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Nell'uso attuale del termine espressionismo riferito alle arti si danno due accezioni diverse: da un lato si

indica una tendenza ricorrente, una sorta di categoria, individuabile in senso sovrastorico,
dell'atteggiamento psicologico che si manifesta, nel fare artistico, in un sistema di esasperazioni formali;
dall'altro si indica un complesso momento, storicamente determinabile, dell'avanguardia artistica di
questo secolo, al quale il termine è stato applicato, prima dalla critica e poi dagli artisti, per indicarne il
comun denominatore e il fattore più caratterizzante. In questo momento prevale l'atteggiamento
espressionista categorialmente inteso; ma il fenomeno storico non è riducibile all'atteggiamento, come
d'altra parte l'atteggiamento, nel suo manifestarsi storico, si combina con una serie eterogenea di fattori
e si riduce in una determinazione particolare. Nel taglio del materiale da analizzare è legittimo tener
presente l'una o l'altra accezione del termine, operando una restrizione, necessaria per ogni tipo di
analisi, che corrisponde a una scelta sul metodo e le finalità del lavoro. Optando per la seconda, ci
proponiamo di indicare il significato di un certo modo d'intendere la produzione artistica e
l'atteggiamento estetico in un determinato momento storico, le sue molteplici manifestazioni e le sue
implicazioni ideologiche, le condizioni da cui esso nasce e la posizione che occupa nella coscienza
contemporanea. Questa precisazione è necessaria perché, tra tutti i termini designati a indicare
movimenti d'avanguardia, l'espressionismo, per la complessità dei fatti che lo compongono (e non per
una loro presunta, illusoria elementarità), è quello che presenta maggiori difficoltà di definizione e
quindi, al tempo stesso, più si presta a risolversi in una categoria sovrastorica; categoria che può
esercitare un particolare fascino anche per certe sue istanze irrazionalistiche. Scegliendo di porsi in
un'ottica rigorosamente storica, si deve analizzare e scomporre anche questo fascino.

Per espressionismo s'intende dunque una manifestazione delle arti situabile tra l'esaurirsi, o meglio il
trasformarsi, di un filone simbolista e le nuove tendenze ‛oggettive' e ‛razionali', che però sotto molti
aspetti in esso rientrano, ossia tra il 1905 circa e il corso degli anni venti. Il termine è nato nell'ambito
della pittura, ma il fenomeno investe anche la scultura (più limitatamente), la musica, la letteratura, il
teatro e il cinema, e infine l'architettura e l'industrial design, dove però è controverso se esso abbia agito
direttamente o a livello di istanza, o in negativo. Per un complesso di ragioni economiche e
sociopolitiche, nonché per un particolare substrato culturale e in specie filosofico, il suo centro è la
Germania, da cui passa abbastanza direttamente in Austria e per vie più lente e complesse in altri paesi.
Un discorso a parte va fatto per i fauves, che si possono considerare una particolare, e diversa,
manifestazione dell'espressionismo in Francia, e con i quali si sono talvolta identificati gli stessi pittori
espressionisti tedeschi.

Il termine indica la volontà programmatica di estrinsecare nell'opera una realtà interiore, una condizione
composta di sentimenti, concezioni del mondo, reazioni all'ambiente esterno, direttamente e
immediatamente attraverso l'immagine, senza il tramite di un simbolo codificato; questa condizione si
riassume nella intraducibile Stimmung, letteralmente ‛intonazione di un accordo', che comprende lo
stato d'animo e l'atmosfera dell'ambiente. Si accentuano, in tal modo, l'istanza comunicativa e il valore
gestuale dell'attività artistica, a discapito dell'interesse per una forma totalizzante e appagante; la forma
si riduce invece alla funzione di segno, nel contesto di un linguaggio che rivendica a sè, e a sé soltanto, la
possibilità di esprimere globalmente e senza ‛maschere' la realtà dell'esistenza, ormai scissa
irrevocabilmente dalla verità fenomenica: sono proprio gli espressionisti che aprono la strada a
un'estetica non più fondata sul concetto di forma e di rappresentazione, ma su quello di ‛segno':
l'estetica ‛semantica', appunto. Nè, se questa tesi è giusta, v'è altro da aggiungere per spiegare
l'influenza persistente, crescente, sempre più premente, che l'espressionismo ha esercitato ed esercita
sull'arte moderna nel mondo; e la necessità di un ponderato riesame critico che chiarisca l'importanza,
non soltanto di componente romantica, ch'esso ha avuto nella storia dell'arte" (G. C. Argan, L'estetica
dell'espressionismo, in ‟Marcatrè", 1964, n. 8-9-10, p. 24).

