invisibile, assecon-
dando la potenza iconica del linguaggio verbale e di quello artistico.
Le descrizioni qui presentate si misurano con capolavori del-
l’arte pittorica, aumentando quindi il convincimento di trovarsi di
fronte a un attimo di verità, di rivelazione. Allo stesso tempo, gra-
zie alla perizia dei grandi scrittori che le hanno composte, esse
mettono in mostra le varie modalità e tecniche di descrizione,
aprendo il campo a questioni estetiche e letterarie attuali e urgenti.
Nel caso di Rossetti, interprete di se stesso, le descrizioni dispie-
gano il suo doppio talento di pittore e scrittore di sonetti (manife-

anthologie, Paris, Macula, 1991; Id., Du Descriptif, Paris, Hachette, 1993; Id., Imagerie,
Paris, Corti, 2007.
5 R. Caillois, Approches de la poésie, Paris, Gallimard, 1978, p. 254 (trad. mia).
12 Lo sguardo reciproco

stando con questo una matura e compiuta Doppelbegabung). Le di-


verse versioni del dipinto di Proserpina, esaminate da Federica Maz-
zara in coppia con i sonetti rossettiani, allargano il campo di con-
fronto tra le due arti sorelle anche agli iconotesti6 e in particolare ai
Double Work che Rossetti pone al centro della sua attività artistica.
Nel caso di Hofmannsthal che “legge” Giorgione emergono in-
vece le Stimmungen, le disposizioni d’animo e le sensazioni che la
visione del quadro comporta nel suo singolare lettore (confrontato
anche con le letture di Ruskin, Pater, D’Annunzio e Rossetti). Ro-
berta Ascarelli mette in luce le idee e le concezioni estetiche che
stanno dietro alla visione del paesaggio giorgioniano, analizzando
approfonditamente le lettere e i saggi teorici ma soprattutto le no-
te del Viaggio d’estate hofmannsthaliano.
Le arti sorelle trovano inoltre un fondamento “naturale” nella
descrizione della Melencolia I che Caillois compone a partire dai di-
segni di una lastra di agata. L’ultimo studio della sezione illustra le
concatenazioni narrative ed ecfrastiche di un testo cailloisiano che,
da un lato, ricostruisce un ipotetico viaggio di Dürer e la genesi del
suo capolavoro, e dall’altro si concentra sull’osservazione dei dise-
gni di un’agata e sull’idea di vanitas. Incroci “fantastici” si creano
così tra la presunta disposizione malinconica dell’artista tedesco e
quella dello scrittore francese per il quale la descrizione del mondo
minerale costituisce un personalissimo percorso di individuazione.
L’ultima sezione propone invece lo studio delle rappresentazioni,
cioè delle visioni del mondo che sustanziano l’immaginario figurati-
vo e letterario di scrittori come Karl Philipp Moritz, Anna Seghers
e Italo Calvino. Ma, va detto subito, non si tratta di sottolineare
concezioni filosofiche e idee sul mondo costruite retoricamente e
argomentativamente, al contrario, si tratta di mettere in evidenza le
prospettive, le “ottiche”, gli orientamenti delle loro visioni lettera-
rie. Si insisterà dunque sulle leggi della prospettiva e sulle modalità
del punto di vista, sui colori e sui modi dell’immaginazione visiva
per dare conto delle omologie tra la letteratura e le arti.
A differenza delle precedenti, in questa sezione Renata Gambi-
no, Rita Calabrese e Valeria Cammarata fanno riferimento all’inte-
ra produzione degli autori analizzati. Dalle dissertazioni alle prime

6 Cfr. P. Wagner, (a cura di), Icons-Texts-Iconotexts. Essays on Ekphrasis and Inter-


mediality, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1996.
Gradienti di reciprocità 13

prove letterarie, dagli studi di critica alle recensioni, dai saggi di


argomento scientifico agli studi dedicati direttamente alle questio-
ni più dibattute della cultura visuale, i testi di questa sezione cor-
rono paralleli alle immagini artistiche (incisioni, bassorilievi, dipin-
ti), a quelle cinematografiche, fino alle illustrazioni delle carte da
gioco. Immagini materiali, seppure di tipologie diverse, segnano
quindi fasi specifiche della formazione di questi scrittori, tappe
decisive del percorso individuale di ciascun autore.
Ma, al di là delle immagini-oggetto che accompagnano i testi di
questi autori e delle riflessioni specifiche che essi dedicano alle
varie forme artistiche, questa ultima sezione privilegia soprattutto
le “ottiche” della rappresentazione visiva che costituiscono il car-
dine dei loro immaginari, o, per dirla con Wunenburger7, delle
loro iconosfere.
Quindi non più una o più immagini-oggetto ma singoli tratti,
condizioni o modalità della rappresentazione visiva – il “punto di
vista” di Moritz, il realismo dei colori della Seghers, la “visiona-
rietà” di Calvino – diventano lo specifico “foro stenoscopico” at-
traverso il quale si producono le rappresentazioni letterarie dei
singoli autori.
Ancora una volta le fonti delle rispettive iconosfere possono es-
sere rintracciate in ambiti solo apparentemente distanti dalle tradi-
zionali arti figurative. In quest’ottica la concezione linguistica di
Moritz è il presupposto del suo modo di rappresentazione, lo stu-
dio di Rembrandt e la padronanza della tecnica cinematografica
orientano la scrittura della Seghers, così come le conoscenze per-
sonali di scrittori-pittori, insieme a un’ampia iconoteca personale,
sono le fonti dell’immaginazione visiva di Calvino.
Nel saggio di Renata Gambino attraverso la comparazione delle
vedute piranesiane si ricostruisce l’idea di Roma di Moritz, appas-
sionato lettore dell’architetto veneziano. Il “punto di vista” eletto
a criterio cardine nell’estetica moritziana, presiede anche alla pro-
gettazione di nuove forme editoriali: una sorta di moderno atlante
di viaggio italiano con brevi testi scritti, invece del classico reso-
conto illustrato, che purtroppo non arriverà mai a vedere la luce.

7 Cfr. J-J. Wunenburger, La vie des images, Presses Universitaire de Strasbourg,


1995; Id., Philosophie des images, Paris, PUF, 1997 (trad. it. di S. Arecco, La filosofia
delle immagini, Torino, Einaudi, 1999).
14 Lo sguardo reciproco

La Ideenwelt di Moritz si ricostruisce all’interno di un percorso di


formazione che è fondamentalmente visivo e quindi capace di far
rientrare al suo interno le mille sfaccettature della città eterna.
Due procedimenti, quello delle immagini e quello della scrittura,
che si completano vicendevolmente e che seguono le pieghe del-
l’oggetto reale e mentale, dei monumenti romani e del “concetto”
che Moritz ha di Roma.
Nel caso della Seghers i colori diventano la cifra per leggere la
carica di realismo dei suoi scritti. Rita Calabrese, attraverso un clo-
se reading dei testi della Seghers, riesce a metterne in risalto il gio-
co di luci e ombre, alla Rembrandt, e la dipendenza della narrazio-
ne dal valore dei colori, come indicato nella rappresentazione del-
lo spirituale nell’arte di Kandinskij. Un’attenta disamina delle
componenti della cultura visuale della scrittrice tedesca fa emerge-
re tecniche di rappresentazione dell’arte figurativa e del cinema –
dalle immagini fisse dei tableaux alle sequenzialità filmiche delle
immagini in movimento – nella sua produzione narrativa, in parti-
colare nelle descrizioni e nelle metafore visive maggiormente uti-
lizzate nei suoi romanzi.
Il saggio su Calvino mette invece in evidenza più di un procedi-
mento di omologia tra i due ambiti. Valeria Cammarata analizzando
la complessa questione del doppio processo immaginativo di Calvi-
no – dalla immagine al verbale e viceversa – esplora i diversi aspetti
della cultura visuale dello scrittore, mostrando come la letteratura e
le immagini si fecondano reciprocamente. Tre gli aspetti analizzati:
il processo dall’immagine alla narrazione, le ottiche dello sguardo,
le descrizioni. Se nella letteratura di Calvino raccontare e descrivere
si fondono, nell’immaginario visuale dello scrittore ricorrono mate-
riali diversi: gli scritti sul senso della vista e sul visibile, le gallerie
personali di immagini, le relazioni personali con scrittori-pittori.
Nelle tre sezioni di questo volume la reciprocità di sguardi tra
letteratura e arte si trova così declinata secondo gradi e qualità di
diverso tipo: dalla cooperazione come progetto nelle sopravvivenze,
alla competizione espressiva della descrizione e, infine, al confronto
negli specchi multipli della rappresentazione. Alla teoria della lette-
ratura è dunque affidato il compito di costruire cartografie che, per
quanto in continua evoluzione, possano rendere conto di un pano-
rama in cui scritture ed immagini si incontrano.
I
Sopravvivenze
NEMESI-ADRASTEA
SULLA CULTURA VISUALE DI HERDER
E DI HÖLDERLIN

Michele Cometa

Filosofia dell’avvenire

Si è giustamente insistito sullo stretto e duraturo rapporto che


lega Hölderlin1 a Herder2, sia sul piano della frequentazione per-
sonale che su quello squisitamente poetico e poetologico3. Anche
quando l’allievo si allontana dal maestro.
È il caso dell’interpretazione di una figura mitologica centrale
nella riflessione herderiana e che compare solo sporadicamente in
quella di Hölderlin: la Nemesi-Adrastea. Le rare citazioni nell’ope-
ra di Hölderlin e l’interpretazione sostanzialmente anti-herderiana
che egli ne diede non traggano però in inganno. Anche nel caso di
questa figura Hölderlin, soprattutto sul piano della cultura visuale
che ne rese possibile la “sopravvivenza”, è fortemente debitore nei
confronti di Herder e, certamente, anche di una tradizione inter-
pretativa di cui quest’ultimo rappresenta uno degli snodi fonda-
mentali nella cultura tedesca.
La figura di Nemesi-Adrastea si colloca nel cuore della filosofia
della speranza di Herder, una filosofia che ebbe importanti riela-
borazioni in tutta la Goethezeit e la cui eco si avverte ancora negli
scritti di Hölderlin, Goethe e Hegel4. Si tratta di una forma e di
uno stile di pensiero, più che un insieme di teoremi, che attraversa

1 Per le opere di Hölderlin si veda l’edizione: F. Hölderlin, Sämtliche Werke und


Briefe, a cura di J. Schmidt, Frankfurt a.M., Deutscher Klassiker Verlag, 1992 (d’ora in
poi SWB, il volume e la pagina). Quando non altrimenti indicato le traduzioni sono
mie.
2 Per le opere di Herder si veda l’edizione: J.G. Herder, Sämtliche Werke, a cura
di B. Suphan (C. Redlich, R. Steig), Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1878 ss.
(d’ora in poi SW, il volume e la pagina). Quando non altrimenti indicato le traduzioni
sono mie.
3 Si cfr. soprattutto U. Gaier, Der gesetzliche Kalkül. Hölderlins Dichtungslehre,
Tübingen, Niemeyer, 1962, passim.
4 Cfr. M. Cometa, L’età di Goethe, Roma, Carocci, 20072, p. 19 ss.
18 Lo sguardo reciproco

le Idee (1787) e Dio. Alcuni dialoghi (1787) e che culmina nella ri-
vista Adrastea (1802 ss.), esempio insuperato, nella cultura tedesca
di quegli anni, di equilibrio tra istanze teoretiche e vis divulgativa.
La rivista Adrastea, al di là della sua forma, si potrebbe dire, “ro-
mantica”, è – come è stato notato – il precipitato più maturo della
“filosofia della storia”5 di Herder e con essa della sua peculiare fi-
losofia della speranza.
Un’influenza decisiva sulla formazione della filosofia della sto-
ria della Goethezeit ebbero quegli scritti di Herder che rispondo-
no, più o meno esplicitamente, alle questioni poste da un dibattito
cruciale del tardo illuminismo tedesco, quello sull’“immortalità”
(Unsterblichkeit)6, che com’è noto fu sustanziato dall’idea di un ri-
torno delle anime (Seelenwanderung) e di una palingenesi di tutte
le cose. Ci riferiamo a Titone e Aurora (1792), cui Hölderlin si ri-
chiamerà per la sua metaforica dello “schlummern”, e ai tre saggi
apparsi sui Fogli sparsi del 1797: Palingenesi. Sul ritorno dell’anima
umana (SW XVI 341-359), Del sapere e non-sapere del futuro (SW
XVI 368-381), Su sapere, presagire, desiderare, sperare e credere
(SW XVI 382-386).
È nel quadro di questa radicale filosofia del futuro che Herder
ricorre alla figura di Nemesi-Adrastea7 per disattivarne – attraverso
una complessa sequenza di risemantizzazioni che tengono conto di

5 Sulla filosofia della storia di Herder e in particolare sulla sua filosofia del futuro
si cfr. almeno M. Maurer, Nemesis-Adrastea oder Was ist und wozu dient Geschichte?, in
K. Mueller-Vollmer (a cura di), Herder Today: Contributions from the International Her-
der Conference, Nov. 5-8, 1987, Stanford, California, Berlin, de Gruyter, 1990, pp. 46-
63 e W. Koepke, Nemesis und Geschichtsdialektik, ivi, pp. 85-96; L.W. Spitz, Natural
Law and the Theory of History in Herder, in «Journal of the History of Ideas», 16.4
(1955), pp. 453-475; J. Schneider, Herders Vorstellung von der Zukunft, in «The Ger-
man Quartely», 75.3 (2002), pp. 297-307; H.D. Irmscher, Gegenwartskritik und
Zukunftsbild in Herders Schrift Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der
Menschheit. Beitrag zu vielen Beiträgen des Jahrhunderts, in «Recherches Germani-
ques», 23 (1993), pp. 33-44; E. Palti, The “Metaphors of Life”: Herder’s Philosopy of Hi-
story and Uneven Development in Late Eighteenth-Century Natural Sciences, in «History
and Theory», 38.3 (1999), pp. 322-347.
6 Su ciò mi permetto di rimandare al mio studio Il romanzo dell’Infinito. Mitolo-
gie, metafore e simboli dell’età di Goethe, Palermo, Aesthetica edizioni, 1990, pp. 11-86.
7 Sulla Nemesi nella tradizione letteraria si cfr. almeno: A. von. Premerstein, Ne-
mesis und ihre Bedeutung für die Agone, in «Philologus», 53 (1894), pp. 400-415 e, so-
prattutto, H. Psnansky, Nemesis und Adrasteia, in «Breslauer philologische Abhandlun-
gen», 5.2 (1890), pp. 1-184.
Nemesi-Adrastea 19

molti elementi visuali antichi e moderni – la pagana terribilità ed


esaltarne invece le caratteristiche di equanimità e misura. Forze
che appunto operano nella storia8 per farne ciò che essa deve dive-
nire: il territorio pianeggiante dello sviluppo dell’Umanità.
Studiare la valenza simbolica della Nemesi-Adrastea significa in-
dividuare quelle leggi della storia che stanno alla base di una
“scienza del futuro” (Wissenschaft der Zukunft) che sappia inter-
pretare correttamente gli aspetti di progressività e prevedibilità del
cammino dell’umanità. La Nemesi è il simbolo incarnato di questa
“scienza” giacchè essa rappresenta la forza divina che presiede alla
storia, intesa organicisticamente come tessuto di passato-presente-
futuro; la Nemesi è, proprio in quanto dea della giustizia e della
retribuzione, colei che letteralmente intreccia le tre forme del tem-
po, permettendo di costruire sulla trama di passato e presente, la
prospettiva in cui il futuro potrà svolgersi: «Se si deve parlare di
vita futura, dobbiamo considerarla come prosecuzione e risultato,
come il risvolto capovolto di questa vita» (SW XVI, 377). Per que-
sto in Del sapere e non-sapere del futuro Herder considera proprio
la “reincarnazione” un’occasione per la realizzazione dei piani di
Nemesi:
Portiamo dentro di noi la Nemesi. Ognuno sa di che colpe e di che
omissioni si è macchiato nella sua vita precedente, cosa deve espiare,
compensare, recuperare, annientare, spesso annientare con la sua propria
rovina (SW XVI 374 ss.).

La risemantizzazione dei mitologemi classici legati a Nemesi-


Adrastea passa, come sempre in Herder, da un’indagine genealogi-
ca di grande respiro filologico ed ermeneutico.
Sin dal primo, e decisivo saggio, del 1786 intitolato Nemesi. Un
emblema didattico (SW XV 395 ss.), pubblicato sui Fogli sparsi e
poi ripreso nel 1791, Herder ricorre ad un complesso apparato di
riferimenti letterari e iconografici per determinare le molteplici
tradizioni della Nemesi-Adrastea, mostrando, nella sua infinita eru-
dizione, di preferire i percorsi meno noti, quelli dimenticati o si-
lenziosamente addormentati negli angoli della storia.
La figura della Nemesi, così reinterpretata, ritorna poi al centro
di uno degli scritti filosoficamente più rilevanti di Herder, Dio. Al-

8 Si cfr. il capitolo Nemesis der Geschichte nell’Adrastea (SW XXIV, 326 ss.).
20 Lo sguardo reciproco

cuni dialoghi (SW XVI 468 ss.) e nel titolo della rivista che inaugu-
ra il nuovo secolo, l’Adrastea, nome attribuito alla Nemesi dalla
tradizione che fa risalire ad Adrasto la costruzione del suo tempio.
L’Adrastea fu un contenitore enciclopedico in cui Herder intende-
va proprio segnalare ciò che della cultura dei secoli precedenti era
destinato ad una palingenesi nell’incipiente Ottocento.

Un atlante delle immagini

Chi è dunque Nemesi nell’ideale “atlante della memoria” dell’i-


dealismo tedesco e in particolare per Herder e per quelli, come
Hölderlin, che terranno conto delle riscritture herderiane? A quale
patrimonio di miti e di immagini poteva attingere la loro fantasia?
Ascoltiamo innanzitutto la narrazione del mito che ci offre Ka-
rol Kerényi, il più autorevole mitologo del XX secolo, certo me-
more delle riscritture mitologiche herderiane:
Tra i figli della Notte figurava, come certamente si ricorda, una figlia
di questa dea primordiale, Nemesi. Il nome significa la giusta ira, che si
rivolge contro coloro che hanno violato un ordinamento, soprattutto l’or-
dine della natura, disprezzando le sue regole e le sue norme. Quando si
manca di rispetto a Temi, ecco apparire la Nemesi. Essa ha le ali, almeno
nelle raffigurazioni più tarde […] Aidos, la sua compagna, la dea “Pudo-
re”, che secondo la profezia di Esiodo doveva abbandonare l’umanità in-
sieme a Nemesi, appare alata in tempi molto più antichi. Artemide, cui
entrambe stanno molto vicine, aveva parimenti le ali nei tempi più anti-
chi. Le Erinni, spiriti dell’ira e della vendetta, sono tanto simili a Nemesi
o alle Nemesi […] da confondersi con esse […] Della celebre immagine
cultuale della Nemesi di Ramnunte si raccontava che originariamente fos-
se stata fatta dallo scultore Agoracrito come Afrodite e soltanto poi nell’i-
ra l’avesse trasformata in una statua di Nemesi. La testa era adorna di una
corona di fanciulle alate e di cervi. La dea reggeva in mano un ramo d’al-
bero con pomi, come se fosse stata un’Esperide. Del resto era ritenuta an-
che una Oceanina9.

È in epoca classico-romantica che Nemesi torna prepotentemen-


te nell’immaginario letterario, soprattutto tedesco, proprio grazie a

9 K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della grecia, trad. it. di V. Tedeschi, Milano, Gar-
zanti, 1976, vol. I, p. 100 ss.
Nemesi-Adrastea 21

Herder cui si deve senz’altro, come


vedremo, la sua rivalutazione in am-
bito artistico. La mediazione herde-
riana fu essenziale anche se i suoi
immediati successori seppero inte-
grarla con felici intuizioni che si rifa-
cevano alle origini greche del mito-
logema, uno scenario da cui Herder
– da buon avanguardista – aveva vo-
luto, sia pure con la consueta mode-
razione, emanciparsi. Modernizza-
zione che – va detto subito – sta tut-
ta sotto il segno di una cristianizza-
zione del mitologema, e con esso di
tutta la filosofia della storia.
Herder nella sua raffinatissima ri-
costruzione mitologica si sofferma
sui principali attributi della dea, at-
tributi che hanno avuto però una
modesta ricaduta iconografica in
Occidente. Lo stesso Herder è in
difficoltà quando deve illustrare la
Nemesi di Ramnunte 10, «ein atti-
sches Kunstbild» (fig. 1)11, di cui sa Fig. 1. Nemesi di Ramnunte, II
l’esistenza da Plinio 12, che consi- secolo d.C.

10 Il tempio della dea si trova a Ramnunte e risale al V secolo a.C. Si cfr. l’ap-

profondito studio di M.M. Miles, A Reconstruction of the Temple of Nemesis at Rham-


nous, in «Hesperia», 58.2 (1989), pp. 133-249; A. Trevor Hodge, R.A. Tomlinson, Some
Notes on the Temple of Nemesis at Rhamnous, in «American Journal of Archaeology»,
73.2 (1969), pp. 185-192; K.D. Shapiro Lapatin, A Family Gathering at Rhamnous?
Who’s Who on the Nemesis Base, in «Hesperia», 61.1 (1992), pp. 107-119.
11 La statua, oggi attribuita allo scultore attico Agoracrito, allievo di Fidia, è datata

430-420 a.C. e se ne conservano molte copie romane ma pochissimi frammenti (della


testa al Louvre e della base a Ramnunte). La copia conservata alla Ny Carlsberg Glyp-
tothek di Copenhagen è la più attendibile.
12 Cfr. Plinio il Vecchio, Storia delle arti antiche (Naturalis Historia Libri XXXIV-

XXXVI), introduzione di M. Harari, testo critico, traduzione e commento di S. Ferri,


Milano, BUR, 2000, p. 275: «Discepolo di Pheidias fu anche Agorakritos di Paro, caro
assai al maestro anche per la sua gioventù, sicchè Pheidias lasciò circolare sotto il nome
dello scolaro molte delle opere sue stesse. Alkamenes e Agorakritos gareggiarono tra
loro per un’Afrodite, e Alkamenes vinse non per merito intrinseco dell’opera ma per i
22 Lo sguardo reciproco

derò la statua della dea solo un “adattamento” di una Venere rifiu-


tata dagli Ateniesi ma su cui aveva posto mano Fidia stesso:
Sul capo aveva una corona sulla quale erano raffigurati cervi e altri se-
gni di vittoria; nella mano sinistra reggeva un ramo di melo, nella destra
una coppa su cui erano raffigurati degli Etiopi. Questa era la famosa Ver-
gine di Ramnunte, una statua alta dieci cubiti che nella forma era una Ne-
mesi-Cipride (SW XV 400 ss.).

La trasformazione di una Venere in Nemesi aveva fornito agli


interpreti, da Plinio a Winckelmann, materia di riflessione e l’ap-
parato esplicativo esibito da Herder dimostra quanto quest’ultimo
ne fosse consapevole. Del resto sulla base di questa sovrapposizio-
ne i Greci spiegano la bellezza di Elena e dei Dioscuri figli di una
Nemesi mondana, Leda, caratteristica che si trasmette ovviamente
anche alla figlia, la più bella tra i Greci (SW XV 403)13.
Se la statua di Ramnunte era destinata a rimanere un’icona
mentale – a parte alcune rare ed incerte raffigurazioni in resoconti
di viaggio come la notissima Relazione di un viaggio nel Levante di
Joseph Pitton de Tournefort14 (fig. 2) – più verificabile era l’imma-
gine della dea sulle monete e sulle gemme che Herder richiama nel
suo saggio, presenti nelle raccolte di Laurentius Beger, James Tas-
sie, Joseph Hilarius Eckhel e nel catalogo di Stosch redatto da
Winckelmann, nonché la rarissima scultura riprodotta nei Monu-
menti antichi inediti (1760)15 e le pitture delle Antichità di Ercola-
no (1757-92)16.

voti dei cittadini che favorirono uno dei loro contro il forestiero. Perciò Agorakritos si
dice vendesse la statua a questa condizione, che non rimanesse ad Atene, e la chiamò
Nemesis. Questa statua fu posta a Ramnunte, villaggio dell’Attica, e Marco Varrone la
preferisce a tutte le altre statue».
13 Anche l’altra grande fonte della cultura visuale emblematica, i Hieroglyphica

(1556) di Giovanni Pierio Valeriano, concorda in questo sincretismo. Cfr. Ioannis Pieri
Valeriani Bellvnensis Hieroglyphica seu De Sacris Aegyptiorvm Aliarumque Gentivm Li-
teris Commentarii, Lugduni, Sumptibus Pauli Frelon, M. DCIL, p. 575.
14 J. Pitton de Tournefort, Relation d’un voyage du Levant fait par ordre du Roy:

contenant l’histoire ancienne et moderne de plusieurs isles de l’Archipel, de Constantino-


ple, des côtes de la mer Noire, de l’Arménie, de la Géorgie, des frontières de Perse et de
l’Asie mineure, Paris, De l’Imprimerie Royal, 1717, vol. I, p. 332.
15 J.J. Winckelmann, Monumenti antichi inediti, voll. I e II (facsimile della prima

edizione, Roma 1760), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1967, fig. 25.


16 Antichità di Ercolano esposte con qualche spiegazione, Napoli, 1762, vol. III, tav.

10. Si cfr. anche le note alla tavola IX.


Nemesi-Adrastea 23

Fig. 2. J. Pitton de Tournefort,


Figura della dea Nemesi nell’Isola
di Zia, 1717.

Nelle tavole ercolanensi Nemesi – dopo esser stata citata nel


commento alla tavola dedicata a Leda che ne allattò la figlia Ele-
na17 – viene così descritta:
Quantunque la donna rappresentata in questa pittura di campo turchi-
no comparisca in abito ed in figura interamente diversa dalla precedente;
potrebbe ad ogni modo dubitarsi, se forse esprima la stessa Nemesi non
in sembianze da innamorar Giove, ma in atto di aborrire i colpevoli, e di
minacciare i superbi. Ha ella coverto il capo di una cuffia color giallo, ed è
vestita di bianco, sostenendo colla sinistra mano una spada chiusa nel fo-
dero, e alzando con la destra al pari del petto l’estremità della gialla so-
pravveste, mentre rivolge dalla parte opposta il volto sdegnoso, e schivo,

17 Ivi, vol. III, p. 47 ss. Secondo la testimonianza di Pausania: «I Greci di qui

(Smirne) dicono che a Elena fu madre Nemesi, mentre Leda le offrì il seno e la allevò»
(Pausania, Viaggio in Grecia. Libro primo: Attica e Magaride, introduzione, traduzione e
note di S. Rizzo, Milano, BUR, 1991, p. 289). Sul nesso Nemesi-Elena si veda il bel sag-
gio di F. Jesi, L’Egitto infero nell’Elena di Euripide, in «Aegyptus», 45.1-2 (1965), pp.
56-69 che a sua volta si rifà a K. Kerényi, Die Geburt der Helena, Zürich, Rhein-Verlag,
1945 (trad. it. di A. Brelich, La nascita di Elena, in K. Kerényi, Miti e misteri, Torino,
Bollati Boringhieri, 1979, pp. 35-56).
24 Lo sguardo reciproco

quasi voglia riparare, e sfuggir la vista di cosa che le dispiaccia18.

L’estensore delle note ercolanensi, il quale ci offre un piccolo


trattato di iconografia19, insiste sul nesso tra Nemesi e Pudore, già
associate in Esiodo e costantemente coniugate in autori più tardi
come Ovidio, Eustachio, e Ammiano Marcellino, secondo un per-
corso che – come vedremo più avanti – porta alla cristianizzazione
della Nemesi greca. S’introduce comunque nettamente il tema del
velo retto dalla mano destra in segno di pudore e – come crede
l’autore – soprattutto espressione della volontà di coprirsi gli occhi
per lo sdegno, nonchè la spada, attributo della Giustizia, che ha
una lunga tradizione iconografica nell’emblematica. La rigida po-
stura della donna raffigurata a Ercolano ricorda ovviamente le Ne-
mesi di Ramnunte.
Sempre a Leda infine la associa Montfaucon che nella tavola
dedicata alle due dee riporta, come di consueto, alcuni disegni dei
suoi predecessori (La Chausse, Bandouri etc.) i quali le avevano
assegnato l’attributo della ruota (comune alla Fortuna), la briglia,
il ramo e le ali (fig. 3)20.
Questa iconografia viene per così dire “antologizzata” («come se
al nostro cospetto stesse una serie di statue» scrive Herder) (SW
XV 407), attraverso alcuni epigrammi greci e un celeberrimo inno
attribuito a Mesomede (Mesodemos) che Herder cita qualche pagi-
na più avanti probabilmente in una sua traduzione (SW XV 409). Si
tratta per Herder della sintesi testuale di un repertorio di immagini
che proviene dal passato e che determinerà tutti gli sviluppi futuri:
Alata Nemesi, Tu che della vita decidi/ Dea dallo sguardo grave, figlia
della Giustizia,/ Tu che dei mortali la corsa tracotante e ansiosa/ dirigi
con ferrea briglia;/ E odi la loro perniciosa baldanza,/ E scongiuri la loro
nera invidia.// Intorno alla tua ruota che incessante si muove,/ senza la-
sciar traccia, si avvolge l’ilare fortuna degli uomini./ Nascosta segui i loro
passi/ e pieghi il capo orgoglioso.// E misuri la misura sempre della vita
mortale,/ E guardi il tuo seno con sguardo severo,/ mentre la mano regge

18Ivi, vol. III, pp. 50-52.


19Ivi, vol. III, p. 52, soprattutto le note a pie’ di pagina.
20 B. de Montfaucon, L’antiquité expliquée et représentée en figures, tome premier,

Les Dieux des Grecs & des Romains, Première Partie, Paris, chez Florentin Delaulne-La
Veuve d’Hilaire Foucault-Michel Clousier-Jean-Geoffroy Nyon-Etienne Ganeau-Nico-
las Gosselin et Pierre-Francois Giffart, 1722, vol. I, p. 195, tav. CXCV.
Nemesi-Adrastea 25

Fig. 3. B. de Montfaucon,
Leda e Nemesi, 1722.

il giogo.// Sii clemente, o divina, Tu dispensatrice di diritto,/ Nemesi ala-


ta, Tu che decidi la vita,/ Nemesi, a Te, infallibile, cantiamo,/ E a chi sie-
de con Te, la Giustizia.// La Giustizia che con ampie ali vola,/ La potente
che purifica i cuori tracotanti dei mortali,/ e Nemesi stessa ed il Tartaro21.

21 Mesomedes, Hymnos auf Nemesis, in Griechische Lyrik, Berlin, Aufbau-Verlag,

1980, p. 450 ss.: «Geflügelte Nemesis, Du des Lebens Entscheiderin,/ Göttin mit ern-
stem Blick, Tochter der Gerechtigkeit,/ Du die der Sterblichen stolz-schnaubenden
Lauf/ Mit ehernem Zügel lenkt;/ Und haßet ihren verderblichen Uebermuth,/ Und
bannt hinweg den schwarzen Neid.// Ringsum dein Rad, das immer-bewegliche,/ Spur-
lose, wendet sich um der Menschen lachendes Glück./ Verborgen gehst du ihrem Fuße
nach/ Und beugst der Stolzen Nacken.// Und mißest am Maase stets der Sterblichen
Leben ab,/ Und blickst zum Busen hinunter mit ernstem Blick,/ Indes die Hand das
26 Lo sguardo reciproco

Gli attributi sono dunque le “ali”, lo “sguardo ripiegato sul se-


no”, il “braccio che regge il gomito”, una “ruota sotto i piedi” e le
“briglie” (Zügel) o il “giogo” (Joch) che spesso vengono interpreta-
ti come una “bilancia”. Nemesi poi incede con gli occhi chinati sul
petto e misura con il cubito lo spazio che percorre. Più raramente
l’iconografia classica riporta una “fionda” (Schleuder) e un “ramo”
(Zweig).
Nonostante le palesi imprecisioni di Winckelmann, che Herder
puntualmente contesta, la descrizione della Nemesi che si trova
nel Saggio sull’allegoria specialmente per l’arte (1766) rimane per la
cultura tedesca la più approfondita descrizione ed interpretazione
degli attributi iconografici classici:
Nemesi chiamata anche Adrastea, la dea della Ricompensa delle buo-
ne e delle cattive azioni, viene generalmente rappresentata con una ruota
ai piedi e con una fionda. La ruota le è attribuita come dea della fortuna
(sotto un altro nome) e la fionda allude alla capacità di raggiungere anche
a distanza i malfattori. In questo modo appare sulle monete. Sulle pietre
incise sta con il capo inclinato in avanti, tiene nella destra un ramo e con
la sinistra raccoglie il manto sul petto, ma alquanto sollevato: questo
braccio piegato forma, dal gomito fino alla prima falange delle dita, la mi-
sura che i Greci chiamavano tpugwvn, come esplicazione della giusta e
proporzionata ricompensa di tutte le azioni. Lo sguardo rivolto al seno,
che dipende da come solleva dal petto il manto e lo fa sfilare sul volto so-
pra la testa, esprime la ricerca delle cose nascoste; e in questo senso Esio-
do la chiama “figlia della notte”. Perciò su una moneta dell’imperatore
Adriano è rappresentata con un dito sulla bocca. Il ramo che tiene in ma-
no è di faggio (meliva) e la portata della sua durezza e rigidità si rapporta
alle decisioni circa i premi e i castighi. Così raffigurata, troviamo la Ne-
mesi in marmo della Villa Albani, unica statua conosciuta che la raffiguri.
Si veda nel nono capitolo la mia congettura circa le figure di Etiopi che si
trovano su una coppa in mano alla Nemesi di Fidia22.

Joch hält.// Sei gnädig, o Selige, du, des Recht Vertheilerin,/ Geflügelte Nemesis, Du,
des Lebens Entscheiderin,/ Nemesis, dich die Untrügliche singen wir,/ Und ihre Beisit-
zerin, die Gerechtigkeit.// Die Gerechtigkeit, die mit weitem Flügeln fliegt,/ Die
Mächtige, die der Sterblichen hochaufstrebendes Herz/ Der Nemesis und dem Tart-
arus selbst entzeucht». Corsivi miei.
22 J.J. Winckelmann, Versuch einer Allegorie, besonders für die Kunst, (facsimile

della prima edizione, Dresden, 1766), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1964, p. 54;


trad. it. a cura di E. Agazzi, Saggio sull’allegoria, specialmente per l’arte, Bologna, Mi-
nerva edizioni, 2004, p. 82 ss.
Nemesi-Adrastea 27

L’altro luogo classico cui la Goethezeit poteva attingere era ov-


viamente il celebre Lessico mitologico fondamentale (1770) di
Benjamin Hederich il quale, pur tenendo conto di tutte le fonti e
delle loro descrizioni nell’antiquaria settecentesca e in Winckel-
mann, esordisce apoditticamente:
Essa veniva raffigurata come una donna di bell’aspetto che aveva una
corona sul capo sui cui stavano alcuni cervi e l’immagine della Vittoria, in
una mano teneva un ramo di frassino e nell’altra una coppa. Pausania Att.
C. 33. p. 62. E in questo modo, cioè con un ramo di melo in mano Fidia
la raffigurò nel suddetto pezzo di marmo […]. Altrimenti aveva in una
mano una briglia e, nell’altra, la misura di un cubito23.
La tradizione iconografica pesca dunque in un repertorio dupli-
ce. Nella prima versione la dea, che ha gli attributi della Fortuna e
della Vittoria, la ruota e le ali, tiene in mano gli emblemi della mi-
sura (il cubito) e della moderazione (la briglia), nell’altra – che si
ricollega al modello di Ramnunte – invece un ramo, per lo più di
melo, simbolo della durezza e irrevocabilità delle sue punizioni e
una “coppa” secondo la fondativa descrizione di Pausania:
Lungo la strada litoranea che porta a Oropo, a circa sessanta stadi da
Maratona, c’è Ramnunte. Le abitazioni della gente sono sul mare, mentre
a monte, un po’ distante dal mare, sorge il santuario di Nemesi, la più
inesorabile fra gli dei nei riguardi degli uomini violenti. E si crede che an-
che contro i barbari sbarcati a Maratona si sia scatenata l’ira di questa
dea. Essi infatti, nella loro tracotanza, credettero che non avrebbe costi-
tuito per loro ostacolo alcuno la conquista di Atene e perciò recavano
con sé un blocco di marmo di Paro per costruirne un trofeo, convinti di
aver già portato a compimento la loro impresa. Da questo blocco Fidia
trasse una statua di Nemesi. Essa porta sulla testa una corona ornata di
cervi e di piccole statue di Nike; nella mano sinistra reca un ramo di melo
e nella destra una coppa sulla quale sono raffigurati degli Etiopi. Riguar-
do ai quali né io personalmente ero in grado di fare congetture, né mi
sentivo di accettare proposte di chi era persuaso di capirne il motivo. So-
stengono comunque, che sono stati rappresentati sulla coppa per via del
fiume Oceano: gli Etiopi infatti abiterebbero sulle sue sponde e Oceano
sarebbe padre di Nemesi24.

23 B. Hederich, Grundliches mythologisches Lexicon, (1770), Darmstadt, Wissen-

schaftliche Buchgesellschaft, 1996, col. 1703 ss. Corsivi miei.


24 Pausania, Viaggio in Grecia. Libro primo: Attica e Magaride, cit., p. 285 ss.

(33, 2-3).
28 Lo sguardo reciproco

Pausania in fondo non si sa dare spiegazione per la presenza


degli Etiopi. Winckelmann nel suo Saggio sull’allegoria cerca di
dare un’interpretazione per questa immagine di cui si è perduto il
significato e ipotizza che la rappresentazione degli Etiopi sia dovu-
ta all’aggettivo ajmuvmwn, “senza macchia”, che Omero usa per de-
scrivere questo popolo degno appunto della benevolenza della
Nemesi.
Tuttavia in questa sede è più importante concentrarsi sul
“contenitore” piuttosto che sulla decorazione, giacchè questa
“coppa” è ciò che ha dato adito alle interpretazioni più ardite in
ambito figurativo.
Una ricostruzione della Nemesi di Ramnunte, presumibilmente
aderente all’originale, presenta la coppa come una “scodella”, da
qui la corretta traduzione tedesca con Schale/Schaale, anche se le
rare rappresentazioni della Nemesi in ambito umanistico tendono
a trasformare questa piatta scodella in un calice coperto o in
un’urna.
È il caso della straordinaria Nemesi incisa da Dürer tra il 1501 e
il 1503 (fig. 4)25 che significativamente opera un sincretismo tra i
due filoni più sopra citati. La sua Nemesi – di cui chiara è la so-
vrapposizione semantica con Fortuna/Occasione – è una dea alata
che si libra su una sfera che attraversa un paesaggio (probabilmen-
te il villaggio di Chiusa/Klausen) e tiene nella mano destra in pre-
cario equilibrio uno stupendo calice decorato e nella sinistra le
briglie. Inutile dire quanto quest’immagine dovesse fare parte del
repertorio figurativo di tutta la Goethezeit. Con Dürer – Panofsky
tra gli altri ha ricostruito questa genealogia – giunge a figurazione
una tradizione testuale che risale almeno al poema Manto (1482)
di Agnolo Poliziano.
Singolare, e certamente modellata su Dürer, è l’interpretazione
che di questa “coppa” dà Herder nella già citata caratteristica mi-
tologica: «Un orientale le avrebbe dato in mano a tal fine il calice
della confusione con il quale essa sprofonda nell’ebbrezza e nel so-
pore l’anima dei tracotanti» (SW XV 420). Un campo semantico
che ritornerà nelle liriche che Hölderlin dedica alla Nemesi.
Il riferimento a Dürer è però tutt’altro che casuale. Si tratta qui

25 H. Tietze, E. Tietze-Conrat, Dürer’s First Drawings for the Nemesis, in «The

Burlington Magazine for Connoisseurs», 62. 32 (1933), pp. 243-245.


Nemesi-Adrastea 29

Fig. 4. A. Dürer, La grande


Fortuna, 1501-03.

infatti di gettare uno sguardo sulla cultura visuale di Herder che


vada al di là del confronto con le fonti da lui esplicitamente citate.
Chi legge il saggio sulla Nemesi non può fare a meno di notare che
Herder cita tutto il repertorio classico della Nemesi così come il
vincente neoclassicismo winckelmanniano e postwinckelmanniano
se la raffigurava. Le fonti erano, ovviamente, oltre che lo stesso
Winckelmann – Herder cita più volte i Monumenti antichi inediti
e il catalogo delle gemme di Stosch26 – i repertori numismatici, le
rare rappresentazioni “etrusche” nel Gori, e gli immancabili
Montfaucon e le Antichità di Ercolano. Non c’è biosgno di insiste-
re sul fatto che ci troviamo nel cuore delle fonti visuali del neo-
classicismo europeo, giustamente considerate da Winckelmann, e
innumerevoli volte fonte di ispirazione per gli artisti di tutta Euro-
pa. Citandole Herder in qualche modo esibiva il proprio credo
neoclassico, e si predisponeva ad essere accettato dai contempora-

26 J.J. Winckelmann, Description des Pierre Gravées du feu Baron de Stosch, Baden-

Baden-Straßbourg, Heitz, 1970.


30 Lo sguardo reciproco

nei, soprattutto dal vicino Goethe.


Tuttavia è difficile immaginare che le sue fonti visive e la sua
cultura visuale si limitassero alle incerte e “primitive” rappresenta-
zioni di Bernard de Montfaucon e delle pitture di Ercolano. Del
resto sappiamo come Herder non andasse troppo per il sottile
quando si apprestava a collezionare apparati visivi per la stesura
delle sue opere e che vigesse in lui il sano eclettismo del collezioni-
sta e dell’antiquario, piuttosto che il rigore del classicista. Proprio
nel contesto della sua filosofia della palingenesi, ad esempio, non
esita ad aprire il saggio più importante dedicato a questa figura,
non con un mitologema classico – poniamo Titone ed Aurora –
ma con la descrizione di un’incisione indiana.
In controtendenza col suo tempo egli dette prova di grande
lungimiranza quando, nonostante il divieto classicista sull’allego-
ria, ebbe a chiedersi, nell’ambito dei suoi studi su Johann Valentin
Andreae apparsi sui Fogli sparsi del 1793:
Una grande quantità di libri e cataloghi simbolico-emblematici appar-
ve sul finire del sedicesimo secolo e agli inizi del diciassettesimo. – Per-
ché? La storia di questa epoca e di questo gusto è avvolta ancora nel buio
(SW XVI 161).
Questa attenzione per quelli che Herder – anticipando Benja-
min – chiama Denkbilder 27, gli emblemi, le imprese e le allegorie28,
è unanimemente interpretata dai critici come l’atto di nascita della
moderna Emblemforschung, che – oltre all’enorme valore sul piano
della storia dell’arte, culminata nella novecentesca iconologia – ha
avuto un significato che non sfuggiva allo stesso Herder: quello di
essere il luogo precipuo della “sopravvivenza degli antichi dei”, per
dirla con Seznec29, ovvero della trascrizione cristiana dell’olimpo
pagano.
Il saggio herderiano sulla Nemesi è una tappa fondamentale di
questa cristianizzazione. E ciò avviene con tutta probabilità pro-

27 Herder stesso chiarisce che Sinnbilder, Denkbilder e Embleme sono per lui sino-

nimi. Cfr. SW XVI 160.


28 Le pagine più importanti sull’allegoria e sugli emblemi, sui Denkbilder, Herder

le scrive nella parte poetologica dell’Adrastea. Cfr. SW XXIII 314 ss.


29 Che ovviamente resta il testo classico su questa trasmigrazione di simboli. Cfr. J.

Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizione mitologica
nella cultura e nell’arte rinascimentali, trad. it. di G. Niccoli e P. Gonnelli Niccoli, Tori-
no, Bollati Boringhieri, 1990.
Nemesi-Adrastea 31

prio grazie alle immagini che stanno in due libri che determinano
tutta la tradizione emblematica ed iconologica: mi riferisco al Li-
bro degli emblemi (1531) di Andrea Alciato e a Le imagini de i dei
de gli antichi (1556) di Vincenzo Cartari, due raccolte la cui eco
iconografica resistette per alcuni secoli.
Se, come abbiamo già accennato, la Nemesi herderiana opera
un sincretismo moderno – utile alla filosofia della storia – tra ven-
detta e temperanza, nel segno della cristianizzazione, questo lo si
deve, innanzitutto a queste fonti visuali.
Alciato risente ancora pienamente dell’indecisione semantica
che sembra avvolgere l’iconografia della Nemesi. Nella prima edi-
zione conosciuta, e non autorizzata dall’autore, quella di Augusta
del 153130 (fig. 5), la dea, nell’incisione di Jörg Breu, ha ancora de-
cisamente gli attributi della Fortuna. È infatti una dea alata in
equilibrio su una ruota con i caratteristici capelli legati. Tiene in
mano le briglie mentre la mano destra, nonostante l’epigramma al-
luda al “cubito”, è libera e sembra indicare il cielo. Non a caso nel
testo della traduzione tedesca di Jeremias Held, apparsa a Fran-
corforte sul Meno nel 1567, manca il riferimento al “cubito”31.
Nel primo Alciato la Nemesi appare altre due volte, con l’attributo
della spada, oltre che della briglia e delle ali, nell’emblema 46, Illi-
citum non sperandum, dove viene declinata insieme alla Speranza:
«Spes simul & Nemesis nostris altaribus adsunt,/ Scilicet ut speres
non nisi quod liceat» e nell’emblema 11132.
In altre edizioni la pictura cambia completamente. Permane so-
lo l’attributo della briglia. Nell’edizione parigina del 1534 (fig. 6) a
quest’ultima si associa esplicitamente un cubito, l’unità di misura
che la dea brandisce con la mano destra.
Nell’edizione parigina del 154233 (fig. 7), la prima col testo te-
desco, si vede invece una donna finemente vestita, con i capelli
fermati da una cuffia che incede sullo sfondo in un paesaggio
30 Se ne può trovare una riproduzione in A. Henkel, A. Schöne (a cura di), Emble-

mata. Handbuch zur Sinnbildkunst des XVI. und XVII Jahrhunderts, Stuttgart, Metzler,
1967, col. 1811.
31 Ivi, col. 1812.
32 Cfr. Viri clarissimi d. Andree Alciati Iurisconsultiss. Meiol. Ad D. Chonradum

Peutingerum Augustanum, Iurisconsultum Emblematum Liber, M. D. XXXI, emblemi


46 e 111.
33 Si cfr. il reprint: A. Alciatus, Emblematum Libellus, Darmstadt, Wissenschaftli-

che Buchgesellschaft, 1987, pp. 42-43.


32 Lo sguardo reciproco

Fig. 5. A. Alciato, Nec uerbo nec fac- Fig. 6. A. Alciato, Nec uerbo nec fac-
to quenquam lædendum, 1531 (inci- to quenquam lædendum, 1534.
sione di J. Breu).

Fig. 8. G. Whitney, Nec verbo, nec


Fig. 7. A. Alciato, Nec uerbo nec fac- facto, quenquam laedendum/Neither
to quenquam lædendum/Niemand in word nor in deed should we offend
verletzen, mit wort noch that, 1542. anyone, 1586.

appena accennato. Nella mano sinistra regge la briglia, mentre la


mano destra, in maniera un po’ innaturale, regge il gomito della si-
nistra. È l’altra interpretazione del “cubito” di cui si dice nell’epi-
gramma latino.
Nemesi-Adrastea 33

Nelle più tarde edizioni dell’Alciato – per esempio quelle ripre-


se da Geffrey Whitney la cui edizione inglese del 1586 (fig. 8) eb-
be un gran significato per la diffusione del testo – si vede infine
una donna, il cui panneggio classico è fortemente connotato da
tratti rinascimentali la quale regge con entrambe le mani una bri-
glia e si muove leggiadra sullo sfondo di un paesaggio antropizzato
e solare34. In questo Alciato la dea perde completamente le conno-
tazioni di figlia della notte dedita alla vendetta e alla punizione
dell’hybris umana. Al contrario essa appare in un paesaggio deci-
samente pacificato e le connotazioni classiciste e rinascimentali del
vestito e dell’incedere spogliano del tutto la figura della sua terri-
bilità greca. Whitney che in margine fa riferimento al Manto (ca.
1480) del Poliziano, ad esempio, scrive:
HEARE, NEMESIS the Goddesse iuste dothe stande,/ With bended
arme, to measure all our waies,/ A raine shee houldes, with in the other
hande,/ With biting bitte, where with the lewde shee staies:/ And pulles
them backe, when harme they doe intende,/ Or when they take in wicked
speeche delite,/ And biddes them still beware for the offende,/ And
square theire deeds, in all things vnto righte:/ But wicked Impes, that
lewdlie runne their race,/ Shee hales them backe, at lengthe to theire
deface35.
Alla subscriptio inglese Whitney fa quindi seguire la descrizione
in latino – leggermente modificata e abbreviata – che apre il poe-
ma di Poliziano:
Est dea, quae uacuo sublimis in aere pendens/ It nimbo succincta la-
tus sed candida pallam,/ Sed radiata comam, stridetibus insonat alis./ Im-
mine, huic celsas hominum contundere mentes./ Successusq; datum, &
nimios turbare paratus./ Quam ueteres Nemesin genitam de nocte silen-
ti/ Oceano dixere patri. Stant sidera fronti./ Frena manu, pateramq; gerit,
semperq; uerendum/ Ridet, & insanis obstat contraria coeptis./ Improba
nota domans, ac summis ima reuoluens/ Miscet, & alterna nostros uice
temperat actus36.
34 Cfr., ad esempio, Alciato, Emblemas, a cura di S. Sebastian, Madrid, Akal, 1985,
p. 61.
35 A Choise of Emblemes, and Other Devises, For the moste parte gathered out of

fundrie writers, Englished and Moralized. And Divers Newly Devised, by Geffrey Whit-
ney, Imprinted at Leyden, In the house of Christopher Plantyn, by Francis Raphelen-
gius, M D. LXXXVI, p. 19.
36 A. Politianus, Opera omnia, Venetiis, Aldus Manutius, 1498, s. p. Abbiamo ri-

portato il testo completo del Manto.


34 Lo sguardo reciproco

Panosfky ha spiegato che proprio a Poliziano si deve l’introdu-


zione del “piatto” (patera) al posto della coppa, variante che aprirà
la strada alla sovrapposizione definitiva di Nemesi e Giustizia37. In
tutte le edizioni dell’Alciato, che alternano sostanzialmente due
iconografie, la subscriptio, nella versione latina, è del resto più che
rassicurante, come del resto la traduzione tedesca:
Assequiter, Nemesisque virum vestigia servat,/ Continet et cubitum
duraque; frena manu./ Ne male quid facias, neve improba verba loqua-
ris./ Et iubet in cunctis rebus adesse modum38.

Che Alciato voglia dare alle Nemesi solo connotazioni positive


che la legano più alla “moderazione” che alla “vendetta” è confer-
mato dall’emblema dedicato alla speranza (In simulacrum spei)
(fig. 9), dove la dea, chiamata coll’appellativo classico di
Ramnusia, appare alle spalle della Speranza che spezza le armi e
siede sul vaso di Pandora. O, come nella citata edizione di Augu-
sta, viene rappresentata, sempre al cospetto della Speranza che
spezza le armi, anch’essa raffigurata con le ali, una spada – mutua-
ta dalla Giustizia – e le briglie.
Vincenzo Cartari introduce decisamente la Nemesi nel capitolo
dedicato alla Fortuna, seguendo in questo, come abbiamo già ri-
cordato, un’idea già presente nel Poliziano e trasmessasi a Dürer.
Nello stesso capitolo tratta, tra l’altro, della Giustizia e dell’Occa-
sione, instaurando un campo semantico complesso di cui Herder è
perfettamente consapevole:
Ma prima ch’io vada oltre parlando della Fortuna, voglio dire chi fos-
se Nemesi, perché sono queste due molto simili tra loro, e tanto che le
hanno credute alcuni una medesima cosa […]; nondimeno fu pure adora-
ta ciascheduna da sé et ebbero quella e questa immagini tra loro differen-
ti, come apparirà per lo mio disegno. Fu dunque Nemesi una dea la quale
era creduta mostrare ciascheduno quello che gli stesse bene a fare, et Am-
miano Marcellino dice di lei: questa è dea che punisce i malvagi e dà pre-

37 E. Panofsky, Virgo et Victrix. A Note on Dürer’s Nemesis, in C. Zigrosser (a cura

di), Prints. Thirteen Illustrated Essays on the Art of Print, New York, Holt, Rinehart
and Winston, 1962, pp. 13-38.
38 A. Alciatus, Emblematum Libellus, cit., pp. 42-43: «Das ist die Göttin Nemesis,/

Die get unnß auff dem fueßtrit nach,/ Helt yren arm, tregt ein gebiß,/Lernt das wier nit
seyen so gach,/ Zu thuen aynichem menschen schmach,/ Es sey mit wortten, oder
that:/ Dan gar bald kumbt gewise rach,/Vnd puest sich alle vbelthat».
Nemesi-Adrastea 35

Fig. 9. A. Alciato, In simulacrum


spei, 1542.

mio a’ buoni, conoscitrice di tutte le cose, onde la finsero gli antichi teo-
logi figliuola della Giustizia, che da certa secreta parte della eternità se ne
stesse a risguardare le opere de’ mortali […] Fu fatta Nemesi alle volte
ancora che nell’una mano tiene un freno e nell’altra un legno con che si
misura, volendo perciò mostrare che debbono gli uomini porre freno alla
lingua e fare tutto con misura39.
La strategia ermeneutica di Cartari è estremamente raffinata,
giacchè per lui si tratta di ricostruire per analogie e differenze il
campo semantico della Fortuna, applicando per così dire una sor-
ta di decostruzione delle immagini e dei simbolismi pervenuti dal-
la tradizione. Herder ne è consapevole perché anche per lui si trat-
ta di recuperare il patrimonio didattico-figurativo della grecità,
rimasto insuperato:
Nessuna nazione li [i Greci] ha eguagliati, né tantomeno superati; così
che si dovette considerare una vera perdita per l’umanità il fatto che la lo-
ro filosofia e la loro simbolica, che la loro poesia e la loro lingua furono
esiliate dal mondo e in particolare bandite dalla vista della gioventù. Io
non vedo come le si potrebbero rimpiazzare. Una prova è il concetto
figurato che ho analizzato (SW XV 423).
Non è questo il luogo per insistere sulle potenzialità di questa
metaforica. Ci limitiamo a segnalare la centralità della cultura vi-
suale greca («von den Augen der Jugend» «der bildliche Begriff»)

39 V. Cartari, Le imagini de i dei de gli antichi, a cura di G. Auzzas, F. Martignago,

M. Pastore Stocchi, P. Rigo, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1996, p. 408.


36 Lo sguardo reciproco

e la necessità ermeneutica del lavoro decostruttivo («den ich zer-


gliedert habe»), l’eredità più importante di questo Herder.
Egli distinge dunque due immagini della Nemesi che concorro-
no alla formazione degli attributi assorbiti dalla Fortuna. La prima
«nell’una mano tiene un freno e nell’altra un legno con che si mi-
sura, volendo perciò mostrare che debbono gli uomini porre freno
alla lingua e fare tutto con misura»40, la cui fonte è l’Antologia Pa-
latina. L’altra, che riprende Pausania e l’enfasi sulla vittoria degli
Ateniesi, «teneva un ramo di frassino nella sinistra mano e nella
destra un vaso con alcuni Etiopi scolpiti dentro»41, immagine,
quest’ultima, della quale non sa darsi spiegazione come lo storico
greco.
Nella bellissima tavola (fig. 10) si vede molto di più di quanto si
apprenda dal testo: una Nemesi alata che si libra sopra una ruota –
attributo della Fortuna – e un timone. Con una nettezza mai altro-
ve raggiunta il “cubito” che la dea regge con la mano destra è cer-
tamente uno strumento di misura. Mentre Alciato aveva preferito
insistere sul “cubito” misurato dal braccio destro. La seconda im-
magine mostra invece la dea coronata che porta alto con la mano
destra un calice finemente decorato e nella sinistra un ramo di
frassino. Entrambe le figure incedono leggiadre e la loro andatura
è sottolineata dal panneggio. Quello stesso panneggio che dona al-
la Nemesi di Dürer una dinamicità che sembra contraddetta dal ri-
goroso equilibrio della donna sulla sfera.

Una nuova mitologia

Basta leggere tra le righe del testo herderiano per veder compari-
re in trasparenza le immagini di Alciato e Cartari. Assolutamente
evidente è che Herder conoscesse Alciato nell’edizione parigina lati-
no-tedesca del 1542, che ci viene presentata però con una variante:
Chi è quella bella dea che avete dinnanzi? – chiede Philolaus in Dio.
Alcuni dialoghi (1787 e 1800) – Bella come l’amore e seria come la sag-
gezza: guarda in basso il seno velato e tiene il braccio sinistro come se
misurasse qualcosa; la mano compassata tiene un ramo. Vi è qualcosa di

40 V. Cartari, Le imagini de i dei de gli antichi, cit., p. 410.


41 Ibidem.
Nemesi-Adrastea 37

Fig. 10. V. Cartari, Fortuna, 1556.

silente nel suo procedere e una grazia sublime in tutto il suo portamento
(SW XVI 468 ss.).
La risposta di Theophron è, a sua volta, un sapiente sincretismo
creato dalle immagini di Cartari:
È seria e bella: poiché è la figlia della Giustizia che non può essere al-
tro che saggia e benevola. Per questo misura con la destra il comporta-
mento e la fortuna dei mortali e abbassa gli occhi sul seno senza prendere
38 Lo sguardo reciproco

partito; a colui però che mantiene la misura porge il ramo della ricom-
pensa. Talvolta ha anche una ruota sotto i piedi: un segno del fatto che sa
precipitare e mandare in rovina la fortuna del tracotante in un attimo con
tocco leggero […]. Il volto serio e benevolo della dea, la sua saggia misu-
ra e il ramo della fortuna che tiene in mano sono simboli sufficienti per
rammentarci l’inflessibile verità naturale: “che ogni patrimonio, ogni be-
nessere, sì l’esistenza stessa delle cose si basa sulla misura, la proporzione
e l’ordine e sussistono solo grazie ad essi” (SW XVI 469).

Qui Herder si è ormai già decisamente emancipato dalla se-


mantica pagana della Nemesi. L’ordine delle cose cui la Nemesi
presiede è ormai illuminato da un dio personale che infonde pan-
teisticamente la propria misura nell’intera natura. Spinozianamen-
te – almeno nei dialoghi su Dio – Herder insiste sull’ordine sostan-
ziale dell’universo confutando con argomentazioni scientifiche e
teologiche le paure tipiche della fisico-teologia dell’epoca, ad
esempio l’idea che un corpo celeste potesse investire la terra e
sconvolgere le orbite dei pianeti del sistema solare, un tema caro
sia alla filosofia (Hemsterhuis) che alla letteratura (Shelley, Jean
Paul, Wieland)42. Nei dialoghi Herder riconduce pure quest’ordi-
ne “naturale” del cosmo alla simbolica della Nemesi:
Che fine fa, per esempio, la vacua paura che una cometa possa investi-
re la terra da quando si conosce esattamente la traiettoria di questi corpi
celesti e dopo che sulla base delle misurazioni fatte si possono calcolare i
casi in cui un simile impatto deve essere temuto? La possibilità di questo
accidente è diventata dopo questo calcolo così rara che, in rapporto alla
grande interazione tra le forze che reggono l’universo, è quasi ridotta a
zero […]. Questa vacua paura è scomparsa grazie ad una più chiara visio-
ne della cosa stessa, poiché si è trovato che tutte le deviazioni dei pianeti
vengono tenute periodicamente entro certi limiti secondo leggi immutabili
e che queste irregolarità si compensano reciprocamente; il sistema dei
pianeti è dunque costante, e rimane. Benevola e bella necessità sotto il cui
scettro onnipresente noi viviamo! Essa è figlia della somma Saggezza, so-
rella gemella della forza eterna, la madre di ogni bene, d’ogni felicità e si-
curezza e ordine. Se dovessi scegliere un’immagine più bella dall’antichità
direi che la Nemesi deve cedere il proprio posto a questa superiore Adra-
stea (SW XVI 472).

42 Cfr. M Cometa, Visioni della fine. Apocalissi, catastrofi, estinzioni, Palermo,

:duepunti, 2004, p. 79 ss.


Nemesi-Adrastea 39

L’atteggiamento di Herder è comunque quello tipico di un mi-


tologo moderno, quale egli fu in maniera forse insuperata. Per
Herder non si tratta di dipanare la complessa genealogia delle for-
me consegnataci dalla tradizione figurativa, soprattutto emblema-
tica, e le testimonianze mitologiche e storiche. Al contrario, da ve-
ro “bricoleur” – nel senso dato da Lévi-Strauss a questo termine –
egli intende riattivarne la complessa semantica per i propri fini:
che sono quelli di una risemantizzazione cristiana. Gli sarebbe sta-
to facile infatti, attenendosi alla lirica di Mesomede, individuare
nell’Alciato parigino o lyonese, la forma definitiva della Nemesi. O
avrebbe potuto – in omaggio a Dürer – insistere sulle contamina-
zioni con la Fortuna o l’Occasione. Herder invece propende per il
sincretismo che già abbiamo visto in Vincenzo Cartari, una forma
sottile di remitologizzazione moderna.
Nello stesso anno Herder infatti pubblica uno dei suoi testi più
acuti e significativi, un capolavoro di filologia ed antiquaria, e il
cuore del progetto di una palingenesi culturale dell’umanità a par-
tire da un uso creativo del mito. Già il titolo, Nemesis. Ein lehren-
des Sinnbild, non nasconde la sua provenienza dal mondo visuale
dell’emblematica. Sinnbild è nel lessico di Herder decisamente si-
nonimo di emblema, prima ancora che di simbolo. In questo sag-
gio – una rimitologizzazione della Nemesi in pieno spirito roman-
tico – Herder compie il passo decisivo che riconduce la dea paga-
na nell’alveo iconografico e semantico della temperantia cristiana.
Per Herder si tratta subito di sconfessare l’Esiodo della Teogonia
che descrive la Nemesi come una “sciagura ai mortali”43, Plaggöt-
tinn, figlia della notte come la falsità o la vecchiaia, e di confutare la
tesi aristotelica che la vedeva solo come una mediazione tra invidia
(Neid) e il piacere maligno (Schadenfreude)44. Nulla di più facile al-
lora che esaltare la contaminazione iconografica tra Venere, la dea
della bellezza e la Nemesi di Ramnunte di cui Pausania racconta.

43 La teogonia di Esiodo e tre inni omerici, nella traduzione di C. Pavese, a cura di

A. Dughera, Torino, Einaudi, 1981, p. 17.


44 Una tesi ancora vigente in Hegel: G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschich-

te der Philosophie, in Id., Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe in zwanzig Bänden, a cura


di H. Glockner et al., Stuttgart-Bad Cannstadt, Friedrich Frommann Verlag (Günther
Holzboog), 1965, vol. XVIII, p. 249 (trad. it a cura di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni
sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1964, vol. II, p. 229). Cfr. anche, ivi,
p. 316 (trad. it. p. 294).
40 Lo sguardo reciproco

Herder ricostruisce meticolosamente tutti i contesti in cui la dea vie-


ne presentata come una controfigura di Venere (Lais, Callimaco,
Plinio, Strabone etc.), e in generale tutte le tradizioni che vogliono
Nemesi madre dei Dioscuri – un tema ripreso da Hölderlin – e di
Elena (SW XV 399 ss.). Fausta sovrapposizione poiché celebra la
vittoria degli Atenisiesi sui Persiani, colpevoli di hybris (Vermes-
senheit) nei confronti di Atene, e poi la giusta pace (SW XV 405).
È tuttavia il già citato inno di Mesomede lo snodo semantico
decisivo nella tradizione della Nemesi. Da dea della vendetta che
era, figlia della notte, essa diviene una “figlia della Giustizia” (To-
chter der Gerechtigkeit), secondo la vecchia tesi platonica delle
Leggi. Herder la distingue dunque da Ate, la dea della vendetta, e
dalla stessa Fortuna e Giustizia, cui pure è apparentata da alcuni
attributi simbolici. Nemesi è la dea della misura (Maaß) e della
moderazione (Einhalt), la «misbilligende Göttin des Uebermuths»
(SW XV 413), il suo simbolismo ci invita alla misura, soprattutto
nella fortuna, il più difficile dei proponimenti. La Nemesi è la dea
che accompagna la Fortuna e la ammonisce a non trasformare i
vantaggi del fato in un atto di hybris (Uebermuth). Mäßigkeit im
Glück cioè temperanza nella fortuna:
Un orientale le avrebbe dato in mano a tal fine il calice della confusio-
ne con il quale essa sprofonda nell’ebbrezza e nel sopore l’anima dei tra-
cotanti; il Greco invece si sarebbe attenuto ai simboli della Giustizia e
della Fortuna, la ruota, la briglia, la misura, la bilancia; e così Nemesi di-
venne […] una benefattrice dell’intera umanità (SW XV 420).
Nella propria ricostruzione della semantica della Nemesi ovvia-
mente non può mancare il riferimento all’Etica Nicomachea in cui
Aristotele pone Nemesi come via di mezzo tra l’invidia e la male-
volenza, attestandola tra le virtù in quanto moderazione:
Il giusto sdegno (Nemesi) è una via di mezzo tra l’invidia e la malevo-
lenza; e queste disposizioni concernono il dolore e il piacere che nascono
sulle vicende che capitano al prossimo. Infatti l’uomo sdegnoso s’affligge
per coloro che immeritatamente hanno successo; l’invidioso, andando più
in là, s’affligge del successo di tutti; la persona malevola di tanto difetta
dall’addolorarsene che anche ne gioisce45.

45 Aristotele, Etica Nicomachea, introduzione, traduzione e commento di M. Za-

natta, Milano, BUR, 1994, vol. I, p. 175.


Nemesi-Adrastea 41

Non a caso Herder conclude il suo percorso interpretativo ci-


tando l’inno orfico dedicato alla Nemesi in cui la dea è ormai qua-
si interamente spogliata d’ogni terribilità e viene invocata perché
ormai si è conciliata (versöhnen) con l’umanità intera e da dea di
vendetta si è trasformata in soccorritrice:
O Nemesi, ti celebro, dea, somma regina,/ tutto vedi, osservando la
vita dei mortali dalle molti stirpi;/ eterna, augusta, che sola ti rallegri di
ciò che è giusto,/ che muti il discorso molto vario, sempre incerto,/ che
temono tutti i mortali che mettono il giogo al collo:/ perché a te sempre
sta a cuore il pensiero di tutti, né ti sfugge/ l’anima che si inorgogliosi-
sce con impulso indiscriminato di parole./ Tutto vedi e tutto ascolti, tut-
to decidi;/ in te sono i giudizi dei mortali, demone supremo./ Vieni,
beata, santa, agli iniziati sempre soccorritrice:/ concedi di avere una
buona capacità di riflettere, ponendo fine/ agli odiosi pensieri empi, ar-
roganti, incostanti46.

La cristianizzazione della Nemesi

Tutti questi attributi, ma soprattutto le “briglie” che costituisco-


no il basso continuo di questa iconografia, concorrono a svelare il
nesso, certamente inscindibile sul piano iconografico dal Medioevo
al Settecento, tra Nemesi e la virtù cristiana della Temperantia, ov-
vero la Mäßigkeit.
Il campo semantico della Temperantia nella scolastica e nella
patristica era infatti dominato dal verbo “refraenare”, riferito al
dominio delle passioni e alla pratica della misura. Direttamente
derivata dall’Etica nicomachea, l’idea che Temperantia e Continen-
tia fossero virtù preposte alla “moderazione”/”misura” degli istin-
ti, si tramette alla Summa Theologica di Tommaso d’Aquino.
Non stupisce – come ha verificato David M. Greene in un im-
portante articolo sull’iconografia della temperanza – che Giotto
nella raffigurazione della Temperantia nella Cappella degli Scrove-
gni, trasformi in una briglia sensibile il freno morale evocato dallo
stagirita e dai padri della chiesa (fig. 11).
Del resto non è un caso che la terza grande fonte dell’iconogra-
fia pittorica moderna, l’Iconologia del Ripa, rubrichi la Nemesi

46 Inni orfici, a cura di G. Ricciardelli, Milano, Valla-Mondadori, 2000, p. 161.


42 Lo sguardo reciproco

Fig. 11. Giotto, Temperantia,


1306.

direttamente sotto la voce Temperanza47 (fig. 12). Nell’edizione


padovana del 1630, accanto alla figura che tiene in mano la carat-
teristica briglia, si legge:
Il freno dichiara, che deue essere la Temperanza principalmente ado-
perata nel gusto, & nel tatto, l’vno de’ quali solo si partecipa per la bocca,
& l’altro è steso per tutto il corpo. Gli antichi col freno dipingeuano Ne-
mesis figliuola della Giustitia, la quale con seuerità castigaua gli effetti in-
temperati de gli huomini…48.

47 Cfr. anche Ioannis Pieri Valeriani Bellvnensis Hieroglyphica seu De Sacris Aegyp-

tiorvm Aliarumque Gentivm Literis Commentarii, cit., p. 378.


48 C. Ripa, Della più che novissima iconologia, ampliata dal Sig. Cav. Gio. Zaratino

Castellini Romano, Per Donato Pasquardi, In Padova, MDCXXX, Parte terza, p. 118.
Nemesi-Adrastea 43

Dopo aver delimitato, at-


traverso la puntuale deco-
struzione degli attributi sim-
bolici delle figure, il campo
semantico della Nemesi,
Herder comincia dunque il
percorso inverso, costruen-
do sullo snodo Nemesi-Tem-
perantia la genealogia di al-
cune virtù che nonostante
gli esempi greci citati non la-
sciano dubbi sulla compiuta
cristianizzazione di questa
simbolica.
Il doppio movimento non
stupisca. Come ha dimostra-
to Wilfried Malsch49 anche Fig. 12. C. Ripa, Temperanza, 1630.
in Herder questo è il frutto
di pensare tipologico che scorge analogie tra tipi e antitipi, cioè tra
prefigurazioni precristiane e loro compimenti (postfigurazioni) nel-
l’era cristiana. Tutta la filosofia della storia di Herder si articola nel-
la tipica tripartizione tipologica che vede nel moderno solo il gradi-
no intermedio tra l’antichità e il futuro. Il rapporto tra Nemesi e
Temperantia va letto probabilmente su questo sfondo, ed è infatti
una componente di quel sincretismo tipologico che avrà importanti
ricadute poetiche in Novalis e Hölderlin. Nemesi è nell’antichità
quello che Temperantia è nell’era cristiana e Adrastea, il nuovo no-
me proposto da Herder50, sarà nel futuro.
Al culto della Nemesi appartiene secondo Herder l’«umile ri-
spetto», die bescheidne Scheu (SW XV 427), nei confronti del giu-
sto disappunto degli déi – la Nemesi emblematica abbassava gli
occhi sul petto –, il sentimento del «pudore», Schaam, e la mode-
razione persino nella speranza, Hoffnung. Nella tarda Adrastea
Herder parla ormai esplicitamente di «Nemesi del Cristianesimo»:

49 W. Malsch, Zur möglichen Bedeutung von Hamanns Bibeltypologie für die Ge-

schichtssicht Herders und der Goethezeit, in B. Gajek (a cura di), J.G. Hamann. Acta des
Internationalen Hamann-Colloquiums in Lüneburg 1976, Frankfurt a.M., Klostermann,
1979, pp. 93-116.
50 Che probabilmente tenne conto in particolare del Cartari, cit., p. 408 ss.
44 Lo sguardo reciproco

Tu ora sai, Winnfried – si legge nel capitolo Die Adrastea des Christen-
tums [L’Adrastea del Cristianesimo] – che cos’è la mia religione delle reli-
gioni. Una Adrastea, ma in una similitudine molto più alta di quella che
diedero i Greci. Per i Greci essa fu dapprima una dea invidiosa, poi una
dea ammonitrice e infine una dea punitrice; il suo motto sommo era: “mai
oltre misura”. La Nemesi del Cristianesimo riporta, sia nel mondo morale
che in quello fisico, equilibrio e ricompensa in tutto, sia nelle cose minime
sia nelle cose grandi, ponendole a fondamento come legge naturale; essa
esalta benignamente la missione dell’uomo nel superamento del male at-
traverso il bene, nella magnanimità perserverante. Essa fa infine dell’uma-
nità l’ago della bilancia e, come compensazione della provvidenza, la voce
decisiva del Giudice del mondo; del Giudice che sempre viene ed è sem-
pre tra noi, che tutto accoglie e tutto risarcisce (SW XXIV 58 ss.).
Scheu, Scham, Vergeltung, Gleichgewicht, Großmut, Hoffnung:
virtù definitivamente cristianizzate che Herder consacra in uno dei
suoi migliori distici che mima un epigramma dell’Antologia Palati-
na51: «Nemesi e Speranza adoro su un unico altare;/ “Spera!” m’a-
postrofa la prima; l’altra: “Mai troppo però!” (SW XV 428)52.

Al genio della Grecia

A fronte di questo piccolo capolavoro di erudizione, a metà tra


antiquaria e filologia, il cui senso sta proprio nella riscrittura mito-
logica che Herder proprio in quegli anni professava con il proget-
to dei “paramiti”53, i riferimenti di Hölderlin alla dea sono piutto-
sto occasionali e comunque limitati se si guarda al piano delle me-
re occorrenze testuali. Tuttavia basta ricondurre – come è necessa-
rio – la Nemesi al campo semantico che più le è proprio, cioè
quello della “misura-moderazione-temperanza”54, per rendersi

51 Antologia Palatina, a cura di F.M. Pontani, Torino, Einaudi, 1980, vol. III, p.

75: «Presso l’altare disposi Speranza e Nemesi: “Spera!” l’una, “Non possedere!”
l’altra dica».
52 Anche nella tarda Adrastea Herder riprende questo distico nell’ambito di una

riflessione sulla misura e sulla speranza. Cfr. SW XXIII 485 ss. (Säkularische Hoffnun-
gen). Sul nesso Nemesi-Speranza si cfr. F. H. Marschall, Elpis-Nemesis, in «The Journal
of Hellenic Studies», 33 (1933), pp. 84-86.
53 Cfr. M. Cometa, Il romanzo dell’infinito, cit., p. 28 ss.
54 Cfr. E. Polledri, „… immer besteht ein Maas“. Der Begriff des Maßes in Hölder-

lins Werk, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2002, p. 71 ss.


Nemesi-Adrastea 45

conto che essa non è argomento marginale nell’interpretazione


dell’intera poesia hölderliniana.
Ancorchè consapevole della nuova interpretazione herderiana
Hölderlin ne rielabora i significati soprattutto nell’Iperione (1796)
dove, pur accogliendo lo spirito della filosofia della storia del mae-
stro – quello che lo rende diffidente nei confronti di un concetto
di rivoluzione basato sulla violenza e sulla sopraffazione – utilizza
la figura della Nemesi sempre dalla parte di Alabanda e dei suoi, i
quali si credono interpreti in terra della “giustizia” e invece non
fanno altro che perpetuare il disastro della storia. È l’hybris guer-
resca – che la Nemesi a rigore punisce –, ciò che anima i giovani
rivoluzionari, e significativamente Hölderlin insiste sulla parados-
salità e fatalità di questo fraintendimento facendo di Alabanda ed
Iperione degli invasati:
Come si destava allora, nel suo profondo, la mia anima, come esplode-
vano fuori dalle mie labbra le sonanti parole di una giustizia inesorabile! Si-
mili a messaggeri della Nemesi, i nostri pensieri percorrevano la terra e pu-
rificavano sino a che non rimaneva traccia alcuna di tutte le maledizioni
(SWB II 35)55.

I due, nella loro hybris rivoluzionaria, tendono infatti a sosti-


tuirsi alla Nemesi stessa, il che costituisce proprio la trasgressione
che la dea punisce. Nulla è più sacrilego, già nella visione di Her-
der, che accelerare arbitrariamente il corso della storia e del pro-
gresso umano, con il risultato di consumare anzitempo le energie
spirituali di una vita: «La violenza della lotta ti frantumerà, o nobi-
le anima, tu invecchierai, o beato spirito, e alla fine, stanco di vive-
re, domanderai: dove siete, ora, ideali della mia giovinezza?»
(SWB II 108)56.
A poco varranno i ripensamenti di Iperiore che fa appello alla
“moderazione” e – com’è stato ampiamente documentato – ad un
modello di rivoluzione esemplato sulle orbite dei pianeti piuttosto
che sugli eccessi disumani della rivoluzione francese e delle guerre
che ne seguirono57: «“O violenti”, gridò ella infine, “voi che ricor-

55 F. Hölderli, Iperione, trad. it. a cura di G.V. Amoretti, Iperione, Milano, Feltri-

nelli, 1981, p. 48.


56 Ivi, p. 117.
57 Cfr. M. Cometa, Il romanzo dell’infinito, cit., pp. 87-132.
46 Lo sguardo reciproco

rete subito alle misure estreme, pensate alla Nemesi!”»58. Nel cor-
so del romanzo la Nemesi ricompare più volte e nella sua doppia
declinazione: come incarnazione della «vana tracotanza» (eitel
Übermut) che Diotima ad esempio rinfaccia all’esaltato Iperione
(SWB II 108), nel nome della “Lega della Nemesi”, i rivoluzionari
di Smirne (SWB II 152), ovvero come colei che punisce e restitui-
sce l’equilibrio tra l’agire e il patire: «Ma ogni azione dell’uomo
ha, in ultima analisi, la sua punizione e la Nemesi risparmia sola-
mente gli dei e i bambini»59. Fa capolino qui per altro la concezio-
ne kantiana del castigo come effetto necessario di ogni agire e sua
“misura” ex-negativo, che Hölderlin riprenderà nel saggio incom-
piuto Sul concetto di pena (1795), come vedremo più avanti.
Per il momento intendiamo concentrarci non sul significato me-
taforico che la dea e i campi semantici ad essa collegati hanno nella
poesia e nella filosofia della storia di Hölderlin, quanto segnalare un
percorso della cultura visuale del poeta che risale ad Herder, ma
mostra un’estrema vitalità anche all’altezza temporale in cui il poeta
ne affronta esplicitamente il tema. Ci riferiamo in particolare alle
uniche due liriche in cui Hölderlin cita esplicitamente la dea ricor-
rendo ad un bagaglio figurale che è necessario leggere in trasparen-
za se si vuole coglierne sino in fondo le implicazioni metaforiche.
Si tratta dell’inno Al genio dell’audacia (1793-95) e dell’ode La
pace (1799) che ci giunge in due versioni per altro di difficile resti-
tuzione testuale. Sono due testi di enorme rilevanza per la defini-
zione del rapporto tra Hölderlin e gli accadimenti storici del suo
tempo (sino alla Pace di Rastatt), ma soprattutto rappresentano un
concentrato della sua filosofia della storia proprio a partire dalla
figura della Nemesi.
L’eccezionalità della citazione esplicita della dea – altrimenti
presente nelle liriche solo per riflesso attraverso le figure dei Dio-
scuri (SWB I 760) –, non tragga in inganno: ci troviamo nel cuore
di un complesso intreccio di elementi testuali e visuali che concor-
rono alla definizione del mitologema in funzione anti-herderiana,
come vedremo, ma che nel contempo mettono Herder pure al ri-
paro dal riduzionismo grecofilo che la vorrebbe semplicemente
una “dea della vendetta e dell’invidia” (degli dèi per gli umani!)

58 SWB II 108 (trad. it. p. 116).


59 SWB II 153 (trad. it. p. 159).
Nemesi-Adrastea 47

cui non è esente gran parte delle interpretazioni contemporanee,


compresa quella, altissima, di Hegel. Fu Hegel, ad esempio, evi-
dentemente ostile al moralismo di Herder, a cercare di ricollocare
la Nemesi al di fuori della Sittlichkeit mondana come la volevano i
Greci. E per far questo è costretto a ricorrere ad un’idea di divinità
che, a differenza di quella cristiana, può anche conoscere l’invidia:
Del resto, che Dio non nutra alcuna invidia, è pensiero grande, bello,
verace, schietto. Presso gli antichi invece l’unico carattere determinato
negli Dei è la Nemesi, la Dike, il Fato, l’invidia, per cui essi abbattono e
fanno piccolo ciò ch’è grande, e non possono tollerare ciò che è degno ed
elevato. Questo modo di vedere è combattuto dai nobili filosofi venuti
più tardi. Infatti nella semplice rappresentazione della Nemesi non è an-
cora contenuta alcuna determinazione etica, giacchè la pena tende unica-
mente ad abbattere ciò che passa la misura; ma questa misura non è anco-
ra concepita come eticità60.
Lo studio della cultura visuale che presiede alla stesura dei versi
in questione dimostra invece che Hölderlin, pur tenendo conto
delle origini greche del mito ad un altissimo livello di consapevo-
lezza filologica, del resto stimolato da Herder, e non volendo pro-
cedere alla sua “cristianizzazione” che è, come abbiamo visto, il
portato ultimo dell’interpretazione herderiana, cerca in tutti i mo-
di di salvarne il significato per la filosofia della storia. Per far ciò
ricorre ad una iconografia della Nemesi che, pur segnando la tipi-
ca “sopravvivenza” moderna degli antichi déi non ha per esito una
decisa cristianizzazione del mitologema e con esso della storia.
Al genio dell’audacia viene composta nel 1792-93, immediata-
mente a ridosso dello scritto sulla Nemesi (1791) di Herder, delle
Idee (1784-91) e di Titone e Aurora (1792). A questi scritti Hölder-
lin implicitamente fa riferimento per il tono e per la criptica filoso-
fia della storia che evoca. Si tratta di un inno che declina tutta la
dialettica Unermeßliches/Maß e dunque si colloca al cuore della
problematica herderiana della storia.
Mutando la spada con la toga,/ Con severa e imparziale bilancia giudi-
casti,/ Parlasti, e vacillarono i Sardanapali,/ Ebbri del calice della vertigi-

60 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XVIII,

p. 249 ss. (trad. it a cura di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla filosofia della storia,
Firenze, La Nuova Italia, 1964, vol. II, p. 229). Cfr. Anche, ivi; trad. it. p. 294.
48 Lo sguardo reciproco

ne della tua ira;/ Invano spaventa con la sua rabbia di tigre/ L’antica tene-
bra il tuo tribunale./ Grave ascoltasti la sommessa voce dell’innocenza/
Alla sacra Nemesi tributasti sacrifici61.

Qui Hölderlin compie una contaminazione tra l’iconografia


della Nemesi che regge verticale la Schale, come nelle immagini di
Dürer e di Cartari, e il testo herderiano in cui questi, rifacendosi
probabilmente a Lutero, allude al «Becher der Verwirrung» attra-
verso cui – come abbiamo visto – si potrebbe stemperare nel son-
no e nell’estasi l’hybris di un’anima inquieta. Con «Becher der
Verwirrung» Lutero, com’è noto, traduce Isaia 51, 17 e 22, una
criptocitazione biblica che Hölderlin fa rilucere con il suo «Tau-
melkelche deines Zornes». Va anche ricordato – tra le più dirette
fonti di Hölderlin – che Friedrich Klopstock nel Messias più volte
richiama il testo biblico62 e che anche Friedrich Schleiermacher ri-
torna su questa figurazione nei Discorsi sulla religione63.
Esplicitamente Hölderlin lavora alla sovrapposizione tra il cali-
ce della dea, cui già Pausania allude con la «flache Opferschale»,
la fiala che sembra potersi confondere con il “piatto” della bilan-
cia della Giustizia, e il calice istoriato della Nemesi moderna di
Dürer e Cartari. Con un’importante risemantizzazione però, che
sembra ricondurre al «dio degli audaci» (Gott der Kühnen), i cui
attributi apparentemente greci (Nacht, Schlaf) presto si colorano di
iconografie cristiane («Der Wahrheit Flamme», «auf bange Tha-
le»). Laddove il richiamo all’innocenza (Unschuld) dell’ultimo ver-
so è, per converso, non necessariamente un riferimento ad una
virtù cristiana, ma un richiamo all’innocenza degli Etiopi tradizio-

61 SWB I 152: «Du wogst mit strenggerechter Schale,/ Wenn mit der Toge du das

Schwert vertauscht,/ Du sprachst sie wankten die Sardanapale,/ Vom Taumelkelche


deines Zorns berauscht;/ Es schröckt umsonst mit ihrem Tigergrimme / Dein Tribunal
die alte Finsternis/. Du hörtest ernst der Unschuld leise Stimme,/ Und opfertest der
heilgen Nemesis» (trad. it., Al genio dell’audacia, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, edizio-
ne tradotta e commentata e revisione del testo critico tedesco a cura di L. Reitani, con
uno scritto di A. Zanzotto, Milano, Mondadori, 2001, p. 103 ss.).
62 F.G. Klopstock, Der Messias, in Id., Ausgewählte Werke, a cura di K.A. Schlei-

den, München, Hanser, 1962, p. 416: «Von dem Taumelkelche des Rächers»; p. 499:
«Der Rache Taumelkelch voll»; p. 513: «mit dem Taumelkelche der Rache».
63 F. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verä-

chtern, con una postfazione di C.H. Ratschow, Stuttgart, Reclam, 1980, p. 13. Anche
Schleiermacher, in queste pagine fondamentali per l’idealismo tedesco, riprende più
volte la figura della Nemesi mostrando di conoscerne le raffigurazioni emblematiche.
Nemesi-Adrastea 49

nalmente scolpiti sul calice della Nemesi come abbiamo visto in


Herder (SW XV 400).
Se nei testi in prosa il riferimento alla Nemesi era comunque ri-
condotto alla «divinità vendicatrice» (rächende Gottheit) di omeri-
ca memoria, nell’inno del 1792-93 si coglie un cedimento verso
una risemantizzazione cristiana che, pur basandosi su alcune figu-
re herderiane, è connotata da elementi dionisiaci (l’ebbrezza, l’ira)
in linea con la poetica hölderliniana, ma ben lontana in fin dei
conti dal quietismo della tolleranza e dell’umiltà herderiana.
Tanto è vero che la ripresa del motivo, a pochi anni di distanza,
nella tumultuosa lirica La pace (1799), spazza via ogni allusione
cristiana. Qui la Nemesi si riappropria di tutti i suoi attributi greci
(e latini):
Si involavano come onde le forze degli eroi/ E dileguavano, e tu ab-
breviavi, vendicatrice!/ Sovente il lavoro ai tuoi servi e rapida/ Riportavi
a casa i combattenti.// Tu che inesorabile e mai vinta/ Cogli il più vile e
tracotante,/ E al colpo trema la sua misera/ Stirpe fino all’ultimo mem-
bro,// Tu che segretamente tieni redini e pungolo/ per frenare e sprona-
re, Nemesi/ Ancora punisci i morti che dormivano/ Sotto il lauro dei
giardini d’Italia64.

Qui è la Nemesi alata dell’iconografia classica che velocemente


fa giustizia e vendetta. Come l’Adrastea herderiana essa è «die
Unentfliehbare», colei a cui non si sfugge e tutto raggiunge
(«unerbittlich» e «unbesigt» scrive Hölderlin): «La Nemesi in
quanto Adrastea – si legge in un’importante nota del saggio her-
deriano – ricevette secondo Strabone il suo nome dal tempio di
Adrasto: ma poiché la parola poteva significare colei a cui non si
può sfuggire, colei che è sempre efficace, e questo significato si
adattava bene al suo compito, non si potè fare a meno di intensifi-
care sempre più il concetto, dato che Phurnutus (Cap. 13) la in-
terpreta come la potenza di alti destini» (SW XV 413). Nemesi ha

64 SWB I 228: «Die Heldenkräfte flogen, wie Wellen, auf/ Und schwanden weg,

du kürzest o Rächerin!/ Den Diener oft die Arbeit schnell und/ Brachtest in Ruhe sie
heim, die Streiter.// O du die unerbittlich und unbesiegt/ Den Feigern und den Über-
gewaltgen trifft,/ Daß bis ins letzte Glied hinab vom/ Schlage sein armes Geschlecht
erzittert. // Die du geheim den Stachel und Zügel hältst/ Zu hemmen und zu fördern o
Nemesis,/ Strafst du die Toten noch es schliefen / Unter Italiens Lorbeergärten» (trad.
it. La pace, in F.Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 711 ss).
50 Lo sguardo reciproco

qui riscoperto decisamente i propri attributi iconografici greci


che non lasciano adito a dubbi. Hölderlin, oltre ad attingere all’i-
conografia classica, recupera probabilmente una suggestione te-
stuale di Ezechiel Spanheim commentatore di Callimaco, ovvia-
mente citata da Herder, secondo cui Nemesi quando compare co-
me Upis (Oupis, Opi), come pre-videnza (Voraussehung), tiene in
mano un pungolo (ein Spieß)65. Significativa è inoltre la chiusa
dell’ode che pone Helios a testimone della «sicura orbita» (sichre
Bahn) (SWB I 229) della terra, lo stesso Sole che Herder – ricolle-
gandosi ai Saturnalia di Macrobio – associa ancora una volta alla
Nemesi: «Et, ut ad solis multiplicem potestatem revolvatur oratio,
Nemesis quae contra superbiam colitur quid aliud est quam solis
potestas, cuius ista natura est ut fulgentia obscuret et conspectui
auferat quaeque sunt in obscuro inluminet offerat conspectui?»
(SW, XXII, 1).
Difficile ricostruire la complessa semantica che Hölderlin pro-
pone nella lirica recuperando un attributo della Nemesi di cui non
c’è traccia nella letteratura, a prescindere dall’eventuale suggestio-
ne herderiana, e che però corrisponde pienamente al tema herde-
riano della misura («per frenare e spronare»66), evocata immanca-
bilmente nell’ode pochi versi più avanti, quando il poeta lamenta
l’infinito regno umano della discordia (Zwist):
Chi iniziò? Chi portò la maledizione? Non è/ Di oggi né di ieri e i no-
stri padri non/ Sapevano chi per primo perse la/ Misura, e li incalzò il lo-
ro spirito67.
La completa riconversione semantica della Nemesi, la sua ri-
grecizzazione, era avvenuta del resto in un testo destinato a rima-
nere inedito all’epoca Sul concetto di pena la cui stesura risale al

65 Né va dimenticato che la Opi di Virgilio, ninfa al seguito di Diana e a volte con-


trofigura di Diana stessa, vendica la morte di Camilla uccidendo con un dardo l’assassi-
no Arrunte (SW XI, 836 ss.). Riluce qui probabilmente anche una citazione dall’elegia
di Alessandro alle muse dove Opi viene definita «die Herrin der schnellenden Pfeile»
(cfr. Alexandros Aitolos, Aus der Elegie “Die Musen”, in D. Ebner (a cura di), Griechi-
sche Lyrik in einem Band, cit., p. 425).
66 SWB I 228: «zu hemmen und zu fördern».
67 SWB I 229: «Wer hub es an? Wer brachte den Fluch? Von heut/ Ists nicht und

nicht von gestern und die zuerst/ Das Maß verloren unsre Väter/ Wußten es nicht, und
es trieb ihr Geist sie»; trad. it. La pace, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 713.
Nemesi-Adrastea 51

179568. Qui Hölderlin riprende la vecchia definizione esiodea della


Nemesi “Figlia della Notte” (Tochter der Nacht) rifunzionalizzan-
dola in una teoria della punizione che è innanzitutto una rilettura
critica di Kant, ma riscopre nel contempo tutto il fascino pagano
di un mitologema le cui origini – come aveva ben visto Herder –
sono misteriose («geheimnisvollen Ursprungs» SWB II 499).
Nel testo – come è noto – Hölderlin discute la questione, tipi-
camente kantiana, di una determinazione negativa della libertà, già
posta con chiarezza nel frammento filosofico Sulla legge della li-
bertà (1793), allorchè stabiliva che «la prima volta che la legge del-
la libertà si manifesta a noi, appare come punitiva. L’inizio di ogni
nostra virtù procede dal male» (SWB II 47). Il principio kantiano
assume però nel frammento del 1795, tutto centrato su concetti
come punizione, castigo e pena, tonalità cupe, si potrebbe dire
gnostiche. Qui la legge morale, e dunque la libertà, si riconoscono
solo nel momento del loro fallimento, quando si scontrano con
una resistenza (Widerstand) che le annienta. Della legge si ha per-
cezione solo come ciò che produce il castigo e dunque la sofferen-
za. Da ciò Hölderlin deduce che «Ogni sofferenza è punizione»
(SWB II 500). Al di là del circolo vizioso che Hölderlin intende
contestare a Kant, pur non maturando alcuna soluzione alternati-
va, riluce qui una nozione di Strafe con connotazioni indiscutibil-
mente malinconiche. Giacchè il mondo della prassi si dà in questo
scenario solo come «violazione della legge» (Übertretung des Ge-
setzes), senza possibilità di redenzione o di riscatto. Qui Nemesi
diviene effettivamente la dea che presiede con la punizione all’ac-
cadere mondano, alla prassi, che è appunto, in questa interpreta-
zione, solo il disperato ed eterno dispiegarsi della punizione stessa,
e con essa della pena.
Dieter Henrich69 ha opportunamente suggerito che nel fram-
mento si passa da una sistematica confutazione delle tesi kantiane
esposte a circoli viziosi ad un’interpretazione estremistica di Fichte.

68 Anche in una lettera al fratello del 1793, durante la stesura del primo inno dun-

que, Hölderlin insisteva sull’idea greca di Nemesi nella storia: «Che Marat, il turpe ti-
ranno è stato ucciso, a quest’ora lo sai. La santa Nemesi, quando sarà tempo, darà an-
che agli altri profanatori del popolo la ricompensa per i loro bassi intrighi e per i loro
disumani progetti» (SWB III 105).
69 D. Henrich, Der Grund im Bewußtsein. Untersuchungen zu Hölderlins Denken

(1794-1795), Stuttgart, Klett-Cotta, 1992, pp. 391-407.


52 Lo sguardo reciproco

Leggendo il frammento sullo sfondo del più maturo Giudizio ed es-


sere (1795) Henrich stabilisce che il rapporto tra Gesetz e Strafe
non è più dato nella prassi ma si presenta come un «necessario pre-
supposto» (notwendige Voraussetzung), si dà pertanto ab origine,
come quello tra soggetto ed oggetto della conoscenza. In questo
senso Henrich suggerisce che Nemesi e Strafe non sono conseguen-
ze di un agire pratico puntuale e storicamente dato, ma la conditio
sine qua non di ogni agire morale, una correlazione data in princi-
pio nella coscienza. L’incipit dedicato alle Nemesi – probabilmente
aggiunto solo dopo la stesura del frammento – assume alla luce del-
la dissertazione che segue una tonalità ben più radicale:
Sembra che la Nemesi degli antichi fosse stata rappresentata come fi-
glia della Notte non tanto per la sua terribilità ma per via della sua origi-
ne misteriosa (SWB II 499).

Non è tanto la terribilità a rendere la Nemesi unheimlich – co-


me del resto aveva ben compreso Herder – quanto la sua origine
misteriosa70 accanto alla Strafe. Si fa spazio qui – insieme ad una
consapevolezza della Ineinsbildung di soggetto ed oggetto necessa-
ria allo sviluppo dell’idealismo filosofico – l’idea che nell’origine
inconoscibile – Gesetz, Strafe e Leiden si danno prima di ogni Ur-
theilung: «La Nemesi – scrive Henrich – mostra tratti che perciò
da un lato corrispondono al fallimento originario della vita e dal-
l’altro ad una punizione che fa capolino già con questo fallimento
originario»71.
Stachel e Zügel, presenti nell’ode del 1799, sono allora, in que-
st’ottica profondamente antiherderiana, non gli strumenti di un
indirizzamento gioioso della storia, ma strumenti di tortura che la
Nemesi usa infliggendo agli uomini dolorose “correzioni” (Zure-
chtweisungen). Una “correzione” che non risparmia neppure dopo
la morte come si legge ne La pace: «Ancora punisci i morti che
dormivano/ Sotto il lauro dei giardini d’Italia»72.
Si conclude qui il tortuoso sentiero semantico della Nemesi nel-

70 Geheim è aggettivo presente anche nell’ode Der Frieden, proprio nei versi dedi-

cati alla Nemesi (SWB I 228).


71 D. Henrich, Der Grund im Bewußtsein. Untersuchungen zu Hölderlins Denken,

cit., p. 404.
72 SWB I 228: «Strafst du die Todten noch, es schliefen/ Unter Italiens Lor-

beergärten».
Nemesi-Adrastea 53

l’età di Goethe. Ed è una conclusione che in qualche modo affida


alle generazioni future un’immagine ormai gravida di implicazioni.
Perché è evidente che la paganizzazione in extremis operata da
Hölderlin pur essendo ben lontana dalla cristianizzazione operata
da Herder – all’insegna di un’apologia delle virtù profondamente
ottimistica ed orientata alla prassi – è pur tuttavia interna al tipico
sincretismo pagano-cristiano di cui Hölderlin è comunque uno dei
grandi interpreti moderni.
Sullo sfondo del frammento Sul concetto di pena appare eviden-
te infatti che la greca Nemesi si è ormai colorata del sangue cristia-
no versato nella storia. Una storia che si costitusce, è vero, attra-
verso l’eterna ripetizione dell’uguale, ma è decisamente attraversa-
ta dal dolore e dall’espiazione.
Dioniso e il Crocifisso hanno iniziato il comune cammino che
solo le pagine di Sulla genealogia della morale73 dedicate al concet-
to di “pena” porteranno a paradossale compimento.

73 F. Nietzsche, Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin,

DTV-de Gruyter, 1999, vol. V, p. 313 ss. (trad. it., Opere, a cura di G. Colli e M. Monti-
nari, Milano, Adelphi, 1976, vol. VI, tomo II, p. 275 ss).
PSICHE E LA PIRAMIDE
LE ARTI E LA MORTE NELL’ETÀ NEOCLASSICA

Elena Agazzi

«C’è un monumento funerario di una donna molto virtuosa e


bella, che ha perso la vita per una gravidanza difficile. Questo mo-
numento consiste in una tomba ricoperta da una pietra molto
brutta. Se, però, ci si avvicina, ci si trova improvvisamente nel bel
mezzo di una scena sorprendente, in cui le tombe si aprono e i
morti tornano alla vita. La lastra tombale è stata spaccata nel mez-
zo come per un violento terremoto, e dall’apertura che si è pro-
dotta si vede la persona sepoltavi, con dipinti sul volto tutti i senti-
menti di quel mondo spirituale in cui dovrà andare ora incontro
con il bambino. Essa porta il bimbo [...] Sul braccio sinistro e con
il destro sospinge verso l’alto la lastra tombale infranta»1 (fig. 1).
Questa descrizione di una sepoltura borghese, contraddistinta
dal tragico pathos con cui l’artista fissa l’immagine del morto ormai
affidato alla terra e che è esemplare per lo spirito con cui nel Sette-
cento si rappresentavano le virtù del personaggio compianto, si de-
ve a Johann Georg Sulzer, che nella Teoria generale delle Belle Arti
alla voce Monumento2 fornisce un quadro sintetico del rapporto

1 J.G. Sulzer, Allgemeine Theorie der schönen Künste, 2 voll., Leipzig, Weidmann,
1792. La voce Denkmal si trova nel vol. I, pp. 596-600, la citazione è a p. 599. La tom-
ba di Maria Magdalena Langhans (1723-1751), di cui resta oggi solo un modello in ter-
racotta, si trovava nella chiesa parrocchiale di Hindelbank in Svizzera ed era stata rea-
lizzata da Valentin Sonnenschein (1749-1828) su disegno di August Nahl (1710-1781).
2 Sulzer, che mette mano alla sua opera nel 1763, è ancora lontano dal formulare
un giudizio sul “gusto”, che solo Kant riuscirà a esprimere in modo concreto. Conti-
nuatore nella linea Baumgarten-Meier del dibattito sul principio imitativo della classi-
cità greca e romana, Sulzer non riuscirà ancora a risolvere la sudditanza dell’immagina-
zione alla ragione e rimarrà frenato sulla soglia di un produttivo rinnovamento della
teoria estetica proprio dal tentativo di razionalizzare l’azione creativa dell’artista. No-
nostante questi limiti, l’autore offre un serio contributo critico al raffronto fra il pro-
dotto figurativo del passato e quello del presente, cercando di stimolare il lettore al re-
cupero di una prospettiva etica e morale che si faccia garante dell’imperitura validità
dell’opera d’arte come modello. I testi fondamentali cui si rifà Sulzer sono: A.G. Baum-
garten, Aesthetica, Frankfurt a.M., Klyeb, 1750; G. Fr. Meier, Anfangsgründe aller schö-
56 Lo sguardo reciproco

Fig. 1. V. Sonnenschein,
Tomba di Maria Magdalena
Langhans, II metà del XVIII
secolo.

che nel XVIII secolo univa i vivi al mondo dei defunti attraverso il
rito commemorativo. Cercando di raggruppare sotto voci specifi-
che definizioni e caratteri delle arti figurative e di quelle che, più in
generale, venivano definite arti belle, e particolarmente attento al-
l’aspetto della ricezione dell’opera artistica presso i suoi contempo-
ranei, all’efficacia conseguita nel perfezionamento della tecnica e
nell’adattemento alla richiesta del pubblico, Sulzer avverte un rin-
novamento illuminista in atto anche nel campo dell’arte funeraria.
Philippe Ariès, che ha fornito un contributo rilevante allo stu-
dio sulla morte dal Medioevo ai nostri giorni3, attribuisce al pieti-

nen Wissenschaften, Halle, Carl H. Hemmerde, 1754. Per un approfondimento su


Baumgarten e Meier si rimanda a E. Bergmann, Die Begründung der deutschen Aesthe-
tik durch Alexander Baumgarten und G. Fr. Meier, Leipzig, Röder & Schunke, 1911.
3 Ph. Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen Âge à nos jours,
Paris, Seuil, 1975 (trad. it. di S. Vigezzi, Storia della morte in Occidente, Milano, Rizzoli,
1978). Cfr. p. 54 e p. 128 della traduzione italiana.
Psiche e la piramide 57

smo e al cattolicesimo romantico certe manifestazioni di “affetti-


vità macabra” che sono tipiche di questo secolo, pur sottolineando
che per reazione all’iconologia tanatologica del passato, pullulante
di scheletri e di corpi putrefatti, l’uomo del Settecento sviluppa
una particolare attenzione per la bellezza fisica dello scomparso.
Questa viene sfruttata in quanto medium giustificativo delle buone
qualità che gli sono state riconosciute da vivo, seguendo il princi-
pio antico del kalòs kai agathòs. Proprio a quest’epoca, infatti, gra-
zie al recupero dell’antichità classica e dei motivi estetici ed etici
che contraddistinsero in particolare il V secolo a.C. della grandez-
za repubblicana di Atene, gli antiquari e gli studiosi di filologia
classica incominciarono ad occuparsi, tra l’altro, del simbolismo e
dei significati allegorici delle opere greco-romane. Si trattava, in
realtà, di un atteggiamento culturale volto alla tesaurizzazione del-
le esperienze più alte delle civiltà antiche, per trarne la linfa neces-
saria per il progetto di un nuovo Rinascimento. L’armonia perfetta
tra uomo e mondo esterno viene ripristinata. L’alacre studio sui
grandi scrittori greci e romani, l’avvio degli scavi di Ercolano (a
partire dal 1737) e di quelli di Pompei (dal 1748), uniti al deside-
rio di uscire dal clima torbido della Controriforma, favoriscono il
ritorno degli stili architettonici e scultorei delle grandi civiltà me-
diterranee. Winckelmann esprime nella formula «nobile semplicità
e quieta grandezza», riferita in particolare al gruppo statuario del
Laocoonte4, la convinzione che la soluzione vincente per il rinno-
vamento dell’indirizzo artistico sia da cercarsi nella sobrietà dei
contorni e nella difesa del «buon gusto».
Al centro della prima teorizzazione di Winckelmann sull’esteti-
ca della classicità si trova appunto l’opera scultorea raffigurante il

4 J.J. Winckelmann, Gedanken über Nachahmung der griechischen Werke in Male-


rey und Bildhauerkunst in Id., Kleine Schriften, Vorreden und Entwürfe, a cura di W.
Rehm, con un’introduzione di H. Sichtermann, Berlin, Walter de Gruyter & Co., 1968,
p. 44 ss. Se ne veda l’edizione italiana curata da M. Cometa, J.J. Winckelmann, Pensieri
sull’Imitazione, Palermo, Aesthetica edizioni, 1992, p. 43. Per una ricca documentazio-
ne sui più recenti studi winckelmanniani si rimanda agli atti del ciclo di conferenze
svoltosi a Parigi tra l’11 dicembre 1989 e il 12 febbraio 1990, Winckelmann: la naissan-
ce de l’historie de l’art à l’Epoque des Lumières, a cura di E. Pommier, Paris, La Docu-
mentation Française, 1991 e al volume degli atti del convegno di Firenze del 14-15 di-
cembre 1990, J. J. Winckelmann tra letteratura ed archeologia, a cura di M. Fancelli, Ve-
nezia, Marsilio, 1993, che si avvale in appendice di un’interessante tavola rotonda con-
dotta tra i relatori e altri studiosi intervenuti all’incontro.
58 Lo sguardo reciproco

sarcedote di Apollo, Laocoonte, che muore, aggredito con i due fi-


gliuoli da una coppia di serpenti marini, dopo aver tentato di im-
pedire l’ingresso dei Greci a Troia. Dunque, il tema della morte ha
un posto centrale nell’interpretazione critico-artistica di Winckel-
mann. La sua valutazione non rimane, però, del tutto legata all’e-
spressione del corpo e dello sguardo, cioè esteriore. Winckel-
mann, turbato dalla domanda sul perché l’artista abbia scelto di
raffigurare la morte contrastando gli spasmi dolorosi dell’agonia
con l’espressione di rassegnazione e di autocontrollo dipinti sul
volto di Laocoonte, sottolinea l’alta eticità contenuta nel messag-
gio dell’artefice dell’opera. Istituisce un rapporto tra morte e sere-
nità puntando sul significato eroico del gesto protettivo nei con-
fronti dei figli, ma soprattutto sulla dignità del popolo greco, com-
posto anche nell’estrema sofferenza. Per Winckelmann conta mol-
to, infine, il riscontro dell’immagine plastica con il passo poetico
di Virgilio, che indirizza alla comprensione spirituale dell’atteggia-
mento eroico.
Gotthold Ephraim Lessing, di lì a qualche anno (1766) ripren-
de il tema del Laocoonte in una monografia interamente dedicata
a questo soggetto artistico, sostenendo, però, apertamente, che è
l’ideale estetico dell’autore del gruppo statuario ad averne guidato
la mano, anziché la convinzione della traducibilità dell’ethos greco
in immagine. Non ci soffermeremo oltre su questo dibattito, al cui
proposito molto è già stato scritto5. Vorremmo, invece, rinviare al
passo del trattato lessinghiano, in cui il tema della morte viene di-
scusso in modo diretto anche se in termini ancora generali. Scrive

5 Tra i contributi più validi sull’argomento cfr. H. Althaus, Laokoon. Stoff und
Form, Bern-München, Francke Verlag, 1968; D.E. Wellbery, Lessing’s Laokoon. Semio-
tics and Aesthetics in the Age of Reason, Cambridge-New York-Melbourne, Cambridge
University Press, 1984. Per un’analisi più circostanziata del mito culturale di Laocoonte
e della sua datazione cfr. B. Andreae, Laocoonte e la fondazione di Roma, Milano, Il
Saggiatore, 1988; e Id., Laokoon und die Kunst von Pergamon. Die Hybris der Giganten,
Frankfurt a.M., Fischer, 1991. Per Winckelmann in rapporto al gruppo del Laocoonte,
cfr. tra l’altro M. Bieber, Laocoon. The influence of the Group since its Rediscovery, New
York, Columbia University Press, 1942 (Detroit, 19672); W. Rasch (a cura di), Bildende
Kunst und Literatur. Beiträge zum Problem ihrer Wechselbeziehungen im 18.
Jahrhundert, Frankfurt a.M., Klostermann, 1970, pp. 59-78; H.B. Nisbet, Laokoon in
Germany: The Reception of the Group since Winckelmann, in «Oxford German Stu-
dies», 10 (1979), pp. 22-63; N.R. Schweizer, The Ut Pictura Poesis Controversy in Eigh-
teenth Century England and Germany, Frankfurt a. M.-Bern, Lang, 1972; Aa.Vv., Lao-
coonte 2000, Palermo, Aesthetica edizioni, Preprint, 35, 1992.
Psiche e la piramide 59

Lessing: «Il diletto che scaturisce dal soddisfacimento della nostra


brama di conoscenza, è il momentaneo e, rispetto all’oggetto per il
quale esso viene appagato, solo accidentale; il dispiacere, invece,
che accompagna la visione della bruttezza, è permanente e, rispet-
to all’oggetto che lo suscita, è essenziale [...]. Gli animali feroci su-
scitano terrore anche quando non sono brutti; e questo terrore, e
non la loro bruttezza è ciò che nell’imitazione viene risolto in sen-
timento di piacere. Lo stesso per i cadaveri. L’acuto senso di com-
passione, il terribile richiamo al nostro annientamento è ciò che in
natura ci rende un cadavere un oggetto ripugnante; ma nell’imita-
zione questa riflessione perde, in virtù della persuasione dell’in-
ganno, la sua acutezza, e un’aggiunta di circostanze lusinghiere ci
può liberare interamente da questo fatale richiamo, o legarsi ad es-
so così indissolubilmente che noi crediamo di vedervi più qualcosa
di desiderabile che di terribile»6.
Se gli accenni al tema della morte sono ancora fugaci nel Lao-
coonte, solo a tre anni dalla pubblicazione di questo saggio esce un
trattatello per l’editore Voß, che reca il titolo Come gli antichi raffi-
guravano la morte7 e si fa finalmente chiaro come l’autore stesse
affilando le proprie armi teoriche contro quel retaggio del mondo
barocco che aveva intimidito l’uomo ponendolo di fronte alla va-
nitas della sua esistenza. A Lessing sembrava ossessivo e sgradevo-
le l’uso di scheletri e teschi a cui neppure Bernini era riuscito a
sottrarsi nei suoi monumenti funebri.
Se è vero che bruttezza, deformità e morte fanno parte della
reale esperienza umana, essi offendono nell’arte quel senso di pia-
cere che nasce dalla fissazione di un’immagine che dovrebbe darsi
come promessa positiva per un futuro di oblio dalle preoccupazio-
ni del mondo. L’unica bruttezza lecita in arte, per Lessing – anche

6 G.E. Lessing, Laokoon oder über die Grenzen der Malerey in Id., Schriften II.
Antiquarische Schriften, a cura di K. Beyschlag, Frankfurt a.M., Insel Verlag, 19863, cit.,
p. 138. Per l’edizione italiana si veda G.E. Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa,
Palermo, Aesthetica edizioni, 1991, p. 102 ss.
7 G.E. Lessing, Wie die Alten den Tod gebildet, in Id., Schriften II, cit., pp. 172-
223 (trad. it. di S. Sciacca, Come gli antichi raffiguravano la morte, prefazione di A. Pes,
Palermo, Novecento, 1983). Nel 1981 è stata organizzata a Kassel una mostra dal titolo
Wie die Alten den Tod gebildet. Wandlungen der Sepulkralkultur 1750-1850 che parten-
do proprio dall’esempio di Sulzer sopra citato, illustra le tappe dei cambiamenti nella
concezione culturale cimiteriale tra la seconda metà del Settecento e la seconda metà
dell’Ottocento.
60 Lo sguardo reciproco

le sue teorie sul teatro lo ribadiscono in continuazione – è quella


che suscita compassione, mentre quella che viene classificata come
innocua rischia di tramutare il farsesco in disgustoso. Lessing di-
fende quella serenità e quella grandezza su cui Winckelmann si era
pronunciato nei Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura
e scultura del 1755 e cita una serie di esempi che mostrano il senso
di mite rassegnazione con cui viene accettato il momento del tra-
passo. I sarcofaghi di epoca greco-romana sono rappresentativi per
un’allegoresi che allude alla morte senza offendere il gusto. Lessing
prende le mosse, seppur in modo implicito, da alcuni passi dell’o-
pera di Winckelmann che avevano accennato al tema della morte.
Nella Storia dell’arte nell’antichità8, pubblicata a Dresda nel
1764, Winckelmann si era impegnato a esaltare le doti del popolo
greco rispetto alle qualità degli altri – Egizi, Fenici, Persiani ed
Etruschi – e a mostrare la positiva influenza che essi avevano eser-
citato sui Romani, loro conquistatori nel I secolo a.C. con le guer-
re mitridatiche. A proposito dei riti funerari greci, l’accento di lo-
de si fa particolarmente intenso, soprattutto per sottolineare il
contrasto tra il carattere bellicoso degli Etruschi (di cui ai tempi di
Winckelmann poco o niente si sapeva) e quello pacifico e sobrio
dei Greci, sostenuto con opinabile parzialità di vedute: «Riguardo
al carattere degli Etruschi, si potrebbero poi trarre conclusioni dai
sanguinosi combattimenti, in occasione di cerimonie funebri e nei
teatri, che erano abituali presso di loro e il cui uso venne poi intro-
dotto anche presso i Romani; tali combattimenti erano una cosa
abominevole secondo i buoni costumi dei Greci. Anche in tempi
più recenti furono inventate per la prima volta in Toscana le auto-
flagellazioni. Per questo si vedono rappresentati generalmente sul-
le urne funerarie etrusche combattimenti sanguinosi per i loro
morti, quali mai si verificarono tra i Greci. Le urne funerarie ro-
mane, essendo per la maggior parte opera di artisti greci, recano
invece immagini gradevoli: in genere sono favole che si riferiscono
alla vita umana, amabili rappresentazioni della morte, come quella
su numerose urne, di Endimione dormiente, e poi le Naiadi che
rapiscono Illo, oppure danze delle Baccanti, e nozze, come il bel-

8 J.J. Winckelmann, Geschichte der Kunst des Altertums, Dresden, Walther, 1764;
per l’edizione italiana cfr. J.J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, trad. it. di
M.L. Pampaloni, con uno scritto di E. Pontiggia, Milano, SE, 1990.
Psiche e la piramide 61

l’imeneo di Peleo e Teti, che si trova nella Villa Albani. Scipione


Africano volle che nella sua tomba si libasse e i Romani avevano
l’uso di danzare davanti alla salma»9.
Nella Descrizione delle pietre intagliate del fu Barone di Stosch10
del 1760 Winckelmann aveva individuato vari pezzi della collezio-
ne di pietre incise che recavano l’immagine di un giovinetto con la
fiaccola rovesciata (tra le altre, la n. 798), riconoscendovi ora
un’allegoria della Morte (appunto la n. 798), ora quella del Sonno
(n. 834). In entrambi i casi, però, il precursore dell’archeologia
moderna definiva amour il soggetto, convinto della valenza erotica
dell’immagine e del messaggio sereno sottinteso dell’artista.
Ancora, nel meno noto Trattato sull’allegoria, particolarmente
per l’arte11 del 1766, Winckelmann registra: «Il Sonno è simboleg-
giato mediante una figura che giace fra le braccia di Morfeo: così
dorme Endimione, l’amato di Diana, sul monte Latmo, sopra due
urne sepolcrali del Campidoglio [...]. Il Sonno è rappresentato an-
che in figura di un genio giovane, il quale si appoggia ad una fiac-
cola rovesciata, come si vede colla iscrizione somno, in una pietra
sepolcrale del Palazzo Albani, accanto a sua sorella, la morte, per
parlare con Omero; e così rappresentati veggonsi questi due geni
in un sepolcro del Museo Clementino a Roma»12. Fin dall’inizio,
come si è visto, Winckelmann era stato molto esplicito sul fatto che
gli antichi sceglievano per i bassorilievi funerari simboli lieti, che
era quanto avevano già rilevato soprattutto il Fabretti e il Montfau-
con13, e che se molti di questi sarcofaghi presentavano una stan-
dardizzazione dei motivi che risultavano dall’essere prodotti in
serie, non pochi di essi, commissionati direttamente all’artista dai

9 Ivi, p. 83 ss. (trad. it. p. 78 ss).


10 J.J. Winckelmann, Description des pierres gravées du feu Baron de Stosch, (1760),
Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1970.
11 J.J. Winckelmann, Versuch einer Allegorie, besonders für die Kunst (1766), Ba-

den-Baden-Straßbourg, Heitz, 1964; per la trad. it. cfr. Saggio sull’Allegoria, particolar-
mente per l’arte in Id., Opere di G.G. Winckelmann, prima edizione italiana, a cura di
C. Fea, Prato, Fratelli Giachetti, 1830-34, vol. VII.
12 Ivi, voll. IV, p. 76 ss. (trad. it., vol. VII, p. 423 ss).
13 Cfr. R. Fabretti, Inscriptionum antiquarum, quae in aedibus paternis osservantur,

explicatio et additamentum (una cum aliquot emendationibus Gruterianis), Collectanea


antiquitatum in domo Co. Ottavii Archinti, Romae, ex officina D.A. Herculis, 1699-
1702; B. de Montfaucon, L’Antiquité expliquée et representée en figures, 5 voll., Paris,
Delaulne, 1719 (seguita da cinque volumi di supplementi, Paris, Delaulne, 1724).
62 Lo sguardo reciproco

Fig. 2. N. Poussin, Ca-


store e Polluce, ca. 1630.

familiari, recavano iscrizioni e scene allusive agli eventi più gioiosi


della vita del defunto. Intorno al tema della morte si muovono, ol-
tre alle figure dei due giovinetti dolenti appoggiati alla fiaccola ro-
vesciata (fig. 2) (spesso scambiati, come fa notare Lessing riferen-
dosi al gruppo marmoreo di Villa Ludovisi, per Castore e Polluce),
anche la dea Diana che spia e bacia nel sonno l’amato Endimione.
Psiche, secondo la mitologia classica, a causa della costrizione al-
l’obbedienza nei confronti di Venere, che la manda nell’oltretomba,
è tra le figure più comuni dei bassorilievi funerari. In particolare,
però, l’accenno alla raffigurazione dell’anima come farfalla (psiché)
sarà un elemento importante delle argomentazioni di Lessing a fa-
vore della leggiadria della concezione iconografica tanatologica del-
la classicità. Winckelmann interpreta nella raffigurazione dell’ani-
ma come farfalla un’allusione diretta alla teoria di Platone sull’im-
mortalità dell’anima e cita una «pasta antica del Museo Stoschiano
[in cui l’anima è] indicata col mezzo di una farfalla seduta sopra un
Psiche e la piramide 63

Fig. 3. Platone o altro filo-


sofo col simbolo dell’im-
mortalità dell’anima.

teschio, sul quale un filosofo seduto sta riflettendo»14 (fig. 3).


