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La fine della storia e la storicità dell’arte

nella riflessione di A.C. Danto e J. Margolis

Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze Umanistiche e Studi Orientali


Corso di laurea in Filosofia
Cattedra di Storia dell’estetica

Candidato
Emanuele Latini
n° matricola 1462116

Relatore
Luca Marchetti

A/A 2014/2015
Sommario

1. Arthur C. Danto: le tre epoche della storia dell’arte ............................................... 3

2. Storicità, relativismo e ontologia: la riflessione di Joseph Margolis .................... 19

3. La fine della “fine dell’arte” ................................................................................. 38

Bibliografia ................................................................................................................ 50

2
1.

Arthur C. Danto: le tre epoche della storia dell’arte

La visione della storia dell’arte di Arthur Coleman Danto, nella sua


sistemazione più completa, ci viene offerta dall’autore nel 1997, con la pubblicazione
del volume Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia1.
Come si legge nella Prefazione all’edizione italiana2, Danto sostiene che «la storia
dell’arte occidentale si divide in tre diversi periodi: tradizionale, moderna e
contemporanea. L’epoca presente, che chiamo contemporanea in opposizione a quella
moderna, non è retta da nessuna grande narrazione»3. Queste poche righe ci forniscono
in realtà un’indicazione piuttosto esauriente riguardo all’idea che Danto ha della storia
dell’arte. Appare chiaro, infatti, che questa sia divisa in tre periodi, che l’ultimo di
questi sia il capitolo conclusivo di una lunga storia e che proprio quest’ultimo capitolo
sia in qualche modo diverso dagli altri, poiché caratterizzato dall’assenza di una
narrazione portante. È necessario quindi, come prima cosa, iniziare a introdurre il
concetto di “narrazione”.
Con il termine “narrazione” Danto intende una costruzione teorica in grado di
racchiudere l’intera produzione artistica di una determinata epoca sotto un unico
paradigma. Il paradigma sul quale la narrazione si regge, tuttavia, può cambiare e, al
cambiare del paradigma, determinate opere d’arte possono rientrare nel mondo
dell’arte o smettere di farne parte, a seconda che queste soddisfino o no le condizioni
definite dal paradigma in quel momento egemone. Per fare un esempio, una tela di
Lucio Fontana non sarebbe stata neppure lontanamente considerata come “arte” nel
XVI secolo, dove il paradigma dominante era quello mimetico: uno squarcio non

1
A.C. Danto, After the End of Art. Contemporary Art and the Pale of History, Princeton University
Press, Princeton, 1997; trad. it. Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia,
Bruno Mondadori, Milano, 2008.
2
A.C. Danto, Prefazione all’edizione italiana, in Dopo la fine dell’arte, cit., pp. IX-XIII.
3
Ivi, p. XIII.

3
“riproduce” nulla di ciò che si trova in natura e dunque non può soddisfare la pretesa
mimetica dell’arte cosiddetta “tradizionale”. Diventa allora fondamentale sottolineare
un aspetto importante della “narrazione”, un aspetto che potrebbe facilmente andare
incontro a fraintendimenti: una “narrazione” non definisce semplicemente una singola
epoca della storia dell’arte. Al contrario, per Danto una “narrazione” ha una pretesa
universale; vuole abbracciare e descrivere l’intera storia dell’arte, evidenziandone il
continuo progresso che la caratterizza. Insomma, la narrazione è la “storia”.
Parlare della storia dell’arte come di una “narrazione” è comunque
un’affermazione forte dal punto di vista critico e teorico. Una “grande narrazione” di
questo tipo, infatti, può esistere solo laddove si riconosca nell’arte l’intrinseca
presenza di un telos e di un paradigma che vada pian piano dispiegandosi e sul quale
costruire l’intero racconto. È quindi interna al concetto di “narrazione” l’idea che il
percorso evolutivo della produzione artistica debba giungere al termine, e questo si
verifica o nel momento in cui il paradigma dominante entra in crisi – perché smentito
da un’opera che lo contraddice –, oppure nel momento in cui un’opera riesce ad
esprimere alla perfezione i dettami di quel dato paradigma, raggiungendo così il
massimo risultato possibile all’interno di quella narrazione.
La prima delle “narrazioni” analizzate da Danto si regge sul paradigma
dell’“imitazione”: è quella che Danto definisce come l’epoca “tradizionale” della
storia dell’arte, e che copre il periodo che va «da Aristotele al XIX secolo e anche
per buona parte del XX»4. Questa narrazione trova la sua grande sistemazione ne Le
vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori – testo del Vasari pubblicato
nella sua prima edizione nel 1550 – ed è fondata sul criterio della “verosimiglianza”:
un’opera appartenente al periodo “tradizionale” deve riuscire a imitare nella maniera
più convincente la realtà percettivamente osservabile. Vasari traccia un percorso
della “verosimiglianza”, che progredisce grazie all’adozione di invenzioni ed
espedienti tecnici, quali il chiaroscuro e la prospettiva. Questa idea del “progresso
mimetico” dell’arte è resa bene dallo stesso Danto, quando sostiene che «il progresso
in questione si verificò in gran parte in termini della duplicazione ottica, nel senso
che il pittore richiedeva tecniche sempre più raffinate per produrre esperienze visive

4
Ivi, p. 45.

4
del tutto equivalenti a quelle date dalle scene e dagli oggetti reali. Così è stata la
diminuzione della distanza tra la stimolazione ottica reale e quella pittorica che ha
segnato il progresso in pittura»5.
Sulla stessa linea Danto colloca Ernst Gombrich. Anch’egli, infatti, riconosce
un “progresso” all’arte, determinato dall’ottenere una sempre maggiore somiglianza
tra ciò che viene raffigurato nella tela e la realtà. La storia dell’arte è caratterizzata da
un continuo susseguirsi di schemi rappresentativi, ognuno dei quali è sempre più
capace di “catturare” la realtà visiva sulla superficie dipinta: è quello che lo stesso
Gombrich definiva con l’espressione “conquista delle apparenze”, il che significa,
secondo Danto, «trascrivere la realtà tridimensionale in rappresentazioni
bidimensionali in modo tale che, alla fine, idealmente, non si possano identificare le
differenze»6. L’adeguatezza di uno schema pittorico, ovviamente, non è decretata in
modo arbitrario, ma viene stabilita in base al modello – elaborato in Art and Illusion7
– del “making and matching”, ovverosia del “fare e confrontare”. Secondo
Gombrich, sono due le componenti che entrano in gioco nella valutazione della storia
dell’arte, una “manuale” ed una “percettiva”, ed è proprio questa componente
“percettiva” a consentirci di poter parlare di un “progresso” in pittura, poiché
percettivamente possiamo confrontare l’adeguatezza di una rappresentazione rispetto
alla realtà visiva. In un simile modello il “fare” precede il “confrontare”, come ci
suggerisce lo stesso Gombrich in un’intervista del 1995, quando sostiene che «prima
che noi possiamo tentare di confrontare [“matching”] il mondo con una
rappresentazione dobbiamo iniziare con il fare alcuni segni [“making”] e quindi
verificare i marchi rispetto a ciò che pensiamo di vedere»8.

5
A.C. Danto, The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia University Press, New York,
1986; trad. it. La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, Palermo, 2013, p. 112.
6
A.C. Danto, Beyond the Brillo Box. The Visual Arts in Post-Historical Perspective, Unversity of
California Press, 1992; trad. it. Oltre il Brillo Box. Il mondo dell’arte dopo la fine della storia,
Marinotti, Milano, p. V.
7
E. Gombrich, Art and Illusion. A Study in the Psychology of Pictorial Representation, Andrew
William Mellon lectures in the fine arts, 5, 1956. Bollingen Series, 35, 5, New York and London,
1960; trad. it. Arte e Illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi,
Torino, 1965.
8
Intervista a Peter Dormer, «UK Craft Magazine», settembre 1995.

5
Danto paragona il modello di Gombrich a quello di Karl Popper: similmente
all’epistemologia popperiana – dove una teoria viene rifiutata quando è falsificata
dall’esperienza –, per Gombrich uno schema rappresentativo viene abbandonato in
favore di un altro ritenuto più adeguato in base alla sua maggiore conformità alla
realtà visiva. Insomma, tanto nella riflessione di Gombrich quanto in quella di
Popper trova posto una certa idea di “progresso”, ed è proprio quello che Danto
vuole mettere in rilievo sostenendo che «entrambi i pensatori sono attenti a quella
che Popper definisce la “crescita” della conoscenza, e quindi a un processo storico
rappresentabile attraverso una narrazione»9.
Tuttavia, con l’avvento di Manet e dei post-impressionisti, le tele dei pittori
cominciavano a distaccarsi in maniera evidente dall’imperativo mimetico; la
direzione che la produzione artistica aveva preso minacciò e fece effettivamente
entrare in crisi il modello Vasari-Gombrich. Nonostante il tentativo messo in atto da
Roger Fry per tentare di porre in continuità l’arte dei post-impressionisti con quella
“tradizionale”10, sembrava ormai impossibile continuare ad adottare questo tipo di
modello narrativo. Si era arrivati a un punto di rottura in cui il paradigma mimetico
“tradizionale” non riusciva più a mantenere l’unità storico-critica, se non accettando
pesanti modifiche: il post-impressionismo segna così la fine del modello Vasari-
Gombrich.
Le nuove opere portano con loro l’esigenza di una nuova narrazione in grado
di unificare nuovamente la storia dell’arte sotto un nuovo paradigma; il bisogno,
cioè, di riconfigurare la storia dell’arte, per accogliere al proprio interno, a pieno
titolo, le tele dei post-impressionisti. Tuttavia, il paradigma “tradizionale” risultava
così potente e radicato all’interno del “mondo dell’arte” che oppose una fiera
resistenza alla propria rimozione. È Danto stesso a riferirlo – rifacendosi alle
cronache dell’epoca –, riportando come le reazioni del pubblico di fronte alle tele dei
“modernisti” fossero piuttosto fredde: si pensava che questi nuovi artisti non
sapessero dipingere oppure, più semplicemente, che volessero soltanto scandalizzare.

9
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., p. 49, corsivo mio.
10
Danto racconta del tentativo di Fry di porre in continuità con la pittura “tradizionale” le tele dei
post-impressionisti, sostenendo che queste tele fossero il frutto di uno «spirito classico comune alle
migliori opere francesi di tutti i periodi, dal XII secolo in poi», ivi, pp. 52-54.

6
Questo senso di “smarrimento”, dovuto all’allontanamento dalla “mimesi” – un
paradigma ormai ampiamente consolidato –, è indice di un atteggiamento il quale,
piuttosto che tentare di superare il modello Vasari-Gombrich, cercava strenuamente
di difenderlo, poiché «non c’è [non c’era] nessun altro modello disponibile»11.
Puntuale, invece, irrompe questo “nuovo modello” tanto invocato. Clement
Greenberg inaugura l’epoca “moderna” della storia dell’arte, che inizia con Manet,
per arrivare alla sua massima realizzazione con l’espressionismo astratto di Jackson
Pollock. In Pittura modernista12 – opera del 1961  Greenberg scrive che «i quadri di
Manet divennero il primo esempio di pittura modernista in virtù della franchezza con
cui essi sottolineavano la piattezza della superficie su cui erano dipinti»13. Ma di cosa
sta parlando Greenberg, quando utilizza il termine “modernismo”? Il modernismo si
identifica con «l’intensificazione, quasi l’esasperazione, di questa tendenza
autocritica iniziata con il filosofo Kant»14. Kant è stato, infatti, il primo filosofo a
delineare i confini della filosofia, utilizzando la filosofa stessa e guadagnandosi in tal
modo l’appellativo di «primo vero modernista»15. L’arte modernista, quindi, allo
stesso modo della filosofia kantiana, è quell’arte che ha come obiettivo l’indagine su
se stessa e, di conseguenza, la pittura modernista mira a definire le modalità
espressive esclusive del proprio “mezzo pittorico”. La ricerca modernista deve
pertanto essere guidata da un’idea di “purezza”, dove “purezza” significa
“autodefinizione”. Da questo punto di vista, la caratteristica che più di tutte
contribuisce alla definizione dell’arte pittorica è quella della “piattezza” della
superficie. Come chiarisce lo stesso Greenberg:

Fu la sottolineatura dell’ineluttabile piattezza della superficie che rimase,


tuttavia, più fondamentale di qualsiasi altra cosa nei processi attraverso i quali
la pittura criticava e definiva se stessa nel modernismo. Perché solo per la

11
Ivi, p. 52.
12
C. Greenberg, Modernist painting, «Voice of America», Washington D.C., 1961; trad. it. Il trionfo
del modernismo e della pittura americana, in G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini
dell’opera d’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 84-92.
13
Ivi, p. 85.
14
Ivi, p. 84.
15
Ibidem.

7
pittura la piattezza della superficie era fattore unico ed esclusivo. La forma
chiusa del quadro era una condizione limitante, o una regola, condivisa con
l’arte del teatro; il colore era una condizione e un mezzo espressivo condiviso
non solo con il teatro, ma anche con la scultura. Poiché la piattezza della
superficie era l’unica condizione che la pittura non condivideva con alcuna altra
arte, la pittura modernista si rivolse verso la piattezza più che verso qualsiasi
altra cosa16.

La centralità di Greenberg per la storia dell’arte è ribadita dallo stesso Danto,


che lo considera una tappa imprescindibile. Greenberg, infatti, è stato il primo ad
interrompere l’egemonia del modello Vasari-Gombrich, riconfigurando l’intera
narrazione dell’arte sul paradigma dell’“autodefinizione”, in cui il progresso è
scandito da una sempre più adeguata risposta alla domanda: «Cos’è che io posseggo
che nessun altro tipo di arte può possedere?”17.
In Il modernismo e l’arte pura: la visione storica di Clement Greenberg 18,
Danto torna sui tentativi di Fry e Kahnweiler di inserire rispettivamente i post-
impressionisti e i cubisti in continuità con la cosiddetta pittura “tradizionale”,
sostenendo che, nonostante questi avessero bene intuito che qualcosa stesse
irrimediabilmente cambiando nella storia dell’arte, il punto di svolta sarebbe arrivato
solo con Greenberg, dal momento che solo grazie alla sua nuova “narrazione”
diveniva possibile, da un lato, evidenziare la frattura tra le due epoche e, dall’altro,
porle in continuità, adottando un nuovo paradigma – quello dell’“autodefinizione”.
Parlare di “modernismo”, allora, significa parlare di rottura con il passato o si
può invece ipotizzare una continuità con l’epoca “tradizionale”? Danto si esprime in
termini piuttosto ambigui riguardo a questa questione e, se in un primo momento
sembra alludere a una sostanziale discontinuità tra le due epoche19, nelle pagine

16
Ivi, p. 86.
17
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., p. 14.
18
IV capitolo di A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit.
19
Scrive Danto: «Così, passo dopo passo, Greenberg costruì una narrazione del modernismo che
sostituiva quella della pittura figurativa tradizionale canonizzata da Vasari. […] A mio parere però, il
modernismo non subentra al romanticismo nella stessa maniera, o non soltanto: è invece caratterizzato
dall’accesso a un nuovo livello di coscienza, che si riflette nella pittura con una discontinuità», ivi, pp.
6-7.