La definizione dell'espressionismo in tale significato, che, nel sottolineare il moto dall'interno all'esterno
dell'atto creativo, polemicamente lo oppone all'impressionismo (ma questo se ne rivelerà, a un esame
più attento, presupposto diretto), non appare in un vero e proprio programma, ma è desumibile da una
serie d'interventi di critici e di artisti. È usata, forse per la prima volta, nel 1910, riferita a un quadro di
Pechstein da Cassirer, durante una discussione della giuria del gruppo Secessione di Berlino; da
Worringer nella sua difesa delle tendenze moderne, soprattutto francesi (contro la nazionalistica Protest
deutscher Künstler), pubblicata poi anche in ‟Der Sturm" nell'agosto 1911; con maggiore consapevolezza
da P. Fechter nel 1914, riferita agli artisti della Brücke, del Blaue Reiter e a Kokoschka, e da Bahr nel 1916;
da K. Edschmid in alcuni scritti tra il 1917 e il 1919, riferita alla letteratura; quindi il termine diviene di
uso comune, e in seguito sarà riferito sempre più alla tendenza che più nettamente si rivela nei pittori
della Brùcke. Dal 1914 in poi per espressionisti s'intendono specialmente gli artisti operanti in Germania,
ma il termine è spesso ancora esteso ai fauves, ai cubisti e ai futuristi. In alcune affermazioni, per
esempio dello stesso Edschmid e di Behne (Deutsche Expressionisten, in ‟Sturm", 1914, n. 17-18),
appare prevalente la tendenza a concepire l'espressionismo come categoria sovrastorica, che
eternamente ‛ritorna' nell'evoluzione dell'umanità.

Come è stato notato (v. Gordon, 1966), sono gli artisti francesi, e in particolare Matisse sulla scia di
Moreau, i primi a formulare nei loro scritti una teoria dell'arte come espressione; e il termine
espressionismo in Germania è inizialmente riferito proprio ai fauves: così, per esempio, alla XXII mostra
del gruppo Secessione di Berlino, nel 1911. Ma non è un caso che il termine stesso venga coniato e usato
dai critici tedeschi e non dai francesi. L'arte come espressione è intesa in modo profondamente diverso
da un Matisse o da storici come Fechter; il riferirnento dell'espressionismo compiuto da quest'ultimo, a
posteriori, all'avanguardia tedesca, in base ad argomentazioni irrazionalistiche per noi inaccettabili,
indica comunque che esiste un fenomeno storicamente determinato riassumibile in tale termine, anche
se gli artisti in questione non si sono autodefiniti espressionisti nè costituiscono un gruppo unitario.

Questa esigenza di comunicazione, di approdo immediato alla sfera esistenziale, di recupero del valore
della creatività soggettiva, avviene in un momento particolarmente denso di trasformazioni nella storia
della Germania. Siamo in una nazione relativamente giovane, in cui il processo di industrializzazione,
ancora abbastanza arretrato all'inizio dell'ultimo quarto dell'Ottocento, ha subito negli ultimi anni una
rapida accelerazione, per entrare direttamente nella competizione del mercato mondiale. La fase
bismarckiana si è conclusa (1890); la speranza di un rapporto dialettico tra un capitalismo in piena
espansione e un socialismo che preme alle porte, aperta subito dopo da qualche provvedimento, è
delusa ben presto e sostituita dall'ordine stabile e dalle mire assolutistiche e imperialistiche di Guglielmo
Il. Nella vita quotidiana appaiono preponderanti i valori del progresso scientifico e del rafforzamento del
potere, presupposti della sicurezza di un assetto borghese che tanto più difende il proprio privilegio
quanto meno direttamente è attaccato. È il momento di formazione e di espansione dei grandi consorzi
produttivi e delle grandi ditte, il momento dei Krupp, della Siemens, delle miniere della Ruhr. In questa
situazione l'artista-pittore prende coscienza, più chiaramente di quanto non fosse mai avvenuto prima,
della propria non solo ideale ma reale, strutturale emarginazione. Sia nel ruolo di facitore d'immagini di
evasiva purezza, sia in quello di sopravvissuto operatore di tecniche artigianali, egli avverte la propria
impotenza nella ricerca di un committente non interessato all'utilità dell'investimento o di un
destinatario ancora capace di accogliere, nel frastuono della città, il suo specifico linguaggio; e nello
stesso tempo avverte, insopprimibile, il freudiano ‛disagio' dell'attuale forma di civiltà, anzi di
‛civilizzazione', il pericolo e l'imminente catastrofe, e per contro l'impulso vitale a opporvi
disperatamente un valore alternativo. Il quale oscillerà sempre tra la pura, negativa protesta e un'ipotesi
di ricostruzione più volte frustrata, fino ad approdare (ed è questa la fine, o meglio la risoluzione
dell'espressionismo) al riconoscimento dell'inutilità della ribellione attuata in termini puramente astratti
e della necessità, da parte dell'artista, di un intervento diretto nella lotta politica.