Lessing in Come gli antichi raffiguravano la morte mette da par-
te l’atteggiamento dell’antiquario e del filologo e prende le mosse
da una posizione più speculativa per la quale si chiede: «perché
negli antichi la bellezza è stata la legge fondamentale delle arti fi-
gurative?» Così prende spunto dalla premessa di Anne-Claude
Philippe, conte di Caylus, al suo trattato sulla storia e sull’arte15,
pubblicato nella traduzione tedesca di Mausel nel 1769, per schie-
rarsi contro di lui, quando questi, riferendosi alla morte di Sarpe-
donte16 dice che difficilmente la morte avrebbe potuto avere gli
stessi connotati del Sonno, in quanto oggetto di raccapriccio per
gli antichi. Riconoscendo nell’antichista Klotz un alleato di Caylus,
Lessing lo attacca per la sua teoria sull’apprezzamento e uso dello
scheletro come soggetto iconografico della classicità. Klotz si era

14 J.J. Winckelmann, Versuch einer Allegorie, cit., p. 77 (trad. it., vol. VII, p. 426).
15 G.E. Lessing, Schriften II, cit., p.174 (trad. it. p. 73).
16 Sarpedonte, figlio di Giove e di Europa, fratello di Minosse, abbandonò Creta e si

recò in Licia da dove corse in aiuto di Troia contro i Greci; Patroclo lo uccise in battaglia.
64 Lo sguardo reciproco

appellato nella propria opera, Sull’utilità e l’uso delle antiche pietre


incise e sulle loro copie (1768), all’esempio di un’urna cineraria
conservata nella galleria ducale di Firenze, la pietra incisa raffigu-
rante uno scheletro citata e illustrata da Buonarroti nelle Osserva-
zioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi (1716) e l’esempio n.
998 della Dattiloteca di Lippert17.
Esaminiamo, allora, i postulati principali della posizione di Les-
sing in polemica con Klotz e successivamente alcuni momenti del-
l’argomentazione: gli scheletri fanno parte dell’iconologia degli
Antichi, ma non coincidono necessariamente con la rappresenta-
zione della Morte come divinità (Thanatos); su questo punto pos-
siamo concentrare anche l’altra osservazione, che completa la pri-
ma, cioè che la divinità della morte non era pensata in forma di
macabre ossa umane; le figure più comuni per indicare la morte
sono giovani genii che si appoggiano ad una fiaccola rovesciata e
spenta, tenendo per lo più una gamba accavallata sull’altra. I genii
possono essere uno o due, Morte da sola oppure Sonno e Morte in-
sieme. In ogni caso, non sono da intendersi come amorini.
Lessing, appellandosi ora a testimonianze di autori contempo-
ranei, ora a classici come Pausania ed elencando un gran numero
di bassorilievi conservati nei musei e nelle ville italiane, dà conto
della coincidenza dell’immagine della morte con il quieto riposo,
lungi da ogni terribile incubo legato al trapasso. Proprio la religio-
ne e la cultura della classicità suggerivano un rapporto non trau-
matico con il mondo dell’oltretomba ed investivano nell’arte fune-
raria le energie positive dei buoni auspici con cui i parenti accom-
pagnavano il defunto: «Così dorme la presunta Cleopatra del Bel-
vedere [Ariadne nella galleria delle statue del Museo Vaticano a
Roma]; così dorme la ninfa collocata su un antico monumento, se-
condo la lezione del Boissard; così dorme, o vuole addormentarsi
appunto dolcemente l’ermafrodito del Dioscuride»18.
Come si è poi rilevato, sia la ninfa che l’ermafrodito sono opere

17 Ph. D. Lippert (1702-1785) fu, a partire dal 1764, professore di arte antica pres-

so l’Accademia di Dresda e collezionista di gemme. La sua collezione fu molto d’aiuto a


quanti, nel Settecento, non avevano la possibilità di andare sul luogo in cui erano ospi-
tate sculture greche per contemplarle di persona.
18 G.E. Lessing, Schriften II, cit., p. 184 (trad. it. cit., p. 37). J.J. Boissard (1528-

1602) è l’autore di Romanae urbis topographia et antiquitates (1597-1602).


Psiche e la piramide 65

molto più recenti di quanto Lessing sapesse. Se è vero che Lessing


finisce col vedere Sonno e Morte raffigurati dappertutto, anche sul
monumento funebre di Amempto, che si trova oggi al Louvre e
che reca in realtà l’immagine di due centauri musici montati da
due amorini che a loro volta suonano, è altrettanto vero che egli
riesce a presentare un’ipotesi convincente, che cioè questa simbo-
logia avrebbe avuto lo scopo di rendere immediatamente ricono-
scibile l’allusione alla morte da parte degli Antichi. Urbanitas e lae-
titia sono espressioni di un codice del rituale funerario che esorciz-
za gli oscuri fantasmi dell’ignoto. Lessing, con quel suo tipico gu-
sto retorico che è già figurativo, e con quella messe di dati icono-
grafici cui abbiamo potuto solo accennare, ha creato il “caratteri-
stico” della morte computando l’incidenza numerica di soggetti ri-
correnti su sarcofaghi, stele e monumenti funerarii. Con questo
non sono negati né la sporadica presenza di scheletri nell’iconogra-
fia antica, né l’elemento orrifico che i poeti introducono per parla-
re dell’aldilà, come ben si vede nella Tebaide di Stazio, in cui si leg-
ge: «Stant Furiae circum, variaeque ex ordine Mortes» (VIII, 24).
La poesia, però, come già rilevava Lessing nel Laocoonte, dispone
di strumenti descrittivi che la scultura non può utilizzare, e non va
comunque dimenticato il momento pedagogico-didattico della le-
zione artistica sulla morte difeso da Greci e Romani, che aveva
funzione edificante e si appellava all’ideale della bellezza.
Ludwig Uhlig, che ha studiato a fondo il Lessing interprete del-
la classicità, espone la ragione ultima di Come gli Antichi raffigura-
vano la morte: «La morte naturale sopraggiunge, dopo una strenua
lotta mortale, come sonno liberatorio. Lo scheletro, a cui si riduce
il cadavere, è solo la morta materia che non ha alcun rapporto con
l’Io sensibile dell’uomo vivo»19. Resta comunque il fatto che, pur
non esistendo il concetto di “peccato” nel mondo pagano, anche
gli antichi distinguevano tra anime dei defunti buoni e anime dei
defunti cattivi; le prime diventavano lares, divinità protettrici della
famiglia, le altre, larvae che, come scrive Lessing «erravano senza
meta, fuggiasche per la terra, oggetto di vane paure per i pii, di

19 L. Uhlig, Wie die Alten den Tod gebildet. Das Bild des Todesgenius bei Winckel-

mann, Lessing und Herder, in «Lessing Yearbook» 6 (1974), pp. 13-35. L. Uhlig ha
scritto anche un lavoro più esteso sull’argomento, dal titolo Der Todesgenius in der
deutschen Literatur. Von Winckelmann bis Th. Mann, Tübingen, Niemeyer, 1975.
66 Lo sguardo reciproco

tremendi spaventi per gli iniqui»20. Questa duplicità dell’immagi-


ne della morte, che si caratterizza come morte naturale e come vio-
lenta, o comunque colpevole, occuperà in modo vario l’immagina-
rio dell’uomo del secondo Settecento, a mezza strada tra Classici-
smo e Romanticismo il quale, come giustamente ha osservato Fre-
derick Antal21, non può vivere le due dimensioni culturali in mo-
do separato. Füssli, con il suo Sarpedonte morente che viene por-
tato in cielo tra le braccia di Sonno e Morte, sceglie un tema classi-
co e lo inserisce in un clima decisamente preromantico, guada-
gnandosi il titolo di massimo artista del «leggendario moderno».
Nella letteratura tedesca, invece, uno tra gli esempi più efficaci
dell’ambiguità fra gusto illuminista e pensiero romantico può es-
sere ritenuto il testo, che non a caso ha incerta connotazione di
genere, le Veglie di Bonaventura, pubblicate anonimamente nel
1804. Sebbene la percezione “gotica” della morte prevalga ormai
decisamente su quella mutuata dall’esempio classico, aumenta vi-
sibilmente la varietà di metafore scelte per connotarla. L’autore
avvia un’operazione di sistematica distruzione di tutti i luoghi co-
muni del “cimiterialismo” romantico, polemizzando con quel
“cattivo gusto” che Lessing aveva così ben sintetizzato nello
“scheletro” di Klotz: «Amico dell’arte, a che punto siamo arrivati,
se osiamo frugare in questi sepolcri divini e riportare alla luce
questi morti immortali mentre sappiamo che presso i Romani ve-
niva punito duramente anche il semplice danneggiamento di tom-
be umane? Naturalmente solo alcuni uomini d’ingegno conside-
rano questi defunti alla stregua di idoli, e così l’arte si è ridotta a
una setta pagana in qualche modo insinuatasi nella vita moderna,
che continua a venerarli e a supplicarli: ma che possono mai que-
ste preci, o amico dell’arte?»22.

20 G.E. Lessing, Schriften II, cit., p. 212 (trad. it. p. 68).


21 F. Antal, Classicism and Romanticism, London, Routledge, 1966 (trad. it. di R.J.
Wilcock, Classicismo e Romanticismo, Torino, Einaudi, 1975).
22 A. Klingemann, Nachtwachen von Bonaventura, a cura di J. Schillemeit, Frank-

furt a. M., Insel Verlag, 1974; delle Veglie esistono due edizioni italiane: una a cura di P.
Collini, Veglie, Venezia, Marsilio, 1990, che preferisce non optare per uno dei presunti
autori dell’anonimo libretto, e una di E. Agazzi, Veglie di Bonaventura, Parma, Guanda,
1989, in cui si accetta invece l’attribuzione dell’opera a Klingemann (1773-1831), diret-
tore teatrale noto per la sua prima rappresentazione del Faust (1829). La citazione è
tratta da questa edizione a p. 114.
Psiche e la piramide 67

Che l’affinamento del gusto estetico volto al bello dell’arte clas-


sica abbia dovuto soccombere all’onda d’urto dello Sturm und
Drang e all’orrore della Rivoluzione Francese è testimoniato dal
fatto che il protagonista delle Veglie, Kreuzgang, non riesce a pen-
sare alla mutilazione delle statue raffiguranti gli dei come al risul-
tato delle offese del tempo, che ha deturpato la bellezza delle for-
me, ma come a una vera e propia mostruosità di corpi incompleti
che si oppongono alla sublimazione dell’immaginario collettivo:
«Alla luce ingannevole delle torce, quell’intero Olimpo silenzioso
parve prendere vita intorno a me; l’irascibile Giove cercava di le-
varsi dal trono, il grave Apollo mise mano al suo arco e alla lira
melodiosa, i draghi si inalberarono poderosi intorno al combattivo
Laocoonte e ai suoi figli morenti, Prometeo con i suoi moncherini
dava vita agli uomini, Niobe, muta, proteggeva il più giovane dei
suoi figli dai dardi del sole che sfolgoravano, le Muse, senza mani,
senza braccia, senza labbra, si agitavano confusamente come per
cantare e suonare antichi canti caduti nell’oblio [...] Solo sullo
sfondo, non illuminato, stava un coro di Furie, rigido e pietrifica-
to, e fissava cupo e spaventoso, il tumulto»23.
La battaglia della cultura del XVIII secolo per la conquista del-
l’ideale della bellezza si frantuma alla soglia della colpa umana
percepita dal cristianesimo romantico, per aver sfidato Dio con i
lumi della ragione; lo scetticismo e il razionalismo di Faust riso-
spingono Elena e i personaggi dei poemi omerici, oggetto di ispi-
razione poetica e artistica, nelle tenebre dell’ade, negando all’eroe
la partecipazione all’immortalità estetica.
Per tornare nel vivo del XVIII secolo dobbiamo ricordare che
le impressioni di viaggio dei primi studiosi che si avventurarono in
Italia e, in taluni casi, in Grecia, e che erano ormai svincolate dalla
prospettiva del Grand Tour, echeggiano dell’emozione che per pri-
mo Winckelmann aveva provato recandosi a Roma nel 1755.
Johann Gottfried Herder, ad esempio, che nella prima delle sue
Selve critiche del 1769 aveva criticato l’interpretazione della morte
esposta da Lessing a proposito del Laocoonte, compie un viaggio
in Italia tra il 1788 e il 1789, rivivendo in gran parte le suggestioni
paesaggistiche ed artistiche di Goethe, che lo aveva preceduto nel-
la penisola nel 1786. Subito all’inizio del viaggio, giungendo ai pri-

23 Ivi, p. 116.
68 Lo sguardo reciproco

mi di settembre del 1788 a Verona, Herder osserva: «Tra le anti-


che pietre, che per la maggior parte sono pietre sepolcrali e sarco-
faghi, mi sovvenne a tal punto il pensiero della nostra felicità e del
nostro comune lavoro, che immergendomi nella riflessione, mi
sciolsi quasi in lacrime. Stavano lì quieti i soggetti degli epigrammi
greci, le mani che si stringevano in segno di fedeltà anche sulla
pietra sepolcrale, e i bimbi fra loro. Qui un gruppo familiare intor-
no al tavolo, laggiù persone in riposo e quattro o cinque volte il
nostro amico Sonno con la fiaccola rovesciata»24.
Herder, sebbene memore degli itinerari percorsi da precedenti
viaggiatori, avvolge la descrizione odeporica di accenti di forte inti-
mità, che devono toccare nel più profondo del cuore la moglie lon-
tana e purtuttavia attenta alle esperienze dello scrittore. Come dice
la dedica, «Bloß für Dich geschrieben» (Scritto solo per te), le an-
notazioni di Herder non sono pensate per la pubblicazione e per
questo risultano ancora più raffinati i commenti personali che egli
aggiunge via via che si fa più saldo il rapporto con la terra e l’arte
italiana. Herder vorrebbe poter saper disegnare, la scrittura è in-
sufficiente a riferire le magnifiche linee e le forme delle statue delle
divinità e degli eroi conservate nei Musei Vaticani, perché solo la
diretta contemplazione può aiutare l’estimatore del bello artistico
nell’instaurare un rapporto di pace e serenità con il mondo25. Non
si può stare in Italia senza sentirsi parte di quel “divino” che la sto-
ria ha risparmiato nello scorrere dei secoli: «In realtà, amata Karo-
line, gli dei e i genii incedono e giocano con il nostro destino, seb-
bene tutto dipenda, in ultima istanza, dalle cause, dalla ragione e
dall’irrazionalità degli uomini»26. Herder è teso a serbare nel ricor-
do la “parte migliore” di ciò che ha visto, sia esso sacro o profano.
Oltre all’epistolario con Karoline, abbiamo anche frammenti
del diario di viaggio, tra cui delle note sul Palazzo Rondanini, in

24 J.G. Herder, Briefe und Aufzeichnungen Über eine Reise nach Italien 1788/1789,

Berlin, Rütten & Loening, 1980, p. 53. Vale la pena di ricordare qui che Herder scrisse
un discorso commemorativo in onore di Winckelmann dal titolo Denkmal Johann
Winckelmanns. Demselben vor der Fürstl. Akademie der Alterthümer zu Cassel bei An-
laß der ersten Preisgabe im Jahre 1777 errichtet, che in realtà fu pubblicato solo nel
1842; ne apparve un’edizione ridotta sul Teutscher Merkur dell’autunno 1781 insieme ai
necrologi per Lessing e Sulzer.
25 J.G. Herder, Briefe und Aufzeichnungen. Über eine Reise nach Italien 1788/

1789, cit., p. 113.


26 Ivi, p. 178.
Psiche e la piramide 69

cui vengono descritti alcuni pezzi della collezione. Tra gli altri:
«Un Romano disteso con il busto della moglie sul grembo e le
gambe incrociate l’una sull’altra. Un monumento funerario; [...]
Un grande bassorilievo: Peleo va da Teti e Amore la disvela. Sul-
l’altro lato Diana fa visita a Endimione con presente Morfeo che
ha ali di farfalla. Dev’essere presente nei Monumenti di Winckel-
mann [...]. Un bel bassorilievo che raffigura un morente; un altro
lo sorregge. Nei Monumenti di Winckelmann»27. Ma è sicuramen-
te nel Museo Capitolino che Herder può trovare il maggior nume-
ro di soggetti funerari e scoprire nuovi simboli iconografici. Nel
sarcofago numerato come primo, Herder osserva che la figura gia-
cente, probabilmente il morto, tiene nella mano destra un papave-
ro. Questo fiore è presumibilmente indicativo di una dolce dipar-
tita dalla vita, senza traumi né dolori. Il defunto è assistito da un
genio che imbecca un uccello con dei chicchi d’uva, un motivo ri-
preso da uno degli Epigrammi veneziani di Goethe, composto dal-
lo scrittore nel 1790 e intitolato Sarcofagi ed urne, in cui si dice:
«Sarcofagi ed urne ornava il pagano con espressioni di vita: intor-
no danzano fauni, e col coro delle baccanti./ Variopinta teoria for-
mano; il capripede trae, enfiando le guance, un suono roco e sel-
vaggio dell’echeggiante corno./ Cembali e tamburi rullano; il mar-
mo lo vediamo e l’udiamo. Uccelli svolazzanti, come piace al vo-
stro becco la frutta squisita! Né lo strepito vi spaventa, e ancora
meno spaventa Amore, il quale della fiaccola allora comincia a go-
dere, che si trova nel variopinto tumulto./ Così sulla morte l’opu-
lenza domina e le ceneri entro l’arca, tranquillo recinto, ancora
sembrano goder della vita./ Così, dunque, in un lontano futuro,
attorno al sarcofago del poeta questo volume si stenda, ch’egli
ornò riccamente di vita»28. Poiché il bassorilievo del sarcofago è
costruito per riquadri, avviene che alcune figure caratteristiche
diano luogo ad un vero e proprio rito narrativo: da qui derivano al
soggetto, ancorché funebre, vita e letizia. Amore e Psiche, Psiche
che regge un fuso e fila, Minerva che tiene in mano una farfalla, il

27 Ivi, p. 373. Herder si riferisce a J.J. Winckelmann, Monumenti antichi inediti

(1760), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1967; nell’edizione di C. Fea i Monumenti co-


stituiscono i voll. IV-V delle Opere.
28 J.W. Goethe, Sämtliche Gedichte, München, DTV, 1961, vol. IV, p. 170 (trad. it.

e cura di G. Manacorda, Le elegie, le epistole e gli epigrammi veneziani, Firenze, Sanso-


ni, 1982, pp. 141-143).
70 Lo sguardo reciproco

genio con la fiaccola rovesciata che si raccolgono intorno alla sto-


ria del destino del morto e della migrazione della sua anima, ac-
colta in cielo da Mercurio, sono le figure descritte da Herder.
Herder osserva che le figure, per quanto accalcate, seguono una
regola di forte simmetria, creando con la continuità dei loro gesti
una specie di poema scultoreo.
Per il sarcofago n. 2 Herder annota che sopra la testa di Amore
compare la scritta genius, così che questa osservazione sembra ren-
dere superflua la distinzione che Lessing aveva insistentemente
sottolineato tra Amore e il Genio, considerando poco opportuno
l’apparire di una presenza ludica nel contesto della tematica fune-
raria. L’insistenza con cui Amore appare come soggetto di un mo-
numento sepolcrale, però, può essere giustificato tanto dal rappor-
to mitologico con Psiche29, quanto per l’allusione alla relazione di
Diana con Eros, suo allievo e complice negli intrighi divini. Come
osserva Claude Calame: «Gli Amori ed Afrodite [...] quando inter-
vengono con violenza, privano gli esseri umani del piacere, gettan-
do la donna in un letto estraneo, turbando il talamo degli sposi,
privandoli di patria e di focolare, precipitandoli nella disperazione
e nella morte»30. Come si vede, la presenza di Amore nella cornice
della commemorazione funebre ha tutt’altro che una funzione ete-
rogenea rispetto all’evento luttuoso; probabilmente, però, il fatto
che spesso un amorino regga sopra la testa di Diana un velo, allu-
de alla volontà dei parenti del defunto di propiziare la fedeltà tra
uomo e donna anche dopo la morte.
Naturalmente oggi possediamo molti più elementi per valutare
il pieno significato dei bassorilievi che decoravano i sarcofaghi. Fi-
no a Winckelmann, invece, come ha giustamente osservato Niko-
laus Himmelmann31, alle rappresentazioni dei monumenti funerari

29 Sullo specifico tema del culto delle anime e della fede degli antichi Greci nel-

l’immortalità si segnala di E. Rohde, Die Religion der Griechen: Rede zum Geburtsfeste
des hochstseligen, Heidelberg, Univ.-Buchdruckerei Horning, 1895 e Psiche. Seelenkult
und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, 1898 Heidelberg (1893; trad. it. di E. Codi-
gnola e A. Oberdorfer, Psiche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, 2
voll., Bari, Laterza, 1914-16), che per quanto datato, offre interessanti spunti sull’argo-
mento alla luce di un confronto con i poemi omerici.
30 C. Calame, I Greci e l’eros. Simboli, pratiche e luoghi, Bari, Laterza, 1992, p. 116.
31 N. Himmelmann, Winckelmanns Hermeneutik, in «Abhandlungen der Geistes-

und Sozialwissenschaftlichen Klasse», n. 12, 1971, Mainz, Verlag der Akademie der
Wissenschaften und der Literatur, pp. 3-22.
Psiche e la piramide 71

Fig. 4. Gruppo di Amori allegorico.

veniva per lo più attribuita l’appartenenza a episodi della leggenda


romana o della storia romana. Winckelmann fu il primo a suppor-
re, invece, che sarcofaghi e steli funerarie mostrassero scene tratte
dalla mitologia greca e che queste fossero saldamente legate a testi
di poeti greci. Winckelmann, come faranno poi i suoi successori,
non circoscrive l’analisi ermeneutica alle figure principali, ma cer-
ca di capire la funzionalità del quadro nel suo insieme.
Questo vale ad esempio per una coppa d’argento di proprietà
della famiglia Corsini, in quanto Winckelmann rifiuta l’ipotesi che le
scene riportatevi in rilievo concernano la raffigurazione dell’oracolo
della Fortuna di Anzio, suggerendo trattarsi dell’episodio del giudi-
zio di Oreste all’aeropago tratto dalle Eumenidi di Eschilo.
Winckelmann non si era reso conto, però, del fatto che la maggior
parte dei bassorilievi erano di epoca imperiale e che derivavano i lo-
ro soggetti da scritti storico-artistici di età ellenistica. Per questo
Himmelmann può dire: «Significativo per la concezione assoluta
dell’arte di Winckelmann è il fatto che egli non si ponesse quesiti
sull’utilizzo dei monumenti e sul senso delle immagini che ne poteva
72 Lo sguardo reciproco

derivare. Normalmente guarda alla rappresentazione come a qual-


cosa di assoluto, indipendente dal medium e cerca comunque il suo
senso sul terreno dell’allegoria»32. Himmelmann cita ad esempio
l’errore compiuto da Winckelmann nell’interpretazione della gem-
ma raffigurante due amorini: uno porta la fiaccola rivolta verso l’al-
to, mentre sostiene un putto dall’aria implorante, l’altro si allontana
con una lanterna (fig. 4). Questa scena costituirebbe l’allegoria della
passione amorosa portata alla disperazione e consolata da una luce
di speranza. In realtà, la rappresentazione era collegata ai misteri
dionisiaci ed era frequente su sarcofaghi romani con funzione esca-
tologica (non a caso, molti sarcofaghi di fanciulli recano questo mo-
tivo, rendendo l’ipotesi attendibile).
Comunque, ai viaggiatori tedeschi del secondo Settecento rima-
ne l’opzione di seguire le indicazioni di Winckelmann per la scelta
dei monumenti da visitare e i suoi itinerari artistico-concettuali,
che fanno da Baedeker agli stranieri. Sia che le impressioni sul pae-
saggio e sull’arte che Winckelmann trasmette soprattutto attraver-
so il carteggio con i suoi amici e benefattori restino a livello di su-
perficiale “rovinismo”, seguendo un immaginario ancora tipico
della pittura di Poussin, sia che le emozioni dell’antiquario venga-
no introiettate più profondamente in una dimensione storico-criti-
ca, come nel caso di Goethe, Winckelmann è sempre presente alla
mente dei visitatori d’Oltralpe. Goethe fa costante riferimento alla
Storia dell’arte dell’antiquario, attribuendo all’autore il merito del
proprio interesse per le antichità greco-romane: «Egli giunse qui
trentun anni fa nella medesima stagione, povero mentecatto ancor
peggio di me, altrettanto pieno di coscienziosità tedesca per la
profonda sicurezza che viene dalle cose antiche e dall’arte. Con
quanto coraggio e tenacia seppe aprirsi la giusta strada! E quanto
valore ha per me il ricordo di quest’uomo in questo luogo!»33.
Non è, però, solo il Winckelmann a guidare l’itinerario storico-arti-
stico di Goethe. Appena giunto a Verona, memore di aver letto la
Verona illustrata di Scipione Maffei (1732)34, lo scrittore si reca al

32 Ivi, p. 14.
33 J.W. Goethe, Viaggio in Italia, a cura di E. Castellani, Milano, Mondadori, 1983,
p. 164.
34 S. Maffei, Verona illustrata, con giunte, note e correzioni inedite dell’autore,

4 voll., Milano, Società Tipografica dei Classici, 1826.


Psiche e la piramide 73

Museo lapidario fondato dal geniale studioso tra il 1714 e il 1715.


Qui, con tono di intenso raccoglimento, Goethe ammira le scene
di vita privata raffigurate sugli antichi sarcofaghi e ha modo di sot-
tolineare che non vi è apparente frattura tra vita e morte, non v’è
pathos religioso a deturpare l’iconografia di un evento che vien fat-
to dipendere dalla “Necessità”. Lo scrittore si trova così a com-
mentare nel Viaggio in Italia: «La brezza che spira dalle tombe de-
gli antichi arriva carica di profumi soavi, quasi avesse sorvolato una
collina piena di rose. I monumenti sepolcrali sono dolci e commo-
venti, e rappresentano sempre la vita. Qui un uomo, accanto a sua
moglie, si affaccia da una nicchia come se fosse alla finestra. Là un
padre e una madre in piedi, col figlio in mezzo a loro, si guardano
l’un l’altro con naturalezza indicibile. Qui una coppia si porge le
mani, mentre là un padre, steso sul divano, sembra intrattenersi
con la famiglia. La realtà immediata di queste pietre mi ha com-
mosso all’estremo. Sono opere della decadenza, ma parlano un lin-
guaggio semplice, naturale e universale»35. Dunque Goethe è con-
vinto del fatto che la spinta a operare nel mondo, la tensione verso
il conseguimento di una completezza nella vita costituisca il natu-
rale e necessario presupposto all’eternità. La felicità non è il corre-
do con cui ci si presenta a Dio nel momento del trapasso, ma lo è
piuttosto l’operosità con cui si è scelto di connotare la propria esi-
stenza individuale. È anche per questo che la sepoltura di un qual-
siasi cittadino del mondo antico può essere apprezzata in tutta la
sua grandezza etica, bastante il fatto che il semplice rigore nel vive-
re quotidiano lo abbia accompagnato con coerenza fino alla morte.
Non può sfuggire del resto l’accento polemico con cui Goethe
pensa per contrasto alle scene di martirio spesso riprese dall’icono-
grafia cristiana e condite di retorica e a cui risponde con il mito gre-
co di Ifigenia che notoriamente viene sottratta al sacrificio finale
dalla benevolenza divina. Anche in vecchiaia, però, quando si sen-
tirà più vicino al cattolicesimo, Goethe continuerà a sostenere il
principio della quotidiana e dimessa operosità a garanzia di una gra-
tificazione oltremondana. Basta citare per questo la sua lettera ad
Eckermann del settembre 1829: «Non dubito affatto della nostra
eternità, poiché la natura non può fare a meno dell’entelecheia; ma

35 J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., pp. 41-42.


74 Lo sguardo reciproco

noi non siamo tutti immortali allo stesso modo e per potersi manife-
stare in futuro come grande entelecheia, bisogna anche esserlo»36.
A proposito del mutato atteggiamento nei confronti delle sepol-
ture dopo il 1760, Philippe Ariès ricorda: «Si rimproverava alla
Chiesa d’aver fatto tutto per l’anima e niente per il corpo, di pren-
dere i soldi delle messe e di disinteressarsi delle tombe. Si ricorda-
va l’esempio degli antichi, la loro pietà per i morti, testimoniata
dai resti delle loro tombe, dall’eloquenza della loro epigrafia fune-
raria [...]. Si va dunque a visitare la tomba di una persona cara allo
stesso modo in cui si va da un parente o in casa propria, piena di
ricordi. Il ricordo conferisce al morto una specie di immortalità,
che in principio era estranea al cristianesimo»37. Per Ariès questo
nuovo atteggiamento ritualistico può essere indubbiamente attri-
buito al fatto che proprio in questo periodo, soprattutto tra le fa-
miglie borghesi dotate di maggiori mezzi economici, viene inaugu-
rato l’uso della “sepoltura di famiglia”, attuato per mezzo di cap-
pelle e di loculi raggruppati.
Per tutto il Medioevo, al contrario, le sepolture venivano effet-
tuate individualmente, anche in virtù della convinzione che l’ani-
ma non dovesse attendere il Giudizio Finale per essere giudicata,
ma venisse rimessa alla volontà divina fin dall’istante del decesso.
La morte di un individuo, nel Settecento, rende partecipi tutti i
congiunti della sorte dell’estinto, non più affidata esclusivamente
alle preghiere in chiesa, ma anche alla pietà di coloro i quali gli fu-
rono più vicini in vita. L’archeologia moderna, che in questi anni
tra il 1750 e il 1800 è ai suoi albori, assegna alla visita dei luoghi in
uso per i culti funerari il senso di un intimo incontro con quei de-
funti che, commemorati dai loro cari molti secoli fa, possono esse-
re ancora ricordati per la semplicità degli affetti, cui rinviano i ge-
sti e i riti quotidiani scolpiti nella pietra.
Nello stesso anno in cui Goethe è in viaggio in Italia, un altro
grande tedesco assapora la gioia di visitare quei luoghi «cari agli
dei». Si tratta di Karl Philipp Moritz che, in seguito alla propria
esperienza nella penisola, dedica gran parte delle riflessioni sul
mondo mediterraneo alla mitologia greca, cioè la Mitologia o poe-

36 J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe, Wiesbaden, Brockhaus, 1959, p. 282.


37 Ph. Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen Âge à nos jours,
cit., (trad. it. cit., pp. 60-61).
Psiche e la piramide 75

mi mitologici degli Antichi, pubblicata nel 1791. Moritz non si li-


mita a seguire idealmente il dibattito di Winckelmann, Lessing,
Goethe e Herder e di quanti mostrino sensibilità nei confronti del
bello in arte, ma si ispira proprio ai climi e ai luoghi dell’Ifigenia
goethiana e alla poesia della grecità di Schiller, come dello stesso
Goethe. La quiete, la grandezza e la purezza dell’arte plastica gre-
ca e greco-romana, vengono restituite da Moritz attraverso rifles-
sioni che proclamano la necessità che l’oggetto artistico sia com-
piuto in se stesso, potendo esso garantire solo in questo caso il go-
dimento estetico.
Moritz non è in grado di riflettere su arte e natura se non a par-
tire dalla prospettiva del bello. Persino la morte viene giustificata
in quest’ottica e assume i contorni del divino Apollo. Apollo è una
divinità dalla doppia valenza, positiva o negativa, a seconda che si
cimenti con la lira o che scocchi frecce letali per l’uomo: «Non è
forse attraverso la perenne distruzione dell’individuo che il genere
umano si mantiene nell’eterna giovinezza e nell’eterna bellezza? E
non è la bellezza e la gioventù personificata in un Dio dall’immagi-
nazione più pura, quella che uccide gli uomini con un colpo legge-
ro, o irrompe adirata con arco e faretra, terribile e sinistra, come
terrore nella notte, tende l’arco d’argento e lancia nel campo dei
Greci le frecce pestifere?»38.
Gli dei, però, secondo Moritz, subirebbero come gli uomini il ri-
catto dell’ignoto, sarebbero a loro volta soggetti al timore delle te-
nebre. Nella Mitologia si parla ad un certo punto, infatti, della Not-
te e del Fato che «dominano sopra gli dei e sopra gli uomini»39 e
Moritz rinvia al passo di Pausania, in cui questi avrebbe descritto
un sarcofago di Cipselo sul quale doveva essere scolpita una Notte
in sembianze femminili, che teneva sotto il manto due fanciulli:
uno nero e dormiente e l’altro bianco, forse anch’esso immerso nel
sonno. Tutte e tre le figure stanno con le gambe incrociate con
chiaro riferimento simbolico, soprattutto la Notte, che si trova in
una posizione di evidente costrizione40. I due fanciulli, poi, recano

38 K. Ph. Moritz, Über die bildende Nachahmung des Schönen, in Id., Werke, a cura

di H. Günther, Frankfurt a.M., Insel Verlag, 1981, vol. II, pp. 576-577 (trad. it. in Id.,
Scritti di Estetica, a cura di P. D’Angelo, Palermo, Aesthetica edizioni, 1990, p. 89).
39 K. Ph. Moritz, Götterlehre oder Mythologische Dichtungen der Alten, in Id.,

Werke, cit., p. 633.


40 Ivi, cfr. p. 634, figura in alto.
76 Lo sguardo reciproco

Fig. 5. A.J. Carstens,


La Notte e il Fato,
1791.

ciascuno il segno distintivo della morte: uno la fiaccola rovesciata,


l’altro uno stelo di papavero. Più complessa è, invece, la raffigura-
zione della gemma, descritta in seguito, che porta incisa la figura di
Morfeo giovane al cospetto della Notte, la quale porge un papave-
ro; dietro di lei, un vecchio inchinato e probabilmente raffigurante
il fratello di Morfeo, che insieme con il dio dei sogni e quello del
sonno raccoglie steli di papavero, volutamente seminati per terra
dalla Notte (fig. 5). Le incisioni più arcaiche, dunque, sottolineano
il timore di fronte all’ignoto, il quale abitualmente viene incarnato
da figure in atto di svolgere rituali allusivi a morte ed oblio. Moritz
Psiche e la piramide 77

espone un vero e proprio catalogo di creature delle tenebre, inclu-


dendovi le Parche, le Furie e le Cure. Neppure Zeus, osserva Mo-
ritz, può opporsi al Fato, quando l’amato figlio Sarpedonte, recato-
si a Troia, deve perire per mano di Patroclo. Comunque, anche per
Moritz le fonti iconografiche più preziose per la raffigurazione del-
la morte sono le pietre incise del barone von Stosch.
Il rapporto dello scrittore con il mito greco antico resta, in un
certo senso, di distanza, mentre più coinvolgente è senz’altro il ri-
tuale religioso cristiano che lo travolge emotivamente fin dai primi
giorni del suo soggiorno in Italia. Nel novembre, quando giunge a
Roma, le chiese sono addobbate con teschi e tibie, a commemora-
re i defunti. Il sinistro quadro del rito funebre viene completato
dai toni grigi del cielo e dai lamenti dei medicanti che affollano le
gradinate delle chiese, un tormentoso scenario di cui anche Seume
lascerà annotazioni nella Passeggiata a Siracusa nell’anno 180241. Il
pensiero delle povere anime della gente umile, affidate alle pre-
ghiere espiatorie dei fedeli, angoscia Moritz. Nel Foro romano, in-
vece, lo scrittore sembra ritrovare equilibrio e serenità; le rovine
invitano ad un laico raccoglimento, a distanza dal clamore della
folla. Il mondo cristiano e il mondo pagano, messi l’uno di fronte
all’altro o costretti a coesistere in Roma vengono infine sopraffatti
dalla Notte, una Notte gotica, accompagnata dal suono sinistro
della campanella di un convento... Siamo già ad un passo dalle
suggestioni romantiche delle Veglie di Bonaventura.
Fra tutte le testimonianze di viaggio di questo periodo, quella
di un nobile tedesco, il conte Friedrich Leopold zu Stolberg42, ci
dà le maggiori emozioni nel contesto di una appassionata riflessio-
ne sui riti funerari antichi. Una sua riflessione smitizza completa-
mente l’idilliaca opinione che la cultura illuministica aveva svilup-
pato sulla “morte bella” degli antichi: «Se Lessing avesse visto più

41 Dello Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802 di Seume esistono quattro edizio-

ni ottocentesche del 1803, 1805, 1811, 1817-19. Si fa qui riferimento a una delle edizio-
ni più ampie delle opere, J.G. Seume, Werke in zwei Bänden, 2 voll., a cura e con un’in-
troduzione di A. Klingenberg, K.H. Klingenberg, Weimar, Volksverlag, 19623, che con-
tiene un estratto dello Spaziergang. Per l’edizione italiana, cfr. J.G. Seume, L’Italia a pie-
di 1802, a cura di A. Romagnoli e G. Garbin, introduzione di A. Romagnoli, note di F.
Marenco, Milano, Longanesi, 1973.
42 F.L. Graf zu Stolberg, Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in

den Jahren 1791-92, 4 voll., Hamburg, Perthes und Besser, 1822.


78 Lo sguardo reciproco

opere dell’arte antica, non avrebbe mai supposto che i Greci aves-
sero solo rappresentato il bello. È vero che anche una Furia può
avere una sua spaventosa bellezza, così come le Grazie possono
dotarsi forse di terribilità [...]. Alcune delle loro Furie sono, però,
dotate di disgustosa terribilità»43. Stolberg, diversamente dagli al-
tri viaggiatori in visita in Italia, i quali per lo più circoscrivevano le
loro riflessioni sulla morte in occasione delle visite ai musei o ai
luoghi di devozione, sente aleggiare costantemente in Roma la pre-
senza di quei defunti che, nell’onore o nell’ignominia, sono stati
affidati alla memoria dei loro eredi spirituali. Una considerazione
sull’arte plastica e sulla volontà dell’artista antico di immortalare
l’uomo del suo tempo merita particolare attenzione: «Un certo
qual carattere di durezza, di mancanza di partecipazione connota
la maggior parte delle teste delle statue antiche, sia degli dei che
degli uomini, sia di sesso maschile che femminile. A condizione
che non mi sbagli, così ebbe il suo effetto la rappresentazione del-
la transitorietà e della morte, che si protende ancora sulla fantasia
dell’artista pagano [Tanelegéos thanatoìo]; ebbe vario effetto, a se-
conda che il suo carattere si piegasse a questa impressione o cer-
casse di resistervi. Agì a partire dal cuore, attraverso il braccio e lo
scalpello [...] Sui tratti stessi dell’eterna giovinezza divina aleggia,
come una nube oscura, il pensiero della morte»44.
Non si può avere un quadro più efficace del rispetto e dell’en-
tusiasmo con cui l’uomo del Settecento coltivò il proprio interesse
per il mondo antico, di quello che ci fornisce Giovanni Paolo Pa-
nini nella tela intitolata Galleria immaginaria con le vedute di Ro-
ma antica del 1756, cioè dello stesso anno in cui furono pubblicati
i Pensieri sull’imitazione di Winckelmann. Una composizione,
questa, che pur nella ricchezza dei soggetti che vi vengono raffigu-
rati (tele di celebri monumenti romani, sarcofaghi, lastre incise,
statue e vasi ornati di bassorilievi) non trascura il clima di quiete
melanconia di cui il XVIII secolo, con la nostalgia per l’antica
grandezza imperiale romana e per quella repubblicana ateniese, è
pervaso. I monumenti romani, strappati al loro contesto paesaggi-
stico e trasformati in quadri, sono incorniciati e costretti alla legge
della bidimensionalità. Sempre in quanto quadri, riempiono ogni

43 Ivi, vol. II, p. 249.


44 Ivi, vol. I, pp. 310 ss.
Psiche e la piramide 79

spazio di questa galleria senza concedere neanche un centimetro


alla parete bianca, ricordando che la passione antiquaria è anche
moda e mania collezionistica.
Abbiamo già accennato ad un altro viaggiatore che nel 1802
compì un viaggio da Lipsia a Siracusa, Johann Gottfried Seume.
Nel suo resoconto, Seume sembra badare molto più alle abitudini
sociali e ai costumi delle persone del paese straniero che alle bellez-
ze artistiche che l’Italia può offrirgli. A Roma, però, incontrando al-
tri studiosi, Seume ha occasione di esprimere la propria ammirazio-
ne per il Canova, che già da un ventennio circa risiede nella capita-
le: «Ho appena incontrato Canova e i nostri amici, Reinhart e Fer-
now. Si ottiene sempre un effetto positivo, quando persone che
hanno interessi in comune si incontrano; ma quando costoro si ri-
trovano sul suolo classico, il sentimento consegue una magia pro-
pria di bella umanità. Canova ha scolpito una seconda Ebe per i Pa-
rigini, che tuttavia, per le modifiche che egli vi ha apportato e che
certamente considera miglioramenti, mi piace di gran lunga meno
di quella veneziana [...]. Ha scolpito anche due combattenti, se-
guendo la lezione di Pausania che, dopo lo sfinimento dell’indeci-
sione, si colpiscono l’un l’altro in modo letale. Uno dei due ha ap-
pena ricevuto il colpo più terribile sulla fronte e con rabbia spaven-
tosa, strappa d’un tratto all’avversario le viscere tenendo il pugno
chiuso. Hanno valore di modelli per l’anatomia e l’espressione. Dal
momento che non hanno alcun stretto rapporto con l’umanità più
pura e bella, non potrebbero impegnarmi più di tanto: infatti, terro-
re e rabbia sono due passioni da cui prendo volentieri distanza»45.
Seume è ancora condizionato dalla edle Einfalt (nobile sempli-
cità) winckelmanniana; tuttavia, il suo giudizio riflette l’esigenza di
un itinerario culturale libero, sia per la scelta dei luoghi da visitare
sia per la partecipazione al dibattito storico-artistico, che lo vede in-
differente al cliché del “bello ideale”. Non a caso, Seume dedica

45 J.G. Seume, Werke, cit., vol. I, pp. 289-290. J.C. Reinhart (1761-1847), allievo di

Oeser a Lipsia e di Klengel a Dresda, entrò in rapporti di amicizia con Schiller. Il suo
stile realistico subì l’influenza di J. A. Koch e quando fu a Roma la sua pittura si con-
notò per un tono eroico-classicista. Scrisse anche saggi e poesie, permeate di forti ac-
centi satirici. K.L. Fernow (1763-1808) visse tra il 1794 e il 1797 a Roma, dove divenne
amico di Carstens e dove tenne lezioni sull’arte influenzate dalle teorie di Kant. Nel
1802 divenne professore di filosofia a Jena e nel 1804 bibliotecario della Granduchessa
Amalia a Weimar.
80 Lo sguardo reciproco

pochissime pagine a Roma, perché, come ha rilevato Marlis Ingen-


mey nel suo ricco studio L’Illuminismo pessimistico di J.G. Seume:
«coscientemente o no, anzi, a volte contro le sue stesse intenzioni,
Seume ha rifiutato almeno tre aspetti del gusto corrente. Oltre a
quello dello stile coltivato, ha emarginato quello artistico-figurativo
dell’Italia: gli fa omaggio quando può, lo evita dichiaratamente, ta-
gliandosi fuori con umile coraggio dall’immensa tradizione erudito-
figurativa delle Bildungsreisen, viaggi di formazione in Italia, da
quello del padre di Goethe ai viaggi immaginari dei romantici»46.
Nondimeno, la breve, ma preziosa testimonianza della visita a Ro-
ma dello scrittore fornisce un’idea alquanto chiara dello spartiacque
artistico che contraddistingue la prima fase operativa di Canova da
quella definita da Hugh Honour47 della “restaurazione”. Prima di
questa riforma abbiamo opere come il rappresentativo gruppo dei
«due combattenti», nell’espressione di Seume, quale non venne mai
ultimata in quella versione «crudamente realistica» che lo fece inor-
ridire. Forse l’autore si limitò a sentirne parlare, ma non lo vide di-
rettamente e dal momento che Pausania ne dà una minuziosa de-
scrizione, poté solo riferirne. Così Pausania: «Allora, dunque, Creu-
gante diede a Demosseno una percossa in testa. Ed egli comandò a
Creugante che tenesse ben alta la mano, così tenendola levata, egli
percosse con le dita intirizzite così fittamente in un fianco, che sì
per la durezza e l’acutezza delle unghie, come per la gran forza che
mise a percuoterlo, gli cacciò dentro la mano, con la quale strazian-
dogli le interiora, gliele trasse di corpo»48.
Se Canova aveva prediletto, negli anni giovanili, la rappresenta-
zione di soggetti mitologici colti «in atteggiamento di drammatica
animazione»49, come osserva Giuseppe Pavanello pensando so-
prattutto alla scena di separazione tra Orfeo ed Euridice e ad

46 M. Ingenmey, L’Illuminismo pessimistico di J. G. Seume, Venezia, Marsilio, 1978,


p. 196.
47 H. Honour, Neo-classicism, Harmondsworth, Penguin, 1968. Per l’edizione ita-

liana, trad. di R. Federici, Neoclassicismo, Torino, Einaudi, 19932.


48 Questo episodio è menzionato in Storia della scultura dal suo risorgimento in Ita-

lia fino al secolo di Canova del conte Leopoldo Cicognara per servire di continuazione alle
opere di Winckelmann e di D’Agincourt, Prato, F.lli Giachetti, 1823-242, vol. VII, p. 176.
49 G. Pavanello, Antonio Canovae Veneto..., in Antonio Canova, catalogo della Mo-

stra tenutasi presso la Gipsoteca del Museo Correr di Venezia, 22 marzo-30 settembre
1992, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 45-50.
Psiche e la piramide 81

Apollo, che trasforma Dafne in alloro, con l’ultimo tentativo di


esprimere un grado elevato di pathos nel combattimento di Teseo
con il Minotauro, Canova sceglierà temi di tono più pacatamente
drammatico; si pensi, ad esempio, alla realizzazione di monumenti
funerari per la Chiesa, per i regnanti e per nobili famiglie. Honour
coglie con sintetica precisione la metamorfosi artistica di Canova:
«Educato nella Venezia rococò, ben presto raggiunse un grado di
virtuosismo tecnico, di eleganza e raffinatezza naturalistiche che
incantarono i suoi compatrioti sulla laguna. Ma egli non mostrò
tendenze ribelli se non dopo il 1780, quando si recò a Roma ed en-
trò in una cerchia internazionale di artisti e teorici (in particolare
Gavin Hamilton); rinunciò allora agli allori che già aveva conqui-
stato, per dedicarsi alla creazione di un nuovo stile, rivoluzionario
nella sua severità ed intransigente nella sua idealistica purezza. Il
suo Teseo e il Minotauro morto ne fu il risultato. In un primo mo-
mento egli aveva pensato di rappresentare le due figure in combat-
timento ma, dietro suggerimento di Hamilton, decise di rappre-
sentare il momento di calma dopo la vittoria. Si è tentati di vedere
nel gruppo il simbolo della sua stessa conversione stilistica»50.
Fu per questo suo voto ad un nuovo stile più pacato e sommes-
so, che rispondeva idealmente all’invito di Winckelmann a supera-
re gli eccessi passionali di Bernini, che Canova realizzò i famosi
monumenti funebri di Clemente XIV (1783-87) e di Clemente
XIII (1783-92). Canova rappresenta in una composizione a sche-
ma triangolare il Papa assiso sul trono pontificio in atteggiamento
di comando, allusivo tanto di un estremo, autorevole saluto, quan-
to di una garanzia di protezione dei fedeli anche dopo la dipartita
da questo mondo. A mitigare il tono enfatico ed austero della figu-
ra maschile, due donne ai lati del sarcofago, la Temperanza e la
Mansuetudine, simboleggiano le virtù dello scomparso e l’univer-
sale rimpianto del popolo della Chiesa. Il drappeggio delle vesti
contribuisce a conferire compostezza ai personaggi femminili, che
con gesti più morbidi e curvilinei e lo sguardo abbassato, esprimo-
no la rassegnazione di fronte alla volontà divina (fig. 6). Si è notato
che per la statua del papa, Canova ha seguito in parte ancora la le-
zione barocca (aveva presente lo schema fissato da Bernini per il

50 H. Honour, Neo-classicism, cit. (trad. it. cit., p. 25).


82 Lo sguardo reciproco

Fig. 6. A. Canova, Monu-


mento per Papa Clemente
XIV, 1783-87.

monumento di Urbano VII in S. Pietro); le due Virtù sono invece


inequivocabilmente di gusto classico ed è stato Honour a sottoli-
neare la somiglianza fra le figure femminili che David ha posto a
lato della scena del Giuramento degli Orazi (1784-85), contempo-
raneo all’opera del Canova.
Il monumento funebre a Clemente XIII segue lo stesso schema
di quello precedente, anche se la figura del pontefice ha un atteg-
giamento più raccolto, essendo egli ritratto in preghiera dopo che
la mitra è stata deposta in segno di venerazione e di umiltà. Si
comprende bene, pertanto, che le due statue della Temperanza e
della Mansuetudine inserite nel precedente gruppo plastico non
avrebbero avuto più alcun posto qui; l’effetto d’insieme sarebbe
stato troppo dimesso. Vi fu un tedesco, però, che osò mettersi con-
tro corrente e sferrare un attacco diretto all’opera canoviana; la
sua azione ebbe l’effetto di suscitare l’indignazione di molti studio-
si anche a distanza di tempo e di sottolineare una nobiltà ancora
Psiche e la piramide 83

maggiore dello scultore, il quale reagì pacatamente alla provoca-


zione. Il Cicognara, che ci ha lasciato una preziosa Storia della
Scultura in sette volumi, ebbe modo di osservare a proposito di
questo personaggio: «pare che l’invidia una volta tentasse di mor-
derlo; e un libretto andò circolando nel 1806 stampato in Zurigo,
di cui diede immediatamente gli estratti un giornale enciclopedico
di Napoli: ma il dente trovò una cute troppo dura e non poté altri-
menti ferirla, cadendo nell’oscurità il libro e l’autore»51. Oggetto
della sua polemica era Carl Ludwig Fernow52, che nel 1806 aveva
scritto un lungo trattato sull’opera del Canova, accusandolo di una
certa inespressività formale. Le statue degli dèi e degli eroi, osserva
il detrattore di Canova, devono essere “carattere” e Canova avreb-
be invece conferito una certa sdegnosa distanza alle espressioni dei
personaggi, rendendoli freddi. Ma è proprio vero che con questo
apparente distacco il Canova si allontanava dalla scuola dell’auten-
tico classicismo? Quanto, invece, egli si trovasse sulla linea di
Winckelmann e dei suoi discepoli è ben rilevato da Eugenio Batti-
sti, il quale scrive: «Per il Winckelmann l’eroismo è come una scin-
tilla nascosta nella selce, la quale senza scemare né la freddezza né
la trasparenza, vi dorme dentro tranquilla, finché una forza esterna
la sveglia». Gli eroi neoclassici non hanno dunque slanci di miseri-
cordia e di pietà. La loro grandezza d’animo «consiste nel durare
inalterabilmente tanto nell’amore verso gli amici, come nell’odio
verso i nemici». Eccoli dunque impietriti, come statue nelle pittu-
re, lucidi, definiti, senza ombre [...]. Tuttavia l’eroico neoclassico
non doveva essere solo ritegno (invece che pietismo e predicazio-
ne), i teorici volevano trovarvi odio, urlo, potenza [...]. Il neoclas-
sicismo non fu tuttavia, uno stile reazionario. Anche rispetto al Ri-
nascimento esso si affaccia con una chiarissima pretesa di novità, o
almeno, con maggior coscienza e conoscenza. Però, al confronto,
appare poverissimo di miti»53. Dunque, il viaggiatore studioso
proveniente dal Nord percepirebbe, nel contatto con la scultura
di ispirazione greco-romana l’ormai avvenuta emancipazione dal

51 L. Cicognara, Storia della scultura, cit., vol. VII, p. 99.


52 C.L. Fernow fu tra l’altro autore delle Römische Studien, 3 voll., Zürich, Ges-
sner, 1806, in cui si esplicita la polemica con Canova.
53 E. Battisti, Ragioni politiche e religiose della «querelle» fra neoclassici e

romantici, in Arte Neoclassica, Atti del Convegno del 12-14 ottobre 1957, «Civiltà vene-
ziana di Studi», 17 (1964), pp. 39-66, citaz., p. 52.
84 Lo sguardo reciproco

Fig. 7. A. Canova, Monu-


mento funebre per Maria
Cristina d’Austria, 1805.

modello antico. I Tedeschi, oltretutto, sentono il divario ideologico


tra la loro visione protestante del mondo, estranea all’encomio nei
confronti di una Chiesa romana tutta pompa e autorità, e la sfera
culturale del cattolico Canova che pur essendo interamente «piena
di dèi», si integra perfettamente con la religione ufficiale.
Il Cicognara, dal canto suo, come è denunciato esplicitamente
anche dal titolo della sua opera, attribuisce ai tedeschi una funzio-
ne fondativa nella critica all’arte scultorea e quindi il merito di
aver favorito il dibattito sull’antichità senza irrigidirsi sulle posi-
zioni di una querelle des anciens et des modernes. Descrivendo il
monumento funebre a Maria Cristina d’Austria (fig. 7) commenta:
«Il gruppo del cieco che sta sul davanti sui primi gradini del mau-
soleo è un modello di bellezza affatto nuova, che nelle arti antiche
non trovò certamente il suo tipo; e il rappresentare un cieco, vec-
chio e povero con tanta verità congiunta a tutta quella nobiltà che
non lo toglie dallo stato della miseria, e rispetta ad un tempo i pre-
Psiche e la piramide 85

cetti di Lessing che prescrivono il rigore di ogni convenienza nelle


arti, fu opera di altissimo merito per lo scultore»54. È sufficiente
una sola frase di Cicognara per capire come egli condividesse mol-
to di più le scelte artistiche del Canova della “restaurazione” ri-
spetto a quelle della sua prima fase, più umorali e drammatiche.
Se per Lessing il sentimento del terrore aveva posto la tragedia in
una posizione di grande precarietà rispetto al gusto estetico mo-
derno, e se solo il Mitleid poteva produrre una reale partecipazio-
ne del pubblico sia nel campo del teatro, che in quello dell’arte,
Cicognara utilizza questi argomenti per esaltare la sobrietà del Ca-
nova “tardo” e per scagliare uno strale contro il Maestro del “su-
blime” settecentesco, Edmund Burke: «Il sublime dell’arte certa-
mente non esprimesi, come vorrebbe esclusivamente il Burk, col
terrore, ma indubitabilmente la strada più sicura di attingerlo è il
patetico; e nessun’opera di Canova essendo più patetica di questa
[del Bassorilievo sepolcrale della marchesa di S. Cruz], partecipa
maggiormente alla prerogativa della sublimità»55.
La perdita del carattere dello stile canoviano denunciata, inve-
ce, da Fernow, coincide in un certo senso con il passaggio dal
“naiv” al “sentimentale” su cui aveva scritto Schiller circa un de-
cennio prima. Valga per questo l’esempio del gruppo di Amore e
Psiche (fig. 8), di cui Fernow esprime questo giudizio: «La compo-
sizione può essere definita artificiosa e ricercata, piuttosto che bel-
la. L’idea è stata presa in prestito dal noto dipinto antico di Erco-
lano, dove un fauno si avvicina di soppiatto ad una ninfa e la bacia
dall’alto. Allo stesso modo anche Amore si è avvicinato alla Psiche
giacente, si piega sulle ginocchia sopra di lei e la bacia dall’alto.
Psiche, dal canto suo afferra con le braccia tese all’insù il capo del-
l’amato. Così l’ingenuo scherzo cui si adattavano queste posizioni,
è trasformato in una delicata sentimentalità cui esse non corri-
spondono»56.
Nel saggio Sullo scultore Canova e le sue opere di cui stiamo par-
lando, Fernow dedica una decina di pagine alla descrizione e al
commento del monumento funebre dedicato alla Granduchessa
Maria Cristina d’Austria, moglie del Duca Alberto von Sachsen-

54 L. Cicognara, Storia della scultura, cit., p. 193.


55 Ivi, p. 203.
56 L. Fernow, Römische Studien, cit., vol. I, p. 89.
86 Lo sguardo reciproco

Fig. 8. A. Canova, Gruppo di Amore e Psiche, ca. 1787.

Teschen. Pur ammettendo l’originalità della rappresentazione, co-


stituita da tre gruppi di figure allegoriche che si volgono al monu-
mento a forma di piramide, Fernow lamenta la scarsa incisività
nell’allusione di Canova alla virtù che voleva rappresentare. Il rin-
vio a valori e a significati astratti è ammissibile per Fernow solo
nella misura in cui esista un’immediata chiave d’accesso per inter-
pretarli. È quanto teorizzava Lessing in Come gli antichi raffigura-
vano la morte. Qui, però, si fa ancora più analitica la domanda sul-
la rappresentabilità delle esequie funebri e su quale sia la tecnica
migliore per attuarla. Fernow osserva: «Così ci chiederemmo se la
rappresentazione di un corteo funebre con il suo seguito sia un
soggetto conveniente per la scultura a tutto tondo o se essa non si
confaccia di più al bassorilievo, alla pittura o al teatro. Inoltre ci
dovremmo domandare se sia conveniente scegliere come tema per
il monumento del defunto le sue proprie esequie funebri»57. E os-
serva ancora: «Nel caso dei Moderni, i monumenti funebri si tro-
vano raramente nello stesso rapporto favorevole con i meriti per
cui vengono costruiti, in cui si trovavano per gli Antichi, presso i
57 Ivi, p. 174.
Psiche e la piramide 87

quali erano le azioni e le benemerenze nei confronti dello Stato e


non il ceto e le ricchezze a far avanzare diritti sui monumenti. Ol-
tretutto, tanto i monumenti quanto le virtù cui essi erano dedicati
erano palesi, e l’artista non aveva bisogno di cercare materiale per
la rappresentazione di azioni memorabili. L’artista moderno, inve-
ce, si troverebbe spesso in imbarazzo nel rinvenire materia per la
sua opera, dopo avere avuto la commissione di allestire un monu-
mento. Infatti, nessuno gliene offre, a meno che, in mancanza di
quelle vere virtù che si esprimono nell’azione, non potesse attinge-
re a quelle allegoriche; invisibili nella vita, si lasciano comodamen-
te ascrivere sulla tomba di un morto»58.
Fernow, evidentemente disturbato dal grande fasto dei mauso-
lei e dei monumenti funebri che sembrano voler nascondere l’ef-
fettivo valore dell’intervento sociale di coloro i quali vengono così
riccamente commemorati (nel frattempo anche la Rivoluzione
Francese aveva portato con sé il gusto della grandiosità con i ceno-
tafi di Boulleé) auspica un medium artistico più confacente ad
un’epoca in cui non esistono più eroi, ma solo benefattori.
Gli anni nei quali Canova opera a Roma coincidono con quelli
degli «editti napoleonici», tra i quali uno dei più noti è la riforma
sui criteri di sepoltura che, per decreto dell’imperatore, dovrà av-
venire fuori dalla cerchia delle mura cittadine e comunque non più
a ridosso dei luoghi di culto (cappelle, chiese, cattedrali etc.). Del
resto, anche i decreti giuseppini avevano già provveduto su suolo
germanico, tra il 1772 e il 1784, a proibire l’inumazione di nobili e
vescovi all’interno degli edifici di preghiera, facendo riferimento
soprattutto a misure igienico-sanitarie. Questo fatto determinò,
naturalmente, una maggiore valorizzazione del contesto paesaggi-
stico in cui avveniva la sepoltura e un più sentito rapporto con la
natura per contrasto o in sintonia con il pensiero della morte. D’al-
tro lato, l’allontanamento dei defunti dai luoghi di preghiera finì
per conferire alla morte un significato di definitivo distacco dal
mondo dei vivi, con una conseguente demonizzazione dell’evento
che, nel Settecento, si era tentato il più possibile di sdrammatizza-
re. Tra l’altro, ammirando l’opera artistica funeraria, l’uomo del
XVIII secolo era riuscito ad esorcizzare per quanto possibile l’in-
quietante spettro dell’ignoto aldilà, accompagnando alla riflessione
58 Ivi, p. 175 ss.
88 Lo sguardo reciproco

sui cari scomparsi la sapienza degli scrittori greci e, soprattutto, la-


tini, che si erano soffermati a parlarne. Si pensi all’espressione di
Seneca «Non mortem timemus, sed cogitationem mortis»; oppure
a quella di Orazio, «Mors ultima linea rerum». Con il riferimento
alla sepoltura di Dafne, descritta da Virgilio nel sereno mondo del-
l’arcadia, nasce sul progetto del quadro di Poussin il manifesto
culturale di tutto il tardo Settecento tedesco: «Et in Arcadia ego»,
eletto da Goethe come titolo originario di quello che sarebbe dive-
nuto il Viaggio in Italia.
Tuttavia, se la cultura religiosa di area cattolica ammetteva l’u-
guaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio al momento della
morte, ben altra fu la realtà delle cose: per quanti, tedeschi in visi-
ta a Roma e per la maggioranza di confessione protestante, avreb-
bero desiderato una sepoltura a fianco dei loro fratelli cattolici, fu
escogitata una sorta di esilio post-mortem. Fu così che vennero ri-
servati ai protestanti i prati circostanti la piramide di Cestio dove,
all’ombra di un paganesimo senza tempo, avrebbero potuto trova-
re il conforto del riposo eterno59. I prati intorno alla piramide era-
no stati comunque, dal Medioevo in poi, luoghi di divertimento,
quando non venivano utilizzati come pascolo per il bestiame. For-
se solo con papa Benedetto XIV ne fu autorizzata la destinazione
per la sepoltura, sebbene nulla fosse intrapreso per impedire che il
bestiame continuasse a pascolarvi (fig. 9).
Il fatto che la Chiesa non desse, fino almeno alla metà dell’Ot-
tocento, l’autorizzazione a usare croci o, in generale, simboli speci-
ficatamente cattolici, per definire il luogo della sepoltura, si sposa
perfettamente con l’ideale antico della morte che i tedeschi aveva-
no coltivato nel gusto classicista. Le loro tombe sono ornate di
bassorilievi e medaglioni raffiguranti genii alati e personaggi mito-
logici; al posto dei piccoli altari, si trovano stele e are per onorare
la memoria dei defunti. August von Goethe, figlio del poeta,
Wilhelm Waiblinger, lo scrittore svevo, morti entrambi nel 1830,
riposano qui. E ancora: il pittore Jakob Asmus Carstens (morto
nel 1798), l’ottimo scultore Alexander Trippel (morto nel 1795) e i
figli di Wilhelm von Humboldt.
In questo clima di perplessi rapporti con la Chiesa di Roma, in-
torno alla quale, seppure a debita distanza, si riunirono i più gran-

59 Cfr. Fr. Noack, Das deutsche Rom, Roma, Verlag von Frank, 1912, pp. 40-49.
Psiche e la piramide 89

Fig. 9. G.P. Pannini,


La Piramide di Caio,
ca. 1739.

di artisti tedeschi del tempo, Goethe celebrò dalla sua Weimar la


memoria di Winckelmann, con parole che lasciano trasparire una
sua certa amarezza al ricordo della “tormentata” conversione di
Winckelmann al cattolicesimo appena giunto nella capitale: «Se è
vero che si celebra solennemente il più degno dei concittadini sol-
tanto una volta, in occasione del suo funerale, pur essendosi costui
prodigato per il Paese e per la città, in grande e in piccolo, ci sono,
al contrario, persone che, in quanto hanno meriti istituzionali, ot-
tengono di venire commemorate annualmente, di modo che sia
esaltato il piacere perenne della loro bontà»60.
Agli occhi di Goethe, la morte di Winckelmann non può esse-
re salutata, così come vuole il sentimento dell’uomo del Classici-
smo, con un addio. Essa è, infatti, tutt’al più una “dipartita”:
«Nella memoria dei posteri gode del vantaggio di apparire come
eternamente alacre e vigoroso; nelle stesse sembianze, infatti, con
cui un uomo lascia la terra, si aggira poi tra le ombre, ed è per
60 Il saggio goethiano, compreso nel volume Winckelmann und sein Jahrhundert,

Tübingen, Cotta, 1805, viene qui citato nell’edizione delle Schriften zur Kunst, vol. XIII
della Gedenkausgabe (GA), a cura di Ch. Beutler, Zurigo, Artemis, 1954, pp. 407-450;
per la trad. it. si veda J.W. Goethe, Vita di J.J. Winckelmann, a cura di E. Agazzi, con
uno scritto di G. Cusatelli, Bergamo, Moretti & Vitali, 1992, citaz., p. 29.
90 Lo sguardo reciproco

questo che Achille resta sempre per noi un giovinetto in perpe-


tuo slancio»61 (fig. 10).

Fig. 10. G. Bracci,


Mausoleo in onore di
Winckelmann, 1770.

Morte demonizzata, morte idealizzata: in questo modo il mondo


classico del paganesimo e il mondo romantico della redenzione cri-
stiana si fanno sempre più vicini. In quegli anni a cavallo tra i due
secoli, in cui la cultura tedesca vive un fermento del tutto nuovo
con l’apparizione della rivista Athenäum62 dei fratelli Schlegel, il
grande vate romantico della vita e della morte, Novalis, consegna

61 J.W. Goethe, Vita di J.J. Winckelmann, cit., p. 64.


62 Athenäum. Eine Zeitschrift von August Wilhelm Schlegel und Friedrich Schlegel,
Berlin, Vieweg, 1798, Frölich 1799-1800. Sull’epoca dell’Athenäum e sui suoi illustri
collaboratori, cfr. lo studio di E. Behler, Frühromantik, Berlin, de Gruyter, 1992. Per la
traduzione italiana si veda ora Athenaeum 1798-1800, a cura di G. Cusatelli, Milano,
Rizzoli, 2000.
Psiche e la piramide 91

alla cultura europea i suoi Inni alla Notte63. L’occasione del capola-
voro fu la scomparsa dell’amata, Sophie von Kühn, che spira a soli
quindici anni. Come si evince dalle annotazioni del diario di Nova-
lis su quei difficili giorni del maggio 1797, il rapporto con l’oggetto
della sua passione viene risolto eroticamente grazie ad una costante
visita alla tomba; là egli confessa di aver provato «selvaggi momen-
ti di gioia»64. Attraverso questo rito matura via via in Novalis un ir-
refrenabile desiderio di ricongiungersi con la cara sposa in un
mondo in cui il sacrificio della vita stessa possa avere il significato
di una purificazione universale nell’amore. Questa tensione dei
sensi e dell’anima, che potrebbe risolversi da un momento all’altro
in follia, sfocia invece nell’impareggiabile vibrazione poetica degli
Inni. Dalle evidenti contrapposizioni (giorno e notte) e implicazio-
ni (amore e morte), il poema si dipana in una sorta di viaggio attra-
verso «una sfumata pluralità di percorsi, collegamenti, risponden-
ze»65. L’osservazione di Luciano Zagari su questo magico muta-
mento di paradigma abbraccia d’un sol colpo tutto il clima cultu-
rale dell’epoca: «Solo su questa nuova base si compirà lo sviluppo
che assicura agli Inni alla Notte una posizione poetica inconfondi-
bile nell’ambito di quella grande polemica settecentesca che ha in-
vestito la densità antropologica della dimensione della civiltà. Que-
sta polemica ha dato luogo a una ripresa alluvionale dei grandi miti
culturali, solari e notturni, in cui si sono cristallizzati opposti ap-
procci al grande tema della civiltà da accettare o da respingere, in
connessione o in contrapposizione con l’affiorare incalzante della
nuova soggettività o addirittura interiorità»66.
Se il tema degli Inni alla Notte è lo spegnersi del giorno e l’ac-
cendersi delle luci segrete e interiori della notte, all’interno di que-
sto graduale passaggio vengono attratti tutti i simboli di quell’ico-

63 Degli Hymnen an die Nacht esiste un’agile edizione nei Werke in einem Band, a

cura di H.-J. Mähl e R. Samuel, München, Hanser, 1981; per i versi tradotti si fa riferi-
mento alla trad. it. curata da G. Cusatelli, Novalis, Opere, Milano, Guanda, 1982 (trad.
degli Inni a cura di A. Lumelli).
64 Novalis, Schriften, 4 voll. a cura di P. Kluckhohn, Leipzig, 1929, Bibliogr. Inst.

vol. IV, p. 386. Ne dà conto, tra gli altri, G. Schulz nella sua monografia Novalis, Rein-
bek bei Hamburg, Rowohlt, 1987, p. 69.
65 L. Zagari, «Quando sarà l’ultimo mattino». Gli «Inni alla Notte» di Novalis e la

strutturazione romantica del nulla, in Aa.Vv., Problemi del Romanticismo, Atti del Con-
vegno, Taranto, 21-23 aprile 1983, Milano, Shakespeare & Co., 1983, vol. II, p. 422.
66 Ibidem.
92 Lo sguardo reciproco

nografia che accompagnò la cultura tedesca del XVIII secolo, cari-


ca di nostalgia per il mondo antico. La sera, che cala come un
manto sul mondo, si accompagna al Sonno, «perché c’è sonno nel-
le cose/nel mandorlo e nel suo unguento profondo/sonno buio nel
papavero»67, mentre alla Notte, che avvolge Sonno e Morte come
nel medaglione di Carstens, il poeta si rivolge con queste parole:
«Sotto il tuo mantello/ un invisibile richiamo/ mi prende adesso
con forza che cos’è/ che come di unguento/ sento sparsa la tua
mano/ affondo nel tuo fascio di papaveri»68. L’Antico arretra però
davanti alla tomba di Sophie, dove passato e presente sprofonda-
no nel «grande nido della notte» fino alla luce della resurrezione
in Cristo; chi ha veduto questo nido, come Orfeo destinato a mo-
rire, non potrà più soddisfare Apollo con il proprio canto: «Ma
l’uomo ebbe coraggio/ nel suo cuore accalorato, per amore/ anche
l’orrenda larva fece bella,/ un dolce giovinetto che si china/ spe-
gne la lampada e dorme»69.

67 Novalis, Opere, cit., II Inno, p. 13.


68 Ivi, I Inno, p. 9.
69 Ivi, V Inno, p. 31.
AMARE UNA STATUA
LA MODELLA E L’AMANTE NELLA LETTERATURA
EUROPEA

Paolo D’Angelo

Accadde, si voleva dire, che nello stesso tempo o in un


altro punto del sistema […] lei fosse rimasta immobile
come una statua, promettendo e permettendo con ciò
tutto e niente, con induzione in, e con divieto di, ten-
tazione. Non fu detto che cosa ne seguisse in partico-
lare, ma in ogni caso improbabilmente qualcosa di ap-
prezzabile dall’esterno. Anzi si fece intendere che era
quasi impossibile stabilire, a quelle condizioni di sen-
sualità eidetica, se si producesse o no un reale godi-
mento, sempre difficilmente distinguibile dai godi-
menti immaginari.
E. Garroni

Pigmalione rovesciato

La letteratura è piena di storie di amori per le statue. Di statue


viventi, di statue animate, di statue innamorate, di statue amate.
Di convitati di pietra, di Veneri risvegliate, di scultori vittime del
fascino delle opere da loro stessi prodotte. Di ritratti dallo sguardo
stregato, parlanti, che invecchiano come persone reali o che sot-
traggono la vita ai loro modelli. Di personaggi che si innamorano
di uno sguardo, di un sorriso, di un volto che hanno visto effigiato
in qualche morta immagine e che non hanno pace finché non li ri-
trovano in un corpo vivente, o viceversa di artisti sventurati che li
imprigionano nel marmo o nella tela e che solo così li sanno ama-
re. Ci sono nuclei tematici, in proposito, che sembrano possedere
una sorprendente capacità di scavalcare ogni confine temporale,
linguistico e geografico, e di durare per secoli e millenni attraverso
infinite variazioni.
Uno, naturalmente, è il mito di Pigmalione, lo scultore che si
innamora della statua bellissima da lui scolpita ed ottiene in dono
94 Lo sguardo reciproco

dagli dèi che essa si animi e diventi una fanciulla in carne ed ossa;
un mito che dall’archetipo ovidiano, nel decimo libro delle Meta-
morfosi, trapassa nell’ultima parte del Romanzo della rosa e poi va
incontro a riprese innumerevoli, in particolare nella letteratura del
diciottesimo secolo1.
Un altro è la storia della statua antica di Venere della quale un
giovane si innamora dopo averle posto al dito, per gioco, il pro-
prio anello nuziale: una storia che si ritrova, probabilmente per la
prima volta, in una cronaca inglese del dodicesimo secolo, Le gesta
del re degli Angli di William of Malmesbury, e che poi transita in
tutte le letterature occidentali, dal Diavolo innamorato di Cazotte
al racconto di Achim von Arnim Raffaello e le sue vicine, dalla Ve-
nere d’Ille di Merimée al racconto di James L’ultimo dei Valerii, fi-
no alle riprese novecentesche di D’Annunzio, nella Pisanella, o di
Anthony Burgess, in Santa Venere2.
E c’è, quasi ad ammonire che la creazione dell’immagine dipin-
ta o scolpita cela sempre un innamoramento per la persona ritrat-
ta, il mito raccontato da Plinio sull’origine della pittura e della
scultura: la storia di Butade di Sicione, il vasaio che scorge il profi-
lo che la figlia ha tracciato con un pezzo di carbone sul muro, se-
guendo i contorni dell’ombra del suo amato, prossimo a partire,
e ne trae l’idea di forgiare in creta la medesima immagine. Così

1 Sul mito di Pigmalione si dovrà vedere l’ampio inventario di H. Dörrie, Pygma-


lion. Ein Impuls Ovids und seine Wirkungen bis in die Gegenwart, Opladen, Westdeut-
scher, 1974, da integrare con H. Schlüter, Das Pygmalion-Symbol bei Rousseau, Ha-
mann, Schiller. Drei Studien zur Geistesgeschichte der Goethezeit, Zürich, Juris, 1968 e
J.L. Carr, Pygmalion and the Philosophes. The animated statue in Eighteenth Century
France, in «The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», n. 23 (1960), pp.
339 ss.; lo studio, in italiano, di G. Rosati, Narciso e Pigmalione, Firenze, Sansoni, 1983,
è opera di un latinista, che si concentra quasi eclusivamente sulla trattazione ovidiana
dei due miti; sul tema di Pigmalione e in generale dell’amore per l’immagine nella cul-
tura medioevale ha ottime osservazioni G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nel-
la cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, soprattutto la parte terza. Da ultimo il
fondamentale V. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a
Hitchcock, Milano, Il Saggiatore, 2006.
2 Un’ampia trattazione del tema dell’“anello di Venere” (la storia del giovane che
si innamora di una statua antica alla quale ha per gioco infilato un anello al dito), con
molte indicazioni delle sue riprese in letteratura è la voce «Statuenverlobung», in
E. Frenzel, Stoffe der Weltliteratur, Stuttgart, Kröner, 1962; si può vedere poi P. Baum,
The Young Man Bethroted to a Statue, in «Publications of the Modern Language Asso-
ciation», n. 34 (1919), pp. 523-579.
Amare una statua 95

nascono non solo le due arti, ma anche un topos che andrà incon-
tro ad infinite variazioni, quello dell’effigie come sostituto della
persona amata3.
Per rifare la storia di ognuno di questi temi non basterebbe un
libro voluminoso; di fatto ce ne sono già molti, e alcuni pregevoli,
su tali argomenti4. Non seguiremo dunque questa strada. Vorrem-
mo lasciarci alle spalle anche tutte le riprese degli stessi temi o di
temi simili nelle letterature dell’età romantica, nelle quali abbon-
dano le passioni per le immagini dipinte o scolpite (dall’Hoffmann
degli Elisir del Diavolo allo Heine delle Notti fiorentine) e gli haun-
ted portraits (dal Castello di Otranto di Walpole al Ritratto ovale di
Poe), per puntare su di una particolare declinazione del tema del
fascino dell’immagine artistica per il suo creatore in alcuni testi tra
la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso.
Ci occuperemo più estesamente di tre testi teatrali che presen-
tano alcune notevoli analogie tematiche: Quando noi morti ci de-
stiamo di Ibsen5, la Gioconda di D’Annunzio6 e Diana e la Tuda di
Pirandello7. Nel passare dall’uno all’altro di questi testi, dediche-

3 Per il tema della figlia di Butade e della origine della pittura e della scultura (la
cui fonte è in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 151), soprattutto da un punto di vista
iconografico: R. Rosenblum, The Origin of Painting: a Problem in the Iconography of
Romantic Classicism, in «The Art Bulletin», n. 39 (1957), e gli Addenda di G. Levitine,
sempre in «The Art Bulletin», n. 40 (1958).
4 In generale sui temi relativi alle immagini animate andrà visto Th. Ziolkowski,
Disenchanted Images. A Literary Iconology, Princeton, Princeton UP, 1977 (contiene tre
capitoli tematici: uno dedicato a «Venus and the Ring», uno a «The haunted Portrait»,
uno a «The magic Mirror»); D. Freedberg, The Power of Images, Chicago, University of
Chicago Press, 1989 (trad. it. di G. Perini, Il potere delle immagini, Torino, Einaudi,
1993), tratta molti temi vicini a quelli da noi toccati, in particolare nel cap. XII, «Arou-
sal by Image». Il volume di Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino, Einaudi,
1992, si sofferma su molti temi relativi alla passione per l’immagine dipinta o scolpita, e
tra di essi anche su quelli di Pigmalione e di Butade. Il testo di Bettini, molto ampio e
documentato, è centrato principalmente sulle letterature classiche, ma non manca di in-
teressanti aperture sulle riprese dei temi dell’amore per l’immagine nelle letterature
moderne. In più, si tratta di un testo di piacevole lettura, e ricco di segnalazioni su altra
letteratura in argomento.
5 Tutte le citazioni da Quando noi morti ci destiamo di Ibsen sono tratte dalla tra-
duzione italiana di L. Ulisse, in H. Ibsen, Tutto il teatro, con introduzione di P. Chiari-
ni, Roma, Newton Compton, 1973.
6 Citiamo da G. D’Annunzio, La Gioconda, introduzione, bibliografia e note di
I. Caliaro, Milano, Mondadori, 1990.
7 Citiamo da L. Pirandello, Diana e la Tuda. Sagra del signore della nave, a cura di
C. Simioni, Milano, Mondadori, 1980.
96 Lo sguardo reciproco

remo due intermezzi ad altrettanti romanzi, L’opera di Zola8 e


Afrodite di Pierre Louÿs9, nei quali vedremo delineati situazioni e
problemi sorprendentemente affini10. Ma cosa unisce questi testi e
al contempo li distacca abbastanza nettamente dalle precedenti va-
riazioni sul tema? Essenzialmente due circostanze, entrambe signi-
ficative e tali da configurare una vera e propria autonomia del
nuovo nucleo tematico. La prima è il fatto che in tutti questi testi
non viene più messo in scena un rapporto a due, tra artista ed im-
magine, o innamorato ed immagine, ma un rapporto complicato
dall’ingresso di un terzo personaggio, la modella che viene rappre-
sentata nella statua. In Ibsen come in D’Annunzio e in Pirandello,
come negli altri testi che leggeremo, non abbiamo tanto a che fare
con la passione dell’artista per la statua da lui creata, quanto con i
riflessi di questo legame sul rapporto che lega l’artista a colei che
nella statua è raffigurata, e che ne è stata l’ispiratrice (fig. 1).
Queste opere ci riportano ad un mondo di consuetudini artisti-
che (gli amori tra artisti e modelle, le ore di posa in atelier, una
scultura legata alla figura umana e forse irrimediabilmente impre-
gnata di Accademia, una pittura quale ci viene incontro nei quadri
di Tommaso Grosso) che oggi è tramontato per sempre: «Il tempo
delle modelle negli studi dei pittori – scrive Ceronetti – è remoto
come i giardini di Babilonia»11. Di quel mondo, essi sfruttano

8 Citiamo la traduzione italiana di F. Cordelli, E. Zola, L’opera, Milano, Garzanti,

1978, tenendo presente l’edizione francese a cura di A. Erhard, Paris, Garnier-Flamma-


rion, 1974. Per le fonti letterarie di Zola, oltre che per gli altri problemi connessi al
romanzo, è da vedere soprattutto P. Brady, L’”Oeuvre” d’Emile Zola: roman sur les arts,
manifeste, autobiographie, roman à clef, Ginevra, Droz, 1967.
9 Del romanzo di Pierre Louÿs Aphrodite. Moeurs Antiques esiste una traduzione

italiana di L. Marinoni, Milano, Dall’Oglio, 1961, che abbiamo seguito, modificandola


tuttavia in più punti, sulla base del testo francese pubblicato da Albin Michel, Parigi,
1986.
10 Le analogie tra Quando noi morti ci destiamo, La Gioconda, e Diana e la Tuda

sono state notate molte volte, ma non risulta siano state fatte oggetto di una considera-
zione specifica e soprattutto allargata ai riscontri tematici nella letteratura coeva. Si può
vedere, da ultimo, A. Bisicchia, D’Annunzio e il Teatro, Milano, Mursia, 1991, pp. 40-
57; I. Caliaro, Introduzione, in G. D’Annunzio, La Gioconda, Milano, Mondadori,
1990; P. Perria, Tra applausi e fischi: “La Gioconda” di Gabriele D’Annunzio, Firenze,
Atheneum, 1992.
11 La citazione di Ceronetti sulle modelle negli studi dei pittori è tratta da G. Ce-

ronetti, in La modella elettronica, D.D. Deliri Disarmati, Torino, Einaudi, 1993. Sul te-
ma vedi anche L. Spadanuda, Le modelle di nudo, Roma, Mare Nero, 2001.
Amare una statua 97

Fig. 1. Jean-Léon Gérôme nel suo studio, fotoincisione del 1890 ca.

molto evidentemente l’attrazione che doveva esercitare sul lettore


o lo spettatore borghese, messo dinanzi ad una vita irregolare e
bohémienne, ma soprattutto ad un rapporto che non può non figu-
rarsi come basato su un erotismo venato di elementi sadici, magari
perché ricorda quel che ha letto nella Vita di Cellini («la facevo
chiamare, la ritraevo: ognidì le davo trenta soldi; e faccendola sta-
re ignuda, voleva la prima cosa che io li dessi li sua dinari dinnan-
zi; la seconda voleva molto bene da far colezione; la terza io per
vendetta usavo seco, rimproverando a lei e al marito le diverse cor-
na che io gli facevo; la quarta si era che io la facevo stare con gran
98 Lo sguardo reciproco

disagio parecchi e parecchi ore; e stando in questo disagio a lei ve-


niva molto a fastidio, tanto quanto a me dilettava, perché lei era di
bellissima forma e mi faceva grandissimo onore»12), o perchè ha
sentito raccontare la storia di Filippo Lippi che si innamora di Lu-
crezia Buti, la religiosa che gli fa da modella, in convento, per
un’immagine della Madonna13, o ancora quella di Apelle che si in-
namora di Campaspe, l’amante di Alessandro Magno, mentre la ri-
trae14. Ma la sfruttano per illuderla, per rovesciare le aspettative
del lettore mettendolo davanti alla situazione inversa rispetto a
quella cui egli si aspetta di assistere.
È questo il secondo tratto discriminante. In tutti questi testi il
rapporto dell’artista con l’opera d’arte è avvertito esplicitamente
come estraneo ed opposto al desiderio, in un accoglimento perfino
troppo letterale dell’idea moderna del disinteresse come atteggia-
mento fondamentale della fruizione estetica. Potremmo dire che
in tutte le opere di cui ci occuperemo (il caso di D’Annunzio fa in
parte, ma solo in parte, eccezione), il vero tema è il trasferirsi del-
l’atteggiamento dell’artista nei riguardi dell’opera al rapporto reale
che lega l’artista alla ispiratrice di essa, alla modella. È una sorta di
rovesciamento del mito originario di Pigmalione: se lo scultore di
Ovidio era spinto ad implorare che la sua creatura di marmo si
animasse e diventasse corpo, qui son piuttosto delle donne in car-
ne ed ossa a diventare agli occhi dell’artista delle statue di marmo.
Il legame della immagine con la vita, che tanto peso aveva nelle va-
riazioni precedenti del tema, sembra qui interamente perduto. Ma
si tratta, come vedremo, di una apparenza. In realtà esso continua
ad agire, neanche troppo sotterraneamente, a riprova del fatto che
la storia dei temi letterari non conosce cesure nette, ma piuttosto
una storia infinita di riprese e di spostamenti15.
È proprio questo secondo punto, quello della trasposizione del
rapporto supposto scevro di desiderio che unisce l’artista e l’opera

12 B. Cellini Vita, a cura di E. Camesasca, Milano, Rizzoli, 1985, libro II, cap.

XXXIV, p. 482.
13 La storia di Filippo Lippi e di Lucrezia Buti è narrata da Vasari nelle Vite.
14 La storia di di Apelle e Campaspe o Pancaspe si ritrova in Plinio, Naturalis Hi-

storia, XXXV, pp. 85-86.


15 Sull’uso di modelli, maschili e femminili, nelle Accademie dell’Ottocento è da

vedere N. Pevsner, Academies of Art, Past and Present, Cambridge, Cambridge UP,
1940 (trad. it. di A. Pinelli, Le accademie d’arte, Torino, Einaudi, 1982).
Amare una statua 99

al rapporto erotico tra artista e amante, quello che impedisce di


cominciare più indietro il nostro cammino. Il Capolavoro scono-
sciuto di Balzac, ad esempio, è certamente non solo la storia di un
compito impossibile e di un’opera suprema che non si raggiunge e
anzi si autodistrugge, ma anche una storia di artisti e modelle. Por-
bus e Poussin riescono a vedere la Belle Noiseuse di Frenhofer, l’o-
pera cui il grande pittore ha dedicato tutte le sue energie da dieci
anni e che tiene gelosamente custodita, solo perché Gillette, la bel-
lissima moglie di Poussin, accetta, riluttante e solo per le pressioni
di quest’ultimo, di posare per l’anziano pittore. Il tema dell’artista
e della modella è proprio quel che nel Capolavoro sconosciuto ha
colpito Picasso (che ne ha illustrato un’edizione) ed anche il regi-
sta Jaques Rivette che ha trasposto la storia in un film16. Il raccon-
to di Balzac, inoltre, e la cosa ci dovrà interessare ancora di più, è
una storia del contrasto tra la mobilità della vita e la rigidità della
pietra («io non saprei credere questo bel corpo animato dal tiepi-
do soffio della vita; mi pare che se posassi la mano su questa gola,
di una rotondità così corposa, la troverei fredda come il marmo.
No, amico mio, non scorre il sangue sotto questa pelle di
avorio»17), tra i corpi viventi e le statue morte («prova a modellare
la mano della tua amica e poi mettitela davanti, e ti troverai di
fronte ad un orribile cadavere privo di ogni veridicità»18). Tuttavia
Frenhofer è ancora un Pigmalione («Noi non sappiamo quanto
tempo impiegò il grande Pigmalione per compiere la sola statua
che abbia camminato»19): egli ama la propria tela come amerebbe
una persona viva («Sono dieci anni ormai che vivo con quella don-
na: ella è mia, solo mia, e mi ama; non mi ha forse sorriso ad ogni
pennellata che le ho dato […]? L’opera che tengo lassù, sotto chia-
ve, è un’eccezione nella nostra arte: non è una tela, è una donna
[…]. Son certamente più amante che pittore»20). Più vicino al no-
stro tema è il racconto Il vello d’oro di Théophile Gautier, pubbli-
cato nel 1839. Ma esso, anche a non voler considerare il fatto che

16 Il film di Rivette al quale si allude nel testo si intitola La belle noiseuse, ed è

uscito nelle sale nel 1992.


17 H. de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, trad. it. di C. Montella e L. Merlini,

Firenze, Passigli, 1983, p. 29.


18 Ivi, p. 31.
19 Ivi, p. 43.
20 Ivi, p. 57.
100 Lo sguardo reciproco

ha un tono lieve di scherzo e di favola, mentre tutti i testi con cui


noi avremo a che fare vanno a sfociare nella tragedia, segue un
percorso opposto a quello che noi saremo chiamati a ripercorrere:
non dalla passione sensuale alla sua sublimazione nel rapporto con
l’opera ma al contrario, dalla sospensione del desiderio dinanzi al-
l’arte al suo appagamento nella vita. Un giovane dandy, Tiburce,
non riesce ad amare nessuna donna perché le trova tutte inferiori
alle bellezze dell’arte («guardava con gli occhi del pittore, e cono-
sceva più ritratti che volti. La realtà gli ripugnava […] ciò che
scambiava per amore non era altro che ammirazione d’artista. Nel-
la sua amante trovava difetti di disegno; senza che neppure se ne
rendesse conto, per lui la donna non era altro che una model-
la»21). Nella cattedrale di Anversa, durante un viaggio nelle Fian-
dre, vede la bellissima Maddalena della Deposizione di Rubens e se
ne innamora (di nuovo un Pigmalione: «finalmente aveva trovato
la passione che stava cercando, ma era stato punito col suo stesso
peccato; per aver troppo amato la pittura era stato condannato ad
amare un quadro […] una passione stravagante, insensata e dispo-
sta a tutto; e soprattutto splendidamente disinteressata»22). Qual-
che tempo dopo vede per strada una ragazza che somiglia perfet-
tamente alla Maddalena del dipinto; riesce a fare la sua conoscen-
za, lei si innamora di lui, ma Tiburce non riesce ad amarla, perché
ama la Donna dipinta. La guarigione di Tiburce avverrà dopo che
i due si sono trasferiti a Parigi: grazie all’intuito di Gretchen il gio-
vane si scoprirà pittore, userà la ragazza come modella, e final-
mente sarà in grado di amarla anche come donna.
Se Tiburce è ancora un Pigmalione che riesce a far vivere l’im-
magine di cui si è innamorato, gli artisti di cui ci parlano i testi che
leggeremo trasformeranno in statue le donne che hanno posato per
loro, non solo rendendole immagine, ma togliendo loro la vita. Pig-
malione rovesciato, dunque, anche se subito si comprenderà che le
cose non sono così semplici. Perché come Pigmalione non è soltan-
to colui che ama una statua, ma innanzitutto colui che non può
amare una donna in carne ed ossa («offensus vitiis, quae plurima
menti/femineae natura dedit, sine coniuge caelebs/vivebat thalami-

21 Th. Gautier, Il vello d’oro e altri racconti, trad. it. di L. Binni, Firenze, Giunti,

1993, p. 27.
22 Ivi, p. 49.
Amare una statua 101

que diu consorte carebat»23, scrive Ovidio) così per gli scultori di
Ibsen, Louÿs o Pirandello non si sarà così ingenui dal prestare fede
alle loro giustificazioni esplicite. Tutti protestano di non poter desi-
derare l’ispiratrice delle loro opere perché hanno proiettato su di lei
quella rescissione dei legami effettuali che è necessaria perché l’ope-
ra d’arte prenda forma; ma come si fa ad essere sicuri che si tratti di
una abolizione del desiderio, e non di uno spostamento feticistico
di esso? Questi artisti ci ricordano un’altra storia che racconta del
rifiuto di una donna reale coperto dall’innamoramento per una sta-
tua, scritto proprio in quegli anni, la Gradiva di Jensen24, resa famo-
sa dalla interpretazione e dalla magistrale “riscrittura” di Freud.
Anche per Norbert Hanold, il suo protagonista, «marmi e bronzi
non erano morti minerali, ma piuttosto l’unica realtà vivente capace
di conferire scopo e valore alla vita degli uomini»25: solo che egli
non traveste la sua resistenza all’erotismo e la sua difficoltà nei rap-
porti con l’altro sesso sotto la veste del disinteresse estetico dell’arti-
sta, ma sotto il distacco dello studioso di antichità: è un archeologo,
non uno scultore. Anche Hanold può amare la sua vicina di casa
Zoe Bertgang solo uccidendola, e assimilandola all’immagine di una
morta, che abbia “il freddo aspetto del marmo”. Quando Zoe co-
mincia a mettere in atto la sua strategia psicoterapeutica, dirà «mi
sono abituata da gran tempo ad essere morta»26.
Perché l’amore per le statue confina con la necrofilia. Il prota-
gonista di un racconto che fa parte delle Notti Fiorentine di Heine,
tutto dedicato al tema dell’amore per le statue, lo confessa nel mo-
do più chiaro, quando, alla domanda stupita del suo interlocutore
«Ma voi avete amato soltanto donne scolpite o dipinte?» risponde
«No, ho amato anche donne morte»27. L’uno e l’altro aspetto, resi-
stenza verso il coinvolgimento erotico e inclinazione verso il mor-
to, così come pure le implicazioni masochistiche dell’amore per il
simulacro, saranno evidenti in tutti i testi, ma particolarmente tra-
sparenti in quelli di Ibsen e Louÿs: non avremo bisogno, dunque,

23 Ovidio, Metamorfosi, libro X, vv. 243-244.


24 La novella di Wilhelm Jensen, Gradiva. Una fantasia pompeiana, si può leggere
nella traduzione italiana di Cesare Musatti nel vol. II dei Saggi sull’arte, la letteratura e
il linguaggio, di S. Freud, Torino, Bollati Boringhieri, 1969.
25 Ivi, p. 34.
26 Ivi, p. 75.
27 H. Heine, Notti Fiorentine, trad. it. di B. Ziliotto, Milano, TEA, 1988, p. 36.
102 Lo sguardo reciproco

di ricordare di continuo quel che tutte le protagoniste delle storie


narrate sanno fin dall’inizio, e cioè che le teorie estetiche cui si ap-
pellano gli artisti di cui si parlerà, possono essere uno schermo,
una maschera, un alibi.

Quando noi morti ci destiamo

Arnold Rubek, scultore di successo, è rientrato in patria dopo


lunghi anni di soggiorno all’estero, accompagnato dalla giovane
moglie Maja. Da quando ha scolpito il suo capolavoro, il Giorno
della Resurrezione, il gruppo che lo ha reso celebre in tutto il mon-
do, Rubek ha perso ogni vera ispirazione artistica. Scolpisce solo
busti su commissione, ritratti di gente facoltosa nei quali si diverte
a scorgere, o forse a proiettare, tratti animaleschi. In uno stabili-
mento balneare egli incontra Irene, la donna che posò come mo-
della per lui al tempo della creazione del capolavoro. Nella dida-
scalia che accompagna il suo ingresso, Ibsen la presenta così: «Il
suo viso è pallido; i lineamenti sono irrigiditi; le palpebre sono ab-
bassate come se gli occhi non avessero più vita […]. Il suo porta-
mento è immobile, i suoi passi sono cadenzati»28. Una statua, in-
somma. Anche se, invitando Rubek a sedersi accanto a lei, lo ne-
gherà: «Il mio corpo non si è ancora trasformato in una statua di
ghiaccio»29. Irene sostiene di esser morta, di esserlo precisamente
dal giorno in cui Rubek terminò il suo gruppo marmoreo. «Io ti
donai la mia anima, la mia anima piena di vita e di giovinezza, e ri-
masi con un vuoto nel petto […], senz’anima. Dopo averti fatto
quel dono sono morta, Arnold»30.
Non sarebbe giusto, però, riportare tutto all’idea dell’arte che
sottrae vita alla vita, al contrasto generico tra forma e vita. In Ib-
sen le cose sono molto più esplicite. Che cosa rimprovera esatta-
mente Irene a Rubek? Irene indica subito, fin dal primo colloquio,
il delitto dello scultore nel rifiuto dell’amore carnale che ella gli of-
friva, a favore di una contemplazione puramente artistica del suo
corpo. «Irene: Promisi di servirti in tutto. Rubek: Come modella

28 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 607-608.


29 Ivi, p. 615.
30 Ivi, p. 619.
Amare una statua 103

per il mio capolavoro […]. Irene: Col mio corpo liberamente e


completamente nudo […]. Rubek: E tu mi servisti … con tanto
coraggio … Con tanta gioia … Senza riserbo!»31. Alle deboli di-
scolpe dell’uomo («non ti ho mai trattata male»), Irene risponde
scagliandogli contro la sua accusa senza reticenze: «Mi hai offeso
in quello che era di più intimo nella mia natura! Mi misi in mostra
dinanzi a te, come si può esporre un corpo … E tu non lo toccasti
mai, neppure una volta»32. Di fronte a queste rimostranze, Rubek
si difende teorizzando un’estetica: «Irene, tu non capivi. Dinanzi
alla bellezza del tuo corpo io ero quasi sempre fuori di me… Io
ero un artista, Irene […]! Sì, io ero anzitutto un artista. Andavo
brancolando intorno come un febbricitante e volevo creare il ca-
polavoro della mia vita; e quel capolavoro doveva chiamarsi Il
giorno della Resurrezione, e la Resurrezione doveva essere rappre-
sentata da una giovane donna che si desta dal sonno della morte
[…] e la risorta doveva essere la donna più pura e più ideale della
terra. Fu allora che io ti trovai. Potevo adoperarti per ogni linea-
mento. E tu mi offristi i tuoi servigi così volonterosamente, così al-
legramente […]. Io ti ho potuto adoperare per il mio capolavoro
meglio di chiunque altra. Diventasti per me un’opera sacra della
creazione, che si poteva sfiorare solo con religione! In quel tempo
si era lentamente insinuata in me una strana superstizione: inco-
minciai, cioè, a credere che se io ti avessi toccata, se avessi deside-
rato il tuo corpo, tutti i miei pensieri sarebbero stati profanati e
non avrei potuto più condurre a termine quell’opera che così ar-
dentemente anelavo di creare. E anche oggi continuo a credere
che in quella superstizione ci fosse qualcosa di vero»33.
Quella che Rubek chiama “superstizione”, in effetti, non è che
l’applicazione letterale, e perciò semplificata, della convinzione
che l’opera d’arte si costituisce a partire dalla rescissione dei lega-
mi affettivo-sensuali diretti, istituendo su di essi una sospensione,
una messa in parentesi. Egli sembra ignorare che solo pochi anni
prima Nietzsche aveva messo alla berlina chi ragionava come lui,
per prendere le distanze da quello che gli pareva, a torto, essere il
nucleo della dottrina kantiana del piacere disinteressato dell’arte:

31 Ivi, p. 616.
32 Ibidem.
33 Ivi, pp. 616-617.
104 Lo sguardo reciproco

«Certo che se i nostri esteti non si stancheranno di buttare sulla


bilancia, a favore di Kant, il fatto che grazie alla magia dell’arte si
possono guardare “senza interesse” anche statue di donne nude, ci
sarà ben concesso di ridere un po’ alle loro spalle – le esperienze
degli artisti, relativi a questa scabrosa questione, sono molto “più
interessanti”, e Pigmalione non dovette essere, in nessun caso, ne-
cessariamente, un “uomo non estetico”»34.
L’estetica di Rubek non riesce a convincere il senso comune di
sua moglie Maja, che ha una visione molto più prosaica dei rap-
porti fra artista e modella. Tanto che il suo primo impulso, di fron-
te alla sconosciuta Irene, è di gelosia. «Maja: Rubek, rifletti un
po’! Forse quella signora ti sarà servita da modella … una volta!
Rubek: Da modella? Maja: Sì, nei tuoi anni giovanili. Chissà quan-
te modelle hai avuto … allora, naturalmente! […] Maja: E puoi
dimenticare anche una donna che ti è servita da modella? Rubek:
Quando non ne ho più bisogno … Maja: Ed anche quando ha po-
sato per te con il suo corpo nudo? Rubek: Questo particolare non
ha nessuna importanza, almeno per noi artisti!»35. È la stessa visio-
ne che anche Irene mostra di condividere, quando, di fronte a Ru-
bek che assicura: «Dopo di te non ho trovato nessun altro
ideale!»36 commenta sarcastica: «Nemmeno altre modelle, Ar-
nold?»37. Irene accentua deliberatamente l’aspetto di esibizione,
di sensualità connesso al fatto di posare. Dopo aver abbandonato
Rubek, o piuttosto dopo essere stata abbandonata da lui, racconta,
«ho fatto mostra del mio corpo nei teatri di varietà … ho fatto la
statua nuda nei quadri viventi»38. Curioso: Irene non condivide le
convinzioni estetiche di Rubek, ma mostra di seguirlo almeno nel-
la persuasione che altro sia il posare per una scultura, che è arte
nobile ed elevata, altro offrirsi per un’arte effimera e di mero in-
trattenimento, come, nella sua assiologia, il varietà o i tableaux
vivants.
Irene ora odia Rubek, perché l’ha amato ed egli ha rifiutato

34 Le ironie nietzschiane contro il “disinteresse” degli artisti sono in Genealogia

della Morale, III, 6: le citiamo nella traduzione di V. Perretta, Roma, Newton Compton,
1977.
35 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 622-623.
36 Ivi, p. 617.
37 Ibidem.
38 Ivi, p. 614.
Amare una statua 105

quell’offerta di amore. Le giustificazioni dello scultore, che si


appella al diritto ed anzi alla necessità che ha l’artista di recidere
ogni rapporto effettuale con la realtà, non possono convincerla
della innocenza di Rubek, perchè quel che ha offeso Irene è pro-
prio l’indifferenza nei suoi confronti che la creazione dell’opera
ha richiesto. «Irene: Io cominciai piuttosto a sentire un odio …
Rubek: Un odio? Contro di me? Irene: Sì, contro di te … contro
l’artista, che aveva preso con tanta indifferenza e con tanta incu-
ria un corpo, in cui pulsava un sangue caldo, una giovane vita
umana, e che le avevi rubato la sua anima … per creare un’opera
d’arte»39. È l’artista che Irene ha odiato. «Irene: Debbo farti una
confessione, Arnold. Non ho mai amato la tua arte. Rubek: Però
hai amato l’artista. Irene: L’artista? No, io lo odio. Rubek: Dun-
que odi in me anche l’artista? Irene: Sì, proprio l’artista. Quando
io stavo dinanzi a te, completamente nuda, il mio cuore era sem-
pre pieno di odio per te, Arnold. Ti odiavo, perché tu restavi
sempre così indifferente … o almeno perché tu avevi tanta forza
da dominare te stesso. Ti ho odiato perché tu non eri che un arti-
sta, soltanto un artista, e non un uomo»40. Quel che ha umiliato e
annientato Irene, nel rapporto con Rubek, è stato il fatto di essere
subordinata ad un’opera inanimata, lei creatura vivente: prima
l’opera d’arte, riassume, e poi la creatura umana. Ma Irene per
prima non sembra affatto essere rimasta immune da quella tra-
sposizione di affetti umani in pure e ineffettuali contemplazioni
artistiche che rimprovera a Rubek. Il suo delirio non è che il dop-
pio speculare, e dunque inverso, della sospensione di vita in cui a
suo parere Rubek è prigioniero. La statua di marmo creata dallo
scultore diventa, nella fantasia sconvolta di Irene, una sorta di fi-
glio, una creatura frutto di entrambi, di lei e di Rubek. Quell’a-
more fisico che non c’è stato, quella generazione mancata, hanno
trovato un Ersatz nella creazione artistica. Ancora una volta, Irene
è inconsapevolmente nietzschiana: «Gli artisti, se servono a qual-
cosa, hanno forti inclinazioni (anche fisicamente), esuberanza,
energia animale, sensualità; senza una certa sovreccitazione del si-
stema sessuale un Raffaello non è pensabile. Il far musica è un al-
tro modo di fare figli; e in ogni caso anche negli artisti la fecon-

39 Ivi, p. 630.
40 Ibidem.
106 Lo sguardo reciproco

dità cessa con la forza generativa»41. Irene si informa subito pres-


so Rubek della sorte, anzi dello stato di salute del gruppo marmo-
reo, come si farebbe per una persona cara. «Irene: E la creatura di
marmo? Sta bene, vero? la nostra creatura sopravvive a me»42.
Verso quella creatura Irene in un primo tempo ha provato odio,
ha desiderato ucciderla. «Irene: Arnold, se quella volta io avessi
fatto uso del mio diritto … Rubek: Ebbene … che cosa avresti
fatto? Irene: Io avrei ucciso la nostra creatura! Rubek: Ucciso?
Irene: Sì, l’avrei uccisa, prima di lasciarti. Io l’avrei frantumata, ri-
dotta in polvere»43.
Come negli altri testi di cui ci occuperemo, anche in Quando
noi morti ci destiamo il confine tra la statua e il vivente è mobile e
quasi evanescente. Che Irene entri in scena come una statua, l’ab-
biamo visto. All’occhio ingenuo ma proprio perciò non velato di
teorie di Maja, Irene appare proprio quale essa si crede, una scul-
tura di pietra inanimata. «Maja: Osserva laggiù. Cammina come
una statua di marmo»44. Perfino in Rubek, il sostenitore della se-
parazione tra vita e arte, i confini cominciano a vacillare; «Rubek:
E dire che io ebbi il coraggio di trascurarla … di metterla nell’om-
bra … di mutilarla»45, egli dice di Irene. Si mutila una statua, ap-
punto.
Nel sistema di Rubek, nella sua estetica, alla caduta delle pul-
sioni sensuali nei confronti dell’oggetto artistico corrisponde una
nuova vita ideale, intangibile e proprio perciò eterna; ma questa
vita è per Irene, e anche per Maja, mero simulacro, mera parvenza:
privata dei legami con la realtà, essa diventa paurosamente simile
alla morte. Questo è visibilissimo nelle battute che chiudono il pri-
mo atto. «Rubek: Sì, tu eri allora molto prodiga, Irene! Mi offristi
tutta la bellezza del tuo corpo nudo … Irene: … Per guardarla …
Rubek: e per eternarla … Irene: Sì, per dare l’eternità a te e alla
nostra creatura! Rubek: E per eternare anche te, Irene! Irene: Tu
però hai dimenticato il dono più prezioso che ti ho fatto! Rubek: Il
più prezioso dono? Quale? Irene: Io ti donai la mia anima … la
41 La citazione nietzschiana proviene da un frammento della Primavera 1888 per il

Wille zur Macht (nella edizione Colli-Montinari, Frühjahr 1888, 14 [117]).


