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In questo celebre saggio Titus Burckhardt passa in

rassegna il modo in cui l’arte di cinque grandi culture


religiose (cristianesimo, induismo, islamismo, buddismo e
taoismo) esprime i fondamenti del sacro. La tesi del libro è
che qualunque religione attraverso l’arte trasmette il
simbolo di un’ascesa: dalla bellezza del mondo all’unità
divina. Partendo dalla considerazione che un simbolo non è
un semplice segno convenzionale ma “è” ciò che esprime,
l’autore arriva ad affermare che l’arte sacra ha sempre
carattere simbolico: essa infatti consente di trasfigurare il
mondo, chiarendone l’intima unità spirituale, senza dover
“spiegare” esplicitamente e razionalmente il principio di
organizzazione. Qual è il carattere specifico dell’arte sacra?
La conclusione dell’autore è che l’essenza dell’arte sacra
non sta nel tema religioso dei soggetti, bensì in un modo
speciale di elaborare le forme, qualunque sia il soggetto
rappresentato.
Titus Burckhardt, nato a Firenze da una famiglia Svizzera
di Basilea, compì gli studi in Svizzera e presto si interessò
all’arte antica e medioevale della civiltà cristiana orientale.
Soggiornò a lungo nel Medio Oriente e in Nord Africa, dove
approfondì la conoscenza dell’artigianato, della scienza
tradizionale e della lingua araba. In seguito studiò storia
dell’arte e lingue orientali all’università di Basilea. Nella
stessa città diresse per alcuni anni la casa editrice Urs
Graf.
Titus Burckhardt

L’arte sacra in Oriente e in


Occidente
Titolo originale: PRINCIPES ET METHODES DE L’ART SACRE

Paul Derain, 128 rue Vauban, Lyon


Traduzione di Elena Bono
 

eISBN 978-88-58-65511-5

© 1974 Titus Burkhardt


© 2003 RCS Libri S.p.A.

Via Mecenate 91 - 20138, Milano


 

Prima edizione digitale 2013 da edizione giugno 2003


 

Copertina: Amida (Amitabha), opera di Eisen, periodo di Kamakura, XIII sec.


Museo Nazionale di Tokio, particolare,

Kirill Ulanov, Il salvatore onnipotete, 1728, Museo Statale russo, Leningrado,


particolare

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.


INTRODUZIONE
Gli storici dell’arte che applicano il termine di «arte
sacra» a una qualunque opera artistica a soggetto religioso,
dimenticano che l’arte è essenzialmente forma. Perché
un’arte possa esser definita sacra, non basta che i suoi
soggetti si ispirino a una verità spirituale; occorre anche
che il suo linguaggio formale testimoni della medesima
sorgente. Non si può perciò assolutamente chiamare
«sacra» l’arte «religiosa» del Rinascimento o del Barocco,
che non si distingue in nulla, dal punto di vista dello stile,
dall’arte intrinsecamente profana di quell’epoca: né i
soggetti che essa prende a prestito dalla religione in
maniera tutta esteriore e in un certo senso letteraria, né i
sentimenti devozionali di cui all’occorrenza si impregna, e
neppure la nobiltà d’animo che talvolta vi si esprime, sono
sufficienti a conferirle un carattere sacro. Solo un’arte le
cui stesse forme riflettano la visione spirituale propria di
una data religione, merita l’epiteto di sacra.
Ogni forma è veicolo di una certa qualità dell’essere. Il
soggetto religioso di un’opera d’arte può essere in qualche
modo un’aggiunta; può essere senza rapporto con il
linguaggio formale dell’opera, come dimostra l’arte
cristiana dal Rinascimento in poi. Ci sono dunque delle
opere d’arte essenzialmente profane a tema sacro, ma non
esiste, per contro, alcun’opera sacra con forme profane,
perché c’è un’analogia rigorosa tra forma e spirito. Una
visione spirituale si esprime necessariamente con un certo
linguaggio formale; se questo linguaggio difetta e l’arte che
si proclama sacra deve mutuare le sue forme da una
qualsivoglia arte profana, vuol dire che non c’è una visione
spirituale delle cose.
Inutile è voler giustificare lo stile proteiforme di un’arte
religiosa, il suo carattere indefinito e vago, con
l’universalità del dogma o con la libertà dello spirito. Certo,
la spiritualità
è in se stessa indipendente dalle forme, ma
ciò non significa affatto che essa possa esprimersi e
trasmettersi con delle forme quali che siano. Per la sua
essenza qualitativa la forma è analoga, nell’ordine
sensibile, a quel che è la verità nell’ordine intellettuale: è
quanto esprime la nozione greca di eidos. Come una forma
mentale, quale un dogma o una dottrina, può essere il
riflesso adeguato, benché limitato, di una Verità divina, così
una forma sensibile può evocare una verità o una realtà che
trascende a un tempo il piano delle forme sensibili e quello
del pensiero.
Ogni arte sacra si fonda dunque su una scienza delle
forme o, in altri termini, sul simbolismo inerente alle forme.
Sarà bene ricordare che un simbolo non è semplicemente
un segno convenzionale; esso manifesta il suo archetipo in
virtù di una certa legge ontologica; come ha fatto osservare
Coomaraswamy, il simbolo è in un certo qual modo ciò che
esprime. D’altra parte, è proprio questa la ragione per cui il
simbolismo tradizionale non è mai privo di bellezza:
secondo la visione spirituale del mondo, la bellezza di una
cosa non è altro che la trasparenza dei suoi involucri
esistenziali; l’arte autentica è bella perché è vera.
Non è possibile e neppure necessario che ogni artista o
artigiano che pratichi un’arte sacra sia consapevole di
questa legge divina inerente alle forme; egli ne conoscerà
solo certi aspetti, o certe applicazioni circoscritte dalle
regole del suo mestiere; le regole gli permetteranno di
dipingere un’icona, dar forma a un vaso sacro o far opera
di calligrafo in un modo liturgicamente valido, senza che
egli debba necessariamente conoscere l’essenza profonda
di quei simboli che ha tra le mani. È la tradizione che,
trasmettendo i modelli sacri e le regole del lavoro,
garantisce la validità spirituale delle forme; essa possiede
una forza segreta che si comunica a tutta una civiltà e
guida anche quelle arti e quei mestieri il cui scopo
immediato non ha nulla di particolarmente sacro. Questa
forza crea lo stile della civiltà tradizionale; lo stile, che non
si potrebbe imitare dal di fuori, si perpetua senza sforzo, in
maniera quasi organica, per la sola potenza dello spirito
che lo anima.
Tra i pregiudizi tipicamente moderni, uno dei più tenaci è
quello che si ribella ai canoni impersonali e oggettivi di
un’arte;
si teme che essi soffochino il genio creatore. In
realtà, non esiste opera tradizionale, «legata» dunque a
principi immutabili, il cui aspetto non esprima una certa
gioia creativa dell’anima, laddove l’individualismo moderno
ha prodotto, tranne alcune opere geniali ma spiritualmente
sterili, tutta la bruttezza – indefinita e mortificante – delle
forme che riempiono la «vita ordinaria» dei giorni nostri.
Una delle condizioni fondamentali della felicità consiste
nel sapere che tutto ciò che facciamo implica un senso
eterno; ma chi può ancora concepire oggi una civiltà le cui
manifestazioni vitali si svolgano tutte «a immagine del
cielo»?1 In una società teocentrica, anche l’attività più
umile partecipa della benedizione celeste. Ci torna qui il
ricordo delle parole che udimmo in Marocco da un vecchio
cantastorie: avendogli chiesto per quale motivo la piccola
chitarra araba – di cui si serviva per accompagnare le
salmodie delle leggende – non avesse che due corde,
ricevemmo questa risposta: «Aggiungere una terza corda al
proprio strumento è fare il primo passo verso l’eresia.
Quando Dio creò l’anima di Adamo, essa non voleva entrare
nel corpo e svolazzava come un uccello intorno alla gabbia.
Allora Dio ordinò agli angeli di suonare sulle due corde che
si chiamano maschio e femmina, e l’anima, credendo che la
melodia risiedesse nello strumento – che è il corpo – vi
entrò e vi rimase chiusa dentro. Per questa ragione bastano
due corde – che si chiamano sempre maschio e femmina –
per liberare l’anima dal corpo».
Questa leggenda contiene più significato di quanto non
appaia a prima vista, poiché riassume tutta la dottrina
tradizionale dell’arte sacra: l’arte sacra non ha per suo
sommo scopo evocare sentimenti o trasmettere
impressioni; essa è un simbolo e perciò si contenta di mezzi
semplici e primordiali; non potrebbe essere, d’altra parte,
nulla di più che un’allusione, essendo l’ineffabile il suo
oggetto reale. L’arte sacra è di origine angelica perché i
suoi modelli riflettono realtà sovraformali. Ricapitolando in
parabole la creazione – l’«arte divina» –, essa dimostra la
natura simbolica del mondo e libera così lo spirito umano
dal suo attaccamento ai «fatti» bruti ed effimeri.
L’origine angelica dell’arte è esplicitamente formulata
dalla
tradizione indù. Secondo l’Aitareya Brāhmaṇa, ogni
opera d’arte sulla terra è realizzata mediante imitazione
dell’arte dei deva, «sia che si tratti di un elefante di
terracotta, di un oggetto di bronzo, di un indumento, di un
oggetto d’oro, sia di un carro a muli». I deva corrispondono
ai nostri angeli. Le leggende cristiane che attribuiscono a
certe immagini miracolose un’origine angelica implicano la
medesima cosa.
I deva non sono altro, in definitiva, che funzioni
particolari dello Spirito universale, volontà permanenti di
Dio. Ora, secondo la dottrina comune alle civiltà
tradizionali, l’arte sacra deve imitare l’arte divina. Bisogna
ben comprendere che ciò non significa affatto dover
copiare la creazione divina compiuta, il mondo quale noi lo
vediamo, poiché sarebbe pura pretesa; il «naturalismo» alla
lettera è escluso dall’arte sacra; quel che occorre imitare è
la maniera in cui opera lo Spirito divino; bisogna trasporre
le sue leggi nel mondo limitato che l’uomo forgia
umanamente, ossia nell’artigianato.
In nessuna dottrina tradizionale l’idea dell’arte divina ha
una funzione così importante come nell’arte indù. Māyā,
infatti, non è solamente il misterioso potere divino che fa sì
che il mondo paia esistere fuori della realtà divina, per cui
è da māyā che proviene ogni dualità e ogni illusione; essa è
anche, secondo il suo aspetto positivo, l’arte divina che
produce ogni forma. In linea di principio, essa non è altro
che la possibilità che ha l’Infinito di delimitarsi esso stesso,
come oggetto della sua propria «visione», senza che la sua
infinità venga limitata. Così Dio si manifesta nel mondo, e
tuttavia non vi si manifesta; si esprime e resta silenzioso a
un tempo.
Come l’Assoluto oggettiva, in virtù della sua māyā, certi
aspetti di se stesso, o certe possibilità in lui contenute,
determinandole con una visione distintiva, così l’artista
realizza nella sua opera certi aspetti di sé, li proietta, per
così dire, fuori del suo essere indifferenziato. Ora, nella
misura in cui questa oggettivazione rifletterà le profondità
del suo essere, acquisterà un carattere puramente
simbolico; al medesimo tempo l’artista diverrà sempre più
consapevole dell’abisso che separa tale forma, riflesso della
sua essenza, da ciò che questa è nella sua compiutezza
atemporale. Il Creatore sa: questa forma è me stesso, e
tuttavia io sono infinitamente più di essa, poiché
soltanto il
puro Conoscente, il testimone che nessuna forma potrà
afferrare, è l’Essenza; ma sa anche che è Dio che si esprime
attraverso la sua opera, sicché questa, a sua volta,
trascende l’ego debole e fallibile dell’uomo.
Questa è appunto l’analogia tra l’arte divina e l’arte
umana: la realizzazione di sé per oggettivazione. Perché
questa abbia una dimensione spirituale e non si esaurisca
in una vaga introiezione, bisogna che i suoi mezzi
espressivi provengano da una visione essenziale. In altri
termini, non sarà l’«io», radice dell’illusione e
dell’ignoranza che l’uomo ha di se stesso, a scegliere
arbitrariamente quei mezzi; essi saranno attinti alla
tradizione, alla rivelazione formale e «oggettiva»
dell’Essere supremo che è il «Sé» di tutti gli esseri.
 

Anche dal punto di vista cristiano, Dio è «artista» nel


senso più alto della parola perché ha creato l’uomo «a sua
immagine»2. Ora, siccome l’immagine non comporta
soltanto una rassomiglianza con il suo modello, ma anche
una dissomiglianza pressoché assoluta, era inevitabile che
l’immagine si corrompesse. Con la caduta di Adamo, il
riflesso divino nell’uomo si offuscò, lo specchio si appannò;
e tuttavia non poté perdere completamente ogni rapporto
con il modello, né contraddirgli, perché se la creatura
subisce i propri limiti, la compiutezza divina non li subisce
minimamente; vale a dire, tali limiti non potrebbero mai
opporsi in via definitiva a quella compiutezza che si
manifesta come Amore illimitato e la cui stessa illimitatezza
esige che Dio, «pronunciando» se stesso come Verbo
eterno, «discenda» in questo mondo e assuma in qualche
maniera i contorni perituri dell’immagine – la natura
umana – per restaurarne la bellezza originaria.
Per il cristianesimo, l’immagine divina per eccellenza è la
forma umana del Cristo; quindi l’arte cristiana ha un solo
oggetto: la trasfigurazione dell’uomo e del mondo, che
dall’uomo dipende, mediante la loro partecipazione al
Cristo.
 

Ciò che la visione cristiana attinge con una sorta di


concentrazione amorosa sul Verbo incarnato in Gesù Cristo,
la concezione islamica lo traspone nell’universale e
nell’impersonale: per l’Islam – secondo il Corano Dio è
«artista»
(muṣawwir) – l’arte divina è anzitutto la
manifestazione dell’unità divina nella bellezza e regolarità
del cosmo. L’unità si riflette nell’armonia del molteplice,
nell’ordine e nell’equilibrio; la bellezza comporta in se
stessa tutti questi aspetti. Risalire dalla bellezza del mondo
all’unità, questa è la saggezza. Per tale ragione il pensiero
musulmano ricollega necessariamente l’arte alla saggezza;
per il musulmano, l’arte è essenzialmente fondata sulla
saggezza, o sulla scienza, la quale altro non è che il
deposito formulato della saggezza. Scopo dell’arte è far
partecipare l’ambiente umano, il mondo nella misura in cui
è modellato dall’uomo, all’ordine che più direttamente
manifesta l’unità divina. L’arte chiarifica il mondo, aiuta lo
spirito a distaccarsi dalla moltitudine inquietante delle cose
per risalire verso l’unità infinita.
 

Secondo la concezione taoista, l’arte divina è


essenzialmente l’arte delle trasformazioni: la natura intera
si trasforma senza posa mentre ubbidisce alla legge del
ciclo; le sue antinomie roteano intorno a un centro unico,
che rimane inattingibile. Tuttavia chi ha compreso il
movimento circolare, riconosce per ciò stesso il centro che
ne è l’essenza. Il fine dell’arte è conformarsi a questo ritmo
cosmico. Secondo la formula più semplice, la maestria
artistica consiste nella capacità di disegnare d’un sol tratto
un cerchio perfetto e identificarsi così, implicitamente, con
il suo centro, che resterà inespresso come tale.
 

Trasferendo, per quanto è consentito, la nozione di «arte


divina» nel buddismo – il quale evita ogni personificazione
dell’Assoluto –, tale nozione si applica alla bellezza
miracolosa e mentalmente inesauribile del Buddha.
Benché, nella sua formulazione, nessuna dottrina su Dio
sfugga al carattere illusorio del mentale, che attribuisce i
suoi limiti all’illimitato e le sue forme congetturali
all’informale, la bellezza del Buddha irraggia uno stato
d’essere che nessun pensiero potrebbe delimitare. Questa
bellezza si sintetizza in quella del loto e, sotto il profilo
rituale, si perpetua nell’immagine dipinta o scolpita del
Beato.
Tutti questi fondamenti dell’arte sacra si ritrovano, in
maniera e proporzioni diverse, in ciascuna delle cinque
grandi tradizioni di cui abbiamo parlato: ciascuna di esse,
infatti, possiede essenzialmente la pienezza della Verità e
della Grazia divina, onde ognuna sarebbe capace, in linea
di principio, di produrre tutte le forme di spiritualità
possibili. Tuttavia, poiché ogni religione è necessariamente
dominata da una certa prospettiva che determina la sua
«economia» spirituale, le manifestazioni artistiche, che
sono naturalmente collettive e non isolate, rifletteranno nel
loro stile tale prospettiva e tale economia. D’altra parte, è
nella natura della forma il non poter esprimere nulla senza
un certo esclusivismo, in quanto delimita quel che esprime
e per ciò stesso esclude certi aspetti del proprio archetipo
universale. Tale legge si applica naturalmente a ogni livello
di manifestazione formale e non solo all’arte. Anche le
differenti rivelazioni divine, che sono alla base delle diverse
religioni, sembrano escludersi l’una con l’altra, ma soltanto
se si considerano semplicemente i loro contorni formali e
non la loro essenza divina, che è una. Anche qui appare
l’analogia tra l’«arte divina» e l’arte umana.
Ci limiteremo a considerare l’arte delle cinque grandi
tradizioni menzionate: induismo, cristianesimo, islamismo,
buddismo e taoismo, dato che i canoni artistici che sono
loro propri non si ricavano solo dalle opere esistenti, ma
sono anche confermati da scritti canonici e dall’esempio di
maestri viventi. Una volta delineato il quadro generale,
dovremo concentrarci su alcune manifestazioni
particolarmente tipiche, essendo la materia in sé
inesauribile. Parleremo in primo luogo dell’arte indù, i cui
metodi conoscono la più grande continuità nel tempo;
attraverso il suo esempio si potrà cogliere il nesso fra le
arti delle civiltà medioevali e di civiltà molto più antiche.
All’arte cristiana concederemo lo spazio più ampio, vista la
sua importanza per il lettore europeo; ma non potremo
descrivere tutte le sue modalità. L’arte musulmana
occuperà il terzo posto, essendoci, sotto molti aspetti,
polarità tra l’arte cristiana e la stessa. Quanto all’arte
estremo-orientale, buddista e taoista, ci basterà definirne
taluni aspetti caratteristici e nitidamente distinti dalle arti
precedentemente trattate, per indicare,
con qualche spunto
di paragone, la grande varietà delle espressioni
tradizionali.
 

Non esiste arte sacra che non dipenda sotto un qualche


aspetto dalla metafisica. Ora, la metafisica è in se stessa
illimitata, a somiglianza del suo oggetto che è infinito,
sicché non ci sarà possibile ricostruire tutti i rapporti che
collegano fra loro le differenti dottrine metafisiche.
Converrà dunque riferirci qui ad altri libri, che
costituiscono in un certo senso le premesse di questo;
intendiamo quei libri che espongono l’essenza delle
dottrine tradizionali dell’Oriente e dell’Occidente
medioevale in un linguaggio accessibile al lettore europeo
d’oggi. A tal riguardo menzioneremo in primo luogo le
opere di René Guénon,3 di Frithjof Schuon4 e di Ananda K.
Coomaraswamy.5 Inoltre, per ciò che attiene all’arte sacra
di alcune tradizioni in particolare, citeremo qui il libro di
Stella Kramrisch sul tempio indù,6 gli studi di Daisetz
Teitaro Suzuki sul buddismo zen, e il libro di Eugen
Herrigel (Bungaku Hakushi) sull’arte cavalleresca del tiro
all’arco nello zen.7 A suo tempo citeremo, quando lo
giudicheremo utile, qualche altro libro, nonché talune fonti
tradizionali.
Capitolo primo

LA GENESI DEL TEMPIO INDÙ

1. - Per i popoli sedentari, l’arte sacra per eccellenza è la


costruzione di un santuario, dove lo Spirito divino,
invisibilmente presente nell’universo, «abiterà» in maniera
diretta e per così dire «personale».1 In una prospettiva
spirituale, il santuario si colloca sempre nel centro del
mondo, e ciò stesso ne fa un sacratum nel vero senso del
termine: in tal luogo l’uomo si sottrae all’indefinito dello
spazio e del tempo, giacché «qui» e «ora» Dio è presente
nell’uomo. Questo fatto si esprime nella forma del tempio:
indicando i punti cardinali, la forma ordina per così dire lo
spazio in rapporto al suo centro. Essa è una sintesi del
mondo: tutto ciò che nell’universo è in incessante
movimento, l’architettura sacra lo traspone in forma
permanente. Nel cosmo, è il tempo a dominare sullo spazio;
per contro, nella costruzione del tempio, in qualche modo
accade che il tempo venga tramutato in spazio: i grandi
ritmi del cosmo visibile, simboleggianti gli aspetti principali
dell’esistenza disgiunti e dispersi dal divenire, sono riuniti
e fissati nella geometria dell’edificio. Così, con la sua forma
regolare e immobile, il tempio rappresenta la perfetta
compiutezza del mondo, il suo aspetto atemporale o il suo
stato finale, in cui tutte le cose riposano nell’equilibrio che
precede la loro reintegrazione nell’unità indivisa
dell’Essere. Ora, proprio perché il santuario prefigura
questa trasfigurazione finale del mondo – trasfigurazione
che il cristianesimo simboleggia con la «Gerusalemme
celeste» – esso è ripieno di pace divina (shechinah in
ebraico, śānti in sanscrito).
Analogamente, la pace divina discende nell’anima, le cui
modalità o contenuti – in analogia con quelli del mondo –
riposano in un equilibrio semplice e ricco a un tempo,
paragonabile, per la sua unità qualitativa, alla forma
regolare del santuario.
L’edificazione del santuario o dell’anima implica anche un
aspetto di sacrificio: come le potenze dell’anima debbono
essere ritirate dal mondo per costituire il luogo abitato
dalla Grazia, così i materiali per la costruzione del tempio
sono sottratti a ogni uso profano e offerti alla Divinità.
Vedremo che questo sacrificio è inteso a compensare il
«sacrificio divino» che è all’origine del mondo. Ora, in ogni
sacrificio, la materia sacrificata subisce una trasformazione
qualitativa, nel senso che essa viene assimilata a un
modello divino. Ciò è evidente anche nell’edificazione del
santuario; ricorderemo in proposito, come esempio ben
noto, la costruzione del tempio di Gerusalemme per opera
di Salomone secondo il piano rivelato a David.
Il perfetto compimento del mondo che il tempio prefigura
si esprime con la forma rettangolare di esso: tale forma si
oppone essenzialmente alla forma circolare del mondo
trascinato dal movimento cosmico. Mentre la forma sferica
del cielo è indefinita e sottratta a ogni misura, quella
dell’edificio sacro, rettangolare o cubica, esprimerà la
legge definitiva e immutabile; così ogni architettura sacra,
a qualunque tradizione appartenga, può ridursi al tema
fondamentale della trasformazione del cerchio in quadrato.
Nella genesi del tempio indù questo tema appare con
particolare evidenza e con tutta la ricchezza dei suoi
contenuti metafisici e spirituali.
Ma prima di sviluppare tale tema, dobbiamo precisare
che la relazione tra i due simboli fondamentali – il cerchio e
il quadrato o la sfera e il cubo – può variare di significato
secondo i punti di riferimento. Se il cerchio è inteso come il
simbolo dell’unità indivisa del Principio, il quadrato
esprimerà la sua determinazione prima e immutabile, cioè
la Legge o Norma universale; in tal caso, il cerchio
indicherà simbolicamente una realtà superiore a quella
suggerita dal quadrato. Il che vale anche quando il cerchio
è riferito al cielo per designarne il movimento, e il quadrato
alla terra per compendiarne lo stato solido e relativamente
inerte; onde il cerchio starà al quadrato come l’attivo al
passivo, o come la vita al corpo, poiché è il cielo che genera
attivamente, mentre la terra concepisce e partorisce
passivamente. Tuttavia si può anche pensare una gerarchia
inversa: se si considera il quadrato nella sua
accezione
metafisica, come simbolo dell’immutabilità del Principio, la
quale in sé contiene e risolve tutte le antinomie cosmiche, e
se per contro si riferisce il cerchio al suo modello cosmico,
che è il movimento indefinito, il quadrato esprimerà una
realtà superiore a quella rappresentata dal cerchio, così
come la natura permanente e immutabile del Principio
trascende l’attività celeste o la causalità cosmica,
relativamente «esterna» al Principio stesso.2 Ora,
quest’ultimo rapporto simbolico tra il cerchio e il quadrato
domina l’architettura sacra dell’India, sia perché la
caratteristica dell’architettura è la stabilità – e per la sua
stabilità essa riflette più direttamente la perfezione divina
–, sia perché tale punto di vista è essenzialmente
congeniale allo spirito indù, sempre incline a trasporre le
realtà terrestri e cosmiche, per divergenti che esse siano,
nella compiutezza non-separativa e statica dell’Essenza
divina. Nell’architettura sacra la trasfigurazione spirituale
si accompagna a una modalità inversamente analoga: la
«cristallizzazione» delle grandi «misure» del tempo – i
diversi cicli – nel quadrato fondamentale del tempio.3
Vedremo più avanti come un tal quadrato proceda dalla
determinazione dei principali movimenti del cielo. Tuttavia,
la preminenza simbolica del quadrato sul cerchio
nell’architettura sacra non esclude, né in India né altrove,
le manifestazioni del rapporto inverso tra i due simboli, ove
esso si imponga in virtù dell’analogia fra i diversi elementi
costruttivi e le corrispondenti parti dell’universo.
La «cristallizzazione» di tutte le realtà cosmiche in un
simbolo geometrico, che è come l’immagine inversa
dell’atemporale, è prefigurata, nella tradizione indù,
dall’impianto dell’altare vedico, il cui cubo – fatto di più
strati di mattoni – rappresenta il «corpo» di Prajāpati,
l’Essere cosmico totale. Quest’essere primordiale è stato
immolato dai deva all’origine del mondo; le sue membra
disgiunte, che costituiscono i molteplici aspetti o parti del
cosmo,4 debbono essere simbolicamente ricomposte.
Prajāpati è l’aspetto manifesto del Principio, aspetto che
ingloba la totalità del mondo e che appare come frazionato
dalla diversità e dal mutamento di questo. Sotto tale
rapporto, Prajāpati è come lacerato dal tempo; egli si
identifica con il ciclo solare – l’anno –, poi con il ciclo
lunare – il mese –,
ma soprattutto con il ciclo universale,
cioè con l’insieme dei cicli cosmici. Nella sua essenza,
Prajāpati non è altro che Puruṣa, l’Essenza immutabile e
indivisibile dell’uomo e dell’universo; secondo il Ṛg Veda, X,
90, fu Puruṣa a essere sacrificato dai deva all’origine del
mondo per formare le diverse parti del cosmo e le differenti
specie degli esseri viventi. Ciò non deve essere inteso come
«panteismo»: in se stesso, Puruṣa non è diviso e neppure è
«localizzato» negli esseri effimeri; di lui non è «sacrificato»
altro che la forma manifesta, apparente, mentre la sua
natura eterna rimane ciò che fu sempre, cosicché è a un
tempo la vittima, il sacrificio e il fine del sacrificio. Quanto
ai deva, essi rappresentano aspetti divini, o più
esattamente modalità o funzioni di Buddhi, che corrisponde
al Logos, l’Intelletto o l’Atto divino. La molteplicità non è
dunque nella natura di Dio, ma in quella del mondo; essa ha
tuttavia un fondamento di principio nella distinzione
possibile degli aspetti o funzioni del Divino; sono questi,
dunque, che «sacrificano» Dio manifestandolo in modo
separativo.5
Quindi, ogni sacrificio riproduce e compensa in qualche
maniera il sacrificio pretemporale dei deva, in quanto il rito
ricompone simbolicamente e spiritualmente l’unità
dell’essere totale: il sacrificatore si identifica lui stesso con
l’altare che ha costruito a immagine dell’universo e
secondo le misure del proprio corpo; e si identifica anche
con l’animale sacrificale, che lo sostituisce in virtù di certe
qualità;6 infine, il suo spirito si identifica con il fuoco, che
reintegra l’offerta nell’infinitezza del Principio.7 L’uomo,
l’altare, l’olocausto e il fuoco sono tutti ugualmente
Prajāpati, che è l’Essenza divina.
D’altra parte, il fuoco, l’altare del sacrificio e l’area sacra
contenente l’altare stesso sono tutti ugualmente chiamati
Agni. Secondo il mito, Agni è il figlio di Prajāpati e di tutti
gli esseri sorti da lui; essi lo hanno generato in Uśas,
l’Aurora. Proprio per mezzo di questo figlio divino che
rinasce in ogni opera sacrificale, Prajāpati si realizza nella
sua totalità originaria. Agni assimila in sé tutte le forme
dell’universo: i cinque guardiani dello spazio, i quattro dei
punti cardinali e il guardiano del centro diventano le sue
forme; così egli si identifica anche con i cinque soffi vitali e
con i cinque sensi, essendo tutti questi quinquenari
analoghi fra loro. Ora, nella misura
in cui Agni abbraccia il
cosmo, Prajāpati entra in lui diventando Agni Vaiśvānara,
l’Uomo universale, che altro non è se non la sintesi –
spirituale o cosmica a seconda dei punti di vista – di tutti
gli esseri viventi.8 Così, con il rito del sacrificio, si
ricostituisce spiritualmente la totalità dell’esistenza,
Prajāpati, che non ha mai cessato di essere una nella
prospettiva divina, ma che, nella prospettiva degli esseri
effimeri, è stata divisa come loro e attraverso loro. Per il
sacrificante, l’universalità di Agni-Prajāpati è fine ultimo,
laddove essa è in sé eterna.
L’analogia tra l’universo e l’altare del sacrificio traspare
dal numero e dalla disposizione dei mattoni che
compongono l’altare. L’analogia tra l’altare e l’uomo è
espressa dalle proporzioni dell’altare, commisurate alle
dimensioni del corpo umano: il lato della base, infatti,
corrisponde alla lunghezza di un uomo a braccia allargate, i
mattoni misurano un piede, l’umbone dell’altare,
l’«ombelico» (nābhi), misura un palmo quadrato. D’altra
parte, l’«uomo d’oro», una figura schematica di uomo che
deve esser murata nell’altare con la testa rivolta verso
oriente – l’olocausto ha sempre tale posizione –, indicherà
l’analogia tra l’uomo e la vittima sacrificale. Vedremo più in
là come la costruzione del tempio implichi questi medesimi
dati simbolici.
Nel recinto sacrificale coperto (prācīna-vamṣaṣala)
sorgono tre altari, due dei quali sull’asse est-ovest e un
terzo a sud di questo asse che è chiamato «spina orientale»
(prācīna-vamṣa). L’altare collocato a est, il fuoco Āhavanīya,
corrisponde al cielo; l’altare a ovest, il fuoco Gārhapatya,
segna la terra; l’altare del fuoco meridionale (Dakṣiṇâgni),
che si trova a sud della «spina orientale», rappresenta il
mondo intermedio dell’atmosfera. Questi tre altari
simboleggiano dunque l’insieme dei mondi manifesti: la
terra o lo stato corporale, l’atmosfera o lo stato sottile, e il
cielo o lo stato sovraformale. L’altare del cielo è quadrato;
quello dell’atmosfera ha forma di mezzaluna; l’altare della
terra è rotondo. «Il Gārhapatya è (questo mondo terrestre),
e questo mondo è rotondo».9 Ossia, la forma del mondo
terrestre è racchiusa nel cerchio, che corrisponde
all’orizzonte e di conseguenza alla forma del cielo visibile;
in compenso, la natura del cielo è simboleggiata dal
quadrato,
per il fatto che la legge del cielo si esprime più
direttamente nel ritmo quaternario del ciclo celeste, ritmo
che a sua volta si fissa spazialmente sotto forma di
quadrato. Tale simbolismo implica dunque un’analogia
inversa: l’immutabilità del cielo, che trascende le forme, si
riflette attraverso il ritmo temporale in una forma
definitivamente «cristallizzata», mentre la natura limitata
della terra, soggetta al mutamento, si integra nella forma
apparente del cielo, cioè nella forma del movimento
ciclico.10 Similmente, l’altare supremo (Uttara Vedi), che
sorge per il sacrificio del soma a est dell’altare del cielo su
un’area isolata (Saumiki Vedi), è anch’esso di forma
rettangolare.
Durante l’anno di iniziazione (dīkṣā), l’altare Āhavanīya è
sostituito da un altare Gārhapatya, che conserverà la sua
forma circolare, ma la cui base coprirà un’area uguale a
quella dell’altare Āhavanīya. Questa trasformazione del
quadrato nel cerchio sarà effettuata mediante una certa
disposizione dei mattoni del primo strato del nuovo altare.
Il Purāṇa Gārhapatya, l’antico fuoco Gārhapatya, era di
natura terrestre; il Śālādvārya Gārhapatya, il nuovo fuoco
di medesima forma, è di natura celeste: il quadrato, che
simboleggia il cielo, è implicitamente contenuto nel cerchio
composto da mattoni rettangolari.11
Concludendo, la costruzione dell’altare vedico implica, da
un lato, la trasformazione del cerchio in quadrato –
mediante la figurazione quadrata o cubica del ciclo
universale – e, dall’altro lato, la trasformazione del
quadrato in cerchio. Come ha rilevato Stella Kramrisch nel
suo importante libro sul tempio indù,12 tale duplice
operazione riassume tutta l’architettura sacra.
 

2. - L’altare esiste prima del tempio. Con ciò vogliamo


dire che l’arte di costruire un altare è più antica e più
universale dell’architettura sacra propriamente detta,
poiché l’altare è usato tanto dai popoli nomadi quanto dai
popoli sedentari, mentre il tempio non esiste che presso
questi ultimi. Il santuario primitivo è l’area sacra
contenente l’altare. I riti che serviranno a consacrare e a
delimitare quest’area saranno trasposti
nella fondazione
del tempio (in latino, templum significa originariamente il
recinto sacro destinato alla «contemplazione» del cosmo).
Numerosi indizi ci autorizzano ad ammettere che questi riti
costituiscono un retaggio primordiale ricollegante fra loro
le due grandi correnti di popoli, sedentari e nomadi, per
altro verso così differenti nelle loro forme vitali.13
Come testimonianza particolarmente eloquente di questo
retaggio primordiale citeremo un sacerdote appartenente
al popolo nomade degli Indiani Sioux, Hehaka Sapa (Alce
Nero), il quale descrive così la consacrazione di un altare
del fuoco: «Su questo sacro luogo, Colui Che Si Estende
cominciò a comporre l’altare. Prima prese un bastoncino,
indicò con esso le sei direzioni e infine tracciò un piccolo
cerchio al centro: questo per noi rappresenta la casa di
Wakan-Tanka [il Grande Spirito]. Quindi, con lo stesso
bastoncino, dopo aver indicato una seconda volta le sei
direzioni, Colui Che Si Estende tracciò una riga dal punto
ovest alla circonferenza del cerchio interno. Ne tracciò
un’altra da est alla stessa circonferenza e, analogamente,
una terza da nord e una quarta da sud. Costruendo l’altare
in questo modo si vede che tutto porta al centro, o meglio,
vi ritorna; e il centro, che è Wakan-Tanka, è sì in quel
punto, ma noi sappiamo che in realtà è in ogni dove».14
La consacrazione dell’altare consiste dunque, secondo
quest’esempio, nell’evocazione dei rapporti colleganti i
principali aspetti dell’universo al suo centro. Questi aspetti
sono il cielo, che nella sua attività generatrice si oppone
alla terra, principio passivo e materno, e le quattro
direzioni o «venti», le cui forze determinano il ciclo del
giorno e il mutamento delle stagioni. Essi corrispondono ad
altrettanti poteri o aspetti dello Spirito universale.
Mentre la forma generale del tempio è un rettangolo,
l’altare nomade, come qui è descritto, non è delimitato da
un quadrato, benché si riferisca al quaternario delle regioni
celesti. Ciò si spiega con lo «stile» proprio della vita dei
nomadi: per questi popoli le costruzioni di forma
rettangolare esprimono la rigidità della morte.15 I santuari
nomadi, formati di tende o capanne fatte di rami vivi, sono
in genere rotondi;16 loro modello è la volta del cielo; così, gli
accampamenti nomadi
sono disposti a forma di cerchio, e il
medesimo ordinamento si ritrova talvolta nelle città dei
popoli nomadi divenuti sedentari, come i Parti. In tal modo,
la polarità cosmica del cerchio e del quadrato si riflette nel
contrasto fra i popoli nomadi e quelli sedentari: i primi
riconoscono il loro ideale nella natura dinamica e indefinita
del cerchio, mentre i secondi lo vedono nel carattere
statico e nella regolarità del quadrato.17 Ma a parte queste
differenze di «stile», la concezione del santuario rimane la
stessa: o che sia costruito con materie solide, come il
tempio dei popoli sedentari, o che consista unicamente in
un sacratum stabilito solo per un certo periodo di tempo,
come l’altare nomade, esso sarà sempre collocato al centro
del mondo. Di tal centro Hehaka Sapa dice che è la dimora
del Grande Spirito e che si trova in realtà ovunque; per
questo, basta un punto di riferimento simbolico per
realizzarlo.
D’altronde, nell’ordine sensibile, l’ubiquità del centro
spirituale si esprime nel fatto che le direzioni dello spazio,
che si ripartiscono secondo gli assi immobili del cielo
stellato, convergono allo stesso modo in ogni punto situato
sulla terra; in verità, gli assi visuali di due spettatori
terrestri che contemplino la medesima stella sono
praticamente paralleli, qualunque sia la distanza geografica
che li divide. In altre parole, non esiste «prospettiva»
riguardo al cielo stellato; il suo centro è ovunque, perché la
sua volta – il «tempio» universale – è senza misura. Così,
chi contempla il sole mentre sorge o mentre tramonta al di
là di una superfice d’acqua, vede il sentiero d’oro dei raggi
riflessi nell’acqua dirigersi direttamente su di lui; se si
sposta, la via luminosa lo segue, benché ogni altro
osservatore lo veda ugualmente venire verso di lui. È in ciò
un significato profondo.18
 

3. - Lo schema fondamentale del tempio risulta dal


procedimento dell’orientazione, che è un rito nel senso vero
e proprio del termine, in quanto riallaccia la forma del
santuario a quella dell’universo, che è qui espressione della
norma divina. Nel luogo scelto per la costruzione del
tempio, viene eretto un pilastro e intorno gli è tracciato un
cerchio, sì da formare un orologio solare. L’ombra della
colonna proiettata sul
cerchio indica, con le sue posizioni
estreme del mattino e della sera, due punti collegati
dall’asse est-ovest (fig. 1). A mezzo di un compasso
costituito da una corda si tracciano in seguito, intorno a
questi punti, dei cerchi gemelli intersecantisi a forma di
«pesce», che segna l’asse nord-sud (fig. 2).19

Fig. 1 e 2: Cerchio di orientazione secondo il Mānasāra Śilpa


Śāstra.

Altri cerchi, centrati su quattro punti degli assi ottenuti


permettono di fissare, con le loro intersezioni, i quattro
angoli di un quadrato: questo si presenta così come la
«quadratura» del ciclo solare, la cui immagine diretta è,
appunto, il cerchio dell’orologio solare (fig. 3).20
 

Il rito dell’orientazione è di una portata universale.


Sappiamo che fu praticato nelle civiltà più diverse: ne
fanno menzione antichi libri cinesi, e Vitruvio ci informa
che proprio in questo modo i Romani stabilivano il cardo e
il decumanus delle loro città, dopo aver consultato gli
àuguri sulla scelta del luogo; infine, numerosi indizi
lasciano supporre che il medesimo
procedimento sia stato
seguito anche dai costruttori dell’Europa medioevale. Il
lettore avrà notato che le tre fasi del rito corrispondono a
tre figure geometriche fondamentali: il cerchio, immagine
del ciclo solare, la croce degli assi cardinali e il quadrato
che ne risulta. Sono, questi, simboli della grande triade
estremo-orientale: Cielo-Uomo-Terra; l’Uomo (fig. 4) è in
tale gerarchia intermediario tra il Cielo e la Terra, il
principio attivo e il principio passivo, proprio come la croce
degli assi cardinali è l’intermediaria tra il ciclo illimitato del
cielo e il «quadrato» terrestre.

Fig. 3: Cerchio di orientazione e quadrato fondamentale.


Secondo la tradizione indù, il quadrato ottenuto con il
rito dell’orientazione, e che riassume e circoscrive il piano
del tempio, è il Vāstu-Puruṣa-maṇḍala, ossia il simbolo di
Puruṣa in quanto immanente all’esistenza, o simbolo
spaziale di Puruṣa. Questi è immaginato sotto forma di
uomo disteso nel quadrato fondamentale, nella posizione
della vittima del sacrificio vedico: la sua testa poggia a
oriente, i suoi piedi a occidente, le sue mani toccano gli
angoli nord-est e sud-est del quadrato.21 Puruṣa altro non è
che la vittima primordiale, l’essere totale che i deva
sacrificarono all’origine del mondo e che si «incarna» così
nel cosmo: il tempio sarà l’immagine cristallina di lui,
«Puruṣa (l’Essenza incondizionata) impersona il mondo
intero, il passato e l’avvenire. Da lui è nato Virāj
(l’Intelletto cosmico) e da Virāj è nato Puruṣa (in quanto
prototipo dell’uomo)».22 Nella sua forma limitativa e in un
certo senso «fissata», il diagramma geometrico del tempio,
il Vāstu-maṇḍala, corrisponde alla terra; ma per la sua
forma qualitativa esso è un’espressione di Virāj, l’Intelletto
cosmico; infine, nella sua essenza trascendente, non è se
non Puruṣa, l’Essenza di tutti gli esseri.

Fig. 4: Ideogramma cinese della Grande Triade: Cielo-Uomo-Terra.