Non sono, questi, problemi del tutto nuovi. Il ‛disagio' era stato rilevato esattamente, anche se
utopisticamente irrisolto, da Ruskin e Morris; e il problema di opporre al meccanicismo della produzione
industriale l'alternativa della creatività e della libertà è un problema di tutta l'arte contemporanea,
dall'impressionismo e postimpressionismo alle avanguardie storiche e fino ai nostri giorni. Ma
nell'attaccamento alla propria tradizione nazionale, favorito da un isolamento culturale riscontrabile a
tutti i livelli nella seconda metà dell'Ottocento, gli artisti tedeschi ora trovano motivo per aggravare
dolorosamente quello che Gropius chiamerà ‟l'abisso tra il reale e l'ideale" piuttosto che per risolvere un
problema già contraddittoriamente impostato. Nei primi anni del Novecento, pesantissima è ancora
l'eredità romantica nella sua componente idealistica, e a questa non è sfuggito neppure il positivismo
tedesco che non ha mai assunto un ruolo di rottura, ma è stato neutralizzato da una nuova corrente
irrazionalistica con cui esso stesso si confondeva. L'impressionismo come radicale mutamento nella
concezione della pittura non era mai entrato in Germania, e con esso veniva ignorato, almeno a livello di
tecnica, qualunque modo d'intendere l'arte nella sua funzione conoscitiva e di controllo con mezzi
specifici della realtà fenomenica. Il simbolismo in Germania non evocava tanto un contenuto onirico
quanto gli antichi miti e un astratto ideale che sconfinava, assai più che negli altri paesi, nel recupero di
un classicismo vuoto e lontano. Lo Jugendstil, più che interpretare le nuove istanze del modernismo, si
era posto, nelle sue forme più appariscenti, come posizione evocativa ed evasivamente liberatoria.

L'improvvisa apertura che l'espressionismo indubbiamente segna nei confronti della cultura europea,
assume il carattere, da un lato di una violenta reazione contro tutte le condizioni che l'avevano
ostacolata, dalla tradizione accademica agli interessi di una logica borghese e industrialistica, dall'altro di
una strenua difesa delle proprie radici considerate autentiche, di un recupero sovrastorico dei valori del
proprio passato, con i quali il legame è direi quasi viscerale e impossibile a sciogliersi. Consideriamo gli
idoli del momento, i nomi ricorrenti negli articoli dei critici e nelle lettere degli artisti: da
un'interpretazione parziale di Nietzsche si risale a Schopenhauer e, più lontano, alla genuinità del
cristianesimo primitivo o della religione autoctona precristiana; si risale da Wagner a Goethe, fino a
Dürer, Grünewald e i ‛primitivi' tedeschi.

Il primo momento della reazione (non in senso strettamente cronologico, anche se pure di questo si
tratta, ma soprattutto in senso dialettico) segna un'esasperazione della soggettività contro la minaccia di
una massificazione, dell'individuale contro il sociale. Quindi, il passo è breve verso il recupero di un senso
di coralità in cui l'individuo non solo conserva il proprio valore, ma lo intensifica nel creare, con i suoi
simili, quella sorta di superiore individualità che è la comunità e che non necessariamente coincide con
la collettività sociale. Resterà sempre, negli espressionisti e fin nei maturi anni del Bauhaus, un
irriducibile contrasto tra ciò che Tönnies aveva definito Gemeinschaft e Gesellschaft.

Contro la materia impersonata dalla macchina, dal denaro, dal benessere, si rivendica lo Spirito (e anche
in questo c'è l'eredità diretta della tradizione simbolista), o più precisamente il Geist, che è spirito e
intelletto insieme, e si esprime attraverso l'istinto, romanticamente rivendicato contro la ragione. Esso
non va confuso con una religiosità di tipo confessionale: viene esaltato anche contestualmente
all'agnosticismo o all'indifferenza religiosa; è una sorta di anima, una Seele, un principio vitale, e difatti la
parola sarà nuovamente assunta e chiarita in questo senso con il rafforzarsi di tendenze neovitalistiche
negli anni successivi alla prima guerra. Comunque gli espressionisti sono in genere profondamente
religiosi, quasi tutti tendenti a una forma mista di panteismo e misticismo, in cui identificano, sempre
sulla scia della corrente romantica (Schopenhauer), cristianesimo e buddhismo, accanto a una ripresa
della tradizione esoterica. The key of theosophy di E. P. Blavatskij (1889) è tradotto in tedesco nel 1907: il
libro è citato con interesse, anche se con qualche riserva, da Kandinskij in Lo spirituale nell'arte (1912;
ma la stesura è precedente di qualche anno); R. Steiner, l'architetto del Goetheanum di Dornach, fonda
nel 1913 la Società Antroposofica per la quale è costruito il villaggio accanto al teatro, centro di cultura
intesa come pratica religiosa, e nell'ambito della quale si forma un gruppo di architetti; M. Berg, l'autore
del Palazzo del centenario di Breslavia, abbandona la professione per entrare in una setta mistica
cristiana. E gli esempi potrebbero continuare.