42 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., p. 612.
43 Ivi, p. 613.
44 Ivi, p. 627.
45 Ivi, p. 628.
Amare una statua 107

mia anima piena di vita e di giovinezza … e rimasi con un vuoto


nel petto … senz’anima! Dopo averti fatto quel dono sono morta,
Arnold!»46.
Per Irene le opere d’arte sono, alla lettera, dei morti. I musei in
cui sono conservate sono dei cimiteri («Rubek: I musei furono
sempre il tuo terrore: li chiamavi sepolcri»47). Irene è morta per-
ché nascesse quel simulacro di vita che è la scultura di Rubek; ella,
viva, si è immolata per un corpo morto: «Irene: Quando ebbi fini-
to di servirti col mio corpo e con la mia anima … perché la tua sta-
tua … il nostro bambino, come tu la chiamavi a quel tempo … era
compiuta … io deposi davanti ai tuoi piedi il mio caro sacrificio …
e mi sono distrutta per tutta l’eternità»48.
Tuttavia dell’illusione che il capolavoro di Rubek fosse qualcosa
di diverso da una morta statua Irene stessa ha partecipato; è stata
la prima a credere che essa fosse una creatura vivente, “il bambi-
no”, come entrambi la chiamavano: «Irene: Ma quella statua di te-
nera argilla, quella statua vivente, oh, quella sì, l’amavo! Via via
che da quella rozza e informe massa andava nascendo una creatura
umana dotata di un’anima … io l’amavo quel nuovo essere che era
la nostra creatura, il nostro bambino, il mio e il tuo»49. Solo più
tardi ella doveva essersi resa conto che la trasposizione della sua
immagine nell’opera d’arte aveva significato per lei il passaggio
dalla vita nella morte, e che quella creatura inanimata non avrebbe
mai potuto sostituire le creature viventi che lei e Rubek non aveva-
no messo al mondo: «Irene: Io però allora ero una creatura uma-
na! Ed avevo ancora da vivere una vita … e da compiere un desti-
no. E, vedi, mi sono spogliata di tutto ciò … anzi l’ho gettato via
per votarmi a te. Oh, questo è stato un suicidio, un peccato contro
me stessa! Avrei dovuto mettere al mondo dei figli, molti figli, di
carne viva; non di quelli che si conservano nei sepolcri»50.
La situazione che Ibsen ha delineato nel primo atto di Quando
noi morti ci destiamo, e che qui abbiamo ripercorso di scorcio, ap-
pare sostanzialmente statica, sembra rifiutare uno sviluppo e uno
svolgimento; il conflitto drammatico c’è, ma giace tutto nel passa-
46 Ivi, p. 619.
47 Ivi, p. 631.
48 Ivi, p. 630.
49 Ivi, p. 631.
50 Ivi, p. 633.
108 Lo sguardo reciproco

to: è il dramma vissuto da Irene, ma che è rimasto del tutto estra-


neo a Rubek. Perché si dia sviluppo all’azione, dunque, occorre in-
nanzi tutto che anche Rubek sia attratto nel mondo di Irene, quel
mondo in cui, però, pare che egli non possa entrare, perché il suo
concetto dell’arte è l’antitesi di quello di Irene. Nel secondo atto
assistiamo allora ad una sorta di conversione dello scultore. Rubek,
si è visto, non ha più avuto la forza di creare nulla di grande dopo
il capolavoro. L’abbandono di Irene ha significato per lui anche
l’abbandono dell’arte. Egli comincia ora a convincersi che l’incon-
tro con Irene possa significare la possibilità di ritrovare se stesso,
ossia in primo luogo la sua arte. La sua illusione è quella di potere
ora amare Irene e di tornare ad essere creativo grazie a quell’amo-
re. Così spiega alla moglie: «Rubek: Qui dentro, vedi … c’è un pic-
colo scrigno chiuso, dove sono conservati tutti i miei sogni d’arti-
sta. Dal giorno in cui quella donna scomparve senza lasciare trac-
cia dietro di sé, il coperchio si chiuse. Ella ne teneva le chiavi, e le
portò via con sé. Tu, mia piccola Maja, non avevi nessuna chiave,
ed è perciò che tutto quello che vi era dentro è rimasto intatto. E
gli anni passano! Ed io non posso toccare il mio tesoro!»51.
Rubek crede fino all’ultimo che gli sia ancora possibile ritrovare
l’amore di Irene e con esso l’ispirazione perduta: le due cose gli
sembrano anzi, alla fine, coincidere. Per questo egli accetta di se-
guire Irene sulla montagna, e per questo conserverà la sua illusio-
ne fino all’ultimo. «Il nostro amore non è certo morto!»52 esclama
Rubek nell’ultimo colloquio. Ma Irene sa che non è vero, non può
essere vero perché, come lei stessa, così anche Rubek è morto do-
po aver compiuto il suo capolavoro. «Irene: l’amore, quello di
questo mondo … di questo magnifico, meraviglioso mondo, è
morto in noi due […]! dov’è ora quella passione che nutrivi per
me, quella passione di fuoco, con cui lottavi e combattevi quando
posavo dinanzi a te libera, come la donna risorta?»53. A Rubek
non basterà ammettere il suo torto dinanzi a Irene: «Rubek: Acce-
cato, com’ero allora, anteposi un simulacro d’argilla alla felicità
della vita … alla felicità dell’amore»54. È troppo tardi: Rubek cre-

51 Ivi, p. 627.
52 Ivi, p. 646.
53 Ibidem.
54 Ibidem.
Amare una statua 109

de di avviarsi verso la festa delle nuove nozze, verso la luce, e Ire-


ne lo conduce invece là dove la valanga li travolgerà entrambi.
La statua, la morte, il calco, la maschera funebre. Nel calco, il
modello è prelevato in tutta la sua presenza reale e trasposto nel-
l’opera. Il calco è un doppio, ma un doppio senza vita. Si può fare
un calco da un corpo vivo, ma nulla toglierà l’apparenza mortua-
ria, né solo per il ricordo del calco delle fattezze dei defunti. In
una delle lettere che scambiò con Freud dopo che questi gli aveva
inviato il proprio studio su Gradiva, Jensen dichiara di non cono-
scere i motivi che lo hanno spinto fin dall’inizio a collegare il bas-
sorilievo della Gradiva, che si trova in realtà ai Musei Vaticani di
Roma, con Napoli o meglio con Pompei. Ma tutto lascia pensare
che a spingere lo scrittore tedesco a fare di Gradiva una pompeia-
na sia stato il ricordo dei calchi delle vittime dell’eruzione del Ve-
suvio che egli aveva visto al Museo Nazionale di Napoli. Questi
calchi, che materializzano il passaggio dalla vita alla morte, dal
corpo alla statua e viceversa (un tema che percorre tutto il raccon-
to di Jensen) ritornano in due sviluppi decisivi della vicenda.
Quando Hanold per errore si ritrova invece che nel proprio alber-
go in quello in cui alloggiano Zoe e il padre di lei, il padrone del-
l’albergo gli racconta di essere stato presente «quando nei pressi
del Foro era stata trovata quella giovane coppia di amanti, che ac-
cortisi della catastrofe inevitabile si erano strettamente abbracciati
e avevano atteso così la morte»55. E il colloquio che porterà al
chiarimento finale tra Zoe-Gradiva e Hanold si svolge nella casa di
Arrio Diomede, là dove erano stati ritrovati decine di corpi di cit-
tadini di Pompei, dai quali erano stati tratti i calchi del Museo na-
zionale, e tra questi «il calco perfetto del collo, delle spalle e del
busto di una giovane ragazza, vestito di un leggero abito di
velo»56. Jensen, sollecitato da Freud in questo senso, non seppe in-
dicare fonti letterarie per la propria “fantasia pompeiana”. C’è
però – anche se naturalmente non si può provare che Jensen lo co-
noscesse – un altro racconto di Théophile Gautier che racconta
una storia molto simile a quella di Gradiva, sia pure accentuando il
tema dell’amore con lo spettro: Arria Marcella. Ricordo di Pompei.
Il protagonista in questo racconto, pubblicato nel 1852, non si

55 W. Jensen, Gradiva, cit., p. 80.


56 Ivi, p. 99.
110 Lo sguardo reciproco

innamora di una statua, ma del calco della fanciulla trovata nella


Villa di Arrio Diomede («Gli parve che quelle rotondità si adattas-
sero perfettamente all’impronta del Museo di Napoli che l’aveva
gettato in un’appassionata fantasticheria, e una voce gli gridò dal
fondo del cuore che era quella la donna soffocata dalla cenere del
Vesuvio nella villa di Arrio Diomede»57). Ma non sarà un caso che
alla sua fantasia eccitata la donna/spettro si presenti innanzi tutto
come una statua («Il collo presentava quelle belle linee pure che
oggi si ritrovano soltanto nelle statue» «il suo piede nudo, più pu-
ro e più bianco del marmo» «il suo braccio era freddo come il
marmo di una tomba»58), né che di lui ci venga detto già nella pre-
sentazione che “talvolta si innamorava delle statue”, e non venga-
no taciuti i tratti più esplicitamente necrofiliaci («la vista di una
folta capigliatura a treccia riesumata da un’antica tomba lo aveva
gettato in un bizzarro delirio»59).
Il calco, la morte. In una breve prosa di Ramón Gómez de la
Serna, La donna assassinata dallo scultore60, si racconta questa sto-
ria: uno scultore decide di fare un calco dei seni della propria
amante, sapendo che non sarebbe mai riuscito a scolpire qualcosa
di altrettanto perfetto. Ne ricava «due seni che possedevano una
certa vita, che quelli dei musei non avevano»61, ma che alla donna
paiono «i seni della sua morte, i seni dopo l’imbalsamazione»62.
Per colpa del calco con il gesso freddo e umido, la donna si amma-
la di polmonite e ne muore «e da allora i seni di gesso brillaro-
no solitari nello studio, come i seni del mausoleo ideale della
morte»63.

57 Il racconto di Gautier Arria Marcella. Ricordo di Pompei è compreso anch’esso

nella raccolta Il vello d’oro e altri racconti, cit., p. 164.


58 Ivi, p. 163.
59 Ivi, pp. 146-147.
60 R. Gómez de la Serna, La donna assassinata dallo scultore, in Id., Seni, trad. it. di

E. Carpi Schirone, Milano, ES, 1991.


61 Ivi, p. 113.
62 Ibidem.
63 Ivi, p. 114.
Amare una statua 111

Afrodite

Anche Demetrio, il protagonista di Afrodite di Pierre Louÿs


(pubblicato nel 1896, tre anni prima del dramma di Ibsen) è uno
scultore. Il romanzo è ambientato ad Alessandria d’Egitto nel pri-
mo secolo avanti Cristo. Demetrio ha scolpito una statua di Afro-
dite per il tempio della città, e per lui ha posato come modella la
stessa regina della città, della quale poi egli è diventato l’amante.
Ma Demetrio, “bello come Apollo”, prova ormai disgusto per la
vita: «Aveva orrore della vita, non usciva di casa che nell’ora in cui
la vita cessava e rientrava quando l’alba attirava verso la città i pe-
scatori e gli ortolani. Il piacere di non vedere al mondo che l’om-
bra della città e la sua propria, diventava per lui una tale voluttà
che egli non ricordava di avere visto il sole di mezzogiorno che a
distanza di mesi»64.
La passione per la regina è dileguata dopo che la bellezza di lei
è stata fissata nei tratti immortali della statua divina: comparata a
quel modello perfetto, la modella di un tempo non può reggere il
confronto: «Tutte le bellezze della regina, tutto ciò che d’ideale si
poteva inventare intorno alle linee morbide del suo corpo, lo fece
emergere dal marmo, e da quel giorno s’immaginò che nessun’al-
tra donna sulla terra raggiungerebbe più il livello del suo sogno.
La sua statua divenne l’oggetto del suo desiderio»65. Demetrio
non ama ormai che la sua creatura di marmo. La regina sembra
complice dell’incanto.
«Prendi un marmo e il tuo scalpello, e fammi vedere agli uomini
dell’Egitto. Voglio che si adori la mia immagine»66, aveva detto allo
scultore, e Demetrio, con una sincerità che certo doveva sfuggire
all’amante, aveva riposto: «Sono io il primo ad adorarla»67. Ma,
appunto, egli adora l’immagine, non più la donna. La bellezza vi-
vente ormai non ha più attrattive per Demetrio, che inevitabilmen-
te confronta i corpi e i visi reali a quelli ideali dell’arte. Preferisce
anzi i corpi che presentano qualche difetto, perché più le forme
reali sono perfette più richiamano il confronto con quelle prodotte

64 P. Louÿs, Afrodite, cit., p. 12.


65 Ivi, p. 45.
66 Ivi, p. 43.
67 Ivi, p. 46.
112 Lo sguardo reciproco

dall’artista, un confronto che per loro non può non essere schiac-
ciante «il turbamento che gli cagionava l’impressione della bellezza
vivente era una sensualità puramente cerebrale, che riduceva a nul-
la l’impulso di generazione»68. La regina non solo avverte la tra-
sformazione che si è compiuta in Demetrio, ma sa anche coglierne
la causa: «Dov’eri? Eri al tempio? Non eri per caso nei giardini,
con quelle donne straniere? No, vedo dai tuoi occhi che non hai
amato. Ma allora cosa facevi, sempre lontano da me? Eri davanti
alla statua? Sì, ne sono sicura, eri là. Adesso tu l’ami più di me. È
in tutto simile a me: ha i miei occhi, la mia bocca, i miei seni; ma è
lei che tu cerchi. Io, sono una povera abbandonata. Ti annoi con
me, lo vedo bene. Pensi ai tuoi marmi e alle tue cattive statue come
se io non fossi bella più di tutte loro, e viva, per lo meno»69.
Quando Demetrio incontra per la prima volta Criside, la bellis-
sima cortigiana che viene dalla Galilea e che ha tutta Alessandria
ai suoi piedi, può credere per un istante che il suo trasporto sia so-
lo un sentimento d’artista, una passione che non infiamma la carne
ma resta chiusa nel cerchio della contemplazione estetica: «Cre-
dette di ammirare il suo passo aggraziato per un sentimento unica-
mente estetico, si disse che ella poteva essere un agognato modello
per la Carite con il ventaglio che si proponeva di sbozzare doma-
ni»70 (una Carite col ventaglio: lo sfondo ellenistico del romanzo
di Louÿs ha la consistenza della quinta di un teatro, qua e là aperta
da piccoli squarci, come questo in cui ci vediamo trasportati da un
tempio greco in un dipinto di Alma Tadema).
Ma la passione di Demetrio, questa volta, è un vero innamora-
mento, che coinvolge i sensi non meno dello spirito. Egli tenta di
abbracciare Criside, di possederla, ma Criside rifiuta. Lei, la cor-
tigiana, non si piegherà al desiderio di Demetrio, l’uomo più ama-
to e più potente di Alessandria. L’incantamento dello scultore è
descritto come improvviso, totale; pur di avere Criside promette
di procurarle qualsiasi cosa lei voglia. Criside chiede tre cose: uno
specchio d’argento; un pettine d’avorio; una collana di perle. De-
metrio capisce che deve trattarsi di qualcosa di difficilissimo ad
ottenersi, ma non può sottrarsi alla seduzione, e giura che procu-

68 Ivi, p. 88.
69 Ivi, p. 124.
70 Ivi, p. 51.
Amare una statua 113

rerà i tre doni. Lo giura – e non è un caso – per la statua di Afro-


dite che ha scolpito. Lo specchio è quello di Bacchide, la cortigia-
na amica di Criside, preziosissimo: Demetrio non potrà averlo
che rubandolo. Il pettine è il pettine cesellato che porta tra i ca-
pelli la moglie del grande sacerdote. Per averlo, dovrà uccidere.
La collana è la collana di perle a sette fili che pende dal collo del-
la statua di Afrodite: e Demetrio dovrà strappargliela commetten-
do sacrilegio.
Il confine tra la pietra e la carne è quanto mai esile nel romanzo
di Louÿs, e non solo nell’immaginazione estenuata di Demetrio.
Fin dalle prime pagine del romanzo, mentre assistiamo alla toelet-
ta di Criside, leggiamo: «Quando tutto fu finito, Djala si inginoc-
chiò davanti alla padrona e rase il suo pube rigonfio, perché la fan-
ciulla avesse, agli occhi dei suoi amanti, tutta la nudità di una sta-
tua»71; mentre la statua di Afrodite per la quale ha posato la regina
appare a sua volta animata come un corpo: «Tra le svelte colonne,
la dea appariva tutta viva su di un piedistallo di pietra rosa, carica
dei tesori sospesi. Era nuda e sessuata, vagamente tinta secondo i
colori della donna»72. Questa descrizione tornerà, parola per pa-
rola, nella seconda parte del libro, quando Demetrio sta per strap-
pare la collana di perle alla dea, ed esita e la rimette al suo posto.
Passerà la notte nel santuario, nascosto nel piedistallo bronzeo
della statua, e quando al mattino sembra ormai deciso a rinunziare
al sacrilegio, Criside entrerà nel tempio, avanzandosi verso la sta-
tua. La vista dell’amata farà superare a Demetrio ogni remora, ed
egli commetterà il delitto supremo. Ma come gli appare Criside?
Esattamente come una statua, anzi «bianca come la statua stessa».
Quando Criside appare in sogno a Demetrio, la sua descrizione
non trova che metafore dell’inanimato, e i suoi capelli, ad esem-
pio, sono come «un vaso d’oro su di una colonna di ebano»73.
Demetrio, dunque, ormai schiavo dei voleri di Criside, com-
mette i tre delitti per procurarsi i doni per l’amata: ruba lo spec-
chio di Bacchide, uccide la moglie del grande sacerdote (che pure
era stata sua amante), sottraendole poi il pettine d’avorio, e, con le
esitazioni che abbiamo visto, depreda il simulacro della dea. La

71 Ivi, p. 25.
72 Ivi, p. 103.
73 Ivi, p. 179.
114 Lo sguardo reciproco

parte centrale del romanzo è tutta occupata dalla descrizione del


baccanale a casa di Bacchide, al quale partecipa anche Criside. Il
furto dello specchio c’è già stato, ma Criside non può ancora sa-
perlo; perciò cerca per tutta la cena di capire se Demetrio ha com-
piuto il suo primo misfatto. Ella sa infatti che una volta piegatosi
al primo delitto Demetrio non si arresterà neppure di fronte agli
altri. Quando Bacchide scopre il furto, del quale viene incolpata la
schiava Afrodisia, che proprio quella notte avrebbe dovuto guada-
gnare la libertà, e che viene subito punita dalla padrona con la cro-
cifissione, per lei è il trionfo, anche se deve stare ben attenta a na-
scondere il suo tripudio.
La situazione, però, si rovescia di colpo. Demetrio, dopo avere
strappato i doni per Criside, ha un sogno in cui gli appare la donna
che ama. E, ancora una volta, l’immagine ha partita vinta sulla
donna reale. Demetrio ha sognato l’amore di Criside; non avrà più
bisogno della Criside vivente. I due si incontrano, la cortigiana è
felice, si direbbe quasi che abbia dimenticato i pegni richiesti e che
non voglia altro che abbracciare Demetrio. Ma le parti si sono ro-
vesciate. È Demetrio, adesso, ad essere freddo e scostante. Dicen-
do addio per sempre a Criside, spiega quel che gli è accaduto: «Mi
concederai, che dopo aver sognato l’Afrodite del tempio, la mia
immaginazione non ebbe troppa pena a figurarmi la donna che tu
sei? Ancora una volta, io non ti dirò se si tratta di un sogno nottur-
no o dell’errore di un uomo desto. Ti basti sapere che, sognata o
concepita, la tua immagine mi è apparsa in una cornice straordina-
ria. Illusione; ma a qualunque costo t’impedirò di disilludermi»74.
Dinanzi alla disperazione di Criside che viene abbandonata, De-
metrio ritorce su di lei le richieste che lo avevano spinto a diventa-
re ladro ed assassino. Criside si dichiara pronta a tutto pur di
riconquistare l’amore di Demetrio, e questi le fa giurare che ella
indosserà il pettine e la collana, e appenderà lo specchio, e con i
gioielli indosso entrerà nella città. Una volta di più, tutto ciò si
compirà sotto lo sguardo cieco di una statua, perché i terribili doni
Demetrio li ha nascosti all’interno del simulacro di Ermete Stigio.
Nel frattempo la popolazione di Alessandria ha scoperto i tre
crimini, e soprattutto il sacrilegio perpetrato contro la dea. Quan-
do Criside appare, «attraverso la porta d’occidente, sulla prima

74 Ivi, pp. 199-200.


Amare una statua 115

terrazza» del faro di marmo rosso, la sua sorte è segnata. Ma ella è


come totalmente identificata, ora, nella statua della dea Afrodite
(«era nuda come la dea») e per la divinità la scambiano i primi
abitanti che la vedono. La scena si riapre, all’inizio della quinta
parte, con Criside già in carcere in attesa della morte, essendo sta-
ta condannata a bere la cicuta. Entra Demetrio, e Criside sarebbe
ancora pronta a lanciarglisi tra le braccia, se lo scultore non la fre-
nasse con la sua attitudine impassibile. Le riflessioni fra sé e sé di
Demetrio ci sono comunicate da Louÿs in una sorta di a parte che
è un artificio molto impacciato – non l’accetteremmo, oggi, in una
mediocre sceneggiatura – ma a noi non interessano gli aspetti
dell’Afrodite che possono legittimamente far sorridere, per esem-
pio la stessa Criside-Socrate di queste ultime pagine: non ci inte-
ressano le forme, ma le idee.
Demetrio dunque filosofeggia sulle nefaste conseguenze della
passione. Ritiene che vi siano solo due possibilità: la voluttà senza
passione (precisamente quella che egli aveva sempre cercato con
tutte le donne, e che solo con Criside non era stato in grado di ot-
tenere) o “l’idée sans jouissance”, il legame che lo avvince alle sue
statue. Non c’è una terza possibilità, e Criside, che ha tentato di
donargli un piacere congiunto all’idea, ha dovuto soccombere per-
ché Demetrio non può più unire l’idea ad altro che non sia una
statua immobile e morta. La conferma decisiva arriva nel capitolo
culminante dell’ultima parte (“Criside immortale”). Rientrato nel-
la sua abitazione, Demetrio ha un’illuminazione improvvisa. Quel
corpo che egli non ha potuto amare perché voleva offrirglisi nella
passione, potrà bene eternarlo nell’arte. Fa allora portare un bloc-
co di argilla fresca nella cella dove giace Criside morta, e si avvia
egli stesso verso il carcere.
È come se si rompesse un incantamento. Avviandosi a ridare vi-
ta, una vita eterna (“Criside immortale”) alla donna che è morta
per lui, Demetrio sente riaffluire quell’amore per la vita che a lui
sembrava ormai precluso. Questa nuova vita di Demetrio sembra
frutto diretto di una conversione estetica di Louÿs, di un ritorno
dell’autore ad una posizione molto tradizionale e tranquillizzante.
Se prima l’opera e il sentimento dovevano restare separate, adesso
il difetto dell’arte di Demetrio viene fatto consistere nella mancan-
za di passione. Prima la bellezza del marmo non poteva che nasce-
re dalla freddezza della carne (e dunque la passione sensuale era
116 Lo sguardo reciproco

inibita dal confronto schiacciante con l’opera), ora invece tutte le


sculture precedenti di Demetrio sembrano fredde e inanimate per
mancanza di passione. «Troppo a lungo aveva preso per luce il
chiaro di luna e per ideale la linea incerta di un movimento troppo
delicato […]. Sulla pelle delle sue statue correva un fremito glacia-
le. Durante la tragica avventura che aveva sconvolto la sua intelli-
genza, per la prima volta aveva sentito il grande soffio della vita
gonfiare il suo petto»75.
Lo scopo supremo non è il marmo, la forma, ma l’espressione,
dunque l’umanità: «Per lo meno, stava comprendendo che vale la
pena di essere immaginato solamente quel che attraverso il mar-
mo, il colore o la frase raggiunge una delle profondità dell’emozio-
ne umana, – e che la bellezza formale non è che una materia inde-
cisa, suscettibile di essere sempre trasfigurata dalla espressione del
dolore o della gioia»76.
Strana passione per la vita, che si nutre della morte, e strana
esaltazione della espressione, che vive in un corpo morto. Deme-
trio non sembra coerente con la poetica sentimentale che Louÿs gli
mette in bocca. Come accadeva prima, la creazione artistica non
può darsi per lui che una volta interrotto il circolo con la vita. Solo
dopo morta Criside è disponibile a diventare statua. Anzi, è già di-
ventata una statua: «Nella bianchezza azzurrina delle guance, alcu-
ne venature cilestrine davano alla testa immobile un’apparenza di
marmo freddo. La fragilità delle orecchie aveva qualcosa di imma-
teriale. Giammai, sotto nessuna luce, neppure in quella del suo so-
gno, Demetrio aveva visto una bellezza così sovrumana e una tale
luminosità della pelle»77.
Quando le due amiche di Criside, Rodide e Mirtocleia, verran-
no a reclamarne il corpo per donargli sepoltura, il corpo di Criside
apparirà loro come “una effimera statua addormentata”. Demetrio
può finalmente «conservare dei suoi tre giorni di passione un ri-
cordo che durerà più a lungo di lui stesso […], e creare a partire
dal cadavere la statua della Vita Immortale»78. Il corpo di Criside
viene messo in posa da Demetrio: «Con le due mani sotto le ascel-

75 Ivi, p. 225.
76 Ivi, p. 226.
77 Ivi, pp. 226-227.
78 Ivi, p. 227.
Amare una statua 117

le fresche. Demetrio fa scivolare la morta fin sull’alto del letto, vol-


ge la testa sulla guancia, […] piega l’avambraccio al di sopra della
fronte, fa increspare le dita ancora molli sulla stoffa di un cuscino.
[…] Il modello ha preso la sua posa. Demetrio getta sulla tavola il
blocco d’argilla umida che ha fatto portare là, lo preme, lo impa-
sta, l’allunga secondo forma umana: una specie di barbaro mostro
nasce dalle sue dita ardenti […]. Demetrio continua. L’abbozzo si
anima, si precisa, prende vita. Un prodigioso braccio sinistro si
inarca al di sopra del corpo come se stringesse qualcuno»79. A se-
ra, il modello in creta è terminato. Demetrio lo fa trasportare nel
suo studio, fa sgrossare un blocco di marmo pario e comincia a la-
vorare per trasferire nel marmo la forma del modellato.

La Gioconda

Le statue, nella Gioconda di Gabriele D’Annunzio (rappresenta-


ta per la prima volta a Palermo nel 1899, cioè nello stesso anno in
cui veniva messo in scena il dramma di Ibsen) non vengono dalla
morte, ma dalla vita; non uccidono ma vivificano; e corre il rischio
di morire chi viene lasciato da parte dall’arte, non chi la serve e la
crea. L’estetica di Lucio Settala, lo scultore protagonista dell’opera
dannunziana, è per molti versi l’esatto opposto di quella di Rubek;
noi però non la apprendiamo da lui, che sembra collocarsi, in
quanto artista, in un territorio che è al di là di ogni riflessione e di
ogni consapevolezza, ma dagli altri personaggi della tragedia.
Questa si apre su di un dramma già consumato: lo scultore, di-
viso tra l’amore per Gioconda Dianti, la bellissima modella che ha
posato per lui nella creazione del suo ultimo capolavoro, una Sfin-
ge, e la moglie Silvia, ha tentato di uccidersi sparandosi un colpo
di pistola nel suo atelier, proprio ai piedi della grande statua. Ora,
grazie alle cure di Silvia, sta lentamente tornando alla vita. Ma il
gesto disperato non è bastato a recidere il legame con l’amante,
che lo attende sempre, giorno dopo giorno, nello studio di lui.
Quando Lucio riceve una lettera della Gioconda, la moglie Silvia
decide di affrontare direttamente la rivale, incontrandosi con lei e

79 Ibidem.
118 Lo sguardo reciproco

intimandole di restituire le chiavi dell’atelier, rinunziando ad ogni


tentativo di rivedere l’antico amante. Nel terzo atto, quello in cui
culmina l’azione, le due donne si affrontano. Silvia fa valere i suoi
diritti di moglie e rimprovera a Gioconda di aver strappato Lucio
non solo “alla pace della casa” ma anche “alla nobiltà dell’arte”, e
rinfaccia alla modella di non essersi mai occupata dello stato di sa-
lute di Lucio dopo il tentato suicidio, mentre ella lo accudiva, re-
stituendogli col suo affetto la vita. Silvia vuole contrapporre la sua
capacità vivificatrice a quella mortifera dell’amante. Ma le ragioni
dell’arte, da lei incautamente invocate, possono facilmente esserle
ritorte contro dalla Gioconda, che «obbedisce a una potenza che
può essere implacabile»80. Come ispiratrice dell’artista, anche lei
ha creato la vita; l’amore che per lei Lucio ha nutrito ha favorito
ed anzi reso possibile l’arte di lui, lungi dal deprimerla:
«Gioconda: La donna cui faceste tante accuse fu ardentemente
amata d’un glorioso amore. Ella non abbassò ma sollevò una vita
forte»81.
Perché la creazione artistica, per Gioconda e ovviamente per
D’Annunzio (non a caso proprio in questi anni lettore di
Nietzsche82) non si nutre affatto di un indebolimento dei desideri
reali, di una sospensione degli affetti, come credeva Rubek in Ib-
sen. Essa, anzi, è frutto dell’ebbrezza sensuale, della passione, della
esaltazione di tutte le forze vitali: «Gioconda: Quando egli entrava
dove io l’attendeva come si attende il dio che crea, era trasfigurato.
Egli ritrovava dinanzi alla sua opera la forza, la gioia, la fede. Sì,
una febbre continua gli ardeva nel sangue, tenuta accesa da me
[…] ma al fuoco di quella febbre egli ha foggiato un capolavoro»83.
Diversamente dalla Irene di Quando noi morti di destiamo, Gio-
conda Dianti sa che la sua presenza e il suo amore sono indispensa-

80 G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p.112.


81 Ivi, p. 113.
82 Per il rapporto Nietzsche-D’Annunzio si veda, tra l’altro, G. Tosi, D’Annunzio

découvre Nietzsche, in «Italianistica», Sett.-Dic. 1973; M.T. Marabini Moevs, D’Annun-


zio e le estetiche di fine secolo, L’Aquila, Japadre, 1976; M. Montinari, Nietzsche e la dé-
cadence, in D’Annunzio e la cultura germanica, Atti del VI convegno internazionale di
studi D’Annunziani, Pescara 3-5 maggio 1984, Centro Nazionale di Studi D’Annunzia-
ni, Pescara, 1985; P. Sorge, D’Annunzio tra Wagner e Nietzsche, in G. D’Annunzio, Il
caso Wagner, Roma-Bari, Laterza, 1996.
83 Ivi, p. 115.
Amare una statua 119

bili all’artista, ed è consapevole del fatto che accettando di essere


uno strumento dell’arte ella in realtà acquisisce un potere particola-
rissimo nei confronti dell’uomo: un potere che ella è in grado di op-
porre trionfalmente ai vincoli riconosciuti dalla società ed invocati
da Silvia. Quest’ultima crede di potere estendere la sua giurisdizio-
ne dalla casa maritale alla officina del genio, ma Gioconda sa invece
che lo studio dell’artista è il suo regno, e che da lì lei non potrà esse-
re scacciata. «Gioconda: Questa non è una casa. Gli affetti familiari
non hanno qui la loro sede; le virtù domestiche non hanno qui il lo-
ro sacrario. Questo è un luogo fuori dalle leggi e dai diritti comuni.
Qui uno scultore fa le sue statue. Vi sta egli solo con gli strumenti
della sua arte. Ora io non sono se non uno strumento dell’arte sua»84.
Comprendendo di essere impotente di fronte alle ragioni della Gio-
conda, Silvia ricorrerà alla menzogna, attirando su di sé la sventura
che precipita sul finire dell’atto. Finge di essere a conoscenza della
lettera che la Gioconda ha inviato al marito, e afferma che la missiva
gli è stata mostrata da Lucio stesso, che l’ha incaricata di incontrare
la rivale per intimarle di abbandonare lo studio e di allontanarsi de-
finitivamente da lui. Sentendosi tradita e scacciata Gioconda reagi-
sce rabbiosamente, e tanto più violentemente quanto più è consape-
vole che Lucio tradisce così non soltanto il loro legame, ma la stessa
sua arte. Gioconda sa che il capolavoro dello scultore non appartie-
ne soltanto a lui, che esso appartiene altrettanto ed anzi di più a lei,
perché è grazie alla energia che ha saputo infondere nell’artista che
il capolavoro è stato creato. La sua vendetta sarà allora la distruzio-
ne, l’annientamento della statua. «Gioconda: E quella statua che è
mia, che m’appartiene, ch’egli ha fatta con la vita che ha spremuta
da me stilla a stilla, quella statua che è mia […] ebbene io la spez-
zerò, l’abbatterò»85. Di fronte a Gioconda che si avventa sulla statua
per distruggerla, Silvia acquista di colpo la coscienza della bassezza
commessa mentendole, e sente che il suo dovere è salvare l’opera
del marito. Grida di aver mentito; troppo tardi. La statua rovina, e,
in un disperato tentativo di salvarla, tentativo che riuscirà solo in
parte perché la statua perderà le braccia nella caduta, ha le mani
sfracellate sotto la massa marmorea.
Tra le statue di pietra e i corpi di carne corrono, nel dramma di

84 Ivi, p. 117.
85 Ivi, p. 121.
120 Lo sguardo reciproco

D’Annunzio, misteriose analogie. Le belle mani di Silvia, quelle


mani che poi saranno troncate, il vecchio scultore Lorenzo Gaddi,
nella prima scena della tragedia, le assomiglia a quelle della famosa
Donna del Mazzolino del Verrocchio. «Gaddi: Voi avete dunque
già riconosciuto la parentela. Quelle mani sembrano consanguinee
alle vostre, sono della medesima essenza. Vivono, è vero? d’una vi-
ta così luminosa che il resto della figura ne è oscurato»86. La dida-
scalia dell’atto quarto ed ultimo, nel descrivere la casa a Bocca
d’Arno dove Silvia si è trasferita dopo la disgrazia, e dove attende
di rivedere la figlia Beata, recita: «da un lato della porta, su una
mensola, è la Donna del Mazzolino […] ospite nuova, venuta dal-
l’altra casa come compagna fedele, le cui belle mani sono pur sem-
pre intatte, atteggiate di grazia verso il cuore»87.
Il busto del Verrocchio, dirà poi Silvia in una scena successiva,
«ha qualcosa di funebre per me: tuttavia non ho saputo distaccar-
mene»88. Le proiezioni biografiche tanto care ad un certo tipo di
critica, e così facili nel caso di un dramma come questo di D’An-
nunzio (come già lo erano, senza dubbio, per il vecchio Ibsen di
Quando noi morti ci destiamo), non ci interessano. Non ci vuole
molta applicazione per leggere La Gioconda come un dramma a
chiave, nel quale sarebbe adombrato il conflitto di D’Annunzio tra
il vecchio legame con Maria Gravina (che dunque sarebbe Silvia) e
la nuova passione per la Duse (che vivrebbe quindi nel personag-
gio di Gioconda), salvo poi notare che tutto potrebbe essere rime-
scolato dalla dedica iniziale («Per Eleonora Duse dalle belle ma-
ni»). Importa molto di più capire come anche nella pièce di D’An-
nunzio la dialettica tra i personaggi è innanzi tutto una dialettica di
concezioni estetiche: altrimenti sarebbe difficile non sottoscrivere
il rimprovero che venne mosso alla Gioconda fin dalle sue prime
rappresentazioni, e cioè che i suoi personaggi sembrano figure in-
dipendenti, incapaci di entrare veramente in relazione tra di loro.
All’inizio del dramma, quando potrebbe sembrare che Lucio
Settala abbia dimenticato l’amante e sia tornato al vecchio affetto,
tanto la moglie Silvia quanto l’amico Cosimo Dalbo possono illu-
dersi che il compimento del capolavoro abbia agito come catartico

86 Ivi, p. 45.
87 Ivi, p. 125.
88 Ivi, p. 140.
Amare una statua 121

sull’anima dell’artista, liberandolo dalla passione per la modella,


che sarebbe stata sublimata nella creazione artistica. Il tentato sui-
cidio viene allora interpretato come un gesto supremo, quasi rivol-
to a dimostrare agli altri che il vecchio legame è finito, trasfigura-
to. «Dalbo: Egli aveva finito in quei giorni la statua, e io pensavo
che quel marmo stupendo fosse la sua liberazione»89. Più avanti,
Dalbo esporrà la stessa convinzione allo scultore, tentando di con-
vincerlo che ormai il legame che lo univa alla Gioconda è risolto e
come neutralizzato nella creazione artistica: «Dalbo: Tu hai già ub-
bidito al comando della natura, generando il capolavoro. Quando
vidi la tua statua, pensai che ella ti fosse liberatrice. Tu hai perpe-
tuato in tipo ideale e incorruttibile un esemplare caduco della spe-
cie. Non sei dunque pago?»90.
Ma questa idea dell’arte come catarsi delle passioni e degli af-
fetti reali può illudere Settala solo per un momento, nelle prime
scene del dramma: «Io penso qualche volta alla sorte di colui che
naufragò in una tempesta con tutto il suo carico. In una giornata
serena come oggi, egli prese una barca e una rete; e tornò sul luo-
go del naufragio con la speranza di trarre dal fondo qualche cosa.
E, dopo molta fatica, trasse a riva una statua. E la statua era così
bella che, al rivederla, egli pianse di gioia; e si sedette sulla riva del
mare a contemplarla, e fu pago di quel bene, e non volle altro cer-
care; e obliò tutto il resto»91. Presto però si fa chiaro a lui come a
noi spettatori che quest’idea dell’arte come quietivo delle passioni
non può essere di Settala così come non è di D’Annunzio. L’artista
non crea sospendendo il rapporto che lo lega agli oggetti, troncan-
do il desiderio, ma anzi sull’onda di questo, in un’ebbrezza che
coinvolge i sensi e nella quale non è dato separare un lato ideale
da un lato carnale. Lucio ha pensato, nei primi giorni di convale-
scenza, di essere ormai salvo, al riparo dal dissidio che lo divideva
tra Silvia e Gioconda, ma si è presto reso conto che la rinunzia al-
l’amore per Gioconda sarebbe stata possibile solo se egli avesse,
contemporaneamente, rinunziato anche all’arte: «Lucio Settala:
Poi riconobbi che v’era qualche altra cosa da abolire in me: questa
forza che affluisce alle mie dita incessantemente per riprodurre

89 Ivi, p. 52.
90 Ivi, p. 81.
91 Ivi, p. 59.
122 Lo sguardo reciproco

[…]. Intendo che forse sarei salvo, se avessi dimenticato anche


l’arte»92. Per lo scultore, i corpi sono importanti quanto le anime,
anzi più delle anime. «Lucio Settala: [Silvia] è un’anima di pregio
inestimabile. Ma io non scolpisco le anime […]. Quando mi ap-
parve l’altra, io pensai a tutti i blocchi di marmo contenuti nelle
cave delle montagne lontane, per la volontà di fermare in ciascuno
un suo gesto […]. Una specie di affinità elettiva era tra la sua car-
ne e il marmo che chinandosi ella sfiorava con l’alito. Un’aspira-
zione confusa pareva salire verso di lei da quella bianchezza iner-
te»93. Nella didascalia che introduce l’atto terzo, e descrive l’inter-
no dello studio di Settala, D’Annunzio scrive: «La scelta e le ana-
logie di tutte le forme rivelano qui l’ispirazione verso una vita car-
nale, vittoriosa e creatrice»94, e di questa vita l’animatrice è Gio-
conda. L’Irene di Quando noi morti ci destiamo si sentiva morta
per aver fatto nascere un’opera d’arte; Gioconda si sente tanto più
viva quanto più è sicura che le opere d’arte prodotte da Lucio so-
no state create grazie a lei. «Gioconda Dianti: Io sono viva e sono
presente; ed egli ha trovato in me più di un aspetto, e mi inebriano
ancora le parole ch’egli diceva per significare la sua visione diversa
ogni mattina quando gli apparivo»95.
Di questa vita che trascorre dal corpo vivente alla statua, senza
che la seconda la sottragga al primo, la tragedia dannunziana ha
un simbolo assolutamente esplicito, quasi tangibile. Quando Lucio
ha tentato di togliersi la vita, aveva appena cominciato a modellare
un’altra scultura, modellandone un abbozzo nella creta. Egli la
credeva perduta, perché pensava ormai indurito e non più plasma-
bile il blocco di argilla; ma ha scoperto che Gioconda, esperta del-
le tecniche degli scultori, ha provveduto a tenere molle la creta,
mentre egli guariva. «Cosimo Dalbo: Dunque ella penava a tenere
umida la creta, mentre tu morivi? Lucio Settala: Non era forse an-
che quello un modo di contrastare la morte? Non era anche quello
un atto di fede ammirabile? Ella conservava la mia opera»96. An-
cora una volta, lo scultore e Gioconda dimostreranno di essere

92 Ivi, p. 79.
93 Ivi, p. 81.
94 Ivi, p. 103.
95 Ivi, p. 118.
96 Ivi, p. 84.
Amare una statua 123

partecipi di un unico segreto, che rimane ignoto, almeno inizial-


mente, all’amico Dalbo e alla moglie Silvia. Quando quest’ultima
affronta Gioconda, crede di potere opporre alla rivale la certezza
che Lucio saprà creare altre opere, anche senza il suo aiuto («Sil-
via Settala: Non è il primo [capolavoro], non sarà l’ultimo»), non
immagina che proprio Gioconda ha conservato intatto l’abbozzo
dello scultore, il blocco da cui sorgerà la nuova creazione: «Gio-
conda Dianti: certo, non sarà l’ultimo, perché un altro è pronto a
balzare dal suo viluppo di creta, un altro ha palpitato già sotto il
pollice animatore, un altro è là semivivo, e attende d’attimo in atti-
mo che il miracolo dell’arte lo tragga alla luce. Ah, voi non potete
comprendere questa impazienza della materia a cui fu promesso il
dono della vita perfetta»97. Silvia credeva di essere l’unica deposita-
ria di un’opera vivificante, giacché ella ha ridonato la vita al mari-
to; scopre ora che un’altra salvazione ha avuto luogo, e che accan-
to alla vita che ha salvato un’altra vita avanza la richiesta di vivere,
una vita sulla quale ella non ha più alcun potere. «Gioconda
Dianti: La mia fede era pari alla vostra; certo, si collegò con la vo-
stra contro la morte […]. Nulla è più sacro dell’opera che comincia
a vivere»98.
Tuttavia non è vero che Silvia non abbia avuto alcun presagio di
questa vita diversa. Forse fin dall’inizio ha sentito avvicinarsi la sua
sconfitta e ha avvertito l’impossibilità di contrastare la rivale sul
terreno dell’arte. Deve essere questa consapevolezza la spiegazione
più vera del fatto che ella si abbassi a mentire. Quando entra per
la prima volta nello studio dello scultore, sorda alle preghiere della
sorella che vorrebbe trattenerla o accompagnarla, Silvia è come
abbagliata dalla visione improvvisa del capolavoro. La bellezza im-
preveduta sembra toglierle per un attimo le forze, e, come recita
la didascalia dannunziana, «i suoi occhi restano intenti, come ab-
bagliati non da una visione di morte, ma da una immagine di vita
perfetta»99.

97 Ivi, p. 115.
98 Ivi, p. 116.
99 Ivi, p. 108.
124 Lo sguardo reciproco

L’opera

È un pittore, e non uno scultore, il protagonista de L’opera, il


romanzo che Zola scrisse nel 1885 trasferendovi molte delle espe-
rienze accumulate frequentando gli ambienti artistici parigini (an-
cora una volta, quindi, un testo che si potrebbe leggere, ed è stato
fatto, come un romanzo a chiave, come proiezione di esperienze
personali: noi ci terremo lontani da tutto questo). Ma il pittore
Claude Lantier, nella sua vita di bohème, conosce ovviamente an-
che alcuni scultori, e tra di essi il poverissimo Mahoudeau, che
vorrebbe esprimersi in opere colossali ma non ha i mezzi per paga-
re il materiale che gli occorrerebbe, il marmo o la pietra, e neppu-
re quelli per comprarsi il ferro necessario a costruire l’armatura
per una argilla di grandi dimensioni. È nello studio di Mahou-
deau, anzi nello squallido sotterraneo gelato ove egli si è ridotto a
lavorare, che assistiamo ad una scena la quale, anche solo per la
sua collocazione nel romanzo (quasi esattamente alla metà di esso,
e nel giorno del matrimonio del protagonista) non può non assu-
mere un valore simbolico, premonitore. Claude, impaziente, si è
recato a prendere l’amico che deve fargli da testimone di nozze.
Lo trova già pronto, ma preoccupato che il freddo intenso non
guasti la creta umida della grande Bagnante che sta sbozzando. Vi-
sto che i panni bagnati con i quali ha ricoperto il blocco di creta
sono già ghiacciati, accenderà un po’ di fuoco: «La tela scricchio-
lava sotto le sue dita, si rompeva in pezzi di ghiaccio. Dovette
aspettare che il calore la disgelasse un poco: e, con mille precau-
zioni, la scoprì, prima la testa, poi il petto, poi i fianchi, felice di ri-
trovarla intatta, sorridendo come un amante di fronte alle nudità
della sua adorata donna»100.
Anche Claude è colpito dai progressi dell’amico: «La sua Ba-
gnante possedeva già una notevole bellezza, con quelle spalle rab-
brividenti, le braccia strette che mettevano in evidenza i seni, seni
amorosi, scolpiti col desiderio della donna che la miseria esaspera-
va; e, forzatamente casto, aveva plasmato una carne così sensuale,
da turbare»101. I due artisti siedono un poco a chiacchierare, aspet-
tando che i panni si scongelino completamente. La stufa ora è in-

100 E. Zola, L’opera, cit., p. 222.


101 Ibidem.
Amare una statua 125

fuocata, il calore aumenta. «In quel momento la Bagnante, colloca-


ta lì vicino, sembrava rivivere, sotto il soffio tiepido che le saliva
lungo la schiena»102. Ad un tratto, Claude crede di essere vittima
di una allucinazione: «La Bagnante si muoveva, il ventre aveva un
fremito d’onda leggera, il fianco sinistro si era inarcato come se la
gamba stesse per camminare […]. Poco a poco la statua si animava
tutta. Le reni si muovevano, il petto si gonfiava in un grande sospi-
ro fra le braccia socchiuse. E improvvisamente la testa si inclinò, le
cosce si piegarono, cadeva come una persona viva, con l’angoscia
smarrita, lo scatto doloroso di una donna che si butta»103.
È successo che lo scultore ha impiegato, in luogo dell’armatura
di metallo, un traliccio di manici di scopa, troppo fragili per regge-
re al movimento dell’argilla che si disgelava. Mahoudeu si slancia
per salvare la sua statua, «con lo stesso gesto d’amore con cui si
era inebriato accarezzandola da lontano»104. La statua gli rovina
addosso, lo travolge: «E lei parve cadergli al collo, lui accoglierla
nella sua stretta: serrò le braccia su quella grande nudità verginale
che s’animava come al primo risvegliarsi della sua carne»105. Per
fortuna, lo scultore non rimane ferito, ne ha solo «la pelle contusa
come dopo essere uscito dall’abbraccio di un’amante di pietra»106.
Può raccogliere i frantumi con l’aiuto di Claude, e li ricompone:
«Presto la figura fu di nuovo intera, simile a una di quelle suicide
per amore che si schiantano dall’alto di un monumento e che si ri-
compongono, figure comiche e pietose, per essere trasportate alla
Morgue»107.
La rovina della statua incombe su tutti i testi che stiamo leggen-
do. Irene vorrebbe distruggere il capolavoro di Rubek, la Giocon-
da si avventa contro quello di Settala, che è salvato soltanto dal
sacrificio cruento di Silvia, e, come vedremo, anche alla fine di
Diana e la Tuda c’è qualcuno che si avventa contro una statua per
distruggerla, e la salvezza della statua sarà in questo caso acquista-
ta a prezzo di un omicidio.
Ne L’Opera, tuttavia, questo è solo uno dei tanti simboli (per
102 Ivi, p. 223.
103 Ibidem.
104 Ibidem.
105 Ivi, p. 224.
106 Ibidem.
107 Ivi, pp. 224-225.
126 Lo sguardo reciproco

quanto forse il più trasparente e suggestivo) che affollano le pagine


del romanzo. Il racconto di Zola avrà certo, come è parso alla criti-
ca, le sue parti più riuscite nelle descrizioni degli ambienti artistico-
letterari della Parigi del tempo, ma non vi è dubbio che esso sia per-
corso, dalla prima all’ultima pagina, dalla fascinazione ancora molto
romantica per il misterioso legame che unisce la figura rappresenta-
ta sulla tela, o scolpita nella pietra, con il modello che la ispira. Se il
crollo della Bagnante di Mahoudeau sembra evocare una ripresa
della leggenda dell’innamoramento per la statua di Venere, con il fi-
nale capovolto (solitamente è la statua che trionfa e l’innamorato
che soccombe), l’inizio del romanzo può ben essere l’ennesima va-
riante del mito di Butade e della invenzione della pittura.
L’Opera si apre con l’incontro casuale di Claude e di Christine.
Per ripararsi dal diluvio torrenziale, quest’ultima, sola a Parigi in
piena notte per un seguito di contrattempi, accetta, pur timorosa,
il rifugio che le offre Claude. Esausta, si addormenta. Al mattino,
il pittore ruberà alla ragazza ancora addormentata l’immagine che
gli serve per il quadro che sta dipingendo: «Era quella, esattamen-
te quella, la figura che aveva inutilmente cercato per il suo qua-
dro, e già quasi in posa»108. Il tempo di prendere un cartone e un
pastello, e Claude è al lavoro: «Tutto il suo turbamento e il desi-
derio contrastato sfumavano nello stupore dell’artista […] già
aveva dimenticato la ragazza»109. Claude dapprima darà alla figu-
ra centrale del quadro che sta dipingendo (en plein air) i tratti del
volto di Christine, poi cancellerà tutto, ma solo per ritrovarsi inca-
pace di finire quell’immagine femminile: «Era soprattutto alla fi-
gura centrale, la donna sdraiata, che il pittore lavorava: non aveva
più toccato la testa, si accaniva sul corpo, cambiando modella
ogni settimana»110.
Non meno turbata di lui è Christine, che sulle prime non è
affatto contenta di vedere la sua immagine utilizzata nel quadro,
ma poi, quando la vede cancellata, comincia a provare un disagio
che è una gelosia: «lei che si era pudicamente ribellata il primo
giorno, ora provava un dispiacere sempre più forte nel vedere che
nulla dei suoi tratti rimaneva. […] Forse non l’amava, se la lascia-

108 Ivi, p. 9.
109 Ibidem.
110 Ivi, p. 86.
Amare una statua 127

va uscire così dalla sua opera?»111. Christine acconsente a posare,


ma solo per il viso; Claude, però, non può completare il dipinto
con il corpo di un’altra. Quando manca solo un giorno alla apertu-
ra del Salon al quale Claude dovrebbe rinunziare, Christine decide
che poserà nuda per lui: in poche ore la tela è pronta per il vernis-
sage dell’indomani. Ma è un’opera troppo ardita perché il pubbli-
co la possa capire, e Claude non raccoglie che l’irrisione dei
conformisti. L’insuccesso però non lo avvilisce, anche perché nel
frattempo Christine gli ha confessato il suo amore per lui. I due vi-
vranno insieme, fuggiranno dalla città, trascorreranno un periodo
idilliaco in un piccolo paese nei dintorni di Parigi. Dopo qualche
anno, tuttavia, le cose cominciano a guastarsi. Claude lavora di
malavoglia, il suo genio promettente non trova modo di sbocciare.
Convinta che solo la vita della città e il ritrovato contatto con i
compagni di bohème possa ridargli la forza di creare, Christine
convince Claude a rientrare a Parigi. Anche qui, però le cose non
fanno che peggiorare. Il gruppo di amici di un tempo si disperde,
ognuno insegue il proprio successo e la propria strada, mentre le
gelosie e le rivalità li separano; Claude non ritrova la sua vena, e si
affatica in progetti senza esito; consumata una piccola rendita, i
due amanti vedono affacciarsi l’incubo della miseria, e Claude è
costretto ad accettare piccoli lavori su commissione per sbarcare il
lunario; infine il piccolo Jacques, frutto della loro unione, muore
non ancora decenne. Il piccolo quadro nel quale Claude ritrae il
figlioletto morto (ancora una pittura che non può affermarsi se
non togliendo la vita a ciò che rappresenta) riuscirà ad entrare nel
Salon solo grazie ai buoni uffici pietosi di un vecchio amico dive-
nuto nel frattempo pittore influente, ma passerà del tutto inosser-
vato. Tutto precipita, con Claude che alterna abulia ed esaltazione,
ormai interamente concentrato su di un’unica opera, una grande
tela con un paesaggio parigino e un nudo di donna in primo pia-
no. Per quel nudo, Christine è tornata a fargli da modella, tutti i
giorni, e non più saltuariamente come accadeva prima. Ma se in
precedenza l’aveva fatto di buon grado, «lusingata, felice di farlo
contento, ignara della tremenda rivale a cui stava cedendo»112, ora
non tarderà ad accorgersi che l’immagine dipinta si è totalmente

111 Ivi, p. 115.


112 Ivi, p. 156.
128 Lo sguardo reciproco

sostituita a lei nel cuore di Claude. «Il quadro immenso si drizzava


tra loro, li separava come infrangibile barriera; ed era al di là che
lui viveva, con un’altra. Lei ci diventava pazza, gelosa di questo
sdoppiamento della sua persona […] e tuttavia non si sbagliava,
capiva bene che preferiva la sua copia a lei stessa, che quella copia
era la donna adorata, l’unica preoccupazione, l’amore di ogni mi-
nuto. La uccideva con la posa per fare l’altra più bella113. Come
fra Rubek ed Irene, la passione fisica è scacciata dalla fredda con-
templazione dell’artista, e Claude in Christine non vede più la
donna amata, ma solo la modella per il suo quadro. Christine è in
posa. «Immobile, sotto la brutalità della posa, sentiva il disagio
della propria nudità. In ogni parte dove era stata toccata dalle dita
di Claude, le permaneva una impressione di gelo, come se il fred-
do che la faceva tremare entrasse proprio da quei punti. L’esperi-
mento era stato fatto, a che scopo protrarre la speranza? Quel cor-
po, ovunque ricoperto dai suoi baci innamorati, or non lo guarda-
va più, non lo adorava più se non come artista. Una sfumatura del
seno lo entusiasmava, una linea del ventre lo metteva devotamente
in ginocchio laddove, un tempo, accecato dal desiderio, la schiac-
ciava tutta contro il suo petto, senza vederla, in abbracci in cui l’u-
no e l’altra avrebbero voluto fondersi. Ah, era davvero la fine, non
esisteva più, amava in lei soltanto la propria arte, la natura, la vita.
E, gli occhi remoti, conservava la rigidità di un marmo, tratteneva
le lacrime che le gonfiavano il cuore […]. La sua passione dalla
carne si era trasferita nell’opera»114.
Il passaggio dalla vita all’immagine, dal corpo alla statua, dalla
carne alla pittura è anche, come Christine percepisce oscuramente,
un transito verso la morte. Il legame tra l’arte e la morte è un tema
ricorrente nell’Opera. Quando Claude entra nel miserabile atelier
di Mahoudeau, dove assisterà alla rovina della Bagnante, è come
se si addentrasse in un obitorio o in un lazzeretto: «Negli angoli,
altre statue di gesso, meno ingombranti, fatte con passione, espo-
ste, poi tornate lì, in mancanza d’acquirenti, battevano i denti, il
naso contro il muro, allineate in lugubre fila d’ammalati, la mag-
gior parte già rotte, ad ostentare mutilazioni, tutte incrostate di
polvere, inzaccherate di argilla; e tali miserabili nudità trascinava-

113 Ivi, p. 244.


114 Ivi, p. 242.
Amare una statua 129

no così da anni la loro agonia sotto gli occhi dell’artista che aveva
trasmesso loro la sua energia; inizialmente conservate con passione
gelosa, malgrado il poco spazio, cadute in seguito nell’orrore grot-
tesco delle cose morte, fino al giorno in cui, preso un martello, le
aveva finite da sé, riconducendole in gesso, per buttarle fuori dalla
sua vita»115. E già proprio all’inizio del romanzo, quando in un im-
peto di furore Claude raschia via dalla tela la testa della donna del
plein air, quel volto che come sappiamo aveva già i tratti del viso
di Christine, è una uccisione, un omicidio quello cui assistiamo.
«Fu un autentico assassinio, un annientamento: tutto scomparve
in una poltiglia melmosa. Allora, accanto a quel signore nella sua
giacca aitante fra gli arbusti luminosi […] non rimase altro, di
quella donna nuda ormai priva della testa, che un troncone muti-
lo, vaga macchia cadaverica, carne di sogno dissolta e morta»116.
Ma è soprattutto nell’episodio agghiacciante del ritratto del figlio
morto che l’equivalenza tra l’immobilità del modello e la rigidità
del cadavere si fa completa. «Da principio resistette, il pensiero
confuso si precisava, finiva per diventare ossessivo. Alla fine capi-
tolò, andò a prendere una piccola tela, cominciò uno schizzo del
figlio morto. Poi, il lavoro gli seccò le palpebre, rese sicura la ma-
no; e presto non ebbe più davanti il figlio stecchito, ma un model-
lo, un soggetto che l’appassionò per l’insolito interesse. […]
Quando Christine si alzò, lo trovò immerso nel lavoro. Allora, ri-
presa da un accesso di lacrime, disse solamente: ah!, puoi dipin-
gerlo, non si muoverà più»117.
Nella scena conclusiva del romanzo, Christine tenta uno sforzo
supremo per riaffermare i diritti della vita sulla pittura. È notte.
Christine sente che Claude non è più accanto a lei («Il loro letto,
da molti mesi, era gelido; ci si allungavano fianco a fianco come
due estranei, dopo una lenta rottura dei vincoli che univano i loro
corpi: volontaria astinenza, castità teorizzata a cui era giunto per
offrire tutta la sua forza alla pittura»118). Si alza, lo trova davanti al
grande quadro incompiuto. Da mesi, ormai, Claude non osava ri-
mettere le mani sulla grande figura di donna che campeggia al

115 Ivi, p. 221.


116 Ivi, p. 48.
117 Ivi, p. 268.
118 Ivi, p. 345.
130 Lo sguardo reciproco

centro della composizione, «ed era questo a tranquillizzare Chri-


stine, a renderla tollerante e misericordiosa nella sua acida gelosia:
finché non tornava da quell’amante agognata e temuta, si sentiva
meno tradita»119). Ma è proprio quella donna che ora Claude sta
dipingendo. «Allora Christine aprì la porta e si fece avanti. Una in-
vincibile ribellione, il furore di una sposa oltraggiata in casa sua,
tradita durante il sonno, nella stanza vicina, la incalzava. Sì, lui sta-
va proprio con l’altra, dipingeva il ventre e le cosce come un visio-
nario delirante che il tormento del vero gettava nell’esaltazione
dell’irreale […]. Una così strana nudità da ostensorio, dove sem-
brava che le pietre preziose risplendessero per qualche religiosa
adorazione, finì d’infuriarla»120. La gelosia di Christine esplode:
«Ah! Questa pittura, sì! la tua pittura, è lei l’assassina, che ha av-
velenato la mia vita»121. La donna dipinta ha preso il suo posto.
«Perché dillo, se hai il coraggio, dillo che non si è impossessata di
te pezzo a pezzo, il cervello, il cuore, la carne, tutto!»122. Ma Chri-
stine è viva, e questa è la sua indubitabile superiorità sulla rivale.
«Lo vedi bene che sei sconfitto, perché ostinarti ancora? È una co-
sa insensata, è questo che mi fa ribellare… Se non puoi essere un
grande pittore, ci resta la vita, ah!, la vita […]. Ascolta, c’è la vita
[…]! Mi hai preso come modella, hai voluto le copie del mio cor-
po. A che scopo, dì? forse queste copie valgono me? Sono spaven-
tose, sono rigide e fredde, come cadaveri! E io ti amo, e io voglio
averti […]. Quando ti offro di posare, quando sono lì, a sfiorarti,
con il mio alito, è perché ti amo, lo capisci?, è perché sono viva,
io!»123. La vittoria di Christine, il ravvedimento di Claude («Che
ho fatto? … Allora è proprio impossibile creare? le nostre mani
non hanno il potere di creare degli esseri?»124) durano solo poche
ore. Il mattino successivo, Claude non è già più accanto a lei. Co-
me Frenhofer, il pittore del racconto di Balzac Il capolavoro scono-
sciuto, il cui riverbero tante volte si proietta sul romanzo di Zola,
si è impiccato davanti al quadro che era diventato tutta la sua vita.

119 Ivi, p. 347.


120 Ibidem.
121 Ivi, p. 348.
122 Ibidem.
123 Ivi, p. 352.
124 Ibidem.
Amare una statua 131

Diana e la Tuda

La Diana che Sirio Dossi scolpisce in Diana e la Tuda di Piran-


dello è parente stretta della Belle Noiseuse di Frenhofer e della tela
gigantesca di Claude Lantier. Anch’essa aspira ad essere un’opera
d’arte assoluta, unica. Come Frenhofer, anche Sirio Dossi non è
un artista che debba vivere del proprio lavoro. Ricchissimo, ha de-
ciso di consacrarsi interamente a quella scultura, e più volte ha ri-
petuto che, quando l’avrà compiuta, si ucciderà. Ma la Diana non
sarà mai finita, e trascinerà alla morte il suo autore come era acca-
duto al Giorno della Resurrezione di Rubek. Sirio Dossi però non
commetterà il premeditato suicidio: sarà il vecchio scultore Nono
Giuncano ad ucciderlo, per impedire che egli, a sua volta, non uc-
cida la Tuda che si lancia contro la statua per distruggerla, novella
Gioconda. Rappresentata in prima assoluta a Zurigo nel Novem-
bre del 1926, messa in scena a Palermo all’inizio dell’anno succes-
sivo, Diana e la Tuda è tra le opere meno frequentate dell’intero
repertorio pirandelliano. È stata riproposta sulle scene, a quanto ci
consta, solamente due volte, nel 1971 e nel 1984, sempre con la re-
gia di Arnoldo Foà. La critica ha mostrato di non amarla in modo
particolare. Forse le nuoce proprio la facilità con la quale si presta
ad essere inquadrata nel fin troppo noto schema tilgheriano del
dualismo di vita e forma, della impossibilità della vita di esaurirsi
in quella forma in cui pure necessariamente deve calarsi. Non ci
vorrebbe molto, in effetti, per riportare Diana e la Tuda nel conte-
sto della poetica pirandelliana, e notare per esempio le analogie
con le dichiarazioni di Hinkfuss, il regista di Questa sera si recita a
soggetto («Ogni scultore […] dopo aver creato una statua, se vera-
mente crede d’averle dato vita per sempre, deve desiderare che es-
sa, come una cosa viva, debba potersi sciogliere dal suo atteggia-
mento e muoversi, e parlare. Finirebbe d’esser statua …»125); ma
quello che interessa qui è invece seguire il filo del nostro tema, co-
gliere, piuttosto che le risonanze interne al corpus pirandelliano,
gli echi dei testi appena letti.
L’eco del grido di Christine, ad esempio. L’urlo disperato che
risuona nella chiusa dell’Opera, «perché sono viva, io!», è il grido

125 Le dichiarazioni di Hinkfuss si leggono in Questa sera si recita a soggetto; richia-

ma l’attenzione su di esse C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia, 1970.


132 Lo sguardo reciproco

di Tuda nelle primissime battute del testo di Pirandello: «Sono di


carne, oh!»126. Non è ancora tragedia, a questo punto. È solo la
protesta della modella stanca per la posa troppo lunga cui la co-
stringe Sirio Dossi, e che trova appoggio nel vecchio scultore
Giuncano. Quest’ultimo ha smesso di fare statue per la rabbia e
l’impotenza di vederle immobili, eterne ma senza tempo, mentre la
vita è un fluire, e dunque anche un invecchiare. Se potesse farle vi-
ve, le statue, tornerebbe a scolpire. «Poter dar loro, con la forma,
il movimento, e avviarle, dopo averle scolpite, per un viale infinito,
sotto il sole, dov’esse potessero andare, andare sempre, sognando
di vivere lontano, fuori dalla vista di tutti, in un luogo di delizia
che sulla terra non si trova, la loro vita divina»127. Ma lo sviluppo
tragico incombe già in questo avvio, se si affaccia nella battuta
premonitrice di Giuncano a Sirio: «Uccidila, uccidila, sarà fermis-
sima!»128. Il dramma non è ancora iniziato, e già l’immobile fred-
dezza della statua sembra far segno verso l’immobilità della morte.
«Ah, papà Giuncano – scherza Tuda ancora in posa – vorrei darle
un bacio! ma glielo do qua, senta, sul mio braccio. Ah, Dio, fred-
do come se fosse morto!»129. Poco più avanti, ancora uno scambio
di battute tra la modella e il vecchio scultore. «Tuda: Dorme, mae-
stro? Giuncano: Fumo. Ti vedo nell’ombra. Tuda: Son bella?
Giuncano: Sì, cara. Morta. Tuda: Come, morta? Sirio (con un ur-
lo): Ferma! Tuda: Eh, dice morta … Giuncano: Appunto perché ti
vuole ferma così»130. Per Giuncano Tuda, con tutta la sua vitalità e
la sua bellezza rappresenta una sfida che l’arte ha già perso in par-
tenza. «Fanne ora una statua! Tutta un fremito continuo di vita:
ogni attimo un’altra!»131. Silvio Settala, nella pièce di D’Annunzio,
era pronto a raccogliere la sfida analoga che gli veniva dal corpo
sempre diverso di Gioconda («Immagina questo mistero su tutto il
suo corpo! Imagina per tutte le sue membra, dalla fronte al tallo-
ne, questo apparire di vite fulminee […]! Mille statue, e non
una!»132); Sirio Dossi pensa che solo l’arte possa dare consistenza

126 L. Pirandello, Diana e la Tuda, cit., p. 4.


127 Ivi, p. 17.
128 Ivi, p. 4.
129 Ivi, p. 6.
130 Ivi, p. 16.
131 Ivi, p. 18.
132 G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p. 82.
Amare una statua 133

alla vita, facendola durare nella forma: «E se non la fermi in un ge-


sto in cui consista, che è? Nulla. Giuncano: Vita! Vita! Sirio: Che
passa! Giuncano: Appunto! Sirio: Oggi non è più quella di ieri,
domani non più questa d’oggi! Ogni attimo un’altra! tante! io la
faccio una: quella! (indica la statua) per sempre! Giuncano: Una –
e per sempre – che non si muova più? Sirio: È l’ufficio dell’arte.
Giuncano: E della morte: che farà anche di te, di me una statua: su
un letto o per terra, quando vi giacerai, stecchito»133. A questo ini-
zio corrisponderà, simmetricamente, la chiusa dell’ultimo atto.
«Giuncano: Io ho voluto rispettar in te [ossia in Tuda] la vita! Al
contrario di quanto sta facendo ora lui! Sirio: Ah, io non la rispet-
to? Hai il coraggio di dire che io non la rispetto, perché voglio che
serva a qualche cosa che stia sopra e oltre quello che possiamo sof-
frire tu-lei-io stesso? Giuncano (con derisione): Tu? Sirio: Se ci
metto dentro tutta la mia vita, e quella degli altri. Giuncano: Ucci-
dendola? Sirio: No, anzi, perché non muoia più! Giuncano: E in-
tanto muoia sempre?»134.
Ma se l’arte è la nemica della vita, allora, ancora una volta, la
creazione dell’opera dovrà presupporre l’uccisione del desiderio,
la cancellazione della passione. Come Rubek, come Demetrio, co-
me Lantier, anche Sirio Dossi non può amare la sua modella, che
pure è l’ispiratrice della sua opera, la sola che possa aiutarlo a
compierla. È proprio intorno a questo tema che si sviluppa l’azio-
ne del dramma. Solo con Tuda Sirio riesce a lavorare alla sua Dia-
na. Ma la giovane modella è molto richiesta, e posa anche per al-
tri, perfino per un pittore che Sirio giudica un mediocre, un tale
Caravani. Quando viene a sapere che anche quest’ultimo vuole la-
vorare con Tuda ad una Diana, Sirio ha uno scoppio d’ira, una
scena di gelosia: che è, però, gelosia d’artista verso la modella e
non gelosia di innamorato vero l’amante. Ma Tuda, nella sua inge-
nuità fin troppo perspicace, centra subito il punto. «Ne sei gelo-
so? Ma quando un artista vuole una modella tutta per sé, sai che
fa? la sposa, caro!»135. E Sirio accetterà di sposare Tuda, ma con
un patto assai chiaro: egli ha bisogno di una modella, non di una
moglie. Tuda, dunque, si impegnerà a posare per lui soltanto, al-

133 Ivi, p. 19.


134 Ivi, p. 96.
135 Ivi, p. 14.
134 Lo sguardo reciproco

loggerà nella casa di lui, avrà tutti i diritti di una moglie. Ma en-
trambi conserveranno la loro libertà. Tuda potrà uscire con chi
vuole, Sirio continuerà a frequentare la sua amante Sara Mendel.
Un semplice affare, dunque, agli occhi di Sirio, non altrettanto a
quelli di Tuda. «Sirio: Tu avrai fatto comunque un ottimo affare,
stai sicura. Tuda: Affare! Non è affare soltanto! Sirio: Ah no, sol-
tanto. Il tuo corpo, per quel che mi deve servire. […] Tuda: Io
dovrò allora servire soltanto per la tua statua? Sirio: A me, soltan-
to per la mia statua. Tuda (sta a guardarlo un pezzo; poi, ambi-
gua, con aria di sfida): bada, oh, che io sono viva!»136. Tuda non
starà ai patti. Si innamorerà (o forse, meglio, è sempre stata inna-
morata) di Sirio, e, offesa e umiliata dal comportamento di lui,
deciderà di vendicarsi nel solo modo che ha a disposizione, deci-
dendo di tornare a posare per l’odiato Caravani. «Tuda: Perché
questo sarebbe l’unico tradimento che io potrei fargli. Sara: Sicu-
ro: da modella. Non potendo tradirlo come moglie»137. Nella sce-
na che oppone Sara Mendel a Tuda nel secondo atto, sembra che
quel che ha indignato la modella e la spinge a rifiutare tutti i van-
taggi materiali della sua nuova situazione sia la gelosia per l’aman-
te di Sirio, che continua a frequentare la casa di lui ed anzi si è
perfino fatta dare la chiave dello studio in cui Tuda posa. Nel cor-
so del terzo atto, tuttavia, comprendiamo che le cose sono più
complesse e che la vera rivale di Tuda non è una donna in carne
ed ossa, ma una statua. La sua statua, la Diana. Nel racconto che
Sara Mendel fa a Giuncano abbiamo ancora l’interpretazione più
semplice, in chiave di gelosia tradizionale. Sara racconta di come
ha spinto Tuda al ‘tradimento’, di come si è procurata la chiave
dello studio di Caravani in modo da poter far sorprendere Tuda
mentre posava nuda per il rivale, racconta il duello che ne è se-
guito fra Dossi e Caravani. Da allora, Tuda è sparita, e Sirio non è
più riuscito a lavorare alla sua statua («Giuncano: Ormai non può
più finirla, quella statua, se non con lei […] se ne accorge adesso
che sente mancarsi tra il pollice e la creta il dono con cui lavora-
va»138). La nuova modella che ha convocato, Jonella, non gli ser-
virà, e lui per primo ne è consapevole, se è andato di persona a ri-

136 Ivi, p. 35.


137 Ivi, p. 60.
138 Ivi, p. 74.
Amare una statua 135

cercare Tuda, e ha tentato in tutti i modi di ricondurla da lui.


Nella scena culminante e conclusiva tutti i protagonisti si ritrova-
no nello studio di Sirio. È a questo punto che Tuda rivela il suo
vero dramma. Tuda si è accorta che Sirio ha usato le sue sofferen-
ze di innamorata non corrisposta, il suo tormento per la passione
ignorata, perché gli serviva trasferirli nella sua opera. E allora
mette in guardia la nuova modella dal destino che l’attende se ac-
cetta di posare. Le mostra la statua, e grida «Guardala! Guardala
bene! Guardale gli occhi! gli occhi! – e or guarda qui i miei! – ve-
di? vedi? sono i miei, là – questi – come me li stai vedendo ora –
da pazza – e così, perché me li hanno fatti diventare così – da
pazza – tutti e due […]! Non li aveva lei (indica la statua) prima,
questi occhi – erano altri, i suoi occhi! – Lui me li ha presi e glieli
ha dati: guardala: – e quella mano là che tocca il fianco – la vedi?
– era aperta, prima, quella mano! vedi, ora? chiusa, serrata a pu-
gno. Me l’hanno fatta chiudere, serrare loro così, per resistere al
supplizio, e la statua, vedi, anche lei – l’aveva aperta: ha dovuto
chiuderla! gliel’ho veduta chiudere – non ha potuto farne a me-
no! Non è più quella che lui voleva fare! Sono io ora là,
capisci?»139. Quello che Sara Mendel non ha compreso è che Si-
rio si è servito di lei tanto quanto si è servito di Tuda, sacrifican-
dole entrambe alla statua: «Tuda: S’è approfittato di voi, come di
me, per la sua statua – di quanto voi m’avete fatto soffrire – […]
perché giovava alla sua statua!». Sirio, insomma, si è servito della
gelosia suscitata in Tuda dall’amante, ha fatto anche di lei uno
strumento, perché voleva impiegare la sofferenza di Tuda per la
sua scultura («Sirio: io non stavo qui come un gonzo a fare la ridi-
cola figura dell’uomo conteso da due donne»140). Ecco come Tu-
da è arrivata a capire quel che stava accadendo: «Tuda: Lo com-
presi subito, sa perché? perché quand’ero lassù [in posa sul piedi-
stallo] avrebbe dovuto gridarmi “Non fare questi occhi!” “Apri
quella mano!”. Non me lo gridò mai. Giuncano: lasciò la statua
serrare la mano, e avere quegli occhi! Tuda: Oh, ecco! e di que-
sto, vede, sono andata a vendicarmi con quello stupido là (a Sirio)
perché tu che in me t’eri comprata la modella, della modella ti
dovevi servire per la tua statua com’era; e non di me che soffrivo,

139 Ivi, p. 89.


140 Ivi, p. 91.
136 Lo sguardo reciproco

per farla diventare un’altra!»141.


È a questo punto, mentre Sara Mendel, infuriata, vorrebbe
troncare tutto, che Tuda intravvede la possibilità di un’estrema ri-
vincita. Ogni cosa deve rimanere uguale, perché la statua possa
essere compiuta: «Tuda: Vorreste, dopo quello che m’avete fatto
soffrire, che egli non finisca ora la sua statua? Eh no, la deve fini-
re, la deve finire! E dunque voi dovete seguitare a venire qua»142.
Se Tuda è stata sacrificata alla statua, pure conserva su di essa un
potere, giacché è solo grazie a lei che la statua potrà essere finita.
Tuda potrebbe ancora essere Gioconda. Sarà Giuncano a toglier-
le questa estrema illusione. Quella sofferenza che Sirio le ha cau-
sato a bella posta per riprodurla nell’opera, ha anche macerato il
corpo e i lineamenti di Tuda, sì che ella non solo non potrà più
essere amata, ma nemmeno potrà più essere la modella della Dia-
na. Solo a questo punto Tuda si accorge che per lei è veramente
tutto perduto. «Ah già, è vero … è vero … Oh Dio, come faccio?
È vero, … così non posso più … è vero! Non posso più! Ma lei lo
capisce? Là, con la mia carne, col mio sangue, con gli occhi che
vedevano ciò che faceva di me, che mi prendeva, mi prendeva tut-
ta per la sua statua; essere io, là – viva – e non essere nulla […]!
Lo so, lo so, non dovevo essere nulla per lui; ma ero di carne, io!
di carne che mi si è macerata così»143. Nell’ultimo scontro tra Si-
rio e Giuncano tornano a contrapporsi le convinzioni estetiche
che già avevamo visto in conflitto nel primo atto. «Giuncano: un
fantoccio di cartapesta tu dovevi sposare per la tua statua! Ti sa-
rebbe rimasto lì fermo, come doveva essere – per la tua statua, là
ferma anch’essa, come doveva essere: tempo senza età: la cosa più
spaventosa […]! L’età che è il tempo quando diventa umano – il
tempo quando duole – noi, di carne: questa poverina che non è
più come dovrebbe essere per la tua statua, ma come può essere
dopo aver sofferto quello che voi – tu e quell’altra – le avete fatto
soffrire […]. Sirio: Hai tu coscienza che la mia statua sia bella?
bella, veramente bella? E che vuoi che m’importi d’altro, dunque,
se poi pagherò io più di tutti la mia opera compiuta? Giuncano:
Se per te la vita non ha più prezzo. Sirio: Ma questo prezzo: la

141 Ivi, p. 92.


142 Ivi, p. 94.
143 Ibidem.
Amare una statua 137

mia statua!»144. Mentre udiamo le ultime grida di Tuda disperata


(«Prendimi, prendimi, prendi la vita che mi resta, e chiudimi là
nella tua statua! […] Sì, che io vi muoia dentro! Se non mi vuoi
far vivere! […] cercava una pasta ardente da colare dentro alle
statue? Eccola! Eccola […]! Ci voglio essere io, là dentro»145),
mentre assistiamo al precipitare dell’azione (Tuda si avventa con-
tro la statua, o almeno Sirio crede che ella lo stia per fare, e si
slancia contro di lei minacciando di ucciderla; Giuncano, per im-
pedirglielo, lo aggredisce e lo uccide) ci accorgiamo che il rappor-
to che lega Diana e la Tuda agli altri testi che abbiamo esaminato
è diverso da quello che potevamo a tutta prima supporre, e si svi-
luppa su più piani. Molti indizi lasciavano ritenere che il dramma
pirandelliano fosse quello in cui il legame tra artista, modello e
statua era maggiormente risolto in una dialettica astratta, intellet-
tuale (vita e forma, informe vita che anela alla sua forma, etc.). si
poteva legittimamente supporre che il tema decisivo fosse quello
ibseniano della inibizione del desiderio (il che, almeno al livello
elementare del puro dipanarsi dell’intreccio resta immediatamen-
te vero). Ci accorgiamo ora, però, anche senza bisogno della sug-
gestione delle didascalie («nello studio si è fatto buio. Solo la sta-
tua, con la luce che cola dal lucernario, appare distinta. I quattro
che vi stanno sono come ombre nell’ombra»146) che il dramma di
Pirandello non potrebbe funzionare se non vi agisse in profondo
il tema romantico dell’immagine che sottrae vita alla vita, che
svuota il personaggio che dovrebbe rappresentare. Nella Diana, al
di là di ogni diversità, c’è qualcosa che ricorda il Ritratto ovale di
Poe. Forse è fatta dello stesso marmo nel quale è scolpita l’imma-
gine della Zambinella nel misterioso Sarrasine di Balzac. Forse,
come il titolo autorizza del resto a pensare, la vera protagonista
della pièce è lei, l’immobile statua di pietra.

144 Ivi, pp. 95-96.


145 Ivi, p. 97.
146 Ivi, p. 95.
AMARE UNA STATUA
LA MODELLA E L’AMANTE NELLA LETTERATURA
EUROPEA

Paolo D’Angelo

Accadde, si voleva dire, che nello stesso tempo o in un


altro punto del sistema […] lei fosse rimasta immobile
come una statua, promettendo e permettendo con ciò
tutto e niente, con induzione in, e con divieto di, ten-
tazione. Non fu detto che cosa ne seguisse in partico-
lare, ma in ogni caso improbabilmente qualcosa di ap-
prezzabile dall’esterno. Anzi si fece intendere che era
quasi impossibile stabilire, a quelle condizioni di sen-
sualità eidetica, se si producesse o no un reale godi-
mento, sempre difficilmente distinguibile dai godi-
menti immaginari.
E. Garroni

Pigmalione rovesciato

La letteratura è piena di storie di amori per le statue. Di statue


viventi, di statue animate, di statue innamorate, di statue amate.
Di convitati di pietra, di Veneri risvegliate, di scultori vittime del
fascino delle opere da loro stessi prodotte. Di ritratti dallo sguardo
stregato, parlanti, che invecchiano come persone reali o che sot-
traggono la vita ai loro modelli. Di personaggi che si innamorano
di uno sguardo, di un sorriso, di un volto che hanno visto effigiato
in qualche morta immagine e che non hanno pace finché non li ri-
trovano in un corpo vivente, o viceversa di artisti sventurati che li
imprigionano nel marmo o nella tela e che solo così li sanno ama-
re. Ci sono nuclei tematici, in proposito, che sembrano possedere
una sorprendente capacità di scavalcare ogni confine temporale,
linguistico e geografico, e di durare per secoli e millenni attraverso
infinite variazioni.
Uno, naturalmente, è il mito di Pigmalione, lo scultore che si
innamora della statua bellissima da lui scolpita ed ottiene in dono
94 Lo sguardo reciproco

dagli dèi che essa si animi e diventi una fanciulla in carne ed ossa;
un mito che dall’archetipo ovidiano, nel decimo libro delle Meta-
morfosi, trapassa nell’ultima parte del Romanzo della rosa e poi va
incontro a riprese innumerevoli, in particolare nella letteratura del
diciottesimo secolo1.
Un altro è la storia della statua antica di Venere della quale un
giovane si innamora dopo averle posto al dito, per gioco, il pro-
prio anello nuziale: una storia che si ritrova, probabilmente per la
prima volta, in una cronaca inglese del dodicesimo secolo, Le gesta
del re degli Angli di William of Malmesbury, e che poi transita in
tutte le letterature occidentali, dal Diavolo innamorato di Cazotte
al racconto di Achim von Arnim Raffaello e le sue vicine, dalla Ve-
nere d’Ille di Merimée al racconto di James L’ultimo dei Valerii, fi-
no alle riprese novecentesche di D’Annunzio, nella Pisanella, o di
Anthony Burgess, in Santa Venere2.
E c’è, quasi ad ammonire che la creazione dell’immagine dipin-
ta o scolpita cela sempre un innamoramento per la persona ritrat-
ta, il mito raccontato da Plinio sull’origine della pittura e della
scultura: la storia di Butade di Sicione, il vasaio che scorge il profi-
lo che la figlia ha tracciato con un pezzo di carbone sul muro, se-
guendo i contorni dell’ombra del suo amato, prossimo a partire,
e ne trae l’idea di forgiare in creta la medesima immagine. Così

1 Sul mito di Pigmalione si dovrà vedere l’ampio inventario di H. Dörrie, Pygma-


lion. Ein Impuls Ovids und seine Wirkungen bis in die Gegenwart, Opladen, Westdeut-
scher, 1974, da integrare con H. Schlüter, Das Pygmalion-Symbol bei Rousseau, Ha-
mann, Schiller. Drei Studien zur Geistesgeschichte der Goethezeit, Zürich, Juris, 1968 e
J.L. Carr, Pygmalion and the Philosophes. The animated statue in Eighteenth Century
France, in «The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», n. 23 (1960), pp.
339 ss.; lo studio, in italiano, di G. Rosati, Narciso e Pigmalione, Firenze, Sansoni, 1983,
è opera di un latinista, che si concentra quasi eclusivamente sulla trattazione ovidiana
dei due miti; sul tema di Pigmalione e in generale dell’amore per l’immagine nella cul-
tura medioevale ha ottime osservazioni G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nel-
la cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, soprattutto la parte terza. Da ultimo il
fondamentale V. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a
Hitchcock, Milano, Il Saggiatore, 2006.
2 Un’ampia trattazione del tema dell’“anello di Venere” (la storia del giovane che
si innamora di una statua antica alla quale ha per gioco infilato un anello al dito), con
molte indicazioni delle sue riprese in letteratura è la voce «Statuenverlobung», in
E. Frenzel, Stoffe der Weltliteratur, Stuttgart, Kröner, 1962; si può vedere poi P. Baum,
The Young Man Bethroted to a Statue, in «Publications of the Modern Language Asso-
ciation», n. 34 (1919), pp. 523-579.
Amare una statua 95

nascono non solo le due arti, ma anche un topos che andrà incon-
tro ad infinite variazioni, quello dell’effigie come sostituto della
persona amata3.
Per rifare la storia di ognuno di questi temi non basterebbe un
libro voluminoso; di fatto ce ne sono già molti, e alcuni pregevoli,
su tali argomenti4. Non seguiremo dunque questa strada. Vorrem-
mo lasciarci alle spalle anche tutte le riprese degli stessi temi o di
temi simili nelle letterature dell’età romantica, nelle quali abbon-
dano le passioni per le immagini dipinte o scolpite (dall’Hoffmann
degli Elisir del Diavolo allo Heine delle Notti fiorentine) e gli haun-
ted portraits (dal Castello di Otranto di Walpole al Ritratto ovale di
Poe), per puntare su di una particolare declinazione del tema del
fascino dell’immagine artistica per il suo creatore in alcuni testi tra
la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso.
Ci occuperemo più estesamente di tre testi teatrali che presen-
tano alcune notevoli analogie tematiche: Quando noi morti ci de-
stiamo di Ibsen5, la Gioconda di D’Annunzio6 e Diana e la Tuda di
Pirandello7. Nel passare dall’uno all’altro di questi testi, dediche-

3 Per il tema della figlia di Butade e della origine della pittura e della scultura (la
cui fonte è in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 151), soprattutto da un punto di vista
iconografico: R. Rosenblum, The Origin of Painting: a Problem in the Iconography of
Romantic Classicism, in «The Art Bulletin», n. 39 (1957), e gli Addenda di G. Levitine,
sempre in «The Art Bulletin», n. 40 (1958).
4 In generale sui temi relativi alle immagini animate andrà visto Th. Ziolkowski,
Disenchanted Images. A Literary Iconology, Princeton, Princeton UP, 1977 (contiene tre
capitoli tematici: uno dedicato a «Venus and the Ring», uno a «The haunted Portrait»,
uno a «The magic Mirror»); D. Freedberg, The Power of Images, Chicago, University of
Chicago Press, 1989 (trad. it. di G. Perini, Il potere delle immagini, Torino, Einaudi,
1993), tratta molti temi vicini a quelli da noi toccati, in particolare nel cap. XII, «Arou-
sal by Image». Il volume di Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino, Einaudi,
1992, si sofferma su molti temi relativi alla passione per l’immagine dipinta o scolpita, e
tra di essi anche su quelli di Pigmalione e di Butade. Il testo di Bettini, molto ampio e
documentato, è centrato principalmente sulle letterature classiche, ma non manca di in-
teressanti aperture sulle riprese dei temi dell’amore per l’immagine nelle letterature
moderne. In più, si tratta di un testo di piacevole lettura, e ricco di segnalazioni su altra
letteratura in argomento.
5 Tutte le citazioni da Quando noi morti ci destiamo di Ibsen sono tratte dalla tra-
duzione italiana di L. Ulisse, in H. Ibsen, Tutto il teatro, con introduzione di P. Chiari-
ni, Roma, Newton Compton, 1973.
6 Citiamo da G. D’Annunzio, La Gioconda, introduzione, bibliografia e note di
I. Caliaro, Milano, Mondadori, 1990.
7 Citiamo da L. Pirandello, Diana e la Tuda. Sagra del signore della nave, a cura di
C. Simioni, Milano, Mondadori, 1980.
96 Lo sguardo reciproco

remo due intermezzi ad altrettanti romanzi, L’opera di Zola8 e


Afrodite di Pierre Louÿs9, nei quali vedremo delineati situazioni e
problemi sorprendentemente affini10. Ma cosa unisce questi testi e
al contempo li distacca abbastanza nettamente dalle precedenti va-
riazioni sul tema? Essenzialmente due circostanze, entrambe signi-
ficative e tali da configurare una vera e propria autonomia del
nuovo nucleo tematico. La prima è il fatto che in tutti questi testi
non viene più messo in scena un rapporto a due, tra artista ed im-
magine, o innamorato ed immagine, ma un rapporto complicato
dall’ingresso di un terzo personaggio, la modella che viene rappre-
sentata nella statua. In Ibsen come in D’Annunzio e in Pirandello,
come negli altri testi che leggeremo, non abbiamo tanto a che fare
con la passione dell’artista per la statua da lui creata, quanto con i
riflessi di questo legame sul rapporto che lega l’artista a colei che
nella statua è raffigurata, e che ne è stata l’ispiratrice (fig. 1).
Queste opere ci riportano ad un mondo di consuetudini artisti-
che (gli amori tra artisti e modelle, le ore di posa in atelier, una
scultura legata alla figura umana e forse irrimediabilmente impre-
gnata di Accademia, una pittura quale ci viene incontro nei quadri
di Tommaso Grosso) che oggi è tramontato per sempre: «Il tempo
delle modelle negli studi dei pittori – scrive Ceronetti – è remoto
come i giardini di Babilonia»11. Di quel mondo, essi sfruttano

8 Citiamo la traduzione italiana di F. Cordelli, E. Zola, L’opera, Milano, Garzanti,

1978, tenendo presente l’edizione francese a cura di A. Erhard, Paris, Garnier-Flamma-


rion, 1974. Per le fonti letterarie di Zola, oltre che per gli altri problemi connessi al
romanzo, è da vedere soprattutto P. Brady, L’”Oeuvre” d’Emile Zola: roman sur les arts,
manifeste, autobiographie, roman à clef, Ginevra, Droz, 1967.
9 Del romanzo di Pierre Louÿs Aphrodite. Moeurs Antiques esiste una traduzione

italiana di L. Marinoni, Milano, Dall’Oglio, 1961, che abbiamo seguito, modificandola


tuttavia in più punti, sulla base del testo francese pubblicato da Albin Michel, Parigi,
1986.
10 Le analogie tra Quando noi morti ci destiamo, La Gioconda, e Diana e la Tuda

sono state notate molte volte, ma non risulta siano state fatte oggetto di una considera-
zione specifica e soprattutto allargata ai riscontri tematici nella letteratura coeva. Si può
vedere, da ultimo, A. Bisicchia, D’Annunzio e il Teatro, Milano, Mursia, 1991, pp. 40-
57; I. Caliaro, Introduzione, in G. D’Annunzio, La Gioconda, Milano, Mondadori,
1990; P. Perria, Tra applausi e fischi: “La Gioconda” di Gabriele D’Annunzio, Firenze,
Atheneum, 1992.
11 La citazione di Ceronetti sulle modelle negli studi dei pittori è tratta da G. Ce-

ronetti, in La modella elettronica, D.D. Deliri Disarmati, Torino, Einaudi, 1993. Sul te-
ma vedi anche L. Spadanuda, Le modelle di nudo, Roma, Mare Nero, 2001.
Amare una statua 97

Fig. 1. Jean-Léon Gérôme nel suo studio, fotoincisione del 1890 ca.

molto evidentemente l’attrazione che doveva esercitare sul lettore


o lo spettatore borghese, messo dinanzi ad una vita irregolare e
bohémienne, ma soprattutto ad un rapporto che non può non figu-
rarsi come basato su un erotismo venato di elementi sadici, magari
perché ricorda quel che ha letto nella Vita di Cellini («la facevo
chiamare, la ritraevo: ognidì le davo trenta soldi; e faccendola sta-
re ignuda, voleva la prima cosa che io li dessi li sua dinari dinnan-
zi; la seconda voleva molto bene da far colezione; la terza io per
vendetta usavo seco, rimproverando a lei e al marito le diverse cor-
na che io gli facevo; la quarta si era che io la facevo stare con gran
98 Lo sguardo reciproco

disagio parecchi e parecchi ore; e stando in questo disagio a lei ve-


niva molto a fastidio, tanto quanto a me dilettava, perché lei era di
bellissima forma e mi faceva grandissimo onore»12), o perchè ha
sentito raccontare la storia di Filippo Lippi che si innamora di Lu-
crezia Buti, la religiosa che gli fa da modella, in convento, per
un’immagine della Madonna13, o ancora quella di Apelle che si in-
namora di Campaspe, l’amante di Alessandro Magno, mentre la ri-
trae14. Ma la sfruttano per illuderla, per rovesciare le aspettative
del lettore mettendolo davanti alla situazione inversa rispetto a
quella cui egli si aspetta di assistere.
È questo il secondo tratto discriminante. In tutti questi testi il
rapporto dell’artista con l’opera d’arte è avvertito esplicitamente
come estraneo ed opposto al desiderio, in un accoglimento perfino
troppo letterale dell’idea moderna del disinteresse come atteggia-
mento fondamentale della fruizione estetica. Potremmo dire che
in tutte le opere di cui ci occuperemo (il caso di D’Annunzio fa in
parte, ma solo in parte, eccezione), il vero tema è il trasferirsi del-
l’atteggiamento dell’artista nei riguardi dell’opera al rapporto reale
che lega l’artista alla ispiratrice di essa, alla modella. È una sorta di
rovesciamento del mito originario di Pigmalione: se lo scultore di
Ovidio era spinto ad implorare che la sua creatura di marmo si
animasse e diventasse corpo, qui son piuttosto delle donne in car-
ne ed ossa a diventare agli occhi dell’artista delle statue di marmo.
Il legame della immagine con la vita, che tanto peso aveva nelle va-
riazioni precedenti del tema, sembra qui interamente perduto. Ma
si tratta, come vedremo, di una apparenza. In realtà esso continua
ad agire, neanche troppo sotterraneamente, a riprova del fatto che
la storia dei temi letterari non conosce cesure nette, ma piuttosto
una storia infinita di riprese e di spostamenti15.
È proprio questo secondo punto, quello della trasposizione del
rapporto supposto scevro di desiderio che unisce l’artista e l’opera

12 B. Cellini Vita, a cura di E. Camesasca, Milano, Rizzoli, 1985, libro II, cap.

XXXIV, p. 482.
13 La storia di Filippo Lippi e di Lucrezia Buti è narrata da Vasari nelle Vite.
14 La storia di di Apelle e Campaspe o Pancaspe si ritrova in Plinio, Naturalis Hi-

storia, XXXV, pp. 85-86.


15 Sull’uso di modelli, maschili e femminili, nelle Accademie dell’Ottocento è da

vedere N. Pevsner, Academies of Art, Past and Present, Cambridge, Cambridge UP,
1940 (trad. it. di A. Pinelli, Le accademie d’arte, Torino, Einaudi, 1982).
Amare una statua 99

al rapporto erotico tra artista e amante, quello che impedisce di


cominciare più indietro il nostro cammino. Il Capolavoro scono-
sciuto di Balzac, ad esempio, è certamente non solo la storia di un
compito impossibile e di un’opera suprema che non si raggiunge e
anzi si autodistrugge, ma anche una storia di artisti e modelle. Por-
bus e Poussin riescono a vedere la Belle Noiseuse di Frenhofer, l’o-
pera cui il grande pittore ha dedicato tutte le sue energie da dieci
anni e che tiene gelosamente custodita, solo perché Gillette, la bel-
lissima moglie di Poussin, accetta, riluttante e solo per le pressioni
di quest’ultimo, di posare per l’anziano pittore. Il tema dell’artista
e della modella è proprio quel che nel Capolavoro sconosciuto ha
colpito Picasso (che ne ha illustrato un’edizione) ed anche il regi-
sta Jaques Rivette che ha trasposto la storia in un film16. Il raccon-
to di Balzac, inoltre, e la cosa ci dovrà interessare ancora di più, è
una storia del contrasto tra la mobilità della vita e la rigidità della
pietra («io non saprei credere questo bel corpo animato dal tiepi-
do soffio della vita; mi pare che se posassi la mano su questa gola,
di una rotondità così corposa, la troverei fredda come il marmo.
No, amico mio, non scorre il sangue sotto questa pelle di
avorio»17), tra i corpi viventi e le statue morte («prova a modellare
la mano della tua amica e poi mettitela davanti, e ti troverai di
fronte ad un orribile cadavere privo di ogni veridicità»18). Tuttavia
Frenhofer è ancora un Pigmalione («Noi non sappiamo quanto
tempo impiegò il grande Pigmalione per compiere la sola statua
che abbia camminato»19): egli ama la propria tela come amerebbe
una persona viva («Sono dieci anni ormai che vivo con quella don-
na: ella è mia, solo mia, e mi ama; non mi ha forse sorriso ad ogni
pennellata che le ho dato […]? L’opera che tengo lassù, sotto chia-
ve, è un’eccezione nella nostra arte: non è una tela, è una donna
[…]. Son certamente più amante che pittore»20). Più vicino al no-
stro tema è il racconto Il vello d’oro di Théophile Gautier, pubbli-
cato nel 1839. Ma esso, anche a non voler considerare il fatto che

16 Il film di Rivette al quale si allude nel testo si intitola La belle noiseuse, ed è

uscito nelle sale nel 1992.


17 H. de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, trad. it. di C. Montella e L. Merlini,

Firenze, Passigli, 1983, p. 29.


18 Ivi, p. 31.
19 Ivi, p. 43.
20 Ivi, p. 57.
100 Lo sguardo reciproco

ha un tono lieve di scherzo e di favola, mentre tutti i testi con cui


noi avremo a che fare vanno a sfociare nella tragedia, segue un
percorso opposto a quello che noi saremo chiamati a ripercorrere:
non dalla passione sensuale alla sua sublimazione nel rapporto con
l’opera ma al contrario, dalla sospensione del desiderio dinanzi al-
l’arte al suo appagamento nella vita. Un giovane dandy, Tiburce,
non riesce ad amare nessuna donna perché le trova tutte inferiori
alle bellezze dell’arte («guardava con gli occhi del pittore, e cono-
sceva più ritratti che volti. La realtà gli ripugnava […] ciò che
scambiava per amore non era altro che ammirazione d’artista. Nel-
la sua amante trovava difetti di disegno; senza che neppure se ne
rendesse conto, per lui la donna non era altro che una model-
la»21). Nella cattedrale di Anversa, durante un viaggio nelle Fian-
dre, vede la bellissima Maddalena della Deposizione di Rubens e se
ne innamora (di nuovo un Pigmalione: «finalmente aveva trovato
la passione che stava cercando, ma era stato punito col suo stesso
peccato; per aver troppo amato la pittura era stato condannato ad
amare un quadro […] una passione stravagante, insensata e dispo-
sta a tutto; e soprattutto splendidamente disinteressata»22). Qual-
che tempo dopo vede per strada una ragazza che somiglia perfet-
tamente alla Maddalena del dipinto; riesce a fare la sua conoscen-
za, lei si innamora di lui, ma Tiburce non riesce ad amarla, perché
ama la Donna dipinta. La guarigione di Tiburce avverrà dopo che
i due si sono trasferiti a Parigi: grazie all’intuito di Gretchen il gio-
vane si scoprirà pittore, userà la ragazza come modella, e final-
mente sarà in grado di amarla anche come donna.
Se Tiburce è ancora un Pigmalione che riesce a far vivere l’im-
magine di cui si è innamorato, gli artisti di cui ci parlano i testi che
leggeremo trasformeranno in statue le donne che hanno posato per
loro, non solo rendendole immagine, ma togliendo loro la vita. Pig-
malione rovesciato, dunque, anche se subito si comprenderà che le
cose non sono così semplici. Perché come Pigmalione non è soltan-
to colui che ama una statua, ma innanzitutto colui che non può
amare una donna in carne ed ossa («offensus vitiis, quae plurima
menti/femineae natura dedit, sine coniuge caelebs/vivebat thalami-

21 Th. Gautier, Il vello d’oro e altri racconti, trad. it. di L. Binni, Firenze, Giunti,

1993, p. 27.
22 Ivi, p. 49.
Amare una statua 101

que diu consorte carebat»23, scrive Ovidio) così per gli scultori di
Ibsen, Louÿs o Pirandello non si sarà così ingenui dal prestare fede
alle loro giustificazioni esplicite. Tutti protestano di non poter desi-
derare l’ispiratrice delle loro opere perché hanno proiettato su di lei
quella rescissione dei legami effettuali che è necessaria perché l’ope-
ra d’arte prenda forma; ma come si fa ad essere sicuri che si tratti di
una abolizione del desiderio, e non di uno spostamento feticistico
di esso? Questi artisti ci ricordano un’altra storia che racconta del
rifiuto di una donna reale coperto dall’innamoramento per una sta-
tua, scritto proprio in quegli anni, la Gradiva di Jensen24, resa famo-
sa dalla interpretazione e dalla magistrale “riscrittura” di Freud.
Anche per Norbert Hanold, il suo protagonista, «marmi e bronzi
non erano morti minerali, ma piuttosto l’unica realtà vivente capace
di conferire scopo e valore alla vita degli uomini»25: solo che egli
non traveste la sua resistenza all’erotismo e la sua difficoltà nei rap-
porti con l’altro sesso sotto la veste del disinteresse estetico dell’arti-
sta, ma sotto il distacco dello studioso di antichità: è un archeologo,
non uno scultore. Anche Hanold può amare la sua vicina di casa
Zoe Bertgang solo uccidendola, e assimilandola all’immagine di una
morta, che abbia “il freddo aspetto del marmo”. Quando Zoe co-
mincia a mettere in atto la sua strategia psicoterapeutica, dirà «mi
sono abituata da gran tempo ad essere morta»26.
Perché l’amore per le statue confina con la necrofilia. Il prota-
gonista di un racconto che fa parte delle Notti Fiorentine di Heine,
tutto dedicato al tema dell’amore per le statue, lo confessa nel mo-
do più chiaro, quando, alla domanda stupita del suo interlocutore
«Ma voi avete amato soltanto donne scolpite o dipinte?» risponde
«No, ho amato anche donne morte»27. L’uno e l’altro aspetto, resi-
stenza verso il coinvolgimento erotico e inclinazione verso il mor-
to, così come pure le implicazioni masochistiche dell’amore per il
simulacro, saranno evidenti in tutti i testi, ma particolarmente tra-
sparenti in quelli di Ibsen e Louÿs: non avremo bisogno, dunque,

23 Ovidio, Metamorfosi, libro X, vv. 243-244.


24 La novella di Wilhelm Jensen, Gradiva. Una fantasia pompeiana, si può leggere
nella traduzione italiana di Cesare Musatti nel vol. II dei Saggi sull’arte, la letteratura e
il linguaggio, di S. Freud, Torino, Bollati Boringhieri, 1969.
25 Ivi, p. 34.
26 Ivi, p. 75.
27 H. Heine, Notti Fiorentine, trad. it. di B. Ziliotto, Milano, TEA, 1988, p. 36.
102 Lo sguardo reciproco

di ricordare di continuo quel che tutte le protagoniste delle storie


narrate sanno fin dall’inizio, e cioè che le teorie estetiche cui si ap-
pellano gli artisti di cui si parlerà, possono essere uno schermo,
una maschera, un alibi.

Quando noi morti ci destiamo

Arnold Rubek, scultore di successo, è rientrato in patria dopo


lunghi anni di soggiorno all’estero, accompagnato dalla giovane
moglie Maja. Da quando ha scolpito il suo capolavoro, il Giorno
della Resurrezione, il gruppo che lo ha reso celebre in tutto il mon-
do, Rubek ha perso ogni vera ispirazione artistica. Scolpisce solo
busti su commissione, ritratti di gente facoltosa nei quali si diverte
a scorgere, o forse a proiettare, tratti animaleschi. In uno stabili-
mento balneare egli incontra Irene, la donna che posò come mo-
della per lui al tempo della creazione del capolavoro. Nella dida-
scalia che accompagna il suo ingresso, Ibsen la presenta così: «Il
suo viso è pallido; i lineamenti sono irrigiditi; le palpebre sono ab-
bassate come se gli occhi non avessero più vita […]. Il suo porta-
mento è immobile, i suoi passi sono cadenzati»28. Una statua, in-
somma. Anche se, invitando Rubek a sedersi accanto a lei, lo ne-
gherà: «Il mio corpo non si è ancora trasformato in una statua di
ghiaccio»29. Irene sostiene di esser morta, di esserlo precisamente
dal giorno in cui Rubek terminò il suo gruppo marmoreo. «Io ti
donai la mia anima, la mia anima piena di vita e di giovinezza, e ri-
masi con un vuoto nel petto […], senz’anima. Dopo averti fatto
quel dono sono morta, Arnold»30.
Non sarebbe giusto, però, riportare tutto all’idea dell’arte che
sottrae vita alla vita, al contrasto generico tra forma e vita. In Ib-
sen le cose sono molto più esplicite. Che cosa rimprovera esatta-
mente Irene a Rubek? Irene indica subito, fin dal primo colloquio,
il delitto dello scultore nel rifiuto dell’amore carnale che ella gli of-
friva, a favore di una contemplazione puramente artistica del suo
corpo. «Irene: Promisi di servirti in tutto. Rubek: Come modella

28 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 607-608.