4. - Il diagramma fondamentale del tempio è dunque un


simbolo della presenza divina nel mondo; ma secondo un
punto di vista complementare, è anche un’immagine
dell’esistenza bruta e «asurica», in quanto vinta e
trasfigurata dai deva.23 Ma questi due aspetti sono
indissolubilmente legati: senza il «sigillo» che lo Spirito
divino imprime alla «materia», questa non avrebbe forma
intelligibile, e senza la «materia» che riceve il «sigillo»
divino e per così dire lo delimita, nessuna manifestazione
sarebbe possibile. Secondo il Bṛhat-Saṃhitā, LII, 2-3, c’era
un tempo, all’inizio del presente manvantara, una «cosa»
indefinibile e inintelligibile, che «ostruiva il cielo e la
terra»; vedendola, i deva l’afferrarono all’improvviso, la
stesero per terra, a faccia in giù, e si stabilirono su di essa
nella posizione che avevano nell’atto di afferrarla; Brahmā
la riempì di deva24 e la chiamò Vāstupuruṣa. Questa cosa
oscura, senza forma intelligibile, non è altro che l’esistenza
(vāstu) nella sua radice tenebrosa, in quanto si oppone alla
Luce dell’Essenza, della quale i deva sono come altrettanti
raggi. Grazie alla vittoria che i deva riportano sull’esistenza
indifferenziata,
questa riceve una forma; caotica in se
stessa, essa riceve il supporto di qualità distinte, e a loro
volta i deva ottengono un supporto di manifestazione.
Secondo tale punto di vista, la stabilità del tempio è
assicurata dal fianco «esistenza» (vāstu); quindi, per
ottenere la stabilità dell’edificio (vāstuśānti) si celebrano
riti al Vāstupuruṣa, il patrono (kāraka) del tempio, il suo
costruttore e il suo donatore, che si identifica lui stesso con
l’asura, vittima degli dèi e sostegno della forma del tempio.
Il Vāstu-Puruṣa-maṇḍala è quindi concepito secondo
prospettive diverse e apparentemente opposte. Lo spirito
indù si mantiene sempre cosciente della doppia radice delle
cose, le quali procedono, a un tempo, dalla Bellezza infinita
e dall’oscurità esistenziale che la vela, essendo a sua volta,
questa oscurità, una funzione arcana dell’Infinito, poiché
essa altro non è se non la potenza plastica universale:
prakṛti o la śakti, che riveste gli esseri di forme limitate.
L’arte indù non fa che imitare l’opera della śakti, che è
direttamente presente nell’architettura e nella scultura:
una potenza cosmica generosa come la terra e misteriosa
come il serpente sembra scorrere nelle minime forme; le
riempie della sua tensione plastica pur continuando a
obbedire alla geometria incorruttibile dello Spirito: è la
śakti che danza sul corpo immobile di Śiva.
A seconda del punto di vista che assumiamo, la vittima
incorporata nel Vāstu-maṇḍala rappresenta o Puruṣa,
l’Essenza universale, o l’asura vinto dai deva. Se nella
vittima si vede Puruṣa, la visione avrà dell’illusorio, in
quanto l’Essenza divina, che per così dire «discende» nelle
forme del mondo, non ne subisce in realtà i limiti; d’altra
parte, la sua «incorporazione» – o ciò che sembra tale – è,
per analogia inversa, il prototipo di ogni sacrificio. Ma
soltanto la natura passiva dell’esistenza può realmente
subire il sacrificio; essa e non l’Essenza viene trasformata;
secondo questa visuale, non Puruşa sta chiuso nel piano del
tempio come vittima sacrificale, bensì l’asura divinizzato
mediante il suo sacrificio.
Il simbolismo del Vāstupuruṣa è presente presso popoli
che nessun vincolo storico unisce al mondo indù. Così gli
Osage, una tribù dell’America del Nord, considerano la
disposizione rituale del loro accampamento come «la forma
o lo spirito di un uomo perfetto», che in tempo di pace si
volge verso
oriente. «...Presso di lui si trova il centro, il cui
simbolo ordinario è il fuoco che brucia nel mezzo della
tenda sacra...».25 Ciò che importa è il fatto che
l’accampamento, disposto secondo quel che in inglese si
chiama il camp-circle, riassume il cosmo intero: la metà
della tribù dimorante a nord rappresenta il cielo, mentre
l’altra metà a mezzogiorno simboleggia la terra. L’esser qui
il recinto rituale a forma di cerchio e non, come nel caso
del tempio, a forma di quadrato o di rettangolo, si spiega
con lo «stile» della vita nomade e non toglie nulla
all’analogia di cui stiamo parlando. D’altra parte, il
carattere corporeiforme del tempio si ritrova in certo qual
modo nel calumet sacro, che era anch’esso «una sorta di
tipo corporale di quest’uomo ideale che si fa orologio solare
dell’universo sensibile...».26
Si ritrova il medesimo simbolismo nell’idea che un
edificio duraturo debba essere fondato su un essere
vivente; donde la pratica di murare una vittima sacrificale
nelle fondamenta; in certi casi sarà l’ombra di un uomo
vivente a esser «captata» e simbolicamente incorporata
nell’edificio.27 Sono senza dubbio echi lontani del rito della
vāstuśānti, o dell’idea di una vittima insieme divina e
umana incorporata nel tempio del mondo. Descriveremo
più in là una concezione analoga del tempio cristiano visto
come il corpo dell’Uomo divino.
 

5. - Il Vāstu-Puruṣa-maṇḍala, o Vāstu-maṇḍala, il cui


tracciato risulta dal rito di orientazione, è suddiviso in un
certo numero di quadrati minori che costituiscono il
reticolato nel quale debbono inscriversi le fondamenta
dell’edificio. L’analogia tra il cosmo e il piano del tempio si
riflette fin nell’organizzazione interna del piano stesso,
corrispondendo ogni quadrato minore del maṇḍala a una
delle fasi dei grandi cicli cosmici e al deva che la regola.
Solo il campo centrale, formato da uno o più quadrati
minori, si colloca simbolicamente al di fuori dell’ordine
cosmico: è il brahmāsthana, il luogo dove risiede Brahmā.
Al di sopra di questo campo centrale si innalza il cubo del
garbhagṛha, la «stanza dell’embrione», che deve contenere
il simbolo della divinità cui il tempio è consacrato.
Esistono trentadue tipi di Vāstu-maṇḍala, che si
distinguono dal numero dei quadrati minori. Essi si
ripartiscono in una duplice serie: quelli che contengono un
numero dispari di quadrati minori, e quelli la cui divisione
interna è binaria. La prima serie si sviluppa dal maṇḍala
fondamentale a nove quadrati che è, più specificamente, un
simbolo della terra (Pṛthivī) o del centro terrestre,
corrispondendo il quadrato centrale al centro di questo
mondo e gli otto quadrati periferici alle regioni cardinali e
alle quattro regioni intermedie dello spazio; si tratta
dunque, in un certo modo, di una forma quadrata della
ruota cosmica a otto raggi (fig. 5). Quanto ai maṇḍala a
divisione binaria, il loro schema di base comprende quattro
quadrati (fig. 6); esso costituisce il simbolo di Śiva, la
Divinità nel suo aspetto di trasformatore: abbiamo già visto
che il ritmo quaternario, di cui questo maṇḍala è come la
coagulazione spaziale, esprime il principio del tempo.
Facciamo rilevare che tale tipo di maṇḍala non possiede un
quadrato centrale, essendo il «centro» del tempo l’eterno
presente.

Fig. 5 e 6: Maṇḍala a nove e a quattro caselle.

Per il piano simbolico del tempio, due sono i maṇḍala


impiegati di preferenza: l’uno a sessantaquattro quadrati
minori, l’altro a ottantuno. Il primo si riconduce in un certo
senso alla casta sacerdotale, quella dei brāhmaṇa, e
all’aspetto macrocosmico del simbolo, mentre il secondo si
riallaccia alla casta dei guerrieri, quella dei kṣatriya, e
all’aspetto microcosmico del Vāstupuruṣa. La ragione di
tale gerarchia emerge da
quanto sopra abbiamo detto circa
i due maṇḍala fondamentali, rispettivamente a quattro e a
nove quadrati: lo schema il cui centro è non-manifesto –
poiché lo indica solo l’intersezione di due linee – è
gerarchicamente superiore a quello il cui centro è
contrassegnato da un «campo» centrale. La differenza è
analoga a quella fra tempo e spazio; astrazion fatta da tale
diversità, la costituzione interna dei due maṇḍala, a
sessantaquattro e a ottantun quadrati, risale al medesimo
complesso di idee.
Anzitutto, facciamo notare che i numeri 64 e 81 sono
sottomultipli del numero ciclico fondamentale 25.920, che è
il numero degli anni contenuti in un’intera precessione di
equinozi: 64 x 81 x 5 = 25.920 (il sottomultiplo 5
corrisponde al saṃvatsara, il ciclo di cinque anni
lunisolari). La precessione degli equinozi è la «misura-
limite» del cosmo, non essendo essa stessa misurabile se
non in rapporto con i cicli inferiori. Ognuno di questi due
maṇḍala rappresenta dunque una «riduzione» dell’universo
concepito come la «somma» di tutti i cicli cosmici.28
Dicevamo che il «campo» centrale del maṇḍala
rappresenta il brahmāsthana, la statio di Brahmā; nel
maṇḍala a sessantaquattro quadrati, esso occupa quattro
quadrati centrali; nel maṇḍala a ottantuno, nove. Su questo
campo si innalza la stanza centrale, che contiene il simbolo
della divinità titolare del tempio e che è analoga a
hiraṇyagarbha, l’«embrione d’oro», il germe luminoso del
cosmo (fig. 7 e 8).29

Fig. 7 e 8: Maṇḍala a sessantaquattro e a ottantun caselle (secondo


Stella Kramrisch).
I quadrati posti intorno al brahmāsthana, a eccezione di
quelli della periferia del maṇḍala, sono assegnati alle dodici
divinità solari, gli āditya, i quali si riducono
sostanzialmente a otto, poiché otto fra loro costituiscono
delle coppie ierogamiche; così le potenze divine
irraggiantisi dal luogo di Brahmā si ripartiscono secondo le
otto direzioni principali dello spazio. Peraltro, queste
direzioni sono associate agli otto pianeti del sistema indù (i
cinque pianeti propriamente detti, il sole, la luna e Rāhu, il
demone delle eclissi). I quadrati del perimetro
rappresentano invece il ciclo lunare: nel maṇḍala a
sessantaquattro quadrati, le ventotto caselle del perimetro
corrispondono a ventotto mansioni lunari; nel maṇḍala a
ottantun quadrati si aggiungono le «dimore» dei quattro
lokapāla, i guardiani delle regioni cardinali. In entrambi i
casi, il ciclo del perimetro è governato dai trentadue
pādadevatā, che sono i reggitori dell’universo che si
riflettono nelle qualità dello spazio: la loro gerarchia si
riferisce alla divisione quaternaria dello spazio secondo la
progressione: 4-8-16-32; nel maṇḍala a sessantaquattro
quadrati, quattro coppie di pādadevatā occupano gli angoli
del quadrato maggiore.30 La differenza tra i due maṇḍala, a
sessantaquattro e a ottantun quadrati, è dunque
essenzialmente quella stessa che distingue i due maṇḍala
più semplici, dedicati rispettivamente a Pṛthivī e a Śiva, al
principio dell’estensione e al principio del tempo: il primo
disegna la croce degli assi cardinali con delle fasce di
quadrati; il secondo la indica solo con delle linee (fig. 9).
Come diagramma cosmologico, il Vāstu-Puruṣa-maṇḍala
fissa e coordina i due cicli del sole e della luna,31 cicli
fondamentali i cui ritmi divergenti descrivono in un certo
senso il tema infinitamente vario del divenire. Si potrebbe
dire che il mondo dura fintantoché il sole e la luna – il
«maschio» e la «femmina» – non si congiungano, vale a dire
fino a che i loro rispettivi cicli non coincidano. I due tipi di
maṇḍala sono come due schemi complementari della
risoluzione dei due cicli in un unico ordine atemporale.
Attraverso questo aspetto cosmologico il Vāstu-Puruṣa-
maṇḍala riflette la gerarchia delle funzioni divine: infatti i
diversi «aspetti» dell’Essere, così come le diverse funzioni
dello Spirito universale, che è la manifestazione cosmica
dell’Essere, possono essere concepiti come
altrettante
direzioni contenute nello spazio totale o come altrettante
«facce» di un poligono regolare: le loro simmetrie rivelano
l’unità del loro principio comune. Così il Vāstu-Puruṣa-
maṇḍala è anche il sigillo di Virāj, l’Intelletto cosmico nato
dal Puruṣa supremo.32
Fig. 9: Vāstu-Puruṣa-maṇḍala (secondo Stella Kramrisch).

6. - La trasformazione definitiva dei cicli cosmici, più


precisamente, dei movimenti celesti, in forma cristallina si
ritrova anche nel simbolismo della città sacra. Il maṇḍala
per eccellenza,
contenente sessantaquattro quadrati
minori, è paragonato alla città inespugnabile degli dèi,
Ayodhyā, descritta dal Rāmāyana come un quadrato a otto
compartimenti per lato. Ayodhyā contiene nel suo centro
Brahmapura, la dimora di Dio, così come il piano del
tempio contiene il brahmāsthana. Anche nel cristianesimo
la sintesi immutabile e celeste del cosmo è simboleggiata
da una città, la Gerusalemme celeste, la cui cinta,
sostenuta da dodici pilastri, è quadrata, e il suo centro è
abitato dall’Agnello divino.33 Nel pensiero dei Padri della
Chiesa, la Gerusalemme celeste è il prototipo del tempio
cristiano.34
Il simbolo terrestre di Puruṣa, il Vāstu-Puruṣa-maṇḍala,
è, insieme, il piano del tempio, della città e infine del
palazzo in cui risiede un re consacrato. Esso indica pure il
luogo del trono, intorno al quale venivano raffigurati, in
certi casi, i trentadue dèi accoliti di Indra, i pādadevatā,
che indicavano le 4 x 8 direzioni dello spazio.35
Questa circostanza ci riconduce a un’applicazione
particolare del maṇḍala di 8 x 8 quadrati. Si sarà osservato
che tale maṇḍala corrisponde alla scacchiera. Ora, il gioco
degli scacchi, che viene dall’India, rappresenta
un’applicazione, a uso della casta nobile e guerriera, del
simbolismo inerente al Vāstu-Puruṣa-maṇḍala. Alcune
considerazioni su questo gioco non ci allontaneranno
troppo dal nostro tema; anzi ci aiuteranno a meglio
valutare la complessità del simbolismo di cui stiamo
trattando.
La scacchiera rappresenta il mondo come «campo di
azione» delle potenze cosmiche: le due armate, raffigurate
nei trentadue pezzi del gioco, simboleggiano
rispettivamente i deva – ossia gli dèi o più esattamente gli
angeli – e gli asura, cioè i titani o demoni.36 Lo svolgersi del
combattimento rappresentato dal gioco ha dunque il
medesimo significato del mito del Bṛhat Saṃhitā, che
descrive la vittoria dei deva su vāstu, l’aspetto «asurico» e
informe dell’esistenza. Il senso cavalleresco del gioco
deriva da quello del mito, poiché ogni guerra legittima ha
per modello la lotta universale delle potenze celesti contro
le potenze delle tenebre.37
Il doppio aspetto del maṇḍala – o del cosmo – è d’altronde
perfettamente indicato dall’alternanza dei colori, bianco
e
nero, delle caselle. Il fatto che la scacchiera cinese,
derivata anch’essa dall’aṣtāpada indù, non richieda tale
alternanza, fa supporre che quest’ultima non fosse
originariamente conosciuta in India prima che il gioco
venisse rimaneggiato e nuovamente diffuso dai Persiani.
Comunque sia, questo elemento è conforme al duplice
senso del Vāstu-Purṣa-maṇḍala, e al tempo stesso lo
avvicina a un tessuto, poiché il mondo è come intessuto di
potenze cosmiche opposte che si esprimono nell’alternanza
del giorno e della notte, dell’estate e dell’inverno, della vita
e della morte. Se si riduce il disegno della scacchiera al suo
schema più semplice, che è il maṇḍala a quattro quadrati,
simbolo di Śiva, la simmetria diagonale dei colori
corrisponderà alla divisione naturale di un ciclo in fasi
complementari (fig. 10).

Fig. 10

Da ciò siamo indotti a parlare di un’antichissima variante


del gioco degli scacchi, che mette in evidenza il simbolismo
ciclico del Vāstu-Puruṣa-maṇḍala: è il «gioco delle quattro
stagioni», che si svolge fra quattro avversari, in modo tale
che i pezzi, collocati nei quattro canti della scacchiera,
avanzino secondo un senso rotatorio, analogo al cammino
del sole.38
È evidente che l’ordine concentrico del Vāstu-Puruṣa-
maṇḍala: la ripartizione dei suoi elementi intorno al
brahmāsthana, non si applica al simbolismo della
scacchiera. Questa non implica alcuna «stazione puramente
divina, ma corrisponde interamente al mondo, dove si
svolge la lotta delle potenze avverse.
Se il mondo, nella sua totalità indefinita, rappresenta in
un certo senso la moltiplicazione dello spazio per il tempo
in
una combinazione all’infinito delle possibilità spaziali con
quelle del tempo, l’analogo inverso – il «sigillo» di questa
totalità – risulterà, matematicamente parlando, dalla
divisione del tempo per lo spazio; è proprio qui la genesi
del Vāstu-maṇḍala: che deriva dalla «quadratura» del
cerchio celeste.
La ricchezza praticamente illimitata delle combinazioni
possibili sulla scacchiera è dunque un’immagine
simbolicamente adeguata delle possibilità contenute
nell’universo. Nel gioco degli scacchi la vittoria è di chi
prevede meglio le possibilità implicite in ogni mossa; il che
significa, nell’ordine simbolico, che egli possiede una
conoscenza più ampia del «tessuto» cosmico: nel cosmo,
infatti, come nel gioco degli scacchi, ogni movimento è
decisivo, irreversibile, tale da condurre o verso la
costrizione o verso la libertà. La vittoria, dunque, è del più
saggio, di colui che più direttamente partecipa di Virāj,
l’Intelletto cosmico, di cui il maṇḍala è il «sigillo». V’è qui
come un compendio dell’«arte regale».39
 

7. - Abbiamo visto che la costruzione del tempio esprime


una cosmologia. Essa implica anche un senso «alchemico»,
in quanto è per l’artista stesso il supporto di una
realizzazione interiore. Tale senso «alchemico» è già
indicato nel rito dell’orientazione, che si può paragonare a
un processo di «cristallizzazione o di «coagulazione»: il
ciclo indefinito del cielo è «fissato» o «coagulato» nel
quadrato fondamentale per il tramite della croce degli assi
cardinali, che assume così la funzione di principio
cristallizzatore. Presupponendo che il mondo, trascinato
dal movimento ciclico indefinito del cielo, sia in certo qual
modo analogo all’anima passiva e incosciente della propria
realtà essenziale, la croce discriminante rappresenta lo
spirito o, più precisamente, l’atto spirituale, mentre il
quadrato simboleggia il corpo «trasmutato» da questa
operazione e divenuto ricettacolo e veicolo di una coscienza
nuova e superiore, il «sale» alchemico che funge da
collegamento tra l’attivo e il passivo, l’anima e lo spirito.
D’altra parte, il senso «alchemico» della costruzione del
tempio emerge dal simbolismo del Puruṣa incorporato
nell’edificio e considerato stavolta sotto il suo aspetto
microcosmico.
Tale aspetto si fonda più specificamente sul
maṇḍala a ottantun quadrati, che corrisponde al corpo
sottile del Vāstupuruṣa, che figura nel quadrato come un
uomo disteso a faccia a terra,40 il capo rivolto a oriente. In
via generale e astraendo da ogni figurazione antropomorfa,
le linee costituenti il tracciato geometrico del Vāstu-
maṇḍala sono identificate con le misure del prāṇa, il soffio
vitale del Vāstupuruṣa. Gli assi e le diagonali principali
segnano le correnti sottili principali del suo corpo; le loro
intersezioni formano i marma, cioè i punti sensibili o nodi
vitali, che non debbono essere incorporati nelle fondamenta
di un muro, di un pilastro o di un portale. Bisogna anche
evitare la coincidenza rigorosa degli assi di più edifici, così
come degli assi di un tempio e dei suoi annessi. Ogni
trasgressione a questa regola avrà per conseguenza dei
disordini nell’organismo del donatore del tempio, che è
considerato come il suo vero costruttore (kāraka) e che i
riti di fondazione identificano con il Vāstupuruṣa in quanto
vittima sacrificale incorporata all’edificio.
Questa legge fa sì che certi elementi dell’architettura
debbano essere leggermente spostati rispetto allo schema
rigorosamente simmetrico della pianta. Il simbolismo
geometrico dell’insieme non ne risulterà meno evidente; al
contrario, manterrà il suo aspetto di forma costitutiva e non
si confonderà con la forma puramente materiale del
tempio. Ciò mostra con particolare risalto quanto la
concezione tradizionale di «misura» e di regolarità
differisca da quella espressa dalla scienza e dall’industria
moderne. I principi dell’architettura indù, infatti, regolano
ugualmente ogni arte o artigianato tradizionale, qualunque
ne sia il substrato religioso. Le superfici e gli angoli di una
chiesa romanica, per esempio, si rivelano sempre inesatti
quando vi si applichino delle misure rigorose, ma con tanto
maggior limpidezza si impone l’unità del tutto; starei per
dire che la regolarità dell’edificio si sottrae in un certo
senso al controllo meccanico per reintegrarsi
nell’intelligibile. Per contro, la maggior parte delle
costruzioni moderne non manifestano che un’unità
meramente «additiva», pur presentando una regolarità
«inumana» – perché apparentemente assoluta – nei
particolari, quasi si tratti non di «riprodurre» il modello
trascendente attraverso modi umani, ma di «sostituirlo»
con una sorta di copia magica assolutamente conforme, il
che implica una confusione luciferina tra la forma materiale
e la forma ideale o «astratta». Gli edifici moderni rivelano
quindi un capovolgimento del rapporto normale tra le
forme essenziali e le forme contingenti; dal che risulta una
specie di inattività visuale incompatibile con la sensibilità
sarei tentato di dire la «sostanza iniziabile» – dell’artista
contemplativo. Proprio a evitare questo mira,
nell’architettura indù, il divieto di «ostruire» le correnti
sottili dell’edificio sacro.
La forma corporale del tempio si deve distinguere dalla
sua vita sottile, intessuta di prāṇa, come questa si distingue
dalla sua essenza intellettuale, che è Virāj. Tutti insieme,
questi tre gradi esistenziali rappresentano la
manifestazione totale di Puruṣa, l’Essenza divina
immanente nel cosmo.
In altri termini, il tempio ha uno spirito, un’anima e un
corpo, come l’uomo e come l’universo: come il sacrificante
vedico si identifica spiritualmente con l’altare, che egli
costruisce a misura del suo corpo, e per ciò stesso
dell’universo compendiato dall’altare, così l’architetto del
tempio si identifica con l’edificio e con quel che esso
rappresenta; in tal modo, ogni fase dell’opera
architettonica è nello stesso tempo una fase di
realizzazione spirituale. L’artista conferisce alla sua opera
qualcosa della propria forza vitale; in compenso, partecipa
alla trasformazione che questa forza subisce in virtù della
natura sacramentale e implicitamente universale
dell’opera. Sotto questo aspetto, l’idea del Puruṣa,
incorporato nell’edificio acquista una diretta dimensione
spirituale.
 

8. - La base del tempio non copre necessariamente tutta


l’estensione del Vāstu-maṇḍala: in generale, i muri di
fondazione sono parzialmente costruiti o in rientranza o in
sporgenza sul quadrato del maṇḍala, in modo da segnare la
croce degli assi cardinali o la stella delle otto direzioni.
Questa articolazione del perimetro del tempio vuole
sottolineare la sua somiglianza con Meru, la montagna
polare. La sua parte inferiore, più o meno cubica, sorregge
una serie di piani scalati a guisa di piramide; la piramide è
coronata da una cupola apparente,
sormontata da un asse
verticale, l’«asse del mondo», che figura come se
attraversasse il corpo del tempio a partire dal centro del
garbhagṛha, il santuario-caverna nel cuore dell’edificio
formato quasi interamente da un’unica massa solida e
piena (fig. 11).
Fig. 11: Pianta di un tempio indù (secondo Stella Kramrisch).

L’asse del mondo corrisponde alla realtà trascendente di


Puruṣa, l’Essenza che attraversa tutti i piani dell’esistenza
collegando i loro rispettivi centri all’Essere incondizionato,
simbolicamente posto al punto supremo dell’asse al di là
della piramide dell’esistenza, che il tempio a molti piani
configura.41 Nell’altare vedico, quest’asse è rappresentato
da una cavità che attraversa tre strati di mattoni e che fa
capo, nell’estremità inferiore, all’«uomo d’oro»
(hiraṇyapuruṣa) murato nell’altare. L’asse è sostituito da un
vuoto per indicare che non è soltanto il principio immobile
intorno a cui rotea il cosmo, ma anche la via che conduce
fuori dal mondo, verso l’Infinito.
Il tempio indù reca una sorta di cupola massiccia
(sichara) da cui emerge la sommità dell’asse. Questa
cupola, che talvolta simula la forma di un grosso disco,
corrisponde naturalmente a quella del cielo; essa è il
simbolo del mondo sovraformale.
Il tempio indù – che non deve esser confuso con gli edifici
circostanti, né con gli atri e i padiglioni delle porte – non ha
ordinariamente finestre che diano luce al santuario; questo
non comunica con l’esterno che attraverso l’andito che
si
apre sul portale. In compenso, i muri esterni sono molto
spesso ornati di nicchie che racchiudono immagini scolpite
di deva e che sono come balconcini da cui la Divinità,
presente nel santuario, si mostra agli adoranti che
compiono la circumambulazione rituale intorno al tempio.
Di regola, la stanza centrale del tempio, innalzantesi al di
sopra del brahmāsthana, non contiene se non il simbolo
della Divinità; tutte le rappresentazioni figurative sono
infatti ripartite tra il vestibolo e i muri esterni. Solo al di
fuori, dunque, la Divinità unica si manifesta sotto forme
antropomorfe e molteplici, scoperte dai pellegrini a mano a
mano che avanzano intorno al massiccio dell’edificio sacro
con i suoi promontori e le sue forre.42
Nel rito della circumambulazione, il simbolismo
architettonico e plastico del tempio, che «fissa» i cicli
cosmici, diviene a sua volta l’oggetto di un’esperienza
ciclica: il tempio è così l’asse del mondo intorno a cui
girano gli esseri soggetti al saṃsāra. Esso è il cosmo intero
sotto il suo aspetto di Legge immutabile e divina.
 

9. - L’architettura indù tende ad avviluppare la verticale


entro masse compatte, dai profili prolissi; per contro, fa
risaltare le linee orizzontali come altrettanti livelli d’acqua;
questo perché la verticale corrisponde all’unità ontologica,
all’Essenza, la quale è «interiore» e trascendente, mentre
l’orizzontale simboleggia il piano esistenziale. La
ripetizione dell’orizzontale, favorita dalla costruzione
massiccia, in mattoni sovrapposti, suggerisce la moltitudine
indefinita dei gradi dell’esistenza. Questa indefinitezza è in
qualche modo il riflesso dell’Infinità divina nell’ordine della
manifestazione. L’induismo è come ossessionato dalla
nostalgia dell’infinito, che esso considera al tempo stesso
nell’ordine assoluto, in quanto compiutezza indifferenziata,
e nell’ordine relativo, come inesauribile ricchezza delle
possibilità di manifestazione: questo secondo aspetto si
eclissa nel primo. Qui è il substrato spirituale di quel
pluralismo delle forme che conferisce all’arte indù,
nonostante la semplicità dei suoi tipi, qualcosa della natura
esuberante di una foresta vergine.
Il medesimo pluralismo si afferma nella scultura
iconografica
con le immagini dei deva dalle membra
moltiplicate, con le commistioni di forme umane e animali,
con tutto quel proteismo oscillante – agli occhi degli
occidentali – fra la bellezza e la mostruosità. Ma tale
trasformazione del corpo umano, che in qualche modo lo
riavvicina agli organismi multiformi come le piante e certi
animali marini, ha lo scopo di «dissolvere» ogni
affermazione individuale nel ritmo universale e indefinito:
questo ritmo è il gioco (līlā) dell’Infinito che si manifesta
con la potenza inesausta della sua māyā.
Questa potenza è in se stessa equivoca: è generosa per il
suo fondo materno che produce gli esseri effimeri e li
protegge, compensando ogni squilibrio nella sua ampiezza
senza limiti; ma è altresì crudele per la sua magia, che li
trascina nel vortice inesorabile del saṃsāra.
Nell’iconografia del tempio indù, la sua doppia natura è
simboleggiata dalla maschera proteica del Kāla-mukha o
Kirtti-mukha, che corona gli archi delle porte e delle
nicchie (fig. 12). Essa ha del leone e, insieme, del mostro
marino; non ha mascella inferiore, è come un cranio
sospeso a guisa di trofeo, ma i suoi lineamenti non sono
meno animati di vita intensa: le narici aspirano
violentemente l’aria, mentre la gola vomita dei makara
(delfini) e delle ghirlande che si snodano lungo archi di
spinta.
Fig. 12: Kāla-mukha.

È la faccia «gloriosa» e terribile della Divinità in quanto


fonte della vita e della morte. L’enigma divino, la causa di
questo mondo reale e irreale a un tempo, si nasconde
dietro questa maschera di Gorgone: manifestando questo
mondo, l’Assoluto si rivela e si nasconde; dona agli esseri
l’esistenza, ma li priva della sua visione.43
Però gli aspetti della māyā divina sono anche
rappresentati separatamente: le leonesse o leogrifi (śardūla
o vyalī) rampanti lungo pilastri e nicchie simboleggiano il
suo aspetto terrificante, mentre delle giovani donne di
celestiale bellezza (surandarī) incarnano il suo aspetto
benefico.
Nell’esaltazione della bellezza femminile, l’arte indù
supera di gran lunga l’arte greca, che ha come suo ideale
spirituale – progressivamente poi ridotto a ideale
puramente umano – il «cosmo» in quanto si oppone
all’indefinito del «caos», e che seziona la bellezza del corpo
maschile con le sue proporzioni nettamente articolate; ma
la bellezza flessuosa e indivisa del corpo femminile, la sua
ricchezza ora semplice ora complessa come quella del
mare, sfugge all’arte greca, almeno sul piano intellettuale.
Lo spirito greco resta chiuso all’accoglimento dell’Infinito,
che confonde con l’indefinito; non riuscendo a concepire
l’Infinità trascendente, non l’intravede neppure sul piano
«prakṛtico», cioè come oceano inesauribile delle forme.
Soltanto nell’epoca della sua decadenza l’arte greca si apre
alla bellezza «irrazionale» del corpo femminile, che
l’allontanerà dal suo ethos. Per contro, nell’arte indù il
corpo della donna appare una manifestazione spontanea e
innocente del ritmo universale, come un’onda dell’oceano
primordiale o un fiore dell’Albero del Mondo.
Qualcosa di tale bellezza innocente avvolge anche le
immagini dell’unione sessuale (maithuna), che adornano i
templi indù. Nel loro significato più profondo, esse
esprimono l’unione spirituale, la fusione del soggetto e
dell’oggetto, simboleggiano la complementarità dei poli
cosmici, dell’attivo e del passivo: così il loro aspetto
passionale ed equivoco va disperso in una visione
universale.
La scultura indù assimila, senza sforzo e senza perdere
la
sua unità spirituale, certi mezzi che altrove condurrebbero
al naturalismo. Essa trasfigura la sensualità stessa
saturandola di una coscienza spirituale, che si esprime
nella tensione plastica delle superfici: come quelle di una
campana, sembrano esser fatte per dare un suono puro.
Una tale qualità del modellato è frutto di un metodo rituale,
che consiste nel toccare la superficie del proprio corpo,
dalla testa ai piedi, allo scopo di spingere la chiarità della
coscienza fino agli estremi limiti della vita psicofisica, sì da
integrarli nello spirito.44
D’altra parte, la coscienza corporea, che direttamente si
riflette nella scultura iconografica, è trasmutata dalla danza
sacra: lo scultore indù è tenuto a conoscere le regole della
danza cultuale, che è la prima delle arti figurative perché
ha come mezzo l’uomo stesso. Così la scultura si riallaccia
a due arti radicalmente diverse: per la sua tecnica
artigianale è apparentata all’architettura, che è
essenzialmente statica e trasforma il tempo in spazio,
mentre la danza trasforma lo spazio in tempo assorbendolo
nella continuità del ritmo. Non stupisce dunque che questi
due poli dell’arte indù, la scultura e la danza, abbiano
generato insieme quello che può esser considerato il frutto
più perfetto dell’arte indù, ossia l’immagine di Śiva
danzante.
La danza di Śiva esprime a un tempo la generazione, la
conservazione e la distruzione del mondo, in quanto fasi
dell’attività permanente di Dio. Śiva è il «Signore della
danza» (Natarājā). Egli stesso ha rivelato i principi della
danza sacra al saggio Bharatamuni, che li codificò nel
Bharata-Nātya-Śāstra.45
Nella statua classica di Śiva danzante si combinano in
maniera perfetta le leggi statiche della scultura e il ritmo
della danza: il movimento è concepito come una rotazione
intorno a un asse immobile; per la sua scomposizione in
quattro gesti tipici che si succedono come altrettante fasi,
esso riposa per così dire nella sua stessa estensione; non è
affatto rigido, ma nello stesso tempo il suo ritmo è
contenuto in una formula statica, come le onde di un
liquido in un vaso: il tempo è integrato nell’atemporale. Le
membra del dio si dispiegano in modo tale che l’adorante,
che vede la statua di faccia, ne coglie le forme a prima
vista: esse sono inscritte nel piano del
cerchio
fiammeggiante, simbolo della prakṛti, senza che la loro
polivalenza spaziale sia per questo diminuita. Al contrario,
da qualunque lato si contempli la statua, il suo equilibrio
statico rimane perfetto, come l’equilibrio di un albero che
si dispiega nello spazio. La precisione plastica del
particolare si allea alla continuità ininterrotta dei gesti.
Śiva danza sul demone vinto della materia caotica.
Nell’estrema destra tiene il tamburo, il cui pulsare
corrisponde all’atto creatore. Con il gesto della mano levata
egli annunzia la pace a protezione di tutto ciò che ha
creato. La mano abbassata indica il piede che si stacca dal
suolo, in segno di liberazione. Nell’estrema sinistra reca la
fiamma che distruggerà il mondo.46
Le immagini di Śiva danzante mostrano ora gli attributi di
un dio, ora quelli di un asceta, ora di ambedue a un tempo,
poiché Dio è al di là di tutte le forme e non assume forma
se non per divenire la sua propria vittima.
Capitolo secondo

FONDAMENTI DELL’ARTE CRISTIANA

1. - Il cristianesimo ha rivelato i suoi misteri in seno a un


mondo caotico e profano: esso «risplendeva nelle tenebre»
e non poté mai trasformare interamente l’ambiente in cui si
diffuse. Per tale ragione l’arte cristiana, se confrontata con
quella delle civiltà millenarie dell’Oriente, è stranamente
discontinua nel suo stile e nella sua qualità spirituale.
Diremo a suo tempo come l’arte musulmana non abbia
potuto realizzare una certa omogeneità formale se non
rifiutando in blocco l’eredità artistica del mondo greco-
romano, almeno nel campo della pittura e della scultura.
Per il cristianesimo le cose si presentavano diversamente: il
pensiero cristiano, con il suo orientamento soteriologico,
esigeva un’arte figurativa. Il cristianesimo, dunque, non
poté prescindere dall’eredità artistica dell’antichità.
Assumendola, incorporò taluni germi di naturalismo, nel
senso antispirituale del termine, e, nonostante il lungo
processo di assimilazione subìto da quell’eredità nel corso
dei secoli, il suo latente naturalismo non mancò di
riemergere ogni volta che la coscienza spirituale declinava;
e questo molto prima del Rinascimento, che ruppe
definitivamente con la tradizione.1 Mentre l’arte delle
civiltà tradizionali dell’Oriente in realtà non si scinde mai in
arte sacra e in arte profana – poiché i modelli sacri
determinano persino l’arte popolare – il mondo cristiano ha
sempre conosciuto, accanto a un’arte sacra nel significato
rigoroso del termine, un’arte religiosa dalle forme più o
meno «mondane».
L’arte di ispirazione autenticamente cristiana deriva dalle
immagini, di origine miracolosa, del Cristo e della Vergine.
Essa si accompagna alle tradizioni artigianali, che sono
cristiane per adozione, è vero, ma che nondimeno hanno un
carattere sacro, in quanto i loro metodi di creazione sono
veicolo di una saggezza primordiale che spontaneamente
corrisponde alle verità
spirituali del cristianesimo. Soltanto
queste due correnti, arte tradizionale delle icone e
artigianato tradizionale, meritano, nella civiltà cristiana, la
denominazione di arte sacra.
La tradizione dell’immagine sacra, della «vera icona»
(vera icon), è di natura teologica e ha un’origine storica e
miracolosa a un tempo, conforme alla natura particolare
del cristianesimo; ne riparleremo. Non fa meraviglia che la
filiazione di quest’arte si perda per noi nell’oscurità
dell’epoca precostantiniana, poiché tante altre tradizioni
riconosciute come apostoliche si perdono anch’esse nella
relativa oscurità delle loro origini. Ci fu senza dubbio, nei
primi secoli del cristianesimo, una certa riserva nei
confronti dell’arte figurativa, condizionata dall’influsso
giudaico e, insieme, dal contrasto con il paganesimo antico;
per tutto il tempo che la tradizione orale fu ancora viva e il
cristianesimo non si fu manifestato in piena luce, la
figurazione artistica delle verità cristiane non poté avere
che una parte assai contingente e sporadica. Ma più tardi,
quando la libertà sociale da un lato e le esigenze della
collettività dall’altro favorirono l’arte religiosa o la resero
addirittura necessaria, sarebbe stato veramente strano che
la tradizione, con tutto il suo vigore spirituale, non avesse
fornito a tale possibilità di manifestazione tutto lo spirito di
cui normalmente essa poteva farsi portatrice.
Quanto alla tradizione artigianale, le cui radici sono
precristiane, essa è anzitutto cosmologica, perché l’opera
artigianale imita praticamente la formazione del cosmo dal
caos. La sua visione delle cose non si riallaccia quindi
immediatamente alla rivelazione del Cristo, il cui
linguaggio è estraneo a una qualsiasi cosmologia.
L’integrazione del simbolismo artigianale nel cristianesimo
costituiva nondimeno una necessità vitale, in quanto la
Chiesa aveva bisogno delle arti plastiche per rivestirsi di
forme visibili e non poteva appropriarsi dei mestieri senza
tener conto delle possibilità spirituali che essi implicano.
D’altronde, nell’economia psichica e spirituale della «città»
cristiana, il simbolismo artigianale era un fattore di
equilibrio, perché compensava per così dire la pressione
unilaterale dell’etica cristiana, profondamente ascetica,
manifestando le verità divine sotto un aspetto non morale e
in ogni caso non volontaristico: al discorso che insiste su
ciò che bisogna
fare per divenire santi, esso oppone una
visione del cosmo che è santo per la sua bellezza;2 mediante
l’ambiente che esso crea, fa partecipare naturalmente e
quasi involontariamente gli uomini al mondo della santità.
Il cristianesimo, spogliando il retaggio artigianale dei
caratteri fittizi di cui l’aveva rivestito il naturalismo greco-
romano ebbro di glorie umane, ne liberò per ciò stesso
quegli elementi perenni che sono espressione delle leggi
cosmiche.3
Il punto di sutura fra la tradizione puramente cristiana, di
natura teologica, e la cosmologia precristiana è
chiaramente indicato nelle catacombe dai simboli del
Cristo, in particolare dal monogramma costituito da una
ruota a sei o otto raggi. Questo monogramma, il cui uso è
antichissimo, è formato dalle lettere greche X e P (chi e ro),
o da sole o combinate con una croce. Allorché tale segno è
inscritto in un cerchio, la forma della ruota cosmica è
evidente; ma a volte è sostituito dalla semplice croce
inscritta nel cerchio. La natura solare del cerchio è
indubbia: in certe iscrizioni cristiane delle catacombe il
cerchio stesso è fornito di raggi disposti a forma di mano,
elemento derivato dagli emblemi solari dell’antico Egitto. Il
monogramma innestato nella croce si collega inoltre,
attraverso l’ansa della P che orna l’asse verticale come un
astro culminante, alla croce ansata, l’ankh egizio (fig. 13).
Fig. 13: Tre diverse forme del monogramma del Cristo nelle
catacombe (secondo Oskar Beyer).

Il cerchio che racchiude il segno non è altro che l’orbita


solare, divisa dai due assi del cielo. La ruota a sei raggi
assomiglia
alla croce a tre dimensioni proiettata su un
piano; la ruota a otto raggi, formata dal monogramma e
dalla croce combinate insieme, è analoga alla «rosa dei
venti», che è lo schema dei quattro punti cardinali e dei
quattro punti intermedi del cielo.
Non bisogna mai dimenticare che per gli uomini
dell’antichità e del Medioevo lo spazio fisico, considerato
nella sua totalità, è sempre l’oggettivazione dello «spazio
spirituale»; infatti, la sua omogeneità logica risiede tanto
nello spirito conoscente quanto nella realtà fisica.
Molto spesso il monogramma del Cristo è collocato tra le
due lettere alfa e omega, simboleggianti il principio e la
fine (fig. 14). La combinazione della croce, del
monogramma e del cerchio designa il Cristo come sintesi
spirituale dell’universo. Egli è tutto: è il principio, la fine o
il mezzo atemporale. È il «sole vittorioso» e «invincibile»
(sol invictus). La sua croce regge il cosmo,4 e lo giudica.
Quindi il monogramma è anche segno di vittoria:
l’imperatore Costantino, il cui ruolo di monarca supremo
doveva esso stesso simboleggiare il sol invictus, pose
questo segno sul suo vessillo, significando con ciò che il
senso cosmico dell’impero romano si compiva nel Cristo.
Fig. 14: Iscrizione paleocristiana delle catacombe con il
monogramma del Cristo tra l’alfa e l’omega. Il cerchio solare del
monogramma è fornito di «mani di luce», secondo un modello
egizio (secondo Oskar Beyer).

Anche nella liturgia il Cristo è paragonato al sol invictus,


e l’orientamento dell’altare conferma tale assimilazione.
Come molti misteri antichi, la liturgia rievoca il dramma del
sacrificio
divino in conformità con il significato generale
delle regioni dello spazio e delle misure cicliche del tempo.
L’immagine cosmica del Verbo è il sole.
L’integrazione di tradizioni artigianali – di ispirazione
cosmologica – nel cristianesimo era stata
provvidenzialmente preparata dall’istituzione del
calendario solare per opera di Giulio Cesare – che si era
5

ispirato alla scienza egizia – e dalla trasposizione di questo


calendario e delle principali feste solari nell’anno liturgico
cristiano. Bisogna sempre tener presente che il riferimento
ai cicli cosmici è fondamentale per le tradizioni artigianali e
per l’architettura in specie, come abbiamo visto a proposito
della costruzione del tempio. Questa si manifesta infatti
come una vera «cristallizzazione» dei cicli celesti. Il
significato delle direzioni dello spazio non può dissociarsi
da quello delle fasi del ciclo solare: questo è un principio
comune così all’architettura arcaica come alla liturgia.
Ritroveremo nell’architettura cristiana lo schema
fondamentale della croce inscritta nel cerchio. È assai
indicativo il fatto che tale schema sia a un tempo il simbolo
del Cristo e la sintesi del cosmo: il cerchio rappresenta la
totalità dello spazio, quindi la totalità dell’esistenza, nonché
il ciclo celeste, le cui divisioni naturali, indicate dalla croce
degli assi cardinali, sono proiettate nella forma
rettangolare del tempio. La pianta della chiesa sottolinea la
forma della croce, il che corrisponde non solo al senso
specificamente cristiano di tale figura, ma altresì alla sua
funzione cosmologica nell’architettura precristiana: la
croce degli assi cardinali è l’elemento mediatore tra il
cerchio del cielo e il quadrato della terra. Ora, la
prospettiva cristiana contempla per prima cosa la funzione
del mediatore divino.
 