8
successive sembra invece tornare su posizioni più concilianti nei confronti di una
continuità20. Questa “continuità” tra le due narrazioni è inoltre confermata anche
dalla lettura diretta di Greenberg che, nel suo testo del 1961, sostiene che «il
modernismo non ha mai significato, né lo significa adesso, una rottura con il passato.
Esso può significare un trasferimento e un dispiegamento della tradizione, ma nello
stesso tempo significa una sua ulteriore evoluzione»21. L’immagine che abbiamo è,
quindi, quella di un succedersi di narrazioni, in cui quella “tradizionale” abdica in
favore di quella “moderna”, più “potente”, dal momento che riesce ad includere
unitariamente nella storia dell’arte anche il post-impressionismo e il cubismo.
Se di “frattura” possiamo parlare, quindi, questa riguarda solamente gli
aspetti “stilistici” che vengono privilegiati dalle due diverse narrazioni, ma sono
aspetti che lo stesso Danto definisce pacificamente come “trasferimenti” della
tradizione, semplici slittamenti; se la narrazione “tradizionale” si concentrava sugli
aspetti mimetici dell’arte, quella “moderna” si focalizza sulle proprietà esclusive
dell’arte. Come sostiene lo stesso Danto: «Il nocciolo della questione è che
Greenberg definisce una struttura narrativa che è continuazione naturale della
narrazione vasariana, ma nella quale la sostanza dell’arte diventa lentamente
oggetto dell’arte»22.
Merita particolare attenzione un ulteriore fatto, che Danto mette in rilievo con
grande enfasi: il grandissimo merito di Greenberg è stato quello di far entrare la
“filosofia” all’interno dell’arte. Questi, con la sua narrazione del modernismo, ha
capito che la narrazione stava, sì, progredendo, ma che il progresso non era più
quello degli schemi pittorici e degli stili, ma piuttosto quello delle «rappresentazioni
filosofiche sempre più adeguate alla natura dell’arte»23. È proprio per questa nuova
dimensione teorica – che Greenberg per primo ha fatto emergere – che il
“modernismo” è l’epoca che ha visto un proliferare di “manifesti”. Questi, a volte
addirittura più importanti delle opere stesse, garantiscono e manifestano quella base

20
D’altro canto anche quella di Greenberg è una “narrazione” e, in quanto tale, vuole abbracciare
l’intero corso della storia dell’arte.
21
C. Greenberg, Pittura modernista, cit., p. 91.
22
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., p. 77, corsivo mio.
23
Ivi, p. 65.

9
teorica e filosofica all’interno della quale le opere d’arte – le nuove opere d’arte che
si distaccano dall’imperativo mimetico – assumono pieno significato e possono dirsi
con pieno diritto cittadine del mondo dell’arte. Come scrive Danto: «Il contributo
fondamentale dell’epoca dei manifesti è l’aver introdotto la dimensione filosofica nel
cuore della produzione artistica. Accettare l’arte in quanto arte significava accettare
la filosofia che le garantiva la cittadinanza; in quel contesto, la filosofia diventava
una sorta di definizione convenzionale della verità artistica e spesso una tendenziosa
rilettura della storia dell’arte in vista della scoperta di quella verità filosofica»24.
Danto saluta, dunque, con entusiasmo l’ingresso della filosofia nell’arte, in quanto si
rivelerà un elemento fondamentale ai fini dell’ingresso nel periodo “post-storico”.
A pochi anni dalla comparsa dell’espressionismo astratto e di Jackson
Pollock  vero e proprio alfiere dell’arte “modernista”, e incoronato da Greenberg
come “maggior pittore americano vivente”  accadde qualcosa; qualcosa che avrebbe
comportato un ulteriore rivolgimento all’interno del mondo dell’arte e che avrebbe
finito col mandare in crisi anche la narrazione “modernista”. È il 1964, siamo a New
York; Danto si reca alla Stable Gallery e lì si imbatte nelle Brillo Boxes di Andy
Warhol, ed è proprio questo incontro che, idealmente, sancisce l’inizio dell’epoca
“contemporanea” della storia dell’arte; quella che Danto definisce l’epoca “post-
storica”. Ma procediamo per gradi.
Cosa sono queste Brillo Boxes? E perché rivestono un ruolo così
fondamentale all’interno della storia dell’arte? Le Brillo Boxes, a livello percettivo,
non differiscono affatto dalle scatole delle spugnette saponate comunemente in
vendita nei supermercati25, eppure le Boxes di Warhol vengono considerate “arte”,
mentre le controparti “industriali” non lo sono affatto. Perché? Questo accade,
secondo Danto, perché le Brillo Boxes di Warhol vengono “sospinte” all’interno del
mondo dell’arte dalla “teoria”, che garantisce loro la cittadinanza artistica e il titolo
di “opera d’arte”. Dal momento che le Boxes di Warhol e i contenitori di spugnette

24
Ivi, p. 29.
25
In realtà vi sono delle piccole differenze tra le Brillo Boxes realizzate da Warhol e il prodotto
commerciale. Le prime sono leggermente più grandi rispetto alle originali e sono inoltre realizzate in
compensato, anziché in cartone. Tuttavia, queste differenze non impediscono affatto di poter parlare
di questi due oggetti come di una coppia di “indiscernibili”.

10
saponate sono percettivamente “indiscernibili”, sembra che la dimensione “estetica”
non giochi affatto alcun ruolo per quanto riguarda la definizione dell’arte. La Box,
infatti, non ci offre alcun criterio percettivo utile per riconoscerle lo status di “opera
d’arte”; ed è per questo che Danto – riferendosi anche ai ready-made di Marcel
Duchamp – può sostenere che «l’apprezzamento di queste opere deve consistere
almeno in parte nella percezione delle tensioni filosofiche a cui devono dar origine,
piuttosto che – per metterla in questo modo – nel fantasticare sulle forme significanti
o su chissà cos’altro. Sarebbe un fatto ironico e non pertinente, per esempio, se il
rapporto tra il diametro e l’altezza della lattina di Campbell Soup di Warhol
rispondesse esattamente ai dati della sezione aurea!»26.
Si noti bene che la dimensione “estetica” non risulta scevra di alcun ruolo
all’interno della filosofia dell’arte di Danto: quello “estetico” è un punto di vista che
trova la sua applicazione nella valutazione delle opere, ma non gioca alcun ruolo
nella “definizione” dell’arte. Nella teoria di Danto, infatti, è l’“artistico” a precedere
l’“estetico”. Questo non significa che la dimensione estetica entra in gioco solamente
in un secondo momento. Al contrario, l’“estetico” funziona sempre e comunque, ma
è solo dopo aver identificato l’“artistico” che siamo in grado di dare un’adeguata
valutazione estetica di un’“opera d’arte”. Data quindi la precedenza dell’“artistico”,
come possiamo dire che una cosa è “arte”? Che strumenti ci fornisce Danto? Ne La
trasfigurazione del banale27, l’autore – spinto in questa direzione dal problema degli
indiscernibili – si lancia alla ricerca delle condizioni “necessarie e sufficienti”28 per le
quali un’opera d’arte possa dirsi tale. L’analisi di Danto porta all’individuazione di
due caratteristiche definitorie: si può parlare di “opera d’arte” quando siamo in
presenza di un contenuto incarnato in un medium (embodyment), e quando questo
contenuto incarnato è “a-proposito-di” qualcosa (aboutness). Le Brillo Boxes di
Warhol soddisfano entrambi i requisiti e possono quindi considerarsi a pieno titolo
un’opera d’arte  cosa che non possono invece fare le scatole di spugnette saponate

26
A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, cit., p. 67, corsivo mio.
27
A.C. Danto, The Transfiguration of the Commonplace. A Philososphy of Art, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.)-London, 1981; trad. it. La trasfigurazione del banale. Una filosofia
dell’arte, Laterza, Roma-Bari, 2008.
28
Danto sta cercando delle condizioni necessarie e sufficienti, perché a richiederle è la sua filosofia
“essenzialista” che, in quanto tale, deve cercare condizioni universali e sempre valide.

11
in quanto non soddisfano (e non possono farlo, trattandosi di semplici oggetti) le due
condizioni poste da Danto29.
Tuttavia, ben presto Danto si rende conto di come queste condizioni siano, sì,
“necessarie”, ma non “sufficienti”, in quanto non possono dare conto della differenza

29
Su questo argomento è necessario ampliare il discorso, alla luce di quanto sostenuto da Danto nel
saggio Arte e significato (cfr. Art and Meaning, in N. Carroll (a cura di), Theories of Art Today, The
University of Wisconsin Press, Madison, 2000; trad. it. Arte e significato, in G. Di Giacomo, C.
Zambianchi (a cura di), Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008).
Incalzato dall’obiezione di Noël Carroll  secondo cui anche le scatole di Brillo in vendita nei
supermercati sarebbero “a-proposito-di” qualcosa  Danto si vede costretto a tornare sui propri passi,
integrando l’argomentazione che, ne La trasfigurazione del banale, lo aveva condotto a individuare le
due condizioni dell’“aboutness” e dell’“embodyment”. Scrive Danto: «È stato fatto notare che le
comuni scatole Brillo nei magazzini dei supermarket sono a-proposito-di qualcosa – Brillo – e
incarnano il loro significato grazie ai disegni sulle confezioni. E poiché cercavo una definizione che
distinguesse le opere d’arte dagli oggetti reali, quali che fossero, non ci sono riuscito, visto che la
definizione, se va bene per la scatola di Warhol, va ugualmente bene per le comuni scatole dalle quali
desideravo distinguerla» ,ivi, p. 143. A questa obiezione sollevata da Carroll, Danto risponde
distinguendo tra i due sensi della parola “contenuto”: il primo, secondo il quale «le scatole Brillo
contengono fisicamente le spugnette insaponate, e [il secondo] quello secondo il quale possiamo
parlare del contenuto di un’opera d’arte, che non è “nell”’opera in senso fisico, quale che esso sia. Il
contenuto della Brillo Box come opera d’arte è un fatto di interpretazione, che non ha nulla a che
vedere con l’aprire la scatola per guardare che cosa c’è» (Ibidem). È assolutamente sbagliato, quindi,
pensare che il “contenuto” di un’opera possa essere identificato a partire dalle proprie qualità visive, e
questa non è una caratteristica esclusiva dell’arte contemporanea (“contemporanea”, qui, intesa in
senso cronologico), ma vale anche per l’arte antica – tanto che, secondo un procedimento tipico della
riflessione di Danto, siamo autorizzati ad immaginare degli esempi di oggetti indiscernibili da una
statua greca antica, i quali ovviamente «non possono significare quello che significano le opere a cui
somigliano», ivi, p. 144. Tornando alle scatole di Brillo, Danto confessa di essersi reso conto del fatto
che «le scatole Brillo «reali» possono essere considerate arte, e che [...] quelle scatole costituivano un
paradigma insoddisfacente per gli oggetti reali, giacché, in fin dei conti, erano incorporate in un
sistema di significati», ivi, p. 145. Giunti a questo punto, l’unico modo per rendere conto della
differenza che intercorre tra la Brillo Box di Warhol e il prodotto industriale (disegnato inoltre da un
“ex” espressionista astratto, James Harvey), era quello di considerarle sulla base dell’appartenenza
rispettivamente all’“arte bella” e all’“arte pubblicitaria”. Ma la distinzione tra queste due “arti” è
possibile solo all’interno di quell’“atmosfera di teoria” di cui Danto parlava ne La trasfigurazione del
banale. Così, scrive Danto, «la distinzione tra arte pubblicitaria e arte bella diventò un problema, e per
risolverlo ho fatto appello, in un mio recente saggio, The Art World, alla teoria e alla storia dell’arte, e
se questa strategia ha funzionato, credo che allora si possa anche parlare del diverso configurarsi della
critica d’arte in relazione ai due oggetti», ivi, p. 146. Diverse critiche – e diverse interpretazioni –,
identificano quindi opere d’arte diverse; in tal senso possiamo dire che Harvey non avrebbe mai
potuto pensare di realizzare un’opera di “arte bella” perché per i suoi criteri l’arte bella era quella
degli espressionisti astratti. Diversamene, le scatole di Warhol potrebbero essere una reazione
all’espressionismo astratto, mostrando un sincero apprezzamento per le stesse cose che gli
espressionisti astratti, invece, disprezzavano. In questo senso l’opera di Warhol – sebbene
indiscernibile dalla prima – non è quella di Harvey, perché diverse critiche non consentono una
sovrapposizione tra le due.

12
che intercorre tra un’“opera d’arte” e – ad esempio – un semplice “segno iconico”. A
questo punto si rende necessario un ulteriore passaggio, che comporta l’introduzione
di un altro concetto, quello dell’“interpretazione”, secondo il quale «un oggetto è
effettivamente un’opera d’arte soltanto in rapporto a una interpretazione»30.
L’interpretazione comporta, dunque, una trasfigurazione dell’oggetto che, dal suo
status di semplice “cosa”, viene così elevato al grado di arte. Quella che l’autore ci
sta proponendo è una teoria “costitutiva” dell’interpretazione, secondo la quale
l’interpretazione è una funzione che costituisce l’opera d’arte  I(o) = opera31 , tale
per cui diverse interpretazioni costituiscono opere diverse32.
Interpretando un’opera potremmo ritrovarci a sostenere qualcosa come
«quella macchia di colore al centro della tela è Icaro che è caduto in acqua»33:
facendo questo, ci ritroviamo a fare un uso piuttosto particolare della locuzione “è”,
che non corrisponde né all’è dell’identificazione, né tantomeno a quello
dell’esistenza o a quello della predicazione. L’è del quale facciamo uso viene
chiamato da Danto «l’“è” dell’identificazione artistica»34. Quando identifichiamo la
macchia di colore al centro della tela dicendo che quelle sono le gambe di Icaro,
queste diventano il punto focale dell’intera opera, e improvvisamente gli altri
elementi dipinti sulla tela – relazionandosi ad esse – assumono una nuova
configurazione. Come ha sostenuto Danto: «identificare un elemento impone tutto un
insieme di altre identificazioni che stanno o cadono con quell’elemento. L’intera
cosa si muove a un tempo»35. Vediamo, dunque, come nella riflessione di Danto

30
A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, cit., p. 78.
31
A.C. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 151.
32
Tuttavia, un’opera d’arte non è aperta a qualsiasi interpretazione. Danto deve quindi porre un freno
alla deriva dei significati adottando due espedienti. Il primo di questi, il contesto storico-artistico, ci
obbliga a dare delle interpretazioni compatibili con la visione del mondo e le conoscenze disponibili
all’autore in quel particolare momento storico; stiamo parlando del “mondo dell’arte”. Il secondo
espediente, l’autoritas dell’artista, altro non sarebbe se non l’intento originario dell’artista. Cfr. A.C.
Danto, La trasfigurazione de banale, cit., pp. 154-158.
33
Il riferimento, ovviamente, è a La caduta di Icaro (1558 ca.) di Pieter Bruegel il vecchio, lo stesso
esempio che Danto utilizza ne La trasfigurazione del banale.
34
A.C. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 152.
35
Ivi p. 144.