29 Ivi, p. 615.
30 Ivi, p. 619.
Amare una statua 103

per il mio capolavoro […]. Irene: Col mio corpo liberamente e


completamente nudo […]. Rubek: E tu mi servisti … con tanto
coraggio … Con tanta gioia … Senza riserbo!»31. Alle deboli di-
scolpe dell’uomo («non ti ho mai trattata male»), Irene risponde
scagliandogli contro la sua accusa senza reticenze: «Mi hai offeso
in quello che era di più intimo nella mia natura! Mi misi in mostra
dinanzi a te, come si può esporre un corpo … E tu non lo toccasti
mai, neppure una volta»32. Di fronte a queste rimostranze, Rubek
si difende teorizzando un’estetica: «Irene, tu non capivi. Dinanzi
alla bellezza del tuo corpo io ero quasi sempre fuori di me… Io
ero un artista, Irene […]! Sì, io ero anzitutto un artista. Andavo
brancolando intorno come un febbricitante e volevo creare il ca-
polavoro della mia vita; e quel capolavoro doveva chiamarsi Il
giorno della Resurrezione, e la Resurrezione doveva essere rappre-
sentata da una giovane donna che si desta dal sonno della morte
[…] e la risorta doveva essere la donna più pura e più ideale della
terra. Fu allora che io ti trovai. Potevo adoperarti per ogni linea-
mento. E tu mi offristi i tuoi servigi così volonterosamente, così al-
legramente […]. Io ti ho potuto adoperare per il mio capolavoro
meglio di chiunque altra. Diventasti per me un’opera sacra della
creazione, che si poteva sfiorare solo con religione! In quel tempo
si era lentamente insinuata in me una strana superstizione: inco-
minciai, cioè, a credere che se io ti avessi toccata, se avessi deside-
rato il tuo corpo, tutti i miei pensieri sarebbero stati profanati e
non avrei potuto più condurre a termine quell’opera che così ar-
dentemente anelavo di creare. E anche oggi continuo a credere
che in quella superstizione ci fosse qualcosa di vero»33.
Quella che Rubek chiama “superstizione”, in effetti, non è che
l’applicazione letterale, e perciò semplificata, della convinzione
che l’opera d’arte si costituisce a partire dalla rescissione dei lega-
mi affettivo-sensuali diretti, istituendo su di essi una sospensione,
una messa in parentesi. Egli sembra ignorare che solo pochi anni
prima Nietzsche aveva messo alla berlina chi ragionava come lui,
per prendere le distanze da quello che gli pareva, a torto, essere il
nucleo della dottrina kantiana del piacere disinteressato dell’arte:

31 Ivi, p. 616.
32 Ibidem.
33 Ivi, pp. 616-617.
104 Lo sguardo reciproco

«Certo che se i nostri esteti non si stancheranno di buttare sulla


bilancia, a favore di Kant, il fatto che grazie alla magia dell’arte si
possono guardare “senza interesse” anche statue di donne nude, ci
sarà ben concesso di ridere un po’ alle loro spalle – le esperienze
degli artisti, relativi a questa scabrosa questione, sono molto “più
interessanti”, e Pigmalione non dovette essere, in nessun caso, ne-
cessariamente, un “uomo non estetico”»34.
L’estetica di Rubek non riesce a convincere il senso comune di
sua moglie Maja, che ha una visione molto più prosaica dei rap-
porti fra artista e modella. Tanto che il suo primo impulso, di fron-
te alla sconosciuta Irene, è di gelosia. «Maja: Rubek, rifletti un
po’! Forse quella signora ti sarà servita da modella … una volta!
Rubek: Da modella? Maja: Sì, nei tuoi anni giovanili. Chissà quan-
te modelle hai avuto … allora, naturalmente! […] Maja: E puoi
dimenticare anche una donna che ti è servita da modella? Rubek:
Quando non ne ho più bisogno … Maja: Ed anche quando ha po-
sato per te con il suo corpo nudo? Rubek: Questo particolare non
ha nessuna importanza, almeno per noi artisti!»35. È la stessa visio-
ne che anche Irene mostra di condividere, quando, di fronte a Ru-
bek che assicura: «Dopo di te non ho trovato nessun altro
ideale!»36 commenta sarcastica: «Nemmeno altre modelle, Ar-
nold?»37. Irene accentua deliberatamente l’aspetto di esibizione,
di sensualità connesso al fatto di posare. Dopo aver abbandonato
Rubek, o piuttosto dopo essere stata abbandonata da lui, racconta,
«ho fatto mostra del mio corpo nei teatri di varietà … ho fatto la
statua nuda nei quadri viventi»38. Curioso: Irene non condivide le
convinzioni estetiche di Rubek, ma mostra di seguirlo almeno nel-
la persuasione che altro sia il posare per una scultura, che è arte
nobile ed elevata, altro offrirsi per un’arte effimera e di mero in-
trattenimento, come, nella sua assiologia, il varietà o i tableaux
vivants.
Irene ora odia Rubek, perché l’ha amato ed egli ha rifiutato

34 Le ironie nietzschiane contro il “disinteresse” degli artisti sono in Genealogia

della Morale, III, 6: le citiamo nella traduzione di V. Perretta, Roma, Newton Compton,
1977.
35 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 622-623.
36 Ivi, p. 617.
37 Ibidem.
38 Ivi, p. 614.
Amare una statua 105

quell’offerta di amore. Le giustificazioni dello scultore, che si


appella al diritto ed anzi alla necessità che ha l’artista di recidere
ogni rapporto effettuale con la realtà, non possono convincerla
della innocenza di Rubek, perchè quel che ha offeso Irene è pro-
prio l’indifferenza nei suoi confronti che la creazione dell’opera
ha richiesto. «Irene: Io cominciai piuttosto a sentire un odio …
Rubek: Un odio? Contro di me? Irene: Sì, contro di te … contro
l’artista, che aveva preso con tanta indifferenza e con tanta incu-
ria un corpo, in cui pulsava un sangue caldo, una giovane vita
umana, e che le avevi rubato la sua anima … per creare un’opera
d’arte»39. È l’artista che Irene ha odiato. «Irene: Debbo farti una
confessione, Arnold. Non ho mai amato la tua arte. Rubek: Però
hai amato l’artista. Irene: L’artista? No, io lo odio. Rubek: Dun-
que odi in me anche l’artista? Irene: Sì, proprio l’artista. Quando
io stavo dinanzi a te, completamente nuda, il mio cuore era sem-
pre pieno di odio per te, Arnold. Ti odiavo, perché tu restavi
sempre così indifferente … o almeno perché tu avevi tanta forza
da dominare te stesso. Ti ho odiato perché tu non eri che un arti-
sta, soltanto un artista, e non un uomo»40. Quel che ha umiliato e
annientato Irene, nel rapporto con Rubek, è stato il fatto di essere
subordinata ad un’opera inanimata, lei creatura vivente: prima
l’opera d’arte, riassume, e poi la creatura umana. Ma Irene per
prima non sembra affatto essere rimasta immune da quella tra-
sposizione di affetti umani in pure e ineffettuali contemplazioni
artistiche che rimprovera a Rubek. Il suo delirio non è che il dop-
pio speculare, e dunque inverso, della sospensione di vita in cui a
suo parere Rubek è prigioniero. La statua di marmo creata dallo
scultore diventa, nella fantasia sconvolta di Irene, una sorta di fi-
glio, una creatura frutto di entrambi, di lei e di Rubek. Quell’a-
more fisico che non c’è stato, quella generazione mancata, hanno
trovato un Ersatz nella creazione artistica. Ancora una volta, Irene
è inconsapevolmente nietzschiana: «Gli artisti, se servono a qual-
cosa, hanno forti inclinazioni (anche fisicamente), esuberanza,
energia animale, sensualità; senza una certa sovreccitazione del si-
stema sessuale un Raffaello non è pensabile. Il far musica è un al-
tro modo di fare figli; e in ogni caso anche negli artisti la fecon-

39 Ivi, p. 630.
40 Ibidem.
106 Lo sguardo reciproco

dità cessa con la forza generativa»41. Irene si informa subito pres-


so Rubek della sorte, anzi dello stato di salute del gruppo marmo-
reo, come si farebbe per una persona cara. «Irene: E la creatura di
marmo? Sta bene, vero? la nostra creatura sopravvive a me»42.
Verso quella creatura Irene in un primo tempo ha provato odio,
ha desiderato ucciderla. «Irene: Arnold, se quella volta io avessi
fatto uso del mio diritto … Rubek: Ebbene … che cosa avresti
fatto? Irene: Io avrei ucciso la nostra creatura! Rubek: Ucciso?
Irene: Sì, l’avrei uccisa, prima di lasciarti. Io l’avrei frantumata, ri-
dotta in polvere»43.
Come negli altri testi di cui ci occuperemo, anche in Quando
noi morti ci destiamo il confine tra la statua e il vivente è mobile e
quasi evanescente. Che Irene entri in scena come una statua, l’ab-
biamo visto. All’occhio ingenuo ma proprio perciò non velato di
teorie di Maja, Irene appare proprio quale essa si crede, una scul-
tura di pietra inanimata. «Maja: Osserva laggiù. Cammina come
una statua di marmo»44. Perfino in Rubek, il sostenitore della se-
parazione tra vita e arte, i confini cominciano a vacillare; «Rubek:
E dire che io ebbi il coraggio di trascurarla … di metterla nell’om-
bra … di mutilarla»45, egli dice di Irene. Si mutila una statua, ap-
punto.
Nel sistema di Rubek, nella sua estetica, alla caduta delle pul-
sioni sensuali nei confronti dell’oggetto artistico corrisponde una
nuova vita ideale, intangibile e proprio perciò eterna; ma questa
vita è per Irene, e anche per Maja, mero simulacro, mera parvenza:
privata dei legami con la realtà, essa diventa paurosamente simile
alla morte. Questo è visibilissimo nelle battute che chiudono il pri-
mo atto. «Rubek: Sì, tu eri allora molto prodiga, Irene! Mi offristi
tutta la bellezza del tuo corpo nudo … Irene: … Per guardarla …
Rubek: e per eternarla … Irene: Sì, per dare l’eternità a te e alla
nostra creatura! Rubek: E per eternare anche te, Irene! Irene: Tu
però hai dimenticato il dono più prezioso che ti ho fatto! Rubek: Il
più prezioso dono? Quale? Irene: Io ti donai la mia anima … la
41 La citazione nietzschiana proviene da un frammento della Primavera 1888 per il

Wille zur Macht (nella edizione Colli-Montinari, Frühjahr 1888, 14 [117]).


42 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., p. 612.
43 Ivi, p. 613.
44 Ivi, p. 627.
45 Ivi, p. 628.
Amare una statua 107

mia anima piena di vita e di giovinezza … e rimasi con un vuoto


nel petto … senz’anima! Dopo averti fatto quel dono sono morta,
Arnold!»46.
Per Irene le opere d’arte sono, alla lettera, dei morti. I musei in
cui sono conservate sono dei cimiteri («Rubek: I musei furono
sempre il tuo terrore: li chiamavi sepolcri»47). Irene è morta per-
ché nascesse quel simulacro di vita che è la scultura di Rubek; ella,
viva, si è immolata per un corpo morto: «Irene: Quando ebbi fini-
to di servirti col mio corpo e con la mia anima … perché la tua sta-
tua … il nostro bambino, come tu la chiamavi a quel tempo … era
compiuta … io deposi davanti ai tuoi piedi il mio caro sacrificio …
e mi sono distrutta per tutta l’eternità»48.
Tuttavia dell’illusione che il capolavoro di Rubek fosse qualcosa
di diverso da una morta statua Irene stessa ha partecipato; è stata
la prima a credere che essa fosse una creatura vivente, “il bambi-
no”, come entrambi la chiamavano: «Irene: Ma quella statua di te-
nera argilla, quella statua vivente, oh, quella sì, l’amavo! Via via
che da quella rozza e informe massa andava nascendo una creatura
umana dotata di un’anima … io l’amavo quel nuovo essere che era
la nostra creatura, il nostro bambino, il mio e il tuo»49. Solo più
tardi ella doveva essersi resa conto che la trasposizione della sua
immagine nell’opera d’arte aveva significato per lei il passaggio
dalla vita nella morte, e che quella creatura inanimata non avrebbe
mai potuto sostituire le creature viventi che lei e Rubek non aveva-
no messo al mondo: «Irene: Io però allora ero una creatura uma-
na! Ed avevo ancora da vivere una vita … e da compiere un desti-
no. E, vedi, mi sono spogliata di tutto ciò … anzi l’ho gettato via
per votarmi a te. Oh, questo è stato un suicidio, un peccato contro
me stessa! Avrei dovuto mettere al mondo dei figli, molti figli, di
carne viva; non di quelli che si conservano nei sepolcri»50.
La situazione che Ibsen ha delineato nel primo atto di Quando
noi morti ci destiamo, e che qui abbiamo ripercorso di scorcio, ap-
pare sostanzialmente statica, sembra rifiutare uno sviluppo e uno
svolgimento; il conflitto drammatico c’è, ma giace tutto nel passa-
46 Ivi, p. 619.
47 Ivi, p. 631.
48 Ivi, p. 630.
49 Ivi, p. 631.
50 Ivi, p. 633.
108 Lo sguardo reciproco

to: è il dramma vissuto da Irene, ma che è rimasto del tutto estra-


neo a Rubek. Perché si dia sviluppo all’azione, dunque, occorre in-
nanzi tutto che anche Rubek sia attratto nel mondo di Irene, quel
mondo in cui, però, pare che egli non possa entrare, perché il suo
concetto dell’arte è l’antitesi di quello di Irene. Nel secondo atto
assistiamo allora ad una sorta di conversione dello scultore. Rubek,
si è visto, non ha più avuto la forza di creare nulla di grande dopo
il capolavoro. L’abbandono di Irene ha significato per lui anche
l’abbandono dell’arte. Egli comincia ora a convincersi che l’incon-
tro con Irene possa significare la possibilità di ritrovare se stesso,
ossia in primo luogo la sua arte. La sua illusione è quella di potere
ora amare Irene e di tornare ad essere creativo grazie a quell’amo-
re. Così spiega alla moglie: «Rubek: Qui dentro, vedi … c’è un pic-
colo scrigno chiuso, dove sono conservati tutti i miei sogni d’arti-
sta. Dal giorno in cui quella donna scomparve senza lasciare trac-
cia dietro di sé, il coperchio si chiuse. Ella ne teneva le chiavi, e le
portò via con sé. Tu, mia piccola Maja, non avevi nessuna chiave,
ed è perciò che tutto quello che vi era dentro è rimasto intatto. E
gli anni passano! Ed io non posso toccare il mio tesoro!»51.
Rubek crede fino all’ultimo che gli sia ancora possibile ritrovare
l’amore di Irene e con esso l’ispirazione perduta: le due cose gli
sembrano anzi, alla fine, coincidere. Per questo egli accetta di se-
guire Irene sulla montagna, e per questo conserverà la sua illusio-
ne fino all’ultimo. «Il nostro amore non è certo morto!»52 esclama
Rubek nell’ultimo colloquio. Ma Irene sa che non è vero, non può
essere vero perché, come lei stessa, così anche Rubek è morto do-
po aver compiuto il suo capolavoro. «Irene: l’amore, quello di
questo mondo … di questo magnifico, meraviglioso mondo, è
morto in noi due […]! dov’è ora quella passione che nutrivi per
me, quella passione di fuoco, con cui lottavi e combattevi quando
posavo dinanzi a te libera, come la donna risorta?»53. A Rubek
non basterà ammettere il suo torto dinanzi a Irene: «Rubek: Acce-
cato, com’ero allora, anteposi un simulacro d’argilla alla felicità
della vita … alla felicità dell’amore»54. È troppo tardi: Rubek cre-

51 Ivi, p. 627.
52 Ivi, p. 646.
53 Ibidem.
54 Ibidem.
Amare una statua 109

de di avviarsi verso la festa delle nuove nozze, verso la luce, e Ire-


ne lo conduce invece là dove la valanga li travolgerà entrambi.
La statua, la morte, il calco, la maschera funebre. Nel calco, il
modello è prelevato in tutta la sua presenza reale e trasposto nel-
l’opera. Il calco è un doppio, ma un doppio senza vita. Si può fare
un calco da un corpo vivo, ma nulla toglierà l’apparenza mortua-
ria, né solo per il ricordo del calco delle fattezze dei defunti. In
una delle lettere che scambiò con Freud dopo che questi gli aveva
inviato il proprio studio su Gradiva, Jensen dichiara di non cono-
scere i motivi che lo hanno spinto fin dall’inizio a collegare il bas-
sorilievo della Gradiva, che si trova in realtà ai Musei Vaticani di
Roma, con Napoli o meglio con Pompei. Ma tutto lascia pensare
che a spingere lo scrittore tedesco a fare di Gradiva una pompeia-
na sia stato il ricordo dei calchi delle vittime dell’eruzione del Ve-
suvio che egli aveva visto al Museo Nazionale di Napoli. Questi
calchi, che materializzano il passaggio dalla vita alla morte, dal
corpo alla statua e viceversa (un tema che percorre tutto il raccon-
to di Jensen) ritornano in due sviluppi decisivi della vicenda.
Quando Hanold per errore si ritrova invece che nel proprio alber-
go in quello in cui alloggiano Zoe e il padre di lei, il padrone del-
l’albergo gli racconta di essere stato presente «quando nei pressi
del Foro era stata trovata quella giovane coppia di amanti, che ac-
cortisi della catastrofe inevitabile si erano strettamente abbracciati
e avevano atteso così la morte»55. E il colloquio che porterà al
chiarimento finale tra Zoe-Gradiva e Hanold si svolge nella casa di
Arrio Diomede, là dove erano stati ritrovati decine di corpi di cit-
tadini di Pompei, dai quali erano stati tratti i calchi del Museo na-
zionale, e tra questi «il calco perfetto del collo, delle spalle e del
busto di una giovane ragazza, vestito di un leggero abito di
velo»56. Jensen, sollecitato da Freud in questo senso, non seppe in-
dicare fonti letterarie per la propria “fantasia pompeiana”. C’è
però – anche se naturalmente non si può provare che Jensen lo co-
noscesse – un altro racconto di Théophile Gautier che racconta
una storia molto simile a quella di Gradiva, sia pure accentuando il
tema dell’amore con lo spettro: Arria Marcella. Ricordo di Pompei.
Il protagonista in questo racconto, pubblicato nel 1852, non si

55 W. Jensen, Gradiva, cit., p. 80.


56 Ivi, p. 99.
110 Lo sguardo reciproco

innamora di una statua, ma del calco della fanciulla trovata nella


Villa di Arrio Diomede («Gli parve che quelle rotondità si adattas-
sero perfettamente all’impronta del Museo di Napoli che l’aveva
gettato in un’appassionata fantasticheria, e una voce gli gridò dal
fondo del cuore che era quella la donna soffocata dalla cenere del
Vesuvio nella villa di Arrio Diomede»57). Ma non sarà un caso che
alla sua fantasia eccitata la donna/spettro si presenti innanzi tutto
come una statua («Il collo presentava quelle belle linee pure che
oggi si ritrovano soltanto nelle statue» «il suo piede nudo, più pu-
ro e più bianco del marmo» «il suo braccio era freddo come il
marmo di una tomba»58), né che di lui ci venga detto già nella pre-
sentazione che “talvolta si innamorava delle statue”, e non venga-
no taciuti i tratti più esplicitamente necrofiliaci («la vista di una
folta capigliatura a treccia riesumata da un’antica tomba lo aveva
gettato in un bizzarro delirio»59).
Il calco, la morte. In una breve prosa di Ramón Gómez de la
Serna, La donna assassinata dallo scultore60, si racconta questa sto-
ria: uno scultore decide di fare un calco dei seni della propria
amante, sapendo che non sarebbe mai riuscito a scolpire qualcosa
di altrettanto perfetto. Ne ricava «due seni che possedevano una
certa vita, che quelli dei musei non avevano»61, ma che alla donna
paiono «i seni della sua morte, i seni dopo l’imbalsamazione»62.
Per colpa del calco con il gesso freddo e umido, la donna si amma-
la di polmonite e ne muore «e da allora i seni di gesso brillaro-
no solitari nello studio, come i seni del mausoleo ideale della
morte»63.

57 Il racconto di Gautier Arria Marcella. Ricordo di Pompei è compreso anch’esso

nella raccolta Il vello d’oro e altri racconti, cit., p. 164.


58 Ivi, p. 163.
59 Ivi, pp. 146-147.
60 R. Gómez de la Serna, La donna assassinata dallo scultore, in Id., Seni, trad. it. di

E. Carpi Schirone, Milano, ES, 1991.


61 Ivi, p. 113.
62 Ibidem.
63 Ivi, p. 114.
Amare una statua 111

Afrodite

Anche Demetrio, il protagonista di Afrodite di Pierre Louÿs


(pubblicato nel 1896, tre anni prima del dramma di Ibsen) è uno
scultore. Il romanzo è ambientato ad Alessandria d’Egitto nel pri-
mo secolo avanti Cristo. Demetrio ha scolpito una statua di Afro-
dite per il tempio della città, e per lui ha posato come modella la
stessa regina della città, della quale poi egli è diventato l’amante.
Ma Demetrio, “bello come Apollo”, prova ormai disgusto per la
vita: «Aveva orrore della vita, non usciva di casa che nell’ora in cui
la vita cessava e rientrava quando l’alba attirava verso la città i pe-
scatori e gli ortolani. Il piacere di non vedere al mondo che l’om-
bra della città e la sua propria, diventava per lui una tale voluttà
che egli non ricordava di avere visto il sole di mezzogiorno che a
distanza di mesi»64.
La passione per la regina è dileguata dopo che la bellezza di lei
è stata fissata nei tratti immortali della statua divina: comparata a
quel modello perfetto, la modella di un tempo non può reggere il
confronto: «Tutte le bellezze della regina, tutto ciò che d’ideale si
poteva inventare intorno alle linee morbide del suo corpo, lo fece
emergere dal marmo, e da quel giorno s’immaginò che nessun’al-
tra donna sulla terra raggiungerebbe più il livello del suo sogno.
La sua statua divenne l’oggetto del suo desiderio»65. Demetrio
non ama ormai che la sua creatura di marmo. La regina sembra
complice dell’incanto.
«Prendi un marmo e il tuo scalpello, e fammi vedere agli uomini
dell’Egitto. Voglio che si adori la mia immagine»66, aveva detto allo
scultore, e Demetrio, con una sincerità che certo doveva sfuggire
all’amante, aveva riposto: «Sono io il primo ad adorarla»67. Ma,
appunto, egli adora l’immagine, non più la donna. La bellezza vi-
vente ormai non ha più attrattive per Demetrio, che inevitabilmen-
te confronta i corpi e i visi reali a quelli ideali dell’arte. Preferisce
anzi i corpi che presentano qualche difetto, perché più le forme
reali sono perfette più richiamano il confronto con quelle prodotte

64 P. Louÿs, Afrodite, cit., p. 12.


65 Ivi, p. 45.
66 Ivi, p. 43.
67 Ivi, p. 46.
112 Lo sguardo reciproco

dall’artista, un confronto che per loro non può non essere schiac-
ciante «il turbamento che gli cagionava l’impressione della bellezza
vivente era una sensualità puramente cerebrale, che riduceva a nul-
la l’impulso di generazione»68. La regina non solo avverte la tra-
sformazione che si è compiuta in Demetrio, ma sa anche coglierne
la causa: «Dov’eri? Eri al tempio? Non eri per caso nei giardini,
con quelle donne straniere? No, vedo dai tuoi occhi che non hai
amato. Ma allora cosa facevi, sempre lontano da me? Eri davanti
alla statua? Sì, ne sono sicura, eri là. Adesso tu l’ami più di me. È
in tutto simile a me: ha i miei occhi, la mia bocca, i miei seni; ma è
lei che tu cerchi. Io, sono una povera abbandonata. Ti annoi con
me, lo vedo bene. Pensi ai tuoi marmi e alle tue cattive statue come
se io non fossi bella più di tutte loro, e viva, per lo meno»69.
Quando Demetrio incontra per la prima volta Criside, la bellis-
sima cortigiana che viene dalla Galilea e che ha tutta Alessandria
ai suoi piedi, può credere per un istante che il suo trasporto sia so-
lo un sentimento d’artista, una passione che non infiamma la carne
ma resta chiusa nel cerchio della contemplazione estetica: «Cre-
dette di ammirare il suo passo aggraziato per un sentimento unica-
mente estetico, si disse che ella poteva essere un agognato modello
per la Carite con il ventaglio che si proponeva di sbozzare doma-
ni»70 (una Carite col ventaglio: lo sfondo ellenistico del romanzo
di Louÿs ha la consistenza della quinta di un teatro, qua e là aperta
da piccoli squarci, come questo in cui ci vediamo trasportati da un
tempio greco in un dipinto di Alma Tadema).
Ma la passione di Demetrio, questa volta, è un vero innamora-
mento, che coinvolge i sensi non meno dello spirito. Egli tenta di
abbracciare Criside, di possederla, ma Criside rifiuta. Lei, la cor-
tigiana, non si piegherà al desiderio di Demetrio, l’uomo più ama-
to e più potente di Alessandria. L’incantamento dello scultore è
descritto come improvviso, totale; pur di avere Criside promette
di procurarle qualsiasi cosa lei voglia. Criside chiede tre cose: uno
specchio d’argento; un pettine d’avorio; una collana di perle. De-
metrio capisce che deve trattarsi di qualcosa di difficilissimo ad
ottenersi, ma non può sottrarsi alla seduzione, e giura che procu-

68 Ivi, p. 88.
69 Ivi, p. 124.
70 Ivi, p. 51.
Amare una statua 113

rerà i tre doni. Lo giura – e non è un caso – per la statua di Afro-


dite che ha scolpito. Lo specchio è quello di Bacchide, la cortigia-
na amica di Criside, preziosissimo: Demetrio non potrà averlo
che rubandolo. Il pettine è il pettine cesellato che porta tra i ca-
pelli la moglie del grande sacerdote. Per averlo, dovrà uccidere.
La collana è la collana di perle a sette fili che pende dal collo del-
la statua di Afrodite: e Demetrio dovrà strappargliela commetten-
do sacrilegio.
Il confine tra la pietra e la carne è quanto mai esile nel romanzo
di Louÿs, e non solo nell’immaginazione estenuata di Demetrio.
Fin dalle prime pagine del romanzo, mentre assistiamo alla toelet-
ta di Criside, leggiamo: «Quando tutto fu finito, Djala si inginoc-
chiò davanti alla padrona e rase il suo pube rigonfio, perché la fan-
ciulla avesse, agli occhi dei suoi amanti, tutta la nudità di una sta-
tua»71; mentre la statua di Afrodite per la quale ha posato la regina
appare a sua volta animata come un corpo: «Tra le svelte colonne,
la dea appariva tutta viva su di un piedistallo di pietra rosa, carica
dei tesori sospesi. Era nuda e sessuata, vagamente tinta secondo i
colori della donna»72. Questa descrizione tornerà, parola per pa-
rola, nella seconda parte del libro, quando Demetrio sta per strap-
pare la collana di perle alla dea, ed esita e la rimette al suo posto.
Passerà la notte nel santuario, nascosto nel piedistallo bronzeo
della statua, e quando al mattino sembra ormai deciso a rinunziare
al sacrilegio, Criside entrerà nel tempio, avanzandosi verso la sta-
tua. La vista dell’amata farà superare a Demetrio ogni remora, ed
egli commetterà il delitto supremo. Ma come gli appare Criside?
Esattamente come una statua, anzi «bianca come la statua stessa».
Quando Criside appare in sogno a Demetrio, la sua descrizione
non trova che metafore dell’inanimato, e i suoi capelli, ad esem-
pio, sono come «un vaso d’oro su di una colonna di ebano»73.
Demetrio, dunque, ormai schiavo dei voleri di Criside, com-
mette i tre delitti per procurarsi i doni per l’amata: ruba lo spec-
chio di Bacchide, uccide la moglie del grande sacerdote (che pure
era stata sua amante), sottraendole poi il pettine d’avorio, e, con le
esitazioni che abbiamo visto, depreda il simulacro della dea. La

71 Ivi, p. 25.
72 Ivi, p. 103.
73 Ivi, p. 179.
114 Lo sguardo reciproco

parte centrale del romanzo è tutta occupata dalla descrizione del


baccanale a casa di Bacchide, al quale partecipa anche Criside. Il
furto dello specchio c’è già stato, ma Criside non può ancora sa-
perlo; perciò cerca per tutta la cena di capire se Demetrio ha com-
piuto il suo primo misfatto. Ella sa infatti che una volta piegatosi
al primo delitto Demetrio non si arresterà neppure di fronte agli
altri. Quando Bacchide scopre il furto, del quale viene incolpata la
schiava Afrodisia, che proprio quella notte avrebbe dovuto guada-
gnare la libertà, e che viene subito punita dalla padrona con la cro-
cifissione, per lei è il trionfo, anche se deve stare ben attenta a na-
scondere il suo tripudio.
La situazione, però, si rovescia di colpo. Demetrio, dopo avere
strappato i doni per Criside, ha un sogno in cui gli appare la donna
che ama. E, ancora una volta, l’immagine ha partita vinta sulla
donna reale. Demetrio ha sognato l’amore di Criside; non avrà più
bisogno della Criside vivente. I due si incontrano, la cortigiana è
felice, si direbbe quasi che abbia dimenticato i pegni richiesti e che
non voglia altro che abbracciare Demetrio. Ma le parti si sono ro-
vesciate. È Demetrio, adesso, ad essere freddo e scostante. Dicen-
do addio per sempre a Criside, spiega quel che gli è accaduto: «Mi
concederai, che dopo aver sognato l’Afrodite del tempio, la mia
immaginazione non ebbe troppa pena a figurarmi la donna che tu
sei? Ancora una volta, io non ti dirò se si tratta di un sogno nottur-
no o dell’errore di un uomo desto. Ti basti sapere che, sognata o
concepita, la tua immagine mi è apparsa in una cornice straordina-
ria. Illusione; ma a qualunque costo t’impedirò di disilludermi»74.
Dinanzi alla disperazione di Criside che viene abbandonata, De-
metrio ritorce su di lei le richieste che lo avevano spinto a diventa-
re ladro ed assassino. Criside si dichiara pronta a tutto pur di
riconquistare l’amore di Demetrio, e questi le fa giurare che ella
indosserà il pettine e la collana, e appenderà lo specchio, e con i
gioielli indosso entrerà nella città. Una volta di più, tutto ciò si
compirà sotto lo sguardo cieco di una statua, perché i terribili doni
Demetrio li ha nascosti all’interno del simulacro di Ermete Stigio.
Nel frattempo la popolazione di Alessandria ha scoperto i tre
crimini, e soprattutto il sacrilegio perpetrato contro la dea. Quan-
do Criside appare, «attraverso la porta d’occidente, sulla prima

74 Ivi, pp. 199-200.


Amare una statua 115

terrazza» del faro di marmo rosso, la sua sorte è segnata. Ma ella è


come totalmente identificata, ora, nella statua della dea Afrodite
(«era nuda come la dea») e per la divinità la scambiano i primi
abitanti che la vedono. La scena si riapre, all’inizio della quinta
parte, con Criside già in carcere in attesa della morte, essendo sta-
ta condannata a bere la cicuta. Entra Demetrio, e Criside sarebbe
ancora pronta a lanciarglisi tra le braccia, se lo scultore non la fre-
nasse con la sua attitudine impassibile. Le riflessioni fra sé e sé di
Demetrio ci sono comunicate da Louÿs in una sorta di a parte che
è un artificio molto impacciato – non l’accetteremmo, oggi, in una
mediocre sceneggiatura – ma a noi non interessano gli aspetti
dell’Afrodite che possono legittimamente far sorridere, per esem-
pio la stessa Criside-Socrate di queste ultime pagine: non ci inte-
ressano le forme, ma le idee.
Demetrio dunque filosofeggia sulle nefaste conseguenze della
passione. Ritiene che vi siano solo due possibilità: la voluttà senza
passione (precisamente quella che egli aveva sempre cercato con
tutte le donne, e che solo con Criside non era stato in grado di ot-
tenere) o “l’idée sans jouissance”, il legame che lo avvince alle sue
statue. Non c’è una terza possibilità, e Criside, che ha tentato di
donargli un piacere congiunto all’idea, ha dovuto soccombere per-
ché Demetrio non può più unire l’idea ad altro che non sia una
statua immobile e morta. La conferma decisiva arriva nel capitolo
culminante dell’ultima parte (“Criside immortale”). Rientrato nel-
la sua abitazione, Demetrio ha un’illuminazione improvvisa. Quel
corpo che egli non ha potuto amare perché voleva offrirglisi nella
passione, potrà bene eternarlo nell’arte. Fa allora portare un bloc-
co di argilla fresca nella cella dove giace Criside morta, e si avvia
egli stesso verso il carcere.
È come se si rompesse un incantamento. Avviandosi a ridare vi-
ta, una vita eterna (“Criside immortale”) alla donna che è morta
per lui, Demetrio sente riaffluire quell’amore per la vita che a lui
sembrava ormai precluso. Questa nuova vita di Demetrio sembra
frutto diretto di una conversione estetica di Louÿs, di un ritorno
dell’autore ad una posizione molto tradizionale e tranquillizzante.
Se prima l’opera e il sentimento dovevano restare separate, adesso
il difetto dell’arte di Demetrio viene fatto consistere nella mancan-
za di passione. Prima la bellezza del marmo non poteva che nasce-
re dalla freddezza della carne (e dunque la passione sensuale era
116 Lo sguardo reciproco

inibita dal confronto schiacciante con l’opera), ora invece tutte le


sculture precedenti di Demetrio sembrano fredde e inanimate per
mancanza di passione. «Troppo a lungo aveva preso per luce il
chiaro di luna e per ideale la linea incerta di un movimento troppo
delicato […]. Sulla pelle delle sue statue correva un fremito glacia-
le. Durante la tragica avventura che aveva sconvolto la sua intelli-
genza, per la prima volta aveva sentito il grande soffio della vita
gonfiare il suo petto»75.
Lo scopo supremo non è il marmo, la forma, ma l’espressione,
dunque l’umanità: «Per lo meno, stava comprendendo che vale la
pena di essere immaginato solamente quel che attraverso il mar-
mo, il colore o la frase raggiunge una delle profondità dell’emozio-
ne umana, – e che la bellezza formale non è che una materia inde-
cisa, suscettibile di essere sempre trasfigurata dalla espressione del
dolore o della gioia»76.
Strana passione per la vita, che si nutre della morte, e strana
esaltazione della espressione, che vive in un corpo morto. Deme-
trio non sembra coerente con la poetica sentimentale che Louÿs gli
mette in bocca. Come accadeva prima, la creazione artistica non
può darsi per lui che una volta interrotto il circolo con la vita. Solo
dopo morta Criside è disponibile a diventare statua. Anzi, è già di-
ventata una statua: «Nella bianchezza azzurrina delle guance, alcu-
ne venature cilestrine davano alla testa immobile un’apparenza di
marmo freddo. La fragilità delle orecchie aveva qualcosa di imma-
teriale. Giammai, sotto nessuna luce, neppure in quella del suo so-
gno, Demetrio aveva visto una bellezza così sovrumana e una tale
luminosità della pelle»77.
Quando le due amiche di Criside, Rodide e Mirtocleia, verran-
no a reclamarne il corpo per donargli sepoltura, il corpo di Criside
apparirà loro come “una effimera statua addormentata”. Demetrio
può finalmente «conservare dei suoi tre giorni di passione un ri-
cordo che durerà più a lungo di lui stesso […], e creare a partire
dal cadavere la statua della Vita Immortale»78. Il corpo di Criside
viene messo in posa da Demetrio: «Con le due mani sotto le ascel-

75 Ivi, p. 225.
76 Ivi, p. 226.
77 Ivi, pp. 226-227.
78 Ivi, p. 227.
Amare una statua 117

le fresche. Demetrio fa scivolare la morta fin sull’alto del letto, vol-


ge la testa sulla guancia, […] piega l’avambraccio al di sopra della
fronte, fa increspare le dita ancora molli sulla stoffa di un cuscino.
[…] Il modello ha preso la sua posa. Demetrio getta sulla tavola il
blocco d’argilla umida che ha fatto portare là, lo preme, lo impa-
sta, l’allunga secondo forma umana: una specie di barbaro mostro
nasce dalle sue dita ardenti […]. Demetrio continua. L’abbozzo si
anima, si precisa, prende vita. Un prodigioso braccio sinistro si
inarca al di sopra del corpo come se stringesse qualcuno»79. A se-
ra, il modello in creta è terminato. Demetrio lo fa trasportare nel
suo studio, fa sgrossare un blocco di marmo pario e comincia a la-
vorare per trasferire nel marmo la forma del modellato.

La Gioconda

Le statue, nella Gioconda di Gabriele D’Annunzio (rappresenta-


ta per la prima volta a Palermo nel 1899, cioè nello stesso anno in
cui veniva messo in scena il dramma di Ibsen) non vengono dalla
morte, ma dalla vita; non uccidono ma vivificano; e corre il rischio
di morire chi viene lasciato da parte dall’arte, non chi la serve e la
crea. L’estetica di Lucio Settala, lo scultore protagonista dell’opera
dannunziana, è per molti versi l’esatto opposto di quella di Rubek;
noi però non la apprendiamo da lui, che sembra collocarsi, in
quanto artista, in un territorio che è al di là di ogni riflessione e di
ogni consapevolezza, ma dagli altri personaggi della tragedia.
Questa si apre su di un dramma già consumato: lo scultore, di-
viso tra l’amore per Gioconda Dianti, la bellissima modella che ha
posato per lui nella creazione del suo ultimo capolavoro, una Sfin-
ge, e la moglie Silvia, ha tentato di uccidersi sparandosi un colpo
di pistola nel suo atelier, proprio ai piedi della grande statua. Ora,
grazie alle cure di Silvia, sta lentamente tornando alla vita. Ma il
gesto disperato non è bastato a recidere il legame con l’amante,
che lo attende sempre, giorno dopo giorno, nello studio di lui.
Quando Lucio riceve una lettera della Gioconda, la moglie Silvia
decide di affrontare direttamente la rivale, incontrandosi con lei e

79 Ibidem.
118 Lo sguardo reciproco

intimandole di restituire le chiavi dell’atelier, rinunziando ad ogni


tentativo di rivedere l’antico amante. Nel terzo atto, quello in cui
culmina l’azione, le due donne si affrontano. Silvia fa valere i suoi
diritti di moglie e rimprovera a Gioconda di aver strappato Lucio
non solo “alla pace della casa” ma anche “alla nobiltà dell’arte”, e
rinfaccia alla modella di non essersi mai occupata dello stato di sa-
lute di Lucio dopo il tentato suicidio, mentre ella lo accudiva, re-
stituendogli col suo affetto la vita. Silvia vuole contrapporre la sua
capacità vivificatrice a quella mortifera dell’amante. Ma le ragioni
dell’arte, da lei incautamente invocate, possono facilmente esserle
ritorte contro dalla Gioconda, che «obbedisce a una potenza che
può essere implacabile»80. Come ispiratrice dell’artista, anche lei
ha creato la vita; l’amore che per lei Lucio ha nutrito ha favorito
ed anzi reso possibile l’arte di lui, lungi dal deprimerla:
«Gioconda: La donna cui faceste tante accuse fu ardentemente
amata d’un glorioso amore. Ella non abbassò ma sollevò una vita
forte»81.
Perché la creazione artistica, per Gioconda e ovviamente per
D’Annunzio (non a caso proprio in questi anni lettore di
Nietzsche82) non si nutre affatto di un indebolimento dei desideri
reali, di una sospensione degli affetti, come credeva Rubek in Ib-
sen. Essa, anzi, è frutto dell’ebbrezza sensuale, della passione, della
esaltazione di tutte le forze vitali: «Gioconda: Quando egli entrava
dove io l’attendeva come si attende il dio che crea, era trasfigurato.
Egli ritrovava dinanzi alla sua opera la forza, la gioia, la fede. Sì,
una febbre continua gli ardeva nel sangue, tenuta accesa da me
[…] ma al fuoco di quella febbre egli ha foggiato un capolavoro»83.
Diversamente dalla Irene di Quando noi morti di destiamo, Gio-
conda Dianti sa che la sua presenza e il suo amore sono indispensa-

80 G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p.112.


81 Ivi, p. 113.
82 Per il rapporto Nietzsche-D’Annunzio si veda, tra l’altro, G. Tosi, D’Annunzio

découvre Nietzsche, in «Italianistica», Sett.-Dic. 1973; M.T. Marabini Moevs, D’Annun-


zio e le estetiche di fine secolo, L’Aquila, Japadre, 1976; M. Montinari, Nietzsche e la dé-
cadence, in D’Annunzio e la cultura germanica, Atti del VI convegno internazionale di
studi D’Annunziani, Pescara 3-5 maggio 1984, Centro Nazionale di Studi D’Annunzia-
ni, Pescara, 1985; P. Sorge, D’Annunzio tra Wagner e Nietzsche, in G. D’Annunzio, Il
caso Wagner, Roma-Bari, Laterza, 1996.
83 Ivi, p. 115.
Amare una statua 119

bili all’artista, ed è consapevole del fatto che accettando di essere


uno strumento dell’arte ella in realtà acquisisce un potere particola-
rissimo nei confronti dell’uomo: un potere che ella è in grado di op-
porre trionfalmente ai vincoli riconosciuti dalla società ed invocati
da Silvia. Quest’ultima crede di potere estendere la sua giurisdizio-
ne dalla casa maritale alla officina del genio, ma Gioconda sa invece
che lo studio dell’artista è il suo regno, e che da lì lei non potrà esse-
re scacciata. «Gioconda: Questa non è una casa. Gli affetti familiari
non hanno qui la loro sede; le virtù domestiche non hanno qui il lo-
ro sacrario. Questo è un luogo fuori dalle leggi e dai diritti comuni.
Qui uno scultore fa le sue statue. Vi sta egli solo con gli strumenti
della sua arte. Ora io non sono se non uno strumento dell’arte sua»84.
Comprendendo di essere impotente di fronte alle ragioni della Gio-
conda, Silvia ricorrerà alla menzogna, attirando su di sé la sventura
che precipita sul finire dell’atto. Finge di essere a conoscenza della
lettera che la Gioconda ha inviato al marito, e afferma che la missiva
gli è stata mostrata da Lucio stesso, che l’ha incaricata di incontrare
la rivale per intimarle di abbandonare lo studio e di allontanarsi de-
finitivamente da lui. Sentendosi tradita e scacciata Gioconda reagi-
sce rabbiosamente, e tanto più violentemente quanto più è consape-
vole che Lucio tradisce così non soltanto il loro legame, ma la stessa
sua arte. Gioconda sa che il capolavoro dello scultore non appartie-
ne soltanto a lui, che esso appartiene altrettanto ed anzi di più a lei,
perché è grazie alla energia che ha saputo infondere nell’artista che
il capolavoro è stato creato. La sua vendetta sarà allora la distruzio-
ne, l’annientamento della statua. «Gioconda: E quella statua che è
mia, che m’appartiene, ch’egli ha fatta con la vita che ha spremuta
da me stilla a stilla, quella statua che è mia […] ebbene io la spez-
zerò, l’abbatterò»85. Di fronte a Gioconda che si avventa sulla statua
per distruggerla, Silvia acquista di colpo la coscienza della bassezza
commessa mentendole, e sente che il suo dovere è salvare l’opera
del marito. Grida di aver mentito; troppo tardi. La statua rovina, e,
in un disperato tentativo di salvarla, tentativo che riuscirà solo in
parte perché la statua perderà le braccia nella caduta, ha le mani
sfracellate sotto la massa marmorea.
Tra le statue di pietra e i corpi di carne corrono, nel dramma di

84 Ivi, p. 117.
85 Ivi, p. 121.
120 Lo sguardo reciproco

D’Annunzio, misteriose analogie. Le belle mani di Silvia, quelle


mani che poi saranno troncate, il vecchio scultore Lorenzo Gaddi,
nella prima scena della tragedia, le assomiglia a quelle della famosa
Donna del Mazzolino del Verrocchio. «Gaddi: Voi avete dunque
già riconosciuto la parentela. Quelle mani sembrano consanguinee
alle vostre, sono della medesima essenza. Vivono, è vero? d’una vi-
ta così luminosa che il resto della figura ne è oscurato»86. La dida-
scalia dell’atto quarto ed ultimo, nel descrivere la casa a Bocca
d’Arno dove Silvia si è trasferita dopo la disgrazia, e dove attende
di rivedere la figlia Beata, recita: «da un lato della porta, su una
mensola, è la Donna del Mazzolino […] ospite nuova, venuta dal-
l’altra casa come compagna fedele, le cui belle mani sono pur sem-
pre intatte, atteggiate di grazia verso il cuore»87.
Il busto del Verrocchio, dirà poi Silvia in una scena successiva,
«ha qualcosa di funebre per me: tuttavia non ho saputo distaccar-
mene»88. Le proiezioni biografiche tanto care ad un certo tipo di
critica, e così facili nel caso di un dramma come questo di D’An-
nunzio (come già lo erano, senza dubbio, per il vecchio Ibsen di
Quando noi morti ci destiamo), non ci interessano. Non ci vuole
molta applicazione per leggere La Gioconda come un dramma a
chiave, nel quale sarebbe adombrato il conflitto di D’Annunzio tra
il vecchio legame con Maria Gravina (che dunque sarebbe Silvia) e
la nuova passione per la Duse (che vivrebbe quindi nel personag-
gio di Gioconda), salvo poi notare che tutto potrebbe essere rime-
scolato dalla dedica iniziale («Per Eleonora Duse dalle belle ma-
ni»). Importa molto di più capire come anche nella pièce di D’An-
nunzio la dialettica tra i personaggi è innanzi tutto una dialettica di
concezioni estetiche: altrimenti sarebbe difficile non sottoscrivere
il rimprovero che venne mosso alla Gioconda fin dalle sue prime
rappresentazioni, e cioè che i suoi personaggi sembrano figure in-
dipendenti, incapaci di entrare veramente in relazione tra di loro.
All’inizio del dramma, quando potrebbe sembrare che Lucio
Settala abbia dimenticato l’amante e sia tornato al vecchio affetto,
tanto la moglie Silvia quanto l’amico Cosimo Dalbo possono illu-
dersi che il compimento del capolavoro abbia agito come catartico

86 Ivi, p. 45.
87 Ivi, p. 125.
88 Ivi, p. 140.
Amare una statua 121

sull’anima dell’artista, liberandolo dalla passione per la modella,


che sarebbe stata sublimata nella creazione artistica. Il tentato sui-
cidio viene allora interpretato come un gesto supremo, quasi rivol-
to a dimostrare agli altri che il vecchio legame è finito, trasfigura-
to. «Dalbo: Egli aveva finito in quei giorni la statua, e io pensavo
che quel marmo stupendo fosse la sua liberazione»89. Più avanti,
Dalbo esporrà la stessa convinzione allo scultore, tentando di con-
vincerlo che ormai il legame che lo univa alla Gioconda è risolto e
come neutralizzato nella creazione artistica: «Dalbo: Tu hai già ub-
bidito al comando della natura, generando il capolavoro. Quando
vidi la tua statua, pensai che ella ti fosse liberatrice. Tu hai perpe-
tuato in tipo ideale e incorruttibile un esemplare caduco della spe-
cie. Non sei dunque pago?»90.
Ma questa idea dell’arte come catarsi delle passioni e degli af-
fetti reali può illudere Settala solo per un momento, nelle prime
scene del dramma: «Io penso qualche volta alla sorte di colui che
naufragò in una tempesta con tutto il suo carico. In una giornata
serena come oggi, egli prese una barca e una rete; e tornò sul luo-
go del naufragio con la speranza di trarre dal fondo qualche cosa.
E, dopo molta fatica, trasse a riva una statua. E la statua era così
bella che, al rivederla, egli pianse di gioia; e si sedette sulla riva del
mare a contemplarla, e fu pago di quel bene, e non volle altro cer-
care; e obliò tutto il resto»91. Presto però si fa chiaro a lui come a
noi spettatori che quest’idea dell’arte come quietivo delle passioni
non può essere di Settala così come non è di D’Annunzio. L’artista
non crea sospendendo il rapporto che lo lega agli oggetti, troncan-
do il desiderio, ma anzi sull’onda di questo, in un’ebbrezza che
coinvolge i sensi e nella quale non è dato separare un lato ideale
da un lato carnale. Lucio ha pensato, nei primi giorni di convale-
scenza, di essere ormai salvo, al riparo dal dissidio che lo divideva
tra Silvia e Gioconda, ma si è presto reso conto che la rinunzia al-
l’amore per Gioconda sarebbe stata possibile solo se egli avesse,
contemporaneamente, rinunziato anche all’arte: «Lucio Settala:
Poi riconobbi che v’era qualche altra cosa da abolire in me: questa
forza che affluisce alle mie dita incessantemente per riprodurre

89 Ivi, p. 52.
90 Ivi, p. 81.
91 Ivi, p. 59.
122 Lo sguardo reciproco

[…]. Intendo che forse sarei salvo, se avessi dimenticato anche


l’arte»92. Per lo scultore, i corpi sono importanti quanto le anime,
anzi più delle anime. «Lucio Settala: [Silvia] è un’anima di pregio
inestimabile. Ma io non scolpisco le anime […]. Quando mi ap-
parve l’altra, io pensai a tutti i blocchi di marmo contenuti nelle
cave delle montagne lontane, per la volontà di fermare in ciascuno
un suo gesto […]. Una specie di affinità elettiva era tra la sua car-
ne e il marmo che chinandosi ella sfiorava con l’alito. Un’aspira-
zione confusa pareva salire verso di lei da quella bianchezza iner-
te»93. Nella didascalia che introduce l’atto terzo, e descrive l’inter-
no dello studio di Settala, D’Annunzio scrive: «La scelta e le ana-
logie di tutte le forme rivelano qui l’ispirazione verso una vita car-
nale, vittoriosa e creatrice»94, e di questa vita l’animatrice è Gio-
conda. L’Irene di Quando noi morti ci destiamo si sentiva morta
per aver fatto nascere un’opera d’arte; Gioconda si sente tanto più
viva quanto più è sicura che le opere d’arte prodotte da Lucio so-
no state create grazie a lei. «Gioconda Dianti: Io sono viva e sono
presente; ed egli ha trovato in me più di un aspetto, e mi inebriano
ancora le parole ch’egli diceva per significare la sua visione diversa
ogni mattina quando gli apparivo»95.
Di questa vita che trascorre dal corpo vivente alla statua, senza
che la seconda la sottragga al primo, la tragedia dannunziana ha
un simbolo assolutamente esplicito, quasi tangibile. Quando Lucio
ha tentato di togliersi la vita, aveva appena cominciato a modellare
un’altra scultura, modellandone un abbozzo nella creta. Egli la
credeva perduta, perché pensava ormai indurito e non più plasma-
bile il blocco di argilla; ma ha scoperto che Gioconda, esperta del-
le tecniche degli scultori, ha provveduto a tenere molle la creta,
mentre egli guariva. «Cosimo Dalbo: Dunque ella penava a tenere
umida la creta, mentre tu morivi? Lucio Settala: Non era forse an-
che quello un modo di contrastare la morte? Non era anche quello
un atto di fede ammirabile? Ella conservava la mia opera»96. An-
cora una volta, lo scultore e Gioconda dimostreranno di essere

92 Ivi, p. 79.
93 Ivi, p. 81.
94 Ivi, p. 103.
95 Ivi, p. 118.
96 Ivi, p. 84.
Amare una statua 123

partecipi di un unico segreto, che rimane ignoto, almeno inizial-


mente, all’amico Dalbo e alla moglie Silvia. Quando quest’ultima
affronta Gioconda, crede di potere opporre alla rivale la certezza
che Lucio saprà creare altre opere, anche senza il suo aiuto («Sil-
via Settala: Non è il primo [capolavoro], non sarà l’ultimo»), non
immagina che proprio Gioconda ha conservato intatto l’abbozzo
dello scultore, il blocco da cui sorgerà la nuova creazione: «Gio-
conda Dianti: certo, non sarà l’ultimo, perché un altro è pronto a
balzare dal suo viluppo di creta, un altro ha palpitato già sotto il
pollice animatore, un altro è là semivivo, e attende d’attimo in atti-
mo che il miracolo dell’arte lo tragga alla luce. Ah, voi non potete
comprendere questa impazienza della materia a cui fu promesso il
dono della vita perfetta»97. Silvia credeva di essere l’unica deposita-
ria di un’opera vivificante, giacché ella ha ridonato la vita al mari-
to; scopre ora che un’altra salvazione ha avuto luogo, e che accan-
to alla vita che ha salvato un’altra vita avanza la richiesta di vivere,
una vita sulla quale ella non ha più alcun potere. «Gioconda
Dianti: La mia fede era pari alla vostra; certo, si collegò con la vo-
stra contro la morte […]. Nulla è più sacro dell’opera che comincia
a vivere»98.
Tuttavia non è vero che Silvia non abbia avuto alcun presagio di
questa vita diversa. Forse fin dall’inizio ha sentito avvicinarsi la sua
sconfitta e ha avvertito l’impossibilità di contrastare la rivale sul
terreno dell’arte. Deve essere questa consapevolezza la spiegazione
più vera del fatto che ella si abbassi a mentire. Quando entra per
la prima volta nello studio dello scultore, sorda alle preghiere della
sorella che vorrebbe trattenerla o accompagnarla, Silvia è come
abbagliata dalla visione improvvisa del capolavoro. La bellezza im-
preveduta sembra toglierle per un attimo le forze, e, come recita
la didascalia dannunziana, «i suoi occhi restano intenti, come ab-
bagliati non da una visione di morte, ma da una immagine di vita
perfetta»99.

97 Ivi, p. 115.
98 Ivi, p. 116.
99 Ivi, p. 108.
124 Lo sguardo reciproco

L’opera

È un pittore, e non uno scultore, il protagonista de L’opera, il


romanzo che Zola scrisse nel 1885 trasferendovi molte delle espe-
rienze accumulate frequentando gli ambienti artistici parigini (an-
cora una volta, quindi, un testo che si potrebbe leggere, ed è stato
fatto, come un romanzo a chiave, come proiezione di esperienze
personali: noi ci terremo lontani da tutto questo). Ma il pittore
Claude Lantier, nella sua vita di bohème, conosce ovviamente an-
che alcuni scultori, e tra di essi il poverissimo Mahoudeau, che
vorrebbe esprimersi in opere colossali ma non ha i mezzi per paga-
re il materiale che gli occorrerebbe, il marmo o la pietra, e neppu-
re quelli per comprarsi il ferro necessario a costruire l’armatura
per una argilla di grandi dimensioni. È nello studio di Mahou-
deau, anzi nello squallido sotterraneo gelato ove egli si è ridotto a
lavorare, che assistiamo ad una scena la quale, anche solo per la
sua collocazione nel romanzo (quasi esattamente alla metà di esso,
e nel giorno del matrimonio del protagonista) non può non assu-
mere un valore simbolico, premonitore. Claude, impaziente, si è
recato a prendere l’amico che deve fargli da testimone di nozze.
Lo trova già pronto, ma preoccupato che il freddo intenso non
guasti la creta umida della grande Bagnante che sta sbozzando. Vi-
sto che i panni bagnati con i quali ha ricoperto il blocco di creta
sono già ghiacciati, accenderà un po’ di fuoco: «La tela scricchio-
lava sotto le sue dita, si rompeva in pezzi di ghiaccio. Dovette
aspettare che il calore la disgelasse un poco: e, con mille precau-
zioni, la scoprì, prima la testa, poi il petto, poi i fianchi, felice di ri-
trovarla intatta, sorridendo come un amante di fronte alle nudità
della sua adorata donna»100.
Anche Claude è colpito dai progressi dell’amico: «La sua Ba-
gnante possedeva già una notevole bellezza, con quelle spalle rab-
brividenti, le braccia strette che mettevano in evidenza i seni, seni
amorosi, scolpiti col desiderio della donna che la miseria esaspera-
va; e, forzatamente casto, aveva plasmato una carne così sensuale,
da turbare»101. I due artisti siedono un poco a chiacchierare, aspet-
tando che i panni si scongelino completamente. La stufa ora è in-

100 E. Zola, L’opera, cit., p. 222.


101 Ibidem.
Amare una statua 125

fuocata, il calore aumenta. «In quel momento la Bagnante, colloca-


ta lì vicino, sembrava rivivere, sotto il soffio tiepido che le saliva
lungo la schiena»102. Ad un tratto, Claude crede di essere vittima
di una allucinazione: «La Bagnante si muoveva, il ventre aveva un
fremito d’onda leggera, il fianco sinistro si era inarcato come se la
gamba stesse per camminare […]. Poco a poco la statua si animava
tutta. Le reni si muovevano, il petto si gonfiava in un grande sospi-
ro fra le braccia socchiuse. E improvvisamente la testa si inclinò, le
cosce si piegarono, cadeva come una persona viva, con l’angoscia
smarrita, lo scatto doloroso di una donna che si butta»103.
È successo che lo scultore ha impiegato, in luogo dell’armatura
di metallo, un traliccio di manici di scopa, troppo fragili per regge-
re al movimento dell’argilla che si disgelava. Mahoudeu si slancia
per salvare la sua statua, «con lo stesso gesto d’amore con cui si
era inebriato accarezzandola da lontano»104. La statua gli rovina
addosso, lo travolge: «E lei parve cadergli al collo, lui accoglierla
nella sua stretta: serrò le braccia su quella grande nudità verginale
che s’animava come al primo risvegliarsi della sua carne»105. Per
fortuna, lo scultore non rimane ferito, ne ha solo «la pelle contusa
come dopo essere uscito dall’abbraccio di un’amante di pietra»106.
Può raccogliere i frantumi con l’aiuto di Claude, e li ricompone:
«Presto la figura fu di nuovo intera, simile a una di quelle suicide
per amore che si schiantano dall’alto di un monumento e che si ri-
compongono, figure comiche e pietose, per essere trasportate alla
Morgue»107.
La rovina della statua incombe su tutti i testi che stiamo leggen-
do. Irene vorrebbe distruggere il capolavoro di Rubek, la Giocon-
da si avventa contro quello di Settala, che è salvato soltanto dal
sacrificio cruento di Silvia, e, come vedremo, anche alla fine di
Diana e la Tuda c’è qualcuno che si avventa contro una statua per
distruggerla, e la salvezza della statua sarà in questo caso acquista-
ta a prezzo di un omicidio.
Ne L’Opera, tuttavia, questo è solo uno dei tanti simboli (per
102 Ivi, p. 223.
103 Ibidem.
104 Ibidem.
105 Ivi, p. 224.
106 Ibidem.
107 Ivi, pp. 224-225.
126 Lo sguardo reciproco

quanto forse il più trasparente e suggestivo) che affollano le pagine


del romanzo. Il racconto di Zola avrà certo, come è parso alla criti-
ca, le sue parti più riuscite nelle descrizioni degli ambienti artistico-
letterari della Parigi del tempo, ma non vi è dubbio che esso sia per-
corso, dalla prima all’ultima pagina, dalla fascinazione ancora molto
romantica per il misterioso legame che unisce la figura rappresenta-
ta sulla tela, o scolpita nella pietra, con il modello che la ispira. Se il
crollo della Bagnante di Mahoudeau sembra evocare una ripresa
della leggenda dell’innamoramento per la statua di Venere, con il fi-
nale capovolto (solitamente è la statua che trionfa e l’innamorato
che soccombe), l’inizio del romanzo può ben essere l’ennesima va-
riante del mito di Butade e della invenzione della pittura.
L’Opera si apre con l’incontro casuale di Claude e di Christine.
Per ripararsi dal diluvio torrenziale, quest’ultima, sola a Parigi in
piena notte per un seguito di contrattempi, accetta, pur timorosa,
il rifugio che le offre Claude. Esausta, si addormenta. Al mattino,
il pittore ruberà alla ragazza ancora addormentata l’immagine che
gli serve per il quadro che sta dipingendo: «Era quella, esattamen-
te quella, la figura che aveva inutilmente cercato per il suo qua-
dro, e già quasi in posa»108. Il tempo di prendere un cartone e un
pastello, e Claude è al lavoro: «Tutto il suo turbamento e il desi-
derio contrastato sfumavano nello stupore dell’artista […] già
aveva dimenticato la ragazza»109. Claude dapprima darà alla figu-
ra centrale del quadro che sta dipingendo (en plein air) i tratti del
volto di Christine, poi cancellerà tutto, ma solo per ritrovarsi inca-
pace di finire quell’immagine femminile: «Era soprattutto alla fi-
gura centrale, la donna sdraiata, che il pittore lavorava: non aveva
più toccato la testa, si accaniva sul corpo, cambiando modella
ogni settimana»110.
Non meno turbata di lui è Christine, che sulle prime non è
affatto contenta di vedere la sua immagine utilizzata nel quadro,
ma poi, quando la vede cancellata, comincia a provare un disagio
che è una gelosia: «lei che si era pudicamente ribellata il primo
giorno, ora provava un dispiacere sempre più forte nel vedere che
nulla dei suoi tratti rimaneva. […] Forse non l’amava, se la lascia-

108 Ivi, p. 9.
109 Ibidem.
110 Ivi, p. 86.
Amare una statua 127

va uscire così dalla sua opera?»111. Christine acconsente a posare,


ma solo per il viso; Claude, però, non può completare il dipinto
con il corpo di un’altra. Quando manca solo un giorno alla apertu-
ra del Salon al quale Claude dovrebbe rinunziare, Christine decide
che poserà nuda per lui: in poche ore la tela è pronta per il vernis-
sage dell’indomani. Ma è un’opera troppo ardita perché il pubbli-
co la possa capire, e Claude non raccoglie che l’irrisione dei
conformisti. L’insuccesso però non lo avvilisce, anche perché nel
frattempo Christine gli ha confessato il suo amore per lui. I due vi-
vranno insieme, fuggiranno dalla città, trascorreranno un periodo
idilliaco in un piccolo paese nei dintorni di Parigi. Dopo qualche
anno, tuttavia, le cose cominciano a guastarsi. Claude lavora di
malavoglia, il suo genio promettente non trova modo di sbocciare.
Convinta che solo la vita della città e il ritrovato contatto con i
compagni di bohème possa ridargli la forza di creare, Christine
convince Claude a rientrare a Parigi. Anche qui, però le cose non
fanno che peggiorare. Il gruppo di amici di un tempo si disperde,
ognuno insegue il proprio successo e la propria strada, mentre le
gelosie e le rivalità li separano; Claude non ritrova la sua vena, e si
affatica in progetti senza esito; consumata una piccola rendita, i
due amanti vedono affacciarsi l’incubo della miseria, e Claude è
costretto ad accettare piccoli lavori su commissione per sbarcare il
lunario; infine il piccolo Jacques, frutto della loro unione, muore
non ancora decenne. Il piccolo quadro nel quale Claude ritrae il
figlioletto morto (ancora una pittura che non può affermarsi se
non togliendo la vita a ciò che rappresenta) riuscirà ad entrare nel
Salon solo grazie ai buoni uffici pietosi di un vecchio amico dive-
nuto nel frattempo pittore influente, ma passerà del tutto inosser-
vato. Tutto precipita, con Claude che alterna abulia ed esaltazione,
ormai interamente concentrato su di un’unica opera, una grande
tela con un paesaggio parigino e un nudo di donna in primo pia-
no. Per quel nudo, Christine è tornata a fargli da modella, tutti i
giorni, e non più saltuariamente come accadeva prima. Ma se in
precedenza l’aveva fatto di buon grado, «lusingata, felice di farlo
contento, ignara della tremenda rivale a cui stava cedendo»112, ora
non tarderà ad accorgersi che l’immagine dipinta si è totalmente

111 Ivi, p. 115.


112 Ivi, p. 156.
128 Lo sguardo reciproco

sostituita a lei nel cuore di Claude. «Il quadro immenso si drizzava


tra loro, li separava come infrangibile barriera; ed era al di là che
lui viveva, con un’altra. Lei ci diventava pazza, gelosa di questo
sdoppiamento della sua persona […] e tuttavia non si sbagliava,
capiva bene che preferiva la sua copia a lei stessa, che quella copia
era la donna adorata, l’unica preoccupazione, l’amore di ogni mi-
nuto. La uccideva con la posa per fare l’altra più bella113. Come
fra Rubek ed Irene, la passione fisica è scacciata dalla fredda con-
templazione dell’artista, e Claude in Christine non vede più la
donna amata, ma solo la modella per il suo quadro. Christine è in
posa. «Immobile, sotto la brutalità della posa, sentiva il disagio
della propria nudità. In ogni parte dove era stata toccata dalle dita
di Claude, le permaneva una impressione di gelo, come se il fred-
do che la faceva tremare entrasse proprio da quei punti. L’esperi-
mento era stato fatto, a che scopo protrarre la speranza? Quel cor-
po, ovunque ricoperto dai suoi baci innamorati, or non lo guarda-
va più, non lo adorava più se non come artista. Una sfumatura del
seno lo entusiasmava, una linea del ventre lo metteva devotamente
in ginocchio laddove, un tempo, accecato dal desiderio, la schiac-
ciava tutta contro il suo petto, senza vederla, in abbracci in cui l’u-
no e l’altra avrebbero voluto fondersi. Ah, era davvero la fine, non
esisteva più, amava in lei soltanto la propria arte, la natura, la vita.
E, gli occhi remoti, conservava la rigidità di un marmo, tratteneva
le lacrime che le gonfiavano il cuore […]. La sua passione dalla
carne si era trasferita nell’opera»114.
Il passaggio dalla vita all’immagine, dal corpo alla statua, dalla
carne alla pittura è anche, come Christine percepisce oscuramente,
un transito verso la morte. Il legame tra l’arte e la morte è un tema
ricorrente nell’Opera. Quando Claude entra nel miserabile atelier
di Mahoudeau, dove assisterà alla rovina della Bagnante, è come
se si addentrasse in un obitorio o in un lazzeretto: «Negli angoli,
altre statue di gesso, meno ingombranti, fatte con passione, espo-
ste, poi tornate lì, in mancanza d’acquirenti, battevano i denti, il
naso contro il muro, allineate in lugubre fila d’ammalati, la mag-
gior parte già rotte, ad ostentare mutilazioni, tutte incrostate di
polvere, inzaccherate di argilla; e tali miserabili nudità trascinava-

113 Ivi, p. 244.


114 Ivi, p. 242.
Amare una statua 129

no così da anni la loro agonia sotto gli occhi dell’artista che aveva
trasmesso loro la sua energia; inizialmente conservate con passione
gelosa, malgrado il poco spazio, cadute in seguito nell’orrore grot-
tesco delle cose morte, fino al giorno in cui, preso un martello, le
aveva finite da sé, riconducendole in gesso, per buttarle fuori dalla
sua vita»115. E già proprio all’inizio del romanzo, quando in un im-
peto di furore Claude raschia via dalla tela la testa della donna del
plein air, quel volto che come sappiamo aveva già i tratti del viso
di Christine, è una uccisione, un omicidio quello cui assistiamo.
«Fu un autentico assassinio, un annientamento: tutto scomparve
in una poltiglia melmosa. Allora, accanto a quel signore nella sua
giacca aitante fra gli arbusti luminosi […] non rimase altro, di
quella donna nuda ormai priva della testa, che un troncone muti-
lo, vaga macchia cadaverica, carne di sogno dissolta e morta»116.
Ma è soprattutto nell’episodio agghiacciante del ritratto del figlio
morto che l’equivalenza tra l’immobilità del modello e la rigidità
del cadavere si fa completa. «Da principio resistette, il pensiero
confuso si precisava, finiva per diventare ossessivo. Alla fine capi-
tolò, andò a prendere una piccola tela, cominciò uno schizzo del
figlio morto. Poi, il lavoro gli seccò le palpebre, rese sicura la ma-
no; e presto non ebbe più davanti il figlio stecchito, ma un model-
lo, un soggetto che l’appassionò per l’insolito interesse. […]
Quando Christine si alzò, lo trovò immerso nel lavoro. Allora, ri-
presa da un accesso di lacrime, disse solamente: ah!, puoi dipin-
gerlo, non si muoverà più»117.
Nella scena conclusiva del romanzo, Christine tenta uno sforzo
supremo per riaffermare i diritti della vita sulla pittura. È notte.
Christine sente che Claude non è più accanto a lei («Il loro letto,
da molti mesi, era gelido; ci si allungavano fianco a fianco come
due estranei, dopo una lenta rottura dei vincoli che univano i loro
corpi: volontaria astinenza, castità teorizzata a cui era giunto per
offrire tutta la sua forza alla pittura»118). Si alza, lo trova davanti al
grande quadro incompiuto. Da mesi, ormai, Claude non osava ri-
mettere le mani sulla grande figura di donna che campeggia al

115 Ivi, p. 221.


116 Ivi, p. 48.
117 Ivi, p. 268.
118 Ivi, p. 345.
130 Lo sguardo reciproco

centro della composizione, «ed era questo a tranquillizzare Chri-


stine, a renderla tollerante e misericordiosa nella sua acida gelosia:
finché non tornava da quell’amante agognata e temuta, si sentiva
meno tradita»119). Ma è proprio quella donna che ora Claude sta
dipingendo. «Allora Christine aprì la porta e si fece avanti. Una in-
vincibile ribellione, il furore di una sposa oltraggiata in casa sua,
tradita durante il sonno, nella stanza vicina, la incalzava. Sì, lui sta-
va proprio con l’altra, dipingeva il ventre e le cosce come un visio-
nario delirante che il tormento del vero gettava nell’esaltazione
dell’irreale […]. Una così strana nudità da ostensorio, dove sem-
brava che le pietre preziose risplendessero per qualche religiosa
adorazione, finì d’infuriarla»120. La gelosia di Christine esplode:
«Ah! Questa pittura, sì! la tua pittura, è lei l’assassina, che ha av-
velenato la mia vita»121. La donna dipinta ha preso il suo posto.
«Perché dillo, se hai il coraggio, dillo che non si è impossessata di
te pezzo a pezzo, il cervello, il cuore, la carne, tutto!»122. Ma Chri-
stine è viva, e questa è la sua indubitabile superiorità sulla rivale.
«Lo vedi bene che sei sconfitto, perché ostinarti ancora? È una co-
sa insensata, è questo che mi fa ribellare… Se non puoi essere un
grande pittore, ci resta la vita, ah!, la vita […]. Ascolta, c’è la vita
[…]! Mi hai preso come modella, hai voluto le copie del mio cor-
po. A che scopo, dì? forse queste copie valgono me? Sono spaven-
tose, sono rigide e fredde, come cadaveri! E io ti amo, e io voglio
averti […]. Quando ti offro di posare, quando sono lì, a sfiorarti,
con il mio alito, è perché ti amo, lo capisci?, è perché sono viva,
io!»123. La vittoria di Christine, il ravvedimento di Claude («Che
ho fatto? … Allora è proprio impossibile creare? le nostre mani
non hanno il potere di creare degli esseri?»124) durano solo poche
ore. Il mattino successivo, Claude non è già più accanto a lei. Co-
me Frenhofer, il pittore del racconto di Balzac Il capolavoro scono-
sciuto, il cui riverbero tante volte si proietta sul romanzo di Zola,
si è impiccato davanti al quadro che era diventato tutta la sua vita.

119 Ivi, p. 347.


120 Ibidem.
121 Ivi, p. 348.
122 Ibidem.
123 Ivi, p. 352.
124 Ibidem.
Amare una statua 131

Diana e la Tuda

La Diana che Sirio Dossi scolpisce in Diana e la Tuda di Piran-


dello è parente stretta della Belle Noiseuse di Frenhofer e della tela
gigantesca di Claude Lantier. Anch’essa aspira ad essere un’opera
d’arte assoluta, unica. Come Frenhofer, anche Sirio Dossi non è
un artista che debba vivere del proprio lavoro. Ricchissimo, ha de-
ciso di consacrarsi interamente a quella scultura, e più volte ha ri-
petuto che, quando l’avrà compiuta, si ucciderà. Ma la Diana non
sarà mai finita, e trascinerà alla morte il suo autore come era acca-
duto al Giorno della Resurrezione di Rubek. Sirio Dossi però non
commetterà il premeditato suicidio: sarà il vecchio scultore Nono
Giuncano ad ucciderlo, per impedire che egli, a sua volta, non uc-
cida la Tuda che si lancia contro la statua per distruggerla, novella
Gioconda. Rappresentata in prima assoluta a Zurigo nel Novem-
bre del 1926, messa in scena a Palermo all’inizio dell’anno succes-
sivo, Diana e la Tuda è tra le opere meno frequentate dell’intero
repertorio pirandelliano. È stata riproposta sulle scene, a quanto ci
consta, solamente due volte, nel 1971 e nel 1984, sempre con la re-
gia di Arnoldo Foà. La critica ha mostrato di non amarla in modo
particolare. Forse le nuoce proprio la facilità con la quale si presta
ad essere inquadrata nel fin troppo noto schema tilgheriano del
dualismo di vita e forma, della impossibilità della vita di esaurirsi
in quella forma in cui pure necessariamente deve calarsi. Non ci
vorrebbe molto, in effetti, per riportare Diana e la Tuda nel conte-
sto della poetica pirandelliana, e notare per esempio le analogie
con le dichiarazioni di Hinkfuss, il regista di Questa sera si recita a
soggetto («Ogni scultore […] dopo aver creato una statua, se vera-
mente crede d’averle dato vita per sempre, deve desiderare che es-
sa, come una cosa viva, debba potersi sciogliere dal suo atteggia-
mento e muoversi, e parlare. Finirebbe d’esser statua …»125); ma
quello che interessa qui è invece seguire il filo del nostro tema, co-
gliere, piuttosto che le risonanze interne al corpus pirandelliano,
gli echi dei testi appena letti.
L’eco del grido di Christine, ad esempio. L’urlo disperato che
risuona nella chiusa dell’Opera, «perché sono viva, io!», è il grido

125 Le dichiarazioni di Hinkfuss si leggono in Questa sera si recita a soggetto; richia-

ma l’attenzione su di esse C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia, 1970.


132 Lo sguardo reciproco

di Tuda nelle primissime battute del testo di Pirandello: «Sono di


carne, oh!»126. Non è ancora tragedia, a questo punto. È solo la
protesta della modella stanca per la posa troppo lunga cui la co-
stringe Sirio Dossi, e che trova appoggio nel vecchio scultore
Giuncano. Quest’ultimo ha smesso di fare statue per la rabbia e
l’impotenza di vederle immobili, eterne ma senza tempo, mentre la
vita è un fluire, e dunque anche un invecchiare. Se potesse farle vi-
ve, le statue, tornerebbe a scolpire. «Poter dar loro, con la forma,
il movimento, e avviarle, dopo averle scolpite, per un viale infinito,
sotto il sole, dov’esse potessero andare, andare sempre, sognando
di vivere lontano, fuori dalla vista di tutti, in un luogo di delizia
che sulla terra non si trova, la loro vita divina»127. Ma lo sviluppo
tragico incombe già in questo avvio, se si affaccia nella battuta
premonitrice di Giuncano a Sirio: «Uccidila, uccidila, sarà fermis-
sima!»128. Il dramma non è ancora iniziato, e già l’immobile fred-
dezza della statua sembra far segno verso l’immobilità della morte.
«Ah, papà Giuncano – scherza Tuda ancora in posa – vorrei darle
un bacio! ma glielo do qua, senta, sul mio braccio. Ah, Dio, fred-
do come se fosse morto!»129. Poco più avanti, ancora uno scambio
di battute tra la modella e il vecchio scultore. «Tuda: Dorme, mae-
stro? Giuncano: Fumo. Ti vedo nell’ombra. Tuda: Son bella?
Giuncano: Sì, cara. Morta. Tuda: Come, morta? Sirio (con un ur-
lo): Ferma! Tuda: Eh, dice morta … Giuncano: Appunto perché ti
vuole ferma così»130. Per Giuncano Tuda, con tutta la sua vitalità e
la sua bellezza rappresenta una sfida che l’arte ha già perso in par-
tenza. «Fanne ora una statua! Tutta un fremito continuo di vita:
ogni attimo un’altra!»131. Silvio Settala, nella pièce di D’Annunzio,
era pronto a raccogliere la sfida analoga che gli veniva dal corpo
sempre diverso di Gioconda («Immagina questo mistero su tutto il
suo corpo! Imagina per tutte le sue membra, dalla fronte al tallo-
ne, questo apparire di vite fulminee […]! Mille statue, e non
una!»132); Sirio Dossi pensa che solo l’arte possa dare consistenza

126 L. Pirandello, Diana e la Tuda, cit., p. 4.


127 Ivi, p. 17.
128 Ivi, p. 4.
129 Ivi, p. 6.
130 Ivi, p. 16.
131 Ivi, p. 18.
132 G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p. 82.
Amare una statua 133

alla vita, facendola durare nella forma: «E se non la fermi in un ge-


sto in cui consista, che è? Nulla. Giuncano: Vita! Vita! Sirio: Che
passa! Giuncano: Appunto! Sirio: Oggi non è più quella di ieri,
domani non più questa d’oggi! Ogni attimo un’altra! tante! io la
faccio una: quella! (indica la statua) per sempre! Giuncano: Una –
e per sempre – che non si muova più? Sirio: È l’ufficio dell’arte.
Giuncano: E della morte: che farà anche di te, di me una statua: su
un letto o per terra, quando vi giacerai, stecchito»133. A questo ini-
zio corrisponderà, simmetricamente, la chiusa dell’ultimo atto.
«Giuncano: Io ho voluto rispettar in te [ossia in Tuda] la vita! Al
contrario di quanto sta facendo ora lui! Sirio: Ah, io non la rispet-
to? Hai il coraggio di dire che io non la rispetto, perché voglio che
serva a qualche cosa che stia sopra e oltre quello che possiamo sof-
frire tu-lei-io stesso? Giuncano (con derisione): Tu? Sirio: Se ci
metto dentro tutta la mia vita, e quella degli altri. Giuncano: Ucci-
dendola? Sirio: No, anzi, perché non muoia più! Giuncano: E in-
tanto muoia sempre?»134.
Ma se l’arte è la nemica della vita, allora, ancora una volta, la
creazione dell’opera dovrà presupporre l’uccisione del desiderio,
la cancellazione della passione. Come Rubek, come Demetrio, co-
me Lantier, anche Sirio Dossi non può amare la sua modella, che
pure è l’ispiratrice della sua opera, la sola che possa aiutarlo a
compierla. È proprio intorno a questo tema che si sviluppa l’azio-
ne del dramma. Solo con Tuda Sirio riesce a lavorare alla sua Dia-
na. Ma la giovane modella è molto richiesta, e posa anche per al-
tri, perfino per un pittore che Sirio giudica un mediocre, un tale
Caravani. Quando viene a sapere che anche quest’ultimo vuole la-
vorare con Tuda ad una Diana, Sirio ha uno scoppio d’ira, una
scena di gelosia: che è, però, gelosia d’artista verso la modella e
non gelosia di innamorato vero l’amante. Ma Tuda, nella sua inge-
nuità fin troppo perspicace, centra subito il punto. «Ne sei gelo-
so? Ma quando un artista vuole una modella tutta per sé, sai che
fa? la sposa, caro!»135. E Sirio accetterà di sposare Tuda, ma con
un patto assai chiaro: egli ha bisogno di una modella, non di una
moglie. Tuda, dunque, si impegnerà a posare per lui soltanto, al-

133 Ivi, p. 19.


134 Ivi, p. 96.
135 Ivi, p. 14.
134 Lo sguardo reciproco

loggerà nella casa di lui, avrà tutti i diritti di una moglie. Ma en-
trambi conserveranno la loro libertà. Tuda potrà uscire con chi
vuole, Sirio continuerà a frequentare la sua amante Sara Mendel.
Un semplice affare, dunque, agli occhi di Sirio, non altrettanto a
quelli di Tuda. «Sirio: Tu avrai fatto comunque un ottimo affare,
stai sicura. Tuda: Affare! Non è affare soltanto! Sirio: Ah no, sol-
tanto. Il tuo corpo, per quel che mi deve servire. […] Tuda: Io
dovrò allora servire soltanto per la tua statua? Sirio: A me, soltan-
to per la mia statua. Tuda (sta a guardarlo un pezzo; poi, ambi-
gua, con aria di sfida): bada, oh, che io sono viva!»136. Tuda non
starà ai patti. Si innamorerà (o forse, meglio, è sempre stata inna-
morata) di Sirio, e, offesa e umiliata dal comportamento di lui,
deciderà di vendicarsi nel solo modo che ha a disposizione, deci-
dendo di tornare a posare per l’odiato Caravani. «Tuda: Perché
questo sarebbe l’unico tradimento che io potrei fargli. Sara: Sicu-
ro: da modella. Non potendo tradirlo come moglie»137. Nella sce-
na che oppone Sara Mendel a Tuda nel secondo atto, sembra che
quel che ha indignato la modella e la spinge a rifiutare tutti i van-
taggi materiali della sua nuova situazione sia la gelosia per l’aman-
te di Sirio, che continua a frequentare la casa di lui ed anzi si è
perfino fatta dare la chiave dello studio in cui Tuda posa. Nel cor-
so del terzo atto, tuttavia, comprendiamo che le cose sono più
complesse e che la vera rivale di Tuda non è una donna in carne
ed ossa, ma una statua. La sua statua, la Diana. Nel racconto che
Sara Mendel fa a Giuncano abbiamo ancora l’interpretazione più
semplice, in chiave di gelosia tradizionale. Sara racconta di come
ha spinto Tuda al ‘tradimento’, di come si è procurata la chiave
dello studio di Caravani in modo da poter far sorprendere Tuda
mentre posava nuda per il rivale, racconta il duello che ne è se-
guito fra Dossi e Caravani. Da allora, Tuda è sparita, e Sirio non è
più riuscito a lavorare alla sua statua («Giuncano: Ormai non può
più finirla, quella statua, se non con lei […] se ne accorge adesso
che sente mancarsi tra il pollice e la creta il dono con cui lavora-
va»138). La nuova modella che ha convocato, Jonella, non gli ser-
virà, e lui per primo ne è consapevole, se è andato di persona a ri-

136 Ivi, p. 35.


137 Ivi, p. 60.
138 Ivi, p. 74.
Amare una statua 135

cercare Tuda, e ha tentato in tutti i modi di ricondurla da lui.


Nella scena culminante e conclusiva tutti i protagonisti si ritrova-
no nello studio di Sirio. È a questo punto che Tuda rivela il suo
vero dramma. Tuda si è accorta che Sirio ha usato le sue sofferen-
ze di innamorata non corrisposta, il suo tormento per la passione
ignorata, perché gli serviva trasferirli nella sua opera. E allora
mette in guardia la nuova modella dal destino che l’attende se ac-
cetta di posare. Le mostra la statua, e grida «Guardala! Guardala
bene! Guardale gli occhi! gli occhi! – e or guarda qui i miei! – ve-
di? vedi? sono i miei, là – questi – come me li stai vedendo ora –
da pazza – e così, perché me li hanno fatti diventare così – da
pazza – tutti e due […]! Non li aveva lei (indica la statua) prima,
questi occhi – erano altri, i suoi occhi! – Lui me li ha presi e glieli
ha dati: guardala: – e quella mano là che tocca il fianco – la vedi?
– era aperta, prima, quella mano! vedi, ora? chiusa, serrata a pu-
gno. Me l’hanno fatta chiudere, serrare loro così, per resistere al
supplizio, e la statua, vedi, anche lei – l’aveva aperta: ha dovuto
chiuderla! gliel’ho veduta chiudere – non ha potuto farne a me-
no! Non è più quella che lui voleva fare! Sono io ora là,
capisci?»139. Quello che Sara Mendel non ha compreso è che Si-
rio si è servito di lei tanto quanto si è servito di Tuda, sacrifican-
dole entrambe alla statua: «Tuda: S’è approfittato di voi, come di
me, per la sua statua – di quanto voi m’avete fatto soffrire – […]
perché giovava alla sua statua!». Sirio, insomma, si è servito della
gelosia suscitata in Tuda dall’amante, ha fatto anche di lei uno
strumento, perché voleva impiegare la sofferenza di Tuda per la
sua scultura («Sirio: io non stavo qui come un gonzo a fare la ridi-
cola figura dell’uomo conteso da due donne»140). Ecco come Tu-
da è arrivata a capire quel che stava accadendo: «Tuda: Lo com-
presi subito, sa perché? perché quand’ero lassù [in posa sul piedi-
stallo] avrebbe dovuto gridarmi “Non fare questi occhi!” “Apri
quella mano!”. Non me lo gridò mai. Giuncano: lasciò la statua
serrare la mano, e avere quegli occhi! Tuda: Oh, ecco! e di que-
sto, vede, sono andata a vendicarmi con quello stupido là (a Sirio)
perché tu che in me t’eri comprata la modella, della modella ti
dovevi servire per la tua statua com’era; e non di me che soffrivo,

139 Ivi, p. 89.


140 Ivi, p. 91.
136 Lo sguardo reciproco

per farla diventare un’altra!»141.


È a questo punto, mentre Sara Mendel, infuriata, vorrebbe
troncare tutto, che Tuda intravvede la possibilità di un’estrema ri-
vincita. Ogni cosa deve rimanere uguale, perché la statua possa
essere compiuta: «Tuda: Vorreste, dopo quello che m’avete fatto
soffrire, che egli non finisca ora la sua statua? Eh no, la deve fini-
re, la deve finire! E dunque voi dovete seguitare a venire qua»142.
Se Tuda è stata sacrificata alla statua, pure conserva su di essa un
potere, giacché è solo grazie a lei che la statua potrà essere finita.
Tuda potrebbe ancora essere Gioconda. Sarà Giuncano a toglier-
le questa estrema illusione. Quella sofferenza che Sirio le ha cau-
sato a bella posta per riprodurla nell’opera, ha anche macerato il
corpo e i lineamenti di Tuda, sì che ella non solo non potrà più
essere amata, ma nemmeno potrà più essere la modella della Dia-
na. Solo a questo punto Tuda si accorge che per lei è veramente
tutto perduto. «Ah già, è vero … è vero … Oh Dio, come faccio?
È vero, … così non posso più … è vero! Non posso più! Ma lei lo
capisce? Là, con la mia carne, col mio sangue, con gli occhi che
vedevano ciò che faceva di me, che mi prendeva, mi prendeva tut-
ta per la sua statua; essere io, là – viva – e non essere nulla […]!
Lo so, lo so, non dovevo essere nulla per lui; ma ero di carne, io!
di carne che mi si è macerata così»143. Nell’ultimo scontro tra Si-
rio e Giuncano tornano a contrapporsi le convinzioni estetiche
che già avevamo visto in conflitto nel primo atto. «Giuncano: un
fantoccio di cartapesta tu dovevi sposare per la tua statua! Ti sa-
rebbe rimasto lì fermo, come doveva essere – per la tua statua, là
ferma anch’essa, come doveva essere: tempo senza età: la cosa più
spaventosa […]! L’età che è il tempo quando diventa umano – il
tempo quando duole – noi, di carne: questa poverina che non è
più come dovrebbe essere per la tua statua, ma come può essere
dopo aver sofferto quello che voi – tu e quell’altra – le avete fatto
soffrire […]. Sirio: Hai tu coscienza che la mia statua sia bella?
bella, veramente bella? E che vuoi che m’importi d’altro, dunque,
se poi pagherò io più di tutti la mia opera compiuta? Giuncano:
Se per te la vita non ha più prezzo. Sirio: Ma questo prezzo: la

141 Ivi, p. 92.


142 Ivi, p. 94.
143 Ibidem.
Amare una statua 137

mia statua!»144. Mentre udiamo le ultime grida di Tuda disperata


(«Prendimi, prendimi, prendi la vita che mi resta, e chiudimi là
nella tua statua! […] Sì, che io vi muoia dentro! Se non mi vuoi
far vivere! […] cercava una pasta ardente da colare dentro alle
statue? Eccola! Eccola […]! Ci voglio essere io, là dentro»145),
mentre assistiamo al precipitare dell’azione (Tuda si avventa con-
tro la statua, o almeno Sirio crede che ella lo stia per fare, e si
slancia contro di lei minacciando di ucciderla; Giuncano, per im-
pedirglielo, lo aggredisce e lo uccide) ci accorgiamo che il rappor-
to che lega Diana e la Tuda agli altri testi che abbiamo esaminato
è diverso da quello che potevamo a tutta prima supporre, e si svi-
luppa su più piani. Molti indizi lasciavano ritenere che il dramma
pirandelliano fosse quello in cui il legame tra artista, modello e
statua era maggiormente risolto in una dialettica astratta, intellet-
tuale (vita e forma, informe vita che anela alla sua forma, etc.). si
poteva legittimamente supporre che il tema decisivo fosse quello
ibseniano della inibizione del desiderio (il che, almeno al livello
elementare del puro dipanarsi dell’intreccio resta immediatamen-
te vero). Ci accorgiamo ora, però, anche senza bisogno della sug-
gestione delle didascalie («nello studio si è fatto buio. Solo la sta-
tua, con la luce che cola dal lucernario, appare distinta. I quattro
che vi stanno sono come ombre nell’ombra»146) che il dramma di
Pirandello non potrebbe funzionare se non vi agisse in profondo
il tema romantico dell’immagine che sottrae vita alla vita, che
svuota il personaggio che dovrebbe rappresentare. Nella Diana, al
di là di ogni diversità, c’è qualcosa che ricorda il Ritratto ovale di
Poe. Forse è fatta dello stesso marmo nel quale è scolpita l’imma-
gine della Zambinella nel misterioso Sarrasine di Balzac. Forse,
come il titolo autorizza del resto a pensare, la vera protagonista
della pièce è lei, l’immobile statua di pietra.

144 Ivi, pp. 95-96.


145 Ivi, p. 97.
146 Ivi, p. 95.
II
Descrizioni
UN DIPINTO E I SUOI SONETTI
PROSERPINA DI DANTE GABRIEL ROSSETTI

Federica Mazzara

Ecco! È finito. Sopra il collo troneggiante/ la curva


della bocca esprime la voce e il bacio,/ gli occhi om-
brati ricordano – e guardano più in là.
Dante Gabriel Rossetti

Rossetti: un doppio talento

Dante Gabriel Rossetti si affermò nel panorama artistico del-


l’Ottocento inglese in piena epoca vittoriana. Per quanto sia anco-
ra oggi ricordato in quanto fondatore del movimento artistico del
Preraffaellitismo, a Rossetti vanno riconosciuti meriti ben più no-
bili che fecero della sua arte un esempio unico di ispirazione e abi-
lità artistica.
Come il suo più grande maestro, William Blake, Rossetti fu un
caso perfetto di Doppelbegabung, se si considera la sua prolifica
produzione pittorica e poetica. Questo scritto si propone l’analisi di
alcune specifiche pratiche artistiche che tradiscono, non a caso, la
sua doppia versatilità all’arte e un approccio intermediale che rap-
presenta una sorta di compromesso fra le due espressioni artistiche.
Double work: questa è l’etichetta che in questa sede si è scelto
di adottare per definire quelle particolari opere, all’interno della
sua produzione, che sperimentano varie forme di relazione tra due
sistemi di espressione, quello della parola e quello dell’immagine.
In modo particolare questo studio si soffermerà sull’analisi di un
particolare double work, Proserpina, un quadro-sonetto, in cui
confluiscono tutte le questioni che l’arte doppia di Rossetti solle-
va, e che qui cercheremo di porre in luce.
Personaggio complesso e ambiguo, Rossetti, come accennato,
fu riconosciuto come il fondatore del Preraffaellitismo, movimen-
to pittorico-letterario fondato a Londra nel 1848 da un gruppo di
142 Lo sguardo reciproco

giovani artisti (i pittori J.E. Millais, H. Hunt e J. Collinson, lo scul-


tore T. Woolner, lo scrittore F.G. Stephens e lo stesso Rossetti), ac-
comunati da uno spirito anticonformista rispetto ai rigidi e acca-
demici schemi dell’epoca vittoriana, ancora fedeli ai criteri rey-
noldsiani. I Confratelli, di contro, si fecero portatori di nuovi idea-
li artistici votati al recupero di una semplicità “primitiva” tanto
nell’arte pittorica quanto in quella poetica.
In questa prima forma, il movimento godette del riconoscimen-
to del critico più influente dell’epoca, John Ruskin1, il quale prese
le loro difese in due lettere inviate al Times, che tradiscono la co-
mune predilezione per temi medievali e per una rappresentazione
che combina fedeltà alla natura (attraverso uno studio maniacale
del dettaglio) e simbolismo tipologico, volto a scoprire nuove fonti
di bellezza e verità nell’arte. Questa prima forma del movimento
ebbe in realtà vita breve. Già a partire dagli anni ’50 si cominciò a
delineare una seconda fase, che venne definita “Preraffaellitismo
estetico”, dal carattere fortemente simbolico2.
Un credo fondamentale comune ad entrambe le fasi del movi-
mento era quello che le arti fossero “sorelle”. Non a caso, attraver-
so la loro esperienza pittorica dalla forte matrice letteraria, la dot-
trina dell’ut pictura poësis ricevette un forte impulso. I Confratelli
cercarono, in realtà, di praticare più di un’arte, e crearono una ri-
vista, The Germ3, in cui far confluire la parallela produzione lette-

1 L’opera che consacrò la fama di Ruskin, Modern Painters (1843-60), rappresentò


per i Preraffaelliti, almeno nella prima fase, un importante punto di riferimento teorico.
In modo particolare, Holman Hunt, fondatore anch’egli del movimento del Preraffaelliti-
smo, fece tesoro degli insegnamenti di Ruskin cercando di applicarli concretamente nella
sua arte pittorica. Il rapporto tra Ruskin e Rossetti, invece, conobbe presto un declino;
Ruskin, infatti, non apprezzò mai la “conversione” del preraffaellita alla sfera sensuale e
voluttuosa che marcò fortemente tutta la seconda parte della sua produzione artistica.
2 Hunt e Millais si tennero fuori da questa seconda fase, soprattutto per le temati-
che più dichiaratamente “voluttuose” verso cui andava l’arte di questo nuovo gruppo di
artisti, costituito da Dante Gabriel Rossetti, vero iniziatore, Edward Burne-Jones, Wil-
liam Morris, e il poeta Algemon Charles Swinburne. Non dominava più una tecnica pit-
torica di tipo realista, quasi fotografica, ma una volta a rappresentare setting e atmosfere
ombrose che facevano da sfondo a soggetti di “medievalismo eroticizzato”, tanto nell’ar-
te pittorica quanto in quella poetica. Non deve stupire che il Preraffaellitismo in questa
nuova veste, in cui dominava una forte complicità tra le due dimensioni del materiale e
dello spirituale, divenne modello per il successivo movimento estetico e decadente che
trovò, soprattutto nell’opera di Rossetti, una sorta di modello artistico di riferimento.
3 In realtà furono pubblicati solo i primi quattro numeri, il primo dei quali uscì
Un dipinto e i suoi sonetti 143

raria. Solo Rossetti, in realtà, riuscì bene in questa impresa, prati-


cando alternativamente e, spesso, simultaneamente le due arti.
L’intera produzione artistica di Rossetti rispecchiò pienamen-
te l’inquietudine che lo accompagnò lungo tutto il suo operato
artistico.
La sua doppia identità culturale, inglese e italiana, rappresentò
un primo motivo di ambiguità. Il padre Gabriele Rossetti, origina-
rio di Napoli, emigrato in Inghilterra nel 1824 come esule politico,
era professore d’italiano al King’s College di Londra, e s’impose
all’attenzione come poeta e studioso di Dante Alighieri. Egli eser-
citò l’influenza più forte sul figlio, soprattutto in relazione ai suoi
gusti letterari, istruendolo sin da giovanissimo sulla letteratura dei
poeti italiani tardo medievali e primo rinascimentali.
A Dante e ai medievali italiani si deve, inoltre, la prima “eserci-
tazione” artisto-letteraria di Rossetti, in altre parole la traduzione
inglese della Vita Nuova e di altre poesie italiane di quella stessa
epoca, che egli raccolse e pubblicò nel 1861 con il titolo di I poeti
italiani primitivi4.
L’attività di traduzione rappresentò la sua vera e propria consa-
crazione all’arte tout court. Tutta la sua attività artistica e culturale,
a ben guardare, non fu che una continua “traduzione”: fra lingue,
fra culture e soprattutto fra media artistici diversi.
La duplice vocazione artistica fu, però, anche motivo di turba-
mento e frustrazione per Rossetti. In una lettera inviata all’amico
Thomas Gordon Hake, datata 21 Aprile 1870, si legge:
Sono convinto di essere principalmente un poeta (entro i limiti delle
mie facoltà) e che sono le mie tendenze poetiche a dare valore ai miei di-
pinti; solo perché la pittura, diversamente dalla poesia, è un mezzo di so-

nel gennaio del 1850 (i successivi tre nel febbraio, marzo e maggio dello stesso anno).
The Germ, oltre ad essere l’organo di diffusione delle idee del gruppo prerafaellita, fu
anche il luogo in cui confluirono le prime pubblicazioni letterarie di Rossetti, come i
Sonnets for Pictures e il racconto Hand and Soul.
4 D.G. Rossetti, The Early Italian Poets from Ciullo D’Alcamo to Dante Alighieri
(1100-1200-1300) in the Original Metres, Together with Dante’s Vita Nuova, London,
Smith, Elder, 1861. Rossetti rivisitò questa raccolta curandone una seconda versione
che pubblicò nel 1874 col titolo di Dante and His Circle: With the Italian Poets Prece-
ding Him (1100-1200-1300), London, Ellis and White, 1874. Questo rappresentò il pri-
mo e più autorevole tentativo di iniziare il pubblico inglese ad un’antologia di poeti
medievali italiani.
144 Lo sguardo reciproco

stentamento, ho espresso la mia arte poetica principalmente in quella for-


ma; […] molti dei miei dipinti sono solo un mezzo per guadagnarmi da vi-
vere, mentre i miei versi, non avendo scopi lucrosi, sono rimasti incorrotti5.
Rossetti dedicò gran parte delle sue energie artistiche alla pittu-
ra. La poesia rappresentò però l’arte attraverso la quale cercò di
esprimere gli aspetti più intimi delle sue emozioni.
Il genio di Rossetti non si esaurì, in ogni modo, nell’abilità di
servirsi con eguale maestria tanto del mezzo pittorico quanto di
quello poetico. La grandezza di questo artista va piuttosto rintrac-
ciata in quel gioco di abili “illuminazioni” reciproche fra le due ar-
ti, che egli amava rendere spesso complici nel perseguimento dei
suoi fini artistici ed estetici.
Quando si considera la produzione artistica di Rossetti, infatti,
ci si scontra non solo con le difficoltà che generalmente pone l’a-
nalisi della produzione di un doppio artista, poeta e pittore, ma
soprattutto – come accade in buona parte della sua produzione –
con le difficoltà poste da una “doppia opera” in cui le due espres-
sioni, poetica e pittorica, convivono, a volte, in un unico spazio
creativo.
Va precisato però, che l’aspetto intermediale della sua produ-
zione artistica rappresentava l’espressione più alta di un “dialogi-
smo” presente, in forme diverse in quasi tutte le manifestazioni
della sua produzione artistica. Questa si contraddistinse proprio
per il fatto di essere un laboratorio di attraversamenti fra le due
arti delle quali sembra Rossetti non riuscisse a fare a meno.
La sua scrittura letteraria, infatti, tradisce spesso una predile-
zione per soggetti legati alla dimensione pittorica: si pensi a Il ri-
tratto, che, sebbene pensata come opera poetica indipendente,
s’inserisce in una logica di richiamo “intratestuale” a soggetti pit-
torici dello stesso Rossetti; o ancora ai suoi racconti Mano e anima
e Santa Agnese dell’Intercessione, in cui i protagonisti sono, in en-
trambi i casi, dei pittori.
Rossetti, inoltre, si servì del mezzo poetico per descrivere alcuni
dipinti che lo affascinarono particolarmente. È questo il caso dei
Sonetti per dipinti6, che egli scrisse durante un viaggio intrapreso

5 W. Fredeman, The Correspondence of Dante Gabriel Rossetti, Cambridge, D.S.


Brewer, vol. IV, The Chelsea Years, 1863-1872, II. 1868-1870, p. 371 (trad. it. mia).
6 I Sonnets for Pictures vennero dapprima pubblicati sul quarto numero della
Un dipinto e i suoi sonetti 145

negli anni ’40 con l’amico artista Holman Hunt, viaggio in cui eb-
be la possibilità di visitare alcuni prestigiosi musei, tra i quali il
Louvre. Qui, ad esempio, alcuni dipinti lo colpirono al punto da
volerne scrivere una traduzione in versi, un’ékphrasis volta a ri-
creare l’immagine in termini poetici. In una lettera inviata in quei
giorni al fratello William Michael, in cui Rossetti cerca di conden-
sare l’emozione di aver visto un dipinto come La pastorale di Gior-
gione, (in realtà attribuito poi a Tiziano) si legge:
Era così straordinariamente bella che ho voluto assecondare il mio de-
siderio di sedermi di fronte ad essa per scriverne un sonetto. In realtà de-
vi avermi già sentito entusiasta dell’incisione di questo dipinto, che imma-
gino abbia visto anche tu. Da un lato c’è una donna nuda che immerge
una brocca di vetro in un pozzo; al centro due uomini e un’altra donna
nuda che sembra abbiano temporaneamente cessato di suonare i loro
strumenti7.
In realtà, quasi tutta la sua arte pittorica fu d’ispirazione lette-
raria. Rossetti, utilizzò spesso le sue tele per tradurre visivamente
alcune scene letterarie per lui particolarmente significative, tratte,
ad esempio, da Dante (Il saluto di Beatrice, 1849-63; Il sogno di
Dante nel momento della morte di Beatrice, 1856-81), da Poe (Il
corvo, 1846-48), da Goethe (Faust, 1856) e dalla Bibbia (Ecce An-
tilla Domini, 1850; L’annunciazione, 1861).
Il forte richiamo fra le arti sorelle, dunque, caratterizzava ogni
ambito artistico praticato da Rossetti, in particolare laddove i due
aspetti del verbale e dell’iconico erano inscindibili.
Jerome McGann, a questo proposito, osserva come sia l’imma-
gine sia il testo si confrontino, nell’arte di Rossetti, in una sorta di
“urgenza espressiva” che può essere considerata al contempo ico-

rivista The Germ, nel 1850, secondo questo ordine: A Virgin and Child, by Hans Mem-
meling; in the Accademy of Bruges; A Marriage of St. Katherine, by the Same; In the Ho-
spital of St. John at Bruges; For an Allegorical Dance of Women, by Andrea Mantegna;
For A Venetian Pastoral, by Giorgione (in the Louvre); For Ruggiero and Angelica I e,
For Ruggiero e Angelica II. Quando Rossetti pubblicò la sua raccolta di Poems nel 1870,
inserì anche questi sonetti, escludendo i primi due e aggiungendone di nuovi, molti di
commento ad alcuni dei suoi stessi dipinti. Intitolò questa sezione Sonnets for Pictures,
and other Sonnets. Questo rappresentò l’ultimo tentativo di tenere insieme questo grup-
po di poesie espressamente collegate all’arte sorella, la pittura.
7 W. Fredeman, The Correspondence of Dante Gabriel Rossetti, cit., p. 114 (trad.
it. mia).
146 Lo sguardo reciproco

nica e linguistica. E questo può dirsi sia per le opere espressamen-


te doppie, sia per quelle poetiche e pittoriche autonome, volte, co-
munque, a sviluppare da un lato gli aspetti concettuali dell’imma-
gine, dall’altro il potere iconografico della parola8.
L’aspetto ancora più sorprendente e interessante di questa forte
interazione rossettiana fra i due linguaggi espressivi, è dato dal fat-
to che essa finisce per determinare lo stesso aspetto formale della
sua arte, soprattutto di quella verbale. Il senso di “corporeità” del-
l’arte portò Rossetti a fabbricare di sua mano anche gli elementi
più materiali delle sue opere, come le cornici, ad esempio, che egli
non considerò mai come dei limiti fisici da imporre all’immagine
dipinta, piuttosto come un’estensione della stessa e dei suoi ele-
menti concettuali.
Questo approccio programmatico e pragmatico si esprimeva
anche attraverso la sua arte verbale. La coreografia delle sue lette-
re, la sua arte calligrafica, è ciò dietro cui si cela anche il significato
della sua verbalità. Attraverso un gioco di decorativismo formale e
concettuale, il testo diventa iconico, un’opera da “osservare” pri-
ma ancora che da leggere. McGann parla a questo proposito di
objecthood delle sue opere, riferendosi alla materialità degli ele-
menti verbali in relazione allo spazio. Si pensi ai libri, che sebbene
appartengano alla sfera del verbale, integrano un’esperienza ico-
nografica grazie all’attenzione che l’artista preraffaellita dedica, ad
esempio, alle copertine o ai frontespizi degli stessi. In ogni caso, e
qualsiasi sia il suo punto di partenza, Rossetti persegue un metodo
che comporta interazioni iconiche e verbali9.
Questa attenzione alla forma si realizza al meglio in quelle opere
che abbiamo definito doppie, double work, in virtù dell’esplicito e
reciproco richiamo tra il testo poetico e il corrispettivo pittorico.
Double work10 è l’etichetta che, come già accennato, identifica

8 J. McGann, Dante Gabriel Rossetti And The Game That Must Be Lost, New Ha-

ven, Yale UP, 2000, p. 72. Lo studio dell’arte medievale, in modo particolare dei testi il-
lustrati e miniati, e dell’arte giapponese funzionò per Rossetti certamente da stimolo a
perseguire sperimentalismi artistici caratterizzati da forme di aggregazione tra immagi-
ne e parola.
9 Ivi, pp. 67-68, 75.
10 Fu Maryan Wynn Ainsworth a definire per la prima volta questa modalità com-

binatoria di Rossetti col termine di Double Works (M.W. Ainsworth, Dante Gabriel
Rossetti and the Double Works of Art, New Haven, Yale University Art Gallery, 1976).
Un dipinto e i suoi sonetti 147

in questa sede tutte quelle opere, all’interno della produzione arti-


stica di Rossetti, che non tradiscono semplicemente un richiamo
all’altra arte, ma si servono di questo per amplificare l’effetto e il
significato dell’opera stessa. Dipinti, di mano di Rossetti, per i
quali egli realizza uno o più sonetti d’accompagnamento (sonnets
for pictures, come lui stesso li definisce), ma più precisamente for-
me miste, in cui i due linguaggi artistici dialogano e si mescolano,
trasformando la scrittura in arte calligrafica e creando una rete di
integrazione reciproca fra i due linguaggi.
La fruizione di un’opera siffatta produce un terzo livello di si-
gnificato, indipendente tanto da quello verbale quanto da quello
visuale, ma pur sempre derivante da essi, poiché frutto della loro
sinergia.
In questo caso, come osserva Paola Spinozzi nel suo recente
studio, «le metamorfosi dei quadri in opere verbali destabilizzano
le reciproche illuminazioni, perché suggeriscono obliquamente
che la risignificazione da un codice all’altro rivela disseminazioni
semantiche […]. Le ékphraseis di Rossetti […] sono indagini sui
nessi referenziali fra parola e oggetto, dove la preoccupazione in-
terartistica per le corrispondenze formali e tematiche fra i dipinti e
le ‘poesie per dipinti’ è gradualmente posposta all’interrogazione
meta-artistica»11.
Se questo è vero per le opere doppie in cui l’interartisticità è
“allusiva”, lo è ancora di più per quelle forme di opere doppie in
cui il contatto fra i due linguaggi è “fisico”, in cui, cioè, il testo
verbale si infiltra nello spazio della rappresentazione pittorica, la
tela, e in quello attorno ad essa, la cornice.
In questo caso, ancora più specifico, l’opera doppia di Rossetti
determina un rituale di descrittivismo reciproco che potremmo
definire “ékphrasis sinergica”, caratterizzata da dialogicità e sin-
cronia fra i due mezzi. Questi ultimi aspetti si aggiungono, in un
meccanismo di mise en abyme, alla caratteristica “auto-referenzia-
le” e “meta-artistica” propria dell’ékphrasis verbale, che utilizza
l’opera d’arte come pretesto visuale per riflettere sulla propria ca-
pacità creativa, o meglio ri-creativa, dell’immagine12.

11 P. Spinozzi, Sopra il reale. Osmosi interartistiche nel Preraffaellitismo e nel Sim-

bolismo inglese, Firenze, Alinea, 2005, p. 230.


12 Per un approfondimento sulla questione dell’ékphrasis, come caso specifico di
148 Lo sguardo reciproco

Nel caso dell’ékphrasis sinergica, non è solo il testo a ricreare


l’immagine, ma la stessa immagine a ricreare il testo verbale, attra-
verso un meccanismo di integrazione ermeneutica e sinestetica dal
quale il lettore-osservatore non può prescindere.
Come osserva Richard Stein, anche lui molto attento al formali-
smo dell’arte poetica e pittorica di Rossetti, al lettore/osservatore è
richiesto di “leggere” queste opere, secondo una modalità diversa
rispetto a quella lineare cui è abituato: l’occhio deve muoversi se-
guendo un movimento oscillante al fine di ricavarne una forma
nuova13. Inoltre l’interpretazione del ricettore diventa necessaria
per la decodificazione di un’opera siffatta, che non è più solo ver-
bale, né più solo iconica, ma una forma altra, derivata dalla combi-
nazione concettuale e formale dei due linguaggi.
Questa forma doppia finisce per diventare l’unica in grado di
risolvere l’urgenza artistica di Rossetti votata al raggiungimento di
una wagneriana opera totale, in cui egli sembra trovare la soluzio-
ne al dilemma artistico che lo accompagnò tutta la vita. Attraverso
questa convergenza intermediale “fisica” Rossetti espresse senz’al-
tro il suo linguaggio artistico più potente, la cui dimensione onto-
logica si definisce nella terra di confine fra i due sistemi espressivi.
I Double Work di Rossetti, in cui l’ékphrasis sinergica diventa il
terreno comune tra il “dicibile” e il “visibile”, sembrano quasi
suggerire una risposta ante-litteram al problema che Foucault, e

interartisticità, si rimanda, tra gli altri, agli studi di J. Hagstrum, The Sister Arts. The
Tradition of Literary Pictorialism and English Poetry from Dryden to Gray, Chicago,
University of Chicago Press, 1958; Ph. Hamon, La description littéraire: de l’antique à
Roland Barthes, Paris, Macula, 1991; M. Krieger, Ekphrasis: The Illusion of the Natural
Sign, Baltimore, London, The John Hopkins UP, 1991; W.J.T. Mitchell, Picture Theory:
Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago, University of Chicago Press, 1994;
J. Hollander, The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, Chicago, Chica-
go UP, 1995; G.F. Scott, Sculpted Word: Keats, Ekphrasis, and the Visual Arts, Hanover
NH, University Press of New England, 1994; P. Wagner (a cura di), Icons-Texts-Icono-
texts. Essays on Ekphrasis and Intermediality, Berlin, Walter de Gruyter, 1996. Per il
panorama italiano si rimanda agli studi di U. Eco, “Les sémaphores sous la pluie”, (Rela-
zione al seminario presso la Scuola Superiore di Studi umanistici dell’Università di Bo-
logna, 26 marzo 2002), in «Golem-L’indispensabile» 7 (luglio 2002): http://www.gole-
mindispensabile.it; M. Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra
Settecento e Novecento, Roma, Meltemi, 2004; Id., Descrizione e desiderio. I quadri
viventi di E.T.A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005; P.V. Mengaldo, Tra due linguaggi.
Arte figurativa e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.
13 R. Stein, The Ritual of Interpretation, Cambridge Mass., Harward UP, 1975, p. 188.
Un dipinto e i suoi sonetti 149

con lui molti altri, solleverà un secolo dopo, quando nelle pagine
dedicate alla descrizione di Las Meninas, osserverà:
Il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. Non che la
parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforze-
rebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente
si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si
dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagi-
ni, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure
splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle
successioni della sintassi14.

Rossetti prova a dare una risposta e una forma artistica, visibile


e udibile, a questa irriducibilità teorica, e soprattutto alla sua più
grande preoccupazione, quella di rendere quanto più intelligibile
il messaggio della sua opera.
A questa tipologia artistica appartiene il quadro-sonetto che in
questa sede si vuole analizzare, Proserpina, un’opera in cui conflui-
sce in realtà tutta l’esperienza pittorica, poetica e interartistica di
Rossetti, e che può senz’altro assurgere a simbolo del tentativo
estetico di proporre, attraverso la complicità delle due arti, un’al-
ternativa di rappresentazione la cui anima risiede nello sguardo e
nella parola di Rossetti, l’unico profondo conoscitore del valore
“sinergico” delle sue opere.

Proserpina tra mito e realtà

L’opera doppia Proserpina, che arriva nella fase più matura del-
la carriera artistica di Dante Gabriel Rossetti, offre, nella sua dia-
lettica testo-immagine, spunti critici che non si limitano alla pro-
blematica dell’incontro fra due diversi codici artistici – il sonetto e
il dipinto – ma spingono a riflessioni ben più complesse.
Proserpina, collettore di tutti gli elementi caratterizzanti la car-
riera artistica di Rossetti, apre, infatti, nuove prospettive d’indagine
riguardanti l’incontro tra i due media. È sì un’opera doppia, ma an-
cor prima è la “riscrittura” verbale e visuale di un mito pagano che

14 M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966 (trad. it. di E. Panai-

tescu, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1998, p. 23).


