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Riassunto le teorie della critica letteraria

Critica E Teoria Letteraria (Università Ca' Foscari Venezia)

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Le teorie della critica


letteraria
Parte prima
Alle radici della critica
I metodi non sono procedure rigide, bensì ipotesi di lavoro tutte da verificare.
La metodologia critica non comporta automaticamente un progresso scientifico per il
quale un nuovo metodo soppianterebbe i precedenti rendendoli obsoleti. La critica del
passato ci è utile per apprendere strategie argomentative e spunti che possono essere
sfuggiti ai “punti di vista” che egemonizzano il nostro presente.
Occorre pertanto mettere il passato in rapporto dialettico con il presente,
considerando criticamente le origini stesse della critica, andando a vedere i tratti
comuni ma cogliendo gli attriti e i punti di divisione, le linee di divergenza.
Nella cultura dell’antica Grecia l’attività critica sorse in parallelo a quella filologica e
grammaticale nelle grandi biblioteche.

Tramandare (linea platonica)


Il critico s’attiene ad agevolare la trasmissione delle opere
e la loro sempre rinnovata lettura (sono le opere migliori a
sopravvivere nel tempo, secondo una sorta di “selezione
Cultura Greca naturale”)

Valutare (linea aristotelica)


Il critico si fa arbitro della sopravvivenza o meno
dell’opera, affidandola alla tradizione solo dopo averla
sottoposta ad un esame che ne spiega la costruzione e
argomenta le ragioni per le quali essere tramandata.
1.I nostri antenati
1.1 Al di là della soglia

Non necessariamente la teoria lavora in favore della critica; vi sono anche teorizzazioni
sull’arte e la letteratura che tolgono terreno all’analisi critica, o ne limitano i poteri.

Platone (428 – 348 a.C.) → Si trovano le avvisaglie nella filosofia di Platone. Da un lato
nella Repubblica Platone arriva al ripudio e quasi alla censura delle “favole false”
dei poeti: non ad esse ma solo ad imitazioni che propongano buoni modelli sociali deve
ispirarsi l’educazione nello stato ideale. Tuttavia Platone stesso aveva offerto una
diversa soluzione tutta in favore della differenza inebriante dell’arte: nel dialogo
intitolato Jone la poesia è un sacro furore (in greco→ mania) che apparenta il poeta a
un essere divino. Egli è trascinato e alterato (è fuori di mente), il fuoco del suo animo è
paragonato alla forza magnetica che tiene uniti gli anelli di una catena.

Risvolto negativo → Arte in difetto di ragione


Arte come bellezza irrazionale Platone → Repubblica, “favole false” dei poeti
Risvolto positivo → Arte considerata sacra → La critica
viene vista come una sorta di profanazione
Platone → Jone, “sacro furore” della poesia

Nozione di sublime → Gli spunti di Platone torneranno attivi nella nozione di sublime
(sub limen, oltre la soglia). L’arte ha qualcosa che oltrepassa il limite della
ragione. L’anonimo trattatista Del Sublime (Pseudo Longino) pone i grandi autori al di

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sopra delle esistenze comuni in quanto fonti di travolgente entusiasmo. Come l’autore è
un posseduto dalla divina ispirazione, così l’ascoltatore è travolto dall’irresistibile
signoria del suo empito. Il sublime mira all’esaltazione. Questa forza rapinosa può
essere oggetto di studio e di insegnamento. Ma il commento agli autori dimostra
sempre che la tecnica non basta. Nel greco dello Pseudo Longino il sublime suona
Hypsos, che significa vetta, altezza: in confronto alla quale il critico rimane sempre a
un livello inferiore.

Età classica → Sublime → da “sub limen”, oltre la soglia; l’arte ha qualcosa che
oltrepassa il limite della ragione.
Pseudo Longino, trattatista anonimo Del Sublime (1° metà del I secolo d.C.), pone i
grandi autori al di sopra delle esistenze comuni, dotati di “divina ispirazione” capace di
travolgere l’ascoltatore (il sublime mira all’”esaltazione”).
Per quanto il sublime possa essere materia di studio, il critico rimarrà sempre ad un
livello inferiore (Il sublime suona hỳpsos, “altezza”, “vetta”).
Pseudo Longino riemergerà nella trattatistica cinquecentesca.

Nel Settecento il teorico inglese Edmund Burke (1729 – 1797 d.C.) nell’”Inchiesta sul
bello e sul sublime” ripropose la nozione di sublime mescolata a questioni di gusto e
degli effetti dell’arte sulla sensibilità.
Sublime → genera stupore
≠ genera impressione
Bello → genera rilassamento
Secondo Burke, i poeti continueranno ad avere successo anche senza la
conoscenza critica.
Il piacere guarda con sospetto la critica (dal greco krìnen, “giudicare, separare”).

Anche il sentimentalismo romantico si adopererà per contestare la critica.


Victor Hugo (1802 – 1885 d.C.) → Paragona il genio letterario al sacro monte
(Shakespeare), da ammirare in blocco.
Théophile Gautier (1811 – 1872 d.C.) → Il critico è uno scrittore fallito ricaduto ai piedi
del sacro monte. Tuttora è invalsa l’idea che la letteratura possa fare a meno di
tramiti e andare direttamente al rapporto con il lettore.

1.2 I modelli del dover essere (la forma – trattato)

Trattato → Forma dominante della riflessione sulla letteratura che configura la


costruzione di un modello su cui fare affidamento. I modelli possono essere più o
meno duttili.
Poetica di Aristotele (384 – 322 a.C.) → Considera la letteratura un modo di
rappresentazione (imitazione); lo storico descrive ciò che è realmente accaduto, il poeta
si occupa di ciò che può accadere.
Forme di poesia e mitologia secondo Platone
 Imitazione del discorso altrui;
 Poeta che racconta in prima persona;
 Genere misto fra diegesi e mimesi (narrazione e battute dei personaggi).

Riflessione sui generi di Aristotele


Modi
 Forma narrativa (epica);
 Forma drammatica (tragedia).

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Mezzi
 Versi;
 Prosa.

Oggetti
 Persone imitate nobili (tragedia);
 Persone imitate ignobili (commedia).

Spiegazione tecnica
“Come devono essere costituite le favole se si vuole che l’opera del poeta riesca
perfetta?”
La catalogazione sui generi rappresenta anche il “dover essere” secondo cui l’opera
viene misurata. Il modello può anche funzionare retroattivamente come metro di
giudizio per le opere già scritte.
Aristotele lega l’ideale della bellezza all’”unità” dell’opera (opera = organismo vivente).
La teoria di Aristotele della “catarsi” (purificazione) non coincide con quella di
Platone della “manìa”: nella Poetica, la tragedia, mediante casi che suscitano pietà e
terrore, produce purificazione (catarsi) delle passioni. Questi sentimenti ambivalenti
vengono superati da una presa di coscienza degli spettatori.
Ripresa del classicismo
Arte poetica di Orazio (65 – 8 a.C.) → Scritto più maneggevole; consigli su ciò che la
poesia dev’essere:
 Il tema dev’essere “semplice ed uno”, e non cambiare in corso d’opera;
 Tono confacente alla vicenda;
 Riprendendo un personaggio dalla tradizione il suo carattere non venga cambiato e
che quello di tutti i personaggi resti costante nell’opera.

Funzione della poesia per Orazio fra il delectare (piacere) e il prodesse (valore
educativo) → concordanza di utile e piacevole.

Eredi di Aristotele → trattatisti italiani (Poetica in latino nel 1498, in greco originale nel
1508).
Ci furono interpretazioni tendenziose della Poetica:
 Criterio dell’unità, fissato nelle tre unità (d’azione, di tempo e di luogo);
 Catarsi, prima intesa come piacere mentale ora come purgazione dalle passioni
perturbatrici quali ira, avarizia e lussuria (morale cristiana);
 Principio dell’arte come imitazione ripreso nel senso dell’esemplarità della
tradizione classica, assunta a guida del rinnovamento culturale.

Vennero analizzati i testi e la ricerca sui generi si allargò anche a quelli non trattati da
Aristotele (es. satira ed elegia).
Lodovico Castelvetro (1505 – 1571 d.C.) → Maggior aristotelico italiano, commenta la
Poetica con un’inclinazione verso la normatività, assumendo a fondamento la logica
della verosimiglianza; il semplice verosimile naturale viene integrato con il
“ragionevole”. Viene inoltre esaltata l’autocoscienza: il poeta è tenuto a sapere “la
cagione perché faccia quel che fa”.

Dialogo De gli eroici furori di Giordano Bruno (1548 – 1600 d.C.) → Del versante
platonico, è contrario alla codificazione dei generi letterari, afferma che le regole
derivano da poesie, e non si può quindi imporle.

I trattatisti del ‘600

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Intendono l’imitazione dei grandi autori come emulazione della loro ingegnosità e si
concentrano sulla nozione di acutezza.
L’acutezza e l’arte dell’ingegno di Baltasar Graciàn (1601 – 1658 d.C.) e Il cannocchiale
aristotelico di Emanuele Tesauro (1592 – 1675 d.C.) → Riferimento più all’Aristotele
della Retorica che a quello della Poetica .
Il problema non è più la verosimiglianza ma l’abilità nell’”insaporire” una realtà di
per sé cruda. I barocchi valutano l’invenzione e la novità, e continuano a descrivere la
materia letteraria con le categorie nella convinzione che l’esito dell’ingegno sia sì un
miracolo, ma frutto del sottile ragionare. Il valore del testo letterario è proporzionale
alle difficoltà superate. Il fine che si propongono i barocchi è di sollecitare il destinatario
con una continua stimolazione, tenendolo in sospeso per poi sorprenderlo con esiti
inaspettati, da cui la meraviglia.

Nicolas Boileau (1636 – 1711 d.C.) → Nell’Arte poetica riafferma il modello oraziano.
L’esposizione in versi, l’equilibrio, il giusto mezzo, la naturalezza e l’armonia vengono
posti come valori alla luce del “buon senso”. Predica la chiarezza chiedendo al testo
letterario di comunicare senza costringere il lettore ad alcuna fatica secondo il valore
della scorrevolezza. La razionalità propugnata da Boileau non si dimostra attraverso
la costruzione di un dover essere in sé coerente ma avallata dal rimando al pubblico.
Porsi il problema del pubblico, di come tenerne desta l’attenzione, indica che il
consenso sui valori artistici va conquistato sul campo.

I trattatisti del ‘700


Gianvincenzo Gravina (1664 – 1718 d.C.) → Un valido esempio della forma-trattato è la
sua Ragion poetica (riferimento a una regola razionale, ammirazione dei classici ma il
discorso tiene ben poco dell’enunciazione normativa). Poiché i modelli vanno desunti
dagli antichi ma riadattati ai costumi attuali, diventa necessario l’excursus storico
sull’evoluzione dei generi. Poiché la verosimiglianza è dovuta all’incanto che fa
prendere per vera la finzione poetica, ecco allora chiamata in ballo l’interpretazione
che individua sotto al falso il senso vero. Un’interpretazione che restava ancorata
all’interno moraleggiante di una utilità educativa.
Gotthold Ephraim Lessing (1729 – 1781 d.C.) → Nel Laocoonte il lavoro critico va al di la
delle regole e dei precetti, indicando il valore dell’opera nella rispondenza alle necessità
espressive dell’autore. Il criterio classico dell’unità e della convenienza veniva chiamato
a confrontarsi con i problemi dell’espressione di sentimenti forti come il dolore, là
dove il canone della bellezza è messo a repentaglio sui confini del brutto o del
disgustoso. Non è più questione d’imitazione, piuttosto emergono problemi di datazione
perché i rapporti tra gli oggetti critici prescelti non sono di dipendenza passiva, ma di
filiazione (padre e figlio → somigliante ma differente). Il Laocoonte è più un saggio che
un trattato. Contempla divagazioni e digressioni. Quando all’inizio Lessing afferma di
voler procedere liberamente a “fissare sulla carta i suoi pensieri proprio nell’ordine in
cui si sono sviluppati” siamo già entrati nella nuova costellazione della critica moderna.

1.3 Alla ricerca del senso (la forma – commento)


L’altro grande modo in cui fin dall’antichità si è esplicata l’attività critica è stato il
commento. Mentre la forma – trattato vuole avere funzione di guida, la forma –
commento si mette al servizio del testo; lavorando ai suoi margini e rendendolo
più comprensibile, per avvicinarlo al lettore e favorire, quindi, il trasferimento della
tradizione. Il commento è una pratica pluralista: annotazioni di fonte diversa possono
convivere e svariare in molteplici direzioni. Ai giorni nostri nella cosiddetta “edizione
critica” assume particolare importanza il commento filologico puntato a stabilire la
correttezza del testo e la successione dei suoi “stati”. La prima grande impresa
filologica fu compiuta dagli alessandrini con la costituzione definitiva dei poemi omerici.
Il compito del commento è che il gesto con cui l’opera viene offerta al lettore comporta
l’appianamento delle difficoltà, la risoluzione dei passi oscuri. Là dove il testo non
comunica immediatamente diventa necessaria l’interpretazione. Il nome classico
dell’arte dell’interpretazione è ermeneutica. Gli antichi lessero Omero mediante

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l’allegoria, termine che indica il dire altro. Le assurdità del mito potevano essere intese
come un meraviglioso rivestimento di concetti morali, strumento che servì alla
circolazione dei classici pagani nel mondo cristiano. Nel medioevo l’interpretazione
assumerà un prioritario ruolo culturale: nel cristianesimo la religione si fonda su un
libro, la Sacra Scrittura, che parla per enigmi e parabole. Più che alla razionalizzazione
del mito, l’esegesi biblica tende ad accedere al senso mistico, al mistero velato nella
Parola. Occorre anche riconoscere all’esegesi una produttività inventiva che arrivò ad
articolarsi nella dottrina dei 4 sensi: letterale, allegorico (un personaggio
rappresentava una virtù), morale (indicazione per il comportamento) e anagogico (una
proiezione nella prospettiva della storia della salvezza).

Dante (1265 – 1321 d.C.) → Adottò la dottrina dei 4 sensi soprattutto nelle pagine del
Convivio mediante l’autocommento che scrive (in volgare) a ridosso dei propri testi
come integrazione e aiuto alla comprensione. Dante evidenzia il “di più” di ragione che
si ottiene spiegando il senso letterale in vista del raggiungimento della verità allegorica
nascosta sotto il manto delle favole.
Questo tirar fuori qualcosa di profondo e di non immediatamente visibile non è senza
problemi: infatti una volta che si è perduta la certezza nel senso immediatamente
comunicato, sembra che nulla possa frenare l’arbitrarietà dell’interpretazione. Si può
capire ciò che si vuole? Il sospetto contenuto in questo interrogativo produrrà alle soglie
dell’età moderna una divaricazione tra commento filologico e interpretazione critica.

Benedetto Spinoza (1632 – 1667 d.C.) → Nel suo Trattato teologico-politico sostiene che
si debba distinguere tra verità e senso letterale: è il secondo che può essere
stabilito, mentre riguardo alla prima bisogna lasciare a ognuno il diritto di giudicare
liberamente. Spinosa precisa anche alcuni criteri in base ai quali elucidare il senso della
Scrittura: l’uso della lingua, il contesto, la storia dei testi. Ciò che abbiano voluto
significare i profeti sono geroglifici in senso negativo perché il significato non possiamo
dedurlo ma solo cercare di indovinarlo. È evidente che la polemica di Spinoza riguarda il
fissarsi autoritario dell’interpretazione. Restituisce all’interprete la sua libertà.

Denis Diderot (1713 – 1784 d.C.) → Anche nella sua Lettera sui sordomuti l’illuminista
adotta il termine geroglifico, in chiave però positiva. Bisogna allontanarsi dal livello
immediato del senso. Occorre cogliere lo spirito che anima e vivifica simultaneamente
tutte le parti del testo, un tessuto di geroglifici ammucchiati gli uni sugli altri che lo
dipingono. Ogni poesia è emblematica. Il fatto che questo livello di comprensione non
sia concesso a tutti non toglie che il nodo decisivo risieda nel geroglifico per quanto
delicato e sottile esso sia. Diderot ricorda il valore gestuale della comunicazione umana.

Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768 – 1834 d.C.) → Con la sua ermeneutica
romantica, all’interpretazione riservata ai passi oscuri si sostituisce una
interpretazione dell’autore, riportando il testo alle caratteristiche psicologiche dello
scrittore. Si parla di ermeneutica psicologica.

1.4 La critica militante e il problema del gusto (le teorie del gusto)
Orazio → Nell’Arte Poetica la figura del critico viene evocata contro l’invadenza e la
presunzione dei cattivi poeti. Il critico deve diventare un Aristarco (archetipo del
giudice severo) nel correggere i dettagli. La funzione della critica nell’età classica è
eminentemente emendatrice.

Nicolas Boileau → Nell’Arte Poetica la critica si esprime ancora con consigli e rimproveri,
ma amplificando i toni dello scontro in quella che è ormai la battaglia letteraria.

Saverio Bettinelli (1718 – 1808 d.C.) → Passerà i moderni al vaglio degli antichi,
immaginando Virgilio nelle vesti del critico esigente; nelle sue Lettere Virgiliane si fa
strada la coscienza che nessun modello vada preso in assoluto. Anzi proprio là dove
incontra i grandi uomini la critica deve farsi attenta e non confondersi con la stima che
si può provare.

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Joseph Addison (1672 – 1719 d.C.) → Il critico opera con nuovi strumenti. La diffusione
dei giornali e delle riviste a sfondo culturale e letterario come il suo “The Spectator”
inglese (tra il 1711 e il 1714) riuscì a raggiungere un’alta tiratura rivolgendosi a una
cerchia molto vasta, comprensiva delle famiglie e del pubblico femminile. La letteratura
vi veniva trattata all’interno delle questioni del costume e della moda, in un tono
accattivante e ricreativo. Il critico del giornale lavora per guidare il lettore a delle giuste
scelte in ambito librario. Mentre il commentatore arriva dopo, a cose fatte, e il
trattatista si pone prima dando modelli da seguire, emerge nei primi periodici letterari
la figura di un critico che interagisce con i testi, con un intervento disseminato nel
tempo, seguendo il farsi della letteratura in atto. Il modo con cui esso si afferma è ormai
quello della critica militante. Addison rappresenta il tipo di critico che pretende
autorevolezza proprio perché fuori della mischia, si vuole neutrale spettatore.
Trattatista → agisce prima dando modelli
Critico che interagisce coi testi → critica militante (critica sui testi attuali)
Commentatore → agisce dopo a cose fatte
L’intervento periodico può favorire invece la presa di posizione. Tale sarà il caso di
due periodici in Italia tra loro rivali:
Giusppe Baretti (1719 – 1789 d.C.) → Con la sua Frusta letteraria (tra il 1763 e il 1765)
assume i panni di un nuovo Aristarco (anzi il suo alter ego fittizio è Aristarco
Scannabue). Baretti interpreta la funzione del critico, con un impegno non arreso ai
gusti prevalenti e pronto a schierarsi controcorrente. Il bersaglio preferito della frusta è
l’Arcadia. Contro la maniera stereotipata Baretti si richiama ancora di più che al buon
gusto, al buon senso. Il suo pregio sta nella straordinaria effervescenza stilistica.
Pietro Verri (1728 – 1797 d.C.) → All’insegna della combattività si apriva Il Caffè,
animato da Verri insieme al fratello Alessandro (1741–1816 d.C.) e a Cesare Beccaria
(1738 –1794 d.C.)(Accademia dei Pugni). Il Caffè è una rivista di tendenza calata in un
progetto di risveglio intellettuale, in cui viene contestato con decisione il valore
normativo dei precetti formali e dello stesso purismo linguistico. Verri sostiene che il
critico non deve restringere la prospettiva appigliandosi a qualche “piccolo difetto” ma
deve intendere l’effetto d’insieme dell’opera.

Parallelamente all’emergere della critica militante si sviluppa il dibattito sul gusto.


David Hume (1711 – 1776 d.C.) → Il filosofo scozzese con la sua Regola del gusto
muove dalla constatazione della grande varietà dei gusti e afferma che la bellezza che
noi percepiamo non è una qualità inerente alle cose ma è legata al nostro sguardo
soggettivo. Essa esiste soltanto nella mente che contempla le cose ed ogni mente
percepisce una bellezza diversa. A partire dal fatto empirico che alcune opere ricevono
maggiori consensi e sono oggetto di una durevole ammirazione, Hume propende a
credere che esista una struttura mentale che induce l’uomo a provare piacere per
alcune qualità e dispiacere per altre.
Edmund Burke → Anche lui nel premettere alla sua Inchiesta sul bello e sul sublime un
saggio Sul gusto, perveniva all’affermazione che le differenze dei giudizi sono differenze
di grado che dipendono dalle doti naturali e dall’esercizio.
Immanuel Kant (1724 – 1804 d.C.) → Nella Critica del Giudizio, poiché giudicare bello
qualcosa significa accorgersi dell’accordo dell’oggetto con le nostre facoltà conoscitive,
il giudizio rimanda a un senso comune, e ciò rende lecita la speranza del consenso e
dell’adesione altrui. Perciò, sostiene Kant, sul gusto non si può disputare ma si può
legittimamente contendere. Il gusto buono è per Kant quello disinteressato. Nel giudizio
sull’arte entrano in gioco l’immaginazione e il concetto. E l’esito è un aumento di
carica vitale, di animazione delle facoltà dell’uomo. La poesia è vista come
un’esibizione di un concetto, congiunta con la circolazione di una quantità di altri
pensieri, avente l’effetto di fortificare l’animo. Inoltre, riflettendo sul sublime, Kant
mette in luce l’ambivalenza e l’interconnessione delle reazioni di piacere e dispiacere,
strappando così l’arte alla semplice degustazione del piacevole. Il sublime kantiano è
stato collegato con la tensione interminabile dell’arte moderna. Kant, considerando
l’attività critica come una contesa sul senso comune, suggerisce alcune
massime sul gusto: pensare da sé (e quindi originalmente), pensare largo (nella

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prospettiva della comunità umana), pensare in modo da essere sempre in accordo con
se stessi (in modo conseguente).

1.5 La comprensione storica (il processo storico)


La considerazione dell’origine storica dei testi è un portato dell’età moderna. Porta a
fissare lo sguardo sul processo dell’evoluzione.
Giambattista Vico (1668 – 1744 d.C.) → Con la Scienza Nuova è posto in luce il
condizionamento della storia. Vico cerca di leggere lo sviluppo secondo le fasi della
vita umana. La letteratura, o meglio la poesia, si trova collocata in una delle fasi iniziali
(sorgimenti, progressi, stati, decadenze, fini), nell’epoca cosiddetta eroica, quando gli
uomini in mancanza di categorie intellettuali utilizzavano le favole, i miti e le metafore.
Una tale concezione ha il merito di riconoscere alla poesia il suo valore conoscitivo e la
sua funzione sociale.
Nel ‘700 italiano vediamo nelle Lettere inglesi di Bettinelli che il ricorso alla storia serve
a giustificare gli addebiti rivolti ai grandi poeti del passato, ad indicarne i limiti storici.
(Imitare Dante, stigmatizza Bettinelli, sarebbe come voler tornare a vestirsi col
cappuccio!)
Le considerazione storica crea distanza e vuole impedire un’imitazione priva di
creatività

Johann Gottfried Herder (1744 – 1803 d.C.) → Nella sua filosofia, la collocazione dei
prodotti culturali nella loro propria casella cronologica è l’indizio di un atteggiamento
tollerante che tendenzialmente accoglie la validità di tutti i contributi portati al
patrimonio dell’umanità, nel corso del tempo. Di fronte a ciascuna epoca occorre porsi
non nella posizione del giudice che valuta il vantaggio o lo svantaggio ma
nell’immersione della simpatia. La storicità apre la strada alla comprensione
giustificativa.
La storia si separa dalla critica? La storia letteraria è una branca della storia o va
compresa tra i generi della critica? Nel primo caso i libri andrebbero trattati al pari dei
fatti e degli eventi e quindi inventariati senza gerarchie di valore, sulla base della loro
“datità” cronologica. Il secondo caso invece la storia letteraria verrà vista come il
culmine di una stagione culturale in cui la storia letteraria verrà condotta a concentrarsi
sui testi rilevati dal giudizio estetico.
Storia letteraria nella critica → sviluppo nell’’800; “letteratura” indica solo le arti della
parola
Bertolt Brecht (1898 – 1956 d.C.) → Rapportare il testo alle tensioni storiche significa
non farsi illusioni circa il suo disinteresse; per quanto l’arte tenga spesso ad apparire
superiore alle motivazioni di tipo materiale, è tuttavia lecito interrogarsi sull’interesse
dell’arte. Il drammaturgo tedesco suggerirà l’analisi degli scritti come funzionari da
un punto di vista sociale per verificare quanto essi possano giocare in difesa di una
certa cultura o avere influenza su determinati strati della popolazione e la misura in cui
sono in grado di incidere sulla situazione sociale esistente.