Ma, al di là dell'interesse che può suscitare l'adesione di alcuni artisti a determinate dottrine, è
importante tener presente il diffuso senso ‛cosmico' che emerge da tutte le testimonianze
dell'espressionismo. Il senso di disagio e di emarginazione spinge l'artista a ricreare il proprio rapporto
con la natura in base a funzioni irrazionali e mistiche, perché sul terreno della nemica ‛raglone' sarebbe
sconfitto in partenza. In un primo momento egli oppone il suo io a una natura intesa come materia
passiva, cui solo l'atto conoscitivo del soggetto può dare anima e vita. Quindi egli aspira a ricostituire una
‛unità' perduta, a perdersi nel ‛tutto', in un cosmo in cui gli esseri e le cose, il principio divino e la materia
stessa si fondono nell'unico principio vitale che è il Geist; e oscilla tra un desiderio di autodistruzione, in
quanto individuo staccato dal ‛tutto' originario, e un desiderio di autoaffermazione, perché il Geist si
afferma attraverso un atto di volontà che è pur sempre un atto umano di rivalità con la natura. Il tema
dell'unione cosmica è costante negli scritti di Fr. Marc, ma si trova anche in Klee, A. Macke e molti altri. In
una lettera del 1 dicembre 1917 a E. Grisebach, E. L. Kirchner scrive: ‟Capisco ciò che Lei intende quando
dice che il filosofo e l'artista creano il loro mondo. Questo mondo in realtà non è che un mezzo d'intesa
per entrare in relazione con gli altri uomini nel grande segreto dell'universo". E Kandinskij in Sguardo al
passato: Ogni opera d'arte ha origine nello stesso modo in cui ebbe origine il cosmo: attraverso catastrofi
che dal caotico fragore degli strumenti formano infine una sinfonia la quale ha nome armonia delle
sfere". Nel passaggio da un'opposizione tra l'io e il mondo alla ricerca di una nuova armonia tra gli esseri
e le cose bisogna tener presente anche la funzione della mai interrotta tradizione del classicismo di
Goethe, al quale gli scritti di artisti e critici fanno continuamente riferimento. Continua così una
particolare dialettica di classico e anticlassico che trae le sue origini dallo Sturm und Drang; e
l'espressionismo non si risolve semplicemente in un atteggiamento anticlassico, ma in una nostalgia per
un' armonia che si vuol recuperare.

In questo ‛ritorno' all'unità originaria si ricercano le radici dell'esistenza umana anche in senso storico,
come ripensamento della propria tradizione. Di qui il primitivismo, che gli espressionisti ereditano pure
dal romanticismo e dall'area simbolista, ma che assume ora un tono particolare; è qualcosa di antico, di
lungamente represso, che esplode, dal profondo dell'inconscio, nello Urschrei, il grido primordiale. Va
precisato che il concetto d'inconscio, per gli espressionisti, è influenzato anche da Freud e più tardi da
Jung, ma resta estraneo al senso in cui viene definito dalla nuova scienza della psicanalisi:
morbosamente legato a qualcosa di viscerale e trascendentale nello stesso tempo, esso viene a
coincidere con un'idea integralista dell'umano, carica di componenti sovrastrutturali; e per questo resta
ancora al di là della nuda freddezza e laicità con cui il termine si trasforma per i surrealisti, anche se molti
sono poi in concreto i passaggi tra i due movimenti, mediati dal dadaismo.

Si tratti della scultura negra o dell'arte dei popoli dei Mari del Sud, degli ex voto popolari, delle
stilizzazioni della scultura etrusca (E. Heckel), egizia (O. Müller), o del verticalismo gotico, il primitivo
viene sempre assunto non soltanto e non tanto come principio formativo, ma piuttosto come evocazione
di una autenticità primordiale, inconoscibile ma manifestabile nel puro atto: non è un caso che le
componenti primitivistiche appaiano più evidenti nelle incisioni e in particolare nella tecnica della
xilografia, ripresa dalla tradizione popolare e dagli incisori tedeschi del Quattrocento, in cui la forma fa
tutt'uno col gesto che scava il legno e che è determinato da una connessione quasi strutturale tra la
soggettività dell'impulso e le caratteristiche quasi organiche e viventi (le venature) della materia.