150 Lo sguardo reciproco

proprio in epoca vittoriana imperversa nell’immaginario poetico.


Rossetti, inoltre, non si limitò a scrivere il sonetto d’accompa-
gnamento solo in versione inglese – come aveva già fatto per molte
altre opere doppie – ma ne scrisse anche una versione italiana,
dando a questa una particolare rilevanza, se si considera che nelle
versioni del 1874 e del 1877 sarà proprio il sonetto italiano ad es-
sere “dipinto” all’interno della stessa tela.
Il virtuosismo verbale di Rossetti, inoltre, inteso ad accompa-
gnare il corrispettivo pittorico, non confluì soltanto nei due sonet-
ti. Rossetti cedette anche alla tentazione di “descrivere” il suo di-
pinto, nei dettagli, in più occasioni, arricchendo la già copiosa let-
teratura ecfrastica che costella in modo particolare le sue corri-
spondenze epistolari. Rossetti si serviva spesso di questo espedien-
te per esprimere, con un approccio quasi da storico dell’arte, im-
pressioni estetiche sulle opere pittoriche, ma soprattutto per ci-
mentarsi in vere e proprie ékphrasis, capaci di far “visualizzare” al-
l’occhio della mente l’immagine da lui evocata. Di solito questo ti-
po di descrizioni erano caratterizzate da un approccio oggettivo
volto a ri-disegnare il profilo dell’immagine attraverso l’evocazione
verbale. In realtà, questi “suggerimenti narrativi” offrivano delle
vere e proprie chiavi interpretative di cui Rossetti si serviva per
guidare e dunque restringere la libera immaginazione dell’osserva-
tore, nella fattispecie il destinatario della sua missiva. La decodifi-
cazione, a volte ossessiva, delle sue tele nascondeva forse la vo-
lontà di celare un messaggio più profondo.
Proserpina raccoglie, dunque, anche questa forma di incontro
interartistico, in cui la parola descrive l’immagine da lui prodotta.
Il fatto che la figura rappresentata in questo dipinto sia un sog-
getto mitologico rende l’opera ancor più evocativa e densa di si-
gnificato. Proserpina, com’è noto, è la dea che generalmente viene
associata alla nascita delle stagioni e al Dio degli inferi, Plutone, il
quale volendola in sposa la rapisce e la costringe, dopo averle fatto
assaggiare un chicco di melograno, ad una vita a metà tra la terra e
gli inferi. Il mito è ben documentato dalle fonti classiche, dagli In-
ni omerici, alle Metamorfosi e ai Fasti di Ovidio, e ha continuato
ad ispirare artisti di ogni epoca; pittori, poeti, scultori, dramma-
turghi l’hanno resa protagonista della loro arte, alcune volte in ve-
ste di malinconica imperatrice degli Inferi, altre in quelle di fan-
ciulla simbolo della primavera.
Un dipinto e i suoi sonetti 151

In epoca moderna gli artisti hanno continuato a ripercorrere la


storia del mito di Proserpina, e in modo particolare – aspetto an-
cora più interessante ai fini della nostra analisi – l’epoca vittoriana
è stata protagonista di una trattazione ossessiva di questo mito, so-
prattutto in poesia. Si pensi ad opere quali Canto di Proserpina
(1839) di Percy Bysshe Shelley, Inno a Prosperpina (1866) e Il giar-
dino di Proserpina (1866) di Charles Algernon Swinburne, Il gior-
no delle figlie di Ade e La riconciliazione di Demetra (1883) di
George Meredith, Demetra e Persefone a Enna (1887) di Tenny-
son, Carmide, Il giardino di Eros, Teocrito e Una villanella (1878-
1881) di Oscar Wilde, e infine Gente di Baviera (1932) e Anemoni
viola (1931) di D.H. Lawrence.
Frank M. Turner ha provato a dare una giustificazione a que-
st’esasperato ricorso alla dimensione mitologica greca in epoca vit-
toriana. Secondo lo studioso, infatti, l’antichità greca cominciò ad
assorbire l’interesse degli europei nella seconda metà del diciotte-
simo secolo quando i valori, le idee e le istituzioni ereditate dal
passato romano e cristiano non parvero più applicabili alla loro
epoca. Gli autori vittoriani si impegnarono così a ritrovare, per
quanto possibile, se stessi nei greci15. Proprio in epoca vittoriana,
inoltre, cominciò a farsi strada una tendenza volta ad individuare
nel mito qualcosa di più complesso di un semplice archetipo cul-
turale da rivestire con abiti moderni. I miti, infatti, prestarono
chiaramente voce ad un più profondo linguaggio, quello della
paura, dell’aspirazione, del desiderio che esprime gli istinti e le ne-
vrosi della psiche umana.
Il mito di Proserpina ben si prestava a questo tipo di interpreta-
zione, considerato il forte legame con gli inferi e dunque con la di-
mensione del sottosuolo, corrispettivo simbolico di tutta quella mi-
steriosa dimensione del non conscio che gli artisti cominciavano,
proprio in quegli anni, ad esplorare, (non bisognerà aspettare che
un ventennio perché Freud pubblichi l’Interpretazione dei sogni).
Per Rossetti, e per la sua concezione estetica, il mito di Proser-
pina riveste inoltre un’importante funzione simbolica. Esso, infat-
ti, incarna il senso più profondo della sua concezione artistica, so-
spesa a metà tra le due dimensioni del materiale e dello spirituale,

15 F.M. Turner, The Greek Heritage in Victorian Britain, New Heaven, Yale UP,

1981, p. 2 ss.
152 Lo sguardo reciproco

della sensualità e del misticismo. Compito dell’arte, per Rossetti, è


quello di mettere in contatto questi due mondi; e la sua pratica ar-
tistica, in modo particolare, è volta a rappresentare iconicamente e
verbalmente questa continua tensione.
Walter Pater, influente voce critica del periodo vittoriano, fu au-
tore di un’acuta opera sui miti greci16, dove un intero capitolo vie-
ne dedicato al mito di Demetra e Proserpina. In questo testo Pater
traccia tre differenti fasi evolutive del mito greco tout court: la pri-
ma fase è quella che definisce “semi-cosciente o mistica”, in cui il
mito si presenta sotto forma di leggenda non scritta che passa di
bocca in bocca e di luogo in luogo raccogliendo impressioni primi-
tive del fenomeno naturale. La seconda è da lui battezzata “fase
conscia, poetica o letteraria”, in cui i poeti diventano i depositari
dell’immaginazione popolare che manipolano con mero interesse
letterario, semplificandone o sviluppandone le situazioni. Infine,
Pater individua una terza fase che definisce “etica”, in cui le perso-
ne e gli incidenti della narrazione poetica s’innalzano a simboli
astratti in quanto esemplificazioni di condizioni morali o spirituali.
Il quadro-sonetto Proserpina di Rossetti gravita, senza dubbio,
in quest’ultima fase, considerata la forte relazione implicita tra il
personaggio mitologico e quello reale della modella che posò per
questo dipinto, Jane Burden, moglie di William Morris e amante
dello stesso Rossetti.
Rossetti credeva che la Burden vivesse, come Proserpina, l’an-
goscia di una doppia identità, di una vita vissuta a metà tra una di-
mensione infernale, che Rossetti identificava col matrimonio che
l’aveva unita a William Morris, e una terrestre, corrispondente al-
l’idillio amoroso extraconiugale che la univa a sé17.
La pratica di riservare a parenti ed amici il compito di posare
per i propri dipinti era piuttosto comune tra i Preraffaelliti. A que-
sto proposito, Richard Stein osserva come la funzione più caratte-
ristica della pittura preraffaellita consistesse, appunto, in una sorta
di “ridefinizione” della vita, dell’esperienza personale, che avveni-

16 W. Pater, The Myth of Demeter and Persephone, in Id., Greek Studies, London,

Macmillan and Co., 1910 (trad. it. di P. Colaiacono, Studi greci, Roma, Editori Riuniti,
1994).
17 La relazione tra Rossetti e Jane Burden Morris fu molto travagliata. Nell’estate del

1868 Rossetti si trasferì nella villa dei Morris a Kelmscott, dove l’artista e Jane Burden tra-
scorsero diverso tempo insieme soprattutto durante le frequenti assenze di Morris.
Un dipinto e i suoi sonetti 153

va tramite l’immissione di uomini e donne contemporanei in evo-


cative dimensioni letterarie e storiche. In questo senso l’identifica-
zione con i modi dell’arte e i pensieri del passato era uno degli
aspetti di quella che Stein definisce una aesthetic masquerade, in
cui i Preraffaelliti sembrano darsi “reciproca assistenza” in una
sorta di trasfigurazione dell’essere. Questa transizione della vita
nell’arte, o dell’arte nella vita è, secondo Stein, il modo tipico dei
Preraffaelliti di partecipare a quello che lui chiama, un ritual of in-
terpretation. Anche i confratelli William Holman Hunt e John
Everett Millais creavano dipinti di questo tipo, e simili tendenze si
ritrovano anche negli scritti dei contemporanei Pater e Ruskin, in
cui si assiste ad una sorta di manipolazione romanzesca di materia-
li autobiografici. La questione è però centrale in Rossetti e si ri-
specchia in quella sua ossessiva ricerca di equivalenze tra eventi
personali ed eventi storici o immaginari, tanto nella sua pittura
quanto nella sua poesia18.
L’esempio più riconoscibile di questa “proiezione autobiografi-
ca”, è rappresentato da quei dipinti che ritraggono, in modo osses-
sivo e perturbante, il volto delle sue modelle-amanti. Così nella
prima parte della sua produzione, ritorna spesso il volto di Elisa-
beth Siddal, sua prima sfortunata consorte. Dopo la sua precoce
morte, entra in scena il volto di Fanny Cornforth, ex prostituta
che visse con lui nella Tutor House di Londra, in una situazione di
concubinato. Nella fase finale della sua carriera Rossetti si conver-
te, infine, ad un’altra immagine femminile, che appartiene alla
donna che rappresentò la sua passione, amorosa e sensuale, più
tormentata, Jane (fig. 1). Il suo volto segnerà “indelebilmente”
quasi tutti gli ultimi lavori pittorici di Rossetti che rappresentano
una sorta di variazione sul tema “Janey”.
Di lei dirà il romanziere Henry James, in una lettera inviata alla
sorella dopo una visita all’amico Morris:
Oh ma chère, vedessi che moglie! È una meraviglia in tutti i sensi. Im-
magina una donna alta e snella in un lungo abito di un tessuto color vio-
laceo, privo di cerchi (e di qualsiasi altra cosa, direi), con una massa di
scuri capelli ricciuti e raccolti, con grandi e delicati getti su entrambi i lati
delle tempie, un fine viso pallido, un paio di occhi swinburniani, tristi e
profondi, con grandi, scure e spesse sopracciglia oblique, unite nel mezzo

18 R. Stein, The Ritual of Interpretation, cit., p. 182.


154 Lo sguardo reciproco

Fig. 1. J.R. Parsons, Jane Burden


Morris, 1865.

e nascoste dai capelli, una bocca come quella dell’“Oriana” del nostro
Tennyson, un lungo collo, ornato non da collane ma da una dozzina di fili
di strane perline, raffinata nell’insieme. Sul muro vi era appeso un suo ri-
tratto di dimensione umana, eseguito da Rossetti, così strano e irreale,
che se non l’avessi vista, avrei detto si trattasse di una visione perturban-
te, e in realtà non era che un’eccezionale somiglianza19.
Rossetti sembra aver definito se stesso in rapporto ai grandi
personaggi letterari, storici o mitologici che rappresentò, imperso-
nando egli stesso, attraverso la sua pratica artistica, il ruolo dell’e-
roe che recita di fronte alle sue eroine. Si pensi a personaggi come
Beatrice, Lilith, Maria Maddalena o la stessa Proserpina, ognuna
delle quali è il soggetto di opere che divennero per Rossetti occa-
sione di esplorazione della natura e del significato della sua stessa
esperienza personale.

19 H. James, A Pre-raphaelite Lady in her Home Setting, in D. Stanford (a cura di),

Pre-Raphaelites Writing, an Anthology, London, Dent & Sons, 1973, p. 97 (trad. mia).
Un dipinto e i suoi sonetti 155

Il mito tra testo ed immagine

Rossetti eseguì otto versioni di Proserpina, quasi ambisse alla


perfezione di questo quadro. In realtà, sembra che la reiterazione
di questo dipinto fosse più legata alla cattiva sorte cui sembrò de-
stinato. Lo stesso Rossetti, come ci informa il fratello William Mi-
chael, cominciò a credere che vi fosse una maledizione attorno a
questo dipinto, dal quale comunque l’artista continuò a sentirsi
fortemente attratto, lo dimostra il fatto che non smise mai di ese-
guirne nuove copie.
In una lettera a Ford Madox Brown, lo stesso Rossetti raccon-
terà le disavventure di questa opera:
Tre furono rifiutate dopo essere state quasi completate. La quarta mi è
costata una lite con Parson e mi è stata riportata indietro. La quinta ha
avuto per due volte il vetro rotto e sostituito ed è stata rifoderata due vol-
te per rimediare agli incidenti. La sesta ha avuto la cornice rotta due volte
e il vetro una volta, ed è stata resa quasi inutilizzabile da un incidente ac-
cadutole mentre veniva trasferita in un nuovo telaio e ora è scampata per
poco ad una distruzione totale20.

Le versioni ad olio a noi giunte sono quella del 1874 (fig. 2), ce-
duta alla Tate Gallery di Londra nel 1940, che corrisponde alla set-
tima versione (quella qui presa in esame), e l’ultima copia del 1882,
conservata al Museum and Art Gallery di Birmingham (fig. 3).

20 O. Doughty, J.R. Wahl (a cura di), Letters of Dante Gabriel Rossetti, 1828-1882,

cit., vol. III, p. 1253 (trad. mia). Maria Teresa Benedetti ne chiarisce meglio i passaggi
nel commento al quadro (M.T. Benedetti, Dante Gabriel Rossetti, Milano, Charta, 1998,
p. 306): «Delle prime due versioni di questo dipinto sembra non fosse rimasto per nulla
soddisfatto, così decise di distruggerle e ritagliarle. La terza copia ebbe un simile desti-
no, e alcune parti vennero ritagliate per confluire più tardi in Blanzifiore. Howell e Par-
son acquistarono la quarta versione di Proserpina nel maggio del 1873. L’opera però ri-
mase invenduta e per questo ritornò all’artista. La quinta versione, completata nell’au-
tunno del 1873, venne promessa a Leyland, ma durante il trasporto fu misteriosamente
smarrita. La sesta copia venne inviata a Leyland in sostituzione della quinta, ma poiché
danneggiata durante il trasporto venne rispedita a Rossetti per essere ripristinata. Da
questo dipinto l’artista prelevò le parti rimaste intatte, le mani e la testa, le trasferì su di
una nuova tela, ridipinse lo sfondo e il drappeggio della veste e datò questo nuovo di-
pinto 1877, per poi venderlo a W.A. Turner. Per Leyland Rossetti eseguì una settima ver-
sione di Proserpina. Esiste anche un’ottava replica dello stesso quadro, in dimensioni ri-
dotte e ad acquerello, venduta nel 1878 a F. S. Ellis e poi passata a James Hutton. A que-
st’ultima copia Rossetti lavorò fino a pochi giorni prima di morire».
156 Lo sguardo reciproco

Fig. 2. D.G. Rossetti, Proserpi- Fig. 3. D.G. Rossetti, Proserpine, 1881-


ne, 1874. 82.

Altre copie superstiti appartengono a collezioni private, come


quella (la sesta) appartenente alla L.S. Lowry Collection (fig. 4).
Proserpina rappresentò per l’artista una sorta di “compiaciuto
tormento”. Nelle sue lettere ne fece spesso riferimento con espli-
cito orgoglio, come in quella inviata alla madre il 6 aprile 1873, in
cui si legge: «Ho quasi terminato il mio dipinto di Proserpina,
[…] e credo sia una delle cose più belle che abbia mai fatto»21.
Come ci informa il fratello William Michael, sembra che dap-
prima Rossetti intendesse rappresentare Eva con in mano il frutto
proibito, solo in un secondo momento decise di raffigurare la regi-

21 W.M. Rossetti, Dante Gabriel Rossetti. His Family-Letters with a Memoir, New

York, AMS Press, 1970, vol. II, p. 65 (trad. mia).


Un dipinto e i suoi sonetti 157

Fig. 4. D.G. Rossetti, Proserpi-


ne, 1873-77.

na degli inferi, probabilmente perché attratto dalla storia del mito


che sentiva, come già accennato, particolarmente affine alla sua
esperienza personale22.
Soffermiamoci sulla versione del 1874. Da un punto di vista fi-
gurativo, il quadro rappresenta la dea con in mano il frutto fatale,
il melograno. La figura posta di profilo occupa quasi l’intero spa-
zio rappresentato, il viso, posto di tre quarti, è rivolto verso l’ester-
no con lo sguardo perso nel vuoto.
Sullo sfondo, alle spalle della dea, si apre una finestra di luce ri-
flessa che probabilmente proviene da qualche fessura. Questa è
l’unica fonte di luce del dipinto che consente di “visualizzare” la

22 W.M. Rossetti, Dante Gabriel Rossetti as Designer and Writer, London, Cassell

& Company Limited, 1889, p. 80. È molto probabile che Rossetti abbia subito il fasci-
no e tratto ispirazione dalle poesie dell’amico Swinburne dedicate a Proserpina e di po-
co precedenti: Hymn to Proserpine e The Garden of Proserpine, entrambe del 1866.
158 Lo sguardo reciproco

figura rappresentata, la quale sembra trovarsi in un ambiente stret-


to e angusto. Tra gli altri elementi presenti nella scena ritroviamo
un ramo d’edera pendente che attraversa il quadro da destra verso
sinistra, in basso un incensiere acceso, e nell’angolo in alto sul lato
destro un cartiglio, con un sonetto italiano inscritto, attraversato
dal ramo d’edera. Tra gli elementi verbali “dipinti” sulla tela, oltre
al sonetto, vi è anche un’iscrizione all’interno di una piccola targa
in basso che recita in italiano «Dante Gabriele Rossetti ritrasse nel
capodanno del 1874», e ancora sul margine basso della cornice, un
sonetto inglese inscritto sul legno.
Il volto di Proserpina rappresenta le tipiche fattezze della don-
na rossettiana, ha un’espressione malinconica e triste di donna co-
stretta ad un destino che la tiene legata al mondo del sottosuolo
cui non sente di appartenere. C’è un momento di tensione suggeri-
to dall’incrocio delle mani della donna, la mano destra sembra tesa
ad impedire alla sinistra di addentare il frutto fatale, ma in realtà è
troppo tardi, come si deduce dall’evidente morso sul melograno.
Su tutta la tela domina il colore grigio nelle sue diverse grada-
zioni, quasi a sottolineare che si tratta di un’oscurità appena illu-
minata; si passa dal grigio blu della veste alla tinta più scura del
marmo. Il volto seducente della dea è segnato in modo particolare
dalle labbra carnose e rosse che sembrano specchiarsi in quel mor-
so dato al melograno, il quale lascia intravedere l’interno del frutto
fatale, altrettanto scarlatto23.
Altri elementi presenti nel dipinto contribuiscono ad accrescere
la sensualità della figura: i folti capelli sciolti, l’enorme collo e la
schiena scoperti, le dita lunghe e affusolate, l’incenso che brucia, tut-
to concorre a creare un’immagine di donna sensuale e tentatrice24.
La particolarità di quest’opera d’arte non è data certo dalla
complessità narrativa della scena rappresentata. L’immagine non
sembra suggerire, infatti, alcuna azione narrativa, almeno da un

23 Come ci informa Watts-Danton, Rossetti sembrava dare particolare attenzione,

non a caso, alle labbra che considerava la parte più sensuale del volto di una donna,
non meno di quanto gli occhi rappresentavano quella più spirituale. F. Watts-Danton,
The Truth about Rossetti, in «The Nineteenth Century», marzo, 1883, p. 412.
24 La forma stretta e allungata del quadro e la posizione della figura all’interno di

esso, come osserva la Parris, furono probabilmente suggeriti a Rossetti dal ritratto di
Smeralda Bandinelli di Botticelli, che egli aveva acquistato nel 1967 per la sua collezio-
ne privata (L. Parris, The Pre-Raphaelites, London, Tate Gallery, 1984, p. 232).
Un dipinto e i suoi sonetti 159

punto di vista figurativo: ci troviamo di fronte alla rappresentazio-


ne di un unico soggetto, una delle figure femminili tipiche della
tarda produzione rossettiana, che in questo caso indossa i panni
della regina degli inferi.
In cosa consiste, dunque, l’originalità di quest’opera? Senza
dubbio nell’uso sinergico dei due mezzi artistici. Non che questa
pratica, come abbiamo visto, rappresenti una novità nel modo di
operare di Rossetti, ma la sinergia mediale in questo caso compor-
ta un aumento della potenza semantica che arriva a coinvolgere il
piano sinestetico, come vedremo dall’analisi della corrispettiva
opera verbale.
Il rapporto tra il testo (sonetto) e l’immagine (dipinto) è “fisi-
co”, e non solo perché – come nel caso di molte altre opere dop-
pie – il sonetto d’accompagnamento è inscritto sulla cornice del
dipinto. In questo caso, infatti, il testo verbale invade lo spazio di
rappresentazione della tela e così facendo diventa elemento pitto-
rico esso stesso, rendendo il rapporto fra le due forme di rappre-
sentazione ancora più complesso. In questo caso, forse, sarebbe
più esatto parlare di opera “triplice” ancor più che doppia25. Ros-
setti, come già accennato, fece di questo quadro l’oggetto di atten-
te descrizioni, fatto che aumenta il fascino di un’opera che vale la
pena continuare ad esplorare, leggere ed ascoltare. Si tratta di
ékphrasis nel senso tradizionale del termine, descrizioni che si “li-
mitano” ad esporre gli aspetti più figurativi del dipinto.
Il primo esempio di questo tipo di ékphrasis è contenuto in una
lettera che Rossetti inviò a W.A. Turner, acquirente di una delle
copie di Proserpina, in cui l’artista descrive così il suo dipinto:
La figura rappresenta Proserpina nelle vesti di Imperatrice dell’Ade.
Una volta condotta da Plutone nel suo regno e resa sua sposa, Cerere, sua
madre, si rivolse a Giove, implorandolo di far tornare la figlia sulla terra.
Giove avrebbe accontentato la richiesta a condizione che la figlia non
avesse assaggiato neanche la più piccola parte dei frutti dell’Ade. Si sco-
prì però che Proserpina aveva mangiato un chicco di melograno e ciò la
incatenò al suo nuovo regno e al suo destino. È rappresentata in un cupo
corridoio della sua reggia, con il frutto fatale in mano. Al suo passaggio

25 Anche al dipinto La Bella Mano del 1875, Rossetti dedica un sonetto in due ver-

sioni, inglese e italiana. Nessuno dei due sonetti però è apposto sulla cornice, né è di-
pinto all’interno del quadro.
160 Lo sguardo reciproco

un bagliore, proveniente da uno spiraglio aperto improvvisamente, illu-


mina il muro alle sue spalle, accogliendo per un attimo la luce del mondo
terreno; lei vi lancia uno sguardo furtivo, assorta nei suoi pensieri. L’in-
censiere le è accanto, in quanto attributo di divinità. Il ramo d’edera sullo
sfondo (ornamento decorativo al sonetto inscritto sulla targa) può essere
considerato simbolo di una memoria intramontabile26.
Se la prima parte di questo testo rappresenta un’integrazione
interpretativa al dipinto – per riprendere i termini utilizzati da Mi-
chele Cometa in un recente studio27 – poiché aggiunge informa-
zioni sugli episodi salienti della storia mitica di Proserpina, la se-
conda parte è, più precisamente, la traduzione verbale della inten-
zione rappresentativa dell’artista sul piano pittorico.
Alla luce di quanto descritto, sembra che nulla sia lasciato alla li-
bera interpretazione dell’osservatore. Oltre al contesto “spaziale”
(«cupo corridoio della sua reggia»), sono gli oggetti simbolici del di-
pinto ad essere sottoposti a precise decodificazioni da parte di Ros-
setti, come ad esempio l’incensiere, «attributo di divinità», e il ramo
d’edera, che funge anche da «ornamento decorativo al sonetto in-
scritto sulla targa», unico accenno, in questa descrizione, al sonetto.
Prima ancora di sciogliere la simbologia di questi pochi elemen-
ti rappresentati, Rossetti fa alcune interessanti considerazioni sul
bagliore di luce proveniente «da uno spiraglio aperto improvvisa-
mente», in direzione del quale, «lei vi lancia uno sguardo furtivo».
Quest’ultima notazione aggiunge un dato nuovo all’interpretazio-
ne del dipinto, e cioè il fatto che, nelle intenzioni figurative di Ros-
setti, Proserpina non ha, come potrebbe sembrare, lo sguardo per-
so nel vuoto, piuttosto il suo sguardo, se anche assorto, ha una
precisa destinazione, la fonte di luce proveniente dalla terra.
Lo sguardo di Proserpina gioca, dunque, un ruolo fondamenta-
le per l’esegesi di questo dipinto, come dimostra anche l’analisi
che ne ha fatto Michael Kenneth Baquette, il quale afferma che
l’intera figura della dea è disegnata in modo da enfatizzarne il suo

26 W.M. Rossetti (a cura di), The Works of Dante Gabriel Rossetti, London, Hazell,

1911, p. 635 (trad. mia).


27 Cometa individua in quattro possibilità retoriche (denotazione, dinamizzazione,

risemantizzazione, interpretazione) una tassonomia che forse non esaurisce tutte le pos-
sibili variazioni ecfrastiche ma che certamente disciplina il suo raggio di azione. Cfr.
M. Cometa, Letteratura e arti figurative. Un catalogo, in «Contemporanea», 3 (2005),
pp. 15-29.
Un dipinto e i suoi sonetti 161

sguardo penetrante; e aggiunge che è come se Rossetti avesse ap-


positamente creato un movimento di linee che dirigono l’attenzio-
ne dell’osservatore verso gli occhi di Proserpina. Il movimento del
drappeggio, della curvatura che segue il braccio e dell’inclinazione
della testa sembrano, infatti, confluire in essi, a prescindere dal
punto in cui si inizia a leggere il dipinto28.
La descrizione presente nella lettera di Turner non fu l’unica
di cui Rossetti si servì per esplicitare la sua lettura ecfrastica di
Proserpina.
In un’altra lettera, datata 10 agosto 1875, e inviata all’amico e
confratello Frederick G. Stephens, Rossetti non solo inserisce en-
trambe le versioni, italiana e inglese, del sonetto d’accompagna-
mento al quadro Proserpina e a La Bella Mano, ma vi aggiunge
un’interessante descrizione del dipinto:
Il quadro è uno studio di tinte grigie che culminano nel colore del
drappeggio, un blu caldo ma appena evidente. Proserpina tiene in mano
il melograno che, assaggiato all’inferno, le ha precluso il ritorno sulla ter-
ra. Sta attraversando un angusto corridoio del suo palazzo, e una luce ac-
cecante (come se una porta posta in alto si fosse aperta d’improvviso fa-
cendo penetrare per un momento la luce del mondo esterno) colpisce il
muro dietro di lei, mettendo molto in risalto la testa e la massa di capelli,
mentre volge lo sguardo triste verso il distante bagliore. Sul muro un ra-
mo d’edera s’incurva verso il basso, formando assieme alle tortuose linee
del drappeggio il motivo pittorico del disegno29.

Quest’ultima si sofferma ancora una volta sugli aspetti formali


dell’immagine, condensandoli rispetto alla prima descrizione, e fa
alcune nuove considerazioni, ad esempio sui colori: «studio di tin-
te grigie che culminano nel colore del drappeggio, un caldo blu
chiaro». Il bagliore di luce è qui definito “accecante” (sharp), e ne
viene specificato il punto da cui proviene, «una porta posta in alto
[…] aperta d’improvviso».
L’aspetto più innovativo di questo testo, potremmo dire, riguar-
da l’effetto di dinamizzazione dello sguardo del dipinto, enfatiz-
zato da tutta una serie di elementi quali la “massa dei capelli”, il

28 M.K. Baquette, Dante Gabriel Rossetti. The Synthetis of Picture and Poem, in

«Hartford Studies in Literature», n. IV, 1972.


29 D.G. Rossetti, Letter to Frederick Stephens (10 Agosto 1875), manoscritto con-

servato alla Bodleian Library (trad. mia).


162 Lo sguardo reciproco

“ramo d’edera” e il “drappeggio della veste”, che, assieme al fumo


dell’incensiere, creano, un movimento ondulatorio che fa da corni-
ce alla staticità marmorea del volto della dea: «un ramo d’edera
s’incurva verso il basso, formando assieme alle tortuose linee del
drappeggio il motivo pittorico del disegno».
In questo caso la parola rende tangibile l’immagine, rispettando
la funzione tradizionale dell’ékphrasis che consiste proprio nel
concedere alla dimensione spaziale della pittura una sua enargeia,
tanto da farla apparire “vivida”, appunto, all’occhio della mente.
Un’altra fondamentale descrizione è quella che di questo qua-
dro fa lo stesso Stephens nella biografia dell’amico pubblicata nel
1894, dieci anni dopo la morte di Rossetti, dal titolo Dante Gabriel
Rossetti30. In quest’opera, in cui Stephens analizza molte delle
opere di Rossetti, si legge a proposito di Proserpina:
Rappresenta a grandezza naturale la figura di Proserpina nell’Ade, con
in mano il melograno, assaggiando il quale la donna si precluse il ritorno
sulla terra. Sta attraversando un cupo corridoio del suo palazzo, e sul mu-
ro che le sta dietro si riflette uno spazio di luce ben definito. È la fredda e
bluastra luce argentea della luna che, grazie ad una lontana porta sopra
aperta, è penetrata nell’oscurità sotterranea, proiettandosi per un mo-
mento sul muro, rivelando le forme del viticcio dell’edera che languisce
nell’ombra e mostrando la regina, i suoi lineamenti, la massa abbondante
dei suoi capelli – che sembrano diventati più scuri rispetto a quando la
donna viveva sulla terra – e l’infelicità del suo volto. La luce rivela anche
la forma a spirale del fumo dell’incensiere (attributo di divinità) che, nel-
l’aria rafferma del corridoio, sale verso l’alto e diffondendosi svanisce.
Proserpina è ricoperta da una veste color blu acciaio, che si adatta timi-
damente alla sua debole e un po’ sciupata struttura dall’aria antica. Sem-
bra si muova lentamente con occhi volubili pieni di una rabbia che si
consuma piano piano. Tuttavia, essa è apparentemente immobile, se non
serena, e nella sua maestosità molto addolorata; troppo nobile per cedere
al lamento. In questi occhi dimora la profonda luce di un grande spirito,
e, senza troppa attenzione, essi guardano oltre l’oscurità davanti a lei. Le
sue labbra dalla forma perfetta, qui violacee ma un tempo rosse e plasma-
te dalla passione, sono compresse, simbolo di un animo energico deside-
roso di libertà, che con tutto il suo orgoglio soffre, invece di godersi il suo
essere divino. Le guance sono piuttosto smorte; il volto, per la fronte così
ampia, è quasi triangolare, e il naso come quello di una solenne figura.

30 F.G. Stephens, Dante Gabriel Rossetti, London, Seely, 1894.


Un dipinto e i suoi sonetti 163

Questi lineamenti sono incorniciati da una massa di cappelli ondulati co-


lor bronzato, brillanti nell’oscurità, che cingono la testa e cadono come
un ricco mantello sulle sue spalle e sul suo petto. La meraviglia del dipin-
to sta nel volto. La luce proiettata sul muro mette in forte rilievo la testa.
Lei si volta lentamente verso il distante raggio di luce; il ramo d’edera,
piegato verso il basso, partecipa, assieme alle oscillanti pieghe del drap-
peggio, alla composizione dell’insieme31.

Attraverso il filtro verbale di Stephens la scena appare in tutta


la sua solennità. La dea è descritta come una statua greca, una bel-
lezza marmorea, capace di trattenere la rabbia e dissimularla attra-
verso un contenimento austero anche se doloroso: «tuttavia, essa è
apparentemente immobile, se non serena, e nella sua maestosità
molto addolorata». Tutto si muove lentamente, la dea scivola pia-
no lungo il corridoio dove è ritratta, il suo volto si muove lenta-
mente verso quel bagliore di luce, mentre il fumo dell’incensiere si
alza piano, tagliando l’aria stantia che domina nel sottosuolo. Le
parole di Stephens animano poco la scena, ma ne aumentano la
sublimità eternandola attraverso una sublime e nobile ékphrasis.
In questa descrizione, in cui non si fa alcun accenno al sonetto, né
a quello italiano né a quello inglese, è particolarmente interessante
il riferimento alla luce che penetra in questo ambiente angusto e
che permette di visualizzare la scena. Si tratta della luce argentea
della luna32, secondo l’interpretazione di Stephens, che dà alla fi-
gura un aspetto ancora più livido e malinconico.
L’omologia/differenza tra immagine e testo nell’opera Proserpi-
na, però, emerge al meglio nella relazione tra il dipinto e il suo più
diretto corrispettivo verbale, il sonetto “dipinto” sul cartiglio.

Il sonetto tra cornice e cartiglio


Il sonetto italiano intitolato Proserpina [per un quadro], contri-
buisce senz’altro ad accrescere l’originalità di quest’opera rispetto

31 Ivi, pp. 79-80 (trad. mia).


32 Ipotesi assolutamente scartata dal fratello William Michael, il quale in una nota
a quest’opera dichiara: «Si è detto talvolta che la luce rappresentata nel dipinto Proser-
pine sia la luce della luna. Quest’idea, sono certo, è assolutamente incompatibile con la
tonalità e il colore dell’opera». W.M. Rossetti, The Works of Dante Gabriel Rossetti, cit.,
p. 253 (trad. mia).
164 Lo sguardo reciproco

alle altre opere doppie rossettiane. La poesia, scritta con caratteri


calligrafici, è, come accennato, assorbita dalla pittura che diviene,
in questo caso, un mezzo funzionale ad entrambi i livelli di testo,
visuale (dipinto) e verbale (sonetto), trasformando il sonetto in og-
getto iconico ed estetico. Testo e immagine sono in questo caso
pensati per condividere la stessa dimensione spaziale: è impossibi-
le apprezzare il dipinto senza soffermarsi sulla lettura dei versi ad
esso ispirati, così come parrebbe incompleta una mera lettura del
sonetto senza abbandonarsi alla contemplazione dell’immagine
raffigurata.
Il sonetto dipinto sul cartiglio è in versione italiana e recita:
Lungi è la luce che in sù questo muro/ Rifrange appena, un breve
istante scorta/ Del rio palazzo alla soprana porta./ Lungi quei fiori d’En-
na, O lido oscuro,/ Dal frutto tuo fatal che omai m’è duro./ Lungi quel
cielo dal tartareo manto/ Che quì mi cuopre: e lungi ahi lungi ahi quanto/
Le notti che saran dai dì che furo.// Lungi da me mi sento; e ognor so-
gnando/ Cerco e ricerco, e resto ascoltatrice;/ E qualche cuore a qualche
anima dice,/ (Di cui mi giunge il suon da quando in quando./ Continua-
mente insieme sospirando,) –/ “Oimè per te, Proserpina infelice!”
Il titolo del sonetto inglese è Proserpine [for a picture]:
Afar away the light that brings cold cheer/ Unto this wall, – one in-
stant and no more/ Admitted at my distant palace-door./ Afar the flowers
of Enna from this drear/ Dire fruit, which, tasted once, must thrall me
here./ Afar those skies from this Tartarean grey/ That chills me: and afar,
how far away,/ The nights that shall be from the days that were./ Afar
from mine own self I seem, and wing/ Strange ways in thought, and listen
for a sign:/ And still some heart unto some soul doth pine,/ (Whose
sounds mine inner sense is fain to bring,/ Continually together murmur-
ing,) – / “Woe’s me for thee, unhappy Proserpine!”
Rossetti scrisse dapprima la versione italiana del sonetto e ne
inviò una copia al fratello William Michael in una lettera datata 7
novembre 187233. Quella inglese fu scritta poco dopo e fu destina-
ta ad essere apposta sulla cornice34.

33 Una copia corretta del testo italiano è conservata a Princeton, e un’altra (in ver-

sione originale) si trova alla Boston Public Library, mentre una copia del sonetto ingle-
se è conservata alla British Library. Rossetti inviò inoltre una copia di entrambi i sonetti
all’amico Stephens, in una lettera datata 10 agosto 1875.
34 I due sonetti furono poi pubblicati – assieme all’altra coppia di sonetti
Un dipinto e i suoi sonetti 165

L’uso della cornice come luogo depositario di messaggi verbali


riferiti al dipinto – che torna spesso nella pratica dell’arte doppia
di Rossetti – è al centro di un interessante studio condotto da Gio-
vanni Pozzi, dal titolo Sull’orlo del visibile parlare35. In questo te-
sto Pozzi porta avanti un’analisi delle forme di intermediazione fra
immagine e testo nell’arte del XV secolo che, per certi versi, può
essere applicata anche al caso di Proserpina, se consideriamo so-
prattutto l’enorme ruolo che l’arte medievale ha giocato sull’espe-
rienza estetica di Rossetti.
Pozzi afferma che qualora la scritta si estenda sulla cornice,
questa «non tanto delimita quanto prolunga la raffigurazione e ciò
in due sensi: l’uno iconografico, perché la scritta appartiene alla
raffigurazione, fa parte di ciò che sta dentro, pur essendo fuori;
l’altro iconico, perché la cornice non è più zona neutra, ma è sup-
porto a quel fatto visivo che è necessariamente la scrittura, con la
stessa differenza che c’è tra un foglio stampato coi margini vuoti e
uno in cui i margini siano coperti di postille»36.
Ed è certamente questa la funzione che svolge la cornice in tut-
te quelle opere di Rossetti, in cui fa, appunto, da piano di scrittura
per il sonetto o per altre citazioni verbali.
In questo modo la cornice non si limita a circoscrivere l’imma-
gine rappresentata e dunque a definire, direbbe Victor Stoichita,
“l’identità della finzione”37, ma prendendo parte al gioco della
rappresentazione, ne estende e ne eleva la potenza semantica. Da
parergon, e dunque da semplice “ornamento” – secondo l’origina-
le significato della retorica antica – diventa ergon, opera essa stes-
sa. O, se si preferisce, rimane parergon secondo la definizione di
Derrida, per il quale:
Un parergon va contro, accanto, in aggiunta all’ergon, al lavoro com-
piuto, all’opera ma non rimane in disparte, bensì entra in contatto e coo-
pera, da un certo al-di-fuori, con il di-dentro dell’operazione. Non sem-

inglese/italiana di La Bella Mano – nella rivista The Atheneum il 28 agosto 1975, col ti-
tolo di Sonnets for Pictures. Rossetti li ripubblicò, con qualche variazione, nella raccolta
Ballads and Sonnets nel 1881.
35 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993.
36 Ivi, pp. 441-442.
37 V.I. Stoichita, L’instauration du tableau, Paris, Méridiens Klincksieck, 1993

(trad. it. di B. Sforza, L’invenzione del quadro, Milano, Il Saggiatore, 1998, p. 65).
166 Lo sguardo reciproco

plicemente da fuori, né semplicemente da dentro. È come un accessorio


che si è costretti ad accogliere sul bordo, a prendere a bordo38.

Le cornici dei quadri di Rossetti – che lui cura personalmente –


sono senz’altro un esempio di para-ergon, che ornano e completa-
no l’opera, “frontiere permeabili”, direbbe Joseph Hillis Miller,
“tra il dentro e il fuori”39.
Il motivo per cui Rossetti scelse di “dipingere” il sonetto italia-
no all’interno del quadro, nella versione del 1874 (e del 1878), e
quello inglese nella versione del 1882, non è affatto chiara, ma la
scelta non fu certo casuale.
In una lettera inviatagli dalla sorella Maria, questa si dichiara
d’accordo nel preferire la lingua italiana, dovendo esprimere, dice,
«pensieri che meglio si adattano ad uno spirito italiano». La scelta
è certo legata alla passione di Rossetti per lo stile poetico dei tre-
centisti italiani e al fatto che nella fattispecie la lingua italiana si
presta meglio alla descrizione di un setting siciliano del mito, evo-
cato dalle parole della stessa Proserpina: «Lungi quei fiori d’Enna,
o lido oscuro»40.
La “traduzione” inglese meritò, nelle versioni del 1874 (e del
1877) – quella qui presa in esame – di essere apposta “solo” sulla
cornice, quasi a volere offrire un supporto interpretativo a coloro
che non avrebbero compreso la versione italiana41. Il fatto che
Rossetti sia l’autore di entrambe le versioni, autorizza a non consi-
derare l’una la “traduzione” dell’altra. Si tratta, infatti, di due “so-
lidi” componimenti poetici, identici concettualmente e per nulla
indeboliti dalle inevitabili perdite che un atto di traduzione lingui-
stica comporterebbe; in altre parole, in questo caso, non si pone il

38 J. Derrida, La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978 (trad. it. di D. Pozzi,

G. Pozzi, La verità in pittura, Roma, Newton Compton, 1981, p. 63).


39 J. Hillis Miller, The Critic as Host, in «Critical Inquiry», vol. III, n. 3, 1977,

p. 441.
40 Proprio a questo proposito è importante sottolineare che l’ambientazione ad

Enna richiama la versione ovidiana del mito. È Ovido, infatti, il primo ad ambientare il
mito di Proserpina e Demetra ad Enna, nel lago di Pergusa. Precedente ad Ovidio è la
versione greca del mito, presente ad esempio negli Inni omerici, in cui si narra la storia
di Persefone e Cerere, ambientata nella valle di Nysa, in Grecia. Quasi tutti i poeti di
età vittoriana sembrano rifarsi, comunque, alla riscrittura romana del mito.
41 Nella versione del 1882, sul cartiglio è dipinta la versione inglese del sonetto, e

quella italiana scompare del tutto.


Un dipinto e i suoi sonetti 167

problema dell’opposizione originale-copia, condizione di qualsiasi


atto di traduzione.
Concentriamoci sul sonetto italiano dipinto sul cartiglio. La pre-
senza “perenne” del sonetto sulla tela, guida, attraverso la sua inte-
grazione interpretativa, lo sguardo dell’osservatore/lettore che, in
assenza di questo supporto, darebbe plausibilmente una lettura di-
versa al quadro. Il sonetto, infatti, se da un lato arricchisce, dall’al-
tro “orienta” la comprensione e l’esegesi di quanto è rappresentato
a livello figurativo, limitandone dunque il messaggio figurativo.
Catherine Golden, in un illuminante saggio dedicato alla two-si-
ded art di Rossetti42 – in cui prova a dimostrare come la ricezione
del dipinto Proserpina sarebbe sicuramente diversa senza l’ausilio
del testo – propone un’analisi del melograno all’interno del dipin-
to, che, proprio in rapporto al testo verbale, da semplice elemento
pittorico diventa un oggetto simbolico carico di senso. La Golden
afferma, infatti, che in assenza del testo scritto, che identifica il
melograno come il “dire fruit”/”frutto fatale” che ha costretto
Proserpina al suo tragico destino, questo “oggetto pittorico”
avrebbe semplicemente la funzione di guidare lo sguardo dell’os-
servatore. L’angolazione del frutto, infatti, dirigerebbe la nostra at-
tenzione verso gli occhi e le labbra della donna, elementi anch’essi
fortemente marcati a livello iconografico. È poi il sonetto a sposta-
re tutta l’attenzione dell’osservatore/lettore sul melograno. Il verso
che il sonetto dedica al frutto mortale, «dal frutto tuo fatal che or-
mai m’è duro», e che in inglese, sulla cornice, recita «Dire fruit,
which, tasted once, must thrall me here», aggiunge, tra l’altro, le
informazioni che aiutano a riportare gli elementi al proprio conte-
sto mitologico, che in questo modo viene più facilmente rievocato
nell’immaginario di chi contempla l’opera43.
La scena rappresenta la drammatizzazione di un evento già ac-
caduto, di cui a noi è dato visualizzarne, a livello pittorico, l’“atto
finale”: il frutto è ormai addentato, la dea vergine, figlia di Deme-
tra, è già imperatrice dell’Ade.
È interessante però notare un effetto particolare. Nonostante
non ci sia la rappresentazione del ratto (che altri pittori, come

42 C. Golden, Dante Gabriel Rossetti’s Two-Sided Art, in «Victorian-Poetry», n. 26,

4, 1988, pp. 395-402.


43 Ibidem.
168 Lo sguardo reciproco

Rubens, hanno scelto come momento pregnante per la trasposizio-


ne della storia mitica di Proserpina), il dipinto sembra, comunque,
in grado di narrare le fasi della storia mitica, in altre parole di rac-
contarne la temporalità. E se vi riesce anche solo a livello figurati-
vo attraverso, ad esempio, la rappresentazione del melograno, che
condensa i passaggi della storia – poiché è presente sulla scena co-
me oggetto simbolico che rievoca una tragedia ormai consumata
(morso) che l’ha relegata ad una vita a metà fra la terra (finestra di
luce) e l’inferno (cupo corridoio) – attraverso il cartiglio e la corni-
ce, o meglio ciò che in essi è inscritto, i passaggi temporali della
narrazione mitologica si esplicitano al meglio.
Il sonetto evoca il passato attraverso il riferimento ai «dì che fu-
ro», (rappresentato anche “pittoricamente” attraverso il ramo d’e-
dera, che come dice Rossetti nella sua descrizione ecfrastica è
“simbolo di una memoria intramontabile”) e si proietta verso una
dimensione di speranza futura: «e ognor sognando cerco e ricerco,
e resto ascoltatrice».
La combinazione di immagine e testo, entrambi “dipinti” sulla
tela, è in grado di rappresentare, dunque, non solo la dimensione
spaziale della storia mitica ma anche di narrarne gli eventi salienti,
sfidando abilmente i limiti imposti da Lessing alle due arti. E se è
vero che è la parola, l’arte del tempo, a svolgere la funzione narra-
tiva più importante, si tratta comunque di una “parola dipinta”
che vive appunto attraverso la pittura, e dunque è parte del suo li-
vello di rappresentazione. Il testo verbale esibisce così, anche in
questo caso, il suo potenziale iconico e coreografico, dimensione
cui, come si è visto, Rossetti dedica grande attenzione. L’artista-
poeta non scrive il sonetto sulla tela, piuttosto lo dipinge attraver-
so uno stile calligrafico che richiama il motivo ondulatorio del
drappeggio o della capigliatura della Dea. C’è dunque un equili-
brio “visivo”, una omologia strutturale fra la parola e l’immagine.
Il testo svolge una funzione decorativa e visuale anche se allo stes-
so tempo continua a veicolare significato rispetto all’immagine.
L’iconicità dell’arte verbale cioè non inibisce né congela completa-
mente la sua dimensione temporale e narrativa.
Al sonetto, in modo particolare, spetta il compito di “rianima-
re” la scena, alla maniera di un tableau vivant; ci catapulta nella
mente di Proserpina, e traducendo in versi l’espressione silente
della dea è come se le concedesse la parola. In questo senso il testo
Un dipinto e i suoi sonetti 169

mette in atto una perfetta prosopopea.


E se l’ottava ci fornisce i dati più oggettivi, la sestina ci porta
dentro i pensieri nostalgici e malinconici della Dea, per registrare
questa speciale momentanea emozione regalata dall’improvviso in-
gresso di un bagliore di luce, proveniente dal “mondo esterno”, da
lei immaginato e desiderato.
I versi dodici e tredici, in particolare, che recitano «di cui mi
giunge il suon da quando in quando. Continuamente insieme so-
spirando», marcano lo spostamento verso il discorso interiore.
Mentre l’ultimo verso, «Oimè per te Proserpina infelice», ci ripor-
ta a quella voce che a Proserpina pare di sentire e che lei spera la-
menti la sua assenza.
Questi ultimi versi accrescono altresì l’importanza della dimen-
sione uditiva che rafforza, come vedremo, la relazione fra i due
media, e l’estensione sinestetica di tutta l’opera.
Sulla tela va, infatti, sottolineato un particolare che senza il sup-
porto testuale potrebbe passare inosservato, l’orecchio scoperto
della dea – liberato dalla massa di capelli posti dietro – teso a pre-
stare ascolto a quei suoni lontani. La tela visualizza, in questo sen-
so, ciò che il sonetto suggerisce: Proserpina silenziosamente in
ascolto di un suono proveniente da Enna.
L’ultimo verso, oltre a consentire l’accesso del suono nella scena,
indica l’intrusione di un osservatore esterno44, nella fattispecie lo
stesso Rossetti, che partecipa all’infelice destino di Proserpina-Jane.
Come osserva Giovanni Pozzi:
Una scritta dentro un dipinto si rivolge sempre a qualcuno che la osser-
va. Ci sono tuttavia raffigurazioni che coinvolgono lo spettatore in modo
che diventi interlocutore e altre no. Questo comporta che un personaggio
parli dentro il quadro a uno fuori del quadro o viceversa, […] inauguran-
do una situazione di dialogo. L’atto di parlare può avvenire anche tra un
personaggio in scena e uno fuori che allora diventa osservatore45.

44 L’uso del discorso diretto nell’ultimo verso fa entrare in scena la dimensione

“fuori campo” anche a livello sonoro. È direttamente qualcuno dalla terra a parlare.
Questo verso è il momento di maggior “contatto” tra i due mondi.
45 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, cit., pp. 447-448. In quest’ultimo caso,

però, aggiunge Pozzi, la scritta generalmente non è posta su un cartiglio o in oggetti


dentro il dipinto, ma ai margini, il che rende il caso di Proserpina ancor più particolare.
46 Si potrebbe, inoltre, identificare la dimensione terrestre con quella di Kelmscott

dove l’artista si era trasferito proprio in quegli anni presso i Morris; qui Rossetti, come
170 Lo sguardo reciproco

Qui Rossetti entra in scena e “recita” di fronte alla sua eroina.


L’accessibilità sensoriale al mondo esterno non è limitata alla
sola dimensione uditiva. In realtà il sonetto, attraverso tecniche
evocative, integra la scena dipinta con tutte le altre dimensioni
sensoriali. Basta il solo riferimento ai “fiori d’Enna”, ad esempio,
per attivare tutta una serie di associazioni mentali che riportano ai
profumi e ai colori di un luogo connotato al punto da “visualizzar-
lo” attraverso l’immaginazione46.
E a questo proposito, sembra interessante riportare l’osserva-
zione di Baquette secondo il quale il quadro e il sonetto si pongo-
no in contrasto rispetto alla distanza/vicinanza del luogo esterno,
oggetto di desiderio:
Il mondo di Enna è quello fisico, il mondo del lettore-osservatore, ed è
lo sguardo penetrante di Proserpina a fare da collegamento tra la forma
artistica e il lettore-osservatore. La ripetizione di “lungi” enfatizza questa
separazione. Ma nonostante l’esclamazione poetica di distanza, il dipinto
in realtà appare molto vicino al mondo della realtà. […]. La forte luce
proiettata sul muro nello sfondo proviene probabilmente dal mondo reale
di Enna, e illumina nitidamente una area ben definita; in termini di logica
visiva, dovrebbe essere emanata da una fonte non più lontana di qualche
piede dalla superficie dipinta. Esiste, dunque, una tensione fra la distanza
asserita verbalmente fra i due mondi e la loro effettiva vicinanza visiva47.

La distanza fra i due mondi è creata, dunque, più a livello ver-


bale che figurativo, in cui la fonte di luce, il mondo terreno, non
sembra poi così lontana come invece la reiterazione verbale di
quel “lungi” lascerebbe pensare.
Un altro elemento che gioca un ruolo fondamentale sia nell’au-
spicata ricongiunzione fra i due mondi – quello terrestre e quello
del sottosuolo – che nella relazione tra il sonetto e il dipinto, è la
finestra di luce sullo sfondo. La luce che penetra dalla fessura e
che permette di visualizzare la scena, è, come ci viene detto nella

si evince dalle sue lettere, trascorre il tempo più rilassante in compagnia di Jane e delle
sue figlie. È qui che, tra l’altro, deve essersi consumata la relazione clandestina fra i due
amanti, data la frequente assenza in quegli anni del marito William Morris. L’inferno, al
contrario, potrebbe identificarsi con il periodo che Rossetti trascorse nella casa di
Cheyne Walk a Londra, una vita dai ritmi lenti e annebbiata dall’uso del cloralio.
47 M.K. Baquette, Dante Gabriel Rossetti. The Synthetis of Picture and Poem, cit.,

p. 223 (trad. mia).


Un dipinto e i suoi sonetti 171

descrizione dello stesso Rossetti, “momentanea”, dunque destina-


ta a spegnersi presto e con essa tutta la scena.
Questo quadrato di luce offre un nuovo anello di congiunzione
tra immagine e testo verbale. Si tratta di una vera e propria linea
d’orizzonte. Da un lato è l’unico elemento che consente di dare
profondità allo spazio rappresentato, dall’altro è anche l’unica fon-
te di luce che consente di visualizzare, anche se “per un breve
istante”, la scena che Rossetti fotografa sulla tela e che si svolge in
uno spazio angusto.
Questo riflesso di luce svolge anche la funzione simbolica di
mettere in contatto Proserpina col mondo terreno rievocato nella
sua memoria. Lo stesso Rossetti ne è convinto e in una lettera a
Leyland tiene a precisarlo definendo questa finestra di luce, insie-
me al gioco di chiaroscuri sullo sfondo, come il simbolo della divi-
sione del tempo di Proserpina tra la terra e l’inferno48.
Anche sul piano “verbale” questa divisione/unione è messa in
risalto, ed esattamente nel settimo e ottavo verso del sonetto, («e
lungi ahi lungi ahi quanto/le notti che saran dai dì che furo»), per-
fettamente speculari all’opposizione luce-buio che emerge al livel-
lo figurativo.
Se la finestra di luce consente di dare forma alla dimensione
spaziale, il contrasto con l’oscurità attribuisce significato alla di-
mensione temporale della scena. Sappiamo di essere all’interno
“del rio palazzo”, dimora di Plutone, e conoscendo la storia mitica
sappiamo anche che nel periodo in cui Proserpina rimane sposa
prigioniera del Dio degli inferi, la madre Demetra costringe la ter-
ra ad un lungo inverno, sospendendo la produttività, condizione
che avrebbe interrotto solo al ritorno della figlia.
La luce che penetra nel sottosuolo, attraverso una fessura, non
può che essere dunque una luce fioca, perché invernale, eppure
sufficiente ad illuminare quel luogo fin troppo oscuro e a risaltare
soprattutto le delicate fattezze della dea, la cui espressione racco-
glie tutta la sua frustrazione.
Proserpina è già rassegnata ad un destino ormai deciso, ad una
vita a metà tra la terra e gli inferi, tra la luce e il buio, tra l’inverno
e la primavera.
Le parole del sonetto, rievocando nostalgicamente il mondo

48 L. Parris, The Pre-Raphaelites, cit., p. 232.


172 Lo sguardo reciproco

terrestre, completano verbalmente la scena rappresentata, aggiun-


gendo l’irrapresentabile che vive solo nella memoria di Proserpina
e a cui il dipinto allude attraverso il bagliore sullo sfondo.
Concentriamoci infine sul luogo in cui il sonetto italiano è in-
scritto, il cartiglio. Anche la presenza di questo elemento tradisce
l’interesse di Rossetti per la dimensione iconica della scrittura, che
disegna, come su una piccola tela (il cartiglio appunto) la sua im-
magine verbale.
Il saggio di Giovanni Pozzi può aiutarci, ancora una volta, a
comprendere anche l’aspetto iconografico del testo verbale inseri-
to nel quadro Proserpina. La scelta di “dipingere” il sonetto den-
tro un cartiglio risponde senza dubbio alla tradizione della “rap-
presentazione assoluta”, tipica dell’iconografia cristiana:
La pittura occidentale a partire dagli inizi del secolo XV si caratterizza
perché rende la rappresentazione assoluta; tende ad affermare in modo
radicale l’unità dell’immagine nel suo aspetto di specchio del visibile.
Questo atteggiamento dovrebbe comportare una separazione altrettanto
radicale di testo e immagine. Invece si verifica il contrario. Certo vengono
elaborate nuove forme di integrazione del testo nell’immagine, si tenta di
assorbire la parola nella struttura totalizzante della rappresentazione;
donde la voga del cartellino su un monumento49.

Il fatto che il sonetto sia dipinto all’interno del quadro ne fa un


elemento pittorico, ma, come tiene a precisare Pozzi, l’uso del car-
tiglio, che in questo caso è un elemento estraneo alla rappresenta-
zione del dipinto, rischia anche di spezzare la verosimiglianza na-
turalistica. E invero, a livello formale, sembra non esservi alcun im-
mediato ed esplicito collegamento fra il cartiglio e il resto della sce-
na rappresentata; non un gesto del personaggio che lo indichi. Il
cartiglio sembra evidentemente estraneo e non funzionale allo svol-
gersi della scena rappresentata. L’unico e non indifferente “contat-
to” è costituito dal ramo d’edera su cui il cartiglio è come appeso,
e che, come abbiamo visto, lo stesso Rossetti nella sua descrizione
definisce «ornamento decorativo al sonetto inscritto sulla targa»50.

49 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, cit., pp. 451-452.


50 Ivi, p. 443. Esiste un ulteriore elemento verbale inserito in questo dipinto la cui
analisi però ci porterebbe un po’ oltre il nostro discorso. Si tratta della firma e della da-
ta inscritti su un cartellino in basso a sinistra. Il cartellino, osserva Pozzi, era quel sup-
porto completamente estraneo alla rappresentazione, e sovrapposto ad essa, che dava
Un dipinto e i suoi sonetti 173

L’uso del cartiglio, inoltre, secondo Pozzi, aumenta generalmen-


te l’oralità del messaggio, anche se non è sempre facile stabilirlo:
L’osservatore è costretto a leggere il testo applicato al dipinto, perché
questo non può essere che scritto. Però egli deve interrogarsi se quel te-
sto gli è offerto come dettogli da un personaggio dentro il dipinto, o reci-
tato da questo ad un altro lì presente, oppure se gli è esibito come un te-
sto da leggere, e in questo caso se egli è chiamato a rivolgerlo a qualcuno.
[…]. Quando l’iconografia non lo rivela, non è sempre agevole determi-
nare se il messaggio vada interpretato come scritto o come orale. […] In
linea di principio il messaggio riportato su un libro è da recepire come
scritto, quello su cartiglio come orale51.
Se, infatti, consideriamo che il cartiglio riporta la trascrizione
dei pensieri di Proserpina, alla maniera di un fumetto, non v’è
dubbio che si tratti di un messaggio “orale”. Il sonetto, grazie an-
che al luogo in cui è posto – un cartiglio attraversato da un ramo
d’edera simbolo di una “memoria intramontabile” – diventa il
mezzo attraverso cui suggellare la memoria di un luogo desiderato
e lontano, di cui è dato godere a Proserpina, solo un momentaneo
raggio di luce.
L’analisi della poesia all’interno del dipinto e sulla cornice ci ha
permesso di evidenziare le dinamiche ecfrastiche messe in atto da
Rossetti in questa opera doppia. Il sonetto vivifica l’immagine del
quadro, attraverso, tra l’altro, una delle più antiche tecniche ecfra-
stiche, l’integrazione sinestetica. I versi evocano “suoni” (i richia-
mi dalla terra), “visioni” (i paesaggi di Enna), “odori” (i fiori) e
“sapori” (il melograno) e integrano perfettamente l’immagine, de-
scrivendo i pensieri del personaggio e “vivificando” attraverso essi
tutta la scena. Il sonetto, inoltre, espone un’integrazione interpre-
tativa attraverso il riferimento a tutto ciò che nella tela non si vede,
e raccoglie la proiezione autobiografica consentendo a Rossetti di

l’impressione di essere incollato o inchiodato sopra la tela e che creava l’illusione di


non fare parte dell’opera, anche se era parte della scena dipinta. Questo accorgimento
era stato concepito, in epoca medievale, come supporto alla firma del pittore. Poi l’uso
fu esteso ad altro tipo di scritte. Rossetti, nella fattispecie, ne fa un uso tradizionale, ap-
ponendo sul cartellino la sua firma e la data di esecuzione: «Dante Gabriel Rossetti ri-
trasse nel capodanno del 1874». Continuiamo a ritrovare questo cartellino anche nelle
successive versioni con qualche variazione relativa alla data di composizione. Nell’ulti-
ma versione si legge, ad esempio: «Dante Gabriele Rossetti 1882».
51 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, cit., p. 445.
174 Lo sguardo reciproco

entrare personalmente in scena anche a livello verbale. Inoltre


proprio per il fatto di non essere una mera descrizione ma di “pe-
netrare” la scena rappresentata andando oltre essa, il sonetto rap-
presenta un modo ecfrastico più dinamico e narrativo di quello
messo in atto nelle descrizioni epistolari. L’immagine, da parte sua,
partecipa al rituale ecfrastico attraverso la presentificazione “rea-
le” dell’immagine verbale, e così facendo ne integra il messaggio
guidando al contempo l’immaginazione dell’osservatore.
Da queste osservazioni si evince quanto profonda sia la relazio-
ne tra “testo” e “immagine” nell’opera Proserpina. Il sonetto con-
tribuisce alla costituzione dell’opera nel suo insieme, aiutando ad
esplicitare la struttura verbale “celata” nella dimensione iconogra-
fica della pittura52, mentre l’immagine – che dipinge anche la pa-
rola concedendole una dimensione iconica – integra il testo gui-
dando l’immaginazione del lettore/osservatore.
È come se Rossetti avesse voluto avvalersi di tutti i mezzi artisti-
ci a sua disposizione per rappresentare una storia che assurge a
simbolo della sua stessa esistenza. Lea Ritter Santini afferma: «Le
immagini del sapere incontrano nel testo gli altri ideogrammi visivi
con cui gli autori scelgono di esprimere la metaforizzazione della
realtà»53. Ed è probabilmente una metafora della realtà ciò a cui
Rossetti desidera dare una forma quanto più aggraziata e perfetta
attraverso le pulsioni della sua poesia e i colori della sua pittura.

52 Ivi, p. 463.
53 L. Ritter Santini, Ritratti con le parole, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 8.
NOTE DI IMMORTALITÀ
HOFMANNSTHAL SUL CONCERTO CAMPESTRE
DI GIORGIONE

Roberta Ascarelli

Giorgione l’educatore
Tra le molte biografie scritte da Richard Schaukal per celebrare
uomini famosi, quella dedicata nel 1907 a Giorgione è particolar-
mente ricca di lodi e di entusiasmo: «Chi ama e conosce intima-
mente la pittura potrebbe mai non amare Giorgione? […] Io lo
amo molto più di Tiziano. E ritengo che proprio lui sia l’artista più
grande»1. Echeggiano nella esaltazione del pittore i capisaldi di
una poetica per esteti, per nuovi sognatori o neo-idealisti che vo-
gliono spaziare – come sostiene Hans Bauer in un saggio del 1895
dedicato alla “rinascita del Rinascimento” – «nella metafisica del-
l’irreale» cogliendo «sensazioni date da evocazioni simboliche»2:
«Giorgione – scrive Schaukal – tocca la mia sensibilità artistica
molto più potentemente di Tiziano3, colma la mia anima con la
ricchezza di premonizioni di eternità, di gioia […]. Quando ho di
fronte Giorgione non ‘noto’ nulla. Il terreno sotto i piedi inizia a
mancarmi e io ondeggio»4.
Questo amore non nasce sui libri di scuola e neppure nelle pi-
nacoteche europee, avare di tele e attribuzioni, ma nell’incontro
con la poesia di Dante Gabriel Rossetti e con il saggio che Walter
Pater dedica a Giorgio di Castelfranco e ai suoi allievi, La scuola di

1 R. Schaukal, Giorgione, München-Leipzig, Müller Verlag, 1907, p. 136.


2 H. Bauer, Renaissance der Renaissance, in «Kunstwart», VIII (1894-1895), pp.
97-100, qui pp. 97-98.
3 Schaukal non ricorda che già Burckhardt, parlando di Tiziano, aveva colto nelle
sue tele soprattutto l’elemento spirituale anche a scapito di una coerente rappresenta-
zione del soggetto (Cfr. J. Burckhardt, Der Cicerone (1855), in Gesamtausgabe, a cura di
H. Wölfflin, vol. IV, Stuttgart-Berlin-Leipzig, D. Verlags-Anstalt, 1933, p. 339; trad. it.
di P. Mingazzini e F. Pfister, Il cicerone, Firenze, Sansoni, 1952) e che, in particolare, a
proposito della Assunzione di Maria aveva scritto: «Gli ultimi legami con la terra salta-
no; lei respira assoluta spiritualità» (ivi, p. 341).
4 R. Schaukal, Giorgione, cit., pp. 140-142.
176 Lo sguardo reciproco

Giorgione, scritto nel 1873 e quindi pubblicato nella terza edizio-


ne di quel «breviario della fin de siècle»5 che fu Il Rinascimento6.
Colpiti da questa critica d’arte «colorata dall’emozione», i con-
temporanei trovano una profonda sintonia con gli artisti di cui si
tratta nel testo, Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Luca della
Robbia e Giorgione7. Come i geni di quell’epoca lontana, anche i
moderni si sentono «dèi in esilio» che, nascosti in un mondo pro-
saico e dozzinale, sognano la bellezza e la nobiltà di ciò che non ha
scopo. Tra loro, colui che più di ogni altro tende ad abbandonarsi
alla vaghezza «del tempo che fugge» e al distacco sereno di una
«inattesa beatitudine»8 è proprio Zorzo. La contemplazione della
sua pittura – scrive Pater – permette di ritrarre i pensieri dagli in-
granaggi della modernità e di approdare ad una sfera lontanissima
da ogni forma di utilitarismo9. È come – aggiunge – ascoltare un
brano musicale poiché «egli permea la sua opera di una vibrante
sorta di poesia direttamente desunta da una vita» tanto «ricca e vi-
brante» – prosegue – da trasformarsi in armonia10. L’intreccio tra
pittura e musica affascina in modo tutto particolare una generazio-
ne di intellettuali che si erano formati alla scuola di Schopenhauer
e nell’amore per Wagner: musicale è la struttura, a volte i temi, ma
soprattutto «quell’aspirazione di tutte le arti alla musica […] alla

5 M. Praz, Prefazione, in W. Pater, Il Rinascimento, Napoli, ESI, 19652, p. 8.


6 Nella terza edizione Pater aggiunge al testo originale il saggio sulla scuola di
Giorgione.
7 Cfr. G. Uekermann, Renaissancismus und Fin de siècle, Berlin, de Gruyter, 1985,

in part. pp. 19-30.


8 W. Pater, The School of Giorgione, London, Macmillan, 1877; trad. it. La scuola

di Giorgione, in Id., Il Rinascimento, cit., p. 142.


9 La malia trasognata e visionaria che, nella lettura ottocentesca di Giorgione, ave-

va sedotto Gautier in Mademoiselle de Maupin e irritato Heine, si intreccia in Schaukal


con la suggestione di Venezia, città antimoderna, nemica di Londra «industriale e infer-
nale» (J. Clegg, Ruskin and Venice, London, Junction Books, 1981, p. 134) che «ormai
sembra aver consumato completamente la vita» (Cfr. la lettera di Wagner a M. e O. We-
sendonk del 7.9.1859, in J. Kapp (a cura di), Richard Wagner an Mathilde und Otto We-
sendonk. Tagebuchblätter und Briefe, Leipzig, Hesse u. Becker, 1915, p. 111).
10 Scrive Cesare Brandi a proposito della musicalità di Giorgione: «Il tono è parola

e concetto che deriva dalla teoria della musica e che implica un seguito di note legate da
una convenienza reciproca, per cui certi rapporti di frequenza, nell’ambito di un tono,
sono esclusi e, se si vogliono usare in una sequenza musicale concepita in una determina-
ta tonalità, occorre modulare per passare alla tonalità a cui quei rapporti appartengono.
Trasferire questo concetto dalla teoria musicale alla critica d’arte implica di conservarne
il nerbo» (C. Brandi, Disegno della pittura italiana, Torino, Einaudi, 1980, pp. 288-289).
Note di immortalità 177

perfetta identificazione di materia e forma»11.


Numerosi sono i seguaci dello scrittore inglese nell’Europa dei
decadenti e dei simbolisti e molte le sue tracce nei miti ispirati, tra
i due secoli, ai protagonisti della grande arte italiana: è il «culto»
di Leonardo12, misterioso, duplice e geniale o di Tiziano, autore di
immagini «di una lor propria luce ricca in cui tutte le cose si trasfi-
gurano»13 o di Giorgione che, con le sue «figure oscure, ondeg-
gianti», abbandonate alla loro inconsapevolezza14, appare in grado
di rappresentare il distacco dalla realtà, la passività e l’abbandono
che assillano gli «epigoni»15 della decadenza, tanto che, se Rem-
brandt diventa il modello per un nuovo tipo di uomo tedesco, as-
setato di purezza, di rivolta e di arte16, Giorgione sarà l’educatore
di sognatori, esteti e spiritualisti.
Tra i primi a definire sulla scia di Pater questa immagine mo-
derna del pittore di Castelfranco troviamo Angelo Conti che, nel
1894, gli dedica una monografia spregiudicata, quanto a compe-
tenza scientifica, ed estremamente accattivante per sperimentatori
di Kunstbeschreibung.
Nell’introduzione, l’autore si sofferma su un tema caro alla deca-
denza analizzando quale debba essere il ruolo del critico. La missio-
ne dell’interprete non è diversa – scrive – dalla missione del pittore,
perché se si vuole che «la parola del primo sia viva e fecondatrice, è
necessario […] che il pensiero del critico sia la continuazione dell’i-
dea dell’artista». Questa identificazione e questa complicità sono
particolarmente necessarie nel caso di Giorgione che tiene celato il
senso profondo della sua «ispirazione», obbligando lo studioso a ri-

11 W. Pater, La scuola di Giorgione, cit., p. 129.


12 Cfr. E. Hüttinger, Leonardo und Giorgione-Kult. Materialien zu einem Thema, in
R. Bauer (a cura di), Fin de Siècle: zu Literatur und Kunst der Jahrhundertwende, Frank-
furt a.M., Klostermann, 1977, pp. 143-169.
13 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., p. 46. Cfr. R. Kultzen, Tizian in der deutschen Lite-

ratur des 18. Jahrhunderts, in B. Fabian (a cura di), Festschrift für Rainer Grünter, Hei-
delberg, Carl Winter, 1978, pp. 155-169.
14 B. Berenson, Italienische Kunst, a cura di J. Zeitler, Leipzig, H. Seemann Na-

chf., 1902, p. 24 (Hofmannsthal aveva consultato questa edizione tedesca dei saggi di
Berenson per la stesura di Sommerreise).
15 P.P. Wertheimer, Hermann Bahrs Reinaissance, in «Die Gesellschaft», XIII, ot-

tobre 1897, pp. 91-103, ora in G. Wunberg (a cura di), Das Junge Wien, Tübingen
1975, vol. II, pp. 780-790, qui p. 790.
16 Cfr. A.J. Langbehn, Rembrandt als Erzieher von einem Deutschen, Leipzig, Hir-

schfeld, 1888, qui ed. Stuttgart, Kohlhammer, 1936, pp. 45-58.


178 Lo sguardo reciproco

creare per lui e per le sue opere «una nuova forma di vita»17.
Per individuarla, Conti seguirà e tradirà l’impostazione di La
scuola di Giorgione riducendo il neoplatonismo di Pater a travaglio
dei sensi, a immoralismo erotico. Rimane la riflessione sulla musi-
calità del pittore veneto, ma l’interesse si sposta dalla musica come
forza che emancipa dal dominio dell’intelletto all’esigenza di pace e
di spiritualità di un’anima tentata dalla carne: «Giorgione – scrive
Conti – è il poeta delle visioni dileguate e lontane […]. Turbato dal
presente ricorda le cose perdute e chiede la pace lontana»18 cercan-
do di sottrarsi alla forza disgregatrice della voluttà, all’«entusiasmo
umano al cospetto della forma femminile»19. Con questo insistito
richiamo Conti scalza dalla ricezione alcuni luoghi interpretativi
diffusi in quegli anni e in cui prevalgono l’artificio del locus amoe-
nus e una stanchezza, appena contagiata dal demone della noia. È il
languore estivo di amanti distesi sui colli fiorentini nel meriggio de-
scritto da Oscar Wilde in un brano dei suoi saggi critici del 188920
dedicato a Concerto campestre, o, in Dante Gabriel Rossetti, è l’ab-
bandono esausto, la riluttanza all’azione, un silenzio stagnante21.
Più moderno e «wagneriano» – così sostiene Conti – del religio-
sissimo Bellini, Giorgione cerca il dominio sulla fragilità della carne
in una trascendenza che rifiuta le ingannevoli consolazioni della fe-
de e si innalza «in forma di luce e armonia » verso una speranza di
felicità22: «dal dolore e dalla colpa» Giorgione ci guida «fino all’a-
poteosi di una vita salvata e rinovellata, e le sue più evidenti e ten-

17 A. Conti, Giorgione. Uno studio, Bergamo, Istituto d’arti grafiche, 1894.


18 Ivi, p. 41.
19 Ivi, p. 64.
20 Cfr. O. Wilde, Intentions, London, Osgood, 1891 (trad. it. e cura di M. D’Ami-

co, in Id., Saggi, Milano, Mondadori, 1981, pp. 167-186).


21 Cfr. D.G. Rossetti, For a Venetian Pastorale by Giorgione, in Id., The Works of

Dante Gabriel Rossetti, 2 voll., a cura di W.M. Rossetti, London, Ellis, 1911, p. 188.
Citiamo qui di seguito la poesia perché può essere considerata esemplare per la
ricezione del dipinto tra Ottocento e Novecento: «Water, for anguish of the solstice: –
nay. / But dip the vessel slowly, – nay but lean / And hark how at its verge the wave
sighs in / Reluctant. Hush! beyond all depth away / the heat lies silent at the brink of
day: / now the hand trails upon the viol-string / That sobs, and the brown faces cease
to sing, / Sad with the whole of pleasure. Whither stray / Her eyes now, from whose
mouth the slim pipes creep / And leave it pouting, while the shadowed grass / Is cool
against her naked side? Let be: –/Say nothing now unto her lest she weep, / Nor name
is ever. Be it as it was, / Life touching lips with Immortality».
22 A. Conti, Giorgione. Uno studio, cit., p. 42.
Note di immortalità 179

tatrici rappresentazioni dell’esistenza si chiudono con il grido vitto-


rioso dell’artista liberato per un istante dal giogo della voluttà»23.
Nonostante contenga riflessioni appassionate sull’estetica mo-
derna e sul ruolo del critico, il libro di Conti non offre una imma-
gine originale di Zorzo di Castelfranco: il tema della carnalità tra-
sfigurata e della celebrazione mistica dei sensi è patrimonio diffu-
so di fine secolo. Poco prima di Conti, Burckhardt aveva confessa-
to di provare invidia di fronte ai soggetti «deliziosi» della pittura
giorgionesca che inneggia alle «delicatezze di una vita tutta da go-
dere, a ben costruiti piaceri sensuali»24; così, nel 1894, Berenson
introduce le pagine de I pittori veneziani del Rinascimento dedica-
te a Giorgione con alcune riflessioni che ne enfatizzano l’eroti-
smo25, per concludere affermando che nella produzione tarda del
pittore, «l’eccesso delle passioni si era sopito in un illuminato e
sincero godimento della bellezza e delle relazioni umane»26.
Anche D’Annunzio, lettore d’eccezione di Conti, vede in Gior-
gione l’artista che coglie e trasfigura una divorante sensualità; so-
vrastante è in lui «una voluttà nuova», quasi una degradazione che
irretisce le figure, il pittore e la patria veneta27. Eppure, a fronte di
tanto gaudio faunesco, anche secondo D’Annunzio, alla fine della
vita, la trascendenza prevarrà sulle passioni e «la tendenza metafi-
sica» troverà «il suo natural campo» d’azione28.
Pochi anni dopo, nel romanzo Il fuoco del 1900, un D’Annun-
zio immoralista, che celebra il matrimonio tra la sua prosa «d’or-
goglio e d’ebbrezza»29, la musica e la pittura, esalta in Giorgione
colui che infiamma di rivelazione tutta l’arte veneta.
Stelio Effrena, il protagonista del romanzo, si interroga a lungo
sul mistero che avvolge vita e opere del grande maestro – un mi-
stero che, come aveva insegnato Conti, sollecita ad una interpreta-

23 Ibidem.
24 J. Burckhardt, Il cicerone, cit., p. 1050.
25 B. Berenson, The Venetians Painters of the Renaissance, New York, Putnam, 1894,

(trad. it. di E. Cecchi, I pittori italiani del Rinascimento, Milano, Hoepli, 1936, p. 24).
26 Ivi, pp. 25-26.
27 Ivi, p. 72.
28 G. D’Annunzio, Giorgione e la critica, in «Rivista di Roma», 16 (1912), n.s., vol.

I, n. 5, pp. 167-179, qui in Id., Pagine sull’arte, Milano, Mondadori, 1980, pp. 57-72,
qui p. 57.
29 G. D’Annunzio, Il fuoco, qui dalla ed. Milano, Mondadori, 1967, p. 65.
180 Lo sguardo reciproco

zione libera e «fecondatrice», non condizionata dalla «dubbia e


funesta critica dei cataloghi»30. L’assenza di certezze biografiche,
l’infinita vicenda delle attribuzioni permette al critico di essere più
che mai – come voleva D’Annunzio – «artifex additus artifici», co-
lui che «inginocchiatosi davanti alla bellezza» saprà «generare bei
pensieri»31. «Io veggo Giorgione – sono le considerazioni di Stelio
Effrena – imminente su la plaga meravigliosa, pur senza ravvisare
la sua persona mortale; lo cerco nel mistero della nube ignea che
lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che come un
uomo […]. Tutto, o quasi di lui si ignora; e taluno giunge a negare
la sua esistenza»32.
Il mistero non è l’unico tema che affascina l’eroe de Il fuoco33.
D’Annunzio riprende da Conti il paragone tra la religiosità di
Giorgione e quella di Bellini, di Pater cita la musicalità che cerca
meditabonda l’Universale. Ma è soprattutto la forza della carne
che lo attira, quando l’eros si accende «d’un desiderio implacabi-
le», pieno «di una gioia e una tristezza in cui celasi il peccato»34.
Eroico e spirituale, sensuale e assetato di pace, egli è – conclude
D’Annunzio – un nuovo Prometeo che, come il semidio, «merita
d’esser chiamato ‘portatore di fuoco’»35.
La lettura di D’Annunzio influenzerà la critica di fine secolo e,
pochi anni dopo la pubblicazione del romanzo, Ugo Monneret de
Villard36 interpreta la vita e la produzione di Giorgione come il
trionfo della sensualità e ricerca incessante del godimento: «Si di-
rebbe che in lui la visione del quadro non sorge né si cristallizza
attorno ad oggetti chiari e definiti, ma è solo l’esternarsi di emo-
zioni sensuali e di un diffuso stato d’animo musicale che precede e
genera l’idea poetica […]. Egli non sa pregare ma godere e non
agli altari, ma ai bei grembi femminili chiede la pace»37.

30 A. Conti, Giorgione. Uno studio, cit., p. 10.


31 G. D’Annunzio, Giorgione e la critica, cit., p. 68.
32 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., p. 92.
33 Anni dopo, ritroviamo il mistero fare ancora da protagonista nella poesia dedi-

cata da Hermann Hesse al pittore; cfr. H. Hesse, Giorgione (1899-1902), in Id., Die Ge-
dichte, a cura di V. Michels, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1953, p. 139.
34 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., p. 88.
35 Ivi,, p. 92.
36 U. Monneret de Villard, Giorgione da Castelfranco. Studio critico, Bergamo, Isti-

tuto d’arti grafiche, 1904.


37 Ivi, pp. 9-10.
Note di immortalità 181

Fig. 1. Giorgione, Concerto campestre, 1508-09.

Dall’altra parte delle Alpi, si diffonde intanto una interpretazio-


ne più spiritualista del maestro. Anche Adolf Bayersdorfer usa la
metafora dannunziana del fuoco per celebrare la forza trasfiguran-
te del pittore, ma nulla vi è qui di infernale e peccaminoso, nulla
della amoralità di “oltre uomini”. Giorgione è per Bayersdorfer
«un uomo il cui animo arde di continuo»38 e i suoi quadri sono co-
me sogni di un esserci diverso che, colmi di alte premonizioni, de-
stano «nel petto del singolo» suggestioni condivise oscuramente
da tutti. Appaiono simili a profezie, che non si capiscono appieno
ma fanno pensare alla «musica di una stella lontana», «come se le
memorie sbiadite dell’umanità si ridestassero in loro e chiamassero
per ottenere spiegazioni»39.
Con le pagine di Viaggio d’estate dedicate a Concerto campestre
(fig. 1) Hofmannsthal prende implicitamente posizione in questo
38 A. Bayersdorfer, Notizien aus Galerien und Kirchen Italiens, in H. Nackowsky,

A. Pauly, W. Weigand (a cura di), Leben und Schriften, München, Bruckmann, 1902,
pp. 89-112, qui p.100.
39 Ibidem.
182 Lo sguardo reciproco

dibattito a distanza tra una lettura estetizzante e una spiritualista.


La sua analisi del dipinto, ricca di rimandi alle teorizzazioni del
suo tempo, critica nei confronti degli “italiani” e programmatica-
mente distante dall’individualismo di Burckhardt si colloca nell’al-
veo dei riferimenti ficiniani e neoplatonici che Pater e, dopo di lui,
Bayerdorfer avevano prospettato.
Non si tratta di un approdo immediato. Nella sua produzione
ottocentesca il Rinascimento italiano, Giorgione e il giorgionismo
vengono visti nella prospettiva vasariana appresa sui libri di scuo-
la, in quella degli esteti, ammirati e irrisi dal giovanissimo poeta e,
infine, nell’ottica di Pater e di D’Annunzio. Ed è proprio partendo
da un confronto sempre più serrato con il poeta italiano e con il
critico inglese che lo scrittore elabora, nella crisi di fine secolo, sia
lo stile che le concezioni estetiche che daranno vita alla originalis-
sima Kunstbeschreibung di Viaggio d’estate.

I colori della poesia

Negli anni che precedono la stesura di Viaggio d’estate, Hof-


mannsthal ritorna a più riprese sul nome e sull’opera del pittore di
Castelfranco.
Troviamo, per la prima volta, Giorgione citato nel catalogo de-
gli artisti che Andrea, il protagonista del dramma lirico Ieri, ca-
pricciosamente ricorda40.
In questo elenco, Giorgione si distingue nettamente dagli altri
pittori di cui Andrea ama circondarsi; mentre il Maestro del Cado-
re e Correggio, «che maturo arde di fulgidi colori»41, sono presen-
ze solari, particolarmente vicine al modello che del Rinascimento
aveva proposto Burckhardt, a Zorzo di Castelfranco si associa
piuttosto una «opprimente, demoniaca angoscia»42 e una dimen-
sione inquietante, al limite del tragico.
Hofmannsthal trova uno spunto per questo giudizio in un libro
che aveva amato già da ragazzo. Sono Le vite de’ più eccellenti ar-

40 H.v. Hofmannsthal, Gestern, in «Moderne Rundschau», IV, 2-3, 1891 (trad. it. e

cura di R. Ascarelli, Ieri, Pordenone, Studio tesi, 1992, pp. 17-18).


41 Ivi, p. 12.
42 Ivi, p. 18.
Note di immortalità 183

chitetti, pittori, et scultori italiani del Vasari che, nel tentativo cam-
panilistico di dimostrare l’ascendente di Leonardo sull’artista ve-
neto, insiste sulla predilezione di Giorgione per le tele leonarde-
sche «molto fumeggiate» e «cacciate terribilmente di scuro», anzi,
insiste, «quella maniera gli piacque tanto, che mentre visse sempre
andò dietro a quella e nel colorito a olio la imitò grandemente»43.
A confermare questa influenza, Vasari caratterizza i suoi quadri
per «una terribil movenzia» e per «un tempo torbido che tuona e
trema il dipinto», inquietanti gli appaiono poi le figure che «si
muovono e si spiccano da la tavola per una certa oscurità di om-
bre ben intese»44.
Per avvalorare questa tesi, pubblica a introduzione della biogra-
fia di Giorgione una drammatica incisione del Davide conservato a
Braunschweig, opera che probabilmente Hofmannsthal aveva avuto
modo di vedere nella cupa versione seicentesca di Wenter Hollar.
Contribuiscono a formare nel giovane scrittore il cupo giudizio
di Andrea45 anche le opere conservate a Vienna che Hofmannsthal
ha avuto modo di vedere – nella Kunstgalerie erano esposti Il ra-
gazzo con la freccia e Laura, mentre, nella collezione dei Lancko-
ronsky, una famiglia viennese che Hofmannsthal frequentava, si
trovava un Cristo con la croce – opere allora di attribuzione assai
incerta di cui però non si escludeva la paternità giorgionesca.
La figura di Laura, in particolare, con il bianchissimo petto sul
fondo oscuro, rotto dal rosso vivo dell’abito, suggestiona Hof-
mannsthal che la ricorda nella stesura della tragedia rinascimentale
Ascanio e Gioconda. «Come un quadretto di Giorgione» 46 di
profonda ombrosità, scrive all’amico Beer-Hofmann il 22 luglio
del 1892, la protagonista del testo teatrale sarà una presenza oscu-
ra, appena illuminata dalla carnagione chiarissima e dai capelli ne-
ri e sciolti, simile alla «triste e bella musica che fiammeggia di
oscurità»47.

43 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cima-

bue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino, Einaudi, 1986, p. 558.
44 Ivi, p. 542.
45 Per questa caratterizzazione “demoniaca” di Giorgione vedi anche J.

Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, cit., p. 642.


46 Lettera di H. v. Hofmannsthal a R. Beer-Hofmann del 22 luglio 1892, in H. v.

Hofmannsthal, R. Beer-Hofmann, Briefwechsel, Frankfurt a.M., Fischer, 1972, p. 11.


47 Ivi, p. 12.
184 Lo sguardo reciproco

Nel dramma, Gioconda non è solo una figura tenebrosa, illumi-


nata a tratti da una fiamma interiore. A lei spetta anche il compito
di tematizzare un distacco dalla realtà, una sognata e sognante
contemplazione «del cuore stesso delle cose»48 che rimanda ad
una idea di Giorgione più attuale di quella proposta da Vasari:
«Come è odiosa la vita e come è triste», afferma Gioconda dopo
aver ascoltato le critiche di Galasso alla sua aristocratica indiffe-
renza per una società opulenta e innamorata del bello: «Costui ha
ragione: mai saprò capirla./ E me ne sto timorosa e ferita,/ Come
fanciulli in una stanza buia./ Come povero di gioie è mai il presen-
te,/ Come solo la mancanza trasfigura ogni cosa»49.
Nel saggio su Swinburne, scritto anch’esso nel 1892, il senso
del riferimento al pittore si fa più preciso. «Fiammeggiante di
oscurità» sarà il pittore soprattutto per gli artisti della decadenza
che hanno esercitato lo sguardo e immaginazione su tele dipinte,
su ornamenti preziosi e interni suggestivi. Costoro, scrive Hof-
mannsthal, «hanno visto più sovente candele di cera che si spec-
chiano in un vetro veneziano che non stelle in un placido lago» e
prosegue, ancora una volta con un implicito riferimento alla Laura
della Kunstgalerie: «Un fiore purpureo su un bruno terreno li farà
pensare a un quadro dai colori luminosi, a un Giorgione che pen-
de da un bruno intavolato di quercia»50.
Perché Giorgione cessi di essere suggestione coloristica o occa-
sione di un confronto polemico con l’estetismo per diventare og-
getto di riflessione, bisogna attendere il 1894, l’anno in cui Hof-
mannsthal legge gli studi di Pater sul Rinascimento. Pater è per
Hofmannsthal un «conoscitore nato», un innamorato dell’arte che
non si cura di sterili aneddoti o di vuote descrizioni; egli riesce
piuttosto a intuire di un artista «l’intera sua personalità» fino a

48 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig, Brockhaus, 1819

(trad. it. di N. Palanga, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mursia,


1969, p. 306).
49 H. v. Hofmannsthal, Ascanio und Gioconda (1892), prima ed. postuma in Ge-

sammelte Werke in Einzelbänden, vol. II, Frankfurt a. M., Fischer, 1979, p. 16.
50 H. v. Hofmannsthal, Algernon Charles Swinburne, in «Deutsche Zeitung»,

5.1.1893, trad. it. e cura di G. Bemporad, Algernon Charles Swinburne, in Id., L’ignoto
che appare. Scritti 1891-1914, Milano, Adelphi, 1991, p. 63 (per tutti i saggi contenuti in
L’ignoto che appare e qui citati, la traduzione italiana è – se non indicato diversamente –
di G. Bemporad).
Note di immortalità 185

strappargli il segreto che lo anima e che solo a sprazzi si lascia in-


travedere nelle sue opere51.
Hofmannsthal rielabora questa lezione gareggiando con Pater
nella ricerca del nucleo oscuro dell’arte giorgionesca e lo coglie in
quel «concetto di totalità» che, così vicino alla poetica hofmann-
sthaliana e al monismo della letteratura di fine secolo, troppo spes-
so era sfuggito agli scrittori della decadenza52.
Nel secondo saggio su Gabriele D’Annunzio, scritto nel 1894,
troviamo una contrapposizione tra i due artisti italiani giocata pro-
prio sul tema della spiritualità. Mentre il «poeta più celebre d’Ita-
lia»53 indulge all’artificioso e al monumentale rivelando una visio-
ne del mondo irrigidita di retorica, la pittura di Zorzo riesce a cat-
turare la «misteriosa armonia dell’universo». I suoi quadri espri-
mono «qualcosa del respiro e dell’essenza degli esseri» – scrive
Hofmannsthal –, «l’intima bellezza e la malinconia delle cose mu-
tevoli» rapprese in composizioni dalla «perfezione trascendentale
che toglie il respiro»54.
Tre anni dopo Hofmannsthal è a Castelfranco per conoscere
meglio la città natale e i paesaggi che avevano ispirato il maestro.
Oppresso dal caldo, il 19 di agosto interrompe un viaggio in bici-
cletta per osservare nel duomo la Madonna in trono e i santi Libe-
rale e Francesco, attribuito senza incertezze a Giorgione. Al padre
scrive di essere rimasto a contemplare lungamente il dipinto55.
Ammira il quadro, ma non dimentica che, come aveva notato Pa-
ter, il segreto della potenza espressiva di Giorgione è il legame tra
le immagini e «le cose naturali […] tramate e ordite di fili
d’oro»56. Si sofferma così in questo lembo di Veneto a godere il
cielo «di un blu senza incertezze»57 e a visitare la città natale del-

51 Cfr. H. v. Hofmannsthal, Walter Pater, in « Die Zeit», 17.11. 1894 (trad. it. Wal-

ter Pater, in Id., L’ignoto che appare, cit., pp. 114-118).


52 H. v. Hofmannsthal, Philosophie des Metaphorischen, in «Frankfurter Zeitung»,

24.3.1894 (trad. it. di F. Rosso Chioso, Filosofia del metaforico, in Id., Filosofia del me-
taforico, Siena, Edizioni di Barbablù, 1988, p. 22.)
53 H. v. Hofmannsthal, Gabriele D’Annunzio, in «Die Zeit», 17.11.1894 (trad. it.

Gabriele D’Annunzio II, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 90).


54 Ivi, p. 91.
55 Cfr. H. v. Hofmannsthal, lettera al padre del 19.8.1897, in Id., Briefe, vol. I, Ber-

lin, Fischer, 1935, p. 219.


56 Ibidem.
57 H. v. Hofmannsthal, lettera alla madre del 18.8.1897, ivi, p. 218.
186 Lo sguardo reciproco

l’artista. Nella lettera al padre la descrive con le stesse parole usate


da Conti58. Questo riferimento, per quanto implicito, al critico ita-
liano non è casuale: Hofmannsthal se ne serve per creare la distan-
za tra sé e l’oggetto osservato, ma anche per trovare conferme a
una predilezione che non è priva di implicazioni interpretative.
Per Conti la Madonna in trono è l’opera in cui meglio si rivela
l’arte matura del suo autore: «Giorgione è tutto qui – scrive –: in
questa forza che lo incatena alla terra e in questa musica larga e
profonda che egli ascolta nell’intimo e che lo attira lungi dal mon-
do»59. Quel quadro è inoltre secondo lo scrittore italiano la testi-
monianza di una svolta dal sensualismo giovanile alla spiritualità
della produzione tarda, quando, vinta la passione, egli si rivolge a
«quel cielo diffuso di aurei vapori, in quel luminoso fondo di colli-
ne e di mare», quasi cercasse, da pellegrino, una Terra promessa.
«E l’aspirazione del pittore si innalza – scrive ancora Conti –, in
forma di luce e d’armonia verso quella lontana speranza di
gioia»59. Nulla qui fa più pensare ai tormenti della carne, placati in
una religiosità moderna che non sa di peccato e di espiazione, ma
che pure sogna la libertà dai condizionamenti della materia, corpo
o natura che sia, in un abbandono totale allo spirito del mondo.
Anche Hofmannsthal cerca nella tavola del duomo conferme della
spiritualità di Giorgione e baratta in questo viaggio estivo la «de-
moniaca angoscia»61 vasariana e l’immoralismo di D’Annunzio
con l’ipotesi che a guidare il pittore siano i sogni e quei ricordi ori-
ginari e sbiaditi nascosti nelle pieghe più segrete dell’anima62.
Nella lunga crisi di fine secolo che culmina nella stesura della
Lettera di Lord Chandos, Hofmannsthal perde interesse per «lo
sconfinato mondo dei quadri». La difficoltà di trovare le parole
che colgano la «intera forza della vita» coinvolge anche l’interesse
per la trascrizione poetica delle immagini dipinte. Nel Discorso in
casa di un collezionista d’arte, tenuto a casa Lanckoronsky nel

58 Hofmannsthal è così interessato ai rapporti tra ambiente naturale e arte figurati-

va che, pochi giorni dopo, scrive al padre: il paesaggio «ha qualcosa che afferra in un
modo assolutamente privo di sentimentalismi; così come i quadri di Tiziano o le statue
antiche» (lettera di H. v. Hofmannsthal al padre del 24. 8. 1897, ivi, p. 224).
59 A. Conti, Giorgione, cit., p. 27.
60 Ivi, p. 42.
61 H. v. Hofmannsthal, Ieri, cit., p. 17.
62 Cfr. A. Bayersdorfer, Leben und Schriften, cit., p. 100.
Note di immortalità 187

1902, Hofmannsthal si sottrae alla descrizione delle tele conservate


nella splendida pinacoteca del palazzo e, anche se afferma di subir-
ne il fascino, sottolinea la debolezza della poesia di fronte al potere
evocativo e descrittivo della pittura: «Come potrei osare – afferma
– di voler descrivere ciò che sono capaci di darci i quadri?»63. Si li-
mita così a parlare di suggestioni, di sinestesie, di un passato che,
conservato dalle tele, si fa presente appena toccato dallo sguardo
del visitatore, della totalità che si rivela attraverso i colori; ma non
vi è traccia nella sua conferenza di una riflessione su contenuti, for-
me, sul valore della eredità e di quella antica in particolare.
I riferimenti all’arte classica che compaiono nella Lettera di
Lord Chandos sono spettrali e, simili a «statue senza occhi»64, la-
sciano in chi le guarda un profondo senso di solitudine. Persino la
bellezza delle opere del passato si rivela ingannevole per i moderni
dalle «braccia più deboli», incapaci di creare qualcosa di appena
paragonabile a ciò che li ha preceduti.
In funzione anticlassica, Hofmannsthal inizia piuttosto in questi
mesi un fitto dialogo con un universo creaturale che impone turba-
mento e pietà e promette la rivelazione: sono i topi morenti su cui
Chandos sofferma lo sguardo o, nel successivo Sui caratteri nel ro-
manzo e nel dramma, sarà ciò che di «patologico» e «maniacale»
guida il cuore umano: «Tutte sono così folli, le mie creature – affer-
ma Balzac in questo dialogo immaginario con Hammer Purgstall –
così accanite nelle loro idee fisse, così incapaci di vedere nel mondo
ciò che esse non vi gettino con la scintilla del loro sguardo, così
fuor di senno […]. Ma così sono perché sono creature umane»65.
Nel passato, che si tratti dei testi latini amati da Chandos, della
tragedia sofoclea o della Venezia rinascimentale, non si cercheran-
no modelli, né canoni, perché non si tratta di individuare regole
ma, semmai, di farle sgretolare sotto il peso delle passioni e del-
l’impotenza. Solo nei suoi frammenti la bellezza di ciò che è stato

63 H. v. Hofmannsthal, Ansprache gehalten von Hugo von Hofmannsthal am Abend

des 10. Mai 1902 im Hause des Grafen Karl Lanckoronski, Wien, Privatdruck, 1902
(trad. it. Discorso in casa di un collezionista d’arte, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 131).
64 H. v. Hofmannsthal, Ein Brief, in «Der Tag», 18-19.10.1902 (trad. it. di L. Tra-

verso, La lettera di Lord Chandos, in Id., L’ignoto che appare, p. 141).


65 H. v. Hofmannsthal, Über Charaktere im Roman und im Drama, in «Neue freie

Presse», 25.12.1902 (trad. it. di L. Traverso, Sui caratteri nel romanzo e nel dramma, in
Id., L’ignoto che appare, p. 158).
188 Lo sguardo reciproco

potrà infatti ancora «afferrare demonicamente»66 i moderni, dona-


re loro la compassione che si deve ai diseredati. Del classico resiste
solo quello che Hofmannsthal definisce «riflesso», un fluire attra-
versi i tempi e attraverso i territori di una bellezza che, proprio
perché incompleta e insoddisfatta, testimonia platonicamente l’es-
serci di uno spirito universale e il potere trasfigurante dell’arte.
Nelle note al testo dedicato all’orgogliosa decadenza di una gran-
de famiglia veneta, La lettera dell’ultimo Contarin del 1903, trovia-
mo una riflessione che vuol essere un segnavia per contemporanei
amanti dell’antico: «Riassumendo – scrive Hofmannsthal – noi sia-
mo diversi da quegli altri (gli antichi) e in questa diversità e co-
scienza della diversità consiste tutta la nostra natura e tutta la no-
stra missione»67.
Al numinoso demonico dei classici, Hofmannsthal contrappone
così il demoniaco di figure deliranti e disperate e si lascia sedurre
da epoche maniacali e illuse in cui campeggiano figure di sconfitti,
di reietti, «simili a dei» proprio perché spietati negatori della bella
forma.
Una distanza «ricca di pietà» lo induce a scrivere anche una
«tragedia moderna» Elettra, libera trascrizione dell’opera sofoclea,
completata a Cortina nel giugno del 1903. La protagonista non ha
nulla di armonioso né di aristocratico. È figura furente, dionisiaca
a tratti, che ricorda da vicino, fin nel contrasto cromatico di rosso
e nero suggerite dalle didascalie, le note giovanili di Hofmannsthal
su Giorgione.
Tragica e degna di pietà anche Venezia, privata dei caratteri glo-
riosi o frivoli delle opere del fine secolo – nel 1892 La morte di Ti-
ziano e, nel 1898, L’avventuriero e la cantante – e ridotta nei primi
testi novecenteschi di Hofmannsthal a patria di epigoni68, appena
illuminati dai «riflessi degli antichi […] nelle ore tarde della vita»69.
Non stupisce quindi che, proprio ai margini della stesura del-
l’Elettra, un’opera che liquida il classico tra arcaiche scompostezze

66 H. v. Hofmannsthal, Discorso in casa di un collezionista d’arte, cit., p. 130.


67 H. v. Hofmannsthal, Der Brief der letzten Contarin, pubblicato postumo nel
1929 (trad. it. di G. Bemporad, La lettera dell’ultimo Contarin, in Narrazioni e poesie, a
cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1972, pp. 601-602).
68 Mi riferisco qui in particolare al citato Brief der letzten Contarin e a Das gerette-

te Venedig (1905) una rielaborazione di Venice preserved (1750) di Thomas Otway.


69 Ivi, p. 602.
Note di immortalità 189

e moderne isterie, il poeta si accosti irriguardoso anche ad un ca-


polavoro dell’arte rinascimentale e, senza curarsi della sua storia e
del suo canone, tenti l’esperimento di descrizione e di trasfigura-
zione che troviamo in Viaggio d’estate70.
Completata la tragedia, Hofmannsthal inizia, infatti, un pelle-
grinaggio tra i monumenti cinquecenteschi del vicentino: ai geni-
tori scrive da Vicenza il 29 di giugno del 1903: «Ieri ed oggi abbia-
mo visto molte cose di incredibile bellezza: ieri la famosa Villa Ma-
ser (ma solo da fuori e il giardino), quindi Asolo, la sera ancora
Castelfranco. Stamane – sempre in automobile – la bella Villa Val-
marana affrescata dal Tiepolo e la famosa Villa Rotonda»71. Di
Giorgione in questo breve resoconto del viaggio non c’è traccia,
eppure il pittore sarà – insieme a Palladio – il protagonista del
Feuilleton sul breve viaggio in Italia scritto di getto nell’estate di
quello stesso anno.

Un viaggio d’estate

Nel resoconto del viaggio che dal Brennero lo porta fino a Vi-
cenza, Hofmannsthal si sofferma a descrivere solo due opere, ma
entrambe esemplari. Sono il Concerto campestre di Giorgione e La
Rotonda di Palladio, un quadro e una architettura di quel Rinasci-
mento magico e alchemico che, attraverso Pater e Bayerdorfer, si
era imposto all’attenzione della decadenza72.
Scriverne – come aveva affermato Conti – è un «arduo cimen-
to»73 e il progetto di Viaggio d’estate è sicuramente ambizioso: si
tratta infatti di un doppio esercizio di Kunstbeschreibung legato a
diverse forme d’arte e reso più articolato dal desiderio di avviare
un dialogo fitto e intenso con il passato, quello degli artisti del Ri-
nascimento, ma anche quello dei poeti e dei critici che negli anni
ne avevano trattato e quello dei viaggiatori che in quelle opere si
erano imbattuti.
70 H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, in «Neue freie Presse», 18.7.1903 (trad. it.

Viaggio d’estate, in Id., L’ignoto che appare, cit., pp. 161-170).


71 H. v. Hofmannsthal, lettera ai genitori del 29.6.1903, in Id., Briefe, vol. II, Wien,

Bermann-Fischer, 1937, p. 116.


72 Cfr. A. Bayersdorfer, Leben und Schriften, cit., in particolare, pp. 100-101.
73 A. Conti, Giorgione, cit., p. 11.
190 Lo sguardo reciproco

Ma il poeta preferisce nasconderne le implicazioni nella forma


«minore» di una cronaca giornalistica per la «Neue freie Presse»
di Vienna. La descrizione del suo breve viaggio estivo sarà fedele –
promette al lettore – anche se, aggiunge, di quella fedeltà che è le-
cito chiedere al poeta, attirato irresistibilmente – così scrive quello
stesso anno in Dialogo sulle poesie – dai paesaggi dell’anima. Le
esperienze sensibili saranno allora filtrate da uno sguardo che
«non vede nulla che sia senza significato»74, nulla che non trovi
un’eco nella sua interiorità. Indifferente alle consuetudini del
«viaggio italiano», lontano dalla tentazione di redigere un nuovo
Cicerone, la Sommerreise dalle Alpi al Veneto sarà poco più di un
pretesto per «trasformare il paesaggio in un regno dell’anima»75 e
rendere possibile l’«incontro» tra epoche e «creatori», sullo sfon-
do di un paesaggio che sembra voler evocare delizie da Paradiso
terrestre: «Questo viaggio di tre giorni appare già come un sogno.
Eppure fu reale: reale come andare alla fontana, chinarsi, spegnere
una grande sete nell’acqua ghiaccia, spicciata dalla roccia […] rea-
le – prosegue Hofmannsthal – come un desiderio di frutta, di frut-
ta morbida e soda, fresca di dentro, profumata, rivestita di lanugi-
ne, un appoggiare la scala, salire, spiccare, assaporare, appisolarsi
nella chioma dell’albero»76.
A fare da guida sul cammino non sono mappe, ma le «onde del-
le montagne» che, dopo le asprezze delle Alpi, si distendono in un
paesaggio ameno nel quale natura e cultura si integrano senza ten-
sioni: «In ciascuna delle sue pieghe sono nascosti gioielli» immagi-
na Hofmannsthal descrivendo il Cadore, un paese, aggiunge, «che
come un mantello scende dai fianchi delle Alpi e si stende fino al
mare»77. Le città venete, «ben costrutte», lì dove si toccano «pila
di ponte e scalinata di chiesa, bastione e villa»78, sono fermagli
preziosi di questo mantello che unisce natura e arte, aprendosi un
varco fino alla raffinata bellezza di Venezia.

74 H. v. Hofmannsthal, Das Gespräch über Gedichte, in « Die neue Rundschau»,

1. 2. 1904 (trad. it. di G. Bemporad, Il dialogo su poesie, in Id., L’ignoto che appare,
cit., p. 190).
75 H. v. Hofmannsthal, Botschaft, «Blätter für die Kunst», IV, 1-2 (1897), in Gesam-

melte Werke in Eizelbänden, vol. I, Frankfurt a.M., Fischer, 1979, p. 32.


76 H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, cit. (trad. it. p. 162).
77 Ivi, p. 164.
78 Ivi, p. 165.
Note di immortalità 191

Seguendo il filo delle associazioni, Hofmannsthal rievoca gli ar-


tisti che hanno reso celebre questo angolo di mondo: «Come gran-
di signori che gridano i loro nomi per radunare intorno a sé la pro-
pria gente, come grandi signori che dopo una battaglia vittoriosa
battono il piede sulla collina e lanciano nell’aria i loro nomi caval-
lereschi, così queste città gridano ininterrottamente i loro nomi at-
traverso l’aria della sera d’estate […] e ciascuno di questi nomi è
anche il nome di un grande pittore»79.
Ricorda maestri famosi, Paolo Veronese e il Pordenone, Cima
da Conegliano, Giovanni da Udine, insieme a pittori meno cono-
sciuti come Pellegrino da San Daniele o Morto da Feltre. Ultimo
giunge il nome di Giorgione, il più noto e anche il più discusso tra
i pittori veneti della Rinascenza.
«Non dovè nascere qui Giorgione?»80 – si chiede, segnalando
con questa incertezza una qualche competenza nella intricata que-
stione. Ma è solo un accenno. Indifferente ai dati biografici e ai
problemi di attribuzione, Hofmannsthal celebra nel pittore l’insu-
perabile interprete del paesaggio che si stende – geograficamente,
ma anche metaforicamente – tra monte e pianura, tra la ruvida
materialità delle Alpi e gli arabeschi della città lagunare: egli, pro-
segue Hofmannsthal, «assorbì in sé questa lontananza e questa vi-
cinanza, questo specchiare beato, questo riguardare verso i monti,
questa sosta sull’ultimo colle» creando «un incantesimo che non
ha nome»81.
Per semplice risonanza, suggerite dalla «quiete beata» del pae-
saggio, affiorano alla mente del poeta le immagini di Concerto cam-
pestre, un quadro, tra l’altro, di attribuzione incerta che, pure, do-
po Morelli e Berenson82, anche Conti aveva assegnato avventurosa-
mente a Giorgione – una attribuzione che, più autorevolmente, era
stata confermata nel 1900 dallo studioso inglese Herbert Cook il
quale aveva rubricato Concerto campestre tra le opere in cui mag-
giormente il pittore dà mostra «della sua potenza espressiva»83.

79 Ibidem.
80 Ivi, p. 166.
81 Ibidem.
82 Cfr. G. Morelli, Kunstkritische Studien über italienische Malerei. Die Galerien zu

Berlin, Leipzig, Brockhaus, 1893 e B. Berenson, Italienische Kunst, cit., p. 113; cfr. inol-
tre di Berenson, The Venetian Painters of the Renaissance, cit.
83 H. Cook, Giorgione, London, Bell and Sons, 1900, p. 66.
192 Lo sguardo reciproco

Giorgione è colui che – inizia così in Viaggio d’estate la descri-


zione di Concerto campestre – «ha posto quattro o cinque figure
sul morbido dorso di una di queste colline e quelle altro non fan-
no che suggere come un frutto questa dolce mistura di vicinanza e
lontananza, di oscurità e luce, di realtà e sogno»84.
Come il viandante goethiano che, scendendo dalla montagna, si
imbatte in «tracce del lavoro umano»85 e, quindi, in una meraviglio-
sa forma di marmo, anche Hofmannsthal, attraversate le Alpi, in-
contra un capolavoro dell’antichità. In entrambi i casi si tratterà di
un frammento. Manipolata dal tempo e dalla natura nella poesia
goethiana, dalla immaginazione in Sommerreise, l’opera d’arte del
passato non giunge alla pagina scritta come oggetto che appaga la
percezione. Eppure è proprio questa incompletezza a far sì che un
sentimento di universalità si impossessi del viaggiatore e che, nel-
l’incontro con un «classico» che la storia e la soggettività hanno vio-
lato, egli cominci ad intuire i nessi profondi tra l’arte, la natura e la
vita umana: la nostalgia inappagata per quello che è passato – aveva
scritto Burckhardt in Sullo studio della Storia ricordando il maestro
von Ranke e anticipando la «cultura del frammento» di fine secolo
– ha un grande valore, poiché la combinazione instancabile dei resti
della tradizione costituisce «una parte della religione attuale, la ve-
nerazione per gli avanzi artistici, la forza della venerazione che è in
noi è difatti così essenziale quanto l’oggetto da venerare»86.
Tra le molte somiglianze tra il Wanderer di Goethe e l’Io nar-
rante di Sommerreise vi è però una sostanziale differenza: il Con-
certo campestre di Giorgione non fa parte delle esperienze del
viaggio italiano, né è oggetto di contemplazione. Conservato al
Louvre (e Rossetti aveva creduto di doverlo aggiungere al titolo
della sua poesia), lontano quindi dai luoghi toccati dall’itinerario
e distante dall’esperienza visiva ed emotiva del percorso estivo,
Concerto campestre si incunea nella descrizione paesaggistica con
una forte accentuazione dell’elemento immaginifico.
Così immaginata e così frammentaria, la pittura cessa di esse-
re arte di totalizzante immediatezza, come la voleva Leonardo, e

84 H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, cit. (trad. it. p. 166).


85 Ivi, p. 165.
86 J. Burckhardt, Sullo studio della storia, trad. it. a cura di M. Ghelardi, Torino,

Einaudi, 1998, p. 29.