2 La critica moderna tra storia, scienza ed estetica


2.1 La svolta romantica: critica come partecipazione
Con il movimento romantico che nasce in Germania tra ‘700 e ‘800 si assiste a una
svolta anche nel ruolo assegnato alla critica. In primo luogo è superata la nozione
classica di imitazione: l’artista e lo scrittore non dovranno più riprodurre il mondo
esterno, ma esprimere un mondo interiore. Rappresentare non la realtà, ma l’idea.
Rifiutate le regole, il raggiungimento del risultato artistico resta appannaggio della
grande personalità: il genio. Di fronte all’opera del genio, la critica non deve porsi a
giudicare da fuori, ma deve entrare nell’opera e contribuire ai suoi effetti.
L’immedesimazione e la commozione diventano cardini dell’approccio alla letteratura. Il
tentativo di aderire alla costituzione profonda del testo dà inizio ala modernità.
Movimento romantico → Non si imita più il mondo esterno, si esprime un mondo
interiore → la critica deve entrare nell’opera del genio

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Friedrich Schiller (1759 – 1805 d.C.) → I punti chiave della posizione romantica sono
espressi dal suo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale. La questione principale
che vi si apre è quella della discontinuità con la tradizione: tra gli antichi e i moderni
viene tracciato il solco di una differenza sostanziale nel modo di fare poesia. La causa di
questo mutamento è posta da Schiller nella separazione dalla natura. L’uomo
moderno non vive in modo naturale e quindi deve cercare la natura fuori di sé. La
poesia sentimentale dei moderni è costretta ad andare alla ricerca della naturalezza
perduta e a riflettere sulla perdita stessa. La scissione costituisce un arricchimento: il
moderno, poiché per lui il reale e l’ideale non possono coincidere, opera su un
doppio livello facendo interagire la sensibilità e l’immaginazione degli oggetti particolari
con le idee generali della ragione. Schiller si adopera a suddividere la poesia
sentimentale in generi che discendono dalla scissione tra reale e ideale: satira (quando
l’ideale fa contrasto con il reale e lo rende oggetto della sua avversione), elegia
(quando c’è oscillazione tra la natura perduta e l’ideale irraggiungibile) e idillio (quando
si è conseguito un accordo tale da riconciliare l’ideale e il reale). Schiller mette a
confronto lo stato d’animo dei moderni rispetto agli antichi (teso, in movimento –
sereno). Non sceglie in favore della dinamicità; tuttavia, quando discorre dell’effetto
poetico, esprime le proprie notazioni positive in termini di tensione, potenza, forza,
impulso, pathos.
Discontinuità con la tradizione → ora si cerca la natura fuori di sé → reale ≠ ideale
(valore aggiunto) → satira (contrasto), elegia (oscillazione) e idillio (accordo)

Bisogna distinguere all’interno del romanticismo due diverse linee:


Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1832 d.C.) → La prima linea è incarnata insieme allo
storicismo tollerante di Herder da Goethe, secondo il quale la critica produttiva deve
entrare nelle ragioni dell’autore e domandarsi che cosa ha voluto fare l’autore.
Goethe si pone dalla parte di un giudizio che propende al positivo. Egli arriverà a dire
che si impara veramente qualcosa solo dai libri che non siamo capaci di giudicare. Dai
suoi saggi si ricava anche un’attenuazione nel contrasto tra classicità e modernità. Egli
salva la nozione classica dell’arte come imitazione della natura (ricerca degli
archetipi).
Critica produttiva → che cos’ha voluto fare l’autore?
August Wilhelm Schlegel (1767 – 1845 d.C) → La seconda linea che approfondisce la
contrapposizione tra classicismo e romanticismo viene da lui sviluppata e applicata
all’evoluzione del dramma, mentre il fratello Friedrich Schlegel la svolge sul piano della
teoria. Il carattere fondante del romantico sta nella eterogeneità e contraddittorietà
degli elementi dell’opera artistica; alla perfezione e all’unità degli antichi, i moderni
sostituiscono il valore della mescolanza e dell’antitesi. Schlegel definisce la poesia
romantica una poesia sempre in divenire, un’attiva tendenza alla sintesi che deve
tenere insieme poesia e prosa, genialità e critica. Il romantico qui non è sinonimo di una
pura effusione d’affetto ma piuttosto prevede l’intervento decisivo della riflessione. La
prospettiva della critica schlegeliana è quella dello scavo in profondità alla ricerca di un
senso che non appare immediatamente. Da un lato dovrà procedere con lentezza, nelle
minime pieghe del testo, all’analisi costante del particolare; dall’altro lato dovrà essere
pronto a cogliere con un rapido colpo d’occhio il nucleo centrale. Per comprendere
veramente un’opera è necessario ricostruirla nelle parti che la compongono in modo da
scoprire ed evidenziare il suo carattere peculiare. Il giudizio comporta il fatto che il
critico capisca l’autore meglio di quanto l’autore non abbia capito se stesso , ma per
poterlo fare è necessario essere riusciti a capire il modo in cui l’autore capiva se stesso.
La critica sarebbe lo sviluppo dell’autocomprensione dell’autore.
Perfezione dei classici contrapposta alla mescolanza e all’antitesi romantica
Ricostruire e caratterizzare per un senso non immediato
Vicino a queste ipotesi è Novalis, Friedrich Leopold von Hardenberg (1772 – 1801 d.C.)
→ La critica è per lui il prolungamento produttivo dell’opera: il vero lettore deve
essere l’autore ampliato. Novalis ragiona in termini di strategia e di fisiologia. Non
deve stupire il paragone che lui fa tra l’attività del critico e quella del medico: il critico
tradizionale, che segnala i difetti e le manchevolezze dell’opera, è come un medico che
si limitasse a scoprire la malattia e a divulgarla con gioia maligna invece di cercare di

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migliorare la disposizione malferma. Notevole anche l’allusione a un senso fisiognomico


del testo: come i tratti di un viso ne esprimono il carattere, così il linguaggio è
espressione delle idee. Ma la ricerca del senso, l’interpretazione, è qui qualcosa che
ha a che fare con l’eccitazione e la stimolazione delle energie.

In Europa, dopo la Restaurazione, i valori che prevarranno sono quelli della spontaneità,
del “traboccare del sentimento”, dello stato emotivo diretto soprattutto al “cuore”, del
sublime tradotto in facile empito e rivolto a un pubblico “popolare”. Dove prevale il
patetico, la riflessione critica non ha granché luogo a procedere. Vediamo alcune
eccezioni.

Al passo con la “concezione produttiva” dei primi romantici ci sarà:


Samuel Coleridge (1772 – 1834 d.C.) → Secondo lui il genio non è una forza spontanea
della natura, né un automa passivamente in preda a raptus, bensì l’unione del poeta
e del filosofo. Il poeta è colui che mette in attività tutta l’anima dell’uomo.

Più vicino alla linea irrazionalistica platonica appare:


Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822 d.C.) → Con la sua Difesa della poesia, anche se
vede la poesia come ampliamento spirituale verso una serie di combinazioni
insospettate di pensiero, preferisce lo strumento principe per il carattere istintivo della
facoltà poetica inconsapevole e trasfigurante.
Madame De Stael (1766 – 1817 d.C.) → Appiattì le indicazioni dei tedeschi privilegiando
l’aspetto affettivo. Comprendere gli autori equivale a entrare in comunione con il loro
stato psicologico e con il loro senso religioso. Ma per esprimere il mistero della bellezza
non ci sono parole.

Il romanticismo in Italia, di tenore moderato, porterà alla naturale esigenza di una


letteratura adatta ai nuovi tempi, che troverà risposta nelle nozioni assai adattabili
ancora una volta al patetico.

Più interessante risulta essere il confronto tra Alessandro Manzoni (1785 – 1873 d.C.) e
Giacomo Leopardi (1798 – 1837 d.C.). Sia Manzoni che Leopardi ritengono decisivo
giudicare l’effetto della poesia. Manzoni, al fine di giustificare l’impiego della verità
storica nella tragedia, sostiene che i fatti reali suscitano in noi un più forte interesse,
un’attrazione più viva, infine una maggiore simpatia per i personaggi del dramma. La
discussione sulle unità aristoteliche viene risolta dal Manzoni con il rifiuto delle regole e
la rivendicazione della libertà dell’artista, che deve attenersi soltanto al soggetto che si
è scelto, trattandolo in modo da incidere con la massima potenza al punto da gettare gli
uomini fuori di se stessi. Leopardi valuta la poesia secondo la capacità di suscitare
l’interesse.

Differenze tra Manzoni e Leopardi: In Manzoni c’è una sorta di svuotamento (il
destinatario è trasportato fuori di sé) in Leopardi un riempimento delle facoltà umane.
Manzoni modella la sua teoria su una “catarsi” rivolta verso uno scopo morale; per
Leopardi l’effetto riguarda la sensibilità e la vitalità in modo quasi fisico. In Manzoni le
passioni vengono sollevate per mostrare come la forza morale possa riuscire a
dominarle. In Leopardi il valore classico dell’unità dell’opera è superato dal valore del
movimento e del contrasto. Manzoni dà ai problemi sollevati dal romanticismo la
soluzione più tradizionale, mentre Leopardi risulta il più affine alla concezione dinamica
propria della linea Schiller-Schlegel-Novalis.

Manzoni Leopardi
Decisivo giudicare l’effetto della poesia
Fatti reali = + interesse
Rifiuto delle regole
Dominazione delle
passioni
Svuotamento Riempimento
Catarsi morale

Tradizionale
Sensibilità e vitalità
fisica
Dinamico
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2.2 Letteratura e storia


La nozione della critica come partecipazione (tipica del romanticismo) spingeva a
prendere in esame anche il momento temporale in cui ciascuna opera era stata pensata
e prodotta. Prima le indicazioni sul clima e sull’ambiente geografico, poi troverà sempre
più spazio il disegno della natura dei tempi con riguardo alla vita sociale. Ripercorrere le
tappe della storia letteraria nazionale era evidentemente un modo per risvegliare la
coscienza unitaria della nazione. Non bisogna dimenticare l’interesse del romanticismo
per le origini.

Ugo Foscolo (1778 – 1827 d.C.) → In questa prospettiva cade ad esempio il Vi esorto
alle storie di Foscolo, del quale è utile tener presente l’esigenza di un libro che da un
lato spieghi le cause della decadenza dell’utile letteratura, e dall’altro non si astenga
dal giudizio sugli autori, intervenendo più nel merito che nel numero degli scrittori.
Perché qui tocchiamo alcuni problemi di rilievo: l’esigenza di una linea storica che
metta ordine nei fatti e il superamento di una storiografia meramente compilativi. Ci
sono 2 rischi: il rischio di imporre alla storia un modello di evoluzione ideale
aprioristico (slegato dall’esperienza, razionale a priori) e il rischio di ridursi a un
pellegrinaggio tra i capolavori.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 – 1831 d.C.) → L’arte nel suo complesso
rappresenta una fase nella vita dello spirito umano destinata ad essere superata
nel progresso verso il compimento dello Spirito assoluto. Nei gradi di questo progresso
l’arte deve cedere il passo alla religione e alla filosofia. È la “morte dell’arte”.
L’arte ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. La storicità ha il cammino
segnato: le fasi devono esattamente derivare dal dispiegamento delle potenzialità insite
nell’idea. Le fasi sono 3: la fase iniziale (l’arte simbolica dell’Oriente e dell’antico Egitto)
sarebbe caratterizzata dal prevalere della forma; la fase centrale (l’arte classica greco-
romana) dall’armonia e dalla mediazione tra i due termini; la terza e ultima fase (l’arte
romantica, che in Hegel viene generalizzata a coprire tutta la produzione artistica dopo
l’avvento del cristianesimo) dal prevalere del contenuto.
Fase iniziale → Prevalenza della forma
Fase centrale → Mediazione dei due termini
Fase finale → Prevalenza del contenuto
Francesco De Sanctis (1817 – 1883 d.C.) → Riflettendo sulla storiografia precedente non
troverà accettabili né le idee preconcette di chi ha giudicato tutto già in partenza, né
l’aggregazione estemporanea di un “informe compilazione piena di lacune e d’imprestiti
e giudizi superficiali e frettolosi e partigiani”. De Sanctis riuscì a rendere ricco di
contrasti e denso di spessore teorico il tracciato delle grandi linee della storia e nello
stesso tempo a mantenerlo aperto ai risultati dell’indagine empirica. Nella parte
conclusiva della sua Storia della letteratura italiana propone di unire le due
tendenze, quella ideale e quella storica, speculazione e investigazione, costruzione
mentale e ricerca concreta. De Sanctis subisce l’influsso hegeliano ma ne ribalta il
modo di procedere: non è la storia ad adattarsi allo svolgersi dell’idea, ma l’idea a
estrinsecarsi secondo le condizioni poste dalla situazione storica. Il suo disegno storico
mette al centro soprattutto il problema del cambiamento culturale, della elaborazione di
una nuova cultura. Finché questa nuova cultura non appare, la letteratura non riesce a
compiere nessuna svolta decisiva. Perché l’arte è un fatto sociale, un risultato della
cultura della vita nazionale. Perciò, alle spalle dello storico che colloca gli autori
secondo la posizione che hanno avuto nello sviluppo evolutivo, deve sempre agire il
critico con il suo giudizio di valore. La genesi dell’opera è lo sviluppo organico, naturale,
vivo, di un certo contenuto in una certa forma. Mentre lo storico ha modo di apprezzare
molti autori, il critico è quasi sempre insoddisfatto per via degli ostacoli di natura storica
che hanno impedito la riuscita perfetta. Lo sviluppo culturale e quello delle tecniche
letterarie trovano il loro punto di confluenza nella personalità dell’autore. Essa
diventa centrale nella Storia desanctiana e lo stesso giudizio critico il più delle volte
consiste nel vedere quale ruolo vi prevale: se l’uomo (quando il nuovo contenuto
viene colto ma rimane grezzo e non realizzato), l’artista (quando lo scrittore raggiunge

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l’armonia ma la applica dall’esterno), l’artefice (quando prevale la “parte meccanica e


tecnica della forma”) o il poeta (è lo scrittore capace di trovare l’unità e la
compenetrazione tra forma e contenuto). Permane l’idea dell’organicità formale ma ciò
che fa vivere e sviluppare il contenuto non è soltanto la carica emotiva, il sentimento.
Quando il sentimentale prende tutto il campo e detta legge addirittura ad un genere in
tale ripiegamento interiore diventa impossibile raggiungere la “cosa”. Se la base del
poeta è l’uomo, nel contenuto devono intervenire con forza tutti gli aspetti della
personalità, non solo della vita intellettuale ma anche della vita attiva. “La base del
contenuto è morale e politica”. L’”entusiasmo” che il critico apprezza negli autori si
trasmette alla sua stessa scrittura. Il suo interesse per la personalità dell’autore arriva a
personificare l’autore stesso e a chiamarlo in causa direttamente facendolo
dialogare con l’epoca attuale. L’uso del tu tende a coinvolgere il lettore
nell’attraversamento delle opere. I giudizi emessi da De Sanctis sono legati a un certo
gusto e i suoi criteri non mancano di legami con le concezioni romantiche e idealistiche.
Ma ci sono alcuni aspetti che rendono questo tentativo di storia letteraria tuttora molto
interessante: come mette in luce le linee dell’evoluzione nella loro parabola ma anche
nel loro intreccio sottolineando attraverso una serie di confronti le diverse vie praticabili
e i loro contrapposti risvolti culturali. Ma soprattutto per la capacità di richiamare la
storia sociale non giustapponendola meccanicamente alle opere, ma amalgamandola
strettamente alla valutazione dei testi, entrando e uscendo dalla sfera letteraria
secondo le necessità del proprio discorso.
Ideale: categorie → fatti
Storica: fatti → categorie

Critica russa:
Vissarion Belinskij (1810 – 1848 d.C.) → Partendo da un idealismo in cui l’arte è
espressione della “grande idea dell’universo”, andò legando sempre più la propria
lettura dei testi con il livello generale della situazione sociale e storica. Considerava i
testi letterari sempre immersi nella vita pubblica. In questa ottica, quelli che
esteticamente sarebbero difetti potranno apparire addirittura pregi. L’arte esprime la
società e ne tratteggia il quadro fedele. Lo sguardo critico di Belinskij anticipa il
realismo.
Nikolaj Dobroljubov (1836 – 1861 d.C.) → Con lui la letteratura continuerà ad essere
collegata alla vita reale. Egli comincia a porsi il problema della politicità del testo.
Sostiene che non è necessariamente compito dell’autore dare oltre al problema anche
la soluzione. Il critico in questa prospettiva non è tanto il giudice dell’opera quanto
l’avvocato che ne perora la causa. Il miglior metodo critico è quello che lascia al lettore
la possibilità di pervenire alla sua conclusione da solo.

2.3 Sull’esempio della scienza


A ‘800 inoltrato, una sorta di sindrome scientifica si propaga per tutti i rami del
sapere letterario. Ad un ideale di scientificità si ispira tutta una serie di ricerche:
edizioni critiche, studi sulla fortuna e diffusione degli autori. Senza nulla togliere al
“sorriso della bellezza”, l’esame minuto dei dati e la soluzione su base empirica dei
singoli problemi producevano opere di gran mole.

Alessandro D’ancona (1835 – 1914 d.C.) → Sostiene che la “tela” della storia deve
essere tessuta mettendo in ordine i “fatti” senza “voli ambiziosi” (raccogliere tutti i
particolari).
Hippolyte Taine (1828 – 1893 d.C.) → Con la sua Filosofia dell’arte si pone davanti alle
opere come a dei fatti dei quali è necessario indagare le cause. La prima mossa è quella
della contestualizzazione storica a partire dal presupposto che l’opera non è isolata
ma sta in relazione alle altre opere dell’autore, a quelle della sua scuola, alla cultura e
al gusto di un’epoca e può essere spiegata solo rifacendosi all’insieme da cui dipende
(una pianta si trova diffusa secondo certe caratteristiche del clima). Per comprenderla
esattamente dobbiamo avere un’idea dello stato generale dello spirito e dei costumi del
suo tempo che ne sono la causa principale. La scienza non condanna né perdona:
constata e spiega (si deve studiare sia l’arancio che l’alloro). Le creazioni

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dell’immaginazione umana devono trovare tutta la loro giustificazione e il loro posto e


Taine dice che la prima operazione dello storico nel mettersi nei panni delle epoche
passate non può non essere un moto di simpatia. Il giudizio di valore è recuperato da
Taine affermando che gli stessi caratteri naturali possono essere ordinati
gerarchicamente; alcuni sono più notevoli e più dominanti di altri. Le opere vanno
valutate secondo i caratteri che esse principalmente adottano. Taine offre 3 scale di
riferimento: l’importanza (la priorità al carattere che ha la maggiore invariabilità nel
tempo), l’utilità morale dei caratteri (distinguendo tra “salutari” e “nocivi”) e la
combinazione degli elementi nell’opera e gli effetti dello stile. Il criterio detto della
convergenza degli effetti (su un unico personaggio) tiene parecchio del vecchio ideale
classico dell’unità dell’opera e della simmetria delle sue parti.
Ferdinand Brunetiere (1849 – 1906 d.C.) → Un altro tentativo di avvicinare
scientificamente i fenomeni letterari è quello compiuto da lui. Il modello scientifico è
ripreso dalla teoria dell’evoluzione delle specie di Darwin. Si tratta di una prospettiva
storica ma essa pare piuttosto svolgersi all’interno dell’orizzonte letterario. Rispetto a
Taine qui diventa più importante trovare il posto adeguato per l’opera nella catena
evolutiva che non trovare il modello umano cui è riferibile. Le cause cui maggiormente
si attiene sono di natura endogena, risiedono nella vita dei generi (nasce, cresce, si
perfeziona, declina e muore). Il critico francese vede nella definizione e “fissazione” dei
generi un fatto positivo. Il momento migliore nell’evoluzione sarà infatti quello in cui il
genere realizza se stesso fino alla pienezza e perfezione dei propri mezzi. L’imperativo
“a classificare” non impedisce di giudicare. Come già in Taine, le premesse scientifiche
si piegano ad ospitare il giudizio, che anzi Brunetiere ritiene fondamentale e vorrebbe
“fondato oggettivamente”.
Paul Bourget (1852 – 1935 d.C.) → Nei suoi saggi, seppur in modo generico, si evidenzia
un atteggiamento “osservatore” con sfumature psicologiche. L’analisi mette a fuoco
i contemporanei e vi legge lo stigma negativo dei comportamenti moderni, valutando
gli intrecci delle singolarità psicologiche con l’atmosfera morale dell’epoca. Queste
ricerche preparano il terreno in cui si svilupperà il successivo filone della critica
psicoanalitica.
Aleksandr Veselovskij (1838 – 1906 d.C.) → È sua una delle posizioni più interessanti
generate dallo scientismo ottocentesco. In polemica con i francesi, lamenta che il
metodo delle ricerche storiche spesso prende un po’ come capita gli elementi sociali o
psicologici che si trova sottomano, risolvendo poi i problemi dello sviluppo storico con
l’apparizione del grande uomo cui l’ambiente finisce per fare da sfondo o da piedistallo.
Invece, il metodo comparativo procede mediante il confronto di molte serie di
fenomeni. Emergono delle sorprendenti somiglianze tra opere distanti nello spazio o nel
tempo. Come nel linguaggio noi adattiamo alle nostre esigenze una lingua che troviamo
già fatta, così gli scrittori utilizzano forme preesistenti depositate nella tradizione. Alla
sua teoria dà il nome di Poetica storica. “Poetica”, perché al modo di quella aristotelica
riscontra alla base della letteratura dei modelli costanti. “Storica”, perché vede nella
storia extraletteraria la molla della trasformazione e della reinvenzione delle forme. Le
forme costituiscono un serbatoio stabile al quale i contenuti che emergono
storicamente possono attingere. Ciò che accomuna opere di generi, di culture e di
epoche diverse è la somiglianza di certi schemi d’azione che Veselovskij chiama
intrecci. Egli propone di distinguere motivi e intrecci. Per motivi si intendono le formule
che l’immaginario degli uomini elabora in risposta ai problemi della vita. Di fronte al
sorgere di nuove esigenze le formule diventano più complesse e si combinano negli
intrecci. Sono le forze storiche che decretano la ripresa e il rinnovamento dei vecchi
intrecci facendo irrompere in essi dei nuovi motivi.
Poetica storica → metodo comparativo → schemi d’azione in comune (intrecci)
↓ ↓
Modelli Trasformazione
costanti delle forme

2.4 Impressionismo ed eclettismo


L’esercizio del mestiere del critico accademico conservava il potere di colui che
dispensa posti agli autori facendoli entrare nella storia. Dall’altro lato, il critico-

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giornalista fungeva invece da consigliere pubblico, ad indirizzare i lettori. In entrambi i


casi diventa decisiva l’autorità di colui che assurge ad arbitro del gusto. La critica
impressionistica, che si diffonde nell’800, consiste nel rendere normativo il
risultato dell’incontro con il testo. Il critico dà conto degli effetti che il testo
provoca su di lui e da conto che il piacere o il dispiacere che egli ha avvertito debba
essere provato anche dagli altri. Nel comunicare le proprie impressioni il critico ricorre
ad una scrittura che a sua volta deve imprimersi e imporsi all’attenzione del
destinatario. Le principali mosse retoriche sono l’evocazione con cui viene resa
presente in modo vivace la scena o l’ambiente dell’opera; il paragone con cui il
comportamento dell’autore è colto attraverso un’immagine e l’intervento personale in
cui l’io del critico si fa avanti a raccontare le circostanze che hanno accompagnato la
sua lettura.
Critico accademico → fa entrare gli autori nella storia
Critico giornalista → indirizza i lettori
Critico impressionista → esprime le sue impressioni, è “arbitro” del gusto”
Mosse retoriche:
 Evocazione di scena/ambiente
 Paragone Creatività del critico analoga a quella dello
scrittore
 Intervento personale

Charles Baudelaire (1821 – 1867 d.C.) → Considera il poeta il migliore di tutti i


critici. Al critico viene richiesta una capacità creativa analoga a quella dello scrittore.
Oscar Wilde (1854 – 1900 d.C.) → Nel suo Il critico come artista, la critica è riscattata
dalla concezione comune che la vuole subalterna all’opera e riceve essa stessa il rango
di creazione. Per lui si tratta di una creazione dentro una creazione. La critica può
considerarsi indipendente dall’opera. Un critico artista di questo genere non si applica
alla spiegazione, quanto piuttosto a fare più intenso il mistero. Sua dote non sarà
affatto il rigore ma il temperamento. La “Critica” prende il ruolo di guida e coincide
infine con lo “Spirito del mondo”.

Charles-Augustine Sainte-Beuve (1804 – 1869 d.C.) → È il più importante


rappresentante della critica giornalistica, soprattutto per rubrica settimanale
Conversazioni del lunedì. Egli eccelle nella conversazione critica, cioè un discorso libero
di toccare vari livelli e di servirsi di disparati apporti metodologici. Il suo approccio
procede all’insegna dell’eclettismo. Muove alla ricostruzione dell’epoca, dell’ambiente,
della cerchia in cui è nato ogni autore, focalizzando il suo interesse sulla persona dello
scrittore. L’atteggiamento scientifico e non giudicante deve portare a conoscere un
uomo. Per questo versante la critica va a coniugarsi strettamente con la biografia. In
quella che egli chiama la critica fisiologica è l’individuo-talento a finire al centro del
quadro. La forma prediletta da lui è il ritratto letterario. Il critico biografo deve
raffigurare il genio nella sua posa dei giorni migliori. Significa dare le sembianze fisiche
dell’autore. Il critico deve trasferirsi nel suo autore come una sorta di metamorfosi,
arrivando quasi a identificarsi e a convivere con lui. Sainte-Beuve contempera e usa con
moderazione criteri diversi. Passa dall’erudizione all’impressione, dalla storia alla
psicologia, dalla classificazione alla valutazione. In lui, versatile poligrafo, la critica
giornalistica finisce per accordarsi con la critica accademica. L’interesse per la nascita
di nuovi talenti non confligge con la funzione professorale di vegliare sul mantenimento
della tradizione.
Critico eclettico → non esclude nessun metodo (al contrario dell’impressionista)
Critico fisiologico → ritratto letterario dell’autore ed immedesimazione nello stesso

Giosue’ Carducci (1835 – 1907 d.C.) → In Italia sarà lui ad assommare in sé le figure del
poeta-critico e del critico-professore. Carducci non si sottrarrà al dettaglio delle ricerche
erudite e alla raccolta dei materiali. Il valore poesia rimane al di là dell’erudizione.