13
dall’“interpretazione” dipenda l’“identificazione artistica” e come, viceversa,
dall’“identificazione artistica” dipenda l’“interpretazione”36.
Fin qui abbiamo detto cosa sono le Brillo Boxes, e la risposta a questa
domanda ha reso necessario mettere in luce le condizioni per le quali Danto può
inserire quest’ultime nel mondo dell’arte. Quello che ancora non appare chiaro è
perché queste “semplici” scatole sono artisticamente e storicamente così rilevanti.
Tentiamo di dare una risposta a quest’ultima questione. L’importanza delle Brillo
Boxes di Warhol risiede proprio nel loro essere percettivamente indiscernibili
rispetto alle loro controparti industriali. La differenza di status ontologico tra i due
oggetti ha fatto sì che ci si chiedesse come mai l’una fosse un’opera d’arte mentre
l’altra no  domanda alla quale Danto ha risposto, come abbiamo appena visto,
elencando le condizioni che rendono un’opera d’arte tale. La Brillo Box ha, quindi,
un compito importante all’interno della storia dell’arte, dal momento che esige un
punto di vista totalmente diverso rispetto a quello estetico-percettivo37. Anzi, se
rimanessimo ancorati alla percezione, cercando di individuare quali caratteristiche
“estetiche” rendano la Brillo Box un’opera d’arte, non saremmo affatto in grado di
individuare quale tra i due oggetti  ovvero tra la Brillo Box e il prodotto
commerciale  dovremmo prendere in considerazione. Questo comporta che, se non
conoscessimo nulla riguardo alle circostanze in cui questo indiscernibile “artistico” è
stato prodotto, potremmo confonderlo con il ben più “banale” prodotto industriale.

36
Tra “interpretazione” e “identificazione artistica”, dunque, intercorre uno stretto legame. Come
sostiene Marchetti, «tra l’interpretazione di un’opera d’arte e l’identificazione artistica dei suoi
elementi Danto ritiene che ci sia un rapporto di determinazione biunivoco. Da un lato, infatti, per
poter interpretare un’opera, dobbiamo individuare gli elementi di cui è composta a partire da un suo
“centro”, ossia da quell’unità che raccoglie e articola intorno a sé questi elementi […]. Dall’altro lato,
l’identificazione degli elementi di un’opera non è qualcosa che ha luogo in un contesto descrittivo
neutro, ma avviene all’interno di un contesto interpretativo. […] Ma allora, l’interpretazione dipende
dall’identificazione artistica degli elementi dell’opera la quale, a sua volta, dipende
dall’interpretazione stessa dell’opera. Tra interpretazione e identificazione c’è una reciprocità e una
co-implicazione tale che i due momenti non possono essere separati se non in sede di analisi
filosofica». Cfr. L. Marchetti, Oggetti semi-opachi. Sulla filosofia dell’arte di Arthur. C. Danto, Albo
Versorio, Milano, 2009, pp. 68-69.
37
In realtà non è proprio così. Già i ready-made di Marcel Duchamp, in quanto indiscernibili,
richiedevano una teoria che li qualificasse come “opere d’arte”. Tuttavia, le opere di Warhol godono
di un’assoluta priorità “narrativa”.

14
Quello che l’opera di Warhol richiede è, dunque, quella «atmosfera satura di teorie
artistiche e di storia dell’arte»38 che rende possibile considerarla “arte”.
La Brillo Box pone una domanda: perché io – che sono indiscernibile rispetto
alla scatola delle spugnette saponate – sono un’opera d’arte, mentre l’altra non lo è?
Ed è in questo interrogativo che è racchiusa l’enorme importanza delle Boxes di
Warhol: queste hanno reso storicamente possibile porre la corretta domanda, ovvero
la domanda filosofica sulla natura dell’arte. Con la posizione di questa domanda
l’arte ha raggiunto – secondo Danto – il proprio punto più alto, e avendo raggiunto
questo apice non ammette più alcun progresso. In questo senso, la storia dell’arte –
intesa come storia dello sviluppo progressivo dell’arte  è giunta a termine, e siamo
entrati in quella che Danto considera come l’ultima epoca della storia dell’arte:
l’epoca “post-storica”. Insomma, la questione degli indiscernibili gode di un’assoluta
centralità all’interno della filosofia dell’arte di Danto, poiché riveste un ruolo
strategico ai fini della tesi sulla “fine dell’arte”39.
Con il termine “post-storico” Danto vuole intendere la condizione in cui si
trova l’arte contemporanea, dove la parola “contemporanea” «non definisce tanto un
periodo, quanto quello che accade quando finisce la periodizzazione della grande
narrazione dell’arte»40. Entrare nella “post-storia” significa, dunque, sostenere che
l’arte non ha più alcuna “direzione” da seguire: nella “post-storia” non vi è più alcun
paradigma che possa imporre una direzione alla produzione artistica. Come sostiene
Danto:

quello contemporaneo [la “post-storia”] è quindi un periodo di disordine


informativo, una condizione di entropia estetica totale. È però allo stesso tempo
una fase di libertà praticamente assoluta. Oggi non si può più parlare di arte che
ricade al di fuori della storia; tutto è permesso41.

38
A.C. Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 162.
39
Danto lega le Brillo Boxes alla tesi della “fine dell’arte”, sostenendo che «“la fine dell’arte” sia
qualcosa di diverso rispetto a quello che pensava Hegel e che abbia a che fare con la risposta alla
domanda relativa a che cosa sia arte» (cfr. A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, cit., p. 30).
 domanda, quest’ultima, sollevata nella sua formulazione corretta, proprio a partire dal problema
degli indiscernibili.
40
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., p. 9.
41
Ivi, p. 12.

15
Bisogna, tuttavia, precisare che, in primo luogo, pur essendo entrati nella
“post-storia”, ad essere giunta al termine è solo la “narrazione” dell’arte e non la
“produzione” artistica  che presumibilmente si estinguerà solo con la fine della
razza umana. A dircelo è lo stesso Danto, quando scrive: «io sono per una fine della
storia dell’arte, non per la fine dell’arte. Non credo che tutto sia già stato fatto e che
quindi non possiamo aspettarci più nulla di sconvolgente dal mondo dell’arte»42. In
secondo luogo, non si può più parlare di arte che ricade “al di fuori della storia”,
semplicemente perché non vi è più una storia, non vi è più una “grande narrazione”.
L’“entropia estetica” della quale parla Danto è la porta d’ingresso per il “pluralismo”
artistico. Dobbiamo, cioè, iniziare ad accettare il “pluralismo”  o per dirla con le
parole di Danto “imparare a convivere” con esso , dal momento che i confini
stilistici sono caduti, e abituarci all’idea che nell’epoca “contemporanea” agli artisti
non è preclusa alcuna forma espressiva: tutti gli stili sono a disposizione, e ogni
artista può liberamente scegliere quale adottare.
Se fino a pochi anni prima dell’avvento della Brillo Box, nel pieno dell’epoca
cosiddetta “moderna”, la vera arte era quella che soddisfaceva i requisiti imposti
dalla narrazione dominante  pena l’esclusione dalla storia43 , nell’epoca del
“pluralismo” ogni cosa può essere arte. Come spiega Danto, «di fatto è proprio
questa la cifra distintiva delle arti visive a partire dalla fine del modernismo: si è
aperto un periodo definito dall’assenza di unità stilistica, o almeno di un’unità da
elevare a criterio e da prendere come punto di partenza per acquisire una facoltà di
riconoscimento; vengono quindi meno le condizioni per un indirizzo narrativo. Per
questo motivo preferisco parlare di arte poststorica»44.
Come abbiamo visto, la Brillo Box, ha reso storicamente possibile sollevare
l’interrogativo filosofico sull’arte nella sua giusta forma. Ma adesso? Che rapporto vi
sarà tra arte e filosofia d’ora in poi? L’opera chiede, ma il difficile compito di dare
42
A.C. Danto, Oltre il Brillo Box, cit., p. VII.
43
Per Greenberg, ad esempio, il “Surrealismo” non era considerabile “arte”, poiché non rientrava nei
canoni che definivano le pratiche ortodosse della pittura modernista. Come ricorda lo stesso Danto,
quando sostiene che «secondo quest’ultimo [Greenberg], il surrealismo, come la pittura accademica,
“ricade al di fuori della storia”, per mutuare un’espressione hegeliana», ivi, p. 8.
44
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., p. 12.

16
una “risposta” alla domanda non rientra più nelle competenze dell’artista: l’arte ha
esaurito il suo percorso, ed è ora il momento della filosofia. Secondo Danto, quindi,
«in questo momento il compito può passare nelle mani della filosofia vera e propria
che ha gli strumenti adatti per far fronte alla propria natura in maniera diretta e
definitiva. Quindi ciò che l’arte alla fine avrà ottenuto come proprio compimento e
fruizione sarà la filosofia dell’arte»45. Questo “passaggio” di consegne, indica in
maniera definitiva la “fine dell’arte” e, come sostiene Marchetti, «l’arte
contemporanea sembra così mettere in parentesi la dimensione sensibile,
trasformandosi sempre più in una riflessione sul proprio statuto e sui propri mezzi e
manifestando in questo modo la propria “natura” teoretica e filosofica. Per Danto,
questo stato di cose non può che portare a una “fine dell’arte”: l’arte si risolve,
hegelianamente, in filosofia»46.
Occorre però fare chiarezza su questo punto. Quanto appena detto si riferisce
al Danto de La destituzione filosofica dell’arte, opera in cui la sua riflessione
risultava ancora fortemente permeata dalla filosofia di Hegel. Per questo l’arte
veniva – hegelianamente – “destituita” dalla filosofia. Con la pubblicazione di Dopo
la fine dell’arte  a più di 10 anni di distanza  assistiamo ad un parziale
“ridimensionamento” dell’influenza hegeliana nel pensiero di Danto, e il rapporto tra
filosofia e arte non è più “destitutivo”, ma assume piuttosto la forma di un “cammino
parallelo”, in cui la filosofia non si cura di quello che fa l’arte e, viceversa, l’arte non
risente più delle indicazioni della filosofia.
Resta comunque il fatto che essere riusciti a esplicitare inequivocabilmente
l’interrogativo filosofico – la domanda corretta – significa essere in grado di dare
una definizione filosofica dell’arte universalmente valida, per qualsiasi opera e per
qualsiasi stile. Secondo Danto «una definizione filosofica deve abbracciare tutto,
niente escluso; questo in ultima analisi comporta che non possa esserci alcuna
direzione storica da intraprendere per l’arte da ora in avanti»47. Fare questo,
ovviamente, implica che non possa più esserci alcuna direzione in cui la storia
dell’arte possa far affiorare la domanda su sé stessa: l’arte ha già raggiunto questo

45
A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, cit., p. 55.
46
Luca Marchetti, Arte ed Estetica in Nelson Goodman, Aesthetica Supplementa, Palermo, 2006, p. 7.
47
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., p. 36, corsivo mio.

17
traguardo e, facendolo, ha reso possibile il pluralismo artistico in cui «non esiste un
modo specifico in cui un’opera d’arte debba presentarsi. E questo è il presente e,
oserei dire, il momento conclusivo della grande narrazione. La parabola narrativa è
conclusa»48.

48
Ivi, p. 46, corsivo mio.

18
2.

Storicità, relativismo e ontologia: la riflessione di Joseph Margolis

Un modello di storia dell’arte completamente diverso da quello proposto da


Danto, ci viene offerto dal filosofo americano Joseph Margolis, in particolare nel
volume Ma allora, che cos’è un’opera d’arte49  dove Danto compare come uno dei
principali referenti polemici. Per comprendere meglio il pensiero di Margolis è
opportuno tracciare un quadro di riferimento del suo pensiero, i cui punti cardinali
sono essenzialmente tre: “realismo culturale”, “relativismo”50 e una sorta di
“antropologia”  intesa come la forte relazione che sussiste tra arte ed esseri umani.
Per quanto riguarda il “realismo culturale”, come ha sostento Baldini, «con questa
espressione Margolis intende la tesi seguente: la cultura (e i relativi oggetti culturali
– come le composizioni musicali, i dipinti, le sculture, le poesie, ma anche il
linguaggio in generale – da cui è costituita ) “sono tanto reali quanto lo sono gli enti
fisici”»51. Per rendere conto delle differenze che corrono tra un “ente culturale” e un
“ente fisico” non va introdotta  secondo Margolis  una discontinuità “sostanziale”
tra mondo della cultura e mondo della natura, e tuttavia, pur parlando di “realismo”,
le opere d’arte non si “riducono” affatto agli enti materiali in cui si incarnano. Allo

49
J. Margolis, What, After All, Is a Work of Art. Lectures in the Philososphy of Art, Pennsylvania
State University Press, University Park, 1999; trad. it. Ma allora, che cos’è un’opera d’arte? Lezioni
di filosofia dell’arte, Mimesis, Milano-Udine, 2011.
50
Bisogna delimitare con attenzione il significato del termine “relativismo”. Il “relativismo” di
Margolis è assolutamente diverso da quello “antico” – quello protagoreo, ad esempio – che Platone ci
ha tramandato nel Teeteto. Essere un “relativista” non significa affatto indicizzare il valore “vero”,
facendo così dipendere la verità dal punto di vista particolare di colui che pronuncia il giudizio: questo
è un senso “forte” di relativismo, che in una riflessione sull’arte creerebbe enormi danni, spazzando
via in un sol colpo qualsiasi tipo di ordine temporale nella storia. Deve sempre esserci un ordine,
all’interno di una teoria sull’arte, perché se questo saltasse saremmo in un certo modo autorizzati a
sostenere che Matisse viene prima di Paolo Uccello, senza contare che andremmo incontro a difficoltà
insormontabili davanti alle opere di un citazionista come Bidlo. Quello che il “relativismo” di
Margolis ci vuole suggerire, in ultima analisi, è che, similmente a quanto detto da Wittgenstein, non si
può parlare dell’ordine – lo stesso tipo di ordine che l’essenzialismo di Greenberg, invece, giustifica
, bensì di un ordine.
51
A. Baldini, Introduzione, in J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 8.

19
stesso tempo, l’identità peculiare delle opere d’arte non viene nemmeno attribuita
“retoricamente” da una mera “trasfigurazione” di un oggetto reale, poiché altrimenti
un’opera d’arte sarebbe un’entità “astratta”, e cadremmo in una sorta di platonismo o
di idealismo incompatibili con la teoria di Margolis52. Come risulta evidente dal
riferimento (polemico) alla nozione di “trasfigurazione”, il “realismo culturale” di
Margolis rappresenta una prima e sostanziale critica alla riflessione di Danto nella
quale, secondo Margolis, le opere d’arte finiscono, piuttosto singolarmente, con il
non esistere  lo vedremo meglio in seguito. Se muoviamo da questa nozione di
“realismo culturale”, ci si potrebbe chiedere cosa segni la differenza tra un oggetto
“reale” e un ente “culturale”. La risposta a questa domanda sta nel fatto che le opere
d’arte, a differenza delle semplici cose, possiedono delle proprietà “Intenzionali”,
dove con il termine “Intenzionale” Margolis intende indicare l’insieme di «tutte le
proprietà intenzionali, intensionali, di significazione, simboliche, espressive,
storiche, semiotiche, di genere, etc.»53. La particolarità di questa dimensione
“Intenzionale” degli enti culturali risiede nel fatto che, sebbene questi siano
identificabili e re-identificabili, non sono “immanenti” all’opera, ovvero non
possiedono un significato determinato precedentemente al loro utilizzo: il contesto
storico in cui l’ente culturale viene prodotto è necessario ai fini dell’interpretazione,
la quale, di volta in volta, ha il difficile compito di portare alla luce il significato di
un’opera all’interno del suo contesto. Ma allora, dato che queste proprietà risultano
determinabili proprio a partire da un’interpretazione, come ci si dovrà comportare
davanti ad un’attribuzione di «strutture intenzionali a enti culturali che risultino
contraddittorie, incongruenti o semplicemente incompatibili?»54.

