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INTRODUZIONE ALL’ESTETICA

Gianni Vattimo

1. Estetica e modernità
L’estetica come specifica disciplina filosofica nasce soltanto nel Settecento ed è quindi un fenomeno
essenzialmente moderno. Si serve tuttavia di concetti elaborati dalla tradizione precedente e si radica in
una precisa pratica sociale, che inquadra e qualifica in maniera determinata l’esperienza sociale
dell’arte. Il momento della nascita dell’estetica filosofica è anche il momento in cui, nella cultura e nella
società, l’artista risulta definita in maniera stabile e «moderna», ovvero come il produttore delle opere
d’arte. Questo fatto che riguarda la cultura in generale della nostra società accade soltanto a partire dal
Rinascimento, maturando sul piano teorico solo a partire dal tardo Settecento. Nel mondo greco, in
quello romano e in quello medievale, l’attività artistica poteva divenire solamente oggetto di una
specifica teoria estetica. La categoria di arte che conosciamo e «pratichiamo» oggi, fondata sulla
connessione di erte attività con la «qualità estetica», era ignota a queste civiltà. L’estetica più recente ha
cominciato a domandarsi se l’arte come attività distinta dalle altre attività dell’uomo non sia il risultato
di una specifica forma di alienazione, cioè se non sia uno degli effetti di quella divisione del lavoro che
si tratta di superare per ricostituire l’integrità dell’esperienza. Un buon filo conduttore per capire le
condizioni che rendono possibile la nascita dell’estetica moderna è la nascita del museo e delle altre
istituzioni sociali delegate ad accogliere i prodotti delle arti (teatri, esposizioni, accademie, etc). Il museo
moderno è caratterizzato dal suo fondarsi su criteri di scelta che non riflettono più, come un tempo, un
gusto determinato, ma pretendono di fondarsi sul puro riconoscimento di una qualità estetica di
carattere generale. La storia del sorgere del museo è naturalmente solo una spia delle vicende dell’arte
come pratica sociale.
2. Arte, apparenza, imitazione
I temi e i problemi sviluppati nella tradizione che hanno contribuito a definire la fisionomia dell’estetica
sono svariati e numerosi. Il primo problema che si incontra è quello del rapporto tra le immagini
prodotte dall’arte e la realtà «reale». È nota la condanna di Platone contro l’arte come copia di copia:
le cose del mondo sono già di per sé delle pure imitazioni delle idee, e l’arte, che rappresenta queste
cose, è doppiamente lontana dalla realtà vera delle essenze ideali. Secondo Platone, appassionati di
opere d’arte non può avere alcun significato positivo nella formazione morale dell’individuo. La
condanna platonica dell’arte va collocata sullo sfondo della problematica dell’estetica antica e del
concetto di imitazione. Un problema della giustificazione delle immagini prodotte dall’arte sorge
perché i greci, pur avendo una diretta esperienza del potere che queste immagini ed apparenze
esercitano sull’animo umano, non dispongono di nessun concetto che le differenzi dalle altre tecniche
umane. Il potere dell’apparenza estetica era senz’altro ancor più rilevante in una società in cui la
sapienza collettiva si trasmetteva proprio tramite a poesia. Omero ed Esiodo, ad esempio, erano alla
base della formazione dell’uomo greco, ed il sorgere della filosofia (VII-VI a.C.) comportò una durissima
lotta contro la preminenza della poesia nell’educazione dell’uomo greco. Platone argomentava contro la
pretesa della poesia di conservare il primato nell’educazione dei greci: nella condanna della poesia
drammatica entra in conto anche un altro elemento, che tornerà in primo piano in molti omenti della
storia dell’estetica, soprattutto quando si vorrà sottolineare il carattere eversivo dell’arte. Secondo
Platone, la poesia drammatica merita di essere condannata perché l’esercizio e la fruizione di essa
comportano un’esperienza di disidentificazione dell’individuo, di perdita della continuità con se
stesso. L’ordine della vita dello stato richiede che i cittadini occupino stabilmente il proprio ruolo
sociale, ma il piacere che deriva dal teatro nasce dal fatto che ci si identifichi con i personaggi dell’azione
scenica. La poesia drammatica non può che avere effetti deleteri per la vita di uno stato ordinato. Anche
là dove Platone si mostra meno severo con l’arte (giustificando per esempio alcuni tipi di musica come
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mezzi per ristabilire l’equilibrio emotivo), è chiaro che per lui non è mai possibile giustificare il
significato delle apparenze prodotte dalle arti in relazione a un valore specifico di queste apparenze
(come sarebbe la bellezza). Per Platone, la giustificazione è sempre in relazione a scopi diversi, che
possono essere educativi, politici, etc. Di bellezza Platone parla molto nelle sue opere, come nel
Simposio o in Fedro, ma non la associa mai specificatamente alle opere dell’arte.
3. Arte e tecnica
La mancanza di una connessione tra le arti e la nozione di bellezza non è esclusiva di Platone ma è
comune a tutto il pensiero antico e medievale. In queste culture, l’arte non sono le arti belle: quelle
attività che oggi noi definiamo arte non sono, in queste culture, qualificate da un rapporto costitutivo
con la bellezza, né sono pensate unitariamente sotto una categoria specifica. Si confondono in linea di
massima con tutte le altre tecniche inventate dall’uomo per facilitarsi la vita nel mondo. Per i greci, le
nostre arti rientrano sotto la categoria generale della téchne, che comprende sia quelle che noi
chiamiamo tecniche sia le arti. L’unica grande distinzione che vige all’interno della categoria della téchne
è quella che separa le tecniche che implicano la manipolazione fisica di materiali con conseguente
produzione di oggetti e le arti che consistono in un puro esercizio, come la danza. È la distinzione che
passerà nella cultura medievale come distinzione tra arti servili e arti liberali. Le arti che noi
chiamiamo belle appartengono solo in parte alla categoria delle arti liberali: è il caso della poesia, della
musica, della danza. Pittura, scultura e architettura, visto che necessitano della manipolazione fisica del
materiale, sono invece arti servili. La separazione delle arti liberali da quelle servili riflette una cultura
per cui il lavoro manuale ha qualcosa di ignobile. La condizione degli artisti riflette sia questa
separazione sia altre stratificazioni legate alla struttura sociale e non immediatamente riconducibili al
disprezzo per il lavoro manuale. Gli attori, per esempio, pur non praticando un’arte servile, fino a molto
tardi nell’età moderna sono stati oggetti di un fortissimo giudizio sociale, poi rafforzato dalla morale
della Chiesa.
4. Metafisica del bello: luminosità e simmetria
Nella cultura greca e per molto tempo nella cultura europea manca una nozione unitaria delle arti belle,
sia a causa di una pratica sociale che le vede integrate nel sistema di tutte le arti utili, sia perché arti
liberali e arti servili non vengono unificate sotto un unico concetto. In questa situazione, la teoria della
bellezza non ha nulla a che fare con le riflessioni sulle varie arti. Il bello è argomento della metafisica,
cioè della teoria dell’essere in generale; bello è l’essere, così come, secondo Platone, belle sono le idee,
che sono l’essere vero (stabile, perfetto, luminoso) delle cose sensibili. Anche se in origine si sviluppa
senza alcun rapporto con la nozione di arte, il concetto di bellezza elaborato dal pensiero antico si
trasmetterò in modo determinante all’estetica moderna, che si rifarà largamente alle caratteristiche del
bello definite dai pensatori greci. La nozione di bellezza sviluppata dal pensiero greco ha
essenzialmente due caratteri:
1. La bellezza si identifica con lo splendore e la luminosità. È questo il carattere del
bello su cui più insiste la letteratura arcaica greca, per esempio Omero, e che viene
poi ripreso da Platone e Plotino. Quest’ultimo lo trasmette al pensiero medievale,
nel quale si svilupperà una vasta corrente nota come estetica della luce;
2. La bellezza si identifica con la simmetria e la proporzione. È una concezione di
origine diversa dalla precedente: le sue radici non sono nell’esperienza sensibile del
fascino della luce e dei colori, bensì in un pensiero già più riflesso, la dottrina
pitagorica che identificava l’essere vero delle cose con i rapporti numerici che
reggono la loro struttura e l’equilibrio dei loro componenti. Contemplare la
simmetria e la proporzione nelle cose favorisce il mantenimento o il ristabilimento
del giusto equilibrio nell’anima: la percezione di rapporti disarmonici produce
l’effetto inverso.