Note di immortalità 193

diventa poco più di un pretesto per il confronto tra la durata di


un’opera che ha resistito al tempo e l’irrequieta polifonia delle
proiezioni, tra eternità ed emozione, sensualismo e metafisica. Im-
portante, almeno quanto il quadro e il suo artefice, sarà allora lo
«sguardo interiore» di colui che ne ricompone dopo secoli l’imma-
gine disponendone gli elementi con assoluta libertà: in questo mo-
do – come aveva scritto Pater, proprio riferendosi alla Scuola di
Giorgione – l’arte figurativa cesserà di rivolgersi al puro senso, e
tanto meno al puro intelletto, ma «attraverso i sensi» svilupperà ed
educherà quella che lui definisce la «ragione fantastica»87.

Il quadro che non c’è

Il passaggio dalla contemplazione della natura alla descrizione


del Concerto campestre è un piccolo capolavoro: Hofmannsthal
non nomina la tela, ma inizia a descriverla affidandosi a pochi ele-
menti della composizione, ordinati alla rinfusa, come se l’immagi-
ne venisse progressivamente “messa a fuoco” nel ricordo88. Simile
al pittore di Baudelaire, Hofmannsthal cerca «nel suo dizionario»
fantastico ciò che meglio si adatta alle suggestioni che giungono
dall’esterno e, «sistemandolo con una certa arte, gli dona una fisio-
nomia affatto nuova»89.
Si interrompe così la modularità percezione-narrazione che
informa le prime pagine di Viaggio d’estate e si introduce, nel reso-
conto di un viaggio «reale» – come aveva sottolineato all’inizio del
testo il suo autore –, la descrizione di un dipinto che ha con le bel-
lezze osservate un legame fatto di corrispondenze. È il rispecchia-
mento tra le colline viste e quelle dipinte, tra lo stato d’animo as-
sorto dei personaggi affascinati dalla musica e quello di Hofmann-

87 W. Pater, Il Rinascimento, cit., p. 129.


88 H. v. Hofmannsthal, Viaggio d’estate, cit., p. 166.
89 C. Baudelaire, Le gouvernement de l’imagination, in Id., Œuvres Complètes, 2

voll., Parigi, Gallimard, 1975, pp. 283-288, citaz. p. 284. In Sui caratteri nel romanzo e
nel dramma, Hofmannsthal fa affermare a Balzac: «Non ci sono esperienze, solo l’espe-
rienza del proprio essere. È questa la chiave che apre ad ognuno la solitaria cella del
suo carcere, le cui pareti spesse e impenetrabili sono – è vero – rivestite come tappeti
sgargianti dalla fantasmagoria dell’universo» (H. v. Hofmannsthal, Über Charaktere im
Roman und im Drama, cit., trad. it. p. 153).
194 Lo sguardo reciproco

sthal che procede come in sogno lasciando affiorare immagini che


se ne stavano stipate – scriverà anni dopo in un altro resoconto di
un viaggio italiano, I cammini e gli incontri – «in qualche luogo
dentro di me»90.
Come Gabriele D’Annunzio che «dai quadri non ha tratto par-
ticolari esteriori, – così scriveva Hofmannsthal nel saggio del 1894
– ma lo stato d’animo che hanno in sé gli atteggiamenti delle per-
sone dipinte»91, anche il nostro autore si preoccuperà di restituire
di Concerto campestre soprattutto delle Stimmungen92 che, in que-
sto caso, verranno condivise da tutti coloro che in questa opera-
zione sono coinvolti: il pittore con le sue figure, il poeta che le fa
rivivere e anche il lettore che la descrizione trasforma in spettatore
di un doppio processo, quello percettivo del viaggio e quello fan-
tastico della Kunstbeschreibung. Si elimina così ogni problema «fi-
lologico»93 e ogni riferimento alla vituperata critica accademica:
nella ricerca del sublime che marca il sottotesto di Viaggio d’estate
l’aspetto tecnico viene svalutato come espressione di un’abilità che
opera attraverso la pochezza dell’intelletto, si tace sui significati
iconologici e sugli orizzonti culturali. Nulla sapremo della compo-
sizione, dello stile, né, tanto meno dell’autore; egli si soffermerà
semmai «sull’espressione di un esserci senza specificazioni»94 ad
uso di un lettore in cerca di suggestioni più che di sapere.
Appare chiaro dall’incertezza sul numero dei personaggi rappre-
sentati in Concerto campestre – «quattro o cinque figure» scrive
Hofmannsthal all’inizio della descrizione – che egli intende dare
una immagine tendenziosa e personale del quadro di Giorgione.
Molti gli “errori” disseminati nella ricostruzione del dipinto: non vi
sono nell’originale vestiti gettati a terra, né frutti che rotolano da
un cestino; il berretto del giovane suonatore è rosso e non verde,

90 H. v. Hofmannsthal, Die Wege und die Begegnungen, in «Die Zeit», 19. 15.1907

(trad. it. di L. Traverso, I cammini e gli incontri, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 273).
91 H. v. Hofmannsthal, Gabriele D’Annunzio II, cit., p. 88.
92 Cfr. C. Bregger, Das Visuelle und das Plastische. Hugo von Hofmannsthal und die

bildende Kunst, Bern-München, Francke, 1979, p. 65.


93 H. v. Hofmannsthal, Die Briefe des Zurückgekehrten, in «Morgen», 25.6-5.7-

30.8.1907 (trad. it. di G. Bemporad, Le lettere del rimpatriato, in Id., L’ignoto che appa-
re, cit., p. 305).
94 S. Kummer, Kunstbeschreibungen Jacob Burckhardts, in G. Boehm, H. Pfo-

tenhauer, Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung, München, Fink, 1995, pp. 357-372,


qui p. 366.
Note di immortalità 195

come invece scrive Hofmannsthal, e, che vi sia una figura in con-


templazione delle vette con la bocca semiaperta, è pura invenzione.
A rendere ancora più imprecisa la Beschreibung hofmannsthalia-
na, altri quadri, tutti assai noti, si mescolano nel ricordo del dipin-
to: la fontana con la donna nuda richiama Amor sacro e amor profa-
no di Tiziano, mentre lo sguardo rapito nel vuoto del personaggio
«aggiunto» fa pensare a quel capolavoro moderno, Le déjeuner sur
l’erbe, che egli aveva ammirato pochi anni prima a Parigi95.
Ma il catalogo delle commistioni e degli errori è tutt’altro che
bizzarro; costruito con intima coerenza, rimanda a un elemento
centrale della poetica hofmannsthaliana: l’esigenza di dare vita alla
materia collegando la realtà empirica a immagini conservate nel ri-
cordo e, in questo modo, liberarla dal carcere del presente per
consegnarla al fluire dello spirito del mondo che, sempre uguale,
attraversa le opere e i tempi.
Già nella recensione a Il Rinascimento Hofmannsthal aveva af-
fermato di ritenere irrinunciabili nella Kunstbeschreibung l’azione
rivitalizzante del poeta che dona all’opera d’arte una nuova vita,
sottraendola alla canonizzazione da museo come alla banale rico-
struzione storico-tecnica degli studiosi. D’altra parte, lo scrittore si
era impegnato, fin dalle sue prime prove letterarie, a coniugare l’e-
sperienza empirica con qualche scheggia di alterità ricca di valore
simbolico e di senso dell’universale. Nella smemoratezza di una
società massificata che aspetta ottusamente la salvezza dal futuro,
«la leggibilità delle tracce» lasciate dal passato e la restituzione del
loro «valore eterno»96 diventa per Hofmannsthal il compito inso-
stituibile di una poesia che voglia essere «viva e fecondatrice»97.
Obiettivo di questa originale e infedele rievocazione di Concer-
to campestre sarà quindi in primo luogo quello di lasciar affiorare
dalla tela «un rivivere, uno scomporre e un ricreare ditirambico e
chiaroveggente»98. Non si tratta qui dell’azione della volontà e

95 Cfr. W. Kessler, Hugo von Hofmannsthals Beziehungen zur bildenden Kunst,

Diss., Freiburg, 1948, p. 48.


96 Cfr. G. Neumann, “L’inspiration qui se retire”: Musenanruf, Erinnern und Ver-

gessen in der Poetologie der Moderne, in A. Haverkamp, R. Lachmann (a cura di), Me-
moria: Vergessen und Erinnern, con la collaborazione di R. Herzog, München, Fink,
1993, pp. 435-455.
97 A. Conti, Giorgione, cit., p. 10.
98 H. v. Hofmannsthal, Algernon Charles Swinburne, cit. (trad. it. p. 63).
196 Lo sguardo reciproco

neppure del lavorio del collezionista che accumula frammenti di


epoche lontane: l’Io narrante di Viaggio d’estate preferisce lasciarsi
andare alle suggestioni che giungono dal profondo perché sa che
solo «attraverso una grande tensione della fantasia», si coglie per
un attimo «la visione di quell’altro mondo»99 in cui lo spirito re-
gna sovrano: «È certo che sul nostro tortuoso cammino – scrive
Hofmannsthal in I cammini e gli incontri – noi non solo veniamo
sospinti avanti dalle nostre azioni, ma sempre attirati da qualche
cosa, che sembra aspettarci in qualche luogo ed è sempre vela-
ta»100. Svelarla vuol dire scalfire la malvagia coscienza intellettuale
di chi dimentica – non i fatti della storia e le sue testimonianze, ma
ciò che ricco, spirituale, unitario si è scorto in quella dimensione
paradisiaca che Hofmannsthal chiama preesistenza e della quale
cerca le schegge nella «balenante» forza dei sogni101.
Si introduce così, in questo esperimento di Kunstbeschreibung,
una variabile collegata a quel trionfo dello spirito sulla natura che,
teorizzato da Hegel, trova il suo approdo novecentesco nella os-
sessione creativa di un soggetto in grado di dare valore, come nota
Adorno, solo a ciò che riesce a creare, mentre degrada a puro stato
di materiale d’uso quello che trova già preformato102.
La questione, certo non nuova, era al momento della stesura di
Viaggio d’estate, particolarmente attuale a Vienna, dove, in un ci-
clo di lezioni dell’inverno 1903, Alois Riegl aveva celebrato il ruo-
lo delle arti figurative nel processo di trasfigurazione e rivitalizza-
zione della natura: è l’arte che tende a distruggere la statica sim-
metria del creato ed è grazie alla sua azione, se il principio spiri-
tuale contrasta la cristallizzazione degli organismi in una lotta ser-
rata che ha come esito la vittoria dell’organico e del vitale sull’ina-
nimato e l’inorganico103.

99 H. v. Hofmannsthal, Walter Pater, cit. (trad. it. p. 115).


100 Ivi, p. 274.
101 H. v. Hofmannsthal, Weltgeheimnis, in «Blätter für die Kunst», II, 2, marzo,

1894 (trad. it. a cura di G. Zampa, Sogno di grande magia, in Id., Narrazioni e poesie,
cit., p. 27).
102 Cfr. Th. Adorno, Ästhetische Theorie, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di G.

Adorno, R. Tiedemann, vol. VII, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, p. 98.


103 A. Riegl, Historische Grammatik der bildenden Künste, a cura di K.M. Swobo-

da, O. Pächt, Graz-Köln, H. Böhlaus Nachf., 1966. Riegl individua due fasi di questa
azione vitalizzatrice dell’arte per quanto riguarda il mondo antico: nella prima fase,
quella classica, l’arte tende a migliorare la natura attraverso la bellezza dei corpi, nella
Note di immortalità 197

L’alleanza tra le arti faciliterà, in questa guerra tra spirito e ma-


teria, il trionfo dello «spirito nostro alto signore»104 e, in particola-
re, poesia e arte figurativa sembrano per Riegl destinate ad unirsi
per realizzare la «trasfigurazione della natura attraverso la bellezza
spirituale»105.
In sintonia con lo studioso agli inizi della sua fortuna, Hof-
mannsthal si propone di donare al Concerto campestre una nuova
vita. La contagia con un dinamismo di tipo teatrale isolando i per-
sonaggi, individuandoli, donando loro azioni e desideri che Hof-
mannsthal condivide e che si sovrappongono tendenziosi all’opera
e alle intenzioni del pittore.
Rispetto alla afasia del cadetto dei conti di Bath, incapace di da-
re voce al suo pensiero «immediato», «fluido» e «ardente»106,
Viaggio d’estate rappresenta un evidente superamento e il linguag-
gio, addirittura quello contaminabile della prosa, è chiamato a nar-
rare di «cammini» e «incontri», a evocare un’opera d’arte scelta
proprio per la sua complessità, a misurare la distanza dal classico,
a delineare, sia pure oscuramente, una poetica.

Concerto campestre

La struttura della visione scelta da Hofmannsthal non è diversa


da quella che aveva reso celebre il pittore tra i contemporanei e
che Vasari elogia nella Vita di Giorgione da Castelfranco. I suoi di-
pinti – scrive con ammirazione l’architetto aretino – avevano una
struttura che si offriva immediatamente all’osservatore che poteva
coglierla da ogni lato nella sua interezza «senza avere a camminare
intorno»107. E questo per sapienza costruttiva, non certo per la
semplicità delle immagini dipinte; anzi, a detta di Vasari, Giorgio-
ne offriva un numero di dettagli maggiore di qualsiasi altro artista

seconda fase, quella cristiana, fino al 1520, si tratta di migliorarla attraverso la bellezza
spirituale.
104 H.v. Hofmannsthal, Traum von grosser Magie, in «Blätter für die Kunst», III, 1,

gennaio, 1896 (trad. it. a cura di G. Zampa, Sogno di grande magia, in Id., Narrazioni e
poesie, cit., p. 39).
105 A. Riegl, Historische Grammatik der bildenden Künste, cit., p. 92.
106 H. v. Hofmannsthal, La lettera di Lord Chandos, cit., p. 146.
107 G. Vasari, Vita di Giorgione da Castelfranco, cit., p. 560.
198 Lo sguardo reciproco

e si misurava in «tutte le sorti delle vedute che può fare in più ge-
sti un uomo» sforzandosi di rappresentare «figure a sua fantasia
per mostrar l’arte»108.
Anche Hofmannsthal coglie il Concerto campestre nel suo insie-
me “vedendo” come alcune figure si perdano nella contemplazione
delle colline venete e sentendo, insieme a loro, il fascino di quella
regione: «Il miracolo di questo luogo è armonia: terra e nuvole,
lontananza e vicinanza, realtà e sogno qui sono una cosa sola: l’aria
è come un bacino in cui corrono silenziose fiumane di gioia»109.
L’immersione totale delle figure nella natura introduce un
aspetto fortemente innovativo nella riflessione di Hofmannsthal
sul Rinascimento. Mentre in Ieri trionfa un estetismo che cerca la
soddisfazione dell’attimo, riversando nella bellezza tutte le attese
di redenzione, qui invece i personaggi si danno panicamente alla
terra pronti ad essere irretiti, come figli dello Jugendstil, da una at-
trazione che finisce per smembrarle. L’umano si lega all’inumano e
si anticipa quel dissolvimento dell’immagine che caratterizza, fino
alla sua stessa negazione, l’arte del Novecento: «Le donne hanno
abbandonato le vesti sull’erba e offrono il corpo nudo al duplice
fiato dell’aria che fresco e presago d’ombre le vuole attirare sui
monti, e tiepido e voluttuoso le sfiora salendo dalla pianura»110.
La sensualità della scena che faceva immaginare a Tieck un me-
ridionale trionfo dei sensi111 e ispirava a Adolf Friedrich Schack
un estetismo di maniera112 diventa qui trasognata inconsapevolez-
za, perdita di volontà, superamento della individuazione. Dei per-
sonaggi di Giorgione, Hofmannsthal fa dei percettori, ricchi – co-
me scriverà Schaukal – di «morbidezza vegetativa», immersi in
«un sognare dolcemente assorto»113.
Echeggia il «dolore del solstizio» di Rossetti, quando «l’onda

108 Ibidem.
109 H. v. Hofmannsthal, Viaggio d’estate, cit., p. 167.
110 Ivi, p. 166.
111 L. Tieck, Franz Sternbalds Wanderungen. Eine altdeutsche Geschichte, a cura di

A. Angers, Stuttgart, Reclam, 1966, in particolare si rimanda alle pp. 368, 369, 371.
112 Cfr. A.F. v. Schack, Ein Bild Giorgiones, in Id., Gesammelte Werke, vol. X, Stutt-

gart, Cotta, 1899, pp. 220-221: «Fragt nicht, ob irdische, ob Himmelsliebe/Uns Castel-
franco grosser Sohn hier malte!//Lasst euch’s genug sein an der Schönheit Fülle,/Die
alle hier, dies wüste Weltgetriebe/Verklärend, seit Jahrhunderten schon strahlte».
113 R. Schaukal, Giorgione, cit., p. 136.
Note di immortalità 199

sospira», «riluttante» e il poeta riconosce l’impossibilità di «dare


un nome a questo sempre»114. In Viaggio d’estate sono soprattutto
le figure femminili ad essere sottoposte ad un processo trasforma-
tivo che le avvicina ad «arborescenze da paradiso terrestre»115 o a
personaggi mitici della terra e dell’acqua: «Ma i loro piedi nudi –
immagina Hofmannsthal avvicinando le donne di Giorgione a tan-
ta iconografia di fine secolo – sentono, attraverso l’erba e i fiori, il
suolo umido e fresco, sentono la felicità di radicare nella terra»116.
Malgrado tendano ad annullarsi nella natura, la fissità dell’ina-
nimato non avrà la meglio su di loro. Il potere mitopoietico della
poesia, quel «dialogo dell’ineffabile con la nostra anima»117 che
spiritualizza “per magia” i suoi oggetti, impedisce che qualcosa di
amorfo prenda il sopravvento.
Si supera così non solo la lettura schopenhaueriana che di Con-
certo campestre aveva suggerito Pater, dominato dalla volontà e at-
tirato segretamente dalla morte, ma soprattutto quella superomi-
stica e «immoralista» di D’Annunzio e di Conti, che trovava un
approdo non meno statico nell’esaltazione dei sensi e, quindi, nel-
l’inerzia dell’appagamento.
Hofmannsthal vede le donne abbandonate al piacere dell’acqua
e dell’aria, ma non le consegna alla contemplazione della bellezza
né alle seduzioni della carne. Con gesto arcaico, ricco delle me-
tafore della generazione, fa prender loro acqua dal pozzo (e l’ac-
qua è in Hofmannsthal, fin dalle primissime opere, viatico di una
gioia panica, metafora del risveglio o suscitatrice di memorie pure
e profonde). Il contatto con l’acqua – un’acqua che giunge fredda
dai monti e che richiama le metafore dell’altura e dell’elevazio-
ne118 –, è un antidoto al torpore e un richiamo potente al «mistero

114 D.G. Rossetti, For a Venetian Pastorale by Giorgione, cit.


115 H. Sedlmayr, Verlust der Mitte: die bildende Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts
als Symbol der Zeit, Salzburg, O. Mueller, 1948 (trad. it. di M. Guarducci, La perdita
del centro, Milano, Rusconi, 1974, p. 202 sgg).
116 Ibidem.
117 H. v. Hofmannsthal, E. Karg v. Bebenburg, Briefwechsel, a cura di M.E. Gilbert,

Frankfurt a.M., Fischer, 1966, lettera del 18 giugno 1895, p. 82.


118 Dell’acqua e dell’aria come elementi significativi nell’arte di Giorgione parla an-

che Pater nel suo scritto sulla Scuola di Giorgione. In particolare in La Sacra famiglia
del Louvre Pater vede «un singolare incanto d’aria tersa», inoltre il pittore veneto
donerebbe ai «suoi sacri personaggi una lucentezza e un’energia penetrate di vento»
(W. Pater, Il Rinascimento, cit., pp. 138-139).
200 Lo sguardo reciproco

del mondo»: «le donne si chinano sul pozzo di pietra – scrive il


poeta collocando arbitrariamente insieme le due figure femminili
che nella tela appaiono separate, una alla fontana l’altra all’ascolto
della musica e, per di più, con un flauto nella mano per partecipa-
re attivamente al concerto –, sollevano il secchio dall’umida gola,
come volessero così strappare al suolo il suo oscuro beato segreto;
ma ciò che portano alla luce è solo acqua limpida; la berranno tut-
tavia, la sentiranno scorrere fresca attraverso le membra»119.
Neppure gli uomini accanto al pozzo si lasceranno afferrare
completamente dall’oblio. Quello dal berretto «verde con la piu-
ma bianca» – secondo la fantasiosa ricostruzione di Hofmannsthal
– immagina un movimento verso l’alto che, doppiando le metafore
dell’acqua collocate all’inizio della descrizione, lo libera dal rista-
gno pomeridiano e lo avvicina alle vette, lì dove le aquile prendo-
no il volo. Immagina di trovarsi avventurosamente «sospeso là tra
l’orlo di roccia e l’abisso», di «essere colui che con piedi sangui-
nanti ha scovato il nido dell’aquila»120. Da quella lontananza az-
zurra potrà vedersi e, grazie allo sdoppiamento dello sguardo e del
suo stesso essere, si sentirà infinitamente migliore di quell’ “altro”
se stesso, «quell’uomo rozzo, di quell’uomo povero […] che giace
voluttuosamente accanto al pozzo di marmo, accanto al canestro
da cui rotolano frutti, accanto alle donne che hanno abbandonato
le loro vesti, indolente, con la piuma dell’aquila sul berretto color
di smeraldo»121.

Brame che non si appagano

A fine secolo, il ruolo della pittura e della poesia nell’apostolato


di un nuovo immoralismo trovano nella licenziosità del Concerto
campestre e nella caratterizzazione così diversa degli uomini e delle
donne che vi compaiono un tracciato esemplare. Scrive D’Annun-
zio, solo in apparenza più fedele all’immagine di quanto lo sia
Hofmannsthal:

119 H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, cit. (trad. it. p. 166).


120 Cfr. sulla forza inglobante della natura in Viaggio d’estate, le pagine sull’attraver-
samento delle Alpi, in particolare p. 164.
121 Ivi, p. 167.
Note di immortalità 201

Nella festa campestre il sonatore di liuto e il suo giovine compagno


chiomato attendono ad approfondire il loro gaudio, a dilatare il loro so-
gno di piacere su quel magnifico teatro che i colli gli alberi e le acque or-
nano solo pel loro bene. La carne delle due donne ignude li aspetta da
presso, bagnata come nella trasparenza di un’ambra liquida, irrigata come
da un oro caldo e fluido che pare il lume d’un sangue olimpico. Delle due
una, opulenta come Callipige, siede sul suolo rivolta verso il musico; e
dalla nuca al tallone la forma della sua schiena e dei suoi lombi si svolge
con la pienezza d’un flutto. L’altra in piedi, si sviluppa da un drappo co-
me un fiore da un involucro, inclinandosi con molle grazia verso un baci-
no […]. Così fra poco, quando l’ebbrezza dei suoni sarà giunta al som-
mo, i due giovani verseranno senza misura la calda vita ne’ loro bei grem-
bi ignudi, anelando morire122.

Anche Hofmannsthal coglie l’erotismo dell’immagine, la gioia


panica e la seduzione della natura terrigna, gareggiando con il
poeta italiano in musicalità e sapienza retorica. Ma come in Ru-
skin, anche in lui «il senso della nudità si perde»123, ogni erotismo
è bandito da questa scena dominata, nella lettura dell’autore vien-
nese, da una segreta aspirazione verso l’Intellegibile: non grembo
di donne, ma una infinita lontananza attira tutti i personaggi, chini
sul mistero del mondo, sul ciclo della morte e della resurrezione.
Costoro sembrano intuire la profondità dell’enigma del cosmo con
una brama che non può appagarsi, come voleva invece D’Annun-
zio, nella carne o nella morte. Così, mentre l’uomo dal berretto

122 L’anno successivo alla stesura di Viaggio d’estate, ritroviamo l’interpretazione di

Conti e D’Annunzio nella monografia di Ugo Monneret de Villard, dedicata a Giorgio-


ne (Giorgione da Castelfranco, cit.). Secondo Monneret, Giorgione vive completamente
di sensazioni e non di idee e, aggiunge: «si direbbe che in lui la visione del quadro non
sorge né si cristallizza attorno ad oggetti chiari e definiti, ma è solo l’esternarsi di emo-
zioni sensuali e di un diffuso stato d’animo musicale che precede e genera l’idea poetica
[…]. Egli prova un intenso godimento alla comprensione della forma […] al verismo
degli antichi maestri sostituisce il suo idealismo passionale […] crede solo nell’intensità
del godimento nella vita ricca di sogni e di promesse. Egli non sa pregare ma godere e
non agli altari, ma ai bei grembi femminili chiede la pace» (ivi, pp. 9-10). Così, «l’eb-
brezza che ha provato nel godere, che, nell’interno processo intensificata, genera il
Concerto campestre. L’affermazione suprema nasce in lui dalla pienezza e dalla abbon-
danza di vita nell’accettazione dell’esistenza, di cui conosce la bellezza e il dolore. Linfa
esuberante corre nel suo corpo, che provoca il raffinarsi di ogni suggestione e di ogni
allucinazione dei sensi, con una sicura influenza idealizzatrice» (ivi, p. 57).
123 J. Ruskin, Modern Painters (1873), in Id., The Works of John Ruskin, a cura di

E.T. Cook, A. Wedderburn, vol. II, New York, Library Edition, 1903, p. 196.
202 Lo sguardo reciproco

rosso immagina di innalzarsi fino a sfiorare il più nobile degli uc-


celli, «quello dal bel berretto – scrive – fissa lo sguardo rivolto su
quelle turrite lontananze azzurre. Per lui questa vista è più bella
del bel corpo nudo delle donne che siedono leggere e formose sul-
l’umido e fresco orlo di pietra della fontana»124.
Insensibile ad ogni seduzione anche il terzo personaggio che
Hofmannsthal «vede» nel quadro intento ad ascoltare musica (e
non a caso Hofmannsthal sottolinea che si tratti di uno strumento
“colto” come il liuto, a marcare la distanza dell’immagine dall’idil-
lio campestre, mentre “dimentica” di citare il flauto): «Colui che,
riverso il capo, socchiusa la morbida bocca, lo sguardo nel vuoto,
ascolta il terzo che suona il liuto nell’ombra del boschetto. Una
canzone semplice, un piccolo tocco delle corde così tese dalla feli-
cità»125. Il contatto con la musica, la più astratta delle arti, non
produrrà eccitazione, né appagamento, ma una inattesa luce inte-
riore: «Come deve sciogliersi nell’anima, discendere veloce nell’a-
bisso dell’anima, così, come una piccola nuvola, si scioglie lungo il
fianco dei monti che la vampa interna accende di violetto»126.
Più dolce delle forme femminili è un ascolto che ha la consi-
stenza simbolica del sogno: ciò che si desidera è – si legge in Viag-
gio d’estate – «assaporare il sentimento di quella lontananza […]
guardare verso quella lontananza azzurra, verso quei monti gigan-
ti, verso le nuvole nutrite dall’alito dei monti»127.
L’approdo della descrizione di Hofmannsthal è la beatitudine,
una beatitudine che, più che dalla bellezza del paesaggio o dei cor-
pi femminili, è suscitata dalla armonia di «dolci suoni»128 ai quali,
schopenhauerianamente e paterianamente, tendono tutte le opere
dello spirito umano. Inconciliabile con ogni azione utilitaristica, ri-
velazione subitanea del genio, legame misterioso tra le varie forme
d’arte, la musica, è – scrive Conti – «l’elemento purificatore delle
arti, è il mistero che è racchiuso nello stile, è l’elemento rivelatore
che l’uomo estrae dall’enigma delle forme e fissa nell’opera genia-
le»129. Hofmannsthal celebra così la tela di Giorgione che, grazie
124 H. v. Hofmannsthal, Sommereise, cit. (trad. it. p. 167).
125 Ibidem.
126 Ivi, pp. 167-168.
127 Ivi, p. 167.
128 W. Pater, Il Rinascimento, cit., p. 143.
129 A. Conti, Giorgione, cit., p. 36.
Note di immortalità 203

alla pace degli orizzonti dipinti, alla bellezza delle pure forme,
mette l’anima dell’osservatore in uno stato simile a quello prodot-
to dalla creazione musicale130. «Luogo di beatitudine! La coperta
pende dimenticata, le vesti sono scivolate sull’erba: la coperta di-
venta una vela, lievemente la gonfia il respiro voluttuoso della pia-
nura, l’alito fresco dei monti fruga tra le sue pieghe. E così nelle
chiome dei tre alberi; essi giocano beati col peso delle loro vette:
ciò cui le donne anelano, che avidamente cercano calando il sec-
chio, essi l’hanno da sé, lo suggono in sé con le radici, l’oscura, mi-
steriosa felicità della terra»131.
Grazie all’azione della musica nel quadro, e della poesia nella
Kunstbeschreibung hofmannsthaliana, le donne non si radicheran-
no nella terra, gli uomini non si identificheranno con il respiro vo-
luttuoso dell’aria e la Sehnsucht di qualcosa che è appena presagito
diventa annuncio di una nuova rivelazione che giungerà al termine
del viaggio: a Vicenza di fronte a quell’opera sublime che è, secon-
do Hofmannsthal, la Rotonda di Palladio.

130 Secondo Pater i personaggi dei suoi quadri sembrano intenti e inteneriti dalla

musica che li circonda “come se fossero in ascolto”: la musica rappresenta il momento


culminante della beatitudine e, insieme, il viatico verso le profondità dell’anima di colui
che sa ascoltare il mistero dell’arte.
131 W. Pater, Il Rinascimento, cit., p. 143.
MALINCONIA E IMMAGINAZIONE
UNA GENEALOGIA FANTASTICA PER MELENCOLIA I

Roberta Coglitore

La malinconia di un’agata

Nelle prime pagine di Nel solco di Saturno1, una delle tre “lezio-
ni morali” che Roger Caillois scrive a partire dalle tenebre della
materia inorganica, vengono descritti un sole nero, che irradia una
luce scura e un poliedro irregolare, e un pesante cubo, elemento
isolato sulla superficie di un’agata, entrambi generatori dei sintomi
di una «tristezza tenace». La bellezza dello spettacolo si mescola a
un’atmosfera di sogno – la fantasia che nasce dalla ricerca di un
mistero custodito nel disegno –, e a una tristezza senza oggetto –
una vera e propria angoscia:
La sua solitudine, il suo esilio in questo pantano, mi riempie d’un trat-
to di una tristezza tenace. Lo spettacolo non ne era l’unica causa. Vi si
mischiava lentamente, come s’insinua una nebbia, un’atmosfera di sogno:
qualcosa di cerebrale e vissuto al contempo, un ricordo che non riuscivo
a identificare, di cui m’erano proposti solo alcuni elementi, del resto in
disordine, e di cui mi mancava la chiave che m’avrebbe permesso di riu-
nirli e di trovarne il significato. D’altra parte, questa cupezza improvvisa,
irrimediabile, senza oggetto2.

All’incantamento per la bellezza della visione – lo spettacolo che


prende forma sulla pietra – si aggiungono quindi la fantasia del-
l’immaginazione e la tristezza tipica della depressione, due elemen-
ti che per tradizione oltre che tratti distintivi della personificazione
del tipo malinconico sono anche le manifestazioni di Saturno, dio

1 R. Caillois, D’après Saturne, in Id., Trois leçons des Ténèbres, Montpellier, Fata
Morgana, 1978, pp. 11-28 (trad. it. di T. Cavallo, Nel solco di Saturno, in Id., Tre lezioni
delle tenebre, Genova, Zona, 1999, pp. 49-59). Si preferisce qui seguire la seconda tra-
duzione italiana del testo. La prima dal titolo Seguendo Saturno è di G. Zuccarino, nel
volume R. Caillois, Pietre, Genova, Graphos, 1998, pp. 79-86.
2 R. Caillois, Trois leçons des Ténèbres, cit., p. 14 (trad. it. p. 52).
206 Lo sguardo reciproco

della latinità e pianeta dell’astrologia caldea.


Già Aristotele aveva ricondotto la malinconia a uno dei quattro
temperamenti, quello dominato dalla bile nera, fornendone una
spiegazione limitata ai soli elementi naturali. Invece il legame tra la
malinconia e il pianeta Saturno si trova già in alcuni autori arabi
del IX secolo che legavano i caratteri degli uomini alle caratteristi-
che delle stelle.
Che il tipo saturnino indichi una personificazione, una fisiogno-
mica e un carattere malinconico – e cioè triste, cupo, o in termini
psicologici, affetto da depressione – è una tradizione che inizia ap-
punto con la fisiologia greca e si conserva fino alla vulgata psicoa-
nalitica novecentesca.
Ma una tradizione parallela, altrettanto antica e originaria, lega
Saturno e la malinconia alla forza creativa del genio, al furore eroi-
co, all’immaginazione creatrice. Il “furore” platonico, la “contem-
plazione” divina ficiniana e il “genio” romantico ne sono soltanto
alcuni esempi.
L’ambivalenza di Saturno trova le sue prove più evidenti nella
doppiezza della rappresentazione figurativa di dio della terra e, al
contempo, sovrano degli inferi3. Questa duplice possibilità satur-
nina permette di rintracciare, anche per la melanconia, una linea
interpretativa della vita accanto a quella della morte. Con estrema
evidenza la tradizione figurativa «ha dato espressione ai due aspet-
ti della natura di Saturno, da un lato sotto la forma dell’imponente
e benefico dio della terra, dall’altro sotto quella del distruttivo, ma
insieme pacificatore, sovrano degli inferi»4. L’iconografia antica ha
rappresentato l’ambivalenza del dio in due classi di raffigurazioni:
la prima mostra il dio della terra in atteggiamento ieratico con gli
occhi minacciosi, in piedi e con una falce in mano, simbolo della
potenza; la seconda presenta il dio in posizione seduta con la testa

3 Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the Hi-
story of Natural Philosophy Religion and Art, London, Thomas Nelson & Sons, 1964
(trad. it. di R. Federici, Saturno e la melanconia, Torino, Einaudi, 1983). La sovrapposi-
zione tra Saturno e Crono ha intensificato gli elementi contraddittori della divinità:
Crono «Da un lato era il dio benevolo dell’agricoltura, la cui festa del raccolto era cele-
brata insieme dai liberi e dagli schiavi, era il sovrano dell’età dell’oro […] dall’altro era
il dio cupo, detronizzato e solitario […] da un lato era il padre degli dei e degli uomini,
dall’altro il divoratore dei figli colui che mangiava carne viva» (Ivi, trad. it. p. 283).
4 Ivi (trad. it. p. 186).
Malinconia e immaginazione 207

reclinata, appoggiata sulla mano, simbolo della triste quiete della


morte.
Allo stesso modo due caratteristiche del pianeta si ritrovano im-
piegate a sostegno delle due tradizioni. Da una parte, la gravità, la
pesantezza, l’asciuttezza e la freddezza di Saturno genera individui
adatti al lavoro duro dei campi; dall’altro la sua posizione, il più
lontano dei pianeti, genera gli individui più spirituali, più lontani
dalla vita terrena, i religiosi contemplativi.
Le tradizioni delle scienze naturali, dell’astrologia e della psico-
logia si intrecciano quindi nella composizione del tipo melanconi-
co o di un temperamento, della melanconia patologica (fisica o psi-
chica) o dello stato momentaneo dell’umore, dell’influenza astrale
o del tipo di peccato, di un insieme di tratti fisiognomici o dell’e-
spressione del genio, e considerano la malinconia, di volta in volta,
come una potenzialità rigenerante o l’anticamera del suicidio.
Nelle pagine di Caillois i due aspetti complementari della ma-
linconia, o come l’aveva chiamata Walter Benjamin la dialettica tra
cupo sprofondamento e luminosa salvezza5, sono raccontati e te-
nuti insieme dalla descrizione della bellezza di un minerale.
In particolare, la descrizione del disegno di una lastra di agata
fuori dal comune viene messa in relazione alla descrizione del ca-
polavoro artistico che ha emblematicamente raffigurato la malinco-
nia, quello düreriano. Un’agata tenuta fra le mani di Caillois viene
descritta quasi copia conforme di un’altra pietra, tagliata dallo stes-
so geode (o forse la stessa?), che ha contemplato Albrecht Dürer
prima della produzione dell’incisione Melencolia I (1514) (fig. 1).
In una sorta di mise en abyme, fatta di descrizioni di agate reali e
ipotetiche, vengono duplicati e riverberati gli effetti della bellezza
del minerale. Lo stato malinconico, intimamente legato alle due
rappresentazioni, naturale e artisitica, può essere rintracciato sia a
un livello intradiegetico, nelle storie che vengono immaginate, che
extradiegetico, cioè nella cornice della narrazione. Inoltre la malin-
conia nel testo può avere sia manifestazioni depressive, tipiche
di chi sedotto dalle pietre si “mineralizza” (Caillois e Dürer nella si-

5 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Frankfurt a. M., Suhrkamp,


1974 (trad. it. di F. Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, con un’introduzione di
G. Schiavoni, Torino, Einaudi, 1999). Cfr. in particolare il capitolo Dramma e tragedia,
pp. 114-133.
208 Lo sguardo reciproco

Fig. 1. A. Dürer, Melencolia I, 1514.

tuazione che viene ipotizzata), che espressioni della forza creatrice


dell’immaginazione (genealogia della Melencolia I per Dürer e ri-
creazione della lastra minerale, attraverso l’ékphrasis, per Caillois).
Questa è la complessa finzione narrativa che Caillois racconta e
Malinconia e immaginazione 209

dalla quale fa scaturire riflessioni di natura estetica e teologica. La


lezione morale sulla vanità dell’uomo e delle sue creazioni, conclu-
sione che nasce da una contemplazione malinconica vista come
presa di distanza dal mondo, viene inserita in una cornice narrati-
va fantastica dove sono contemporaneamente presenti e attivi tre
elementi: 1) la bellezza incantatrice della pietra, come valore esteti-
co in sé e determinato per differenza tra il valore del capolavoro
dureriano e la descrizione cailloisiana; 2) la pesantezza della malin-
conia, erede diretta dell’acedia medievale, che viene qui intesa sia
come effetto di “tristezza tenace” per l’osservatore dei disegni liti-
ci (Caillois o il lettore), che come tipologia saturnina dei personag-
gi rievocati a partire dalla contemplazione del minerale (Dürer del
racconto cailloisiano e la donna ritratta nell’incisione Melencolia
I); 3) e, infine, la forza dell’immaginazione creatrice della melanco-
nia, ovviamente di Dürer-artista oltre che di Caillois-descrittore, il
quale riesce a elaborare in questo caso addirittura una cornice nar-
rativa per far convergere le descrizioni delle due opere d’arte,
quelle della natura e dell’artista.
Tutto si muove però, non va dimenticato, proprio a partire dalla
devotio verso la natura minerale, che è il simbolo per eccellenza
della pesantezza, stabilità, immobilità e insieme del “ritorno al-
l’inorganico” attribuito alla forza distruttrice della malinconia, ma è
altrettanto il simbolo dell’eternità e la base di partenza per gli inter-
minabili giochi dell’immaginazione6. L’assimilazione alla natura del
minerale (secondo un processo di mineralizzazione o pietrificazio-
ne immaginaria) è allora la tappa che precede il viaggio all’interno
della pietra, come professava l’antichissima tradizione cinese7, o

6 Già Benjamin aveva scritto che: «Il recupero degli antichi simboli della melan-
conia, documentato da questa incisione e dalla speculazione contemporanea, ne ha
probabilmente sorvolato uno, che sembra essere sfuggito all’attenzione di Giehlow e di
altri studiosi. Si tratta della pietra. Il suo posto nell’inventario dei simboli è sicuro» (Ivi,
trad. it. p. 129). Alle caratteristiche della massa inerte della pietra corrisponde per
Benjamin il peccato mortale dell’acedia, della pigrizia del cuore.
7 R. Caillois esplora la dimensione del viaggio all’interno delle pietre soprattutto in
Pierres, nella sezione Metafisica. Come nella tradizione cinese il viaggio mistico dentro le
cavità delle pietre diventa un modo di fare un viaggio dell’anima e di sentire l’eterno: «Si
pensa che lo spirito, liberatosi dal corpo, percorra senza sforzo e quasi istantaneamente i
diversi mondi naturali e soprannaturali, prima di ritornare nel suo involucro carnale. Es-
so si muove con facilità tra i nove piani dei Cieli e i nove piani degli Inferi che compon-
gono i coni, orientati in senso opposto, di cui è fatto l’universo: l’infima e immensa natu-
210 Lo sguardo reciproco

che segue le “passeggiate dello sguardo”8 sulle superfici litiche alla


ricerca di insoliti dettagli.

Incroci fantastici

Il testo Nel solco di Saturno potrebbe tranquillamente essere


classificato all’interno della finzione narrativa. In particolare po-
trebbe trattarsi sia di un conte philosophique, che di un racconto
fantastico o semplicemente di una ékphrasis tra le molte presenti
nei lapidari moderni di Caillois 9.
Del fantastico possiede infatti tutti i principali requisiti. È una
narrazione che si articola tra diversi livelli di realtà – realistica e im-
maginaria, presente e passata –; fa provare inquietudine ai perso-
naggi e al lettore per una situazione irreale e misteriosa; mette in at-
to una tale quantità di meccanismi testuali che richiedono una par-
ticolare abilità per districarsi tra i diversi livelli di lettura; infine la
conclusione lascia aperta la strada alle interpretazioni possibili del
racconto. Del conte philosophique presenta invece la profonda ri-
flessione su questioni critiche della società contemporanea, a partire
da una situazione di racconto immaginario. Infine a differenza delle
numerose descrizioni cailloisiane di minerali, il testo è facilmente
identificabile all’interno di una unità narrativa in sé compiuta.
Infatti è la prima delle tre lezioni “morali”10 che Caillois ricava
dall’osservazione delle tenebre del mondo minerale e ha un tito-
lo assai significativo che conferisce ulteriore unitarietà al testo:
D’après Saturne11. È proprio sotto l’influenza di Saturno, astro ma-

ra nella quale vivono gli uomini ordinari costituisce il luogo, minuscolo, in cui si con-
giungono le punte dei due coni […]. Solo gli Immortali sono capaci di compiere scorri-
bande del genere. Ma forse conviene rovesciare la formula: solo chi sperimenta simili sta-
ti di pienezza, chi sogna di effettuare simili viaggi, può avere un presentimento dell’Im-
mortalità» (R. Caillois, Pierres, Paris, Gallimard, 1960, trad. it. cit., p. 52).
8 D. Diderot, Salons de 1767, 39. Vernet, Paris, pp. 98-148, citaz. p. 105: «Arrêtés

là, je promenai mes regards autour de moi, et j’éprouvai un plaisir accompagné de fré-
missement».
9 Mi permetto di rinviare al mio Lapidari moderni, in R. Caillois, Malversazioni,

Roma, Meltemi, 2003, pp. 37-57.


10 Le altre due parti del volume sono: Arc-en-ciel pour la Melencolia (Arcobaleno

per Melencolia) e La Sécheresse (L’aridità).


11 Va ricordata la similarità con un altro testo della letteratura francese dedicato al-
Malinconia e immaginazione 211

linconico e ambivalente, idolo dei contemplativi e simbolo della


staticità, che si svolgono le due storie intrecciate della narrazione.
La prima realistica, del presente, contemporanea al momento
dell’enunciazione del racconto, viene espressa in prima persona.
Caillois descrive una lastra di minerale della sua collezione, un’a-
gata insolita dove si distinguono, contrariamente a quanto avviene
nella regolarità dei cerchi concentrici della varietà minerale, un
centro diviso in due parti e con due elementi isolati: nella parte su-
periore un cerchio e in quella inferiore un poliedro:
A un primo sguardo non distinguo che una piastra circolare, tagliata
nel diametro del nodulo, divisa in metà approssimative, di toni opposti.
La parte in alto, d’un chiaro dominante: un cielo. Nella zona inferiore, in-
nanzitutto, una spessa striscia nero-carbone, come la china di uno sterro,
che si sprofonda in una distesa d’acqua dormiente, crepuscolare. Vi si
possono percepire oggetti confusi, seminterrati: una di quelle pozzanghe-
re, come se ne trovano spesso nelle discariche delle periferie urbane12.
La prima storia, realistica, serve da cornice alla seconda, imma-
ginata semplicemente a partire da alcuni dati reali, dove si raccon-
ta la genesi della composizione di Melencolia I, il capolavoro dure-
riano. L’effetto di reale che deriva dalla prima descrizione molti-
plicherà l’effetto di fantastico della seconda, per sola differenza.
L’intero procedimento narrativo, inoltre, risulterà assai più verosi-
mile proprio perché racconta di un episodio immaginario ma già
avvenuto.
La seconda storia infatti, inserita nella prima con un cambia-
mento di spazio, tempo e enunciatore, racconta, in terza persona,
la genealogia dell’incisione di Dürer, ipotizzata da Caillois. È il
racconto di un viaggio in Renania nell’autunno del 1514, «il viag-

la malinconia: si tratta di D’après Dürer, novella di Marguerite Yourcenar pubblicata da


Grasset nel 1934, prima di confluire nella sua L’Œuvre au noir (Paris, Gallimard, 1968;
trad. it. di M. Mongardo, L’opera al nero, Milano, Feltrinelli, 1969). Come si legge nella
nota dell’autore in relazione alla scelta del titolo: «D’après Dürer era stato scelto in con-
siderazione dell’illustre Melancholia nella quale un personaggio tenebroso che è senza
dubbio il genio umano, medita amaramente circondato dai suoi strumenti, ma un letto-
re di spirito letterale mi fece notare che la storia di Zenone era più fiamminga che tede-
sca […] Il presente titolo si ispira a una formula che gli alchimisti francesi traducono
così dal latino o dal greco». Sulla relazione tra alchimia e arte e per un’interpretazione
sostanzialmente alchemica della incisione dureriana si veda anche M. Calvesi, La
Melanconia di Albrecht Dürer, Torino, Einaudi, 1993.
12 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 51).
212 Lo sguardo reciproco

gio che tenne nascosto e di cui non parlano i suoi biografi», du-
rante il quale il pittore tedesco avrebbe acquistato una pietra dei
famosi giacimenti di Idar Oberstein. Anche la pietra, oltre al luo-
go, conferisce al racconto un tono di incertezza, un’inquietudine
spaesante. Infatti, si legge nel testo, la pietra acquistata da Dürer è
forse la stessa di quella posseduta e contemplata da Caillois nella
prima descrizione:
Albrecht Dürer acquistò questa pietra, o meglio una pietra quasi iden-
tica (perché i disegni dell’agata si trasformano nello spessore della traspa-
renza con una rapidità sorprendente)13.
Si tratta dei primi cortocircuiti della narrazione, dei punti di
contatto tra livelli diversi, tipici del racconto fantastico, che
confondono il lettore intento a seguire il lineare svolgimento del-
l’asse narrativo.
Le immagini della pietra a lungo contemplata quella sera nella
locanda dove Dürer si ferma per la notte si sommano alle immagi-
ni della locandiera, del suo cane e di altri oggetti, per prepararsi a
diventare le figure che sovraccaricheranno la nota incisione.
Ma a determinare il particolare momento creativo sono la mor-
te di Martin Schongauer, maestro mai incontrato, la lettura del Li-
bro del sapiente di Charles de Bouëlle sul sentimento proprio dei
religiosi e le riflessioni sul valore della pittura rispetto alla bellezza
della natura: tutte esperienze che avevano preceduto di ore o anni
l’acquisto della pietra. Eventi che già prima della partenza lo ave-
vano indotto a «dubitare del proprio talento e addirittura a riflet-
tere sulla legittimità della pittura»14 ma che sarebbero ritornati alla
memoria proprio quella sera.
Un sentimento malinconico, una cupezza (morosité) infinita,
data dalla singolare coincidenza di questi fattori, pervase Dürer al
momento della contemplazione della pietra, quella sera nella lo-
canda. Le riflessioni sulla vanità della scienza e dell’arte gli provo-
carono una «tristezza colpevole». L’acedia, sentimento che accom-
pagna i contemplativi e che, a lungo andare, «rende simili alle pie-
tre», aveva avuto origine in questa occasione proprio dalla con-
templazione di una pietra. Dürer osservò la lastra alla fiamma di

13 Ivi, (trad. it. p. 52).


14 Ivi (trad. it. p. 53).
Malinconia e immaginazione 213

una candela e notò subito i due elementi:


Notò subito l’astro nero che stava sorgendo (o tramontava) nella sua
magnificenza d’asfalto o di fuliggine […]. Nella parte inferiore Dürer notò
pure l’inopportuno poliedro. Ne aveva disegnati molti per i suoi studi di
prospettiva o per decomporre le figure in elementi semplici e rettilinei15.

Stanco di dover rappresentare gli stessi soggetti religiosi o natu-


ralistici Dürer si fermò a riflettere sul fatto che forse la pittura è,
secondo quanto avrebbe sostenuto Pascal, solo una copia imper-
fetta della natura e che forse a quest’ultima bisognerebbe invece
rivolgere direttamente lo sguardo16. I due elementi della pietra lo
indussero in uno stato di profonda tristezza e di colpevolezza:
Il sole di pece e il solido rigorosamente poligonale l’avevano rapito.
Ora lo costernavano. Una malinconia infinita, senza oggetto, metafisica,
coinvolse anche lui. Divenne preda dell’universale cui prodest? Il senti-
mento della vanità della scienza, dell’arte, del piacere gli diede la nausea.
Di colpo si sentì vittima dell’ottavo peccato capitale, la “tristezza colpe-
vole”, che fa sì che si perda ogni interesse per la Creazione o per ciò che
può accadere all’universo e a se stessi, quell’acedia di cui la frase di
Bouëlle gli aveva insegnato che al suo grado estremo, essa rende l’uomo
identico alle pietre. Ed ecco: era la contemplazione di una pietra a instil-
larla in lui17.
Osservando la locandiera seduta, con la testa appoggiata sulla
mano, Dürer ritrovò l’immagine esatta (image juste)18 della massi-
ma prostrazione e indifferenza, del tedio e dello scoramento. La
creatività dell’artista le tracciò attorno grandi ali d’angelo e la
circondò di un’aura nera, le tenebre che aveva letto nella pietra a
lungo osservata. Nella sua fantasia vi aggiunse anche il cane, lì pre-
sente, e una serie di oggetti-simboli – la clessidra, la campana, la
scala, il quadrato magico, un bambino – che avrebbero costituito
il mistero della sua incisione.

15 Ivi (trad. it. p. 55).


16 Anche in questo caso il riferimento a Pascal, filosofo francese che vivrà almeno
un secolo dopo il pittore tedesco, dichiara un’intromissione di Caillois nel racconto dei
pensieri di Dürer. Altro cortocircuito tipico del racconto fantastico.
17 Ivi (trad. it. pp. 55-56).
18 Cfr. in Approches de la poésie (Paris, Gallimard, 1978) la ricerca, cara a Caillois,

della imagination e della image juste che risponde contemporaneamente ai criteri dell’e-
sattezza e della sopresa e che attraverso l’enigma cela il mistero.
214 Lo sguardo reciproco

Incise l’immagine molto tempo dopo, nonostante la consapevo-


lezza della vanità dell’arte, raggiunta ormai nella maturità del suo
percorso artistico. Vi aggiunse anche uno stendardo con il titolo
dell’opera: Melencolia I, a indicarne un seguito. Ma le tre lastre su-
gli altri temperamenti non furono mai incise, quasi che questa po-
tesse, da sola, essere anticipatrice di ogni possibile vano sforzo: «fu
come se il volto accasciato di una serva malconcia esprimesse da
solo la totalità di una lucida e lugubre Annunciazione»19. Il titolo
che aggiunse a completamento dell’opera avrebbe dovuto chiarir-
ne le intenzioni. L’iscrizione sullo striscione portato in volo da un
pipistrello, Melencolia I, si presenta come la più lugubre annuncia-
zione: tutto ritornerà a essere pietra, tenebra, oscurità. L’immagine
risultante fu talmente forte che Dürer non incise neanche le altre
tavole sugli altri tre temperamenti, quasi che la complessità di que-
sto riuscisse a saturare il senso ultimo delle cose20.
Dürer smarrì o ruppe la lastra. L’astro e il poliedro, che aveva
inizialmente notato sulla lastra, erano stati alla fine completamente
stravolti nell’incisione:
Dürer aveva modificato entrambi al punto da renderli irriconoscibili.
L’astro gelatinoso, ridotto a un punto incandescente, al di là della luce e
dell’oscurità, esplodeva ora su di un mare tranquillo. Questo mare riempi-
va il cielo di una moltitudine di oscuri fasci che diluivano il chiarore.
Quanto al poliedro, la cui complessità era aumentata con il volume, espo-
neva ormai due vasti pentagoni irregolari e ne lasciava indovinare un
terzo21.
Ovviamente il confronto tra le varie fasi del progetto dell’inci-
sione nella mente di Dürer e l’opera realizzata dall’artista può es-
sere fatto da Caillois solo a partire dall’immagine di Melencolia I
conservata nella propria memoria e quindi in base a una personale

19 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 57).


20 Secondo H. Focillon ciò che manca alla complessità dell’incisione di Dürer è
proprio il senso dell’infinito, dell’incompletezza. Tutto è troppo presente tanto da esse-
re pietrificato: «Questo magnifico intellettuale compone il mondo delle forme e il mon-
do delle idee, la tecnica dello strumento e la tecnica della ragione: ma gli manca quella
vaga magia che nel finito evoca l’infinito. “Suggerire” dice un filosofo orientale “è il se-
greto dell’infinità”. Tutto è giusto, tutto è nobile e bello in questa immagine del mondo
e dell’uomo, e tutto è pietrificato» H. Focillon, Albrecht Dürer, «Revue d’Allemagne»,
1928 (trad. it. di G. Guglielmi, Albrecht Dürer, Milano, Abscondita, 2004, p. 56).
21 Ivi (trad. it. p. 58).
Malinconia e immaginazione 215

descrizione dell’opera. Ma anche qualsiasi dettaglio delle due sto-


rie (e come dimostrerò successivamente anche delle due descrizio-
ni) è frutto di un confronto ipotetico tra le due immagini ricono-
sciute da Caillois sull’agata, le due figure osservate nella pietra da
un ipotetico Dürer in un viaggio altrettanto immaginario nella fin-
zione della scena nella locanda, e la conoscenza del capolavoro du-
reriano. Le due storie vengono inverate e collegate grazie alla de-
scrizione – solo a frammenti e per confronto – di Melencolia I che
viene utilizzata come precomprensione tra autore e lettore, indi-
spensabile alla struttura dell’intera narrazione.
Dopo il racconto del viaggio in Renania e la dinamizzazione del
processo creativo di Melencolia I la narrazione ritorna al tempo
dell’enunciazione iniziale ma mantiene la terza persona (come già
nella seconda storia), questa volta però per sostenere il tono eleva-
to delle riflessioni conclusive.
Nella terza parte le due storie vengono esplicitamente intreccia-
te attraverso un confronto che non utilizza più lo strumento del-
l’ékphrasis – dell’incisione di Dürer e della pietra di Caillois, capo-
lavoro dell’uomo e capolavoro della natura. Caillois rintraccia a un
livello più profondo le omologie fra le due storie22. Viene dimo-
strata quindi un’omologia strutturale, che assimila i procedimenti
utilizzati, perché entrambe le pietre vengono osservate e contem-
plate a lungo, azione che permette alla fine, in entrambi i casi, di
rintracciarvi un disegno che unisca il sole e il poliedro. Ma si ritro-
va anche un’omologia poetologica perché le due storie realizzano
con strumenti differenti – la scrittura letteraria e l’arte pittorica –
la rappresentazione di un campione eccezionale di minerale. E an-
cora vi si riscontra un’omologia tematica perché le due minacce-
speranze – il maggiore valore della bellezza della natura rispetto
all’arte e la pietrificazione come effetto della contemplazione – si
ritrovano nella storia di Caillois e di Dürer, anche se con valorizza-
zioni opposte.
Nelle conclusioni cailloisiane la Melencolia I di Dürer ha soltan-
to prolungato un incontro di due elementi, il sole e il poliedro, che
si erano già incontrati in natura ma che «nulla aveva destinato a

22 Sulla relazione tra letteratura e arti figurative e in particolare sulle omologie tra

visuale e testuale e sulle modalità di ékphrasis si veda: M. Cometa, Letteratura e arti fi-
gurative: un catalogo, in «Contemporanea», 3 (2005), pp. 15-29.
216 Lo sguardo reciproco

esprimere qualcosa»23. Dürer aveva trovato una chiave di lettura,


un senso ai due elementi isolati che avevano comunque provocato
(a Dürer) e hanno continuato a provocare (a Caillois) una cupezza
e una tristezza infinita.
Siamo di fronte all’ennesima testimonianza, ricorrente nella ri-
flessione cailloisiana, dello stretto legame che lega la materia iner-
te, la libertà e l’immaginazione, e cioè del prolungamento dell’im-
maginazione dell’uomo in quella della natura:
Esiste una segreta parentela tra i ciechi percorsi della materia inerte e i
percorsi della libertà e dell’immaginazione. Gli uni e gli altri utilizzano
dei sentieri analoghi, benché indefinitamente più delicati, tosto infinita-
mente sofisticati24.

Soltanto che la durata delle opere dell’uomo comparata a quella


delle età geologiche è poca cosa. Esse hanno durata infinitesimale
e potenzialità ristrette. Lo sforzo artistico dell’uomo è niente al
confronto con la forza eterna della natura, dotata anch’essa dei
suoi disegni, della sua arte, del suo progetto estetico.
Anche la massima espressione artistica della melanconia di tutti
i tempi, il capolavoro di Dürer, non è sufficiente a rappresentare
per l’eternità la tristezza colpevole e contemplativa, che la pietra
aveva invece anticipato nel suo disegno millenario e che durerà
molto più a lungo di qualsiasi opera d’arte.
Impegnandosi nella sua opera l’artista tedesco inoltre aveva sot-
tovalutato la lugubre annunciazione evocata dal disegno dell’agata.
Le tenebre ritorneranno a governare indisturbate quando sulla ter-
ra rimmarranno soltanto le «pietre immortali», quando l’assenza
della parola e dell’immagine – prodotte dall’uomo – lasceranno il
posto alla sola presenza del «silenzioso monopolio» del minerale.
In effetti la specie umana disparve dal pianeta anche più rapidamente
di come vi si era installata. Nessun miracolo (del resto, a chi destinato?)
salvò i gabinetti delle stampe, la storia dell’arte, il nome di Albrecht Dü-
rer. Lepri e rinoceronti, reali o raffigurati, subirono analoga sorte. La ve-
getazione (le graminacee) fu, a sua volta, eliminata da un asteroide privo
di clorofilla. Come all’inizio, non esisteva più che un deserto di pietre im-
mortali: tra esse, suppongo, un nodulo d’agata, che nella sua densa tra-

23 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 58).


24 Ibidem.
Malinconia e immaginazione 217

sparenza, come figure d’un vano blasone, recava un sole alla rovescia e un
poliedro sperduto25.
Diversamente dal presente dell’enunciazione – tempo della
scrittura e del confronto tra le due descrizioni – e dal passato –
tempo dell’arte e della produzione della genealogia dell’opera
d’arte –, nella prospettiva futura – che è anche una sorta di tempo
ciclico, tempo dell’eternità della natura – Caillois profetizza l’as-
senza della parola e dell’immagine prodotte dall’uomo e la sola
presenza del «silenzioso monopolio» del minerale.

La costrizione naturale delle arti sorelle


Nel solco di Saturno potrebbe essere letto anche come un testo
composto sostanzialmente dalla giustapposizione di due descrizio-
ni e da un confronto finale circa il loro valore artistico. Difatti ol-
tre al complesso gioco dei livelli narrativi che determina l’intreccio
della narrazione, il testo può essere analizzato attraverso la compa-
razione delle modalità utilizzate nelle due descrizioni.
Innanzitutto va sottolineato che l’intera narrazione potrebbe es-
sere considerata una finzione al servizio dell’ékphrasis e non vice-
versa. Le due descrizioni non costituiscono delle pause all’interno
del racconto ma formano la parte più consistente del testo. La loro
successione e il relativo confronto sostengono la struttura dell’in-
tera narrazione, oltre a dare la possibilità di esporre una varietà di
modalità descrittive.
Sembrerebbe infatti di ritrovarsi di fronte alla descrizione della
stessa lastra minerale in due momenti, intervallati da quattro seco-
li. Ma in realtà ci troviamo davanti alla risemantizzazione di un
ipotetico stesso oggetto, compiuta con modalità assai diverse.
Si tratta di due descrizioni molto particolari. Mentre nel primo
caso a essere descritta è una lastra d’agata, un oggetto naturale
che, ammirato per la sua bellezza, assume un eccezionale valore in
quanto fonte di un capolavoro dell’arte di tutti i tempi; nel secon-
do caso ci troviamo di fronte alla ricostruzione fantastica dei fatto-
ri che nella mente dell’artista avrebbero permesso la produzione
dell’incisione più famosa di Dürer.

25 Ivi (trad. it. p. 59).


218 Lo sguardo reciproco

Si potrebbe parlare quindi di una prima ékphrasis “naturale”,


mimetica ma non artistica, nel caso della descrizione della lastra
del minerale nelle mani di Caillois e di una seconda ékphrasis no-
zionale, quando Caillois descrive un ipotetico processo generativo
dell’opera d’arte nella mente dell’artista, che proviene dalla som-
ma di immagini di diversa natura (una variante della descrizione
classica dello scudo d’Achille).
A queste due ne va aggiunta senz’altro una terza, l’ékphrasis mi-
metica di un’opera d’arte (Caillois che descrive a sua memoria Me-
lencolia I), la quale permette la lettura degli incroci tra i due livelli
narrativi. Non si può comprendere la descrizione dell’agata di
Caillois senza avere negli occhi l’esito ultimo del confronto, l’inci-
sione düreriana. Altrettanto si deve fare con la descrizione della
genealogia iconografica di Melencolia I: sarebbe stato impossibile
inventarla e scriverla senza conoscere il capolavoro di Dürer e sa-
rebbe altrettanto incomprensibile per il lettore percepire il valore
dei singoli dettagli senza la conoscenza delle numerose interpreta-
zioni dell’incisione.
L’ékphrasis dell’opera di Dürer non è mai esplicitata per intero
in un unico tempo e livello della narrazione, ma viene prevista sia
dalla prima descrizione (come passato di un tempo presente del-
l’enunciazione) che dalla seconda (come futuro di un tempo passa-
to, proprio del racconto intradiegetico).
A fare da tramite tra le due descrizioni vi è però un altro ele-
mento fondamentale. Il vincolo narrativo delle due pietre è costi-
tuito dal fatto che esse sono forse addirittura una, o semplicemen-
te due lamine un tempo adiacenti e quindi con disegni assai simili
perché estratte dallo stesso geode.
I due vincoli, artistico (Melencolia I) e naturale (stessa pietra),
sono ugualmente assenti nella realtà raccontata: non esiste (se non
nella memoria dello scrittore) una riproduzione del capolavoro
dureriano al momento dell’enunciazione della prima o della secon-
da ékphrasis, tanto che il confronto può farsi solo in absentia; così
come non può essere confermata la similarità delle due pietre data
la perdita della seconda.
I due vincoli però sono allo stesso tempo tramiti, perché per-
mettono di intrecciare i livelli narrativi e legittimare la similarità
delle due descrizioni. Essi esistono soltanto nell’immaginazione,
nella mente dello scrittore. Il tertium comparationis, la descrizione
Malinconia e immaginazione 219

di Melencolia I, si dà per differenza tra le due descrizioni del testo,


mentre la comune origine delle due pietre può essere soltanto po-
stulata visto che la mancata conservazione dell’oggetto non per-
mette di ricongiungere i due momenti temporali.
Le figure che, al contrario, in præsentia permettono di compa-
rare le due descrizioni sono invece quelle che si scorgono sulla la-
stra nelle mani di Caillois, su quella fantastica di Dürer, e che ven-
gono rintracciati anche in Melencolia I. Si tratta del sole nero e del
poliedro, i due elementi anomali dell’agata, divenuti emblemi della
cupezza e della tristezza malinconica.
Ma se si osservano attentamente le due descrizioni si potranno
analizzare le diverse modalità utilizzate.
Nel primo caso a partire dalla contemplazione del disegno del
minerale i dettagli insoliti giungono a un chiarimento. Dalla de-
scrizione iniziale di elementi isolati la reiterata osservazione pro-
duce le prime analogie con elementi figurativi del mondo. Dappri-
ma soltanto “un” cielo e “una” striscia nero-carbone nella parte
superiore e inferiore della pietra. Immediatamente dopo i segni
tracciati sulla pietra vengono associati a elementi della natura: il
cielo, il sole, la nube, le gocce nere e poi la pozzanghera. A queste
si aggiunge il cubo isolato, figura geometrica e non naturale ma,
come si dirà successivamente, alla base di ogni elemento sia della
filosofia che dell’arte.
Alle prime figure vengono subito ancorate le esperienze sensibi-
li che vi si possono collegare, visive e tattili. All’integrazione sine-
stetica della prima descrizione seguono le analogie con altre figure
o con altre esperienze assimilabili per comunicare più facilmente
la sensazione provata in quel preciso momento dell’osservazione:
Il cielo (perché ho detto: un cielo) è occupato da scuri brandelli, trac-
ce d’un temporale ormai sul punto di dileguare. Questi brandelli inqua-
drano una immensa nube leggera, spugnosa, quasi alveolata, alla deriva al
di sopra di una scarpata fuligginosa.
Un sole nero come l’inchiostro, ha finito per separarsi dalla tetraggine.
Più inzaccherato che radioso, disseminato di acheni a paracadute, come il
pappo piumoso del piscialletto che una giovane donna continua a disper-
dere ai quattro venti da più di cent’anni sulla prima pagina dei dizionari
francesi più in uso. In questo caso: un getto reticente di goccioline nere.
Inabissato nell’acqua grigia, tra sparsi frantumi e cordicelle penzolanti,
appare un cubo, blu-acciaio sulla sua faccia in ombra, sfavillante sulle
220 Lo sguardo reciproco

altre facce: aggressivo, rettilineo, completo, imprevedibile nell’agata, in


cui ogni cristallo perfetto contraddice la massa omogenea26.

Ma la contemplazione getta in uno stato d’animo molto preciso,


una tristezza tenace (morosité): un misto di spaesamento, sogno e
angoscia, sensazione vissuta e mistero che chiedono di proseguire
nella ricerca. La richiesta è sia della mente che del corpo, «qualco-
sa di cerebrale e vissuto al contempo»27.
La chiave che risolve l’enigma va rintracciata nella immagina-
zione dell’osservatore. La sua descrizione è la sua interpretazione.
Nonostante da questi segni e colori lapidei nasca un’originale
narrazione fantastica che tenti di spiegare la genealogia di Melen-
colia I e che cerchi più o meno velatamente di realizzare una certa
identificazione tra Dürer e Caillois – artisti del disegno e della pa-
rola –, e quindi una delimitazione degli ambiti della pittura e della
scrittura a partire dalla costrizione della bellezza naturale, la dupli-
ce descrizione della pietra, extradiegetica e intradiegetica, intrec-
ciata da Caillois, rivela anche paure, angosce, minacce, sogni, fan-
tasticherie, misteri e tenebre di se stesso. Come Caillois dirà altre
volte, l’interpretazione ci racconta sempre più qualcosa dell’inter-
pretante che non dell’interpretato. Non va dimenticato infatti che
la cornice narrativa nasce dalla situazione personale: osservazione
diretta di una pietra della propria collezione. Da questa esperienza
improntata allo stupore, al mistero, al sogno e all’angoscia inizia
quell’indagine alla ricerca di un senso perduto che Caillois aveva
già intrapreso rifugiandosi nel silenzio dei minerali negli ultimi an-
ni della sua vita.
Il viaggio a ritroso arriva fino al 1514, anno di un viaggio miste-
rioso di Dürer, anno in cui l’artista acquista un’agata pare identica
alla pietra che ha in mano lo scrittore francese. Anche Dürer, co-
me Caillois, è impegnato, dopo le opere della maturità, in una ri-
flessione sul suo operato, sul valore della pittura e sul confronto
con la bellezza naturale28. Le situazioni personali sembrano identi-

26 Ivi (trad. it. pp. 51-52).


27 Ivi (trad. it. p. 52).
28 H. Focillon spiega così il percorso travagliato dell’artista tedesco che viene

esemplificato nell’incisione più famosa: «Alla fine della sua vita Dürer crede di avere ri-
solto l’antinomia fra oggetto e segno, tra la vita che scorre e la stabilità della ragione.
Ma quattordici anni prima, ne dubitava ancora e l’espressione che ha dato alla sua in-
Malinconia e immaginazione 221

che seppur nelle differenti epoche e arti professate. Quando Cail-


lois racconta le ipotetiche ansietà di Dürer parla di se stesso. Stes-
se preoccupazioni di fronte alla vanità dell’arte e della scienza,
stesso dubbio sul proprio talento e sulla propria arte, stessa ammi-
razione per le pietre, stesso stato d’animo (se non addirittura tem-
peramento) melanconico. L’analogia fra le due situazioni autorizza
a pensare che un elemento dell’uno possa essere proiettato anche
sull’altro. Quando Caillois descrive, per esempio, la pietra acqui-
stata da Dürer e dichiara che è identica alla sua è chiaro che tutte
le qualità della seconda descrizione vengono trasferite alla prima,
sia quelle dell’oggetto che del soggetto:
Alla fine un operaio gli mostrò la pietra che io ho descritto testé (una
piastra parallela ch’egli aveva ricavato dallo stesso ovolo): l’aveva polita
con amore e la conservava da molto tempo. Non aveva mai consentito a
disfarsene. Dürer era testardo. Era la prima agata, di questa dimensione e
con uno scenario così complesso, che avesse mai avuto tra le mani. Il suo
interlocutore lo assicurava trattarsi di una pietra da collezione, non ne
avrebbe vista in tutta la sua vita un’altra simile29.

Dürer viene attratto dalla pietra perché ha un disegno comples-


so che va indagato e osservato con calma per questo si ferma la not-
te nella locanda. Il primo elemento che emerge agli occhi dell’arti-
sta è un astro nero, un sole alla rovescia dal quale emanano le tene-
bre. Le figure che l’artista vi ritrova come ispirazione per le opere
future assumono un colore cupo. Osservando la pietra sognava di
raffigurare ancora «volti, personaggi, oggetti dipinti»30. Ma l’elenco
si colora subito d’una tinta tenebrosa: tutte le figure immaginate
possono essere rappresentate solo se nell’ombra. L’oscurità le
avrebbe protette, non cancellate alla vista, anzi le avrebbe rese più
visibili, più chiare, perché la luce degli oggetti è interna:
In effetti non ne sarebbero stati raggiunti che sul lato che fronteggia la
fonte della notte. Neppure l’altro lato indubbiamente sarebbe stato illu-
minato, poiché non sarebbero esistite fonti di luce. Tuttavia esseri e cose
sarebbero rimasti più visibili, più chiari. Avrebbero conservato almeno

quietudine ci tocca più profondamente della sua serenità di teorico» H. Focillon, Al-
brecht Dürer, cit. (trad. it. p. 44).
29 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. pp. 53-54).
30 Ivi (trad. it. p. 54).
222 Lo sguardo reciproco

qualche interiore sfavillio, non ancora spento dal riverberarsi dell’oscu-


rità delle tenebre31.

Nella parte inferiore della pietra Dürer nota un poliedro. La


sua immediata attrazione verso la figura geometrica, nonostante le
innumerevoli figure disegnate nei suoi studi di prospettiva, lo con-
vince che aveva ormai raggiunto una tappa importante del suo
percorso artistico:
Era stanco di incidere vite di Madonne, di dipingere apostoli, evange-
listi, imperatori, di disegnare graminacee e lepri. S’era dedicato invano al-
le Apocalissi e aveva (o avrebbe) tentato di raffigurare, secondo le descri-
zioni udite, un rinoceronte più corazzato d’un condottiero in assetto da
combattimento. Le nature morte lo ripugnavano32.

L’elenco delle figure che non avrebbe più amato rappresentare


e quello degli oggetti rappresentabili che aveva scorto nell’agata,
con gli occhi acuti dell’incisore dove «tutti i dettagli persistono»,
gli indicano la nuova strada. L’oscurità del sole nero e la geometria
del poliedro lo avevano catturato e al tempo stesso lo avevano
inondato di uno stato malinconico. Le tenebre e lo spirito dei con-
templativi, filosofi o artisti, diventarono le sue nuove mete profes-
sionali ma anche la qualità preponderante del suo nuovo stato d’a-
nimo. E tutto questo proveniva dalla contemplazione di una pie-
tra. La stessa identica melanconia che ha attratto Caillois alle prese
con il mistero tenebroso dell’agata.
La genesi dell’incisione ipotizzata da Caillois sembra una forma
particolare di ecfrasi occulta33, un’immagine nota (e artistica) na-
scosta nella descrizione di una seconda immagine (naturale). Ma a
questa modalità ecfrastica si aggiunge uno svelamento per gradi.
Le due descrizioni sembrano anticipare lentamente alcuni elemen-
ti che verranno drammatizzati soltanto nella descrizione di Melen-
colia I, quadro nascosto delle due descrizioni e rivelato soltanto al-
la fine della narrazione.
Alle descrizioni delle due pietre, reale e immaginaria, di Caillois
e di Dürer, entrambe dettate dallo spirito malinconico, si aggiun-

31 Ivi (trad. it. p. 55).


32 Ibidem.
33 U. Eco, Les sèmaphores sous la pluie, ora in Sulla letteratura, Milano, Bompiani,

2002, pp. 191-214.


Malinconia e immaginazione 223

gono gli elementi della locanda, anche questi chiaramente sotto


l’influenza di Saturno.
Un altro elenco di oggetti e strumenti viene compilato questa
volta nell’immaginazione dell’artista, mentre pensa a una nuova
scena da incidere. Si tratta di un’altra ékphrasis nozionale, elabora-
ta però secondo una «panoplia dello scoramento». Nel nuovo
elenco, fatto «un po’ a caso», oltre alla locandiera, al cane34 e al
pialletto «simbolo dell’inutile lavoro manuale» Dürer vi avrebbe
aggiunto:
La clessidra che misura il tempo irreparabile e annuncia la morte, la
campana che chiama alle vane occupazioni e alle vane cerimonie, un com-
passo e delle bilance, a dare l’illusione della giustezza e della giustizia, una
sfera e la sua sterile perfezione, una scala che non porta da nessuna parte,
un quadrato magico costituito dai primi sedici numeri, ingegnosamente
distribuiti perché fornissero in tutti i sensi la stessa somma assolutamente
insignificante di 34; al centro, un bambinone sciocco, ilare, assorbito nel
suo lavoro di disegnatore neofita, ignaro del vuoto saturo che lo circonda
e che il suo zelo non potrebbe che sovraccaricare ulteriormente35.
Nella realizzazione della tavola Dürer inserirà due personaggi
che si compensano e che simboleggiano i due temperamenti del-
l’artista, le due fasi della sua carriera. All’angelo «triste e visionario
che ha perduto anche il gusto di compiere quanto ha cominciato,
aggiunse un bambino alato, ingenuo avido»36, simbolo del rim-
pianto per l’antico ardore, prima della disillusione. Le due perso-
nificazioni teorica e pratica della melanconia che Klibansky, Pa-
nofsky e Saxl avevano riconosciuto nella rappresentazione düreria-
na37, diventano qui anche i simboli di due età dell’uomo, la giovi-
nezza e la maturità.
L’esibizione delle pratiche descrittive e la complessità dei pro-
cedimenti utilizzati, oltre all’intreccio narrativo già sdoppiato, sve-

34 Il cane è uno degli animali che per tradizione è associato alla milza, organo pro-

duttore della bile, e quindi alla melanconia. Come si legge in Benjamin (Ursprung des
deutschen Trauerspiels, cit.; trad. it. p. 127): «Se quest’organo, descritto come partico-
larmente delicato, si altera, il cane perderà la sua allegria e cadrà in preda alla rabbia.
In questo senso il cane simboleggia l’aspetto oscuro del temperamento melanconico».
35 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 56).
36 Ivi (trad. it. p. 57).
37 Cfr. in particolare R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy, cit.

(trad. it. pp. 297-349).


224 Lo sguardo reciproco

lano il punto di vista di Caillois su una questione teorica di grande


importanza.
Nel solco di Saturno mette in relazione due descrizioni ma anche
due procedimenti artistici, uno legato alla parola, l’altro alla abilità
artistica dell’incisione, facendoli nascere da oggetti ispiratori simi-
li: due lastre di pietra adiacenti, tagliate dallo stesso geode. Le due
lamine sono confinanti così come le due arti che le ispirano.
Caillois inventa una finzione narrativa attorno ai procedimenti
descrittivi per dimostrare, con la forza del racconto, che per rap-
presentare le immagini si possono utilizzare sia i tratti sulla carta
che quelli sulla lastra di rame. La scrittura e la pittura possono
ugualmente competere nella rappresentazione della bellezza della
natura. Le due arti sorelle provengono addirittura da una genitrice
millenaria di natura lapidea. La teoria dell’ut pictura poësis si trova
così rinsaldata, qualora ce ne fosse bisogno, da un ulteriore esem-
pio naturale.

Dalla pietra all’immaginazione


L’interesse di Caillois è sempe stato principalmente il mistero.
L’indagine sulla natura dei fatti sorprendenti, le eccezionalità dei
regni animale, vegetale e minerale così come quelle dell’arte sono
sempre state il centro e il motore della sua ricerca. In qualsiasi di-
rezione questa si sia rivolta – antropologia, mitologia, sociologia,
estetica – il tratto specifico rimane sempre la determinazione ad
andare avanti nell’indagine, certi però che il segreto del mondo
non potrà mai essere svelato:
Sono attratto dal mistero. Non ch’io mi abbandoni con compiacimen-
to alla seduzione della magia o alla poesia del meraviglioso. La verità è
un’altra: non mi piace non capire, la qual cosa è molto diversa dall’aver
caro ciò che si capisce, ma che tuttavia vi si avvicina in un punto molto
preciso che è quello di trovarsi come calamitato dall’indecifrato. La somi-
glianza non va oltre. Infatti, invece di considerar subito l’indecifrato inde-
cifrabile e rimanere dinanzi a lui affascinato e appagato, io lo considero,
al contrario, come qualcosa da decifrare, con il fermo proposito di giun-
gere in qualche modo, se possibile, a capo dell’enigma38.

38 R. Caillois, Au cœur du fantastique, Paris, Gallimard, 1965 (trad. it. di L. Guari-

no, Nel cuore del fantastico, Milano, Abscondita, 2004, p. 11).


Malinconia e immaginazione 225

La natura conserva il suo segreto indecifrabile e l’uomo non


può fare a meno di ricercarlo. La consapevolezza dei limiti della
specie umana di fronte all’onnipotenza della natura non impedisce
a una mente rigorosa, come quella di Caillois, di individuare le
strade giuste dell’indagine. I fatti singolari – come l’episodio dei
fagioli saltatori all’epoca della sua adesione al surrealismo39 – sono
le occasioni per scoprire la struttura del pensiero e l’armonia del
cosmo; le immagini del poeta e dell’artista – nella sua teoria del
fantastico40 – sono il percorso privilegiato in cui si può leggere un
baluginio del mistero. Allo stesso modo gli esemplari della natura
possono ostentare direttamente l’indecifrabile. Per esempio, l’inat-
tesa eccezionalità di una pietra può diventare l’occasione per mo-
strare le convergenze che esistono tra mondo della natura e del-
l’arte, tra passato e futuro.
Il tentativo di svelare la fantasmagoria di certe immagini induce
Caillois a descrivere le pietre, come si rivela anche in altri suoi la-
pidari moderni. I due esemplari di calcare di Toscana descritti ne
La scrittura delle pietre, uno raffigurante un viso, scomposto nei
piani e nelle sezioni del movimento alla maniera delle avanguardie,
e l’altro un castello con i suoi guardiani, che sembra scarabboc-
chiato da un bambino, erano stati già letti secondo un movimento
composto di almeno tre fasi. A una prima descrizione dei segni
tracciati sulla superficie della pietra segue un momento di dubbio,
incertezza, incredulità che lascia spazio a una successiva e ap-
profondita lettura dove i segni vengono riletti a una profondità
simbolica ancora maggiore.
Come è possibile che la natura crei delle immagini così simili
alle sue creature, cioè si autorappresenti? Cosa induce la natura a
produrre una simile fantasmagoria per abbagliare e confondere
l’uomo? Sono questi gli interrogativi che hanno indotto Caillois a
ipotizzare un progetto estetico della natura indipendente da quel-
lo umano, ovviamente inconoscibile per la specie più effimera
dell’universo41.
Anche nel caso di Nel solco di Saturno la descrizione parte dal-

39 R. Caillois, Cases d´un échiquier, Paris, Gallimard, 1970.


40 R. Caillois, Au cœur du fantastique, cit.
41 Cfr. Méduse et Cie, Paris, Gallimard, 1960; Esthétique généralisée, Paris, Galli-

mard, 1962; Le Champ des signes, Paris, Hermann, 1978.


226 Lo sguardo reciproco

l’osservazione di anomalie che fanno l’eccezione di una pietra dalle


forme ricorrenti. Le varianti nella regolarità dei disegni destano lo
stupore del collezionista, ammaliato dalle ripetizioni ma ancora di
più dalle sue singolarità. In un’agata dai cerchi concentrici e dai na-
stri di colore prevedibili ogni asimmetria risulta molto evidente: la
mancanza della centralità del disegno non può passare inosservata.
Gli elementi singolari saltano agli occhi ma trovano una loro ra-
gion d’essere soltanto nella scrittura cailloisiana. La parola lettera-
ria riempie gli spazi lasciati dai segni della pietra, tracciati nella
profondità del minerale quando era ancora nel cuore della terra. I
suoi disegni sarebbero continuati a esistere anche senza che nessu-
na interpretazione, nessuna lettura, nessuno sguardo umano si fos-
se posato su di essi. La casualità dell’estrazione e del taglio del mi-
nerale che produce un esemplare unico al mondo fanno della la-
stra un tesoro inestimabile. Il suo valore aumenta quando sulla su-
perficie lo sguardo dell’uomo rintraccia immagini inusuali. Inizia
allora, grazie a un procedimento di analogia, un percorso di iden-
tificazione dei segni, dei tratti e dei colori della pietra e un inevita-
bile collegamento dell’elemento variante all’invariante, dell’insoli-
to al comune, secondo un percorso che si muove per ricondurre
l’ignoto al noto. Il disegno sulla pietra sembra allora un paesaggio,
un ritratto, assume forme del nostro mondo vissuto ma anche im-
maginato. Nelle figure litiche scorgiamo oggetti e persone che abi-
tano la nostra vita quotidiana ma anche personaggi e miti che abi-
tano la nostra fantasia.
Fin qui niente che non avessero già fatto scienziati e filosofi co-
me Athanasius Kircker o naturalisti e collezionisti come Ulisse Al-
drovandi. O più recentemente scrittori come André Breton, Ga-
ston Bachelard o Jurgis Baltrusaitis, al limite Caillois stesso42. Ma
nel caso particolare di Nel solco di Saturno la contemplazione della
bellezza del minerale diventa per Caillois non soltanto la scaturigi-
ne di affastellamenti di immagini ma l’origine di una narrazione
assai complessa, l’occasione per una implicita teoria della descri-
zione e lo spunto per riflessioni morali. Caillois usa la forza del
racconto, e del genere fantastico, per dire altro.
A un livello molto elementare si potrebbe sostenere che l’esem-

42 Mi permetto di rinviare al mio Pietre figurate. Forme del fantastico e mondo mi-

nerale, Pisa, Edizioni Ets, 2004.


Malinconia e immaginazione 227

pio serve a rappresentare le metamorfosi della descrizione di uno


stesso oggetto in base ai suoi cambiamenti d’uso, o ai suoi proprie-
tari. La pietra viene descritta diversamente e quindi utilizzata in
maniera differente a seconda del suo proprietario, del suo osserva-
tore. Prima Dürer turista, poi Dürer artista, poi Caillois collezioni-
sta, poi Caillois conoscitore dell’arte e filosofo, mistico: ogni mo-
mento diverso ha la sua prospettiva diversa e compie proiezioni
diverse sullo stesso oggetto. Pietra che diventa quindi anch’essa
diversa: bellezza naturale, elemento ispiratore, capolavoro della
natura, pietra di paragone senza confronto nelle conclusioni finali
del racconto.
Ma i due elementi della pietra, il sole e il poliedro, divengono i
motivi centrali che attraversano diagonalmente il racconto.
È un racconto che parla delle tenebre e della geometria, temi
per eccellenza anche della melanconia. Le tenebre vi hanno un cir-
cuito preciso: dall’oscurità della pietra si trasmette un senso di tri-
stezza all’uomo che diventa consapevolezza dell’enorme potere
della natura e della materia inerte sulle specie effimere dell’univer-
so, l’uomo su tutte. Ma il sole nero, l’ombra dell’agata indica an-
che una direzione alla riflessione, alla contemplazione che promet-
te una trasformazione in minerale. La pietrificazione dell’uomo è
una trasfigurazione che assimila i contemplativi alla specie più sta-
bile e duratura dell’universo43.
Le pietre vengono inoltre rappresentate nell’agata nella forma
del poliedro, anche questo simbolo di stabilità e pesantezza ma an-
che espressione delle leggi geometriche che da sole reggono sia la
filosofia che l’arte, massime espressioni dell’uomo. Riflettere sulla
forma del poliedro significa quindi andare al fondamento ultimo
del sapere dell’uomo.
La malinconia che accomuna i due oggetti perché è tenebrosa e
riflessiva a un tempo, viene anticipata da questi due elementi del
minerale. La complessità che la scrittura e l’arte potranno creare
attorno a questi due semplici figure verranno cancellate nel futuro
dell’eternità.
43 La pietrificazione nelle metamorfosi di Ovidio, prima fra tutte quella di Orfeo,

è soltanto una delle due possibilità che si danno nella rivelazione del fantasma lacania-
no, di quell’incrocio tra il soggetto e il suo Altro o tra il soggetto e l’Altro. L’altra possi-
bilità è la fuga. Si veda R. Galvagno, Le sacrifice du corps. Frayages du fantasme dans les
Métamorphoses d’Ovide, Paris, Panormitis, 1995.
228 Lo sguardo reciproco

Caillois riesce a legare attraverso lo sdoppiamento del nodulo


dell’agata una serie di figure doppie: sole e poliedro, descrizione
della pietra di Caillois e di Dürer, arte della scrittura e della pittu-
ra, livelli narrativi, ambivalenza della melanconia.
Infatti egli ritrova negli elementi isolati della pietra le fonti ico-
nografiche di un capolavoro dell’arte di tutti i tempi, e allo stesso
tempo della sua scrittura. I due livelli di narrazione, tanto più fan-
tastica la seconda quanto più realistica la prima, si ritrovano acco-
munate da un identico stato d’animo malinconico. Le vicende per-
sonali sembrano accomunare lo scrittore francese e l’artista tede-
sco al punto da proiettare sul secondo le ansie e le minacce del
primo.
I protagonisti delle due storie, Caillois e Dürer, si ritrovano a
dover affrontare una particolare situazione di vita ma soprattutto
questioni teoriche analoghe. Il maggior grado della contemplazio-
ne è quello di diventare simili all’elemento del grado più basso
dell’evoluzione naturale: il minerale? La più elevata espressione
artistica coincide con l’annullamento di ogni attività?
Lo scoramento che assale l’autore e il suo doppio, sconfina nel-
l’eresia, nel peccato. La tristezza tenace che colloca Caillois e Dü-
rer sotto l’influenza di Saturno sembra trasformarsi quasi in un di-
sinteresse per la creazione, un distacco assoluto da tutto ciò che li
circonda. L’ambivalenza tipica della malinconia permette di classi-
ficarla come il massimo peccato, l’acidia, e allo stesso tempo una
sorta di «mistica materiale», di devotio per il mondo minerale, ver-
so uno stato di assoluta originarietà, in una nostalgica tensione per
un passato che diventerà presto anche il futuro, quando la specie
umana non abiterà più il mondo ed esisteranno soltanto le pietre
immortali, come all’origine di tutto.
La malinconia in questa narrazione fantastica è rappresentata
dunque con tutti i suoi attributi e sotto tutti i suoi aspetti. Diventa
stato d’animo ma anche sintomo di un temperamento, periodo to-
pico della vita, influenza delle stelle e peccato capitale, depressio-
ne e potenzialità generatrice, potenza distruttrice e genialità. Ma
ciò che più conta è che ad aver instillato questo sentimento, questa
inquietudine, questo irreversibile processo di mineralizzazione sia-
no proprio le tenebre di una pietra. Un’agata accende il procedi-
mento di mise en abyme della scrittura cailloisiana e insieme il pro-
cesso di produzione dell’incisione düreriana. Oltre ad essere il
Malinconia e immaginazione 229

simbolo della involuzione e della depressione, se inteso come tene-


bra ineluttabile, il minerale diventa così emblema della costrizione
e inizio del processo di creazione artistica, della scrittura e della
pittura e, ovviamente, di quello autorappresentativo della natura.

Gradi di pietrificazione

In Nel solco di Saturno (1978) Caillois porta a compimento un


progetto che già ne I demoni meridiani (1936) aveva iniziato a
comporre. L’analisi delle divinità che compaiono nell’ora più calda
del giorno si completerà infatti alla fine della sua vita sotto l’egida
di Saturno. Alla comparazione delle figure mitologiche e delle cau-
se fisiche e psichiche della malattia, tentazione, stato d’animo, esi-
genza primitiva dell’uomo, in Nel solco di Saturno Caillois ritrova
l’intimità della scrittura autobiografica. Così gli stessi temi che ri-
troviamo trattati rigorosamente nell’acedia greca e cristiana nel
saggio giovanile ritornano in uno degli ultimi scritti con forti into-
nazioni morali e con intense riflessioni sul significato della vita.
Il ritorno all’inorganico caratterizza sia l’apparizione dei demo-
ni meridiani che lo stato depressivo del malinconico novecentesco.
Già Freud aveva parlato della melanconia come espressione del ri-
torno all’inorganico, come esigenza della pulsione di morte a ritro-
vare uno stato originario e del non vivente44.
Nell’Io scisso che si viene a formare in seguito alla perdita di un
oggetto amato, assimilabile per questo alla condizione del lutto, la
parte da amare viene conservata insieme alla parte da odiare. La
malinconia, ci ha insegnato Freud, si mostra nella sua ambivalenza
– tipica della relazione amorosa – per trasformarsi nella riprova-
zione morale di una parte del proprio Io sull’altra:
(Il melanconico) ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon
motivo. Ci troviamo comunque di fronte a una contraddizione che ci po-
ne un enigma difficilmente risolvibile. L’analogia con il lutto ci induce a
concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l’ogget-
to; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo
Io. […]. Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimpro-

44 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920 (trad. it. Al di là del principio del

piacere, in Id., Opere, cit., vol. 9, pp. 187-258).


230 Lo sguardo reciproco

veri rivolti a un oggetto d’amore – e da questo poi distolti e riversati sul-


l’Io del malato – abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologi-
co della melanconia […]. In questo modo la perdita dell’oggetto si era tra-
sformata in una perdita dell’Io, e il conflitto tra l’Io e la persona amata in
un dissidio tra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione45.

Come “patologia del monismo” ed espressione dell’insita ne-


cessità del dualismo, la malinconia mostra tutta la forza depressi-
va, sintesi di gravità e inerzia, insieme alla creatività immaginativa
nella scissione dell’Io46.
Nel solco dell’interpretazione psicoanalitica di Freud della de-
pressione melanconica, analizzata in comparazione con il lutto, si
situa l’analisi del “sole nero” di Julia Kristeva. In opposizione alla
presa di coscienza o all’elaborazione psicoanalitica dell’irrapresen-
tabile, la studiosa francese considera la malinconia una sorta di
rappresentazione impossibile della morte e del corpo femminile,
affidata alla creazione artistica e letteraria47, catarsi dello spettaco-
lo della morte:
Questa rappresentazione letteraria (e religiosa) possiede un’efficacia
reale ed immaginaria, giacché dipende più dalla catarsi che dall’elabora-
zione; essa è un mezzo terapeutico utilizzato da tutte le società nel corso
dei secoli48.
La dimensione della creazione letteraria (e religiosa), sostiene
Kristeva in perfetta armonia con l’ultimo scritto cailloisiano, costi-

45 S. Freud, Trauer und Melancolie (1915), «Internationale Zeitschrift für ärztliche

Psychoanalyse», vol. IV (6) 1917, pp. 288-301 (trad. it. di R. Colorni, Lutto e melanco-
nia, in Opere, cit., vol. VIII, pp. 102-118, citaz. pp. 106, 107, 108).
46 J. Pigeaud, Métaphore et mélancolie, in «Littérature, Médecine, Société», Uni-

versità di Nantes, n. 10, 1989, ora in Y. Hersant, Mélancolies, cit., pp. 849-850: «La mé-
lancolie implique la nécessaire urgence de sortir de soi; c’esta à dire de briser l’unité, le
continuum. On pourrait dire qu’elle est la pathologie du monisme. Elle montre la né-
cessité du dualisme, c’est-à-dire de déchirer cette untié qui fait souffrir […] Pour lui (le
mélancolique) il n’est plus de métaphore possible: on peut dire que pour lui la méta-
pohore n’existe pas ou n’a pas de sens. C’est le monisme du malade, de l’être replié sur
soi et souffrant de ce repli, ignorant la métaphore».
47 Secondo una rilettura lacaniana della melanconia l’unica possibilità di guarirne

è la via della poesia, «un’etica della scrittura che è anche pratica amorosa» R. Galva-
gno, Le sacrifice du corps. Frayages du fantasme dans les Métamorphoses d’Ovide, Paris,
Panormitis, 1995, p. 140 (trad. mia).
48 J. Kristeva, Soleil noir. Dépression et mélancolie, Paris, Gallimard, 1987 (trad. it.

di A. Serra, Sole nero. Depressione e melanconia, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 29).


Malinconia e immaginazione 231

tuisce allora l’unico livello in grado di salvarci dal non essere, dalla
morte verso la quale ci conduce la depressione malinconica:
Così se la pulsione di morte non si rappresenta nell’inconscio, occorrerà
inventare un altro livello dell’apparato psichico nel quale – contempora-
neamente al godimento – essa registri l’essere del suo non-essere? È ap-
punto una produzione dell’Io scisso, costruzione di fantasma e di finzione
– il registro dell’immaginario insomma, il registro della scrittura – che testi-
monia di quello iato, bianco o intervallo che è la morte per l’inconscio49.
La regione dell’immaginario è quella dove si situa il testo cail-
loisiano: ipotesi di una genealogia fantastica del capolavoro sulla
melanconia.
La dialettica tra le cose morte e la loro salvezza è sicuramente la
cifra della lettura cailloisiana e prima ancora di quella benjaminia-
na che aveva ritrovato nella pietra il simbolo per eccellenza, ma
spesso dimenticato, della melanconia. L’inerte massa minerale per
Benjamin diventa allora il simbolo del freddo e dell’asciutto della
terra, della gravità, dell’inerzia e della pigrizia del cuore. Tipico
tratto dell’uomo saturnino è inoltre l’infedeltà verso gli uomini e la
fedeltà verso gli oggetti:
Alla sua infedeltà verso gli esseri umani fa riscontro una fedeltà verso
questi oggetti a dir poco sommersa nella sua dedizione contemplativa50.
La malinconia, secondo Benjamin, lega il soggetto agli oggetti
del suo mondo da dove il suo stato d’animo cerca di redimerli:
La malinconia tradisce il mondo per amore della conoscenza. Ma il
suo ostinato sprofondarsi solleva le cose morte nella sua contemplazione
per salvarle51.

Anche i ciottoli, una delle manifestazioni del più vasto campo


semantico del mondo minerale, che ritroviamo ne La nausea di Sar-
tre – libro che a sua volta avrebbe dovuto intitolarsi Malinconia52 –,
segnano il disgusto per la vita e la coscienza dell’esistenza fenome-
nologica delle cose.

49 Ivi, p. 30.
50 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit. (trad. it. p. 131).
51 Ivi (trad. it. pp. 131-132).
52 Su consiglio di Gaston Gallimard Sartre cambiò il titolo originale del suo ro-

manzo, pubblicato nel 1963.


232 Lo sguardo reciproco

Ma a differenza della nausea sartriana, per Caillois l’indifferen-


za non è verso il mondo intero è verso l’umano, come nel cortigia-
no barocco di Benjamin. Ci si allontana dagli uomini per avvici-
narsi agli oggetti, alle cose, alle pietre.
Anche Marguerite Yourcenar afferma che proprio la distanza
dal mondo si trasforma nella vita di Caillois nell’amore per le
pietre:
Di fronte a questa umanità sentita più che mai precaria di fronte a
questo mondo animale e vegetale di cui acceleriamo la distruzione, sem-
bra che l’emozione e la devozione di Caillois oppongano un rifiuto; egli
cerca una sostanza più durevole, un oggetto più puro. Lo trova nel popo-
lo delle pietre53.

Allo stesso modo Caillois si racconta nella sua autobiografia uti-


lizzando la metafora dell’inabissarsi del fiume Alfeo e del suo rin-
novato zampillare della fonte Aretusa. La riscoperta della scrittura
letteraria coincide con la passione per il mondo minerale.
Come scrive Jean Starobinski negli ultimi decenni della sua vita,
dopo la parentesi degli studi scientifici e rigorosi, Caillois ricon-
quista il piacere della scrittura:
La poesia non è più vietata. Un’acqua tardiva, una linfa lirica sale negli
ultimi testi di Caillois. Questa fioritura, tuttavia non è senza contropartita:
“Mi sono riconciliato con la scrittura solo quando ho cominciato a scrive-
re in pura perdita”. Saturno, sidus triste, impone ancora una volta la pro-
pria influenza. L’impossibilità del sapere assoluto autorizza la poesia, e allo
stesso tempo la riempie di melanconia, poiché essa deve la propria nascita
al ritrarsi della luce sperata. La poesia è il residuo notturno dell’avventura
luciferina, la traccia della caduta dell’angelo portatore di chiarezza54.

L’ambivalenza della melanconia degli studi giovanili – tra resi-


stenza e abbandono alla tentazione – diventa allora, nell’ultima fa-
se della sua vita, sintomo di una insistenza accanita verso se stessi,
quasi un’interminabile lotta di Sisifo contro le Sirene, come ha ben

53 M. Yourcenar, Discours de réception à l’Académie française et réponse de Jean

d’Ormesson, Paris, Gallimard, 1981 (trad. it. di E. Giovannelli, L’uomo che amava le
pietre, in Pellegrina e straniera, Torino, Einaudi, 1990, p. 190).
54 J. Starobinski, Saturne ou le ciel des pierres, Europe, n. 859-860, 2000 (trad. it.

di C. Colangelo, Saturno nel cielo delle pietre, in Roger Caillois, Riga n. 23, Marcos y
Marcos, 2004, p. 183).
Malinconia e immaginazione 233

interpretato Tomaso Cavallo, mescolando la tensione morale al


piacere estetico:
La Melencholia düreriana in ambito pittorico ha sostituito una volta
per tutte una tragedia spirituale a quella che era stata la semplice raffigu-
razione dell’indolenza e dell’ottusità di un temperamento inferiore, per
Caillois solo Sisifo ha veramente diritto ad ascoltare il canto omicida delle
sirene: l’acedia che mineralizza il corpo lasciando che la mente si fissi sgo-
menta sull’enigma irresolubile, può essere solo il premio del lavoro della
virtù. Era del resto già questa la descrizione cailloisiana del meriggio, che
serba un fascino non inferiore al momento del giorno che la ispira55.

La “mistica materiale” suggerita dal mondo dei minerali per-


mette a Caillois di assimilarsi alla natura delle pietre56. La malin-
conia, depressiva e creatrice, costituisce la forza di quest’opera-
zione. All’uomo non resta altro che combattere tenacemente que-
sta ultima battaglia e allenare i muscoli dell’immaginazione.

55 T. Cavallo, Acedia: il premio della lotta?, in R. Caillois, Tre lezioni delle tenebre,

Genova, Zona, 1999, p. 15.


56 R. Caillois, Pierres, Paris, Gallimard, 1966 (trad. it. di G. Zuccarino, in Pietre,

Genova, Graphos, 1998).


III
Rappresentazioni
UN’IDEA DI ROMA
PIRANESI, MORITZ E LA TEORIA
DEL PUNTO DI VISTA

Renata Gambino

Romam quaero!
K. Ph. Moritz

Non è un idillio né un riferimento all’Arcadia ad aprire il reso-


conto del viaggio in Italia, compiuto da Karl Philipp Moritz du-
rante gli anni tra il 1786 e il 1788, ma un’esclamazione1 in cui è
racchiusa la grande sete di conoscenza di questo autore, tuttora
poco conosciuto al pubblico italiano, ed il suo desiderio di “com-
prendere” Roma, considerata all’epoca il fulcro dell’arte e della
storia della civiltà. Un’esperienza fondamentale nel percorso for-
mativo di questo scrittore, i cui saggi di estetica e le opere lettera-
rie, contribuirono a formare il gusto e lo stile ancora diverse gene-
razioni dopo la sua morte.
Molte delle sue opere d’estetica furono interpretate semplice-
mente come una sorta di manifesto del Neoclassicismo e del rigo-
rismo propugnato dalle Accademie di fine Settecento, pur presen-
tando nel complesso una quantità di testi, proposte, idee che inve-
ce si pongono in aperta polemica con tali principi di gusto. Un
esempio particolarmente pregnante è dato da un testo che si apre
con la citazione di un motto oraziano, «Picturibus atque poetis/
quid libet audendi sempre fuit aequa potestas», in esplicita oppo-
sizione alla normatività neoclassica, pubblicato nel terzo ed ultimo
volume del suo resoconto del viaggio in Italia2, ed inserito nel
1793, anno della sua morte, all’interno del volume Prolegomeni a

1 Si tratta del motto «Romam quaero!» di K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen
in Italien in den Jahren 1786 bis 1788, 3 voll., Berlin, Friedrich Maurer, 1792-93, adesso
in Id., Werke, 3 voll., a cura di H. Günther, Frankfurt a. M., Insel Verlag, 1993, qui vol.
II, p. 129.
2 K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien in den Jahren 1786 bis 1788,
cit., vol. III, pp. 230.
238 Lo sguardo reciproco

una teoria degli ornamenti3 in cui si trovano raccolte le ultime ope-


re teoriche. Questo breve testo in prosa, privo di titolo, è il frutto
di una lunga riflessione riguardante la questione del valore estetico
da attribuire all’ornamento e testimonia della posizione favorevole
di Moritz nei confronti dell’uso delle decorazioni, ovvero della sua
opposizione ai dettami winckelmanniani.
La riflessione sull’arte, sull’estetica, sulla percezione e sulla lin-
gua, quale principale strumento gnoseologico, attraversano come
un filo rosso tutto il pensiero e le opere di questo autore. Il nucleo
principale di tale complessa argomentazione prende il via dalla
questione che coinvolse molti studiosi e letterati intorno alla metà
del XVII secolo in Germania4, riguardante l’origine e il potere de-
scrittivo della parola.
La fama di Moritz è legata però principalmente ad un saggio
d’estetica intitolato Sull’imitazione formatrice del bello5, recepito
dai contemporanei in maniera assai discorde6, e considerato per
lungo tempo uno dei manifesti del neoclassicismo tedesco. In
realtà l’opera di Moritz si serve di diversi strumenti d’indagine e
piani argomentativi in modo da giungere a formare un tessuto così
fittamente intrecciato, da rendere difficile l’interpretazione di sin-
gole opere o brani. Solo osservando la produzione nel suo com-
plesso è possibile rintracciare alcuni argomenti d’indagine costan-

3 K. Ph. Moritz, Vorbegriffe zu einer Teorie der Ornamente, Berlin, Karl Matz-
dorff, 1793, p. 16.
4 In particolare a Berlino intorno alla metà del XVIII secolo, si sviluppò tra alcuni
membri della prestigiosa Accademia delle Scienze, un’accesa discussione intorno alla
questione dell’origine del linguaggio umano (portata in primo piano dal saggio di E.
Bonnot de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines, pubblicato nel
1746), che vedeva schierati su opposti fronti i sostenitori della sua origine divina o na-
turale. Solo nel 1772 con la pubblicazione dell’opera di Johann Gottfried Herder,
Abhandlung über den Ursprung der Sprache, si giunse all’elaborazione di una posizione
intermedia all’interno di quest’accesa querelle.
5 Composto probabilmente nei primi mesi del 1788 mentre si trovava a Roma, il
saggio fu pubblicato per la prima volta dall’editore Campe nell’autunno dello stesso an-
no: K. Ph. Moritz, Über die bildende Nachahmung des Schönen, Braunschweig, Campe,
1788.
6 Il saggio fu molto apprezzato soprattutto da Goethe e da molti altri in ambito
weimeriano, ma ricevette anche molte critiche, sia per i suoi contenuti che per la sua
forma. Cfr. ad es. la lettera di Herder alla moglie datata Roma, 21 febbraio 1789 in J.
G. Herder, Italienische Reise. Briefe und Tagebuchaufzeichnungen 1788-1789, a cura di
A. Meier e H. Hollmer, München, DTV, 1988, p. 350.
Un’idea di Roma 239

ti. Uno di questi riguarda il “potere descrittivo” attribuito alla pa-


rola, ovvero in che modo e in che misura sia possibile tradurre in
parole la realtà o la percezione visiva. L’indagine si allarga a com-
prendere il problema della descrizione tramite la parola, la Besch-
reibungskunst, che a sua volta conduce l’autore ad interrogarsi sul-
la questione della Kunstbeschreibung, la descrizione delle opere
d’arte figurativa, e sul potere gnoseologico legato rispettivamente
alla parola e all’immagine.
La riflessione moritziana su questo tema, prende il via da alcu-
ne straordinarie osservazioni sull’origine del linguaggio sviluppate
non soltanto sul piano teorico ma anche pratico. Egli condusse
uno studio “empirico” dei processi di apprendimento e degli stru-
menti della comunicazione sviluppati da un soggetto sordo-muto
dalla nascita, al fine di risalire alle cause di disturbi quali la balbu-
zie e l’afasia. I risultati furono pubblicati in una serie d’articoli sul-
la rivista “di psicologia”, da lui ideata e diretta, Gnothi Sauton ov-
vero magazzino di psicologia dell’esperienza7. Moritz, che concor-
dava in linea di massima con le teorie sull’origine del linguaggio
sostenute da Johann Gottfried Herder8, intendeva però provare
con questi suoi studi che l’uomo privato del linguaggio non regre-
disce allo stato animale, e che la capacità gnoseologica e le poten-
zialità del pensiero umano sono indipendenti dall’elaborazione di
un linguaggio verbale. Quale primo sorprendente risultato delle
sue osservazioni egli constatò che il soggetto privato della parola
organizzava il percepito in categorie figurative, procedendo spon-
taneamente alla produzione di “ideogrammi”. L’immagine non era
una mera riproduzione del reale ma, assumendo qualità simboli-
che, diventava a sua volta linguaggio9, grafema che “delimita”, cir-
coscrive, isola il singolo elemento dalla massa, procedimento fon-
damentale del processo conoscitivo umano10. In questi primi studi

7 Moritz pubblicò una serie di articoli intitolati Beobachtungen und Reflexionen

zu Taub- und Stummgeborenen nei primi sei numeri della rivista Gnothi Sauton oder
Magazin zur Erfahrungsseelenkunde als ein Lesebuch für Gelehrte und Ungelehrte, Ber-
lin, Mylius, 1783-1793, adesso in parte in Id., Werke, cit., vol. III, pp. 792-800.
8 J.G. Herder, Abhandlung über den Ursprung der Sprache, Berlino, Ch. F. Voss,

1772.
9 Cfr. Emil Angehrn, Beschreibung zwischen Abbild und Schöpfung, in Beschrei-

bungskunst-Kunstbeschreibung, a cura di G. Boehm e H. Pfotenhauer, München, W.


Fink, 1995, pp. 59-74.
10 Cfr. anche il volume dedicato all’analisi dei processi di apprendimento: K. Ph.
240 Lo sguardo reciproco

l’interesse è focalizzato sulla componente “psicologica” della lin-


gua (intesa come specchio dell’anima), ma le osservazioni relative
alle funzioni gnoseologiche del linguaggio costituiscono un passo
decisivo nell’evoluzione delle sue riflessioni riguardanti la capacità
rappresentativa ed espressiva della parola.
Il confronto diretto con la realtà italiana, le opere d’arte, la na-
tura, la storia, costrinsero il nostro autore a riflettere ulteriormente
sulla capacità rappresentativa attribuita alla parola, il suo rapporto
con il reale e con l’arte11.
Il problema dell’”atto del descrivere”, la Beschreibung, e la rap-
presentazione letteraria dell’arte figurativa, vengono affrontati su
un piano puramente teorico nei suoi saggi d’estetica12 come anche
in tutte le sue opere letterarie, nei romanzi, ma in particolare nel
resoconto del viaggio in Italia. Le idee maturate durante il periodo
trascorso a Roma costituiscono il nucleo su cui si fonda una serie
di lezioni di stilistica, tenute in parte presso l’Accademia di Belle
arti di Berlino13, in cui l’immagine diventa ancora di più elemento
ordinatore, indispensabile alla conoscenza della realtà e alla suc-
cessiva elaborazione del giudizio, quale tappa conclusiva del di-
scorso riguardante la rappresentazione letteraria e il potere gno-
seologico del linguaggio14.
Il resoconto del viaggio in Italia è certamente un elemento chia-
ve nella complessa questione del rapporto immagine-testo; fu
scritto diverso tempo dopo il ritorno di Moritz a Berlino e consta
di tre volumi che raccolgono alcuni brani scritti durante il periodo
trascorso a Roma ed altri composti in seguito. Si tratta di un “per-

Moritz, Versuch einer kleinen praktischen Kinderlogik welche auch zum Theil für Lehrer
und Denker geschrieben ist. Mit sieben Kupfertafeln von Daniel Chodowiecky, Berlin, A.
Mylius, 1786.
11 A quest’argomento Moritz dedicò un saggio intitolato In wie fern Kunstwerke

beschrieben werden können, pubblicato per la prima volta nella «Monatsschrift der
Akademie der Künste und mechanischen Wissenschaften zu Berlin», I (1788), 2, IV,
pp. 159-168; V, pp. 204-210; II (1789), 3, I, pp. 3-5.
12 Cfr. a questo proposito la traduzione italiana curata da P. D’Angelo: K. Ph. Mo-

ritz, Scritti di Estetica, Palermo, Aesthetica, 1990.