A cavallo tra biografia, storia e partecipazione, si muove il danese Georg Brandes (1842
– 1927 d.C.) → Delle sue opere si ricorda l’allargamento fuori dei confini nazionali,

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verso la letteratura europea, e il ragionare per linee di tendenza raggruppando gli


autori nelle correnti principali.

Vicino a Sainte-Beuve è l’americano:


Henry James (1843 – 1916 d.C.) → Noto come narratore ma attivo anche come critico
sul suo terreno preferito, cioè l’arte del romanzo, intende la funzione del critico
come “aiuto” ravvicinato al lavoro dell’autore: la critica va esercitata con “rispetto” e
addirittura con “tenerezza”. Occorre proiettarsi ed immergersi nel testo. L’autore va
assimilato intimamente e compreso nella sua concezione di fondo, nel suo progetto. A
ciò concorrono sia le indicazioni biografiche che le immagini. Particolari i paragoni
zoomorfi utilizzati da James. L’aspetto interessante della sua critica è la distinzione
tra soggetto ed esecuzione, per cui invece di giudicare della moralità o meno del
“soggetto”, si tratta di rendersi conto delle difficoltà superate per realizzarlo.

2.5 L’apprezzamento estetico


L’età moderna è caratterizzata anche dall’affermarsi dell’estetica. C’è il ricorso negli
apprezzamenti critici e nelle indicazioni di poetica all’unità di misura del “bello” e c’è
l’approfondimento filosofico. Sul lato dell’estetismo non mancano posizioni ricche di
risvolti problematici.

Edgar Allan Poe (1809 – 1849 d.C.) → Nei suoi scritti circola un’idea di “Bellezza”
come avvicinamento a un’essenza metafisica che non si può cogliere in poesia che
per brevi indistinti barlumi. Getta le basi del simbolismo. Ma poiché la “Bellezza”
tende a coniugarsi con l’”Originalità”, bisogna considerare la tecnica che ha analizzato
nel commento nella sua Filosofia della composizione.

Baudelaire → Afferma che il bello è sempre bizzarro. Non più un ideale eterno ma
mosso dalla contraddizione, in quanto aperto al relativo, al transeunte (effimero), alla
rapida trasformazione della modernità: una bellezza che fa i conti con la contingenza e
la storicità.

Walter Pater (1839 – 1894 d.C.) → Per lui essenziale non è solo avvertire la bellezza ma
anche spiegare e analizzare l’impressione ricevuta. L’apprezzamento dei punti
elevati, dei vertici, dei momenti eletti, conduce al collegamento extrastorico tra gli
artisti di genio, tutti ugualmente ospiti nella casa della bellezza e tuttavia ciascuno
secondo il proprio modo. La bellezza è relativa e non se ne può dare una definizione
astratta. Il fascino è qualcosa di peculiare, l’incanto è unico, la bellezza singolare. Pater
ricorre alla biografia, in quanto il valore storico di un autore risiede nella sua epoca, il
valore estetico nella sua individualità.

Il principale problema è come rapportare la sfera estetica agli altri settori


dell’analisi filosofica. Sul posizionamento dell’estetica all’interno dell’elevazione dello
Spirito i filosofi dell’idealismo divergono:
Friederich Wilhelm Schelling (1775 – 1854 d.C.)→ Le dà il rango principale. Le
attribuisce il potere di risolvere con l’intuizione ogni contraddizione, nell’identità di una
infinita armonia.
mentre Hegel → Ne fa un grado inferiore. La perfetta trasparenza dell’interno
nell’esterno si riscontra soltanto nell’arte classica. Il dinamismo del libero gioco delle
facoltà, che c’era nell’estetica kantiana, non si ritrova nell’estetica schellinghiana.
Neppure nell’estetica hegeliana da cui, invece, si sviluppa un tipo di critica tesa a
fissarsi sull’idea contenuta nell’opera, accreditando il contenutismo.

Arthur Schopenhauer (1788 – 1860 d.C.) → Considera l’arte come un’intuizione


contemplativa che astrae l’uomo dalla sua vita abitudinaria dove egli è trascinato
dalla cieca volontà di vivere. Dunque l’arte, poiché riesce a liberarci dalla schiavitù del
volere, è un conforto che fa dimenticare, anche se solo momentaneamente, i travagli
della vita.

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Friedrich Nietzsche (1844-1900) → La bellezza estetica serve a rendere tollerabile


il peso dell’esistenza. La bellezza è un trucco della forza primordiale per consentire
alla vita di continuare. Egli propose di abbandonare la figura del critico erudito per
passare alla figura dell’ascoltatore estetico.

Benedetto Croce (1866 – 1952 d.C.) → A partire dalla Estetica, egli lavora a
suddividere l’attività dello Spirito in diversi ambiti: l’estetica risulta così separata
dal pensiero concettuale, come la sfera economico-pratica da quella della morale.
Secondo la “dialettica dei distinti”, l’arte viene distinta dalla logica: essa è
conoscenza, ma conoscenza pre-logica, intuitiva, che non adopera concetti bensì
immagini. L’arte è intuizione. Croce terrà costantemente a escludere dal bello i livelli di
riflessione più elaborata e, paradossalmente, un sistema di pensiero verrà messo in
opera per recuperare la posizione del “lettore ingenuo”. Croce vede nell’intuizione
qualcosa di già pacificato. Il sentimento contemplato è destinato a essere risolto e
superato per virtù dell’arte. L’intuizione artistica è un momento superiore alla semplice
percezione e sensazione. L’intuizione valida è quella già corredata della sua
espressione, quindi già in qualche modo formata. Per Croce non è un processo che porti
dal contenuto alla forma ma i due aspetti debbono emergere insieme. L’estetica
crociana perviene al privilegiamento della forma ma lo scrittore non deve andare per
nulla alla ricerca della forma migliore. L’espressione non può essere trovata già pronta
in regole prefissate. Dal punto di vista crociano l’estetica non può giovarsi di alcun
metodo comparativo: i paragoni tra due artisti diversi danneggiano l’uno e l’altro.
Croce, ad escludere molti dei modi di approccio al testo che si erano imposti nell’800,
non ammette la spiegazione attraverso le cause esterne. L’opera letteraria non può
essere riassorbita nella storia perché le intenzioni dichiarate dell’autore non sono
ritenute sufficienti, in quanto l’intuizione è al di là della consapevolezza. Anche i ponti
tra critica e biografia risultano tagliati. Croce riduce l’importanza dell’erudizione.
Nell’estetica l’unica soluzione possibile sembra quella della compartecipazione. Non
resta che ricreare l’opera in noi. Il metodo critico proposto da Croce coinciderebbe con
l’immedesimazione fino alla stretta identità. Eppure nemmeno in questa forma il
movimento della comprensione perde di mira il giudizio. La critica che Croce deriva
dalle proprie convinzioni estetiche è sempre volta all’apprezzamento. Per
contrassegnare il valore artistico Croce sceglierà il termine “poesia”, divenendo
sinonimo di “bello”, contrapponendo il valore assoluto di “antipoesia” e quello relativo
di “non poesia” (es. muro con i fiori). Con la Poesia Croce riesce ad articolare
maggiormente l’operazione critica. Accanto al bello è possibile rintracciare il
“caratteristico”, cioè quel motivo generatore che permette di definire lo stato d’animo
fondamentale di ciascun autore. Nella Poesia viene puntualizzata la connessione tra
estetica e storia. Ciò non comporta però né la spiegazione dell’arte attraverso i
mutamenti sociali, né la sua connessione con la sfera pratica. L’unico orizzonte
storico concepibile è quello di una comunione eterna delle opere belle. La
posizione di Croce fu a lungo egemone in Italia e non senza influssi sul resto d’Europa.
Certo, i seguaci di Croce resero più elastico il suo metodo o ritornando all’arte come
sentimento, o puntando sulla degustazione di singoli frammenti avulsi dall’insieme.

2.6 La transizione del primo novecento


Gustave Lanson (1857 – 1934 d.C.) → L’erudizione, le cognizioni esatte e positive sono
fondamentali ma il fine ultimo è aiutare la comprensione e il godimento dei
testi.

Karl Vossler (1872 – 1949 d.C.) → Nei suoi scritti ecco che si affaccia la nozione di stile.

Renato Serra (1884 – 1915 d.C.) e Giovanni Boine (1887 – 1917 d.C.) → Portarono
l’impressionismo critico alle estreme conseguenze ma con soluzioni per molti versi
opposte.
Serra → Arrivò a seguire le impressioni fino al vero e proprio racconto della lettura.
Egli porta attenzione a tutta una serie di dati sull’autore e sui suoi luoghi prediletti.
Come avveniva nel precedente caso dell’eclettismo di Sainte-Beuve, Serra non avverte

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contrasto: infatti per lui le impressioni stesse sono fatti, né più né meno che i dati
biografici. Ad essere esclusa è semmai l’emissione del giudizio, e questa è una
distinzione con Croce. Proprio per non prevaricare l’opera, Serra le offre molto spazio
attraverso l’abbondanza di citazioni dirette. E, non volendo apparire un giudizio esterno,
si attesta spesso sul rilevamento degli effetti prodotti dal testo. Il metro del valore non
è il bello definito filosoficamente come per Croce, ma l’incanto che l’opera ha saputo
creare catturando il lettore. Un altro termine che Serra usa come contrassegno positivo
è la “felicità”. Felice è sia il risultato conseguito dall’opera, sia lo stato che
essa procura. La differenza da Croce su questo punto si riduce di molto: l’ideale di
Serra è una letteratura improntata alla sobrietà felice dei classici e alla civiltà.
Boine → Risulta per molti aspetti il contrario di Serra. Per Boine il giudizio è
essenziale a costo di esercitarlo in maniera drastica (Plausi e botte). Quella di Boine
vuole essere una nuova frusta letteraria ed infatti l’Aristarco Scannabue di Baretti
viene rievocato espressamente. Una frusta che si esercita soprattutto sulla narrativa
commerciale ma anche sulla poesia di maniera. Il rifiuto viene formulato portando
all’eccesso la personalizzazione del discorso propria della critica impressionistica. Con
Croce, Boine intrattenne una dura polemica sulle pagine della rivista fiorentina “La
Voce”. Contro Croce, Boine propone di sostituire come termine della valutazione
positiva al “bello” il “grande”. Boine va alla ricerca dell’uomo e non del poeta. Ma il
riferimento all’uomo non finisce in un sereno biografismo, piuttosto a Boine interessano
il travaglio interno della personalità e il dissidio che rompe la sublimazione e vitalizia i
morti schemi letterari. L’ipotesi di scrittura che Boine come critico rintraccia riceve il
nome di lirica, ma in un senso molto diverso dall’uso fattone da Croce. In Serra la presa
del testo è considerata alla stregua di un magico incantesimo al quale ci si deve
abbandonare. In Boine invece il rapporto è visto come una scossa, un urto.

Albert Thibaudet (1874 – 1936 d.C.) → Ribalta la critica fisiologica di Sainte-Beuve


proponendo la sua Fisiologia della critica, articolata nei tre rami della critica
professionnelle, parlée e d’artiste. Sia la critica universitaria che quella svolta sulla
stampa hanno per compito l’inventario; solo che l’una lo espleta sul passato, l’altra sul
presente. La critica giornalistica a sua volta è il punto alto di quella critica parlée. I
diversi tipi di critica inquadrano competenze diversificate ma secondo lui non mancano
di relazioni ed è anzi utile la loro correzione reciproca.

Paul Valery (1871 – 1945 d.C.) → È un lettore molto attento a ricostruire l’interiorità
dell’autore; ciò lo porta a contestare la validità della critica biografica, poiché i fatti
esterni non hanno nessun necessario riferimento al lavoro mentale che
produce l’opera (es. il sapore dei frutti non dipende dal paesaggio che circonda
l’albero ma dalla ricchezza invisibile del suolo). Con la sua concezione della poesia
come arte del linguaggio, pendolarmente oscillante tra suono e senso, Valery
consegna al futuro strutturalismo il problema del rapporto tra significante e significato.
È posto così il problema della libertà dell’interpretazione. Il poeta francese si esprime
contro la passività nella lettura.

Thomas Stearns Eliot (1888 – 1965 d.C.) → Secondo lui, la poesia contiene già al suo
interno il germe del lavoro critico e nondimeno il critico deve avere un senso fattuale
estremamente sviluppato. Gli strumenti principali sono soprattutto l’analisi e il
confronto. L’importanza della prospettiva storica è che il presente può essere
compreso solo rispetto al passato.

Virginia Woolf (1882 – 1941 d.C.) → La polemica riguarda il fatto che le donne
vengono scarsamente considerate nel mondo letterario e in partenza hanno
molte meno possibilità di accedere alla scrittura. Quando la Woolf si occupa delle
scrittici può prevalere l’interesse biografico e campeggiare la ricostruzione della figura
autoriale. Oppure l’uso dell’immaginazione per entrare nelle vicende come se si
partecipasse ad esse. O ancora l’impiego di metafore vivide. La Woolf vorrebbe calarsi
nel lettore comune e tuttavia continua ad affidare al critico di professione un compito di
supporto e di stimolo, non di autorità, ma di aiuto a specificare meglio le impressioni

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confuse della lettura. Di fatto l’atteggiamento di simpatia e di adesione non è


sufficiente: la lotta contro i pregiudizi e le emarginazioni ha bisogno anche di un
momento giudicante. La Woolf consiglia di non esitare al giudizio più severo.

Parte seconda
Le grandi tendenze metodologiche del Novecento
Nella parte centrale del Novecento la riflessione della critica si è incentrata sulla
ricerca del metodo. Le correnti principali sviluppatesi sono: la critica formal-
strutturalista, che prende spunto da Saussure, la critica marxista, dall’analisi
politico-economica di Marx ed Engles e la critica psicoanalitica di Freud. Essendo
critiche che traggono fondamento da discipline esterne al campo letterario, nascono
nuove problematiche che, dovendo fondare un nuovo metodo, verranno analizzate in
ogni dettaglio.
Ciascuna delle grandi correnti ha avuto i suoi momenti di supremazia; è emersa infine
una tendenza anti-metodologica, la “fenomenologia della lettura” o “ermeneutica”.
Essa riporta in primo piano il rapporto “a due” del critico con l’opera e contesta al
metodo l’eccessiva rigidità e la pretesa di risultati “oggettivi”. Nonostante ciò, l’idea di
abbandonare del tutto la metodologia non è né utile, né accettabile. Le questioni
relative al metodo restano l’unica cosa su cui possiamo discutere. Le grandi tendenze
metodologiche sono insiemi coerenti di premesse, criteri, soluzioni e scopi. I “critici di
confine” sono coloro che non rientrano pienamente in queste categorie. Di fronte alla
crisi di idee e proposte, molti rispondono col ritorno al valore “classico”.
Critica formal-strutturalista → Saussure
Critica marxista → Marx e engles Metodi
Critica psicoanalitica → Freud
Tendenza antimetodologica

3 L’analisi del linguaggio


3.1 L’apporto della linguistica
Ferdinand De Saussure (1857 – 1913 d.C.) → Ha chiarito 3 distinzioni:
1. I termini significante e significato → Si individuano i due livelli su cui si
impegneranno le discipline della fonologia (che studia i tratti distintivi e
l’articolazione dei significanti) e della semantica (rivolta all’analisi dei significati);
2. I termini langue e parole → Langue sta a indicare il codice cioè il sistema della
lingua mentre la parole è chiamata a designare il messaggio;
3. La coppia sincronia e diacronia → La sincronia si riferisce allo stato della lingua in
un determinato momento mentre la diacronia è rivolta a comprendere i processi di
cambiamento e di mutazione.

Louis Hjelmslev (1899 – 1965 d.C.) → Ha distinto espressione e contenuto, i due livelli
del significante e del significato. Con la linguistica si è diffusa anche una mentalità
scientifica, con atteggiamento analitico. La linguistica poteva essere usata come
strumento all’interno dell’interpretazione delle opere letterarie 1 o come modello
epistemologico2, per ricostruire il sistema di regole proprie del linguaggio letterario in
quanto tale.

3.2 Le “spie” dello stile1


Nell’esercizio concreto della critica è stato possibile utilizzare gli spunti dell’analisi
linguistica. Oggetto di studio è quel tratto linguistico che più contraddistingue
l’autore e fa del suo stile qualcosa di riconoscibile. La nozione di stile è passata a
designare l’aspetto individuale della lingua. E critica stilistica sarà allora quella che
tende alla determinazione delle peculiarità che rendono significativa la figura
di un singolo autore o addirittura di un singolo testo.

Leo Spitzer (1887 – 1960 d.C.) → Egli mise a punto il metodo della stilistica. Parte dal
presupposto che esiste sempre un rapporto reciproco tra stato interiore e fatti di
linguaggi. Il critico, partendo da qualche tratto che si trova sulla superficie verbale,

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deve arrivare ai centri emotivi. Si tratta di cogliere l’emersione espressiva che Spitzer
denomina spia stilistica e di ricondurla alla radice psicologica d’origine. Il critico parte
armato delle proprie impressioni che gli segnalano un particolare come un qualcosa di
decisivo ai fini dell’interpretazione. Il cosiddetto click che fa accendere la spia e mette
in azione l’analisi, può non essere evidente ed immediato. Spitzer raccomanda di
leggere e rileggere con pazienza. Inoltre questo elemento linguistico va sempre
sottoposto a una verifica: deve dimostrare di non essere un fatto contingente e isolato
ma un denominatore comune. Parola e opera dovrebbero ritrovarsi legate in una
armonia prestabilita (Wort und Werk). Spitzer ha teorizzato un movimento pendolare
dal particolare al generale, dalla circonferenza al centro del cerchio e viceversa,
denominandolo circolo filologico. I problemi inerenti alla stilistica sono soprattutto le
remore a risolvere l’atto critico nell’analisi linguistica. Una volta avuto accesso
attraverso le spie al centro dell’opera, le carte possono tornare in mano all’impressione
estetica. L’uso normale della lingua, chiamato anche standard o grado zero, è
difficilmente accertabile in modo definitivo. Si tratta di stabilire quali scelte lo scrittore
ha compiuto in quei punti della lingua che essendo più elastici offrono la possibilità di
diverse sfumature. Ma nessuno può trasferirsi nella mente dell’autore per sapere
esattamente quali scelte abbia compiuto e su quali alternative.
L’unico modo oggettivo è quello su cui ha puntato
Gianfranco Contini (1912 – 1990 d.C.) → Le uniche scelte reali operate dall’autore sono
quelle documentate sotto forma di correzioni.
Dai tratti verbali ai centri emotivi
Spia stilistica → etimo spirituale
Problemi:
 Stilistica come scienza ausiliaria
 Scarto dalla norma (dello scrittore dalla lingua) → critica delle varianti (correzioni
documentate)
Erich Auerbach (1892 – 1957 d.C.) → Successore di Spitzer, dispiega tutta la versatilità
del proprio metodo che è quello della campionatura. Mentre Spitzer coglie come
significativo un piccolo elemento all’interno del testo, Auerbach preferisce lavorare su
un campione abbastanza esteso contenente tutte le caratteristiche fondamentali dello
stile. Mimesis è un grande excursus storico che mette a confronto diverse soluzioni
stilistiche. Secondo Auerbach ogni testo prende posizione rispetto ai livelli stilistici e alla
loro gerarchia: o promuovendo la separazione (distanziando lo stile sublime dallo stile
basso), o (come nel medioevo e nell’età moderna) favorendo la mescolanza. Il testo è
comprensibile e giudicabile solo secondo i parametri del suo proprio tempo. Quella
auerbachiana è una stilistica storicizzante. La situazione sociale spiega lo stile.
Stilistica + storia → stilistica storicizzante con il metodo della campionatura

William Empson (1906 – 1984 d.C.) → Ha analizzato nei testi poetici le ambiguità in
tutti i loro tipi, ne distingue 7, riuscendo a cogliere in parafrasi l’oscurità e la ricchezza
di passi particolarmente ardui, senza escludere il momento apprezzativi. Nel mostrare
come determinati passi riescano a sfruttare la polivalenza dei significati depositati nella
lingua, Empson considera sia la creatività individuale che la convenzione collettiva.

Allen Tate (1899 – 1979 d.C.) e Cleant Brooks (1906 – 1994 d.C.) → Esponenti del New
Criticism. Più che un compatto indirizzo metodologico abbiamo a che fare con un’area
di prospettive critiche associabili in base al comune interesse per la lettura ravvicinata
con la molteplicità dei significati del linguaggio poetico, affrontando la complessità del
paradosso e dell’ironia e tenendo presente l’uso figurativo della parola in poesia.

3.3 Il metodo formale2


Roman Jakobson (1896 – 1982 d.C.), Victor Šklovskij (1893 – 1984 d.C.), Jurij Tynjanov
(1894 – 1943 d.C.) e Vladimir Propp (1895 – 1970 d.C.) → Diedero vita alla teoria del
metodo formale. Secondo Šklovskij il nostro modo di vedere le cose è reso ottuso
dall’abitudine. Per risvegliare la capacità di visione è necessario che l’osservatore si
metta in una prospettiva inedita e sorprendente (nozione di “straniamento”).

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Anche i formalisti assumono la nozione di scarto, di deviazione della norma intrinseco


alla “letterarietà” in quanto tale. I formalisti affrontarono la questione mediante la
contrapposizione tra linguaggio letterario e linguaggio pratico: il linguaggio pratico
adopera le parole come mezzi per realizzare i vari scopi della vita. Invece nel linguaggio
letterario la parola non è più mezzo ma fine in se stessa. Gli scarti indagati furono
principalmente il ritmo e la rima in poesia e l’intreccio in narrativa.
 Scarto dalla norma (del linguaggio letterale da quello pratico)

Osip Brik (1888 – 1945 d.C.) → Ha distinto l’impulso ritmico dalle leggi della
metrica in modo da poter avviare l’analisi del verso libero.
Allo stesso modo, nell’ambito dell’intreccio Šklovskij individua diversi schemi di
costruzione: a gradini (quando la storia procede per aggiunte successive), ad anello
(quando ad una azione fa seguito una contrazione), con intrecci paralleli, l’inserimento
di novelle in una cornice e così via. Viene privilegiato l’aspetto tecnico. I formalisti si
adoperano a portare alla luce i segreti di fabbricazione, cercando di vedere con quali
procedimenti l’opera organizzi i propri materiali. Sklovskij porterà all’estremo questa
impostazione fino a considerare ininfluenti i materiali e a ritenere che le motivazioni
tecniche siano le uniche decisive. In questa ottica, in cui il contenuto dell’opera è la
sua forma, si comprende l’interesse di Sklovskij per la messa a nudo del procedimento
e in generale per la parodia. Le leggi della costruzione vengono scoperte grazie ai testi
che le trasgrediscono.
 Ritmo
 Rima poesia → impulso ritmico ≠ leggi della metrica → Brik
 Intreccio → narrativa → a gradini, ad anello, intrecci paralleli,… → Šklovskij

Il compito che si sono posti i formalisti non è valutare ma spiegare com’è fatto un
testo. Il critico come esperto inteso a dar conto del funzionamento dei meccanismi
letterari. Un tentativo di osservare più da vicino le funzioni dei singoli elementi testuali
venne compiuto da Propp sul corpus delle fiabe russe di magia. Scoprì che vi era un
unico schema attuato in modo diverso in ogni fiaba. C’è una costante che Propp
individua come una funzione del racconto a cui dà il nome di proibizione. L’analisi
morfologica mostra che le fiabe di magia si basano su un numero limitato di funzioni da
cui ogni fiaba attinge per comporre la propria sequenza.

Per Šklovskij la letteratura non avanza in linea retta ma per scarti e salti continui.

Tynjanov diede alla sistematicità l’estensione più ampia. Per lui l’opera letteraria è
un sistema, e un sistema è la letteratura. L’evoluzione letteraria dovrà essere
considerata come un avvicendamento di sistemi. La letteratura è vista come
costruzione verbale dinamica. Accanto al termine chiave di sistema assume grande
importanza la funzione. La funzione di uno stesso elemento può variare a seconda del
sistema in cui l’elemento viene incluso. Tynjanov tiene a distinguere autofunzione → un
elemento assume la funzione passando da un’opera all’altra nel percorso della
tradizione letteraria e co-funzione → è data dai rapporti con gli altri elementi
dell’”opera-sistema”. Una funzione è soggetta a mutamento: ad esempio un arcaismo
che in una certa epoca viene usato seriamente per nobilitare l’espressione, può
ricevere successivamente una funzione contraria ed essere usato in senso parodistico e
dissacrante. Tynjanov riconosce l’importanza della diacronia e non manca di
additare il problema con le funzioni linguistiche. La letteratura trae materiali dal
costume per rompere gli automatismi della tradizione. Inversamente, i fenomeni
letterari, una volta esaurita la loro funzione nel campo dell’arte, possono rientrare nel
costume.

3.4 Sistema e funzione: verso lo strutturalismo


Le nozioni di sistema e funzione saranno ulteriormente arricchite al Circolo linguistico di
Praga cui collaborò anche Jakobson. Nei praghesi compare il termine struttura che
verrà poi ripreso da Jan Mukařovsky (1891 – 1975 d.C.). Mukařovsky considera la
funzione in quanto relazione dell’arte con il mondo sociale e storico. La sfera

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dell’estetica e quindi anche la letteratura hanno una funzione che varia nel tempo.
L’opera non comunica singole realtà ma si rivolge alla coscienza del fruitore come un
tutto solidale. E solo in quanto tale essa ha un significato riferibile al contesto
complessivo dei fenomeni sociali. Tutte le componenti dell’opera vanno considerate
come portatrici di significato in quello che Mukařovsky chiama il processo semantico, e
devono diventare oggetto di considerazione per chi voglia rintracciare il senso
complessivo.