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In Platone troviamo sia la nozione di bellezza come splendore, sia quella della proporzione. L’estetica
di tutti i tempi farà grande uso dei concetti di simmetria e proporzione, perlopiù staccandoli dal loro
contesto pitagorico, ma implicando sempre il valore positivo di ciò che è simmetrico e proporzionato.
Nel classicismo rinascimentale e in quello settecentesco, la simmetria e la proporzione saranno
addirittura riconosciute come i caratteri quasi esclusivi delle opere d’arte classiche, e impronteranno in
modo determinante sia l’immagine che la cultura moderna si farà della classicità, sia i modelli di cultura
a cui, sulla base di tale idea, cercherà di adeguarsi.
5. Arte e struttura
Gran parte di questi temi dell’«estetica» greca si trovano sistemati unitariamente in Aristotele, a cui
appartiene la definizione generale di ogni arte in termini di imitazione della natura. Questa definizione
non concerne soltanto la poesia e le arti belle: l’arte imita la natura innanzitutto perché produce
ordinatamente in vista di fini. L’imitazione come rappresentazione è un caso particolare che, in certe
arti, arriva anche a portare a termine ciò che la natura da sola non riesce a fare o non farebbe mai. La
connessione tra il senso ristretto di imitazione (rappresentazione, raffigurazione) e il senso generale
(imitazione della natura in quanto attività produttiva organizzata) ha un significato determinante per
capire la novità della posizione di Aristotele rispetto a quella di Platone sul valore delle apparenze
prodotte dall’arte. Nella sua Poetica, Aristotele riscatta l’apparenza artistica da entrambe le accuse che
le aveva rivolto Platone; l’apparenza artistica non allontana dal vero né turba l’equilibrio dei rapporti
tra intelligenza e affetti nell’anima dello spettatore, perché la produzione di apparenze che avviene
nell’arte è inserita in un processo caratterizzato dall’essere strutturato, finalisticamente organizzato.
Tutta la dottrina aristotelica della tragedia si regge su una rigorosa visione strutturale della tragedia
stessa. Poiché la Poetica è l’unica opera aristotelica che tratta con ampiezza i problemi dell’arte, è
legittimo estendere questa concezione strutturale alle opere d’arte in generale e, ad esempio, al poema
epico. L’essenzialità della struttura della tragedia risulta chiara se la si pensa in relazione allo scopo che
la tragedia vuole raggiungere, ovvero quello di suscitare nell’animo dello spettatore «pietà e terrore» e
la «catarsi di tali passioni». La catarsi, cioè la purificazione dell’animo dalle passioni, è prodotta dalla
tragedia soltanto in quanto gli eventi pietosi e terribili sono inseriti nello svolgimento logico di essa,
ottenendo così una qualche spiegazione. Solo intendendo le cose in questi termini si capisce l’insistenza
con cui Aristotele si dedica a illustrare minutamente le regole di costruzione dell’intreccio tragico. In
questo senso, la tragedia riesce solo perché nel lavoro del poeta interagiscono i due sensi fondamentali,
quello ristretto e quello generale, del concetto di imitazione in base a cui Aristotele definisce l’arte.
nell’ordine che la tragedia impone agli eventi c’è inoltre una traccia di quell’aspetto secondo cui l’arte fa
ciò che la natura non riesce a compiere: stando ad Aristotele, gli eventi tragici devono essere collegati
tra di loro secondo verosimiglianza e necessità. In questi due termini è presente sia il come le cose vanno
abitualmente nel mondo sia il come dovrebbero andare. Per questo Aristotele può dire che la poesia è più
filosofica della storia: ci fa conoscere meglio, in vicende tipiche, le leggi di funzionamento del mondo
umano, sotto una luce di universalità che l’avvicina alla filosofia.
6. Arte ed esperienza religiosa
La presenza di Aristotele «estetico» è molto scarsa nell’antichità ellenistico-romana, nei primi secoli
cristiani e nel Medioevo. Questo lungo periodo della storia del pensiero europeo predilige l’elaborazione
di motivi di derivazione platonica. Il pensiero cristiano, ad esempio, riconosce nel platonismo e nel
neoplatonismo il proprio interlocutore privilegiato. In questa trasmissione del platonismo al pensiero
cristiano ha una posizione centrale Plotino, il fondatore della filosofia neoplatonica. Plotino è un
avversario deciso della nozione strutturale di bellezza: il bello non può risultare dall’ordine e dalle
composizioni di parti che non siano già, di per sé, belle. Egli accentua una delle nozioni che abbiamo
visto nel pensiero greco e in Platone, ovvero l nozione di bellezza come luminosità e splendore.
Bellezza è luminosità dell’Essere, dell’Uno, di Dio, ed è il Suo trasparire nel mondo visibile. L’arte, in
quanto produce il bello, ha una funzione di rivelazione dell’essere, e rappresenta un momento del

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ritorno dell’anima all’Uno. Produzione e contemplazione del bello sono modi positivi di entrare in
contatto con l’essere stesso. Non è azzardato vedere in Plotino una delle fonti principali del concetto
romantico dell’arte come modo di approccio alla realtà profonda dell’essere. Prima di questa ripresa
dell’epoca moderna, tuttavia, Plotino agisce più immediatamente nella filosofia e nell’estetica dei
pensatori cristiani antichi e medievali. Nel pensiero cristiano, la difficoltà di individuare un’estetica
esplicita e specifica è accresciuta dal fatto che è la stessa filosofia a essere difficilmente scindibile dalla
teologia. In questa situazione di inclusione, la filosofia matura in disciplina caratterizzata in modo
specifico: la parabola della filosofia cristiana tra Patristica e Medioevo si svolge tra un iniziale rifiuto
globale di tutta la cultura pagana, e quindi dei filosofi in generale, e un momento di maturità
(rappresentato da San Tommaso) in cui la filosofia si vede assegnato un posto subordinato rispetto alla
teologia. Qualcosa di simile accade nel rapporto tra [l’esperienza del bello e dell’arte e la riflessione
su di essa] e [l’esperienza religiosa e la riflessione teologica] → RAPPORTO ESPERIENZA DEL BELLO E
ESPERIENZA RELIGIOSA. È questo un processo visibile molto a lungo nella storia dell’arte, in cui per un
lungo periodo tutto si muove intorno all’iconografia sacra, preparando però i mezzi che costituiscono la
base dell’arte nella sua forma autonoma moderna. Dal punto di vista teorico, tra i numerosi stimoli che
il pensiero estetico può trovare nella lettura degli autori cristiani antichi e medievali, due sembrano
essere i concetti maturati in questo ambito senza i quali l’estetica moderna non sarebbe concepibile,
ovvero la nozione di opera e quella di simbolo.

• La nozione di opera non è ignota alla mentalità classica, ma in una prospettiva


generale in cui la natura è concepita sotto il segno della circolarità e della ripetizione
(sul modello delle stagioni), ogni opera ha sempre solo un carattere accidentale. Il
lavoro dell’uomo non muta l’ordine naturale del mondo. In questa prospettiva non si
può immaginare possibile l’enfasi che il pensiero moderno porrà sulla portata
«metafisica» dell’opera d’arte. Il pensiero cristiano non concepisce più la natura
come eterna ripetizione, bensì vede tutto il mondo come creato da Dio, dunque
fornito di un inizio che implica in qualche modo anche uno svolgimento storico verso
una fine. In tal modo, le opere dell’uomo acquistano una posizione più decisiva, e
quindi anche le opere dell’arte. Per la concezione dell’arte e della bellezza vale più
specificatamente il fatto che il pensiero cristiano pensa esplicitamente l’universo
come opera di Dio. La bellezza non è più un attributo eterno dell’essere, ma è la
qualità visibile nell’opera di Dio. Nel pensiero medievale, rispetto a quello antico, è
esplicito il fatto che tutte le speculazioni sul bello non siano più oggetto esclusivo
della metafisica, ma anche di trattazioni tecniche: il bello è anche carattere di opere
dell’uomo. L’estetica della luce, per esempio, si sviluppa nell’attenzione tecnica per
i problemi del colore e delle forme visive;
• Importanza analoga ha, per l’estetica moderna, la dottrina del simbolo. Le basi della
visione simbolistica dell’universo che ebbe il Medioevo sono ancora una volta nella
dottrina della creazione. Il mondo, in quanto opera di Dio, ne porta i segni, le tracce,
i messaggi. Non solo: il figlio di Dio si è incarnato in un uomo storico, apparendo come
uno di noi. Da questo momento tutto l’universo delle cose visibili ha con Dio un
ulteriore rapporto di rimando, raffigurazione, significazione. Creazione e
incarnazione fanno sì che tutto il mondo visibile possa essere guardato come figura
di Dio: ciò vale sia per le cose della natura sia per quelle prodotte dall’arte. Vale, in
particolare, per la Sacra Scrittura, che è parola di Dio, ma anche per la poesia non
sacra. Nella lettera a Cangrande della Scala, Dante estende la dottrina dei quattro
sensi della Scrittura (letterale, allegorico, morale, anagogico) alla poesia profana,
raccogliendo in un enunciato teorico una posizione che rimane un punto di
riferimento essenziale non solo per l’estetica, ma anche per la critica letteraria e per
ogni teoria dell’interpretazione.