2. - Il simbolismo del tempio cristiano poggia


sull’analogia che lo lega al corpo del Cristo, secondo le
parole del Vangelo: «Gesù rispose: “Distruggete questo
tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. I Giudei
replicarono: “Questo tempio fu costruito in quarantasei
anni e tu lo farai risorgere in tre giorni?” Egli però parlava
del tempio del suo corpo».6
Ricordiamo qui che il tempio di Salomone, sostituito
prima
di Cristo dal tempio di Zorobabel, era dimora della
Shechinah, la Presenza divina sulla terra. Secondo la
tradizione giudaica, tale Presenza, allontanatasi dalla terra
in seguito alla caduta di Adamo, aveva preso dimora nelle
persone dei patriarchi. Più tardi Mosè le preparò.
un’abitazione mobile nel tabernacolo e, in via più generale,
nel corpo del popolo di Israele purificato.7 Salomone, poi, le
costruì una dimora stabile secondo il piano già rivelato a
suo padre David: «Allora Salomone disse: “Jahvè ha voluto
abitare nella densa nube; perciò io ti ho edificato una
dimora eccelsa, un luogo per la tua residenza, per
sempre”».8 «Orbene, Jahvè Dio di Israele, si avveri la parola
che hai detto al tuo servo David, mio padre. Ma davvero
Dio abita sulla terra? Ecco: i cieli e i cieli dei cieli non
possono contenerti; e come lo potrà questo tempio che io
ho costruito?».9 «Appena Salomone ebbe terminato la
preghiera, il fuoco discese dal cielo e consumò l’olocausto e
i sacrifici, mentre la Gloria (Shechinah) di Jahvè riempiva il
tempio. I sacerdoti non potevano entrare nel tempio di
Jahvè, perché la Gloria di Jahvè riempiva il tempio»10
Il tempio di Salomone sarà sostituito dal corpo del
Cristo;11quando egli muore, il velo davanti al Santo dei
Santi nel tempio si lacera. Il corpo del Cristo è anche la
Chiesa in quanto comunità dei santi; simbolo di questa
Chiesa è il tempio cristiano.
Secondo i Padri della Chiesa, l’edificio sacro rappresenta
anzitutto il Cristo come Divinità manifestata sulla terra; al
medesimo tempo rappresenta l’universo costituito da
sostanze visibili e invisibili; infine l’uomo e le sue diverse
«parti».12 Per certi Padri della Chiesa il Santo dei Santi è
un’immagine dello Spirito, la navata è immagine della
ragione, mentre il simbolo dell’altare riassume in sé
ambedue;13 per altri il Santo dei Santi, vale a dire il coro o
l’abside, raffigura l’anima, mentre la navata è analoga al
corpo. L’altare è il cuore.14
Alcuni liturgisti medioevali, come Durant de Mende e
Onorio d’Autun, paragonano la pianta della cattedrale alla
forma del Crocifisso: la testa di lui corrisponde all’abside
orientata, le sue braccia si protendono nel transetto, il
busto e le gambe riposano nella navata, il cuore si colloca
dov’è l’altare maggiore. Tale interpretazione richiama il
simbolismo indù di
Puruṣa incorporato nel piano del
tempio. In tutti e due i casi l’Uomo-Dio incarnato
nell’edificio sacro è l’olocausto che riconcilia il Cielo con la
Terra. Si potrebbe ipotizzare che l’interpretazione cristiana
della pianta del tempio abbia ripreso un simbolismo assai
più antico adattandolo alla prospettiva cristiana; ma è pure
possibile, e persino più probabile, che due concezioni
spirituali analoghe siano nate indipendentemente l’una
dall’altra.
Si noterà che il simbolismo indù esprime la
manifestazione divina in un senso generale. Il Vāstu-
Puruṣa-maṇḍala: è un diagramma del rapporto Spirito-
materia o Essenza-sostanza. La parabola cristiana del
tempio contempla invece la «discesa» particolare del Verbo
sotto forma umana. Il principio metafisico è il medesimo,
però i messaggi sacri sono differenti.
Nella dottrina dei Padri, l’incarnazione del Verbo è in se
stessa un sacrificio, non soltanto a causa della passione, ma
soprattutto perché la Divinità ha subito l’estrema
«umiliazione» con la sua discesa in una forma umana e
terrestre. È vero che Dio come Dio, nella sua essenza
eterna, non patisce sacrificio; tuttavia, siccome la
sofferenza dell’Uomo divino non avrebbe il suo valore reale
senza la presenza in lui della natura divina, il sacrificio
ricade in qualche maniera su Dio, il cui amore infinito
ingloba l’«alto» e il «basso». Così, nella dottrina indù,
Puruṣa in quanto Essere supremo non potrebbe subire i
limiti del mondo nel quale e mediante il quale si manifesta,
e ciò nonostante assume in un certo qual modo quei limiti,
perché contenuti potenzialmente nella sua Infinità.
Lungi dallo sviarci dal nostro tema, queste considerazioni
ci aiuteranno a cogliere lo stretto nesso esistente fra il
significato del tempio come corpo dell’Uomo divino e il suo
significato cosmologico, dato che il cosmo rappresenta nel
senso più generale il «corpo» della Divinità rivelata. Qui è il
punto in cui la dottrina iniziatica «massonica» si aggancia
alla cristologia.
Abbiamo già posto in evidenza come l’analogia costitutiva
tra il cosmo e l’edificio venga stabilita con il procedimento
dell’orientazione. Si può ammettere che il cerchio
dell’orologio solare, grazie al quale era possibile trovare gli
assi est-ovest e nord-sud, rappresentasse pure il cerchio in
base al quale erano
dedotte tutte le misure dell’edificio. È
noto che le proporzioni di una chiesa risultavano
generalmente dalla divisione armonica di un grande
cerchio, ossia dalla sua divisione per cinque oppure per
dieci. Tale metodo pitagorico, che i costruttori cristiani
avevano con ogni probabilità ereditato dai collegia
fabrorum,15 non era solo applicato sul piano orizzontale, ma
anche secondo un piano verticale,16 così che il corpo
dell’edificio era come inscritto in una sfera immaginaria:
simbolo ben ricco e assai adeguato al fine che ci si
proponeva. Il cristallo dell’edificio sacro si coagula così
fuori della sfera indefinita del cosmo. Tale sfera è anche
l’immagine della natura universale del Verbo, la cui forma
concreta e terrestre sarà il tempio (fig. 15).

Fig. 15: Alcuni tipi di proporzioni di chiese medioevali (secondo


Ernst Moessel).

La divisione denaria non corrisponde alla natura


puramente geometrica del cerchio, che il compasso divide
in sei o in dodici; ma corrisponde al ciclo, di cui indica le
fasi successivamente decrescenti secondo la formula: 4 + 3
+ 2 + 1 = 10. Tale metodo di stabilire le proporzioni di un
edificio si ricollega dunque in qualche modo alla natura del
tempo, sicché si
può dire che le proporzioni di una
cattedrale del Medioevo riflettono un ritmo cosmico.
D’altronde, la proporzione è nello spazio quello che il ritmo
è nel tempo, e sotto un rapporto del genere è significativo
che la proporzione armonica sgorghi dal cerchio, che è
l’immagine più diretta del ciclo celeste. Così la natura
indivisa del cerchio si comunica in qualche modo all’ordine
architettonico, la cui unità sarà non-razionale e
inafferrabile sul piano unicamente quantitativo.
Per il fatto stesso che l’edificio sacro è un’immagine del
cosmo, esso è, a fortiori, un’immagine dell’Essere e delle
sue possibilità, che sono come «esteriorizzate» e
«oggettivate» nell’edificio cosmico. Il piano geometrico
dell’edificio simboleggia dunque il «piano divino»; e
insieme rappresenta la dottrina che ogni artigiano che
cooperava alla costruzione poteva concepire e interpretare
secondo i canoni della propria arte. Era una dottrina
insieme esoterica ed essoterica.
Il tempio, come il cosmo, è prodotto partendo da un caos.
Il materiale da costruzione – legno, creta, pietra –
corrisponde alla yle o materia prima, la sostanza
plasmabile del mondo. Il muratore che taglia una pietra,
vede in essa la materia che non parteciperà alla perfezione
dell’esistenza se non nella misura in cui assumerà una
forma determinata dallo Spirito.
Gli strumenti che servono a trasformare la materia bruta
simboleggiano gli «strumenti» divini, che «foggiano» il
cosmo muovendo dalla materia prima indifferenziata e
amorfa. Ricordiamo in proposito che, nelle più diverse
mitologie, certi strumenti sono identificati con certi
attributi divini, il che spiega perché la trasmissione
iniziatica era strettamente legata, nelle iniziazioni
artigianali, alla consegna degli strumenti del mestiere. Si
potrà dunque dire che lo strumento è superiore all’artista,
nel senso che il suo simbolismo trascende l’individuo in
quanto tale; esso è come il segno esteriore di una facoltà
spirituale che riconnette l’uomo al suo prototipo divino, il
Logos. Inoltre, lo strumento è analogo all’arma, che
ritroviamo ancora come attributo divino.17
Gli strumenti dello scultore, per esempio – il maglietto e
lo scalpello – sono simbolo degli «agenti cosmici» che
differenziano la materia prima, rappresentata qui dalla
pietra bruta. Il complementarismo dello scalpello e della
pietra è presente,
sotto altre forme, nella maggior parte dei
mestieri tradizionali, se non in tutti: l’aratro solca la terra18
come lo scalpello lavora la pietra; allo stesso modo,
parlando in linea di principio, il calamo «trasforma» la
carta;19 lo strumento che incide o modella appare sempre
come l’agente di un principio maschile che determina una
materia femminile. Lo scalpello corrisponde con ogni
evidenza a una facoltà di distinzione o discriminazione;
attivo nei confronti della pietra, diviene a sua volta passivo
quando lo si considera in connessione con il maglietto, di
cui subisce per così dire l’«impulso». Nella sua
applicazione iniziatica e «operativa», lo scalpello
simboleggia una conoscenza distintiva, e il maglietto la
volontà spirituale che «attualizza» o «stimola» quella
conoscenza. La facoltà conoscitiva viene così a collocarsi
dopo la facoltà volitiva, il che sembra a prima vista
contrario alla gerarchia normale; ma questo rovesciamento
apparente di valori si spiega con l’inversione,
metafisicamente necessaria, che nell’ambito «pratico»
subisce il rapporto originario, secondo cui la conoscenza
precede la volontà. D’altronde, è la mano destra che
maneggia il maglietto e la sinistra che guida lo scalpello. La
conoscenza normativa pura, «dottrinale» se così si
preferisce – il «discernimento» non è infatti altro che la sua
applicazione pratica o «metodica» – non interviene
«attivamente» o, diciamo, «direttamente» nel lavoro di
realizzazione spirituale, ma lo guida conformemente alle
verità immutabili. Nel metodo spirituale del tagliatore di
pietre, la conoscenza trascendente è simboleggiata dai
diversi strumenti di misura, quali il filo a piombo, la livella,
la squadra e il compasso, immagini degli archetipi
immutabili che governano tutte le fasi dell’opera.20
Per analogia con certe iniziazioni artigianali esistenti
ancora ai giorni nostri in Oriente, possiamo supporre che
l’attività ritmica del tagliatore di pietre si combinasse
talvolta con l’invocazione, sonora o interiore, di un Nome
divino. Questo Nome, che poteva essere un simbolo del
Verbo creatore e trasformatore, era dunque come un dono
che la tradizione giudaica o cristiana aveva lasciato in
eredità all’artigianato.
Ciò che abbiamo appena detto sul lavoro dello scultore fa
intendere come l’insegnamento iniziatico trasmesso nelle
corporazioni artigianali dovesse essere più «visivo» che
«verbale»
o «teorico». La sola applicazione pratica dei dati
geometrici elementari doveva spontaneamente destare,
negli artigiani dotati per la contemplazione, certi
«presentimenti» di realtà metafisiche. L’impiego di
strumenti di misura, considerati come «chiavi» spirituali,
aiutava a comprendere il rigore ineluttabile delle leggi
universali, dapprima nell’ordine «naturale» mediante
l’osservazione delle leggi statiche, quindi nell’ordine
«soprannaturale» mediante l’intuizione degli archetipi
universali a cui quelle leggi riconducono. Beninteso, si deve
presupporre che le leggi «logiche» emergenti dalle regole
geometriche e statiche non fossero ancora chiuse
arbitrariamente nei limiti della nozione di materia fino a
esser confuse con l’inerzia del non-spirituale.
Inteso così, il lavoro artigianale diviene un rito. Ma
perché possieda realmente tale qualità, occorre sia
collegato a una sorgente di Grazia. Il vincolo che unisce
l’atto simbolico al suo prototipo divino deve diventare il
canale di un influsso spirituale operante una
«trasmutazione» intima della coscienza. Si sa, in effetti, che
l’iniziazione artigianale comportava un atto pressoché
sacramentale di filiazione spirituale.
Il fine della realizzazione artistica o artigianale era la
«maestria», vale a dire il possesso perfetto e spontaneo
dell’arte, il talento pratico coincidente con uno stato di
libertà e di sincerità interiori. È lo stato che Dante
simboleggia con il paradiso terrestre posto in cima alla
montagna del purgatorio. Arrivato alle soglie di questo
paradiso, Virgilio dice a Dante:

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno;

perch’io te sopra te corono e mitrio.21

Virgilio impersona la saggezza precristiana che conduce


Dante attraverso i mondi psichici fino al centro dell’essere
esistenziale dell’uomo, a quello stato edenico da cui
comincia l’ascesa ai «cieli», simboli degli stati sovraformali.
La salita del monte del purgatorio corrisponde alla
realizzazione di quelli che l’antichità chiamava i «piccoli
misteri», mentre l’ascesa alle sfere celesti corrisponde alla
conoscenza dei «Grandi Misteri».
Abbiamo ricordato questo
simbolismo perché mette perfettamente a fuoco la portata
di un’iniziazione cosmologica, quale è l’iniziazione
artigianale.22
Bisogna non perdere mai di vista che, per ogni artista o
artigiano che cooperava alla costruzione di una chiesa, la
teoria era visibilmente manifestata dall’insieme
dell’edificio: esso rifletteva il cosmo o il piano divino. La
maestria consisteva dunque in una partecipazione
cosciente al piano del «Grande Architetto dell’Universo»,
piano che si rivela precisamente nella sintesi di tutte le
proporzioni del tempio e che coordina le aspirazioni di tutti
coloro che partecipano all’opera cosmica.
In via del tutto generale si potrebbe dire che l’elemento
intellettuale del metodo si manifestava nella forma regolare
che bisognava imporre alla pietra. Infatti la forma,
nell’accezione aristotelica, rappresenta l’Essenza; in un
certo senso riassume le qualità essenziali di un essere o di
un oggetto e si oppone così alla materia. Nell’applicazione
iniziatica, i modelli geometrici rappresentano gli aspetti
della Verità spirituale, mentre la pietra è come l’anima
dell’artista. Il lavoro sulla pietra, che consiste nel
rimuovere il superfluo e nel conferire una «qualità a ciò che
ancora è solo una «quantità» bruta, corrisponde allo
schiudersi delle virtù che, nell’anima umana, sono i
supporti e al tempo stesso i frutti della conoscenza
spirituale. Secondo Durant de Mende, la pietra «tagliata ad
angoli retti e ben levigata» rappresenta l’anima dell’uomo
santo e costante che, per mano dell’Architetto divino, sarà
murata nel tempio spirituale.23 E secondo un’altra parabola,
l’anima si trasforma da pietra bruta, irregolare e opaca in
una pietra preziosa; la Luce divina la penetra ed essa la
riflette con le sue sfaccettature.
 

3. - Abbiamo scelto intenzionalmente i termini forma e


materia, familiari agli spiriti del Medioevo, per designare i
poli dell’opera d’arte. Aristotele, che riconduceva la natura
di ogni essere o oggetto a questi due principi fondamentali,
si riferiva nelle sue dimostrazioni al processo artistico,
perché tali principi non sono a priori delle determinazioni
logiche: sono qualcosa di più. Il pensiero non li deduce ma
li presuppone, di
modo che il loro concetto non si fonda
essenzialmente sull’analisi razionale ma su un’intuizione
intellettuale, il cui normale supporto non è
l’argomentazione, bensì il simbolo. Ora, il simbolo più
evidente di questo complementarismo ontologico è appunto
la relazione tra il modello o l’idea (eidos) che preesiste
nello spirito dell’artista e la materia – legno, creta, pietra,
metallo – destinata a ricevere l’impronta di quella idea.
Senza l’esempio della materia concreta e plasmabile, la
materia o yle ontologica non può concepirsi, poiché essa
non è né misurabile né definibile; è «amorfa» non soltanto
nel senso relativo in cui una materia artigianale è «senza
forma» o bruta, ma in maniera radicale, in quanto è
sprovvista di caratteri intelligibili finché non è unita a una
forma. E se la forma è in qualche modo concepibile in sé e
per sé, non è però immaginabile al di fuori della sua unione
con la materia che la determina prestandole
un’«estensione» sottile o quantitativa. In ultima analisi, se i
due principi ontologici, una volta riconosciuti, sono
intellettualmente evidenti, non è men vero che la loro
dimostrazione non potrebbe prescindere dal concreto
simbolismo offerto dall’opera artistica o artigianale. La
portata di questo simbolismo va molto al di là del piano
razionale, onde bisogna credere che Aristotele abbia
mutuato le nozioni di eidos e di yle – la forma e la materia
dei latini – da una tradizione reale, ossia da un sistema di
insegnamento ricalcato sia sulla dottrina sia sull’arte
divina.
D’altra parte, notiamo che il termine greco yle designa
letteralmente il bosco, il legno, e in effetti il legno
rappresenta la materia artigianale per eccellenza delle
civiltà arcaiche. In certe tradizioni asiatiche, specie nel
simbolismo indù e tibetano, il legno è ugualmente
considerato come equivalente «tangibile» della materia
prima, la sostanza plasmabile universale.
L’esempio artistico assunto da Aristotele come punto di
partenza concettuale è pienamente valido solo se ci si
riferisce all’arte tradizionale, dove il modello, che
analogicamente fa la parte del principio «formale», è
davvero l’espressione di un’Essenza, cioè di una sintesi di
qualità trascendenti. Nella pratica dell’arte, quest’Essenza
qualitativa avrà come veicolo uno schema simbolico
suscettibile di molteplici applicazioni
«materiali». A
seconda della materia che riceverà l’impronta del modello,
questo rivelerà più o meno certe sue qualità intrinseche,
così come la forma essenziale di un essere è più o meno
manifesta secondo la plasmabilità della sua materia. D’altro
canto, è la forma che fa spiccare la natura propria della
materia. Anche sotto questo profilo, l’arte tradizionale è più
vera di un’arte naturalistica o illusionistica, che tende a
dissimulare i caratteri propri della materia plasmabile.
Ricordiamo ancora una volta che la relazione forma-
materia significa che la prima non diviene «misurabile» se
non si combina con la seconda, mentre la seconda non è
intelligibile che in virtù della prima.
Se l’esistenza individuale è sempre intessuta di forma e
di materia, è perché la loro polarità si fonda nell’Essere
stesso. In effetti, la materia si riconduce alla materia prima,
la sostanza passiva universale, e la forma corrisponde al
polo attivo dell’Essere, all’Essenza, che rappresenta
l’archetipo di un essere particolare, la sua possibilità
permanente nello Spirito o in Dio. È pur vero che Aristotele
non fa quest’ultima trasposizione; egli non riconduce la
forma al suo Principio metacosmico, perché si limita
coscientemente alla sola sfera accessibile al suo metodo di
dimostrazione, cioè alla sfera caratterizzata dalla
coincidenza possibile delle leggi ontologiche e logiche.
Tuttavia gli assiomi aristotelici, quali il complementarismo
di forma-materia, presuppongono un substrato
metacosmico che il pensiero medioevale trovava
naturalmente nella concezione platonica. La dottrina
platonica e quella aristotelica contrastano soltanto sul
piano razionale: nel loro fondo, le parabole di Platone
inglobano quell’aspetto di realtà che Aristotele considera in
assoluto. L’alto Medioevo ebbe dunque ragione di
subordinare la prospettiva aristotelica a quella platonica.24
Ma si accetti la dottrina platonica nella sua forma
dialettica particolare o la si rifiuti, non si potrà negare,
secondo una prospettiva cristiana, che le possibilità
essenziali di tutte le cose sono ab aeterno contenute nel
Verbo divino, il Logos. «Tutte le cose sono state fatte per
mezzo di lui (il Verbo)»25 e in lui o attraverso lui tutte le
cose sono conosciute, poiché egli è «la luce vera che
illumina ogni uomo».26 Sicché la luce
dell’intelletto non
appartiene a noi, ma al Verbo onnipresente. Ora, questa
luce contiene essenzialmente le qualità delle cose
conoscibili; infatti la realtà intima dell’atto conoscitivo è la
qualità, e la qualità è la «forma», intesa nel senso
aristotelico del termine. «La forma di una cosa», dice
Boezio, «è come una luce mediante la quale la cosa viene
conosciuta».27 Ecco la portata eminentemente spirituale
dell’ilemorfismo: le «forme» delle cose, le loro essenze
qualitative, sono in sé trascendenti; le si ritrova a ogni
livello dell’esistenza; ed è la loro coincidenza con una certa
materia – o una certa modalità della materia prima – che le
delimita e le riduce a «segni» più o meno effimeri.
Abbiamo citato Boezio: per il Medioevo è uno dei grandi
maestri dell’arte,28 di cui ha trasmesso l’idea pitagorica. Il
suo trattato sul quadrivium è più di una semplice
esposizione delle arti minori – aritmetica, geometria,
musica e astronomia –; è una vera scienza della forma, e
non sarebbe giusto misconoscerne l’importanza nei
confronti delle arti plastiche. Per Boezio ogni ordine
formale è una «dimostrazione» dell’unità ontologica; la sua
aritmetica rappresenta non tanto un metodo di calcolo
quanto una scienza del numero: questo non è considerato a
priori come una quantità, ma come una determinazione
qualitativa dell’unità, a somiglianza dei numeri pitagorici,
che sono analoghi alle «idee» platoniche: la dualità, il
ternario, il quaternario, il quinario, eccetera,
rappresentano altrettanti aspetti dell’unità. A collegare i
numeri fra di loro è essenzialmente la proporzione, che è a
sua volta un’espressione qualitativa dell’unità. L’aspetto
quantitativo dei numeri attiene solo al loro «sviluppo»
materiale.
L’unità qualitativa del numero è più evidente in geometria
che non in aritmetica, perché i criteri quantitativi non sono
affatto sufficienti per distinguere due figure come il
triangolo e il quadrato, avendo ognuno la sua qualità unica
e in qualche modo inimitabile.
Ciò che la proporzione è nello spazio, è l’armonia
nell’ordine sonoro. L’analogia esistente tra i due ordini è
dimostrata dall’uso del monocordo, la cui corda produce
suoni differenti a seconda della lunghezza della parte
vibrante.
L’aritmetica, la geometria e la musica corrispondono alle
tre condizioni esistenziali rappresentate dal numero, dallo
spazio e dal tempo. L’astronomia, che è essenzialmente una
scienza dei ritmi cosmici, ingloba in sé tutti questi àmbiti.
Ricordiamo che l’astronomia di Boezio è andata perduta,
mentre la sua geometria, quale noi la conosciamo, presenta
molte lacune: forse era soltanto una specie di sommario di
una scienza che nei laboratori dei costruttori medioevali
conobbe certamente uno sviluppo considerevole, per non
parlare delle speculazioni cosmologiche che vi si
riallacciavano.
Mentre la scienza empirica moderna considera anzitutto
l’aspetto quantitativo delle cose, distaccandolo, nella
misura del possibile, da tutte le sue connotazioni
qualitative, la scienza tradizionale contempla le qualità
indipendentemente dalle concatenazioni quantitative. Il
mondo è come un tessuto fatto di un ordito e di una trama:
i fili della trama, normalmente orizzontali, simboleggiano
qui la materia, o anche, in modo più immediato, le relazioni
causali razionalmente controllabili e quantitativamente
definite, laddove i fili verticali dell’ordito corrispondono alle
formae, ossia alle essenze qualitative delle cose.29 La
scienza e l’arte dell’età moderna si sviluppano
nell’orizzontale della trama «materiale»; invece la scienza e
l’arte del Medioevo si riferiscono alla verticale dell’ordito
trascendente.
 

4. - L’arte sacra del cristianesimo costituisce il quadro


normale della liturgia; essa ne è l’amplificazione sonora e
visiva, così come la liturgia non sacramentale ha lo scopo di
preparare e manifestare l’effetto dei mezzi di Grazia
istituiti dal Cristo in persona. Per la Grazia non esiste
ambiente «neutro»: esso sarà o pro o contro l’influsso
spirituale: chi non «raccoglie», «dissipa» inevitabilmente.
È affatto inutile invocare la «povertà evangelica» per
giustificare l’assenza o la negazione di un’arte sacra. Certo,
quando la messa era ancora celebrata negli antri o nelle
catacombe, l’arte sacra era superflua, almeno l’arte
plastica. Ma da quando si costruiscono santuari, questi
debbono essere regolati da un’arte consapevole delle leggi
spirituali. Infatti non esiste nessuna chiesa primitiva o
medioevale, per quanto povera, le cui
forme non siano
testimonianza di tale consapevolezza,30 mentre ogni
ambiente non tradizionale è ingombro di forme vane e
false. La semplicità stessa è un sigillo della tradizione,
quando non lo è addirittura della natura intatta.
La liturgia si presenta di per sé come un’opera d’arte a
più gradi di ispirazione: il suo centro, il sacrificio
eucaristico, fa parte dell’arte divina; per esso si compie la
trasformazione più perfetta e misteriosa. Intorno a questo
centro o nucleo si svolge, a mo’ di commento ispirato ma
necessariamente frammentario, la liturgia fondata sulla
consuetudine consacrata dagli apostoli e dai Padri della
Chiesa. In quest’ordine, la grande varietà degli usi liturgici
che esisteva nella Chiesa latina prima del concilio di Trento
non nascondeva affatto l’unità organica dell’opera, bensì
sottolineava la sua unicità interna, la natura divinamente
spontanea del disegno e il suo carattere d’arte nel senso
più elevato del termine; per ciò stesso l’arte propriamente
detta si integrava più facilmente nella liturgia.
Solo in virtù di certe leggi oggettive e universali
l’ambiente architettonico perpetua lo splendore del
sacrificio divino. Il sentimento, qualunque sia la nobiltà del
suo slancio, non può creare quest’ambiente, perché
l’affettività è soggetta a reazioni generate da altre reazioni:
essa è interamente dinamica e non potrebbe apprendere
per via diretta e certa le qualità dello spazio e del tempo
corrispondenti in modo del tutto naturale alle leggi eterne
dello Spirito. Non si può fare dell’architettura senza fare
implicitamente della cosmologia.
La liturgia non determina solo l’ordine strutturale; regola
anche la ripartizione delle immagini sacre secondo il
simbolismo generale delle regioni dello spazio e il
significato liturgico della sinistra e della destra.
È nella Chiesa greco-ortodossa che le immagini sono più
direttamente integrate nel dramma liturgico. Esse
adornano sopra tutto l’iconostasi, che divide il Santo dei
Santi – luogo del sacrificio eucaristico compiuto alla
presenza dei soli sacerdoti – dalla navata accessibile alla
comunità dei fedeli. Secondo i Padri greci, l’iconostasi
simboleggia il limite che separa il mondo dei sensi dal
mondo spirituale: per tale ragione le immagini sacre
appaiono su questo tramezzo, così come le verità divine,
che la ragione non potrebbe cogliere direttamente,
si
riflettono sotto forma di simboli nella facoltà immaginativa,
intermediaria tra l’intelletto e le facoltà sensoriali.
La divisione in un coro (adyton), accessibile ai soli
sacerdoti, e una navata (naos), in cui si raccoglie tutta la
comunità, determina il piano delle chiese bizantine: il coro
è relativamente piccolo e non forma un unico corpo con la
navata, che abbraccia senza discriminazioni tutta la folla
dei credenti in piedi dinanzi alla scena dell’iconostasi.
Questa ha tre porte, da cui entrano ed escono gli officianti
per annunciare le diverse fasi del dramma divino. I diaconi
si servono delle porte laterali. Solo il sacerdote recante le
specie consacrate o il libro del Vangelo può varcare la Porta
regale, quella di mezzo, che è come un’immagine della
Porta solare o divina.31 Il naos avrà di preferenza una forma
più o meno concentrica, che d’altra parte corrisponde al
carattere contemplativo della Chiesa d’Oriente: lo spazio è
come raccolto in se stesso, esprimendo al contempo
l’illimitatezza del cerchio o della sfera (fig. 16).
Invece la liturgia latina tende a differenziare lo spazio
architettonico secondo la croce assiale, infondendogli così
una certa natura dinamica. Nell’architettura romanica la
navata si allunga progressivamente: è il pellegrinaggio
verso l’altare, la Terra Santa, il paradiso. Anche il transetto
si sviluppa sempre più. In seguito l’architettura gotica,
affermando al massimo l’asse verticale, finisce con
l’assorbire lo sviluppo orizzontale nel suo slancio verso il
cielo: i diversi bracci della croce saranno via via incorporati
in una vasta navata con tramezzi traforati e pareti diafane.
I santuari latini dell’alto Medioevo riflettono in un certo
senso la cripta e la caverna. Sono concentrati sul Santo dei
Santi, l’abside a volta che racchiude l’altare come il cuore
contiene il mistero divino. Sono illuminati dai ceri
dell’altare, come l’anima è illuminata dall’interno.
Le cattedrali gotiche realizzano un altro aspetto del corpo
mistico della Chiesa o del corpo dell’uomo santificato: la
sua trasfigurazione operata dalla luce della Grazia. Tale
diafanità dell’architettura è divenuta possibile solo con la
differenziazione degli elementi costruttivi in spigoli e
membrane, dove gli spigoli assumono la funzione statica e
le membrane
quella del rivestimento. In un certo senso c’è
qui un passaggio dalla statica minerale alla statica
vegetale; non a caso le volte gotiche ricordano calici di
fiori. D’altro canto, l’architettura «diafana» non sarebbe
concepibile senza l’arte della vetrata, che rende trasparenti
le pareti pur salvaguardando l’intimità del santuario. La
luce rifratta dai vetri colorati non è più la crudezza del
mondo esterno, ma è speranza e beatitudine. E,
contemporaneamente, il colore della vetrata è divenuto
esso stesso luce o, più esattamente, la luce del giorno rivela
la sua ricchezza interiore attraverso il colore trasparente e
scintillante del vetro, così come la Luce divina, di per sé
accecante, si attenua e diventa Grazia quando si rifrange
nell’anima. L’arte della vetrata è intimamente conforme al
genio cristiano, perché il colore corrisponde all’amore,
come la forma corrisponde alla conoscenza. La
differenziazione della luce, che è una, per opera delle
sostanze multicolori delle vetrate, richiama l’ontologia della
Luce divina come si ritrova nelle speculazioni di san
Bonaventura o di Dante.

Fig. 16: La primitiva pianta bizantina di San Marco a Venezia


(secondo Ferdinando Forlati).
Il colore dominante della vetrata è il blu: è la profondità e
la pace del cielo. Il rosso, il giallo e il verde, impiegati con
economia, vi appaiono tanto più preziosi e fanno pensare a
stelle, fiori o gioielli, o alle gocce del sangue di Gesù. La
predominanza del blu nelle vetrate medioevali crea
un’illuminazione serena e dolce.
Nell’iconografia delle grandi finestre delle cattedrali i
fatti dell’Antico e del Nuovo Testamento, ridotti alle loro
più semplici espressioni e chiusi in un reticolato
geometrico, stanno come prototipi eternamente contenuti
nella Luce divina e manifestantisi secondo «numeri»
invariabili: è la luce cristallizzata. Nulla di più gioioso di
quest’arte: che distanza dalle figurazioni oscure e
tormentate di certe chiese barocche!
Come mestiere, l’arte della vetrata fa parte di un corpo di
tecniche miranti alla trasformazione delle materie: la
metallurgia, l’arte dello smalto, la preparazione dei colori e
delle tinture, ivi compreso l’oro liquido. Tutte queste
tecniche sono collegate fra loro da una comune eredità
artigianale, che in parte risale fino all’antico Egitto e il cui
complemento spirituale è l’alchimia: la materia bruta è
immagine dell’anima che deve essere trasformata dallo
Spirito. Se la trasmutazione alchemica del piombo in oro
sembra rompere le leggi naturali, ciò accade perché essa
esprime, in linguaggio artigianale, la trasformazione,
naturale e soprannaturale insieme, dell’anima. È naturale
perché l’anima vi è predisposta, ed è soprannaturale
perché la vera natura dell’anima, o il suo vero equilibrio, è
nello Spirito, allo stesso modo che la vera natura del
piombo è l’oro. Ma il passaggio dal piombo all’oro, dall’ego
instabile e diviso alla sua Essenza incorruttibile e unita,
non è possibile che per una sorta di miracolo.
Il più nobile mestiere manuale al servizio della Chiesa è
l’oreficeria, in quanto forgia i vasi sacri e gli strumenti
rituali. V’è qualcosa di solare in quest’arte, essendo l’oro
apparentato al sole; e anche gli utensili creati dall’orefice
manifestano l’aspetto solare della liturgia. Le diverse forme
ieratiche della croce, per esempio,32 rappresentano
altrettante modalità dell’irraggiamento divino: è il centro
divino che si rivela in questo tenebroso spazio che è il
mondo (fig. 17).

Fig. 17: Diverse forme ieratiche della croce. Dall’alto verso destra:
romana, gerosolimitana, greca, irlandese, copta, anglosassone,
irlandese.
Ogni arte fondata su una tradizione artigianale opera con
schemi geometrici o cromatici, che non è consentito
separare dai procedimenti materiali del mestiere, ma che
nondimeno posseggono il carattere di «chiavi» simboliche
rivelanti la dimensione cosmica di ogni fase dell’opera.33
Quest’arte, dunque, è necessariamente «astratta» per il
fatto stesso che è «concreta» nei suoi procedimenti; ma gli
schemi di cui dispone, e la cui giusta applicazione
dipenderà dal sapere artigianale e insieme dall’intuizione,
potranno all’occasione trasporsi in un linguaggio figurativo
che conserverà qualcosa dello stile «arcaico» delle
creazioni artigianali. È ciò che accade nell’arte della
vetrata e anche nella scultura romanica, nata direttamente
dall’arte dei muratori di cui conserva la tecnica e le regole
di composizione, mentre per altro verso riproduce i modelli
dell’icona.
 

5. - La tradizione dell’immagine sacra si ricollega a


prototipi determinati, in un certo senso storici. Presuppone
una dottrina, vale a dire una definizione dogmatica
dell’immagine sacra, nonché un metodo artistico che
permetta di riprodurre i prototipi in maniera conforme al
loro significato. Il metodo artistico presuppone a sua volta
una disciplina spirituale.
Fra i vari prototipi generalmente trasmessi nell’arte
cristiana, il più importante è l’immagine acheiropóietos
(«non fatta da mano d’uomo») del Cristo sul Mandilion: il
Cristo avrebbe donato la sua immagine, miracolosamente
impressa su un pezzo di stoffa, al messaggero del re di
Edessa, Abgar, che gli aveva chiesto il suo ritratto. Il
Mandilion fu conservato a Costantinopoli fino alla sua
scomparsa nel sacco della città per opera dei crociati
latini.34
Un altro prototipo, non meno importante, è l’immagine
della Vergine attribuita a san Luca; è conservata in
numerose riproduzioni bizantine.
Anche la cristianità latina possiede modelli consacrati
dalla tradizione, quali il «Volto Santo» di Lucca, che è un
crocifisso
scolpito in legno, di stile siriaco, e attribuito dalla
leggenda a Nicodemo, discepolo del Cristo.
Tali attribuzioni non possono naturalmente essere
provate storicamente; forse non bisogna prenderle alla
lettera ma interpretarle come titoli che mettono
istantaneamente a fuoco le fonti tradizionali a cui si
richiamano. Per quel che concerne l’immagine tradizionale
del Cristo, mille anni di arte cristiana la confermano:
argomento potente a favore della sua autenticità poiché, a
meno di voler negare ogni realtà a quest’ordine di cose, si
deve ammettere che lo Spirito presente nell’insieme della
tradizione non avrebbe tardato molto a eliminare una falsa
definizione fisica del Salvatore. Le rappresentazioni del
Cristo su certi sarcofagi della Roma decadente non provano
affatto il contrario, come non lo provano le immagini
naturalistiche del Rinascimento: queste non sono più nella
tradizione cristiana e quelle non ci sono ancora. Facciamo
osservare che l’impronta conservata sulla Sacra Sindone di
Torino, i cui tratti sono stati resi pienamente visibili solo
dai mezzi odierni di investigazione, assomiglia in modo
impressionante, sotto il profilo dei particolari caratteristici,
all’immagine acheiropóietos.35
Ciò che abbiamo detto dell’icona tradizionale del
Salvatore è ugualmente valido per l’icona della Vergine
attribuita a san Luca. Ma altri modelli di icona – come
quello della «Vergine del Segno», che rappresenta la Santa
Vergine nell’atteggiamento dell’orante con il medaglione
del Cristo Emanuele sul petto; come pure le composizioni
figurative che un tempo decoravano le pareti della chiesa
della Natività di Bethleem –, in assenza di ogni tradizione
che possa stabilire la loro origine, si impongono per la loro
qualità spirituale e l’evidente simbolismo che si fan garanti
della loro origine «celeste».36 Alcune varianti di tali
prototipi sono state per così dire «canonizzate» nella
Chiesa greco-ortodossa, in seguito a miracoli operati per
loro mediazione oppure a causa della loro perfezione
dottrinale e spirituale.37 Esse sono divenute a loro volta
prototipi di icone.
È assai significativo per l’arte cristiana, e dal punto di
vista cristiano in generale, che queste immagini sacre
abbiano un’origine miracolosa, dunque misteriosa e storica
a un tempo.
Ciò, d’altra parte, rende molto complessa la
relazione tra l’icona e il suo prototipo: da un lato,
l’immagine miracolosa del Cristo o della Vergine sta
all’opera d’arte come l’originale sta alla copia; dall’altro, il
ritratto miracoloso non è che un riflesso o un simbolo di un
archetipo eterno, cioè della vera natura del Cristo o di sua
madre. La posizione dell’arte è qui rigorosamente parallela
a quella della fede; infatti, la fede cristiana praticamente si
aggancia a un evento storico ben preciso: la discesa del
Verbo divino sulla terra sotto la forma di Gesù, benché essa
possegga, essenzialmente, anche una dimensione non
storica. Ciò che contraddistingue la fede non è forse il suo
assenso a realtà eterne, di cui l’evento storico è una delle
espressioni? Nella misura in cui la coscienza spirituale si
indebolisce e l’enfasi della fede punta più sulla storicità che
non sulla qualità spirituale dell’evento miracoloso, la
mentalità religiosa si distoglie dagli «archetipi» eterni e si
concentra sulle contingenze della storia, che ormai saranno
concepite in maniera «naturalistica», quanto dire nella
maniera più accessibile alla sentimentalità collettiva.
L’arte dominata dalla coscienza spirituale tende a
semplificare i tratti dell’immagine sacra, riducendoli ai loro
caratteri essenziali; il che non implica affatto, come
pretende qualcuno, un irrigidimento dell’espressione
artistica. La visione interiore, orientata sul suo archetipo
celeste, comunicherà sempre all’opera la sua forza di
penetrazione serena e compiuta. Per contro, nelle epoche
di decadenza spirituale l’elemento naturalistico riemerge
inevitabilmente; esso, d’altronde, era latente nell’eredità
greca della pittura occidentale, e le sue «spinte» contro
l’unità dello stile cristiano si sono fatte sentire ben prima
del Rinascimento. Il pericolo del «naturalismo», o quello di
una esagerazione arbitraria dello stile intesa a sostituire gli
imponderabili spirituali del prototipo con tratti puramente
soggettivi, era tanto più reale in quanto le passioni
collettive, represse dal carattere inalterabile delle
tradizioni scritturali, trovavano uno sbocco nell’arte. Ciò
significa che l’arte cristiana è cosa estremamente fragile e
non può esser mantenuta integra se non con infinite
precauzioni. Quando essa si corrompe, gli idoli che essa
crea agiscono a loro volta influenzando in definitiva, e con
danno rilevante, la mentalità
collettiva. Quindi, né gli
avversari dell’immagine religiosa, né i suoi fautori saranno
mai a corto di argomenti validi, perché l’immagine è buona
per un verso e cattiva per l’altro. Comunque sia, un’arte
sacra non può esser salvaguardata senza regole formali e
senza la coscienza dottrinale di coloro che la controllano e
la ispirano. Di conseguenza, la responsabilità grava sul
clero, o che l’artista sia un semplice artigiano o che sia un
uomo di genio.
Il mondo bizantino divenne cosciente di tutto quello che
implica la pittura sacra soltanto in seguito alle dispute tra
gli iconoclasti e gli iconoduli; in gran parte anche per
l’avvicinarsi minaccioso dell’Islam: infatti l’atteggiamento
intransigente dell’Islam nei confronti delle immagini
esigeva, da parte della comunità cristiana in pericolo, una
giustificazione quasi metafisica dell’immagine sacra, tanto
più che un simile atteggiamento poteva esser convalidato,
agli occhi di molti cristiani, dal Decalogo. Ci si ricordò
allora che la venerazione dell’immagine del Cristo non
soltanto è lecita ma è anche la patente testimonianza di
quello che è il dogma più squisitamente cristiano:
l’incarnazione del Verbo. Se nella sua essenza trascendente
Dio non può essere rappresentato, la natura umana di
Gesù, che egli riceve da sua madre, non si sottrae alla
figurazione. Ora, la forma umana del Cristo è
misteriosamente unita alla sua essenza divina, malgrado la
distinzione delle due «nature». E ciò giustifica la
venerazione della sua immagine.
A prima vista, tale apologia dell’icona verte sulla sua
esistenza e non sulla sua forma. Ma l’argomento
dell’incarnazione contiene in germe una dottrina del
simbolo, che deciderà di tutto l’orientamento dell’arte: il
Verbo non è unicamente la Parola, eterna e temporale
insieme, di Dio; è anche l’immagine, come scrive san Paolo:
«Questi è immagine d’Iddio invisibile, primogenito avanti
ogni creatura»38. Egli, dunque, riflette Dio a tutti i livelli di
manifestazione. L’immagine sacra del Cristo è così
un’ultima proiezione della discesa del Verbo divino sulla
terra.39
Il secondo concilio di Nicea (787) fissò la giustificazione
dell’icona sotto forma di una preghiera rivolta alla Vergine
come colei che, essendo la sostanza o supporto
dell’incarnazione del Verbo, è anche la vera causa della sua
figurazione: «Il
Verbo indefinibile (aperígraphos) del Padre
si è lui stesso definito (periegraphe) divenendo carne
attraverso te, Genitrice di Dio. E reintegrando l’immagine
(di Dio) contaminata (dal peccato originale) nella sua forma
primitiva, egli la compenetrò di bellezza divina.
Confessando questo, noi lo imitiamo nelle nostre opere e
nelle nostre parole».
Il principio del simbolismo era già stato dimostrato da
Dionigi Areopagita: «La tradizione sacerdotale, così come
gli oracoli divini, adombra ciò che è intelligibile sotto ciò
che è materiale, e ciò che trascende tutti gli esseri sotto il
velo di questi medesimi. Dona forma e figura a ciò che non
ha né forma né figura e, attraverso la varietà e la
materialità di tali emblemi, rende molteplice e composto
ciò che in sé è eminentemente semplice e incorporeo».40 Il
simbolo, egli spiega, ha due facce. Per un verso, è
insufficiente rispetto al suo archetipo trascendente, al
punto da esserne separato da tutto l’abisso che divide il
mondo terrestre dal mondo divino; per l’altro, partecipa
della natura del suo modello, perché l’inferiore ha avuto
origine dal superiore. In Dio, infatti, sussistono i tipi eterni
di tutti gli esseri, e tutti sono compenetrati dall’Essere e
dalla Luce divini. «Vediamo dunque», scrive ancora Dionigi,
«che senza alcuna stonatura possono attribuirsi delle figure
agli esseri celesti, anche ricavandole dalle parti più vili
della materia, perché la materia stessa, avendo ricevuto il
suo sussistere dalla Bellezza assoluta, conserva, grazie alla
sua ordinata composizione materiale, qualche traccia della
bellezza intellettuale. Sicché è possibile, con la mediazione
della materia, innalzarsi agli archetipi immateriali, avendo
cura tuttavia, come si è detto, di prendere le metafore nella
loro stessa dissomiglianza, cioè non considerandole sempre
nell’identica maniera, ma rispettando la distanza che
separa l’intelligibile dal sensibile e dandone definizioni che
si addicano a ciascuna delle loro modalità specifiche».41 Ma
il duplice aspetto del simbolo altro non è in definitiva se
non la duplice natura della forma aristotelica, del sigillo
qualitativo di un essere o di una cosa; la forma, infatti, è
sempre un limite e insieme è espressione di un’essenza, e
quest’essenza è un raggio del Verbo eterno, archetipo
supremo di ogni forma e, pertanto,
di ogni simbolo, così
come viene indicato dalle parole di san Ieroteo, il grande
sconosciuto che Dionigi cita nel suo libro sui Nomi divini:
«...Forma informante in tutto ciò che è informe, in quanto è
principio formale, essa (la natura divina del Cristo) è
nondimeno informe in tutto ciò che ha forma, in quanto
trascende ogni forma...». Ecco l’ontologia del Verbo nel suo
aspetto universale. L’aspetto particolare e per così dire
personale della medesima legge divina è l’incarnazione,
mediante la quale «il Verbo indefinibile del Padre si è lui
stesso definito». Cosa che Ieroteo esprime in questi
termini: «Avendo accondisceso per amore dell’uomo ad
assumerne la natura, essendosi veramente incarnato... (il
Verbo) ha peraltro conservato in tale stato il suo carattere
meraviglioso e sopraessenziale... Nel seno stesso della
nostra natura è rimasto meraviglioso e sopraessenziale
nella nostra essenza, contenendo in sé eminentemente
tutto quel che ci appartiene e che proviene da noi, al di là
di noi stessi».42
Secondo questa visione spirituale, la partecipazione della
forma umana del Cristo alla sua essenza divina è come il
«tipo» di ogni simbolismo. L’incarnazione presuppone il
legame ontologico che unisce ogni forma al suo archetipo
eterno, e al tempo stesso lo garantisce. Rimaneva solo da
applicare tale dottrina alla natura dell’immagine sacra, e lo
fecero i grandi apologisti dell’icona, specie san Giovanni
Damasceno,43 a cui si ispirò il secondo concilio di Nicea, e
Teodoro Studita, che assicurò la vittoria definitiva sopra gli
iconoclasti.
Nei Libri Carolini Carlo Magno reagì contro le
formulazioni iconodule del concilio di Nicea, indubbiamente
perché temeva una nuova idolatria presso gli occidentali,
meno contemplativi dei cristiani d’Oriente. Egli voleva
proporre all’arte una funzione più didattica che non
sacramentale. A partire da questo momento la mistica
dell’icona divenne più o meno esoterica in Occidente,
rimase invece canonica in Oriente, dove per altro era
sostenuta dal monachesimo. La trasmissione di modelli
sacri continuò in Occidente sino al Rinascimento, e ancor
oggi le più celebri immagini miracolose venerate nella
Chiesa cattolica sono icone di stile bizantino. All’influenza
disgregatrice del Rinascimento la Chiesa romana non seppe
opporre alcuna dottrina dell’immagine, mentre nella Chiesa
greco-ortodossa
la tradizione dell’icona si perpetuò – anche
se affievolita – fino all’epoca moderna.44
 