Considerata la situazione storica da cui si sviluppa, è logico che al centro della poetica
dell'espressionismo sia la tendenza a porre, e talvolta, nello stesso tempo, a eludere, il problema sociale
e quello di una filosofia della scienza. Nasce una difesa del ‛povero', esplicita, per esempio, in Heckel e in
A. Loos, in cui si mescolano la tradizione del cristianesimo primitivo e quella del socialismo utopistico
(come in genere in tutte le avanguardie storiche, è pressoché ignorato il nome di Marx); e a questa
spesso si accompagna una difesa dell'individuo in cui intervengono spunti anarchici talvolta direttamente
testimoniati, e del resto già presenti nell'area simbolista francese e nell'esempio wagneriano. Molti
artisti, per esempio Marc e quasi tutti i membri dello Arbeitsrat für Kunst, si autodefiniscono socialisti,
ma di un socialismo ‛particolare', perpetuando così quell'atteggiamento impolitico che era stato
caratteristico di gran parte del romanticismo, non solo tedesco. In Lo spirituale nell'arte Kandinskij, nel
triangolo che simboleggia l'avanzata dello Spirito, pone al livello più basso i ‟materialisti", che sono
‟atei" anche se professano una religione confessionale, sono in politica ‟repubblicani", in economia
‟socialisti" e odiano l'anarchia anche se non la conoscono; e a un livello di poco superiore ci sono quelli
che, tra gli altri, citano Marx. Mentre si sostiene l'autonomia e la libertà dell'atto estetico, si rifiuta il
principio dell'art pour l'art, per finalizzare la forma all'affermazione di una vittoria spirituale e
propagandare l'intervento diretto dell'arte nella vita; in teoria, nella vita del popolo, ma spesso si
propugna la necessità di una élite culturale. A parte alcuni episodi circoscritti e anch'essi contraddittori
(la rivista ‟Aktion"), l'atteggiamento degli espressionisti è nettamente antiattivistico, e in questo si
distacca dalla componente nietzscheana. In realtà la protesta sociale avviene nella forma di un'astratta
negazione ed è anch'essa concepita come puro atto non contaminato dalla realtà; nella ricerca di un
ruolo specifico d'intervento, mai definito e realizzato, consiste il dramma, dai toni della speranza a quelli
della disperazione, degli espressionisti.

Comune a tutti è l'atteggiamento antiborghese, altra costante almeno dal romanticismo in poi, e la
polemica antipositivistica. L'utilitarismo, la ricerca del benessere e la fede nel mero progresso scientifico
vengono accomunati nel concetto di materialismo, al quale si reagisce ora accentuando la fede
nell'‛evoluzione' in una fase spiritualistica, dove il divenire si contrappone, ancora romanticamente,
all'essere come lo spirito alla materia, ora ricorrendo al regresso in una fase preborghese, che s'identifica
indifferentemente con la comunità medievale o con la preistoria dell'umanità. Nonostante l'odio per la
borghesia, si accetta senza troppe contestazioni la realtà di fatto della committenza borghese. Questo
non può essere oggetto di condanna: nella situazione politico-culturale esistente, e con i limiti ideologici
che son quelli di tutti gli intellettuali e non solo degli artisti, gli espressionisti, come coloro che li
precedono e li seguiranno, non possono far altro che cercare la protezione del collezionismo privato;
aspirano, sia a Monaco che a Berlino, a non esserne condizionati, a organizzare mostre senza giuria, ma
la loro gratitudine si volge indifferentemente al Direttore dei Musei di Monaco, H. von Tschudi, al
‛mecenate' B. Koehler (lo ‛zio Bernard' di Macke), ai mercanti illuminati P. Cassirer e H. Walden. La
‛comunità' della Brücke si regge col finanziamento dei ‛soci passivi', quasi tutti nomi dell'alta borghesia, e
perfino nel programma dello Arbeitsrat für Kunst la produzione artistica deve avere finalità pubbliche,
ma può esser promossa da enti pubblici e privati.