13 K. Ph. Moritz, Vorlesungen über den Styl oder praktische Anweisung zu einer gu-

ten Schreibart in Beispielen aus den vorzüglichsten Schriftstellern, Berlin, Friedrich


Vieweg, 1793-94.
14 A questo proposito cfr. anche K. Ph. Moritz, Neues A.B.C. Buch, welches zuglei-

ch eine Anleitung zum Denken für Kinder enthält, con 6 tavole di P. Haas, Berlin, Chri-
stian Gottfried Schöne, 1790.
Un’idea di Roma 241

corso di formazione” (come gran parte dei diari di viaggio), nel


quale però “la percezione visiva”, si colloca in primo piano. La ge-
nesi di quest’opera, riportata in alcune lettere di Moritz indirizzate
all’editore Campe e ad alcuni amici, fornisce ulteriori sfaccettature
al discorso riguardante la Kunstbeschreibung15. Le lettere16 ci rac-
contano delle difficoltà riscontrate dall’autore nel redigere il suo
diario di viaggio e i diversi propositi elaborati durante il periodo
trascorso in Italia. Il contatto diretto con la realtà romana, dimo-
stra, a suo giudizio, la necessità di una nuova o diversa “strategia”
della rappresentazione, un punto di vista che permetta di ordinare
il tutto, pur mantenendo viva la complessità degli elementi e la lo-
ro interna stratificazione storica.
Dopo più di un anno e mezzo dal suo arrivo a Roma egli propo-
se all’editore Campe la pubblicazione di un resoconto di viaggio in
una forma del tutto nuova, ovvero un viaggio pittorico, composto
da una serie di disegni corredati da un breve testo descrittivo: il ca-
povolgimento del diario di viaggio in cui le immagini corredano il
testo. L’idea non fu mai realizzata in questi termini, anche se i tre
volumi sull’esperienza italiana (pubblicati privi di immagini, se si
escludono le incisioni delle tre copertine), testimoniano in maniera
evidente gli sviluppi dei suoi studi intorno al problema della rap-
presentazione. Si tratta di una vera e propria “macchina” di im-
pressioni, informazioni, descrizioni, curiosità. Persino la cornice sti-
listica è in continua trasformazione; dall’epistolario si passa alla for-
ma del diario di viaggio, alla quale, nel corso del secondo volume,
si aggiungono brani con caratteristiche differenti, quali il frammen-
to e addirittura il saggio breve. In questa “raccolta di materiali” è
tuttavia possibile riconoscere alcune linee guida: il moderno inteso
come “trasformazione” dell’antico; la ricostruzione del proprio
percorso di viaggio quale “strumento esemplare” in grado di guida-

15 Il progetto iniziale testimoniato dallo scambio epistolare con alcuni editori, pre-

vedeva che Moritz scrivesse un diario di viaggio sulla scia della sua precedente pubbli-
cazione riguardante l’Inghilterra (K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in England im
Jahr 1782. In Briefen an Herrn Direktor Gedike, Berlin, Friedrich Maurer, 1783). Cfr.
R. Gambino, Romam Quaero! La questione greco-romana nelle “Reisen eines Deutschen
in Italien” di Karl Philipp Moritz, Messina, Sicania, 2000.
16 Si tratta soprattutto delle lettere inviate all’editore Campe da Roma datate 3

febbraio 1787, 1 settembre 1787 e 12 aprile 1788, in H. Eybisch, Anton Reiser, Unteru-
chungen zur Lebensgeschichte von K. Ph. Moritz und zur Kritik seiner Autobiographie,
Leipzig, Voigtländer, 1909, pp. 207, 219 e 229.
242 Lo sguardo reciproco

re il lettore nell’elaborazione di un proprio “concetto di Roma”.


La Denkkraft, ovvero quella facoltà umana in grado di ordinare
il reale, ma anche di ricostruire all’interno della mente un altro
mondo, definito da Moritz «Ideenwelt»17, fatto di concetti che l’es-
sere umano ricombina grazie alla fantasia, permetterebbe la com-
presenza dei vari aspetti e delle diverse funzioni assunte dalla realtà
nel corso della storia, in una sorta di “archeologia del sogno”18, o
di “capriccio” architettonico simile alle Vedute di Roma antica di
Giovanni Paolo Pannini. Perché il processo di astrazione possa
avere luogo è necessario, secondo Moritz, che l’individuo disponga
della massima quantità di dati possibile, ordinata secondo un prin-
cipio che ne evidenzi le singole caratteristiche e i tratti unitari. I
singoli passaggi di questo procedimento, dalla raccolta di dati all’e-
laborazione di un principio ordinante, sono presenti nella sua rap-
presentazione di Roma, come vedremo esaminando i brani dedicati
alla descrizione della piazza antistante la Basilica di San Pietro19.
La città viene descritta più volte, da prospettive diverse, il testo è
corredato di informazioni e dati che ne danno di volta in volta
un’immagine differente che si sovrappone alla precedente. Il reso-
conto, in tal senso, non testimonierebbe del percorso formativo del-
l’autore, o della sua crescita personale, ma delle tappe del processo
conoscitivo e dello sviluppo della sua “idea di Roma”. Ciò viene
perseguito, nella trasposizione letteraria, attraverso un processo di
autoanalisi, che conduce ad una ricostruzione “psico-archeologica”
del percepito e dei dati del reale. Egli tenta di descrivere l’indescri-
vibile: il formarsi di un’idea nella mente dell’osservatore.
Tale procedimento si palesa analizzando i brani in cui l’autore
descrive determinati luoghi della città che assumono la funzione di
“cardini della rappresentazione” in tutto il testo. Ciò che, a prima
vista, può sembrare una ripetizione o una svista, testimonia di una
progressiva modificazione della percezione del circostante. Venia-
17 Cfr. K. Ph. Moritz, Versuch einer kleinen praktischen Kinderlogik, cit., vol. III,

pp. 431-432.
18 Cfr. N. Miller, Archäologie des Traums. Versuch über Giovanni Battista Piranesi,

München/Wien, DTV, 1994.


19 Moritz fornisce una descrizione della piazza di San Pietro in Roma nello stato in

cui si trovava all’epoca della sua visita aggiungendovi però molte informazioni riguar-
danti la forma e la funzione ai tempi di Nerone, quando era il luogo in cui venivano sa-
crificati i cristiani. K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien in den Jahren 1786
bis 1788, cit., vol. I, p. 210.
Un’idea di Roma 243

mo resi partecipi non soltanto del suo accostarsi alla realtà cittadi-
na, alla sua storia e agli usi dell’epoca, ma anche del progressivo
sviluppo delle sue teorie estetiche e della questione centrale ri-
guardante il Gesichtspunkt (il punto di vista)20, considerato da
Moritz l’elemento fondamentale della formazione di un concetto e
del giudizio, caratteristiche determinanti del pensiero umano:
Questa tendenza alla verità, alla correlazione e all’ordine nei nostri
pensieri e nelle nostre rappresentazioni è il nostro istinto, è un impulso
per il quale noi non abbiamo alcun motivo ulteriore, oltre alla natura del
nostro essere21.
Il bisogno di un ordine, lo stabilire delle correlazioni e poi il pa-
ragonare e il distinguere sono attività della ragione umana che esi-
sterebbero indipendentemente dalla parola anche se la percezione,
secondo Moritz, di per sé ordina la materia22:
Attraverso l’occhio si ottiene dunque la contemporaneità,/ attraverso
l’orecchio la successione delle idee./ Occhio – orecchio –/ Pittura – Musi-
ca –/ Contemporaneità – successione –/ Le belle arti sono una copia della
natura in forma rinnovata (in Verjüngtem Maaßstabe)23.
Secondo questa impostazione, la percezione visiva sarebbe de-
putata all’organizzazione dello spazio, alla delimitazione, quindi
precipuamente alla comprensione del reale. Scoprire secondo qua-
li principi avviene questa organizzazione del percepito diventa uno
degli argomenti di studio durante il periodo italiano. Le lezioni di
prospettiva seguite a Roma da Moritz presso l’architetto Maximi-
lian von Verschaffelt24, già insegnante di Goethe, contribuirono
20 Cfr. il breve saggio di K. Ph. Moritz, Gesichtspunkt, in «Magazin zur Erfah-

rungsseelenkunde», IV, 2 (1786), pp. 16-19 (trad. it. e cura di P. D’angelo, Lo scopo ul-
timo del pensiero umano, in Id., Scritti di Estetica, cit., pp. 51-53).
21 Ivi, p. 52.
22 In questo si rivela la sua adesione alle teorie riguardanti i confini tra le arti espo-

ste da Gotthold Ephraim Lessing nel suo Laokoon: oder über die Grenzen der Malerei
und Poesie, Berlino, 1766 (trad. it. e cura di M. Cometa, Laocoonte, Palermo, Aestheti-
ca edizioni, 1991).
23 K. Ph. Moritz, Die große Loge oder der Freimaurer mit Waage und Senkblei, Ber-

lin, Ernst Felisch, 1793, in Id., Werke, cit., vol. III, p. 334.
24 L’architetto Maximilian von Verschaffelt (Mannheim 1754 - Wien 1818) visse a

Roma dal 1782 al 1793. Studiò presso l’Accademia Reale di Parigi sotto la protezione
di Amedee Van Loo. Durante gli anni trascorsi a Roma si dedicò principalmente alla
scultura. Alla morte del padre nel 1793, egli assunse per un breve periodo la direzione
dell’Accademia di Belle Arti a Mannheim, poi seguì il principe Karl Theodor a Mona-
244 Lo sguardo reciproco

sicuramente alla scoperta di molte rappresentazioni pittoriche del-


la realtà romana, tra cui le straordinarie “interpretazioni” prospet-
tiche di Roma create da Giovanni Battista Piranesi25.
Esaminando il lungo percorso artistico piranesiano, e soprattut-
to la serie delle grandi Vedute di Roma26 risulta chiaro come anche
questo artista si sia confrontato con la difficoltà della rappresenta-
zione e abbia condotto una lunga ricerca nel tentativo di liberare
la veduta e il panorama dalle regole tradizionali della prospettiva
architettonica, al fine di renderle espressione individuale. La vedu-
ta non doveva più sottostare soltanto al principio della “riconosci-
bilità” dei particolari raffigurati, ma essere un’opera in sé conclu-
sa, in cui tutte le parti rivelassero di appartenere ad una percezio-
ne individuale della realtà. In tal senso sono stati individuati tre
momenti di sviluppo nella creazione tematica e stilistica delle Ve-
dute di Roma: una prima fase in cui predominano i panorami, le
ampie vedute cittadine nello stile del Canaletto, una seconda in cui
è evidente la sperimentazione e l’estremizzazione di alcuni elemen-
ti stilistici, e l’ultima in cui domina il principio della “monumenta-
lizzazione” del soggetto raffigurato, l’uso del paradosso e l’approc-
cio archeologico. La trasformazione della rappresentazione pirane-
siana di Roma è particolarmente evidente osservando alcune tavole
delle Vedute che raffigurano lo stesso monumento più volte. Si
tratta in particolare di due luoghi della città, che sia Moritz che
Piranesi sembrano eleggere a simbolo di Roma e della storia della
civiltà, ovvero la Basilica di San Pietro con la piazza antistante
(quale tempio della cristianità e della modernità) e l’Anfiteatro
Flavio (quale tempio della civiltà e della cultura antica).

co. Dal 1801 si trasferì a Vienna alle dipendenze del principe Estherhàzy dove rimase
fino alla sua morte. Nel Goethe-Museum di Weimar si trovano ancora un suo disegno
della veduta dal Campidoglio ed uno della chiesa di S. Maria in Aracoeli.
25 La serie delle Vedute comprende in tutto 135 tavole, vendute singolarmente o a

gruppi a partire dal 1745 fino al 1778, anno della sua morte. L’opera di Piranesi era ben
nota a Moritz, il quale non solo fa riferimento esplicito ad una sua incisione nel secon-
do volume del resoconto di viaggio (Reisen vol. II, p. 317), ma al suo ritorno a Berlino
farà richiesta ufficiale all’Akademie der Künste per l’acquisto delle famose Vedute a sco-
pi didattici. Cfr. le ricerche condotte dalla dott. Yvonne Pauly presso la Akademie der
Wissenschaften di Berlino, consultabili in parte nel sito dell’Accademia alla pagina
www.bbaw.de/bbaw/Forschung/Forschungsprojekte/moritz/de.
26 Queste famosissime incisioni di grande formato furono composte nell’arco di 30

anni a partire dal 1748 anno di pubblicazione della prima serie. Cfr. J. Wilton Ely, Pira-
nesi, Milano, Electa, 1994.
Un’idea di Roma 245

Vi sono, infatti, ben tre incisioni appartenenti alle Vedute di


Roma di Piranesi in cui è raffigurata la Basilica di San Pietro (figg.
1, 2, 6), con la piazza e il colonnato, e almeno altrettante tavole de-
dicate all’Anfiteatro Flavio (figg. 3, 4, 5)27. Nei tre volumi dedicati
al viaggio in Italia l’autore descrive a sua volta questi due monu-
menti, rappresentandoli da prospettive diverse e sottolineandone
di volta in volta caratteristiche differenti.
La prospettiva adottata da Piranesi nella prima incisione della
piazza di San Pietro segue un’impostazione ancora piuttosto tradi-
zionale. La prospettiva è centrale, il punto d’osservazione è legger-
mente sopraelevato rispetto al primo piano in cui sono raffigurate
scene di vita quotidiana. La presenza di una vistosa carrozza, in
stile rococò, attrae irrimediabilmente l’attenzione dell’osservatore
e amplifica l’effetto di contrasto con l’imperturbabile maestosa
lontananza dell’edificio (fig. 1).

Fig. 1. G.B. Piranesi, Veduta della Basilica e Piazza di S. Pietro in Vaticano.

27 Cfr. G.B. Piranesi, Vedute di Roma, Milano, Mondadori, 2000, tavv. 3, 19, 58,

101, 120, 126.


246 Lo sguardo reciproco

Il percorso descritto da Moritz nel primo volume segue a sua


volta la tradizione dei diari di viaggio; l’esposizione di tipo museale,
in cui una descrizione segue l’altra secondo itinerari ormai tipici
per le guide più spesso consultate all’epoca28, in cui il viaggiatore si
“muove” all’interno dello spazio cercando di renderlo “leggibile”.
Questo è il caso, ad esempio, del primo brano dedicato a piazza S.
Pietro, in cui Moritz procede nella sua descrizione fornendo prima
di tutto un breve quadro storico del luogo, poi si avvicina al centro
della piazza, descrive l’obelisco, quale fulcro di tutto lo spazio mo-
numentale, e procede oltre verso la basilica; vi entra, ne descrive
l’interno, avvicinandosi lentamente all’altar maggiore. Tutto è elen-
cato con precisione, adottando spesso figure retoriche già note, co-
me nel caso delle dimensioni delle colonne della piazza, per le quali
adotta lo stesso paragone usato da Winckelmann29 nel caso del
tempio di Giove Olimpico di Agrigento:
Trecentoventi colonne di travertino, ciascuna con una circonferenza
tale che due uomini quasi non riescono ad abbracciarla e d’altezza pro-
porzionata, formano questo maestoso colonnato30.
La seconda tavola che Piranesi dedica alla basilica, dimostra un
profondo cambiamento nella concezione della spazialità e del rap-
porto tra l’osservatore, il monumento e la veduta. L’edificio pren-
de il sopravvento, domina la tavola infrangendone le proporzioni.
In questa incisione il colonnato rientra a mala pena entro i contor-
ni della tavola. L’osservatore si trova anche questa volta in una po-
sizione lievemente rialzata rispetto al piano della piazza, ma la pro-
spettiva non è più perfettamente centrale. L’obelisco perde così la
sua funzione di fulcro della visione e di elemento ordinante la spa-
zialità monumentale. Le lunghe ombre proiettate dagli elementi in
primo piano creano una vasta zona scura che si ricongiunge late-
ralmente con i due estremi del colonnato, anch’essi in ombra, e

28 Una tra le più famose è senz’altro quella di Johann Jakob Volkmann, Historisch-

kritische Nachrichten von Italien, welche eine genaue Beschreibung dieses Landes, der
Sitten und Gebräuche, der Regierungsform, Handlung und Oekonomie, des Zustandes
der Wissenschaften, und insonderheit der Werke der Kunst enthalten. Aus den neuesten
französischen und englischen Reisebeschreibungen und aus eignen Anmerkungen zusam-
mengetragen, 3 voll., Leipzig, C. Fritsch, 1770-71.
29 Cfr. M. Cometa, Il romanzo dell’architettura. La Sicilia e il Grand Tour nell’età di

Goethe, Roma-Bari, Laterza, 1999, in particolare pp. 155-184.


30 K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien, cit., vol. I, p. 210.
Un’idea di Roma 247

con un gruppo di nuvole scure nel cielo, creando una cornice che
divide la tavola nettamente in due differenti piani d’osservazione.
Il risultato di un tale “restringimento” del campo visivo è la sensa-
zione di guardare dentro uno strumento ottico, lo spettatore viene
proiettato al di fuori dell’immagine, la piazza assume maggiore
profondità, il corpo centrale della basilica viene allontanato dal re-
sto della piazza, conferendo a questo edificio monumentale una
consistenza quasi eterea. Tutto ciò produce la sensazione di guar-
dare un’immagine irreale, di avere di fronte un tremolante prodot-
to di fantasia. La veduta si trasforma in visione.
Il testo scritto da Moritz per descrivere una seconda volta la Ba-
silica di San Pietro e la piazza circondata dal colonnato non sem-
bra essere altro che un atto di ékphrasis rispetto a questa Veduta
piranesiana. Non è il luogo ad essere rappresentato nel testo ma le
caratteristiche salienti di questa particolare raffigurazione (fig. 2):
Quando si osserva la facciata della chiesa di San Pietro sullo sfondo di
questa piazza, sembra di guardare dentro una scatola prospettica; il tutto
appare più simile ad un quadro che ad un oggetto del mondo reale, in cui
non si è abituati a vedere qualcosa di così perfettamente proporzionato e,
nonostante simili dimensioni, elaborato in maniera così completa31.

Fig. 2. G.B. Piranesi, Veduta della gran Piazza e Basilica di S. Pietro.


31 Ivi, p. 211.
248 Lo sguardo reciproco

Fig. 3. G.B. Piranesi, Veduta dell’Arco di Costantino e dell’Anfiteatro Flavio


detto il Colosseo.

Un altro esempio di ékphrasis costruita su ispirazione di una ve-


duta piranesiana si trova nella descrizione dell’Anfiteatro Flavio.
Nella prima tavola dedicata a questo monumento, Piranesi ritrae
l’edificio mettendone in risalto le caratteristiche di rovina. Il punto
d’osservazione, posto su un piano leggermente sopraelevato, domi-
na la parete crollata del Colosseo permettendo allo sguardo di in-
dagare al suo interno e di esaminarne la struttura, mentre la corni-
ce superiore dell’edificio si staglia leggera contro il cielo. La pro-
spettiva è centrale, le proporzioni all’interno della tavola vengono
mantenute seguendo i canoni tradizionali e il punto focale, centra-
le, è rappresentato dall’Arco di Costantino. L’anfiteatro si erge al
centro di un piano, incorniciato dai colli sullo sfondo, costellati di
costruzioni tra cui si riconoscono vagamente altre rovine d’epoca
romana. In primo piano si scorgono delle figure in abiti settecente-
schi con dei lunghi bastoni in mano, impegnate nell’osservazione di
qualche reperto. L’elemento dominante in questa veduta è costitui-
to dalla lussureggiante vegetazione che aggredisce i monumenti,
ponendone in rilievo la trasformazione, il decadimento, e che sem-
bra essere presente anche sugli abiti delle figure in primo piano, so-
miglianti più a dei mendicanti che alle tipiche figure di viaggiatori e
studiosi presenti sulla maggior parte delle tavole dell’epoca (fig. 3):
Un’idea di Roma 249

Fig. 4. G.B. Piranesi, Veduta dell’Anfiteatro Flavio, detto il Colosseo.

L’anfiteatro si trova al centro tra i colli Palatino, Celio ed Esquilino.


Sul piano si trova l’arco di Costantino; […] Il Colosseo stesso, nonostan-
te le sue dimensioni gigantesche, forma nell’aria un delicato profilo. Ve-
dere un edificio di tali dimensioni, consistente soltanto di un ovale senza
tetto, crea un effetto davvero singolare. […] Mendicanti e ladri si rintana-
no adesso negli spazi in cui un tempo venivano rinchiuse le belve32.
Queste sono le parole usate per descrivere l’Anfiteatro Flavio
nel primo libro del resoconto di viaggio. Ancora più sorprendente
è invece il breve accenno che egli fa all’interno del terzo volume,
in cui, quasi del tutto abbandonata la forma epistolare, scrive le
sue impressioni in brevi paragrafi introdotti ogni volta da un tito-
lo. Nel brevissimo brano intitolato Der Frevelsteig (vicus
sceleratus), il Colosseo viene rappresentato nella sua interezza, co-
me immagine riflessa nell’occhio dell’osservatore che risale la via
verso il colle Esquilino ed è sorpreso dalla maestosa proporzione
di questo edificio (fig. 4):
Alle spalle del tempio della Pace vi è la risalita verso il monte Esquili-
no […]. Percorrendo questa salita il Colosseo si mostra in tutta la sua
magnificenza, poiché se ne vede il lato ancora intatto e poiché da questa
collina nell’occhio si riflette interamente il profilo di quest’edificio33.

32 Ivi, p. 206.
33 K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien, cit., vol. III, p. 404.
250 Lo sguardo reciproco

È difficile non restare colpiti dalla somiglianza tra il testo della


descrizione e questa Veduta, una delle incisioni più interessanti del
percorso piranesiano, in cui il dominio da parte del monumento
sull’osservatore raggiunge il suo apice.
L’anfiteatro viene ritratto dal piano della strada, in modo da
amplificare la tensione drammatica e la teatralità dell’immagine. Il
versante ancora intatto dell’edificio riempie tutta la tavola, toccan-
done i bordi. Il cielo ed il primo piano sono ridotti al massimo e si
sviluppano soltanto nelle porzioni in angolo, aumentando la spinta
tridimensionale dell’ovale, che sembra muoversi verso l’osservato-
re. Anche in questo caso, l’estremizzazione delle proporzioni pro-
duce l’impressione di guardare attraverso una lente ottica o di ve-
dere l’immagine riflessa sulla superficie convessa dell’occhio.
Lo sguardo prima concentrato a cogliere una visione panorami-
ca, in un secondo momento si stringe sui singoli soggetti privandoli
di sfondo e contesto, per amplificare l’effetto esercitato sull’osserva-
tore. Piranesi sperimenta in tal modo l’uso delle innovazioni pro-
spettiche della scena teatrale34, per rendere l’osservatore partecipe
della potenza e magnificenza dei monumenti riprodotti nelle tavole.
In una terza fase, Piranesi si dedica alla riproduzione dei monu-
menti ponendo l’accento sulle particolarità archeologiche (struttu-
re murarie, basamenti, etc.) e sull’idea della rovina, della trasfor-
mazione operata dalla natura. Il punto d’osservazione è spesso po-
sto al livello della base del monumento per favorire uno sguardo
indagatore, e aumentare il senso del sublime prodotto da queste
grandi opere architettoniche. In qualche altro raro caso, invece,
egli adotta la prospettiva a volo d’uccello. Si tratta di due grandi
tavole dedicate di nuovo ai luoghi considerati i più importanti di

34 La tecnica usata da Piranesi in alcune delle sue grandi tavole trae ispirazione

dalle innovazioni prospettiche introdotte nella scenografia teatrale barocca dai fratelli
Galli Bibiena e poi ulteriormente elaborate da Filippo Juvarra, con la sua “scena per
angolo”. Con l’inizio del Settecento, la prolifica attività, della famiglia Bibiena, portò a
perfezione una vera “scienza dell’illusione”, in cui la disciplina della prospettiva lineare
consentiva il manifestarsi di un mondo in illimitata espansione. La maggior parte dei
più fantasiosi architetti del barocco, da Bernini a Juvarra, si esercitò in questo campo,
che offriva enormi possibilità di sperimentazione. La “scena per angolo”, esposta da
Ferdinando Bibiena, nel suo trattato Architettura civile del 1725, era veramente un’idea
rivoluzionaria, grazie alla quale il tradizionale punto di fuga centrale veniva abbando-
nato a favore dell’uso contemporaneo di più assi visivi diagonali, ognuno dei quali
schiudeva allo spettatore nuove visuali.
Un’idea di Roma 251

Fig. 5. G.B. Piranesi, Veduta dell’Anfiteatro Flavio, detto il Colosseo.

Roma: San Pietro con il colonnato del Bernini e il Colosseo.


Se in un primo momento avevamo avuto l’impressione che il
monumento si collocasse su di uno sfondo, ovvero facesse parte
del “paesaggio”, e in un secondo momento esso diventasse prota-
gonista assoluto della rappresentazione al punto da riempire quasi
del tutto l’immagine, in queste ultime tavole invece la distanza as-
sunta dall’osservatore rispetto al luogo ritratto, ne rende più com-
prensibili grandezza e significato. Si giunge così al culmine di
quello che Moritz individua quale tappa finale del processo cono-
scitivo: la veduta si trasforma in mappa topografica del luogo, e il
monumento diventa “segno”, la vista diventa strumento di “com-
prensione” e organizzazione del reale, la visione “scrittura”.
Le Vedute di Piazza San Pietro e del Colosseo composte per ul-
timo in ordine di tempo, sono probabilmente le uniche due in cui
Piranesi adottò la prospettiva dall’alto, quasi a voler porre in risal-
to la circolarità del luogo, con il fulcro centrale dato dall’obelisco.
L’anfiteatro Flavio riempie la tavola e non lascia spazio ad altro; il
monumento perde la sua caratteristica di rovina, per assurgere a
forma perfetta simboleggiante l’eterno (fig. 5):
252 Lo sguardo reciproco

Fig. 6. G.B. Piranesi, Veduta dell’insigne Basilica Vaticana coll’ampio Portico e


Piazza adiacente.

Più oltre, nelle stese tonalità di colore le montagne di Tivoli, fin dove
si erge nel rosso della sera, il Colosseo, vicinissimo, nel quale possiamo,
come dall’alto, guardare all’interno35.
Lo stesso avviene nella rappresentazione del colonnato del Ber-
nini che, visto dalla prospettiva aerea, assume proporzioni gigante-
sche rispetto alle costruzioni circostanti, persino rispetto alla basi-
lica stessa e alla maestosa cupola. La forma circolare della piazza,
con l’obelisco posto al centro, verso cui tutto tende e sembra esse-
re collegato attraverso dei raggi disegnati sul pavimento della piaz-
za, diviene simbolo della perfezione divina, ma anche inquietante
riferimento alla forma di una tenaglia, simboleggiante il cattolicesi-
mo, dominatore incontrastato della scena cittadina.
Moritz si sofferma, nella terza parte del suo resoconto di viag-
gio, a descrivere nuovamente questi due luoghi, scegliendo per en-
trambi un punto d’osservazione elevato che permetta di porre una
certa distanza tra il monumento e l’osservatore, in modo da riusci-
re ad astrarre dai dettagli minuti e di cogliere la forma nella sua in-
terezza (fig. 6):

35 K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien, cit., vol. III, p. 417.
Un’idea di Roma 253

Piazza San Pietro si curva ai miei piedi – le colonne appaiono come


dei puntini –. Le ruote più veloci, che attraversano la piazza, sembrano
muoversi lentamente ed in silenzio. Castel S. Angelo ed il ponte, appaio-
no come in un’incisione di Piranesi – e da quest’altezza tutto sembra così
bello e pulito perché tutta la polvere e la sporcizia inferiori spariscono
davanti a questa visione36.

La scelta della prospettiva a volo d’uccello che potrebbe sem-


brare, da un punto di vista teorico e stilistico, una piena afferma-
zione dei principi razionalisti e del gusto neoclassico, segna invece
in Moritz un momento di rottura. La distanza posta tra l’osserva-
tore e l’oggetto permetterebbe, a suo giudizio, una maggiore capa-
cità di “comprendere” l’oggetto osservato. Tutto ciò che appartie-
ne alla cultura, al vissuto, alla percezione personale, al legame che
l’oggetto instaura con gli elementi circostanti, verrebbe eliminato
grazie alla distanza, favorendo quel processo di astrazione che per-
mette di giungere alla elaborazione di un concetto e, in seguito, al-
la formulazione di un giudizio37.
Individuiamo dunque nella rappresentazione letteraria morit-
ziana una sorta di “movimento” in tappe successive, che corri-
sponderebbe ai vari stadi del procedimento gnoseologico legato
alla percezione visiva. Posto di fronte ad una nuova realtà, l’indivi-
duo “inquadra” i singoli elementi, crea una cornice che rende
compiuta, o meglio “intelligibile” l’immagine; individua le singole
componenti, i frammenti del reale, e li ricompone entro quella che
egli definisce una «täuschende Komposition», una “illusione” che,
grazie ad una appropriata disposizione dei singoli elementi, per-
mette all’intelletto di “intuire” l’unità di cui essi partecipano. Il
principio ordinante è il Gesichtspunkt, la regola prospettica, che
collega gli elementi tra loro, non più intesa come legge universale,
ma sistema d’orientamento individuale nella “lettura” del reale.
Mettere a fuoco il frammento diventa indispensabile perché esso
racchiude in sé gli elementi del Tutto di cui l’uomo, essere finito e
limitato, non può essere partecipe, ma può intuire la grandezza
grazie ad un successivo processo di astrazione, quindi di allontana-
mento dal dettaglio e dal finito.

36 Ivi, vol. II, p. 317.


37 Cfr. K. Ph. Moritz, Vorlesungen über den Stil, in Id., Werke, cit., vol. III, p. 725.
254 Lo sguardo reciproco

Nella sesta lezione di stilistica38, scritta durante gli anni in cui


era insegnante presso l’Accademia di Belle Arti di Berlino, Moritz
tenta di chiarire il concetto di potenza dell’espressione in una rap-
presentazione letteraria, tracciando proprio le tappe del procedi-
mento conoscitivo appena individuato sull’esempio di quello che
lui definisce «un dipinto di Goethe»39.
Si tratta in realtà di un brano tratto dal Werther di Goethe, in
cui il protagonista si sofferma a contemplare la natura che lo cir-
conda. Nel movimento compiuto dallo sguardo del narratore, Mo-
ritz individua le tappe che definiscono una rappresentazione lette-
raria efficace, ma anche quel processo che, condurrebbe l’indivi-
duo alla comprensione, alla verità:
Quel che conferisce a questa come ad altre descrizioni della natura di
questo poeta una così grande attrattiva sembra consistere principalmente
nell’arte o nella scelta per mezzo della quale i singoli tratti sono connessi
e ordinati in modo tale da formare da soli un intero compiuto. Innanzi
tutto viene tracciato con pochi tratti un contorno intorno all’immagine;
poi la descrizione scende dall’alto sempre più verso il basso, fino al più ri-
stretto campo visivo dell’occhio, fino ai fili d’erba sul terreno; quanto più
la descrizione scende, quanto più l’immagine si dipinge nel dettaglio, tan-
to più intima e viva diventa la sensazione, che poi si innalza di nuovo per
così dire dal suo punto centrale, e fa nuovamente risalire la descrizione,
così come prima essa scendeva, finché da ultimo traccia ai bordi del tutto
un più grande contorno, e una sensazione che abbraccia il tutto completa
infine l’immagine40.
Se la percezione visiva per diventare strumento di conoscenza
ha bisogno dell’ordine, delle regole dettate dalle leggi della pro-
spettiva, e l’opera d’arte figurativa è tale solo se riesce a cogliere il
giusto punto di vista che permette di evidenziare la relazione del
tutto con le sue parti, anche la lingua, indissolubilmente legata al
concetto di sequenza, o successione temporale, dovrà sottostare ad
una legge ordinante. La musica stabilisce, secondo Moritz, queste

38 K. Ph. Moritz, Sechste Vorlesung. Über ein poetisches Gemälde von Goethe – wa-

rum und in wie fern die Aufstellung und Zergliederung eines solchen Gemäldes in ein
Werk über den Stil gehört?, in Id., Vorlesungen über den Stil, Berlin, Friedrich Vieweg,
1793, adesso in Id., Werke, cit, vol. III, pp. 622-629.
39 Ivi, p. 153.
40 Ivi, p. 623 (trad. it. e cura di P. D’Angelo, in K. Ph. Moritz, Scritti di estetica,

cit., p. 154).
Un’idea di Roma 255

relazioni attraverso i movimenti del ritmo e l’armonia. Ecco, quin-


di, che il testo letterario non potrà diventare opera d’arte se non in
osservazione delle regole stabilite dalla metrica poetica, poste in
evidenza attraverso la scomposizione analitica del testo goethiano.
Ad ogni segmento di testo Moritz assegna un termine, un titolo
che ne definisce la funzione all’interno della rappresentazione.
Egli sceglie a questo scopo dei sostantivi derivati dai verbi usati
per indicare il movimento di discesa e ascesa, compiuto nella de-
scrizione. Non è però un caso che i termini Senkung e Hebung non
solo indichino rispettivamente un movimento verso il basso e ver-
so l’alto, ma siano anche termini appartenenti alla metrica tedesca
indicanti i tempi debole e forte (tesi e arsi).
La questione del rapporto tra immagine e testo torna ad essere
centrale nel momento in cui Moritz, durante il periodo d’insegna-
mento presso l’Accademia di Belle Arti di Berlino, si sofferma
nuovamente sulla questione riguardante la possibilità di descrivere
le opere d’arte figurativa attraverso un testo.Verità e bellezza sono
due elementi inscindibili in un’opera d’arte come abbiamo visto, e
la verità è data solo dalla “comprensione”, ovvero da quel proces-
so di astrazione che permette di riunire in sé tutti i dettagli e le dif-
ferenze. Ecco che l’arte figurativa, in quanto descrive attraverso i
contorni che uniscono e collegano gli elementi, sarebbe a suo giu-
dizio più “significativa” di quella ottenuta tramite l’uso delle paro-
le, che invece «definiscono e separano»41:
Le autentiche opere poetiche sono perciò anche le uniche vere descri-
zioni verbali del bello nelle opere d’arte figurativa, perché il bello può esse-
re descritto a parole solo indirettamente: le parole spesso debbono percor-
rere un giro molto lungo, e talvolta comprendere in sé un intero mondo di
rapporti, prima di poter portare a compimento nel fondo del nostro essere
quella stessa immagine che si presenta in un colpo davanti ai nostri occhi42.
Diventerebbe quindi inutile cercare di descrivere attraverso le
parole ciò che un’altra opera d’arte è invece già riuscita a racchiu-
dere, comprendere in sé. Nella critica rivolta all’ékphrasis tradizio-
nale, egli giunge persino a criticare apertamente la famosissima de-
41 Cfr. K. Ph. Moritz, Die Signatur des Schönen. Inwiefern Kunstwerke beschrieben

werden können?, in Id., Werke, cit., vol. II, pp. 579-588.


42 Ivi, p. 585 (trad it. e cura di P. D’Angelo, in K. Ph. Moritz, Scritti di estetica, cit.,

p. 100).
256 Lo sguardo reciproco

scrizione della statua dell’Apollo del Belvedere composta da


Winckelmann, in quanto l’elenco delle singole parti dell’opera ne
distruggerebbe l’unità, disperdendo la sua caratteristica divina,
l’assoluto racchiuso nella sua forma.
«Sarebbe inopportuno descrivere in serie le bellezze di una
poesia, piuttosto che leggere la poesia stessa»43, così come a suo
giudizio sarebbe inopportuno descrivere le singole parti che com-
pongono un’opera d’arte che si mostra nella sua interezza in un sol
colpo d’occhio, per cui non resta altro che indicarla con il sempli-
ce «cenno del dito»44. Il potere rappresentativo della descrizione
testuale viene quindi definitivamente negato, mentre viene ribadi-
ta la capacità dell’arte di rappresentare l’assoluto entro una forma
finita. L’immagine assurge a simbolo, o meglio diventa ideogram-
ma, racchiude in sé un concetto e diventa a sua volta elemento
rappresentativo.
La più grande sfida, descrivere quella che allora era considerata
la sublime opera d’arte umana, la città di Roma, viene risolta dal-
l’autore attraverso la ricostruzione delle tappe del proprio proces-
so conoscitivo. Quella che a tutta prima sembra una serie di scarne
descrizioni delle più grandi opere d’arte dell’umanità, un’infinita
serie di frammenti e di informazioni, si rivela essere un’opera lette-
raria unitaria, composta da “cenni del dito” che rimandano a que-
gli elementi e a quelle rappresentazioni artistiche che hanno con-
tribuito all’elaborazione di una “idea di Roma”, e che sono in gra-
do di chiarire le relazioni esistenti tra i singoli elementi, permet-
tendogli di intuire il significato del Tutto. Una serie di rimandi ad
opere in sé compiute, che solo nella mente umana possono convi-
vere, sovrapponendosi, a formare un poligono dalle mille sfaccet-
tature, vero concetto unitario di Roma. Il resoconto diventa così
una sorta di “epos in ideogrammi del bello” che come in un calei-
doscopio compongono magicamente la realtà romana nella
Ideenwelt del lettore.

43 Ibidem.
44 Ivi, p. 581 (trad. it. p. 96).
I COLORI DELLE FIABE
E LA PASSIONE DELLA REALTÀ
DIMENSIONI VISUALI IN ANNA SEGHERS

Rita Calabrese

È terribile …vivere… senza immagini.


A. Seghers

Vivere con le immagini

Nel suo consuntivo della letteratura e della cultura della DDR,


all’indomani della sua scomparsa sulla scena della storia, Hans
Mayer non manca di rendere omaggio ad Anna Seghers, che defi-
nisce la più grande narratrice tedesca del Novecento. E questo, ag-
giunge con convinzione, «nonostante Ricarda Huch e Marie Luise
Kaschnitz e Ingeborg Bachmann. E nonostante la sua allieva Chri-
sta Wolf»1. Una valutazione di grande portata se confrontata con i
giudizi negativi espressi dal celebre critico riguardo all’attività let-
teraria della scrittrice dal 1947 in poi, dopo il ritorno dall’esilio
messicano, vera e propria distruzione di un autentico talento, co-
me, a suo avviso, per tutti gli scrittori antinazisti approdati nella
Germania Orientale, finita con il diventare una vera e propria tor-
re d’avorio «pericolosamente alta tra le nuvole»2, chiusa nell’ideo-
logia e lontana dalla realtà. Se la condanna politica ed etica rimane
senza appello, il giudizio letterario è lucido nell’esaltare il valore di
una grandissima scrittrice, pur se la drasticità dell’affermazione
«chi voglia formulare un giudizio su Anna Seghers, la deve accet-
tare o rifiutare in blocco»3 sembra escludere la possibilità di una
lettura doverosamente priva di pregiudizi e necessariamente arti-
colata, ormai non più procrastinabile.

1 H. Mayer, Der Turm von Babel. Erinnerung an eine Deutsche Demokratische


Republik, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1991, p. 204.
2 Ivi, p. 206.
3 Ivi, p. 202.
258 Lo sguardo reciproco

Per troppo tempo la scrittrice è stata liquidata sbrigativamente


ad Ovest come «poetessa di stato» di un paese totalitario, e poi
esponente rappresentativa di idee condannate dalla storia, ad Est
esaltata come esemplare madre fondatrice, icona dell’antifascismo,
ma in realtà sospetta per la sua scrittura non sempre omologata.
Anche in Italia Anna Seghers non ha avuto l’attenzione dovutale.
Basti pensare, tra l’altro, che La settima croce, uno dei romanzi più
grandi del Novecento e certamente tra i più rappresentativi della
letteratura dell’esilio, non è attualmente disponibile4.
Con Hans Mayer possiamo in parte convenire, se non in una
sorta di immutabilità degli atteggiamenti della scrittrice dagli inizi
della sua attività letteraria negli anni Venti sino alla fine5, in una
serie di linee tematiche che ne attraversano – modificandosi – la
copiosa produzione. Rimane valida l’affermazione di Hans Henny
Jahnn che nella motivazione del premio Kleist, attribuito alla gio-
vane scrittrice nel 1928 per i racconti, già autentici capolavori,
Grubetsch e La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, accanto al
realismo e alla nitida precisione della prosa, individua altri ele-
menti che della scrittura di Anna Seghers rappresentano la pecu-
liarità. Nella maestria formale insieme alla «grande chiarezza e
semplicità di periodi e vocaboli» viene rilevata «una nota vibrante
di polisemicità che rende lo svolgersi degli eventi una trama avvin-
cente»6, la presenza costante di un piano più profondo che non
sempre è stato colto e debitamente valutato.
Un’affermazione della scrittrice, «non dobbiamo rimanere an-
corati alla descrizione, poiché non scriviamo per scrivere, ma per
cambiare descrivendo»7, assurta a manifesto della sua poetica, che
alla scrittura attribuisce la capacità di cambiare gli uomini e la
realtà, ma che allo stesso tempo rivendica per lo scrittore la libertà
della rielaborazione creativa, trova più completa formulazione in

4 Non è questa la sede per una disamina più approfondita, sia del complesso rap-
porto della scrittrice con il comunismo e con l’establishment della DDR, sia della sua li-
mitata “fortuna” italiana. Questo saggio si inserisce in una più ampia ricerca sull’opera
della scrittrice. Per la critica occidentale del dopoguerra, cfr. Chr. Degemann, Anna Se-
ghers in der westdeutschen Literaturkritik 1946 bis 1983, Köln, Pahl-Rugenstein, 1985.
5 Cfr. H. Mayer, Der Turm von Babel, cit., p. 202.
6 Cit. in A. Schrade, Anna Seghers, Stuttgart-Weimar, Metzler, 1993, p. 2.
7 A. Seghers, Kleiner Bericht aus meiner Werkstatt, in Id., Gesammelte Werke in
Einzelausgaben, Berlin-Weimar, Aufbau, 1977-1980, vol. XIII, Aufsätze, Ansprachen,
Essays 1927-1953, pp. 32-33.
I colori delle fiabe 259

un’altra frase ormai famosa: «due erano le linee: raccontare quello


che mi appassiona oggi, e la ricchezza di colori delle fiabe. Io avrei
voluto unire le due cose e non sapevo come»8. La sua opera si de-
finisce come un intreccio magistrale di realtà e fantasia, dove la
tragicità degli eventi descritti si accompagna all’incanto della paro-
la poetica, alle suggestioni delle leggende, delle fiabe e del mito e
la lotta per un mondo più giusto attraverso gli orrori della storia
non perde la magia della narrazione: la scrittrice militante rimane
un’affascinante Sherazade della letteratura tedesca9. «Attualità e
fiaba; realtà terrena e immaginazione “non terrena”, compiti poli-
tici, collegati alle idee, elaborati razionalmente e associazioni poe-
tiche meravigliosamente irrazionali»10, il continuo intreccio dei
due piani, caratterizzano la sua opera secondo un realismo irri-
nunciabile per uno scrittore marxista ma da intendersi, come vie-
ne affermato nel carteggio con Lukács, una delle punte più alte del
dibattito sul realismo che divideva gli intellettuali marxisti negli
anni Trenta11, non come cruda rappresentazione della realtà, pri-
vata di magia. Come lei stessa dimostra «solo un grandissimo arti-
sta può rendere interamente consapevole un nuovo pezzo di
realtà; altri si limitano a vedere questo pezzo di realtà e non riesco-
no, o riescono solo dopo molte difficoltà, a renderlo
consapevole»12. “La ricchezza di colori delle fiabe” non costituisce
soltanto un’efficace metafora, ma rappresenta anche un elemento

8 Riportata da Christa Wolf nel suo saggio Glauben an Irdisches, postfazione a A.

Seghers, Glauben an Irdisches. Essays aus vier Jahrzehnten, Leipzig, Reclam, 1969, pp.
180-212 (trad. it. B. Bianchi, in A. Seghers, La gita delle ragazze morte e altri racconti,
Milano, La Tartaruga, 1981, p. 170). Come ha indicato Christiane Zehl-Romero in An-
na Seghers. Eine Biographie 1900-1947, Berlin, Aufbau Verlag, 2000, p. 98 e n. 20 p.
453, la formulazione si trova in una lettera all’amico W. Stehinski, Anna Seghers Ar-
chiv. E. Haas nel suo Ideologie und Mythos. Studien zur Erzahlstruktur und Sprache im
Werk von Anna Seghers’, Stuttgart, Akademischer Verlag, 1975, p. 207 riprende diretta-
mente la citazione da T. Motylowa, Anna Seghers, Mosca, Gos. Isd. Chudoshestwennoj
literatury, 1953, p. 26 con una traduzione dal russo lievemente diversa nella forma, ma
sostanzialmente uguale.
9 H. Schubert, Scheherasade Radványi, in «Neue Deutsche Literatur», n. 11,

1980, pp. 111-113.


10 Erregung von heute und die Märchenfarben, in L. Kopelew, Verwandt und ver-

fremdet. Essays zur Literatur der Bundesrepublik und der DDR, Frankfurt a.M., S. Fi-
scher, 1976, p. 46.
11 Cfr. G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi, 1964.
12 Ivi, p. 351.
260 Lo sguardo reciproco

fondamentale della sua raffigurazione realistica e, allo stesso tem-


po, magicamente trasfigurata della realtà. I colori, lungi dal costi-
tuire un puro elemento decorativo, diventano costitutivi della pro-
sa, assumono carattere simbolico, esprimono emozioni, suggeri-
scono stati d’animo, creano atmosfere, segnano la dimensione “al-
tra” della scrittura.
Possiamo seguire la metamorfosi dei colori e della luce, nonché
delle suggestioni pittoriche, attraverso l’opera della scrittrice in al-
cuni momenti nodali: dalle grigie dissolvenze e dal contrasto netto
tra bianco, nero e macchie di colore vivo dei primi racconti, La fa-
miglia Ziegler (1927-28) e La rivolta di pescatori di Santa Barbara
(1928), – colori della disperazione che si contrappongono a quelli
della speranza13 –, nel romanzo La settima croce (1942) e nel bel-
lissimo La gita delle ragazze morte (1942-43) si passa a un diverso
uso dello spazio e del colore che diventa elemento centrale nei
successivi Crisanta (1950) e Il vero azzurro (1967). Ma, pur con le
loro differenze, colori e raffigurazioni figurative si collegano sem-
pre alla dimensione mitica – intendendo per mito non un relitto
del passato o la fuga regressiva, bensì la trama vitale dell’esistenza
e la garanzia di eterno mutamento – che nelle sue opere migliori
s’intreccia, arricchendolo, con quel particolare realismo frutto di
esperienza e di autentico amore per l’umanità.

Arte figurativa e cinema

È innegabile una forte dimensione visiva nell’opera di Anna Se-


ghers, tanto da indurre ad affermare che i suoi racconti e romanzi
possono essere spesso letti “con gli occhi”, in quanto anche i pen-
sieri astratti vengono resi molto spesso con descrizioni realistiche,
il linguaggio è sempre ricco di immagini. Sono state inoltre rilevate
le «sorprendenti affinità tra lo stile della scrittura ed alcuni aspetti
formali e compositivi di opere dell’arte figurativa»14. Le scene so-
no costruite in veri e propri tableaux «descritti fin nei più minuti

13 Cfr. M. Cangemi, Simbologie cromatiche e influssi pittorici nelle prime opere di

Anna Seghers, Tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Scienze della
Formazione, A.A. 1996-97.
14 S. Hilzinger, Anna Seghers, Stuttgart, Philipp Reclam jun., 2000, p. 44.
I colori delle fiabe 261

dettagli»15 dove le figure sono disposte secondo un gusto squisita-


mente pittorico e gli oggetti assumono una funzione soggettiva,
vengono antropomorfizzati, presentando un’inquietante vita pro-
pria, fino a dominare ed opprimere gli esseri umani:
Dai buchi tondi e sbilenchi tutti gli indumenti le facevano le boccac-
ce. Così l’avevano sopraffatta e costretta a strofinarli fino a farli tornare
bianchi, fino a quando le dolevano le mani e si sentiva debole per tutto il
corpo16.
O, partecipi della loro disperazione, assumono sentimenti e
paure dei protagonisti:
Qualcosa di inesorabile aveva spremuto con tutta la sua forza l’ultima
goccia di speranza da quella stanza crepuscolare, mobili e vasi e stelle al-
l’uncinetto erano intristiti e appassiti come scorze rinsecchite17.
La descrizione della quotidianità piccolo-borghese in tale forma
straniata assume dimensione da incubo.
È stato detto che le descrizioni sono «simili nella loro limpida
semplicità più a xilografie che a dipinti»18, ma in realtà entrambe
le forme, come vedremo, sono presenti spesso in contemporaneità.
Abbiamo vere e proprie riprese statiche: «Nella finestra erano infi-
lati un pezzo di cielo, tetti e il muro del cortile»19. Fino al gioco
della mise en abyme: «Accanto a loro, su una parete azzurra, erano
dipinte le montagne, le nuvole e un fiume»20.
I colori s’inseriscono in descrizioni dello spazio, organizzato in
sequenze visive che sembrano riconducibili a quadri soprattutto di
Rembrandt, cui, come vedremo, la studentessa di storia dell’arte
dedica la sua tesi di dottorato, ma anche ad opere espressioniste
nella loro particolare utilizzazione del colore, al segno netto della
xilografia ed al tratto essenziale della litografia di Käthe Kollwitz,
ai colori squillanti dei murales messicani.

15 A. Seghers, Der letzte Mann der Höhle. Erzählungen 1924-1933, con una postfa-

zione di S. Hilzinger, Berlin, Aufbau Taschenbuch Verlag, 1994, p. 221.


16 A. Seghers, Die Ziegler, In Id., Auf dem Wege zur amerikanischen Botschaft und

andere Erzählungen, Berlin, Kiepenheuer, 1930 (trad. it. di V. Ruberl Rovelli, La fami-
glia Ziegler, in Id., La gita delle ragazze morte e altri racconti, cit., p. 19).
17 Ivi, p. 38.
18 S. Hilzinger, Anna Seghers, cit., p. 80.
19 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p.44).
20 Ivi, p. 46.
262 Lo sguardo reciproco

La rivolta dei pescatori di Santa Barbara evoca immediatamente


alla memoria le opere della Kollwitz, che sembrano fare da con-
trappunto e illustrazione del testo. Il racconto fa pensare senz’altro
«a un disegno a carboncino o ad un’incisione in linoleum»21, per il
chiaroscuro degli interni, le descrizioni scarne ed immediate, l’u-
niformità del paesaggio. Nelle due artiste si riscontra la stessa pre-
senza inesorabile della fame che cancella ogni femminilità: «Questa
più giovane era di una magrezza pressoché eccezionale»22. Uguale
attenzione viene rivolta da entrambe ai derelitti, ai bambini affa-
mati, la medesima coralità proletaria appare nelle loro opere, ana-
loghe le immagini di madri dolenti e disperate:
Venne la moglie di Kedennek; era gravida, ma così magra che il ventre
le stava in fuori come un nodo da una radice secca. Anche la moglie di
Kedennek una volta aveva legato nella cuffia qualcosa di meglio di un
mento aguzzo e un paio di zigomi, e non era passato molto tempo da
quando anche lei aveva avuto fianchi e petto23.

La «typical narrative strategy of focalization»24 della scrittrice,


il concentrare l’attenzione dallo sfondo di grandi eventi storici ai
loro effetti sulla vita quotidiana della gente comune, ha un suo
preciso corrispettivo nella strutturazione “visiva” delle descrizioni
che riprende le tecniche del linguaggio cinematografico. Insieme
all’effetto ‘zoom’ di evidenziazione di piccoli oggetti che concen-
trano il senso di un’intera situazione diventando vere e proprie
«metafore visive»25, o di singoli elementi del paesaggio, altrimenti
deserto, in cui spicca un unico elemento – un albero, una casa –
che s’imprime nella memoria, Anna Seghers fa ampio uso di campi

21 L. Kopelew, Verwandt und verfremdet, cit., p. 43.


22 A. Seghers, Grubetsch, in Id., Der letzte Mann der Höhle. cit., p. 13.
23 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, Weimar, Kiepenheuer, 1947

(trad. it. di A. Bovero, La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, Torino, Einaudi, 1976,
p. 121).
24 E. Bourke, “Post ins Gelobte Land” – a Vindication, in «German Monitor» n.

43, Anna Seghers in Perspective, a cura di I. Wallace, Amsterdam-Atlanta, Rodopi,


1998, p. 140.
25 K. Sauer, Anna Seghers, München, Beck, 1978, p. 65. Anche a questo riguardo

risultano divergenti le opinioni di G. Lukács che accusa il cinema di mancanza di sfon-


do e di prospettiva, limitandosi ad una dimensione puramente esteriore. Cfr. la tradu-
zione italiana del suo Gedanken zu einer Ästhetik des Kinos, in A. Barbera, R. Turigliat-
to (a cura di), Leggere il cinema, Milano, Mondadori, 1978, p. 28.
I colori delle fiabe 263

lunghi e primi piani, utilizza con maestria la tecnica del montaggio


e della simultaneità, comune ai romanzi urbani come Berlin
Alexanderplatz di Döblin e Manhattan Transfer di Dos Passos, a
loro volta più o meno direttamente ispirati dalle tecniche cinema-
tografiche. La narrazione possiede un’evidente «sequenzialità fil-
mica»26, procede spesso per singoli fotogrammi, con uso frequente
della soggettiva27. L’immobilità compositiva dei quadri con imma-
gini fissate e l’uso personalissimo del colore si combina felicemen-
te con la dinamicità dell’arte cinematografica, il rigore della Neue
Sachlichkeit, la nuova oggettività, si alterna alla sperimentazione
delle avanguardie artistiche in una scrittura originale e personalis-
sima che fa delle prime opere di Anna Seghers alcuni tra gli esiti
più significativi dell’eterogenea e vitale cultura di Weimar.
La contrapposizione finale tra i rivoltosi, simili ad un fiume in
piena, e i soldati a piè fermo in La rivolta dei pescatori di Santa
Barbara, per il ritmo convulso del montaggio con veloce cambio di
prospettiva ed il contrasto stridente tra bianco nero, ricorda ine-
quivocabilmente la potenza narrativa della Corazzata Potëmkin di
Ejzenstejn28:
I pescatori proseguirono. Forse per un attimo ebbero in mente qual-
cosa di così assolutamente insensato, che non potevano neppure capirlo;
fors’anche avevano soltanto voglia di andare di nuovo in truppa …
Quando giunsero alla conca, incontrarono i soldati di Kedel. S’era fatto
buio, nella conca era notte fonda. Dapprima gli uni videro solo una mas-
sa scura, e in mezzo alcuni indefinibili punti bianchi: pescatori. A una
conveniente distanza di alcuni metri, non un passo di più, non un passo
di meno, i due gruppi si fermarono l’uno di fronte all’altro. I soldati s’ac-
corsero che tra i pescatori c’erano anche donne: le cuffie bianche … pas-
sò la notte, cominciò ad albeggiare. I pescatori non andarono avanti e
non tornarono indietro. Stavan lì, fermi. Davanti ai soldati la linea scintil-
lante non era più così dritta; i punti bianchi fra i pescatori vacillavano un
poco. Essi rimanevano inflessibilmente fermi gli uni di fronte agli altri,
ma tutti erano esausti29.

26 P. Beicken, Das Siebte Kreuz, in Interpretationen. Romane des 20. Jahrhunderts,

Stuttgart, Philipp Reclam, 1996, vol. I, p. 341.


27 Cfr. C. Zehl-Romero, Anna Seghers. Eine Biographie, cit., p. 265.
28 Per l’influsso del regista sovietico sulle prime opere della scrittrice cfr. C. Zehl-

Romero, Anna Seghers. Mit Selbstzegnissen und Bilddokumenten, Reinbek bei Ham-
burg, Rowohlt, 1993, p. 21.
29 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. pp. 113-114).
264 Lo sguardo reciproco

Si fronteggiano oscurità e luccichio, probabilmente delle armi,


linea invalicabile del potere e massa indistinta, ormai compatta,
dei rivoltosi in cui si scorgono i punti bianchi delle cuffie femmini-
li. Spicca fra tutte Caterina Nehr, che, nonostante le privazioni e lo
sfinimento che hanno illividito il suo volto e fatto impallidire la
striscia chiara dei capelli, sembra mantenere una luce interiore che
rimane come scintilla di speranza, nonostante l’inevitabile falli-
mento della rivolta.
Il montaggio di intrecci diversi per dare una visione complessi-
va della società, come in La settima croce (1932) con l’uso di un
«montaggio della discontinuità»30 o le scene convulse di simulta-
neità con il rapido passaggio da un personaggio all’altro nel corso
di una manifestazione in favore di Sacco e Vanzetti in Verso l’am-
basciata americana (1930), l’alternarsi di monologhi interiori, in
realtà racconti retrospettivi più vicini ai flash-back, alternati con
voci fuori campo, risentono del taglio squisitamente cinematogra-
fico che non si è limitato all’uso delle tecniche. Come altri autori
contemporanei Anna Seghers è affascinata ed influenzata dal cine-
ma e, come Brecht, tenta, ma senza successo, di scrivere sceneggia-
ture per l’industria hollywoodiana e si cimenta anche in altre for-
me mediatiche come il radiodramma31, abbandonando l’immagine
per la forza esclusiva della parola, ma molte delle sue opere avran-
no un’edizione cinematografica32, prima fra tutte La settima croce,
che, con la regia di Fred Zinnemann e protagonista Spencer Tracy,
ottenne un grande successo e contribuì notevolmente alla fama in-
ternazionale della scrittrice e alla sensibilizzazione di vasti ambiti
dell’opinione pubblica per la causa antifascista.
Nel racconto La famiglia Ziegler il mondo senza speranza della
piccola borghesia è spesso descritto in immagini statiche, pura-
mente visive, senza dialoghi, eppure di grande efficacia a metà tra
i quadri di genere ed il film muto, anzi il cinema compare anche

30 C. Zehl-Romero, Anna Seghers, cit., p. 265.


31 Cfr. R. Calabrese, Voci e linguaggi nel radiodramma “Il processo di Giovanna
D’Arco, a Rouen nel 1431” di Anna Seghers, in H. Dorowin, R. Svandrlik, U. Treder (a
cura di), Il mito nel teatro tedesco. Studi in onore di Maria Fancelli, Perugia, Morlacchi
Editore, 2004, pp. 275-290.
32 Per la bibliografia sulle trasposizioni cinematografiche delle opere di A. Seghers

cfr. S. Hilzinger, Anna Seghers, cit., pp. 193-194 e il sito internet http://us.imdb.com/
Name?seghers,+Anna/ (2006).
I colori delle fiabe 265

come elemento di consolazione per la protagonista, fabbrica di so-


gni per chi non ha più vie d’uscita. Le immagini sullo schermo
consentono una fuga momentanea dalla realtà opprimente:
Non aveva mai immaginato che ci potessero essere simili voragini. Ep-
pure il suo cuore sentiva al tempo stesso il desiderio che fossero ancora
più profonde e quei cavalieri che galoppavano uno dopo l’altro sopra
ponti e fossati non si raggiungessero mai … Un sole che rendeva il cuore
leggero, splendeva sull’erba folta, sulla solitaria casetta bianca33.
La disperazione finale appare come rinuncia ad ogni gioia, pri-
ma fra tutte, il cinema:
Non avrebbe mai più visto in un cinema le immagini di un abisso e di
un bosco e di un cavaliere. Si mise a piangere, ma, non abituata al pianto,
le lacrime venivano dure e dolorose34.
In Crisanta la protagonista vedrà anticipata in un melodramma
cinematografico la propria vicenda di madre sola costretta a pri-
varsi del suo bambino35.

Rembrandt
L’arte figurativa ha un’importanza fondamentale per l’opera se-
ghersiana; è una componente di quell’Originaleindruck, l’impres-
sione originaria, di stampo goethiano36 ricevuta nei primi anni di
Magonza. Il padre, Isidor Reiling, è proprietario con il fratello del-
l’azienda di famiglia, il più antico e rinomato negozio di antiqua-
riato della città, con vasta clientela estesa anche al di fuori della
Germania. Contrariamente a quanto finora si è creduto non è cu-
ratore del tesoro del duomo, ma membro della commissione di
esperti preposta alla sua conservazione37, comunque sembra detta-

33 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. pp. 37-38).


34 Ivi, pp. 47-48.
35 Si tratta verosimilmente del film Las Abandonadas con Dolores Del Río, celebre

attrice messicana cui A. Seghers ha dedicato un saggio, rimasto inedito. Cfr. O. Díaz
Pérez, Dolores Del Río und Crisanta. Notizen über Dolores Del Río von Anna Seghers, in
«Argonautenschiff», 12 (2003), pp. 262.
36 A. Seghers, Volk und Schriftsteller, in Id., Gesammelte Werke in Einzelausgaben,

cit., vol. XIII, p. 120.


37 Esattamente «Mitglied der Beratungskommission für die Erhaltung des Mainzer

Doms». Cfr. C. Zehl-Romero, Anna Seghers. Eine Biographie, cit., p. 21.


266 Lo sguardo reciproco

ta dall’attività familiare, in cui nei disegni paterni doveva subentra-


re, la scelta degli studi universitari. Netty Reiling – questo il suo
vero nome – studia storia dell’arte e sinologia all’università di Hei-
delberg, svolge un anno di pratica presso il museo di arte orientale
di Colonia e conclude i suoi studi nel novembre 1924 con una dis-
sertazione su Ebreo ed ebraismo nell’opera di Rembrandt38, di
grande importanza per il nostro discorso per molteplici ragioni.
Intanto l’argomento rivela l’intreccio di diversi interessi: il legame
con l’ebraismo, che contrariamente a quanto la critica ha sostenu-
to a lungo, non sarà mai negato, ma anzi assume una complessa
configurazione con tracce evidenti nelle opere39, si coniuga con
l’arte olandese di cui il padre era esperto riconosciuto ed infine si
manifesta chiaramente l’amore per i diseredati.
La dissertazione in storia dell’arte diventa uno studio storico-
sociologico sulla condizione ebraica nell’Amsterdam del diciasset-
tesimo secolo. Esaminando diacronicamente la rappresentazione
degli ebrei attraverso l’intera produzione di Rembrandt, vengono
distinte diverse fasi, dimostrando come, contrariamente all’opinio-
ne corrente, da una visione dell’ebreo esotico ed immaginario,
«immagine ideale addobbata in modo fantastico»40 ovvero «una
figura vetero-testamentaria»41, il pittore sia giunto ad una rappre-
sentazione realistica attraverso il contatto personale. Quelli a lui
vicini inizialmente sono sefarditi, «esponenti di una splendida cul-
tura pressoché secolarizzata»42 discendenti degli ebrei espulsi dal-
la Spagna e dal Portogallo alla fine del XV secolo, pienamente in-
seriti nella prospera e colta borghesia olandese. È con l’arrivo mas-
siccio di ebrei orientali, tedeschi e polacchi, negli anni ’40 del Sei-
cento che l’artista viene a contatto con una realtà diversa, con
ebrei religiosi, poveri, autentici, veri e propri Ghettojuden, com-
pletamente diversi dai suoi concittadini ormai assimilati:

38 N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, Leipzig,

Reclam Verlag, 1990.


39 Sull’argomento mi permetto di rimandare a R. Calabrese, «Mio amato popolo

ebraico…». Ebraismo, ebrei orientali e occidentali nell’opera di Anna Seghers, in G. Mas-


sino e G. Schiavoni (a cura), Stella errante. Percorsi dell’ebraismo fra Est e Ovest, Bolo-
gna, Il Mulino, 2000, pp. 283-300.
40 N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 14.
41 Ivi, p. 54.
42 Ivi, p. 15.
I colori delle fiabe 267

Cenciosi e dimessi erano nullatenenti, cambiavalute, ambulanti e rigat-


tieri che in tal modo contribuivano ad animare l’immagine della città. Era-
no disprezzati dai sefarditi in quanto proletari e, a loro volta, disprezzava-
no i sefarditi, che apparivano ai loro occhi come mezzi-ebrei ignoranti43.

Proprio l’attenzione verso questi aschkenaziti e la loro raffigu-


razione farà di Rembrandt «il vero pittore degli ebrei»44, valoriz-
zandone quella dimensione dolente, «che può essere descritta co-
me passività, speranza, afflizione e capacità di soffrire»45 e sembra
suscitare anche la partecipazione della giovane studiosa, anche se
la sua simpatia ha già un netto orientamento di classe, come è evi-
dente nella definizione di «proletari».
Lì si può distinguere un primo periodo, in cui il pittore parte
dall’idealizzazione e da un’idea romantica di Judentum: «Qui l’e-
breo viene rappresentato secondo l’idea del tempo, secondo quel
concetto di un ebraismo romantico che specialmente per il giova-
ne Rembrandt è occasione per dipingere la magnificenza e la so-
lennità del sacerdote nei suoi gioielli e nel suo turbante e, allo stes-
so tempo, di stupire con una bizzarra e appariscente conformazio-
ne del viso»46. Segue quindi il passaggio ad una rappresentazione
più realistica con la conoscenza degli ebrei orientali. In realtà, ini-
zialmente egli utilizza questi modelli per rappresentare Gesù,
«non immergendosi nell’ebraismo dipinge l’ebreo, ma l’ebreo in
carne ed ossa entrando nell’opera di Rembrandt serve all’artista
come possibilità per realizzare in immagine i suoi temi cristiani»47.
Come esempio l’autrice porta due dipinti di epoche diverse rap-
presentanti lo stesso soggetto – il re Saul – mostrandone le diffe-
renze, segno del modificarsi dell’idea rembrandtiana. Lo splendore
delle vesti, il fulgore delle gemme, il candore della barba imponen-
te del primo si accompagnano, segnando uno stridente contrasto,
con il corpo piegato dalla sofferenza del secondo (figg. 1, 2).
Nell’ultima fase del suo sviluppo artistico, descritta nel capito-
lo La raffigurazione dell’ebreo ideale nel quadro biblico, il pittore,
unendo idealismo e realtà, è riuscito a dipingere l’autentica figura

43 Ivi, pp. 24-25.


44 Ivi, p. 26.
45 Ivi, p. 17.
46 Ivi, p. 30.
47 Ivi, p. 48.
268 Lo sguardo reciproco

Fig. 1. Rembrandt, David suona


l’arpa davanti a Saul, 1630.

Fig. 2. Rembrandt, David suona


l’arpa davanti a Saul, 1657.

dell’ebreo, «a rendere visibile essenza e concetto dell’ebraismo at-


traverso la sua intuizione artistica»48. Scene quotidiane e dimen-
sione biblica si identificano ma talvolta si va oltre la realtà e l’im-
magine dell’ebreo appare come «potenziamento di quella
reale»49.
È da rilevare come del risultato – visi dipinti come se nessuno
l’avesse mai fatto prima – vengano sottolineate originalità ed auto-
nomia dell’artista che affascinano la giovane e che del suo percor-

48 K. Batt, Anna Seghers. Versuch über Entwicklung und Werke, Leipzig, Reclam,

1973, p. 26.
49 N. Reiling, (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 41.
I colori delle fiabe 269

so successivo saranno elemento caratteristico. Secondo la giovane


studiosa Rembrandt giunge alla sua rappresentazione degli ebrei
«non attraverso le concezioni dell’ebreo del suo tempo, quanto
nonostante queste»50 e ciò le appare «l’aspetto più importante e
sorprendente». Elementi che trovano sviluppo successivo e che si
ritrovano un quindicennio dopo nel fondamentale carteggio con
Lukács. Nel suo discorso sul realismo l’ormai famosa scrittrice
Anna Seghers, esponente di spicco del fronte intellettuale antifa-
scista, definisce le due fasi della creazione artistica con riferimento
a Tolstoj, ma non sono certo dimenticate le riflessioni sul pittore
olandese, che del resto viene espressamente citato come uno degli
artisti che hanno fissato la realtà del proprio tempo «per tutti i
tempi e per tutte le società»51.
Traendo spunto dai diari dello scrittore russo, come è noto, An-
na Seghers distingue due stadi: il primo, in cui l’artista accoglie in
sé la realtà «in modo apparentemente inconscio e immediato»52,
come se fosse la prima volta e nessuno l’avesse mai fatto prima,
mentre nel secondo si tratta di rendere nuovamente consapevole
questo inconsapevole. Il vero artista è colui che presenta, rende
consapevole, un nuovo pezzo di realtà, fondendo l’immediatezza
dell’esperienza in sintesi poetica con la propria intuizione artistica.
Proprio quel mettere insieme quanto appassiona dell’oggi ed il co-
lore delle fiabe della famosa formulazione.
La peculiarità della rappresentazione rembrandtiana, analizzata
con precisione – attenzione per gli umiliati ed offesi e descrizione
della miseria con commossa partecipazione – può essere riferita a
tanti personaggi della scrittrice:
In realtà egli non presenta figure sofferenti, quanto colpite da un’im-
provvisa o insolita sventura. Utilizza volti in cui dolore o gioia guizzano
improvvisamente ed in cui allora l’artista fissa il momento dell’agitazione,
ma non lo stato dell’anima sofferente53.

I protagonisti, specialmente nei primi racconti, come ha sottoli-


neato Christa Wolf nella sua introduzione, sono personaggi colpiti

50 Ivi, p. 58.
51 G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, cit., p. 385.
52 Ivi, p. 380.
53 N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 33.
270 Lo sguardo reciproco

da “improvvisa sventura”, che assume un’inaspettata connotazione


coloristica:
Nei primi lavori di Anna Seghers la sventura insolita ha un peso note-
vole per quei personaggi per i quali la felicità era un evento al di là della
loro portata. In Grubetsch, il suo primo racconto di una certa lunghezza,
pubblicato nel 1926, Anna si chiede: “Cos’è questa, una disgrazia? È come
il cortile laggiù e la stanza là dietro? O vi sono anche altre sventure, sven-
ture rosse, ardenti, sfavillanti? Oh, potessi averne anch’io una così!”54.
L’amore per il prossimo porta a rappresentare situazioni di de-
grado che non diventa disperazione, dove sempre è presente la
possibilità del riscatto, brilla la scintilla, è proprio il caso di dirlo,
della speranza55. Una delle scene più suggestive di La settima croce
si svolge nel Duomo di Magonza e l’alternanza di luce consolatoria
ed ombra minacciosa sembra già annunciare il successo della fuga
per Georg Heisler, evaso dal campo di concentramento con altri
sei compagni:
Attraverso la navata centrale si rifletteva la luce di un vetro di finestra,
che forse era illuminato da una lampada entro una casa dall’altra parte
della piazza del duomo o dal fanale di una carrozza: enorme tappeto ri-
bollente d’ogni colore, disteso nel buio, notte per notte, inutilmente e per
nessuno, sopra le lastre del duomo deserto, giacché ospiti come Georg
potevano capitare lì dentro una volta ogni mille anni56.
La dissertazione acquista un significato di svolta decisiva, segna
il passaggio di Netty Reiling dal mondo ovattato della buona bor-
ghesia ebraica di Magonza e dall’influenza familiare alla scelta di
vita definitiva suggellata dal nuovo nome, Anna Seghers, ponte tra
le due parti diverse ma sempre legate della sua vita, tratto da
Herkules Seghers, un artista contemporaneo di Rembrandt. Anco-
ra una volta arte figurativa e letteratura s’intrecciano, nel gioco tra
le due dimensioni si costruisce l’identità poetica. Nel dicembre del
1924 appare nella «Frankfurter Zeitung» il racconto I morti dell’i-
54 Ivi, p. 10.
55 Un concetto, questo, ribadito ripetutamente. Cfr. tra l’altro A. Seghers, Selb-
stanzeige, in Id., Aufsätze, Ansprachen, Essays 1927-1953, cit., p. 7: «Quando si scrive,
si deve scrivere in modo tale che dietro la disperazione si scorga la possibilità e dietro la
sconfitta la via di uscita».
56 A. Seghers, Das siebte Kreuz. Roman aus Hitlerdeutschland, Mèxico, El Libro li-

bre, 1942 (trad. it. di E. Vicol, La settima croce, Milano, Mondadori, 1958, p. 66).
I colori delle fiabe 271

sola di Djal. Una saga olandese ripresa da Antje Seghers. In un col-


loquio del 1970 così la scrittrice racconta la scelta del nome d’arte
in collegamento a questo suo primo racconto:
L’ho scritto in prima persona, come se questo capitano fosse mio non-
no. Dovevo pur dargli un nome. Cercando un nome olandese m’imbattei
in Seghers, un grafico dell’epoca di Rembrandt; probabilmente mi rimase
in mente l’assonanza. Poi dovevo in qualche modo firmare la storia ed al-
lora mi venne in mente che come nipote del vecchio dovevo chiamarmi
pure Seghers…57.

Un brano, questo, di grande interesse, dove la consueta tenden-


za a celare gli elementi autobiografici sembra accentuata dalla gran-
de distanza temporale. Intanto, se ad uno scherzo della memoria
può essere attribuito l’errore sul narratore del racconto, in realtà in
terza e non in prima persona, Seghers nel racconto non è il capita-
no, bensì il parroco, come appare nella lapide della sua tomba. Ri-
mane aperta ad ogni congettura l’affermazione di pura casualità
nella scelta del nome. Senz’altro può avere avuto un ruolo l’amore
per l’Olanda, meta di diverse vacanze, nonché la conoscenza per
ambiente familiare e per studio degli artisti olandesi dell’età di
Rembrandt, ma tale scelta si carica per noi inevitabilmente di altri
elementi. Herkules Seghers58 s’inserisce in quella schiera di artisti
misconosciuti e disperati come Büchner, Hölderlin, Günderode,
Kleist, Lenz citati nel carteggio con Lukács, perdenti, cui talvolta la
storia ha dato giustizia e che, nel caso della Günderode e di Herku-
les Seghers, la scrittrice strappa dall’oblio e riconsegna alla memo-
ria. Che poi nelle nebbie del passato sia celata anche un’ancora più
sconosciuta omonima Anna Seghers, miniaturista, vissuta e morta
prima del 1566 ad Anversa59, è elemento per ulteriori riflessioni.

57 C. Wolf, Lesen und Schreiben, Darmstadt-Neuwied, Luchterhand, 1980, p. 144.


58 Nel corso dei suoi studi a Heidelberg Netty Reiling aveva seguito i seminari del-
lo storico dell’arte Wilhelm Fraenger, autore del volume Die Radierungen des Hercules
Seghers. Ein physiognomischer Versuch, Erlenbach-Zürich, Rentsch, 1922.
59 In M. Hübel, Mein Schreibtisch: Schriftstellerinnen aus drei Jahrhunderten. Spu-

rensuche in Mainz, Mainz, Edition Erasmus, 1994, pp. 108-109 si legge che tra i molti
pittori di nome Seghers, un’intera famiglia, dell’epoca di Rembrandt c’era «una Anna
Seghers, vissuta intorno al 1550 e la cui biografia è sconosciuta. Nella sua epoca fu
un’attiva miniaturista». Sono riuscita a trovare ulteriori notizie in Descrittione di tutti i
Paesi Bassi, altrimenti detti Germania inferiore. Con più carte di geographia del paese et
col ritratto naturale di più terre principali di L. Guicciardini, Anversa, presso G. Silvio,
272 Lo sguardo reciproco

È quasi superfluo sottolineare come il cambio del nome assuma


un profondo significato. Per Netty Reiling sancisce l’abbandono
della dimensione borghese e provinciale d’origine e la costruzione
di un’identità poetica, che finisce quasi con il sostituire quella rea-
le. Una tematica, questa del cambio di nome e della ricerca d’iden-
tità, che compare ripetutamente nell’opera della scrittrice e che
sembra assumere particolare rilievo in collegamento alla letteratu-
ra ed all’origine ebraica. Nell’unico racconto che ha per tema la
questione ebraica, Posta per la Terra Promessa, l’abbandono del
nome Jakob a favore del più francese Jacques segna per il protago-
nista l’avvenuta assimilazione, o per meglio dire, la laicizzazione
dei valori della tradizione ebraica, in Transito una serie di equivoci
e di eventi hanno origine dallo pseudonimo di uno scrittore, con
chiari riferimenti personali. Tra tutti i nomi delle sue diverse iden-
tità – Netty Reiling, Netty Radványi, Anna Seghers ed altri usati
durante il nazismo – nel suo racconto più autobiografico, La gita
delle ragazze morte, il primo, quello di famiglia, sembra possedere
la sua più intima essenza con la capacità magica di farla tornare
«sana, giovane, allegra»60 e di evocare il passato.

Luce, ombra, colori


«Senza dubbio il mezzo proprio di Rembrandt è sempre la lu-
ce»61, affermava la giovane scrittrice nella sua dissertazione. Come
nei quadri del grande pittore, anche nelle opere narrative di lei la
luce è una presenza di grande forza evocativa che crea effetti sug-
gestivi di chiaroscuro, sottili splendori, atmosfere fantastiche, mi-
steriosi chiarori in cui sono immersi i personaggi. Egualmente irra-
diandosi da un punto inonda il quadro e anima volti e oggetti che
si stagliano dal fondo scuro. Il gioco della luminescenza crea effet-
ti di grande efficacia, disegna atmosfere trasfigurate e insieme sca-

1567, p. 99, dove insieme ad altre due «nella pittura donne eccellenti» viene citata «An-
na figliola di maestro Segher già nominato, fisico eccellente, nativo di Breda, e cittadino
d’Anversa: la qual’Anna molto virtuosa e divota seruando anch’essa virginità, finì poco
fa i giorni suoi».
60 A. Seghers, Der Ausflug der toten Mädchen, in Id., Der Ausflug der toten Mäd-

chen und andere Erzählungen, New York, Aurora, 1946 (trad. it. p. 82).
61 N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 43.
I colori delle fiabe 273

va nella psicologia dei personaggi. Nella sua introduzione alla dis-


sertazione, Christa Wolf afferma: «nei romanzi e nei racconti di
Anna Seghers domina spesso una luce alla Rembrandt, che mette
in risalto singole figure, gruppi o oggetti dal loro ambiente immer-
so nella semioscurità»62 e cita l’inizio di Grubetsch che costituisce
un esempio della scrittura “pittorica” di Anna Seghers. La luce
fioca della lanterna che illumina «la pozzanghera, nel selciato di-
velto, una pantofola gettata via e un mucchio di mele marce»63, in
una scena senza personaggi, introduce visivamente un ambiente di
miseria e di abbandono.
Nei primi racconti è molto presente il gioco di luci ed ombra:
lo sfondo grigio dell’ambiente viene rischiarato da un improvviso
raggio luminoso o un colpo di colore attira l’attenzione del letto-
re, mettendo in evidenza i dettagli secondo una precisa tecnica
rembrandtiana:
In soggiorno, sul divano sotto lo specchio, era seduta sua sorella Anna
con un giovanotto, il fidanzato. Anna portava una camicetta bianca stira-
ta di fresco e una cintura stretta. Era una bella ragazza. Il suo compagno
le teneva la mano e passava il pollice sul palmo, gli occhi di lei brillavano.
La piega sulla gamba accavallata del giovane correva con una linea preci-
sa attraverso la stanza vuota, quasi buia64.

In questo caso il gioco è duplice, due sono i punti di luce: uno


che contrastando con la semioscurità della stanza mette improvvi-
samente in risalto i dettagli, e la luminosità emessa dalla ragazza
bella e felice, a marcare la contrapposizione, come vedremo, con
la sorella.
Il contrasto tra luce ed ombra avviene anche sul piano metafori-
co nell’ambito della stessa frase, accentuando dissonanze e conflit-
ti: «Qui è così bello e scuro, proseguì Anna con voce chiara»65.
Questi racconti sono circonfusi di nebbia che sfuma i contorni
e illanguidisce i colori e crea l’atmosfera spettrale di I morti dell’i-
sola di Djal, che ricorda L’isola dei morti di Böcklin, e, insieme alla
pioggia incessante di La famiglia Ziegler e specialmente di La rivol-

62 Ivi, pp. 10-11.


63 A. Seghers, Grubetsch, cit. (trad. it. p. 13).
64 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 13).
65 Ivi, p. 77.
274 Lo sguardo reciproco

ta dei pescatori di Santa Barbara, traccia un’atmosfera di desolazio-


ne, con brevissimi attimi di requie in un quadro dai colori smorza-
ti e dalla lieve luminosità:
La nebbia era svanita, il cortile invernale era lucido e levigato come
uno specchio in cui si rifletteva il quadrato di cielo tra i tetti. Era lucido e
levigato ed egualmente provvisto di una piccola luce solitaria come la lan-
terna di Munk66.

La famiglia Ziegler
I racconti Grubetsch e La famiglia Ziegler hanno come punto
centrale della loro ambientazione il cortile di uno squallido caser-
mone. La tavolozza livida dei colori usati rende evidente la miseria
del proletariato urbano, mentre il primo racconto presenta un per-
sonaggio di rivoluzionario velleitario e anarcoide, tipico di questa
prima fase, l’altro descrive, secondo la definizione della stessa au-
trice, «il crollo della piccola borghesia»67 attraverso la famiglia
Ziegler, proprietaria di un maglificio artigianale strozzato dalla cri-
si, che, ormai alla fame, cerca disperatamente di mantenere le for-
me di un decoro ormai insostenibile, vittima della solitudine e del-
la mancanza di solidarietà: «si vive accanto, non insieme, ciascuno
è solo con la propria pena interiore»68. Povertà ed illusioni, e tutta
la rappresentazione dell’ambiente appaiono plasticamente nel gio-
co simbolico tra luce ed ombra, nei contrasti cromatici, come ap-
pare nella scena iniziale che introduce il personaggio principale, la
giovane Marie, con la cui morte si conclude la triste vicenda degli
Ziegler:
In un pomeriggio d’autunno che sembrava soffocare più che ravvivare
le luci della cittadina, Marie si trovò sul pianerottolo davanti alla porta
appena richiusa nella Betzelgasse. Teneva in mano il denaro ricevuto per
il lavoro a maglia che aveva appena consegnato. Chiuse la mano con forza
e scese di un piano. Era quasi buio. I globi d’ottone illuminavano la rin-
ghiera, i vetri rossi e azzurri della finestra, incandescenti quando era sali-

66 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 33).
67 A. Seghers, Briefe an Leser, Berlin-Weimar, Aufbau, 1970, p. 8.
68 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, Berlin, Rütten & Loening,

1975, p. 46.
I colori delle fiabe 275

ta, adesso erano opachi […]. Si guardò intorno; le sfere di ottone adesso
erano sottili mezzelune. Esitava, sembrava aspettare qualcosa. Il cuore le
si stringeva, per la paura o per l’ansia. Chinò la testa e attese. Ma non ac-
cadde nulla […]. Premette il viso sull’unico vetro chiaro tra i molti colo-
rati. Tra le case attigue c’era un cortile: contro il muro erano ammucchiati
alcuni sacchi, una lanterna, un carretto; un operaio aspettava il compagno
che armeggiava nella giacca. Guardò giù, fino a quando egli ebbe infilato
le braccia nelle maniche, poi uscì in strada69.

La scena si apre nella Betzelgasse, una strada elegante, ben di-


versa dal quartiere popolare dove abitano gli Ziegler. Marie vi si re-
ca per consegnare i lavori a maglia e ricevere nuove ordinazioni,
che si fanno sempre più rare. È un pomeriggio autunnale, fosco e
cupo, che inghiotte le luci della città. Viene descritto il sopraggiun-
gere della sera che progressivamente oscura i globi di ottone, ini-
zialmente sfere illuminate, per trasformarsi impercettibilmente in
opache mezzelune, prima di svanire completamente, mentre le ve-
trate ardenti perdono a poco a poco i loro colori e si confondono
nell’oscurità. Come la luce del giorno anche la speranza di Marie si
va sempre più affievolendo. Solo fuggevolmente, nel soggiorno di
una famiglia nella Betzelgasse, ritrova la Gemütlichkeit, l’intimità e
il calore, ormai perduti nella sua casa, rappresentati da un cerchio
di luce in cui la ragazza viene ammessa per un breve istante:
Era caldo, si sentiva odore di caffè, un orologio ticchettava. Un ragaz-
zino con gli occhiali alzò gli occhi da un libro illustrato. Qualcuno le ri-
volse parole gentili e le offrì una sedia. Lei si accostò al tavolo senza se-
dersi. Per un attimo fu inclusa nel cerchio luminoso della lampada. Si fe-
ce chiaro in lei, chiari i suoi desideri, le sue preoccupazioni, le sue ansie70.

La luce esterna, in cui si ritrova per un breve istante, si riflette


immediatamente dentro di lei, mettendo a nudo ansie e timori, co-
minciando a rivelarle la sua condizione, di cui prende pienamente
coscienza in una scena successiva. La stessa donna le offre simboli-
camente delle mele “lustre”, che rappresentano i colori della vita
da cui Marie, nonostante il suo più profondo desiderio, si va allon-
tanando inesorabilmente:

69 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 7).


70 Ivi, p. 17.
276 Lo sguardo reciproco

La donna gentile le offrì delle mele, come qualche settimana prima le


aveva offerto dei biscotti. Solo che nel frattempo le mani di Marie si era-
no fatte pesanti, un biscotto magari avrebbe ancora potuto prenderlo.
Delle mele, meravigliosamente lustre, gialle, era impossibile71.

L’esclusione dal cerchio luminoso della vita è descritta visiva-


mente: «la donna alta e scura non era sua madre, il ragazzo con gli
occhiali non era suo fratello; doveva andarsene perché quella luce
non le apparteneva». Più volte nel racconto la luce viene associata
alla sicurezza, al calore ed all’intimità e nella contrapposizione con
gli esclusi, al di fuori del cerchio luminoso, appare inequivocabil-
mente la devastante crisi economica che stritola le classi medie
nell’impotente rabbia del padre:
Lanciava accuse contro chi aveva distrutto la sua vita, l’aveva defrau-
dato dei suoi averi. Li copriva di insulti e maledizioni. Avrebbe frantuma-
to con un sasso le loro finestre, di quelli che se ne stavano al sicuro nella
luce mentre la gente come noi va in malora72.

La situazione senza via di uscita di Marie, la sua soffocante im-


mobilità si rivelano nell’atemporalità in cui è immerso il racconto.
Come se il tempo non fosse passato, ritroviamo il ragazzino «sedu-
to davanti all’album, che non sembrava ancora sfogliato del tutto
dall’ultima volta». Tutto appare desolatamente uguale, immerso
nel grigiore, spezzato da brevi irruzioni del colore. Se la luminosità
ed il gioco del chiaroscuro si richiamano, da una parte, alla strut-
turazione dei quadri rembrandtiani ed alle xilografie della Neue
Sachlichkeit, i colori violenti ed esplosivi sembrano rivelare l’origi-
ne espressionista, in quanto «ogni macchia di colore, ogni mem-
bro del verso è un urlo, una sferzata, uno scoppio; la realtà intera
sembra presa da un folle dinamismo spasmodico»73. Sono colori
irreali, di forte carica simbolica che finiscono con l’assumere una
vita propria al di fuori della tela:
Ora essi diventano “valeurs”, non nel senso impressionistico di colori
complementari, ma valori per sé stanti, in quanto sono assurdamente di-
versi da quello che nella realtà dovrebbero essere e creano quindi una

71 Ivi, p. 30.
72 Ivi, p. 20.
73 L. Mittner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1965, pp. 28-29.
I colori delle fiabe 277

nuova realtà che è assurda nell’insieme non meno che nei particolari, per-
ché non accetta la legge dei colori reali74.

In questi racconti, con una precisa valenza politica, dominano i


colori smorzati della disperazione, specialmente il grigio, che con la
loro uniformità e monotonia denunciano situazioni di miseria e de-
solazione. Come vedremo in La famiglia Ziegler i colori rappresen-
tano “il colore delle fiabe”, l’evasione fantastica, ma anche la nota
positiva, e, più esplicitamente, in La rivolta dei pescatori di Santa
Barbara la fiducia nella vittoria finale della rivoluzione dopo la
sconfitta, poiché «l’urlo di orrore davanti a una realtà sinistra, è il
grido di speranza perché l’approssimarsi della fine non può che av-
vicinare il momento della rinascita»75. Il contrasto tra realtà e sogno
di un mondo migliore presenta la più efficace formulazione all’ini-
zio del racconto La famiglia Ziegler, nella policromia delle vetrate, le
cui tinte cominciano a “sfaldarsi” agli occhi appannati di Marie,
che, attraverso un vetro bianco, scorgerà una scena quotidiana di
operai al lavoro mentre si accende un lampione. Desiderio di tra-
sformare la propria vita, sogno, evasione fantastica saranno per Ma-
rie sempre coloratissimi, mentre la realtà è spoglia di ogni tonalità
viva, le vetrate policrome «rappresentano la fuga in sogni fantastici
… lo sguardo attraverso il vetro incolore significa lo sguardo sulla
realtà»76. Le tinte dei vetri sono caratterizzate dal ricorrere del ver-
bo “glühen”, ardere, a indicarne l’intensità vitale: le finestre sprigio-
nano «scintille rosse e verdi»77 come se qualcuno «avesse attizzato i
colori rossi e azzurri fino a farli scintillare e risplendere»78.
Il grigio, come colore dominante o come polvere che si posa su-
gli altri colori uniformandoli nella tetraggine della realtà dei perso-
naggi, vessati da una sorte ostile senza scampo, esemplifica la defi-
nizione di Kandinsky: «Il grigio è silenzioso e immobile …Il grigio
è l’immobilità senza speranza. Più diventa scuro, più si accentua la
desolazione e cresce il suo senso di soffocamento»79. Le pennellate

74 Ivi, p. 39.
75 P. Chiarini, L’espressionismo tedesco, Bari, Laterza, 1985, p. 161.
76 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 21.
77 A. Seghers, La famiglia Ziegler, cit., p. 30.
78 Ivi, p. 40.
79 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, München, Piper, 1912 (trad. it. di

E. Pontiggia, Lo spirituale nell’arte, Milano, SE, 1989, p. 67).


278 Lo sguardo reciproco

di rosso non fanno che accentuarne per contrasto la desolazione,


così come il cortile tetro e opprimente si contrappone alla lumino-
sa e colorata Betzelgasse:
Nel laboratorio la polvere aderiva alle pareti come lanugine chiara,
Marie non aveva neppure cominciato che tutto sembrò morto e grigio.
Sul muro c’erano rosse macchie di sole, Marie vi si afferrava come se
avesse voluto inghiottirle, stringerle in fondo, dove tutto era buio e
vuoto80.
In basso, c’erano le finestre del laboratorio, grigie, morte – già dimen-
ticate. Dal cielo, abbassandosi, una cascata rossa scendeva sul davanzale,
sulle braccia di Marie81.
Pur se nella dialettica di classe la dimensione piccolo-borghese
appare senza possibilità di riscatto, la sua disperazione viene pre-
sentata con umana partecipazione. Proprio l’assenza di colore, la
desolazione del grigio, rappresenta una realtà senza possibilità di
riscatto a cui si contrappone la polarità del rosso in diverse signifi-
cazioni. I colori inutilmente brillanti dei gomitoli di lana non servi-
ranno a ridare lavoro e dignità alla famiglia. Pennellate di colore
fanno risaltare il grigio e ne interrompono la fredda uniformità,
danno calore e breve sollievo alla desolazione. Il rosso entra nella
casa degli Ziegler ad accentuare la loro disperazione, “arde” fug-
gevolmente illuminando la tristezza della stanza in cui lavora Ma-
rie: «il rosso colore scoppiettante della stufetta di ferro dava alle-
gria alle cose buttate alla rinfusa»82.
Ma è all’esterno della casa che la pienezza ed il fulgore dei colori
della vetrata alludono ad un mondo altro, più felice, da cui Marie si
allontana, incapace di vincere la debolezza che l’avvolge e la paraliz-
za sempre più. Progressivamente le tinte si fanno più intense, il
mondo felice dei colori diventa sempre più irraggiungibile, più forte
e irrealizzabile il desiderio di un’altra vita. La disperazione del padre
e il suo tentativo, sempre più patetico, di mantenere le apparenze
vengono fuori poco prima della morte in una sarabanda di colori ar-
denti, fiammeggianti, violentissimi che sfuggono dalla tela come nei
quadri espressionisti e colpiscono profondamente il lettore:

80 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 12).


81 Ivi, p. 15.
82 Ivi, p. 22.
I colori delle fiabe 279

La luce del sole non bastava a riempire del tutto il cortile […]. Girava
la testa da tutte le parti per far capire ai curiosi il motivo per cui stava nel
cortile vuoto. D’un tratto si mise a battere furiosamente i piedi sul selcia-
to, e allora si fece chiaro dentro di lui, l’infelicità sgorgò dal suo cuore in
colori audaci, luminosi. Inondarono il cortile, lo fecero fiammeggiare e
ardere, in uno strano, disperato splendore. Poi tutto finì. I colori divini,
audaci e fiammeggianti, si spensero intorno a lui e il cortile fu grigio e
freddo83.
I colori diventano protagonisti della scena e indicano simbolica-
mente «ciò che potrebbe rendere Ziegler un uomo diverso: l’af-
francamento dal timore schiavizzante di contravvenire ai pregiudi-
zi della sua classe, la ribellione contro il suo destino»84. Una con-
notazione ancora più precisa di ribellione impotente che si espri-
me nel più tipico – e colorato – grido espressionista appare nella
fuga del fratello di Marie dagli uomini venuti a prenderlo per con-
durlo al riformatorio:
A questo punto il ragazzo si divincolò, con un salto uscì nel cortile
dalla porta secondaria, gli uomini gli corsero dietro […] le grida conti-
nuavano, come se lo bruciassero o lo mordessero. Mai più, si sarebbero
udite grida così terribili in quel cortile […] i rossi zigzag delle grida ave-
vano inciso cicatrici nel cortile85.
Ai colori è affidata anche un’indicazione politica che rimane an-
cora vaga allusione. Il rosso appare nei berretti di due ragazze, com-
pagne di scuola di Marie, ormai avviate ad una vita serena e spen-
sierata. La scintilla della speranza e della possibilità di cambiamento
è cromaticamente presentata dalla giovane dal berretto rosso: ap-
partiene ad un mondo ormai distante da quello degli Ziegler e rap-
presenta la possibilità di evasione, la personificazione dei desideri,
la dimensione indispensabile della fiaba e del mito, che ormai Ma-
rie, distrutta da una società ingiusta, non è più in grado di accoglie-
re. Sarà proprio lei – alta, bella come una dea con gli occhi luminosi
e la faccia bianca e rossa, quasi un’apparizione – a lanciarle un mes-
saggio di salvezza: «Marie, volevo dirti, perché non vieni con noi,
siamo sempre tante tutte insieme, vieni una volta con noi»86. Un in-

83 Ivi, p. 34.
84 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 49.
85 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 34).
86 Ivi, p. 31.
280 Lo sguardo reciproco

vito enigmatico (ancora di più nell’originale tedesco perché «wir


sind immer viele zusammen» potrebbe benissimo essere anche una
forma maschile e quindi far pensare alla possibilità di unirsi alla lot-
ta proletaria)87. Ma ormai Marie (e la sua classe con lei) sembra pa-
ralizzata e svuotata di ogni capacità di scelta e possibilità di riscatto.
Nonostante l’attrazione per la giovane, bella, sana, vitale, non ha
più la forza di seguire il suo richiamo:
Lasciò la sua mano, lentamente, lentamente; così come si sprofonda in
una palude, una forza terribile, sconosciuta e violenta trascinava via Ma-
rie, lontano da quella ragazza: le loro mani si tenevano ancora, adesso le
punte delle dita, adesso gli occhi, era ancora più forte di quanto fosse la
ragazza, trascinava Marie giù per la via, verso la piazza88.
Marie morirà, scorgendo da lontano il berretto rosso della sua
amica, di cui cerca di attirare l’attenzione, forse per un tardivo ri-
pensamento, ma ogni articolazione della parola si spegne definiti-
vamente in un grido di estrema, inutile ribellione. Lapidario e di
grande impatto è il finale, senza parole, visivamente significativo,
in cui con abile montaggio si alternano riprese da vari punti di vi-
sta, come il tragico finale di un film:
La ragazza si fermò perplessa. Si guardò intorno stupita da tutti i lati;
la piazza era vuota. Alzò le spalle e proseguì in fretta, senza vedere Marie
che giaceva stesa per terra89.
Il fratello sia pure con «un atto di liberazione individuale»90 si al-
lontana dalla famiglia e in città può incanalare il risentimento in
azione politica. La sua reazione alla fame e all’indigenza sembrereb-
be – come sarà analizzato in dettaglio nel successivo racconto Un
uomo diventa nazista (1942-43) – l’adesione al nascente partito hitle-
riano: «Pensava a città lontane, ai suoi compagni, al suo lavoro, a sfi-
late, assemblee, bandiere, manganelli, fame e piazze nere di gente»91
ovvero, forse un po’ forzatamente, esempio di consapevolezza pro-
letaria, come vitalistica autorealizzazione e fuga dalle ristrettezze92.

87 Cfr. A. Schrade, Anna Seghers, cit., pp. 16-17.


88 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 31).
89 Ivi, p. 53.
90 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 55.
91 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 50).
92 Cfr. K. Batt, Anna Seghers. Versuch über Entwicklung und Werke, cit., p. 35.
I colori delle fiabe 281

L’impegno politico rimane ancora soltanto accennato nelle opere,


senza precisa definizione, come invece succederà in seguito, dopo
l’adesione della scrittrice nel 1928 al partito comunista, l’impegno
intenso nella “Lega degli scrittori proletari” e l’avvento al potere di
Hitler.
Militanti e rivoluzione appaiono ancora avvolti in un’aura so-
gnante, i “rivoluzionari” hanno tracce anarcoidi, più simili agli
“eternisti” che agli attivisti” espressionisti. Marie rappresenta l’a-
spirazione alla realizzazione personale in una società più giusta del
capitalismo che distrugge i deboli senza pietà, ma anche la vanità
di una risposta puramente individuale, come appare chiaramente
nelle seguenti parole: «non c’era salvezza. Non c’era proprio nien-
te. Niente, se non quella forza che si ha dentro, e anche quella da
sola era inutile»93. La condizione piccolo-borghese diventa una
morte civile che assume connotazioni funeree, i cortili di questi
due racconti sono tetri e oscuri, illuminati da una fioca «luce tom-
bale»94, grigie e morte sono le finestre del laboratorio in disarmo
degli Ziegler, mentre, in un racconto successivo, la raggiunta con-
sapevolezza politica si accompagna ad una luce abbagliante:
«Adesso il cielo era pieno di stelle. La luce era completamente
chiara, come filtrata. Ogni granello di sabbia era risucchiato dalla
luce»95.
Diversamente da Marie, con la sua rassegnata disperazione, che
svolge in silenzio le incombenze quotidiane, il fratello ha sviluppa-
to rabbia e aggressività. Riempie prepotentemente lo spazio
(«adesso il locale era pieno e angusto»96), è caratterizzato da ele-
menti animali, («lunghe membra», «bianchi denti cattivi») che ri-
tornano nelle descrizioni come Leitmotive a designare fame e ab-
brutimento. La differenza tra loro è rappresentata da un contrasto
cromatico, dalla contrapposizione tra grigio e giallo:
Adesso la sua faccia unta e gialla faceva capolino fra le gambe del tavolo

93 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 50).


94 A. Seghers, Grubetsch, cit., p. 13. Sul ricorrente e complesso motivo della morte
in tutta l’opera della scrittrice, cfr. F. Albrecht, Zwischen den Grenzpfahlen der Wirkli-
chkeit. Zur Todesproblematik bei Anna Seghers, in «Weimarer Beiträge», vol. 36 n. 1,
(1990), pp. 118-139.
95 A. Seghers, Der letzte Mann der Höhle, cit., p. 130.
96 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 9).
282 Lo sguardo reciproco

[…]. Marie venne avanti, la faccia sotto il tavolo era gialla e cattiva, strana e
violenta; lei aveva paura dei suoi denti, aveva sempre avuto paura di questo
fratello, disse piano: «Su, vieni». Il ragazzo girò la testa verso di lei: e questa
cosa vuole? Noiosi erano il padre e la madre, noioso e tonto il fratellino,
noiosa e stupida Anna, ma Marie era la peggiore, la più grigia di tutti; aveva
voglia di ficcare i denti nelle sue gambe magre come fusi, nelle sue mani
che trafficavano sempre, avrebbe voluto strapparle il cuore con un morso
[…]. Che si potesse avere pietà di qualcosa di così giallo e violento! «Vie-
ni!». Il ragazzo chinò la testa, le gambe di Marie erano così misere e ram-
mendate; venne fuori carponi, si rizzò in piedi e uscì di corsa dalla stanza97.

Nella dimensione puramente soggettiva dei personaggi, Marie


appare la più grigia, rassegnata, passiva, mentre il fratello, che non
perde occasione di dare sfogo alla rabbia ed alla violenza indivi-
duale, le appare segnato dal giallo. Un colore che, assieme alle con-
notazioni positive di allegria e luminosità, possiede anche un carat-
tere ambiguo, è materiale, terragno, manca di profondità, si collega
a rozzezza, ignoranza, aggressività irrazionale. La descrizione di
Kandinsky corrisponde perfettamente al carattere del giovane:
Il giallo è il colore tipico della terra. Non può avere troppa profondità.
Se è raffreddato dal blu acquista, come abbiamo detto, un accento mala-
to. Da un punto di vista psicologico può raffigurare la follia, intesa come
accesso di furore, di irrazionalità cieca, di delirio. Un malato infatti aggre-
disce la gente all’improvviso, getta le cose per terra, disperde inutilmente
le sue energie in tutte le direzioni, fino all’esaurimento. Il giallo si può an-
che paragonare all’estate morente, che dilapida assurdamente le sue ener-
gie nell’incendio delle foglie autunnali, di quelle foglie da cui ormai è
scomparsa la quiete dell’azzurro, che è salito in cielo. Nascono così colori
folli di energia, ma incapaci di profondità98.
Il patetico tentativo di preservare l’apparenza della dignità an-
che nella più cupa miseria, da parte del padre, presenta l’intreccio
di grigio e giallo nel vestito in via di consunzione:
Il delicato tessuto grigio faceva sempre più parte della propria carne.
Cominciò ad osservarlo come si osserva la pelle ammalata, scoprì che non
era composto soltanto da fili neri e grigi, ma che era percorso all’interno
da un sottile filo giallo, sempre il primo a strapparsi99.

97 Ivi, pp. 22-23.


98 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. pp. 62-63).
99 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. pp. 35-36).
I colori delle fiabe 283

Per Marie, ormai spenta ogni forza ed ogni legame con la vita,
tutto è ormai colorato di giallo «una macchia gialla, disciolta, quel-
lo era il sole»100. Nell’assoluta solitudine non c’è aiuto, non c’è
l’angelo salvatore dei quadri ingenui della scuola, c’è la desolazio-
ne del nulla.

La rivolta dei pescatori di Santa Barbara

In La rivolta dei pescatori di Santa Barbara il chiaro impegno po-


litico si accompagna con la descrizione di paesaggi amati, con l’a-
more per il mare101, immagine ricorrente di libertà e salvezza. L’a-
zione – una rivolta destinata al fallimento – si svolge in un’isola in-
definita dai tratti olandesi e bretoni, due paesaggi entrambi amati
dalla scrittrice che vi aveva trascorso felici vacanze nell’infanzia.
Anche l’ambito cronologico rimane incerto per mantenere un ca-
rattere esemplare di atemporalità. I personaggi della comunità di
pescatori rimangono, come è consueto nei dramma espressionisti,
mera astrazione, privati di tratti individuali, conferendo grande in-
cisività alla vicenda narrata. Rimane valido il giudizio di H. H.
Jahnn, nella motivazione del premio Kleist: «Un buon libro dal
linguaggio conciso e chiaro […] in cui l’orientamento politico è
meno forte rispetto alla forza dell’umano. È un processo esisten-
ziale in trasfigurazione quasi metafisica. Questa io la chiamo ar-
te»102, in cui si sottolinea come la simpatia della scrittrice per i di-
seredati, nutrita dall’ideologia, sia sincera e spontanea.
L’isola è flagellata dal vento, sferzata da una pioggia incessante,
avvolta da una nebbia pesante che inghiotte anche il sole. Il vento,
anzi, secondo Mittner, è addirittura il vero protagonista del rac-
conto103. Il piatto paesaggio nordico, tetro, ostile, è costellato di
dune sabbiose e capanne, orlato di scogli perigliosi:

100 Ivi, p. 40.


101 A. Seghers, Brief an Leser, cit., p. 10: «Quando ho scritto la novella La rivolta
dei pescatori di Santa Barbara, l’ho fatto con un profondo attaccamento a tutto quanto
vuol dire mare e pescatori».
102 Citato in H. Mayer, Der Turm von Babel, cit., p. 202.
103 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. 3, tomo 2, Torino, Einaudi, 1971,

p. 1412.
284 Lo sguardo reciproco

Non erano vere dune, ma la costa verso il mare era corrosa in scoglie-
re; verso l’interno, invece, coperta da uno strato di sabbia, su cui, in mac-
chie sparse, cresceva una specie di rigida erba spinosa sempreverde. Ai
due lati si stendeva il paese in lievi ondulazioni104.
Salvo quest’unica nota di colore – l’erba spinosa sempreverde –
l’ambiente è dominato da un grigiore uniforme, dalla livida mono-
tonia della pioggia che, «penetrava nel corpo, rendendolo molle
come un cencio, sì che non ci restava più né sostegno, né fermez-
za, né ostinazione»105 e insieme al vento incessante ha modellato e
indurito il paesaggio e gli uomini silenziosi, avvezzi al lavoro este-
nuante per miseri compensi, subalterni e rassegnati. Tale impoten-
te abbandono ad un destino ingrato è segnato dal grigio, dalla sua
pesantezza plumbea che grava anche nell’aria e sembra paralizzare
in una fissità oppressiva e soffocante, in una tetra infelicità senza
desideri:
Cupi e immobili, plumbei e grevi di pioggia, cielo e terra si fissavano ri-
gidi, come lastre di una gigantesca pressa idraulica. Faceva freddo, non un
freddo acuto, ma lentamente penetrante, che mordeva tutte le cose […]
Dietro la finestra il cielo calava opprimente in greve pioggia sul mare. La
sera scendeva inaspettata, inavvertita, un po’ più grigia del giorno106.

Anche l’aria è spessa e grigia, egualmente grigi i muri e le strade:


Di fronte c’era ancora un pezzo di muro che apparteneva alla casa di
Nehr, tutto di pietrisco grigio … c’era ancora un pezzo di strada, altret-
tanto grigio, con lo stesso pietrisco e, in mezzo, bassi brandelli di cielo107.
Grigia è perfino la sabbia. La pioggia sembra tingere tutta la
realtà, privandola di ogni traccia di vitalità. Cielo e terra, in un’im-
magine capovolta di grande efficacia, sembrano risucchiare il gri-
gio per distribuirlo inesorabilmente in tutta l’isola senza lasciare un
solo sprazzo o una traccia diversi, neanche nelle immagini più
astratte: «il vento era mutato, il cielo era basso e con tutte le sue ra-
dici succhiava il grigio della terra, ricominciando a struggersi e a
gocciolare»108. Senza parole, tutto esprime desolazione e immobi-
104 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 44).
105 Ivi, p. 50.
106 Ivi, pp. 6-7.
107 Ivi, pp. 42-43.
108 Ivi, p. 115.
I colori delle fiabe 285

lità, come per Kandinsky: «Il grigio è silenzioso e immobile … Il


grigio è l’immobilità senza speranza. Più diventa scuro, più si accen-
tua la sua desolazione e cresce il suo senso di soffocamento»109.
Una situazione che sembrerebbe senza via d’uscita ma che può an-
che accennare ad una possibilità, dato che, è sempre il grande pit-
tore, il grigio nella sua tonalità più chiara rivela una trasparenza
che ha in sé un accenno di superamento. Se diventa più chiaro, è
percorso da una possibilità di respiro che racchiude una segreta
speranza, contiene anche una potenzialità di cambiamento che tro-
verà nel racconto un tentativo di realizzazione.
È intanto la fiera annuale ad accendere un forte desiderio di fe-
licità e a scatenare un’esagerata euforia nella comunità di Santa
Barbara, sottolineata dall’irrompere di colori forti, ardenti che fio-
riscono improvvisi come fiori selvatici:
Infine furono spiegate le tende; l’uno sull’altro, sulle liste delle lotterie,
fiorirono rossi e verdi i numeri delle vincite110.
Colori che tornano a rivestire il consueto paesaggio, trasfor-
mandolo, in una dettagliata descrizione più pittorica che letteraria,
d’impronta, stavolta, impressionistica:
Di sera, da un battello di passaggio si potevano vedere le luci scorrere
nel mare in fili verdi e rossi. Ancor prima dell’ingresso nella baia, c’era
qualche goccia di luce nel mare. L’acqua le sminuzzava in chiazze, esse
andavano a galleggiar lontano, forse sul mare aperto, come altri rifiuti di
navi e di villaggi, verso nord o verso sud, chissà dove111.
I colori inconsueti che trasformano fuggevolmente il paesaggio
non fanno che accentuare la misera condizione dei pescatori112,
ma anche rendere manifesto un fino ad allora insospettabile senso
di comunanza e solidarietà che consentirà la rivolta, uno sciopero
durissimo contro la spietata serrata dei padroni, non appena arri-
verà Hull, capo rivoluzionario carismatico, salvatore dai tratti mes-
sianici, capace di catalizzare e organizzare le forze.
109 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. p. 67).
110 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 55).
111 Ivi, p. 56.
112 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 129: «Così come i

colori vividi creano un forte contrasto con il grigio monotono che altrimenti è domi-
nante nella rappresentazione dell’ambiente, il contenuto psicologico rende pienamente
visibile la totale infelicità e miseria della vita dei pescatori».
286 Lo sguardo reciproco

Grande attenzione è stata data dai critici all’inizio del racconto,


un incipit ormai celebre che, annunciando la fine della rivolta,
proclama la fede nella vittoria finale della rivoluzione. Ciò che a
questo punto è da sottolineare, è la dimensione visiva di tale cele-
bre metafora. Come ha affermato Mittner, la piazza «è presentata
alla fine come lo spazio mitico della rivoluzione»113:
La rivolta dei pescatori di Santa Barbara finì con un semplice ritardo
nell’imbarco alle stesse condizioni dei quattro anni precedenti. Si può di-
re che la rivolta vera e propria era già finita, prima che Hull fosse conse-
gnato a Port Sebastian e Andrea, fuggendo, perisse sugli scogli […]. Ma
per gran tempo, quando già i soldati erano stati ritirati e i pescatori erano
in mare, la rivolta rimase ancora sulla piazza del mercato, bianca e deserta
nell’aridità estiva, e pensava silenziosamente ai suoi, che essa aveva gene-
rati, allevati, assistiti e protetti per quello che per loro fu il meglio114.