6. - Il fondamento dottrinale dell’icona non determina


solo il suo generale orientamento, il soggetto e
l’iconografia, ma anche il suo linguaggio formale, il suo
stile. Quest’ultimo deriva direttamente dalla funzione del
simbolo: l’immagine non deve aver la pretesa di sostituire
l’originale, che la supera infinitamente; come dice Dionigi
Areopagita, essa deve «rispettare la distanza che separa
l’intelligibile dal sensibile». Perciò deve essere veridica sul
suo proprio piano, ossia non deve evocare illusioni ottiche,
quali una prospettiva in profondità o un modellato che
presuppone ombre proiettate da un corpo. Nell’icona esiste
soltanto una prospettiva logica; talvolta la prospettiva
ottica è espressamente invertita. La modellatura per
«lumeggiature» sovrapposte, eredità dell’ellenismo, è
ridotta al punto da non distruggere la superficie piana del
quadro; e spesso è così traslucida, che i personaggi
rappresentati sembrano compenetrati da una luce
misteriosa.45 Nella composizione dell’icona non esiste fonte
di luce e relativa precisa illuminazione; in compenso, il
fondo d’oro è chiamato «luce», perché corrisponde alla
Luce celeste di un mondo trasfigurato.46 Le pieghe delle
vesti, il cui schema deriva tuttavia dall’antichità greca,
sono divenute espressione non di movimento fisico ma di
un ritmo spirituale: non è il vento che gonfia i panni, ma è
lo spirito che li anima. Le linee non indicano più soltanto i
limiti del corpo; esse acquistano un valore diretto, una
qualità grafica insieme limpida e soprarazionale.
Una buona parte del linguaggio spirituale dell’icona si
trasmette con la tecnica pittorica: questa è organizzata in
una maniera che l’ispirazione vi si innesta quasi
spontaneamente, purché siano osservate le regole e
l’artista sia preparato al suo compito. Con ciò vogliamo
intendere, in via generale, che l’artista deve essere
integrato nella vita della Chiesa; in particolare, deve
prepararsi al lavoro mediante il digiuno e la preghiera, e
deve meditare sul soggetto da dipingere riferendosi ai testi
canonici. Allorché si tratta di un tema semplice e centrale,
come l’immagine del Cristo solo, oppure della Vergine
con
il Bambino, tale meditazione si fonderà su talune formule
od orazioni essenziali della tradizione; in questo caso, il
modello tradizionale dell’icona rispecchierà con il suo
simbolismo sintetico l’essenza intellettuale della preghiera
rivelandone la virtualità. In effetti, lo schematismo
dell’icona afferma sempre il substrato metafisico e
universale del soggetto religioso, il che d’altronde prova
l’origine non umana dei modelli. Per esempio, nella
maggioranza delle icone raffiguranti la Vergine con il
Bambino i contorni della Madre avvolgono per così dire
quelli del Figlio; il manto della Vergine è spesso di un blu
cupo, come lo spazio insondabile del cielo o come l’acqua
profonda, mentre la veste del Bambino divino è di un rosso
regale. Tutte queste caratteristiche sono dense di
significato.
Accanto all’immagine acheiropóietos del Cristo, quella
della Vergine con il Bambino rappresenta l’icona per
eccellenza: la raffigurazione del Figlio, di natura
misteriosamente divina, si giustifica in qualche modo con
quella della Madre che lo ha rivestito della sua carne.
Quindi tra le due figure si manifesta una polarità piena di
naturale incanto, ma anche di ricchissimo, inesauribile
significato. La natura del Figlio è considerata in funzione
della natura della Madre e come attraverso l’amore di lei;
inversamente, la presenza del Figlio divino, con i suoi
attributi di regalità e di sapienza – o della futura passione –
conferisce alla maternità un aspetto impersonale e arcano:
la Vergine è il modello dell’anima nel suo stato di purezza
primordiale, e il Bambino è come il germe della Luce divina
nel cuore.
La relazione mistica tra la Madre e il Figlio trova la sua
espressione più diretta nell’icona della «Vergine del
Segno», i cui esemplari più antichi datano dal secolo IV o V:
la Vergine vi sta nell’atteggiamento dell’orante, con le mani
levate e sul petto il medaglione del giovane Cristo
Emanuele. È la «Vergine che concepirà», secondo la visione
del profeta Isaia, ed è anche la Chiesa orante o l’anima che
prega e nella quale si manifesterà Dio.
Per ciò che riguarda le icone dei santi, il loro fondamento
dottrinale risiede nel fatto che indirettamente sono icone
del Cristo: egli è presente nell’uomo santificato e «vive in
lui», come dice san Paolo.
Le principali scene del Vangelo sono state trasmesse
sotto forma di composizioni tipo; alcuni motivi sono attinti
dal Vangelo apocrifo dell’infanzia di Gesù. Che il Bambino
sia nato in una grotta, che questa grotta si trovi in una
montagna e che la stella dell’annunzio proietti il suo raggio
come un asse verticale sulla mangiatoia nella grotta, sono
tutti motivi che corrispondono a una verità spirituale; così
pure gli angeli, i Magi, i pastori e le loro greggi. Un tale
schema è conforme alle Sacre Scritture, ma non ne risulta
direttamente e non si potrebbe spiegare senza una
tradizione custode del simbolismo.
Per la prospettiva cristiana è significativo che alcune
realtà eterne vi appaiano sotto forma di avvenimenti storici,
divenendo così accessibili alla raffigurazione. Per esempio,
la discesa del Cristo agli inferi, concepita come un
avvenimento simultaneo alla morte sulla croce, si colloca in
realtà fuori del tempo: il Cristo che fa uscire dalle tenebre i
progenitori e i profeti dell’Antico Testamento è in realtà il
Cristo eterno, il Verbo, colui che i profeti hanno incontrato
prima della sua incarnazione in Gesù. Tuttavia, poiché,
nella vita di Gesù, la morte sulla croce è come
l’intersezione del tempo e dell’eternità, è lecito, dal punto
di vista del simbolismo, rappresentare il Salvatore
risuscitato mentre discende in sembianze umane nell’antro
del limbo, dove spezza le porte degli inferi e tende la mano
agli antenati dell’umanità, ai patriarchi e ai profeti radunati
ad accoglierlo. Così il senso metafisico di un’immagine
sacra non è contraddetto dalla sua apparenza infantile e
ingenua.
Capitolo terzo

«IO SONO LA PORTA»

Considerazioni sull’iconografia del portale romanico


1. - Un santuario è come una porta che si apre sull’aldilà,
sul regno di Dio. Quindi la porta del santuario riassume,
anche sotto il profilo simbolico, la natura dell’intero
santuario.1 Questo appunto esprime l’iconografia
tradizionale del portale, specialmente del portale romanico
o del portale gotico ancora vicino al romanico.
Il portale di quest’epoca costituisce con la sua stessa
forma architettonica una sorta di sintesi dell’edificio sacro,
in quanto combina i due elementi della porta e della
nicchia; quest’ultima è morfologicamente analoga al coro
della chiesa, di cui riflette la decorazione figurativa.
Dal punto di vista costruttivo la combinazione della porta
e della nicchia ha come scopo l’alleggerimento del peso
sull’architrave della porta stessa: il maggior spessore del
muro è così scaricato sugli archi della nicchia e di lì sui
piedritti delle strombature. Ora, dalla combinazione di due
forme strutturali che implicano rispettivamente una certa
qualità sacra, è derivata la coincidenza dell’insieme degli
elementi iconografici che si riallacciano organicamente a
quelle forme stesse e che sotto il rivestimento di simboli
cristiani, e in conformità a essi, sono veicolo di una
saggezza cosmica primordiale.
In ogni architettura sacra la nicchia è una forma del
Santo dei Santi, del luogo dell’epifania divina, sia che
questa venga rappresentata nella nicchia stessa da
un’immagine o da un simbolo astratto, sia che non venga
evocata da alcun segno aggiunto all’architettura. Tale è il
significato della nicchia nell’arte indù, buddista e persiana,
il quale si conserverà nella basilica cristiana e nell’arte
musulmana, dove si ritrova sotto la forma di mihrāb, la
«nicchia della preghiera». La nicchia è l’immagine ridotta
della «Caverna del Mondo»: la volta, come la cupola,
corrisponde a quella del cielo, mentre i piedritti
corrispondono
alla terra, al pari della parte cubica o
rettangolare del tempio.2
Il modello cosmico della porta, che è essenzialmente il
passaggio da un mondo a un altro, è più d’ordine temporale
e ciclico che non d’ordine spaziale: così le «porte celesti»,
cioè le porte solstiziali, sono soprattutto delle porte nel
tempo o delle cesure cicliche, mentre rimane secondaria la
loro «fissazione» nello spazio.3 Il portale a nicchia combina
dunque, per la natura stessa dei suoi elementi, un
simbolismo ciclico o temporale con un simbolismo statico o
spaziale.
Sono questi i dati costanti su cui si fondano le grandi
sintesi iconografiche dei portali medioevali. Ognuno di tali
capolavori dell’arte cristiana sviluppa, grazie a una scelta
sovrana dei compossibili iconografici, taluni aspetti di quel
dovizioso patrimonio di idee, di cui custodisce fedelmente
l’unità interna secondo la legge che vuole «il simbolismo
aggiunto conforme al simbolismo inerente all’oggetto».4
Tutta la decorazione scultorea o pittorica del portale si
richiama al significato spirituale della porta, che a sua volta
si identifica con la funzione del santuario e per ciò stesso
con la natura dell’Uomo-Dio, il quale ha detto di se stesso:
«Io sono la porta: chi entrerà attraverso me sarà salvo».5
 

Il portale del transetto nord della cattedrale di Basilea,


comunemente detto portale di san Gallo (Galluspforte,
secondo il patronimico della cappella contigua), è opera del
più puro stile romanico: ne possiede tutto l’equilibrio
statico e tutta la serena presenza corporea, benché
storicamente si collochi alle soglie dell’epoca gotica. A
prima vista, la sua iconografia è così complessa che
qualcuno ha voluto vedervi un amalgama di frammenti da
una precedente costruzione distrutta dall’incendio del
1185. Vedremo invece che la composizione delle immagini,
se riferita al simbolismo della porta stessa, si rivela
perfettamente coerente.
Enumeriamo anzitutto i principali elementi della
decorazione plastica: il timpano è dominato dalla figura del
Cristo assiso tra i santi Pietro e Paolo, che intercedono
presso di lui in favore dei loro protetti, il donatore e il
costruttore del portale.6 Il Cristo porta il vessillo della
risurrezione nella destra
e il libro aperto nella sinistra.
All’immagine del Cristo vittorioso e giudice converge, come
a suo centro ideale, il gruppo dei quattro evangelisti, le cui
effigi sormontate dai quattro animali apocalittici – l’uomo
alato, l’aquila, il leone e il bue – sono scolpite nei piedritti
della porta in modo da far corpo con gli angoli delle
strombature. Sempre nelle strombature si innalzano delle
colonnine che coprono a metà, per chi guarda di fronte, le
figure e i simboli degli evangelisti. Questo schema
compositivo, che ricorda la decorazione pittorica di certe
absidi, si arricchisce di una seconda immagine del Cristo
sull’architrave della porta, dove egli è rappresentato come
lo Sposo divino che apre la porta alle vergini sagge, mentre
volge le spalle alle vergini folli.
Il portale propriamente detto è inquadrato da una specie
di avancorpo costituito da nicchie a baldacchino
sovrapposte, che taluni studiosi hanno paragonato al
rivestimento architettonico di un arco di trionfo romano.
Nelle due nicchie più grandi, ai lati dell’arcata maggiore,
sono collocate le statue di san Giovanni Battista e di san
Giovanni evangelista; appaiamento tradizionale che nel
nostro caso è in relazione con l’immagine del Cristo nel
timpano, come l’alfa e l’omega degli ideogrammi si
riconnettono al simbolo del Cristo. Al di sopra delle due
statue sono raffigurati due angeli che suonano la tromba
della risurrezione; ai loro lati, alcuni uomini e donne che
escono dalle tombe e indossano i vestiti;7 al di sotto dei due
san Giovanni, all’altezza dei piedritti del portale, sei altre
nicchie o tabernacoli contengono rilievi che rappresentano
le opere di carità. A questi elementi principali della
decorazione figurativa si aggiungono motivi ornamentali
animali e vegetali, di cui parleremo più avanti.
Un certo equivoco iconografico risulta dal fatto che san
Giovanni evangelista vi è raffigurato due volte, sia nel
gruppo dei quattro evangelisti nei piedritti del portale, sia
in opposizione simmetrica con san Giovanni Battista a lato
dell’archivolto. Quest’apparente illogicità si spiega tuttavia
facilmente con l’appartenenza del medesimo personaggio a
due distinte categorie iconografiche, che rispettivamente si
collegano con l’aspetto statico – o spaziale – e con l’aspetto
ciclico – o temporale – del simbolismo della porta. In effetti,
il quaternario
degli evangelisti corrisponde simbolicamente
ai quattro pilastri – o angoli – su cui poggia l’edificio sacro,
poiché gli evangelisti rappresentano i supporti «terrestri»
della manifestazione del Verbo, sicché si identificano non
solo con gli «angoli» della Chiesa,8 ma altresì, per analogia,
con i fondamenti del cosmo intero, cioè con i quattro
elementi e i loro principi sottili e universali. Tale analogia
ha la sua espressione figurativa più antica e diretta nella
decorazione pittorica di certe cupole, dove l’immagine del
Cristo Pantocrator domina il centro, mentre la cupola è
come sostenuta dalle figure o dai simboli dei quattro
evangelisti, che stanno sui pennacchi che collegano la
cupola agli angoli dell’edificio:9 se la terra dipende dal
Cielo, o il cosmo dal suo Principio divino, questo a sua volta
deve poggiare sull’ordine terrestre o cosmico per
manifestarsi in una modalità particolare, nella sua
«discesa» salvifica. Tale rapporto ontologico, espresso
naturalmente dall’ordine statico del tempio, si ritrova
appunto in schema ridotto negli elementi del portale, dove
il timpano corrisponde alla cupola e i quattro piedritti ai
quattro angoli dell’edificio.
All’aspetto «statico» o simbolicamente spaziale del cosmo
– o della rivelazione divina – si oppone in un certo senso
l’aspetto ciclico e temporale, qui simboleggiato dalle statue
dei due personaggi, il precursore del Cristo e l’apostolo
dell’Apocalisse, le cui rispettive funzioni segnano i termini
estremi del ciclo della rivelazione del Verbo divino sulla
terra, così come le loro feste, che cadono intorno al
solstizio d’inverno e a quello d’estate, corrispondono ai due
«punti di voltata» del sole; il sole è a sua volta immagine
cosmica di quella Luce che «illumina ogni uomo».10 Nel
portale di san Gallo, l’analogia dei due santi con i due
solstizi è suggerita dalla loro collocazione all’estremità
dell’archivolto. Nell’iconografia di parecchi altri portali,
adorni dei segni dello zodiaco, l’archivolto è appunto
identificato con il ciclo celeste.
I due solstizi sono chiamati «porte» (januae) perché
attraverso essi il sole «entra» nella fase ascendente o
discendente del suo corso annuale, o anche, due tendenze
cosmiche opposte «entrano» nell’ambito della terra; sicché
il simbolismo relativamente spaziale della porta traduce
una realtà ciclica e temporale. Ricordiamo il simbolismo di
Giano,11 il dio protettore
dei collegia fabrorum, la cui
eredità sembra esser passata alle corporazioni artigianali
del Medioevo. Nel cristianesimo i due volti di Giano sono
divenuti i due san Giovanni, mentre il terzo volto, la faccia
invisibile e atemporale del dio, si è rivelato nella persona
del Cristo. E le due chiavi d’oro e d’argento, già possedute
dall’antico dio delle iniziazioni, si ritrovano nella mano di
san Pietro, come indica il rilievo nel timpano del portale.
La rivelazione ciclica, dicevamo, implica un ordine
inverso a quello della rivelazione «statica» e
simbolicamente spaziale del Verbo, in quanto nella prima il
mondo terrestre è riassorbito nel mondo celeste dopo che
le possibilità capaci di trasformarsi in atto sono state
distinte da quelle che saranno scartate. È il giudizio cui si
riferiscono certi elementi dell’iconografia, come gli angeli
con la tromba, e che la parabola delle vergini sagge e delle
vergini folli, rappresentata sull’architrave della porta,
riallaccia direttamente all’idea della porta stessa: il Cristo-
Sposo sta sulla soglia del regno celeste, invitando le une e
rifiutando l’ingresso alle altre. Ora, proprio ai piedi
dell’immagine del Cristo si trova il centro geometrico
dell’intera struttura del portale, che si può inscrivere in un
cerchio diviso per sei e per dodici (fig. 18).12
La porta è il Cristo stesso, come indicano anche le
immagini delle sei opere di carità che illustrano il tema del
giudizio universale, poiché il Signore le menzionerà
rivolgendosi agli eletti: «Venite, o benedetti del Padre mio,
prendete possesso del regno che vi è stato preparato fin
dalla creazione del mondo. Poiché ho avuto fame e mi avete
dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere;
sono stato forestiero e mi avete accolto; nudo e mi avete
rivestito; malato e mi avete visitato; sono stato prigioniero
e siete venuti a trovarmi... In verità vi dico: ogni volta che
l’avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a
me...». E ai dannati il Cristo dirà: «Allontanatevi da me,
maledetti, andate nel fuoco eterno... Perché ho avuto fame
e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi
avete dato da bere; sono stato forestiero e non mi avete
accolto; nudo e non mi avete rivestito; malato e in carcere e
non mi avete visitato...».13
La carità è dunque riconoscere il Verbo increato nelle
creature. Ora, queste rivelano la loro vera natura soltanto
con la loro povertà e indigenza, cioè spogliandosi di pretese
e di poteri propri. Colui che riconosce la presenza di Dio
nel prossimo, la realizza in se stesso: questo è il tramite per
cui la virtù spirituale conduce all’unione con il Cristo, che è
la Via e la Porta divina. Non varcherà questa Porta se non
chi è divenuto lui medesimo porta, come ci fa intendere
anche il mito del viaggio dell’anima dopo la morte, nella
Kauṣitakī Upaniṣad: quando l’anima arriva al Sole, questo
la interroga sulla sua identità, e solo quando risponde «Io
sono Te», essa entra nel mondo divino. L’identica verità si
ritrova presso il sufi persiano Abū Yazid al-Bistāmi, che
dopo la morte apparve in sogno a un amico e gli raccontò
come era stato accolto da Dio. «Che mi porti?», gli
domanda il Signore. Abū Yazid enumera tutte le sue opere
buone, ma siccome nessuna viene gradita, dice finalmente:
«Io ti porto Te stesso»; soltanto allora Dio lo accoglie.14

Fig. 18: Schema geometrico del portale romanico della cattedrale


di Basilea (secondo P. Maurice Moullet).
Nel timpano del portale di Basilea si vede l’immagine di
un maestro muratore che, inginocchiato davanti al Cristo,
gli offre un modello di portale: egli offre al Cristo, che è la
Porta, il simbolo del Cristo. Ciò esprime non solo l’essenza
di ogni via spirituale, ma anche la natura dell’arte sacra:
ricopiando un prototipo sacro, che naturalmente egli adatta
a certe condizioni materiali, l’artista stesso si identifica con
il prototipo; estrinsecandolo in modo conforme alle regole
tramandate, ne realizza l’essenza.
 

2. - Gli ornamenti teriomorfi e vegetali del portale devono


essere considerati a parte e collocati in un quadro più
generale, poiché rappresentano come la reminiscenza di
una iconografia più antica, addirittura preistorica, le cui
formule si sono conservate tanto per la loro perfezione
decorativa quanto per l’unione organica dell’ornato con
l’architettura.
Anzitutto ricordiamo due motivi che in origine appaiono
legati all’arte asiatica, ma il cui significato cristiano
nell’arte occidentale è evidente: la Ruota e l’Albero della
Vita, due emblemi che ornavano i timpani dei portali
nell’alto Medioevo, in un’epoca cioè in cui ancora si esitava
a esporre le immagini di personaggi sacri all’esterno delle
chiese. La Ruota, visibilmente analoga alla Ruota Cosmica,
è rappresentata dal monogramma del Cristo chiuso in un
cerchio;15 l’Albero ha spesso la forma di una vite stilizzata,
conformemente alle parole: «Io sono la vite».16 Ambedue i
motivi, che per altro sono in stretta relazione con i principi
dell’architettura sacra, hanno le loro prefigurazioni
nell’iconografia indù e buddista della nicchia rituale;17 si
può supporre che il punto d’incontro storico sia stato il
Medio Oriente.
Nel portale romanico della cattedrale di Basilea l’Albero
della Vita si tramanda sotto forma di vite stilizzata che con i
suoi tralci incornicia la porta. La Ruota Cosmica è stata
trasferita
al di sopra del portale, sotto forma di grande
rosone, le cui sculture iconografiche evocano la «Ruota
della Fortuna» descritta da Boezio nel suo De consolatione
philosophiae. Lo scultore ha raffigurato se stesso nel punto
più basso della Ruota.
I motivi teriomorfi che ricorrono più frequentemente sui
portali medioevali sono il leone e l’aquila, oppure la loro
combinazione: il grifone o il drago. Il leone e l’aquila sono
animali essenzialmente solari, e altrettanto il grifone, la cui
duplice natura simboleggia le due nature del Cristo.18 Nel
portale del duomo di Basilea (fig. 19) gruppi di aquile e
coppie di leoni con una sola testa formano i capitelli delle
colonnine poste negli angoli dei piedritti. Il drago, che
ordinariamente si trova in coppie antitetiche ai due lati
della porta o dell’archivolto,19 sembra doversi ricondurre al
simbolismo solstiziale, almeno a giudicare dalle analogie
che presenta nell’arte orientale e nordica. Nel portale di
Basilea, due draghi affrontati ornano le mensole che
sostengono l’architrave. La collocazione dei draghi sotto i
piedi del Cristo li caratterizza come forze naturali o
infernali domate dall’Uomo-Dio; e questo non è
assolutamente in contraddizione con il loro significato
solstiziale, perché l’Uomo-Dio trascende proprio l’antitesi
delle tendenze cosmiche manifestate dalle due fasi,
ascendente e discendente, del ciclo annuale. Anche l’arte
asiatica conosce questo motivo (fig. 20a e 20b).20
Fig. 19: Schema del doppio leone del portale romanico della
cattedrale di Basilea.

Fig. 20a: Porta del Talismano a Baghdad.


Fig. 20b: Arco «di canone» dell’evangeliario irlandese di Kells (fol.
25r) con un personaggio sacro fra due mostri (sec. VIII).

L’arte indù ci offre nel torana un certo modello della


iconografia teriomorfa del portale. Il torana è l’arco
trionfale che cinge la porta di un tempio o la nicchia
contenente l’immagine della divinità; i suoi elementi sono
stati fissati dai codici dell’architettura sacra, come il
Mānasāra Śilpa Śāstra. Le due basi o piedritti del torana
sono fregiati con leonesse (śardūla) o leogrifi (vyali),
animali solari e manifestazioni di Vāc, la Parola creatrice;
gli archi di spinta terminano nella forma del makara, il
mostro marino che corrisponde al Capricorno, che è il
segno del solstizio d’inverno. Ritorna quindi il simbolismo
solare sotto i suoi due aspetti opposti e complementari: la
leonessa corrisponde all’espansione positiva, perciò in un
certo senso spaziale, della Luce o del Verbo divino, mentre
il makara esprime il carattere «divorante» e trasformante
della Realtà divina manifestata come ciclo o tempo. La
sommità del torana è generalmente coronata dal Kīrṭṭi-
mukha o Kāla-mukha, maschera terribile dalle forme
proteiche, che sintetizza sia la leonessa sia il drago marino
e rappresenta l’abisso insondabile – quindi, terrificante e
oscuro – del potere con cui la Divinità si manifesta.21
Nell’arte romanica si trovano numerose analogie con i
leoni e i draghi del torana,22 sebbene questi si avvicinino di
più al drago estremo-orientale – trasmesso dall’arte
buddista e dall’arte selgiuchide23 –, o anche al drago
nordico, che non al makara indù derivante dal delfino.
Quanto al Kāla-mukha, la Maschera di Dio, non è reperibile
nell’arte cristiana una sua funzione pari a quella che esso
detiene nell’iconografia indù ed estremo-orientale (il T’ao-
t’ie cinese), perché il suo simbolismo è intimamente
connesso con l’idea indù dell’illusione cosmica. Tuttavia se
ne trovano repliche apparenti nell’arte romanica, con
maggior frequenza sui capitelli, senza che se ne possa
determinare il significato.24
Il Kāla-mukha implica in sé un duplice aspetto: per un
verso, rappresenta la morte, e in tal senso corona la porta
del tempio, perché colui che ne varca la soglia deve morire
al mondo; per l’altro, simboleggia la fonte della vita, come
appunto suggeriscono i tanti ornamenti vegetali e animali
che zampillano e fluiscono dalla sua gola. Particolare,
questo, che ha la sua analogia nell’arte cristiana del
Medioevo, che ben conosce
la maschera del leone
«vomitante» forme vegetali: il motivo risale verosimilmente
all’antichità e, d’altronde, si identifica con la maschera del
leone che emette un perenne zampillo d’acqua: immagine
del sole, sorgente di vita, e dunque in ultima analisi
simbolo analogo al Kāla-mukha.25 Nell’arte cristiana assume
il significato di leone di Giuda, quel leone da cui viene
l’albero di Jesse o la vite del Cristo.26
Sarebbe anche troppo agevole moltiplicare gli esempi di
temi asiatici passati nell’arte cristiana del Medioevo. I già
citati possono essere sufficienti a farci intravedere la vasta
corrente folclorica cui attinge l’arte medioevale in
Occidente; tale corrente ha origini preistoriche, ma via via
si è rinnovata mediante apporti diretti dall’Oriente. In molti
casi sarebbe difficile, per non dire impossibile, precisare
che cosa tali motivi significassero per l’artigiano cristiano;
in ogni caso, però, la logica inerente alle forme come tali
favoriva, sotto il raggio di una saggezza contemplativa, il
ridestarsi dei simboli sepolti in quella memoria collettiva
che è il folclore.
Esiste nell’iconografia teriomorfa del portale romanico un
aspetto terrificante e spesso grottesco, dove si tradisce un
realismo spirituale che non è senza intima parentela con il
simbolismo gorgonico del Kāla-mukha. All’avvicinarsi del
solstizio, l’imminente «voltata» ciclica scatena nell’ambito
cosmico dei contrasti estremi: quando si apre la porta del
cielo (janua coeli), si schiude ugualmente la porta degli
inferi (janua inferni). Certe immagini orride sui portali
hanno appunto la funzione di spezzare le influenze
malvagie. Talvolta il loro aspetto grottesco vuole
«oggettivare» le potenze tenebrose, svelandone la vera
natura. La medesima funzione assumono talune
costumanze popolari all’avvicinarsi del solstizio d’inverno,
quando si scacciano gli spiriti del male con ripetute
mascherate grottesche.27
 

3. - La nicchia del portale corrisponde, dicevamo, al coro


della chiesa. A somiglianza del coro, essa è il luogo
dell’epifania divina. Questo significato coincide con il
simbolismo della porta celeste, che non è soltanto l’entrata
per cui le anime entrano nel regno dei Cieli, ma anche
l’uscita per cui i
messaggeri divini «discendono» nella
«caverna» del mondo. Tale simbolismo, di origine
precristiana, si trova come integrato nel cristianesimo
grazie alla coincidenza del Natale – la notte della nascita
del Sole divino nel mondo – con il solstizio d’inverno, la
«porta del Cielo».
Il portale a nicchia è dunque un’iconostasi che nasconde
e rivela al tempo stesso il mistero del Santo dei Santi; e in
tal senso è anche un arco di trionfo e un trono di gloria.
Quest’ultimo aspetto predomina nel grande portale della
chiesa abbaziale di Moissac: il timpano, molto sviluppato e
sostenuto da un pilastro centrale, mostra la scena
apocalittica del Cristo circondato dai quattro animali
simbolici e dai ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse; il
pilastro divisorio, costituito da leonesse sovrapposte,
sorregge la gloriosa apparizione al pari di un trono formato
dalle potenze cosmiche domate.
Nell’ambito dell’arte occidentale, il portale di Moissac
appare come un miracolo improvviso, tanto per la sua
unicità spirituale quanto per la sua perfezione scultorea, e
nessun fatto artistico precedente a noi noto – sculture
romaniche apparentate, influssi moreschi e avori bizantini –
basta a spiegarlo interamente.
Nel suo linguaggio artistico, il portale di Moissac si
differenzia grandemente dal portale romanico della
cattedrale di Basilea. Le forme del portale di Basilea sono
articolate come una sequenza latina; la loro armonia,
severa e dolce a un tempo, ricorda il canto gregoriano.
Nelle sculture di Moissac c’è invece una certa vivacità di
movimento, che però non infrange l’unità statica globale.
L’arco conferisce all’insieme una quieta tendenza
ascensionale, simile a quella di una fiamma di cero che
arda senza agitarsi, con una vibrazione tutta interiore. La
superficie del rilievo, mantenuta complessivamente piana,
in certi tratti è perforata sì da apparire come un lavoro «a
giorno», che permette di segnare linee e accenti vigorosi.
All’interno degli stilizzati contorni i piani sono resi con
grande delicatezza; lo schematismo delle forme è sempre
ricco di una sostanza plastica agile e contenuta. Nel
timpano il gioco delle ombre gravita intorno al centro
immobile formato dal Cristo glorioso: da lui, dalle sue
forme largamente illuminate, sembra
emanare ogni luce.
Anche i gesti dei ventiquattro vegliardi che circondano il
Signore guidano l’occhio da ogni lato verso quel centro
immobile, sicché ne nasce una sorta di movimento ritmico
che però non altera mai la geometria dell’opera. Non vi è
traccia di impressionismo momentaneo, di dinamismo
psichico o di quell’enfasi così contraria alla natura
permanente della scultura.
Il rilievo del timpano riproduce la visione apocalittica di
san Giovanni: «...fui rapito in spirito. Ed ecco: un trono era
collocato nel cielo, e sul trono uno seduto; e il seduto,
simile nell’aspetto a gemma di diaspro e cornalina, e
l’arcobaleno, intorno al trono, simile nell’aspetto a
smeraldo. E intorno al trono ventiquattro troni, e sui troni
sedevano ventiquattro anziani ravvolti in vesti bianche, e
sulle loro teste corone d’oro. E dal trono escono lampi, voci
e tuoni. E sette fiaccole di fuoco ardono davanti al trono:
sono i sette spiriti di Dio. E davanti al trono come un mare
dall’aspetto del vetro, simile a cristallo. E in mezzo al trono
e attorno al trono quattro viventi pieni d’occhi dinanzi e di
dietro. Il primo vivente simile a un leone, il secondo vivente
simile a un vitello, il terzo vivente ha la faccia come
d’uomo, e il quarto vivente simile a un’aquila volante».28 Lo
scultore di Moissac ha colto di questa visione soltanto i
motivi che si prestano al simbolismo plastico. Intorno al
Cristo del timpano i quattro animali,29 che simboleggiano gli
aspetti permanenti del Verbo divino e i prototipi dei quattro
evangelisti, spiegano una corolla d’ali che salgono in forma
di fiamma; due arcangeli stanno ritti presso di loro. I
ventiquattro vegliardi, assorti nella contemplazione
dell’Eterno, reggono in mano delle coppe, simbolo della
partecipazione passiva all’unione beatifica, oppure dei liuti,
simbolo della partecipazione attiva.30 Sui piedritti del
portale sono scolpite due immagini: san Pietro con le
chiavi, nell’atto di calpestare un leone, e il profeta Isaia che
predice la nascita del Cristo da una vergine.
Gli archivolti e l’architrave sono ricoperti di una doviziosa
fioritura di ornati. Ai due estremi dell’architrave stanno due
mostri dalle cui gole spalancate escono tralci che si
avvolgono intorno ai grandi fioroni che costellano
l’architrave stesso. Questo motivo ricorda in modo
sorprendente l’iconografia indù del makara nel torana.31 Ci
si può domandare se un modello indù non sia stato
trasmesso dall’arte musulmana, da cui derivano anche le
proporzioni generali del portale, la sua forma a ogiva e il
contorno lobato dei pilastri. Anche le sculture del sostegno
divisorio hanno prototipi orientali: il motivo dei leoni
incrociati risale, attraverso l’arte islamica, fino all’arte
sumerica, e si direbbe quasi uno schema del trono regale,
di cui si può scorgere il riflesso negli attributi leonini dei
seggi pieghevoli del Medioevo. Pure l’iconografia indù
conosce il «trono dei leoni» (simhāsana), forma tradizionale
del Trono divino.32 L’idea geniale dello scultore di Moissac è
di aver sovrapposto tre coppie di leonesse, poggianti l’una
sopra l’altra secondo un gioco di compensazioni statiche
che ben traduce l’equilibrio involontario delle temibili
potenze della natura (fig. 21). Gli astri di tre fioroni, su cui
vengono a posarsi le code a gambi di loto terminanti in
boccioli, regolano l’intreccio delle sei belve. Tutta
l’intelligenza speculativa, il realismo e l’ironia del Medioevo
si esprimono in questa scultura. I tre «piani» del trono delle
leonesse non sono certo privi di significato: fanno pensare
alla gerarchia dei mondi creati. Il contrasto fra i mostri del
sostegno divisorio e l’apparizione gloriosa del Cristo nel
timpano è carico di significato profondo: il Trono della
Gloria divina che si rivela alla fine dei tempi – quando i
«secoli» sono compiuti e il tempo è rientrato nella
simultaneità del giorno permanente – non è altro che il
cosmo nel suo equilibrio finale costituito dalla
composizione totale di tutte le antitesi naturali. Lo stesso si
verifica nell’ordine microcosmico: l’illuminazione divina
poggia sull’equilibrio di tutte le forze passionali dell’anima,
sulla natura domata, secondo la espressione alchemica.
Fig. 21: Pilastro divisorio del portale della chiesa abbaziale di
Moissac.

L’iconografia indù – il portale di Moissac ci riconduce


ripetutamente a essa – conosce una doppia forma del trono
divino: il «trono dei leoni» simboleggia le forze cosmiche
assoggettate, mentre il «trono del loto» (padmāsana) dice
l’armonia perfetta e ricettiva del cosmo.33
Tali confronti ci vengono suggeriti non soltanto da certi
elementi del torana riflessi nel portale di Moissac: anche le
sculture, pur evocando la maestà e la bellezza sacerdotale
del Cristo, richiamano l’arte plastica dell’India; come l’arte
indiana,
hanno qualcosa della compiutezza del loto,
affascinano con l’audacia astratta del gesto ieratico e sono
come animate dal ritmo di una danza sacra. Questa
innegabile affinità non si potrebbe spiegare con un contatto
formale tra le due arti, sebbene certi elementi ornamentali
possano farci pensare a un incontro del genere; una tal
parentela è spirituale, e dunque interiore, e su questo
piano tutte le coincidenze sono possibili. Il portale di
Moissac manifesta indubbiamente una saggezza
contemplativa reale e spontanea; gli elementi decorativi
asiatici, trasmessi probabilmente dall’arte musulmana di
Spagna, non rappresentano i motivi essenziali da tale
parentela, bensì ne sono una conferma e, per così dire, una
cristallizzazione.
 

4. - Si è detto sopra che il piano del tempio, che riassume


l’intero cosmo, si ispira alla fissazione spaziale dei ritmi
celesti che governano l’insieme del mondo visibile. Questa
trasposizione dell’ordine ciclico nell’ordine spaziale
definisce pure la funzione e il significato delle diverse porte
del santuario, orientate sui punti cardinali.34
Il portale dei Re della cattedrale di Chartres, le cui porte
guardano a occidente, rivela tre aspetti differenti del
Cristo, aspetti che sono anche del tempio, identificato con il
corpo del Cristo. La porta di sinistra, sita relativamente a
nord, è dedicata al Cristo che ascende al Cielo; la porta di
destra, sita relativamente a sud, è dedicata alla Vergine e
alla natività del Cristo; la porta centrale, la «porta dei Re»
propriamente detta, ci mostra l’immagine del Cristo in
gloria secondo la visione apocalittica di san Giovanni. Le
due nicchie di sinistra e di destra, che corrispondono
rispettivamente ai lati settentrionale e meridionale della
chiesa, rappresentano perciò, in conformità con il
simbolismo delle «porte» solstiziali – quella d’inverno e
quella d’estate –, la natura celeste e la natura terrena del
Cristo. La porta centrale, che in quanto tale simboleggia la
porta unica – e trascende le antitesi cicliche –, rivela il
Cristo nella sua gloria divina e in figura di giudice
universale nel momento della reintegrazione finale di
questo «secolo» nell’atemporale.
L’immagine del Cristo glorioso circondato dai quattro
animali
simbolici domina il timpano centrale: è una
composizione limpida e radiosa, il cui equilibrio, teso tra
l’aureola a mandorla del Cristo e l’arco lievemente ogivale
del timpano, vive di un quieto respiro che si dilata a partire
dal centro e al centro ritorna. Negli archivolti stanno i
ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse, seduti in trono e con
corone sul capo; una fila di angeli li separa dal Cristo.
Sull’architrave sono raffigurati i dodici apostoli.35
Sui piedritti delle porte sono scolpiti profeti e personaggi
regali dell’Antico Testamento, senza dubbio anche gli
antenati del Cristo; tutta questa zona, analoga alla parte
rettangolare e «terrestre» del tempio, corrisponde dunque
alla Legge Antica che, dal punto di vista cristiano, preparò
la venuta del «Verbo fatto carne».
L’ascensione del Cristo, nel timpano della porta di
sinistra, è rappresentata secondo l’iconografia tradizionale:
Gesù viene sollevato al cielo entro una nuvola tenuta a mo’
di drappo da due angeli; altri angeli, uscendo dalle nubi
come folgori, annunziano l’evento agli apostoli radunati.
Negli archivolti sono scolpiti i segni dello zodiaco alternati
con le figurazioni dei lavori dei mesi. Ciò sottolinea il
carattere celeste di questa porta laterale; infatti la sua
collocazione a nord della porta principale vuole indicare la
«porta del cielo» (janua coeli), ossia il solstizio d’inverno
(fig. 22).
Il timpano della porta di destra è dominato dalla statua
della Vergine con il Bambino, assisa in trono, in posizione
perfettamente frontale, tra due arcangeli che agitano dei
turiboli, secondo una tradizione bizantina. Il loro
movimento, simile a quello di due colombe sul punto di
spiccare il volo, fa meglio risaltare, in virtù del contrasto,
l’immobilità maestosa della Vergine nel mezzo (fig. 23).
La composizione della lunetta della porta di destra è
inversa a quella dell’ascensione del Cristo, dove gli angeli
ricadono verso l’esterno, come petali di un fiore che si
sfoglia. Al di sotto del gruppo della Vergine e degli
arcangeli, severo e gioioso a un tempo, sono rappresentate
in due bande orizzontali l’annunciazione, la visitazione, la
natività, la presentazione al tempio. Il punto più basso del
timpano – che non è separato dall’architrave – è occupato
dalla Vergine distesa sul suo letto soffittato da un «cielo» su
cui è posta la culla con il Bambino. Tale insolita
particolarità trova la sua spiegazione nel parallelismo dei
tre gruppi sovrapposti: in basso, la Vergine distesa
orizzontalmente, al di sotto del neonato, simboleggia
l’umiltà perfetta, perciò la passività pura della sostanza
universale, la materia prima che è completamente ricettiva
nei confronti del Verbo divino; nella fascia immediatamente
superiore, e sul medesimo asse verticale, il Bambino Gesù
ritto sopra l’altare del tempio suggerisce l’analogia tra la
Vergine e l’altare del sacrificio; in alto, nell’ogiva del
timpano, la Vergine assisa in trono, con il Bambino in
grembo, corrisponde alla Madre universale, che è l’umile
fondamento di tutte le creature e insieme la loro sostanza
più sublime, così come viene significato da Dante nella sua
altissima preghiera alla Vergine:

Vergine madre, figlia del tuo Figlio,

umile ed alta più che creatura,

...36
Fig. 22: Timpano della porta di sinistra del portale dei Re.
Fig. 23: Timpano della porta di destra del portale dei Re.