La disputa sulla collocazione borghese o antiborghese del fenomeno espressionista, connesso alle sue
radici romantiche e in vista della fortuna che alcuni suoi temi avranno nel nazismo, sollevata soprattutto
dall'interpretazione lukácsiana, non ha alcun senso, a nostro avviso, se ci si riferisce al piano politico
concreto e all'espressionismo in particolare anziché a tutta l'arte contemporanea (G. Lukàcs, 'Grösse und
Verfall' des Expressionismus, in ‟Intemationale Literatur", 1934, n. 1, pp. 153-173; ora in Probleme des
Realismus, Neuwied-Berlin 1971, vol. I, pp. 109-149. Cfr. il compendio della discussione e la proposta di
soluzione in Chiarini, 1969). Condannare il fallimento di questo movimento artistico significa cadere
nell'illusione di una potenzialità rivoluzionaria diretta che esso non può avere, nè se lo consideriamo
parte di una sovrastruttura, nè se lo consideriamo un linguaggio specifico. Anche se si appella sovente al
popolo (e la parola Volk in tale contesto ha un significato romantico e spiritualistico e non coincide
affatto con una ‛classe'), l'espressionismo non è un'arte popolare, come non lo è nessuna avanguardia.
Nato nell'ambito, e sotto tutti i condizionamenti, di un assetto borghese, ne avverte i limiti e le
contraddizioni, lo giudica, lo condanna e protesta contro di esso. Impotente a rompere i ponti con la sua
stessa matrice, della borghesia si limita a preannunciare la catastrofe e in certa misura vi contribuisce,
ma l'analisi negativa non evade dal livello simbolico. Nel momento in cui gli artisti avvertono l'equivoco,
che non è della loro singola posizione ma del concetto stesso di arte, l'espressionismo, con un processo
assai simile alla vicenda cubismo-dadaismo, si rovescia nel suo contrario, e si parlerà di morte del
quadro, morte dell'architettura, morte dell'arte, senza peraltro la volontà di attuarla: nel 1912 Kandinskij
parla di arte monumentale, opera d'arte totale (Gesamtkunstwerk), che si realizza non nel quadro ma nel
teatro; Loos sostituisce al concetto di architettura quello della nuda prassi del costruire; gli architetti
tedeschi dell'immediato dopoguerra oscillano tra l'esaltazione della forma nella fase utopistica e la
riduzione della forma a un equivoco concetto di funzione nella fase del razionalismo; nel 1921 W.
Worringer teorizza il concetto di fine dell'espressionismo e morte dell'arte figurativa (Künstlerische
Zeitbragen).

È stato notato che certe immagini (il crollo del ‟regno del sogno" nel romanzo L'altra parte di A. Kubin,
1908; Destini di animali di Marc, 1913; l'‛improvvisazione' dal sottotitolo Cannoni di Kandinskij, 1913; il
tema dell'assassinio e del dittatore ricorrente nel teatro e nel cinema, ecc.) e, più in generale, il senso di
decadenza e di morte presente un po' in tutta la produzione espressionista, ma in particolare nella prima
fase e nella ripresa postbellica, preannunziano la catastrofe della guerra o il nazismo. Tenendo anche
presente che nel 1913 già si parlava di guerra, è chiaro che queste immagini derivano comunque dal
presentimento, e dall'avvertimento, che l'attuale indirizzo politico (e non solo della Germania) non può
che portare a una catastrofe. Accanto alla fiducia nell'inizio di una nuova era, in una palingenesi dell'arte
e della società, avvertibile soprattutto nel Blaue Reiter, e all'esaltazione della giovinezza (il tema era già
presente nello Jugendstil, lo stile della gioventù), c'è l'idea dell'imminente fine di una civiltà. L'atmosfera
della Dämmerung è presente, nonostante l'apparente lucidità filosofica smentita dalle componenti
irrazionalistiche, in un libro come Il tramonto dell'Occidente di O. Spengler (1918), che influenza
direttamente l'idea di fine dell'espressionismo del Worringer: fine e non risoluzione, Ende e non
Auflösung, e quindi non derivabile dalla dialettica hegeliana. Fine del mondo, e a seconda dei casi con o
senza resurrezione. La diagnosi era esatta; i toni con cui si tenta il rimedio, o non lo si tenta affatto, lo
sono meno. Si può ammettere che in questa rinuncia si riflette l'atteggiamento del borghese che assiste
senza ribellarsi alla propria autodistruzione. Ma se per l'espressionismo l'arte è comunicazione, il
compito rivoluzionario è realizzato nell'atto stesso della denuncia e nello stesso ammettere la propria
inettitudine, che è quella di un'intera classe sociale, a costruire un'alternativa.

Tutto questo va detto per un'interpretazione globale del fenomeno; nel quale esistono anche episodi
regressivi che si nutrono passivamente di una certa cultura, tramandata da una parte del filone
romantico e sfruttata dall'ideologia nazista (si vedano le tesi di storici come P. Viereck e G. L. Mosse, e
quella più ponderata del Mittner).