Claude Levi-Strauss (1908 – 2009 d.C.) è il fautore del vero e proprio strutturalismo
affermatosi in Francia. Il metodo viene applicato a tutti gli ambiti dell’attività umana,
non solo a quelli propriamente connessi al linguaggio, come i miti, ma anche ai rapporti
di parentela, alle usanze, all’alimentazione. Si tratta di individuare gli elementi
costitutivi di ogni fenomeno e di specificarne le relazioni, disponendoli in uno schema di
classi che si oppongono e si combinano fra loro (tratti distintivi). Applicando una
logica binaria, Lévi-Strauss riconduce fenomeni appartenenti a culture anche molto
distanti a strutture elementari ossia a un codice di base che darebbe nei diversi luoghi
soluzioni e combinazioni diverse, seguendo una struttura profonda comune a tutti: la
struttura dello spirito umano. Lo strutturalismo trova che tutto è segno, non solo i
linguaggi veri e propri ma anche le espressioni non verbali, l’abbigliamento, l’immagine
pubblicitaria, le buone maniere. Vedere come funziona un testo significa valutarlo
positivamente, perché funziona bene.

Tzvetan Todorov (1939 – vivente) → Parlando della poetica strutturale ha scritto che in
essa l’opera è vista solo come manifestazione di una struttura astratta della
quale essa è solamente una delle possibili realizzazioni. È possibile che il testo
venga considerato meno importante delle regole che esso implica. Qualsiasi
realizzazione sarebbe già contenuta nel sistema generatore che lascerebbe l’unica
libertà di variare le combinazioni. Qui verrebbe a costituirsi il dominio a parte di una
scienza della letteratura nettamente separata dall’interpretazione critica. Ma ci sono
state anche ricerche più limitate, su generi ristretti: così accade a Todorov sul
fantastico, posto sul filo dell’esitazione tra strano e meraviglioso e confinato a rigore nel
solo periodo dell’800. Piuttosto controversa era anche la differenza tra semiologia e
semiotica (la prima dovrebbe studiare i segni di tipo linguistico, cioè codificati; la
seconda ogni tipo di significazione).

Roland Barthes (1915 – 1980 d.C.) → È uno dei più rappresentativi esponenti dello
strutturalismo francese. Rifiutava la storia letteraria proprio perché ridotta a un seguito
cronachistico di autori. La critica per lui consiste nel decifrare la significazione e
nell’aprire l’opera non come l’effetto di una causa ma come il significante di un
significato. Barthes dava alla struttura soprattutto il valore di strumento metodologico.
Egli ha messo gli strumenti analitici al servizio di una lettura rapsodica tendente a
costellare il testo nella dispersività di un commento aperto a tutti i sensi possibili.
Gerard Genette (1930 – vivente) → Le sue ricerche insieme a Barthes disegnano un arco
evolutivo che cerca di uscire dalle strettoie del metodo strutturale. Genette ha
provveduto a contrastare l’illusione che il testo letterario potesse essere considerato
come un oggetto chiuso e a sé stante ed ha puntato sul rapporto del testo con altri testi
(intertestualità) che risulta particolarmente utile nel caso della parodia.

3.5 Il privilegio del significante


In un celebre intervento del 1958 intitolato Linguistica e poetica, Jakobson si proponeva
di rispondere alla domanda fondamentale “che cosa è che fa di un messaggio
verbale un’opera d’arte?”. Qualsiasi situazione comunicativa prevede un mittente
che invia un messaggio a un destinatario. A questi Jakobson aggiunge come
indispensabili: un contesto, un codice e un contatto (un canale). Le rispettive funzioni
che lui individua sono:
Mittente → funzione emotiva
Destinatario → funzione conativa
Contesto →funzione referenziale

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Messaggio → funzione poetica


Contatto → funzione fatica
Codice → funzione metalinguistica
Jakobson ipotizza un ordine gerarchico delle funzioni che preveda una funzione
dominante. Ad esempio nello slogan la funzione dominante è quella conativa. Nella
poesia è dominante la funzione poetica. Anche nella non poesia si è rivalutata la
funzione poetica, dapprima secondaria, ma in questo nuovo clima culturale considerata
dominante. Jakobson risale agli aspetti fondamentali del comportamento linguistico,
individuati ora nella selezione e nella combinazione. Quando parliamo compiamo una
selezione tra tutte le parole che potremmo usare in un determinato punto della frase, e
poi mettiamo insieme in un certo ordine combinatorio i termini prescelti. La selezione è
fondata sull’equivalenza dei termini possibili, mentre la combinazione prevede che, per
essere compatibili, i termini debbano svolgere ruoli diversi. Il sistema dei significanti
trama la propria rete organizzativa sopra quella della grammatica e della sintassi della
lingua. E sebbene Jakobson parli di sovrapposizione del principio di equivalenza sulla
successione delle parole, tuttavia egli mostra in definitiva il prevalere della scansione
specifica dei ritmi e dei suoni sulla forma usuale. Compare l’ipotesi di un legame latente
tra suono e significato (fonosimbolismo).

Jurij Lotman (1922 – 1993 d.C.) → Definisce l’arte letteraria un sistema di simulazione
secondario. Secondario perché utilizza dei materiali preesistenti nella lingua naturale e
di simulazione perché pur realizzandosi nella sequenza lineare della scrittura, si
organizza in modo da configurare con i suoi rapporti interni una rappresentazione della
realtà, una simulazione del proprio contenuto. Lotman propone, per definire l’opera
d’arte letteraria, la nozione di segno integrale. Mentre nella lingua naturale il testo è
composto da segni, ciascuno dei quali è portatore di significato ed è a sua volta
scomponibile in elementi (le lettere delle parole) che di per sé non significano nulla,
nell’arte verbale il significato è dato soltanto dal testo preso per intero. Ciò
vuol dire che il testo diventa segno e che i segni che lo compongono ne diventano gli
elementi. È al livello semantico-lessicale che Lotman attribuisce il valore di strato base
non eludibile su cui si innestano tutti gli altri contributi al senso complessivo. L’ apporto
dei significanti è considerato quindi non tanto in chiave di autonomia totale ma come
aumento della ricchezza del gioco semantico, come incremento dell’informazione
portata dal testo.

3.6 La scienza del racconto


Le ricerche compiute da Propp nel campo delle fiabe verranno estese all’intero universo
del romanzo dalla narratologia. L’approfondimento degli spunti di Propp poteva seguire
due vie: la prima diretta a determinare gli sviluppi dell’azione, la seconda volta a
stabilire i rapporti tra i personaggi posti alla base della vicenda.

Claude Bremond (1929 – vivente) → Nella sua Logica del racconto prende le mosse
dall’impossibilità di decidere in anticipo la successione delle funzioni. Propp aveva
potuto stabilire un ordine di precedenza perché si trovava a lavorare su un materiale
fortemente stereotipato e soggetto a regole fisse. Bremond ritiene che l’unità minima
della narrazione non sia la funzione isolata ma la sequenza che raggruppa più
funzioni. La sequenza elementare sarebbe dunque un processo in 3 tempi composto
da virtualità, passaggio all’atto e conclusione. Quanto al montaggio di queste sequenze
elementari, nella sequenza complessiva Bremond individua 3 modi caratteristici: il
testa a coda (quando ogni situazione di arrivo offre la possibilità di ripartire con una
nuova sequenza), la sacca (quando la sequenza si interrompe per dar luogo a una
sottosequenza che si svolge al suo interno), la legatura (quando due sequenze si
sviluppano simultaneamente o parallelamente). I ruoli narrativi dei personaggi vengono
suddivisi in attivi e passivi. Gli agenti a loro volta si scindono tra volontari e involontari.

Algirdas Julien Greimas (1917 – 1992 d.C.) → Nei suoi personaggi vengono riconosciuti
ruoli o funzioni: un soggetto, un oggetto, un destinatore che predispone l’oggetto per
un destinatario cui si possono aggiungere un aiutante e un oppositore. Per un totale di

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6 attanti a costituire quello che Greimas chiama il modello attanziale. Uno stesso
personaggio può ricoprire più di un ruolo.

Todorov → Arriverà addirittura a tradurre l’intreccio in formule algebriche.

Genette → Toccherà a lui con il Discorso del racconto del 1972 a sistematizzare l’analisi
degli aspetti e dei modi della narrazione uscendo dalla mera sequenza delle vicende. Vi
sono alcuni problemi che lo studio dell’intreccio non riesce a toccare, ad esempio
quello dell’enunciazione. Chi racconta la storia? Un narratore intradiegetico o
extradiegetico che può avere parte o no nella vicenda e quindi potrà essere
omodiegetico o eterodiegetico.

Barthes → Accanto alle funzioni egli suggerisce di considerare anche degli indizi, che
sono quelle notazioni spesso appena accennate a indicare il carattere dei personaggi e
l’atmosfera della vicenda, e servono a preparare gli sviluppi della storia. Inoltre Barthes
distingue tra le funzioni quelle cardinali o nuclei da quelle di riempimento, che offrono
all’interprete dettagli non trascurabili. Barthes indica la necessità di un passaggio dalle
macrostrutture alle microstrutture verso il modo di organizzare i significati, dove le
analisi della poesia e della prosa si congiungono.

3.7 Semantica – semiotica


Del metodo messo in campo da Greimas, sono da ricordare soprattutto alcune nozioni
basilari: la suddivisione del significato in sèmi, il formarsi di catene coordinate di sèmi
dette isotopie, la connessione ai sèmi di marche valutative.

Sulla scia di queste indicazioni greimasiane si sono mossi alcuni studiosi belgi
dell’Università di Liegi raccolti sotto la sigla del Gruppo μ, i quali hanno riclassificato nei
termini della semantica strutturale l’antichissimo bagaglio della retorica. I ricercatori di
Liegi passano a individuare 4 possibili forme di deviazione: soppressione (quando
viene tolto un elemento), aggiunzione (quando l’elemento viene aggiunto),
soppressione-aggiunzione (la sostituzione di un elemento con un altro) e permutazione
(invertire l’ordine degli elementi). La metafora è intesa come soppressione-aggiunzione
nel significato di una parola, la rima è vista come aggiunzione ripetitiva a livello dei
suoni. Il Gruppo μ ha precisato la propria ipotesi teorica nella Retorica della poesia. Nel
testo poetico le metafore e le altre figure produrrebbero un proliferare di sèmi
secondari che vanno a formare varie catene di isotopie. Mentre il linguaggio
normalmente si basa su una sola isotopia, la poesia è dotata di poli-isotopia. Tali reti
semantiche possono essere ricondotte a 3 grandi ambiti: un triangolo che ha per
vertici l’uomo, il cosmo e il linguaggio stesso (anthropos, cosmos e logos).
Il modello Greimasiano è il quadrato semiotico dove il termine chiave si sviluppa in
una dialettica più aperta e complessa combinandosi con i termini contrari e
contraddittori.

3.8 La cultura come universo di segni


Maria Corti (1915 – 2002 d.C.) → Ha considerato la comunicazione letteraria come
scampo di tensioni tra istanze alla codificazione e spinte trasformatrici.

Cesare Segre (1928 – 2014 d.C.) → Ha riattivato l’interesse verso la storia del confronto
tra scrittori col sistema semio-letterario, e dei cambiamenti subiti dal sistema semio-
letterario ad opera delle trasformazioni sociali e delle reazioni degli scrittori a queste
trasformazioni.

Il Gruppo di Mosca e Tartu raccolto attorno a Lotman e a Boris Uspenskij sostiene che se
ogni testo non può essere pienamente compreso nel suo valore altro che in rapporto al
contesto culturale in cui si inscrive, è allora alla cultura in quanto sistema dei
sistemi che l’analisi deve in ultima istanza giungere. La cultura risulterà dal
modo di sommarsi e di organizzarsi dei diversi codici e sarà interpretabile come sistema
di segni sottoposto a regole strutturali. Sono queste le basi della culturologia. Secondo

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Lotman, il modello culturale consiste essenzialmente in uno schema spaziale. Lo spazio


viene suddiviso a opera di una frontiera che serve a distinguere i valori dai disvalori: il
gruppo sociale dai nemici, i vivi dai morti, le divinità buone da quelle cattive. Le vicende
dell’eroe sono significative perché e in quanto lo portano ad attraversare alcune
importanti barriere del modello culturale. I personaggi possono essere vincolati (che
sono legati a una particolare zona e non possono oltrepassarla) oppure mobili (che
assurgono al rango di protagonisti e di forze trainanti dell’azione narrativa). Per
identificare i tipi culturali Lotman ha avanzato varie proposte utilizzando le categorie
tratte dalla linguistica. La classificazione più articolata è quella approntata prendendo in
considerazione l’atteggiamento rispetto al segno. Questi versanti in linguistica
ricevono il nome di paradigma e sintagma. Si aprono 4 possibilità: privilegiamento del
primo aspetto, del secondo, di nessuno dei due o di tutti e due. Lotman legge lo
svolgimento della cultura russa prima del sec. XX come successione di 4 tipi:
1. Nel Medioevo predomina l’aspetto pragmatico → Il segno è fortemente valorizzato a
scapito di ciò che non è segno;
2. Con i secoli XVI-XVII si impone la cultura del praticismo → I segni non sono più presi
per il rapporto con un livello superiore ma per il posto che occupano in un piano
determinato. È questo il tipo sintagmatico dove predomina la capacità di combinare e
organizzare i segni;
3. L’illuminismo rappresenta il caso del rifiuto di entrambi gli aspetti;
4. Tra il secolo XVIII e XIX con l’instaurarsi della società borghese prende piede un
modello culturale che concilia l’aspetto paradigmatico con quello sintagmatico.
Perché una cultura dopo aver funzionato bene a un certo punto viene sostituita da
un’altra? La risposta degli studiosi russi è che il dinamismo non sia imposto da cause
estranee ma che sia intrinsecamente connesso alla cultura. Senonché, una volta inteso
il dinamismo una proprietà ineliminabile della cultura, si finisce per ritenere il
cambiamento un fatto naturale, insomma per deresponsabilizzare le forze culturali.
Nell’ultima fase della sua attività Lotman ha indicato il punto di passaggio tra i diversi
stati con l’immagine dell’esplosione. L’arte è un’esplosione di senso che accade senza
preavviso in un dato momento temporale. La semiotica ha consentito a Lotman di
toccare il punto di congiunzione tra letteratura e comportamento.

4 La critica dell’ideologia
4.1 La concezione materialistica della storia
La comprensione della letteratura ha ricevuto un potente impulso in seguito alle analisi
del materialismo scientifico fondato da Karl Marx (1818 – 1883 d.C.) e Friedrich Engels
(1820 – 1895 d.C.) → La loro teoria forniva la precisa indicazione di dove cercare le
radici, il motore del processo storico. Tale ruolo era attribuito a una motivazione sociale
e a un nucleo profondo di natura economica. Secondo questo punto di vista, l’aspetto
propriamente umano non si trova nel linguaggio o nella significazione, ma nel lavoro e
nell’organizzazione legata alle necessità dell’attività lavorativa. Le attività spirituali
assumono il loro senso reale in funzione dei modi di produzione di ciascuna epoca. Le
istituzioni e le pratiche culturali vanno comprese nel loro intreccio con la base materiale
socio-economica di cui sono espressione. La coscienza che si illude della propria
indipendenza finisce per rappresentare i rapporti reali in modo distorto e
deformato. Questa falsa coscienza viene dai due autori denominata ideologia. Viene
messo in campo lo sguardo sospettoso della critica dell’ideologia. Marx avverte che
non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia. Come mai noi gustiamo
con intatto piacere le opere degli antichi, oggi che il quadro della vita sociale è
completamente mutato? Per la teoria, che viene risolta da Marx ricorrendo all’idea di un
particolare fascino che l’arte greca conserverebbe in quanto legata alla fanciullezza
storica dell’umanità.

4.2 Letteratura e politica


Il collegamento con i gruppi e le classi che compongono la società può essere tracciato
riferendosi semplicemente all’estrazione sociale dell’autore o al tipo di pubblico al quale
egli dichiara di rivolgersi. Così accade del pari per lo studio dei raggruppamenti
intellettuali e dei loro strumenti collettivi (riviste, manifesti). Anche quando ingloba in sé

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l’analisi dell’opera, in ogni caso la sociologia della letteratura procede a un rilevamento


oggettivo della collocazione sociale che può muoversi in parallelo ma non sostituire il
giudizio critico vero e proprio. Non si tratta di emettere una valutazione che riguardi la
letteratura presa a sé, ma di includere la sfera letteraria nella questione più
generale del senso della storia. Occorre ragionare su una valutazione politica. Alla
distinzione tra bello e brutto propria del giudizio estetico, verrà anteposta l’alternativa
tra una direzione progressista o rivoluzionaria e l’inversa direzione reazionaria
o conservatrice. Di fatto la politicità della letteratura è stata spesso intesa come
meccanica sottomissione del valore estetico al valore politico. Ciò ha comportato una
forte svalutazione del letterario. In realtà nella politica culturale dei partiti comunisti
negli anni centrali del ‘900, il valore estetico non venne annullato o superato, quanto
piuttosto ridotto e strumentalizzato. Se il giudizio che si dà di un’opera è “bella ma
reazionaria”, ciò equivale ad ammettere che il giudizio politico negativo non riesce a
escludere il giudizio estetico positivo. L’opera, se pure è reazionaria, nondimeno rimane
bella. Il piacere estetico confinato nella sua zona franca sopravvive intatto, con la
conseguenza di limitare gravemente la portata della critica dell’ideologia. Serve una
spiegazione materialistica anche agli elementi estetici per avere una corretta
valutazione della politicità della letteratura.

4.3 Gramsci e i diversi livelli del giudizio critico


Antonio Gramsci (1891 – 1937 d.C.) → Il suo tratto peculiare è l’articolazione della
critica su 3 livelli tra loro interconnessi ma non sovrapponibili: la politica, la cultura e la
letteratura. In carcere Gramsci avviò un’ampia riflessione teorica e storica
comprendente anche i problemi degli intellettuali e della letteratura, che rimase
consegnata alle pagine dei Quaderni. La sua preoccupazione principale sembra essere
quella di evitare sia l’autonomia del giudizio letterario sia, l’intromissione del
giudizio politico. Gramsci ritiene opportuno distinguere il livello in senso stretto
politico da quello letterario e inserirvi in mezzo, come una sorta di spazio mediatore, il
livello della cultura. Per capire bene quale sia il ruolo della cultura nella teoria e nel
metodo gramsciani è necessario considerarla nelle sue due facce, quella rivolta verso la
politica e quella rivolta verso la letteratura. Quella rivolta alla politica difende il valore
rivoluzionario della cultura e quindi l’importanza della lotta in ambito culturale. La
vittoria del fascismo aveva convinto Gramsci che il processo rivoluzionario sarebbe
stato lento e complesso. Solo l’intervento nella cultura, cioè l’azione volta a conseguire
l’egemonia nell’ambito del senso comune, avrebbe creato un terreno favorevole alla
battaglia politica vera e propria. Nei Quaderni del carcere Gramsci riflette su una
sconfitta epocale del movimento rivoluzionario: gli è ormai chiaro che non basta la
presa di potere se non c’è il consenso e quindi l’egemonia culturale. Egli sviluppa una
forte attenzione per l’organizzazione della cultura e si preoccupa di stabilire la
connessione tra i gruppi intellettuali e i più vasti gruppi sociali. Tra politica e
cultura deve stabilirsi una dialettica e non per nulla Gramsci rintraccia nella politica
culturale un ulteriore livello intermedio. Il raccordo tra l’opera letteraria e l’epoca
storica non è sufficiente. L’attribuzione socio-storica rischia di saltare il problema
artistico. A parità di condizioni possiamo avere qui un artista e là quello che Gramsci
definisce umoristicamente un semplice “untorello”. Questa disparità tra artista e
untorello vale a dire il diverso grado di qualità delle opere, indica che il lavoro istruttorio
del giudizio non può dirsi concluso se non perviene a toccare il livello estetico. Non può
prescindere dagli altri livelli e soprattutto dal livello culturale che gli è più vicino e gli è
direttamente collegato. Gramsci non accetterebbe mai una valutazione estetica
puramente svincolata dal terreno della cultura. Il sospetto che il metodo crociano
(contrario all’ideologia di Gramsci) di distinguere drasticamente tra poesia e non
poesia conduca in uno sterile rifiuto della gran parte della produzione letteraria spinge
Gramsci ad attribuire alla critica la funzione di cogliere gli aspetti propositivi
anche nelle opere minori. Una critica delle tendenze deve essere l’obiettivo del
discorso sulla letteratura. Ciò che è possibile fare è lottare per la formazione di una
nuova cultura per una nuova vita morale così da creare il retroterra da cui nasceranno
nuove opere d’arte. Il livello culturale svolge un ruolo trainante nel giudizio. Gramsci
interroga l’interconnessione dei valori culturali e dei valori estetici nelle opere. Questo

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rapporto è espresso da Gramsci anche attraverso la tradizionale relazione tra forma e


contenuto. Riflettendo sul fatto che l’opera è un processo e che ogni cambiamento nel
contenuto deve determinare un cambiamento nella forma, Gramsci perviene a
ipotizzare una priorità relativa del contenuto e dunque in esso dei valori
culturali (es. nel canto X dell’inferno dantesco, all’interno della non poesia si viene a
conoscenza della pena, fondamentale per l’esito complessivo della scena; il brano
strutturale è necessario, e non è solo struttura ma anche poesia).
Politica difende il suo valore rivoluzionario e l’importanza della lotta culturale
Cultura
Letteratura critica delle tendenze (delle opere minori) e priorità relativa del
contenuto
In reazione a Croce procedeva in Italia anche il percorso dello storicismo critico,
portato avanti da Luigi Russo (1892 – 1961 d.C.), Natalino Spegno (1901 – 1990 d.C.) e
Walter Binni (1913 – 1997 d.C.).

4.4 Rispecchiamento e prospettiva in Lukács


Gyorgy Lukács (1885 – 1971 d.C.) → La sua è un’estetica sistematica. L’idea che
l’arte debba rispecchiare fedelmente la realtà è tributaria della nozione aristotelica di
mimesi. Lukacs la adatta e la aggiorna alla luce delle tesi marxiste: non si dovranno più
tradurre in immagini plastiche o verbali determinati oggetti o situazioni della vita reale,
ma cogliere attraverso l’arte le proprietà del momento storico della società
umana, dei conflitti di classe e dei rivolgimenti rivoluzionari che vi si svolgono. La
totalità che l’arte è chiamata a rappresentare non è soltanto quella dell’esistente, deve
anche porre in evidenza la direzione del futuro. È ciò che Lukács chiama la
prospettiva. Uno scrittore che raggiunge un simile rispecchiamento della realtà può
essere definito realista. Il realismo assume duplice valore: stabilisce come dev’essere
la letteratura da fare ed è un metodo per giudicare gli scrittori del passato. Alla critica
viene demandato il ruolo valutativo di giudicare la giustezza del contenuto delle opere,
ovvero l’adeguatezza del rispecchiamento rispetto alla verità storica. Nelle
intenzioni di Lukács la teoria del rispecchiamento doveva esaltare l’apporto conoscitivo
dell’arte. Mentre il sapere scientifico e quello storico partono dal singolo fenomeno per
giungere alla legge universale, il rispecchiamento artistico si appoggia su una
categoria intermedia tra singolarità e universalità, che non è più il singolo
fenomeno e non ancora l’essenza dispiegata nell’universale. È un termine medio tra i
punti di partenza e di arrivo del processo conoscitivo. In sede letteraria alla categoria
del “particolare” corrisponde il “tipico”: esso è l’accadere individuale orientato nel
giusto rispecchiamento rispetto alla totalità storico-sociale. Il giusto rispecchiamento
deve dar conto della viva dialettica del reale: il tipo viene caratterizzato dal fatto che in
esso convergono tutte le contraddizioni più importanti, sociali e morali e psicologiche di
un’epoca. Una tale tipicità esige che il personaggio sia latore di tendenze storiche,
dotato di una visione del mondo che sia costruito con una fisionomia intellettuale
fortemente caratterizzata. Personaggio, carattere, intreccio: un privilegiamento del
genere narrativo. È prevalentemente con il romanzo che il suo metodo può produrre
risultati. E in particolare con il romanzo storico. Perché ci sia un autentico realismo si
richiede che i fatti raccontati non siano fine a se stessi ma che rinviino alla
rappresentazione delle forze sociali portanti dell’epoca. La letteratura realista si
distingue non soltanto da quella irrealista ma anche dalla riproduzione fotografica delle
cose così come si presentano. Palese è la polemica di Lukács contro il naturalismo e
contro le poetiche moderne che procedono per somma di dati sensoriali senza volerli
organizzare e interpretare. Egli pone in alternativa narrare e descrivere. Mentre nel
narrare ogni aspetto è focalizzato sul nucleo drammatico della vicenda con una forte
partecipazione dell’autore che si trasfonde poi in partecipazione del lettore, nel
descrivere prevale il distacco dell’osservatore. Bertold Brecht fa un’obiezione alla
posizione di Lukács sostenendo che proprio per rispondere all’esigenza di giungere al
fondo della causalità sociale bisogna provare sperimentalmente i nuovi strumenti
formali: una forma che andava bene in passato può non andar bene per oggi, non si
può usare lo stesso specchio per rispecchiare epoche diverse. Nella concezione di
Lukács il mutamento storico viene considerato come mutamento del contenuto da

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rispecchiare, ma lo specchio rimane di per sé immutabile. Lo svolgimento letterario per


Lukács prende la fisionomia di una ricorsività ciclica. Questo ciclo corrisponde secondo
l’impostazione marxista all’arco dell’evoluzione storico-sociale delle forze propulsive
della borghesia che vengono sostituite dalle forze fresche del proletariato. Lukács
risolve anche il problema marxiano del perdurante effetto delle opere del passato: che
si tratti di Ulisse o di Don Chisciotte, il nostro interesse di lettori rimane vivo
perché le avventure dell’eroe ci hanno rivelato i tratti essenziali della vita
umana. Così la teoria lukácsiana che tanto sembrerebbe rivoluzionaria risulta piuttosto
conservatrice. Accetta le gerarchie di valore ereditate dalla tradizione e rimane anche
ferma alla visione romantica del genio inconsapevole, del grande artista che raggiunge
con un balzo intuitivo la vera realtà delle cose.