52
Se i nostri giudizi sull’arte dipendessero infatti da determinazioni ad hoc, come Margolis imputa a
Danto, «i nostri giudizi sul mondo naturale sarebbero condannati ad essere semplici “imputazioni” di
significato ad un realtà che sarebbe ovviamente indipendente e ci precederebbe in senso ontico
(aspetto che Margolis non vuole negare), ma che non potrebbe essere oggettivamente descritta, se non
nei termini di una qualche forma di Platonismo o di riduzionismo naturalista, che secondo Margolis
non sono mai stati dimostrati come veri (e non lo possono essere)». (Cfr. A. Baldini, Introduzione, in
Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 10). Questo accadrebbe proprio perché, come abbiamo
messo precedentemente in rilievo, non bisogna introdurre alcuna discontinuità “sostanziale” tra
mondo “naturale” e mondo “culturale” e, pertanto, i giudizi sui due mondi devono essere del
medesimo tipo.
53
Ivi, p. 9.
54
Ivi, p. 11.

20
La risposta a questa domanda sta nel “relativismo”, che è anche il secondo
nodo fondamentale della riflessione (non solo in ambito artistico) di Margolis. La
complessità del mondo culturale, secondo l’autore, può essere compresa e
agevolmente trattata solo a patto di abbandonare la stretta bivalenza  sulla quale si
regge un modello interpretativo come quello di Danto, che mira a individuare l’unica
interpretazione corretta, ovvero quella che più si avvicina all’intenzione originaria
dell’artista , in favore di una “logica relativista” nella quale il valore di verità deve
essere sostituito da una serie di valori “intermedi”, quali “sensato”, “legittimo”,
“ragionevole”, etc. Il valore “falso”, invece, viene mantenuto. È da notare, inoltre,
che l’“adesione” di Margolis al “relativismo” non è figlia di una presa di posizione
arbitraria, ma, anzi, è frutto di una riflessione sulla “storicità” del mondo della
cultura. Storicità che, agli occhi dell’autore, rende evidente i vantaggi di un utilizzo
di una siffatta “logica relativista”, ovvero, una logica che, consentendoci di non
dover escludere per principio un’interpretazione a favore di un’altra  che pure
potrebbe essere plausibile , ci toglie dall’impasse in cui ci troveremo, se
rimanessimo legati a una stretta bivalenza.
Al tema del “relativismo”, infine, si lega il terzo punto cruciale della
riflessione di Margolis. La sua riflessione sull’arte è tale per cui sussiste una stretta
«relazione tra le arti e la definizione degli esseri umani»55. Questo avviene perché,
secondo Margolis, al pari degli enti culturali anche gli esseri umani non hanno una
natura determinata ma, anzi, si determinano proprio a partire dall’acquisizione di un
linguaggio, e abitando il mondo degli artefatti56. Da questo punto di vista,
interpretare un’opera d’arte significa interpretare noi stessi; produrre arte significa
creare noi stessi. Così, «è proprio l’arte – assieme alle altre pratiche culturalmente
significative del mondo umano […] – a trasformare gli individui di una particolare
specie di scimmie antropomorfe in soggetti propriamente umani»57. È proprio per
questo motivo – cioè per via degli influssi che l’arte esercita sull’essere umano,

55
Ivi, p. 15.
56
Secondo Margolis, questo rende possibile sviluppare le proprietà biologiche contenute dagli esseri
umani, per così dire, “in potenza”.
57
Ivi, p. 16.

21
“determinandolo” – che la riflessione sull’arte di Margolis può essere considerata al
pari di un’“antropologia”.
Alla luce di questi aspetti emerge subito una grande e sostanziale differenza
rispetto alla riflessione di Danto. Per quest’ultimo, infatti, la domanda “che cos’è
un’opera d’arte?” può risolversi unicamente in un elenco di caratteristiche definitorie
(che individua in embodyment e aboutness), mentre per Margolis la risposta non
deve portare a un simile esito. Margolis non è alla ricerca di un criterio definitorio
per decidere se un oggetto faccia o no parte del mondo artistico. La domanda “che
cos’è arte?” rimanda a una questione più ampia, non limitata al solo ambito artistico:
l’obiettivo, infatti, è «il chiarimento di quale sia il ruolo delle arti e di quale sia il
loro legame con quelle potenzialità peculiari che trasformano gli individui della
specie Homo Sapiens in “persone”»58.
Se queste sono le linee generali sulle quali poggia la riflessione di Margolis,
possiamo ora vedere cosa gli consente di sostenere che la “storia dell’arte” non è
affatto giunta alla fine. A tal proposito si possono individuare tre argomentazioni, tre
grandi nodi concettuali attorno ai quali Margolis si muove. Il primo di questi tre
argomenti mira a sostenere la sostanziale impossibilità di una “fine dell’arte”, a
partire dal ripensamento della nozione di “storicità” come punto di vista privilegiato
per l’osservazione e la comprensione delle opere d’arte  che Margolis preferisce
denotare con il termine “enti culturali”. Prima di entrare nel merito della “storicità”,
analizzeremo le critiche che Margolis rivolge a Danto, mettendo in evidenza i motivi
che lo portano a rifiutare la sua teoria della “fine dell’arte”.
L’argomentazione di Margolis parte con una constatazione di carattere
piuttosto generale: l’autore prende in considerazione quelle teorie  tra cui quella di
Danto – che vedono nell’era “moderna”, nell’era “contemporanea” o in quella
“postmoderna” una nuova fase, caratterizzata dal rifiuto della periodizzazione
vigente fino a quel momento e dal rifiuto di ogni canone del passato. Margolis
ritrova in una siffatta idea un aspetto piuttosto paradossale, che mette in luce,
affermando che «rigettare una storia periodizzata è in se stesso, in qualche modo, il

58
Ivi, p. 8.

22
segno di un periodo distinto della storia»59. Margolis ci sta dicendo che quello che
facciamo quando diciamo di essere entrati in una nuova epoca – anche se questa si
configura come un’epoca in cui vengono rifiutate le caratterizzazioni temporali
finora utilizzate – non è altro che dichiarare come “finita” una vecchia consuetudine,
per inaugurarne un’altra che, tuttavia, si rivela essere affetta dalla stessa identica
tendenza “periodizzante”. Tentiamo cioè di “creare” qualcosa di nuovo, di
smantellare un certo modello “vettoriale” di storia dell’arte, facendolo poggiare sulle
stesse fondamenta che garantivano stabilità al modello che si vuole mettere in
discussione. Rifiutando una storia dell’arte periodizzata in senso forte, si vorrebbero
tagliare i ponti con il passato, ma nel momento in cui, per fare questo, viene creata
una nuova “epoca dell’arte” – quella “post-storica” , vengono re-instaurate quelle
stesse strutture che davano forma al passato storico-artistico e che, nelle intenzioni
iniziali, avrebbero dovuto essere definitivamente abbandonate. A partire da questa
considerazione Margolis rende esplicito il suo giudizio su una simile concezione
della “storia dell’arte”, sostenendo che «una storia periodizzata in modo fisso o
essenzializzato non è storia per nulla, ma un intervallo di tempo puntuale all’interno
di uno spazio congelato, immutabile – un’evoluzione teleologizzata definita come
storia»60. Questa “nuova epoca” appena inaugurata, quindi, oltre a non apportare
alcuna novità nella storia dell’arte, è figlia di una visione scorretta della storia stessa.
L’epoca “contemporanea”, infatti, si configura come immanente alla storia, alla
stregua dell’età “tradizionale” o di quella “moderna”. Ma una periodizzazione
immanentemente alla storia – come avremo modo di vedere più avanti, ma come ci
ha appena anticipato Margolis  equivale a non parlare di storia. Infatti, qualsiasi
“flusso temporale” suddiviso in modo “essenzialista” finisce con l’essere il racconto
di uno sviluppo progressivo che semplicemente si “traveste” da “storia”.
Se fino a questo momento il riferimento a Danto e alla sua filosofia era
sottinteso, ora il suo nome viene fatto in modo esplicito e viene accostato alla forma
mentis appena messa in discussione. Le tesi sostenute in Dopo la fine dell’arte
rappresentano il bersaglio delle critiche di Margolis, che si rivolge in maniera

59
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 38.
60
Ibidem, corsivo mio.

23
piuttosto diretta a Danto chiedendogli: «Come fai a sapere, come fa chiunque a
sapere, che la convinzione di aver eclissato tutti i “periodi [possibili] in una qualche
narrativa dominante dell’arte” non è a sua volta un tratto caratteristico della nostra
epoca contemporanea all’interno della stessa narrazione?»61. Secondo Margolis,
Danto, nel tentativo di svincolarsi da una certo tipo di racconto della storia dell’arte
passata, sta ricadendo nello stesso tipo di errore che abbiamo appena analizzato,
ovvero costruisce un’epoca, creandola ad hoc. Quello che Danto sta facendo è
prendere una condizione secondo lui tipica dell’età “contemporanea” – ovvero la
convinzione di aver eclissato tutti i periodi possibili dell’arte e, con essi, gli stili
dell’arte – ed elevare questa stessa condizione come se fosse un principio con il
quale giustificare questa “nuova epoca”. Insomma, Danto sta configurando la sua
tesi della “fine dell’arte” come un’altra “narrazione”, trasformando la condizione di
“entropia estetica totale” che caratterizza la “post-storia” in un nuovo paradigma. Per
Danto, infatti, «la fine della storia canonica dell’arte, è di per se stessa la pretesa di
aver scoperto una narrazione storica alternativa, presumibilmente garantita nello
stesso modo in cui la storia che ha rimpiazzato era stata giustamente convalidata»62.
Inoltre la pretesa di aver individuato i “veri” periodi della grande narrazione, che
adesso dovrebbero “post-storicamente” venire eclissati dalla “fine dell’arte”, tradisce
«lo stesso spirito che il “contemporaneo” pretende di mappare»63. In questo modo la
“fine dell’arte” – opponendosi paradossalmente al suo obiettivo programmatico,
ovvero quello di consentire l’ingresso nella “post-storia” , «si mostrerà come
un’ipotesi storica di per se stessa, accecata dal suo stesso periodizzare l’abbattimento
della periodizzazione»64. Insomma, la tesi di Danto, oltre a risolversi con un “nulla di
fatto”  non riesce infatti a distaccarsi dai “meccanismi” di periodizzazione dai quali,
programmaticamente, vorrebbe allontanarsi , si rivela anche intrinsecamente
paradossale, finendo con il “ri-attualizzare” nel “contemporaneo” la stessa visione
storica che il “post-moderno” doveva definitivamente mettere a tacere.

61
Ivi, p. 40.
62
Ibidem.
63
Ivi, p. 39.
64
Ivi, p. 41, corsivo mio.

24
Secondo Margolis, questo è accaduto dal momento che Danto si è fatto
portavoce di quello che lui chiama un «errore fondamentale per quanto riguarda la
storia, l’arte, la filosofia stessa»65. L’errore di Danto  comune anche a Greenberg e,
in generale, a ogni filosofia “essenzialista” – consiste nel non aver tenuto conto della
“storicità” dell’arte, preferendo invece concentrarsi sulla definizione di alcuni
“periodi” della storia dell’arte, quali “modernismo” e quello che Margolis chiama
“post-modernismo”. L’idea secondo la quale il “postmoderno” dovrebbe essere una
nuova era che rigetta tutti i canoni stabiliti nel passato e ormai sedimentati con il
passare degli anni è, secondo Margolis, una mera illusione. Al contrario, «è più
vicino alla verità pensare che abbiamo semplicemente appena iniziato a prendere sul
serio (nelle arti almeno – meno in scienza e filosofia) la storicità del nostro mondo e
pensiero»66. Quindi, ha davvero senso continuare a parlare di “periodi”, se adottiamo
una visione storica dell’arte? Assolutamente no, se la periodizzazione alla quale ci
riferiamo è una periodizzazione immanente alla storia stessa. Dobbiamo iniziare a
capire che «categorie come “modernismo”, “postmodernismo” e “contemporaneo”
non funzionano come indicatori di periodi, sono invece fiches da spendere nei
dibattiti appena discussi»67. L’imperativo di Margolis è quindi quello di andare oltre
queste etichette, abbandonare la “’periodizzazione” – la periodizzazione
“essenzializzata” di Greenberg e Danto – e recuperare la “storicità”. Ma cosa intende
Margolis quando parla di “storicità”?
Per definire la nozione di “storicità”, Margolis inizia rifacendosi ad Hegel.
Nel suo “sistema” l’arte «costituisce la prima modalità di manifestazione dello
spirito assoluto, poiché rappresenta l’ambito nel quale, attraverso l’intuizione e un
materiale sensibile dato, si esprime la libertà dell’umano»68. Tuttavia  come è noto 
nell’articolazione del Sapere assoluto l’arte è destinata ad essere soppiantata da altre
modalità di manifestazione dello Spirito: dapprima la religione, poi la filosofia – che
produce il superamento del carattere accidentale dell’intuizione e della

65
Ivi, p. 40.
66
Ivi, p. 38.
67
Ivi, p. 47. I “dibattiti appena discussi” a cui Margolis fa riferimento sono, nel testo, discussioni sui
concetti di “storia” e “immutabilità”.
68
Illetterati, L., Giuspoli, P., Mendola, G., Hegel, Carocci, Roma, 2010.

25
rappresentazione. Hegelianamente, quindi l’arte è “finita” poiché, come ha sostenuto
Hegel stesso, la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello Spirito». Se,
dunque, torniamo a Margolis e alla sua idea di “storicità”, questi sostiene che la
storia della pittura può essere pensata e

si sviluppa seguendo tre direzioni completamente antagoniste: una, credo è


fedele alla storia nel suo senso più profondo; le altre due non lo sono. La
prima tratta il pensiero in sé come storia o come storicizzato, intendendo con
questo che il pensare – a fortiori le arti, la critica, la scienza, la politica – è
formato e trasformato storicamente dalla sua stessa attività, e non può essere
sussunto sotto le categorie sviluppate nel passato […]. La seconda afferma
che la storia abbia un telos intrinseco, che, sebbene forse mai compreso
pienamente in un qualunque momento dato, giustifica le nostre congetture a
proposito della vera sequenza di periodi che caratterizzano la “narrativa
dominante” del mondo umano. La terza afferma che la seconda può essere
sembrata vera per un lungo periodo, ma adesso abbiamo capito che la verità
della storia (la verità della storia della pittura) è contenuta nella scoperta che
la periodizzazione oggettiva è giunta al suo termine e che la pittura, messa
correttamente in relazione con la propria storia, è adesso “post-storica”. Il
primo senso lo attribuisco a Hegel stesso, nei suoi moment migliori; il
secondo, a Clement Greenberg, senza dubbio quando ha intuito i tratti
generali del modernismo; il terzo, a Danto69.

Margolis è chiaro: attribuisce ad Hegel, «nei suoi momenti migliori»70, la


formulazione più appropriata del concetto di “storicità”. Nei suoi “momenti migliori”
sta a indicare che, per quanto riguarda la riflessione sull’arte, le posizioni di Margolis
sono estremamente lontane da quelle di Hegel. Per quest’ultimo, infatti, l’arte
costituisce una tappa nel processo di autocoscienza dello Spirito, ma è destinata a
essere superata  e in qualche modo “destituita”, se prendiamo in prestito un termine
dal lessico di Danto – da forme più adeguate. Per Margolis questo non accade.