Il triplice tema della Vergine e del Bambino è messo in


evidenza dallo schematismo geometrico delle tre scene: in
basso, le due orizzontali della Madre e della culla; sopra,
l’elevazione verticale del Bambino sull’altare; infine, in alto,
l’imponente figura della Vergine che circonda il Bambino da
ogni lato. Madre e Figlio possono inscriversi in due cerchi
concentrici.
Rappresentando la sostanza universale – che è passiva
nei confronti del Verbo divino –, la Vergine è simbolo e
personificazione dell’anima illuminata dalla Grazia. Quindi i
tre gruppi della Madre e del Bambino esprimono
necessariamente tre fasi dello sviluppo spirituale
dell’anima, che si possono definire come povertà spirituale,
dono di sé, unione con Dio. O ancora, in linguaggio
alchemico, come «mortificazione», «sublimazione»,
«trasmutazione». La Vergine maestosa del timpano, con la
sua forma regolare contenente quella del Bambino,
suggerisce lo stato dell’anima illuminata che contiene il
cuore unito a Dio.
L’analogia tra la Vergine e l’anima illuminata è rafforzata
dalle allegorie delle sette arti liberali negli archivolti della
medesima porta: le arti liberali sono il riflesso delle sette
sfere celesti nell’anima, di cui esprimono l’ampiezza e la
perfezione. Sant’Alberto Magno dice che la Vergine
possedeva naturalmente la conoscenza di tali arti, cioè di
ciò che costituisce la loro essenza. Risalta così meglio il
complementarismo che informa l’iconografia delle due
porte laterali: da un lato l’ascensione del Cristo al cielo,
con intorno i segni zodiacali, dall’altro l’immagine della
Vergine circondata dalle arti liberali: sono i due regni del
Cielo e della terra, dell’Essenza e della sostanza, dello
Spirito e dell’anima, dei «Grandi Misteri» e dei «piccoli
misteri», rispettivamente connessi con la porta solstiziale
d’inverno e con la porta solstiziale d’estate.
Vogliamo tuttavia far rilevare che il riferimento simbolico
delle due porte laterali al solstizio d’inverno e al solstizio
d’estate implica un’inversione, giacché il segno del
Capricorno, che corrisponde al solstizio d’inverno, fa parte
dell’emisfero meridionale. Ora, tale inversione si esprime
anche nell’iconografia del portale dei Re in quanto la porta
di destra, sita al lato sud e dedicata alla Vergine, implica
l’immagine della natività, la cui festa coincide pressappoco
con il solstizio d’inverno. Una compensazione analoga si
verifica nell’ordine spirituale: la bellezza verginale e
ricettiva dell’anima, che ascende «dal basso», raggiunge la
rivelazione del Verbo divino che viene «dall’alto».
I temi iconografici delle tre porte del portale dei Re sono
esteriormente collegati fra loro dalle piccole scene scolpite
sui capitelli delle colonnine, le quali formano come una
fascia
continua. Vi sono rappresentati episodi della vita del
Cristo: così, secondo la prospettiva eminentemente storica
del cristianesimo, ogni realtà spirituale viene riferita e
connessa alla vita dell’Uomo-Dio.
 

Per concludere, l’iconografia del portale romanico implica


tre «dimensioni» distinte: la dimensione cosmologica, più
direttamente connessa con l’arte della costruzione; la
dimensione teologica, data dal tema religioso delle
immagini; la dimensione metafisica, che contiene il senso
mistico nell’accezione più profonda del termine. Tutta la
portata spirituale dello schema cosmologico deriva
dall’accentuazione dei simboli cristici. D’altra parte, la
coincidenza dell’iconografia religiosa con certi prototipi
cosmici spoglia il contenuto delle immagini della sua
accezione storica e letterale e lo trasferisce nella Verità
metafisica e universale.
Capitolo quarto

FONDAMENTI DELL’ARTE MUSULMANA

Dio è bello e ama la bellezza.

 (Parola del Profeta)


 

1. - L’unità, pur essendo in se stessa eminentemente


«concreta», si presenta allo spirito umano come un’idea
astratta; il che, assieme a certi elementi importanti della
mentalità semitica, spiega il carattere astratto dell’arte
musulmana. L’Islam si incentra sull’unità, e l’unità non può
essere espressa da alcuna immagine.
La proibizione dell’immagine non è però assoluta
nell’Islam. L’immagine piana, per esempio, è tollerata come
arte profana, purché non rappresenti né Dio né il viso del
Profeta;1 invece l’immagine «che proietta un’ombra» non è
ammessa se non in via eccezionale, allorché raffigura un
animale stilizzato, per esempio nell’architettura dei palazzi
o nell’oreficeria.2 Di norma, la rappresentazione di piante e
di animali fantastici è espressamente concessa, ma solo
ornati vegetali di forma stilizzata fanno parte dell’arte
sacra.
L’assenza di immagini nelle moschee ha anzitutto lo scopo
negativo di eliminare una «presenza» che rischia di
contrapporsi a quella – invisibile – di Dio e, a causa della
imperfezione di ogni simbolo, di essere una fonte di errori;
ha poi lo scopo positivo di affermare la trascendenza di Dio,
che è assoluta in quanto non può avere termini di
confronto.
L’unità implica sì un aspetto «partecipativo», in quanto è
la sintesi del molteplice e principio dell’analogia, sicché
sotto tale aspetto l’immagine sacra la presuppone e, a suo
modo, l’esprime; ma l’unità è anche principio di distinzione,
giacché ogni essere si distingue essenzialmente dagli altri
grazie alla sua unità intrinseca, e perciò è unico e non può
essere né confuso né sostituito. Ora, quest’ultimo aspetto
dell’unità riflette
più direttamente la trascendenza
dell’unità suprema, la sua «non-alterità» e la sua solitudine
assoluta. Secondo la formula fondamentale dell’Islam: «non
c’è divinità fuori di Dio» (Lā ilāha ill’Allāh), ogni cosa
rientra sotto la volta infinita dell’unità suprema appunto
grazie alla distinzione dei differenti piani di realtà; dal
momento in cui si riconosce il finito come tale, non si può
più considerarlo «a fianco» dell’Infinito e, per ciò stesso, il
finito si ricompone nell’Infinito.
Da questo punto di vista, l’errore sostanziale sta nel
proiettare la natura dell’Assoluto nel relativo, concedendo
al relativo un’autonomia che non ha. Causa di tale
proiezione è anzitutto l’immaginazione o, più esattamente,
l’illusione (alwahm). Ora, il musulmano vede nell’arte
figurativa una manifestazione flagrante e contagiosa di un
simile errore; secondo lui l’immagine sposta un ordine di
realtà in un altro. Antidoto di tale trasposizione è la
saggezza (ḥikmah), che colloca ogni cosa al suo posto.
Applicato all’arte, ciò significa che ogni creazione artistica
deve seguire e rendere intelligibili le leggi della sua sfera
di esistenza. L’architettura, per esempio, deve manifestare
l’equilibrio statico e lo stato perfetto dei corpi immobili,
che si esprime nella forma regolare del cristallo.
 

L’esempio accennato richiede una precisazione. Come è


noto, certuni rimproverano all’architettura musulmana di
non far risaltare affatto le funzioni statiche, contrariamente
all’architettura del Rinascimento, che rinforza i punti di
scarico e le linee di tensione fornendo agli elementi
costruttivi una sorta di coscienza organica. Ma nella
prospettiva dell’Islam ciò sarebbe precisamente una
confusione tra due ordini di realtà e una mancanza di
sincerità intellettuale: se gracili pilastri o colonnine
possono effettivamente sostenere il carico di una volta, a
che scopo attribuir loro uno stato di tensione artificiale, che
d’altra parte non è nella natura della materia?
L’architettura musulmana non cerca affatto di vincere la
pesantezza della pietra imprimendole un moto ascendente,
come fa l’arte gotica; l’equilibrio statico esige l’immobilità,
ma la materia bruta viene in qualche modo alleggerita e
resa diafana dalle cesellature degli arabeschi e dagli
elementi plastici a forma di stalattiti e di alveoli, che
offrono alla luce mille sfaccettature e trasformano
pietra e
stucco in materia preziosa. Le arcate di un cortile
dell’Alhambra, per esempio, o quelle di certe moschee del
Maghreb, riposano in una calma perfetta, e al tempo stesso
sembrano un tessuto di vibrazioni luminose. Sono come
luce divenuta cristallo; la loro sostanza intima non sembra
la pietra ma la Luce divina, l’intelligenza creatrice che
risiede misteriosamente in tutte le cose.
Ciò dimostra che l’«oggettività» dell’arte musulmana –
cioè l’assenza di uno slancio soggettivo, «mistico» se si
vuole – non ha nulla a che vedere con il razionalismo.
D’altra parte, che cos’è il razionalismo se non la limitazione
dell’intelligenza alla sola misura dell’uomo? E proprio
questo esprime l’arte del Rinascimento con la sua
interpretazione «organica» e soggettivamente
antropomorfa dell’architettura. Dal razionalismo non c’è
che un passo per cadere nella passione individualistica, e
quindi nella concezione meccanicistica del mondo. Niente
di tutto ciò nell’arte musulmana: la sua essenza logica
rimane sempre impersonale e qualitativa. In effetti,
secondo la visione islamica, la ragione (al-‘aql) è anzitutto
lo strumento con cui l’uomo accetta le verità rivelate, le
quali di per sé non sono né irrazionali né soltanto razionali.
In questo consiste la nobiltà della ragione e quindi la
nobiltà dell’arte. Dire che l’arte discende dalla ragione o
dalla scienza, come affermano i maestri dell’arte
musulmana, non significa affatto che essa sia razionalistica
e che occorra sottrarla all’intuizione spirituale; al contrario,
poiché la ragione non paralizza l’ispirazione, essa si
affaccia su una bellezza non-individuale.
Lontanissima è l’arte astratta dell’Islam dall’arte
«astratta» moderna: nell’«astrazione» gli artisti d’oggi
trovano una risposta più immediata, più fluida e individuale
agli impulsi irrazionali provenienti dal subcosciente; per
l’artista musulmano, invece, l’arte astratta è espressione di
una legge: essa manifesta nel modo più diretto l’unità nella
molteplicità. L’autore di queste pagine, forte della sua
esperienza in scultura europea, ha voluto una volta farsi
assumere da un maestro decoratore del Maghreb. «Che
cosa faresti», gli domandò il maestro, «se dovessi decorare
una superficie come quella di questo muro?». «Vi
disegnerei dei tralci e ne riempirei le sinuosità con
immagini di gazzelle e di lepri». «Gazzelle, lepri e altri
animali», rispose l’arabo, «esistono dovunque in natura.
Perché riprodurli? Ma disegnare qui tre fioroni geometrici
(tasātir), uno a undici e due a otto raggi, intersecandoli fra
loro così da riempire perfettamente questa superficie, ecco
che cos’è l’arte!».
Si potrebbe anche dire – e le parole dei maestri
musulmani ne danno testimonianza – che l’arte consiste nel
modellare gli oggetti in modo conforme alla loro natura, la
quale contiene virtualmente la bellezza poiché procede da
Dio: non resta che liberare e rendere evidente tale bellezza.
Nella concezione islamica, l’arte nel senso più ampio non è
che un metodo di nobilitare la materia.
 

2. - Il principio secondo cui l’arte deve conformarsi alle


leggi inerenti al suo oggetto non è meno rispettato nelle
arti minori, per esempio nell’arte del tappeto così
caratteristica del mondo dell’Islam: né la limitazione alle
sole forme geometriche, fedeli alla composizione in
superficie piana, né l’assenza dell’immagine propriamente
detta hanno mai inaridito la fertilità artistica; anzi, ogni
pezzo – a parte quelli fatti in serie per l’Europa – esprime
gioia creatrice.
La tecnica del tappeto annodato è, con ogni probabilità,
di origine nomade. Il tappeto, infatti, è la vera mobilia del
nomade; e le opere più originali e di più alta perfezione si
trovano fra i tappeti nomadi. Il tappeto cittadino spesso
indulge a un preziosismo che toglie alle forme e ai colori il
vigore e il ritmo immediati. L’arte nomade del tappeto ama
la ripetizione di motivi geometrici pronunciati, nonché
l’improvvisa alternanza delle cadenze e la simmetria nella
diagonale. Questo medesimo gusto è reperibile un po’
dovunque nell’arte musulmana, e ciò è molto indicativo
dello spirito di cui è proiezione: la mentalità islamica si
armonizza, sul piano spirituale, con la psicologia nomade: il
senso acuto della fragilità del mondo, la concisione del
pensiero e dell’atto, il genio del ritmo.
Quando una delle prime armate musulmane conquistò la
Persia, trovò nella gran sala reale di Ctesifonte un immenso
«tappeto della primavera» ornato d’oro e d’argento. Fu
portato con il bottino di guerra a Medina, dove con tutta
semplicità
fu fatto in tanti pezzi quanti erano i vecchi
compagni del Profeta. Un tal gesto, apparentemente
vandalico, non solo era conforme alla legge di guerra
istituita dal Corano, ma esprime al tempo stesso la
diffidenza sostanziale dei musulmani nei confronti di ogni
opera umana che vorrebbe essere assolutamente perfetta o
eterna. Aggiungiamo che il tappeto di Ctesifonte
rappresentava il paradiso terrestre, sicché la sua
spartizione fra i compagni del Profeta non è priva di
significato spirituale.
Osserviamo inoltre: nonostante che il mondo dell’Islam –
che più o meno abbraccia l’antico impero di Alessandro
Magno3 – comprenda molti popoli con un lungo passato
sedentario, le ondate etniche che periodicamente hanno
rinnovato la vita di quei popoli, imponendo loro la propria
dominazione e le proprie preferenze, sono sempre state di
origine nomade: arabi, selgiuchidi, turchi e mongoli.
Generalmente l’Islam mal si allea con la «solidificazione»
cittadina e borghese.4
Le tracce della mentalità nomade sono presenti anche
nell’architettura, che di per sé è connessa con la cultura
sedentaria: elementi costruttivi come pilastri e colonne,
archi e portali, nonostante l’unità dell’insieme, posseggono
una certa autonomia; non c’è continuità organica fra le
diverse membrature di un edificio. Quando si vuole evitare
la monotonia – che però non sempre viene considerata un
male – si preferisce l’alternanza netta alla graduale
differenziazione di una serie di elementi analoghi. Le
«stalattiti» in stucco pendenti dagli archi e i reticolati di
arabeschi che «tappezzano» i muri conservano
innegabilmente qualche reminiscenza della «mobilia»
nomade, fatta di tappeti e di tende.
La moschea primitiva, costituita da una vasta sala di
preghiera con il tetto orizzontale e sostenuto da un palmeto
di colonnine, è assai vicina all’ambiente nomade. Anche
un’architettura sapiente come quella della moschea di
Córdoba, con le sue arcate sovrapposte, ricorda ancora il
palmeto.
Il mausoleo a cupola e con la base quadrata, per la
concisione della forma corrisponde allo spirito nomade.
A differenza della chiesa o del tempio, la sala di
preghiera musulmana non ha un centro cui indirizzare il
culto. L’adunanza
«concentrica» dei fedeli, che caratterizza
le comunità cristiane, nell’Islam diventa visibile soltanto
nel pellegrinaggio alla Mecca, nel momento della preghiera
collettiva intorno alla Ka‘ba. Altrimenti i musulmani,
dovunque si trovino, pregando si rivolgono a quel centro
lontano, esterno alle mura della moschea. Ma la Ka‘ba
stessa non rappresenta un centro sacramentale
paragonabile all’altare cristiano: essendo vuota, non
contiene neppure un simbolo, che sarebbe sempre un
supporto immediato del culto.5 Questo è un fattore
essenziale dell’atteggiamento spirituale dell’Islam: mentre
la pietà cristiana gravita irresistibilmente su un centro
concreto – il «Verbo incarnato» è un centro così nello
spazio come nel tempo; un centro è pure il sacramento
eucaristico –, il musulmano attinge la conferma della
presenza divina da una sensazione di illimitatezza; egli
rifiuta ogni oggettivazione del Divino, tranne quella che gli
dà lo spazio illimitato.
Tuttavia, anche l’architettura musulmana conosce una
pianta concentrica, ed è il mausoleo coperto da una cupola.
Se ne ha il prototipo tanto nell’arte bizantina quanto
nell’arte asiatica, dove simboleggia l’unione del cielo con la
terra; il basamento rettangolare corrisponde infatti alla
terra e la cupola sferica al cielo. L’arte musulmana ha fatto
suo questo tipo architettonico riducendolo alla formula più
pura ed evidente: tra il basamento cubico e la cupola più o
meno ogivale di solito si inserisce un «tamburo»
ottagonale. La forma eminentemente perfetta e intelligibile
di un tale edificio può ben dominare tutta l’incerta,
fluttuante distesa di un paesaggio desertico. Come
mausoleo di un santo, è effettivamente un centro spirituale
del mondo.
Il genio geometrico che con tanta potenza si afferma
nell’arte musulmana discende in via diretta dalla forma di
speculazione favorita dall’Islam, una forma che è «astratta»
ma non «mitologica». Ora, la complessità interna dell’unità
– passaggio dall’unità indivisibile all’«unità nella
molteplicità» o alla «molteplicità nell’unità» – non può
trovare un simbolo visuale migliore della serie delle figure
geometriche regolari contenute nel cerchio o dei poliedri
regolari contenuti nella sfera.
Il tema architettonico della cupola a vele, poggiante
secondo gli schemi più diversi su un basamento
rettangolare, è
stato riccamente sviluppato nei paesi
musulmani dell’Asia Minore e risale all’arte di costruire in
mattoni. È probabile che lo spirito speculativo
dell’architettura gotica ne abbia ricavato i primi
suggerimenti.
Il senso del ritmo, innato nei popoli nomadi, e il genio
geometrico sono i due poli che, trasposti nell’ordine
spirituale, informano tutta l’arte musulmana. La ritmica
nomade ebbe la sua più immediata espressione nella
metrica araba, che estese la propria influenza sino ai
trovatori cristiani, mentre la geometria speculativa risale a
quell’eredità pitagorica che il mondo musulmano raccolse
direttamente.
 

3. - Per il musulmano l’arte è una «prova dell’esistenza


divina» soltanto nella misura in cui è bella senza recar
traccia di un’ispirazione soggettiva, individuale; la sua
bellezza deve essere impersonale come quella di un cielo
stellato. E in effetti l’arte musulmana attinge una sorta di
perfezione che sembra indipendente dal suo autore, le cui
glorie e difetti spariscono davanti al carattere universale
delle forme.
Ovunque l’Islam abbia assimilato un tipo di architettura
preesistente, in terra bizantina come in Persia o in India, ne
ha sviluppato gli elementi formali dando loro una
precisione geometrica il cui carattere qualitativo – e non
quantitativo o meccanico – si afferma per l’eleganza delle
soluzioni architettoniche. Senza alcun dubbio, il contrasto
fra l’architettura autoctona e l’ideale artistico dei
conquistatori musulmani si manifestò con maggior forza in
India: l’architettura indù è a un tempo lapidaria e
complessa, elementare e ricca come una montagna sacra
dalle misteriose caverne; l’architettura islamica tende alla
chiarezza e alla sobrietà. Allorché l’arte musulmana
incidentalmente si appropria di elementi dell’architettura
indù, ne riduce la potenza ctonia a vantaggio dell’unità e
della leggerezza dell’insieme.6 Alcuni edifici islamici
dell’India si annoverano tra i più perfetti che esistano:
nessun’altra architettura li ha mai superati.
Ma l’architettura dell’Islam è più fedele al proprio genio
nel Maghreb, l’Occidente del mondo musulmano. In
Algeria, in Marocco e in Andalusia essa realizza quello
stato di perfezione
cristallina che fa dell’interno di una
moschea – o di un palazzo – un’oasi di freschezza, un luogo
di beatitudine limpida e quasi sepolcrale.7
L’assimilazione dei modelli bizantini da parte dell’arte
musulmana si estrinseca con particolare eloquenza nelle
variazioni turche sul tema della Hagia Sophia. Questa è
costituita da un’immensa cupola centrale fiancheggiata da
due semicupole ampliate da numerose absidi a volta. Il
tutto forma uno spazio disuguale, più ampio su un asse che
sull’altro, un ambiente con proporzioni quasi inafferrabili,
come indefinite per l’assenza di articolazioni evidenti. Gli
architetti musulmani che, come Sinān, hanno ripreso il
tema della cupola centrale con cupole adiacenti sono
pervenuti a nuove soluzioni dettate da una concezione più
rigorosamente geometrica. Particolarmente geniale quella
della moschea di Selim ad Adrianopoli, la cui vastissima
cupola poggia su un ottagono formato da pareti
alternamente verticali e a volta absidata; ne risulta un
sistema di facce piane o curve con angoli di congiunzione
nettamente disegnati. Questa trasformazione del piano
della Hagia Sophia è paragonabile alla lavorazione di una
pietra preziosa, resa più regolare e brillante dalla politura.
Vista dall’interno, la cupola di tale moschea non si perde
nell’indefinito e neppure pesa sui suoi elementi di sostegno.
Nell’architettura musulmana nulla tradisce lo sforzo; non
c’è tensione né antitesi alcuna tra il cielo e la terra. «Non si
ha, come nella Hagia Sophia, la sensazione del cielo che
discende dall’alto, né la spinta ascensionale della
cattedrale gotica. Il punto culminante della preghiera
musulmana è il momento in cui la fronte del credente
prosternato sul tappeto tocca il suolo, che è come una
superficie di specchio che annulla il contrasto dell’alto e del
basso e che fa dello spazio un’unità omogenea, senza
tendenza particolare. Proprio per la sua immobilità,
l’interno di una moschea si distingue da ogni cosa effimera.
L’Infinito non è raggiunto con una trasformazione
attraverso un’antitesi dialettica; per questa architettura
l’aldilà non è unicamente un fine, ma è vissuto qui e adesso,
in una libertà statica; è un riposo svincolato da ogni
aspirazione, poiché la sua onnipresenza è incorporata
nell’edificio simile al diamante».8
L’esterno delle moschee turche è caratterizzato dal
contrasto fra l’emisfero della cupola, più evidente che nella
Hagia Sophia, e le guglie dei minareti: è una sintesi di
riposo e di vigilanza, di sottomissione e di testimonianza
attiva.
 

4. - Nell’arabesco, creazione tipica dell’Islam, il genio


geometrico si combina con il genio nomade. L’arabesco
costituisce una sorta di dialettica dell’ornamento, in cui la
logica si allea con la continuità vivente del ritmo. Tale
dialettica implica due elementi fondamentali: l’intreccio e il
motivo vegetale. Il primo si ricollega essenzialmente alla
speculazione geometrica, mentre il secondo è una specie di
grafica del ritmo: composto da forme spiraloidi, deriva
forse da un simbolismo puramente lineare più che da
modelli vegetali. Ornamenti di forma spiraloide – animali
araldici e tralci – si reperiscono, del resto, nell’arte dei
nomadi asiatici; ne è un esempio mirabile l’arte degli Sciti
(fig. 24).
Fig 24: Esempio di arte scitica (ornamento di metallo).

Gli elementi dell’arte decorativa musulmana sono attinti


da quella ricca eredità arcaica che era comune ai popoli
dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Europa settentrionale e
che riemerse alla superficie allorché parve dileguare
l’Ellenismo con la sua arte essenzialmente antropomorfa.
L’arte cristiana medioevale accolse anch’essa tale
patrimonio giunto attraverso il folclore dei popoli immigrati
dall’Asia, nonché attraverso l’arte
insulare celtica e
sassone, che rappresenta una delle sintesi più stupefacenti
dei motivi preistorici. Ma nel mondo cristiano tale eredità
fu ben presto sommersa e diluita dall’influsso dei modelli
greco-romani assimilati dal cristianesimo. Lo spirito
islamico ha un’affinità più stretta con tutta la grande
corrente delle forme arcaiche, che implicitamente
corrispondono al suo cosciente ritorno verso un ordine
primordiale delle cose, la cosiddetta «religione
primordiale» (dīnal-fiṭrah). L’Islam assimila questi elementi
arcaici riducendoli alle loro formulazioni più astratte e più
generali; in un certo senso li livella, e ciò facendo li priva di
ogni carattere magico; in compenso comunica a essi una
nuova lucidità intellettuale, starei per dire un’eleganza
spirituale (figg. 25 e 26).
Fig. 25: A sinistra: due linguette di cinture nomadi, trovate in
Ungheria. A destra: due spille dell’epoca delle migrazioni, trovate
nell’Europa centrale.

L’arabesco risultante da tale sintesi ha altre analogie


nella retorica e nella poesia arabe: è un andamento ritmico
del pensiero che si precisa con paralleli e inversioni
rigorosamente concatenate. Lo stesso Corano fa uso di
questi mezzi espressivi, che nel suo linguaggio si risolvono
in elementi di algebra spirituale
e in ritmi d’incantamento.
Così la testimonianza divina del roveto ardente, affidata
nella Bibbia ebraica alle parole: «Io sono colui che è», nel
Corano è resa con la parafrasi: «Io sono Dio, non vi è altra
divinità all’infuori di me».
Fig. 26: Motivo ornamentale di una marmitta di nomadi del
Daghestan.

Schematizzando, direi che per il musulmano l’arabesco


non è soltanto una possibilità di fare arte senza produrre
immagini ma è, più direttamente, un mezzo per dissolvere
l’immagine o quel che le corrisponde nell’ordine mentale,
così come la ripetizione ritmica di certe formule coraniche
distoglie la mente da un dato oggetto del desiderio.
Nell’arabesco ogni reminiscenza di una forma individuale è
vanificata dalla continuità di una tessitura indefinita.
L’iterazione dei motivi, lo sfavillante movimento delle linee
e l’equivalenza ornamentale delle forme sporgenti o
rientranti, rilevate o scavate, e inversamente analoghe,
concorrono a tale effetto; così come alla vista di onde
scintillanti o di un fogliame fremente nel vento l’anima si
libera dei suoi oggetti interiori, degli «idoli» della passione
e si rituffa, vibrante in se stessa, in un puro stato di essere.
Le pareti di alcune moschee, coperte di mosaici di
maiolica o d’un «tessuto» di fini arabeschi in stucco,
richiamano il simbolismo della tenda o cortina (hijāb):
secondo la parola del Profeta, Dio si nasconde dietro
settantamila cortine di luce e di tenebre: «Se venissero
sollevate, tutto ciò che il suo sguardo raggiunge sarebbe
consumato dalle folgorazioni del suo volto». Le cortine sono
fatte di luce in quanto nascondono
l’«Oscurità» divina, e
sono fatte di tenebre in quanto velano la Luce divina.
 

5. - L’Islam considera se stesso come il rinnovamento di


una religione primordiale dell’umanità. Con la mediazione
dei profeti o «inviati», la Verità divina è stata rivelata alle
epoche e ai popoli più diversi. Il Corano non è che l’ultima
conferma, il «sigillo» di tutte le numerose rivelazioni la cui
catena risale fino ad Adamo e di cui il giudaismo e il
cristianesimo fanno parte allo stesso titolo delle precedenti
rivelazioni.
Grazie a tale prospettiva l’Islam ha potuto assimilare
l’eredità di tradizioni più antiche, spogliandola di ogni
rivestimento mitologico e rivestendola di espressioni più
«astratte», più conformi alla sua pura dottrina dell’unità.
Sicché quelle tradizioni artigianali che nei paesi dell’Islam
si sono protratte fino alle soglie del nostro tempo
pretendono generalmente di risalire a certi profeti
preislamici, soprattutto a Set, il terzo figlio di Adamo, che
ristabilì l’equilibrio cosmico dopo l’uccisione di Abele per
mano di Caino. Ora, Abele rappresenta il nomadismo,
l’allevamento del bestiame, e Caino il sedentarismo, la
coltivazione della terra. Set è dunque sinonimo della sintesi
delle due correnti.9
D’altra parte, i prototipi preislamici conservati dalle
tradizioni artigianali hanno trovato la loro conferma in
certe parabole del Corano e in certi racconti del Profeta,
allo stesso modo che le tradizioni precristiane assimilate
dal cristianesimo sono state ricollegate alle parabole
evangeliche che hanno analogia con esse.
Parlando della sua ascensione al cielo (mirāj), il Profeta
descrive una cupola immensa, tutta di madreperla bianca e
poggiante su quattro pilastri angolari su cui si leggono le
quattro parole della bismallāh coranica: «Nel nome di Dio
misericordioso e clemente», e da cui fluiscono i quattro
fiumi della beatitudine: d’acqua, di latte, di miele e di vino.
Questa parabola rappresenta il modello spirituale di ogni
edificio a cupola. La madreperla o perla bianca è simbolo
dello Spirito (ar-rūh), la cui «cupola» abbraccia tutta la
creazione. Lo Spirito universale, che fu creato prima di
ogni altra creatura, è anche
il Trono divino che comprende
tutte le cose (al-‘arsh al-muhīt). Questo Trono ha per
simbolo lo spazio invisibile estendentesi al di là del cielo
stellato: dal punto di vista terrestre, che è naturale per
l’uomo e il cui simbolismo è immediato, gli astri si muovono
in sfere concentriche variamente lontane dalla terra e
circondate dallo spazio illimitato, che è a sua volta
«compreso» dallo Spirito universale in quanto «luogo»
metafisico di ogni percezione o conoscenza.
Come la cupola di un edificio sacro rappresenta lo Spirito
universale, così il tamburo ottagonale che la sostiene
simboleggia gli otto angeli «portatori del Trono», che a loro
volta corrispondono alle otto direzioni della «rosa dei
venti»; la parte cubica dell’edificio rappresenta il cosmo, i
cui quattro pilastri angolari (arkān) sono gli elementi in
quanto principi sottili e insieme corporei.
L’insieme dell’edificio esprime l’equilibrio, che è il riflesso
dell’unità divina nell’ordine cosmico. Tuttavia, siccome
l’unità è sempre identica a se stessa, a qualunque grado la
si contempli, la forma regolare dell’edificio può esser anche
trasposta in divinis: quindi la parte poligonale della
costruzione corrisponde alle «facce» delle qualità divine
(aṣ-ṣifāt), mentre la cupola richiama l’unità indifferenziata.10
Una moschea comprende ordinariamente un cortile con
una fontana, dove i fedeli possono fare le abluzioni prima di
compiere le preghiere. La fontana è talvolta coperta da una
piccola cupola a baldacchino. Il cortile con la fontana, al
pari del giardino chiuso irrigato da quattro corsi d’acqua
sgorganti e defluenti dal suo centro, sono fatti a immagine
del paradiso, giacché il Corano parla dei Giardini della
Beatitudine, dove zampillano delle sorgenti, una o due per
ciascuno dei giardini abitati da vergini celesti. Il paradiso
(jannah) è per sua stessa natura nascosto e segreto e
corrisponde al mondo interiore, al più profondo dell’anima.
E proprio a questo mondo interiore deve assomigliare la
casa musulmana con il suo cortile interno circondato da
muri ai quattro lati, o con il suo giardino chiuso dove è un
pozzo oppure una fontana. La casa è il sacratum (hāram)
della famiglia e il regno della donna, in cui l’uomo non è
che un ospite. La sua forma quadrata corrisponde inoltre
alla legge musulmana sul matrimonio, che permette
all’uomo di sposare fino a quattro donne a condizione che
offra loro i medesimi benefici. La casa islamica è
perfettamente chiusa verso il mondo esterno – la vita
familiare è staccata dalla comune vita sociale – ed è aperta
solo in alto, verso il cielo che si riflette, in basso, nella
fontana del cortile.
 

6. - Lo stile spirituale dell’Islam si esprime anche


nell’abbigliamento, in particolare nel costume maschile dei
popoli autenticamente musulmani. La funzione del vestito è
molto importante perché nessun ideale artistico fissato in
immagini può sostituire né relativizzare la figura vivente
dell’uomo, in cui si manifesta la sua dignità primordiale. In
un certo senso l’arte del vestire è collettiva e persino
popolare, ed è anche, seppure indirettamente, un’arte
sacra. Infatti il vestito maschile musulmano è in un certo
senso un costume sacerdotale generalizzato, così come
l’Islam ha generalizzato il sacerdozio abolendo la gerarchia
e facendo di ogni credente un sacerdote: ogni musulmano
può compiere da solo i riti essenziali della sua tradizione;
ognuno, purché le sue facoltà mentali siano integre e la sua
vita sia conforme alla religione, può, in via di principio,
presiedere come īmān a una comunità più o meno grande.
L’esempio della legge mosaica dimostra che il costume
sacerdotale fa parte dell’arte sacra nel significato più
rigoroso del termine. Il suo linguaggio formale è
determinato dalla doppia natura della forma umana, che è
il simbolo più diretto di Dio, pur essendo, per il suo accento
egocentrico e soggettivo, il velo più denso davanti alla
presenza divina. L’abito ieratico dei popoli semitici
nasconde l’aspetto individuale e soggettivamente
«passionale» del corpo umano, ma ne svela le qualità
«teofore», le fa risaltare combinando le loro tracce
microcosmiche, più o meno schermate dalla polivalenza
della forma umana, con quelle macrocosmiche; esso unisce
dunque nel suo simbolismo la manifestazione «personale»
di Dio con la sua manifestazione «impersonale»,
proiettando nella forma complessa e corruttibile dell’uomo
la bellezza semplice e incorruttibile degli astri. Il disco
d’oro che il gran sacerdote dell’Antico Testamento reca sul
petto corrisponde al sole; le pietre
preziose che adornano
le diverse parti della sua persona, distribuite secondo i
centri sottili della Shechinah, rappresentano le stelle, il
copricapo imita le «corna» della luna crescente, e le frange
della veste richiamano la rugiada o la pioggia della Grazia.11
Il paramento liturgico cristiano perpetua questo linguaggio
formale, riconnettendolo alla funzione sacerdotale del
Cristo, sacrificatore e vittima sacrificale a un tempo.12
Mentre i paramenti sacerdotali hanno un carattere solare,
la veste del monaco è intesa soltanto a cancellare l’aspetto
individuale e sensuale del corpo.13 L’abbigliamento laico
invece, a eccezione delle insegne dei re consacrati e degli
emblemi araldici dei nobili,14 è dettato semplicemente dalla
necessità fisica o dalla mondanità. Il cristianesimo
distingue perciò fra il sacerdote, che in virtù della sua
funzione impersonale partecipa alla gloria del Cristo, e il
profano, il cui abbigliamento non può essere altro che
vanità e che si inserisce nello stile formale della tradizione
soltanto sotto le vesti del penitente. A questo proposito va
notato che l’abbigliamento maschile odierno tradisce una
strana inversione di tali qualità: la negazione del corpo,
della sua flessuosità e bellezza naturale, diventa la
espressione di un nuovo individualismo, ostile alla natura e
carico di un odio istintivo verso ogni gerarchia.15
Il costume maschile musulmano è una sintesi del vestito
sacerdotale e di quello monastico e afferma al tempo stesso
la dignità virile. Secondo la parola del Profeta,16 il turbante
indica la dignità spirituale, dunque sacerdotale, come pure
il colore bianco della veste, il mantello a larghe pieghe e
l’haik che avvolge la testa e le spalle. Certi vestiti propri
degli abitanti del deserto sono stati generalizzati e
«stilizzati» con una finalità spirituale. Il carattere
monastico si afferma invece nella semplicità del costume
musulmano e nella proibizione più o meno rigorosa17 dei
gioielli d’oro e della seta; oro e seta possono portarli solo le
donne, ma non in pubblico: esse possono abbigliarsene
soltanto in casa, simbolo del mondo interiore dell’anima.
L’abolizione del turbante è dovunque il primo segno del
declino della tradizione islamica; segue l’abbandono delle
vesti ampie e sciolte che facilitano i gesti della preghiera
rituale. La campagna che in certi paesi arabi si conduce a
favore
del cappello mira direttamente all’abolizione dei riti,
giacché la tesa del cappello impedisce alla fronte di toccare
il suolo al momento della prosternazione; il berretto a
visiera, con il suo tono particolarmente profano, non è
certo meno ostile alla tradizione. La necessità di adottare
tale abbigliamento a causa dell’impiego delle macchine
prova semplicemente, dal punto di vista dell’Islam, che la
macchina allontana l’uomo dal suo centro esistenziale, dove
egli è «in piedi davanti a Dio».
La descrizione dell’abbigliamento musulmano non
sarebbe completa senza un cenno alla «veste sacra»
(ihrām) che il pellegrino porta durante il grande
pellegrinaggio (al-ḥajj) nel territorio sacro che comprende
la Mecca. Il pellegrino veste soltanto due pezzi di stoffa
senza cuciture, annodati intorno alle spalle e alle reni, e
calza i sandali. Esponendosi così al sole intenso, egli
intende dimostrare la sua povertà davanti a Dio.
 

7. - La più nobile arte visuale nel mondo dell’Islam è la


calligrafia; in particolare, la scrittura coranica costituisce
l’arte sacra per eccellenza. La sua funzione è in qualche
modo analoga a quella dell’icona nell’arte cristiana, poiché
rappresenta il corpo visibile della Parola divina.18
Nelle iscrizioni sacre le lettere arabe si combinano
naturalmente con l’arabesco – soprattutto con il motivo
vegetale –, che è così ricollegato al simbolismo asiatico
dell’Albero del Mondo, le cui foglie corrispondono alle
parole del Libro sacro. La calligrafia araba implica di per sé
possibilità ornamentali inesauribili: le sue modalità variano
dal monumentale kufī a forme rettilinee e a cesure
verticali, fino al naskhī dall’andamento serpentino
fluidissimo. La ricchezza della scrittura araba deriva
dall’aver sviluppato pienamente le sue due «dimensioni»: la
verticale, che conferisce alle lettere dignità ieratica, e
l’orizzontale che le unisce in un continuo fluire. Come nella
simbologia della tessitura, le linee verticali della scrittura,
analoghe all’«ordito», corrispondono alle essenze
permanenti degli esseri – infatti nella verticale si afferma il
carattere inalterabile di ogni lettera –, mentre l’orizzontale,
analoga alla «trama», esprime il divenire o la materia che
unisce
le cose fra loro. Tali significati sono particolarmente
trasparenti nella calligrafia araba, i cui tratti verticali
trascendono e misurano l’andamento ondeggiante dei
filetti.
La scrittura araba procede da destra a sinistra, quanto
dire che la scrittura rifluisce dal campo dell’azione verso il
cuore. Tra le scritture fonetiche di origine semitica, l’araba
è quella che visualmente si differenzia di più dall’ebraica:
l’ebraica è statica come le pietre delle Tavole della Legge,
pur essendo piena del fuoco latente della presenza divina,
l’araba invece manifesta l’unità con l’ampiezza del ritmo:
più l’ampiezza del ritmo è grande, più la sua unità diviene
evidente.
I fregi di iscrizioni che coronano i muri interni di una sala
di preghiera o che cingono il mihrāb evocano al fedele, sia
con il significato sia con il ritmo e la forma ieratica, il fiume
maestoso e possente della Parola coranica.
Vi si ritrova il riflesso plastico di quell’incantamento
divino che permea tutta la vita musulmana e la cui
ricchezza espressiva – onde che si rinnovano senza posa e
ritmi inimitabili – compensa la semplicità non esprimibile
del suo contenuto, che è l’unità. Immutabilità dell’idea e
flusso perenne della parola: geometria architettonica e
ritmo indefinito della decorazione.
Il mihrāb è la nicchia orientata verso la Mecca, il luogo
dove l’īmān recita la preghiera rituale stando davanti alle
file dei credenti che ripetono i suoi gesti. La nicchia ha
anzitutto la funzione acustica di riverberare le parole in
direzione della Mecca. Al tempo stesso è come una
reminiscenza del coro o dell’abside, del «Santo dei Santi»,
di cui riproduce la forma generale in proporzioni ridotte.
Questa analogia è confermata simbolicamente dalla
presenza della lampada sospesa dinanzi alla nicchia della
preghiera;19 la lampada richiama la «nicchia delle luci» di
cui parla il Corano: «Dio è la Luce dei cieli e della terra. La
sua Luce è come quella di una lampada collocata in una
nicchia entro un vaso di cristallo simile a una scintillante
stella...».20 Si direbbe quasi un punto d’incontro fra le
simbologie della moschea, del tempio cristiano, del tempio
giudaico e forse anche del tempio parsi.
Tornando alla funzione acustica della nicchia della
preghiera, la riverberazione della Parola divina nel
momento della
preghiera fa del mihrāb un simbolo della
presenza di Dio; quindi il simbolismo della lampada diviene
puramente accessorio, «liturgico».21 Il miracolo dell’Islam è
la Parola divina rivelata direttamente nel Corano e
«attualizzata» dalla recitazione rituale. Ciò inquadra con
molta esattezza l’atteggiamento iconoclastico dei
musulmani: la Parola divina deve rimanere mera
espressione verbale e per ciò stesso istantanea e
immateriale, come l’atto creatore; soltanto così conserverà
intatto il suo potere evocativo, senza subire l’usura che in
qualche modo la materia tangibile comunica alla natura
delle arti plastiche, alle loro forme trasmesse di
generazione in generazione. Manifestata nel tempo ma non
nello spazio, la Parola si sottrae all’alterazione che il tempo
infligge alle cose spaziali: lo sanno anche i nomadi, i quali
non vivono di immagini ma della parola. Questa economia
dell’espressione, naturale per i popoli migratori e per quelli
semitici in particolare, l’Islam la traspone nell’ordine
spirituale.22 In compenso, esso conferisce all’ambiente
umano, specie all’architettura, quel carattere di sobrietà e
di trasparenza intellettuale, che ricorda come ogni cosa sia
un’espressione della Verità divina.
Capitolo quinto