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7. Poesia e arte tra filologia e scienza
L’età moderna che si apre con l’Umanesimo rappresenta un momento decisivo per la costituzione
dell’orizzonte problematico e concettuale dell’estetica come disciplina filosofica specifica, soprattutto
sul piano della storia della cultura, dove lo sviluppo della teoria si intreccia con le trasformazioni della
vita sociale. A partire dal Quattrocento comincia a definirsi per la prima volta la figura sociale
dell’artista come la conosciamo ancora oggi; parallelamente, si determina nella cultura la specificità
dell’esperienza estetica come esperienza dell’amatore d’arte. Diventano particolarmente rilevanti due
elementi: il rapporto tra poesia e filologia nella figura del poeta-letterato umanista e il rapporto
dell’arte con la scienza. In relazione a questi due elementi si definisce l’orizzonte teorico della
discussione sull’arte nei secoli XV e XVI.

• Per quanto riguarda il rapporto tra poesia e studi umanistici va tenuto presente
che molti poeti e scrittori degli inizi dell’età moderna sono studiosi di filologia che si
dedicano al commento e all’insegnamento degli antichi testi latini e greci. È stato
giustamente sottolineato che il nuovo senso della vita che si forma nell’Umanesimo
nasce sotto il segno della grande poesia dell’antichità. A parte questo, nell’esercizio
stesso della poesia e nel modo di concepirla teoricamente è essenziale il rapporto con
l’esperienza filologica. A questa esperienza se ne affianca un’altra: spesso i poeti e
scrittori umanisti sono anche alti funzionari pubblici ed è in relazione a questo
intrecciarsi di esperienze diverse che va compreso quanto scrive Boccaccio nel
Trattatello in laude di Dante circa la funzione della poesia nel consolidare l’autorità
dei principi, assicurando loro una sorta di immortalità analoga a quella degli dei. In
questa concezione si assegna alla poesia il ruolo di un connettivo storico-sociale.
La funzione civile della poesia non contrasta con questa indicata dal Boccaccio, ma
ne è uno sviluppo. La funzione de poeta che assicura l’immortalità e la gloria al
principe si amplia pi vastamente in quella che oggi si chiamerebbe un’attività di
creazione e mantenimento del consenso sociale. Gli ulteriori sviluppi della teoria
didascalica della poesia (ovvero la poesia che mescola l’utile al dolce → che insegna
la verità tramite forme piacevoli) vanno letti in relazione al riconoscimento della sua
funzione di connettivo sociale. Al legame poesia-filologia si collega anche
l’importanza che viene attribuita durante l’Umanesimo alla perfezione formale
della lingua e della composizione poetica: l’Umanesimo ha una visione
sostanzialmente neoplatonica dell’armonia del mondo, per cui lo stesso furore
poetico è solo un modo di innalzarsi nella conoscenza e nella contemplazione
dell’ordine universale;
• Su questa visione del mondo come totalità armoniosa si fonda anche la possibilità del
secondo rapporto costitutivo per l’estetica umanistica e rinascimentale, ovvero il
rapporto tra arte e scienza. Questo rapporto è ancora più denso di conseguenze
per lo sviluppo dell’estetica in quanto è attraverso di esso che si pongono le basi per
il riconoscimento delle arti visive e dell’architettura come arti belle. Questo
riconoscimento diventa esplicito a partire dal Cinquecento, ma le basi di esso sono
già presenti in Leon Battista Alberti, il primo a rivendicare esplicitamente uno
statuto scientifico per pittura, architettura e scultura. Se il carattere scientifico
dell’architettura è evidente nell’esigenza dei principi fisici, anche pittura e scultura
hanno una loro scientificità in quanto devono imitare razionalmente la natura. Tutta
la grande arte rinascimentale si muove in una vicinanza profonda con la scienza. Da
un lato, questo contribuisce in modo decisivo alla promozione sociale dell’artista:
nella misura in cui si identifica con la scienza, l’arte costruttiva e figurativa si
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aggancia alle arti liberali. In secondo luogo, l’idea di una imitazione razionale della
natura dà un nuovo e più fresco contenuto alla antica dottrina dell’arte come
imitazione. Attraverso l’accentuazione del rapporto arte-scienza, nasce la possibilità
di progettare un sistema delle arti belle. Le premesse si trovano innanzitutto nelle
discussioni circa il confronto tra pittura e poesia. Leonardo, ad esempio, non solo
esercita la pittura come una scienza, ma riflette teoricamente sulla sua dignità
rispetto alla poesia: per lui, non vale più dire che la poesia è arte meccanica (servile),
perché anche la poesia si esercita disegnando le parole con la penna, né si può vedere
un limite della pittura nel fatto che essa, secondo un antico detto, sia poesia muta:
con lo stesso criterio, dice Leonardo, si potrebbe chiamare la poesia una pittura orba.
Anche gli autori che mantengono l’idea di una superiorità della poesia sulle arti
figurative, come Mario Equicola, mostrano di ammettere ormai una sostanziale
unità tra le arti. Si avvia quindi un processo di pensiero che si concluderà nel
Settecento con la costruzione di sistemi unitari delle belle arti, culminando poi nel
sistema delle arti fissate da Hegel nella terza parte delle Lezioni di estetica.
Un’ulteriore configurazione del rapporto arte-scienza si può vedere nella discussione
che si instaura intorno alla Poetica di Aristotele e alle regole che in essa vengono
prescritte alla poesia e soprattutto intorno al verisimile poetico in confronto con il
vero conosciuto dalla filosofia e dalla scienza. In questo momento, però, ovvero nel
secondo Cinquecento, la vicinanza immediata tra arte e scienza come la si poteva
trovare in Leonardo sta lasciando il posto a una più matura e meno mistica visione
della scienza. Di questa mutata situazione vi sono numerosi segni nella seconda metà
del Cinquecento: già nel Vasari l’importanza prevalente assegnata, nella pittura, al
giudizio dell’occhio testimonia l’inizio di un processo di sempre più netta separazione
dell’arte dalla scienza, cosa che sarà massicciamente rilevabile nel manierismo e nel
barocco.