La piazza presenta l’astrazione metafisica delle geometrie di De


Chirico insieme alle personificazioni espressioniste, sottolineate
dal bianco nell’accezione positiva di Kandinsky:
Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto. In-
teriormente lo sentiamo come un non-suono, molto simile alle pause mu-
sicali che interrompono brevemente lo sviluppo di una frase o di un te-
ma, senza concluderlo definitivamente. È un silenzio che non è morto, ma
è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisa-
mente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio un
nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava così,
nel tempo bianco dell’era glaciale115.

Fin dal suo arrivo, Hull è contrassegnato dal colore bianco, che
rivela un suo profondo legame con l’isola, bianco è il solco traccia-
to dalla nave che si apre e si richiude come la ferita infertagli du-
rante la fuga da Port Sebastian: «Hull seguiva dalla ringhiera il
bianco sfregio che la nave incideva nel mare, che guariva e si ria-
priva, e di nuovo guariva e si riapriva»116. Al ricordo della passata
rivolta, che si collega con quella futura attraverso il bianco, viene
associata una macchia colorata: il fazzoletto giallo di una passegge-
113 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., p. 1413.
114 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 3).
115 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. p. 66).
116 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 4).
I colori delle fiabe 287

ra. La «brutta, secca ragazza»117, suscita il desiderio immediato di


Hull, che sembra poi limitarsi alla voglia di toccarle il seno. Pulsio-
ne erotica, paura della morte, spinta vitale e desiderio di un contat-
to fisico qui rendono immediatamente percepibili le sue contraddi-
zioni, la tipica lacerazione di tanti personaggi espressionisti, la cui
istanza di ribellione non riesce spesso a tradursi in azione politica.
In questa che possiamo considerare la più espressionista delle sue
opere, Anna Seghers presenta le incertezze di Hull, il suo oscillare
tra vitalismo e stanchezza, desiderio di azione ed esitazione paraliz-
zante che verrà alla fine superata dopo lunghe riflessioni e fughe.
La scelta finalmente raggiunta è momento di autentica felicità, rap-
presentato dall’apparire del colore che sembra squarciare l’oppres-
sivo grigiore dell’isola ed investe di vitalità tutta la natura:
Era una gioia tale, che in un batter d’occhio ti riscaldava fino alla pun-
ta delle dita. Si volse. Santa Barbara era solo una sottile striscia bruna –
egli non ci aveva proprio badato, ma ora si accorse, che il pomeriggio
estivo era azzurro, che il sole odorava di mare e il mare di sole118.

Il ricorrente conflitto Eros-Thanatos119 si ripresenta in maniera


più esplicita in un sogno, in cui Marie, la ragazza della nave, appa-
re oniricamente trasfigurata: «il suo magro corpo spremuto dai
pugni dei marinai»120 – che ricorda le spigolose prostitute di Otto
Dix, Ludwig Kirchner e Georg Grosz, vittime del possesso ma-
schile121 – maternamente si addolcisce e si arrotonda mantenendo
il tocco di giallo che la contraddistingue:
Hull si addormentò. Tosto il sonno gli mise accanto al corpo qualcosa
di morbido e caldo. Egli toccò, e si stupì che Maria non fosse per nulla
angolosa e fredda com’egli si era aspettato, ma piuttosto morbida e ton-
da. Poi non era affatto Maria, ma qualcosa di ricciuto e giallo di chissà
dove, lassù122.

Alla tradizione espressionista sembrano riferirsi le scene di mas-


117 Ivi, p. 5.
118 Ivi, p. 140.
119 Cfr. ivi, p. 91: «ma ora la morte gli apparve soltanto come l’impossibilità di dor-

mire ancora con una donna».


120 Ivi, p. 5.
121 Cfr. ivi, p. 11: «dai suoi gomiti appuntiti, da tutti gli angoli e spigoli del suo cor-

po, come dagli spigoli di una pietra battuta, sprizzavano piccole scintille».
122 Ivi, p. 187.
288 Lo sguardo reciproco

sa, dallo «stile quasi allucinante»123 con i pescatori barcollanti per


la fame e decisi a resistere con i fucili, le immagini antropomorfi-
che che conferiscono dimensione mitica al conflitto di classe, le
grida inarticolate che subentrano alle parole:
I pescatori gridavano: – Tre quinti della pesca! – Da principio gridava-
no confusamente, ma poi subentrò un certo ordine […]. La folla crebbe;
la fiera si vuotò. A brevi intervalli regolari, le grida rintronavano contro la
casa chiusa. Ma la casa non rispondeva, e le grida divennero rauche e
confuse. La piazza nereggiava di gente: un brulicar di uomini e donne,
che gridavano confusamente124.

La scena non può che tingersi del rosso delle bandiere rivolu-
zionarie, nonché colore «dilagante e tipicamente caldo, che agisce
nell’interiorità in modo vitalissimo, vivace e irrequieto. Senza ave-
re la superficialità del giallo, che si disperde in tutte le direzioni,
dimostra un’energia immensa e quasi consapevole»125: «– Avanti!
– Ancora pugni, e frastuono, e vetri infranti, e urla, e – avanti –, e
rosso, e – sempre avanti! E fuoco»126.
Il ritmo convulso della frase presenta con pochi, sapienti ele-
menti la furia cieca e disperata della folla. Violenti contrasti cro-
matici, antropomorfizzazione di elementi inanimati, uso enfatico
di verbi ed aggettivi conferiscono incalzante dinamicità alla scena
dell’incendio che preannuncia plasticamente la sconfitta della ri-
volta con l’ineluttabile vittoria del grigio sul rosso:
Cessarono solo quando furono esausti. Dalle lampade rotte la luce
gocciolò nei mucchi di carta, scorse nei magazzini e rimbalzò dal pavi-
mento all’abbaino. L’aria grigia e monotona succhiò con forza, avida di
tanto rosso127.

Il giallo, una delle poche tinte, come si è visto, che interrompe


l’uniformità plumbea del racconto, rivela le sue ambiguità. Ricorre
nei volti macilenti delle donne ormai prive di ogni femminilità e
dei bambini smagriti ed affamati, caratterizza fin dalla sua appari-

123 L. Mittner, L’espressionismo, cit., p. 126.


124 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 61).
125 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. pp. 67-68).
126 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 77).
127 Ivi, p. 76.
I colori delle fiabe 289

zione, Marie, prostituta per miseria, generosa e pronta a schierarsi


a favore delle richieste dei pescatori. Il fazzoletto giallo è l’unica
cosa che possieda, forse racchiude i sogni irrealizzati di una vita
diversa, ma soprattutto rappresenta la parte più bella e più vera di
lei, quella «scintilla di umanità indistruttibile»128 che secondo la
scrittrice sopravvive ad ogni violenza della storia. Allorché verrà
brutalmente violentata ed uccisa dai soldati continuerà a tenerlo
disperatamente con sé «come una madre il suo bambino»129.
Con qualche pennellata, il giallo appare qua e là nel racconto, a
sottolineare miseria e sconfitta, ma anche contemporaneamente
l’irrinunciabile speranza. Ambigua come è in tedesco la parola
Dämmerung che designa sia il crepuscolo che l’alba, il momento
in cui lo sfumarsi delle tinte può dare luogo allo splendore del
giorno o all’oscurità della notte ed ha in sé fine e principio, della
stessa tonalità è la luce che avvolge Santa Barbara: «Sbarrava il
cielo una gialla, miserabile striscia di luce, ancor del giorno passa-
to o del già veniente»130, delineando una sospensione del tempo,
quell’atemporalità che conferisce a vicende di crudele attualità
l’aura fiabesca del ricorrere eterno del male ma anche dell’inevita-
bilità della sua sconfitta. Solo frammenti di sole strappati da una
mano gigantesca131 aleggiano sull’isola, un mondo disumano in at-
tesa, dove «mare e cielo eran tutti tagliuzzati, c’era odor di sale e il
vento agitava pezze di gialla luce solare sulla piazza del mercato
del paese»132. Se nell’oggi della storia la rivolta è stata soffocata ed
i pescatori tornano al lavoro a condizioni ancora peggiori, rimane
salda la fede «nella immortalità della lotta per la libertà e della ri-
voluzione»133, rimane il bianco delle cuffie delle donne, silenziose
custodi della vita.

128 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers, cit., p. 135. Cfr. il celebre finale di La

settima croce, cit., p. 336: «ma noi sentimmo anche che nell’intimo esiste qualcosa di
inafferrabile e di invulnerabile».
129 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 112).
130 Ivi, p. 114.
131 Cfr. p. 40: «non invano il vento strappava il sole a pezzettini e li soffiava sul ma-

re» e p. 88: «Così leggera e lieta era la forza del vento – come strappava frammenti di
luce dal sole greve e se li spingeva innanzi».
132 Ivi, p. 20.
133 M. Reich-Ranicki, Der erste Absatz der Erzählung “Aufstand der Fischer von St.

Barbara”, cit., p. 6.
290 Lo sguardo reciproco

La settima croce
La suggestiva dimensione cromatica dei primi, felici racconti
che caratterizza in modo così personale la prosa seghersiana, si
spegne quasi completamente dopo il 1933, come risucchiata dagli
eventi tragici. Il mondo appare immerso nell’oscurità come nei
versi di Rose Ausländer: «allora seppellimmo il sole/fu un’eclissi
senza fine»134. Le opere dell’esilio, specialmente la grande produ-
zione dei racconti, perdono la dimensione coloristica per rappre-
sentare in maniera asciutta ed essenziale la condanna del nazismo
ed episodi di resistenza quotidiana. La letteratura diventa priorita-
riamente strumento militante. I colori delle fiabe impallidiscono
dinanzi all’«odore della realtà»135. Il gioco di oggettività e di sog-
gettività si regolarizza nell’asciutta narrazione di una voce fuori
campo, nelle cronache di resistenza e di lotta al nazifascismo in
forma quasi documentaristica. Una traccia espressionista si ritrova
nel finale di Verso l’ambasciata americana con il grido della donna,
schiacciata contro i cancelli, e del suo vicino che risuona irrefrena-
bile in tutto l’edificio. I colori tornano ad una dimensione quoti-
diana, qualche pennellata compare qua e là – il rosso in uno scor-
cio di viso, il bianco e rosa dei castagni fioriti o la tinta tenue dei
lillà in L’ultimo cammino di Koloman Wallisch (1934), ricostruzione
documentaria della vita del capo comunista austriaco, ucciso dai
nazisti, – e sembrano accennare alla continuità della vita ma anche
ad una sottile indifferenza della natura verso le vicende umane136.
La contrapposizione luce-oscurità è costitutiva nel romanzo La
settima croce, come nella narrazione biblica il primo atto della
creazione è proprio la distinzione tra luce e tenebre. Westhofen, il
campo di concentramento, che già nel nome vuole sottolineare
l’occaso, il tramonto137, è avvolto in una dimensione infera, disu-

134 R. Ausländer, Damit kein Licht uns liebe, in Id., Wir pflanzen Zedern, Gedichte

1957-1963, Frankfurt a. M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1993, p. 112.


135 A. Seghers, Auf dem Weg zur amerikanischen Botschaft, in Id., Auf dem Wege

zur amerikanischen Botschaft und andere Erzählungen, cit. (trad. it. p. 57).
136 Questo aspetto avrà una più profonda accentuazione nel brevissimo racconto

Der Baum des Ritters (L’albero del cavaliere), dove un cavaliere in fuga rimane imprigio-
nato nel cavo dell’albero in cui aveva trovato rifugio e che continuerà a crescere per se-
coli, incurante della sua presenza.
137 Significativo il fatto che il nome del campo realmente esistente fosse Osthofen.
I colori delle fiabe 291

mana, contrapposta alla luce solare che avvolge il vicino paese,


conferendogli una dimensione idilliaca. L’autunno, la stagione in
cui inizia l’anno ebraico, appare diametralmente opposto nei due
luoghi, uggioso e cupo nel lager, caldo e ricco di frutti nel paese;
delimitato dall’inferriata nell’uno, libero e godibile nell’altro:
La sentinella delle SA ci volgeva le spalle e senza volerlo guardava fuo-
ri attraverso l’inferriata della finestra, il sottile e grigio gocciolio della
nebbia, improvvisamente divenuto pioggia scrosciante, che si rovesciava
in ondate violente contro la baracca138.
La nebbia s’era alzata. Sul paese si stendeva una luce autunnale dorata
e pungente, che si sarebbe detta placida139.

Si può veramente parlare di una struttura ellittica140 i cui due


fuochi sono «l’infernale lager Westhofen e il paesaggio paradisiaco
del Taunus»141. Non può qui essere approfondita l’analisi, che
esulerebbe dal nostro discorso, della complessa struttura mitica
del testo, in cui la dialettica di «durata e cambiamento», il ripetersi
del sempre nuovo e del sempre uguale, fissa la trama dell’esistenza
umana, che non può ridursi all’appiattimento del qui ed ora, e de-
linea una prospettiva di futuro, in una visione provvidenziale della
storia, con la speranza che il nazismo sia destinato a finire non di-
versamente da tutti gli imperi avvicendatisi nei secoli «come bolle
di sapone iridescenti»142, mentre eterni si succedono i cicli della
natura. Un esempio di uso vitale del mito in un’epoca della sua
mortuaria tecnicizzazione143, come quella nazista.
Ai fini del nostro discorso è, comunque, da sottolineare come
nella descrizione dell’interno del Duomo, dove trova rifugio il fug-
gitivo Heisler, la conoscenza della storica dell’arte si carica della
commozione struggente dell’esule, l’alternarsi di luce ed ombra ri-

138 A. Seghers, Das siebte Kreuz, cit. (trad. it. p. 20).


139 Ivi, p. 34.
140 Cfr. E. Haas, Ideologie und Mythos, cit., p. 40.
141 U. Elsner, Das siebte Kreuz, Oldenbourg Interpretationen, vol. 76, München,

Oldenbourg, 1999, p. 47.


142 A. Seghers, Das siebte Kreuz, cit. (trad. it. p. 11).
143 K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti del colloquio interna-

zionale su «Tecnica e casistica», Roma, Ist. di Studi Filosofici, 1964, pp. 153-168. Egual-
mente per Thomas Mann la cui tetralogia di Giuseppe, scritta nell’esilio americano, è
un tentativo di strappare il mito al fascismo.
292 Lo sguardo reciproco

conduce alla lotta tra il bene e il male. Ed ancora la descrizione


delle scene sacre i «due cacciati dal paradiso […] il Bambino […]
la passione»144 sembrerebbero sottolineare come ebraismo e cri-
stianesimo, al di là di ogni problematica religiosa, facciano parte –
indissolubilmente legati – della cultura tedesca, del sapere comune
del popolo. Egualmente al concetto di Heimat, patria, in una con-
notazione “materna” di legame con le radici, si collega in maniera
vitale, contrapposta al mortuario culto nazista del sangue e del
suolo, l’amore per il paesaggio renano, che per tutta la vita, nono-
stante la distanza, rimarrà per la scrittrice il suo paesaggio.

La gita delle ragazze morte

Nella fuga di Heisler, scorci urbani e soprattutto agresti si alter-


nano, ma in verità i dominanti paesaggi della campagna «rheinhes-
sisch», nel significato di contrapposizione vitale del sempre uguale
all’abisso infernale di Westhofen, rimangono elementi simbolici,
evocati con i nomi reali ed anche fittizi di paesi, accennati più che
descritti con brevi tratti e filtrati dal ricordo, come appare eviden-
te in una descrizione che poi ritorna nel successivo La gita delle ra-
gazze morte pressoché uguale, ma da due diversi punti di vista, una
adulta e maschile e l’altra infantile e circonfusa di leggenda:
Georg guardò al di là del Reno. Oltre la corrente, abbastanza vicino,
su di un isolotto, c’erano tre casupole bianche, una attaccata all’altra, che
si specchiavano nell’acqua. Da queste case, di cui quella di mezzo sem-
brava un mulino, spirava alcunché di fiducioso e di attraente, come se vi
abitasse qualche persona cara145.
Il nostro vaporetto passò accanto alla Petersau, l’isoletta su cui poggia-
va una delle colonne del ponte. Facemmo tutte gesti di saluto alle tre ca-
sette bianche che ci erano familiari fin da bambine come se le conoscessi-
mo da un libro illustrato di racconti di streghe146.

In entrambe le opere – tra le più riuscite della scrittrice – il


Reno assume un ruolo centrale. Consueto simbolo di fuga e di

144 A. Seghers, Das siebte Kreuz, cit. (trad. it. p. 66).


145 Ivi, p. 92.
146 A. Seghers, Der Ausflug der toten Madchen, cit. (trad. it. p. 101).
I colori delle fiabe 293

libertà, nel romanzo è il mezzo della salvezza di Georg in Olan-


da147, nel racconto diventa quasi un personaggio: il fiume germa-
nico per eccellenza, eroico e virile, della mitologia nazista, diventa
il dolce sfondo della vicenda quotidiana, ricondotto a far parte
della vita in una dimensione di pace, così come termini quali po-
polo e patria vengono sottratti alla deformazione nazista e ricon-
quistati all’umano.
Un complesso intreccio di piani temporali – la realtà dell’esilio
messicano, una gita scolastica negli anni precedenti la prima guer-
ra mondiale, la proiezione nel futuro – in questa che è l’opera più
dichiaratamente autobiografica della scrittrice (ed una delle più
commosse metafore della scrittura) sostituisce in gran parte la di-
mensione spaziale. Si ricostruiscono gradualmente le vite di una
quindicina di ragazze: giovani piene di sogni e di speranze che la
prima guerra mondiale ed il nazismo sconvolgeranno inesorabil-
mente. Nessuna si salverà, moriranno tutte, suicide, nei campi di
sterminio, nelle prigioni naziste o sotto i bombardamenti, per eroi-
smo, per viltà, per sacrificio, per tradimento, per caso. A sopravvi-
vere alla tragedia saranno la futura scrittrice, come custode della
memoria, e la figlia di una di loro, come speranza per il futuro.
Pur senza dettagliate descrizioni le ragazze acquistano precise
personalità che destino e scelte diverse contribuiranno ulterior-
mente a differenziare. Sono pochi, ma significativi elementi, che
tracciano schizzi essenziali ma rappresentativi: forma del viso, oc-
chi, pettinature – trecce, crocchie, code, capelli ondulati o ruvidi e
arruffati – che in questo affresco di gruppo distinguono le singole
individualità. La bellezza di Marianne, al di là dei criteri razziali
del nazismo, viene accostata ad un modello eterno, immortalato
dall’arte:
Aveva le trecce biondo-cenere puntate a crocchia sopra le orecchie. Il
suo viso, dal taglio nobile e regolare come i volti delle statue medioevali
del Duomo di Marburg, non esprimeva altro che allegria e grazia148.

147 A. Seghers, Über Kunstwerk und Wirklichkeit, vol. II, Erlebnis und Gestaltung,

a cura di S. Bock, Berlin, Akademie, 1971, p. 324: «Non è un caso che il mio romanzo
La settima croce si svolga nella zona di Magonza, non è un caso che il fuggitivo Georg
Heisler si nasconda una notte nel duomo di Magonza. Non è un caso che la fuga gli rie-
sca con una nave sul Reno».
148 A. Seghers, Der Ausflug der toten Madchen, cit. (trad. it. p. 83).
294 Lo sguardo reciproco

Lontana nel tempo e nello spazio, la gita viene presentata con


un gioco di dissolvenze che coinvolge tutti sensi, raggiungendo la
forza di un’autentica evocazione. La voce narrante, come in nes-
sun’altra opera, s’identifica quasi completamente con l’autrice e si
definisce con un unico tratto fisico: le folte trecce, tagliate nell’o-
spedale di Città del Messico e inspiegabilmente intatte. Fuggita
dall’Europa, lontana come una favola, ha trovato rifugio precario,
come viene espressamente definito, in Messico; è convalescente di
una malattia, come la scrittrice che andava recuperando la memo-
ria dopo un grave incidente automobilistico che aveva fatto pensa-
re a lungo ad un attentato; rivela spossatezza e stanchezza che in-
vece di paralizzarla, come succede alla Marie di La famiglia
Ziegler, la inducono a continuare con maggiore lena la sua missio-
ne di scrittrice militante; si chiama Netty, il suo vero nome, e pre-
senta con lievi modificazioni le sue compagne e maestre di scuola.
La cornice iniziale presenta un paesaggio messicano, uno sfon-
do descritto con distacco se non diffidenza:
Il villaggio faceva pensare a una fortezza, circondato com’era da paliz-
zate di cactus a canne d’organo. Attraverso una fessura potevo spingere
lo sguardo sui pendii montagnosi di un bruno grigiastro, nudi e selvaggi
come montagne lunari, che facevano svanire al solo guardarli ogni sospet-
to di avere mai avuto qualcosa a che fare con la vita. Due alberi di pepe
ardevano sul margine di un dirupo completamente deserto. E anche que-
gli alberi sembravano in fiamme più che in fiore149.
Il paesaggio messicano appare arido, privo di vita, minacciosa-
mente bruciante, sicuramente estraneo, definito in maniera piutto-
sto convenzionale da cactus, alberi del pepe, radici pietrificate, ca-
ni addormentati che ne fanno uno sfondo di contrasto con l’amato
paesaggio renano, che appare dopo una serie di dissolvenze pre-
sentate dal ricorrere di vocaboli, quali nebbia, foschia, polvere, ri-
verbero, fata morgana, miraggio, attraverso l’iniziatico superamen-
to di un cancello. È il senso dell’olfatto ad agire inizialmente, rico-
noscendo l’odore del verde e dell’acqua insieme a quello del caffè,
suscitando il desiderio di «inspirare l’illimitata vastità soleggiata
del paesaggio»150, mescolandosi con il gusto e la vista «ora potevo
sentire l’odore del verde del giardino e, quanto più a lungo lo
149 Ivi, p. 80.
150 Ivi, p. 81.
I colori delle fiabe 295

guardavo, tanto più si faceva fresco e rigoglioso … cespugli sem-


pre più fitti e succosi». Finché è quest’ultima a prendere il soprav-
vento con un effetto di zoom che focalizza i dettagli:
Nuvola, che tuttavia si aprì subito e si rivelò composta da cespugli di
biancospino. Ben presto in mezzo ai vapori che si levavano dalla terra at-
traverso l’erba alta e fitta qualche ranuncolo brillò mentre i vapori si dis-
sipavano fino a farmi distinguere nettamente alcuni denti di leone e fio-
rellini di geranio. In mezzo c’erano anche ciuffi d’erba d’un bruno rosato,
che tremavano al solo guardarli151.
Come estremo contrasto con la scena messicana dai tratti quasi
infernali, a sottolinearne la dimensione vitale, ma anche la trasfigu-
razione del ricordo, il Reno assume tinte lievi, circonfuse di un so-
le benevolo:
Scorreva là davanti, grigio azzurro e luccicante. I paesi e le colline sul-
la sponda opposta si specchiavano con i campi e i boschi in una rete di
anelli di sole152.
La descrizione diventa rivendicazione di appartenenza, di irri-
nunciabile identità nazionale, nonostante e contro il regime che la
esclude e la perseguita in quanto ebrea e comunista, il tempo e la
distanza, in cui i tratti fisici della realtà diventano espressione di
“impressione originaria”, in una struggente dichiarazione d’amore
al paesaggio natio, patria materna come legame irrinunciabile e
non oggetto di possesso e aggressione:
Alla sola vista di quel morbido paesaggio collinare, al posto della ma-
linconia, mi sgorgavano dal sangue serenità e gioia di vivere, come un
certo seme nasce soltanto in un determinato terreno153.
Più volte nella descrizione della gita ritorna il gioco delle pro-
spettive, delle focalizzazioni, dell’avvicinamento ed allontanamen-
to in cui diviene essenziale il ruolo dell’occhio – affaticato, anneb-
biato ma sempre vigile – nel cogliere quel pezzo di realtà che poi
trasfigurato, diventa arte, conoscenza generale e messaggio eterno.
Dopo la gita sul fiume, l’approdo somiglia all’arrivo in una città
fantasma, una sorta di sommersa Vineta della leggenda che riemer-

151 Ivi, p. 82.


152 Ivi, p. 85.
153 Ivi, p. 86.
296 Lo sguardo reciproco

ge dalle nebbie del passato, o meglio, nell’evocazione della scrittu-


ra Magonza acquista eternità incontaminata, indenne dalle ferite
della guerra «non recava né squarci né segni di incendio»154. La
scrittrice fissa per sempre il percorso verso la propria casa nei det-
tagli: attraverso la Rheinstrasse, passa dinanzi alla Christofkirche
miracolosamente indenne, costeggia i negozi in realtà ormai di-
strutti dai bombardamenti, per poi sfociare nella Flachsmarkt-
strasse, vicino al negozio di famiglia, nel formicolio della gente che
torna a casa, poi ecco la Bauhofstrasse da cui può imboccare la via
preferita, orlata di alberi di Giuda che si curvano in un arco di
trionfo, dove il padre, morto dopo l’espropriazione forzata del ne-
gozio nel 1940, si attarda invece a chiacchierare, com’era sua abi-
tudine, fino a giungere a casa dove, in una giovinezza eterna, l’a-
spetta la madre, destinata «alla fine crudele, nello sperduto villag-
gio in cui Hitler l’aveva relegata»155. Come ha ricordato Christa
Wolf, che di Anna Seghers è stata rispettosa amica e sensibile in-
terprete, dalla descrizione di questo percorso «si può imparare che
cosa è la prosa, punto d’incontro tra soggetto e oggetto, precisione
fantastica e rigoroso attaccamento, libertà sconfinata, incantesimo
dei fatti in nuova realtà»156.
Sono due suoni incongrui a riportare alla realtà: il picchiettare
delle mani sulla pasta, battuta per le tortillas invece che stesa con il
matterello per i cibi tedeschi, e il grido dei tacchini. Poi ritorna la
vista, la luce abbagliante del sole che tramonta senza crepuscolo
ma piomba improvvisamente nella notte, la parete di cactus. An-
che in Messico Netty Reiling-Anna Seghers avrebbe continuato a
svolgere «il compito assegnato», fissare nella scrittura il passato
per conferirgli l’eternità della memoria, «render morti i viventi e
vivi i morti»157.

154 Ivi, p. 102.


155 Ivi, p. 106.
156 C. Wolf, Anmerkungen zu Geschichten, in Id., Die Dimension des Autors. Essays

und Aufsätze, Reden und Gespräche 1959-1985, Darmstadt-Neuwied, Luchterhand,


1987, p. 323.
157 A. Seghers, Sonderbare Begegnungen, Berlin, Aufbau-Verlag, 1973 (trad. it. di

M.T. Mandalari, Incontro a Praga, Milano, Guanda, 1983, p. 8).


I colori delle fiabe 297

Crisanta e Il vero azzurro

Una nuova dimensione cromatica riapparirà più tardi, in due


opere ambientate in Messico, Crisanta e Il vero azzurro, dove il co-
lore, e specialmente l’azzurro, diventa nucleo simbolico, segnando
nuovi sviluppi dell’opera seghersiana di grande importanza per la
letteratura della DDR. Mentre in La gita delle ragazze morte, scrit-
ta in Messico, il paesaggio locale con alcuni elementi obbligati,
quasi scenografici, fa da elemento di contrasto per la rievocazione
del paesaggio renano della giovinezza e lo sguardo dalla distanza
oceanica è decisamente rivolto alla situazione tedesca del passato e
del presente, per un tentativo di interpretazione degli eventi e per
definire il compito di memoria e monito dello scrittore impegnato
in tempi tragici, nei due racconti più evidente è l’elaborazione del-
l’esperienza messicana che diventa anche rappresentazione cifrata
della situazione tedesca e forte dichiarazione poetica.
Contrariamente al distacco ed all’estraneità espressi in La gita
delle ragazze morte, Anna Seghers si lega profondamente al paese
che l’ha accolta nel momento più tragico della sua esistenza, fino a
chiedere (ed ottenere) la cittadinanza messicana ed alla fine della
guerra, non senza esitazioni ed un impraticabile progetto di pen-
dolarismo, è il profondo senso di responsabilità, a convincerla al
ritorno in patria ed alla scelta della zona di occupazione sovietica,
poi DDR, dove la sua opera di scrittrice «sarebbe stata ben accolta
e utilizzata nella lotta per una nuova società e per ogni singolo in-
dividuo»158.
Conoscenza del paese ospitante ed ammirazione per la dignità e
la fierezza della sua popolazione, pur nella povertà, appaiono nei
due racconti, in diversi saggi e accenni in varie occasioni, ma so-
prattutto nella nostalgia «per i colori di quel paese […] i colori
nell’aria e nei suoi muri»159. La calda atmosfera tropicale, la sugge-

158 Discorso tenuto al IV Congresso degli scrittori tedeschi nel 1956, in A. Seghers,

Aufsätze, Ansprachen, Essays 1954-1979, cit., p. 83.


159 A. Seghers, Diego Rivera, in Id., Aufsätze, Ansprachen, Essays 1927-1953, cit.,

p. 300. Sull’esperienza messicana della scrittrice cfr. I. Diersen, Erfahrung Mexiko. Die
lateinamerikanische Spur im Schaffen von Anna Seghers, in «Argonautenschiff», 3
(1994), pp. 145-154; F. Pohle, Kriegsexil in Mexiko und mexikanische Stoffe bei Anna
Seghers, in F. Schmidt (a cura di), Wildes Paradies - rote Hölle. Das Bild Mexikos in
Literatur und Film der Moderne, Bielefeld, Aisthesis, 1992, pp. 111-129 e J. Sandoval,
298 Lo sguardo reciproco

stione dei murales, con le precise descrizioni di Diego Rivera, le


tinte brillanti «ardite, quasi selvaggie»160 di José Orozco, le raffi-
gurazioni di Xavier Guerriero e David Alfaro Siqueiros, dall’appa-
rente semplicità dove le «più straordinarie reminiscenze degli af-
freschi delle chiese europee e … dei pittori del primo rinascimen-
to»161 si mescolano con la realtà, che attraggono il popolo inse-
gnando in maniera immediata a gente semplice ed analfabeta la
storia del paese, sovrapponendo in affreschi di grande efficacia
senza preoccupazioni cronologiche gli eventi salienti del passato e
del presente, non possono non colpire la scrittrice e sembrano fare
da sfondo ai racconti che ne assumono apparente semplicità narra-
tiva e vivacità cromatica.
Il blu, un colore carico di significati simbolici per la cultura oc-
cidentale che qui non possiamo certamente analizzare162, è com-
parso chiaramente insieme al rosso dei vetri, così importanti per
delineare la desolazione e desideri della protagonista, in La fami-
glia Ziegler e, indistinto e sfumato, nelle vetrate gotiche del duomo
di Magonza, ma più che la carica dirompente espressionista – basti
pensare al “cavaliere azzurro” di Franz Marc – sembra assumere
una più antica, affascinante ambivalenza. Come afferma Kandin-
sky, il colore del cielo presenta una gamma di significati nelle di-
verse sfumature. Se molto scuro «dà un’idea di quiete»163, quando
«precipita nel nero acquista una nota di tristezza e struggente,
affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine», se

México in Anna Seghers’ Leben und Werk 1940-1947, Berlin, Wissenschaftlicher Verlag,
2001; W. von Bernstorf, Fluchtorte. Die mexikanischen und karibischen Erzählungen
von Anna Seghers, Göttingen, Wallstein Verlag, 2006.
160 A. Seghers, Die gemalte Zeit in Id., Aufsätze, Ansprachen, Essays 1927-1953, cit.,

p. 219.
161 Ivi, p. 219.
162 Sull’argomento esiste comprensibilmente una vasta bibliografia. Mi limiterò a

citare i testi seguenti: A. Overath, Das andere Blau. Zur Poetik einer Farbe in moderner
Kunst, Stuttgart, B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1987; A. Lochmann, A. Ove-
rath, Das blaue Buch. Lesarten einer Farbe, Nördlingen, Greno, 1988; S. Samburski (a
cura di), Il sentimento del colore. L’esperienza cromatica come simbolo, cultura, scienza,
Como, Red Edizioni, 1990; D. Schuth, Die Farbe Blau. Versuch einer Charakteristik,
Münster, LIT, 1995; G. Linder (a cura di), Blau - die himmlische Farbe, Frankfurt a.M.,
Insel, 2001; M. Pastoureau, Bleu. Histoire d’une couleur, Paris, Seuil, 2000 (trad. it. di
F. Ascari, Blu. Storia di un colore, Firenze, Ponte alle Grazie, 2002); A. Valtolina, Blau.
Metamorfosi di un colore nella moderna lirica tedesca, Milano, Bruno Mondadori, 2002.
163 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. p. 63).
I colori delle fiabe 299

invece tende alle sfumature più chiare «diventa indifferente e di-


stante, come un cielo altissimo». Un colore che possiede la massi-
ma ambiguità: la levità del cielo e il livido colore della notte, a
metà tra luce e oscurità che ne fanno il colore del sogno, come vie-
ne esaltato al massimo dal Romanticismo e che nella «blaue Blu-
me», il fiore azzurro di Enrico di Ofterdingen di Novalis, ha la sua
più pregnante rappresentazione.
Con il tono immediato dei cantastorie popolari, citando una se-
rie di illustri personaggi – Hidalgo, Morelos, Juarez – l’attenzione
viene focalizzata su Crisanta, una ragazza povera, orfana, che sem-
bra incarnare nel proprio destino individuale la storia del suo pae-
se. Dal natìo paese di Pachuca viene accompagnata, sedicenne, a
Città del Messico per lavorare nella tortilleria di una parente della
madrina che l’ha allevata. Non possiede nulla Crisanta, se non un
rebozo, il pesante mantello con cui le contadine si avvolgono com-
pletamente, e il ricordo indistinto di una felicità perduta che si tin-
ge di azzurro:
Nei primissimi anni della sua adolescenza aveva avuto l’impressione di
essere stata in un luogo unico al mondo. Là era stata così bene come mai
più in seguito. Come se fosse stata protetta da un suo cielo tutto per sé.
Quando si domandava cosa potesse essere stato, le veniva in mente soltan-
to: azzurro. Un azzurro delicato e forte che non aveva mai più rivisto164.

Il racconto presenta una consueta vita femminile: il lavoro du-


ro, un uomo che, dopo un grande amore, scompare per cercare
fortuna oltre confine, una gravidanza inattesa, un aborto, lavori
sempre più precari compresa l’occasionale prostituzione, finché,
nuovamente incinta, Crisanta ritorna al villaggio. E poi, abbrac-
ciando il bambino piccolissimo nel suo rebozo, ritrova il luogo del-
la perduta felicità infantile, «l’incomparabile, l’incomprensibile
profondo e intenso azzurro»165. La maternità appare come realiz-
zazione che non rimane evento individuale, poiché, dentro al suo
rebozo, Crisanta sente scorrere, forte, la presenza del suo popolo.
Un’immagine ispirata – o comunque perfettamente illustrata – più
che dalle diverse opere con analogo argomento di David Alfaro

164 A. Seghers, Crisanta. Mexikanische Novelle, Leipzig, Insel Verlag, 1951 (trad. it.

di M. Ponzi, G. Pugliese, in Id., Il vero azzurro, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 5).
165 Ivi, p. 30.
300 Lo sguardo reciproco

Fig. 3. D. Alfaro Sequeiros,


La madre contadina, 1929.

Siqueiros, in particolare dal quadro La madre contadina (1929),


dove accanto a due cactus appare, tracciata con tratti decisi da
scultura lignea, una donna india che avvolge il suo bambino nel re-
bozo in un abbraccio amorevole (fig. 3).
Il realismo con cui viene presentata la dura lotta per la conqui-
sta del pane quotidiano è interrotto e suggestivamente potenziato
dal “filo azzurro” che percorre il racconto. L’inesausta nostalgia di
Crisanta, vera inestinguibile Sehnsucht romantica, trova il suo
compimento in una maternità che non diventa isolamento ma si ri-
collega consapevolmente alla collettività e che si colora decisamen-
te di azzurro. Crisanta non solo appare, contrapposta ai grandi
eroi rivoluzionari, come esempio di quella forza dei deboli cui la
scrittrice intitolerà nel 1965 una raccolta di racconti, ma dinanzi
alle innumerevoli e quasi interscambiabili Marie delle opere prece-
denti, acquista una precisa individualità che si colloca in un pano-
rama prettamente femminile. Mentre gli uomini appaiono come fi-
gure di scorcio, irresponsabili e deboli, si rivela tutto un mondo di
donne autorevoli – come Dolores «tronco ben saldo con forti radi-
ci in ogni circostanza della vita»166 –, solidali, che presentano una

166 Ivi, p. 10.


I colori delle fiabe 301

modalità propria di stare al mondo e si riconoscono in una sacra-


lità del materno che si tinge ancora una volta di azzurro. È il colo-
re del manto della Vergine di Guadalupe, di pelle scura e apparsa
a un indio, che sembra più una pagana divinità materna, così come
Madonna trasgressiva e laica appare Crisanta nella scena finale,
madre di un figlio senza padre, immagine di forza primordiale e di
continuità della vita, che diversamente dalla protagonista del
film167 assume completamente la responsabilità della maternità.
In un’infinita narrazione, non nuova per la scrittrice che ama
riprendere gli stessi personaggi in più opere per seguirne gli svi-
luppi successivi, un elemento di scorcio di Crisanta – una famiglia
di vasai che trasporta la sua mercanzia – diventa protagonista nel-
l’altro racconto, Il vero azzurro, che per affinità e contrasti si colle-
ga strettamente al primo. Stessa ambientazione messicana, più
precisi riferimenti storici sullo sfondo e un protagonista maschile
anche se la presenza femminile rimane di grande significato per lo
svolgimento della vicenda, ma soprattutto due momenti diversi: se
il primo nasce nel clima dell’immediato dopoguerra e sembra pre-
sentare il calore del clima e del popolo messicano contro il freddo
che caratterizzava quegli anni, il secondo viene scritto nel 1967,
alla vigilia di un anno di grandi rivolgimenti, diversi ad Est e ad
Ovest, in quanto alla rivolta studentesca occidentale si contrappo-
ne la tragica invasione sovietica di Praga. Inoltre, se si pensa che
nel dicembre 1965 all’undicesimo Plenum del Comitato Centrale
della SED era stato sancito un giro di vite contro gli intellettuali
non dogmatici, il racconto acquista ulteriori significati. L’apparen-
te semplicità della fabula rivela una grande, affascinante com-
plessità.
Il vasaio Benito Guerrero, famoso per «l’azzurro, profondo, ini-
mitabile»168 delle stoviglie che fabbrica, si trova improvvisamente in
difficoltà, allorché, a causa della guerra, s’interrompe il rifornimen-
to della materia prima del suo colore ed allora va alla sua ricerca
con un lungo viaggio, finché non trova la polvere da cui può trarre
personalmente il colore che rende le sue opere straordinarie, senza
dovere più dipendere da altri: «Ho trovato il mio azzurro e me lo

167Cfr. n. 35.
168A. Seghers, Das wirkliche Blau. Eine Geschichte aus Mexiko, Berlin-Weimar,
Aufbau, 1967 (trad. it. di M. Ponzi, G. Pugliese, in Il vero azzurro, cit., p. 31).
302 Lo sguardo reciproco

procuro da solo, quando ne ho bisogno. Una volta per tutte»169.


Il testo in realtà ha una struttura ossimorica, come appare già
dal titolo in cui la forza della realtà si unisce al colore più sognan-
te. Possiamo senz’altro parlare di «fiaba realistica»170 in cui in ma-
niera magistrale si compongono la passione dell’oggi ed il colore
della fiaba. Come ha dimostrato in modo convincente Antonella
Gargano171 applicando le categorie di Propp, troviamo tutte le
funzioni della fiaba popolare, ma altresì evidente, e la critica è
pressoché unanime, è il riferimento a Novalis, al suo Enrico di Of-
terdingen, nei suoi elementi fondamentali: il viaggio e il ritorno, la
miniera e l’immersione nel seno della terra, la funzione premoni-
trice dei sogni, ma il raggiungimento del fiore azzurro del poeta
romantico è qui conquista di un materiale, l’utopia si esplica nella
concretezza dell’azione.
L’apparente realizzazione nel lavoro di matrice marxista, sotto-
lineata dai critici della DDR172, in realtà è esaltazione dell’unicità e
irripetibilità dell’opera d’arte, del percorso individuale di autorea-
lizzazione, sia pure inserito nella comunità del proprio popolo.
Contro il piatto realismo di regime, Anna Seghers riprende con
questo racconto l’antico dialogo con Lukács, difendendo in tempi
duri il valore emancipatorio della fantasia, legittimando il potere
della poesia, facendosi «fondatrice di una tradizione»173, avviando
la riabilitazione del Romanticismo e del fantastico, banditi fino ad
allora nella DDR, secondo i dettami del grande critico marxista.
Nonostante la distanza temporale e fisica dal Messico, in cui
malgrado il desiderio più volte espresso non sarebbe mai più tor-
nata, Anna Seghers mostra nel racconto uno sguardo commosso,

169 Ivi, p. 114.


170 U. Karlavaris-Bremer, Frauen in Anna Seghers’ Erzählung »Das wirkliche Blau«,
in «Argonautenschiff», 5 (1996), p. 205.
171 A. Gargano, Die Morphologie des Wirklichen Blaues. Zu Anna Seghers’ Erzäh-

lung, in «Studi Germanici», N.S., A. XXXIII, 1, (1995), pp. 79-90.


172 Cfr. F. Pohle, Kriegsexil in Mexiko und mexikanische Stoffe bei Anna Seghers,

cit., p. 124.
173 W. Kusche, Die “blaue Blume” und das “wirkliche Blau”, in «Weimarer Beiträ-

ge», 20 (1974), n. 7, p. 78. Sull’importanza della scrittrice per la rivalutazione del Ro-
manticismo e della letteratura fantastica, cfr. R. Calabrese, Il viaggio a Praga di Anna Se-
ghers, in Praga, «Cultura tedesca», n. 15, 2000, pp. 159-170 e A. Horn, Kontroverses
Erbe und Innovation. Die Wovelle Die Reise begegnung von Anna Seghers im literatur-
politischen Kontext der DDR der siebziger Jahre, Frankfurt a.M., Peter Lang, 2005.
I colori delle fiabe 303

attenzione e conoscenza delle condizioni del popolo e della sua


quotidianità e nostalgica rappresentazione del paesaggio, che ac-
quista spessore, assume colori e dettagli. Ai consueti brucianti al-
beri del pepe, alle distese desertiche punteggiate da cactus, che di-
ventano metafora di solitudine rispetto alla comunità degli alberi
nel bosco («ognuno era come un albero in mezzo a un bosco e
non solo come un cactus in una steppa»174), subentra una descri-
zione più articolata e reale: «i prati erano variegati di tutti i colori,
un velo sottile di bouganvillee si stendeva sulle case bianche della
periferia»175. Oltre la dominante metafora cromatica dell’azzurro
che unisce poeticamente il paese americano a quello europeo, la
Germania è presente con riferimenti del testo e come sfondo in fi-
ligrana. Tedesco di origine è il disinvolto fornitore del colore, la
Germania, coinvolta in una guerra sfocata dalla distanza, causa
dello sconvolgimento nell’opera coscienziosa di Benito Guerrero.
Il nome è un omaggio ulteriore al pittore di murales, quell’azzurro
da lui cercato senza cedimenti o compromessi, è prodotto con
procedimenti più vicini all’industria tedesca che non alla tradizio-
ne messicana e maya di tinte vegetali176.
L’ambientazione esotica consente l’ampliamento della gamma
cromatica, che mette in risalto la magica presenza dell’azzurro, la
dimensione preindustriale può delineare la possibilità di nuove
forme economiche, ma soprattutto presenta la critica più profonda
alle prescrizioni dogmatiche, con cui il singolo viene appiattito in
un’anonima generalità, la concretezza in un’insignificante quoti-
dianità, il «miracolo dell’arte»177 guardato con sufficienza, se non
con sospetto. Anche successivamente, probabilmente con sempre
maggiore disillusione, ma non con minore forza, Anna Seghers
continua a ribadire tali convinzioni. Che il fantastico e l’irreale
possono e devono essere strumenti del realismo, che ogni indivi-
dualità deve potersi sviluppare armonicamente collegata alla co-
munità attraverso la solidarietà, che nonostante le difficoltà è irri-
nunciabile la ricerca del blu, vera rivoluzione dell’umano.

174 A. Seghers, Crisanta, cit. (trad. it. p. 9).


175 A. Seghers, Das wirkliche Blau, cit. (trad. it. p. 31).
176 Cfr. F. Pohle, Kriegsexil in Mexiko und mexikanische Stoffe bei Anna Seghers, p.

125 e ss.
177 L. Kopelew, Verwandt und verfremdet, cit., p. 59.
VISIONI IN FORMA DI RACCONTO
NARRAZIONI PER IMMAGINI IN ITALO CALVINO

Valeria Cammarata

L’intera opera di Italo Calvino, dal Barone rampante alle Lezioni


americane, è da sempre stata percepita da lettori e critici come uno
straordinario universo autonomo e coerente di immaginazione e
visualità. Tra castelli e taverne, città invisibili e strani osservatori la
penna di Calvino ha costruito una molteplicità di racconti inqua-
drati su aspetti di una realtà così complessa e sottile che soltanto
una sensibilità come la sua – cerebrale e sensuale al tempo stesso –
è stata capace di percepirne i livelli significativi partendo dalla rie-
laborazione dei dati forniti dal mondo circostante.
Concentrandosi sulla produzione fantastica dell’autore ligure,
rintracciando nei principali romanzi e racconti del genere il per-
corso di un universo immaginario e simbolico, l’indagine critica
ha, generalmente, portato alla luce soltanto alcuni degli aspetti di
un sistema che, nella realtà dei fatti, si dimostra molto più com-
plesso1. Se, infatti, nelle Città invisibili, nel Castello dei destini in-
crociati, in Palomar la riflessione sul visuale si concentra su tre di-
versi ambiti del più ampio sistema – rispettivamente l’immagina-
zione, la figuratività, la relazione tra osservazione e descrizione – è
comunque nella miriade di racconti e di recensioni – che prendo-
no le mosse da eventi concreti come mostre, esposizioni e vernis-
sage – che Calvino realizza la complessa riflessione sull’immagine
e, soprattutto, sul rapporto tra questa e la scrittura.
Proprio dalla relazione tra la sensibilità nei confronti di un
mondo concepito nella sua molteplicità, per quanto geometrica, e
la necessità di applicarvi una griglia di lettura – quanto più possi-
bile coerente – nasce la riflessione di Calvino sulla percezione e
l’elaborazione visuale.
Il mondo in cui noi esseri umani abitiamo, insieme agli altri es-

1 Uno dei primi a interessarsi di questo versante dell’opera di Calvino è stato


Marco Belpoliti in L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996.
306 Lo sguardo reciproco

seri viventi, viene percepito da Calvino come il «pozzo del non


scritto» da cui chi esercita il mestiere di scrittore deve estrarre
continuamente il combustibile per la propria «fabbrica di parole»,
fabbrica dalla quale ci si aspetta la capacità di catturare «le rapide
immagini di quel che succede»2.
L’approccio al visivo nasce, dunque, nell’opera di Calvino dalla
necessità di raccontare; e, a sua volta, la necessità di raccontare na-
sce dalla provocazione delle immagini che, per qualche ragione, si
presentano significative agli occhi dell’autore. Così egli afferma:
«All’origine di ogni mio racconto c’era un’immagine visuale»3.
Questa immagine che ispira la creazione letteraria, così come le
manifestazioni del mondo circostante, appartiene, comunque, ad
uno statuto particolare. Essa non è, infatti, ingenua traccia della
realtà, al contrario fa parte del medesimo «discorso costruito» cui
appartiene la letteratura. Infatti, secondo Calvino, queste immagi-
ni, sono «colonizzate» dalle parole tanto che il nostro stesso senso
della vista «porta con sé una pesante crosta di discorsi»4, e tanto
che l’osservazione si converte in lettura del mondo – scritto e non
scritto – all’interno di un processo che coinvolge contemporanea-
mente occhio e mente5.
Da quanto sin qui detto risulta possibile delineare un primo,
per quanto parziale, carattere della figurazione calviniana, e cioè la
relazione tra immagine e scrittura nell’approccio alla rappresenta-
zione del mondo.
All’interno della questione che attraversa e caratterizza tutta la
cultura occidentale, da Platone, al cristianesimo, da Kant a Scho-

2 I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, in «Lettera internazionale», 16-18


febbraio 1983. Ora in Id., Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol.
II, p. 1877.
3 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano,
Garzanti, 1988. Ora in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 704.
4 I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, cit., p. 1879.
5 Sulla dibattuta questione del ruolo ricoperto nell’elaborazione visiva dal rappor-
to occhio/mente Calvino si esprime chiaramente nella recensione di un libro di Rugge-
ro Pierantoni, L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione, Torino, Boringhieri,
1982: «L’alternativa occhio-cervello continua fino a che il microscopio non dimostra
che la retina e la corteccia visiva sono fatte nello stesso modo: s’apre così la strada che
porterà a capire che la retina è una porzione periferica della corteccia cerebrale. Insom-
ma il cervello comincia dall’occhio. (Quest’ultima frase la dico io e speriamo che sia
giusto)». I. Calvino, Il segreto della luce, in «la Repubblica», 17 luglio 1982. Ora I. Cal-
vino, La luce negli occhi, in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 530.
Visioni in forma di racconto 307

penhauer e Nietzsche, Calvino assume una posizione che è tipica


del suo tempo, post-industriale e post-bellico, in cui letteratura e
arti figurative si trovano più che mai impegnate in una difficile re-
sa della realtà altrettanto frammentata quanto l’individuo. Così
nella visione di Calvino pittori e scrittori dell’avanguardia si trova-
no a fare i conti con il dualismo soggettività-oggettività da una
parte, e con la complessità “labirintica” della realtà dall’altra; gli
uni muovendosi alternativamente tra le linee pure o nervose del-
l’individualità – Calvino si riferisce soprattutto a Mondrian e Kan-
dinskij –, fra rappresentazioni insieme naturali e meccaniche del-
l’esterno – in Pollock e Wols –, fino ad assumere definitivamente
le produzioni della stessa civiltà industriale con un ritrovato valore
estetico – nelle visioni anticipate da Cézanne, poi nell’art noveau,
nel cubismo e nel futurismo –; gli altri ancor più impegnati nel
magma stratificato di realtà in cui autori e lettori devono necessa-
riamente fare i conti con questa complessità pur non abbandonan-
dosi completamente alle sue maglie: così Calvino presenta come
modelli propri della sua visione la «cultura plurima» strumento di
Musil e «l’ottimismo storicista d’avanguardia» con le sue alterne
vicende da Majakovskij a Céline, da Artaud a Henry Miller6.
Risulta chiaro da quanto detto il duplice approccio letterario e
figurativo e, soprattutto, il carattere immaginifico della realtà se-
condo Calvino.
L’immaginazione visiva, infatti, è un elemento fondamentale
lungo tutta la sua riflessione sulla letteratura e la realtà, già a parti-
re dalla cultura cristiana: da Ignacio de Loyola – nei cui scritti si
attua un passaggio dalla parola all’immaginazione per il raggiungi-
mento della comprensione dei significati più profondi – alla Divi-
na Commedia, in cui Dante mette in scena una serie di immagini
che riguardano personaggi, rappresentazioni, ricordi, metafore:
«Dante sta parlando delle visioni che si presentano a lui quasi co-
me proiezioni cinematografiche o ricezioni televisive su uno scher-
mo separato da quella che per lui è la realtà oggettiva del suo viag-
gio ultraterreno»7.
Come per Dante e Sant’Ignazio la questione del primato del-

6 Cfr. I. Calvino, La sfida al labirinto, in «Il Menabò 5», 1962. Ora in Id., Una pie-
tra sopra, Milano, Mondadori, 1995.
7 I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 698.
308 Lo sguardo reciproco

l’immagine visuale e dell’espressione verbale risulta centrale nel-


l’opera di Calvino, certamente influenzata dalle opere di Hofstad-
ter8 e di Starobinski9, e sicuramente rivolta al versante del visuale.
Se, infatti, una volta trasposto il pensiero sul foglio la parola scritta
– quella linea che ripetutamente e in forme e direzioni sempre di-
verse attraversa gli scritti e il mondo di Calvino – si evolve da serva
dell’immagine a padrona assoluta della narrazione, l’origine di
ogni racconto sta sempre, come abbiamo visto, in un’immagine vi-
suale: «dunque nell’ideazione di un racconto la prima cosa che mi
viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si pre-
senta come carica di significato»10.
È allora possibile a questo punto distinguere all’interno di que-
sto complesso di opere e riflessioni due diversi tipi di «processi
immaginativi»: l’uno che dall’immagine visiva conduce all’espres-
sione verbale e l’altro che compie il movimento opposto, per lo
più creando un vortice di significazione in cui diventa difficile di-
scernere l’origine del discorso.
Ecco quindi delineato il sistema visuale-letterario di Calvino: da
un lato le opere in cui la visualità ha costituito il fondamento di un
sistema come riflessione sull’immaginario e lo sguardo – opere
cioè in cui il pretesto immaginativo è nato dalla fantasia dell’auto-
re; quindi opere che partendo da un’immagine hanno prodotto
una narrazione connessa e, talora, riguardante la stessa rappresen-
tazione –; da un altro lato scritti in cui opere fisicamente presenti
allo sguardo di Calvino hanno offerto la “lente” attraverso cui
guardare il mondo visibile, ma anche invisibile; infine quelle che
articolano un preciso discorso descrittivo, potremmo dire ekphra-
stico, sulle immagini storicamente prodotte.

La riflessione sull’immaginario
Nel senso della riflessione fantastica operano i romanzi che
hanno costruito il manifesto generale della narrativa calviniana:
Le città invisibili, con la sua struttura reticolare di racconti che –
8 D. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: An Eternal Golden Braid, New York, Basic

Books, 1979.
9 J. Starobinski, La relation critique, Paris, Gallimard, 2001.
10 I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 704.
Visioni in forma di racconto 309

pur molto generosi nei particolari di luci, colori, linguaggi, sapori


e tradizioni di città – costituiscono una sottile riflessione sulle tra-
me invisibili che reggono il mondo e che gli uomini tentano fatico-
samente di cogliere; Palomar, il vero e proprio romanzo dell’osser-
vazione, perfettamente inquadrato in una struttura che prevede la
successione continua e ripetuta in ogni sezione di capitoli dedicati
alla descrizione (i primi), alla narrazione (i secondi) alla meditazio-
ne (i terzi), e il cui protagonista è fondamentalmente l’incarnazio-
ne dell’osservatore; Il castello dei destini incrociati, in cui parola e
immagine giocano in un esemplare rapporto di mutuo sostegno,
l’una realizzando le storie tracciate dai percorsi dell’altra.
Proprio nel Castello dei destini incrociati troviamo un emblema
del sistema visuale-narrativo che abbiamo prima delineato. Qui,
infatti, più ancora che nei casi precedenti la parola, ispirata dal-
l’immaginazione, trova in immagini culturalmente determinate,
pur se non immediatamente presenti all’autore, la traccia del per-
corso da seguire. Insomma, le carte sul tavolo costituiscono soltan-
to l’inizio di un racconto che si svilupperà attraverso le sale della
personale e immaginaria pinacoteca dell’autore.
In questo romanzo possiamo, infatti, rintracciare uno dei primi
elementi della galleria d’immagini care a Calvino e che ci avvicina-
no a tutta quella parte dell’universo letterario strettamente connes-
sa all’arte figurativa, e alla pittura in particolare. Infatti, ciò che
Calvino realizza, nel capitolo autobiografico del romanzo, si deli-
nea, per sua stessa ammissione, come una piccola «iconologia fan-
tastica» in cui la figura, alter ego dell’autore, si costruisce a partire
da una rilettura dei quadri raffiguranti San Girolamo e San Gior-
gio lungo le pareti degli Schiavoni a Venezia interpretate, quasi fu-
mettisticamente, come un’unica storia.
La particolare costruzione che l’autore attribuisce al racconto
– una storia interamente costruita sulla successione immaginaria
di quadri storici – è quella più capace di esaltare la collaborazione
di testo e immagine, pur non compresenti: quella dell’ipertesto.
Prima di essere utilizzato nelle intuizioni elettroniche e digitali il
termine ipertesto era già stato inserito in una riflessione sul siste-
ma letterario come complessa rete di riferimenti intertestuali ri-
condotti ad un carattere fondamentale della letteratura, quello
della mescolanza di modelli diversi, dell’appropriazione e integra-
zione delle forme più disparate, quella caratteristica che Bachtin
310 Lo sguardo reciproco

chiama dialogicità, e che più gene-


ralmente è riconducibile all’interte-
stualità letteraria, ossia al rapporto
più o meno palese di testi diversi o
di loro parti.
In questo racconto, intitolato An-
ch’io cerco di dire la mia, Calvino si
distacca per la prima volta dai taroc-
chi e passando da un atlante di im-
magini “in praesentia” ad uno “in
absentia” costruisce l’effigie del suo
mestiere e della sua personalità al-
l’interno di una galleria invisibile,
ma i cui quadri sono perfettamente
individuabili e riconoscibili nella tra-
dizione pittorica cristiana. Così nel-
l’immaginario del lettore si ricrea
una successione di situazioni e am-
Fig. 1. L’Eremita, Tarocchi
bientazioni in cui è possibile ricono-
mar-sigliesi, 1761.
scere l’evoluzione del personaggio:
un romanzo di formazione tra le sale dei più grandi musei del
mondo, attraverso le quali lo scrittore deve tracciare il percorso di
un incerto cammino.
Questo cammino comincia con una traslazione dalla figura
dell’eremita dei tarocchi (fig. 1), in quella di un San Girolamo pri-
ma generico, poi individuato nella stampa di Dürer11, che lo con-
testualizza in un’ambientazione precisa in cui la città appare su
uno sfondo piuttosto ampio e pesante, mentre al protagonista è la-
sciato uno spazio ristretto (fig. 2). La città cambia peso figurativo
e narrativo, passando all’incisione di Rembrandt, in un accosta-
mento che viene reso narrativamente come la dedizione del santo
allo studio più forte della tentazione dei divertimenti che la città,
facilmente raggiungibile, sarebbe in grado di offrire. Passo dopo
passo la narrazione del personaggio “in crescita” assume sembian-
ze più simili a quelle di Sant’Agostino, grazie all’ambiente chiuso e
alla compagnia di altri animali che accompagnano l’onnipresente

11 In realtà la stampa di Dürer cui si riferisce Calvino raffigura S. Antonio in ere-

mitaggio.
Visioni in forma di racconto 311

Fig. 2. A. Dürer, Sant’Antonio, 1519.

leone – figura che interessa Calvino fin dalle prime osservazioni e


cui è affezionato perché simbolo del suo mestiere, in unione alla
figura del santo dedito allo studio. Vediamo, così, succedersi rapi-
damente il San Girolamo di Antonello da Messina con il suo pavo-
ne, un’altra incisione di Dürer (fig. 3), in cui la rappresentazione è
arricchita da un lupo, e, infine, il Carpaccio a Venezia.
A questo punto la narrazione, concentrandosi su questo ciclo di
quadri, si sofferma sugli interni e sui particolari che, tra tutti gli
oggetti, riconducono all’iconologia dello studio e della scrittura:
astrolabi, clessidre, volumi, rotoli di pergamena, «sappiamo che il
ritratto congloba il catalogo degli oggetti, e lo spazio della stanza
riproduce lo spazio della mente, l’ideale enciclopedico dell’intel-
letto, il suo ordine, le sue classificazioni, la sua calma»12.
La calma concentrazione del racconto viene, a questo punto,
improvvisamente sconvolta da un’agitazione e un disordine che,
inaspettatamente, irrompono nella stanza dello scrittore, il quale,
viene disturbato nel bel mezzo dell’«armoniosa geometria intellet-
12 I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori, 1994, p. 100.
312 Lo sguardo reciproco

Fig. 3. A. Dürer, San


Girolamo nello studio,
1514.

tuale [che]sfiora al limite l’ossessione paranoica»13. Lo scrittore si


ritrova al chiuso della sua stanza, guardando dai vetri la città lon-
tana, e ricorda il motivo del suo eremitaggio14, l’epoca in cui gi-
rando per i musei la figura in cui si specchiava era più volentieri
quella di San Giorgio e il drago, il cavaliere di spade dei tarocchi
viscontei (fig. 4).
Questa nuova iconologia viene inserita in una riflessione circa il
fare pittorico e narrativo: dipingendo il soggetto di San Giorgio,
infatti, i pittori, secondo Calvino, danno poco peso alla vicenda –
considerata per lo più una rivisitazione del mito pagano di Perseo
– e, ciononostante, finiscono per crederci «nel modo che hanno gli

13 Si tratta dello scompiglio creato nel quadro nel quadro del Carpaccio dall’appa-

rizione mistica di sant’Agostino.


14 In questi anni Calvino vive a Parigi in un eremitaggio “volontario” e non troppo

lontano dal suo paese. Ciononostante, nel 1974 scrive Eremita a Parigi, in cui racconta
la sua vita nella capitale francese vissuta né da cittadino, né da turista. I. Calvino, Ere-
mita a Parigi, intervista a Valerio Riva per la televisione svizzera, Lugano, 1974. Ora in
Id., Romanzi e racconti, cit.
Visioni in forma di racconto 313

scrittori di credere ad una storia che


è passata per tante forme, e per il fat-
to di dipingerla e ridipingerla, scri-
verla e riscriverla, se non era vera lo
diventa»15.
Dopo la pausa meta-narrativa il
racconto riprende dalla narrazione
della storia di S. Giorgio: la carica
contro il drago tra i cadaveri delle
povere vittime della bestia – nella
raffigurazione di Carpaccio (fig. 5) –,
la sopraffazione del nemico e il colpo
di lancia – nel quadro di Raffaello –,
la posizione della principessa, prima
tra i due contendenti – in Paolo Uc-
cello (fig. 6) –, o distaccata in primo
piano – per Tintoretto. La vicenda si
conclude con la vittoria annunciata
dalla riconciliazione con la natura
presentata da Altdorfer, quindi con i Fig. 4. Cavaliere di Spade,
pubblici festeggiamenti, organizzati Tarocchi marsigliesi, 1761.
nei quadri di Pisanelli e Carpaccio.

Fig. 5. V. Carpaccio, San Giorgio in lotta col drago, 1502-1507.

15 Ivi, p. 101.
314 Lo sguardo reciproco

Fig. 6. P. Uccello, San Giorgio e il drago (particolare), 1460.

Tirando le fila del discorso, lo scrittore confida di voler traccia-


re all’interno di questa sequenza un percorso inverso, che dall’im-
petuosa giovinezza del S. Giorgio conduca alla tranquilla saggezza
del S. Girolamo. Ma quest’altra vicenda è già nei particolari di tut-
ti i quadri orientati ad un soggetto che risulterà fondamentale ai fi-
ni della narrazione e della caratterizzazione dei personaggi. Infatti
«l’eroe d’azione», come lo chiama Calvino, è sempre rappresenta-
to nel chiuso dell’armatura, il suo volto non è mai reso espressivo
patemicamente, anzi spesso è raffigurato all’ingiù. L’unico perso-
naggio che viene caricato di un’aura di passionalità è il drago sem-
pre diversamente contorto. Le bestie che fungono da trait d’union
tra S. Girolamo e S. Giorgio, leone e drago, sono accostabili come
raffigurazione della psiche, di quell’elemento aggressivo e perico-
loso presente in ogni essere umano che il savio e il guerriero ten-
gono sempre presente alla propria memoria. Sta qui la saggezza
del guerriero e dello studioso, del pittore e dello scrittore.
I rapporti messi in campo da questo racconto lasciano intende-
re non soltanto una relazione intermediale tra testo e immagini,
Visioni in forma di racconto 315

ma una struttura che, con Bachtin, possiamo ricondurre alla pluri-


vocità, ossia all’esistenza di voci diverse all’interno della stessa rea-
lizzazione testuale.
Essa nasce, in sostanza, dalla presenza simultanea, al di sotto di
una superiore unità, di unità stilistico-compositive diverse16.

L’immagine e la narrazione

L’approccio narrativo di questa piccola iconologia riassume in


qualche modo le suggestioni visuali cui Calvino ha dato un larghis-
simo spazio durante tutta la sua carriera, soprattutto in tutta la se-
rie di interventi espressamente dedicati all’arte cui si è dedicato
dalla metà degli anni Settanta fino alla fine dei suoi lavori, e in cui
ha costruito una narrazione a partire dalle immagini via via incon-
trate in mostre o allestimenti. Recentemente riuniti in due raccolte,
Guardando disegni e quadri17 e Immagini e teorie. Intorno alle arti
figurative18, questi interventi fanno a loro volta parte di una “cultu-
ra visuale” che in Calvino, come abbiamo già visto, è sempre stata
alla base della propria esperienza personale e professionale. In
questi brevi saggi, talora trasformati in veri e propri racconti che
utilizzano le immagini come spunto per la narrazione o come con-
trainte, ci è data la possibilità di ripercorrere tutte le tappe del suo
pensiero sull’argomento: la concezione della realtà esterna e del
suo spazio – fondamentalmente costituito di linee che si interseca-
no e di frecce che guidano nella multidimensionalità del mondo; il
rapporto tra arte figurativa e scrittura – e la costante attrazione,
mista a invidia, dello scrittore e della sua arte nei confronti del pit-
tore e della sua arte; tutto ciò sempre governato da una precisa

16 «I confini tra artistico ed extrartististico, tra letteratura e non letteratura, ecc.,

infatti non sono stati stabiliti dagli déi una volta per sempre. Ogni specifico è storico. Il
divenire della letteratura non è soltanto crescita e mutamento di essa all’interno dei
confini incrollabili dello specifico, ma investe questi stessi confini. Il processo di muta-
mento dei confini delle sfere della cultura (compresa la letteratura) è processo estrema-
mente lento e complesso. Singole violazioni dei confini dello specifico (come quelle so-
pra indicate) non sono che sintomi di questo processo, il quale si svolge a una grande
profondità». M. Bachtin, Epos e romanzo, in Id., Voprosy literatury i estetiki (1975),
trad. it., Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovič, Torino, Einaudi, 1979, p. 475.
17 I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol III, pp. 382-440.
18 I. Calvino, Saggi, cit., vol. II, pp. 3002-3006.
316 Lo sguardo reciproco

concezione della dimensione della visibilità e del senso della vista.


Proprio a quest’ultimo tema è dedicato un racconto, rimasto al-
lo stadio di progetto, che avrebbe dovuto fare parte di un’opera
dedicata ai cinque sensi cui Calvino lavora approssimativamente
dal 1970 fino al 1984 e che porterà a compimento soltanto per le
sezioni dedicate all’olfatto19, al sapore20, all’udito21. Nonostante,
però, il progetto riguardante la vista non sia mai stato realizzato
(ne rimangono soltanto piccole tracce sul dorso di un biglietto) è
stato sicuramente questo il tema che più ha interessato l’autore,
come possiamo evincere dalla straordinaria quantità di appunti,
notazioni bibliografiche e documenti, testimonianze di un interes-
se che andava oltre il mero spunto letterario e che costruisce il di-
segno di una cultura visuale saldamente fondata.
Questi documenti, infatti, citano opere fondamentali nella con-
cezione della vista tanto dal punto di vista fisiologico che da quel-
lo culturale: da Della natura delle cose di Lucrezio, alla Storia natu-
rale di Buffon, dai Manoscritti economico filosofici di Marx ai Mar-
ginalia di Poe, fino ancora alle riflessioni filosofiche che vanno da
Descartes a Febvre, da Gibson a David Marr.
Da tutte queste speculazioni Calvino trae una percezione del
mondo visivo che sembra coincidere con la costruzione della sua
intera opera, e, sebbene si rimpianga di non poter leggere il rac-
conto che da questi spunti sarebbe stato prodotto, gli appunti che
ne delineano la gestazione rimangono comunque di grandissimo
effetto.
In essi, infatti, l’osservazione di Calvino sembra cogliere perfet-
tamente le istanze delle più recenti riflessioni sulla cultura visua-
le22 costruendo un regime scopico ben preciso in cui il mondo co-
stituisce l’oggetto visivo, gli occhi lo strumento attraverso cui que-
sto mondo viene percepito, e l’arte il mezzo di produzione e, insie-

19 I. Calvino, Il nome e il naso, in «Playboy», novembre 1972. Ora in Id., Romanzi

e racconti, cit., vol. III, pp. 113-126.


20 I. Calvino, Sapore, sapere. (Sotto il sole giaguaro), in «FMR», giugno 1982. Ora

in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 127-148.


21 I. Calvino, Un re in ascolto, in «la Repubblica», 12-13 agosto 1984. Ora in Id.,

Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 149-173.


22 Uno studio fondamentale a questo proposito è senz’altro quello di M. Jay,

Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth-Century French Tought, Berke-


ley, Los Angeles-London, University of California Press, 1994.
Visioni in forma di racconto 317

me, di trasmissione della visività23.


All’interno di questa riflessione Calvino attribuisce uno spazio
anche a ciò che rimane «al margine del campo visivo», così come
anche ai segni visivi trasmessi involontariamente e a quelli nasco-
sti, occulti o che attendono di essere scoperti. Anche se non ci è
possibile avere un’idea chiara sullo svolgimento dell’invenzione
narrativa, l’opera di Calvino e le sue riflessioni sparpagliate tra ap-
punti e documenti possono comunque fornirci almeno un’idea del
suo modo di percepire e riflettere la visività: «il mondo non è un
panopticon ma un pancripticon. Non il nascosto occulto (viscere,
segreto) ma il nascosto con intenzione d’essere trovato (tracce, te-
soro nascosto)»24.
La percezione del mondo come sistema multiplanare di linee è
alla base di tutta la creazione, soprattutto romanzesca di Calvino,
ma è anche lo strumento particolare di descrizione del mondo e
della sua rappresentazione. Così se il mondo è costituito da serie
di linee spezzate e oblique, di segmenti sporgenti e verticali ascen-
denti, e le dimensioni del nostro spazio, checché ne dicano le con-
venzioni, si riducono ad un singolo meridiano e parallelo25, allora
l’unico modo di figurarci la nostra posizione al suo interno è quel-
lo della mappatura, ma della speciale mappatura del labirinto.
Così Il viandante nella mappa – racconto-recensione di una mo-
stra cartografica contenuto in Collezione di sabbia – si concentra
sulla storia e la necessità che hanno caratterizzato quest’espressio-
ne dell’uomo e, soprattutto, ne rivela le similitudini con l’arte nar-
rativa: «Il seguire un percorso dall’inizio alla fine dà una speciale
soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come
struttura narrativa) e c’è da domandarsi perché nell’arte figurativa
il tema del percorso non abbia avuto altrettanta fortuna e compaia
solo sporadicamente»26.
23 Un posto all’interno di questi mezzi di produzione sarebbe spettato sicuramente

anche alla fotografia, nominata in parentesi e interrogativamente ma più volte oggetto


di riflessione negli scritti di Calvino a partire dal piccolo saggio in memoria di Roland
Barthes: I. Calvino, In memoria di Roland Barthes, in Id., Saggi, cit. vol. II.
24 I. Calvino, Racconti per i cinque sensi, in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, p.

1215.
25 I. Calvino, Dall’opaco, in Aa.Vv., Adelphiana 1971, Milano, 1971. Ora in Id.,

Saggi, cit., vol. II, p. 2952.


26 I. Calvino, Il viandante invisibile sulle strade della terra, «la Repubblica», 18 giu-

gno 1980. Ora in I. Calvino, Il viandante nella mappa, in Id., Saggi, cit., vol. II, p. 427.
318 Lo sguardo reciproco

Questa mappa visuale costituisce in qualche modo la griglia di


lettura di Calvino non soltanto per la realtà ma per le stesse rap-
presentazioni figurative. Così le opere di Carlo Levi27, di Sebastian
Matta28, di Shusaku Arakawa29, vengono analizzate come diversi
ponti tra il razionale e l’irrazionale, come espressione della diffi-
coltà di esprimere un mondo difficilmente rappresentabile, come
spazio mentale di un mondo attraversato dalle traiettorie di frecce
in movimento e di parole che raggiungono e oltrepassano i margi-
ni del quadro.
Proseguendo le sue peregrinazioni tra quadri, poi, Calvino co-
struisce una vera e propria mappa di città rappresentate da alcuni
tra i più grandi pittori a lui contemporanei. Si tratta degli scritti
che accompagnano i cataloghi delle mostre di artisti e, molto spes-
so, di amici allestite negli anni compresi tra il 1976 e il 1983: Cesa-
re Peverelli, Lucio del Pezzo, de Chirico, Leonardo Cremonini.
Ognuna di queste opere trasforma il percorso tra le opere in espo-
sizione in un discorso unico che ci accompagna all’interno di tutta
l’opera dell’artista pittore, ma anche dello scrittore.
Così il primo trasmette allo scritto una città che agita i suoi mil-
le piani alle spalle di una coppia addormentata in un abbraccio:
«ogni punto dello spazio è collegato ad altri punti sopra e sotto di
loro, linee che attraversano il letto, file di persone interminabili
che continuano a passare»30. Tutti questi punti collegati, come in
un gioco enigmistico, si trasformano in grattacieli dalle vetrate tra-
sparenti e specchi misteriosi in cui sembra che si nascondano figu-
re umane. È la stessa città in cui nel buio della sera soltanto le luci
alle finestre restituiscono immagini di vita trasmesse e ricevute
unicamente dai video dei televisori: « In milioni di video si delinea
l’immagine di altri video, e assorti a contemplarli nelle stanze in
penombra non restano che altri video, soli o a gruppi»31; la stessa
27 I. Calvino, Litografie di Levi, in Carlo Levi, in «Carte segrete», Roma 1970. Ora

in Id., Saggi, cit.


28 I. Calvino, Per Sebastian Matta, in A. Bonito Oliva, Matta, Roma, L’Attico Esse

Arte, 1984. Ora in I. Calvino, Saggi, cit.


29 I. Calvino, Un Calvino inedito: il colore della mente nei quadri di Arakawa, «Tut-

tolibri», Milano, 23 novembre 1985. Ora I. Calvino, Per Arakawa, in Id., Saggi, cit.
30 I. Calvino, Altre città, in C. Peverelli, L’atelier de l’artiste, Paris, Musée d’art mo-

derne de la ville de Paris, 1976. Ora in I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. III,
pp. 383-386, citaz. p. 383.
31 Ivi, p. 385.
Visioni in forma di racconto 319

che nel cielo che la copre non vede altro che i suoi stessi tetti aguz-
zi e le lamiere delle sue vetture. L’unico cielo che appare intatto,
nell’opera di Peverelli o, forse, in quella di Calvino è quello sotto il
quale nessuna città è mai esistita, nessuna pena e nessuna gioia è
stata mai prodotta32.
La città «ai confini del sonno» di Peverelli si trasforma, nelle
immagini di del Pezzo, in una città in cui «i segni parlano ai segni,
si dicono cose diverse da quelle che noi vorremmo far dire»33, una
città che parla di più superfici, di luci e ombre. In questo autore, il
cui stile differisce così tanto dal precedente, le visioni cittadine di-
ventano geometriche e spigolose, ma non per questo più facilmen-
te leggibili. Lavoro arduo, quindi, per il cartografo segnare le stra-
de di queste metropoli di volta in volta concentriche, aeree, disar-
moniche: «nella mente […] più sali, più la forma della perfezione
t’appare rigorosa e necessaria, e più il mondo che esiste lo senti,
nel confronto, intollerabile»34.
Proprio a questa necessità Calvino risponde con de Chirico, au-
tore di quella che egli considera la città del pensiero, in cui le mae-
stose costruzioni e le immobili statue invitano a decifrare segni, a
seguire le linee della prospettiva, a rivedere gli spazi del dentro e
del fuori: «Ma queste vedute sono piatte, incorniciate, appoggiate
a cavalletti in mezzo a strumenti da disegno. Se un albero fiorito
finalmente s’illumina tra due oscuri muri di palazzi, si scoprirà che
è solo un fondale di tela appeso. L’aria aperta qui è solo dipinta,
un impiantito di palcoscenico è il terreno in cui si posano i nostri
passi»35. Il viaggio nelle città di de Chirico – che ci getta subito in
una strana ambientazione di spaesamento – prosegue per tappe se-

32 Il riferimento alle visioni delle Città invisibili è qui d’obbligo. Infatti nel roman-

zo modulare che Calvino aveva scritto nel 1972, il tema della città e del suo doppio ce-
leste è costruito nello spazio di cinque capitoli che descrivono proprio l’ambiguo rap-
porto di cinque diverse città con un modello cui aspirare proiettato nel cielo. Sono que-
ste immagini in cui rimane difficile fino alla fine discernere il lato “buono” da quello
“cattivo”.
33 I. Calvino, Parafrasi. Vingt peinture en relief de Del Pezzo à la Galerie

Bellechesse, Paris, 1978. Ora in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 387-389, citaz.
p. 388.
34 Ivi, p. 389.
35 I. Calvino, Accanto a una mostra, in «FMR», luglio-agosto 1983. Ora in I. Calvi-

no, Viaggio nella città di de Chirico, in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 397-406,
citaz. p. 404.
320 Lo sguardo reciproco

gnate da figure che si caricano di suggestioni diverse: così l’immo-


bilità delle statue, la figura dell’angelo della melanconia, le torri e
le piazze, suggeriscono allo scrittore il silenzio e la meditazione: il
loro compito sembra qui quello di farsi carico delle nostre inquie-
tudini e di renderle oggettive al nostro sguardo. Se il silenzio è ciò
che fondamentalmente queste immagini ispirano, altre, invece,
rappresentano con linee, curve e diagrammi le approssimazioni di
un universo più vasto fatto di mappe e scacchiere. Poi le immagini
in movimento che escludono l’osservatore dai propri spazi e dai
propri tempi: un altrove fatto di uomini che sono ormai stati «an-
nessi al mondo delle cose»36. L’inquietudine del cyborg finisce, nel
racconto di Calvino, col ritorno alla figura pacificatrice che l’uomo
ha per sempre fissato nel marmo: «la statua paterna della storia»37.
Infine l’opera di Cremonini rivolge la riflessione di Calvino al
ricordo e alla memoria, trattenuta tra gli oggetti dal reticolo geo-
metrico del mondo, cioè dal quadro stesso. Quello che Calvino
compie in occasione della mostra dell’artista del 1984, è una vera e
propria critica della tecnica pittorica, una narrazione della signifi-
cazione dentro e fuori il quadro a partire dai suoi stessi elementi
compositivi: una meta-narrazione contemporaneamente della pit-
tura e della scrittura. Il ricordo, infatti, protagonista del racconto,
viene eccitato in prima istanza dalla visione dei colori, soprattutto
di quelli che nel quadro creano l’illusione dell’ombra e della luce.
Sono essi i primi a coinvolgerci all’interno della cornice del qua-
dro in cui immediatamente il nostro universo viene ricombinato in
una rete di altre cornici, di porte e finestre, di vetri e di specchi, in
cui non siamo più capaci di ricostruire i rapporti di interno e di
esterno. Soltanto i piani della rappresentazione diventano capaci
di imprigionare i nostri ricordi nelle irregolari delimitazioni fatte
di segmenti rettilinei e superfici piane, di aperture e di chiusure in-
terne. Così il percorso graduale della narrazione ci ha condotto al-
l’interno del quadro, in cui il nostro ricordo diviene capace di ri-
condurre la visione ad una parola del mondo esterno. Tuttavia,
ammonisce Calvino, non è da questa parola che traiamo l’emozio-
ne dell’arte, ma all’interno della grammatica particolare fatta di li-
nee e direttrici dello sguardo, che è il quadro: «la mia memoria de-

36 Ivi, p. 405.
37 Ibidem.
Visioni in forma di racconto 321

ve subito essere fissata a impalcature, a sostegni […] se è dalla


gabbia di un reticolo geometrico che devo estrarre un ricordo, non
c’è ragione che vada a cercarne gli antecedenti in un prima o in un
fuori che sarà ugualmente ingabbiato; è qui che devo cercare»38.
L’altra consistente parte del discorso visuale di Calvino, come
abbiamo già accennato, si occupa della stretta relazione tra arte fi-
gurativa e arte narrativa che si realizza tanto nell’analisi di autori
che hanno raccolto entrambe le capacità artistiche, tanto nell’as-
servimento della parola poetica dell’autore alle figure dei pittori.
Questo genere di lavoro trova comunque la propria origine nelle
figure distinte ma in continua reciproca ricerca dell’altro: lo scrit-
tore e il pittore, appunto.
La storia di questo particolare rapporto di creatori di storie na-
sce con la figura di Leonardo. È, infatti, il celeberrimo uomo di
scienze a chiudere la terza delle lezioni americane sull’Esattezza.
Maestro irrangiungibile nel campo delle scienze e dell’arte figura-
tiva, Leonardo ci è presentato nella sua piena consapevolezza di
uomo senza lettere che, pur inveendo più volte contro i letterati –
giudicati inferiori nella forma di espressione e nell’originalità spe-
culativa –, ha sempre avvertito con disagio il non poter comunica-
re con gli scienziati del resto d’Europa e, soprattutto – come di-
mostra la lezione di Calvino – ha continuamente ricercato le forme
di scrittura che potessero consentirgli di esprimere la profondità
della sua immaginazione che neanche il disegno e la pittura erano
in grado di raggiungere. Così, in chiusura, Calvino ci lascia l’im-
magine di Leonardo che durante uno studio sull’origine e l’evolu-
zione della terra, nel momento in cui si trova di fronte alla rappre-
sentazione di un mostro marino, avverte la necessità della parola
scritta per una più completa descrizione. Sul dorso del foglio Leo-
nardo segnerà tre frasi, frutto di rielaborazioni in successione, che
cercano di arricchire l’immagine disegnata.
Come nota Belpoliti nel suo studio sull’opera visuale di Calvi-
no, la riflessione sui rapporti tra letteratura e arti figurative, tra im-
magine e linguaggio, ha portato l’autore alla pratica ripetuta di ac-
costamento tra stili e aspetti in qualche modo assimilabili tra pitto-

38 I. Calvino, Il ricordo è bendato, in Aa.Vv., Cremonini. Opere dal 1960 al 1984,

Casalecchio di Reno, Grafis edizioni, 1984. Ora in I. Calvino, Romanzi e racconti, cit.,
vol. III, pp. 432-433.
322 Lo sguardo reciproco

ri e scrittori. Le coppie fondamentali di queste comparazioni sono


senz’altro costituite da Montale e Morandi, prima, e da Picasso e
Vittorini, poi.
Quando, nel 1959, Calvino tiene una conferenza alla Columbia
University di New York sulle correnti del romanzo italiano del suo
tempo39, dovendo indicare quali siano le strade espressive intra-
prese dalla nostra cultura, sceglie un percorso che – attraversando
l’Italia da nord a sud, passando per Pavese e Vittorini, Gadda e
Pasolini, Tomasi di Lampedusa ed Elsa Morante – porta alle figure
emblematiche di Eugenio Montale e Giorgio Morandi.
Nella perfetta corrispondenza delle figurazioni realizzate dai
due, Calvino rintraccia i segni del tempo: poesie difficili ed «uni-
verso pietroso, secco, glaciale, negativo senza alcune illusioni» da
un lato, e nature morte con «la fredda esattezza della luce che
avvolge l’umile realtà delle cose»40 dall’altro. Sono queste le ere-
dità raccolte da chi ha vissuto l’esperienza dell’ermetismo poeti-
co e figurativo.
Più tardi ricorrerà nuovamente alla cooperazione di parole e
forme nel disegno di un’epoca, in occasione della commemorazio-
ne di Vittorini ad un anno dalla sua morte nel numero monografi-
co a lui dedicato da «Il menabò»41. Descrivendo l’opera del mae-
stro, Calvino parla di progettazione, di prospettiva di indicazione,
introducendo metafore visive che conducono direttamente a chi
ha operato, contemporaneamente, nel senso di una sperimentazio-
ne stilistica avversa all’empirismo: Picasso. Come l’autore ricorda,
Vittorini ha sempre avuto presente il pittore spagnolo tanto nelle
sue riflessioni critiche quanto nelle sue opere condividendo con
questo la ricerca di nuove corrispondenze tra forme del mondo e
forme del linguaggio. Entrambe le sperimentazioni sembrano con-
vergere nel momento in cui Vittorini scrive quello che Calvino
chiama «un libro-Guernica», Conversazione in Sicilia: un progetto
che, come la celebre pittura, «oppone all’afasia del mondo una ba-
bele di figure parlanti»42.

39 I. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, in «Italian Quarterly», n. IV,

primavera-estate 1960. Ora in Id., Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995, pp. 55-68.
40 Ivi, p. 58.
41 I. Calvino, Vittorini: progettazione e letteratura, in «Il Menabò 10», 1967. Ora in

Id., Una pietra sopra, cit., pp. 155-182.


42 Ivi, p. 166.
Visioni in forma di racconto 323

In quegli stessi anni Calvino si occupa di due pittori contempo-


ranei che dalle sue descrizioni risultano dei perfetti alter-ego: Giu-
lio Paolini, – per il quale scrive la prefazione al catalogo Idem, nel
1975 – e Leo Steinberg – di cui si occupa a Parigi nel 1977. En-
trambi gli autori, pur se in modi diversi, dimostrano di condivide-
re le medesime intuizioni di Calvino circa il mondo da rappresen-
tare e l’arte che scelga di rappresentarlo. L’oggetto di questa arte
finisce così per ridursi allo stesso processo di creazione artistica.
Così nelle tele di Paolini che Calvino affronta esattamente alla
maniera di Palomar, procedendo dalla descrizione alla riflessione
alla meditazione, egli vede manifestati i tre elementi del regime
scopico: chi fa il quadro, chi osserva il quadro, e il dispositivo stes-
so del “quadro”. Con ciò Paolini e Calvino si trovano d’accordo
nell’affermare che nessuno dei due tipi di linguaggio, e probabil-
mente nessun altro linguaggio, è capace di parlare del mondo né
dell’individuo, o perché non esistono, o perché quelli che esistono
non piacciono o non interessano la loro opera. Per giungere a que-
sta “capacità espressiva”, però, il pittore ha dovuto eliminare tutto
quanto potesse risultare superfluo alla sua narrazione, e la selezio-
ne è risultata talmente dura da lasciare sulla tela soltanto la squa-
dratura, la stessa tela, il cavalletto, il barattolo di colore. Da qui
nasce un certo rammarico, nello scrittore, rispetto alla sua opera
che, a causa dei suoi stessi mezzi espressivi, non può raggiungere
una tale semplificazione di forme.
Così se il globalizzante approccio all’esperienza, rappresenta il
territorio comune ad entrambi gli artisti, è proprio sul versante dei
mezzi espressivi che le loro strade divergono. Da un lato, infatti,
Calvino compie, nella complessità della sua opera, una parabola
che descrive il tentativo di ricondurre l’«anomia contemporanea»
ad un alveo di regole sintattiche; dall’altro, invece, Paolini concen-
tra interamente il proprio lavoro sulla «possibilità concettuale di
realizzazione dell’opera (o delle opere)»43.
Nei quadri successivi di Paolini, poi, il pittore si rivolge non
più soltanto alla trasparenza dello sguardo, – attraverso il raddop-
piamento fotografico delle immagini di Lotto, di Poussin e di un
manuale di storia dell’arte –, ma anche all’irriducibilità del molte-

43 R. Deidier, Le forme del tempo. Saggio su Italo Calvino, Milano, Guerini Studio,

1995, pp. 161-166.


324 Lo sguardo reciproco

plice all’unico, nell’opera intitolata Averroè, e viceversa, nel tenta-


tivo di unificare tutte le sue opere precedenti. Proprio questo ten-
tativo di unificare in un quadro tutti i possibili quadri è ciò che
più di tutto avvicina l’opera di Paolini alle aspirazioni di Calvino,
autore di un romanzo che ne contenga molti altri, o almeno ne
contenga gli incipit44.
Nella medesima direzione meta-narrativa si dirige l’opera di
Leo Steinberg cui Calvino dedica il saggio La penna in prima per-
sona. L’attenzione e la sensibilità che il pittore dedica a quegli
strumenti che consentono alla sua personalità artistica di muo-
versi in un universo «a n dimensioni del disegnato e del disegna-
bile, di stabilire una comunicazione tra gli universi stilistici più
contraddittori»45, portano Calvino ad associare i suoi disegni di
penne alla poesia di Cavalcanti, il quale pure dà voce ai suoi stes-
si strumenti di lavoro, e ai dialoghi di Galilei, inventore secondo
Calvino di alcune delle metafore più fantasiose. Il comune deno-
minatore di tutte queste personalità non è altro che la candida
ammissione dell’artificiosità della propria creazione artistica sen-
za alcuna pretesa di realismo, ma con intatta validità narrativa:
«Anziché il mondo come oggetto rappresentabile dell’arte e l’ar-
te come rappresentazione del mondo, ci si apre un nuovo oriz-
zonte in cui il mondo vissuto è visto come opera d’arte e l’arte
propriamente detta come arte al secondo grado […] l’arte sarà
riflessione sulle forme, ipotesi di formalizzazioni visive d’un
mondo virtuale […] critica dell’esposizione permanente del
mondo in cui siamo coinvolti nel triplo ruolo d’espositori, d’e-
sposti e di pubblico»46.
«Col Romanticismo in Francia gli scrittori cominciano a disegna-
re. La penna corre sul foglio, si ferma, esita, distrattamente o nervo-
samente deposita sul margine un profilo, un pupazzo, un ghirigoro,
oppure s’applica nell’elaborazione di un fregio, d’un’ombreggiatura,
d’un labirinto geometrico […] è la fisionomia dello scrittore a cam-
biare, con l’aspirazione che prende forma nella Germania romantica

44 È interessante notare come nel 1979 Calvino pubblicherà Se una notte d’inverno

un viaggiatore, il celebre romanzo multiplo composto dagli incipit di molteplici romanzi.


45 I. Calvino, La penna in prima persona, in «Derrière le miroir», n. 224, maggio

1977, trad. fr. di Jean Thibaudeau. Ora in Id., Una pietra sopra, cit., pp. 352-362, citaz.
p. 358.
46 Ivi, p. 359.
Visioni in forma di racconto 325

d’un’“opera totale”, un sogno accarezzato da Novalis (inventore


della formula) e che diventerà il programma di Wagner. Hoffmann
(tradotto in Francia nel 1829) diventa subito un modello per la nuo-
va letteratura francese, non solo perché ha creato un genere nuovo
[…], ma anche perché viene presentato come qualcuno che è allo
stesso tempo scrittore, disegnatore, musicista: il nuovo tipo di talen-
to poliedrico che il romanticismo risveglia»47. Con queste parole
Calvino introduce la recensione ad una mostra intitolata ai “Disegni
di scrittori francesi del XIX secolo” in cui ha potuto ammirare più
di duecento documenti degli scrittori più o meno illustri del secolo
e tutti illuminanti per quanto riguarda quel rapporto, per lui così
stretto, tra «grafismo pittorico e scrittura».
In questo caso il nostro autore è costretto a parlare di grafismo
dal momento che ci troviamo in un territorio che più degli altri fin
qui analizzati, risulta vissuto, e segnato, contemporaneamente da
disegno e scrittura. Dal dettagliato resoconto di questa mostra
possiamo ricavare le distinte personalità che si sono accostate a
queste pratiche.
L’occhio di Calvino sembra senz’altro più incline alle sperimen-
tazioni degli artisti che dimostrano una vena artistica dotata di un
talento non accademico, ma moderno quando non avanguardisti-
co. Così rimangono fuori dalle riflessioni più interessanti – ma non
da oneste osservazioni – scrittori quali Mérimée, Vigny, Théophile
Gautier, che avendo seguito regolari studi artistici mostrano scarsa
inclinazione all’invenzione e alla sperimentazione. Questo testo,
comunque, si rivela tra i più ricchi per notazioni curiose e interes-
santi sul piano del visuale, e per lo straordinario allestimento di fi-
gure di personaggi inattesi.
Così se la brava George Sand viene riconosciuta per le sue ca-
pacità di paesaggista, piuttosto malinconica e desolata, ella viene
sicuramente esaltata per l’invenzione di una tecnica detta “dendri-
tica” che consente di dare rilievo nel disegno alle stesse ramifica-
zioni e venature del colore, così come avviene nei minerali da cui
prende il nome.
Altrettanto interessate risultano le notazioni sull’intelligenza
grafica di Baudelaire e di Mallarmé, i quali appaiono dotati, al-

47 I. Calvino, E de Musset creò il fumetto, in «la Repubblica», 9 febbraio 1984. Ora

I. Calvino, Scrittori che disegnano, in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 474.


326 Lo sguardo reciproco

trettanto nel disegno che nella scrittura, di «acutezza pungente» e


«divertimento verbale».
Tra tutte le osservazioni, comunque, maggiormente significative
risultano quelle dedicate alle invenzioni narrative di Alfred de
Musset, Barbey d’Aurevilly, François Coppé, i quali nelle diverten-
ti invenzioni di innesto del figurativo nello scritto sono stati in gra-
do di mettere in comunicazione millenni d’arte figurativa, dai ge-
roglifici ai calligrammi ai fumetti.
La produzione artistica di Alfred de Musset ha senz’altro reso
noto il suo spirito incline ai contatti tra lettura e visione, basti pen-
sare alle opere teatrali destinate alla lettura di Uno spettacolo in
poltrona, del 1834. Tuttavia alla Maison de Balzac, luogo in cui si
svolge la mostra, Calvino trova qualcosa di più, un divertente au-
tore di racconti accompagnati da illustrazioni che per il tratto e la
composizione possono essere accostati ai moderni comic stripes e
ai disegni di illustratori quali Töpfer e Tofano. Così la creazione di
quelle che sembrano delle vere e proprie vignette vengono ritenu-
te «disegni di scrittore», cioè «qualcosa di diverso dal disegno
d’un artista, in quanto è funzionale a un’invenzione e a una stiliz-
zazione narrative e a un tipo d’ironia e autoironia: tutti procedi-
menti letterari, anche se si staccano notevolmente dai procedimen-
ti usati dall’autore nelle opere scritte»48.
Altrettanto sorprendenti risultano i disegni con cui Barbey
d’Aurevilly – il duca di Guisa della letteratura francese, nelle paro-
le di Lamartine – arricchiva i suoi diari. In realtà più che di veri e
propri disegni si tratta di linee e simboli che il dandy esoterico
tracciava tra le parole con un certo gusto per l’art brut. Congenia-
le, tra l’altro, con la sua passione per il calligramma molto denso in
cui amava trasformare la sua firma.
Al termine di questa visita il nostro visitatore rimane ancora
colpito da un nuovo autore, François Coppée, che alla fine del se-
colo ha affiancato alla perizia calligrafica – con cui istoriava cia-
scuna lettera delle proprie corrispondenze d’amore come un ideo-
gramma o un rebus – la trasposizione figurata degli oggetti amoro-
si: così appellando sé stesso come “gatta” e l’amata corrispondente
come “uccello”, illustrava le rispettive sembianze con un irruente
felino ed una leggiadra colomba. «L’inseguimento d’un orizzonte

48 Ivi, p. 476.
Visioni in forma di racconto 327

dell’espressione diverso da quello delle parole è la spinta che ani-


ma molti di questi pittogrammi tracciati in margine a pagine fitte
di scrittura. Come non sentirvi l’eterna insopprimibile invidia del-
lo scrittore per il pittore?»49.

Narrazione e descrizione

Per completare il complesso mosaico delle “visioni in forma di


racconto” di Calvino non manca ormai che l’ultimo tassello, quel-
lo, cioè, dedicato ai veri e propri sistemi di mappatura utilizzati
per affrontare, secondo il suo punto di vista, la descrizione di par-
ticolari opere d’arte. In questo senso l’ékphrasis messa in campo
da Calvino ha utilizzato particolari forme di narrazione che, secon-
do le linee del suo pensiero sin qui delineato, possiamo ricondurre
alla spirale, all’enciclopedia, all’atlante. Sono quindi queste i modi
in cui il suo discorso ha parlato rispettivamente dello svolgimento
della storia nella Colonna Traiana, della catalogazione dei disegni
fantastici di Serafini, della descrizione e genesi della Libertà che
guida il popolo di Delacroix.
Tra le cose viste – o che pur nascendo da letture, riguardano
sempre il visibile o l’atto stesso del vedere – che compongono la
raccolta Collezione di sabbia, entra a far parte il resoconto di un
“viaggio” compiuto tra i tralicci che nel 1981 ingabbiavano la Co-
lonna Traiana per i restauri di mantenimento. In quell’occasione
Calvino, accompagnato da Salvatore Settis, ebbe la straordinaria
occasione di seguire, quasi fino alla fine del racconto, una delle
storie che, pur essendo alla base della cultura – e della stessa nar-
rativa occidentale, e soprattutto latina –, è sempre stato precluso,
per ovvi motivi, a un’agile lettura.
Il resoconto di questa esperienza, che lo stesso autore definisce
filmica, risulta composta da una successione di scene che si dipa-
nano lungo tutta l’altezza della colonna, collegati da piccoli lembi
insieme figurativi e narrativi. È per questo che Calvino utilizza la
tanto cara metafora della spirale.
Seguendo il filo allestito dallo scultore, che qui opera veramen-
te come un regista, Calvino articola il discorso in una sequenza ar-

49 Ivi, p. 478.
328 Lo sguardo reciproco

chitettata secondo i canoni epici e quelli patemici di tutti i tempi,


senza disdegnare effetti speciali e colpi di scena.
La storia comincia con la presentazione del “setting”: una città
fortificata sul Danubio, in stato d’allarme pronta a rispondere ad
un attacco che potrebbe essere sferrato da un momento all’altro
(fig. 7); quindi siamo messi al corrente dello spostamento delle
truppe romane (fig. 8). A questo punto ci viene presentata la figu-
ra del protagonista: l’imperatore Traiano (fig. 9). Nella sequenza
di scene che Calvino afferma di vedere egli pone particolare atten-
zione alla resa figurativa dei personaggi organizzata da una sintassi
visuale ben precisa in cui ogni rima è resa da un motivo di «stiliz-
zazione geometrica» sempre diverso: «i Romani tutti con l’avam-
braccio destro alzato ad angolo retto nella stessa direzione, come a
scagliare un giavellotto (fig. 10); […] Giove [..] che alza la destra
nell’identico gesto»50. Analogo procedimento di rime, richiami e
inversioni, viene individuato da Calvino nello stacco tra le sequen-
ze, effettuato in genere da un movimento verticale, nel caso di
cambi di scena repentini, altre volte invece – quando il passaggio
da un episodio all’altro necessita di un accostamento temporale –
alcuni elementi supereranno i margini della scena.
Seguendo lo svolgimento unidirezionale della storia, che quindi
non ritorna mai nel medesimo luogo, Calvino giunge fino all’im-
magine della vittoria alata che segna la fine gloriosa della prima
campagna e l’inizio della seconda (fig. 11). Questo secondo tempo
della storia, però, non può esserci narrato, perché l’impalcatura
non permette al nostro Cicerone di proseguire oltre. Pur nei suoi
misteri e nelle sue difficoltà di ricezione, questo monumento rima-
ne comunque uno dei casi di narrazione che oggi potremmo defi-
nire “cinematografica”: «Ciò che fa l’eccezionalità della Colonna
Traiana non sono soltanto i suoi quaranta metri d’altezza, ma la
sua “narratività” figurativa […] che richiede una “lettura” tutta di
seguito della spirale di bassorilievi lunga duecento metri […] epo-
pea di pietra, una delle più ampie e perfette narrazioni figurate
che si conoscano»51.

50 I. Calvino, In guerra con Traiano, in «la Repubblica», 12-13 aprile 1981. Ora I.

Calvino, La Colonna Traiana raccontata, in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 501.


51 Ivi, pp. 498-505.
Visioni in forma di racconto 329

Fig. 7 Fig. 8

Fig. 9. Fig. 10

Figg. 7-11. Colonna Traiana


(particolari). Fig. 11
330 Lo sguardo reciproco

Dalla spirale che abbiamo appena sciolto nelle parole di Calvi-


no, passiamo adesso ad un altro racconto, questa volta decisamen-
te fantastico e molto più criptico, che lo scrittore indaga nel Codex
seraphinianum, raccolta di strane opere definite da Calvino “tera-
tologiche” e che ricorda in qualche modo certe opere medievali.
Nonostante il titolo, comunque, bisogna ricordare come si tratti di
un pittore moderno, mosso da una certa vena misteriosa all’artico-
lazione di un messaggio fuori dal tempo. È proprio questa riartico-
lazione eccentrica del linguaggio figurativo che Calvino cerca in
qualche modo di scovare, partendo dalla convinzione che comun-
que rimanga sempre sottostante all’opera di Serafini un grafismo
letterario nascosto.
Infatti se nella combinazione di parti corporee in nuovi mostri
immaginifici possiamo riscontrare le tracce di una nuova invenzio-
ne sintattica, è comunque nelle ultime tavole che riusciamo a ritro-
vare il mistero linguistico che cercavamo. In questa sezione infatti
l’immagine gioca con la parola – sia parlata che scritta – assumen-
dola interamente alla propria dimensione: così la vediamo colare
come bava nera dalle labbra, o la vediamo estratta a forza con una
canna da pesca da una bocca. Se, quindi, la parola sembra restia
alla manifestazione, il segno grafico – anch’esso vivente, tanto da
sanguinare se punto – acquista i propri spazi in una corporeità tri-
dimensionale e policroma. Così essa decide spontaneamente di
raggiungere il foglio e lo fa nella sua leggerezza aerea trasportata
da palloni e paracadute. Ma una volta giunta sul foglio sembra sia
necessario imprigionarla, con ago e filo, per fissarla ad esso.
Cosa porta una parola scritta è possibile vederlo attraverso una
lente d’ingrandimento: una fitta corrente di significato percorre
quel che sembrava un sottile filo d’inchiostro, come una rete col-
ma di percorsi. Ma la parola, come tutto ciò che appartiene all’es-
sere umano, è caduca e destinata a perire. Come colui che l’ha se-
gnata e coloro che l’hanno letta, anche la lettera si staccherà dal
foglio e si ridurrà in polvere. Questa polvere, però, non si perderà
inutilmente nel vento della storia, essa sarà il terreno da cui le pa-
role di nuove generazioni nasceranno e ricominceranno il ciclo del
senso.
Questo senso è esattamente lo stesso che si articola e circola al-
l’interno di qualsiasi costruzione pittorica, fin tanto da varcarne i
limiti e porla in relazione con una storia che parte dai componenti
Visioni in forma di racconto 331

minimi del quadro e lo ricollega ad una più ampia tradizione cul-


turale. È questa la tesi promossa da Calvino nell’esame del quadro
di Delacroix, La libertà guida il popolo. A questo quadro Calvino
dedica un articolo scritto in occasione di una mostra tenuta al
Louvre in quello stesso anno52. Il museo parigino aveva allestito
un’esposizione che si risolveva in qualche modo non come una re-
trospettiva dell’autore quanto più che altro dello stesso quadro,
realizzando una sorta di Wunderkammer di disegni, abbozzi, e al-
tre opere connesse con la genesi del quadro. A partire da questa
realizzazione veramente moderna Calvino riscrive la storia dello
studio di Delacroix.
L’operazione che qui compie Calvino può essere ricondotta ad
uno dei più innovativi metodi di critica della storia dell’arte e del
visuale in generale: il metodo di Aby Warburg.
Il resoconto di Calvino si accosta alle indagini warburgiane sot-
to tre punti di vista: innanzitutto nella scelta accurata di un lin-
guaggio capace di comunicare anche visivamente; quindi nella
stessa costruzione della narrazione, che sembra ricostruire nelle
parole ciò che nelle tavole dell’atlante Mnemosyne, creato da War-
burg intorno alla fine degli anni venti del XIX secolo, veniva co-
struito soltanto attraverso immagini. Tanto nell’ékphrasis di Calvi-
no che nella tavola di Warburg, infatti, ogni elemento è immedia-
tamente accostato ad altri con cui è messo in relazione secondo le
regole del “buon vicino”, attraverso ingrandimenti e, soprattutto,
a particolari ricorrenti che in Calvino, come già in Warburg, rap-
presentano i principali mezzi attraverso cui vengono trasmesse le
funzioni più significative della tradizione artistica di tutti i tempi.
Infine le due tecniche possono essere accostate nella costruzione
che per entrambi gli studiosi può essere assimilata all’immagine di
un labirinto in cui diversi sono i percorsi possibili e, in ogni caso,
quello proposto dall’autore non è che uno dei possibili, molte altre
sperimentazioni sono lasciate all’intuizione dello spettatore53.
Vediamo, quindi, come si realizza il discorso di Calvino.
Innanzitutto l’insieme dei documenti rende subito evidente co-
52 I. Calvino, Sì, dipingerò una barricata, in «la Repubblica», 4 Febbraio 1983. Ora

I. Calvino, Un romanzo dentro un quadro, in Id., Saggi, cit.


53 A proposito degli studi di Aby Warburg si rimanda all’analisi di K.W. Forster,

K. Mazzucco, Introduzione ad Aby Warburg e all’Atlante della Memoria, Milano, Mon-


dadori, 2002.
332 Lo sguardo reciproco

me il quadro allegorico, finora considerato come una realizzazione


spontanea e immediata, subito successiva, e per questo ispirata,
agli eventi rivoluzionari del 1830 parigino, sia più che altro inter-
pretabile come la realizzazione finale di un progetto che nasceva,
non soltanto dalla riflessione su figure plastiche e allegoriche ap-
partenenti alla tradizione occidentale – come la tradizione legata al
corpo d’Ercole, alla pittura celebrativa di David, allo stesso tema
della libertà –, ma dallo studio minuzioso di singoli personaggi –
tanto numerosi nel quadro da far parlare Calvino di romanzo – e
delle loro pose, ideato per quadri e motivi precedenti.
Così, infatti, procedendo ad uno studio delle singole compo-
nenti si dimostra come il quadro di Delacroix sia il frutto di un at-
tento studio e di una continua rielaborazione. Innanzitutto la figu-
ra centrale della libertà, la più famosa rappresentazione iconologi-
co-simbolica del motivo, sembra proprio non essere nata in occa-
sione dei moti su citati, ma esistere nella mente e nelle sperimenta-
zioni di Delacroix almeno a partire dal 1824, ispirata dai moti in-
surrezionalisti della Grecia, e, perciò, sembra essere inizialmente
destinata alla tela I massacri di Chio del 1824. In seguito poi gli
studi sulla donna riprenderanno e la trasformeranno nella Grecia
sulle rovine del Missolungi, del 1827.
A questo punto lo studio di Calvino si concentra su una preci-
sione di particolari che sembra particolarmente ispirata ad un ap-
proccio warburghiano: è infatti dai movimenti delle braccia e del
dorso che la figura ci appare riconoscibile lungo tutte le sue evolu-
zioni, e nonostante tutte le acconciature che via via la caratterizze-
ranno, dal berretto frigio alla corona turrita; e ancora la sottana
più o meno ampia, il volto prima frontale e poi di profilo: l’idea è
senz’altro legata ad una motivazione precedente.
Altrettanto interessanti da questo punto di vista risultano le tre
figure rappresentanti del popolo con una chiara connotazione
operaia – la figura col cilindro sembra caratterizzare un artigiano,
quella col grembiule un operaio di manifattura, quella del ragazzo
ferito un manovale dei cantieri edilizi.
Le figure più interessanti, però, per un’indagine iconologica
sembrano essere nello studio di Calvino quelle in primo piano.
Questi personaggi hanno il compito di rivestire un ruolo specifico
nella narrazione dell’avvenimento – riconosciamo in essi un solda-
to della guardia reale, un corazziere, infine un popolano – carican-
Visioni in forma di racconto 333

dosi della plasticità del mito. Essi infatti sono incarnazioni delle fi-
gure tradizionali culturalmente legate rispettivamente a David, a
Gros e ad Ettore: «Questa minuziosa indagine iconologica ha por-
tato delle sorprese ideologiche che riguardano proprio il perso-
naggio più operaio di tutti… i tre morti in primo piano»54.
Nella consapevolezza dell’incidenza che la produzione simboli-
ca umana esercita continuamente sulla terra Calvino sembra spo-
sare le parole del Michelangelo dei Dialoghi romani di Francisco
de Holanda: «Ben considerando quello che si fa in questa vita, vi
accorgerete che ognuno, senza saperlo, sta dipingendo questo
mondo, sia nel creare e nel produrre forme e figure, come nell’in-
dossare vari abbigliamenti, sia nel costruire e occupare lo spazio
con edifici e case dipinte, come nel coltivare i campi, nel fare pit-
ture e segni lavorando la terra, nel navigare i mari con vele, nel
combattere e dividere le legioni, e finalmente nelle morti e nei fu-
nerali, come pure in tutte le altre operazioni, gesti e azioni»55, ma
forse, conclude Calvino, i segni di questa nostra civiltà non saran-
no occhi umani a goderli.

54 Ivi, p. 466-467.
55 I. Calvino, Palomar e Michelangelo, in Id., Saggi, cit., vol. II, p. 1991.
Indice

Gradienti di reciprocità
Roberta Coglitore 7

I. Sopravvivenze
Nemesi-Adrastea
Sulla cultura visuale di Herder e Hölderlin
Michele Cometa 17

Psiche e la piramide
Le arti e la morte nell’età neoclassica
Elena Agazzi 55

Amare una statua


La modella e l’amante nella letteratura europea
Paolo D’Angelo 93

II. Descrizioni
Un dipinto e i suoi sonetti
Proserpina di Dante Gabriel Rossetti
Federica Mazzara 141

Note di immortalità
Hofmannsthal sul Concerto campestre di Giorgione
Roberta Ascarelli 175

Malinconia e immaginazione
Una genealogia fantastica per Melencolia I
Roberta Coglitore 205
336 Lo sguardo reciproco

III. Rappresentazioni
Un’idea di Roma
Piranesi, Moritz e la teoria del punto di vista
Renata Gambino 237

I colori delle fiabe e la passione della realtà


Dimensioni visuali in Anna Seghers
Rita Calabrese 257

Visioni in forma di racconto


Narrazioni per immagini in Italo Calvino
Valeria Cammarata 305
Finito di stampare nel mese di luglio 2007
in Pisa dalle
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com
www.edizioniets.com

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