Teoria del rispecchiamento → l’arte deve rispecchiare la realtà (mimesi)



Lo scrittore realista impiega il singolo per rappresentare la totalità esprimendo inoltre
una prospettiva di futuro
Il realismo: stabilisce la letteratura da fare; fornisce un criterio per giudicare gli scrittori
del passato.
Critica → ruolo valutativo → quanto è realista?
Singolarità – particolare (tipico) – universalità
Obiezione: Brecht → nuovi strumenti formali (es. specchio)
Risposta → La sostanza dell’uomo è immutata (es. leggere Ulisse)

4.5 Gli studi sociali di Francoforte


Un’angolatura diversa pervenne dallo studio sociale dell’arte nella Scuola di Francoforte
con Max Horkheimer (1895-1973), Herbert Marcuse (1898-1979) e Theodor Adorno
(1903-1969). Anche per i francofortesi l’arte e la letteratura vanno considerate
nell’ambito della società che le produce. Mentre nella visuale del marxismo la
sovrastruttura veniva guardata con sospetto perché lontana dalla realtà, gli studiosi
modificarono questa concezione alla luce della nuova esperienza sociale. Essi ebbero
modo di vedere i regimi del fascismo e del nazismo e le prime avvisaglie del
consumismo neocapitalista. I nuovi fenomeni della cultura di massa convinsero i
francofortesi che l’ideologia non era pericolosa tanto per il suo distacco dalla prassi,
quanto esattamente all’opposto per il fatto di essere ormai troppo dipendente
dall’ottica utilitaria del mercato. Con l’industria culturale la cultura viene fatta
rientrare tra i divertimenti eventualmente allestiti per il tempo libero e in tal modo
viene svilita, uniformata e neutralizzata. Se i prodotti culturali vengono proposti a un
pubblico indifferenziato viene a cadere anche la distinzione tra cultura borghese e
cultura proletaria. I francofortesi colgono la caduta di prestigio dell’arte e della
letteratura nelle società industriali avanzate. Altri mezzi di comunicazione, i mass
media, salgono in primo piano.
Marxisti → ideologia pericolosa per il suo distacco dalla prassi socio-economica
Francofortesi → ideologia pericolosa in quanto troppo dipendente dall’ottica utilitaria del
mercato (propaganda e profitto)

Marcus → L’arte raccoglie quella promessa di felicità che viene sempre più disattesa da
un sistema sociale alienante e repressivo. Egli considera la società moderna come un
apparato dominato dalla logica del guadagno, che non ammette perciò la felicità se
non nella forma del dopolavoro, del riposo in vista di un ulteriore sfruttamento. Ma il
piacere che la bellezza suscita è negata dal regime utilitaristico: è necessario secondo
lui liberare l’esperienza estetica dalle incombenze ideali di cui è stata caricata, e
restituirla invece al momento della felicità sensibile. Negli anni ’50 Marcuse si
appoggerà alla psicoanalisi per precisare l’arte come ritorno del represso e come
serbatoio delle istanze di liberazione. Ma se il condizionamento sociale è
essenzialmente negativo, per assumere la giusta posizione nel suo tempo l’arte dovrà
tagliare i ponti proprio con ciò che la determina e la deprime. Le opere d’arte
rappresentano quel che esse non sono. Ciò vuol dire che la loro storicità sta nel modo

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con cui si pongono fuori della situazione storica a loro toccata. L’arte è dunque
rivoluzionaria per sua stessa natura. Mentre per Lukacs l’arte è rivoluzionaria perché
rispecchia fedelmente le forze della prassi che tendono alla rivoluzione, invece, per
Adorno la testimonianza che l’arte rende riposa nella forza di resistenza alla
prassi, a qualunque genere di prassi. Adorno respinge il progetto di demistificazione
portato avanti dal marxismo inteso a ricondurre le creazioni spirituali ai moventi
materiali. In questo quadro proprio l’arte autonoma verrà apprezzata esattamente nel
suo essere priva di scopo. Nell’epoca moderna l’arte percorre le soluzioni estremiste
dell’avanguardia e nella dissonanza esprime il conflitto tra la vocazione alla
conciliazione e la vocazione alla verità che rende impossibile una sintesi felice. Sulla
considerazione del carattere rivoluzionario dell’arte per Marcuse questo carattere
risiede nella conservazione positiva delle istanze utopiche che possono così ritornare
disponibili all’azione liberatrice. Per Adorno si tratta di capacità negativa. L’arte è
pensata per principio come estranea in quanto tale al mondo empirico. Adorno si
adopera a mantenere il rapporto tra la criticità dell’arte e la situazione storica.
L’efficacia dell’opera sta nella partecipazione allo spirito, il quale contribuisce al
cambiamento della società in processi sotterranei e si concentra nelle opere d’arte.
Marcuse → l’arte racchiude la felicità, che nel mondo reale viene concessa soltanto
come forma di godimento preordinata
Arte rivoluzionaria per natura:
Lukacs → rispecchia fedelmente le forze della prassi che tendono alla rivoluzione
Adorno → riposa nella forza di resistenza alla prassi, a qualunque genere di prassi

4.6 Benjamin: l’autore come produttore


Walter Benjamin (1892 – 1940 d.C.) → Presenta una soluzione alquanto difforme,
polemicamente distante da quella di Lukacs. L’autore è egli stesso un produttore e non
può quindi essere collocato all’esterno del mondo produttivo, né con il compito di
rispecchiare il mondo (Lukacs) né con quello di rifiutarlo (Adorno). In fondo in Lukacs e
in Adorno pur nella diversità c’è un modello comune che consiste nel porre il nesso tra
società e arte privilegiando uno dei due termini sull’altro. Benjamin invece si sforza di
considerarli su un piano paritario. L’importante è stabilire come si situa nei rapporti
di produzione. Benjamin conferisce un ruolo fondamentale alle innovazioni tecniche.
Assume un atteggiamento meno pessimistico di quello di Adorno riguardo agli esiti del
mondo moderno. La comparsa nell’epoca moderna di nuovi mezzi come la fotografia e
il cinema non solo ha aggiunto ulteriori campi di attività, ma soprattutto ha cambiato il
modo di porsi dell’arte rispetto al pubblico. La riproducibilità tecnica moderna porta le
opere verso il pubblico con molto maggiore disponibilità di quanto non accada al pezzo
unico. Nelle moderne arti riproducibili Benjamin vede invece avanzare quello che egli
chiama il valore espositivo, ossia la possibilità di un’esperienza più diffusa, libera e
disinibita dei prodotti artistici. Così viene superato l’atteggiamento individuale verso
l’arte e la visione comunemente accettata per cui l’ispirazione arriva solo nello stato di
raccoglimento. L’opposto è il lato collettivo della creatività, che Benjamin va a
rintracciare nei modi organizzativi degli scrittori, nel loro riunirsi in gruppi e in tendenze,
come nelle avanguardie. La scelta della giusta tendenza politica non garantisce il valore
letterario. La tendenza deve essere accoppiata alla qualità dell’opera di volta in volta
verificata e dimostrata sul testo in questione. Questa ottica impedisce la meccanica
sovrapposizione della politica alla letteratura. Il contenuto esplicito su cui insisteva la
teoria lukacsiana del rispecchiamento, non pare a Benjamin l’ultimo livello del senso di
un testo. Benjamin riprende dall’antica esegesi la nozione di allegoria e ne fa il
principio della costruzione complessiva dell’opera che agisce attraverso la
frammentarietà e la tensione contraddittoria delle sue parti. Al contrario del simbolo,
l’allegoria teorizzata da Benjamin elabora il suo discorso trasformando i personaggi e gli
oggetti in segni di una scrittura e il tal modo li estrania dal mondo naturale
(straniamento). Benjamin sostiene l’idea che l’opera d’arte serve a risvegliare le forze
assopite e a renderle disponibili per l’azione collettiva e ciò caratterizza anche
l’atteggiamento del critico verso le opere del passato. La distanza temporale è vista da
Benjamin all’insegna della discontinuità, in polemica con lo storicismo che considerava
la storia uno sviluppo lineare e continuo. Il critico non deve limitarsi a ricostruire,

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incasellando le opere nel loro accadere cronologico; deve strappare le opere dal loro
tempo di origine per sprigionare da esse ciò che ancora interessa il presente.
Ernst Bloch (1885 – 1977 d.C.) → Ritiene che l’attimo vissuto sfugga alla conoscenza e
che perciò qualcosa di non ancora conscio permanga sotterraneamente come spinta al
rinnovamento nel presente. Ciò è collegato da Bloch alla speranza utopica rivolta al
futuro. Le aspirazioni umane alla felicità, rifiutate e sconfitte nel passato, continuano a
rivolgere il loro appello nell’ora attuale. Così, quella che era per Marx una difficoltà
(come mai forme artistiche lontane continuino ad esercitare su di noi il loro fascino?),
appare nella teoria benjaminiana affatto naturale. Ma più che del fascino del passato in
blocco, Benjamin s’interessa di quei particolari quasi cancellati e resi muti dalla storia,
da cui si manifesta l’utopia soffocata dalle classi dominanti. Tra il passato e il presente
è messa in atto una convergenza di tensioni: da un lato il passato vale se ha la forza
d’urto per mettere in crisi il presente, dall’altro lato l’interprete situato nel presente
deve essere pronto a mettere in discussione la gerarchia dei valori consolidati nella
tradizione. Il critico deve passare a contropelo la storia. Benjamin ha dedicato a
Baudelaire una larga parte del proprio lavoro nella fase cruciale degli anni ’30. Egli si
muove sulle connessioni di forma e contenuto. Scende nella minuzia all’interno del
testo andando a scoprire in un singolo verso la parola su cui si concentra il significato
della frase. Ma è pronto a uscire all’esterno per collegare le figure letterarie ai fenomeni
della società e dell’ambiente. La connessione del particolare alla totalità non può essere
preordinata in anticipo ma deve per Benjamin venir fuori ricavando dai testi al maggior
grado possibile tutta l’energia che essi potenzialmente contengono.

4.7 Marxismo e strutturalismo


Jean-Paul Sartre (1905 – 1980 d.C.) → Nel suo pensiero il legame con l’esistenzialismo
conduceva a una concezione rilevante la specificità dell’avvenimento storico che non si
esaurisce nella situazione ma tende a superarla. Di qui il valore della libertà, il progetto
rivolto al futuro. È un’analisi che convince quando ragiona in termini di gruppi sociali e
di collettivi.

Lucien Goldmann → Propone una Sociologia della letteratura. Egli vuole rintracciare il
legame tra letteratura e società. Riferire i contenuti a una visione del mondo, o alla
coscienza collettiva di un determinato gruppo sociale (come farebbe Lukacs), risulta
insufficiente se non addirittura fuorviante perché la coscienza può essere alienata e
distorta. Con un uso del termine struttura molto più vicino a quello strutturalista che
non a quello marxista, Goldmann ipotizza che esista sempre una omologia tra la
struttura mentale e culturale indotta dalle forme della vita collettiva e la struttura del
testo letterario. Queste strutture sono nello stesso tempo formali (si trovano nel modo
in cui è fatta l’opera) e inconsce, è compito del critico e dell’interprete riscontrarle. Tra
‘800 e ‘900 Goldmann rintraccia il passaggio a nuove fasi dello sviluppo sociale che si
riverberano sulle strutture narrative (diminuzione dell’importanza dell’individuo nella
vita sociale = avvento dell’anti-eroe nella narrativa). Goldmann definisce il suo metodo
strutturalismo genetico. Esso si basa sui due movimenti congiunti della
comprensione e della spiegazione. Mentre la comprensione rimane ancora al giudizio
di fatto, spiegare l’opera negli orizzonti della storia significa darne un giudizio di valore.
Goldmann ritiene indispensabili entrambi i livelli, e in ciò risiede il suo tentativo di
sintesi tra marxismo e strutturalismo. Il primo livello, la comprensione, è quello
comunemente praticato dall’indagine strutturalista, il secondo, la spiegazione, è quello
più proprio delle correnti ispirate dal marxismo. Senonché, la proposta goldmanniana
da un lato non scende nei particolari del testo rimanendo al rilevamento di strutture
molto generali e generiche. Dall’altro lato finisce per legare troppo strettamente le
opere alla loro epoca facendo passare in secondo piano, nella omologia obbligata tra
società e letteratura, i caratteri discordanti e conflittuali.
Comprensione, rimane al giudizio di fatto (strutturalismo)
Strutturalismo genetico
Spiegazione, spiegare l’opera negli orizzonti della storia
significa darne un giudizio di valore (marxismo)

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Per Louis Althusser la struttura è una rete di rapporti che attraversa tutti gli ambiti della
realtà, che egli definisce totalità complessa. Il suo sforzo è teso a liberare l’azione
rivoluzionaria da tutti i valori rassicuranti, in particolare egli attacca lo stalinismo per il
suo generico umanesimo, che impediscono di fare i conti con la realtà della lotta di
classe. La teoria, in quanto attività di conoscenza scientifica, viene nettamente opposta
all’ideologia come soluzione immaginaria e illusoria. Althusser è convinto che anche il
testo letterario-artistico possa mantenere una propria carica critica che si situa al livello
della strutturazione del testo. Più che ordinare gli elementi in classi diventa importante
vedere i rapporti e i non rapporti interni di forza tra gli elementi della struttura
dell’opera.

4.8 Il problema dello specifico letterario in della Volpe


La più convincente teoria dello specifico artistico e letterario è venuta da Galvano Della
Volpe(1895 – 1968 d.C.) → In particolare dalla Critica del gusto della Volpe sostiene che
la conoscenza non può essere suddivisa in un livello intuitivo e in un livello razionale,
ma è un intreccio di sentimento e di logica. Perciò viene a cadere la possibilità di
assegnare alla letteratura il livello relativo all’intuizione, all’emozione immediata. La
specificità letteraria risiede nell’aspetto tecnico, nel modo con cui è organizzato il
linguaggio poetico. Della Volpe rovescia completamente l’impostazione dei formalisti:
mentre quelli vedevano nel linguaggio un mezzo unico adibito a fini diversi, qui al
contrario c’è l’identità del fine raggiunto con mezzi diversi. Della Volpe elabora uno
schema complesso: una tripartizione dove il linguaggio comune è confrontato con
quello della filosofia e della scienza. Della Volpe propone di distinguere, in base alla
tecnica semantica, 3 tipi di linguaggio che egli individua nei termini: equivoco, univoco
e plurivoco. Il linguaggio comune è equivoco. Il linguaggio scientifico e filosofico è
univoco. Il linguaggio poetico è plurivoco o anche detto polisenso, cioè il testo poetico o
letterario significa nel suo insieme. Non c’è contrapposizione per della Volpe tra
discorso e poesia. Sono due modi paralleli e paritari. Della Volpe ribalta la tradizionale
ripartizione di forma e contenuto attribuendo alle idee il livello formale e al materiale
linguistico e immaginativo quello del contenuto. Della Volpe è tra i teorici di ispirazione
marxista, quello che ha maggiormente rivendicato il carattere anche intellettuale
dell’arte. Della Volpe ribatte che le figure retoriche, e in particolare la metafora, non
possono mai essere comprese correttamente se si fa a meno del nesso intellettuale su
cui si fondano. La chiave semantica della poesia che egli mette in opera prevede che gli
effetti di suono, di musicalità e di ritmo non venga conferito un senso indipendente ma
soltanto un apporto ausiliario. Poiché della Volpe assegna alle idee la responsabilità
formale dell’opera, al critico toccherà di dare parere sulla validità delle idee e delle loro
forme; il che comporta la valutazione del grado di complessità e di organicità che le
idee hanno raggiunto. Ma nello stesso tempo del grado di incidenza storica attuale delle
idee e della loro necessità storica.

4.9 Il lavoro dei segni


L’origine della semiotica moderna risale all’800 con Charles Sanders Peirce (1839 –
1914 d.C.) → Al posto di significante e significato propone segno, oggetto e
interpretante (triangolo semiotico).
Michail Bachtin (1895 – 1975 d.C.) → In Marxismo e filosofia del linguaggio (Valentin
Nicolaevic Volosinov) afferma che non c’è ideologia senza uso di segni. Il segno è in
relazione con la realtà sociale, incorpora in sé l’intero conflitto della società. L’esistenza
non è solo “rispecchiata”, ma anche “rifratta”, pertanto complicata e distorta.
Il nesso tra semiotica e marxismo verrà stretto più a fondo negli anni ‘60/’70, in Italia ad
opera di Ferrucio Rossi-Landi (1921 – 1985 d.C.) → Cose e parole sono prodotte insieme
in quella realtà complessiva che egli denomina riproduzione sociale, che è l’insieme
dei processi per mezzo dei quali una comunità o società sopravvive, accrescendosi o
almeno continuando ad esistere. Una volta articolato il ciclo produttivo nelle tre fasi
produzione-scambio-consumo l’intervento dei segni verbali si concentrerà nella fase di
mezzo, nello scambio. Affinché due oggetti materiali vengano scambiati è necessario
che i due uomini che se li scambiano si servano di sistemi segnici. Produzione e
comunicazione, dunque, sono intrecciate e incastrate l’una nell’altra. La comunicazione

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è vista dentro e addirittura al centro del meccanismo produttivo-riproduttivo. Certo il


lavoro linguistico non manca di provocare problemi. Se c’è una alienazione linguistica
come uscirne? Rossi-Landi risponde che nell’ideologia si aprono due strade alternative:
da un lato le ideologie conservatrici, che fanno perno su un valore ritenuto extrastorico;
dall’altro, le ideologie proiettate verso un futuro ancora da costruire. Egli sostiene che il
realismo corrisponde ai codici dominanti, è quel messaggio che il pubblico capisce ed
accetta subito e facilmente come proprio. Mentre per contro l’avanguardia indica quei
messaggi dotati di un’esigenza di aumento della quantità d’informazione e di
rinnovamento comunicativo, implicando un rinnovamento sociale, le azioni compiute
dai personaggi possono essere utilmente comparate con quei sistemi di segni non
verbali che sono i comportamenti. I comportamenti non sono retti da codici definiti ma
da programmi. La letteratura spesso ha il merito di portare a galla e rendere visibile la
programmazione della comunicazione non verbale. La valutazione dell’autore deve
riguardare il suo grado di eccedenza. L’autore è produttore, ma non solo come
ingranaggio di una macchina più grande di lui, anche nel senso (come in Benjamin) che
produce novità e consapevolezza. Il lavoro dei segni può, anzi deve essere, anche
lavoro sui segni.

5 La psicoanalisi applicata alla letteratura


5.1 L’analisi del profondo
L’indirizzo critico assume una nuova impostazione dopo l’avvento della psicoanalisi. I
termini e i concetti della psicoanalisi provengono dalle innovazioni introdotte da
Sigmund Freud (1856 – 1939 d.C.) nel trattamento delle malattie mentali alle soglie del
‘900. Freud affrontava i casi clinici non attribuendone le cause a disfunzioni cerebrali,
ma cercandone il motivo in accadimenti traumatici dell’esistenza trascorsa, di cui il
paziente ha perso memoria. Il medico doveva vestire i panni dell’analista attraverso un
minuzioso lavoro di interpretazione e di scavo delle espressioni meno controllate,
soprattutto i sogni e le libere associazioni. Freud portò avanti le ipotesi che andarono a
costituire l’apparato scientifico della psicoanalisi: innanzitutto con la nozione di
inconscio. La psicoanalisi afferma che le ragioni del comportamento umano risiedono
in piccola parte nella coscienza, mentre sono molto più forti i moventi inconsci. Freud
descrive l’inconscio come il luogo delle pulsioni. Nell’inconscio agiscono le forze
aggressive e le energie vitali primarie. La psicoanalisi è dunque un metodo
interpretativo che non accetta le apparenze immediate e non si stupisce di dover
mettere in mora ciò che il parlante dice e asserisce di voler dire. Alla triade coscienza-
preconscio-inconscio si aggiunse una nuova terna formata da Io (il serbatoio primario
dell’energia psichica contenente le pulsioni ereditarie, innate e quelle rimosse), Es (è la
parte della psiche in contatto con l’esterno attraverso la percezione) e SuperIo (è solo
in parte cosciente ed è costituito da quei divieti che l’Io è stato costretto ad accettare e
ad introiettare). Così dall’osservazione delle devianze e delle anomalie la psicoanalisi
giungeva a costruire una teoria dei processi costitutivi della psiche. E poteva andare
anche oltre applicando le proprie scoperte alle aree delle scienze umane, ivi compresa
la letteratura. La sorte della società moderna dipende per Freud dall’esito di grandi
conflitti tra le istanze profonde dell’uomo: da un lato tra principio del piacere e principio
di realtà, dall’altro tra eros e pulsioni di morte. Una certa attenzione alla letteratura è
presente nella psicoanalisi fin dalle origini. Il punto di partenza della ricerca freudiana
era stato l’interpretazione dei sogni. Di fronte al racconto del sogno l’analista si
comporta come un critico letterario che cerchi di ritrovare il senso al di là della lettera
del testo.

5.2 La concezione dell’arte in Freud


Freud ha scritto che per la psicoanalisi i poeti sono alleati preziosi in quanto essi sanno
in genere una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure
sospetta. Non c’è da stupirsi che egli utilizzi accanto ai casi clinici anche le finzioni della
letteratura o che si abbandoni a disgressioni nel campo dell’arte. Per lui l’arte e la
scrittura creativa si trovano in una posizione privilegiata quasi a metà strada tra la
coscienza e l’inconscio. Freud sottolinea che la tragedia greca su Edipo si incentra sul
complesso psichico dell’attrazione per la madre e dell’odio verso il padre, ma lo mostra

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secondo la cultura del tempo come conseguenza ineluttabile della volontà esterna del
destino. I sogni ad occhi aperti ci ricompensano dei desideri che la realtà non è stata in
grado di soddisfare. L’arte sarebbe un tipo speciale di fantasticheria che si distingue per
essere un atto di comunicazione, mentre la fantasticheria vera e propria è un’attività
privata che difficilmente si confessa. Allo scrittore dunque è concesso il privilegio di
esporre pubblicamente senza vergogna le proprie fantasticherie. Freud ha proceduto
con grande cautela nel trasferire le scoperte della psicologia del profondo al campo
della letteratura e dell’arte. In particolare egli ritiene che su un punto la psicoanalisi non
possa dir nulla, cioè sul problema dell’origine dell’arte. Il dono meraviglioso che
contraddistingue l’artista rimane un enigma e la psicoanalisi non si intromette nella
questione della valutazione estetica. Lo spettatore condannato a un’esistenza piena di
rinunce e di frustrazioni è portato a identificarsi con l’eroe che vede sulla scena. Vige la
convinzione che il comportamento di un personaggio di finzione possa essere analizzato
allo stesso modo di quello di una persona e l’idea che il personaggio protagonista risulti
il portavoce diretto dell’autore, assegnatario dei problemi interiori di quello. Sebbene
Freud non abbia sottovalutato l’importanza dei materiali anonimi nella sua opera, è
stato prevalente l’interesse per la figura dell’autore, da raggiungere al di là dell’opera.
Freud pur incoraggiando l’uso della psicoanalisi al servizio della biografia era
consapevole delle difficoltà di un’indagine condotta in assenza del soggetto in esame e
operante con documenti non sicuri, parziali e lacunosi. L’analisi di Freud ci insegna a
indovinare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati e inavvertiti
dell’osservazione.

5.3 Psicoanalisi dell’autore, psicoanalisi del personaggio o psicoanalisi degli


effetti
I continuatori di Freud guardarono molto di più ai materiali che non all’effetto. Sarà
quindi il nesso personaggio-autore o, semmai, il rapporto tra i motivi letterari e le
strutture psichiche, a predominare nei primi tentativi di critica letteraria ispirati alla
psicoanalisi. Molti di questi tentativi furono affidati alle pagine della rivista Imago nata
nel 1912.

Otto Rank (1884 – 1939 d.C.) → Ha dedicato al tema del doppio un saggio in cui si
propone di spiegare le ripetute apparizioni di un personaggio in tutto identico al
protagonista, che lo sostituisce, lo perseguita e lo conduce alla morte. Tutti i casi del
doppio entrano a far parte secondo lui di una costellazione psichica dominata dalla
scissione dell’Io. Il tema del doppio è stato trattato da quasi tutti i romantici. Il saggio
dà il primo posto a Hoffmann (definito per eccellenza il poeta del doppio) e a Poe oltre
che a Maupassant, Dostoevskij e Oscar Wilde, prevalentemente autori della letteratura
fantastica. Ma mentre Freud si adopera a spiegare l’effetto sinistro di inquietudine o di
terrore indotto da questi e altri simili racconti, Rank procede invece a ritroso, dall’opera
all’autore. La frequentazione del tema del doppio viene ricondotta alla psiche degli
autori. Ma questa propensione verso la psicoanalisi dell’autore non esaurisce il lavoro
del critico, che passa in un capitolo successivo ad analizzare le analogie del tema
letterario con le produzioni del folklore. Così arricchito di spessore, il tema letterario può
essere messo in rapporto con un meccanismo psichico di portata generale che travalica
le epoche e i generi.
Georg Groddeck (1866 – 1934 d.C.) → Sviluppa il tentativo di interpretare la produzione
anonima e popolare sulla base di un rinvenimento quasi ossessivo della simbologia
sessuale.
Marie Bonaparte (1822 – 1962 d.C.) → Si distingue il suo lavoro sulla linea della
psicoanalisi applicata alla biografia su Edgar Allan Poe. La critica psicoanalitica si trova
ad utilizzare l’opera in funzione della biografia e a dare per scontata l’identificazione
dell’eroe con l’autore.
Ernest Jones (1879 – 1958 d.C.) → Ha puntato sulla psicoanalisi il suo saggio su Amleto.
Jones svolse le sue riflessioni seguendo l’indicazione freudiana dei rapporti sotterranei
tra Amleto ed Edipo. Da un lato non manca la biografia di Shakespeare. Jones applica il
metodo comparativo mettendo in relazione la trama di Amleto con i temi primordiali dei
miti e delle leggende.