L’IMMAGINE DEL BUDDHA

1. - L’arte buddista deriva dall’arte indù per una sorta di


trasmutazione alchemica, che per così dire «liquefa» la
mitologia cosmica dell’India e ne fa immagini di stati
d’animo e, per altro verso, «cristallizza» l’elemento più
sottile dell’arte indù, per esempio la qualità quasi spirituale
del corpo umano nobilitato dalla danza sacra, chiarificato
dai metodi yoga e come saturo di una coscienza senza limiti
mentali. Tutto questo l’immagine del Buddha condensa in
una formula altissima, destinata ad assorbire in sé tutta le
beatitudine inerente all’antica arte dell’India e a divenire il
tema centrale intorno a cui rotea ogni altra immagine.
La persona del Buddha e il loto – due forme ricavate
dall’arte indù – esprimono la medesima cosa: l’immensa
calma dello Spirito risvegliato a se stesso. In tali forme si
racchiude tutto l’atteggiamento spirituale del buddismo, si
potrebbe anche dire il suo atteggiamento psicofisico che
sorregge la realizzazione spirituale.
L’immagine dell’Uomo divino assiso sul loto è un motivo
indù: si è già visto che l’altare vedico contiene, murata,
l’immagine schematica di un uomo d’oro (hiraṇyapuruṣa):
essa è posta su un disco d’oro, che a sua volta poggia su
una foglia di loto. È un simbolo di Puruṣa, l’Essenza divina
in quanto essenza eterna dell’uomo, ed è anche immagine
di Agni, il figlio degli dèi, per mezzo del quale Prajāpati,
l’Universo, si realizza nella sua totalità originale. Puruṣa ha
tutti questi aspetti; egli si manifesta a ogni grado
dell’esistenza, secondo le leggi insite in ciascun grado e
senza patire alterazione in se stesso. Agni è il germe
spirituale dal quale si dispiegherà la natura universale
dell’uomo: proprio a indicare questo è nascosto nell’altare,
così come è nascosto nel cuore dell’uomo. Agni nasce dalle
acque primordiali, dall’insieme delle possibilità virtuali
dell’anima o del mondo; appunto questo indica il loto che lo
sostiene.
L’arte buddista ha perpetuato il simbolo indù dell’uomo
d’oro, seppure ne neghi in apparenza il contenuto. Di
Puruṣa, dicono i Veda, sono fatti tutti gli esseri: la dottrina
indù afferma dunque un’Essenza infinita di cui ogni cosa è
il riflesso, mentre la dottrina buddista tace sull’Essere o
sull’essenza delle cose e sembra negare ogni divinità.
Invece di partire da un principio supremo, paragonabile al
vertice di una piramide costituita da tutti gli stati
esistenziali – così infatti si presenta l’universo secondo una
prospettiva teocentrica –, essa procede solo per negazioni,
come se, partendo dall’uomo e dal suo nulla, proiettasse
una piramide che ha il vertice in basso e va aprendosi
indefinitamente verso l’alto, sul vuoto. Ma nonostante tale
inversione prospettica, la quintessenza delle due tradizioni
è la medesima. I loro punti di vista differiscono in questo:
l’induismo considera le realtà divine «oggettivamente», in
quanto si riflettono nella mente; tale riflessione, al di fuori
e indipendentemente dalla immediata realizzazione
spirituale di quelle realtà, è possibile a causa della natura
universale dell’intelletto; il buddismo non cerca l’essenza
dell’uomo – o l’essenza delle cose – se non per via
«soggettiva», cioè attraverso, e soltanto attraverso, la sua
realizzazione spirituale, e respinge come falsa e illusoria
ogni affermazione puramente speculativa della Realtà
sopraformale. Questo atteggiamento è giustificato1 dal fatto
che l’oggettivazione mentale della Realtà divina può
rappresentare in molti casi un ostacolo per la sua
realizzazione. Infatti ogni riflessione implica un’inversione
rispetto al suo modello originale – lo prova l’esempio della
piramide che si restringe verso il vertice, simbolo del
principio – e il pensiero delimita e paralizza in un certo
senso la coscienza; al tempo stesso il pensiero su Dio si
colloca apparentemente fuori dal proprio oggetto, mentre
Dio è infinito e nulla può pretendere a una realtà che non
sia lui. Ogni pensiero sull’Assoluto è quindi viziato da una
prospettiva fallace. Per tale ragione il Buddha dice di non
insegnare nulla circa l’origine del mondo o dell’anima, ma
di mostrare soltanto la sofferenza e la via che ce ne libera.
Questa posizione negativa della dottrina fa sì che l’arte
buddista non possa, per principio, raffigurare se non
l’aspetto umano del Gautama, caratterizzato da tutti i segni
della sua rinuncia al mondo: spogliato dei suoi attributi
regali, seduto nella posa della meditazione, egli tiene nella
sinistra la ciotola del mendicante, simbolo del suo
abbandono al non-io, mentre con la destra tocca la terra
per affermare il suo dominio spirituale su di essa: è
l’immagine fondamentale del Buddha. Ma questa figura di
asceta, che non può non evocare antichi modelli indù, ha
condensato in sé, malgrado la sua spoliazione, tutta la
potenza solare di quell’antica arte. Nell’immagine del
Sakyamuni che rinuncia al mondo pare incarnarsi un
qualche dio della luce, allo stesso modo che il Buddha
storico, con la sua vittoria sul divenire, aveva assunto in sé
tutta la compiutezza indivisa dell’esistenza.
In certe figurazioni del paradiso buddista il trono di loto
del Tathāgata emerge da uno stagno, così come Agni nasce
dalle acque primordiali. Il loto, assieme all’immagine
umana del Beato, diventerà il principale tema dell’arte
buddista, che in un certo senso è interamente contenuta tra
questi due poli. La forma del loto esprime in maniera
diretta, «impersonale» e sintetica ciò che la forma umana
del Buddha manifesta in maniera più «personale» e
complessa. Del resto, per la sua simmetria e per la sua
compiutezza statica, la forma umana si avvicina a quella del
loto. Il Buddha è infatti chiamato «il gioiello nel loto» (mani
padmē).
Per l’induismo il loto simboleggia soprattutto l’universo
nel suo aspetto passivo, come trono o ricettacolo della
manifestazione divina, mentre il buddismo lo paragona
soprattutto all’anima che si schiude da uno stato oscuro e
informe – il fango e l’acqua – alla luce della bodhi
(«coscienza»); ma l’universo e l’anima si corrispondono. Il
loto tutto aperto assomiglia d’altronde alla ruota, che è
anche un simbolo del cosmo o dell’anima e i cui raggi uniti
dal mozzo significano le direzioni dello spazio o le facoltà
dell’anima unite dallo spirito.
Quando il Buddha Sakyamuni si levò dalla lunga seduta
meditativa sotto l’Albero della Bodhi, libero dalla tirannia
della vita e della morte, fiori di loto meravigliosi
sbocciarono sotto i suoi passi. Egli si diresse verso le
quattro regioni dello spazio
e si voltò sorridente verso lo
zenit e il nadìr;2 subito innumerevoli esseri celesti gli si
accostarono a prestargli omaggio. È un racconto che
implicitamente prefigura il trionfo del buddismo sul cosmo
indù, trionfo che si rifletterà nell’arte: le antiche divinità
abbandoneranno i loro troni sulla montagna eterna e d’ora
in poi graviteranno come altrettanti satelliti intorno alla
sacra immagine del Tathāgata; saranno soltanto ormai
simboli delle realtà psichiche o delle emanazioni
«magiche», più o meno effimere, del Buddha.
In compenso, il tipo del buddha si generalizza, acquista
un valore astorico, universale, fino ad imporsi come un
sigillo divino a tutti gli aspetti del cosmo. Così, i buddha
celesti del Mahāyāna, chiamati talvolta dhyāni-buddha,
regnano sulle dieci direzioni dello spazio, ossia le otto
direzioni della «rosa dei venti» e le due opposte direzioni
della verticale. Lo spazio fisico è qui l’immagine dello
spazio spirituale; le dieci direzioni simboleggiano i
principali aspetti o qualità della bodhi, e il centro da cui si
irraggiano tutte e dieci e a cui tutte e dieci si riconducono
come al loro principio è l’Inesprimibile. Quindi i buddha
celesti sono proiezioni spirituali dell’unico Buddha
Sakyamuni – e come tali qualche volta li si rappresenta
emananti dalla sua testa – e al tempo stesso sono i prototipi
di tutti i buddha incarnati. Questi diversi rapporti non si
escludono tra loro, giacché ogni buddha «contiene»
necessariamente tutta la buddità, pur manifestando in
particolare ora questo ora quello dei suoi aspetti
permanenti. «Una sola persona di buddha diviene più
buddha, e più buddha divengono uno solo».3 Da un lato, i
diversi dhyāni-buddha corrispondono ai diversi
atteggiamenti spirituali del Sakyamuni; dall’altro, lui stesso
fa parte del cosmo spirituale che essi costituiscono.
Secondo un certo punto di vista, egli è l’incarnazione del
Buddha Vajrochana, che sta nel mezzo della rosa cosmica e
il cui nome significa «Colui che effonde luce in ogni
direzione»; ma secondo un altro punto di vista, è una
incarnazione del Buddha Amitābha, «Colui che tutto
compatisce», il quale domina la direzione dell’ovest e ha
per satellite o paredro il bodhisattva Avalokitēsvara, poi
conosciuto dall’Estremo Oriente sotto il nome taoista di
Kwanyin (in cinese) o Kwannon (in giapponese).
I maṇḍala buddisti rappresentano questo cosmo
spirituale secondo l’antico schema del loto aperto,
richiamando così la molteplice manifestazione dell’Agni
vedico. Nell’iconografia, le immagini dei buddha o
bodhisattva che dominano le diverse parti della rosa
cosmica assomigliano tutte al tipo classico del Sakyamuni e
in genere non se ne distinguono che per i loro colori e
attributi rispettivi, oppure per i gesti (mudrā), che però
designano anche i vari atteggiamenti del Sakyamuni o le
varie fasi del suo insegnamento. Benché le direzioni dello
spazio corrispondano a taluni bodhisattva,4 il numero di
questi non è limitato; come dicono i Sūtra, essi sono tanti
quanti i granelli di sabbia del Gange e ognuno di loro
presiede a migliaia di mondi; inoltre, ogni buddha si riflette
in una pleiade di bodhisattva5 e possiede innumerevoli
«corpi magici»: sicché l’immagine fondamentale del
Buddha assiso sul loto e circondato da aureola può esser
variata all’infinito. Secondo una concezione simbolica
sviluppatasi in certe scuole speculative del Mahāyāna, la
misericordia sconfinata del Buddha è presente nelle
minime particelle del cosmo sotto forma di altrettanti
bodhisattva assisi sul loto. La medesima idea di una
manifestazione che si rinnova indefinitamente si esprime in
alcune immagini classiche del paradiso buddista, in cui
numerosi buddha o bodhisattva, analoghi gli uni agli altri,
posano su altrettanti fiori di loto che emergono da uno
stagno celeste oppure si schiudono sui rami di un grande
albero.6
Questa galassia di buddha compensa in qualche modo
l’assenza di una «teoria» nel vero significato del termine,
l’assenza cioè di una visione teocentrica del mondo. In altre
parole, il principio ontologico, che si differenzia
riflettendosi secondo una gerarchia discendente, è
sostituito dal tipo dell’asceta, o più esattamente del muni –
il liberato dalla corrente dell’esistenza –, il quale crea come
un’apertura sul «vuoto» e si diversifica secondo i modi
possibili della sua liberazione. La moltitudine dei buddha e
bodhisattva indica la relatività del ricettacolo umano: in
quanto persona manifestata, il Buddha si distingue
dall’unità originale. Non c’è nulla di assolutamente unico
nella sua manifestazione, sicché la differenziazione
indefinita del suo tipo è come il riflesso inverso
dell’indifferenziazione dell’Assoluto.
D’altro canto, nella misura in cui ogni bodhisattva si
riscatta dal divenire, ne acquista anche le qualità
soggiacenti: il suo «corpo di fruizione», il saṃbhogakaya, è
come una sintesi delle qualità cosmiche, mentre il suo
«corpo d’essenza», il dharmakaya, è al di là di ogni
qualificazione. «L’insieme dei bodhisattva emana dalla terra
ed esprime il corpo cosmico del Buddha».7 Il ricettacolo
della buddità si allarga dunque sino ad abbracciare
qualitativamente tutto l’universo manifesto; al tempo stesso
l’Infinito assume un aspetto «personale» unicamente
attraverso tale ricettacolo. Qui la prospettiva buddista si
salda con quella indù, poiché entrambe si intersecano come
i due triangoli inversamente analoghi del «sigillo di
Salomone».
In virtù di quest’incontro, l’iconografia del Mahāyāna fa
largo uso dei simboli che l’induismo riferisce ai diversi
aspetti divini, quali, per esempio, gli strumenti divini come
il vajra e persino la moltiplicazione delle teste e delle
braccia di un unico bodhisattva; né va dimenticato l’aspetto
tantrico dell’arte lamaista. Inversamente, è possibile che
l’iconografia indù abbia subito l’influsso del buddismo, dato
che il suo carattere antropomorfo si è sviluppato nel
periodo postbuddista.
Nell’arte del Hīnayāna – a Ceylon, in Birmania e nel Siam
– la sola immagine del Buddha terrestre, il Sakyamuni, si
ripete all’infinito. In assenza di un simbolismo metafisico –
che il Mahāyāna attinge all’eredità indù – l’icona hīnayāna
tende a ridursi a uno schema di estrema semplicità e
sobrietà, quasi tenendosi in uno stretto margine tra
l’immagine e la non-immagine, l’iconolatria e l’iconoclastia.
La sua iterazione evoca in qualche modo la serena e
maestosa monotonia dei Sūtra.
 

2. - Sebbene l’immagine del Sakyamuni abbia assunto il


carattere universale di un tipo, conserva tuttavia in
maggiore o minor misura una rassomiglianza con il
Sakyamuni storico proprio perché egli manifestava
necessariamente, in tutta la sua figura, l’idea della buddità.
Secondo la tradizione, fu lo stesso Tathāgata a lasciare alla
posterità la propria immagine. Nel Divyāvadāna, il re
Rudrāyaṇa o Udāyaṇa inviò al Beato dei pittori perché ne
facessero il ritratto, ma siccome quelli
si affannavano
inutilmente a coglierne la forma, il Buddha stesso disse che
l’impedimento stava nella loro fiacchezza spirituale e si
fece portare una tela su cui «proiettò» la propria
immagine.8 Questo episodio ricorda molto da vicino la
tradizione cristiana dell’icona acheiropóietos.9 In un altro
racconto, un discepolo del Tathāgata cercò invano di
disegnarne la figura; egli non riusciva a coglierne le
proporzioni perché ogni misura risultava troppo piccola.
Infine il Buddha gli ordinò di ricalcare i contorni della sua
ombra proiettata in terra. Questi due racconti intendono
sottolineare che l’immagine sacra si presenta come una
«proiezione» del Tathāgata stesso; in seguito torneremo su
tale aspetto della tradizione. La «misura» che sfugge
all’arte umana corrisponde, come la misura dell’altare
vedico, alla «forma» essenziale. Anche sotto questo aspetto
esiste un parallelo tra la concezione buddista e una certa
concezione cristiana: nel Medioevo si usava trasmettere la
«vera misura» del corpo di Gesù segnandola su strisce o su
colonne. Infine, secondo una terza fonte, il re Praseṇajit di
Śrāvastī – o il re Udāyaṇa di Kauśāmbī – avrebbe fatto
scolpire su legno di sandalo una statua del Buddha quando
questi era ancora in vita.
Conviene soffermarci brevemente sul carattere
apparentemente «aniconico» dell’arte buddista primitiva.
Sui bassorilievi di Sāñci e di Amarāvatī, che si annoverano
tra i primi monumenti scolpiti del buddismo, il Tathāgata
non è raffigurato nelle sue sembianze umane; la sua
presenza in mezzo ai discepoli e agli adoratori è significata
soltanto da emblemi come l’albero sacro adorno di gioielli o
la Ruota della Legge posta su un trono.10 Ma dall’assenza di
un ritratto scolpito in pietra non consegue necessariamente
l’assenza di un’immagine sacra scolpita in legno, né tanto
meno di un’icona dipinta. Si tratta infatti di differenti gradi
di estrinsecazione artistica; un’immagine tradizionale è,
entro certi limiti, vincolata a una tecnica regolarmente
trasmessa. La trasposizione dell’immagine piana
nell’immagine scolpita implica d’altronde una maggiore
«oggettivazione» del simbolo, non sempre desiderabile;11
tale rilievo vale anche per l’arte cristiana.12
Un atteggiamento di relativa iconoclastia sembra
indubbiamente presente nella predicazione del Buddha
stesso, almeno
nella sua prima predicazione pubblica, che
insiste esclusivamente sul rifiuto delle passioni e dei loro
agganci mentali e indica la buddità, cioè la natura
trascendente e sovrumana di un buddha, solo
indirettamente e con mere negazioni. Per esempio, il
Kālingabodhi Jātaka riferisce che il Beato proibì di erigere
un monumento (chetya) cui durante la sua assenza
avrebbero potuto rivolgersi l’adorazione e le offerte dei
fedeli.13 Ma di tutt’altro ordine è l’immagine data da
Buddha stesso con la miracolosa «proiezione» di sé, e il
racconto sacro che parla dell’incapacità dei pittori di
ottenere con i propri mezzi la somiglianza del Tathāgata, o
di coglierne le misure, risponde in anticipo all’argomento
iconoclastico: l’icona sacra è una manifestazione della
grazia del Buddha ed emana dal suo potere sovrumano
come espressione del suo voto di non entrare nel nirvāṇa se
non dopo aver liberato tutti gli esseri dal saṃsāra.14
Tutto questo sembra essere in contraddizione con la
dottrina del karma, secondo cui ogni salvezza risiede in
quella spoliazione interiore che arresta la ruota delle morti
e delle nascite e non è assolutamente possibile cogliere la
bodhi dall’esterno con la speculazione o con l’assimilazione
mentale dei simboli; ma solo quando verranno meno le
onde delle passioni la bodhi splenderà da sé. Tuttavia
questa non è che una «dimensione» del buddismo; questo
non sarebbe concepibile né efficace senza l’esempio
affascinante del Buddha in persona, senza il profumo
spirituale che si sprigiona dalle sue parole e dai suoi gesti,
insomma senza la grazia che il Tathāgata diffonde
sacrificando i propri meriti per il bene di tutti gli esseri.
Tale grazia, senza cui l’uomo non potrebbe trascendersi, è
effetto di quel voto iniziale con cui la volontà del Beato
spezzò tutti i vincoli che lo legavano alla volontà
individuale.15
D’altra parte, a ben considerare le cose si comprende che
i due aspetti del buddismo, la dottrina del karma ed il suo
carattere di grazia, sono inscindibili, perché mostrare la
vera natura del mondo è già trascenderlo, è manifestare
implicitamente lo stato immutabile, è aprire una breccia nel
sistema chiuso del divenire. E tale breccia è il Buddha
stesso; quindi tutto ciò che viene da lui trasmette l’influsso
della bodhi.
Nell’«epoca d’oro» del buddismo una rappresentazione
plastica del Tathāgata poteva essere superflua e persino
inopportuna
in un ambiente ancora fortemente improntato
d’induismo. Ma in seguito, quando la comprensione
spirituale e la volontà degli uomini si indebolirono e si
produsse una scissura tra il loro pensiero e la loro volontà,
tutti i mezzi di grazia, fra cui l’immagine sacra, divennero
non solo opportuni ma indispensabili; tale è il caso, in
particolare, di certe formule di invocazione che si trovano
come incastonate nei testi canonici e che in genere sono
state valorizzate soltanto a partire da un dato momento e
grazie a una convergenza di ispirazioni. Talune fonti
buddiste parlano per esempio di artisti che, essendosi
acquistati grandi meriti spirituali, furono trasportati nel
paradiso del Sakyamuni o Amitābha affinché ne potessero
ritenere e trasmettere l’immagine.16
Ammettiamo che non sia possibile provare la storicità di
un ritratto sacro come quello del Buddha; ma non è men
vero che tale immagine, nella sua forma tradizionale,
esprime l’essenza stessa del buddismo; diremo anzi che ne
costituisce uno degli argomenti più solidi.
 

3. - Il ritratto tradizionale del Buddha Sakyamuni si


fonda, da una parte, su un canone di proporzioni e,
dall’altra, sulla descrizione dei segni distintivi di un corpo
di buddha, così come risulta dalle Scritture (fig. 27).
In uno schema di proporzioni applicato nel Tibet17 i
contorni del corpo seduto, senza la testa, si inscrivono in un
quadrato che si riflette nel quadrato della testa;
analogamente, la superficie del petto, misurata tra le spalle
e l’ombelico, si riflette secondo una proporzione semplice
nel quadrato della faccia. Una proporzione decrescente
regola le altezze del torso, del viso e della protuberanza
sacra sull’occipite. Tale schema, di cui forse esistono
varianti, fissa l’aspetto perfettamente statico dell’insieme,
procura l’impressione di equilibrio incrollabile e sereno.
Esiste una segreta analogia tra l’immagine umana del
Buddha e la forma dello stūpa, ossia del reliquiario. Lo
stūpa rappresenta in un certo qual modo il corpo universale
del Tathāgata: i suoi vari piani, di forma quadrata in basso
e più o meno sferici in alto, simboleggiano i molteplici gradi
o livelli dell’esistenza. Questa gerarchia traspare in scala
minore anche nell’immagine umana del Buddha, il cui torso
ricorda la parte cubica dello stūpa, mentre la testa,
coronata dalla protuberanza della buddità, corrisponde alla
cupola sormontata dal pinnacolo.
Fig. 27: Schema delle proporzioni della «vera immagine» del
Buddha, secondo il disegno di un pittore tibetano (da M. PALLIS,
Peaks and Lamas).

I gesti delle mani risentono della scienza mudrā, che il


buddismo ereditò dall’induismo. In via generale, il
simbolismo dei gesti risulta dal fatto che la destra
corrisponde al polo attivo dell’universo o dell’anima,
mentre la sinistra rappresenta il polo passivo o ricettivo: è
la polarità dell’Essenza e della sostanza, di puruṣa e di
prakṛti, del Cielo e della terra, dello Spirito e della psiche,
della volontà e della sensibilità, eccetera. Sicché la
posizione reciproca delle mani può esprimere a un tempo
un aspetto fondamentale della dottrina, uno stato d’animo e
una fase o un aspetto del cosmo.
L’immagine del Buddha implica alcuni caratteri personali,
scrupolosamente conservati dalla tradizione, che si
inseriscono in un tipo ieratico, la cui forma generale, più o
meno definita o fissata, ha piuttosto la natura di un simbolo
che non quella di un ritratto. Agli occhi dei popoli
dell’Estremo Oriente, che hanno ricevuto dall’India
l’immagine tradizionale del Buddha, questa mantiene
sempre talune caratteristiche etniche specificamente
indiane, e ciò malgrado il tipo mongoloide assunto dalle
repliche cinesi e giapponesi. D’altra parte l’assimilazione
con il tipo mongoloide non toglie nulla all’espressione
originale dell’immagine; anzi, l’aspetto di calma
imperturbabile, di compiutezza statica e di serenità, viene
ancor meglio messo in evidenza dall’accostamento etnico.
Si potrebbe anche dire che la norma spirituale, di cui
l’immagine sacra del Buddha è veicolo, si comunica allo
spettatore come un atteggiamento psicofisico che ha
fortemente improntato il comportamento congenito dei
popoli di religione buddista. Una sorta di relazione magica
si istituisce tra l’adorante e l’icona: l’immagine penetra
nella coscienza corporea dell’uomo e l’uomo si proietta in
un certo senso nell’immagine: avendo ritrovato in se stesso
ciò di cui l’immagine è espressione, egli a sua volta le
trasmette una potenza sottile che si irradierà su altri.
Prima di chiudere il capitolo, conviene far cenno
dell’influsso greco nella scultura della scuola del Gandhāra,
del quale
si è tanto spesso esagerata la portata. Suo effetto
fu l’insorgenza di un naturalismo che dapprima minacciò di
travolgere i modelli ieratici, ma che ben presto venne
arginato, e quindi si perpetuò solo in un quadro
strettamente tradizionale, come una delicata ricchezza di
linee o di superfici che vibrano nella totalità della forma
senza minimamente turbarla. L’influsso greco è stato
qualcosa di più di un accidente passeggero perché ha
leggermente spostato il piano di espressione artistica, non
alterandone però l’essenza: forse gli si deve la
trasposizione del ritratto sacro dalla pittura alla scultura.
La porta per cui l’ellenismo ha potuto penetrare è il
carattere apparentemente filosofico dell’analisi buddista
del mondo. In linea di principio, la dottrina di Sakyamuni
sull’inesorabile concatenazione delle cause e degli effetti,
dei desideri e delle pene, fa appello alla sola ragione; ma
questa teoria del karma, non priva di affinità con lo
stoicismo, costituisce soltanto la scorza del messaggio del
Buddha, il cui nocciolo, unicamente accessibile alla
contemplazione, è al di là di ogni pensiero razionale. Tale
scorza è più pronunciata nel Hīnayāna, ma nel Mahāyāna la
forza del nocciolo sopraformale sembra farla scoppiare.
Anche le immagini sacre del Mahāyāna hanno una
maggiore ampiezza spirituale di quelle del Hīnayāna, che
tendono allo schematismo e alla grazia ornamentale.
La pittura del Mahāyāna approfittò in parte della tecnica
sottile dell’arte taoista: il disegno conciso e fluido insieme,
la delicatezza contenuta dei colori e il trattamento
particolare delle nuvole e degli sfondi paesistici che
circondano l’apparizione di un buddha conferiscono a
quelle immagini un carattere quasi visionario, e talune
tradiscono un’intuizione diretta, cioè «personale» o
«vissuta». D’altra parte, esse hanno sortito l’effetto di una
predicazione ispirata.18 Il genio giapponese, in cui
facilmente la spontaneità si sposa al rigore, ha contribuito
a creare alcune delle opere più stupende: per esempio,
certe immagini di Amida (Amitābha) che appare su un fiore
di loto come il disco del sole in una casta aurora, o certe
immagini di Kwannon che si libra al di sopra delle acque
come la luna piena al crepuscolo.
La funzione «sacramentale» dell’immagine del Buddha
deriva dal fatto che essa perpetua la presenza corporea del
Buddha stesso e in un certo qual modo costituisce
l’indispensabile complemento della dottrina composta di
mere negazioni; giacché, se Sakyamuni ha evitato ogni
oggettivazione mentale dell’Essenza trascendente, tanto
meglio ha saputo esprimerla con la bellezza spirituale della
sua pura e semplice esistenza. Proprio come la rivelazione
della Via, l’economia dei suoi mezzi è una grazia.
Boddhidharma, il patriarca del Dhyāna, dice: «L’essenza
delle cose non è descrivibile; per esprimerla ci si serve
delle parole. La via regale che porta alla perfezione non è
tracciata, e perché gli iniziati possano riconoscerla ci si
serve di forme».
Capitolo sesto

IL PAESAGGIO NELL’ARTE DELL’ESTREMO


ORIENTE

1. - Quando si parla della pittura di paesaggio


dell’Estremo Oriente il pensiero corre spontaneamente ai
capolavori della «scuola del Sud», che si distinguono per la
squisita economia dei mezzi e per il carattere «spontaneo»
del procedimento, nonché per l’uso e il valore combinato
del pennello e dell’inchiostro.1 Ora, i dipinti della «scuola
del Sud» – definizione che non ha un senso geografico ma
simboleggia una certa tendenza del buddismo cinese – in
realtà non rappresentano altro che la pittura taoista
tramandata nel buddismo dhyāna cinese e giapponese.2
Non parleremo della «scuola del Nord», che per i contorni
minuziosi, i colori vivi e opachi e l’oro si avvicina alla
miniatura indopersiana.
Nell’antichità cinese tutta l’arte taoista è sintetizzata
nell’emblema a forma di disco forato nel mezzo. Il disco
rappresenta il cielo o il cosmo, il vuoto nel suo centro
simboleggia l’Essenza unica e trascendente. Alcuni di tali
dischi si fregiano della figurazione dei due draghi cosmici –
analoghi ai principi complementari dello Yang e dello Yin,
l’«attivo» e il «passivo» –, che volteggiano intorno al centro
forato quasi tentando di afferrare il vuoto inafferrabile.
Sicché nella pittura di paesaggio d’ispirazione buddista
(Ch’an) tutti gli elementi – montagne, alberi e nuvole – ci
sono soltanto per far risaltare per contrasto il vuoto da cui
sembrano emergere in quell’istante e distaccarsene come
piccole isole effimere.
Nelle più antiche rappresentazioni paesaggistiche cinesi,
incise su specchi di metallo, bacili o pietre funerarie, gli
esseri e gli oggetti paiono dileguare davanti al gioco degli
elementi: vento, fuoco, acqua e terra. Per indicare il
movimento delle nubi, delle onde e del fuoco gli artisti si
servono di varie forme del meandro curvilineo; le rocce
sono concepite come un moto ascendente della terra; gli
alberi vengono definiti, più
che dai loro contorni statici,
dalla loro struttura, che ne suggerisce il ritmo di crescita.
L’alternanza cosmica dello Yang e dello Yin, dell’attivo e del
passivo, traspare in ogni forma o composizione. Tutto ciò
corrisponde ai «Sei Canoni» formulati nel secolo V d.C. dal
celebre pittore Hsieh Ho: 1. Lo spirito creatore deve
identificarsi con il ritmo della vita cosmica; 2. Il pennello
deve esprimere la struttura intima delle cose; 3. La
rassomiglianza deve essere afferrata attraverso il contorno;
4. L’aspetto particolare delle cose deve essere reso
mediante il colore; 5. Le masse debbono ordinarsi secondo
un piano; 6. La tradizione deve esser perpetuata nei suoi
modelli. Qui si vede che alla base dell’opera c’è il ritmo e
c’è la sua traccia immediata, la struttura lineare, e non il
piano statico e il profilo plastico delle cose, come nella
pittura tradizionale dell’Occidente.3
La tecnica pittorica a inchiostro di china si è sviluppata
dalla scrittura, derivata a sua volta da una vera pittografia.
Il calligrafo cinese maneggia il pennello senza appoggiare
la mano, modulando il segno con un movimento che
discende dalla spalla. Tale pratica dona appunto alla pittura
il suo carattere fluido e conciso a un tempo.
Quest’arte non conosce la prospettiva rigorosa, centrata
in un unico punto, ma suggerisce lo spazio con una sorta di
«visione progressiva». Contemplando una pittura
«verticale», sospesa all’altezza dello spettatore seduto,
l’occhio, per così dire, s’inerpica dal basso in alto per i vari
gradi di lontananza; e nelle pitture «orizzontali», che
vengono srotolate via via, lo sguardo segue tale movimento.
Questa visione progressiva non separa interamente lo
spazio dal tempo e per ciò stesso è più vicina alla realtà
vissuta di quanto non lo sia la prospettiva artificiosamente
fermata su un unico «punto di vista». D’altronde, tutta
l’arte tradizionale, con qualunque metodo proceda, tende
verso la sintesi dello spazio e del tempo.
Sebbene la pittura tao-buddista non ricorra al gioco delle
luci e delle ombre, i suoi paesaggi sono nondimeno pieni di
una luminosità che invade tutte le forme come un oceano
celeste dai riflessi di madreperla: è la beatitudine del Vuoto
(śūnya), che è luce per l’assenza di ogni oscurità.
La composizione è fatta di allusioni e di evocazioni in
conformità con le parole del Tao Te King: «La più grande
perfezione deve sembrare imperfetta, ed allora sarà infinita
nel suo effetto; la più grande abbondanza deve sembrare
vuota, e allora sarà inesauribile nel suo effetto». Il pittore
cinese o giapponese non rappresenterà mai il mondo come
un cosmo compiuto, sicché la sua visione delle cose è agli
antipodi di quella dell’Occidente, compresa l’arte
tradizionale, che concepisce sempre il mondo in chiave più
o meno «architettonica». Per il pittore-contemplante
dell’Estremo Oriente il mondo è come fatto di fiocchi di
neve, improvvisamente cristallizzati e presto dissolti; e
poiché egli rimane sempre cosciente del non-manifesto, gli
stati fisici meno «solidificati» sono per lui i più vicini a
quella realtà che è sostrato dei fenomeni. Di qui
l’osservazione sottile dell’atmosfera che tanto ammiriamo
nella combinazione di pennello e inchiostro della pittura
cinese.
Taluni hanno voluto accostare questo stile
all’impressionismo europeo, quasi che i rispettivi punti di
partenza non fossero radicalmente diversi, nonostante
certe analogie accidentali. L’impressionismo relativizza i
contorni tipici e stabili delle cose a favore di un’atmosfera
istantanea soltanto perché ricerca l’impressione soggettiva
in ciò che ha di più passeggero, non perché ricerchi la
presenza di una realtà cosmica superiore agli oggetti
individuali: soltanto l’«io» colorisce le cose con la sua
sensibilità tutta passiva e affettiva. La pittura taoista
invece, con il suo metodo e il suo orientamento
intellettuale, evita per principio di cadere prigioniera della
razionalità e del sentimento, avidi di affermazioni
individuali; per essa l’istantaneità della natura, con tutto
ciò che ha di inimitabile e quasi inafferrabile, non è in
primo luogo un’esperienza affettiva, i motivi affettivi che vi
scopre non hanno nulla di individualistico e neppure di
antropocentrico: la vibrazione affettiva si perde nella calma
serena della contemplazione. Il miracolo dell’istante
fermato in una sensazione di eternità svelerà l’armonia
primordiale delle cose, armonia che la razionalità copre
ordinariamente con la sua continuità soggettiva. Allorché
questo velo d’improvviso si lacera, certi rapporti, prima
inosservati, tra gli esseri e le cose rivelano la loro unità
essenziale. Un dipinto, per esempio, rappresenta due aironi
in riva a un torrente primaverile: l’uno spia il fondo delle
acque,
l’altro leva il capo ascoltando, e in questo doppio
movimento, insieme istantaneo e immobile, i due uccelli
sono misteriosamente uniti all’acqua, alle canne incurvate
dal vento, alle vette che appaiono al di là delle brume.
Attraverso un aspetto della natura vergine, l’atemporale ha
toccato l’anima del pittore come una folgore.
 

2. - Di quest’arte, per quanto suggestiva, il pittore è il


primo destinatario; essa è infatti un metodo per
«attualizzare» l’intuizione contemplativa, e in tal senso è
stata assimilata e sviluppata dal buddismo dhyāna estremo-
orientale. Questo si presenta come una sintesi organica –
non eclettica – di taoismo e di buddismo, giacché la
confluenza delle due tradizioni si fonda sull’identificazione,
perfettamente ortodossa, dell’idea buddista del Vuoto
universale (śūnya) con l’idea taoista del Non-Essere.
Questo Vuoto o questo Non-Essere ha come suoi segni, a
diversi livelli di realtà, la non-determinazione, la non-forma
e la non-corporeità.
La tecnica stessa della pittura a inchiostro di china, con
la sua calligrafia a linee fluide che non si cristallizzano
perfettamente se non grazie a un’intuizione sovrana,
corrisponde allo «stile» intellettuale del buddismo dhyāna,
che tende con tutti i mezzi a provocare, dopo una crisi
interiore, lo scatto improvviso dell’illuminazione, il satori
dei Giapponesi. L’artista che pratica il Dhyāna deve dunque
esercitarsi nella calligrafia pittorica fino a padroneggiarla,
poi deve dimenticarla; così pure è necessario si concentri
sul soggetto, poi se ne distacchi: soltanto allora l’intuizione
si servirà del suo pennello.4 Osserviamo che tale
procedimento artistico è molto diverso da quello in cui
rientra l’altro ramo dell’arte buddista estremo-orientale,
cioè l’arte ieratica, i cui modelli vengono dall’India e che è
incentrata sull’immagine sacra del Buddha. Lungi dal
presupporre sempre un’intuizione subitanea e folgorante,
la creazione di una «icona» o di una statua del Buddha si
basa essenzialmente sulla fedele trasmissione dei prototipi;
l’immagine sacra vuole delle proporzioni e delle
caratteristiche particolari attribuite dalla tradizione al
Buddha storico. L’efficacia spirituale
di quest’arte è
salvaguardata dal carattere univoco e pressoché
immutabile delle sue forme. L’intuizione dell’artista potrà
far risaltare alcune qualità implicite dei modelli, ma la
fedeltà alla tradizione e la fede saranno sufficienti a
perpetuare la qualità sacramentale dell’arte.
Nella pittura di paesaggio, cui si è accennato sopra, le
regole inalterabili riguardano non tanto l’oggetto che si
deve rappresentare quanto il procedimento artistico in sé.
Prima di concentrarsi sulla sua opera o, più esattamente,
sulla propria essenza vuota di immagini, il discepolo dello
Zen deve preparare i suoi strumenti in una data maniera e
disporli come per un rito; grazie al formalismo dei gesti,
ogni intrusione di «slancio» individualistico sarà
scongiurata in partenza. La spontaneità creatrice si
«attualizza» così in un quadro consacrato.
Le due arti pittoriche qui in esame hanno in comune il
fatto di esprimere uno stato d’essere che riposa in se
stesso. Tale stato l’arte ieratica lo suggerisce attraverso
l’atteggiamento del Buddha o del Bodhisattva e le sue
forme colme di beatitudine interiore, mentre la pittura di
paesaggio lo rende con il contenuto «oggettivo» della
coscienza, con la visione contemplativa del mondo. Tale
carattere «esistenziale» dell’arte buddista compensa in un
certo senso la forma negativa della sua dottrina.
La meditazione sul cielo e sulla terra visibili è senza
dubbio un retaggio taoista; sotto le metamorfosi degli
elementi si nasconde il Grande Drago che esce dalle acque,
si slancia verso il cielo e si manifesta nella bufera. Ma nel
suo insieme la meditazione «visuale» ha sempre un
fondamento buddista, che d’altra parte è quello del Dhyāna
stesso. Secondo la tradizione, il metodo dhyāna risale al
«discorso del fiore»: apparendo un giorno ai suoi discepoli
come per esporre la dottrina, il Buddha alzò un fiore senza
pronunciare parola. Soltanto il monaco Mahākāśyapa, il
primo patriarca del Dhyāna, comprese l’insegnamento e
sorrise al Maestro, il quale gli disse: «Ecco, io ho il più
prezioso tesoro, spirituale e trascendentale, e in questo
momento io lo trasmetto a te, venerabile Mahākāśyapa».5
3. - Il metodo dhyāna, che ha il suo diretto riflesso
nell’arte, implica un aspetto che ha dato adito a molti falsi
accostamenti. Mi riferisco alla parte che in tale metodo
spetta alle modalità incoscienti o meglio «non-coscienti»
dell’anima. Bisogna evitare di confondere la «non-
coscienza» (Wu-nien) o il «non-mentale» (Wu-hsin) del
buddismo dhyāna6 con il «subcosciente» degli psicologi
odierni: infatti lo stato di spontaneità intuitiva che il
metodo dhyāna attualizza non è evidentemente al di sotto
bensì al di sopra della normale coscienza individuale. La
vera natura dell’essere è «non-cosciente», perché essa non
è né «cosciente» come l’intelligenza distintiva, né
«incosciente» o oscura come quelle frange inferiori
dell’anima che costituiscono il subcosciente. Tuttavia, dal
punto di vista del metodo il regno della «non-coscienza»
comprende pure, a titolo dirò così simbolico,
l’«incosciente» nel suo aspetto di potenza virtuale che si
colloca a livello dell’istinto. La polarizzazione individuale
dell’intelligenza provoca un contrasto fra il giorno
discontinuo e cangiante della coscienza distintiva e la notte
indifferenziata della «non-coscienza», la quale perciò
abbraccia i vari gradi della conoscenza unitiva (prajñā) e le
affinità sottili che su un piano inferiore esistono fra l’anima
e il suo ambiente cosmico. Non si tratta di un subcosciente
passivo e tenebroso – campo di residui caotici7 – perché il
«non-cosciente» psicologico di cui stiamo parlando si
identifica con il potere plastico dell’anima, il quale si
apparenta in un certo senso con la natura in quanto grande
«ricettacolo» materno delle forme. L’appropriazione da
parte della ragione o, più esattamente, del pensiero
interessato o inquieto, impedisce alle facoltà «istintive»
dell’anima di spiegarsi in tutta la loro generosità
originaria.8 Evidentemente, tutto questo tocca da vicino la
creazione artistica. Allorché l’illuminazione subitanea
attraversa la coscienza individuale, quando la trafigge il
satori, il potere plastico dell’anima risponde
spontaneamente all’azione soprarazionale del prajñā, così
come nel macrocosmo i movimenti sono in apparenza
incoscienti, ma in realtà ubbidiscono all’Intelletto
universale.
La natura è come un cieco che agisca come un uomo
dotato di vista; la sua «incoscienza» non è che un aspetto
contingente della «non-coscienza» universale. Per il
buddista dhyāna il carattere non-mentale della natura
vergine – minerali, piante e animali – è come la loro umiltà
al cospetto di quell’Essenza unica che trascende ogni
pensiero. Per questo il paesaggio naturale con le sue
trasformazioni cicliche gli rivela l’alchimia dell’anima: la
compiutezza immobile di un giorno d’estate e la cristallina
chiarità dell’inverno sono come i due stati estremi
dell’anima in contemplazione; la tempesta autunnale è la
crisi, la freschezza scintillante della primavera corrisponde
all’anima spiritualmente rigenerata. In tal senso bisogna
intendere i dipinti di stagioni di artisti quali Wu Tao-tzŭ e
Huei-tzong.
 

4. - Intimamente connessa con la pittura paesaggistica


estremo-orientale è l’arte di ambientare adeguatamente
una casa, un tempio o una città in un determinato spazio
naturale. Quest’arte, codificata nella dottrina cinese «del
vento e dell’acqua» (Feng-shüi), è una forma di geografia
sacra; la sua base è una scienza dell’orientazione e il suo
coronamento è l’arte di modificare coscientemente certi
elementi del paesaggio allo scopo di attivarne le qualità
positive e di neutralizzarne le influenze nefaste provenienti
dagli aspetti caotici della natura.
Questo ramo dell’antica tradizione cinese è stato
assimilato dal buddismo dhyāna, che nella sua forma
giapponese, lo Zen, l’ha sviluppato sino alla perfezione
contrapponendo interni di un’assoluta sobrietà alla varietà
naturale dei giardini e delle colline, che si possono
escludere o accogliere a piacimento, solo spostando
leggere pareti. Quando gli elementi scorrevoli dello chalet
o della camera sono chiusi, nulla distrae più lo spirito: una
luminosità diffusa filtra attraverso le finestre di carta:
seduto sulla sua stuoia, il monaco è circondato da un
insieme di equilibrio e di semplicità ambientale, che lo
orienta verso il «vuoto» della sua propria essenza; quando
invece rimuove i tramezzi, la natura circostante si offre ai
suoi
sguardi ed egli contempla il mondo quasi lo veda per
la prima volta. Nella formazione originale del terreno e
della vegetazione si innesta l’arte del giardiniere che sa
rispettare umilmente il genio della natura nel momento
stesso che la modella secondo un’ispirazione sovrana.
Anche nell’interno della casa, dove regnano ordine e nitore,
ogni forma testimonia di questa oggettività intellettuale che
ordina le cose pur rispettando la natura di ognuna di esse.
Le materie prime – legno di cedro, bambù, giunco e carta –
sono valorizzate con discrezione; il rigore geometrico
dell’insieme è mitigato da qualche elemento di sostegno
lavorato a rudi colpi d’ascia o da qualche trave curva come
un albero indomabile della montagna. Così la povertà si
accorda con la ricchezza, l’originalità con la chiarezza, la
natura primitiva con la sapienza. In tale ambiente non
trovano spazio la passione e il tormento dell’arbitrio
individuale. Vi domina solo la legge immutabile dello
Spirito, assieme all’innocenza e alla bellezza della natura.
 

5. - Per il cinese il paesaggio è «la montagna e l’acqua».