8. La separazione tra arte e scienza


Barocco, empirismo e classicismo
Il definirsi teorico dell’arte tra il Seicento e il Settecento passa attraverso una netta distinzione dalla
scienza. L’inizio di questa nuova fase nello sviluppo dell’estetica si può riconoscere in uno dei fondatori
della metodologia scientifica moderna, Francesco Bacone: nel suo Il suo progresso del sapere,
pubblicato nel 1605, Bacone inaugura l’estetica barocca, separando la poesia dalla storia e dalla
scienza: mentre la storia si basa sulla memoria e la scienza si basa sulla ragione, la poesia è opera della
fantasia. In quanto tale, essa può connettere ciò che in natura è disgiunto e viceversa, così da poter
soddisfare i bisogni dell’animo umano, in quanto l’animo umano ha proporzioni più vaste di quella della
natura e esigenze di giustizia più complete di quelle che la storia non possa soddisfare. Sono così
enunciati sia gli elementi costitutivi di molte poetiche barocche, fondate sull’artificio e la meraviglia,
sia le premesse di molta estetica settecentesca. La capacità di connettere il disgiunto, ovvero di
«compiere divorzi e matrimoni illegali fra le cose», sono opera di quella facoltà che il Seicento indicherà,
nelle varie lingue, come wit, agudeza, ingegno o arguzia. Alla sensibilità «neoclassica» di Croce tutto
questo è sembrato solo una testimonianza eloquente della decadenza dello spirito e del gusto che
caratterizza per lui il Barocco; una interpretazione meno dogmatica può invece riconoscere qui uno dei
momenti costitutivi della tematica estetica moderna. Wit e ingegno sono il primo modo in cui nella
filosofia moderna si cerca una definizione positiva di ciò che caratterizza l’ambito dell’arte. Anche la
nozione di verisimile è ancora una nozione negativa, che definisce l’arte in relazione a un valore, il vero,
che essa realizza solo in parte o non realizza affatto. La teoria dell’arguzia è diffusa ampiamente in
tutto il pensiero europeo del Seicento. In Italia e in Spagna è legata soprattutto alla contemporanea
poesia barocca, mentre in Inghilterra la teoria del wit sorge e si sviluppa in connessione con la filosofia
dell’empirismo, e rientra nel vasto processo attraverso cui l’empirismo sottopone ad analisi anche le
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condizioni soggettive dell’esperienza estetica. In questa analisi, maturano, accanto alla nozione di wit,
anche altri concetti chiave per l’estetica del Settecento, ad esempio i concetti di gusto, sentimento,
senso comune, giudizio, etc. Un aspetto di queste analisi che l’estetica successiva tenderà a dimenticare
è quello per cui essi vengono sempre visti in relazione ai rapporti sociali: il gusto di cui parlano gli
empiristi, ad esempio, è strettamente legato al «buon gusto», alla discrezione. Non altrettanto fecondo è
il filone della riflessione sull’arte che in Francia si esprime perlopiù in trattati di precettistica
rigorosamente classicisti, riprendendo e irrigidendo l’aristotelismo del Cinquecento italiano. Aristotele
è il filosofo a cui di preferenza si rifanno scrittori come il Boileau, autore di una famosissima Arte
poetica in versi, per i quali la giustificazione della poesia e dell’arte rimane fondamentalmente la
verosimiglianza, che deve essere misurata con criteri rigorosamente razionali. Il classicismo francese
ha tuttavia il merito di aver mantenuto vivo il pensiero estetico di Aristotele. In Germania, dove nel
secondo Settecento si formuleranno le teorie a cui l’estetica moderna è più direttamente legata, la
riflessione sull’arte nel corso del secolo XVIII si svolge sotto il duplice influsso degli inglesi e dei francesi.
Sul piano del gusto e degli orientamenti critici, la cultura tedesca intorno alla metà del Settecento è
dominata da un classicismo che, se riprende dai francesi l’interesse per una critica di tipi precettistico,
d'altro lato si sostanzia di ben più ricchi contenuti teorici, come quelli rappresentati dall’opera di
Johann Joachim Winckelmann, il fondatore della moderna storiografia artistica, il quale inaugura un
atteggiamento di ammirazione per l'antichità che si risolve in una totale messa in questione dei modi
stessi di esistenza dell'uomo moderno. Il classicismo tedesco è molto largamente influenzato dalla
cultura inglese sia per quanto riguarda l'uso di concetti come il gusto e il sentimento, sia sul piano del
gusto letterario in senso specifico: ad esempio, Lessing ammira incondizionatamente Shakespeare, che
non poteva assolutamente rientrare nei canoni drammaturgici che il neoclassicismo aveva tratto dalla
Poetica aristotelica. Questo è solo un esempio di come, nel classicismo tedesco, si incontrino e in vari
modi trovino una sintesi motivi caratteristici del pensiero estetico inglese e francese. La prima
espressione di una sintesi tra questi due tipi di motivi si può considerare la stessa idea madre del
classicismo tedesco per la quale i greci hanno potuto produrre i capolavori che noi ammiriamo perché
erano belli innanzitutto loro stessi, dotati di equilibrio, armonia, serena e calma vitalità. Nell’ambito del
classicismo tedesco l’interesse per le condizioni soggettive dell’esperienza estetica e l’attenzione ai
caratteri oggettivi delle opere si compongono dando luogo a proposte di classificazioni delle arti: nel
Laocoonte (1766), Lessing pone alla base del sistema delle arti la distinzione tra poesie e pittura. La
pittura rappresenta corpi e scene fisse, ed il suo principio è la bellezza e la perfezione della forma,
mentre la poesia rappresenta azioni e movimenti, e il suo principio è l’espressione. Nelle Selve
critiche di Johann Gottfried Herder la classificazione delle arti è fondata su un’analisi delle varie
facoltà dell’uomo che l’esperienza estetica mette in gioco: le arti si distinguono secondo che si rivolgano
all’udito (musica e poesia), alla vista (le arti visive) e al tatto (la scultura). Un’altra espressione
esemplare del classicismo tedesco come sintesi di motivi soggettivi e oggettivi è la tematica del genio. Il
termine viene introdotto in tedesco mutuato senza modifiche dal francese e riceve un’impronta
originale soprattutto ad opera di Hamann ed Herder. Per entrambi, un carattere essenziale del genio è
di essere una forza creativa che si sottrae a ogni vincolo di regole e precetti. Mentre per Hamann il
genio è però soprattutto genio individuale, Herder introduce un elemento destinato a importanti
sviluppi, ovvero l’idea di una creatività sovra- o pre-individuale, quella che si esprime nella poesia
popolare e nella produzione della lingua. Se la poesia popolare è davvero poesia, è chiaro che viene
liquidato ogni valore della precettistica, dell’artificio, della conformità riflessa a regole. Il discorso si
sposta su un piano che sarà ampiamente sviluppato dall’estetica successiva, che si muoverà da un lato
sulla linea della definizione dell’esperienza estetica in riferimento alle sue condizioni soggettive e
dall’altro lato guarderà all’arte e alla poesia come luogo di accadimenti che non hanno il solo senso di
dilettare, ma sono vere e proprie manifestazioni storiche di popoli, gruppi sociali, etc. La stessa
definizione dell’esperienza estetica in termini di soggettività trascendentale, da parte di Kant, si
formulerà implicando il riferimento a una base ontologica, che per Kant rimane ancorata alla natura.
Nell’idealismo, la centralità del riferimento alla natura sarà mantenuta da Schelling, mentre in Hegel
la base ontologica dell’arte verrà pensata in riferimento alla storia.
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9. Per orientarsi nell’estetica moderna
Per orientarsi nel panorama dell’estetica moderna possono servire tre fili conduttori, uno principale
e due subordinati. Si tratta di tre fili conduttori che non si applicano tutti e tre ugualmente, poiché per
alcuni autori sarà più utile fare riferimento esclusivamente ad uno di essi.

• Il filo conduttore principale distingue nella storia dell’estetica degli ultimi due
secoli tre orientamenti fondamentali, che potremmo chiamare metafisico,
scientifico e critico. Questa tripartizione si fonda sulla distinzione di tre possibili
modi generalissimi e fondamentali secondo i quali l’estetica concepisce se stessa e il
proprio rapporto con l’oggetto della sua ricerca.
• L’atteggiamento metafisico ritiene che l’estetica abbia un suo
oggetto e un suo contenuto specifico (OGGETTO E CONTENUTO SPECIFICO);
• L’atteggiamento scientifico nega che l’estetica abbia un oggetto
proprio e un metodo peculiare di affrontarlo, sostenendo che, come
tutte le altre discipline, l’estetica debba risolversi in scienza positiva,
assumendo a modello l’una o l’altra delle scienze dell’uomo
(psicologia, sociologia) che si sono date una metodologia rigorosa e
analoga a quella delle scienze della natura (NESSUN OGGETTO E METODO
SPECIFICO → NECESSITÀ DI DARSI UNA METODOLOGIA RIGOROSA);
• L’atteggiamento critico condivide il dubbio degli scientisti circa
l’inesistenza di un oggetto e di un metodo specifici dell’estetica, ma
invece di proclamare la trasformazione della filosofia in qualcos’altro,
si costituisce come teoria dell’assenza di oggetto e metodo (NESUN
OGGETTO E METODO SPECIFICO → TEORIA DELL’ASSENZA).
Dentro queste tre categorie generali ci sembrano riconducibili molti autori, come
Vico e Kant, che potremmo considerare come costituenti una peculiare sezione
introduttiva dell’estetica. Gli altri autori sono raggruppabili in due serie di tre sezioni,
che ripetono in tempi diversi e con modalità teoriche differenti l’articolazione dei tre
atteggiamenti caratteristici;
• Il secondo filo conduttore, meno formale del primo, si può indicare con
l’espressione arte e storia. Nel pensiero moderno a partire dall’Umanesimo, il
riferimento privilegiato in riferimento al quale l’arte ha maturato la propria
consapevolezza teorica ed il proprio statuto socio-culturale è stato quello con la
scienza, che è la grande protagonista della cultura moderna tra il XVI e il XVIII secolo.
Nell’Ottocento, questa posizione di predominio passa alla storia. La centralità del
rapporto arte-storia è uno dei significati centrali dell’estetica di Vico, di quella di
Hegel, e, nel Novecento, dell’estetica marxista di Lukács. Anche le teorie che
rifiutano di definire l’esperienza estetica come esperienza storica si caratterizzano
per la loro polemica contro questo nesso, come nel caso di Schopenhauer e di
Kierkegaard;
• Infine, un terzo filo conduttore è quello che fa riferimento alla definizione della
specificità dell’esperienza estetica. Se uno dei sensi della storia dell’estetica prima
di Vico e di Kant è stato quello di pervenire a una determinazione del campo
dell’esperienza estetica, che ha assunto una sua fisionomia sia teorica che sociale,
uno dei sensi, invece, della storia dell’estetica dell’Ottocento e del Novecento è quello
di aver proceduto a una costante critica della dimensione dell’esperienza estetica e
della sua possibilità. Questo è vero a partire dalla teoria hegeliana della morte
dell’arte, secondo la quale l’arte è una forma dello spirito assoluto che è ormai
inattuale come forma egemone dell’autocoscienza: nello sviluppo dello spirito verso
la piena autocoscienza, l’arte è stata ormai superata e inglobata dalla filosofia. Anche
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al di fuori dell’hegelismo, la negazione della dimensione estetica dell’esperienza
come dimensione specifica è un motivo che accompagna come contrappunto
costante lo sviluppo di tutta l’estetica moderna. È un problema essenzialmente
teorico stabilire fino a che punto questa problematicità della dimensione estetica sia
segno di essere diventata effettivamente inattuale oppure se non sia per caso
un’essenza perennemente instabile, effimera, dell’esperienza estetica stessa, che
si presenterebbe a quel punto come costantemente in via di sparizione. Nel primo
caso avrebbe ragione Hegel e chi parla di morte dell’arte come atto storicamente
accaduto, mentre nel secondo caso l’arte non morirebbe storicamente, ma sarebbe
caratterizzata permanentemente dalla problematicità delle sue manifestazioni.