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Nel secondo dopoguerra i critici mostrano una maggiore libertà d’azione rispetto ai
canonici schemi freudiani, ma in definitiva l’impostazione di fondo e i problemi
affrontati restano gli stessi.

Jean Paul Sartre → Propone una psicoanalisi esistenzialista, un’indagine


sull’individuo autore che non sia solo rivolta alle cause riposte nel passato, ma si
interroghi sulla scelta della posizione nel mondo che il soggetto in questione ha
compiuto, nella situazione in cui si è trovato, tra le tecniche e i ruoli, facendo i conti con
l’ideologia della sua classe. Sartre ricade nel modello della ricerca biografica: le opere
sono funzionalizzate alla ricostruzione della totalità dell’autore.

In Italia Giacomo Debenedetti (1901 – 1967 d.C.) → Anche se mantiene l’idea del
personaggio come emissario dell’autore, l’attenzione a certe configurazioni di immagini
conduce in prossimità della critica tematica.

Kate Millet (1934 – vivente) → Critica femminista, devia dall’ortodossia psicoanalitica


propendendo non verso l’indagine eziologia ma verso la denuncia radicale
dell’ideologia maschile (Come leggere da donna?).

Bruno Bettelhaim (1903 – 1989 d.C.) → Rappresenta il terzo ramo della critica ispirata
alla psicoanalisi che considera la questione degli effetti, manifestati nello studio delle
fiabe. Il testo della fiaba è quello più adatto ai bisogni del piccolo lettore per
esteriorizzare in modo controllabile i propri conflitti interiori e così lo aiuta a strutturare
la personalità. L’ipotesi di Bettelhaim che la rielaborazione immaginaria sia utile a
ridurre la dannosità del materiale inconscio e a fare in modo che parte delle sue
energie servano a scopi positivi, potrebbe applicarsi in generale a tutta la finzione
letteraria.

5.4 Nella rete delle immagini


Già nell’Interpretazione dei sogni Freud aveva notato la presenza di simboli, cioè
rappresentazioni inconsce.
Questo aspetto verrà approfondito da Carl Gustav Jung (1857 – 1961 d.C.) → Egli
collaborò con Freud per poi staccarsene e fondare quella linea della ricerca che
prenderà da lui il nome di junghiana. La deviazione di Jung consiste proprio nella
considerazione dell’inconscio collettivo, uno strato dell’inconscio più profondo di quello
individuale, un repertorio di immagini ancestrali presenti da sempre nell’uomo. Queste
immagini arcaiche e originarie sono denominate da Jung archetipi. Quanto ai problemi
letterari, che Jung affronta nel saggio Psicologia e poesia, la creazione artistica è
considerata una delle migliori vie di accesso alla realtà psichica soprattutto quando si
tratti di creazione visionaria. Nell’ottica junghiana il grande poeta è colui che riesce a
superare la coscienza singola per far parlare gli archetipi, secondo l’esigenza psichica
della collettività. Da ciò discende un atteggiamento di disponibilità nei confronti
dell’opera: lasciamo che l’opera d’arte agisca su di noi come ha agito sul poeta. Per
comprenderne il significato, bisogna lasciarsi plasmare da lei come essa ha plasmato il
poeta. Riemerge qui il modello platonico: l’effetto non va spiegato, ma ci si deve
abbandonare ad esso. La versione della psicoanalisi offerta da Jung ha molto stimolato
lo studio dell’immaginario collettivo.

Gaston Bachelard (1884 – 1962 d.C.) → Secondo lui il regno della fantasia è diviso in
4 grandi ambiti che corrispondono ai 4 elementi primordiali: fuoco, aria, acqua, terra.
Ogni scrittore è portato a propendere nella scelta dei propri temi e delle proprie
metafore più verso l’uno o verso l’altro elemento. La ricerca bachelardiana ha affrontato
le fantasie sul rapporto tra l’uomo e la dimensione spaziale. Bachelard propone di
chiamare topo-analisi tale indagine sulle forme spaziali. Bachelard appare del tutto
disposto a farsi assorbire nel potere dell’immagine. A suo modo di vedere non bisogna
ricondurre le immagini al passato ma lasciarsi prendere dal loro scaturire e cioè dalla
novità che esse mostrano al momento della lettura. Si può capire, allora, il progressivo

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distacco di Bachelard dalla psicoanalisi. Ma non è solo contro la psicoanalisi che va a


parare il discorso bachelardiano. Esso sembra escludere in generale qualunque
atteggiamento critico esplicativo. Al critico letterario si sostituisce la figura del lettore
appassionato che può cogliere l’espansione immaginativa del testo grazie allo slancio
della simpatia e dell’ammirazione.

Jean-Pierre Richard (1922 – vivente) → Affronta particolarmente l’universo immaginario


di ciascuno scrittore di cui tratta, traendo dall’opera gli elementi base, il modo con cui
vengono rese le reazioni, le forme o i colori preferiti dalla fantasia dell’autore. Siamo
però fuori dalla critica psicoanalitica propriamente detta perché questi aspetti vanno a
costituire l’insieme esistenziale dell’essere di uno scrittore e non l’inconscio.

Il problema dell’immagine non era sfuggito alla critica psicoanalitica più ortodossa. Il
miglior esempio di psicocritica è di Charles Mauron (1899 – 1966 d.C.) → In polemica
con la critica tematica sostiene che non ci si può limitare a inventariare le immagini
ricorrenti di uno scrittore, ma bisogna ricondurle ai processi inconsci
corrispondenti. Non tutte le immagini usate da un autore abbiano uguale importanza:
ve ne sono alcune che tornano con tale insistenza da poter essere definite metafore
ossessive. Per scoprire quali siano è necessaria l’analisi del testo. Le parole e le
immagini vengono raggruppate secondo le sfumature affettive. Se si sovrappongono
altri testi a quello di partenza si scopre che questa rete di associazioni è costante. Le
reti da lui individuate sono un’altra cosa rispetto alla tecnica letteraria di cui chi scrive
può avere coscienza: sono in comunicazione diretta con la realtà psichica inconscia.
Con ulteriori passaggi, dalla rete delle immagini vengono estratte le figure mitiche
sulla quale le varie opere ritornano ossessivamente. È raggiunto così il mito personale
ovvero il fantasma più frequente in uno scrittore. Certo non prende per buoni i
personaggi immediatamente riconoscibili, ma li ricava dall’analisi delle immagini.
Tuttavia alla fine i risultati dell’analisi sono rapportati non alle istituzioni letterarie ma
alle vicende biografiche dell’autore.

5.5 Psicoanalisi e struttura del linguaggio


Con le reti individuate da Mauron, la psicoanalisi si avvicina alle strutture linguistiche. E
non poteva mancare interscambio tra l’analisi del profondo e quella del linguaggio.
Il punto di massimo contatto tra psicoanalisi e strutturalismo viene raggiunto in Francia
dalla teoria di Jacques Lacan (1901 – 1981 d.C.) → Egli identifica l’inconscio con il
linguaggio. Ogni soggetto umano viene a costituirsi con l’accesso al linguaggio. Il
linguaggio non ci appartiene, lo troviamo già tutto costituito. Nella teoria di Lacan
l’inconscio è visto come linguaggio (l’Es parla). Nelle manifestazioni dell’inconscio,
quando ciò che diciamo o facciamo appare come qualcosa di estraneo alla nostra
coscienza, noi non lo riconosciamo per nostro. Allora viene in evidenza questa voce
impersonale, che Lacan definisce il discorso dell’Altro. Quelle che per Freud erano
mosse di “condensazione” e “spostamento” vengono ricondotte alle figure retoriche di
metafora e metonimia. Il desiderio è visto come una catena di significanti in cerca di
significato. Va notato però che l’importanza attribuita al linguaggio non rafforza la
certezza dell’analisi, anzi turba la posizione stessa dell’analista. La teoria lacaniana è
radicalmente pessimista: il soggetto nel suo accedere al linguaggio, si scinde
irreparabilmente e non può mai raggiungere un senso integro e definitivo. L’essere
umano è sospinto dal vuoto, dalla mancanza a essere. All’immaginario e al simbolico è
associato un terzo termine: il reale. Ma il reale non è la realtà, è qualcosa di
irraggiungibile che può solo fare irruzione come perdita di senso. Le ipotesi lacaniane
possono essere applicate alle situazioni letterarie. In più hanno suscitato interpretazioni
riguardo ai giochi verbali sulle lettere o alle particolari dislocazioni dei significanti nel
testo. Ma non solo: l’idea del significante dominante o del grande Altro ha condotto
anche verso la psicoanalisi della politica e la reinterpretazione delle formazioni
ideologiche dell’immaginario collettivo.

È soprattutto negli anni ’70 che si è svolto il tentativo di applicare la psicoanalisi ai


livelli linguistici dell’opera letteraria. Un ruolo importante è stato tenuto dal Gruppo

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attorno alla rivista Tel Quel, ruolo connesso anche alle realizzazioni testuali della
scrittura.

Julia Kristeva (1941 – vivente) → Nelle sue proposte risulta chiaro il punto di distacco
dallo strutturalismo. L’individuazione del codice non è più sufficiente ma bisogna
riuscire a vedere l’intero processo di costituzione di ciò che ella chiama la significanza.
Qui la psicoanalisi è d’aiuto. Si tratta infatti di guardare al di sotto delle strutture per
percepire gli spostamenti di energie pulsionali che attraversano la pratica del
linguaggio e possono arrivare a deformare e a sconvolgere la superficie
dell’espressione rompendo la catena significante e la struttura della significazione. La
Kristeva distingue in un primo tempo tra feno-testo (indica la superficie del livello
codificato del linguaggio comunicativo) e geno-testo (indica la profondità delle fasi
dinamiche della produzione del testo). Adotterà in un secondo momento un’analoga
opposizione tra simbolico e semiotico dove il primo termine ricopre l’area del linguaggio
organizzato e il secondo gli aspetti in cui emerge la violenza delle cariche pulsionali. Gli
aspetti linguistici che rendono leggibile l’istanza delle pulsioni è il dispositivo
fonematico e melodico del linguaggio poetico. Va precisato che la Kristeva allude a
fenomeni fonici e ritmici diversi da quelli della retorica e della metrica classica. Ella
mette in relazione il livello fonico-pulsionale con quello semantico-cosciente.

In questi esiti degli anni ’70 le scoperte della psicoanalisi sono utilizzate in senso
rivoluzionario nella contrapposizione diretta tra le pulsioni e la repressione sociale.
Altrettanto il linguaggio poetico viene anteposto al linguaggio comunicativo. Nella
situazione culturale francese, elementi di psicoanalisi entreranno a far parte anche del
bagaglio teorico del poststrutturalismo.

Jean-Francois Lyotard (1924 – 1998 d.C.) e Gilles Deleuze (1925 – 1995 d.C.) →
Reinterpretano l’inconscio in termini di zone di tensioni, di campi di forze, insomma nel
quadro di una meccanica delle pulsioni e degli investimenti affettivi connessa alle
grandi macchine sociali (le istituzioni, il potere,…). Lyotard di recente ha contribuito alla
diffusione della nozione di postmoderno. Deleuze ha trovato nei meccanismi testuali il
riscontro dell’inconscio concepito come “macchina desiderante”. Anch’egli con il rischio
di un’estetizzazione del marginale.

5.6 Il ritorno del represso in letteratura

Francesco Orlando (1934 – vivente) → Con la teoria freudiana della letteratura scarta gli
scritti freudiani più famosi. Il miglior ausilio per il critico è trovato nella ricerca sul motto
di spirito: la parola arguta, la barzelletta sono viste come esempio di comunicazione
letteraria. Mentre il sogno o il lapsus sono manifestazioni dell’inconscio che sfuggono
alla nostra volontà, nella battuta spiritosa l’inconscio si manifesta in una comunicazione
linguistica intenzionalmente rivolta a qualcuno, analogamente a quanto accade per le
più reputate produzioni letterarie. Orlando sottolinea che Freud da un lato vede nel
ricorso al motto di spirito un modo per aggirare la censura ma dall’altro ritiene che la
tecnica della battuta sia inscindibile dai contenuti e comporti essa stessa un profitto di
piacere. Queste indicazioni freudiane possono essere estese a tutto il campo della
letteratura. Mentre Freud parla di ritorno del rimosso, le pulsioni censurate, Orlando
preferisce parlare di ritorno del represso, allargando a comprendere le censure
imposte da forze sociali e storiche. Questo attacco alla repressione può avvenire in
forme non solo inconsce ma anche di consapevole e progettata rivendicazione. Orlando
istituisce tutta una gradazione del ritorno del represso in letteratura. Si va dall’assenza
di consapevolezza, in cui il ritorno del represso è inconscio e quindi oscuro all’autore
stesso; al ritorno del represso conscio ma non accettato, quando l’autore lotta
all’interno del proprio testo contro i contenuti che vi emergono; al ritorno del represso
accettato ma non propugnato, che prevede il riconoscimento da parte della coscienza
dell’autore fino ai casi di maggiore consapevolezza, che sono quelli della cosiddetta
letteratura impegnata: il ritorno del represso propugnato ma non autorizzato e infine il
ritorno del represso autorizzato proprio della contesa tra diverse posizioni culturali.

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Questa suddivisione è per Orlando uno strumento operativo e non una griglia di
classificazione delle opere. A differenza della gran parte della critica psicoanalitica,
Orlando lega strettamente l’emersione dei contenuti alla considerazione della specifica
tecnica della letteratura. La società consente allo scrittore la finzione e il gioco con il
linguaggio: è quindi possibile, secondo Orlando, applicare la formula del ritorno del
represso alla stessa forma del testo letterario definendolo il ritorno del represso
formale. I vari giochi del testo sono riconducibili nel loro insieme agli spostamenti del
legame tra significante e significato sotto il termine usato in retorica antica di figura. Se
gli spostamenti e le deviazioni tra significanti e significati sono in eccesso, il testo
diventa completamente oscuro. È quello che accade in certe manifestazioni
dell’inconscio come il sogno. Orlando ritiene che ogni figura debba essere ricondotta a
un principio di organizzazione generale come strumento appropriato a esprimere
determinati contenuti. Orlando ritiene che i significanti vadano sempre visti quali
portatori di significati. Il livello del contenuto e quello della forma ricevono pari
attenzione e risultano collegati fra loro. L’idea freudiana che il piacere prodotto dalla
tecnica linguistica renda accettabili certi contenuti non consentiti, viene così rielaborata
e sviluppata. In Orlando la letteratura come formazione di compromesso fa i conti
soprattutto con i divieti formulati dalla società. La critica, allora, recupera la prospettiva
storica che andrebbe altrimenti perduta. La manifestazione linguistica di tipo letterario
è, secondo Orlando, l’esito di uno scontro di forze psichiche, che sono leggibili nel testo
come significati in contrasto.

6 Dalla parte della lettura


6.1 La lettura come esperienza
La critica, in quanto offre le coordinate per avvicinarsi a un testo e capirlo, ha sempre di
mira la lettura.
La lettura sta sempre a valle (come finalità della critica) ma anche a monte: il critico non
è altro che un lettore come tutti gli altri, ma in più propone la sua interpretazione ed
esperienza. È un rapporto “a due” nel quale il testo non ha la possibilità di
controbattere, per cui il critico-lettore ha tutta la responsabilità di quanto accade.
Il critico è al servizio dell’autore, ma più che altro è un servo-padrone; essendo il testo
muto ha la responsabilità di quanto accade: il testo non esiste prima che venga letto.
I nodi legati alla lettura di un testo sono tuttora dibattiti aperti e lo scetticismo
accompagna ogni critica che è dichiaratamente soggettiva. Ma come difendere i diritti di
un testo dalla libertà del suo interprete? In cosa il critico si differenzia da un lettore
comune? Cosa lo autorizza a rendere pubblica la sua esperienza? Dal punto di vista
storico, come si ricostruisce il mutare dell’orizzonte nella ricezione del testo? All’interno
del testo poi, com’è l’atteggiamento del lettore? Si impadronisce del testo per intenderlo
a suo piacere o si lascia condizionare e quindi percorre il sentiero previsto che è
implicito nel testo? Intorno a questi nodi si è svolto dunque il dibattito sulla critica nella
seconda metà del Novecento. Gli sviluppi novecenteschi hanno tratto il loro fondamento
teorico soprattutto nelle “filosofie della vita”: la fenomenologia di Edmund Husserl
(1859 – 1938 d.C.) e l’esistenzialismo di Martin Heidegger (1889 – 1938 d.C.).
Da Husserl e dal suo metodo di apertura ai fenomeni e al mondo della vita, la critica di
indirizzo fenomenologico ha ripreso l’atteggiamento di continua interrogazione tra il
ricercatore e “la cosa”.
Da Heidegger e dalla sua concezione dell’esistenza come “comprensione” dell’essere
nel mondo è sorto il ritorno all’ermeneutica (è l’arte di intendere e interpretare i testi e i
documenti antichi) come abbandono al “soffio” degli antichi.
L’attenzione sul momento della lettura si è diffusa in varie forme. Secondo il saggista
belga Georges Poulet (1902 – 1991 d.C.) → La lettura deve essere l’incontro di due
coscienze: se l’essenza dell’opera è la coscienza soggettiva che si manifesta in essa,
allora la “coscienza critica” deve prestarsi a ospitare questa coscienza altrui. La lettura
consiste per Poulet nel cedere il posto a un altro essere, per poterlo comprendere
intuitivamente.
Diversa angolatura per l’italiano Luciano Anceschi (1911 – 1996 d.C.) → La sua critica e
la sua ricerca, di ispirazione fenomenologica, puntano a riconoscere le particolarità dei

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fenomeni, ma anche a individuare le linee portanti di una data situazione (le “direzioni
vettoriali” o le “istituzioni”).

6.2 Il caso Blanchot


Nel clima letterario prodotto dall’esistenzialismo, un posto a parte merita il critico
francese Maurice Blanchot (1907 – 2003 d.C.) → Considera la letteratura “assurda” e
“paradossale”. Lo “spazio letterario”, appunto per essere tale, dovrebbe portare chi
gli si avvicina all’esperienza limite della perdita di se stesso. Flaubert, Mallarmè, Kafka,
Rilke, Proust vengono letti in questa chiave come coloro che aprono l’accesso a un’
“alterità negativa” (uso di termini quali “morte”, “notte”, “abisso”, “oscuro”). Partendo
dalla constatazione che per scrivere bisogna essere soli, Blanchot sviluppa all’estremo il
rapporto della parola letteraria con la solitudine e col silenzio. Ma la solitudine e il
silenzio sono in contrasto, appunto, con la parola. Perciò, si interroga Blanchot, “come è
possibile la letteratura?”. La letteratura poggia dunque su una paradossale ambiguità
che va intesa come compresenza di significato e assenza di significato. L’opera
rappresenta dunque un conflitto interno fra il vuoto dell’angoscia e il tentativo di
comunicare. Ma, mentre l’autore, spinto dal vuoto, non può che continuare a scrivere,
l’opera, una volta compiuta si distacca dal suo autore per finire nelle mani del lettore,
che libera definitivamente l’opera dal suo autore. L’ingresso nello “spazio letterario”
comporta per il lettore il rischio della perdita delle proprie certezze, l’opera è dunque il
luogo della perdita delle sicurezze del suo lettore. Il lettore è chiamato a “partecipare”
all’opera ma l’opera, in quanto manifestazione del vuoto, lo tiene a distanza. La lettura
si gioca quindi tra fascinazione ed estraneità. Il giusto modo di leggere deve accettare
questo gioco: sarà più vicino all’opera colui che “mantiene integra” la distanza e “la
riconosce opera senza di lui”. Questo è, per Blanchot, il metodo della “discrezione”.
L’opera è quindi, secondo lui, inattaccabile dalle interpretazioni: la critica è un tramite
non solo inutile, ma anche dannoso quando si frappone fra l’opera e il lettore
dettandogli le norme dell’approccio al testo. Il giudizio del critico sarebbe anche
colpevole di coprire il vuoto costitutivo della letteratura, di spostarne lo spazio
paragonando l’opera a qualcosa d’altro, fosse la morale o le regole di estetica, violando
quell’”ambiguità essenziale”. Per assurdo l’opera “più è apprezzata, più è in pericolo”.
Se invece messa da parte e dimenticata l’opera può preservarsi intatta da
strumentalizzazioni. Ma è naturalmente un paradosso perché Blanchot è un critico e
lavora per promuovere i suoi autori prediletti, quindi non può non ammettere che esiste
un compito positivo della critica, a patto che questa lasci alla profondità dell’opera la
possibilità di manifestarsi.

6.3 Il dibattito sull’ermeneutica


Ripresa nell’Ottocento, è soprattutto nel Novecento che l’ermeneutica (l’arte di
intendere e interpretare testi e documenti antichi), con la filosofia esistenzialista di
Heidegger, assurge a modello generale.
Heidegger vede un aspetto ermeneutico (interpretativo) nella situazione dell’uomo
“gettato” nel mondo: l’agire in una determinata situazione necessita prima di una
“comprensione” della situazione stessa; questa comprensione globale viene prima di
ogni analisi dei particolari. Il “circolo ermeneutico” (da una visione del tutto si procede
verso l’individuazione dei particolari per poi tornare al tutto) è caratteristico di ogni
esperienza umana.
Su questa linea tracciata da Heidegger si è mosso un altro pensatore tedesco, Hans
Gadamer (1990 – 2002 d.C.). Per Gadamer, la comprensione di qualsiasi messaggio
parte da un “pregiudizio”: noi ci accostiamo a un testo avendo già idea di quello che
troveremo. Per Gadamer il pregiudizio non nasce da un’esperienza soggettiva ma
dipende da un sostrato culturale comune a tutti. L’interprete (un esperto) ha il compito
di mediare il rapporto tra l’opera del passato e i lettori di oggi. Il lavoro dell’esperto
illustra ciò che il testo voleva dire tanto quanto un attore o un musicista “attualizzano”
un testo teatrale o uno spartito. Per Gadamer il dovere del critico è dunque quello di
consentire alla parola di superare il divario storico e di parlare ancora. Ma la
ricostruzione storica (il senso “originario” rispetto ai lettori del suo tempo) è
semplicemente impossibile; il critico deve però permettere un adattamento all’orizzonte

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attuale e contemporaneo, una “fusione d’orizzonti” che vede l’interpretazione come un


“dialogo” fra passato e presente. In “Verità e metodo” (1960), la sua opera più
importante, se l’interpretazione deve assomigliare all’apertura di un dialogo con il testo,
le regole prefissate di un qualsiasi metodo applicato sarebbero disturbanti.
L’interpretazione deve assolvere il suo compito di interpretazione nel modo meno
appariscente possibile: “paradossalmente un’interpretazione è giusta proprio quando è
capace di scomparire”. Per Gadamer il giudizio estetico (l’opera è bella o brutta) è
secondario, infatti la coscienza estetica viene chiamata a intervenire solo in un secondo
momento.
Il grande successo delle sue tesi, soprattutto negli anni ottanta, si spiega proprio come
reazione all’egemonia delle tesi degli anni sessanta/settanta (marxismo e
strutturalismo).
Dunque l’ermeneutica, con la sua intima unità di comprendere e interpretare, riduce il
peso della critica e ne limita di molto gli strumenti. Ma non è mancato anche un animato
dibattito che si è snodato su 3 punti:
1) Un primo problema è quello dell’attualizzazione del testo. Se l’ermeneutica è “l’arte di
far parlare di nuovo qualche cosa”, essa adatta e traduce il senso alla situazione
attuale dell’interprete. Noi uomini del presente cerchiamo di entrare in dialogo con ciò
che è stato scritto nel passato intendendolo non nel suo senso originario ma, mediato
dalla tradizione, come se si stesse rivolgendo a noi in questo momento. Questo
sradicamento delle intenzioni dell’autore ha suscitato le obiezioni di Eric Hirsch (1928
– vivente). Contro la continua variabilità dell’interpretazione, Hirsch pone l’esigenza di
riconoscere ogni volta, quale interpretazione sia più valida; l’unico criterio è, a suo
parere, il ricorso al significato “originario” che l’autore ha inteso trasmettere nella
situazione “originaria”. Gadamer sostiene invece che ormai che questo significato è
andato definitivamente perduto; dal canto suo, Hirsch non dice che questo sia
possibile ma deve essere almeno l’obiettivo al quale approssimarsi. Hirsch porta poi
ad esempio negativo l’interpretazione dell’Amleto da parte di Freud. Freud legge
l’Amleto in base al “complesso di Edipo” attribuendo al protagonista un desiderio
inconscio nei confronti della madre; ma questo è sicuramente un tipo di significato
estraneo alla cultura di Shakespeare e perciò l’interpretazione freudiana deve essere
rifiutata. Dunque per Hirsch la sola comprensione non esaurisce l’interpretazione.
2) Sul nodo problematico del rapporto tra comprensione e spiegazione è intervenuto
anche il francese Paul Ricoeur (1913 – vivente) → Ha tentato di accostare ermeneutica
e strutturalismo. Sostiene che la spiegazione del testo non può essere considerato un
momento secondario e una semplice esposizione di quanto si è compreso. Il punto di
partenza di questo recupero delle procedure esplicative sta nella concezione del
simbolo. Il simbolo, in quanto contiene molti sensi nascosti, fa appello
all’interpretazione, ma il dischiudersi dell’inesauribile ricchezza di senso propria del
simbolo dovrà passare, secondo Ricoeur, attraverso l’identificazione delle forme
codificate rispetto alle quali il simbolo stesso esorbita. In questa prospettiva, l’analisi
strutturalista non è più una concorrente dell’ermeneutica, ma dovrebbe diventare
un’utile tappa nel cammino verso il senso. Tuttavia è l’ermeneutica a prevalere: per
Ricoeur come per Gadamer, il linguaggio non è un “oggetto” ma una “mediazione”, il
che vuol dire che coglieremo il senso solo dalla visuale “chiusa” dei codici, a quella
“aperta” del concreto atto di linguaggio.
3) Jurgen Habermas (1929 – vivente, Scuola di Francoforte) → Intrecciando un confronto
con le posizioni ermeneutiche di Gadamer, dissente da esse sull’accettabilità della
tradizione: i valori della tradizione non devono essere presi per buoni solo perché
hanno avuto la forza di giungere fino a noi. Habermas non dà per scontata la validità
dell’autorità sancita dalla tradizione. Il contenzioso riguarda anche la questione del
“pregiudizio” che, secondo l’ermeneutica, non può essere eliminato (Gadamer
propende per i pregiudizi che ci uniscono perché “del senso comune”). Per Habermas
i pregiudizi legittimati dalla tradizione disconoscono la forza della riflessione. Per
Habermas la lettura deve essere quindi riflessiva. Il dibattito non è chiuso: Gadamer
ha risposto alle obiezioni di Habermas affermando che il riconoscimento dell’autorità
non è necessariamente qualcosa di costrittivo e opprimente. Questa discussione,
tuttora aperta, è una delle più interessanti e ha fatto nascere decisive questioni di

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fondo: accettare la tradizione in blocco anche nelle gerarchie, o tradizioni non


conformiste e alternative penalizzate dalla storia dei “vincitori”?