La montagna, o la roccia, rappresenta il principio attivo e
maschile, lo Yang, l’acqua invece corrisponde al principio
femminile e passivo, lo Yin. Tale complementarismo si
esprime nella maniera più evidente e copiosa nel motivo
della cascata, così caro ai pittori dhyāna: ora è una cascata
che digradando a salti si sposa ai fianchi di un monte
primaverile, ora un sol getto continuo appeso a una
scogliera, o una caduta possente di acque come la famosa
cascata di Wang Wei, che esce dalle nuvole e sparisce con
un gran salto in un velo di spume. L’occhio che la fissa è
preso e portato senza sosta da questo movimento
elementare.
Come ogni simbolo, l’immagine della cascata vela la
realtà nel momento stesso in cui la svela. Infatti l’inerzia
della roccia è l’inverso dell’immutabilità dell’Atto celeste o
divino, così come il dinamismo dell’acqua vela la passività
del principio (Yin) di cui è espressione. Tuttavia,
contemplando attentamente la roccia e il cadere delle
acque, lo spirito compie spontaneamente una subitanea
integrazione: nel ritmo continuamente rinnovantesi
dell’acqua che si sposa all’immobilità della roccia
esso
riconosce l’attività dell’immutabile e la passività del
dinamismo, per poi salire ancora più in alto e intravedere
in un lampo l’Essenza che è insieme attività pura e quiete
infinita, o che non è immobile come la roccia e neppure
mutevole come l’acqua, ma è inesprimibile nella sua realtà
vuota di ogni forma.
Capitolo settimo

DECADENZA E RINNOVAMENTO DELL’ARTE


CRISTIANA

1. - Perché un’opera d’arte abbia un valore spirituale non


c’è affatto bisogno che sia «geniale»; l’autenticità dell’arte
sacra è garantita dai suoi prototipi. D’altronde, una certa
monotonia è inseparabile dai metodi tradizionali; all’interno
del gusto della creazione e del fasto, che sono peculiarità
dell’arte, tale monotonia custodisce la povertà spirituale e
impedisce che il genio individuale sprofondi in qualche
ibrida monomania: il genio sarà come assorbito dallo stile
collettivo, la cui norma deriva dall’universale. Ciò significa
che il genio dell’artista si manifesta entro i confini di una
tale arte attraverso l’interpretazione, più o meno
qualitativa, dei modelli sacri; invece di disperdersi in
«larghezza» si afferma e si sviluppa in «profondità». Basta
pensare a un’arte come quella dell’antico Egitto per
comprendere come il rigore stesso dello stile possa
condurre alla somma perfezione.
Ciò spiega anche perché all’epoca del Rinascimento geni
artistici si «rivelino» un po’ dovunque, all’improvviso e con
una vitalità straripante. È un fenomeno analogo a quello
che si verifica nell’anima di chiunque abbandoni una
disciplina spirituale. Tendenze psichiche prima represse
esplodono a un tratto e fanno balenare una quantità di
nuove sensazioni con tutto lo splendore delle possibilità
non ancora esaurite, ma nella misura in cui si allenta lo
slancio iniziale dell’anima svanisce anche il potere
ammaliante di quelle sensazioni. Tuttavia, poiché
l’emancipazione dell’«io» è ormai il motivo dominante,
continuerà ad affermarsi come espansività individualistica
e conquisterà nuovi piani, relativamente inferiori al primo,
poiché la differenza dei «livelli» psichici agirà a modo di
energia potenziale. È tutto qui il segreto del prometeismo
del Rinascimento.
Occorre tuttavia dire che il fenomeno psichico descritto
non è parallelo sotto tutti gli aspetti a un fenomeno
collettivo come quello del Rinascimento; infatti l’individuo
coinvolto in una tal caduta collettiva non ne è direttamente
responsabile, sicché è relativamente innocente. Il genio
partecipa spesso dell’innocenza quasi «naturale» o
«cosmica» delle forze psichiche scatenate dai grandi
movimenti sismici della storia; cosa che d’altra parte forma
il suo incanto. Ma la sua influenza non sarà perciò meno
nefasta, in vari gradi naturalmente.
Per il medesimo motivo, ci sono necessariamente
nell’opera di ogni autentico genio – nel senso corrente e
individualistico del termine – valori reali prima ignorati o
negletti; poiché ogni arte tradizionale è soggetta a una
certa economia spirituale che limita i temi e i mezzi,
l’abbandono di quell’economia sprigiona quasi
immediatamente nuove possibilità artistiche in apparenza
illimitate. Ma ormai queste nuove possibilità non possono
più esser coordinate su un unico centro, non riflettono più
l’ampiezza dell’anima riposante in se stessa, nel suo «stato
di grazia»: essendo centrifughe le loro tendenze, le diverse
modalità di visione e d’espressione si escluderanno a
vicenda e si succederanno con velocità progressiva. Sono
queste le cosiddette «fasi di stile», la cui vertiginosa
successione contraddistingue l’arte europea degli ultimi
cinque secoli. L’arte tradizionale, che non ha questo
dinamismo, non è però «cristallizzata»: l’artista
tradizionale, protetto dal «cerchio magico» della forma
sacra, crea come un bambino e come un saggio: i modelli
che egli riproduce sono simbolicamente fuori dal tempo.
Nell’arte, come in ogni cosa, l’uomo si trova davanti a
questa alternativa: o cercare l’Infinito in una forma
relativamente semplice, entro i limiti di questa stessa forma
e attraverso il suo aspetto qualitativo; oppure cercare
l’Infinito nell’apparente dovizia della diversità e del
mutamento, il che porta in definitiva alla dispersione e
all’esaurimento.
L’economia di un’arte tradizionale può d’altronde esser
più o meno vasta, più o meno flessibile o rigorosa; tutto
dipende dal potere di assimilazione spirituale inerente a
una data civiltà, a un dato ambiente o a una data vocazione
collettiva; pure l’omogeneità etnica e la continuità storica
hanno la loro parte, svolgono una loro funzione. Civiltà
millenarie come quelle
dell’India e della Cina hanno potuto
assimilare spiritualmente, senza perdere la propria unità,
delle virtualità artistiche molto diverse e talvolta assai
vicine al naturalismo. L’arte cristiana aveva una base meno
larga: la fiancheggiavano i residui dell’arte pagana ed essa
doveva difendersi dalla loro influenza disgregatrice;
tuttavia questa non poté prevalere prima che la
comprensione del simbolismo tradizionale si affievolisse.
Solo una decadenza spirituale, e soprattutto un
offuscamento della visione contemplativa delle cose,
possono spiegare l’apparenza «barbara», rozza e povera
dell’arte medioevale.
Tra le possibilità escluse dall’arte cristiana in forza della
sua economia spirituale è la rappresentazione del nudo.
Esistono, sì, le figurazioni del Cristo crocifisso, di Adamo e
d’Eva e delle anime dell’inferno o del purgatorio, ma la loro
nudità è per così dire astratta e non impegna l’interesse
dell’artista. In ogni caso, la «riscoperta» del corpo nudo
considerato di per sé, nella sua bellezza naturale, costituì
senza dubbio uno dei più potenti motivi del Rinascimento.
Per tutto il tempo in cui l’arte cristiana mantenne le sue
forme ieratiche, avvolte da un folclore ornamentale ben
lontano da preoccupazioni naturalistiche, l’assenza del
nudo artistico passava per così dire inavvertita. Le icone
non intendevano rivelare qualche bellezza naturale, ma
ricordare le verità teologiche ed esser veicolo di una
presenza spirituale. La leggiadria della natura – montagne,
foreste o corpi umani – si poteva ammirare dovunque, fuori
del mondo dell’arte, tanto più che la pruderie, che si
svilupperà solo con la cultura cittadina del secolo XIV, non
assillava affatto l’anima del Medioevo. Ma dal momento in
cui l’arte volle imitare la natura, l’assenza del «nudismo»
nell’arte medioevale si fece sentire come una lacuna. Ormai
la mancata rappresentazione del corpo nudo non poteva
non significare pruderie, falso pudore, e subito l’esempio
della statuaria greco-romana – che il Medioevo non aveva
mai completamente ignorata – divenne una tentazione
irresistibile. Sotto un tal profilo il Rinascimento può
apparire come una rivincita cosmica: è stato forse
pericoloso bandire dalle arti plastiche – se già esistevano –
la bellezza umana, fatta essa pure a immagine di Dio, ma
non bisogna dimenticare il simbolismo malefico della
«carne» nella prospettiva cristiana e le associazioni
di idee
che ne potevano risultare. Comunque, non fu certo il
Rinascimento a restituire alla bellezza fisica il significato
sacro che essa ebbe in certe antiche civiltà e conserva
ancora nell’arte dell’India. Le prime e più belle opere
statuarie del Rinascimento – quali la «Fonte Gaia» di
Jacopo della Quercia o il «David» di Donatello –, di una
tenerezza ancor tutta primaverile, cedettero presto il passo
a una retorica greco-romana senza contenuto e a
un’espansività passionale che è «ampiezza» solo per gli
spiriti incatenati a «questo mondo». Tuttavia la scultura
rinascimentale riesce talvolta a superare, per certi tratti di
nobiltà e di intelligenza, la scultura classica: il che senza
dubbio si spiega con l’esperienza cristiana, ma non basta a
conferire all’arte «rinascimentale» un seppure modesto
valore tradizionale.
Lo stesso si può dire della scoperta del paesaggio nella
pittura del secolo XIV, e anche, in epoca molto più
avanzata, del plein air, del paesaggio e dei giochi di luce e
di atmosfera. Ciascuno di questi elementi artistici implica
valori di per sé preziosi e che sarebbero potuti divenire
simboli come in altre arti, specie in quella dell’Estremo
Oriente, se l’arte occidentale allontanandosi dai suoi
modelli sacri non avesse perduto la propria gerarchia
interna, il principio formale che la ricollegava alla fonte
della tradizione; in effetti, ciò che rende definitiva e in
qualche modo irreversibile la dissacrazione dell’arte non è
tanto la scelta dei temi o dei soggetti quanto la scelta del
linguaggio formale, dello «stile».
Nulla potrebbe illustrare questa legge meglio
dell’introduzione della prospettiva matematica nella pittura
«rinascimentale», una prospettiva che è semplicemente la
logica del «punto di vista» individualistico, ossia del
soggetto individuale che prende se stesso come centro del
mondo. Il naturalismo sembra captare il mondo visibile
qual è nella sua realtà «oggettiva» soprattutto perché
proietta la continuità puramente mentale dell’individuo sul
mondo esterno, per ciò stesso rendendolo povero e duro e
svuotandolo di ogni mistero, mentre la pittura tradizionale
si limita a trascrivere dei simboli, lasciando alla realtà le
sue profondità insondabili. Stiamo parlando, ripeto, della
prospettiva matematica, centrata in un sol punto, e non di
una prospettiva d’approssimazione, regolata da
certi
spostamenti del centro ottico: tale prospettiva non è
inconciliabile con un’arte a fondo spirituale, giacché essa
non è illusione ma coerenza narrativa.
In certi pittori quali Andrea Mantegna e Paolo Uccello la
scienza prospettica divenne una vera passione mentale,
passione fredda, se si vuole, relativamente vicina a una
ricerca intellettuale, ma distruttiva del simbolismo
pittorico, perché la prospettiva trasforma l’immagine in un
mondo immaginario, facendo per ciò stesso del mondo un
sistema chiuso in cui non traspare più nulla di
soprannaturale. Nella pittura murale la prospettiva
matematica è semplicemente assurda perché non solo
distrugge l’unità architettonica del muro ma obbliga anche
lo spettatore a collocarsi sull’asse visuale immaginato,
altrimenti tutte le forme appaiono in uno scorcio falso. Allo
stesso modo l’architettura, sostituendo la proporzione
puramente geometrica dell’arte medioevale con
proporzioni aritmetiche e quindi relativamente
quantitative, si spoglia delle sue qualità più sottili; a questo
riguardo, le regole di Vitruvio fecero un gran male.
Appunto qui, d’altronde, appare il carattere libresco del
Rinascimento: avendo perso il collegamento con il Cielo,
perde anche il legame con la terra, cioè con il popolo e la
vera tradizione artigianale.
In pittura, la prospettiva rigorosa implica inevitabilmente
la perdita del simbolismo cromatico: dipendendo da
un’illuminazione fittizia, strettamente legata all’illusione
spaziale, i colori perdono la loro funzione intrinseca. Un
dipinto medioevale è luminoso non perché suggerisca una
fonte di luce situata nel mondo dell’immagine, ma perché i
suoi colori manifestano direttamente qualità contenute
nella luce; essi sono come tocchi della luce primordiale
presente nei cuori. Lo sviluppo del chiaroscuro, invece,
riduce il colore al gioco di una luce puramente
immaginaria: la magia dell’illuminazione riassorbe la
pittura in una specie di mondo intermedio analogo al
sogno, un sogno talvolta grandioso ma che avviluppa lo
spirito invece di liberarlo. È un processo che il Barocco
spinge all’estremo, sino al punto in cui le forme spaziali
suggerite dal chiaroscuro perdono la corporeità quasi
tangibile conferita loro dalla pittura del Rinascimento: il
colore sembra ritrovare una qualità autonoma, ma è un
colore privo di sincerità e come
febbricitante, una sorta di
colorito fosforescente che, quasi brace nascosta, finirà col
consumare le forme. Infine, la relazione forma-colore si
capovolge: non sarà più la forma, il contorno grafico, a
indicare il senso del colore, ma sarà il colore con le sue
gradazioni a produrre illusione di volumi.
 

2. - L’illogicità della scultura postmedioevale – e quindi la


sua incapacità di esprimere essenze trascendenti – consiste
anzitutto nel voler cogliere il movimento istantaneo, mentre
la sua materia è statica. La scultura tradizionale evoca il
movimento soltanto nelle fasi tipiche, ridotte a schemi
statici: una statua tradizionale – romanica, indù, egizia,
eccetera – afferma sempre l’asse immutabile e domina
l’ambiente ordinandolo idealmente secondo la croce a tre
dimensioni. Con il Rinascimento, e ancor più con il
Barocco, la «sensazione dello spazio» diviene centrifuga;
nelle opere di Michelangelo, per esempio, è come una
spirale che divora l’estensione; queste opere dominano
l’ambiente non perché lo riportino al suo centro o asse
onnipresente, ma perché vi proiettano il loro potere di
suggestione, la loro «magia».
Bisogna qui prevenire un possibile malinteso: la statuaria
autonoma è una creazione del Rinascimento, o meglio, una
sua riscoperta; l’arte cristiana medioevale quasi non
conosce una statuaria avulsa dal corpo architettonico. Una
scultura che domini come una specie di pilastro o di
colonna autonoma un ambiente architettonico, o un
paesaggio modificato secondo principi architettonici, è
nello spirito dell’arte greco-romana, ma per l’arte cristiana
l’isolamento di un’immagine scolpita sarebbe quasi
idolatria. In realtà la scultura, più di ogni altra arte
plastica, esprime il principio di individuazione in quanto
partecipa più direttamente del carattere separativo dello
spazio, e questo carattere è più evidente nelle statue
delimitate da ogni lato. L’arte cristiana accorda una tale
autonomia solo a certi oggetti di culto, come le statue della
Vergine, i crocifissi o i reliquiari figurati. Le statue che non
siano oggetti liturgici, come quelle che ornano le cattedrali,
fanno quasi sempre corpo con l’edificio, perché la forma
umana individuale non ritrova il suo vero senso che
ricollegandosi alla forma umana
e universale del Verbo
incarnato, rappresentata dall’edificio sacro, «corpo
mistico» del Cristo.
Deve essere però precisato che questa concezione non ha
nulla di assoluto e neppure è comune a tutte le tradizioni.
Nell’arte indù, per esempio, la statua indipendente da ogni
altro contesto è ammessa; basta pensare ai principi dello
Yoga e alla sua maniera di considerare la presenza divina
nell’uomo per rendersi conto delle ragioni interne di questo
fatto. Tuttavia anche nell’arte indù esiste la stretta unione
della scultura e dell’architettura sacre; questo, anzi, è uno
degli aspetti che più l’avvicinano all’arte delle cattedrali.
Il problema della statuaria ci riconduce al soggetto
fondamentale dell’arte cristiana: l’immagine dell’uomo.
Essa è anzitutto l’immagine di Dio fatto uomo, poi quella
dell’uomo integrato nel Verbo, che è Dio. In questo secondo
caso, per il fatto stesso che viene reintegrata nella forma
del Verbo incarnato, la forma individuale dell’uomo
recupera la sua originaria bellezza: questo esprimono i volti
dei santi e dei profeti sulle porte delle cattedrali: il volto
del Cristo li contiene ed essi riposano nella sua «forma».
Nella sua opera magistrale, Verlust der Mitte,1 Hans
Sedlmayr ha dimostrato come la decadenza dell’arte
cristiana, sino alle sue fasi più recenti, anzitutto sia una
decadenza dell’immagine dell’uomo: all’immagine di Dio
fatto uomo, trasmessaci dall’arte medioevale, subentra con
il Rinascimento l’immagine dell’uomo autonomo e
glorificante se stesso. Quest’illusoria autonomia implica di
per se stessa la «perdita del centro»: l’uomo non è più
veramente uomo quando non ha più il suo centro in Dio;
quindi la sua immagine si decompone: in un primo tempo
cede la sua dignità ad altri aspetti della natura, poi viene
progressivamente distrutta: l’arte moderna sfocia appunto
nella negazione e nel deturpamento sistematici
dell’immagine umana.
Avviene anche qui una specie di «rivincita cosmica»:
come l’incarnazione del Verbo ha per corollario il sacrificio
supremo e come l’«imitazione di Cristo» non è concepibile
senza l’ascesi, così la figurazione dell’Uomo-Dio esige
l’«umiltà» dei mezzi, cioè un’accentuata distanza dal
modello divino. Non v’è dunque arte cristiana autentica
senza un certo grado di
«astrazione», se si può ricorrere a
un termine così equivoco per designare quel che in realtà
costituisce il carattere «concreto» dell’arte sacra, il suo
«realismo spirituale». Precisando meglio: se fosse
interamente astratta, l’arte cristiana non potrebbe
testimoniare l’incarnazione del Verbo; se fosse
naturalistica, ne smentirebbe la natura divina.
 

3. - Come la rottura di una diga, il Rinascimento provocò


una cascata di potenze creative; i differenti piani di tale
cascata sono i livelli psichici; verso il basso la cascata
s’allarga e perde al tempo stesso unità e vigore.
In un certo senso la caduta si annuncia ancor prima del
Rinascimento vero e proprio, nell’arte gotica. In Occidente
lo stato d’equilibrio è l’arte romanica, nell’Oriente cristiano
è l’arte bizantina. L’arte gotica, specie nella sua fase
avanzata, rappresenta uno sviluppo unilaterale, una
predominanza dell’elemento volitivo su quello intellettuale,
uno slancio piuttosto che uno stato di contemplazione. Il
Rinascimento può quindi considerarsi come una reazione,
razionale e latina insieme, contro questo precario sviluppo
dello stile gotico. Tuttavia il passaggio dall’arte romanica
all’arte gotica è continuo, senza rotture, e i metodi di
quest’ultima rimangono tradizionali, fondati sul simbolismo
e sull’intuizione, mentre con il Rinascimento la frattura è
quasi totale. È anche vero che non tutte le manifestazioni
artistiche vanno di pari passo: l’architettura gotica rimane
tradizionale fino alla sua sparizione, mentre la scultura e la
pittura del tardo gotico soccombono all’influsso
naturalistico.
Il Rinascimento rifiuta dunque l’intuizione, di cui il
simbolo è veicolo, a favore della ragione discorsiva; il che
non gli impedisce, ovviamente, di essere passionale, poiché
il razionalismo s’accorda molto bene con la passione. Dal
momento in cui il centro dell’uomo – l’intelletto
contemplativo o il «cuore» – è abbandonato o offuscato, le
altre facoltà si scindono ed emergono delle antitesi
psicologiche; l’arte del Rinascimento è dunque razionalista
– il che si esprime attraverso il suo impiego della
prospettiva e la sua teoria architettonica – e insieme
passionale, di una passione a carattere globale: è
l’affermazione dell’ego sotto ogni aspetto, la sete del
grande e dell’illimitato. Ma siccome in qualche modo
sussiste ancora la fondamentale unità delle forme vitali,
l’antitesi delle facoltà mantiene la parvenza di un libero
gioco e non appare ancora così irriducibile come in epoche
ulteriori in cui la ragione e il sentimento divergono a tal
punto che l’arte non riesce più ad abbracciare le due cose
insieme. Nel Rinascimento le scienze sono ancora chiamate
arti e l’arte si presenta ancora come una scienza.
Tuttavia la caduta è inarrestabile. Il Barocco reagisce
contro il razionalismo rinascimentale, contro la
cristallizzazione delle forme in moduli greco-romani e la
loro conseguente dissociazione, ma invece di vincerla con il
ritorno alle fonti soprarazionali della tradizione, tenta di
fondere le forme immobili del rinascente classicismo con il
dinamismo di un’immaginazione senza limiti. Di proposito
esso si riallaccia alle ultime fasi dell’arte ellenistica, la cui
fantasia è però molto più misurata, più calma e concreta. Il
Barocco è animato da un’inquietudine psichica sconosciuta
all’antichità.
L’arte barocca, sia mondana sia mistica, non oltrepassa
mai il regno del sogno; le sue orge sensuali, così come i
suoi memento mori, non sono che fantasmagorie.
Shakespeare, che visse alle soglie dell’epoca, poté dire che
il mondo è fatto «della stessa sostanza dei sogni», e
Calderón de la Barca dice implicitamente la medesima cosa
in La vida es sueño, pur superando di molto, come
Shakespeare, il piano su cui fiorisce l’arte plastica del suo
tempo.
Il potere proteico dell’immaginazione è sempre presente
in quasi tutte le arti tradizionali, dell’India in particolare,
dove però corrisponde simbolicamente al potere generativo
di Māyā, l’illusione cosmica: per l’indù il proteismo delle
forme non è una prova della loro realtà, ma, al contrario,
della loro irrealtà di fronte all’Assoluto. Non così per l’arte
barocca, che ama l’illusione. Interni di chiese come il Gesù
e Sant’Ignazio a Roma hanno qualcosa di allucinante:
quelle cupole, con le loro curve irrazionali e gli strati
nascosti, sfuggono a ogni misura intelligibile. Lo sguardo
viene come assorbito da una falsa infinità; le pitture del
soffitto paiono aprirsi su un cielo pieno d’angeli sensuali e
leziosi. Una forma imperfetta può essere
un simbolo, ma
l’illusione o la menzogna non è simbolo di nulla.
Le migliori creazioni plastiche dello stile barocco stanno
fuori dall’ambito religioso, e sono piazze e fontane: qui
l’arte barocca è insieme originale e ingenua perché essa
stessa ha qualcosa della natura dell’acqua, come
l’immaginazione: ama le conchiglie e la fauna marina.
Si sono istituiti paralleli fra la mistica di santa Teresa
d’Avila o di san Giovanni della Croce e una certa pittura
barocca contemporanea, per esempio del Greco; tali
paralleli si giustificano tutt’al più con le condizioni
psicologiche dell’epoca e, in particolare, dell’ambiente
religioso del tempo. È vero che una tal pittura, con la sua
magia luministica, è adatta alla descrizione di stati affettivi
estremi ed eccezionali, ma tutto ciò non ha niente a che
vedere con gli stati contemplativi. Il linguaggio stesso
dell’arte barocca, la sua identificazione con il mondo
psichico, il suo miraggio del sentimento e
dell’immaginazione, le vietano di cogliere il contenuto
qualitativo di uno stato spirituale.
Eppure bisogna menzionare, nel quadro dello stile
barocco, la strana realtà di certe «Madonne» miracolose, il
cui aspetto «moderno» è generalmente trasformato dai
costumi ieratici di cui il popolo le ha rivestite: immensi
triangoli in seta rigida, pesanti corone; soltanto il viso
conserva lo stile rinascimentale o barocco; ma il realismo,
spinto all’estremo dal colorito dei tratti e animato dalla
luce vacillante dei ceri, assume la qualità di una maschera
tragica. V’è un qualcosa che appartiene molto di più al
teatro sacro che non alla scultura e che il popolo ha
ricostituito istintivamente attraverso e nonostante l’arte
dell’epoca.
Per certuni l’arte barocca rappresenta l’ultima grande
manifestazione della visione cristiana del mondo, senza
dubbio perché il Barocco aspira sempre alla sintesi ed è
anche l’ultimo esperimento su larga base di una sintesi
della vita in Occidente. Ma l’unità da esso realizzata deriva
da una volontà totalitaria che fonde tutto nel suo stampo
soggettivo, piuttosto che da un’oggettiva coordinazione
delle cose su un principio trascendente, come nel caso della
civiltà medioevale.
Nell’arte del secolo XVII la fantasmagoria barocca si
irrigidisce
in forme razionalmente definite ma vuote di
sostanza, quasi che la lava della passione si solidifichi in
mille forme indurite alla superficie. Tutte le susseguenti
fasi stilistiche oscilleranno tra i due poli
dell’immaginazione passionale e del determinismo
razionale; ma l’oscillazione più ampia rimarrà sempre
quella che va dal Rinascimento al Barocco. D’altro canto,
proprio nel Rinascimento e nel Barocco esplodono con
maggior violenza le reazioni contro l’eredità tradizionale,
giacché via via che l’arte si allontana storicamente da
quella fase critica, recupera una certa calma, una certa
disposizione, peraltro molto relativa, alla
«contemplazione». In realtà, l’esperienza estetica è più
fresca, più immediata e autentica allorché è più remota dai
soggetti religiosi: in una «Crocifissione» rinascimentale,
per esempio, non è il dramma sacro ma il paesaggio a
manifestare le più alte qualità artistiche; o in una scena di
«Sepoltura» barocca è il gioco luministico il vero tema
dell’opera – ossia quel che rivela il cuore dell’artista –,
mentre i personaggi rappresentati sono secondari; in altre
parole, è il crollo della gerarchia dei valori.
In tutto questo processo di decadenza non è
necessariamente coinvolta la qualità individuale degli
artisti; l’arte è anzitutto un fenomeno collettivo e i geni che
emergono dalla massa non potrebbero certo far girare
indietro la ruota dell’andamento generale; tutt’al più
possono accelerare oppure rallentare certi ritmi.
Ovviamente, il giudizio che diamo sull’arte dei secoli
postmedioevali non prende mai come termine di paragone
l’arte dei giorni nostri: il Rinascimento e il Barocco
posseggono una gamma di valori artistici e umani
incomparabilmente più ricca. Ne è una prova la progressiva
distruzione della bellezza delle nostre città.
In ogni fase della decadenza inaugurata dal Rinascimento
si assiste all’epifania di bellezze e virtù parziali. Ma ciò non
può compensare la perdita dell’essenziale. A che serve
tutta questa grandezza umana, se la nostra innata nostalgia
dell’Infinito rimane senza risposta?
 

4. - La successione degli «stili» dal Medioevo in poi si può


anche paragonare a quella delle diverse «caste» che
predominano
nelle rispettive epoche. Per caste si intendono
qui i diversi tipi umani, in un certo senso analoghi – ma non
paralleli – ai diversi temperamenti e che possono o no
coincidere con i ceti sociali da loro normalmente occupati.
L’arte romanica corrisponde a una sintesi di caste; è
un’arte essenzialmente sacerdotale, ma implica anche un
aspetto popolare; soddisfa lo spirito contemplativo
appagando nello stesso tempo l’anima dei più semplici. È la
serenità dell’intelletto e insieme l’aspro realismo del
contadino.
L’arte gotica manifesta sempre più lo spirito della nobiltà
cavalleresca, l’aspirazione volontaria e vibrante verso un
ideale; meno ampia dell’arte romanica, possiede però una
qualità tutta spirituale, di cui l’arte del Rinascimento sarà
completamente priva.
Il relativo equilibrio dell’arte rinascimentale è d’ordine
meramente razionale e vitale; è l’equilibrio congenito della
terza casta, quella dei mercanti e degli artigiani. Il
«temperamento» di tale casta assomiglia all’acqua, che si
spande orizzontalmente, mentre la nobiltà corrisponde al
fuoco che si slancia verso l’alto e consuma e trasforma; il
sacerdozio, a sua volta, è come l’aria che amalgama e
vivifica invisibilmente; la quarta casta, quella dei servi,
assomiglia alla terra pesante e immobile.
È significativo che il fenomeno del Rinascimento sia
essenzialmente cittadino; per questo, appunto, la sua arte
si oppone tanto all’arte popolare conservata dalle
popolazioni rurali quanto all’arte sacerdotale. L’arte
cavalleresca invece, che si riflette nello stile gotico,
mantiene sempre dei rapporti diretti con l’arte popolare,
così come il signore feudale è normalmente il capo paterno
dei contadini del suo dominio.
Si deve però sottolineare che le equazioni: stile gotico =
casta nobile e guerriera, stile rinascimentale = casta
mercantile e borghese, valgono soltanto come schema
generale, da sottoporre perciò a ogni sorta di sfumature.
Così, per esempio, lo spirito borghese e cittadino, ossia lo
spirito della terza casta – la cui naturale preoccupazione
consiste nel conservare e aumentare i beni sotto il duplice
profilo della scienza e dell’utilità pratica –, si tradisce già in
certi aspetti dell’arte gotica. Del resto, proprio in
quest’epoca si sviluppa il fenomeno
dell’urbanesimo.
Analogamente, se l’arte gotica è fortemente impregnata di
spirito cavalleresco, non è men determinata nel suo
insieme dallo spirito sacerdotale; il che è indicativo per
capire la normale relazione tra le due caste, cavalleresca e
sacerdotale; la rottura con la tradizione, l’incomprensione
nei confronti del simbolismo, cominciò soltanto con
l’egemonia della casta borghese. Ma anche qui occorre
qualche ritocco al quadro: gli inizi dell’arte rinascimentale
sono sicuramente caratterizzati da un certo senso della
nobiltà; si potrebbe persino dire che essi siano in parte una
reazione alle tendenze borghesi manifestatesi nel tardo
gotico. Ma non è che un momento intermedio; in realtà, il
Rinascimento è stato favorito da nobili divenuti mercanti e
da mercanti divenuti principi.
Il Barocco rappresenta una reazione aristocratica sotto
forme borghesi, da cui quel che di pomposo e spesso
soffocante. La vera nobiltà ama forme risentite e leggere,
virili e graziose, come quelle del blasone medioevale.
Parimenti, il classicismo dell’epoca napoleonica è una
reazione borghese sotto forme aristocratiche.
La quarta casta, dei servi o, più generalmente, degli
uomini legati alla terra, preoccupati soltanto del benessere
fisico e sprovveduti di genio intellettuale o sociale, non
esprime uno stile proprio, anzi neppure un’arte nel senso
completo del termine. Sotto l’egemonia di tale classe l’arte
sarà sostituita dall’industria, che è l’ultima creazione della
casta dei mercanti e degli artigiani, già staccati dalla
tradizione.
 

5. - Natura non facit saltus. Ma lo spirito umano, sì. Tra la


civiltà medioevale, incentrata nei misteri divini, e la civiltà
del Rinascimento, incentrata nell’uomo ideale, esiste,
nonostante la continuità storica, una cesura profonda.
Un’altra e forse più radicale frattura si verifica nel secolo
XIX. Fin allora l’uomo e il mondo circostante formavano,
almeno praticamente e nell’ambito dell’arte che qui ci
interessa, un insieme organico. Scoperte scientifiche
allargavano senza posa, è vero, l’orizzonte di quel mondo,
ma le forme comuni della vita erano per sempre «a misura
d’uomo», cioè a misura dei suoi
bisogni psichici e fisici
immediati. Era questa una sostanziale condizione dell’arte,
risultante da uno spontaneo accordo tra lo spirito e la
mano. Con la civiltà industriale quest’unità organica si
spezza: l’uomo si trova non più di fronte alla natura
materna, ma alla materia morta, una materia che usurpa,
sotto forma di meccanismi dotati di una sempre maggiore
autonomia, le leggi stesse del pensiero. Così l’uomo, che
aveva voltato le spalle alla realtà immutabile dello spirito,
della «ragione» nel significato antico e medioevale del
termine, vede ergersi contro di sé la sua propria creazione
come una «ragione» esteriore, ostile a tutto ciò che l’anima
e la natura hanno di generoso, nobile e sacro. L’uomo si è
sottomesso a tale situazione: con tutta la sua nuova scienza
dell’«economia», mediante la quale spera di restare il
padrone, non fa che confermare e consumare la sua
dipendenza dalla macchina. E la macchina è come la
ridicola contraffazione di quell’atto creatore per cui un
archetipo sovraformale si riflette in molteplici forme
analoghe eppure mai uguali: essa invece produce un
numero indefinito di copie strettamente uniformi.
In questo modo l’arte è sradicata dall’humus che la
nutriva; essa non è più il complemento spontaneo del
lavoro artigianale né la naturale espressione di una vita
sociale, ma è confinata in un terreno puramente soggettivo.
E l’artista non è neppure più, come nel Rinascimento, una
sorta di filosofo o di demiurgo: è soltanto un ricercatore
solitario, senza principio né scopo, se non il medium o il
buffone del suo pubblico.
La crisi è scoppiata nella seconda metà del secolo XIX. Si
ebbe allora, come in ogni grande svolta storica,
un’improvvisa e fugace apertura su delle possibilità
fondamentali: con il rifiuto del naturalismo, connesso
ancora con l’«antropocentrismo» rinascimentale, si
riconobbe il valore delle arti «arcaiche»; si capì che un
quadro non è una finestra fittizia sulla natura; che le leggi
della pittura dipendono soprattutto dalla geometria e
dall’armonia cromatica; che una scultura non è un corpo
colto in pieno movimento e a caso, e trasformato in pietra o
in bronzo; si scoprì la funzione della «stilizzazione», la
potenza suggestiva delle forme semplici e l’intrinseca
luminosità dei colori. In quel momento un ritorno a un’arte
più integra, se non tradizionale, apparve possibile. Basta
pensare
a certi quadri di Gauguin o alle meditazioni di
Rodin sulle cattedrali gotiche e sulle sculture indù. Ma
l’arte non aveva più né cielo né terra. Non solo le veniva
meno il substrato metafisico ma perfino la base artigianale,
sicché fu costretto a sfiorare rapidamente alcune possibilità
che le si erano dischiuse e a ricadere in balia della pura
soggettività individuale, e tanto più profondamente in
quanto non le si imponeva più nessun linguaggio universale
o collettivo. Poiché il cielo gli era ormai chiuso e il mondo
sensibile per lui non era più oggetto di adorazione, l’artista,
ripiegato su se stesso, cercò nuove sorgenti di ispirazione e
in taluni casi si aprì una strada verso la regione caotica del
subcosciente. Così scatenò una nuova forza, indipendente
dal mondo empirico, incontrollabile dalla normale ragione,
e maliosa per contagio. «Flectere si nequeo superos,
acheronta movebo»: se non posso piegare i celesti,
muoverò gli inferi. Quel che sale dalle tenebre del
subcosciente alla superficie dell’anima non ha davvero
nulla a che vedere con il simbolismo delle arti «arcaiche» o
tradizionali: non gli «archetipi» si riflettono in quelle
elucubrazioni ma residui psichici della più bassa specie;
non simboli ma spettri.
Talvolta questo soggettivismo infraumano assume le
caratteristiche «impersonali» della sua antitesi congenere:
il «macchinismo». Nulla di più grottesco e sinistro di questi
sogni-macchina; nulla di più rivelatore di certi fondi
satanici della civiltà moderna.
 

6. - Ci si può chiedere a questo punto se l’arte cristiana


potrà mai rinascere e in quali condizioni il suo
rinnovamento sarebbe possibile. Diciamo subito che una
certa probabilità, seppur minima, è data dal fatto, in sé
negativo, che la tradizione cristiana e la civiltà occidentale
divergono sempre di più. Per non farsi travolgere nel caos
del mondo d’oggi la Chiesa deve raccogliersi in se stessa.
Taluni suoi rappresentanti cercano ancora di captare i
movimenti artistici più avanzati e più ibridi a scopi di
propaganda religiosa, ma ci si accorgerà ben presto che
queste cose non possono che accelerare la dissoluzione
intellettuale di cui la stessa religione rischia d’esser
vittima. La Chiesa dovrà valorizzare tutto ciò che afferma il
suo
carattere atemporale; allora l’arte cristiana, ricondotta
ai suoi modelli essenziali, potrà assumere la funzione non
certo di un’arte collettiva che abbracci tutta una civiltà, ma
di un supporto spirituale destinato a riuscire tanto più
efficace quanto più risolutamente saprà opporsi al caos del
mondo odierno. Esistono alcuni sintomi di uno sviluppo in
tal senso; ricorderemo solo il crescente interesse per l’arte
bizantina e romanica negli ambienti religiosi. Ma un
rinnovamento dell’arte cristiana non è concepibile senza un
risveglio dello spirito contemplativo in seno al
cristianesimo; se non c’è questa base, ogni tentativo del
genere fallirà e non sarà che una sterile ricostruzione.
Quanto si è detto sui principi della pittura sacra ci
consente ora di riconoscere le altre condizioni del suo
rinnovamento. Neghiamo che la pittura cristiana possa
essere «astratta», che cioè sia legittimo svilupparla da
simboli meramente geometrici. L’arte non figurativa trova
posto nell’artigianato, specie nell’arte della costruzione, il
cui simbolismo non può essere disgiunto dallo stesso
procedimento tecnico. Nonostante una certa teoria che va
circolando, l’immagine non è il frutto del «gesto»
dell’artista, ossia di una serie di operazioni geometriche e
ritmiche; al contrario, questo «gesto» è il risultato di
un’immagine interiore, del prototipo mentale dell’opera.
Seppure la pittura religiosa implichi uno schematismo
geometrico, tuttavia questo si sovrappone all’immagine
propriamente detta; l’immagine, infatti, resta la base e la
sostanza di quest’arte, per ragioni sia pratiche sia
metafisiche, giacché l’immagine deve essere non solo un
simbolo antropomorfo, conforme al «Dio divenuto uomo»,
ma anche un insegnamento intelligibile dal popolo. Certo,
per i suoi procedimenti tecnici la pittura implica pure un
aspetto artigianale, ma questo non concerne direttamente
lo spettatore. Per il suo soggetto come per la sua relazione
con la comunità religiosa, la pittura cristiana sarà sempre
figurativa. La composizione astratta si manifesta
unicamente – e sufficientemente – nell’ornato, che fa per
così dire da ponte tra la percezione cosciente e quasi
teologica e la percezione inconscia e istintiva.
Alcuni sostengono che l’epoca in cui l’arte religiosa
figurativa era necessaria è finita e di conseguenza è
impossibile
«rinnovare» l’arte cristiana del Medioevo; la
cristianità dei nostri giorni, conoscendo ormai le arti non
figurative o arcaiche di tanti popoli, non può – dicono –
ritrovare una visione essenziale se non in forme astratte,
spoglie di ogni antropomorfismo. A costoro rispondiamo
che un’«epoca» non determinata dalla tradizione non ha
«voce in capitolo», e soprattutto che l’antropomorfismo
dell’arte cristiana fa parte dei mezzi spirituali perché
deriva dalla cristologia tradizionale. Del resto, ogni
cristiano dovrebbe sapere che un nuovo «ciclo» imposto dal
di fuori non può essere che quello dell’Anticristo.
Il carattere essenzialmente – e non accidentalmente –
figurativo della pittura cristiana implica l’impossibilità di
prescindere dai prototipi tradizionali che la preservano
dall’arbitrario. Tali prototipi lasciano sempre un margine
abbastanza largo al genio creatore e anche alle esigenze
della comunità, nella misura in cui esse siano legittime:
questa riserva ha un’importanza capitale in un’epoca in cui
si attribuiscono al «nostro tempo» diritti pressoché
illimitati. Il Medioevo non si preoccupava minimamente
dell’«attualità»; non ne aveva neppure la nozione. Il tempo
era, se si può dir così, ancora nello spazio. Il timore di
passare per «copista», come pure la smania di originalità,
sono pregiudizi tutti moderni. L’intero Medioevo e in parte
il Rinascimento e il Barocco hanno copiato quelle opere
antiche che rispettivamente consideravano le più perfette;
copiandole ne mettevano in luce gli aspetti che più si
imponevano ed erano riconosciuti come essenziali: in
questo modo l’arte si manteneva normalmente in vita.
Specie nel Medioevo, ogni pittore o scultore era anzitutto
un artigiano che copiava modelli ormai consacrati, e
appunto perché si identificava con essi, e nella misura in
cui tale identificazione poggiava sulla loro essenza, la sua
arte si faceva «vivente». La copia non era ovviamente
meccanica; passava attraverso il filtro della memoria e si
adattava alle circostanze materiali. Analogamente, se
anche oggi si copiassero antichi modelli cristiani, la scelta
stessa dei modelli, la loro trasposizione in una data tecnica
e il liberarli da elementi accessori sarebbero già un’arte. Si
dovrebbero condensare quegli elementi che, in più modelli
analoghi, si presentano come essenziali, eliminando certi
tratti dovuti all’incompetenza di un artigiano o a una
routine
superficiale e nociva. L’autenticità di questa nuova
arte, la sua intrinseca vitalità, non dipenderebbero
dall’«originalità» soggettiva della sua formulazione, bensì
dall’oggettività o dall’intelligenza con cui è colta l’essenza
del modello. La riuscita di una tale impresa dipende
anzitutto dalla conoscenza intuitiva. L’accento originale,
l’incanto, la freschezza, tutto questo sarà dato in sovrappiù.
L’arte cristiana non rinascerà se non si spoglia di ogni
relativismo individualistico per risalire alle sue sorgenti
ispiratrici, che per definizione risiedono nell’«atemporale».
NOTE

Introduzione

1
«Ignori tu, o Asclepio, che l’Egitto è immagine del cielo e
proiezione qui in basso di tutto l’ordinamento delle cose
celesti?» (Ermete Trismegisto).
2
Gen., 1, 27.
3
Introduction générale à l’Étude des Doctrines Hindoues,
ed. 3, Éditions Véga, Parigi 1939 (trad. it.: Introduzione
generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi
Tradizionali, Torino 1965); L’Homme et son Devenir selon
le Vêdânta, ed. 4, Études Traditionnelles, Parigi 1952
(trad. it.: L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, Ed.
Studi Tradizionali, Torino 1965); Le Symbolisme de la
Croix, ed. 4, Éditions Véga, Parigi 1952 (trad. it.: Il
simbolismo della Croce, Rusconi, Milano 1989); Le Règne
de la Quantité et les Signes des Temps, ed. 4, Gallimard,
Parigi 1950 (trad. it.: Il regno della quantità e i segni dei
tempi, Ed. Studi Tradizionali, Torino 1969); La Grande
Triade, ed. 2, Gallimard, Parigi 1957 (trad. it.: La grande
Triade, Atanòr, Roma 1951).
4
De l’Unité Transcendante des Religions, Gallimard, Parigi
1948 (trad. it.: Dell’unità trascendente delle religioni,
Laterza, Bari 1949); L’Oeil du Coeur, Gallimard, Parigi
1950; Perspectives spirituelles et faits humains, Cahiers
du Sud, Parigi 1953; Castes et Races, Derain, Lione 1957.
5
The Transformation of Nature in Art, Massachusetts
Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1934 (trad.
it.: La trasfigurazione della natura nell’arte, Rusconi,
Milano 1976); Elements of Buddhist Iconography,
Massachusetts Harvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1935; Hinduism and Buddhism, The Philosophical
Library, New York 1943 (trad. it.: Induismo e buddismo,
Rusconi, Milano 1987).
6
The Hindu Temple, University of Calcutta, Calcutta 1946.
7
Zen in der Kunst des Bogenschiessens (trad. it.: Lo Zen e
il tiro con l’arco, Adelphi, Milano 1975).
I. La genesi del tempio indù