L'alternativa borghese-antiborghese introduce a un altro carattere dell'espressionismo: l'accentuata


bipolarità, cui abbiamo già accennato a proposito della dialettica classico-anticlassico, opposizione-
risoluzione del rapporto tra l'io e il mondo. Un atteggiamento bivalente è riscontrabile in ogni
movimento artistico del Novecento (basti pensare al cubismo); un'opposizione polare è nei loro reciproci
rapporti e risale al binomio sublime-pittoresco e classico- romantico. Appare nettissima nelle tendenze di
volta in volta scientifiche e irrazionali, astratto-geometriche e organiche (spesso intrecciate) del
postimpressionismo. Ma questa bivalenza, derivata dall'area simbolista, raggiunge nell'espressionismo la
sua massima tensione; e non a caso alcuni studiosi di psicologia vi hanno visto, a ragione o a torto,
realizzata la manifestazione di un carattere introvertito, o piuttosto di un carattere schizotimico
estensibile a gran parte dell'arte contemporanea (W. Winkler, Psychologie der modernen Kunst,
Tübingen 1949; vedi anche le osservazioni di Jung sull'arte contemporanea in Psychologische Typen,
Zürich 1921; tr. it.: Tipi psicologici, Torino 1969, pp. 387 e 398). Sta di fatto che nell'espressionismo, e
non di rado in uno stesso artista (Kirchner, Marc), coesistono un'esigenza di espressione soggettiva e di
costruzione oggettiva, la ricerca del brutto e del deforme e quella di un'armonia, il relativo e l'assoluto, il
tema della morte e quello della nascita, lo slancio lirico e la fredda impassibilità. Si passa dal rifiuto delle
scienze esatte all'emulazione dell'astrazione matematica e degli studi biologici, dall'odio per la macchina
all'esaltazione dell'industria (soprattutto in campo architettonico), dal nazionalismo all'europeismo e
internazionalismo, dall'esaltazione dell'individuo a quella della massa, dalla rivoluzione alla
conservazione, dall' ‟urlo" alla ‟geometria" (Mittner). Questo andamento distonico è spiegabile alla luce
del ‛disagio della civiltà' da cui deriva e del carattere soggettivo di entrambe le soluzioni di ogni coppia di
opposti. L'artista cerca ogni volta una risposta totale, esistenziale al problema della funzione dell'arte,
chiede la sopravvivenza della libertà in assoluto e non i modi in cui si possa attuare; per questo, almeno
prima del Bauhaus, gli sfugge quella soluzione (perché diverso è il suo problema) che appagava Cézanne
o i cubisti: che la propria funzione consista nell'elaborazione di una tecnica esemplare, in un'indagine
autonoma sulle strutture dello spazio e del tempo.

Il problema degli espressionisti è meno circoscritto, più universalistico e perciò più ‛tragico' rispetto a
quello dei cubisti. Tuttavia esso non va isolato, ma inquadrato in un rapporto di contemporaneità, di
reciproci scambi e di complementarità con la linea fauve e cubista; si può dire che, in un analogo
rapporto, tutte le esperienze successive muovano ora dalla tendenza fondamentale ‛dell'espressionismo,
ora da quella del cubismo. Per alcuni artisti della Brücke e del Blaue Reiter (non tutti: non mancano
interpretazioni corrette, non polemiche e istintive), come per critici come Bahr e Worringer,
l'impressionismo è l'ultimo atto della tradizione classica rinascimentale alla quale si oppone la nuova
pittura. Ammirano invece, e considerano dei loro, non solo Gauguin e van Gogh, ma anche Cézanne. La
pittura impressionista vera e propria è, per loro, legata alla borghesia e al positivismo, è una passiva
registrazione di dati sensoriali. La stessa interpretazione, comune anche ai fauves, si era formata
nell'area del simbolismo francese. Noi possiamo considerare, al contrario, l'impressionismo come il
primo atto di una serie di analisi condotte su una realtà non più pensata come assoluta ed esterna
all'uomo, ma come prodotto della sua coscienza; il primo passo verso quel soggettivismo, che sarà poi
alla base dell'espressionismo. I giovani pittori tedeschi non hanno veri impressionisti nella propria
tradizione (neanche M. Liebermann, L. Corinth e M. Slevogt si possono considerare tali) e intorno al 1905
assai poco sanno degli impressionisti francesi. La strada che quelli avevano aperto sarà loro indicata
indirettamente, da un lato da E. Munch e J. Ensor e poi dai fauves e dai loro immediati precedenti,
dall'altro dalle teorie dell'arte contemporanee all'impressionismo e al postimpressionismo, nate in
Germania e in Austria e certamente note nell'ambiente di Monaco. Al contrario, il filo che corre,
attraverso Gauguin, van Gogh e Cézanne, i nabis e il pointillisme, dall'impressionismo al fauvismo e,
attraverso Braque e ancora Cézanne, al cubismo, è tortuoso ma continuo. Nel primo decennio del secolo
quindi gli elementi comuni agli artisti francesi e tedeschi sono minoritari rispetto alla base culturale; e
anche la distanza dall'impressionismo va misurata su scale diverse.