69
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., pp. 40-41.
70
Ibidem.

26
Se passiamo ora a vedere cosa significhi questo termine, Margolis intende
con “storicità” «la fine dell’invarianza (changelessness) necessaria della struttura
stessa del pensiero razionale e, in continuità con il post-kantismo, la fine
dell’invarianza della stessa struttura razionale del mondo intelligibile. Storicità va
intesa come il cambiamento collettivo della struttura del pensiero culturalmente
strutturato attraverso i processi storici dell’esistenza»71. Quello che Margolis sta
dicendo è che adottare un punto di vista “storico” significa tagliare qualsiasi ponte
con l’“essenzialismo”, abbandonando la concezione per la quale un’opera ammette e
assume un significato solo all’interno di un quadro concettuale prestabilito che la
accolga  come la narrazione del modernismo, ad esempio.
Per maggiore chiarezza sarà utile fare un esempio, prendendo come campione
proprio Greenberg. Per questi, un’opera d’arte pittorica è tale se e solo se rispetta le
condizioni che il paradigma modernista le impone, ovvero quella della “piattezza
della superficie”. Se questo avviene, l’opera si inserisce perfettamente all’interno
della narrazione modernista, apportando inoltre il proprio contributo verso il
raggiungimento dell’essenza presupposta da quella stessa narrazione. In questo senso
Greenberg è considerato un “essenzialista”. Per Margolis, invece, le cose stanno
diversamente: egli accetta il fatto che un’opera possa ammettere più interpretazioni,
ognuna delle quali è potenzialmente capace di mettere in luce aspetti diversi – per
quanto anche incongruenti – all’interno della medesima opera72. È per questo che si
rende necessaria  come abbiamo visto all’inizio del capitolo  l’adozione di una
logica di tipo “relativista”. Una visione autenticamente “storica” dell’arte, quindi, ci
allontana dall’intransigenza “essenzialista” di un Greenberg.
Ben lungi dall’essere una semplice preferenza dell’autore, questa dimensione
“storica” si presenta agli occhi di Margolis come una vera e propria necessità, dettata
dalla natura intenzionale degli enti culturali. Inoltre, sostenendo che la storicità è il
“cambiamento collettivo della struttura del pensiero culturalmente strutturato”,

71
Ivi, pp. 31-32.
72
Scrive Baldini nella sua utilissima Introduzione: «È assolutamente plausibile il fatto che possiamo
essere attratti da entrambe le letture [della Nona Sinfonia di Beethoven], non perché banalmente non
siamo in grado di produrre un numero di prove tale da poter risolvere la disputa in modo definitivo,
ma proprio perché entrambe ci sembrano significative e ugualmente desiderabili, poiché illuminano –
forse – aspetti (per quanto incongruenti) che ritroviamo in quella stessa opera», ivi, p. 15.

27
l’autore ci vuole suggerire un modo di leggere gli enti culturali, tale che sia in grado
di evidenziare i legami che una particolare opera intrattiene con il suo contesto
temporale, storico e geografico; che sia, hegelianamente, la forma di espressione di
una comunità, ma che al tempo stesso rappresenti per la stessa comunità un modo per
conoscere se stessa. Marchetti ha descritto in maniera limpida questa “funzione”
peculiare della “storicità”, sostenendo che questa si configura come una «continua e
radicale riconfigurazione della storia stessa: costruiamo e ricostruiamo
incessantemente ciò che siamo e il nostro stesso mondo»73. Recuperare una
“storicità” autentica significa, pertanto, ammettere che «il pensiero possiede una
struttura intrinsecamente storica, che il pensiero è storia»74.
Alla luce di quanto detto si può portare avanti il confronto tra il modello di
Danto e quello di Margolis. Ricordiamo come, per il primo autore, il “modernismo”
costituisse uno snodo fondamentale all’interno della storia dell’arte. Si può dire
altrettanto per Margolis? E cosa intende questi con il termine “modernismo”? La
questione è diversa, e il termine si carica di altri significati. Se Danto identificava il
“modernismo” con la narrazione di Greenberg, coprendo quindi il periodo che va da
Manet alla Brillo Box, il “modernismo” per Margolis corrisponde più a un
“atteggiamento” piuttosto che a un periodo della storia dell’arte75. Secondo Margolis,
infatti, il “modernismo” è «la pretesa che, con l’essere moderno (ineluttabilmente, in
senso triviale), sia possibile acquisire senza problema una prospettiva neutrale e
oggettiva adatta a risolvere il ruolo sia della contingenza nel suo complesso, che
quello dell’incommensurabilità locale, degli schemi concettuali alieni, della storicità.
Della varietà di punti di vista, e così via – cioè la convinzione che, rispetto alla
natura o alla cultura umana, sia possibile in ogni caso riconoscere “com’è il
mondo”, adeguatamente separato dalle condizioni prospettiche della ricerca
umana»76. Un atteggiamento nei confronti dell’arte e del mondo, quindi,
caratterizzato dalla presunzione di un punto di vista “neutrale”, in grado di

73
L. Marchetti, La storia dell’arte nell’epoca post-storica, in «Studi di estetica», anno XLII, IV serie,
1-2, Mimesis, Milano, 2014, p. 207.
74
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 30, corsivo mio.
75
D’altro canto in una concezione “storica” dell’arte non si può parlare propriamente di “periodi”.
76
Ivi, pp. 27-28, corsivo mio.

28
scavalcare tutte quelle contingenze che in un contesto “storico” assumono una
rilevanza fondamentale, per arrivare a una presunta definizione “oggettiva” delle
cose; a un’essenza ultima. In altri termini, Margolis sta continuando la critica nei
confronti dell’essenzialismo, visto in questo caso come un atteggiamento
fallimentare in partenza.
Trattandosi di atteggiamento, si potrebbe sostenere che la polemica di
Margolis è rivolta non tanto al lavoro di Greenberg, quanto alla forma mentis che
Greenberg stesso incarna. Un’opera d’arte, concepita “storicamente”, è infatti uno
scrigno di “possibilità rifiguranti” troppo ricco e imprevedibile da poter essere
imbrigliato nei limiti di un determinato paradigma. Periodizzando in senso forte la
storia dell’arte, lasciamo che le “possibilità” delle opere vengano limitate dai confini
storici di un periodo, il quale ammette al proprio interno solo determinate
interpretazioni. Come sostiene Margolis, «non possiamo interpretare l’arte se non in
senso storico, esattamente nello stesso modo in cui non possiamo capire noi stessi se
non storicamente. Ogni alternativa presuppone che la realtà abbia una struttura
immutabile, indipendente dal contesto e che la storia della cultura sia soltanto
un’apparenza fenomenica di una natura umana invariabile comprensibile solo grazie
ad una fede di quel tipo»77.
Il discorso sulle “possibilità rifiguranti”, ovviamente, si lega alla tesi sulla
“fine dell’arte”, determinandone il rifiuto. Sappiamo, infatti, che queste possibilità
vengono “garantite” alle opere d’arte solamente in un contesto autenticamente
storico, nel quale le opere possiedono un certo grado di “libertà”, ovvero dove il loro
significato non è imbrigliato nei rigidi confini di un atteggiamento “modernista”. In
un’ottica autenticamente storica non sarà, ad esempio, più possibile “leggere” gli
artefatti artistici africani semplicemente come “modelli artistici” che hanno
influenzato lo sviluppo del cubismo – lettura che tradisce l’aspetto cannibalizzante
che Margolis rintraccia nel “modernismo”. Questo tipo di enti culturali dovranno
essere considerati nel loro più ampio contesto storico e geografico, secondo uno di
quegli “schemi concettuali alieni” al contesto occidentale di cui l’autore parla.
Allora, se la “storicità” appare come una teoria sull’arte richiesta dalle opere stesse,

77
Ivi, p. 46, corsivo mio.

29
come possiamo parlare di “fine dell’arte”, dal momento che risulta possibile parlarne
solo in un contesto effettivamente “a-storico”, come quello di Danto. Parlare di “fine
dell’arte” – nella prospettiva di Margolis  significherebbe, infatti, smettere di
comprendere noi stessi in quanto artefatti culturali, e questo sarebbe inaccettabile per
l’autore, alla luce della stretta correlazione con l’essere umano che questi riconosce
agli enti culturali. “Modernismo” e “arte post-storica” sono «costruzioni della
funzione specifica che suggeriscono in che modo si possa riformare al meglio la
narrazione in continuo progresso che descrive la pittura e in che modo dovremmo
accostarci alle opere d’arte pittoriche dal punto di vista percettivo»78. Se a Danto
l’arte post-storica  con la sua “entropia estetica totale”  appare come una
condizione in cui l’arte contemporanea si trova necessariamente, Margolis fa notare
come questa sua convinzione sia un errore, che riposa su una sorta di tacito consenso
da parte di critici, artisti, e pubblico, i quali, ognuno per le proprie ragioni, creano e
interpretano le opere «in rapporto a quel linguaggio specifico e a quello stesso
modello di interpretazione»79. Questo meccanismo, per quanto inconsapevolmente,
finisce con il rafforzare positivamente lo status di queste nuove “etichette”, dato che
possono avvalersi delle «opinioni espresse da artisti influenti che interpretano i loro
stessi lavori in continuità con queste narrazioni»80. Insomma, se si accetta il
ragionamento di Margolis, si arriva a sostenere che Danto, nonostante il suo obiettivo
programmatico fosse esattamente l’opposto, decretando la “fine della storia dell’arte”
ha solamente inaugurato una nuova narrazione, finendo in tal modo con il limitare le
“possibilità” delle opere d’arte  ponendole cioè nuovamente all’interno dei rigidi
confini di uno sviluppo teleologicamente ordinato , quando, invece, avrebbe voluto
inaugurare un’epoca di assoluta libertà artistica. Danto si sbaglia: la storia dell’arte
non è affatto finita e non può finire.
Abbiamo appena analizzato la prima linea argomentativa contro la tesi della
“fine dell’arte”. Una seconda critica alla filosofia di Danto si muove nei termini del
complesso rapporto che lega la riflessione dell’autore alla filosofia di Hegel.

78
Ivi, p. 61.
79
Ibidem.
80
Ibidem, corsivo mio.

30
Margolis, nel suo articolo Danto sulla filosofia dell’arte di Danto81, mette in
evidenza come, nel suo sviluppo, il pensiero di Danto risenta in maniera sempre
minore dell’influenza hegeliana. Come abbiamo già mostrato, infatti, se nel 1986 con
La destituzione filosofica dell’arte la prospettiva di Danto era simile a quella
hegeliana di un’arte che veniva “destituita” dalla filosofia, circa dieci anni dopo, in
Dopo la fine dell’arte, il punto di vista cambia radicalmente e, con l’ingresso nella
“post-storia”, ci troviamo in una fase in cui «l’arte e la filosofia non sono più
concettualmente (necessariamente) intrecciate, nel modo in cui lo sono state nella
storia filosofica che è ora giunta al termine»82.
Margolis riscontra una certa paradossalità nelle conclusioni alle quali giunge
Danto; sostiene, infatti, che nonostante l’utilizzo di una filosofia fortemente intrisa
del pensiero di Hegel, il risultato finale è qualcosa che si allontana notevolmente
dalle prescrizioni di un hegelismo “ortodosso”. Come scrive Margolis, infatti,
«l’esito è che, abitando lo spazio culturale del “pluralismo” post-storico, possiamo
ora scardinare l’intero apparato hegeliano che ha la pretesa di ricavare le norme
estetiche di principio della pittura, dalla sua stessa storia in corso di evoluzione»83.
Margolis fornisce una sua interpretazione di questa “storia assai complicata”, come
egli stesso la definisce: questo rapporto di “vicinanza-lontananza” con Hegel altro
non è, secondo l’autore, che non la registrazione dell’evoluzione delle convinzioni
filosofiche di Danto  evoluzione che lo ha portato, a pochi anni da La destituzione
filosofica dell’arte, a rendersi conto dell’inconciliabilità delle tesi hegeliane con
l’effettivo sviluppo della pittura. A prova di questa “inconciliabilità” vi sarebbe,
secondo Margolis, il declino di alcuni movimenti filosoficamente informati come la
Pop Art e il Minimalismo. Seguendo una linea hegeliana, Danto è giunto –
improvvisamente e apparentemente in maniera del tutto ingiustificata – a una
conclusione che finisce per invalidare le stesse premesse hegeliane del suo
ragionamento. Sotto questo profilo lo stesso Margolis dubita che le tesi hegeliane
stiano a fondamento della teoria di Danto. Qual è, infatti, la natura di questo

81
J. Margolis, Danto sulla Filosofia dell’arte di Danto, in «Rivista di estetica», XLVII, Vol. II, n. 35,
2007, pp. 277-292.
82
Ivi, p. 278.
83
Ibidem.

31
“pluralismo”? O meglio, su quali basi filosofiche poggia questa conclusione? Per
dirla con le parole dell’autore, «si tratta di un risultato “hegeliano” oppure esso
riposa su basi antihegeliane?»84. Per dare una risposta a questo interrogativo,
Margolis propone di considerare congiuntamente due passi estratti da due diverse
opere di Danto. Il primo di questi risale al 1984, ed è tratto da Blam!, pubblicato
nella rivista The Nation, dove Danto scrive: «È possibile considerare la storia della
pittura di questo secolo come una sequenza di rivoluzionari quesiti di portata
crescente»85. Il secondo brano, invece, risale al 1991, ed è tratto da Learning to Live
with Pluralism86. Scrive Danto: «Mi viene in mente che io ora sto costruendo una
narrazione filosofica del primo periodo post-storico dell’arte […] un periodo nel
quale non c’è più la possibilità di una direzione storica corretta»87.
Questi passaggi, secondo Margolis, mettono in evidenza come Danto si sia in
un certo senso “convertito” al “pluralismo”, chiedendosi così in maniera esplicita se
sia possibile vivere nella storia come se vivessimo al di fuori di questa. Per la
prospettiva “storica” di Margolis questo è inaccettabile; sostiene infatti: «Danto
abbandona qui il modello hegeliano della sua tesi della “fine dell’arte”: il suo
pluralismo giunge ora ad abbracciare la fine della nozione hegeliana di “fine
dell’arte” dal momento che esso rifiuta la nozione della storicità dell’arte nel senso
filosofico»88. Allontanandosi da Hegel, dall’Hegel “nei suoi momenti migliori” –
come ci ricordava Margolis – Danto ha abbandonato la “storicità” e, facendo questo,
si rende nuovamente soggetto alle critiche già viste nella prima parte di questo
capitolo.
Coinvolta in questa oscillazione tra Hegel e il “pluralismo”, la riflessione di
Danto si presenta, agli occhi di Margolis, come qualcosa di palesemente
contraddittorio e inconciliabile. Come sostiene l’autore,

84
Ivi, p. 282.
85
Ivi, p. 283.
86
A.C. Danto, Learning to Live with Pluralism, in Beyond the Brillo Box, cit. Trad. it. Imparare a
convivere con il pluralismo, in A.C. Danto, Oltre il Brillo Box, cit.
87
J. Margolis, Danto sulla filosofia dell’arte di Danto, cit., p. 282.
88
Ivi, p. 283.