10. Verso la definizione dell’estetico


La prima definizione dell’orizzonte teorico dell’estetica moderna come disciplina filosofica specifica
avviene in Vico e in Kant in riferimento al rapporto arte-storia e alla definizione delle peculiarità
dell’esperienza estetica. Per ciò che riguarda Vico, ha ragione Croce nel dire che le idee estetiche di
Vico sono semplicemente la risoluzione del problema posto da Platone, ritentato poi da Aristotele e dal
Rinascimento. Ovvero, le idee estetiche di Vico riguardano il problema del significato, del valore e del
carattere proprio del mondo di apparenze prodotto dalla poesia. Mentre tutta la tradizione ha cercato
di giustificare questo mondo rivendicandone la verosimiglianza, Vico ritiene che la poesia abbia una
sua verità propria, che corrisponde ad un certo grado di sviluppo dello spirito umano e delle istituzioni
sociali. Gli universali fantastici (poesia, favole, miti) tengono il posto degli universali ragionati per
un’umanità che, come avviene con i fanciulli, è ancora sensi e robustissima fantasia. Nella fanciullezza
dell’umanità la conoscenza che l’uomo ha del mondo si organizza in base a una visione fantastica delle
cose, che le ordina con un sistema di metafore antropomorfiche, le quali nominano le cose secondo le
emozioni che essere producono nell’animo perturbato e commosso. L’origine della poesia è anche
l’origine del linguaggio. Su questa via, Vico sarà seguito dai pensatori romantici e dai filosofi idealisti. Il
rapporto tra arte e storia ha anche altri livelli nel discorso vichiano: innanzitutto, alle origini
dell’umanità poesia e storia coincidono, perché è nella poesia che l’umanità primitiva si tramanda la
propria storia. In tal modo, però, la poesia assume una connotazione storica che apre la via a considerare
in termini di esperienza storica anche la lettura e la fruizione che ne facciamo: leggere poesia è
incentrare la coscienza di sé di una certa umanità storica che in essa si «tramanda», a se stessa e a noi
→ oltre al periodo storico in cui l’opera viene realizzata bisogna considerare anche il periodo storico in
cui viene osservata. L’identificazione della poesia con il sapere proprio dell’umanità nel grado fantastico
del suo sviluppo comporta anche una visione di che cosa sia quell’attività che dà luogo alla produzione
dell’opera d’arte. vico pone al centro di quest’attività la fantasia e utilizza, nella chiarificazione di questa
nozione, molti altri concetti elaborati dalla riflessione secentesca, come quello di ingegno. Tuttavia, la
definizione dell’esperienza estetica in riferimento alle facoltà impegnate o alle condizioni soggettive che
la rendono possibile è opera di Kant. L’estetica di Kant ha un carattere stratificato e non univoco. Lo
rivelano, ad esempio, le dottrine più popolari di Kant, come quelle relative alla definizione del giudizio
estetico, del sublime e del gusto. L’essenziale dell’estetica kantiana, comunque, è nell’aver individuato
il luogo trascendentale dell’esperienza estetica nel sentimento, liberandolo dalle connotazioni
soggettivistiche che lo caratterizzavano nella filosofia precedente. Pur essendo fondato in un’esperienza
sentimentale del soggetto, il giudizio di gusto pretende legittimatamene a una sua peculiare universalità.
Questa pretesa è legittima in quanto non si può non ammettere un comune modo di funzionare della
facoltà conoscitiva. Questo comune funzionamento della facoltà conoscitiva sta alla base della pretesa
di giudizio di gusto all’universalità e ne costituisce l’unico contenuto. Kant dichiara che, nel provare
piacere per il bello, ciò di cui il soggetto innanzitutto gode non è la forma dell’oggetto, ma la sua
appartenenza all’umanità: l’apprezzamento per l’oggetto è inscindibile dal piacere che il soggetto prova
a sentirsi uno di coloro che apprezzano quell’oggetto. Nel giudizio di gusto si verifica così una situazione
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in cui il soggetto empirico si sente come soggetto trascendentale, capace di giudizi di validità universale.
Quest’esperienza ha un carattere aleatorio: è sempre possibile che ciò che io trovo bello non sia
considerato tale dagli altri, ma se dichiaro bello un oggetto implico sempre la richiesta del consenso di
tutti, sulla base del fatto che in tutti c’è un senso comune. Poiché il giudizio di gusto non implica l’entrata
in gioco di concetti, che sono quelli che garantisco l’universalità oggettiva dei giudizi scientifici, la sua
universalità è sempre in via di farsi. Il senso comune è dato ed è sempre in via di farsi. Allo stesso modo,
dal lato dell’oggetto, ciò che suscita un giudizio di gusto favorevole, ovvero il bello, è insieme qualcosa
di gratuito e di profondamente radicato nell’intimo delle cose: il fatto che vi sia qualcosa che, come il
bello, appare come fatto per corrispondere a delle esigenze formali delle facoltà conoscitive testimonia
di un legame profondo tra queste facoltà e il mondo. Anche il discorso sul sublime ha il suo senso
specifico in quanto il sublime, insieme al bello ma più nettamente di esso, mostra come l’esperienza
estetica sia un modo di esperire a un livello più profondo gli ordini e le corrispondenze su cui anche la
scienza e la morale si fondano.
11. L’arte e l’assoluto
Quelli appena indicati sono i punti dell’estetica kantiana su cui si fermeranno gli idealisti per evidenziare
i rapporti fra l’arte e l’assoluto. Tali rapporti vanno al di là delle intenzioni esplicite di Kant: su questo
insisterà il neokantismo di fine Ottocento, preoccupato di ristabilire nei suoi limiti originari la filosofia
trascendentale come analisi e individuazione delle condizioni di possibilità delle varie forme
dell’esperienza. Il primo sviluppo idealistico dell’estetica kantiana fu quello dato da Schelling, la cui
filosofia è un’elaborazione di quella parentela profonda tra natura e spirito umano che stava alla base
della terza Critica kantiana. Gli sviluppi ulteriori del pensiero di Schelling comportano un
ridimensionamento della centralità assegnata all’arte nelle sue prime opere, ma contengono aperture,
per esempio per quanto riguarda il rapporto tra arte e mito, la cui attualità per l’estetica non si è ancora
esaurita. La voce più matura e affascinante dell’estetica idealistica è però quella di Hegel. La tesi
hegeliana secondo cui l’arte è una forma dello spirito assoluto si collega direttamente alla problematica
kantiana a cui abbiamo accennato. Hegel trova che anche nell’estetica Kant non ha saputo andare oltre
la teorizzazione del momento puramente soggettivo della conciliazione tra natura e libertà (o interno
ed esterno). Il bello artistico è visto da Kant come un accordo in cui il particolare è conforme al concetto.
Il particolare come tale è accidentale sia rispetto ad altri particolari sia rispetto all’universale. Questo
accidentale (senso, sentimento, animo, inclinazione) nel bello artistico è sussunto sotto una categoria
universale dell’intelletto, è dominato dal concetto di libertà nella sua astratta universalità ed è legato
così profondamente con l’universale da mostrarsi intimamente adeguato ad esso. Spirito assoluto vuol
dire, per Hegel, la conciliazione tra il particolare e il concetto universale realizzata non solo a livello
soggettivo ma anche a livello oggettivo, come fatto che qualifica l’essere stesso nella sua storia. Tutto il
processo storico muove per Hegel verso una situazione finale in cui lo spirito si ritrova presso di sé, cioè
«a casa propria», e lo spirito è «a casa propria» solo in un mondo che non gli appaia più estraneo, ma
organizzato secondo le esigenze dello spirito stesso, un mondo in cui il particola coincida perfettamente
con il concetto. Secondo Hegel, il bello come descritto da Kant ha tutti questi caratteri di conformità dl
particolare al concetto (libertà realizzata), ma questa realizzazione si presenta in Kant come
un’eccezione nella situazione sempre problematica dell’universo. Hegel ritiene invece che, se l’opera
d’arte come realtà effettiva della libertà in una manifestazione sensibile è possibile, ciò significa che lo
spirito deve avere ormai sottomesso a sé il mondo sensibile nel suo complesso, cioè che la storia deve
aver raggiunto uno stadio in cui la libertà dello spirito è diventata realtà effettiva. In questo senso, la
riuscita della singola opera d’arte per Hegel un evento che concerne lo spirito assoluto. Proprio perché
il bello è così concepito come effettiva realizzazione della libertà dello spirito, di bellezza si può parlare
solo nell’ambito dell’arte, dove lo spirito opera attivamente, e non a proposito delle cose naturali, dove
c’è sempre un troppo alto grado di casualità e di accidentalità. L’estetica successiva accetta la
liquidazione hegeliana del bello di natura e limita la propria indagine al bello artistico, compiendo così
l’ultimo passo di quella parabola che ha il suo inizio nel pensiero greco. Dalla definizione hegeliana del