Al procedimento recettivo dall'esterno all'interno sia i fauves che gli espressionisti oppongono un
movimento dall'interno all'esterno, all'analisi la sintesi, a un processo materiale un processo spirituale.
Entrambi usano colorazioni violente e arbitrarie, non dedotte dalla realtà ma interamente create, stesure
di colore compatto, spesso delimitate, con una tecnica derivata dal cloisonnisme, da strisce scure;
superano la frantumazione impressionistica dello spazio riducendo le immagini al piano, o a più piani
intersecantisi che non hanno più alcun rapporto con la piramide visiva della tradizione rinascimentale.
Ma l'operazione nei due casi è condotta con intenzionalità diversa. I fauves operano ancora nell'ambito
della tradizione classica francese mai del tutto interrotta e continuamente rivitalizzata; non si pongono
direttamente problemi esistenziali e sociali. L'espressione di un contenuto soggettivo si attua nella
ricerca della potenzialità costruttiva del colore puro, nella creazione di forme che mirano a ricomporre
un'armonia universale, una ‟natura parallela", come diceva Cézanne, il modello di un mondo possibile, in
cui è essenziale la funzione di una forma perfetta e autosufficiente. Di qui al cubismo, per la via indicata
da Braque: il colore si condensa in solidi geometrici, crea un nuovo spazio, in cui è introdotta, attraverso
la memoria e la compresenza del vicino e del lontano, la dimensione del tempo. L'interrotto rapporto
con la realtà è ricreato con un processo rigorosamente formale e un criterio universalizzante; rispetto
all'impressionismo è stato compiuto un passo dal relativo all'assoluto; ma anche gli impressionisti si
proponevano fin dall'inizio (e qui è la ragione della breve durata del gruppo) una nuova sintesi della
realtà da attuarsi attraverso la tecnica pittorica.

Gli espressionisti della Brücke operano in piena tradizione romantica; dietro di sé hanno il mitologismo di
A. Böcklin, lo spazio ideale e astratto di H. Marées o di A. Hildebrand, una tradizione pittorica classicistica
(non classica) che contrasta con la cultura più radicata e popolare: a tutto ciò si oppongono e da tutto ciò
nello stesso tempo sono condizionati. L'espressione si carica di un contenuto essenzialmente psicologico
e la forma, più che subordinata, è violentata: se i colori dei fauves sono violenti ma armonicamente
composti, questi sono stridenti e spesso sporcati da gialli acidi, verdastri, violacei; le linee sono spezzate,
gli angoli appuntiti, le immagini disarmoniche. Non è, questo, il modello di un mondo diverso, ma lo
stesso mondo reale restituito deformato e talvolta mostruoso: nonostante l'immagine sia prodotta
dall'interno, essa è incapace di staccarsi dalla memoria del reale che è costrizione e sofferenza. La
situazione si rovescia nelle opere del Blaue Reiter e non a caso c'è stato di mezzo il contatto diretto con i
fauves. Ma, anche in questa fase, il problema centrale non è la creazione di una nuova armonia e un
nuovo spazio (‟solo l'arte poteva trasportarmi fuori dello spazio e del tempo", ricorda Kandinskij nello
scritto giovanile Sguardo al passato, e la formula resta per lui sempre valida), ma la rievocazione
dell'inconscio, il recupero del soprannaturale, la comunicazione tra gli esseri e le cose.

Che Matisse sia classico, mediterraneo e pagano e Kirchner, o Kandinskij, gotico, nordico e mistico è
immagine ormai abusata e da prender con cautela, ma significativa: da un lato si ‛esprime' un'idea
appagante del mondo, una fiducia nelle possibilità costruttive di una tecnica umana, dall'altro una ricerca
ansiosa e sempre inappagante, una tensione verso un Assoluto che resta al di là delle possibilità umane,
un impegno in una prassi che mai si risolve in una forma compiuta, ma in cui s'identifica, all'infinito,
l'attività artistica. Tutto questo vale come caratterizzazione generica dei due movimenti: nei singoli artisti
troviamo anche forme miste e complesse. Tra i fauves, per esempio, M. Vlaminck è quello che più si
avvicina all'inquietudine dei tedeschi, mentre Marc trova, tra il 1912 e il 1914, immagini di una
straordinaria armonia ‛classica'.

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