32
Hegel, naturalmente, supponeva che la validità della filosofia fosse
essa stessa vincolata alla propria storicità. Di modo tale che era
perfettamente naturale per Hegel pensare che il telos dell’arte e della
filosofia come costruzioni dialetticamente cogenti si modellasse e
rimodellasse attraverso le fasi emergenti di ciascuna di esse; di
conseguenza, diveniva perfettamente naturale anche pensare alla “fine
dell’arte” come a una possibilità realizzata nell’afferramento
filosofico dell’“essenza” dell’arte stessa. In questo senso, ne La
destituzione [filosofia dell’arte], la “fine dell’arte” è il compimento
della corretta profezia della filosofia dell’arte e della filosofia della
storia dell’arte, mentre la fine della tesi della “fine dell’arte”
nell’articolo sul “pluralismo” è la conseguenza del rifiuto filosofico di
qualsiasi filosofia della natura intrinsecamente storicizzata dell’arte!
Le due teorie sono completamente opposte – e inconciliabili. […] In
base alla prima dottrina, lo stato (o stadio) “post-storico” della pittura
è esso stesso l’esito storicizzato della storia dialettica della “identità”
di arte e filosofia – secondo Hegel; mentre, in base alla seconda, è la
tesi della “fine dell’arte” (una tesi di Hegel, di fatto) a essere rifiutata
nel momento in cui si rifiuta la validità di qualsiasi versione
dell’analisi di un’unica, congiunta storia di arte e filosofia!89.

Non siamo quindi in grado di parlare “coerentemente” – per utilizzare il


termine di Margolis  di epoca “post-storica” e di “pluralismo”. La disgiunzione tra
arte e filosofia che inizia ad apparire negli scritti dal 1991 in poi non era presente ne
La destituzione filosofica dell’arte, eppure questa “disgiunzione” ha una sua cogenza
solo all’interno di una filosofia come quella che Danto ci propone nella suddetta
opera. Ma se, come Margolis ha messo in luce, la riflessione di Danto in un momento
successivo arriva a smentire quanto proclamato pochi anni prima, su quale base
filosofica questi è in grado di giustificare una simile disgiunzione? La validità delle
tesi sostenute negli articoli successivi al 1991, quindi, non è affatto chiara. Perciò,

89
Ivi, p. 284.

33
quando Danto ci parla di un “primo periodo post-storico dell’arte”, è inevitabile, per
Margolis, avvertire una sorta di «vertigine concettuale»90, dal momento che “post-
storico” è un termine che «finisce per essere sia un artefatto filosofico appartenente
alla stessa progressione storica alla quale quelle teorie appartengono […],
progressione della quale Danto ci aiuta a fuggire nel nostro cammino verso il
“pluralismo”, sia la scoperta filosofica delle basi astoriche (o quantomeno
destoricizzate) di quella stessa fuga!»91.
Margolis rintraccia un ulteriore elemento paradossale all’interno delle
conclusioni di questo “secondo Danto”: la Brillo Box di Andy Warhol, esemplare
perfetto di un tipo di arte che ha permesso – secondo Danto – di porre la corretta
domanda sulla natura dell’arte, porterebbe a una “sconfessione” di quanto affermato
dal 1991 in poi. Infatti, la Box, per essere considerata come “arte”, ha bisogno di una
teoria, e quindi di un elemento filosofico che la trasfiguri, facendola passare dal
regno delle semplici “cose” al rango di “opera d’arte”. La filosofia, nella riflessione
di Danto, si rende quindi ancora necessaria anche solo per giustificare l’esistenza di
opere d’arte come la Brillo Box. Ma allora, come potranno mai arte e filosofia essere
disgiunte in quest’epoca della storia dell’arte? Secondo Margolis, «Danto stesso
insiste sul fatto che rimanga un elemento ineliminabilmente filosofico nell’esistenza
stessa dell’arte (se possiamo esprimerci in questo modo) e anche sul fatto che il solo
modo di assicurare che quella condizione non sarà superata dai capricci della storia
(così come l’Espressionismo astratto è stato superato) richiede una certa essenziale
separazione tra percezione e pensiero»92. Separare “percezione” e “pensiero” è una
mossa che, agli occhi di Margolis, porta con forza a una visione “a-storica” dell’arte
 una visione, per questi, inaccettabile. Si inizia così a profilare un’ulteriore
questione: la teoria della percezione di Danto è adeguata o accettabile?
Proprio sul tema della “percezione” si consuma la terza critica che Margolis
rivolge a Danto. Devo, tuttavia, precisare che le argomentazioni di questa critica
tendono ad allontanarsi dalla tematica principale di questo lavoro e, pertanto, tale
critica verrà trattata in maniera breve, senza scendere in dettagli che

90
Ivi, p. 286.
91
Ibidem.
92
Ivi, p. 289.

34
trasformerebbero questo lavoro in qualcosa di diverso da quello che vuole essere.
Ricordiamo che per Danto le Brillo Boxes di Warhol sono, in ultima analisi,
percettivamente indiscernibili rispetto alle relative scatole di spugnette saponate di
marca Brillo. Per riuscire a trovare la differenza tra questi due “oggetti”, dato che la
percezione non può in alcun modo aiutarci, Danto determina, in un primo momento,
le due condizioni necessarie di embodyment e aboutness e, in un secondo momento,
chiama in causa le nozioni di “interpretazione” e di “identificazione artistica”. In
questo modo, quello che distingue le opere d’arte in quanto tali è qualcosa di
assolutamente indiscernibile, se indagato con i soli mezzi percettivi.
Una siffatta teoria ha suscitato la vis polemica di Margolis, il quale – nel suo
saggio Addio a Danto e Goodman93  ha sostenuto che «se l’occhio non potesse
“determinare l’effettiva o reale “differenza” tra un’opera d’arte e un “semplice
oggetto reale”, allora non potremmo mai percepire la presenza reale di un’opera
d’arte»94. Questa singolare fallacia percettiva si verifica, secondo l’autore, perché
Danto fa riferimento a una teoria della percezione che è errata in principio,
proponendo una percezione “a-storica” che, in quanto tale, non consente di percepire
chiaramente quelle che sono quelle proprietà relazionali e contestuali – insomma,
quelle proprietà che conferiscono il suo significato a un ente  che Margolis
definisce come “proprietà Intenzionali”. All’interno di un simile teoria, le proprietà
Intenzionali delle opere, anziché essere percepite, vengono «attribuite in senso
puramente retorico a “mere cose reali”»95. Questo porta a una conseguenza piuttosto
singolare: le opere d’arte, semplicemente, non esisterebbero96. Sotto questo profilo,
se per Margolis le opere d’arte sono enti culturali realmente esistenti  e di
conseguenza attribuire a tali enti delle proprietà Intenzionali in modo unicamente
retorico, facendo soltanto uso dell’“immaginazione”, sarebbe un errore, dal momento
che equivarrebbe a sostenere che quelle proprietà Intenzionali non sarebbero ipso

93
J. Margolis, Farewell to Danto and Goodman, in «British Journal of Aesthetics», 38, 4, 1998, pp.
353-374; trad. it. Addio a Danto e Goodman, in «Studi di estetica», 27, 1, 2003 (2007), pp. 105-138.
94
Ivi, p. 130.
95
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 90.
96
«Dico soltanto che se comprendete correttamente la teoria di Danto da ciò che scrive e dice quando
parla di arte, troverete che sottintende – e qua e là, di fatto afferma – che le opere d’arte
semplicemente non esistono», J. Margolis, Addio a Danto e Goodman, cit., p. 124.

35
facto proprietà effettive di tale oggetto  per Danto, invece, esiste una differenza
ontologica tra opere d’arte e “mere cose” – una differenza che, tuttavia, nemmeno lo
stesso Danto è in grado di dominare, poiché, come afferma lo stesso Margolis,
«Danto è convinto che le opere d’arte non esistono […]. Le opere d’arte non possono
essere oggetti fisici, per la semplice ragione che le prime “hanno” proprietà
(all’interno del linguaggio immaginativo dell’“è dell’identificazione artistica”) che i
secondi, di fatto (e necessariamente), non hanno»97. Ma la contraddizione si
manifesta qui in tutta la sua ovvietà: come potrà mai un’opera d’arte essere
ontologicamente diversa da qualsiasi altra cosa, dal momento che nemmeno esiste?
Le differenti ontologie dei due autori rimandano a diverse teorie della percezione: se
la teoria di Danto sembra riposare su una percezione “normale”, in un certo senso
“neutra”, in base alla quale non siamo in grado di cogliere differenze tra opere e
oggetti, Margolis propone una percezione “storicamente” determinata, in grado di
rendere conto della storicità degli enti culturali. Di fatto, secondo Danto, non
esistono opere d’arte; ma se non esistono opere d’arte, come potrebbe esistere una
storia dell’arte?
Insomma, alla luce di quanto sostenuto da Margolis sulla teoria della
percezione di Danto, si rende necessario un ripensamento della stessa, e di tutto ciò
che questa comporta. La disgiunzione tra arte e filosofia appare come qualcosa di
assolutamente ingiustificato, dal momento che è lo stesso Danto a sostenere che, per
considerare la Brillo Box un’opera d’arte, è assolutamente centrale il ruolo di una
teoria in grado di trasfigurare l’oggetto in qualcosa di ontologicamente diverso98. La
dimensione filosofica di un’opera, quindi, finisce con l’essere una parte necessaria
dell’opera, dal momento che la costituisce come tale. Allo stesso modo, dunque, un
teoria della percezione caratterizzata dalla separazione tra “percezione” e “pensiero”

97
Ivi, p. 128.
98
Chi non ha una spiccata familiarità con il discorso, potrebbe ancora avere difficoltà nel capire il
meccanismo e la necessità di questa “trasfigurazione”. Che bisogno abbiamo di questa funzione
trasfigurativa, dato che – per quanto simile alla scatola di spugnette saponate – la Brillo Box di Danto
non è la stessa scatola in vendita nei magazzini occidentali? Molte di queste perplessità spariscono se
adottiamo come opera paradigmatica un qualsiasi ready-made di Duchamp. I ready-made richiedono,
nell’ottica di Danto, lo stesso tipo di trasfigurazione, ma l’esempio risulterebbe più calzante (oltre che
molto più forte, a livello teorico), dal momento che Fontana non è semplicemente simile ma è
letteralmente indiscernibile da un comune orinatoio.

36
– che la disgiunzione arte-filosofia richiede come corollario  si rivela inadeguata al
tipo di opere d’arte che Danto ci invita a considerare. Se l’elemento “teorico” (che
costituisce l’opera) non rientrasse in alcun modo all’interno della percezione – cosa
che effettivamente avviene nella teoria di Danto – nel momento in cui noi ci
recassimo in un museo e ci trovassimo davanti alle Brillo Boxes, non avremmo (e
non potremmo avere) una risposta diversa da quella che avremmo trovandoci davanti
allo scaffale di un supermercato. Banalmente, se non ne fossimo stati
precedentemente informati, non sapremmo di trovarci davanti a un’opera d’arte.
Percepire “storicamente” un’opera d’arte, allora, significa percepire tutta
l’“atmosfera di teoria” che costituisce l’opera, congiuntamente al suo medium. Ed è
proprio per questo che possiamo dire che per Margolis la dimensione teorica – che,
ricordiamolo, deve essere percepita “storicamente” insieme all’opera , assume un
ruolo costitutivo addirittura più forte di quanto non lo sia nella teoria di Danto. Ecco
che, quindi, il recupero di una dimensione “storica” dell’arte si rivela come
necessario ai fini di una corretta valutazione dell’arte stessa, ed è in tal senso che la
“storicità” dell’arte non è per Margolis una semplice preferenza affermata
pregiudizialmente, ma una condizione che è in qualche modo “richiesta” dalle opere
stesse.

37
3.

La fine della “fine dell’arte”

Come abbiamo visto, la critica che Margolis rivolge a Danto è totale,


sistematica e mira a respingere come insensata la tesi sulla fine dell’arte, rigettando a
fortiori qualsiasi tipo di periodizzazione in senso forte  ovverosia qualsiasi
periodizzazione immanente alla storia stessa  che Danto pretende di dimostrare
come necessariamente vera. Tuttavia, questo tipo di critica non appartiene solamente
al repertorio di Margolis: tra gli altri che hanno seguito un simile via argomentativa,
dobbiamo ricordare anche David Carrier e Noël Carroll, che affronteremo più avanti.
Sebbene ciascun autore concentri le proprie critiche su un aspetto diverso
dell’argomentazione di Danto, tutte queste convergono comunque verso uno stesso
obiettivo: tentare di dimostrare come  tanto per mancanza di argomenti quanto per
la fallacità degli stessi  la tesi della “fine dell’arte” non possa essere accettata nei
termini che questa assume nella trattazione di Danto. La personalità di Danto, uomo
sincero e disposto al dialogo, ha reso possibile dare vita a convegni, discussioni e
tavole rotonde sul suo pensiero, facendo sì che, al momento attuale, alcuni di questi
incontri si siano “tradotti” in pubblicazioni , nelle quali Danto risponde alle
interessanti obiezioni sollevate di volta in volta.
Quindi, prima di inoltrarci nella discussione tra Danto e i suoi critici,
cerchiamo di ripercorrere brevemente – per comodità espositiva – le condizioni che
lo hanno portato a parlare di una “fine dell’arte”. Dopo aver preso in esame le
“grandi narrazioni” che si sono susseguite nella storia – il modello Vasari-Gombrich
e la narrazione del modernismo di Clement Greenberg – la Brillo Box di Andy
Warhol “inaugura” l’epoca “post-storica” dell’arte, spingendola a un punto di non
ritorno. All’interno di un quadro teorico in cui Danto riconosce come obiettivo della
produzione artistica quello di raggiungere la propria “auto-definizione”, infatti, il
lavoro di Warhol – di cui la Brillo Box è un esempio paradigmatico  porta l’arte alla

38
massima espressione delle sue possibilità, estromettendo il punto di vista estetico
dalla definizione dell’arte, e rendendo possibile sollevare la corretta domanda sulla
natura dell’arte, ovvero la domanda filosofica sulla propria essenza. Avendo fatto
questo, la storia dell’arte non ammette più alcuna possibilità di progresso e, quindi,
non è più soggetta a qualsivoglia “sviluppo”. Gli indiscernibili prodotti da Warhol
hanno così reso storicamente possibile quella che Danto considera come l’ultima
epoca della storia dell’arte, l’epoca “post-storica”, caratterizzata da un’assoluta
libertà stilistica che sfocia in quello che l’autore chiama “pluralismo” artistico. In
questa particolare epoca nulla può più ricadere “al di fuori della storia”, proprio
perché la storia – intesa come sviluppo progressivo verso un obiettivo, nella
fattispecie quello dell’auto-definizione – è terminata con la Brillo Box. In questo
senso siamo giunti a una fine della storia dell’arte, una fine che si impone agli occhi
di Danto con filosofica necessità. Dopo la Brillo Box, quindi, da un lato, l’arte non
può più compiere alcun “progresso”; dall’altro lato, arte e filosofia – finora
intrecciate in un rapporto piuttosto complesso, che Danto fa risalire addirittura a
Platone – sono costrette a separarsi, lasciando alla seconda il difficile compito di dare
una risposta alla corretta domanda sull’essenza dell’arte sollevata dalla prima. Dopo
la fine della storia dell’arte, la produzione artistica continuerà indisturbata, ma non
avrà più una direzione prestabilita da seguire, un obiettivo da raggiungere e, quindi,
non ammetterà più alcuno “sviluppo”.
Appare evidente, quindi, che se si vuole instaurare una discussione costruttiva
su Danto e con Danto, l’idea da sottoporre a critica con attenzione sarà proprio quella
della “fine dell’arte”. Le cose stanno proprio nella maniera in cui ci vengono
proposte da Danto? Cosa ci autorizza a dargli ragione? In particolare, dovremmo
chiederci se è legittima la tesi di Danto secondo la quale la storia dell’arte sarebbe
giunta al suo termine. Proprio la legittimità di questa teoria, infatti, è al centro delle
critiche tanto di Margolis, quanto dei sopracitati Carroll e Carrier. Ma procediamo
per gradi.
Sappiamo ormai che le posizioni sostenute da Margolis sono all’opposto delle
convinzioni di Danto. Nel volume Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, la tesi
della “fine dell’arte” viene messa in questione da Margolis, il quale sostiene che tale