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bello deriva una serie di conseguenze per la suddivisone delle epoche della storia dell’arte e per la
costruzione di un sistema delle arti, conseguenze che si diffonderanno amplissimamente nella
storiografia artistica e letteraria e nella critica successiva. Una vasta influenza esercita, nell’Ottocento,
l’estetica di Schopenhauer. La sua filosofia della musica, ad esempio, ha larga popolarità presso
Mallarmé e i simbolisti. Questo fatto è significativo perché serve a farsi un’idea delle differenze tra
Schopenhauer ed Hegel nel modo di pensare il rapporto dell’arte con l’assoluto. Mentre in Hegel l’arte è
collocata nell’assoluto come suo momento, in Schopenhauer si ha una vera e propria assolutizzazione
dell’arte. Nela sua metafisica irrazionalistica l’arte assume paradossalmente un significato
estremamente intellettualistico, è la rivincita dell’intelligenza sul tendere incessante della volontà. Nella
contemplazione delle idee l’uomo si sottrae al volere e lo mette in scacco. L’arte è il luogo di questa
contemplazione disinteressata delle idee, ed è assoluta in quanto libera l’uomo liberando, in
contemporanea, la cosa-idea contemplata dalla concatenazione spazio-temporale e causale a cui
appartiene nel mondo fenomenico: su questa sconnessione dell’oggetto estetico si fonda anche
l’analogia del genio artistico con il folle. Questa dottrina sulla somiglianza tra genio e follia, o quella
sulla musica come arte suprema, non rappresentano gli elementi più significativi dell’estetica
schopenhaueriana. La dottrina di Schopenhauer è significativa come affermazione di un assoluto
antistoricismo estetico, nel quale risuona tutta una tradizione neoplatonica e mistica. La produzione e
la contemplazione del bello sono per Schopenhauer fatti assoluto proprio perché si sottraggono in vari
sensi al divenire e alla storia. Prospettive novecentesche radicali hanno però proprio in Schopenhauer
un segreto punto di riferimento. Con Schopenhauer comincia nell’Ottocento il filone che si può chiamare
del pensiero negativo: liquidato l’atteggiamento ottimistico che culmina in Hegel, questo pensiero
concepisce la razionalità realizzata come un meccanismo di tipo sostanzialmente totalitario a cui
bisogna sottrarsi. Alle forme dello spirito assoluto hegeliano (arte, religione, filosofia) viene assegnato
solo più questo compito negativo, ascetico.
12. L’estetica e la crisi della coscienza borghese-cristiana
Dalla posizione negativa di Schopenhauer si distingue un atteggiamento di rifiuto ancora più radicale
dell’hegelismo: è quello che possiamo indicare emblematicamente in Kierkegaard e Nietzsche, visti
come esponenti della crisi della coscienza borghese-cristiana. Questa crisi ha aspetto complessi che
vanno al di là dell’ambito dell’estetica, che è quella di nostro interesse. In quest’ambito, Hegel e
Schopenhauer sono ancora rappresentanti della coscienza borghese in quanto concepiscono l’uomo
come capace di accedere all’assoluto e vedono l’arte come la via privilegiata di questo accesso. Questo
atteggiamento si può definire borghese-cristiano perché implica l’idea che l’individuo umano sia
capace di atti che lo mettono in relazione con l’assoluto: è il nocciolo della morale kantiana e comporta
un presentarsi dell’ideale cristiano della portata soprannaturale delle azioni nella forma
dell’universalismo tipico della mentalità borghese. Kierkegaard e Nietzsche si sottraggono a questo
schema. Anche Kierkegaard, pur essendo cristiano, non è definibile cristiano-borghese, perché
concepisce il rapporto dell’uomo con Dio in termini di Grazia, inconciliabile con l’eticità hegeliana che
culmina nella società civile e nello stato, cioè nella universale razionalità della società borghese. Quanto
a Nietzsche, egli rappresenta la ripresa e la liberazione di Schopenhauer da ogni residua aspirazione al
raggiungimento della cosa in sé. Nella Nascita della tragedia (1872) Nietzsche si ritiene ancora
discepolo fedele di Schopenhauer e lo stato dionisiaco si presenta ancora come un modo di raggiungere
l’uno primordiale concepito secondo l’idea schopenhaueriana di volontà, ma il dionisiaco nietzschiano
inizia già a presentarsi come modo di accesso a uno primordiale che non ha più alcun carattere
dell’essere metafisico. Lo stato dionisiaco per eccellenza, l’ebbrezza, è una strana forma di
raggiungimento dell’autenticità, perché è costitutivamente mobile, superficiale e caotica. Nei testi
della maturità, la nozione di dionisiaco diventerà sinonimo della volontà di potenza e l’arte e
l’esperienza estetica si presenteranno sempre più nettamente come vie id accesso a una condizione di
superficialità, marginalità, mascheramento, che è la negazione dell’idea stessa di un rapporto con
qualunque specie di assoluto. È la nozione stessa di assoluto che viene negata: il mondo vero, scrive

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Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli (1889), è diventato una favola, ma non c’è più neanche questa
favola, niente fa più da criterio di verità a niente. Lo stato dionisiaco è il modo di vivere in questo
mondo dove le apparenze non hanno alcuna sanzione in una qualche realtà che vi si contrapponga. Le
ulteriori conseguenze di questa posizione sul piano dell’estetica sono tratte da Nietzsche su linee spesso
contraddittorie. Il discorso di Kierkegaard si muove un po’ nella stessa direzione: l’esperienza estetica
è caratterizzata da tutti quegli aspetti di provvisorietà, inautenticità, mistificazione che già Platone
aveva posto alla base della sua condanna, e che si possono trovare fondati anche nell’analitica del bello
kantiano, con il suo insistere sulla ateoreticità e apraticità del giudizio di gusto.
13. Inizi di un’estetica scientifica:
sociologismo e psicologismo
L’estetica dell’Ottocento si sviluppa anche lungo la via di una più o meno completa dissoluzione della
filosofia nelle scienze umane, o comunque di un trasferimento dei problemi filosofici a un metodo di
ricerca più vicino a quello impiegato con successo nelle scienze della natura. I termini del rapporto sono
ora l’estetica e la scienza nella misura in cui l’estetica tende a costituirsi come scienza. Quanto più cerca
di adeguarsi a questa esigenza, tanto più l’estetica tende a lasciare indiscussa l’esperienza estetica come
tale. La scienza deve vertere su dati di fatto, e i dati sono l’insieme delle opere d’arte così come la
tradizione ce le ha conservate e trasmesse. Estetica scientifica significa innanzitutto che si tratta di
spiegare in modo sistematico il mondo dell’arte, individuando le leggi che lo regolano. Per Taine, queste
leggi devono servire a spiegare le opere d’arte, le personalità artistiche, gli stili e le scuole in relazione
all’ambiente socio-culturale in cui maturano. I risultati dell’applicazione di questi principi metodici non
appaiono oggi particolarmente rilevanti, ma è rimasto vivo il programma di sottoporre il mondo
dell’arte a un’indagine di tipo positivo che arrivi a formularsi in risultati analoghi a quelli delle scienze,
cioè nell’individuazione di vere e proprie leggi. Il programma di Taine non fu svolto solo nell’ambito del
positivismo. Un’altra corrente di studiosi, soprattutto tedeschi, cerca piuttosto di fondare un’estetica
scientifica rifacendosi alla psicologia. Gustav Theodor Fechner segna con la sua Propedeutica
all’estetica (1876) l’atto di nascita dell’estetica sperimentale. Il carattere di quest’estetica consiste nel
formulare in termini di psicologia scientifica certe leggi sui meccanismi di piacere e dispiacere, già ben
note all’estetica filosofica del passato. Per tutto un suo aspetto, dunque, Fechner rientra nel generale
movimento di psicologizzazione della filosofia, e specialmente nel kantismo, che, se ha una funzione
propulsiva nello sviluppo della psicologia sperimentale, non aggiunge molto né alla filosofia generale né
all’estetica filosofica. Inoltre, Fechner ideò una serie di esperimenti per accertare quali, tra un gruppo di
forme geometriche elementari, riscuotano maggiore approvazione, cercando poi verifiche anche in una
vasta indagine sulla storia delle arti figurative. Anche nel caso di Fechner sono più importanti le
premesse metodologiche dei risultati effettivamente raggiunti. Nell’ambito dell’orientamento
ottocentesco, i risultati più significativi sono quelli conseguiti dai teorici della Einfühlung, e soprattutto
da Theodor Lipps. Lipps, che riprende anche lui, psicologizzandoli, numerosi elementi dell’estetica
kantiana, mostra più chiaramente di Fechner l’aspetto fondamentalmente vitalistico delle dottrine
estetico-psicologiche del tardo Ottocento. I caratteri del bello teorizzati dalla tradizione estetica e
soprattutto da Kant vengono ripensati come modi in cui il soggetto esperisce con piacere la propria
attività vitale, anche e soprattutto a livello corporeo e della sensibilità. Questa interpretazione
vitalistica e naturalistica dell’esperienza estetica comporta anche una visione della vita psichica
come movimento e flusso di energie, che si investono negli oggetti dell’esperienza secondo
determinati percorsi che la psicologia può individuare. A tale concezione si collegherà Freud, il cui
contributo all’estetica supera i confini dell’estetica scientifica e rientra in quella linea di pensiero
contemporaneo che mette più radicalmente in questione l’esperienza estetica stessa. Questo perché la
psicanalisi rappresenta il caso tipico di uno studio dell’uomo che si è svolto in direzioni le quali hanno
messo in crisi la nozione stessa di scienza applicata alle scienze umane.