6.4 Dal poststrutturalismo alla decostruzione


Le nuove strategie di lettura si sono sviluppate in seguito alla crisi dello strutturalismo:
la pretesa scientifica di considerare il testo come un oggetto da analizzare ha sviluppato,
per reazione, la sfiducia nella possibilità di segnare con certezza i suoi limiti.
Il poststrutturalismo vede nell’idea di un testo “chiuso” e nell’attribuzione di un senso
un atteggiamento riprovevole: la prevaricazione della ragione tende a escludere tutto
ciò che cade fuori dai codici razionalizzabili. Il discorso qui eccede dalla critica letteraria.
I due massimi esponenti del poststrutturalismo sono infatti un epistemologo, Michel
Foucault (1926-1984 d.C.) e un filosofo, Jacques Derrida (1930 – 2004 d.C.). Tuttavia, per
la formulazione delle loro teorie ricorrono alla letteratura intesa come linguaggio non
strettamente razionale.
Gli “eventi discorsivi”, secondo Foucault, non vanno ricondotti alle astratte regole da cui
discendono in quanto esecuzione di un codice immutabile; agli enunciati va restituita la
loro singolarità (perché proprio questo enunciato e non un altro dal medesimo
significato?). Gli enunciati devono essere utilizzati come documenti, reperti archeologici,
da cui individuare le pratiche sociali e culturali di una storia.
Dal canto suo, Derrida ritiene che lo strutturalismo abbia guardato soltanto la “forma” e
non la “forza” presente sotto le strutture. Se la profondità è irraggiungibile bisogna
attenersi alle sconnessioni, alle crepe, alle incongruenze. Il punto d’appoggio è
l’equivocità del linguaggio: tutto può essere interpretato in modi diverso e persino al
contrario. Il senso di un testo non potrà mai essere definito quindi una volta per tutte. Il
testo è “aperto”, anche altri testi possono innestarsi in esso.
Il testo viene “decostruito”, ossia viene smembrato, per mostrarne l’intima disfunzione,
mettendo alcune parti contro altre e sviluppando le conseguenze di questa “doppiezza”
(indecidibili). La brillante intelligenza di Derrida sfocia spesso nel gioco di parole.
Particolare attenzione è stata dedicata ai percorsi di “mislettura”, cioè i fraintendimenti
a cui il testo va inevitabilmente incontro durante la sua fruizione. Il “derridadaismo”
arriva fino oltreoceano diffondendo una tendenza “decostruzionista” (Deconstructive
Criticism).

Harold Bloom (1930 – vivente) → Rivendicazione della creatività della critica: la posizione
del critico non è diversa da quella del poeta, entrambi sottoposti all’influenza degli
scrittori del passato. L’interpretazione è una reazione di difesa rispetto ai precedenti e
non può quindi che fraintendere.
Paul De Man (1919 – 1983 d.C.) → Belga trasferitosi negli USA, giunge perfino a
formulare la “teoria del fraintendimento”. Muovendo dalla considerazione del doppio
livello del senso, letterale e figurato, de Man vede questo “doppio senso” non come
arricchimento dei significati ma come un conflitto, una reciproca negazione; i livelli del
testo non collaborano fra di loro ma si smentiscono reciprocamente ed è “impossibile
determinare quale dei due prevalga sull’altro poiché non esiste l’uno senza l’altro”.
Questo scetticismo di fondo conduce a dubitare che l’interpretazione possa mai
chiudersi sul raggiungimento di una verità. Ciò non comporta, tuttavia, l’abbandono
dell’attività critica e neppure l’assoluta libertà dell’interprete nei confronti del testo.

6.5 Il relativismo delle interpretazioni


Anche il critico più convinto della qualità delle proprie ipotesi sa bene che in futuro
nuove prospettive metteranno in luce aspetti del testo che oggi non si è in grado di
percepire. Un criterio di validità assoluto e permanente non esiste.
Nel dibattito in corso negli Stati Uniti, la teoria per cui ogni lettura è una “mislettura”,
sembra annullare la differenza fra i fraintendimenti (che comunque si appoggiano al
testo) e le invenzioni di pura fantasia. Se alcuni critici pongono quindi come fondamento
che l’interprete è obbligato a non falsificare, altri assumono posizioni opposte.
Stanley Fish (1938 – vivente) → Ritiene che tutto sia “relativo” al punto di vista
dell’osservatore. E’ il lettore che, sulla base dei propri modelli acquisiti, scorge in una
serie di segni il testo letterario. Fish nel suo relativismo preferisce sostituire al verbo

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“leggere” il verbo “scrivere”: è il lettore che scrive il testo. “C’è un testo in questa
classe?” è il titolo del suo libro più noto e “no”, risponde Fish, “un solo testo non esiste
perché ogni lettore mette in atto modelli interpretativi differenti”. Non si possono quindi
redimere controversie sulle interpretazioni in quanto anche le caratteristiche “oggettive”
in realtà sono già effetti della particolare angolatura adottata.
La posizione di Fish può essere assegnata al pragmatismo: il significato (o la verità) di
un testo esiste solo all’interno della situazione che si viene a creare nella lettura . A
differenza del decostruzionismo, che vede nella lettura un messaggio costitutivamente
ambiguo, Fish sostiene che il significato è sempre unico, ma è esattamente quel
significato che il metodo da noi scelto ci consente di ottenere. Secondo Fish è
impossibile redimere le controversie delle interpretazioni anche ricorrendo alla “lettera”
del testo: non esiste un significato “letterale”.
Ma allora il numero di interpretazioni è infinito? No, risponde Fish, poiché nessuno
inventa il proprio metodo interpretativo. Ognuno sceglie e si orienta fra i metodi già
inventati da altri, aderendo a una “comunità interpretativa”. Niente però ci garantisce
che le interpretazioni che apparirebbero oggi assurde possano domani risultare
plausibili: basta che riescano a persuadere e ad avere successo per creare una nuova
“comunità interpretativa”.

6.6 La teoria della ricezione e il lettore nel testo


La scelta metodologica nota come “Teoria della ricezione”, sorta in Germania presso
l’università di Costanza (da cui il nome Scuola di Costanza), mette a fuoco il momento
della lettura non per “relativizzare” l’interpretazione, ma per vederne la base
nell’attività dei soggetti che leggono. La Scuola di Costanza trova i suoi principali
esponenti in Hans Jauss (1921 – 1997 d.C.) e Wolfang Iser (1926 – vivente).
Jauss → Rintracciava la crisi della storia letteraria nella mancata considerazione della
prospettiva dei lettori e notava come gli stessi metodi della critica marxista e formalista
tardassero a rendersi conto dell’importanza della “ricezione” e dell’ “efficacia”
dell’opera. Guardando unicamente alla ricezione ci si limiterebbe alla registrazione della
fortuna di un opera o di un autore, secondo i gusti del pubblico. L’efficacia invece vuole
evidenziare l’impatto dell’opera sul pubblico anche a dispetto dei gusti vigenti. Per
calcolare l’efficacia Jauss inserisce la nozione di “orizzonte d’attesa”. Il rapporto fra
opera è lettore è infatti condizionato da ciò che il lettore si aspetta, sulla base delle
opere del passato e dei generi letterari. E’ dunque possibile che tra “ricezione” ed
“efficacia” ci sia disparità o, che proprio il valore innovativo di un’opera condizioni
negativamente la sua accoglienza. Contraddicendo la concezione di Gadamer per cui
classica è quell’opera che da sempre è in grado di rendersi comprensibile al lettore,
Jauss fa notare che spesso quelli che oggi appaiono come classici indiscutibili hanno
avuto difficoltà ad affermarsi, a causa della delusione delle attese dei contemporanei.
Jauss finisce per modificare nel tempo le proprie concezioni, lasciando più spazio
all’estetica, cioè alla “godibilità” dell’opera. In polemica con Adorno, l’“esperienza
estetica” viene rilanciata in quanto liberazione dell’uomo dai propri vincoli quotidiani.
Recentemente si è rifatto all’ermeneutica, articolando la lettura de testo in tre stadi: il
primo livello, di “comprensione estetica”, costituirebbe la percezione del testo; il
secondo livello prevede la riflessione in cui si torna all’intero componimento per
un’interpretazione globale; il terzo livello corrisponde allo studio della ricezione sopra
illustrato. Attraverso questa articolazione in livelli, Jauss ha conferito spessore alla sua
teoria.
L’altra importante direzione della Scuola di Costanza è stata seguita da Iser. Più che
“ricezione”, Iser preferisce parlare di “risposta”: il testo fornisce gli stimoli a cui il
lettore è chiamato a rispondere. Il fatto letterario possiede due polarità: quello
“artistico” e quello “estetico”. L’opera occupa lo spazio intermedio e il significato deriva
dall’interazione fra testo e lettore. Il testo presenta margini di “indeterminatezza” che
vengono colmati dal lettore, il quale partecipa alla formazione del senso portando le
proprie esperienze. L’opera suscita nella fantasia del lettore immagini mentali che
integrano il testo. Nessuna descrizione è mai talmente dettagliata da non consentire
l’intervento della nostra immaginazione.

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Iser considera importanti anche le strategie che il testo dispiega lungo l’asse temporale.
Ogni frase, a causa della sua indeterminatezza, genera delle aspettative. Una completa
saturazione delle aspettative è poco probabile e soprattutto farebbe cadere l’interesse
del lettore. Perché ci sia “coinvolgimento”, secondo Iser, è necessario che le nostre
aspettative non ottengano piena soddisfazione. I critici, di fatto, “non fanno altro che
cercare di tradurre il loro coinvolgimento in un linguaggio referenziale”.
Anche l’italiano Umberto Eco (1932 – vivente) ha analizzato la “cooperazione” del
lettore. Secondo Eco il lettore è nel testo, nel senso che il testo prevede già in partenza
il suo ruolo e il suo apporto partecipativo. Elaborata in contemporanea con quella di Iser,
la teoria di Eco sembra lasciare minori spazi alla fantasia del lettore: mentre Iser parla di
“lettore implicito”, Eco crea il ruolo del “lettore modello”, quel lettore previsto dal testo
per la realizzazione dei suoi effetti. Delle competenze del “lettore modello” si suppone
faccia parte anche un bagaglio di “sceneggiature”, ossia quelle sequenze canoniche che
possiamo prevedere come sviluppi probabili di determinate situazioni (Es: se in una
comica compare una torta per noi è presumibile che verrà tirata in faccia a uno dei
personaggi).
Secondo Eco, l’interpretazione di un testo consiste proprio nel mettersi nei panni del
“lettore modello”, nell’accettare di giocare il gioco predisposto dal testo.

7 Critici di confine
7.1 Bachtin e la letteratura pluridiscorsiva
Tra i critici al confine delle grandi correnti del Novecento, una delle figure principali è
Michail Bachtin (1895 – 1795 d.C.) → La sua posizione non allineata né al formalismo, né
alla critica marxista dominante nella cultura sovietica, gli costò una dura
emarginazione.
Il punto di partenza di Bachtin è la concezione del linguaggio come “dialogo”.
Qualsiasi parola, secondo Bachtin, è dialogica: più che esprimere l’interiorità del
parlante, è diretta a raggiungere l’interlocutore e viene quindi impostata per questo
scopo. Perciò l’analisi di un testo basata solo su elementi linguistici è considerata da
Bachtin come un esame parziale. Bisogna capire rispetto a quali discorsi (letterari e non)
il testo intende intervenire ed assumere posizione. Bachtin preferisce parlare di “senso”
piuttosto che di “significato”. Qui sta la sua distanza dal formalismo, che ritaglia
procedimenti verbali staccati dal senso complessivo e non riflette fino in fondo il loro
coordinamento interno all’opera, né la relazione con le lingue “sociali”. Il linguaggio
invece deve essere collegato con la società e con la storia (sotto questo aspetto Bachtin
si avvicina molto al materialismo storico). Ancora contro il formalismo, la sua opinione è
che nessun testo sia mai autonomo e autosufficiente: non solo ogni parola è già stata
detta da altri, ma ogni “enunciazione” interviene in discorsi che pre-esistono. Da ciò si
deduce che il testo deve essere considerato come l’anello di un a catena e dunque va
collocato nell’avvicendarsi della tradizione, variegata e composita. La tradizione non è
costituita soltanto da testi: Bachtin sottolinea l’importanza dei “generi”, cioè delle
“forme tipiche” che si vengono accumulando nel tempo. Nella sua ottica i “generi”
costituiscono una ricca molteplicità di vie possibili. Non parla solo di “generi letterari”,
ma di “generi di discorso”: i generi della “grande letteratura” coesistono con la lingua
“colloquiale”, “burocratica”, “oratoria”, “giornalistica”, ecc. I confini tra i generi devono
consentire scambi e interferenze. Non sono codici fissi ma principi organizzativi elastici e
plasmabili. Nei “generi” circolano anche altre caratterizzazioni che determinano
l’appartenenza dei parlanti dei parlanti ai ceti professionali e sociali. Nella prospettiva di
Bachtin la “pluridiscorsività della lingua” è un valore: il testo può chiudersi nel
“monolinguismo” di un unico stile o aprirsi al “plurilinguismo”, alla concretezza della
“parola viva”. Questa seconda ipotesi è appannaggio del romanzo, per lui l’unico genere
ancora “giovane e in divenire”. Poiché il romanzo contiene in sé tutte le “voci” (del
narratore e di tutti i personaggi diversi), contiene anche tutti i “generi” di discorso orale
(conversazione, oratoria,…) o di scrittura (documenti, lettere, memorie,…). Per Bachtin
“il romanzo è l’unione degli stili; la lingua del romanzo è il sistema delle lingue”. Questa
sua idea del romanzo trova la massima concretizzazione nel suo studio su Dostoevskij,
visto come il culmine del romanzo “polifonico”; egli ha saputo dare la parola, attraverso i

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suoi personaggi, a una grande quantità di linguaggi e di punti di vista facendoli


interagire fra loro.
Nei suoi studi ha posto particolare attenzione nel ricostruire la cultura popolare espressa
nel carnevale e nelle manifestazioni folkloristiche, analizzando il “sentimento
carnevalesco del mondo” che si sviluppa parallelamente e contro la cultura
“ufficiale”. I caratteri della tradizione carnevalesca (ribaltamento comico dei rapporti
gerarchico-sociali, la mescolanza e il contatto familiare, il superamento dei contrari)
penetrano nella letteratura “dal basso” attraverso i generi minori quali la satira, il
comico, il grottesco. Il vero epicentro del “riso generale” è però l’autore francese
rinascimentale Rabelais, l’altro autore a cui Bachtin ha dedicato una copiosa ricerca.

7.2 L’approccio “mitico” di Frye


Lo studio del canadese Northrop Frye (1912 – 1991 d.C.) → È volto ad attenuare le
divisioni metodologiche: il critico non deve restare confinato in un unico metodo. Frye si
rivolge all’indietro, alle radici del fenomeno letterario; non si interroga sugli effetti (sulla
riuscita) ma piuttosto sulle cause. Frye ricerca la “causa formale”, ossia quelle forme
elementari che le opere, di epoca in epoca, continuano a utilizzare e a riadattare. Frye
denomina queste forme elementari “archetipi”, derivato dalla psicanalisi di Jung. Questo
tipo di critica assume il nome di “critica archetipica”. L’archetipo per Frye è
un’immagine tipica o ricorrente che si può riscontrare in diverse opere e che può servire
a collegarle fra di loro. Gli archetipi si collegano non solo alle immagini ma anche alle
azioni che si ripetono sempre uguali. Il mito per Frye disegna l’archetipo a livello
dell’organizzazione del testo. Anche la produzione moderna è legata al mito (Moby Dick
di Melville), una storia moderna di caccia alla balena che può essere fatta confluire nella
nostra esperienza immaginativa di mostri e draghi. Solo il contenuto delle opere muta,
ma la forma (il modello mitico) rimane identica.
La convergenza di Frye con la tendenza metodologica del formalismo e dello
strutturalismo non si ritrova solo nella concezione della solidità delle forme ma anche
nell’atteggiamento da assumere davanti al testo: anche Frye rifiuta di attenersi alle
immediate reazioni del gusto e crede, invece, nella “presa di distanza”. Come per un
quadro, anche nella poesia è necessario fare un passo indietro per vedere le forme
archetipiche che dischiude. Per dare ordine alla molteplicità delle forme Frye ricorre alle
“radici rituali” della letteratura. Come religione e folklore sono caratterizzati da dalle
scadenze cicliche delle stagioni, così Frye suddivide i miti in una quadripartizione che
corrisponde al ciclo stagionale. Nell’ambito letterario: la rinascita primaverile della
natura è la commedia; al rigoglio e alla maturazione dell’estate corrisponde il romance
(il romanzo d’avventura); l’autunno coincide con la tragedia; il rigore dell’inverno trova il
corrispettivo nelle “forme negative” della satira e dell’ironia, dove il riso demolisce e
segna la definitiva scomparsa dell’eroico.
Qui si delineano le differenze fra della teoria dei generi di Frye e quella di Bachtin.
Mentre Bachtin sottolinea la storicità delle forme e la rivalità delle linee fino al
rovesciamento della superiorità gerarchica di un genere sull’altro, Frye adotta un
modello ciclico in cui la vita dei generi è sostanzialmente extrastorica. Per ciascun
genere è prevista un’evoluzione interna, ma secondo un arco “naturale” di crescita
destinata alla crisi e al tramonto.
Il modello della teorizzazione di Frye rimane la Poetica di Aristotele, sia pur attualizzata
mediante la psicanalisi junghiana. Frye afferma che “l’attenzione della lettura si muove
contemporaneamente in due direzioni”: l’una “centrifuga” che va verso le cose esterne,
l’altra “centripeta” da cui cerchiamo di sviluppare alle parole il senso. Dalla prima
direzione emergono le descrizioni e le informazioni, dalle seconda direzione le parole
assumono significato per i rapporti che intrattengono nel contesto.
In merito al problema dell’interpretazione, Frye ritiene che debba seguire un cammino
progressivo, passando dal significato “letterale”, all’imagery (il complesso delle
immagini di un testo) e da questa all’“archetipo” presente nella tradizione letteraria per
giungere interrogarsi sul “centro ordinatore” degli elementi archetipici. Secondo Frye, la
grande letteratura è quella che ripropone di riassumere in sé le diverse facce del mito.
Per Frye sono quindi scritture “totalizzanti” la Divina Commedia di Dante o il Paradiso
perduto di Milton o la Bibbia, il “mito centrale della cultura occidentale”.

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7.3 La “relazione critica” in Starobinski


Come per Frye, anche Starobinski (1920 – vivente) → Incentra il discorso su una unità
immaginativa (“tema” o “simbolo”) che permette di costeggiare linguistica e psicanalisi.
Secondo Starobinski “non basta inventare” i temi che rientrano nell’immaginario di un
autore, bisogna interrogarsi su quale “tema” abbia più rilevanza. Questa ricerca del
tema più insistente accomuna Starobinski alla critica psicanalitica. Il critico è convinto
che soltanto dall’esame dell’opera, e non e non solo dalle esperienze passate
dell’autore, possa dispiegarsi “sotto lo sguardo dell’osservatore perspicace” una grande
“ricchezza di significati”.
Uno dei temi su cui il critico si è particolarmente impegnato è quello del clown, non un
tema singolo ma piuttosto una costellazione tematica: dal saltimbanco alla ballerina,
dagli acrobati agli altri personaggi del circo. Da quanto è emerso dai suoi studi il clown
non è un semplice argomento da trattare, gli autori vi si identificherebbero al punto da
scorgervi il proprio ritratto e di vedervi rispecchiata la propria condizione in un’epoca in
cui la società conferisce loro sempre meno prestigio. Il suo studio perviene alla scoperta
di un archetipo più antico: il clown tragico, quello deriso e umiliato, il “doppio
emblematico del Cristo”, la “vittima innocente”.
Il clown è assolutizzato da Starobinski come portatore di assurdità pura e della totale
assenza di significato che, potendo essere riempita in qualunque modo, costituisce un
modello di completa libertà (o anarchia).
Sul dilemma fra “oggettivismo” e “soggettivismo” Starobinski argomenta che c’è
sempre una “interdipendenza tra l’interpretazione dell’oggetto e l’interpretazione di sé” ,
per cui il critico, parlando di un libro, parla anche inevitabilmente della propria posizione.
Perfino colui che assumesse la massima imparzialità “oggettiva” interverrebbe pur
sempre in maniera “soggettiva”.

Parte terza
Imparare a leggere nel mondo “globale”
La globalizzazione sta portando alla crisi della critica letteraria, investita dalla logica
del profitto (la lettura passa da riflessione a mero divertimento). La critica cede quindi il
passo alla pubblicità, ma la “critica del piagnisteo” non modificherà la situazione.
Occorre infatti interpellarsi sui nuovi metodi di fare critica (es. recensioni online, critica
studiata a scuola). O ci si affida alla figura del Grande Critico, considerato anch’esso
autore di alta qualità, o ci si attiene alla determinazione filologica del testo, alla
biografia d’autore, alla storia della fortuna critica, ecc… (statistiche e archivi
informatici). La crisi ha però un aspetto positivo: la caduta delle contrapposizioni
ideologiche ha condotto alla fine del dogmatismo. La critica è passata attraverso
l’autocritica.

8 Sviluppi, intrecci, prospettive


8.1 La difesa del canone e del valore dei classici
Il critico è un superlettore, un uberleser, sostanzialmente diverso da un qualunque
lettore per il piccolo particolare di essere provvisto di una sensibilità senza pari che gli
consente di entrare nell’autore, di rivivere la sua esistenza e per tal via far partecipare
gli altri al mistero glorioso della creazione. Anche grazie a una speciale capacità
espositiva: non c’è Grande Critico che non sia anche Grande Scrittore. Poiché uno dei
problemi del mondo dominato dal consumo è il suo eterno presente e quindi la perdita
della memoria storica, lo studio della letteratura tende al recupero del passato.
Paradossalmente, mentre i laudatori dell’attualità, nel cosiddetto postmodernismo,
dichiarano l’impossibilità del nuovo e la fine della storia, l’idea del progresso sembra
inevitabilmente costretta ad atteggiamenti conservatrici, di difesa e tutela, addirittura

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di pietas. Ora, il salvataggio dei classici consiste nel dare loro ancora la parola. Si apre
qui la direzione di una critica come dialogo che vuole recepire quanto il testo ha ancora
da dirci. Il discorso critico deve rispettare il testo, il testo che il tempo ha impregnato di
significato, è circondato da un’aura sacrale. Tanto che non lo si chiamerà più testo ma
opera. Parlare di opera vuol dire connotarla da subito con un valore d’alto livello.

George Steiner (1929 – vivente) → Insiste a configurare il rapporto con il testo nei modi
della confidenza e dell’accoglienza, come se si trattasse di un interlocutore che viene
da lontano cui rispondere con cortesia e tatto. L’umanesimo di Steiner è tinto di
istanze religiose. La scrittura è vista come un atto di creazione che fa sorgere dal nulla
un mondo. E in questo rivaleggia con il divino. Il critico deve ritenersi sempre inferiore
nei confronti della creatività artistica e scontare un ruolo gregario come di chi vive
attraverso esperienze altrui, di seconda mano. Eppure il suo intervento è necessario e
finisce per ottenere un posto modesto ma vitale. Di fato secondo Steiner l’opera è di
grado superiore alle sue interpretazioni. Però, nel momento in cui il grande patrimonio
letterario rischia di sprofondare nel silenzio il compito del critico sebbene di rango
inferiore diventa molto importante.

Nel periodo recente la rivendicazione della rilevanza della letteratura si è andata


appuntando soprattutto sulla questione del canone. Canone è una parola che
proviene dalla terminologia religiosa. Cos’è un canone letterario? È l’insieme dei libri
che sono reputati fondamentali. Stabilire il canone è una scelta difficile a volte dolorosa.
Un individuo solo è poco per fare un canone.