39
“fine” sia in realtà una semplice “ipotesi” storica, accecata dal suo stesso
periodizzare l’abbattimento della periodizzazione99. Possiamo bene immaginare
come, davanti ad una simile obiezione, Danto insorgerebbe: potrebbe, infatti,
rispondere  e in effetti Dopo la fine dell’arte si muove interamente in questo senso
 che la “fine dell’arte” non è affatto una semplice ipotesi, ma una condizione –
impostasi necessariamente, e dimostrata su basi filosofiche – in cui l’arte attualmente
si trova. Danto sostiene, infatti, che la sua teoria della “fine dell’arte” è
significativamente radicata «in una filosofia dell’arte, o meglio, in una teoria di quale
sia la giusta domanda filosofica sulla natura dell’arte. La mia teoria [di Danto] è
inoltre radicata in una lettura della storia dell’arte in base alla quale la domanda sul
modo giusto di pensare filosoficamente all’arte fu posta solo quando la storia lo rese
possibile, quando cioè la natura filosofica dell’arte emerse come domanda
dall’interno della storia dell’arte stessa»100. La necessità della tesi della “fine
dell’arte”, quindi, è dovuta proprio al suo essere una conseguenza richiesta dallo
stesso “sviluppo” dell’arte  in particolare una giusta conseguenza, derivata da una
giusta domanda. Danto sta insomma sostenendo che il suo modo di leggere la storia
dell’arte  e quindi anche l’idea di una “fine” dell’arte  è in realtà il modo corretto,
dove la correttezza è garantita dal palesarsi nella storia dell’arte della corretta
domanda. Inoltre, per tornare alla critica di Margolis, come potrebbe la “fine
dell’arte” rivelarsi una semplice ipotesi “storica”, nel momento in cui proprio grazie
alla Brillo Box Danto ha decretato la fine della storia?
Si vede, chiaramente, che la questione in ballo è quella della necessità della
tesi della “fine dell’arte”. Proprio sul carattere necessario di questa tesi, Margolis ha
qualcosa da ridire. Se seguiamo Danto, infatti, siamo entrati nella “post-storia”
proprio perché la grande narrazione che lui stesso ha contribuito a costruire è giunta
al termine, esaurendo il compito che questa riconosceva all’arte. Ma, secondo
Margolis – e la sua argomentazione ci sembra appropriata e convincente –, non
possiamo lanciarci in una simile affermazione – ovvero che la storia dell’arte è
finita  se la base su cui questa si poggia è una struttura fittizia e retroattiva come lo

99
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 40.
100
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., pp. 29-30, corsivo mio.

40
è, appunto, una “narrazione”. Mi spiego meglio. Ricordiamo come una “grande
narrazione”, per essere tale, deve riuscire a comprendere l’intera storia dell’arte al
proprio interno, fornendo un indirizzo di lettura  e al tempo stesso creando una
storia  della storia dell’arte. L’insieme delle opere che rientrano in quella
particolare “narrazione”, quindi, potrà essere letto in un’ottica progressiva, in cui
ogni opera contribuisce al raggiungimento dell’obiettivo individuato da quella stessa
narrazione. Da questo punto di vista, una narrazione, una “grande narrazione”, sarà
una costruzione che necessariamente comporta una ri-lettura dell’arte passata in
chiave di un obiettivo che, il più delle volte, è semplicemente un punto di vista
privilegiato dall’ideatore della narrazione. È in questo contesto che Margolis può, a
ragione, sostenere che «se Danto ha ragione in quel che dice a proposito dell’arte
pop, allora, ovviamente, il passato teorico-artistico e storico-artistico dell’arte pre-
1960 sarebbe stato alterato dallo sviluppo della pop-art – cosa che andrebbe in
direzione completamente contraria alla sua stessa teoria della storia, nonché alla
scoperta filosofica e storico-artistica che ci propone»101. Sostenere che la teoria che
giustifica come “arte” il movimento Pop è in grado di forzare la lettura della storia
dell’arte passata con un effetto retroattivo, è un controsenso che viene avvertito come
tale. Leggere la storia dell’arte come la storia dello sviluppo della produzione
artistica verso il raggiungimento della propria “auto-definizione”, infatti,
equivarrebbe a inserire forzatamente in questo tipo di narrazione opere palesemente
estranee a un simile obiettivo  basti pensare a La scuola di Atene. Quindi, se la “fine
dell’arte” è l’esito necessario di una “narrazione”, ma questa stessa “narrazione” si
rivela essere assolutamente ingiustificata, come potrebbe la “fine dell’arte” essere
dimostrata come inevitabilmente vera? La necessità che Danto aveva sinceramente
creduto di poter rintracciare all’interno della sua argomentazione, pertanto, è appena
stata convincentemente dimostrata come infondata.
In questo modo Margolis sottrae la tesi della “fine dell’arte” dal regno della
necessità, facendola rientrare nel novero della contingenza, dove torna ad essere una
semplice ipotesi. Per questo, Margolis può sostenere, con fare definitivo: «Danto
vorrebbe farci credere che la sua scoperta ha portato la storia dell’arte alla sua fine,

101
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 63.

41
mentre la verità è che la fine dell’arte non è altro che un artefatto della sua stessa
costruzione storica della fine dell’arte»102. Se la tesi della “fine dell’arte” non ha più
quel carattere di “necessità” che la riflessione di Danto le attribuiva, allora il suo non
è più il modo corretto di leggere il movimento della storia, ma diventa
semplicemente un modo tra i tanti. Questa conseguenza è coerente con la teoria di
Margolis, soprattutto con il tema del “relativismo” che – come abbiamo visto nel
secondo capitolo  respinge una periodizzazione immanente alla storia stessa, per
adottare invece una periodizzazione, consolidata dall’insieme delle pratiche di una
società, e per tanto in grado di raggiungere, all’interno di quella stessa comunità, un
certo grado di “oggettività”.
Sulla stessa linea argomentativa, non si può trascurare il significativo
contributo fornito da Noël Carroll. Questi, nel suo articolo The End of Art?103, non
solo si dichiara scettico relativamente alle conclusioni a cui Danto giunge, ma
sostiene anche che «Danto fallisce nel dimostrare che la storia dell’arte è
necessariamente giunta a termine»104. L’argomentazione di Carroll è assolutamente
lineare. I progressi in campo artistico  secondo l’argomento di Danto  spettano
all’arte di “avanguardia”; “avanguardia” che Danto identifica con la pittura. Ora, se
la pittura è l’“avanguardia” artistica, allora le condizioni della pittura riveleranno le
condizioni di tutta l’arte in generale. Ma, dato che la pittura è qualcosa di
essenzialmente non-verbale, allora non potrà in alcun modo farsi carico della
definizione dell’arte. Abbiamo, in questo modo, raggiunto la fine dell’arte.
Nonostante quest’argomento si presenti al lettore con la forma di una ferrea
deduzione logica105, in realtà è composto da premesse piuttosto controverse che
portano al crollo delle affermazioni portanti. In primo luogo, se concediamo a Danto
che la pittura è l’arte d’avanguardia per eccellenza, allora dovremmo inferire che
alcune proprietà di quest’arte d’avanguardia devono essere proprietà comuni a tutte
le altre arti. Ma non è così, dal momento che è proprio Danto a riconoscere forti
discrepanze tra la pittura e le altre arti  in particolare quelle non-verbali. Questo

102
Ibidem.
103
N. Carroll, The End of Art?, in “History and Theory”, 37, 4, 1998, pp. 17-29.
104
Ivi, p. 17, corsivo mio.
105
È lo stesso Carroll a dirci: «the argument is logically sound», ivi, p. 22.

42
porta a chiederci, in primo luogo, perché mai il futuro delle arti verbali debba essere
predetto proprio a partire da un’arte non-verbale e, in secondo luogo, in che modo la
pittura, pur non condividendo tutte le proprietà delle altri arti, possa essere
considerata effettivamente come l’arte d’avanguardia per eccellenza. Insomma, non
abbiamo alcun motivo di escludere a priori la possibilità che qualche altra arte
“verbale”, possieda le capacità per articolare il problema dell’autodefinizione
dell’arte nella maniera richiesta. Inoltre, vi sono numerosi esempi di arte “non-
verbale” che Danto potrebbe considerare  e che, di fatto, accetta  tra cui l’arte
concettuale, le installazioni, le performances e i collages, che potenzialmente
potrebbero compiere significativi passi in avanti in direzione di una “definizione”
dell’arte. Certamente Danto potrebbe controbattere che questi tipi di espressione
artistica sono stati resi storicamente possibili proprio dall’avvento della Brillo Box e,
di conseguenza, non possono far venire meno la validità di ciò che li ha legittimati.
Un ulteriore punto analizzato da Carroll riguarda la separazione tra arte e filosofia
che caratterizza l’epoca “post-storica”. Sotto questo profilo, Carroll presenta dei
contro-esempi fattuali, chiamando in causa Fontana di Marcel Duchamp, e
dimostrando, quindi, come anche un’opera d’arte non-verbale possa, da un lato,
problematizzare una teoria dell’arte e, dall’altro, dare un contributo alla propria
definizone.
Un altro elemento di critica è la tesi secondo la quale l’auto-definizione
sarebbe l’unico “motore” per pensare una storia dell’arte in senso evolutivo. Questo
sembra contraddittorio, dal momento che all’interno della riflessione di Danto
vengono citati due “meccanismi” di sviluppo, rappresentati dal modello Vasari-
Gombrich e dalla narrazione modernista di Greenberg. A tal proposito, dobbiamo
ricordare come le stesse perplessità siano state espresse da Margolis106 e da David
Carrier, il quale, esplicitamente, si chiede «perché confinare l’arte all’obiettivo
dell’auto-definizione, cercando di determinare cosa sia l’arte? Anche se la Brillo Box
ha dimostrato definitivamente la falsità dell’analisi modernista, questo non comporta

106
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 39.

43
che in futuro l’arte non possa impegnarsi in ricerche al momento sconosciute»107. La
conclusione alla quale Carroll giunge è che la tesi della” fine dell’arte” ha la forma di
un’argomentazione filosofica, dal momento che «si pronuncia sulla fine e sulla
necessità [di questa fine]»108, ma in realtà, data la fallacia delle premesse, la “fine
dell’arte” si rivela essere un semplice giudizio critico109.
Nemmeno questa volta Danto sarebbe d’accordo con le critiche che gli
vengono rivolte. Infatti, è lo stesso autore a screditare l’ipotesi per la quale la “fine
dell’arte” si configurerebbe come un giudizio di natura critica, ribadendone anzi
ancora una volta la necessità, nel momento in cui sostiene che «la fine dell’arte non
implica affatto un giudizio critico, bensì un giudizio storico oggettivo»110. Ma come
abbiamo visto precedentemente, Danto non è in grado di fornirci alcun elemento
convincente per poter pensare alla “fine dell’arte” come qualcosa di necessario e, di
conseguenza, ci troviamo costretti a respingere questa difesa.
Torniamo per un momento alla questione sollevata precedentemente, riguardo
alle strade che l’arte, in un futuro, potrebbe percorrere. Anche in questo caso siamo
in possesso di una risposta diretta di Danto alle critiche mosse da Carroll,
formalizzata nell’articolo The End of Art: A Philosophical Defense111. Qui Danto non
sembra muovere passi significativi a proprio favore, limitandosi, infatti, a ripetere
ancora una volta che negli anni ’60 siamo incorsi in un «break nella storia»112, in cui
la pittura cessa di essere il medium della sviluppo storico dell’arte proprio perché
dopo la Brillo Box nulla avrebbe potuto ulteriormente contribuire allo sviluppo
dell’arte. Nulla viene detto riguardo alla questione di una possibile arte, verbale o
non-verbale, che possa continuare a muovere la storia dell’arte, giacché la storia è

107
D. Carrier, Introduction: Danto and his crtics: Art history, Historiography and After the End of
Art, in “History and Theory”, 37, 4, 1998, p. 14.
108
N. Carrol, The End of Art?, cit., p. 29.
109
«Thus, Though the end-of-art thesis fails as an argument in the speculative philosophy of art
history, as art criticism, it is exemplary and important. What Danto calls “post-historical art” is not a
philosophical category. Rather, it is a telling description of a significant, though contingent, stylistic
interlude». Cfr N. Carroll, The end of Art?, cit., p. 29.
110
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, cit., p. 23, corsivo mio.
111
A.C. Danto, The End of Art: a Philosophical Defense, in «History and Theory», 37, 4, 1998, pp.
127-143.
112
Ivi, p. 139.

44
giunta al termine  anche se non vengono fornite ulteriori prove o evidenze a favore
di questa conclusione.
Inoltre, Danto fornisce qui un inatteso contributo ai suoi critici, preparando, a
mio parere, il terreno per la sua definitiva confutazione. Scrive Danto, riferendosi al
fatto che ormai la storia dell’arte non ammette più alcun alcuno sviluppo: «Come
posso saperlo, si chiede Carroll. Come posso sapere che non ci sarà, in tutto il campo
delle possibilità artistiche  una performance, ad esempio – che darà vita a una storia
completamente nuova? La risposta è che io non posso saperlo […]. Ma il futuro è
quello che non possiamo immaginare finché non è presente»113. Come può, allora, la
“fine dell’arte” essere qualcosa di “necessario”, se lascia aperta la possibilità di
venire smentita in un futuro? Questa domanda di Carroll ci riporta ex abrupto a
quanto già visto nel secondo capitolo, quando Margolis si chiedeva come Danto
potesse aver decretato la “fine” dell’arte, partendo dalla presunzione di aver
individuato i veri periodi della sua storia114. Se Danto non può in alcun modo
prevedere l’andamento della produzione artistica futura, e posto che una narrazione
(e il relativo obiettivo che funge da “spinta” per un eventuale sviluppo) può essere
“individuata” solo a posteriori, cioè analizzando le opere d’arte prodotte fino a quel
particolare momento, come può Danto essere sicuro che l’arte che verrà prodotta tra
40 anni, ad esempio, non potrà compiere ulteriori progressi verso la propria “auto-
definizione”, o addirittura muoversi verso il raggiungimento di un altro obiettivo?
Come può Danto essere sicuro di questo? Semplicemente, non può. E non avendo
fornito argomentazioni conclusive a sostegno della sua tesi, non può nemmeno
delegare a qualcun altro l’onere della dimostrazione. La “fine della storia dell’arte”
sembra assumere sempre di più la forma di un’ipotesi, sicuramente affascinante, ma
di certo indimostrata.
Torniamo a Margolis. Nel 1999 è stato pubblicato un suo articolo, composto
da cinque paragrafi, il cui nome sembra essere già una dichiarazione di intenti: The
Endless Future of Art115. Nel terzo di questi paragrafi, Margolis parte da un esempio

113
Ivi, p. 140, trad. mia, corsivo mio.
114
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., pp. 37-65.
115
J. Margolis, The Endless Future of Art, in A. Haapala, J. Levinson, V, Rantala (eds.), The End of
Art and Beyond. Essays after Danto, Humanity Books, New York, 1999, pp. 2-26.