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14. Arte e linguaggio
I problemi e le difficoltà delle estetiche scientifiche ottocentesche nascono dal fatto che lo status
scientifico-sperimentale delle scienze a cui tendono ad appoggiarsi, come la sociologia e la psicologia,
è un problema aperto. L’ulteriore sviluppo delle scienze umane nel Novecento condurrà a una
sostanziale modificazione del programma di un’estetica scientifica: il programma di individuare le
leggi del mondo dell’arte in termini scientifici si concentrerà nel campo delle discipline che studiano
il linguaggio, conformemente a quella che è la posizione egemonica che le discipline linguistiche hanno
assunto negli ultimi decenni nel campo delle scienze dell’uomo. Nella cultura contemporanea lo sforzo
di formulare in modo scientifico i problemi delle scienze umane passa attraverso l’assunzione di modelli
derivati dalla linguistica, in particolar modo del modello della linguistica saussuriana. Anche nella
filosofia anglosassone l’istanza scientifica passa attraverso la riflessione sul linguaggio. Per quanto
riguarda l’estetica, il riferimento alle scienze del linguaggio sembra presentare il vantaggio di fornire
finalmente, all’esigenza di un’indagine scientifica dell’arte, un terreno definito e preciso. Il linguaggio,
come parole, costruzioni sintattiche, figure retoriche, è il corpo stesso della poesia, e schemi di analisi
linguistica si traspongono anche per le arti visive, per la musica, etc. Nel Novecento si è realizzata
l’esigenza proposta dal positivismo di sottoporre arte e poesia a un’indagine scientifico-positiva. Il
punto di partenza dell’estetica scientifica novecentesca si può considerare la definizione della funzione
poetica del linguaggio nell’ambito del formalismo russo, e l’analogo lavoro di individuazione delle
peculiarità del linguaggio poetico nella semiotica anglo-americana. Anche qui si ha, almeno in parte,
la pura e semplice trasposizione in linguaggio scientifico di tesi tradizionali dell’estetica. È il caso della
definizione del linguaggio poetico come linguaggio emotivo che Ivor Armstrong Richards e Charles
Kay Ogden danno ne Il significato del significato (1923). La scientificità dell’atteggiamento di
Richards e Ogden consiste principalmente nel loro sforzo di eliminare le confusioni tra linguaggio della
conoscenza, che loro chiamano simbolico, e linguaggio della bellezza, che è caratterizzato come
emotivo. È interessante rilevare che, in questa distinzione, rientra nel linguaggio emotivo non solo il
linguaggio poetico come tale, ma ogni linguaggio che parla della bellezza, quindi eventualmente anche il
discorso della valutazione e della critica letteraria o artistica. Questa posizione di Richards e Ogden
rappresenta un atteggiamento tipico e molto diffuso nella riflessione estetico-linguistica di ambiente
anglosassone, perlopiù legata al neopositivismo e alla filosofia analitica: se il neopositivismo originario
ha avuto la tendenza a respingere come privo di senso ogni linguaggio diverso da quello scientifico,
l’atteggiamento di gran lunga prevalente è quello che si propone di curare i «mali» del linguaggio
riconoscendo e delimitando con precisione gli ambiti e le regole proprie di ciascun tipo di linguaggio. In
questo lavoro, è essenziale definire che cos’è che caratterizza specificatamente ogni linguaggio, quindi
anche quello della poesia e dell’arte. Lo sforzo di caratterizzare il linguaggio poetico è quello che
accomunale posizioni di due autori come Charles Morris e Roman Jakobson, nonostante le loro
differenze. Morris ha in comune con Richards la definizione di linguaggio poetico in riferimento
all’emotività o ai «valori»: l’arte è per lui il linguaggio per la comunicazione dei valori. Questa
comunicazione accade nell’arte mediante iconi, cioè segni che non rinviano al loro significato, ma lo
presentano direttamente, dal momento che lo incorporano. Per questo nelle opere d’arte hanno tanta
importanza le qualità fisiche dei materiali impiegati. Questa accentuazione dell’importanza del corpo
delle opere d’arte avvicina Morris alle posizioni del formalismo a cui si ricollega Jakobson. In Jakobson
il riferimento privilegiato del linguaggio poetico alle emozioni è totalmente scomparso, e rimane
centrale l’imporsi del messaggio come tale, quell’elemento che in Morris è riassunto nella nozione di
iconicità. Il messaggio poetico non richiama anzitutto l’attenzione su qualcos’altro (un significato a
cui rimandare) ma su se stesso. L’esclusione del riferimento privilegiato della poesia alle emozioni è
anche un risultato dell’analisi rigorosa condotta sui caratteri linguistici del messaggio poetico, che si
rivela caratterizzato dall’autoriferimento, che non è altro che il criterio linguistico mediante cui si
riconosce empiricamente la funzione poetica. Questo atteggiamento lega Jakobson, e con lui il
movimento dell’estetica e della critica strutturalista, al programma positivistico di un’estetica
scientifica. Il movimento strutturalista è servito a liberare la critica letteraria e artistica dai suoi
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antichi vizi retorici e a fornirle una solida base di legittimità. Tuttavia, la funzione poetica viene qui
tramandata senza la possibilità di riflettere criticamente sul come e il perché del formarsi delle sfere di
attività e di oggetti che vanno sotto il nome di poesia e arte. La funzione poetica così individuata e
definita viene considerata una funzione costitutiva del linguaggio tout court, che può manifestarsi in vari
modi e diverse combinazioni, ma che non può mancare. Qui sembra si possa riconoscere la presenza
operante di alcuni elementi kantiani e neokantiani: la definizione della funzione poetica si identifica
con la ricerca delle condizioni trascendentali di possibilità della poesia, condizioni che vengono
trovate nella struttura dello spirito umano o nelle varie funzioni del linguaggio. In tal modo, però, le
differenziazioni e gerarchie delle attività spirituali date storicamente nella nostra cultura vengono
canonizzate e considerate come la struttura stessa dello spirito umano. L’arte così come noi la
conosciamo è un modo di configurarsi di ogni possibile esperienza umana. All’interno dello stesso
movimento strutturalista si originano poi fermenti critici che conducono a una sua revisione. Un caso
emblematico è quello di Jacques Derrida, che dà voce a una serie di problemi critici che l’attività
strutturalista si è sforzata di rimuovere: il problema della preferenza accordata alla forma a scapito della
forza, il problema del predominio dell’ideale della totalità, la possibilità che la metodologia strutturalista
venga fatta servire a una gigantesca opera di destrutturazione.
15. Arte e totalità dell’esperienza
Un’altra linea del pensiero del secolo XIX che prosegue vivamente nel nostro è quella che abbiamo
indicato come estetica più tipicamente metafisica, che nel Novecento si esprime principalmente in
autori come Croce, Dewey, Lukács. Questi autori sono accomunati dal fatto di inserire la riflessione
sull’arte in una prospettiva sistematica. Nessuno dei tre parlerebbe più di rapporto dell’arte con
l’assoluto nel senso di Hegel o di Schopenhauer. Ai grandi sistemi metafisici dell’Ottocento li lega tuttavia
il peso centrale che la nozione di totalità continua ad avere nella loro filosofia. In Croce l’individuazione
dell’arte come primo momento teoretico dello spirito è operata dal punto di vista di una visione
dialettica che rimane una teoria della vita spirituale come totalità. In Dewey la nozione di totalità
gioca piuttosto a livello di determinazione del carattere costitutivo di ogni esperienza umana, che nel
suo aspetto di perfezionamento rivela di possedere una qualità estetica. La peculiarità del pensiero
deweyano consiste nel tono naturalistico della sua prospettiva: anche la categoria di totalità
dell’esperienza è pensata in riferimento a un modello biologistico ed evoluzionistico, che vede la vita
dell’uomo come un continuo processo di integrazione con l’ambiente. Sul piano spirituale, questa
integrazione si attua come soluzione di problemi, cioè con la trasformazione di situazioni caotiche in
situazioni definite. Esteticità è il carattere formale che accompagna ogni trasformazione di situazioni
caotiche in situazioni definite, cioè ogni forma di integrazione. Ogni attività dell’uomo nel mondo ha una
sua esteticità, e l’arte non fa altor che erigere a significato specifico di un oggetto tale esteticità diffusa
in tutta l’esperienza. Dewey mette anche in discussione la tradizionale separazione tra arti belle e
arti utili. Il tono complessivo dell’estetica deweyana è marcato da un sostanziale ottimismo, per il quale
ogni problema che si pone nell’esperienza è solo premessa di una ulteriore integrazione-soluzione;
anche sotto questo aspetto la sua filosofia sembra potersi legittimamente accostare ai sistemi metafisici
ottocenteschi. A proposito di Lukács, infine, il richiamo alla totalità è fatto in un senso che appare il
più ortodossamente conforme alla dialettica hegeliana. Risonanza certamente hegeliana ha la
categoria del particolare intesa come categoria centrale dell’estetica: essa si ricollega anche alla
nozione di simbolo elaborata da Goethe e da Schelling, in un senso che esprime quella che Hegel
chiamava l’unità di idea e manifestazione. Il materialismo lukácsiano si manifesta come gusto
storicistico della collocazione puntuale di ogni opera nella complessità del suo ambiente storico-sociale,
che in essa non solo si rispecchia meccanicamente ma che si rivela. Gli strumenti hegeliani vengono
naturalmente usati da Lukács per mostrare come la filosofia e l’arte borghese siano soggette a un
processo di dissoluzione che corre parallelo allo sviluppo della fase imperialistica del capitalismo.
Questo conduce Lukács a vedere come puri sintomi di degenerazione le poetiche dell’avanguardia
nel Novecento.