1
Nelle civiltà primitive ogni abitazione è considerata
immagine del cosmo, perché la casa o la tenda
«contiene» e «avvolge» l’uomo a guisa del grande mondo.
Tale idea si è conservata nel linguaggio dei popoli più
diversi, dato che si parla della «volta» o della «tenda» del
cielo e del suo «culmine» per indicare il polo. Quando si
tratta di un santuario, l’analogia tra questo e il cosmo è
reciproca, poiché lo Spirito divino «abita» il santuario
come «abita» l’universo. D’altra parte, lo Spirito contiene
l’universo, sicché l’analogia diventa inversa.
2
Questo aspetto delle cose corrisponde al punto di vista
vedantico secondo cui il dinamismo appartiene alla
sostanza passiva – la śakti –, mentre l’Essenza attiva è
immobile.
3
Anche la costruzione del tempio cristiano simboleggia la
trasmutazione del
«secolo» presente nel «secolo» futuro:
l’edificio sacro rappresenta la Gerusalemme celeste, la
cui forma è anch’essa quadrata.
4
Ciò ricorda lo smembramento del corpo di Osiride
secondo il mito egizio.
5
Secondo la terminologia delle religioni monoteiste, i deva
corrispondono agli angeli in quanto rappresentano degli
aspetti divini. Il mito dell’immolazione di Prajāpati per
opera dei deva è dunque analogo alla dottrina sufi
secondo cui Dio manifestò l’universo molteplice in virtù
dei suoi molteplici Nomi; questi, infatti, «esigono» in un
certo senso la diversità del mondo. L’analogia è ancora
più sorprendente dove si dice che Dio manifesta se stesso
nel mondo in virtù dei suoi Nomi. Cfr. T. BURCKHARDT,
Introduction aux Doctrines Ésotériques de l’Islam,
Derain, Lione 1955; ID., MUHYI-D-DĪN IBN’ARABĪ,
Fuçūç al-Hikam (La Sagesse des Prophètes), Albin
Michel, Parigi 1955 e 1974 (trad. dall’arabo).
6
Se l’uomo è superiore agli animali in virtù del suo
«mandato» celeste, l’animale ha però una relativa
superiorità sull’uomo nella misura in cui questi si
allontana dalla sua natura primordiale, poiché l’animale
non è soggetto alla medesima corruzione in rapporto alla
sua norma cosmica. Il sacrificio dell’animale al posto
dell’uomo è ritualmente giustificato soltanto per una
certa condensazione qualitativa.
7
L’unione con l’Essenza divina implica sempre, come fasi o
aspetti del medesimo atto spirituale, la reintegrazione di
tutti gli aspetti positivi del mondo – o dei loro equivalenti
interiori – in un «fuoco» simbolico; implica pure il
sacrificio dell’anima sotto il suo aspetto limitato e la sua
trasformazione mediante il fuoco dello Spirito.
8
Cfr. R. GUÉNON, L’uomo e il suo divenire secondo il
Vêdânta, trad. it. cit.
9
Śatapatha Brāhmaṇa, VII, 1,1,37.
10
«La forma quadrata dell’altere Āhavanīya, dell’Uttara
Vedi e degli altri centri sacri e utensili rituali non può
avere come alternativa la forma circolare, mentre il
Gārhapatya, che di per sé è rotondo, può esser edificato
sia su un’area circolare sia su un’area quadrata, secondo
le diverse scuole. Ciò significa che la “terra” può esser
concepita come rotonda secondo la sua forma propria, o
come quadrata secondo la sua figura ordinata dalla legge
del “mondo celeste”...»: STELLA KRAMRISCH, The
Hindu Temple, cit., vol. I, p. 28.
11
Cfr. N.K. MAJUMDAR, Sacrificial Altars: Vedis and Agnis,
in «Journal of the Indian Society of Oriental Art»,
Calcutta, giugno-dicembre 1939.
12
Per tutto quel che concerne i rapporti fra il simbolismo
dell’altare e quello del tempio indù, ci riferiamo
all’eccellente libro di Stella Kramrisch, già citato, che
attinge largamente ai śāstra dell’architettura sacra e si
riferisce agli scritti di Ananda K. Coomaraswamy.
13
I patriarchi di Israele, nomadi, edificavano altari
all’aperto, con pietre grezze. Quando Salomone fece
costruire il tempio di Gerusalemme, consacrando con ciò
lo stato sedentario del popolo, le pietre furono composte
senza usare strumenti di ferro, in ricordo dell’altare
primitivo.
14
ALCE NERO, La Sacra Pipa, trad. it., Rusconi, Milano
1986, p. 124.
15
«Tutto ciò che il Potere del Mondo fa, lo fa in un circolo.
Il cielo è rotondo... Il vento, quando è più potente, gira in
turbini. Gli uccelli fanno i loro nidi circolari, perché la
loro religione è la stessa nostra... Le nostre tende erano
rotonde, come i nidi degli uccelli, e inoltre erano sempre
disposte in circolo, il cerchio della nazione, un nido di
molti nidi, dove il Grande Spirito voleva che noi
covassimo i nostri piccoli»: Alce Nero parla, trad. it.,
Adelphi, Milano 1968, pp. 197-198.
16
Sono pure rotondi i santuari preistorici chiamati
cromlech, i cui cerchi in pietre erette imitano le divisioni
cicliche del cielo.
17
Talvolta la perfezione statica del quadrato o del cubo si
trova combinata con il simbolismo dinamico del cerchio.
È il caso della Ka‘ba, che costituisce il centro di un rito di
circumambulazione ed è senza dubbio uno dei santuari
più antichi;
è stata più volte ricostruita, ma la sua forma
cubica leggermente irregolare non è stata alterata a
memoria d’uomo. I quattro angoli (arkān) della Ka‘ba
sono orientati verso le regioni cardinali del cielo. Il rito di
circumambulazione (tawāf), che fa parte del
pellegrinaggio alla Ka‘ba, e che l’Islam ha semplicemente
continuato, esprime chiaramente la relazione esistente
fra il santuario e il movimento celeste: la
circumambulazione viene compiuta sette volte – secondo
il numero delle sfere celesti –, tre volte di corsa e quattro
a passo normale.
Secondo la leggenda, la Ka‘ba fu originariamente
costruita da un angelo, o da Seth figlio di Adamo; essa
aveva allora la forma di una piramide. Il diluvio la
distrusse e Abramo la ricostruì in forma di cubo (ka‘bah).
È situata sull’asse del mondo; il suo prototipo è nel cielo
e gli angeli vi compiono il tawāf all’intorno. Sempre
secondo la leggenda, la presenza divina (sakīnah) si
manifestò sotto l’aspetto di un serpente che guidò
Abramo verso il luogo dove doveva costruire la Ka‘ba,
quindi si attorcigliò intorno all’edificio. Ciò ricorda in
maniera impressionante il simbolismo indù del serpente
Ananta o Śesa, che si muove intorno al Vāstu-Puruṣa-
maṇḍala. Vedremo più avanti che anche il tempio indù è
oggetto di un rito di circumambulazione.
18
Ricordiamo qui il simbolismo indù della suṣumnā, il
raggio che unisce ogni essere al Sole spirituale.
19
Il motivo del pesce formato dalle intersezioni di due
cerchi, così come lo schema del triplice pesce formato da
tre cerchi intersecantisi, si ritrovano nell’arte
ornamentale di popoli diversi e specialmente nell’arte
egizia e nelle arti merovingia e romanica.
20
Cfr. P.K. ACHARYA, A Summary of the Mānasāra, Leida
1918.
21
Nella costruzione dell’altare vedico, Agni-Prajāpati in
quanto vittima sacrificale è configurato col viso rivolto al
cielo. Tale è anche la posizione del Crocifisso,
incorporato, secondo Onorio d’Autun, nel piano della
cattedrale. La posizione «capovolta» del Vāstupuruṣa si
riferisce al suo aspetto asurico, di cui parleremo più in là.
22
Ṛg Veda, X, 90,5.
23
Un occidentale parlerebbe di «materia bruta»
trasformata in puro simbolo per ispirazione divina o
angelica. L’idea indù dell’esistenza (vāstu) implica in
qualche modo il concetto di «materia bruta» ma va molto
più lontano: l’esistenza è qui considerata come il
principio metafisico della separazione.
24
È la trasformazione del caos in cosmo, il fiat lux, per il
quale la terra «informe e vuota» sarà riempita di riflessi
divini.
25
Cfr. H. BURR ALEXANDER, L’Art et la Philosophie des
Indiens de l’Amérique du Nord, Ernest Leroux, Parigi
1926.
26
Ivi.
27
Costumanza che si ritrova nel folclore romeno.
28
Nel rito solstiziale della «danza del sole», gli Indiani
Arapaho costruiscono una grande capanna nel centro
della quale si innalza l’albero sacro, equiparato all’asse
del mondo; la capanna è formata da ventotto pali piantati
in cerchio e sorreggenti le aste del tetto, che si
congiungono al centro con l’albero.
Invece presso gli Indiani Crow la tenda del sole rimane
aperta in alto, mentre lo spazio intorno all’altare centrale
viene suddiviso in dodici reparti per i danzatori. Nell’un
caso come nell’altro la forma del santuario si riferisce ai
cicli del sole e della luna: nel primo caso, il ciclo lunare è
rappresentato dai ventotto pali del recinto corrispondenti
alle ventotto posizioni lunari; nel secondo, dal duodenario
dei mesi.
I riti che accompagnano l’erezione dell’albero della
«danza del sole» offrono singolari analogie con i riti indù
per l’erezione del palo del sacrificio, che è ugualmente
l’asse del mondo e l’Albero Cosmico.
29
Nel rito del dīkṣā il fuoco sacrificale viene trasferito dal
nuovo altare Gārhapatya all’altare del fuoco (Agni) in una
padella di terra cotta che ha la forma di
un cubo ed è
chiamata la «matrice» del fuoco in quanto contiene tutto
l’universo manifesto, come la «caverna» del cuore;
quest’ultima è anche rappresentata dalla stanza centrale
del tempio, il garbhagṛha, la cui forma è cubica (cfr.
STELLA KRAMRISCH, op cit.).
30
In certi diagrammi cosmologici dell’esoterismo
musulmano le fasi dei cicli celesti sono regolate da
angeli, che a loro volta manifestano dei Nomi divini. Cfr.
T. BURCKHARDT, Une Clé Spirituelle de l’Astrologie
Musulmane, in «Études Traditionnelles,» Parigi 1950.
31
Ricordiamo che il diagramma tradizionale dell’oroscopo,
il tracciato dell’eclittica, è anch’esso quadrato.
32
Le direzioni dello spazio corrispondono nettamente agli
aspetti o qualità divine, perché risultano da una
polarizzazione dello spazio illimitato e indifferenziato
come tale in riferimento a un dato centro. Questo centro
corrisponderà quindi al «germe» del mondo. Notiamo in
margine che il «quadrato magico», che serve a
«coagulare» delle forze sottili in vista di una determinata
operazione, è un lontano derivato del Vāstu-maṇḍala.
33
Da notare l’analogia fonetica e semantica tra agnus e
ignis, da una parte, e ignis e Agni, dall’altra.
Aggiungiamo che, nel simbolismo indù, ram è il bijā-
mantra del fuoco, rappresentato da un montone, e che in
inglese ram vale montone.
34
In questo caso, l’altare corrisponde al centro della
Gerusalemme celeste, occupato dall’Agnello.
35
Cfr. JEANNINE AUBOYER, Le Trône et son Symbolisme
dans l’Inde ancienne, Presses Universitaires de France,
Parigi 1949, p. 51.
36
Gli asura sono le manifestazioni coscienti – dunque, in un
certo senso personali – di tamas, la tendenza
«discendente» dell’esistenza. Cfr. R. GUÉNON, Il
simbolismo della Croce, trad. it. cit.
37
Quando i due partiti opposti rappresentano due differenti
sistemi tradizionali, ognuno di essi sarà per l’altro
un’espressione della dissoluzione «asurica».
38
Secondo il re Alfonso il Saggio i 4 × 8 pezzi devono
recare i colori verde, rosso, nero e bianco, che
corrispondono alle quattro stagioni: primavera, estate,
autunno e inverno, e ai quattro elementi: aria, fuoco,
terra e acqua (Cfr. ALFONSO EL SABIO, Libro de
Acedrex, a cura di Arnold Staiger, Eugen Rentsch, Zurigo
1941).
39
Cfr. T. BURCKHARDT, Le Symbolisme du Jeu des Échecs,
in «Études Traditionnelles», Parigi ottobre-novembre
1954.
40
A proposito di questa posizione, vedi sopra, nota 21.
41
Cfr. R. GUÉNON, Il simbolismo della Croce cit.
42
Cfr. STELLA KRAMRISCH, op. cit.
43
Il Kāla-mukha è anche la faccia di Rāhu, il demone delle
eclissi. Cfr. ANANDA K. COOMARASWAMY, The Face of
Glory, s.l.s.d.
44
Tale metodo ha un qualche rapporto con il senso della
«fissazione» alchemica.
45
L’origine «celeste» della danza indù è indirettamente
provata dalla sua diffusione e dal fascino che ha
esercitato attraverso i secoli. In una forma adattata al
buddismo, la danza indù ha influenzato lo stile
coreografico del Tibet e di tutta l’Asia orientale,
compreso il Giappone; a Giava è sopravvissuta
all’islamizzazione dell’isola e sembra aver determinato
anche la danza spagnola tramite la danza zigana.
46
Cfr. ANANDA K. COOMARASWAMY, The Dance of Śiva,
New York 1918.
II. Fondamenti dell’arte cristiana

1
Si può dire altrettanto dei germi di razionalismo filosofico
infiltratisi nel pensiero cristiano. Il che corrobora ciò che
diciamo dell’arte.
2
«La gnosi, per il fatto stesso che è un “conoscere” e non
un “volere”, si incentra su “ciò che è” e non su “ciò che
dovrebbe essere”. Ne risulta una maniera di considerare
il mondo e la vita che differisce notevolmente dalla
maniera, forse più “meritoria” ma meno “vera”, con cui i
volontaristi guardano alle vicissitudini dell’esistenza» (F.
SCHUON, Sentiers de Gnose, La Colombe, Parigi 1957, c.
«La gnose, langage du Soi»).
3
Va notato che la forma generale del tempio cristiano non
perpetua quella del tempio greco-romano, bensì le forme
della basilica con abside e degli edifici a cupola, che
apparvero a Roma in epoca relativamente tarda.
L’interno del Pantheon, con il suo immenso spazio
illuminato attraverso l’«occhio solare», non è certo privo
di grandiosità che però viene neutralizzata dal carattere
antropomorfo e banale dei particolari. È una sorta di
grandezza filosofica, se si vuole, ma che non ha nulla a
che vedere con la contemplazione.
4
Nella festa ortodossa dell’Esaltazione della Croce la
liturgia celebra il potere universale della croce, che «fa
rifiorire la vita incorruttibile, comunica alle creature la
deificazione e schiaccia definitivamente il demonio». Si
riconoscerà in queste parole l’analogia con l’Albero del
Mondo, asse immutabile del cosmo.
5
Dante fa di Cesare l’artefice del mondo destinato a
ricevere la Luce del Cristo (Par., VI, 55-57).
6
Gv. 2,19-21.
7
La vita nomade, l’assenza di un santuario fisso e la
proibizione delle immagini sono in rapporto con la
purificazione del popolo di Israele.
8
1 Re, 8,12 s.
9
Ivi, vv. 26 s.
10
2 Cron. 7,1 s.
11
Secondo sant’Agostino, Salomone costruì il tempio come
«tipo» della Chiesa e del corpo del Cristo (Enarr. in Ps.
126). Secondo Teodoreto, il tempio di Salomone è il
prototipo di tutte le chiese edificate sulla terra.
12
Sant’Agostino paragona il tempio di Salomone alla
Chiesa, le cui pietre di costruzione sono i credenti e le
fondamenta sono i profeti e gli apostoli. Tutti questi
elementi sono legati insieme dalla carità (Enarr. in Ps.
39). Tale simbolismo è stato sviluppato da Origene. San
Massimo Confessore vede nella chiesa costruita sulla
terra il corpo del Cristo, come anche l’uomo e l’universo.
13
Così Massimo Confessore.
14
Così sant’Agostino. Cfr. anche SIMEONE DI
TESSALONICA, De divino templo.
15
Cfr. P. NAUDON, Les Origines Religieuses et Corporatives
de la Franc-Maçonnerie, Dervy, Parigi 1953.
16
Cfr. E. MOESSEL, Die Proportion in Antike und
Mittelalter, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung,
Monaco 1926.
17
Lo strumento – e anche l’arma divina – per eccellenza è il
lampo, che simboleggia il Verbo o Intelletto primo, ed è a
sua volta simboleggiato da scettri rituali, come il vajra
nell’iconografia indù e buddista. Ricordiamo pure la
potenza leggendaria di certe spade famose.
18
L’agricoltura è spesso concepita come arte di origine
divina. Fisicamente, l’atto di arare la terra ha l’effetto di
aprirla all’aria che favorisce la fermentazione
indispensabile perché i vegetali assimilino la terra.
Simbolicamente, la terra è aperta agli influssi del cielo, e
l’aratro è l’agente attivo o l’organo generatore di
quest’ultimo. In margine osserviamo che la sostituzione
dell’aratro con le macchine ha ridotto molte terre fertili
alla sterilità e le ha così trasformate in deserti: è la
maledizione inerente alle macchine di cui parla René
Guénon nel libro Il regno della quantità e i segni dei
tempi già citato.
19
Il simbolismo del calamo e del libro – o del calamo e della
tavoletta – ha una parte rilevante nella tradizione
islamica. Secondo la dottrina sufi, il «calamo supremo»
è
l’«Intelletto universale» e la «tavoletta segreta», su cui il
calamo incide i destini del mondo, corrisponde alla
materia prima, la sostanza increata – o non manifestata –
che sotto gli impulsi dell’Intelletto o dell’Essenza produce
tutto quello che la «creazione» implica. Cfr: T.
BURCKHARDT, Introduction aux Doctrines Ésoteriques
de l’Islam cit.
20
Si può anche dire che questi strumenti corrispondono alle
diverse «dimensioni» della conoscenza. Cfr. F. SCHUON,
De l’Unité Transcendante des Religions cit., c. «Des
dimensions conceptuelles».
21
Purg., XXVII, 139-142.
22
Cfr. R. GUÉNON, L’esotérisme de Dante, Études
Traditionnelles (Chacornac), Parigi 1939; trad. it.:
L’esoterismo di Dante, Atanòr, Roma 1951.
23
Secondo le parole dell’apostolo Pietro: «Voi stessi, simili
a pietre vive, siate edificati come edificio spirituale» (1
Piet. 2,5).
24
Alberto Magno scrive: «Sappi che non si diventa filosofo
completo se non conoscendo le due filosofie di Platone e
di Aristotele» (cfr. E. GILSON, Lo spirito della filosofia
medioevale, trad. it., ed. 2, Morcelliana, Brescia 1964). E
san Bonaventura: «Tra i filosofi, Platone ha ricevuto la
parola della Saggezza, Aristotele la parola della Scienza.
Platone considerava principalmente le ragioni superiori,
Aristotele le inferiori». I sufi erano della medesima idea.
25
Gv. 1,3.
26
Ivi, v. 9.
27
BOEZIO, De Unitate et Uno.
28
Insieme con Isidoro di Siviglia e Marziano Capella.
29
Cfr. anche R. GUÉNON, Il simbolismo della Croce, trad.
it. cit., c. «Il simbolismo della tessitura».
30
Bisogna fare eccezione per certe chiese impiantate su
antichi santuari greci o romani; diciamo «eccezione» in
senso molto relativo, trattandosi di santuari.
31
Si è sostenuto che la forma tradizionale dell’iconostasi,
con le sue colonnine che inquadrano delle icone, deriva
dalla scena del teatro antico, la cui parete di fondo era
ornata di immagini e fornita di porte dalle quali gli attori
entravano e uscivano. L’analogia ha un fondamento di
verità soltanto perché la forma del teatro antico si
ispirava a un modello cosmico: le porte della scena
simboleggiano le «porte del cielo», da cui gli dèi
discendono nel mondo o le anime ascendono al cielo.
32
In queste diverse forme di croce, tutte dei primi secoli del
cristianesimo, ora predomina l’aspetto dinamico della
croce (derivante dalla sua disposizione a raggiera), ora
l’aspetto statico del quadrato; in genere i due elementi si
combinano in vari modi con il cerchio o il disco. Per
esempio, la croce di Gerusalemme, dai cui bracci partono
altrettante croci minori, richiama, con il riflesso multiplo
del centro divino, l’onnipresenza della Grazie; al tempo
stesso riallaccia misteriosamente la croce al quadrato.
Nell’arte celto-cristiana la croce e la ruota solare si
fondono in una sintesi piena di evocazioni spirituali.
La forma ieratica della tiara e della mitra rievoca
anch’essa dei simboli solari. Infine, il pastorale del
vescovo termina sia in due teste di serpente affrontate,
come il caduceo, sia in una spirale; quest’ultima è a volte
stilizzata in un drago che spalanca la bocca sull’Agnello
pasquale: immagine del ciclo cosmico che «divora» la
vittima sacrificale, ossia il sole o l’Uomo-Dio.
33
Per esempio, la croce inscritta nel cerchio, che può esser
considerata come la figura chiave dell’architettura sacra,
rappresenta anche lo schema dei quattro elementi
raggruppati intorno alla «quintessenza» e tenuti insieme
dal movimento circolare delle quattro qualità naturali: il
caldo, l’umido, il freddo e il secco, che corrispondono ai
principi sottili da cui, secondo l’alchimia, è governata la
trasmutazione dell’anima. Sicché in un solo simbolo sono
messi in relazione reciproca gli ordini fisico, psichico e
spirituale.
34
Una copia del Mandilion è conservata nella cattedrale di
Laon.
(Altro esemplare si conserva in Genova, nella chiesa di
San Bartolomeo degli Armeni: il capitano generale
Leonardo Montaldo lo ebbe dall’imperatore Giovanni V
Paleologo in compenso dell’aiuto prestatogli contro i
Turchi. Divenuto doge nel 1383, morì l’anno dopo nella
sua villa di Porta San Bartolomeo, dopo aver fatto
pubblico atto di donazione dell’icona ai padri della vicina
chiesa: N.d.T.).
35
Se tale impronta fosse opera di un pittore, non si
potrebbe attribuire né a un artista antico o medioevale né
a un artista dei tempi moderni. Nel primo caso vi si
oppone l’assenza di ogni stilizzazione, nel secondo la
profonda qualità spirituale, per non parlare delle ragioni
storiche. È escluso, del resto, che un’immagine di tale
autenticità spirituale sia il risultato di una mistificazione.
36
L’esemplare più antico della «Vergine del Segno» risale al
secolo IV ed è stato ritrovato nelle catacombe del
Cimitero Maggiore in Roma. La medesima composizione
divenne oltremodo celebre come Blacherniotissa, la
Madonna miracolosa di Costantinopoli.
37
È il caso della famosa icona di Andrej Rublev, che
rappresenta i tre angeli visitanti Abramo. Il motivo, di per
sé, ha origine nell’arte paleocristiana e costituisce l’unica
iconografia tradizionale della Santissima Trinità (cfr.
OUSPENSKY-LOSSKY, Der Sinn der Ikonen, Urs Graf-
Verlag, Berna 1952).
38
Col. 1,15.
39
Cfr. Ouspensky-Lossky cit.
40
De divinis Nominibus, I, 4. Ci rifiutiamo di deprezzare,
neppure indirettamente, questo grande autore spirituale
infliggendogli il soprannome di Pseudo Dionigi,
qualunque sia il valore delle recenti teorie storiche.
41
De caelesti Hierarchia, I, 4.
42
Ivi.
43
È significativo che san Giovanni Damasceno (700-750) sia
vissuto in una piccola comunità cristiana completamente
isolata nel gran mare della civiltà musulmana.
44
La tradizione si è estinta quasi completamente nel secolo
XVIII, ma ai nostri giorni sembra ravvivarsi in qualche
angolo sperduto.
45
Questa circostanza si ricollega alla dottrina della
trasfigurazione dei corpi attraverso la luce del Tabor,
secondo la mistica degli esicasti. Cfr. Ouspensky-Lossky
cit.
46
Ivi.
III. «Io sono la porta»

1
Talvolta la forma architettonica di un santuario si riduce
a quella del portale. È il caso del torii giapponese, che
indica un luogo sacro.
2
Cfr. R. GUÉNON, Le Symbolisme du Dôme, in «Études
Traditionnelles», ottobre 1938; La Sortie de la Caverne,
ivi, aprile 1938; Le Dôme et la Roue, ivi, novembre 1938.
I contorni della nicchia riproducono anche il piano della
basilica rettangolare terminante nell’emiciclo dell’abside.
L’analogia tra la pianta del tempio e la forma del portale
si trova già menzionata in un’opera ermetica apparsa nel
1616: Les Noces Chymiques de Christian Rosenkreutz, di
Johann Valentin Andreä, trad. fr., Chacornac Frères,
Parigi 1928.
3
È noto che i punti solstiziali si spostano nel cielo delle
stelle fisse, di cui compiono il giro in 25.920 anni.
Tuttavia essi determinano i punti cardinali e di
conseguenza ogni misura costante dello spazio.
4
Cfr. F. SCHUON, De l’Unité Transcendante des Religions
cit., c. IV: «La question des formes d’art».
5
Gv. 10,9.
6
Il donatore viene presentato a san Paolo da un angelo, e
l’artista è in ginocchio a fianco di san Pietro.
7
Ciò significa che essi «si rivestono» dei loro nuovi corpi.
8
Gli apostoli sono generalmente identificati con le
«colonne» della Chiesa, secondo la descrizione della
Gerusalemme celeste, le cui mura sono rafforzate da
dodici basamenti recanti i nomi degli apostoli (Apoc.
21,14). La Gerusalemme celeste è il prototipo del tempio
cristiano. Il tema iconografico degli evangelisti che fanno
corpo con gli elementi di sostegno del portale si ritrova in
parecchi altri portali romanici, in Francia e in Lombardia.
9
Per esempio nella chiesa di San Vittore in Ciel d’oro, la
cui cupola a mosaico data dal secolo V. La chiesa è
attualmente incorporata nel complesso della basilica di
Sant’Ambrogio a Milano.
10
Gv. 1,9. «... La stessa cosa si può dire dell’immagine,
nella quale si manifesta la Bontà divina. Essa è come un
gran sole tutto luce, che splende incessantemente perché
è una fievole eco del Bene, illumina tutto ciò che può
essere illuminato, possiede una luminosità dilagante e fa
piovere sull’intero mondo visibile, a tutti i livelli dall’alto
in basso, il fulgore della propria luce abbagliante»
(Dionigi Areopagita, De divinis Nominibus, III, 3).
11
Cfr. R. GUÉNON, Les Portes Solsticiales, in «Études
Traditionnelles», maggio 1938; Le Symbolisme du
Zodiaque chez les Pythagoriciens, ivi, giugno 1938; Le
Symbolisme Solsticial de Janus, ivi, luglio 1938; La Porte
Étroite, ivi, dicembre 1938; Janua Coeli, ivi, gennaio-
febbraio 1946.
12
Cfr. P.-M. MOULLET, Galluspforte des Basler Münsters,
Holbein Verlag, Basilea 1938. Ricordiamo che le
proporzioni di un edificio sacro risultano normalmente
dalla divisione regolare di un cerchio conduttore,
immagine del ciclo celeste. Con questo procedimento la
proporzione, che afferma l’unità nello spazio, è
consapevolmente ricollegata al ritmo, che esprime l’unità
nel tempo. Questo spiega l’armonia insieme evidente e
irrazionale dei portali romanici: le misure sfuggono al
principio quantitativo del numero.
13
Mt. 25,34-41.
14
Nel sufismo, Abū Yazid al-Bistāmi è uno dei rivelatori
della «identità suprema».
15
Per esempio, una croce a otto raggi adorna il timpano di
una chiesa romanica a Jaca in Catalogna.
16
Gv. 15,5. Nell’arte romanica ricorre con frequenza il
motivo della vite con i tralci che avvolgono ogni sorta di
figure: uomini e animali che si nutrono dei grappoli,
mostri che rodono la pianta, e scene di caccia.
17
Secondo il Mānasāra-Śilpa-Śāstra, una nicchia sacra deve
contenere l’Albero del Mondo oppure l’immagine della
divinità.
18
Cfr. Dante, Purg., XXXII, 47.
19
Per esempio, sul portale della basilica di San Michele a
Pavia, della cattedrale di San Donnino in Emilia, del
duomo di Verona e di San Fedele di Como.
20
Ricordiamo soltanto la singolare coincidenza fra un
rilievo che corona la Porta del Talismano a Baghdad e una
miniatura dell’evangeliario irlandese di Kells, che delinea
l’architettura di un portale (Canone Eusebiano, fol. 2V);
nelle due composizioni un personaggio con aureola –
nella miniatura irlandese si direbbe il Cristo – afferra la
lingua di due draghi che si affrontano con la gola
spalancata. Il rilievo di Baghdad è dell’epoca selgiuchide,
quindi posteriore alla miniatura irlandese, che è del
secolo VIII; per la forma dei draghi riflette modelli
dell’Estremo Oriente. Una composizione del genere è
abbastanza frequente, pur con talune varianti,
nell’oreficeria nordica, nelle arti minori dei paesi
dell’Islam e nella decorazione romanica.
21
Cfr. STELLA KRAMRISCH, The Hindu Temple cit., vol. I,
pp. 318 ss.; R. GUÉNON, Kāla-mukha, in «Études
Traditionnelles», marzo-aprile 1946.
22
In particolare, l’architettura romanica della Lombardia
possiede uno schema di portale ad atrio, le cui colonne
poggiano su dei leoni e gli archi portanti sono ornati di
grifoni o draghi (portale del duomo di Verona, dell’antica
chiesa di Santa Margherita a Como; altri esempi nella
cattedrale di Assisi, nel duomo di Modena, Ferrara,
eccetera).
23
L’arte islamica del Medio Oriente fu influenzata
dall’espansione turca dei secoli XII e XIII. Le genti turche
portarono nei paesi dell’Islam alcuni elementi delle civiltà
mongoliche.
24
Per esempio a Saumur, Tournus, Venosa,
Königslauterbach, eccetera. Si ritrova anche, in forma più
schematica, nell’oreficeria scandinava precristiana.
25
L’arte greco-romana può avere assorbito alcuni motivi
orientali come elementi puramente decorativi, e di tali
motivi l’arte medioevale riporterà nuovamente in luce il
carattere simbolico.
26
Nel timpano del portale meridionale di San Godehard a
Hildesheim, in Sassonia, sono rappresentati due leoni che
dalla gola emettono piante stilizzate.
27
Tale usanza si è mantenuta soprattutto nelle vallate
alpine.
28
Apoc. 4,2-7.
29
Fra i «viventi» dell’Apocalisse, uno ha viso umano; ma la
qualità di uomo implica qui semplicemente una
distinzione specifica e non una preminenza gerarchica.
Dice san Tommaso che la distinzione fra i diversi angeli è
analoga non alla distinzione fra individui della medesima
specie, bensì a quella fra intere specie. Questo chiarisce
il simbolismo animale del tetramorfo, così come, presso
alcuni popoli antichi, il simbolismo di certe divinità a
forma animale che hanno soltanto il grado di angeli.
30
Secondo una tradizione diffusa tra gli Arabi, il liuto
(al’ud) sintetizza, per le sue proporzioni e per la sua
gamma, l’armonia cosmica. Nella presente iconografia
sostituisce l’arpa (cfr. Apoc. 15,3).
31
Dalla bocca dei makara sugli archi di spinta del torana
esce spesso una fioritura di tralci, di ghirlande vegetali o
di collane di perle.
32
Il «trono dei leoni» si combina generalmente con il
torana, ornato del motivo del makara e coronato dal Kāla-
mukha, come cornice trionfale di un’immagine di divinità.
33
Il loto sboccia alla superficie dell’acqua, che simboleggia
l’insieme delle possibilità nel loro stato di non-distinzione
passiva. Il Corano dice che il Trono di Dio «era
sull’acqua».
34
Il simbolismo dei punti cardinali in connessione con la
liturgia e con l’architettura sacra è spiegato in opere
medioevali come lo Specchio del mondo di Onorio
d’Autun e lo Specchio della Chiesa di Durandus.
35
Due altri testimoni, forse i profeti Isaia ed Ezechiele,
stanno rispettivamente a destra e a sinistra dei dodici
apostoli.
36
Par., XXXIII, 1 ss.
IV. Fondamenti dell’arte musulmana

1
Quando la Mecca fu conquistata dai musulmani, il Profeta
fece distruggere per prima cosa tutti gli idoli che gli
Arabi pagani avevano eretto nel recinto della Ka‘ba;
quindi entrò nel santuario, le cui pareti erano state
decorate da un pittore bizantino: fra le tante figure v’era
un Abramo nell’atto di scagliare frecce divinatorie e
un’immagine della Vergine con il Bambino. Il Profeta
ricoprì quest’ultima con le sue mani e ordinò di
cancellare tutte le altre.
2
Un artista da poco convertito all’Islam si lamentava con
Abbas, zio del Profeta,
di non saper più cosa dipingere (o
scolpire). Allora il patriarca gli consigliò di raffigurare
piante e animali fantastici che non esistono in natura.
3
Si può dire che Alessandro fu l’«artefice» del mondo
destinato a divenire musulmano, così come Cesare fu
l’«artefice» di quel mondo che doveva divenire cristiano
(cfr. Dante, Par., VI, 55-57).
4
Uno dei motivi della decadenza dei paesi musulmani nei
tempi moderni è la progressiva scomparsa dell’elemento
nomade.
5
La famosa Pietra Nera è incassata in un angolo della
Ka‘ba e non indica affatto il centro verso cui si dirigono i
credenti nelle loro preghiere; non ha neppure funzione
«sacramentale».
6
Fin dalle origini l’architettura musulmana assimilò alcuni
elementi dell’architettura indù e buddista, che però le
erano pervenuti attraverso l’arte persiana e bizantina.
Solo più tardi la civiltà islamica incontrò direttamente
quella dell’India.
7
L’analogia tra la natura del cristallo e la perfezione
spirituale è adombrata in questa formula che risale al
califfo ‘Alī: «Maometto non è un uomo come gli altri
uomini, è come la pietra preziosa in mezzo alle altre
pietre». Queste parole indicano anche il punto di
congiunzione fra l’architettura e l’alchimia.
8
U. VOGT-GӦKNIL, Türkische Moscheen, Origo-Verlag,
Zurigo 1953.
9
Cfr. R. GUÉNON, Il regno della quantità e i segni dei
tempi, c. «Caino e Abele», trad. it. cit.
10
Cfr. T. BURCKHARDT, Introduction aux Doctrines
Ésotériques de l’Islam cit.
11
Simboli analoghi sono reperibili nell’abbigliamento
rituale degli Indiani dell’America del Nord: per esempio,
il copricapo con le corna di bisonte e le frange della veste
come immagine della pioggia e delle benedizioni divine.
Invece il copricapo di penne d’aquila ricorda l’«Uccello
del Tuono» che domina il mondo dall’alto, e il sole
raggiante: entrambi sono simboli dello Spirito universale.
12
Cfr. SIMEONE DI TESSALONICA, De divino Templo.
13
La nudità può anche avere un carattere sacro, in quanto
ricorda lo stato primordiale dell’uomo e annulla ogni
separazione tra l’uomo e l’universo. L’asceta indù è
«vestito di spazio».
14
L’araldica ha probabilmente una doppia origine: gli
emblemi delle tribù nomadi – i totem – e l’ermetismo.
Queste due correnti si fusero nel Medio Oriente sotto i
Selgiuchidi.
15
L’abbigliamento maschile odierno, che in parte risale alla
Rivoluzione Francese e in parte al puritanesimo inglese,
costituisce una sintesi quasi perfetta delle tendenze
antispirituali e antiaristocratiche. È un abbigliamento
che, pur affermando le forme del corpo, nello stesso
tempo le «corregge» secondo una concezione goffa, ostile
alla natura e alla bellezza intrinsecamente divina
dell’uomo.
16
Il turbante è chiamato «la corona (o il diamante)
dell’Islam».
17
Non si tratta di un divieto canonico ma di una
riprovazione, più rigorosa per l’oro che per la seta.
18
Le dispute delle scuole teologiche musulmane a proposito
della natura creata o increata del Corano sono analoghe
alle dispute dei teologi cristiani sulle due nature del
Cristo.
19
Questo motivo ritorna, più o meno stilizzato, su molti
tappeti di preghiera. Va aggiunto che la nicchia della
preghiera non sempre è ornata di una lampada, poiché
tale simbolo non è affatto obbligatorio.
20
Ṣūrah XXIV: «La Luce», 35 (trad. di M.M. Moreno, Il
Corano, UTET, Torino 1971).
21
La conchiglia marina che adorna alcune nicchie della
preghiera più antiche deriva in realtà, come elemento
architettonico, dall’arte ellenica, e sembra ricollegarsi a
un remoto simbolismo che paragona la conchiglia
all’orecchio e la perla alla Parola divina.
22
L’atteggiamento iconoclastico dei musulmani include
anche un altro aspetto: poiché l’uomo è stato creato a
immagine di Dio, si considera sacrilegio imitarne la
forma. Però questo punto di vista è più la conseguenza
che non la ragione prima della proibizione dell’immagine.
V. L’immagine del Buddha

1
Ciascuna delle grandi tradizioni spirituali dell’umanità
possiede una certa «economia» dei mezzi spirituali,
poiché l’uomo non potrebbe impiegare nel medesimo
tempo tutti i mezzi possibili, né seguire due sentieri in
una volta, sebbene il fine di tutte le vie sia
fondamentalmente lo stesso. La tradizione garantisce che
i mezzi da essa offerti sono sufficienti per condurre
l’uomo verso Dio o fuori dal mondo.
2
Cfr. P. Mus, Barabudur, Hanoi 1935. I «sette passi» del
Buddha diretti verso le differenti regioni dello spazio
richiamano i movimenti che gli Indiani Sioux eseguono in
occasione del hanblecheyapi, il rito dell’invocazione
compiuta in solitudine sulla cima di una montagna (cfr.
ALCE NERO, La Sacra Pipa, trad. it. cit., pp. 67 ss.).
3
Iscrizione di Long-men, citata da P. Mus cit., p. 546.
4
Secondo un’iconografia shingon (cfr. A.K.
COOMARASWAMY, Elements of Buddhist Iconography,
Harvard 1935), quattro tathāgata occupano le regioni
cardinali e quattro bodhisattva le regioni intermedie. Il
nome dei reggenti dello spazio può variare a seconda del
piano spirituale considerato. Lo schema seguente è
quello classico: Akśobya corrisponde all’est,
Ratnasambhava al nord, Amitābha all’ovest,
Amoghasiddhi al sud, Maitreya al nordest,
Samantabhadra al nordovest, Manjuśri al sudovest,
Avalokitēśvara al sudest. I primo quattro sono tathāgata,
gli altri bodhisattva.
5
Il buddha o tathāgata è colui che ha raggiunto la
liberazione totale. Il bodhisattva è un essere qualificato
per raggiungere il nirvāna fin da questa vita.
6
Cfr. H. DE LUBAC, Amida, Ed. du Seuil, Parigi 1955, c.
«Amitābha et la Sukhavati».
7
Commento al Loto, citato da H. de Lubac cit., p. 284.
8
Cfr. A.K. Coomaraswamy cit., p. 6.
9
V. sopra, c. II, 5.
10
Si può istituire un altro parallelismo con i più antichi
emblemi del Cristo. Sui timpani dei portali l’antica
iconografia simbolica si protrasse fino all’epoca
romanica: mentre si esitava a rappresentare il Cristo in
sembianze umane, il monogramma a forma di ruota e
l’Albero della Vita vi erano frequentemente raffigurati.
Inoltre, il simbolo del «trono preparato» si trova in certe
icone bizantine.
11
L’idea che l’immagine dipinta del Buddha sia più
conforme alla legge sacra che non immagine scolpita
riapparirà in Giappone nella scuola del Jodo-shin-shu.
12
La rappresentazione scolpita del Cristo è più tarda della
sua raffigurazione dipinta.
13
Cfr. A.K. Coomaraswamy cit., p. 4.
14
Coloro che si stupiscono all’idea che il voto del Buddha
possa salvare «tutti gli esseri», dovranno anche stupirsi
del dogma secondo cui il Cristo è morto «per tutti gli
uomini». Nell’uno come nell’altro caso, la Grazia
universale resa attuale da un supremo sacrificio può
tuttavia agire soltanto se viene accolta.
15
In linguaggio teologico, si direbbe che con tale voto la
sua volontà si identificò con la volontà divina.
16
Cfr. H. de Lubac cit.
17
Riprodotto in M. PALLIS, Peaks and Lamas, The Woburn
Press, ed. 3, Londra 1974.
18
Specialmente le immagini di Amitābha dipinte da
Genshin (sec. X). Cfr. H. de Lubac cit., p. 143.
VI. Il paesaggio nell’arte dell’Estremo Oriente

1
In cinese: pi, «lavoro del pennello»; mo, «lavoro
dell’inchiostro»; mohua, «potere di trasformazione
dell’inchiostro».
2
La parola sanscrita dhyāna significa «contemplazione».
L’equivalente cinese è ch’an-na o ch’an, quello
giapponese è zenna o zen. Cfr. D.T. SUZUKI, Introduzione
al Buddhismo Zen, trad. it., Astrolabio-Ubaldini, Roma
1970.
3
Cfr. A.K. COOMARASWAMY, La trasfigurazione della
natura nell’arte, trad. it. cit., pp. 30 ss. e, per l’argomento
in generale, tutto il c. I.
4
Si ritrova questo metodo nell’arte del tiro all’arco. Cfr.
l’eccellente opera di E. HERRIGEL (Bungaku Hakushi),
Lo Zen e il tiro con l’arco, trad. it. cit.
5
Cfr. D.T. Suzuki cit.
6
Cfr. D.T. SUZUKI, La dottrina zen del vuoto mentale, trad.
it., Astrolabio-Ubaldini, Roma 1968.
7
Una certa scuola moderna di psicologia definisce il
«subcosciente collettivo» come un’entità che la ricerca
scientifica non potrebbe cogliere direttamente – dato che
l’inconscio non può, in quanto tale, divenire cosciente –
ma le cui disposizioni latenti, chiamate abusivamente
«archetipi», possono essere inferite da certe «eruzioni»
irrazionali dell’anima. L’illuminazione «subitanea» dello
zen sembra corroborare quest’ultima definizione.
Secondo una tesi del genere il «subcosciente collettivo»»
diventa una sorta di recipiente elastico in cui può trovar
posto tutto ciò che non è semplicemente di ordine fisico o
razionale, persino l’intuizione e facoltà quali la telepatia e
la premonizione; o almeno lo si presume, perché in realtà
l’oggetto della ricerca psicologica resta limitato in questo
come in ogni altro caso, dal punto di vista assunto dallo
psicologo. Lo spirito di colui che scruta, disseziona e
classifica si pone sempre, a torto o a ragione, «al di
sopra» del suo oggetto; e perciò l’oggetto sarà
necessariamente meno di lui, ossia meno della sua
razionalità, che è a sua volta limitata dalle categorie della
scienza. Se il «subcosciente» fosse davvero la sorgente
ontologica della coscienza individuale, questa non
potrebbe porsi come spettatrice distaccata e «oggettiva»
di fronte alla sua propria sorgente, e dunque
l’«inconscio», che in via indiretta può essere oggetto
dell’investigazione scientifica, sarà sempre un
«subcosciente», vale a dire una realtà infraumana,
normale o morbosa a seconda dei casi. Anche se questo
«subcosciente» contiene delle disposizioni psichiche
ancestrali, queste hanno tuttavia solo un carattere
passivo e non debbono esser confuse con le sorgenti
sovramentali del simbolismo tradizionale, delle quali sono
tutt’al più ombre o residui. Lo psicologo che voglia
studiare i «fenomeni religiosi dell’anima» riferendosi al
subcosciente, ne annoterà quindi soltanto le
concomitanze psichiche inferiori.
8
Appunto per questo, nel tiro all’arco ispirato allo Zen, il
bersaglio viene colpito senza che l’arciere prenda la mira.
L’interferenza del pensiero discorsivo intralcia il genio
naturale, come è assai bene illustrato dalla favoletta
cinese del ragno che domanda al millepiedi come faccia a
camminare senza aggrovigliare le zampine; il millepiedi
si mette a riflettere e all’improvviso non sa più
camminare.
VII. Decadenza e rinnovamento dell’arte
cristiana

1
Trad. it.: Perdita del centro, Rusconi, Milano 1974, in
particolare pp. 199 ss.
Indice
Copertina
Trama
Biografia
Frontespizio
Copyright
INTRODUZIONE
Capitolo primo - LA GENESI DEL TEMPIO INDÙ
Capitolo secondo - FONDAMENTI DELL'ARTE CRISTIANA
Capitolo terzo - «IO SONO LA PORTA»
Capitolo quarto - FONDAMENTI DELL'ARTE MUSULMANA
Capitolo quinto - L'IMMAGINE DEL BUDDHA
Capitolo sesto - IL PAESAGGIO NELL'ARTE DELL'ESTREMO
ORIENTE
Capitolo settimo - DECADENZA E RINNOVAMENTO DELL'ARTE
CRISTIANA
NOTE
Introduzione
I. La genesi del tempio indù
II. Fondamenti dell'arte cristiana
III. «Io sono la porta»
IV. Fondamenti dell'arte musulmana
V. L'immagine del Buddha
VI. Il paesaggio nell'arte dell'Estremo Oriente
VII. Decadenza e rinnovamento dell'arte cristiana

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