45
fattuale e, utilizzando una recensione critica redatta dallo stesso Danto, giunge ad
una conclusione che porterebbe a una sconfessione della sua teoria. Vediamola nel
dettaglio.
Margolis parte dalla critica, datata gennaio 1989, in cui Danto stronca l’artista
tedesco Anselm Kiefer, che in quel momento esponeva al MoMa di New York. In
questa recensione Danto sostiene che «un modo per accattivarsi i curatori e allo
stesso tempo il grande pubblico che spontaneamente equipara l’oscurità con la
profondità è riempire il proprio lavoro con un cialtronesco simbolismo la cui
esistenza è usata dai primi per spiegarla ai secondi»116. Danto condanna l’opera di
Kiefer in quanto rappresenta un “ritorno” all’arte simbolica, la quale  come era
anche per Hegel  è la forma d’arte meno “universale” dal momento che i simboli,
per funzionare, hanno bisogno di un contesto di rimando  cosa che non accade,
invece, nell’arte “alta”, dove il significato penetra l’opera in modo tale che
“percepire” equivale a “comprendere”. Secondo Margolis questa è una revisione
scandalosamente pregiudiziale dell’opera. Ci si potrebbe infatti chiedere come mai
Danto, per interpretare un’opera degli anni 80 del ‘900, si rifaccia a categorie in un
certo senso “hegeliane”, ignorando di fatto la propria tesi, secondo la quale siamo nel
bel mezzo di un’epoca dominata dal “pluralismo” artistico. Perché mai un’opera
dovrebbe essere giudicata di scarso valore solo per via dello “stile” adottato
dall’artista? L’opera di Kiefer potrebbe essere, invece, un’occasione  che Danto ha
ovviamente ignorato, secondo Margolis  per cogliere «la via al di là della fine
dell’arte»117. Il pregiudizio nei confronti dell’opera di Kiefer, è lo stesso pregiudizio
che lo accomuna a Hegel, a Gombrich e Greenberg, cioè quello di far dipendere la
critica d’arte da una visione “teleologica” della storia dell’arte. Da questo punto di
vista, Margolis ci fa vedere come altri critici, che non cadono nello stesso errore di
Danto, riescono ad apprezzare Kiefer e a vedere in lui qualcosa di significativo118,

116
Ivi, p. 7, trad. mia.
117
Ivi, p. 8.
118
È il caso di Huyssen, che rintraccia alcune caratteristiche originali nel lavoro dell’artista tedesco.
Tenendo conto che il dipinto in questione rappresenta un uomo intento a eseguire il saluto nazista, in
primo luogo, Kiefer si è dimostrato in grado di compiere un progresso tecnico nell’utilizzo del
medium della pittura, cosa che Danto non ha notato. Secondo poi, con il suo “forte simbolismo”,
l’artista vuole alludere alla rappresentazione della banalità, piuttosto che a quello a cui solitamente il

46
ritenendo in tal modo che Kiefer – e come lui qualsiasi altro artista potrebbe esserne
capace  sia andato oltre la “fine dell’arte”, mostrando che il futuro dell’arte è senza
“fine”.
Danto risponde a questo articolo di Margolis119, ma ancora una volta dà
l’impressione di non aver centrato il punto della critica. Sostiene, infatti, che già il
titolo del saggio, non sia altro che un’«astuta storiella filosofica mascherata come
un’ottimistica previsione estetica»120. Il senso ultimo dell’attacco di Margolis è,
secondo Danto, quello di criticarlo per aver provato a pensare a una storia dell’arte
strutturata «come se gli inizi e le fini fossero incarnate all’interno della storia vissuta
[in modo immanente, quindi] quando in realtà giacciono al di fuori di essa, e
appartengono alle contingenze dei diversi racconti. Ma io [Danto] non vedo alcuna
ragione per accettare questo»121. Inoltre, continua Danto, «l’articolo di Margolis non
ci dice nulla sul futuro dell’arte, nemmeno se ce ne sarà uno»122. E questo è
effettivamente vero: Margolis non dice assolutamente nulla sul futuro dell’arte. Ma
era questo l’obiettivo di Margolis? Assolutamente no. Margolis non vuole lanciarsi
in previsioni circa il futuro dell’arte, non vuole farlo, e nemmeno potrebbe, dal
momento che, non abbracciando alcuna forma di essenzialismo, non costringe l’arte
in “una” direzione, e quindi non potrebbe prevederne un eventuale sviluppo. Quello
che Margolis ha ribadito con forza è che il futuro dell’arte è “open-ended”, ovvero
non ammette una fine; non ammette quella fine che per Danto si configura come un
esito necessario e che, quindi, non potrebbe essere altrimenti. Il discorso sulla fine
dell’arte è generato da una concezione “essenzialista” della storia, che ha portato
Danto a conferire un peculiare valore alle “grandi narrazioni” che, per Margolis, non
sono altro che semplici “costruzioni”.

simbolo rimanda. Terzo, è riuscito a combinare tutti questi elementi per mostrare il meccanismo
attraverso il quale emerge l’identità nazionale .Quarto, l’artista ha comunicato tutto ciò, rimandando ai
processi sociali con i quali il nazionalsocialismo si affermò.
119
A.C. Danto, Narrative and Never-Endingness: A Replay to Margolis, in A. Haapala, J. Levinson,
V. Rantala (eds.), The End of Art and Beyond. Essays after Danto, Humanity Books, New York, 1999,
pp. 27-29.
120
Ivi, p. 27, trad. mia.
121
Ivi, pp. 27-28, trad. mia.
122
Ivi, p. 27, trad. mia.

47
Abbiamo visto come una delle critiche di Margolis sia quella di sostenere che
la stessa tesi della “fine dell’arte”, nonostante la sua promessa di liberarci dalla
«tirannia della storia»123, sia in realtà di per se stessa “storica”, figlia della stessa
forma mentis che voleva distruggere124. Se accettiamo la conclusione di Margolis,
secondo la quale anche l’epoca “post-storica” è una “narrazione” – e a mio parere
non abbiamo motivi per rifiutare una simile affermazione – allora dobbiamo
ripensare tutto l’impianto della filosofia della storia di Danto. Una “narrazione”,
dunque, non è affatto qualcosa di immanente, ma è semplicemente il risultato di una
pratica collettiva che si sedimenta e stratifica  arrivando in questo modo perfino ad
avere un certo grado di “oggettività”. Come sostiene Margolis, «non esiste alcuna
demarcazione di principio tra ciò che ricade all’interno o all’esterno dei confini della
storia, fatta eccezione per ciò che retrospettivamente una narrazione storica rende
plausibile (in quel modo) agli occhi di una collettività»125. Lungi dal sostenere che
non vi sia alcun tipo di “ordine” all’interno della storia dell’arte – sfoceremmo
altrimenti in un relativismo forte che non è nelle intenzioni dell’autore – appare
evidente come per Margolis la comunità, e quindi l’essere umano, abbia un ruolo
preminente all’interno del mondo dell’arte. In base al modello di Margolis, quello
che rende possibile comprendere, dare un ordine alla storia dell’arte, è solamente un
approccio di tipo “storico”. Concependo “storicamente” l’arte, ci poniamo al di fuori
della visione fortemente essenzialista di Danto. E anche se Danto prova a difendersi,

123
A.C. Danto, The end of Art: A Philosphical Defense, cit., p. 140.
124
A tal proposito, si può riportare anche un significativo passo dell’intervista che apre l’edizione
italiana di Oltre il Brillo Box. Qui la curatrice dell’opera, Manrica Rotili, chiede a Danto: «Se l’epoca
post-storica pluralista è l’unica filosoficamente giustificabile, non possiamo allora pensarla come il
nuovo narrative? E la necessità del pluralismo non diventa il nuovo vettore della storia dell’arte e
quindi il mainstream dell’epoca attuale?». A questo Danto risponde: «Tu mi chiedi perché
quest’epoca non dovrebbe avere un proprio narrative. Io sono certo che non possa averne uno di tipo
vettoriale, diretto verso uno scopo preciso, evolutivo, come quello dell’epoca antica e moderna
proprio perché nell’epoca post-storica tutto è ormai possibile», ivi, p. VII. Bene, immaginando che
Margolis avesse assistito all’intervista, avrebbe potuto muovere esattamente la stesse critiche che
abbiamo già osservato. Seguendo la sua argomentazione, infatti, Danto non è riuscito a dimostrare la
necessità di una fine dell’arte, e di conseguenza non è in alcun modo autorizzato a pronunciarsi circa
il futuro di questa, o delle eventuali direzioni che questa potrebbe prendere. La storia dell’arte non
può dirsi terminata, e come conseguenza l’epoca post-storica è un’ulteriore epoca “illegittima”,
costruita sullo stesso spirito “essenzializzante” che Danto si è ostinato fino alla fine a non riconoscere
nel suo pensiero.
125
J. Margolis, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, cit., p. 42.

48
arrivando addirittura a sostenere che la sua tesi della “fine dell’arte” non è
un’affermazione “filosofica”, ma una considerazione di natura “empirica” 126, sembra
fin troppo ovvio che non si tratti affatto di una semplice tesi “empirica”, dal
momento che  come sostenuto anche da Caroll  ha preteso di pronunciarsi su
questioni “escatologiche” relative all’arte. Trovo pertanto convincenti le obiezioni
mosse da Margolis e Carroll sull’indimostrabilità di una simile tesi, e ritengo che la
storia dell’arte, lungi dall’ammettere la propria fine, è in linea di principio “aperta”.

126
A.C. Danto, Narrative and Never-Endingness, cit., p. 29.

49
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Haapala, J. Levinson, V. Rantala (eds.), The End of Art and Beyond. Essays after
Danto, Humanity Books, New York, 1999, pp. 27-29.

 Danto, A.C., Art and Meaning, in Theories of Art Today, N. Carroll (ed.), The
University of Wisconsin Press, Madison, 20001; trad. it. L’«aboutness», in G. Di

50
Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), in Alle origini dell’opera d’arte
contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 139-151.
 Greenberg, C., Modernist painting, Voice of America, Washington D.C. , 1961;
trad. it. Il trionfo del modernismo e della pittura americana, in G. Di Giacomo,
C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Laterza,
Roma-Bari, 2008, pp. 84-92.
 Illetterati, L., Giuspoli, P., Mendola, G., Hegel, Carocci, Roma, 2010.
 Marchetti, L., Arte ed estetica in Nelson Goodman, Aesthetica Supplementa,
Palermo, 2006.
 Marchetti, L., La storia dell’arte nell’epoca post-storica, in «Studi di estetica»,
XLII, IV serie, 1-2, Mimesis, Milano, 2014, pp. 185-212.
 Marchetti, L., Oggetti semi-opachi. Sulla filosofia dell’arte di Arthur C. Danto,
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 Margolis, J,. Farewell to Danto and Goodman, in «British Journal of
Aesthetics», 38, 4, 1998, pp. 353-374; trad. it. Addio a Danto e Goodman, in
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 Margolis, J., What, After All, Is a Work of Art? Lectures in the Philosophy of Art,
Pennsylvania State University Press, University Park, 1999; trad. it. Ma allora,
che cos’è un’opera d’arte? Lezioni di filosofia dell’arte, Mimesis Edizioni,
Milano-Udine, 2011.
 Margolis, J., The Endless Future of Art, in A. Haapala, J. Levinson, V, Rantala
(eds.), The End of Art and Beyond. Essays after Danto, Humanity Books, New
York, 1999, pp. 2-26.
 Margolis, J., A Closer Look at Danto’s Account of Art and Perception, in
«British Journal of Aesthetics», 40, 3, 2000, pp. 326-339.
 Margolis, J., Danto sulla Filosofia dell’arte di Danto, in «Rivista di estetica», 35,
2007, pp. 277-292.

51
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Un ringraziamento di natura “accademica”, ma non per questo meno sentito.
Desidero ringraziare, per primo, il prof. Alessio Scarlato, per avermi aiutato a
decidere del mio futuro in un momento estremamente delicato nella vita di ogni
ragazzo, il liceo. In tutti quegli anni è stato per me una figura diversa da un semplice
docente, rivelandosi piuttosto un modello da seguire, da imitare, da raggiungere. Se
oggi sono qui, il merito è anche suo. Grazie.
Desidero rivolgere un sentito ringraziamento al professor Luca Marchetti, per
la grande serietà, l’infinita pazienza, l’enorme professionalità e l’assoluta cortesia
con la quale mi ha accolto a partire dal primo, lontano, ricevimento. Credo di aver
fatto molto per mettere a dura  durissima  prova la sua pazienza, e continuo ad
essere convinto del fatto che molti al posto suo avrebbero desistito davanti alle mie
esitazioni. Il mio ringraziamento va quindi al professor Marchetti per avermi fatto
nuovamente intravedere la possibilità di un rapporto “umano” in un contesto, quello
universitario, in cui troppo spesso ci si riduce a codici o a matricole. Grazie,
infinitamente.

Ringraziamenti di natura sentimentale: desidero ringraziare i miei genitori 


Sabrina e Luigi  per avermi fatto avvertire in ogni singolo giorno il loro appoggio,
la loro spinta ed energia. Mi siete rimasti accanto in ogni momento, incitandomi,
soffrendo e gioendo insieme a me davanti alle sfide che un universo sconosciuto ad
entrambi mi poneva davanti. Non avrei potuto desiderare genitori migliori, e la sola
idea di potervi rendere orgogliosi mi ripaga di ogni sforzo. Grazie.
Vorrei ringraziare la mia splendida metà (a dire il vero, anche qualcosa di
più) Maria Vittoria. Non potremmo venire da mondi più lontani, eppure mai  e
sottolineo, mai  queste differenze hanno impedito che tu potessi donarmi tutto il tuo
più completo, sincero e disinteressato amore. Se oggi sono la persona che sono, e mi
sento felice a esserlo, posso solo continuare a ringraziarti, promettendoti ancora una
volta tutto quello che potrò mai riuscire a darti. Vedrai, prima o poi arriverà anche il
nostro giorno. Ti Amo, e grazie.
Un ringraziamento va alla mia famiglia, a tutti quegli zii e a quelle zie, a
quegli amici che “semplici” amici non sono e a tutte quelle semplici ma importanti

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conoscenze che hanno sempre avuto una parola speciale per me e, soprattutto, ai miei
nonni. Vi ho sentiti costantemente accanto a me, e anche se a volte avete avuto
difficoltà anche solo a pronunciare la parola “filosofia”, avete abbracciato la mia
scelta augurandomi sempre e incondizionatamente il meglio, con l’amore che solo un
nonno può riuscire a dimostrarti. Grazie, grazie e ancora grazie.
Infine, ma non meno importante, un enorme ringraziamento a tutti voi,
“colleghi” di università che semplici colleghi non siete; non solo compagni di banco,
ma compagni di viaggio, d’avventura e di vita. Avete reso possibile tutto questo,
trasformando in sorriso una sveglia che suonava troppo presto, un appello, una
sessione d’esame. Senza di voi, senza le vostre risate e senza i vostri abbracci, il
ricordo di questi anni sarebbe molto, molto diverso. E sarebbe un ricordo triste e
vuoto. Grazie.

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