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16. L’arte in questione
Le estetiche sistematiche hanno oggi pochi continuatori. L’estetica italiana si è volta verso direzioni
che rivendicano i concreti caratteri di essa come processo formativo e che si aprono a un intenso
dialogo con la speculazione tedesca, francese, anglo-americana degli ultimi decenni. È questo il caso
della Estetica. Teoria della formatività di Luigi Pareyson (1954), che ha segnato il momento decisivo
del rinnovamento dell’estetica italiana. In America, Dewey è stato un punto di riferimento centrale fino
agli anni Cinquanta, mentre oggi il panorama dell’estetica americana è caratterizzato da una moltitudine
di ricerche particolari condotte nello spirito del neopositivismo e della filosofia analitica. Anche
l’estetica di Susan K. Langer, che riprende certi aspetti di Dewey, si presenta come un fenomeno
perlopiù isolato. Lukács è discusso, soprattutto nella cultura marxista, ormai solo più per aspetti che
non riguardano la sua estetica. Il dibattito estetico si svolge oggi in modo particolarmente attivo in
riferimento alle posizioni che mettono in vario modo l’arte in questione. Agli autori di carattere
spiccatamente filosofico che le sostengono si potrebbe per certi versi già accostare Freud, nonostante
che Freud sarebbe da collegare piuttosto a quelle correnti che hanno tentato lo studio dell’arte con
metodologie scientifiche. Quest’ultima considerazione vorrebbe tuttavia che la psicanalisi si inserisse
pacificamente nel panorama delle scienze come una scienza accanto alle altre, e non venisse invece a
mettere in discussione e a sconvolgere, come di fatto avviene, la stessa nozione di scienza nella sua
applicazione allo studio dell’uomo. C’è nella psicanalisi una carica eversiva che la collega
profondamente alle tematiche degli autori che mettono radicalmente in discussione l’esperienza
estetica nella fisionomia attribuitale dalla filosofia tradizionale. L’apertura della dimensione
dell’inconscio dà luogo in definitiva a un movimento di sfondamento: se è vero, come dice Paul
Ricoeur, che uno degli esiti della scoperta di Freud è quello di operare una dislocazione della sede del
senso della coscienza in un altrove, non si potrà poi individuare e fissare questo altrove sulla base di
una certezza di tipo cartesiano, che presupporrebbe l’accettazione della supremazia della coscienza. In
tal senso, neanche l’arte può più avere una collocazione fissa, e il discorso delle arti diventa addirittura
il luogo privilegiato in cui il pensiero fa esperienza dello sfondamento in atto. La messa in questione
dell’arte avviene in quella della critica della dimensione estetica dell’esperienza così come l’aveva
definita gran parte dell’estetica della prima metà del Novecento, e in particolare l’estetica neokantiana
sviluppatasi in Germania nei primi decenni de secolo. Critica della dimensione estetica vuol dire
rifiuto di chiudere l’arte entro un ambito di esperienza che finisce per venir concepito come una
«domenica della vita», senza alcuna possibilità di influire sul resto dell’esperienza dell’uomo. Un tale
rifiuto di lasciarsi rinchiudere in una dimensione puramente ludica si può legittimamente leggere come
uno dei significati delle avanguardie storiche del Novecento. Sul piano filosofico, la voce più autorevole
della rivendicazione della serietà esistenziale e storica dell’arte è quella di Martin Heidegger, che
propone una concezione inaugurale dell’arte e della poesia, intesa come luogo dove accade
originariamente la verità. Un tale accadere della verità è possibile solo quando questa venga concepita
come istituirsi storicamente mobile degli orizzonti, delle aperture o illuminazioni entro cui soltanto
l’esperienza di un mondo diventa possibile. Senza disporre di un linguaggio, l’uomo non può fare
esperienza del mondo, ma il linguaggio non è immutabile, nasce e diviene storicamente. Il luogo del suo
nascere è la poesia. È difficile negare l’importanza decisiva e il significato di svolta che assume la
rivendicazione di Heidegger dell’arte come luogo di un accadere di verità. Se il legame della riflessione
estetica di Heidegger con le avanguardie del Novecento è solo implicito, esso diventa esplicito in autori
come Walter Benjamin e Theodor W. Adorno, presso i quali la messa in questione della dimensione
estetica assume toni più legati a considerazioni di sociologia della cultura, segnata dalla profonda
influenza del marxismo. Benjamin e Adorno appartennero tutti e due a quell’Institut für
Sozialforschung intorno al quale si sviluppò la cosiddetta Scuola di Francoforte. Le loro opere
differiscono profondamente, tuttavia, per il diverso atteggiamento nei confronti della possibilità di far
servire i nuovi mezzi di comunicazione di massa a uno sviluppo positivo dell’umano nel nostro mondo.
Mentre Benjamin è sostanzialmente ottimista e ritiene che la riproducibilità tecnica delle opere d’arte
apra la via per un’esperienza estetica più autentica e non feticistica, Adorno vede invece l’esperienza
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estetica come una sorta di ultima spiaggia della soggettività dell’uomo moderno, minacciata dalla società
massificata. Benjamin caratterizza le avanguardie artistiche del Novecento soprattutto per i loro aspetti
più violentemente distruttivi dei modelli tradizionali dell’esperienza estetica, e soprattutto dell’aura
dell’opera d’arte feticizzata; tutti questi aspetti accomunano le avanguardie alle nuove forme d’arte
come, ad esempio, il cinema. Sviluppando queste possibilità, Benjamin ritiene che si possano preparare
le condizioni socio-culturali di una nuova vita dell’arte. Per Adorno, delle avanguardie contano
soprattutto gli aspetti tecnici e formali. Anche per Adorno è molto importante l’effetto di shock che
l’opera d’avanguardia produce su lettori e spettatori, ma non tanto quanto apertura di una possibile
nuova via dell’esperienza estetica, quanto piuttosto come richiamo a quei valori che l’esperienza estetica
nel suo senso più tradizionale possedeva. Secondo Adorno, lo shock sussiste solo quando l’opera non
somiglia alla società. In tal senso, con la sua esasperata attenzione tecnicistica, l’avanguardia
novecentesca nelle sue opere non rispecchia affatto il mondo in cui sorge. Il nesso dialettico dell’opera
con il mondo è nel suo farsi valere come un particolare che mette in crisi la tranquilla staticità del tutto.
Il rapporto tra arte e sviluppo dello spirito viene ripensato da Adorno mediante una ripresa di Kant e di
Schopenhauer: la finalità senza scopo dell’estetica kantiana è il segno del sottrarsi dell’opera alla
funzionalità universale del mondo amministrato, l’opera si presenza come un contro-movimento.
Adorno riprende poi anche il tema dell’apparenza, che lo ricollega non solo a Kant e a Hegel, ma, molto
più indietro, anche a Platone. Viene così ripreso e elaborato un concetto antichissimo della speculazione
estetica. A tale ripresa corrisponde anche la posizione centrale che Adorno assegna all’arte come ultimo
e unico luogo in cui continua a vivere il ricordo di un possibile futuro alternativo a quel mondo che ha
prodotto Auschwitz. Questa centralità dell’arte sembra attestata nella pratica sociale per la quale non
sembra sia seguita la morte dell’arte, ma semmai una sua trasfigurazione in tutta una serie di pratiche
sociali alternative, che non muoiono proprio in quanto non si lasciano risolvere nell’organizzazione
totale della società né si lasciano egemonizzare dalla volontà unitaria di un solo progetto politico. È con
questi fenomeni che l’estetica filosofica oggi deve fare positivamente i conti.

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