Harold Bloom → Ha suscitato scalpore quando ha preteso di fissare nientemeno che il


Canone occidentale, riunendo nel suo volume del 1994 gli autori imprescindibili della
nostra tradizione. Gesto di presunzione, gesto drastico e senza mezze misure, che
restringe l’olimpo dei classici a 26 unità, attorno ai giganti Shakespeare e Dante. Perciò
in Bloom, sebbene la letteratura si disponga per grandi ere, la storia non è quella
collettiva bensì consiste essenzialmente nel legame autonomo che i capolavori
intrecciano tra loro, collegandosi da cima a cima. Questa prospettiva è in aperta
polemica contro la diffusione nelle università americane dei seguaci delle poetiche
politiche (femminismo, postcolonialismo o neomarxismo), da lui denominate la scuola
critica del risentimento. Li definisce dei lemmings accademici che stanno conducendo
allegramente alla distruzione del piacere della lettura e al livellamento delle discipline
letterarie. Attribuire al critico responsabilità politiche è come pretenderle da un
giocatore di baseball. Riserva una particolare avversione a Gramsci, ritenuto colpevole
per aver stretto i legami tra testo e gruppo sociale. Ironizza sul marxismo (Groucho). Il
trattamento della grande opera, secondo Bloom, non può consistere in altro che nel
criterio dell’eccellenza estetica. Abbiamo allora una critica piuttosto tradizionale che
pone in primo piano il giudizio. Una critica che vuole misurare i punti alti, i vertici. Sul
piano critico, la concentrazione sui valori massimi conduce verso la venerazione, il
culto: pieno di riferimenti religiosi nell’organizzazione stessa dei suoi libri, Bloom
perviene a una religione della letteratura dove i grandi autori vanno a costituire una
Bibbia laica. A guardar bene, il protagonista non è nemmeno più l’opera, ma l’autore, la
grande personalità, il Genio, cui Bloom dedica il suo più recente volume. La ripresa
dell’autore, penalizzato nelle metodologie del ‘900, porterebbe verso la critica
biografica. Il critico non cerca di capire quanto della vita dell’autore si sia travasato in
quello che egli ha scritto, bensì viceversa quanto l’opera abbia influito sul suo autore.
L’arte è così importante da prevalere sulla vita: i personaggi hanno più vita degli esseri
viventi. Il suo atteggiamento è assai comune nel campo degli studi letterari, anzi, è la
naturale reazione di chi difende il proprio campo di attività. Vediamo svilupparsi l’elogio
della letteratura come testimonianza che corrobora la coscienza civile, rinsalda la
memoria storica e apre al senso di tolleranza. Un nutrimento culturale.

8.2 Critiche femministe


La polemica del femminismo non risparmia il campo letterario: indiziato è proprio il
canone, l’elenco degli autori più validi, che è costruito sul pregiudizio (maschi, bianchi,

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morti). Il primo compito della critica femminista sarà allora quello di reclamare pari
dignità per le scrittrici. Per quanto non siano mancati gli attacchi al fallocentrismo
(analisi del “machismo” come sorta di critica dell’ideologia) e le immagini combattive
verso l’idolo, negli studi di genere è prevalsa nettamente la volta alla riscoperta e alla
riproposta delle scrittrici ingiustamente sottovalutate dalla critica ufficiale. Si determina
una sorta di circuito chiuso nel privilegiare il discorso di una donna su un’altra donna,
rivolto alle donne. Secondo il femminismo più oltranzista, il maschio femminista è
quello più sospetto. La richiesta d’inserimento nel canone delle scrittrici, si fonda
sull’argomento che esse ne sono state tenute fuori in quanto donne; l’argomento perciò
è più forte quanto più si dimostra che non c’erano altri motivi di esclusione e che i loro
testi erano altrettanto validi di quelli maschili. Per paradosso, il risalto polemico è
maggiore se si mantengono gli stessi criteri di giudizio canonici e si dà scarso peso
all’analisi del testo. D’altra parte, tutte le caratteristiche che possono essere attribuite
alla scrittura al femminile rischiano di assomigliare a poetiche già presenti nella
tradizione. Il ricorso alla figura dell’autrice, insito nel filone principale del femminismo,
produce una stretta equazione tra autrice-narratrice-protagonista, che conduce una
volta di più nei paraggi della critica biografica. Il femminismo è tutt’altro che monolitico.
Come sul piano delle scelte letterarie si può passare dal racconto minimalista del
quotidiano e delle piccole percezioni alle punte del canto e della poesia,
dall’autobiografismo alla riscrittura, oppure dal piacere della lettura alle complicazioni
dello sperimentalismo, altrettanto nella critica varia l’atteggiamento (linea
anglosassone empirica e politicizzata e linea francese legata alla psicoanalisi e alle
sottigliezze dell’identità). Uno dei punti che dominano il dibattito femminista è il
pericolo dell’essenzialismo, cioè l’attribuzione alla donna di una essenza naturale
ben definita e data una volta per tutte. Cosa significa affermare l’essere donna? Il
soggetto femminile è diviso, spaccato, ma per ciò stesso più capace di disinvestimento
e quindi di autocritica.

La Kristeva rilegge il fondamento freudiano del complesso di Edipo, facendo notare che,
mentre il maschio rimane attaccato alla figura materna, il desiderio della bambina
passa dalla madre al padre (Edipo-bis, maggiore capacità di cambiamento). Questa
esplosione dell’identità porta da un lato a letture decostruttive che esplorano le pieghe
del testo e il gioco di dentro-fuori del soggetto femminile rispetto ai codici vigenti. Porta
anche, su un altro versante, per la china dell’antirazionalismo a un avvicinamento della
critica alla scrittura d’invenzione.

Helene Cixous (1937 – vivente) → Il suo saggio principale Il riso della medusa esalta le
qualità sovversive della scrittura al femminile come una forza dirompente.
Apparentandosi al misticismo, la Cixous mette in atto un linguaggio immaginoso e un
tono esortativo che risulta trascinante. L’esaltazione della poesia e dei poeti si riflette in
un comportamento di consonanza verso il testo. Anzi, nel femminismo si direbbe di
sorellanza. La Cixous, come larga parte del femminismo, insiste sulla corporeità, le
donne sono corpo più dell’uomo, e tuttavia inclina a una euforia ed empatia molto
spirituale che si accosta alquanto allo sbocco neoumanistico.

Sul versante anglosassone il femminismo tende ad articolarsi in connessione con


l’emergere di altre marche di marginalità, in particolare quelle segnate dalla scelta
sessuale e dalla razza (studi sull’omosessualità, travestimento, razzismo verso le
minoranze e i migranti postcoloniali).

Gloria Jean Watkins (bell hooks) (1952 – vivente) → È tra le rappresentanti del
femminismo nero. La scrittrice afroamericana percorre entrambe le direzioni: una
rivolta al passato, della linea patrilineare che recupera la funzione tradizionale della
donna e il focolare come spazio domestico, e quella rivolta al futuro, del soggetto
disponibile a forme di legame nuove e molteplici.

Gayatri Chakravorty Spivak (1942 – vivente) → La Spivak si pone al crocevia dei metodi:
psicoanalisi e marxismo, decostruzione, femminismo e postcolonialismo. La psicoanalisi

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e la decostruzione servono a togliere qualsiasi illusione di identità chiuse o


fondamentaliste e scoprono l’eccesso della donna. Il marxismo riconduce il discorso alla
sua radice sociale, ma fornisce anche l’indicazione del valore come forma senza
contenuto. Il femminismo allargato su scala mondiale scopre il radicale dislivello tra
le donne occidentali, privilegiate e quelle del Terzo mondo. Il postcolonialismo si
appunta sul problema del soggetto subalterno (ripreso da Gramsci) e della difficoltà
di rappresentarlo senza incorrere in sovrapposizioni paternalistiche. L’escluso deve
restare irraggiungibile (tipo la cosa in sé di Kant), per poter interrompere il continuo
ricaricarsi del meccanismo di sussunzione (ricondurre da un concetto particolare ad uno
più generale). Per la Spivak leggere un testo è anche sempre leggere il mondo. Il suo
atteggiamento critico va al di là del vissuto autobiografico, assume altri possibili sensi
allegorici e soprattutto di allegoria politica. Analizzando Frankenstein, nota che non si
tratta di una trasposizione immediata dell’esperienza autobiografica dell’autrice; bensì
della folle fantasia maschile di generare senza ricorrere alla donna. Si parla quindi di
“invidia dell’utero” (Freud → invidia del pene). La mostruosità non può essere contenuta
nel testo (il mostro muore, emarginazione = allegoria del “mostruoso”). Di recente la
Spivak ha scritto che proprio perché si basa su una figurazione irriducibile, non
immediatamente permeabile dalla lettura veloce, la letteratura è ciò che sfugge al
sistema.

8.3 Postcolonialismo e Cultural Studies


Il fenomeno della globalizzazione si è ripercosso nella sfera letteraria producendo un
eccezionale allargamento geografico. Non è più possibile ragionare dall’interno di una
sola cultura, senza considerare i rapporti con l’esterno e gli apporti delle minoranze
interne. In questo contesto assume sempre più importanza l’ottica della letteratura
comparata e il dibattito teorico-letterario proveniente dal Terzo mondo si sviluppa nelle
correnti riconducibili al postcolonialismo. È evidente che l’uscita di interi mondi dalla
servitù coloniale determina la ricerca e il recupero della loro cultura originaria.

Un antesignano della decolonizzazione è Frantz Fanon (1925 – 1961 d.C.) → Vedeva


nella negritudine e nell’arabismo delle forme di reazione ancora venate di razzismo, sia
pur rovesciato.

In quale lingua scrivere? Se si sceglie la lingua nativa si guadagna il contatto con la


base primordiale, ma si perde in diffusione internazionale. Molti autori inseriscono nel
testo termini locali non tradotti per comunicare al lettore occidentale, che non può
comprenderli, l’impressione di una distanza e la portata del genocidio culturale causato
dal colonialismo (questo effetto è stato definito un gap metonimico).

Le tendenze postcoloniali recenti si sono orientate su due assi: quello della polemica e
quello della ibridazione.
Sul primo fronte spicca Edward W. Said (1935 – 2003 d.C.) → In Cultura e imperialismo
c’è una critica postcoloniale pienamente sviluppata in forma di ermeneutica del
sospetto. Si può vedere in Said qualche propensione al contenutismo e un indubbio
privilegiamento della narrativa. Demistifica ciò che è rimasto inespresso o distorto in
alcuni testi. Bisogna riconoscere una grande forza argomentativa e il merito di collegare
il testo al contesto esterno. La letteratura è fatta da esseri umani e va quindi sempre
ricollocata nel mondo, rimessa in situazione. Ciò non elimina il suo valore estetico, ma
lo comprende meglio attraverso il contrappunto tra l’opera e le condizioni che ne hanno
determinato l’esistenza. L’atto critico consisterà nel vedere il testo come un campo
dinamico di parole e non come un blocco statico. Il testo di per sé non è mai un oggetto
finito e sta al critico e alla sua posizione politica prolungare certe diramazioni e non
altre. In favore dell’interculturalità, Said parla anche di traveling theory, una teoria in
viaggio, fatta di spostamenti e interscambi.
Il secondo asse sposta l’accento sulle commistioni culturali, i luoghi d’intreccio e
miscelazione prodotti dalle esperienze diasporiche dei migranti, dell’”uomo spaesato”.
Nell’esilio di Said il continuo confronto culturale mette in crisi le identità corazzate:
l’identità viene a trovarsi nel mezzo. L’adattamento necessario verso la cultura dei

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dominatori è però attraversato dal rigetto e dalla imitazione deviante: si va dal writing
back di talune riscritture che rivoltano dal punto di vista dello schiavo i capolavori
occidentali, alle varie forme di resistenza.

Edouard Glissant (1928 – vivente) → Con la Poetica del diverso, sostiene che la diversità
è soprattutto nella distinzione tra culture ataviche e culture composite: le culture
ataviche sono quelle che si arroccano attorno a un mito fondatore e si definiscono in
base all’espulsione violenta dell’altro. Le culture composite sono quelle che traggono
la loro forza dall’apertura alla relazione di svariate componenti, sviluppando un gusto
della caoticità e dl cambiamento. La ricerca delle radici va: alla radice unica o al
rizoma, radice senza centro e aggrovigliata. Parola d’ordine è al creolizzazione, non
soltanto l’inserimento nel testo del lessico del colore locale ma anche un’ulteriore
attività di impasto linguistico. Glissant non è propriamente un critico, ma la sua poetica
è piena di indicazioni e di termini che possono essere assai utili ad affrontare le nuove
forme letterarie della globalizzazione, nella prospettiva di un cambiamento
dell’immaginario. Sul piano letterario il richiamo al barocco contiene sia l’idea di una
forma debordante, sia il disegno di una commistione dei generi tradizionali. Creolizzare
vuol dire anche superare le convenzioni e disfare i generi.

Sovrapponendosi al postcolonialismo, si è affermata di recente negli USA la voga dei


Cultural Studies → È necessario tracciare una breve storia: l’attenzione dedicata alla
letteratura nell’ambito dello studio della cultura è nata in Inghilterra e poi si è trasferita
in USA subendo alcune modifiche. L’inizio può essere imputato al gallese Raymond
Williams (1921 – 1988 d.C.), che ha allargato la considerazione della cultura nel quadro
del marxismo estendendo la nozione di egemonia di Gramsci e individuando i diversi
stadi e rapporti interni mediante la distinzione tra forme culturali dominanti, residuali o
emergenti. Inoltre Williams vedeva l’apporto della letteratura come contributo al
mutamento delle strutture del sentire o del sentimento. Su queste basi si sviluppava
soprattutto la ricerca sulla cultura della classe operaia e sulla cultura popolare. Nel
successivo sviluppo in USA la voga dei cultural studies ha perduto l’attenzione verso la
funzione letteraria di ammortizzatore sociale, di contenimento e di compensazione. Si
entra in una situazione in cui il livello alto e il basso si sono mescolati e il popolare si
riferisce all’intera gamma del pubblico ormai reso indifferenziato. Negli USA i cultural
studies tendono ad inglobare qualsiasi differenza culturale, le donne, i neri e gli
handicappati secondo grandi e piccole ripartizioni tuttavia molto stemperata nella
misura dell’esistente. Una volta che il termine cultura sostituisce l’ideologia non si è più
in grado di operare una critica: la pluralità delle culture relative alle diverse tribù viene
accettata dai cultural studies con l’ottica neutrale dell’antropologo. Si tratta solo di
differenti stili di vita. Il problema non è tanto il livellamento quanto il fatto che né il
capolavoro, né il tascabile usa e getta vengano sottoposti alla demistificazione.

8.4 L’interpretazione politica e l’inconscio ideologico


Nel mondo odierno continua a essere pressante la questione politica. Per quanto
evidenti le enormi disparità e i laceranti conflitti che agitano il mondo, la loro analisi è
tutt’altro che facile. Nella comunicazione deduttiva la finalità ideologica finisce per
scomparire. L’ideologia si configura adesso in molti modi: non è più rappresentata solo
dalla menzogna ma passa anche attraverso la verità parziale e soprattutto attraverso il
sottointeso che viene trasmesso dalle immagini. Il valore politico delle rassicurazioni
dell’io spinge alla connessione tra il marxismo e la psicoanalisi.

Fredric Jameson (1934-vivente) → Ha parlato di inconscio politico. La letteratura e


l’arte vanno lette come sintomi della storia. Il critico deve ricondurre i problemi che
incontra sulla superficie del testo a un sottotesto di tipo socio-economico. Jameson
articola l’ideologia nei suoi elementi costitutivi detti ideologemi che sono qualcosa che
sta a metà strada tra un concetto e un’immagine. In ogni caso uno schema elementare
di distribuzione del materiale immaginario, quale è ad esempio la netta divisione tra
bene e male, buoni e cattivi. Per questa via diventa possibile tornare a considerare i
generi letterari. Nel romance antico la soluzione dell’intreccio è data dall’intervento

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della magia, in epoca moderna la funzione magica viene sostituita da altre forze, nel
western dall’abilità del pistolero, nella fantascienza dalla tecnologia, ecc… . I generi
sono archetipi che attraversano le epoche, ma quello che conta in essi è la parte
variabile, nella quale possiamo scoprire l’azione della storia. L’ideologia ha nel testo
fratture e scompensi. Il marxismo in Jameson è proprio quel metodo che è capace di
superare e inglobare in sé gli altri metodi, inserendoli nell’orizzonte della storia della
formazione sociale. Nei 4 livelli letterale, allegorico, morale e anagogico sostituisce il
morale con la lettura psicologica e l’anagogico con una storia della salvezza puramente
terrena, quindi con il livello storico-sociale. Ogni testo letterario è il prodotto di una
condizione determinata rispetto alle cui contraddizioni cerca di dare risposta mediante
le invenzioni dell’immaginario quindi è il sintomo di un disagio subito e porta dentro di
sé i semi del tempo cioè una proiezione verso il futuro. Una volta constatato il
passaggio del capitalismo alla sua terza fase detta tardo capitalismo, caratterizzata
dallo sviluppo informatico e multinazionale, dalla simbiosi tra il mercato e i mass media
allora la cultura adeguata a questo nuovo stadio risulterà il postmoderno. Per paradosso
il postmoderno nasce con l’affermarsi della modernizzazione su tutti i suoi avversari: è il
moderno assoluto. Altro paradosso: proprio nel mentre vede mescolarsi il paradigma
della produzione con quello semiotico. Jameson ristabilisce il nesso del marxismo
classico tra base e sovrastruttura in modo ferreo: data la base del tardo capitalismo non
ci può essere che una sovrastruttura, il postmoderno. Proprio la negazione della realtà
figura come il realismo dei nostri tempi. La figura intellettuale che prevale è quella
dell’osservatore che si dedica alla cartografia cognitiva.

Terry Eagleton (1943 – vivente) → Propone di riordinare i vari lati della questione della
nozione di ideologia. Per lui ideologico è un insulto che significa arroccato su idee fisse.
Vedere l’ideologia dappertutto è un modo per svuotarla e convivere con essa.
Sfaccettata e flessibile l’ideologia si mostra come campo complesso e conflittuale di
significato. La critica è ciò che ci permette ancora di riconoscere gli interessi oggettivi
che agiscono nei discorsi. Ora la letteratura non può essere definita di per sé ma solo in
rapporto al complesso delle pratiche sociali. Ha bisogno di un termine intermedio che è
l’estetica dotata di una sua specifica ideologia: l’ideologia dell’estetica. In quanto
mediatrice l’estetica ha sempre due facce, una rivolta al lato intellettuale della
costruzione e dell’analisi, l’altra radicata nella sensibilità materialistica del corpo. Il suo
interesse nei confronti di Benjamin deriva soprattutto dalle intuizioni sulla corporeità del
linguaggio. Il corpo è ciò che tutti abbiamo in comune. L’estetica può elevarsi nei cieli
della sublimazione, della distinzione di classe ma anche aiutare a costruire il soggetto
della sfida e dell’alternativa. L’autonomia trasforma l’arte in una entità separata,
costituisce un rifugio e rappresenta l’immagine del soggetto non alienato e dello
sviluppo della sensibilità umana. C’è in questo posizionamento centrale dell’estetica
molto di Kant riletto attraverso Marx, sicché lo spazio della mediazione diventa anche
spazio di conflitto. Il discorso, dice Eagleton, è strategico. Vale a dire che per prima
cosa dobbiamo chiederci non quale sia l’oggetto o come dobbiamo analizzarlo ma
perché vogliamo indagare su di esso. L’ironia per Eagleton è fondamentale e
connaturata al rivoluzionario. Egli parla del critico come clown e il suo stile è
continuamente percorso dall’humor.

Juan Carlos Rodriguez (1944 – vivente) → La sua interpretazione della poesia classica è
sulla base della matrice ideologica. A differenza di Jameson, in Rodriguez l’epoca non
genera una sola poetica bensì due: ci sono sempre due letterature e quindi un gioco di
alternative. Le diverse poetiche si trovano incluse nella produzione ideologica. Si
determina qui un rapporto profondo con la psicoanalisi sulla centralità del problema
dell’io o meglio dell’io sono, l’identità. La storicità radicale che Rodriguez assegna alla
letteratura sta proprio nella misura della sua partecipazione alla produzione dell’io,
all’invenzione del soggetto. Soprattutto la poesia nella sua funzione di rifugio dell’anima
contribuisce alla costruzione di un mondo privato ritenuto autentico. Stretto tra i due
inconsci e tirato da parti opposte dalle richieste sociali, l’io soffre la crisi e la rottura ma
questo vuol dire anche che può staccarsi dall’identità che gli è stata assegnata. Il testo
è capace di rifiuto, può pronunciare la sillaba del no e nella modernità letteraria questo

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atto sovversivo può svolgersi secondo la linea dello svuotamento. Nel secondo ‘900
tutto sembra condurre alla diminuzione del carattere contrastivo e alternativo. Il
capitalismo avanzato ha provveduto a privare di sostanza gli ambiti della politica e della
filosofia. L’io ormai non solo è funzionale alla produzione ma è diventato esso stesso un
mezzo di produzione: si andrebbe verso un nuovo feudalesimo dove è importante
l’appropriazione sociale dell’intero uomo.

Edoardo Sanguinetti (1930 – vivente) → È in Italia il principale rappresentante della


resistenza e dell’efficacia del marxismo. Egli ha posto a base del suo discorso critico
l’equazione tra ideologia e linguaggio. La storia non è dietro ma dentro il testo.
Perciò la decifrazione dei segni non può mai essere esentata da un interrogativo
politico. Decifrare vuol dire capire la coerenza di un testo, capire da quale sistema o
codice è retto. Il critico deve procedere all’interpretazione in quanto il testo si presenta
in modo non trasparente con l’aspetto dell’enigma. Solo che questa ambiguità non è
una dote intrinseca ma è il prodotto di una attività sociale. Riprendendo lo storicismo
assoluto di Gramsci, Sanguinetti afferma che il critico ha da farsi storico, scrittore di
cose.

8.5 L’oggetto testo


Tenersi all’oggetto-testo significa lo studio empirico della letteratura nei suoi aspetti
concreti, nelle sue istituzioni, nella sociologia del pubblico. La considerazione della
letteratura come forma di interazione comunicativa può sfatare alcuni miti, compreso
quello dell’interpretazione giusta ma rischia di cadere comunque in un mito, quello
dell’osservazione scientifica. Certo la statistica può illustrare la reazione dei lettori e la
loro risposta a determinati fenomeni e consente di avviare una psicoanalisi
sperimentale del lettore. Con il lettore statistico si rimane tuttavia sempre a un livello
descrittivo di emozioni e impressioni immediate, non di effetti a lunga scadenza.

Un’altra via oggettiva è quella intrapresa dalla critica genetica che si occupa di
studiare i dati di archivio degli stati preparatori dei testi. Mentre l’interesse primario
della filologi era di determinare qual è il vero testo, la critica genetica sembra far
sparire l’unicità del testo nella miriade dei suoi materiali in progress mettendo in
evidenza piuttosto i testi virtuali, quello che il testo avrebbe potuto essere. Già
cominciano ad avventurarsi un poco di più nei problemi interpretativi i lavori che
riguardano le strutture dei testi, in particolare narrativi. Essendo il mercato interessato
soprattutto al romanzo, è questo il lato privilegiato anche dalle ricerche teoriche e
metodologiche. Gli studi sui modi della trama o sui mondi possibili creati dalle storie,
mettono al centro proprio quegli elementi che costituiscono l’attrazione del romanzo di
consumo sul lettore più ingenuo. Si conferma il ruolo naturale di mediazione e di
compensazione del racconto. Nel frattempo, anche la semiotica è andata oltre lo
smontaggio narratologico delle azioni per affrontare la questione delle passioni.
L’analisi basata sulle nozioni di tema o di genere può consentire utili attraversamenti e
connessioni tra epoche distanti, diverse aree geografiche e culturali. La critica tematica
sembra in grado di raccogliere e rendere più aderenti al testo le istanze della
psicoanalisi. Quanto ai generi non sono più considerati come caselle da classificazione
ma entrano nel testo come componenti dinamiche. Proprio questa eterogeneità del
testo può spingere l’analisi critica ancora più a fondo verso le più minute manifestazioni
e i piccoli indizi. Dalla struttura vista come quadro in cui tutti gli elementi dovevano
trovare posto si passa alle strutture nel senso che i testi funzionerebbero proprio nella
inesatta sovrapposizione di almeno due o più modelli. Dalla funzione al
disfunzionamento in quanto si tratta di rinvenire non già l’accordo e il parallelismo ma
le smagliature della composizione, le discordanze, i contrasti.
Ecco la grande scommessa della critica oggi: appassionare di nuovo alla lettura, in un
momento in cui il testo letterario è trascurato e affrontato solamente per obbligo

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scolastico. Far questo attraverso l’allenamento del rovello del lavoro critico. Se leggere
è leggersi allora è chiaro che la cultura dominante del mercato non ha bisogno di
rendere consapevoli i consumatori. Dobbiamo imparare a leggere. La letteratura può
funzionare come momento consolatorio o compensativo, come addestramento alla
sopportazione dei danni reali, oppure può affrontare il trauma mostrandolo e
diffondendolo in forma di urti e spezzature anche formali e linguistiche stimolando la
reazione. Imparare a leggere vuol dire investire attenzione e concentrazione per
leggere tra le righe la posizione dell’oggetto-messaggio che ci sta di fronte. Forse
potremo sentirci coinvolti e trovare dentro di esso qualcosa che riguarda molto da
vicino anche noi e gli stringenti appelli della nostra tanto problematica attualità.

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